NANCY KILPATRICK LA NOTTE DEI VAMPIRI (Child Of The Night, 1996) RINGRAZIAMENTI Voglio ringraziare Claire Lang ed Elizab...
44 downloads
1903 Views
951KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
NANCY KILPATRICK LA NOTTE DEI VAMPIRI (Child Of The Night, 1996) RINGRAZIAMENTI Voglio ringraziare Claire Lang ed Elizabeth Norton per il loro aiuto nel campo dell'occulto. Ai coraggiosi che hanno letto e riletto i primi abbozzi di questo manoscritto: Mike Kilpatrick, H. L. Lightbown, Peter Reid, Karl Schroeder e Caro Soles. A Marc Cormier, Philippe Laguerre, Darren Price e Michael Radulesco per i dettagli su Bordeaux, e a Jean Lalet in particolar modo, tanto per le fotografie quanto per le altre notizie sulla sua amata città. A Ivan Kilpatrick per le informazioni sul Canada. A Benoit Bisson e Caro Soles per aver sopportato il mio francese zoppicante. Sarò eternamente riconoscente a tutte le persone che nel corso degli anni mi hanno dimostrato amore e sostegno, che hanno avuto fiducia in me e nel mio lavoro: Naomi Bennett, Sephera Giron, Bob Hadji, Eric Kauppinen, Mike Kilpatrick, Hugues Leblanc, Michael Rowe, Mandy Slater, Caro Soles, John Went, Mari Anne Werier e specialmente Steve Jones, che ha sempre creduto nella mia narrativa. Ultimi ma non dimenticati, grazie a Robyn e Keith della Mosaic Press per aver lavorato al mio fianco in quelle che devono essere state circostanze difficili. E anche a Howard Aster perché, senza le sue eclettiche pubblicazioni, questo oscuro Potere del sangue non avrebbe rivisto la luce lunare. IO SONO SANGUE Vedo un uomo: La morte sorride dietro il suo viso. Mi chiama a sé con il vino. Sono così stordita, così estasiata! Rischierò forse la mia anima per le sue carezze. Perché non stai lontano, tentatore? Infiammata dai miei più oscuri desideri, Cieca, vedrei ancora le tue fiamme. Vedo un uomo: La Morte si nasconde dietro il suo cappello.
Mi chiama a sé con i sorrisi, E il mio cuore è suo complice. Perché non batte forte quando è spaventato? Quanto tempo ancora prima che io sia al suo fianco? Vedo un uomo: Cinge la Morte tra le braccia. Il mio cuore sanguina tra i suoi palmi. Sono indebolita, stremata... E se lui mi baciasse... Se mi avesse già baciato... Fabrice Dulac «Se questa vita non è una vera battaglia, in cui grazie al successo l'universo ottiene continuamente qualcosa, non è nulla più di uno scherzo in una recita di dilettanti da cui chiunque può tirarsi indietro quando vuole. Ma sembra una vera battaglia». William James PARTE PRIMA «...il potere non deriva dal sottrarre il sangue. Deriva dall'acquiescenza». Mary Renault CAPITOLO 1 Carol accavallò le gambe e ruotò lentamente lo stelo del calice di vino tra il pollice e le dita della mano destra, fin troppo consapevole del fatto che si trattasse del suo terzo prosecco da quando aveva cenato. Non esageriamo, ammonì se stessa, e poi mandò giù un altro sorso. Sospirò. Meglio rivolgere la sua attenzione a qualcosa di meno dannoso del vino locale. Sotto la luce delle pittoresche lampade a olio del caffè, Carol tornò a leggere il «Philadelphia Inquirer», a malapena in grado di distinguerne i
caratteri. Non che importasse: aveva già letto il giornale, acquistato la settimana precedente, subito dopo essersi imbarcata sull'aereo per Parigi, e una seconda volta sul volo per Bordeaux. Era come qualcosa di familiare. Ma i sentimenti di conforto e dolore si annullavano a vicenda: il giornale non riusciva a catturare il suo interesse. Bevve dell'altro vino, cercando di lavar via la delusione che aveva portato con sé attraverso l'oceano. La piccola porta d'uscita del caffè su Les Allès de Tourny, una delle principali strade del centro di Bordeaux, affacciava sul Grand Theâtre. Aveva studiato i particolari della facciata classica dell'edificio. La sua guida aveva spiegato che quel teatro era il modello del vecchio Teatro Lirico di Parigi. L'immenso portico a colonne, sormontato da dodici statue di Muse e di Grazie, ciascuna rappresentante un mese dell'anno, era da togliere il fiato, quasi magico, particolarmente luccicante se paragonato all'impenetrabile nero del cielo notturno. Dopotutto ci sono ancora bellezza e magia nel mondo, pensò, anche se non nel mio mondo. Si domandò se ci fossero in programma un'opera o qualche altra rappresentazione, e decise che il giorno seguente avrebbe controllato. Forse davano La Traviata. Magari!, pensò tra sé. Quel dramma nel quale la donna viene rifiutata e muore di consunzione! Inghiottì quanto restava del vino. «Pardon, Mademoiselle. Vous permettez?». Lei sollevò lo sguardo. C'era un uomo elegantemente vestito in piedi davanti al suo tavolo. «Je ne parle pas français». Pronunciò con difficoltà l'unica espressione completa in francese che conoscesse. «Le ho chiesto se possiamo dividere il tavolo». Il suo inglese era privo di imperfezioni, il tono sicuro, con un'espressione sul viso abbastanza decisa da risultare irritante. Carol provò un senso di fastidio. L'unico motivo per cui si era recata in un posto fuori dagli itinerari più battuti come Bordeaux era quello di evitare incontri. «Preferirei stare da sola. Spiacente», disse. «È comprensibile», replicò lui, ma rimase lì in piedi a fissarla. Lei si sentì a disagio e riprese a leggere. «Il caffè è pieno. Non ci sono altri posti», insistette l'uomo.
Lei si guardò intorno oltre il bordo dell'«Inquirer». Tutte le sedie erano occupate tranne quella al suo tavolo. Tornò a guardarlo. Era di bell'aspetto: ben piantato, avrebbe detto Rob. Eccezion fatta per i fili d'argento sulle tempie, i suoi capelli erano assai simili al suo abbigliamento di pelle... tutto nero. La sua carnagione era chiara. Per un istante, probabilmente per l'oscurità alle sue spalle, lei aveva provato una sensazione particolare, una strana mescolanza di due dimensioni su tre dimensioni, come le figure di cartone dove i turisti introducono la testa e le mani per fare una foto ricordo. La caratteristica più evidente erano i suoi occhi grigi. Le fecero venire in mente il fumo, un colore fastidioso, intenso persino in quella debole luce. Probabilmente un anno prima avrebbe trovato i suoi tratti una combinazione interessante. Scrollò le spalle. «Si sieda», concesse. «Merci. Lei è troppo gentile». Cercò di tornare alla lettura, ma avere un'altra persona accanto le sembrava un'invasione. Però Carol non voleva comunque parlare, per cui si girò dall'altra parte, piegò il giornale sul grembo e si mise ad osservare la tipica scena francese di fronte a lei. Come nel centro di qualsiasi città di provincia, chiunque sembrava conoscere pressappoco tutti gli altri. Motorini e motociclette si destreggiavano tra utilitarie attente a moderare la velocità. Molti guidatori erano giovani, vestiti con abiti di denim o di pelle, e schiamazzavano con i loro amici. I marciapiedi brulicavano di vita: gente che portava buste di carta marroni con baguettes e lègumes che sporgevano dalle sommità; uomini e donne che trasportavano spesse cartelle portadocumenti o contenitori di plastica per il pranzo; coppie vestite elegantemente uscite per trascorrere la serata. Era interessante, se non altro perché tutto lì era nuovo per lei. Ma aveva già sentito altri turisti sostituire la parola Bordeaux con boredom, "noia". Lei era arrivata già annoiata. Sospettava che non sarebbe rimasta molto a lungo. «Lei viene dagli Stati Uniti. L'ha tradita l'accento». Si rivolse al suo indesiderato compagno. La stava fissando: la sua espressione era noncurante ma attenta. «Sì, sono americana», convenne. «Del Midwest, della East Coast, oppure di entrambe?» «Ultimamente ero a Philadelphia». «Ma non è nata là».
La cameriera depose un largo bicchiere di vino rosso davanti al suo commensale. L'uomo le allungò una banconota da dieci franchi. Sollevò il bicchiere, annusò il contenuto, quindi rimise nuovamente il bicchiere sul tavolo. «Un paese interessante. Lo conosco, e conosco bene anche la lingua», disse lui mentre intascava il resto. «Non vecchio come la Francia per storia e tradizione, naturalmente, ma quello che vi manca in antichità, sicuramente lo compensate con le nuove scoperte». «Probabilmente», disse Carol volgendosi nuovamente dall'altra parte. «Il mio nome è André. E il suo?». Lei si girò nuovamente. Lui stava inclinando il bicchiere, facendone oscillare il contenuto. Il vino rivestì rapidamente il calice prima di scivolare lungo i lati. Il volto dell'uomo rifletteva un misto di stanco disinteresse e pigra curiosità, con una punta di condiscendenza. «Non sono dell'umore adatto per fare conversazione. Vorrei davvero stare da sola», gli disse. «Come vuole». Sapeva che lui si sarebbe sentito offeso, ma quello era un suo problema. Carol era sul punto di voltarsi nuovamente, quando lui parlò all'improvviso. «Non molte donne vengono da sole a Bordeaux in questo periodo dell'anno, specialmente donne molto belle. Ho sempre amato un certo aspetto: fianchi sottili, seno prorompente, sedere sodo, capelli castani, occhi di zaffiro, chiari come un cielo d'estate...». Con un sospiro di disgusto, Carol afferrò la borsa, quindi gli voltò le spalle, andandosene in fretta. Era aprile, ma la sera faceva già abbastanza caldo per una giacca leggera. Decise di fare una passeggiata lungo il fiume prima di tornare a dormire. Non era stanca, e voleva riflettere. Le acque della Garonna erano melmose: era il risultato, così le era stato spiegato durante un giro turistico della città, dell'essere sporcate da una certa quantità invernale di neve e fango mentre il fiume scendeva giù dalle montagne di nord-ovest diretto verso l'Atlantico. Si mise a camminare lungo la grande strada di pietra sulla riva sinistra. Di giorno, pedoni e veicoli riempivano il lungofiume con una cacofonia di suoni sgradevoli, ma di notte le sponde appartenevano all'oscurità. Lo scricchiolio di corde spesse che sfregavano le bitte, tenendo prigioniere le navi mercantili, la cullava. Più avanti, la parte più esile della luna crescente esaltava il nero del cielo.
Era così tranquillo lì, rilassante, senza nessuno che interrompesse i suoi pensieri. Tutto sembrava simile a una specie di melodramma. In quel momento, ripensando al passato, comprese che avrebbe dovuto capire fin dall'inizio che Rob era un disonesto. Tutti i segnali più sgradevoli erano venuti alla luce come quando la corrente torna dopo un black out; gli altri avevano visto arrivare la fine della recita. Come dicevano loro, era sempre l'ultima a sapere le cose, pensò, ancora una volta cosciente di quanto avesse finito col sentirsi piena di amarezza. Avvertì un suono e si voltò. Il sentiero era vuoto. Sono i nervi, pensò tra sé. Questo è quello che succede quando sei abituata ad essere parte di una coppia: hai paura a stare da sola. Ma sapeva che non si trattava di quello. E in più, lei adesso voleva stare da sola. Persino dopo un anno, aveva ancora paura a stabilire una relazione. Ecco perché se n'era andata via di casa. Ecco perché si trovava in un paese del quale non conosceva la lingua. E se il divorzio era stato un'agonia, la straziante solitudine era stata ancora peggiore. Ma l'aveva affrontata, giorno e notte, finché era diventata una sorta di alleata: adesso rifiutava di separarsi da un sentimento che considerava suo complice. Di nuovo quel suono, come di un ciottolo che viene preso a calci. Carol si fermò, girandosi. La strada era sempre vuota, il lungofiume quieto. Più avanti un tunnel non illuminato conduceva sotto il Pont de Pierre, il ponte a quattro corsie con archi di pietra costruito in età napoleonica che si trovava nel mezzo della città e impediva alle navi più grandi di spingersi ulteriormente a sud. Pensò di ritornare verso la strada principale, tuttora in vista, ma non voleva ancora affrontare il mondo reale. Non c'è nessuno qui, pensò tra sé. Il tunnel è vuoto. Si vede fin dall'altra parte. Probabilmente è soltanto un gatto. La strada scivolava verso il basso nella più cupa oscurità. Nelle acque del fiume il rumore delle onde che rifluivano sulle pietre e sbattevano sulle transenne di legno rimbombava sui muri accompagnato dall'eco dei suoi tacchi che ticchettavano sulla pietra umida. I suoni del traffico sopra il ponte si fecero più lontani. Improvvisamente udì un fruscio. «Chi è là?», disse ad alta voce, rendendosi conto del fatto che, se davvero c'era qualcuno, probabilmente non avrebbe compreso l'inglese. Si girò. L'oscurità improvvisa la circondò mentre, più avanti, c'era la luce bianca
del viottolo illuminato dalla luna. Era giunta a metà strada tra dove era entrata e dove sarebbe voluta uscire. Ebbe un'esitazione, ma alla fine avanzò. Sembrava come se qualcuno stesse camminando dietro di lei. Poi il silenzio. Il tonfo del suo cuore le riempì le orecchie. I suoi polmoni le parvero compressi, e si accorse che i muscoli della schiena e del collo erano tesi, la pelle liscia per il sudore. Carol si mosse in avanti, ma udì nuovamente un passo che procedeva all'unisono col suo. Quando si fermò, un secondo dopo, si fermò anche quello. Si mosse più in fretta, correndo verso la distante fine del tunnel, mentre guardava dietro di sé. Wham! Colpì un oggetto solido e gridò. Voltata la testa, si trovò a fissare in volto l'uomo del caffè. «Lei!», esclamò, tanto impaurita quanto innervosita, mentre si allontanava da lui indietreggiando. Quello non disse nulla: si limitò a guardarla. Il suo viso sembrava più sottile di prima: pareva quasi affamato. Era molto più alto e grosso di quanto Carol ricordasse. La donna riacquistò in fretta l'equilibrio. «Chi diavolo crede di essere per seguirmi? Dovrei denunciarla alla polizia». Le labbra di lui si piegarono in un ghigno privo di qualsiasi umorismo, ma continuò a rimanere in silenzio. Carol, infuriata, tentò di allontanarlo con una gomitata, ma lui le afferrò il braccio. «Mi lasci andare o mi metto a gridare!», lo avvertì. «Fai pure, se ti piacciono gli effetti sonori. A me piacciono. Ma non illuderti pensando che qualcuno sentirà. E, anche se sentono, non ti aiuteranno». Lei vibrò un colpo con la borsetta e, nello stesso tempo, cercò di dargli una ginocchiata nell'inguine. Lui sorrise, con gli occhi che brillavano di soddisfazione: ovviamente si stava godendo la paura e l'impotenza della donna. La sua bocca si aprì rapidamente, abbastanza a lungo perché lei potesse nel subconscio ricordare di aver notato qualcosa di strano. Una sensazione di pericolo le pervase il corpo, mentre veniva sopraffatta da un'ondata di terrore. «Qu'y a-t-il?».
La voce maschile era vicina. «Aiuto! Aiutatemi!», gridò lei. Improvvisamente il suo assalitore la allontanò da sé. Lei inciampò e barcollò, cadendo a terra di faccia. Trattenne il respiro, aspettandosi di essere aggredita. Invece udì il rumore di una colluttazione e, quando si voltò, intravide un uomo più vecchio, sui sessant'anni almeno, che cercava di tener lontano il suo molestatore. Scattò in piedi urlando, muovendo le braccia freneticamente, sperando di attirare l'attenzione di qualcuno nel traffico caotico sopra il ponte. Ma il posto era troppo poco illuminato perché ci si vedesse, e il rumore dei veicoli sovrastava le sue grida. L'uomo anziano non poteva competere con quello più giovane e più muscoloso. Doveva aiutarlo. Si precipitò alle spalle dell'aggressore e lo colpì alla testa con la sua borsetta. Mentre i tre si fronteggiavano, udì il vecchio gridare una sola volta, poi lo vide incespicare. Carol rabbrividì. Indietreggiò di alcuni passi. Nel silenzio agghiacciante, l'uomo che si era presentato come André sistemò il vecchio in modo che avesse la testa piegata e la gola esposta. Il volto di André, pallido e intenso, sembrava emergere dall'oscurità. Quando aprì la bocca, un lampo di luce illuminò due incisivi dall'aspetto tagliente. Improvvisamente le sue labbra si unirono alla carne scoperta in un bacio che sembrava quasi erotico. Nello stesso momento, i suoi occhi si fissarono in quelli di Carol. Era come se un raggio laser li avesse collegati. La donna non riusciva a distogliere lo sguardo. Istintivamente lei chiuse gli occhi di scatto, ma ormai era come ipnotizzata da quei suoni di risucchio, e talmente sconvolta da non riuscire ancora a muoversi. A un tratto doveva essersi manifestato un istinto di sopravvivenza, perché fu finalmente in grado di arretrare. E, più si allontanava, meno si sentiva imprigionata. Quando fu abbastanza distante da sapersi relativamente al sicuro, si girò e corse gridando verso la strada. «Mademoiselle Robins, descriva ancora il suo aggressore, per favore», chiese l'ispettore LePage, facendo schioccare con un gesto ormai abituale un foglio di carta pulito. Nelle due ore intercorse dall'assassinio, le luci erano state sistemate, il corpo esaminato e fotografato da tutte le angolazioni possibili, e l'intera zona si era riempita di poliziotti, reporter e curiosi, mentre Carol aveva risposto già dieci volte a quella domanda. Aveva
vacillato tra paura e tristezza prima di scivolare nella depressione. Infine, una sorta di torpore emotivo aveva avuto la meglio. «Ascolti, le ho già detto che aspetto aveva. E le ho già detto che cosa è successo. Non posso tornare al mio hotel? Sono esausta». «Ancora una volta, Mademoiselle». Carol sospirò. I suoi nervi erano provati. Non era stato soltanto l'incontro precipitoso con la morte ad averla fatta preoccupare. Quel vecchio era morto, e lei era ancora in vita perché lui era morto. Capì che il senso di colpa si sarebbe focalizzato sull'immagine di quel feroce assassinio e sarebbe rimasto ben saldo nella sua mente per molto tempo a venire. Ma adesso voleva soltanto tornare nella sua stanza per restare da sola. «Era alto... un metro e settantacinque o un metro e ottanta, atletico. Capelli neri, brizzolati sulle tempie, occhi grigi. Carnagione chiara. Grandi denti. Indossava giacca e pantaloni scuri... di pelle. Una camicia scura e scarpe... costose. Sa, uno di quei completi alla moda. Sembrava all'incirca dieci anni più vecchio di me, forse sui trentacinque, trentasei anni, e parlava sia francese che un buon inglese. Mina detto che il suo nome è André». «Tratti peculiari del viso?» «Ho già detto di non avergli prestato una particolare attenzione». «Ma non è rimasta seduta con lui per un quarto d'ora al caffè?» «Diciamo piuttosto cinque minuti. E le ho detto che stavo leggendo. Ho lasciato che si sedesse solo perché non c'erano altri posti liberi». Il basso e tarchiato detective con la giacca marrone tutta spiegazzata continuava a prendere appunti fumando senza sosta. Carol pensò che fosse del tutto indifferente, che stesse annotando in fretta le informazioni per routine, perché ci si aspettava che riempisse il suo taccuino. Aveva anche la sgradevole sensazione che non la stesse prendendo sul serio. «E perché se ne stava in giro a passeggio da sola così tardi?», le chiese ancora. «Non riuscivo a dormire. Era una bella serata». «Va in giro spesso di notte da sola?» «A volte». «In posti pericolosi?» «Non sapevo fosse pericoloso. Dovrebbe essere una città tranquilla. Perlomeno questo è quello che dice la guida turistica». LePage sbuffò. «Mi dica, Mademoiselle Robins, perché è qui a Bordeaux?». Carol cambiò atteggiamento. Non aveva alcuna intenzione di raccontare
la storia della sua vita a quell'uomo. «Sono in vacanza». «In questo periodo dell'anno? La maggior parte dei turisti viene in estate, quando il tempo è gradevole, oppure in autunno, quando matura l'uva». «Non vado pazza per il vino di stagione». LePage sospirò. «Lei ha visto quest'uomo di nome André assalire il carpentiere?» «Sì. Come le ho già detto prima. Si è appoggiato a quel vecchio signore, l'ha fatto piegare leggermente indietro e forse gli ha spezzato la schiena o il collo, e poi...». «Lei si rende conto, Mademoiselle, della quantità di forza necessaria per spezzare la colonna vertebrale di un uomo a mani nude». «Me ne rendo conto. Era buio. Le sto semplicemente dicendo quello che ricordo». «Vada avanti». «Poi quell'uomo, il carpentiere come afferma lei, è rimasto in silenzio». «Parlava fino al momento prima di essere piegato indietro?» «No. Non ne sono sicura. È accaduto tutto così in fretta. Credo fosse già morto». «E se le dicessi che il collo e la schiena del carpentiere non sono spezzati?». Carol lo fissò senza alcuna espressione per il tempo di due battiti del cuore, quindi disse: «Non ho detto che lo fossero. Ho detto che era possibile che lo fossero». Mentre lei proseguiva, il poliziotto sospirò e si fece correre una mano tra i capelli che cominciavano a farsi grigi. «Poi l'assassino ha aperto la bocca e ha morso il collo del carpentiere come un animale, guardandomi per tutto il tempo». Al ricordo, fu scossa da un brivido involontario. Il detective richiuse il taccuino. «Mi dica, signorina, è stata recentemente al cinema?», le chiese. «Dove vuole arrivare, ispettore?» «Mi sto soltanto chiedendo se ha visto qualche film negli ultimi tempi. Cinemà Fantastique, per esempio». «Guardi, lo so che sembra una cosa tipo Dracula, ma è quello che ho visto. Non posso fingere che fosse qualcos'altro. L'ho visto mordere il signore più anziano. Di questo sono sicura. Non so se gli abbia succhiato il sangue o cosa, so solo quello che le sto raccontando».
L'ispettore LePage sospirò nuovamente, fece scivolare gli appunti nella tasca della giacca, poi accese una nuova sigaretta prima di buttare il mozzicone e schiacciarlo sotto la scarpa. Quasi a fatica la prese per un braccio. «Molto bene, Mademoiselle. Uno dei miei agenti la scorterà al suo hotel. Naturalmente, non potrà ancora abbandonare la città. Dovrà ritornare alla Centrale per firmare la deposizione. E potrei avere altre domande da farle». La condusse attraverso l'edificio fino a una vettura di servizio, e aprì lo sportello posteriore. Quando fu salita aggiunse: «Un avvertimento. Dato che l'aggressore conosce le sue fattezze, lei potrebbe essere in pericolo. Ci sarà un uomo di guardia nelle vicinanze». «Vuole dire che intende tenermi sotto sorveglianza?» «Per la sua sicurezza. E, per favore, non faccia altre passeggiate notturne». Quindi chiuse energicamente lo sportello, e il conducente partì. CAPITOLO 2 Il giorno seguente la polizia interrogò nuovamente Carol all'hotel, di persona e diverse volte al telefono, per chiarire i dettagli. L'ispettore LePage, in particolare, sembrava sempre più scettico come se, quanto prima fosse passato il tempo, tanto più rapidamente avrebbe potuto dimenticare quel caso. La stava tenendo all'oscuro, facendo molte domande e rispondendo a poche. Ammise che il referto dell'autopsia era inconcludente e che non erano stati arrestati dei sospetti. Oltre che con la polizia, lei non aveva parlato con altri. L'assassinio l'aveva lasciata scossa. Carol aveva sognato un grande lupo con la faccia del suo aggressore, pronto a colpire, con il sangue che gocciolava dalle fauci aperte. Si svegliò di soprassalto, con il corpo ricoperto di sudore e il cuore che le batteva forte in petto. Non erano ancora le dieci di sera quando finalmente aveva avuto il coraggio di avventurarsi fuori dall'hotel. «Mi serve un taxi», aveva detto al portiere del Royal Medoc. Nell'attesa, si era data un'occhiata intorno. Un uomo basso che fumava un sigaro stava immobile in mezzo alla strada appoggiato a un lampione decorato. Guardò nella sua direzione cercando tuttavia di far sembrare che non l'avesse notata. Si tratta ovviamente del poliziotto di guardia, pensò la donna, e pure di
uno pidocchioso. Una volta dentro il taxi, diede istruzioni al conducente, incontrando considerevoli difficoltà con la lingua, affinché la portasse al St. James, un piccolo ristorante lungo la Garonna dalle parti di Bouliac. La sua prima notte a Bordeaux aveva cenato là. Il cibo era buono, costoso ma a prix fixe, e il locale piacevole. Sentiva il bisogno di allontanarsi dall'hotel, anche solo per cenare. Andarci col taxi sembrava abbastanza sicuro. E ne avrebbe preso uno anche per il ritorno, così non ci sarebbero stati problemi. Il maître fece sedere Carol vicino al camino, di fronte a una finestra. Soltanto altri due tavoli erano occupati, entrambi da coppie. Il ristorante posto sulla sommità di una bassa collina affacciava sulla distesa della città. Le luci che brillavano nelle case si distendevano davanti a lei come nastri dai riflessi rosso ed ambra lungo le principali arterie del centro cittadino. All'interno, delle semplici lampadine brillanti esaltavano l'arredamento di noce e le tovaglie viola. Il fuoco palpitante forniva un bagliore accogliente e la riscaldava un poco: il clima della notte era diventato inaspettatamente freddo. Cenò con calma, assaporando tanto il cibo quanto il fatto di trovarsi in un luogo sconosciuto. Ma i suoi pensieri erano tormentati, tornavano indietro prima all'orribile delitto, poi, cosa strana, ancora più indietro nel tempo, finché cominciò a ricordare come si erano conosciuti lei e Rob. Ero così diversa allora, pensò. Più giovane, benché sia stato solo pochi anni fa, ma decisamente più naif. Rob era il tipo di ragazzo dal quale era sempre stata attratta: biondo, dal bell'aspetto fanciullesco, con un sorriso aperto, abbronzato, atletico, e una carriera di successo. Ricordò di aver pensato che sembrava essere uscito dalle pagine di GQ. Entrambi provenivano dalla media borghesia, con un retroterra culturale tipico della "Middle America". Si erano incontrati alla festa per la serata inaugurale di un teatro amatoriale a Philadelphia, quando lui era il direttore più anziano di una rivista patinata di città e lei si stava sforzando di condurre a termine gli studi in legge all'università della Pennsylvania. Era così facile innamorarsi di lui, pensò. Troppo facile. Il cameriere si fermò per riempire il suo calice. Sorrise, e lei abbassò lo sguardo verso il suo coq au vin. Il matrimonio era stato celebrato tre mesi dopo. Avevano comprato un appartamento nella Città dell'Amore Fraterno, nell'affascinante zona del centro nota come Society Hill. Carol era riuscita a trovare un incarico co-
me impiegata in un piccolo studio legale, in attesa di poter superare gli esami per la professione forense. La posizione di Rob e il suo conto in banca avevano permesso loro di godere di un invidiabile tenore di vita. Spesso si recavano all'estero in vacanza, e quasi tutte le sere uscivano per andare a feste con amici o a eventi culturali. Rob aveva acquistato un Mac e dedicato il proprio tempo libero a scrivere «la grande sceneggiatura americana», come gli piaceva dire scherzando. Carol continuava a fare costumi e scenografie, ma più in generale dava una mano in un teatro, e seguiva una serie di corsi di recitazione: era la prima volta dai tempi del college che era potuta tornare a fare ciò che amava di più, ossia recitare. Le cose sembravano perfette, finché non aveva trovato la lettera. Sapeva che lui l'aveva nascosta, ma le era rimasto sempre il sospetto che forse, inconsciamente, Rob avesse voluto che lei la trovasse. La lettera era indirizzata a Phillip, il migliore amico di Rob, nonché il più vecchio amico di Carol in città. Rob le aveva detto di essere stato bisessuale prima del loro matrimonio. Lei era riuscita ad accettarlo. Adesso era un'altra persona. Ma, da ciò che aveva scritto riguardo i suoi sentimenti, era ovvio che non solo il rapporto con Phillip andava avanti da ben prima che incontrasse Carol, ma anche che, durante il matrimonio, c'erano stati innumerevoli altri uomini e donne. Rob aveva giurato a Phillip che adesso sarebbe stato fedele... a lui. Chiedeva a Phillip di essere paziente, dato che stava tentando di dire a Carol che voleva il divorzio. Cercava il modo meno doloroso per dirglielo. E poi le accuse, le lacrime, le discussioni, le recriminazioni di lei, le scuse di lui, le confessioni dell'uno e dell'altra, e il doloroso rifiuto. Quindi, alla fine, l'orribile verità: Rob aveva contratto il virus dell'HIV da una donna che scriveva per la rivista, una delle sue tante storie. L'aveva trasmesso a Phillip. Phillip era risultato positivo al test per tre volte: entrambi erano portatori. L'aveva scoperto soltanto di recente. Carol era rimasta sconvolta. Con stupore, si era costretta a fare il test. L'esito era stato negativo. Poi un secondo test. Negativo. Ma quei risultati erano sembrati come un segno divino. Era terrorizzata all'idea di fare il test una terza volta. A cosa serve, aveva pensato. Alla fine risulterò positiva. L'esperto le aveva assicurato che non era una certezza. Avrebbe potuto non essere stata infettata. Ma si era dedicata a ricerche e letture sul virus; Rob avrebbe potuto aver infettato tutti quelli con cui aveva fatto sesso, e le parole di speranza dello staff dell'ospedale non avevano alleviato i suoi pensieri. Non era nel suo carattere accettare un esito positivo; sapeva che non
sarebbe riuscita a vivere con quel tipo di consapevolezza. Benché il divorzio fosse stato semplice, si trattò ancora di una dura prova. Un avvocato del suo studio accettò il caso, portandola in fretta fuori dal matrimonio. E in fretta lei se n'era voluta allontanare. Come dilaniata da uno spettro, desiderava che quella miseria avesse fine. Il suo piatto era stato portato via. Decise di non prendere il dessert, ma solo caffè e liquore. Adesso era rimasto solo un altro tavolo occupato. Per un anno aveva vissuto da sola nella loro dimora, mangiando surgelati di qualità, guardando parecchia televisione, lavorando part time in un ufficio e non facendo altro. Per due volte era stata bocciata all'esame di stato. Continuava a saltare le lezioni di recitazione e aveva lasciato perdere il teatro. I suoi amici si erano allontanati e lei li aveva lasciati fare. Si era abituata in fretta a stare da sola, quasi preferendolo. E le poche volte in cui la gente aveva cercato di giocare a combinare matrimoni, aveva sempre trovato delle scuse. Il dolore si era attenuato, rimpiazzato da un fragile strato di indifferenza ben accetta, che col tempo si era consolidata. Non aveva intenzione di ostacolare quel rimedio apparente. Mentre sorseggiava il liquore, il cameriere portò il conto. Con molta attenzione calcolò il numero esatto di franchi. Incerta se il totale includesse già una mancia, ne aggiunse una. Era stato sicuramente per un impulso momentaneo che aveva abbandonato il proprio lavoro. Rob si era sistemato più che ragionevolmente. Lei aveva venduto la casa, la macchina con tutto il resto, e aveva deciso di viaggiare. I soldi sarebbero bastati per tre anni, se fosse stata attenta. Non aveva idea di quello che avrebbe fatto dopo, ma non aveva molta importanza. Voleva semplicemente andarsene lontano per vedere se sarebbe riuscita a trovare qualche ragione per vivere, qualcosa che la ispirasse, perché adesso sapeva che non si trattava soltanto del suo divorzio e del tradimento. Aveva tradito se stessa. Il matrimonio, in retrospettiva, era stato un'illusione. Entrambi avevano recitato bene la loro parte, ma non abbastanza bene, non con il cuore, e adesso lei ne stava vivendo le conseguenze. E questo le faceva mettere tutto in discussione. È divertente, aveva pensato. Ho sempre cercato di essere onesta e leale, di fare le cose nel modo giusto. Allora perché mi sembra che la mia vita sia stata sprecata? Aveva letto che, anche se fosse risultata positiva - cosa che ancora non si era verificata - l'essere portatrice non avrebbe necessariamente voluto dire
che il virus si sarebbe attivato. Ma la possibilità era in continua crescita. Non aveva ancora sintomi, ma rimaneva sempre l'eventualità. E, poco prima di abbandonare Philadelphia, Rob aveva chiamato: gli era stato diagnosticato il sarcoma di Kaposi. Quelle novità l'avevano atterrita, resa furiosa, depressa e piena di dispiacere per sé, per Phillip e per tutte le persone collegate a quella terribile catena che aveva Rob come anello centrale. Era un incubo ad occhi aperti senza fine. Non aveva alcun rimpianto per la vecchia vita che si era conclusa, ma non c'era nessuna nuova vita con cui rimpiazzarla. E, nella sua mente, non sembravano esserci molte possibilità. Il pasto era stato consumato e il conto pagato. Vuotò il bicchiere di Cointreau. Era l'ultima cliente rimasta nel ristorante. Non c'era ragione di trattenersi. Fuori un vento freddo le sferzò le gambe. Carol strinse a sé il soprabito primaverile beige. In quella strada c'erano poche vetture, e nessuna di quelle era un taxi. Pensò di rientrare per chiamarne uno, ma le luci del ristorante si erano spente e, quando si affacciò alle tendine di pizzo, non riuscì a intravedere nessuno all'interno. La strada principale è soltanto a un isolato di distanza e, senza dubbio, il mio poliziotto di sorveglianza dev'essere ancora appostato, si rassicurò. Si voltò nella direzione del vento, avventurandosi giù per la collinetta verso le luci più brillanti. Ancor prima di aver raggiunto l'angolo, udì una macchina dietro di sé. Era un taxi. Fece un cenno, e il conducente rallentò. «Al Royal Medoc», gli disse, chiudendo lo sportello. L'autista partì immediatamente. Leggermente ubriaca per aver bevuto quasi un litro di vino e il liquore, Carol appoggiò la testa contro il sedile e chiuse gli occhi. Istantaneamente, un'immagine dell'aggressore apparve sulle sue palpebre. Aprì in fretta gli occhi, ma poi li richiuse nuovamente. La polizia non l'aveva presa sul serio, almeno per quanto riguardava la parte della deposizione in cui affermava di averlo visto mordere il vecchio. Non l'aveva creduto neppure lei. Era sembrata la scena di un film horror. Non aveva senso e, se qualcuno le avesse detto di aver visto un uomo ucciso in quel modo, avrebbe pensato che stesse scherzando o che fosse matto. Un forte odore di fumo di sigaro interruppe i suoi pensieri. Fissò la nuca del conducente chiedendosi se non fosse il poliziotto. Le strade che vedeva fuori dal finestrino del taxi non le sembravano familiari. Il conducente stava seguendo un percorso differente, più tortuoso, per recarsi all'hotel. Controllò il tassametro. Segnava già sedici franchi,
mentre l'intera corsa all'andata era costata soltanto diciotto. Ovviamente l'autista stava scegliendo la strada più lunga per prenderle più soldi. «Pardon», disse lei. Il guidatore la ignorò. «Senta, voglio che mi porti dritto all'hotel. Dal Pont de Pierre, s'il vous plaît». Ancora non ottenne risposta e si domandò se quello parlasse inglese. Non aveva cambiato direzione. In realtà, stava accelerando. Carol si voltò. Dal lunotto osservò le luci brillanti del centro allontanarsi sull'altra riva del fiume. Decise che sarebbe balzata fuori al successivo cartello di stop. La macchina sfrecciava lungo la riva destra, e la strada si faceva più buia per l'illuminazione intermittente. Era piovuto, le vie e i marciapiedi erano scivolosi, e un forte odore di ozono riempiva l'aria. Carol non vide altri veicoli per le strade desolate, né pedoni. «Fermi la macchina, adesso! Mi faccia scendere», urlò, ma il guidatore non le prestò attenzione. Aprì lo sportello. Andavano talmente veloci che, se si fosse buttata, si sarebbe di certo fatta molto male. Il conducente cominciò a rallentare. Lei sollevò lo sguardo. Più avanti c'era una lunga limousine argentea parcheggiata vicino alle acque. Un uomo alto stava fermo di fianco ad essa. Benché non riuscisse a vederlo con chiarezza, comprese istintivamente che si trattava dell'assassino. Allora si lanciò fuori dal taxi. Finì sulla strada con un tonfo doloroso e un gemito, strusciando entrambe le ginocchia e procurandosi dei lividi sulla coscia sinistra. Ma non era preoccupata per le ferite. Si rimise subito in piedi. Il guidatore non era più al volante e stava correndo verso di lei, come l'assassino. Calciò via le scarpe dai tacchi alti e corse indietro per la strada dalla quale era giunto il taxi. L'acciottolato era bagnato: la faceva scivolare, così si spostò sulla pavimentazione più ruvida. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti!», gridò. Dietro di sé udiva il rumore di altri passi. Avrebbe potuto sia procedere lungo la banchina che tornare dietro i moli di carico verso alcuni piccoli edifici che sembravano magazzini. Prese una rapida decisione. La strada per la banchina era troppo lunga, e lei non aveva la capacità di resistenza per arrivare fino a un'area più residenziale. Sarebbe stato meglio dirigersi tra gli edifici, dove avrebbe potuto nascondersi o magari trovare aiuto.
Corse per una piccola stradina, ne imboccò un'altra, quindi svoltò a un angolo, cercando di far perdere le sue tracce all'inseguitore. Si fermò trattenendo il respiro per ascoltare. Anche i passi si erano fermati, oppure l'aveva perso. Non voleva rischiare di commettere un errore. Silenziosamente si sporse lungo il muro di un edificio in pietra. Un gatto soffiò nelle vicinanze e lei sussultò. C'era un vicolo proprio dinanzi a lei. Là sarebbe stato possibile trovare un posto dove nascondersi. Si mosse piano, sbirciando davanti e dietro di sé. Giusto prima di girare l'angolo, controllò entrambe le direzioni, respirando lentamente e in silenzio, con l'alito che formava nuvolette nell'aria. Si sporse dall'angolo. L'assassino era nel vicolo e stava avanzando nella sua direzione. Carol fece marcia indietro. Corse per la strada dalla quale era venuta, ma all'ultimo edificio prima della banchina girò a sinistra invece che a destra in modo da non arrivare alla macchina. Adesso tutte le viuzze sembravano uguali: un dedalo grigio lucido, illuminato a malapena, rinchiuso tra edifici vecchi di secoli. Era senza fiato, ansimava rumorosamente e, nello sforzo di coprire la distanza, inciampò in una tavola di legno marcio lunga mezzo metro, graffiandosi il piede con un chiodo, e quasi finì contro un contenitore metallico per l'immondizia. Non riusciva a sentirlo, ma avvertiva i contorni di un'ombra, una nebbia che si mescolava con l'oscurità. E, nello stesso tempo, era solido, forte come un gatto selvatico che caccia la preda e che probabilmente è in grado di sentirne l'odore. Sta giocando con me, pensò, e l'idea la terrorizzò. Carol cercò di riflettere con calma. Sapeva che la sua unica speranza consisteva nell'allontanarsi da quella zona confusa e tornare in una parte della città dove ci fosse vita. Girò per una strada che conduceva in un vasto cortile. In distanza, notò su un lato un'altra strada e si diresse là. Ma, quando raggiunse la svolta successiva, restò scioccata: si trattava soltanto di uno slargo tra gli edifici, con i muri, ma non di una strada vera e propria. Era rimasta intrappolata in un cul de sac. Tornò sui suoi passi ma lui stava già sopraggiungendo. Si guardò intorno disperata. Non c'erano mura abbastanza basse da scavalcare, nessuna finestra a livello della strada che non avesse travi o inferriate, nessuna via d'uscita. Notò una scala antincendio sulla parete di un edificio, ma sembrava troppo in alto per raggiungerla. Tentò comunque, saltando in alto e finendo
a pochi centimetri dal piolo più basso. Nessun salvatore si sarebbe fatto vivo stavolta. Controllo per terra in cerca di un'arma. C'erano a portata di mano alcune piccole pietre e le raccolse, scagliandole, come giocando a baseball, nella direzione dell'aggressore. Questi si spostò e strinse l'ultima nel pugno. Adesso era troppo vicino, e lei si fece indietro a piccoli passi, appoggiandosi al muro fuligginoso. Mentre era senza fiato, tremante, l'altro non aveva nessun affanno. La donna si spostò lateralmente in un angolo. Lui si mosse in diagonale, con il corpo che ostacolava qualsiasi luce esistente. Ogni direzione di fuga era preclusa. Quindi le si avvicinò, con il volto sottile, smunto e dall'aspetto famelico. Carol comprese che non ce l'avrebbe fatta, ma cercò comunque di oltrepassarlo. Lui la sbatté indietro contro il muro, continuando ad avanzare. L'istinto ebbe il sopravvento. La donna attaccò, usando mosse che, in un corso di Wendo all'università, aveva ripetuto finché erano diventate automatiche. Lo colpì con un calcio all'inguine. Ma la reazione di lui fu più rapida di quanto si aspettasse. L'uomo le bloccò la gamba con le sue, facendole perdere l'equilibrio. Lei sferrò un pugno, con le nocche rivolte verso l'alto, poi le ruotò a spirale in basso mentre mirava al plesso solare. Lui non si fece neppure indietro. Prima ancora che lei potesse comprendere cos'era successo, le afferrò entrambi i polsi costringendoglieli dietro la schiena. Le sue mani erano gelide. Premette il suo corpo contro quello di lei finché fu costretta in un angolo incapace di muoversi. «Ci incontriamo di nuovo...». La sua voce era dolce, sicura, come se tutti gli sforzi da lei effettuati non avessero avuto il minimo effetto. «Non mi avevi detto il tuo nome, ma è Carol, non è vero? Carol Robins. Come l'uccello». «Come lo sai?». Sentì la propria voce tremare, e comprese che anche lui l'aveva sentita. «La polizia. Ritengo sia vero, a meno che tu non sia una bugiarda». «Perché te l'avrebbero detto?», chiese lei, tanto per ritardare quello che sembrava inevitabile quanto per pura curiosità. «Ho domandato. Diciamo solo che ho dei contatti». Si spinse più vicino e le sussurrò all'orecchio: «Il tuo sangue avrebbe già dovuto essere mio, Carol». Bloccava i suoi polsi con una mano e le accarezzava i capelli sulla nuca con l'altra. Lei spostò bruscamente la testa per quanto era possibile e lo fissò.
«Non giocare con me», disse con astio, e lui parve sorpreso. «So di cosa sei capace. Se hai intenzione di uccidermi, facciamola finita». L'uomo doveva aver percepito un coraggio che lei non provava perché esitò. «Di solito le mie vittime implorano che risparmi loro la vita. Se devi supplicare, questo è il momento», le disse. «Non ti supplicherò. Dubito che servirebbe a qualcosa». «Sei perspicace». L'afferrò dietro il collo. Anche attraverso gli spessi capelli le mani di lui erano sempre incredibilmente fredde, e le trasmettevano un brivido. Mentre la guardava negli occhi, lei pensò di vedere le tracce di un'ammirazione piena di rancore. «C'è qualcosa in te...», disse lentamente. «Sei coraggiosa». Scrutava il suo viso, e lei riusciva quasi a sentirlo mentre valutava le possibilità nella sua mente. «È passato molto tempo da quando ho preso una donna. Mi ero annoiato. Ma tu...». La paura passò in secondo piano rispetto alle altre emozioni. Si sentiva adirata, e amareggiata. La disgrazia l'aveva colpita venendo fuori a forza, scagliandola a terra, facendo a pezzi il suo spirito. Se questa è la fine della mia vita, facciamolo in fretta, pensò. Non mi interessa soffrire di più. Si sentiva infuriata. Diede dei morsi tutto intorno a sé e gli addentò un polso. Lui indietreggiò in preda allo stupore. Un'espressione di totale sorpresa gli attraversò il volto, dissipata in un solo istante da una furia immensa. Carol non perse tempo ad esaminarla. Aveva cominciato a correre. Ma, prima che potesse arrivare davvero lontano, lui la afferrò. Cadendo, colpì il terreno duro di faccia, così forte che si chiese se non si fosse rotta la mascella. La testa cominciò a girarle, le orecchie a ronzare, ma lo sentì dire: «Se qualcuno deve mordere qui, quello sono io!». Improvvisamente la strattonò per un braccio e la trascinò fuori dal cul de sac e attraverso le strade, procedendo troppo in fretta perché lei potesse opporsi. Il ruvido calcestruzzo ricoperto di vetri e altri detriti le graffiò i piedi lacerandoglieli. Alla fine raggiunsero la limousine. Lui aprì lo sportello, la spinse dentro, poi richiuse la portiera sbattendola. Attraverso il vetro posteriore appannato lo guardò allontanarsi in fretta. Immediatamente tentò prima una maniglia, poi l'altra. Entrambe le por-
tiere erano bloccate. Colpì il divisorio scuro, nel tentativo disperato di richiamare l'attenzione del guidatore. Ma, se era lì, non rispondeva. Prese il telefono e premette i tasti, inclusi lo zero e il 911: niente, era come morto. Infine si calmò quanto bastava per cominciare ad avvertire il dolore per i tagli e le ferite sulle gambe e sui piedi, la coscia contusa e il gonfiore della mascella. Si succhiò il labbro inferiore e sentì il sapore del sangue. Le sue scarpe e la borsa che conteneva la maggior parte di ciò che sarebbe servito a identificarla, tranne il passaporto custodito al sicuro nella cassaforte dell'hotel, erano andati perduti. Nella tasca della giacca trovò un paio di fazzoletti. Con le mani che tremavano, si tirò giù le calze; i suoi piedi erano un disastro. Usò la saliva per pulire quanto più possibile. E, quando le ferite superficiali furono curate, Carol si appoggiò allo schienale in attesa, cercando di fronteggiare lo shock emotivo e soppesando le proprie possibilità. Infine i suoi pensieri andarono alla parte che una volta aveva impersonato al corso di recitazione. La performance era stata breve - solo una breve apparizione - ma aveva ricevuto un applauso a scena aperta. Con un poco d'improvvisazione, era una ruolo che pensava avrebbe potuto rispolverare ancora. CAPITOLO 3 Carol sentì un clic. Lo sportello posteriore di destra si aprì e André salì in macchina. Lei si spostò lungo il sedile per stare il più lontano possibile da lui. L'uomo la guardò rapidamente: nella debole luce interna, i suoi occhi sembravano brillare, e questo la fece tremare per un istante. Il bagliore di un lampione di strada sorprese la sua mano poco prima che richiudesse la porta: le dita erano sottili, i movimenti precisi, le unghie lunghe e ben curate. Sentì lo sportello anteriore aprirsi e poi richiudersi. L'uomo prese il telefono, premette tre numeri, quindi parlò in francese. Non appena ebbe terminato, abbandonarono il ciglio della strada. Si rilassò appoggiato alla lussuosa tappezzeria, distendendo piacevolmente le gambe e il braccio sinistro sul sedile, poi si girò verso di lei. Con un movimento troppo rapido perché potesse reagire, André si protese e le afferrò un braccio, avvicinandola a sé. Se avesse voluto uccidermi, l'avrebbe già fatto in quel cul de sac, pensò Carol. Rimaneva soltanto lo stupro. Aveva letto che le migliori tecniche di di-
fesa contro uno stupratore erano di fuggire, combattere o, se tutto il resto non serviva, cooperare per evitare lesioni, e aspettare l'opportunità giusta per scappare e chiedere aiuto. Però non vedeva come avrebbe potuto scendere dalla macchina. Lui sembrava sorprendentemente forte: se l'avesse fronteggiato fisicamente, probabilmente avrebbe finito col farsi più male di quanto non se ne fosse già fatta. Carol cercò di restare calma. Lui prese una manciata dei suoi capelli e le tirò indietro la testa. Mentre passavano sotto le luci della strada, veniva a crearsi un breve alternarsi: luce-buio, luce-buio. Quando la luce filtrava attraverso i vetri posteriori, guardava di sfuggita i suoi tratti. Adesso sembrava più sazio, non così affamato e tormentato come era prima. Tolse la sciarpa ricamata a mano dal collo di lei e le sbottonò lentamente la giacca e la parte superiore del vestito, denudandole la gola. Il battito del suo cuore aumentò per la paura. Quella mano, così tiepida adesso come prima era stata gelida, scivolò all'interno del reggiseno. Le dita sfregarono il capezzolo sinistro finché s'inturgidì. «Quanto tempo è passato», chiese lei con calma, «dall'ultima volta che sei stato con una donna?». Lui si fermò per rispondere. «Molto tempo. Forse troppo». La guardava in modo strano. «Cosa vuoi fare di me?». Le labbra di lui si piegarono in un sorriso cattivo. «Tutto ciò che voglio, Carol. Tutto ciò che voglio». La sua bocca calò violentemente su quella di lei, bloccandole la schiena contro il sedile di velluto. Si sentiva soffocare, ma lui la teneva così stretta che adesso non poteva sfuggirgli. Si concentrò nel mantenere la calma, ricordando come avrebbe dovuto recitare. Era l'unico modo. Allungò una mano e toccò la guancia di lui solo con le dita. La sua pelle era bollente, liscia, come fosse di cera. Allontanò gentilmente il suo volto, rendendosi conto che qualsiasi aggressione sarebbe stata immediatamente respinta e schiacciata. Forse proprio perché la pressione era tanto lieve, l'uomo si scostò. «Ho un affare da proporti», disse lei senza fiato. Lui spostò indietro la testa e rise. Il faro di una macchina brillò contro il finestrino laterale. La luce fece risplendere i suoi denti. Fu soltanto un secondo, ma lei trasalì nel vedere come fossero lunghi e appuntiti gli incisivi. «Da dove ti viene l'idea di poter contrattare?», chiese lui, ovviamente
ancora divertito dal pensiero. «Ti piace il mio corpo? Lo vuoi? Posso dartelo». «Lo prenderò, che tu lo voglia o meno». «Lo so», disse lei dolcemente. Le liberò i capelli, ma continuò ad osservarla. Le luci della strada mostravano la sua espressione interrogativa, e lei ne approfittò. «Non credo che tu ricordi come fare l'amore con una donna». Carol manteneva la sua voce dolce e ben modulata, sostenendo lo sguardo di lui. Aveva interpretato questa parte in passato, o una abbastanza simile da poter improvvisare le battute. Per un istante l'uomo parve irrigidito, arrabbiato. Ma poi riprese improvvisamente a ridere. «Hai del fegato, te lo concedo. Sarà un piacere ucciderti». «So che stai cercando di intimorirmi, ma non ce n'è bisogno. Puoi avermi liberamente. Ti do il permesso». Lui le afferrò i capelli, costringendo ancora una volta la sua testa a rovesciarsi all'indietro. «Se pensi che abbia bisogno del tuo permesso, hai un serio problema a comprendere la realtà della situazione», disse con aria divertita. Carol diede istruzioni a se stessa di restare calma e mantenere il contatto visivo. Non era il momento di farsi prendere dal panico. Sapeva che, se voleva salvarsi la vita, e non c'era nessuna sicurezza al riguardo, avrebbe dovuto mantenere il controllo, giocare attentamente, non lasciarsi vincere dal terrore. Userà il mio terrore contro di me, ammonì se stessa. È un maestro dell'intimidazione. «Quello che sto dicendo è che penso di poterti dare quello che vuoi. Sappiamo entrambi che puoi prendertelo, ma potrebbe essere più interessante se fossi io a dartelo». Lui continuava a stringerla dietro la testa, con la faccia sulla sua. Sembrava teso, controllato, imperturbabile. Lei sapeva di essere a pochi passi dalla catastrofe. Dopo quella che parve un'eternità, le disse: «Sentiamo questo affare». Carol gli toccò nuovamente la guancia. La pelle era quasi troppo liscia. Avrebbe giudicato il tessuto e i lineamenti del suo viso affascinanti se la situazione non fosse stata così pericolosa. Fece correre la mano tra i suoi capelli tagliati alla moda. Lui sembrava confuso. «Posso darmi a te», disse con fare seducente. «Posso essere calda, ba-
gnata e aperta. Non ti piacerebbe?». Le afferrò la mano. Il suo volto era nuovamente contratto. «E...?» «Lasciami andare». «Ecco la supplica!». «Non ti sto supplicando». La voce di lei era ferma, un po' infastidita: mascherava la paura. «Questo è un patto. Sappiamo entrambi che sei un feticista del sangue. Ma puoi avere il sangue da chiunque, non è così? Ti sto offrendo qualcosa di meglio. Il mio sangue non è speciale, vero?» «Il sangue di nessuno è speciale, ma sono tutti importanti». «Stai dicendo che ti è stato difficile trovarlo?» «Niente affatto». «Be', allora il mio non è una grande perdita». Lui ebbe un'esitazione e Carol capì che aveva guadagnato un esile margine. «Dimmi una cosa. La polizia. Quando dici di avere dei contatti, che cosa significa?». Lui le lasciò di nuovo andare i capelli e si sistemò di fronte a lei. «Esattamente quello che ho detto». Decise di assecondarlo, tirando per le lunghe. «L'emofiliaco della città, giusto? Tutti ti conoscono e ti temono. Sei abbastanza ricco perché ti lascino prendere chiunque tu voglia, non è così? Basta che li lasci in pace». «Naturalmente. Di solito prendo quello che mi serve dalla gente di passaggio in città. L'uomo vicino al fiume è stato sfortunato, ma non si sarebbe dovuto intromettere. La sua morte è stata accidentale: è morto per un improvviso arresto cardiaco. L'autopsia mostra che l'unica ferita sul suo corpo è un piccolo taglio sul collo. La polizia crede che sia successo quando è caduto. Ha subito una piccola perdita di sangue, non ingente... al momento del decesso». Il suo sguardo la sfidava a contraddirlo. «Inoltre, il testimone vero e proprio sembra essere scomparso». Non gli credeva riguardo al vecchio, ma si ritrovò a rabbrividire. Nessuno mi cercherà, realizzò. Sono veramente in suo potere. Ci volle tutta la sua volontà per nascondere la paura che provava. Avevano abbandonato la strada del porto, attraversato il Pont de Cubzac, e adesso stavano viaggiando su un'autostrada a due corsie. Un cartello più avanti diceva: Soulac-sur-Mer, 90 chilometri. Il traffico era quasi inesistente.
«Ecco la mia offerta», disse lei alla fine. «Trascorreremo la notte insieme, soli tu ed io. Nel mio hotel». L'uomo rise sarcasticamente. «Prova ancora». «A casa tua allora». Cercò di fare dell'ironia. «O dormi in una cripta?». Sembrava sprezzante. «Sentiamo il resto», le disse. «Be', andremo dove tu vorrai. Rimarremo insieme per molto o per poco tempo, a seconda di quello che prevede il tuo programma. Farò tutto quello che vorrai che io faccia, di buon grado, con ardore. Domani mattina mi lascerai andare, senza prenderti il mio sangue. Me ne andrò via da Bordeaux immediatamente. Non lo racconterò a nessuno e tu non sentirai mai più parlare di me, te lo giuro». Lui piegò la testa, guardandola come se avesse appena detto che c'erano dei cyborg sul ciglio della strada che cercavano di fare l'autostop. Alla fine disse: «Posso prenderti un po' di sangue. Per te sarà come donarlo alla banca del sangue. Non sarai infettata finché non ti avrò fatto bere il mio, e non c'è alcuna possibilità al riguardo. L'ammissione al club è esclusiva: solo su invito». Carol pensò di spaventarlo dicendogli che probabilmente era portatrice del virus. Ma quello avrebbe distrutto l'unica fiche dell'affare. E si vergognava ad ammetterlo. Il fatto che lui ritenesse di essere una sorta di vampiro era abbastanza snervante perché lei non dicesse nulla ma mantenesse il contatto visivo. Incrociò le braccia sul petto. Pochi secondi dopo lui disse: «Ci sono due falle nel tuo piano». «Che cosa?» «Credi che farai tutto quello che vorrò di buon grado. Forse lo dici adesso, ma ci sono alcune cose che non sarai così smaniosa di fare». «Le farò, di qualunque cosa si tratti: lo prometto». Lui sogghignò, incredulo. «E il secondo problema?», chiese lei. «Il secondo è che una notte non è abbastanza come scambio». «Quale sarebbe uno scambio equo?» «Non c'è uno scambio equo, ma soltanto quello che voglio io. Questo è tutto ciò che conta!». Stava diventando aggressivo, e Carol sapeva che avrebbe dovuto con-
trattare con attenzione o tutto sarebbe andato perduto. Si voltò verso di lui, lasciando che il suo seno destro gli sfiorasse il braccio. Le sue labbra si fecero vicine all'orecchio di lui e gli poggiò una mano sui pantaloni. Attraverso il leggero tessuto di lana, poteva sentire che era eccitato. Accarezzò il tessuto dolcemente. «Due notti? Il week-end?», sussurrò. Abbassò la lampo e gli sfiorò leggermente il pene con la punta dell'indice. Era caldo e duro, la pelle decisamente liscia. Carol si costrinse a baciare la sua guancia, spostandosi verso le labbra. Baciò anche quelle, ma la bocca di lui non la contraccambiò. Sentì invece le dita dell'uomo attorcigliare delle ciocche dei suoi capelli. Fece correre la lingua lungo il labbro superiore, tracciandone il contorno e poi di nuovo lungo il centro del labbro inferiore lentamente, sensuale quanto più poteva. Ma non c'era ancora alcuna reazione. Però, sotto la sua mano il pene diventava sempre più duro, e si sentì incoraggiata dal fatto che la sua tattica stava funzionando. All'improvviso le scaraventò la testa all'indietro. Sembrava furioso. «Che cosa sei tu, una puttana di professione?». Lei si sentì confusa. Le conseguenze di un rifiuto avrebbero potuto essere letali. «N-no», disse dolcemente, intimorita, sul punto di piangere per la frustrazione. Ci fu una pausa, poi lui disse: «Va bene. Sono curioso». Mentre si sistemava i vestiti aggiunse: «Due settimane». Il pensiero di trascorrere un tempo così lungo insieme a lui la fece sentir male. Ma che cos'altro avrebbe potuto fare se non portare avanti quella sciarada finché non avesse trovato un modo di fuggire? «Rimarrai nella mia casa e ti offrirai a me. Adesso la parola chiave, Carol, è questa: di buon grado. Quattordici notti da adesso, e ti lascerò in città cosicché potrai ripartire. Immediatamente. Posso ipnotizzarti, ma non lo farò; non sarebbe una sfida. Invece, questi saranno probabilmente i più eccitanti ricordi della tua piccola vita priva di passione. Mi darebbe fastidio prenderti in giro su questi giorni. Ma non farti illusioni. Se provi a fuggire, e dopo, se racconterai a qualcuno di me, chi o cosa io sia, ti darò la caccia. Il resto lo lascio a quello straccio di immaginazione che possiedi». Carol annuì. «E non prenderai il mio sangue?»
«D'accordo». A trenta chilometri dalla località di villeggiatura che era Soulac-sur-Mer, la macchina abbandonò l'autostrada per una strada di ghiaia. Si diressero verso una grande dimora in pietra prospiciente l'oceano. Tutte le luci al pianoterra erano accese, e sembrava luminosa, graziosa e invitante. Appena prima che la macchina si fermasse, André la guardò. «Ti ho detto che posso bere senza farti del male. Perché sei così risoluta nel non volermi offrire il tuo sangue?». Lei si girò senza rispondere. CAPITOLO 4 «Bene, guarda che cosa ha portato il pipistrello!». Un'esile ragazza vestita di bianco e di nero sui vent'anni, dai capelli ramati e gli occhi color cioccolata, raggiunse Carol non appena lei e André furono entrati in casa. «Per me?». La ragazza allungò una pallida mano verso Carol: un grosso anello di plastica nero opaco sul suo dito indice aveva la forma della tavolozza di un pittore con le piccole chiazze dei colori fondamentali intorno al bordo. Carol si fece indietro. «Ehi ragazzina, non ci provare!», l'avvertì. André si mise in mezzo a loro. «Gerlinde, vai via. Karl!». L'uomo che aveva chiamato arrivò nel corridoio. Era di costituzione media, anche lui sui vent'anni. Tanto i suoi occhi quanto i suoi capelli erano del colore del limo, i suoi vestiti in vari toni di marrone. Sembrava serio, intellettuale, con gli zigomi marcati come i tedeschi. I suoi occhi si fermarono sul piede sanguinante di Carol. «Lasciala stare!», disse André, irritato. Karl distolse la sua attenzione dalla ferita di Carol per guardare la ragazza di nome Gerlinde le cui labbra prominenti erano corrugate in un finto broncio. La ragazza dai capelli rossi gli si avvicinò, intrecciò il braccio con il suo, poi lo baciò sulla guancia, assicurandosi di strofinare il corpo contro quello di lui come avrebbe fatto un gatto. «Stavo solo scherzando», fece le fusa. «È così antipatico». Quindi ammiccò, e Karl rise. Qualcosa suggerì a Carol che non avrebbe ottenuto alcun tipo di aiuto da quei due. Comunque era sul punto di domandare, o meglio implorare, che
la lasciassero andare, quando una donna più vecchia giunse attraverso un'altra porta. I suoi lunghi capelli bianchi sciolti incorniciavano un volto ovale, mettendo in risalto il caffettano blu chiaro che indossava. I suoi occhi erano a forma di mandorla e indagatori, del colore dei lapislazzuli. Lei e André si parlarono in francese. Sembravano un poco simili, sia per la forma della fronte e della mascella, che per gli occhi distanti e intelligenti. Carol diede un'occhiata intorno a sé nel corridoio. Era una vecchia casa. Lì la parte superiore dei muri era tappezzata di fiori blu tenue - non ti scordar di me - e la metà inferiore era rivestita di legno verniciato. Il pavimento e le scale che conducevano al primo piano erano tappezzati di grigio chiaro, messo in rilievo da una ringhiera di rovere lucidato. Un piccolo lampadario pendeva sopra di loro, e tre minute lampade di bronzo con cappelle di vetro ambrato erano infisse sui muri. Quattro porte conducevano fuori dall'ingresso, tutte chiuse. Si chiese quale fosse quella che portava all'ingresso secondario. La donna più anziana le si fece vicino, e Carol avvertì qualcosa di strano in lei, anzi, in tutti e quattro. La loro pelle era troppo luccicante, quasi riflettente, e tutti avevano la stessa qualità attrattiva di André, forse inumana, in grado di ipnotizzare; quattro perfetti manichini, ma vivi. Ciascuno rivelava sicurezza e arroganza, però André era il più forte. La donna più anziana squadrò Carol dalla testa a piedi, poi sorrise e disse ad André: «Elle est belle. Ne perds pas de temps à la baiser». Gli altri, André compreso, risero. «Che cosa hai detto?», chiese Carol. Non aveva intenzione di permettere che giocassero con lei. La donna si girò per guardarla. Fissò lo sguardo intensamente negli occhi di Carol e Carol si sentì trascinata dentro quelle due pozze di blu liquido. La donna sorrise nuovamente, e quel gesto animò i suoi tratti, interrompendo l'incantesimo. «Ho detto che sei adorabile. Ho anche suggerito che ti porti a letto in fretta, perché sei davvero perfetta». Carol capì che stava arrossendo. Gerlinde sghignazzò, rivelando due incisivi lunghi e appuntiti come quelli di André, scioccando Carol al punto da ridurla al silenzio. «Uhmmm!» La rossa si leccò le labbra. «Non c'è nulla meglio di un vampiro nel sacco», disse quando riuscì a riprendere fiato. «Ohhh, quando queste lunghe, spesse zanne penetrano, è così... così bello!».
Si contorse e gemette. L'uomo di nome Karl rise, mostrando denti ancora più lunghi di quelli di Gerlinde. Carol era terrorizzata. Conoscono la pazzia di André, comprese, e sono altrettanto pazzi. Le sovvenne l'idea orribile che doveva trattarsi di uno di quei bizzarri culti del sangue, e che lei sarebbe stata la loro prossima vittima sacrificale. Ma stroncò quel pensiero prima che potesse farsi strada, mentre la sua rabbia aumentava. Incapace di trattenersi, disse senza riflettere: «Che cosa fai per il bis, ragazza, mangi bambini?». Gerlinde smise di ridere ma si mostrò indulgente, indirizzando a Carol un bel sorriso forzato prima di abbandonare la stanza. «Andiamo Karl, andiamo a metterci comodi e a scegliere la colonna sonora di questo spettacolo», disse. Appena se ne furono andati, André afferrò il braccio di Carol saldamente poco sopra il gomito e la condusse alle scale. Lei era scalza, e aveva le gambe graffiate e tagliate. La ferita sul piede destro sembrava profonda. Spero di sanguinargli sopra tutto il tappeto!, pensò. In cima alle scale entrarono nella prima stanza sulla destra, in realtà un locale e mezzo, con un bagno su un lato. La zona più piccola presentava un divano verde scuro, un tavolino da caffè di mogano e una sedia rosa vicino al camino. La parte più ampia era occupata da un armadio di ciliegio, da un guardaroba, un piccolo specchio con un vanity d'ottone, e un antico letto anch'esso d'ottone, sopra il quale pendeva una grande tela astratta dai colori spenti. Tutto era in sfumature verde e rosa, tranne il tappeto che era verde-blu. Di fianco alla porta dalla quale erano entrati ce n'era un'altra, che sospettò essere un armadio. Rimanevano le finestre, nessuna delle quali sembrava aperta. Restava ancora la finestra del bagno, se ce n'era una, anche se non riusciva a vederla da quella angolazione. I sensori per il fumo e un sistema di spruzzatori punteggiavano il soffitto. «Qui è dove resterai per le prossime due settimane», le disse André. «Dovrai cambiare le tue abitudini per venirmi incontro: dormirai di giorno, e resterai sveglia di notte. Una serva ti porterà i pasti. E ci saranno vivande anche ad altri orari. Non tentare di abbandonare questa stanza. Comunque è impossibile. Le finestre sono di plexiglas - non puoi infrangerle - e tutte le porte che conducono fuori saranno chiuse a chiave: ogni cosa è collegata a un sistema di allarme. Ho io la chiave di questa camera». «E se ti accadesse qualcosa?»
«Ti piacerebbe!», grugnì lui. André si diresse al caminetto. «Sai come accendere un fuoco?», le chiese. «Sì». «Bene. Accendine uno adesso. E ogni notte prima che io venga qui». Carol si diresse al caminetto chiedendosi in che pasticcio si fosse cacciata. La paura si stava facendo strada con gli artigli fino in superficie, così decise di concentrarsi sull'accendere il fuoco per eliminarla. Aprì le ante di vetro, controllò che la cappa fosse sgombra, quindi ammucchiò sulla grata dei pezzi di giornale che aveva accartocciato e alcuni bastoncini. Di fianco al camino c'erano degli attrezzi: un soffietto, una paletta, un attizzatoio. Quando ebbe quella che riteneva una quantità sufficiente di legna minuta, chiese: «Hai dei fiammiferi o preferisci che sfreghi un paio di pietre insieme?». Lui prese dalla giacca un pacchetto di fiammiferi dal gambo lungo e glieli porse dicendo: «Una lingua velenosa, corrosiva come la mia. Dovremmo star bene insieme». Lei accese la piccola pila di legnetti e, quando quella prese fuoco, dispose due piccoli ciocchi, sistemandoli con l'attizzatoio nella posizione che voleva. Accendere un fuoco non era un'idea tanto malvagia. Scattati gli allarmi, sarebbero potuti arrivare i vigili del fuoco, mentre gli spruzzatori le avrebbero evitato, o così sperava, di rimanere ustionata. Avrebbe potuto far bruciare la porta e poi... «Non prendere in considerazione l'idea di fuggire bruciando tutto. La temperatura viene controllata attentamente in questa casa e il sistema degli spruzzatori è concepito per scattare non appena la temperatura sale di un grado. È progettato anche per allagare ogni stanza della casa». Quando i ciocchi piccoli presero, ne aggiunse uno più grande, chiuse le ante e rimase immobile. Stringeva ancora l'attizzatoio tra le mani. «Togliti i vestiti!». Lui stava in piedi a un solo metro di distanza, e lei si sentì intimorita. Un rapido, ulteriore esame della stanza, le suggerì che non c'erano vie di fuga che avesse trascurato. Lui vedeva che teneva in mano l'attizzatoio. Quali erano le probabilità di colpirlo quando si aspettava un attacco? E cosa sarebbe successo poi, se non l'avesse ferito a sufficienza? Un'idea non buona. Rimise al suo posto l'arnese. Cominciò lentamente a togliersi il soprabito, poi lo piegò su una sedia
vicina. Indossava un semplice vestito color crema con lunghe maniche, una gonna lunga e una cinta sottile. Sbottonò il vestito, slacciò la cintura, poi fece scivolare il vestito in basso, spostando la gamba per uscirne. Piegò lentamente e con cura il vestito e lo sistemò sul piano della sedia. Poi si tolse la mezza sottoveste nello stesso modo, sentendosi imbarazzata. Gli occhi di lui erano incollati sul suo petto mentre slacciava il reggiseno. Alla fine fece scorrere le mutandine lungo le cosce. Piegò tutto con cura, risistemò gli oggetti, quindi spostò il mucchio sul tavolino da caffè, prendendo tempo. «Li porterò con me», disse lui, con gli occhi che la esaminavano dall'alto in basso. Lei riusciva quasi a sentire delle ondate di calore che le solleticavano la pelle. «Voglio che tu sia nuda, ad aspettarmi», disse. Era scioccata, e il suo volto doveva averlo mostrato. «È la mia fantasia che stiamo esaudendo, ricordi? Adesso spogliami tu». Lei fece due passi verso di lui, pensando: Forse dovrei dirgli che potrei essere una portatrice. Ma come faccio adesso? E se mi picchia? Avrebbe aspettato un momento migliore. Lui indossava una leggera giacca in pelle, e sia quella che i pantaloni erano color ardesia, armonizzati alla tonalità dei suoi occhi. Gli tolse la giacca e poi la camicia gialla che stava sotto. Il suo petto era muscoloso e peloso, le spalle ampie; sembrava in ottima forma, come un atleta, e si domandò se facesse sollevamento pesi. Si chinò e gli sfilò le scarpe basse, le calze e poi tornò in piedi. Stava cercando di essere sensuale in maniera convincente - è soltanto un ruolo, continuava a ripetere a se stessa - ma, adesso che era giunto il momento di portare a compimento l'accordo, stava perdendo la calma. Slacciò la cintura, abbassò la lampo dei pantaloni e li fece scivolare insieme alle mutande lungo le gambe. Il suo pene era eretto. Ancora una volta, per prendere tempo, piegò ogni singolo capo di vestiario e sistemò il mucchio ordinatamente sul piano di una sedia. Lui l'afferrò per le spalle e la fece camminare indietro finché entrambi non furono giunti al letto, poi la fece abbassare. Il cuore di lei batteva all'impazzata, un'amara paura le scaturì dallo stomaco e lei la spinse di nuovo verso il basso. Non le stava facendo male. Se lo sarebbe dovuto ricordare. Era tardi. Non sarebbe durata a lungo. Era a cavalcioni sul petto di lei e con una mano che le sosteneva il collo, le sollevò la testa. Sapeva che cosa voleva, e usò la bocca, rendendosi di nuovo conto della levigatezza della sua pelle.
Ma ben presto lui si girò e sistemò entrambi in modo che fosse lei a stare sopra. La spinse in basso per poterla leccare e succhiare mentre lei faceva lo stesso a lui. Non era così terribile, cercò di rassicurarsi. Almeno non era brutale. E non stiamo avendo un rapporto, così il rischio di trasmettere alcunché è molto basso. Presto glielo dirò. Diventava più duro e lungo mentre lei ci faceva scorrere le labbra. E quello che lui le stava facendo era piacevole. La sua lingua sfrecciava dentro e fuori con rapidità, e la leccava proprio dov'era gonfia e sensibile, poi ancora dentro e fuori. Poteva sentire il calore diffondersi dalle sue labbra, bruciarle le cosce, e sapeva di essere bagnata, gocciolante. Mi sta facendo impazzire, pensò, stupefatta da quella scoperta. Inspirò con il naso a piccoli, rapidi respiri, mentre sentiva che stava perdendo il controllo. In un momento troppo veloce da ricordare, prima che lei potesse fermarlo, la distese di schiena, si girò e la penetrò, con una spinta lunga e forte. Ebbe appena il tempo di piegare le ginocchia prima di gemere, tirandolo a sé per la spinta finale. Rimase sopra di lei, dentro di lei, fin quando scivolò nel sonno, un poco confusa. Ma, quando lui si scostò, aprì leggermente gli occhi e lo intravide dalle fessure offuscate. Si muoveva nella stanza; si vestì, alimentò il fuoco, poi riunì tra le braccia i vestiti di lei. «André è il tuo vero nome?», gli domandò con un sussurro assonnato. Lui si girò. Pensò che sembrava diverso, più pallido, forse più umano. «Sì», rispose. «Perché pensi di essere una specie di vampiro?». Dato che non rispose, lei aggiunse: «Senti, ho qualcosa da dirti...». Ma improvvisamente se n'era andato. Non è poi così male, fu l'ultimo dei suoi pensieri non censurati prima di dormire. È un po' Strano, ma è un buon amante, meglio di come sia mai stato Kob. Le possibilità che il virus fosse stato trasmesso dopo un solo incontro sembravano molto poche. Domani, pensò. Glielo dirò domani. Carol sbadigliò, pensando che avrebbero potuto anche rivelarsi due settimane interessanti. Si svegliò a metà pomeriggio. La finestra del bagno era veramente troppo piccola per sgusciare via, benché fosse l'unica che avrebbe potuto rompersi con una certa facilità; aveva già provato a rompere le due nella camera da letto. Lui non aveva mentito. Entrambe erano di plexiglas, o almeno
le due interne. Fuori c'erano altri due pannelli di vetro sfumato. La porta era ancora chiusa a chiave. Fece una doccia, mangiò un po' di frutta, pane e formaggio che trovò sul tavolino, poi si coprì con un ampio asciugamano verde. Uno dei primi romanzi di Robert Ludlum e alcune riviste in inglese la tennero occupata fino a sera. Subito dopo il tramonto, mentre stava seduta a guardare le immagini di una vecchia edizione del «Paris Passion», una donna corpulenta che non aveva l'aspetto degli altri portò un vassoio con del cibo. Tarchiata e con i capelli scuri, sembrava completamente assorta in quello che stava facendo. Chiuse la porta con una mandata dietro di sé, si appese la chiave attorno al collo e la lasciò scivolare nel vestito. Quindi sistemò il vassoio sul tavolo. Carol balzò in piedi. «Senta, deve lasciarmi uscire. Mi aiuti», disse lentamente e ad alta voce, indicando la porta. Gli occhi della donna non mostrarono alcuna partecipazione: sembrava non aver neppure sentito Carol. Pensò che fosse sorda, oppure che avesse ricevuto istruzioni di non rispondere. La donna si diresse alla porta e, non appena ebbe girato la chiave, Carol attraversò correndo la stanza. Si scontrarono. La donna spinse violentemente Carol indietro nella camera in modo da poter chiudere la porta e farla scattare dietro di sé. Carol sospirò e sprofondò su una sedia. Tolse il coperchio caldo dal piatto e scoprì una scodella fumante di stufato di vitello con carote e patate. C'erano anche del pane fatto in casa e una tazza di tè Jasmine. Mangiò tutto, più affamata di quanto pensasse. Dopo aver finito, fece un tentativo con la porta. Era chiusa. Per non stare senza far nulla si mise a guardare fuori da una delle due finestre a doppio pannello. L'oceano appariva pacifico dall'interno di quella stanza a prova di suono. La poderosa marea si era ritirata lasciando le grigie acque immobili. Poteva vedere il garage in un angolo. André e un uomo con l'uniforme da autista entrarono dentro, e ne uscì la limousine color argento. Poi vide Gerlinde, Karl e la donna più anziana allontanarsi a bordo di una piccola vettura sportiva verde. Se n'erano andati tutti, e quello era il momento per fuggire. Sollevò una sedia e la scaraventò contro una finestra. Rimbalzò indietro come se fosse stata di gomma. Colpì nuovamente la finestra. Nulla. Altri cinque o sei tentativi le fecero capire che quelle finestre erano state co-
struite per sopportare colpi ben più forti di quelli che lei potesse sferrare. Nell'impresa aveva rotto una delle gambe della sedia. Poi piegò i denti della forchetta e cercò di far scattare la serratura della porta, ma non sapeva come farlo, per cui anche quel tentativo si rivelò impossibile. Pensò di provare a dar fuoco alla porta, ma ritenne che lui non stesse certo mentendo riguardo al sistema antincendio. E c'era la possibilità di cuocere lei stessa come un arrosto nell'impresa. Le ore passavano, ma lui non tornava. Regolò il suo orologio con quello che rintoccò nove volte al piano inferiore. Le dieci, poi le undici, arrivarono e passarono. Stava diventando nervosa, impaziente, mentre camminava su e giù per la stanza. Aveva già acceso il fuoco e stava per finire i ciocchi. Carol si ritrovò a sapere in anticipo quello che sarebbe accaduto. Devo essere matta, disse tra sé, visto che voglio rivederlo. Persino il ripensare al sesso della notte precedente le faceva venire i brividi. Perché no?, pensò. Ecco la tua fantasia più sfrenata. Chiusa a chiave, una prigioniera che ha rinunciato per due settimane a se stessa per un ricco amante francese. Lui è interessante, anche se pensa di essere un vampiro. Sottrarre un po' di sangue non era poi la cosa peggiore che avesse mai sentito. Aveva incontrato diverse persone in teatro che soffrivano di allucinazioni, alcune addirittura ci avevano costruito una carriera. E quel vecchio, probabilmente era davvero morto per un attacco cardiaco. Inoltre non ho altra scelta, pensò sorridendo tra sé, vagamente imbarazzata per il fatto di riuscire a ragionare in una maniera così scorretta. Ma segretamente nutriva la selvaggia speranza di lasciarsi andare lì, in un modo in cui non era mai stata veramente in grado di fare con Rob o con i due uomini con i quali era stata in precedenza. Ma nessuno di loro era stato come André. Lui era così diretto, quasi bestiale, al punto da costringerla a percepire in un modo più fisico: una cosa eccitante e fastidiosa allo stesso tempo. Gli altri erano stati abbastanza bravi, anche se non proprio passionali. In realtà, il sesso con Rob si era basato largamente su ciò che preferiva lui; il più delle volte si era trattato di sesso orale, tranne quando era stata lei ad insistere per dell'altro. A quel tempo si era sentita delusa, infastidita dalla sensazione che le mancasse qualcosa e che si rosse accontentata di avere di meno. Adesso avrebbe voluto che non avessero mai avuto un rapporto. Non ho nient'altro da perdere, pensò. Forse qualcosa da guadagnarci. Ma il pensare a Rob riportava il pensiero sempre al virus. Avrebbe do-
vuto dire ad André che poteva essere una portatrice. Non importava chi fosse o cosa avesse fatto, semplicemente non era giusto nei suoi confronti. Si sarebbe costretta ad affrontare il discorso quella notte in modo tale che lui avrebbe potuto proteggersi. Proprio mentre l'orologio dabbasso rintoccava la mezzanotte, udì una chiave nella toppa. Si sollevò in piedi, sentendosi stupida, cosciente dell'ampio sorriso stampato sul proprio viso. André entrò nella stanza e chiuse immediatamente con la chiave la porta dietro di sé. La fissò. Il suo sguardo la fece sorridere senza alcuna riserva. L'uomo attraversò la stanza e strappò via l'asciugamano dal suo corpo. «Ti avevo detto di rimanere svestita! Mi stai già sfidando?». Avrebbe voluto dirgli che stava facendo quello che voleva lui, che si trattava solo di un asciugamano, ma qualcosa di selvaggio nei suoi occhi le impedì di parlare. Lui vide subito la gamba rotta della sedia e una violenta ira si accese sul suo volto. «Quello sguardo!», disse bruscamente. «È sempre com'era. Che cos'è, tenacia o ribellione? Muoviti!». Indicò nella direzione del letto. Carol fu presa dal panico. Il suo battito cardiaco era accelerato e aveva difficoltà a respirare. Ma tentò comunque di guardare razionalmente le cose, cambiando d'umore. «Mi sono divertita la notte scorsa. E tu?» «L'unico motivo per cui sei qui è il mio piacere, te ne sei dimenticata? Ho detto di muoverti!». Carol non riusciva a muoversi. I suoi occhi erano sfrecciati all'attizzatoio del camino, a neppure due passi di distanza. Si voltò istintivamente in quella direzione, ma lui doveva averle letto nel pensiero. Con la velocità di un laser la bloccò, afferrandole i polsi. La sua mano sembrava un braccialetto di metallo ghiacciato: minacciava di frantumarle il muscolo e l'osso. Lei lo guardò negli occhi e vide il turbolento Atlantico grigiastro poco prima di una tempesta: istintivamente capì che, se avesse opposto resistenza, lui avrebbe usato la forza. André indicò la stanza, e lei avvertì una tensione in lui sul punto di esplodere. «Forse ti piace essere legata», le disse. Scosse il capo. «Allora muoviti. Adesso!». In preda al terrore, Carol attraversò la stanza. Con la coda dell'occhio lo
intravide sbottonare la grossa cinta in pelle che indossava. «In ginocchio. Girati!». La sua voce era fredda in maniera inumana, capace di paralizzarla. «Appoggiati». Lei si girò e indietreggiò finché le sue ginocchia furono sul bordo del materasso. «Giù la testa! Questo è un corso rapido di sottomissione». Lei abbassò il capo, ma lui le spinse la faccia direttamente nel materasso, costringendola a tenere il sedere verso l'alto come un'offerta perversa. Carol si sentì completamente esposta, vulnerabile, ancora incapace di credere a quello che stava succedendo. «Perché?», chiese, cercando di impedire alla voce di tremare, sforzandosi di trovare un senso. «Perché cosa?» «Perché stai facendo questo? Solo perché indossavo un asciugamano?» «Cerchi già di venir meno al nostro patto? Perché sì, e basta! Smettila di frignare, e risparmiaci tempo ed energie». «Non è questo». Si sentiva come una bambina che viene rimproverata per qualche piccola mancanza, un'inosservanza di poco conto. Ma era convinta del fatto che, se l'avesse combattuto, il risultato sarebbe stato peggiore. «Voglio solo sapere perché, tutto qui», disse debolmente. «Ne sono sicuro! E se ti dicessi che non c'è alcuna ragione e che sono crudele con le donne per natura? Riusciresti ad accettarlo? Sei sempre felice di concederti di buon grado, Carol?». Il suo tono era canzonatorio. Quando ebbe finito di spogliarsi dietro di lei, disse: «Puoi convincermi, lo sai». La sua voce aveva un'inflessione insolita. Lei si sentì sollevata, ma chiese: «Come?» «Prova a supplicarmi!». L'intuito suggerì ancora una volta a Carol che, se avesse fatto quello che consigliava lui, se ne sarebbe pentita. Aveva già capito che detestava le persone che imploravano. Non aveva altra scelta se non quella di sopportare quello che si accingeva a fare e cercare di non perdere il controllo. «Non ti supplicherò», disse con un sussurro, appena capace di parlare. «Sei forte, bene. Hai controllo. E sei una puttana, come tutte le donne!». La dura pelle della cinghia schioccò contro la sua carne nuda. Un respiro affannoso e forte proruppe dalle labbra di Carol, e il suo corpo sobbalzò. Ma, prima che avesse realmente il tempo di sperimentare l'intensità del
dolore, la cinghia schioccò di nuovo. Per qualche istante rimase troppo stupita per reagire. Il dolore e l'umiliazione si unirono al terrore, e il loro peso combinato costrinse le lacrime a sgorgare dai suoi occhi. La cinghia torturò una terza volta la sua pelle sempre più tenera e lei serrò forte i denti sulla lingua, soffocando ogni parola. Ma il quarto colpo fu insopportabile, e il comportarsi da coraggiosa le parve ancor meno allettante. Aprì la bocca, pronta a lasciare che le suppliche scivolassero tra i singhiozzi, ma, con suo stupore, le parole si rifiutarono di prendere forma. Era come se la parte più testarda di lei si ribellasse a quell'idea di completa abiezione. Poi, improvvisamente, qualcosa dal profondo, oltre il suo controllo, prese il via simile a una piccola imbarcazione costretta fuori rotta dalle rapide. Come se si fosse divisa in due persone, Carol udì se stessa urlare incoerentemente, piangere, respirare in fretta, sgusciare in un lampo fuori dalla propria mente. Più tardi, ricordò che a un certo punto lui le aveva ordinato di aprire gli occhi. Non riusciva a vederlo attraverso la pellicola di lacrime ma lo sentì dire: «Allora era tenacia, dopotutto. Molto male». Quando ebbe infine terminato, Carol giaceva su un fianco singhiozzante, con la testa piegata, le ginocchia raccolte contro il petto, le braccia a proteggere il corpo, avvolta come una piccola palla. Non lo sentì andarsene. Quando l'oscurità lasciò il posto alla luce del giorno, non sentì la cameriera portare il cibo. Non voleva sentire nulla. CAPITOLO 5 Carol rimase a letto per tutto il giorno e fino a notte, dormendo solo a tratti. Si girò e si dimenò al punto che verso sera il lenzuolo sembrava un enorme serpente bianco che intrappolava il suo corpo. Ma, quando udì una chiave nella serratura, si svegliò completamente, in preda al terrore. Non si trattava di André ma della donna più vecchia, quella in qualcosa simile a lui, che stava portando un portavivande. Carol la guardò sistemare il cibo con cura sul tavolino di fianco al vassoio della notte precedente e dirigersi verso il letto. Si sedette e si protese verso Carol in maniera da poterle accarezzare i capelli. «Povera cara», disse dolcemente, con fare materno. «Mi dispiace di non essere stata qui la notte scorsa. André non avrebbe dovuto farti questo.
Non è molto bravo a controllare le sue emozioni. È un insicuro». «È un mostro!», disse Carol. «Non un mostro, ma chère. Tu non capisci. Ma come potresti?». Fece girare la testa di Carol in modo tale che si guardassero l'un l'altra. «Adesso a cosa ti serve restare a letto? Così non farai altro che sentirti peggio, e probabilmente lo farai infuriare di più». «Che differenza fa?», disse Carol amaramente. «Non importa che io faccia oppure no quello che vuole lui, non è vero?» «Suvvia, mia cara», disse la donna, mentre sollevava con braccia sorprendentemente forti Carol in posizione seduta, e le spostava i capelli dal viso. «Non sei una bambina. Vivrai. Ti aiuto a fare un bagno». Carol non si sforzò di protestare. Si sentiva malissimo. Per gran parte della notte non aveva chiuso occhio. E, quando riusciva ad essere completamente sincera con se stessa, capiva che, per quanto fosse stato terribile il dolore fisico, il dolore che provava per il modo in cui lui l'aveva trattata la feriva maggiormente. Non riusciva a comprenderlo. E adesso non le importava di capire. Lo detestava e, ancor di più, non sopportava se stessa per essere stata così ingenua da farsi intrappolare in quella situazione. Avrebbe dovuto sfruttare la possibilità e combatterlo con più vigore quando erano al porto. Probabilmente avrebbe perduto la propria vita, ma almeno sarebbe potuta morire con dignità. La donna preparò il bagno e aiutò Carol ad entrarvi. L'acqua non era troppo calda e non causò troppo dolore alla pelle ferita. La donna usò un sapone floreale per lavarle le braccia e le spalle, il petto e la schiena, e usò un piacevole shampoo alle erbe per i capelli, proprio come avrebbe fatto una madre. «Perché stai facendo tutto questo? Sei dalla sua parte: allora che cosa hai in mente?». La donna si fermò. «Così giovane eppure così negativa. Devono averti fatto del male nella tua vita». «Mi hanno fatto del male proprio qui in questa casa. Perché dovrei fidarmi di te?» «Perché no? Io voglio soltanto aiutarti». «Perché?» «Diciamo solo che voglio molto bene ad André. È come un figlio per me. Voglio vederlo felice». Carol rise con amarezza.
«Be', allora dagli una cinghia e delle catene. Si sentirà in paradiso. O, forse, in questa setta non credete nel paradiso?» «Tu, cara, non capisci. È stregato da te. Affascinato. Era molto tempo che non lo vedevo in questo stato». Carol rise di nuovo amaramente. Ma poi si sentì disperata. «Ti prego! Lasciami andare», supplicò. «Non posso farlo. Non possiamo interferire l'uno con l'altro. È stato André a trovarti, e soltanto lui può decidere il tuo destino». La donna l'aiutò a uscire dalla vasca e l'asciugò con un morbido telo di spugna. «Ho un rimedio naturale che allevierà il dolore». Indicò a Carol l'angolo con uno specchio sulla parete. «Vai a guardarti allo specchio». Carol attraversò la stanza e si mise di fronte allo specchio. Le sue natiche erano segnate da quattro strisce rosa acceso. «Visto?», chiese la donna. «Domani ti sentirai meglio. La pelle non è tagliata». «Be', penso che dovrei esserne grata». «Vieni qui e stenditi. Così. All'inizio sentirai freddo». Non appena la donna applicò uno spesso gel chiaro, Carol sentì che la sensazione di dolore diminuiva. Riusciva a sentire quanto fosse stato bloccato e anchilosato il suo corpo. Cercò di rilassarsi. «Qual è il tuo nome?», chiese. «Chloe». «Sei come lui: bevi il sangue. Tutti voi lo fate, non è così? Come vampiri». «Le parole sono potenti, Carol. Possono intimorire o affascinare, e dovrebbero essere usate con cautela. Diciamo soltanto che noi quattro siamo una famiglia». «Intendi dire una setta». Il gel era freddo, liscio e, ben presto, il dolore di Carol passò. Sospirò profondamente. «E la cameriera? L'autista?» «Loro non fanno parte della famiglia». «Che cosa fate, li pagate bene?» «Loro non sono... come posso dire... pienamente coscienti delle nostre particolari abitudini. Ecco. Adesso andrà meglio. Metterò di nuovo dell'altra aloe vera domani sera. E comunque te la lascio qui, nel caso volessi usarla più tardi, d'accordo?».
Carol si rigirò. Era nuda, ma non provava imbarazzo di fronte a quella donna. «Chloe, non sono sicura del perché tu stia facendo questo...». «Te l'ho detto cara, voglio che André sia felice». «Be', qualunque sia il motivo, grazie. Lo apprezzo». Chloe prese tra le mani il viso di Carol e la baciò sulla fronte. «Sei veramente dolce. Capisco perché si sia innamorato. Adesso», disse alzandosi, «me ne vado in modo che tu possa fare quello che devi prima che arrivi André». Sistemò il barattolo sul comodino, andò al tavolino, sollevò il vassoio di cibo della notte precedente e si diresse verso la porta. Carol si sentì improvvisamente terrorizzata dal rimanere sola ad aspettare André. «Ti prego, devi lasciarmi uscire di qui! Mi ucciderà». Appena prima di uscire, Chloe si voltò. «Carol. Posso chiamarti Carol?». Carol sollevò le spalle, innervosita. «Non posso lasciarti andar via, ma se ti dessi un consiglio? Riguarda André». «Perché no? Mi servirò di tutto l'aiuto che posso avere». «Bene, potrebbe essere meglio per te il non far menzione di quanto è accaduto la notte scorsa. Non ricordarglielo, intesi?» «D'accordo. Lascerò che le mie cicatrici parlino da sole». «Quello che voglio dire è che non so esattamente quale sia il tuo accordo con André, ma una cosa la so di certo. È eccentrico, in un certo senso. Più diffidente di quanto non sia tu. Estremamente solo. Annoiato. Forse stanco. Sotto certi punti di vista è ancora un bambino. Penso che sia perplesso riguardo a te. Non sa che cosa fare». Carol le diede le spalle. Non le importava un accidenti della sua solitudine. Ma rimase calma e ascoltò il resto di quello che Chloe le suggeriva. «Lo conosco davvero da molto tempo, dalla sua nascita, e credo di conoscerlo davvero bene. Il modo migliore di trattare con lui è farlo sul momento. Dimentica il passato. Non ricordarglielo, perché lui può diventare più brutale di come tu possa averlo visto. Affrontalo là per là, così com'è, nel bene e nel male. È il modo migliore». «Sicuro. Anch'io ho letto testi di psicologia... riguardo agli uomini che non possono accettare il fatto di essere dei bruti. Mai gettare in faccia a un misogino il suo passato».
Chloe sospirò. Si girò verso la porta e l'aprì. «Sto soltanto cercando di aiutarti. Di aiutare entrambi. Fai quello che devi fare». Dopo che Chloe se ne fu andata, Carol si alzò e si diresse verso una delle finestre. Fuori, nel crepuscolo, l'oceano cozzava con furia contro le enormi rocce immobili. Le immense lastre di granito sembravano attaccate al fondo dell'oceano. Costantemente investite e rovinate dal violento Atlantico e da altri ancora più impervi elementi, quelle rocce le sembravano maestose, ma rassegnate a un'eternità di resistenza. Quella stanza era così silenziosa da sembrare una tomba. La sua tomba. Dove era stata sepolta viva. Pensò a quanto le aveva detto Chloe, e decise che doveva scoprire qualcosa di André: forse quello era l'approccio migliore. Se non sono consenziente con lui, pensò, lo interpreterà come un venir meno all'accordo. Potrebbe uccidermi. Uccidermi! Può farlo in qualunque momento. Come può Chloe pensare che lui sia tanto affascinato quando continua a minacciarmi, per non parlare di quello che ha fatto la notte scorsa? L'avrebbe ferita alla minima provocazione, o persino se non fosse stato provocato. Pensò che doveva essere malato, come tutti gli altri in quella casa, e questo le fece paura. Con tutti i suoi problemi, almeno Rob era stato relativamente normale, ordinario, persino noioso. La loro vita insieme era stata semplice e diretta, anche se priva di passione. E poi si rese conto di quanto le cose fossero diventate anormali per lei, tanto da paragonare il suo precedente marito - un uomo che l'aveva tradita - a un violento, lunatico succhiasangue. Forse sto diventando pazza, pensò tra sé. Udì l'orologio al piano inferiore rintoccare le dieci. All'improvviso fu colta dal panico. Carol corse al camino e accese rapidamente il fuoco per poi sedersi circospetta sulla sedia di fianco. Sul tavolo c'era il cibo che aveva portato Chloe. Sollevò il coperchio: pollo, riso integrale e broccoli. Era affamata, ma riuscì soltanto a dare un paio di morsi; aveva lo stomaco contratto. Nervosamente, e in mancanza di qualcosa di meglio da fare, tentò di aprire la porta: era chiusa a chiave. Hanno tutti la chiave, pensò. Tutti tranne me. Carol attese pensierosa, cercando di costringersi a uno stato mentale per cui pretendeva che non fosse accaduto nulla di brutale la notte prima. Ma,
quando sentì lo scatto della serratura, si alzò e sfrecciò dietro la poltrona con i braccioli, sentendo il bisogno di mantenere una barriera tra loro due. Quella sera era vestito in modo tradizionale. Indossava un serio completo grigio, scarpe grigie, camicia blu e cravatta blu e grigia. Non appena ebbe richiuso la porta si girò, con un sorriso misurato. «Vedo che sei ancora tra i vivi». Alla faccia dell'avvertimento di Chloe, pensò lei. La questione l'ha sollevata lui. André camminò verso il tavolo e sollevò il coperchio dal piatto. «Non hai mangiato di nuovo. Sono due pasti di seguito. Stai tentando di morire di fame o di guadagnarti la mia pietà?». La fissò negli occhi e Carol fuggì quello sguardo. Provò a parlare, ma aveva la gola secca. Il cuore le rimbombava nelle orecchie e pensò che sarebbe potuta svenire. Infine riuscì a dire: «Non ho fame». Lui riabbassò il coperchio sul piatto. «Bene, perché io non sono capace di pietà». Si diresse verso di lei. Il suo corpo iniziò a tremare. «Sono felice che tu abbia paura di me», disse lui, «altrimenti avrei pensato che sei una psicopatica. Ho già avuto dei dubbi. Voi mortali credete di poter nascondere i vostri sentimenti. Vieni qui!». Esitante, Carol si mosse da dietro la poltrona. Sentiva le gambe molli. Era sul punto di urlare. «Non ti morderò. A meno che tu non voglia infrangere il nostro accordo». Le afferrò le anche, spingendole tra le sue. «Pensi ancora di poterti offrire a me? O preferisci rinunciare?» «Abbiamo un accordo verbale», disse lei a bassa voce, evitando i suoi occhi intensi, e concentrandosi invece sulla linea dritta formata dalle sue labbra, timorosa di scoppiare a piangere. «Lo rispetterò». «Le donne moderne sono così giudiziose. Hai mai pensato di diventare un avvocato?» «Ci ho provato». «E...?» «Sono stata bocciata all'esame finale». «Avresti potuto diventare una rispettabile succhiasangue», disse lui ridendo, mostrando i denti, e lo sguardo di lei istintivamente deviò per evitare quella vista. «Andiamo. So essere gentile».
La condusse verso il letto. Quando vi furono arrivati, lui si spogliò e si distese, collocandola sopra di sé. «Starai più comoda sopra, avvocato», le disse, quindi la spostò in modo che alla fine si trovasse cavalcioni sui suoi fianchi. Quando l'ebbe stimolata, la issò sopra di sé, poi la mosse su e giù finché lei non ebbe trovato il ritmo. Rimase a lungo quella notte: la prese tre volte, tutte nella stessa posizione. Era gentile e costante, ma Carol dovette sforzarsi non poco per dimenticare quello che era successo, come aveva suggerito Chloe, per poter essere al momento aperta, disponibile, cosicché lui le risparmiasse la vita. Poco prima dell'alba, quando stava per congedarsi, la baciò amorevolmente, lentamente, poi se ne andò un'altra volta. Non appena Carol fu certa di essere rimasta sola, lasciò infine scorrere le lacrime. CAPITOLO 6 Il giorno seguente, il rossore sulle natiche di Carol era completamente scomparso. Le cicatrici interne invece erano più persistenti. Ogni notte André giungeva prima e si tratteneva più a lungo. Era sempre risoluto ma di norma abbastanza gentile. Il più delle volte era lento e paziente, concedeva qualcosa anche al desiderio di lei, anche se Carol aveva difficoltà a trovare qualcosa di vagamente eccitante in lui. Certe volte la prendeva semplicemente senza preliminari, come un adolescente incapace di assaporare le sensazioni. Non importava che cosa facesse, Carol non era mai completamente libera dalla paura e dalla sfiducia nei suoi confronti. Due volte si era mostrata apertamente impaurita, e tutte e due le volte lui l'aveva fatta inginocchiare sul bordo del letto. Quando non facevano sesso, ad André piaceva parlare. Le aveva raccontato che la maggior parte delle sue vittime era composta da marinai. «Bordeaux è un porto internazionale, il terzo in Francia per grandezza. Ogni giorno nuove imbarcazioni attraccano qui. Molti di questi uomini sono in cerca di sesso veloce con altri uomini. A me non interessa il sesso: voglio soltanto il loro sangue. Ci incontriamo, andiamo dietro un edificio, e prendo quello che mi serve. Per la maggior parte sono così eccitati che non devo neppure ipnotizzarli. I maschi comprendono lo scambio. Le femmine vogliono sempre qualcosa di più». Carol provò un senso di amara soddisfazione sapendo che perlomeno non poteva trasmetterle l'HIV. Probabilmente l'abbiamo già contratto entrambi, pensò con tristezza. E
lui lo passa ogni notte a qualcun altro, proprio come Kob. È una persona immorale per il fatto di non dirlo e di non usare precauzioni, pensò, ma poi comprese che anche lei era così. Non aveva il coraggio di dirlo adesso. A meno che lui non avesse fatto una domanda precisa alla quale avrebbe dovuto rispondere per forza, sarebbe rimasta ad ascoltare. «Mi sono impegnato a prendere solo quello che mi è necessario», le disse, «io sono soddisfatto e loro vivono. Con delle iniezioni di ferro praticate dal medico di bordo, stanno bene. E poi lasciano la città dopo pochi giorni. Rapido, pulito, facile. Dopotutto, ci sono quattro di noi qui, e dobbiamo stare attenti. Quattro omicidi ogni notte sarebbero quasi 1500 all'anno a Bordeaux: più che a Parigi e Londra messe insieme». «Ma hai ucciso delle persone, non è vero?», chiese Carol una sera in cui si sentiva particolarmente coraggiosa. Lui parve seccato. «Odio quelli che supplicano. Mi fanno diventare matto, implorano per fare sesso, implorano perché li colpisca o perché non lo faccia, implorano per colpirmi, strisciano perché li risparmi, come se le loro vite fossero un bene prezioso. Voi mortali avete una grande stima di voi stessi. Ma per la mia razza c'è lo stesso distacco che voi provate per un insetto. Non vi importa nulla di schiacciarne uno con la scarpa. A me non importa nulla di schiacciarvi». «Ma la tua razza... voi fate sesso con noi... mortali». «Esattamente come se voi scopaste con un cavallo, o con un gorilla». «E allora perché farlo?». Lui rise. «Sono un pervertito». Carol di solito ascoltava in silenzio. Spesso voleva porre delle domande, ma aveva troppa paura di lui per aprire bocca. La sua concezione della vita era davvero bizzarra e, nonostante la pazzia di una tale inumana prospettiva, affascinava il lato teatrale di lei. Tempo fa aveva studiato per una settimana il personaggio di una donna rude, imparando le sue maniere, il modo in cui parlava, sperando di rendere reale la parte che stava studiando. Analizzava André per lo più allo stesso modo. Certe volte si sentiva come se avesse incontrato un essere di un altro pianeta con un sistema di valori completamente differente, e si costringeva ad osservare l'umanità attraverso i suoi occhi, da un punto di vista diverso. C'erano così tante ore interminabili durante il giorno senza avere nulla da fare che, benché capisse l'irrazionalità della cosa, Carol si ritrovava
sempre a mettere a confronto André con Rob. Inevitabilmente questo la costringeva ad esaminare se stessa più a fondo di quanto volesse fare. Entrambi gli uomini erano di bell'aspetto, educati, risoluti, economicamente agiati e padroni di sé. Entrambi erano attratti dagli uomini, per motivi completamente differenti, se poteva credere ad André, cosa che non era propensa a fare. E tutti e due erano fissati con il sesso orale. Ciascuno era insensibile a modo suo. Il distacco emozionale di Rob l'aveva tenuta completamente all'oscuro e l'aveva tradita nel profondo. André era incostante e freddo. I sentimenti di entrambi l'avevano costretta a starsene da parte. Ma la similitudine più scioccante era che per Carol ciascuno simbolizzava la morte, la sua morte, e l'ineluttabilità degli eventi. Non c'era nulla che potesse distrarla da tali pensieri morbosi, e si sentì sempre più depressa man mano che passavano i giorni, chiedendosi perché pensava che tutta la sua vita fosse andata sprecata. Quella sensazione di vuoto indugiava fin dall'adolescenza, un desiderio di qualcosa che non riusciva a determinare con esattezza e che sospettava non esistesse. La quattordicesima notte lui arrivò subito dopo il tramonto. «Indossa questo», le disse, porgendole un caffettano bianco molto simile a quello blu che aveva visto addosso a Chloe. La condusse giù per le scale in una grande sala da pranzo arredata con legni dai colori caldi e mobili di broccato pesante stile regina Anna. C'erano altre cinque persone nella stanza. La ragazza dai capelli rossi di nome Gerlinde e l'uomo di nome Karl sedevano su un lungo divano davanti a un tavolino rotondo sovrastato da un'immensa scultura nera di steatite raffigurante una sirena sul dorso di un delfino. Una donna alta, meravigliosa, dai capelli lucenti bianco dorati con indosso un vestito verde chiaro senza maniche, intonato ai suoi occhi, stava in piedi al fianco di un uomo magro, dall'aspetto severo, con capelli scuri come la notte, leggermente più alto di lei. Un grazioso ragazzo, forse di diciannove anni, con i capelli scuri, sedeva tra Karl e Gerlinde. Il gruppo era concentrato su un vecchio libro, simile a un atlante per forma e dimensioni. Tutti sollevarono lo sguardo quando lei e André entrarono. «Siediti là!», le disse lui indicando una sedia accanto al camino. «La colazione rapida di André», scherzò Gerlinde. Ci furono un paio di risate represse. André si avvicinò al gruppo, nel quale Carol era sicura ci fossero diversi membri della sua famiglia. Tutti avevano quella pelle strana, uno splendo-
re non del tutto reale. Parlò in francese per alcuni minuti all'uomo dall'aspetto austero, poi abbandonò la stanza. L'uomo sedette insieme agli altri, e tutti ripresero apparentemente a commentare il libro che, come adesso Carol poteva vedere, conteneva vecchi disegni del sistema solare. Si volse altrove fissando il focolare, chiedendosi cosa significasse tutto ciò. Sapeva che André era andato fuori a cena, come diceva scherzando. Le avrebbe fatto un favore bevendo il sangue di cui necessitava prima di recarsi da lei, diversamente non sarebbe riuscito a trattenersi, aveva detto. Comprese che la cosa non solo la riguardava, ma era anzi per lei di grande interesse. Ancora una notte soltanto, ripeté a se stessa, poi mi libererò di lui. Benché non fosse stato più fisicamente brutale dalla notte in cui l'aveva frustata, continuava comunque a divertirsi nel dominarla. Il semplice modo in cui le parlava sembrava quello di un padrone che ordina a un servo. Continuava ad avere paura di lui e sapeva che non si sarebbe potuta fidare. Era terrorizzata dall'idea che, dopo tutto quello che aveva passato, lui potesse violare l'accordo e tenerla prigioniera o peggio. Nessuno degli altri l'avrebbe aiutata, e c'era ben poco che potesse fare per se stessa. Le era servito del tempo per capire che quello che diceva Chloe era vero, almeno riguardo al fatto che era affascinato da lei. Ogni sera diventava più accondiscendente, confidenziale. Dopo il loro primo approccio sessuale si era rilassato e sembrava essersi aperto. Era qualcosa di più delle sue storie fantastiche sulla propria vita. Certe volte, quando la guardava, lei riusciva a cogliere nei suoi occhi il barlume di un'emozione che sconfinava nella felicità. In un altro luogo, in un altro momento, se le circostanze fossero state differenti, avrebbe potuto cercare di aiutarlo, forse addirittura se ne sarebbe innamorata, nonostante il fatto che fosse ossessionato dal sangue, dall'essere un predatore, magari un assassino. Ma l'essere stata picchiata aveva frantumato tutti i suoi sogni romantici. Aveva paura di quello che lui poteva provare. La situazione li rendeva diseguali, e non si fidava di quello che avrebbe potuto fare per quell'infatuazione. E Chloe aveva ragione anche a proposito di un'altra cosa. Carol non aveva capito André. Ma non aveva voluto farlo. Voleva soltanto andarsene da quel luogo viva. «Tu sei Carol». Sollevò lo sguardo verso l'elegante donna biondo platino in piedi di fianco alla sua sedia. «Sì».
«Io sono Jeanette de Villiers. Quello è Julien, mio marito. E questo è Claude, nostro figlio». Carol non era pronta per una simile presentazione formale da parte di uno di quei balordi, e disse senza riflettere: «Avete un figlio? Fa anche lui parte della famiglia?». Jeanette rise e si sedette di fronte a lei. «E anche una figlia. Non di nascita». Carol si domandò cosa diavolo significasse. Erano stati adottati? Poi le sovvenne l'idea che magari gli adepti di quella setta strampalata rapivano i fanciulli. La bionda la squadrò con calma, dalla testa ai piedi e di nuovo dal basso in alto. Tutti mi guardano come fossero dei rapaci e io un pezzo di carne, rifletté Carol. Quindi si spostò sulla sedia avvicinandosi al fuoco. «La descrizione di Chloe era perfetta. Sei davvero graziosa. Delicata e forte allo stesso tempo. Ma infelice». «Tu non lo saresti se fossi tenuta prigioniera?». Jeanette sorrise in modo particolare. «Che tu lo creda o meno, ti capisco. Sei innamorata di André?» «No», rispose Carol senza esitazione. «Questo è un peccato. Per tutti e due». Carol tornò a fissare il camino. Entrambe le donne restarono sedute senza parlare mentre guardavano quietamente le fiamme danzanti prendere vita come magiche creature primitive. Voci maschili quasi impercettibili si propagavano tutt'intorno e Carol si sentì cullata. «Suvvia, tirale fuori», disse qualcuno, riportandola al presente. Jeanette pose un grosso mazzo di carte davanti a lei su un piccolo tavolo in noce che adesso era in mezzo a loro. «Mescolale più volte, tagliale in tre pile, e scegli quella che ti attira di più». Carol non sapeva che cosa significasse tutto ciò, ma si protese comunque verso le carte. Mentre si copriva la bocca e sbadigliava, diede un'occhiata intorno. Gerlinde se n'era andata, come il ragazzo, Claude. Karl e quell'uomo snello così severo, Julien, sedevano parlando a bassa voce. Si chiese per quanto tempo si fosse distratta. Riconobbe le carte come i Tarocchi. Una volta lei e una sua amica erano andate da un medium per farsi predire la sorte. A Carol era stato detto di
aspettarsi un ricco petroliere che l'avrebbe sposata e portata a vivere in Texas. E che sarebbe stata la madre di sette bambini. Non le avevano mai fatto una previsione tanto sbagliata. Diede una scorsa al tavolo. Le immagini a pastello di scene medievali disegnate su ciascuna di quelle enormi carte sembravano saltarle incontro. Senza pensarci troppo, fece come le aveva detto Jeanette. Quando si fu decisa per la pila di destra, le riconsegnò. Jeanette capovolse le prime cinque carte. La prima fu collocata al centro, le altre alla destra, sotto, alla sinistra e sopra. «Incredibile!», disse Jeanette. «Sei sicura di non amare André?» «Sicura». «Allora di chi sei innamorata?» «Di nessuno». Jeanette sollevò la carta di mezzo e gliela porse. Nella parte inferiore lei lesse scritto: Gli Amanti. L'immagine era quella di un uomo e una donna che sembravano perdutamente innamorati, con il sole splendente e l'arcobaleno; il paradiso sorrideva loro. Senza commentare, Carol la restituì e Jeanette la rimise al suo posto. «Questo è il tuo passato». Indicò il Cinque di Coppe che mostrava un uomo con un lungo mantello nero. Questi guardava pieno di dispiacere tre coppe che erano cadute, il contenuto rovesciato. Dietro di lui c'erano due coppe integre. «È talmente concentrato su ciò che ha perso da non vedere quello che ancora possiede, e questa è la cosa più triste». Carol guardò la carta pensando che mostrava esattamente come lei si era sentita nell'ultimo anno. Una perdita e nient'altro che una perdita. Ma se le era rimasto qualcosa, non si rendeva conto di cosa fosse. «Questo è quello che ti influenza adesso. Il Mago, un uomo vigoroso dai capelli scuri che pratica l'arte della trasformazione. Può essere tanto un creatore quanto un distruttore, e molte volte è un imbroglione, ma più spesso è un alchimista, capace di trasformare gli escrementi in oro, l'odio in amore o l'amore in odio. Questa carta è quello che potrebbe accadere... Il Diavolo». La carta sembrava essere l'opposto degli Amanti. Qui un uomo e una donna erano incatenati da un mostro con le corna. «Significa legame, perdita della libertà, schiavitù, inganno». Carol ebbe un tremito. Forse si trattava di un presagio; André non l'avrebbe liberata come aveva promesso. L'avrebbe tenuta là per sempre, usandola per fare sesso e per soddisfare il suo demoniaco bisogno di domi-
nio, per bere il suo sangue, brutalizzarla ogniqualvolta sentisse di volerlo fare, minacciando di ucciderla se gli avesse opposto resistenza o anche soltanto per il puro piacere di spaventarla. «Quest'ultima», stava dicendo Jeanette, «è il probabile finale della tua situazione». Quindi rimase in silenzio. «Be', visto che siamo arrivati fin qui, che cos'è?». Jeanette continuava a non dire nulla. La porta si aprì, e Chloe entrò nella stanza. Immediatamente si unì a loro. Appoggiò una mano sulla spalla di Jeanette la quale, senza sollevare lo sguardo, vi appoggiò sopra le sue. Chloe sorrise a Carol che tentò di sorridere di rimando, ma era sconcertata. Tornò a guardare la carta della quale Jeanette non parlava. Si chiamava L'Imperatrice e mostrava una donna dall'aspetto autorevole che impugnava uno scudo a forma di cuore seduta sopra un trono. Dentro lo scudo c'era un cerchio con una croce collegata alla parte inferiore. «Lettura interessante», osservò Chloe. «Sì», rispose Jeanette. «Che cosa capisci dalla quinta posizione? La carta è chiara ma non il significato. Siedi qui». Si alzò, lasciando che Chloe si sedesse sulla sedia. Anche Chloe meditò a lungo sulla carta. Sembrò che fosse trascorso un bel po' di tempo. Tutti nella stanza erano in silenzio. Gli unici rumori provenivano dal crepitio della legna che bruciava e dal ticchettio ritmico dell'orologio a pendolo. Il tempo sembrò rallentare per Carol. La scena divenne estremamente nitida. L'uomo serio si alzò e sistemò altri due ciocchi nel fuoco. Quando ebbe finito, rimase accovacciato lì davanti, studiando le fiamme. La stanza aveva un dolce profumo di cedro. Infine l'uomo di nome Julien si alzò e si diresse verso sua moglie. Non guardò Carol neppure una volta, quasi come non fosse là. Carol era affascinata da quei due. Osservava ogni singolo movimento compiuto da loro. Gli altri nella stanza, Chloe e Karl, che stava guardando fuori dalla finestra, rimasero in silenzio e immobili. La scena era come un'istantanea, una fetta di tempo, un'essenza imprigionata. Carol guardò mentre Julien si faceva più vicino alle spalle di Jeanette. Appoggiò le mani sulle spalle di lei. Lentamente le fece scivolare lungo le braccia nude della donna. Carol riusciva quasi a sentire la sensazione...
percepiva ogni poro, riconosceva ogni muscolo. Si spostò lungo le spalle, sugli avambracci e i polsi, finché le sue mani si sovrapposero a quelle di lei. Le sopracciglia di Jeanette tremarono, e i suoi occhi verdi parvero diventare sognanti. Le loro dita si intrecciarono. Lentamente lui le piegò gli avambracci sul petto, con le proprie braccia che muovevano quelle di lei, finché l'ebbero circondata, tenendola stretta. Lei chiuse gli occhi. La testa della donna finì all'indietro, appoggiata alle spalle di lui. Le annusò i capelli, le baciò le tempie, la fronte, le sopracciglia e le guance. Lentamente indugiò lungo il profilo del volto sulla mascella, poi più in basso, infine le sue labbra piene raggiunsero il collo. Suggellò la bocca alla gola di lei in un bacio appassionato e le labbra della donna si schiusero delicatamente mentre si fondeva con lui. Un languido gemito di estasi le sfuggì, galleggiando nell'aria profumata. Il suono ricordò a Carol uno strano lamento che aveva sentito una volta all'alba spazzare le cime degli alberi in una foresta pluviale. Primitivo. Di un altro mondo. Carol tremò. Si sentì circondata, rapita, la sua anima penetrata. Non aveva mai visto un tale abbandono, e questo la riempì di stupore, di timore e di un segreto desiderio. Improvvisamente la porta si aprì un'altra volta. Adesso si trattava di André, che interruppe l'incantesimo. La stanza tornò in vita riempiendosi di suoni e movimenti. L'orologio cominciò a rintoccare la mezzanotte. André sembrava sazio, ritemprato e, come si fosse trattato della prima volta, Carol notò quanto fosse piacente. Jeanette e Julien si allontanarono e si rivolsero a Karl in francese. Gerlinde tornò e si unì a loro, gesticolando animatamente e parlando in fretta tanto in francese quanto in tedesco. Poi entrò Claude con una giovane dal volto fresco. Stavano discutendo vivacemente in inglese se fosse l'Atlantico, il Pacifico o l'Indiano l'oceano più interessante. Soltanto Chloe non prendeva parte a quella discussione internazionale. Continuava a fissare in silenzio le carte senza muoversi. Carol osservò ogni cosa, per un verso affascinata, per contro sentendosi tagliata fuori, aliena, sola. Nessuno prestava la minima attenzione a lei, cosa per la quale si sentiva risentita e grata allo stesso tempo. Alla fine André abbandonò gli altri. Parlò brevemente con Chloe, poi fece cenno a Carol di alzarsi. Lei si sentì più indignata del solito per il fatto che la trattasse come un essere inferiore, un animale domestico. Mi sto comportando da stupida, disse a se stessa. Nulla è cambiato.
Domani sarò libera. Cosa mi importa di quello che fa? Mentre stavano abbandonando la stanza, Jeanette disse ad alta voce: «Aspetta un momento!». Prese una carta dal tavolo - quella che nessuno aveva voluto spiegare - e la diede a Carol. «Faresti meglio a portarla con te». Carol seguì André su per le scale e nella stanza da letto. Lui chiuse la porta a chiave, quindi si girò e la fissò. Lei si concentrò per restare calma. Non prenderà il mio sangue... comunque non stanotte. «Toglitelo!», le disse. Mentre si toglieva il caffettano, lui si tolse i propri indumenti. Con un lieve cenno le fece segno di avvicinarsi. Adesso riusciva a capire i suoi gesti, che cosa voleva, e come lo voleva. Quando furono distesi, lui la penetrò immediatamente, ma non iniziò subito a muoversi. Le sue braccia corsero dietro le cosce di lei, sollevandole finché le ginocchia furono quasi sopra la testa. Le mani le bloccavano i polsi al letto tenendola come una farfalla Monarca fissata in una bacheca. Soltanto quando lei fu indifesa e immobile cominciò a muoversi lentamente. Lei ascoltò il suono prodotto dalla pelle di lui contro la sua umidità, sorpresa dal fatto che le sensazioni prodotte da quella frizione la eccitassero. Si fermò e assaggiò l'interno della sua bocca, incontrando la propria lingua con la sua: i loro baci erano caldi e umidi. Poi si mosse fuori e dentro di lei. Sentì il calore aumentare. Si fermò di nuovo per succhiarle uno dei capezzoli, facendolo indurire con le labbra. Si ritrovò a gemere: cominciava a desiderarlo. Lui riprese a muoversi, poi si fermò ancora per baciarla. Quindi si mosse ancora, poi giocò con l'altro capezzolo. Continuarono mentre la notte svaniva: la portava in alto, la tratteneva, la tormentava, la controllava, soffiava sul suo fuoco. Carol si stava perdendo, scivolava via. Restava soltanto la passione che continuava a farla precipitare, una forza fiammeggiante che costringeva il suo corpo a scuotersi in maniera incontrollabile per un desiderio intenso e sconosciuto. Ma, ogni volta che era sul punto di soddisfarla, lui si tirava indietro, obbligandola a nuove vette da togliere il fiato. Dimenticò di averlo temuto e odiato. Dimenticò chi e cosa fosse, cosa le avesse fatto e potesse ancora farle. Tutto quello che importava era che, se soltanto l'avesse soddisfatta, sapeva che gli avrebbe dato tutto. «Mi desideri?», sussurrò lui, leccandole il capezzolo, mentre la ruvidez-
za della sua lingua la faceva fremere. «Oh, sì!», sussurrò Carol senza alcuna vergogna, con il corpo che si agitava a sottolinearlo. «Tanto?» «Sì!». «Supplicami!». Le prese il capezzolo tra le labbra. «Ti voglio». La sua voce era delicata, bassa, ansante, il corpo tremante e in fiamme. «Ti voglio da impazzire. Ti prego André, prendimi ora. Sono tua». Prima ancora che se ne potesse rendere conto, le sue suppliche vennero respinte. Con improvviso orrore i suoi occhi si aprirono all'istante. Lo vide sopra di sé, con il viso più freddo di quanto avrebbe dovuto essere. Ma sembrava spaventato, preso nel suo gioco tra il desiderarla e il disprezzarla, il destino di lei appeso all'equilibrio di quel conflitto. Per un momento senza fine l'universo parve fermarsi; nessuno dei due si mosse o respirò. Poi qualcosa cambiò. Era scivolato su un fianco, ma lei non sapeva che cosa l'avesse mosso. Tutto quello che veramente riusciva a capire era che lui era diventato duro, diretto, ineluttabile, mentre si spingeva a fondo dentro di lei, più a fondo di qualsiasi altra volta. Gridò forte, urlando il suo nome più e più volte mentre la violentava, la possedeva, la costringeva ad abbracciare un'estasi che non aveva mai osato sognare. E dopo, mentre giacevano abbracciati, sapeva esattamente quale fosse la propria espressione, perché aveva già visto quell'espressione sul volto di Jeanette: quello sguardo di completo abbandono. CAPITOLO 7 La notte seguente, poco dopo il tramonto, lasciarono lo château con la limousine di André. Quando stavano per imboccare l'autostrada, Carol si girò a guardarlo. Di profilo era scarno, i suoi lineamenti accentuati. Capiva che lui aveva bisogno di sangue. Viaggiarono per venti minuti prima che dicesse qualcosa. «Siediti più vicina». Lei gli si avvicinò. «Il nostro accordo è concluso», gli disse con voce allegra. La guardò, e i suoi occhi sembravano delle sottili punte di spillo che la
trafiggevano. «La nostra conversazione si concluderà quando lo dirò io!». Lei non rispose. Non era ancora libera a casa sua. Proprio come durante il viaggio di andata, André fece passare un braccio dietro di lei, tirandole la testa indietro. La baciò a lungo e con passione, facendo scorrere lentamente una mano sul suo viso e sulla gola come un cieco che memorizza i tratti, lasciando alla fine riposare le sue fredde dita sul battito della giugulare. Carol si sottomise ai suoi baci, abbandonandosi. Carezzava il pensiero di come sarebbe stato vivere con lui, trascorrere il resto della vita immersa nella passione. Quell'idea le fece venire i brividi, così unì il proprio desiderio a quello di lui. In realtà non è così male, disse tra sé. L'immagine della sua brutalità era passata in secondo piano rispetto ad altri, più piacevoli ricordi. Posso cambiarlo, so di poterlo fare. È già infatuato. Posso arrivare fino ad amarlo, anche se ha diversi problemi. Sarà facile. Non ho molto da perdere. Le venne la pazza idea di proporgli un altro affare. Sarebbe rimasta con lui per un mese, per vedere come andava. Avrebbe di nuovo insistito affinché lui si impegnasse a non prenderle il sangue, e gli avrebbe dovuto dire che era una portatrice. Ma questa volta avrebbe dovuto promettere di non essere violento. Lui avrebbe accettato, ne era sicura. Attraversarono il ponte più moderno, Pont de Cubzac, poi girarono per la strada che costeggiava il porto, fino ad arrivare quasi al luogo in cui l'aveva portata quel taxi soltanto quattordici notti prima. Le labbra di lui si riversarono ancora su di lei, con una pressione insistente, umida, che le trasmetteva ondate sconvolgenti nella vagina. E, quando le labbra si separarono, i loro occhi rimasero come bloccati. Carol aveva già aperto la bocca, ed era sul punto di dirgli quello che aveva in mente, quando lui parlò. «Non tornare più qui. Mai più!». I suoi arti si fecero insensibili, la testa le si gelò, e il suo cuore andò in pezzi per la freddezza di André. La macchina si fermò e lui scese. Non la guardò. Senza una parola, l'uomo chiuse lo sportello e si allontanò in fretta, dirigendosi di nuovo al pontile. Immediatamente la limousine partì. Attraversarono il Pont de Pierre che portava verso il cuore del centro cittadino, e Carol fu depositata davanti al suo hotel. Come uno zombie, camminò fino alla sua stanza, fece i bagagli
e saldò il conto dell'albergo. «Si sono già occupati del conto, Mademoiselle. Ed è rimasto questo per lei», disse l'impiegato a Carol vuotando la sua cassetta di sicurezza. Dentro la grande busta trovò un biglietto di sola andata per Philadelphia. Fece cenno a un taxi di fermarsi, e diede istruzioni all'autista di portarla all'aeroporto di Merignac. Là prese un biglietto per Madrid. Gettò via il biglietto per gli Stati Uniti. Fu tre settimane più tardi che Carol cominciò a sentirsi male. All'iniziò pensò che fosse soltanto una reazione alle spezie utilizzate nella cucina spagnola, poi pensò che avrebbe potuto trattarsi dei sintomi di un cuore spezzato per sempre. Ma ben presto cominciò a vomitare tutti i giorni e fu costretta a recarsi da un dottore. Questi fece una serie di esami. Il risultato la scioccò, Quando riuscì a tornare in sé, la prima cosa che fece fu comprare un biglietto aereo per tornare a Bordeaux. PARTE SECONDA «Avete sottovalutato il diavolo. Non sono del tutto persuaso: Una creatura che è odiata da tutti, Dev'essere davvero importante!». Goethe CAPITOLO 8 «Ispettore LePage, per favore la smetta con questa farsa. So bene che lei lo conosce, sa cos'è, e sa come entrare in contatto con lui». Il detective trasse una profonda boccata dalla sua Gitane. Erano seduti uno di fianco all'altra al bancone di un piccolo caffè, in un angolo tranquillo, dove nessuno avrebbe potuto sentirli. «Se riuscissi a trovare André da sola, lo farei», continuò Carol. «Ho trascorso le ultime tre notti alle banchine, sia sulla riva sinistra che su quella destra e, quando non ero là, passeggiavo per strada in cerca di lui. Questo è l'unico motivo per cui l'ho chiamata». «Perché è così preoccupata di trovare questo André, Mademoiselle Robins? Meno di due mesi fa, contro i miei ordini, non le interessava granché
di restare in città per aiutare nelle indagini di quello che lei insisteva essere stato un omicidio. Adesso sembra voler scovare lei stessa il presunto colpevole, in realtà soltanto un uomo che cercava di fare la sua conoscenza. È un'indagine oppure masochismo?». Carol si sentì esasperata. «Ascolti, gliel'ho detto: non mi importa davvero quali siano i suoi rapporti con lui, né che tipo di affari la polizia stia facendo. Ma devo trovarlo... in fretta. Ho bisogno del suo aiuto. Non ha nulla a che vedere con l'omicidio, perché di omicidio si è trattato, anche se accidentale». «Insinuare che io abbia a che fare con un presunto omicida è un'accusa seria, Mademoiselle. Ma, per amor di discussione, posto che io conosca questo Monsieur André, perché mai dovrei aiutarla a trovarlo?». Nell'ora appena trascorsa aveva tentato di convincere LePage, e lui non si era sbilanciato. Non avrebbe ammesso nulla, ma avrebbe continuato a porle altre domande. Carol detestava farlo, ma dovette giocare il suo asso nella manica. «La ragione principale per cui dovrebbe aiutarmi è che devo vederlo per un motivo davvero importante. Se non riesco a trovarlo o se lo troverò troppo tardi, scoprirà che lei non mi ha aiutato e, be'...». L'ispettore LePage inspirò profondamente dalla sua Gitane, chiudendo in fretta gli occhi per evitare che il fumo vi finisse dentro. Riusciva a immaginarlo mentre soppesava le conseguenze del far infuriare un ricco eccentrico. Non solo quello che le aveva detto il dottore di Madrid poteva essere di vitale importanza per André, ma lei aveva anche bisogno del suo aiuto; era disperata. Minacciare il poliziotto era una questione di autodifesa. «Perché non facciamo così?», disse lei. «Domani notte sarò al porto, nei pressi delle banchine sull'argine destro, dalle nove fino a mezzanotte». «Una zona pericolosa, Mademoiselle. Vuole davvero mettere a repentaglio la sua incolumità». «Grazie per la premura». Prese la borsa e si alzò in piedi. «Se riceverà questa informazione, sono sicura che le sarà grato». Il poliziotto rimase seduto, continuando a fumare senza sosta, guardandola attraverso quella cappa bianco bluastra. Carol sapeva di averlo messo nel sacco. Anni di studi legali e performance teatrali l'avevano resa un'acuta conoscitrice di caratteri. Sapeva anche quando era il momento per un'uscita ad effetto. Era una tiepida sera di maggio, calda ma non afosa. Il cielo era terso, ri-
schiarato dalla luna piena e dalle stelle. Carol indossava un leggero vestito estivo bianco e scarpe basse. Una borsetta di tela bianca contenente gli oggetti essenziali pendeva lungo il suo fianco. Aveva atteso nell'ombra di un magazzino del pesce vicino al luogo dove in precedenza era stata parcheggiata la limousine. Nonostante per strada ci fosse ben poco traffico di veicoli e pedoni, voleva restare nascosta. Era una zona pericolosa, e c'erano probabilmente ceffi peggiori di sedicenti vampiri che gironzolavano di notte. Il taxi sarebbe tornato a prenderla alle 00,05. Carol controllò l'orologio: le undici e mezza. Era là dalle nove, e le sue gambe cominciavano a dolere a furia di stare in piedi. E cominciava a scoraggiarsi. Forse non verrà, pensò. Forse LePage non gli ha fatto pervenire il messaggio. Si chiese anche perché non avesse visto la sua macchina nelle tre notti in cui aveva perlustrato la città. Quello che stava facendo era pazzesco. Era più probabile che le succhiasse immediatamente il sangue: ossia, quello che aveva sempre desiderato fare. Ma niente di tutto questo importava veramente adesso. Si sentiva depressa, disperata, e l'idea di morire rapidamente per mano sua non era poi così ripugnante. Dieci minuti prima di mezzanotte arrivò la limousine argentea e parcheggiò a mezzo isolato da dove si trovava lei. Il conducente arrestò il motore e le luci si spensero. La vettura rimase là, senza che nessuno ne uscisse. Carol cominciò a sudare, sentendosi improvvisamente nervosa. Si costrinse ad uscire dall'ombra e passò sotto un lampione. S'incamminò verso la parte posteriore della macchina, con le suole di pelle che battevano forte sulla pietra. Il conducente uscì, chiuse la portiera, accese una sigaretta e si avviò nella direzione opposta da dove era giunta lei. Non appena Carol ebbe raggiunto la limousine, lo sportello posteriore si spalancò, bloccandola, come se dopo tutti quei problemi lei avesse potuto semplicemente andarsene via. Carol diede un'occhiata dentro. C'era André seduto in mezzo al sedile. «Sali!», disse lui. Quando fu seduta, lui si sporse verso di lei e, dopo aver richiuso lo sportello, accese la luce di cortesia. La guardò con occhi bestiali, e lei lo guardò di rimando. Ci fu un lungo silenzio. «Ti avevo detto di non tornare qui. Sei pazza o semplicemente stupida?» «Ho bisogno di parlarti».
«Vieni qui, vicino a me!». «Non sono venuta per quello». «Non mi importa perché sei venuta». Le afferrò il braccio, strattonandola vicino a sé. Le sue labbra e le sue mani furono immediatamente su di lei. Frugò sotto la gonna, le strappò le mutandine, poi le sollevò il vestito sulla testa, strappandone la parte superiore. Nello stesso momento stava calciando via le sue Puma dai piedi e si liberava della maglietta. «Non farlo! Ascoltami». La bocca di lui la interruppe. Carol si divincolò, ma lui era incredibilmente forte. Le premette la schiena contro il sedile, intrappolandole le braccia, mentre si abbassava i pantaloni rapidamente. La costrinse a tenere le gambe larghe, spingendone una contro il lunotto, l'altra sul pavimento. Nello spazio angusto della vettura la aggredì come una bestia feroce. Eiaculò immediatamente, ma rimase sopra di lei. Entrambi erano sudati e respiravano a fatica. Carol era terrorizzata. Rimproverò se stessa per essere stata tanto ingenua da ricadere nella sua trappola ancora una volta. Adesso, pensò, probabilmente si nutrirà con il mio sangue. Morirò qui, nelle mani di un folle mostro che crede di essere un vampiro e nel mezzo di un melodramma gotico. Il suo destino sembrava amaro e immeritato. Bene, decise, non cadrò senza aver combattuto. «Sono incinta». Per un paio di secondi lui trattenne il fiato. Poi si allontanò da lei dicendo: «Congratulazioni!». Si tirò su i pantaloni e afferrò la t-shirt grigia, vestendosi in fretta. «Questa confessione dovrebbe suscitare la mia pietà, o cos'altro?». Fece scivolare il piede nella scarpa sinistra e strinse fermamente i lacci, quasi con rabbia. «Pensi che non potrei mai prendere il sangue di una donna incinta? Ti ho già detto una volta che non provo pietà». Carol si infilò il vestito dalla testa. «È tuo». Era impegnato con i lacci della scarpa destra: si fermò un istante ma poi riprese. «Merde!», esclamò. «È la verità». Lui sprofondò sul sedile e si girò verso di lei. «Sei incredibile. Per prima cosa è impossibile. Non posso ingravidarti.
Secondo, probabilmente non vuoi affrontare il fatto di essere una tale puttana. Non sai chi sia il padre, e così ti sei illusa pensando che sia io. Ma di certo avrai scopato con qualsiasi cosa in grado di tirarlo su. Comunque, è stato un bel tentativo». Carol si sentì come se l'avesse pugnalata al cuore. Senza preoccuparsi di replicare, afferrò la borsetta e tirò la maniglia. «Togli la sicura!», disse freddamente. Lui non si mosse. Lo guardò. «Hai ragione, sono stata una stupida a venire da te in cerca di aiuto. Lasciami soltanto andar via». Lui rise. «Per nulla al mondo». In quel momento provò per lui un odio tale da scoppiare a piangere. «Sì, adesso le lacrime. Adoro vedere le donne piangere, mentre cercano di crearti un senso di colpa. Ma le tue lacrime non significano nulla per me. Siamo di due specie differenti, te l'ho già detto. Tra nemici non c'è spazio per l'amore. Sai che mi avresti ucciso se ne avessi avuto la possibilità, cosa che non succederà mai. Invece io posso ucciderti con facilità». Carol continuava a piangere sempre più forte: le sue emozioni l'avevano portata a un potpourri di paura, dolore, frustrazione e rabbia. «Sei un figlio di puttana!», gridò. «Sei un deficiente, esaltato e superbo. Non potresti essere più insensibile nemmeno se fossi un vero vampiro. Non so che cosa sei e non m'importa. Puoi fare quello che vuoi di me, non m'importa neppure di questo. Ma ti sbagli. Si tratta di tuo figlio, e io voglio semplicemente liberarmene. Adesso uccidimi e finiamola. Sono stanca della vita e stufa dei tuoi malvagi giochetti infantili. Ti detesto!». Stramazzò contro lo sportello, sconvolta da ondate di emozioni troppo forti. Ci vollero diversi minuti perché la tempesta passasse. Ogni volta che Carol era sul punto di riacquistare il controllo, una nuova marea di dolore la pervadeva, e ricominciava a singhiozzare senza tregua. Ma alla fine si era ridotta a tirare su con il naso, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto fradicio, quando lo udì chiedere in tono civile: «Da quanto sei incinta?» «Un mese», rispose lei tra i singhiozzi. «Cosa ti fa pensare che sia io il padre?». Gli rivolse un'occhiata di disprezzo, sostenuta dal totale disgusto che
stava provando. «Perché sei l'unico uomo, per non dire l'unico mostro, col quale abbia avuto rapporti da un anno a questa parte». Ricominciò a piangere. «Anche se pensi che questa sia la verità, perché sei tornata da me? Lo sai che voglio soltanto il tuo sangue». Carol si sentiva così frustrata, così adirata, così furibonda, che riusciva a malapena a parlare. «Perché voglio abortire», disse con un tono di voce acuto, colmo d'isteria. «Allora fallo». «Non posso. Non potevo farlo in Spagna, perché è illegale. Non so come funzioni in Europa. Non conosco neppure le lingue. Credevo che saresti stato in grado di aiutarmi». «Vai in Svezia. Oppure torna a Philadelphia». «No! Non voglio tornare là!», disse lei decisa. Si sentiva come una ragazzina che monta in collera, e riusciva a immaginarsi a battere i piedi. «Allora tieni il bambino. Molte donne single lo fanno». «Non posso», rispose singhiozzando. André sospirò. «Intendi dire che non vuoi. Ascolta: non può essere mio figlio. E non m'interessa di tutta questa idiozia. Stai facendo un gran casino per niente. Partorisci e tieniti il bambino, oppure dallo in adozione, o torna a casa e abortisci. Potrai sempre tornare in Europa se questo è il posto dove vuoi stare. Dov'è il problema?». Lei si sentì completamente sola al mondo. Come avrebbe potuto farglielo capire? E a lui non sarebbe importato comunque. Avrebbe detto di essere più isolato di lei e che comunque sopravviveva. Sarebbe dovuta crescere, avrebbe dovuto affrontare la realtà. Infatti, quello che lui suggeriva era perfettamente logico: tornare a casa, abortire e ripartire per l'Europa. Ma, chiaramente, la sua logica non stava funzionando molto bene, o non si sarebbe trovata lì in quel momento. I suoi sentimenti, che non erano mai stati tanto devastanti, la confondevano, e la riempivano di paura e solitudine, lasciandola incerta su ciò che doveva essere fatto e sul come si poteva farlo. Il risultato furono altre lacrime. Si strinse le braccia intorno al corpo. Tutto quello che sembrava in grado di fare era piangere. A un certo punto lui allungò una mano e premette alcuni tasti sul telefo-
no. Lei sentì il suono di un cicalino fuori dalla vettura. Dopo circa dieci secondi, l'autista risalì. Si allontanarono. Ben presto erano sull'autostrada diretti a Soulac-sur-Mer. CAPITOLO 9 André la lasciò nel soggiorno seduta su un divano di fronte a Gerlinde che abbassò il suo giornale per dire: «Bentornata. È davvero così bravo come amante?». Carol non rispose. Riusciva a malapena a tenersi in piedi. Si sentiva malissimo, così intimorita e sola. E probabilmente adesso mi sono cacciata in un guaio ancora peggiore, pensò. «Non hai un bell'aspetto, marmocchia», commentò la ragazza con i capelli rossi. «Hai pianto? André si è comportato nel suo solito modo sadico?». Carol la guardò. Non si fidava di lei. «Non mi sento bene, tutto qui». «E perché mai?» «Io... non lo so. Non è nulla». «Uhmmm». Gerlinde si avvicinò e si sedette di fianco a lei. Parve come se la temperatura all'interno della stanza si fosse abbassata di un paio di gradi. «Ehi, non sono la tua sorellastra malvagia. So di essere una lingualunga, ma c'è del buono anche nella merda». Fece un piccolo sorriso di sbieco. «Ti va un drink?». Carol scosse la testa. «Non è sangue. Credimi: se ci fosse stato del sangue sfuso da qualche parte, me lo sarei bevuto da sola. Abbiamo dello sherry». Si alzò e si diresse a un tavolo di fianco alla finestra. Da una caraffa di vetro lavorato versò del vino dolce color ambra in un piccolo bicchiere, poi tornò indietro e lo porse a Carol. «Vuotalo. Qualunque cosa tu abbia, questo la sistemerà. Io ho sempre fatto così». Gerlinde tornò quindi a sedersi di fianco a lei, lisciandosi la gonna di pelle color porpora. Carol inspirò profondamente. Annusò il contenuto e bevve un piccolo sorso.
«Vedi? È sherry. Era la verità!». Carol bevve un altro sorso prima di appoggiare il bicchiere sopra un centrino sul tavolo di fronte a loro. Improvvisamente le sgorgarono le lacrime dagli occhi, il suo petto si gonfiò e riprese a singhiozzare. Gerlinde fece scivolare dietro di lei un braccio di conforto e Carol si ritrovò a piangere sulla spalla di una donna che, solo poche settimane prima, aveva detestato. Gerlinde le accarezzò i capelli. «Ehi, cosa ti succede?». Carol raccontò tutto senza pensarci troppo. La ragazza con i capelli rossi parve meravigliata. «André? Niente da fare! Senti piccola, non è possibile. Voglio dire, André non può farlo. Non può proprio». «Lo so», disse Carol tirando su con il naso. «Me l'ha detto. Ma è l'unico con cui sia stata». Gerlinde si limitò a scuotere la testa incredula. «Diamine, non posso credere a quello che sto sentendo! Sei sicura di essere incinta?» «Sì. Ho fatto ripetere il test al dottore». «Un'altra immacolata concezione!». La porta si aprì e André entrò seguito da Chloe. Carol rimase al sicuro nella stretta di Gerlinde. Notò un'espressione sul volto di André che interpretò come disgusto. «Ciao Carol. Come stai?», chiese Chloe, con il volto disteso, un sorriso caldo e distante allo stesso tempo. «Non lo so», ammise Carol. «Agitata. Incinta». «Sì, André me l'ha detto». Chloe si sedette di fronte alle due donne. André trovò una sistemazione dall'altro lato della stanza, come se cercasse intenzionalmente di tenersi a distanza. «Carol, chi è il dottore che hai incontrato in Spagna?». Lei rifletté per un momento. «Non ricordo il suo nome. Mendez, o... qualcosa del genere. Aspetta! Ho delle pillole che mi ha prescritto perché continuavo a vomitare». Prese dalla borsa un piccolo contenitore di plastica pieno di capsule bianche e blu e lo porse a Chloe, la quale lesse l'etichetta. «Gerlinde, sai parlare lo spagnolo?» «Mejor que mi Aleman», rispose la ragazza. «Riesci a parlare come un'americana che cerca di comunicare in quella
lingua?» «Guarda che ho visto la tua smorfia». «Puoi chiamare il dottore? Digli che sei la sorella di Carol. È insieme a te in Francia e tu vorresti avere qualche dettaglio. Puoi scoprire cosa sa?». Gerlinde si alzò in piedi scompigliando i capelli di Carol. «Su con la vita». Mentre passava di fianco ad André lo colpì sul braccio con fare da macho. «Demonio!». Lui la guardò minacciosamente. Chloe protese le mani e Carol esitante le prese. Poi Chloe la guardò negli occhi. Quelle iridi blu erano così rilassanti. Carol sentì la tensione abbandonare il suo corpo. Sospirò. Era così stanca. Così stanca. Sentiva Chloe come una madre che la confortava, la invitava a tornare nell'utero in modo che potesse semplicemente rilassarsi e dimenticare tutto quanto la infastidiva. Posso riposarmi, pensò tra sé. Ho bisogno di riposare. Posso stare in pace. La voce di Gerlinde la riportò alla realtà. «Dice che è incinta, forse di un mese. Forse c'è qualche carenza di ferro, ma comunque è in salute. Ha fatto una ecografia. Sembra un feto regolare. Non vede alcun problema». «Bene», disse Chloe. Carol si appoggiò nuovamente al divano. Gli oggetti in vista erano inspiegabilmente brillanti. Chloe si girò verso André e parlò in francese. «Che cosa hai detto?», chiese Carol. «Ho detto che sei senza dubbio in attesa. Oltre a ciò che il dottore ha detto a Gerlinde, posso sentirlo, e vederlo nei tuoi occhi. Chi sia il padre, questa è un'altra faccenda». Carol all'improvviso si sentì di nuovo sul punto di piangere. Avrebbe voluto alzarsi coraggiosamente e dir loro: "Grazie tante, ma adesso devo andare". Nessuno di loro le credeva, e lei poteva anche capirlo: non sarebbe dovuta tornare per chiedere loro aiuto. Avrebbe dovuto fare da sé, andare a Philadelphia e abortire. Era spiacente di averli disturbati. Ma non riusciva a muoversi. Si sentiva esausta fisicamente e mentalmente. L esaurimento emotivo e la depressione la schiacciavano. «André ha detto che vuoi abortire. Perché?», chiese Chloe.
«Non voglio avere il bambino». «Perché no? Sei giovane. Forte. Probabilmente in salute. Non ti piacciono i bambini?» «Io... non so. Non ci ho mai pensato molto». «E perché mai?», chiese Gerlinde. Carol esitò. «Lui pensa di essere un vampiro... non un essere umano. È malato. Non so che cosa significhi. Non voglio dare vita a qualunque cosa abbia dei geni difettosi. E potrebbero esserci delle complicazioni. Potrei morire». «Con un atteggiamento simile, potresti morire comunque», disse André per la prima volta. Carol comprese improvvisamente che li aveva offesi. Non si era preoccupata troppo di André, ma le due donne erano state gentili nei suoi confronti. «Mi dispiace», disse a Chloe, poi si girò verso Gerlinde. «Non intendevo dire esattamente quello che ho detto. Sono solo spaventata». «E bugiarda!». André attraversò la stanza in fretta. La afferrò per i capelli sollevandola in piedi. «Ce l'hai scritto in faccia. Qual è il vero motivo per cui non vuoi avere il bambino?». Carol cominciò a tremare. «Rispondi!». «Io... potrei avere qualcosa». «E questo cosa vorrebbe dire?» «Qualcosa che potrei trasmettere». «Che cosa?». Era a disagio perfino a dirlo, le implicazioni erano davvero spaventose. «HIV. Sono risultata negativa al test per due volte, ma sono probabilmente una portatrice... il mio ex marito ha l'AIDS. È possibile che il bambino ce l'abbia». Rimasero tutti in silenzio. Carol passava lo sguardo da uno all'altro. Chloe sembrava preoccupata e Gerlinde impressionata. Il viso di André era diventato teso... e furioso. «Tu, piccola troia!», disse con voce bassa e tagliente. «Ecco perché eri tanto bramosa di farti scopare da me. Pensavi che mi avresti infettato e ucciso con il virus». Carol si sentì sbalordita. «No, non è questo che...». «Che bel piano! Anche se avessi deciso di prendere il tuo sangue, pen-
savi che mi avresti infettato». «Non stavo cercando di infettarti. Non l'avrei fatto a nessuno. Ho cercato di dirtelo, diverse volte...». «Bugiarda...». Sollevò la mano, sul punto di colpirla, ma Gerlinde si interpose tra loro. «Stai calmo, piccolo! Sei subito arrivato a una conclusione spropositata». Lui spinse da parte Gerlinde. Ma Chloe disse immediatamente: «André! Basta!». «Stanne fuori», l'avvertì lui. «Lei è mia. È mio diritto fare di lei ciò che voglio. Nessuno di voi può interferire». Chloe iniziò a parlargli in francese. Stava spiegando qualcosa con voce calma. E, più lei parlava, più lui controbatteva. Ma ad un certo punto quello che lei stava dicendo lo colpì e rimase in silenzio. Tanto lui quanto Gerlinde stavano fissando Chloe con espressioni piene di spavento, e ascoltavano con grande attenzione. Carol non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma era grata a Chloe. Sapeva che André aveva avuto intenzione di farle seriamente del male. Ma quel luogo, loro tutti... Era come svegliarsi all'improvviso per ritrovarsi imprigionata in un istituto per malati di mente. Cominciava a sentire che la realtà scivolava fuori dal suo controllo. Quando Chloe ebbe terminato, Gerlinde si afflosciò su una sedia. «Non ci credo!», esclamò. Chloe disse qualcos'altro ad André in francese, e questi afferrò immediatamente Carol per un braccio e la trascinò attraverso la stanza. Mentre stavano varcando la soglia, sentì Chloe dire a Gerlinde: «Dovrò dire a Jeanette che aveva ragione riguardo all'Imperatrice». L'aveva trascinata quasi a forza su per le scale e l'aveva riportata nella stessa stanza dov'era stata in precedenza. Senza una parola la spinse dentro, chiuse la porta e la serrò con la chiave dall'esterno. Carol rimase sola per il resto della notte. Poco prima dell'alba la cameriera portò un vassoio con del cibo. Di fianco a un piatto con fegato e spinaci c'era una bottiglietta sulla quale si leggeva: Vitamines et Minèraux Multiplex Comprimés. CAPITOLO 10 La sera seguente, non appena il sole fu tramontato, la cameriera tornò con dell'altro cibo. Carol, dopo tutti i caotici avvenimenti della notte pre-
cedente, aveva dormito profondamente già dal tardo pomeriggio. Si sentiva riposata, affamata, e stava ancora mangiando quando giunse André. Si sedette lontano, e si mise a guardarla. Quella notte lei si sentiva più forte, non così vulnerabile. Prese il suo tempo per mangiare. L'avrebbe fatto aspettare. Quando ebbe terminato, rimise a posto coltello e forchetta, si pulì la bocca, e si mise comoda. Passarono alcuni minuti. Nessuno dei due parlò. Lei versò della camomilla in una tazza di porcellana bianca e turchese col bordo dorato e ne bevve un poco. Trascorsero altri minuti. Si sentiva come se lui la stesse analizzando al microscopio e la stesse esaminando attentamente, senza alcun dubbio in cerca di imperfezioni. «Ho deciso che rimarrai qui finché non sarà nato il bambino. Una volta che avrai partorito te ne andrai. Il piccolo resterà». Carol riappoggiò sul tavolo la tazza e il piattino. «Non voglio tenere il bambino. Te l'ho detto: voglio abortire». «Quello che vuoi tu è irrilevante». «Un altro ultimatum? Come vuoi tu o la morte, giusto?» «Come voglio io». «Non ti stanchi mai di controllare l'universo? Dev'essere noioso impersonare sempre il ruolo di Satana». Si sentiva coraggiosa. Non aveva intenzione di sopportare nessuna delle sue stupidaggini patriarcali. «Questo è il patto. Resti, partorisci, poi te ne vai. È tutto». «Che cosa ci guadagno io da questo affare?» «La tua vita». «Forse non è più sufficiente». «Non intendo offrirti alcuna scelta». «Fuggirò. Oppure abortirò». «Prova a fare l'una o l'altra cosa, e ti incatenerò a quel letto per i prossimi otto mesi». Carol rimase in silenzio. L'aveva messa nel famoso sacco, ed entrambi lo sapevano. «Perché vuoi il bambino? Non credi neppure che sia tuo. Vuoi bere il suo sangue?» «Sei una tale stupida puttana! Sono sorpreso che finora tu non abbia ancora provocato qualcuno al punto da ucciderti». «Sempre minacce. Perché? Sei così potente, tanto fisicamente quanto in altri modi. Ma ti comporti come un bambino con un martello giocattolo;
devi distruggere tutto quello che trovi». Lui si alzò e attraversò la stanza diretto alla finestra. Le dava le spalle mentre scostava le pesanti tende e guardava fuori. «Puoi farlo con le buone o con le cattive: per me è lo stesso». Si voltò. «Ma lo farai, questo te lo posso garantire». Carol si morse il labbro inferiore, chiedendosi dove volesse arrivare. Come se avesse letto i suoi pensieri, lui disse: «Con le buone è cosi: resti qui, ti comporti bene, hai cura di te stessa, ti rendi disponibile per me come era prima, e tra otto mesi da ora mi consegni un bambino. Il giorno dopo te ne andrai». «E con le cattive?» «Lo stesso, tranne per il fatto che userò la forza. E non ti piacerà». Si diresse alla porta e la tenne aperta. «Pensaci. Fai un favore a te stessa». Se ne andò. Pochi minuti dopo Carol provò ad aprire la porta. Era chiusa a chiave. Intorno a mezzanotte, André tornò e la portò al piano inferiore. Gerlinde, Karl e Chloe aspettavano nel salotto seduti sul divano vicino al caminetto. André si sistemò di fronte agli altri. «Siedi di fianco a me, Carol», disse Chloe, sfiorando il tessuto morbido. Carol si sedette, poi si guardò intorno. I quattro la osservavano con molta attenzione. «Vogliamo parlare con te di quello che sta succedendo. Capisco che devi sentirti confusa». Carol sospirò abbassando leggermente le spalle. Si sentiva stanca ancora una volta. E depressa. Ma era un bene che Chloe fosse così gentile, perché sapeva che altrimenti avrebbe tentato qualche cosa di stupido. Si sentiva a un passo dal suicidio. «Quello che ti è accaduto, ossia la tua gravidanza, è un fatto davvero molto insolito. Veramente straordinario». «Mondo bislacco!», esclamò Gerlinde. «Secondo la leggenda, accade raramente che uno della nostra razza si riproduca mediante la nascita», continuò Chloe. «Un maschio ingravida una femmina mortale. Non sembra funzionare al contrario». Mio Dio!, pensò Carol. Una femmina mortale? Pensano di essere degli dèi. Sono tutti completamente fuori di testa. «Succede talmente di rado!», proseguì Chloe. «Una volta ogni qualche
centinaio di anni. Così, quando accade, ci diventa molto difficile crederlo. Nessuno di noi in questa stanza esisteva l'ultima volta che si è verificata una nascita. E io sono l'unica qui che ha sentito parlare di queste leggende». «Un figlio divino», disse Karl. Un figlio del demonio!, pensò Carol. «Perché succede?», si sforzò di domandare, chiedendosi per quale motivo stesse assecondando quei pazzi. «Nessuno lo sa», disse Chloe. «Tutto quello che possiamo immaginare è che le circostanze devono essere quelle giuste: il maschio e la femmina, il momento, l'equilibrio chimico, le condizioni, forse perfino la luna. Non lo sappiamo. Ma quello che sappiamo è che un tale figlio è veramente speciale per noi». «Sarà forse... voglio dire... un succhiasangue o qualunque altra cosa voi siate?». Non poteva credere di averlo detto. Ma l'intera conversazione sembrava così irreale. «Il bambino o la bambina sarà metà mortale e metà immortale. Dipenderà da quella che sarà l'influenza principale durante la sua vita». «In altre parole», aggiunse Karl, «se il bambino viene cresciuto da dei mortali, probabilmente vivrà un'esistenza mortale e morirà di una morte naturale. Se invece sarà allevato dalla nostra razza, sarà probabilmente un immortale. In ciascuno dei due casi, appena prima della pubertà dovrà decidere. Se decide per l'immortalità, la sua vita si fermerà all'età che lui desidererà». «Come puoi ben capire, Carol, a causa della rarità di una tale nascita, noi vogliamo che il bambino rimanga tra noi, visto che fa parte della nostra stirpe. E, dato che tu non vuoi comunque il bambino, ecco quello che ti proponiamo». Carol si mise comoda ad ascoltare. Sembravano ragionevoli come avvocati, e dovette ricordare a se stessa che razza di pazzia fosse quella. Non riuscì a liberarsi dalla sensazione di essere circondata da avvoltoi, pronti a scarnificarle le ossa, e a divorare il feto ancora prima che lei lo partorisse. «Resta con noi finché non sarà trascorso il tempo. Ci prenderemo cura di te e ti aiuteremo in ogni modo possibile. Dopo che il bambino sarà nato, potrai andartene liberamente, senza alcuna preoccupazione o rimpianto. Il piccolo - o la piccola - riceverà più amore di quanto avrà mai bisogno. Il tuo impegno sarà terminato, e potrai iniziare una nuova vita». «E per quanto riguarda il virus? Il bambino ne sarà probabilmente un
portatore». «Le nostre cellule sono mutate», le disse Karl. «Il bambino potrebbe sviluppare gli anticorpi oppure no: non lo sappiamo. Questo è un altro motivo per cui dovrebbe rimanere con noi. Si nutrirà solo di sangue, inizialmente attraverso di noi, rinforzando le cellule simili alle nostre, che sono immuni alle malattie mortali». «E che tipo di pericolo corro io?» «Nessuno qui ti farà del male». Carol diede un'occhiata ad André. Questi, con atteggiamento difensivo, incrociò le braccia sul petto, pieno di sé. «Intendo dire, per quanto riguarda il parto», continuò lei. «Se questo non è un bambino normale, non si tratterà di un parto normale». Chloe cambiò l'espressione del volto solo leggermente, ma Carol la notò. «Sarà difficile non è vero? Potrei morire dandolo alla luce». «Nessuno sa che rischio corri», disse Chloe. «Come ti ho detto, questa è la prima volta per noi quattro. Abbiamo informato la nostra comunità. Se qualcuno degli altri ne sa di più, si metteranno in contatto con noi». «Grandioso! Volete tenermi qui come una prigioniera...». «Non una prigioniera, piccola», disse Gerlinde. «Noi tutti possiamo essere una grande e felice famiglia». «Sicuro», Carol le lanciò un'occhiata. «Tranne per il fatto che sono l'unica che non può andarsene». «Soltanto per otto mesi», le ricordò Chloe. «Alla fine dei quali potrei morire mettendo al mondo un altro pazzo, magari un killer geneticamente programmato. Grazie mille ma, no!». Si alzò in piedi. «Non ho intenzione di farlo. E non potete farmelo fare. Potete torturarmi o inchiodarmi al muro, ma non lo farò: morirò di fame, se devo e, se mi nutrirete a forza, rigetterò tutto. Oppure lo ucciderò con l'odio. Ne ho abbastanza di essere minacciata». Tutto il suo corpo fu sconvolto da un tremito. Si sentiva inquieta, violenta, impulsiva per lo scoraggiamento. I suoi occhi corsero con impeto alla grande finestra panoramica. Ebbe la visione di se stessa che si lanciava di sotto. Erano al pianoterra, per cui non sarebbe morta per la caduta. Però poteva facilmente immaginarsi mentre sfondava quel vetro infrangibile. Lo udì frantumarsi, ed ebbe la sensazione di rovinare al suolo. Avrebbe afferrato una manciata di schegge. Con un gesto rapido si sarebbe tagliata le vene di entrambi i polsi e si sarebbe squarciata la gola fino a raggiungere un'arte-
ria. Sarò morta nel giro di pochi secondi e non potranno salvarmi!, pensò. «Piantala, sciocca!». Gerlinde afferrò saldamente Carol per le spalle, poi la guardò negli occhi allontanandola da quelle fantasie macabre e la ricondusse alla realtà della stanza. «Non è la fine del mondo. Stai perdendo il controllo». In qualche modo Carol comprese che Gerlinde aveva capito quello che stava succedendo dentro di lei. Si sentì all'improvviso esausta ancora una volta, intimorita e triste, completamente sopraffatta. Prima che potesse rendersene conto, stava piangendo come una bambina tra le braccia di Gerlinde, urlando senza sosta: «Non posso! Non posso farlo. Non chiedetemelo. Non posso!». Le due donne si sedettero vicino a lei, e Karl le preparò una tazza di tè d'erbe. Lo bevvero insieme, tutti tranne André, che rimase in disparte. Loro tre le parlarono, dicendole che non era sola, che avrebbero fatto tutto il possibile per aiutarla. Sapeva che stavano creando l'illusione di essere dalla sua parte. Ma la realtà era che non aveva scelta. Dopo un po' disse loro: «Non voglio farlo, ma credo di doverlo fare. Però ho delle condizioni da porre. Se le accettate, prometto di non cercare di far del male a me stessa o al bambino». «Quali sono le tue condizioni?», chiese Chloe. Carol la guardò. «Voglio essere libera. Voglio poter uscire fuori. Non voglio restare chiusa qui dentro per otto mesi». «Sono convinta che possiamo fare qualcosa al riguardo», la rassicurò Chloe. «Voglio un dottore che mi controlli regolarmente, per essere sicura che nulla vada storto». Si guardarono tra loro. «Sarà difficile, ma possiamo accordarci». «E ho bisogno di alcune cose: abiti, libri, film. Non so ancora quali». «Nessun problema», disse Gerlinde. Carol guardò André. I suoi occhi incontrarono quelli di lei. «E lui deve promettere di lasciarmi in pace». Ci fu un attimo di silenzio. Quindi Chloe parlò con voce conciliante. «Carol, cara, te l'ho già detto: nel nostro mondo, tu appartieni ad André. Lui ha l'ultima parola su queste condizioni. E una delle cose che sappiamo
riguardo a tali nascite è che il maschio deve avere degli input». «Cosa vuoi dire?» «Devi scopartelo», le disse bruscamente Gerlinde. «No! Mi rifiuto!». André rise. «Carol, lascia che ti spieghi», continuò Chloe. «Il bambino che porti in grembo sentirà automaticamente la tua influenza. Ho un libro che potresti leggere: La vita segreta del bambino non nato. Documenta alcuni casi di come un feto sia influenzato da sua madre nella vita intrauterina prima della nascita. C'è anche una prova evidente del fatto che, quando il padre è presente, ha un'influenza egualmente potente. Nel caso di questo bambino, dato che è così diviso tra il vostro mondo e il nostro e, dato che vogliamo istradarlo verso il nostro mondo più che possiamo, André deve avere un maggior accesso al feto, in modo che la sua influenza sia forte e chiara. Lui e il bambino devono essere legati». «Non so che cosa intendi dire», disse Carol, timorosa per averlo detto. Fu André a risponderle. «Intende dire che dovrò trascorrere il maggior tempo possibile insieme a te finché non nasce il bambino. Tra le altre cose, mio figlio sentirà il mio potere che lo circonda e lo protegge. Lui ha bisogno di sapere che sono qui». «Pensa a questa cosa come a una faccenda d'amore», disse Gerlinde, abbracciando Carol. «Una faccenda d'amore senza amore», mugugnò Carol. E pensò: Con un amante demoniaco. CAPITOLO 11 Nella seconda notte in cui si trovava di nuovo allo château, André giunse da lei subito dopo il tramonto, quando nel cielo gli ultimi frammenti di rosa ancora si riflettevano sulla superficie del placido Atlantico. Stava per finire un altro pasto a base di fegato, spinaci e rape. «Sbrigati!». Era terribilmente scarno e pallido, quasi come una maschera di cera. Le sue guance erano scavate, i suoi occhi grigi spenti. Sembrava preoccupato. Carol ebbe il sospetto che stesse pensando al sangue. Dopo cinque minuti finì di mangiare. «Andiamo», disse lui, squadrandola dalla testa ai piedi con un'espressio-
ne di leggero disgusto quando si fu alzata. Attesero fuori l'automobile. Carol stava sui gradini, André camminava impazientemente su e giù per il vialetto sterrato. Faceva molto caldo, e lei stava già cominciando a sudare. La porta d'ingresso si spalancò e ne uscì Gerlinde. Indossava un'ampia camicia dai colori limone e lime, tagliata su un lato in modo da scoprirle una spalla. «Ciao piccola», disse, con le labbra sottili piegate in un mezzo sorriso. «Ciao!». Anche Gerlinde aveva quell'aspetto smunto, anoressico e pallido. Per alcuni secondi Gerlinde guardò André camminare, poi disse: «È intrattabile quando non ha ancora bevuto il primo bicchiere». «L'autista... e la cameriera. Come fanno a non sapere che voi siete... diversi?» «Abbiamo i nostri sistemi. Ipnosi probabilmente è la migliore spiegazione. Possono continuare nel loro lavoro, solo che non riescono a rendersi conto del fatto che ci vedono soltanto la notte». «È questo che avete intenzione di fare anche al dottore?». E alla polizia, pensò Carol. «Certo». La voce di Gerlinde era leggermente tesa. «Senti: ti ringrazio per essere così amabile con me». Carol le accarezzò un braccio. «Non so che cosa avrei fatto senza di te qui». Una strana espressione attraversò il volto della ragazza dai capelli rossi. I suoi occhi parvero improvvisamente prendere fuoco e Carol ne fu come ipnotizzata. Le fecero venire in mente un pezzo di frutta che aveva lasciato sul patio un'estate. Due giorni dopo, aveva cominciato a muoversi. C'era voluto un poco per comprendere che la frutta era coperta di vermi. Gerlinde allontanò delicatamente la mano di Carol. «Ehi, anche io sono piuttosto intrattabile prima del mio primo sorso. Stammi lontana, dolcezza. Per me hai il profumo di un vino pregiato». Una vettura sportiva verde con la capote scoperta si fermò lì davanti. Karl era alla guida. Anche lui sembrava pallido e teso. Gerlinde salì, salutò con la mano, e si allontanarono. Di lì a pochi secondi, la limousine argentea si fermò di fianco alla casa. André aprì lo sportello per Carol e salì subito dopo di lei. La vettura partì immediatamente. Durante il viaggio di quaranta minuti per Bordeaux, non la guardò nep-
pure una volta. Sembrava agitato, e Carol era abbastanza sveglia da restare buona e zitta. Ma, quando attraversarono la strada della banchina sulla riva sinistra, gli chiese: «Posso scendere e passeggiare finché non ritorni?». La guardò un istante, poi si girò e disse innervosito: «Non essere sciocca!». Non appena la macchina si fermò, lui scese e si diresse rapidamente verso le banchine. Carol udì la portiera del conducente aprirsi e chiudersi. Tentò di aprire gli sportelli posteriori, ma erano bloccati. Ovviamente doveva esserci un qualche sofisticato meccanismo di apertura e chiusura che lei non comprendeva. Sospirò e accese la luce, sperando di trovare qualcosa da leggere. Non c'era nulla. Sospirò ancora una volta. Almeno c'è l'aria condizionata, pensò tra sé. Per un poco si divertì a frugare negli sportellini e nei portaoggetti della limousine. C'era un piccolo scrigno pieno di liquori, un mini frigo, vuoto tranne che per dei cubetti di ghiaccio, un piccolo armadietto con piattini, tazzine e utensili che sembravano non essere mai stati usati, due sgabelli di riserva, una radio, una piastra mangianastri e un mucchio di moderne cassette, un televisore con il videoregistratore e due video: l'ultimo film di James Bond, e un altro titolo francese, La grande bouffe. Accese la televisione - tutti i programmi erano in francese - e fece un mezzo tentativo di concentrarsi su una sit-com. È successo tutto così in fretta, rifletté. Soltanto un mese fa credevo di essere libera, e adesso sono ancora una volta prigioniera, costretta a partorire un piccolo mostro. E sono venuta qui di mia spontanea volontà! Non capisco ancora perché sia tornata. Tre giorni fa aveva senso. Adesso tutto quanto sembra quasi uno strano incubo. Dagli altoparlanti fuoriuscirono delle risate registrate. Non aveva alcuna coscienza del bambino dentro di sé. Ma Carol non aveva mai desiderato realmente dei bambini. In precedenza, prima che il matrimonio finisse, lei e Rob ne avevano parlato. Nessuno dei due si sentiva pronto. Erano troppo giovani. E un bambino non era opportuno. Carol non aveva ancora superato l'esame per diventare avvocato, e Rob si stava ancora facendo una reputazione. Forse tra un paio d'anni, avevano detto tutti e due. Adesso era felice che avessero aspettato. Ma non aveva mai avuto un vero e proprio desiderio di maternità. Non aveva mai guardato i bambini per strada pensando: Che carino, vorrei averne uno. I due bambini che vedeva dai loro amici sembravano sopportabili per tre ore al massi-
mo di volta in volta. E spesso aveva pensato: Grazie a Dio adesso me ne posso tornare a casa. Un uomo gridò: «Merde!», e vi furono altre risate. Il canale interruppe la trasmissione per la pubblicità: della zuppa veniva versata nei piatti da una donna con un grembiule bianco pieghettato che sembrava divertirsi da morire. Lei non avrebbe voluto tenere quel bambino: questa era l'unica cosa di cui era sicura. Ma sentiva che non c'era molto che potesse fare riguardo alla propria situazione. Adesso stava bene, ma sapeva che in seguito sarebbe stata davvero male: avrebbe vomitato tutti i giorni, e si sarebbe sempre sentita fiacca. Emotivamente era un disastro. Serena, equilibrata per cinque minuti, poi, wham!, perdeva il controllo, proprio come aveva detto Gerlinde. La spaventava pensare che solo la notte prima fosse arrivata quasi al punto di prendere in considerazione il suicidio. Sul piccolo schermo seguì la presentazione di un film per la televisione. Una donna vestita di nero piangeva, mentre un'altra la confortava. Vorrei che le cose fossero diverse, pensò tra sé. Vorrei non essere stata contagiata dal virus. Vorrei che André fosse normale, e che fosse sempre gentile con me. Avrebbe voluto che lui non la rimproverasse, non la offendesse, non la brutalizzasse. Forse l'avrebbe trattata meglio adesso che era incinta. Dovrà farlo, rifletté. Non farà del male al bambino. Ho un margine per contrattare su quello che voglio. Carol sentì lo sportello del conducente aprirsi e poi richiudersi, quindi anche quello posteriore si aprì. André montò in macchina. Sembrava pieno di vita. Spense la televisione e la luce, prese il telefono, premette alcuni tasti e parlò all'autista. Lei comprese solo le parole: Royal Medoc. Durante il tragitto di cinque minuti nel centro della città, lui si voltò e la studiò in silenzio. Quando furono arrivati all'hotel, André scese per primo. Mentre parlava attraverso il finestrino anteriore, dando istruzioni allo chauffeur, strinse saldamente la parte superiore del braccio di Carol. Non appena la vettura fu ripartita, si girò verso di lei, attirandola a sé. Le prese il volto tra le mani. «Abbracciami», le sussurrò dolcemente. La strada era affollata. Con la coda dell'occhio Carol intravide delle persone che li guardavano sorridendo, annuendo in segno di approvazione, pensando che si trattasse di due innamorati. In un secondo organizzò un piano per gridare aiuto il più forte possibile.
«Te lo dirò soltanto una volta», disse André, talmente serio che l'attenzione di Carol fu rapita dal suo volto. «Non tentare niente di stupido, o sono sicuro che ti troverai in difficoltà». La baciò dolcemente sulle labbra. «Se fai qualcosa di strano, ti farò più male di quanto non ti sia stato mai fatto, bambino o no. Sarai costretta a ridefinire il concetto di dolore. Capito?». Carol fece un cenno con la testa. Lui le sorrise, la baciò ancora, poi le passò energicamente un braccio intorno al collo. Mentre entravano dentro l'hotel, lui salutò diverse persone e scambiò dei bonsoirs. È matto, pensò lei. Si fermarono alla reception per prendere la chiave della sua stanza, poi salirono subito di sopra. Non appena furono entrati, lui accese la luce e disse: «Togliti quel vestito e dammelo!». Carol rimase un istante paralizzata, poi depose la borsa e tolse i fermagli che aveva usato per tenere insieme il vestitino nel punto in cui lui l'aveva strappato due notti prima. Fece scivolare l'abito giù lungo i fianchi, lo piegò con cura e glielo porse. Lui lo fece immediatamente a pezzi e lo gettò nella spazzatura. «Non indossare mai più qualcosa di così brutto: non quando sei con me. Togliti tutto il resto». Carol si tolse la biancheria, anche questa strappata, e le scarpe. «Stenditi e distendi le gambe!». «Non parlarmi in questo modo!», disse lei senza riflettere. André rise con sarcasmo e incrociò le braccia sul petto. «E come dovrei parlarti? Come a una puttana? Che cosa ti aspettavi? Avevi in mente di contagiarmi con l'AIDS. Pensavi che l'avrei considerato un gesto d'affetto?» «Non avevo in mente nulla. Pensavo che se tu avessi potuto essere infettato, probabilmente lo saresti già stato, con tutti quei marinai. Almeno non l'avresti trasmesso a me». «Allora cos'era quel dispetto di non volermi concedere il tuo sangue?» «Solo una possibilità: così non te l'avrei passato di sicuro. Ma questo è quello che pensai all'inizio, prima ancora che facessimo sesso. In seguito non volevo morire: tutto qui. Ho cercato di dirtelo tante volte. Sono tornata per dirtelo». Era molto agitata.
«Bene!», ghignò lui. André si diresse all'armadio e tirò fuori tutto il bagaglio della giovane. Tolse tutti i vestiti, le gonne e le maglie dagli attaccapanni, un capo per volta, lanciandoli a caso, con disgusto, nella valigia. «Ti vesti come una donna delle pulizie che ha il gusto di una cameriera», osservò. Quando l'armadio fu svuotato degli abiti, prese quello che c'era nei cassetti, scegliendo una t-shirt verde oliva di tipo militare e dei pantaloncini marroni di cotone. Tranne per il pettine, lo spazzolino e il beauty che infilò nella borsetta, tutto il resto finì nella valigia. Le lanciò la t-shirt e i pantaloncini. «Indossa questi», le ordinò. Lei si avvicinò alla valigia per prendere della biancheria intima, ma lui la fermò. «Niente sotto, solo la maglietta e i pantaloncini». La donna si vestì, poi infilò le stesse scarpe basse che aveva già prima. «Tira su il risvolto», le intimò. Carol piegò due volte il risvolto degli shorts. «Ancora». Fece un'altra piega. «Altre due», ordinò lui. Adesso i pantaloni erano davvero corti. Si vedeva buona parte del fondoschiena. «Non posso uscire così. Mi mette a disagio». «È una tipica apprensione di voi mortali. Non siete altro che un branco di egomaniaci». Mentre aspettava seduto sul letto, chiamò la reception. Nel giro di pochi minuti, giunse alla porta un inserviente. André diede al ragazzo dei soldi e delle istruzioni in francese. Poi si rivolse a Carol. «Metterò via la tua valigia a casa mia, così non dovrò più vedere quegli stracci. La riavrai quando te ne andrai. Andiamo!». Il piccolo ascensore era affollato, ma riuscirono a infilarcisi. Immediatamente il suo braccio le cinse la vita. Fece scivolare una mano giù per la schiena e sotto i pantaloncini, in modo che i presenti vedessero bene. Carol provò una profonda vergogna. Sapeva che il suo viso era in fiamme. Si comporta come un ragazzino capriccioso, pensò. È scostante, e cerca
sempre di mettermi in imbarazzo e umiliarmi. André pagò il conto mentre lei vuotava la cassetta di sicurezza. Quando erano in procinto di andarsene, il commesso chiamò. «Mademoiselle! Stavo per dimenticarmi. C'è una lettera. È arrivata per lei ieri». Carol si protese per prenderla, ma André intercettò la busta. Diede un'occhiata da entrambe le parti prima di infilarsela in tasca. Salirono in macchina e si recarono da un parrucchiere che si trovava a due isolati di distanza. Il proprietario, un uomo dai modi cortesi, basso e di bell'aspetto, salutò calorosamente André, baciandolo su entrambe le guance, e chiamandolo «Ma belle bête noir». Anche gran parte del personale salutò André. Il proprietario guardò attentamente Carol con quella che lei interpretò essere disapprovazione, fece correre le mani tra i suoi lunghi capelli con fare professionale, e dopo un po' la fece sedere davanti a un grande specchio per farle lavare i capelli. Lei si accorse che poteva scorgere André nel riflesso, e ne fu sorpresa. Mi aveva quasi fatto credere di essere un vampiro, pensò. Mentre il parrucchiere sollevava alcune ciocche dei suoi capelli, preparandoli per il taglio, André si sedette al bordo del bancone sfogliando una rivista di moda. I due uomini si consultavano di frequente, con un mucchio di risate e battibecchi scherzosi accompagnati da energici gesti delle mani, e alla fine parvero giungere a un accordo. Nel giro di mezz'ora i capelli di Carol erano stati accorciati in un taglio moderno e gradevole che valorizzava il suo viso ben più di prima. Il parrucchiere li frizionò con il gel ed asciugò la piega mentre dava forma con le dita. Fissò il risultato finale con dello spray. Ne venne fuori una ragazza giovane e graziosa. Quindi le truccò il viso con dei colori accesi, sottolineando gli occhi con del mascara in modo che apparissero davvero rotondi, e le labbra con una matita rosso scuro. Carol guardò lo specchio pensando: Sono di nuovo una ragazzina! La loro fermata successiva fu un negozio di abbigliamento nella elegante Rue Sainte Catherine. André le fece provare diversi completi, tra i quali scelse tre gonne, tutte simili, quattro magliette, e un paio di pantaloni color anguria dal taglio stravagante. La sua t-shirt e i pantaloncini furono impacchettati con il resto degli acquisti. Adesso Carol indossava una gonna di pelle nera molto corta, e un top a tubo a strisce orizzontali rosse e bianche, senza niente sotto.
Lui le mise una cinta a maglie d'argento sui fianchi. Era composta da anelli più grandi che si intersecavano con anelli più piccoli, e sul davanti era tenuta insieme da un pezzo di metallo liscio e spigoloso che assomigliava a un lucchetto con una serratura stilizzata. Una chiave old fashion pendeva da uno degli anelli. Nell'insieme sembrava una moderna danzatrice apache. In seguito attraversarono la strada, e lui le comprò due paia di scarpe con tacchi da dieci centimetri e lacci sottili intorno alle caviglie. Dopo che ne ebbe indossato un paio di colore rosso, le sue scarpe basse furono impacchettate con l'altro paio di cuoio verniciato nero. Mentre tornavano alla macchina lei disse: «Tra un mese queste cose non mi entreranno più». «Tra un mese la moda sarà cambiata, e ti comprerò qualcosa di nuovo». André fece un'altra breve sosta. Quando tornò, aveva un grosso orecchino d'argento, della forma di un paio di manette, che lei indossò, e un bracciale di pelle rossa a borchie con una grande pietra rossa incastonata. «Girati», le ordinò. Le legò qualcosa intorno al collo. Era comodo, benché lo allacciasse in modo che ci fosse appena lo spazio per respirare. «È un collare per cani!», disse lei dopo che lo ebbe toccato. «Cerca di non abbaiare troppo forte», fu la risposta. Quando scesero nuovamente dalla macchina, lui agganciò una estremità di una catena da un metro e mezzo a un anello nella parte anteriore del collare, e l'altra estremità a un passante nella cintura dei suoi pantaloni che aveva già attaccata una manetta singola. È come se stesse portando a spasso il cane, pensò Carol, e questo la fece deprimere. Ma presto fu troppo sconcertata per sentirsi depressa. Passeggiarono lentamente lungo tutta la promenade della Vieux Bordeaux. André la stringeva alla vita, con la catena che li univa insieme. Quella zona della città sembrava frenetica. Gente alla moda, artisti e attori, camminavano di fianco a vagabondi, drogati e derelitti, in un assortimento completo di strani personaggi. Per le strade la gente faceva giochi di prestigio, vendeva gioielli fatti a mano, dipinti e walkman rubati, portava a spasso pit bull e chihuahua, intratteneva spettacoli di mimo. Donnacce vestite di arancione spento o giallo crêpe de Chine mendicavano spiccioli, musicisti collegati a mini amplificatori suonavano ad alto volume musica stridula, artisti abbozzavano caricature a carboncino proprio sul marciapiede, raffinate donne mature agghindate con abiti costosi flirtavano con muscolosi bisessuali vestiti in modo da richiamare l'attenzione sui propri geni-
tali, tunisini fumavano tabacco aromatico con lunghe pipe, alcune coppie volteggiavano al ritmo della musica proveniente dalla porta aperta di un negozio/night club nostalgico, e tutti sembravano conoscere André. Molte donne lo baciarono con trasporto, e anche alcuni uomini. Tutti esaminavano il suo nuovo acquisto: Carol. Lei si sentiva a disagio, imbarazzata, messa da parte, ignorata e poi troppo sotto i riflettori, per non dire intrappolata. Chiunque aveva qualcosa da dire su di lei. E lei non riusciva a capire una sola parola. André sembrava ascoltare tutti con grande entusiasmo. È senza dubbio molto popolare, pensò la giovane. Proprio come a casa con tutti quegli altri svitati, lui si gustava quell'attenzione, sorrideva con l'orgoglio di un collezionista quando quelle creature della notte mostravano attenzione per Carol. Lei invece desiderava soltanto infilarsi in un buco da qualche parte per nascondersi. Dopo quelle che le parvero essere delle ore, la condusse in un piccolo caffè situato in una viuzza alla fine della promenade vicino a La Grosse Cloche, un'immensa torre con campanile del diciottesimo secolo con un grande orologio circondato da eleganti figure. Sedettero all'aperto, in un posto in vista. André scambiò quattro chiacchiere con le persone dei tavoli vicini e fece dei cenni ad altri che passavano. Ordinò un'insalata di spinaci per Carol e del fegato che fu servito con pommes frites. A un certo punto, mentre André era impegnato a parlare, il cameriere le chiese in un inglese stentato se desiderasse qualcosa da bere. «Vin», disse lei, aggiungendo «rouge». Erano due delle più o meno dodici parole francesi che conosceva. Ma, quando arrivò il vino, André lo fece riportare indietro al cameriere e le fece prendere un bicchiere di latte. Intorno alle quattro del mattino lasciarono il caffè. Mentre camminavano vicino al fiume e attraversavano Pont de Pierre, la prese per mano. André le indicò lungo la strada alcuni luoghi degni di nota, come se fosse un amico che le faceva visitare la città. Le Monument des Girondins, l'Hotel de Ville, e la gotica Cathédrale Saint-André con vicino la Tour Pey-Berland. «Vedi la statua della vergine in cima alla torre?», le chiese lui indicandogliela. «La vergine e St. André sono collegati da un passaggio sotterraneo». Infine riattraversarono la Garonna e camminarono lungo l'argine sinistro percorrendo la stessa strada che Carol aveva già fatto, quella strada dove era morto il carpentiere. Quella notte il livello dell'acqua era più alto. Ol-
trepassarono quel punto e si diressero più a ovest oltre le grandi imbarcazioni, lontano dal centro. Faceva ancora molto caldo, ma l'umidità era diminuita, e Carol si sentiva abbastanza bene. Ma era stanca. «Possiamo fermarci un momento?», chiese. «Mi fanno male i piedi. È colpa delle scarpe nuove». André si girò verso di lei attirandola a sé. La esaminò, compiaciuto di quel nuovo look, poi la baciò sulle labbra. Una coppietta passò dietro di loro diretta ad ovest. Ben presto prese a baciarla con passione, con fare aggressivo. Le abbassò il corpetto scoprendole il seno, e sollevò la gonna fino alla vita. «No!», protestò lei, tentando di coprirsi. Ma lui la sovrastava interamente. La fece girare. «Aggrappati a quello», disse, indicando un palo della luce. Carol udì un sussulto nella propria voce mentre chiedeva: «Perché qui e adesso?», ma era troppo stanca per organizzare una protesta efficace. E poi, ormai cosa importa?, pensò. La prese da dietro, afferrandole i fianchi, penetrando la sua vagina lentamente, muovendosi ritmicamente dentro di lei. Il cielo era terso, la luna piena. Sotto, Carol sentiva l'acqua frangersi contro la banchina, e loro due che respiravano. Fu sorpresa del fatto che la sua vagina fosse umida e più che meravigliata di sentirsi gemere per il piacere. CAPITOLO 12 La fine del secondo mese e per tutto il terzo Carol si adattò alla gravidanza, e alla vita nello château. Trascorse diverse sere in città con André, altre passeggiando lungo la spiaggia, altre ancora al pianoterra parlando con Chloe, con Gerlinde o con Karl, quando era presente. Per essere una prigioniera era trattata abbastanza bene, nonostante fosse stufa della razione giornaliera di fegato e/o spinaci che le offrivano. Carol era ancora diffidente nei confronti di André perché lui era davvero imprevedibile. Ma non era poi tanto male. Certe volte si accorgeva di quanto fosse piacevole il tempo trascorso insieme a lui. Una notte le portò sei uccelli del paradiso. Fecero la doccia insieme, ridendo sotto il getto d'acqua. Ma, quando Carol fu uscita dalla doccia, mentre lui la stava asciugando, la nausea che provava ogni giorno la torturò. Vide nello specchio il proprio volto cianotico.
«Faresti meglio a lasciarmi qui da sola», lo avvertì. Le parole le uscirono a fatica proprio quando iniziò a vomitare con violenza. Si sostenne alla mensola dell'asciugamano per reggersi, ma quella si staccò dal muro e lei cadde, finendo a terra così pesantemente da piangere. André l'afferrò e la sorresse mentre vomitava la cena nel water. Era così gentile che Carol faticava a crederlo. Le pulì il viso e le porse dell'acqua per risciacquarsi la bocca. Poi l'accompagnò a letto. Dopo averla sistemata con cura e aver spento le luci, s'infilò dentro anche lui, al suo fianco. La nausea spaventava sempre Carol. André sembrava capirlo e si tratteneva fino al mattino, stringendola tra le braccia, baciandola, accarezzandole i capelli quando era in lacrime. Le raccontava storie divertenti sui personaggi che conosceva sulla promenade, i "fan dei vampiri", come li chiamava, interrompendo le lacrime con risate, distraendola dalla nausea. Carol gliene era grata e glielo disse. La notte seguente entrò mentre lei si stava cambiando. «Ti senti meglio?», le chiese. «Sì». Lei indossava una delle nuove gonne che lui le aveva comprato, ma non il corpetto. Non la imbarazzava più stare nuda davanti a lui. «Tienilo», le disse. Sedette su una poltrona e si tolse la camicia. «Vieni qui». L'attirò a sé sul proprio grembo. «Ti ho portato alcuni libri. Scegline uno. Ti leggerò la favola della buonanotte. Sono alcuni dei più grandi autori francesi». Le porse tre libri in brossura. Diede un'occhiata ai titoli - Justine, Histoire d'O, The Claiming of Sleeping Beauty - poi lo guardò con quella che avrebbe dovuto essere un'espressione sbigottita. Lui buttò la testa indietro e rise, scoprendo i lunghi denti. «Adoro scioccarti». «A. N. Roquelaure è lo pseudonimo di Anne Rice, e lei non è francese: è americana». «Ha lo spirito francese, avvocato, e questo è sufficiente per il Codice Napoleonico». La fece avvicinare a sé, succhiandole il lobo dell'orecchio, facendo correre una mano su per l'interno delle cosce. «Sei tutta da scopare», mormorò. «È un insulto oppure un complimento?» «Tu che ne dici?».
Dopotutto la stava trattando bene, considerando che non aveva altra scelta se non quella di restare lì. Cercava ancora di metterla in imbarazzo quando uscivano e le dava continuamente degli ordini. Ma almeno non era fisicamente brutale, e aveva smesso di minacciarla. A volte sembrava quasi umano. «Dai, allungati verso lo sgabello che ti massaggio la schiena», le disse una notte. Carol si piegò di fronte alla poltrona dove era seduto André, appoggiando le braccia sopra lo sgabello e reclinando la testa sulle braccia. I pollici di lui le rilassavano i muscoli lungo la colonna vertebrale. «È davvero piacevole», mormorò la giovane. Rimasero in silenzio per cinque minuti circa. Lui cambiò il movimento in un enfleurage: ampie carezze dalla vita fino alle spalle. «Dov'è la tua famiglia?», le chiese. Era la prima volta che mostrava interesse per la sua vita. «Il mio vero padre è morto quando avevo tre anni. Era del Quebec. È là che sono nata. Ma mia madre è americana. Era in Canada in vacanza, dove si incontrarono e si innamorarono, credo. Non mi ha mai parlato molto di lui. Comunque, so che era di una piccola città nelle Gatineau Hills. Non ci sono mai stata. Si chiamava Desjardines. Credo che questo faccia di me una mezza francese». «Mezza canadese», la corresse André. «Ad ogni modo mia madre si risposò subito, e il mio patrigno mi adottò. Per questo mi chiamo Robins. Non c'era mai. Era un venditore, sempre via per affari: non credo di averlo visto più di sei settimane all'anno, quindi non l'ho mai conosciuto davvero. Non l'ho mai sentito vicino. Mia madre era sempre infelice. Non so. Era una famiglia bizzarra, credo». Sentì la tensione scivolar via dal proprio corpo. Adesso che lo stava rivelando, il suo passato sembrava meno intimo, disgiunto dalla persona che si sentiva adesso. «Mia madre ebbe un collasso quando mio padre morì - rimase ucciso in un incidente d'auto - e non si riprese mai completamente. Cominciò a peggiorare e, mentre frequentavo la facoltà di legge, ebbe un colpo. Da allora è in una casa di cura. Paralizzata. Non mi riconosce nemmeno: i dottori dicono che il suo cervello è danneggiato e che non si riprenderà mai più. Per fortuna aveva soldi a sufficienza per pagare le cure grazie agli interessi». «Fratelli e sorelle?».
Le massaggiò i muscoli del collo e lei sospirò. «Sono figlia unica». «Avrai pure dei cugini». «Oh, ci sono degli zii e delle zie da parte di mia madre, ma non siamo molto uniti. Scambio cartoline natalizie con un cugino, tutto qui. La famiglia del mio padre adottivo non mi piace. E non ho mai incontrato i parenti del mio vero padre. Tutti i miei nonni sono morti. Forse in Francia è diverso, ma negli Stati Uniti le famiglie sono parecchio sparpagliate». Adesso le stava massaggiando la nuca, accarezzandone il sottile muscolo con piccoli movimenti circolari, sempre più ampi fino a ricoprire l'intera testa. Carol si sentiva completamente rilassata. E in pace. «Ero sposata», mormorò. «E...?» «A lui piacevano sia gli uomini che le donne: aveva parecchi rapporti. Ecco come ha contratto l'HIV». André le fece correre le dita tra i capelli, dalla testa fino alle punte. Era così rilassante. «Pensavo di amarlo, e forse è stato così: non lo so più. Abbiamo divorziato da più di un anno». «È per questo che non sei stata con nessun altro?». Aveva smesso di toccarla con le mani, ma i suoi polpacci erano appoggiati alle sue anche, mantenendo il contatto tra loro. Lei girò la testa dall'altra parte e sospirò profondamente. «Credo di sì. Per quello e per il virus. Mi sentivo, non so, una specie di rabbia dentro. Mi sentivo tradita. E non potevo accettare l'idea di essere ferita in quel modo ancora una volta». Restarono in silenzio: Carol stava scivolando nel sonno. Sentì l'orologio al piano inferiore rintoccare le undici. «E tu?», gli chiese dolcemente. «Sei mai stato sposato?». André si alzò. Fu un movimento talmente improvviso che lei riaprì gli occhi. Si diresse all'armadio, lo aprì e ne tirò fuori un abito cremisi che le aveva comprato di recente. «Metti questo», le disse. «Ti porto fuori a cena. E poi, se ti va, ce ne andremo in un locale». Una sera Carol sedeva da sola nel salotto, quando entrò Chloe. «Ciao Carol. Hai un bell'aspetto. Ti sono serviti quei tè per la tua nause-
a?». Carol posò il libro e sospirò. «Credo che un poco siano serviti. Sono due giorni interi che non vomito. Ma ci sono volte come adesso in cui sento la nausea». «Ho qualcosa per te». «Non dell'altro fegato, spero». Chloe rise. «No». Porse a Carol una piccola scatola rettangolare. «Da parte di Jeanette. Ti ricordi di lei, non è vero?» «Certo. Mi ha fatto i Tarocchi, tranne l'ultima carta». «Be', era confusa. E anche io. Quella carta di solito ha a che fare con la fecondità. L'Imperatrice è la madre terra che unisce il paradiso e la terra, lo spirito e la carne, mediante l'amore. Sia lei che le persone intorno a lei sono inconsapevoli dei suoi poteri. Nessuno di noi riusciva a vedere il collegamento. Naturalmente, adesso è ovvio. Aprila». Carol guardò la raffinata scatola. Presentava dei motivi d'oro laccato e argento su un fondo nero lucido. I disegni formavano volti simili a maschere. La scatola era stretta da nastri d'oro e d'argento sottili come fili. Dentro trovò un pezzo di minerale trasparente di due pollici della forma di una bacchetta. Lo portò ben in vista alla luce. «Cos'è? Un cristallo?», chiese. «Quarzo aeroide. Alcuni credono che sia vecchio quanto la terra stessa. È stato usato per secoli per guarire e per proteggere. Indubbiamente, oggigiorno c'è un grande interesse per le rocce, i minerali e gli altri materiali geologici, gran parte del quale, a mio avviso, un poco superficiale. Ma Jeanette è seriamente interessata all'occulto, al misticismo e a tutti gli oggetti connessi. Il colore all'interno viene chiamato fantasma, e significa che quel cristallo è particolarmente potente». Carol scrutò attraverso il quarzo. All'interno di una spirale grigio scuro intravide una piccola figura. «Ha mandato un biglietto», disse Chloe, porgendole una bustina. Carol l'aprì e lesse ad alta voce: Cara Carol, Sei una ragazza speciale. L'ho capito quando ti ho vista la prima volta. Anche Chloe lo pensa. André è stato veramente fortunato a trovarti, e tu devi renderti conto di quale onore ti sia stato concesso nel continuare la nostra stirpe in questo modo. Tutti noi pos-
siamo soltanto essertene grati. Ti ho inviato questo pezzo di quarzo in quanto per me è stato di conforto. L'ho tenuto con me durante tutto un periodo buio e difficile della mia esistenza, quando ero tanto annebbiata dalla sete di vendetta ad ogni costo da non credere di poter essere nuovamente felice. Conosco l'energia del cristallo. È per questo che te lo sto offrendo, affinché ti aiuti a dare alla luce questa nuova vita. Julien ed io speriamo di essere là per il parto. Con affetto, Jeanette Carol rimase toccata da quella donna che non conosceva, una donna che era una vampira. Quando alzò lo sguardo, sentì le lacrime agli occhi. «Anche Jeanette è speciale», disse Chloe. «Ha percorso una strada molto ardua. Alcuni neppure incominciano il viaggio: lasciati soli, trovano la giusta via». Carol sospirò. Non si sentiva molto distante da Chloe adesso. All'improvviso, non faceva più molta differenza che cosa fosse. Forse avevano in comune più di quanto pensasse. «Chloe, che cosa siete tu, Karl, Gerlinde e André? Se la parola giusta non è vampiri, allora qual è?» «Non tutto si può descrivere con una parola». «Non siete morti, non è vero?». Chloe rise. «Quello è un modo molto comodo per i mortali di cercare di capire cosa siamo. La morte è solo un cambiamento della forma. Quello che succede a noi ha più le caratteristiche di una trasformazione». «Potresti spiegarmelo?» «Be', se avessi letto i vecchi testi d'alchimia, che certo in pochissimi conoscono o hanno consultato direttamente - sono tutti in greco e latino potresti comprendere la natura della trasformazione. In un certo senso si tratta di un processo magico. Pensa alla tua gravidanza. Lo spermatozoo incontra l'uovo, due cose separate, e creano una terza cosa, distinta, che non è l'una né l'altra ma che le comprende entrambe, le muta entrambe. Quella è la trasformazione: quando le cose cambiano in qualcos'altro a causa dell'intervento di un potere che va al di là della comprensione. Chiamala magia, Dio, vita. Credo che siano tutti la stessa cosa». «Tu puoi pronunciare la parola Dio?». Chloe rise ancora.
«E perché no? Credi davvero che siamo la progenie di Satana? Siamo semplicemente esseri di questa terra, con i nostri poteri e i nostri limiti. Siamo simili ai mortali, ma più grandi dei mortali. Anche noi abbiamo i nostri punti di forza e le nostre debolezze». «André non sembra avere alcuna debolezza». Chloe scosse la testa. Prese una delle mani di Carol tra le sue. «Le ha. È solo che tu non puoi capirle. I nostri modi sono assai diversi dai vostri, benché sembriamo simili alla vostra razza e, sotto molti aspetti, ci comportiamo come voi. Ma non bisogna confonderci. Nella tua posizione non puoi vedere chiaramente le differenze. Ma, nella nostra posizione, be', certe volte è difficile ricordare le affinità». Carol pensò a quanto aveva detto Chloe. «È doloroso?» «Che cosa?» «Il cambiamento. La trasformazione». «Suppongo che sotto certi punti di vista un cambiamento sia sempre doloroso. Per trasferirti in un'altra casa devi abbandonare quella alla quale sei abituata. Potresti lasciare dietro di te qualcosa dalla quale non sopporteresti di separarti». «Non ti dà fastidio bere il sangue?» «Non più di quanto molti mortali siano infastiditi dal mangiare una mucca o un maiale o, in certi casi, addirittura un cane. E i mortali sono noti per essersi mangiati l'un l'altro. Forse a noi dà meno fastidio, siamo più coscienti di quello che siamo. E, in più, per noi uccidere è una scelta. Il controllo è una cosa difficile da imparare ma, a lungo andare, è un buon modo per preservarsi. E ci umanizza». «Vi umanizza? Pensavo foste superiori agli esseri umani. Pensavo che tu, be', almeno André, ci disprezzaste». «Siamo superiori, come lo sono gli umani in quanto la coscienza li eleva al di sopra degli altri animali. Ma dobbiamo ricordarci che dividiamo con voi la stessa terra. È già abbastanza che la vostra razza vada avanti per tutta la vita con gli occhi bendati, rifiutando di accettare l'esistenza, l'uguaglianza sostanziale delle altre creature. Una tale mancanza di raziocinio ci potrebbe distruggere tutti. Quelli tra noi dotati di una qualsivoglia consapevolezza sono portati ad essere responsabili. Rifiutiamo di condividere la colpa dell'incoscienza». Carol rifletté per un momento. «Chloe, c'è una cosa che non riesco a capire. Tu sei abbastanza equili-
brata. E anche Gerlinde. E Karl. Ma André: lui è ben fuori dagli schemi». «A te sembra così perché gli sei molto vicina. La natura del vostro rapporto è simbiotica». «Io non mi sento vicina a lui. E come può essere una simbiosi? Okay, lui vuole il mio sangue, ma io cosa ne ottengo?» «Un'ottima domanda da porre a te stessa. Che cosa stai ottenendo?» «Nulla, a quanto vedo. Mi sento come se io e André fossimo di pianeti diversi». «Può essere che tu ti senta così, ma c'è qualcos'altro che sta succedendo. È riuscito a fecondarti solo grazie a un legame fisico. Puoi non vedere o capire che cosa sia. Forse nessuno può farlo. Ma c'è, tra voi due, ne sono sicura». «Ma lui è scostante. Un momento è gentile, il momento dopo si comporta come un bambino capriccioso. Il più delle volte è un dittatore benevolo, nel peggiore dei casi un maledetto bastardo. Perché?» «André è giovane. Te l'ho detto». «Ma Gerlinde dice di essere la più giovane convertita all'interno della casa, ed è stata creata o trasformata, o comunque diciate voi, nel 1950. Non so esattamente quanto sia vecchio André, ma comunque è in giro da diverso tempo, e si comporta ancora come un bambino». «André è un bambino sotto molti punti di vista. Lo conosco dalla sua nascita. Suo padre ed io eravamo molto vicini. Ho voluto bene anche a sua madre». Carol fissò Chloe. «Chi ha fatto di André un vampiro?» «Sono stata io». «Perché?» «Credo che dovresti chiederlo ad André». «E chi è stato a trasformare te?» «Non posso dirtelo». Carol si sentiva un poco spaventata per il fatto che stesse parlando come se pensasse a loro come a dei veri vampiri. Di sicuro Chloe credeva in tutto quello che aveva detto. A Carol venne per la prima volta l'idea che tutto potesse essere realmente vero. E se fossero stati davvero un'altra specie? Come i vampiri. Rimase un momento in silenzio, ma alla fine chiese: «Mi hai detto che nessuno di voi può interferire con André...». «Non possiamo interferire l'uno con l'altro». «Perché no? Se siete tutti così consapevoli, come potete starvene tran-
quilli e permettere ad André di farmi del male?» «Questo è successo tempo fa, Carol». «Non sto parlando soltanto del male fisico, e questo tu lo sai. Stai evitando la mia domanda». Chloe la fissò per diverso tempo. «Tu ci vedi come un gruppo, e in realtà noi ci definiamo una comunità, ma questa comunità è composta da individui molto potenti, fortemente indipendenti. Il nostro regolamento di non-interferenza è inciso nel nostro codice genetico: non possiamo andare contro la nostra natura. Molti animali si comportano allo stesso modo. Non è infrequente». «È perché ci vedete come del cibo, vero? Come due cani che combattono per un osso. Il più debole si ritira, il più forte si mette a mangiare». «È un'affermazione perentoria, Carol, ma non posso dirti che sia del tutto infondata. Se tu fossi una di noi, sarebbe diverso, e tu vedresti le cose in maniera differente. Ma non sei una di noi. Non sono sicura di riuscire a spiegartelo. Ma di che cosa sei realmente preoccupata?». Carol si fermò a riflettere. «Qual è il problema di André?» «Non sono sicura che abbia un problema, solo i disagi del crescere». Carol scosse la testa. «Se c'è qualche disagio nel suo crescere, è quello che sta infliggendo a me», Chloe accarezzò la mano di Carol prima di lasciarla. Poi si alzò. «Sento la macchina. Preparerò un poco di tè di finocchio e te lo manderò su più tardi. Dovrebbe aiutare il tuo stomaco prima di dormire. E, Carol, cerca di non preoccuparti così tanto. Non servirà a nulla». «Intendi per me o per il bambino?» «Intendo per te, per André e per la vostra creatura miracolosa». Un minuto dopo Carol sentì le gomme della macchina sulla ghiaia del vialetto. Si meravigliò dell'udito acuto di Chloe. «Che cos'è?», chiese André non appena fu entrato. «È un pezzo di cristallo che mi ha mandato Jeanette. Per aiutarmi con il parto. E per altre cose. C'è un fantasma dentro». Lui portò il quarzo alla luce. «Sembra un feto». Quindi le restituì la bacchetta. Carol la risistemò nella scatola oro, argento e nera, chiudendone il coperchio. Con cura strinse nuovamente i nastri. Quando sollevò lo sguardo,
André la stava guardando con quei suoi occhi grigio-fumo così intensi e incomprensibili. Allungò una mano e le disse dolcemente: «Vieni di sopra». CAPITOLO 13 Al quinto mese il ventre di Carol era voluminoso, il seno pieno e i capezzoli erano costantemente infiammati. Più ingrossava, più aumentava la pressione sui reni, e sentiva frequentemente il bisogno di urinare, cosa che si rivelava a volte fastidiosa. La nausea era cessata, ma si sentiva ancora molte volte stanca, irritabile, ed emotivamente instabile. Comunque, nonostante tutto questo, anche lei vedeva che stava sbocciando. Le sue guance erano sovente rosee, gli occhi splendenti, e aveva un aspetto florido. Sapeva che stava diventando sempre più una donna e sempre meno una ragazza. Una sera di settembre, quando era diminuita l'umidità, cosa che Carol riteneva essere un dono degli dèi, lei e Gerlinde si erano recate a Bordeaux per vedere l'ultimo spettacolo di un film. Erano andate con la Mercedes verde, tenendo la capote abbassata. Gerlinde guidava, con i corti capelli rossi scompigliati dal vento. Indossava un vestito chiaro senza maniche chartreuse, con una gonna cortissima che la stessa Gerlinde aveva definito da KO. Carol si rilassò appoggiandosi allo schienale. Si sentiva bene. Davvero bene. «Sai bambina, ti invidio», disse Gerlinde all'improvviso. «Me? È per il bambino?» «Sì, voglio dire che io non proverò mai quell'esperienza: il parto». «Desideri un bambino?» «Be', avrò il tuo». Carol si tirò su. «Cosa vuoi dire?». Gerlinde la guardò di sfuggita. «Capiterà quando te ne andrai. Tutti cresceremo il bambino. Credo che sarò più o meno come una madre». Carol rimase scioccata. Le accadde soltanto in quel momento, benché naturalmente avesse sempre saputo che avrebbe abbandonato il bambino. Fino ad allora l'idea non l'aveva infastidita. Pensò tra sé che si stava semplicemente comportando da sentimentale: come avrebbe potuto provare un vero attaccamento? Ma quello che aveva detto Gerlinde la feriva.
«Ehi, piccola, vuoi sentire qualche storia della mia immorale vita mortale?» «Certo», disse Carol, ridendo per quella ragazza che sembrava essere più giovane di lei. «Parlami dei favolosi anni Cinquanta». «Be', non erano poi così favolosi, almeno finché non diventai hep. Conosci la parola?» «Vuoi dire hip? È degli anni Sessanta, giusto? I Beatles, gli Stones... Sai, gli hippy». «Macché! Ho detto hep. La parola risale agli anni Venti e Trenta, e ai musicisti jazz neri di Chicago. Dovresti chiedere ad André al riguardo. Quello è stato uno dei suoi periodi preferiti. Ma gli piace anche il presente». Quella era una delle poche cose che Carol aveva appreso circa il passato di André. Tutto quello di cui lui parlava era la sua vita attuale, e gli altri evitavano accuratamente le sue domande o semplicemente erano più interessati a parlare di se stessi. «Comunque», continuò Gerlinde, «avevo vent'anni e a Berlino era il 1958; c'erano delle terribili bettole in centro dove andare per incontrare pittori, scrittori e musicisti: li chiamavamo "palcoscenici", direttamente importati da New York. "La capanna degli artisti" era una, e l'altra si chiamava "L'altra sponda"... penso che si traduca così dal tedesco. Eravamo beats, la beat generation. Gli adulti ci chiamavano beatniks». Carol guardò Gerlinde e rise. «Capisco. Vi vestivate con le calzamaglie nere». «Quali calzamaglie? Non erano state ancora inventate. Ma indossavo l'uniforme tipica: reggicalze nero, lingerie nera, calze nere con cuciture à vista, gonna diritta nera, maglione aderente nero con il colletto alto e, indovina, stivaletti neri. Era de rigueur. Tenevo i capelli lunghi all'epoca, giù per la schiena fino in vita, con la riga in mezzo, trucco pesante sugli occhi, lucidalabbra bianco e piccoli, spessi orecchini di resina. E avevo un atteggiamento cool, ovverosia facevo l'intellettuale». Gerlinde rise. «Ti dirò che mi sono davvero divertita allora. Ovviamente, la gioventù crea sempre una sorta di scenario, come gli hippy, i punk, i ragazzi new wave. Ma quell'ambiente era più esclusivo, almeno a Berlino. Non era poi tanto nutrito: ci saranno stati suppergiù un centinaio di noi. Naturalmente eravamo gli alternativi, quello è un must. Anche i ragazzi si vestivano di nero, avevano dei berretti, suonavano i bongos nei locali, recitavano poesie che non avevano senso e noialtri restavamo seduti là intorno schioccando le dita.
Era il nostro modo di applaudire». Carol rise. «Anche tu eri un'artista?» «Certo. Non lo eravamo forse tutti? Io dipingo ancora. Ehi, se ti interessa, qualche volta ti porto nel mio studio e ti mostro i miei lavori... rispetto alla tua stanza è proprio dall'altra parte del corridoio». Carol cambiò espressione, sentendosi a disagio. «Mi piacerebbe tanto vedere le tue tavole, ma André mi ha detto di non provare ad entrare in nessuna delle stanze al primo piano». «È proprio un fifone. Non dovrei portarti là perché lui non si fida di te. Pensa che racconterai alla gente di noi quando te ne sarai andata via, non che qualcuno al mondo ti crederebbe. Le Château dei vampiri», disse, con accento della Transilvania. Carol rise. «André pensa che meno sai meglio è. Ma perché mai dovrebbe essere un tale casino se ti mostro un paio di tele?» «Come hai incontrato Karl?». Gerlinde fece quel suo sorriso imbronciato. «Lui era un beat, o questo è ciò che mi disse all'inizio. Avevo il mio appartamentino. Oh Carol, era meraviglioso! Tutto era rosso o nero, i muri, quei pochi mobili che avevo. Avevo creato un tavolo da una porta - c'era ancora la maniglia - e sulle pareti c'era ogni sorta di opera d'arte... cose mie, e i dipinti e disegni di amici. Adoravo quel posto!», urlò piena d'entusiasmo. «Ad ogni modo, incontrai Karl una sera a "L'altra sponda". Notai subito che non beveva... né birra né altro. Però aveva dei bei lineamenti. Stava scrivendo un libro, la storia della creazione vista con gli occhi della prima forma di vita unicellulare che, naturalmente, continuava a mutare perché la forma di vita continuava a dividersi. Mi disse che doveva sbrigarsi in modo da restare sempre a contatto del mondo microscopico. Era un intellettuale, un esistenzialista, e andava in estasi per Gide, Kafka, Camus e un tizio francese, Alfred Jarry, che aveva scritto Le Surmâle, Il Supermaschio, e s'interessava di qualcosa chiamata paraphysique, che non sono mai riuscita a definire... Aveva a che fare con ciò che è, ma non nel modo in cui realmente è diventato. Pensavo che Karl fosse carino e un poco matto. Ed era un ottimo amante, divertente per starci insieme, e diverso: la maggior parte dei ragazzi a quel tempo erano o troppo inquadrati o troppo drogati. Non ho scoperto come era davvero se non due anni dopo averlo conosciuto».
«Due anni? Non ha provato a prendere il tuo sangue?» «Certo che ha provato. E a volte l'ha fatto. Ero una ragazza spregiudicata e pronta a provare tutto almeno una volta. Mi convinse che, se avesse preso un poco del mio sangue, la nostra vita sessuale sarebbe stata ancora migliore, e i germi del mio sangue si sarebbero mescolati ai suoi, per cui lui avrebbe avuto quelle stupende visioni del mondo dei germi che l'avrebbero aiutato a scrivere. Be', a quei tempi ero una succhiasangue per motivi artistici». Carol si stava sbellicando dalle risate. Si pulì le lacrime dagli occhi. «Come hai fatto a scoprire che era, come dire, un vampiro?» «Una notte me lo confessò semplicemente. Naturalmente non gli credetti, benché sapessi che era davvero strano. Voglio dire, in due anni non l'avevo mai visto bere o mangiare - tranne l'acqua e il mio sangue - e veniva soltanto di notte. Poi non voleva dirmi dove vivesse. Ma a quel tempo era già "la mia cotta principale", come eravamo soliti dire, e io lo accettai così com'era. Tutti quelli del nostro gruppo erano piuttosto stravaganti, perciò lui non sembrava particolarmente strano. Ed era sorprendentemente romantico. Mi diceva che avevo degli occhi molto seducenti». Gerlinde sbatté le ciglia un paio di volte. «Ad ogni modo, andammo a vedere quel nuovo film inglese che era la mania del momento: L'orrore di Dracula, con Christopher Lee. Dopo ci scherzai su: "Ehi, Karl, magari è un tuo parente". Lui mi guardò in modo divertito e mi raccontò che cos'era e perché avesse preso il mio sangue. Ovviamente pensai che stesse scherzando. Cominciai a chiamarlo der Nosferatu - il termine tedesco per il non morto - durante tutta la settimana seguente. Poi una notte pretese che lo ascoltassi. Mi mostrò i suoi denti che, puoi crederci o no, non avevo mai notato fossero così lunghi. Mi spiegò la sua vita nei dettagli, e le cose più piccole cominciarono ad avere senso. Era così appassionato. Mi disse che voleva che restassi insieme a lui, come lui, per l'eternità, e che avrebbe potuto trasformarmi in quel modo ma l'avrebbe fatto soltanto se io avessi acconsentito. Disse che mi avrebbe lasciato del tempo per pensarci. Se avessi acconsentito, bene. Se avessi detto di no, mi avrebbe lasciata e non l'avrei più rivisto, perché sarebbe stato troppo pericoloso avere a che fare con qualcuno che sapeva chi fosse e troppo doloroso per lui perché sarei stata vicina, non avrebbe potuto avermi, e quindi sarei invecchiata e morta. Ti dico che, quando mi lasciò, tremavo come una foglia». «Posso immaginarlo», disse Carol. È così diverso da André, pensò. Karl
era gentile con Gerlinde, non la minacciava. Si chiese cosa ci fosse stato nel suo karma ad averla legata a un simile sadico. «Be', trascorsero un paio di settimane d'inferno per tutti e due», continuò Gerlinde. «Continuavo a pensarci. Non riuscivo a capire se ero pazza io, lui o cos'altro. Provai a parlarne con le mie amiche ma loro mi risero in faccia. "È nevrotico, Bianche", dissero. Un tram chiamato desiderio era famoso all'epoca. Comunque, lui tornò perché non poteva stare lontano da me, ed io mi resi conto che lui mi era mancato allo stesso modo e, be', i nostri ormoni stavano facendo gli straordinari: riprendemmo ad avere rapporti sessuali e fu grandioso e poi, una cosa dopo l'altra, dissi di sì. Una specie di matrimonio». «Te ne sei mai pentita?» «Non ancora. Ho tutto quello che desidero». «Ma a volte non ti dà fastidio... il sangue, intendo. Ti ho vista quando sei affamata. Sembri sul punto di morire di fame e malata. Tutti voi avete quell'aspetto, anche se non ho ancora visto Chloe affamata». «Chloe riesce a controllarsi meglio di noialtri. È trasformata da più tempo. Comunque no, non mi dà fastidio. Non è tanto diverso dal mangiare del cibo». «Non sono mai stata tanto affamata da pensare di uccidere», disse Carol. Si fissarono l'un l'altra. «Non ho mai ucciso nessuno», disse Gerlinde. «Ma tu ti nutri di esseri umani». «Ascolta. Se tu vivessi nei boschi dovresti cacciare qualcosa e ucciderlo per sopravvivere, giusto? Non ci penseresti due volte perché è diverso da te... un gradino più in basso nella catena alimentare. Ma ci sono così tanti gradini tra te e il cibo che, quando ti mangi un pezzo di hamburger, non lo riconosci neppure come carne. Noi non abbiamo molti sistemi alternativi. Abbiamo delle, diciamo, cose congelate, per ogni evenienza. Ma ti dico che ha un sapore dannatamente migliore quando esce dalla vecchia vena. È come il gusto degli spinaci raccolti freschi dall'orto, dei quali andavo pazza, rispetto alla roba in scatola. Voi non sentite più la differenza, perché ci siete abituati. Ma noi ci riusciamo ancora». «Ugh!», disse Carol, tirando fuori la lingua. «Per favore non menzionare gli spinaci in nessuna forma. Quelli e il fegato. Presto non sopporterò più nessuno dei due». Arrivarono in città e parcheggiarono. Il teatro era un cinema d'essai nell'elegante Place Gambatta, e il film era Casablanca, che entrambe ave-
vano già visto e apprezzato. «Vuoi del popcorn?» «No, grazie. Magari qualcosa da bere, anche se credo che dovrò fare pipì». Gerlinde le portò una Perrier e si sedettero in mezzo alla fila, a metà della sala. Le due donne catturavano l'attenzione. Gerlinde, ovviamente, era attraente in maniera ipnotica e richiamava molti sguardi sia di uomini che di donne. Anche Carol, nonostante la gravidanza, aveva un aspetto piacente. Indossava degli abiti nuovi che André aveva preso per lei: un'altra gonna corta e una maglietta larga che le nascondeva la pancia. Mentre Sam suonava per Rick As Time Goes By, Carol si sporse verso Gerlinde. «Odio farti questo, ma se non vado subito in bagno ci faranno pulire il pavimento con uno straccio». «Sai dov'è?» «Dietro il bancone dei dolciumi?» «Sì. Vai». Carol era sul punto di domandare: Senza di te? Ma qualcosa la fece rimanere in silenzio. Attraversò il corridoio e si affrettò nel retro arrivando alla porta con su scritto femmes. Era la prima volta in cui si trovava fuori dalla portata di uno di loro. Quando uscì dal bagno, impulsivamente si girò e corse fuori dal teatro. È una pazzia, pensò. Di sicuro Gerlinde mi troverà. E mi sento spregevole a tradire così la sua fiducia. Ma Carol non tornò sui suoi passi. Non era proprio sicura di dove fosse nella città, ma continuò ad andare avanti il più velocemente possibile. A un incrocio pochi isolati più avanti si fermò per riprendere fiato. Quella zona le sembrava familiare. Guardò in tutte le direzioni. Sulla sinistra, forse due strade più avanti, vide la promenade nella parte vecchia della città che André amava frequentare. Senza alcuna esitazione corse nella direzione opposta. Chiese una volta delle indicazioni, calmandosi prima di entrare in un negozio ma il commesso non capì, così si fece coraggio e chiese a un poliziotto. «Qual è la strada migliore per Parigi?» «Paris?» «Autostrada. Auto. Brooomm», imitò il rumore e finse di girare un volante.
«Ah, la autoroute de Paris?». Indicò la direzione che lei aveva già intrapreso e disse un paio di frasi. Lei capì le parole Pont de Pierre. «Quante strade? Une, deux, trois?». Lui annuì mostrando di aver capito. «Cinq rues». Tenne bene in vista le cinque dita della mano e le contò per essere sicuro che lei capisse. Carol lo ringraziò molto, poi se ne andò in fretta. Quando giunse al ponte lo attraversò camminando, quasi correndo, finché non ebbe raggiunto l'autostrada. C'era un complicato intreccio di strade e impiegò un momento per trovare quella giusta, quella con il cartello indicante PARIS: 250 KM. Non appena allungò il pollice, si fermò una macchina. All'interno c'era una coppia di mezza età, turisti. «Parlate inglese?», chiese. «Solo quello», disse la donna robusta. «Stai andando nell'allegra Parigi? Salta su. Anche noi siamo diretti là». Carol si sentiva così sollevata da essere sul punto di piangere. La coppia, Judy e Billy Harris, americani del Texas in vacanza per un mese, la porta fino in città. Lei inventò una storia perché la verità sembrava troppo strana e non voleva pensassero che era pazza. Disse che stava viaggiando da sola, una cosa stupida da farsi, che era stata derubata a Bordeaux, e doveva tornare a Parigi per trovare la ragazza con la quale era partita e prendere in prestito i soldi per telefonare a casa. Sì, era incinta. Volevano sapere del padre. «È morto. Sono sola». Era talmente ridicolo che le credettero. Le pagarono la cena e le offrirono cinquanta dollari. Carol era ben più che grata. Li abbracciò, prese il loro indirizzo e promise di restituire i soldi. Trovò un telefono e fece subito una chiamata a Philadelphia. «Pronto». Era la voce di Phillip. Sembrava esausto. Lo aveva chiamato solo perché Rob e lui vivevano insieme, e lei non sapeva chi altri chiamare per ottenere aiuto. «Phillip, sono Carol. Sono in Francia. Questa è un'emergenza, altrimenti non avrei chiamato. Ho bisogno di parlare con Rob». Ci fu una pausa. «Evidentemente non hai ricevuto la mia lettera. Rob è morto quattro mesi fa. Carol, io non sono in condizione di aiutare nessuno. Di qualunque cosa si tratti, piccola, dovrai vedertela da sola». Riagganciò il telefono. Carol si sentì turbata. Lo shock per la morte di Rob l'aveva lasciata
sconcertata. Ma non aveva tempo per addolorarsi. La sua priorità era quella di trovare soldi a sufficienza per tornare negli Stati Uniti. Passò in rassegna tutti i suoi amici e realizzò che nell'ultimo anno e mezzo li aveva lasciati tutti scivolare via. Non era molto sicura che qualcuno di loro l'avrebbe aiutata adesso. Ci volle un'ora per contattare l'operatore a Philadelphia che le fornì delle informazioni, ma alla fine ottenne il numero di un'attrice della compagnia teatrale dove aveva lavorato, una donna di nome Mary Skiving, una che aveva considerato un'amica finché non aveva scoperto che Rob se l'era scopata. Mary rimase sorpresa nel sentirla, ma divenne più fredda quando Carol le chiese di prestarle cinquecento dollari. «Per favore Mary, per l'amor del cielo, aiutami. So che non ha senso, ma ti spiegherò tutto quando sarò arrivata là e ti renderò il danaro, subito, te lo prometto. Sono disperata. L'ambasciata degli Stati Uniti è chiusa di domenica, altrimenti avrei chiesto aiuto là. Non ho soldi e nemmeno il passaporto. Se non vengo via oggi dalla Francia mi accadrà qualcosa di terribile. So di sembrarti paranoica, ma non è così. Aiutami, ti prego. Non so a chi altro rivolgermi». Alla fine, riluttante, Mary acconsentì a spedire i soldi il mattino seguente, appena la banca avesse aperto. Carol trascorse la notte nell'ufficio del cambio a Place de la Bourse. Poiché non aveva alcun documento d'identificazione, ci volle più tempo perché le fossero consegnati i soldi. Infine, alle due del pomeriggio seguente, aveva il contante in mano. Quindi prese un taxi per l'aeroporto Charles de Gaulle e prenotò il primo volo possibile per l'aeroporto Kennedy, volo che non sarebbe partito fino alle dieci e mezza di sera: si mise in attesa nel caso si fosse liberato un posto prima. Le erano rimasti quaranta dollari. Sarebbe stata una lunga attesa, ma non c'era nient'altro che potesse fare. Si sistemò nell'aeroporto vicino al bagno delle signore per poterci fare delle puntate rapide. Cercò di dormire, ma i sedili erano troppo scomodi e la schiena le faceva male. Però, col tempo, riuscì a sonnecchiare e a sognare. Un gruppo di quattro lupi la circonda. Terrore! Un lupo enorme. Le fauci spalancate, i denti aguzzi. Occhi grigi, pupille simili a punte di spillo. Quegli occhi sono in grado di ipnotizzare. Lei gira tutt'intorno, in cerca di una via d'uscita: si sente stordita. Appare un aereo. Lei s'imbarca,
ma i gradini invece di salire conducono verso il basso, sotto terra. Lei si gira, tentando di correre su, ma i gradini diventano una rampa. Scivola velocemente verso il basso, sprofondando nell'oscurità. Dritto nella bocca di un lupo dagli occhi grigi! Carol si svegliò di soprassalto, bagnata di sudore, con il cuore che le pulsava forte nelle orecchie. Guardò l'orologio, cercando di orientarsi. Le otto. Venne chiamata dagli altoparlanti. CAPITOLO 14 «Sono Carol Robins», disse alla donna del Centre d'Information che era occupata tra due telefoni e tre francesi adirati. Questa, priva d'espressione, guardò Carol per un momento, poi indicò una porta. «Si tratta di una telefonata?», chiese Carol. Perché altrimenti non ci entro là, pensò tra sé. Sapeva che era pericoloso prenotare un volo con il vero nome, ma aveva già avuto parecchi problemi ad imbarcarsi per gli Stati Uniti senza il passaporto. Un nome fasullo sarebbe stata un'ulteriore faccenda da spiegare. La donna si sforzava di essere cortese con uno degli uomini d'affari che le stava urlando contro. Squillò un terzo telefono. «C'è una telefonata per me?», la interruppe Carol. La donna le lanciò uno sguardo ostile e indicò la porta. «Là dentro. Mary Skiving». Carol si diresse alla porta. La aprì ed entrò. Gerlinde era in piedi davanti alla finestra, con le braccia incrociate sul petto. «Mossa sbagliata, ragazza». Carol si succhiò il labbro inferiore. Mantenne la porta aperta. «Come mi hai trovata?», chiese. «Facile. Sai il poliziotto al quale hai chiesto come arrivare a Parigi? Ha parlato con un ispettore e, be'...». Carol sapeva che poteva trattarsi soltanto dell'ispettore LePage. «Sapevamo che eri al verde e che avresti dovuto chiamare qualcuno per avere dei soldi. Ho parlato con il tizio dell'ufficio del cambio per farmi dire chi ti avesse mandato i quattrini. Poi ho chiamato l'aeroporto scoprendo che avevi una prenotazione per le dieci e mezza e sono volata qui». Scosse la testa da parte a parte e Carol pensò che sembrava triste. «La fiducia è difficile a costruirsi, ma basta soltanto una brezza per buttarla giù». «Gerlinde, non volevo ferirti o tradirti». Fece alcuni passi nella stanza.
«Ma non posso farlo. Non posso proprio ritornare. Mi dispiace». «Non ti dispiace neppure la metà di quanto ti dispiacerà!». Si girò al suono della voce di André. Questi chiuse la porta sbattendola e si mosse lentamente verso di lei. I suoi occhi somigliavano a quelli del lupo che aveva appena sognato: ipnotici. Si sentiva come una preda che era stata intrappolata con pazienza e metodo e adesso il predatore si faceva avanti per ucciderla. Il suo corpo in tensione sembrava sul punto di perdere il controllo. Non aveva mai visto una tale furia sul volto di nessuno. Il grigio dei suoi occhi era diventato acciaio, riempiendosi d'odio. Le sue labbra erano aperte, mostrando le punte di zanne minacciose. Carol era in preda all'orrore per quello che vedeva e nello stesso tempo incapace di fare alcunché per difendersi. «Salope!». La schiaffeggiò talmente forte che cadde sul pavimento. «Ehi, calmati André! La ucciderai o farai del male al bambino. Torna in te!». «Vaffanculo! Lo so io come devo trattarla, non tu. Tu sei quella abbastanza stupida da averle permesso di scappare». «Forse è così, ma quello che stai facendo non farà altro che peggiorare le cose. Aspetta un momento. Aspetta finché non siamo tornati e non abbiamo parlato a Chloe, okay?». Carol si era alzata in piedi. Si sentiva intontita, confusa e non riusciva a vedere con chiarezza. Ma sentiva il volto di lui concentrato sul proprio; la sua oscurità penetrava dentro di lei. André l'afferrò per la gola e la spinse contro il muro. «Avresti fatto meglio a darmi retta, puttana, perché adesso tu non hai più chance e io non ho più pazienza. Noi tre ce ne andiamo via di qui, e tu tieni la bocca chiusa. Al minimo gesto o mossa, se ti viene in mente di fuggire un'altra volta, per prima cosa vedrai che cosa faccio a chiunque tu coinvolga, poi potrai sperimentare sulla tua pelle cosa farò a te. E, credimi, lo farò lentamente, infliggendoti il più grande dolore possibile, e mi supplicherai di ucciderti». La spinse verso la porta. «Soltanto un minuto», disse Gerlinde. «Lascia che le ripulisca la bocca dal sangue». Usò il dito e poi se lo leccò. Attraversarono l'aeroporto, ciascuno su un fianco di Carol, tenendola saldamente per le braccia. Era sconcertata, incapace di capire come fosse
nuovamente riuscita a farsi intrappolare da lui. Continuava a ripensare a quello che aveva fatto, e a cosa invece avrebbe dovuto fare. André acquistò tre biglietti, e presero un volo tardi per Mérignac, arrivando a Bordeaux poco prima di mezzanotte. Fuori dall'aeroporto stava piovigginando. La limousine color argento si fermò immediatamente davanti all'uscita. Gerlinde salì, poi Carol e alla fine André. Partirono non appena fu richiuso lo sportello. Tanto nella macchina quanto sull'aereo nessuno parlò. André guardava davanti a sé pieno di una rabbia silenziosa. Carol si faceva piccola nel mezzo. Gerlinde fissava fuori dal finestrino laterale. A un certo punto, mentre si avvicinavano alla casa, la rossa provò a parlare con Carol, ma André la interruppe subito. «Stai zitta!». «Ehi piccolo, sono Gerlinde. Non hai nessun diritto su di me». «Ma li ho su di lei», disse lui, alludendo a Carol, con voce intimidatoria. Gerlinde rimase in silenzio. Carol era scoraggiata. Le lacrime le sgorgavano dagli occhi ma aveva paura di fare qualsiasi rumore, paura che André l'avrebbe colpita se lei l'avesse fatto. Si morse un dito per soffocare i propri sentimenti. Ma la situazione era disperata. Non sapeva che cosa sarebbe accaduto, ma sapeva di aver combinato un pasticcio. Altri quattro mesi con loro, e adesso sarò una prigioniera senza diritti. E dovrò affrontare il lato peggiore di André, pensò tristemente. Quando furono arrivati allo château, i tre si diressero immediatamente nel salotto dove Chloe e Karl li stavano aspettando, entrambi con espressioni serie. André sbatté Carol su una sedia. «Carol, perché?», le chiese Chloe immediatamente, con voce distante, lo sguardo freddo, come se anche lei si sentisse ferita e delusa. Carol scosse la testa, timorosa di parlare, timorosa di piangere. Sapeva che non avrebbe ottenuto comprensione. «Che differenza fa il motivo?», disse André con rabbia. «È scappata, l'abbiamo trovata, e adesso la rinchiudiamo fino al parto. E, dopo quello», abbassò lo sguardo per incontrare quello di lei, «una piccola vendetta». «Carol», disse Chloe, «ci avevi dato la tua parola». «Avevo detto che non avrei fatto alcun male a me stessa e al bambino. E non l'ho fatto», spiegò lei a bassa voce. «Ma sei scappata via». «Ha paura di partorire il piccolo», disse Gerlinde.
«Perché non stai zitta?», disse André voltandosi verso Gerlinde. «Fottiti!». «Sei pazza come lei». «Se tu non l'avessi spaventata a morte non sarebbe scappata». «Di certo non l'ho spaventata abbastanza, dato che non ci ha pensato due volte a usarti». «Che cosa ti aspettavi? Cerchi di controllare ogni sua singola mossa. Nessuna femmina di nessuna specie l'avrebbe accettato a lungo». «Credi di poterti sentire come lei, ma ti ha manipolato, come ha manipolato tutti noi. Voi puttane siete tutte uguali». Davanti agli occhi di Carol, Gerlinde cambiò espressione. La sua faccia parve assottigliarsi e impallidire, i tratti si fecero esagerati, gli occhi le brillarono. Le labbra si spalancarono e ne spuntarono due denti taglienti come lame. Produsse un sibilo basso. Improvvisamente Gerlinde graffiò André sul volto con le unghie. Carol non lo vide muoversi, ma subito Karl si frappose tra loro, tenendo indietro Gerlinde con una mano e sollevando l'altra verso André. «Lascia stare», disse ad André. Il corpo di quest'ultimo fremette per la tensione. Davanti agli occhi stupefatti di Carol le ferite sulla sua guancia si stavano già rimarginando. Parlò con voce bassa e tesa. «Faresti meglio a tenerla sotto controllo, Karl, o si mangerà le tue palle su un piatto d'argento, proprio come Ariele». «Sentite», disse Karl con ragionevolezza, rivolto ad entrambi, «abbiamo un problema qui sul quale dovremmo concentrare la nostra attenzione, e questo è il modo in cui ci comporteremo per i prossimi...». «Te l'ho già detto», lo interruppe bruscamente André, «la chiuderemo a chiave. Lei appartiene a me, e questo è ciò che voglio: dunque così sarà. C'est fini!». Afferrò il braccio di Carol, la sollevò in piedi, e la trascinò per la stanza. «André, non farle del male o farai del male al bambino», lo avvertì Chloe, ma lui si limitò a ridere amaramente. Stava impiegando una forza tale che quasi in cima alle scale Carol cadde, ma lui si limitò a trascinarla per gli scalini rimanenti e lungo il corridoio. Mentre apriva la porta, lei si rimise in piedi. Una volta nella stanza, lui chiuse la porta a chiave, le strappò i vestiti e la spinse sul letto. In pochi secondi l'aveva ammanettata ai pomi d'ottone. In quel momento lei cominciò a piangere liberamente: sembrava essere arrivata al punto di non ritor-
no. «Abituatici! Così è come vivrai per i prossimi quattro mesi. Ti terrò incatenata qui come un cane. Mangerai, dormirai e vivrai in questo letto. Ti scoperò tanto spesso quanto sarà necessario per mantenere il bambino in vita. E se tu farai qualcosa di minimamente sbagliato, dovrai vedertela con me. Non ti piaceva giocare leggero con me. Adesso giocheremo pesante!». Quando uscì, sbatté la porta. Carol singhiozzava senza alcun controllo. CAPITOLO 15 Nei quattro giorni seguenti Carol precipitò dallo sconforto alla disperazione. Durante il giorno piangeva fino ad addormentarsi. Di notte sopportava gli abusi sessuali. Per tutto il tempo restava ammanettata al letto di schiena, impossibilitata perfino a girarsi di fianco. André sembrava avere campo libero nell'umiliarla, perché lei non vedeva nessuno degli altri, tranne la cameriera, la quale sembrava poco cosciente della sua situazione. Il cibo veniva sistemato sul cuscino di fianco alla sua testa e lei mangiava usando solo la bocca, nutrendosi come un animale. Non mangiava quasi nulla. Lui le permetteva di alzarsi tre volte per notte per andare in bagno, ma questo non era sufficiente e, durante il giorno, il letto si riempiva di urina nella quale lei era costretta a restare. Ogni sera la cameriera girava il materasso. La stanza puzzava. Ma la cosa peggiore di tutto il dolore e della scomodità era l'amara solitudine. André non le rivolgeva mai la parola, neppure per minacciarla. Carol parlava tra sé per restare sveglia, e cantava per addormentarsi. Cercava di ricordare dei film che aveva visto, dei libri che aveva letto e delle conversazioni che aveva intrattenuto, ma non era per natura una persona particolarmente introspettiva e tutto questo le risultava doloroso. Non era affatto come l'anno in cui si era isolata. Era qualche cosa che lui stava facendo. Stava impazzendo, e sapeva che avrebbe dovuto tentare qualche cosa pur di salvarsi. Cinque notti dopo essere ritornata allo château, André le ammanettò soltanto uno dei polsi al letto, il che significava che avrebbe potuto sedersi e stare in piedi. Lo prese come un segno. Lui era sulla porta, con la mano sulla maniglia. «Penso che tutto questo stia danneggiando il bambino. Ho bisogno di fare del movimento. Possiamo trovare una sorta di accordo?». Cercò di mantenere la voce calma, ragionevole, proprio come un avvo-
cato avrebbe presentato i fatti, senza alcun tipo di inflessione. Erano le prime parole che gli avesse rivolto. Lui si girò. In quel momento realizzò che, o aveva scelto l'approccio sbagliato oppure che qualunque approccio sarebbe stato un errore. Il suo sguardo si fece duro e cominciò a impallidire; la pelle si tese sui suoi zigomi quasi fosse una maschera di pietra. Produsse un suono basso e animalesco. Quando Carol vide i suoi denti iniziò a gridare. In un lampo fu su di lei, strozzandola. Si sforzò di togliere le sue dita potenti dalla trachea. Il grido le venne strozzato in gola: poté solo tossire violentemente nel tentativo disperato di respirare. Quando lo allontanarono da lei, cominciò a inspirare. La sua gola sembrava danneggiata. Fu necessaria la forza di tutti e tre per trattenerlo. Poteva vederlo chiaramente mentre si sforzava di agguantarla, come un demone dell'inferno, scatenato, determinato a ucciderla. Dalla bocca di Carol fuoriuscirono dei suoni terrificanti, qualcosa a metà tra un rantolo e un grido. Sembrava come se una voce in distanza, non la sua, producesse tutto quel frastuono. Il letto era pieno di escrementi e di cibo rovesciato, creando ancora più confusione. Carol sentì Gerlinde dire: «Diamine, il suo collo!». «Portatemi dell'acqua tiepida. E faresti meglio a chiamare il dottore. Karl, porta André fuori di qui!», ordinò Chloe. Le donne si occuparono di lei per mezz'ora, mentre Carol aveva le convulsioni e schiumava dalla bocca. Quando arrivò il dottore, le fece un'iniezione che la fece rilassare quasi subito. Sentì Chloe domandare: «Le bèbè?», ma non riuscì a sentire la risposta. Quando Carol si svegliò, si sentiva come morta. O peggio, che qualcosa dentro di lei fosse morto. Giaceva nel letto guardando e ascoltando, con una barriera invisibile che la separava da tutto quello che accadeva. Fluttuava da qualche parte appena fuori dalla propria pelle. Non era scomodo, e decise di restare proprio dov'era. Ogni notte, per tutta la notte, Chloe, Gerlinde e talvolta Karl le restavano accanto. Non vide mai André. Loro tre le facevano le iniezioni, la lavavano, le parlavano, cercavano di nutrirla e la facevano alzare dal letto: di solito discutevano delle sue condizioni con voci preoccupate. Si sforzavano di tirarla fuori, ma Carol non rispondeva. «Carol, perché non provi ad alzarti stasera?».
Lei fissò Chloe, la quale sembrava coperta da un sottile strato di nebbia. Il suo volto era rilassato, la sua voce preoccupata. Per Carol non significava nulla. Gerlinde apparve dietro di lei. «Andiamo, ragazzina. È tutto a posto. Reagisci. Vogliamo solo aiutarti». Poi disse a Chloe: «Penso sia una cosa seria». Carol non voleva masticare. Loro le iniettavano sostanze nutrienti endovena e la nutrivano a forza, piegandole la testa indietro, inserendo un grosso imbuto in bocca e poi spingendovi dentro del cibo frullato, come gli omogeneizzati, nel modo in cui sono nutrite le oche per fare ingrossare loro il fegato. Erano costretti a cambiarle sempre le lenzuola perché non voleva muoversi neppure per andare in bagno, benché non fosse più incatenata al letto. Lei li vedeva da un luogo distante, un posto senza affetti, emozioni, preoccupazioni, paure, dove nulla importava. Non provava desideri, bisogni o rimorsi. Fluttuava in un limbo, senza sapere se fossero trascorsi giorni o settimane. Una notte Jeanette apparve di fronte a lei. Abbassò lo sguardo verso Carol, con il volto segnato dalla preoccupazione. «Non ti risponderà», disse Chloe. «Sì, lo vedo. Sono felice che tu mi abbia chiesto di venire. Da quanto tempo è in queste condizioni?» «Quasi un mese». «Che cosa ha detto il dottore?» «Shock e depressione», disse Gerlinde. «E ha quasi avuto un aborto: ha sanguinato per un giorno, ma adesso lui ritiene che quello sia risolto». Carol guardava i volti delle tre donne ondeggiare sopra il proprio. Le loro parole non sembravano riferirsi a lei. Quello che dicevano sembrava perfino divertente, e fu tentata di ridere, ma poi quell'impulso passò e chiuse gli occhi. Jeanette le parlava di tanto in tanto durante la notte, ma Carol non provava il desiderio di rispondere. Verso il mattino sentì Jeanette che parlava. «Sentite: non so che cosa dire di questa faccenda. Ma avete ragione. Potrebbe perdere il bambino. Telefonerò a Julien - adesso dovrebbe essere tornato in Austria con Claude e Susan - e gli chiederò di venire qui. Penso che potrebbe sapere qualcosa che noi ignoriamo. Ad ogni modo, mi sentirò meglio se lui verrà qui». La notte seguente l'alto, austero uomo di nome Julien, entrò nella stanza. Rimase in piedi di fianco al letto e guardò Carol a lungo senza dire una
parola. I suoi occhi erano orbite scure, severe, fredde come neri abissi che conducono all'oblio, e Carol riusciva a fatica a sopportare di guardarli. I suoi occhi divennero pesanti e dovette chiuderli. Di tanto in tanto li riapriva di nuovo. Lui era sempre là. Più tardi udì una voce, anche se non sapeva di chi fosse, dire: «Portate qui André». La paura, come una batteria che viene ricaricata con la corrente, ronzò dentro di lei. Adesso sentiva molte voci, sussurri, mormorii, sibili, il suono prodotto da serpenti che strisciano nell'erba, i vermi che si insinuano nei cadaveri. Poi delle parole prive di contesto: «Punire», «Puttana», «Tradimento», «Perdita», «Bambino». La parola «Amore» tornò più e più volte, ma lei non sapeva chi avesse detto cosa, e nessuna delle parole significava alcunché. Qualcuno menzionò l'ipnosi. Qualcun altro, Chloe, pensò lei, disse: «La sua opposizione è troppo forte». Udì la voce di Julien, quella di André, e di tanto in tanto quella di Karl. Parlavano in francese, Julien calmo e disteso, André con toni mutevoli per la rabbia. Qualcuno, riluttante, strinse la sua debole mano. Lei non aprì gli occhi. Non sembrava essercene bisogno. Chiunque fosse sedeva accanto a lei sul letto e le toccò il viso. Improvvisamente capì che si trattava di André. Il suo cuore iniziò a battere rapidamente, irregolarmente, il suo respiro divenne frastagliato e basso. La paura rifluì in lei, la prima completa emozione che provasse da diverso tempo. Gli altri erano immobili nella stanza: riusciva a sentirli, ma il silenzio era palpabile. Lui non disse nulla, si limitò a tenerle la mano e ad accarezzarla per quelle che parvero ore mentre il suo cuore continuava a correre, minacciando di oltrepassare le proprie possibilità e di farla sprofondare in un sonno eterno. All'alba la sollevò e la portò al piano inferiore. Girarono a sinistra, attraverso quella che doveva essere la sala da pranzo, nella cucina dove lei occasionalmente aveva preparato il tè, e poi giù, diversi altri passi più in basso. Non sapeva dove fosse, ma aveva paura di aprire gli occhi per scoprirlo. Faceva freddo là: era buio, come una cripta. Intese il clic di una chiave e il suono di una serratura a combinazione, come una cassaforte, che viene girata. Una porta si aprì cigolando. La distese e la coprì con una trapunta, poi bloccò uno dei polsi a qualcosa di legnoso: una barra orizzontale vicino alla sua testa. Lo sentì distendersi al suo fianco, dopodiché l'attirò a sé, restando attaccato a lei. Sentiva il bisogno di urlare, di allontanarsi, ma era congelata,
impaurita, e il cuore le batteva forte: il suo respiro era flebile, soffocato. Più tardi, quando si sentì abbastanza coraggiosa da aprire gli occhi, si ritrovò nell'oscurità più completa. L'aria era fresca ma non fredda sul suo viso; la coperta teneva il resto del suo corpo al caldo. Poteva sempre sentirlo accanto a sé, ma qualcosa era cambiato. Spostò leggermente il braccio e poi comprese. Quello era il suo spazio. Non è una bara, pensò, ma lui dorme qui durante il giorno, come una gelida pietra. CAPITOLO 16 La notte seguente André la portò nel salotto al piano superiore. «Julien ha avuto un'altra idea che ritengo essere buona». Carol sentì Jeanette dire queste parole mentre parlava con gli altri, e ascoltò con gli occhi chiusi. «Lui pensa che non possiamo permetterle di restare in questo stato catatonico: è pericoloso. Legheremo questa corda intorno alla vita di lei e intorno alla vita di uno di noi, senza stringere. Possiamo darci il cambio. Almeno fisicamente sarà sempre collegata a qualcuno. Simbolicamente si tratta di un cordone ombelicale. Ma sarai tu, André, a dover fare la parte principale». Carol sentì André discutere in francese, con parole rapide e piene di rabbia. Julien gli rispose, calmo in viso, con voce paziente. Jeanette legò qualcosa intorno a Carol, forse una corda. «Quando uscirai dalla stanza la porterai insieme a te, ovunque». «Vuoi che la porti dalle mie vittime e la presenti loro?», chiese André con sarcasmo. «Smettila di lamentarti», disse Gerlinde. «Comunque è tutta colpa tua». «No, è colpa tua. Se tu non ti fossi lasciata fregare, lei non sarebbe scappata e...». «Va bene, voi due. Sono stufo di questa discussione», disse Karl. «Sono d'accordo», aggiunse Gerlinde. «Penso che dobbiamo provarci», disse Jeanette. «Se rimane in questo stato, sicuramente danneggerà il bambino. Già in queste condizioni, temo che ogni cinque anni il piccolo avrà un trauma». «Com'è possibile?», chiese Gerlinde. «Be', c'è questa teoria». A Carol parve che Jeanette si fosse seduta. «Qualunque cosa succeda nell'utero si riflette nella vita mortale, ciclica-
mente. Per esempio, se nasci prematuro, allora avrai la tendenza a percepire le cose sempre in anticipo». «Ascoltate», li interruppe André, con voce esasperata. «Non mi avete ancora detto cosa devo fare con questo peso morto mentre sono a caccia di sangue. Non posso portarmela dietro». «André, dato che tu sei il suo collegamento principale, dovrai trovare un modo per cambiare atteggiamento», disse Chloe. «Mon Dieu!...». «Parlo sul serio. Naturalmente, si tratta di una tua scelta, ma non ha alcun senso farlo se la detesti. Lei lo percepirà e rimarrà in questo stato catatonico». Carol avrebbe voluto dir loro che, anche se lui avesse smesso di odiarla, lei sarebbe rimasta in quello stato. Si sentiva al sicuro e comoda dov'era, e non si sarebbe mai più fidata di lui. «Chloe ha ragione», aggiunse Jeanette. «Julien, tu sai cosa sta succedendo: diglielo». La voce di Julien era calma e piena, in completo contrasto rispetto a come lui appariva. Ed era l'opposto di Jeanette. Carol si era chiesta come potessero stare insieme quei due, dato che erano così diversi. Parlava in inglese, e lei pensò che l'avesse fatto apposta perché lei capisse. «La notte scorsa, mentre discutevamo, ho pensato tu fossi capace di una moltitudine di emozioni, ciascuna intensa e forse per la maggior parte effimere. Conosci parte della mia storia e puoi immaginare come possa comprendere limitatamente la tua situazione. Se hai provato amour per questa donna, ti suggerisco o di resuscitarla, oppure di accettare la perdita del figlio. Sulla base della mia esperienza, dove regnano l'odio e la forza, là manca l'amore. Ma i risultati di odio e forza sono gli stessi: l'anima muore, L'âme se meurt». Carol non sapeva il perché, ma se avesse dovuto fidarsi di qualcuno di quei vampiri - e adesso era convinta che fossero realmente tali - sarebbe stato lui. La sua voce proveniva da un luogo più profondo degli altri. E, benché non avesse compreso cosa volesse dire, percepiva istintivamente la sua integrità. La stanza divenne silenziosa. Infine André disse: «Voglio uscire. C'è qualcuno che vuole accompagnarmi e restare un momento con lei?» «Vengo io», disse Karl. Carol sentì uno strattone alla corda che aveva intorno alla vita. Poi si
senti sollevare. «Porta una coperta», disse André da sopra la sua testa. Ben presto era in macchina, seduta tra loro due. Durante il viaggio verso la città parlarono tra loro in francese. Lei dormì svegliandosi a scatti. Karl rimase insieme a lei mentre André si recava ai moli. Quando tornò, fu Karl a scendere dalla macchina. «Non mi aspettare. Resterò quaggiù un bel po'. Dì a Gerlinde di venire a incontrarmi a le Caveau», disse Karl, e richiuse lo sportello. Nel viaggio di ritorno allo château, André quasi la ignorò. Ma per due volte le toccò i capelli e il viso. Tutte e due le volte un brivido la percorse, un brivido di terrore. Nelle sei settimane seguenti André rimase legato a lei, portandola con sé da una stanza all'altra, da un posto all'altro. Occasionalmente uno degli altri lo sostituiva, ma in massima parte quel lavoro era il suo. Diverse notti restavano semplicemente distesi sul letto di lei o sopra un divano dove lui leggeva, o ascoltava la musica, o scriveva risme intere di quelle che sembravano essere poesie, accartocciando diciannove fogli su venti per la frustrazione, buttando i tentativi non riusciti nel cestino e legando insieme i pochi che salvava in un grande quaderno di tela. Guardavano la televisione come una coppia normale, Carol appoggiata a lui, una bambola di pezza a grandezza naturale, avvolta da calde coperte. Durante il giorno la portava nel suo letto sotto la casa e lei giaceva al suo fianco nella completa oscurità mentre lui riposava. La sua stanza era strana. Il più delle volte era buia, benché di tanto in tanto lui accendesse il fuoco. Non si era mai guardata bene intorno, ma quello che aveva visto le era parso interessante. Il luogo era decorato ad arte, d'argento, di nero e di grigio, con degli scaglioni sui muri e mobili ad angolo. La testiera del letto era di legno scuro laccato con intarsi d'argento. Sopra pendeva uno schizzo di Edward Gorey, in bianco e nero su sfondo grigio, raffigurante una grossa creatura dalle ali scure e con denti enormi che volava nella notte trasportando una vittima tra le braccia, un umanoide dai grandi occhi chiari e dal sesso indistinguibile. La goccia rossa sul collo della vittima era l'unico colore presente sullo schizzo, e nella stanza. C'erano anche due divani, tavoli, libri, musica e un grande caminetto. Tutto tranne che delle finestre. A volte accendeva una lampada ad olio, anche se Carol sapeva che c'era l'elettricità nella stanza, perché una volta lui aveva acceso la luce. Ma più
spesso la portava giù all'alba, quando era pronto per dormire. Per uscire dalla noia lei aveva ripreso a camminare e a mangiare spontaneamente. Leggeva dei libri, guardava dei film, faceva tutto tranne che parlare. Si rifiutava di comunicare verbalmente con chiunque di loro. Era il suo ultimo baluardo contro quella che adesso vedeva come la verità: erano tutti dei mostri, creature non morte che vivevano delle persone come lei. Ma loro continuavano a parlarle. Persino André aveva ripreso a conversare con lei, benché nella sua voce vi fosse un'incertezza. E aveva ripreso a fare sesso con lei. Non era particolarmente gentile, e sicuramente non romantico, ma almeno non era brutale. Si sforzava di stimolarla, cosicché il più delle volte non le faceva male. Spesso la penetrava da dietro. Lei non riuscì mai a capire se lui pensasse che per lei fosse più comodo, se stesse cercando di umiliarla, o se semplicemente non riuscisse a guardarla in faccia. Non si lamentò mai, ma neppure permise a se stessa di provare piacere. Rifiutava di partecipare attivamente. Al settimo mese a Carol venne la febbre. Le venne senza alcun preavviso. Era nella limousine da sola con Gerlinde che ascoltava la musica con un walkman. Improvvisamente Carol sentì freddo. Cominciò a battere i denti e il suo corpo prese a tremare. Gerlinde la guardò. Carol vide l'espressione sul volto di Gerlinde mutare. Cominciò ad assomigliare a una volpe rossa, poi i suoi tratti ripresero le sembianze che aveva normalmente. La pelle di Carol si fece rovente, le sue labbra si inaridirono, il sudore le affluì sul viso. «Ehi ragazzina, non starai mica male, vero?», chiese Gerlinde, con tono preoccupato. «Stenditi qui». Si spostò permettendo a Carol di adagiarsi, tenendole la testa in grembo. C'era una coperta in macchina, e Gerlinde la coprì con quella e con il proprio cappotto. Ma Carol aveva ancora freddo, fin dentro le ossa, e tremava. Lo sportello si aprì e salì André. «Cos'è successo?», chiese. «Sta male. Febbre e brividi». Anche André prese il proprio mantello e lo usò per coprirla, ma adesso Carol sentiva di nuovo caldo, bruciava, e aveva le allucinazioni. «Mamma, per favore non farmi andare a scuola oggi. Non mi sento bene», disse con voce da bambina.
La vettura sfrecciava ad alta velocità in autostrada. Si guardò intorno, incerta su dove si trovasse. «Posso avere dell'acqua?». André ne versò dal rubinetto del minibar una piccola quantità in un bicchiere. Gerlinde le sostenne la testa mentre ne beveva un sorso. «Sento così caldo», disse Carol, cercando di allontanare le coperte. «Tienile addosso». André vi mise la propria mano sopra in modo che lei non potesse toglierle. «Che casino!», grugnì Gerlinde. «Proprio quando ne stava uscendo. Perché i mortali si devono sempre ammalare? Dovresti telefonare a casa». «Rob?», mormorò Carol. Guardò André mentre prendeva il telefono. Lui girò la sua testa bionda e le rivolse quel suo sorriso splendente. Lei cominciò a piangere. «Non sapevo che eri morto. Me l'ha detto Phillip. Perché non me l'hai detto? Non mi hai neppure detto addio!». Respirava velocemente. All'improvviso cominciò a tremare. «Freddo. Ho tanto freddo». André premette un paio di tasti sul telefono. «Carol sta male. Non so: ha la febbre. Alta, credo. Chiama il dottore. Arriviamo tra cinque minuti». Fu trasportata nella sua stanza. Le misero cinque coperte una sopra l'altra, benché la casa fosse calda. Qualcuno accese il fuoco. Carol era poco cosciente di quello che stava succedendo. Continuava a balzare dal presente al passato, dal bruciare al morire di freddo. Delle mani l'accarezzavano e delle voci la circondavano. Si ricordò di aver visto a un certo punto un dottore. «Il bambino non sopravviverà», gli disse Carol. «Non si preoccupi signorina. Stia distesa e tranquilla. Le darò questo per calmare la febbre». «Il mio piccolo è morto. Non volete dirmelo, ma io lo so. Fa così caldo qui. Aprite le finestre, per favore!». La febbre durò tutta la notte. La riempirono di liquidi, che in gran parte rigettò. La tennero sotto le coperte, benché le lenzuola fossero zuppe di sudore. «Aiuto!», gridava, quando sentiva freddo. «Sto morendo congelata. Ho le ossa fredde e non riesco a scaldarmi». Quando fu l'alba, André la portò con sé di sotto. Collegò un piccolo calorifero e accese il fuoco nel camino.
Carol era convinta che non ce l'avrebbe fatta a superare quel giorno. Sapeva che la febbre era più alta di prima, e i suoi momenti di lucidità mentale diventavano sempre più brevi. Vide la fine della propria esistenza correrle incontro, un'esistenza che non era stata felice. Guardò André disteso al suo fianco che non dormiva. Teneva l'avambraccio sugli occhi per coprirli. «Uccidimi», sussurrò lei. Sollevò il braccio e girò la testa. «Morirò in ogni caso. Almeno stavolta fai qualcosa per me». Lui sembrava sorpreso. «Non stai per morire. Domani ti sentirai bene». Ma sembrava stanco. «Allora fai l'amore con me e lasciami morire in quel modo. Hai già fatto l'amore con me in passato: me lo ricordo. Ma stavolta amami perché nessuno l'ha mai fatto, e io so che non mi ami ma voglio crederlo. Voglio morire pensando che qualcuno si preoccupa per me». «Hai le allucinazioni». Pareva stupito. «Fai l'amore con me come se mi amassi». Lui ebbe un'esitazione, poi spostò le coperte dal suo corpo. Lei tremò di freddo. «Non è una buona idea», cominciò a dire André. Un suono strozzato proruppe dalla gola di lei e afferrò l'uomo per un braccio in una stretta maliziosa. I suoi occhi bruciavano di febbre, la sua testa era in fiamme, e si sentiva in preda alla pazzia. Lui accarezzò il suo corpo, liscio per il sudore, e si stese sopra di lei, forse tanto per riscaldarla quanto per altre ragioni. I suoi movimenti erano pigri, i suoi arti parevano indolenziti. Le baciò le labbra, i capelli, i lati del viso e i capezzoli dove il sudore scorreva copioso. La accarezzò lentamente, la penetrò. Lei rise, pianse e per la maggior parte del tempo non seppe neppure che lui era là, ma parlò ai fantasmi del passato, raccontando loro tutti i propri segreti, i sentimenti che aveva custodito e che non era mai stata in grado di trasmettere. Entrava ed usciva dalla realtà. Ma quando era là con lui, una sensazione dolce-amara di lui che tentava di amarla la pugnalava al cuore. Singhiozzò senza controllo; la sua vita sterile le si spiegava davanti come un deserto senza misericordia nel quale aveva vagato. E quel fuoco arido serviva solo a bruciar via le sue illusioni. André l'avvolse nuovamente nelle coperte e la tenne stretta per tutto il
giorno, lei, debole da morire, lui immobile come un cadavere. CAPITOLO 17 La febbre scese. La sera seguente Carol si sentiva debole ma viva. Il livello di tensione all'interno della casa diminuì. «Ragazza, per un momento avevo pensato che stessi per andartene», disse Gerlinde ridendo, mentre piegava le coperte intorno a Carol appoggiata alla spalliera del divano più lungo. «Bentornata nella terra dei vivi, o meglio, un fac-simile accettabile». «È bello essere tornata», disse Carol. «Mi sento esausta, ma a posto». «Be', devi ancora prenderti cura di te. Non vogliamo che tu abbia una ricaduta», disse Chloe. «Dio, no!», confermò Jeanette. «Siamo a corto di idee». Era in piedi di fianco a Julien, con un braccio appoggiato alla sua spalla. Lui le teneva un braccio intorno alla vita. Erano tutti contenti, eccitati, felici che Carol si fosse rimessa. Si affollavano intorno a lei, tutti tranne André che restava in disparte. Non disse quasi nulla. L'espressione del suo volto era particolare. Ben presto lasciò la stanza, e Carol udì la macchina allontanarsi. «Bene, adesso sei entrata nell'ottavo mese», disse Jeanette. «Per te tutto questo finirà presto. Dovresti essere soddisfatta». Carol ci aveva già riflettuto quando era catatonica e poi quando aveva la febbre. Non sembrava esserci un modo semplice per poterlo spiegare. «Voglio tenere il bambino». Un profondo silenzio riempì la stanza. «So che è inopportuno, ma è mio. Resterò qui, se volete, oppure me ne andrò. Ma voglio il bambino». Chloe sedette e la guardò. Gerlinde fischiettò. «Mai un momento di noia qui all'Hotel Transilvania». «Non credo tu ti renda conto di cosa stai dicendo», disse Jeanette. «Probabilmente sei ancora un poco febbricitante». «Capisce perfettamente». Julien fissò Carol con quei suoi occhi incredibili. Ma Carol pensò di avervi notato dentro qualcos'altro, qualcosa che avrebbe potuto non essere approvazione, ma non era neppure rifiuto. «Carol, è impossibile».
Chloe interruppe i suoi pensieri. «Ti abbiamo spiegato perché il piccolo deve crescere tra noi», disse Karl. «E», aggiunse Chloe, «la tua influenza servirebbe solo a complicare le cose. Sarebbe una tortura per il bambino, diviso tra due direzioni. Sarà molto difficile per lui decidere quale strada scegliere. La nostra è superiore, e vogliamo incoraggiarlo ad imboccarla. Stai soltanto provando dei naturali sentimenti di maternità, ma passeranno». «No, non è vero!», disse Carol, inflessibile. «Non l'ho deciso stanotte. Ci ho pensato per mesi. Non mi separerò dal mio bambino. Non c'è nulla che possiate fare per convincermi». Tutti restarono nuovamente in silenzio, apparentemente incapaci di pensare a qualcos'altro da dire, tranne Gerlinde. «Mi scoppierà il plasma». Quando André tornò, Chloe lo prese da parte e gli raccontò le novità. Non era affatto sorpreso come gli altri né, cosa abbastanza strana, così negativo. «C'è soltanto un modo», disse a Carol, «e non so ancora se sono favorevole. Dovrai diventare come noi». «Diventare un vampiro?» «Vorrei che non avessi usato questa parola», disse Gerlinde. «Mi dà i brividi». «Il processo è relativamente indolore, almeno per te», disse André. «Ma io non voglio. Voglio restare come sono e crescere il mio bambino come un essere umano». «Questo è fuori questione!», disse Karl. «Pensaci», le disse André. «Hai tempo. Abbiamo tutti tempo per decidere. È l'unico modo». Carol notò che Julien osservava la situazione da lontano, ma con interesse. I loro occhi si incontrarono. Ebbe la sensazione che lui avesse intravisto qualcosa che nessun altro nella stanza aveva visto, lei inclusa. Durante l'ottavo mese e il nono, il disagio fisico divenne intollerabile. Carol scoprì che non poteva sedersi o restare in piedi per lunghi periodi, e si sentiva costantemente irrequieta. La schiena le doleva in continuazione. Adesso lasciava la casa assai di rado, tranne per la passeggiata che faceva ogni giorno sulla spiaggia. Dato che era così impedita fisicamente, trascorreva le giornate nella sua stanza piuttosto che con André, in modo da po-
tersi muovere. Le ore della sera, o le trascorreva di sotto con gli altri, oppure stava da sola con lui. La loro vita sessuale si era interrotta: nessuna posizione era comoda, e Chloe espresse i propri timori che il bambino potesse venire danneggiato. Ma loro avevano diversi contatti fisici e parlavano molto, più di prima. Alcuni cambiamenti si erano verificati in lui: era qualcosa di inspiegabile, e Carol non aveva idea di cosa fosse. Era gentile, e si preoccupava soltanto di lei. Faceva tutto quello che poteva per lei: piccole cose come un massaggio alla schiena, abbracciarla e, più in generale, mostrare un'attenzione quando le parlava, che lei non aveva mai ricevuto prima. Adesso era tanto protettivo e preoccupato per il suo benessere quanto un tempo era stato minaccioso. Carol non avrebbe mai definito amore quello che c'era tra loro, almeno da parte sua. Ma doveva ammettere con se stessa che una certa intimità era sorta, e stava cominciando a vederlo in una luce diversa, nonostante il fatto che adesso capisse che lui era qualcosa di completamente differente da lei. Le stava mostrando qualcosa di più del proprio atteggiamento difensivo. Ma più Carol si avvicinava al parto, più diventava preoccupata. «E se il bambino nasce di giorno, quando sono sola?» «Il travaglio durerà almeno dodici ore. Chiameremo il dottore in modo che rimanga con te, se noi non possiamo esserci», la rassicurò Chloe. «E se succede qualcosa? Delle complicazioni?» «Sono convinta che andrà tutto bene», disse Jeanette. «Hai già passato il peggio. Sei robusta e, dopotutto, è solo un bambino. Le nostre cellule sono diverse dalle vostre, ma ci sono anche somiglianze. Non stai per partorire un orco». Carol iniziò il travaglio alle sei di sera della vigilia di Capodanno. Le donne rimasero con lei per tutta la notte e gli uomini si tennero nelle vicinanze. André era più nervoso di quello che lei si sarebbe aspettata. Entrava e usciva continuamente dalla stanza, agitato, eccitato. «Papà dell'Oscurità», continuava a chiamarlo Gerlinde, facendo ridere Carol durante le contrazioni. Il dolore era più intenso di qualunque altro lei avesse mai provato, davvero lancinante. Chloe le aveva detto come doveva respirare, ma aveva bisogno di costante supporto perché aveva la tendenza a trattenere il respiro quando peggiorava. Scoprì che non riusciva a stendersi per bene, ma preferiva o restare in ginocchio oppure accovacciarsi con l'aiuto di due di loro che la tenevano.
«È così che è successo quando sono nata io», disse Chloe, sollevando Carol per farla accovacciare. Carol grugnì le parole: «Quando è successo?» «All'inizio del diciannovesimo secolo. Sono nata qui a Bordeaux nel 1803». «Hai dei figli?». Le lacrime e il sudore scivolavano dal volto di Carol, e Jeanette l'asciugava. «Sì, dieci». «Dieci? Hai già fatto questa esperienza dieci volte?» «L'ho fatta dodici volte, ma due dei miei bambini morirono alla nascita». «E gli altri?», ansimò Carol. Qualcuno le disse: «Respira», e lei prese a respirare a fatica. «Gli altri hanno vissuto la loro vita, alcuni breve, altri lunga, e poi sono morti». «E tuo marito?» «È morto anche lui». Jeanette massaggiò la parte bassa della schiena di Carol, ma lei riusciva a malapena a sentirla. Le contrazioni cominciarono mezz'ora dopo. «Piccola, non so come dirtelo, ma adesso dobbiamo andare. Il sole sta sorgendo», disse Gerlinde, baciandola sulla guancia. «Mi dispiace». «Ve ne andate? Tutti quanti? Non potete lasciarmi!». «Il dottore è di sotto: rimarrà con te durante il parto», disse Jeanette. «Se vuoi, magari resterà anche Julien. Lui è l'unico di noi che può tollerare di rimanere sveglio durante il giorno. Vuoi che glielo chieda?» «Ti prego!», disse Carol. Le cose erano andate bene perché non si era sentita sola. Fu presa dal panico. «In questo riscaldatore c'è una bottiglia di sangue», le diede istruzioni Chloe. «È alla temperatura corporea. Se il bambino - o la bambina - nasce prima del tramonto, dagliene un poco. Non preoccuparti, non ci saranno problemi per la digestione. Solo assicurati di non dargli del colostro dal tuo seno». Carol annuì in segno di assenso. Uno dopo l'altro la lasciarono. «Su con la vita, ragazzina! Sarà finita prima che tu te ne renda conto, e poi avrai uno schiamazzante bambino succhiasangue con cui vedertela». Gerlinde la baciò e Carol rise.
«Ricorda, nutri il bambino solo con il sangue», le rammentò Karl. Le toccò delicatamente il viso. Chloe l'abbracciò. «Andrà tutto bene. Non c'è alcun segno di complicazioni. L'ha detto il dottore, e lo vedo anche io. Ricorda: ho molta esperienza». C'erano lacrime sfumate di rosa negli occhi di Jeanette mentre abbracciava Carol. E Carol si ritrovò a piangere. La bacchetta di cristallo era sul tavolino di fianco al letto e, durante tutta la notte, a intermittenza, l'aveva stretta perché le ricordava Jeanette. La prese in mano. Gli altri se ne andarono in modo che lei e André potessero rimanere da soli. Lui le accarezzò il mento con il palmo della mano. «Resterei qui se potessi. Tutti noi vorremmo farlo». «Lo so», gemette lei. La baciò su tutto il viso e poi sulle labbra. Carol gli gettò le braccia intorno al collo, desiderando che lui restasse. «Tienimi stretta», disse singhiozzando, e lui lo fece fino a che la luce del sole s'insinuò attraverso le tende scure in una linea sottile tra le pieghe. A questo punto allontanò le braccia di lei e si diresse alla porta, indirizzandole dei baci. Carol rimase sola per meno di un minuto prima che entrasse Julien. Questi richiuse subito lo spiraglio tra le tende. I suoi movimenti erano lenti e ieratici. Spense tutte le luci tranne quella vicino al letto, e si sedette su una sedia nell'angolo più buio della stanza. «Il dottore si occuperà di te tra poco», la confortò. «Grazie per essere rimasto qui con me», disse lei. «Non ho mai assistito a una nascita. Sarà un'esperienza per entrambi». Ebbe un'altra contrazione e cercò di ricordarsi come respirare. Si aggrappò alla sbarra più in alto ai piedi del letto, grugnendo e ansando a piccoli respiri, finché il dolore cessò. Alle tre del pomeriggio Carol era sul punto di collassare, quasi sperando che il bambino sarebbe semplicemente morto o che lei sarebbe morta, o preferibilmente entrambi, e in fretta. Ma proprio quando era sul punto di gettare la spugna, lui venne al mondo. Era magro, rosso e urlava, coperto di muco. Il dottore lo ripulì, pulì il naso e la bocca e, una volta liberata la placenta, lo depose sullo stomaco di Carol. Non mise gocce nei suoi occhi chiusi e non tagliò il cordone, proprio come aveva chiesto Chloe.
I capelli scuri del neonato si arricciavano in ciuffi, più simili nel colore a quelli di André che ai suoi. Le manine erano serrate in piccoli pugni mentre restava disteso, dormendo dopo il trauma della nascita, comodo sopra di lei. Non poteva trattenersi dal toccarlo, incantata da lui, riuscendo a fatica a credere che fosse uscito dal suo corpo. La pelle era morbida, calda, un poco umida, ed era così fragile e indifeso che per lei fu impossibile non amarlo. Senza pensarci, se lo portò al petto. Notò che Julien la guardava immobile, ma non disse nulla riguardo al nutrimento. Le piccole labbra del bambino si incresparono automaticamente e succhiò il latte con un'espressione di totale soddisfazione. Lei comprese più che mai che non si sarebbe potuta separare da lui. Al tramonto gli altri fluirono nella stanza. La lavarono e la vestirono, congratulandosi con lei. Tutti volevano stringere il bambino. «Ha già bevuto del sangue?», chiese Chloe. «No, non ancora», disse Carol. Non fece alcuna menzione del latte. Chloe lo nutrì con del sangue caldo, e il piccolo inghiottì avidamente come aveva fatto bevendo da Carol, cosa che allo stesso tempo allarmò e confuse quest'ultima. Quando giunse André, rimase in silenzio. Strinse il piccolo, fissandolo come aveva fissato Carol. E, quando guardò Carol, questa comprese che anche lui era stupefatto di come avesse potuto avere parte nella creazione di un così minuscolo, perfetto essere. Il bambino, adesso avvolto in caldi panni di cotone, fu deposto tra le braccia di Carol che sprofondò nel sonno. Quando si svegliò, André era disteso di fianco a lei e il bambino non c'era più. «Dov'è?» «Gerlinde l'ha portato di sotto». «Lo voglio!» «Più tardi. Sei esausta. Devi riprenderti. Si prenderanno cura di lui». «Me lo riporterai?» «Stanotte, sì. E domani notte. Ma dopo...». «Dopo che cosa?» «Dopo dovrai decidere se vuoi rimanere o andartene». «Io voglio soltanto il mio bambino. Voglio restare con lui. Non voglio abbandonarlo». «Allora dovrai affrontare la trasformazione. Ho deciso che la farò io». «No, non voglio farla!». Lui si alzò bruscamente.
«Carol, te l'ho detto, è l'unico modo. Non possiamo permettere che tu lo cresca come un mortale. Lui resterà qui con noi. Sei vuoi rimanere, devi diventare come noi. Altrimenti, te ne dovrai andare». Lei si accinse a scendere dal letto. «Dove credi di andare?» Mentre la spingeva indietro, lei si dibatté. «Voglio il mio bambino! Nessuno mi fermerà!». «Resta qui. Te l'ho detto: Gerlinde lo riporterà qui più o meno tra un'ora. Girati. Ti massaggio la schiena». «Stai mentendo! Non lo riporterai». Alzò la voce; sentiva di aver perduto il controllo. André parlò bruscamente. «Non ho mentito. Non ne ho bisogno. Ho detto che lo rivedrai più tardi e così sarà. Sono sempre stato onesto con te. Tu sei quella che si è comportata slealmente». Si sforzò di liberarsi, ma lui era come un muro. Alla fine la spinse fermamente sul materasso, con il proprio viso sul suo. «Smettila adesso!», le ordinò. Carol si lamentò. Chloe corse nella stanza. «Cosa sta succedendo?» «Ha una crisi isterica». Chloe le fece un'iniezione di qualcosa e, in pochi minuti, Carol si sentì più calma, rilassata, come se le cose non importassero poi un granché. «Gerlinde riporterà presto il bambino», la rassicurò Chloe. «Ma prima devi dormire, va bene?». André non disse nulla: si limitò a guardarla, con occhi velati di sfiducia. Lei annuì. Biascicò alcune parole. «E potrò tenerlo domani? Per favore, domani soltanto». «Sì», disse Chloe. «Poi si vedrà». Carol chiuse gli occhi. Sarete voi a vederla, pensò mentre scivolava nel sonno, perché non ho intenzione di separarmi dal bambino, né di permettere di essere trasformata in un vampiro. CAPITOLO 18 Lasciarono a Carol il piccolo per quella notte e durante la notte seguente, come promesso. Poco prima dell'alba, il giorno dopo, quando rimasero da soli, Carol cercò sotto il materasso la forchetta che vi aveva nascosto. Si
diresse a una delle finestre e cominciò ad intaccare lo stucco che teneva il plexiglas attaccato all'intelaiatura, un'attività che aveva iniziato due giorni prima. Nelle sue condizioni il lavoro procedeva lentamente ed era stancante: avvicinò una sedia in modo da potersi sedere mentre intagliava i lati e la base. Il vecchio stucco si sbriciolò. Il legno marcio le permise di osservare attentamente in diversi punti la montatura. Sbatté la sedia contro il plexiglas leggermente curvo. Per sicurezza, alla finestra interna era stata data una forma concava, in modo da non poterla rimuovere dall'esterno. Probabilmente, a quelli che l'avevano installata non era venuto in mente che qualcuno potesse volerla rimuovere dall'interno. Colpì ripetutamente il plexiglas finché questo non finì contro il vetro esterno colorato che alla fine andò in frantumi. Dell'aria fredda entrò impetuosamente nella stanza. Se era scattato un allarme, era silenzioso. Allattò il piccolo, poi lo vestì per bene e lo legò stretto al proprio corpo. Indossò tutti gli abiti che riuscì a trovare e si mise una coperta intorno alle spalle. Con le lenzuola legate una all'altra, Carol scese insieme al bambino dalla sua stanza fino a terra. Fiancheggiò il garage senza far rumore, non volendo allarmare l'autista o la cameriera, ciascuno dei quali avrebbe potuto far capolino da una finestra. All'interno trovò quattro vetture, ma non trovò le chiavi. Abbandonò quell'idea e si diresse rapidamente lungo il vialetto sterrato a piedi, rammaricandosi subito per il fatto di avere solo due paia di calze e le scarpe estive da indossare. Alla fine giunse all'autostrada. Era gennaio e faceva molto freddo. Un sottile strato di neve, la prima che avesse visto a Bordeaux, copriva il terreno e i pini che erano stati piantati per contrastare il terreno sabbioso. L'aria densa creava una nebbia che, giungendo dall'Atlantico, avvolgeva i vitigni. Un altro paio di calzini fungeva da guanti, ma le sue mani erano lo stesso gelide. Passavano veramente poche macchine ma, quando ne arrivava una, lei tirava fuori il pollice. A causa della nebbia non riuscivano a vederla finché non erano già passati. E lei sapeva di sembrare una povera pazza, senza cappotto, vestita con strati di indumenti estivi e autunnali e una coperta; il bambino era completamente nascosto. Nessuno si fermò. A una stazione di servizio usò la toilette e allattò il piccolo: adesso il suo corpo produceva latte. Lavò il pannolino sporco e lo mise sul radiatore ad asciugare. Nella stanza ne aveva trovato soltanto uno sfuso, gli altri erano da qualche parte nella casa. Si sarebbe dovuta arrangiare. Si riposarono al caldo per più di un'ora. Carol era infreddolita, ma il
bambino sembrava star bene. Si sarebbe dovuta prendere cura di sé o non sarebbe riuscita a prendersi cura di lui. Alla fine le diedero un passaggio fin quasi a Bordeaux e, verso mezzogiorno, mentre si avvicinava alla città, ottenne uno strappo dal centro fino alla periferia. Non sapeva bene dove andare. Non voleva dirigersi nuovamente a Parigi perché loro ci avrebbero subito pensato. Ma dove altrimenti? Decise di provare con il traghetto di Le Havre per l'Inghilterra e ottenne informazioni a una stazione di servizio. Sarebbe rimasta lontano da Londra in modo che avrebbero avuto maggiori difficoltà a trovarla. Non voleva pensare troppo al futuro. Coprì con due autostop una lunga distanza. Si sentiva come un'orfana buttata lì per strada, con il bambino in braccio. Nel tardo pomeriggio cominciò a nevicare, costringendola a fermarsi in un'altra stazione di servizio. Benché il proprietario non parlasse inglese, ebbe compassione di lei. Le diede del caffè da bere e mezzo filone di pane con dentro un pezzo di carne, e la lasciò sedere dentro l'ufficio. Lei nutrì il bambino, lo cambiò nuovamente, cercò di riscaldarsi, e cominciò a preoccuparsi per il cielo che si stava facendo più scuro. Riluttante nell'abbandonare quel posto sicuro che aveva trovato, Carol si tirò su e tornò sull'autostrada. Lesse un cartello davanti a sé: Rouen. Più avanti un altro: Le Havre - 150 KM. Era quasi arrivata al traghetto. Non aveva idea di come avrebbe pagato il biglietto senza soldi, ma evitava di pensarci. C'erano troppe altre cose di cui preoccuparsi. Il bambino non piangeva. Lo tenne ben coperto e al caldo, vicino al proprio cuore. Sembrava contento. Gli dava spesso un'occhiata, ogni volta cosciente del fatto che valesse bene il rischio che stava correndo e che nessun sacrificio sarebbe stato troppo grande. «Siamo insieme», gli disse. «Questo è tutto ciò che conta». Quando l'oscurità catturò il cielo, la neve cadde pesantemente. Capì che doveva avere l'aspetto di una senzatetto, perché il traffico era intenso ma le macchine rifiutavano di fermarsi. Era a soli 50 chilometri dal traghetto, ma dovette riposarsi ancora una volta. Il parto l'aveva distrutta. Le gambe le facevano male e stava perdendo la sensibilità ai piedi e alle mani. Il piccolo doveva essere allattato e cambiato di nuovo. Imboccò un'uscita, una di quelle con la stazione a mezzo miglio dall'autostrada, l'unico edificio sulla strada. Ma, quando si avvicinò allo stabile, fu sul punto di piangere. Il lato che si affacciava sulla strada sembrava a
posto, ma il resto era stato chiuso con assi e la parte esterna era annerita dal fuoco. Non sapeva che cosa fare, se proseguire su quella strada e cercare di arrivare al paese più vicino oppure proseguire per il traghetto. Sapeva di doversi fermare, ma non sapeva come avrebbe potuto farlo. Improvvisamente il piccolo cominciò a lamentarsi. «Non piangere, piccolo tesoro», sussurrò lei. «Sistemerò tutto, in qualche modo». Lo cullò dolcemente e gli cantò la canzone su tutti i graziosi cavallini che sua madre aveva cantato a lei. Le venne in mente che, se fosse riuscita a staccare una di quelle tavole dal garage, avrebbero potuto almeno togliersi dal freddo e dalla neve per un po'. Tirò una trave da mezzo metro ma quella non si mosse. Pensò che avrebbe potuto provare a infilarsi attraverso una finestra. Estrasse i rimanenti frammenti di un vetro rotto e riuscì a oltrepassare il varco. All'interno c'era un forte odore di bruciato. Carol avanzò nell'oscurità facendo molta attenzione ai detriti. Qualcosa passò velocemente davanti al suo piede, lei pestò per terra e lanciò un grido. Il piccolo riprese a singhiozzare. Camminò tastando il muro e, alla fine, giunse a un bancone di qualche tipo. Sotto quello, sul pavimento, sentì una scatola di metallo. La valutò soppesandola con il piede, ragionevolmente sicura che potesse reggerla. Si sedette, esausta. Faceva freddo anche lì, ma non come all'esterno. Non aveva più sensibilità sulle punte dei piedi e delle mani, e lo prese come un brutto segno. Le massaggiò, cercando di riattivare la circolazione. Alla fine cominciarono a dolere, come se vi fossero degli aghi, e si sentì quasi certa che sarebbe stata meglio. Carol aprì tutte le camicie che indossava e avvicinò il bambino al petto. Questi bevve con molta energia, apparentemente affamato. Anche lei era affamata, esausta; ebbe persino il timore che stesse sanguinando un poco. Ma non voleva restare in quella oscurità, quel luogo sporco dove non faceva caldo. E non era al sicuro. Non sapeva se ci fosse un posto sicuro, ma uscire dalla Francia sarebbe stato un grande passo avanti per sentirsi tranquilla. «Solo un riposino, è tutto quello che possiamo permetterci», disse al suo piccolo. «Presto saremo a Le Havre». Se avesse avuto la fortuna dalla sua parte, cosa che fino a quel punto non era successa, avrebbero rimediato un passaggio fino al traghetto. E poi? Si concentrò nel massaggiarsi i piedi.
Tolse al bambino il pannolino sporco e sistemò quello pulito e asciutto, nell'oscurità, senza vedere. Buttò via quello sporco; non poteva lavarlo, e non aveva intenzione di portarlo con sé. Quindi si alzò in piedi e sgusciò dalla finestra, dirigendosi nuovamente verso l'autostrada. Aveva quasi raggiunto la rampa quando una vettura imboccò l'uscita stridendo e corse verso di lei: era la limousine argento! Carol corse verso la rampa di accesso, inciampando nella neve, ma la macchina era già arrivata da lei. André balzò fuori. Tentò di correre nella direzione opposta ma lui l'afferrò. «Lasciami andare», urlò lei. «Ti uccido se provi a prenderlo!». Tentò di difendersi mentre lui la spingeva sul sedile posteriore. Gerlinde e Karl erano là, entrambi pallidi e risentiti. Dagli occhi di Carol sgorgarono lacrime di frustrazione. Strinse a sé il piccolo. «Dovrete uccidermi per averlo, perché non voglio vivere senza di lui». Nessuno disse nulla mentre lei singhiozzava. Alla fine si asciugò gli occhi. «Come mi avete trovata stavolta?» «Un uomo alla stazione di servizio. Gli hai chiesto quanto distasse Le Havre», disse Karl. Con occhi rossi e astiosi, guardò prima lui, poi Gerlinde. Alla fine si girò verso André. Il suo volto simile a una maschera nascondeva le sue emozioni. «Lasciaci andare, per favore!», gli disse piangendo. «Ti imploro, anche se so che detesti essere implorato. Mi metterò in ginocchio se devo. Per favore, se ne sei capace, mostrami pietà». «Non posso farlo», rispose André, con voce sommessa. «Allora trasformami in un vampiro. Non voglio abbandonarlo. Farò qualunque cosa pur di restare con lui». «Non posso fare neanche questo». Si sentì sconvolta fin dentro le ossa. «Ma perché? Hai detto che l'avresti fatto. Dovevo solo decidermi. Ho deciso». «Non possiamo fidarci di te. Io non posso fidarmi di te. Mi hai tradito troppe volte». «Io ti avrei tradito? Di che cosa stai parlando?» «Le tue bugie ti rendono pericolosa». «Gerlinde, aiutami!».
Carol supplicò la ragazza dai capelli rossi. «Piccola, lo farei se potessi. Siamo tutti d'accordo: ci esporresti al pericolo». Distolse lo sguardo. André prese il telefono e parlò in francese all'autista. Erano di nuovo sull'autostrada, diretti al traghetto. «Dove mi state portando?» «Ti metteremo sulla prima nave, e ti daremo dei soldi: te ne puoi andare dove ti pare», disse Karl. «No! Non lo voglio abbandonare. Lo ucciderò prima di consegnarvelo». «Karl!». André gli fece un cenno. I due tennero Carol. Lei si divincolò furiosamente, urlando, tentando di morderli, ma André le bloccava la testa stringendole i capelli. Gerlinde liberò il piccolo dalle coperte e lo allontanò da lei. Il piccolo pianse e Carol gridò. Al porto, Karl scese per comprare un biglietto di sola andata e Gerlinde portò il bambino nei bagni per nutrirlo e cambiarlo. Carol era seduta in macchina da sola con André. Non riusciva a smettere di singhiozzare. «Ti giuro che non farò nulla che possa danneggiare qualcuno di voi. Per favore, non farmi questo. Trasformami in una di voi in modo che possa rimanere. Farò tutto quello che vuoi. Qualunque cosa, ti scongiuro!». «Non dipende da me», le disse. «Adesso anche gli altri hanno voce in capitolo. Dobbiamo proteggere noi stessi e il bambino. Ma anche se fossero d'accordo, non accetterei. Non potrei farlo», aggiunse. «Come puoi essere così senza cuore? Come puoi guardarti allo specchio?». Lui non disse nulla, prese semplicemente uno spesso mazzo di soldi dal portafogli e lo infilò nella tasca della camicia di lei, quindi le porse una giacca corta. «Mettiti questa». Lei non si mosse, così lui dovette infilarle le maniche. «Karl ha già preso la tua valigia. Il tuo passaporto è dentro. Ti farò un'iniezione, così starai calma». Lei lo guardò piena d'orrore. «Vuoi uccidermi con una overdose di droghe per poter rubare il mio bambino!». «È soltanto un semplice tranquillante, per rilassarti».
Ebbero una colluttazione, ma ben presto lui la costrinse con la testa sul sedile e la tenne ben ferma mentre le iniettava il Valium in una vena del collo. Fece effetto quasi all'istante. Il respiro le si fece pesante. Divenne incosciente. La testa cominciò a girarle, e lui la costrinse a guardarlo negli occhi. E dove aveva termine il potere della droga, iniziava quello di André: eliminò una parte dei suoi ricordi. Camminarono verso il traghetto, la ragazza con i capelli rossi che seduceva il bigliettaio, flirtando in francese. Carol fu messa in un angolo. Vedeva e sentiva tutto quello che stava succedendo, ma non poteva muoversi o parlare. Delle lacrime silenziose scesero lungo le sue guance: non sapeva perché. «Buona fortuna, ragazza», disse la donna, lei stessa sul punto di piangere. «Mi prenderò seriamente cura di lui, te lo prometto. Noi tutti lo faremo». Prendersi cura di chi?, si chiese Carol. L'uomo e la donna se ne andarono, ma l'uomo dagli occhi grigi rimase finché non si udì il fischio della partenza. Allora si alzò e la guardò un'ultima volta, non volendo andarsene, come intendesse restare o fare qualcosa. Ma poi anche lui se ne andò. L'effetto della droga cominciò a svanire quando la nave raggiunse Portsmouth. Disorientata, Carol sbarcò e presentò il passaporto al doganiere. Un uomo dal volto rubicondo chiese: «Motivo della sua visita in Inghilterra?» «Non... non c'è un motivo», disse lei. Non sapeva che cosa ci facesse là o perché ci fosse andata. «È forse qui in vacanza?» «Sì», rispose automaticamente. Una volta restituito il passaporto, trovò la panchina più vicina e si sedette a riflettere. Si sentiva come se avesse avuto un incidente automobilistico e avesse subito un trauma. Era stordita senza sapere il perché. Cercò di calmarsi e di fare chiarezza dentro di sé per capire come fosse giunta fin là. Ovviamente, ho appena attraversato la dogana venendo dalla Francia, rifletté. Non ricordava affatto di essere stata in Francia ed era appena scesa dalla nave proveniente da Le Havre. Questo diceva il suo biglietto. Si guardò: era vestita in maniera strana, con vecchie scarpe estive, una giacchetta da caccia, e sotto diversi strati di vestiti, nessuno dei quali ricordava di aver avuto in precedenza. Deve trattarsi di un sogno, pensò. Cos'altro
potrebbe essere? Il corpo le faceva male, in particolar modo lo stomaco che sembrava leggermente gonfio. Si sentiva esausta, come se avesse appena compiuto un'impresa fisica colossale, come correre una maratona. All'improvviso fu assalita dal terrore. Nulla aveva senso. Era come se fosse andata a dormire nel letto di casa sua, a Philadelphia, e si fosse svegliata in un altro posto e in un altro tempo. Come poteva essere successo? Il panico la divorò. Aprì la valigia e rovistò dentro, in cerca di indizi. Riconobbe ogni capo di abbigliamento, ogni articolo da bagno. Sotto la giacchetta da caccia, dentro una tasca della camicia trovò una consistente somma di denaro... dollari americani. Non li contò, ma il semplice scorrerli con le dita le suggerì che erano in una volta sola più soldi di quanti ne avesse mai avuti in tutta la vita. Frugò nella borsetta e trovò il passaporto. Almeno non ho perso completamente la memoria, pensò. Riconobbe il proprio nome, la foto e l'indirizzo. La data stampata all'interno indicava che era arrivata a Parigi... un arrivo che non ricordava. Una rapida occhiata al giornale le suggerì che erano passati circa nove mesi da quando era apparentemente entrata in Francia fino a quel momento. Nove mesi. Abbastanza tempo per avere un bambino. Perché ho pensato una cosa simile, rifletté, e all'improvviso, inspiegabilmente, le lacrime le inondarono gli occhi bagnandole le guance. «Cara, va tutto bene?». Una donna anziana dal volto gentile si chinò su di lei. «No. No, non va tutto bene», singhiozzò Carol. «Non so dove mi trovi o come sia arrivata qui». «E perché mai? Sei a Portsmouth, questo è ovvio. Al molo del traghetto. Sei arrivata proprio con quella nave là... anch'io ero sulla stessa nave». La donna porse a Carol un fazzoletto, con il quale si asciugò gli occhi. «Non mi ricordo di essere salita sulla nave». «Non è poi strano. Eri talmente stanca che riuscivi a fatica a stare in piedi. Il tuo amico ti ha aiutata a salire a bordo: proprio lui. È rimasto seduto con te finché la nave non è partita». «Amico?» «Sì. Un francese, a prima vista. Di bell'aspetto. Lui e la coppia con il bambino». Carol scosse rapidamente la testa, come se cercasse di negare qualcosa, ma cosa? Scoppiò in lacrime. «Non ricordo nessuno di loro. Non so neppure perché sto piangendo».
Quando arrivò la polizia, Carol aveva perso il controllo. Un'ambulanza la portò all'ospedale locale dove le iniettarono del carbonato di litio ininterrottamente per quasi una settimana. Diverse persone le fecero molte domande: riguardo i soldi; riguardo un recente parto; riguardo un parente negli Stati Uniti che avrebbe potuto essere contattato. Lei non aveva risposte per le prime due domande, ma per l'ultima disse loro di chiamare Rob. Nella seconda settimana all'ospedale, la nebbia nella quale fluttuava cominciò a diradarsi a sufficienza perché capisse dove si trovava e perché fosse là. Una mattina era seduta al tavolo di uno psichiatra che si presentò come il dottor Stanton: la sua targhetta lo confermava. Questi disse: «Lei apparentemente ha partorito di recente, anche se non ha alcun ricordo di quell'esperienza. Perché, secondo lei?» «Non so di aver partorito», gli rispose. La guardò serio in viso. «Lei è stata esaminata, signorina Robins. Non c'è nessun dubbio al riguardo». Le mani di Carol tremarono e lei le incrociò. «Dato che ha divorziato diversi anni fa, sembra che il bambino sia nato fuori dal vincolo matrimoniale, forse nato morto, oppure morto dopo la nascita?». Carol fu presa dal panico. «Io... io non so», mormorò. «Ha forse venduto il bambino?». Si sentiva troppo sconvolta per rispondere. «Avete telefonato a Rob? Il mio ex-marito?» «Ho chiamato la settimana scorsa. Lei saprà, naturalmente, che è morto lo scorso maggio». Carol lo guardò senza pronunciare parola. «Rob è morto? No, non lo sapevo». «Un certo signor Phillip Mullins mi ha assicurato di averle inviato una lettera nella quale la informava della morte, con l'American Express». Carol non disse nulla. «Mi ha anche detto che lei l'ha chiamato da Parigi quattro mesi fa e lui le ha fornito la stessa informazione. E lei sembrava disperata». «Non mi ricordo». «Reprimere dei ricordi spiacevoli è abbastanza comune, specialmente quando vi sia una componente di colpa. Lei è stata trovata con una grossa
somma di denaro. Quarantacinquemila dollari americani». Carol non sapeva cosa rispondere. Semplicemente non ricordava. Era come la volta in cui si era sottoposta all'anestesia per un intervento ai denti. Un momento stava contando alla rovescia da dieci ed era arrivata ad otto, e nel momento successivo era sveglia. Non solo non ricordava le due ore in cui aveva avuto luogo l'operazione, era come se quel lasso di tempo non fosse esistito. Non aveva neppure sognato. Il suo cervello era semplicemente stato spento e il tempo interrotto. Ma stavolta era peggio, molto peggio. Nove mesi della sua vita erano scomparsi. Rob era morto. Apparentemente aveva dato vita a un bambino e aveva guadagnato una gran quantità di denaro in Francia, un paese che non ricordava di aver visitato. «Signorina Robins, non posso esserle d'aiuto. Per prima cosa lei non è una mia paziente e quindi non può rimanere in questo ospedale. Secondo, lei è in Inghilterra in visita. Questo non è il momento e il luogo per sottoporsi a un lungo periodo di terapia. Le suggerisco caldamente di ritornare a Philadelphia e cercare un aiuto psichiatrico là. Le posso fornite il nome di un terapista competente specializzato nel recupero della memoria. Non credo che si possa fare altro qui, e le sarebbe sicuramente di giovamento trovarsi in un luogo familiare e senza dubbio confortevole». Carol ebbe un'altra settimana per rifletterci prima che l'ospedale la dimettesse. La settimana successiva era su un aereo per Philadelphia. Ma la mancanza di emozioni riguardo la Francia o quanto potesse esserle accaduto là aveva nel suo cuore lo stesso posto di un ricordo. Il suo corpo stava tornando negli Stati Uniti, ma il resto di lei non aveva abbandonato l'Europa. PARTE TERZA «Siamo tutti dentro la fogna, ma alcuni di noi guardano le stelle». Oscar Wilde (Il ventaglio di Lady Windermere) CAPITOLO 19 «Carol, voglio che ti concentri su questo pendolo d'oro. Guarda come brilla la luce sul metallo. La tua mente si sta rilassando, le tue palpebre
diventano sempre più pesanti. Lascia che si chiudano. Così: continua a respirare con naturalezza e semplicità. Pensa all'oceano. L'Atlantico. Piatto. Eterno». La voce calma di Rene Curtis si mescolava all'immagine serena dell'oceano che Carol aveva appena riprodotto nella propria mente. La stessa immagine che Carol aveva creato ogni settimana negli ultimi otto anni di terapia durante gli incontri con la dottoressa Curtis. «Bene. Sei rilassata e tranquilla. Dimmi da dove stai guardando l'oceano. Dove ti trovi adesso?». Carol fissò le acque grigie fuori dalla finestra. «Mi trovo nella stanza. Dentro la casa». «La casa in Francia?» «Sì». «In che parte della Francia è situata la casa?» «Io... io non lo so». «Descrivi la stanza, come hai già fatto». Carol vide se stessa girarsi intorno. Descrisse i colori della stanza divisa in due settori. Il caminetto. L'arredamento. Il letto. Si sentì improvvisamente nervosa. «Va tutto bene, rilassati. Respira a fondo. Sei al sicuro. Sono qui con te. Dimmi del letto». «È grande. Un letto d'ottone. Le lenzuola e il piumino sono a fiori». «Hai dormito in questo letto?» «Sì». «E hai fatto del sesso in questo letto?». Carol si sentì di nuovo nervosa. «Io... io ho fatto del sesso in questo letto». Era un cammino già perlustrato in precedenza, frammenti di ricordi tornati alla luce dopo anni di duro lavoro. «Con chi?» «Io... non lo ricordo». Aveva paura e voleva soltanto andarsene via. «Va bene. Respira profondamente, ispira con il naso ed espira con la bocca. Non permetterò a nessuno di farti del male. Dimmi che cos'altro ti ricordi di quel letto». Carol nella sua immaginazione si alzò e osservò attentamente il letto. «È il mio», disse, ma ancora non capiva perché pensasse ciò. «Voglio che tu vada fino al letto e passi le mani sulle lenzuola. Farai
questo per me?». Carol annuì. Si mosse verso il letto e con la punta delle dita sfiorò il soffice cotone di percalle per la centesima volta. «Siediti sul letto». Carol sedette. Il materasso sprofondò leggermente sotto di lei. Tutto questo le era familiare. «Carol, distenditi di schiena sul letto». Ancora quella paura pungente che saliva dallo stomaco. «Sei assolutamente al sicuro. Stiamo solo ricordando, come abbiamo fatto le altre volte. Distenditi». Tanto per fare un tentativo, Carol si distese di schiena sulla trapunta. Fissò il soffitto dalla trama in colori pastello. Sotto di lei il materasso era rigido. La sosteneva. Non precipitò subito nel turbamento come aveva fatto in altre occasioni quando Rene l'aveva riportata là per mezzo dell'ipnosi. «Bene. Come ti senti?» «Ho paura». «Di cosa?» «Di lui». «Chi?». Carol scosse la testa. Fece correre le dita sulle lenzuola e sotto i soffici cuscini finché non ebbe toccato il freddo metallo del telaio del letto. Nel momento in cui le sue dita reagirono al freddo, ebbe un contraccolpo emotivo. Il suo respiro crebbe. «Mi ha incatenata qui. A questo letto. Mi ha tenuta prigioniera e mi ha usata!». «Sì, l'hai già ricordato in passato. È successo qualcos'altro in questo letto?». Boccheggiò in cerca d'aria, sentendosi come un pesce fuor d'acqua, incapace di respirare, incapace di deglutire. La stanza vorticava nell'oscurità. Un buco nero la inghiottì, facendola sprofondare, risucchiandola come dell'acqua che finisce in uno scarico. «Carol, resta con me! Ascoltami. Sei qui con me, nel mio ufficio. Apri gli occhi». Nel momento in cui riaprì gli occhi, si sentì di nuovo al sicuro. Il sudore le incollava la maglia al corpo e i capelli al collo e alla fronte. Il battito del cuore era accelerato. Ma ricordava. Si girò verso Rene Curtis. «Ho partorito un bambino in quel letto».
Rene annuì. «Un maschio o una femmina?» «Un maschio, credo. Non so perché penso questo». «Va bene. Ci fideremo della tua intuizione. Cosa è successo al piccolo?». Carol scosse la testa. «È nato morto?» «No». «Come fai a saperlo?» «Non lo so». «È forse morto in seguito?». Lei scosse di nuovo la testa. «Ti ricordi dov'è situata la casa?». Carol pianse, sopraffatta dal dolore e dalla disperazione. «No. Non lo ricordo. Non lo ricorderò mai». Rene Curtis le accarezzò dolcemente il braccio e le lisciò i capelli sulla nuca, poi prese l'immancabile boccale sul quale era scritto: "I cinquant'anni mi stanno uccidendo", pieno di liquido ghiacciato, e bevve. «Lo ricorderai. Hai fatto molta strada. Otto anni fa non ricordavi neppure di essere stata in Francia, mentre adesso hai messo insieme diversi pezzi del puzzle. Ci vuole tempo. Stiamo affrontando il trauma principale». «Tempo...», disse Carol tristemente. Per qualche ragione aveva la sensazione che non ci fosse più tempo. Ripensò agli otto anni da quando era tornata a Philadelphia e a tutte le cose che aveva dovuto affrontare. La morte di Rob e, subito dopo il suo rientro, quella di Phillip. E poi la morte di sua madre. Gli attacchi d'ansia avevano comportato l'impossibilità di svolgere lavori che implicassero un alto livello di stress. Aveva trovato un posto all'Emerald Theater, si occupava dei materiali di scena per le rappresentazioni prima della loro partenza per Broadway, o semplicemente quando andavano in tournée. Con l'aiuto di Rene aveva investito con un buon tasso d'interesse quarantamila dei dollari che le avevano trovato addosso. L'interesse pagava la terapia, che era continuata lentamente, almeno rispetto a quello che si aspettava Carol. Aveva impiegato molto tempo prima di fidarsi di Rene... prima di fidarsi di chiunque. I ricordi che si erano sforzate di recuperare avevano cominciato ad affacciarsi negli ultimi tre anni, e quei frammenti erano riemersi solo grazie a sforzi colossali. Viveva una vita tranquilla, priva di scossoci, almeno nel mondo reale.
Nessun buon amico. Tutto il suo tempo libero lo impiegava con la terapia o leggendo. Ogni notte, quando il sole tramontava, un terrore inspiegabile cresceva in lei e le si attaccava al corpo fino a che non era l'alba. E in quella stanza affrontava ogni settimana demoni e paure con cui nessun essere umano dovrebbe scontrarsi. Senza Rene sapeva che non ce l'avrebbe fatta. E se tutto quello non fosse stato sufficiente, un anno prima era risultata positiva al test dell'HIV. Le avevano detto che avrebbe anche potuto non contrarre mai l'AIDS... ma non c'era modo di esserne certi. Già questo collocava il tempo in una luce diversa. Ma c'era qualcos'altro, degli altri motivi che non riusciva a identificare, per cui lo scorrere del tempo sembrava essere diventato cruciale, che la spingevano a continuare. Carol lavorava intensamente a quelle sedute per sbriciolare quel blocco di granito che seppelliva tutto quanto le era accaduto in Francia, in quella casa sull'Oceano Atlantico, con un uomo che non riusciva a ricordare, tranne per il fatto di sapere che aveva terribilmente paura di lui. In più, una cosa che lei adesso sapeva per certo, era quello che le era stato confermato da una mezza dozzina di dottori che l'avevano visitata: aveva partorito un bambino durante quel soggiorno in Francia. E poteva confermare quell'esperienza lei stessa, grazie a un ricordo che aveva recuperato. Ma dove si trovava adesso il bambino? «Temo che il nostro tempo oggi sia terminato», disse Rene. Carol si soffiò il naso e si alzò in piedi. «Grazie Rene. Credo che abbiamo fatto dei piccoli progressi». «Io lo definirei un bel salto avanti». Carol si diresse all'appendiabiti che si trovava vicino alla porta e cominciò a infilarsi le scarpe. «Se mi aspetti, scendo con te». Presero insieme l'ascensore fino al pianoterra. Rene, un'elegante donna di cinquant'anni dai capelli biondi e dai fianchi sottili, aveva un carattere semplice che Carol ammirava, invidiava persino; si prendeva cura di sé e sembrava vivere felicemente e bene. «Be', sono fuori a cena con le ragazze», disse Rene. «Vecchie amiche di scuola, e intendo veramente dire "vecchie". Dio, come passa il tempo! Ci vediamo una volta all'anno e mangiamo e beviamo troppo», sollevò una lunga busta di carta marrone, «e non arriviamo mai a parlare troppo. Sembrano tutte parecchio logore, a dire la verità. Io no, naturalmente», soggiunse ridendo e ammiccando, con la pelle ai lati degli occhi che s'increspava.
«Cosa c'è nella busta?», chiese Carol. «Vino». Rene la guardò. «Perché?» «Non saprei. Di che tipo?» «Rosso». Aprì la busta e tirò fuori la bottiglia. Lesse l'etichetta e la girò in modo che anche Carol potesse vedere. Fu come se una raffica d'aria calda avesse investito Carol, sul punto di farla cadere per terra; finì addosso alla parete vetrata dell'ascensore. «Carol, che cosa succede?» «È lì che si trova la casa!». Rene guardò nuovamente l'etichetta. «Bordeaux? Ne sei sicura?» «Ne sono certa». CAPITOLO 20 Sei mesi dopo che Carol ebbe scoperto dove era stata tenuta prigioniera in Francia, altri ricordi riemersero in rapida successione, inclusi: una strada che sembrava un circo; il Royal Medoc Hotel, dove forse aveva soggiornato; qualcosa riguardo un vecchio che era stato ucciso di notte, e una gran quantità di sangue. Quando l'Emerald Theater chiuse per tutto il mese di agosto, Carol, con la benedizione di Rene, fece la sua prima vacanza dopo otto anni. Ritornò a Bordeaux. Mentre passeggiava per le vie del centro, del porto, piccoli frammenti di ricordi le solleticarono la testa come un morso di zanzara sulla pelle. E più lei stuzzicava questi ricordi, più si gonfiavano e diventavano evidenti. Diverse cose sembravano familiari; i déjà vu la sorprendevano in continuazione con la guardia abbassata. Si fermò al Royal Medoc Hotel. Logicamente i registri di otto anni prima non c'erano, e pochi membri del personale che avevano lavorato là a quel tempo vi lavoravano ancora. Nessuno di questi aveva riconosciuto Carol. Negli anni trascorsi a Philadelphia aveva studiato francese, immaginando che un giorno sarebbe tornata in quel paese; adesso la lingua le tornava utile, anche se riusciva a leggere e capire meglio di quanto parlasse.
Bordeaux non si trovava sull'Oceano Atlantico, ma vicino; doveva essere stata tenuta prigioniera fuori città, ma dove? Comprò una mappa dettagliata della zona e la studiò attentamente in cerca di indizi, ma nessuno risvegliò in lei dei ricordi. Carol si recò al comando di polizia il suo secondo giorno in città. Una volta trovata la persona giusta, le ci volle un poco per spiegare quello che voleva, ma alla fine riuscì a far capire che aveva bisogno di rispolverare un vecchio caso: l'assassinio, avvenuto circa otto anni prima, di un vecchio a Bordeaux. Di notte. La parola ufficioso non aveva mai avuto un significato tanto preciso come quando ebbe a che fare con i burocrati francesi. Sapeva che senza i contatti nei posti giusti che le conoscenze di Rene le avevano fornito, quella procedura avrebbe richiesto molto più tempo, o sarebbe stata addirittura impossibile. Le ci volle una settimana per ottenere il permesso di controllare gli archivi, e furono necessari altri tre giorni per esaminare i dati informatici su assassini e morti violente nel periodo in cui era stata in Francia, più altri quattro giorni per sbrigare le formalità da seguire per accedere alla fine a tutti quei dati che non erano presenti su computer. E, alla fine di tutta questa ricerca, non aveva ottenuto nulla. Se era stata testimone di un omicidio, non risultava dagli archivi della polizia di quella città. Il crimine poteva essere stato commesso da qualche altra parte: forse l'aveva creato la sua psiche oppressa oppure, e questa era l'idea più sconvolgente, i file erano stati sottratti. Voleva parlare con tutti gli investigatori che si erano occupati di casi d'omicidio in quell'anno. Alla fine ottenne un appuntamento con un certo ispettore LePage. Si incontrarono in una stanza per gli interrogatori, una sistemazione del tutto inospitale con soltanto un tavolo, tre sedie e nulla più. Nel momento in cui Carol vide LePage, si ricordò di lui. «Ci siamo già visti». La sua espressione e la sua voce non lasciavano trapelare nulla. «Non potrei dirlo, mademoiselle. Nel mio lavoro mi capita d'incontrare molte persone». «No, sono sicura di avervi incontrato». Era invecchiato, ma aveva essenzialmente lo stesso aspetto, proprio come l'istantanea che adesso aveva reintegrato nel proprio album fotografico mentale. Persino i suoi gesti le erano familiari. L'uomo accese una sigaretta e la guardò attraverso la cortina di fumo acre che soffiò nella sua direzione. Poi, alla fine, con la stessa voce impas-
sibile disse: «Sono un funzionario molto impegnato. Come posso aiutarla, mademoiselle?» «Ispettore, io mi trovavo a Bordeaux otto anni fa, tra aprile e l'inizio di gennaio. Credo di aver assistito a un omicidio. È stato ucciso un vecchio». «A quel tempo riferì di quel crimine alla polizia?» «Potrei averlo fatto, ma non ne sono sicura». «Capisco». Uscì dall'ufficio, lasciando la porta aperta. Tornò dopo pochi minuti con in mano carta e penna. «Raccoglierò io la sua deposizione». «Non sono qui per deporre riguardo a un omicidio, ispettore. Sono qui per scoprire se è stato schedato». L'uomo appoggiò carta e penna sul tavolo. Prima che potesse dire altro, Carol aggiunse: «Senta, so che può sembrare strano, ma ho perso gran parte dei ricordi del periodo in cui sono stata a Bordeaux». Lui incrociò le braccia sul petto, con la sigaretta stretta tra le labbra. «Ritengo di essere stata tenuta prigioniera qui, per nove mesi». Non voleva dirgli più di quanto fosse necessario: sembrava già abbastanza scettico. «Credo anche di aver assistito a un omicidio. Non c'è nulla negli archivi della polizia che indichi che un vecchio è stato ucciso, ma questo è tutto ciò che ricordo». L'ispettore si dondolò sulla sedia e la fissò, incrociando gli occhi nel fumo che saliva fin sul suo viso. «Avevo bisogno di riparlarne con qualcuno che c'era allora, che potrebbe ricordare». «Mademoiselle, se l'assassinio non è presente tra i dati della polizia, non vedo come potrei aiutarla». «Si ricorda di un omicidio commesso circa otto anni fa? Un vecchio? Ucciso di notte? Vicino al fiume. Molto sangue?» «No». Aveva risposto troppo in fretta. Voleva forse dire che pensava che lei fosse pazza, oppure stava nascondendo qualcosa? Poteva anche essere semplicemente che non ricordasse. «Forse allora un tentato omicidio». «Mademoiselle Robins, se lei ha già cercato tra gli archivi e non ha trovato quello che sta cercando, non vedo come potrei contribuire alla sua causa». Non si andava da nessuna parte. Non l'avrebbe aiutata. Si alzò in piedi.
«Ispettore, non so che cosa lei sappia o meno, ma devo dirle una cosa; mi è accaduto qualcosa qui a Bordeaux di talmente terribile che non riesco a richiamarne alla mente la maggior parte. Il provare a ricordare si è mangiato la mia vita». «Certe volte il passato è meglio lasciarlo dove sta». «E certe volte è importante analizzarlo. Lo è per me. Se le viene in mente qualcosa che pensa possa aiutarmi, sono al Royal Medoc Hotel». Le sembrò di aver visto le sue palpebre tremare. Quella sera Carol fece una telefonata a Rene nel suo ufficio: il fuso orario di cinque ore faceva sì che a Philadelphia fossero solo le tre del pomeriggio. Le raccontò tutto quello che era successo. «Domani affitterò un'altra macchina e andrò di nuovo lungo la costa... non è lontano da Bordeaux. Stavolta proverò il litorale nord. Forse mi tornerà in mente qualcosa». «Carol, come ti senti emotivamente?» «Non troppo male. Meno di quanto pensassi. Vorrei avere più tempo per restare: il mio volo è tra tre giorni. C'è qualcosa qui, Rene. Riesco a sentirlo. So di essere già stata qui. Mi ricordo di LePage. Ricordo così tante cose. Solo che non riesco a metterle insieme». Il suono confortante e familiare del ghiaccio nel boccale di Rene la fece calmare. «Se hai bisogno di me, chiamami», disse la dottoressa. «A qualunque ora. La segreteria mi avvertirà: lascia soltanto un numero e un'ora per richiamarti. E, Carol? Stai attenta. Qualunque cosa ti sia successa là, ti ha scioccata al punto da cancellarne il ricordo. Vacci piano». Sabato mattina Carol affittò una Fiat e prese l'autostrada Di diretta a nord ovest. I vigneti costeggiavano la strada, e le vigne erano piene di uva matura su tralci uno addossato all'altro. Quello era il suo terzo viaggio lungo la costa nelle ultime due settimane, e ogni volta aveva avuto la sensazione inconfondibile di aver già visto tutto prima, più e più volte, nell'arco di due stagioni. Si rendeva anche conto che quello era il tipico scenario di campagna con dei vigneti dipinto nelle brochure, nelle riviste di viaggi e sulle cartoline. Però i dettagli confermavano la sua esperienza. Mentre si avvicinava alla località di villeggiatura di Soulac-sur-mer, qualcosa nel nome la colpì emotivamente. Come un piccione viaggiatore, imboccò istintivamente quella direzione. Mentre guidava lungo la costa, l'oceano blu dai riflessi grigi si sovrap-
poneva all'immagine che aveva visualizzato durante l'ipnosi. Le case erano vecchie e solide, ancora una volta strutture in legno e pietra dall'aspetto familiare con ampi ingressi e finestre con abbaini. Molte erano visibili dalla strada, ma molte no, così prese diverse stradine sterrate e vie private. Non scattò nulla nella sua mente finché non seguì una strada curva che conduceva a un grande château in pietra. Carol bloccò la macchina. Fu come se un fantasma si fosse improvvisamente materializzato davanti a lei. Quello era il posto dov'era stata rinchiusa. Ne era certa come era certa del proprio nome. Quando si fu calmata a sufficienza per poter pensare con chiarezza, premette dolcemente il pedale del gas, facendo procedere la vettura di pochi passi. Nessun veicolo bloccava il vialetto, ma le porte dell'enorme garage erano chiuse. Avrebbe dovuto stare attenta. Il suo corpo tremava. Dovrei andarmene, disse a se stessa. Non dovrei restare qui da sola. Potrebbe essere molto pericoloso. Non so con chi ho a che fare. Ma si era spinta troppo avanti, e ne aveva passate troppe per ritirarsi proprio allora. Lasciò le chiavi nella macchina, lo sportello aperto e il motore acceso, nel caso se ne fosse dovuta andare in fretta. Bussò alla porta principale. Nessuno rispose. Si diresse a una delle finestre nella facciata della casa a tre piani e sbirciò dentro. Una stanza vuota. Mentre girava intorno al pianoterra, guardando attraverso le finestre dentro stanze deserte, senza tende né mobilio, riconobbe l'insieme: la forma degli ambienti, i corridoi, i camini. Anche il garage era vuoto. Quello château era abbandonato. Tornata alla casa, cercò di rompere una finestra. Quella esterna, offuscata, si ruppe facilmente, ma quelle interne erano apparentemente infrangibili. Tanto la porta principale quanto quella sul retro erano sprangate a dovere. Dopo un'ora di tentativi, si rese conto che quel giorno non avrebbe potuto farcela. Carol tornò a Bordeaux e si fermò a un'agenzia immobiliare. Un agente trovò la casa sul computer. Era rimasta disabitata per più di sette anni. Non era in vendita. Il proprietario era un numero, una società che aveva l'ufficio principale in Svizzera: lo stabile veniva gestito da uno studio locale di amministrazione. Carol guardò l'orologio. Era ormai troppo tardi per contattare la compagnia amministrativa, e l'imminente partenza impediva di seguire le proce-
dure lecite. Si fermò a un negozio di ferramenta e fece alcuni acquisti. Il mattino seguente, la prima cosa che fece fu recarsi a Soulac-sur-mer. Riuscire a entrare fu facile... era come ricordava di aver fatto in precedenza: bastava scalpellare l'intelaiatura, togliendo lo stucco. La finestra rifiutò di spostarsi verso l'interno, ma dopo alcune ore di lavoro fu in grado di tirarla verso l'esterno. Persino l'aria all'interno della casa aveva un odore familiare. Esplorò il pianoterra; nella sua mente riusciva a vedere l'aspetto dell'arredamento in quella stanza e ricordò una grossa scultura raffigurante una donna che cavalcava un delfino, posta su un tavolino circolare. La stanza sembrava piena di ricordi, tutti che si accalcavano nel suo cervello per essere ammessi ad entrare. Si recò dapprima al secondo piano decidendo di ispezionare dall'alto verso il basso fino al seminterrato; l'idea di trovarsi sotto terra nell'oscurità la rendeva nervosa. Nulla al secondo piano fece scattare qualcosa in lei. Forse non era mai stata là! Quel pensiero la disorientò, specie perché il salotto era pieno di ricordi. Il primo piano produsse lo stesso effetto del secondo. O quasi. Porte simili conducevano in stanze simili che per lei non significavano nulla: era come se non ci fosse mai stata, proprio come al piano superiore. Finché non raggiunse l'ultima stanza. Quando Carol ne varcò la soglia, ruppe il sigillo su una parte del suo cervello che era stata chiusa a chiave. I ricordi pulsavano alla velocità della luce, sopraffacendola. Il suo corpo si afflosciò sul pavimento. Respirava molto velocemente. Bagliori del fuoco nel caminetto; la finestra dalla quale aveva guardato così spesso; il letto, la sua posizione, svegliarsi e addormentarsi, dove e come era stata incatenata. Improvvisamente il corpo cominciò a farle male. Ebbe le convulsioni e profondi sospiri proruppero dalle sue labbra tremanti. Li ricordò chiaramente: Chloe; Gerlinde; Karl; Jeanette, Julien e i loro figli. Il suo bambino. Il suo fragile, vulnerabile bebè dai riccioli scuri, la pelle increspata, che succhiava il latte dal suo seno. Che succhiava una bottiglia di sangue! E poi, come se una porta invisibile si fosse frantumata spalancandosi nella sua mente, un volto brillò nella sua coscienza fuori dall'oscurità. Capelli neri, grigi sulle tempie. Una pelle chiara in maniera innaturale. Denti simili a zanne. Occhi di ghiaccio che sprigionavano una furia scatenata. Carol urlò mentre tutte le porte si spalancavano insieme, scheggiando, tagliando la sua anima con troppi frammenti di ricordi, troppo in fretta. Si sentì andare a pezzi. Non poteva fermare l'urlo di troppe voci.
CAPITOLO 21 «Va bene Carol, torniamo alla stanza ancora una volta, prima che la polizia di Bordeaux ti trovasse nella casa e ti rispedisse via... Grazie a Dio non ti hanno accusato di violazione di domicilio! Raccontami tutto quello che è successo. Non tralasciare nulla». «Rene, l'abbiamo già fatto un milione di volte da quando sorto tornata. Non so neppure da dove cominciare. È come se fosse capitato tutto in una grande esplosione». «Ci vorrà del tempo per ricordare tutto ma, se non continuiamo, non riusciremo mai a sistemare tutti i frammenti di informazioni al loro posto. Lascia solo che riempia di nuovo la tazza e poi potremo iniziare. Oggi ho un'ora extra libera, se ti serve». Nei mesi successivi Carol raccontò a Rene di come aveva incontrato André, del suo ritorno a Bordeaux quando aveva scoperto di essere incinta, e di come era scappata via due volte. E come lui le avesse portato via il bambino usando delle droghe e una forma di ipnosi incredibilmente efficace per separarla dai suoi ricordi. Durante tutto quel tempo, mentre Carol metteva a posto tutte le intense emozioni collegate ad ogni livello della sua esperienza, un pensiero impellente la manteneva in forze, un pensiero che spesso ripeteva a Rene. «Troverò mio figlio e lo porterò via da quel covo di vampiri». «Carol, ne abbiamo discusso ad nauseam. Io ritengo che sia tu ad aver fatto di loro dei vampiri. È un modo semplice e rapido per definire tutto quello che ti disturba. Ci sono elementi di verità in questa storia dei vampiri, ma dobbiamo superare il simbolismo. È una metafora. Il tuo primo istinto è stato quello giusto; si tratta di una setta di fanatici del sangue. Forse ha a che fare con la magia nera, quel genere di cose. Questo André ti ha ipnotizzata, forse ti ha drogata. Potresti non riuscire a capirlo neppure quando avrai richiamato alla mente l'intera vicenda». «Rene, non mi sbaglio riguardo a questo. E capisco quanto possa sembrare surreale. Forse vampiri non è la parola giusta, ma loro non sono umani». «Le loro azioni non sono umane». «Loro non sono umani. Non è soltanto per il fatto che bevono il sangue, e per le cose che mi ha fatto André. Non so come spiegarlo, Rene. Sono come una specie superiore, con le loro regole specifiche e il loro codice
che non hanno nulla a che vedere con quello che fanno gli esseri umani». «E tu li trovi tanto affascinanti quanto repellenti». La mascella di Carol si tese. «Da che parte stai tu?» «Dalla tua, naturalmente. Ma Carol, ti ho ascoltata per mesi mentre analizzavi questa materia e, a dirti proprio la verità, li fai sembrare, be', attraenti». Bevve un sorso e i cubetti di ghiaccio tintinnarono contro la tazza di ceramica. «No. Questo non è vero. Attraenti fisicamente, forse, ma sono degli assassini». «Siamo tutti degli assassini: non è forse così?» «Parli come Gerlinde». «Va bene, guardiamola da un punto di vista logico. Usano l'ipnosi, ma la uso anche io. Sono forse un vampiro?» «Ti nutri di sangue?» «Bloody Mary». Carol si sentì frustrata. «Be', loro bevono sangue». «D'accordo, quale di loro hai visto che beveva del sangue? Gerlinde? Karl? Chloe? Quelli di fuori città?» «No. Soltanto André». «E questo quando?» «Al porto. La notte in cui ha ucciso il carpentiere». «Era buio. La polizia ha detto che non c'erano prove al riguardo. E tu hai controllato gli archivi: non c'è stato nessun assassinio. Loro ti hanno detto che bevevano il sangue, ma questo è forse una prova?». Carol non rispose, ma si sentì ostile. «Vivono in eterno?» «Non lo so. Vivono molto a lungo». «Lo credi solo perché ti hanno detto di vivere molto a lungo». «Penso sia così. C'è qualcosa di primitivo in loro: il modo in cui pensano e si comportano, come fossero di un'altra epoca. Gerlinde, per esempio. È, come fosse davvero degli anni Cinquanta». «Be', forse lo è». «Oh, Rene, lei dovrebbe avere la tua età e sembrava avere appena vent'anni». «Chi è il suo chirurgo?»
«Parlo sul serio. E ce n'è uno in particolare, Julien. Se tu l'avessi visto... è come se fosse veramente del Medioevo. E c'è qualcos'altro in lui. È come se possedesse una saggezza antica...». «Magari hanno scoperto l'elisir dell'eterna giovinezza, e forse questo Julien è il leader della setta», disse Rene. «Succede spesso: il capo è un raggiratore, e possiede abbastanza carisma da indurre gli altri ad obbedire». Bevve dalla tazza e accavallò le gambe. «Capisci bene Carol: con la paura che avevi a quel tempo di essere positiva all'HIV, non è forse possibile che tu avessi bisogno che loro fossero eterni? Che volessi che esistesse qualcosa che non muore?». Carol guardò attentamente la sua terapista. «Di certo è possibile: credi che non ci abbia pensato? Ma non è quello che sognano tutti?» «Be', suppongo...». «Voglio dire, non ti piacerebbe vivere per sempre? Non invecchiare mai?» «Puoi scommetterci. Ma non è realistico. Tutti noi dobbiamo affrontare...». «Per favore Rene, non essere retorica. Cosa provi veramente riguardo la morte?» «Mi vuoi dire chi è il terapista qui?», disse scherzosamente Rene. Ma s'interruppe e considerò la domanda. «Suppongo che se avessi la possibilità di scegliere...». «Opteresti per la vita eterna». «Temo che la chirurgia estetica sarà il massimo che otterrò. A meno che non incontri uno dei tuoi vampiri». Carol si alzò e guardò la sua terapista dritto negli occhi. «Ho deciso una cosa. Ritorno a Bordeaux». «Troverai il tempo con il teatro?» «Non in vacanza. Mi trasferisco là. Almeno finché non avrò trovato mio figlio». Rene cambiò espressione, a disagio. «Carol, non credo che questo sia il momento più opportuno per pensare di fare una cosa simile. In realtà...». «Ho deciso. Rene, devi capirmi. Ho bisogno che tu capisca. Ho trentaquattro anni. Sono risultata positiva all'HIV, ed è una situazione che evolverà... in peggio. Non riesco a smettere di pensare a mio figlio. Non c'è tempo per fare altra terapia».
«Allora forse è tempo di lasciarti tutto alle spalle e andare avanti con la tua vita». «Non posso fare neppure quello. Sento che se non agisco adesso, non sarò più in grado di agire. Sarà troppo tardi». «Perché il virus potrebbe attivarsi?» «Sia per quello, ma ancor di più perché mio figlio compirà nove anni l'anno prossimo». «Che cosa ha a che fare con tutto il resto?» «Non lo so, ma sento che devo trovarlo in fretta, e non so il perché». «Carol, vorrei che tu ci ripensassi». «Ci ho pensato da quando sono tornata da Bordeaux. Devo andare». «Be', è contro il mio parere sia professionale che personale, ma tu questo lo sai. Mi prometti una cosa? Prometti che ti terrai costantemente in contatto con me? Voglio lettere ogni mese, aggiornamenti, e una telefonata ogni tanto. Siamo state insieme per molto tempo... quasi nove anni. Mi preoccupo di te come persona, non solo come cliente. Sei quasi una figlia per me». Le parole di Rene toccarono Carol. La sua terapista era stata per lei una madre più di quanto non fosse stata la sua vera madre. «Lo so, e mi terrò in contatto. E puoi sempre trovarmi con l'American Express». «Queste persone sono pericolose. Dovresti rivolgerti alle autorità». «Ci ho provato. O hanno pagato tutti, oppure usano l'ipnosi. Devo fare a modo mio. E da sola». «Cosa farai quando li avrai trovati, se li troverai?». Carol scosse la testa. Non sapeva che cosa, ma sapeva che avrebbe fatto qualcosa. A Carol furono necessari tre mesi per prepararsi per Bordeaux. Versò la maggior parte dei suoi investimenti su un conto corrente, si liberò della piccola proprietà di sua madre e condusse ogni genere di ricerca possibile sui modi per localizzare persone scomparse. Arrivò persino a consultare un detective che le fornì suggerimenti su come analizzare degli indizi in Europa e, cosa altrettanto importante, su cosa fare per evitare di sprecare del tempo. Quando lasciò Philadelphia, era in ottima forma mentalmente, fisicamente ed emotivamente. In cuor suo sapeva che se anche quella fosse stata l'ultima cosa che avrebbe fatto sulla terra, avrebbe trovato suo figlio.
CAPITOLO 22 Carol si recò immediatamente a Bordeaux. Il giorno in cui arrivò, chiamò l'ispettore LePage. Questi non solo si rifiutò di aiutarla, ma non volle neppure incontrarla. Dopo quel fallimento iniziale ottenne un successo di scarsa entità. L'agenzia che si occupava dello château le fornì il numero della società proprietaria della casa: ottomilatrecentoventi. L'ufficio principale era in Svizzera, e Carol volò là il mattino seguente. Trovò Zurigo immacolata, ordinaria ed efficiente, senza il predominio di cromo, vetro e cemento di molte grandi città del Nord America. Alla fine trovò gli archivi governativi. I proprietari della società numero ottomilatrecentoventi erano John e Jane Doe1, e il loro indirizzo era un edificio fatiscente. Perché non sono sorpresa?, pensò tra sé. Gli svizzeri erano un popolo cortese e riservato. André e gli altri avevano davvero nascosto bene le loro tracce. Carol acquistò un camioncino Volkswagen, nel quale mangiava e dormiva per risparmiare soldi. Si trattava di una misera sistemazione, ma bastava per i suoi bisogni. Decise che avrebbe speso tutto il necessario - finché non fossero finiti i soldi - cercando sistematicamente prima nelle grandi città e poi nei centri portuali della Francia. Se quella ricerca si fosse rivelata infruttuosa, si sarebbe mossa lungo la costa verso la Spagna. In ogni posto in cui si recava, concentrava la sua attenzione su due aree: il porto e la zona della città frequentata da tipi eccentrici. E, dovunque si fermasse, la sua difficoltà principale era il linguaggio. Il suo francese non era perfetto. Però insisteva, e si sforzava di farsi capire. Alla fine migliorò il suo francese e acquisì anche un'infarinatura di altre lingue. Ben presto scoprì che era stupido agire con discrezione. La gente non capiva dove volesse arrivare, perché lei non conosceva alcuna forma colloquiale. Risparmiava tempo semplicemente chiedendo se c'erano dei vampiri in città. Talvolta qualcuno ammetteva di averne visto uno e, una volta, ad Alcegiras, fu sulle tracce di Gerlinde. Ma quell'indizio come tutti gli altri portò a un binario morto e Carol aveva sempre la sensazione di finire precisamente al punto in cui aveva iniziato. Questo la spinse ad appoggiarsi a un detective di Londra. Dopo sei mesi e diverse migliaia di dollari, non aveva scoperto nulla di utile. Durante tutto quell'anno Carol rimase in contatto con Rene. «Non ti sei ancora scoraggiata?»
«Sì e no. Non voglio mollare». «Come ti senti? Fisicamente voglio dire». Carol sospirò. «Faccio ginnastica - ho dei pesi sul furgone adesso - e vado a correre ogni giorno. Sto prendendo delle dosi massicce di vitamine ed estratti d'erba per rinforzare il sistema immunitario». «Non mi hai risposto». «Ho avuto il raffreddore diverse volte quest'anno». «Forse dovresti farti vedere da un dottore». «A che scopo?». Ben presto aveva deciso di darsi da fare per proteggere la propria salute. Si assicurò di mangiare bene e dormire a sufficienza, sempre. Se aveva intenzione di trovare il suo Michael - il nome che aveva dato a suo figlio non poteva permettersi di ammalarsi seriamente, e i timori circa il virus erano sempre in agguato nella sua mente. Ma la sua vita si stava spegnendo, e spesso aveva l'impressione più di esistere che di vivere. Oltre a cercare informazioni parlò con diverse persone. Non sembrava esserci molto da dire. Inoltre, essendo concentrata su una cosa soltanto - o per meglio dire ossessionata - a meno che qualcuno potesse aiutarla, non si curava di loro o delle loro chiacchiere. Dormiva durante il giorno e cercava di notte; adesso che aveva affrontato quei ricordi, l'oscurità non la terrorizzava più. A dire il vero, trovava la notte confortante: nascondeva al mondo il suo volto sfiduciato. Leggeva anche dei libri, cercando qualunque argomento che potesse rivelarsi utile: come forzare le serrature, la meditazione zen, gli effetti psicologici nell'incontrare un figlio cresciuto. Lesse anche parecchie notizie sui vampiri. I vampiri erano stati individuati in ogni paese nelle cronache storiche e menzionati fin dal 2500 a.C. nell'Epopea di Gilgamesh, fornendo credito all'idea che i miti si basassero su fatti reali. E, nonostante le speculazioni su quei sepolti prematuramente, quegli anemici bevitori di sangue dediti a pratiche sessuali sadomasochiste, alcuni avvenimenti non potevano comunque essere spiegati. Più leggeva, più riteneva che vi fossero altre specie sulla terra che non erano strettamente umane, ma che potevano essere loro superiori. Dopo la Francia e la Spagna, Carol si recò in Germania. Cercò nella brulicante Berlino e in seguito nella provincia. Quando Berlino fu esaurita, o meglio, quando Carol fu esaurita da Berlino, cercò a Monaco, e dopo Mo-
naco a Bonn, poi nelle città più piccole e nei paesi lungo il Reno. Alla fine raggiunse i paesi scandinavi, seguiti nell'autunno da Italia e Grecia. Era sicura che avrebbero evitato paesi dove vi era una possibilità di guerra o dove avrebbero potuto farsi notare. Per questi motivi per il momento non si diresse ad est. Prima di lasciare Philadelphia, con l'aiuto di Rene era riuscita a ricordare il nome "de Villiers". Ovunque si recasse, controllava gli elenchi del telefono, quelli dei residenti, le biblioteche di giornali, gli archivi con gli atti di nascita, di morte, di matrimonio. Cercò tra tutti gli elenchi che le venivano in mente, sperando di potersi imbattere in Jeanette o Julien. Ma non c'era nulla, nemmeno una traccia. Era come se tutti loro fossero stati apparizioni, finzioni della sua immaginazione. E, nei suoi momenti più tristi, era proprio quello che pensava. Mi sono sognata tutto. Devo essere veramente pazza. C'erano delle volte in cui soltanto la voce di Rene riusciva a tenerla legata alla realtà. «Non te lo sei immaginata, Carol. Devi aggrapparti a quello che riesci a ricordare. Queste persone ti hanno usata e hanno abusato di te. Adesso, che tu voglia abbandonare la ricerca o meno, questa è un'altra faccenda». «Non voglio abbandonare. Non posso». Trascorse un anno. I soldi di Carol erano diminuiti a un livello che non si sarebbe aspettata. Spesso era giù di morale. Fisicamente, sentiva le energie venirle meno. Avrebbe potuto vagare senza una meta per tutta l'Europa e non trovarli mai. Potevano essere da qualunque parte sul pianeta. Presa dalla disperazione, fece ritorno a Bordeaux. L'ispettore LePage si era dimesso. Ottenne il suo indirizzo di casa e fece in modo di imbattersi in lui "per caso". Era riluttante a parlare con lei, ma Carol insistette. Sedettero insieme su una panchina di ferro e legno verniciata nel parco della Terrasse du Jardin publique. Era dicembre, gli alberi erano spogli, l'aria pungente. Il poliziotto soffiava nuvole di fumo di sigaretta da entrambe le narici. Apparentemente non era interessato alle suppliche di Carol: fissava una mezza dozzina di bambini che giocavano in un prato, avvolti in abiti da neve. «La prego, lo so che è in loro potere. L'hanno ipnotizzata come hanno fatto con tutti gli altri con cui sono entrati in contatto. Ma deve aiutarmi. Hanno il mio bambino. Se ha un minimo di bontà umana, cerchi di ricordare».
«Mademoiselle Robins, in passato non avrei mai dovuto aiutarla, e adesso vuole il mio aiuto di nuovo, cosa che può soltanto portare alla catastrofe». I capelli bianchi sulla sua testa erano diventati più numerosi di quelli castani. «La prego. Non ho nessun altro a cui rivolgermi. Se sa qualcosa, se riesce a ricordarla, me la dica». «Quello che so non posso dirglielo e quello che non so può riempire la bibliothèque». Aspirò a fondo la sigaretta. Anche Carol guardò i bambini. Suo figlio, Michael, presto avrebbe compiuto nove anni. Un ragazzino che avrebbe potuto essere lui, un esile bimbo con i capelli scuri e le guance rosate, un vero e proprio duplicato, con i blue jeans e un piumino rosso con cappello in tinta, urtò contro una donna e poi l'abbracciò: probabilmente si trattava di sua madre. La donna rise e baciò il fanciullo. Carol sospirò. «Mi sto esaurendo», disse lei più rivolta a se stessa che non al poliziotto. «Sono stata svuotata per molto tempo. Quello che mi spinge avanti non abbandonerà la mia anima finché non avrò trovato mio figlio. Ha acquistato una vita propria». Guardò LePage. «Lei ha figli?». Questi accavallò le gambe e la guardò. Poi distolse lo sguardo. «Ho due maschi, e una femmina. Sono adulti. I maschi sono sposati e hanno figli a loro volta». Anche Carol distolse lo sguardo. Si sentiva così terribilmente triste, così perduta. Sapeva che non avrebbe mai abbandonato la ricerca. Sapeva anche che Michael avrebbe potuto essere in qualsiasi parte del mondo. I suoi soldi si erano dileguati. La salute l'avrebbe abbandonata. Sapeva che sarebbe successo presto, come sentiva la neve nell'aria. Se prima aveva cercato con metodo, con un piano, piena di energie e entusiasmo, adesso non aveva più neppure un'idea. Sarebbe andata alla ventura, a caso, perché non c'era altro che potesse fare. In un istante, il futuro brillò davanti ai suoi occhi: era una persona consumata, distrutta nel profondo, che vagava per il mondo da sola, ossessionata, finché il destino, Dio o qualche provvidenza divina non avesse avuto pietà di lei, togliendole l'ultimo alito di vita, offrendole l'unica pace che avesse mai conosciuto. L'ispettore LePage doveva aver immaginato qualcosa di simile. «Mademoiselle, non mi tengono sotto controllo». Carol lo guardò. Lui non affrontò il suo sguardo.
«Sta dicendo che li ha protetti per sua scelta? Tutti questi anni? Perché?». LePage fece correre lo sguardo per il parco. Accese un'altra Gitane. «Mia figlia... lei è una di loro». Carol non riuscì a parlare. «Nostra figlia più grande. Stava morendo di leucemia. L'hanno salvata dalla morte». «Lei è l'unico a saperlo?» «Anche mia moglie». «Dove si trova sua figlia adesso?» «Non lo so. Io e mia moglie la vediamo diverse volte all'anno; lei ci dice dove farle visita. Ha sempre lo stesso aspetto, mentre noi e i suoi fratelli invecchiamo». I segni sul suo volto si fecero più marcati. «Se ne rammarica?» «Forse dovrei. Non è normale scherzare con la morte, almeno per come ci è dato comprendere la natura. Ma non rimpiango la nostra decisione e lei non ci incolpa». Si girò verso Carol. «Io amo mia figlia». «Ma sono degli assassini!». «Elisse, lei non ha ucciso nessuno». «Ma gli altri sì». «Io questo non lo so». «E il vecchio al porto?» «Gliel'ho detto a suo tempo, mademoiselle, e glielo ripeto adesso: il carpentiere è morto per un attacco di cuore. Non invidio André per il fatto di essersi nutrito del sangue di un uomo morto quando ne aveva bisogno per sopravvivere più di quanto invidi mia figlia. Bisogna provare pietà quando si ha a che fare con loro». Carol rimase scioccata. Per tutto quel tempo lui aveva saputo. E l'aveva tenuta lontano dalla verità. «Ispettore, per favore, la prego...». Lui sollevò una mano. «Mademoiselle, tutto quello che posso dirle, e naturalmente non dovrei dirle neppure questo, è che una volta ho sentito mia figlia menzionare Mürzzuschlag, che so essere in Austria. A causa di un importante visitatore che veniva a Bordeaux da quel paese. Chi fosse quell'ospite, se fosse uno di noi oppure uno di loro, questo non lo so. Potrei anche spingerla in una caccia alle oche selvatiche, come dite voi in inglese2. È tutto quello
che so e, se fossi in lei, la smetterei immediatamente. E, se non può farne a meno, allora possa Dio aiutarvi, e possa Dio proteggerli». Quella notte Carol partì per Vienna. Guidò senza sosta e arrivò due giorni dopo. La prima cosa che fece fu procurarsi una mappa dell'Austria, quindi decise che avrebbe potuto lo stesso controllare il nome de Villiers prima di abbandonare la città. Rimase sorpresa quando lo trovò. "De Villiers" era un vecchio nome che risaliva a diverse generazioni più addietro, fino alla metà del sedicesimo secolo. Rimase scioccata quando scoprì Julien e Jeanette registrati e residenti a Mürzzuschlag, proprio come semplici cittadini. E fu solo quando si fu calmata che Carol ricordò chiaramente Jeanette dire: «Julien dovrebbe ormai essere tornato in Austria con Claude e Susan». Non appena vi fu la linea dall'altro capo del telefono, Carol disse: «Rene, ho trovato i de Villiers. Abitano in una città non lontano da Vienna. Mi trovo nel paese in questo momento». «Carol, aspetta! Non fare niente di stupido. Non sai di che cosa sono capaci». Carol si fermò. «Non so se c'è una connessione o meno ma, Rene, in qualche modo percepisco dalla tua voce che mi credi. Perché ho la sensazione che potrebbe essere la prima volta che lo fai?». Ci fu una pausa dall'altro capo del telefono. «Hai ragione. Penso di aver continuato a credere che non li avresti mai trovati. Adesso...». «Ancora non credi si tratti di vampiri». «Io... non so cosa pensare. Sono reali e sono collegati al rapimento del bambino che ti hanno costretto a partorire, su questo non c'è dubbio. Ma vampiri? Esseri che godono di una vita eterna, o almeno di una eterna giovinezza... Che cosa hai intenzione di fare?» «Trovare mio figlio». 1
Equivalente del signore e la signora Rossi. Sta ad indicare cioè persone qualunque o fittizie (n.d.t.). 2 Espressione idiomatica inglese equivalente a "impresa folle" (n.d.t.). CAPITOLO 23 Appena il sole fu tramontato, Carol guidò per la ripida strada di monta-
gna verso un castello medievale che dall'aspetto le ricordò i manieri spagnoli. Si domandò che cosa sarebbe successo là. Adesso che era sul punto di trovarli, si sentì quasi depressa, cosa che la sorprese. Ma nel profondo sentiva la paura. Si stava avvicinando, era molto vicina, poteva sentirlo. Ma doveva ricordarsi che c'erano ancora grossi ostacoli da superare. I de Villiers avrebbero potuto essere in viaggio. Probabilmente non l'avrebbero aiutata. Avrebbero potuto avvertire André e gli altri. E soprattutto non doveva dimenticare che erano dei vampiri, tutti loro... anche loro bevevano sangue, e avrebbero potuto bere il suo; non avevano alcun motivo per non farlo. Guidò fino alla fine di una strada sterrata; avrebbe dovuto coprire la distanza rimanente a piedi. Faceva freddo là fuori, tra le montagne dalle nevi perenni, così lontano da un'area abitata. Tirò su fino al colletto la lampo della sua corta giacca di lana e si sistemò sulla testa il berretto, quindi chiuse lo sportello del furgoncino e s'incamminò lungo il sentiero sterrato fino alla porta. Abbassò con decisione il grosso battente che aveva la forma di una testa di lupo. Dopo pochi secondi il giovane grazioso ragazzo che aveva visto allo château aprì la porta. Sembrava affamato e inizialmente la guardò con quell'intento. Un istante dopo lo stupore si dipinse sul suo volto. Subito dietro di lui apparve la giovane ragazza, poi Jeanette, che non sembrava del tutto stupita nel vederla. Nessuno proferì nulla per qualche istante. Alla fine Jeanette disse: «Entra Carol, ti aspettavo». Entrarono in un enorme salone. Poco dopo Julien si unì a loro, con un grosso gatto persiano nero dagli occhi verdi della stessa sfumatura di quelli di Jeanette che trotterellava dietro le sue caviglie. Tutti e cinque sedettero davanti all'ampio camino che riscaldava abbondantemente la stanza. Immediatamente il gatto saltò in grembo a Julien, e il vampiro dall'aspetto austero cominciò ad accarezzarlo. La stanza era enorme, molto antica, con alti soffitti a volta e mura di pietra. Scaffali zeppi di volumi antichi riempivano un'intera parete e finivano in un'altra stanza. Il pavimento era coperto da tappeti orientali finemente intrecciati, sopra i quali si trovavano dozzine di pezzi d'antiquariato, per la maggior parte in eccellenti condizioni. Uno splendido tavolino impiallacciato con squisiti volti intagliati sulle gambe catturò l'attenzione di Carol. Rivedere nuovamente i de Villiers le fece capire quanto tempo fosse trascorso. Un decennio prima aveva pensato che Jeanette e Julien fossero
molto più vecchi di lei. Adesso sapeva di avere un aspetto solo di poco più giovane, e di essere molto più vecchia di Claude e Susan. Sembrava invecchiata, ma loro no. «Come facevi a sapere che stavo venendo?», chiese Carol. Notò che tutti e quattro erano pallidi, affamati. «Le carte», rispose Jeanette. Carol annuì. «Ho bisogno del tuo aiuto». Nessuno disse una parola. «Devo trovare il mio bambino. Ti prego, dimmi dove si trova». Il ragazzo, Claude, disse qualcosa in francese, ma in un dialetto che lei non riusciva a capire. Poi la ragazza parlò in fretta, animatamente, sempre in francese, benché fosse ovvio che non si trattava della sua lingua. Carol riuscì a riconoscere le parole che denotavano preoccupazione. Alla fine Jeanette disse: «Carol, non possiamo aiutarti. Non possiamo tradire uno dei nostri». «E tu sei qui», disse Claude. Si girò verso Julien. «Non possiamo permettere che se ne vada». Il cuore di Carol sussultò nel petto. «Racconterà di noi alla gente», aggiunse Susan. La ragazza sembrava spaventata. Fissò Jeanette e poi Julien, come in cerca di conforto. «Nessuno conosce il vostro indirizzo tranne me. Non lo dirò a nessuno», disse Carol. «Non saresti dovuta venire qui», disse Jeanette. Anche lei guardava Julien. «Che cosa dobbiamo fare con lei?». Gli occhi scuri di Julien non avevano mai abbandonato il volto di Carol. Riusciva a sentire la loro intensità anche quando non lo stava guardando. Ma adesso lo fissò. Ricordò i suoi occhi; erano là, con lei, durante il travaglio della nascita di Michael. Entrambi avevano condiviso quell'esperienza, ma lei sapeva che non voleva dire che avessero condiviso qualcos'altro. Trascorsero altri minuti in un silenzio di tomba. All'improvviso Julien depose il gatto sul pavimento, si alzò, camminò verso il tavolino e dal cassetto estrasse carta e penna. Scrisse qualcosa. Si diresse da Carol e le porse il foglio. Lei lo prese e lesse quello che c'era scritto sopra. Immediatamente tornò a guardare Julien. I suoi occhi erano del nero più intenso che avesse mai visto e Carol sentì che, se li avesse fissati troppo a lungo a così breve distanza, sarebbe svanita completamente. «Sono nel Quebec? In Canada?», si sforzò di dire.
Lui non rispose nulla, continuò semplicemente a guardarla, studiandola. Dietro Julien, la ragazza, Susan, balzò in piedi. Disse con tono alto della voce: «Non le avrai dato il loro indirizzo, vero?» «Non puoi fare questo!», aggiunse Claude. Jeanette era chiaramente in difficoltà. «Julien, durante tutti i secoli della tua esistenza non hai mai tradito o abbandonato qualcuno della nostra specie. Perché?» «Non tradisco nessuno». I suoi occhi erano sempre fissi in quelli di Carol. «Ma non ho intenzione di ostacolare il destino». PARTE QUARTA «Il mondo cambierà più per le profezie di una donna che non per le decisioni di un uomo». Claude Bragdon CAPITOLO 24 Carol atterrò all'aeroporto Mirabel di Montréal alle tre del pomeriggio. Le condizioni meteorologiche le fecero desiderare una giacca più pesante. Decise di non comprarne una: non si sarebbe trattenuta a lungo. Era tutto quello che poteva fare per evitare di andare direttamente all'indirizzo fornitole da Julien. Ma si costrinse a restare calma mentre faceva un lungo giro in centro con un taxi. Affittò una camera d'hotel, prese accordi per noleggiare una vettura il giorno seguente, riunì le cose di cui avrebbe avuto bisogno, quindi fece una cena leggera in un grazioso bistrò. Appena fu di ritorno alla sua stanza nell'hotel, telefonò a Rene a casa. Carol si sentiva sfasata; la telefonata fu strana, la loro conversazione incoerente. «Carol, chiama la polizia». «No. André e gli altri sono troppo abili nell'ipnotizzare i poliziotti e chiunque altro». «Prendo il primo volo per venire là. Non devi restare da sola». «Rene, non essere ridicola. Devo fare in fretta, arrivare là domattina quando sono vulnerabili, e andarmene con mio figlio prima che si sveglino».
«Ti sei dimenticata che ti hanno rapita? E tuo figlio? Loro sono quattro e tu sei sola. Ti sopraffarebbero. Che cosa ti fa credere che riusciresti a scappare?» «Sono riusciti a fare quello che hanno fatto solo perché io non avevo veramente capito chi fossero. Adesso lo so, e so come sconfiggerli sul loro terreno. Vado a prendere mio figlio». «E poi?» «Poi tornerò a Philadelphia». Era una menzogna. Non aveva intenzione di tornare a Philadelphia: quello era il primo posto dove l'avrebbero cercata. Non voleva dire tutto a Rene adesso. Un rumore, come del ghiaccio in un bicchiere. «Carol, dammi il loro indirizzo. Qualcuno deve sapere dove ti trovi». Esitò. «Solo se prometti di non chiamare la polizia e di non venire qui». Fu Rene adesso ad avere un attimo di esitazione. «A meno che non ti senta entro domani sera». «No, Rene. Niente affatto. Devo scoprire com'è la situazione. Non so se Michael è ancora vivo... Non voglio complicazioni». Un'altra pausa. «D'accordo. Ma dammi l'indirizzo. Per ogni evenienza». «Devi promettermi che non interferirai». «Ti do una settimana. È più che ragionevole. Hai la mia parola. Poi, però, chiamerò i marines». Carol le fornì le informazioni. Ancora quel rumore di Rene che beveva qualcosa. Per tutti quegli anni Carol aveva pensato che fosse acqua con ghiaccio, ma adesso ne dubitava, specie perché Rene stava biascicando le parole. «Sai, Carol, non avevo pensato che l'avrei mai detto, ma penso che tu sia davvero di fronte a qualcosa». «Non ti seguo». «Voglio dire, e se fossero davvero dei vampiri? Dei non morti». Fece una pausa per sorseggiare dal bicchiere. «Non invecchiano. Hai un'idea di cosa significhi? Ci sono talmente tante persone che lo vedrebbero come un miracolo». «Potrebbe essere l'unico vantaggio della loro condizione». «Vantaggio? A dir poco. Loro hanno quello che tutti noi stiamo cercando... una vita senza fine».
«Io non sto cercando quella, sto cercando mio figlio. E adesso devo dormire un poco. Mi auguri buona fortuna? Ne avrò bisogno». «Certo che ti auguro buona fortuna. Se ci pensi davvero, dalla culla fino alla tomba, la fortuna è l'unica cosa che è a nostro vantaggio». Alle sette del mattino seguente, Carol arrivò all'ufficio della Hertz. Scelse una Toyota e ottenne le indicazioni per Westmont, la zona sul versante occidentale di Mont Royal, dove vivevano loro. Guidò per Sherbrooke, un'ampia strada con edifici in classico stile francese dalle facciate riccamente ornate e dipinte in colori accesi, poi girò a destra, verso la montagna con sulla sommità una grande croce illuminata che dominava quell'isola. Dopo cena aveva letto che l'Île de Montreal sulla quale era situata Montreal era stata esplorata da Jacques Cartier nel 1535 e fondata come città nel 1663. La zona era antica, per gli standard nordamericani. Seguendo le indicazioni, girò a sinistra sulla Avenue des Pins. Quando ebbe trovato Redpath Crescent, percorse lentamente la strada piena di curve strette. Questa zona, incuneata nel fianco della montagna, era ricca, era chiaro. Delle ampie dimore apparivano qua e là tra case di più modeste dimensioni, anche se ciascuna era senza alcun dubbio fuori dal comune. Vide case che sembravano chalet e una che avrebbe potuto essere una villa di campagna inglese, con l'edera avviluppata che la rivestiva esteriormente. Altre erano di design più moderno, meraviglie architettoniche dallo stile unico, fatte di materiali prestigiosi. Tutte si trovavano in cima a ripidi vialetti che s'innalzavano dal livello del terreno. Il numero 777 si mescolava bene a tutta quell'opulenza piena di buon gusto. La casa in pietra su tre livelli aveva vetri offuscati alle finestre, con uno stile meno francese e più Tudor. Parcheggiò dietro l'angolo e diede un'occhiata all'orologio: mancavano pochi minuti alle otto. Prese la sacca da ginnastica dal bagagliaio, poi tornò indietro a piedi verso Redpath. Mentre camminava lungo il marciapiede, Carol notò che l'ingresso si trovava sul fianco della casa, non di fronte; per fortuna. Salendo diversi passi dalla strada verso la casa, intravide un garage sul retro. Carol decise che avrebbe fatto meglio a bussare, per assicurarsi che non ci fossero una cameriera o un autista in giro. Dato che non rispose nessuno, fece il giro completo dell'edificio, cercando l'accesso più comodo. E se non abitano qui?, rifletté tra sé. Potrei finire in galera per violazio-
ne di domicilio. Ma le finestre avevano lo stesso assetto di quelle di Bordeaux: vetro offuscato all'esterno e plexiglas, che lei adesso sapeva non poter essere oscurato, all'interno. Avrebbe potuto incidere il vetro esterno con un taglierino. Non ci sarebbe voluto molto, ma sarebbero aumentate le possibilità di essere scorta da un vicino, perché dopo si sarebbe dovuta occupare del plexiglas. E quello sarebbe solo scivolato verso l'esterno, non verso l'interno, per cui l'avrebbe dovuto intagliare. Ma Carol aveva acquisito molta pratica e preparazione negli anni. Oltre a sbloccare le serrature, sapeva qualcosa anche dei sistemi di sicurezza. La scatoletta all'interno della porta principale le aveva rivelato che un sistema di sicurezza ad infrarossi proteggeva l'edificio. Non sarebbe stato un problema, una volta all'interno. La parte più difficile era entrare in fretta. Un piccolo adesivo sulla finestra la informò che la casa era protetta da una compagnia di vigilanza internazionale. Sospettò che se avesse forzato una delle porte o delle finestre, da qualche altra parte sarebbe scattato un allarme. Le guardie della vigilanza o la polizia sarebbero arrivate in pochi minuti. La rapidità era il modo migliore per entrare, e ciò voleva dire passare da una porta, non da una finestra. Provò le chiavi passepartout - praticamente un set completo di chiavi per scassinatore professionista - finché una si adattò alla serratura. Un allarme doveva già essere scattato, ma si costrinse a restare calma mentre provava la serratura. Alla fine scattò. Carol aprì la porta quel tanto che bastava per scivolare all'interno, poi la richiuse lentamente. Camminò molto adagio nel corridoio per evitare che gli infrarossi rilevassero la sua sagoma. Si nascose in un armadio dell'ingresso, aspettando l'arrivo della vigilanza, o della polizia. Li sentì salire con la macchina su per il vialetto. Erano in due. Controllarono tutte le porte e le finestre, apparentemente soddisfatti dall'ipotesi che si fosse trattato di un falso allarme; non sarebbero entrati. Durante l'ora seguente, Carol fece scattare l'allarme altre due volte. Aveva letto che dopo tre controlli la polizia avrebbe pensato a un sistema difettoso e avrebbe smesso di controllare. Quando se ne furono andati la terza e - così sperò lei - ultima volta, era pronta a iniziare la ricerca. Entrò nella cucina, una stanza luminosa dai colori giallo, rosso e bianco con un bancone-tavolo da lavoro e sgabelli in mezzo. Il frigorifero e le tazze erano vuoti: un segnale del fatto che si trovava nel posto giusto. Carol si mosse senza far rumore, con il cuore che le rimbombava come
un tuono nelle orecchie; qualunque morto vivente nelle vicinanze sarebbe riuscito a sentirlo. C'era una sala da pranzo con mobili di pino, la versione canadese del Provenzale francese, un salotto pieno di divani, tavoli e lampade; riconobbe un paio di pezzi dell'arredamento Regina Anna, e la scultura della sirena sul delfino. Il suo cuore batté ancora più forte e dovette essere dura con se stessa. Se si fosse agitata troppo, avrebbe potuto fare qualcosa di stupido. Salì su per le scale lentamente e in silenzio per quanto le fu possibile. La casa era fredda, e la temperatura bassa: durante il giorno preferivano un clima più rigido. Al piano superiore trovò cinque porte, tutte chiuse a chiave tranne quella del bagno. C'era anche una rampa di scale per il secondo piano con due porte in cima, entrambe chiuse. Decise di controllare la cantina. Si sentiva relativamente tranquilla: avrebbero dormito fino al tramonto e non sarebbero stati in grado di farle del male. Erano i mortali quelli che non poteva permettersi di incontrare. Fino a quel punto sembrava non ce ne fosse nessuno in giro. Tornata al pianoterra, Carol trovò una scala che portava fuori dalla cucina. Accese la potente torcia che aveva portato con sé e scese gli scalini di legno. La cantina era una cupa stanza di cemento grezzo, pulito. Dietro le scale i due piccoli vani per le scorte erano vuoti, eccezion fatta per una coppia di bauli. In uno degli angoli dell'ambiente principale si trovava una caldaia a gas nuova e poco rumorosa. Vicino c'era una porta, l'unica che riuscisse a vedere. Carol sapeva che l'avrebbe dovuta controllare. La porta presentava due ganci con una catena e un lucchetto. Ma la catena passava solo nel gancio sullo stipite, cosicché lei non dovette neppure rimuoverlo. Più in basso si trovava un pannello a combinazione, di quelli che solitamente si trovano all'interno delle banche. Carol ringraziò la sua buona stella per aver letto un libro intero su come violare il caveau di una banca e per aver fatto pratica con una vecchia cassaforte che aveva trovato al mercato delle pulci. Sarebbe stata una cosa facile, paragonata a quell'altra così sofisticata. Appoggiò la borsa sul pavimento. Lavorò pazientemente con il quadrante, ascoltando con uno stetoscopio che si era portata dietro per ogni eventualità. Ogni clic risuonava come un'esplosione. Dopo ogni scatto spingeva la porta. Al quinto, la porta cigolò verso l'interno. Il cuore di Carol batteva a ritmo accelerato. Era terrorizzata all'idea di quello che avrebbe potuto trovare. Raccolse la borsa e con circospezione
entrò in quell'oscurità che attendeva come una bocca pronta a divorarla. Con la torcia ispezionò rapidamente la stanza, cogliendo frammenti di mobili, di ricordi. Qui, uno scaglione argentato incontrava un triangolo nero. Là, lo spigolo di un cassettone. Una sedia. Poi un letto nero, laccato, con una sagoma distesa sopra. Non è il momento di farsi prendere dal panico, pensò tra sé. Fai quello che sei venuta a fare. Michael è tutto quello che importa adesso. Si guardò intorno nella stanza ancora una volta, per assicurarsi che non ci fosse nessun altro. L'unica porta conduceva al bagno. Quando si convinse di essere l'unico essere vivente all'interno della stanza, si diresse al letto. Era disteso su un fianco, come se aspettasse che si unisse a lui nel sonno. Si mosse verso quel lato del letto. Carol fece correre la luce sul corpo nudo di André. Non era cambiato. Ma adesso che lei aveva più o meno la sua età, ebbe nuovamente quella sensazione inspiegabile di essere differente da come era stata. Nervosamente, appoggiò la torcia e la sacca da ginnastica sul tavolino. Frugò nella sacca e tirò fuori due oggetti. Quello nella mano sinistra lo sistemò sul cuore di lui, l'altro, nella destra, lo sollevò sopra. La luce catturò il volto e il petto di André. Carol lo fissò, ipnotizzata da quel ricordo reso vivo. È come un cadavere che attende sepoltura, pensò, immobile, senza vita, finito. Nove anni, ricordò amaramente a se stessa. Hai rubato nove anni della mia vita. E il mio bambino. Ti odio più di quanto abbia mai odiato nessun altro. E non sei neppure umano. Meriti di morire. E allora perché non ci riesco? Non riusciva ad abbassare la mano destra, quella che stringeva il martello di legno, per spingere il paletto nel suo cuore vuoto e ucciderlo. Cercò di parlare a se stessa per convincersi. Conosceva tutte le ragioni. Ci si era soffermata a lungo con Rene: come lui l'aveva maltrattata, aveva abusato di lei, l'aveva usata, l'aveva strappata dall'unica persona al mondo alla quale fosse mai stata veramente legata. Meritava qualcosa di peggiore della morte, pensò tra sé. Che cos'è se non una creatura innaturale che sarebbe dovuta morire molto tempo fa? È un vampiro, un assassino di esseri umani, crudele, sadico, perverso. Mi avrebbe uccisa in un istante, senza pensarci. E forse era quello il motivo per cui sapeva di non poterlo fare. Non era come lui: doveva riflettere sulle sue azioni.
Dev'esserci un altro modo per arrivare a Michael, pensò. Dormiranno per tutto il giorno. Posso semplicemente controllare tutte le porte. Se è vivo, se è qui, lo troverò e lo porterò via. Stavolta so come fare in modo che non rimanga traccia di noi. Stava per abbassare il braccio destro, quando una mano la afferrò al polso. Sbalordita, per un secondo non riuscì a muoversi. Poi, istintivamente, sollevò la mano sinistra, pronta infine ad affondare il paletto nel suo petto. L'altra mano di André le bloccò il polso sinistro. Le sue braccia si piegarono all'altezza degli avambracci e si aprirono a ventaglio, stendendola, costringendola verso il basso finché non fu distesa sul suo petto, con il volto a pochi centimetri da quello di lui. Si aspettava che i suoi occhi si spalancassero e le sue labbra si schiudessero, spietate. E poi l'avrebbe uccisa. Ma non accadde nient'altro. Carol fu costretta a giacere là, premuta contro il suo corpo freddo, incapace di fare altro se non contorcersi. Le mani che le serravano i polsi erano simili a manette d'acciaio, fredde come il ghiaccio, inumane. Doveva finire così, pensò con amarezza, la sua paura superata per il momento dalla sensazione palese dell'ingiustizia della vita. Sapeva che non c'era altro che potesse fare se non giacere immobile, conservare le energie, guardare la batteria della torcia esaurirsi col tempo e aspettare la notte. Aspettare la propria morte. Un paio di volte nell'arco della giornata pensò di aver sentito il cuore di lui battere, ma avrebbe potuto trattarsi del suo. È una sorta di narcolessia, pensò. È addormentato ma non lo è. È morto ma è vivo. «Ti sei trasformata in una pazza cacciatrice di vampiri, o dovrei pensare che c'è qualcosa di personale?», chiese lui quando il sole doveva essere tramontato. Persino la sua voce è la stessa, pensò lei. Cinica, amara nei miei riguardi. Con un movimento aggraziato la adagiò di schiena e si mise sopra di lei, sempre serrandole i polsi. La luce della torcia era veramente debole adesso, ma riusciva a scorgere il suo volto chiaramente. Era esattamente come lo ricordava quando era affamato: scarno, famelico, furente. «La tua tenacia mi ha sempre stupito», disse lui. «Se tu non fossi stata così stupida, l'avrei ammirata. Come ci hai trovati?» «Julien. Mi ha dato il vostro indirizzo».
«Ancora bugie, Carol? Certe cose non cambiano mai, non è così?» «È vero. Li ho incontrati in Austria. Non mi importa se non mi credi». «Ma, cosa ancora più importante: come hai fatto a ricordare?» «Non sei onnipotente, André. Noi semplici mortali abbiamo delle capacità». «Tipo?». Ma lei non aveva intenzione di raccontargli tutto. «Che cosa farai di me stavolta?». André rise sarcasticamente e scosse la testa. «Sei sempre così ingenua. Irrompi qui, provi a pugnalarmi al cuore poi mi chiedi che cosa ho intenzione di fare con te. Che cosa ti aspetti, un invito per colazione? Torna alla realtà!». «Non ho provato ad ucciderti», disse Carol debolmente, ricordando la sensazione di com'era sempre stato difficilissimo provare a parlare con lui. «Capisco. A cosa serviva il paletto? Ad accendere un fuoco? Picchettare una tenda?» Scosse la testa di nuovo, incredulo. «Sei patologica... non sai neppure più quando stai mentendo». «Ho provato a ucciderti, ma non ne sono stata capace». Lui rise calorosamente, poi s'interruppe e la fissò. «Sei come una vergine per me: il tuo sangue è sempre stato fuori dalla mia portata. Ma ora non più, Carol». Fu assalita dal panico. «Aspetta. Se hai intenzione di uccidermi, prima lasciami vedere il mio bambino. Lasciamelo incontrare e fammi vedere che sta bene prima che muoia. Ti prego». Scosse la testa. «Sai che non posso farlo». «Puoi. Lascia soltanto che lo veda. Non gli dirò nulla, sono sincera». «Da quando sei diventata una persona sincera?» «Lascia solo che lo veda. Solo una volta». «No». Carol era sul punto di piangere. Tutti quegli anni, tutto quel lavoro, tutta quella sofferenza. E adesso morirò senza neppure aver visto Michael, pensò amaramente. «Chiudi gli occhi. Pensa a qualcosa di piacevole», le disse. «Farò in fretta, per auld lang sine1». Lo guardò ma non riusciva a trattenere la rabbia. Si sentiva pazza di dolore.
«Ha mai chiesto di me?». André ebbe un'esitazione. «Sì». «Che cosa gli hai detto?» «La verità. Che hai provato a portarlo via. Che ti abbiamo trovata, e l'abbiamo salvato. Che volevi restare, ma noi ti abbiamo detto di no». La verità, così nuda e tagliente, pensò lei. La voce le si ammorbidì per il dolore che provava. «Gli hai detto qualcosa di buono di me?» «Gli ho detto che ti sei presa cura di lui per il poco tempo che siete stati insieme». «Io l'ho chiamato Michael. Come l'hai chiamato tu?». André parve scosso. «Michel». Sì, pensò lei, entrambi sapevamo che era un angelo. «Promettimi una cosa. Digli che l'ho amato. Per favore. Solo questo. Che l'ho amato più di ogni altra cosa, più della mia stessa vita. Glielo dirai?». Non disse nulla. «Lo farai?» «Va bene», disse infine. «Glielo dirò». Non era quello che voleva, ma l'avrebbe dovuto fare. E qualcosa di simile alla serenità scese su di lei. «Finiamola. Chiudi gli occhi». Lei lo guardò. I suoi occhi erano grandi, persino nella luce fioca. Lucenti, come avorio grigio lucidato. Sembrava famelico. Non gli permetterò di dire a Michael che ero una codarda, pensò. «Lascia che mi conceda a te». Il suo volto si offuscò per un misto di impazienza e confusione. «Sei la mia morte, lo sei sempre stato. Lascia che ti dia il mio sangue come ti ho dato il mio corpo, la mia anima e tutto quello che ho avuto. Qui». Cercò di muovere un braccio. All'inizio lui oppose resistenza ma poi le liberò il polso. Carol sistemò i lunghi capelli dietro il collo. Aprì i due bottoni superiori della giacca e poi la camicia di flanella, girando il colletto all'interno, esponendo la gola. Lui la guardò, ovviamente attratto dalla vena. Il piacere riempì il suo
volto. Ma sembrava anche irritato. «Cercherò di non farti male», le disse a bassa voce, quasi un sospiro. «È troppo tardi», rispose lei. «Sono già stata ferita. E comunque non ha più importanza». Il battito del cuore di Carol aumentò all'inverosimile. Fece scivolare una mano dietro la sua testa e fece correre le dita tra i suoi capelli tirandolo a sé come fossero amanti. Le sue labbra fredde premevano sulla pelle della sua gola mentre tremava. La sua lingua, guizzando come quella di un serpente, tastava la zona rapidamente. Due denti appuntiti, come lame di rasoio, si appoggiarono alla carne, irritandola, causando prurito. Il corpo di Carol fu scosso dal terrore; le lacrime le riempivano le ciglia e coprivano il suo volto. «Ricorda di dire a Michael che l'ho amato», sussurrò, mentre il suo respiro impaurito si trasformava in un rantolo. Poi attese, chiedendosi come sarebbe stata la morte, come sarebbe stato sentire i suoi denti lacerarla, quanto tempo ci sarebbe voluto perché lui le portasse via dal corpo la vita insieme al sangue. Il tempo parve immobile. Non riusciva a capire quanto tempo fosse passato. Avrebbe potuto essere un secondo oppure un'ora, ma lui non la penetrò. Si tirò su e la guardò. Il suo volto era ancora scarno, smunto, affamato. Ma c'era qualcos'altro, qualcosa che lei non riusciva a capire. Poi, mentre lei lo fissava, tese la testa come un animale, in ascolto. Improvvisamente balzò dal letto e corse alla porta, cercando di chiuderla, ma non fu abbastanza rapido. Carol si mise a sedere in un secondo e intravide una piccola figura sulla soglia, delineata dalla luce morente. «Michael!», urlò. «Qui est-ce, André?», chiese una voce giovane ma determinata. «Arrête, Michel! Va en haut!». Sentì André dire qualcos'altro e ancora quella giovane voce, poi André sospirò. Alla fine la porta venne spalancata. Il ragazzo entrò nella stanza, arrivando fino al letto. Anche nella penombra Carol vide che i suoi capelli erano neri come quelli di André, il suo viso parimenti aggraziato. Grandi occhi blu, molto simili ai suoi, la guardavano di rimando con curiosità e sorpresa. È bellissimo, pensò, proprio come lo immaginavo. «Tu sei mia madre, non è così?», disse infine il ragazzo.
1
Espressione in antico scozzese equivalente a "i bei tempi andati" (n.d.t.). CAPITOLO 25 «Santo cielo! Il ritorno della madre del figlio di Dracula!». Gerlinde urlò, mentre loro tre entravano nel salotto. «Trova Chloe», disse André a Michael, che corse fuori dalla porta. André appoggiò la sacca sul tavolino da caffè. «Cos'è tutta questa roba?», chiese Karl, frugando nel contenuto, tirando fuori picchetti e croci. «Non avrai avuto intenzione di usare questi con noi?», Gerlinde sembrava scioccata. «No. Non avrei potuto», cercò di spiegare Carol. «Erano solo per una situazione d'emergenza». «Nel caso avesse voluto accendere un falò», affermò André sarcasticamente. «Siediti là», le disse. Si sistemò su una sedia con i braccioli color malva vicino alla finestra, lontano dal gruppo principale dell'arredamento. Vicino al camino c'erano altre due sedie di fronte a un grosso divano a cinque posti, e in mezzo si trovava un enorme tavolino circolare di noce. C'erano anche due poltroncine doppie coperte di tessuto a fiori blu chiaro, che contrastavano con il resto della tappezzeria. Hanno veramente buon gusto, pensò Carol. Michael tornò nel salotto correndo, seguito da Chloe. Il ragazzo si avvicinò lentamente a Carol, poi si appollaiò sull'estremità dello sgabello di fronte alla sua sedia. La fissava come ipnotizzato, sul volto un misto di sconcerto e curiosità. È adorabile, pensò Carol. Non è timido o diffidente. Voleva protendersi ed abbracciarlo, ma sentiva che avrebbe potuto spaventarlo. Poi si rese conto che probabilmente avrebbe potuto spaventarsi anche lei. «Sentite», annunciò Gerlinde mentre usciva dalla stanza. «Vado a scongelare un paio di pinte di sangue. Sembra proprio che stasera ceneremo a casa». «Carol, dove hai trovato il nostro indirizzo?», chiese Chloe. «Dice che gliel'ha dato Julien», rispose André.
«Non ci credo», disse Karl. «Neppure io». «Dicci Carol», continuò Chloe. «Me l'ha dato Julien». «Come hai trovato Julien?». Non aveva intenzione di tradire l'ispettore LePage. «Ricordavo che di cognome facevano de Villiers e poi mi venne in mente che Jeanette una volta aveva detto che Julien era tornato in Austria con i ragazzi, così mi recai là e li trovai in un elenco dei residenti». «E perché Julien ti ha dato l'indirizzo?» «Non lo so». «Non ha senso», disse Karl. «È quello che ha detto la sua famiglia», suggerì Carol. «Ma quando gli chiesero perché vi stava tradendo, lui rispose che non lo stava facendo. Semplicemente non poteva intralciare il destino». «Telefonerò a Vienna. Per assicurarmi che vada tutto bene», disse Karl. «Come hai fatto a ricordare?», chiese Chloe. «Terapia. Per anni. Per lo più ipnosi. C'era qualcuno che ha creduto in me». «Qualcuno sa di noi!». «Non s'intrometterà». «Conosce il nostro indirizzo questo terapista?». Carol esitò. Non voleva coinvolgere Rene. «Mi ha solo aiutata a recuperare i ricordi perduti. Sa che mi trovo a Montreal, tutto qui; non siete in pericolo». Michael continuava a fissarla e lei lo guardò. È in buona salute, pensò. Intelligente, questo è chiaro, anche dolce. Ha ereditato il meglio di entrambi. «Perché sei tornata?», domandò Chloe. Gerlinde entrò in quel momento con un vassoio con grandi calici. Ne offrì uno a ciascuno, Michael compreso. «RH positivo», disse. Per Carol c'era un piccolo bicchiere con del vino rosso. «Meglio che tu beva questo, piccola. Sarà una lunga notte». Carol vide suo figlio vuotare il contenuto del bicchiere come fosse latte. Il rosso macchiava la sua bocca e creava un effetto baffi sul labbro superiore. Lo leccò via e poi si asciugò le labbra con la manica. Lei non la trovò una cosa repellente. È solo un bambino, pensò. Mio figlio.
«Perché?», chiese di nuovo Chloe, riportandola al presente. «Sono tornata per Michael», disse, poi decise di raccontar loro ogni cosa. Non aveva molta importanza adesso. «Mi sono sforzata per anni, tentando di recuperare i ricordi. L'ipnosi terapeutica ha riportato alla luce quello che hai fatto», disse rivolta ad André. Il suo volto era una pallida maschera che non riusciva a decifrare. Uno dopo l'altro sedettero intorno a lei ad ascoltare la sua storia. Raccontò loro della terapia. Della morte di Rob, di quella di sua madre, della sua solitudine, e di quanto tutto era stato difficile. Guardò Michael. «Ho trascorso gli ultimi due anni cercandoti. Ho sempre creduto che un giorno ti avrei trovato», disse al ragazzo. «Ho cercato dappertutto: Francia, Spagna, Germania, gran parte dell'Europa». «Eravamo in Germania», disse Gerlinde. «Bonn - per cinque anni - prima di venire qui». «Sono stata a Bonn», disse Carol. «Alla fine mi sono ricordata dell'Austria. Quando Julien mi ha fornito il vostro indirizzo, sono venuta direttamente qui. Ho fatto tutto questo per trovarti, Michael», gli disse. «Carol, questo è un momento difficile per Michael», disse Chloe. «Ha un'età in cui deve prendere delle decisioni che lo condizioneranno in modo permanente». «Devo decidere il giorno del mio compleanno se voglio essere mortale o immortale», si confidò il ragazzo, in apparenza non troppo afflitto dalla decisione. I suoi occhi sono così simili ai miei, pensò lei. È così garbato ma deciso. Lo adoro. «Non voglio interferire», gli disse Carol. Guardò gli altri. «Davvero. Voglio solo stare con lui». «Stare con lui è interferire», disse Karl mentre rientrava nella stanza. «Non è un buon momento per la tua influenza». «Non c'è mai stato un buon momento per la mia influenza!», Carol scattò. «Ma sono sua madre. Ho il diritto di stare con mio figlio». «Gli unici diritti che hai sono quelli che noi ti concediamo, e al momento non ne hai nessuno!», disse André alzandosi in piedi. «Io voglio che resti». Era stato Michael a parlare. Tutti parvero sbalorditi. Dopo alcuni minuti di eloquente silenzio, Gerlinde disse: «Ehi, forse non è un'idea così malvagia». «Sei matta?».
André si girò verso di lei. «Penso che sia la cosa peggiore che possa accadere», disse Karl. Chloe rimase in silenzio. «Voglio dire, che male può fare, davvero», continuò Gerlinde. «Michael dovrebbe conoscere sua madre. E non influenzerà la sua decisione in un modo o nell'altro». «Voglio che resti», disse di nuovo Michael. «Io sono contrario», disse Karl. «Non può nuocere», sorrise Gerlinde. «André, credo che sarai tu a dover decidere questa faccenda», gli disse Chloe. «Come vedi, siamo divisi. E tu sei il padre di Michael. Se sei d'accordo che lei resti, Carol diventerà una tua responsabilità. E, se non vuoi, è tuo compito decidere cosa fare di lei». «Papa, lasse-la rester!» disse Michael, correndo verso André. «Per favore, fai rimanere mia madre!». André guardò il ragazzo. Carol vide che i due non solo avevano un rapporto speciale, ma che Michael sapeva sciogliere il cuore di André con una semplice occhiata, proprio come poteva già sentire che suo figlio era in grado di sciogliere il suo. André arruffò i capelli di Michael, e il ragazzo si aggrappò al suo braccio. Alla fine disse a suo figlio: «Faremo una passeggiata e ne parleremo». Dopo che se ne furono andati, Chloe lasciò la stanza dicendo che sarebbe andata a telefonare ancora una volta a Julien e che avrebbe ordinato del cibo cinese per Carol. «Hai passato un brutto periodo, ragazza», disse Gerlinde. «Sì, è così», ammise Carol. «Ma dovevo vederlo. È davvero meraviglioso. L'avete cresciuto bene e ve ne sono grata». «L'abbiamo cresciuto tutti insieme, ma grazie. Sai, non hai più quel bell'aspetto. Ovviamente sei più vecchia. Mi fa diventare matta vedere i mortali invecchiare». «Ho solo trentaquattro anni», disse Carol ridendo. «Ma sono stati dolorosi, gli ultimi anni. Ho dovuto lavorare duramente per mantenermi in forma come mi vedi». «E il virus?», chiese Karl. «Tre anni fa sono risultata positiva. Non so se le cose siano cambiate. Sono stata male, raffreddori, influenza, quel genere di cose. Dopo il test non sono più andata da un dottore. Credo di non aver voluto scoprire qual-
cosa di peggio». Quando André e Michael tornarono, Chloe si unì a loro nel salotto per il verdetto. Tutti sedettero tranne André. «Michel mi ha convinto del fatto che ha bisogno di conoscere Carol. Ci proveremo per cinque notti, poi deciderò che cosa fare». Carol e Gerlinde si abbracciarono. «Puoi passare parte della notte insieme a Michel, ma uno di noi sarà sempre nella stessa stanza insieme a voi due», disse a Carol. «Io sarò responsabile di te per la maggior parte del tempo; durante il giorno resterai con me. Restituirò la macchina. Dove sono i tuoi vestiti?» «Per lo più sono quelli che ho addosso. Ho già lasciato l'hotel». Michael si avvicinò a Carol. Stavolta non si trattenne. Si fece avanti e lo abbracciò. Era caldo e tenero mentre se lo stringeva al cuore. Lui l'abbraccio di rimando, cingendole il collo con le braccia. Lei toccò i suoi capelli vellutati, quelli di un bambino. Lo annusò, per ricordarne il profumo. È robusto e fragile allo stesso tempo, pensò tra sé. Improvvisamente si rese conto che tutti i suoi sforzi avevano portato a quel momento, e scoppiò a piangere. «Perché piangi?», le chiese Michael, accarezzandole i capelli nel modo in cui un bambino conforta un adulto. «Perché ti amo talmente tanto che mi fa male». Più tardi, quella notte, lui tirò fuori il suo iguana domestico e i suoi criceti, che le mostrò. Le raccontò che Chloe lo portava a passeggiare nei boschi, su per la montagna, che raccoglievano piantine e lui aveva memorizzato il nome di tutte le specie. Le disse che gli piaceva leggere storie d'avventura, giocare con i videogiochi e andare a vedere i film insieme a Gerlinde. André lo portava a vedere le partite di baseball, nuotavano un paio di sere a settimana e si esercitavano con gli attrezzi ginnici. Le disse che l'inverno precedente era stato a sciare per la prima volta, che voleva imparare a giocare a hockey, e che stava costruendo, con l'aiuto di Karl, un laboratorio dove avrebbe potuto fare esperimenti chimici. Raccontò che gli piacevano il rap, l'hip hop, Madonna e che da grande avrebbe tinto i capelli color arancione e si sarebbe fatto un taglio alla mohicana. Carol rise deliziata. Tutto in lui l'affascinava. Gli rivolse domande su quello che gli piaceva o meno e su tutti i suoi interessi. Giocarono con Gerlinde a un gioco sul tipo di Dungeons and Dragons. Michael era eccitato mentre giocavano, e Carol dovette trattenersi dall'abbracciarlo ogni
cinque minuti. Quando la notte fu trascorsa, non riusciva a rendersi conto di quanto le ore fossero volate. «Andiamo», le disse André. Gli altri si recarono al piano superiore ma lei scese sottoterra insieme a lui. «Perché dormi quaggiù?», chiese Carol. «Mi fa venire in mente un mausoleo», rispose lui con sarcasmo.. Chiuse la porta e la bloccò con un lucchetto installato di recente. Rimasero per un momento nell'oscurità prima che lui accendesse una luce soffusa sopra il letto. Mentre si toglieva la camicia disse: «Puoi dormire qui con me». Carol si sfilò le scarpe e si distese. «Non sei costretta a dormire con i tuoi abiti. Non ho intenzione di scoparti», disse lui. Quando André ebbe finito di svestirsi, lei lo vide aprire il cassetto superiore del più piccolo dei due comò e togliere qualcosa. «Fa freddo qui», disse lei, sentendosi nervosa per l'essere rimasta da sola con lui. «Non voglio prendermi un raffreddore. Mi succede facilmente». Lui tirò fuori dall'armadio una coperta e gliela lanciò. Mentre lei se la stendeva sul corpo, lui entrò nel letto al suo fianco. All'improvviso si avvicinò a Carol che s'irrigidì. Agganciò dette manette di metallo, una metà al suo polso sinistro e l'altra alla tastiera del letto. Rimase scioccata. «Non c'è bisogno che mi leghi al letto. Non proverò a farti del male. E non andrò da nessuna parte. Sono qui per stare con Michael: non scapperò». Lui sogghignò. «Carol, mi fido di te un decimo di quanto tu ti fidi di me». Spense la luce. Rimasero distesi in silenzio. Carol aveva tante cose su cui riflettere, ma Michael era il suo pensiero dominante. Però aveva anche tante preoccupazioni, una delle quali era la sua terapista. Sperava che Rene non avrebbe tentato di intervenire, almeno finché non fosse trascorsa una settimana. Se avesse telefonato alla polizia, per il mattino seguente tutte le creature della casa sarebbero state smascherate per quello che erano. Un vero e proprio disastro. Sarebbero stati condotti fuori alla luce del sole - tutti loro - e anche Michael avrebbe potuto essere danneggiato dalla luce del sole. Poi, alla fine di tutto, gliel'avrebbero portato via finché un processo fosse riu-
scito a stabilire che lei era la madre. E lui l'avrebbe odiata per aver distrutto la sua casa, per averli traditi. Carol avrebbe voluto poter chiamare Rene e dirle che le cose avevano funzionato, almeno per il momento. Ma non poteva telefonare a Rene senza confessare che qualcun altro aveva il loro indirizzo. E questo non sarebbe stato saggio... almeno per quella notte. «André, apprezzo il fatto che tu mi abbia fatto restare». «L'ho fatto per Michel, non per te». «Lo so. E vedo che lo ami davvero, quanto lo amo io. Sono felice». CAPITOLO 26 La polizia non si presentò alla porta la notte seguente, e neppure quella successiva. Carol si sentiva sollevata per il fatto che Rene avesse rispettato il suo volere, almeno per il momento. Ma doveva trovare un modo per contattare la sua terapista al più presto. Non era mai sola, e questo escludeva la possibilità di usare il telefono, a meno che non lo dicesse loro, e quell'idea non la faceva sentire a suo agio. Poteva soltanto incrociare le dita sperando che Rene non facesse nulla, e tenere occhi e orecchie aperti nel caso si fosse presentata l'opportunità di contattarla. I successivi quattro giorni Carol si sentì in paradiso. Ogni notte trascorreva diverse ore con suo figlio. All'inizio della serata, mentre lei cenava, qualcuno portava fuori Michael... era la routine. Immaginava fosse per il sangue, ma non si sentì mai abbastanza coraggiosa da chiedere come se lo procurasse. Quando tornava, restavano nel salotto a parlare o a guardare la televisione insieme, a giocare, costruire delle cose, tutto sotto gli occhi attenti di uno dei vampiri. Era un ragazzino creativo, pieno di immaginazione, mai noioso o ripetitivo. Le fece un milione di domande su tutto, dall'acconciatura di Bon Jovi a come potevano fare a sedersi i guerrieri samurai giapponesi con delle spade tanto grandi, fino ai composti chimici di diversi prodotti per pulire la casa. Fecero dei dipinti insieme e lavorarono l'argilla. Lui aveva una chitarra, e le suonò delle canzoni che aveva scritto, facendo un'ottima imitazione del modo di ballare di Michael Jackson. È geniale, pensò. Mio figlio è davvero geniale. Ed è anche il ragazzino più normale del mondo. La quinta notte, mentre Carol attendeva che André riportasse a casa Michael, fece una domanda.
«Gerlinde, cosa vuol dire esattamente che Michael deve scegliere se essere mortale o immortale?» «Be', nel periodo della pubertà - non so perché, ma questo sembra essere un momento cruciale - deve prendere una decisione. Avrà nove anni la vigilia di Capodanno». «Sì, lo so». «Ah, giusto. C'eri anche tu. Me n'ero dimenticata. Comunque, in base a quello che deciderà - e dev'essere una decisione soltanto sua - la sua vita sarà influenzata da quel momento in poi. Come per il cibo. Se vuole essere mortale, non potrà più nutrirsi di sangue, voglio dire, come sostentamento». Gerlinde si sentiva ovviamente a disagio nel parlare di questo. «Ehi, ragazzina, ti va di vedere i miei dipinti?» «Mi piacerebbe tanto». Salirono al secondo piano in uno studio dalle mura bianche pieno zeppo di cornici. «Ma è meraviglioso», disse Carol, ammirando un ritratto di Michael lasciato a metà ancora sul cavalletto. «Sì, quello è abbastanza bello. Ce ne sono degli altri qui». Gerlinde aveva raffigurato Michael da solo e insieme ad André. C'erano anche dei ritratti di Chloe, Karl, Julien, Jeanette con i figli e altri che avrebbero potuto essere dei vampiri. Una donna assomigliava vagamente all'ispettore LePage, ma Carol non chiese se si trattasse di sua figlia. Ogni dipinto era veramente realistico. Lo stile di Gerlinde mescolava colori intensi, linee tese e contrasti netti, ma c'erano anche quadri astratti, alcune tele realizzate in stile realista, simili a foto. «Sono veramente belli», disse Carol. «Hai del talento. Potresti essere una pittrice a livello mondiale». «Grazie», disse timidamente Gerlinde. «Ma c'è una cosa nell'essere sovrannaturali; devi mantenere un basso profilo». «Ehi! Mi hai ritratta!», disse Carol, sorpresa. Tre tele appoggiate al muro mostravano una Carol più giovane. In una, sedeva vicino al camino del salotto dello château di Bordeaux, con uno sguardo malinconico. In un'altra la sua testa era appoggiata al sedile sul lato del passeggero di una macchina sportiva verde. Sembrava rilassata, sorridente, con i capelli scarmigliati dal vento. Nell'ultima, André e Carol erano uno di fronte all'altra in piedi. Entrambi tenevano le mani sui fianchi e si guardavano negli occhi. «Questi sono dei ricordi, non è così?». Gerlinde rise.
«Non mi è mai capitato di averti in posa per me». «Michael li ha visti?» «Sì». «Ecco come faceva a sapere che ero sua madre». Carol riappoggiò le tele al muro. «Avete mai parlato di me?» «Sempre, ragazza. Gli ho detto che eri una madre straordinaria e una persona veramente eccezionale». «Grazie, Gerlinde. È veramente brutto che le cose siano andate così». «Già. Magari stavolta ci sarà un lieto fine». «Forse», disse Carol, ma non ne era convinta. Tuttavia, non aveva perso ancora tutte le speranze. Finché aveva la possibilità di restare con Michael, non le importava veramente di tutto il resto. «Gerlinde, ho una richiesta da farti e ho davvero bisogno che tu mantenga un segreto». Gerlinde mutò espressione, a disagio. «Te lo chiedo solo perché sei mia amica e non voglio tradirti come ho fatto l'ultima volta. Devo fare una telefonata». «Qualcuno sa che sei qui!». Carol si succhiò le labbra e annuì. «La mia terapista: Voglio solo chiamarla e dirle che sto bene, così non si preoccuperà e non farà nulla. Se mi sente, andrà tutto bene». «Oh cielo!», disse Gerlinde, tenendosi la testa con le mani. «Voglio dire, come posso farti usare il telefono senza dirlo agli altri?» «Gerlinde, sarai proprio di fianco a me, e sentirai tutto quello che dirò. Probabilmente sentirai anche tutto quello che dirà lei. Per favore. Non voglio mettere in pericolo nessuno di voi e, se viene a saperlo André... Lo sai com'è». Gerlinde scosse la testa ma alla fine disse: «Va bene, ma fai in fretta. Abbiamo soltanto un telefono nel salotto. Devo essere impazzita!». Carol compose il numero di casa di Rene. Per fortuna quest'ultima aveva la segreteria invece del trasferimento di chiamata. Non c'era, ma Carol lasciò un messaggio. «Rene, sono Carol. Ti telefono solo per dirti che va tutto bene. Alla grande, davvero. Non è più come prima. Resto qui, per conoscere Michael. Mi stanno trattando tutti molto bene. Volevo solo fartelo sapere così non ti preoccupi. Non c'è bisogno di fare nulla. Mi farò risentire più avanti. Abbi cura di te e, Rene, grazie per tutto il tuo aiuto».
Quando riagganciò il telefono, il volto di Gerlinde era teso per la preoccupazione. «Va tutto bene», disse Carol. «Siete al sicuro. Ho sistemato tutto». «Lo spero ragazzina, lo spero davvero». Più tardi, quella notte, Carol e Michael erano nel salotto insieme a Gerlinde a guardare Il selvaggio. All'improvviso Michael si rivolse a Carol. «Come hai incontrato il mio papà?», le chiese. Gerlinde abbassò il volume della televisione. «È una lunga storia», disse Carol. «Sei sicuro di volerla ascoltare?» «Certo». Si contorse sul bordo del divano e si spostò leggermente, più vicino a lei. Carol si chiedeva da dove avrebbe cominciato e come glielo avrebbe detto. «Be', è stato in Francia, nove anni fa circa. Ero in un caffè e André voleva che dividessimo il tavolo». «Stai scherzando?», strillò Gerlinde. «Che tattica! È vecchio di un centinaio d'anni, e questa è tutta la sua originalità». Michael rise. «Non ridere», disse al ragazzo. «Sta denigrando tuo padre». «Perché?» «Perché è il più vecchio modo conosciuto per mostrare interesse per qualcuno. Comunque, vai avanti Carol». Gerlinde spense sia il televisore che il lettore DVD. Carol si sentì a disagio a parlarne. Non sapeva come spiegare quello che era successo in un modo comprensibile a Michael. E non voleva offendere lui o il rapporto che aveva con André. «Be', volevo restare da sola, così dissi no all'inizio, e poi sì, quando mi mostrò che non c'erano altre sedie libere nel locale». «Ti piaceva?», chiese Michael, con un sorriso da un orecchio all'altro, gustandosi già la storia. Carol incrociò le braccia sul petto. «Non esattamente». «Ma dopo sì, vero?». Lo sguardo di Gerlinde corse alla porta, come se avesse sentito qualcuno sul punto di aprirla. «Ci sono stati dei momenti, in seguito, in cui André mi è piaciuto».
Michael sembrava perplesso. «Ma tu gli piacevi?» «Non ne sono sicura. Dovresti chiederlo a lui». Quello ovviamente non era ciò che il ragazzo voleva sentirsi dire. Si guardò le dita e cominciò a far crocchiare le articolazioni. «Michel, se fai così ti verranno delle nocche grandi», disse Gerlinde. «Cosa c'è che non va, Michael?», chiese Carol. «Be', se non vi piacevate, come avete fatto ad avere me?». Carol si chiedeva come avrebbe fatto a fugare le sue paure senza mentirgli. Alla fine fece correre un braccio intorno alle sue spalle. «Tuo padre ed io abbiamo avuto una relazione molto particolare. Sai che la tua nascita è stata veramente inusuale. Speciale». «Sì. Chloe mi ha raccontato tutto», disse il ragazzo tagliando corto, come se la cosa non lo interessasse veramente. Prese un computer palmare e cominciò a premere i tasti. «Dove mi hai portato quando sei scappata via?». All'improvviso il suo umore migliorò. Cambiava discorso nello stesso modo in cui cambiava i canali della televisione. «Ho fatto l'autostop in autostrada per diverso tempo, diretta in Inghilterra. Eri solo un bambino, nato appena da due giorni. Nevicava leggermente e faceva molto freddo, ma ti ho tenuto stretto a me. Non credo che tu avessi freddo». «Non ho pianto, vero?» «No. Eri un bambino meraviglioso». «Poi dove siamo andati?» «Be', ci siamo fermati un paio di volte nelle stazioni di servizio dove ti ho dato il latte e ti ho cambiato, le cose che si fanno con i neonati». Lo abbracciò. Lui arrossì e si divincolò leggermente. «C'era un posto che era tutto bruciato all'interno. Ti ho portato là dentro perché faceva troppo freddo e non c'era nessun altro posto dove andare». «Me lo ricordo!», gridò Michael, sollevando lo sguardo. «Puzzava!». «Forse», disse Carol. «Ti ho cantato anche delle canzoni». «Cantane una». Lei sorrise e lo baciò sul capo, poi cantò la ninna nanna che gli aveva cantato quando l'aveva tenuto stretto accanto al suo cuore. «Laggiù nel prato, povero piccolo tesoro della mamma, uccellini e farfalle svolazzano intorno ai tuoi occhi, povero piccolo tesoro della mamma. Grigi e chiazzati, bruni e pezzati, tutti i piccoli dolci pony».
Il computer rimase silenzioso sul grembo di Michael. I suoi occhi erano davvero rotondi. All'improvviso chiese: «Come ho fatto a nascere se voi due non vi amavate?». Carol gli prese il mento nella mano e girò la sua faccia verso di lei. Si sentiva molto seria e voleva che lui lo capisse. Gli occhi del bambino si spalancarono mentre la fissavano con un'impazienza che lei doveva soddisfare. «Michael, ascoltami. Sia André che io ti amiamo davvero tanto. Possiamo non esserci sempre amati, ma so che la notte in cui sei stato concepito ci siamo amati, perché ricordo quella notte. André mi amava ed io amavo lui in quei momenti, ed è così che sei nato, grazie a quell'amore. Sei il figlio di quell'amore. Non ti dimenticare mai quello che ti sto dicendo. Non importa quello che accadrà, ricorda sempre che è stato l'amore a crearti». I tre rimasero in silenzio. Michael si rannicchiò tra le braccia di Carol. Gerlinde osservò madre e figlio con un'espressione di stupore. Improvvisamente la porta si aprì ed entro André. Attraversò la stanza e si sedette di fronte al divano, sulla sedia più vicina al camino. «Ehi, André, hai visto questo film con il tizio sulla motocicletta?». Michael saltò in piedi. Accese televisione e DVD. Un rude Marlon Brando apparve fugacemente sullo schermo prima che Gerlinde spegnesse l'immagine. «Spiacente piccolo, è tempo di fare il bagno. L'ultimo che entra è una salsiccia marcia». Michael grugnì, ma baciò Carol, quindi andò a baciare André, che lo strinse forte. Corse alla porta con Gerlinde alle calcagna. Appena prima di uscire, si girò e gridò: «Vi voglio bene», quindi scomparve. Carol sorrise e sospirò. Tutto in Michael le faceva venire le lacrime agli occhi. È un ragazzo meraviglioso, pensò. Così delicato e pieno d'umanità. Diede un'occhiata ad André. I suoi occhi grigi erano teneri, come peltro antico, mentre la guardava. Non sembrava distante come lo ricordava. Appoggiò la testa allo schienale della sedia mentre lei sistemava i piedi sotto le cosce. Rimasero seduti in quel modo per una mezz'ora buona, guardandosi a vicenda, senza parlare, raccolti nel silenzio della stanza. Fuori il vento mormorava dolcemente, e un ramo bussava insistentemente alla finestra. Il cielo era scintillante e alla fine André si alzò e spense tutte le lampade. Poi si portò nel corridoio e accese l'allarme. Carol si rizzò in
piedi e lo seguì di sotto. Era in piedi dalla sua parte del letto mentre si sfilava le scarpe da ginnastica, i calzini ed infine la maglietta. Tolse la clip che le teneva su i capelli. Prese dal comodino la spazzola e cominciò a districare i nodi. Sono passate cinque notti, pensò tra sé. André mi permetterà di restare? E, se non lo farà, che cosa accadrà? Fece correre le setole tra i suoi capelli spessi varie volte, dalla cute fino alle punte, prima di sistemarli su una spalla. Michael è così dolce; pensò. Voglio stare con lui più di ogni altra cosa. Adesso che l'ho trovato, non posso continuare a vivere senza di lui. Raccolse i capelli in una mano e spazzolò solo le punte: mentre lo faceva, girò leggermente la testa. Incontrò lo sguardo di André e smise di spazzolare. Era nudo dall'altra parte del letto e la fissava. Lei distolse lo sguardo con nervosismo, imbarazzata, volendo evitare di incoraggiarlo. Riprese a far scorrere la spazzola dall'attaccatura, ma dopo pochi secondi lo sentì addosso a sé. Le mani di André la afferrarono intorno alla vita. Portò le labbra sulla zona nuda della sua gola e la baciò lì. Aveva un vago profumo di dopobarba esotico, ma il viso era leggermente ruvido contro la sua pelle. Il suo corpo era caldo: riuscì a sentirlo anche attraverso i jeans. Un ricordo improvviso di familiarità balzò fuori; lui era robusto e vigoroso. Il suo bacino dondolò da una parte all'altra mentre si strofinava su di lei. Le sciolse il reggipetto e le accarezzò uno dei seni. Carol si sentì intrappolata. Una parte di lei era bloccata dalla paura e un'altra era attanagliata da sensazioni che erano sconvolgenti. «Non sono stata con nessuno dopo di te», mormorò senza riflettere, chiedendosi subito dopo cosa l'avesse spinta a dirlo. André le baciò i capelli. Le sue labbra scivolarono lungo l'orecchio: il suo respiro le solleticava la pelle, poi tornò al suo collo. Le mani vagavano sui fianchi. Le sbottonò i jeans. «No», disse mollemente lei, sentendosi tormentata, sgomenta. Ma André aprì la lampo dei suoi pantaloni e con una mano li fece scivolare giù lungo le cosce. «No», disse lei gemendo, mentre le sue dita si insinuavano dentro di lei. La sua vagina ebbe una contrazione e cominciò a bagnarsi. Gemette nuovamente. Il pene caldo dell'uomo premeva insistentemente sulla sua pelle. Carol si spinse all'indietro verso di lui, rispondendo al richiamo. Ma sentiva se
stessa dire «No», ancora una volta. Lui le girò il viso di fianco in modo che lei lo guardasse, con quegli occhi grandi a mandorla, di colore grigio-argento. Le sue dita continuavano a massaggiarla, diffondendo calore laddove era eccitata. «Carol, devo ascoltare le tue parole o il tuo corpo?». Sentì le gambe farsi molli, il cuore correre all'impazzata, e il respiro accelerare. Non poteva rispondergli. Voleva più di ogni altra cosa che prendesse lui una decisione in modo di non doverlo fare lei. E, quando esitò, un'espressione preoccupata increspò il volto di lui. Cominciò ad allontanarsi. «No!», gridò Carol, attirandolo, costringendo le sue dita di nuovo dentro di sé, afferrandogli i capelli, facendolo chinare in modo che le loro labbra si unissero in un bacio appassionato. André la condusse sul letto. Carol si distese prona con lui sopra, le sue dita sempre dentro di lei, mentre sensazioni brucianti la pervadevano all'interno, emettendo dei gemiti. Ma ben presto si misero entrambi su un fianco, con lui dietro. Perché?, provò a chiedersi. Perché sta succedendo di nuovo? E perché lo sto facendo? Non ho intenzione di cominciare nulla. Non voglio farmi irretire. Lui le sollevò una gamba e la penetrò. La sensazione di André che si spingeva così a fondo la lasciò senza respiro e pose fine alle sue domande. Le fece piegare dolcemente la gamba e la riabbassò, riempiendola. «Baciami», sussurrò lei, con la gola secca, a bassa voce. Lui sollevò una manciata dei suoi capelli e la spinse delicatamente indietro finché la parte superiore del suo corpo non fu distesa sul letto. Mentre le loro labbra e le lingue si univano e le dita di lui rispondevano alle richieste del suo clitoride umido, si mosse dentro di lei, spingendo a fondo, in risposta a un altro bisogno di Carol. All'inizio Carol si immaginò come un animale affamato che aveva atteso troppo a lungo; era famelica e non riusciva a inghiottire nulla. Poi, all'improvviso, le sensazioni cominciarono a fluire e si sentì ingorda, sul punto di ricevere ciò che aveva dimenticato essere indispensabile. Lui spinse più forte e più veloce, e in pochi secondi entrambi vennero insieme, gemendo, stretti, stravolti. Dopo, Carol pianse. Non perché fosse felice o triste, solo perché si sentiva liberata. André la coprì con le lenzuola e spense la luce. Le annusò i capelli e
l'abbracciò come se non avesse voluto farla andare via. E lei si tenne stretta a lui come se non volesse permettergli di farla andar via. Poteva ancora sentirlo dentro di sé mentre entrambi scivolavano nel sonno. CAPITOLO 27 Quando Carol si svegliò, delle labbra fredde la baciarono appassionatamente nell'oscurità. «È ancora notte?», chiese intontita, avvolgendo le braccia intorno al collo di André. «Sì. Perché non dormi ancora un poco? Io e Karl portiamo Michael a un negozio di giochi scientifici. Staremo via per un paio d'ore». «Va bene». Si raggomitolò sotto le coperte che lui le rimboccò. Ultimamente si era sentita esausta, e aveva bisogno di dormire molto. Ma, non appena André se ne fu andato, sentì la sua assenza, e non riuscì più ad addormentarsi, così accese la luce. Si vestì in fretta, rendendosi conto del fatto che aveva indossato gli stessi vestiti, un paio di jeans e una camicia di flanella, per cinque giorni. Forse Gerlinde ha qualcosa da prestarmi mentre lavo questi, pensò. Carol si abbracciò e sorrise. Si sentiva calda, morbida e languida. Questo potrebbe essere l'inizio di qualcosa di buono, pensò tra sé. Forse stavolta riusciremo a farla funzionare, nonostante quello che è lui. Dopo aver fatto la doccia ed essersi vestita, decise di darsi un'occhiata intorno prima di salire per fare colazione. Era stata diverse volte nella stanza di André a Bordeaux, e tutte le notti da quando era a Montreal, ma non aveva mai visto veramente quello che lui teneva nascosto. Sapeva così poco di lui. Aprì una delle ante dell'armadio. Sugli appendiabiti, dei vestiti nuovi, alla moda, riempivano lo spazio che occupava un'intera parete. Sul ripiano superiore c'era un assortimento di cappelli, una mazza da baseball, un bastone per giocare a lacrosse, un paio di guantoni e palline, una racchetta da tennis e un pallone da calcio. In basso, dozzine di paia di scarpe e scarponi casual, sandali, scarpe eleganti e da ginnastica riempivano un ripiano apposito. Richiuse l'anta. Di fianco al letto, c'erano altri tre elementi importanti dell'arredamento della stanza. La cassettiera più grande e il guardaroba contenevano quello
che si aspettava, altri vestiti, ben piegati o appesi, ordinatamente, con precisione. Un altro comò più piccolo conteneva un mucchio di oggetti strani nei primi tre cassetti, tra cui una spilla fleur de lis, una bandiera e il programma delle World Series del 1941, quando gli Yankees avevano sconfitto i Brooklin Dodgers per quattro a uno, monete di diversi paesi, anticaglie militari, vecchie foto granulose di giornali francesi e ritagli di una squadra sportiva - cercò di scorgere André e pensò di averlo riconosciuto in un paio di immagini - un annuario scolastico ingiallito, in francese, con il nome André François Emil Moreau scritto con precisione ma da una mano di ragazzino. C'erano anche altre cose riguardanti la sua vita: una foto di André, Karl e un altro uomo dai capelli biondi che sembrava molto fine, tutti e tre con le braccia uno sulle spalle dell'altro, tutti sorridenti per la foto. Sul retro c'era l'iscrizione: Victory Studios, Madison Avenue, New York, e l'anno 1949. C'era un talloncino per La Soif, di Henry Bernstein con Jean Gabin a Parigi, datato 20 febbraio 1949. E anche due biglietti: La gatta sul tetto che scotta con Burl Ives e Ben Gazzara al Morosco Theatre di New York, 15 marzo 1955, e il Coriolano di Shakespeare a Stratford-on-Avon, 7 luglio 1959, con Laurence Oliver e Edith Evans. All'ultimo biglietto era stato spillato un ritaglio da un articolo del New York Times, il foglio era ingiallito dal tempo. Ne lesse una parte: Coriolano è il meno gradevole di tutti gli eroi tragici di Shakespeare, perché il peccato di cui si macchia è un ostinato, estremo orgoglio personale. È il personaggio più difficile: un uomo innegabilmente grande ma che non è abbastanza grande da essere umile. Nessun pubblico moderno di quest'epoca, che preferisce che i suoi eroi siano individui normali quando non sono sul palco, può accettare di buon grado un uomo simile. È stato in tutti questi posti. E deve aver vissuto negli Stati Uniti, comprese Carol. Ecco perché il suo inglese è impeccabile. C'erano anche dei ferrotipi di un uomo e una donna giovani, e una fotografia ingiallita di loro due, adesso nella mezza età, con un bambino. Si domandò se fossero i suoi genitori. La donna aveva capelli scuri ed era bellissima, timida e dall'aspetto delicato. L'uomo, alto, ben vestito, ostentava lunghi baffi e aveva un'espressione divertita sul viso. Entrambi assomigliavano ad André. Il piccolo aveva un vestito bianco lungo ed era impossibile capire se si trattasse di un maschio o una femmina, o persino ve-
derne chiaramente il volto. C'era anche una foto di famiglia - stesso uomo e stessa donna, stesso periodo - con quel bambino e sei ragazzi che andavano dai quindici anni circa fino forse ai quaranta. Tutti avevano capelli scuri e somigliavano un poco ad André. Il cassetto più in basso era chiuso, ma Carol vide una chiave in quello superiore e la provò. Funzionava. Dentro il cassetto c'erano solo quattro oggetti, due insieme, ben allineati in un angolo. Sulla sinistra c'era un medaglione dorato a forma di cuore, con la catenina accuratamente disposta in modo da comporre un cuore più grande intorno. Carol sollevò il medaglione e aprì il gancio. Sulla sinistra c'era l'immagine di una giovane donna con occhi caldi, capelli scuri e un bel sorriso: una ciocca di capelli scuri circondava la foto. La donna sembrava francese. L'immagine di André era sulla destra. Sembrava uguale ad adesso, tranne per la camicia e il maglione che indossava, nonché il taglio dei capelli, dettagli ovviamente relativi a un'altra era, forse agli anni Venti. Sul retro del medaglione era stato inciso: Mon Amour, Mon Coeur. Rimise a posto il medaglione e sistemò con attenzione la catenina intorno. Al centro del cassetto c'era un fazzoletto da donna beige, vecchio stile, con un leggero bordino merlettato di filigrana, e le iniziali SV ricamate su un angolo. Lo sollevò e l'annusò: percepì una leggera traccia di lavanda. Ma gli oggetti più sorprendenti si trovavano sulla destra. C'era la carta dei tarocchi, l'Imperatrice, e il quarzo aeroide che Jeanette aveva regalato a Carol. La carta si trovava alla stessa distanza dai bordi superiore, inferiore e laterale del cassetto, e il cristallo era esattamente al centro della carta. Prese entrambi. I ricordi la incalzarono: momenti con Jeanette, con André, la nascita di Michael, da sola con Michael nel garage bruciato, frammenti di tempo quando André era stato gentile e amabile con lei. È un sentimentale, si rese conto. Non l'avevo mai capito. Si chiese chi fosse la donna nel cassetto e di chi fossero le iniziali sul fazzoletto. Dovevano essere delle vecchie amanti. Ma dov'erano finite? Carol rimise tutto a posto con cura. Spostò le cose finché non fu certa di averle sistemate esattamente come le aveva trovate, poi richiuse il cassetto e rimise a posto la chiave. Salì al piano superiore, fece colazione ed era appena entrata nel salotto quando sentì bussare alla porta principale. Chloe andò ad aprire e ritornò con Julien e Jeanette. Carol si sedette vicino al caminetto guardando i vampiri che si salutavano. Erano tutti molto affezionati, si abbracciavano, si baciavano, arrivavano persino a mordic-
chiarsi l'uno l'orecchio dell'altro come cuccioli, realmente contenti di vedersi. Nessuno si accorse di lei, ma al momento questo non le diede fastidio. Sono tutti così rispettosi, preoccupati l'uno dell'altro, pensò. Sì, un tenero rispetto, queste sono le parole giuste. Più umani di molti esseri umani. Era affascinante stare a guardarli. Pochi minuti dopo entrò Karl, con André subito dietro di lui. André notò Carol; lei ebbe l'impressione che lui volesse subito andare da lei, ma Julien lo chiamò, e allora si unì agli altri. Vide Michael fare capolino nella stanza poi scomparire di nuovo. Poi lo sentì salire rumorosamente al primo piano. Se avevano avuto dei problemi con Julien per il fatto che le aveva dato quell'indirizzo, ovviamente li avevano risolti. Non riusciva a scorgere segni di ostilità tra nessuno di loro. Era davvero strano da vedersi. Un gruppo di vampiri, e Carol non era veramente sicura di cosa significasse perché loro non erano come nei film. Sembravano degli individui normali, come chiunque altro... tranne che per il sangue. Ma nella sua mente sapeva che, per loro, alla fine, lei rappresentava pur sempre del cibo. Però c'era qualcosa di invidiabile in loro. Erano in qualche modo collegati, collegati però separati. Carol sentì il desiderio di far parte di qualcosa di più grande di lei, di avere quello che avevano loro. Suonò il campanello e Julien rispose, proprio come fosse casa sua. Tornò con una donna dall'aspetto straordinario. Tutti smisero di parlare e si girarono verso di lei. Era alta come Julien, il quale raggiungeva il metro e ottanta. I suoi capelli, per lo più argentei, brillavano nella calda luce della casa. Li teneva raccolti in una soffice treccia. Una spessa striscia nera correva all'indietro partendo dalla base della fronte. La sua pelle era pallida e limpida, ma aveva qualcosa di strano; i tratti erano eurasiatici, specialmente gli occhi. Erano angolati e tremolavano come stelle, come le sfaccettature dei gioielli quando sono investite dalla luce. Intensi, come dei geodi nascosti sfumati nel viola più scuro che Carol avesse visto in una viola. I suoi occhi ricordavano a Carol quelli di Julien e si chiese se, più a lungo vivevano quei vampiri, più diventavano simili agli strati geologici più profondi della terra, più vicini alla fonte della vita. E della morte. La donna vestiva abiti molto casual ma alla moda, di cotone e seta, strato su strato, con pantaloni ai polpacci sopra pantaloni più lunghi, e una gonna sopra tutto il resto. Due o tre magliette, un maglione e una giacca lasciata aperta, due sciarpe, uno scialle tutto in sfumature di nero e grigio
con accenni di bianco. Indossava dei grossi gioielli argentati con incastonati dei turchesi e un altro tipo di pietra, verde/marrone, dalle venature che sembravano strisce di sangue. Quella donna sensazionale camminò verso il gruppo quasi fluttuando, sorridendo, con un portamento regale. Non aveva età, ma non era giovane. Julien le presentò Jeanette in inglese. Jeanette, anche lei alta, non raggiungeva la statura di quella donna. Lui disse semplicemente: «Jeanette, questa è Morianna, della quale ti ho parlato». La donna sorrise con tale calore a Jeanette che quest'ultima si sciolse davanti agli occhi di Carol. Morianna prese il volto di Jeanette tra le mani e lei abbracciò alla vita la donna più anziana. «Oh, sì», esclamò Morianna, con una risata che risuonava armonicamente nell'aria. «Sei una bella compagna per lui». Cosi dicendo, baciò Jeanette su entrambe le guance. Poi venne presentata a Karl e a Gerlinde. Parlò in tedesco con loro, toccando entrambi leggermente sul viso. Gerlinde arrossì un poco. Si rivolse a Chloe parlando in francese, sorridendo con calore, abbracciandola e chiamandola: «Ma soeur». Poi venne presentata ad André, sempre in francese. La sua voce si ammorbidì mentre parlava con lui. I suoi occhi lo catturavano. Allungò una mano che lui prese tra le sue e baciò. All'improvviso Michael irruppe nella stanza. «André! André! Ho un'idea, ascolta!». André afferrò il ragazzo, lo fece girare verso l'ospite e lo presentò in francese. Michael guardò la donna e lei gli sorrise, con gli occhi scintillanti, il volto pieno di delizia. «Mon petit enfant naturel. Vieni», disse, piegandosi all'altezza della vita, e aprendogli le braccia. Michael avanzò di due passi verso il suo abbraccio. Lei lo strinse come fosse una cosa delicata. Carol vide l'espressione di completa beatitudine sul suo viso mentre lo stringeva a sé. Ma Michael si divincolò in fretta. «Chi sei?», le chiese. La donna sorrise. «Sono Morianna, come ti ha detto tuo padre. E tu sei Michael, il figlio di André, giusto?» «E di Carol», disse il ragazzo. Carol sentì un nodo in gola. «Prestò diventerà una di noi».
Tutti fissarono Michael. «Perché dici questo, Michael?», gli chiese André. «Be', voglio che tu la trasformi». «Te l'avevo detto che sarebbe successo», Karl sembrava irritato. «Michael, si tratta di una cosa che potrebbe non essere possibile», intervenne Chloe. Il ragazzo sembrava ostinato. «Lo è. André può farlo». Corse attraverso la stanza e si fermò di fronte a Gerlinde. «E voglio che lo faccia!», disse in tono deciso. Quindi incrociò le braccia sul petto, ostinatamente, in segno di sfida. «Solo perché lo vuoi, non significa che accadrà», disse Karl. «André potrebbe non volerlo fare», aggiunse Gerlinde. Posò una mano sulla spalla di Michael. «Deve farlo!», annunciò il ragazzo. «E questo che cosa vorrebbe dire?», chiese André. «Se non la trasformi, io diventerò mortale». «Tali padre e madre, tale figlio», mugugnò Gerlinde. Nessun altro aggiunse nulla per diverso tempo. Carol era scioccata. Amava Michael al punto da tollerare il suo comportamento. Lui voleva così perché la amava. E non era sicura che l'avrebbe voluto fare. «Michael! Vieni qui! Adesso!», disse André. Carol guardò André, e il suo cuore cominciò ad accelerare. Il corpo di lui emanava ondate di furia. Ebbe paura per suo figlio. Si alzò e cominciò a camminare verso Michael, per proteggerlo, ma André si girò verso di lei, con occhi minacciosi. Le puntò un dito contro. «Stanne fuori!», la minacciò. Lei si fermò, ma rimase all'erta. Se prova a far del male a Michael, proteggerò il mio bambino, rassicurò se stessa. «Ti ho detto di venire qui!». Gerlinde tolse la mano dalla spalla di Michael. Il ragazzo sembrava vulnerabile, indispettito, impaurito. I suoi occhi erano sgranati, le labbra aperte. Camminava lentamente verso André. Carol si preparò a reagire. Quando Michael fu proprio di fronte a lui, André si accovacciò e lo afferrò per le spalle, duro in volto, rivolgendoglisi con voce adirata.
«Michael non tentare di ricattarmi! Non lo sopporto! D'accordo che tu desideri quello che desideri, ma non provare mai più a minacciarmi. Capito?». Scosse lievemente le spalle del ragazzo per dare maggior enfasi alle proprie parole. Gli occhi di Michael si fecero ancora più grandi di prima. Fissò André come terrificato. Poi, all'improvviso, gettò le braccia intorno al collo di suo padre e pianse. André lo tenne stretto cullando il ragazzo tra le braccia, baciandogli i capelli. «Io voglio soltanto che anche la mamma resti qui», si lamentò Michael. «Ti prego papà, falla diventare come noi, così potrà restare, e non morire e lasciarci». Carol sentì il proprio cuore spezzarsi. Voleva più di ogni altra cosa abbracciare entrambi, ma aveva paura di muoversi perché quello che era accaduto era davvero prezioso. Tutti gli altri nella stanza cominciarono a rilassarsi e alla fine Michael smise di piangere. Ma, nel momento in cui André si alzò, Morianna si rivolse a lui in inglese. «Allora?» «Allora cosa?» «Lo farai? Per il ragazzo?». André era calmo, e Carol pensò che avrebbe potuto sentire uno spillo cadere. Alla fine disse: «Non lo so. Forse». «E pensi di poterlo fare soltanto per il suo bene?» «Probabilmente no». «Però voi due insieme avete dato vita all'enfant de l'amour», disse lei, con una voce complessa, ricca, che fece venire in mente a Carol un'intera orchestra. André non disse nulla. Morianna si girò improvvisamente verso Carol. «Vuoi diventare una di noi?». Carol esitò. Gli occhi di Morianna penetrarono in profondità nei suoi finché Carol sentì che si sarebbe addormentata per l'intensità di quel contatto. Ma poi avvertì Michael al suo fianco. Il bambino le prese la mano e lei lo guardò e sorrise.
«Se è l'unico modo per restare con Michael, sì». Morianna distolse lo sguardo da loro e si rivolse agli altri nella stanza. «Julien, che ne pensi?» «Io ritengo che qui si tratti di qualcosa di più di quello che traspare dalle parole». «Sono d'accordo», disse lei, e si girò verso André. «Ti capisco», disse semplicemente. Carol vide la mascella di André irrigidirsi, come se i denti fossero stati stretti gli uni contro gli altri. «Non è sempre così difficile». André si girò. Oltrepassò Carol e Michael diretto al camino. Scostò il parafuoco quindi gettò dentro un paio di ciocchi, muovendoli nervosamente finché non furono nella giusta posizione. Quando ebbe finito, risistemò il parafuoco e lo fermò, sempre con l'attizzatoio in mano. «Che cosa vuoi dire?», chiese. «Sto dicendo che è possibile aiutarti». «Che tipo di aiuto?» «Il beneficio della nostra esperienza collettiva». André sogghignò. Sbatté l'attizzatoio nel suo vano. Si udì il suono del metallo che vibrava con forza e seccamente contro il metallo. «E il rituale. Potrebbe essere una cosa a te estranea, ma ha funzionato in passato. Julien lo sa. E Chloe mi capisce. Possiamo aiutarti». André incrociò le braccia sul petto, sulla difensiva. Sembrava arrabbiato e anche irritato. «Puoi accettarlo?», chiese Morianna. Ci pensò per alcuni secondi. Alla fine disse: «Non ne sono sicuro». Ma poi guardò Michael e Carol. Lei teneva le braccia al collo del ragazzo che le stava davanti, in piedi. «Oui». La sua voce era sforzata. Carol non l'aveva mai visto così, ed era affascinata nell'osservare come il conflitto rimescolasse le sue emozioni. Mi sembra più reale, pensò. «E, Julien, lavoreremo insieme?», chiese Morianna girandosi. Julien annuì. «E tu Chloe? Sorella». Protese le mani. «Ne sono onorata», disse Chloe, stringendole. I tre abbandonarono la stanza immediatamente. Non appena se ne furono
andati, André si allontanò infuriato. Karl prese Michael e uscì, lasciando Carol sola con Gerlinde e Jeanette. «Che cosa sta succedendo?», chiese Carol, completamente disorientata. Jeanette sedette sul divano. «Ci sono dei vecchi rituali. Non vengono più usati, ma certe volte, quando c'è ambivalenza...». «Cosa vuoi dire?» «Perché siete entrambi così dubbiosi... tu e André», spiegò Gerlinde. «Loro tre agiscono da anziani», continuò Jeannette. «Credo che li chiameresti così. Prepareranno un rituale in modo che il processo di trasformazione possa essere controllato. Altrimenti sarebbe un disastro». «Ma perché?» «Perché ci vogliono dei sentimenti forti per effettuare il cambiamento». «Ragazza, tu non sai quanto sia difficile», le disse Gerlinde. «Rinunciare al sangue, intendo. Io non sono mai stata in grado di farlo, non sono mai stata motivata. Ecco perché non ce ne sono tanti come noi». «Può succedere solo per amore, o per odio», disse Jeanette. «Una volta ne creai un altro perché mi sentivo terribilmente sola. Ma farlo solo perché lo desidera Michael, non sarebbe una ragione sufficiente per André. L'ha ammesso». Anche Carol si sedette. «Stai dicendo che deve amarmi abbastanza. Ma lui non mi ama. E io non amo lui. Almeno non credo. Non lo so più». Si tenne la testa. «Non è soltanto questo», disse Gerlinde. «Cos'altro?» «Be', per André c'è qualcosa di più complicato». «Vuoi dirmelo oppure no?», chiese Carol, irritata. Sta diventando troppo complicato, pensò. Prima mi offrono l'immortalità, poi mi dicono che è impossibile. E sono pure elusivi. «Ecco, anche se André ti ama, potrebbe non funzionare». «Ma perché?». Gerlinde non disse nulla e Jeanette guardò il fuoco. «Ha già provato a farlo?», chiese Carol. Gli occhi marroni di Gerlinde incontrarono quelli di Carol e le sue labbra formarono una sorta di sorriso forzato. «Due volte». «E?»
«E cosa?» «Cosa è accaduto?», domandò Carol impaziente. «Ragazza, penso che non ti piacerebbe saperlo». «Dimmelo». «Una tragedia. Tutte e due le volte». «Come?». Gerlinde guardò altrove. «Ha squarciato le loro gole». CAPITOLO 28 Mentre Morianna, Julien e Chloe si consultavano tra loro, un silenzio preoccupato scese sulla casa. Arrivò la mezzanotte e passò, poi l'una e le due del mattino. Carol trascorse un'ora con Michael guardando lui e Karl sistemare i composti chimici in vasetti e scatole, ma loro non prestavano molta attenzione a lei e lei era troppo angosciata per partecipare. Si domandava in quale guaio si fosse cacciata. Ovviamente il medaglione e il fazzoletto erano tutto quello che rimaneva delle due precedenti amanti di André. Ma quello che trovava ancor più fastidioso era il fatto che, mettendo i suoi ricordi insieme ai loro, André l'aveva già relegata nel passato. L'intera faccenda era confusa. Senza dubbio i vampiri potevano creare altri vampiri. Conosceva la storia di Gerlinde. E sapeva che Julien aveva trasformato Jeanette. Come Chloe aveva trasformato André. Si chiedeva perché André non potesse farlo. C'erano dei momenti, come la notte precedente, nei quali lei aveva sentito che in parte lui l'amava, e che l'amore sarebbe potuto crescere. Ma forse si trattava soltanto di sesso o di un'infatuazione, e il suo bisogno di rimanere insieme a Michael le aveva permesso di ingannarsi. Ma, più di tutto questo, si chiedeva se non avesse già firmato la propria condanna a morte a parole. Alle tre del mattino il telefono squillò. Carol era ancora nel salotto, adesso insieme a Karl, Jeanette, Gerlinde e Michael. Rispose Gerlinde. «È per te», disse quest'ultima con uno sguardo teso, porgendo l'apparecchio a Carol. Carol prese riluttante il ricevitore. «Carol, stai bene davvero?». La voce di Rene sembrava diversa, come se avesse bevuto molto.
«Rene, sì, te l'ho detto. Perché hai chiamato, e a quest'ora?». Gli altri la guardarono e si sentì nervosa: adesso tutti avrebbero saputo, André compreso. «Oh, Carol, li hai trovati. Hai trovato i vampiri!». «Sì. Ascolta, questo non è un buon momento per parlare. Ti chiamerò presto». «Vivono veramente in eterno senza invecchiare mai?» «Rene, ti prego. Devo andare. Sto bene, davvero. Va tutto bene. Stammi bene, ti chiamerò presto, te lo prometto». Quando ebbe riagganciato, Carol affrontò gli altri. «Il nostro numero non è sull'elenco. Come l'ha avuto?», chiese Karl, con voce preoccupata. «Non... non lo so. Io non gliel'ho dato», disse Carol. «Gerlinde, lo sai che non gliel'ho dato». Gerlinde sembrava a disagio. «Che cos'altro sai?», chiese Karl a Gerlinde. La ragazza dai capelli rossi accavallò le gambe e incrociò le braccia sul petto. «Diciamo che ho lasciato fare a Carol una telefonata. Così questa donna non ci avrebbe infastidito. Credo che conosca qualcuno alla compagnia telefonica. Forse ha rintracciato la telefonata di Carol». Karl si alzò in piedi. Il suo corpo era rigido. «Kommen Sie mit mir!». Lasciò la stanza e Gerlinde lo seguì, colpevole e nervosa. Carol si sedette. Era preoccupata. Non sembrava Rene. La telefonata era stata così strana. E nel momento più inappropriato. Adesso Carol aveva messo Gerlinde nei guai con gli altri. E anche se stessa. Non sapeva che cosa fare. All'improvviso sollevò lo sguardo. Jeanette la stava fissando. Sentì di dover dire qualcosa. «Rene è innocua. La richiamerò presto. Per rassicurarla». «Dovranno cambiare numero di telefono», disse Jeanette. «E trasferirsi. Forse lasciare Montreal. Questa storia ci mette tutti in pericolo». Carol non sapeva che cosa rispondere. Intorno alle cinque del mattino Carol andò in cucina per prepararsi qualcosa da mangiare. Aveva appena finito riso, cavolini di Bruxelles, carote e una piccola bistecca, e si stava versando una tazza di tè d'erbe quando apparve sulla porta André che arrivava dalla cantina. Aveva un aspetto terri-
bile, teso e trattenuto. «André, ti posso parlare?». Questi si fermò e la fissò. Qualcosa sul suo viso le disse di stare attenta e si rimproverò per averlo fatto fermare. «Io... volevo solo dirti che mi è piaciuto molto come ti sei comportato con Michael. Sei stato davvero molto premuroso con lui». Non rispose nulla, ma continuò a fissarla. Lei si sedette su uno sgabello dall'altra parte del bancone rispetto a lui. Prese un sorso di tè. Era molto caldo e le bruciò il labbro superiore, costringendola a rendersi conto di quanto lui la facesse sentire a disagio. «Hai dato il nostro indirizzo». «Mi... mi dispiace. È la mia terapista. Era preoccupata. Gerlinde mi ha permesso di usare il telefono così l'ho potuta rassicurare dicendo che stavo bene e...». «E hai dato tu a Michel l'idea, non è vero?». Questo la colse davvero di sorpresa, al punto che sulle prime non fu in grado di controbattere. Fece traboccare un poco di tè mentre riappoggiava la tazza. «No. Cosa te lo ha fatto pensare?» «E da chi altrimenti?» «Ma anche tu come gli altri sei sempre stato in nostra compagnia. Come avrei potuto? Non l'ho fatto. Devi credermi». «Perché dovrei crederti?». Era infuriato, e lei era sconvolta da questo capovolgimento dei suoi sentimenti per lei. «Perché non dovresti?», chiese lei a bassa voce «Stai scherzando? Vuoi forse una lista?». Fece due passi verso il bancone, afferrando lo spigolo talmente forte che le sue nocche divennero bianche. Un campanello d'allarme scattò nella testa di Carol. «Prima pensi di potermi uccidere con un virus poi tenti di uccidermi con un paletto nel cuore...». «Non l'ho fatto. Te l'ho detto...». «E sei scappata... due volte! Hai rapito Michel. E adesso ci hai traditi, resi vulnerabili al mondo esterno. Quando è nato l'hai nutrito con del latte. Adesso lui sta avendo molte difficoltà a decidere...». «Stai mettendo tutte le cose insieme. Di sicuro riesci a capire perché...». «Sì, lo capisco! Lo vedo bene che bugiarda sei!». La sua voce si faceva più alta, il volto più pallido. Sembrava stesse tra-
sfigurando, diventasse meno umano, più simile a un animale, e Carol ebbe paura. «André, calmati, stai diventando...». All'improvviso lui allungò un braccio e spazzò via dal bancone la teiera, la tazza e il piattino facendoli finire sul pavimento dove si frantumarono contro le piastrelle. «Non trattarmi con condiscendenza, puttana!». Carol si alzò, scossa dalla paura. Fece diversi passi indietro. Lui prese lo sgabello sul quale era seduta e lo lanciò attraverso la cucina. Sbatté contro un muro e si ruppe. «André!». Si girò verso la porta dove c'era Jeanette. «Loro sono pronti», gli disse. La oltrepassò furioso e uscì dalla cucina. Carol cominciò a tremare. Strinse le braccia e guardò Jeanette. «È pazzo. Mi ucciderà». Jeanette le si avvicinò e le mise un braccio intorno alle spalle. «Devi fronteggiarlo, Carol». «Oh, sicuro!». I suoi occhi erano pieni di lacrime. «Facile per te dirlo. Lui è troppo più forte di me. Può spezzarmi in due come una matita». Jeanette sorrise leggermente. «Dopo che sarai stata trasformata sarai più simile a lui, fisicamente, e anche sotto altri aspetti». «Non arriverò mai così lontano. Sarò morta, polverizzata da un pazzo furioso». «Non devi affrontarlo fisicamente. Prova a rispondergli». «Ma è sempre successo così. Appena provo a dire qualcosa di ragionevole, lui si mette a picchiarmi». «Be', potrebbe picchiarti in ogni caso. Quello non è un buon motivo per non farti ascoltare». «Giusto. Ad ogni modo ne esco con il collo rotto. Ma in un caso muoio sentendomi uno zerbino, e nell'altro ho la soddisfazione di finire come una martire». Carol si accinse a raccogliere i cocci della teiera, ma Jeanette la fermò. «Puliremo più tardi. Andiamo in salotto». Morianna era seduta sul divano più grande tra Julien e Chloe. André sedeva rigido su una sedia dall'altra parte del tavolo rispetto a loro. Di spalle al camino, Gerlinde era rannicchiata su un'ampia poltroncina con Karl. Teneva Michael dall'altra parte. Carol e Jeanette sedettero sull'al-
tra poltroncina doppia. «Parlerò in inglese perché noi tutti comprendiamo quella lingua», disse Morianna. Guardò André. «Tra cinque notti sarà la vigilia di Capodanno. Michael è nato diversi anni fa proprio quel giorno. Presto dovrà prendere una decisione che cambierà il corso della sua esistenza. La luna sarà piena, per cui sembrerebbe il momento propizio. E, dati i recenti sviluppi - potreste non essere più al sicuro qui - credo che dovremo procedere il più rapidamente possibile. Noi tre», e qui guardò Julien e poi Chloe, «sentiamo che il donare e il riprendere il sangue può effettuarsi meglio, nel vostro caso, da una posizione di reciprocità». Carol notò la mascella di André che si tendeva. «Forniremo i dettagli del rituale man mano che procederemo. Per ora è sufficiente sapere che venerdì tu uscirai per il tuo nutrimento, l'ultimo che consumerai fino alla conclusione. Il rituale avrà inizio venerdì a mezzanotte. Per tutta la sua durata, tu offrirai il tuo sangue alla donna finché non ne sarai svuotato. Alla mezzanotte di domenica, mentre finisce l'anno vecchio e comincia quello nuovo, potrai allora reclamare da lei il sangue». André balzò in piedi. Sembrava totalmente sconvolto. «Tre giorni? Volete farmi rimanere senza sangue per tre giorni?» «Non sarà difficile come pensi», disse Morianna. «Non sarà come le altre volte, André. Abbiamo sistemato tutto per te», aggiunse Chloe. André guardò lei, poi Morianna e infine Julien. Il suo volto diceva tutto: l'avevano tradito. «Dimenticatevelo!». Si girò dirigendosi alla porta, ma Julien lo precedette. «Va t'en!», gridò André. Ma Julien non si tolse di mezzo, si limitò a parlare con calma in francese. André discusse ad alta voce, pieno di rabbia amara, con le mani serrate a pugno sui fianchi. Ma Julien insistette, nonostante il fatto che la rabbia di André stesse aumentando. Infine, in un istante così rapido che Carol lo notò a malapena, André sferrò un pugno contro il legno spesso, proprio di fianco alla testa di Julien. Quando lo tirò fuori dalle schegge di legno, la sua mano sanguinava. La rabbia era domata. Le spalle di André si abbassarono e il suo corpo tremò lievemente. Fece correre la mano illesa tra i capelli. Julien continuò come se nulla fosse successo, parlando piano, ragionevolmente, come un padre che spiega qualcosa a un figlio frustrato. Mise le mani ai lati del viso
di André. Le dita striate di sangue di André si arricciarono incerte intorno al polso di Julien. Questi continuò a parlare. Da dove era seduta, Carol riusciva a vedere solo il profilo di André. I suoi occhi sembravano scintillare, e si domandò se stesse piangendo, ma non riuscì a capirlo. Ed era affascinata da quello che stava accadendo. André continuava a non dire nulla, si limitava ad annuire ogni tanto, mentre Julien parlava. Alla fine Julien chiamò Karl, e i tre uomini abbandonarono la stanza insieme. Carol si girò verso suo figlio. Michael sedeva perfettamente immobile. Sembrava spaventato. All'improvviso fuggì dal fianco di Gerlinde e corse dietro a loro. Adesso le donne erano rimaste sole. Tutte e quattro si guardarono l'un l'altra. Gerlinde pose una domanda in tedesco e Chloe rispose in inglese. «Un maschio deve essere ammirato da un maschio più anziano, altrimenti non c'è movimento». Carol si sentì triste. «Non voglio andarmene o lasciare Michael», disse, rivolta a nessuno in particolare. «Non sei costretta ad andartene», le disse Chloe. «Ma André non lo farà. Ha detto così. Non può. Mi odia». «Lo farà», la rassicurò Gerlinde. «E non ti odia», aggiunse Jeanette. Carol la guardò e scosse la testa. «Come puoi dirlo? Hai visto che cosa è successo qui. E cosa è successo nella cucina. Non è amore». «Le fiabe sono meravigliose, non è così?», disse Morianna, con voce soffice come seta filata. «Sfortunatamente mostrano solo una parte della complessità dei rapporti. C'è molto più della felicità sulla strada che porta all'amore». Carol le lanciò un'occhiata di rabbia. «Devo lasciare che mi minacci? E quando è alterato devo farmi trovare davanti ai suoi pugni? Tu non lo faresti, perché io dovrei?» «Nessuno ti sta chiedendo di fare questo», disse Jeanette. «Ma non lo sconfiggerai neppure sfidandolo». «Ma prima in cucina mi hai detto di fronteggiarlo». «Ti ho detto di reagire, dal profondo dell'anima. Con compassione». Carol rise amaramente. «Sono tutte stupidaggini. Non ha bisogno di compassione: ha bisogno di
una camicia di forza. È malato. Un momento è gentile con me, e subito dopo è pronto a staccarmi la testa. È imprevedibile. E non posso difendermi». «Allora smettila di provarci», suggerì Chloe. Carol si alzò in piedi. Si sentiva agitata, arrabbiata, ma soprattutto confusa. Mentre passeggiava per la stanza scuoteva la testa. «È ridicolo, non so di che cosa stiate parlando, nessuna di voi due. Lui non vuole farlo, allora perché deve? E io non voglio che lo faccia perché, per come si sente, finirò come le altre due, e mio figlio sarà traumatizzato per sempre dopo aver visto suo padre che fa a pezzi sua madre nel giorno del suo nono compleanno. Be', non mi importa se André lo farà o meno, io non lo farò». «Non parlare così, ragazza», disse Gerlinde. Carol si girò verso di lei. «E perché no?» «Perché non hai più scelta». Parlarono con lei a lungo, cercando di aiutarla a superare la paura della natura volubile di André, ma Carol non si lasciava convincere. Loro suggerirono che smettesse di reagirgli e provasse a vedere che cosa nascondesse dietro la sua rabbia. «Perché dev'essere la donna a mostrare comprensione?», ribatté Carol amaramente. «Devi pur cominciare da qualche parte», disse Jeanette. «E perché non prova lui a capire me?» «È troppo spaventato», le disse Chloe. «Lui è spaventato? Be', dovrebbe esserlo. È uno psicopatico!». Parlarono per ore, finché il sole non cominciò a sorgere e Gerlinde l'accompagnò alla porta della cantina. «Ragazzina, devi provare a conquistarlo. So che non è facile. Se soltanto ci fossero dei vampiri psichiatri o anche un tranquillante decente. Ad ogni modo, hai ragione tu: è matto come un cavallo. Non conosce l'espressione "mi dispiace" in nessuna lingua. Dovrei saperlo: ho diviso la casa con lui per più di un quarto di secolo. Ma credimi, per quanto possa essere scioccante, quel ragazzo ha davvero un lato dolce. Devi solo farlo sciogliere, tutto qui. E comunque, André lo farà, che tu lo voglia o meno, per cui ti conviene fare in modo che le cose vadano nel migliore modo possibile». «Sai una cosa, Gerlinde? Non sembra che me ne importi. Nove anni fa, quando ero d'accordo, lui si rifiutò. Adesso non voglio trasformarmi, ma
sono costretta a farlo comunque». «Sì, la vita può essere una puttana!», disse Gerlinde. Poi sorrise. «Ma non è mai noiosa». Quando Carol fu nella stanza dello scantinato, trovò André seduto davanti al camino. Non si girò quando lei entrò. Accese la luce sopra il letto e si sedette. Lui le dava le spalle. Non provare a parlare con lui stanotte, disse a se stessa. Ma devi parlargli. Stanotte è martedì, e mancano solo pochi giorni a venerdì. Ora o mai più. Camminò verso di lui esitante. Quando fu di fianco alla sua sedia, lui non sollevò lo sguardo. I suoi occhi erano fissi sul fuoco ma avevano un'espressione distante, confusa, e lei sapeva che non stava guardando nulla nella stanza. Sedette sul poggiapiedi di fronte a lui. Trascorse un minuto, l'unico suono era il crepitio delle fiamme e lo schiocco dei ciocchi di legno pieni di resina. Carol appoggiò nervosamente una mano sul suo ginocchio. Il suo sguardo viaggiò dal fuoco al suo viso. Carol era cosciente del proprio respiro freddo, della bocca asciutta, della paura. Gli accarezzò leggermente il ginocchio. «Penso che possiamo appianare le nostre divergenze», disse, cercando di sembrare graziosa. Il volto di lui era assente. «So che le cose tra noi non sono sempre andate per il verso giusto, ma voglio provare. Voglio che funzioni. Penso che andrà tutto bene... il rituale, intendo. Dicono tutti che non sarà poi così brutto. Tu ci riuscirai». Doveva mantenere il controllo perché il suo corpo non tremasse. Gli toccò l'altro ginocchio. Sorrise un poco. Il viso di André non mostrava una qualsiasi risposta. Prima che se ne accorgesse, le aveva afferrato la parte superiore delle braccia con le mani, tirandola a sé, con le dita che scavavano dolorosamente nella carne. All'improvviso la rabbia gli offuscò il volto. «Non osare provare pietà per me! Non tollero la tua pietà!», gridò. Carol rimase un istante sbalordita. Ma una voce dentro di lei ebbe il sopravvento e, nonostante il pericolo che lei sapeva poteva scoppiare, cercò di calmarlo. «André, non ti compatisco. Non è quello che sento. Sto cercando di preoccuparmi per te, ma tu non vuoi permettermelo». Più emozioni di quelle che lei riuscisse a distinguere si susseguirono sul suo volto.
«No!», le disse. Non sapeva se voleva dire di non provare ad amarlo, o di non parlargli, o cos'altro. Ma, molto lentamente, la sciolse dalla stretta, come se avesse paura che un movimento troppo fulmineo da parte sua avrebbe fatto scattare la violenza che si agitava proprio sotto la pelle. Aprì le mani piano, liberandola, poi si riappoggiò alla sedia. D'improvviso parve stanco. I suoi occhi ritornarono al fuoco. «Va' a letto», disse con un tono di voce impersonale. Più tardi, quando la raggiunse, lei attese finché pensò fosse addormentato. Era così immobile, così calmo. Aveva cominciato a far scivolare una mano sul suo petto, quando lui la bloccò. Ma, dopo un paio di minuti, lei fece scorrere entrambe le mani più avanti, fermandole sul suo cuore, e lui non oppose resistenza. A un certo punto la mano di lui coprì le sue e le tenne strette. CAPITOLO 29 La notte seguente André le disse: «Vestiti. Portiamo fuori Michel». Si sistemarono sul sedile posteriore della limousine con Michael in mezzo a loro finché non volle sedersi al finestrino e Carol si spostò. Venti minuti dopo erano al fronte del porto dove attraccavano le navi più grandi quando giungevano dalla parte di St. Lawrence. André scese da solo. Mentre Michael accendeva il mini televisore, Carol chiese: «Cos'è successo la notte scorsa, Michael? Quando sei uscito dalla stanza con André, Julien e Karl?». Il ragazzo cambiò canale un paio di volte e si fermò su una replica di Star Trek. «Cos'è successo la notte scorsa?», chiese nuovamente Carol. «Eh?». La fissò con sguardo assente finché smise di prestare attenzione alla televisione e disse: «Oh, hanno parlato». Quindi si rivolse nuovamente allo schermo. «A che proposito?» «Di certe cose». «Tipo?» «Ehi, Carol, guarda! Riescono a scomparire e riapparire da un'altra parte». «Uhmmm». Carol guardò il capitano Picard e il tenente Riker materializzarsi su un
pianeta alieno dall'aspetto piuttosto brullo. «Hanno forse parlato del rituale?» «Sì... credo». «Che cosa ha detto Julien?» «Ha detto a mio padre di non preoccuparsi. Ha detto che gli avrebbe detto lui cosa fare e che tutto sarebbe andato bene». Carol guardò lo schermo. Picard e Riker stavano discutendo su quale piano d'azione adottare. «Che cosa ha detto André?», domandò Carol. Si sentiva in colpa per l'esortare Michael a fornirle informazioni, ma doveva sapere qualunque cosa potesse rivelarsi utile. «Ehi Carol, posso avere un polverizzatore? Posso, eh?» «Non so se li vendono, Michael». «Sì. Li abbiamo visti al negozio di giochi scientifici. Posso?» «Penso di sì». «Quando ci andiamo?» «Magari la settimana prossima». Se sarò ancora viva, pensò. «Michael, che cosa ha detto André? Quando Julien gli ha detto che tutto sarebbe andato bene?». La trasmissione fu interrotta per la pubblicità e Michael cambiò canale. «Niente», rispose. «Intendi dire che non ha detto nulla?» «Sì». Il ragazzo spense la TV e accese la radio. «Wow! Madonna! Sexy babe!». Fece schioccare le dita e cominciò a muoversi al ritmo della musica. Carol rise. Poi si fece prendere veramente, chiudendo gli occhi, facendo strane smorfie, atteggiandosi perché lei lo vedesse. «Oh, baaabeeee, baaabeeee!». Carol era in sollucchero, aveva gli occhi umidi. Lo sportello si aprì e salì André. Entrambi si fecero di lato per fargli spazio. «Sembrerebbe un party selvaggio», disse sorridendo. «Oh, baaabeeee!» Michael cantò a bassa voce. Carol stava ancora ridendo e anche André si mise a ridere. Quando la canzone fu finita, André chiamò il conducente e si allontanarono in fretta. Spense la radio e Michael disse: «Ehi, perché non posso sentirla?»
«Dopo. Prima mangia». Porse al ragazzo un vasetto. Michael si appoggiò allo schienale e tolse il coperchio. Carol stava a guardare, affascinata. «Non rovesciarlo», disse André. Distese un braccio dietro Michael che era nuovamente seduto in mezzo. Carol guardò suo figlio bere il sangue e gustarselo come qualsiasi altro ragazzino si sarebbe gustato una coca cola oppure un frullato. Notò che André la osservava mentre lei guardava Michael. Quando ebbe terminato, attraversarono un ponte sull'Île Sainte-Hélène, una piccola isola e, dopo poco, si fermarono in un parcheggio. Davanti a loro il cielo era illuminato dalle luci colorate di un parco divertimenti. Michael non parve sorpreso, e a prima vista sembrava sapere che erano diretti là. Il tempo era molto mite per essere dicembre, ma Carol era stupita del fatto che il parco fosse ancora aperto. «Stavolta vado nella casa infestata da solo». «Accomodati», disse André. «E voglio andare anche sul toboga». «Su quello ci vai sicuramente da solo». I tre oltrepassarono i cancelli de La Ronde, il parco divertimenti rimasto dall'Expo, la fiera mondiale di Montréal del 1967. L'aria era piena di risate, musica, chiacchiere e grida mescolati all'odore di dolciumi e cibi fritti. «È affollato in questo periodo dell'anno», osservò Carol. «Ne tengono una parte aperta per tutto l'anno, e il resto per quanto lo permette il tempo», spiegò André. Poi acquistò diversi biglietti e si diressero all'ottovolante, con Michael che correva davanti a loro. «Lo porti qui spesso?», chiese Carol. «Da quando siamo a Montreal almeno sei volte. Gli piace il movimento. E piaceva anche a me quando avevo la sua età. Ma anche adesso». Stava tentando di dirle qualcosa di sé, e Carol se ne accorse. Quando arrivarono alla giostra, André porse al ragazzo il numero di biglietti necessari. Lo guardarono andare su per salite ripidissime e poi scendere, urlando di paura e divertimento, proprio come tutti gli altri ragazzi. «Ha mai giocato con altri bambini?», domandò lei. «A volte. Aveva degli amichetti a Bonn, e ci sono un paio di ragazzi nel vicinato. Ma, ovviamente, dobbiamo stare attenti». Lei annuì.
André comprò a Michael dello zucchero filato. Lei ne fu sorpresa. «E così mangia anche cibo vero», esclamò. «Non spesso». «Ehi, André, vinci per me uno di quegli specchi». Michael stava fermo davanti a un loggione in stile carnevalesco, e indicava un misero specchio incorniciato con stampata sopra l'immagine di L. L. Cool J. Aveva già tentato il gioco lui stesso, senza successo. André pagò il gestore e lanciò tre palle tra un mucchio di cestini fatti apposta per espellerle. Ma lanciò attentamente, con la grazia di un atleta, lasciando che le palle rotolassero sui bordi, spiegando il metodo a Michael, e tutte e tre rimasero nei cestelli, per il dispiacere del gestore. Dopo che Michael ebbe ottenuto il suo specchio, entrambi riprovarono il gioco. Michael non ci riuscì neppure stavolta ma, come prima, tutte e tre le palle di André rimasero dentro. «Dovrebbero impedirle di giocare», scherzò il gestore. André si girò verso Carol. «Scegli qualcosa». «Voglio quello», disse lei. L'uomo nella bancarella le porse un pipistrello imbottito dall'aspetto simpatico. Non appena lo ebbe tra le mani, lo appoggiò al collo di André dicendo con accento della Transilvania: «Voglio succhiare il tuo sssangue». André rise e l'afferrò alla vita con un braccio, attirando i suoi fianchi a sé. «Più tardi», le disse, con un'energia piena di decisione che le fece venire i brividi. «È un'eccentrica», ammiccò rivolto al gestore, facendo ridere anche lui. I tre salirono sulla ruota insieme benché Michael si lamentasse senza troppa convinzione. «Questa giostra è noiosa. Non è divertente». Poi si fermarono in cima. «Girati e stai seduto, Michel, o cadrai», lo avvertì André. Carol guardò di fianco a sé. «Wow, siamo saliti parecchio. Mi ero dimenticata quanto fossero alti questi affari. Però è bello qui. Guarda Michael, c'è la luna!». Sulla sinistra, la grossa sfera bianco bluastra era sospesa in un cielo limpido, non ancora piena. Sarebbe stata piena nel fine settimana, pensò lei. Potrebbe essere una delle ultime lune che ho l'occasione di vedere.
Guardò André. Doveva aver pensato qualcosa di simile, perché l'espressione del suo viso si accordava ai pensieri di lei. Entrambi distolsero lo sguardo. Mentre Michael guidava le macchinine dell'autoscontro, lei e André rimasero appoggiati alla ringhiera a guardare il loro figliolo. André fece scivolare il braccio intorno alle spalle di Carol. È forte, pensò lei. Se solo mi sentissi protetta da lui invece che minacciata. Perché non può essere diverso? «À gauche! À gauche!», urlava André muovendo la testa. Ma Michael girò a destra, cercando di sgusciare tra due vetture, andando a sbattere frontalmente con entrambe, intrappolato da dietro da una terza. «Per quando ne uscirà, sarà finito il giro. E vorrà rifarlo» disse André ridendo. E infatti Michael rimase per un secondo giro. Mentre lo guardavano, Carol si girò verso André. «Pensi che avremo problemi venerdì?», gli chiese. Aveva elaborato una strategia differente, chiedendogli quali fossero i suoi pensieri piuttosto che dirgli i suoi. Un'oscurità simile a un'eclissi solare discese su di lui. Tolse il braccio. Quando Michael ebbe terminato il giro, André disse: «Andiamo». «Uff, ma siamo appena arrivati! E voglio andare sul toboga». «La prossima volta». André sembrava teso. «Andiamo». Lo seguirono all'uscita e poi alla macchina. Lungo la strada prese il pipistrello imbottito dalle mani di Carol e lo gettò in un bidone della spazzatura. «Voglio stare davanti con Guy», disse Michael. Quando rimasero soli sul sedile posteriore, Carol, sentendosi totalmente frustrata, provò a parlare mentre agitava in aria le mani. «Che cosa ho fatto? Cosa ho detto stavolta che ti ha fatto infuriare?». Lui guardava fuori dal finestrino. «Non capisco. Il rituale è forse un argomento tabù? Se è così, dimmelo». Lui continuava a non dire nulla. «Sto solo cercando di scoprire cosa pensi, e capirlo. Magari posso aiutarti». «Non puoi». «Ma se mi racconti delle altre volte, magari possiamo scoprire cos'è andato storto». La sua testa scattò verso di lei. Le puntò un dito contro.
«Ti avverto, Carol, lasciami in pace. Non scherzo!». «E va bene! Non siamo costretti a parlarne», rispose lei, calmandosi. «Stavo solo cercando di essere d'aiuto». Lui abbassò la mano e la voce. «Tu sei la madre di Michael, non la mia. Cerca di ricordartelo». Rimasero in silenzio per gran parte del viaggio ma, mentre si avvicinavano alla montagna, Carol disse: «Posso chiederti una cosa? Non ha niente a che vedere con venerdì». «Che cosa?» «È solo che mi sento confusa. Non vuoi che ti faccia da madre ma non capisco che cosa vuoi da me». Lui rimase in silenzio per alcuni secondi. La vettura girò per Redpath Crescent. «Ti voglio nel mio letto», disse infine guardando davanti a sé. «Tutto qui?» «Magari come amica». Guardò fuori dal finestrino. «Gli amici si confidano». La limousine salì su per il vialetto asfaltato. Non appena si fermarono di fianco alla casa, André si girò verso di lei. La sua voce era bassa e piatta. «Smettila di perdere tempo con la semantica. Non importa quello che noi due vogliamo, perché per sabato mattina tu sarai morta». CAPITOLO 30 «Ehi ragazza, sembri la rivisitazione de La notte dei morti viventi. Cosa c'è che non va?», domandò Gerlinde quando Carol entrò nel salotto. C'erano anche Jeanette, Julien e Chloe. Carol si lasciò cadere pesantemente sulla sedia vicino alla finestra, lontano dagli altri, e parlò con voce piatta. «Cosa non va? Cosa non dovrebbe andare? André mi ha appena detto che per sabato mattina sarò morta, tutto qui. Nulla di cui preoccuparsi». «Che cosa ha detto?», volle sapere Jeanette. «Credo che stesse solo cercando di essere carino». Carol fissò fuori dalla finestra le ultime foglie rinsecchite che coprivano la dura terra. «Allora, cos'è successo?», la incalzò Gerlinde. Carol sospirò.
«Eravamo a La Ronde. Michael era su una giostra. Sembrava tutto a posto, quando ho chiesto ad André se pensava che avrebbe avuto qualche problema venerdì. È diventato una furia come sempre». «Ehi, tu arrivi subito alla giugulare», disse Gerlinde. «Che cosa intendi dire?» «Voglio dire che la tattica non è il tuo forte». «Cosa avrei dovuto dire? "Questo fine settimana potrebbe essere un buon momento per farsi una bevuta, se uno è propenso a farlo. Ti dispiacerebbe espormi la tua opinione al riguardo?"» «Dicci esattamente che cosa è successo», disse Chloe. «Non servirà a niente». Ma Carol riferì la conversazione, quasi parola per parola. Quando ebbe terminato, Julien si alzò. «Hai ragione, Gerlinde». «A che proposito?» «La sottigliezza non è il suo forte». Si girò verso Jeanette. «Magari, con qualche consiglio in una delle tue arti, amore mio, l'art du plaisir». Baciò sua moglie e abbandonò la stanza. «Julien ha ragione», disse Jeanette alle altre. «Su che cosa?», chiese Carol, con la voce piena d'apatia. «Be', se André ti vuole come amante, perché non cominci con quello?» «Ottima idea!», urlò Gerlinde. Balzò in piedi e disse: «Su, andiamo», trascinando Carol. Quindi la rossa fece cenno a Jeanette e a Chloe di seguirla. «Ho da fare», rispose loro Chloe. Al piano di sopra Gerlinde fece sedere Carol di fronte a un vanity in una stanza arredata quasi come quella dove era stata quando si trovava a Bordeaux. «Che casino!». Gerlinde stava stirando le punte dei capelli di Carol. «Tu lavi, io taglio», disse a Jeanette. «Volete sistemarmi i capelli? La mia vita è alla fine e questa è la vostra soluzione? Un taglio di capelli?». Carol era sfiduciata. «Un nuovo taglio fa miracoli per una ragazza», disse Gerlinde ridendo, muovendosi verso il bagno a passo di danza e trascinando Carol dietro di sé.
Mentre Gerlinde le tagliava i capelli, Jeanette le fece la manicure e il pedicure, dipingendole le unghie dei piedi e delle mani con un lucido rosso acceso. «Voi due siete matte. Questo è il piano più ridicolo che abbia mai sentito». «Non è affatto ridicolo», disse Jeanette. «André è di certo ben disposto fisicamente. In questo è come Julien. E anche per un paio d'altre cose». «È così tipico. Prima volete che lo "comprenda" e poi volete che lo seduca. Le donne hanno agito così per migliaia d'anni». «E ha funzionato», disse Gerlinde, stirando verso il basso le ciocche dei capelli di Carol per vedere se il taglio era pari. «Ma è così ambiguo. E scontato». «Ragazza, se vuoi concorrere per Miss copertina dell'anno, be' questo probabilmente non ti procurerà nessun voto. Se vuoi evitare che André ti decapiti, sedurlo potrebbe essere un valido stratagemma». «André non è così ambiguo», disse Jeanette. «Credo che si fidi di quello che proviene dal corpo perché è in grado di capirlo». «Parlare al nevrotico nel suo stesso linguaggio, giusto?». Carol sorrise falsamente. Quando i suoi capelli furono acconciati in modo da incorniciarle graziosamente il viso e da accentuare i suoi tratti più belli, svestirono Carol e Jeanette le mise una goccia di Obsession tra i seni dicendo: «Solo una goccia». Ne tolse buona parte con un fazzoletto. «Il nostro senso olfattivo è ben sviluppato». Carol si sottomise a tutto quello, ma in segreto pensava che fosse solo una colossale perdita di tempo. «Che cosa indosserà?», domandò Gerlinde. «La mia roba probabilmente non le sta, ed è troppo stravagante». «Torno subito», disse Jeanette. «Gerlinde, credi davvero che farà qualche differenza?», chiese Carol. «Potrebbe non servire, ma di certo non fa male, come ti potrà confermare qualsiasi vampiro anziano». «Che sollievo!». Carol sospirò. Quando Jeanette fu di ritorno, aveva con sé una veste di raso verde chiaro. «Se fosse stata blu, avrebbe messo in risalto i tuoi occhi. Ma l'ho comprata per i miei occhi». La fece scivolare sulla testa di Carol. La sottoveste era eccessivamente
lunga, e pendeva dal suo corpo come uno scarto comprato in un negozio dell'usato. «Sembro una ragazzina che indossa gli abiti di sua madre», sorrise Carol. «La taglieremo», disse Jeanette. «Passami le forbici». «Non farlo: è troppo bella», ribatté Carol. «Ne ho molte altre. E questa è un'emergenza». Jeanette tagliò i lacci delle spalline e li legò in grossi nodi. Il vestito era ancora troppo lungo. Le due vampire fecero qualche passo indietro per guardare il loro lavoro. «Quasi perfetto!», esclamò Gerlinde. «Adorabile!», aggiunse Jeanette. «Non sto male, vero?». Carol si esaminò in uno specchio a figura intera. Non si era preoccupata del proprio aspetto per anni. «E adesso che devo fare?», chiese imbarazzata. «Vai a prenderlo». Gerlinde digrignò i denti. «Così, semplicemente? Non avete una sedia e una frusta?». Jeanette la girò verso la porta che venne aperta da Gerlinde. Carol si succhiò il labbro inferiore. «Non so...», mormorò. Le altre la spinsero fuori, poi ciascuna la prese per un braccio e la condussero giù fino in cucina, fermandosi alla porta dello scantinato. «Qualche consiglio, ed è strano che provenga da una chiacchierona come me», disse Gerlinde. «Non parlare di venerdì, o del rituale. Meglio ancora, non parlare affatto». «Anche io ho qualcosa da suggerire», disse Jeanette. «Non so come sia stata fino adesso la tua relazione sessuale con lui, ma questa potrebbe essere una buona occasione per lasciare che sia la passione a guidarti: capisci cosa intendo?» «No, per niente». «Si chiama seduzione», disse Gerlinde. «Eri un'attrice, quindi puoi immaginartelo». «Ma non puoi mentire», la avvertì Jeanette. «Deve venire dal cuore». «Be', magari da un poco più in basso», disse Gerlinde sorridendo. Carol scese nervosamente nella stanza di André. Quando entrò era buio pesto. Accese la piccola luce sopra il letto. André sedeva sulla stessa sedia davanti al camino come la notte precedente, solo che stavolta il fuoco era
spento. La stanza era fredda, lugubre. Lui non si voltò. Carol si morse il labbro inferiore, sentendo il sapore del rossetto. Tutte le volte che abbiamo fatto del sesso è stato lui a prendere l'iniziativa, pensò. È una cosa talmente nuova per me. Non sono molto sicura di quello che devo fare. Chiuse gli occhi e respirò profondamente, immaginandosi l'aria che s'insinuava nei polmoni, nello stomaco e più in basso, colmandole l'inguine. Cercò di rilassarsi e di cogliere un poco dell'energia che circolava là in modo da trovare una fonte erotica dalla quale attingere. Gli esercizi teatrali l'avevano riportata indietro nel tempo, ai ruoli che aveva impersonato al college e al teatro amatoriale a Philadelphia. Non era mai stata scritturata come protagonista. I ruoli per i quali si era presentata ed era stata scelta erano leggeri, parti secondarie come Cathleen in Il lungo viaggio verso la notte. Ma una volta, per la scuola di recitazione, aveva recitato nella prima scena de La gatta sul tetto che scotta. La classe era rimasta stupefatta dalla sua performance. Aveva sempre pensato che avrebbe senza dubbio potuto impersonare la passionale Maggie. Quando aprì gli occhi, si sentì più concentrata e più eccitata. I capezzoli premevano contro il morbido e fresco raso. Una scarica di corrente percorse il suo corpo, mentre ricordava alcune occasioni quando le cose sul palcoscenico avevano funzionato e lei si era immedesimata nel personaggio. Senza guardare André, si diresse al camino e si piegò. Dapprima sistemò dei ramoscelli e della carta e li accese. Rimase ad osservare finché non ebbero preso fuoco, cercando di mantenere la concentrazione su quello che stava facendo. Quando il fuoco fu acceso, aggiunse un paio di rami quindi due ciocchi, uno contro l'altro. Ben presto il calore e il dolce profumo di cedro rosso la avvolsero. Si voltò piano, con fare sensuale. André la stava guardando. Sembrava oppresso, e il suo volto era oscurato da preoccupazione e perplessità. Le sue gambe erano distese sul poggiapiedi e un gomito appoggiato al bracciolo gli sosteneva il capo. Carol si diresse verso la sedia e si piegò di fianco ad essa. Non l'aveva mai visto così perso, così insicuro. Per un certo verso lo trovò interessante. «Dove l'hai preso questo?», le chiese, toccando uno dei nodi con le dita. «Jeanette». Le sue mani tornarono a sostenere la testa e sospirò. «Ti hanno suggerito di sedurmi?». Carol non disse nulla.
«Non servirà. Nulla servirà». Lei si sistemò di fronte alla sedia, mentre lui continuava ad osservarla. Non farti prendere dalla negatività, disse a se stessa. Più che prestare troppa attenzione a lui, si concentrò sul proprio respiro, spingendo l'aria più in profondità che poteva, lasciando che quella sfrenata energia seduttrice la riempisse. Un formicolio si diffuse sulle labbra della sua vagina. Le mani si mossero come di volontà propria. Gli sbottonò i pantaloni, e prese il pene. Era flaccido, ma lo accarezzò prima da parte a parte, poi su e giù finché non s'indurì un poco. Toccarlo le diede una scossa. «È troppo tardi», disse lui. «Domani notte, poi venerdì ed è fatta». Non cascarci, disse a se stessa, resta nel personaggio. Sorrise. «Be', dato che abbiamo soltanto due notti, faremmo bene a godercele». Sciolse uno dei lacci della camicia da notte e il tessuto scivolò giù dal suo seno destro. Gli occhi di lui corsero là. Carol si mise a cavalcioni delle sue ginocchia e cominciò a sfregarsi ad esse, mentre respirava, ondeggiava, si agitava. Lasciò che l'altro laccetto cadesse dalla spalla. Poi gli tolse le scarpe, le calze e i pantaloni. André si tolse la camicia. Quando fu nudo e sufficientemente eccitato, Carol si sedette sopra di lui, accogliendolo nel suo calore. Si mosse su e giù e contemporaneamente dondolando avanti e indietro a occhi chiusi, sentendolo dentro di sé. Le mani di André cominciarono ad accarezzare il suo corpo e portò le labbra ad uno dei suoi capezzoli. Il collegamento immediato tra il capezzolo e la vagina la fece meravigliare; non riusciva a smettere di gemere. La testa le scattava all'indietro, il suo corpo fremeva, e un profondo suono gutturale scaturiva man mano che le sensazioni avevano il sopravvento su di lei. Carol si sentiva umida, sognante, piena di passione. Portò le labbra di André alle sue e lo baciò intensamente, quasi con violenza. Poi lo guardò negli occhi. «Portami a letto!», gli disse. La notte successiva André le sussurrò nell'oscurità: «Aspettami qui. Non ci metterò molto». Mentre lui era via, Carol fece colazione e chiacchierò con Michael in cucina. In seguito fece una doccia, si sistemò i capelli e si rifece il trucco prima di tornare a letto in attesa. Non sapeva se avrebbe fatto qualche differenza, ma si sentiva meravigliosamente. Non aveva mai sentito il proprio corpo così vivo; avvertiva ogni singola cellula che chiamava, fremeva. E
per una volta, non si sentì debole. Quando André tornò, si spogliò rapidamente e si mise a letto con lei, sollevando il suo corpo, penetrandola lentamente, facendo l'amore con lei appassionatamente, in continuazione, come un condannato che gusta disperatamente l'ultimo pasto. Diverso tempo dopo la mezzanotte cominciò a parlare. Senza la minima ombra di tristezza, senza alcuna richiesta, disse: «Sei diversa dalle altre». La sua testa era appoggiata al grembo di Carol. Lei passò le dita tra i suoi capelli, ricordando l'avvertimento di Gerlinde. Carol lo lasciò parlare. «Conobbi Anne-Marie quando eravamo ragazzi. Siamo cresciuti insieme. Poi è diventata la mia amante. Era bellissima. Occhi blu, capelli scuri che si arricciavano intorno al suo viso quando facevamo l'amore. Aveva il sorriso più caldo che abbia mai visto. Dolce. Vulnerabile. Timida. Affascinante. Dopo la trasformazione glielo dissi, naturalmente. Mi implorò di trasformarla. La volevo, più di quanto avessi mai desiderato chiunque altro. Ma lei aveva cominciato ad aver paura di me, aveva paura di quello che ero diventato, e io non me ne accorsi in tempo. Quando provai a prendere il suo sangue, si divincolò. Poi mi implorò di non ucciderla. Mi guardava come se fossi un mostro, qualcosa che non soltanto temeva, ma disprezzava. Mi infuriai. Ci ho pensato e ripensato. Non so che cosa accadde. Persi il controllo». Carol gli massaggiò il volto con le dita. I muscoli erano tesi. Si soffermò su ogni singola parola, tentando di capire. «Incontrai Sylvie nel 1946. Karl, David - un nostro amico, uno di noi ed io allora vivevamo a New York. Sylvie era in visita dalla Francia, ed era venuta a trovare dei parenti. Era carina, semplice, molto più concreta di quanto non fosse stata Marie. Ma aveva gli stessi occhi chiari e i capelli scuri, occhi nei quali riuscivo a vedere la mia anima. Erano trascorsi quasi vent'anni. Avevo passato il tempo a struggermi per Anne-Marie. Volevo amare di nuovo. Disse di aver capito cos'ero. Ma, quando fu il momento di prendere il suo sangue, accadde la stessa cosa. Si tirò indietro, divenne isterica. Io ero un mostro e lei tentava di fuggire. Questo mi fece imbestialire. E non si trattava soltanto delle sue parole. Riuscivo a sentire che mi resisteva. Cominciai a vederla più come la mia preda che non come la mia amante. E, quando mi supplicò di salvarle la vita, proprio come era già successo, persi il controllo. La persi. Giurai che non ci avrei mai più provato; non ero mai più andato così vicino al rifarlo. È successo molto tempo
fa, ma è come fosse stato ieri per me». Sospirò. «È difficile abbandonare il sangue. Diventiamo irritabili rinunciandoci: è fisicamente doloroso, ma posso resistere. Avrei dovuto farcela. Altri l'hanno fatto. Non so. Forse mi sto prendendo in giro. Forse è una cosa di famiglia». Lei voleva chiedergli che cosa significasse, ma temeva che lui potesse interrompersi. Così, Carol si piegò e lo baciò sulle labbra. Lui la tirò a sé finché non fu sopra di lui, quindi sistemò entrambi e la penetrò. Più tardi, prima che fosse mattina, le raccontò dei suoi genitori. «So di averli amati, ma non riesco a ricordarli bene», disse. Erano faccia a faccia, ma lui si girò di schiena mettendosi un braccio sugli occhi. Gli angoli della sua bocca s'incresparono e lei sentì che ogni singola parola era uno sforzo per lui. «Erano persone di mezz'età quando nacqui. Quando avevo l'età di Michel, ero già abituato a stare senza genitori. Se n'erano andati, e solo tre dei miei fratelli erano ancora in vita. Chloe prese mio padre. Era sua sorella». Carol rimase scioccata. «Tra noi funziona come una catena: siamo collegati uno all'altro, per cui è come se fossimo tutti parenti. Chloe venne creata da qualcuno che non conosceva e non aveva mai visto prima, l'incontro casuale di una sera. Pensiamo che sia la stessa persona che ha cambiato Karl e il nostro amico, David. Ma non ha importanza, perché noi riusciamo a sentirci. Quando muore uno della nostra razza, ciascuno di noi sperimenta la morte, anche se non siamo presenti. Mio padre insistette affinché Chloe lo trasformasse. Fu subito dopo il mio quinto compleanno. Ricordo la torta che mia madre preparò per me. L'ultima. Ad ogni modo, mio padre convinse Chloe: era bello, un seduttore e, poiché era più giovane, come me, per lei era stato sempre come un bambino, e a Chloe faceva piacere accontentarlo. Si era ammalato di tubercolosi, e sapeva che sarebbe morto presto. Chloe dice che le donne lo trovavano affascinante. Ma lui amava soltanto mia madre e, una volta trasformato, ovviamente cercò di cambiare anche lei. Da quello che mi ha detto Chloe, mia madre reagì nello stesso modo di Anne-Marie e Sylvie. Per farla breve, fallì. Dopo aver ucciso mia madre, uccise se stesso». «Come?», si sforzò di chiedere Carol. «Mio padre si incatenò in un campo all'aperto, in modo tale da non poter
evitare la luce del sole e da non potersi nutrire. Dev'essere stata una morte veramente atroce. Chloe dice che ci sono voluti sei giorni di esposizione al sole e di stenti per finirlo. Ma io credo che volesse soffrire perché si sentiva in colpa. Se ne avessi avuto il coraggio, avrei fatto la stessa cosa. Chloe mi ha cresciuto. Quando avevo trent'anni, le chiesi di trasformarmi perché avevo vissuto nel suo mondo e in tutto quel tempo avevo potuto vederne i vantaggi. Probabilmente questo mi accecò; non sono mai stato in grado di capire come i mortali non comprendano le possibilità. E lei per me era l'unica vera famiglia. All'inizio si rifiutò, però col tempo la convinsi. Penso di essere come mio padre. Sotto molti aspetti». Guardò Carol e per la prima volta lei capì che cosa nascondeva quel rabbioso atteggiamento difensivo. La tristezza e la solitudine erano il volto incredibilmente vulnerabile dietro la maschera. «Non so cosa dirti», continuò lui. «C'è una vecchia leggenda indiana molto comune... sono sicuro che la conosci. Sullo scorpione che chiede alla rana di portarlo dall'altra parte del fiume sulla schiena. La rana si rifiuta, temendo che lo scorpione la punga a morte. Ma lo scorpione è molto convincente nelle sue argomentazioni: "Non essere ridicola. Se lo facessi, annegheremmo entrambi". Alla fine riesce a persuadere la rana. A metà strada lo scorpione all'improvviso punge la rana ed entrambi cominciano ad affondare. Naturalmente la rana si sente tradita e prima di esalare l'ultimo respiro vuole sapere perché. Sai che cosa gli risponde lo scorpione? Perché è la mia natura». «Non voglio ucciderti ma non so se potrò fare diversamente. Loro vogliono farmi resistere per tre notti». Rise senza umorismo. «Io non resisto neppure una». Si girò verso di lei. Le prese dolcemente il viso tra le mani e le accarezzò le guance con le dita. Uno sguardo gli riempì il viso, uno sguardo che alla fine lei comprese, perché anche lei aveva sofferto. «Solo questo, Carol: non supplicarmi», le disse. «Qualunque cosa succeda, non implorare perché ti salvi la vita. Perché l'unica cosa che so per certo è che se tu mi vedi come un mostro, non riuscirò a impedirmi di diventarlo. Ti farò a pezzi». CAPITOLO 31 Venerdì sera, la prima notte del rituale, subito dopo il tramonto André lasciò la casa in cerca di sangue. Carol lo accompagnò alla macchina. Si
baciarono ma non parlarono. Non c'era molto altro da dire. Telefonò a Rene. Nessuna risposta. Non lasciò un messaggio. O sarebbe sopravvissuta per richiamarla lunedì, oppure no. Non appena Carol ebbe riagganciato, bussarono alla porta. Intese una voce che le era familiare e corse all'ingresso. «Dio mio! Che cosa ci fai qui?» «Fammi entrare», disse Rene, spostando da una parte Gerlinde. «Carol, sono così sollevata nel vedere che stai bene. Sono stata in pensiero per te». «Certo che sto bene», disse Carol mentre si abbracciavano. «Te l'ho detto». «Dovevo essere certa che non ti avessero costretta a chiamarmi». «Questa, senza dubbio, è la terapista», disse Karl. Fece cenno a Gerlinde di chiudere la porta. Lei eseguì e Carol si accorse che chiudeva il chiavistello. «Sono io. Rene Curtis, e tu sei Karl». Allungò una mano che Karl ignorò. Una piccola folla si riunì nel corridoio. Dopo Karl e Gerlinde arrivarono Jeanette e Chloe per salutare questa ospite inattesa e, dietro di loro, c'era Julien. Rene si guardò intorno, analizzandoli. «E così, questi sono i vampiri». Carol prese fiato. «Rene, non dovresti essere qui. Questo è veramente il momento sbagliato...». Rene si girò verso di lei. «Carol, tu sei come una figlia per me, lo sai. Non potevo dimenticarmi di te, non dopo tutto quello che abbiamo passato insieme. Inoltre, volevo incontrare loro». «Adesso che è qui, cosa dobbiamo fare di lei?», disse Gerlinde. «Fare di me? Ma naturalmente mi inviterete a entrare. Voglio sapere esattamente cosa sta succedendo a Carol, passo per passo. Ha bisogno di un avvocato». «Carol non ha mai avuto bisogno di qualcuno che parlasse per lei», disse Chloe. Carol non aveva mai sentito la sua voce tanto fredda. «È perfettamente in grado di farlo da sola». «Non credo affatto sia il caso. Mi sembra che sia stata più che maltrattata da persone come voi. Persone è la parola giusta? Qui è completamente vulnerabile, e dev'esserci qualcuno al suo fianco». Carol sollevò le mani e scosse la testa.
«Aspetta. Aspetta un momento. Rene, non ho bisogno di aiuto. Te l'ho detto». «Forse è lei ad aver bisogno di aiuto», disse Julien, guardando direttamente in faccia Rene. «E tu devi essere Julien. La descrizione coincide». «Dio, ci conosce tutti!», esclamò Gerlinde. Ma Julien si limitava a fissare Rene che aggiunse: «La vostra ipnosi, seppur molto potente, non funziona con me. Come vedete, non solo conosco le tecniche più recenti, ma sono completamente insensibile ai vostri poteri di suggestione». Julien fece un lieve sorriso che Carol comprese non essere di gioia. «Suggerisco di invitare la signora Curtis a restare, come fa chiunque quando un vampiro intende entrare in una proprietà privata». Rene rise, ma Carol si sentiva davvero a disagio. Si sedettero in salotto, formando tutti un semicerchio intorno a Rene, che fu fatta accomodare di faccia a loro su una sedia al centro della stanza; l'uscio era dietro di loro. Nessuna possibilità di fuga, pensò Carol. Rene non sapeva in che guaio si era cacciata. All'improvviso Carol si preoccupò di quello che sarebbe successo una volta rientrato André. Morianna si unì al gruppo e rimase in piedi dall'altra parte della stanza rispetto a Julien. I due anziani interrogarono Rene. «Lei è venuta qui con un altro scopo, uno scopo non dichiarato», disse Morianna. Rene si girò alla sua sinistra. «Non credo di conoscerla», disse. Morianna non si presentò. «Per favore, ci informi dei suoi veri intenti». «Non che siano nascosti. Il mio intento principale è quello di assicurarmi che Carol abbia un futuro». «E che anche lei ne abbia uno», disse Julien. Rene sorrise. «Il futuro è importante per noi tutti, non è così Julien?» «Perché è qui?», chiese Morianna. Il suo viso era calmo, come se già conoscesse la risposta per quella domanda. Carol notò la stessa espressione sul volto di Julien. «Per scoprire che cosa è successo a Carol», Rene si girò verso di lei. «Be', cosa è successo?». Carol si guardò intorno nella stanza, non sapendo cos'era libera di dire,
avendo paura sia di raccontarle qualcosa che di non farlo. Nessuno fornì alcuna indicazione su quello che avrebbe dovuto fare. Decise che a quel punto non aveva più importanza; non avrebbero permesso a Rene di andarsene, di questo era convinta. «Prenderò parte ad un rituale questo fine settimana. André mi trasformerà. Sarò come loro». Se non sarò morta, pensò. «Capisco». Rene fece una pausa. «Si tratta di una tua libera decisione, Carol, oppure di qualcosa che altri hanno scelto?» «È... una cosa che ho deciso io, sì». «Carol, non sembri molto sicura della tua decisione». «Voglio restare con mio figlio. E con André». «Dopo tutto quello che ti ha fatto? Sembri la tipica donna picchiata dal marito che combatte il suo salvatore per tornare da chi la picchiava. Ti hanno fatto un lavaggio dal cervello tale da farti credere di essere al sicuro qui?». Carol si sentì confusa. Avere lì Rene complicava le cose, riapriva questioni sulle quali lei ormai non si logorava più, le faceva mettere in discussione cose che aveva già deciso. «Rene, io credo che dovresti tornare a casa. Questo non è un buon momento». «Non ti lascerò nei guai, Carol. Qualcuno deve proteggerti dal cadere nelle loro mani di nuovo. Io resto». «Non se io posso evitarlo», disse Gerlinde. «Sfortunatamente per te, non puoi farci nulla. Ho lasciato due cassette a un'amica. Al momento ne avrà già consegnata una ad un suo amico, una persona della quale io ignoro l'identità. Capite», si voltò nuovamente verso Julien, «anche se la vostra ipnosi avesse funzionato, non potete in alcun modo evitare quello che succederà». Carol si sentì terrorizzata. «E che cosa accadrà, Rene?» «Se non telefono alla mia amica lunedì mattina, e poi ogni giorno finché non sono tornata sana e salva a casa, il nastro verrà consegnato ai media. Anche l'altro». «Rene, per l'amor del cielo, perché stai facendo tutto questo?» «Per proteggerti, Carol». «Per proteggere se stessa», disse Julien. «C'è anche un motivo ulteriore, non è vero signora Curtis?»
«Un brutto modo per dirla». «La signora Curtis vorrebbe far parte della nostra schiera». «Cosa?», urlò Carol. «Cos'è questo, il fine settimana nazionale dell'Offriti ad un vampiro per pranzo?», disse Gerlinde. Carol guardò Rene, perplessa. Vide la sua terapista aprire la borsa, estrarne una fiaschetta d'argento, e togliere il tappo. Sollevò la fiaschetta, come per brindare, e diede una bella e profonda sorsata, quindi la rimise nella borsa. «Julien, sei meglio di come immaginassi. Con la mia esperienza più i poteri che otterrò dopo la trasformazione...». «Nessuno qui ti trasformerà», disse Karl, con tono piatto. «Allora daranno la caccia a voi tutti. Ci sono degli abbozzi che Carol ha fatto nel corso degli anni, alcuni davvero ben fatti, incluso un tuo ritratto, Karl. Abbastanza simili a ciascuno di voi perché possiate essere identificati. Anche se non avevo visto te», disse a Morianna. «E ho duplicato su nastro le dichiarazioni più descrittive di Carol, come le informazioni sulle residenze a Bordeaux e in Austria, il numero della vostra società e così via. Sono molto conosciuta nel mio campo, e la mia reputazione dovrebbe essere più che sufficiente per legittimare le informazioni, anche se, naturalmente, i media accorreranno qui in ogni caso». «Rene, questo è tradire la mia fiducia», disse Carol. «Ti ho raccontato quelle cose in via strettamente confidenziale». «E normalmente sarebbero rimaste confidenziali, ma qui le circostanze non sono normali. Dimmi, Carol: se tu cambiassi idea, ti lascerebbero andare?». Carol ebbe un'esitazione. Si guardò intorno nella stanza. «Io... non ne sono sicura». «Non riesco a capire come ciò possa preoccupare te», disse Chloe a Rene. «Certo che non riesci. Sei preoccupata soltanto di quello che è il meglio per te e per il tuo gruppo. Dubito che chiunque qui dentro, tranne me, abbia a cuore gli interessi di Carol». «Tu hai a cuore i tuoi interessi», disse freddamente Julien. «E quelli di Carol. Sicuramente Carol merita che sia presente qualcuno che si preoccupa per lei. Solo per questo motivo rimarrò per il rituale». «Questo è fuori questione», disse Karl. «Rene, ti prego, non è come credi. Non so come, ma le cose si sono evo-
lute. Sono pronta a sottopormi a questo; non ho molto da perdere. E voglio farlo. Non so che cosa speri di ottenere dal pensare che ti trasformeranno, ma...». «Sola? Vuoi affrontare da sola l'esperienza di farti prelevare il sangue dal corpo? Con soltanto questi... esseri presenti? Non preferiresti che io restassi qui con te? Qualcuno che conosci e di cui ti fidi? Un essere umano?». Carol capì subito che Rene aveva detto qualcosa di vero. «Lei è come una madre per me», cercò di spiegare agli altri. «La mia vera madre non c'era. Invece Rene sì, mentre affrontavo tutto questo. Vorrei che restasse». All'improvviso la porta si aprì e André entrò nella stanza. I suoi occhi si fecero più piccoli. Guardò prima Rene, poi Carol e, quando guardò Carol, lei vide "tradimento" stampato sul suo volto. «Tu, naturalmente, sei il padre del bambino», disse Rene freddamente. «Sei stato descritto fin nei minimi dettagli. Tu e le tue azioni violente». Carol balzò in piedi. Era come andare sulle montagne russe, combattere per ottenere la fiducia di André, poi veder tutto franare, più e più volte, e adesso la complicazione di Rene e dei suoi fini nascosti, tutto questo era troppo. «Non posso sopportarlo!», urlò. Poi, rivolta a Rene, disse: «Mi sottoporrò al rituale. Non ha nulla a che vedere con te. Si tratta della mia vita, o della mia morte. Se vuoi rimanere, bene, se vuoi andartene, bene. Se vuoi essere trasformata, questo non mi riguarda. Voglio soltanto essere lasciata sola. Voi tutti, lasciatemi in pace!». Corse quindi via dalla stanza e andò nello studio di Gerlinde al piano superiore, dove si sedette sul pavimento e pianse, incapace di smettere. Le pulsava la testa per lo stress. Le lacrime la liberarono dalla tensione, ma allo stesso tempo le fecero comprendere la grandezza di quell'incubo. Non c'era modo di sapere cosa sarebbe successo, nessun modo per controllarlo neanche in parte. La sua vita era appesa a un filo sottile di fiducia tra lei ed André, un filo che continuava a rompersi. Sarebbe riuscita a sistemarlo per sempre? E se si fosse spezzato al momento cruciale? E se fosse stata lei a spezzarsi? Era sottoposta a una pressione eccessiva, e il rituale non era ancora neppure iniziato. E adesso era tornata la sfiducia di André a rendere tutto più difficile che mai. Forse Rene aveva ragione. Forse si era convinta di volerlo fare perché in realtà non aveva altra scelta. Era pietrificata dell'idea di
essere il terzo fallimento di André. All'improvviso sentì una mano sulla spalla e sobbalzò. Jeanette si rannicchiò davanti a lei. «Sono pronti». «Io no. Non so se lo sarò mai». Jeanette sedette sul pavimento di fianco a lei. La sua pelle bianca era incredibilmente liscia, come freddo, perfetto alabastro. I suoi occhi verde chiaro come l'oceano, scintillavano nella luce. I capelli biondi, quasi bianchi, raggiavano. Carol si chiese che aspetto avesse avuto Jeanette in precedenza, e se anche lei sarebbe sembrata così eccezionale agli occhi dei mortali. Se sarebbe stata così ipnotica. Ipnotica a sufficienza perché loro le offrissero il loro sangue! «Sai», disse Jeanette, «non sono vecchia come alcuni degli altri qui: se fossi rimasta mortale, adesso avrei avuto quasi settant'anni. È solo una vita, ma penso di aver imparato alcune cose, una delle quali è che nessuno è mai pronto per la vita». «O per la morte», disse Carol. «Mortale o immortale, molti di noi non sono preparati per i momenti davvero cruciali della vita. Sono come perle in una collana che noi costruiamo con il passare del tempo. Nessuno sa quante perle ci saranno, quanto la preziosa catena si allungherà per le esperienze uniche. Ci opponiamo a esse con la stessa energia con la quale le desideriamo. So che ti senti fuori controllo. E in un certo senso lo sei. Ma, Carol, come chiunque altro qui che l'abbia provato, devi soltanto fare del tuo meglio. È tutto quello che puoi fare. Ad un certo punto dovrai soltanto fidarti del fatto che sia sufficiente». Carol guardò Jeanette negli occhi. C'era una promessa là, una ricetta per il dolore, qualcosa che l'avrebbe allontanato per sempre. Sentì il bisogno di accettare semplicemente quel palliativo. Ma, racchiusa in quelle pozze verdi, giaceva una familiarità che aveva una capacità propria di confortarla. «Non so perché, ma mi sono sempre sentita come se tu, più di tutti gli altri, avessi saputo quello che stavo provando». «Sono stata in una situazione simile, ma ero da sola. Tu hai degli amici». Jeanette prese la sua mano. Carol scosse la testa. «Amici che mi seppelliranno», mormorò. «Dobbiamo andare».
La vampira la portò giù al primo piano dove si unirono a Gerlinde che aspettava nel corridoio. Le tre entrarono nella stanza degli ospiti. Chloe era nel bagno adiacente che preparava la vasca. Morianna sedeva vicino alla finestra fissando il cielo che si scuriva. Rene era appollaiata sul letto: le avevano permesso di restare. «Cosa posso fare per aiutare?», domandò Rene. «Nulla», disse Jeanette. Gerlinde e Jeanette spogliarono Carol e la condussero alla vasca. «Che cos'è?» chiese Carol, domandandosi cosa stesse versando Chloe dentro l'acqua. «Acqua di rose e petali». Spruzzò un'altra manciata di petali sulla superficie. Il bagno era abilmente nascosto da rose come lo è un laghetto in autunno dagli strati di foglie cadute. Versò il contenuto dal colore chiaro di una boccetta. «Perché le rose?» «Sono fiori sacri e tradizionalmente hanno sempre simbolizzato amore, gioia, eleganza, piacere e anche il settimo figlio». Chloe guardò Carol. La punta dei capelli della donna più anziana era umida per il calore dell'acqua che aderiva alla testa. «André è il settimo figlio, e così suo padre», aggiunse. Jeanette rise dalla porta. «Be', questo è interessante. Alla fine, il settimo figlio di un settimo figlio che è un vampiro. Credo che ogni tanto le leggende debbano essere vere». Le donne aiutarono Carol a entrare nella vasca. L'acqua era bollente, ma alla fine riuscì a sedercisi. Ben presto i vapori le incresparono la pelle e la resero sonnolenta. «Il bagno è una purificazione simbolica», disse Chloe, versando brocche d'acqua sulla testa, sulle spalle e sul collo di Carol. «È un modo per dire che stai lavando via la vecchia vita per abbracciare la nuova». Carol appoggiò la testa indietro, contro le piastrelle, e chiuse gli occhi. Inalò profondamente la fragranza di rose. Quel profumo piacevole parlava di tenerezza e bellezza, facendole venire in mente tutti i momenti più belli della sua vita: il giardino a casa di sua nonna quando era piccola, la sua promozione al liceo, il matrimonio, la rosa che André le aveva regalato una notte, la nascita di Michael. All'improvviso, pensieri inquieti balzarono a rovinare il suo stato rilassato, pieno di pace. Aprì gli occhi e vide Rene dalla porta che guardava Morianna e, nel bagno, Gerlinde seduta sulla tavoletta del water.
«Gerlinde, tu non hai fatto nulla di tutto questo, non è così?» «No. Tra me e Karl è stato differente». «Sì, lo so. Entrambi lo volevate. Be', non ne sono sicura, ma penso che potrei volere questo... cambiamento. Non lo so». Gerlinde rise, con gli occhi color cioccolata che scintillavano. «Ragazza, è la cosa più vaga che ti abbia mai sentito dire». Carol sospirò e richiuse gli occhi. «Be', non è facile, concedere il mio sangue. Specialmente dato che André non è sicuro di non staccarmi la testa a morsi». Una voce che sembrava turbinare dentro la sua anima disse: «Non è mai la debolezza di un maschio, ma la forza di una femmina a determinare il risultato in una relazione tra i sessi». Carol aprì gli occhi. Morianna era in piedi sulla porta, vestita di bianco, grigio e nero ancora una volta, ma stavolta con un completo del tutto diverso. Con diversi strati, lo stile sembrava quello di un costume medievale. Gli occhi brillavano del loro colore violetto, e un lieve sorriso apparve sulle sue labbra che adesso Carol notò essere davvero piene. Sembrava una persona intrappolata in una parabola temporale. Come un attore shakespeariano. Oppure Eleonora di Aquitania in Il leone d'inverno. «Non sono sicura di cosa significhi», disse Carol alla vampira anziana. Morianna la studiò con quei suoi occhi cristallini, intensi, e Carol ebbe di nuovo sonno. «Allora forse dovresti rifletterci. Gerlinde, tu puoi occuparti di lei da qui». Gerlinde seguì Morianna fuori, e chiuse la porta lasciando Carol sola con i suoi pensieri nel bagno fumante d'acqua di rose. Si sentiva veramente insicura. Se non fosse stato per Michael, oppure per il fatto che, doveva riconoscerlo, la sua salute stava peggiorando visibilmente, o ancora perché, come aveva detto Gerlinde, non le stavano offrendo un'altra possibilità, Carol sapeva che non avrebbe affrontato tutto quello. Rene poteva essere stata estremamente interessata, ma Carol trovava l'idea di diventare un'assassina, dipendente dai sacrifici umani, quasi al di là del proprio potere di comprensione. Naturalmente, molti di loro non uccidevano. Ma André l'aveva fatto. E, per quanto adesso gli fosse vicina, non si fidava con certezza neppure del fatto che lui le prendesse il sangue senza ucciderla. Lui le piaceva. In un certo senso, lo amava. No, doveva ammetterlo, adesso lo amava, qualunque cosa egli fosse. Era del tutto incapace di
spiegare a se stessa come i suoi sentimenti avessero potuto cambiare così spesso e così drammaticamente. Ma lo amava. E credeva che anche lui l'amasse. Ma non era sicura che riuscisse a controllarsi. Non era convinta del fatto che sarebbe sopravvissuta. André le aveva raccontato alcuni dettagli delle altre volte. Entrambe le donne avevano supplicato per aver salva la vita; quello sembrava essere il punto debole. E il padre di André aveva ucciso sua madre nello stesso modo e apparentemente per la stessa ragione; le suppliche avevano fatto scattare la sua furia. Ma poteva essere così semplice? Carol sapeva che non avrebbe implorato per la propria vita, qualunque cosa fosse successa, o almeno sperava di non farlo. Ma doveva esserci qualcos'altro. Cosa stava cercando di dirle Morianna? O forse stava dicendo semplicemente che Carol doveva essere forte, perseverante, tutte le cose che gli altri le dicevano sempre? Perché tutto questo deve provenire da me?, pensò all'improvviso, sentendosi petulante. Perché non può fare di più André? Forse sta già facendo la parte del leone cercando di dominare il suo bisogno che sembra farlo veramente impazzire. La cosa peggiore per Carol era sapere che Michael sarebbe stato presente. E nel giorno del suo compleanno. Che influenza avrebbe avuto sulla sua decisione l'esito del rituale? Se André mi uccide, pensò, di fronte a nostro figlio... L'immagine che le si presentò davanti rese l'idea troppo cruenta da mettere a fuoco. Chloe, Gerlinde e Jeanette apparvero sull'uscio con grandi asciugamani. Carol rise. «Sembrate le Tre Grazie». Si tirò fuori dalla vasca e fu circondata immediatamente da soffici tessuti di spugna bianchi. Le asciugarono la schiena, togliendo tutte le gocce dolcemente profumate finché non fu completamente asciutta. Gerlinde la guidò nuda al vanity e le asciugò i capelli. Seduta sul pavimento di fianco ai piedi di Morianna, con i luminosi capelli biondi accarezzati dalla donna più anziana, c'era la figlia di Jeanette. Rene osservò tutto, stranamente calma, concentrandosi intensamente. Carol si chiese se fosse stata ipnotizzata. «Susan e Claude erano a Vancouver per alcuni giorni e sono appena tornati», spiegò Jeanette. «Julien e io abbiamo pensato che avrebbero dovuto essere qui. E loro volevano esserci». Come la notte prima, Jeanette le sistemò le unghie e Gerlinde si occupò dei capelli. Ma stavolta Gerlinde non li tagliò. Applicò invece una crema
bianca tra le ciocche scure, rendendoli luminosi, poi passò una collana di petali di rosa dentro e fuori, lasciando che i petali si attaccassero alla spessa crema. Le lasciarono il volto senza trucco. Mentre loro si occupavano di lei, Morianna parlò. «Stanotte la luna è crescente. Domani sarà piena, completa. Domenica sarà calante. La luna rappresenta gli stadi della vita di una donna, le tappe che percorrerai mentre ti trasformerai. Stanotte diverrai Kore, la giovane aperta al mondo, pura nel corpo e nello spirito, come Persefone nella sua innocenza e bellezza, mentre raccoglie i fiori piena di beatitudine in un prato. O Artemide, la vergine cacciatrice». Carol guardò Morianna nello specchio mentre accarezzava i capelli di Susan. La giovane aveva un'espressione di totale fiducia sul volto, uno sguardo di innocenza assoluta. «Domani diverrai la Madre, Demetra, Era, la donna incinta, matura, che porta il seme della vita, e il tuo utero sarà il contenitore dell'universo. Dalla terza notte sarai la fantastica Crone, Ecate, quella che sempre precede e segue Persefone. Sarai la Regina delle Ombre, la Dea del Sottosuolo, una Principessa Funeraria. Colei che porta l'anima attraverso gli spazi oscuri del non-essere. Lei che ha sempre avuto esperienza della vita, del dolore, della tristezza, della gioia, della pazzia e della morte. La vecchia donna saggia. La strega. È della sua saggezza che avrai bisogno per la trasformazione». Carol fissò Morianna nello specchio, catturata da quello che stava dicendo. Chloe, Gerlinde e Jeanette spalmavano la stessa crema bianca oleosa su tutti i pori. La crema profumava fortemente di rose. Le dita soffici di sei mani si muovevano in piccoli cerchi in senso orario e Carol si sentì nuovamente lasciva e assonnata mentre ascoltava Morianna. «Digiunerai, non mangiando stanotte altro che sei semi di melograno che simbolizzano l'impegno con l'oscurità che la vergine si assume. Per tre giorni solo questo, oltre il sangue». L'accenno al bere il sangue risvegliò Carol. Apparentemente, ebbe un effetto simile su Rene. «Mi stai dicendo che lei berrà del sangue? È stato sterilizzato? Non è umano, vero?». Morianna la ignorò. «Ci saranno nove presenti, nove regali, nove per trasferire la vita. Da ciascuno devi ricevere ciò che viene offerto. E a ciascuno devi offrire qualcosa di tuo. Nove è il numero del compimento, lo stadio finale prima
della fine, quello che decreta che il cambiamento è ormai inevitabile». Carol aveva compreso poco del significato delle parole di Morianna, ma si soffermò su ciascuna, anche se soltanto alcune di esse avevano vagamente senso. «Ci sono quattro direzioni per l'equilibrio. Fuoco, che sarà sempre di fianco o dietro di te, che rappresenta il sud e il calore che offrirai ad André che dovrà fronteggiarti. Durante il rituale lui sarà attirato al tuo fuoco perché il fuoco è irresistibile. È il principio maschile, la forza, la purificazione, il desiderio intenso, la capacità di penetrare e, al tempo stesso, di distruggere. Lo scarto di tutte le sostanze viene bruciato dalla fiamma dell'alchimista. In Nuova Guinea si crede che sia una vecchia la detentrice della fiamma, che la custodisca nella sua vagina per essere usata quando necessario». Carol era incantata. «Ad ovest c'è l'acqua, la compassione, la guarigione, la comprensione. Qui il fiume della vita scorre attraverso di te e tu lo offrirai a André in cambio della vita eterna. Questo è il principio femminile: freschezza, sostegno, verità, saggezza, intuito. È la direzione della luna, dell'emozione, ed è qui che ti siederai come vergine. Domani notte, quando affronterai André, affronterai anche il nord, la direzione dell'Aria. Qui potresti intravedere l'eternità, il paradiso, l'anima. I sogni, l'ispirazione, l'amore della libertà, lo stesso sole ti saranno rivelati quando i tuoi pensieri si fonderanno con quelli di André». Jeanette aveva terminato, ma Gerlinde muoveva i capelli di Carol, dando loro forma con le mani, facendoli aderire perfettamente al viso. «Domenica, quando il rituale avrà fine, guarderai ad est, la Terra, il tuo corpo. Qui c'è colei che ama la vita, la armonizza, così come ci sono oscurità e morte. È in questo luogo e in questo tempo che il sentiero ciclico della nascita, della maturità e del declino si riuniscono, e la trasformazione si compie tramite il rapimento. È qui che devi cercare la saggezza di Sofia». Le donne avevano finito con lei. Carol si girò e guardò in faccia Morianna e la ragazza, Susan, ancora felicemente appoggiata alle ginocchia della donna più anziana. Gerlinde si accovacciò ai piedi di Carol, Jeanette sedette ai piedi del letto, Rene stava dall'altra parte, e Chloe sulla poltrona. C'era silenzio. Alla fine Morianna disse: «Da questo momento, tranne il bacio, nessuno ti toccherà finché André non ti avrà preso domenica a mezzanotte. È parti-
colarmente importante che tu non permetta che il suo tocco, per la brama del sangue, lo faccia impazzire. Soltanto il profumo sarebbe sufficiente. La sensazione del sangue che scorre sotto la pelle è insopportabile. Capisci?». Carol annuì. «Per duemila anni il culto principale degli antichi greci ruotava intorno ai misteri Eleusini. Nelle prossime tre notti, attraverso questo rituale, vivrai un'esperienza simile a quella degli antichi: il processo della nascita, della morte e della rinascita, il processo che qui tutti, tranne una persona, comprendono». Morianna fece una pausa. «È il momento». Si alzò come fecero tutte le altre. Chloe e Jeanette condussero Carol nel corridoio mentre Susan, Gerlinde, Rene e per ultima Morianna camminavano dietro. Le donne salirono senza far rumore al secondo piano. Entrarono nella stanza di fronte allo studio di Gerlinde, una stanza dove Carol non era mai stata. André sedeva a gambe incrociate su un piccolo tappeto orientale che era stato sistemato sopra una tessitura che copriva tutto il pavimento. Anche lui era nudo. Diede un'occhiata a Rene: i suoi occhi grigi saettarono come fulmini, quindi guardò Carol. Il suo volto era rilassato, cosa che la sollevò. Sembrava sazio, contento. Accennò addirittura un sorriso e lei sorrise di rimando. Julien, Karl, Claude e Michael erano in un angolo, tutti insieme. Benché fosse nuda, Carol non provava imbarazzo. Senza toccarla, Morianna condusse Carol su un altro piccolo tappeto di fronte al camino, facendo cenno di posizionarsi in modo da avere il camino sulla sinistra e André sulla destra. Carol s'inginocchiò. Morianna si accinse subito ad accendere il fuoco. La stanza divenne ben presto molto calda, specialmente per Carol che si trovava a ridosso della fiamma. Il suo fianco sinistro pulsava per il calore, e il sudore le gocciolava giù dall'ascella e anche un poco dalla schiena, esaltando la fragranza della crema che le ricopriva il corpo. Non appena il fuoco cominciò a divampare, Morianna smise di aggiungere legna gettando invece dentro quella che sembrava essere una fune intrecciata. La stanza si riempì subito di un profumo d'erba, con una vaga nota di salvia. «Posso avere dell'acqua?», chiese Carol a Morianna. La donna più anziana le lanciò un'occhiata prima di muoversi. «La tua sete sarà saziata», disse. Poi vi fu silenzio. Carol notò la stanza, o almeno quello che riusciva a vedere nella posizione in cui si trovava. Lo spazio era stato svuotato del mobilio: lo intuiva
dalle tracce rimaste sul tappeto nero. C'erano dei grossi cuscini dai colori accesi, affascinanti - nero mezzanotte, viola scuro, arancio e verde foresta - sparsi sul pavimento di fianco al camino e lungo le pareti di terracotta. I due angoli che riusciva a vedere ospitavano grossi vasi pieni di fiori freschi: gladioli... iris... narcisi. Le altre tre pareti erano vetrate, come il soffitto. Di fronte a lei, la luna non ancora piena si affacciava sulla sinistra, pronta a farsi strada nel cielo luminoso dietro agli alberi, passando di fronte alla vetrata che aveva davanti a sé. Doveva essere stata aperta una finestra, perché riusciva a sentire le foglie che frusciavano e il rumore del vento, ma veniva da dietro, dall'altro lato della stanza. Udì le campane della chiesa rintoccare dodici volte. Con la coda dell'occhio vide Morianna portare Michael da André, ma non riuscì a vedere cosa stessero facendo. Morianna in seguito condusse il ragazzo da Carol. Le labbra di Michael erano macchiate di sangue ma aveva un sorriso da un orecchio all'altro. Dietro suggerimento di Morianna, baciò Carol sulla bocca. Lei si rese conto che doveva trattarsi del sangue di André. Era freddo, viscido e dal sapore aspro. Voleva vomitare. Suo figlio porse un oggetto di metallo rettangolare perché lei lo prendesse. «È un polverizzatore, mamma. Karl ed io l'abbiamo preso la notte scorsa. Puoi fulminare i Cardissiani». Era la prima volta che la chiamava mamma, e Carol istintivamente si protese per abbracciare Michael. «No!», urlò Morianna. «Non devi toccare nessuno. Accetta il suo dono e trova spazio per tenerlo nel cerchio che adesso dovrai formare intorno a te». Carol prese il polverizzatore e lo mise in terra proprio davanti a sé. Non appena l'ebbe fatto, Morianna fece allontanare Michael. Poi Claude si recò da André, lo baciò leggermente sulla bocca e appoggiò le labbra a una ferita sul collo di André. Si piegò davanti a Carol, baciandola con le labbra insanguinate. I suoi grandi occhi castani sembravano percettivi, attenti. Le offrì una piccola figura in porcellana, un arlecchino di squisita fattura, intento a ballare, dipinto con colori brillanti nelle tonalità di rosso, blu e giallo su base bianca, che teneva in mano davanti al proprio volto una maschera dorata sorridente attaccata a un bastoncino. Nell'altra mano l'arlecchino stringeva la maschera d'argento della tragedia. «L'ho fatta per te», disse Claude semplicemente.
Poi si avvicinò Susan, baciò Carol con labbra cremisi e la fissò con innocenti e rotondi occhi blu. Timidamente le consegnò un libro rilegato a mano. «Sono poemi d'amore», disse. «Perché tu e André li leggiate insieme. Li ho scritti io». Carol aveva sistemato la scultura alla sinistra del polverizzatore e adesso sistemò il libro sulla destra. La successiva persona che si piegò davanti a lei fu Jeanette. Carol rimase scioccata alla vista del sangue rosso e appiccicoso spalmato su quelle labbra raffinate. Dopo il bacio, Jeanette le porse tre fogli di carta tagliata a mano, arrotolati e tenuti insieme da un filo di raso intrecciato color vermiglio. «Sono carte astrologiche che ho tracciato per te, per André e per Michael, basate sulla mezzanotte di domenica». Carol le prese e le sistemò dietro di sé. «È una miniatura». Gerlinde le consegnò una piccola tela. Sopra era stato riprodotto il quadro di Bocklin, L'isola dei Morti, raffigurante la solitudine di un'anima che viene trasportata da Caronte attraverso il silenzioso fiume Stige. Gli occhi di Gerlinde erano colmi di lacrime rosate, e la stessa Carol fu quasi sul punto di piangere. «Ricordati, ragazza, che ci siamo passati tutti», disse la rossa, baciando leggermente le labbra di Carol, ottemperando al rituale del sangue. Carol mise il quadretto di fianco alle carte astrologiche. Karl si avvicinò. Le porse una fiala di roccia sbriciolata che lui disse essere allume. «Mettila nell'acqua, in un luogo buio, per cinque settimane o più. Assicurati che non venga mossa». Le sue labbra umide sfiorarono quelle di lei. Esitò, poi recitò con calma, timidamente, dei versi di un poema di T. S. Eliot, su un punto fermo nel tempo che permette una danza... una danza che è tutto ciò che conta. Quando ebbe terminato, Karl sembrava un poco imbarazzato. Si alzò in fretta. Carol sistemò l'allume vicino al dono di Gerlinde. Chloe consegnò a Carol un bocciolo di rosa dal colore intenso, ancora chiuso, con il lungo gambo pieno di spine immerso in un esile vaso di vetro chiaro. «Perché passerà dal bocciolo alla fioritura, all'appassire: la vergine, la madre e la vecchia». Baciò Carol con labbra scarlatte. «La rosa è stata chiamata "Il Fiore di Venere". I vecchi miti dicono che gli dèi abbiano
creato la rosa per celebrare l'ascesa di Afrodite dal mare e che divenne rossa quando lei si punse i piedi sulle spine mentre cercava il suo amante ucciso, Adone». Carol sistemò la rosa alla sua destra, tra lei ed André. Dopo ci fu Morianna. A quel punto, Carol aveva immaginato che l'ordine probabilmente aveva a che fare con l'anzianità in base alla quale erano diventati vampiri. La donna eurasiatica premette nel palmo di Carol una pietra di calcedonio verde scuro, striata di rosso, una versione più piccola di quella che aveva intorno al collo. «Eliotropio. Dona coraggio, saggezza, vitalità. Colui che la porta è audace, brillante, coraggioso, generoso, obbediente», disse con occhi sorridenti. «Plinio ha scritto che l'eliotropio dona al possessore il successo se la mente rimane calma ingaggiando una dura battaglia», aggiunse, mentre le loro labbra s'incontravano. Vi fu una scarica elettrica lieve ma ben distinta, una sensazione che si era intensificata dopo ogni bacio. La pietra fu sistemata alla destra della rosa. L'ultimo fu Julien. I suoi occhi scuri fissavano quelli di Carol, quasi assorbendola. Non disse nulla e non le offrì nulla di tangibile, tranne il bacio. Ma Carol avvertì una connessione con lui che pareva inspiegabile, ma che penetrò fino alle radici della sua anima. Si rese conto improvvisamente che tutti i donatori erano seduti in cerchio intorno a lei e André, riflettendo la stessa posizione dei loro doni. Chloe era dietro André, e Carol non riusciva a vederla. Julien sedette di fianco a Susan, l'unico spazio rimasto nel suo cerchio di doni a parte il camino. All'improvviso Rene, che era rimasta seduta contro la vetrata ad osservare, si alzò e si diresse verso André. «No!», disse André. Rene doveva aver sentito la forza del suo furioso rifiuto. Si fermò come avesse sbattuto contro un muro invisibile e si girò dall'altra parte. «Be', lascia almeno che offra un dono a Carol», disse, rivolgendosi senza troppe aspettative a Morianna. La vampira si fermò un istante a riflettere e Carol si aspettò che dicesse di no, ma disse: «Il nove è stato alterato. Procedi». Rene si diresse verso Carol e si inginocchiò di fronte a lei. C'era un bagliore particolare nei suoi occhi e Carol sentiva il suo alito puzzare d'alcol. Sembrava sul punto di spingersi più avanti, per baciare Carol, quando Julien disse: «Non la baciare», con un tono che fece desistere Rene. «Non ero pronta per una celebrazione», disse con semplicità, e sorrise.
«Che ne pensi di un paio di orecchini? Autentico strass!». Si tolse le clip triangolari dalle orecchie e le premette nella mano di Carol, creando un contatto tra le carni. Carol guardò intorno nel cerchio di doni. Non sapeva dove posizionarli. All'improvviso gli orecchini parvero stranamente fuori luogo. Erano caldi per il calore della pelle di Rene e per le punte aguzze dei triangoli nel palmo di Carol. Questo la intimorì. Perché? Si domandò. Rene è mia amica. È stata la mia confidente per anni. Se non fosse stato per Rene non avrebbe mai ritrovato Michael. Ma c'era qualcosa di sbagliato, e lei non riusciva a capire che cosa. Tutto quello che sapeva era che doveva combattere il bisogno di lanciare gli orecchini nel fuoco. Avrebbe ferito Rene, e senza un buon motivo. Ma nello stesso tempo Carol era arrabbiata per il fatto di averli in mano, e arrabbiata perché Rene l'aveva toccata. Li fece finire vicino al focolare e si accorse all'improvviso che stava sudando non solo per il calore della fiamma. Alzò lo sguardo. Rene non era, ovviamente, nel punto corrispondente agli orecchini, il più lontano possibile da André. Non si sarebbe potuta inserire nello spazio tra Carol e il camino. Ma Carol non era preparata per la posizione che Rene aveva scelto: sulla destra di André, a tre piedi da lui. Rene spezzava il contatto, e Carol sentì che era colpa sua. Avrebbe dovuto prestare maggior attenzione a dove sistemava gli orecchini. Diede un'occhiata ad André. Questi sentiva chiaramente che il suo spazio era stato invaso. Lei sorrise, cercando di rassicurarlo, ma i suoi occhi riflettevano una minacciosa oscurità che Carol non riusciva a sopportare di vedere, così distolse lo sguardo. Rimasero in silenzio per ore, tranne per la musica che Claude di tanto in tanto suonava con il flauto e per il suono che Morianna produceva con una campana. Non la suonava, bensì faceva passare uno spesso bastone di legno chiaro intorno al bordo creando una strana risonanza che penetrava fin nelle ossa di Carol. Per tutta la notte la luna levigata salì, attraversando il panorama di Carol prima verso l'alto, poi fuori dal suo spettro visivo mentre si muoveva lentamente dietro gli alberi sulla cima della montagna. Pensò diverse cose. I doni, le persone che li avevano fatti e cosa significasse per lei il rituale. Pensò a Michael, ad André e a come fosse cambiata tutta la sua vita. Riusciva a sentire che quella era la fine della sua vita mortale e della sua
solitudine. Quella notte lei sarebbe stata per André come la ragazza Kore, giovane, innocente, aperta. Lui sarebbe stato il suo amante, il suo eterno marito. Le avrebbe offerto il suo sangue e poi, domenica, lui avrebbe preso il suo, come un uomo prende una donna per la prima volta, pienamente, completamente, un rapimento come aveva detto Morianna. Carol non aveva mai considerato nulla sotto questo punto di vista ma il simbolismo le fece sentire che quell'esperienza era più grande della sua stessa vita e, nello stesso tempo, completamente sua. C'è qualcosa di sacro, persino magico in quello che sta accadendo, pensò. Morianna sistemò davanti a lei una piccola tazza d'argilla grezza contenente sei semi di melograno. «Prendi. Mangia questi». Carol li prese uno per uno, mettendo i semi sulla lingua. Morse il frutto dolce amaro, sbriciolando la parte dura tra i denti. Quando li ebbe inghiottiti tutti e sei, Morianna disse: «Adesso devi ricevere da André». All'improvviso tutti i suoi pensieri così elevati piombarono al suolo. Carol fu presa dal panico. Le avevano detto che cosa avrebbe dovuto fare e, fino a quel momento, aveva pensato che ce l'avrebbe fatta. «Ricevi», disse di nuovo Morianna. Carol si alzò in piedi. Le sue gambe tremavano, in parte per la paura e in parte per essere stata inginocchiata tanto a lungo nella stessa posizione. Si girò verso André. Era esattamente come quando lei era entrata nella stanza, e sembrava essere accaduto giorni prima. Rene sedeva molto vicino a lui, troppo vicino. Mentre Carol camminava verso André, i suoi occhi grigi lucenti restavano fissi su di lei, senza deviare neppure per un istante. Quando fu di fronte a lui si inginocchiò. Cercò di convincersi del fatto di non essere spaventata, temendo di mostrargli la sua paura. Ma poteva già sentire che lui l'aveva vista nei suoi occhi. E conosceva la risposta: sentiva il calore della sua rabbia, intenso come le fiamme che l'avevano quasi bruciata. Con Rene così vicina, Carol era infastidita in un modo che non riusciva a spiegare. Era come se ogni suo singolo movimento fosse controllato. Anche gli altri stavano osservando da vicino, ma non si sentiva costretta da loro a fare le cose bene. Rene scrutava i suoi movimenti, i gesti, e questo scosse la fiducia di Carol, ma non sapeva perché. Il petto di André era coperto da sangue rappreso che era sgorgato dalla ferita nel collo dove gli altri avevano appoggiato le loro labbra. Riaprì la ferita con la punta del dito. Rene ansimò. Sangue così scuro da sembrare
nero tracciava freschi sentieri tra i peli scuri del suo petto. I rivoletti oltrepassavano lo stomaco per finire tra i peli del pube. Un fascino macabro s'impossessò di Carol. Si mescolò al terrore che la scuoteva e si sentì incapace di fare quello che avrebbe dovuto. «Carol», disse Rene, «se non te la senti di farlo...». «Silenzio!», ordinò Julien. La sua voce fece vibrare l'aria come un boato supersonico, frantumando tutti gli altri suoni. Rene rimase in silenzio. Carol tremò. Passò diverso tempo. Aveva paura di guardare André in volto, paura di quello che avrebbe visto. Le sue mani si muovevano lentamente verso la testa di lei. Mi costringerà a berlo!, pensò. Improvvisamente sentì Morianna, con la voce forte e chiara come una campana: «Non la toccare!». Immediatamente Carol ricordò le conseguenze. Senza ulteriori riflessioni, si mosse verso il fiume rosso che sgorgava da lui. Aprì le labbra e bevve. Freddo e pieno. Salato. Mentre si faceva più caldo, il sangue divenne color rame e dolce. Sapeva di terra. Familiare e non familiare. Si sforzò per mantenere la testa vuota. Trattenne il respiro e inghiottì diverse boccate di quel sangue che macchiava con sorprendente facilità le sue labbra. Improvvisamente l'aria che inghiottì arrivò allo stomaco, il sangue ai polmoni e lei cominciò a strozzarsi. Si tirò indietro, tossendo, mettendosi una mano davanti alla bocca. Liquido rosso schizzò dalle sue labbra e irrorò il voltò e il petto di André. Si sforzò di riacquistare il controllo, si trattenne dal vomitare. E dallo scappare dalla porta urlando. Rene era in piedi. Prima che potesse muoversi, Gerlinde la bloccò. Alla fine, l'affannoso respiro di Carol divenne più ritmico, la sua gola irritata meno pungente. Sentì Morianna dire: «È abbastanza!». Carol tornò rapidamente al suo tappeto, con la bocca e il viso venati dal sangue di André, il corpo che tremava senza controllo. Era sorpresa per quello che aveva fatto e anche perché il suo gesto era irrevocabile. Non appena sedette sul tappeto, frammenti di verità balenarono nella sua mente. "Sangue del mio sangue, carne della mia carne". "Perché il sangue è la vita". Non aveva idea di chi fosse il sangue che scorreva nelle vene di André, di chi fosse il sangue che aveva consumato. Cominciò ad afferrare i limiti più estremi della comprensione, la serietà del rituale del sangue e, di conseguenza, il legame che si stava formando tra lei e André. Anche il
legame sembrava irrevocabile. Quando il sole sorse, il gruppo abbandonò la stanza. Rene, chiacchierando senza sosta, fu portata nella stanza degli ospiti dove, presumibilmente, sarebbe stata rinchiusa fino alla notte successiva. Carol e André si recarono insieme in cantina. Si misero a letto in silenzio, separati, senza toccarsi nell'oscurità. La prima notte era trascorsa; a parte un breve trauma, tutto sembrava andare bene. André non aveva nessun problema a controllarsi, per quanto potesse vedere lei. Ed entrambi avevano il supporto del gruppo per aiutarli nei momenti difficili. Cominciava a sentirsi bene riguardo l'intera vicenda e, in parte, aspettava la notte successiva. Improvvisamente, una voce fredda come una tomba tagliò l'aria buia. «Non esitare più a quel modo!». CAPITOLO 32 Carol si svegliò quando André accese la luce. I suoi occhi si aprirono lentamente. Sul suo viso era impressa una maschera triste con incastonati degli occhi grigi come la pietra. All'inizio il suo sguardo fisso la fece innervosire, finché non fu del tutto sveglia. Come lui sembrava diverso, così lei si sentiva diversa. La sua pelle fremeva di sensualità. Non sapeva se fosse il risultato dell'aver bevuto il sangue o cos'altro - forse se lo stava immaginando - ma quell'effetto produceva in lei una sicurezza che non era abituata a provare. E per restare da sola con André, nelle condizioni in cui versava quella notte, avrebbe avuto bisogno di tutta la sicurezza in se stessa possibile. Abbandonarono la stanza insieme, senza dire una parola. Sul pianerottolo del primo piano, Jeanette la fece entrare di nuovo nella stanza degli ospiti. Rene sedeva ancora sul letto, stavolta ai piedi, appoggiata a un braccio. Cerchi scuri le circondavano gli occhi troppo chiari: sembrava leggermente confusa. «Stai bene?», le domandò Carol. «Nulla che un bicchiere non possa curare». Gli altri non dissero nulla. «Perché non le date qualcosa?» «Eh no, ragazza. Ha già passato il limite». «Sentite, io credo che abbia un problema con il bere...».
«Ma va? L'alcol filtra dai suoi pori come un vapore velenoso». «È abituata a bere: la fa restare calma. Magari se noi...». «Io? Io avrei un problema con il bere?», disse ridendo René. «Dimmi, Carol, dove hai ottenuto il tuo diploma in psicologia?». La mano le scivolò dal letto e cadde su un fianco. Carol non aveva mai visto Rene in quelle condizioni. E, a dire il vero, si sentiva controllata nella stessa misura in cui Rene aveva perso il controllo. «Sono venuta per incontrare i tuoi vampiri e l'ho fatto», disse Rene, tirandosi su. «E sono una delusione». Carol si guardò intorno. Era chiaro dalle espressioni che si stavano scambiando che Rene rappresentava un grosso problema. «Julien si è svegliato presto», disse Gerlinde. «Quando il sole è tramontato, l'ha trovata ubriaca». Svitò il tappo e capovolse la fiaschetta argentata. «Vuota», concluse. «È meraviglioso», disse entusiasta Rene. «Proprio come l'avevi descritto, Carol. Vibrante. Antico. Mi conosce a fondo: lo sento. I suoi poteri d'ipnosi non sono meno di un miracolo». Le sue mani tremavano e anche la testa si muoveva leggermente. «Rene, tu non dovresti essere qui...». «Non c'è tempo per questo adesso», disse Jeanette. «Julien ha scoperto che non ha raccontato di noi a nessun altro. Non ancora. Il resto è vero, riguardo i nastri». Indicò una sedia e Carol si sedette. «Dovremo occuparci di Rene dopo domenica». «Stanotte il rituale dura dal tramonto all'alba. Molte ore. Devi prendere il sangue di André tre volte», intervenne Morianna. «Chloe si è offerta di preparare una mistura che potresti voler bere durante la notte, per aiutare la tua causa». «Causa ed effetto», disse Rene senza rivolgersi a nessuno. «Che cosa significa?», chiese Carol a Morianna. Fu Chloe a rispondere. «Stanotte sarà più difficile per André. Ho una pozione di erbe che permette al corpo di sviluppare un profumo che nasconde l'odore del sangue». «Così non sarà attratto dal mio sangue e non mi attaccherà?» «Speriamo». «Non c'è una garanzia soddisfatti o rimborsati?», scherzò Carol. Nessuno rise, tranne Rene che sghignazzava: «La clausola del sangue». «Va bene», disse sospirando Carol. «La berrò». Vi fu silenzio per un momento, finché Jeanette parlò.
«Penso che dovresti dirle tutto». Carol fissò tutte le donne nella stanza, tutte tranne Rene, che evitava di guardare: Rene infatti le avrebbe creato solo dell'altro stress di cui non aveva bisogno adesso. Le altre erano tese, tranne Susan, che probabilmente era troppo giovane per capire cosa le preoccupava. «Be', c'è qualcuno che vuole dirmelo?» «Ragazza, è un afrodisiaco», disse Gerlinde. «Sesso, sangue e morte!» Rene batté le mani come una bambina. «Una festa!». «Afrodisiaco? Intendi dire che mi farà sentire eccitata?», chiese Carol. «Sì», disse Gerlinde. «Il tuo corpo emanerà... degli odori. Capisci cosa voglio dire?» «Intendi dire che avrò odore di sesso?» «Sì. Qualcosa del genere». «Be', e non provocherà forse André? Voglio dire, non devo permettere che mi tocchi, giusto? Non è pericoloso?» «Il profumo del sangue è più pericoloso», disse Morianna. «Se André fosse stato più simile a Karl, avresti potuto leggergli L'apprendista stregone», disse Gerlinde, «ma il cervello di André si trova in un posto diverso, e noi tutte sappiamo dove». «D'accordo». Carol guardò nella stanza spaziando da destra a sinistra. «Se pensate che possa servire, lo farò». «Non possiamo garantirti nulla, ma probabilmente funzionerà. Ci sono comunque delle conseguenze», disse alla fine Chloe. «La morte è la conseguenza del sesso», proferì solennemente René. Carol desiderò che Rene la smettesse. «Conseguenze? Quali?» «Potrebbe diventare doloroso», le spiegò Jeanette. «È una mistura a base di foglie di palma, Damiana, foglie di Celandina e diversi altri ingredienti. Ti farà sudare molto e, per un poco, ti sentirai estremamente eccitata. Stimola le secrezioni ormonali che generano i fluidi della vagina; questo è l'effetto desiderato. Il problema è che è incontrollabile». «In che senso?» «Sarà come essere sul punto di avere un orgasmo. Dopo più o meno un'ora potresti avere degli orgasmi spontanei. Alla fine le contrazioni potrebbero diventare sgradevoli». «Sembra quasi come partorire», disse Carol. «La nascita della morte», mugugnò Rene.
I peli dietro il collo di Carol si drizzarono. Guardò Rene. Le era successo qualcosa. Era più che ubriaca: aveva perso la testa. Carol non poteva proprio occuparsene adesso. «Simile», affermò Chloe, riportando Carol al presente. «Naturalmente, non sei costretta a prenderlo. Dipende da te. Io ti suggerisco questo: preparerò le erbe e te le lascerò. Se tu vedi che va tutto bene, non usarle. Se senti che le cose stanno sfuggendo al tuo controllo - con André - allora potresti pensarci». «Sembra una buona cosa», disse Carol. Ma era preoccupata. «Tu pensi che perderemo il controllo?». Nessuno le rispose e, per una volta, Rene non disse nulla. Gerlinde e Jeanette spostarono quest'ultima dal letto su una sedia. Lei urlò e si divincolò mentre le legavano le braccia ai braccioli della sedia. «No! Non lo fate», disse Carol. «È innocua». «Ragazza, io non lo credo», disse Gerlinde. «Ha solo dei problemi». «Il problema è il tempo», disse René. «Lei è un problema e farà andare tutto male», continuò Gerlinde. Carol scosse la testa. «È qui per me. Glielo devo». «L'anima deve andare dove ha bisogno di andare. I legami non devono danneggiare il sentiero preordinato», disse Morianna. Carol non era pronta ad abbandonare la sua umanità così semplicemente. La sua relazione con Rene andava oltre la terapia, persino oltre l'amicizia; appartenevano alla stessa specie. Carol sapeva che Rene non sarebbe stata d'aiuto, ma necessitava della sua presenza. Era come aggrapparsi a questo mondo mentre si affacciava a quello nuovo. Temeva che sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe perso il contatto con entrambi i mondi e sarebbe finita in caduta libera nello spazio da sola. Morianna doveva aver sentito quel bisogno dentro di lei. «Come vuole lei», disse l'anziana, e sia Gerlinde che Jeanette lasciarono andare Rene. Non appena abbandonarono la stanza, Rene prese a balbettare in maniera incoerente, aggrappandosi alla schiena di Carol. Doveva togliersi dalla testa Rene. Stavano succedendo troppe cose, e non poteva permettersi di trascurarle neppure per un istante. Quando le donne arrivarono al secondo piano, Morianna accese un altro fuoco. Tutti tranne Carol e Chloe si sedettero come avevano fatto la notte
precedente. Quella notte Carol era direttamente di fronte ad André. Adesso poteva vederlo chiaramente, e le sue precedenti osservazioni in cantina vennero confermate. Appariva terribilmente scarno, con la pelle tesa sulle ossa, il volto pallido e vagamente selvaggio. Anche le sue labbra si presentavano sottili, e i suoi occhi erano febbricitanti. La guardò subito, e lei ebbe l'immagine di un cane affamato, con lo sguardo rivolto ad un pezzo di carne. Le mosse di Rene lo distraevano di tanto in tanto. Con gli occhi chiusi e l'ebbrezza in corpo, oscillava, molto vicina a lui. Carol sapeva che André trovava il sangue di Rene invitante. Come aveva trovato invitante il suo. Dietro André, la vetrata più estesa mostrava pini ondeggianti e cedri che coprivano il versante della montagna. Grazie alla luminosità del cielo, Carol poteva vedere oltre le cime degli alberi. La luna quella notte era gonfia, e lei pensò alle antiche leggende che collegavano la pazzia umana alla luna piena. Nell'angolo di destra della stanza Chloe sedeva pestando delle erbe con un pestello di pietra bianca in un mortaio di marmo. Quando ebbe finito, le depositò in una massiccia teiera di ghisa, le versò nell'acqua che bolliva grazie ad un bollitore elettrico e lasciò che si impregnassero. Alcuni minuti più tardi, filtrò il tè in una grande tazza di legno nero. Sistemò la tazza sul tappeto di fronte a Carol, davanti alla rosa rossa tra lei ed André, adesso in piena fioritura. Dopo che Chloe ebbe preso il suo posto dietro André, Morianna disse: «Devi bere da André». Non così presto!, pensò Carol. Ma quella notte era decisa a non esitare. Si alzò subito e si diresse da lui, piegandosi in avanti. Doveva guardare da un'altra parte per non incontrare i suoi occhi freddi come l'acciaio. Lui sollevò una mano tremante; durante la notte le sue unghie erano cresciute fino a diventare artigli giallognoli e affilati come pugnali. L'odore che proveniva da lui le fece venire in mente la terra bagnata. Lo guardò mentre si incideva la vena nel collo. Lei premette subito le labbra sulla ferita che zampillava e bevve il sangue, fermandosi solo quando sentì Morianna dire: «Basta cosi». Tremante, tornò al suo tappeto e lo guardò di nuovo, pulendosi l'umido dalle labbra con la mano, sentendo che rispetto alla sera precedente non aveva quel sapore ripugnante e non sentiva alcuna nausea. Il sangue sembrava quasi rinfrescante, appagante, come un vino dolce. Forse lei era sa-
zia, ma André era ancora affamato. La prima parte della notte trascorse liscia e senza intoppi, benché lui stesse visibilmente soffrendo. Rene si afflosciò e giacque sul pavimento. Adesso era ancora più vicina ad André. Subito dopo che le campane della chiesa ebbero rintoccato dodici volte e Carol ebbe seguito la discesa di una luna come una perla dietro la cima della montagna, per vederla poi riapparire, Morianna parlò di nuovo. «Ricevi». Stavolta, nell'avvicinarsi ad André, Carol fu più esitante. Durante quelle ore aveva visto il cambiamento in lui, e non era piacevole. Agitato, si muoveva in continuazione. Un dolore intenso si mescolava all'ostilità sul suo volto. Era attento ai movimenti tanto di Rene quanto di Carol, gli unici esseri nella stanza ad avere sangue proprio che scorreva nelle vene. Si piegò davanti a lui. La sua fredda energia predatrice la fece trasalire. Cercò di bere il sangue più in fretta che poté, per tutto il tempo cosciente del proprio respiro corto e del lieve strato di sudore che ricopriva il suo viso. La barriera tra loro si stava rapidamente dissolvendo. Trovò questa cosa terrificante e allo stesso tempo eccitante. Quando l'orologio risuonò le tre, Rene si svegliò. Cominciò subito a borbottare cose senza senso, avvicinandosi ad André, richiamando la sua attenzione. Carol sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa. Lui guardava entrambe le donne con occhi di falco, prestando attenzione ora ad una, ora all'altra. Rene si fece ancora più vicina. André concentrò tutta la sua attenzione su di lei e, quando lo fece, Rene divenne frenetica. André sembrava teso al punto di scattare. Carol aveva paura di compiere gesti troppo repentini. Guardò alla sua sinistra. Michael si era appisolato, con la testa sul grembo di Susan, i piedi su quello di Claude. Gli altri sedevano immobili come statue: probabilmente non sarebbero intervenuti. Dipendeva tutto da lei. Sollevò la tazza nera, mescolò il contenuto verde-giallo, poi ne bevette un sorso. Il sapore cattivo, amaro e pepato le fece mettere una mano davanti alla bocca. La testa di André si voltò di scattò nella sua direzione. Si costrinse a bere un altro sorso, sperando che avrebbe agito al doppio della velocità. Andò avanti bevendo ogni cinque minuti un sorso. La stanza stava diventando estremamente calda. Il sudore le scivolava da sotto le braccia e dai seni, lungo la schiena e negli incavi delle ginocchia. I suoi capezzoli s'indurirono. Carol capì di sentirsi lasciva, erotica. Il suo
corpo oscillava leggermente, con lo stesso ritmo degli alberi. Si guardò intorno nella stanza. L'attenzione di André era stata distolta da Rene. I suoi tratti erano spaventosi: la carne pallida come carta sottile, gli occhi duri, delle punte ghiacciate, piene di tormento. Il sudore luccicava sul suo corpo e gli incollava i capelli alla testa. La barba era cresciuta, e i peli del petto erano diventati più lunghi. Il suo stomaco si espandeva e si contraeva rapidamente mentre lui ansimava. Lo vide agitarsi, con le braccia che si contorcevano e sfregavano come se degli insetti gli strisciassero su tutto il corpo. Nel giro di un'ora Carol cominciò a dimenarsi. Il sudore usciva copioso dal suo corpo. I capelli erano bagnati al punto che delle grosse gocce scivolavano dalle punte fin sulle spalle. Ebbe paura di disidratarsi. In più, la sua vagina calda pulsava con un ritmo allarmante, inzuppandole di fluido l'interno delle cosce. I capezzoli erano diventati dolorosamente duri, e sentì che era quasi impossibile non toccarsi. Anche lei, come André, ansimava. Finì a quattro zampe, piangendo, gemendo, cercando di infilarsi nel suolo, come un cane che scava per terra. In preda a questo stato simile ad un orgasmo sentì l'orologio rintoccare le sei e udì Morianna dire: «Ricevi». Carol diede una rapida occhiata nella stanza. Tutti sembravano così pieni di vita, così vivi, eccitati. Tutti gli uomini sembravano particolarmente piacenti e virili. Si sentì attratta anche dalle donne. Rene allungò una mano e mormorò qualcosa tipo: «Bambina mia». Carol piegò la testa in alto e fissò André, che la guardava di rimando. Una potente ed invisibile vibrazione simile a onde di luce ultraviolette li collegò insieme, invogliandola ad avanzare. Non riusciva ad alzarsi, e dovette strisciare sul tappeto verso di lui appoggiata al ventre come un serpente. La vista le si offuscò, le percezioni uditive si fecero distorte; era il suo respiro, oppure quello di Rene, o forse si trattava del respiro collettivo di quegli esseri carnali. Solo quando si piegò davanti a lui, con il corpo ricurvo, fu sicura della direzione che aveva seguito. Carol emanò un profumo che lei stessa riusciva a sentire: animalesco, sensuale, femminile, magnetico. Si sentiva bollente, calda e aperta, palpitante, i suoi organi genitali erano un fuoco che pulsava, un fuoco che lui poteva estinguere. Pensò di mettergli il proprio desiderio sotto il naso, in modo che capisse. Ma il corpo di André poteva fare di più che rispondere a quel profumo.
Ai suoi occhi sembrava solo ed esclusivamente un maschio, un'energia che poteva soddisfare quel suo bisogno lancinante, che avrebbe potuto sedare le fiamme della voglia dolorosa. Lo spazio tra loro scricchiolò per una scarica elettrica che avrebbe potuto illuminare la città. In un momento di lucidità pensò: Almeno sta funzionando. E poi, non sarò mai in grado di impedirgli di toccarmi. O di impedire a me stessa di toccare lui. Lui incise la vena. Lei riusciva a malapena a tenere le mani sui bordi mentre beveva quello che sembrava essere del buon vino. Quando fu terminato e la luce cominciò a rischiarare il cielo, tutti se ne andarono diretti alle loro stanze. Gerlinde si fermò al primo piano per sistemare Rene per la giornata. Mentre Carol passava davanti a quella stanza Rene la chiamò dicendo: «Sono reali, Carol, davvero reali». La sua voce era prossima all'isteria. «Andrà tutto bene», la rassicurò Gerlinde. «Le cose stanno funzionando alla grande. Solo non lasciare che ti faccia schizzar via le ossa». André era andato avanti. Carol camminò da sola nella cantina, in parte camminando, in parte strisciando. Si chiese se le contrazioni sarebbero durate tutto il giorno e se avrebbe potuto alleviare lei stessa in parte la tensione. Alla fine si distese di fianco a lui, sapendo di essere provocante; l'istinto le diceva che la desiderava tanto quanto lei desiderava lui. Non poteva impedirsi di gemere e non riusciva a smettere di girarsi e agitarsi, benché prestasse attenzione a non toccare il corpo di André. Carol sapeva che il profumo aveva ancora su di lui l'effetto desiderato, ma il suo bisogno era talmente grande che adesso non importava più. Infatti aveva raggiunto uno. stato nel quale realmente non le sarebbe potuto importare di meno delle passioni di lui. Concentrò tutti i suoi sforzi per estinguere le proprie. CAPITOLO 33 Carol si svegliò nel buio. Un ringhio echeggiò nell'oscurità, alla sua sinistra. Dopo una giornata di deliziosa tortura, alla fine era sprofondata in un sonno profondo, esausta. Adesso si era svegliata di soprassalto. Qualcosa non andava affatto bene. Istintivamente rimase immobile, respirando a malapena. Il ringhio divenne più forte. Sentì un respiro affannato. Un odore pun-
gente le fece venire in mente degli animali in gabbia allo zoo. Nell'oscurità il suo cuore batteva contro la gabbia toracica e il suo corpo aveva cominciato a sudare. Era intrappolata: da un momento all'altro l'avrebbe attaccata. Rimase immobile ascoltando quei suoni gutturali che produceva finché il tono si fece più basso e comprese che restare lì sarebbe stato ancora più pericoloso: doveva andarsene. Con lenti e cauti movimenti, spostò le gambe sul fianco del letto e si alzò. Si diresse alla porta facendo molta attenzione, tastando il muro. Fece scattare il chiavistello lentamente. Aveva appena roteato la maniglia quando lui scattò. Colpi il legno di fianco a lei. Il respiro caldo le bruciò la guancia. Le ringhiò nell'orecchio. Carol ebbe un flash istantaneo, l'immagine di un obiettivo psichico che metteva a fuoco il futuro, realizzando che, se non fosse uscita subito di là, non avrebbe abbandonato quella stanza viva o in una qualsiasi altra forma per tornare dalla morte. «André? Carol?». La voce di Susan giunse dall'altra parte della porta. «Morianna vuole che saliate di sopra adesso». Carol non riusciva a parlare. La sua mano afferrò la maniglia girata. Tirò la porta verso l'interno. Il peso di André la manteneva chiusa. All'improvviso, si spostò leggermente indietro. Lei aprì la porta quel tanto che bastava per sgattaiolare in mezzo. Susan era già in cima alle scale e Carol voleva gridarle di aspettare, ma fare rumori non necessari le sembrava rischioso. Camminò per la cantina con tutta la calma di cui era capace, costringendosi a non scappare via in preda al panico, sapendo che l'avrebbe subito aggredita alla gola se l'avesse fatto. Pazientemente salì tutti i gradini fino alla cucina, girò, camminò versò il corridoio, poi salì le scale diretta al primo piano. Per tutto il tempo André le rimase incollato dietro, dandole la caccia, un vento freddo che le raggelava il corpo e l'anima. Entrò nella stanza da letto; le donne stavano aspettando. Rene sedeva sul letto legata e imbavagliata. La sua pelle senza trucco era segnata e giallognola, e i suoi occhi sporgevano con un bagliore folle. All'improvviso i nervi di Carol scattarono. La tensione rilasciata culminò in un'esplosione furiosa. Si girò verso Morianna e Chloe. «Perché diavolo sono necessari tre giorni? Sarebbe stato abbastanza difficile per lui un giorno solo. Penso che stiate tentando di sabotare tutto!». «Siediti, Carol», disse Chloe. «Sei sconvolta. Cosa c'è che non va?»
«Cosa c'è che non va? Adesso te lo dico cosa c'è che non va!». Carol rimase in piedi, con le gambe che tremavano. «André si è trasformato in qualcos'altro. Mi ha quasi aggredita al piano inferiore. Mi squarcerà la gola prima che la notte sia trascorsa, e la colpa è di voi due!». «Probabilmente una spiegazione è necessaria», disse Morianna con tono gentile ma deciso. Carol la guardò. «André è diverso da noi sotto questo punto di vista: la fiducia che ha nel proprio potere è scarsa. Se avessimo permesso la trasformazione nella prima notte e, nel caso fosse riuscito a portarla a termine, l'avrebbe giudicata un colpo di fortuna. Non l'avrebbe fatto cambiare. Due notti avrebbero potuto avere l'effetto desiderato, come avrebbero potuto non averlo. Ma tre è il numero magico: gli antichi veggenti lo spiegano come il numero stesso del cambiamento. Può verificarsi ben più che una semplice trasformazione». «Non so di che cosa stai parlando!», urlò Carol, tenendosi la testa con le mani. «Non riesco a capire tutta questa messinscena. Avrebbe potuto già essere tutto finito. Avrei già potuto essere come una di voi, con mio figlio». «E con André, i cui sentimenti per te non sono ancora chiari», disse Jeanette. «Morianna sta cercando di dirti che sia lei che Chloe e Julien hanno deciso per questo rituale tanto per te quanto per lui». «Be', grazie tante!», disse Carol con amarezza. «Solo non fatemi altri favori, perché non so se ne riuscirei a sopravvivere». «Ascolta, ragazza», la voce di Gerlinde era seria e irritata. Era la prima volta che Carol sentiva quel tono diretto contro di lei. Questo la costrinse ad ascoltare la vampira con i capelli rossi. «Vuoi che André ti tratti meglio, giusto? Perché lui lo faccia ti deve rispettare. E non ti rispetterà finché non gli avrai insegnato come. Ecco perché tutti hanno affrontato così tanti problemi: per dare a voi due una possibilità per risolvere la situazione. Puoi trasformare soltanto il corpo, ma non credo che ti divertiresti con un tizio simile che resterà nel tuo letto per l'eternità. A meno che non ti vada a genio di essere la sposa bastonata di Dracula». Carol si sedette al vanity. Si mise le mani sul volto e pianse. «Non so che cosa sto facendo. Non so cosa sta facendo lui. Non riesco a capire». «Tu ami André e lui ama te», disse Jeanette con voce delicata. «È importante ricordarlo. Hai solo bisogno di inserire quell'amore in un contesto dove possa crescere e maturare in qualcosa di significativo per entrambi. Ecco a cosa serve il rituale».
Carol si limitò a piangere più forte, spaventata fino al midollo. «Tu sai che», continuò Jeanette, «quando un bruco entra nel bozzolo, per un istante sembra tutto buio e probabilmente sente che non sta succedendo nulla o forse che accadrà il peggio. Ma, alla fine, se non si abbandona alla disperazione, succede qualcosa di misterioso. E, quando viene fuori, non è più un bruco, ma una creatura splendida. È questa la magia, la magia di voi due». «Ho paura!», disse Carol. Si guardò intorno nella stanza, realizzando all'improvviso che tutte tranne Rene si erano trovate nella stessa situazione nella quale si trovava lei adesso. «Non so se sarà in grado di controllarsi». «La capacità di André di controllarsi non è più in questione», disse Morianna enigmaticamente. «Ma si sta facendo tardi. E adesso dobbiamo finire. Gerlinde, occupati di Rene, per favore». «Voglio che rimanga», disse Carol. «Ho bisogno che rimanga». Sapeva che era la paura a parlare. Rene non poteva fare nulla per lei, oltre a non poter fare nulla per se stessa. Morianna fece un cenno col capo. Rene fu portata di sopra, legata e imbavagliata. Carol non aveva la forza per discutere ulteriormente. Nella stanza tutti si sistemarono ai propri posti. Carol era di fronte al muro opposto a quello che aveva davanti il venerdì notte; questa volta non avrebbe visto la luna calante. Morianna non accese il fuoco; l'aria era quella dell'ultima fase. Carol non guardò André, spaventata dall'orrore che avrebbe provato. «Questa sera», cominciò Morianna, «subito prima di mezzanotte, riceverai le ultime gocce del sangue di André. Non appena l'orologio rintoccherà, lui verrà a rivendicarlo da te». Le sue parole fecero provare un brivido a Carol. Ebbe un'improvvisa coscienza dell'ineluttabilità degli eventi, che la lasciò ansimante e con un gran bisogno di fuggir via. Questa notte morirò!, pensò, combattendo l'isterismo che minacciava di soggiogarla. Potrei tornare oppure no. Ma dovrò in ogni caso abbracciare la Morte. Per tutta la notte Carol evitò di guardare André, ma non ne aveva bisogno. Lo sentiva e lo percepiva. Era furente, si alzava, si sedeva, camminava, il suo respiro era alterato da suoni sgradevoli. Era nella stanza con una bestia selvaggia che aveva una sola cosa in mente: il cibo. Diversamente dalla seconda notte, le ore passarono in fretta, anche troppo, pensò Carol. Dopo che la campana ebbe rintoccato le undici, Julien le
si avvicinò. Aveva con sé un grosso coltello, dalla lama dorata e l'impugnatura ornata d'argento. Alla vista del coltello le mancò il respiro, e lo guardò in quegli occhi di ossidiana, antichi come pietre, con racchiusa dentro la verità dell'esistenza. Provò un dolore acuto mentre lui le incideva il collo. Il suo corpo tremò, senza alcun controllo. Del sangue caldo divenne subito freddo non appena gocciolò sulla clavicola. Julien baciò le sue labbra poi bagnò le proprie con la ferita. Da André giunse un sibilo basso e prolungato. Poi toccò a Morianna. Baciò Carol, prese del sangue con le labbra e lo passò ad André. Poi Chloe, Karl, Gerlinde, Jeanette, Susan, Claude e alla fine Michael, che sembrava leggermente intimorito. Carol sorrise per rassicurarlo. Si chiedeva se André l'avrebbe fatto o avesse potuto farlo. Quelli che parvero essere pochi minuti trascorsero, quindi Morianna pronunciò la parola fatale: «Ricevi». Carol si alzò sulle gambe, tremando al punto da quasi non riuscire a restare in equilibrio. Quel movimento fece emettere ad André un ruggito. Era ferale, animato da un bisogno spudorato di sangue. Lei camminò lentamente, non osando guardarlo di nuovo, e si piegò. Con la coda dell'occhio intravide Rene, ancora legata e imbavagliata, che si inginocchiava lì vicino. L'odore proveniente dal corpo di André le fece venire in mente delle passeggiate tra i boschi in autunno, o la pelliccia di animali selvatici, o anche dei cuccioli appena nati e la nascita di suo figlio. Guardava la sua pelle tremare mentre si contraevano i muscoli al di sotto di essa; era certa di riuscire a sentire le vibrazioni attraverso il pavimento, che si insinuavano in lei salendo dalle ginocchia. L'alito caldo di André era liquido e intenso sul suo volto. Il respiro, così vicino all'orecchio, basso e rauco, avrebbe potuto essere un'onda di marea sul punto di investirla. La sua mano le toccò il collo; vide le unghie, incredibilmente lunghe, pericolosamente affilate, gialle e dure come ossa. Il suo corpo era più scarno, la pelle tesa sulle ossa. Quella pelle puzzava di sudore scuro: il poco sangue rimasto in lui. Vene blu chiaro rilucevano al di sotto di una pelle sorprendentemente bianca, in contrasto con i capelli neri. Era come se le vene bluastre fossero sul punto di esplodere da un momento all'altro e, nello stesso tempo, sembravano stranamente piatte e senza vita. Quando lui tagliò la vena, lei ebbe un capogiro. Un debole rivoletto di sangue pallido venne fuori. Ce n'era rimasto così poco che si fece coraggio
per prendere tutto quello che poteva prima che si asciugasse. Carol succhiò dalla sua gola. L'essere così vicina a quei suoni e a quegli odori la scosse. Il suo cuore tamburellava; anche lui non poteva fare a meno di accorgersene. Lei udì un tuono ma non sapeva se fosse provenuto da fuori oppure da André. Alla fine non era rimasto più nulla da prendere, così abbandonò la ferita. Mentre si faceva indietro, Carol sapeva che Rene si era fatta avanti strisciando sulle ginocchia. Nonostante il bavaglio, gemeva; i suoi occhi brillavano in maniera innaturale. Carol sentì Morianna dire: «Stai indietro!». Prima che Carol potesse muoversi, André le balzò addosso. Lei cadde sulla schiena: l'impeto della carica la mise fuori combattimento. Stette a cavalcioni sopra di lei con mani e gambe, come un lupo in procinto di divorare la sua preda. Il suo volto si librava sopra quello di lei così terrificante che Carol non riuscì ad urlare. La saliva gocciolava dalle sue mascelle aperte, ansante. I peli erano dritti. I suoi occhi selvaggi. Sta morendo di fame, pensò lei, e non c'è nulla che possa tenerlo lontano dal mio sangue. «André!» Era la voce antica di secoli di Morianna. «Aspetta! Presto sarà mezzanotte!». Julien disse: «Tu ne te souviens pas d'elle? Rappelle-toi». Trascorsero alcuni secondi cruciali. Nessuno si mosse. Con la coda dell'occhio vide che Michael stava guardando. André esitò. In quell'immobilità, le campane rintoccarono i tre quarti d'ora. Quei suoni disturbarono André. Scagliò la testa all'indietro e ululò come un lupo. Da lui emanava un'energia frenetica. Carol era in tensione e tratteneva il respiro. «Se lei non vuole la vita eterna, io la voglio. Prendi il mio sangue!». Rene era riuscita a togliersi il bavaglio dalla bocca. Si agitava nel tentativo di alzarsi in piedi. Julien si alzò per intercettarla. Il lampo balenò nella stanza. André diede uno strattone a Carol e se la gettò sopra una spalla. Nello stesso tempo afferrò Rene per la vita. Prima che gli altri potessero intervenire, aveva frantumato il vetro ed era balzato giù dall'uscita di sicurezza, facendo i gradini tre alla volta. Scappò tra gli alberi e sparì dietro la casa, su per il fianco del Mont Royal, sfrecciando nell'oscurità e nella neve leggera che era caduta, con la notte scura illuminata solo da una luna morente. I cedri ed i pini frustavano
e graffiavano il corpo nudo di Carol. Lui correva talmente veloce che tutto sembrava sfocato. Si sentì come Persefone che viene rapita da Ade. Ma stavolta c'era anche Demetra, la madre di Persefone. Quando ebbe raggiunto la grossa croce illuminata da decine di luci in cima alla montagna, André si fermò. Sistemò entrambe le donne sul terriccio sconnesso e illuminato da bianchi cristalli. Si fermò soltanto un secondo, poi si girò verso Carol, con i denti rivolti alla sua gola. CAPITOLO 34 Carol guardò in faccia la Morte. André sembrava non essere più lui, e ciò che lo guidava sembrava inattaccabile. Le ultime vestigia di tutto ciò che era umano avevano abbandonato i suoi tratti. Non era rimasta gentilezza, nulla che evocasse empatia o compassione, solo un primordiale istinto di sopravvivenza. E dell'altra parte del suo disperato bisogno c'era il destino di lei. «Prendi me. Me!», si lamentò Rene. André strappò la camicetta di Rene e la strattonò di lato. Squarciò il colletto. Ogni muscolo del suo corpo era in evidenza, teso per l'azione. Spalancò la bocca. Carol non aveva mai visto i suoi denti così grandi. Rene urlò mentre lui glieli affondava nel collo. Rene si divincolò e si piegò, gridando: «No! No, stai lontano da me! Aiuto! Ti prego, non mi uccidere!». André gettò la testa indietro. Il sangue ribolliva nelle sue mascelle aperte e gocciolava dal mento. Le sue pupille si erano contratte fino a diventare due punti. Assomigliava a un lupo, pronto a squarciare la gola di Rene e a gustare il suo sangue vitale. Il suo volto si fece ancora più distorto, diventando meno animalesco e più alieno. Il collo di Rene colava di rosso. La ferita non era solo un paio di semplici, piccoli buchi, bensì un pezzo di carne squarciata ridotto a brandelli. Nonostante l'orrore che provava, scaturì da dentro Carol una saggezza, vecchia come la stessa terra sulla quale giaceva, un istinto basato su un antico collegamento. La sopraffece: non aveva paura. «André!». La testa di questi si voltò di scatto nella direzione di Carol. Lo fissò dentro occhi che non vedevano più lei, e disse la cosa più onesta che poté. «Ti amo». La sua unica risposta fu il non attaccarla.
Mentre Rene singhiozzava, Carol si accorse che la sua paura era ridotta in cenere da una chiarezza nelle emozioni che non le era familiare. Sostenne il suo sguardo, lo sguardo di un pazzo, di un animale affamato, di un mostro, e la sua forza lo contaminò. Con piccoli movimenti, indietreggiò e si fece da parte, allontanandosi da lui e, poiché lo teneva imprigionato con lo sguardo, lui la lasciò andare. Julien apparve dietro André, circondato dallo scintillio della croce. Nell'oscurità della notte, sembrava una scultura di marmo. Pareva fluttuare, una nebbia scura che vagava per l'aria, finché non raggiunse Rene. André la lasciò andare. Rene cadde nella neve singhiozzando, persa, sola. Carol poteva solo provare pietà per lei mentre Julien con calma la faceva sentire nuovamente al sicuro. Carol sedette e distolse lo sguardo da André. Tutti gli altri ripresero le posizioni che occupavano prima. Tutti tranne Rene, che era insieme a Julien, e Morianna, che adesso stava in piedi dietro Carol, laddove prima c'era il fuoco, con gli occhi simili a dei tizzoni ardenti blu rossastri. Tizzoni che avevano visto un altro mondo. «È appropriato trovarsi all'incrocio», disse, «dove si incontrano la vita e la morte, dove la trasformazione è possibile. La saggezza di Sophia è ciò che conosciamo ma che abbiamo dimenticato. Il ricordare al momento opportuno è il miracolo». In disparte, Carol notò Michael tra le braccia di Karl. I suoi occhi così simili a quelli di lei brillavano, i suoi capelli scuri come quelli di André che però erano spruzzati di bianco. Suo figlio, la cui nascita nove anni prima aveva richiesto tutte quelle ore. Fece un cenno con la mano, e Carol comprese ancora una volta quanto fosse prezioso per lei. Gerlinde era in piedi di fianco a loro. E gli altri, Chloe, Jeanette con le braccia intorno a Susan e a Claude, Julien che stringeva Rene in lacrime. In lontananza le campane della cattedrale cominciarono a rintoccare la mezzanotte, riempiendo l'aria. Attraverso quel suono giunse la voce di Morianna. «E adesso, André deve prendere». La neve scese più forte, facendo raggelare Carol. La paura ritornò, e lei cominciò a tremare. Ma, nonostante la paura, spinse i capelli indietro sulla spalla sinistra. Ruotò la testa e guardò nuovamente André negli occhi. Lui si mosse immediatamente verso di lei. Labbra gelide. Denti aguzzi, come di ghiaccio. Affondò nella carne con precisione e velocità. Benché il corpo tremasse, lei lo sentiva con passione mentre premeva su di lei, e lui
tremava ancor di più. Quando i suoi incisivi furono arrivati abbastanza in fondo, sentì i suoi lunghi denti aguzzi uscire dal collo. Le labbra coprirono la dolorosa ferita, anestetizzandola. Poi, diversi suoni: André leccava, succhiava, inghiottiva. Sentì che riprendeva tutto quello che le aveva dato e anche di più. Il cuore le batteva in maniera aritmica. Il sudore freddo la fece raggelare. «Stringimi», sussurrò lei. L'afferrò per le spalle e ne girò il corpo finché non fu di faccia a lui, senza che le labbra abbandonassero la gola. Succhiò con decisione e senza sosta, premendo intensamente sulla pelle e sui muscoli. Per tutto il tempo la sua carne mutò mentre ritornava il colorito. Il suo corpo si fece più caldo e lei si premette contro quel calore perché la sua stessa carne era diventata più debole e fredda. Il cuore le batteva irregolarmente. Aveva problemi a respirare, e non riusciva a mettere a fuoco. Un piccolo gemito sfuggì dalle sue labbra: un singhiozzo. Lui la tenne stretta, accarezzandole i capelli, cullandola tra le braccia, cingendola con le gambe. «Ho così paura», disse lei piangendo, con le lacrime che le si congelavano sul viso. Lui la avvicinò a sé. Mentre s'indeboliva, il respiro divenne difficoltoso. Il battito cardiaco si faceva vistosamente sincopato; sentiva che la sensibilità stava diminuendo. Non sapeva quando lui l'avesse sollevata, ma adesso la stava riportando giù per il fianco della montagna, attraverso l'oscurità e gli alberi innevati. Il profumo dei pini, il suono delle sue labbra, il calore del suo corpo e la forza delle sue braccia furono le ultime sensazioni che Carol provò mentre la porta si richiudeva e lei entrava nella valle della morte. CAPITOLO 35 Assenza di luce. Assenza di suono. Nessun profumo. Fluttuare. Andare alla deriva. Un passaggio. Tracce di suono, quasi sensazioni. Movimenti leggeri attraverso il tempo. Ancora. Nessun ritmo. Nessuna sensazione. Senza senso. Ma ancora. «Carol?». Movimento istintivo. Corridoi d'aria sottile, luce nera ossessionante. Un teatro del vuoto. «Benvenuta».
Vide un volto. Rob. Buono e gentile, meglio di come fosse mai stato. Di fianco a lui Phillip, il suo amico. E sua madre. Così triste. Sorridevano. Sua madre aprì le braccia e lei vi si avvicinò fluttuando. «Carol!». Si girò. Una raffica d'energia. Un vortice di luce che la risucchiava. «Non ci abbandonare!», disse sua madre. «Carol». Rob allungò una mano. Phillip fece un gesto d'arrivederci. «Segui la mia voce!». Il suono rimbombava e vibrava mentre si espandeva. Lei fluttuò, curvandosi, scivolando verso quella voce, rendendosi conto in un istante dell'intensità della luce. «Apri gli occhi!». Quelle parole non avevano senso, ma all'improvviso vide André. Lui sorrise. La sua pelle era lucida. Gli occhi grigi di lui riscaldavano i suoi occhi brucianti. Il viso di André si avvicinò al suo. Le labbra si sfiorarono. Non sentì nulla. «Respira!», disse lui, e lei non capì cosa significasse finché non sentì l'aria muoversi nel naso ed espanderle i polmoni. Voleva sapere qualcosa, ma non riusciva a capire come avrebbe raggiunto quella consapevolezza. «Sei tornata. Con noi. Con me», disse lui, quindi comprese che anche lei un tempo aveva saputo come formulare delle frasi, oppure parlare. André le accarezzò il volto, i capelli. I suoi lineamenti erano morbidi, il corpo luminoso. Gli occhi scintillavano, come opali grigi, mentre percorrevano il suo viso. Non aveva mai visto uno sguardo simile prima, e si domandava cosa significasse. «Presto comincerai a sentire il tuo corpo. Poi sarai in grado di parlare nuovamente. Continua semplicemente a respirare». Si concentrò sull'aria che scorreva come un liquido dentro di lei e divenne cosciente dei suoni. La mano si spostò e le sensazioni fluirono attraverso le dita. «Io... vivo», disse ansimando, stupefatta. Sentiva dentro di sé una presenza. «Sì», rispose lui ridendo. «Tu vivi. Presto sarai qui. Poi ti sentirai male. Il tuo corpo deve liberarsi dei veleni. Ma resterò con te. Non aver paura». La presenza dentro Carol prese forma mentre le ritornavano le sensazioni. Si sentì distesa su un letto che adesso sapeva appartenere ad André.
Percepiva qualcosa di strano nella bocca: la lingua trovò due denti superiori più lunghi degli altri. «Michael», mormorò. «È di sopra. Sono tutti sopra. Saliremo più tardi». L'oscura presenza all'interno frantumò la luce che l'aveva riempita solo un momento prima. Prese la forma di un uomo, poi di una donna, che fluttuava avanti e indietro: i volti di Rob, sua madre, Phillip, Rene. In tutte le sue manifestazioni, la figura piangeva. «È... morta Rene?» «Julien ha assorbito i suoi ricordi. Starà bene». Le faceva male lo stomaco. Le cellule celebrali le dolevano. «Vomiterai. Uscirà da te in tutti i modi. Ma dopo ti sentirai meglio. Ti amo Carol». Sembrava sollevato, come se quelle parole l'avessero liberato. Lo guardò negli occhi. Scintillavano e bruciavano, come due spiagge grigie con una quantità smisurata di plancton che brillava sotto un cielo pieno di stelle. Il suo stomaco brontolava. L'essere al suo interno stava urlando. «Presto ti sentirai male», disse lui, baciandole la fronte, il naso, le labbra. Si mosse per toccarlo, ma il dolore le perforò il cranio. Ebbe le convulsioni. Urlò. «Quando sarà uscito tutto, il dolore cesserà. Ti darò del sangue e ti sentirai nuovamente forte. Voglio fare l'amore con te. Adesso. Per sempre». L'essere al suo interno divenne estremamente definito, così completo e acuminato che lei dovette distogliere lo sguardo. I crampi trafissero le braccia e le gambe di Carol, penetrando poi nel petto e nelle profondità dello stomaco. Ansimò, terrorizzata. Lei e l'essere al suo interno parlavano all'unisono. «Sto morendo?», mormorò. André l'aiutò ad andare in bagno. L'aiutò a entrare nella vasca e la sostenne mentre il suo corpo a forza rigettava quello che un tempo era stato necessario all'esistenza ma adesso non lo era più. Barcollò per il dolore. L'essere si acquattò, preso nella stretta di agonia e disperazione. «Lui non ti ama», echeggiò una voce. Piansero entrambi. «Sei deluso?», disse lei singhiozzando. Ancora uno spasmo. «Deluso? Per cosa?». Notò per la prima volta che lui sembrava diverso. I suoi capelli non era-
no più solo striati di grigio sulle tempie ma tutti brizzolati e il suo volto non presentava più quella rabbia che aveva sempre indugiato sui suoi lineamenti. «Che sia io». Parve confuso. «E non Anne-Marie. O Sylvie». Un'ultima ondata si infranse dentro di lei, lasciandola troppo debole per muoversi, persino per gridare, permettendole solo di tremare prima che quel potere sorprendente finisse di attraversarla. La ripulì e riportò il suo corpo fiacco a letto, quindi si distese di fianco a lei. Il dolore era passato, ma quel senso di vuoto ancora indugiava. Quell'essere all'interno sembrava distratto, perduto in una stupefatta disperazione. André prese il volto di Carol tra le mani. Si incise il collo con un'unghia finemente curata e guidò le sue labbra verso il lucente flusso cremisi. Prima fu presa dall'odore pungente e dolce, poi dal sapore, caldo, delizioso, complesso, una complicata bevanda di ingredienti finemente mescolati. Energia liquida, simile a mercurio, si diffuse nel suo corpo. Fluì negli arti, fino alle sue estremità, potenziandola quando arrivava, riempiendo tutti gli spazi vuoti, finché cominciò a sentirsi meno piatta e statica. Mentre Carol si rafforzava, l'essere all'interno indietreggiava, e alla fine si fece da parte, assorbendo in sé l'oscurità. L'essere la guardò con occhi tristi, poi scomparve, lasciando Carol da sola nel fuoco emanato dal corpo di André. È soltanto la mia disperazione, pensò. La vecchia Carol. «Michael? Si è deciso?». André fece una pausa. «Dice che lo dirà a tutti e due insieme, quando verrai di sopra. Credo che entrambi conosciamo già la risposta». Sembrava triste. «Carol, non sono deluso di te. Non lo sono mai stato. Sono deluso di me stesso. Ma non adesso». L'avvicinò a sé. Le sue dita che scorrevano sulla pelle sembravano velluto e toccavano in profondità. Le labbra di André risvegliarono le sue. Si chiese se non fosse stata morta fino a quel momento e fosse viva, adesso, per la prima volta. «Deluso!», rise lui, con voce stupita, afflitta. Disse teneramente: «Carol, ti ho sempre desiderata. Sempre. La mia amante. La madre di mio figlio.
La mia amica. Spero solo che tu non sia delusa di me». Lo avvicinò a sé. Come se l'avesse fatto un migliaio di volte, con i denti riaprì la vena sul suo collo. Lo penetrò in profondità, come avrebbe fatto un migliaio di volte ancora in futuro. Lui inarcò il corpo e gridò il suo nome, cavalcando un'onda di agonia ed estasi, mentre Carol portava la sua essenza nel proprio cuore. FINE