"Un Boeing 777 atterra all'aeroporto di New York e rimane immobile sulla pista. Si sospetta un attentato terroristico, ...
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"Un Boeing 777 atterra all'aeroporto di New York e rimane immobile sulla pista. Si sospetta un attentato terroristico, ma quando le forze speciali salgono a bordo si trovano invece di fronte a una serena agghiacciante: sembra che tutti gli occupanti dell'aereo siano morti senza una ragione comprensibile. Eph Goodweather, dell'Ente prevenzione malattie infettive, e la sua collega Nora Martínez esaminano i cadaveri: qualunque ne sia stata la causa, la morte deve averli colti di sorpresa. La notizia dell'accaduto arriva fino ad Abraham Setrakian. un anziano ex professore, l'unico in grado di capire la situazione. L'uomo riconosce in quel fatto inspiegabile l'evento a lungo atteso a cui si è preparato per tutta la vita... Si tratta di un morbo dagli effetti letali, la cui diffusione nelle strade di Manhattan dà inizio a uno scontro in cui gli umani diventano il cibo di misteriosi esseri soprannaturali. Con l'aiuto di Setrakian, Eph dovrà cercare di fermare il contagio e salvare la città prima che sia troppo tardi,.. Guillermo Del Toro e Chuck Hogarl rinnovano gli schemi del genere horror, facendo della Progenie un romanzo ad alta tensione visionaria che ci trascina nel cuore di un'epica battaglia tra bene e male, vita e morte, umano e disumano.
Nato e cresciuto a Guadalajara, in Messico, Guillermo Del Toro ha debuttato come regista nel 1993 con il film Cronos. Chuck Hogan è autore di molti romanzi di successo, tra cui The Standoff e Prince of Thieves. Gli autori sono riconoscenti a Robert Sullivan e raccomandano con entusiasmo il suo libro: Ratti -
Un anno con gli abitanti più indesiderati di New York (Isbn, 2007).
Art director: Giacomo Gallo Progetto grafico: Marcello Dolvini In copertina: foto © Sam Toren/Alamy Milestone Media Elaborazione e lettering di Marcello Dolcini
VOLUME DLB 180
Copyright © 2009 by Guillermo Del Toro and Chuck Hogan ©2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell'opera originale
The Strain I edizione ottobre 2009 II edizione maggio 2011 ISBN 978-88-04-61204-9 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy Questo libro è un'opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni de gli autori e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale. Per le immagini all'interno: Shubhani Sarkar
A Lorenza, Mariana e Marisa... e a tutti i mostri nella mia nursery: non lasciatemi mai solo. GDT A Lila CH
La leggenda di Jusef Sardu «C'era una volta...» disse la nonna di Abraham Setrakian «un gigante.» Il piccolo Abraham s'illuminò in viso e subito trovò che il borscht di verza nella scodella di legno era più gustoso o almeno non sapeva troppo d'aglio. Era un bambino pallido, magro e malaticcio. La nonna, decisa a fargli mettere su peso, era seduta di fronte a lui e, mentre il nipote mangiava la minestra, per divertirlo gli raccontò una storia. Un bubbeh meiseh, un "racconto della nonna". Una favola. Una leggenda. «Era figlio di un nobiluomo albanese e si chiamava Jusef Sardu. Il signorino Sardu era più alto di tutti i compaesani. Più alto dei tetti del villaggio. Doveva quasi piegarsi in due per entrare dalle porte. Ma la sua statura fuori del comune era un fardello. Una malformazione dalla nascita, non una benedizione. Il ragazzo soffriva. I suoi muscoli non avevano la forza di sostenere le ossa lunghe e pesanti. A volte faceva fatica anche solo a camminare. Jusef usava un lungo bastone da passeggio, più alto di te, con il pomo d'argento a forma di testa di lupo, lo stemma gentilizio della famiglia.» «E poi, Bubbeh?» disse Abraham, fra una cucchiaiata e l'altra. «Era il suo destino nella vita e gli insegnò l'umiltà, che è davvero rara in un nobiluomo. Lui provava grande compassione per i poveri, per i lavoratori e per gli ammalati. Gli stavano particolarmente a cuore i bambini del villaggio e nelle grandi tasche, simili a sacchi per le rape, teneva sempre ninnoli e dolciumi. In pratica non aveva avuto un'infanzia, perché a otto anni era già alto come suo padre e a nove lo superava di tutta la testa. La sua gracilità e l'esagerata corporatura erano una segreta fonte di vergogna per il padre. Ma il signorino Sardu era davvero un gigante buono, molto amato dal suo popolo. Di lui si diceva che guardava tutti da sopra, ma nessuno
dall'alto in basso.» Annuì al nipote, ricordandogli di mangiare un'altra cucchiaiata di minestra. Abraham masticò una barbabietola rossa bollita, detta "cuore di bimbo" per il colore, la forma e i filamenti simili a capillari. «E poi, Bubbeh?» «Amava anche la natura e non mostrava interesse per la brutalità della caccia; ma per la nobile origine e per lo stato sociale a quindici anni fu costretto dal padre e dagli zii a partecipare a una spedizione di sei settimane in Armenia.» «Qui, Bubbeh?» chiese Abraham. «Il gigante venne qui?» «Nella regione a nord, kaddishel. Nelle foreste scure. Gli uomini di Sardu non vennero a cacciare maiali selvatici, orsi o alci. Vennero a cacciare lupi, l'emblema del casato dei Sardu. Cacciavano un cacciatore. Secondo la tradizione familiare, mangiare carne di lupo infondeva negli uomini coraggio e forza; e il padre del giovane signore credeva che in quel modo si potessero curare i deboli muscoli del figlio.» «E poi, Bubbeh?» «Il loro viaggio fu lungo e faticoso, contrastato con violenza dagli elementi, e Jusef faticò enormemente. Mai prima di allora si era allontanato dal villaggio della sua famiglia e provava vergogna per le occhiate che gli estranei gli rivolgevano durante il viaggio. Quando giunsero nella cupa foresta, ebbe l'impressione che l'ambiente intorno a lui fosse vivo. Branchi di animali vagavano per i boschi di notte, quasi come profughi allontanati dai loro ricoveri, nascondigli, nidi e tane. Le bestie erano così numerose che la notte, nell'accampamento, i cacciatori non riuscivano a dormire. Alcuni volevano andarsene, ma l'ossessione del vecchio Sardu aveva la precedenza su ogni altra cosa. I lupi ululavano nell'oscurità e lui a tutti i costi ne voleva uno per il suo unico figlio, il cui gigantismo era una sventura per la stirpe dei Sardu. Voleva liberare il casato da quella maledizione, trovare moglie al figlio e avere molti nipoti in buona salute. «Fu così che il padre, seguendo le tracce di un lupo, la seconda sera, poco prima che calassero le tenebre, si allontanò dagli altri. I
compagni lo aspettarono per tutta la notte e allo spuntare del giorno si sparpagliarono per cercarlo. Accadde che un cugino di Jusef quella sera non tornò. E la cosa si ripeté nei giorni seguenti.» «E poi, Bubbeh?» «Alla fine Jusef, il gigante bambino, rimase da solo. L'indomani si mise in viaggio e in una zona già perlustrata scoprì i cadaveri di suo padre e di tutti gli zii e i cugini, stesi per terra davanti all'ingresso di una grotta sotterranea. I crani erano stati fracassati con grande violenza, ma i corpi non erano stati sbranati. Jusef ritenne che i suoi parenti fossero rimasti vittime di una belva tremendamente forte, che però non agiva in preda alla fame o alla paura. Non riuscì a immaginare da che cosa fosse spinta a uccidere. Si sentiva osservato, forse addirittura studiato, da una creatura in agguato nella grotta tenebrosa. Il signorino Sardu portò via i cadaveri e li seppellì in profondità. Naturalmente la fatica fisica lo indebolì, privandolo di gran parte delle forze. Era stremato, era farmutshet. Tuttavia, solo, spaventato e sfinito, quella notte tornò alla grotta per affrontare qualsiasi entità maligna si fosse manifestata nel buio, per vendicare i suoi parenti o morire nel tentativo. Questo si sa dal diario che Jusef teneva e che fu ritrovato nei boschi molti anni più tardi. Era la sua ultima annotazione.» La bocca di Abraham era aperta e vuota. «Ma cosa successe, Bubbeh?» «Nessuno lo sa con certezza. Intanto al villaggio, quando le sei settimane senza notizie divennero otto e poi dieci, si cominciò a temere per la sorte dell'intero gruppo di cacciatori. Si radunò una squadra di ricerca che non trovò niente. Poi, in una notte dell'undicesima settimana, giunse nella tenuta albanese una carrozza con i finestrini chiusi da tendine. Il giovane signore era tornato. Si isolò nel castello, in un'ala di stanze da letto vuote, e in pratica non fu più visto. A quel tempo, circolavano voci su ciò che era accaduto nella foresta. Alcuni affermarono di avere visto Sardu, ammesso che si possa credere a quei racconti, e sostennero che era guarito dalla sua infermità. Altri riferirono perfino che aveva acquisito una grande forza, pari alle sue dimensioni sovrumane. Tuttavia Sardu era profondamente addolorato per suo padre, gli zii e i cugini, tanto da
non farsi più vedere in giro nelle ore di lavoro e da allontanare la maggior parte dei servitori. Di notte nel castello c'era movimento e dalle finestre si scorgeva il bagliore di focolari accesi, ma con l'andar del tempo la tenuta dei Sardu cadde in rovina. E poi, certe notti... alcuni sostenevano di udire il gigante camminare per il villaggio. I bambini in particolare diffusero la storia di avere udito il tic tic tic del suo bastone da passeggio, che Sardu non usava più come sostegno, ma per chiamarli giù dal letto e regalare loro ninnoli e dolciumi. Agli increduli furono mostrati i solchi nel terreno, alcuni sotto le finestre delle stanze da letto, piccoli fori di punta che potevano essere stati lasciati dal suo bastone dal pomo a forma di testa di lupo.» Gli occhi della bubbeh si rabbuiarono. La nonna di Abraham guardò la scodella e vide che il nipote aveva mangiato la maggior parte della minestra. «Poi, Abraham, cominciarono a sparire alcuni figli di contadini. Circolarono storie di bambini scomparsi anche da villaggi dei dintorni, perfino dal mio. Sì, Abraham, la tua bubbeh è cresciuta a mezza giornata di cammino dal castello dei Sardu. Ricordo due sorelle. I cadaveri furono trovati in una radura nel bosco, bianchi come la neve che li circondava, con gli occhi spalancati e velati dalla brina. Proprio io, una notte, udii non molto lontano il tic tic tic, un rumore forte e ritmico, e mi tirai in fretta sulla testa la coperta per non sentirlo; e per molti giorni non dormii più.» Abraham trangugiò la fine della storia insieme con i resti della minestra. «Alla lunga, gli abitanti abbandonarono il villaggio di Sardu, che divenne un posto maledetto. Gli zingari, quando con la carovana di carretti attraversavano il nostro paese per vendere le loro merci caratteristiche, parlavano di avvenimenti insoliti, di luoghi infestati, di apparizioni nelle vicinanze del castello. Di un gigante che si aggirava al chiaro di luna come un dio della notte. E ci ammonivano: "Mangia e diventa robusto, altrimenti Sardu ti piglia". Perché è importante, Abraham. Ess gezunterhait! Mangia e diventa forte. Ora pulisci la scodella. Altrimenti lui verrà.» Era riemersa da quel momento di oscurità, di ricordo. I suoi occhi avevano ripreso la
vivacità di sempre. «Sardu verrà. Tic tic tic.» E il piccolo mangiò tutto, fino all'ultima briciola di barbabietola. La scodella era vuota e la storia terminata, ma la sua pancia e la sua mente erano piene. La bubbeh era soddisfatta e sul suo viso Abraham poteva leggere tutto l'amore che provava per lui. In quei momenti d'intimità intorno al traballante tavolo di famiglia, nonna e nipote, divisi da due generazioni, si univano in spirito e condividevano il cibo del cuore e dell'anima. Dieci anni più tardi, i componenti della famiglia Setrakian sarebbero stati cacciati dalla loro bottega di oggetti di legno lavorato e dal villaggio, ma non da Sardu bensì dai tedeschi. Un ufficiale acquartierato in casa loro, raddolcito dalla grande umanità della gente che lo ospitava, avendo spezzato con loro il pane su quello stesso tavolo traballante, una sera li ammonì di non seguire l'ordine che avrebbero ricevuto l'indomani e di non recarsi alla stazione ferroviaria. Gli disse di lasciare la casa e il villaggio quella notte stessa. I Setrakian seguirono il consiglio; i componenti della famiglia allargata, otto persone, viaggiarono nelle campagne, con tutto ciò che potevano portarsi dietro. La bubbeh li rallentava. Peggio ancora, lei sapeva di rallentarli, era consapevole che la sua presenza metteva in pericolo l'intera famiglia e malediceva se stessa e le sue vecchie gambe stanche. Alla fine tutti proseguirono tranne Abraham, ormai un robusto giovanotto dal brillante futuro, abilissimo intagliatore già a quella giovane età, studioso del Talmud, con un particolare interesse per lo Zohar, il testo fondamentale del misticismo ebraico. Lui restò indietro, al fianco della nonna. Quando ebbero notizia che gli altri erano stati arrestati nel paese seguente e che sarebbero dovuti salire su un treno per la Polonia, la bubbeh, distrutta dal senso di colpa, insistette che, per amore di Abraham, le fosse permesso di consegnarsi. «Scappa, Abraham. Scappa dai nazisti. Come da Sardu. Fuggi,
Abraham!»
Ma lui non ne volle sapere. Non si sarebbe separato dalla nonna. Al mattino la trovò sul pavimento della stanza che avevano diviso, nella casa di un contadino compiacente. La notte era caduta a
terra e aveva le labbra nere come carbonella, spellate, e la gola annerita intorno al collo. Era morta per il veleno animale che aveva ingerito. Con il permesso della gentile famiglia ospite, Abraham Setrakian la seppellì sotto un'argentea betulla in fiore. Con pazienza intagliò per lei una magnifica lapide di legno, piena di fiori, di uccellini e di tutte le cose che l'avevano resa più felice. Poi pianse e pianse per lei... dopodiché scappò davvero. Scappò più veloce che poté dai nazisti, sentendo per tutto il tempo un tic tic tic alle sue spalle... E il male gli stette alle calcagna.
L’INIZIO
Scatola nera N323RG Stralci, trascrizione Comitato Sicurezza Trasporti, volo 753, da Berlino (TXL) a New York (JFK), 24/09/10: 20:49:31 [Interfono acceso.] Capitano Peter J. Moldes: «Signore e signori, parla il capitano Moldes dalla cabina di pilotaggio. Toccheremo terra fra qualche minuto, in perfetto orario. Colgo l'occasione per ringraziarvi di avere scelto la Regis Airlines. E mi auguro, anche a nome del primo ufficiale Nash e del personale di bordo, che torniate presto a viaggiare con noi...». 20:49:44 [Interfono spento.] Capitano Peter J. Moldes: «... così conserviamo tutti l'impiego». [Risata in cabina.] 20:50:01 Controllo traffico aereo, New York (JFK): «Regis 7-5-3 heavy, avvicinamento da sinistra, rotta 1-0-0. Autorizzato atterraggio sulla 13R». Capitano Peter J. Moldes: «Regis 7-5-3 heavy, avvicinamento da sinistra, 1-0-0, atterraggio sulla pista 13R, ricevuto». 20:50:15 [Interfono acceso.] Capitano Peter J. Moldes: «Personale di volo, prepararsi per l'atterraggio». 20:50:18 [Interfono spento.] Primo ufficiale Ronald W. Nash IV: «Carrello abbassato». Capitano Peter J. Moldes: «È sempre bello tornare a casa...». 20:50:41 [Serie di forti colpi. Scariche statiche. Rumore acuto.] FINE TRASMISSIONE.
L’ATTERRAGGIO
Torre di controllo dell'aeroporto internazionale JFK Il piatto, lo chiamavano. Di un lucente verde monocromatico (ormai da due anni il JFK era in attesa di nuovi schermi a colori) come una scodella di crema di piselli integrata da gruppi di lettere collegate a puntini. Ogni puntino rappresentava centinaia di vite umane o, nel vecchio gergo nautico in voga ancora oggi nell'aviazione, "anime". Centinaia di anime. Forse era per quello che tutti i colleghi chiamavano Mendes "Jimmy il Vescovo". Il Vescovo era l'unico controllore di volo che, anziché stare seduto, rimaneva in piedi durante l'intero turno di otto ore, con una matita HB in mano, e camminava avanti e indietro, guidando a New York aerei di linea, dalla cabina della torre fervente di attività, novantasei metri sopra l'aeroporto internazionale John F. Kennedy, come un pastore che badasse al suo gregge. Usava la gomma della matita per visualizzare gli aerei sotto il suo comando e la loro rispettiva posizione, anziché affidarsi solo allo schermo radar bidimensionale. Dove centinaia di anime emettevano bip a ogni secondo. «United 6-4-2, gira a destra, rotta 1-0-0, sali a cinquemila.» Ma non potevi pensare così quando eri sul piatto. Non ti potevi soffermare su tutte quelle anime la cui sorte dipendeva dai tuoi ordini: esseri umani ammassati dentro missili alati che sfrecciavano a chilometri dal terreno. Non potevi avere il quadro d'insieme: tutti gli aerei nel tuo piatto e poi gli altri controllori che mormoravano frasi in codice nelle cuffie auricolari intorno a te e poi tutti gli aerei nei loro piatti e poi la torre di controllo del traffico aereo nel vicino LaGuardia... e poi tutte le torri di ogni aeroporto in ogni città degli Stati Uniti... e poi in tutto il mondo... Calvin Buss, responsabile dell'area di controllo del traffico e diretto superiore di Jimmy, comparve a fianco del Vescovo. Era
tornato in anticipo da una pausa e masticava ancora l'ultimo boccone. «A che punto sei col Regis 7-5-3?» «Il 7-5-3 è a terra» rispose Jimmy il Vescovo, con una rapida occhiata al piatto per avere conferma. «Sta procedendo al piazzale.» Fece scorrere sul video l'elenco dell'assegnazione dei piazzali di sosta, cercando il volo 753. «Perché?» «Il radar di terra dice che abbiamo un aereo fermo sulla Foxtrot.» «Sulla pista di rullaggio?» Jimmy controllò di nuovo il piatto per accertarsi che non ci fossero errori, poi riaprì il canale diretto col volo 753. «Regis 7-5-3, qui torre controllo JFK, passo.» Niente. Provò di nuovo. «Regis 7-5-3, qui torre controllo JFK, rispondete, passo.» Aspettò. Niente, nemmeno un clic. «Regis 7-5-3, qui torre controllo JFK, mi sentite? Passo.» Un assistente del traffico si materializzò dietro Calvin Buss. «Problemi di trasmissione?» insinuò. «Guasto meccanico, probabilmente» disse Calvin Buss. «Qualcuno ha detto che l'aereo si è spento.» «Spento?» ripeté Jimmy il Vescovo, pensando con meraviglia che sarebbe stato davvero un colpo di fortuna se le parti meccaniche dell'aereo si fossero guastate solo qualche minuto dopo l'atterraggio. Prese l'appunto mentale di fermarsi, tornando a casa, a giocare i numeri 7, 5, 3 per l'estrazione dell'indomani. Calvin infilò la spina della cuffia auricolare nel secondo jack audio di Jimmy. «Regis 7-5-3, qui torre controllo JFK, per favore rispondete. Regis 7-5-3, qui torre di controllo, passo.» Rimase in attesa e in ascolto. Niente. Jimmy il Vescovo guardò i puntini ancora sul piatto: niente allarmi per conflitto di traiettorie, tutti i suoi aerei erano a posto. «Meglio consigliare un dirottamento intorno alla Foxtrot» disse.
Calvin staccò la spina e arretrò. Aveva l'espressione di chi guarda nel vuoto e fissava al di là della console di Jimmy le vetrate della cabina della torre, più o meno nella direzione della pista di rullaggio. Pareva perplesso e preoccupato. «Bisogna far sgombrare la Foxtrot.» Si rivolse all'assistente del traffico. «Manda qualcuno a dare un'occhiata.» Jimmy il Vescovo si massaggiò il ventre e rimpianse di non potervi infilare la mano ed estirpare in qualche modo la nausea che ribolliva alla bocca dello stomaco. Il suo compito era in pratica quello dell'ostetrica. Lui aiutava i piloti a sgravare in sicurezza dal ventre del vuoto alla terra aeroplani pieni di anime. Quelle che sentiva adesso erano doglie di paura, come un medico che ha appena fatto partorire il suo primo nato morto.
Pista del terminal 3 Lorenza Ruiz era diretta al gate, alla guida di un carrello con nastro trasportatore per scaricare i bagagli, in pratica una rampa idraulica su ruote. Quando dietro l'angolo non vide il 753 come si aspettava, andò un po' più avanti per dare un'occhiata, perché mancava poco alla pausa. Portava la cuffia protettiva, una felpa con cappuccio e logo dei Mets sotto il giubbotto riflettente, occhiali di protezione - la sabbia della pista di rullaggio era fastidiosa - e teneva sul sedile a fianco le bacchette di segnalazione arancioni. "Ma che diavolo è successo?" pensò. Si tolse gli occhiali, come se avesse bisogno di guardare a occhio nudo. Eccolo lì, un Regis 777, un giocattolo bello grosso, uno dei nuovi aerei della flotta, posato sulla Foxtrot; al buio totale, nemmeno le luci di navigazione sulle ali. Il cielo era vuoto, quella notte. La luna cavata via; le stelle assorbite. Niente. In pratica vide soltanto la liscia superficie tubolare della fusoliera e le ali che brillavano debolmente sotto le luci d'atterraggio di aerei in avvicinamento. Uno dei quali, il Lufthansa 1567, mancò di soli trenta centimetri la collisione col treno d'atterraggio.
"Jesús Santísimo!" Riferì alla torre. «Stiamo arrivando» disse il suo superiore. «La coffa vuole che tu vada a dare un'occhiata.» «Io?» si stupì Lorenza. Aggrottò la fronte. "Così imparo a essere curiosa" pensò. Proseguì seguendo la corsia di servizio dal terminal passeggeri e attraversò le linee metriche della pista di rullaggio dipinte sul piazzale. Era un po' nervosa e molto circospetta, perché non aveva mai guidato così lontano. La FAA - la Federai Aviation Administration, l'agenzia federale statunitense per l'aviazione civile - aveva regole rigide sui percorsi dei carrelli per scaricare e trasportare i bagagli, perciò lei stava attenta agli aerei sulle piste di rullaggio. Svoltò al di là delle luci guida blu lungo la pista. Le parve che l'aereo fosse completamente spento, da prua a poppa. Niente aerofaro, niente luce anticollisione, niente illuminazione nei finestrini della cabina. Di solito, anche da terra, nove metri più in basso, guardando il minuscolo parabrezza simile a occhi socchiusi sopra il caratteristico muso dei Boeing, si potevano vedere nella cabina di pilotaggio il pannello di distribuzione in alto e le spie luminose degli strumenti, rosse come una camera oscura. Lì invece era tutto buio. Lorenza mise il motore al minimo a dieci metri dalla punta dell'ala sinistra. Se uno lavora sulle piste abbastanza a lungo - e ormai lei era lì da otto anni, più della durata dei suoi due matrimoni messi insieme -, qualcosa finisce per impararla. I flap del profilo alare e gli alettoni - i pannelli spoiler nella parte posteriore delle ali - erano tutti dritti come le tette di Paula Abdul, ossia nella posizione in cui i piloti li mettono dopo l'atterraggio. I turboreattori erano silenziosi e immobili, benché di solito impieghino un po' di tempo a smettere di masticare aria anche dopo lo spegnimento, risucchiando sabbia e insetti come grandi e insaziabili aspirapolvere. Così l'aereo era sceso in modo corretto, era atterrato tranquillamente ed era arrivato fin lì prima... dello spegnimento delle luci. Fatto più allarmante, se l'aereo aveva avuto via libera per atterrare, qualcosa era andato storto nello spazio di due, forse tre
minuti. Cosa può andare storto così rapidamente? Lorenza si avvicinò ancora un poco, arrivando dietro l'ala. Se le turboventole si fossero messe in moto all'improvviso, sarebbe stata risucchiata e fatta a brandelli come un'oca canadese. Guidò fino al bagagliaio, la parte dell'aereo che conosceva meglio, giù verso la coda, e si fermò sotto il portello posteriore. Tirò il freno di bloccaggio e manovrò la barra di comando per far alzare la rampa, che a quell'altezza raggiungeva il livello massimo con un'inclinazione di circa trenta gradi. Non bastava, ma pazienza. Uscì, allungò la mano per prendere le bacchette di segnalazione e risalì la rampa verso l'aereo morto.
Morto? Perché aveva pensato una cosa del genere? L'aereo non
era mai stato vivo...
Per un attimo Lorenza immaginò una grande creatura putrefatta, una balena spiaggiata. Ecco cosa le parve l'aereo: una carcassa in decomposizione; un leviatano morente. Il vento smise di soffiare quando lei si avvicinò alla parte più alta. Dovete sapere, riguardo al clima sul piazzale del JFK, che il vento non smette mai. Mai e poi mai. Ci sono sempre raffiche sulle piste, con gli aerei in arrivo, la palude costiera salmastra e il fottuto oceano Atlantico appena dall'altro lato di Rockaway Beach. Ma tutt'a un tratto ci fu davvero silenzio, un silenzio tale che Lorenza di tolse le cuffie per esserne sicura. Pensò di udire dei colpi provenire da dentro l'aereo, poi si rese conto che era solo il battito del suo cuore. Girò la torcia elettrica e la puntò sulla fiancata destra. Seguendo la chiazza circolare del raggio, vide che la fusoliera era ancora scivolosa e perlacea per la discesa e sentì che aveva l'odore della pioggia di primavera. Spostò il fascio luminoso sulla lunga fila di finestrini. Tutte le tendine interne erano abbassate. Strano. Adesso era impaurita. Davvero impaurita. Intimidita da quella massiccia macchina volante da quasi centocinquanta tonnellate e da duecentocinquanta milioni di dollari, ebbe una fuggevole eppure palpabile e gelida sensazione di trovarsi alla presenza di una belva simile a un drago. Un demone che fingeva di dormire e in realtà era capace, in qualsiasi momento, di aprire gli occhi e le terribili fauci.
Un brivido gelido la percorse con la forza di un orgasmo, le tese ogni fibra, l'annodò. Poi si accorse che una tendina adesso era tirata su. I capelli sulla nuca le si rizzarono, tanto che se li lisciò come avrebbe fatto con il pelo di un nervoso animale da compagnia. Prima non aveva notato quella tendina. Era sempre stata alzata... sempre. Forse... Nell'aereo la tenebra parve agitarsi. Lorenza ebbe l'impressione che qualcosa la osservasse da dentro la fusoliera. Non riuscì a trattenersi ed emise un gemito, come una bambina. Era paralizzata. Un pulsante afflusso di sangue, quasi a comando, le serrò la gola... E allora capì, senza possibilità d'errore: qualcosa là dentro
l'avrebbe divorata...
Le folate di vento ripresero, come se non si fossero mai fermate, e lei non ebbe bisogno di altre sollecitazioni. Arretrò lungo la rampa, saltò nel carrello e innestò la retromarcia, anche col segnale acustico d'allarme in funzione e la rampa ancora sollevata. Sentì uno scricchiolio, il rumore di una delle luci blu della pista di rullaggio sotto le gomme, mentre si allontanava a tutta velocità, metà sull'asfalto e metà sull'erba, verso i fari in avvicinamento di cinque o sei veicoli d'emergenza.
Torre di controllo dell'aeroporto internazionale JFK Calvin Buss era passato a un differente auricolare e dava ordini come previsto dal manuale della FAA per incursioni su piste di rullaggio. Tutti gli arrivi e le partenze furono sospesi in uno spazio aereo di otto chilometri intorno al JFK. Ciò significava che l'attività cresceva rapidamente. Calvin cancellò le pause e ordinò a ogni controllore in servizio di mettersi in contatto con il volo 753 su ogni frequenza disponibile. La situazione nella torre dell'aeroporto era più prossima al caos di quanto Jimmy il Vescovo avesse mai visto.
Funzionari dell'autorità aeroportuale, tipi in completo scuro che borbottavano in cellulari a sistema Nextel, si erano radunati alle sue spalle. Non era mai stato un buon segno. È buffo come la gente tenda per natura a radunarsi quando si trova di fronte all'inspiegabile. Jimmy il Vescovo riprovò a chiamare, senza risultato. «Dirottamento?» gli chiese un tizio in completo scuro. «No» rispose Jimmy il Vescovo. «Niente.» «Allarme incendio?» «No, certo.» «Nessun allarme al portello della cabina?» domandò un altro. Jimmy il Vescovo capì che l'indagine era entrata nella fase "domande idiote". Chiamò a raccolta la pazienza e il buonsenso che l'avevano fatto diventare un controllore di volo di successo. «È venuto giù liscio ed è atterrato dolcemente. Regis 7-5-3 ha confermato l'uscita assegnata e ha svoltato sulla pista. L'ho tolto dal radar e l'ho trasferito all'ASDE.» L'Airport Surface Detection Equipment, il radar per il controllo dei movimenti al suolo. Calvin coprì il microfono con una mano e disse: «Forse il pilota ha dovuto spegnere tutto». «Può darsi» replicò Jimmy il Vescovo. «O forse gli si è bloccato.» «Allora perché non hanno aperto un portello?» chiese un tizio in completo scuro. Jimmy il Vescovo si stava già tormentando con quella domanda. I passeggeri, di regola, non rimangono seduti un minuto più del necessario. La settimana precedente, su un aereo della jetBlue Airlines in arrivo dalla Florida, in pratica c'era stato un ammutinamento e solo per colpa di bagels rafferme. In questo caso invece la gente era rimasta seduta senza muoversi per... forse quindici minuti. Completamente al buio. «Là dentro comincerà a fare caldo. Se non c'è elettricità, l'aria non circola. Niente ventilazione» fece notare Jimmy il Vescovo.
«Allora cosa diavolo aspettano?» intervenne un altro tizio in completo scuro. Jimmy il Vescovo sentì crescere l'ansia in tutti i presenti. Quel buco che hai nello stomaco quando ti rendi conto che qualcosa sta per accadere, qualcosa di molto, molto sbagliato. «E se non possono muoversi?» borbottò, prima di riuscire a fermarsi. «Si riferisce a una situazione di ostaggi?» chiese il tizio in completo scuro. Il Vescovo annuì in silenzio, ma non stava pensando a quello. Per chissà quale motivo, riusciva solo a pensare: "Anime".
Pista di rullaggio Foxtrot I mezzi antincendio dell'autorità aeroportuale uscirono in formazione standard per interventi in pista: sei veicoli che comprendevano estintore a schiuma per carburante, motopompa mobile e autocarro con scala allungabile. Si arrestarono accanto al carrello per lo scarico bagagli bloccato prima delle luci azzurre lungo la Foxtrot. Il capitano Sean Navarro saltò giù dall'ultimo piolo della scala allungabile e si fermò, con il casco e la tuta di protezione, davanti all'aereo morto. I fari dei veicoli di soccorso si riflettevano sulla fusoliera e tingevano l'apparecchio di una falsa luce rossa pulsante. Pareva un aereo vuoto predisposto per un addestramento notturno. Il capitano Navarro raggiunse la parte anteriore dell'autocarro e salì in cabina accanto al conducente, Benny Chufer. «Chiama la manutenzione e fa' spegnere quelle luci. Poi mettiti dietro l'ala.» «Ho l'ordine di stare a distanza» disse Benny. «Quello là è un aereo pieno di gente» ribatté il capitano Navarrò. «Non siamo pagati per dare spettacolo. Siamo pagati per salvare vite umane.» Benny si strinse nelle spalle e ubbidì. Navarro scese dalla cabina e montò sul tettuccio. Il conducente alzò la scala quanto bastava a
portarlo sull'ala. Il capitano accese la torcia elettrica e raggiunse il bordo posteriore tra i due flap alzati, posando il piede proprio dove era scritto, in caratteri neri marcati, VIETATO SALIRE. Avanzò lungo l'ala sempre più larga, a sei metri dalla pista. Arrivò all'uscita, l'unico portello dell'aereo con un dispositivo d'emergenza esterno. Lì c'era un piccolo finestrino privo di tenda e il capitano scrutò dentro, fra le goccioline di condensa depositatesi nel doppio vetro, senza vedere altro che buio. All'interno di sicuro si soffocava come in un polmone d'acciaio. Perché non chiedevano aiuto? Perché non si sentiva il minimo rumore? Se era ancora pressurizzato, l'aereo era ermetico. I passeggeri stavano per terminare l'ossigeno. Con le mani protette da guanti da pompiere, spinse dentro i due flap rossi ed estrasse la maniglia dalla rientranza. La ruotò nel senso delle frecce, per quasi centottanta gradi, e tirò. Il portello si sarebbe dovuto aprire verso l'esterno, ma non si mosse. Navarro tirò di nuovo, ma capì subito che era inutile: nessun segno di cedimento. Era impossibile che fosse stato bloccato. La maniglia doveva essersi inceppata. Oppure qualcosa teneva chiuso il portello dall'interno. Navarro tornò dall'ala alla cima della scala. Scorse una luce di servizio arancione, un carrello aeroportuale in uscita dal terminal internazionale. Quando si avvicinò, vide che era guidato da agenti in giubba blu della Sicurezza trasporti. «Ci siamo» borbottò iniziando a scendere la scala. Erano in cinque e si presentarono l'uno dopo l'altro, ma il capitano Navarro non fece alcuno sforzo per ricordarne i nomi. Lui aveva portato lì autopompe ed estintori; loro erano arrivati con computer portatili e palmari. Per un po' si limitò ad ascoltarli mentre parlavano nelle apparecchiature e fra loro. «Dobbiamo riflettere bene prima di premere il pulsante e chiamare la Sicurezza interna. Nessuno vuole sollevare una tempesta di merda per niente.» «Non sappiamo nemmeno cosa abbiamo qui. Se suoni quel campanello, fai decollare i caccia della Otis Air Force Base. Stai parlando di gettare nel panico l'intera Costa Orientale.»
«Se è davvero una bomba, hanno aspettato fino all'ultimo momento.» «Magari per farla esplodere sul suolo americano.» «Forse fanno il morto per un po'. Stanno a radio spenta. Ci attirano più vicino. Aspettano i media.» Uno di loro stava leggendo dal telefonino. «Il volo proviene da Berlino Tegel.» Un altro parlò nel suo. «Voglio uno a terra in Germania che sprechen inglese. Dobbiamo sapere se laggiù hanno rilevato attività sospette, qualche violazione. Inoltre ci serve un manuale sulle loro procedure di trattamento dei bagagli.» Un terzo ordinò: «Controlla il piano di volo e ripassa la lista dei passeggeri. Sì... ogni nome, verifica di nuovo. Stavolta tieni conto di variazioni nella grafia». «D'accordo» disse uno leggendo dal palmare. «Specifiche complete. La registrazione dell'aereo è N323RG. Boeing 777-200LR. Il più recente controllo in transito è stato quattro giorni fa, ad Atlanta Hartsfield. Sostituiti un condotto di scorrimento usurato nell'inversore di spinta del motore sinistro e una boccola di supporto usurata del destro. Rinviata a causa del programma di volo la riparazione di un'ammaccatura nel flap poppiero sinistro. Conclusione: ha avuto un certificato di idoneità.» «I 777 sono nuovi, no? Hanno un paio d'anni?» «Capacità massima trecentoun persone. Questo volo ne ha imbarcate duecentodieci. Centonovantanove passeggeri, due piloti, nove membri d'equipaggio.» «Qualcuno senza biglietto?» Significava bambini piccoli. «Che mi risulti, nessuno.» «Tattica classica» osservò quello concentrato sul terrorismo. «Creare disordine, suscitare le prime reazioni, ottenere un buon pubblico... e poi l'esplosione, per avere il massimo impatto.» «Se è così, siamo già morti.» Si scambiarono occhiate, a disagio.
«Dobbiamo fare arretrare quei veicoli di soccorso. Chi è quel pazzo che passeggiava sull'ala?» Il capitano Navarro si fece avanti e li sorprese. «Io.» «Ah. Bene.» L'uomo soffocò nel pugno un colpo di tosse. «Lassù ci va solo il personale della manutenzione, capitano. Regolamento FAA.» «Lo so.» «Allora, cos'ha visto? Niente?» «Niente» confermò Navarro. «Non ho visto niente, non ho sentito niente. Le tendine dei finestrini sono tutte abbassate.» «Abbassate, dice? Tutte?» «Tutte quante.» «Ha provato l'uscita sopra l'ala?» «Certo che l'ho provata.» «E...?» «Bloccata.» «Bloccata? Impossibile.» «È così» disse il capitano Navarro, mostrando con quei cinque più pazienza di quanta ne mostrasse con i suoi ragazzi. Il più anziano si allontanò per fare una telefonata. Il capitano guardò gli altri. «Allora, cosa volete fare?» «È proprio ciò che aspettiamo di scoprire.» «Aspettate di scoprire? Quanti passeggeri ci sono sull'aereo? Quante chiamate al 911 hanno fatto?» Uno scosse la testa. «Ancora nessuna chiamata di cellulare al 911 dall'aereo.» «Ancora?» fece il capitano Navarro. «Zero su centonovantanove» commentò il tizio accanto a lui. «Non è un buon segno.» «Per niente.» Il capitano Navarro li guardò, stupito. «Dobbiamo fare subito
qualcosa. Non ho bisogno del permesso per prendere l'ascia e sfondare i finestrini, quando c'è gente morta o moribonda. In quell'aereo manca l'aria.» Il più anziano tornò dopo aver concluso la telefonata. «Ora portano la fiamma ossidrica. Lo apriamo.» Dark Harbor, Virginia Chesapeake Bay era nera e ribollente in quell'ora tarda. Nel patio chiuso da vetri della casa principale, su un dirupo panoramico sovrastante la baia, un uomo era disteso su una speciale sedia medica. Le luci erano abbassate per comodità del paziente e per riserbo. I termostati industriali, tre per quella sola stanza, mantenevano la temperatura a sedici gradi e mezzo. La sagra della primavera di Stravinskij, suonata a basso volume, giungeva da casse acustiche nascoste e copriva il rumore continuo della pompa dell'emodializzatore. Un debole filo di fiato saliva dalla bocca dell'uomo. Uno spettatore avrebbe potuto credere che il malato fosse prossimo alla morte. Avrebbe potuto pensare di assistere agli ultimi giorni o settimane di quella che era, a giudicare dai sette ettari della tenuta, una vita di spettacolare successo. Avrebbe potuto persino commentare l'ironia che una persona così ricca e influente facesse la stessa fine di un povero cristo. Solo che Eldritch Palmer non stava morendo. A settantasei anni, non aveva nessuna intenzione di cedere. Niente affatto. Negli ultimi sette anni di vita lo stimato investitore, uomo d'affari, teologo e potente fiduciario si era sottoposto alla medesima procedura, per tre o quattro ore ogni sera. Aveva problemi di salute, ma era curabile, assistito da medici a tempo pieno, con l'aiuto di attrezzature cliniche acquistate per uso privato a domicilio. La gente ricca può permettersi cure eccellenti e anche l'eccentricità. Eldritch Palmer teneva le sue bizzarrie nascoste sia al
pubblico sia al suo entourage. Non si era mai sposato. Non aveva mai messo al mondo un erede. E così una delle principali congetture su Palmer riguardava quali piani avesse per il suo enorme patrimonio dopo la morte. Non aveva un vice nella sua principale attività d'investimento, lo Stoneheart Group. Non aveva affiliazione pubblica con fondazioni né enti di beneficenza, a differenza dei due personaggi che competevano con lui per il primo posto nella lista annuale della rivista "Forbes" degli americani più ricchi del mondo: il fondatore della Microsoft, Bill Gates, e il finanziere della Berkshire Hathaway, Warren Buffet. (Se alcune riserve auree in Sudamerica e altre holding di società ombra in Africa fossero state incluse nei calcoli di "Forbes", Palmer sarebbe stato al primo posto della lista.) Palmer non aveva mai redatto un testamento, una dimenticanza nella pianificazione dell'asse ereditario impensabile per un uomo che avesse anche solo un millesimo delle sue ricchezze. Ma Eldritch Palmer, semplicemente, non aveva in programma di morire. L'emodialisi è una procedura nella quale il sangue è rimosso dal corpo mediante un sistema di tubicini, filtrato da un dializzatore o rene artificiale e poi rimesso in circolo, depurato da tossine e impurità. Aghi d'entrata e d'uscita sono inseriti in un innesto sintetico arterovenoso fissato in modo semipermanente nell'avambraccio. Nel caso di Palmer il macchinario per eseguire questa procedura era un modernissimo modello della Fresenius che controllava di continuo i parametri critici del paziente e avvisava il signor Fitzwilliam, mai più lontano di due stanze, di ogni valore fuori range. I fedeli investitori erano abituati all'aspetto macilento di Palmer. Era diventato un marchio di fabbrica, un ironico simbolo della sua forza monetaria il fatto che un uomo così delicato e dall'aspetto cinereo detenesse un tale potere e avesse una simile influenza nella finanza e nella politica internazionali. La sua legione di leali investitori ammontava a trentamila persone, una élite finanziaria: la quota d'ingresso era di due milioni di dollari e molti che avevano investito con Palmer per decenni valevano intorno al mezzo miliardo. Il potere d'acquisto dello Stoneheart Group gli garantiva una enorme leva economica che lui usava in maniera efficace e di tanto in tanto spietata.
La porta ovest dell'ampio corridoio si aprì e il signor Fitzwilliam, che era anche a capo del distaccamento di sicurezza personale di Palmer, entrò con un telefono portatile sicuro su un vassoio d'argento sterling. Fitzwilliam era un ex marine, con un curriculum di quarantadue uccisioni confermate in combattimento e una mente sveglia, al quale Palmer aveva pagato un corso di medicina postmilitare. «Il sottosegretario della Sicurezza nazionale, signore» disse esalando una nuvoletta di fiato nella fredda stanza. Di norma Palmer non permetteva intrusioni durante il rifornimento notturno; preferiva passare il tempo a meditare. Ma stava aspettando quella chiamata. Prese il telefono e attese che Fitzwilliam uscisse rispettosamente. Rispose e fu informato dell'aereo spento. Apprese che i funzionari del JFK erano incerti su come procedere. L'uomo al telefono parlava in tono ansioso, con formalità e imbarazzo, come un bambino orgoglioso che riferisse una buona azione. «Si tratta di un evento molto insolito e ho pensato che avrebbe voluto esserne informato immediatamente, signore.» «Sì» replicò Palmer. «Apprezzo la sua cortesia.» «Buonanotte, signore.» Palmer riagganciò e tenne il telefono in grembo. Una buona notte, davvero. Avvertì una fitta di trepidazione. Aspettava che avvenisse. E ora che l'aereo era atterrato, sapeva che tutto era iniziato... e in un modo davvero spettacolare. Pieno di entusiasmo, accese il televisore maxischermo posto contro la parete laterale e usò il telecomando sul bracciolo della sedia per attivare il sonoro. Sull'aereo ancora niente. Ma presto... Premette il pulsante di un interfono. «Sì, signore?» disse la voce di Fitzwilliam. «Faccia preparare l'elicottero, signor Fitzwilliam. Ho alcuni affari da sbrigare a Manhattan.» Riagganciò e guardò dalla parete a vetri la grande Chesapeake Bay, ribollente e nera, appena più a sud del punto dove il Potomac color acciaio si riversava negli abissi scuri.
Pista di rullaggio Foxtrot Gli addetti alla manutenzione stavano spingendo dei serbatoi sotto la fusoliera. Immettere ossigeno era l'ultimo ripiego nella procedura d'emergenza. Tutti gli aerei passeggeri erano costruiti con precise aree "perforabili". Quella del triplo sette si trovava nella fusoliera posteriore, sotto la coda, fra i portelli merci di poppa sul lato destro. La sigla LR - Long Range - del Boeing 777-200LR significa "a maggiore autonomia"; come modello di linea, con un'autonomia massima superiore alle novemila miglia nautiche (circa diciassettemila chilometri) e una capacità di combustibile fino a duecentomila litri, l'aereo aveva tre serbatoi ausiliari nella stiva merci posteriore, in aggiunta a quelli tradizionali posti nelle ali. Da qui la necessità di un'area perforabile sicura. Gli addetti alla manutenzione stavano usando un'attrezzatura da taglio Arcair, il cannello esotermico più adatto per lavorare nei luoghi di disastro non solo perché facile da trasportare, ma anche perché alimentato a ossigeno, senza l'impiego di pericolosi gas secondari come l'acetilene. Praticare un taglio nello spesso guscio della fusoliera avrebbe richiesto circa un'ora. Nessuno sulla pista a quel punto pensava a un lieto fine. I passeggeri dell'aereo non avevano fatto chiamate alla polizia. Dal Regis 753 non venivano luci, rumori, segnali di alcun genere. La situazione lasciava disorientati. Un veicolo di comando dell'unità mobile del servizio d'emergenza dell'autorità aeroportuale fu fatto passare nel piazzale del terminal e venne sistemato dietro batterie di potenti fari puntati sul jet. La squadra speciale SWAT era addestrata per evacuazioni, liberazione di ostaggi e assalti antiterrorismo in ponti, tunnel, stazioni degli autobus, aeroporti, metropolitane e porti degli Stati di New York e del New Jersey. Gli agenti operativi erano equipaggiati con corazza leggera e fucili mitragliatori Heckler & Koch. Un paio di pastori tedeschi annusavano intorno al carrello d'atterraggio, due serie di sei enormi ruote, con il naso all'aria come se anche lì fiutassero guai.
Il capitano Navarro si domandò per un momento se a bordo ci fosse davvero qualcuno. In un episodio della serie televisiva Ai confini della realtà non atterrava un aereo vuoto? La squadra di manutenzione accese i cannelli e stava per iniziare a tagliare la parte inferiore dello scafo quando uno dei cani cominciò a ululare. L'animale in realtà abbaiava e girava in tondo, legato al guinzaglio, in cerchi sempre più stretti. Navarro vide il suo uomo sulla scala, Benny Chufer, indicare la sezione mediana dell'aereo. Davanti agli occhi gli comparve una sottile ombra scura. Un taglio verticale del nero più intenso rovinava la superficie perfettamente liscia della fusoliera. Era il portello d'uscita sopra l'ala. Quello che lui non era riuscito a smuovere. Adesso era aperto. Non aveva senso. Navarro rimase in silenzio, ammutolito dalla scena. Forse un guasto della serratura a scatto, un cattivo funzionamento della maniglia... forse lui non aveva usato la forza sufficiente... o forse, solo forse, qualcuno aveva finalmente aperto il portello.
Torre di controllo dell'aeroporto internazionale JFK L'autorità aeroportuale aveva richiesto l'audio del Vescovo. Jimmy era in piedi, come sempre, in attesa di risentirlo insieme con i tizi in completo scuro, quando i telefoni di questi ultimi cominciarono a squillare a tutto spiano. «È aperto» riferì uno. «Qualcuno ha aperto il portello d'emergenza 3 di sinistra.» Adesso erano tutti in piedi per guardare. Jimmy il Vescovo scrutò dalla cabina della torre l'aereo illuminato. Da lassù il portello pareva chiuso. «Dall'interno?» chiese Calvin Buss. «Chi sta uscendo?» L'altro, sempre al telefono, scosse la testa. «Nessuno. Non
ancora.» Jimmy prese un piccolo binocolo da campo dal davanzale e controllò di persona il Regis 753. Eccolo lì. Un pezzetto di nero sopra l'ala. Un'ombra, come uno strappo nello scafo. Guardandolo, Jimmy si sentì la bocca secca. Quei portelli si socchiudono appena sbloccati, poi ruotano indietro e si ripiegano contro la paratia interna. Perciò, tecnicamente, la camera di equilibrio doveva essere stata disinnestata. Il portello non era ancora del tutto aperto. Posò il binocolo da campo sul davanzale e si spostò. Per chissà quale ragione una vocina nella testa gli diceva che era un buon momento per scappare.
Pista di rullaggio Foxtrot I sensori di gas e di radiazioni, accostati all'apertura del portello, non segnalarono anomalie. Un agente dell'unità del servizio d'emergenza, disteso sull'ala, riuscì ad allargare di qualche centimetro l'apertura, usando un lungo palo munito di gancio, mentre altri due agenti operativi armati lo coprivano dalla pista. Un microfono parabolico fu inserito e ritrasmise squilli, trilli e musichette di tutti i tipi: i cellulari dei passeggeri che non rispondevano. Parevano sovrannaturali e lamentosi, come minuscoli allarmi personali. Poi inserirono uno specchio fissato in punta a un palo, una versione gigante dello strumento usato dai dentisti per esaminare la parte posteriore dei denti. Riuscirono solo a vedere gli strapuntini nella zona fra le due classi, entrambi non occupati. Ordini per megafono non ottennero risposta. Nessuna reazione dall'aereo: niente luci, niente movimento, niente di niente. Due agenti dell'unità del servizio d'emergenza, in giubbotto tattico leggero, si spostarono dalle luci della pista di rullaggio per un aggiornamento. Esaminarono uno schema della sezione trasversale che mostrava passeggeri seduti in file di dieci nella classe economica
dove sarebbero entrati: tre in ciascuna fila laterale e quattro nella sezione centrale. L'interno dell'aereo era stretto; gli agenti lasciarono i mitragliatori e presero invece le più maneggevoli automatiche Glock 17, preparandosi al combattimento ravvicinato. Si allacciarono maschere antigas munite di microfono e di occhiali per la visione notturna abbassabili e si agganciarono alla cintura bombole di spray lacrimogeno, manette di plastica e tasche con caricatori di riserva. In cima all'elmetto avevano telecamere delle dimensioni di un cotton fioc, provviste anche di lenti a infrarossi passivi. Con la scala allungabile salirono sull'ala e raggiunsero il portello. Dopo essersi appiattiti contro la fusoliera, ai lati, uno lo spinse con il piede contro la paratia interna; poi entrò e puntò al vicino divisorio, tenendosi basso, accovacciato sulle gambe. Il compagno lo seguì dentro. Il megafono parlò per loro. «Occupanti del Regis 753, qui l'autorità aeroportuale di New York e del New Jersey. Stiamo entrando nell'aereo. Per la vostra stessa sicurezza, rimanete seduti e incrociate le mani sulla testa.» Il primo agente rimase in attesa, con la schiena contro la paratia divisoria, tendendo l'orecchio. La maschera attutì il suono in un rombo dissonante, ma lui non riuscì a scorgere movimenti. Abbassò gli occhiali per la visione notturna e l'interno dell'aereo divenne verde come purè di piselli. L'agente rivolse un cenno al compagno, tenne pronta la Glock, contò fino a tre ed entrò nell'ampia cabina.
A BORDO
Worth Street, Chinatown Ephraim Goodweather non avrebbe saputo dire se la sirena suonasse nella strada - e quindi fosse reale - o facesse parte del sonoro del videogioco in cui era impegnato con suo figlio Zack. «Perché continui a uccidermi?» chiese. Il ragazzino dai capelli biondo rossicci si strinse nelle spalle, come risentito per la domanda. «Papà, è lo scopo del gioco.» Il televisore si trovava accanto all'ampia finestra affacciata a ovest, di gran lunga la caratteristica migliore di quel minuscolo edificio a due piani senza ascensore nell'estremità sud di Chinatown. Il tavolino davanti a loro era ingombro di scatole aperte di cibo cinese, di un pacco di fumetti comprati al Forbidden Planet, del cellulare di Eph, del cellulare e dei piedi puzzolenti di Zack. La Playstation era nuova, un altro giocattolo acquistato da Ephraim per il figlio. Come sua nonna soleva spremere fino in fondo una mezza arancia, così Eph cercava di estrarre fino all'ultima goccia il divertimento e il piacere dal tempo limitato che passava in compagnia di Zack. Il suo unico figlio era per lui la vita, l'aria, l'acqua, il cibo; e doveva approfittarne al massimo, quando poteva, perché a volte in una settimana era costretto ad accontentarsi di un paio di telefonate, ed era come una settimana senza vedere il sole. «Che diavolo...» disse Eph, toccando i tasti del marchingegno senza fili che teneva in mano come se fosse un oggetto alieno, premendo sempre quelli sbagliati. Il suo soldato stava prendendo a pugni il terreno. «Almeno fammi alzare.» «Troppo tardi. Sei morto di nuovo.» Parecchi suoi conoscenti, uomini in una situazione simile alla sua, parevano avere divorziato tanto dai figli quanto dalla moglie. Certo, dicevano le solite cose: sentivano molto la mancanza dei loro ragazzi e la ex moglie continuava a minare il rapporto di genitore e bla, bla, bla; ma in realtà non parevano sforzarsi molto. Un fine settimana con i figli diventava un fine settimana lontano dalla loro
riconquistata libertà. Per Eph, i fine settimana con Zack erano la vita. Lui non aveva voluto il divorzio. Non lo voleva nemmeno adesso. Ammetteva che la vita matrimoniale con Kelly era finita - lei gli aveva fatto capire chiaramente la sua posizione -, ma si rifiutava di rinunciare al diritto su Zack. La custodia del ragazzo era l'unica questione non risolta, l'unico motivo per cui erano ancora sposati agli occhi dello Stato. Per Eph era l'ultimo dei fine settimana di prova secondo gli accordi con il consulente familiare nominato dal tribunale. Nella settimana seguente Zack sarebbe stato ascoltato e poco dopo sarebbe stata presa una decisione. A Eph non importava che ottenere la custodia fosse un tentativo disperato: per lui era la battaglia della vita. "Fa' la cosa giusta per Zack" era la frase preferita da Kelly per far leva sui suoi sensi di colpa e spingerlo a un generoso accordo sui diritti di visita. Ma la cosa giusta per Eph era stare attaccato a Zack. Aveva fatto pressioni sull'amministrazione statale, il suo datore di lavoro, per dislocare la sua squadra a New York anziché ad Atlanta, sede del CDC - l'Ente controllo e prevenzione malattie -, al solo scopo di non rovinare la vita del figlio più di quanto lo fosse già stata. Avrebbe potuto lottare più duramente. Giocare sporco, come il suo legale gli aveva consigliato molte volte. Quell'uomo conosceva i trucchi delle cause di divorzio. Una ragione che impediva a Eph di seguire i consigli dell'avvocato era la persistente malinconia per il fallimento del matrimonio. L'altra era che aveva in sé troppa compassione: la qualità che lo rendeva un medico eccezionale era proprio la stessa che faceva di lui un pessimo assistito nel caso di divorzio. Eph aveva soddisfatto pressoché ogni richiesta finanziaria che Kelly aveva avanzato tramite il suo legale. Voleva soltanto più tempo da trascorrere con il suo unico figlio. Che in quel momento gli lanciava granate. «Come rispondo al fuoco» protestò «se mi hai fatto saltare le braccia?» «Non lo so. Prova con i calci.» «Ora so perché tua madre non ti fa tenere la Playstation.»
«Perché mi fa diventare agitato e antisociale e... OH, TI HO FATTO A PEZZI!» La sbarretta che segnalava la quantità di vita di Eph scese a zero. Fu allora che il suo cellulare cominciò a vibrare, agitandosi contro le scatole di cibo cinese da asporto come un argenteo scarafaggio affamato. Probabilmente era Kelly, per ricordargli di accertarsi che Zack usasse l'inalatore per l'asma. Oppure solo per controllare che non avesse rapito il figlio spedendolo in Marocco o cose del genere. Prese il telefono e controllò lo schermo. Una chiamata locale. Dall'ufficio di quarantena del JFK. Il CDC aveva una stazione di quarantena nel terminal internazionale dell'aeroporto. Non locali di ricovero e neppure di terapia, solo alcuni piccoli uffici e un ambulatorio: un luogo di sosta, un parafuoco, per identificare e forse bloccare un'epidemia che minacciasse la popolazione degli Stati Uniti. Gran parte del lavoro comportava l'isolamento e la valutazione di passeggeri che si erano sentiti male in volo, a volte con conseguente scoperta di un caso di meningite batterica o di SARS, la sindrome respiratoria acuta grave. Il centro era chiuso di sera ed Eph non era fra i reperibili quella notte e non sarebbe stato di servizio fino a lunedì mattina. Da giorni aveva fatto in modo di liberarsi dagli impegni di lavoro, in previsione del fine settimana con Zack. Premette il pulsante per rifiutare la chiamata e posò di nuovo il cellulare accanto alla scatola di pane allo scalogno. Problema di qualcun altro. «È il ragazzo che mi ha venduto questa robaccia» disse al figlio. «Chiama per rompermi.» Zack stava mangiando un altro raviolo al vapore. «Ancora non ci credo che hai preso i biglietti per Yankees-Red Sox di domani.» «Già. Buoni posti, anche. Davanti alla terza base. Ho attinto al tuo fondo del college per comprarli, ma non preoccuparti: con le tue capacità, per cavartela ti basterà il diploma.» «Papà!» «Comunque, sai quanto mi addolora mettere anche solo un dollaro nelle tasche di Steinbrenner. In pratica è un tradimento.»
«Abbasso i Red Sox, viva gli Yanks!» esclamò Zack. «Prima mi uccidi e ora mi sfotti?» «Be', come tifoso dei Red Sox dovresti esserci abituato.» «Ah, sì, eh?» Strinse il figlio fra le braccia e cominciò a fargli il solletico, mentre lui si dimenava, in preda a un accesso di riso. Zack stava diventando più robusto, si dibatteva con forza; non era più il bambino che Eph si divertiva a far girare per la stanza reggendolo su una sola spalla. Zachary aveva i capelli della madre, stesso colore biondo rossiccio (la tinta naturale di quando l'aveva conosciuta al college), stessa consistenza sottile. Però lui riconosceva, con sorpresa e gioia, le sue stesse mani di undicenne penzolare magicamente dai polsi del ragazzo, con nocche larghe che parevano fatte apposta per sfregare contro il cuoio del guanto da baseball; mani che odiavano le lezioni di pianoforte, impazienti di stringersi sul mondo degli adulti. Era una magia rivedere quelle giovani mani. È vero, i figli vengono a sostituirci. Zachary era come un perfetto involucro umano, nel suo DNA era scritto tutto ciò che Eph e Kelly erano stati un tempo l'uno per l'altra... speranze, sogni, potenziale. Così probabilmente si spiegava perché ciascuno di loro lavorasse duramente, con modalità diverse e contraddittorie, per tirare fuori il meglio di lui. Il solo pensiero di Zack educato sotto l'influenza del convivente di Kelly, Matt - un tipo "simpatico", "perbene", ma così comune da essere in pratica invisibile -, teneva sveglio Eph di notte. Lui voleva sfide per suo figlio, voleva ispirazione, grandezza! La battaglia per la custodia della persona fisica di Zack era sistemata, ma lo stesso non si poteva dire per la custodia dello spirito di Zack... della sua vera anima. Il cellulare di Eph ricominciò a vibrare, strisciando sul tavolino come la finta dentiera con i piedi che gli zii solevano regalargli a Natale. Il risveglio del congegno interruppe la scherzosa baruffa: Eph lasciò andare Zack e combatté l'impulso di guardare il display. Stava succedendo qualcosa. Altrimenti non lo avrebbero chiamato. Un'epidemia. Un passeggero infetto. Si costrinse a non rispondere. Se ne sarebbe dovuto occupare qualcun altro. Era il suo fine settimana con Zack. Che ora lo stava guardando. «Non preoccuparti» disse. Lasciò che scattasse la segreteria telefonica. «È tutto a posto. Niente
lavoro, questo fine settimana.» Zack annuì, baldanzoso, impugnando il joystick. «Ne vuoi ancora?» «Non so. Quando arriviamo alla parte in cui il piccolo Mario comincia a far rotolare barili verso la scimmia?» «Papà!» «Mi sento più a mio agio con i piccoli italiani che corrono in giro a mangiare funghi per fare punti.» «Già. E quanti chilometri di neve dovevi pestare per andare a scuola ogni giorno?» «Ah, sì, eh?» Lo afferrò di nuovo, ma il ragazzo stavolta se lo aspettava e strinse le braccia al petto per impedirgli di fargli il solletico. Perciò Eph cambiò strategia e puntò al sensibile tendine d'Achille, lottando con i talloni di Zack e cercando di evitare calci in faccia. Il ragazzo stava per arrendersi quando lui si rese conto che il suo cellulare stava vibrando di nuovo. Stavolta saltò in piedi, irritato, perché sapeva che il suo lavoro, la sua vocazione, l'avrebbe strappato a suo figlio. Diede un'occhiata al numero e vide il prefisso di Atlanta. Pessime novità. Chiuse gli occhi e si premette sulla fronte il telefono ronzante. «Mi spiace, Zack. Fammi solo capire cosa succede.» Andò con il cellulare in cucina e rispose alla chiamata. «Ephraim? Sono Everett.» Il dottor Everett Barnes, direttore del CDC. Eph dava la schiena a Zack. Sapeva che il figlio lo stava fissando, ma non ce l'avrebbe fatta a incrociare il suo sguardo. «Sì, Everett, cosa succede?» «Ho ricevuto una chiamata da Washington. La sua squadra è già diretta all'aeroporto?» «Ah, signore, a dire il vero...» «L'ha visto in TV?»
«TV?» Tornò al divano mostrando a Zack la mano aperta, una supplica a pazientare. Trovò il telecomando e cercò il tasto giusto o la combinazione di tasti, ma dopo qualche tentativo lo schermo non prese vita. Il ragazzo gli tolse il telecomando e passò, imbronciato, alla TV via cavo. Il telegiornale mostrava un aereo fermo sulla pista. Veicoli di supporto formavano un perimetro ampio, forse timoroso. Aeroporto internazionale JFK. «Ora lo vedo, Everett.» «Jim Kent è appena arrivato da me, sta preparando l'attrezzatura occorrente alla sua squadra. In questa faccenda lei è in prima linea, Ephraim. Non faranno una mossa finché non sarà là.» «Non faranno chi, signore?» «L'autorità aeroportuale di New York e la TSA, la Transportation Security Administration. Funzionari dell'Ente nazionale sicurezza trasporti e della Sicurezza nazionale stanno già volando qui.» Il progetto Canary era una squadra d'intervento rapido composta di epidemiologi sul campo, organizzata per rilevare e identificare incipienti minacce biologiche. La sua area d'azione comprendeva sia minacce naturali, come malattie provocate da virus e da rickettsie, sia epidemie artificiali, anche se gran parte dei fondi arrivava grazie alle ovvie applicazioni del progetto Canary contro il bioterrorismo. New York City era il centro nevralgico, con squadre satelliti più piccole, a base universitaria ospedaliera, attive a Miami, Los Angeles, Denver e Chicago. Il programma prendeva il nome dal vecchio trucco delle miniere di carbone: portarsi in galleria un canarino in gabbia come rozzo ma tempestivo sistema biologico d'allarme. Il metabolismo altamente sensibile del canarino rilevava tracce di metano e di monossido di carbonio prima che raggiungessero livelli tossici ed esplosivi, provocando il silenzio dell'uccello normalmente cinguettante e facendolo barcollare sul posatoio. In quest'epoca moderna, ogni essere umano ha il potenziale per fare da canarino sentinella. Il compito della squadra di Eph era di isolare i canarini appena smettevano di cantare, curare gli infetti e contenere la diffusione dell'epidemia.
«Che cosa c'è, Everett?» domandò Eph. «Qualcuno è morto sull'aereo?» «Sono morti tutti, Ephraim» rispose il direttore. «Dal primo all'ultimo.»
Kelton Street, Woodside, Queens Kelly Goodweather sedeva al tavolino di fronte a Matt Sayles, il suo convivente ("boyfriend" suonava troppo giovanile, "compagno" troppo vecchio). Si stavano dividendo una pizza fatta in casa, con pesto, pomodori secchi, formaggio di capra e qualche ricciolo di prosciutto per insaporire, nonché una bottiglia di merlot di un anno, da undici dollari. Il televisore del cucinino era sintonizzato su NY1 perché Matt voleva guardare il notiziario. In quanto a Kelly, era insofferente ai canali che trasmettevano notizie ventiquattr'ore su ventiquattro. «Mi dispiace» ripeté Kelly. Matt sorrise, descrivendo un pigro cerchio nell'aria con il bicchiere di vino. «Non è colpa mia, naturalmente. Ma avevamo programmato tutto per noi due soli, questo fine settimana...» Lui si pulì le labbra nel tovagliolo infilato nel colletto della camicia. «Come al solito trova un modo per intromettersi fra noi. E non mi riferisco a Zack.» Kelly guardò la terza sedia, vuota. Matt senza dubbio aveva aspettato con impazienza quei due giorni senza Zack. In attesa della conclusione della prolungata battaglia per la custodia, mediata dal tribunale, il ragazzo passava alcuni fine settimana insieme con Eph nel suo appartamento a Lower Manhattan. Ciò significava, per lei, una cena intima a casa, con le solite aspettative sessuali da parte di Matt... che Kelly non aveva scrupolo a soddisfare e che inevitabilmente avrebbero meritato il bicchiere di vino in più che si sarebbe concessa.
Ma non stasera. Per quanto fosse dispiaciuta per Matt, per se stessa era in realtà assai contenta. «Vedrai che mi farò perdonare» gli disse con una strizzatina d'occhio. Matt sorrise, sconfitto. «Affare fatto.» Ecco perché Matt le era di conforto. Dopo aver sopportato l'umore mutevole di Eph, i suoi scoppi d'ira, la sua personalità ambiziosa, l'argento vivo che gli scorreva nelle vene, le occorreva un tipo più tranquillo. Lei era troppo giovane quando aveva sposato Eph, aveva rinunciato a troppe cose - necessità, aspirazioni, desideri per aiutarlo ad avanzare nella carriera medica. Se avesse potuto impartire un piccolo consiglio di vita alle ragazze di quarta elementare della sua classe alla scuola pubblica di Jackson Heights, avrebbe detto: "Mai sposare un genio". Soprattutto un genio di bell'aspetto. Con Matt, Kelly si sentiva a suo agio e, in realtà, si godeva la supremazia che esercitava nel loro rapporto. Era il suo turno di essere favorita. Sul piccolo televisore bianco del cucinino strombazzavano l'eclissi dell'indomani. Nel servizio il reporter stava provando vari occhiali e ne valutava l'efficacia per la protezione degli occhi davanti a un banco di T-shirt in Central Park. La più venduta aveva la scritta: KISS ME ON THE ECLIPSE! I conduttori pubblicizzavano il programma in diretta dell'indomani pomeriggio. «Sarà un grande spettacolo» disse Matt, un commento per farle capire che non avrebbe lasciato che la sua delusione rovinasse la serata. «È un evento astronomico importante» replicò Kelly «e lo trattano come se fosse solo un'altra tempesta di neve.» Comparve la sigla del notiziario. Di solito a quel punto Kelly cambiava canale, ma fu incuriosita dalla stranezza della storia. Lo schermo mostrava la panoramica di un aereo fermo sulla pista del JFK, circondato da fari: era illuminato così teatralmente e attorniato da tanti veicoli e persone che faceva pensare a un UFO atterrato nel Queens. «Terroristi» disse Matt.
L'aeroporto JFK distava solo una quindicina di chilometri. Il reporter spiegò che l'aereo in questione si era completamente spento dopo un atterraggio normalissimo e che ancora non c'era stato alcun contatto né con l'equipaggio né con i passeggeri a bordo. Tutti gli atterraggi al JFK erano stati sospesi per precauzione e il traffico aereo era stato spostato a Newark e al LaGuardia. Kelly seppe allora che quell'aereo era il motivo che aveva spinto Eph a riportare a casa Zack. Ora voleva solo che il figlio fosse sotto il suo tetto. Lei era il tipo che si preoccupa per tutto e per cui la casa significa sicurezza. L'unico posto al mondo che potesse controllare. Si alzò e andò alla finestra sopra il lavello della cucina, abbassò la luce e guardò il cielo al di là del tetto del cortile vicino. Vide luci d'aereo girare intorno al LaGuardia, turbinare come frammenti di detriti scintillanti aspirati da una tromba d'aria. Non era mai stata nelle zone centrali del paese, dove si vedono giungere i tornado da chilometri di distanza, ma l'impressione era quella. Come se le arrivasse addosso qualcosa senza poterci fare niente. Eph accostò al marciapiede la Ford Explorer avuta in dotazione dal CDC e si fermò. Kelly aveva una piccola casa su un ordinato quadrato di terreno circondato da basse siepi ben curate in un isolato in pendenza di costruzioni a due piani. Lei gli andò incontro sul vialetto di cemento, quasi diffidasse dal farlo entrare, trattandolo come un'influenza decennale di cui si era finalmente liberata. Era più bionda, più snella e ancora molto graziosa, anche se ormai per lui era un'altra persona. Tanto era cambiata. Da qualche parte, probabilmente in una scatola da scarpe sepolta in fondo a un armadio, c'erano le fotografie delle nozze di una giovane donna serena, col velo tirato indietro e un sorriso di vittoria allo sposo in abito da sera. Due giovani felici e innamorati. «Mi hanno cancellato l'intero fine settimana» annunciò Eph scendendo dall'auto prima di Zack e varcando il basso cancello di ferro per avere la prima parola. «È un'emergenza.» Matt Sayles fece capolino dietro di lei nel vano della porta illuminato e si fermò sul primo gradino. Il tovagliolo infilato nel
colletto copriva il logo Sears sul taschino, il negozio che dirigeva nel centro commerciale di Rego Park. Eph non diede segno di accorgersi della sua presenza e continuò a concentrarsi su Kelly e Zack, mentre il ragazzo entrava nel prato. Kelly fece un sorriso al figlio ed Eph non poté fare a meno di chiedersi se lei preferisse quella situazione, lui fuori gioco con Zack, a un fine settimana da sola con Matt. Kelly circondò le spalle del figlio con un braccio, protettiva. «Tutto a posto, Zack?» Il ragazzo annuì. «Deluso, immagino.» Zack annuì di nuovo. Kelly vide che aveva in mano una scatola e dei cavi elettrici. «Cos'è quella roba?» «La nuova Playstation» intervenne Eph. «La prende in prestito per il fine settimana.» Guardò il figlio che teneva la testa contro il petto della madre e aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Ehi, se trovo il modo per liberarmi, forse domani... spero domani... ma se un modo c'è, tornerò per te e salveremo il possibile. Va bene? Farò in modo che recuperiamo il tempo perso, lo sai, vero?» Il ragazzo annuì, ancora con sguardo vacuo. Dal primo scalino Matt chiamò: «Vieni dentro, Zack. Vediamo se riusciamo a collegarla». Affidabile, attendibile Matt. Kelly l'aveva addestrato bene, di sicuro. Eph guardò suo figlio entrare in casa, sottobraccio a Matt, e lanciargli un'ultima occhiata. Soli, ora, Eph e Kelly rimasero ad affrontarsi sul piccolo prato. Dietro di lei, sopra il tetto della casa, giravano in tondo le luci degli aerei in attesa. Un'intera rete di trasporto, senza contare vari enti governativi e di polizia, aspettava quell'uomo che ora stava di fronte a una donna che aveva ammesso di non amarlo più. «Si tratta dell'aereo, giusto?» Lui annuì. «Tutti quelli a bordo sono morti.» «Tutti morti?» disse Kelly con un lampo di preoccupazione.
«Come? Cosa potrebbe essere?» «È quello che devo scoprire.» Sentì il peso dell'urgenza del suo lavoro. Aveva rovinato tutto con Zack... ma ormai era successo e ora doveva andare. Prese dalla tasca una busta con il logo degli Yankees e la porse a Kelly. «È per domani pomeriggio. Nel caso io non riesca a liberarmi.» Kelly estrasse i biglietti, inarcò un sopracciglio nel leggere il costo e li rimise nella busta. Lo guardò con un'espressione quasi di simpatia. «Cerca solo di non dimenticare il nostro incontro con la dottoressa Kempner.» La psicoterapeuta familiare che avrebbe deciso a chi spettava la custodia di Zack. «Già, la Kempner. Ci sarò.» «E... sii prudente.» Eph annuì e se ne andò.
Aeroporto internazionale JFK Una folla si era radunata fuori dell'aeroporto, gente attirata dall'inesplicabile, dal bizzarro, dalla potenziale tragedia, dall'evento. Durante il viaggio, Eph aveva sentito che alla radio la vicenda veniva trattata come un potenziale dirottamento, facendo ipotesi su un legame con i conflitti oltremare. Dentro il terminal, due veicoli elettrici passarono davanti a Eph: uno aveva a bordo una madre in lacrime che teneva per mano due bambini dall'aria spaventata, l'altro un signore più anziano, nero, con un bouquet di rose rosse in grembo. Eph si rese conto che lo Zack di qualcun altro era in quell'aereo. La Kelly di qualcun altro. Si concentrò su quell'aspetto. La squadra lo stava aspettando davanti a una porta chiusa, appena sotto l'uscita 6. Jim Kent era al telefono, come al solito, e parlava nel microfono dell'auricolare che gli penzolava dall'orecchio. Jim si occupava degli aspetti burocratici e politici del controllo
malattie. Coprì il microfono con la mano e disse come saluto: «Nessun rapporto di aerei al suolo in altre parti del paese». Eph salì sul retro del veicolo elettrico e si accomodò accanto a Nora Martinez. Biochimica per formazione, era il suo vice a New York. Aveva già messo i guanti, una barriera di nylon chiara, liscia e luttuosa come un giglio. Si spostò per fargli posto mentre lui si sedeva. Eph rimpianse che ci fosse sempre un certo imbarazzo fra loro. Iniziarono a muoversi. Lui fiutò nel vento l'odore di salmastro. «Da quanto tempo l'aereo era a terra prima di oscurarsi?» «Sei minuti» rispose Nora. «Nessun contatto radio? Neppure con il pilota?» Jim si girò verso di lui. «Presunto, ma non confermato. Agenti dell'autorità aeroportuale sono entrati nel compartimento passeggeri, l'hanno trovato pieno di cadaveri e sono subito usciti.» «Portavano maschera e guanti, mi auguro.» «Certo.» Il carrello superò un angolo e in lontananza fu visibile l'aereo in attesa. Un mezzo imponente sul quale da molteplici angolazioni erano puntati fari che lo illuminavano a giorno. La nebbia dalla vicina baia creava un alone brillante intorno alla fusoliera. «Cristo!» esclamò Eph. «Un "triplo sette", lo chiamano così. Il Boeing 777, il più grande bireattore del mondo. Progetto recente, aereo nuovo. Per questo sono tanto agitati. Pensano a un sabotaggio.» Anche solo gli pneumatici del carrello d'atterraggio erano enormi. Eph guardò in alto verso il buco nero del portello aperto sopra la larga ala sinistra. «Hanno già eseguito il test per la presenza di gas» spiegò Jim. «Hanno fatto tutte le analisi per qualsiasi prodotto di fabbricazione umana. Non gli resta altro che cominciare da zero.» «E noi siamo lo zero» commentò Eph. L'aereo inattivo misteriosamente pieno di cadaveri, per l'HazMat,
l'ente che si occupa di monitorare le sostanze pericolose, era come svegliarsi una mattina e trovarsi un nodulo sotto le ascelle. La squadra di Eph era il laboratorio di biopsia incaricato di dire alla FA A se aveva o no un cancro. Non appena il veicolo si fermò, alcuni funzionari della TSA in blazer blu piombarono addosso a Eph per aggiornarlo come aveva già fatto Jim, ponendogli domande e sovrapponendo le voci come giornalisti. «La storia è andata troppo per le lunghe» disse Eph. «La prossima volta che succede un fatto inspiegabile come questo, chiamateci per secondi. HazMat primo, noi secondi. Capito?» «Sì, dottor Goodweather.» «L'HazMat è pronto?» «In attesa.» Eph rallentò davanti al furgone del CDC. «Direi che non sembra un evento spontaneo contagioso. Sei minuti a terra? Un tempo troppo breve.» «Deve essere stato un atto deliberato» osservò uno dei funzionari della TS A. «Può darsi» replicò Eph. «Al momento, in termini di ciò che potrebbe aspettarci là dentro... facciamo contenimento.» Aprì per Nora il portellone posteriore del furgone. «Ci metteremo la tuta e vedremo cosa abbiamo.» Una voce lo bloccò. «C'è uno dei nostri su quell'aereo.» Eph si girò. «Chi?» «Un funzionario della sicurezza aerea. Situazione standard su voli internazionali che comportino vettori americani.» «Armato?» chiese Eph. «Generalmente sì.» «Nessuna telefonata, nessun avvertimento da lui?» «Niente di niente.» «Di sicuro è stato sopraffatto subito» commentò Eph guardando le
facce preoccupate di quegli uomini. «Informatevi sul numero del posto a sedere. Inizieremo da lì.» Eph e Nora salirono sul furgone del CDC, chiusero il portellone e lasciarono fuori l'angoscia della pista. Tirarono giù dalla rastrelliera l'equipaggiamento HazMat di livello A. Eph si spogliò, restando in Tshirt e slip; Nora lo imitò e rimase in reggiseno sportivo nero e mutandine color lavanda. Ciascuno cercò di facilitare con gomiti e ginocchia i movimenti dell'altro nel piccolo e ingombro furgone Chevy. Nora aveva capelli folti e scuri e spavaldamente lunghi per una epidemiologa sul campo; li raccolse in uno stretto elastico, muovendosi con gesti rapidi e decisi. Aveva un corpo dalle curve aggraziate e la pelle della calda tonalità di un toast leggermente abbrustolito. Quando la separazione di Eph era diventata permanente e Kelly aveva avviato le pratiche per il divorzio, lui e Nora avevano avuto una breve storia. Di una sola notte, con postumi imbarazzanti e disagevoli che si erano trascinati per mesi e mesi, fino alla loro seconda storia, appena qualche settimana prima, che, per quanto più appassionata e piena di buone intenzioni per evitare le trappole emotive della precedente, aveva portato di nuovo a un prolungato periodo d'imbarazzo. In un certo senso lui e Nora lavoravano troppo a contatto: se avessero avuto impieghi normali, un tradizionale posto di lavoro, il risultato forse sarebbe stato differente; tutto sarebbe parso più facile, più casuale. Ma il loro era "amore in trincea" e, completamente dediti al progetto Canary, avevano ben poco da offrire l'uno all'altra, o al resto del mondo. In un rapporto così nessuno, nel tempo libero, chiedeva: "Com'è andata la giornata?", principalmente perché non c'era affatto tempo libero. Come in quel frangente. Sebbene fossero praticamente nudi l'uno di fronte all'altra, non c'era nulla di sensuale. Perché indossare una biotuta è l'antitesi della sensualità. È il contrario dell'attrattiva, è una ritirata nella profilassi, nella sterilizzazione. Il primo strato era una tuta bianca di Nomex, decorata sulla schiena dalla sigla CDC, chiusa con una cerniera dalle ginocchia al
mento; colletto e polsi erano sigillati con comodo Velcro; gli stivali neri erano allacciati sugli stinchi. Il secondo strato era una tuta, anch'essa bianca, usa e getta di Tyvek simile a carta. Soprascarpe sugli stivali e guanti protettivi chimici Silver Shield a coprire quelli di nylon, chiusi con nastro adesivo ai polsi e alle caviglie. Poi il respiratore autonomo: una bardatura da sommozzatore, leggero serbatoio di titanio a pressione regolabile, maschera integrale e sistema di allarme sicurezza personale (PASS) con un segnalatore di pericolo da vigili del fuoco. Eph e Nora esitarono prima di mettersi la maschera. Lei fece un mezzo sorriso, gli strinse una guancia nella mano a coppa e gli diede un bacio. «Tutto bene?» «Sì.» «Non si direbbe. Come sta Zack?» «Incazzato nero. Com'è giusto che sia.» «Non per colpa tua.» «E allora? La conclusione è che il fine settimana con mio figlio è andato e non lo riavrò più.» Approntò la maschera. «Sai, nella mia vita c'è stato un momento in cui tutto si riduceva alla scelta fra la famiglia e l'impiego. Pensavo di avere scelto la famiglia. Ma chiaramente non è così.» Ci sono momenti come quelli, che arrivano quando vogliono, non invitati, in genere nelle situazioni più inopportune, come durante una crisi, in cui guardi una persona e ti rendi conto che ti farà male rinunciare a lei. Eph capì quanto era stato ingiusto con Nora ostinandosi a restare aggrappato a Kelly; non tanto a Kelly, in realtà, ma al passato, al matrimonio defunto, a ciò che ormai era perduto. Tutto per amore di Zack. A Nora suo figlio piaceva. E il ragazzo nutriva simpatia per lei, era evidente. Ma ora non c'era tempo per quei pensieri. Eph si mise il respiratore e controllò il serbatoio. Lo strato esterno della tenuta consisteva in una tuta "spaziale" completa, di colore giallo - giallo
canarino - con casco sigillato, visore a duecentodieci gradi e guanti incorporati. Quella era la vera tuta di contenimento di livello A, la "tuta di contatto", dodici strati di tessuto che, una volta sigillati, isolavano totalmente dall'atmosfera esterna. Nora controllò la chiusura di Eph e lui fece lo stesso con la sua. Gli indagatori di rischi biologici operano con un sistema di sostegno fra compagni molto simile a quello dei sub con autorespiratore. Le loro tute si gonfiarono un poco per l'aria circolante. Tenere fuori gli agenti patogeni significava intrappolare all'interno sudore e calore corporeo; la temperatura nella tuta poteva superare di trenta gradi quella ambientale. «Pare stagna» disse Eph per mezzo del microfono attivato a voce incorporato nella maschera. Nora annuì e incrociò il suo sguardo da dietro la maschera. L'occhiata durò un momento di troppo, come se lei fosse stata sul punto di aggiungere qualcosa e poi avesse cambiato idea. «Sei pronto?» Eph annuì. «Andiamo.» Fuori, sulla pista, Jim accese la console di comando su ruote e ricevette su monitor separati le immagini delle telecamere montate sulle maschere. Fissò piccole torce elettriche accese su cordoncini legati alle cinghie sulle spalle: lo spessore dei guanti della tuta multistrato limitava le capacità nei movimenti di precisione. I tizi della TSA comparvero e cercarono di parlare ancora con loro, ma Eph finse di non sentire, scuotendo la testa e toccandosi il casco. Mentre si avvicinavano all'aereo, Jim mostrò a Eph e Nora un foglio plastificato con lo schema globale dei posti assegnati e sul rovescio l'elenco dei numeri corrispondenti a passeggeri ed equipaggio. Indicò un puntino rosso nel 18A. «Il funzionario» disse nel microfono. «Cognome: Charpentier. Fila uscita di sicurezza, posto al finestrino.» «Ricevuto» replicò Eph. Un secondo puntino rosso.
«La TSA ha indicato quest'altro passeggero interessante. Un diplomatico tedesco, Rolph Hubermann, business class, seconda fila, posto F. In città per colloqui al consiglio dell'ONU sulla situazione coreana. Forse aveva una di quelle valigie diplomatiche che non sono controllate alla dogana. Magari non è importante, ma un contingente di tedeschi accreditati presso le Nazioni Unite sta arrivando qui solo per recuperarla.» «Bene.» Jim li lasciò al limitare dei fari e tornò ai suoi monitor. Dentro il perimetro c'era più luce che di giorno. Eph e Nora quasi non gettavano ombra. Lui la precedette su per la scala allungabile fino all'ala, poi al portello aperto. Entrò per primo: il silenzio era palpabile. Nora lo seguì e si fermò con lui, spalla a spalla, in testa alla cabina centrale. Si trovarono di fronte cadaveri seduti, fila dopo fila. Il raggio delle torce si rifletté sulle morte gemme dei loro occhi aperti. Niente emorragie nasali. Niente orbite sporgenti né pelle gonfia e chiazzata. Niente bava né perdita di sangue intorno alla bocca. Ciascuno nel suo sedile, nessun segno di panico né di lotta. Braccia penzoloni nel passaggio centrale o abbandonate in grembo. Niente traumi evidenti. Cellulari - appoggiati sulle gambe, in tasca, nelle borse mandavano i hip di messaggio in attesa oppure suonavano, in una sovrapposizione di vivaci motivetti musicali. Quelli erano gli unici rumori. Eph e Nora localizzarono il funzionario della sicurezza aerea nel posto accanto al finestrino appena dentro il portello aperto. Un uomo sulla quarantina, con capelli neri e un principio di calvizie; indossava una camicia con bottoni stile baseball dal bordino blu e arancione, i colori dei New York Mets, e la loro mascotte, Mr Met, raffigurata sul davanti, e blue jeans. Il mento era posato sul petto, come se lui facesse un pisolino a occhi aperti. Eph piegò un ginocchio, approfittando del maggiore spazio di manovra concesso dalla fila dell'uscita d'emergenza. Toccò la fronte del funzionario e spinse indietro la testa, che si mosse liberamente sul
collo. Nora, accanto a lui, gli puntò avanti e indietro sugli occhi il raggio della torcia, ma le pupille di Charpentier non ebbero reazioni. Eph gli spinse in giù il mento per aprire la bocca e ne illuminò l'interno: la lingua e la gola erano rosa, parevano escludere un avvelenamento. Eph voleva vedere meglio. Allungò la mano e aprì la tendina del finestrino: la luce dei fari si riversò dentro come un vivido rombo bianco. Niente vomito, come in caso d'inalazione di gas. Le vittime di avvelenamento da monossido di carbonio mostrano nette vesciche e scolorimento della pelle, hanno un aspetto enfiato, coriaceo. Nessuna anomalia nella postura, nessun segno di agonia. Accanto a lui era seduta una donna di mezza età, in abito da viaggio stile villeggiatura, mezzi occhiali sul naso a coprire gli occhi ormai ciechi. Sedevano come qualsiasi passeggero normale avrebbe fatto, poltroncine in posizione dritta, ancora in attesa che fosse spento il segnale di allacciare le cinture di sicurezza. I passeggeri della fila di fronte all'uscita mettono gli effetti personali in contenitori a rete fissati alla paratia della cabina davanti a loro. Eph tolse dalla tasca davanti a Charpentier una sacca morbida Virgin Atlantic e aprì la cerniera nella parte superiore. Tirò fuori una felpa Notre Dame, alcuni libri puzzle pieni di ditate, un audiolibro thriller e un astuccio di nylon a forma di rene, pesante. Aprì la cerniera quanto bastava a vedere il contenuto: una pistola nera rivestita di gomma. «La vedete?» chiese. «La vediamo» rispose Jim alla radio. Lui, quelli della TSA e ogni altro funzionario di grado abbastanza elevato da stare vicino ai monitor osservavano tutto grazie alla telecamera fissata sulla spalla di Eph. «Qualsiasi cosa sia successa» disse Eph «ha colto tutti di sorpresa. Compreso il funzionario della sicurezza.» Richiuse la cerniera e lasciò a terra la borsa; si rialzò e procedette nel corridoio fra i sedili. Si sporse sui passeggeri e alzò le tendine: la cruda luce proiettava ombre bizzarre e metteva in rilievo la faccia
dei cadaveri, come viaggiatori che fossero morti volando troppo vicino al sole. I telefonini continuavano a trillare, una dissonanza sempre più acuta, come per la sovrapposizione di decine di segnali di allarme. Eph cercò di non pensare alle persone che chiamavano, preoccupate. Nora si avvicinò a un corpo. «Non c'è il minimo segno di trauma» notò. «Lo so» replicò Eph. «Maledettamente sinistro.» Guardò la galleria di cadaveri, riflettendo. «Jim» disse poi «allerta l'Organizzazione mondiale della sanità, sezione europea. Coinvolgi il ministero della Sanità tedesco, chiedi che contattino gli ospedali. Se è una malattia infettiva, dovrebbero averla anche lì.» «Me ne sto occupando.» Nella cambusa prodiera fra la business class e la prima, quattro assistenti di volo, tre hostess e uno steward, sedevano sugli strapuntini, i corpi abbandonati in avanti contro la cintura di sicurezza. Oltrepassandoli, Eph ebbe la sensazione di galleggiare in un relitto affondato. Gli giunse la voce di Nora. «Sono arrivata in fondo all'aereo, Eph. Nessuna sorpresa. Ora torno.» «Bene» replicò lui. Tornò indietro dalla cabina illuminata e aprì la parete divisoria della business class con corridoio più largo. Lì localizzò il diplomatico tedesco, Hubermann, seduto nel passaggio, vicino alla parte frontale. Le mani grassocce dell'uomo erano ancora ripiegate in grembo, la testa reclinata, un ciuffo di capelli chiari brizzolati cadeva sugli occhi aperti. La valigia diplomatica menzionata da Jim era sotto il sedile. Similpelle blu, con una cerniera nella parte superiore. Nora si avvicinò. «Eph, non sei autorizzato ad aprirla...» Lui tirò la cerniera, estrasse una barretta di Toblerone mangiata per metà e una bottiglietta di plastica trasparente piena di pillole blu. «Cosa sono?» chiese Nora. «Viagra, direi» rispose Eph. Rimise il contenuto nella valigia che ripose al suo posto.
Si fermò accanto a una donna e a una ragazzina che viaggiavano insieme. Madre e figlia. Le due si tenevano ancora per mano e parevano rilassate. «Niente panico, niente di niente» notò Eph. «Non ha senso.» I virus devono essere trasmessi e il contagio richiede tempo. Il malore o lo svenimento di qualche passeggero avrebbe causato un parapiglia, anche con il segnale di allacciare le cinture. Se si trattava di un virus, era diverso da qualsiasi agente patogeno Eph avesse incontrato nella sua carriera da epidemiologo nel CDC. Tutti gli indizi suggerivano invece un agente velenoso letale introdotto nell'ambiente sigillato della cabina dell'aereo. «Jim, voglio che sia ripetuto il test per i gas» trasmise Eph. La voce di Jim rispose: «Hanno preso campioni d'aria, misurato in parti per milione. Non c'è niente». «Lo so, ma... è come se qualcosa abbia sopraffatto questa gente senza il minimo preavviso. Forse la sostanza si è dissipata dopo l'apertura del portello. Voglio un'analisi della moquette e di ogni altra superficie porosa. Esamineremo i tessuti polmonari dopo le autopsie.» «Bene... d'accordo.» Eph oltrepassò rapidamente i sedili ben spaziati e rivestiti di cuoio della prima classe e raggiunse la porta della cabina di pilotaggio. Era chiusa, rinforzata con intelaiatura d'acciaio lungo i bordi e sovrastata da una telecamera. Eph protese la mano verso la maniglia. «Eph» lo chiamò la voce di Jim nel casco «mi dicono che ha una serratura a tastiera, non riuscirai a...» Sotto la mano guantata la porta si aprì. Eph rimase immobile sulla soglia. Le luci della pista di rullaggio penetravano dal parabrezza di vetro diatermico e illuminavano la cabina di pilotaggio. Gli schermi video erano tutti bui. «Eph» lo avvertì Jim «stanno dicendo di fare molta attenzione.» «Ringraziali per il prezioso consiglio tecnico» replicò lui prima di
entrare. I monitor intorno a interruttori e leve erano spenti. Un uomo in divisa da pilota era accasciato in uno strapuntino subito a destra di Eph. Altri due, il capitano e il copilota, occupavano i sedili davanti ai comandi. Il copilota teneva in grembo le mani contratte e vuote; la testa era inclinata a sinistra, coperta dal berretto. Il capitano aveva ancora la sinistra su una leva di comando, il braccio destro penzolava dal bracciolo, le nocche sfioravano la moquette del pavimento. La testa era reclinata in avanti, il berretto sulle ginocchia. Eph si sporse sul pannello di comando fra i due sedili per alzare la testa del capitano. Controllò gli occhi con la torcia: le pupille erano fisse e dilatate. Accompagnò gentilmente il mento sul petto dell'uomo... e s'irrigidì. Percepì qualcosa. Una presenza. Si scostò dal pannello di comando e scrutò la cabina di pilotaggio, facendo un giro completo. «Cosa c'è?» chiese Jim. Eph aveva trascorso abbastanza tempo fra i cadaveri da non lasciarsi impressionare. Ma lì c'era qualcosa... da qualche parte, nelle vicinanze. La bizzarra sensazione passò, come un attimo di vertigine, e lo lasciò a battere le palpebre. Scosse la testa per liberarsene. «Niente. Claustrofobia, forse.» Si girò verso il terzo uomo nella cabina di pilotaggio. La testa era abbassata, la spalla destra puntellata contro la paratia. Le cinghie dello strapuntino penzolavano. Eph espresse a voce il pensiero. «Perché non si è allacciato la cintura di sicurezza?» «Eph, sei nella cabina?» chiese Nora. «Ti raggiungo.» Lui guardò il fermacravatta d'argento del pilota, con il logo della Regis Airlines. La targhetta sul taschino diceva REDFERN. Si chinò su di lui e premette le dita coperte dai pesanti guanti contro le tempie dell'uomo per fargli alzare il viso. Gli occhi erano aperti e rivolti in basso.
Controllò le pupille e credette di scorgere un luccichio. Guardò di nuovo e all'improvviso il capitano Redfern ebbe un brivido ed emise un gemito. Eph si ritrasse di scatto e cadde rumorosamente fra i sedili dei due piloti, contro il pannello di comando. Il copilota gli si accasciò addosso e lui lo spinse via, intrappolato per un momento dal peso inerte del morto. La voce di Jim lo chiamò seccamente: «Eph?». La voce di Nora mostrò una chiara traccia di panico. «Eph, che succede?» Con un energico slancio spinse di nuovo nel sedile il corpo del copilota e si alzò. «Tutto bene?» insistette Nora. Eph guardò il capitano Redfern, ora riverso per terra, gli occhi aperti e fissi. La gola, però, si muoveva e la bocca era aperta. «Qui c'è un superstite» disse sbalordito. «Cosa?» esclamò Nora. «Ce n'è uno ancora vivo. Jim, ci serve un modulo d'isolamento Kurt per quest'uomo. Direttamente sull'ala. Nora?» Parlava in fretta, guardando le leggere contorsioni del pilota sul pavimento. «Dobbiamo controllare l'intero aereo, passeggero per passeggero.»
INTERLUDIO I ABRAHAM SETRAKIAN Il vecchio era da solo nell'ingombro locale vendite del suo banco dei pegni nella Centodiciottesima Est, a Spanish Harlem. Aveva chiuso da un'ora e sentiva lo stomaco brontolare, eppure era riluttante a salire di sopra. Tutte le saracinesche erano abbassate sulle porte e sulle vetrine, come palpebre d'acciaio, perché la gente della notte aveva reclamato le strade. Di notte non si usciva. Andò al pannello elettrico dietro il bancone dei prestiti e oscurò il negozio, lampada dopo lampada. Era di umore malinconico. Guardò il locale, gli espositori di cromo e vetro screziato. Gli orologi da polso in vetrina su feltro anziché su velluto, i pezzi in argento di cui non riusciva a liberarsi, i piccoli oggetti d'oro e brillanti. I servizi completi da tè sotto vetro. I cappotti di pelle e le pellicce ora controverse. I nuovi riproduttori di musica che si vendevano velocemente e le radio e i televisori che non si prendeva più la briga di accettare. E c'erano, qua e là, dei tesori: un paio di magnifiche casseforti antiche (foderate di amianto, ma bastava non ingerirlo); un videoregistratore Quasar degli anni Settanta, di legno e acciaio, delle dimensioni di una valigia; un antico proiettore per film da sedici millimetri. Ma era poca cosa rispetto ai mucchi di robaccia difficile da smerciare. Un banco dei pegni è in parte bazar, in parte museo e in parte reliquiario del quartiere. Il gestore fornisce un servizio che nessun altro può offrire. È il banchiere dei poveri, uno a cui la gente può rivolgersi per avere in prestito venticinque dollari senza pensare
a debiti precedenti, occupazione, referenze. E, nella stretta di una recessione economica, venticinque dollari sono soldi per molti. Venticinque dollari possono significare la differenza fra un tetto sulla testa e un cartone sotto i ponti. Venticinque dollari possono rendere disponibile un medicinale per prolungare la vita. Una persona, purché abbia qualcosa di valore da dare in pegno, può uscire dalla porta della bottega con soldi in mano. Magnifico. A passi pesanti il vecchio andò al piano superiore, spegnendo altre lampade mentre saliva. Aveva la fortuna di essere proprietario del fabbricato, comprato nei primi anni Settanta per sette dollari e qualche spicciolo. Be', forse non per così poco, ma nemmeno per molto di più. A quel tempo bruciavano gli edifici per scaldarsi. Per Setrakian il Knickerbocker Loans and Curios (nome nato col negozio) non era mai stato un mezzo per arricchirsi, ma piuttosto un canale, un punto d'ingresso nel mercato sotterraneo pre-Internet della città crocevia del mondo per una persona interessata in arnesi, manufatti, oggetti artistici e altre cose arcane del Vecchio Mondo. Trentacinque anni a mercanteggiare per gioielli di scarso valore durante il giorno e, nello stesso tempo, ad ammassare arnesi e armamenti di notte. Trentacinque anni ad aspettare il momento buono, a fare i preparativi nell'attesa. Ora il suo tempo stava per esaurirsi. Alla porta, prima d'entrare, toccò la mezuzzah - l'astuccio posto sullo stipite - e si baciò la punta delle dita deformi e adunche. L'antico specchio nel corridoio era così graffiato e rovinato da obbligarlo ad allungare il collo per trovare una parte riflettente in cui guardarsi. I capelli candidi come alabastro, che dall'alta fronte piena di rughe gli scendevano sulle orecchie e fino al collo, avevano da tempo bisogno di un taglio. La faccia continuava a cedere, mento, lobi delle orecchie e occhi soccombevano a quella prepotente della gravità. Le mani, fratturate e guarite male tanti decenni prima, si erano incurvate in artritici artigli che lui teneva sempre nascosti in guanti di lana cui aveva tagliato la punta delle dita. Eppure, sotto quella facciata in sgretolamento, c'era un uomo forte. Ardente. Saldo. Il segreto della sua fonte di giovinezza interiore? Un solo,
semplice elemento. La vendetta. Molti anni prima, a Varsavia e in seguito a Budapest, c'era un uomo di nome Abraham Setrakian, uno stimato professore di letteratura e folklore dell'Europa orientale. Un superstite dell'Olocausto che aveva superato lo scandalo del matrimonio con una sua studentessa e il cui campo di studi l'aveva portato in alcuni degli angoli più tenebrosi del mondo. Adesso, anziano titolare di un banco dei pegni in America, era sempre tormentato da un lavoro non concluso. Aveva ancora un po' di un'ottima minestra, un delizioso brodo di pollo con kreplach - bocconcini di carne - e pasta fresca all'uovo, che un cliente gli aveva portato addirittura dal Liebman's Kosher Deli, nel Bronx. Mise nel microonde la scodella e con le dita contorte disfece il nodo allentato della cravatta. Attese il segnale acustico, poi portò sul tavolo il piatto caldo, prese un tovagliolo di lino (mai di carta!) e se lo infilò per bene nel colletto. Soffiare sulla minestra era un rito confortante, rassicurante. Quando era bambino, ricordò - ma era più di un semplice ricordo, era una sensazione, un sentimento -, la nonna, la sua bubbeh, soffiava per lui sulla minestra, seduta al suo fianco davanti al traballante tavolo di legno nella fredda cucina della loro casa in Armenia. Prima delle disgrazie. Il vecchio alito della nonna sollevava il vapore e lo spingeva sulla sua giovane faccia. C'era una silenziosa magia in quel semplice atto. Come soffiare la vita nel bambino. E in quel momento, mentre soffiava, ormai vecchio anche lui, guardò il suo fiato prendere forma dal vapore e si domandò quanti di quei soffi gli rimanessero. Tenne il cucchiaio, preso da un cassetto di posateria spaiata, fra le dita deformi della sinistra. Vi soffiò, increspando la piccola quantità di brodo, prima di portarselo alla bocca. Il gusto andava e veniva, le papille stavano morendo come vecchi soldati, vittime di decenni di fumo di pipa, un vizio da professore. Trovò il sottile telecomando per l'antiquato televisore Sony, un modello per cucina rifinito in bianco; lo schermo da tredici pollici si
accese illuminando un po' di più la stanza. Lui si alzò e andò alla dispensa, posando le mani sulle pile di libri che riducevano il corridoio a una stretta passatoia di tappeto logoro - i libri erano ovunque, in alti cumuli contro le pareti; molti li aveva letti, ma da ciascuno di essi non si sarebbe mai separato -, tolse il coperchio alla scatola di latta per torte e recuperò l'ultimo pezzo del buon pane di segale che aveva tenuto da parte. Portò in cucina la pagnotta avvolta nella carta, si accomodò pesantemente sulla sedia imbottita e cominciò a spezzarla in piccoli bocconi, mentre si godeva un'altra tiepida sorsata del delizioso brodo. A poco a poco l'immagine sullo schermo reclamò la sua attenzione: un jumbo jet parcheggiato su una pista chissà dove, illuminato come un pezzo d'avorio su un feltro scuro da gioielliere. Si infilò gli occhiali dalla montatura nera che gli pendevano sul petto e strizzò gli occhi per leggere la scritta nella parte inferiore dello schermo. L'emergenza di oggi si verificava dall'altra parte del fiume, nell'aeroporto JFK. Il vecchio professore guardò e ascoltò, concentrato sull'aereo dall'aspetto incorrotto. Un minuto, due, poi tre, mentre la stanza intorno a lui svaniva. Era impietrito, quasi estasiato dal servizio giornalistico: era rimasto con il cucchiaio di minestra ancora nella mano non più tremante. L'immagine televisiva dell'aereo inattivo giocava sulle lenti dei suoi occhiali come un futuro previsto. Il brodo nella scodella si raffreddò, il vapore svanì, morì, la fetta di pane di segale fatta a pezzi rimase dov'era. Lui capì.
Tic tic tic. Il vecchio capì...
Tic tic tic. Le mani deformi cominciarono a dolergli. Ciò che aveva davanti agli occhi non era un presagio, era un'incursione. Era l'atto stesso. La cosa che aveva atteso. Per la quale si era preparato tutta la vita, fino a quel momento. Il sollievo provato inizialmente - per essere ancora in vita
all'arrivo di quell'orrore, per avere una possibilità di vendetta all'ultimo istante - fu subito sostituito da una paura acuta, dolorosa. Le parole uscirono dalle sue labbra come una folata di vapore.
«Lui è qui... Lui è qui...»
ARRIVO
Hangar di manutenzione della Regis Airlines Poiché era necessario sgombrare la pista di rullaggio del JFK, un'ora prima dell'alba l'aereo fu rimorchiato nell'hangar di manutenzione a lungo periodo della Regis Airlines. Nessuno parlò, mentre l'azzoppato 777 pieno di passeggeri morti passava come un'enorme bara bianca. Quando furono sistemati i cunei sotto le ruote e l'aereo rimase bloccato, vennero stesi teloni neri sul cemento macchiato dell'hangar. Paraventi da ospedale presi in prestito furono disposti per separare un'ampia zona di contenimento fra l'ala sinistra e il muso. Il mezzo fu isolato nell'hangar come un cadavere in un grande obitorio. Su richiesta di Eph, l'Ufficio centrale di medicina legale di New York inviò diversi dipendenti da Manhattan e dal Queens, muniti di parecchie scatole di sacche di plastica per disastri aerei. L'OCME, il più grande ufficio di medicina legale del mondo, aveva esperienza nella conduzione di disastri con vittime plurime e aiutò a predisporre un corretto procedimento per il recupero dei cadaveri. Agenti dell'HazMat dell'autorità aeroportuale in tuta protettiva portarono fuori per primo il funzionario della sicurezza aerea, in modo solenne, con il saluto al cadavere nella sacca quando comparve dal portello sull'ala, e poi, laboriosamente, ogni altro passeggero nella prima fila della classe economica. Quindi rimossero i sedili vuoti e utilizzarono lo spazio per infilare i cadaveri nelle sacche prima di portarli all'esterno. Ciascun corpo fu legato con cinghie a una barella e calato sul pavimento coperto di teloni. Il procedimento era lento e, a volte, raccapricciante. A un certo punto, dopo una trentina di cadaveri, un agente dell'autorità aeroportuale si allontanò all'improvviso dalla fila di recupero, barcollando, gemendo e stringendosi il casco. Due colleghi dell'HazMat accorsero e lui menò colpi alla cieca, spingendoli contro i paraventi, in pratica interrompendo il cordone
di contenimento. Si scatenò il panico, con la gente che lasciava spazio al funzionario forse avvelenato o infettato che si strappava la tuta protettiva mentre usciva dal cavernoso hangar. Eph lo raggiunse sul piazzale, dove, alla luce del sole del mattino, il funzionario riuscì a buttare via il casco e a sfilarsi del tutto la tuta come se fosse una pelle troppo stretta. Eph lo afferrò e lui crollò sulla pista, con gli occhi pieni di lacrime e di sudore. «Maledetta città» singhiozzò. «Maledetta città.» Più tardi corse voce che quell'uomo avesse lavorato nelle infernali prime settimane a Ground Zero, dapprima nella missione di soccorso e poi nelle operazioni di recupero. Lo spettro dell'11 settembre aleggiava ancora su molti agenti dell'autorità aeroportuale e nella sbalorditiva situazione attuale, con l'elevato numero di vittime, era tornato a imperversare. Una squadra d'intervento di analisti e investigatori dell'Ente nazionale sicurezza trasporti di Washington, DC, arrivò a bordo di un Gulfstream della FAA. Era lì per interrogare tutti quelli coinvolti nell'"incidente" a bordo del volo 753 della Regis Airlines, per documentare i momenti finali di navigabilità dell'aereo e per recuperare il registratore dei dati di volo e il registratore vocale della cabina. Investigatori del dipartimento della Sanità di New York, scavalcati dal CDC nella risposta alla crisi, furono aggiornati sulla situazione, anche se Eph respinse la loro pretesa giurisdizionale. Lui sapeva di dover mantenere il controllo delle operazioni di contenimento, se voleva che fossero fatte nella maniera corretta. Rappresentanti della Boeing in arrivo dallo Stato di Washington avevano già dichiarato "meccanicamente impossibile" la completa interruzione delle attività del 777. Un vicepresidente della Regis Airlines, buttato giù dal letto a Scarsdale, insisteva che una squadra di meccanici della Regis dovesse essere la prima a ispezionare l'aereo al termine della quarantena. (Un guasto del sistema di aerazione era la teoria prevalente sulle cause delle morti.) L'ambasciatore tedesco e il suo staff erano ancora in attesa della valigia diplomatica ed Eph li lasciò ad aspettare nella Senator Lounge della Lufthansa nel terminal 1. L'addetto stampa del sindaco organizzò una conferenza per il
pomeriggio e il commissario della polizia arrivò con il capo del suo ufficio antiterrorismo nel quartier generale mobile del dipartimento di polizia di New York City. A metà mattina restavano da scaricare ancora ottanta cadaveri. L'identificazione procedeva rapidamente, grazie ai passaporti e alla lista passeggeri. Durante una pausa, Eph e Nora conferirono con Jim fuori della zona di contenimento, mentre la massa della fusoliera era ben visibile sopra i paraventi. All'esterno gli aerei avevano ripreso a decollare e atterrare; si sentivano i propulsori accelerare e decelerare in alto e il subbuglio nell'atmosfera, gli spostamenti d'aria. Fra una sorsata e l'altra dalla bottiglia d'acqua, Eph chiese a Jim: «Di quanti cadaveri si può occupare il medico legale a Manhattan?». «Qui siamo sotto la giurisdizione del Queens» rispose Jim. «Ma hai ragione, il quartier generale di Manhattan è quello meglio attrezzato. Suddivideremo le vittime fra quei due, Brooklyn e il Bronx. In pratica, una cinquantina ciascuno.» «Come li trasporteranno?» «In camion refrigerati. Il medico legale dice che hanno fatto così con i resti delle vittime del World Trade Center. È stato contattato il Fulton Fish Market a Lower Manhattan.» Spesso Eph pensava al controllo epidemie come a una forza di resistenza in periodo bellico: lui e la sua squadra a combattere la guerra, mentre il resto del mondo cercava di continuare la vita quotidiana sotto la nube dell'occupazione, i virus e i batteri che li affliggeva. In quello scenario, Jim era il radiotelegrafista clandestino, in grado di parlare tre lingue, che poteva procurare di tutto, dal burro alle armi, al trasferimento sicuro a Marsiglia. «Niente dalla Germania?» s'informò Eph. «Non ancora. Hanno chiuso l'aeroporto per due ore. Controllo di sicurezza. Niente personale ammalato, nessun ricovero improvviso in ospedale.» Nora era ansiosa d'intervenire. «Qui non quadra niente.» Eph annuì, d'accordo con lei. «Va' avanti.»
«Abbiamo un aereo pieno di cadaveri. Se la causa dei decessi, accidentale o no, fosse stata un gas o una sostanza volatile nel sistema di ventilazione, non se ne sarebbero andati tutti così... devo dirlo, così pacificamente. Avrebbero avuto difficoltà respiratorie, si sarebbero agitati. Avrebbero vomitato. Sarebbero diventati bluastri. Persone di differente corporatura sarebbero decedute in momenti diversi. In preda al panico. Ora... se si è trattato invece di un evento infettivo, abbiamo un agente patogeno del tutto nuovo che nessuno di noi ha mai visto. Qualcosa prodotto dall'uomo, creato in laboratorio. E, nello stesso tempo, non dimenticatelo, a morire non sono stati solo i passeggeri, ma lo stesso aereo. Come se una cosa, una cosa invalidante, avesse colpito il mezzo e spazzato via tutto ciò che conteneva, persone comprese. Tuttavia l'ipotesi non è propriamente accurata, giusto? Ma allora, e penso che adesso sia la domanda più importante, chi ha aperto il portello?» Girò lo sguardo da Eph a Jim e viceversa. «Cioè... magari è stato il cambiamento di pressione. Forse il portello era già stato sbloccato e la decompressione dell'aereo l'ha aperto. Possiamo trovare ingegnose spiegazioni per quasi ogni cosa, perché siamo scienziati e medici, lo facciamo di mestiere.» «E le tende ai finestrini» disse Jim. «Durante l'atterraggio la gente guarda sempre fuori. Chi le ha chiuse tutte?» Eph annuì. Per l'intera mattinata si era concentrato sui particolari e ora era opportuno fare qualche passo indietro e guardare le cose da una certa distanza. «Ecco perché i quattro superstiti saranno la chiave per risolvere il mistero. Ammesso che abbiano visto qualcosa.» «O che non siano coinvolti in altro modo» aggiunse Nora. «Quei quattro sono nel reparto d'isolamento del Jamaica Hospital Medicai Center, in condizioni critiche ma stabili. Il capitano Redfern, terzo pilota, maschio, trentadue anni. Un avvocato della Westchester County, donna, quarantun anni. Un programmatore di computer di Brooklyn, maschio, quarantaquattro anni. Un musicista, una celebrità a Manhattan e Miami Beach, maschio, trentasei anni. Si chiama Dwight Moorshein» li informò Jim. Eph si strinse nelle spalle. «Mai sentito.»
«Usa il nome d'arte Gabriel Bolivar.» «Oh» fece Eph. «Ah» fece Nora. «Viaggiava in incognito in prima classe» proseguì Jim. «Niente make-up o lenti a contatto colorate. I media ci andranno a nozze.» «Qualche collegamento fra i superstiti?» domandò Eph. «Ancora non ne abbiamo trovati. Forse le analisi ci diranno qualcosa. Erano sparsi in varie parti dell'aereo: il programmatore volava in classe economica, l'avvocato in business, il cantante in prima. E il capitano Redfern, ovviamente, era nella cabina di pilotaggio.» «Sconcertante» commentò Eph. «Ma è già qualcosa, ammesso che riprendano conoscenza. Abbastanza da permetterci di avere da loro qualche risposta.» Un agente dell'autorità aeroportuale si avvicinò a Eph. «Dottor Goodweather, farebbe meglio a rientrare. Hanno trovato una cosa nel bagagliaio.» Erano infatti già iniziate le operazioni di scarico dal portello del bagagliaio laterale, nella parte inferiore del 777; gli armadietti d'acciaio contenenti le valigie sarebbero stati aperti e ispezionati dalla squadra HazMat dell'autorità aeroportuale. Eph e Nora scansarono la fila dei restanti container con le ruote bloccate. In fondo al bagagliaio c'era una cassa rettangolare, nera, di legno, in apparenza pesante, simile a un grande armadio coricato sul dorso. D'ebano non verniciato, era lunga due metri e mezzo, larga uno e venti e alta circa un metro. Più di un frigorifero. Il lato superiore era contornato di intricati intagli, un labirinto di arabeschi accompagnati da scritte in una lingua antica o forse fatte apposta per sembrare arcaiche. Molti di quei ghirigori parevano figure, fluide sagome umane... e forse, con un po' d'immaginazione, facce urlanti. «Non l'ha aperta ancora nessuno?» chiese Eph. Gli agenti dell'HazMat scossero la testa. «Non l'abbiamo toccata» rispose uno di loro. Eph controllò la parte posteriore. Sul pavimento, accanto alla
cassa, c'erano tre cinghie arancioni di fissaggio, con i ganci d'acciaio ancora negli occhielli. «Quelle cinghie?» «Erano sganciate quando siamo entrati» disse un altro agente. Eph diede un'occhiata in giro. «Impossibile. Se quella cassa non fosse stata bloccata durante il volo, avrebbe danneggiato gravemente i container dei bagagli e addirittura le pareti stesse del bagagliaio.» La esaminò di nuovo. «Dov'è la targhetta? Cosa dice la bolla di carico?» Un agente aveva un fascio di fogli plastificati tenuti insieme da un fermaglio ad anello. «Qui non c'è.» Eph andò a verificare di persona. «Impossibile.» «L'unico carico insolito segnato, a parte tre serie di mazze da golf, è un kayak.» Indicò la parete laterale dove, fissato con lo stesso tipo di cinghie arancioni, c'era un kayak avvolto in plastica e tappezzato di etichette adesive per bagagli delle linee aeree. «Chiamate Berlino» disse Eph. «Avranno i documenti. Qualcuno si ricorderà di questa cassa. Peserà come minimo duecento chili.» «Lo abbiamo già fatto. Niente documenti. Gli addetti al carico bagagli saranno convocati e interrogati uno per uno.» Eph si girò di nuovo verso la cassa nera. Non badò ai bizzarri intagli e si chinò a esaminare i lati: scoprì tre cardini in entrambi i bordi superiori. Il coperchio era simile a una porta, diviso al centro nel senso della lunghezza: due battenti che si aprivano verso l'esterno. Eph toccò con la mano guantata il coperchio intagliato, poi v'infilò sotto le dita per aprire i pesanti battenti. «Chi mi aiuta?» Un agente si fece avanti e inserì a sua volta le dita sotto il bordo del coperchio, dall'altra parte rispetto a Eph. Questi contò fino a tre e insieme sollevarono i due pesanti battenti, fissati a robusti cardini a piastra larga. L'odore che si levò assomigliava al lezzo di un cadavere, come se la cassa fosse rimasta chiusa per un centinaio d'anni. Pareva vuota, finché uno degli agenti non accese una torcia e non illuminò l'interno. Eph vi infilò la mano e le dita affondarono in terriccio grasso e
nero. La sostanza era cedevole, soffice come preparato per torte, e arrivava a due terzi della cassa. Nora arretrò di un passo. «Sembra una bara» disse. Eph ritrasse le dita, le scosse per eliminare i granelli di terriccio e si rivolse alla collega, aspettando un sorriso che non venne. «È un po' grande per essere una bara, non credi?» «Perché qualcuno dovrebbe spedire una cassa di terriccio?» ribatté lei. «Nessuno lo farebbe» ammise Eph. «Dentro c'era qualcosa.» «Ma come ha fatto a sparire? L'aereo è in quarantena.» Lui si strinse nelle spalle. «Qui non si riesce a spiegare niente. So solo che abbiamo un contenitore privo delle cinghie di fissaggio e senza la bolla di carico.» Si rivolse agli altri. «Dobbiamo prendere dei campioni. Anche il terriccio può contenere prove. Radiazioni, per esempio.» «Lei pensa che la sostanza usata per sopraffare i passeggeri...» intervenne un agente. «Sia stata spedita là dentro? È la migliore ipotesi che abbia sentito in tutta la giornata.» Giunse dal basso, da fuori, la voce di Jim. «Eph? Nora?» «Cosa c'è, Jim?» gridò Eph in risposta. «Ho appena ricevuto una telefonata dal reparto d'isolamento del Jamaica Hospital. Sono sicuro che vorrai andarci subito.»
Jamaica Hospital Medicai Center Il complesso ospedaliero si trovava a dieci minuti dal JFK, verso nord, lungo la superstrada Van Wyck. Il Jamaica era uno dei quattro centri designati per la pronta reazione al bioterrorismo a New York City. Partecipava in pieno al sistema di sorveglianza sintomatica e solo qualche mese prima Eph vi aveva diretto un gruppo di lavoro del progetto Canary. Perciò sapeva come arrivare al reparto
d'isolamento per infezioni aerodiffuse, al quarto piano. La porta metallica a due battenti recava un simbolo arancione a tre petali, chiaro segnale di rischio biologico per indicare una minaccia reale o potenziale nei confronti di sostanze cellulari e organismi viventi. La scritta d'avvertimento diceva:
AREA D'ISOLAMENTO OBBLIGATORIO EVITARE CONTATTI SOLO PERSONALE AUTORIZZATO Eph mostrò all'accettazione le credenziali del CDC e la direttrice lo riconobbe, avendolo incontrato nei precedenti addestramenti al biocontenimento. Lo accompagnò dentro. «Di cosa si tratta?» chiese Eph. «Non voglio essere melodrammatica» rispose la donna passando al lettore il tesserino identificativo dell'ospedale e aprendo la porta del reparto «ma dovrebbe vedere di persona.» Il corridoio interno era stretto, perché quello era l'anello esterno del reparto d'isolamento, riservato soprattutto alla postazione del personale infermieristico. Eph seguì la direttrice al di là di tende azzurre in un ampio vestibolo contenente ripiani con forniture anticontatto - camici, occhiali di plastica, guanti, stivaletti e respiratori - e un grosso bidone a rotelle foderato con un sacco rosso per rifiuti pericolosi. Il respiratore era una mezza maschera N95, in grado di filtrare il novantacinque per cento di particelle di 0,3 micron o superiori. Quindi offriva protezione da gran parte degli agenti patogeni aerodiffusi virali e batteriologici, ma non da contaminanti chimici o gassosi. Dopo la tuta integrale indossata all'aeroporto, Eph si sentì decisamente esposto in maschera da ospedale, copricapo chirurgico, occhiali protettivi, camice e soprascarpe. La direttrice, con lo stesso abbigliamento, premette un pulsante a stantuffo e aprì una serie di
porte interne; nell'entrare Eph udì il risucchio del vuoto, il risultato del sistema a pressione negativa: l'aria veniva aspirata nella sezione d'isolamento in modo che nessuna particella fosse soffiata fuori. Un corridoio andava da sinistra a destra dalla stazione forniture centrale, consistente in un carrello per rianimazione, con medicinali e articoli di pronto soccorso, un computer portatile in custodia di plastica, un interfono per comunicare con l'esterno e dispositivi di protezione individuale. La sezione degenti era una suite di otto piccole stanze d'isolamento totale, per un distretto con una popolazione di più di due milioni di persone. "Capacità d'impennata" è il termine utilizzato per indicare che un sistema sanitario è pronto a espandersi rapidamente al di là dei normali servizi operativi per affrontare una crisi e soddisfare le richieste in caso di un'emergenza su larga scala. I letti d'ospedale nello Stato di New York erano circa sessantamila, e il numero decresceva. La popolazione della sola città di New York era di 8,1 milioni, in crescita. Il progetto Canary si basava sulla speranza di correggere quel deficit statistico, una sorta di sostituto temporaneo della capacità d'impennata. Il CDC definiva "ottimistica" quell'opportunità politica. Eph preferiva definirla "pensiero magico". Seguì la direttrice nella prima stanza. Non si trattava di un ambiente a totale isolamento biologico; non c'erano camere di decompressione o porte d'acciaio. Era una normale area di degenza ospedaliera in ambiente segregato. La stanza aveva pavimento a mattonelle e luci al neon. La prima cosa che Eph vide fu il modulo Kurt appoggiato alla parete laterale. Un modulo Kurt è una barella, una scatola di plastica simile a una bara trasparente, con un paio di aperture rotonde per introdurre la mano guantata sui lati lunghi, fornita di bombole d'ossigeno esterne. Accanto alla barella erano impilati una giubba, una camicia e un paio di calzoni, tolti al paziente mediante forbici chirurgiche, con la corona alata simbolo della Regis Airlines visibile sul berretto da pilota capovolto. Il lettino da ospedale al centro della stanza era chiuso da tende di plastica trasparente, all'esterno delle quali c'erano un'apparecchiatura di monitoraggio e un sostegno per fleboclisi elettronico carico di sacchetti. Il lettino munito di sbarre aveva lenzuola verdi e grandi
guanciali bianchi ed era sistemato in posizione sopraelevata. Il capitano Doyle Redfern era seduto al centro del lettino e teneva le mani in grembo. Era a gambe nude, portava solo un corto camice aperto sulla schiena e pareva vigile. A parte gli aghi per endovena nella mano e nel braccio e l'espressione tirata in viso pareva che avesse perso cinque chili da quando Eph l'aveva trovato nella cabina di pilotaggio -, aveva l'aspetto di un paziente in attesa del check-up. Guardò con trepidazione Eph avvicinarsi. «È della compagnia aerea?» chiese. Lui scosse la testa, sbalordito. La notte precedente quell'uomo ansimava e si rotolava sul pavimento nella cabina di pilotaggio del volo 753, con gli occhi rovesciati, all'apparenza in punto di morte. Con uno scricchiolio del sottile materasso il pilota cambiò posizione. Fece una smorfia, come se si sentisse irrigidito. «Cos'è successo sull'aereo?» Eph non riuscì a nascondere la delusione. «È proprio quello che mi auguravo potesse dirmi lei.» Eph fronteggiò la rock star Gabriel Bolivar, appollaiata sul bordo del letto come un doccione dai capelli neri in un corto camice da ospedale. Senza il trucco pesante, era un uomo di sorprendente bellezza, del tipo "capelli lunghi e vita dura". «La madre di tutti i postumi di sbronza» disse. «Altri disagi?» domandò Eph. «In quantità, amico.» Si lisciò i capelli lunghi e neri. «Mai volare con aerei di linea. Ecco la morale di questa storia.» «Signor Bolivar, può dirmi qual è l'ultima cosa che ricorda dell'atterraggio?» «Quale atterraggio? Sono serio. Ho bevuto vodka e acqua tonica à gogò durante il volo. Sono sicuro di avere dormito tutto il tempo.» Si guardò in giro, strizzando gli occhi alla luce. «Potrei avere un po' di Demerol, eh? Magari quando passa il carrello dei rinfreschi?» Eph vide le cicatrici che segnavano le braccia nude di Bolivar e ricordò che una delle sue mosse tipiche durante i concerti era
infliggersi tagli sul palco. «Stiamo cercando di abbinare a ogni passeggero i suoi effetti personali.» «Facile. Non avevo niente. Nessun bagaglio, solo il telefono. L'aereo charter si è guastato, sono salito su quel volo con un solo minuto a disposizione. Il mio manager non gliel'ha detto?» «Ancora non gli ho parlato. Mi interessa in particolare una grossa cassa.» Bolivar lo fissò. «Cos'è? Una sorta di test mentale?» «Nel bagagliaio. Una vecchia cassa, parzialmente piena di terriccio.» «Non ho idea di cosa stia parlando.» «Non la riportava dalla Germania? Pare il tipo di cose che uno come lei potrebbe collezionare.» Bolivar corrugò la fronte. «È solo scena, amico. Fottuto show, spettacolo. Cerone gotico e canzoni spinte. Mi cerchi su Google. Mio padre era un predicatore metodista e la sola cosa che colleziono è la passera. A proposito, quando diavolo esco di qui?» «Dobbiamo farle ancora alcune analisi» rispose Eph. «Vogliamo darle un attestato di buona salute, prima di lasciarla andare.» «Quando riavrò il telefono?» «Presto» disse Eph lasciando la stanza. La direttrice era in difficoltà con tre uomini fuori del reparto d'isolamento. Due erano molto più alti di Eph, di sicuro le guardie del corpo di Bolivar. Il terzo era più piccolo, aveva una borsa e puzzava decisamente di avvocato. «Signori» disse Eph «questa è zona vietata.» «Sono qui per il rilascio del mio cliente Gabriel Bolivar» fece l'avvocato. «Il signor Bolivar deve essere sottoposto a esami e sarà dimesso al più presto.» «E quando?»
Eph si strinse nelle spalle. «Due giorni, forse tre, se tutto va bene.» «Il signor Bolivar ha chiesto di essere affidato alle cure del suo medico personale. Non sono solo il suo legale, ho anche la procura per la sua salute, se è in qualche modo incapacitato.» «Nessuno lo vedrà tranne me» replicò Eph. Si rivolse alla direttrice. «Metta subito qui un uomo di guardia.» Il legale saltò su: «Ascolti, dottore. Non so molto delle leggi sulla quarantena, ma sono abbastanza sicuro che sia necessario un ordine esecutivo del presidente per trattenere una persona in isolamento. Posso vedere l'ordine scritto?». Eph sorrise. «Adesso il signor Bolivar è un mio paziente, oltre che il superstite di una strage. Se lascia il suo numero di telefono al banco infermieri, farò del mio meglio per tenerla aggiornata sul suo recupero. Con il consenso del signor Bolivar, naturalmente.» «Ascolti, dottore.» L'avvocato appoggiò una mano sulla spalla di Eph, in un modo che a questi non piacque. «Posso ottenere risultati più rapidi di un'ingiunzione del tribunale, mi basta mobilitare i fan più accaniti del mio cliente.» Incluse la direttrice nella minaccia. «Volete una folla di fanatici assortiti che protestano davanti all'ospedale e corrono all'impazzata per i reparti nel tentativo di vederlo?» Eph guardò la mano dell'avvocato finché quello non la ritrasse. Doveva andare dagli altri due superstiti. «Senta, non ho proprio tempo per questo. Perciò lasci che le faccia un paio di domande dirette. Il suo cliente ha qualche malattia trasmessa per via sessuale di cui dovrei essere informato? Ha precedenti nell'uso di narcotici? Mi limito a chiedere perché, se devo esaminare tutta la sua documentazione clinica, be', c'è il rischio che finisca nelle mani sbagliate. Non sarebbe bello che tutta la sua storia medica filtrasse alla stampa, giusto?» L'avvocato lo fissò. «Sono informazioni riservate. Diffonderle sarebbe un reato grave.» «E in potenza davvero imbarazzante» aggiunse Eph reggendo lo sguardo dell'avvocato ancora per un secondo, per ottenere il massimo impatto. «Voglio dire, immagini se qualcuno mettesse la sua
storia medica completa su Internet, sotto gli occhi di tutti.» L'avvocato rimase senza parole mentre Eph passava davanti alle due guardie del corpo e se ne andava. Joan Luss, socia di uno studio legale, madre di due figli, laureata alla Swarthmore, residente a Bronxville, membro della Junior League, era seduta su un materasso di gommapiuma nel letto del reparto d'isolamento, con quel ridicolo camice corto, e prendeva appunti sul retro di un involucro per coprimaterassi. Scribacchiava, attendeva e muoveva le dita dei piedi. Non le avrebbero restituito il telefono; aveva dovuto blandire e minacciare solo per avere una matita. Stava per suonare di nuovo il campanello quando finalmente entrò un'infermiera. Joan le rivolse il sorriso di chi si aspetta risultati. «Ah, ecco, è arrivata. Cominciavo a preoccuparmi. Come si chiama il medico che era qui poco fa?» «Non fa parte dell'ospedale.» «L'avevo capito. Ho solo chiesto come si chiama.» «Dottor Goodweather.» «Goodweather.» Scrisse il cognome. «Il nome?» «Dottore.» Sorriso piatto. «Per me hanno tutti lo stesso nome: Dottore.» Joan socchiuse gli occhi come se non fosse sicura di avere sentito bene e cambiò posizione sulle lenzuola rigide. «Ed è stato mandato qui dal CDC?» «Credo di sì. Ha lasciato ordini per eseguire una serie di analisi...» «Quanti sono sopravvissuti allo schianto?» «Be', non c'è stato uno schianto.» Joan sorrise. A volte bisognava fingere di non essere madrelingua per farsi capire. «Le chiedevo quanti altri non sono periti del volo 753 da Berlino a New York.»
«Oltre a lei, ci sono altre tre persone in questo reparto. Ora, il dottor Goodweather vuole un prelievo di sangue e...» Joan smise di ascoltarla. Era ancora in quella camera d'ospedale per un unico motivo: poteva scoprire di più stando al gioco. Ma lo stratagemma si avvicinava alla fine. Joan Luss era un legale specializzato in cause per illeciti civili. Un aereo pieno di passeggeri tutti morti, tranne quattro superstiti... uno dei quali è un avvocato. Povera Regis Airlines. Per quanto riguardava la compagnia, a sopravvivere era stato il passeggero sbagliato. Joan interruppe le istruzioni dell'infermiera. «Vorrei una copia della mia cartella clinica aggiornata, insieme con la lista completa delle analisi di laboratorio già eseguite e dei risultati...» «Signora Luss? È sicura di sentirsi bene?» Joan aveva perso i sensi per un attimo, ma era solo un residuo di ciò che l'aveva sopraffatta al termine di quell'orribile volo. Sorrise e scosse la testa con decisione, riprendendo il controllo. La collera l'avrebbe alimentata nelle prossime mille ore fatturabili passate a sistemare quella catastrofe e a portare in tribunale la compagnia aerea per la sua pericolosa negligenza. «Presto mi sentirò davvero molto bene» dichiarò.
Hangar di manutenzione della Regis Airlines «Niente mosche» disse Eph. Nora rimase sorpresa. «Cosa?» Erano davanti a file di sacche con cadaveri stese di fronte all'aereo. I quattro camion refrigerati erano entrati nell'hangar, con i fianchi rispettosamente coperti da teloni neri per non far vedere le insegne pubblicitarie del mercato del pesce. Ciascun corpo era stato già identificato e contrassegnato dall'Ufficio centrale di medicina legale di New York con un codice a barre riportato su una targhetta legata all'alluce. La tragedia era una strage "in ambiente chiuso", nel loro gergo, con un numero di vittime fisso e conoscibile: l'opposto
del crollo delle Torri Gemelle. Grazie all'esame dei passaporti, alla lista passeggeri e alla condizione dei resti, l'identificazione dei defunti era stata un compito semplice e chiaro. Determinare la causa della morte rappresentava la vera sfida. Il telone scricchiolò sotto gli scarponi della squadra HazMat, mentre i sacchi di vinile blu erano sollevati da cinghie fissate alle estremità e caricati con grande solennità a bordo del camion. «Dovrebbero esserci mosche» ribadì Eph. I fari sistemati nell'hangar mostravano che l'aria sopra i cadaveri era sgombra, a parte un paio di falene. «Perché non ce n'è neanche una?» Dopo la morte, i batteri nel tratto digestivo che, in vita, coabitano in simbiosi con l'ospite umano in salute, iniziano ad arrangiarsi. Prendono a cibarsi degli intestini e alla fine si aprono la via nella cavità addominale e consumano gli organi. Le mosche possono rilevare da un chilometro e mezzo di distanza il putrido gas emesso da una carcassa in decomposizione. Duecentosei pasti erano stati apparecchiati là fuori. L'hangar avrebbe dovuto ronzare di insetti. Eph si diresse verso due agenti dell'HazMat che stavano chiudendo un altro sacco. «Un momento.» I due si raddrizzarono e si spostarono; Eph si chinò, aprì la chiusura lampo e guardò il cadavere. Era la ragazzina morta tenendo stretta la mano della madre. Senza rendersene conto, Eph aveva memorizzato la sua posizione sul pavimento. Ci si ricorda sempre dei bambini. I capelli biondi erano appiattiti, un ciondolo a forma di sole sorridente appeso a una cordicella nera riposava contro la cavità della gola. Il vestitino bianco la faceva sembrare una sposa. Gli agenti si spostarono per chiudere e caricare il sacco seguente. Nora si avvicinò alle spalle del collega, osservandolo. Con le mani guantate lui prese gentilmente per i lati la testa della ragazzina e la ruotò per guardare la nuca. Il rigor mortis si manifesta appieno dodici ore dopo il decesso e persiste per un periodo da dodici a ventiquattro ore - erano in quel periodo adesso -, finché la decomposizione inizia a dissolvere i
muscoli, che si rilasciano. «Ancora flessibile» constatò Eph. «Niente rigor.» Prese la ragazzina per la spalla e il fianco e la girò prona. Le sbottonò il vestito e mise in mostra la parte inferiore della schiena, le piccole protuberanze della spina dorsale. La pelle era chiara e cosparsa di qualche lentiggine. Quando il cuore si ferma, il sangue si raccoglie nel sistema circolatorio. Le pareti dei capillari, che hanno solo lo spessore di una cellula, cedono in breve alla pressione, si rompono e versano sangue nei tessuti circostanti. Quel sangue si ferma nella parte più bassa del corpo e coagula rapidamente. La lividezza diviene stabile dopo circa sedici ore. Ormai quel tempo limite era stato superato. La ragazzina era spirata da seduta e poi era stata distesa, perciò il sangue raccolto e coagulato avrebbe dovuto provocare nella parte inferiore della schiena una larga e scura macchia violacea. Eph lanciò un'occhiata alle file di sacchi. «Perché quei cadaveri non si decompongono come dovrebbero?» Rigirò la ragazzina e con il pollice, in un gesto dettato dalla pratica, le aprì l'occhio destro. La cornea era velata, com'era giusto che fosse, e la sclerotica, lo strato protettivo bianco opaco, adeguatamente asciutta. Eph esaminò la punta delle dita della destra, la mano rimasta stretta in quella della madre, e notò un leggero raggrinzimento, dovuto all'evaporazione, com'era logico. Si rialzò, irritato dai segnali contrastanti che stava ricevendo; poi inserì i pollici fra le labbra secche. Il rumore simile a un ansito che sfuggì dalla mascella dischiusa era prodotto dalla fuoriuscita di gas. La cavità orale nelle vicinanze delle labbra non presentava anomalie, ma lui vi infilò il dito per fare pressione sulla lingua e controllare se ci fosse maggiore secchezza. Il palato molle e la lingua erano completamente bianchi, come intagliati nell'avorio. Simili a netsuke. La lingua era rigida e stranamente eretta. Eph la spostò di lato e guardò il resto della cavità orale, ugualmente prosciugata. "Prosciugata?" pensò. "E cosa viene, dopo? La battuta: T cadaveri sono stati prosciugati, non
rimane neanche una goccia di sangue'." Se non proprio quella, l'altra dei telefilm horror di Dan Curtis nel 1970: "Tenente... i cadaveri... sono prosciugati... senza sangue!". Musica d'organo all'imbeccata. La fatica cominciava a farsi sentire. Eph bloccò la lingua fra pollice e indice e con una piccola torcia scrutò dentro la gola bianca. Si sentì come un ginecologo. Netsuke porno? Poi la lingua si mosse. Eph sobbalzò e ritrasse le dita. «Cristo santo!» La faccia della ragazzina rimase una placida maschera di morte, con le labbra ancora socchiuse. Nora, accanto a lui, guardava. «Cos'era?» Eph si asciugò sui calzoni il dito guantato. «Un semplice riflesso» rispose alzandosi. Guardò la faccia della ragazzina finché non poté più sopportarlo. Allora tirò la lampo del sacco e chiuse dentro il cadavere. «Cosa potrebbe essere?» insistette Nora. «Qualcosa che rallenta non si sa come la decomposizione dei tessuti? Quelle persone sono morte...» «In tutto e per tutto, tranne che per la decomposizione» replicò Eph. Scosse la testa, a disagio. «Non possiamo bloccare il trasporto. Il nocciolo è che quei cadaveri ci servono all'obitorio. Dobbiamo aprirli per vedere cosa c'è all'interno.» Nora, notò Eph, aveva lasciato vagare lo sguardo nella direzione della cassa dai bordi intagliati, posata sul pavimento dell'hangar a una certa distanza dagli altri bagagli scaricati. «Non c'è niente che quadri in questa storia» commentò. Eph osservò, dall'altra parte, il grande aereo che li sovrastava. Voleva tornare a bordo. Di sicuro avevano trascurato qualcosa. La risposta doveva essere là dentro. Ma, prima di salire, vide Jim Kent scortare nell'hangar il direttore del CDC. Il dottor Everett Barnes aveva sessantun anni e non era cambiato da quando, a inizio carriera, faceva il medico di campagna nel Sud del paese. Il Servizio sanitario pubblico, del quale il CDC faceva parte, era nato dalla marina; e per quanto da tempo fosse ormai autonomo, molti funzionari d'alto livello del CDC, il direttore
Barnes compreso, preferivano ancora indossare uniformi in stile militare. Perciò si aveva la contraddizione di un signore modesto, campagnolo, dal pizzetto bianco, vestito come un ammiraglio in congedo, in curata uniforme da campo cachi completa di nastrini, dall'aspetto molto simile a un colonnello Sanders decorato in guerra. Dopo i preamboli e un frettoloso esame di uno dei cadaveri, il direttore Barnes chiese dei superstiti. «Nessuno di loro ricorda cos'è successo» rispose Eph. «Non ci sono di alcun aiuto.» «Sintomi?» «Emicrania, a volte anche intensa. Dolore ai muscoli, ronzio nelle orecchie. Disorientamento. Bocca secca. Problemi di equilibrio.» «Insomma, niente di peggio dei fastidi di un volo transoceanico» commentò Barnes. «È inusuale, Everett» disse Eph. «Nora e io siamo stati i primi a salire su quell'aereo. I passeggeri, tutti quanti, non avevano reazioni. Non respiravano. Quattro minuti senza ossigeno è il tempo limite per danni cerebrali permanenti. Quelli saranno stati senza per più di un'ora.» «Evidentemente no» replicò il direttore. «E non hanno saputo dirvi niente?» «Avevano più domande per me che io per loro.» «Qualche caratteristica in comune fra i quattro?» «Sto facendo indagini. Volevo chiedere il suo aiuto per tenerli in isolamento finché non avremo terminato il lavoro.» «Aiuto?» «È necessario che quei quattro pazienti collaborino.» «Abbiamo già la loro collaborazione.» «Per ora. Solo... non possiamo correre rischi.» Il direttore si lisciò il pizzetto ben curato. «Sono sicuro che, con una gestione tattica del rapporto medico paziente, possiamo fare leva sul loro apprezzamento per essere stati risparmiati da questa tragica sorte e mantenerli arrendevoli.» Il suo sorriso mise in mostra
una fila di protesi dentarie pesantemente smaltate. «E far valere l'Health Powers Act...» Ovvero le leggi promulgate per gestire le emergenze sanitarie. «Ephraim, sa che c'è una grande differenza fra l'isolare alcuni passeggeri per cure preventive volontarie e tenerli in quarantena. Per essere franchi, ci sono questioni più gravi, questioni legate ai media, da considerare.» «Everett, devo rispettosamente dissentire...» Il direttore posò gentilmente una mano sulla spalla di Eph. Esagerò un po' la parlata lenta e strascicata, forse per attenuare il colpo. «Risparmiamo tempo, Ephraim. Guardando ora con obiettività, il tragico incidente è, grazie al cielo, grazie a Dio si potrebbe dire, contenuto. Non abbiamo avuto decessi o malattie in altri aerei né in altri aeroporti in giro per il mondo, in quelle che sono quasi diciotto ore dall'atterraggio del volo 753. Sono aspetti positivi e dobbiamo sottolinearli, per mandare un messaggio al pubblico in generale e rafforzare la fiducia nel nostro sistema di trasporto aereo. Sono sicuro, Ephraim, che coinvolgere quei fortunati superstiti, facendo appello al loro senso dell'onore e del dovere, basterà a spingerli a collaborare.» Ritrasse la mano e sorrise a Eph come un militare che assecondasse il figlio pacifista. «E poi» continuò «questa tragedia ha tutte le caratteristiche di una maledetta fuga di gas, no? Vittime colpite all'improvviso. Ambiente chiuso. E superstiti che si riprendono non appena portati fuori dell'aereo.» «A parte il fatto» intervenne Nora «che il sistema di aerazione ha smesso di funzionare quando si è spento l'impianto elettrico, subito dopo l'atterraggio.» Il direttore Barnes annuì e congiunse le mani, riflettendo sull'obiezione. «Be', c'è molto da elaborare, è indubbio. Ma vediamola così: è stato un ottimo addestramento per la vostra squadra. Avete fatto un buon lavoro. E ora che le cose sembrano sistemarsi, cercate di andare fino in fondo. Non appena la maledetta conferenza stampa è terminata.» «Un momento» disse Eph. «Di cosa parla?» «Il sindaco e il governatore terranno una conferenza stampa,
insieme con i rappresentanti della compagnia aerea, i funzionari dell'autorità aeroportuale e tutti gli altri. Lei e io rappresenteremo la risposta della sanità pubblica.» «Oh, no. Signore, non ne ho il tempo. Può pensarci Jim...» «Jim può farlo, ma oggi tocca a lei, Ephraim. Come ho detto, è l'uomo di punta in questa storia. È a capo del progetto Canary e voglio uno che abbia esaminato di persona le vittime. Dobbiamo dare un volto ai nostri sforzi.» Ecco il motivo della necessità di evitare detenzione o quarantena. Barnes stava stabilendo la linea politica. «Ma in realtà non so ancora niente» replicò Eph. «Perché così presto?» Il direttore Barnes sorrise, mostrando di nuovo lo smalto delle protesi dentarie. «Il codice medico recita: "Primo, non nuocere". Il codice politico recita: "Primo, va' in televisione". E poi bisogna considerare l'elemento tempo. Qualcosa che ha a che vedere con l'opportunità di andare in onda prima di quel maledetto evento astronomico. L'effetto delle macchie solari sulle onde radio e roba del genere.» «Evento astronomico...» Eph se n'era completamente dimenticato. La rara eclissi totale che si sarebbe verificata intorno alle tre e mezzo di quello stesso pomeriggio. La prima nella regione di New York City in più di quattrocento anni dall'esistenza degli Stati Uniti. «Cristo! L'avevo scordato.» «Il nostro messaggio al popolo di questo paese sarà semplice. C'è stata una notevole perdita di vite e il CDC sta facendo indagini accurate. È una catastrofe umana, ma l'incidente è stato contenuto ed è a quanto pare un evento unico, perciò non ci sono assolutamente motivi d'allarme.» Eph nascose al direttore lo sguardo torvo. L'avrebbero mandato davanti alle telecamere a dire che tutto era a posto. Lasciò l'area di contenimento, attraversò lo stretto spazio fra le grandi porte dell'hangar e uscì nella luce del giorno. Stava ancora cercando un modo per cavarsela quando sentì vibrare contro il fianco il cellulare nella tasca dei calzoni. Tirò fuori il telefonino: un'icona a forma di busta girava lentamente sullo schermo a cristalli liquidi. Un
messaggio dal cellulare di Matt. Eph lo aprì:
Yanks 4 Sux 2. 8mi posti, pecc non ci 6, Z. Eph rimase a fissare il messaggio elettronico di suo figlio, finché la scritta divenne sfocata. Si ritrovò a guardare la sua stessa ombra sulla pista dell'aeroporto, che, se non era lui a immaginarselo, aveva già iniziato a svanire.
OCCULTAZIONE
Eclissi totale in arrivo A terra crebbe l'attesa, mentre la sottile intaccatura nel lato ovest dell'astro, il "primo contatto" lunare, diveniva un'oscurità strisciante, un morso arrotondato che gradualmente consumava il sole pomeridiano. All'inizio non ci fu differenza nella qualità o quantità di luce sul terreno. Solo la nera sagoma in alto nel cielo, che rendeva una mezzaluna la stella normalmente affidabile, segnava quel giorno e lo rendeva differente da ogni altro. Il termine "eclissi solare" è in realtà improprio. Un'eclissi si verifica quando un oggetto passa nell'ombra proiettata da un altro. In un'eclissi solare, la luna non passa nell'ombra del sole, ma fra il sole e la terra, oscurando la stella. Il termine corretto è "occultazione". La luna occulta il sole e proietta una piccola ombra sulla superficie della terra. Non è un'eclissi solare, in realtà è un'eclissi terrestre. La distanza fra la terra e il sole è circa quattrocento volte quella fra la terra e la luna. Per una singolare coincidenza, il diametro del sole è circa quattrocento volte quello della luna. Per questo l'area della luna e la fotosfera del sole, ossia il disco luminoso, appaiono più o meno della stessa grandezza dal punto di vista della terra. Un'occultazione totale è possibile solo durante la fase di "luna nuova" e la luna si trova in prossimità del perigeo, il punto di massima vicinanza alla terra. La durata dipende dall'orbita della luna e non supera mai i sette minuti e quaranta secondi. Quell'occultazione sarebbe durata esattamente quattro minuti e cinquantasette secondi: poco meno di cinque minuti di magica notte nel mezzo di un magnifico pomeriggio di primo autunno. Semicoperto dalla luna nuova e quindi invisibile, il cielo pur sempre luminoso cominciò ad assumere una sfumatura tetra: come un tramonto, solo privo di calore. Al livello del terreno, la luce del sole pareva pallida, come filtrata o soffusa. Le ombre divennero incerte. Il mondo si oscurava gradualmente.
Mentre la falce di sole continuava ad assottigliarsi, consumata dal disco lunare, la sua opprimente luminosità divampava come in preda al panico. L'occultazione sembrò acquistare slancio e una sorta di velocità disperata, mentre il paesaggio diventava grigio e i colori si discostavano dal normale spettro. Il cielo a occidente si scurì più rapidamente che a oriente, mentre l'ombra della luna si avvicinava. L'eclissi doveva essere parziale in gran parte degli Stati Uniti e del Canada; raggiungeva la totalità solo lungo uno stretto corridoio di circa quindicimila per centocinquanta chilometri e proiettava sulla terra la scura ombra della luna. Il percorso da ovest a est, detto "traiettoria della totalità", cominciava dal corno d'Africa, curvava su per l'oceano Atlantico e terminava proprio a ovest del lago Michigan, muovendosi a più di millecinquecento chilometri all'ora. Mentre la falce di sole continuava a stringersi, il colore del cielo divenne di un violetto soffocato. L'oscurità a ovest acquistò forza come un silente sistema tempestoso privo di vento, si diffuse e si richiuse intorno al sole indebolito, come un grande organismo sopraffatto da una forza corrompente che si espandeva dall'interno. Il sole divenne pericolosamente sottile e a guardarlo - attraverso occhiali con lenti speciali - pareva il coperchio di una botola che si richiuda lentamente e cacci via la luce del giorno. La falce brillò di bianco, che si mutò in argento negli ultimi momenti di agonia. Strane, vaganti bande d'ombra cominciarono a muoversi sul terreno. Oscillazioni formate dalla rifrazione nell'atmosfera terrestre, simili all'effetto di luce che serpeggia sul fondo di una piscina, si contorsero come serpenti all'angolo della propria visuale. Gli spettrali scherzi luminosi fecero rizzare sulla testa i capelli di ogni spettatore. La fine giunse in fretta. Gli ultimi spasmi furono raggelanti, intensi; la falce si restrinse in una linea curva, una cicatrice che incideva il cielo, poi frammentata in individuali perle di bianco infuocato: gli ultimi raggi del sole che filtravano tra le più profonde valli della superficie lunare. Quelle gocce lampeggiarono e svanirono in rapida successione, spente come fiamma di candela annegata nella sua stessa cera. La fascia color cremisi che era la cromosfera, la rarefatta atmosfera superiore del sole, sfolgorò per qualche magnifico
secondo conclusivo... e la stella sparì. Eclissi totale.
Kelton Street, Woodside, Queens Kelly Goodweather era incredula per la rapidità con cui si era fatto buio. Stava fuori sul marciapiede, come tutti i suoi vicini in Kelton Street - in quello che solitamente era il lato al sole della strada - a fissare il cielo oscurato, con gli occhiali dalla montatura di cartone avuti in omaggio con le due bottiglie da due litri di soda dietetica Eclissi. Era una donna istruita e capiva razionalmente che cosa stava accadendo. Eppure provava un attacco di panico quasi da capogiro. Aveva l'impulso di correre via, di nascondersi. Quell'allineamento di corpi celesti, il passaggio della luna nell'ombra, toccava qualcosa nel suo intimo. L'animale interiore spaventato dalla notte. Altri di sicuro provavano la stessa sensazione. Nella via era sceso il silenzio al momento dell'eclissi totale. L'arcana luce in cui si trovavano, e quelle ombre striscianti come vermi che si erano contorte sul prato, ai bordi del suo campo visivo, contro i fianchi della casa, simili a spiriti vorticanti... Era come se un vento gelido fosse passato nella via senza arruffare i capelli, ma raggelando l'anima. Secondo un'antica leggenda di fantasmi, quando hai un brivido è perché qualcuno è appena passato sulla tua tomba. Ecco cosa sembrava quell'occultazione: qualcuno o qualcosa che passasse nello stesso tempo sulla tomba di tutti. La morta luna che attraversava la terra vivente. E poi, alzando gli occhi, la corona solare. Un anti-sole, nero e senza faccia, che risplendeva follemente intorno al nulla della luna, fissando in basso la terra, con candidi capelli brillanti e sottili. Una testa di morte. I vicini di Kelly, Bonnie e Donna, la coppia che aveva in affitto la casa accanto, erano fuori insieme, Bonnie con una mano nella tasca
posteriore dei flosci jeans di Donna. «Non è sorprendente?» le gridò Bonnie sorridendo, girando solo la testa. Kelly non riuscì a rispondere. Non lo capivano? Per lei non era semplice curiosità, un passatempo pomeridiano. Com'era possibile che non vedessero l'evento come una sorta di presagio? Spiegazioni astronomiche e ragionamento andassero pure al diavolo: era impossibile che quel fenomeno non avesse un significato. Forse non aveva senso di per sé, si trattava di una semplice convergenza di orbite. Ma come poteva ogni essere senziente non infondergli qualche significato, positivo o negativo, religioso o psichico o altro? Sapere come funziona una cosa non significa necessariamente
capirla...
I vicini lanciarono un altro richiamo a Kelly, da sola davanti alla casa, dicendo che ormai poteva anche togliersi gli occhiali. «Non perderti lo spettacolo!» Kelly non intendeva farlo. Non aveva importanza ciò che dicevano in TV, che non c'era pericolo durante l'eclissi totale. Alla televisione sostenevano pure che lei non sarebbe invecchiata se avesse comprato creme di bellezza e pillole costose. Esclamazioni di stupore lungo la via, un vero evento collettivo, mentre la gente si abituava alla stranezza, coglieva l'attimo. Tutti tranne Kelly. "Cosa c'è di sbagliato in me?" si domandò. In parte era il fatto di avere appena visto Eph in TV. Lui non aveva detto molto nella conferenza stampa, ma Kelly aveva capito dagli occhi e dal modo di parlare che c'era un guaio. Un guaio grosso. Qualcosa al di là delle rassicurazioni di routine del governatore e del sindaco. Qualcosa che trascendeva l'improvvisa e inspiegabile morte di duecentosei passeggeri del volo transatlantico. Un virus? Un attacco terroristico? Un suicidio di massa? E ora questo. Voleva Zack e Matt a casa. Li voleva lì con lei adesso. Desiderava solo farla finita con quella faccenda dell'occultazione solare e sapere che non avrebbe mai riprovato quella sensazione. Guardò, filtrato dalle lenti, il tenebroso trionfo della luna assassina, con il timore di
non rivedere mai più il sole.
Yankee Stadium, Bronx Zack rimase sul sedile accanto a Matt, che fissava l'eclissi col naso arricciato e la bocca aperta come un automobilista che scruti nel traffico in arrivo. Più di cinquantamila tifosi degli Yankees con occhiali protettivi speciali a righine, da collezione, in piedi, faccia in su, guardavano la luna che oscurava il cielo in un pomeriggio perfetto per il baseball. Tutti, tranne Zack Goodweather. L'eclissi era una figata, certo, ma ora l'aveva vista e così rivolse l'attenzione alla panchina. Cercava i giocatori degli Yankees. C'era Jeter, con gli stessi occhiali di Zack, appollaiato sul primo scalino come in attesa di andare alla battuta. Lanciatori e ricevitori erano tutti fuori della zona di riscaldamento, radunati sull'erba, come ogni altro, a guardare. «Signore e signori» disse Bob Sheppard, il presentatore «ragazze e ragazzi, potete togliervi gli occhiali.» Cinquantamila persone, quasi all'unisono, se li tolsero. Un ansito d'apprezzamento salì in alto, poi qualche applauso, poi un'ovazione, come se la folla cercasse di attirare fuori dalla panchina il sempre modesto Matsui perché sollevasse il berretto in segno di saluto dopo avere spedito la palla nel Monument Park. A scuola Zack aveva imparato che il sole era una fornace termonucleare di seimila gradi Kelvin, ma che la sua corona, il bordo esterno, composta di gas idrogeno surriscaldato, visibile dalla terra solo durante un'eclissi totale, era inspiegabilmente più calda e arrivava a due milioni di gradi Kelvin. Ciò che vide quando si tolse gli occhiali fu un perfetto disco nero bordato da un sottile bagliore cremisi, circondato da un'aureola di esile luce bianca. Come un occhio: la luna, un'ampia pupilla nera; la corona, la sclera bianca; i vividi rossi che erompevano dal bordo della pupilla, anelli di gas surriscaldato eruttati dal bordo del sole, le vene iniettate di sangue. Una sorta di occhio di uno zombi. Fico.
"Cielo zombi" pensò. "No. Zombi dell'eclissi. Zombi dell'occultazione. Zombi occulti dal pianeta luna!" Un momento, la luna non è un pianeta. "Luna zombi." Poteva essere l'idea per il film che avrebbe girato con gli amici quell'inverno. Raggi di luna durante un'eclissi totale trasformano membri dei New York Yankees in zombi mangiacervelli... sì! E il suo amico Ron aveva quasi l'aspetto di un Jorge Posada giovane. "Ehi, Jorge Posada, posso avere l'autografo... un momento, cosa sei... ehi, è il mio... cosa ti è successo agli... occhi... oddio... no... NOOO!!!" Ora l'organo suonava e alcuni ubriachi tramutati in direttori d'orchestra agitavano le braccia ed esortavano la propria sezione a cantare la sdolcinata l'm Being Followed by a Moon Shadow, sono seguita da un'ombra lunare. I fanatici del baseball di rado hanno bisogno di una scusa per fare rumore. Quelli avrebbero applaudito anche se l'occultazione fosse stata causata da un asteroide che si abbattesse su di loro. "Uau!" Zack si rese conto, con un sobbalzo, che era esattamente il tipo di cosa che suo padre avrebbe detto se fosse stato lì. Matt, accanto a lui, ammirando ora gli occhiali avuti gratis, gli diede di gomito. «Davvero un bel ricordino, eh? Scommetto che eBay sarà invasa di collezionisti domani a quest'ora.» Poi un ubriaco urtò la spalla di Matt e gli schizzò birra sulle scarpe. Lui impietrì per un momento, quindi guardò Zack e roteò gli occhi, come per dire: "E ora cosa faccio?". Ma stette zitto e non reagì. Non si girò nemmeno. Il ragazzo pensò che non lo aveva mai visto bere una birra, solo vino bianco o rosso nelle sere a casa con la mamma. Ed ebbe l'impressione che Matt, con tutto l'entusiasmo per la partita, in fondo avesse paura dei tifosi seduti intorno a loro. Desiderò davvero che suo padre fosse lì. Dalla tasca dei jeans pescò il cellulare di Matt e controllò di nuovo se c'era una risposta al suo messaggio. "Ricerca segnale" lesse. Ancora nessun collegamento. Eruzioni solari e radiazioni distorcenti interferivano con onde radio e satelliti in orbita; avevano detto che sarebbe successo. Zack ripose il cellulare e allungò il collo verso il campo, cercando di nuovo Jeter.
Stazione spaziale internazionale (ISS) Trecentocinquanta chilometri sopra la terra, l'astronauta Thalia Charles - ingegnere di volo americana sulla Expedition 18, insieme con un comandante russo e un ingegnere francese - galleggiava in assenza di gravità nel passaggio che collegava il modulo Unity al portello poppiero del laboratorio Destiny. Il complesso della ISS orbitava intorno alla terra sedici volte al giorno, all'incirca ogni ora e mezzo, alla velocità di ventisettemila chilometri all'ora. Le occultazioni non erano fatti eccezionali in orbita bassa terrestre: oscurare il sole da un finestrino, usando un qualsiasi oggetto rotondo, rivelava la spettacolare corona. Thalia perciò era interessata non tanto all'allineamento della luna e del sole, poiché dal suo punto di vista in rapido movimento in pratica non si verificava una vera occultazione, quanto piuttosto al risultato di quel fenomeno sulla terra in lenta rotazione.
Destiny, il laboratorio di ricerca principale sulla ISS, misura 8,5 per
4,25 metri, anche se lo spazio utile al lavoro nel modulo cilindrico, a causa della quantità di apparecchiature fissate alle pareti squadrate, è più ridotto e occupa grosso modo lo spazio di cinque persone per il lungo e una per il largo. Ogni condotto, tubo e cavo di collegamento era direttamente accessibile e quindi visibile, tanto che le pareti del Destiny parevano il retro di una enorme scheda madre. A volte Thalia si sentiva poco più di un minuscolo microprocessore che eseguisse doverosamente calcoli dentro un grande computer spaziale. Camminò usando le mani lungo il nadir, il "pavimento" del Destiny - nello spazio non c'è su né giù - fino a un largo anello lenticolare costellato di bulloni. Il portello era progettato per proteggere l'integrità del modulo da micrometeoroidi o da collisioni con detriti orbitali. Thalia manovrò i piedi coperti da calzini contro una maniglia a parete e la aprì manualmente, scoprendo il finestrino trasparente del diametro di sessanta centimetri. La palla bianca e azzurra della terra divenne visibile.
Thalia aveva il compito di scattare alcune foto del pianeta con una macchina fotografica Hasselblad a montatura rigida, tramite telescatto. Ma quando guardò la terra dal suo insolito punto di vista rabbrividì. La grande macchia nera che era l'ombra della luna pareva un punto morto sul globo. Una magagna scura e minacciosa nell'altrimenti sana sfera azzurra che era il suo mondo natale. La cosa più spaventosa era non vedere niente all'interno del cono d'ombra, la parte centrale e più scura dell'ombra della luna, l'intera regione che scompariva in un vuoto nero. Era come una mappa satellitare postdisastro su cui fosse rappresentata la distruzione causata da un enorme incendio che aveva consumato New York City e che ora si diffondeva su una larga zona della costa orientale.
Manhattan I newyorkesi si radunarono in Central Park e il grande prato di ventidue ettari si riempì come per un concerto estivo. Quelli che la mattina di buonora avevano disposto coperte e sedie da giardino ora stavano in piedi con gli altri, con i bambini appollaiati sulle spalle paterne o fra le braccia delle madri. Belvedere Castle si stagliava grigio-viola sul parco, un arcano tocco di gotico in quel bucolico spazio aperto schiacciato dai grattacieli dell'East e West Side. La grande metropoli isolana si fermò, e l'immobilità della città a quell'ora fu avvertita da tutti. Era un'atmosfera di blackout, ansiosa eppure pubblica. L'occultazione impose una sorta di uguaglianza sulla città e i suoi abitanti, una sospensione di cinque minuti della stratificazione sociale. Tutti erano uguali sotto il sole... o sotto la sua assenza. Radio suonavano musica su e giù per il tappeto erboso, gente cantava con la stazione Z100 che trasmetteva il karaoke di sette minuti preferito, Total Eclipse of the Heart di Bonnie Tyler. Lungo i ponti dell'East Side che collegano Manhattan al resto del mondo la gente stava accanto al proprio automezzo o sedeva sul cofano, mentre alcuni fotografi con macchine dotate di apposito
filtro scattavano foto dai passaggi pedonali. Su molti tetti si tenevano cocktail party fuori orario, un festeggiamento tipo Capodanno, smorzato per il momento dal pauroso spettacolo nel cielo. Il gigantesco schermo Panasonic Astrovision, in una Times Square oscurata come di notte, trasmetteva in simultanea alle masse terrestri l'occultazione, la spettrale corona del sole scintillante sul "crocevia del mondo" come un avvertimento da un lontano settore della galassia; la trasmissione era interrotta da sfarfalli di distorsione. I centralini del 911 per le emergenze e del 311 per i servizi municipali ricevettero una valanga di chiamate, fra cui alcune di donne incinte che denunciavano doglie anticipate "indotte dall'eclissi". Furono doverosamente inviati medici del pronto intervento, anche se il traffico in tutta l'isola era in pratica bloccato. I due centri psichiatrici a Randall's Island nell'East River settentrionale confinarono nelle rispettive camere i soggetti violenti e ordinarono di abbassare tutte le tapparelle. Quelli non violenti furono invitati a radunarsi nelle caffetterie oscurate per guardare film del tipo commedia brillante, anche se nei minuti di eclissi totale un certo numero divenne irrequieto, ansioso di lasciare la sala, ma incapace di spiegarsene il motivo. Al Bellevue, il reparto psichiatrico aveva già registrato un crescendo di ricoveri quel mattino, un anticipo dell'occultazione. Fra il Bellevue e il New York University Medicai Center, due dei più grandi ospedali del mondo, c'era forse il più brutto edificio di tutta Manhattan. L'Ufficio centrale di medicina legale di New York si trovava in uno sformato rettangolo di un nauseante turchese. Mentre il camion del pesce scaricava cadaveri chiusi in sacchi, portati su barelle nelle sale autoptiche e in locali frigoriferi nel seminterrato, Gossett Bennett, uno dei quattordici medici legali dell'ufficio, uscì per una breve pausa. Non poteva vedere la luna coprire il sole dal piccolo giardino dietro l'ospedale, poiché l'edificio stesso si frapponeva, così guardò chi guardava. Lungo tutta la FDR Drive, dominata dal parco, la gente era ferma tra le auto parcheggiate nella superstrada mai inattiva. L'East River più in là era buio, un fiume di catrame che rifletteva il cielo morto. Dall'altra
parte del fiume, l'oscurità incombeva su tutto il Queens, interrotta solo dal bagliore della corona solare riflessa in alcune finestre più alte rivolte a ovest, simile alla calda fiamma bianca di una spettacolare vampa d'impianto chimico. "Così apparirà l'inizio della fine del mondo" pensò Bennett prima di tornare in ufficio per assistere alla catalogazione dei morti.
Aeroporto internazionale JFK Le famiglie dei defunti, passeggeri e personale del volo 753 della Regis Airlines, furono invitate a fare una pausa nel lavoro di compilazione moduli, prendere un caffè Red Cross e uscire sulla pista nella zona chiusa al pubblico dietro il terminal 3. Lì, con niente in comune a parte il dolore, i parenti in lutto dagli occhi infossati si radunarono a guardare l'eclissi, tenendosi per il braccio, alcuni appoggiati al vicino in cerca di solidarietà, altri per bisogno di un vero sostegno fisico, con il viso rivolto al buio cielo occidentale. Non sapevano che di lì a poco sarebbero stati divisi in quattro gruppi e portati in bus nei diversi uffici di medicina legale dove, una famiglia alla volta, sarebbero stati invitati in una sala e da una fotografia avrebbero dovuto riconoscere ufficialmente i loro cari. Solo coloro che avessero chiesto di vedere di persona le vittime avrebbero avuto il permesso di farlo. Dopo sarebbero stati omaggiati di un buono per un pernottamento allo Sheraton nell'aeroporto, dove avrebbero avuto una cena gratis e psicologi a disposizione per la notte e il giorno successivo. Per ora guardarono il disco nero risplendente come un riflettore a rovescio che risucchiasse la luce dal mondo e la riportasse in cielo. In quel momento il fenomeno incomprensibile era un perfetto simbolo della loro perdita. Per essi, l'eclissi era l'opposto di un evento rimarchevole. Pareva semplicemente appropriato che il cielo e il loro Dio personale ritenessero giusto contrassegnare la disperazione che provavano.
Fuori dell'hangar di manutenzione della Regis Airlines, Nora si tenne a distanza dagli altri investigatori e aspettò che Eph e Jim tornassero dalla conferenza stampa. Teneva gli occhi rivolti all'inquietante buco nero nel cielo, ma non metteva a fuoco niente. Si sentiva presa in qualcosa che non capiva. Come se fosse sorto uno strano, nuovo nemico. La morta luna eclissava il sole vivente. La notte occultava il giorno. Un'ombra la sorpassò. Fu come un barlume colto con la coda dell'occhio, simile alle striscianti ombre che aveva visto ondulare sulla pista appena prima dell'eclissi totale. Qualcosa appena fuori del campo visivo, al limite della percezione. Che fuggiva dall'hangar come uno spirito tenebroso. Un'ombra che lei percepì. Nella frazione di secondo che la sua pupilla impiegò a muoversi in quella direzione, era sparita. Lorenza Ruiz, l'operatrice del carrello bagagli che aveva raggiunto per prima l'aereo morto, continuava a essere tormentata da quell'esperienza. Non riusciva a togliersi di mente il fatto di essersi trovata all'ombra dell'aereo la sera precedente. Non aveva chiuso occhio, girandosi e rigirandosi nel letto, finché si era alzata e aveva preso a passeggiare per casa. Un bicchiere di vino bianco non era servito a niente. La notte gravava su di lei come un peso di cui non riusciva a liberarsi. Quando infine sorse il sole, Lorenza si ritrovò a guardare l'orologio, in attesa, capì, di andare al lavoro. Scoprì di essere ansiosa di tornare al JFK. Non per curiosità morbosa. L'immagine dell'aereo inattivo era impressa nella sua mente come un lampo luminoso negli occhi. Sapeva solo di dover tornare là per vederlo di nuovo. E ora c'era l'eclissi: per la seconda volta in ventiquattr'ore l'aeroporto era chiuso. Quel blocco era in programma da mesi - la FAA aveva stabilito quindici minuti di fermo per gli aeroporti nell'area dell'occultazione, preoccupata per la vista dei piloti che non avrebbero potuto portare occhiali durante il decollo o l'atterraggio -, eppure lei fu colpita dalla semplicità della maledetta equazione:
Aereo morto + Eclissi solare = Male. Quando la luna spense il sole, come una mano che soffocasse un urlo, Lorenza provò lo stesso panico elettrico di quando si era trovata in cima al tapis roulant dei bagagli sotto la pancia del 777 buio. Lo stesso identico impulso a correre via, stavolta unito alla consapevolezza che non c'era nessun posto dove andare. Ora lo sentiva di nuovo. Lo stesso rumore che aveva udito prima dell'inizio del turno, solo più continuo, più forte. Un ronzio. Un suono monotono. E la cosa strana era che lo avvertiva allo stesso volume, che portasse o no le cuffie di protezione. Simile a un mal di testa interiore. Come un faro direzionale, quel ronzio le si rafforzò nella mente una volta tornata al lavoro. Durante i quindici minuti di fermo per l'eclissi decise di andare alla ricerca dell'origine del ronzio, di seguirlo. Senza alcuna sorpresa, si ritrovò a guardare l'hangar di manutenzione della Regis Airlines, isolato dal nastro della polizia, dove era tenuto il 777 morto. Non aveva mai sentito un macchinario produrre un rumore come quello. Un rumore di acqua corrente. O il mormorio di decine di voci, di cento voci diverse che cercassero di articolare un suono coerente. Forse era causato dalle vibrazioni radar nelle otturazioni dentarie. Fuori, davanti all'hangar, c'era un gruppo di persone, agenti che guardavano il sole neutralizzato; ma nessun altro si comportava come lei, si muoveva furtivamente, infastidito dal ronzio o consapevole della sua origine. Così non disse niente. Eppure, per qualche arcana ragione, le parve di grande importanza essere proprio lì in quel preciso momento, ascoltare il rumore e rimpiangere, per soddisfare la curiosità, se non era qualcosa di più, di non poter entrare nell'hangar a dare un'altra occhiata all'aereo. Come se vederlo potesse in qualche modo chiarire quel pulsare che sentiva nella testa. Poi all'improvviso avvertì una modificazione nell'atmosfera, come una brezza che cambiasse direzione, e le parve che la fonte del rumore si fosse spostata da qualche parte alla sua destra. Rimase
sorpresa dal mutamento repentino e seguì il rumore sotto la luce negativa della luna splendente, senza mettersi le cuffie e gli occhiali protettivi. Più avanti c'erano cassonetti di rifiuti e rimorchi di stoccaggio, davanti ad alcuni grandi container, e poi alcuni arbusti stentati e pini resistenti, grigi, frustati dal vento, pieni di robaccia impigliata nei rami. Poi la staccionata controvento, al di là della quale si stendevano centinaia di ettari di terreno incolto. Voci. Ora le sembrava un rumore di voci che cercassero di levarsi in una sola voce, una parola... qualcosa. Mentre si avvicinava ai rimorchi, udì un improvviso fruscio negli alberi, un sollevamento, che la indusse a fare un balzo indietro. Gabbiani dal ventre grigio, evidentemente spaventati dall'eclissi, si alzarono di colpo dai rami e dai cassonetti, come alate schegge di vetro da una finestra infranta, e si sparpagliarono in tutte le direzioni. Le monotone voci risuonavano adesso più acute, erano diventate quasi dolorose. La chiamavano. Come un coro di dannati, la cacofonia saliva da un bisbiglio a un rombo e, viceversa, si abbassava, sforzandosi di articolare una sola parola che assomigliava, per come la percepiva lei, a: "...vvnnvvnnvvnnvvnnvvnnVIENI". Lorenza posò le cuffie sul bordo della pista e si mise gli occhiali protettivi prima che l'eclissi terminasse. Si allontanò dai cassonetti e dal loro lezzo d'immondizia e andò verso i grandi rimorchi di stoccaggio. Il suono pareva provenire non dall'interno di essi, ma forse da dietro. Avanzò fra due container alti quasi due metri, girò intorno a un vecchio e logoro pneumatico d'aereo e si avvicinò a un'altra fila di container più vecchi, dipinti di verde chiaro. In quel momento percepì il rumore; non si limitò a udire la pulsazione, ma la percepì: un nido di voci che le vibravano nella testa e nel petto. Che la chiamavano. Posò la mano sui container, senza avvertire nulla, allora proseguì, rallentò all'angolo e si sporse. Sulle cartacce trasportate dal vento e sull'erba incolta e bruciata dal sole c'era una grande cassa di legno nero, riccamente intagliata e di aspetto antico. Lorenza si avventurò nella piccola radura, chiedendosi chi potesse essere andato fin lì a buttare un oggetto antico chiaramente ben tenuto. I furti, organizzati e no, erano
piuttosto comuni nell'aeroporto; forse qualcuno aveva lasciato lì la cassa con l'intenzione di tornare a prenderla in seguito. Poi notò i gatti. L'esterno dell'aeroporto brulicava di gatti randagi. Alcuni erano animali da compagnia fuggiti dalle gabbie di trasporto, molti erano stati semplicemente abbandonati in quei terreni da gente del luogo che voleva liberarsene. I peggiori erano i viaggiatori che abbandonavano i gatti all'aeroporto per non dover pagare salate tariffe di pensionato. Felini domestici che non sapevano cavarsela da soli e che, se non finivano vittime di animali più grandi e sopravvivevano, si univano alla colonia di gatti randagi vaganti nelle centinaia di ettari di terreno incolto attorno al JFK. Le bestie pelle e ossa erano tutte sedute sulle zampe posteriori, di fronte alla cassa. Alcune decine di felini magri e sporchi; quando però Lorenza guardò l'albero coperto di rifiuti e la staccionata controvento, notò che in realtà i gatti randagi erano quasi un centinaio, seduti di fronte alla cassa di legno, indifferenti alla presenza della donna. Vide che la cassa non stava vibrando, non era quella a emettere il rumore con cui lei era in sintonia. Rimase disorientata: era arrivata fin là solo per scoprire uno strano oggetto ai margini dell'aeroporto. E non si trattava di ciò che stava cercando. Il monotono coro proseguì. Anche i gatti percepivano quel suono? No. Erano concentrati sulla cassa chiusa. Lorenza stava per allontanarsi quando gli animali s'irrigidirono. Drizzarono il pelo sulla schiena, tutti quanti, nello stesso istante, girarono le teste rognose dalla sua parte, cento paia di occhi selvatici puntati su di lei nel crepuscolo. Impietrì, temendo un attacco... e allora fu soffocata da una tenebra, come una seconda eclissi. I gatti si voltarono e corsero via. Fuggirono dalla radura, aggrappandosi bene o male con gli artigli all'alta staccionata o infilandosi in buchi già scavati sotto di essa. Lorenza non poté imitarli. Sentì alle spalle un afflusso di calore, come la folata che esce dalla bocca di un forno quando si apre lo sportello. Una presenza. Quando tentò di muoversi, i rumori nella testa si fusero in una sola, orribile voce.
«VIENI.» Poi fu sollevata da terra. Quando la colonia di gatti tornò, scoprì il cadavere di Lorenza, con la testa fracassata, conficcato profondamente nel loro lato della staccionata controvento, come cartaccia. I gabbiani l'avevano trovato per primi, ma i felini li fecero fuggire spaventati e si misero al lavoro, lacerando famelicamente i vestiti per arrivare al banchetto.
Torre di controllo dell'aeroporto internazionale JFK Le persone nella cabina della torre di controllo del traffico, a novantotto metri dal suolo, guardarono di sfuggita l'irreale crepuscolo simile a un tramonto, molto lontano a ovest, fuori portata della grande ombra della luna, al di là del bordo del cono d'ombra. La più luminosa penombra, rischiarata dall'ardente fotosfera del sole, aveva dato al lontano cielo una coloritura gialla e arancione, non dissimile dai bordi di una ferita in via di guarigione. La muraglia di luce stava avanzando su New York City, che adesso era al buio da quattro minuti e trenta secondi esatti. Giunse l'ordine: «Mettere gli occhiali!». Jim Kent ubbidì, ansioso per il ritorno del sole. Si guardò intorno alla ricerca di Eph - tutti i partecipanti alla conferenza stampa, compresi il governatore e il sindaco, erano stati invitati nella torre di controllo per ammirare lo spettacolo - e, non vedendolo, pensò che fosse tornato, senza farsi scorgere, nell'hangar di manutenzione. In realtà Eph aveva sfruttato nel migliore dei modi quel time out forzato: non appena il sole era scomparso, aveva occupato una sedia e si era messo a esaminare un pacchetto di disegni tecnici che mostravano spaccati e diagrammi del Boeing 777.
La fine dell'eclissi totale La fine fu segnata da un fenomeno straordinario. Abbaglianti protuberanze luminose comparvero lungo il bordo occidentale della luna e si combinarono per formare una bolla d'abbagliante luce solare, come uno strappo nel buio, con l'effetto di un diamante dallo splendore accecante posto sull'argenteo anello del satellite. Ma il prezzo di una simile magnificenza, malgrado la martellante campagna del servizio pubblico sulla necessità di proteggersi gli occhi durante l'occultazione, fu che più di duecentosettanta persone in città, novantatré delle quali bambini, patirono cecità permanente per avere guardato la drammatica ricomparsa della stella senza occhiali. Nella retina non esistono sensori di dolore e i colpiti non si resero conto del danno finché fu troppo tardi. L'anello di diamante si allargò a poco a poco, divenne una banda di gemme nota come "grani di Baily", che si fuse nella crescente falce di sole spingendo via l'interferenza della luna. Sulla terra tornarono le bande d'ombra, luccicanti al suolo come spiriti inaugurali che annunciassero il passaggio da una forma d'esistenza a un'altra. Non appena la luce naturale cominciò a riapparire, il sollievo degli umani fu epico. Applausi, abbracci e ovazioni spontanee. Clacson risuonarono per tutta la città e la voce registrata di Kate Smith uscì dagli altoparlanti al Yankee Stadium. Novanta minuti più tardi, la luna si era completamente tolta dal sentiero del sole e l'occultazione era terminata. In realtà, niente era accaduto: nulla nel cielo era stato alterato o influenzato in altro modo, nulla sulla terra era cambiato a parte i pochi minuti di ombra da tardo pomeriggio sugli Stati Uniti nordorientali. Anche nella stessa New York, la gente tornò ai suoi affari come se i fuochi d'artificio fossero finiti; e quelli che erano giunti in auto da lontano trasferirono il punto focale dei propri timori dal sole occultato del pomeriggio al traffico che li aspettava. Un interessante fenomeno astronomico aveva causato momenti di stupore reverenziale e di
ansia in tutti e cinque i distretti. Ma quella era New York e quando il fenomeno era finito... era finito.
RISVEGLIO
Hangar di manutenzione della Regis Airlines Eph tornò all'hangar in un veicolo elettrico, lasciando Jim in compagnia del direttore Barnes; così lui e Nora ebbero un momento di respiro. I paraventi da ospedale erano stati spostati da sotto l'ala del 777, i teloni erano stati arrotolati. Scalette erano state accostate ai portelli d'uscita a prua e a poppa e una squadra di agenti dell'Ente nazionale sicurezza trasporti lavorava vicino al deposito bagagli posteriore. Ora l'aereo era considerato una scena del crimine. Eph vide che Nora portava un giubbotto di Tyvek e guanti di lattice e che si era raccolta i capelli sotto un cappello di carta. Non indossava una tuta protettiva. «Era davvero sorprendente, eh?» disse salutandolo. «Già» replicò Eph. Teneva sottobraccio il plico di diagrammi dell'aereo. «Una sola volta nella vita.» C'era del caffè su un tavolo, ma Eph prese dal secchiello del ghiaccio un cartone di latte, lo aprì e lo vuotò a garganella. Da quando aveva rinunciato ai liquori, aveva la passione per il latte intero, come un bimbo affamato di calcio. «Qui ancora niente» lo informò lei. «L'Ente nazionale sicurezza trasporti sta estraendo le registrazioni dalla cabina di pilotaggio. Non so perché pensino che le scatole nere funzioneranno, visto che tutto sull'aereo si è bloccato, ma ammiro il loro ottimismo. Finora la tecnologia non è approdata a nulla. Stiamo lavorando da venti ore e siamo ancora in alto mare.» Nora era forse la sola persona che lui conosceva in grado di ottenere risultati migliori basandosi più sull'intuito e sull'emotività che non sull'indagine meticolosa. «Qualcuno è stato dentro da quando hanno estratto i cadaveri?» «Non credo. Non ancora.» Eph salì la scaletta con le ruote ed entrò nell'aereo. I sedili erano tutti vuoti e l'illuminazione interna era stata riattivata. L'unica altra
differenza, dal punto di vista di Eph e di Nora, era che non indossavano più le tute protettive. Adesso avevano a disposizione tutti e cinque i sensi. «Senti anche tu questo odore?» chiese Eph. «Sì. Che cos'è?» «In parte ammoniaca...» «... e acido fosforoso?» Arricciò il naso per la puzza. «È quello che li ha messi fuori uso?» «No. L'aereo è pulito, niente gas. Però...» Cercò in giro qualcosa che non riusciva a scorgere. «Nora, va' a prendere il Luminol, ti dispiace?» Mentre lei andava a cercarlo, Eph chiuse le tende dei finestrini, com'erano la notte precedente, per oscurare la cabina. Nora tornò con due bacchette che emettevano luce nera, simile a quella usata nei parchi dei divertimenti, che faceva risplendere in maniera spettrale il cotone bianco lavato a secco. Eph ricordò la festa per il nono compleanno del figlio in un bowling "cosmico": ogni volta che Zack sorrideva, i denti gli brillavano di un candore abbagliante. Accesero il Luminol e subito la cabina scura si trasformò in un folle turbinio di colori, una grande macchia che ricopriva il pavimento e i sedili, delineando profili scuri dove erano stati seduti i passeggeri. «Oh, mio Dio!» esclamò Nora. Parte della sostanza rilucente rivestiva perfino il soffitto, come se fosse stata spruzzata. «Non è sangue» disse Eph, sopraffatto dallo spettacolo. Guardare verso la cabina di poppa era come fissare un dipinto di Jackson Pollock. «È una sorta di sostanza biologica.» «Qualsiasi cosa sia, è schizzata da tutte le parti. Come per un'esplosione. Ma da dove?» «Da qui. Proprio dove ci troviamo.» Si inginocchiò a esaminare la moquette, notando che l'odore era più pungente. «Dobbiamo
campionaria e testarla.» «Sei sicuro?» chiese Nora. Eph si rialzò, ancora sorpreso. «Guarda.» Le mostrò una pagina dei diagrammi dell'aereo. Riportava l'ingresso d'emergenza per i modelli Boeing 777. «Vedi questo modulo sfumato sul davanti dell'aereo?» «Sì. Sembra una rampa di scale.» «Proprio sul retro della cabina di pilotaggio.» «Che cosa significa "OFCRA"?» Eph si diresse alla cucina di bordo davanti al portello della cabina. La sigla era stampata in un pannello a muro. «Overhead flight crew resi area. È una zona riservata al riposo del personale di volo» spiegò. «Normale, su questi grossi uccelli da lunghe distanze.» Nora lo guardò. «Quassù hanno controllato?» «Non so» rispose Eph. «Noi no di sicuro.» Girò la maniglia incassata nella parete e aprì il pannello. La porta a tre battenti rivelò una stretta scala a chiocciola che saliva nel buio. «Oh, merda!» esclamò Nora. Eph illuminò gli scalini con il Luminol. «Significa che vuoi che salga io per primo, immagino.» «Aspetta. Chiamiamo qualcuno.» «No. Non saprebbero cosa cercare.» «E noi lo sappiamo?» Eph non le badò e salì la stretta scala a chiocciola. Il compartimento superiore era angusto, con il soffitto basso. Non c'erano finestrini. Il Luminol era più adatto per i rilevamenti scientifici che per rischiarare un ambiente. Nel primo modulo c'erano due sedili fianco a fianco, del tipo utilizzato nelle business class, ripiegati. Dietro due lettini inclinati, anche quelli l'uno accanto all'altro, non più spaziosi di un'intercapedine. La luce nera mostrò che entrambi i moduli erano vuoti.
Anche lì c'era la stessa robaccia colorata che avevano trovato di sotto, sul pavimento e spalmata sui sedili e su un lettino. Ma in questo caso sembrava ancora umida. «Che diavolo?» disse Nora. La puzza di ammoniaca era fortissima, mischiata con un altro odore pungente. Anche Nora lo notò e si portò sotto le narici il dorso della mano. «Cos'è?» Eph era quasi piegato in due sotto il basso soffitto fra i sedili. Stava cercando di identificare l'odore. «Come i lombrichi» disse infine. «Da ragazzi scavavamo il terreno per prenderli. Li tagliavamo in due per guardare i pezzi contorcersi. Avevano l'odore del freddo terriccio in cui strisciavano.» Passò la luce nera sulle pareti e sul pavimento, esaminando il locale. Stava per rinunciare, quando notò una cosa dietro le soprascarpe di carta di Nora. «Non muoverti.» Si chinò di lato per avere una visuale migliore della moquette dietro di lei; Nora s'immobilizzò come se stesse per calpestare una mina. Sulla moquette c'era un piccolo grumo di terriccio. Non più di qualche grammo, grasso e nero. «È quello che penso io?» chiese Nora. «La cassa» confermò Eph. Scesero la scaletta esterna e raggiunsero la parte dell'hangar riservata ai bagagli, dove si stavano aprendo e ispezionando i carrelli del servizio di ristoro. Videro le pile di valigie, le sacche da golf, il kayak. La cassa di legno nero era sparita. Lo spazio che occupava prima lungo il bordo del telone era vuoto. «Qualcuno l'avrà spostata» osservò Eph continuando a cercare. Si allontanò di qualche passo e scrutò il resto dell'hangar. «Non può essere molto lontano.» Nora mandò lampi dagli occhi. «Hanno appena iniziato a
esaminare a fondo tutta quella roba. Non è ancora stato portato via niente.» «Tranne la cassa.» «Questo è un luogo sicuro, Eph. Quella cassa è lunga più di due metri e pesa qualche centinaio di chili. Ci vogliono quattro uomini per trasportarla.» «Esatto. Perciò qualcuno sa dov'è finita.» Andarono dall'agente di guardia alla porta dell'hangar, quello che si occupava del registro. Il giovanotto consultò il documento, su cui erano annotati gli orari d'entrata e di uscita di persone e oggetti. «Qui non c'è niente» disse. Eph intuì che Nora stava per obiettare e la anticipò. «Da quanto tempo sta qui... sulla porta?» «Dalle dodici circa, signore.» «Nessuna pausa? Nemmeno durante l'eclissi?» «Sono stato proprio là fuori.» Indicò un punto distante alcuni metri dalla porta. «Non mi è passato davanti nessuno.» Eph diede un'occhiata a Nora. «Ma che diavolo sta succedendo?» disse lei. Guardò l'agente. «Chi altri potrebbe aver visto una grande bara nera?» Eph corrugò la fronte alla parola "bara". Guardò di nuovo dentro l'hangar e poi le telecamere di sicurezza fissate ai puntoni. Le indicò. «Quelle l'hanno vista.» Eph, Nora e l'agente dell'autorità aeroportuale salirono la lunga scala d'acciaio che portava all'ufficio di controllo sovrastante l'hangar di manutenzione. In basso, i meccanici stavano staccando il muso dell'aereo per un controllo delle parti interne. Quattro telecamere telecomandate funzionavano in continuazione dentro l'hangar: una alla porta che dava sulle scale dell'ufficio; una puntata sull'ingresso; una, quella indicata da Eph, fissata ai puntoni; una nella stanza dove si trovavano in quel momento. Tutte le riprese comparivano su uno schermo diviso in
quattro settori. «Perché c'è una telecamera in questa stanza?» chiese Eph al caposquadra della manutenzione. Questi si strinse nelle spalle. «Probabilmente perché qui tengono i fondi per le piccole spese.» Si accomodò su una sedia da ufficio malridotta, con i braccioli aggiustati con strisce di nastro adesivo, e usò la tastiera sotto il monitor per allargare a tutto schermo l'inquadratura della telecamera fissata alla trave. Riportò indietro la registrazione. La telecamera era digitale, ma vecchia di qualche anno, e le riprese erano troppo distorte per poter distinguere bene qualcosa durante il riavvolgimento. Il caposquadra bloccò il nastro. Sullo schermo, la cassa si trovava proprio dove era stata messa, ai margini del mucchio di bagagli scaricati. «Eccola lì» fece Eph. L'agente annuì. «Bene. Allora vediamo dov'è finita.» L'uomo della manutenzione premette un tasto: l'avanzamento rallentò, ma era ancora abbastanza rapido. Nelle riprese la luce nell'hangar si abbassò per l'occultazione; quando si ravvivò di nuovo, la cassa era sparita. «Ferma, ferma» disse Eph. «Torniamo un po' indietro.» Il caposquadra premette di nuovo il pulsante. L'indicazione dell'ora sul margine inferiore mostrò che l'immagine avanzava più lentamente di prima. La luce nell'hangar si attenuò e la cassa scomparve di nuovo. «Ma che...» L'uomo mise in pausa. «Indietro solo un poco» disse Eph. L'altro eseguì, poi fece scorrere le immagini in tempo reale. La luce si affievolì, l'hangar era rischiarato solo dai fari interni. La cassa c'era. E poi svanì. «Però!» esclamò l'agente.
Il caposquadra mise di nuovo in pausa il video. Era perplesso anche lui. «C'è un vuoto» osservò Eph. «Un taglio.» «Nessun taglio» replicò l'uomo della manutenzione. «Avete visto le indicazioni orarie in basso.» «Allora torni indietro un po'. Ancora un po'... proprio lì... adesso di nuovo.» Lui eseguì. E di nuovo la cassa scomparve. «Houdini» borbottò il caposquadra. Eph guardò Nora. «La cassa è semplicemente scomparsa» fece notare l'agente. Indicò i bagagli vicini. «Tutto il resto rimane uguale. Neanche un tremolio.» «Ancora indietro, per favore» disse Eph. L'altro ripeté l'operazione. La cassa scomparve un'altra volta. «Un momento» fece Eph. Aveva visto qualcosa. «Torni indietro...
lentamente.»
Il caposquadra premette il tasto per riavvolgere il nastro. «Là» disse Eph. «Cristo!» esclamò il caposquadra saltando quasi dalla sedia. «L'ho visto.» «Visto cosa?» chiesero insieme Nora e l'agente. L'uomo della manutenzione si dava da fare, riavvolgeva il nastro solo di qualche fotogramma. «Ci siamo quasi...» disse Eph, preparandolo. «Ci siamo quasi...» Il caposquadra tenne la mano sulla tastiera come se gareggiasse in un videogioco e aspettasse di premere un pulsante. «... là.» La cassa era scomparsa di nuovo. Nora si sporse per avvicinarsi. «Cosa?» Eph indicò un lato del monitor. «Proprio là.» Nell'ampio bordo destro dell'immagine si vedeva una confusa
sbavatura nera. «Qualcosa passa rapidamente davanti alla telecamera» spiegò Eph. «Su fra le travi?» domandò Nora. «Cosa? Un uccello?» «Troppo grosso, maledizione» rispose Eph. L'agente dell'autorità aeroportuale si protese verso l'immagine. «Sembra un difetto. Un'ombra.» «D'accordo» concesse Eph tirandosi indietro. «Un'ombra di cosa?» L'agente si raddrizzò. «Può avanzare un fotogramma alla volta?» Il caposquadra eseguì. La cassa scomparve dal pavimento... e quasi simultaneamente apparve la sbavatura fra le travi. «È il meglio che posso ricavare da questa macchina.» L'agente studiò di nuovo lo schermo. «È solo una coincidenza» dichiarò. «Niente potrebbe muoversi a quella velocità.» «Può zumare?» chiese Eph. L'uomo della manutenzione roteò gli occhi. «Non siamo il CSI... siamo la fottuta RadioShack.» «Così è sparita» disse Nora rivolgendosi a Eph, visto che gli altri due non potevano essere d'aiuto. «Ma perché... e come?» Lui si massaggiò la nuca. «Il terriccio nella cassa... di sicuro è lo stesso che abbiamo appena trovato. Ciò significa...» «Stiamo formulando una teoria?» chiese Nora. «Qualcuno è salito nell'area di riposo del personale dal bagagliaio dell'aereo?» Eph ricordò la sensazione provata mentre si trovava nella cabina insieme con i due piloti morti... appena prima di scoprire che Redfern era ancora vivo. Una presenza. Qualcosa nei pressi. Prese da parte Nora. «E ha spalmato quella roba... quella sostanza biologica nella cabina passeggeri.» Lei guardò di nuovo la confusa sbavatura fra le travi. «Penso che qualcuno fosse nascosto in quel compartimento quando siamo entrati per la prima volta nell'aereo» aggiunse Eph. «D'accordo...» Nora si aggrappò a quell'ipotesi. «Ma... dov'è adesso?»
«Nello stesso posto in cui si trova la cassa» rispose Eph.
Bus Gus gironzolò nella corsia delle auto, sotto il basso soffitto del parcheggio per lunga permanenza del JFK. L'echeggiante stridio di pneumatici lisci che curvavano verso le rampe di uscita rendeva quel posto rumoroso come un manicomio. Gus estrasse dal taschino della camicia la scheda piegata e controllò di nuovo il numero di sezione, scritto da qualcun altro. Poi si accertò ancora che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. Trovò il furgone, un Econoline bianco incrostato di sporcizia, impolverato e senza i finestrini posteriori, proprio in fondo alla corsia, parcheggiato a cavallo di un'area di lavoro chiusa con coni di segnalazione, piena di teloni svolazzanti e di pietra sbriciolata dove una parte del sostegno superiore si era crepata. Prese uno straccio e se ne servì per provare la portiera del lato guida, che non era chiusa, come annunciato. Arretrò dal furgone e diede un'occhiata all'isolato angolo del parcheggio, silenzioso a parte gli stridii in lontananza, pensando: "Trappola". Poteva esserci una telecamera piazzata in una qualsiasi delle altre auto che lo sorvegliava. Come in Cops: la polizia aveva piazzato piccole telecamere in camion lasciati in una via cittadina, a Cleveland o da un'altra parte, ed era stata a guardare mentre ragazzi e altri fessi saltavano dentro e andavano a farsi un giro o a portare i veicoli nella locale officina di smontaggio di mezzi rubati. Farsi beccare era brutto, ma farsi fregare in quel modo, finire in TV nella fascia di massimo ascolto, era molto peggio. Gus avrebbe preferito restarci secco in mutande piuttosto che fare la figura dello stupido. Ma aveva preso i cinquanta dollari che quel tizio gli aveva offerto per il lavoretto. Soldi facili, che aveva ancora addosso, nascosti nella fascia del cappello a tesa larga, tenuti lì come prova in caso che qualcosa andasse storto. Il tizio si trovava nel negozio quando Gus era entrato per una
Sprite. Era in fila dietro di lui quando aveva pagato. Fuori, a mezzo isolato di distanza, Gus aveva udito qualcuno avvicinarsi e si era girato di colpo. Era quel tizio... teneva le mani aperte, per fare vedere che erano vuote. Voleva sapere se a Gus interessava guadagnare qualche dollaro in fretta. Bianco, ben vestito, fuori posto in quella zona. Non pareva uno sbirro e neppure un finocchio. Sembrava una sorta di missionario. «Un furgone nel garage del parcheggio all'aeroporto. Lo prendi, lo porti a Manhattan, lo posteggi e te ne vai.» «Un furgone» aveva ripetuto Gus. «Un furgone.» «Cosa c'è dentro?» Il tizio si era limitato a scuotere la testa e gli aveva porto una scheda piegata su cinque banconote nuove da dieci dollari. «Solo un assaggio.» Gus aveva prelevato le banconote, come se togliesse la carne da un sandwich. «Se lei è della polizia, è una trappola.» «L'ora del prelevamento è scritta lì. Non arrivare troppo presto e neppure tardi.» Gus aveva passato il pollice sulle banconote come se saggiasse una stoffa fine. Il tizio lo aveva visto. E aveva visto anche, Gus se n'era reso conto, i tre piccoli cerchi tatuati nella membrana interdigitale della mano, simbolo della gang messicana per indicare i ladri. Ma come poteva saperlo quel tizio? Per questo l'aveva seguito nel negozio? Perché aveva scelto proprio lui? «Nel cassetto del cruscotto troverai le chiavi e altre istruzioni.» Il tizio si era mosso per andarsene. «Ehi» gli aveva gridato dietro Gus. «Ancora non ho detto di sì.» In quel momento Gus aprì la portiera e aspettò un istante: niente allarme. Salì nel furgone. Non notò telecamere, ma tanto anche se ci fossero state non le avrebbe viste, no? Fra i sedili anteriori e quelli posteriori c'era una lastra metallica senza finestrino, quasi certamente imbullonata dopo l'acquisto. Forse era un camion di sbirri.
All'interno però era tutto tranquillo. Gus aprì il cassetto del cruscotto, usando di nuovo lo straccio, con gentilezza, come se un serpente a molla potesse saltare fuori, e la piccola lampadina si accese. Dentro c'erano la chiave, lo scontrino del parcheggio che gli sarebbe servito per uscire e una busta marrone. Gus guardò all'interno e la prima cosa che vide fu il compenso. Cinque biglietti da cento dollari, nuovi, che gli procurarono piacere e rabbia nello stesso tempo. Piacere perché era più di quanto si aspettasse, rabbia perché nessuno gli avrebbe cambiato un centone senza piantare un casino, specialmente nel suo ghetto. Perfino una banca avrebbe passato al microscopio quelle banconote, se fossero uscite dalla tasca di un diciottenne messicano tatuato. Piegata intorno alle banconote c'era un'altra scheda con l'indirizzo della destinazione e un codice d'accesso a un garage, valido per una sola volta. Gus confrontò le schede: stessa scrittura. L'ansia svanì e crebbe l'entusiasmo. "Pollo!" Affidare a lui il veicolo. Gus conosceva, senza neanche pensarci, tre diversi posti nel South Bronx dove portare il pupo per la ripassata. E per soddisfare in fretta la curiosità sul tipo di roba di contrabbando che portava nel cassone. L'ultimo oggetto nella grossa busta era una busta più piccola, come una lettera. Gus prelevò alcuni fogli, li aprì e sentì una calda fiammata risalirgli dal centro della schiena fino alle spalle e al collo. L'intestazione sul primo foglio recitava: AUGUSTIN ELIZALDE. Era il fascicolo del tribunale dei minori che aveva sentenziato la condanna di Gus per omicidio preterintenzionale e la scarcerazione con la fedina penale pulita il giorno del suo diciottesimo compleanno, appena tre settimane prima. Sulla seconda pagina c'era una fotocopia della sua patente di guida e, più sotto, quella della patente di sua madre, con lo stesso indirizzo, Centoquindicesima Est. Poi una piccola fotografia della porta d'ingresso di casa sua, nelle Taft Houses. Gus fissò il foglio per due minuti buoni. I suoi pensieri correvano avanti e indietro dal tizio con l'aria da missionario a quante cose
sapeva di lui, a sua madre, alla situazione merdosa in cui si era cacciato stavolta. Non prendeva bene le minacce. Specialmente se coinvolgevano sua madre: gliene aveva già fatte passare abbastanza. Sul terzo foglio, nella stessa calligrafia delle schede, c'era scritto: NIENTE FERMATE. Gus, seduto dietro la vetrina dell'Insurgentes, mangiava uova fritte affogate in salsa Tabasco e guardava il furgone bianco parcheggiato in doppia fila in Queens Boulevard. Gli piaceva il cibo che servivano per la prima colazione e, da quando era fuori, l'aveva consumato quasi a ogni pasto. Ordinò alla carta, perché poteva permetterselo: bacon extra croccante, toast ben cotto. 'Fanculo NIENTE FERMATE. Non gli piaceva quel gioco, non da quando avevano coinvolto sua madre. Guardò il furgone e pensò alle possibili scelte, aspettando che accadesse qualcosa. Lo tenevano d'occhio? Se sì, da quale distanza? E se potevano controllarlo, perché non se lo guidavano da soli il furgone? In che merdaio si era cacciato? Cosa c'era nel furgone? Un paio di cabrones vennero a fiutare l'aria davanti al veicolo. Abbassarono la testa e si dispersero quando Gus uscì dalla tavola calda, con la camicia di flanella che gli svolazzava dietro nella brezza del tardo pomeriggio, tatuaggi come maniche sulle braccia nude, vividi accenti di rosso intorno al nero da galeotto. La reputazione dei Latin Sultans arrivava a nord a Spanish Harlem, a est al Bronx e a sud fino al Queens. Erano poco numerosi, ma gettavano una lunga ombra. Non t'immischiavi con uno di loro se non volevi entrare in guerra con tutti. Gus si immise nel viale e continuò a ovest verso Manhattan, tenendo d'occhio il retrovisore, nel caso qualcuno lo seguisse. Il furgone sobbalzò su un tratto dissestato e lui tese l'orecchio, ma non sentì alcun rumore provenire dal cassone. Eppure c'era peso sulle sospensioni. Gli venne sete e si fermò di nuovo, all'esterno di un negozio d'angolo, per comprare due lattine da tre quarti di birra Tecate.
Incastrò nell'apposito incavo una delle lattine rosso e oro e ripartì, con gli edifici della città che sfilavano ora dall'altra parte del fiume, il sole al tramonto dietro di essi. Scendeva la notte. Gus pensò a suo fratello di nuovo a casa, Crispin, quel drogato pieno di merda, ricomparso proprio quando lui faceva del suo meglio per essere un bravo figlio. Trasudava prodotti chimici sul sofà del soggiorno e tutto ciò che Gus voleva fare era infilargli una lama arrugginita fra le costole. Portava la sua malattia nel loro nido. Il fratello maggiore era un ghoul, uno zombi fatto e finito, ma la madre non l'avrebbe mai cacciato di casa. Lei lo lasciava stare, fingeva di non vedere che si bucava in bagno, aspettava che scomparisse di nuovo, portandosi via qualcuna delle sue cose. Gus doveva mettere da parte per sua madre un po' di quel dinero sudo. Darglielo dopo che Crispin se n'era andato. Infilarne un altro po' nel cappello e lasciarlo lì per lei. Renderla felice. Fare qualcosa di giusto. Prima del tunnel, prese il cellulare. «Felix, amico mio. Vieni a prendermi.» «Dove sei, fratello?» «Mi trovi a Battery Park.» «Battery Park? Fin laggiù, Gusto?» «Gira nella Nona e vieni dritto qui, lacrima. Ce ne andiamo in giro. Facciamo festa, amico. I soldi che ti devo... ho ramazzato un po' di grana facile oggi. Portami una giacca o qualcosa per cambiarmi, scarpe pulite. Fammi mettere a posto.» «Cazzo... nient'altro?» «Tira fuori le dita dalla concha di tua sorella e vieni a prendermi...
comprendes?»
Gus uscì dal tunnel a Manhattan e attraversò la città prima di girare a sud. Prese Church Street, a sud di Canal, e cominciò a controllare i cartelli stradali. L'indirizzo corrispondeva a un edificio di vari piani con un ponteggio sulla facciata, finestre tappezzate di permessi di costruzione, ma niente betoniere intorno. La via era tranquilla, residenziale. Il garage funzionava come reclamizzato e il codice d'accesso azionò il meccanismo d'apertura di una porta
d'acciaio sotto la quale il furgone passò a malapena per imboccare la rampa sotterranea. Gus parcheggiò e rimase fermo un momento, tendendo l'orecchio. Il garage, squallido e poco illuminato, gli parve una buona trappola; la polvere sollevata turbinava nella luce sempre più fioca dall'entrata aperta. Gus provò l'impulso di battere subito in ritirata, ma doveva essere sicuro di uscirne pulito. Aspettò, mentre la porta del garage si richiudeva. Ripiegò i fogli e la busta trovati nel cassettino del cruscotto e se li cacciò in tasca, terminò la prima birra, accartocciò la lattina, poi scese dal veicolo. Ci ripensò, risalì in cabina e con uno straccio pulì il volante, le manopole della radio, il cassetto del cruscotto, le maniglie della portiera dentro e fuori e ogni oggetto che pensava di avere toccato. Si guardò intorno: l'illuminazione del garage ora proveniva dallo spazio fra le pale di un aspiratore e la polvere si spostava come nebbia nei deboli raggi di luce. Gus pulì la chiave dell'accensione, poi girò intorno al veicolo e andò al portello posteriore. Provò le maniglie, tanto per vedere. Chiuso a chiave. Rifletté un momento, poi cedette alla curiosità. Provò con la chiave dell'accensione. Le serrature erano diverse. Si sentì in parte sollevato. "Terroristi" pensò. "Cazzo, ora potrei essere un terrorista. Che guida un furgone pieno d'esplosivi." Avrebbe potuto portare fuori il furgone. Parcheggiarlo davanti alla più vicina stazione di polizia, lasciare un biglietto sul parabrezza. Verificassero gli sbirri se era importante o no. Ma quei fottuti avevano il suo indirizzo. L'indirizzo di sua madre. Chi erano? Si infuriò e una fiammata gli risalì lungo la schiena. Pestò il pugno sulla fiancata del furgone, dimostrando quanto poco gli piaceva l'accordo. Con soddisfazione sentì provenire dall'interno un rumore che ruppe il silenzio. Allora lasciò perdere, gettò la chiave sul sedile di guida e sbatté la portiera, spingendola col gomito. Un altro gratificante colpo rumoroso.
Poi, anziché il rapido ritorno del silenzio, udì qualcosa. O credette di averlo udito. Qualcosa all'interno. Mentre gli ultimi raggi luminosi entravano dalla grata dell'aspiratore, si accostò al portello chiuso e ascoltò, sfiorandolo quasi con l'orecchio. Qualcosa. Come... come il borbottio di uno stomaco vuoto, in preda a una fame ribollente. Un'agitazione. "Ah, che cazzo" si disse tirandosi indietro. "Ormai è fatta. Basta che la bomba esploda più in giù della Centodecima e non me ne può fregare di meno." Un sordo ma netto bang dentro il furgone spinse Gus ad arretrare di un passo. Il sacchetto di carta contenente la seconda lattina di cerveza gli scivolò da sotto il braccio; la lattina si aprì e spruzzò birra sul pavimento sabbioso. Lo schizzo si ridusse a schiuma e Gus si chinò per rimediare al guaio, poi si bloccò, acquattato, la mano sul sacchetto inzuppato. Il furgone s'inclinò in modo appena percettibile. Le molle del telaio cigolarono una volta. Dentro qualcosa si era mosso o spostato. Gus si raddrizzò, lasciò a terra la lattina aperta e arretrò, con le scarpe che raschiavano il pavimento sabbioso. Qualche passo più indietro si riprese, si costrinse a rilassarsi. Il suo trucco era pensare che qualcuno lo vedesse perdere il sangue freddo. Si girò e con calma andò alla porta chiusa del garage. La molla cigolò di nuovo, gli fece rallentare il passo ma non lo fermò. Allungò la mano verso il pannello nero con un pulsante rosso accanto alla porta. Premette e non accadde nulla. Premette altre due volte, prima lentamente, poi con decisione, notando che la molla interna pareva inceppata per il disuso. Il furgone cigolò di nuovo e Gus si costrinse a non guardare da quella parte. La porta del garage era di acciaio liscio, priva di maniglie. Niente da tirare. Diede un calcio alla lastra e sentì un fievole rumore sordo.
Dall'interno del furgone provenne un altro bang, quasi in risposta al suo calcio, seguito da un forte cigolio, e Gus tornò di corsa al pulsante. Lo premette di nuovo, una rapida serie di colpi, e una puleggia ronzò, il motore scattò, la catena iniziò a scorrere. La porta prese a sollevarsi da terra. Prima che fosse a metà, Gus era già fuori e correva come un granchio sul marciapiede. Poi prese fiato, si voltò e aspettò, osservando la porta sollevarsi del tutto, fermarsi, quindi scendere di nuovo. Si accertò che fosse ben chiusa e che non ne uscisse niente. Allora si guardò intorno, ritrovò la calma, controllò di avere ancora il cappello e andò all'angolo, con colpevole rapidità, ansioso di mettere un altro isolato fra sé e il furgone. Tagliò per Vesey Street e si trovò davanti le barriere New Jersey e le recinzioni intorno all'isolato cittadino che era stato il World Trade Center. Adesso era tutto scavato, una grande conca simile a un buco spalancato nelle vie di Lower Manhattan, con gru e camion impegnati nella ricostruzione. Gus si scosse di dosso il gelo e si portò il cellulare all'orecchio. «Felix, amigo, dove sei?» «Sulla Nona, diretto in centro. Cosa c'è?» «Niente. Solo, vieni subito qui. Ho fatto una cosa che devo dimenticare.»
Reparto d'isolamento, Jamaica Hospital Medical Center Eph arrivò al Jamaica Hospital Medicai Center. Era furioso. «Cosa significa "se ne sono andati"?» «Dottor Goodweather» disse la direttrice «non potevamo fare niente per obbligarli a rimanere qui.» «Le avevo chiesto di mettere una guardia per tenere fuori quel viscido avvocato di Bolivar.»
«L'abbiamo fatto. Un agente di polizia. Ha esaminato l'ordine del tribunale e ci ha detto che non potevamo trattenerli. E... non è stato il legale della rock star. È stata la signora Luss. Ha firmato lei. Mi hanno scavalcato, sono andati dritti alla direzione.» «Allora perché nessuno me l'ha detto?» «Abbiamo cercato di metterci in contatto. Abbiamo chiamato il suo collaboratore.» Eph si girò di scatto. Jim Kent era lì con Nora. Parve sorpreso. Tirò fuori il cellulare e guardò le chiamate. «Non capisco...» Alzò gli occhi, come per scusarsi. «Forse sono stati i disturbi dell'eclissi o chissà cosa. Non ho mai ricevuto le chiamate.» «Ho lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica» spiegò la direttrice. Jim controllò di nuovo. «Un momento... ci sono alcune telefonate che potrebbero essermi sfuggite.» Guardò Eph. «Con tutto questo trambusto, Eph... temo di avere fatto un errore.» Eph sentì montare la collera. Sbagliare non era da Jim, tanto più in un momento critico come quello. Fissò il suo fidato collaboratore, mentre la rabbia si stemperava in profonda delusione. «Le mie migliori quattro carte per risolvere questa storia sono appena uscite da quella porta.» «Non quattro» precisò la direttrice, dietro di lui. «Solo tre.» Eph si girò verso la donna. «Cosa significa?» Nel reparto d'isolamento, il capitano Doyle Redfern era seduto nel letto protetto da tende di plastica. Aveva un'aria smarrita; teneva le braccia esangui su un guanciale in grembo. L'infermiera disse che aveva rifiutato il cibo, lamentando rigidità alla gola e nausea persistente, e che aveva rigettato anche piccoli sorsi d'acqua. Solo la flebo nel braccio lo manteneva idratato. Eph e Nora si fermarono con lui, indossando solo mascherina e guanti «Il sindacato mi vuole fuori di qui» disse Redfern. «La politica dell'industria delle linee aeree è: "Dare sempre la colpa a un errore del pilota". La responsabilità non è mai colpa della compagnia, della programmazione, dei tagli alla manutenzione. In questo caso se la
prenderanno con il capitano Moldes, non importa perché. E con me, forse. Ma... qualcosa non sembra giusto. Dentro. Non mi sento più lo stesso.» «La sua collaborazione è molto importante» replicò Eph. «Non so come ringraziarla per essere rimasto, tranne dire che faremo tutto il possibile per rimetterla in piena salute.» Redfern annuì ed Eph notò che teneva il collo rigido. Gli palpò la parte inferiore della mascella, trovò che le ghiandole linfatiche erano gonfie. Decisamente l'organismo del pilota stava lottando contro qualcosa. Un'infezione collegata alle morti sull'aereo o solo un contagio subito durante i suoi viaggi? «Un aereo così nuovo» disse Redfern «dotato di macchinari magnifici. È inconcepibile che si blocchi completamente in quel modo. Deve essere stato sabotato.» «Abbiamo esaminato la miscela d'ossigeno e i serbatoi d'acqua e sono risultati in ordine. Niente spiega perché la gente sia morta e l'aereo si sia spento.» Palpò le ascelle del pilota e trovò altri linfonodi grossi come gelatine di frutta. «Ancora non ricorda niente dell'atterraggio?» «Niente. Mi fa impazzire.» «Riesce a pensare a una ragione per la mancata chiusura della porta della cabina di pilotaggio?» «Nessuna. È contro tutte le norme FAA.» «Per caso è andato nella zona di riposo del personale?» domandò Nora. «La cuccetta? Sì, ci sono andato. Ho fatto un pisolino sopra l'Atlantico.» «Ricorda di avere abbassato i sedili?» «Erano già abbassati. Serve spazio per le gambe, se ci si vuole distendere lassù. Perché lo chiede?» «Non ha visto niente fuori dell'ordinario?» intervenne Eph. «Lassù? Niente. Cosa c'è da vedere?» Eph si scostò. «Sa qualcosa di una grossa cassa caricata nel
comparto bagagli?» Il capitano Redfern scosse la testa, sforzandosi di capire. «Non ne ho idea. Mi sembra però che abbiate qualcosa per le mani.» «Non proprio. Siamo ancora perplessi quanto lei.» Incrociò le braccia. Nora aveva acceso la lampada a luce nera e la passava sulle braccia di Redfern. «Per questo il fatto che abbia acconsentito a restare qui è così importante in questo momento. Voglio sottoporla a una serie di esami.» Il capitano Redfern guardò la luce indaco illuminargli la pelle. «Se pensate di poter capire che cos'è successo, sarò la vostra cavia.» Eph gli rivolse un cenno di ringraziamento. «Quando si è fatto quella cicatrice?» chiese Nora. «Quale cicatrice?» Nora stava esaminando il collo, la parte anteriore della gola. Lui piegò la testa all'indietro per permetterle di toccare la linea sottile che appariva blu scuro sotto la luce del Luminol. «Sembra quasi un'incisione chirurgica.» Redfern si tastò il collo. «Non c'è niente.» E a dire il vero, quando Nora spense la lampada, la linea era quasi invisibile. La riaccese ed Eph esaminò la cicatrice. Lunga poco più di un centimetro, spessa alcuni millimetri. La crescita di tessuto sopra la ferita pareva molto recente. «Più tardi stasera faremo una risonanza magnetica. Dovrebbe mostrarci qualcosa.» Redfern annuì e Nora spense la lampada. «Sa... c'è un'altra cosa» disse Redfern, con esitazione, perdendo per un momento la sicurezza da pilota d'aviolinee. «Una cosa la ricordo, ma non vi servirà a niente, non credo...» Eph scrollò le spalle in modo quasi impercettibile. «Prendiamo tutto ciò che può darci.» «Be', quando sono svenuto... ho sognato una cosa... una cosa molto antica...» Si guardò intorno, quasi vergognandosi, poi riprese a parlare in tono molto basso. «Da bambino... dormivo in un grande
letto a casa di mia nonna. E ogni notte, a mezzanotte, mentre nella chiesa vicina le campane battevano l'ora, vedevo una cosa uscire da dietro un grosso e vecchio armadio. Ogni notte, senza eccezioni... sporgeva la testa nera, le lunghe braccia e le spalle ossute... e mi
fissava...»
«Fissava?» ripeté Eph. «Aveva la bocca puntuta e labbra sottili, nere... Mi guardava e si limitava... a sorridere.» Eph e Nora erano rimasti di sasso. Non si erano aspettati una rivelazione così personale e quel tono sognante. «Poi cominciavo a urlare e mia nonna accendeva la luce e mi portava nel suo letto. E andò così per anni. Lo chiamavo "il signor Sanguisuga". Perché la sua pelle... quella pelle nera era uguale a quella delle sanguisughe che ci si attaccavano addosso in un vicino ruscello. Psichiatri infantili mi esaminarono e lo chiamarono "terrore del buio"; mi diedero validi motivi per non credere in lui, ma... ogni notte tornava. Ogni notte sprofondavo sotto il guanciale, mi nascondevo da lui... però era inutile. Sapevo che era lì, nella stanza...» Fece una smorfia. «Alcuni anni più tardi ci trasferimmo, mia nonna vendette l'armadio e non vidi più quell'essere pauroso. Smisi di sognarlo.» Eph aveva ascoltato con attenzione. «Mi scusi, capitano... ma cosa ha a che fare con...?» «Ci stavo arrivando. L'unica cosa che ricordo fra l'atterraggio e il risveglio qui è... che lui è tornato. Nei miei sogni. L'ho visto di nuovo, il signor Sanguisuga... e stava sorridendo.»
INTERLUDIO II LA FOSSA ARDENTE I suoi incubi erano sempre uguali: Abraham, vecchio o giovane, nudo, era in ginocchio davanti alla grande fossa nel terreno, con corpi che bruciavano in basso, mentre un ufficiale nazista si muoveva lungo la fila di prigionieri genuflessi e sparava loro un colpo alla nuca. La fossa ardente si trovava dietro l'infermeria, nel campo di sterminio noto come Treblinka. Prigionieri troppo malati o troppo vecchi per lavorare venivano spostati dalle baracche dipinte di bianco, con sopra una croce rossa, e finivano nella fossa. Il giovane Abraham ne vide molti morire lì, ma lui ci andò vicino solo una volta. Cercava di non farsi notare, lavorava in silenzio e se ne stava per conto suo. Ogni mattino si pungeva il dito e si spalmava sulle guance una goccia di sangue per sembrare, per quanto possibile, in buona salute all'appello. Aveva visto la fossa per la prima volta mentre riparava alcune scaffalature nell'infermeria. A sedici anni Abraham Setrakian era una stella gialla, un artigiano. Non cercava d'ingraziarsi nessuno, non era il cocco di nessuno; era semplicemente uno schiavo col talento per la lavorazione del legno che, in un campo di morte, era un talento per sopravvivere. Aveva un certo valore per l'Hauptmann nazista che lo sfruttava senza pietà, senza riguardo e senza limiti. Aveva costruito steccati sormontati di filo spinato, montato scaffali per libri, riparato traversine ferroviarie. Aveva intagliato elaborate pipe per il capitano ucraino delle guardie nel periodo natalizio del 1942.
Erano state le mani a tenerlo lontano dalla fossa. Al crepuscolo Abraham ne vedeva il bagliore e a volte dal laboratorio sentiva il puzzo di carne e di petrolio mescolato a segatura. Come la paura s'impossessava del suo cuore, così la fossa vi prendeva residenza. Ancora oggi Setrakian la sentiva dentro di sé ogni volta che la paura faceva presa... se attraversava una via buia, se chiudeva il negozio di sera o se si svegliava da un incubo... i brandelli dei suoi ricordi rivissuti. Lui in ginocchio, nudo, in preghiera. Nei sogni sentiva la bocca della pistola premergli la nuca. I campi di sterminio non servivano ad altro che a uccidere. Treblinka era camuffato in modo da sembrare una stazione ferroviaria, con cartelli di viaggio e orari e vegetazione intrecciata nel filo spinato. Abraham vi era arrivato nel settembre del 1942 e aveva passato tutto il tempo a lavorare. "Guadagnarsi il respiro", lo definiva. Era un uomo taciturno, giovane ma ben educato, saggio e compassionevole. Aveva aiutato tutti i prigionieri che poteva e pregato in silenzio per tutto il tempo. Nonostante le atrocità che vedeva ogni giorno, credeva che Dio vegliasse sugli uomini. Ma una notte d'inverno, negli occhi di una creatura morta, Abraham aveva visto il diavolo. E aveva capito che il mondo era diverso da come aveva pensato. A mezzanotte passata il campo era silenzioso come non mai. Il mormorio della foresta si era zittito e l'aria fredda spaccava le ossa. Abraham aveva cambiato posizione nella cuccetta, senza fare rumore, e guardato senza vedere la tenebra che lo circondava. E poi lo aveva udito...
Tic tic tic. Proprio come aveva detto la sua bubbeh... risuonava come aveva detto lei... e per qualche motivo questo lo rendeva più terribile... Il fiato gli era venuto meno e aveva sentito la fossa ardente nel cuore. In un angolo della baracca la tenebra si muoveva. La Creatura, una torreggiante figura smagrita, si staccava dalle profondità nere come inchiostro e scivolava sopra i suoi compagni addormentati.
Tic tic tic.
Sardu. O un essere che un tempo era stato lui. La sua pelle, raggrinzita e scura, si fondeva con le pieghe delle vesti nere troppo larghe. Pareva una macchia d'inchiostro animata. La Creatura si muoveva senza sforzo, un fantasma privo di peso che scivolasse sul pavimento. Le unghie dei piedi simili ad artigli graffiavano il legno dell'assito. Non poteva essere. Il mondo era reale, il male era reale e lo circondava in ogni momento, ma quella Creatura non poteva essere reale. Quella era un bubbeh meiseh. Un bubbeh...
Tic tic tic... In pochi secondi la Creatura, morta da tempo, aveva raggiunto la cuccetta di fronte. Abraham Setrakian ne sentiva l'odore: foglie secche, terra e muffa. Aveva avuto fuggevoli visioni della sua faccia annerita mentre emergeva dalla tenebra che ammantava il corpo... e si sporgeva ad annusare il collo di Zadawski, un giovane polacco, gran lavoratore. La Creatura era alta come la baracca, la testa fra le travi del tetto, ansimava forte, rauca, eccitata, famelica. Si era spostata alla cuccetta seguente, dove la sua faccia per un attimo si era profilata nella luce della vicina finestra. La pelle annerita era diventata trasparente, come una fetta di carne secca contro la luce. Era tutta asciutta e opaca, tranne gli occhi: due sfere lucenti che parevano brillare a intermittenza, come pezzi di carbone ardente ravvivati da un soffio. Le secche labbra si erano ritratte a mostrare gengive chiazzate e due file di denti piccoli e giallastri, incredibilmente aguzzi. La Creatura si era soffermata sulla fragile sagoma di Ladizlav Zajak, un vecchio di Grodno, uno degli ultimi arrivati, malato di tubercolosi. Setrakian aveva aiutato Zajak fin dall'arrivo, gli aveva dato le dritte sul lavoro e gli aveva risparmiato esami minuziosi. La sua malattia era motivo sufficiente per l'esecuzione immediata, ma Setrakian lo aveva preso come aiutante e nei momenti critici lo teneva lontano dai capisquadra delle SS e dalle guardie ucraine. Però Zajak ormai era andato. Aveva i polmoni consunti e, cosa più importante, aveva perduto la voglia di vivere: si era chiuso in se stesso, parlava di rado, piangeva di continuo in silenzio. Era diventato un ostacolo alla sopravvivenza di Setrakian, tuttavia non
reagiva più allo stimolo delle sue suppliche. Lo sentiva rabbrividire in soffocati accessi di tosse e singhiozzare piano fino all'alba. La Creatura incombeva su Zajak e lo osservava. Pareva compiaciuta dal respiro aritmico del vecchio. Come l'angelo della morte, aveva esteso la sua tenebra sul fragile corpo dell'uomo e schioccato con impazienza la lingua contro il secco palato. Cosa aveva fatto dopo Setrakian non aveva potuto vederlo. C'era stato rumore, ma le sue orecchie si erano rifiutate di udirlo. La grande, gongolante Creatura si era chinata sulla testa e sul collo del vecchio. Qualcosa nella postura indicava che... si nutriva. Il corpo di Zajak si era contorto fra gli spasmi, ma, incredibilmente, l'uomo non si era svegliato. Mai più. Setrakian aveva soffocato un ansito nella mano. E la Creatura che si stava nutrendo era parsa non fare caso a lui. Aveva passato altro tempo fra i vari ammalati e infermi. Al termine della notte, si era lasciata dietro tre cadaveri e pareva inebriata... con la pelle più morbida, ma ugualmente scura. Setrakian aveva visto la Creatura dissolversi nelle tenebre e andare via. Con prudenza si era alzato per avvicinarsi ai cadaveri. Li aveva guardati nella debole luce senza scorgere segni di ferite, a parte sottili incisioni sul collo. Tagli così sottili da essere quasi impercettibili. Se non avesse assistito di persona all'orrore... Allora aveva capito. La Creatura sarebbe tornata... presto. Il campo era un fertile terreno da pascolo e lei avrebbe brucato gli inosservati, i dimenticati, gli insignificanti. Si sarebbe cibata di loro. Di tutti quanti. A meno che qualcuno non l'avesse fermata. Qualcuno. Lui.
MOVIMENTO
Classe economica Ansel Barbour, superstite del volo 753, si accalcò con la moglie Ann-Marie e i due figli, Benjy di otto anni e Haily di cinque, sul divano di chintz blu nella veranda sul retro della loro casa con tre camere da letto a Flatbush, New York. Anche Pap e Gertie, i due grossi sanbernardo ai quali era stato permesso di entrare in casa per quell'occasione speciale, partecipavano all'ammucchiata e, felici di rivederlo, gli posavano sulle ginocchia zampe grosse come gambe e gli davano spintarelle di ringraziamento. Ansel aveva occupato il posto di corridoio 39G, in classe economica, tornando a casa da una sessione di aggiornamento sulla sicurezza dei database, pagata dalla ditta, a Potsdam, a sudovest di Berlino. Era un programmatore di computer impiegato con un contratto di quattro mesi presso un rivenditore del New Jersey che seguiva il furto elettronico di milioni di numeri di carte di credito dei clienti. Non era mai stato fuori del paese e aveva sentito molto la mancanza della famiglia. Periodi di pausa e giri turistici erano inclusi nella conferenza di quattro giorni, ma Ansel non si era mai avventurato fuori dell'albergo, preferendo restare in camera sua, col computer portatile, a chiacchierare con i figli tramite webcam e a giocare a Hearts con estranei su Internet. Sua moglie, Ann-Marie, era una donna superstiziosa, tenuta nella bambagia, e la tragica fine del volo 753 aveva solo confermato la sua paura dei viaggi aerei e delle nuove esperienze in generale. Non guidava l'auto. Viveva nella stretta di decine di discutibili manie ossessivo-compulsive, compresa quella di toccare e pulire ripetutamente ogni specchio della casa, sistema che senz'altro allontanava la malasorte. I suoi genitori erano morti in un incidente stradale quando lei aveva quattro anni; lei era sopravvissuta al sinistro ed era stata allevata da una zia nubile deceduta una settimana prima del matrimonio con Ansel. La nascita dei figli aveva intensificato l'isolamento di Ann-Marie e amplificato le sue paure, al punto che spesso stava giorni interi senza lasciare la sicurezza della
casa e confidava unicamente in Ansel per qualsiasi cosa richiedesse rapporti col mondo esterno. La notizia dell'aereo danneggiato l'aveva messa in ginocchio. Il fatto che Ansel fosse sopravvissuto l'aveva ravvivata, trasmettendole un'esaltazione che lei riusciva a definire solo in termini religiosi, un senso di liberazione che confermava e consacrava l'assoluta necessità dei suoi ridondanti rituali di conservazione della vita. Ansel, da parte sua, provava un intenso sollievo per essere di nuovo a casa. Ben e Haily avevano cercato di salirgli addosso, ma lui li aveva allontanati a causa del persistente dolore al collo. La rigidità - i muscoli gli parevano funi ritorte per torturarlo - era incentrata nella gola, ma si estendeva oltre la mascella, fino alle orecchie. Quando la si torce, una fune si accorcia e i muscoli gli davano proprio quella sensazione. Ansel stiracchiò il collo, con la speranza di alleviare un po' la tensione...
SNAP... CRACK... POP... Il dolore lo costrinse a piegarsi in due. Più tardi, Ann-Marie lo raggiunse in cucina, mentre lui rimetteva nell'armadietto sopra i fornelli il flacone formato famiglia di ibuprofene. Aveva prelevato sei capsule, la dose massima giornaliera, e riuscì a inghiottirle a fatica. Gli occhi timorosi di Ann-Marie persero tutta l'allegria. «Che cosa c'è?» «Niente.» Era troppo dolorante per scuotere la testa. Meglio non far preoccupare la moglie. «Sono solo un po' irrigidito per il viaggio. La posizione della testa, probabilmente.» Lei rimase nel vano della porta, tormentandosi le dita. «Forse non dovevi lasciare l'ospedale.» «E tu come tiravi avanti?» ribatté lui, più brusco di quanto intendesse.
SNAP... CRACK... POP... «Ma se... se devi tornarci? Se stavolta ti trattengono?» Era estenuante dover scacciare i timori della moglie a spese dei propri. «Nella situazione attuale non posso rinunciare a nessun
lavoro. Lo sai, siamo praticamente in rosso.» Vivevano con un solo introito, a differenza della maggior parte delle famiglie americane che potevano contare su due stipendi. Ansel non era neppure in grado di trovarsi un secondo lavoro, perché in quel caso chi avrebbe fatto la spesa? «Sai che... che non potrei farcela senza di te» disse lei. Non parlavano mai della sua malattia. Almeno, mai in termini che la definissero davvero una malattia. «Ho bisogno di te. Abbiamo bisogno di te.» Ansel piegò la spalla in quello che era più un inchino che un cenno d'assenso. «Dio mio, quando penso a tutte quelle persone...» Rivide i compagni di viaggio in quel lungo volo. La famiglia con tre figli grandi, due file più avanti di lui. La coppia anziana dall'altra parte del corridoio, che aveva dormito per gran parte del volo, le teste canute che dividevano lo stesso guanciale da viaggio. La hostess dai capelli biondi che gli aveva fatto gocciolare addosso la soda. «Perché io, capisci? C'è una ragione per cui sono sopravvissuto?» «Una c'è» rispose lei, le palme appoggiate sul petto. «Io.» Più tardi Ansel portò i cani alla loro baracca nel cortile sul retro. Quel cortile era il motivo principale per cui avevano comprato la casa: un grande spazio per i giochi dei bambini e per i cani. Ansel aveva Pap e Gertie ancora prima di conoscere Ann-Marie e lei si era innamorata dei due sanbernardo almeno quanto si era innamorata del marito. E i cani la ricambiavano incondizionatamente. Come Ansel e i bambini, anche se Benjy, il più grande, cominciava a fare domande sulle sue eccentricità. Soprattutto quando entravano in conflitto con gli allenamenti e le partite di baseball di un ragazzino di otto anni. Già Ansel sentiva che Ann-Marie si distaccava un poco da lui. Ma Pap e Gertie non l'avrebbero mai contestata fintantoché lei avesse continuato a rimpinzarli. Aveva timore per i figli e la loro crescita, temeva che si staccassero troppo presto della madre e non capissero davvero perché sembrasse preferire i cani a loro. Nella vecchia baracca in giardino c'era un palo metallico da staccionata piantato al centro dell'assito, al quale erano attaccate due catene. All'inizio di quell'anno Gertie era scappata ed era tornata con segni di vergate sulla schiena e sulle zampe posteriori, perché
qualcuno l'aveva picchiata con una frusta. Così ora incatenavano i cani, la sera, per proteggerli. Lentamente Ansel, tenendo collo e testa allineati per ridurre il fastidio, mise a terra il cibo e l'acqua, poi passò la mano sui ciuffi di pelo delle grosse teste mentre i cani mangiavano, solo per renderli reali, apprezzandoli per ciò che erano alla fine di quel giorno fortunato. Dopo averli incatenati al palo, uscì, chiuse la porta e rimase a guardare la casa dal retro; cercò d'immaginare il mondo senza di lui. Aveva visto i figli piangere, quel giorno, e aveva pianto con loro. La sua famiglia aveva bisogno di lui più di ogni altra cosa. All'improvviso vacillò per un acuto dolore al collo. Si afferrò all'angolo della baracca per sorreggersi e rimase lì impietrito per qualche istante, piegato in due di lato, scosso da brividi, cercando di sopportare il dolore che divampava come una coltellata. Alla fine la fitta passò e gli lasciò un ronzio nell'orecchio, simile al rumore di una conchiglia. Ansel si esplorò cautamente il collo, troppo sensibile al tocco. Cercò di tenderlo, di migliorarne la mobilità piegando all'indietro la testa fin dove possibile verso il cielo notturno. Luci di aerei, stelle. "Sono sopravvissuto" pensò. "Il peggio è passato. Passerà anche questo." Quella notte fece un sogno terrificante. Una belva infuriata inseguiva i suoi figli per la casa, ma quando lui accorreva per salvarli, scopriva di avere artigli mostruosi al posto delle mani. Si svegliò in un bagno di sudore e scese rapidamente dal letto... solo per cadere preda di un altro accesso di dolore.
SNAP! Orecchie, mascella e gola erano pervasi dalla stessa tensione dolorosa che gli impediva di deglutire.
CRACK! La contrazione alla base dell'esofago quasi lo paralizzava. E poi c'era la sete. Una sete mai provata, uno stimolo che non si attenuava. Quando riuscì di nuovo a muoversi, attraversò il corridoio ed entrò nella cucina buia. Aprì il frigorifero e si versò un grosso
bicchiere di limonata, poi un altro e un altro... e in breve si trovò a bere direttamente dalla caraffa. Ma niente avrebbe placato quella sete. Perché stava sudando così? Le macchie sul pigiama avevano un odore intenso, vagamente muschiato, e il sudore aveva una colorazione giallastra. Lì dentro faceva così caldo... Mentre rimetteva la caraffa nel frigo, notò un vassoio con carne a marinare. Vide i sinuosi fili di sangue mischiarsi pigramente all'olio e all'aceto ed ebbe l'acquolina in bocca. Non all'idea di cuocere alla griglia la carne, ma all'idea di affondarvi i denti, lacerarla, succhiarla. All'idea di bere il sangue.
POP! Tornò in corridoio e diede un'occhiata ai suoi figli. Benjy era rannicchiato sotto le lenzuola con l'immagine dell'alano ScoobyDoo; Haily russava piano, il braccio penzolante da una parte, dove aveva lasciato cadere sul pavimento un libro illustrato. Guardarli gli permise di rilassare le spalle e riprendere fiato. Uscì in cortile per rinfrescarsi e l'aria della notte gli gelò il sudore sulla pelle. Essere a casa, sentì, essere con la famiglia l'avrebbe curato da qualsiasi male. Loro l'avrebbero aiutato. Loro avrebbero provveduto.
Ufficio centrale di medicina legale, Manhattan Non c'era sangue sul medico legale che accolse Eph e Nora. Già quella era una stranezza. In genere il sangue colava sui camici impermeabili e macchiava fino al gomito le maniche di plastica. Non stavolta però. Quell'uomo avrebbe potuto essere un ginecologo di Beverly Hills. Si presentò come Gossett Bennett. Aveva la pelle scura, gli occhi castani e una faccia decisa dietro la mascherina di plastica. «Abbiamo cominciato» disse con un gesto verso i tavoli operatori. La stanza delle autopsie era un posto rumoroso. Mentre una sala operatoria è sterile e silenziosa, l'obitorio è l'esatto contrario: un luogo animato,
frenetico, con gemiti di seghe, acqua corrente e medici che dettano appunti al registratore. «Ne abbiamo in corso otto del vostro aereo.» I cadaveri erano su otto tavoli di freddo acciaio inossidabile, provvisti di canaletti di scolo. Le vittime dell'aereo erano in vari stadi dell'autopsia, due completamente "scavati": ossia, il torace era stato aperto, gli organi rimossi e sistemati su una sacca di plastica aperta sugli stinchi, e un patologo stava rifilando campioni su un tagliere come un cannibale che preparasse un piatto da portata con sashimi umano. I colli feriti erano stati dissezionati e le lingue erano state staccate, le facce erano mezzo ripiegate come maschere di lattice e lasciavano vedere le calotte craniche già aperte con la sega circolare. Un cervello stava per essere troncato dal midollo spinale e poi sarebbe stato messo in una soluzione di formalina per indurirsi, l'ultimo passo di un'autopsia. Un assistente dell'obitorio era pronto, con ovatta e un grosso ago ricurvo infilato con refe pesantemente cerato, a riempire il cranio vuoto. Un paio di forbici per potare dal lungo manico era passato da un tavolo al successivo, dove un assistente, seduto su uno sgabello metallico davanti a un cadavere dal torace aperto, tagliava le costole a una a una, in modo da togliere l'intera gabbia toracica attaccata allo sterno. L'odore era una mistura acre di formaggio parmigiano, metano e uova marce. «Dopo la sua telefonata ho cominciato a controllare il collo» disse Bennett. «Finora tutti i cadaveri presentano l'incisione di cui mi ha parlato. Ma niente cicatrice. Una ferita aperta, precisa e pulita.» Li accompagnò al corpo non dissezionato di una donna, posto su un tavolo. Un blocco metallico di venti centimetri sotto il collo faceva ricadere indietro la testa, inarcare il torace e tendere il collo. Con le dita guantate Eph sondò la pelle sulla gola della donna. Notò la linea sottile come quella dei tagli prodotti da un foglio di carta e gentilmente aprì la ferita. Fu sconvolto dalla precisione e dall'evidente profondità. Rilasciò la pelle e il taglio si chiuse pigramente, come una palpebra assonnata o un timido sorriso. «Cosa potrebbe averla provocata?» chiese. «Niente di naturale, che io sappia» rispose Bennett. «Noti la
precisione da bisturi. Quasi calibrata, si potrebbe dire, in mira e lunghezza. Eppure i bordi sono arrotondati, vale a dire quasi organici, in apparenza.» «Quant'è profonda?» s'informò Nora. «Un'incisione netta, dritta, che fora la parete della carotide, ma si ferma lì. Non trapassa l'arteria.» «Lo stesso per tutti?» domandò Nora. «Per tutti quelli che ho visto finora. Ogni cadavere presenta la ferita, ma se non mi aveste avvertito, lo ammetto, probabilmente non l'avrei notata. Soprattutto considerando gli altri aspetti di quei cadaveri.» «C'è dell'altro?» «Ci arriviamo fra un momento. Ogni ferita è nel collo, davanti o di lato. Tranne in una donna, che ce l'ha nel petto, molto sopra il cuore, e in un maschio, che ce l'ha nella parte superiore interna della coscia, sopra l'arteria femorale. Ogni ferita trapassa pelle e muscolo e termina esattamente in una delle arterie principali.» «Un ago?» azzardò Eph. «Qualcosa di ancora più sottile. Devo fare altre ricerche, siamo solo agli inizi. E ci sono tante altre stranezze. Ve ne rendete conto, immagino.» Li guidò alla porta di una cella frigorifera, più ampia di un garage a due posti. Dentro c'era una cinquantina di lettini a rotelle, quasi tutti con sopra una sacca di plastica aperta fino all'altezza del torace del cadavere. Alcune sacche erano invece aperte completamente e i corpi nudi, già pesati, misurati e fotografati, erano pronti per il tavolo dell'autopsia. C'erano anche otto o nove cadaveri non collegati al volo 753, distesi sul lettino, senza sacca di plastica, con il cartellino giallo standard legato all'alluce. La bassa temperatura rallenta la decomposizione, proprio come preserva frutta e verdura e non fa andare a male le bistecche. Ma i corpi delle vittime dell'aereo non erano affatto andati a male. Dopo trentasei ore, parevano freschi quasi come quando Eph era salito a bordo la prima volta. Al contrario di quelli con il cartellino giallo, che si stavano enfiando ed emanavano effluvi da ogni orifizio come uno spurgo, mentre la carne diventava verde scuro e coriacea per
l'evaporazione. «Questi morti hanno un gran bell'aspetto» disse Bennett. Eph sentì un gelo che non aveva niente a che fare con la temperatura della cella frigorifera. Lui e Nora si aggirarono nel locale. I corpi parevano... non in salute, perché erano raggrinziti ed esangui... ma morti da pochissimo. Le facce avevano l'aspetto tipico dei deceduti, ma era come se fossero spirati da neanche mezz'ora. Eph e Nora seguirono Bennett e tornarono nella sala delle autopsie, davanti allo stesso cadavere femminile pronto per l'incisione, una donna sulla quarantina senza segni particolari tranne la cicatrice di un cesareo che risaliva a una decina d'anni prima, sotto la linea del bikini. Invece del bisturi, però, Bennett prese uno strumento mai usato in un obitorio. Uno stetoscopio. «L'avevo già notato» disse porgendolo a Eph. Questi si mise la cuffia biauricolare e il medico legale chiese a tutti di fare silenzio. Un aiutante si precipitò a chiudere il rubinetto dell'acqua. Bennett posò la campana dello stetoscopio sul torace del cadavere, appena sotto lo sterno. Eph ascoltò con trepidazione, timoroso di ciò che avrebbe sentito. Ma non udì niente. Guardò il medico, che rimase inespressivo ad aspettare. Allora chiuse gli occhi e si concentrò. Debole. Molto debole. Il rumore di qualcosa che si contorcesse o si dimenasse nel fango. Un suono lento, talmente lieve da fargli dubitare di avvertirlo davvero. Eph passò lo stetoscopio a Nora. «Larve?» chiese lei raddrizzandosi. Bennett scosse la testa. «In realtà non c'è nessuna infestazione che giustifichi in parte la mancanza di decomposizione. Ma ci sono altre anomalie che rendono perplessi...» Indicò agli altri di riprendere il lavoro e scelse, da un vassoio, un grosso bisturi. Invece di praticare nel torace la solita incisione a Y, prese dal banco smaltato un comune barattolo a imboccatura larga e lo sistemò sotto la mano sinistra del cadavere. Passò la lama del bisturi sulla parte inferiore del polso e l'aprì come se tagliasse la
buccia di un'arancia. Un liquido chiaro, opalescente schizzò in parte sui guanti e sul lato del taglio iniziale, poi sgorgò in modo regolare dal braccio e si raccolse sul fondo del barattolo. Scorreva velocemente, ma di lì a poco, in assenza di pressione circolatoria per il cuore immobile, perse forza, dopo una quantità pari a un centinaio di grammi. Bennett abbassò il braccio per far uscire altro liquido. La sorpresa di Eph per l'insensibilità del taglio fu presto superata dallo stupore alla vista del flusso. Quello non poteva essere sangue. Il sangue si deposita e si coagula dopo la morte. Non cola via come olio lubrificante. E neppure diventa bianco. Bennett rimise il braccio lungo il fianco del cadavere e mostrò a Eph il barattolo. "Tenente... i cadaveri... sono..." «Sulle prime ho pensato che forse le proteine si separassero, un po' come accade con l'olio che galleggia sull'acqua» spiegò Bennett. «Ma non si tratta neanche di questo.» Lo scolo purulento era bianco e pastoso, quasi come se nella circolazione sanguigna fosse stato introdotto latte acido. "Tenente... oh, Gesù..." Eph non credeva ai suoi occhi. «Sono tutti così?» chiese Nora. Bennett annuì. «Dissanguati. Niente sangue.» Eph guardò la sostanza bianca nel barattolo e la sua passione per il latte intero gli rivoltò lo stomaco. «C'è dell'altro» disse Bennett. «La temperatura interna è alta. Chissà come, i corpi generano ancora calore. Inoltre abbiamo trovato macchie scure su alcuni organi. Non macchie necrotiche, ma simili a... a lividi.» Posò sul bancone il barattolo di liquido opalescente e chiamò un'aiutante patologa. La donna portò un contenitore di plastica opaca simile a un sottovuoto. Rimosse il coperchio e Bennett vi infilò la mano, prese un organo e lo posò su
un tagliere, come un piccolo arrosto appena preso in macelleria. Era un cuore umano non dissezionato. Il medico legale indicò il punto di unione alle arterie. «Vedete le valvole cardiache? È come se fossero aperte. Ora, non avrebbero potuto operare così in vita. Chiudersi e aprirsi e pompare sangue. Quindi non può essere una caratteristica congenita.» Eph era sbigottito. Quell'anomalia era un difetto fatale. Come ogni anatomista sa, l'interno delle persone è diverso quanto l'esterno. Ma nessun essere umano sarebbe sopravvissuto fino all'età adulta se avesse avuto un cuore come quello. «Avete la documentazione medica di questa paziente?» s'informò Nora. «Qualcosa con cui fare confronti?» «Non ancora. Probabilmente non ne entreremo in possesso prima di domattina. Ma questo fatto mi ha indotto a rallentare il procedimento. A bloccarlo. Mi fermo per un po', chiudo per la notte, così posso ricevere aiuto domani. Voglio controllare ogni minuzia. Come... questa.» Bennett li accompagnò davanti a un cadavere sottoposto ad anatomia completa; un maschio adulto, di peso medio. Il collo, dissezionato fino alla gola, metteva allo scoperto laringe e trachea, cosicché erano visibili le corde vocali, appena sopra la laringe. «Vedete le pieghe vestibolari?» Erano conosciute anche come "false corde vocali": spesse membrane mucose la cui unica funzione è proteggere le vere corde vocali. Sono una vera stranezza anatomica, perché si possono autorigenerare completamente, anche dopo la rimozione chirurgica. Eph e Nora si sporsero più vicino e videro l'escrescenza nelle pieghe vestibolari, una rosea protuberanza carnosa, non degenerativa né deforme come una massa tumorale, ramificata all'interno della gola, sotto la lingua. Un insolito e in apparenza spontaneo accrescimento della mandibola inferiore. Una volta fuori si ripulirono con maggiore cura del solito. Erano molto scossi da ciò che avevano visto nell'obitorio. Eph fu il primo a parlare. «Chissà quando le cose cominceranno di nuovo ad avere senso.» Si asciugò per bene le mani, sentendo l'aria contro la pelle non più rivestita dai guanti. Poi si tastò il collo, sopra la gola, più o meno dove si trovavano le ferite dei cadaveri. «Una
lacerazione profonda nel collo. E un virus che da un lato rallenta la decomposizione, dall'altro provoca la crescita spontanea di tessuti?» «È una cosa del tutto nuova» disse Nora. «Oppure... molto, molto antica.» Lasciarono l'edificio dall'uscita dei fornitori e raggiunsero la Explorer di Eph parcheggiata in sosta vietata, sul cruscotto della quale c'era il contrassegno EMERGENZA TRASPORTO SANGUE. Le ultime striature di caldo del giorno stavano svanendo dal cielo. «Dobbiamo controllare gli altri obitori» disse Nora. «Vedere se anche lì trovano le stesse anomalie.» Il cellulare di Eph emise un trillo. Un messaggio da Zack.
dove 6???? Z «Merda. Me ne sono scordato. L'udienza per la custodia.» «Adesso?» fece Nora senza riuscire a controllarsi. «Be', vai. Ci vediamo dopo.» «No, li chiamo... andrà bene lo stesso.» Si guardò in giro, sentendosi diviso in due. «Dobbiamo dare un'altra occhiata al pilota. Perché la sua incisione si è chiusa e quella degli altri no? Abbiamo bisogno di conoscere la fisiopatologia di questa roba.» «E gli altri superstiti?» Eph corrugò la fronte, ricordando che erano spariti. «Non è da Jim piantare un casino del genere.» Nora difese il collega. «Se staranno male, torneranno.» «Solo che... potrebbe essere troppo tardi. Per loro e per noi.» «Cosa significa "per noi"?» «Per andare a fondo di questa storia. Deve esserci una risposta da qualche parte. Una spiegazione. Una giustificazione logica. Sta accadendo una cosa impossibile. Dobbiamo scoprire perché accade e
fermarla.» Sul marciapiede all'ingresso principale in First Street, i media trasmettevano in esterni dall'Ufficio di medicina legale attirando una notevole folla di curiosi, il cui nervosismo era palpabile da dietro l'angolo. Nell'aria c'era una profonda incertezza. Un uomo si staccò dalla folla, uno che Eph aveva già notato mentre entrava. Era vecchio, aveva i capelli bianchi come corteccia di betulla e si appoggiava a un bastone da passeggio troppo lungo per lui, impugnato poco sotto il pomolo d'argento. Una sorta di Mosè di un dinner theater, a parte il fatto che indossava un vestito impeccabile, formale e all'antica: un leggero soprabito nero su un completo di gabardine, con la catenella di un orologio d'oro che pendeva dal taschino del panciotto. E, cosa strana per un abbigliamento così distinto, guanti di lana grigia dalle dita tagliate in punta. «Dottor Goodweather?» "Il vecchio sa il mio nome" pensò Eph. Gli diede un'altra occhiata. «La conosco?» L'uomo parlava con un'inflessione forse slava. «L'ho vista in TV. Sapevo che sarebbe dovuto venire qui.» «È stato fuori ad aspettarmi?» «Ciò che devo dirle, dottore, è molto importante. Vitale.» Eph fu distratto dal pomolo in cima al bastone da passeggio del vecchio: una testa di lupo, d'argento. «Ah, non ora. Chiami il mio ufficio, prenda un appuntamento...» Si allontanò componendo in fretta un numero sul cellulare. Il vecchio parve ansioso, una persona agitata che si sforzi di parlare con calma. Mostrò il suo miglior sorriso da gentiluomo, includendo Nora nella presentazione. «Mi chiamo Abraham Setrakian. Anche se penso non significhi nulla per voi.» Con il bastone da passeggio indicò l'obitorio. «Li avete visti, là dentro. I passeggeri dell'aereo.» «Sa qualcosa sull'incidente?» chiese Nora. «Infatti» rispose lui rivolgendole un sorriso di gratitudine. Lanciò
un'altra occhiata all'obitorio, come una persona che, avendo aspettato a lungo per parlare, non sappia bene da dove cominciare. «Li avete trovati non molto cambiati, vero?» Eph spense il cellulare prima che squillasse dall'altra parte. Le parole del vecchio echeggiavano le sue irrazionali paure. «Non cambiati in che senso?» «I morti. I cadaveri non si decompongono.» «Allora è questo che si dice qua fuori?» chiese Eph, più preoccupato che incuriosito. «A me nessuno deve dire niente, dottore. Io so.» «Lei "sa"» ironizzò Eph. «Sentiamo...» lo incoraggiò Nora. «Cos'altro sa, lei?» Il vecchio si schiarì la gola. «Avete trovato... una bara?» Eph fu sicuro che Nora avesse fatto un salto. «Come ha detto?» «Una bara. Se ce l'avete, allora avete ancora anche lui.»
«Lui chi?» chiese Nora. «Distruggetela. Subito. Non tenetela per esaminarla. Dovete distruggere la bara, senza perdere tempo.» Lei scosse la testa. «È sparita. Non sappiamo dove si trovi.» Setrakian deglutì, amaramente deluso. «Proprio come temevo.» «Perché distruggerla?» chiese Nora. «Se queste voci si diffondono» intervenne Eph rivolgendosi a Nora «la gente sarà presa dal panico.» Guardò il vecchio. «Lei chi è? Dove ha sentito queste cose?» «Sono il titolare di un'agenzia di pegni. Non ho sentito niente. Quelle cose le so.» «Le sa?» fece Nora. «Come fa a saperle?» «Per favore.» Il vecchio si concentrò su Nora, la più ricettiva. «Ciò che sto per rivelarvi non lo dico alla leggera. Lo dico da disperato, in tutta onestà. Quei corpi là dentro...» Indicò l'obitorio. «Datemi retta, prima che scenda la notte devono essere distrutti.» «Distrutti?» ripeté Nora, reagendo negativamente per la prima
volta. «Perché?» «Raccomando l'incenerimento. Cremazione. Un metodo semplice e sicuro.» «Eccolo là» disse una voce dalla porta secondaria: un addetto dell'obitorio guidava verso di loro un poliziotto in divisa. Verso Setrakian. Il vecchio non badò all'agente e parlò più in fretta. «Per favore. È quasi troppo tardi.» «Eccolo là» ripeté l'addetto dell'obitorio; avanzò spedito e indicò Setrakian. «È quell'uomo.» Il poliziotto, gentile e annoiato, si rivolse al vecchio. «Signore?» Lui non gli badò e continuò a perorare la propria causa direttamente con Nora ed Eph. «Una tregua è stata rotta. Un patto antico e sacro. Da un uomo che non è più un uomo, ma un abominio. Un abominio che cammina e divora.» «Signore» insistette l'agente. «Posso parlarle in privato?» Setrakian afferrò per il polso Eph, per attirare la sua attenzione. «Lui è qui adesso, qui nel Nuovo Mondo, in questa città, proprio oggi. Stanotte. Capisce? Va fermato.» Le dita del vecchio erano deformi, simili ad artigli. Eph lo spinse via, non rudemente, ma quanto bastò a farlo arretrare un poco. Il bastone da passeggio colpì il poliziotto alla spalla, quasi in faccia, e a un tratto il disinteresse dell'agente si mutò in collera. «Va bene, l'ha voluto lei» disse. Gli strappò di mano il bastone da passeggio e gli bloccò il braccio. «Andiamo.» «Dovete fermarlo qui» continuò Setrakian mentre il poliziotto lo trascinava via. Nora si rivolse all'addetto dell'obitorio. «Cos'è questa storia? Cos'ha combinato?» Prima di rispondere, l'addetto lanciò un'occhiata ai tesserini d'identificazione plastificati appesi al collo; le lettere in rosso dicevano CDC. «Ha già cercato di entrare, spacciandosi per familiare
di una vittima. Ha insistito per vedere i cadaveri.» Guardò il vecchio portato via. «È una specie di ghoul.» Setrakian seguitò a perorare la sua causa. «Ultravioletti» gridò girando solo la testa. «Esaminate i corpi sotto la luce ultravioletta...» Eph impietrì. Aveva sentito bene? «Allora vedrete che ho ragione» strillò il vecchio mentre lo facevano salire sul sedile posteriore di un'auto della polizia. «Distruggeteli. Subito. Prima che sia troppo tardi...» Eph guardò l'agente sbattere la portiera in faccia al passeggero, mettersi al volante e partire.
Eccedenza di bagaglio La telefonata di Eph giunse quando la seduta di cinquanta minuti fra lui, Kelly, Zack e la dottoressa Inga Kempner, la terapeuta familiare nominata dal tribunale, era già iniziata da quaranta. Era sollevato all'idea di non trovarsi seduto nell'ufficio al pianterreno della casa di mattoni, d'anteguerra, ad Astoria, dove si sarebbe conclusa la faccenda della custodia. Perorò la sua causa al vivavoce. «Mi lasci spiegare, per tutto il fine settimana mi sono dovuto occupare di una faccenda gravissima. L'incidente dell'aereo al Kennedy. Non potevo assentarmi.» «Non è la prima volta che non si presenta a un appuntamento» ribatté la dottoressa Kempner. «Dov'è Zack?» chiese Eph. «Fuori, nella sala d'aspetto» rispose la Kempner. Lei e Kelly avevano parlato da sole. La decisione era già stata presa. Tutto era terminato prima ancora di iniziare. «Senta, dottoressa Kempner... chiedo solo che l'appuntamento sia rimandato...» «Dottor Goodweather, purtroppo...» «No... un momento... per favore, aspetti.» Andò subito al sodo.
«Senta, sono il padre perfetto? No, non lo sono. Lo ammetto. Dimostra la mia onestà, giusto? Infatti non sono neanche sicuro di voler essere il padre "perfetto" e di allevare un ragazzo di cui non si accorgerà mai nessuno. Ma di una cosa sono sicuro: voglio essere il miglior padre possibile. Perché Zack se lo merita. E questo è il mio solo scopo al momento.» «Tutte le apparenze dimostrano il contrario» osservò la Kempner. Eph mostrò il medio al telefono. Nora era a qualche metro da lui. Si sentiva infuriato, tuttavia stranamente esposto e vulnerabile. «Mi ascolti» disse sforzandosi di non perdere la calma. «So che lei è al corrente che ho riorganizzato la mia vita per questa situazione, per Zack. Ho creato questo ufficio a New York proprio per poter stare qui, accanto a sua madre, in modo che lui benefici di entrambi i genitori. Ho un orario, di solito, molto regolare durante la settimana, un programma affidabile, con periodi di riposo stabiliti. Sto facendo doppi turni nei weekend per averne due liberi consecutivi.» «Ha partecipato a un incontro degli Alcolisti Anonimi questo fine settimana?» Eph rimase in silenzio. Gli si erano sgonfiate le gomme. «Mi stava ad ascoltare?» «Ha sentito la necessità di bere?» «No» borbottò lui facendo un enorme sforzo per mantenere la calma. «Sono sobrio da ventitré mesi e lei lo sa.» «Dottor Goodweather, non è questione di chi voglia più bene a vostro figlio. Non lo è mai, in casi come questi. È magnifico che tutti e due siate così profondamente interessati. La sua dedizione a Zack è chiara. Ma, come spesso succede, pare non ci sia modo per evitare che causi un conflitto. Lo Stato di New York fornisce linee guida che devo seguire nel mio rapporto al giudice.» Eph deglutì amaro. Tentò d'interromperla, ma la Kempner proseguì. «Lei si è opposto al parere del tribunale nell'assegnazione della custodia, l'ha combattuto fin dall'inizio. E considero il suo comportamento un metro del suo affetto per Zachary. Ha fatto
anche grandi passi a livello personale, questo è evidente e ammirevole. Ma ora troviamo che sia giunto al tribunale d'ultima istanza. Nelle formule che usiamo per arbitrare la custodia. Il diritto di visita, naturalmente, non è mai stato in discussione...» «No, no, no» mormorò Eph, come una persona sul punto di essere travolta da un'auto in corsa. Lo stesso senso di vuoto che aveva provato per tutto il weekend. Provò a ripercorrerlo... lui e Zack seduti nel suo appartamento, a mangiare cibo cinese e a giocare a un videogioco. La prospettiva di un intero fine settimana tutto per loro. Che magnifica sensazione era stata. «Il mio parere, dottor Goodweather» disse la Kempner «è che non vedo l'utilità di andare avanti.» Eph si girò verso Nora, che lo guardò in viso e capì in un istante cosa stava passando. «Non può dirmi che è finita» mormorò Eph nel microfono. «Non è finita, dottoressa Kempner. Non finirà mai.» E riagganciò. Si girò dall'altra parte, sapendo che Nora l'avrebbe rispettato in quel momento e non gli si sarebbe avvicinata. E di questo le fu grato, perché aveva gli occhi umidi e non voleva che lei lo vedesse.
LA PRIMA NOTTE
Solo qualche ora più tardi, nell'obitorio posto nel seminterrato dell'Ufficio centrale di medicina legale a Manhattan, il dottor Bennett stava concludendo una lunghissima giornata. Si sarebbe dovuto sentire esausto, ma in realtà era euforico. Un evento straordinario era in corso, come se le regole di norma affidabili della morte e della decomposizione fossero state riscritte proprio lì. Quella robaccia trascendeva la scienza medica, la stessa biologia umana... forse rientrava addirittura nel regno del miracoloso. Come previsto, Bennett aveva interrotto le autopsie per la notte. Qualche lavoro proseguiva, con gli investigatori che operavano negli stanzini al piano di sopra, ma l'obitorio era tutto per lui. Durante la visita dei medici del CDC, aveva notato una cosa riguardo al campione di sangue prelevato, il fluido opalescente raccolto in un barattolo che aveva collocato in fondo a un refrigeratore, dietro alcuni contenitori di vetro, come il dessert più buono da consumare per ultimo. In quel momento, seduto davanti al bancone per esami accanto al lavello, svitò il coperchio e guardò il barattolo. Dopo qualche istante, la superficie del liquido, circa centocinquanta grammi di sangue bianco, s'increspò e Bennett ebbe un brivido. Trasse un respiro profondo per riprendere la padronanza di sé. Pensò a cosa fare, dopodiché prese dallo scaffale in alto un barattolo identico. Lo riempì della stessa quantità d'acqua e lo posò accanto all'altro sul bancone. Doveva essere certo che le increspature non fossero dovute a vibrazioni provocate per esempio dal passaggio di un camion. Rimase a guardare e aspettò. Accadde di nuovo. Il fluido bianco viscoso si increspò sotto i suoi occhi mentre la superficie dell'acqua, molto meno densa, non subì alcuna variazione. Qualcosa si muoveva nel campione di sangue. Bennett rifletté un momento. Versò l'acqua nel lavello e poi lentamente travasò il sangue oleoso nell'altro barattolo. Il fluido era sciropposo e il processo fu lento, ma preciso. Bennett non vide nulla passare nel sottile rivolo. Sul fondo del primo barattolo rimase una leggera patina di sostanza bianca, ma anche lì non c'era niente.
Rimise il barattolo al suo posto sul bancone e rimase a guardare, in attesa. Non ci volle molto. La superficie s'increspò e Bennett quasi saltò dallo sgabello. Udì un rumore alle sue spalle, un raspare o un fruscio. Si girò innervosito. Le lampadine in alto illuminavano i tavoli d'acciaio inossidabile, vuoti e ripuliti, e i canali di scolo sul pavimento. Le vittime del volo 753 erano chiuse nella cella frigorifera dall'altra parte dell'obitorio. Topi, forse. Non riuscivano a tenere fuori dell'edificio quelle bestiacce: avevano provato di tutto, ma probabilmente erano nascoste nelle pareti o sotto i canali di scolo nel pavimento. Bennett tese l'orecchio ancora per qualche istante, poi tornò al lavoro. Travasò di nuovo il liquido da un barattolo all'altro, ma stavolta si fermò a metà. Le quantità in ogni barattolo erano quasi pari. Sistemò i contenitori sotto la lampada e guardò la superficie lattea, cercando un segno di vita. Ecco. Nel primo vi fu un plic, un rumore simile a quello di un pesciolino che mordicchi la superficie di un torbido stagno. Bennett guardò l'altro barattolo finché non fu soddisfatto, poi versò il contenuto nello scarico. Ripeté l'operazione, dividendo di nuovo il contenuto fra i due barattoli di vetro. Una sirena nella via lo spinse a raddrizzare la schiena. Quando il suono si allontanò, nel silenzio che seguì Bennett udì di nuovo dei rumori. Come di qualcosa che si muovesse dietro di lui. Tornò a voltarsi, sentendosi paranoico e sciocco. La stanza era vuota, l'obitorio sterilizzato e silenzioso. Eppure... qualcosa produceva quel rumore. Si alzò dallo sgabello, in silenzio, girando la testa da una parte e dall'altra per determinare la fonte del rumore. Ebbe un'intuizione e si concentrò sulla porta d'acciaio della cella frigorifera. Mosse qualche passo verso di essa, con tutti i sensi all'erta. Un fruscio. Un movimento all'interno.
Bennett aveva trascorso là sotto abbastanza tempo da non impaurirsi per la semplice vicinanza dei defunti, ma all'improvviso ricordò le escrescenze ante mortem negli otto cadaveri. Quelle ansie, era chiaro, lo avevano indotto a tornare ai soliti tabù riguardanti i morti. Tutto nel suo lavoro sfidava il normale istinto umano. Sventrare corpi. Profanare cadaveri, scorticare facce da crani. Asportare organi e scuoiare genitali. Sorrise tra sé nella stanza vuota. Quindi fondamentalmente era una persona normale, dopotutto. La mente gli giocava brutti scherzi. Forse un difetto nelle ventole di raffreddamento o qualcosa del genere. Nella cella frigorifera c'era un interruttore di sicurezza, un grosso pulsante rosso, nel caso che qualcuno vi restasse chiuso accidentalmente. Tornò ai barattoli, deciso a tenerli d'occhio, in attesa di altri movimenti. Rimpianse di non avere portato il computer per registrare pensieri e impressioni.
Plic. Stavolta era pronto. Il cuore martellava, ma il corpo era immobile. Di nuovo nel primo barattolo. Svuotò l'altro e suddivise il fluido per la terza volta, circa trenta grammi ciascuno. Nel farlo, gli parve di scorgere qualcosa passare nel rivolo dal primo al secondo. Qualcosa di molto sottile, lungo poco meno di quattro centimetri... se davvero aveva visto quel che aveva creduto... Un verme. Una fasciola. Si trattava di una malattia parassitaria? C'erano molti esempi di parassiti in grado di modificare la forma dell'ospite per adattarlo alle proprie esigenze riproduttive. Era quella la spiegazione dei bizzarri cambiamenti post mortem cui aveva assistito sul tavolo autoptico? Alzò il barattolo in questione e agitò sotto la lampada il fluido bianco che si riduceva. Guardò con cura il contenuto, da vicino... e sì... non una volta, ma due, qualcosa scivolò dentro. Si contorse. Sottile come fil di ferro e bianco come ciò che lo circondava, muovendosi molto velocemente. Bennett doveva isolarlo. Metterlo in formalina e poi studiarlo, individuarne la natura. Se aveva quello, ne aveva decine, forse
centinaia, forse... chissà quanti altri, in circolo nei cadaveri chiusi nella... Sobbalzò nell'udire un acuto bang proveniente dalla cella frigorifera e si lasciò sfuggire di mano il barattolo, che cadde sul banco, ma non si ruppe; invece rimbalzò e finì con un acciottolio nel lavello, versando e schizzando il contenuto. Bennett proruppe in una sfilza d'imprecazioni e cercò il verme nel lavello d'acciaio inossidabile. Poi sentì del calore sul dorso della mano sinistra, sul quale era schizzata qualche goccia del sangue bianco che adesso gli provocava una fitta dolorosa. Non bruciante, ma un po' caustica, sufficiente a dargli fastidio. Si affrettò a mettere la mano sotto l'acqua fredda e l'asciugò nel camice da laboratorio prima di riportare danni alla pelle. Si girò rapidamente verso la cella frigorifera. Il colpo che aveva udito non era stato di sicuro causato da un difetto elettrico; gli era parso il rumore di una barella sbattuta contro un'altra. Impossibile. Si arrabbiò di nuovo. Il verme era appena finito nello scarico. Avrebbe preso un altro campione di sangue e isolato il parassita. Era la sua scoperta. Si asciugò un'altra volta la mano nel risvolto della giacca, andò alla cella e tirò la maniglia della porta, che si spalancò. Fu investito da un sibilante soffio d'aria stantia e refrigerata. Joan Luss, dopo avere fatto rilasciare se stessa e gli altri dal reparto d'isolamento, aveva noleggiato un'auto per andare subito a New Canaan, nel Connecticut, nella casa per i weekend di uno dei soci fondatori del suo studio legale. Aveva chiesto all'autista di fermarsi due volte per vomitare dal finestrino. Una combinazione d'influenza e di nervosismo. Ma non importava. Adesso era vittima e avvocato. Parte offesa e patrocinante. Combatteva per il risarcimento alle famiglie dei morti e dei quattro fortunati superstiti. L'elitario studio legale Camins, Peters e Lilly poteva aspettarsi il quaranta per cento della più alta cifra mai chiesta a una compagnia, superiore a quella pagata dalla ditta produttrice del Vioxx o dalla WorldCom. Joan Luss, socia.
Si pensa di trovarsi bene a Bronxville finché non si entra a New Canaan. Bronxville, dove Joan viveva, è un frondoso sobborgo nella contea di Westchester, venticinque chilometri a nord del centro di Manhattan, a ventotto minuti di treno. Roger Luss era un consulente di finanza internazionale per la Clume and Fairstein e faceva viaggi di diverse settimane fuori del paese. Anche Joan aveva viaggiato un bel po', ma dopo la nascita dei figli aveva preferito rinunciare, benché le fosse dispiaciuto. Aveva apprezzato moltissimo la settimana trascorsa a Berlino, al Ritz-Carlton di Potsdamer Platz. Lei e Roger, così abituati alla vita in albergo, avevano emulato in casa lo stesso stile: bagni dal pavimento riscaldato, una sauna al piano di sotto, consegna di fiori freschi due volte a settimana, giardiniere sette giorni su sette e naturalmente governante e lavandaia. L'unico a mancare era un cameriere che ripiegasse le coperte e lasciasse un cioccolatino sul guanciale la sera. Comprare casa a Bronxville, vari anni prima, con la scarsità di nuove costruzioni e un'aliquota d'imposta sgradevolmente alta, era stato un passo importante per loro. Ma dopo un assaggio di New Canaan - dove il socio principale Dory Camins viveva come un signorotto feudale in una proprietà terriera con tre case, completa di lago per la pesca, stalle per cavalli e una pista equestre - sulla via del ritorno Joan vedeva Bronxville come un posto d'altri tempi, provinciale, perfino un po'... noioso. In quel momento si trovava a casa e si era appena svegliata da un inquieto pisolino nel tardo pomeriggio. Roger era ancora a Singapore e lei continuava a sentire rumori, che l'avevano spaventata e alla fine svegliata. Agitazione e ansia. Le attribuì alla riunione, forse la più importante della sua vita. Emerse dallo studio, scese di sotto reggendosi alla parete ed entrò in cucina, mentre Neeva, l'eccellente tata dei suoi figli, riparava i disastri della cena, passando uno straccio umido sul tavolo pieno di briciole. «Oh, Neeva, avrei dovuto farlo io» disse Joan, fingendosi sincera; andò dritta all'alto armadio di vetro dove teneva i medicinali. Neeva era una nonna haitiana che viveva nello Yonkers, a un distretto di distanza. Benché fosse ultrasessantenne, aveva un aspetto senza età; portava sempre un vestito a fiori che le arrivava alle caviglie e comode scarpe da ginnastica Converse. La sua
presenza aveva un effetto calmante, molto necessario in quella casa. I Luss erano sempre molto affaccendati: con i viaggi di Roger, le lunghe ore che Joan trascorreva in centro e la scuola dei figli, ognuno andava in sedici direzioni diverse. Neeva era il timone della famiglia e l'arma segreta di Joan per mandare avanti bene la casa. «Joan, non ha un bell'aspetto» disse la bambinaia con la sua cadenza isolana. «Sono solo un po' stanca» ammise Joan. Si cacciò in bocca qualche pastiglia di Motrin e due di Flexeril, si sedette al tavolo della cucina e aprì "House Beautiful". «Dovrebbe mangiare qualcosa.» «Inghiottire mi fa male.» «Minestra, allora» decretò Neeva, e si dispose a prepararla. Neeva era una figura materna per tutti, non solo per i bambini. E perché Joan non avrebbe dovuto avere un po' di coccole materne? La sua vera madre era divorziata due volte, viveva in un appartamento a Hialeah, in Florida, e non era stata all'altezza del compito. E il bello era che quando le coccole di Neeva diventavano troppo fastidiose Joan poteva sempre mandarla con i bambini a fare qualche commissione. La migliore scusa del mondo. «Ho sentito di quell'aeroplano» continuò la bambinaia lanciandole un'occhiata da sopra l'apriscatole. «Una cosa cattiva. Una cosa malefica.» Joan sorrise alle adorabili, piccole superstizioni della donna... un sorriso subito bloccato da un dolore acuto alla mandibola. Mentre la scodella di minestra girava sulla piastra del ronzante microonde, Neeva tornò a guardare Joan, le posò la mano, scura e irruvidita, sulla fronte e le tastò il collo con dita dalle unghie nere. Lei si ritrasse, dolorante. «Brutto gonfiore» disse Neeva. Joan chiuse la rivista. «Forse dovrei rimettermi a letto.» L'altra si tirò indietro, guardandola in maniera strana. «Dovrebbe tornare all'ospedale.»
Joan avrebbe riso, se non fosse stata sicura che le avrebbe fatto male. Tornare nel Queens? «Fidati di me. Sto molto meglio qui, con le tue attenzioni. E poi... dà retta a chi sa. La faccenda dell'ospedale era uno stratagemma assicurativo della compagnia aerea. A vantaggio loro, non mio.» Mentre si massaggiava il collo dolorante e gonfio, immaginò l'imminente azione legale e ancora una volta sentì il morale salire alle stelle. Diede un'occhiata in giro per la cucina. Buffo che una casa per la quale aveva speso tutto quel tempo e quel denaro in nuovi arredamenti e migliorie le sembrasse all'improvviso... misera. Camins, Peters, Lilly... e Luss. In quel momento i bambini, Keene e Audrey, entrarono in cucina, frignando per qualcosa che riguardava i giocattoli. Le loro voci penetrarono nella testa di Joan al punto di farle venire una voglia matta di prenderli a ceffoni, con tanta forza da sbatterli contro la parete. Ma riuscì a fare quello che faceva sempre: incanalare l'aggressività verso i suoi figli in falso entusiasmo, innalzato come muraglia intorno alla sua collera. Alzò la voce per zittirli. «Che ne dite di un pony ciascuno e un laghetto tutto per voi?» Credette che a far tacere i bambini fosse stata la generosa offerta. In realtà era stato il suo torvo sorriso da doccione, che rivelava un'espressione di odio assoluto, a spaventarli e a farli ammutolire. Per Joan il momentaneo silenzio fu una benedizione. La chiamata al 911 riguardava un uomo nudo all'uscita del tunnel Queens-Midtown. L'avviso fu diramato come un 10-50, una chiamata a bassa priorità per turbativa dell'ordine pubblico. Una pattuglia arrivò nel giro di otto minuti e trovò un brutto ingorgo, peggiore del solito per una domenica notte. Alcuni automobilisti suonarono il clacson e indirizzarono l'auto della polizia verso il centro. La persona sospetta, gridarono, era un grassone che aveva addosso solo una targhetta rossa all'alluce e che si era già spostato. «Ho dei bambini qui con me!» gridò un tizio in un ammaccato caravan Dodge.
L'agente Karn, al volante, si rivolse al collega Lupo. «Un tipo da Park Avenue, direi. Cliente abituale di sexy club. Si è dato un po' troppo da fare prima della seduta di sesso alternativo del weekend.» L'agente Lupo slacciò la cintura di sicurezza e aprì la portiera. «Io mi occupo del traffico. Cicciobello è tutto tuo.» «Grazie mille» disse l'agente Karn alla portiera sbattuta. Accese il lampeggiatore e aspettò con pazienza - non prendeva un extra per precipitarsi - che il groviglio si aprisse per farlo passare. Oltrepassò la Trentottesima, tenendo d'occhio gli incroci. Un grassone nudo in libertà non sarebbe stato troppo difficile da individuare. La gente sui marciapiedi pareva a posto, non sotto l'effetto di droga. Un cittadino servizievole che fumava fuori da un bar notò la macchina della polizia che procedeva lentamente, si avvicinò e indicò la via più avanti. Giunsero altre due chiamate, entrambe per un uomo nudo che si aggirava davanti alla sede delle Nazioni Unite. L'agente Karn accelerò, per mettere fine a quella storia. Oltrepassò le bandiere illuminate di tutti i membri dell'ONU, svolazzanti davanti alla facciata, e l'ingresso per i visitatori, in fondo al lato nord. Dappertutto c'erano cavalletti blu della polizia di New York nonché fioriere di cemento come dissuasori per le autobomba. Karn si accostò a un gruppetto di poliziotti annoiati, fermi vicino ai Cavalletti. «Quel che cerco, signori, è un ciccione nudo.» Uno di loro si strinse nelle spalle. «Se vuoi, ti do qualche numero di telefono.» Gabriel Bolivar tornò in limousine alla sua nuova abitazione a Manhattan, due case unifamiliari in ristrutturazione avanzata in Vestry Street, a Tribeca. Una volta messa a nuovo, la tenuta avrebbe contato trentun stanze, in totale milletrecento metri quadrati, con una piscina dal fondo a mosaico, alloggi per sedici persone di servizio, uno studio di registrazione nel piano interrato e una sala teatro con ventisei posti a sedere. Solo l'attico era terminato e ammobiliato, un lavoro eseguito rapidamente mentre Bolivar era in tour in Europa. Le stanze nei
piani inferiori erano abbozzate, alcune intonacate, altre ancora con teloni di plastica e materiali isolanti. La segatura si era fatta strada su ogni cosa e in ogni fessura. Il suo manager gli aveva illustrato gli sviluppi, ma Bolivar, che non era molto interessato al viaggio, pensava solo alla sorte del suo fastoso e decadente palazzo. Il tour "Jesus Wept" si era concluso in tono minore. Gli organizzatori avevano dovuto darsi da fare per riempire i teatri in modo che Bolivar potesse sostenere sinceramente di avere cantato dovunque in locali col tutto esaurito... ma alla fine era andata proprio così. Poi l'aereo privato si era guastato in Germania e Bolivar, anziché aspettare con gli altri, aveva acconsentito a saltare su un volo di linea. Soffriva ancora dei postumi di quel grosso errore. A dire il vero, anzi, stavano peggiorando. Varcò l'ingresso principale insieme con le guardie di sicurezza e tre ragazze del club. Alcuni dei suoi tesori più ingombranti erano stati trasferiti dentro, comprese due pantere di marmo nero poste ai lati dell'atrio alto sei metri. Due bidoni blu per rifiuti industriali, appartenuti pare a Jeffrey Dahmer, e parecchie file di quadri in cornice: Mark Ryden, Robert Williams, Chet Zarroba grossa, costosa. L'interruttore penzolante dalla parete metteva in funzione una fila di lampadine che serpeggiava su per la scala di marmo, al di là di un grande angelo alato piangente, d'incerta provenienza, "evaso" da una chiesa rumena durante il regime di Ceausescu. «È bellissimo» disse una delle ragazze, guardando i lineamenti dell'angelo, sfumati e consunti dal tempo. Bolivar incespicò accanto alla grande scultura, colto da un dolore al ventre che più di un crampo pareva l'effetto di un violento pugno. Afferrò l'ala dell'angelo per riprendere l'equilibrio e le ragazze accorsero intorno a lui. «Tesoro» tubarono, aiutandolo a reggersi. Bolivar cercò di scacciare il dolore. Qualcuno al club gli aveva rifilato della roba di nascosto? Era già successo altre volte. Cristo, qualche ragazza aveva provato a drogarlo, per la voglia disperata di ottenere quel che voleva... di prendersi la leggenda sotto il trucco. Spinse via le tre donne, allontanò con un gesto anche le guardie del corpo e si tenne dritto malgrado il dolore. I gorilla rimasero dabbasso, mentre lui
usava il bastone da passeggio per spingere le ragazze su per le scale di marmo bianco a venature azzurre, fino all'attico. Lasciò che si preparassero altri drink e si dessero un'aggiustatina nel bagno di servizio. Si chiuse nel bagno principale, tirò fuori la provvista di Vicodin e inghiottì due belle pillole bianche con una sorsata di scotch. Si sfregò il collo e si massaggiò la gola infiammata, preoccupato di restare senza voce. Voleva aprire il rubinetto a forma di testa di corvo, far scorrere l'acqua per sciacquarsi il viso, ma aveva ancora il trucco. Nessuno l'avrebbe riconosciuto nei club senza makeup. Guardò il malsano pallore che gli conferiva, la macilenta ombreggiatura delle guance, le pupille di un nero assoluto grazie alle lenti a contatto. In realtà era un bell'uomo, nessun cosmetico avrebbe potuto nasconderlo; e questo, lo sapeva, era una parte del segreto del suo successo. Tutta la sua carriera consisteva nel prendere la bellezza e corromperla. Sedurre l'orecchio con momenti di musica straordinaria, solo per corromperlo con urla gotiche e distorsione industriale. Era per quello che i giovani impazzivano. Deturpare la bellezza. Corrompere il bene.
Beautiful Corruption, Magnifica corruzione. Possibile titolo per il
suo prossimo CD.
The Lurid Urge, Il sinistro impulso, aveva venduto seicentomila
copie nella prima settimana. Un'enormità, per l'era post-MP3, ma ancora indietro di quasi mezzo milione rispetto a Lavish Atrocities, Sontuose atrocità. La gente si stava assuefacendo alle sue stravaganze sul palcoscenico e fuori. Lui non era più l'anti-tutto che il Wal-Mart aveva messo al bando e che l'America religiosa, compreso il suo stesso padre, aveva giurato di contrastare. Buffo che suo padre andasse d'accordo col Wal-Mart: dimostrava la sua tesi che tutto è noia. Tuttavia, lasciando perdere la destra religiosa, era difficile scuotere ancora le persone. La sua carriera cozzava contro un muro e lui lo sapeva. Non stava pensando esattamente a una sterzata verso i frequentatori dei caffè - anche se così avrebbe scioccato davvero il mondo -, ma le autopsie teatrali e i morsi e i tagli sul palco non erano più una novità. Erano previsti, come i bis. Lui recitava per il suo pubblico, anziché contro di lui. Doveva correre davanti agli spettatori, perché se mai lo avessero raggiunto l'avrebbero calpestato.
Ma non aveva portato il suo spettacolo il più lontano possibile? Dove sarebbe potuto andare ancora? Udì di nuovo le voci. Come un coro improvvisato, lamenti di pena; una pena che echeggiava la sua. Si girò a guardare da ogni parte per accertarsi di essere da solo nel bagno. Scosse con forza la testa. Il suono assomigliava a quello che si sente portando all'orecchio una conchiglia; ma invece dell'eco dell'oceano lui udì il gemito di anime nel limbo. Quando uscì dal bagno, Mindy e Sherry si stavano baciando; Cleo, distesa sul grande letto con un bicchiere in mano, sorrideva al soffitto. Tutt'e tre trasalirono alla sua comparsa e si girarono, pregustando i suoi approcci. Lui strisciò sul letto, con la pancia che rollava come un kayak, pensando che quello era proprio ciò di cui aveva bisogno. Un potente aspiratore per ripulire il sistema. La bionda Mindy si avvicinò per prima e gli passò le dita fra i serici capelli neri, ma lui scelse Cleo - c'era qualcosa di lei - e le passò la mano esangue sulla carne scura del collo. La ragazza si tolse il top per facilitargli l'accesso e gli fece scivolare le mani sui fianchi. «Sono una tua fan da quando...» «Sst» fece lui, augurandosi di risparmiarsi le solite chiacchiere di una novizia. Di sicuro le pillole di Vicodin avevano avuto effetto sulle voci nella testa, che si erano ormai smorzate in una pulsazione, quasi come il ronzio della corrente elettrica, mischiata a vibrazioni. Le altre due ragazze gli strisciarono intorno, con le mani simili a granchi, toccandolo, esplorandolo. Iniziarono a togliergli i vestiti per mettere in mostra l'uomo che stava sotto. Mindy gli passò di nuovo le dita fra i capelli e lui si ritrasse, come se in quel tocco ci fosse qualcosa di maldestro. Sherry strillò giocosamente, sbottonandogli la patta. Lui era al corrente delle voci che circolavano sul suo conto, da conquista a conquista, sulle prodigiose dimensioni e sulla sua abilità. Sherry fece scivolare la mano sui calzoni di pelle; e se non ci fu borbottio di delusione, non ci fu neanche ansito di stupore. Giù non accadeva ancora nulla. Cosa sconcertante, anche tenendo conto della sua indisposizione. Aveva mostrato di cosa era capace anche in condizioni più avverse, tante e tante volte. Tornò a concentrarsi sulle spalle di Cleo, sul collo, sulla gola.
Incantevoli... ma anche qualcosa di più. Provò una sensazione di rifiuto. Non di nausea, forse il contrario: un bisogno da qualche parte nel continuum fra il desiderio di sesso e la necessità di nutrimento. Ma più forte. Una compulsione. Una bramosia. Un'urgenza a violare, violentare, consumare. Mindy gli mordicchiò il collo e Bolivar finalmente si rivolse a lei, la buttò sulle lenzuola, prima con furia, poi con una tenerezza forzata. Le spinse indietro la mandibola e le tese il collo, passando le calde dita sulla gola liscia, soda. Sentì la forza guizzare nei giovani muscoli... e li desiderò. Più di quanto desiderasse il seno, le natiche, i lombi. L'ossessionante pulsazione proveniva da lei. Avvicinò la bocca alla sua gola. La baciò, ma non fu soddisfatto. Provò a mordicchiarla e ne trasse maggior gusto... Però nel metodo c'era qualcosa di sbagliato. Voleva... per così dire... di più. Ora sentiva la pulsazione vibrargli in tutto il corpo, la pelle tendersi come quella di un tamburo battuto in un'antica cerimonia. Il letto turbinava un poco e il collo e il torace facevano resistenza per il bisogno e la ripulsa. Si allontanò, mentalmente, per qualche attimo. Quando tornò, fu per lo squittio di una donna. Aveva fra le mani il collo della ragazza e succhiava con un'intensità che trascendeva i succhiotti giovanili. Stava aspirando il sangue alla superficie della pelle e Mindy urlava; le altre due, seminude, cercavano di tirarla via da lui. Bolivar si raddrizzò. In un primo momento fu frenato dalla vista del livido arrossato sulla gola di lei... poi, ricordando il suo status privilegiato nel quartetto, esercitò la sua autorità. «Andate via!» inveì; e loro obbedirono, gli abiti stretti al petto. La bionda Mindy piagnucolò e tirò su col naso fino in fondo alle scale. Bolivar scese barcollando dal letto e tornò in bagno, al suo beauty-case. Si sedette sullo sgabello imbottito e cominciò i trattamenti per la notte. Il make-up venne via, come dimostravano i dischetti struccanti, eppure nello specchio la carne gli parve uguale a prima. Strofinò più forte, si raschiò le guance con l'unghia, ma non c'era più nulla da togliere. Il cerone gli si era incollato alla pelle? O era davvero così livido, così emaciato?
Si strappò la camicia e si esaminò: bianco come marmo, intersecato di vene verdastre e di chiazze violacee di versamento sanguigno. Si tolse con cautela le lenti a contatto e le mise nel contenitore. Batté le palpebre un paio di volte, sollevato; con le dita si sfregò gli occhi, poi si accorse di una bizzarria. Si sporse verso lo specchio, batté di nuovo le palpebre, si esaminò. Le pupille erano di un nero assoluto. Quasi come se portasse ancora le lenti. Ma erano più consistenti, ora, più reali. Spalancò gli occhi, sfiorando lo specchio, quasi timoroso di chiuderli. Una membrana nittitante, una seconda palpebra traslucida sotto quella esterna, scivolava orizzontalmente sul bulbo oculare. Come una cataratta trasparente che eclissasse la pupilla, chiudendosi sul suo sguardo fisso, folle e inorridito. Augustin "Gus" Elizalde se ne stava stravaccato in fondo alla zona pranzo, con il cappello a tesa larga sul sedile accanto. Era in uno stretto ristorante economico affacciato sulla via, un isolato a est di Times Square. Hamburger al neon luccicanti nella vetrina e tovaglie a scacchi bianchi e rossi sui tavoli. Pranzo a basso costo a Manhattan. Entri, ordini al banco - sandwich, pizza, qualcosa alla griglia -, paghi e ti porti il vassoio sul retro, in una stanza senza finestre, stipata di tavoli. Gus e Felix erano circondati di murali di Venezia e gondole. Felix s'ingozzò con un piatto di maccheroni appiccicosi e formaggio. Non mandava giù altro; maccheroni e formaggio, e più la pasta era disgustosamente rossa, meglio era. Gus guardò il suo hamburger pieno di grassi, mangiato a metà, e a un tratto fu più interessato alla Coca-Cola: caffeina e zucchero qualche scossa gliela davano. Ancora non si sentiva a posto, con quel furgone. Capovolse il cappello sotto il tavolo e controllò di nuovo la roba nascosta sotto la fascia. Le prime cinque banconote da dieci avute da quel tizio, più i cinquecento dollari guadagnati portando il furgone in città. Era tentato. Poteva spassarsela alla grande, insieme a Felix, con metà della somma, e portare a casa l'altra metà, per sua madre, soldi di cui lei aveva bisogno, soldi che le avrebbero fatto comodo.
Il fatto era che Gus si conosceva. Il problema sarebbe stato fermarsi alla metà, andare in giro con addosso soldi non spesi. Doveva convincere Felix ad accompagnarlo subito a casa. Si sarebbe liberato di metà del malloppo. L'avrebbe passato alla madre senza che quel sacco di spazzatura di suo fratello Crispin ne sapesse niente. Lo strafatto era diabolico, i dollari li sentiva a fiuto. E poi erano soldi sporchi. Aveva fatto qualcosa di sbagliato per procurarseli - era chiaro, anche se non sapeva bene cosa - e passarli a sua madre era come scaricare su di lei una maledizione. La soluzione migliore, con i soldi sporchi, è dilapidarli in fretta, liberarsene... tanti presi, tanti spesi. Gus era combattuto. Sapeva che, se avesse cominciato a bere, avrebbe perso il controllo. E Felix era benzina sul fuoco. Loro due avrebbero bruciato cinquecentocinquanta dollari prima del tramonto e poi, invece di portare a casa qualcosa di bello per sua madre, qualcosa di buono, ci avrebbe trascinato il culo ancora sotto l'effetto della sbronza, il cappello tutto ammaccato e le tasche vuote. «Un soldo per i tuoi pensieri, Gusto» disse Felix. Gus scosse la testa. «Il mio peggior nemico sono io, hermano. Sono come un fottuto cane bastardo che annusa la strada e non sa cosa significa domani. Ho un lato oscuro, amigo, e a volte ha la meglio su di me.» Felix sorseggiò la Coca-Cola maxi. «Allora cosa ci facciamo in questa bettola? Usciamo e troviamoci qualche ragazza stasera.» Gus passò il pollice sul bordo della fascia di cuoio del cappello, sulle banconote delle quali Felix non sapeva niente... ancora. Forse solo un pezzo da cento. Due pezzi, metà ciascuno. Tirare fuori solo due centoni, non di più. «Pagare per giocare, giusto, hermano?» «Cazzo, sì.» Gus girò gli occhi e vide accanto a lui una famiglia con i vestiti della festa alzarsi e lasciare a metà i dessert. Per il linguaggio di Felix, immaginò. A giudicare dall'aspetto, quei ragazzini del Midwest non avevano mai sentito parlare sboccato. Be', 'fanculo. Se vieni qui in città e tieni fuori i tuoi ragazzini fin dopo le nove, rischi che vedano tutto lo spettacolo.
Felix terminò finalmente la sua sbobba, Gus si mise in testa il cappello foderato di grana e insieme uscirono nella notte. Stavano camminando nella Quarantaquattresima, con Felix che si ciucciava una sigaretta, quando sentirono le grida. Non allungarono il passo solo per quello - erano a Midtown Manhattan -, almeno finché non videro il ciccione nudo che attraversava tra la Settima e Broadway. Felix quasi sputò la sigaretta dal ridere. «Gusto, vedi quello stronzo?» Cominciò ad avvicinarsi, come uno spettatore chiamato da un imbonitore a dare spettacolo. Gus se ne sbatteva. Lo seguì lentamente. A Times Square la gente faceva largo a quel tipo e al suo culo pallido e cascante. Donne strillavano nel vederlo, ridacchiavano, si coprivano gli occhi, la bocca o tutti e due. Un gruppo di ragazze scattò foto col telefonino. Ogni volta che il tipo si girava, un nuovo gruppo dava un'occhiata al suo pacco raggrinzito e sepolto nelle pieghe di grasso e strillava. Gus si domandò dove fossero i poliziotti. Quella era l'America: un fratello scuro non poteva infilarsi in un portone per una pisciatina al riparo da sguardi indiscreti senza essere scocciato, però un bianco poteva sfilare nudo nel crocevia del mondo e passarla liscia. «Culo sprecato» gridò Felix. Seguì quell'idiota insieme con un gruppetto di passanti, molti già ubriachi, gustandosi la scena. Le luci del più illuminato incrocio del mondo - Times Square è uno splendido incrocio di viali, con muraglie di vistosi cartelloni pubblicitari e di parole striscianti, un flipper percorso da un traffico senza fine - abbagliarono il grassone e lo fecero girare in tondo. L'uomo si lanciava da una parte e dall'altra barcollando come un orso da circo lasciato libero. Felix e il gruppetto di ubriaconi risero e arretrarono quando il tipo si girò e avanzò dondolando verso di loro. Diventava a mano a mano più coraggioso o forse si lasciava prendere dal panico, come un animale spaventato, ed era più confuso. A volte si premeva la gola come se soffocasse... Pareva più sofferente. La scena era davvero divertente, finché il pallido ciccione si avventò su una donna che rideva e l'afferrò per la testa. Quella urlò, si dimenò e una parte della sua testa rimase nella mano di lui... Per un momento
sembrò che le avesse squarciato il cranio, ma si trattava solo delle extensions di capelli neri e ricci. L'aggressione superò la linea fra il divertimento e il terrore. L'uomo barcollò nel traffico, stringendo in mano la ciocca di capelli finti, e la folla gli andò dietro, inseguendolo adesso, sempre più arrabbiata, urlando. Felix si mise in testa, attraversò la via fino all'isola pedonale, correndo dietro al ciccione. Gus lo seguì, tenendosi però a distanza dalla folla e facendo lo slalom tra le auto che suonavano il clacson. Gridava al socio di venire via, di piantarla. La faccenda non sarebbe finita bene. Il ciccione stava avanzando verso una famiglia radunata sull'isola pedonale per guardare Times Square di notte. Quando il padre tentò d'intervenire, fu spinto indietro con forza. Gus li riconobbe: era la famiglia vestita a festa che aveva lasciato il ristorante poco prima. La madre pareva più preoccupata di riparare gli occhi dei figli dalla vista dell'uomo nudo che di proteggere se stessa. Il ciccione l'afferrò per la nuca e se l'attirò al ventre cascante e alle pendule tette. Aprì la bocca come se volesse un bacio. E continuò ad aprirla, come se fosse la bocca di un serpente: un debole pop indicò che la mascella gli si era slogata. Gus non aveva simpatia per i turisti, ma senza pensarci si mise alle spalle del ciccione e gli strinse la gola con un braccio. Lo tirò indietro con forza, soffocandolo, anche se il collo del ciccione era sorprendentemente muscoloso sotto le pieghe della flaccida carne. Gus però era in posizione di vantaggio e il tipo lasciò la donna, che cadde contro il marito, davanti ai figli urlanti. Ora Gus era nei guai. Aveva immobilizzato il colosso nudo, che mulinava le grandi braccia da orso. Felix si spostò di fronte all'uomo, per aiutare l'amico... e si bloccò. Fissava la faccia del ciccione come se ci fosse qualcosa che non andava. Alcune persone, dietro di lui, reagirono allo stesso modo; altre girarono la testa, inorridite; ma Gus non poteva vedere quale fosse il motivo. Sentì il collo dell'altro ondeggiare sotto il suo avambraccio in maniera molto innaturale, come se il tipo deglutisse di lato. Notò la faccia disgustata di Felix e pensò che il ciccione forse stava soffocando, così allentò un poco la presa...
Quanto bastò perché il tipo, con l'animalesca forza dei pazzi, lo gettasse indietro con una gomitata. Gus cadde duramente sul marciapiede e perse il cappello. Volitò la testa in tempo per vederlo rotolare giù dal cordolo e finire in mezzo al traffico. Si rialzò di scatto e si lanciò dietro al cappello e al denaro, ma si bloccò al grido dell'amico. Il ciccione aveva avvolto Felix in una sorta di abbraccio maniacale e protendeva la bocca verso il collo di lui. Gus vide la mano del socio estrarre qualcosa dalla tasca posteriore e aprirla con uno scatto del polso. Corse verso Felix prima che questi potesse usare il coltello; piantò la spalla nel fianco del ciccione, sentendo il rumore di costole fratturate, e lo mandò a gambe all'aria. Anche Felix cadde e Gus vide il sangue colargli sul collo e, cosa ancora più sconvolgente, un'espressione di assoluto terrore sul viso del suo compadre. Felix si mise a sedere e lasciò cadere il coltello per stringersi la gola. Gus non gli aveva mai visto quello sguardo. Capì allora che era accaduta, che stava accadendo, una cosa bizzarra... solo, non aveva idea di che si trattasse. Sapeva solo di dover agire per rimettere in sesto il suo amico. Raccolse il coltello e serrò fra le dita l'impugnatura nera antiscivolo, mentre il ciccione nudo si tirava in piedi. L'uomo si copriva la bocca, come se cercasse di tenerci dentro qualcosa. Qualcosa che si contorceva. Sulle grasse guance e sul mento aveva sbavature di sangue, sangue di Felix, mentre avanzava verso Gus e protendeva la mano libera. Si mosse rapidamente, più di quanto potesse fare un uomo della sua corporatura, e spinse Gus a terra, all'indietro, prima che reagisse. Lui batté la testa contro il marciapiede... e per un momento tutto fu silenzio. Vide i tabelloni pubblicitari di Times Square lampeggiare sopra di sé in una sorta di liquido dondolio... una giovane modella in reggiseno e mutandine lo fissava... poi il ciccione. Stagliato su di lui. Con qualcosa che gli ondeggiava nella bocca, mentre gli puntava addosso occhi vuoti, neri... L'uomo piegò il ginocchio e sputò la cosa che aveva in gola. Rosea e famelica, saettò verso Gus, con la bramosa velocità della saettante lingua di una rana. Gus la colpì con un fendente di coltello,
la tagliò e la pugnalò come si colpisce in un incubo una creatura mostruosa. Non capì cosa fosse, sapeva solo di volerla lontano da sé, di volerla uccidere. Il ciccione barcollò all'indietro ed emise un verso simile a uno squittio. Gus continuò a menare fendenti, lo colpì al collo, gli ridusse la gola a brandelli. Lo scalciò e il tipo si tirò in piedi, le mani sulla bocca e sul collo. Il suo sangue era bianco, non rosso: una sostanza cremosa più densa e più candida del latte. Barcollò all'indietro giù dal marciapiede e cadde nel fiume del traffico. Il camion cercò di frenare. Fu la scelta peggiore. Le gomme anteriori passarono sulla faccia del ciccione e quelle posteriori si fermarono proprio sul cranio fracassato. Gus si rialzò, malfermo sulle gambe. Ancora intontito per la caduta, guardò la lama del coltello di Felix che stringeva fra le dita. Era sporca di bianco. Lo colpirono da dietro, gli afferrarono le braccia, gli spinsero la spalla contro il terreno. Gus reagì come se il ciccione lo assalisse ancora, torcendosi e scalciando. «Butta il coltello! Buttalo!» Girò la testa e vide tre sbirri dal viso rosso chini su di lui e altri due, più indietro, che con le pistole lo prendevano di mira. Mollò il coltello e si lasciò torcere le mani dietro la schiena e ammanettare. Sentì esplodere la collera. «Cazzo. Adesso arrivate?» «Smettila di opporre resistenza!» intimò il poliziotto, premendogli la faccia al suolo. «Stava assalendo quella famiglia là... chiedete a loro!» Voltò la testa. I turisti erano spariti. Gran parte della folla era sparita. Restava solo Felix, seduto sul bordo dell'isola pedonale, istupidito, che si stringeva la gola, mentre un poliziotto dai guanti blu lo spingeva a terra piantandogli un ginocchio nel fianco. Dietro Felix, Gus vide una piccola cosa nera rotolare lontano nel
traffico. Il cappello, con tutti i suoi soldi sporchi ancora nella fascia interna... Un lento taxi lo appiattì. Gus pensò: "Era l'America per te". Gary Gilbarton si versò un whisky. La famiglia - allargata da entrambi i lati - e gli amici se n'erano finalmente andati, lasciandosi dietro pile di cartoni di cibi da asporto e cestini pieni di tovaglioli di carta. L'indomani sarebbero tornati alla loro vita, con una storia da raccontare. Mia nipote, dodici anni, era su quell'aereo... Mia cugina, dodici anni, era su quell'aereo... La figlia del mio vicino, dodici anni, era su quell'aereo... Gary si sentì come un fantasma che camminava nella sua casa di nove stanze nella verdeggiante periferia di Freeburg. Toccò qualche oggetto - una sedia, una parete - e non sentì niente. Niente aveva importanza ormai. I ricordi avrebbero potuto consolarlo, ma più probabilmente l'avrebbero fatto impazzire. Aveva staccato tutti i telefoni quando i giornalisti avevano cominciato a chiamare per sapere delle vittime più giovani a bordo. Per umanizzare la storia. "Lei chi era?" gli avevano chiesto. Ci avrebbe messo il resto della vita per comporre un trafiletto su sua figlia, Emma. Sarebbe stato il trafiletto più lungo della storia. Gary era più concentrato su Emma che su Berwyn, la moglie, perché i bambini sono il tuo secondo te stesso. Amava Berwyn e lei era morta. Ma con la mente continuava a girare intorno alla sua piccola perduta, come acqua che vortichi in uno scolo che non smette mai di vuotarsi. Quel pomeriggio un amico avvocato, un tizio che non andava a casa sua da forse un anno, l'aveva preso da parte nello studio. L'aveva fatto sedere e gli aveva detto che sarebbe diventato molto ricco. Una vittima giovane come Em, con un'aspettativa di vita tanto lunga, garantiva un enorme risarcimento danni. Gary non aveva reagito. Non aveva visto i simboli del dollaro. Non aveva buttato fuori quell'uomo. Se n'era fregato, davvero. Non sentiva niente.
Aveva respinto tutte le offerte di familiari e amici di passare la notte da lui perché non si sentisse solo. Li aveva convinti che stava bene, anche se gli erano già venuti pensieri di suicidio. Non solo pensieri: una silenziosa determinazione; una certezza. Ma più tardi. Non adesso. Quell'inevitabilità era come un balsamo. L'unica forma di "risarcimento" che avrebbe avuto senso per lui. Affrontava la situazione solo perché sapeva che ci sarebbe stata una fine. Dopo tutte le formalità. Dopo la costruzione del campo giochi in ricordo di Emma. Dopo il finanziamento della borsa di studio. Ma prima di vendere quella casa ora infestata. Era in piedi al centro del soggiorno quando suonò il campanello della porta. Mezzanotte passata da un pezzo. "Se è un giornalista" pensò "gli salto addosso e lo uccido." Semplicemente. Violare quei momenti e quel luogo? Avrebbe fatto a pezzi l'intruso. Spalancò di scatto la porta... e di colpo sentì svanire la repressa mania suicida. Sullo zerbino c'era una bambina scalza. La sua Emma. Incredulo, Gary Gilbarton scivolò in ginocchio davanti a lei. Emma non mostrò reazioni, nessuna emozione. Lui protese la mano verso la figlia, poi esitò. Sarebbe scoppiata come una bolla di sapone, sarebbe scomparsa di nuovo per sempre? Le toccò il braccio, le strinse il sottile bicipite. La stoffa del suo abitino. Emma era reale. Era lì. Gary l'afferrò, l'attirò a sé, la strinse al petto, l'avvolse fra le braccia. Tirò indietro la testa e la guardò di nuovo, scostandole dal viso lentigginoso i capelli lunghi e radi. Com'era possibile? Guardò in giro, scrutò il nebbioso prato anteriore per scoprire chi l'avesse riportata. Nessuna automobile nel vialetto, nessun borbottio di motore che si allontanava. Era sola? Dov'era sua madre? «Emma» disse. Si alzò e la condusse dentro, chiuse la porta principale e accese la luce. Em parve abbagliata. Indossava il vestito che la madre le aveva
comprato per quel viaggio, che l'aveva fatta sembrare cresciuta quando aveva fatto un giro su se stessa per mostrarglielo la prima volta. C'era terriccio su una manica, forse sangue. Gary la rigirò, guardandola da tutte le parti, e trovò altro sangue sui piedi scalzi niente scarpe? -, terriccio dappertutto, graffi sulle palme delle mani e lividi sul collo. «Cos'è successo, Em?» le chiese stringendole il viso fra le mani. «Come sei...?» Fu di nuovo sommerso da un'ondata di sollievo che quasi lo buttò a terra; strinse forte la figlia. La prese in braccio e la portò al divano, la mise seduta. Emma era traumatizzata, stranamente passiva. Molto diversa dalla sua sorridente, ostinata piccolina. Le tastò il viso, come faceva sempre Berwyn quando Emma si comportava in modo strano, e lo sentì caldo. Così caldo che la pelle pareva appiccicosa, terribilmente pallida, quasi trasparente. Si vedevano le vene, sporgenti vene rosse che lui non aveva mai notato prima. L'azzurro nei suoi occhi sembrava sbiadito. Una ferita alla testa, probabilmente. Emma era in stato di shock. Pensò agli ospedali, ma non intendeva lasciarla uscire, mai più. «Ora sei a casa, Em» disse. «Starai benissimo.» Le prese la mano, la fece alzare e l'accompagnò in cucina. Cibo. La sistemò sulla sua solita sedia davanti al tavolo e la guardò mentre tostava due focaccine al cioccolato, le sue preferite. Lei rimase lì seduta, con le mani lungo i fianchi, a osservarlo, non proprio fissandolo, ma senza vivacità. Niente sciocche storie, niente chiacchiere sulla giornata a scuola. Il tostapane scattò, Gary spalmò burro e sciroppo sulle focaccine e mise il piatto davanti a lei. Si sedette al suo posto a guardarla. La terza sedia, il posto della mamma, era vuota. Forse il campanello avrebbe suonato di nuovo... «Mangia» le disse. Ancora non aveva neanche preso la forchetta. Gary tagliò un pezzetto di focaccia e gliela portò alla bocca. Emma non l'aprì.
«No?» Gary le mostrò cosa fare: si mise in bocca il pezzetto di focaccia e masticò. Provò di nuovo a farla mangiare, ma la reazione di Emma fu la stessa. Una lacrima gli scivolò dall'occhio e gli rotolò sulla guancia. Ora lui sapeva che qualcosa non andava in sua figlia. Ma cercò di non farci caso. Emma era lì, adesso; era tornata a casa. «Vieni.» L'accompagnò al piano di sopra, nella sua cameretta. Entrò per primo; la bambina si fermò nel vano della porta. Guardò la stanza, come se la riconoscesse, ma in base a ricordi lontani. Come se la vedesse con gli occhi di una vecchia tornata per miracolo nella camera da letto della sua infanzia. «Hai bisogno di dormire» disse frugando nel cassettone per prenderle il pigiama. Emma rimase sulla soglia, con le mani lungo i fianchi. Gary tornò col pigiama. «Vuoi che te lo metta io?» Si piegò sulle ginocchia, le tolse il vestito e sua figlia, di solito assai pudica, non protestò. Scoprì altri graffi e un grosso livido sul petto. I piedi erano sporchi e sotto le unghie c'era sangue incrostato. La carne era calda. Niente ospedale. Non l'avrebbe persa di vista di nuovo. Preparò un bagno freddo e mise la bambina nella vasca. Si inginocchiò contro il bordo e con gentilezza passò un panno di spugna insaponato sulle sue abrasioni; lei parve insensibile. Le lavò e asciugò i capelli, sporchi e opachi. Emma lo guardò, ma nei suoi occhi scuri non c'era vivacità. Era in una sorta di trance. Shock. Trauma. L'avrebbe fatta stare meglio. Le infilò il pigiama, dal cestino di vimini nell'angolo prese un grosso pettine e glielo passò fra i capelli, biondi e lisci. Quando s'impigliò, lei non trasalì, non si lamentò. "È un'allucinazione" pensò Gary. "Ho perduto la bussola." Poi, sempre continuando a pettinarla, si disse: "Non me ne frega niente, maledizione".
Scostò le lenzuola e la trapunta e distese sul letto la figlia, come soleva fare quando era piccolina. Le rimboccò le coperte ed Emma rimase distesa, immobile, assonnata, ma con gli occhi spalancati. Gary esitò prima di chinarsi a baciarle la fronte ancora calda. Lei era poco più del fantasma di sua figlia. Un fantasma di cui accettava di buon grado la presenza. Un fantasma che avrebbe potuto amare. Le inumidì la fronte con lacrime di gratitudine. «Buonanotte» disse, senza avere risposta. Emma rimase immobile nel riflesso rosa dell'abat-jour, fissando ora il soffitto. Senza accorgersi di lui. Senza chiudere gli occhi. Senza aspettare il sonno. In attesa... in attesa di qualcos'altro. Gary percorse il corridoio ed entrò in camera sua. Si cambiò e si mise a letto, da solo. Non dormì. Aspettò anche lui, senza sapere cosa. Finché lo udì. Un lieve scricchiolio sulla soglia della camera da letto. Girò la testa e vide la sagoma di Emma. Sua figlia era nel vano. Avanzò verso di lui dalle ombre, una piccola figura nella stanza oscurata dalla notte. Si fermò accanto al letto e aprì la bocca come per un grande sbadiglio. La sua Emma era tornata, pensò Gary. Solo questo contava. Zack aveva difficoltà a dormire. Era vero quel che dicevano tutti di lui: tale e quale suo padre. Ovviamente troppo giovane per avere l'ulcera, ma già col peso del mondo sulle spalle. Era un ragazzo sensibile, scrupoloso, e ne pagava il fio. Era sempre stato così, gli aveva detto Eph. Guardava fissamente dalla culla, con una piccola smorfia di preoccupazione, cercando il contatto con gli intensi occhi scuri. E la sua espressione preoccupata faceva ridere il padre, perché quel bimbo preoccupato nella culla gli ricordava tanto se stesso. Negli ultimi anni Zack aveva patito la separazione, il divorzio, la battaglia per la custodia. Aveva impiegato un po' di tempo a convincersi che non era colpa sua. Tuttavia nell'intimo sapeva come
stavano le cose: in qualche modo, se avesse scavato abbastanza a fondo, tutta la rabbia sarebbe stata associata a lui. Anni di furiosi mormorii alle sue spalle, gli echi di discussioni a tarda notte, i risvegli causati dal soffocato rumore di pugni sulla parete... E Zack adesso, alla matura età di undici anni, soffriva d'insonnia. Certe notti quietava i rumori della casa con il suo iPod nano e fissava dalla finestra della camera da letto. Altre notti socchiudeva la finestra e ascoltava ogni piccolo rumore che la notte offriva, con tanta forza che le orecchie gli ronzavano per l'afflusso di sangue. Cullava la segreta speranza, condivisa da molti ragazzi, che la sua strada, di notte, quando si credeva inosservata, svelasse i suoi misteri. Fantasmi, assassini, avidità. Ma tutto ciò che vedeva, finché il sole non saliva di nuovo all'orizzonte, era l'ipnotico tremolio azzurrino del lontano televisore nella casa dall'altra parte della strada. Il mondo era privo di eroi o di mostri, anche se lui con l'immaginazione li vedeva entrambi. La mancanza di sonno esigeva il suo tributo e Zack si appisolava di continuo durante il giorno. A scuola era stordito e gli altri ragazzi, mai abbastanza gentili da far passare inosservata una differenza, gli avevano subito trovato dei nomignoli che andavano dal comune "cazzetto" al più imperscrutabile "microzombi", a seconda delle preferenze di ogni cricca sociale. E Zack avvizziva in giorni di umiliazione, finché suo padre veniva a trovarlo di nuovo. Con Eph si sentiva a suo agio. Anche in silenzio. Specialmente in silenzio. Sua madre era troppo perfetta, troppo rispettosa, troppo gentile: i suoi taciti standard, tutti per il "suo stesso bene", erano impossibili da soddisfare. E lui era consapevole, non sapeva come, di averla delusa dal momento in cui era nato. Perché era maschio. Perché era troppo simile a suo padre. Con Eph si sentiva vivo. Raccontava al papà le cose che la mamma voleva sempre sapere. Niente d'eccezionale, solo faccende personali. Abbastanza importanti da tenere per sé. Abbastanza importanti da riferirle al padre. Ed era ciò che faceva Zack.
In quel momento, sveglio e disteso sul copriletto, pensò al futuro. Era certo che non sarebbero mai più stati una famiglia. Nessuna possibilità. Ma si domandò quanto sarebbe peggiorata la situazione. In poche parole, Zack era fatto così. Stava sempre a chiedersi: "Quanto peggio può andare?". "Molto peggio" era l'invariabile risposta. Almeno, si augurò, finalmente si sarebbe scrollato di dosso l'esercito di adulti preoccupati. Terapeuti, giudici, operatori sociali, l'amico di sua madre. Tutti a tenerlo ostaggio dei propri bisogni e delle proprie stupide mete. Tutti "in ansia" per lui, per il suo benessere, pur fregandosene, in realtà. I My Bloody Valentine si zittirono nell'iPod e Zack si tolse le cuffie. Il cielo non si era ancora schiarito, ma finalmente lui si sentiva stanco. Ora amava sentirsi stanco. Amava non pensare. Così si preparò a prendere sonno. Ma non appena si fu sistemato, sentì i passi.
Plat plat plat. Come piedi scalzi sull'asfalto. Guardò dalla finestra
e vide un uomo. Un uomo nudo.
Che percorreva la via. La carnagione bianca come chiaro di luna, lucenti pieghe che si intersecavano sul ventre sgonfio. Ovviamente quell'uomo un tempo era grasso, tuttavia doveva avere perso peso, tanto che la pelle gli si piegava in tutti i modi e in tutte le direzioni e rendeva quasi impossibile immaginare la sua sagoma esatta. Era vecchio, ma pareva senza età. La testa con un'incipiente calvizie, i capelli malamente tinti e le vene varicose nelle gambe dicevano che era sulla settantina, ma nel suo passo c'erano un vigore e un tono che facevano pensare a un giovanotto. Zack rifletté su tutto questo, notò ogni dettaglio, perché era molto simile al padre. Sua madre gli avrebbe detto di togliersi dalla finestra e di chiamare la polizia, mentre Eph gli avrebbe indicato tutti i particolari che formavano il quadro di quell'uomo bizzarro. La pallida creatura girò intorno alla casa di fronte. Zack udì un lieve gemito e poi il rumore di una staccionata sul retro. Il tipo ricomparve e si mosse verso la porta d'ingresso della casa. Zack pensò di chiamare la polizia. Quella decisione gli avrebbe procurato
seccature di tutti i tipi, con sua madre: doveva tenerle nascosto che soffriva d'insonnia, altrimenti avrebbe dovuto sopportare giorni o settimane di visite mediche e di esami, senza contare il fatto di vederla preoccupata. L'uomo arrivò al centro della via e si fermò. Braccia penzoloni lungo i fianchi, petto sgonfio - ma respirava? -, capelli arruffati dal debole vento notturno. Che mettevano in mostra le radici castano rossicce tinte con uno shampoo di cattiva qualità. Lui guardò in su verso la finestra e per un irreale momento i loro occhi si incrociarono. Zack sentì il cuore battere all'impazzata. Era la prima volta che vedeva il tipo di fronte. Fino a quel momento era riuscito solo a scorgerne il fianco o la schiena, ma ora notò il torace... e la livida cicatrice a Y che lo attraversava. E gli occhi, tessuto morto, vacuo, opaco anche al chiaro di luna. Ma la cosa peggiore era che avevano una frenetica energia, saettavano a destra e a sinistra e poi si fissavano su di lui, lo scrutavano con un'espressione difficile da interpretare. Zack si ritrasse dalla finestra, spaventato a morte dalla cicatrice e dagli occhi vacui che lo avevano fissato. Che cos'era quell'espressione? Conosceva la cicatrice, sapeva quello che significava. Una cicatrice da autopsia. Ma com'era possibile? Rischiò un'altra occhiata dal bordo della finestra, con grande cautela: adesso la via era vuota. Si alzò a sedere per osservare meglio: l'uomo era sparito. C'era mai stato? Forse la mancanza di sonno cominciava a farsi sentire. Vedere cadaveri nudi camminare per la via non è un'esperienza che un figlio di divorziati voglia condividere con un terapeuta. E poi intuì la risposta: fame. Ecco cos'era. Gli occhi morti l'avevano fissato con intensa fame... Si sdraiò, si tirò addosso le coperte e infilò la testa sotto il guanciale. La scomparsa dell'uomo non lo tranquillizzò, anzi. Era sparito, ma adesso poteva essere dappertutto. Forse dabbasso, a rompere la finestra della cucina per entrare. Presto sarebbe stato
sugli scalini, sarebbe salito lentamente - ne sentiva già i passi? - e poi in corridoio, fuori della porta, a maneggiare piano il fermo guasto che non faceva presa. Sarebbe arrivato al letto e poi... cosa? Zack temeva la voce dell'uomo e il suo sguardo fisso e morto. Perché aveva l'orribile certezza che, anche se si muoveva, non fosse vivo. Zombi... Rimase nascosto sotto il guanciale, con il cuore e i pensieri che correvano all'impazzata, pieno di paura, pregando che arrivasse l'alba e lo salvasse. Per quanto temesse la scuola, supplicò che giungesse presto il mattino. Dall'altra parte della via, nella casa vicina, la luce del televisore si spense e si udì un lontano rumore di vetri infranti. Ansel Barbour mormorò tra sé mentre vagava per il primo piano di casa sua. Portava la T-shirt e i boxer che indossava quando aveva provato a dormire e i capelli gli sporgevano a strani angoli per il continuo pressarli e tirarli. Non sapeva cosa gli stesse succedendo. Ann-Marie sospettava che avesse la febbre, però quando gli si era avvicinata con il termometro lui non aveva sopportato l'idea di quella sonda dalla punta d'acciaio sotto la lingua infiammata. Avevano un termometro auricolare, per i bambini, ma Ansel non sarebbe riuscito a stare immobile abbastanza per una lettura accurata. Ann-Marie gli aveva appoggiato una mano sulla fronte e aveva sentito che era calda, molto calda, ma questo avrebbe potuto dirglielo anche lui. Sua moglie era impietrita, se ne rendeva conto. Lei non faceva il minimo sforzo per nasconderlo. Per Ann-Marie qualsiasi malattia era un attacco alla santità della loro famiglia. Il vomito dei bambini era guardato con lo stesso timore che altri avrebbero riservato, per esempio, a valori sballati negli esami del sangue o alla comparsa di un gonfiore inspiegabile. Eccolo. L'inizio della terribile tragedia che di sicuro un giorno le sarebbe capitata. La tolleranza di Ansel per le eccentricità di Ann-Marie era in ribasso. Quella che stava affrontando era una cosa seria e aveva bisogno del suo aiuto, non di stress supplementare. Non poteva più
essere la colonna della famiglia. Aveva bisogno che lei gli subentrasse. Anche i bambini gli stavano lontano, sorpresi dallo sguardo remoto negli occhi del padre o forse, di questo era vagamente consapevole, dall'odore della sua malattia, che alle sue narici somigliava a quello del grasso di cucina tenuto troppo a lungo in una lattina che si arrugginiva sotto il lavello. Vedeva di tanto in tanto i figli nascondersi dietro le colonnine in fondo alla scala e guardarlo attraversare il pianerottolo del primo piano. Voleva calmare i loro timori, ma era preoccupato di perdere le staffe nel tentativo di spiegare la sua situazione e quindi di peggiorare le cose. Il modo migliore di tranquillizzarli era tornare in salute. Superare quell'ondata di disorientamento e di dolore. Si fermò nella camera della figlia, considerò che le pareti erano di un viola troppo acceso e tornò in corridoio. Rimase immobile sul pianerottolo, finché lo sentì di nuovo. Quel rumore sordo. Un battito, soffocato e vicino, che non c'entrava niente con il mal di testa che gli percuoteva il cervello. Quasi... come nei cinema delle piccole città, dove durante i momenti di silenzio del film si sente il ticchettio della pellicola che scorre nel proiettore in fondo alla sala. Un rumore che ti distrae e continua a ricordarti che la scena non è reale, come se fossi solo tu a renderti conto di quella verità. Scosse forte la testa, facendo una smorfia per la fitta causata dal movimento. Cercò di usare il dolore come candeggina per ripulire i pensieri. Ma il battito, la pulsazione, era dovunque, tutt'intorno a lui. Perfino i cani si comportavano stranamente in sua presenza. Pap e Gertie, i grossi e inetti sanbernardo, ringhiavano come avrebbero fatto se un animale fosse entrato in cortile. Ann-Marie salì più tardi, da sola, e lo trovò seduto ai piedi del loro letto che si teneva la testa fra le mani come se fosse un fragile uovo. «Dovresti dormire» disse. Lui si afferrò i capelli, come avrebbe fatto con le redini di un cavallo imbizzarrito, e combatté l'impulso a rimproverarla. Sentiva di avere un problema nella gola: ogni volta che si stendeva un poco, l'epiglottide gli si bloccava, gli chiudeva le vie respiratorie, lo
soffocava, finché a colpi di tosse ritrovava il fiato. Adesso aveva il terrore di morire nel sonno. «Cosa faccio?» chiese lei restando nel vano della porta, una mano premuta sulla fronte. «Portami un po' d'acqua» replicò Ansel. La voce uscì in un sibilo dalla gola infiammata e lo bruciò come vapore. «Tiepida. Sciogli nel bicchiere un po' di Advil, di ibuprofene... qualcosa.» Lei non si mosse. Rimase lì ferma a fissarlo, preoccupata. «Non ti senti neanche un po' meglio...?» La sua timidezza, che di solito risvegliava in lui un forte istinto di protezione, in quel momento riuscì solo a farlo infuriare. «AnnMarie, vai a prendermi un po' d'acqua, maledizione! E porta i bambini da qualche parte, tienili lontano da me, diavolo!» Lei corse via in lacrime. Quando li sentì uscire in cortile, Ansel si avventurò di sotto, reggendosi al corrimano. Ann-Marie aveva lasciato il bicchiere sul banco accanto al lavello, su un tovagliolo piegato, l'acqua resa torbida dalle pillole disciolte. Ansel se lo portò alle labbra, tenendolo con tutt'e due le mani, e si costrinse a bere. Si versò l'acqua in bocca in modo che la gola fosse obbligata a inghiottire. Ne mandò giù un poco, prima di soffocare e schizzarla tossendo sulla finestra del lavello, che dava sul cortile. Ansimò, mentre guardava gli schizzi scivolare sul vetro e distorcere la scena di Ann-Marie che, in piedi dietro i bambini sull'altalena, fissava il cielo scuro e solo di tanto in tanto muoveva le braccia conserte sul petto per dare una spinta a Haily. Il bicchiere gli scivolò di mano e si vuotò nel lavello. Ansel uscì dalla cucina, andò in soggiorno e si lasciò cadere sul divano, in una sorta di stordimento. Aveva la gola intasata e si sentiva più male che mai. Doveva tornare in ospedale. Ann-Marie avrebbe dovuto cavarsela da sola per un po'. Ci sarebbe riuscita se non avesse avuto scelta. Forse le avrebbe fatto anche bene... Cercò di concentrarsi, di stabilire quello di cui si doveva occupare prima di ricoverarsi. Gertie comparve sulla soglia, ansimando piano.
Pap entrò dietro di lei, si fermò accanto al caminetto e si acquattò. Iniziò un basso latrato monotono e il battito crebbe nelle orecchie di Ansel. Poi lui capì: il rumore proveniva da loro. O no? Si alzò dal divano e si mosse verso Pap a quattro zampe, avvicinandosi per udire meglio. Gertie mugolò e arretrò contro la parete, ma Pap mantenne la posizione accucciata, teso. Il latrato divenne più forte nella gola del cane e Ansel afferrò il collare proprio mentre l'animale cercava di alzarsi sulle zampe e andare via.
Trum... Trum... Trum... Il rumore era dentro di loro. In qualche modo. Da qualche parte. Qualcosa. Pap tirava e mugolava, ma Ansel, un uomo robusto che di rado doveva usare la forza, agganciò il braccio libero intorno al collo del sanbernardo, bloccandolo con una presa di lotta. Premette l'orecchio contro la gola del cane, col pelo che gli solleticava l'interno del condotto uditivo. Sì. Un battito pulsante. La circolazione sanguigna? Era quello il rumore. Il cane uggiolante cercò di scappare, ma Ansel gli premette più forte l'orecchio sul collo, doveva sapere. «Ansel?» Si girò di colpo, troppo in fretta, avvertendo un'accecante fitta di dolore, e vide Ann-Marie sulla porta, Benjy e Haily dietro di lei. La bambina si stringeva alla gamba della madre, il maschietto era da solo; tutti e due lo fissavano. Ansel allentò la stretta e il cane si allontanò. Lui era ancora a quattro zampe. «Cosa vuoi?» urlò. Ann-Marie rimase impietrita sulla soglia, in trance per la paura. «Sto... non... li porto fuori a fare due passi.» «Bene.» Ansel si avvizzì un po' sotto lo sguardo dei figli. Sentì un altro ingorgo in gola. «Papà sta bene» gracchiò asciugandosi la saliva con il dorso della mano. «Papà starà bene.» Girò la testa verso la cucina, dove si erano ritirati i cani. Tutti i pensieri gentili svanirono al ritorno del rumore. Più forte di prima. Pulsante.
Loro. Fu colto da nausea per la vergogna e rabbrividì. Con un pugno si toccò la tempia. «Porto fuori i cani» disse Ann-Marie. «No!» gridò Ansel. Si riprese, tese verso di lei la mano aperta, sempre in ginocchio sul pavimento del soggiorno. «No» ripeté in tono più calmo. Cercò di riprendere fiato, di sembrare normale. «Va benissimo. Lasciali qui.» Ann-Marie esitò, avrebbe voluto dire qualcosa. Fare qualcosa, qualsiasi cosa. Ma alla fine si girò e uscì, tirandosi dietro Benjy. Ansel raggiunse il bagno al pianterreno appoggiandosi alla parete per reggersi in piedi. Accese la luce sopra lo specchio e si guardò gli occhi. Due uova ardenti, venate di rosso e di avorio giallastro. Si asciugò il sudore dalla fronte e dal labbro superiore, aprì la bocca per controllare la gola. Si aspettava di vedere tonsille infiammate o qualche placca biancastra, ma la gola pareva solo scura. Sentiva dolore ad alzare la lingua, tuttavia lo fece per guardarvi sotto. La parte inferiore era dolorante e rossa come un tizzone. Ansel la toccò e sentì un dolore insopportabile che si ripercosse sui lati della mascella e sui tendini del collo. La gola protestò, emettendo colpi di tosse aspra, rauca; schizzi scuri macchiarono lo specchio. Sangue misto a una sostanza biancastra, forse catarro. Alcuni puntini erano più neri di altri, come se fossero residui solidi, putridi frammenti di se stesso. Ansel toccò uno di quei grumi e se lo spalmò sulla punta del dito. Lo accostò al naso, sentì l'odore. Pareva un coagulo di sangue scolorito. Se lo mise sulla punta della lingua e senza rendersene conto lo assaggiò. Lo rigirò in bocca. Quando si sciolse, raccolse dal vetro un altro grumo e assaggiò anche quello. Non aveva un gran sapore, ma la sensazione sulla lingua era quasi medicamentosa. Ansel si sporse a leccare gli schizzi di sangue sullo specchio. Avrebbe dovuto sentire male, invece scoprì che il dolore alla bocca e alla gola si era attenuato. Anche nella parte più tenera sotto la lingua il bruciore si era ridotto a un formicolio. Il suono pulsante era svanito, sebbene non del tutto. Guardò la propria immagine riflessa
nello specchio schizzato di rosso e cercò di capire. Il momento di sollievo fu di una brevità esasperante. Ansel sentì di nuovo la costrizione alla gola, come se fosse stretta da due mani robuste; distolse lo sguardo dallo specchio e tornò, barcollando, in corridoio. Gertie mugolò, arretrò, lontano da lui, e si rifugiò in soggiorno. Pap stava raschiando la porta per uscire. Quando vide Ansel entrare in cucina, se la svignò. Lui rimase lì, con la gola che gli pulsava; poi aprì l'armadietto e prese la scatola di biscotti a forma d'osso. Ne strinse uno fra le dita, come faceva sempre, e andò in soggiorno. Gertie era accucciata sul pianerottolo di legno in fondo alle scale, zampe in avanti, pronta a scattare. Ansel si sedette sul poggiapiedi e agitò il biscotto. «Vieni, piccolina» disse, con un bisbiglio crudele che gli raschiò l'anima. Gertie dilatò le narici, fiutò il profumo nell'aria.
Trum... trum... «Vieni, piccolina. Prendi il biscotto.» Gertie si alzò lentamente a quattro zampe. Mosse un piccolo passo in avanti, si fermò di nuovo e annusò. Capiva per istinto che qualcosa non andava. Ma Ansel le tendeva il biscotto e la cosa parve rassicurarla. La cagna zampettò lentamente sul tappeto, testa bassa e occhi attenti. Lui annuì per incoraggiarla e, mentre lei si avvicinava, sentì crescere nella testa il suono pulsante. «Su, vieni qui, Gertie, piccolina.» Gertie diede una leccata al biscotto sfiorandogli il dito. Un secondo colpo di lingua. Voleva fidarsi di lui, voleva il biscotto. Ansel protese l'altra mano, le accarezzò la testa, poi gliela grattò come piaceva a lei. Nel farlo, gli si inumidirono gli occhi. La cagna si protese a addentare il biscotto. Lui afferrò il collare e le si gettò sopra con tutto il peso. Gertie si dibatté, ringhiando e cercando di mordere, e il panico dell'animale focalizzò la sua furia. Le serrò la mascella, la costrinse ad alzare il muso e accostò la bocca al collo irsuto.
Lo lacerò. Morsicò attraverso il pelo serico, leggermente oleoso, e aprì una ferita. Gertie ululò, mentre Ansel sentiva il sapore della pelliccia; la consistenza della morbida carne svanì rapidamente sotto un caldo afflusso di sangue. Il dolore del morso spinse la cagna a dimenarsi freneticamente, ma lui non mollò la presa, forzando ancora più indietro la grossa testa, esponendo in pieno il collo. Stava bevendo. In qualche modo, lo faceva senza deglutire. Ingeriva. Come se la sua gola sfruttasse un nuovo meccanismo di cui lui non era consapevole. Non lo capiva, percepiva solo la soddisfazione che ne traeva. Un piacere lenitivo. E potere. Sì... potere. Di trasmettere vita da una creatura a un'altra. Pap entrò nella stanza ululando. Un luttuoso suono di fagotto. Ansel doveva impedire al sanbernardo dagli occhi tristi di spaventare i vicini. Mentre Gertie si muoveva debolmente a scatti sotto di lui, balzò in piedi e, con velocità e forza rinnovate, corse dietro a Pap. Tuffandosi a bloccare nel corridoio il grosso cane maldestro, rovesciò la lampada a stelo. Il piacere della sensazione, nel bere il secondo cane, lo mandò in estasi. Sentì dentro di sé il momento critico, come quando l'aspirazione prende forza in un tubo di sifonamento e si ottiene il desiderato cambio di pressione. Il fluido scorse senza fatica, lo riempì. Quando ebbe terminato, Ansel si sedette, intontito; faceva fatica a tornare al qui e ora della stanza. Osservò il cane morto ai suoi piedi e all'improvviso si sentì ben sveglio e lucido. In preda al rimorso. Si alzò e vide Gertie, poi si guardò il petto e artigliò la T-shirt bagnata di sangue. "Cosa mi succede?" pensò. Notò che sul tappeto a quadretti il sangue formava un'orribile macchia nera. Eppure non ce n'era molto. Allora ricordò di averlo bevuto. Andò prima da Gertie, le toccò la pelliccia, sapendo che era morta, che era stato lui a ucciderla; ricacciando il disgusto, l'arrotolò nel tappeto rovinato. Con uno sforzo sollevò l'involto e lo portò in
cucina e poi fuori, in cortile e nella baracca per i cani. Entrato, si inginocchiò e srotolò il tappeto col pesante sanbernardo. Lasciò Gertie e tornò a prendere Pap. Li distese insieme contro la parete della baracca, sotto il quadro degli utensili appesi. Provava un vago senso di ripugnanza. Aveva il collo teso, ma non dolorante; la gola a un tratto era fresca, la testa calma. Si guardò le mani insanguinate e fu costretto ad accettare ciò che non poteva capire. Quel che aveva fatto lo faceva stare meglio. Tornato in casa andò nel bagno di sopra. Si tolse la maglietta insanguinata e i boxer e si mise un vecchio maglione, sapendo che Ann-Marie e i bambini sarebbero tornati da un momento all'altro. Mentre cercava in camera da letto le scarpe di tela, sentì tornare il suono pulsante. Non lo udì, lo percepì. E fu atterrito da ciò che significava. Voci alla porta di casa. La sua famiglia era tornata. Ansel scese di sotto e uscì dalla porta sul retro, non visto, calpestando a piedi scalzi l'erba del cortile, scappando dal suono pulsante che gli riempiva la testa. Girò verso il vialetto, ma udì voci nella via buia. Aveva lasciato aperta la baracca e così, per disperazione, si nascose là dentro e chiuse la porta. Non sapeva cos'altro fare. Gertie e Pap giacevano, morti, contro la parete laterale. Quasi gli sfuggì un grido. "Cos'ho fatto?" Gli inverni di New York avevano deformato la porta della baracca e i battenti non combaciavano più. Ansel guardò dalla fessura, vide Benjy prendere un bicchiere d'acqua dal rubinetto della cucina, la testa nel riquadro della finestra, la manina di Haily protesa in alto. "Cosa mi succede?" Era come un cane trasformato. Un cane rabbioso.
"Ho contratto una forma di rabbia." Voci. I bambini scendevano gli scalini della veranda, illuminati dalla luce di sicurezza sull'impiantito, e chiamavano i cani. Ansel si guardò intorno rapidamente, prese dall'angolo un rastrello e ne infilò il manico nelle maniglie interne dei battenti, in fretta, facendo il minor rumore possibile. Per chiudere fuori i bambini. Per chiudersi dentro. «Ger-tie! Pa-ap!» Le voci non avevano un tono preoccupato, non ancora. I cani erano scappati tre o quattro volte negli ultimi due mesi, proprio per questo lui aveva piantato il palo di ferro al centro della baracca e di notte li teneva alla catena. I richiami dei bambini gli svanirono nelle orecchie, mentre il suono pulsante aveva la meglio nella testa: il costante ritmo del sangue in circolo nelle loro giovani vene. Piccoli cuori che pompavano con forza. "Oddio." Haily arrivò alla porta. Ansel vide dalla fessura le scarpe da ginnastica rosa e arretrò. La bambina provò ad aprire. I battenti si mossero rumorosamente, ma non cedettero. Haily chiamò il fratello. Benjy la raggiunse e scosse la porta con tutta la forza dei suoi otto anni. Le pareti della baracca vibrarono, ma il manico del rastrello resistette.
Trum... trum... trum... Il loro sangue lo chiamava. Ansel rabbrividì e si concentrò sul palo per i cani davanti a sé. Piantato per due metri in un solido blocco di cemento. Abbastanza resistente da trattenere due sanbernardo legati, anche fra i lampi e i tuoni di un temporale estivo. Guardò gli scaffali a parete e vide un collare a catena di riserva, ancora con il cartellino del prezzo. Era sicuro di avere un vecchio lucchetto lì da qualche parte. Aspettò che i due bambini si fossero allontanati a distanza di sicurezza, poi alzò la mano e prese il collare d'acciaio.
Il capitano Redfern, in corto camice ospedaliero, era disteso sul lettino a rotelle fra le cortine di plastica chiara, le labbra socchiuse in una mezza smorfia, il respiro profondo e faticoso. A causa del crescente disagio all'avvicinarsi della notte, gli erano stati somministrati sedativi sufficienti a tenerlo anestetizzato per ore. Avevano ancora bisogno di lui per la risonanza magnetica. Eph abbassò la luce nella stanza, accese il Luminol e puntò di nuovo il raggio indaco sul collo di Redfern per dare un'ulteriore occhiata alla cicatrice. Ma ora, nel buio, notò anche un'altra cosa. Una strana increspatura della pelle... meglio, sotto la pelle. Come una chiazza o una psoriasi subcutanea dalle sfumature nere e grigie che compariva appena sotto la superficie. Quando avvicinò il Luminol per un esame più approfondito, l'ombreggiatura sotto la pelle reagì. Si contorse e si dimenò, come se cercasse di sottrarsi alla luce. Eph arretrò, ritrasse il Luminol. Rimossa la luce nera, l'uomo addormentato parve normale. Eph tornò ad avvicinarsi e stavolta passò il raggio luminoso sulla faccia di Redfern. La chiazza subcutanea formò una sorta di maschera. Come una seconda persona nascosta sotto il viso del pilota di aviolinee, invecchiata e deforme. Un volto sinistro, un male ben sveglio dentro l'uomo malato che dormiva. Eph spinse più vicino la lampada... e di nuovo l'ombra interna s'increspò, quasi in una smorfia, e cercò di ritrarsi. Redfern aprì gli occhi, come destato dalla luce. Eph si ritrasse di scatto, sorpreso. Il pilota aveva in circolo una quantità di secobarbital sufficiente per due adulti. Troppa, per riprendere conoscenza. Il pilota aveva gli occhi sbarrati e fissi. Guardava il soffitto e pareva atterrito. Eph spostò la lampada ed entrò nel campo visivo dell'uomo. «Capitano Redfern?» Lui mosse le labbra. Eph si sporse per sentire cosa cercava di dire. «Lui è qui.» «Chi è qui, capitano Redfern?»
Gli occhi avevano uno sguardo fisso, come se Redfern stesse assistendo a una scena terribile che si svolgeva davanti a lui. «Il signor Sanguisuga» rispose il pilota. Molto più tardi Nora tornò e trovò Eph in fondo al corridoio di radiologia. Parlarono in piedi davanti a una parete coperta di disegni a pastello fatti da giovani malati riconoscenti. Lui le disse che cosa aveva visto sotto la pelle di Redfern. «La luce nera del Luminol non è ultravioletto a basso spettro?» chiese Nora. Eph annuì. Anche lui stava pensando al vecchio incontrato fuori dell'obitorio. «Voglio vederlo» disse Nora. «Al momento Redfern è in radiologia. Abbiamo dovuto sedarlo ancora per la risonanza magnetica.» «Ho i risultati sul liquido schizzato nell'aereo. Avevi ragione. Ci sono ammoniaca e acido fosforoso...» «Lo sapevo...» «Ma anche acido ossalico, ferro e acidi urici. Plasma.» «Cosa?» «Plasma naturale. E un mucchio di enzimi.» Eph si toccò la fronte, come per sentirne la temperatura. «Come nella digestione?» «Questo cosa ti ricorda?» «Escrezioni. Uccelli, pipistrelli. Guano. Ma come...» Nora scosse la testa, emozionata e stupefatta. «Chiunque ci fosse su quell'aereo... ha fatto una cacata gigantesca nella cabina.» Mentre Eph cercava di farsene un'idea, un uomo in tenuta ospedaliera percorse in fretta il corridoio, gridando il suo nome. Lui lo riconobbe: era un tecnico addetto alla risonanza magnetica. «Dottor Goodweather, non so cos'è successo. Sono solo uscito a prendere un caffè. Neanche cinque minuti.»
«Cosa cerca di dire? Cos'è capitato?» «Il suo paziente è sparito dallo scanner.» Jim Kent era dabbasso, vicino al negozio di articoli da regalo chiuso, lontano dagli altri, e parlava al cellulare. «Ora lo stanno sottoponendo a risonanza magnetica» disse alla persona in linea. «Pare declinare molto rapidamente, signore. Sì, dovrebbero avere i risultati degli esami nel giro di qualche ora. No, niente sugli altri superstiti. Pensavo volesse saperlo. Sì, signore, sono solo...» Si distrasse nel vedere un uomo alto, dai capelli rossicci, con un corto camice ospedaliero passare barcollando nel corridoio, trascinando sul pavimento i tubicini della flebo infilata nel braccio. Se non si sbagliava, era il capitano Redfern. «Signore, scusi... non so cosa stia succedendo... la richiamo.» Interruppe la comunicazione, si tolse l'auricolare e lo mise nel taschino della giacca; andò dietro all'uomo, distante alcune decine di metri. Il paziente rallentò solo un momento e girò la testa, come se si fosse accorto di essere seguito. «Capitano Redfern?» chiamò Jim. L'uomo girò l'angolo e Jim lo tallonò, solo per scoprire che il corridoio era vuoto. Controllò le targhette sulle porte. Provò quella su cui era scritto SCALE e guardò lo stretto pozzo fra le rampe. Scorse un tubicino di flebo trascinato sui gradini. «Capitano Redfern?» chiamò di nuovo, con voce che echeggiò nella tromba delle scale. Mentre scendeva, recuperò il telefonino per chiamare Eph. Ma lì sotto non c'era campo. Varcò la porta che dava nel corridoio del seminterrato e, distratto dal cellulare, non vide Redfern precipitarsi contro di lui dal fianco. Quando Nora, che stava perlustrando l'ospedale, varcò la porta fra il vano delle scale e il corridoio del seminterrato, trovò Jim seduto contro la parete, a gambe larghe. Aveva sul viso un'espressione assonnata.
Il capitano Redfern, scalzo, in piedi davanti a lui, le dava la schiena, lasciata scoperta dal camice non allacciato. Qualcosa che gli penzolava dalla bocca lasciava cadere sul pavimento goccioline di sangue. «Jim!» gridò Nora, ma il collega non reagì. Il capitano Redfern invece s'irrigidì. Si girò verso di lei: non pareva avere niente in bocca. Fu però sconvolta dal suo colorito, prima assai pallido, ora arrossato, paonazzo. Il davanti del camice era davvero macchiato di sangue, come la bocca. Nora pensò per prima cosa che Redfern fosse in preda a una sorta di attacco. Si preoccupò che si fosse morsicato la lingua e che inghiottisse il suo stesso sangue. Non appena lo ebbe esaminato da vicino, la diagnosi divenne più vaga. Le pupille di Redfern apparivano di un nero assoluto, la sclera era rossa anziché bianca. La bocca pendeva aperta, in maniera strana, anormale, come se la mascella fosse stata spostata su un cardine più basso. E dal corpo proveniva un calore eccessivo, superiore a quello causato da una febbre alta. «Capitano Redfern» disse Nora, chiamandolo ripetutamente, nel tentativo di strapparlo da quello stato. L'uomo avanzò verso di lei, con un'espressione da avvoltoio famelico negli occhi velati. Jim rimase accasciato al suolo, immobile. Redfern era chiaramente violento e Nora rimpianse di non avere un'arma. Si guardò intorno e vide solo un telefono interno, codice d'allarme 555. Afferrò dalla parete il ricevitore un attimo prima che Redfern l'assalisse e la gettasse a terra. Lei non si lasciò sfuggire di mano il ricevitore, col cavo teso dalla parete. Il pilota la immobilizzò con forza maniacale, bloccandole le braccia contro il lucido pavimento. Tese la faccia e contrasse la gola. Nora pensò che fosse sul punto di vomitarle addosso. Stava gridando quando Eph varcò di corsa la porta sulle scale, si gettò con tutto il peso del corpo contro Redfern e lo mandò a gambe all'aria, togliendoglielo di dosso. Poi Eph si raddrizzò, protese la mano contro il suo paziente per tenerlo a bada e si tirò in piedi. «Stia calmo...» Redfern emise un sibilo. Non come i serpenti, un sibilo di gola.
Aveva occhi neri, piatti e vacui. Iniziò a sorridere. O parve farlo, usando gli stessi muscoli facciali del sorriso... solo che la bocca, quando la dischiuse, continuò a spalancarsi. La mascella inferiore si abbassò e dalle fauci guizzò fuori una cosa rosea e carnosa che non era la lingua. Era più lunga, più muscolosa e complessa... e si contorceva. Come se Redfern avesse ingoiato un calamaro vivo e un tentacolo si dibattesse ancora disperatamente nella bocca. Eph saltò indietro. Per non cadere si afferrò a un sostegno per flebo, poi lo capovolse e lo adoperò come pungolo per tenere lontano l'uomo e quella cosa nella sua bocca. Redfern afferrò l'asta metallica e l'escrescenza muscolosa saettò. Si estese per il metro e ottanta di lunghezza del sostegno ed Eph si scansò appena in tempo. Sentì il flap prodotto, nel colpire la parete, dalla punta dell'appendice, stretta e simile a un pungiglione di carne. Redfern gettò di lato l'asta, rompendola al centro; Eph ruzzolò all'indietro e finì in una stanza. Il pilota entrò dopo di lui, sempre con quell'espressione famelica negli occhi neri e rossi. Come un pazzo, Eph cercò da tutte le parti qualsiasi cosa potesse aiutarlo a tenere lontano l'assalitore; trovò solo un trapano sotto carica, su uno scaffale. Il trapano elettrico è uno strumento chirurgico con una lama cilindrica rotante usato in genere per aprire il cranio umano durante l'autopsia. La lama turbinò come una pala d'elicottero e Redfern avanzò, col pungiglione in gran parte ritratto, ma ancora ciondolante, e sacche di carne che pulsavano ai lati. Prima che potesse assalirlo ancora, Eph tentò di tagliare l'aculeo. Sbagliò il colpo e affettò un pezzo del collo del pilota. Sgorgò sangue bianco, proprio come aveva visto all'obitorio, non con schizzo arterioso, ma colando sul davanti. Eph lasciò cadere il trapano, prima che la lama rotante gli schizzasse addosso quella sostanza. Mentre Redfern lo afferrava per il collo, lui raccolse l'oggetto più vicino che trovò, un estintore. Usò la parte inferiore per colpire in faccia l'aggressore, mirando all'orrendo pungiglione. Ripeté l'operazione altre due volte e alla fine la testa di Redfern scattò all'indietro con un percettibile schiocco della spina dorsale.
Il pilota crollò, inerte. Eph mollò l'estintore e arretrò barcollando, inorridito per ciò che aveva fatto. Nora arrivò di corsa, brandendo un pezzo del sostegno per flebo, e vide Redfern accartocciato a terra. Allora gettò l'arma improvvisata e si precipitò verso Eph. Lui la prese tra le braccia. «Stai bene?» Lei annuì, una mano sulla bocca. Indicò Redfern ed Eph vide i vermi che si contorcevano per uscire dal collo del pilota. Vermi rossastri, come pieni di sangue, che si riversavano fuori simili a scarafaggi che scappino da una stanza quando si accende la luce. Eph e Nora arretrarono verso la porta spalancata. «Che diavolo è successo?» chiese Eph. Nora lasciò ricadere la mano. «Il signor Sanguisuga.» Udirono un gemito nel corridoio... Jim... e corsero a prendersi cura di lui.
INTERLUDIO III RIVOLTA, 1943 Agosto continuava a bruciare e Abraham Setrakian, posando le travi per una tettoia, sentiva il fardello più di tanti altri. Il sole lo cuoceva, ogni giorno era come quello. Ma lui, più che il giorno, era giunto a detestare la notte - la sua branda e i sogni di casa -, un tempo l'unico momento di sollievo dall'orrore del campo di morte. Ormai era ostaggio di due padroni ugualmente spietati. La Creatura tenebrosa, Sardu, scaglionava le visite secondo uno schema regolare, due volte alla settimana, per nutrirsi nella baracca di Setrakian e probabilmente anche in altre. Le morti passavano del tutto inosservate fra secondini e prigionieri. Le guardie ucraine le annotavano come suicidi e per le SS era solo una voce cambiata nel registro. Nei mesi trascorsi dalla prima visita della Creatura Sardu, Setrakian, ossessionato dall'idea di sconfiggere un simile male, aveva imparato quanto più poteva da altri prigionieri locali su un'antica cripta romana situata da qualche parte nella foresta, fuori mano. Laggiù, ne era certo, la Creatura aveva la tana, da dove usciva di notte per appagare la sua empia sete. Se mai Setrakian aveva capito il vero significato di "sete", era stato quel giorno. Recipienti d'acqua circolavano di continuo fra i prigionieri, anche se molti di loro cadevano vittime di colpi di calore. La fossa ardente era ben alimentata quel giorno. Setrakian era
riuscito a recuperare ciò che gli serviva: un bastone di quercia bianca grezzo e un pezzetto d'argento per il puntale. Era l'antico modo per uccidere lo strigoi, il "vampiro". Per giorni aveva fatto la punta al legno, prima di trattarlo con l'argento. Solo escogitare un sistema per portare di nascosto il bastone nella baracca aveva richiesto quasi due settimane. Setrakian l'aveva sistemato in uno spazio vuoto proprio dietro il suo giaciglio. Se le guardie l'avessero trovato, lui sarebbe stato ammazzato sul posto, perché quel pezzo di legno duro sarebbe stato considerato un'arma. La notte precedente Sardu era arrivato al campo più tardi del solito. Setrakian era rimasto disteso, immobile, aspettando con pazienza che la Creatura cominciasse a cibarsi di un rumeno malato. Provava ripugnanza e rimorso e aveva pregato per il perdono, ma quella era una parte necessaria del suo piano, perché il vampiro, mezzo ingozzato, sarebbe stato meno attento. La livida luce dell'alba imminente filtrava dalle grate delle piccole finestre sul lato est della baracca. Era proprio il momento che Setrakian aspettava. Si era punto l'indice dal quale era sgorgata una perfetta perla cremisi. Però lui era completamente impreparato per gli eventi successivi. Non aveva mai sentito la Creatura emettere un suono: portava a termine l'empio pasto in un silenzio assoluto. Ma in quel momento, all'odore del sangue del giovane, la Creatura aveva gemuto, un suono che a Setrakian aveva ricordato lo scricchiolio di legno secco piegato o il borbottio d'acqua in un canale di scolo intasato. In un attimo la Creatura era di fianco a lui. Mentre Setrakian faceva scivolare cautamente la mano dietro il giaciglio per prendere il paletto, aveva incontrato il suo sguardo. Non aveva potuto fare a meno di girarsi quando l'aveva sentita avvicinarsi. La Creatura gli aveva sorriso. "Sono trascorsi secoli da quando ci nutrivamo guardando in occhi viventi" aveva detto. "Secoli..." Il suo alito sapeva di terra e di rame e la lingua schioccava. La voce profonda pareva un amalgama di molte voci, fuoriusciva come
lubrificata dal sangue umano. "Sardu..." aveva mormorato Setrakian, incapace di tenere per sé il nome. Gli occhi piccoli, luccicanti e bruniti della Creatura si erano spalancati e per un fuggevole istante erano sembrati quasi umani. "Non è da solo in questo corpo" aveva sibilato la Creatura. "Come osi nominarlo?" Setrakian aveva stretto il paletto nascosto e lentamente lo aveva estratto da dietro il giaciglio... "Un uomo ha il diritto di essere chiamato per nome prima d'incontrare Dio" aveva detto Setrakian, con la rettitudine della gioventù. La Creatura aveva farfugliato con gioia: "Allora, giovane uomo, puoi dirmi il tuo...". Setrakian aveva fatto la sua mossa, ma la punta argentata del paletto aveva raschiato leggermente contro il pagliericcio, rivelando la propria presenza un istante prima di volare verso il cuore della Creatura. Quell'istante era bastato. Aprendo l'artiglio la Creatura aveva fermato l'arma a un centimetro dal proprio petto. Divincolandosi per liberarsi, Setrakian cercava di colpire con l'altra mano, ma Sardu aveva sventato anche quell'attacco. Con la punta del pungiglione aveva lacerato di lato il collo del giovane, appena un taglietto, rapido come un battito d'occhio, sufficiente a iniettargli la sostanza paralizzante. Poi, tenendolo saldamente per le mani, lo aveva sollevato dal giaciglio. "Ma tu non incontrerai Dio" aveva detto. "Lo conosco personalmente e so che se n'è andato..." Setrakian era stato sul punto di perdere i sensi per la morsa degli artigli che gli serravano le mani. Quelle mani che l'avevano tenuto in vita così a lungo nel campo di lavoro. Il cervello gli scoppiava di dolore, la bocca era spalancata, i polmoni ansimavano senza fiato, ma nessun grido sarebbe uscito. La Creatura aveva guardato a fondo negli occhi di Setrakian e
visto la sua anima. "Abraham Setrakian" aveva mormorato, come un gatto che facesse le fusa. "Un nome così tenero, così dolce, per un giovanotto tanto pieno di spirito..." Si era sporto verso la sua faccia. "Ma perché vuoi distruggermi, ragazzo? Perché mi merito la tua collera, quando intorno a te trovi ancora più morte in mia assenza? Qui non sono io il mostro. È Dio. Il tuo Dio e il mio, il Padre assente che ci lasciò tanto tempo fa... Nei tuoi occhi scorgo ciò di cui hai più paura, giovane Abraham, e non sono io... È la fossa. Così ora vedrai cosa succede quando ti do in pasto alla fossa e Dio non fa niente per impedirlo." E allora, con un brutale scricchiolio, la Creatura aveva fracassato le ossa delle mani del giovane Abraham. Lui era crollato a terra, rannicchiato in una palla di dolore, stringendosi al petto le dita maciullate. Era finito in una pallida pozza di luce del sole. L'alba. La Creatura aveva sibilato, tentando di avvicinarsi ancora una volta. Ma i prigionieri nella baracca cominciavano a muoversi e, mentre il giovane perdeva i sensi, la Creatura era svanita. Abraham era stato trovato, ferito e sanguinante, prima dell'appello. Lo avevano mandato in infermeria, da dove i prigionieri feriti non tornavano mai. Un carpentiere con le mani rotte non serviva a niente nel campo e il sovrintendente aveva subito approvato la sua eliminazione. Era stato trascinato alla fossa ardente insieme con gli altri bocciati all'appello e fatto inginocchiare in una fila. Fumo nero fitto e untuoso nascondeva il sole rovente e spietato. Era stato denudato e trascinato sul bordo: si teneva contro il petto le mani maciullate e quando aveva guardato nella fossa era rabbrividito di paura. La fossa ardente. Fiamme fameliche guizzavano, il fumo unto si alzava in una sorta di balletto ipnotico. E il ritmo della fila d'esecuzioni - colpo di pistola, schiocco del carrello, lieve tintinnio del bossolo sul terreno polveroso - lo cullava in una trance di morte, lo sguardo fisso sulle lingue di fuoco che consumavano carne e ossa,
svelando l'uomo per ciò che è: semplice materia. Sacchi di carne eliminabile, spiaccicabile, infiammabile, facilmente convertibile in carbone. La Creatura era esperta di orrore, ma quell'orrore umano superava davvero ogni altra possibile sorte. Non solo perché era privo di misericordia, ma perché avveniva razionalmente, senza coercizione. Era una scelta. L'uccisione non era collegata alla guerra più estesa e non aveva altro scopo che il male. Uomini sceglievano di farlo ad altri uomini e inventavano ragioni e luoghi e miti per soddisfare in modo logico e metodico il proprio desiderio. Mentre l'ufficiale nazista sparava meccanicamente alla nuca a un uomo dopo l'altro e con un calcio mandava il corpo a consumarsi nella fossa, Abraham aveva sentito venire meno la forza di volontà. Era in preda alla nausea, non per la puzza o la scena, ma per la consapevolezza, la certezza, che Dio non fosse più nel suo cuore. C'era solo quella fossa. Aveva pianto per il suo fallimento e per il fallimento della sua fede, mentre sentiva la bocca della Luger premere contro la pelle. Un'altra bocca contro il suo collo. E poi aveva udito gli spari. Dall'altra parte del cortile una squadra di prigionieri lavoratori, che aveva occupato le torrette di guardia e si stava impadronendo del campo, sparava a ogni uomo in uniforme. L'ufficiale alle spalle di Abraham era andato via lasciandolo in posa sull'orlo della fossa. Un polacco in fila accanto a lui si era alzato e aveva iniziato a correre... A quel punto la forza di volontà aveva invaso di nuovo il giovane corpo di Setrakian. Mani strette al petto, si era ritrovato in piedi e poi a correre nudo verso la recinzione di filo spinato mimetizzato. Spari tutt'intorno a lui. Guardie e prigionieri che schizzavano sangue e cadevano. Fumo, ora, non solo dalla fossa: incendi scoppiavano per tutto il campo. Setrakian aveva raggiunto la recinzione, vicino ad alcuni altri, e in qualche modo, con mani anonime che lo tiravano in cima facendo quello che le sue,
maciullate, non potevano fare, era caduto dall'altra parte. Era rimasto disteso sul terreno, con le scariche di fucile e di mitraglia che laceravano il terriccio intorno a lui, poi, ancora, mani e braccia lo avevano tirato in piedi. Quando i suoi sconosciuti soccorritori erano stati abbattuti dai proiettili, Abraham aveva cominciato a correre e si era scoperto a piangere, perché in assenza di Dio aveva trovato l'Uomo. Uomo che uccide uomo, uomo che aiuta uomo, anonimi in entrambi i casi: il flagello e la benedizione. Una questione di scelta. Aveva corso per chilometri, anche mentre i rinforzi austriaci si avvicinavano. Nonostante la pianta e le dita dei piedi piene di tagli e maciullate dalle pietre, niente l'avrebbe potuto fermare adesso che si trovava al di là della recinzione. Quando finalmente aveva raggiunto i boschi ed era crollato nel buio, nascosto nella notte, aveva in mente un unico scopo.
Centrale del 17° distretto, Cinquantunesima Est, Manhattan Setrakian spostò il peso del corpo nel tentativo di stare più comodo sulla panca contro la parete, nella cella della stazione di polizia. Aveva aspettato per tutta la notte in un locale dalle pareti di vetro, in attesa della registrazione, bloccato con molti degli stessi ladri, ubriachi e pervertiti con cui era in gabbia in quel momento. Durante la lunga attesa aveva avuto tempo sufficiente per riflettere sulla scenata che aveva fatto davanti all'Ufficio di medicina legale e aveva capito di avere buttato via la sua migliore possibilità di arrivare all'Ente controllo e prevenzione malattie, nella persona del dottor Goodweather. Aveva fatto la figura del vecchio pazzo. Forse era in declino. Forse stava traballando come un giroscopio al termine delle rivoluzioni. Forse tutti gli anni in attesa di quel momento, vissuti a cavallo della linea di demarcazione fra paura e speranza, avevano preteso il loro tributo. Quando si invecchia, bisogna controllarsi di continuo. Mantenere una buona presa sulla ringhiera. Assicurarsi di essere ancora se stessi. No. Lui sapeva quel che sapeva. L'unico guaio adesso era la disperazione che lo faceva impazzire. Era lì, prigioniero in una stazione di polizia nel centro di Manhattan, mentre intorno a lui... "Fatti furbo, vecchio scemo. Trova il modo di svignartela. Sei riuscito ad andartene da posti molto peggiori di questo." Rivide nella mente la scena nell'arresto. Mentre dava nome e indirizzo, ascoltava le imputazioni di disturbo della quiete e intrusione in una zona vietata e firmava il modulo per gli effetti personali - il bastone da passeggio ("È di grande valore affettivo" aveva detto al sergente) e le pillole per il cuore - avevano portato dentro un giovane messicano sui diciotto, diciannove anni, con le mani ammanettate dietro la schiena. Il ragazzo era stato maltrattato,
aveva graffi in faccia e strappi nella camicia. Setrakian aveva notato in particolare i buchi di bruciatura nei calzoni neri e nella camicia. "È una stronzata, amico!" aveva detto il ragazzo, con le braccia tese dietro di sé, piegandosi indietro come se fosse spinto dagli agenti. "Quel puto era pazzo. Era loco, nudo, correva nella via. Assaliva la gente. Si è gettato su di noi!" L'agente lo aveva sbattuto con forza su una sedia. "Tu non l'hai visto, amico. Quel fottuto sanguinava bianco. Aveva quel cazzo... quel cazzo di cosa in bocca! Non era umano, merda!" Un detective era entrato nello stanzino dove il sergente stava registrando Setrakian, tergendosi il viso sudato con un asciugamano di carta. "Messicano fuori di testa. Due arresti per delinquenza minorile, ha appena compiuto i diciotto anni. Stavolta ha ucciso un uomo in una rissa. Lui e un compagno. Di sicuro sono saltati addosso a quel tipo e gli hanno preso i vestiti. Hanno cercato di spingerlo nel traffico di Times Square." Il sergente aveva roteato gli occhi continuando a picchiettare sulla tastiera. Aveva rivolto a Setrakian un'altra domanda, ma lui non lo aveva udito. Si era accorto appena del sedile sotto di sé o dei pugni che avevano formato le sue vecchie mani rovinate. Era stato quasi sopraffatto dal panico al pensiero di affrontare di nuovo l'inaffrontabile. Aveva visto il futuro: famiglie fatte a pezzi, annientamento, un'apocalisse di sofferenze. Tenebre regnanti sulla luce. L'inferno in terra. In quel momento si era sentito come l'uomo più vecchio del pianeta. A un tratto il nero panico era stato soppiantato da un impulso ugualmente nero: la vendetta. Una seconda possibilità. La resistenza, la lotta, la guerra in arrivo dovevano cominciare con lui.
Strigoi. La rovina era iniziata.
Reparto d'isolamento, Jamaica Hospital Medicai Center Jim Kent, ancora con i suoi abiti addosso, disteso sul lettino d'ospedale, farfugliò: «È assurdo. Sto benissimo». Eph e Nora erano ai due lati del letto. «Chiamiamola precauzione, allora» disse Eph. «Non è successo niente. Mi avrà dato un colpo in testa mentre varcavo la porta. Forse ho perso i sensi per un minuto. Una lieve sindrome commotiva.» Nora annuì. «Solo che... sei uno di noi, Jim. Vogliamo essere certi che sia tutto a posto.» «Ma perché in isolamento?» «Perché no?» replicò Eph costringendosi a sorridere. «Siamo già qui. E, guarda, hai un intero reparto d'ospedale tutto per te. Il migliore affare a New York City.» Jim sorrise, ma non parve molto convinto. «E va bene» disse alla fine. «Posso almeno avere il telefono, così ho l'impressione di contribuire?» «Penso sia possibile» rispose Eph. «Dopo qualche esame.» «E... per favore, dite a Sylvia che sto bene. Si preoccuperà di sicuro.» «Giusto» convenne Eph. «La chiameremo appena fuori di qui.» Uscirono, scossi, e si fermarono prima di lasciare il reparto d'isolamento. «Dobbiamo dirglielo» decise Nora. «Dirgli cosa?» obiettò Eph in tono un po' troppo aspro. «Prima bisogna scoprire con cosa abbiamo a che fare.» Fuori del reparto, una donna dai capelli ispidi legati con un largo nastro si alzò dalla sedia di plastica che aveva portato dentro dall'atrio. Jim divideva un appartamento nell'East Eighties con la sua
amica Sylvia, che scriveva la rubrica dell'oroscopo per il "New York Post". Lei aveva contribuito alla relazione con cinque gatti, lui con un fringuello, creando così grande tensione in casa. «Posso entrare?» chiese Sylvia. «Mi spiace, Sylvia. Regole del reparto d'isolamento. Solo personale medico. Ma Jim ha detto di farti sapere che si sente bene.» Sylvia strinse il braccio a Eph. «E tu cosa pensi?» «Sembra in ottima salute» rispose lui con tatto. «Vogliamo fargli alcuni esami, non si sa mai.» «Dicono che è svenuto, che è un po' intontito. Perché si trova nel reparto d'isolamento?» «Sai come lavoriamo. Eliminare tutta la robaccia. Fare un passo alla volta.» Sylvia guardò Nora, in cerca di rassicurazione fra donne. Lei annuì. «Te lo riporteremo il più presto possibile.» Dabbasso, nel seminterrato, Eph e Nora trovarono la direttrice dell'ospedale che li stava aspettando davanti alla porta dell'obitorio. «Dottor Goodweather, è un comportamento del tutto irregolare. Questa porta non deve mai essere chiusa a chiave e l'ospedale insiste per essere informato di ciò che succede...» «Mi spiace, signora Graham» disse Eph, leggendo il nome sulla targhetta «ma sono affari ufficiali del CDC.» Odiava far pesare l'autorità come un burocrate, ma di tanto in tanto l'impiego governativo aveva i suoi vantaggi. Prese la chiave di cui si era appropriato, aprì la serratura ed entrò con Nora. «Grazie per la collaborazione» aggiunse richiudendo a chiave. Le luci si accesero automaticamente. Il cadavere di Redfern era disteso su un tavolo d'acciaio, sotto un lenzuolo. Eph prese un paio di guanti dalla scatola accanto all'interruttore della luce e aprì un carrello di strumenti per autopsia. «Eph» disse Nora, calzando anche lei i guanti. «Ancora non abbiamo il certificato di morte. Non puoi aprirlo.» «Non c'è tempo per le formalità. Non con Jim quassù. E poi non
so neppure come faremo a spiegare la sua morte. Mettila come vuoi, ma ho ucciso un mio paziente.» «Per autodifesa.» «Lo so io. Lo sai tu. Ma di sicuro non ho il tempo di spiegarlo alla polizia.» Prese il grosso bisturi e lo usò sul torace di Redfern, facendo l'incisione a Y dalle clavicole alla punta dello sterno e poi giù lungo l'addome fino all'osso pubico. Scostò la pelle e i muscoli sottostanti e mise in mostra la gabbia toracica e il pannicolo addominale. Non aveva il tempo di eseguire un'autopsia completa. Tuttavia doveva confermare alcune cose evidenziate in Redfern dalla risonanza magnetica non completata. Adoperò un morbido tubo di gomma per lavare la perdita di liquido bianco simile a sangue ed esaminò gli organi principali sotto le costole. La cavità toracica era un casino, ingombra di grosse masse nere alimentate da sottili filamenti, propaggini simili a vene attaccate ai raggrinziti organi del pilota. «Dio mio» disse Nora. Eph studiò le escrescenze fra le costole. «Si è impadronito di lui. Guarda il cuore.» Era deforme, rattrappito. Anche la struttura arteriosa era alterata: il sistema circolatorio appariva semplificato, le arterie stesse erano coperte da una ruggine scura, cancerosa. «È impossibile» commentò Nora. «Sono passate solo trentasei ore dall'atterraggio dell'aereo.» Eph scorticò allora il collo di Redfern, mettendo in mostra la gola. Il nuovo organo era radicato nella parte mediana del collo e sporgeva dalle pieghe vestibolari. La protuberanza che agiva da pungiglione era ritratta. Si collegava direttamente alla trachea, in realtà si fondeva con essa, in maniera molto simile a un'escrescenza cancerosa. Eph decise di non procedere oltre con l'autopsia, per il momento, augurandosi di rimuovere in seguito nella sua interezza l'organo o muscolo o qualsiasi cosa fosse, per studiarlo nell'insieme e determinarne la funzione.
Squillò il cellulare. Eph si girò in modo che Nora, con i guanti ancora puliti, potesse prenderlo dalla sua tasca. «È l'Ufficio centrale di medicina legale» lo informò lei leggendo il display. Rispose e, dopo avere ascoltato per qualche momento, confermò: «Arriviamo».
DCME, Manhattan Il direttore Barnes arrivò all'OCME, all'angolo fra la Trentesima e la Prima, contemporaneamente a Eph e Nora. Scese dall'auto, inconfondibile col pizzetto e l'uniforme stile marina. L'incrocio era intasato di auto della polizia; frotte di giornalisti e operatori dei media si ammassavano davanti alla facciata turchese dell'obitorio. Le credenziali permisero a Eph e Nora di entrare e di raggiungere il dottor Julius Mirnstein, medico legale capo di New York. Era calvo, a parte qualche ciuffo castano ai lati della testa e sulla nuca, aveva un viso allungato, accigliato per natura, e indossava la regolamentare giacca bianca su larghi calzoni grigi. «Penso che abbiano fatto irruzione nella notte... non sappiamo» li informò. Guardò i monitor rovesciati e le penne sparse. «Non riusciamo a metterci in contatto con nessuno del personale di notte.» Consultò un'assistente che teneva il cellulare all'orecchio e che scosse la testa per confermare. «Seguitemi.» Nel seminterrato dell'obitorio tutto pareva in ordine, dai tavoli autoptici puliti ai banconi, bilance e apparecchi di misurazione. Nessun atto di vandalismo. Il dottor Mirnstein li precedette alla cella frigorifera e aspettò che Eph, Nora e il direttore Barnes lo raggiungessero. La cella era vuota. C'erano le barelle e qualche lenzuolo buttato da parte, nonché qualche capo di vestiario. Cinque o sei cadaveri erano ancora lungo la parete sinistra. Tutte le vittime dell'aereo erano scomparse. «Dove sono?» chiese Eph.
«È proprio questo il punto» rispose il dottor Mirnstein. «Non lo sappiamo.» Il direttore Barnes lo fissò per un momento. «Mi sta dicendo che secondo lei qualcuno ha fatto irruzione qui durante la notte e ha rubato quaranta e passa cadaveri?» «La sua ipotesi vale la mia, dottor Barnes. Mi auguravo che i suoi collaboratori potessero illuminarmi.» «Insomma» ribatté Barnes «non se ne sono certo andati sulle loro gambe.» «E a Brooklyn?» disse Nora. «E nel Queens?» «Dal Queens non so ancora niente» rispose il dottor Mirnstein. «Ma nell'obitorio di Brooklyn è avvenuta la stessa cosa.» «La stessa cosa?» ripeté Nora. «I cadaveri dei passeggeri dell'aereo sono scomparsi?» «Esatto» confermò il medico. «Vi ho chiamati qui nella speranza che la vostra agenzia avesse reclamato quei cadaveri senza dirci niente.» Barnes guardò Eph e Nora. I due scossero la testa. «Cristo!» esclamò il direttore. «Devo telefonare alla FAA.» Eph e Nora lo intercettarono prima che facesse la chiamata, in disparte dal dottor Mirnstein. «Dobbiamo parlarle» disse Eph. Barnes guardò dall'uno all'altra. «Come sta Jim Kent?» «Sembra in buone condizioni. Sostiene di sentirsi a posto.» «Bene. Cosa c'è?» «Ha una perforazione nel collo, attraverso la gola. La stessa che abbiamo trovato nelle vittime del volo 753.» Barnes si accigliò. «Com'è possibile?» Eph lo informò della fuga di Redfern per evitare la risonanza magnetica e della successiva aggressione. Da una grossa busta per lastre radiologiche estrasse una scansione RM, l'appese a un lettore a parete e accese la luce sul retro. «Questa è stata fatta al pilota
appena ricoverato.» Gli organi principali erano in vista e tutto pareva in ordine. «E allora?» fece Barnes. «E questa è stata fatta dopo» disse Eph. Appese una scansione che mostrava ombre confuse nel torso di Redfern. Il direttore inforcò i mezzi occhiali. «Tumori?» «È... ehm... difficile da spiegare, ma si tratta di tessuto nuovo che assimila organi in perfetta salute solo ventiquattro ore prima.» Barnes si tolse gli occhiali e si accigliò ancora. «Nuovo tessuto? Cosa diavolo significa?» «Questo» rispose Eph. Appese una terza scansione che mostrava l'interno del collo di Redfern. La nuova escrescenza sotto la lingua era chiarissima. «Che cos'è?» «Una sorta di pungiglione» rispose Nora. «Struttura muscolare. Retrattile, carnoso.» Il direttore la guardò come se fosse impazzita. «Un pungiglione?» «Sì, signore» intervenne Eph, rapido a spalleggiarla. «Crediamo sia la causa del taglio nel collo di Jim.» Barnes girò lo sguardo dall'uno all'altra. «Mi state dicendo che uno dei superstiti della catastrofe dell'aereo ha sviluppato un pungiglione e ha assalito con quello Jim Kent?» Eph annuì e riportò l'attenzione alle scansioni. «Everett, dobbiamo mettere in quarantena gli altri superstiti.» Il direttore consultò Nora, che annuì vigorosamente, d'accordo con il collega su tutto. «Se ne deduce che secondo voi quella... forma tumorale, quella trasformazione biologica, è in qualche modo trasmissibile?» «La nostra supposizione e il nostro timore sono proprio questi» rispose Eph. «Jim potrebbe essere infettato. Dobbiamo determinare l'avanzamento della sindrome, quale che sia, se vogliamo avere qualche possibilità di bloccarla e di curarlo.»
«E mi state dicendo di avere visto quel... quel pungiglione retrattile, come lo chiamate voi?» «L'abbiamo visto tutti e due.» «Dov'è adesso il capitano Redfern?» «Nell'ospedale.» «La prognosi?» Eph batté Nora sul tempo. «Incerta.» Barnes lo guardò e cominciò a intuire che qualcosa non andava. «Tutto ciò che chiediamo» disse Eph «è un ordine per costringere gli altri a sottoporsi a cure mediche...» «Mettere in quarantena tre persone significa spaventarne potenzialmente trecento milioni» replicò il direttore. Li guardò di nuovo in faccia, come per avere la conferma definitiva. «Credete che ci sia un collegamento con la sparizione di quei cadaveri?» «Non lo so.» Eph fu sul punto di aggiungere: "E non voglio saperlo". «Bene. Inizierò il procedimento.» «Inizierà il procedimento?» «Ci vorrà del bello e del buono.» «Bisogna agire subito» replicò Eph. «Immediatamente.» «Ephraim, ciò che mi ha illustrato è bizzarro e sconvolgente, tuttavia è un chiaro caso isolato. So che si preoccupa per la salute di un collega, ma per ottenere un ordine federale di quarantena devo chiedere e ricevere un ordine esecutivo del presidente. Al momento non vedo nessuna indicazione di una potenziale pandemia, quindi devo seguire i canali normali. Nel frattempo non voglio che tormentiate gli altri superstiti.» «Tormentarli?» disse Eph. «Ci sarà abbastanza panico senza che oltrepassiamo i nostri obblighi. Potrei farle notare che, se gli altri superstiti si sono davvero ammalati, perché non ne abbiamo ancora saputo niente?» Eph non aveva una risposta.
«Mi terrò in contatto» concluse Barnes e andò a telefonare. Nora guardò Eph. «Non farlo.» «Non fare cosa?» replicò lui, ma pensò che riusciva a leggerlo come un libro aperto. «Non cercare i superstiti. Non rovinare la possibilità di salvare Jim facendo incazzare l'avvocatessa o spaventando gli altri due.» Eph stava soffocando quando si aprì la porta sull'esterno. Due paramedici spinsero dentro una barella da ambulanza con sopra una sacca per cadaveri, accolti da due addetti dell'obitorio. I morti non aspettavano che il mistero si risolvesse. Non avrebbero smesso di arrivare. Eph previde che cosa sarebbe accaduto a New York City se si fosse verificata una vera pestilenza. Una volta sopraffatte le risorse municipali - polizia, vigili del fuoco, medici, necrofori -, l'intera isola, nel giro di settimane, si sarebbe trasformata in un puzzolente mucchio di concime organico. Un addetto dell'obitorio aprì a metà la chiusura lampo della sacca ed emise un ansito fuori del normale. Indietreggiò dal tavolo, con le mani guantate gocciolanti, mentre il fluido bianco e opalescente colava dalla guaina di plastica nera sul fianco della barella e poi sul pavimento. «Che diavolo è questa roba?» chiese l'uomo ai due paramedici, che erano rimasti vicino alla porta, con l'aria particolarmente disgustata. «Vittima d'incidente stradale» rispose uno dei due «a seguito di una rissa. Non so... sarà stato un camion del latte o roba del genere.» Eph prese un paio di guanti dalla scatola sul bancone, si avvicinò alla sacca e guardò all'interno. «Dov'è la testa?» «Dentro» rispose l'altro paramedico. «Da qualche parte.» Eph vide che il cadavere era stato decapitato all'altezza delle spalle e che la restante massa del collo era schizzata di viscidi grumi bianchi. «E per giunta il tipo era nudo» soggiunse il paramedico. «Che notte.» Eph aprì fino in fondo la chiusura lampo. Il cadavere senza testa era di un maschio sovrappeso, sulla cinquantina.
Poi Eph notò i piedi: una ferita da filo metallico intorno all'alluce, come se ci fosse stata attaccata una targhetta identificativa. Anche Nora vide la ferita all'alluce e sbiancò in viso. «Una rissa?» chiese Eph. «È quello che ci hanno detto» rispose il paramedico aprendo la porta sull'esterno. «Buona giornata a lei e buona fortuna.» Eph chiuse la cerniera. Non voleva che altri vedessero quella ferita. Non voleva che gli facessero domande alle quali non avrebbe potuto rispondere. Si rivolse a Nora. «Il vecchio.» Nora annuì. «Voleva che distruggessimo i cadaveri.» «Sapeva della luce ultravioletta» disse Eph. Si tolse i guanti di lattice e pensò di nuovo a Jim, che giaceva in isolamento, mentre chissà cosa cresceva dentro di lui. «Dobbiamo scoprire cos'altro sa.»
Centrale del 17° distretto, Cinquantunesima Est, Manhattan Setrakian contò altri tredici uomini con lui nella gabbia grande come una stanza, compreso un poveraccio con graffi recenti sul collo, accovacciato nell'angolo, che si sputava nelle mani e le strofinava vigorosamente. Aveva visto di peggio, certo... di molto peggio. In un altro continente, in un altro secolo, durante la Seconda guerra mondiale era stato imprigionato come ebreo armeno nel campo di sterminio di Treblinka. Aveva diciannove anni quando il campo era stato chiuso nel 1943, era ancora un ragazzo. Fosse entrato nel campo all'età che aveva adesso, non avrebbe resistito nemmeno qualche giorno... forse non avrebbe superato neppure il viaggio in treno. Guardò il ragazzo messicano nella panca accanto a lui, quello che aveva visto durante la registrazione, che aveva ora più o meno la sua stessa età alla fine della guerra. Sulla guancia aveva un livido bluastro e sangue secco gli incrostava un taglio sotto l'occhio. Ma
non sembrava infettato. Setrakian era più preoccupato per il secondo ragazzo messicano, disteso sulla panca accanto all'amico, rannicchiato sul fianco, immobile. Gus, da parte sua, arrabbiato, dolorante e nervoso dopo che l'effetto dell'adrenalina era svanito, s'insospettì del vecchio che lo fissava. «Problemi?» Altri nella cella alzarono la testa, attirati dalla prospettiva di una rissa fra un teppista messicano e un vecchio ebreo. «Ho davvero un bel problema» rispose Setrakian. Gus lo guardò, tetro. «Ce l'abbiamo tutti allora.» Setrakian intuì che gli altri avevano smesso di osservarli, rendendosi conto che non ci sarebbe stato nessun divertimento a rompere la noia. Diede un'occhiata più attenta all'amico del messicano. Teneva il braccio piegato a coprire la faccia e il collo, le ginocchia contro il petto, quasi in posizione fetale. Gus stava scrutando attentamente il vecchio. «Ti conosco.» Setrakian annuì, ci aveva fatto l'abitudine. «Centodiciottesima Strada.» «Knickerbocker Loans and Curios. Già... merda. Una volta hai fatto il culo a mio fratello.» «Mi aveva derubato?» «Ci aveva provato. Una catenina d'oro. Ora è un sacco di merda drogato, un fantasma. Ma a quel tempo era un duro. Ha qualche anno più di me.» «Doveva sapere come va il mondo.» «Ma lo sapeva. Perciò ci ha provato. La catenina d'oro era solo un trofeo, in realtà. Lui voleva sfidare la strada. Tutti l'avevano avvisato: col banco dei pegni non si scherza.» «Quando presi il negozio, la prima settimana qualcuno ruppe la vetrina. La cambiai. La tenni d'occhio e aspettai. Sorpresi il gruppetto che venne per romperla. Diedi loro qualcosa su cui riflettere e qualcosa da raccontare agli amici. Fu più di trent'anni fa. Da allora
non ho più avuto problemi con la vetrina.» Gus guardò le dita deformi del vecchio, delineate dai guanti. «Le tue mani... Che ti è successo? Ti hanno sorpreso a rubare?» «Non a rubare, no» rispose il vecchio strofinandosi le dita sotto la lana. «Una vecchia ferita per la quale non fui curato se non troppo tardi.» Gus gli mostrò il tatuaggio sulla mano, facendo il pugno in modo da gonfiare la membrana fra pollice e indice. Tre cerchi neri. «Come nell'insegna del tuo negozio.» «Tre palle sono un antico simbolo dei banchi di pegno. Ma il tuo ha un significato diverso.» «Segno di gang» spiegò Gus appoggiandosi allo schienale. «Significa "ladro".» «Ma da me non hai mai rubato.» «Non che tu sappia, comunque» ribatté Gus sorridendo. Setrakian guardò i calzoni del ragazzo, i buchi di bruciatura nella stoffa nera. «Dicono che hai ucciso un uomo.» Gus perdette il sorriso. «Non sei stato ferito? Il taglio sul viso te l'ha fatto la polizia?» Gus lo fissò, come se potesse essere un informatore. «Che te ne frega?» «Hai guardato nella sua bocca?» chiese Setrakian. Il ragazzo si girò verso di lui. Vide il vecchio chino in avanti, quasi in preghiera. «E tu cosa ne sai?» «Io so» disse Setrakian senza alzare lo sguardo «che una pestilenza è stata scatenata su questa città. E presto sul mondo.» «Non era una pestilenza. Era un folle psicotico con una... una fottuta lingua che gli usciva...» Si sentì ridicolo a parlarne. «Allora che cazzo era?» «Quello che hai combattuto era un morto, posseduto da una malattia.» Gus ricordò l'aspetto della faccia del ciccione, nera e famelica. Il
sangue bianco. «Cosa... come uno zombi piriche?» «Pensa piuttosto a un uomo dal mantello nero» rispose Setrakian. «Zanne. Pronuncia buffa.» Girò la testa in modo che il giovane potesse sentire meglio. «Ora metti da parte mantello e zanne. La pronuncia buffa. Metti da parte tutto ciò che c'è di comico in quello.» Gus pendeva dalle labbra del vecchio. Doveva sapere. La sua voce cupa, il suo timore malinconico erano contagiosi. «Ascolta ciò che ho da dire» continuò il vecchio. «Il tuo amico, qui, è stato infettato... morso.» Gus guardò l'immobile Felix. «No. No, è solo... gli sbirri, l'hanno stordito.» «Sta cambiando. È in preda a una cosa al di là della tua comprensione. Una malattia che cambia la gente in non-gente. Quella persona non è più il tuo amico. E cambiato.» Gus ricordò di avere visto il ciccione addosso a Felix, il loro folle abbraccio, la bocca del tipo sul collo di Felix. E l'espressione sul viso dell'amico: terrore e stupore reverenziale. «Senti quanto è caldo? Il suo metabolismo sta correndo. Serve grande energia per trasformarsi. Mutamenti dolorosi, catastrofici stanno avvenendo ora dentro il suo corpo. Lo sviluppo di un sistema di organi parassiti per adeguarsi al suo nuovo stato. Si sta tramutando in un organismo alimentatore. Presto, da dodici a trentasei ore dal momento dell'infezione, molto probabilmente stanotte, sorgerà. Sarà assetato. Non si fermerà davanti a niente per soddisfare il suo insaziabile desiderio.» Gus fissava il vecchio come in uno stato d'animazione sospesa. «Ami il tuo amico?» chiese Setrakian. «Cosa?» «Con "amore" intendo "stima", "rispetto". Se lo ami, lo distruggerai prima che sia cambiato completamente.» Lo sguardo di Gus si rabbuiò. «Distruggerlo?» «Uccidilo. Altrimenti cambierà te.»
Il ragazzo scosse lentamente la testa. «Ma se dici che è già morto, come posso ucciderlo?» «Ci sono dei modi» rispose Setrakian. «Come hai ucciso quello che ti ha assalito?» «Col coltello. La cosa che gli usciva dalla bocca... ho tagliato quella schifezza.» «La gola?» Gus annuì. «Anche quella. Poi un camion l'ha travolto, ha finito il lavoro.» «Separare la testa dal corpo è il modo più sicuro. Funziona pure la luce solare diretta. E ci sono altri metodi, più antichi.» Gus si girò verso Felix: disteso, immobile, respirava appena. «Perché nessuno ne sa niente?» chiese. Tornò a guardare Setrakian, chiedendosi chi dei due fosse pazzo. «Tu chi sei in realtà, vecchio?» «Elizalde! Torrez!» Gus era così preso dalla conversazione da non accorgersi che gli sbirri erano entrati nella cella. Alzò gli occhi, sentendo il suo nome e quello di Felix, e vide quattro poliziotti con guanti di lattice venire avanti, pronti a usare la forza. Si sentì tirare in piedi prima ancora di capire che cosa succedeva. Gli agenti diedero colpi sulla spalla a Felix, manate sul ginocchio. Non riuscirono a smuoverlo e allora lo sollevarono di peso, agganciando le braccia sotto le sue. Quando lo portarono via, la testa del ragazzo ciondolava e i piedi strisciavano per terra. «Ascoltatemi, per favore» disse Setrakian alzandosi e seguendoli. «Quel giovane... è malato. Pericolosamente malato. Una malattia contagiosa.» «Per questo abbiamo i guanti, nonno» ribatté un poliziotto. Tirarono su le braccia inerti di Felix e lo trascinarono fuori. «Abbiamo a che fare con malattie veneree tutti i momenti.» «Deve essere isolato, capite?» insistette Setrakian. «Chiuso lontano dagli altri.» «Non preoccuparti, nonno. Riserviamo sempre un trattamento
preferenziale agli assassini.» Lo sguardo di Gus indugiò sul vecchio mentre la porta della cella si chiudeva e gli agenti lo portavano via.
Stoneheart Group, Manhattan Ecco la camera da letto del grand'uomo. Climatizzazione controllata e automatizzata, regolazioni di default modificabili da una piccola console a portata di braccio. Il fruscio di umidificatori d'angolo in concerto col ronzio dello ionizzatore e il bisbiglio del sistema di filtraggio d'aria era come un rassicurante "sst" materno. Chiunque, pensò Eldritch Palmer, di notte dovrebbe appisolarsi in un grembo. E dormire come un bebé. Mancava ancora parecchio all'imbrunire e lui era impaziente. Ora che tutto era in moto - il ceppo si diffondeva in ogni parte di New York City, con la forza esponenziale dell'interesse composto, raddoppiandosi e raddoppiandosi ancora di notte in notte - si mise a canticchiare a bocca chiusa, con la gaiezza di un avido banchiere. Nessun successo finanziario, e ne aveva ottenuti in quantità, l'aveva mai animato tanto quanto quel vasto sforzo. L'apparecchio sul comodino squillò una volta e il microtelefono s'illuminò. Le chiamate passavano dal suo infermiere e assistente, il signor Fitzwilliam, un uomo di saggezza e discrezione straordinarie. «Buon pomeriggio, signore.» «Chi è, signor Fitzwilliam?» «Jim Kent, signore. Dice che è urgente. Glielo passo.» Dopo un momento Kent, uno dei tanti ben piazzati membri della Stoneheart Society di Palmer, disse: «Sì, pronto?». «Dica pure, signor Kent.» «Sì... mi sente bene? Devo parlare a bassa voce...» «La sento, signor Kent. Siamo stati interrotti, l'ultima volta.» «Sì. Il pilota è fuggito. Ha evitato gli esami.»
Palmer sorrise. «Ed è sparito?» «No. Non sapevo cosa fare, così l'ho seguito nell'ospedale, finché il dottor Goodweather e la dottoressa Martínez l'hanno raggiunto. Sostengono che Redfern è a posto, ma non posso confermare il suo stato. Ho sentito un'altra infermiera dire che ero solo quassù. E che i membri del progetto Canary hanno occupato una stanza chiusa nel seminterrato.» Palmer si rabbuiò. «Lei è solo dove?» «Nel reparto d'isolamento. Semplice precauzione. Redfern deve avermi colpito, mi ha fatto perdere i sensi.» Palmer rimase in silenzio per un momento. «Capisco.» «Se mi spiegasse esattamente cosa cercare, potrei essere più utile...» «Ha detto che hanno requisito una stanza nell'ospedale?» «Nel seminterrato. Potrebbe essere l'obitorio. Avrò informazioni più precise fra qualche tempo.» «Come?» «Appena esco di qui. Devono farmi alcuni esami.» Palmer ricordò a se stesso che Jim Kent non era un epidemiólogo, ma piuttosto un facilitatore nel progetto Canary, senza preparazione medica. «Parla come se avesse la gola infiammata, signor Kent.» «Ce l'ho. Solo un principio di qualcosa.» «Mmm. Buongiorno, signor Kent.» Palmer chiuse la comunicazione. Lo smascheramento di Kent era una semplice seccatura, ma il rapporto sull'obitorio dell'ospedale era inquietante. Anche se in ogni iniziativa imprenditoriale ci sono sempre ostacoli da superare. Una vita di affari e accordi gli aveva insegnato che sono le contrarietà e le trappole a rendere così dolce la vittoria finale. Prese di nuovo il microtelefono e premette il tasto con l'asterisco. «Sì, signore?» «Fitzwilliam, abbiamo perduto il nostro contatto nel progetto Canary. Ignori ogni ulteriore chiamata da quel cellulare.»
«Sì, signore.» «E dobbiamo inviare una squadra nel Queens. Nel seminterrato del Jamaica Hospital potrebbe esserci qualcosa che bisogna recuperare.»
Flathush, Brooklyn Ann-Marie Barbour controllò di nuovo di avere chiuso tutte le porte, poi ispezionò due volte la casa, stanza dopo stanza, da cima a fondo, toccando ogni specchio nel tentativo di calmarsi. Non poteva passare davanti a una superficie riflettente senza sfiorarla con le prime due dita della destra e annuire a ogni tocco, una ritmica routine somigliante alla genuflessione. Poi ripeté il giro per la terza volta e ripulì ogni superficie usando una mistura al cinquanta per cento di Windex e di acqua santa, finché fu soddisfatta. Quando sentì di avere ripreso l'autocontrollo, telefonò alla cognata, Jeanie, che viveva in New Jersey. «Stanno bene» disse Jeanie, riferendosi ai bambini che era andata a prendere il giorno prima. «Molto ben educati. Come sta Ansel?» Ann-Marie chiuse gli occhi, senza trattenere le lacrime. «Non lo so.» «Si sente meglio? Gli hai dato il brodo di pollo che ti ho portato?» Ann-Marie ebbe paura che le parole rivelassero il tremito della mascella. «Lo farò... ti richiamo.» Riagganciò e dalla finestra sul cortile guardò le due fosse. Due tratti di terra smossa. Pensò ai cani che vi giacevano. Ad Ansel. A ciò che aveva fatto alle bestie. Si strofinò le mani, poi rifece il giro della casa, solo al pianterreno stavolta. Prelevò dalla credenza in soggiorno la cassetta di mogano contenente l'argenteria delle nozze. Splendente e lucida. Lì dentro teneva la sua provvista segreta, come un'altra donna potrebbe nascondere dolciumi o pillole. Toccò ogni pezzo, con la punta delle dita che andava avanti e indietro dall'argento alle labbra. Sentiva che
sarebbe andata in pezzi se non lo avesse fatto. Poi si diresse alla porta sul retro. Esitò, esausta, la mano sul pomolo, pregando di essere guidata, di avere la forza. Pregò per sapere, per capire cosa stesse accadendo, perché le fosse mostrata la cosa giusta da fare. Aprì la porta, scese i gradini e andò alla baracca. La baracca da dove aveva trascinato le carcasse dei cani fino all'angolo del cortile, non sapendo cos'altro fare. Per fortuna c'era una vecchia vanga sotto la veranda. Aveva scavato due buche poco profonde, vi aveva seppellito gli animali e aveva pianto sulle loro fosse. Aveva pianto per i cani e per i suoi figli e per se stessa. Andò al fianco della baracca, dove crisantemi gialli e arancioni crescevano in una cassetta sotto una piccola finestra a quattro pannelli. Esitò prima di guardare dentro, schermandosi gli occhi dai raggi di sole. Utensili da giardino pendevano da pannelli sulle pareti, altri erano ammucchiati su scaffali e su un piccolo banco da lavoro. La luce del sole entrava dalla finestra e formava un rettangolo perfetto sul pavimento di terra battuta: l'ombra di Ann-Marie cadeva su un palo metallico piantato per terra. Vi era attaccata una catena come quella alla porta e l'altro capo non era visibile dalla sua posizione. Il pavimento mostrava segni di scavo. Ann-Marie tornò all'uscio e si fermò davanti ai battenti chiusi con la catena. Tese l'orecchio. «Ansel?» Non più di un bisbiglio, il suo. Si mise ancora in ascolto, ma non udì niente; allora avvicinò la bocca alla fessura di un centimetro fra i battenti deformati dalle piogge. «Ansel?» Un fruscio. Fu atterrita dal rumore vagamente animalesco... e al tempo stesso rassicurata. Ansel era ancora là dentro. Ancora con lei. «Ansel... non so che... ti prego... dimmi cosa devo fare... Ho bisogno di te, amore mio. Ti prego, rispondi. Cosa faccio?» Altro fruscio, come di terriccio scosso. Poi un rumore gutturale,
simile a quello di un tubo intasato. Se solo avesse potuto vederlo... Il suo viso rassicurante. Infilò la mano nella blusa e prese la tozza chiave appesa a un laccio da scarpe. La inserì nel lucchetto che chiudeva la catena fra le maniglie, girò finché sentì lo scatto e vide l'archetto sganciarsi dalla base di pesante acciaio. Svolse la catena, la sfilò e la lasciò cadere sull'erba. I battenti si dischiusero, si mossero un poco verso l'esterno. Il sole era alto, ma l'interno della baracca era buio, a parte la luce residua proveniente dalla piccola finestra. Ferma davanti all'apertura, AnnMarie guardò dentro. «Ansel?» Vide un'ombra muoversi. «Ansel... devi fare più silenzio di notte... il signor Otish della casa di fronte ha chiamato la polizia, credendo che fossero i cani... i cani...» Le vennero le lacrime agli occhi, tutto minacciò di riversarsi fuori. «Gli... gli ho quasi parlato di te. Non so cosa fare, Ansel. Qual è la cosa giusta? Mi sento così persa... Ti prego, ho bisogno di te...» Stava per afferrare il battente quando rimase sconvolta da un grido simile a un gemito. Ansel si gettò contro la porta, contro di lei, l'assalì dall'interno della baracca. Solo la catena legata al palo lo tirò indietro di scatto, strozzandogli in gola un ruggito animalesco. Ma mentre l'uscio si spalancava, Ann-Marie vide - prima di mandare un urlo, prima di sbattergli contro i battenti come scuri davanti a un feroce uragano - suo marito acquattato sul terreno, nudo a parte il collare da cane stretto intorno al collo in tensione, la bocca nera e spalancata. Si era strappato quasi tutti i capelli, come aveva fatto con i vestiti, e il suo corpo era pallido, venato d'azzurro, lurido per avere dormito nel terriccio come una creatura morta che si fosse rintanata nella sua stessa tomba. Snudò i denti macchiati di sangue e roteò gli occhi sotto le palpebre, rifuggendo dal sole. Un demone. Ann-Marie riavvolse la catena alle maniglie, con le mani che sfarfallavano impazzite, e chiuse il lucchetto. Poi si girò e fuggì di nuovo in casa.
Vestry Street, Tribeca La limousine portò Gabriel Bolivar direttamente allo studio del suo medico personale, in un edificio con garage sotterraneo. Il dottor Ronald Box era medico di fiducia di molte celebrità di base a New York, attori di cinema o televisione e musicisti. Non era il tipico professionista compiacente, una semplice macchina per ricette, anche se non lesinava con la penna digitale. Era un internista specializzato nella riabilitazione da droghe, nella cura di malattie veneree, epatite C e altre infermità solitamente correlate alla fama. Bolivar salì in ascensore, seduto su una sedia a rotelle, con addosso solo una veste da camera nera, ripiegato su se stesso come un vecchio. I lunghi e serici capelli corvini si erano rinsecchiti e gli cadevano a ciocche. Bolivar si coprì la faccia con le mani smagrite e all'apparenza artritiche, in modo che nessuno lo riconoscesse. Aveva la gola così gonfia e infiammata da riuscire a stento a parlare. Il dottor Box lo ricevette subito. Stava esaminando immagini trasmesse per e-mail dalla clinica. Con le foto c'era una nota di scusa del direttore, che aveva visto solo i risultati e non il paziente, in cui prometteva di far riparare i macchinari e suggeriva un'altra serie di analisi nel giro di un paio di giorni. Ma il dottor Box, guardando Bolivar, non pensò che i macchinari della clinica fossero guasti. Gli appoggiò lo stetoscopio sul petto, auscultò il cuore, gli chiese di fare respiri profondi. Cercò di esaminargli la gola, ma Bolivar evitò l'esame, senza parlare, con occhi neri arrossati, torvi per il dolore. «Da quanto tempo hai quelle lenti a contatto?» domandò il medico. Bolivar arricciò la bocca in una smorfia ringhiante e scosse la testa. Box guardò il marcantonio fermo vicino alla porta, con l'uniforme da autista. Elijah, guardia del corpo di Bolivar, un metro e novantacinque per centoventi chili, pareva molto nervoso e il dottore cominciava a spaventarsi. Esaminò le mani della rock star, che parevano invecchiate e infiammate, ma nient'affatto fragili.
Quando cercò di controllare i linfonodi sotto la mascella, il paziente non sopportò il dolore. La temperatura misurata nella clinica era di 50,5 gradi, impossibile in un essere umano; eppure, trovandosi vicino a Bolivar abbastanza da percepire il calore emesso, il dottor Box ci credette. Si ritrasse dal paziente. «Non so proprio come dirtelo, Gabriel. Hai il corpo crivellato, pare, di neoplasie maligne. Cancro. Vedo carcinomi, sarcomi e linfomi, tutti largamente metastatizzati. Che io sappia, non c'è precedente medico, ma insisto per interpellare qualche esperto nel campo.» Bolivar si limitò a stare seduto e ascoltare, con un'espressione malefica negli occhi scoloriti. «Non so cosa sia, ma qualcosa ti ha in pugno. Alla lettera. Per quanto posso dire, il tuo cuore ha smesso di battere per proprio conto. Pare che ora sia il cancro a manipolare l'organo. A farlo battere per te. I polmoni, stessa cosa. Sono stati invasi e... quasi assorbiti, trasformati. Come se...» Se ne stava rendendo conto in quello stesso momento. «Come se tu fossi nel bel mezzo di una metamorfosi. Clinicamente potresti essere ritenuto morto. Pare che sia il cancro a tenerti in vita. Non so cos'altro dirti. I tuoi organi stanno venendo meno, ma il cancro... be', il tuo cancro va alla grande.» Bolivar rimase a fissare il vuoto, con quegli orribili occhi. Mosse leggermente il collo, come se cercasse di parlare, ma non riuscisse a fare in modo che la voce superasse un'ostruzione. «Voglio ricoverarti subito al centro oncologico Sloan-Kettering» continuò il dottor Box. «Possiamo farti accettare con un nome di comodo e un falso numero di assicurazione sanitaria. Per la cura del cancro è la migliore clinica della contea. Voglio che Elijah ti ci porti subito...» Bolivar emise un brontolio rauco che era un "no" inconfondibile. Posò le mani sui braccioli della sedia a rotelle e Elijah accorse a bloccare le maniglie posteriori, mentre Bolivar si tirava in piedi. Impiegò un momento a ritrovare l'equilibrio, poi con le mani
infiammate sciolse il nodo della cintura e aprì la veste da camera. Sotto era nudo e mostrava un pene flaccido, annerito e raggrinzito, pronto a cadere dall'inguine come un fico malato da un albero moribondo.
Bronxville Neeva, la bambinaia dei Luss, ancora molto scossa dagli eventi delle ultime ventiquattr'ore, lasciò i piccoli alle cure di sua nipote Emile e chiese alla figlia Sebastiane di riportarla in auto a Bronxville. Aveva preparato la colazione a Keene e alla sua sorellina di otto anni Audrey: Frosted Flakes e frutta a cubetti, roba che aveva portato via dalla casa dei Luss quando era scappata. Ora stava tornando a prenderne dell'altra: i bambini non gradivano la sua cucina haitiana. Inoltre, cosa più importante, aveva dimenticato il Pulmicort di Keene, un farmaco contro l'asma. Il ragazzo respirava affannosamente ed era pallido in viso. Si fermarono perché nel vialetto c'era la macchina verde della signora Guild, alla vista della quale Neeva rimase indecisa. Disse a Sebastiane di aspettarla lì, scese dall'auto, sistemandosi gli slip, andò all'ingresso laterale e usò la sua chiave. Aprì la porta e notò che l'allarme non era stato inserito. Attraversò l'anticamera perfettamente arredata con armadietti incassati nelle pareti, attaccapanni e pavimento a piastrelle riscaldate - un locale che non era mai servito per la sua normale funzione di luogo dove pulirsi le scarpe infangate e gli abiti inzaccherati - spinse la porta scorrevole ed entrò in cucina. Pareva che nessuno vi avesse messo piede da quando lei aveva portato via i bambini. Si fermò sulla soglia e tese l'orecchio con grande attenzione, trattenendo il fiato. Non udì niente. «C'è nessuno?» gridò un paio di volte, chiedendosi se la signora Guild, con la quale non parlava volentieri - sospettava che la governante fosse razzista -, avrebbe risposto. Si domandò anche se Joan, una donna talmente priva del naturale istinto materno da
essere, malgrado tutti i successi in campo legale, simile a una bambina lei stessa, avrebbe risposto. Ma sapeva che nessuna delle due, anche se fosse stata in casa, lo avrebbe fatto. Non sentendo niente, andò al tavolo al centro della stanza e posò la borsa sul bancone, fra il lavello e i fornelli. Aprì l'armadietto degli spuntini e rapidamente, più simile a una ladra di quanto avesse immaginato, riempì una borsa di plastica del Food Emporium con cracker, succhi d'arancia e popcorn Smartfood, fermandosi di tanto in tanto a tendere l'orecchio. Dopo avere saccheggiato dal frigo mozzarelle e yogurt, notò il numero del signor Luss su un foglio appeso con lo scotch sul muro vicino al telefono della cucina. Provò un scossa d'incertezza. Che cosa poteva dirgli? "Sua moglie è malata. È fuori di sé. Ho preso io i bambini." No. In pratica non scambiava parola con lui. C'era qualcosa di malefico in quella splendida casa e il suo primo e unico dovere, come dipendente e come madre, era preoccuparsi della sicurezza dei bambini. Controllò l'armadietto sopra il wine cooler incassato nella parete, ma scoprì che la confezione di Pulmicort era vuota, proprio come temeva. Doveva scendere nella dispensa del seminterrato. In cima alla scala a chiocciola ricoperta di moquette esitò e trasse dalla borsa il crocifisso smaltato di nero. Scese tenendolo al fianco, per precauzione. Dall'ultimo gradino il seminterrato le parve troppo buio per quell'ora del giorno. Azionò tutti gli interruttori del quadro e quando le luci si accesero tese l'orecchio. Lo chiamavano seminterrato, ma in realtà era un altro piano ben arredato. Una stanza era adattata a saletta di proiezione, completa di poltroncine da teatro e della riproduzione di un carrello da popcorn. Un altro locale era pieno di giocattoli e di giochi da tavolo; un terzo era la lavanderia dove la signora Guild si occupava dei vestiti e della biancheria della famiglia. C'erano anche un quarto bagno, la dispensa e una cantina a temperatura controllata per i vini, installata di recente. Una casa in stile europeo, dove gli operai avevano modificato le fondamenta del seminterrato per creare un perfetto pavimento di terra battuta. Il calore giunse rombando, con un suono simile a quello di
qualcuno che prenda a calci l'impianto di riscaldamento - le reali viscere operative del seminterrato erano nascoste dietro una porta da qualche parte - e il rumore mandò Neeva quasi a sbattere contro il soffitto. La donna si girò verso le scale, ma il ragazzo aveva bisogno del farmaco nel nebulizzatore: non aveva un bel colorito. Attraversò con decisione la stanza e quando fu tra due poltroncine da teatro, di cuoio, a metà strada dalla porta a soffietto della dispensa, notò la roba impilata contro le finestre. Ecco perché aveva avuto l'impressione che fosse così buio a metà giornata: giocattoli e vecchi cartoni da imballaggio erano sistemati, insieme con vestiti vecchi e giornali, a formare una torre contro la parete e oscuravano le piccole finestre, spegnendo ogni raggio di sole. Neeva fissò quella roba, chiedendosi chi l'avesse messa lì. Corse alla dispensa, trovò il farmaco contro l'asma di Keene nello stesso scaffale metallico in cui c'erano le vitamine di Joan e flaconi di colorate pastiglie di magnesia. Tirò giù in fretta due lunghe scatole di fiale di plastica e corse via senza chiudere il soffietto. Mentre attraversava il seminterrato notò che l'uscio della lavanderia era socchiuso. Qualcosa in quella porta, che non veniva mai lasciata aperta, rappresentava lo scombussolamento dell'ordine normale, palpabile nella casa. Vide macchie di terriccio grasso e scuro sull'elegante moquette, spaziate quasi come orme. Con gli occhi le seguì fino alla porta della cantina che doveva varcare per giungere alla scala. Notò tracce di terriccio anche sulla maniglia. Mentre si avvicinava Neeva la avvertì. Da quella stanza di terra, una tenebra di tomba. Una mancanza d'anima. E tuttavia... non un gelo. Un contraddittorio calore, invece. Un calore aleggiante e ribollente. La maniglia cominciò a girare mentre lei vi passava davanti di corsa diretta alla scala. Neeva, una donna di cinquantatré anni con problemi alle ginocchia, prendeva quasi a calci gli scalini per salire più in fretta. Inciampò, si sorresse con la mano contro la parete e il crocifisso fece saltare un pezzetto d'intonaco. Qualcosa la stava seguendo. Neeva gridò in creolo mentre sbucava nel pianterreno illuminato dal sole, attraversava di corsa la lunga cucina e afferrava
la borsetta, facendo cadere il sacchetto del Food Emporium con cibi e bevande, troppo atterrita per guardarsi indietro. La vista di sua madre che urlava e usciva di corsa dalla casa spinse Sebastiane a scendere dall'auto. «No!» strillò Neeva facendole segno di risalire. Correva come se fosse inseguita, ma in realtà non c'era nessuno dietro di lei. Sebastiane tornò a sedersi, allarmata. «Mamma, cos'è successo?» «Metti in moto!» gridò la madre ansimando, con occhi da pazza, concentrata sulla portiera laterale aperta. «Mamma» disse Sebastiane inserendo la retromarcia. «Questo è rapimento. È un reato. Hai chiamato suo marito? Avevi promesso che lo avresti fatto.» Neeva aprì la mano serrata a pugno e scoprì che era insanguinata. Aveva stretto il crocifisso con tanta forza da tagliarsi. Lo lasciò cadere sul pavimento dell'auto.
Centrale del 17° distretto, Cinquantunesima Est, Manhattan Nella cella il vecchio professore sedeva all'estremità della panca, il più lontano possibile da un uomo senza camicia che russava e, per non infastidire nessuno chiedendo del gabinetto, aveva appena orinato in un angolo della stanza senza togliersi i calzoni. «Setraykeen... Setarkian... Setrainiak...» «Sono io» rispose il vecchio alzandosi e dirigendosi verso il tizio in divisa da poliziotto che pareva incapace di leggere ed era comparso sulla porta della cella. L'agente lo lasciò passare e richiuse la porta. «Mi rilasciate?» chiese Setrakian. «Penso di sì. Tuo figlio è venuto a prenderti.» «Mio...»
Setrakian si trattenne. Seguì il poliziotto verso una stanza da interrogatorio priva di targhetta. L'uomo aprì la porta e gli indicò di entrare. Setrakian impiegò qualche istante, appena il tempo della chiusura dell'uscio, per riconoscere la persona dall'altra parte del tavolo spoglio: il dottor Ephraim Goodweather dell'Ente controllo e prevenzione malattie. Accanto a lui c'era la dottoressa che aveva visto in sua compagnia nella precedente occasione. Setrakian sorrise con apprezzamento per il loro stratagemma, ma non parve sorpreso della visita. «Allora è cominciata» disse. Il dottor Goodweather aveva intorno agli occhi cerchi scuri dovuti alla stanchezza e alla mancanza di sonno. Squadrò il vecchio dalla testa ai piedi. «Lei vuole uscire di qui e noi possiamo aiutarla. Prima però ho bisogno di una spiegazione. Mi servono informazioni.» «Posso rispondere a parecchie sue domande, ma abbiamo già perso molto tempo. Dobbiamo cominciare subito, adesso, se vogliamo avere una possibilità di bloccare questa insidia.» «Parlo proprio di questo.» Goodweather fece un gesto piuttosto brusco con la mano. «Cos'è questa insidia?» «I passeggeri dell'aereo» rispose Setrakian. «I morti sono risorti.» Eph non seppe cosa replicare. Non avrebbe potuto dirlo. Non l'avrebbe detto. «Dovrà fare parecchi strappi alle regole, dottor Goodweather» proseguì Setrakian. «Capisco che pensi di correre un rischio prestando fede alla parola di un vecchio straniero. Ma in un certo senso io corro un rischio mille volte maggiore ad affidare a lei la responsabilità. La posta in gioco qui è niente di meno che il destino della razza umana... anche se non mi aspetto che lei mi creda ancora del tutto né che capisca. Lei è convinto di arruolarmi dalla sua parte. La verità è che sono io ad arruolarla dalla mia.»
IL VECCHIO PROFESSORE
Knickerbocker Loans and Curios, Centodiciottesima Strada, Spanish Harlem Eph mise in mostra sul parabrezza il contrassegno EMERGENZA TRASPORTO SANGUE e parcheggiò in divieto di sosta sulla Centodiciannovesima Est, dopodiché seguì Setrakian e Nora un isolato a sud fino al negozio di pegni sull'angolo. La saracinesca all'ingresso era abbassata e le vetrine erano chiuse da piastre metalliche. Malgrado il pencolante cartello CHIUSO appeso alla porta sopra quello che indicava gli orari di apertura, un uomo con un giubbotto da marinaio nero e sbrindellato e un alto berretto di maglia - come quelli che indossano i rastafariani, a parte il fatto che lui non aveva una massa di treccine per riempirlo e perciò gli si era afflosciato sulla testa come un soufflé mal riuscito - era davanti all'uscio con in mano una scatola da scarpe e spostava il peso del corpo da un piede all'altro. Setrakian scese dall'auto, con le chiavi penzolanti da una catenella, e si diede da fare con i lucchetti della saracinesca, facendo lavorare le dita deformi. «Niente pegni oggi» disse concedendosi un'occhiata a sghembo alla scatola. «Guardi qui.» L'uomo ne estrasse un involto di lino: un tovagliolo contenente nove o dieci posate. «Buona argenteria. Lei compra l'argento, lo so.» «Lo compro, sì.» Aperta la saracinesca, Setrakian si posò sulla spalla il bastone da passeggio, scelse un coltello, lo soppesò e passò il dito sulla lama. Si frugò i taschini del panciotto e si rivolse a Eph. «Ha dieci dollari, dottore?» Per sveltire la faccenda, Eph prese dal fermasoldi un biglietto da dieci e lo porse all'uomo con la scatola da scarpe. Setrakian restituì all'uomo le posate. «Può tenersele. Non è vero argento.»
Lui accettò con gratitudine l'elemosina e se ne andò con la scatola da scarpe sotto il braccio. «Dio la benedica.» «Lo vedremo presto» replicò Setrakian entrando nel negozio. Eph guardò il suo denaro allontanarsi nella via, poi seguì il vecchio. «Le luci sono là sulla parete» annunciò Setrakian. Abbassò e chiuse la serranda. Nora premette i tre interruttori insieme, illuminando armadi di vetro, vetrine d'esposizione e l'ingresso. Il locale era un piccolo negozio d'angolo, a forma di cuneo, inserito con un martello di legno nell'isolato cittadino. La prima parola che venne in mente a Eph fu "paccottiglia". Mucchi e mucchi di paccottiglia. Vecchi impianti stereo. Videoregistratori e altri sorpassati apparecchi elettronici. Una vetrina di strumenti musicali, compreso un banjo e una tastiera keytar uso chitarra degli anni Ottanta. Statuette religiose e piatti da collezione. Un paio di giradischi e piccoli mixer audio. Una vetrina da banco chiusa a chiave contenente spille a buon mercato e gioielli vistosi di scarsa qualità. Rastrelliere di abiti, per la maggior parte cappotti con il collo di pelliccia. "Tante di quelle carabattole da farti cadere le braccia" pensò Eph. Stava sprecando tempo prezioso con un pazzo? «Senta» disse al vecchio «crediamo che un nostro collega sia infettato.» Setrakian gli passò davanti, ticchettando col bastone da passeggio troppo lungo per lui. Con la mano guantata alzò il banco incernierato e invitò Eph e Nora a passare. «Andiamo di sopra.» Una scala nera portava a una porta del primo piano. Il vecchio toccò la mezuzzah prima di entrare, inclinando contro il muro il bastone da passeggio. Era un antiquato appartamento dai soffitti bassi e dai tappeti consunti. I mobili non erano stati mossi forse da una trentina d'anni. «Avete fame?» chiese Setrakian. «Guardate in giro, qualcosa troverete.» Sollevò il coperchio di un bizzarro contenitore per dolci e mise in mostra una scatola aperta di Devil Dogs. Ne prese uno e strappò la confezione di cellofan. «Non lasciate scemare le energie. Mantenete le forze. Ne avrete bisogno.» Diede un morso al dolce
ripieno di crema mentre andava in camera da letto a cambiarsi. Eph scrutò in giro nella piccola cucina, poi guardò Nora. Il locale odorava di pulito, malgrado il disordine. Lei prese dal tavolo intorno a cui c'era un'unica sedia una foto in bianco e nero incorniciata. Ritraeva una giovane donna dai capelli corvini in un semplice abito scuro, in posa su uno scoglio in una spiaggia per il resto vuota, le dita allacciate sul ginocchio nudo, i bei lineamenti arricciati in un sorriso vincente. Eph tornò nel corridoio dal quale erano arrivati e guardò nei vecchi specchi appesi alle pareti... erano decine, di tutte le dimensioni, striati dal tempo e imperfetti. Vecchi libri impilati contro le pareti restringevano il passaggio. Il vecchio ricomparve dopo essersi cambiato. I capi puliti erano dello stesso tipo: un vecchio completo di tweed con gilè, bretelle, cravatta e scarpe marroni di pelle scamosciata. Sulle mani rovinate aveva ancora i guanti di lana con la punta delle dita tagliata. «Vedo che colleziona specchi» disse Eph. «Di un certo tipo. Trovo che gli specchi più vecchi siano maggiormente rivelatori.» «Ora è pronto a dirci cosa sta succedendo?» L'uomo inclinò lievemente di lato la testa. «Dottore, non è una storia che si possa semplicemente raccontare. Deve essere rivelata.» Oltrepassò Eph e andò alla porta da dove erano entrati. «Prego... venite.» Eph lo seguì giù per la scala, imitato da Nora. Oltrepassarono il negozio del pianterreno, arrivarono a un'altra porta chiusa a chiave e a un'altra scala a chiocciola che portava in basso. Il vecchio scese, uno sghembo gradino per volta, le dita deformi aggrappate alla fredda ringhiera di ferro, riempiendo con la voce lo stretto passaggio. «Mi considero un depositario di antiche conoscenze, di persone morte e di libri da lungo tempo dimenticati. Conoscenze accumulate in una vita di studio.» «Quando ci ha fermato davanti all'obitorio» cominciò Nora «ci ha fatto capire di sapere che i cadaveri dell'aereo non si stavano decomponendo normalmente.» «Giusto.»
«Basandosi su cosa?» «Sulla mia esperienza.» Lei rimase perplessa. «Esperienza con altri incidenti aerei?» «Il fatto che si trovassero su un aereo è del tutto accidentale. Ho già visto quel fenomeno, in realtà. A Budapest, a Bassora, a Praga e a neanche dieci chilometri da Parigi. L'ho visto in un minuscolo villaggio di pescatori sulle rive del Fiume Giallo. L'ho visto a due chilometri di quota sui monti Aitai in Mongolia. E, sì, l'ho visto pure in questo continente. Ho visto le tracce. In genere accantonate come caso fortuito o spiegate come rabbia o schizofrenia, follia o, più di recente, un caso di omicidi seriali...» «Un momento, un momento. Lei stesso ha visto cadaveri lenti a decomporsi?» «È il primo stadio, sì.» «Il primo stadio...» ripeté Eph. Alla curva del pianerottolo c'era una porta chiusa. Setrakian estrasse una chiave che non faceva parte del mazzo ma gli pendeva da una catenina intorno al collo. Se ne servì per aprire due lucchetti, uno grande e uno piccolo. L'uscio si aprì verso l'interno e le luci si accesero automaticamente. Eph e Nora seguirono il vecchio nello scantinato pieno di ronzii, luminoso e profondo. La prima cosa a colpire lo sguardo di Eph fu una parete coperta di armature da guerra, che andavano dalla corazza di cavaliere in maglia d'acciaio alle piastre per il torso e il collo dei samurai giapponesi, nonché equipaggiamenti più rozzi di cuoio intrecciato per la protezione della gola, del petto e dell'inguine. C'erano anche armi: spade e coltelli, lame di luccicante e freddo acciaio. Congegni dall'aspetto più moderno erano allineati su un vecchio tavolo basso, con batterie sotto carica. Eph riconobbe occhiali per la visione notturna e pistole sparachiodi modificate. E altri specchi, per la maggior parte di formato tascabile, erano disposti in modo da permettergli di vedere se stesso che fissava con stupore quella galleria di... di cosa?
«Il negozio» disse il vecchio indicando il piano superiore «mi ha dato da vivere bene, ma non mi sono dedicato a questo lavoro per simpatia verso le radio a transistor e i gioielli di famiglia.» Chiuse la porta e le luci intorno all'intelaiatura divennero nere. L'impianto d'illuminazione - tubi viola che Eph riconobbe come lampadine a ultravioletti - correva tutt'intorno al battente come un campo di forza. Per tenere fuori della stanza i germi? O forse qualcos'altro? «No» continuò il vecchio. «La ragione per cui ho scelto questa professione è perché mi consentiva di accedere a un mercato clandestino di oggetti esoterici, antichità e libri. Illeciti, anche se in genere non illegali. Acquistati per la mia collezione personale e per le mie ricerche.» Eph si guardò intorno di nuovo. Non pareva tanto una collezione da museo quanto un piccolo arsenale. «Le sue ricerche?» domandò. «Già. Sono stato per molti anni professore di letteratura e folklore dell'Europa orientale all'università di Vienna.» Eph lo soppesò di nuovo. Di sicuro vestiva come un professore viennese. «E si è ritirato a Harlem per diventare un incrocio fra un prestatore su pegno e un conservatore di museo?» «Non mi sono ritirato. Sono stato costretto ad andarmene. In disgrazia. Certe forze si sono alleate contro di me. Eppure, a pensarci bene, passare nella clandestinità a quel tempo di sicuro mi ha salvato la vita. In realtà non avrei potuto fare di meglio.» Si girò verso di loro piegando le mani dietro la schiena, con un gesto da professore. «Il flagello di cui ora siamo testimoni ai suoi primi stadi è esistito da secoli. Da millenni. Sospetto, pur non potendolo provare, che risalga all'antichità dei tempi.» Eph annuì, senza comprendere il vecchio, lieto solo di fare finalmente qualche progresso. «Perciò parliamo di un virus.» «Sì. In un certo senso. Un ceppo di malattia che è corruzione sia della carne sia dello spirito.» Setrakian era in una posizione tale, dal punto di vista di Eph e di Nora, che lo spiegamento di spade sulla
parete gli si apriva a ventaglio sui fianchi come un paio d'ali dalle piume d'acciaio. «Un virus? Sì. Ma anche qualcos'altro che inizia per "v".» «E sarebbe?» chiese Eph. «Vampiro.» Una parola così, pronunciata con convinzione, rimane sospesa nell'aria per un po'. «State pensando» soggiunse l'ex professore «a un estroso gigione in cappa di seta nera. Oppure a un'elegante e potente figura con zanne nascoste. O a un'anima oppressa dalla maledizione della vita eterna. Oppure... al film Il cervello di Frankenstein, con Bela Lugosi e Gianni e Pinotto.» Nora guardava di nuovo per la stanza. «Non vedo crocifissi né acqua santa. E nemmeno trecce d'aglio.» «L'aglio ha certe interessanti proprietà immunologiche e può essere utile di per sé. Perciò la sua presenza nella mitologia è biologicamente comprensibile. Ma crocifissi e acqua santa...» Si strinse nelle spalle. «Prodotti del loro tempo. Prodotti dell'eccitata fantasia di uno scrittore vittoriano e del clima religioso del periodo.» Si era aspettato la loro espressione dubbiosa. «Ci sono sempre stati» proseguì. «Ad annidarsi, a cibarsi. In segreto e nel buio, perché è la loro natura. Sono i sette originali, noti come gli Antichi. I Padroni. Non uno per continente. Di norma non sono esseri solitari, hanno spirito di clan. Fin molto di recente - "di recente" considerando la loro illimitata durata di vita - erano tutti disseminati nell'ampia area geografica che oggi conosciamo come Europa e Asia, la federazione russa, la penisola arabica e il continente africano. Vale a dire, il Vecchio Mondo. C'è stato uno scisma, uno scontro interno alla loro specie. La natura del disaccordo non so quale sia. Basta dire che quella spaccatura precedette di secoli la scoperta del Nuovo Mondo. Poi la fondazione delle colonie americane dischiuse la porta a un nuovo e fertile terreno. Tre rimasero nel Vecchio Mondo e tre si trasferirono nel Nuovo. Ciascuna delle due parti rispettò il dominio dell'altra e fu concordata e mantenuta una tregua.
«Il problema fu il settimo Antico, un mascalzone che voltò le spalle a entrambi i gruppi. Anche se non posso provarlo al momento, considerata la natura improvvisa dell'azione sono propenso a credere che ci sia lui dietro tutto questo.» «Tutto questo» ripeté Nora. «L'incursione nel Nuovo Mondo. La rottura di una tregua solenne. Lo sconvolgimento dell'equilibrio dell'esistenza della loro specie. Un atto, essenzialmente, di guerra.» «Una guerra di vampiri» disse Eph. Setrakian sorrise fra sé. «Lei semplifica perché non può credere. Lei riduce, minimizza. Perché è stato allevato per dubitare e sfatare. Ridurre tutto a una piccola serie di fatti noti, facili da digerire. Perché lei è un medico, un uomo di scienza, e perché questa è l'America, dove tutto è conosciuto e capito, Dio è un dittatore benevolo e il futuro deve essere sempre luminoso.» Strinse come meglio poté le mani deformi e si portò alle labbra la punta delle dita, in un gesto di riflessione. «Questo è lo spirito della gente locale ed è meraviglioso. Sul serio... non sono sarcastico. È magnifico credere solo in ciò che si desidera e scartare tutto il resto. Rispetto il suo scetticismo, dottor Goodweather. E glielo dico nella speranza che lei a sua volta rispetti la mia esperienza in questa faccenda e valuti le mie osservazioni con la sua mente altamente civile e scientifica.» «In pratica sta dicendo che l'aereo... che uno di loro si trovava a bordo. Il mascalzone.» «Esattamente.» «Nella bara. Nel bagagliaio.» «Una bara piena di terriccio. Loro appartengono alla terra e hanno piacere di tornare a ciò da cui sorgono. Come vermi. Vermes. Scavano per annidarsi. Noi lo chiameremmo "sonno".» «Lontano dalla luce del giorno» disse Nora. «Dalla luce del sole, sì. Ed è nel transito che sono massimamente vulnerabili.» «Ma lei ha detto che è una guerra di vampiri. Non di vampiri contro esseri umani? E allora tutti quei passeggeri morti?»
«Anche questo vi sarà difficile accettare. Per loro non siamo nemici. Non siamo avversari meritevoli. Ai loro occhi non ne siamo all'altezza. Siamo solo prede. Cibo e bevanda. Animali in un recinto. Bottiglie su uno scaffale.» Eph sentì un brivido, ma lo scacciò. «E se le dicessi che questa storia suona come fantascienza?» Setrakian puntò il dito su di lui. «Quel congegno che ha in tasca, il cellulare... Lei compone un numero e immediatamente conversa con una persona dall'altra parte del mondo. Questa è fantascienza, dottor Goodweather. Fantascienza diventata realtà.» Sorrise. «Pretende la prova?» Si avvicinò a una bassa panca contro la lunga parete. Sopra c'era qualcosa coperto da un drappo di seta nera. Setrakian si comportò in maniera bizzarra: protese il braccio e pizzicò l'orlo più vicino della stoffa, tenendosi il più lontano possibile; poi tirò via la copertura. Si trattava di un contenitore di vetro. Un barattolo per campioni, reperibile in ogni negozio di forniture mediche. Dentro, sospeso in un liquido torbido, c'era un cuore umano ben conservato. Eph si chinò a osservarlo da vicino. «Femmina adulta, a giudicare dalle dimensioni. In buona salute. Abbastanza giovane. Un esemplare recente.» Guardò il vecchio. «E questo che cosa dimostra?» «L'ho tolto dal petto di una giovane vedova in un paesino fuori Scutari, nell'Albania settentrionale, nella primavera del 1971.» Eph sorrise alla stranezza del racconto e si sporse per osservare il cuore ancora più da vicino. Una cosa simile a un tentacolo saettò dal muscolo; una ventosa, sulla punta, si attaccò al vetro, all'altezza dell'occhio di Eph. Lui si raddrizzò di scatto. Poi rimase immobile a fissare il barattolo. «Mmm...» fece Nora, accanto a lui. «Che diavolo è quella roba?» Il cuore cominciò a muoversi nel siero. Pulsava.
Batteva. Eph spostò gli occhi dalla ventosa appiattita, simile a una bocca che sfregava contro il vetro, a Nora, accanto a lui, che fissava il cuore. Poi guardò Setrakian, che non si era mosso e teneva le mani in tasca. «Si anima ogni volta che c'è sangue umano nelle vicinanze» spiegò l'ex professore. Eph era assolutamente incredulo. Si accostò di nuovo, questa volta dalla parte opposta, al pallido ricettore privo di labbra della ventosa. La protuberanza si staccò dalla superficie interna del vetro e all'improvviso saettò verso di lui. «Cristo!» esclamò Eph. L'organo pulsante galleggiava come un carnoso pesce mutante. «Continua a vivere senza...» Non c'era scorta di sangue. Guardò i moncherini delle arterie recise, l'aorta e la vena cava. «Non è vivo e non è morto» replicò Setrakian. «È animato. Posseduto, si potrebbe dire, ma nel senso letterale. Osservi attentamente e capirà.» Eph prestò attenzione alle pulsazioni: erano irregolari, nient'affatto simili a un battito cardiaco. All'interno del muscolo vide qualcosa muoversi, contorcersi. «Un... verme?» azzardò Nora. Sottile e pallido, rosa, lungo sei o sette centimetri. Lo guardarono girare dentro il cuore, come una solitaria sentinella che pattugliasse doverosamente una base da tempo abbandonata. «Un verme capillare» spiegò Setrakian. «Un parassita che si riproduce negli infettati. Sospetto, anche se non ne ho la prova, che sia il vettore del virus. L'effettivo vettore.» Eph scosse la testa, incredulo. «E quella... quella ventosa?» «Il virus imita la forma dell'ospite, anche se reinventa i suoi sistemi vitali per conservarsi meglio. In altre parole, colonizza e modifica l'ospite per la propria sopravvivenza. Poiché in questo caso l'ospite è un organo staccato che galleggia in un barattolo, il virus ha trovato il modo di far evolvere un proprio meccanismo per ricevere
nutrimento.» «Nutrimento?» ripeté Nora. «Il verme vive di sangue. Sangue umano.» «Sangue?» fece Eph, con un'occhiata furtiva al cuore posseduto. «Di chi?» Setrakian tolse di tasca la mano sinistra. La punta raggrinzita delle dita fuoriusciva dal guanto. Il polpastrello del medio era liscio e segnato da cicatrici. «Alcune gocce ogni pochi giorni sono sufficienti. Sarà affamato. Sono stato via.» Andò alla panca, alzò il coperchio del barattolo - Eph si tirò indietro per guardare - e con la punta di un temperino appeso al mazzo di chiavi si punse il dito, tenendolo sopra il contenitore. Non trasalì: era una routine, non sentiva più il dolore. Il sangue gocciolò nel siero. La ventosa si cibò delle gocce rosse, con labbra simili a quelle di un pesce affamato. Terminata l'operazione, il vecchio si applicò sul dito un cerotto liquido, da una bottiglietta che teneva sulla panca, e rimise il coperchio al barattolo. Eph guardò il tentacolo diventare rosso. Il verme nell'organo si muoveva ora più fluidamente e con forza accresciuta. «E lei dice di avere mantenuto questa cosa per...?» «Dalla primavera del 1971. Non vado spesso in vacanza...» Sorrise alla battuta, guardando il dito punto e strofinando la punta asciutta. «La donna era una revenant, una persona infettata. Una persona che era stata cambiata. Gli Antichi vogliono restare nascosti, uccidono subito dopo essersi nutriti per evitare la diffusione del virus. Una vittima, chissà come, riuscì a sfuggire alla morte e tornò a reclamare la sua famiglia, gli amici e i vicini, annidandosi nel loro piccolo paese. Il cuore di quella vedova era cambiato da quattro ore, quando la trovai.» «Quattro ore? Come lo sa?»
«Ho visto il segno. Il segno degli strigoi.»
«Strigoi?» ripeté Eph. «Una parola del Vecchio Mondo per indicare i vampiri.» «E il segno?» «Il punto di penetrazione. Una sottile incisione sulla parte frontale della gola, che immagino abbiate già notato.» Eph e Nora annuirono pensando a Jim. «Dovrei precisare» soggiunse Setrakian «che non ho l'abitudine di estrarre cuori umani. È stato un lavoro sporco nel quale sono incappato per caso. Ma era assolutamente necessario.» «E lei» disse Nora «da allora ha continuato a mantenere quella cosa, dandole da mangiare come a... a un animale domestico?» «Sì.» Guardò il barattolo, quasi amorevolmente. «Serve da promemoria quotidiano di ciò che devo affrontare. Di ciò che ora noi dobbiamo affrontare.» Eph era inorridito. «In tutto questo tempo... non l'ha mostrato a nessuno? Un convegno di medicina? Il notiziario della sera?» «Se fosse così facile, dottore, il segreto sarebbe diventato pubblico anni fa. Ci sono forze alleate contro di noi. È un segreto antico e ben radicato. Tocca molti. La verità non sarebbe mai arrivata al grande pubblico, sarebbe stata messa a tacere, e io con lei. Per questo sono rimasto qui nascosto, in piena vista, per tutti questi anni. Ad aspettare.» A quei discorsi Eph si sentì rizzare i capelli. La verità era lì, proprio davanti a lui: il cuore umano nel barattolo ospitava un verme assetato del sangue del vecchio. «Non sono molto bravo a tenere i segreti che mettono in pericolo il futuro della specie umana. Nessun altro è al corrente di questo?» «Oh, qualcuno lo è, sì. Una persona potente. Il Padrone non avrebbe potuto viaggiare senza aiuti. Un alleato umano ha predisposto la sua salvaguardia e il suo trasporto. Vede, i vampiri non possono attraversare distese d'acqua, a meno che non siano aiutati da un essere umano che li inviti a entrare. Ora la tregua è stata infranta. Da un'alleanza fra uno strigoi e un essere umano. Per
questo l'incursione è così sconvolgente. E così pericolosa.» «Quanto tempo abbiamo?» chiese Nora. Il vecchio aveva già fatto i conti. «La creatura impiegherà meno di una settimana per consumare tutta Manhattan e meno di un mese per cogliere di sorpresa la nazione. In due mesi... il mondo.» «Impossibile» ribatté Eph. «Non succederà.» «Ammiro la sua determinazione» disse Setrakian. «Ma lei ancora non sa con cosa ha a che fare.» «E va bene» concesse Eph. «Allora... da dove iniziamo?»
Park Place, Tribeca Vasiliy Fet fermò il furgoncino comunale davanti a un edificio di appartamenti giù a Lower Manhattan. Il palazzo non sembrava granché dall'esterno, ma aveva una tenda da sole e una portineria; e quella era Tribeca, in fin dei conti. Avrebbe ricontrollato l'indirizzo, se non fosse stato per il furgone dell'Ufficio d'igiene parcheggiato illegalmente lì davanti, con la luce gialla girevole in funzione. Ironicamente, in molti edifici e case in varie parti della città, i disinfestatori erano accolti a braccia aperte, come la polizia sul luogo di un crimine. Vasiliy non pensò che lì sarebbe stato così. Anche il suo furgoncino aveva sul retro la scritta BPCS-CNY, Bureau of Pest Control Services, Ufficio per il controllo degli animali nocivi, città di New York. L'ispettore dell'Ufficio d'igiene, Bill Furber, lo accolse sulla scala interna. Billy aveva un paio di baffi biondi pendenti che cavalcavano le onde causate dal continuo masticare gomma alla nicotina. «Vaz» lo chiamò, ricorrendo al familiare diminutivo del nome. Vasiliy era un russo di seconda generazione, con una voce roca tutta Brooklyn. Di corporatura massiccia, riempiva gran parte della scala. Billy gli diede una stretta al braccio e lo ringraziò di essere venuto. «La cugina di mia nipote, qui, è stata morsicata alla bocca. Lo so, non è il mio ambiente, ma che ci posso fare: ha sposato uno ricco, ramo
immobiliare. Capisci... è la mia famiglia. Ho detto che stavo chiamando il migliore acchiappatopi dei cinque distretti.» Vasiliy annuì, con il silenzioso orgoglio tipico della sua professione. Un bravo disinfestatore non desta clamore. Avere successo significa non lasciarsi dietro tracce dell'impresa, nessuna indicazione che sia esistito un problema, che qualche animale nocivo sia mai stato presente e che sia stata messa anche una sola trappola. Significa che l'ordine è stato mantenuto. Vaz si tirò dietro la valigia a rotelle come un tecnico dei computer si porta la borsa degli utensili. L'interno dell'attico aveva soffitti alti e ampie stanze, centosettanta metri quadrati al costo di forse tre milioni di dollari, a New York. Seduta in un corto divano del colore di un pallone da basket, in una stanza high-tech tutta vetri, tek e cromature, una bambina si teneva stretta alla bambola e alla madre. Una larga fasciatura copriva il labbro superiore e la guancia della piccola. La madre aveva capelli tagliati corti, occhiali rettangolari e una gonna di lana ruvida verde che le arrivava al ginocchio. Parve a Vasiliy un visitatore giunto da un futuro molto hippy, androgino. La bambina era piccola, cinque o sei anni, e ancora spaventata. Vasiliy le avrebbe sorriso, ma la sua era una di quelle facce che difficilmente mettono a loro agio di ragazzini. Aveva una mascella simile alla parte piatta della lama di un'ascia e occhi assai distanziati. Alla parete era appeso un televisore ultrapiatto, come un grande quadro dalla cornice di vetro. Sullo schermo il sindaco parlava davanti a un bouquet di microfoni. Tentava di rispondere a domande sui cadaveri delle vittime dell'aereo, spariti dagli obitori della città. Il dipartimento di polizia era all'erta e controllava tutti i camion frigoriferi ai ponti e all'ingresso dei tunnel. Era stato predisposto un numero verde. Le famiglie delle vittime si erano indignate e i funerali erano tenuti in sospeso. Billy condusse Vasiliy nella cameretta della bambina. Un letto a baldacchino, un televisore Bratz incrostato di pietre, un computer portatile in stile e un pony a motore, bruno fulvo, nell'angolo. Vasiliy notò subito un involucro di cibo accanto al letto. Cracker tostati con burro di arachidi. Piacevano anche a lui. «Era qui a fare un pisolino» spiegò Billy. «Si è svegliata perché ha
sentito un morso al labbro. La cosa era sul suo guanciale, Vaz. Un topo nel letto. Non dormirà per un mese. Hai mai sentito casi del genere?» Vasiliy scosse la testa. I topi sono dentro e intorno a ogni edificio di Manhattan, non importa cosa dicano i padroni di casa e cosa pensino gli inquilini, ma non ci tengono a far sapere della propria presenza, soprattutto in pieno giorno. In genere attaccano i bambini, molto spesso li mordono intorno alla bocca, perché lì c'è l'odore di cibo. I topi norvegesi, Rattus norvegicus, diffusi nelle città, hanno sensi dell'odorato e del gusto altamente raffinati. E hanno incisivi lunghi e acuminati, più robusti dell'alluminio, del rame, del piombo e del ferro. I morsi di topo sono responsabili di un quarto di tutte le rotture di cavi elettrici nella città e probabilmente colpevoli della stessa percentuale di incendi di origine ignota. I denti di quelle bestie sono paragonabili per durezza all'acciaio e la struttura della mascella, simile a quella degli alligatori, consente una pressione di centinaia di chili. I topi possono scavare a morsi il cemento e anche la pietra. «Ha visto il topo?» chiese Vasiliy. «Non sapeva cosa fosse. Ha strillato e agitato le braccia, così la bestia è scappata via. Al pronto soccorso hanno detto che si trattava di un topo.» Vasiliy andò alla finestra, socchiusa di qualche centimetro per lasciare entrare la brezza. L'aprì ancora un po' e guardò, tre piani più giù, lo stretto vicolo acciottolato. La scala antincendio era a tre o quattro metri dalla finestra, la centenaria facciata di mattoni era irregolare e piena di fessure. La gente pensa che i topi si muovano quasi acquattati, con un'andatura dondolante, mentre in realtà hanno l'agilità degli scoiattoli. Soprattutto se sono motivati dal cibo o dalla paura. Vasiliy scostò dalla parete il letto della bambina e disfece coperte e materasso. Spostò una casa di bambole, una cassettiera e una libreria per guardare dietro, ma non si aspettava di trovare il topo ancora nella camera da letto. Si limitava a eliminare le possibilità più ovvie. Uscì in corridoio, tirandosi dietro la valigia a rotelle sul parquet liscio e verniciato. I topi non hanno buona vista e si muovono in
genere a tastoni. Si spostano rapidamente in base a percorsi ripetuti, lasciando piste lungo le pareti in basso, e di rado si allontanano più di venti metri dal nido. Non si fidano degli ambienti sconosciuti. Forse quel ratto aveva trovato la porta e aveva girato l'angolo, tenendosi contro la parete di destra, strusciando l'ispido pelame mentre scivolava sul pavimento. L'uscio seguente dava in un bagno, quello della bambina, decorato con un tappetino a forma di fragola, una tenda da doccia rosa chiaro e un cesto di bagnoschiuma e di giocattoli. Vasiliy esaminò la stanza, alla ricerca di nascondigli, poi annusò l'aria. Annuì a Billy, che chiuse la porta e si fermò un minuto ad ascoltare; poi decise di rassicurare la madre. Stava per muoversi quando udì, dal bagno nel corridoio, un tremendo BANG!, il rumore di bottiglie che cadono nella vasca da bagno, un forte borbottio e la voce di Vasiliy, rabbiosa, che imprecava in russo. Madre e figlia parevano sconvolte. Billy le invitò a pazientare, con un gesto della mano, perché aveva accidentalmente ingoiato la gomma da masticare, e tornò indietro di corsa nel corridoio. Vasiliy aprì la porta del bagno. Si era messo lunghi guanti di Kevlar e reggeva un grosso sacco nel quale qualcosa si dimenava e zampettava. Ed era qualcosa di grosso. Vaz annuì una volta e passò il sacco a Billy. Questi non poté fare altro che prenderlo, altrimenti sarebbe caduto a terra e il topo sarebbe scappato. Si augurò che il tessuto fosse robusto come sembrava, mentre il grosso animale si dibatteva all'interno. Tenne il sacco discosto il più possibile dal corpo, quanto il braccio gli permetteva, continuando a reggere in aria il topo combattivo. Vasiliy intanto, con eccessiva lentezza, aprì la valigia a rotelle. Prese un involucro sigillato, una spugna trattata con alotano. Riprese il sacco, che Billy fu ben contento di restituirgli, lo aprì quanto bastava a gettarci dentro la spugna imbevuta di anestetico e lo richiuse. All'inizio il topo si dibatté con la violenza di prima, poi cominciò a rallentare i movimenti. Lui scosse il sacco per accelerare il procedimento. Quando la bestia smise di dibattersi, Vasiliy aspettò ancora qualche momento, poi aprì il sacco, vi infilò la mano e la tirò fuori, reggendola per la coda. Il topo era sotto l'effetto del sedativo, ma
cosciente: le zampe anteriori dalle dita rosee continuavano a conficcare nell'aria le unghie aguzze, le mascelle scattavano a vuoto, i lucenti occhi neri erano aperti. Era un animale piuttosto grosso, forse venticinque centimetri di corpo e altrettanti di coda. Il pelo era duro, grigio scuro sul dorso, bianco sporco sul ventre. Non una bestiola domestica sfuggita a qualcuno, bensì un feroce topo di città. Billy si era allontano di alcuni passi. In vita sua aveva visto topi in quantità, ma non ci si era mai abituato. Vasiliy pareva a suo agio. «Femmina gravida» annunciò. I topi hanno una gestazione di soli ventun giorni e possono mettere al mondo fino a venti figli per volta. Una femmina in buona salute è in grado di generare duecentocinquanta piccoli all'anno, metà dei quali femmine pronte ad accoppiarsi. «Vuoi che la dissangui per il laboratorio?» Billy scosse la testa, disgustato, quasi come se gli fosse stato chiesto se volesse mangiarla. «La bambina ha fatto l'iniezione all'ospedale. Guarda quant'è grossa, Vaz. In nome di Dio. Voglio dire, questa non è...» Abbassò la voce. «Non è una casa popolare a Bushwick, capisci cosa intendo?» Vasiliy aveva capito. Perfettamente. Quando erano arrivati in America, i suoi genitori si erano sistemati a Bushwick. Fin dalla metà dell'Ottocento quel posto aveva visto ondate di émigrés: tedeschi, inglesi, irlandesi, russi, polacchi, italiani, afroamericani, portoricani. Attualmente venivano da Dominica, Guyana, Giamaica, Ecuador, India, Corea, Sudest asiatico. Vasiliy passava un mucchio di tempo nei quartieri più poveri di New York. Conosceva famiglie che ogni notte usavano cuscini, libri e mobili per isolare zone del proprio appartamento nel tentativo di tenere fuori i topi. Ma quell'attacco era davvero diverso. In pieno giorno. Con audacia. Di solito solo le bestie più deboli, scacciate dalla colonia, escono in superficie alla ricerca di cibo. Quella invece era una femmina robusta in buona salute. Molto insolito. I topi coesistono con l'uomo in un fragile equilibrio, sfruttano gli aspetti vulnerabili della civiltà; vivono di rifiuti, tenendosi appena fuori vista, dietro le pareti o sotto l'assito dei pavimenti. La comparsa di un topo simboleggia l'ansia e la paura umane. Ogni incursione che esuli dall'abituale ricerca di rifiuti notturna è indizio di un cambiamento
ambientale. Come l'uomo, i topi non sono abituati a correre rischi non necessari: devono essere costretti a uscire dal sottosuolo. «Vuoi che la pettini in cerca di pulci?» «Cristo, no. Rimettila nel sacco e liberatene. In ogni caso, non farla vedere alla bambina. È già abbastanza traumatizzata.» Vasiliy prese una grossa borsa di plastica e vi chiuse dentro il topo e un'altra spugna imbevuta di alotano, stavolta in dose fatale. Infilò nel sacco la borsa per nascondere la prova e continuò il lavoro, partendo dalla cucina. Estrasse il pesante fornello a otto piastre e la lavastoviglie. Controllò lo scarico del tubo sotto il lavello. Non vide escrementi né tane, ma sparse comunque qualche esca dietro i mobiletti, già che era lì. Non lo disse agli inquilini. La gente diventa nervosa se si parla di veleno, soprattutto i genitori, ma la verità è che il veleno per topi è presente in tutti gli edifici e le vie di Manhattan. Qualsiasi cosa assomigli a bacche blu o a croccantini verdi fa capire che nelle vicinanze sono stati avvistati topi. Billy lo seguì nello scantinato. Il locale era pulito e in ordine, senza ciarpame né rifiuti adatti a fare nidi. Vasiliy lo esaminò e annusò in cerca di escrementi. Aveva un buon naso per i topi, proprio come i topi lo avevano per gli esseri umani. Spense la luce, creando disagio a Billy, e accese la torcia che teneva agganciata alla cintura della tuta da lavoro blu e che mandava una luce violacea anziché bianca. L'urina dei roditori acquista una colorazione indaco sotto la luce nera, ma lui lì non scorse niente. Disseminò esche con topicida lungo i possibili percorsi e sistemò qualche trappola, a ogni buon conto; poi seguì Billy e tornò nell'ingresso. Billy lo ringraziò e disse che gli doveva un favore; alla porta si separarono. Vasiliy però era ancora perplesso e, dopo avere messo nel retro del furgoncino l'attrezzatura e il topo morto, si accese un Corona domenicano, percorse a piedi un tratto di strada e girò nel vicolo acciottolato che aveva visto dalla finestra della bambina. Tribeca era rimasto il solo quartiere di Manhattan dove ci fossero ancora vicoli. Non aveva percorso più di qualche passo quando vide il primo topo: zampettava lungo il bordo di un edificio, annusando il percorso. Poi ne scorse un altro sul ramo di un alberello che era
cresciuto a fatica contro un basso muro di mattoni. Un terzo, accovacciato nel canale di scolo, beveva liquido marrone proveniente da uno scarico di rifiuti o liquami fuori vista. Mentre stava lì a guardare, dall'acciottolato cominciarono a comparirne altri. Si aprivano un varco fra le pietre consumate, emergevano dal sottosuolo. Lo scheletro dei topi è flessibile, permettendo all'animale d'infilarsi in buchi non più larghi del loro cranio, poco meno di due centimetri. Gli animali venivano fuori dagli interstizi, due o tre per volta, e si sparpagliavano rapidamente. Usando come paragone le pietre di trenta centimetri per otto, Vasiliy stimò che quelle bestie avessero corpi di venti, venticinque centimetri e code altrettanto lunghe. In altre parole, erano esemplari adulti. Due sacchi di spazzatura lì vicino mostravano rigonfiamenti e contorsioni: roditori che si facevano strada mangiando. Uno di piccole dimensioni cercò di oltrepassarlo di corsa per arrivare a un bidone della spazzatura e Vasiliy lo colpì con la scarpa da lavoro, scagliandolo indietro di quattro o cinque metri. La bestia atterrò al centro del vicolo e non si mosse. Nel giro di pochi secondi gli altri gli furono addosso avidamente, lacerandolo con i lunghi incisivi gialli. Il modo più efficace ed efficiente per sterminare i topi è rimuovere dal loro ambiente la fonte di cibo e lasciare che si mangino l'un l'altro. Quegli animali erano affamati e in fuga. Un simile comportamento all'aperto, di giorno, era inaudito. Quella sorta di trasferimento in massa si verificava solo a seguito di un evento come un terremoto o il crollo di un edificio. Oppure, qualche volta, un vasto progetto edilizio. Vasiliy continuò verso sud per un altro isolato e attraversò Barclay Street nel punto dove la città si apriva al cielo, un'area di scavi di più di sei ettari. Salì su una delle piattaforme d'osservazione che dominavano il sito dell'ex World Trade Center. Nel profondo bacino sotterraneo, in fase di ultimazione, che avrebbe ospitato la nuova costruzione, colonne di cemento e acciaio cominciavano a spuntare dal terreno. L'area esisteva come un incavo nella città... come il morso nel viso della bambina. Vasiliy ricordò quell'apocalittico settembre del 2001. Qualche giorno dopo il crollo delle Torri Gemelle, si era unito agli addetti
dell'Ufficio d'igiene per portare via il cibo abbandonato, iniziando dai ristoranti dalle serrande abbassate intorno al perimetro dell'area. Poi era passato agli scantinati e alle stanze del sottosuolo, senza mai vedere un topo, ma individuando una quantità di prove della loro presenza, compresi chilometri di orme nella polvere depositata. Ricordava molto vividamente la pasticceria di una certa signora Fields, quasi interamente rosicchiata. La popolazione dei ratti stava esplodendo nel sito; la preoccupazione era che le bestie sarebbero uscite dalle rovine in cerca di nuove fonti di cibo, sciamando nelle vie circostanti e nei quartieri vicini. Perciò era stato intrapreso un massiccio programma di contenimento finanziato a livello federale. Migliaia di esche e di trappole di filo d'acciaio erano state sistemate intorno a Ground Zero e all'interno, e grazie alla vigilanza di Vasiliy e degli altri come lui la temuta invasione non si era verificata. Vasiliy aveva mantenuto un contratto governativo fino a quel giorno: il dipartimento per il quale lavorava sovrintendeva uno studio per il controllo dei topi a Battery Park e dintorni. Perciò lui era assai coinvolto nelle infestazioni locali e aveva partecipato da subito al progetto edilizio. E fino a quel momento tutto era andato avanti normalmente. Guardò in basso i camion versare cemento e le gru rimuovere macerie. Aspettò tre minuti che un ragazzino finisse di guardare da un cannocchiale montato sulla piattaforma, lo stesso tipo che c'è in cima all'Empire State Building, poi inserì le due monete da venticinque centesimi e scrutò l'area di lavoro. Li vide in un momento, piccoli corpi marroni che scappavano fuori dagli angoli e correvano intorno a mucchi di pietre; alcuni scorrazzavano temerariamente e parevano nastri di cuoio che si srotolassero fino alla via d'accesso verso Liberty Street. Zampettavano intorno alle barre di rinforzo chiodate che segnavano le fondamenta della Freedom Tower come se facessero una maledetta corsa a ostacoli. Vasiliy cercò le interruzioni dove la nuova costruzione si sarebbe collegata nel sottosuolo con la metropolitana. Poi spostò più in alto il cannocchiale e seguì una fila di topi che si arrampicava sulle puntellature di una piattaforma d'acciaio lungo l'angolo est, aggrappandosi ai cavi tesi. Stavano correndo fuori del bacino in un esodo di massa e seguivano ogni via
di fuga che riuscissero a trovare.
Reparto d'isolamento, Jamaica Hospital Medicai Center Dietro la seconda porta del reparto d'isolamento, Eph si mise guanti di lattice. Avrebbe detto a Setrakian di imitarlo, ma diede un'occhiata alle dita deformi del vecchio e si domandò se sarebbe stato possibile. Entrarono insieme nella stanza di Kent, la sola occupata nel reparto altrimenti vuoto. Jim dormiva vestito, disteso sul letto: cavetti dal petto e dalla mano lo collegavano a macchinari i cui tracciati erano regolari. L'infermiera di servizio aveva detto che i livelli - frequenza cardiaca, pressione sanguigna, frequenza respiratoria, percentuale di ossigeno - stavano scendendo tanto in basso che era stato necessario ritarare tutti gli allarmi automatici perché non scattassero in continuazione. Eph scostò le tende di plastica trasparente e si accorse che Setrakian, accanto a lui, diventava teso. Quando si avvicinarono, i parametri vitali di Kent s'impennarono su tutti gli schermi. «Come il verme nel barattolo» osservò Setrakian. «Ci percepisce. Percepisce che il sangue è vicino.» «Impossibile» replicò Eph. Avanzò ancora. I parametri vitali e l'attività cerebrale aumentarono. «Jim» lo chiamò. La faccia di Kent era rilassata nel sonno, la pelle scura aveva assunto un colore grigio stucco. Eph notò che le pupille di muovevano velocemente sotto le palpebre in una sorta di sonno REM maniacale. Setrakian scostò l'ultimo strato di plastica trasparente, usando il pomolo d'argento a testa di lupo del bastone da passeggio. «Non si avvicini troppo» ammonì. «Sta cambiando.» Infilò la mano nella tasca della giacca. «Il suo specchio. Lo prenda.» La tasca interna della giacca di Eph era appesantita da uno specchio con una cornice d'argento, nove centimetri per sette, uno
dei tanti esemplari che il vecchio aveva preso dall'armeria antivampiro del suo scantinato. «Vi si vede riflesso?» Eph osservò la sua immagine nel vecchio specchio. «Certo.» «Lo usi, la prego, per guardare me.» Eph lo inclinò ad angolo, in modo da inquadrare la faccia del vecchio. «D'accordo.» «I vampiri non si riflettono» disse Nora. «Non del tutto» precisò Setrakian. «Ora, per favore, lo usi con prudenza per guardare la faccia di quest'uomo.» Poiché lo specchio era piccolo, Eph fu costretto ad avvicinarsi al letto, con il braccio teso, tenendolo ad angolo sopra la testa di Jim. Sulle prime non riuscì a cogliere l'immagine riflessa. Era come se scuotesse violentemente la mano. Ma lo sfondo, il guanciale e l'intelaiatura del letto, era immobile. La faccia di Jim era una chiazza confusa. Pareva che lui scuotesse la testa a una velocità tremenda o vibrasse con tale forza da rendere impercettibili i lineamenti. Eph ritrasse in fretta il braccio. «La parte argentata» disse Setrakian, dando un colpetto al proprio specchio. «Ecco la chiave. Gli specchi prodotti in serie oggi, con la parte posteriore cromata, non rivelerebbero niente. Ma il vetro argentato dice sempre la verità.» Eph guardò di nuovo la propria immagine. Normale. A parte il lieve tremito della sua stessa mano. Inclinò poi lo specchio sulla faccia di Kent, cercò di tenerlo fermo... e scorse il tremolio confuso che era l'immagine riflessa di Jim. Come se il corpo fosse scosso da spasmi furiosi, come se il suo essere vibrasse troppo forte e troppo rapidamente per acquisire visibilità. Eppure a occhio nudo lui era disteso immobile e sereno. Eph passò lo specchio a Nora, che condivise il suo stupore e la sua paura.
«Allora ciò significa... Si sta trasformando in una creatura... una creatura come il capitano Redfern.» «In base al decorso dell'infezione» spiegò Setrakian «possono completare il mutamento e attivare il sistema per nutrirsi già dopo un giorno e una notte. Occorrono sette notti perché ci sia la trasformazione completa, perché la malattia consumi il corpo e lo sagomi al proprio scopo... il nuovo stato di parassita. E poi circa trenta notti per raggiungere la maturità totale.» «Maturità totale?» ripeté Nora. «Pregate che non ci tocchi vedere quella fase» disse il vecchio. Indicò Jim. «Le arterie del collo umano offrono il più rapido punto d'accesso, ma anche l'arteria femorale è una via diretta alla provvista di sangue.» Il taglio nel collo era così netto da essere invisibile al momento. «Perché sangue?» chiese Eph. «Per l'ossigeno, il ferro e molte altre sostanze nutrienti.» «Ossigeno?» si stupì Nora. Setrakian annuì. «I corpi ospiti cambiano. Parte della trasformazione consiste nel fatto che i sistemi circolatorio e digestivo si fondono, diventano uno solo. Come negli insetti. La loro sostanza sanguigna manca della combinazione ferro-ossigeno che è responsabile del colore rosso del sangue umano. È bianca.» «E gli organi...» intervenne Eph. «Quelli di Redfern parevano tumori.» «Il sistema corporeo è consumato e trasformato. Il virus prende il sopravvento. Non respirano più. Inalano aria solo come riflesso vestigiale, ma non si ossigenano. Gli inutili polmoni alla fine si raggrinziscono e vengono riadattati.» «Quando Redfern ci ha assalito» disse Eph «aveva nella bocca un'escrescenza molto sviluppata. Una sorta di pungiglione sotto la lingua.» Setrakian fece cenno di sì con il capo, come se si dichiarasse d'accordo con Eph su una questione banale. «Si congestiona mentre si cibano. La carne avvampa, come i bulbi oculari e le cuticole.
Quello che lei chiama pungiglione è in realtà una riconversione di faringe, trachea e sacche polmonari, con la carne sviluppata di recente. Un fenomeno che si può paragonare a quando si rovesciano le maniche di una giacca. Il vampiro può espellere dalla cavità toracica quell'organo e proiettarlo a ben più di un metro, addirittura fino a un metro e ottanta. Se facesse l'autopsia a una vittima matura, troverebbe un tessuto muscolare, una sacca che lo aziona per cibarsi. Tutto ciò di cui necessitano è la regolare ingestione di puro sangue umano. Una forma di diabetismo, in un certo modo. Non so. Il dottore è lei.» «Credevo di esserlo» borbottò Eph. «Fino a ora.» «Pensavo che i vampiri bevessero sangue di vergini» intervenne Nora. «Che ipnotizzassero... che si mutassero in pipistrelli...» «Questa è la versione romanzata» replicò Setrakian. «La verità è più... come potrei dire...» «Perversa» suggerì Eph. «Disgustosa» disse Nora. «No. Banale. Ha trovato l'ammoniaca?» Eph annuì. «Hanno un sistema digestivo molto compatto» continuò Setrakian. «Niente spazio per conservare il cibo. Il plasma non digerito e ogni altro residuo devono essere espulsi per far posto al nutrimento in arrivo. Come una zecca, che espelle gli escrementi mentre si ciba.» All'improvviso la temperatura della stanza cambiò. La voce del vecchio scese a un gelido bisbiglio.
«Strigoi» sibilò. «Qui.» Eph guardò Jim. Gli occhi erano aperti, le pupille scure, la sclera all'intorno aveva assunto un colore grigio arancione, quasi come un cielo incerto al crepuscolo. Lui stava fissando il soffitto. Eph sentì una punta di paura. Setrakian s'irrigidì, la mano deforme in posa vicino al pomo a testa di lupo del bastone da passeggio... pronta a colpire. Eph sentì l'elettricità del suo proposito e fu sorpreso dal profondo odio ancestrale che vide negli occhi del vecchio.
«Professore...» esordì Jim lasciandosi sfuggire dalle labbra un lieve gemito. Poi richiuse le palpebre e scivolò di nuovo in una trance simile al sonno REM. Eph si rivolse a Setrakian. «Come faceva a... conoscerla?» «Lui non mi conosce» rispose lui, ancora all'erta, pronto a colpire. «Ora è come un fuco, sta diventando parte di un alveare. Un corpo con molte parti ma una sola volontà.» Guardò Eph. «Questa "cosa" dev'essere distrutta.» «Eh? No.» «Lui non è più il suo amico. È il suo nemico.» «Anche se fosse vero, è ancora un mio paziente.» «Non è malato. È passato in un regno che trascende la malattia. Nel giro di ore non rimarrà niente di lui. A parte questo, è massimamente pericoloso trattenerlo qui. Come è accaduto con il pilota, lei farà correre un grande rischio alle persone presenti.» «E se... se non ottiene sangue?» «Senza nutrimento, comincerà a crollare. Dopo quarantotto ore senza cibo, il corpo inizia a deperire, il sistema demolisce muscoli e grassi, si consuma lentamente e dolorosamente. Finché rimane solo il sistema vampiresco.» Eph stava scuotendo con forza la testa. «Ho solo bisogno di formulare un protocollo di cura. Se la malattia è provocata da un virus, devo lavorare per trovare una cura.» «C'è un'unica cura» replicò Setrakian. «La morte. La distruzione del corpo. Una morte misericordiosa.» «Qui non siamo veterinari. Non possiamo limitarci a sopprimere le persone troppo malate per sopravvivere.» «Ha fatto così con il pilota.» «Era diverso» balbettò Eph. «Il pilota ha assalito Nora e Jim... ha assalito anche me.» «La sua filosofia di autodifesa, se applicata realmente, è del tutto valida in questa situazione.»
«Come lo sarebbe la filosofia del genocidio.» «E se questo è il loro obiettivo, il totale soggiogamento della razza umana, qual è la sua risposta?» Eph non voleva essere coinvolto in discussioni astratte. Stava guardando un collega. Un amico. Setrakian capì che non avrebbe fatto cambiare idea né a lui né a Nora, almeno per il momento. «Portatemi allora a vedere i resti del pilota. Forse posso convincervi.» Sull'ascensore, mentre scendevano nel seminterrato, nessuno parlò. Quando arrivarono, anziché trovare la stanza dell'obitorio chiusa a chiave, videro che era aperta e che alcuni poliziotti e la direttrice dell'ospedale si erano accalcati lì davanti. Eph si avvicinò. «Cosa credete di fare?» Vide che lo stipite era graffiato, l'intelaiatura metallica ammaccata e forzata, la serratura scassinata dall'esterno. La direttrice non aveva aperto la porta. L'effrazione era opera di qualcun altro. Eph guardò subito dentro. Il tavolo era vuoto. Il cadavere di Redfern era sparito. Si girò verso la direttrice per chiedere spiegazioni, ma con sorpresa notò che lei arretrava di qualche passo nel corridoio e gli lanciava occhiate mentre parlava ai poliziotti. «Dovremmo andarcene» disse Setrakian. «Ma devo scoprire dove sono i resti del pilota» ribatté Eph. «Sono spariti. E non saranno mai più recuperati.» Il vecchio strinse con forza sorprendente il braccio di Eph. «Credo che siano serviti al loro scopo.» «Il loro scopo? Quale sarebbe?» «Distrarre l'attenzione, alla fin fine. Perché non sono più morti dei loro compagni passeggeri che fino a poco fa giacevano negli altri obitori.»
Sheepshead Bay, Brooklyn Glory Mueller, da poco rimasta vedova, cercando su Internet cosa si deve fare se uno dei coniugi muore senza lasciare testamento, notò una notizia sui cadaveri scomparsi del volo 753. Cliccò sul link e lesse un comunicato ufficiale intestato SVILUPPI. L'FBI avrebbe tenuto una conferenza stampa di lì a un'ora per annunciare una nuova e più sostanziosa ricompensa per qualsiasi informazione riguardante la scomparsa dagli obitori dei corpi dei passeggeri vittime della tragedia della Regis Airlines. Quella storia le fece provare una profonda paura. Per qualche motivo, le venne in mente che la notte precedente si era svegliata e aveva sentito rumori in soffitta. Del sogno che l'aveva svegliata ricordava solo che suo marito Hermann, deceduto da pochissimo, era tornato a lei dal regno dei morti. C'era stato un errore, l'insolita tragedia del volo 753 non si era mai realmente verificata e Hermann si era presentato alla porta posteriore della loro casa a Sheepshead Bay, con un sorriso alla "credevi di esserti liberata di me" e aveva chiesto la cena. In pubblico Glory aveva recitato la parte della vedova che piange in silenzio e così avrebbe continuato a fare durante eventuali inchieste e procedimenti legali. Ma forse era la sola a considerare un grande dono la tragica circostanza che aveva reclamato la vita dell'uomo che era stato suo marito per tredici anni. Tredici anni di matrimonio. Tredici anni di maltrattamenti continui. Che si erano intensificati nel tempo trascorso insieme, che erano avvenuti sempre più spesso davanti ai loro figli di nove e sette anni. Glory era vissuta con la costante paura dei cambiamenti d'umore del marito e si era anche permessa - ma era solo un sogno a occhi aperti, troppo rischioso da mettere in pratica - di pensare come si sarebbe sentita se avesse preso i bambini e se ne fosse andata mentre lui era via, la settimana prima, per fare visita alla madre moribonda a Heidelberg. Ma dove sarebbe potuta andare? E, ancora più importante, cosa avrebbe fatto Hermann a lei e ai bambini se li
avesse ritrovati? Perché era sicura che sarebbe accaduto. Ma Dio era buono. Alla fine aveva risposto alle sue preghiere. Lei e i bambini erano stati liberati. Quell'oscura cappa di violenza era stata sollevata dalla loro casa. Scese le scale dando un'occhiata al primo piano e alla botola nel soffitto, con la fune penzolante. I procioni erano tornati. Hermann ne aveva intrappolato uno in soffitta. Aveva portato nel cortile sul retro l'intruso pazzo di paura e l'aveva additato come esempio davanti ai figli. Mai più. Ora lei non doveva avere paura di niente. I bambini non sarebbero tornati a casa prima di un'ora e Glory decise di salire. Tanto aveva già l'intenzione di frugare fra le cose del marito. I netturbini sarebbero passati giovedì e lei voleva che sparisse tutto. Le serviva un'arma e la prima che le venne in mente fu il machete di Hermann. L'aveva portato a casa alcuni anni prima e lo conservava avvolto in tela cerata nello sgabuzzino di plastica per gli utensili contro il muro laterale della casa. Quando lei gli aveva chiesto perché tenesse un aggeggio del genere, un utensile da giungla a Sheepshead Bay, lui si era limitato a sghignazzarle sul muso un: "Non si sa mai". Quelle continue insinuazioni in tono leggero erano parte delle sue minacce quotidiane. Glory prese la chiave dal gancio dietro la porta della dispensa, andò fuori e aprì il lucchetto. Trovò l'involto di tela cerata sotto utensili da giardino e un vecchio e scheggiato set da croquet ricevuto come regalo di nozze, che lei avrebbe presto usato come legna minuta per accendere il fuoco. Portò in cucina l'involto, lo mise sul tavolo ed esitò prima di aprirlo. Aveva sempre attribuito qualità malefiche a quell'oggetto. Aveva sempre immaginato che sarebbe stato in qualche modo significativo nel destino della sua famiglia, forse uno strumento della sua stessa dipartita per mano di Hermann. Di conseguenza, schiuse con grande cautela l'involto, come se togliesse le fasce a un assopito demone appena nato. Al marito non era mai piaciuto che lei toccasse le sue cose.
La lama era lunga, larga e piatta. Il manico era rivestito di strisce di cuoio marrone chiaro, consunte dalla mano dell'ex proprietario. Glory rigirò e soppesò l'insolito oggetto. Colse il proprio riflesso nello sportello del microonde e ne fu spaventata. Una donna con in pugno un machete nella sua cucina. Pensò che Hermann l'avesse fatta diventare pazza. Salì al piano di sopra, reggendo il machete. Si fermò sotto la botola e allungò la mano verso l'ultimo nodo della corda bianca penzolante. Lo sportello si aprì a un angolo di quarantacinque gradi sulle molle cigolanti. Quel rumore avrebbe spaventato qualsiasi creatura in agguato. Glory tese l'orecchio per cogliere rumori di zampe in corsa, ma non ne udì. Provò ad azionare l'interruttore in alto sulla parete, ma di sopra non si accese nessuna luce. Lo premette ancora un paio di volte, senza risultato. Non era più salita lassù dopo Natale e la lampadina poteva essersi bruciata. C'era un piccolo lucernario fra le travi. Avrebbe fornito luce sufficiente. Glory allungò la scala pieghevole e iniziò a salire. Tre passi la portarono con gli occhi all'altezza del pavimento della soffitta. Non era terminato, c'erano coperture di fibra di vetro isolante rosa srotolate fra i travetti a vista. Fogli di compensato disposti in senso nord-sud ed est-ovest, in uno schema a croce, creavano passerelle verso i quattro punti cardinali. L'ambiente era più buio di quanto si fosse aspettata; poi notò che due vecchi attaccapanni erano stati spostati e ostruivano il basso lucernario. Abiti della sua vita prima di Hermann, chiusi in involucri di plastica e lasciati a prender polvere per tredici anni. Seguì il compensato e spostò gli attaccapanni per far entrare più luce, con una mezza idea di dare più tardi un'occhiata ai vestiti vecchi e rivedersi com'era a quel tempo. Poi notò, al di là della passerella, uno spazio sul pavimento fra due lunghi travetti dove l'isolante era stato strappato per chissà quale motivo. E un altro. E un altro ancora. Si bloccò, impietrita. All'improvviso percepì qualcosa alle proprie
spalle. Ebbe paura di girarsi... poi ricordò il machete che aveva in pugno. Dietro di lei, contro il bordo verticale della soffitta, nel punto più lontano dal lucernaio, le strisce d'isolante erano state ammucchiate a formare una montagnola bitorzoluta. Una parte della fibra di vetro era stata strappata, come da un animale che volesse rivestire un nido enorme. Non un procione. Un animale più grosso. Molto più grosso. La montagnola era completamente immobile, disposta come per nascondere qualcosa. Hermann aveva forse coltivato chissà quale bizzarro progetto senza che lei ne sapesse niente? Quale tenebroso segreto aveva nascosto lassù? Con il machete alto nella destra, afferrò il capo di una striscia e la tirò via dalla montagnola, mettendo in mostra... ... un bel niente. Allora tolse una seconda striscia... e si bloccò nello scorgere il braccio irsuto di un uomo. Conosceva quel braccio. Conosceva anche la mano alla quale era attaccato. Li conosceva fin troppo bene. Non credeva ai suoi occhi. Con il machete alzato davanti a sé, strappò un'altra striscia di materiale isolante. La sua camicia. Una di quelle a maniche corte e abbottonate, le sue preferite anche d'inverno. Hermann era vanitoso, fiero delle braccia irsute. L'orologio da polso e la fede erano spariti. Glory rimase inchiodata a quello spettacolo, sciogliendosi di paura. Tuttavia doveva vedere. Tirò un'altra striscia di isolante, che si portò via quasi tutto il resto. Hermann, il suo defunto marito, era addormentato in soffitta. Su un letto di strisce di fibra di vetro rosa, tutto vestito, a parte i piedi, che erano sporchi come se avesse camminato scalzo. Glory non poteva elaborare quella sconvolgente sorpresa. Non poteva affrontarla. Il marito di cui credeva di essersi liberata. Il
tiranno. Il picchiatore. Lo stupratore. Rimase a incombere sull'uomo addormentato, con il machete come la spada di Damocle, pronta a calarlo al minimo movimento. Poi, gradualmente, abbassò il braccio e la lama del machete le rimase lungo il fianco. Hermann era un fantasma adesso, capì. Un uomo tornato dai morti, una presenza che l'avrebbe tormentata per sempre. Della quale non si sarebbe mai liberata. Mentre rifletteva su quello le palpebre di lui si alzarono e gli occhi guardarono in su, fissi. Glory impietrì. Voleva scappare e voleva urlare, ma non poteva fare nessuna delle due cose. Hermann ruotò il capo fino a puntare lo sguardo su di lei. La stessa espressione beffarda di sempre. Il sogghigno. L'occhiata che immancabilmente anticipava brutte cose. E nella testa di Glory qualcosa scattò. In quel momento, quattro case più in giù lungo la via, Lucy Needham, una bambina di tre anni, se ne stava nel vialetto a dar da mangiare cracker al formaggio a una bambola chiamata Baby Dear. All'improvviso smise di masticare e tese l'orecchio alle grida soffocate e ai forti colpi come di mannaia che provenivano da... da qualche parte lì vicino. Guardò la sua casa, poi verso nord, col naso arricciato, ingenua e perplessa. Rimase immobile, la lingua arancione di cracker al formaggio mezzo masticato che sporgeva dalla bocca aperta, ad ascoltare alcuni dei rumori più strani che avesse mai udito. Decise di dirlo al papà, che proprio in quel momento uscì con il telefono all'orecchio; ma intanto il sacchetto di cracker si era rovesciato e lei si era accoccolata per raccoglierli dal vialetto e infilarseli in bocca. Il padre la sgridò e lei finì per dimenticare tutto. Glory era in piedi nella soffitta, ansimante, in preda a conati di vomito, col machete impugnato a due mani. Hermann giaceva a pezzi fra l'appiccicaticcio isolante rosa; la parete era tutta schizzata di bianco gocciolante.
Bianco? Glory tremò, nauseata. Guardò il danno che aveva provocato. Due volte la lama si era conficcata nel travetto di legno; nella sua mente era successo perché Hermann cercava di strapparle il machete e lei aveva dovuto dondolarlo avanti e indietro violentemente per liberarlo e continuare con i fendenti. Arretrò di un passo. Stava sperimentando una sensazione strana, come se fosse fuori del suo stesso corpo. Era sconvolta da ciò che aveva fatto. La testa ghignante di Hermann era rotolata fra due travetti, a faccia in giù, un ciuffo rosa di fibra di vetro appiccicato sulla guancia come zucchero filato. Il torso sanguinava, pieno di tagli; le cosce erano affettate fino al femore; l'inguine ribolliva di bianco.
Bianco? Glory sentì qualcosa darle colpetti alla ciabatta, tap tap tap. Vide il sangue, sangue rosso, e si rese conto di essersi tagliata senza accorgersene al braccio sinistro, anche se non sentiva dolore. Lo alzò per ispezionarlo, lasciando cadere grosse gocce rosse sul compensato.
Bianco? Scorse una cosa scura e piccola, che strisciava. Aveva gli occhi annebbiati e continuava a battere le palpebre, ancora in preda alla furia omicida. Non poteva fidarsi della vista. Sentì un prurito alla caviglia, sotto la ciabatta insanguinata. Il prurito le risalì la gamba e lei si diede un colpo sulla coscia, col piatto della lama imbiancata e appiccicosa. Poi... ancora solletico sulla parte anteriore dell'altra gamba. E alla vita. Glory si rese conto di avere una sorta di reazione isterica, come se fosse assalita da insetti. Arretrò di un altro passo e quasi cadde dalla passatoia di compensato. Fu allora che avvertì un terribile prurito intorno all'inguine... e poi un'improvvisa e fastidiosa contorsione nel retto. Un invadente scivolio che la spinse a fare un balzo e a stringersi le natiche come per evitare di farsela addosso. Sentì lo sfintere dilatarsi. Rimase impietrita per qualche momento, finché la sensazione cominciò a
svanire. Si concesse di allentare la stretta, di rilassarsi. Doveva andare in bagno. Fu distratta da un'altra contorsione dentro la manica della camicetta. E provò un forte bruciore alla ferita al braccio. Poi una fitta lacerante nel profondo delle viscere la costrinse a piegarsi in due. Lasciò cadere il machete sul compensato ed emise un urlo. Qualcosa le lacerò il braccio, sotto la carne, e mentre teneva ancora la bocca aperta e gridava, un altro sottile verme da dietro il collo le scivolò sulla mascella fino al labbro, saettò nella parete della guancia e torcendosi raggiunse il fondo della gola.
Freeburg, New York La notte scendeva in fretta. Eph guidò l'auto verso est, sulla superstrada turistica Cross Island, nella contea di Nassau. «Perciò sostiene che i passeggeri tenuti negli obitori, gli stessi che l'intera città sta cercando, sono semplicemente tornati a casa?» Il vecchio professore era seduto sul sedile posteriore, col cappello in grembo. «Sangue vuole sangue. Una volta cambiati, i revenant per prima cosa cercano familiari e amici non infetti. Tornano, di notte, da quelli con cui condividono un attaccamento emotivo. Dai "loro cari". Una sorta d'istinto, immagino. Lo stesso impulso animale che guida i cani smarriti per centinaia di chilometri fino al padrone. Mentre la loro funzione cerebrale più alta decade, la natura bestiale prende il sopravvento. Sono creature spinte da impulsi. Nutrirsi. Nascondersi. Nidificare.» «Tornano dalla gente che li piange» intervenne Nora, seduta accanto al collega «per assalire e infettare?» «Per nutrirsi. È nella natura dei non morti tormentare i vivi.» Eph, in silenzio, uscì dall'autostrada. Quella faccenda di vampiri era l'equivalente mentale di mangiare cibo guasto: la sua mente si rifiutava di digerirla. Masticava e masticava, ma non riusciva a mandarla giù. Quando Setrakian gli aveva chiesto di scegliere un passeggero
dall'elenco delle vittime del volo 753, aveva subito pensato alla ragazzina, Emma Gilbarton. Quella che sull'aereo stringeva ancora la mano della madre. Gli era sembrato un buon test per l'ipotesi di Setrakian. Come avrebbe potuto una ragazzina di undici anni, morta, spostarsi di notte da un obitorio del Queens alla casa di famiglia a Freeburg? Ma ora, mentre fermava l'auto davanti alla casa dei Gilbarton, un'imponente dimora in stile georgiano in un'ampia via laterale di abitazioni assai distanziate, Eph si rese conto che, se si fossero sbagliati, avrebbe svegliato un uomo che piangeva la fine della sua famiglia, la perdita della moglie e dell'unica figlia. Uno stato d'animo di cui in parte aveva esperienza. Setrakian scese dall'Explorer, si mise in testa il cappello e portò con sé il bastone da passeggio, anche se non ne aveva bisogno. La via era silenziosa a quell'ora della sera; in alcune altre case le luci erano accese, ma non c'era gente in giro, non passavano automobili. Le finestre dei Gilbarton erano tutte buie. Il vecchio passò agli altri due una torcia a batteria con lampadina scura, simile ai tubi Luminol, ma più pesante. Andarono alla porta e Setrakian suonò il campanello, premendolo col pomo del bastone da passeggio. Non ebbe risposta, allora ruotò il pomolo, usando solo la parte guantata della mano, attento a non toccare niente con la punta delle dita per non lasciare impronte digitali. Eph si rese conto che il vecchio non era nuovo a quel genere di imprese. La porta d'ingresso era ben chiusa. «Venite» disse Setrakian. Scesero i gradini e girarono intorno alla casa. Il cortile sul retro era un'ampia radura al limitare di un vecchio bosco. La luna sorta da poco forniva luce sufficiente a proiettare sull'erba le loro deboli ombre. Setrakian si fermò e indicò col bastone. Un muro di sostegno formava un angolo con la cantina il cui uscio era spalancato alla notte. Il vecchio si avvicinò, seguito da Eph e Nora. Scalini di pietra
portavano a un sotterraneo buio. Scrutò gli alti alberi che proteggevano la radura. «Non possiamo entrare come se niente fosse» disse Eph. «È oltremodo imprudente dopo il tramonto» convenne Setrakian. «Ma non possiamo permetterci il lusso di aspettare.» «No, volevo dire che è violazione di domicilio. Dovremmo chiamare la polizia.» Con un'occhiata di rimprovero, Setrakian prese a Eph la torcia. «Ciò che dobbiamo fare qui... la polizia non lo capirebbe.» Premette l'interruttore e le due lampadine viola emisero un fascio di luce nera simile a quella che Eph usava per scopi medici, ma più calda. «Luce nera?» fece Eph. «La luce nera è soltanto luce ultravioletta a onda lunga. Rivelatrice, ma innocua. La luce ultravioletta a onda media può causare ustioni o cancro della pelle. Questa...» badò bene a non puntare il raggio su di loro o su se stesso «è luce ultravioletta a onda corta, UVC. Germicida, impiegata per sterilizzare. Eccita e rompe legami DNA. L'esposizione diretta è molto dannosa per la pelle umana. Ma contro un vampiro... è un'arma.» Iniziò a scendere gli scalini, con la torcia in una mano e il bastone nell'altra. La luce ultravioletta fornisce poca illuminazione e la torcia accresceva l'oscurità dell'ambiente anziché alleviarla. Sulle pareti di pietra ai lati della scala, mentre i tre passavano dal fresco della notte al gelo della cantina nelle fondamenta, il muschio riluceva di un bianco spettrale. Dentro, Eph scorse il contorno scuro di una rampa che portava al pianterreno. Una zona lavanderia e un flipper vecchio tipo. E un corpo steso a terra. Un uomo con un pigiama a quadretti. Eph si mosse verso di lui, con l'impulso del medico... poi si bloccò. Nora tastò la parete, azionò l'interruttore, ma la luce non si accese. Setrakian si accostò all'uomo e gli avvicinò la torcia al collo.
La spettrale luce indaco rivelò una piccola fessura perfettamente dritta risplendente di blu, appena a sinistra del centro della gola. «È cambiato» disse Setrakian. Spinse nelle mani di Eph la torcia. Nora accese la sua e illuminò la faccia dell'uomo, facendo risaltare un folle essere subcutaneo, una maschera accigliata, mortale, che si spostava e si contorceva, con un'indefinibile, eppure indubbia, espressione malevola. Il vecchio trovò, appoggiata a un banco da lavoro nell'angolo, un'ascia nuova dal lucido manico di legno e una lama d'acciaio dai riflessi rossi e argento. La impugnò nelle mani deformi. «Aspetti» esclamò Eph. «La prego, dottore, stia indietro.» «È solo lì disteso» disse Eph. «Sorgerà presto» ribatté il vecchio. Indicò gli scalini di pietra che portavano alla porta spalancata, senza mai distogliere gli occhi dall'uomo sul pavimento. «La ragazzina è là fuori, adesso. A cibarsi di altri.» Preparò l'ascia. «Non le chiedo di perdonare l'azione, dottore. Le chiedo solo di farsi da parte.» Eph lesse la determinazione sul viso di Setrakian e capì che avrebbe vibrato il colpo anche se lui non si fosse tolto di mezzo. Arretrò di qualche passo. La lama era pesante per il fisico e l'età del vecchio, che l'alzò a due mani sopra la testa, con la parte piatta della lama che quasi sfiorava il retro della cintura. Poi rilassò le braccia e abbassò i gomiti. Girò la testa verso la porta spalancata e tese l'orecchio. Anche Eph udì il rumore. Lo scricchiolio di erba secca calpestata. Sulle prime pensò che fosse un animale. Ma no... La cadenza era quella di un bipede. Passi umani - o un tempo umani - si avvicinavano. Setrakian abbassò l'ascia. «State accanto alla porta. Senza fare rumore. Chiudetela non appena lei è entrata.» Prese la torcia di Eph e in cambio gli mise in mano l'ascia. «Lei non deve fuggire.»
Si ritrasse nel punto dove aveva appoggiato alla parete il bastone da passeggio, sull'altro lato della porta, spense la torcia e scomparve nel buio totale. Eph, accanto all'uscio della cantina, si appiattì contro il muro. Nora, al suo fianco, tremava come lui, nello scantinato della casa di uno sconosciuto. I passi adesso erano più vicini, lievi e morbidi sul terreno. Si fermarono in cima agli scalini. Il chiaro di luna proiettò una debole ombra sul pavimento della cantina: una testa e due spalle. I passi iniziarono a scendere. In fondo, proprio davanti alla porta, si fermarono. Eph, distante neanche tre metri, l'ascia stretta al petto, fu colpito dal profilo della ragazzina. Piccola e bassa, capelli biondi che ricadevano sulle spalle di una castigata camicia da notte lunga fino agli stinchi. Scalza, le braccia penzoloni, immobile in un modo assai peculiare. Il petto si alzava e si abbassava, ma dalla bocca non usciva vapore. Più tardi avrebbe imparato tante altre cose. Che i sensi di lei, l'udito e l'odorato, erano divenuti molto più acuti. Che poteva udire il sangue pulsare nelle sue vene e in quelle di Nora e del professore, fiutare l'anidride carbonica emessa dal loro respiro. Avrebbe imparato che la vista era il suo senso meno acuto. Non aveva raggiunto lo stadio in cui avrebbe perduto la visione a colori; tuttavia in lei l'immagine termica, l'abilità di "leggere" le firme di calore come aloni monocromatici, non era ancora maturata del tutto. Fece qualche passo avanti, si spostò dal rettangolo di fievole chiaro di luna e passò nella piena oscurità della cantina. Un fantasma era entrato nel locale. Eph avrebbe dovuto chiudere la porta, ma per la presenza stessa della ragazzina rimase impietrito. Lei si girò verso il punto dove si trovava Setrakian, si orientò sulla sua posizione. Il vecchio accese la torcia. La bambina la guardò senza espressione. Quando Setrakian si mosse verso di lei, sentì il calore della torcia e si voltò verso la porta della cantina per fuggire. Eph la chiuse. Il battente sbatté con forza, echeggiando per tutte le fondamenta. Lui pensò che la casa stesse per crollargli addosso.
La ragazzina, Emma Gilbarton, in quel momento li vide. Era illuminata di viola ed Eph scorse lucenti tracce indaco sulle labbra e sul piccolo mento grazioso. Strano, sembrava una che andasse a un rave e si fosse messa sul viso vernice fluorescente. Allora ricordò: il sangue appare color indaco sotto la luce ultravioletta. Setrakian tenne davanti a sé la torcia, servendosene per spingere indietro Emma. Lei ebbe una reazione animalesca e confusa: indietreggiò come di fronte a una torcia fiammeggiante. Il vecchio la incalzò crudelmente, la spinse con le spalle alla parete. Dal profondo della gola la bambina emise un suono basso e gutturale, un gemito di dolore. «Dottore.» Setrakian stava chiamando Eph. «Dottore, venga. Subito!» Lui si avvicinò, prese dalla mano di Setrakian la torcia e gli porse l'ascia... continuando a puntare il raggio luminoso sulla ragazzina. Il vecchio arretrò di un passo e buttò l'ascia, mandandola a sbattere rumorosamente sul duro pavimento. Con le mani guantate prese il bastone da passeggio, afferrandolo sotto il pomo. Con una decisa torsione del polso separò la testa di lupo dal resto. Dal fodero di legno estrasse una corta lama di spada, fatta d'argento. «Presto» disse Eph, guardando la bambina contorcersi contro la parete, imprigionata dal raggio letale della torcia. Lei vide la lama del vecchio brillare quasi al calor bianco e mostrò in viso un'espressione simile alla paura. Poi la paura divenne ferocia. «Presto!» esclamò Eph augurandosi che tutto finisse. La ragazzina sibilò e lui scorse l'ombra scura dentro di lei, sotto la pelle, un demone che ringhiava perché lo facessero uscire. Nora intanto stava tenendo d'occhio il padre di Emma, steso a terra. L'uomo cominciò a muoversi e le palpebre si sollevarono. «Professore?» chiamò Nora. Ma il vecchio era impegnato con la ragazzina.
Nora guardò Gary Gilbarton tirarsi a sedere, poi in piedi, un uomo scalzo in pigiama, con gli occhi aperti. «Professore?» ripeté Nora. Accese la torcia, che scoppiettò. La scosse, le diede un colpo alla base, dove c'era la batteria. La luce viola guizzò, si spense, si riaccese. «Professore!» gridò ancora. La luce sfarfallante aveva attirato l'attenzione di Setrakian. Il vecchio si rivolse al revenant, che pareva confuso e incerto sui piedi. Con abilità, più che con agilità, vibrò a Gilbarton due rapidi colpi di punta, al ventre e al petto, aprendo due ferite che sanguinarono bianco sulla giacca del pigiama. Eph, ora da solo con la ragazzina, guardò il demone imporsi dentro di lei; non sapendo cosa stava succedendo alle sue spalle, chiamò: «Professor Setrakian!». Il vecchio diresse altri fendenti alle ascelle dell'uomo per fargli tenere le braccia lungo i fianchi, poi vibrò colpi di taglio ai tendini delle ginocchia, facendo cadere carponi il revenant. Gilbarton tirò su la testa e protese il collo. Setrakian alzò la spada e pronunciò alcune parole in una lingua straniera, quasi una dichiarazione solenne; la lama trapassò il collo dell'uomo e spiccò la tesa dal busto. I quarti inferiori del revenant crollarono a terra. «Professore!» ripeté Eph, proiettando la luce della torcia sulla ragazzina, torturandola... aveva circa l'età di Zack, occhi spiritati che si coloravano di indaco... lacrime sanguinose... mentre la creatura dentro di lei infuriava. Emma spalancò la bocca come per parlare. Quasi per cantare. Continuò ad aprirla e la cosa, il pungiglione, venne fuori dal palato molle sotto la lingua. L'appendice s'ingrossò mentre lo sguardo della ragazzina passava dal triste al famelico, ardente di pregustazione. Il vecchio tornò a lei, puntandole contro la spada. «Indietro, strigoi!» intimò. Emma si girò verso di lui, continuando a mandare fiamme dagli occhi. La lama d'argento di Setrakian era adesso viscida di sangue bianco. Il vecchio intonò le stesse parole di prima, con la spada impugnata a due mani e la lama posata sulla spalla. Eph indietreggiò proprio mentre il colpo calava.
All'ultimo momento la ragazzina aveva alzato la mano per protestare: la lama la staccò dal polso e spiccò la testa dal busto. Il taglio fu pulito e perfettamente piatto. Sangue bianco schizzò la parete, non sotto forma di spruzzo arterioso, ma con uno sciac nauseante, e il corpo crollò a terra, testa e mano vi caddero sopra, la testa ruzzolò lontano. Setrakian abbassò la spada e tolse di mano a Eph la torcia, tenendo il raggio affievolito vicino alla ferita aperta nel collo della bambina, quasi in un gesto di trionfo. Ma trionfo non fu: Eph vide cose contorcersi nella pozza di denso sangue bianco. I vermi parassiti. Colpiti dalla luce, si arricciavano e restavano immobili. Il vecchio stava irradiando la scena. Eph udì rumore di piedi sui gradini di pietra. Nora si precipitava fuori della cantina. Eph le corse dietro, quasi inciampando nel cadavere decapitato dell'uomo, e sbucò sull'erba e nell'aria notturna. Nora sfrecciava verso gli alberi scuri e ondeggianti. Eph la raggiunse prima che ci arrivasse, l'attirò a sé e l'abbracciò con forza. Lei gli urlò contro il petto, come se avesse paura di lasciare che il grido fuggisse nella notte, ed Eph la tenne stretta finché Setrakian ricomparve in cortile. Il respiro del vecchio formò una nuvola nella fredda aria della notte, mentre lui ansimava per lo sfinimento. Si premette le dita sul cuore. I capelli bianchi, arruffati e lucenti al chiaro di luna, gli conferivano un'espressione di totale follia, come ogni cosa, per Eph, in quel momento. Setrakian ripulì sull'erba la lama, prima di rimetterla nel fodero dentro il bastone da passeggio. Con una torsione decisa fece combaciare le due parti. «Ora è libera» disse. «La ragazzina e il padre sono in pace.» Alla luce della luna si controllò le scarpe e i risvolti dei calzoni, nel caso fossero sporchi di sangue di vampiro. Nora lo guardò con occhi spiritati. «Chi è lei?» «Un semplice pellegrino» rispose il vecchio. «Proprio come voi.» Tornarono alla Explorer. Eph si sentiva nervoso ed esposto, nel
prato davanti alla casa. Setrakian aprì la portiera del passeggero e prese una confezione di batterie di scorta. Sostituì quelle della torcia di Eph e controllò brevemente la luce violacea sul fianco del veicolo. «Aspettate qui, per favore» disse. «Perché?» chiese Eph. «Ha visto il sangue sulle labbra e sul mento. Si era ingozzata. Si era nutrita. Non ho ancora finito.» Si diresse verso la casa vicina. Eph lo guardò, Nora si staccò da lui e si appoggiò al veicolo. Deglutì forte, come se fosse sul punto di vomitare. «Abbiamo appena ucciso due persone nella cantina della loro stessa casa.» «Questo morbo è diffuso da persone. Da non-persone.» «Vampiri, Dio mio...» «La regola numero uno è sempre quella: combatti la malattia, non le sue vittime.» «Non demonizzare gli ammalati» disse Nora. «Ma ora... ora gli ammalati sono davvero demoni. Ora gli infetti sono vettori attivi della malattia e vanno fermati. Uccisi. Distrutti.» «Cosa dirà il direttore Barnes?» «Non possiamo aspettare il suo parere. Abbiamo già perso troppo tempo.» Calò il silenzio. Poco dopo Setrakian tornò, tenendo in mano il bastone-spada e la torcia ancora calda. «Fatto» annunciò. «Fatto?» ripeté Nora, ancora sgomenta da ciò che aveva visto. «E ora? Si rende conto che c'erano altre duecento e passa persone a bordo di quell'aereo?» «Siamo messi molto peggio. La seconda notte è imminente. La seconda ondata d'infezione è in corso già ora.»
LA SECONDA NOTTE
Patricia si passò vigorosamente la mano fra i capelli come per scrollarsi di dosso le ore perdute di un altro giorno. Si scoprì ad aspettare davvero che Mark tornasse a casa e non solo per la soddisfazione di spingergli contro i bambini e dire: "Eccoli qui". Voleva informarlo dell'unica vera notizia della giornata: la bambinaia dei Luss, che lei aveva spiato dalle tapparelle delle finestre del soggiorno, era scappata dalla casa dei suoi datori di lavoro dopo neanche cinque minuti dal suo arrivo. I ragazzini non si vedevano da nessuna parte e la vecchia nera correva come se fosse inseguita.
Oh, i Luss. Fino a che punto possono essere irritanti i vicini di
casa! Ogni volta che pensava alla pelle e ossa Joanie che decantava la sua "cantina dei vini dal fondo in terra battuta all'europea", Patricia mostrava automaticamente il medio in direzione della casa dei Luss. Moriva dalla voglia di scoprire cosa sapeva Mark di Roger, se era ancora oltremare. Voleva confrontare gli appunti. Gli unici momenti in cui lei e il marito parevano pensarla allo stesso modo erano quando facevano a pezzi amici, familiari e vicini. Forse perché assaporare i problemi matrimoniali e le sfortune altrui rendeva in qualche modo meno seccanti i propri. Lo scandalo si accompagnava alla perfezione con un bicchiere di pinot e Patricia, con uno svolazzo, terminò il secondo. Guardò l'orologio della cucina e pensò sinceramente di controllarsi, considerata la prevedibile impazienza di Mark quando fosse rientrato e avesse constatato che era di due bicchieri più avanti rispetto a lui. Che si fottesse! Tutto il giorno bello comodo nel suo ufficio in città, a fare colazioni, a girare a piacimento, a chiacchierare sul treno a tarda ora tornando a casa. Intanto lei era bloccata lì con la bambina, Marcus, la tata e il giardiniere... Si versò altro vino, chiedendosi quanto ci sarebbe voluto prima che Marcus, quel demonietto geloso, entrasse a svegliare la sorellina appisolata. La bambinaia aveva messo a letto Jacqueline prima di andarsene e la piccola non si era ancora svegliata. Patricia guardò di nuovo l'orologio, notando il lungo periodo di silenzio nella casa. Uau... che dormita da campioni. Fortificata da un altro sorso di pinot e memore del suo piccolo, diabolico terrorista di quattro anni, posò la rivista "Cookie" piena di pubblicità e salì gli scalini sul retro.
Controllò per primo Marcus, che era disteso a faccia in giù sul tappeto dei New York Rangers accanto al lettino slitta, con quell'aggeggio elettronico portatile ancora acceso accanto alla mano. Era esausto. Naturalmente avrebbero pagato caro quel pisolino a tarda ora, perché il piccolo satanasso non sarebbe voluto andare a letto dopo cena... ma a quel punto sarebbe toccato a Mark vedersela con lui. Andò in fondo al corridoio, perplessa e infastidita da qualche grumo di terriccio scuro sulla passatoia ("Quel piccolo demonio!"), fino alla porta chiusa con il guanciale di seta a forma di cuore appeso alla maniglia mediante un nastro ornato di gale, con la scritta SST-SST-SST! ANGELO ADDORMENTATO. La socchiuse e nella nursery calda e poco illuminata vide con sorpresa una persona adulta sulla sedia a dondolo accanto alla culla, che oscillava avanti e indietro. Una donna con un piccolo fagotto fra le braccia. L'estranea stava cullando la piccola Jacqueline. Ma nel quieto tepore della stanza, sotto la morbida luce delle lampade incassate nelle pareti, e sentendo sotto i piedi l'alto pelo del tappeto, tutto pareva ancora a posto. «Chi...?» Mentre Patricia si avventurava dentro, qualcosa scattò nella postura della donna che si dondolava. «Joan? Joan, sei tu?» Patricia si avvicinò. «Cosa stai...? Sei entrata dal garage?» Joan, era proprio lei, smise il lento dondolio e si alzò. Con la lampada dal paralume rosa alle sue spalle, Patricia scorse appena la strana espressione sul viso della donna... in particolare, la bizzarra torsione della bocca. Aveva un cattivo odore e Patricia tornò subito con la mente alla propria sorella e a quell'orribile, orribile Giorno del Ringraziamento dell'anno prima. Joan aveva forse un esaurimento nervoso simile? E perché era lì, con in braccio la piccola Jacqueline? Joan tese le braccia per restituire a Patricia la figlioletta. Lei la prese e in un attimo capì che qualcosa non andava. La sua immobilità era ben diversa da quella di una bambina addormentata. Con dita ansiose scostò la copertina che copriva la faccia di Jackie. Le labbra a bocciolo di rosa della piccina erano socchiuse. Gli
occhietti erano scuri e fissi. La copertina era bagnata intorno al collo. Le dita di Patricia erano appiccicose di sangue. L'urlo che si levò dalla sua gola non giunse mai a destinazione. Ann-Marie Barbour non sapeva più che pesci pigliare. Era in cucina, mormorava preghiere e stringeva il bordo del lavello come se la casa dove era vissuta per tutta la vita matrimoniale fosse una barchetta presa nei gorghi di un mare nero. Pregava in continuazione per avere una guida, un sollievo. Un barlume di speranza. Sapeva che il suo Ansel non era cattivo. Non era quel che sembrava. Era soltanto molto, molto malato. ("Però ha ucciso i cani" pensò.) La malattia, quale che fosse, gli sarebbe passata come una brutta febbre e tutto sarebbe tornato normale. Guardò la baracca chiusa col lucchetto nel cortile buio. Non ne provenivano rumori, in quel momento. Sentì tornare i dubbi, com'era accaduto quando aveva visto il notiziario sui cadaveri del volo 753 scomparsi dagli obitori. Stava succedendo qualcosa di terribile ("Ha ucciso i cani") e l'opprimente sensazione di paura era alleviata solo da ripetuti viaggi agli specchi e al lavello. Lavarsi e toccare, preoccuparsi e pregare. Perché Ansel si era sepolto nel terriccio durante il giorno? ("Ha ucciso i cani.") Perché l'aveva guardata con quella bramosia? ("Li ha uccisi.") Perché non le aveva detto niente, ma si era limitato a ringhiare e ululare? ("Come i cani che ha ucciso.") La notte si era di nuovo impadronita del cielo... la paura che l'aveva accompagnata per tutto il giorno. Perché c'era quel silenzio là fuori? Prima di pensare a ciò che faceva, prima di perdere la forza per farlo, andò alla porta e scese gli scalini della veranda. Senza guardare le fosse dei cani nell'angolo del cortile, senza cedere a quella follia. Ora doveva essere lei quella forte. Ancora per un poco... La porta della baracca. Il lucchetto e la catena. Stette lì, a orecchie tese, il pugno premuto con forza sulla bocca tanto da sentire male agli incisivi.
Cosa avrebbe fatto Ansel? Avrebbe aperto la porta se dentro ci fosse stata lei? Si sarebbe costretto ad affrontarla? Sì. L'avrebbe fatto. Ann-Marie prese la chiave appesa al collo e la infilò nel lucchetto. Rimosse la spessa catena e stavolta arretrò fin dove lui, lo sapeva, non avrebbe potuto raggiungerla - fuori portata per il guinzaglio da cane legato al palo - mentre la porta si spalancava. Un lezzo terribile. Un fetore empio. Al solo puzzo gli occhi le si riempirono di lacrime. C'era il suo Ansel là dentro. Non vide niente. Tese l'orecchio. Non sarebbe stata attirata dentro. «Ansel?» Appena un bisbiglio il suo. Niente in risposta. «Ansel.» Un fruscio. Movimento nel terriccio. Oh, perché non aveva portato una torcia? Allungò la mano quanto bastava a dare un piccolo colpo a un battente per socchiuderlo ancora un po'. Quanto bastava a lasciar entrare un raggio di luna. Eccolo lì. Semidisteso in un letto di terriccio, la faccia alzata verso la porta, gli occhi infossati pieni di dolore. Lei capì subito che stava morendo. Il suo Ansel stava morendo. Pensò di nuovo ai cani che solevano dormire là dentro, Pap e Gertie, i cari sanbernardo che lei aveva amato più di semplici animali da compagnia, che lui aveva ucciso e dei quali aveva volontariamente preso il posto... sì... per salvare sua moglie e i bambini. E poi capì: Ansel doveva fare male a un altro per rianimare se stesso. Per vivere. Rabbrividì nel chiaro di luna, davanti alla creatura sofferente che suo marito era diventato. Voleva che si desse totalmente a lui. Ann-Marie l'aveva capito. Lo sentiva. Ansel emise un gemito gutturale, senza parole, che pareva salire dal profondo dello stomaco vuoto.
Lei non poteva farlo. Pianse, mentre gli chiudeva in faccia la porta della baracca. Premette la spalla sui battenti, riducendolo al silenzio come un cadavere non del tutto vivo né del tutto morto. Lui era troppo debole per lanciarsi alla carica. Ann-Marie udì solo un altro gemito di protesta. Stava infilando di nuovo la catena nelle maniglie della porta quando percepì alle spalle un passo sulla ghiaia. Si bloccò, pensando che l'agente fosse tornato. Sentì un altro passo e si girò di scatto. Era un uomo più anziano, con un'incipiente calvizie, che portava una camicia dal collo rigido, un cardigan aperto e larghi calzoni di velluto a coste. Il tipo della casa di fronte, quello che aveva chiamato la polizia: il signor Otish, vedovo. Il genere di vicino che rastrella le sue foglie secche nella via, lasciando che il vento le soffi sul tuo prato. Un uomo che non vedevano e non sentivano mai, a meno che ci fosse un guaio causato, secondo lui, da loro o dai bambini. «I vostri cani trovano modi sempre più creativi per tenermi sveglio la notte» disse il signor Otish. La sua presenza, come una spettrale intrusione in un incubo, disorientò Ann-Marie. I cani? Stava parlando di Ansel, dei rumori che aveva fatto di notte. «Se avete un animale ammalato, dovete portarlo da un veterinario e farlo curare o sopprimere.» Ann-Marie era troppo sbalordita per replicare. Otish si avvicinò, passando dal vialetto al bordo erboso del cortile, e guardò con disprezzo la baracca. Dall'interno provenne un gemito rauco. Lui fece una smorfia, disgustato. «Faccia qualcosa per quei bastardi, altrimenti chiamo di nuovo la polizia, subito.» «No!» L'esclamazione di paura le era uscita prima che potesse trattenerla. Il signor Otish sorrise, sorpreso dalla sua trepidazione, e si gustò il senso di controllo che ne ricavava. «E allora cosa conta di fare?» Ann-Marie aprì la bocca per rispondere, ma non le veniva in
mente niente. «Mi... mi prenderò cura di lui... non so come.» Otish guardò la veranda sul retro, incuriosito dalla luce accesa in cucina. «C'è suo marito? Preferirei parlare con lui.» Ann-Marie scosse la testa. Un altro gemito di dolore dalla baracca. «Be', farà meglio a occuparsi di quelle sporche bestie, se no ci penso io. Chiunque sia cresciuto in campagna le saprà dire, signora Barbour, che i cani sono animali di servizio e non hanno bisogno di coccole. Meglio che sentano il pungolo del bastone che la carezza della mano. Soprattutto cani maldestri come i sanbernardo.» Ann-Marie fu colpita da una frase di Otish. Una frase riguardante i suoi cani... "Il pungolo del bastone." Avevano messo nella baracca il palo con le catene solo perché in qualche occasione Pap e Gertie erano scappati... e una volta, non molto tempo prima, Gertie, la preferita dei due, la più socievole, era tornata a casa con lacerazioni sulla schiena e sulle zampe, come se qualcuno l'avesse bastonata. La normalmente timida e schiva Ann-Marie Barbour dimenticò all'istante tutte le paure. Guardò quell'uomo, quella malefica, piccola, raggrinzita burla d'uomo, come se le avessero alzato un velo dagli occhi. «Lei» disse, con il mento che le tremava, non più per la timidezza ma per la collera. «È stato lei a farlo. A Gertie. Le ha fatto male...» Il signor Otish, poco avvezzo a essere affrontato in quel modo, batté le palpebre... e tradì così la propria colpa. «Se l'avessi fatto» replicò, ritrovando il solito tono di condiscendenza «di sicuro lui se lo meritava.» All'improvviso in lei esplose l'odio. Tutto ciò che aveva tenuto a freno negli ultimi giorni. Mandare via i figli, seppellire i suoi cani, preoccuparsi per il marito malato.... «Lei» disse. «Cosa?»
«Lei. Gertie. È una femmina.» Un altro tremulo lamento da dentro la baracca. La necessità di Ansel. Il suo desiderio bramoso... Indietreggiò, tremante. Intimidita, non dal vicino, ma da quel senso di collera per lei nuovo. Udì se stessa dire: «Vuole vedere con i suoi occhi?». «Cos'è questa storia?» La baracca era acquattata dietro di lei come un animale vivente. «Avanti, allora. Vuole una possibilità di domarli? Vediamo cosa sa fare.» Il signor Otish la fissò, indignato. Sfidato da una donna! «Non parlerà sul serio!» «Vuole risolvere la faccenda? Vuole pace e quiete? Bene, lo voglio anch'io!» Si pulì dal mento uno schizzo di saliva e agitò contro di lui il dito bagnato. «Lo voglio anch'io!» Otish la scrutò a lungo. «Gli altri hanno ragione. Lei è proprio pazza.» Ann-Marie gli scoccò un folle sogghigno d'assenso e lui si avvicinò al basso ramo di uno degli alberi che delimitavano il cortile. Scelse un rametto sottile e lo staccò torcendo e tirando. Lo provò e ascoltò il sibilo da fioretto nello sferzare l'aria; soddisfatto, andò alla porta della baracca. «Sappia che lo faccio per lei, non per me.» Ann-Marie tremò, vedendo che faceva scorrere la catena che legava le maniglie della porta. I due battenti cominciarono a schiudersi e il signor Otish era abbastanza vicino all'apertura, a portata della catena legata al palo centrale. «Allora, dove sono i due animali?» Ann-Marie udì il ringhio disumano e il rapido movimento del guinzaglio a catena, simile a una pioggia di monete metalliche. I battenti si spalancarono, il signor Otish si fece avanti e in un istante il suo grido di sbalordimento fu troncato di netto. Lei si lanciò di corsa verso la porta, lottando per chiuderla mentre l'uomo vi sbatteva
contro. Infilò a fatica la catena nelle maniglie, l'avvolse, chiuse il lucchetto... e fuggì a casa, lontano dalla raccapricciante baracca e dalla spietata azione appena compiuta. Mark Blessige, nell'atrio di casa, con il BlackBerry in mano, non sapeva che cosa fare. Nessun messaggio dalla moglie. Il suo cellulare si trovava nella borsa Burberry, la Volvo station wagon sostava nel vialetto, il seggiolino della bambina era in anticamera. Nessun biglietto sul bancone della cucina, solo un bicchiere di vino mezzo vuoto lasciato accanto al lavello. Patricia, Marcus e la piccola Jackie erano tutti spariti. Guardò in garage: auto e passeggini erano lì. Controllò il calendario in corridoio: non c'era segnato niente. Patricia era forse arrabbiata per il suo ritardo e aveva deciso di punirlo? Mark provò ad accendere il televisore e aspettare, ma poi si accorse di essere davvero in ansia. Due volte aveva preso il telefono per chiamare la polizia, ma aveva rinunciato per paura di non sopportare lo scandalo dell'arrivo di una pattuglia davanti a casa sua. Uscì dalla porta principale e si fermò sul gradino di mattoni che dava sul prato e sulle aiuole rigogliose. Guardò su e giù lungo la via, chiedendosi se fossero da un vicino, poi notò che quasi tutte le case erano buie. Nessun caldo bagliore giallo di lampade accese sul piano di lucide credenze. Niente luci di monitor di computer né di schermi di TV al plasma lampeggianti dietro trine cucite a mano. Osservò la casa dei Luss, proprio di fronte. L'orgogliosa facciata patrizia e i bianchi mattoni invecchiati. Nessuno neanche lì, pareva. Incombeva forse un disastro naturale di cui non sapeva niente? Era stato emanato un ordine d'evacuazione? Poi vide una figura emergere dagli alti cespugli della siepe ornamentale fra la proprietà dei Luss e quella dei Berry. Era una donna e nell'ombra screziata delle foglie di quercia in alto sembrava scarmigliata. Cullava fra le braccia quello che aveva l'aria di essere un bambino addormentato di cinque o sei anni. Andò dritta al vialetto, nascosta per un momento dal SUV Lexus dei Luss, poi entrò nella porta laterale accanto al garage. Prima di varcarla, girò la testa e vide Mark in piedi sul gradino. Non agitò la mano né gli rivolse altro
segno di saluto, ma la sua occhiata, per quanto breve, ebbe l'effetto di un blocco di ghiaccio premuto contro il petto. Non era Joan Luss, capì Mark. Ma poteva essere la governante. Lui aspettò che in casa si accendesse una luce. Non accadde. Davvero strano. Comunque non aveva visto nessun altro fuori in quella magnifica serata. Così attraversò la strada, prima giù per il sentierino per non calpestare l'erba del prato, e poi, con le mani infilate con noncuranza nelle tasche dei calzoni, percorse il vialetto dei Luss verso l'ingresso laterale. La controporta era chiusa, l'uscio invece era aperto. Anziché suonare il campanello, Mark bussò con disinvoltura sul vetro ed entrò, chiamando: «C'è qualcuno?». Attraversò l'anticamera piastrellata, giunse in cucina e accese la luce. «Joan? Roger?» Il pavimento era striato di sporcizia, orme lasciate evidentemente da piedi scalzi. Alcuni mobili e i bordi del piano recavano segni di mani sporche di terriccio. Pere marcivano in una moderna fruttiera di metallo sul bancone centrale. «C'è qualcuno?» ripeté. Joan e Roger non c'erano di sicuro, pensò, ma voleva comunque parlare alla governante. Non sarebbe andata in giro a raccontare che i Blessige non sapevano dove fossero i loro figli o che Mark Blessige non era in grado di rintracciare la moglie ubriacona. E se si sbagliava e Joan era in casa, bene, le avrebbe chiesto dei propri familiari come se tenesse sulla spalla una racchetta da tennis. "I bambini sono sempre taaanto impegnati, come si fa a sapere sempre dove sono?" E se avesse mai sentito qualcosa da altri a proposito della sua nidiata capricciosa, avrebbe tirato in ballo l'orda di contadini scalzi alla quale i Luss evidentemente avevano permesso di invadere la loro cucina. «Sono Mark Blessige, della casa di fronte. C'è qualcuno?» Non era più stato lì dal compleanno del maschietto, a maggio. I genitori avevano comprato al figlio un'auto da corsa elettrica, ma poiché non era dotata di un attacco per roulotte - il bambino aveva un'ossessione per quegli aggeggi, a quanto pareva - aveva spinto la macchinina direttamente contro il tavolo su cui c'era la torta proprio
quando il domestico in costume di Spugna Bob aveva appena terminato di riempire di succo di frutta tutte le tazze. "Be'" aveva detto Roger "almeno sappiamo cosa gli piace." Risata a comando e un nuovo giro di bevande. Mark varcò una porta a vento ed entrò nel soggiorno, dove dalle finestre diede una lunga occhiata alla sua casa. Assaporò la scena per un momento, perché non gli accadeva spesso di guardarla dal punto di vista di un vicino. Era davvero bella. Anche se quello stupido messicano aveva tagliato di nuovo male le siepi a ovest. Dallo scantinato provenne il rumore di passi sulle scale. Più di una persona... più di tre o quattro persone. «Ehi, laggiù» chiamò Mark domandandosi chi fossero quelle orde scalze e pensando di avere approfittato troppo della casa dei Luss. «Sono Mark Blessige, il vicino di fronte.» Nessuna risposta. «Scusate se mi sono introdotto così, ma mi stavo chiedendo...» Spinse la porta a vento e si bloccò. Si trovò di fronte una decina di persone. Un paio erano bambini che sbucarono da dietro il bancone centrale della cucina... nessuno dei due era figlio suo. Mark riconobbe degli abitanti di Bronxville come lui, gente che vedeva da Starbucks, alla stazione della metropolitana o al club. Una, Carole, era la madre di un suo amico. Un altro era un fattorino dell'UPS nella tipica divisa, camicia e shorts marroni. Un assortimento del tutto casuale per una riunione di famiglia. Fra loro non c'era nessun Luss, nessun Blessige. «Scusate. Sto forse interrompendo una...?» In quel momento cominciò a vederli davvero, notando il colorito e gli occhi, mentre lo fissavano senza parlare. Non era mai stato guardato in quel modo da nessuno. Sentì provenire calore dai loro corpi. Dietro c'era la governante. Pareva accaldata, rossa in viso, con gli occhi fissi e scarlatti, una macchia rossa sul davanti della camicetta. I suoi capelli, lunghi, radi e sudici, gli abiti e la pelle non sarebbero stati più luridi se avesse dormito sul terreno. Mark si scostò dal viso una ciocca ribelle. Sentì contro le spalle la porta a vento e capì di essere arretrato. Gli altri si mossero verso di
lui, tutti tranne la governante, che si limitò a guardare. Uno dei bambini, un irrequieto maschietto dalle ispide sopracciglia nere, salì su un cassetto aperto e si arrampicò sul bancone centrale della cucina, svettando così di una testa sopra gli altri. Prese lo slancio dal piano di granito e balzò in aria verso Mark Blessige, che fu costretto a prenderlo al volo. Nel saltare il bambino aprì la bocca e quando si afferrò alle spalle di Mark aveva già estratto il piccolo pungiglione. L'escrescenza, come una coda di scorpione, si fletté prima di saettare in fuori e perforargli la gola. Divise pelle e muscolo e si ancorò nell'arteria carotidea: il dolore fu quello di uno spiedino caldo conficcato in gola. Mark cadde all'indietro nel vano della porta e finì con fracasso sul pavimento, mentre il bambino si teneva forte, imbrigliato al collo, a cavalcioni sul suo petto. Allora iniziò il tiraggio. L'estrazione. Il risucchio. Il prosciugamento. Mark cercò di parlare, cercò di gridare, ma le parole gli si raggrumarono in gola e lo soffocarono. Era paralizzato. Qualcosa nelle pulsazioni cambiò... fu interrotto... e lui non poté più emettere suono. Il petto del bambino premeva contro il suo e Mark sentì il debole battito del piccolo cuore, o di un'altra cosa, contro il proprio. Mentre il sangue gli scorreva fuori del corpo, avvertì il ritmo del bambino accelerare e farsi più forte, tump tump tnmp, e raggiungere un frenetico, profondo galoppo che era prossimo al piacere. Il pungiglione si congestionò mentre il piccolo si nutriva e il bianco degli occhi che fissavano la preda si arrossò di cremisi. Metodicamente il bambino continuò a intrecciare le dita ossute e storte nei capelli di Mark. Serrando la stretta sulla preda... Gli altri irruppero nel vano della porta, si gettarono sulla vittima, le lacerarono i vestiti. Mentre i loro pungiglioni gli foravano la carne, Mark percepì una pressione interna, una compressione. Collasso a vuoto, come un cartone di succo di frutta consumato. E nello stesso tempo fu sopraffatto da un odore che gli entrò nelle narici e negli occhi come una nube di ammoniaca. Un'eruzione di bagnato gli allagò il petto, calda, come brodo appena fatto, e le sue mani che tenevano stretto il corpo del piccolo demonio avvertirono
all'improvviso una tiepida umidità. Il bambino se l'era fatta addosso, aveva defecato su Mark mentre si nutriva... anche se l'escrezione pareva più chimica che umana. Un dolore terribile. Fisico. Dappertutto, dalla punta delle dita al petto, al cervello. La pressione alla gola sparì e Mark rimase lì come una brillante stella bianca di fulgido dolore. Neeva socchiuse la porta della camera da letto per accertarsi che i bambini si fossero finalmente addormentati. Keene e Audrey erano in sacchi a pelo sul pavimento, accanto al letto della sua nipotina Narushta. I piccoli Luss di solito non facevano capricci - Neeva, in fin dei conti, era stata la loro unica bambinaia da quando Keene aveva quattro mesi -, ma quella notte tutti e due avevano pianto. Sentivano la mancanza del loro letto. Volevano sapere quando sarebbero tornati a casa, quando lei ce li avrebbe riportati. Sebastiane continuava a chiedere quando la polizia sarebbe venuta a bussare alla loro porta. Ma non era della polizia che Neeva si preoccupava. Sebastiane era nata negli Stati Uniti, educata in scuole del paese, marchiata dall'arroganza americana. Neeva portava sua figlia a Haiti una volta all'anno, ma quella per lei non era la patria. Rigettava il luogo d'origine e le sue usanze. Rigettava la vecchia conoscenza perché la nuova era così illuminata e precisa. Ma il fatto che la facesse passare per una sciocca superstiziosa era più di quanto Neeva potesse sopportare. Soprattutto dal momento che, agendo come aveva agito, salvando quei due bambini viziati, ma in potenza redimibili, aveva messo a rischio i componenti della sua stessa famiglia. Anche se Neeva era stata allevata nella religione cattolica, il nonno materno aveva seguito il voodoo ed era stato un bokor al villaggio, ossia una sorta di houngan o sacerdote - alcuni dicono "stregone" - che pratica la magia, sia bianca sia nera. Correva voce che fosse dotato di un grande ashe, un "potere spirituale" e che spesso si fosse cimentato a guarire zombi astrai, catturando uno spirito in un feticcio (un oggetto inanimato); ma non aveva mai tentato l'arte più tenebrosa, quella di rianimare un cadavere, di far
sorgere uno zombi da un cadavere abbandonato dall'anima. Non lo aveva mai fatto perché rispettava troppo, diceva, la magia nera e attraversare quella frontiera infernale era un affronto diretto ai loa, gli spiriti della religione voodoo, parenti dei santi e degli angeli che agiscono da intermediari fra l'uomo e l'indifferente Creatore. Ma aveva partecipato a cerimonie che erano una sorta di esorcismo di frontiera, raddrizzando i torti di altri capricciosi houngan, e Neeva l'aveva accompagnato e aveva visto la faccia dei non morti. Quando, la prima notte, Joan si era chiusa nella sua camera riccamente arredata, bella come le suite d'albergo che Neeva puliva a Manhattan appena arrivata in America - e il gemito si era infine fermato, la bambinaia aveva scrutato dentro, per controllare. Gli occhi di Joan parevano smorti e distanti, il cuore batteva forte, le lenzuola erano zuppe di sudore e puzzolenti. Il guanciale era macchiato di sangue biancastro, espulso con colpi di tosse. Neeva, che aveva assistito malati e moribondi, guardandola aveva capito che la sua datrice di lavoro stava sprofondando non solo nella malattia, ma nel male. Era stato allora che aveva preso i bambini e se ne era andata. Neeva fece un altro giro per controllare le finestre. Abitava al pianterreno di una casa trifamiliare e vedeva la via e le costruzioni vicine solo da dietro sbarre di ferro di sicurezza, un buon deterrente per i ladri; ma lei non si sentiva sicura. Quel pomeriggio aveva percorso il perimetro della villetta e le aveva saggiate a una a una: parevano robuste. Come precauzione extra - all'insaputa di Sebastiane, per risparmiarsi una conferenza sulla sicurezza antincendio - aveva inchiodato le intelaiature ai davanzali e bloccato la finestra dei bambini con una libreria usata come barricata di fortuna. Aveva anche - sempre senza dirlo a nessuno - strusciato aglio su ogni sbarra di ferro. Teneva con sé una bottiglia da un quarto piena di acqua santa consacrata dal prete della parrocchia... benché ricordasse quanto poco efficace fosse stato il suo crocifisso nello scantinato dei Luss. Nervosa ma rincuorata, tirò tutte le tende e accese le luci, poi andò alla poltrona e stese i piedi in alto. Non si tolse le scarpe nere dai tacchi pesanti - calzature ortopediche per piedi piatti -, nel caso in cui fosse dovuta correre da qualche parte, e si tenne pronta a
montare la guardia per un'altra notte. Accese il televisore a basso volume, solo perché le facesse compagnia. L'apparecchio traeva più elettricità dalla parete che attenzione da Neeva. Era molto più seccata del solito per la condiscendenza di sua figlia. È la preoccupazione di ogni emigrante che la propria prole cresca e finisca per abbracciare la cultura adottiva a spese del retaggio d'origine. Ma la paura di Neeva era molto più specifica: lei temeva che la spavalderia della figlia americanizzata finisse per farle male. Per Sebastiane il buio della notte era una semplice seccatura che svaniva immediatamente se azionavi un interruttore. La notte per lei era il tempo del riposo, dello svago, del relax: si scioglieva i capelli e abbassava la guardia. Per Neeva l'elettricità rappresentava poco più di un talismano contro il buio. La notte è reale. La notte non è un'assenza di luce; in realtà è il giorno a essere un breve momento di sollievo dalle tenebre incombenti... Si svegliò di soprassalto a un debole rumore. Tirò su il mento e vide che in televisione c'era un breve documentario pubblicitario riguardante uno straccio di spugna che aspirava anche la polvere. Impietrì e tese l'orecchio. Era un ticchettio che veniva dalla porta principale. All'inizio pensò che Emile fosse tornato a casa - suo nipote faceva il tassista notturno -, ma se aveva dimenticato di nuovo la chiave avrebbe suonato il campanello. C'era qualcuno davanti alla porta. Però non bussava né suonava il campanello. Neeva si tirò velocemente in piedi. Scivolò nel corridoio e si fermò davanti all'ingresso, aguzzando l'udito: solo un pannello di legno la separava da qualcuno o qualcosa là fuori. Avvertì una presenza. Immaginò che, se avesse toccato la porta... non la toccò... avrebbe sentito del calore. Era una porta comune, con serratura di sicurezza, niente zanzariera esterna, niente finestra nel legno. Solo un'antiquata buca per la posta, vicino alla base, a trenta centimetri dal pavimento. Il cardine del listello di protezione cigolò. L'aletta d'ottone si mosse... e Neeva corse in fondo al corridoio. Rimase lì un momento, fuori vista, in preda al panico; poi si precipitò nel gabinetto e andò
alla cesta dei giocattoli. Prese la pistola a spruzzo di sua nipote, stappò la bottiglietta d'acqua santa e, pur versandone fuori una buona parte, riempì il serbatoio di plastica. Tornò alla porta. Adesso c'era silenzio, ma lei avvertiva una presenza. Si piegò goffamente sul ginocchio gonfio, smagliandosi la calza nel legno irruvidito del pavimento. Era abbastanza vicino da udire il bisbiglio della fresca aria notturna intorno all'aletta d'ottone... e da vedere un'ombra lungo la fessura. La pistola giocattolo aveva un lungo ugello. Neeva ricordò di far scorrere indietro la pompa nella parte inferiore per innescare la pressione, poi usò la punta dell'ugello per sollevare l'aletta d'ottone. Quando il cardine emise un dolente cigolio, infilò l'ugello nella fessura e premette il grilletto. Sparò alla cieca, su, giù, da una parte e dall'altra, spruzzò acqua santa in tutte le direzioni. Immaginò Joan Luss riportare ustioni, il liquido che le corrodeva il corpo come la stessa spada d'oro di Gesù... eppure non udì alcun gemito. Poi una mano s'introdusse nella fessura. Afferrò la canna della pistola e cercò di strappargliela. Neeva la tirò indietro, di riflesso, e così vide chiaramente le dita. Erano sporche di terriccio, come se avessero scavato una tomba. Il letto ungueale era rosso sangue. L'acqua santa versata sulla pelle si limitava a macchiare la sporcizia, senza provocare emissione di vapore né bruciature. Nessun effetto. La mano tirò con forza la canna, la bloccò nella fessura. In quel momento Neeva capì che cercava di arrivare a lei. Perciò mollò il giocattolo, mentre le dita tiravano e torcevano, finché l'arma di plastica si ruppe mandando un ultimo schizzo d'acqua. Neeva si allontanò dalla fessura, strisciando sul sedere, mentre il visitatore cominciava a battere la porta. Cercava di colpirla con tutto il peso del corpo, scuoteva il pomolo. I cardini tremarono e le pareti adiacenti vibrarono; la foto dell'uomo e del ragazzo a caccia cadde dal chiodo e il vetro si frantumò. Neeva si aprì la strada fino in fondo al breve corridoio d'ingresso. Con la spalla rovesciò il portaombrelli con la mazza da baseball. Lei l'afferrò e strinse il manico rivestito di nastro nero, seduta a terra.
Il legno resse. La vecchia porta, che Neeva odiava perché con il caldo estivo si gonfiava e usciva dall'intelaiatura, era abbastanza solida da resistere ai colpi, come pure il paletto e la serratura di lucido acciaio. La presenza dietro l'uscio alla fine rimase in silenzio. Forse si allontanò. Neeva guardò la pozza di lacrime di Cristo sul pavimento. Quando il potere di Gesù ti viene meno, allora capisci che sei davvero fottuto. Aspettare la luce del giorno era tutto quello che poteva fare. «Neeva?» Il piccolo Keene era dietro di lei, in calzoni della tuta e maglietta. Neeva si mosse più rapidamente di quanto avrebbe immaginato, con la mano tappò la bocca del ragazzino e lo trascinò oltre l'angolo. Rimase lì, con la schiena contro la parete e il bambino fra le braccia. La cosa alla porta aveva udito la voce di suo figlio? Neeva tese l'orecchio. Il bambino si dimenò, cercò di parlare. «Silenzio, figliolo.» Poi udì di nuovo il cigolio. Strinse Keene più forte e si sporse a sinistra, rischiando un'occhiata da dietro l'angolo. La buca della posta era tenuta aperta da un dito sporco. Tornò di scatto dietro l'angolo, ma non prima di avere scorto un paio di brucianti occhi rossi guardare dentro. Rudy Wain, il manager di Gabriel Bolivar, dopo una cena a tarda ora nel locale di Mr Chow con gente della BMG, prese un taxi in Hudson Street e andò a casa sua. Non era riuscito a mettersi in contatto telefonico con Gabe, ma aveva sentito voci sulla sua salute, dopo la faccenda del volo 753, e visto una foto scandalistica di lui in sedia a rotelle, perciò doveva controllare di persona. Alla porta di Gabe in Vestry Street non c'erano paparazzi, solo alcuni fan goth dall'aria inebetita dalla droga, seduti lungo il marciapiede a fumare. Quando videro Rudy salire i gradini della scaletta esterna, si alzarono ansiosi.
«Cosa succede?» chiese Wain. «Abbiamo sentito che fa entrare gente.» Lui guardò in alto, ma non c'erano luci accese nelle due case unifamiliari, nemmeno nell'attico. «Si direbbe che la festa sia finita.» «Non c'è nessuna festa» replicò un ragazzo paffuto con bande elastiche colorate che gli pendevano da un chiodo nella guancia. «Ha lasciato entrare anche i paparazzi.» Rudy si strinse nelle spalle e premette il codice d'apertura; entrò e si chiuse la porta alle spalle. Almeno Gabe si sentiva meglio, pensò. Passò davanti alle pantere di marmo nero e fu nell'atrio buio. I faretti erano tutti spenti e gli interruttori scollegati. Rifletté un momento, poi tirò fuori il BlackBerry e selezionò la connessione always on. Mosse qua e là lo schermo luminoso blu per fare luce e notò, ai piedi dell'angelo alato vicino alla scala, un mucchio di costose macchine fotografiche digitali e di videocamere, armi dei paparazzi. Accatastate come scarpe sul bordo di una piscina. «Ehi?» La sua voce trasse un'eco sorda dai primi piani non ancora terminati. Iniziò a salire la curva scala di marmo, seguendo la pozza di luce elettronica del palmare. Doveva motivare Gabe per lo show a Roseland della settimana successiva e pianificare vari impegni nel periodo di Halloween. Arrivato all'ultimo piano, la suite di camere da letto di Bolivar, vide che anche lì tutte le luci erano spente. «Ehi, Gabe? Sono io. Non farmi inciampare in qualcosa.» Troppo silenzio. Si spinse nella stanza da letto principale, la esaminò alla luce del BlackBerry, scoprì le lenzuola ammucchiate, ma niente Gabe con postumi di sbornia. Probabilmente era fuori, in giro nella notte come al solito. Lì non c'era. Rudy entrò nel bagno padronale per urinare. Sul piano notò una boccetta aperta di Vicodin e un bicchiere da cocktail di cristallo che puzzava di alcolici. Rifletté un momento, poi lavò il bicchiere nel lavandino e con l'acqua del rubinetto mandò giù due pastiglie. Mentre rimetteva a posto il bicchiere, colse un movimento da
qualche parte alle sue spalle. Si girò rapidamente ed ecco Gabe, che usciva dal buio per entrare nel bagno. Gli specchi a parete su entrambi i lati diedero l'impressione che ce ne fossero centinaia, di Gabe. «Cristo, mi hai spaventato» disse Rudy. Lasciò svanire il sorriso cordiale mentre l'altro stava lì a fissarlo. La luce blu del BlackBerry era indiretta e debole, ma la pelle di Gabe pareva scura, gli occhi sembravano tinti di rosso. Portava una leggera veste da camera nera, lunga fino al ginocchio, senza niente sotto. Teneva le braccia penzoloni e non rivolse al suo manager nemmeno un cenno di saluto. «Cosa succede, amico?» Wain notò che aveva mani e torace sporchi di una sostanza scura. «Passi la notte in una carbonaia?» Gabe si limitò a stare lì, moltiplicato all'infinito dagli specchi. «Puzzi davvero, amico» osservò Rudy portandosi la mano al naso. «Dove diavolo ti sei cacciato?» Sentì uno strano calore emanare da Gabe. Avvicinò il BlackBerry al suo viso. Gli occhi non reagirono alla luce. «Ehi, potevi anche toglierti il trucco.» Le pastiglie di Vicodin cominciavano a fare effetto. La stanza, con gli specchi contrapposti, si dilatò come una fisarmonica. Rudy spostò il palmare e tutto il bagno tremolò. «Senti, amico» disse, innervosito dall'assenza di reazioni di Gabe «se ti sei fatto, posso tornare.» Cercò di scivolare fuori alla sinistra di Bolivar, ma lui non si spostò. Fece un altro tentativo, però non lo faceva passare. Allora arretrò tenendo la luce del BlackBerry puntata sul suo cliente. «Gabe, amico, che diavolo...» Bolivar aprì la veste da camera, allargò le braccia come ali e lasciò cadere a terra l'indumento. Wain ansimò. Fu colpito nel vedere che il corpo era grigio e magro, poi lo sguardo gli cadde sull'inguine e rimase impietrito. Glabro, liscio come quello di una bambola, privo di genitali. La mano di Gabe coprì la bocca di Rudy, con forza. Lui iniziò a dibattersi, ma ormai era troppo tardi. L'altro sogghignò e quando il ghigno sparì una cosa simile a una frusta gli si agitò nella bocca. Alla
tremula luce blu del palmare, mentre con frenesia e alla cieca tastava i numeri per comporre il 911, vide emergere il pungiglione. Appendici vagamente definite si gonfiavano e sgonfiavano ai lati, come due sacchi spugnosi, affiancati da sfiatatoi simile a branchie che si spalancavano e si richiudevano. Rudy vide tutto questo l'attimo prima che il pungiglione gli saettasse nel collo. Il BlackBerry cadde sul pavimento del bagno, sotto i suoi piedi scalcianti, e il pulsante INVIO non fu mai premuto. Jeanie Millsome, nove anni, non era affatto stanca nel viaggio di ritorno a casa, con la madre. Lo spettacolo della Sirenetta a Broadway era stato così meraviglioso che si sentiva più sveglia di quanto si fosse mai sentita in vita sua. Adesso sapeva davvero che cosa voleva fare da grande. Non più l'istruttrice di danza (dopo che Cindy Veeley in un salto si era rotta due dita del piede), non più la ginnasta olimpica (il cavallo con maniglie le metteva troppa paura). Sarebbe diventata (rullo di tamburi, prego...) un'attrice di Broadway. Si sarebbe tinta i capelli rosso corallo, avrebbe recitato nella Sirenetta la parte della protagonista Ariel e alla fine avrebbe avuto la più grande chiamata alla ribalta di tutti i tempi; e dopo gli applausi scroscianti sarebbe andata a salutare i suoi giovani fan presenti in teatro, avrebbe autografato a tutti il programma e avrebbe sorriso nelle foto con loro scattate col cellulare... e poi, una sera molto speciale, avrebbe scelto la più gentile e sincera bambina di nove anni del pubblico e l'avrebbe invitata a essere la sua controfigura e anche la sua Migliore Amica di Sempre. La mamma sarebbe stata la sua parrucchiera e il papà, che era rimasto a casa con Justin, il suo manager, proprio come il padre di Hannah Montana. E Justin... be', Justin poteva starsene a casa ed essere se stesso. Così era seduta, mento sulla mano, girata di traverso, nel seggiolino della metropolitana che correva a sud sotto la città. Si vide riflessa nel finestrino, notò la brillantezza della vettura dietro di lei, ma le luci a volte guizzavano e in uno di quegli attimi di buio si ritrovò a guardare in uno spazio aperto dove un tunnel confluiva in un altro. Poi vide una cosa. Niente di più di un lampo subliminale, come un solo inquietante fotogramma tagliato da una pellicola
altrimenti monotona. Così rapido che la mente consapevole della bambina di nove anni non ebbe il tempo di elaborare quell'immagine che non capiva. Non avrebbe neanche saputo dire perché fosse scoppiata in lacrime, svegliando la madre assopita, così bella in abito e cappotto da teatro, accanto a lei, che la confortò e cercò di farle dire cosa l'avesse indotta a piangere. Jeanie poté solo indicare il finestrino. Per il resto del viaggio se ne stette rannicchiata sotto il braccio della mamma. Ma il Padrone l'aveva vista. Il Padrone vedeva tutto. Perfino - e soprattutto - quando si nutriva. La sua vista notturna era straordinaria e quasi telescopica, in diverse sfumature di grigio, e registrava fonti di calore in un lucente bianco spettrale. Terminato di nutrirsi, ma non ancora sazio - mai sazio -, lasciò che la preda inerte gli scivolasse ai piedi: le sue grandi mani rilasciarono l'umano cambiato sulla ghiaia del terreno. I tunnel intorno a lui bisbigliarono di correnti d'aria che fecero svolazzare il suo mantello scuro, treni urlarono in lontananza, fra schianti di ferro contro acciaio, come le grida di un mondo all'improvviso consapevole della sua venuta.
SMACHERAMENTO
Quartier generale del progetto Canary, Undicesima Avenue e Ventisettesima Strada Il terzo mattino dall'atterraggio del volo 753, Eph condusse Setrakian nel quartier generale del progetto Canary, all'estremità ovest di Chelsea, un isolato a est dell'Hudson. Prima dell'avvio del progetto, l'ufficio di tre stanze era la sede locale del programma di test diagnostici somministrati ai lavoratori e ai volontari impegnati nel World Trade Center, per indagare i collegamenti fra le operazioni di recupero dell'11 settembre e i disturbi respiratori persistenti. Eph si sentì sollevare il cuore mentre si fermavano nell'Undicesima Avenue. Due automezzi della polizia e un paio di anonime berline con targhe governative erano parcheggiati davanti all'ingresso. Il direttore Barnes era arrivato, finalmente. Avrebbero avuto gli aiuti necessari. Era impossibile che loro tre potessero combattere da soli quel flagello. La porta dell'ufficio del secondo piano era aperta e Barnes stava parlando con un borghese che si presentò come agente speciale dell'FBI. «Everett» disse Eph, sollevato nel vedere che il suo direttore era personalmente coinvolto. «Perfetta scelta di tempo. Proprio la persona che volevo vedere.» Andò a un piccolo frigo accanto alla porta. Provette sbatterono quando prese un quarto di latte intero, tolse il tappo e bevve in fretta. Aveva bisogno di calcio, proprio come un tempo aveva bisogno di alcolici. "Le dipendenze cambiano" rifletté. Per esempio, solo la settimana prima lui dipendeva dalle leggi scientifiche e naturali, mentre adesso la sua droga quotidiana era fatta di spade d'argento e di luce ultravioletta. Scostò dalle labbra la bottiglia mezzo vuota e in quel momento si rese conto che per soddisfare la sete aveva appena consumato il prodotto di un altro mammifero. «Lui chi è?» chiese il direttore Barnes.
«Lui» rispose Eph ripulendosi dal labbro superiore un baffo di latte «è il professore Abraham Setrakian.» Il vecchio teneva in mano il cappello e i suoi capelli color alabastro risplendevano sotto la luce del basso soffitto. «Sono accadute tante di quelle cose, Everett» continuò bevendo altro latte per estinguere il fuoco che gli bruciava nello stomaco «che non so neanche da dove cominciare.» «Possiamo cominciare dai cadaveri svaniti dagli obitori locali» ribatté Barnes. Eph abbassò la bottiglia. Un poliziotto si era avvicinato alla porta dietro di lui. Un secondo agente dell'FBI si era seduto al suo portatile e batteva sui tasti. «Ehi, mi scusi» protestò. «Ephraim» disse Barnes «cosa sa dei cadaveri scomparsi?» Per un momento Eph cercò di leggere la faccia del direttore del CDC. Lanciò un'occhiata a Setrakian, ma il vecchio non gli offrì nessun aiuto e se ne restò immobile, col cappello fra le mani rovinate. Eph si rivolse di nuovo il direttore. «Sono andati a casa.» «A casa?» ripeté Barnes, girando la testa come per sentirlo meglio. «In cielo?» «Sono tornati alle loro famiglie, Everett.» Barnes guardò l'agente dell' FBI che continuava a fissare Eph. «Sono morti» disse Barnes. «Non sono morti. Almeno, non nel modo in cui lo intendiamo noi.» «C'è solo un modo di essere morti, Ephraim.» Lui scosse la testa. «Non più.» «Ephraim.» Barnes mosse un passo avanti, comprensivo. «So che di recente ha sopportato un forte stress. So che ha avuto problemi in famiglia...» «Un momento» lo interruppe Eph. «Non credo di capire che diavolo sia questa storia.» «Questa storia riguarda il suo paziente, dottore» intervenne l'agente dell'FBI. «Uno dei piloti del volo Regis Air 753, il capitano
Doyle Redfern. Abbiamo alcune domande sulla sua cura.» Eph nascose un brivido. «Si procuri un mandato e risponderò alle sue domande.» «Forse le piacerebbe spiegarci questo.» Aprì sul bordo della scrivania un riproduttore video portatile e lo mise in funzione. Lo schermo mostrò le riprese di una telecamera della sicurezza di una stanza d'ospedale. Redfern era inquadrato da dietro, barcollante, col corto camice aperto sulla schiena. Pareva ferito e confuso, piuttosto che rapace e arrabbiato. L'angolo di ripresa non lasciava vedere il pungiglione che gli usciva dalla bocca. Però mostrò Eph che affrontava il pilota e usava il trapano ronzante nel tentativo di colpirgli la gola con la lama circolare. Ci fu il tremolio di un taglio e poi Nora era sullo sfondo, si copriva la bocca mentre Eph, fermo accanto al vano della porta, ansimava e Redfern giaceva in un mucchio sul pavimento. Iniziò un'altra sequenza. Una telecamera diversa, più in là nello stesso corridoio del seminterrato, posta in alto, mostrava due persone, un uomo e una donna, forzare la porta chiusa a chiave ed entrare nella stanza dell'obitorio dove era tenuto il cadavere di Redfern, per poi allontanarsi con una pesante sacca da cadaveri. Le due persone assomigliavano moltissimo a Eph e a Nora. Il video terminò. Eph guardò la collega, che era scioccata, e poi l'agente dell’FBI e Barnes. «È un... è stato modificato per fare una brutta impressione. C'è stato un taglio. Redfern aveva...» «Dove sono i resti del capitano Redfern?» Eph non riusciva a pensare. Non poteva riprendersi dal falso che aveva appena visto. «Non eravamo noi. La telecamera era troppo in alto per...» «Allora sostiene che non eravate lei e la dottoressa Martinez?» Eph guardò Nora scuotere la testa: tutti e due erano troppo confusi per imbastire un'immediata e coerente difesa. «Glielo chiedo ancora una volta, Ephraim» lo incalzò Barnes. «Dove sono i cadaveri spariti dagli obitori?»
Eph fissò Setrakian, in piedi accanto alla porta. Poi Barnes. Non sapeva cosa dire. «Ephraim, chiudo il progetto Canary. Da questo momento.» «Cosa? Aspetti, Everett...» Avanzò rapidamente verso il direttore. Gli altri agenti si mossero verso di lui, come se lo ritenessero pericoloso, ed Eph si fermò, ancora più allarmato dalla loro reazione. «Dottor Goodweather, deve venire con noi» annunciò il federale. «Dovete venire tutti... ehi!» Eph si girò. Setrakian era sparito. Il federale mandò due agenti a cercarlo. Eph tornò a guardare Barnes. «Everett, lei mi conosce. Sa chi sono. Ascolti ciò che sto per dirle. C'è una pestilenza che si sta diffondendo nella città... un flagello come non abbiamo mai visto.» L'agente dell'FBI intervenne. «Dottor Goodweather, vogliamo sapere che cosa ha iniettato a Jim Kent.» «Che cosa ho... come?» «Ephraim» disse Barnes «ho fatto un patto con loro. Nora ne uscirà pulita se lei collabora. Le risparmiano lo scandalo dell'arresto e la sua reputazione professionale sarà salva. So che voi due siete... intimi.» «E come lo sa, esattamente?» Osservò i suoi persecutori, passando dallo stupore alla collera. «È una stronzata, Everett.» «Ephraim, lei è stato ripreso mentre attacca e uccide un paziente. Ha riferito fantastici risultati di test, non basati su misurazioni razionali, non comprovati e probabilmente manipolati. Sarei qui, se avessi scelta? Se lei avesse scelta?» Eph si girò verso Nora. Sarebbe stata risparmiata. Forse avrebbe potuto continuare la battaglia. Barnes aveva ragione. Per il momento almeno, in una stanza piena di poliziotti, non aveva scelta. «Non lasciarti frenare da questa storia» disse a Nora. «Potresti essere l'unica a sapere che cosa sta accadendo davvero.»
Nora scosse la testa. Si rivolse a Barnes. «Signore, qui c'è un complotto, che lei ne faccia parte o no...» «Per favore, dottoressa Martinez. Non si metta da sola in una situazione peggiore.» L'altro agente prese i computer portatili di Eph e di Nora. Portarono Goodweather giù per la scala. Nel corridoio del primo piano incontrarono i due che erano andati a cercare Setrakian. Erano in piedi fianco a fianco, quasi schiena contro schiena. Ammanettati l'uno all'altro. Dietro di loro comparve il vecchio con la spada sguainata. Con la punta sfiorò il collo del capo dei federali. Nell'altra mano aveva un pugnale, anch'esso d'argento. Lo puntò alla gola del direttore Barnes. «Voi signori siete pedine di uno schema ben al di là della vostra comprensione» disse l'ex professore. «Prenda il pugnale, dottore.» Eph lo prese e lo puntò alla gola del suo capo. «Dio Cristo, Ephraim!» esclamò Barnes, senza fiato. «Ha perso la ragione?» «Everett, questa è una faccenda più grande di quanto lei immagini. Trascende il CDC, trascende perfino l'applicazione delle normali leggi. In città si è scatenata una malattia catastrofica come non ne abbiamo mai viste. Ed è solo metà della storia.» Nora gli si affiancò e sottrasse i computer portatili all'agente dell'FBI. «Ho preso dall'ufficio tutto ciò che ci serve» annunciò. «Mi sa che qui non torneremo.» «Per l'amor di Dio, Ephraim» mormorò Barnes «ritorni in sé.» «Mi ha assunto per questo lavoro, Everett. Suonare l'allarme quando una crisi sanitaria lo richiede. Siamo sull'orlo di una pandemia mondiale. Un evento d'estinzione. E qualcuno da qualche parte sta rimuovendo tutti gli ostacoli per avere la maledetta certezza che ciò avvenga.»
Stoneheart Group, Manhattan Eldritch Palmer accese una fila di monitor che mostravano i notiziari di sei emittenti televisive. Trovò molto interessante quello in basso a sinistra. Posizionò meglio la poltrona, isolò il canale e alzò il volume. Il reporter, appostato fuori della centrale del 17° distretto nella Cinquantunesima Est, riceveva solo "no comment" da un agente di polizia a proposito della valanga di denunce di persone scomparse in tutta l'area di New York negli ultimi giorni. Inquadrarono la coda di gente che, in attesa fuori del distretto - troppa per entrare tutta insieme - riempiva moduli sul marciapiede. Il reporter notò che venivano riportati altri incidenti all'apparenza inspiegabili, come violazioni di domicilio in case vuote, senza che nulla fosse stato rubato. La cosa più bizzarra era il fallimento della tecnologia moderna nella ricerca delle persone scomparse: i telefoni cellulari, quasi tutti con tecnologia GPS rintracciabile, a quanto pareva erano spariti con i proprietari. Questo fatto portò qualcuno a ipotizzare che forse la gente abbandonava a ragion veduta famiglia e impiego e a notare che il clou delle sparizioni pareva avere coinciso con la recente occultazione lunare, suggerendo un legame fra i due fenomeni. Poi uno psicologo commentò il potenziale d'isterismo di massa di basso livello nella scia di certi allarmanti eventi celesti. La storia terminò con il reporter che dava spazio a una donna lacrimosa che mostrava un ritratto fotografico di una madre di due figli dispersa. Il programma continuò con lo spot di una crema antirughe per "aiutarti a vivere più a lungo e meglio". Allora il magnate affetto da una malattia congenita spense l'audio e l'unico rumore, a parte quello dell'apparecchiatura per la dialisi, fu il suo canticchiare a bocca chiusa dietro l'avido sorriso. In un altro schermo c'era un grafico dei mercati finanziari in declino mentre il dollaro continuava a scendere. Palmer stesso stava muovendo i mercati, si liberava regolarmente delle azioni e faceva
acquisti nel campo dei metalli preziosi: oro, argento, palladio e platino in lingotti. Il commentatore suggeriva che la recente recessione rappresentava opportunità nel mercato dei futures. Palmer era in forte disaccordo. Lui stava accorciando il futuro. A tutti, tranne che a se stesso. Il signor Fitzwilliam gli passò una telefonata alla sedia mobile. Un bendisposto funzionario dell'FBI chiamava per informarlo che l'epidemiologo del progetto Canary, il dottor Ephraim Goodweather, era scappato. «Scappato?» si stupì Palmer. «Com'è possibile?» «Era in compagnia di un uomo anziano, a quanto pare più furbo di quanto desse a vedere. Aveva una lunga spada d'argento.» Palmer rimase in silenzio per un respiro completo. Poi, lentamente, sorrise. Forze si alleavano contro di lui. Molto bene. Si riunissero pure. Sarebbe stato più facile spazzarle via. «Signore?» disse la persona al telefono. «Oh... niente. Pensavo a un vecchio amico.»
Knickerbocker Loans and Curios, Centodiciottesima Strada, Spanish Harlem Eph e Nora si trovavano con Setrakian dietro la saracinesca chiusa a chiave della sua agenzia di pegni. I due epidemiologi erano ancora sconvolti. «Ho fatto il suo nome» disse Eph guardando dalla vetrina. «L'edificio è intestato alla mia defunta moglie. Per il momento qui dovremmo essere al sicuro.» Abraham era ansioso di scendere di sotto, nella cantina armeria, ma i due dottori erano ancora nervosi. «Ci danno la caccia» disse Eph.
«Aprono la strada all'infezione» replicò Setrakian. «La specie si muoverà più rapidamente in una società tranquilla che in una in allarme.» «Ma chi ci dà la caccia?» chiese Nora. «Chi ha il potere di far caricare quella bara a bordo di un volo transoceanico in quest'epoca di terrorismo» rispose Setrakian. «Ci stanno incastrando» osservò Eph camminando avanti e indietro. «Hanno mandato due dei loro a rubare i resti di Redfern. Due che assomigliano a noi!» «Come ha detto, lei è la principale autorità a suonare l'allarme per il controllo sanitario. Sia lieto che abbiano tentato solo di screditarla.» «Senza il CDC a spalleggiarci» intervenne Nora «non abbiamo nessuna autorità.» «Dobbiamo continuare da soli, ora» disse Setrakian. «Controllo sanitario al livello più fondamentale.» Nora lo guardò. «Significa... omicidio.» «Preferisce diventare come quelli o avere qualcuno che la liberi?» «È ancora un eufemismo per "assassinio"» ribatté Eph. «Ed è più facile a dirsi che a farsi. Quante teste dobbiamo tagliare? Qui siamo in tre.» «Ci sono altri modi, oltre a recidere la spina dorsale» spiegò Setrakian. «La luce del sole, per esempio. Il nostro alleato più potente.» Eph sentì vibrare il telefonino che teneva in tasca. Lo tirò fuori, con prudenza, e controllò il display. Un funzionario di Atlanta. Quartier generale del CDC. «Pete O'Connell» disse a Nora e accettò la chiamata. Lei si rivolse a Setrakian. «E allora dove sono tutti in questo momento, durante il giorno?» «Sottoterra. Cantine e fognature. Le buie budella degli edifici, come stanze per la manutenzione, negli impianti di riscaldamento e raffreddamento. A volte nelle pareti. Ma di solito nel terriccio. Dove
preferiscono fare il nido.» «Perciò... dormono durante il giorno, giusto?» «Sarebbe l'ideale, no? Una manciata di bare in uno scantinato piene di vampiri addormentati. No, non dormono affatto. Non come lo intendiamo noi. Si interrompono per un poco, se sono sazi. La digestione di troppo sangue è laboriosa, li affatica. Mai a lungo, però. Di giorno si rifugiano sottoterra solo per sfuggire ai micidiali raggi del sole.» Nora era pallida e sfinita, come una bambina cui abbiano rivelato che in realtà i defunti non mettono le ali e non volano dritti in cielo per diventare angeli, ma rimangono sulla terra, sviluppano pungiglioni sotto la lingua e si trasformano in vampiri. «Quello che ha detto prima di distruggerli... Parole in un'altra lingua. Una intimazione o una sorta di maledizione.» Il vecchio trasalì. «Parole che pronuncio per calmare me stesso. Per tenere ferma la mano nel colpo finale.» Nora aspettò che lui le ripetesse. L'ex professore se ne accorse e capì che lei, per qualche ragione, doveva sapere. «Dico: "Strigoi, la mia spada risuona d'argento".» Trasalì di nuovo, a disagio nel pronunciare ora quelle parole. «Suonano meglio nell'antica lingua.» Nora si rese conto che quel vecchio uccisore di vampiri era in essenza una persona modesta. «Argento» ripeté. «Solo argento. Rinomato nei secoli per le proprietà antisettiche e germicide. Può tagliarli con l'acciaio o trapassarli col piombo, ma solo l'argento li ferisce realmente.» Eph intanto si era turato con la mano libera l'orecchio nel tentativo di sentire Pete, che si trovava alla guida di un'auto poco fuori Atlanta. «Cosa succede lassù?» «Be'... cos'hai sentito?» «Che in teoria non dovrei parlare con te. Che sei nei guai. Che sei uscito dalla riserva o cose del genere.» «Qui è un casino, Pete. Non so che dirti.»
«Be', dovevo chiamarti comunque. Ho speso un po' di tempo sui campioni che mi hai mandato.» Eph sentì un'altra pietra cadergli nello stomaco. Il dottor Peter O'Connell era uno dei capi dell'Unex - il progetto Morti inspiegate al centro nazionale del CDC, dedicato a malattie zoonotiche trasmesse da invertebrati ed enteriche. L'Unex era un gruppo interdisciplinare composto di virologi, batteriologi, epidemiologi, veterinari e clinici sia interni sia esterni al CDC. Ogni anno, negli Stati Uniti, un gran numero di morti naturali rimane inspiegato e una parte di quei decessi, circa settecento in dodici mesi, è trasmessa all'Unex per ulteriori indagini. Di quei settecento, solo il quindici per cento viene risolto in maniera soddisfacente e campioni del resto sono immessi in una banca dati per un eventuale riesame futuro. Ogni ricercatore dell'Unex mantiene un altro lavoro nell'ambito del CDC e Pete era capo del dipartimento Patologia malattie infettive, un esperto su come e quando un virus colpisce il proprio ospite. Eph si era dimenticato di avergli spedito campioni delle prime biopsie e campioni sanguigni ricavati dall'esame preliminare del capitano Redfern. «È un ceppo virale, Eph. Nessun dubbio, su questo. Un notevole pezzetto di acido genetico.» «Pete, un momento, ascoltami...» «La glicoproteina ha caratteristiche di legame sorprendenti. Sto parlando di una chiave universale. Straordinario. Quel piccolo farabutto non si limita a dirottare la cellula ospite, inducendola a riprodurre altre copie di se stesso. No... si unisce all'RNA. Si mescola con esso. Lo consuma... eppure in qualche modo non lo esaurisce. Fa una copia di se stesso accoppiato con la cellula ospite. E prende solo le parti che gli servono. Non so cosa vedi nel tuo paziente, ma in teoria questo coso potrebbe replicarsi e continuare a replicarsi; e dopo molti milioni di generazioni... ma questo coso è veloce... potrebbe riprodurre la propria struttura organica. Sistematicamente. Potrebbe cambiare l'ospite. In che cosa, non lo so... ma di sicuro mi piacerebbe scoprirlo.» «Pete.» Eph si sentiva girare la testa. La cosa aveva senso, fin troppo. Il virus sopraffaceva e trasformava la cellula, proprio come il
vampiro sopraffaceva e trasformava la vittima. Quei vampiri erano virus incarnati. «Mi piacerebbe» proseguì Pete «fare di persona l'analisi genetica di questo coso, vedere realmente cosa lo fa...» «Pete, ascoltami. Voglio che tu lo distrugga.» Nel silenzio, Eph udì il fruscio dei tergicristalli dell'auto. «Cosa?» «Salva le tue scoperte, accontentati di quelle, ma distruggi subito il campione.» Ancora fruscio di tergicristalli, metronomo dell'incertezza di Pete. «Distruggere il campione su cui stavo lavorando, vuoi dire? Perché sai che ne conserviamo sempre una parte, non si sa mai...» «Pete, devi andare subito al laboratorio e distruggere il campione.» «Eph.» Pete accese le luci intermittenti e accostò al ciglio della strada per terminare la conversazione. «Sai quanto stiamo attenti con ogni potenziale patogeno. Siamo puliti e sicuri. E abbiamo un protocollo di laboratorio molto rigoroso, che non posso infrangere per farti piacere...» «Ho compiuto un terribile errore a farlo uscire da New York City. Non sapevo ciò che so ora.» «Esattamente in quale guaio ti trovi, Eph?» «Sbiancalo. Se non funziona, usa l'acido. Dagli fuoco, se devi, non m'interessa. Mi prendo io tutta la responsabilità...» «Non si tratta di responsabilità, Eph. Si tratta di scienza. Devi essere sincero con me, adesso. Ti hanno visto nei notiziari.» Eph doveva mettere fine a quella storia. «Pete, fa' quello che ti chiedo... e ti prometto che ti spiegherò tutto, appena potrò.» Chiuse la telefonata. Setrakian e Nora avevano ascoltato la conversazione parola per parola. «Ha spedito il virus da qualche altra parte?» chiese Setrakian. «Lo distruggerà. Pete sbaglierà sempre per troppa prudenza, lo
conosco bene.» Alzò gli occhi sui televisori in vendita esposti lungo la parete. "Ti hanno visto nei notiziari." «Uno di quelli funziona?» Ne trovarono uno funzionante. Non ci volle molto perché la notizia ripassasse. Mostrarono la foto di Eph presa dal tesserino d'identificazione del CDC. Poi un confuso estratto dell'incontro con Redfern e uno dei due sosia che trasportava una sacca per cadaveri dalla stanza d'ospedale. Si diceva che il dottor Ephraim Goodweather era ricercato come "persona informata dei fatti" nell'indagine sulla scomparsa dei cadaveri dei passeggeri del volo 753. Eph rimase immobile. Pensò a Kelly che guardava quel servizio. A Zack. «Che bastardi» sibilò. Setrakian spense il televisore. «L'unica notizia buona in questa storia è che lei è ancora ritenuto una minaccia. Ciò significa che c'è un po' di tempo. Una speranza. Una possibilità.» «Sembrerebbe che lei abbia un piano» disse Nora. «Non un piano. Una strategia.» «Sentiamo» lo incitò Eph. «I vampiri hanno le loro leggi, barbare e antiche. Un comandamento ancora valido è che un vampiro non può attraversare l'acqua corrente. Non senza assistenza umana.» Nora scosse la testa. «Perché non può?» «La ragione forse si trova nella loro stessa creazione, tanto tempo fa. La tradizione è esistita in ogni cultura conosciuta del pianeta, da sempre. Popoli mesopotamici, antichi greci ed egizi, ebrei, romani. Per quanto vecchio, non lo sono abbastanza da sapere. Ma la proibizione perdura anche oggi. E qui ci dà una sorta di vantaggio. Sapete cos'è New York City?» Nora ci arrivò subito. «Un'isola.» «Un arcipelago. Siamo circondati completamente da acqua. I passeggeri dell'aereo sono stati portati in obitori di tutti e cinque i distretti?»
«No» rispose Nora. «Solo quattro. A Staten Island, no.» «Quattro, allora. Il Queens e Brooklyn sono separati dalla terraferma, rispettivamente dall'East River e dal Long Island Sound. Il Bronx è l'unico distretto collegato agli Stati Uniti.» «Se solo potessimo chiudere i ponti» disse Eph. Stabilire linee di sbarramento a nord del Bronx, a est del Queens a Nassau...» «Pio desiderio, a questo punto» replicò Setrakian. «Ma come avrete capito non dobbiamo distruggerli uno per uno. Hanno tutti la stessa mente, operano con una mentalità da alveare. Controllata da un'unica intelligenza. Che presumibilmente è bloccata da qualche parte qui a Manhattan.» «Il Padrone» disse Eph. «Quello giunto nel ventre dell'aereo. Il proprietario della bara dispersa.» «Come fa a sapere che non sia ancora nei pressi dell'aeroporto?» chiese Nora. «Se non può attraversare senza aiuto l'East River...» Setrakian sorrise. «Sono propenso a credere che non abbia fatto il viaggio fino in America per nascondersi nel Queens.» Aprì la porta posteriore con la scala a chiocciola che portava all'armeria nello scantinato. «Ora dobbiamo dargli la caccia.»
Liberty Street, sito del World Trade Center Vasiliy Fet, il disinfestatore dell'Ufficio per il controllo degli animali nocivi di New York City, si fermò alla staccionata sovrastante la "vasca da bagno", le grandi fondamenta nel sito dell'ex World Trade Center. Aveva lasciato il carretto a mano nel furgoncino parcheggiato in West Street, in un lotto dell'autorità aeroportuale, con gli altri veicoli del cantiere. In una mano portava topicida e attrezzatura per tunnel in una sacca sportiva rossa e nera della Puma. Nell'altra stringeva il fidato pezzo di tondino di ferro, trovato in un posto di lavoro, una sbarra d'acciaio lunga un metro, perfetta per sondare tane di topi e per spingervi esche avvelenate e,
a volte, per colpire qualche animale aggressivo o pazzo di paura. Si fermò fra le barriere New Jersey e la staccionata all'angolo fra la Church e la Liberty, in mezzo a dissuasori di traffico bianchi e arancioni lungo l'ampia passerella pedonale. Gente lo superò, diretta all'ingresso temporaneo della metropolitana dall'altra parte dell'isolato. Un senso di nuova speranza aleggiava nell'aria, calda come l'abbondante luce del sole che graziava quella parte distrutta della città. I nuovi edifici cominciavano ad alzarsi, dopo anni di progetti e di scavi, ed era come se quel terribile livido nero iniziasse finalmente a guarire. Solo Fet notò le macchie untuose che scolorivano gli spigoli verticali del cordolo. Gli escrementi intorno alle barriere di parcheggio. I segni di denti sul coperchio della pattumiera all'angolo. Rivelatori della presenza di topi in superficie. Un sandhog, storico termine con cui erano definiti gli operai addetti allo scavo dei tunnel della metropolitana, lo portò giù lungo la via di carico e dentro il bacino. Si fermò ai piedi della struttura che sarebbe diventata la nuova stazione sotterranea WTC PATH, con cinque binari e tre piattaforme nel sottosuolo. Al momento gli argentei treni entravano nella luce del giorno e in piena aria mentre procedevano sul fondo della vasca da bagno verso le piattaforme temporanee. Vasiliy scese dal pick-up, giù tra i plinti di cemento, e guardò in alto per sette piani, fino alla strada. Era nel pozzo dove le Torri erano cadute. Bastava a togliergli il fiato. «È un luogo sacro» disse. Il sandhog aveva un folto paio di baffi brizzolati e portava una larga camicia di flanella sopra un'altra rimboccata - entrambe appesantite da terriccio e sudore - e blue jeans con guanti infangati infilati nella cintura. Il suo casco protettivo era coperto di adesivi. «L'ho sempre pensato» replicò. «Ultimamente però non ne sono più tanto sicuro.» Fet lo guardò. «Per i topi?» «Sì, ci sono anche quelli, certo. Negli ultimi giorni uscivano a fiotti dai tunnel. Ma ora è finita.» Scosse la testa, guardò in alto il confuso
muro eretto sotto Vesey Street, ventun metri di cemento costellato di armature metalliche. «E poi?» lo incalzò Fet. L'altro si strinse nelle spalle. I sandhogs sono orgogliosi. Hanno costruito New York City, le metropolitane e le fognature, ogni tunnel, molo, grattacielo e fondamenta di ponte. Ogni bicchiere d'acqua esce dal rubinetto grazie a un sandhog. Un mestiere di famiglia, diverse generazioni che operano insieme nello stesso sito. Sporco lavoro fatto bene. Perciò il tizio era riluttante a sembrare riluttante. «Tutti se la fanno sotto, più o meno. Abbiamo perduto due colleghi... scomparsi. Hanno timbrato il cartellino all'inizio del turno, sono scesi nei tunnel e non hanno mai timbrato all'uscita. Qui lavoriamo ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana, ma più nessuno vuole il turno di notte. Nessuno vuole andare sottoterra. Ed è gente giovane, che non ha paura di niente.» Fet guardò più avanti l'apertura del tunnel, dove le strutture sotterranee si sarebbero collegate sotto Church Street. «Allora nessuna costruzione nuova negli ultimi giorni? Sterramenti?» «No, da quando abbiamo scavato il bacino.» «Ed è iniziato tutto con i topi?» «Più o meno. Qualcosa è arrivato qui, negli ultimi giorni.» Si strinse nelle spalle, liquidando il problema. Aveva un comune casco bianco per Vasiliy. «Credevo di fare io un lavoro sporco. Cosa spinge una persona a diventare un acchiappatopi?» Vasiliy si mise il casco. Sentì il vento cambiare vicino all'imboccatura del passaggio sotterraneo. «Immagino di esserne affascinato.» Il sandhog guardò gli stivali di Fet, il borsone Puma, il tondino d'acciaio. «L'ha già fatto prima d'ora?» «Vado dove vanno quei parassiti. C'è un mucchio di città sotto la città.» «Mi dica com'è. Ha una torcia elettrica, spero. Qualche briciola di pane?» «Credo di essere a posto.» Strinse la mano al sandhog ed entrò.
Il tunnel era pulito all'inizio, dove era stato puntellato. Fet lo seguì fuori della luce del sole; lampadine gialle erano appese ogni decina di metri a segnare la via. Si trovava dove un tempo c'era stato l'atrio originale. Quella grande galleria avrebbe, alla fine, collegato la nuova stazione PATH al centro di trasporto del WTC, posto fra la torre due e la torre tre, a mezzo isolato di distanza. Altri tunnel di alimentazione mettevano in comunicazione con gli impianti idrici, elettrici e fognari della città. Inoltrandosi in profondità, non poté fare a meno di notare che una polvere molto fine rivestiva ancora le pareti della galleria originale. Quello era quasi un luogo sacro, assai simile a un cimitero. Dove corpi e edifici erano stati polverizzati, ridotti ad atomi. Vide tane, vide orme ed escrementi, ma niente topi. Stuzzicò le tane e tese l'orecchio. Non sentì niente. Dopo una curva, le luci di servizio terminavano; più avanti c'era un buio profondo, vellutato. Vasiliy portava nella sacca un faretto da un milione di candele, una grossa torcia Garrity gialla con impugnatura a megafono, nonché due mini Maglite di scorta. Ma la luce artificiale in un ambiente buio spazzava via anche la normale visione notturna e per cacciare topi lui preferiva stare al buio e in silenzio. Prese un visore notturno monoculare, un congegno portatile munito di cinghia da agganciare al casco, che scendeva sull'occhio sinistro. Chiudendo il destro, il tunnel diventava verde. "Topovisione" la chiamava lui: gli occhi piccoli e luccicanti degli animali brillavano nel visore. Niente. Malgrado le prove contrarie, i topi erano andati via. Scacciati. Vasiliy era sconcertato. Non è affatto facile spingere i roditori a cambiare zona. Rimossa la fonte di cibo, passano settimane prima che si verifichino cambiamenti. Non giorni. Nel tunnel confluivano passaggi più vecchi e Fet attraversò binari ferroviari coperti di sporcizia e non usati da molti anni. La qualità del terriccio era cambiata e dalla consistenza lui capì di essere passato dalla Manhattan "nuova" - l'interramento per ricavare Battery Park dalla fanghiglia - alla Manhattan "vecchia", l'originaria base rocciosa asciutta dell'isola.
Si fermò a un incrocio per assicurarsi di procedere nella giusta direzione. Mentre guardava l'incrocio, con la "topovisione" scorse un paio d'occhi. Lo fissarono con un luccichio, simili a occhi di topo, ma più grandi e a una certa altezza dal suolo. Poi sparirono in un lampo, divennero invisibili. «Ehi!» gridò Vasiliy, provocando un'eco. «Ehi, laggiù!» Dopo un momento una voce rispose, rimbalzando sulle pareti: «Chi va là?». Vasiliy intuì nel tono una nota di paura. Vide il raggio di una torcia, molto in fondo al tunnel, ben lontano da dove aveva scorto gli occhi. Spostò in alto il visore, appena in tempo per non restare abbagliato. Per farsi riconoscere tirò fuori una piccola Maglite e rispose al segnale, poi andò avanti. Nel punto dove stimava di avere visto gli occhi, il vecchio corridoio d'accesso correva lungo un altro tunnel ferroviario che pareva in uso. Il visore monoculare non mostrò niente, niente occhi lucenti, così lui continuò oltre la curva fino all'incrocio seguente. Lì trovò tre sandhogs, con occhiali protettivi e caschi coperti di adesivi, camicia di flanella, jeans e stivali. Una pompa di drenaggio incanalava un'infiltrazione. Le lampadine alogene delle potenti luci da lavoro su treppiedi illuminavano il nuovo tunnel come in un film di extraterrestri. I tre si tennero vicino, tesi, finché non videro bene Vasiliy. «Non c'era uno di voi laggiù?» chiese Vasiliy. I tre si guardarono. «Cos'ha visto?» «Ho creduto di vedere una persona» precisò lui. «Che tagliava per il binario.» I tre operai si guardarono di nuovo, poi due si misero a imballare gli attrezzi. Il terzo domandò: «È lei quello che cerca topi?». «Sì.»
Il sandhog scosse la testa. «Non ci sono più topi, qui.» «Non per contraddirla, ma è quasi impossibile. Com'è successo?» «Forse hanno più buonsenso di noi.»
Vasiliy guardò nel tunnel illuminato, in direzione della manichetta della pompa. «La sotterranea emerge laggiù?» «Quella è l'uscita.» Fet indicò nella direzione opposta. «Che cosa c'è da quella parte?» «Meglio non andarci» rispose l'operaio. «Perché no?» «Senta, lasci perdere i topi. Venga fuori con noi. Qui abbiamo finito.» L'acqua gocciolava ancora nella pozzanghera simile a un truogolo. «Me la cavo da solo» ribatté Vasiliy. L'altro gli diede un'occhiata smorta. «Faccia come le pare.» Spense una lampada a treppiede, si mise in spalla un pacco e andò dietro gli altri. Fet li guardò andare via: gioco di luci giù nel tunnel che divenne più buio lungo una curva graduale. Udì il cigolio di ruote di carrello, abbastanza vicino da interessarlo. Proseguì, attraversò verso il binario più nuovo e aspettò che gli occhi si abituassero di nuovo al buio. Accese il visore monoculare e tutto divenne verde. L'eco dei passi cambiò con l'allargarsi del tunnel a uno scambio pieno d'immondizia vicino a una convergenza di binari. Travi d'acciaio costellate di rivetti erano disposte a intervalli regolari, come colonne in una sala da ballo. Alla destra di Vasiliy c'era una baracca per la manutenzione abbandonata, rovinata da vandali. Le pareti di mattoni a stento in piedi mostravano alcuni ingenui graffiti intorno alla riproduzione delle Torri Gemelle in fiamme. Una era etichettata "Saddam" e l'altra "Gamera". Su un vetusto sostegno, un vecchissimo cartello ammoniva gli operai:
AVVISO ATTENTI AI TRENI
Qualcuno aveva cancellato le lettere "REN" di TRENI coprendole con del nastro adesivo e aveva aggiunto due lettere a pennarello. Ora diceva:
AVVISO ATTENTI AI TOPI E a dire il vero quel posto dimenticato da Dio avrebbe dovuto essere la centrale dei topi. Vasiliy decise di passare alla luce nera. Dalla sacca estrasse il piccolo cilindro e lo accese. Nel buio l'urina dei roditori diventa fluorescente sotto la luce nera, a causa del suo contenuto batterico. Fece scorrere il raggio luminoso sul terreno accanto ai supporti, un paesaggio quasi lunare d'immondizia secca e di sporcizia. Notò alcune macchie di urina, più smorte, più vecchie, ma niente di fresco. Finché non illuminò un arrugginito bidone di benzina rovesciato sul fianco. Il contenitore e il terreno sotto di esso divennero la più grossa e più luminosa pisciata di topo che lui avesse mai visto. Uno schizzo enorme. In base a quel che trovava di solito, quella traccia avrebbe indicato un topo di un metro e ottanta. Era la recente deiezione di un animale più grande, forse un uomo. Lo sgocciolio dell'acqua sul vecchio binario echeggiava nei tunnel ventilati. Vasiliy sentì un fruscio, un movimento lontano; forse si stava innervosendo. Mise via la luce nera ed esaminò col visore la zona tutt'intorno. Dietro un supporto d'acciaio scorse di nuovo un paio di occhi scintillanti che lo fissavano... poi si rivolsero da un'altra parte e svanirono. Non avrebbe potuto dire a quale distanza. Guardando con un occhio solo e considerando lo schema geometrico delle travi tutte uguali, la profondità era una semplice congettura. Stavolta non lanciò nessun richiamo. Non aprì bocca, ma strinse un po' più forte il tondino. I senzatetto, quando li si incontrava, di rado erano combattivi, tuttavia stavolta pareva diverso. Era il sesto senso del disinfestatore a suggerirglielo, nello stesso modo in cui avrebbe potuto percepire a fiuto un'infestazione di topi. Vasiliy a un tratto si sentì schiacciato dalla forza del numero.
Tirò fuori il faretto con l'impugnatura a megafono ed esaminò l'ambiente. Prima di ritirarsi, frugò nella sacca, ruppe il beccuccio di cartone di una scatola di polvere tracciante e seminò tutt'intorno una buona quantità di topicida. La polvere tracciante funziona più lentamente delle esche commestibili, ma dà anche maggiore certezza e l'ulteriore vantaggio di mostrare le tracce degli intrusi, rendendo più facile la successiva posa di esche intorno al nido. Vuotò in fretta tre cartoni, poi impugnando il faretto percorse a ritroso i tunnel. Giunse alla terza rotaia attiva e poi alla pompa di drenaggio; allora seguì la lunga manichetta. A un certo punto sentì cambiare la corrente d'aria del tunnel e si girò: vide un chiarore nella curva alle sue spalle. Tornò subito indietro, in una nicchia della parete, e si resse forte assordato dal rombo. Il treno passò con uno stridio e Vasiliy vide per un attimo pendolari ai finestrini, prima di schermarsi gli occhi per difenderli dal fumoso turbine di sabbia e di polvere. Passato il treno, seguì il binario finché giunse a una piattaforma illuminata. Emerse con sacca e tondino dal binario e si tirò sulla piattaforma in gran parte vuota, accanto a un cartello che diceva: SE VEDI QUALCOSA, RIFERISCILO. Silenzio assoluto. Salì le scale dell'ammezzato, attraversò i tornelli e si trovò in strada, sotto un sole caldo. Si spostò a una vicina staccionata da cui sovrastava il cantiere del World Trade Center. Si accese un sigaro spuntato, con la fiamma blu dello Zippo a butano, e aspirò il veleno, scacciando la paura che aveva sentito sottoterra. Attraversò e tornò al cantiere; notò due volantini fatti a mano, affissi con graffette alla staccionata. Erano scansioni a colori delle foto di due sandhogs, con il casco e il viso sporco di terriccio. La scritta blu su entrambe le fotografie era: CHI L'HA VISTO?
INTERLUDIO FINALE LE ROVINE Nei giorni seguenti la caduta di Treblinka, i fuggiaschi erano stati per la maggior parte rintracciati e passati per le armi. Tuttavia Setrakian era riuscito a sopravvivere nei boschi, restando a portata del puzzo del campo di morte. Ingurgitava radici e piccole prede che riusciva ad acchiappare con le mani rovinate, mentre da altri cadaveri ricavava di che vestirsi alla meno peggio e scarpe rotte e spaiate. Aveva evitato i cani ringhiosi e le pattuglie di ricerca, di giorno... mentre di notte era lui a cercare. Da voci che circolavano nel campo fra polacchi nativi del posto aveva sentito dell'esistenza di rovine romane. Dopo avere girovagato per quasi una settimana, alla fine, un tardo pomeriggio, nella luce morente del crepuscolo, si era trovato davanti agli scalini coperti di muschio in cima all'antico mucchio di macerie. Ciò che restava era per la maggior parte sottoterra e da fuori si vedevano solo alcune pietre coperte d'erbacce. In cima alla montagnola si ergeva una grande colonna. Setrakian era riuscito a distinguere alcune lettere, ma l'iscrizione era talmente sbiadita da rendere impossibile ricavarne un significato. Era anche impossibile stare davanti all'ingresso buio di quelle catacombe senza rabbrividire. Abraham ne aveva la certezza: là sotto c'era la tana di Sardu. Era stato sopraffatto dalla paura e aveva sentito il foro ardente
ingigantirsi nel petto. Ma la decisione cresceva nel suo cuore, perché sapeva di essere chiamato a trovare quella creatura, quella belva affamata, e a ucciderla. A farla smettere. La rivolta nel campo aveva sconvolto il suo piano per ucciderla, dopo settimane e mesi passati a procurarsi pezzi di quercia bianca da sagomare, ma non aveva calmato il suo bisogno di vendetta. Con tutto ciò che c'era di sbagliato al mondo, quella era la cosa che poteva fare nel modo giusto. Che avrebbe potuto dare un significato alla sua esistenza. Ed era sul punto di farla. Usando un pezzo di pietra aveva preparato un rozzo paletto con il ramo più duro che aveva trovato: non si trattava di quercia bianca, ma avrebbe dovuto accontentarsi. Lo aveva lavorato con le dita maciullate, rovinando ancora di più le mani doloranti. I suoi passi echeggiavano nella stanza di pietra che formava la catacomba. Il soffitto era assai basso, un dettaglio sorprendente vista l'innaturale altezza della Creatura, e radici avevano rivoltato le pietre che tenevano insieme precariamente la costruzione. La prima camera portava a una seconda e, sorpresa, a una terza. Ciascuna più piccola dell'altra. Setrakian non aveva niente con cui illuminare la via, ma la struttura sbriciolata consentiva a deboli colonne di luce del tardo giorno di filtrare nel buio. Si era mosso cautamente fra le stanze, con il cuore che batteva all'impazzata, deciso a uccidere. Il rozzo paletto di legno pareva del tutto inadeguato come arma contro la famelica Creatura. Soprattutto con le mani rovinate. Cosa stava facendo? Come avrebbe ucciso quel mostro? Quando era entrato nell'ultima camera, un'acida fitta di terrore gli aveva bruciato la gola. Per il resto della vita avrebbe sofferto di reflusso gastroesofageo. L'ambiente era vuoto, ma lì, al centro, Setrakian il falegname aveva visto chiaramente sul pavimento polveroso, come se vi fosse inciso, il contorno di una bara. Una bara gigante, due metri e mezzo per uno e venti. Una bara che solo le mani di una Creatura dalla volontà mostruosa avrebbe potuto rimuovere da quella tana. Poi, alle sue spalle, Setrakian aveva udito il raspare di piedi sul pavimento di pietra. Si era girato di scatto, protendendo il paletto di
legno, intrappolato nella camera più interna della Creatura. La belva era tornata al nido solo per trovare prede in agguato nel suo dormitorio. Era preceduta da una debolissima ombra e i suoi passi risuonavano leggeri e strascicati. Ma a comparire dall'angolo di pietra per minacciare Setrakian non era stata la Creatura, bensì un uomo di dimensioni normali. Un ufficiale tedesco, con la divisa sbrindellata e lurida. Aveva occhi cremisi e umidi, pieni fino all'orlo di una fame cresciuta a puro dolore maniacale. Setrakian lo aveva riconosciuto: Dieter Zimmer, un giovane ufficiale poco più anziano di lui, un vero sadico, responsabile delle baracche, che si vantava di lucidarsi ogni notte gli stivali per togliere la crosta di sangue ebreo. Adesso lo bramava... il sangue di Setrakian. Il sangue di uno qualsiasi. Per ingozzarsi. Abraham non intendeva lasciarsi prendere là dentro. Ormai era fuori del campo. Non aveva sopportato quell'inferno solo per cadere lì, per soccombere all'empio potere di quel maledetto nazista cambiato. Si era lanciato contro di lui per trafiggerlo con il paletto, ma il cambiato, più rapido di quanto avesse previsto, aveva afferrato l'arma di legno e, strappandogliela dalle inutili mani, gli aveva spezzato radio e ulna dell'avambraccio. Poi aveva buttato da parte il paletto, che era rimbalzato contro la parete di pietra cadendo a terra. Il cambiato si era mosso verso Setrakian, respirando affannosamente per l'eccitazione. Lui era arretrato, rendendosi conto di trovarsi nel centro del segno rettangolare della bara. Poi, con energia inspiegabile, era corso contro il cambiato e lo aveva spinto con forza contro la parete. Terriccio sbriciolato era caduto dalle commessure delle pietre esposte, posandosi come riccioli di fumo. Il cambiato aveva cercato di afferrargli la testa, ma Setrakian si era scagliato di nuovo contro di lui, aveva messo il braccio rotto sotto il collo del demone e spinto in su il viso ghignante, in modo che il cambiato non potesse pungerlo e bere. L'altro aveva fatto leva per spingerlo di lato e Abraham era finito accanto al paletto e lo aveva afferrato. Il cambiato continuava a
ghignare, pronto a strapparglielo di nuovo. Setrakian invece lo aveva conficcato fra le pietre di sostegno del muro, incuneandolo sotto una allentata, e aveva usato le gambe per scalzarla, proprio mentre la bocca del cambiato cominciava ad aprirsi. La parete laterale dell'ingresso era crollata, mentre Setrakian strisciava via. Il rombo era stato forte, ma breve; la camera si era riempita di polvere che aveva soffocato la luce rimanente. Setrakian aveva strisciato alla cieca sulle pietre e si era sentito afferrare da una mano, una stretta robusta. Quando la polvere si era diradata un poco, aveva visto che una grossa pietra schiacciava la testa del cambiato, dalla calotta cranica alla mascella... eppure il corpo funzionava ancora. Il nero cuore o qualsiasi cosa fosse pulsava famelicamente. Setrakian aveva scalciato il braccio finché era riuscito a liberarsi della stretta e nel farlo aveva spostato la pietra. La metà superiore della testa era spaccata, il cranio leggermente crepato, come un uovo alla coque. Allora aveva afferrato una gamba e trascinato il corpo per riportarlo in superficie, fuori delle rovine, nelle ultime tracce di luce del giorno che filtrava fra gli alberi. Il crepuscolo era fioco e arancione... ma bastava. Il cambiato si era contorto di dolore, cotto dal sole, poi era rimasto immobile a terra. Setrakian aveva alzato il viso verso il sole morente e aveva emesso un ululato animalesco. Un atto poco saggio, perché era ancora in fuga dal campo... uno sfogo della sua anima angosciata per il massacro della sua famiglia, i terrori della prigionia, i nuovi orrori scoperti... e infine per il Dio che aveva abbandonato lui e il suo popolo. La prossima volta che avesse incontrato una di quelle creature, avrebbe avuto a disposizione gli utensili adatti. Si sarebbe concesso qualche possibilità in più nello scontro. Aveva capito allora, con la stessa certezza con cui era vivo, che negli anni a venire avrebbe seguito le tracce della bara svanita. Per decenni, se necessario. Era stata quella certezza a dargli una ritrovata guida e a spingerlo alla ricerca che l'avrebbe tenuto impegnato per il resto della vita.
REPLICAZIONE
Jamaica Hospital Medical Center Eph e Nora usarono il tesserino per superare il controllo di sicurezza e fecero passare Setrakian dall'ingresso del pronto soccorso senza attirare indebite attenzioni. Sulle scale che portavano al reparto d'isolamento, Setrakian disse: «È un rischio assurdo». «Quell'uomo, Jim Kent... Noi tre abbiamo lavorato a fianco a fianco per un anno. Non possiamo abbandonarlo» replicò Eph. «È stato cambiato. Cosa potete fare per lui?» Eph rallentò. Setrakian, che ansava e sbuffava dietro di loro, apprezzò la sosta, appoggiandosi al bastone da passeggio. Eph guardò Nora: erano d'accordo. «Posso liberarlo» dichiarò Eph. Lasciarono la scala e diedero un'occhiata verso l'ingresso del reparto d'isolamento in fondo al corridoio. «Niente polizia» disse Nora. Setrakian si stava guardando intorno. Non era così sicuro. «C'è Sylvia» annunciò Eph notando l'amica di Jim su una sedia pieghevole accanto all'ingresso del reparto. Nora annuì tra sé, pronta. «Bene.» Da sola, andò dalla donna che non appena la vide arrivare si alzò dalla sedia. «Nora.» «Come sta Jim?» «Non mi hanno detto niente.» Lanciò un'occhiata al di là di Nora. «Eph non è con te?» Nora scosse la testa. «Se n'è andato.» «Non è vero quel che dicono, eh?» «No, certo. Sembri esausta. Vado a prenderti qualcosa da mangiare.» Mentre Nora chiedeva indicazioni per arrivare alla caffetteria,
distraendo le infermiere, Eph e Setrakian scivolarono di nascosto nel reparto d'isolamento. Eph attraversò il locale degli indumenti sterili come un assassino riluttante e si mosse fra strati di plastica fino al posto di Jim. Il letto era vuoto. Jim era sparito. Controllò in fretta gli altri posti letto. Tutti vuoti. «L'avranno trasferito» disse. «La sua amica non sarebbe lì fuori se sapesse che lui non c'è» obiettò Setrakian. «Allora...?» «Se lo sono preso.» Eph fissò il letto vuoto. «Loro?» «Andiamo» disse Setrakian. «È molto pericoloso. Non abbiamo tempo.» «Un momento.» Andò al comodino, dal cui cassetto penzolava l'auricolare di Jim. Trovò il telefonino e controllò che fosse carico. Estrasse il suo cellulare e si rese conto che quello adesso era un rivelatore di posizione. L'FBI avrebbe potuto stabilire dove si trovava mediante il GPS. Mise nel cassetto il suo telefono e prese quello di Jim. «Dottore» lo incalzò Setrakian, sempre più impaziente. «La prego, mi chiami Eph» replicò lui mettendosi in tasca il cellulare mentre usciva. «Non mi sento tanto dottore, in questi giorni.»
West Side Highway, Manhattan Gus Elizalde era seduto in fondo al furgone trasporto detenuti del NYPD, ammanettato a una sbarra d'acciaio. Davanti a lui, in diagonale, sedeva Felix, a testa bassa, ciondolante, sempre più pallido. Erano di sicuro sulla West Side Highway per muoversi così rapidamente a Manhattan. Con loro c'erano altri due detenuti, uno
di fronte a Gus, uno alla sua sinistra, di fronte a Felix. Entrambi addormentati. Gli idioti riescono a dormire in qualsiasi situazione. Gus sentì odore di fumo di sigaretta provenire dalla cabina del furgone privo di finestrini, con la partizione chiusa. Era quasi il crepuscolo quando li avevano caricati. Gus teneva d'occhio Felix, che penzolava in avanti, trattenuto dalla sbarra a cui era ammanettato. Pensava a quello che aveva detto il vecchio del banco dei pegni. E attendeva. Non dovette aspettare molto. La testa di Felix cominciò a rialzarsi a scatti, poi a girarsi di lato. All'improvviso il ragazzo si raddrizzò a sedere e scrutò tutt'intorno. Fissò Gus, ma niente in quello sguardo mostrava che il suo compadre da una vita lo riconoscesse. Una tenebra negli occhi. Un vuoto. Lo strombazzare di un clacson svegliò il tizio accanto a Gus. «Merda» disse facendo sferragliare le manette. «Dove cazzo andiamo?» Lui non rispose. Il tipo guardava di fronte a Felix, che guardava lui. Diede un calcio al piede di Felix. «Ragazzo, ho detto dove cazzo andiamo?» Felix lo fissò per un istante, uno sguardo fisso, vacuo, quasi da idiota. Aprì la bocca come per rispondere... e il pungiglione saettò fuori, trapassando la gola dell'inerme detenuto. Attraversò l'intera larghezza del furgone, e il tipo non poté farci niente, a parte battere i piedi e scalciare. Gus lo imitò, visto che era intrappolato in fondo con l'ex Felix, urlando e sbatacchiando le manette e svegliando il detenuto di fronte a lui. Gridarono tutti e batterono i piedi, mentre il tipo accanto a Gus si accasciava e il pungiglione di Felix passava da traslucido a rosso sangue. Si aprì la partizione fra il vano detenuti e la cabina. Una testa con berretto da sbirro si girò dal sedile del passeggero. «Piantatela di fare casino là dietro, cazzo, o vi...» Lo sbirro vide Felix bersi l'altro detenuto. Vide l'appendice ingurgitante protendersi nel furgone, il primo sporco nutrimento; vide Felix ritrarsi e il pungiglione tornargli in bocca. Vide il sangue fuoriuscire dal collo del detenuto e gocciolare addosso a Felix.
Il poliziotto nel sedile del passeggero mandò un grido e si girò dall'altra parte. «Cosa c'è?» strillò il poliziotto al volante, cercando di dare un'occhiata al retro del furgone. Il pungiglione di Felix saettò attraverso la partizione e s'infilò nella gola del conducente. Urla risuonarono dalla cabina, mentre il furgone sobbalzava, fuori controllo. Gus afferrò con le dita la sbarra delle manette appena in tempo per non spezzarsi i polsi. Il mezzo sbandò forte a destra e a sinistra e finì per rovesciarsi sul fianco. Raschiò l'asfalto, colpì un guardrail, rimbalzò, girò su se stesso e si fermò. Gus giaceva sul fianco, il detenuto di fronte a lui penzolava con le braccia rotte e gemeva di dolore e di paura. Il paletto della sbarra di Felix si era rotto e il pungiglione pendeva giù e si torceva come un cavo elettrico vivente che gocciolasse sangue umano. Gli occhi morti di Felix si alzarono e guardarono Gus. Gus scoprì che il suo paletto si era rotto: si affrettò a farvi scorrere le manette e scalciò la portiera accartocciata finché si aprì. Ruzzolò fuori rapidamente, sul lato della strada, con le orecchie che gli rombavano come per l'esplosione di una bomba. Aveva ancora le mani ammanettate dietro la schiena. Passarono fari, auto che rallentavano per guardare i rottami. Gus rotolò lontano in fretta, riuscì a portare i polsi sotto i piedi e ad avere le mani davanti a sé. Osservò il portellone spalancato del furgone, aspettandosi che Felix si arrampicasse fuori per inseguirlo. Poi sentì un urlo. Si guardò intorno alla ricerca di un'arma e dovette accontentarsi di un coprimozzo ammaccato. Si accostò lentamente al portellone aperto del furgone rovesciato. Il suo compadre era lì, si beveva il detenuto dagli occhi sgranati ancora appeso alla sbarra per le manette. Gus imprecò, nauseato dalla scena. Felix si staccò dall'uomo e senza la minima esitazione proiettò il pungiglione verso il collo del socio. Il quale riuscì appena in tempo ad alzare il coprimozzo e a deviare il colpo, prima di balzare via, fuori vista dal retro del furgone.
Felix non lo seguì. Gus si fermò un momento per riprendersi, chiedendosi perché. Poi notò il sole. Galleggiava fra due edifici dall'altra parte dell'Hudson, rosso sangue, e sprofondava rapidamente. Felix si teneva nascosto nel furgone, aspettando il tramonto. Nel giro di tre minuti sarebbe stato libero. Gus si guardò intorno come un pazzo. Vide sulla strada pezzi di vetro del parabrezza, ma non sarebbero serviti. Si arrampicò sullo chàssis del furgone, sulla fiancata che adesso era la parte superiore. Andò di corsa alla portiera del posto di guida e prese a calci il braccio dello specchietto laterale. Lo spezzò e stava per staccarlo quando il poliziotto ancora dentro gli lanciò un grido. «Fermo!» Gus lo guardò: il poliziotto al volante sanguinava dal collo, si reggeva alla maniglia del tettuccio e aveva estratto la pistola. Con un forte strattone Gus staccò lo specchietto a saltò giù sulla strada. Il sole si stava dileguando come un tuorlo d'uovo forato. Gus calcolò l'angolo e tenne lo specchietto sopra la testa per cogliere gli ultimi raggi. Vide il riflesso tremolare sul terreno. Pareva vago, troppo debole per essere utile. Allora con le nocche ruppe il vetro planare, mantenendo i pezzi aderenti all'appoggio dello specchio. Provò di nuovo e i raggi riflessi parvero ora un po' più netti. «Fermo, ho detto!» Il poliziotto scese dal furgone, sempre impugnando la pistola. Con la mano libera si teneva il collo, dove Felix l'aveva colpito, e per l'impatto perdeva sangue dalle orecchie. Si girò e guardò nel furgone. Felix era acquattato dentro, le manette penzolanti da un solo polso. L'altra mano era sparita, recisa per la forza dell'urto, ma lui non pareva infastidito per quello. E neppure per il sangue bianco che sgorgava dal moncherino. Sorrise mentre il poliziotto apriva il fuoco su di lui. Proiettili gli trapassarono il torace e le gambe, strapparono carne e schegge d'osso. Sette, otto colpi e cadde all'indietro. Altri due colpi. Il poliziotto abbassò la pistola e Felix si drizzò a sedere, sempre
sorridendo. Sempre assetato. Eternamente assetato. Gus allora spinse da parte il poliziotto e tenne in alto lo specchio. Le ultime tracce arancione del sole morente spuntavano appena dall'edificio al di là del fiume. Gus chiamò Felix un'ultima volta, come se pronunciarne il nome potesse strapparlo via, riportarlo miracolosamente indietro... Ma Felix non era più Felix. Era un fetente vampiro. Gus lo tenne presente e angolo lo specchio in modo che gli ardenti raggi arancioni di sole riflesso penetrassero nel furgone capovolto. I morti occhi di Felix inorridirono quando i raggi lo colpirono. Lo impalarono con la forza di laser, bruciarono fori e incendiarono la carne. Un ululato animalesco si alzò dal suo intimo, come il grido di un uomo sbriciolato a livello atomico, mentre il corpo veniva devastato. Il suono s'incise nella mente di Gus, ma lui continuò a spostare i riflessi finché tutto ciò che restava di Felix si ridusse a una massa carbonizzata di cenere fumante. I raggi di luce svanirono e Gus abbassò il braccio. Guardò dall'altra parte del fiume. Notte. Ebbe voglia di piangere, con il cuore gonfio d'angoscia e di sofferenza d'ogni sorta mescolate insieme, con il dolore che si stava mutando in rabbia. Vide che il carburante aveva formato una pozza sotto il furgone, quasi ai suoi piedi. Si avvicinò al poliziotto che dal ciglio della strada fissava ancora la scena. Gli frugò nelle tasche e trovò uno Zippo. Tolse il coperchio, sfregò la rotellina e la fiamma saltò su, ubbidiente.
«Lo siento, hermano.» Accostò la fiamma dell'accendino al carburante. Il furgone esplose con un rombo, sbattendo all'indietro Gus e il poliziotto.
«Chingado... ti ha punto» disse Gus, che ancora si toccava il collo.
«Ora diventerai uno di loro.»
Prese all'uomo la pistola e gliela puntò contro. Le sirene stavano arrivando. Da terra il poliziotto lo guardò e l'attimo dopo la sua testa era svanita. Gus tenne la pistola fumante contro il corpo finché fu a lato dell'autostrada. Allora la gettò e pensò alla chiave delle manette, ma troppo tardi. Luci girevoli si avvicinavano. Si girò e corse lontano nella nuova notte.
Kelton Street, Woodside, Queens Kelly aveva ancora addosso l'abito da insegnante, una maglietta scura sotto un morbido top senza bottoni e una lunga gonna a tubo. Zack era in camera sua, in teoria a fare i compiti, e Matt era a casa, avendo lavorato solo mezza giornata perché quella sera c'era l'inventario del negozio. Kelly era rimasta inorridita alla notizia su Eph in televisione. E ora non riusciva a raggiungerlo sul cellulare. «Alla fine è successo» disse Matt, con le code della camicia di denim Sears ancora fuori dei calzoni. «È impazzito.» «Matt» ribatté Kelly, in un mezzo rimprovero. Ma... era impazzito davvero? E questo cosa significava per lei? «Manie di grandezza, l'eminente cacciatore di virus» continuò Matt. «È come quei pompieri che appiccano incendi per diventare eroi.» Si lasciò sprofondare nella poltroncina. «Non mi sorprenderebbe che lo stesse facendo per te.» «Per me?» «Per attirare l'attenzione o cose del genere. "Guardami, sono importante."» Kelly scosse la testa, come se lui le stesse facendo perdere tempo. A volte si stupiva di quanto Matt si sbagliasse sulle persone. Suonarono alla porta e lei smise di andare avanti e indietro. Matt saltò su dalla poltroncina, ma Kelly arrivò per prima alla porta.
Era Eph, con Nora Martinez alle calcagna e un vecchio con un lungo cappotto di tweed dietro di lei. «Cosa ci fai qui?» chiese Kelly scrutando da una parte e dall'altra della via. Eph la spinse dentro. «Sono venuto per vedere Zack. Per spiegare.» «Lui non sa niente.» Eph si guardò in giro, ignorando del tutto Matt. «È di sopra a fare i compiti sul portatile?» «Sì» rispose Kelly. «Se ha l'accesso a Internet, allora lo sa.» Andò alla scala, salendo i gradini due per volta. Lasciò Nora alla porta, con Kelly. Nora sospirò, imbarazzata. «Scusa. Piombare qui in questo modo.» Kelly scosse leggermente la testa, dandole solo un'occhiata per valutarla. Sapeva che c'era qualcosa fra lei ed Eph. Quella casa era l'ultimo posto dove Nora avrebbe voluto essere. Poi si rivolse al vecchio col bastone da passeggio. «Che cosa succede?» «La ex signora Goodweather, immagino» disse lui. Le porse la mano, con le maniere cerimoniose di una generazione perduta. «Abraham Setrakian. Lieto di fare la sua conoscenza.» «Anch'io» replicò Kelly, colta alla sprovvista, con un'occhiata incerta a Matt. «Aveva bisogno di vedervi» disse Nora. «Per spiegare.» «Questa piccola visita non ci rende complici in qualche attività criminosa?» s'informò Matt. Kelly doveva rimediare alla scortesia del compagno. «Posso offrirle da bere?» chiese a Setrakian. «Un po' d'acqua?» «Gesù...» disse Matt. «Potremmo beccarci vent'anni a testa per un bicchiere d'acqua...»
Eph si sedette sul bordo del letto. Zack era alla scrivania, con il computer portatile aperto. «Sono incappato in una faccenda che non capisco, ma volevo che lo sentissi da me. Non c'è niente di vero. A parte la gente che mi dà la caccia.» «Non verranno qui a cercarti?» «Può darsi.» Zack guardò giù, turbato, riflettendo. «Devi liberarti del cellulare.» Eph sorrise. «Già fatto.» Strinse la spalla al figlio cospiratore. Vide, accanto al computer, il video recorder che gli aveva comprato per Natale. «Lavori ancora a quel film con i tuoi amici?» «Siamo più o meno in fase di montaggio.» Eph prese il video recorder, con la telecamera piccola e leggera, facile da tenere in tasca. «Posso prenderlo in prestito per un po'?» Zack annuì lentamente. «È l'eclissi, papà? A cambiare la gente in zombi?» Eph reagì con sorpresa: si rese conto che la verità non era poi molto più plausibile di quell'ipotesi. Cercò di vedere la situazione dal punto di vista di un undicenne molto percettivo e di tanto in tanto impressionabile. E sentì emergere in sé qualcosa da una riserva emotiva celata nell'intimo. Si alzò e strinse Zack. Un bizzarro momento, fragile e bello, fra padre e figlio. Lo percepì con assoluta chiarezza. Arruffò i capelli del ragazzo. Non c'era altro da dire. Kelly e Matt stavano parlando sottovoce in cucina. Avevano lasciato Nora e Setrakian da soli nel portico a vetri sul retro della casa. Il vecchio, in piedi, le mani in tasca, guardava il cielo ardente della notte ancora agli inizi, la terza dall'atterraggio dell'aereo maledetto, e dava la schiena a Nora. Lei intuì la sua impazienza. «Eph, be'... ha avuto un mucchio di controversie con la famiglia. Fin dal divorzio.» Setrakian spostò le dita nel taschino del panciotto e controllò la scatoletta di pillole. Il taschino era accanto al cuore, per i benefici che anche solo la semplice vicinanza della nitroglicerina poteva avere sulla vecchia pompa. Batteva con continuità, se non con forza.
Quanti battiti aveva in serbo? Sufficienti, si augurò, a terminare il lavoro. «Non ho figli» disse. «Mia moglie, Anna, è mancata ormai da diciassette anni e io non ho avuto la stessa benedizione. Si presume che il desiderio di figli svanisca nel tempo, ma in realtà diventa più intenso con l'età. Ho avuto tanto da insegnare, ma nessun allievo.» Nora guardò il bastone da passeggio, appoggiato alla parete accanto alla sedia. «Come... come se l'è procurato?» «Quando ho scoperto la loro esistenza, intende dire?» «E per tutti questi anni si è dedicato a loro.» Lui rimase in silenzio per un poco, richiamando i ricordi. «Ero un giovanotto a quel tempo. Durante la Seconda guerra mondiale, mi trovai seppellito nella Polonia occupata, per quanto non ne avessi nessuna voglia. Un piccolo campo a nordest di Varsavia, chiamato Treblinka.» Nora era immobile quanto lui. «Un campo di concentramento.» «Di sterminio. Quelle sono creature brutali, mia cara. Più brutali di ogni animale da preda che si abbia la sfortuna d'incontrare in questo mondo. Spregevoli opportunisti che predano su giovani e infermi. Nel campo, io stesso e i miei compagni di prigionia eravamo un misero banchetto posto senza saperlo davanti a lui.» «Lui?» «Il Padrone.» Nora fu raggelata dal modo in cui pronunciò quella parola. «Era un tedesco? Un nazista?» «No, no. Lui non ha legami. Non è fedele a nessuno e a niente, non appartiene a un paese o a un altro. Vaga dove gli piace. Si nutre dove c'è cibo. Il campo per lui era come una vendita di liquidazione. Facile preda.» «Ma lei... lei è sopravvissuto. Non avrebbe potuto raccontare a qualcuno...» «Chi avrebbe creduto ai vaneggiamenti di un uomo pelle e ossa? Ho impiegato settimane ad accettare ciò che voi elaborate adesso ed
ero un testimone di quell'atrocità. È più di quanto la mente sia disposta ad accettare. Ho scelto di non farmi giudicare pazzo. Interrotta la fonte di cibo, il Padrone si è limitato ad andare avanti. Ma in quel campo avevo fatto a me stesso un voto solenne che non ho mai dimenticato. Per molti anni ho seguito le tracce del Padrone. Nell'Europa centrale e nei Balcani, in Russia, nell'Asia centrale. Per tre decenni. A volte alle sue calcagna, mai però abbastanza vicino. Sono diventato professore all'università di Vienna, ho studiato le tradizioni. Ho iniziato ad ammassare libri, armi e utensili. E intanto mi preparavo a incontrarlo di nuovo. Un'occasione che ho aspettato per più di sessantanni.» «Ma... lui chi è?» «Ha avuto molte forme. Al momento ha assunto il corpo di un nobiluomo albanese, Jusef Sardu, che scomparve durante una battuta di caccia nelle campagne settentrionali della Romania, nella primavera del 1873.» «1873?» «Sardu era un gigante. Al tempo della battuta di caccia, era già alto quasi due metri e quindici. Così alto che i suoi muscoli non potevano reggere le ossa lunghe e pesanti. Si diceva che le tasche dei suoi calzoni fossero grosse come sacchi di rape. Per reggersi doveva appoggiarsi pesantemente a un bastone da passeggio, il pomolo del quale raffigurava lo stemma araldico della sua famiglia.» Nora guardò di nuovo il bastone di Setrakian, troppo lungo per lui, con il pomolo d'argento. Sgranò gli occhi. «Una testa di lupo.» «I resti dei compagni di Sardu furono trovati molti anni dopo, insieme con il diario del giovane Jusef, in cui si spiegava che lui e i suoi compagni cacciatori erano seguiti di nascosto da un predatore sconosciuto che li rapiva e li uccideva a uno a uno. L'ultima voce del diario indicava che Jusef aveva scoperto i cadaveri nell'ingresso di una grotta sotterranea. Li aveva seppelliti ed era tornato alla grotta per affrontare la belva e vendicare la sua famiglia.» Nora non riusciva a distogliere lo sguardo dal pomolo a testa di lupo. «Come l'ha avuto?» «Ho rintracciato il bastone da passeggio presso un mercante
privato ad Anversa nell'estate del 1967. Sardu alla fine tornò nella tenuta di famiglia in Albania, diverse settimane più tardi, da solo e molto cambiato. Aveva il bastone, ma non vi si appoggiava più e con il tempo smise del tutto di portarlo. A sentire le voci, non solo in apparenza era stato curato dal tormento del gigantismo, ma aveva sviluppato grande forza. Gli abitanti del villaggio in breve cominciarono a sparire. Si disse che il paese era maledetto e alla fine fu abbandonato. La casa di Sardu cadde in rovina e il giovane padrone non fu più rivisto.» Nora soppesò il bastone da passeggio. «A quindici anni era così alto?» «E cresceva ancora.» «La bara... era almeno due metri e mezzo per uno e venti.» Setrakian annuì con aria solenne. «Lo so.» Nora annuì, poi esitò. «Un momento... come fa a saperlo?» «L'ho vista una volta... almeno, ho visto il segno lasciato sul pavimento dalla bara. Molto tempo fa.» Kelly ed Eph stavano di fronte nella modesta cucina. Adesso lei aveva capelli più chiari e più corti, più da donna d'affari. Forse più da mamma. Strinse il bordo del bancone e lui notò sulle nocche piccoli tagli, i rischi del mestiere. Aveva preso per lui dal frigo un cartone di latte ancora chiuso. «Continui a comprare il latte intero?» chiese Eph. «A Zack piace. Vuole essere come suo padre.» Lui bevve qualche sorso e si sentì rinfrescato, ma non provò la solita sensazione calmante. Vide Matt dall'altra parte del passavivande, seduto a fare finta di non guardare. «Ti assomiglia moltissimo» disse Kelly. Si riferiva a Zack. «Lo so.» «A mano a mano che cresce. È ossessivo. Testardo. Esigente. Brillante.» «Difficile da accettare, in un undicenne.» Lei sorrise. «Maledetta per tutta la vita, immagino.»
Anche Eph sorrise. Gli parve strano: un esercizio che la sua faccia non faceva da giorni. «Senti, non ho molto tempo. Solo... voglio che tutto vada bene. O almeno che sia a posto fra noi. La storia della custodia, quel casino... so che ci è pesato parecchio. Sono contento che sia finita. Non sono venuto qui a fare un discorso... però mi pare il momento buono per mettere le cose in chiaro.» Kelly rimase sbalordita, non trovò parole. «Non devi dire niente» soggiunse Eph. «No, voglio farlo. Sono dispiaciuta. Non saprai mai quanto. Che sia dovuta andare così. Davvero. So che non l'avresti mai voluto. So che desideravi che restassimo insieme. Solo per amore di Zack.» «Certo.» «Vedi, non potevo farlo... non potevo proprio! Tu mi succhiavi la vita. E volevo ferirti. L'ho fatto. Lo riconosco. E quello era l'unico modo che conoscessi.» Eph espirò a fondo. Finalmente Kelly ammetteva una cosa che lui aveva sempre saputo. Ma non ne ricavò un senso di vittoria. «Ho bisogno di Zack, lo sai. Zack è... è il punto. Penso che senza di lui non ci sarei più io. Morboso o no, è proprio così. È tutto per me... come lo eri tu una volta.» Kelly si fermò per lasciare che le parole attecchissero, in tutti e due. «Senza di lui, sarei perduta, sarei...» Interruppe quello sfogo incoerente. «Saresti come me» replicò Eph. Lei restò di sasso. Rimasero a guardarsi. «Senti» disse Eph «mi prenderò parte del biasimo. Per noi, per te e me. So di non essere il... chiamalo come vuoi, il tipo più accomodante del mondo, il marito ideale. Ho le mie colpe. E Matt... so di avere detto certe cose in passato...» «Una volta l'hai chiamato la mia "vita di consolazione".» Eph trasalì. «Sai una cosa? Forse se avessi diretto un grande magazzino, se avessi avuto un lavoro che era solo un lavoro e non un altro matrimonio tutto diverso... forse non ti saresti sentita così trascurata. Così tradita. Così... seconda scelta.»
Stettero in silenzio per un poco; Eph si rese conto di come i problemi più grandi tendessero a eclissare i più piccoli. Come i veri conflitti spingessero a mettere da parte con alacrità le faccende personali. «So cosa stai per dire» ribatté Kelly. «Che avremmo dovuto fare questa discussione anni fa.» «Avremmo dovuto farla» convenne Eph. «Ma non avremmo potuto. Non avrebbe funzionato. Dovevamo prima attraversare tutta questa merda. Credimi, avrei pagato qualsiasi cifra per non... per non doverne passare nemmeno un secondo... ma siamo qui. Come vecchi conoscenti.» «La vita non va come pensi.» Lui annuì. «Dopo quello che hanno passato i miei genitori, quello che mi hanno fatto sopportare, mi sono sempre detto: "Mai, mai, mai, mai".» «Lo so.» Eph piegò il beccuccio del cartone di latte. «Perciò dimentica chi ha fatto cosa. Ora dobbiamo solo dargli il modo di rifarsi.» Kelly annuì. «D'accordo.» Eph agitò il latte nel cartone, sentendo il fresco sfiorargli la palma. «Cristo, che giornata!» esclamò. Pensò di nuovo alla ragazzina a Freeburg, quella che stringeva la mano della mamma sul volo 753. Quella che aveva l'età di Zack. «Sai cosa mi dicevi sempre? Se succede qualcosa, una minaccia biologica, e non me lo fai sapere subito, divorzio da te. Be', per il divorzio è troppo tardi.» Kelly venne avanti, leggendogli la faccia. «So che sei nei guai.» «Non riguarda me. Voglio solo che mi ascolti, va bene?, e non ti arrabbi. Un virus si sta diffondendo per la città. È una cosa... straordinaria... la peggiore che abbia mai visto.» «La peggiore?» Sbiancò. «Si tratta della SARS?» Eph quasi sorrise per l'assurdità di tutta la storia. Per la follia. «Voglio che tu prenda Zack e lasci la città. Anche Matt. Al più presto... stasera, adesso... e il più lontano possibile. Lontano da zone popolate, intendo. I tuoi genitori... so che non ti piace accettare
favori da loro, ma hanno ancora quella casa nel Vermont, giusto? In cima a una collina?» «Cosa stai dicendo?» «Andate lassù. Per qualche giorno almeno. Guardate i notiziari, aspettate una mia telefonata...» «Un momento» lo interruppe Kelly. «Sono io la paranoica che scappa sulle montagne, non tu. Ma... i miei alunni? La scuola di Zack?» Lo guardò di traverso. «Perché non vuoi dirmi di che si tratta?» «Perché non te ne andresti. Abbi fiducia in me e scappa. E spera che possiamo cambiare la situazione in qualche modo e che tutto si risolva rapidamente.» «Spera?» replicò lei. «Ora mi spaventi davvero. E se non puoi cambiare la situazione? E... e se ti succede qualcosa?» Eph non poteva stare lì con lei a rispondere ai propri dubbi. «Kelly... devo andare.» Cercò di uscire, ma l'ex moglie lo afferrò per il braccio, gli controllò gli occhi per vedere se fosse a posto, poi lo abbracciò. Ciò che era iniziato come un semplice abbraccio divenne qualcosa di più e alla fine Kelly lo teneva stretto con forza. «Mi dispiace» gli mormorò all'orecchio, poi lo baciò sul lato ispido del collo non rasato.
Vestry Street, Tribeca Eldritch Palmer aspettava in una sedia non imbottita nel patio sul tetto, bagnato nella notte. L'unica luce diretta era quella di una lampada a gas da giardino che ardeva in un angolo. La terrazza era in cima al più basso dei due edifici adiacenti. Il pavimento era di piastrelle quadrate di terracotta, invecchiate e scolorite dalle intemperie. Un basso gradino era anteposto a un alto muro di mattoni sul lato nord, con due passaggi ad arco tipo porta ornati di ferro battuto. Tegole scanalate di terracotta sormontavano il muro e
le sporgenze ai lati. Sulla sinistra, sotto ampie arcate decorative, porte più grandi del normale conducevano alla residenza. Alle spalle di Palmer, centrata davanti al bianco muro di cemento posto a sud, c'era una statua acefala di donna in una veste avvolta a spirale, le braccia rese scure dalle intemperie. Edera risaliva strisciando dalla base di pietra. Anche se a nord e a est erano visibili alcuni edifici più alti, il patio era ragionevolmente privato, un tetto nascosto come ci si potrebbe augurare di trovare a Lower Manhattan. Palmer ascoltava i rumori della città che salivano dalle vie. Rumori che presto sarebbero cessati. Se solo l'avessero saputo, là sotto, avrebbero vissuto in pieno quella notte. Ogni mondanità diventa infinitamente più preziosa di fronte alla morte imminente. Palmer ne aveva intima conoscenza. Bambino malaticcio, in tutta la sua vita aveva combattuto per la salute. Certe mattine si era svegliato con lo stupore di vedere un altro giorno. La maggior parte delle persone non sa cosa significhi marcare l'esistenza un mattino alla volta. Cosa significhi dipendere dalle macchine per la sopravvivenza. La buona salute è un diritto di nascita per molta gente e la vita è una serie di giorni da percorrere a passo veloce. Tanti non hanno mai avvertito la vicinanza della morte. L'intimità delle tenebre finali. Presto Eldritch Palmer avrebbe conosciuto la loro beatitudine. Un infinito menu di giorni si estendeva davanti a lui. Presto avrebbe saputo cosa significasse non preoccuparsi dell'indomani o del domani dell'indomani... Una brezza agitò gli alberi del patio, soffiò tra le piante. Lui, seduto con la faccia verso la residenza più alta, ad angolo, accanto a un piccolo tavolo da fumo, udì un fruscio. Un rumore come l'orlo di un abito che striscia contro il pavimento. Un abito nero.
Pensavo che non volessi contatto fin dopo la prima settimana. La voce, al tempo stesso ben nota e mostruosa, fece correre un brivido lungo la curva schiena di Palmer. Se non si fosse messo di proposito di spalle rispetto alla parte principale del patio, sia per rispetto sia per pura e semplice avversione, avrebbe visto che la bocca del Padrone non si muoveva mai. Nessuna voce ne usciva nella notte. Il Padrone parlava dritto nella mente.
Palmer sentì la presenza in alto sopra la sua spalla e mantenne lo sguardo sulla porta ad arco della residenza. «Benvenuto a New York.» Il saluto gli uscì simile a un ansito, più di quanto avrebbe voluto. Niente può disumanizzare quanto un disumano. Il Padrone non replicò e Palmer cercò di riaffermarsi. «Devo dire che disapprovo quel Bolivar. Non so perché tu l'abbia scelto.»
Chi è non m'importa. Palmer capì all'istante che lui aveva ragione. Cosa importava, pensò, se Bolivar era stato una rock star imbellettata? Doveva smettere di ragionare da essere umano. «Perché ne hai lasciati quattro coscienti? La cosa ha creato un mucchio di problemi.»
Metti in dubbio le mie decisioni? Palmer deglutì. Un "creatore di re" in questa vita, subordinato a nessuno. Il senso d'abietto servilismo gli fu tanto estraneo quanto opprimente. «C'è uno che ti sta addosso» ribatté in fretta. «Uno scienziato, uno studioso di malattie infettive. Qui a New York.»
Cosa importa a me di un solo uomo? «Quest'uomo, il dottor Ephraim Goodweather, è un esperto nel controllo epidemico.»
Piccole scimmie esaltate. La vostra razza è epidemica, non la mia. «Questo Goodweather è consigliato da qualcuno. Un uomo che dispone d'informazioni particolareggiate sulla vostra specie. Conosce la tradizione e anche un po' della vostra biologia. La polizia lo cerca, ma penso che sia necessaria un'azione più decisa. Credo che questo possa significare la differenza fra una rapida, decisiva vittoria e una lotta prolungata. Abbiamo molte battaglie in programma, tanto sul fronte umano quanto su altri...»
Vincerò io. Su questo Palmer non aveva dubbi. «Sì, certo.» Voleva per sé il vecchio, ma doveva rafforzare la sua identità prima di divulgare qualsiasi notizia al Padrone. Perciò cercava attivamente di scacciarlo dalla mente, sapendo che, in presenza del Padrone, era necessario schermare i propri pensieri...
Ho già incontrato quel vecchio. Quando non era così vecchio. Palmer gelò, sorpreso e sconfitto. «Ricorderai che ho impiegato un mucchio di tempo per trovarti. I miei viaggi mi hanno portato ai quattro angoli del mondo e ci sono stati parecchi vicoli ciechi e vie traverse... molte persone che ho dovuto verificare. Lui era una di quelle.» Cercò di cambiare fluidamente argomento, ma aveva la mente annebbiata. Trovarsi in presenza del Padrone era come essere olio in presenza di uno stoppino acceso.
Incontrerò quel Goodweather. E provvederò a lui. Palmer aveva già preparato un foglio contenente informazioni sull'epidemiologo del CDC. Lo estrasse dalla tasca della giacca e lo dispiegò sul tavolo. «Qui c'è tutto, Padrone. Famiglia, compagni noti...» Ci fu un grattare d'unghie sul piano del tavolo e il foglio fu preso. Palmer vide la mano solo con la vista periferica. Il medio, curvo e dall'unghia acuminata, era più lungo e più grosso delle altre dita. «Ora ci serve solo qualche altro giorno» disse. Quella che pareva una discussione era iniziata nella residenza della rock star, le due case adiacenti non ancora terminate che Palmer, seppur con riluttanza, aveva dovuto attraversare per giungere all'appuntamento nel patio. Era rimasto particolarmente disgustato dall'unica parte finita della residenza, l'attico che ospitava la camera da letto padronale, vistosamente decorata e puzzolente di lussuria di primati. Non era mai stato con una donna. In gioventù, a causa della malattia e delle prediche delle due zie che l'avevano allevato. Da adulto, per scelta. Era giunto a capire che la purezza del suo io mortale non avrebbe mai dovuto subire la macchia del desiderio. La discussione interiore divenne più accesa, nell'inconfondibile vocio di violenza.
Il tuo uomo è in difficoltà. Palmer si sporse. Il signor Fitzwilliam era entrato, benché gli avesse espressamente vietato di avvicinarsi alla zona del patio. «Hai detto che la sua sicurezza qui era garantita.»
Udì il rumore di piedi in corsa. Poi un brontolio. Un grido umano. «Fermali» disse. La voce del Padrone fu, come sempre, languida e serena.
Non è lui quello che vogliono. Palmer si alzò, preso dal panico. Si riferiva a lui, il Padrone? Era una sorta di trappola? «Abbiamo un accordo!»
Finché mi fa comodo. Un altro grido, più vicino, seguito da due spari in rapida successione. Poi un battente della porta ad arco fu spalancato verso l'interno e il cancello ornamentale venne spinto in fuori. Fitzwilliam, centoventi chili di ex marine in completo Savile Row, arrivò di corsa, tenendosi con la destra il braccio lungo il fianco, gli occhi lucidi di sofferenza. «Signore... li ho alle calcagna...» Fu allora che spostò lo sguardo dal viso di Palmer alla figura incredibilmente alta in piedi dietro di lui. La pistola gli scivolò dalle dita e cadde rumorosamente sulle piastrelle. Il signor Fitzwilliam impallidì e ondeggiò per un momento come un uomo che dondolasse appeso a un filo metallico, quindi cadde sulle ginocchia. Dietro di lui giunsero i cambiati. Vampiri in vari tipi di abiti civili, dal completo all'abbigliamento gotico, alla tenuta casual da paparazzo. Tutti puzzolenti e stropicciati perché chi li indossava si era annidato nel terriccio. I cambiati si precipitarono nel patio come creature chiamate da un fischietto a ultrasuoni. A guidarli era Bolivar in persona, emaciato e quasi calvo, con indosso una veste nera. Come vampiro di prima generazione, era più maturo degli altri. La sua carne aveva un pallore esangue, di alabastro, che quasi luccicava, e gli occhi erano lune morte. Dietro di lui c'era una fan centrata in piena faccia da una pallottola di Fitzwilliam, preso dal panico. Aveva lo zigomo spaccato fino all'orecchio sbilenco: un vistoso mezzo sorriso a denti snudati.
Gli altri uscirono barcollando nella nuova notte, spinti all'azione dalla presenza del loro Padrone. Si fermarono e lo fissarono con occhi neri spalancati in timore reverenziale.
Bambini. Palmer, in piedi fra loro e il Padrone, fu del tutto trascurato. La forza della presenza del Padrone li teneva a bada. Si raccolsero davanti a lui come primitivi di fronte a un tempio. Fitzwilliam rimase sulle ginocchia, come falciato. Il Padrone parlò in un modo che Palmer credette esclusivo per le proprie orecchie.
Mi hai portato fin qui da molto lontano. Non guardi? Lui lo aveva visto già una volta, in uno scantinato buio, in un altro continente. Un'immagine sfocata, eppure... abbastanza chiara. Non l'aveva mai dimenticata. Ora non aveva modo di evitarla. Chiuse le palpebre per darsi forza, poi le sollevò e si costrinse a girarsi. Come rischiare la cecità fissando il sole. Con gli occhi risalì dal petto del Padrone... ... alla faccia. L'orrore. E la magnificenza. Il sacrilego. E lo splendore. L'orrido. E il sacro. L'innaturale terrore stiracchiò la faccia di Palmer in una maschera di paura e alla fine mutò gli angoli in un sorriso di trionfo a denti stretti. L'orribile trascendenza. Guardò il Padrone.
Kelton Street, Woodside, Queens Kelly attraversò in fretta il soggiorno, portando abiti puliti e batterie; passò davanti a Matt e Zack che guardavano il notiziario alla TV. «Ce ne andiamo» disse scaricando la roba in una sacca di tela su una sedia. Matt si girò con un sorriso verso di lei, ma Kelly non era dell'umore giusto. «Ma dai, tesoro» replicò lui. «Non mi hai ascoltato?» «Sì. Con pazienza.» Si alzò dalla sedia. «Senti, Kel, il tuo ex marito lo sta facendo di nuovo. Sta tirando una granata nella tua vita felice qui a casa. Non lo capisci? Se fosse davvero una faccenda seria, il governo ce lo direbbe.» «Oh. Sì, certo. I funzionari eletti non mentono mai.» Andò con decisione all'armadio e tirò fuori il resto dei bagagli. Aveva anche una borsa d'emergenza, come raccomandato dalla Protezione civile di New York City, in caso di evacuazione. Era una robusta sacca di tela con bottiglie d'acqua e barrette di cereali con frutta secca, una radio a manovella Grundig per AM/FM/onde corte, una torcia elettrica Faraday, un kit di pronto soccorso, cento dollari in contanti e copie di tutti i documenti importanti in una busta impermeabile. «Questa è una profezia che appaga le sue aspirazioni nei tuoi confronti» continuò Matt seguendola. «Non capisci? Lui ti conosce. Sa con esattezza quale pulsante premere. Ecco perché non andavate bene l'una per l'altro.» Kelly scavò in fondo all'armadio, buttò da parte due vecchie racchette da tennis e colpì Matt sui piedi perché parlava in quel modo davanti a Zack. «Non è così. Gli credo.» «Lui è un ricercato, Kel. Ha una sorta di esaurimento, un collasso. Tutti i cosiddetti "geni" sono fondamentalmente fragili. Come quei girasoli che cerchi sempre di far crescere lungo lo steccato in cortile:
hanno la testa troppo grande e crollano sotto il loro stesso peso.» Kelly tirò fuori uno stivale e glielo tirò sugli stinchi, ma lui lo scansò. «Riguarda tutto te, sai. Lui è patologico. Non può lasciar perdere. La storia serve a tenerti vicino.» Kelly si fermò, si girò a quattro zampe e lo fissò da sotto l'orlo dei soprabiti. «Sei davvero così sciocco?» «Agli uomini non piace perdere. Non rinunciano.» Lei arretrò trascinando la grossa valigia American Tourister. «È il motivo per cui non te ne vai subito?» «Non me ne vado perché devo tornare al lavoro. Se pensassi di poter sfruttare la scusa della fine del mondo del tuo pazzo marito per evitare l'inventario, lo farei, credimi. Ma nel mondo reale quando non ti presenti perdi l'impiego.» Kelly si girò, scottata dalla sua ostinazione. «Eph ha detto di andare via. Non si è mai comportato in questo modo prima; non ha mai parlato così. È un dato di fatto.» «È isteria da eclissi, ne parlavano alla TV. Gente che perde la testa. Se avessi dovuto lasciare New York per tutti i pazzi che ci sono, me ne sarei andato da anni.» Cercò di toccarle la spalla. Lei all'inizio si ritrasse, poi gli permise di stringerla per un attimo. «Di tanto in tanto chiederò notizie al reparto elettronica, lì c'è il televisore, per sapere se succede qualcosa. Ma il mondo continua a girare, giusto? Per quelli di noi che hanno un vero lavoro. Voglio dire... abbandoni la tua classe?» Le necessità dei suoi allievi le stavano a cuore, ma tutti e tutto passavano in secondo piano rispetto a Zack. «Forse chiuderanno la scuola per qualche giorno. Pensandoci bene, oggi c'erano parecchie assenze ingiustificate...» «Sono ragazzi, Kel. Influenza.» «Credo che sia proprio l'eclissi» intervenne Zack, dall'altra parte della stanza. «Fred Falin me l'ha detto a scuola. Qualcuno ha guardato la luna senza mettere gli occhiali e gli ha cotto il cervello.» «Come mai gli zombi ti affascinano tanto?» chiese Kelly. «Sono là fuori» rispose Zack. «Bisogna essere pronti. Scommetto
che non sai quali sono le due cose più importanti per sopravvivere a un'invasione di zombi.» Lei non gli diede retta. «Ci rinuncio» disse Matt. «Un machete e un elicottero» spiegò Zack. «Un machete, eh?» fece Matt. Scosse la testa. «Avrei pensato a un fucile a canne mozze.» «Sbagliato. Non hai bisogno di ricaricarlo, il machete.» Matt gliela diede vinta e si rivolse a Kelly. «Quel Fred Falin sa davvero il fatto suo.» «Ehi... ho capito!» Non era abituata a vedere i due fare comunella. In un'altra occasione forse sarebbe stata contenta che Zack e Matt andassero così d'accordo. «Zack, stai dicendo sciocchezze. Questo è un virus ed è reale. Dobbiamo andarcene.» Matt rimase lì, mentre Kelly portava una valigia vuota accanto alle altre borse. «Kel, cerca di calmarti, d'accordo?» Prese di tasca le chiavi dell'auto, facendole girare intorno al dito. «Fa' un bagno, prendi fiato. Sii ragionevole su questa storia... per favore. Considera la fonte delle tue "informazioni dall'interno".» Andò alla porta d'ingresso. «Ci sentiamo più tardi.» Uscì. Kelly rimase a fissare la porta chiusa. Zack si avvicinò a lei, con la testa piegata leggermente di lato, come soleva fare quando stava per chiedere cosa significasse la morte o perché alcuni uomini si tenessero per mano. «Cosa ti ha detto il papà di questa storia?» «Lui vuole solo... vuole il meglio per noi.» Si strofinò la fronte nascondendosi gli occhi con la mano. Doveva allarmare anche Zack? Doveva prenderlo e andare via solo in base alla parola di Eph, senza Matt? Doveva farlo? E, se credeva all'ex marito, aveva l'obbligo morale di avvertire altri? Dalla porta accanto la cagnetta degli Heinson cominciò ad abbaiare. Non il solito guaito stizzoso, ma un uggiolio acuto, quasi di paura. Fu sufficiente a spingere Kelly nella veranda sul retro, dove
la lampada sensibile ai movimenti nel patio si era accesa. Rimase lì a braccia conserte, a osservare il cortile in cerca di attività. Tutto pareva immobile. Ma la cagnetta continuò ad abbaiare, finché la signora Heinson uscì e la portò in casa, senza che smettesse. «Mamma?» Kelly sobbalzò, spaventata dal tocco di suo figlio, perdendo completamente il sangue freddo. «Tutto a posto?» chiese Zack. «Odio questa storia» disse Kelly tornando con lui in soggiorno. «La odio e basta.» Avrebbe fatto i bagagli: per lei, per Zack e per Matt. E sarebbe stata attenta. E avrebbe aspettato.
Bronxville Trenta minuti a nord di Manhattan, Roger Luss giocherellava con il suo iPhone, seduto nel salone bar dai pannelli di quercia del Siwanoy Country Club, aspettando il primo Martini. Aveva detto al tassista della Town Car di lasciarlo davanti al club anziché portarlo dritto a casa. Aveva bisogno di un po' di tempo prima di rientrare. Se Joan aveva l'influenza, come pareva indicare il messaggio della bambinaia nella segreteria, allora i bambini ormai l'avevano presa e lui probabilmente avrebbe avuto il suo bel daffare. Ragione più che sufficiente per prolungare di un paio d'ore il viaggio di lavoro. La sala da pranzo prospiciente il campo da golf era deserta all'ora di cena. Arrivò il cameriere, con il vassoio coperto da un tovagliolo di lino bianco e il Martini con tre olive. Non era il solito, ma un messicano, come gli inservienti che parcheggiavano le auto. Aveva la camicia che gli usciva dai calzoni sulla schiena e non portava cintura. Le sue unghie erano sporche. Roger si ripromise di parlarne al direttore del club come prima cosa l'indomani mattina. «Eccola qui»
disse Roger. Le olive in fondo al bicchiere a V da cocktail parevano piccoli globi oculari conservati sottaceto. «Dove sono tutti stasera?» chiese nel solito tono rimbombante. «Cos'è, una vacanza? Il mercato è chiuso oggi? È morto il presidente?» Scrollata di spalle. «Dov'è il personale regolare?» L'uomo scosse la testa. Roger si rese conto che pareva spaventato. Poi lo riconobbe. Era stato ingannato dall'uniforme da barman. «L'addetto ai campi, giusto? Di solito fuori a sistemare i prati.» L'addetto ai campi in uniforme da barman annuì, nervoso, e si allontanò nell'ingresso. Davvero strano, pensò Roger. Alzò il bicchiere di Martini e scrutò in giro, ma non c'era nessuno a cui brindare o rivolgere un cenno, nessuna possibilità di qualche manfrina politica. E così, senza occhi che lo guardassero, Luss trangugiò il cocktail, metà in due grandi sorsate. Lo sentì arrivare nello stomaco ed emise un basso brontolio di benvenuto. Infilzò un'oliva, la batté sul bordo prima di cacciarsela in bocca, la rigirò per un momento, poi la schiacciò fra i molari. Nel televisore dall'audio in sordina, incassato nel legno sopra lo specchio del bar, vide nel notiziario inserti filmati di una conferenza. Il sindaco affiancato da altri funzionari comunali dalla faccia severa. Poi riprese d'archivio dell'aereo della Regis Airlines, volo 753, sulla pista del JFK. Il silenzio nel club lo spinse a guardare di nuovo in giro. Dove diavolo era la gente? Lì stava succedendo qualcosa. E lui se la stava perdendo. Bevve una sorsata di Martini, poi ancora una, e posò il bicchiere. Si alzò, andò nell'atrio, controllò la sala laterale dove c'era il pub: vuota anche quella. La porta della cucina era proprio a fianco del bancone del pub, imbottita e nera, con uno spioncino in alto al centro. Roger scrutò dentro e vide il barman giardiniere, tutto solo, impegnato a fumare una sigaretta e a prepararsi una bistecca alla griglia.
Uscì dalla porta principale, dove aveva lasciato il bagaglio. Non c'erano camerieri che gli chiamassero un taxi, perciò prese il telefono, si collegò in rete, trovò l'elenco dei depositi più vicini e chiese un'auto. Mentre aspettava sotto le alte luci dell'ingresso a colonne del garage esterno, con il gusto del Martini che gli si inacidiva in bocca, udì un grido. Un solo e penetrante grido nella notte, da un luogo non molto lontano. Dalla parte di Bronxville, in opposizione a Mount Vernon. Forse da un punto del campo da golf. Aspettò senza muoversi. Trattenendo l'orecchio, nel caso il grido si ripetesse.
il
fiato.
Tendendo
Impressionato, più che dal grido in sé, dal silenzio che era seguito. Giunse il taxi; l'autista, un mediorientale di mezza età che teneva una penna dietro l'orecchio, caricò con un sorriso il bagaglio nel baule e partì. Sulla lunga strada privata del club Roger guardò verso il campo da golf e credette di vedere una persona che percorreva a piedi il fairway nel chiaro di luna. Casa sua era a tre minuti da lì. Sulla via non c'erano altre auto e le case apparivano in gran parte buie. Mentre il taxi svoltava sulla Midland, Roger scorse un pedone venirgli incontro sul marciapiede, una scena inconsueta di notte, soprattutto se non si porta a spasso il cane. Si trattava di Hai Chatfield, un vecchio vicino di casa, uno dei due soci che avevano presentato Roger al Siwanoy quando lui e Joan avevano comprato casa a Bronxville. Hai camminava in modo buffo, le braccia lungo i fianchi, e indossava un accappatoio aperto svolazzante con sotto una T-shirt e un paio di boxer. Si girò a fissare il taxi che passava. Roger salutò con la mano. Quando si voltò per accertarsi che Hai l'avesse riconosciuto, notò che correva a gambe rigide dietro di lui. Un sessantenne con l'accappatoio svolazzante come un mantello che inseguiva un'auto in mezzo alla strada a Bronxville. Roger guardò il tassista per capire se anche lui avesse visto la scena, ma l'uomo stava scribacchiando qualcosa su un blocco mentre guidava.
«Ehi. Sa cosa sta succedendo da queste parti?» «Sì» rispose l'autista con un sorriso e un brusco cenno. Non aveva idea di ciò che Roger stesse dicendo. Svoltarono altre due volte e furono davanti alla casa di Roger. Il tassista aprì il baule dell'auto e saltò fuori con il suo passeggero. La via era silenziosa, la casa buia come le altre. «Mi aspetti qui. Lo farà?» disse Roger indicando il cordolo dell'acciottolato. «Può aspettarmi?» «Se paga.» Lui annuì. Non sapeva nemmeno perché lo volesse lì. Era qualcosa che aveva a che fare con la sensazione di solitudine. «Ho del contante a casa. Mi aspetti. Va bene?» Lasciò il bagaglio nell'anticamera dell'ingresso, accanto all'entrata laterale, e passò nella cucina. «C'è nessuno?» Protese la mano verso l'interruttore della luce e lo premette, senza risultati. Vedeva il luccichio verde dell'orologio del microonde, perciò la corrente c'era. Avanzò a tentoni lungo il banco, aprì il terzo cassetto e frugò in cerca della torcia elettrica. Sentì un puzzo di marcio, più pungente dei resti che ammuffivano nel bidone della spazzatura; percepì l'ansia crescere e mosse più rapidamente la mano. Afferrò la torcia e l'accese. Col raggio luminoso spazzò la lunga cucina, il bancone centrale, il tavolo più in là, i fornelli e il doppio forno. «C'è nessuno?» ripeté, vergognandosi per la paura nella voce che lo spingeva a muoversi più in fretta. Notò uno schizzo scuro sugli armadietti a vetri e puntò il raggio su quello che pareva l'esito di una battaglia fra ketchup e maionese. Si arrabbiò nel vedere quel casino. Poi scorse le sedie rovesciate e luride orme - orme? - sul granito del bancone centrale. Dov'era la governante, la signora Guild? Dov'era Joan? Si avvicinò allo schizzo e puntò la luce proprio sul vetro dell'armadietto. Non aveva idea di cosa fosse la roba bianca, ma quella rossa non era ketchup. Non poteva esserne sicuro... ma pareva proprio sangue. Colse un movimento nel riflesso del vetro e si girò di scatto. La scala alle sue spalle era vuota. Si rese conto di avere solo spostato l'anta dell'armadietto. Non apprezzò gli scherzi della sua
immaginazione, così corse di sopra e con la torcia controllò ogni stanza. «Keene? Audrey?» Nello studio di Joan trovò appunti manoscritti riguardanti il volo della Regis Airlines. Una sorta di schema cronologico, anche se la sua calligrafia diventava pasticciata nel paio di frasi conclusive, incomprensibili. L'ultima parola, scarabocchiata nell'angolo in basso a destra del blocchetto di fogli, era: "Hummmmmm". Nella camera da letto principale le lenzuola erano buttate a terra e in bagno, nella tazza, galleggiava roba che pareva vomito rappreso vecchio di giorni. Roger raccolse un asciugamano e lo aprì, ma lo lasciò subito cadere, vedendo scuri grumi di sangue, come se il lussuoso tessuto di cotone fosse servito da straccio per il catarro. Corse giù dalla scala. In cucina prese il telefono a parete e compose il 911. Dopo uno squillo, una voce registrata gli disse di stare in linea. Riagganciò e fece il numero della polizia. Un solo squillo e la stessa registrazione. Lasciò cadere il ricevitore quando udì un colpo sordo nel seminterrato sotto di lui. Spalancò la porta per lanciare un richiamo nel buio... ma qualcosa lo indusse a fermarsi. Tese l'orecchio e sentì... un rumore. Passi strascicati. Più di una serie. Salivano le scale, si avvicinavano al punto a metà scala dove i gradini curvavano di novanta gradi e si rivolgevano verso di lui. «Joan?» chiamò. «Keene? Audrey?» Ma già batteva in ritirata. Cadde all'indietro, urtò contro l'intelaiatura della porta, strisciò carponi nella cucina, passò davanti alle pareti sporche di sostanza appiccicosa e tornò nell'anticamera dell'ingresso. Aveva un solo pensiero: andarsene da lì. Attraversò, urtandola, la controporta, raggiunse il vialetto e corse in strada, gridando al tassista seduto al volante, che non capiva le sue parole. Aprì la portiera posteriore e saltò dentro. «Chiuda le portiere! Chiuda le portiere!» L'autista girò la testa. «Sì. Otto dollari e trenta.» «Maledizione, chiuda le portiere!» Si voltò a guardare il vialetto. Tre sconosciuti, due donne e un uomo, uscirono dall'anticamera e attraversarono il prato. «Vada! Vada! Si muova!»
Il tassista diede un colpetto alla fessura nel tramezzo fra i sedili anteriori e posteriori. «Tu paghi, io vado.» Erano in quattro, adesso. Roger osservò, intontito, un uomo dall'aspetto noto, con una camicia strappata, spingere da parte gli altri per arrivare per primo al taxi. Era Franco, il loro giardiniere. Dal finestrino del passeggero fissò Roger, con occhi chiari al centro ma rossi ai bordi, come una corona di follia del colore del sangue. Aprì la bocca per ruggire... e quella roba venne fuori, colpì il finestrino, con un rumore netto, proprio all'altezza della faccia di Roger, e si ritrasse. Roger rimase inebetito. "Che diavolo era?" pensò. Il fatto si ripeté e lui capì - come avvertendo un sassolino sotto vari materassi di paura, panico, mania - che Franco o quella cosa che era stata Franco non conosceva o aveva dimenticato o giudicato male le proprietà del vetro. Pareva confuso da quella sostanza trasparente e solida. «Muoviti!» gridò Roger al tassista. «Muoviti!» Due erano adesso davanti all'auto. Un uomo e una donna, con i fari che illuminavano loro la cintola. Ce n'erano sette o otto in totale, tutt'intorno al taxi, e altri uscivano dalle case vicine. L'autista urlò qualcosa nella sua lingua e premette il clacson. «Muoviti!» ripeté Roger. Ma quello invece si chinò a raccogliere qualcosa dal pavimento dell'auto. Estrasse una piccola borsa grande come un nécessaire, tirò la cerniera, lasciò cadere alcune barrette di Zagnut e impugnò un piccolo revolver argenteo. Agitò l'arma davanti al parabrezza e gridò di paura. La lingua di Franco stava esplorando il vetro del finestrino. A parte il fatto che non era per niente una lingua. Con un calcio il tassista spalancò la portiera. «No!» urlò Roger da dietro il tramezzo, ma l'altro era già fuori. Sparò da dietro la portiera, con uno scatto del polso, come se tirasse i proiettili. Sparò ancora e ancora: i due davanti all'auto si piegarono, colpiti da pallottole di piccolo calibro, ma non caddero.
Dopo altri due colpi all'impazzata, uno centrò la testa dell'uomo. Il cuoio capelluto volò all'indietro e lui stramazzò a terra. Poi un altro afferrò da dietro il tassista. Era Hal Chatfield, il vicino di Roger, con l'accappatoio blu che gli penzolava dalle spalle. «No!» gridò Roger. Troppo tardi. Hai fece ruotare l'autista verso la strada. La cosa gli uscì dalla bocca e trapassò il collo del poveraccio. Roger lo guardò dal finestrino mentre urlava a tutto spiano. Un altro spuntò nella luce dei fari. No, non un altro, lo stesso che era stato colpito alla testa. Dalla ferita colava un liquido bianco che scorreva sul lato della faccia. L'uomo usò l'auto per sorreggersi e continuò a farsi avanti. Roger voleva fuggire, ma era in trappola. A destra, al di là di Franco il giardiniere, vide un tipo con la camicia e i calzoni marroni dell'UPS uscire dal garage della porta accanto, con una pala in spalla, come la mazza da baseball di un battitore pronto al tiro. Il tizio ferito alla testa girò intorno alla portiera aperta dalla parte della guida e si arrampicò nel sedile anteriore. Dal tramezzo guardò Roger, con il lobo frontale destro della testa alzato come un ricciolo di carne. Liquido bianco gli copriva come glassa la guancia e la mascella. Roger si girò giusto in tempo per vedere l'uomo dell'UPS vibrare la pala. L'attrezzo colpì rumorosamente il finestrino posteriore e fendette il vetro rinforzato: la luce dei lampioni stradali scintillò nella ragnatela di incrinature. Roger udì il raspio nel tramezzo. L'uomo ferito alla testa aveva estratto la lingua e cercava di infilarla nella fessura simile a un portacenere. La punta carnosa s'incuneò e si tese, quasi come se annusasse l'aria mentre tentava di arrivare alla preda. Con un urlo Roger prese a calci la fessura, freneticamente, chiudendola di colpo. Il tipo sul sedile anteriore mandò uno strillo impossibile e la punta recisa della... qualsiasi cosa fosse cadde direttamente in grembo a Roger, che la sbatté via, mentre dall'altro lato del tramezzo l'uomo
schizzava liquido bianco da tutte le parti, impazzito di dolore o di puro isterismo da castrazione.
Barn! Un altro colpo della pala contro il finestrino posteriore,
dietro la testa di Roger: il vetro infrangibile si crepò e si piegò, ma non si ruppe neanche stavolta.
Pam pam pam. Passi pesanti che lasciavano crateri nel tettuccio. Quattro di loro erano sul cordolo, tre sul ciglio della strada, altri avanzavano di fronte. Roger guardò indietro e vide l'uomo dell'UPS, come impazzito, ergersi all'indietro per vibrare di nuovo la pala contro il finestrino fracassato. Ora o mai più. Afferrò la maniglia e con un calcio aprì la portiera dalla parte della strada. La pala calò e distrusse il finestrino posteriore, provocando una pioggia di schegge di vetro. Mancò per un pelo la testa di Roger che scivolava fuori nella via. Qualcuno - era Hai Chatfield, con occhi ardenti di rosso - lo afferrò per il braccio, facendolo girare, ma lui sgusciò dalla giacca come un serpente che si liberi della pelle e continuò a procedere, correndo su per la via, senza guardarsi indietro finché non fu all'angolo. Alcuni arrivarono a passi barcollanti, altri si mossero più velocemente e con maggiore coordinazione. Certi erano vecchi e tre erano bambini ghignanti. I suoi vicini e amici. Facce che riconosceva dalla stazione della metropolitana, dalle feste di compleanno, dalle funzioni in chiesa. Tutti al suo inseguimento.
Flatbush, Brooklyn Eph premette il campanello della porta della residenza dei Barbour. La via era silenziosa, anche se nelle altre case c'era vita: luci di televisori, sacchi di spazzatura contro i marciapiedi. Aspettò, con in mano una lampada UVC e una pistola sparachiodi modificata da Setrakian appesa alla spalla.
Nora era alle sue spalle ai piedi degli scalini di mattoni; anche lei aveva una lampada UVC. Il vecchio, alla retroguardia, teneva il bastone da passeggio: la testa di lupo d'argento brillava al chiaro di luna. Secondo squillo, nessuna risposta. C'era da aspettarselo. Prima di cercare un altro ingresso, Eph provò il pomolo della porta. Quello girò. L'uscio si aprì. Eph entrò per primo e accese la luce. Il soggiorno pareva normale: mobili coperti di teli antipolvere e cuscini sparsi alla rinfusa. «C'è nessuno?» chiamò Eph mentre gli altri due lo seguivano dentro. Strano, intrufolarsi in casa. Camminò a passi leggeri sul tappeto, come un ladro o un assassino. Voleva credere di essere ancora un guaritore, ma gli risultava sempre più difficile di ora in ora. Nora imboccò le scale. Setrakian lo seguì in cucina. «Cosa crede che apprenderemo qui? Ha detto che i superstiti erano distrazioni...» domandò Eph. «Ho detto che servivano a quello scopo. In quanto all'intento del Padrone... non so. Forse c'è qualche attaccamento speciale. In ogni caso, da qualche parte dobbiamo iniziare. Quei superstiti sono la nostra unica pista.» Nel lavello c'erano una scodella e un cucchiaio. Sul tavolo, una Bibbia di famiglia, piena di santini di messe di suffragio e di fotografie, aperta al capitolo finale. Un brano era sottolineato in inchiostro rosso, con mano malferma. Apocalisse, 11, 7-8: ... la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma... Accanto alla Bibbia aperta, come strumenti predisposti su un altare, c'erano un crocifisso e una boccetta di vetro che Eph ritenne d'acqua santa.
Setrakian annuì nel vedere quegli oggetti religiosi. «Non più ragionevoli del nastro adesivo rinforzato e della ciprofloxacina» commentò. «E non più efficaci.» Passarono nella stanza sul retro. «Di sicuro la moglie l'ha coperto» disse Eph. «Perché non ha chiamato un medico?» Esplorarono un ripostiglio e Setrakian batté sulle pareti con la punta del bastone. «La scienza ha fatto molti progressi durante la mia vita, ma nessuno ha ancora inventato lo strumento che aiuti a vedere con chiarezza nel matrimonio di un uomo e una donna.» Chiusero il ripostiglio. Eph si rese conto che non c'erano altre porte. «E se non c'è scantinato?» Il vecchio scosse la testa. «Esplorare un'intercapedine è molto peggio.» «Quassù!» Era Nora. Chiamava dal piano superiore, in tono pressante. Ann-Marie Barbour era accasciata sul pavimento, fra il comodino e il letto, morta. In mezzo alle gambe aveva uno specchio a parete che si era frantumato per terra. La donna aveva scelto la scheggia più lunga e affilata e l'aveva usata per recidersi le arterie radiale e ulnare del braccio sinistro. Tagliarsi i polsi è uno dei modi per suicidarsi meno efficaci, con una percentuale di successo inferiore al cinque per cento. È una morte lenta, a causa della strettezza dell'avambraccio e perché è possibile tagliarsi un solo polso: un'incisione profonda recide i nervi e rende inutilizzabile la mano. È anche molto dolorosa e per questo in genere è scelta da persone profondamente depresse o dementi. Ann-Marie Barbour aveva inciso in profondità: le arterie recise e il derma erano arricciati e lasciavano vedere tutt'e due le ossa del polso. Impigliato nelle dita piegate della mano inutilizzabile c'era un laccio da scarpe insanguinato, al quale era legata una chiave dalla testa rotonda. Il sangue sgorgato era rosso. Tuttavia Setrakian estrasse lo specchio argentato e lo tenne ad angolo sulla faccia rivolta in basso della donna, solo per essere sicuro. Niente offuscamento, l'immagine era vera.
Ann-Marie Barbour non era stata cambiata. Il vecchio si alzò lentamente, turbato da quello sviluppo. «Strano» disse. Eph notò che, da dove si trovava, la faccia della donna, con un'espressione di stupore e di sfinimento, si rifletteva sulle schegge di specchio. Infilato sotto la cornice posta sul comodino, con le fotografie di un ragazzo e di una ragazza, c'era un foglio ripiegato. Lo tirò fuori, esitò un momento, poi lo aprì con attenzione. La scrittura era incerta, in inchiostro rosso, come la sottolineatura nella Bibbia. Le "i" minuscole avevano il puntino a cerchietto e davano alla calligrafia un'apparenza giovanile. «"Al mio carissimo Benjamin e alla mia amata Haily"» cominciò a leggere Eph. «No» lo interruppe Nora. «Non farlo. Non è per noi.» Aveva ragione, pensò Eph. Esaminò il foglio alla ricerca di informazioni pertinenti... «I figli sono al sicuro con la sorella del padre, nel Jersey» disse. Poi lesse la frase finale. «"Mi spiace davvero, Ansel... non posso usare questa chiave... ora so che Dio ti ha maledetto per punire me, ci ha abbandonati entrambi e siamo dannati. Se la mia morte curerà la tua anima, Lui potrà averla..."» Nora si chinò a prendere la chiave, tirando via la stringa insanguinata dalle dita inanimate di Ann-Marie. «Allora... il marito dov'è?» Udirono un basso gemito che pareva quasi un ringhio. Era animalesco, glottale, il suono di gola che può essere prodotto solo da una creatura senza voce umana. E proveniva dall'esterno. Eph andò alla finestra. Guardò giù nel cortile e vide l'ampia baracca. I tre uscirono senza far rumore nel cortile e si fermarono davanti alla porta della baracca, alle maniglie dei battenti legate dalla catena. Tesero l'orecchio. Un raspare, all'interno. Suoni gutturali, lievi e soffocati.
Poi la porta rimbombò. Qualcosa ci spingeva contro per mettere alla prova la catena. Nora aveva la chiave. Guardò gli altri, nel caso la volessero; poi si avvicinò, inserì la chiave nel lucchetto e la girò con circospezione. La serratura scattò. Silenzio, dentro. Nora tolse dagli anelli il lucchetto. Eph e Setrakian erano pronti dietro di lei. Il vecchio aveva estratto dal fodero di legno la spada d'argento. Nora cominciò a disfare la pesante catena, la sfilò dalle maniglie di legno... aspettandosi che la porta si spalancasse immediatamente... Ma non successe nulla. Quando ebbe liberato l'ultimo pezzo, si tirò indietro. Lei ed Eph accesero le lampade UVE. Abraham era concentrato sui battenti, così Eph trasse un profondo respiro per farsi coraggio, afferrò le maniglie e tirò, aprendo l'uscio. L'interno era buio. L'unica finestra era coperta da qualcosa e l'apertura della porta verso l'esterno bloccava la maggior parte della luce che veniva dalla veranda. Respirarono per qualche momento aria viziata prima di accorgersi della sagoma acquattata. Setrakian avanzò e si fermò a due passi dalla porta. Parve mostrare la lama d'argento all'occupante della baracca. La creatura attaccò. Si lanciò contro il vecchio, cercò di balzargli addosso, anche se lui era pronto a usare la spada... ma il guinzaglio resse e l'aggressore arretrò per il contraccolpo. Ora lo videro, videro la sua faccia. Ringhiava, con gengive così bianche da dare l'impressione che i denti snudati arrivassero fino alla mascella. Le labbra erano esangui per la sete e ciò che restava dei capelli si era sbiancato fino alla radice. L'uomo era acquattato carponi in un letto di terriccio e aveva un collare a catena stretto intorno al collo, conficcato nella carne. «È l'uomo dell'aereo?» chiese Setrakian senza mai staccargli gli occhi di dosso. Eph lo guardava, intontito. Quella creatura pareva un demone che avesse divorato l'uomo chiamato Ansel Barbour e ne avesse assunto in parte la forma. «Era lui» rispose.
«Qualcuno l'ha preso» disse Nora. «L'ha incatenato qui. L'ha chiuso nella baracca.» «No» ribatté Abraham. «Si è incatenato da solo.» Eph allora capì come mai la moglie e i bambini erano stati risparmiati. «Rimanete indietro» li avvertì Setrakian. E proprio allora il vampiro aprì la bocca e colpì, vibrando il pungiglione contro di lui. Il vecchio non trasalì, perché la creatura non poteva raggiungerlo, malgrado il pungiglione fosse lungo molti centimetri. La disgustosa protuberanza si ritrasse, penzolò sul mento del vampiro, si mosse intorno alla bocca aperta come la rosea antenna cieca di un mostro degli abissi marini. «Dio Santo...» mormorò Eph. Il vampiro Barbour divenne bestiale. Arretrò sui quarti posteriori, sibilando contro di loro. Eph, sconvolto da quello spettacolo incredibile, ricordò di avere in tasca la videocamera di Zack; passò a Nora la lampada e la prese. «Cosa stai facendo?» chiese lei. Eph armeggiò con l'accensione, inquadrò nel mirino la creatura. Poi, con l'altra mano, tolse la sicurezza alla pistola sparachiodi e mirò alla bestia.
Snap-ciac. Snap-ciac. Snap-ciac. Sparò tre aghi d'argento e la pistola dalla lunga canna sobbalzò per il rinculo. I proiettili lacerarono il vampiro, gli bruciarono i muscoli malati, gli strapparono un rauco ululato di dolore che lo rovesciò in avanti. Eph continuò a registrare. «Basta» ordinò Setrakian. «Un po' di misericordia.» La creatura protese il collo, sotto la tensione del dolore. Abraham ripeté la frase sulla spada che risuona d'argento, poi vibrò un fendente al collo del vampiro. Il corpo crollò, braccia e gambe scosse da tremiti. La testa rotolò e si fermò, gli occhi batterono alcune volte, il pungiglione si torse come un serpente tagliato in due e alla fine rimase immobile. Un fluido caldo e bianco sgorgò dal
moncherino di collo, fumando debolmente nella fredda aria della notte. I vermi capillari scivolarono nel terriccio come topi che fuggano dalla nave nel momento del naufragio e cerchino un nuovo vascello. Nora soffocò il grido che le saliva in gola, stringendo forte la mano sulla bocca aperta. Eph continuò a fissare la creatura, nauseato, dimenticandosi di guardare nel mirino. Setrakian arretrò, la spada rivolta in basso, bianchi spruzzi fumanti sulla lama d'argento e gocciolanti sull'erba. «Qua dietro. Sotto il muro.» Eph vide un buco scavato sul retro della baracca. «Con lui c'era un'altra cosa» disse il vecchio. «Una cosa che è strisciata fuori, che è fuggita.» Case costeggiavano la via sui due lati. La cosa poteva trovarsi in ciascuna di esse. «Ma non c'è segno del Padrone.» Abraham scosse la testa. «Non qui. Nel prossimo, forse.» Eph guardò bene in fondo alla baracca, nel tentativo di scorgere i vermi capillari alla luce della lampada di Nora. «Non dovrei entrare e irradiarli?» «C'è un modo più sicuro. Quella latta rossa sullo scaffale in fondo.» Eph guardò. «La latta di benzina?» Il vecchio annuì e lui capì al volo. Si schiarì la gola, alzò di nuovo la pistola sparachiodi, puntò e premette due volte il grilletto. L'utensile modificato in arma era preciso a quella distanza. Il combustibile gorgogliò dalla latta forata e dallo scaffale di legno si riversò sul terreno. Setrakian aprì il leggero soprabito e pescò da una tasca nella fodera una piccola scatola. Con il dito deforme prelevò un fiammifero di legno, lo strofinò sulla striscia abrasiva, creò una fiamma arancione nella notte. «Il signor Barbour è liberato» annunciò.
Lanciò il fiammifero acceso e la baracca di legno prese fuoco.
Rego Park Center, Queens Matt passò un'intera rastrelliera di abiti coordinati per giovani, poi mise nella fondina il lettore di codice a barre e scese di sotto per uno spuntino. L'inventario dopo l'orario di lavoro in realtà non era poi tanto brutto. Come direttore del magazzino Sears, poteva usare lo straordinario a fronte di permessi nei giorni feriali. E il resto del negozio era chiuso a chiave, le serrande di sicurezza erano abbassate, quindi non c'erano clienti, niente folla. E non doveva mettersi la cravatta. Prese la scala mobile per il reparto di raccolta merci, dove c'erano i migliori distributori automatici. Stava tornando indietro attraverso i banchi di bigiotteria del pianterreno, mangiando Chuckles di gelatina (in crescente ordine di preferenza: liquirizia, limone, lime, arancia, ciliegia) quando udì un rumore fuori, nel negozio vero e proprio. Andò alla grande saracinesca d'acciaio e vide una guardia di sicurezza strisciare sul pavimento, tre piani più in basso. L'uomo si era portato la mano alla gola, come se soffocasse o fosse gravemente ferito. «Ehi!» chiamò Matt. La guardia lo vide e protese la mano, non un segno di saluto, ma un gesto di supplica per chiedere aiuto. Lui tirò fuori il mazzo di chiavi, girò quella più lunga nella fessura della parete, facendo alzare la saracinesca di un metro o poco più, abbastanza da passarci sotto, e corse accanto all'uomo. La guardia gli afferrò il braccio; Matt la tirò su e la mise su una panchina poco distante, accanto alla fontana dei desideri. L'uomo ansimava. Notò sangue sul collo e fra le dita, ma meno di quanto ce ne sarebbe stato per una coltellata. C'erano macchie rosse pure sulla camicia dell'uniforme e l'inguine era bagnato; se l'era fatta addosso. Matt lo conosceva solo di vista e lo considerava una sorta di
pezzo di merda. Un tipo dalle braccia robuste che pattugliava il magazzino tenendo i pollici nella cintura come uno sceriffo del Sud. In quel momento, senza cappello, vide che cominciava a perdere i capelli: alcuni ciuffi neri, disordinati e imbrillantinati, gli coprivano la zucca come chiazze d'olio. L'uomo pareva di gomma e gli si teneva aggrappato al braccio, gli faceva male e non dimostrava molto coraggio. Matt continuò a chiedergli che cosa fosse accaduto, ma quello era in iperventilazione e si guardava intorno da tutte le parti. Poi udì una voce e capì che proveniva dalla radio agganciata alla cintura. Prese il ricevitore. «Pronto? Qui Matt Sayles, direttore del Sears. Ehi, c'è qui al pianterreno uno dei vostri, ferito. Sanguina dal collo e ha un colorito grigiastro.» «Sono il suo supervisore» rispose la voce all'altro capo. «Cosa sta succedendo laggiù?» L'uomo lottava per sputare qualcosa, ma dalla gola dolorante usciva sibilando solo aria. «È stato assalito» riferì Matt. «Ha lividi ai lati del collo e anche ferite... è spaventato a morte. Ma non vedo nessun altro...» «Arrivo subito, dalla scala di servizio» disse il supervisore. Matt sentiva il rumore di passi sopra la trasmissione radio. «Dove ha detto...» Si interruppe. Matt attese che si rimettesse in comunicazione, poi premette il pulsante di trasmissione. «Dove ho detto cosa?» Tolse il dito e aspettò. Di nuovo niente. «Pronto?» Un veloce brandello di trasmissione, meno di un secondo. Una voce che urlava, soffocata: «GARGAHRAH...». La guardia cadde in avanti dalla panchina, strisciò carponi e si trascinò verso il Sears. Matt si alzò, la radio in mano, e si girò verso il cartello dei gabinetti accanto ai quali c'era la porta della scala di servizio. Sentì scendere rumori sordi, simili a calci. Poi un ronzio ben noto. Si girò verso il suo negozio e vide la
saracinesca di sicurezza abbassarsi. Aveva lasciato le chiavi appese al quadro di comando. La guardia terrorizzata voleva chiudersi dentro. «Ehi... ehi!» gridò Matt. Ma, prima di correre verso il negozio, sentì una presenza alle sue spalle. La guardia arretrò, a occhi sbarrati, sbattendo a terra una rastrelliera di vestiti, e strisciò via. Matt si girò e vide due ragazzi in jeans troppo larghi e felpa di cashmere con cappuccio. Stavano uscendo dal corridoio che portava ai bagni. Parevano drogati, avevano la pelle ingiallita e le mani vuote. Tossici. Matt sentì crescere la paura, pensò che forse con una siringa sporca avevano colpito la guardia. Prese il portafogli e lo tirò a uno di loro. Il ragazzo non si mosse per prenderlo al volo: l'oggetto gli sbatté addosso e cadde a terra. Matt arretrò contro la saracinesca del negozio, mentre i due si avvicinavano.
Vestry Street, Tribeca Eph fermò l'auto sull'altro lato della via, di fronte alla residenza di Bolivar, due case unifamiliari adiacenti, con la facciata coperta da un ponteggio alto tre piani. Attraversarono la via e andarono alla porta, ma la trovarono sbarrata con assi. Non era una soluzione temporanea, perché l'anta era coperta di spesse tavole imbullonate all'intelaiatura. Chiusura ermetica. Eph guardò la facciata dell'edificio e il cielo notturno. «E questo sarebbe il nascondiglio?» osservò. Mise il piede sul ponteggio e cominciò a salire. Setrakian lo bloccò. C'erano testimoni sul marciapiede, davanti ai palazzi vicini. Fermi a guardare nel buio. Eph andò da loro. Trovò nella tasca della giacca lo specchio con il fondo d'argento e afferrò un ragazzo per controllare l'immagine riflessa. Nessun tremolio.
Il giovane, che non aveva più di quindici anni ed era truccato con tristi colori gotici e rossetto nero, si liberò dalla stretta di Eph. Con il suo specchio Setrakian controllò gli altri. Nessuno di loro era cambiato. «Fan di Bolivar» disse Nora. «Una veglia.» «Via di qui» ringhiò Eph. Ma erano ragazzi di New York, non avevano l'obbligo di spostarsi e lo sapevano. Il vecchio guardò verso l'edificio di Bolivar. Le finestre della facciata erano buie, ma di notte era impossibile dire se fossero oscurate o semplicemente in fase di ristrutturazione. «Arrampichiamoci sul ponteggio» propose Eph. «Rompiamo una finestra.» Abraham scosse la testa. «Ormai non possiamo più entrare senza che chiamino la polizia e la arrestino. Lei è ricercato, ricorda?» Si appoggiò al bastone da passeggio, diede ancora un'occhiata al palazzo buio e cominciò ad allontanarsi. «No... non ci resta che aspettare. Scopriamo il possibile su questo edificio e sul suo proprietario. Forse ci aiuterà a sapere in anticipo dove ci stiamo cacciando.»
LUCE DEL GIORNO
Bushwick, Brooklyn Il mattino seguente la prima fermata di Vasiliy Fet fu una casa a Bushwick, non lontano dalla zona dove lui era cresciuto. Chiamate d'ispezione giungevano da tutte le parti e il normale periodo di attesa, due o tre settimane, era raddoppiato. Vasiliy stava ancora completando il programma del mese precedente e aveva promesso a quel tizio che sarebbe andato da lui. Posteggiò dietro una Sable argento e tirò fuori dal furgone il suo armamentario, il pezzo di tondino di ferro e il carrello magico di trappole e veleni. Per prima cosa notò un rivolo che correva lungo il passaggio fra due case a schiera, un chiaro e lento filo d'acqua, come prodotto da un tubo rotto. Non appetitoso come cremoso liquame marrone, ma più che sufficiente per idratare un'intera colonia di topi. Una finestra del seminterrato era rotta, tappata con stracci e vecchi asciugamani. Poteva essere semplice degrado urbano o forse opera degli "idraulici di mezzanotte", una nuova razza di ladri di rame che strappavano tubi da vendere nei depositi di pezzi di recupero. La banca possedeva ormai tutt'e due le case, contigue proprietà d'investimento che, in seguito alla crisi dei mutui subprime, tornavano ai proprietari, i quali le perdevano perché non avevano più il diritto di cancellare l'ipoteca. Vasiliy doveva incontrare lì un amministratore. La porta della prima casa non era chiusa a chiave e lui bussò e provò a chiamare. Sporse la testa nella prima stanza davanti alla scala e controllò i battiscopa alla ricerca di perdite e di escrementi. Uno scuro rotto pendeva da una finestra e gettava un'ombra obliqua sul pavimento di legno incavato. Nessun amministratore in vista. Vasiliy era troppo impegnato per aspettare. Oltre al lavoro arretrato, non era riuscito a dormire bene la notte prima e quel mattino voleva tornare al sito del World Trade Center per parlare con un responsabile. Trovò il sostegno metallico di un portablocco infilato fra le colonnine nel terzo gradino della scala. Il nome della ditta nel biglietto da visita era uguale a quello sul suo
ordine di lavoro. «C'è nessuno?» chiamò, poi lasciò perdere. Trovò la porta delle scale del seminterrato e decise di cominciare comunque. Lo scantinato era buio a causa della finestra tappata che aveva scorto da fuori; la fornitura elettrica era stata sospesa da molto tempo. Era poco probabile che fosse rimasta anche una sola lampadina sul soffitto. Vasiliy lasciò il carrello a bloccare la porta aperta e scese portandosi dietro il tondino di ferro. La scala curvava a sinistra. Vide prima i mocassini, poi le gambe rivestite di tessuto cachi: l'amministratore era seduto contro il muro di pietra laterale, in una postura da drogato, la testa da un lato, gli occhi aperti ma fissi, istupiditi. Vasiliy era stato in diverse case abbandonate di parecchi quartieri turbolenti e sapeva che era meglio non precipitarsi accanto al tizio a terra. Dall'ultimo scalino si guardò intorno, con occhi lenti ad abituarsi al buio. Il seminterrato non aveva niente di speciale, a parte due pezzi di tubo di rame buttati a terra. A destra della scala c'era la base del camino, adiacente all'impianto di riscaldamento che vi si sfiatava. Vasiliy vide, arricciate in basso intorno all'angolo lontano della malta del camino, quattro dita sporche. Qualcuno era lì acquattato, si nascondeva, aspettava lui. Si girò per risalire e chiamare la polizia quando vide scomparire la luce intorno alla curva degli scalini. La porta era stata chiusa. Da qualcun altro in cima. Il primo impulso fu di scappare e lui scappò, correndo dritto al camino dove il padrone della mano sporca era acquattato. Con un grido d'attacco, vibrò un colpo di tondino sulle nocche, schiacciando l'osso contro la malta. L'assalitore gli si lanciò contro a gran velocità, senza badare al dolore. "Il crack ha questi effetti" pensò Vasiliy. Si trattava di una ragazza di neanche vent'anni, sporca dappertutto, con sangue sul petto e intorno alla bocca. Fet vide tutto in un lampo confuso, mentre veniva aggredito a una velocità incredibile e con una forza
ancora più incredibile, e spinto indietro a sbattere contro la parete opposta, malgrado la giovane fosse la metà di lui. Emise un suono sfiatato e furioso e, quando aprì la bocca, estrasse una lingua di lunghezza fuori del normale. Vasiliy alzò subito lo stivale e la colpì nel petto mandandola lunga distesa sul pavimento. Udì passi scendere la scala e capì di non poter vincere una lotta nel buio. Con il tondino raggiunse la finestra bloccata, agganciò gli stracci che vi erano infilati e li tirò via, come un tappo da una diga dalla quale si riversò luce anziché acqua. Si girò appena in tempo per vedere gli occhi della ragazza spalancarsi d'orrore. Lei era finita in pieno nel riquadro di luce del sole e il suo corpo emetteva una sorta di ululato di dolore e crollava, schiacciato e fumante. Era come lui immaginava che le radiazioni nucleari agissero su una persona, cuocendola e dissolvendola al tempo stesso. Accadde tutto in un attimo. La ragazza, o qualsiasi cosa fosse, giacque disseccata sul lurido pavimento del seminterrato. Fet la fissò, più che inorridito. Si era completamente dimenticato del tizio che scendeva la scala, finché lo udì gemere in reazione alla luce. L'uomo arretrò, inciampò accanto all'amministratore, riprese l'equilibrio e si lanciò su per i gradini. Vasiliy si riprese appena in tempo. Andò sotto la scala, spinse il tondino di ferro tra le tavole degli scalini, lo sgambettò e lo mandò a cadere di nuovo pesantemente sul pavimento. Girò intorno alla scala, il tondino alzato, mentre l'uomo si tirava in piedi. La sua pelle, un tempo bruna, era di un nauseante giallo itterico. La bocca si aprì e Vasiliy vide che non aveva la lingua, ma qualcosa di molto peggio. Con la sbarra lo colpì sulle labbra. L'uomo girò su se stesso e cadde sulle ginocchia. Allora lo afferrò per la collottola, come avrebbe fatto con un serpente o un topo, tenendo lontano da sé quella roba nella bocca. Voltò la testa per guardare il rettangolo di luce e il turbinio di particelle della ragazza annientata. Sentì il tipo dimenarsi e lottare per fuggire via. Con il tondino gli diede un potente colpo sulle ginocchia e lo spinse a forza verso la luce.
Pazzo di paura, si rese conto di voler assistere di nuovo a ciò che era successo prima. A quel trucco assassino della luce. Con uno stivale sul fondo della schiena spinse l'uomo a dibattersi sotto il sole... e lo guardò sbriciolarsi subito, lacerato dai raggi ardenti, e ridursi in cenere e vapore.
South Ozone Park, Queens La limousine di Eldritch Palmer entrò in un magazzino costruito su un terreno industriale pieno d'erbacce a meno di due chilometri dal vecchio ippodromo di Aqueduct. Palmer aveva viaggiato in un modesto corteo d'auto, dove la sua era seguita da una seconda limousine vuota, in caso che la prima si guastasse, e da un terzo veicolo, un furgone nero modificato su misura, che in realtà era un'ambulanza privata completa di apparecchiature per la dialisi. Una porta si aprì nel fianco del magazzino per lasciar passare i veicoli, poi si chiuse dietro di loro. Ad accogliere Palmer c'erano quattro membri della Stoneheart Society, un sottoinsieme del suo potente conglomerato internazionale d'investimento, lo Stoneheart Group. Il signor Fitzwilliam aprì la portiera e il magnate scese dall'auto, suscitando il timore reverenziale dei quattro. Un incontro con il presidente era un privilegio raro. Tutti indossavano un completo scuro che imitava quello del presidente. Palmer era abituato a incutere soggezione. Gli investitori del suo gruppo lo consideravano una figura messianica la cui conoscenza anticipata dei movimenti di mercato li aveva arricchiti. Ma i discepoli della sua società... loro lo avrebbero seguito anche all'inferno. Il magnate si sentiva rinvigorito, quel giorno, e stava in piedi col solo aiuto di un bastone di mogano. L'ex magazzino di uno scatolificio era in gran parte vuoto. Lo Stoneheart Group lo usava di tanto in tanto per tenervi automezzi, ma quel giorno il suo valore consisteva nell'inceneritore sotterraneo di vecchio tipo, non a
norma, accessibile da un largo sportello tipo forno nella parete. Accanto ai membri della Stoneheart Society c'era un modulo d'isolamento Kurt su ruote. Fitzwilliam stava al fianco del suo datore di lavoro. «Ci sono stati problemi?» chiese Palmer ai quattro. «Nessuno, signor presidente» risposero. I due che assomigliavano ai dottori Goodweather e Martinez passarono al signor Fitzwilliam le credenziali falsificate del CDC. Palmer guardò nel modulo d'isolamento trasparente la figura decrepita di Jim Kent. Il corpo del vampiro assetato di sangue era raggrinzito, come un demone intagliato nel legno di una betulla malata. I muscoli e le vene affioravano sotto la carne disintegrata, tranne che nella gola tumefatta e annerita. Gli occhi erano spalancati e fissi nelle cavità della faccia stiracchiata. Palmer provò pietà per quel vampiro pietrificato dalla sete. Sapeva cosa significasse per un corpo la bramosia della semplice manutenzione, mentre l'anima soffre e la mente aspetta. Sapeva cosa significasse essere tradito dal proprio creatore. Ora Eldritch Palmer si trovò all'apice di redenzione. A differenza di quel povero disgraziato, era sulla soglia della liberazione e dell'immortalità. «Distruggetelo» ordinò, e si tenne indietro mentre il modulo veniva spinto verso il portello del forno crematorio e il corpo era dato alle fiamme.
Pennsylvania Station Il viaggio a Westchester per trovare Joan Luss, la terza superstite del volo 753, fu interrotto dal notiziario del mattino. Bronxville era stata chiusa dalla polizia di Stato di New York e da squadre HazMat a causa di una "fuga di gas". Riprese di elicotteri dei media mostrarono la cittadina quasi immobile all'alba; le sole automobili sulla strada erano quelle della polizia. Il servizio seguente mostrò l'edificio dell'Ufficio centrale di medicina legale, all'angolo fra la
Trentesima e la Prima, mentre veniva sbarrato con assi, e avanzò ipotesi sulla sparizione di altre persone dalla zona e su episodi di panico fra i residenti. Eph, Nora e Setrakian cercarono un posto telefonico pubblico e venne loro in mente solo la Penn Station. Eph si fermò davanti a una serie di cabine, con gli altri due da un lato, come pendolari mattutini che si spostassero nella stazione. Eph richiamò sul cellulare di Jim l'elenco CHIAMATE RECENTI e cercò il numero diretto del direttore Barnes. Il collega andava vicino alle cento telefonate al giorno ed Eph continuò a far scorrere i numeri mentre, sulla linea fissa, Barnes rispondeva. «Everett» disse Eph «intende davvero continuare con la versione "fuga di gas"? Per quanto tempo crede che reggerà, al giorno d'oggi?» Barnes riconobbe la voce. «Ephraim, dov'è finito?» «È stato a Bronxville? Ha visto com'è ora?» «Ci sono stato... Non sappiamo ancora cosa abbiamo per le mani...» «Non sappiamo! Mi faccia il piacere, Everett.» «Stamattina hanno trovato la stazione di polizia vuota. L'intera città pare sia stata abbandonata.» «Non abbandonata. Sono tutti ancora lì, stanno solo nascosti. Al tramonto, la Westchester County sarà come la Transilvania. Le servono squadre d'assalto, Everett. Soldati. Che vadano di casa in casa per tutta la città, come se fosse Baghdad. È l'unico modo.» «Non vogliamo scatenare il panico...» «Il panico è già iniziato. Il panico è una risposta appropriata a questa minaccia, altro che la negazione della sua esistenza.» «Il dipartimento della Sanità di New York non ha indicazioni di un episodio epidemico.» «Loro controllano schemi di epidemie rintracciando ricoveri al pronto soccorso, chiamate d'ambulanza e vendite di farmaci. Niente di tutto questo figura nell'attuale scenario. L'intera città sta per fare la fine di Bronxville, se non intervenite.»
«Voglio sapere che cosa ha fatto a Jim Kent» disse il direttore Barnes. «Sono andato a trovarlo ed era già svanito.» «Mi hanno riferito che lei ha a che fare con la sua scomparsa.» «E chi sono io, Everett, l'uomo ombra? Ho forse il dono dell'ubiquità? Sono un genio del male. Sì, è vero.» «Ephraim, stia a sentire...» «Stia lei a sentire me. Sono un medico che lei ha assunto per fare un lavoro. Per riconoscere e bloccare possibili epidemie negli Stati Uniti. Le telefono per dirle che non è ancora troppo tardi. Questo è il quarto giorno dall'arrivo dell'aereo e dall'inizio della diffusione, ma c'è ancora una possibilità, Everett. Possiamo tenerli dentro New York City. Ascolti, i vampiri non possono attraversare i corsi d'acqua. Perciò possiamo mettere in quarantena l'isola, chiudere ogni ponte...» «Non ho quel tipo di potere... e lei lo sa.» Dagli altoparlanti giunse l'annuncio di un treno in arrivo. «A proposito, Everett, mi trovo nella Penn Station. Mandi l'FBI, se la fa piacere. Sarò sparito prima che arrivi.» «Ephraim... torni qui. Le darò un'opportunità di convincermi, di convincere tutti. Lavoriamo insieme a questa storia.» «No» ribatté Eph. «Ha appena detto di non avere quel tipo di potere. Questi vampiri, perché proprio di vampiri si tratta, Everett, sono virus incarnati e consumeranno la città finché non rimarrà nessuno di noi. La quarantena è la sola e unica risposta. Se vedo che si sta muovendo in questa direzione, forse prenderò in esame la possibilità di tornare ed essere d'aiuto. Fino a quel momento, Everett...» Riagganciò. Nora e Setrakian aspettarono che dicesse qualcosa, ma un nome nell'elenco dei numeri telefonici di Jim aveva destato l'interesse di Eph. Tutti i contatti erano elencati per cognome e nome, tranne uno. Un centralino locale, al quale Jim aveva fatto una serie di chiamate negli ultimi giorni. Riprese il telefono, premette lo zero e seguì le istruzioni registrate fino a parlare con una vera operatrice della Verizon. «Sì, ho un numero nella rubrica del cellulare e non ricordo a chi appartiene; vorrei evitarmi l'imbarazzo, prima di
chiamarlo. È un centralino, perciò credo che sia un telefono fisso. Potrebbe fare una ricerca per risalire all'utente?» Lesse all'operatrice il numero e sentì le dita battere su una tastiera. «È registrato al settantaseiesimo piano Stoneheart Group. Desidera l'indirizzo?»
dell'edificio
dello
«Sì, grazie.» Coprì il microfono e disse a Nora: «Perché Jim telefonava a qualcuno dello Stoneheart Group?». «Stoneheart?» ripeté Nora. «Ti riferisci alla compagnia di investimenti di quel vecchio?» «Un guru finanziario» replicò Eph. «Il secondo uomo più ricco del paese, credo. Palmer... qualcosa Palmer.» «Eldritch Palmer» intervenne Setrakian. Eph lo guardò. Lesse costernazione sul viso dell'ex professore. «Cosa sa di lui?» «Quell'uomo, Jim Kent, non era suo amico.» «Che significa?» chiese Nora. «Certo che era...» Avuto l'indirizzo, Eph riagganciò. Poi richiamò il numero sullo schermo del cellulare di Jim e premette invio. Il telefono squillò. Niente risposta, niente segreteria. Eph interruppe la comunicazione, continuando a fissare il telefono. «Ricordi la direttrice del reparto d'isolamento, dopo che i superstiti se n'erano andati?» disse Nora. «Sosteneva di avere chiamato. Jim affermava che non l'aveva fatto e poi si è lamentato di essersi perso alcune telefonate.» Eph annuì. Non aveva senso. Guardò Setrakian. «Cosa sa di questo Palmer?» «Molti anni fa venne da me per farsi aiutare a trovare una persona. Una persona che anch'io ero interessato a trovare.» «Sardu» azzardò Nora. «Lui aveva i fondi, io le conoscenze. Ma l'accordo terminò dopo solo qualche mese. Mi resi conto che cercavamo Sardu per due
motivi molto diversi.» «Fu lui a rovinarle la carriera all'università?» domandò Nora. «L'ho sempre sospettato» rispose Setrakian. Il cellulare di Jim vibrò in mano a Eph. Il numero non era in rubrica, ma si trattava di un centralino di New York. Una chiamata da qualcuno dello Stoneheart, forse. Eph rispose. «Sì» disse una voce «è il CDC?» «Chi parla?» La voce era rauca e profonda. «Cerco il tizio delle epidemie del progetto Canary che è coinvolto in tutto questo casino. Non me lo potrebbe passare?» Eph sospettò una trappola. «Per quale motivo vuole parlargli?» «Chiamo da una casa di Bushwick, qui a Brooklyn. Ho nel seminterrato due morti di isteria da eclissi. Non amavano il sole. Le dice qualcosa?» Eph sentì un fremito d'entusiasmo. «Lei chi è?» «Mi chiamo Fet. Vasiliy Fet. Lavoro all'Ufficio per il controllo degli animali nocivi, sono un disinfestatore coinvolto in un programma pilota a Lower Manhattan finanziato con settecentocinquantamila dollari dal CDC. Ecco perché ho il suo numero di telefono. Ho ragione di pensare che lei sia Goodweather?» Eph esitò un momento. «Giusto.» «Allora si potrebbe dire che lavoro per lei. Non avrei saputo a chi altro rivolgermi. Ma sto vedendo segni in tutta la città.» «Non è colpa dell'eclissi» disse Eph. «Credo di saperlo. Penso che sia il caso che venga qui. Perché c'è qualcosa che deve vedere.»
Stoneheart Group, Manhattan Eph doveva fare due fermate durante il tragitto. Una da solo, l'altra con Nora e Setrakian. Le credenziali del CDC gli permisero di passare un controllo di sicurezza nell'atrio principale dell'edificio dello Stoneheart, ma non il secondo al settantaseiesimo piano, dove era necessario cambiare ascensore per avere accesso agli ultimi dieci livelli del palazzo in centro città. Due enormi guardie del corpo stavano sul massiccio logo d'ottone dello Stoneheart Group intarsiato nel pavimento di onice. Dietro di loro, uomini in tuta addetti ai traslochi attraversavano l'atrio, spostando su carrelli grandi apparecchiature mediche. Eph chiese di vedere Eldritch Palmer. Il più grosso dei due quasi sorrise. La fondina ascellare gli provocava un notevole rigonfiamento sotto la giacca del completo. «Il signor Palmer non riceve visite senza appuntamento.» Eph riconobbe uno dei macchinari che venivano smontati e messi in casse. Era un'apparecchiatura per dialisi Fresenius da ospedale, molto costosa. «State facendo i bagagli» disse. «Vi trasferite. Ve ne andate da New York finché è possibile. Ma il signor Palmer non avrà bisogno del rene artificiale?» Le guardie del corpo non risposero, non si girarono neanche a guardare. Allora Eph capì. O pensò di avere capito. I tre si incontrarono di nuovo davanti alla casa di Jim e di Sylvia, un edificio a molti piani nell'Upper East Side. «È stato Palmer a portare in America il Padrone» disse Setrakian. «Perché è disposto a rischiare ogni cosa, anche il futuro della razza umana, per raggiungere i suoi scopi.»
«Ossia?» chiese Nora. «Credo che Eldritch Palmer intenda vivere per sempre» rispose Setrakian. «No, se possiamo impedirlo» replicò Eph. «Applaudo la sua determinazione, ma il mio vecchio conoscente ha ricchezza e influenza, quindi tutti i vantaggi. È il suo finale di partita, capisce? Non ha modo di tornare indietro. Farà ciò che occorre per raggiungere la meta.» Eph non poteva permettersi di pensare in grande, altrimenti forse avrebbe scoperto di combattere una battaglia già persa. Si concentrò sul compito in corso. «Che cosa avete trovato?» «La mia breve visita alla Historical Society di New York ha dato frutti» ammise Setrakian. «La proprietà in questione è stata completamente ricostruita da un distillatore clandestino di liquori e contrabbandiere che ha fatto fortuna durante il Proibizionismo. La polizia ha fatto irruzione parecchie volte nella sua casa, ma non ha mai trovato più di una pinta di liquore distillato illecitamente, grazie, si diceva a quel tempo, a una rete di tunnel e di fabbriche sotterranee. Alcune di quelle gallerie furono in seguito ampliate per farvi passare linee della metropolitana.» Eph guardò Nora. «E tu?» «Stessa cosa. E quel Bolivar ha comprato la proprietà perché era l'alloggio di un vecchio distillatore clandestino e perché si diceva che il precedente proprietario fosse un satanista e celebrasse messe nere all'altare sul tetto, verso la fine del ventesimo secolo. Nell'ultimo anno Bolivar ha fatto rimodernare l'edificio per poi collegarlo a quello vicino, realizzando una delle più vaste residenze private di New York.» «Bene» disse Eph. «Dove sei stata, in biblioteca?» «No» rispose Nora porgendogli delle stampe di fotografie dell'interno della casa originaria e di Bolivar con il trucco di scena. «La rivista "People" su Internet. Sono andata con il computer portatile in uno Starbucks.» Il cicalino segnalò che la porta d'ingresso era aperta. Entrarono e
salirono in ascensore fino all'ottavo piano, dove c'era il piccolo appartamento di Jim e Sylvia. La donna venne ad aprire in una fluente veste di lino che ben si adattava a chi teneva una rubrica di oroscopi, con i capelli tirati indietro da una larga fascia. Fu sorpresa di vedere Nora e doppiamente sorpresa di vedere Eph. «Cosa state combinando...» Eph entrò. «Sylvia, abbiamo domande molto importanti e pochissimo tempo. Cosa sai di Jim e dello Stoneheart Group?» Lei si portò una mano al petto, come se non avesse capito. «Il... cosa?» Eph vide uno scrittoio nell'angolo, con un gatto soriano appisolato sopra un computer portatile chiuso. Lo raggiunse e cominciò ad aprire i cassetti. «Ti dispiace se do una rapida occhiata alle sue cose?» «No, se pensi che sia d'aiuto. Fa' pure.» Setrakian rimase accanto alla porta, mentre Eph e Nora frugavano nello scrittoio. Pareva che Sylvia ricevesse una forte vibrazione per la presenza del vecchio. «Volete qualcosa da bere?» «No» rispose Nora, con un rapido sorriso, rimettendosi a rovistare. «Torno subito» si scusò Sylvia e andò in cucina. Eph si scostò, perplesso, dallo scrittoio pieno di roba. Non sapeva nemmeno cosa stesse cercando. Jim lavorava per Palmer? Da quanto tempo? E per quale motivo, comunque? Denaro? Si sarebbe rivoltato così contro di loro? Decise di fare a Sylvia una delicata domanda sulle loro finanze, lasciò la stanza e la seguì in cucina. Nel girare l'angolo, vide che lei riagganciava il telefono a muro. La donna indietreggiò di un passo, con un'espressione strana. In un primo momento Eph rimase confuso. «Sylvia, chi hai chiamato?» Gli altri entrarono dietro di lui. Sylvia protese la mano verso la parete alle sue spalle, poi si lasciò cadere su una sedia.
«Sylvia, cosa succede?» la incalzò Eph. E lei, senza muoversi, con un irreale senso di calma negli occhi spalancati, accusatori, rispose: «Siete destinati a perdere».
Scuola PS 69, Jackson Heights Di solito Kelly in classe non teneva acceso il cellulare, ma ora l'aveva impostato in modalità silenziosa e appoggiato a sinistra del tampone di carta assorbente. Matt era rimasto fuori tutta la notte, cosa non insolita in giornate d'inventario; spesso alla fine portava a cena la squadra. Ma telefonava sempre per accertarsi che tutto andasse bene. Benché la scuola vietasse l'uso del telefonino, lei aveva fatto alcune chiamate al compagno di nascosto e aveva trovato sempre la segreteria. Forse Matt era in un posto in cui non c'era segnale. Cercò di non preoccuparsi, ma stava perdendo la battaglia. La presenza in aula era bassa. Rimpianse di avere dato retta a Matt e di avere ceduto alla sua arroganza sulla decisione di lasciare la città. Se avesse messo in pericolo Zack... Poi vide che il cellulare si era acceso e mostrava l'icona della busta. Un messaggio dal cellulare di Matt. Diceva "vieni a casa". Tutto qui. Tre parole, in minuscolo, niente punteggiatura. Provò a richiamarlo subito. Il telefono squillò e poi smise, come se lui avesse risposto. Ma non disse niente. «Matt? Matt?» I suoi alunni di quarta la guardarono in modo strano. Non avevano mai visto la signora Goodweather usare il cellulare in classe. Kelly provò sul telefono di casa e udì il segnale di occupato. La segreteria era guasta? Quand'era l'ultima volta che aveva sentito quel segnale? Decise di andarsene. Avrebbe chiesto a Charlotte di lasciare aperta la porta dell'aula vicina e di tenere d'occhio i suoi alunni. Pensò di smetterla per quel giorno e di passare a prendere Zack a scuola, ma
poi cambiò idea. Sarebbe corsa a casa, avrebbe scoperto cosa non andava, avrebbe valutato le possibili scelte e sarebbe partita da lì.
Bushwick, Brooklyn L'uomo che li aspettava nella casa vuota riempiva gran parte del vano della porta. Un'ombra di barba gli anneriva la mascella sporgente come una spolverata di fuliggine. Teneva lungo il fianco un grosso sacco bianco, la mano stretta all'imboccatura: una federa troppo grande con dentro qualcosa di pesante. Dopo le presentazioni, l'uomo prese dal taschino della camicia una copia spiegazzata di una lettera d'accompagnamento con il timbro del CDC e la passò a Goodweather. «Ha detto di avere una cosa da mostrarci» esordì Eph. «Due. Prima questa.» Sciolse il legaccio del sacco e rovesciò a terra il contenuto. Quattro roditori pelosi caddero in un mucchio, tutti morti. Eph balzò indietro e Nora ansimò. «Come dico sempre, se vuoi l'attenzione della gente, porta un sacco di topi.» Ne prese uno per la coda e la carcassa ruotò lentamente a mezz'aria. «Escono dalle tane in tutta la città. Anche di giorno. Qualcosa li spinge fuori. Insomma, la faccenda non quadra. So che durante la peste nera i ratti uscivano e cadevano morti nelle strade. Questi però non vengono fuori per morire. Sono ben vivi, disperati e affamati. Fidatevi della mia parola: se vedete un grande cambiamento nell'ecologia dei roditori, significa brutte notizie in arrivo. Quando queste bestie si fanno prendere dal panico, è ora di vendere le azioni. Ora di andarsene. Capite cosa intendo?» «Capisco, sì!» esclamò Setrakian. «Mi sfugge un particolare» intervenne Eph. «Cos'hanno a che fare i topi con...» «Sono un segnale» spiegò Setrakian «come sostiene giustamente il signor Fet. Un sintomo ecologico. Stoker rese popolare il mito del
vampiro che può cambiare forma, trasformarsi in una creatura notturna come un pipistrello o un lupo. Questo falso concetto deriva da una verità. Prima che le abitazioni avessero scantinati, i vampiri si annidavano in tane ai margini dei villaggi. La loro presenza allontanava gli animali, pipistrelli e lupi, che infestavano i villaggi... la loro comparsa coincideva sempre con la diffusione della malattia e la corruzione delle anime.» Fet ascoltava attentamente le parole del vecchio. «Sa una cosa? Le ho sentito dire due volte la parola "vampiro".» Setrakian lo guardò senza battere ciglio. «Esattamente.» Dopo una pausa di riflessione e una lunga occhiata agli altri, Vasiliy pareva avere iniziato a capire. «D'accordo. Ora lasciate che vi mostri l'altra cosa.» Li guidò nel seminterrato. L'odore era d'incenso andato a male, di qualcosa di malato che fosse stato bruciato. Mostrò loro le particelle di carne e d'osso, ormai fredda cenere sul pavimento del seminterrato. Il rettangolo di luce del sole prodotto dalla finestra si era allungato e colpiva la parete. «Risplendeva qui e quelli ci sono finiti dentro e sono stati cucinati in un istante. Prima però mi hanno assalito con quella... con quella cosa che saettava da sotto la lingua.» Setrakian gli riassunse l'accaduto. Il Padrone stivato nel volo 753. La bara scomparsa. I morti dell'obitorio che risorgevano e tornavano dai loro cari. I nidi in famiglia. Lo Stoneheart Group. L'argento e la luce del sole. Il pungiglione. «La testa si piegava all'indietro» disse Fet «e la bocca si apriva... ed era come quel distributore di caramelle, quello che finiva con la testa di un personaggio di Guerre stellari.» «Un distributore Pez» disse Nora dopo un momento. «Proprio quello. Spingi il mento e il bonbon salta fuori dal collo.» Eph annuì. «A parte le caramelle, un'analogia adeguata.» Vasiliy guardò Eph. «Allora perché lei è il nemico pubblico numero uno?» «Perché il silenzio è la loro arma.» «Al diavolo, allora. Qualcuno deve fare un po' di rumore.»
«Proprio così» confermò Eph. Setrakian notò la torcia agganciata alla cintura di Fet. «Mi permetta una domanda. Nella sua professione si usa la luce nera, se non sbaglio.» «Certo. Per rilevare tracce di urina dei topi.» Setrakian lanciò un'occhiata a Eph e a Nora. Vasiliy guardò meglio il vecchio in completo e panciotto. «Lei sa qualcosa di disinfestazione?» «Ho fatto un po' d'esperienza» rispose Setrakian. Si avvicinò all'amministratore cambiato, che si era allontanato, strisciando lontano dalla luce del sole, e adesso era rannicchiato nell'angolo opposto. Lo esaminò con uno specchio dal fondo argentato e mostrò a Fet il risultato. Il disinfestatore girò lo sguardo dall'uomo come lo vedeva alla macchia confusa riflessa nello specchio. «Lei mi pare esperto in creature che scavano tane e si nascondono» proseguì Setrakian. «Creature che nidificano. Che si cibano della popolazione umana. Il suo lavoro è scacciare quei parassiti?» Fet guardò lui e gli altri come chi sia salito su una vettura della metropolitana che acquista velocità nell'uscire dalla stazione e all'improvviso si renda conto di trovarsi sul treno sbagliato. «In cosa mi state coinvolgendo?» «Ci spieghi, per favore. Se i vampiri fossero parassiti che stanno infestando rapidamente la città, come li fermerebbe?» «Posso dirle che, dal punto di vista del controllo degli animali nocivi, i bocconi velenosi e le trappole sono soluzioni a breve termine che non funzioneranno a lungo andare. Prendendoli a uno a uno non si va da nessuna parte. I topi che si fanno vedere sono i più deboli. I più stupidi. Quelli furbi sanno come sopravvivere. Ci vuole il controllo. Sistemare l'habitat, rovinare il loro ecosistema. Rimuovere le scorte di cibo e ridurli alla fame. Allora si arriva alla radice dell'infestazione e la si spazza via.» Setrakian annuì lentamente e guardò Eph. «Il Padrone. La radice del male. Da qualche parte a Manhattan proprio ora.» Riportò gli occhi sul disgraziato rannicchiato sul pavimento, che di notte si sarebbe rianimato, sarebbe diventato un vampiro, un parassita.
«Tiratevi indietro, per favore» disse sguainando la spada. Con un colpo a due mani decapitò l'uomo lì dov'era disteso. Mentre un sangue rosa pallido sgorgava dal collo mozzato - l'ospite non aveva completato il cambiamento - il vecchio ripulì la spada sulla camicia del vampiro e la rimise nel bastone da passeggio. «Se solo avessimo qualche indizio sul posto dove si annida il Padrone! La tana sarà stata approvata in anticipo e forse scelta perfino da lui stesso. Un covo degno della sua statura. Un luogo di tenebre, riparato dal mondo umano esterno, ma con facile accesso alla superficie.» Si rivolse a Fet. «Ha idea da dove vengano fuori quei topi? L'epicentro della loro fuga?» Fet annuì subito, lo sguardo fisso in lontananza. «Credo di saperlo.»
Church Street e Fulton Nella declinante luce del giorno, i due epidemiologi, il gestore del banco di pegni e il disinfestatore erano sulla piattaforma panoramica sul bordo superiore del cantiere del World Trade Center, uno scavo largo un isolato e profondo una ventina di metri. Le credenziali di Fet e una piccola bugia - Setrakian non era un famoso rattologo di Omaha - li portarono nel tunnel della metropolitana, senza scorta. Vasiliy li guidò lungo la linea fuori servizio che aveva seguito nella precedente occasione, illuminando con la torcia i binari senza topi. Il vecchio scavalcò con prudenza le traversine, scegliendo con il bastone da passeggio il percorso lungo il letto di pietrisco. Eph e Nora avevano le lampade UVE. «Lei non è russo» disse Setrakian a Fet. «Solo i genitori e il nome.» «In Russia sono chiamati "vourdalak". Il mito prevalente è che si ottiene l'immunità da loro se si mescola sangue di vourdalak e farina, si fa il pane e si mangia.» «E funziona?»
«Come ogni altro rimedio popolare. Ossia non molto.» Si mantenne alla destra del terzo binario elettrificato. «Quel bastone d'acciaio pare utile.» Fet guardò il pezzo di tondino. «È grossolano. Come me, direi. Ma fa il suo dovere. Proprio come me.» Setrakian abbassò la voce per evitare l'eco del tunnel. «Ho altri strumenti che potrebbe trovare almeno altrettanto efficaci.» Vasiliy vide la manichetta della pompa alla quale avevano lavorato i sandhogs. Più avanti il tunnel girava e si allargava e riconobbe subito l'incrocio. «Qua dentro.» Mosse in giro il raggio di una torcia, mantenendolo basso. Si fermarono ad ascoltare il gocciolio d'acqua. Fet esaminò il terreno con la lampada. «L'ultima volta ho messo sul terreno della polvere per le tracce. Vedete?» Nella polvere c'erano orme umane. Scarpe di cuoio, scarpe da ginnastica e piedi scalzi. «Chi gira scalzo in un tunnel di metropolitana?» commentò Fet. Setrakian alzò la mano per chiedere silenzio. L'acustica del tunnel simile a un tubo portava gemiti lontani. «Oddio...» bisbigliò Nora. «Le lampade» disse piano Setrakian. «Accendetele, per favore.» Eph e Nora ubbidirono; i potenti raggi UVE illuminarono il buio sotterraneo mettendo in mostra un folle turbinio di colori. Innumerevoli macchie impiastravano alla rinfusa il terreno, le pareti, i montanti d'acciaio... ogni cosa. Fet si ritrasse, disgustato. «Ma è tutta...» «Escrementi» intervenne Setrakian. «Le creature defecano mentre mangiano.» Il disinfestatore si guardò intorno, stupito. «Immagino che un vampiro non abbia bisogno di igiene.» Il vecchio stava arretrando. Ora impugnava diversamente il bastone da passeggio, la parte superiore sporgeva di vari centimetri da quella inferiore, lasciando vedere la lucente lama affilata.
«Dobbiamo andarcene da qui. Subito.» Fet tendeva l'orecchio ai rumori provenienti dai tunnel. «Niente in contrario, per me.» Eph urtò qualcosa con il piede e saltò indietro, aspettandosi topi. Diresse la torcia sul terreno e scorse in un angolo una bassa montagnola di oggetti. Erano telefoni cellulari. Un centinaio o più, ammucchiati come se qualcuno li avesse buttati via. «Ah» osservò Fet. «Qualcuno ha mollato quaggiù un carico di telefonini.» Eph ne raccolse alcuni in cima alla pila. I primi due non funzionavano. Il terzo aveva solo una tacca della batteria. Un'icona sulla parte superiore dello schermo indicava che non c'era campo. «Ecco perché la polizia non riesce a trovare la gente dispersa attraverso i cellulari» disse Nora. «I telefonini sono tutti nel sottosuolo.» «A giudicare da questi» replicò Eph gettandoli di nuovo nel mucchio «molte persone sono qui.» Eph e Nora fissarono la montagnola e allungarono il passo. «Presto» li incitò Setrakian. «Prima che ci scoprano.» Guidò la ritirata fuori del tunnel. «Dobbiamo prepararci.»
TANA
Worth Street, Chinatown La quarta notte era all'inizio quando Ephraim passò davanti a casa sua mentre il gruppo era diretto da Setrakian per armarsi adeguatamente. Non vide polizia all'esterno, così si fermò. Stava correndo un rischio, ma erano giorni che non si cambiava e in cinque minuti se la sarebbe sbrigata. Indicò agli altri la finestra del secondo piano e disse che, una volta dentro, se non c'erano guai avrebbe tirato giù le tapparelle. Entrò senza difficoltà nell'atrio dell'edificio e salì le scale. Scoprì che l'uscio del suo appartamento era socchiuso, allora si bloccò e tese l'orecchio. Una porta aperta non pareva roba da poliziotti. Spinse il battente e chiamò: «Kelly?». Nessuna risposta. «Zack?» Erano gli unici ad avere la chiave. All'inizio si allarmò per il cattivo odore, poi capì che era il cibo cinese lasciato nel secchio della spazzatura quando Zack era stato da lui. Parevano trascorsi anni. Andò in cucina per vedere se il latte nel frigo era ancora buono... e si fermò. Impiegò qualche istante a capire che cosa aveva davanti agli occhi. Due poliziotti in divisa, stesi sul pavimento della sua cucina, contro la parete. Un ronzio iniziò a diffondersi nell'appartamento. Crebbe rapidamente fino a diventare quasi un grido, un coro di sofferenza. La porta si chiuse, con un colpo secco. Eph si girò di scatto. Lì c'erano due uomini. O due esseri. Due vampiri. Lui lo capì all'istante. La postura, il pallore. Uno non lo conosceva. L'altro era uno dei superstiti, Bolivar. Pareva molto morto e molto pericoloso e molto affamato. Poi percepì un pericolo ancora maggiore nella stanza. Perché i due revenant non erano la fonte del ronzio. Ci mise un'eternità a voltare la testa verso la stanza principale.
Un essere enorme in un lungo mantello scuro. In altezza occupava tutta la stanza, fino al soffitto e oltre, e teneva il collo piegato per guardarlo. La sua faccia... Eph era stordito. L'altezza sovrumana della creatura faceva sembrare piccola la camera, faceva sentire piccolo lui stesso. Si sentì mancare le gambe, anche mentre si girava per correre verso la porta e il corridoio. Ora la creatura era lì davanti, fra lui e l'uscio, bloccando l'unica uscita. Era come se Eph in realtà non si fosse girato, ma il pavimento stesso avesse ruotato. Gli altri due vampiri di grandezza normale lo affiancarono, uno per parte. La creatura adesso era più vicina. Si stagliò su di lui. Guardò giù. Eph cadde sulle ginocchia. Il semplice fatto di trovarsi in presenza di quell'essere gigantesco lo paralizzava: era come se fosse stato abbattuto fisicamente.
Hmmmmmmmmmm. Eph lo sentì. Come si sente nel petto una musica dal vivo. Un ronzio gli vibrava nel cervello. Distolse lo sguardo e fissò il pavimento. Era paralizzato dalla paura. Non voleva vedere di nuovo quella faccia.
Guardami. Sulle prime credette che la creatura lo stesse strangolando con la forza della mente. Ma la mancanza di fiato era il risultato del puro terrore, un panico che gli invadeva l'anima. Eph alzò gli occhi appena un poco. Tremando, scorse l'orlo della veste del Padrone e risalì con gli occhi fino alle mani sporgenti dalle maniche. Erano disgustosamente prive di colore e di unghie, disumanamente grandi. Le dita erano di lunghezza uniforme, tutte di dimensioni esagerate, a parte il medio, che sembrava perfino più lungo degli altri... e uncinato in punta come un artiglio. Il Padrone. Lì per lui. L'avrebbe cambiato.
Guardami, maiale.
Eph ubbidì, alzò la testa come se una mano l'avesse afferrato per il mento. Il Padrone lo scrutò dall'alto, da dove il capo si piegava per non urtare il soffitto. Afferrò con le grandi mani i lati del cappuccio e li scostò dal cranio. La testa era priva di capelli e di colore. Gli occhi, le labbra e la bocca non avevano sfumature, erano consunti e slavati, come lino liso. Il naso era consumato come quello di una statua rovinata dalle intemperie, un semplice grumo e due fori neri. La gola pulsava in una brutta imitazione di respiro. La pelle era così livida da essere trasparente. Visibili sotto la carne, come una confusa mappa di un'antica terra devastata, c'erano vene dove non scorreva più il sangue. Vene che pulsavano di rosso. I vermi circolanti nel sangue. Parassiti capillari che scorrevano sotto la trasparente carne del Padrone.
Questa è la resa dei conti. La voce cavalcò nella testa di Eph su un rombo di terrore. Lui si sentì rammollire. Ogni cosa divenne torbida e fioca.
Ho quel maiale di tua moglie. Presto quel maiale di tuo figlio. La testa di Eph era gonfia da scoppiare, per il disgusto e per la rabbia. Gli pareva un pallone sul punto di scoppiare. Infilò il piede di piatto sotto il corpo. Barcollò e si rialzò davanti all'immenso demone.
Ti prenderò tutto e non lascerò niente. È il mio modo. Protese la
mano in un movimento rapido, confuso.
Eph sentì, come un paziente anestetizzato sente la pressione del trapano del dentista, una stretta in cima alla testa e si trovò con i piedi staccati dal pavimento. Agitò le braccia e scalciò. Il Padrone tenne la testa sulla palma come un pallone di basket e con una mano sola lo sollevò verso il soffitto. A livello d'occhi, abbastanza vicino da scorgere i vermi di sangue contorcersi come spermatozoi della peste.
Io sono l'occultazione e l'eclissi. Si portò alla bocca Eph come se fosse un succoso acino d'uva. Il palato era scuro, la gola una sterile caverna, una via diretta per
l'inferno. Eph, col corpo dondolante dal collo, era quasi fuori di senno. Sentiva il lungo artiglio medio contro la nuca, la pressione in cima alla spina dorsale. Il Padrone gli piegò all'indietro il capo, come avrebbe piegato la linguetta di una lattina di birra.
Sono un bevitore di uomini. Un suono umido, crocchiante. Poi la bocca del Padrone cominciò ad aprirsi. La mascella si ritrasse, la lingua si arricciò in alto e all'indietro, l'orrendo pungiglione venne fuori. Eph ruggì, in gesto di sfida bloccò con le braccia l'accesso al proprio collo, urlò sull'orrida faccia del Padrone. E poi qualcosa - non l'urlo di Eph - indusse la grande testa del Padrone a girarsi di una frazione di centimetro. Le narici pulsarono, l'annusare di un demone privo di fiato. Gli occhi d'onice si puntarono di nuovo su Eph. Lo fissarono come due sfere morte. Lo guardarono storto, come se lui avesse in qualche modo cercato d'ingannare il Padrone.
Non da solo. In quel momento, salendo le scale dell'appartamento di Eph, due gradini dietro Fet, Setrakian strinse all'improvviso la ringhiera, sbattendo la spalla contro la parete. Il dolore gli esplose nella testa, come un accecante aneurisma, e una voce, perfida, gongolante, blasfema rimbombò come una granata che esploda in un'affollata sala da concerti.
SETRAKIAN. Fet si fermò e guardò indietro, ma con occhi frementi il vecchio gli indicò di proseguire. Riuscì solo a emettere un bisbiglio. «Lui è qui.» Nora si rabbuiò. Gli stivali del disinfestatore pestarono gli scalini per correre al pianerottolo. Lei aiutò Setrakian, lo spinse dietro Fet, alla porta, nell'appartamento. Vasiliy colpì il primo corpo che incontrò, un placcaggio da rugby:
si abbassò e si lasciò afferrare, si buttò a terra e rotolò. Si rialzò subito in posizione di combattimento e affrontò l'avversario; vide la faccia del vampiro che non sghignazzava, ma teneva le labbra aperte come in un sogghigno, pronto a nutrirsi. Poi notò il gigantesco essere nella stanza. Il Padrone, che teneva stretto Eph. Mostruoso. E ipnotico. Il vampiro più vicino spinse Fet nella cucina, contro lo sportello del frigo. Nora si precipitò dentro e riuscì ad accendere la lampada UVE proprio mentre il vampiro Bolivar si tuffava su di lei. La creatura emise un grido senza fiato e arretrò barcollando. Nora scorse il Padrone, la parte posteriore della testa, rivolta in basso, che toccava il soffitto. Poi vide Eph dondolare dal collo in giù nella stretta del mostro. «Eph!» Setrakian entrò con la lunga spada sguainata. Impietrì per un istante dinanzi al Padrone, il gigante, il demone. Lì davanti a lui, dopo tutti quegli anni. Brandì la lama d'argento. Nora, da una direzione diversa, spinse Bolivar indietro verso la parete frontale della stanza. Il Padrone era con le spalle al muro. Aveva commesso il grave errore di attaccare Eph in uno spazio così limitato. Con il cuore che batteva all'impazzata, il vecchio protese la spada e la conficcò nel demone. Il ronzio nell'appartamento crebbe all'improvviso, un'esplosione di rumore dentro la testa di Setrakian. E in quella di Nora, di Fet, di Eph. Un'invalidante onda d'urto sonora che spinse il vecchio a ritrarsi per un momento... quanto bastava. Setrakian pensò di vedere un nero sogghigno serpeggiare sulla faccia del Padrone. Il gigantesco vampiro scagliò nella stanza Eph che continuava a dibattersi, lo mandò a cozzare contro la parete più lontana e a cadere pesantemente a terra. Con la lunga mano munita d'artiglio agganciò Bolivar per la spalla... e si tuffò contro la finestra panoramica che dava su Worth Street.
Uno schianto fragoroso fece tremare l'edificio mentre il Padrone fuggiva in una pioggia di frammenti di vetro. Setrakian corse verso l'improvvisa corrente d'aria, al telaio della finestra bordato di schegge acuminate. Tre piani più in basso la pioggia di vetri stava colpendo il marciapiede, brillando alla luce dei lampioni. Il Padrone, con la sua velocità preternaturale, era già dall'altra parte della via e scalava l'edificio opposto. Con Bolivar appeso al braccio libero, scavalcò il parapetto superiore e scomparve sul tetto più alto, nella notte. Il vecchio professore vacillò un momento, incapace di elaborare il fatto che il Padrone si fosse appena trovato in quella stessa stanza e fosse fuggito. Il cuore gli spasimava nel petto, batteva come se stesse per scoppiare. «Ehi... datemi una mano!» Setrakian si girò e vide che Fet, sul pavimento, stava tenendo a bada l'altro vampiro che la lampada di Nora neutralizzava. Il vecchio sentì una nuova esplosione di rabbia e si avvicinò, tenendo lungo il fianco la spada d'argento. Vasiliy lo vide arrivare e sbarrò gli occhi. «Un momento...» Setrakian colpì, trapassò il collo del vampiro a qualche centimetro dalle mani del disinfestatore. Con un calcio spinse via dal petto di Fet il corpo decapitato, prima che il sangue bianco toccasse la pelle dell'uomo. Nora corse da Eph, accartocciato sul pavimento. Aveva un taglio sulla guancia e gli occhi dilatati e atterriti, ma non pareva cambiato. Setrakian estrasse uno specchio per avere la conferma. Lo tenne davanti al viso di Eph e non vide un'immagine distorta. Nora gli illuminò il collo con la lampada. Niente, nessuna incisione. Lo aiutò a mettersi seduto ed Eph trasalì di dolore quando gli toccò il braccio destro. Lei gli tastò il mento sotto la guancia tagliata: avrebbe voluto abbracciarlo, ma non voleva fargli male. «Cos'è successo?» chiese. «Ha Kelly» rispose Eph.
Kelton Street, Woodside, Queens Eph attraversò a tutta velocità il ponte che portava nel Queens. Mentre guidava, usò il cellulare di Jim per chiamare Kelly. Nessuno squillo. Risposta immediata della segreteria telefonica. «Salve, sono Kelly. Al momento non posso rispondere...» Eph compose di nuovo il numero di Zack: il cellulare di suo figlio continuò a squillare finché entrò in funzione la casella vocale. Svoltò con stridore di gomme nella Kelton e si fermò di colpo davanti al prato di Kelly; con un salto scavalcò lo steccato e corse su per le scale. Bussò alla porta e suonò il campanello: la copia della chiave pendeva da un gancio nel suo appartamento. Prese la rincorsa e con la spalla dolorante colpì l'anta. Riprovò, facendosi ancora più male. Al terzo tentativo si lanciò contro la porta, ruppe l'intelaiatura e cadde lungo disteso all'interno. Si alzò e corse per la casa. Sbattendo contro le pareti per girare gli angoli, colpendo con i piedi i gradini per salire al primo piano. Si fermò davanti all'uscio della camera da letto di Zack. La stanza era vuota. Completamente vuota. Giù di nuovo, tre scalini per volta. Vide accanto alla porta rotta la sacca d'emergenza di Kelly. C'erano valigie piene, ma non chiuse con la lampo. Kelly non aveva mai lasciato la città. "Oh, Cristo!" pensò. "È vero." Gli altri giunsero alla soglia proprio mentre qualcosa colpiva Eph da dietro. Un corpo che lo afferrava. Lui, già carico di adrenalina, reagì subito. Rovesciò sul fianco l'assalitore, lo tenne distante. Matt Sayles. Eph vide gli occhi morti e sentì il calore del metabolismo sovralimentato. La ferale creatura che un tempo era Matt ringhiò contro di lui. Gli piantò l'avambraccio contro la gola non appena il vampiro da poco
cambiato cominciò ad aprire la bocca. Lo alzò con forza facendo pressione sul mento nel tentativo di bloccare il meccanismo biologico sul punto di rilasciare il pungiglione. Matt roteò gli occhi e dimenò la testa avanti e indietro per liberarsi la gola. Eph vide Setrakian, dietro il vampiro, estrarre la spada. «No!» urlò. Attinse energie a un pozzo di rabbia, scalciò Matt e se lo tolse di dosso. La creatura ringhiò, rotolò, si fermò, si alzò a quattro zampe, guardò Eph tirarsi in piedi. Si alzò a sua volta, restando ingobbita. Faceva movimenti strani con la bocca, un vampiro nuovo che si abituava a muscoli differenti. Si passò la lingua attorno alle labbra aperte, confuso e voglioso. Eph scrutò dappertutto alla ricerca di un'arma, ma trovò solo una racchetta da tennis per terra davanti all'armadio. Afferrò a due mani il manico rivestito di nastro isolante e girò di taglio l'intelaiatura di titanio, cercando di colpire Matt. I suoi sentimenti per l'uomo che si era trasferito nella casa e nel letto di sua moglie, che voleva fare da padre a suo figlio e che cercava di rimpiazzare lui emersero all'improvviso mentre lo centrava alla mascella. Voleva rompergliela e distruggere l'orrore che vi si nascondeva dietro. I vampiri nuovi non hanno ancora grande coordinamento motorio, ed Eph mise a segno sette o otto buoni colpi, facendo saltare denti e spingendo Matt sulle ginocchia... Poi questi scattò, lo afferrò per la caviglia e lo ribaltò. Una parte di rabbia residua contro il rivale ribolliva ancora in lui. Il vampiro si alzò, digrignando i denti rotti, ma Eph lo scalciò in faccia, tese il ginocchio e lo scagliò indietro. Si ritirò al riparo del tramezzo, in cucina, e fu lì che vide il coltello da scalco appeso a una striscia magnetizzata. La rabbia non è mai cieca. È unicamente concentrata. Eph si sentì come se guardasse dalla parte sbagliata di un cannocchiale, come se vedesse solo quel coltello e poi solo Matt. Il vampiro lo attaccò e lui col braccio lo spinse contro la parete. Lo afferrò per i capelli e tirò per mettere allo scoperto il collo. Matt aprì la bocca e saettò il pungiglione nel tentativo di nutrirsi.
La gola s'increspò e oppose resistenza; Eph mirò a quella, colpì di punta, ancora e ancora e ancora. Forte e veloce, dritto nella gola e nella parete dietro di essa. Quando la punta della lama s'inchiodava, Eph la tirava indietro. Maciullò la vertebra cervicale. Materia bianca ribollente. Corpo accasciato, braccia agitate. Continuò a colpire finché la testa gli rimase in mano e il corpo si accasciò sul pavimento. Allora smise. Vide, senza capire realmente, la testa che gli pendeva dalle dita e il pungiglione penzolante dal collo mozzato, ancora in preda a contorsioni. Poi vide Nora e gli altri due che lo fissavano dalla porta aperta. Vide la parete e il bianco disastro che ne gocciolava. Vide per terra il corpo decapitato. Guardò la testa. Vermi di sangue si contorcevano sul viso di Matt. Oltre le guance e sopra gli occhi fissi. Nei radi capelli, vicino alle dita. La lasciò cadere e quella colpì con un tonfo il pavimento, senza rotolare via. Lasciò cadere anche il coltello, che finì senza rumore in grembo a Matt. «Hanno preso mio figlio» disse. Setrakian lo tirò via dal corpo e dall'infestato sangue di vampiro. Nora accese la lampada UVC e irradiò le membra di Matt. «Merda santa» mormorò Fet. «Hanno preso mio figlio» ripeté Eph, come spiegazione e come chiodo da battere più in profondità nella sua anima. Il rombo omicida nelle orecchie stava svanendo e lui sentì il rumore di un'auto che si fermava davanti alla casa. Una portiera si aprì, ne uscì musica a basso volume. Una voce. «Grazie.» Quella voce. Eph andò alla porta anteriore scardinata. Guardò nel vialetto e vide Zack uscire da un minivan e mettersi in spalla uno zaino. Il ragazzo arrivò fino al cancello e si ritrovò stretto nelle braccia del genitore. «Papà?» Eph lo controllò da capo a piedi, gli prese la testa fra le mani, gli
esaminò gli occhi, la faccia. «Cosa stai facendo...» protestò Zack. «Dov'eri?» «Da Fred.» Cercò di sottrarsi alla stretta. «Mamma non si è fatta vedere, così la madre di Fred mi ha portato a casa loro.» Eph lasciò che Zack si scostasse. "Kelly" pensò. Il ragazzo stava guardando la casa, dietro di lui. «Cos'è successo alla nostra porta?» Mosse qualche passo verso di essa, vide Fet comparire nel vano e Setrakian dietro di lui. Un tipo grande e grosso in camicia di flanella fuori dei calzoni e stivali da lavoro e un signore anziano in completo di tweed, con un bastone da passeggio dal pomolo a testa di lupo. Zack guardò di nuovo suo padre. Ora sentiva cattive vibrazioni. «Dov'è la mamma?» domandò.
Knickerbocker Loans and Curios, Centodiciottesima Strada, Spanish Harlem Eph era nel corridoio rivestito di libri dell'appartamento di Setrakian. Guardava Zack mangiare un tortino alla crema a forma di hot dog, seduto al tavolo della piccola cucina del vecchio, mentre Nora gli faceva domande sulla scuola per tenerlo impegnato e per distrarlo. Eph sentiva ancora la sensazione della propria testa stretta nella mano del Padrone. Aveva vissuto una vita basata su certe ipotesi, in un mondo basato su certe ipotesi; ora che tutto ciò su cui poteva fare affidamento era scomparso, si rendeva conto di non sapere più niente. Nora lo vide guardare dal corridoio ed Eph capì dalla sua faccia che era spaventata da ciò che vedeva in lui. Capì che d'ora in poi sarebbe stato per sempre un po' pazzo.
Scese due rampe di scale e andò nello scantinato armeria di Setrakian. Le luci d'allarme alla porta erano spente e il vecchio mostrava a Fet le sue attrezzature. Il disinfestatore stava ammirando la pistola sparachiodi modificata, simile a un mitra UZI più lungo e più stretto, arancione e nero, con il caricatore di chiodi inserito di taglio alla canna. Setrakian si avvicinò a Eph. «Ha mangiato?» Eph scosse la testa. «Come sta suo figlio?» «Spaventato, ma non lo lascia vedere.» Il vecchio annuì. «Come tutti noi.» «Lei l'aveva già visto. Quel mostro. Il Padrone.» «Sì.» «Ha cercato di ucciderlo.» «Sì.» «Non c'è riuscito.» Setrakian socchiuse gli occhi, come se guardasse direttamente il passato. «Non avevo la preparazione adeguata. Non fallirò di nuovo.» Fet, tenendo un oggetto a forma di lanterna, con una punta all'estremità, disse: «Probabile. Con questo arsenale». «Alcune parti le ho messe insieme io stesso, da oggetti che avevo in negozio. Ma non sono un fabbricante di bombe.» Strinse le mani guantate come per dimostrarlo. «Ho un argentiere nel New Jersey che mi modella le punte e gli aghi.» «Vuol dire che questo affare non l'ha preso in un negozio di elettronica?» Setrakian tolse dalle mani del disinfestatore il pesante oggetto a forma di lanterna. Era fatto di plastica, con pesanti batterie alla base e una punta d'acciaio di quindici centimetri sul fondo. «Essenzialmente è una mina a ultravioletti. Un'arma monouso in grado di emettere uno spruzzo depurante di luce che uccide i vampiri nello spettro degli ultravioletti C. È progettata per ripulire
una grande stanza; una volta caricata, brucerà rapidamente ad alta temperatura. Meglio accertarsi di essere fuori portata quando entra in funzione. La temperatura e le radiazioni possono diventare... un po' fastidiose.» «E questa sparachiodi?» chiese Fet. «Sfrutta la polvere da sparo per spingere i chiodi. Cinquanta chiodi a carica, quattro centimetri di chiodo a testa laterale. Argento, naturalmente.» «Naturalmente» replicò Fet ammirando l'arma e provando a stringere l'impugnatura rivestita di gomma. Setrakian guardò in giro: la vecchia corazza alla parete; le lampade UVC e i caricabatteria sugli scaffali; le lame d'argento e gli specchi a fondo d'argento; alcuni prototipi di armi; i suoi taccuini con appunti e schizzi. Fu quasi sopraffatto dall'enormità del momento. Si augurò solo che la paura non lo riducesse di nuovo al giovane impotente che era stato una volta. «Ho aspettato questa occasione per moltissimo tempo» disse, poi tornò di sopra. Eph rimase da solo con Fet. Il disinfestatore tolse la sparachiodi dal caricabatteria. «Dove ha trovato quel vecchio?» chiese. «Mi ha trovato lui.» «Col mio lavoro sono stato in un mucchio di scantinati. Guardo in giro in questo piccolo laboratorio e penso... qui c'è l'unico pazzo che è realmente giustificato.» «Non è pazzo» replicò Eph. «Le ha mostrato quella roba?» Fet si avvicinò al barattolo di vetro per campioni, dove il cuore contagiato era sospeso in un fluido. «Quel tipo tiene nel suo scantinato il cuore di un vampiro da lui ucciso. Come un animale da compagnia. È proprio pazzo. Ma va bene così. Anch'io sono un po' pazzo.» Piegò il ginocchio, accostò il viso al barattolo. «Qui, micino, micetto...» La ventosa scattò contro il vetro, nel tentativo di arrivare fino a lui. Fet si raddrizzò e si girò verso Eph, con aria non del tutto convinta. «Questa roba è un po' più di quanto mi aspettavo quando mi sono svegliato stamattina.»
Puntò la sparachiodi contro il barattolo, poi la spostò, trovando piacevole la sensazione. «Le dispiace se questa la prendo io?» Eph annuì. «Prego!» Eph tornò di sopra e rallentò nel corridoio vedendo Setrakian con Zack in cucina. Il vecchio si sfilò una catenina d'argento, con appesa la chiave del laboratorio nello scantinato, e la mise al collo del giovane, accompagnando il gesto con una pacca sulle spalle. «Perché l'ha fatto?» chiese Eph a Setrakian quando furono soli. «Da basso ci sono cose, appunti e scritti, che andrebbero salvate. Che future generazioni potrebbero trovare utili.» «Non pensa di tornare?» «Prendo ogni precauzione concepibile.» Si guardò intorno, accertandosi che non ci fosse nessuno. «Per favore, cerchi di capire. Il Padrone ha potere e velocità molto superiori a quelle dei goffi vampiri nuovi che abbiamo visto. Ha abitato su questa terra da secoli. Eppure...» «Eppure è un vampiro.» «E i vampiri possono essere distrutti davvero. La nostra carta migliore è farlo uscire allo scoperto. Ferirlo e spingerlo sotto i letali raggi del sole. Per questo dobbiamo aspettare l'alba.» «Voglio andare subito.» «Lo so. Esattamente ciò che lui vuole.» «Ha mia moglie. Kelly è nei guai per causa mia.» «Lei, dottore, ha in questa faccenda un interesse personale anche impellente. Ma deve sapere che sua moglie, se ce l'ha lui, è già cambiata.» Eph scosse la testa. «Non è cambiata.» «Non lo dico per farla arrabbiare...» «Non è cambiata!» Dopo un momento Setrakian annuì. Aspettò che Eph riprendesse l'autocontrollo.
«L'associazione Alcolisti Anonimi ha fatto moltissimo per me» disse Eph. «Ma l'unica cosa che non mi è mai mancata è la serenità di accettare ciò che non posso cambiare.» «Sono fatto così anch'io. Forse proprio questo aspetto condiviso ci ha portati insieme a questo punto. Le nostre mete sono perfettamente in linea.» «Quasi perfettamente. Perché solo uno di noi può uccidere davvero quel bastardo. E sarò io.» Nora aveva aspettato con ansia di parlare a Eph: quando lo vide allontanarsi da Setrakian, afferrò al volo l'occasione e lo tirò in disparte nel bagno piastrellato del vecchio. «Non farlo» disse. «Non fare cosa?» «Chiedermi quello che stai per chiedermi.» Lo implorò, con un lampo nei fieri occhi castani. «Non farlo.» «Ma ho bisogno che tu...» «Sono terrorizzata. Ma mi sono guadagnata un posto al tuo fianco. Hai bisogno di me.» «Infatti. Ho bisogno di te, qui. A badare a Zack. Inoltre... uno di noi deve restare indietro. Per continuare. Nel caso che...» Non terminò la frase. «So che è chiederti molto.» «Troppo.» Eph non avrebbe potuto smettere di guardarla negli occhi. «Devo andare a cercarla.» «Lo so.» «Voglio solo che tu sappia...» «Non c'è niente da spiegare. Ma... sono felice che tu voglia farlo.» Eph l'attirò a sé, la tenne stretta. Nora gli accarezzò i capelli sulla nuca. Si scostò per guardarlo in viso, per aggiungere qualcosa... invece lo baciò. Fu un bacio d'addio che insisteva sul suo ritorno. Si staccarono ed Eph annuì per farle sapere che capiva.
Vide Zack guardarli dal corridoio. Non cercò di dagli spiegazioni. Lasciare la bellezza e la bontà di quel ragazzo e allontanarsi dalla percepita sicurezza del mondo di superficie per andare sotto ad affrontare un demone era la cosa più innaturale che lui potesse fare. «Starai con Nora, va bene? Parleremo al mio ritorno.» La rapida occhiata di Zack fu di autodifesa, perché le emozioni che sentiva in quel momento lo mettevano troppo a nudo, lo disorientavano. «Ritorno da dove?» Eph tirò a sé il figlio adorato, lo avvolse fra le braccia come per impedire che si rompesse in milioni di pezzi. Decise in quel momento che avrebbe vinto perché aveva troppo da perdere. Dall'esterno provennero grida e strombazzare di clacson. Corsero tutti alla finestra rivolta a ovest. Una massa di luci di stop ingombrava la via quattro o cinque isolati più avanti, gente scendeva in strada e si azzuffava. Un edificio aveva preso fuoco e non c'era traccia di camion di pompieri. «È l'inizio dello sfacelo» disse Setrakian.
Morningside Heights Gus era in fuga fin dalla notte precedente. Le manette gli rendevano difficile muoversi con disinvoltura nelle vie: la vecchia camicia che aveva trovato e che si era avvolto intorno agli avambracci, come se camminasse a braccia conserte, non avrebbe ingannato molti. Entrò in un cinema dall'uscita posteriore e dormì nel buio. Pensò a un'officina per la demolizione di auto rubate nel West Side e impiegò un tempo considerevole per arrivarci, con il solo risultato di trovarla vuota. Non chiusa, proprio vuota. Frugò tra gli utensili, cercando un modo di tagliare la catena delle manette. Provò perfino con una sega elettrica bloccata in una morsa e rischiò di incidersi i polsi. Con una mano sola non poteva fare niente e alla fine se ne andò, disgustato. Si aggirò nei luoghi frequentati da alcuni suoi cholos, ma non
incontrò nessuno di cui si fidasse. Le vie erano strane, poco frequentate. Sapeva cosa stava succedendo. Calato il sole, sarebbe rimasto a secco di tempo e di occasioni. Era rischioso tornare a casa, però non aveva visto molti sbirri in tutta la giornata e comunque era preoccupato per sua madre. Si infilò nell'edificio, cercando di tenere con indifferenza le mani avvolte nella camicia, e raggiunse le scale. Sedici rampe. Una volta su, percorse il corridoio e non vide nessuno. Ascoltò alla porta. La TV era accesa, come al solito. Sapeva che il campanello non funzionava, perciò bussò. Aspettò e bussò di nuovo. Diede un calcio alla base di lamiera, facendo tremare la porta e le pareti. «Crispin» sibilò a suo fratello. «Crispin, sacco di merda, apri 'sto cazzo di porta.» Udì togliere la catena e lo scatto della serratura. Attese, ma l'uscio non si aprì. Allora Gus si levò lo straccio che nascondeva le manette e girò il pomolo. Crispin era in piedi nell'angolo lontano, a sinistra della branda che gli serviva da letto quando si faceva vedere in casa. Le tapparelle erano abbassate e in cucina lo sportello del frigo era aperto. «Dov'è la mamma?» chiese Gus. Crispin non rispose. «Maledetto drogato!» Chiuse il frigo. Qualcosa si era sciolto e c'era acqua sul pavimento. «Sta dormendo?» Crispin rimase zitto. Fissava Gus. Lui cominciò a capire. Osservò meglio il fratello, che ormai da lui non meritava più di uno sguardo, e vide gli occhi neri e la faccia tirata. Andò alla finestra e tirò su le tapparelle. Era notte. Nell'aria c'era fumo che saliva da un fuoco in basso. Si girò per affrontare Crispin dall'altra parte della stanza e quello già veniva alla carica, ululando. Gus alzò le braccia e gli avvolse la catena delle manette intorno al collo, sotto la mascella. Abbastanza in alto perché l'altro non potesse tirare fuori il pungiglione. Afferrò Crispin per la testa e lo spinse sul pavimento. Gli occhi
neri del vampiro suo fratello sporsero dalle orbite e la mascella si agitò nel tentativo di aprire la bocca, che la stretta da strangolamento teneva immobilizzata. Gus era deciso a soffocarlo, ma il tempo passava e Crispin continuava a scalciare e non perdeva i sensi... Allora ricordò che i vampiri non hanno bisogno di respirare e non si possono uccidere per soffocamento. Così lo tirò su per il collo, mentre lui gli artigliava braccia e mani. Negli ultimi anni Crispin non era stato altro che una scocciatura per la loro madre e una gran rottura di palle per Gus. Adesso era un vampiro e la parte fraterna era svanita, ma la rottura di palle era rimasta. Perciò, per punizione, Gus lo sbatté a capofitto contro lo specchio decorativo alla parete, un vecchio ovale di pesante vetro che non si ruppe finché non scivolò a terra. Poi gli diede una ginocchiata, gettandolo a terra, e afferrò la scheggia più grossa. Crispin non era ancora sulle ginocchia quando Gus gli piantò la punta nella nuca. La scheggia troncò la spina dorsale e spuntò nella parte anteriore del collo quasi senza lacerare la pelle. Gus la mosse lateralmente e tagliò quasi del tutto la testa del fratello, ma dimenticò che il vetro era affilato e si tagliò le palme. Il dolore fu lancinante, tuttavia non lasciò la scheggia finché la testa del vampiro non si staccò dal corpo. Barcollò indietro, guardandosi il taglio sanguinante su entrambe le mani. Voleva essere sicuro che nessuno di quei vermi che si torcevano nel bianco sangue di Crispin penetrasse nel suo. Erano sul tappeto ed era difficile vederli, perciò si tenne lontano. Osservò suo fratello, in pezzi sul pavimento, e provò nausea per la parte vampiresca in lui, ma la perdita lo lasciò insensibile. Da anni ai suoi occhi Crispin era come morto. Gus si lavò le mani nel lavello: i tagli, benché lunghi, non erano profondi. Usò un asciugamano di spugna per arrestare l'emorragia e andò nella stanza da letto di sua madre.
«Marna?» La sua unica speranza era che non fosse lì. Il letto era fatto e vuoto. Gus si girò per andare via, ci ripensò e si mise carponi per guardarvi sotto. Solo le scatole di plastica per le magliette di lana e i pesi per le braccia che aveva comprato dieci anni prima. Stava per
tornare in cucina quando sentì un fruscio nell'armadio a muro. Si fermò, tese l'orecchio. Andò alla porta e l'aprì. Tutti gli abiti di sua madre erano giù dalle stampelle e ammucchiati in una grossa pila sul pavimento. La pila si stava muovendo. Tirò via un vecchio vestito giallo con le spalle imbottite e la faccia di sua madre lo guardò malignamente, con occhi neri e pelle giallastra. Gus richiuse la porta. Non la sbatté e non scappò di corsa, si limitò a chiuderla e rimase lì. Avrebbe voluto piangere, ma le lacrime non sgorgavano; fece solo un sospiro, un gemito leggero e profondo. Allora si girò e guardò nella camera da letto di sua madre, cercò un'arma con cui tagliarle la testa... ... e si rese conto a che punto era arrivato il mondo. Si voltò invece verso la porta chiusa, vi appoggiò contro la fronte. «Mi spiace, marna» mormorò. «Lo siento. Dovevo essere qui. Dovevo essere qui...» Andò, intontito, nella sua stanza. Non poteva neanche mettersi una camicia pulita per colpa delle manette. Infilò alcuni capi di vestiario in un sacchetto di carta, per quando avrebbe potuto cambiarsi, e lo accartocciò sotto il braccio. Allora si ricordò del vecchio. Il gestore del monte dei pegni nella Centodiciottesima Strada. Lui l'avrebbe aiutato a combattere quella roba. Lasciò l'appartamento e uscì nel corridoio. In fondo, davanti agli ascensori, c'era gente. Abbassò la testa e si mosse in quella direzione. Non voleva essere riconosciuto, non voleva avere a che fare con i vicini di sua madre. Era quasi a metà strada quando si rese conto che quelle persone non parlavano, non si muovevano. Alzò gli occhi e vide che tre erano in piedi davanti a lui. Si fermò quando si rese conto che i loro occhi, i loro occhi scuri, erano anche vuoti. Vampiri che gli bloccavano l'uscita. Si mossero nel corridoio verso di lui e senza saperlo Gus si ritrovò a colpirli con le mani ammanettate, a sbatterli contro le pareti, a fracassare loro la faccia sul pavimento. Li prese a calci quando
furono a terra, ma quelli non ci rimasero a lungo. Non diede a nessuno di loro la possibilità di estrarre il pungiglione, con il tacco dei pesanti scarponi fracassò qualche cranio mentre correva all'ascensore. La porta si chiuse quando loro la raggiunsero. Gus, da solo nella cabina dell'ascensore, riprese fiato, contò i piani. Aveva perduto il sacchetto di carta, che si era strappato e aveva sparso i suoi abiti nel corridoio. La spia luminosa segnò "1" e la porta della cabina si aprì davanti a Gus acquattato e pronto a combattere. L'atrio era vuoto. Fuori guizzava un debole bagliore arancione e si sentivano grida e ululati. Gus uscì nella via, vide l'incendio dell'isolato seguente, le fiamme che si propagavano agli edifici vicini. Nelle vie gente con assi di legno e altre armi di fortuna correva verso l'incendio. Dall'altra direzione proveniva un gruppo di sei persone disarmate. Un uomo passò di corsa davanti a Gus nell'altro senso. «Fottuti dappertutto, amico!» esclamò e subito dopo fu assalito dal gruppo di sei. A un occhio non addestrato, sarebbe sembrata una buona vecchia aggressione in strada, ma alla luce delle fiamme Gus vide un pungiglione. Vampiri che cambiavano la gente nella via. Mentre stava guardando, un SUV nero con vividi fari alogeni uscì a gran velocità dal fumo. Sbirri. Gus si girò e inseguì per la via la sua ombra proiettata dai lampioni... finendo dritto nel gruppo di sei. Lo assalirono, facce livide e occhi neri nella luce dei fari. Lui sentì le portiere aprirsi e passi sull'asfalto. Era preso tra due fuochi. Corse verso gli sghignazzanti vampiri, vibrò i pugni ammanettati, li colpì con testate al petto. Non voleva dare loro la possibilità di aprire la bocca su di lui. Ma poi uno agganciò il braccio fra le manette e con una torsione lo trascinò a terra. In un secondo tutti gli furono sopra, lottando per chi doveva essere il primo a bere dal suo collo. In quell'istante ci furono un colpo sordo e il gemito di un vampiro. Seguì uno splat e una testa scomparve. Quello che gli stava addosso fu centrato da un lato e sbattuto via all'improvviso. Gus rotolò sul fianco e si mise in ginocchio in mezzo a quella rissa di strada.
Non erano affatto sbirri. Erano uomini in cappuccio nero, le facce indistinte, calzoni scuri da combattimento e anfibi neri, con pistole balestra e balestre più grandi dal calcio di legno. Gus vide uno che prendeva di mira un vampiro e gli piantava un dardo nel collo. Prima che il mostro avesse il tempo di portarsi le mani alla gola, il dardo esplose con potenza sufficiente a disintegrargli il collo e fargli saltare via la testa. Vampiro morto. I dardi avevano la punta d'argento e una carica esplosiva in cima. Cacciatori di vampiri. Gus fissò, stupefatto, quegli uomini. Altre creature stavano uscendo dai portoni e i cacciatori erano in grado di centrare una gola da venticinque metri, anche trenta. Uno di loro raggiunse in fretta Gus, come se l'avesse scambiato per un vampiro; prima che lui potesse parlare, gli mise il piede sulle braccia, lo bloccò al suolo. Ricaricò la balestra e mirò la catena delle manette. Un argenteo dardo spezzò l'acciaio e si conficcò nell'asfalto. Gus trasalì, ma non c'era carica esplosiva. Aveva le mani libere, anche se con i braccialetti degli sbirri. Il cacciatore, con forza sorprendente, lo tirò in piedi. «Merda, sì!» gridò Gus, contento di vedere quei tipi. «Dove devo firmare?» Ma il suo salvatore aveva rallentato, qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Gus guardò meglio nel cappuccio della felpa e vide una faccia bianca come guscio d'uovo. Occhi neri e rossi, bocca secca e quasi priva di labbra. Il cacciatore stava guardando i tagli sanguinanti nelle palme delle mani. Gus conosceva quello sguardo. L'aveva appena visto negli occhi di suo fratello e di sua madre. Cercò di ritrarsi, ma la stretta sul braccio era salda. L'essere aprì la bocca e comparve la punta del pungiglione. Poi ne arrivò un altro e puntò la balestra sul collo del primo. Il nuovo arrivato tirò giù il cappuccio del cacciatore che bloccava Gus e questi vide la testa calva, senza orecchie e gli occhi invecchiati di un vampiro maturo. La creatura ringhiò nel vedere l'arma del confratello, ma poi cedette la preda al nuovo arrivato, la cui livida
faccia Gus scorse di sfuggita mentre veniva sollevato, portato di peso al SUV nero e gettato nella terza fila di sedili. Gli altri vampiri incappucciati salirono sul veicolo, che partì con una stretta inversione a U in mezzo alla via. Gus vide che era l'unico umano a bordo dell'auto. Perché volevano proprio lui? Fu colpito alla tempia e perse i sensi: fine delle domande. Il SUV sfrecciò verso l'edificio in fiamme, passò nel fumo della via come un aereo in una nube, superò la folla turbolenta, girò l'angolo e continuò verso il centro città.
La vasca da bagno La cosiddetta "vasca da bagno" dell'ex World Trade Center, le fondamenta profonde sette piani, era illuminata a giorno per i lavori notturni anche nei minuti prima dell'alba. Tuttavia il cantiere era silenzioso, i grandi macchinari erano spenti. Le attività, proseguite senza soluzione di continuità quasi dal crollo delle Torri, al momento erano in pratica cessate. «Perché qui?» chiese Eph. «Perché questo posto?» «Lui ne è stato attirato» rispose Setrakian. «Una talpa si scava la tana nel tronco morto di un albero abbattuto. La cancrena si forma in una ferita. Lui si radica nella tragedia e nel dolore.» Eph, Setrakian e Fet erano nel retro del furgoncino del disinfestatore parcheggiato all'incrocio fra la Church e la Cortlandt. Il vecchio, seduto accanto al finestrino posteriore, usava un visore notturno. C'era poco traffico, solo un occasionale taxi o un camion per le consegne. Niente pedoni o altri segni di vita. Stavano cercando vampiri e non ne trovavano nessuno. «Qui c'è troppa luce» disse Setrakian guardando ancora nel visore notturno. «Non vogliono farsi vedere.» «Non possiamo girare in continuazione intorno a questo posto» replicò Eph.
«Se ce ne sono tanti quanti sospettiamo, allora devono trovarsi nelle vicinanze. Per tornare alla tana prima del sorgere del sole.» Il vecchio si rivolse a Fet. «Bisogna ragionare come loro.» «Vi dico una cosa» intervenne il disinfestatore. «Non ho mai visto un topo andare da qualche parte passando dalla porta principale.» Rifletté ancora qualche istante, poi passò davanti a Eph per raggiungere i sedili di fronte. «Ho un'idea.» Spostò il veicolo a nord su Church Street fino al municipio, un isolato a nordest del WTC. Un ampio parco lo circondava. Fet fermò il furgoncino in uno spazio riservato agli autobus in Park Row e spense il motore. «Questo parco è uno dei più grandi nidi di topi della città. Abbiamo tentato di estirpare l'edera, perché è un'ottima copertura del terreno. Abbiamo cambiato i contenitori di rifiuti, ma è stato inutile. Qui si comportano come scoiattoli, soprattutto a mezzogiorno, quando la gente viene a fare colazione. Il cibo li rende felici, ma possono trovarlo da qualsiasi parte. Ai topi in realtà piace l'infrastruttura.» Indicò il terreno. «Là sotto c'è una stazione abbandonata. La vecchia fermata del municipio.» «È ancora collegata?» chiese Setrakian. «Nel sottosuolo tutto è collegato, in un modo o nell'altro.» Continuarono a guardare e non dovettero aspettare molto. «Eccone uno» annunciò Setrakian. Eph vide una donna dall'aspetto malandato, vicino a un lampione, una trentina di metri più avanti. «Una senzatetto» disse. «No» replicò il vecchio porgendogli il binocolo. Eph scorse la donna come un'intensa macchia confusa rossa contro uno sfondo freddo, fioco. «Il loro metabolismo» spiegò Setrakian. «Eccone un altro.» Una donna pesante che camminava con i piedi a papera, cercando di mantenere l'equilibrio, nell'ombra lungo la bassa recinzione di ferro che circondava il parco. Poi un uomo con un grembiule con la tasca per gli spiccioli, da
venditore di giornali, che portava in spalla un corpo. Lo lasciò cadere al di là della recinzione, prima di scavalcarla con impaccio. Cadde dall'altra parte, strappandosi una gamba dei calzoni, si rialzò senza farci caso, riprese la vittima e si allontanò al riparo degli alberi. «Sì» disse Setrakian. «È questo.» Eph rabbrividì. La presenza di quei patogeni ambulanti, di quelle malattie umanoidi lo respingeva. Sentiva la nausea nel guardarli barcollare nel parco, animali inferiori che ubbidivano a un impulso inconscio, che si ritraevano dalla luce. Percepì la loro fretta, come di pendolari che cerchino di prendere al volo l'ultimo treno per tornare a casa. Senza fare rumore uscirono dal furgone. Fet indossava una tuta protettiva di Tyvek e stivali da pesca di gomma. Offrì agli altri i suoi capi di ricambio; Eph e Setrakian presero solo gli stivali. Senza chiedere il permesso, il vecchio spruzzò su tutti il contenuto di una bottiglia di liquido deodorante che mostrava sull'etichetta un cervo al centro di un reticolo rosso. Lo spray, è chiaro, non poteva fare niente per l'anidride carbonica emessa col respiro né per il rumore del battito cardiaco e della circolazione del sangue. Fet prese gran parte dei materiali. La sparachiodi in una sacca a tracolla sul petto, con tre caricatori extra di chiodi d'argento senza testa. Alla cintola portava vari utensili, compreso il visore notturno monoculare e la lampada a luce nera, oltre a un fodero di cuoio con uno dei pugnali d'argento di Setrakian. Teneva in mano una potente torcia UVC e si era appeso in spalla una reticella con la mina. Setrakian aveva il bastone da passeggio e una lampada UVC; il visore termico era nella tasca della giacca. Ricontrollò la scatola di pillole nel taschino del panciotto e lasciò il cappello nel furgone. Anche Eph portava una lampada UVC e sulla schiena, in un fodero legato di traverso sul petto, una spada d'argento: sessantacinque centimetri fra lama e impugnatura. «Non mi pare una decisione molto sensata» disse Fet. «Andare nel sottosuolo per combattere una belva sul suo stesso terreno.» «Non abbiamo alternativa» ribatté Setrakian. «È il solo momento in cui sappiamo dove si trova.» Guardò il cielo che diventava
azzurro per il primo debole luccichio del giorno. «La notte sta finendo. Andiamo.» Arrivarono al cancello della bassa recinzione, che di notte era chiuso. Eph e Fet lo scavalcarono e poi aiutarono Setrakian. Il rumore di altri passi in rapido movimento, con un piede strascicato, li spinse ad affrettarsi nel cuore del parco. Il terreno fitto d'alberi non era illuminato. Udirono il rumore della fontana e il passaggio di automobili all'esterno. «Dove sono?» bisbigliò Eph. Setrakian estrasse il visore termico. Esaminò la zona, poi passò l'apparecchio a Eph, che vide intense sagome rosse muoversi furtive in un panorama altrimenti freddo. La risposta era semplice: i vampiri erano da tutte le parti. E convergevano in fretta verso un punto a nord. La loro destinazione divenne chiara. Un chiosco sul lato del parco verso Broadway, un fabbricato buio che non si distingueva bene da lontano. Eph guardò e aspettò che il numero di vampiri di ritorno diminuisse e che il visore termico non raccogliesse altre fonti di calore significative. Raggiunsero di corsa il fabbricato. Nella luce crescente notarono che era un chiosco d'informazioni, chiuso di notte. Aprirono la porta e lo trovarono vuoto. Si ammassarono dentro, in un ambiente ristretto, con il bancone di legno pieno di rastrelliere con volantini turistici e orari di giri in autobus. Fet puntò una piccola torcia Maglite su due sportelli uguali nel pavimento. C'erano grossi occhielli ai lati, ma i lucchetti erano spariti. La scritta sugli sportelli diceva: MTA. Il disinfestatore li aprì tutti e due, mentre Eph teneva pronta la lampada. Scalini scendevano nel buio. Setrakian puntò la torcia su uno sbiadito cartello alla parete, mentre Fet iniziava a scendere. «Uscita d'emergenza» annunciò questi. «La vecchia stazione del municipio è stata chiusa dopo la Seconda guerra mondiale. La curva dei binari era troppo stretta per i treni più moderni, la piattaforma troppo ridotta, anche se mi pare che il treno locale numero 6 giri
ancora qui intorno.» Guardò da una parte all'altra. «Devono avere demolito la vecchia uscita d'emergenza e ci hanno messo sopra il chiosco.» «Bene» disse Setrakian. «Andiamo.» Eph lo seguì, formando la retroguardia. Evitò di chiudersi alle spalle gli sportelli, voleva una via di fuga verso la superficie, all'occorrenza. Sudiciume rivestiva i lati di ogni scalino, mentre la parte al centro era ripulita dal regolare passaggio di piedi. Là sotto era più buio della notte. «Prossima fermata, 1945» disse Fet. La rampa di scale terminava con una porta che dava accesso a un'altra rampa più larga, la quale scendeva fino al vecchio ammezzato. Una cupola piastrellata con quattro arcate laterali terminava in un lucernario di vetro moderno che cominciava a colorarsi d'azzurro. Alcune scale a pioli e vecchi ponteggi erano appoggiati alla biglietteria di legno contro una parete. I vani ad arco erano privi di tornelli. L'arco più lontano conduceva a un'altra rampa di scale, larga non più di cinque persone affiancate, che portava a una stretta piattaforma. Tesero l'orecchio nel vano e sentirono solo il lontano stridio di freni di vetture della metropolitana; poi sbucarono nella piattaforma abbandonata. Pareva di trovarsi nella galleria di una cattedrale. Lampadari d'ottone originali con nude lampadine scure pendevano dal soffitto ad arco, le piastrelle di collegamento lungo gli archi parevano enormi cerniere. Due lucernari a cupola lasciavano passare la luce da vetri color ametista, il resto era stato rivestito di piombo per timore di incursioni aeree durante la Seconda guerra mondiale. Più lontano, da grate in superficie filtrava la luce, ancora molto debole, ma sufficiente a dare la percezione della profondità lungo il binario dall'aggraziata curvatura. In tutta la struttura non c'era un angolo retto. Da ogni parte si notavano danneggiamenti alle piastrelle e alla terracotta smaltata del più vicino cartello murale, giallo oro con bordi verdi, intorno a piastre bianche con lettere blu che dicevano: MUNICIPIO.
Un velo di polvere grigio acciaio lungo la curva piattaforma mostrava le orme dei vampiri che si allontanavano nel buio. I tre le seguirono fino al termine della piattaforma e saltarono giù sui binari ancora elettrificati, curvando a sinistra lungo la linea di raccordo ferroviaria. Spensero le torce e la lampada UVC di Eph mostrò da ogni parte schizzi di urina, iridescenti e multicolori, che terminavano più lontano. Setrakian stava cercando il visore termico quando udì rumori alle sue spalle. Ritardatari che dalle scale dell'ammezzato passavano sulla piattaforma. Eph spense la lampada; attraversarono i tre binari e si appiattirono contro la nicchia nella parete di pietra. I ritardatari scesero dalla piattaforma, piedi che grattavano le pietre impolverate lungo il letto delle rotaie. Il vecchio li spiò col rivelatore termico: due intense sagome rosso arancione, niente d'insolito nella forma e nella postura. La prima scomparve e Setrakian impiegò qualche istante a capire che era scivolata in un varco nella parete, un'apertura della quale non si erano accorti. La seconda sagoma si fermò nello stesso punto, ma si girò invece di scomparire e guardò dalla loro parte. Il vecchio non si mosse, sapendo che la visione notturna della creatura era migliorata, ma non ancora completa. La lettura termica indicò la gola del vampiro come la zona più calda. Un rivolo arancione lungo la gamba si raffreddò immediatamente in giallo nel raccogliersi sul terreno: la creatura si era svuotata la vescica. Sollevò la testa come un animale che fiuti la preda, risalì con lo sguardo i binari lontano dal loro nascondiglio... poi chinò il capo e scomparve nell'apertura della parete. Setrakian tornò sulla ferrovia, seguito dai compagni. L'orrendo puzzo di fresco e caldo piscio di vampiro riempiva lo spazio ad arco; il lezzo di ammoniaca bruciata risvegliava nel vecchio tenebrose associazioni. Gli altri girarono intorno alla chiazza e si diressero al varco nella parete. Eph tolse dal fodero sulla schiena la spada d'argento e prese la testa del gruppo. Il passaggio si allargò in una calda catacomba dalle pareti scabre che odorava di vapore. Eph accese la lampada UVC appena in tempo per vedere il primo vampiro scattare dalla
posizione acquattata e lanciarsi contro di lui. Non riuscì ad alzare in tempo la spada d'argento e la creatura lo sbatté contro la parete. La lampada era sul fianco vicino al rivolo d'acqua di scolo sul pavimento a cunette. Alla calda luce indaco Eph vide che il vampiro era o era stato una donna. Indossava un pratico blazer su una camicetta bianca assai sporca, il mascara nero era sbavato in minacciosi occhi da procione. La mascella si abbassò e la lingua si arricciò indietro... e fu allora che Fet sfrecciò fuori del passaggio. Assalì con il pugnale la vampira, la trapassò una volta, in basso sul fianco. Lei rotolò giù da Eph e si acquattò per balzare. Con un grido il disinfestatore la pugnalò di nuovo, stavolta proprio dove si sarebbe dovuto trovare il cuore, in pieno petto, sotto la spalla. La creatura barcollò all'indietro solo per lanciarsi di nuovo avanti. Con un ululato Fet le affondò la lama nel basso ventre e lei sgroppò e ringhiò, ma reagì di nuovo, più confusa che dolorante. Tornò ad assalirlo. Eph intanto si era ripreso abbastanza e, quando la vampira assalì di nuovo Fet, si alzò in piedi e vibrò la spada impugnata a due mani, colpendola da dietro. L'impulso a uccidere gli era ancora estraneo e fu per questo che alla fine al fendente venne a mancare qualcosa: la lama non completò il percorso. Ma fu sufficiente. Eph aveva reciso la colonna vertebrale e la testa della vampira penzolò davanti. La creatura agitò le braccia, fu colta da spasmi in tutto il corpo e cadde nell'acqua di scolo al centro del pavimento, con l'effetto di qualcosa che sfrigoli in una padella troppo calda. Non c'era tempo per restare scioccati. Quei rumori - splash splash splash - che echeggiavano nella catacomba erano i passi del secondo vampiro che correva ad avvertire gli altri. Eph raccolse da terra la lampada UVC e partì dietro di lui, la spada al fianco. Immaginò d'inseguire quello che aveva attirato lì Kelly e la collera lo portò nel passaggio pieno di vapore, con gli stivali che sollevavano schizzi. Il tunnel curvò a destra, dove un largo tubo usciva dalla pietra e seguiva un tratto di cunicolo sempre più stretto. Il caldo vapore favoriva la crescita di alghe e di funghi che brillavano alla luce della lampada. Eph distinse la fioca sagoma della creatura che lo precedeva correndo a mani aperte, le dita che
artigliavano l'aria. Un'altra brusca svolta e il vampiro era sparito. Eph rallentò e guardò da tutte le parti, facendo luce con la lampada, preso dal panico, finché scorse le gambe della creatura contorcersi in un buco piatto alla base della parete laterale. L'essere ondeggiava con efficienza da verme, scivolava fuori del passaggio; Eph vibrò un fendente ai luridi piedi, ma quelli s'infilarono con troppa rapidità e la spada colpì il terriccio. Allora si mise in ginocchio, ma non riuscì a vedere cosa c'era dall'altra parte dello stretto buco. Udì rumore di passi e capì che Fet e Setrakian erano ancora abbastanza indietro. Non poteva aspettare, decise. Si stese di schiena e iniziò ad attraversare. S'infilò nel buco tenendo le braccia sopra la testa, la lampada e la spada per prime. "Non restare imbottigliato qui dentro" si disse. In quel caso, non ne sarebbe più uscito. Strisciò come un verme, sbucò con le braccia e la testa in uno spazio aperto, spinse con i piedi e si tirò in ginocchio. Ansimando, mosse tutt'intorno la lampada come se fosse una torcia. Si trovava in un altro tunnel, ma questo era completato, con binari e pietrisco, e permeato da un silenzio irreale, insolito. A sinistra, a meno di cento metri, brillava una luce. Una piattaforma. Eph seguì rapidamente il binario e si arrampicò. La piattaforma, a differenza di quella del municipio, era spoglia, con nude travi d'acciaio e tubature sul soffitto. Credeva di avere visitato ogni stazione della zona centrale della città, ma in quella non era mai stato. Una vettura di metropolitana era ferma in fondo alla piattaforma e il cartello sulla porta diceva: FUORI SERVIZIO. Al centro c'era il guscio di una vetusta torre di controllo coperto di graffiti vecchia scuola. Eph provò la porta e scoprì che era chiusa. Udì rumore di passi nel tunnel. Fet e Setrakian attraversavano il buco per raggiungerlo. Probabilmente non era stato tanto furbo a correre avanti da solo, pensò. Decise di aspettarli lì, in quell'oasi di luce, finché udì il rumore di un sasso spostato da un piede nel vicino binario. Si girò appena in tempo per vedere il vampiro staccarsi dall'ultima vettura e correre lungo la parete opposta, lontano dalle luci della stazione abbandonata.
Eph lo inseguì, sulla piattaforma, fino in fondo, poi giù sui binari, nel buio. Svoltavano a destra, poi terminavano. Mentre correva, aveva una visione confusa delle pareti del tunnel. Udiva l'eco dei passi strascicati del vampiro, piedi scalzi sui sassi taglienti. La creatura incespicava, rallentava. Eph si avvicinò. Il calore della sua lampada gettava nel panico il vampiro. L'essere si girò una volta, con il viso illuminato di blu e distorto in una maschera di orrore. Eph vibrò un fendente e lo decapitò di netto. Il corpo privo di testa cadde in avanti e lui si fermò a irradiare con la lampada UVE il sangue che sgorgava dal collo e a uccidere i vermi che ne fuoriuscivano. Si raddrizzò e calmò il respiro rauco e ansimante... e trattenne il fiato. Udì creature. O, meglio, le percepì. Creature tutt'intorno a lui. Non passi né movimento, solo... agitazione. Cercò la piccola torcia elettrica e l'accese. Corpi di newyorkesi erano distesi lungo tutto lo sporco pavimento del tunnel. Fiancheggiavano ogni lato, come vittime di un attacco col gas. Alcuni avevano gli occhi aperti, lo sguardo narcotizzato dei malati. Quelli erano i cambiati. I morsicati di recente, i neoinfetti. Assaliti quella notte stessa. L'agitazione percepita da Eph era la metamorfosi interna dei loro corpi: non movimento di membra, bensì tumori che colonizzavano gli organi e mandibole che diventavano pungiglioni. I corpi erano svariate decine e più avanti ce n'erano altri, forme vaghe fuori portata del raggio della torcia. Uomini, donne, bambini, vittime di tutte le età. Eph corse qua e là, muovendo il raggio da faccia a faccia, cercando Kelly... e pregando di non trovarla. Stava ancora perlustrando quando Fet e Setrakian lo raggiunsero. Con una sorta di sollievo e disperazione insieme, Eph disse loro: «Lei non è qui». Il vecchio si teneva una mano sul petto, incapace di riprendere fiato. «Quanto più avanti?» «C'era un'altra stazione del municipio, sulla linea BMT» rispose Fet. «Su un livello più basso che non è mai entrato in funzione, usato solo per messa in disarmo e magazzinaggio. Ciò significa che siamo sotto la linea Broadway. Questa curva del binario ci porta intorno
alle fondamenta del Woolworth Building. Cortlandt Street è la prossima. Significa che il World Trade Center è...» Guardò in alto, come se fosse in grado di vedere dieci, quindici piani attraverso la roccia fino in superficie. «Siamo vicini.» «Terminiamo la ricerca» disse Eph. «Adesso.» «Un momento.» Setrakian stava cercando di calmare il battito cardiaco. Mosse il raggio della torcia sulla faccia dei cambiati. Si chinò a controllare alcuni di loro, con uno specchio dal fondo d'argento preso dalla tasca del soprabito. «Qui abbiamo prima una responsabilità.» Fet si assunse il compito e alla luce della torcia di Setrakian sterminò i vampiri nascenti. Ogni decapitazione fu come un colpo alla sanità mentale di Eph, che si costrinse comunque a guardarle tutte. Anche lui era stato cambiato. Non da umano a vampiro, bensì da guaritore a uccisore. L'acqua freatica aumentò di livello più avanti nelle catacombe, con strane radici affamate di sole, rampicanti e vegetazioni albine che strisciavano dal soffitto non rifinito per dissetarsi. L'occasionale luce gialla del tunnel mostrava la totale assenza di graffiti. Polvere bianca ricopriva i bordi intatti del pavimento, a volte molto fine, e rivestiva la superficie delle sacche d'acqua stagnante. Erano residui del World Trade Center. Quando possibile, i tre evitarono di calpestarla, con il rispetto riservato ai cimiteri. Il soffitto scese a poco a poco sotto il livello della testa. Il raggio luminoso di Setrakian trovò un'apertura nella parte superiore della parete sempre più bassa, abbastanza ampia da permettere il passaggio. Un rumore, inizialmente vago e distante, cominciò a diventare più intenso. I fasci luminosi mostrarono che l'acqua alta fino agli stivali cominciava a tremare. Era l'inconfondibile rombo di un treno sotterraneo e tutti e tre si girarono a guardare, anche se il tunnel in cui si trovavano non aveva rotaie. Era di fronte a loro, gli veniva dritto addosso... ma su binari posti sopra la loro testa, che entravano nella funzionante stazione superiore della linea BMT. LO stridio, il rombo e la vibrazione
divennero insopportabili, raggiunsero forza e decibel da terremoto, e subito i tre capirono che quel rumoroso disturbo era la loro migliore occasione. Attraversarono la fenditura e si affrettarono in un altro passaggio artificiale privo di rotaie, con file di lampadine spente che danzavano per l'effetto del passaggio del treno. Pile di terriccio e di detriti erano state da tempo spinte al di là di travi d'acciaio che si alzavano per una decina di metri fino al soffitto. Intorno a un ampio angolo più avanti, splendeva debolmente una luce itterica. Spensero le lampade UVE e corsero nella galleria buia; quando svoltarono, videro che il cunicolo si allargava e si trovarono in un ambiente lungo e aperto. Mentre il terreno smetteva di vibrare e il rombo del treno svaniva come una effimera tempesta, rallentarono per non fare rumore. Eph sentì gli altri prima di vederli: sagome sedute o distese per terra. Le creature, stimolate dalla loro presenza, si alzarono a sedere, ma non attaccarono. Così lui, Setrakian e Fet continuarono a muoversi e si inoltrarono a guado nella tana del Padrone. I demoni si erano cibati quella notte ed erano gonfi di sangue, come zecche; se ne stavano distesi a digerire. Il loro languore era simile alla morte, creature rassegnate ad aspettare il calar del sole e l'occasione di nutrirsi di nuovo. Cominciarono ad alzarsi. Indossavano tute da operai edili, completi da ufficio, tenute da lavoro, pigiama, abiti da sera, luridi grembiuli o niente del tutto. Eph strinse la spada e scrutò le facce mentre passava. Facce morte con occhi rosso sangue. «Restiamo insieme» bisbigliò Setrakian. Senza fermarsi, tolse con cautela dalla sacca di rete sulla schiena di Fet la mina UVC. Staccò la striscia di nastro di sicurezza e ruotò la parte superiore del globo per preparare la batteria. «Mi auguro che funzioni.» «Si augura?» disse Fet. Allora un vampiro venne contro di loro, un vecchio, forse meno sazio degli altri; Fet gli agitò contro il pugnale e il vampiro sibilò. Il disinfestatore gli piantò lo stivale sulla coscia e lo spinse indietro,
agitando l'argento di fronte agli altri. «Ci stiamo cacciando in un bel guaio.» Facce sbucarono dalle pareti, arrossate e ghignanti. Vampiri più vecchi, di prima o di seconda generazione, con i capelli incanutiti. Ci furono mormorii animaleschi e schiocchi glottali, come tentativi di parlare bloccati dall'orrida appendice cresciuta sotto la lingua. Le gole enfiate si contorsero caparbiamente. «Quando la punta entra in contatto con il terreno» disse Setrakian camminando tra i due compagni «la batteria dovrebbe collegarsi.» «Dovrebbe!» ribatté Fet. «Mettetevi al riparo prima che prenda fuoco. Dietro quei sostegni.» A intervalli regolari c'erano travi arrugginite e imbullonate. «Non avrete più di qualche secondo. Una volta al riparo, chiudete gli occhi. Non guardate. L'esplosione vi accecherà.» «La metta in funzione!» gridò Fet, pressato dai vampiri. «Non ancora...» Aprì il bastone da passeggio quanto bastava a snudare la lama d'argento e col rapido movimento di pietra focaia sull'acciarino passò sul bordo affilato la punta di due dita. Gocce di sangue caddero sul pavimento. L'odore percorse i vampiri come una visibile increspatura. Le creature stavano arrivando da tutte le parti, si affollavano da angoli nascosti, sempre curiose e sempre affamate. Fet spazzò col pugnale l'aria polverosa per mantenere qualche metro di spazio sgombro intorno a loro che avanzavano. «Che cosa aspetta?» chiese. Eph scrutò le facce, esaminò le donne dagli occhi morti, alla ricerca di Kelly. Una si mosse verso di lui. Con la punta della spada le toccò lo sterno e la vampira si ritrasse come se si fosse scottata. I rumori aumentavano, le prime file erano pressate da dietro: la fame aveva la meglio sull'esitazione, il desiderio sull'attesa. Il sangue di Setrakian gocciolava a terra, il suo odore... e il disinvolto spreco... li rendeva frenetici. «La faccia esplodere!» disse Fet. «Ancora qualche secondo...» replicò Setrakian.
I vampiri si spinsero avanti, Eph li tenne indietro usando la punta della spada. Solo allora pensò di riaccendere la lampada UVC, ma loro si appoggiarono ai raggi che li respingevano, come zombi che fissino il sole. Quelli in prima linea erano alla mercé di quelli più indietro. La bolla stava crollando... Eph sentì una mano afferrargli la manica... «Ora!» gridò Setrakian. Tirò in aria il globo chiodato, come un arbitro che metta in gioco la palla. Il pesante oggetto si raddrizzò all'apice della curva e il pesante chiodo puntò dritto in basso mentre il globo cadeva sul terreno. Il chiodo d'acciaio a quattro fili si conficcò nella pietra e diede origine a un ronzio, simile a quello di una vecchia lampada per flash che si ricarichi. «Via, via!» urlò Setrakian. Eph agitò la lampada UVC, usò la spada come machete e raggiunse uno dei pilastri. Sentì i vampiri afferrarlo e tirarlo, il molle tonfo della spada che tagliava e gli alterati lamenti. Continuò a controllare le facce, cercando Kelly, falciando tutte quelle che non erano lei. Il ronzio della mina divenne un gemito crescente ed Eph colpì di punta, scalciò e si aprì la via fino alla trave d'acciaio di sostegno; si riparò dietro di essa proprio mentre l'ambiente sotterraneo cominciò a riempirsi di ardente luce blu. Serrò gli occhi e li affondò nell'incavo del gomito. Udì la bestiale sofferenza dei vampiri fatti a pezzi. Il rumore di fusione, di bolle, di spelatura dei loro corpi essiccati a livello chimico, il collasso delle interiora come la carbonizzazione della loro anima. Le mute urla soffocate nella gola ustionata. Sacrificio di massa. L'acuto gemito durò non più di dieci secondi, la brillante pialla di luce blu purificatrice in azione dal pavimento al soffitto, prima che la batteria si consumasse. L'ambiente tornò quasi buio. Quando l'unico rumore fu lo sfrigolio residuo, Eph abbassò il braccio e aprì gli occhi.
Il nauseante puzzo di arrosto contaminato si alzò nel fumo e nel vapore dalle creature carbonizzate stese sul terreno. Era impossibile muoversi senza disturbare quei demoni disgustosi, i cui corpi si sbriciolavano come ceppi artificiali scavati col fuoco. Solo i vampiri abbastanza fortunati da trovarsi parzialmente dietro una trave rimasero animati; Eph e Fet si mossero in fretta a finire quelle creature menomate, semidistrutte. Poi il disinfestatore si avvicinò alla mina che aveva preso fuoco. Esaminò i danni. «Bene, la stronza ha funzionato.» «Guardate» disse Setrakian. All'estremità opposta della camera fumante, sopra una montagnola di terriccio e rifiuti alta un metro, c'era una lunga scatola nera. Mentre si avvicinavano, con il timore di artificieri che si accostino a un congegno sospetto senza indossare la tuta protettiva, Eph ebbe una sensazione di terribile familiarità e impiegò solo un momento a riconoscerla: aveva provato la stessa sensazione quando si era approssimato all'aereo buio sulla pista di rullaggio, all'inizio di quella storia. La sensazione di avvicinarsi a una cosa morta eppure non morta. Una consegna da un altro mondo. Quando fu abbastanza vicino, ebbe la conferma che si trattava della bara lunga e nera vista nel bagagliaio del volo 753. La parte superiore raffinatamente intagliata con figure umane in moto vorticoso come se bruciassero tra le fiamme e facce allungate che urlavano di sofferenza. La cassa esageratamente grande del Padrone giaceva su un altare di detriti e di rifiuti sotto le rovine del World Trade Center. «È quella» disse Eph. Setrakian protese la mano verso un bordo della bara, quasi toccando gli intagli, poi ritrasse le dita. «Per molto tempo l'ho cercata.» Eph rabbrividì, non volendo incontrare di nuovo quella
gigantesca creatura divoratrice dalla forza inesorabile. Rimase di lato, aspettandosi che il coperchio si aprisse da un momento all'altro. Fet girò intorno al lato frontale. Non c'erano maniglie sulla parte superiore. Bisognava introdurre le dita sotto il bordo della fessura centrale e tirare. Sarebbe stato scomodo e difficile farlo rapidamente. Setrakian rimase accanto alla presunta testa della cassa, tenendo pronta la lunga spada. Ma aveva un'espressione torva. Eph ne lesse la ragione negli occhi del vecchio e si sentì sgonfiato. Troppo facile. Eph e Fet infilarono a fatica le dita sotto il doppio sportello e al "tre" tirarono. Setrakian si sporse, con la lampada e la spada... e vide che la cassa era piena di terriccio. Lo sondò con la lama e la punta d'argento raschiò il fondo della grande cassa. Niente. Fet arretrò, con occhi spiritati, pieno di adrenalina. «È sparito?» Il vecchio ritrasse la spada e la ripulì del terriccio sul bordo della cassa. Eph fu sopraffatto dalla delusione. «È fuggito.» Si scostò dalla bara, si girò verso la distesa di vampiri uccisi, si sentì preso in giro. «Sapeva che eravamo qui. È scappato nel sistema sotterraneo quindici minuti fa. Non può salire in superficie a causa del sole... perciò resterà nel sottosuolo fino a notte.» «Nel più lungo sistema di transito del mondo» replicò Fet. «Milletrecento chilometri di binari.» La voce di Eph era rauca di disperazione. «Non abbiamo avuto nemmeno l'occasione.» Setrakian parve sfinito, ma imperterrito. Anzi, negli occhi da vecchio aveva una traccia di luce nuova. «È così che stermina i parassiti, signor Fet? Spingendoli fuori del nido? Innaffiandoli con un getto d'acqua?» «Solo quando so dove andranno a finire» rispose il disinfestatore. «Tutte le creature che scavano tane, dai topi ai conigli, non si preparano un'uscita di riserva?» «Una via di fuga» confermò Fet. Aveva capito. «Un'uscita per i casi d'emergenza. Il predatore entra da una parte, la preda scappa fuori
dall'altra.» «Credo che il Padrone sia in fuga» disse Setrakian.
Vestry Street, Tribeca Non avevano tempo per distruggere la bara, così decisero di spingerla giù dall'altare di detriti, rovesciarla e versare il terriccio sul pavimento. Sarebbero tornati più tardi a finire il lavoro. Attraversare di nuovo i tunnel e raggiungere il furgone richiese un certo tempo e parecchie energie da parte di Setrakian. Fet parcheggiò dietro l'angolo della casa di Bolivar. Percorsero sotto il sole il mezzo isolato fino all'ingresso principale, senza curarsi di nascondere le lampade UVC e le spade d'argento. Non videro nessuno fuori della residenza ed Eph iniziò a salire le traverse del ponteggio della facciata. Sopra la porta chiusa da assi c'era una sopraffinestra a vasistas decorata con il numero civico. La fracassò con la spada, tolse a calci le schegge più grandi e con la lama ripulì il telaio. Prese una lampada ed entrò, calandosi nell'atrio. La sua luce violacea illuminò le due pantere di marmo ai lati della porta. La statua di un angelo alato ai piedi della scala ricurva lo fissò maleficamente. Eph avvertì il ronzio che rivelava la presenza del Padrone. "Kelly" pensò, con il cuore tormentato dalla sofferenza. Doveva essere lì. Poi arrivò Setrakian, spinto su da Fet e aiutato a scendere da Eph. Il vecchio toccò terra ed estrasse la spada. Anche lui avvertì la presenza del Padrone e provò sollievo. Non erano in ritardo. «Lui è qui» annunciò Eph. «Allora sa già che siamo qui anche noi» disse Setrakian. Fet calò a Eph due lampade UVC più grosse, poi scavalcò anche lui la finestra e con gli stivali toccò il pavimento. «Presto» li incalzò Setrakian, guidandoli sotto la scala a chiocciola, nel pianterreno in ristrutturazione. Passarono in una lunga cucina
con elettrodomestici ancora nelle casse e cercarono un armadio a muro. Lo trovarono, vuoto e ancora da terminare. Spinsero la finta porta nella parete in fondo, quella che avevano visto raffigurata nella stampa di "People" procurata da Nora. Una scala portava di sotto. Un foglio di plastica dietro di loro sbatté. Si girarono di scatto, ma era solo la corrente che saliva dalla scala. L'aria aveva l'odore della metropolitana, di terriccio e di rifiuti. Era la via per i tunnel. Eph e Fet cominciarono a sistemare due grosse lampade UVC in modo da riempire lo sgabuzzino di luce calda e micidiale e quindi sbarrare il sottosuolo, per evitare che altri vampiri salissero e, cosa più importante, assicurare che l'unica via d'uscita dalla casa fosse in pieno sole. Eph guardò indietro e vide Setrakian, appoggiato alla parete, premersi le dita sul panciotto, all'altezza del cuore. La scena non gli piacque; si stava muovendo verso il vecchio quando la voce di Fet lo spinse a girarsi. «Maledizione!» Una lampada si era rovesciata ed era andata a sbattere sul pavimento. Eph si assicurò che le lampadine funzionassero ancora, poi la raddrizzò, evitando di essere colpito dalla luce radioattiva. Fet gli intimò di fare silenzio. Eph udì rumori in basso. Passi. L'odore nell'aria cambiò, divenne più forte, più disgustoso. Vampiri si stavano radunando. Tutti e due arretrarono dallo sgabuzzino illuminato di blu, la loro valvola di sicurezza. Quando Eph si girò di nuovo verso il vecchio, si accorse che era scomparso. Setrakian era tornato nell'atrio. Si sentiva il cuore compresso nel petto, troppo gravato da stress e aspettativa. Per tanto di quel tempo aveva aspettato. Per tanto di quel tempo... Cominciò ad avvertire dolore alle mani deformi. Flette le dita, strinse il manico della spada sotto il pomolo d'argento a testa di lupo. Poi percepì qualcosa, la più debole delle correnti d'aria, anticipatrice di un movimento... Sguainando la spada all'ultimo momento si salvò da un colpo diretto e fatale. Ma l'impatto lo sbatté indietro, lo mandò a scivolare di testa sul pavimento di marmo e ad accartocciarsi contro la base
della parete. Lui però non perse la presa sull'arma. Si tirò subito in piedi, agitò la lama avanti e indietro, anche se nell'atrio buio non vedeva niente. Tanto il Padrone era rapido. Si trovava proprio lì. Da qualche parte.
Adesso sei un vecchio. La voce gli crepitò nella testa come una scarica elettrica. Setrakian mosse la spada d'argento in ampi cerchi dinanzi a sé. Una sagoma nera passò confusamente davanti alla statua dell'angelo piangente alla base della ricurva scalinata di marmo. Il Padrone avrebbe cercato di distrarlo. Era il suo modo di fare. Mai sfidare direttamente, faccia a faccia, ma ingannare. Sorprendere alle spalle. Setrakian arretrò contro la parete dell'ingresso principale. Dietro di lui, una sottile finestra di vetro Tiffany era stata annerita. Colpì i pannelli piombati e la fracassò con l'arma. La luce trafisse l'atrio. Al momento della rottura del vetro, Eph e Fet tornarono e lo videro in piedi, con la spada alzata, bagnato dai raggi del sole. Il vecchio scorse la confusa macchia scura salire le scale. «È là!» gridò inseguendola. «Adesso!» Eph e Fet corsero dietro il vecchio su per gli scalini. Due altri vampiri li affrontarono in cima alla rampa. Gli ex addetti alla sicurezza di Bolivar, le sue guardie del corpo taglia extralarge, ora famelici omaccioni in completo insudiciato. Uno menò una sberla a Eph che barcollò all'indietro e rischiò di perdere l'equilibrio, aggrappandosi alla parete per non ruzzolare lungo le scale di marmo. Quando gli puntò contro la lampada, il grosso fantoccio arretrò; Eph gli menò un fendente alla coscia. Il vampiro emise un ansito e si avventò di nuovo su di lui. Allora lo sventrò, facendo scorrere la lama per quasi tutta la larghezza dell'addome prima di ritrarla. La creatura si accasciò sul pianerottolo come un pallone bucato. Fet tenne a bada il suo avversario servendosi della lampada e
colpendo e tagliando con il pugnale dalla corta lama le mani della guardia del corpo che tentavano di afferrarlo. Gli piantò la luce in viso e il vampiro agitò le braccia e si guardò intorno come un folle, accecato per un momento. Il disinfestatore lo scansò, gli andò alle spalle, gli affondò l'arma nella nuca e lo spinse con violenza giù dalle scale. Il vampiro di Eph cercò di alzarsi, ma Fet lo atterrò di nuovo con un calcio nelle costole. La testa della guardia del corpo sporse dal gradino e con un grido di angoscia Eph calò la spada, mandandola a ruzzolare giù per le scale; aumentò velocità di rotazione in fondo, scavalcò il corpo dell'altro vampiro e si fermò contro la parete. Dal collo reciso, sangue bianco sgorgò sulla passatoia carminio. Vennero fuori i vermi capillari e Fet li bruciò con la lampada. La guardia del corpo ai piedi delle scale non era altro che un sacco di pelle pieno di ossa rotte, ma era ancora animata. La caduta non gli aveva reciso il collo, quindi il vampiro non era ancora libero. Aveva gli occhi aperti e fissava, muto, la lunga scalinata, cercando di muoversi. Eph e Fet trovarono Setrakian accanto alla grata dell'ascensore: impugnava la spada e tirava fendenti a una confusa macchia scura in rapido movimento. «Attento!» gridò, ma prima che la parola gli uscisse di bocca il Padrone aveva colpito Fet da dietro. Il disinfestatore cadde e rischiò di fracassare la lampada. Eph ebbe appena il tempo di reagire, prima che la sagoma gli passasse velocemente davanti, rallentando quanto bastava a mostrargli di nuovo la faccia verminosa e la bocca ghignante, e fu sbattuto contro la parete. Setrakian si lanciò avanti, menando colpi con la spada tenuta a due mani, e spinse la sagoma in una stanza dall'alto soffitto che occupava l'intero piano. Eph si tirò in piedi e lo seguì, al pari di Fet che ora sanguinava dalla tempia. Il Padrone si fermò davanti al massiccio camino di pietra al centro della camera, che aveva finestre solo alle due estremità: in mezzo non arrivava la luce del sole. Il mantello del Padrone s'increspò e tornò immobile; i suoi orribili occhi si posarono su tutti, in particolare su Fet, anche lui di notevole corporatura. E sul sangue
che gli colava lungo il viso. Con una sorta di ghigno ululante, il vampiro dalle lunghe braccia afferrò pezzi di legno, matasse di cavo elettrico e altri detriti a portata di mano e li tirò contro i tre assassini. Setrakian si appiattì contro la parete, Eph si riparò dietro un angolo, Fet usò come scudo un pezzo di pannello di rivestimento. L'assalto terminò, i tre alzarono gli occhi e il Padrone era scomparso di nuovo. «Cristo!» sibilò Fet. Si ripulì il viso insanguinato e gettò da parte il pannello. Buttò nel camino spento il pugnale d'argento, inutile contro quel gigante, e prese da Eph la lampada, in modo che il compagno potesse usare la spada a due mani. «Dobbiamo stargli dietro» disse Setrakian avanzando. «Come fumo che si levi da un camino, dobbiamo spingerlo sul tetto.» Girarono l'angolo e furono affrontati da altri quattro vampiri sibilanti. Avevano l'aspetto di ex fan di Bolivar, con i crani rasati e numerosi piercing. Fet usò contro di loro tutt'e due le lampade e li spinse indietro. Una donna riuscì a passare ed Eph accorse con la spada d'argento. La creatura aveva l'aspetto di una paffuta Maila Nurmi nel ruolo di Vampira, in gonna di denim e calze a rete strappate. Mostrava quella curiosa rapacità del vampiro appena cambiato che Eph aveva imparato a riconoscere. Si raccolse su se stesso e puntò la spada verso di lei, che si spostò a destra, poi a sinistra, sibilando con labbra bianche. Eph udì Setrakian gridare: «Strigoi!» in quel suo tono autoritario. Fu incoraggiato dal rumore di fendenti del vecchio che abbatteva vampiri. La creatura paffuta fintò in maniera più aggressiva ed Eph la colpì di punta, le tagliò la camicetta di cotone nero e le bruciò un seno. Quando lei aprì la bocca e arricciò la lingua, arretrò di scatto appena in tempo: il pungiglione gli mancò di pochissimo il collo. La creatura continuò l'assalto, a bocca spalancata, e con un grido di rabbia Eph vibrò la spada contro la sua faccia. Dritto al pungiglione. La lama trapassò il viso e si conficcò per qualche centimetro nella parete. Gli occhi della vampira parvero schizzare dalle orbite. Il
pungiglione reciso emetteva sangue bianco che le riempiva la bocca e le colava sul mento che lei non riusciva a muovere. Era inchiodata alla parete. Si dimenò e tentò di tossire per scagliare il sangue verminoso contro Eph. Un virus si propaga in tutti i modi possibili. Setrakian nel frattempo aveva ucciso gli altri tre vampiri, lasciando impiastrato di bianco il pavimento di acero appena lucidato in fondo al corridoio. Tornò da Eph gridando: «Indietro!». Lui lasciò la spada, con l'elsa che vibrava. Il vecchio indirizzò un fendente al collo della vampira e la gravità fece cadere a terra il corpo decapitato. La testa rimase inchiodata alla parete, lasciando sgorgare sangue bianco: i neri occhi della creatura mandarono lampi ai due uomini, poi si rivoltarono, si rilassarono, restarono immobili. Eph afferrò l'elsa ed estrasse la spada dalla parete. La testa della vampira cadde sopra il corpo. Non c'era tempo per irradiare il sangue bianco. «Su, su!» disse Setrakian e seguì la parete fino a una scala a chiocciola con una raffinata ringhiera di ferro. Lo spirito del vecchio era forte, ma le sue forze cominciavano a indebolirsi. Eph lo sorpassò in cima. Guardò a destra e a sinistra. Nella fioca luce vide pavimenti di legno duro già completati e pareti da terminare. Ma nessun vampiro. «Dividiamoci» ordinò il vecchio. «Sta scherzando?» replicò Fet aiutandolo ad arrivare in cima. «Mai dividersi. E la prima regola.» Mosse le lampade in tutte le direzioni come un forsennato. «Ho visto troppi film per finire in quel modo.» Una lampada frizzò. La lampadina scoppiò per il surriscaldamento e all'improvviso prese fuoco. Il disinfestatore lasciò cadere l'oggetto ormai inutile e pestò le fiamme. Adesso aveva una sola lampada. «Quanto potrà durare la batteria?» chiese Eph. «Non abbastanza» rispose il vecchio. «Lui ci logorerà così, farà in modo che gli diamo la caccia fino a notte.» «Dobbiamo intrappolarlo» intervenne Fet. «Come un topo in una stanza da bagno.» Setrakian si bloccò e girò la testa verso un suono.
Il tuo cuore è debole, vecchio miserabile. Lo sento. Rimase immobile, la spada pronta. Guardò tutt'intorno, ma non c'era segno del Tenebroso.
Ti sei costruito un comodo utensile. «Non lo riconosci?» chiese Setrakian a voce alta, con il respiro pesante. «Era di Sardu. Il ragazzo di cui prendesti la forma.» Eph si avvicinò al vecchio, rendendosi conto che parlava con il Padrone. «Lei dov'è?» gridò. «Dov'è mia moglie?» Il Padrone non gli badò.
Tutta la nostra vita ha portato a questo punto. Fallirai per la seconda volta. «Assaggerai il mio argento, strigoi» ribatté Setrakian. Assaggerò te, vecchio. E i tuoi maldestri discepoli... Il Padrone attaccò alle spalle, scagliò di nuovo Setrakian sul pavimento. Eph reagì, vibrò un fendente alla lieve corrente d'aria che aveva sentito, un paio di colpi alla cieca. Quando ritrasse la spada, vide che la punta era di un bianco appiccicoso. Aveva ferito il Padrone. Almeno, gli aveva inferto un taglio. Ma nel momento che gli occorse per elaborare quel fatto, il Padrone tornò e con l'artiglio gli diede una manata al petto. Eph sentì i propri piedi lasciare il pavimento; con la schiena e le spalle sbatté contro la parete e i muscoli esplosero di dolore mentre rovinava sul fianco. Fet spinse avanti la lampada e Setrakian, piegato sul ginocchio, ruotò la lama d'argento, spingendo indietro la belva. Eph rotolò rapidamente su se stesso, facendosi forza in attesa di nuovi colpi che però non arrivarono. Erano di nuovo soli. Potevano sentirlo. Non c'era rumore, a parte il tintinnio delle file di lampadine da lavoro appese al soffitto, che ondeggiavano nei pressi del fondo della scala. «L'ho colpito» disse Eph. Setrakian usò la spada per tirarsi in piedi, perché il braccio ferito gli pendeva senza forza lungo il fianco. Si diresse alla successiva
rampa di scale che portava in alto. Sul tavolato da completare c'era sangue bianco di vampiro. Doloranti ma decisi, i tre salirono i gradini fino in cima. Quello era l'attico di Bolivar, l'ultimo piano della più alta delle due case collegate. Entrarono nella parte utilizzata come camera da letto, cercarono sul pavimento sangue di vampiro. Non trovandone, Fet girò intorno al letto disfatto, si avvicinò alle finestre e strappò le tende che tenevano al buio la stanza, lasciando entrare luce, ma non i raggi diretti del sole. Eph controllò il bagno e lo trovò più grande di quanto si aspettasse, con specchi contrapposti incorniciati d'oro che lo riflettevano all'infinito. Un esercito di Ephraim Goodweather con la spada in pugno. «Da questa parte» ansimò Setrakian. Striature fresche di sangue bianco risaltavano su una poltrona di pelle nera nella più spaziosa sala dei media. Due vani di porta ad arco con pesanti tendaggi, nella parete est, mostravano una debole luce che filtrava da sotto il bordo delle tende. Più in là c'era il tetto della casa adiacente. Trovarono il Padrone al centro della stanza, con la faccia infestata di vermi rivolta verso di loro; gli occhi d'onice erano fissi, la pericolosa luce del giorno penetrava alle sue spalle. Bianco sangue iridescente gli colava, lento e irregolare, lungo il braccio e la mano tesi, gocciolando dalla punta dello strano artiglio sul pavimento. Setrakian avanzò zoppicando, trascinandosi dietro la spada e graffiando il pavimento di legno. Si fermò e con il braccio sano alzò la lama d'argento, affrontando il Padrone... con il cuore che batteva troppo rapido.
«Strigoi» disse. Il Padrone continuò a fissare il vuoto, impassibile, diabolicamente regale, gli occhi simili a due morte lune in nubi di sangue. L'unico segno della sua difficile situazione era l'agitato contorcimento di parassiti capillari sotto la pelle della faccia non umana. Per Setrakian, il momento era imminente... eppure il cuore gli stava mancando.
Eph e Fet si schierarono dietro di lui e il Padrone non ebbe altra scelta che aprirsi la strada combattendo per uscire dalla stanza. Dilatò la faccia in un ghigno feroce. Con un calcio scagliò contro Eph un lungo e basso tavolino che lo colpì e lo sbatté indietro; con il braccio non ferito spinse verso Setrakian una poltroncina, facendola scivolare sul pavimento. Quelle mosse ebbero l'effetto di dividerli: il Padrone saettò in mezzo e puntò dritto su Fet. Il disinfestatore alzò la lampada, ma la bestia si scansò e lo artigliò al fianco. Fet cadde, intontito, vicino alla cima delle scale. Il Padrone si lanciò per oltrepassarlo, ma lui fu rapidissimo e tirò la lampada proprio contro la faccia ghignante. I raggi UVC lo fecero barcollare, lo spinsero contro la parete che si crepò sotto il grande peso. Quando gli artigli si scostarono dalla faccia, gli occhi del Padrone erano più dilatati di prima e parevano perduti. Il Tenebroso era accecato, ma solo temporaneamente. Tutti si accorsero di essere in vantaggio e Fet lo assalì con la lampada. La belva agitò violentemente le braccia, allora il disinfestatore la spinse indietro nella stanza verso le porte chiuse dai tendaggi. Eph gli corse dietro, menando fendenti al mantello del vampiro, e colpì una parte carnosa. Il Padrone cercò di artigliare gli assalitori, ma li mancò. Setrakian afferrò la poltroncina che gli era arrivata addosso e la spada gli cadde rumorosamente al suolo. Eph tagliò i pesanti tendaggi che coprivano una delle arcate e lasciò entrare la vivida luce del sole. Decorative grate di ferro sbarravano la porta a vetri, ma con un colpo di spada Eph spezzò il lucchetto in una pioggia di scintille. Fet continuò a spingere indietro il Padrone. Poi Eph si girò, aspettando che Setrakian somministrasse il colpo fatale. Vide il vecchio professore disteso per terra accanto alla spada, la mano sul petto. Eph impietrì, guardò il Padrone ora vulnerabile e poi Setrakian moribondo per terra. Fet, muovendo la lampada davanti al vampiro come un domatore fa con lo sgabello davanti a un leone, domandò: «Cosa
aspettate?». Eph corse dal vecchio, si mise carponi e scorse la sofferenza sul suo viso, lo sguardo remoto. Le dita tiravano il panciotto, sopra il cuore. Eph posò a terra la spada, strappò il panciotto e la camicia e mise a nudo il petto incavato di Setrakian. Tastò il collo, ma non riuscì a sentire il battito. «Ehi, dottore!» gridò Fet. Aveva bloccato il Padrone contro il bordo di luce. Eph massaggiò il petto del vecchio. Non tentò subito rianimazione cardiocircolatoria perché temeva di danneggiargli ossa: non voleva sfondargli la gabbia toracica. Poi notò che le dita Setrakian si erano scostate dal petto, cercavano di arrivare panciotto.
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Fet si girò, innervosito, per capire che cosa li tratteneva. Vide Setrakian disteso sul pavimento ed Eph inginocchiato accanto a lui. Si soffermò sulla scena un istante di troppo. Il Padrone gli artigliò la spalla e lo tirò a sé. Eph tastò le tasche del panciotto di tweed di Setrakian e sentì che c'era qualcosa. Estrasse una scatoletta d'argento per pillole e svitò in fretta il coperchio. Una decina di piccole pastiglie bianche cadde a terra. Fet, per quanto alto e robusto, era un bambino nella stretta del Padrone. Aveva ancora la lampada, anche se le braccia erano imprigionate. La girò contro il vampiro e gli bruciò il fianco. La belva accecata ruggì di dolore, ma non mollò la presa. Con l'altra mano afferrò la testa della preda e la forzò indietro, malgrado il tentativo di resistenza. Fet si trovò a fissare l'indicibile faccia del Tenebroso. Eph prese una pillola di nitroglicerina, resse la testa del vecchio, lo costrinse ad aprire la bocca e gliela mise sotto la lingua. Ritrasse le dita e cominciò a scuotere Setrakian, a gridargli incitamenti. Questi aprì gli occhi. Il Padrone spalancò la bocca e protese il pungiglione, agitandolo nell'aria sopra gli occhi sbarrati della preda e la gola esposta. Fet
lottò con tutte le sue forze, ma la compressione del collo bloccò il flusso di sangue al cervello. Vide tutto nero e sentì i muscoli afflosciarsi. «No!» gridò Eph e con la spada si avventò sul Padrone, menando fendenti alla larga schiena di quell'abominio. Fet cadde a terra in un mucchio. Il vampiro girò di scatto la testa, cercando con il pungiglione, e i suoi occhi annebbiati trovarono Eph. «La mia spada risuona d'argento!» gridò Eph e colpì di taglio la parte superiore del petto del Padrone. La lama risuonò davvero, ma il Tenebroso volò all'indietro e la evitò. Eph vibrò un altro colpo e lo mancò di nuovo, mentre il vampiro si dibatteva all'indietro, fuori controllo. Adesso era colpito dai raggi del sole, incorniciato davanti alle due porte di vetro, e alle spalle aveva la piena luce del giorno che entrava dal patio sul tetto. Eph l'aveva in pugno. Il Padrone se ne rese conto. Eph strinse la spada con entrambe le mani, pronto a conficcarla nel collo rigonfio dell'avversario. Il re vampiro lo fissò con un'espressione di sovrano disgusto, si erse ancora di più e si calò sulla testa il cappuccio del mantello. «Muori!» gridò Eph correndogli contro. Il Padrone si girò, si lanciò con uno schianto contro i pannelli di vetro delle porte, verso il patio aperto. Il vetro esplose e il vampiro ammantato rotolò sulle calde piastrelle di terracotta, nel sole letale. Si fermò un attimo, ingobbito su un ginocchio. Trasportato dallo slancio, Eph varcò la porta distrutta e si fermò. Fissò il Tenebroso e aspettò di vederne la fine. Il Padrone tremò ed emise vapore da dentro il mantello scuro. Poi si erse in tutta la sua statura, tremando come in preda a un violento attacco epilettico, con i grandi artigli accartocciati in pugni bestiali. Con un ruggito si strappò il mantello. L'antico indumento cadde, fumante, sulle piastrelle. Il corpo nudo del Padrone si contorse, la carne perlacea si scurì, bruciata dalla luce, cambiando da un bianco di giglio a un nero di cuoio.
Il taglio che Eph gli aveva inferto sulla schiena si fuse in una profonda cicatrice nera, come cauterizzato dai raggi solari. Il vampiro si girò, continuando a tremare, e guardò verso Eph e Fet, in piedi nell'arcata alle sue spalle, e Setrakian, che si era alzato in ginocchio. Scandalosamente nudo, aveva una magrezza da ghoul, con l'inguine liscio e asessuato. La carne nera cotta a fuoco vivo si torceva di vermi capillari impazziti di dolore. Con il più orrendo dei sorrisi, un ghigno d'intensa sofferenza e anche di trionfo, il Padrone girò la faccia verso il sole ed emise a bocca spalancata un ululato di sfida. Un vero anatema demoniaco. Poi, con rapidità vertiginosa, balzò al bordo del patio, scavalcò il basso muretto e corse giù lungo il fianco dell'edificio verso il ponteggio del terzo piano... e scomparve nelle ombre mattutine di New York City.
IL CLAN
Nazareth, Pennsylvania In una miniera di amianto da tempo abbandonata e mai riportata sulle mappe, un inferno qualche centinaio di metri sotto i boschi della Pennsylvania, fra chilometri di tunnel labirintici e di cunicoli, tre Antichi del Nuovo Mondo discutevano in una sala nera come la pece. I corpi, nel corso del tempo, si erano consumati fino a diventare lucidi come sassi di fiume; i movimenti si erano rallentati fin quasi a risultare impercettibili. Per loro la fisicità esteriore era inutile. Gli organismi si erano evoluti per raggiungere la massima efficienza, le mascelle da vampiro funzionavano senza difetti. La visione notturna era straordinaria. Nelle gabbie costruite nei profondi tunnel occidentali del loro dominio, gli Antichi avevano già cominciato a immagazzinare cibo per l'inverno. Le occasionali urla di una vittima squarciavano la miniera, echeggiando come richiami d'animale. È il settimo. Malgrado l'apparenza umana, non avevano bisogno di parlare. I movimenti e gli sguardi degli occhi rossi e sazi erano di una lentezza spaventosa.
Cos'è questa scorreria? È una violazione. Ci crede vecchi e deboli. Qualcun altro ha collaborato a questa trasgressione. Qualcuno l'ha aiutato ad attraversare l'oceano. Uno degli altri? Un Antico del Nuovo Mondo protese la mente al di là del mare fino al Vecchio Mondo.
Non percepisco nessun intervento. Allora il settimo si è alleato con un umano. Con un umano contro tutti gli altri umani.
E contro di noi. Non è chiaro adesso che lui solo era responsabile del massacro dei bulgari? Sì. Ha dimostrato la propensione a uccidere la sua stessa razza, se contrariato. È stato davvero rovinato dalla guerra. Ha sorseggiato troppo a lungo nelle trincee. Ha banchettato nei campi. E ora ha infranto la tregua. Ha messo piede sul nostro terreno. Vuole per sé il mondo intero. Ciò che vuole è un'altra guerra. Il più alto contrasse l'artiglio: una straordinaria azione fisica, per un essere così impregnato di ponderazione, di immobilità elementare. Il corpo era un semplice guscio e poteva essere sostituito. Forse erano troppo appagati. Troppo comodi.
Allora lo obbligheremo. Non possiamo più rimanere invisibili. Il cacciatore di teste entrò nella sala degli Antichi e attese che si rivolgessero a lui.
L'hai trovato. Sì. Ha cercato di tornare a casa, come fanno tutte le creature. Basterà? Sarà il nostro cacciatore di sole. Non ha altra scelta. In una gabbia chiusa, nel tunnel occidentale, su un pavimento di fredda terra, Gus Elizalde giaceva privo di sensi. Sognava sua madre... all'oscuro del pericolo che lo aspettava.
EPILOGO
Kelton Street, Woadside, Queens Si riunirono nella casa di Kelly. Nora vi riportò Zack dopo che Eph e Fet ebbero raccolto e bruciato in un fuoco di foglie e di arbusti nel cortile posteriore i resti di quello che era stato Matt. Setrakian giaceva disteso sul divano letto nel portico a vetri. Si era rifiutato di andare in ospedale ed Eph aveva convenuto che la cosa era fuori questione in ogni caso. Il vecchio aveva il braccio pieno di lividi, ma non rotto. Il polso era lento, ma continuo e in miglioramento. Eph voleva che Setrakian dormisse senza somministrargli analgesici e quando andò di nuovo a controllarlo, al calar della notte, gli portò un bicchiere di brandy. Lui disse di non essere infastidito dal dolore. «È il fallimento a tenere svegli.» Il pensiero del fallimento ricordò a Eph che non aveva trovato Kelly. Una parte della sua mente voleva credere che quello fosse una ragione per continuare a sperare. «Lei non ha fallito» disse al vecchio. «È stato il sole a fallire.» «Lui è più potente di quanto credessi» ammise Setrakian. «Lo sospettavo, forse. Lo temevo, di sicuro. Ma non lo sapevo. Lui non è di questa terra.» «È un vampiro» convenne Eph. «No... non è di questa terra.» Eph temette che il vecchio avesse preso un colpo in testa. «Lo abbiamo ferito, ecco il risultato. Marchiato. E ora è in fuga.» Abraham non si lasciò consolare. «È ancora in giro. La storia continua.» Accettò il bicchiere, bevve il brandy e si mise comodo. «Quei vampiri adesso... sono nell'infanzia. Stiamo per assistere a un nuovo stadio della loro evoluzione. Occorrono circa sette notti perché siano del tutto cambiati. Perché il nuovo sistema organico parassita completi la formazione. Non appena ciò si verificherà, non appena i loro corpi non accoglieranno più gli organi vitali... cuore,
polmoni... ma solo una serie di cavità, saranno meno vulnerabili alle armi convenzionali. E continueranno a maturare, a imparare, a farsi furbi, ad abituarsi all'ambiente. Si aggregheranno in bande, coordineranno gli attacchi e individualmente diventeranno molto più svelti e micidiali. Si nasconderanno in modo che sia più difficile trovarli e sconfiggerli. E a un certo punto sarà impossibile fermarli.» Terminò il brandy, poi guardò Eph. «Quel che abbiamo visto là su quel tetto stamani era la fine della nostra razza, credo.» Eph sentì il peso del futuro premere su tutti loro. «Cosa mi ha taciuto?» Con occhi umidi Setrakian fissò il vuoto. «C'è troppo da dire ora.» Qualche minuto più tardi si era addormentato. Eph guardò le dita deformi tormentare il bordo del lenzuolo sul petto. I sogni del vecchio erano dovuti alla febbre. «Papà!» Eph andò nella stanza principale dove il figlio era seduto davanti al computer. Lo strinse da dietro, avvolgendolo in un altro abbraccio, e lo baciò sulla testa, aspirando l'odore dei capelli. «Ti voglio bene, Zack» mormorò. «Anch'io, papà.» Eph gli arruffò i capelli e lo lasciò. «A che punto siamo?» «Ho quasi finito» rispose Zack, tornando al computer. «Ho dovuto creare un indirizzo e-mail fasullo. Scegli una password.» Stava aiutando il padre a scaricare il video di Ansel Barbour nella baracca dei cani - che Eph non gli aveva ancora mostrato - nel maggior numero possibile di siti web per la condivisione e la trasmissione di file video. Eph voleva che in Internet ci fossero filmati su veri vampiri e che fossero visibili in tutto il mondo. Era l'unico modo per arrivare alla gente e far capire il pericolo. Non si preoccupava di alimentare il caos e il panico: i tafferugli continuavano, confinati nei quartieri più poveri, anche se era solo questione di tempo prima che si diffondessero dappertutto. L'alternativa di mantenere il silenzio a
fronte di un evento di estinzione era troppo assurda per essere considerata. Quella pestilenza sarebbe stata combattuta alle radici adesso... o non sarebbe stata combattuta affatto. «Ora» disse Zack «seleziono il file, così, e lo metto in allegato...» Dalla cucina, dove Fet guardava la TV mentre mangiava insalata di pollo in una coppetta di plastica da duecentocinquanta grammi, giunse una voce: «Guardate questo» Eph si girò. Un filmato preso da un elicottero mostrava una fila di edifici in fiamme e denso fumo nero sopra Manhattan. «Va male» commentò. Poi vide che i foglietti appiccicati da Zack allo sportello del frigo si alzavano e sventolavano. Un tovagliolo di carta volò via dal banco e finì a terra, ai piedi di Fet. Eph si rivolse al figlio, che aveva smesso di battere sulla tastiera. «Cos'era quella corrente d'aria?» «La porta scorrevole sarà rimasta aperta» rispose Zack. Eph girò lo sguardo, in cerca di Nora. Ci fu il rumore dello sciacquone e lei comparve dal corridoio del bagno. «Che succede?» chiese notando che tutti la fissavano. Eph scrutò l'altro capo della casa, il punto dietro cui si trovavano la porta scorrevole a vetri e il cortile. Una persona girò l'angolo. Si fermò lì, le braccia penzoloni lungo i fianchi. Eph la fissò, paralizzato. Kelly. «Mamma!» esclamò Zack. Si mosse per andare da lei, ma il padre lo afferrò al volo. Forse lo strinse troppo, facendogli male, perché Zack si scostò, sorpreso, e si girò a guardarlo. Nora si precipitò a bloccare il ragazzo da dietro. Kelly si limitava a stare lì. A guardarli. Senza espressione, senza un battito di ciglia. Pareva traumatizzata, come resa sorda da una recente esplosione. Eph capì immediatamente. Era la cosa che più temeva al mondo. Sentì male al cuore, un dolore fisico. Kelly Goodweather era stata cambiata. Una creatura morta tornata a casa. Gli occhi dallo sguardo fisso trovarono Zack. Il suo caro. Era
venuta per lui. «Mamma?» disse il ragazzo, incerto. Qualcosa in lei non andava. Eph sentì un rapido movimento alle sue spalle. Fet si precipitò nel corridoio, afferrò la sua spada e la brandì, mostrando a Kelly l'argento della lama. La faccia della donna si rapprese. La sua espressione divenne maligna, a denti snudati. Eph si sentì mancare il cuore. Kelly era un demone. Un vampiro.
Una di loro. L'aveva perduta per sempre. Con un gemito soffocato, Zack si ritrasse alla vista della madre demonizzata... e perse i sensi. Fet si mosse verso di lei, la spada in pugno, ma Eph lo prese per il braccio prima che andasse fino in fondo. Kelly balzò via dalla lama d'argento, come una gatta con il pelo ritto. Soffiò verso di loro. Diede ancora un'occhiata malefica al ragazzo privo di conoscenza, la sua vittima designata. Poi si girò e si dileguò dalla porta sul retro. Eph e Fet girarono l'angolo appena in tempo per vederla scavalcare la bassa recinzione che separava il cortile da quello del vicino e correre via nella nuova notte. Fet chiuse la porta e tirò il catenaccio. Abbassò le tapparelle sul vetro, poi si girò verso Eph. Lui non disse niente. Tornò da Nora, che era in ginocchio accanto a Zack, sul pavimento, con occhi pieni di disperazione. Eph capiva ora quanto fosse davvero insidiosa quella pestilenza. Che aizzava l'uno contro l'altro i componenti di una stessa famiglia. Che aizzava la morte contro la vita. Il Padrone aveva mandato Kelly. L'aveva sguinzagliata contro il marito e il figlio. Per tormentarli. Per vendicarsi. Se il grado di devozione a una persona cara in vita era in qualche modo correlato al desiderio di riunione nella morte... allora, Eph lo sapeva, Kelly non avrebbe mai ceduto. Avrebbe continuato a dare la caccia a suo figlio per sempre, a meno che qualcuno l'avesse fermata.
Capì che la battaglia per la custodia di Zack non era terminata. Anzi, era appena passata a un nuovo stadio. Guardò la loro faccia, poi gli incendi che infuriavano in TV, e si girò verso il computer. Premette il tasto d'invio e completò il lavoro di Zack. Spedì il video del vampiro che imperversava nel mondo. Poi andò in cucina, dove Kelly teneva lo scotch. Per la prima volta dopo tanto tempo si versò un bicchiere.