RAMSEY CAMPBELL LA SETTA (The Nameless, 1981) RINGRAZIAMENTI Per l'aiuto e i consigli che mi hanno dato mentre scrivevo ...
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RAMSEY CAMPBELL LA SETTA (The Nameless, 1981) RINGRAZIAMENTI Per l'aiuto e i consigli che mi hanno dato mentre scrivevo questo romanzo sono particolarmente grato a Robert Aickman, Tony Beck, Arthur Cullimore, Phil Edwards, Kay McCauley, Christine Ruth, Tim Shackleton, Bob Shaw (l'appassionato di fantascienza di Glasgow più che lo scrittore di fantascienza di Lakeland), Carol Smith e John Thompson. Sono inoltre debitore a Barry Forshaw, a Peter e Susie Straub e a Tom e Alice Tessier per la loro impeccabile ospitalità durante le mie escursioni a Londra e ringrazio m modo speciale Harlan Ellison per la sua eccezionale bravura nel ricordare. Non occorre dire che la nursery di Otford è di mia invenzione e che all'epoca in cui scrivevo non c'era nessun bancomat della Barclaybank a Glasgow. A Tamsin, che mi ha aiutato senza saperlo, con tutto il mio amore Questo romanzo è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi e avvenimenti sono immaginari e qualsiasi riferimento a persone, a fatti o a luoghi realmente esistenti è casuale. Prologo 1940 Il cortile era più vasto di un campo da football, ma dava l'impressione di essere molto più piccolo. Appena entrato, le mura gli si chiusero addosso. Il cielo estivo, le colline, erano vividi come in un poster, i gabbiani planavano stridendo sopra la baia di San Francisco, ma una volta dentro era impossibile accorgersi di altro che di quelle mura. Forse era solo l'effetto delle centinaia di facce che spiavano dall'alto, delle voci urlanti simili a proposte di puttane disperate, ma pareva che le mura ti si chinassero addosso,
come rese decrepite da un'incommensurabile angoscia, un'infinita amarezza. In certi momenti era come sentire il dolore di quelle pietre. L'uomo alto non mostrò alcuna reazione. Mentre avanzava nel cortile seguendo la sua lunga ombra — un'ombra smilza come le sue membra, nera come il suo abito — il suo viso affilato non esprimeva niente. Solo gli occhi erano accesi e determinati. Raggiunse in fretta il blocco nord e vi entrò come se non avesse tempo da perdere. Quando arrivò alla porta verde, però, si fermò e lanciò un'occhiata all'interno dalla finestra. Non c'era molto da vedere: solo una stanza larga una decina di metri, con le pareti dello stesso verde marcio della porta. A guardarla non si sarebbe detto che le sole pareti, di acciaio, pesavano più di due tonnellate. Le due sedie vuote che vi si trovavano potevano essere quelle di un dentista, o di un barbiere; solo che chi si fosse seduto su una di quelle sedie non si sarebbe mai più alzato. Dopo un po' l'uomo riprese il suo passo veloce verso l'ascensore e vi entrò. I suoi occhi, ora, erano se possibile ancora più accesi, ma di nuovo senza espressione. La guardia al piano sbloccò lo sportello dell'ascensore per lasciarlo passare; quella che lo perquisì nella stanzetta di passaggio gli diede un'occhiata di sfuggita. Dopo un minuto la porta della saletta si chiudeva dietro di lui: si trovava nel Braccio della Morte. Era molto più silenzioso che nel cortile, ma era un silenzio che pareva chiuso a chiave lì dentro. C'era l'atmosfera di un'attesa snervante, ma di chi finga di non attendere proprio niente. Era una sensazione che invadeva l'aria come un gas, invisibile e soffocante. Occhi, deformati dalle ombre, lo fissavano da celle più strette di una persona con le braccia aperte, e lunghe poco più del doppio. Dietro ogni uomo, sotto una lampadina ingabbiata, non c'era altro che una branda e un bugliolo. Forse era qualcosa di più che l'ombra a far neri quegli occhi. L'uomo alto ignorò tutto ciò. Arrivò direttamente da Santini, che se ne stava nel corridoio a far tintinnare le chiavi e a digerire le polpette della sera prima. Santini si stava anche chiedendo che cosa gli ricordava quel tizio dalla faccia aguzza. Forse se gli fosse venuto in mente non si sarebbe sentito più così teso. O forse era una cosa che viene naturale con quel lavoro. Ogni volta che portavano un detenuto nel Braccio si innervosiva, aspettandosi che il tizio da un momento all'altro, alla vista del posto dove avrebbe passato il resto dei suoi giorni, potesse dare i numeri, scatenarsi. Respirava sempre meglio quando il nuovo era rinchiuso. « Sono il dottor Ganz », disse seccamente l'uomo alto. « Sono qui per
vedere Frank Bannon. » Guardava Santini come si guarda un campione da laboratorio. Chiaramente Ganz era lì a cercare qualcosa su cui piantare grane. Psichiatri e avvocati: per un po' tutti qui dentro dovrebbero chiuderli; si accorgerebbero presto come tutto è necessario. Solo che in genere non avevano mai un atteggiamento freddo come quello lì. Uno che passa davanti alla camera a gas ed è freddo come quello, deve avere dentro qualche cosa che non funziona. Dopo che Santini gli ebbe aperto la saletta degli interrogatori, poco più grande di un gabinetto pubblico, Ganz sedette all'estremità del tavolo. Quando ci appoggiò i gomiti e si toccò gli zigomi con le dita, Santini sentì di essere quasi arrivato ad afferrare che cosa gli ricordava. Mentre si girava per andare a raggiungere l'altro secondino che lo aspettava per aprire la cella, si accorse che gli occhi di Ganz brillavano. Bannon alzò lo sguardo con un vago sorrisetto quando aprirono la porta della sua cella e Santini sentì un'ondata di nausea. Di tutte le bestie che tenevano chiuse a San Quentin, Bannon era la peggiore. Santini non riusciva a ripensare a quello che aveva fatto alla ragazza senza che gli venisse voglia di vomitare. Forse era l'aspetto di Bannon a peggiorare le cose: sempre pulito e ordinato, un viso così uscio e intatto che non si riusciva a capire neppure quanti anni avesse. Ora il governatore Olson aveva alzato il culo dalla sua poltrona a Sacramento e si era messo a blaterare di riforma carceraria, di segrete sotterranee e palle varie — ma, perdio, se c'era uno che si meritava di essere sbattuto lì senza nemmeno una coperta, quello era Bannon. Santini avrebbe dato volentieri alle guardie una mano con il manganello se Bannon avesse fatto tanto di perdere il controllo. Magari l'assaggio di un trattamento speciale riusciva a spremergliela qualche lacrima per la ragazza. Il secondino scortò Bannon, ciabattante, lungo il corridoio. « Grazie, Mr. Santini », disse e Santini sentì l'impulso di tirargli un cazzotto. Quel figlio di troia osservava le regole con un tale scrupolo che pareva ci si divertisse. Santini sbattè la porta della stanza senza finestre e chiuse a chiave, ma questo non attutì né la rabbia né il saporaccio delle polpette. Si stava girando quando sentì Ganz che diceva: « Buon pomeriggio ». Era facile che uno si dimenticasse dell'ora, lì dentro, ma non fu per questo che Santini si voltò. « Magari rimango qui ancora un po' nel caso che si sbrighino alla svelta », propose. L'altro secondino si allontanò, stringendosi nelle spalle. Era chiaro che
aveva capito che in realtà la sua intenzione era di origliare, ma a Santini non gliene importava. Quello che lo incuriosiva non era tanto ciò che quel figlio di troia di Bannon stava per dire di se stesso; ci teneva piuttosto a sapere che cosa rendeva l'uomo in nero così ansioso di parlargli. Sulle prime Ganz parve il solito bravo imbecille con le solite domande idiote. Bannon si sentiva mai depresso? Gli davano dei libri se voleva leggere? Aveva già visto la moglie da quando era lì? Gli sarebbe piaciuto vederla? « Certo, mi piacerebbe vederla se lei vuol venire », rispose Bannon. « Come definirebbe la sua vita matrimoniale? Nel complesso soddisfacente? » « Direi che facevamo una vita piuttosto bella. Lei non si lamentava, né io avevo motivi per farlo. Guadagnavo bene come tecnico specializzato. Vivevamo bene come tutti i nostri amici. » Santini strinse i pugni. Probabilmente il matrimonio di quel bastardo era meglio del suo — chi aveva più tanta voglia di tornare a casa, se lei doveva sempre attaccare a blaterare come una scimmia ogni volta che lui metteva piede in casa, se ogni volta arrivava a tavola quella pasta unta? Naturale che, con quella alimentazione, era diventata il doppio, da quando l'aveva sposata. Si costrinse a smettere di rimuginare e udì Ganz chiedere: « Ricorda quello che ha fatto, il motivo per cui è qui? » « Certo che mi ricordo. Non sono pazzo, sa? Non sono pazzo, lo hanno detto anche al processo. » « E che effetto le fa ora quello che ha fatto? » « Mi sento a posto. Se vuole posso parlargliene. » La sua indifferenza faceva paura. Santini non era certo che ce l'avrebbe fatta ad ascoltare. Un po' di violenza la capiva — uno che ogni tanto pesta la moglie, una cosa così è comprensibile — ma quello che aveva fatto quella belva no. « Sì, mi farebbe piacere », rispose Ganz. « Vorrei che mi raccontasse tutto quello che ha fatto e che ha provato. Vuole? » Il suo tono fino a quel momento era stato di neutra professionalità, ma ora a Santini parve di cogliere una sfumatura di ansia. Azzardò un'occhiata dallo spioncino e si rese conto immediatamente di che cosa gli ricordava Ganz. Con quegli occhi brillanti, i gomiti che reggevano le braccia sottili, le lunghe mani che contornavano il viso affilato senza età, era esattamente come una mantide religiosa. « Bene, da dove vuole che cominci? » chiese Bannon. « Ho visto quella donna in strada, un giorno, e l'ho seguita. »
« Perché l'ha seguita? » « Perché era bellissima, probabilmente. Stava andando a casa e così scoprii dove abitava, in un appartamento. Solo che pensai che non potevo fare niente là dentro, perché poteva esserci qualcuno che sentiva. » « Che aveva in mente di fare? In quel momento pensava di violentarla? » « Ma nemmeno per idea. » Bannon sembrava offeso. « Gliel'ho detto, avevo un buon matrimonio. Non ho mai pensato neppure di tradire mia moglie. Sapevo solamente che dovevo trovarmi con quella donna da solo da qualche parte dove non ci disturbassero. Più la seguivo e più mi convincevo che dovevo fare così. » « L'ha seguita per diverse settimane. Sua moglie, immagino, avrà notato qualcosa di insolito nel suo comportamento. » « In tribunale ha detto di no. Io le raccontavo che ero fuori per lavoro. Non aveva nessun motivo per non credermi. » « E così alla fine riuscì a entrare in contatto con la donna che stava seguendo. Me ne parli. » « Be', a quel punto sapevo che lavorava in una fabbrica, e così una mattina decisi di provare ad andare là. C'erano centinaia di persone che entravano, nessuno badò a me. Nessuno mi fece domande né niente, neppure quando la seguii nel reparto dove lavorava. Mi stavo appunto chiedendo come fare a rimanere solo con lei quando trovai una vecchia tuta che qualcuno doveva aver usato per spolverare. Insomma, andai dietro un macchinario e me la misi, e quando mi fui sporcato la faccia di grasso neppure mia moglie mi avrebbe riconosciuto. Non mi piaceva sporcarmi, avere l'aria di un manovale, ma sapevo che dovevo farlo. Andai diritto dalla donna e le feci capire che avevo bisogno che mi aprisse il magazzino. Lei saprà, credo, che era una sorvegliante. Bene, non riuscì a chiedermi niente per tutto il frastuono che c'era. Mi aprì la porta e io entrai dietro di lei. » Ganz si sporse dalla sedia. « E poi... » « Bene, prima le strappai le chiavi e chiusi la porta. Per questo mi ci volle qualche istante. Poi la buttai a terra e mi misi seduto sul suo petto. Lei aveva libero il braccio destro e io le tenevo bloccato l'altro con il ginocchio. Credo che sappia che cosa ho fatto poi. Le ho tolto le dita della mano destra con una pinza. » « Dev'esserci voluto un po' di tempo », commentò Ganz in tono discorsivo, e Santini dovette mordersi le nocche per controllarsi. « Le davano fastidio le urla? » « No, per niente. Sapevo che non potevano sentirla per il rumore che ve-
niva da fuori. » « E allora come si sentì? » « Non mi pare che sentissi molto, solo che mi sembrava come di sognare. Mi ricordo che avevo l'impressione che succedesse tutto lontanissimo da me. Aspetti, una cosa però la sentivo — una specie di delusione che fosse tutto lì, potrei dire. » « E perché pensava che le stesse facendo quella cosa? » « Non ci pensavo troppo. Sentivo solamente che era una cosa che andava fatta. » « Appena ebbe finito la lasciò? » « Esatto. La chiusi dentro e me ne andai direttamente dal cancello della fabbrica. Dovettero pensare che era in qualche altro posto dello stabilimento perché non la trovarono per un pezzo. Mi tolsi la tuta non appena fui sicuro che non mi vedeva nessuno e la lavai in una toilette pubblica. Poi andai a lavorare. Voglio dire, nessuno mi avrebbe chiesto come mai ero un po' in ritardo. L'unica cosa, dovetti comprarmi un vestito uguale a quello che avevo sporcato. Una volta buttato il vestito sporco nella fornace, tutto andò a posto. » « Come si sentì quando seppe che la sua vittima non era morta? » « Be', lo speravo proprio. Temevo che fosse morta per l'emorragia. Per un po' mi sono sentito piuttosto male quando ci pensavo. Se fosse morta non so cosa avrei fatto. Quando lessi che i medici erano riusciti a salvarla mi sentii così felice che dovetti raccontare a mia moglie che avevo concluso un contratto importante, così che non si chiedesse come mai stavo ridendo. » « Poi c'è un intervallo di qualche mese. Ha mai temuto che la polizia potesse rintracciarla? » « Per dire la verità non ci ho mai pensato. Mi sentivo un po' come se quello che le era accaduto fosse colpa di un altro. » « Ma aspettava che la donna fosse dimessa? » « Oh, certo. Voglio dire, non potevo raggiungerla mentre era in ospedale. Non mi seccava aspettare, me la tolsi dalla testa e basta. Sapevo che dovevo finire quello che avevo cominciato. » « Me ne parli. » Figlio di puttana, stava mormorando Santini tra i denti, così serrati che gli facevano male, stramaledetto sadico figlio di puttana. Non avrebbe saputo dire a chi dei due si riferiva. « Bene », disse Bannon, « continuai a tenere d'occhio il suo appartamen-
to, così quando tornò a casa lo seppi subito. Sua madre si era già trasferita lì per accudirla. Andai su una mattina, quando pensavo che i vicini fossero quasi tutti via. Non sapevo bene stavolta cosa dovevo fare, e così mi portai dietro una cassetta degli attrezzi. » « Aprì la porta sua madre. » « Esatto, e quando le dissi che mi aveva mandato il portiere per controllare l'impianto elettrico, mi fece entrare. Dopo, probabilmente, le venne in mente che era strano che non l'avessero avvertita, perché andò verso il telefono. La colpii prima che potesse far nulla, poi andai dalla figlia. » « Cosa sentì quando la vide? » « Una specie di delusione. Non era più così bella. Cioè, doveva essere sui trent'anni, e pareva più vecchia della madre. Aveva qualcosa nella mano destra, una specie di manopola chirurgica credo. Mi ricordo che mi sentivo a disagio, come ci si sente davanti a uno storpio. Mi sentivo disgustato perché aveva quell'aspetto. Era seduta in mezzo al letto, sentiva Count Basie alla radio. Sonnecchiava e si svegliò quando entrai. Vide la cassetta, poi mi guardò in viso, e capii che mi aveva riconosciuto immediatamente. » « Cosa fece allora? » « Bene, innanzitutto dovevo farla smettere di urlare, nel caso ci fosse stato qualcuno che potesse sentirla », spiegò Bannon, e fu allora che Santini si tappò le orecchie. Di quello che era successo dopo ne sapeva abbastanza da convincerlo che non era in grado di sopportare altro. Poteva immaginare la vittima di Bannon, finalmente a casa e convinta di essere per la prima volta veramente al sicuro, alzare gli occhi e vederselo in camera da letto. Inghiottì il sapore acido delle polpette e guardò Ganz, i cui occhi erano ancora più brillanti, adesso. Avrebbe dovuto essere uno psichiatra, pensò Santini, ma era lui da rinchiudere. Passarono cinque minuti, poi vide Ganz rilassarsi e pensò che poteva rischiare di mettersi in ascolto. « Quando la madre vide quello che stavo facendo corse subito sul pianerottolo », stava dicendo Bannon. « La sentivo gridare e picchiare a tutte le porte, anche se avevo alzato la radio al massimo. » « Ma era ancora lì quando arrivò la polizia. » « Be', la donna allora non era ancora morta. Volevo finire, se ci riuscivo. » « Come si sentì quando l'arrestarono? » « Frustrato, direi. Sentivo di non aver finito. E poi capii benissimo: mi
avevano preso, non c'era altro che potessi fare. » « È questo ciò che sente adesso? » « Per dirle la verità mi sento proprio un po' esausto, dentro di me. Voglio dire, con tutte quelle cose che le ho fatto, ci credo che dovevano punirmi. Non ha grande importanza. Solo che, non so, quando cerco di ripensare a quello che ho fatto, a perché l'ho fatto... » La lunga mano di Ganz si sporse verso di lui. « Cosa? Cosa sta cercando di dire? » « Be', ho la vaga sensazione che lo stessi facendo per conto di qualcun altro. » Santini si sentiva furibondo — era la solita fregnaccia buona per gli psichiatri, anche se messa così non l'aveva mai sentita — e Ganz stava annuendo. « Sì. Sì, capisco. Bene, è stato molto paziente a rispondere alle mie domande. C'è qualcosa che vorrebbe chiedermi? » « Certo », rispose d'impulso Bannon. « Può dirmelo lei perché l'ho fatto? » Una specie di sorriso si disegnò sul viso di Ganz. « Non è il primo a farmi una domanda del genere. Capisce quello che dico? Lei non è il solo. Se può esserle di consolazione, ci sono altri trascinati dalle stesse forze, come lei. » Santini vide la mano di Bannon colpire il tavolo. Sembrava un artiglio, pronto a graffiare. Forse avrebbe aggredito lo psichiatra: sarebbe stata una forma di giustizia. Per la prima volta la voce di Bannon era tirata. « Ma mi può dire che forze sono? » « Sì, credo di sì », rispose Ganz, nel momento in cui Santini sentì il chiavistello della porta in fondo al corridoio. Si girò e vide il suo collega secondino, due poliziotti in divisa e il direttore. « È lì dentro», disse il secondino. « Dov'è Santini. » Santini si sforzò di sentire quello che stava dicendo Ganz, ma non riuscì a cogliere niente per l'avvicinarsi dei quattro. « Che faccia di bronzo, quello », gli fece l'altro secondino. « E psichiatra come lo sono io. Ha raccontato questa balla da Alcatraz a qua. Non sarebbe mai arrivato qui se non fosse stato per tutto il casino con il governatore. » Abbassò la voce mentre convergevano verso la sala degli interrogatori e bisbigliò a Santini: « Potresti raccontare che sei rimasto qui perché sospettavi qualcosa. Magari ti torna utile ». Le cose stavano succedendo troppo in fretta perché Santini potesse pensare a un piano. Poteva solo rimanere lì, sbigottito, a guardare, mentre loro
aprivano la porta della saletta e poi entravano piano nel caso si presentasse qualche problema. Improvvisamente fu chiaro che da Bannon problemi non ne sarebbero venuti: aveva un'aria allucinata per qualcosa che gli aveva detto Ganz. Qualcosa che certamente avrebbe preferito non udire. L'uomo alto si levò in piedi mentre il poliziotto gli si avvicinava. « Kaspar Ganz », disse uno, « noto anche come Jasper Gance... » L'agente ricevette un'occhiata di disprezzo così intensa che esitò. « Arrestatemi pure, se pensate che sia vostro dovere », disse Ganz con indifferenza. « Non cambierà niente. Non potrete fermare quello che sta succedendo, non sapete neppure di cosa si tratta. Non sareste in grado di comprendere. » Gli occhi gli brillavano così intensamente che Santini sentì una stretta allo stomaco. « Non saprete di cosa si tratta », continuò Ganz, « finché non sarà troppo tardi. » Capitolo 1 1979 Alle cinque meno dieci attaccò a masticare le stanghette degli occhiali e lei pensò: adesso le spezza. « È troppo tardi », le disse. « Ci avranno ripensato. » « Ma non dirlo nemmeno. È ancora presto, credimi. Gli piace prendersela comoda. » « Non li biasimerei se ci avessero ripensato. » Si rimise a sedere, ma non ci rimase a lungo. Era andato avanti e indietro tra la poltrona e il divano per tutto il pomeriggio, come intrappolato da solo in un gioco di società. « Ieri sera ho cercato di rileggerli anch'io, i libri, ma non riuscivo ad andare avanti. Mi parevano così noiosi. » « Paul, sono la cosa migliore che tu abbia mai fatto. Se non fossero roba da best-seller, non ce ne staremmo qui seduti ad aspettare le offerte. » « Non lo so, Barbara, non ne sono sicuro. Gli altri miei libri ti piacevano, e guarda che fine hanno fatto. L'ultimo l'ho visto giusto l'altro giorno in vendita per quattro soldi in una libreria di remainders, e anche lì nessuno lo voleva. » « Lascia perdere gli altri libri. Prima del Padrino Mario Puzo ha scritto due libri che sono stati un fallimento dal punto di vista commerciale. » « Può darsi, ma Mario Puzo è Mario Puzo. Io chi diavolo sono? » « Tu sei Paul Gregory e Un torrente di vite sarà un best-seller. » Lo sap-
piamo che lo sarà, disse alla foto di Arthur che aveva di fronte sulla scrivania. Eppure l'impazienza di Paul cominciava a metterla a disagio, le rendeva difficile ignorare l'afa stagnante di luglio, il frastuono del traffico che si immetteva da Piccadilly e da Bond Street, gli slogan dei dimostranti ebrei davanti agli uffici delle linee aeree sovietiche. Ogni volta che lui si accostava alla finestra aperta, la sua ombra si stagliava contro l'alto soffitto bianco. Ora stava prendendo un libro da uno scaffale, solo per scoprire che era fatto di pagine bianche. Lo fissò torvo come se si trattasse di un romanzo che qualcuno volesse costringerlo a scrivere. « In Torrente non sono riuscito a leggere oltre le scene della guerra civile », fece. « Pagine e pagine che vanno avanti e basta. Non prendono mai vita. » « Stammi a sentire, Paul. Siediti un momento e stammi a sentire. Ho mandato solo il primo volume a Pan, a Fontana e a Penguin, e ognuno di loro ha telefonato il giorno dopo per dare un'occhiata agli altri due volumi. Non ti sembra una reazione interessata? » « Sì, non dico che il primo nel complesso fosse male, sono gli altri che si trascinano come dinosauri che non vogliono morire. Voglio dire, un po' di quello che ho scritto mi piace abbastanza, ma è che non sono proprio capace di scrivere il genere di cose che la gente vuole leggere. Possibile che abbia perso due anni della mia vita? » Stava sfogliando le riviste sul tavolino dal ripiano di vetro, Publishers Weekly e Bookseller, nella speranza di distrarsi. « Della mia vita », riprese avvilito, « e di quella di Sybil e dei bambini. » Ora Barbara cominciava a irritarsi, anche se lei stessa aveva avuto dei dubbi finché lui non le aveva finalmente mostrato i libri. Ci aveva puntato tutto, aveva rinunciato al suo lavoro in pubblicità, per poi scoprire che gli ci voleva ben più di un anno per scriverli. Passato l'anno, lui e la famiglia si erano trovati assediati dai conti da pagare e dai prestiti da restituire alla banca. Quando aveva completato i dattiloscritti e li aveva portati al suo ufficio, pareva quasi che se ne vergognasse, e invece erano stati una rivelazione, una struttura incredibilmente complessa in cui si intrecciavano le sorti di numerose famiglie e che terminava in una dimensione quasi fantascientifica, cento anni dopo. Quando suonò il telefono lui alzò lo sguardo troppo in fretta, poi cercò di dissimulare il nervosismo. Lei gli lanciò un sorriso che doveva servire a tranquillizzarlo mentre rispondeva: « Barbara Waugh, agenzia letteraria ». L'istinto le aveva suggerito di non aspettarsi troppo, e infatti era solo uno
dei suoi autori che le chiedeva se aveva finito di leggere il suo romanzo. Chiaramente era in preda alla tipica depressione post-parto del romanziere. Quando gli disse che era occupata con un'asta, l'altro mise giù. « Gesù, come si fa a scegliere di guadagnarsi da vivere in questo modo? » Paul si stava massaggiando la testa sopra la massa dei capelli, come per riscaldarsi i pensieri. « Scrivere deve essere una forma di pazzia. » Buttò giù il suo scotch e se ne versò un altro. Aveva trovato tra le riviste il supplemento domenicale della settimana precedente e stava cercando di leggere un articolo che parlava di Barbara. « Se dovessero cambiare idea », mormorò, « ti telefonerebbero per dirtelo? » « A questo punto della faccenda non cambiano mai idea. Non è così che vanno le cose. » Certo c'è sempre una prima volta, si disse, ma non per Un torrente di vite. Paul stava tentando di guardare l'ora senza farsi accorgere. Lei lo sapeva che erano le cinque e venti, ancora abbastanza presto. Arthur continuava a sorriderle; non poteva far molto di diverso. Sarebbe andato tutto bene, diceva il suo sorriso, ed ecco che il telefono squillò. « Barbara Waugh, agenzia letteraria », recitò fredda come un messaggio registrato. Quando lei si sporse a prendere la penna, Paul si drizzò a sedere, accartocciando il supplemento. Barbara rimase in ascolto, annuì, e disse « Grazie » in tono neutro, scribacchiando qualcosa sul blocco. Strappò la pagina e l'allungò sulla scrivania mentre cominciava a chiamare gli altri offerenti. Paul guardava il foglio a bocca aperta; pareva non avesse il coraggio di sorridere, casomai avesse letto male. « Ho un prezzo base di trentamila sterline », confermò lei annuendo. « Dio santo, niente male, no? » Paul non sapeva più dove guardare. « Possiamo fare molto meglio. » Ora lei aveva trovato tutta la fiducia. « Basta aspettare. » Aspettarono. Ora il tempo gli sembrava passare ancora più lentamente. Si rimise a leggere l'articolo su Barbara, e lei capì subito dall'espressione mutata del suo viso che era arrivato al punto dove si parlava di Angela. Avrebbe tanto voluto che non lo avessero scoperto... ma ecco un'altra offerta, e lei aveva la grande capacità di perdersi nelle telefonate, perdersi nel lavoro e dimenticare Angela, come se fosse una cosa di cui ci si può dimenticare. « Siamo a quarantamila », gli comunicò. Sotto la finestra i pendolari stavano riversandosi a frotte nella metropolitana, con un brusio indistinto di voci e di passi. Prima che arrivasse un'altra offerta il traffico si era tatto intermittente. Barbara lesse Publishers Weekly, abbozzò qualche lettera, controllò l'agenda — pranzo con un redatto-
re di Fontana domani, pranzo con un autore venerdì, sabato compleanno di Ted, cena con lui. Gli ultimi raggi di sole abbandonavano il soffitto, lasciandosi dietro tutto il caldo. Paul si stava asciugando la fronte. Le vendite all'asta erano sempre più lente della più lenta partita di poker. Prima che la vendita fosse conclusa Mayfair si era fatta silenziosa, salvo per qualche turista di passaggio. Chiamò l'offerente del prezzo base. « Ho un'offerta finale di centomila sterline. » Era così sicura che questo avrebbe esercitato il suo diritto di prelazione che aveva già buttato giù la cifra: l'offerta finale più il dieci per cento. Quando l'altro fece come previsto lei strappò il foglio e lo passò a Paul. « Questo è per te. » Lui sembrava istupidito: per lo choc e per lo scotch. « Grazie, Barbara. È meraviglioso. » La baciò goffamente. Improvvisamente si accigliò. « Devo chiamare Sybil. » Sua moglie aspettava vicino al telefono? Certo rispose immediatamente. Le comunicò la somma e aggiunse: « Ancora non ci credo. Mi sembra uno scherzo ». Dopo un attimo Barbara capì che cosa lo avesse preoccupato. « Spero di non averti rovinato la cena », disse lui. « Non pensavo che ci sarebbe voluto tanto tempo. » Barbara continuò a guardarlo mentre si affrettava in direzione di Piccadilly. Solo quando fu a metà strada si accorse che stringeva ancora il foglio e se lo infilò in tasca. Lei chiuse la finestra, sorridendo tra sé. Quanti lettori si rendono conto che la metà dei best-seller è scritta da gente come Paul? Tranquille, normali persone, uomini e donne forse più nervosi e insicuri della media, che si trovano a essere bravi a raccontare storie? Non c'è da stupirsi che abbiano bisogno di un agente che si prenda cura di loro. Passò nell'ufficio esterno deserto. Louise sarebbe tornata l'indomani, visto che era riuscita a sopravvivere all'influenza. Barbara indugiò per un attimo nell'atrio, con i pilastri di pietra caldi come carne. In Dover Street sembrava fossero andati a casa tutti tranne lei: i mercati d'arte di Christie's, i gioiellieri Longman & Strongi'th'arm, i redattori della Oxford University Press con le sue finestre sprofondate negli archi bicolori. Discese a piedi verso Piccadilly e si diresse verso Green Park. Ora che l'asta era conclusa si sentiva svuotata, stranamente depressa. Forse dipendeva dalla sensazione che tutta la faccenda fosse un gioco, in cui chi gioca bene può raggiungere un enorme successo, mentre chi gioca male, anche con le stesse carte, può arrivare al fallimento totale. O forse il motivo era il genere di lavoro che si era scelta: oltre a trattare per conto di
un autore, l'agente deve fargli da madre, prendersi a cuore i suoi problemi domestici se non risolverglieli addirittura, costruire e ricostruire la sua fiducia, calmargli i nervi, a volte fare da levatrice ai suoi libri — e questo non era ancora il peggio. Con tutto ciò, rimaneva sempre la professione più gratificante che conoscesse. Nel parco si mise a camminare sotto gli alberi. Il cielo era biancastro di afa, ma sotto la tettoia di foglie era più fresco. Le sedie a sdraio con i teli a strisce come materassi erano distese sui prati; i piccioni argentati, levigati come conchiglie, razzolavano nell'erba. Ben presto si sentì di nuovo in gamba, e affamata. Fermandosi solo una volta per dare indicazioni a una coppia di turisti, tornò in ufficio per leggere un manoscritto urgente. Nell'attimo in cui mise piede nell'atrio un telefono si mise a squillare. Era tardi per essere una telefonata di lavoro, ma poteva essere Paul che si scusava per non averla invitata alla cena di festeggiamento; era certa che il telefono suonasse nel suo ufficio. Dovette rallentare salendo le scale, perché improvvisamente il caldo parve concentrarsi tutto su di lei: fu come trafitta da mille scintille brucianti, la vista le si annebbiò. Nessuna meraviglia, quando uno si mette a correre in un giorno così. Aprì la porta e afferrò il telefono di Louise. « Barbara Waugh, agenzia letteraria », disse senza fiato. Era un respiro quello che si sentiva, o il ronzio dell'elettricità statica? Sentì qualcuno che componeva un numero su un'altra linea, una serie di crepitii elettrici, il suono lontanissimo di un telefono; una voce che blaterava in arabo portata via in lontananza. E poi il silenzio. Stava per riagganciare quando una voce disse: « Mamma ». Ecco, avevano sbagliato numero. « Barbara Waugh, agenzia letteraria », ripeté, pazientemente, per la millesima volta quel giorno. Stavolta la voce della bambina aveva un tono implorante. « Mamma », pregò. Doveva essere la figlia di Louise, anche se era strano che prendesse Barbara per sua madre — e anzi che pensasse che Louise fosse là. Barbara parlò con un tono più secco di quanto intendesse fare, ma voleva liberarsi di quel grumo di apprensione che sentiva alla bocca dello stomaco. « Sono Barbara Waugh. » E poi si aggrappò allo schienale della sedia di Louise e si calò a sedere per paura di cadere, perché la voce della bambina aveva detto: « Sì, mamma, lo so ». « No, non può essere », mormorò Barbara, ma non era sicura di sé come
cercava di apparire, ed ecco perché tutto — il suo ufficio, il telefono, la sua mano — si stava allontanando da lei, e quello che la stava invadendo era un buio nero carbone. Capitolo 2 1966 Si svegliò con la sensazione nettissima che Angela fosse in pericolo. Forse era a causa del sogno. Si sforzò di allontanare le immagini oniriche. Arthur era finalmente a casa, e lei lo osservava mentre guardava la loro prima bambina, il viso addormentato con quell'espressione di pace così totale, le manine minuscole e grassottelle strette a pugno sopra la testa come se in sogno Angela stesse giocando a guardie e ladri. Barbara rimase sdraiata per un buon minuto prima di far mente locale su quello che stava pensando, e subito si trovò sull'orlo della disperazione. Non doveva lasciarsi precipitare per amore di Angela. Si alzò in fretta, per scuotersi il sonno di dosso. Comunque, Angela si stava agitando nella culla ai piedi del letto. Non appena vide la madre, Angela cominciò a fare i suoi versi di saluto, squittii e gemiti di contentezza. Si girò sulla pancia e cominciò a strisciare avanti e indietro, strillando contro la sua prigione. Barbara la tenne stretta per un po', il tempo di ritrovare la calma, poi la cambiò, impresa non da poco da quando Angela aveva imparato a girarsi. Barbara faceva fatica a ricordare quell'esserino minuto e indifeso che era venuto fuori dal suo corpo. Aveva dormito più di quanto volesse. La lama di sole dallo studio di Arthur era ormai giunta a metà corridoio. Negli ultimi tempi, nelle sue rare visite a casa, Arthur si ritirava lì dentro con i fasci di carte del suo lavoro, quasi a dimostrare che non c'erano problemi; ma questo significava soltanto che anche quando era a casa era distante, a volte quasi assente del tutto. Forse lui aveva sperato di esserle più vicino accettando senza discussioni di avere un figlio prima che si trovassero troppo invischiati nella routine, o forse aveva voluto assicurarsi di non lasciarla sola: fino a che punto poteva prevedere? Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma non poteva permetterselo, ora che stava portando Angela giù per le scale. La mise nel passeggino e lo spinse fuori nel pomeriggio di agosto. Sotto un cielo azzurro porcellana, i colli del Kent apparivano vellutati.
Fuori dalla sua casa il Palace Field conduceva al corpo di guardia e alla torre in rovina dell'Archbishop's Palace, dove tra le rovine era stata incuneata una fila di casette; la gente sedeva a leggere o a cucire nei giardinetti. Rivolta al torrente che scintillava nel verde Angela rideva. Per lei era ancora tutto una novità, ma Barbara aveva fatto questa passeggiata tante di quelle volte che le era diventata fastidiosa come una pubblicità televisiva. Inoltrandosi, gli alberi cominciavano a farsi più numerosi delle case. Al laghetto delle anatre, gli uccelli acquatici stavano immobili come pietre ovali, ritirati in sé come tartarughe. La locanda era un blocco di luce bianca, la stazione di polizia — un edificio di mattoni rossi a due piani identica a una casa di periferia — era quasi incandescente. Abbagliata, strinse più forte il manubrio del passeggino. Ogni volta che attraversava con la carrozzina la prendeva l'ansia che potesse sfuggirle di mano. Nel villaggio una lama di rasoio gigante pendeva davanti alla bottega del parrucchiere, dalla vetrina dell'armaiolo fucili del colore delle nuvole temporalesche mandavano bagliori minacciosi. La gente si chinava ad ammirare Angela. « Ma come le assomiglia! » dicevano. La lasciò davanti all'erbivendolo, senza smettere mai di lanciarle occhiate. Ogni volta che qualcuno si fermava a guardare Angela davanti a un negozio, Barbara si irrigidiva, pronta a scattare verso la porta. Anche ora c'era qualcuno che guardava, ma era solo Jan, in una T-shirt così sformata da apparire larga perfino per lei. « Ba ba ba », stava gridando Angela, afferrandole goffamente le mani e ridendo. Jan aspettò con i suoi bambini finché Barbara uscì. « Siamo vivaci, stamattina », disse Jan. « Attivi ed esigenti. Eppure preferisco lei a uno di quei bambolotti addormentati. » « Chiunque abbia un po' di raziocinio la penserebbe così. Non correre avanti, Jason, aiutami a portare la carrozzina, fa' il bravo ragazzo. » Per un attimo Barbara fu colpita acutamente dalla presenza del piccolo Jason che ormai aveva tre anni; quando avevano saputo che lei era incinta, Arthur aveva giocato con lui, lo aveva fatto saltare, volare, aveva riso con lui. Poteva sentire ancora le loro voci. « Ocette », stava dicendo il bambino con insistenza. « Ocette. » « Bravo Jason », approvò Jan, dando un'occhiata ai titoli del giornalaio, « ochette. » Le anatre si stavano spiegando sotto i salici del laghetto, scuotendosi l'acqua di dosso. « Finalmente quegli assassini sono stati messi al fresco », fece con foga a Barbara. « E adesso ci tocca pagare per mantener-
li. Vorrei proprio vedere qualcuno fare qualcosa a un bambino quando ci sono io nei paraggi. » Barbara aveva adocchiato un titolo sull'Arabia Saudita. Distolse lo sguardo, con gli occhi umidi. Jan le strinse il braccio con una delle sue manone da uomo. « Non preoccuparti. Qui viviamo al sicuro. » « Cose del genere per me, prima di avere Angela, erano solo notizie di cronaca. » Era vero, ma non era quello che l'aveva momentaneamente sconvolta. Eppure non voleva lasciarsi sopraffare dalle impetuose emozioni di Jan, per quanto buone fossero le sue intenzioni. « Cose come quello studente nel Texas che l'altro giorno senza motivo ha ucciso dodici persone », continuò. « Qualche volta penso che il mondo stia perdendo la ragione. Tutti questi drogati, poi. Ma che cosa cercheranno, in nome di Dio? » « Forse non lo sanno finché non lo trovano, se mai lo trovano. » Spingevano le loro carrozzine fianco a fianco sul prato; Angela continuava a tenere la mano del piccolo Nigel. « A proposito », esclamò Barbara, « c'è una cosa che volevo chiederti. » « Purché non sia un consiglio su problemi di bambini. Si guarda solo, il ruscello, Jason, non è fatto per andarci dentro. » « Non è un problema. Mi chiedevo se i bambini all'età di Angela hanno già dei compagni di gioco immaginari. » « Otto mesi è un po' presto, direi. Perché? » « Oh, è solo che fa dei versi di saluto, certe volte, quando io non sono nella stanza. » « Jason parlava con la luce del sole. Probabilmente scoprirai che si tratta di una cosa del genere. » Arrivate a casa si separarono. Attraverso la parete Barbara sentì Jason che saltellava su e giù per le scale. Stette per un po' a giocare con Angela, che stava scoprendo che il suo specchio di plastica aveva due facce e gridava contro il lato opaco, strillando poi più forte quando tornava a vedersi. Subito dopo il bagnetto, Angela, tutta rosea e guizzante, era stesa sul suo asciugamani. Mentre la baciava sulla voglia, la fogliolina violacea sulla spalla sinistra, Barbara sentì montarle il latte, un traboccare spontaneo come di amore materializzato. Allattò la bambina vicino alla culla. Angela si addormentò in braccio, ancora sbavando latte. Stava mettendola nel lettino quando sentì il marito di Jan, Keith, che arrivava a casa. Jason scese a precipizio per le scale gridando: « Papà, Papà ». Angela non avrebbe mai potuto farlo.
Raccolse i giocattoli della bambina e li ripose nel sottoscala. Al di là di Palace Field il cielo si stava facendo lattiginoso, e rinfrescava; dei nuvoloni densi si erano formati sopra le colline. Era una sera tranquilla come quella in cui aveva dato ad Arthur la notizia che era incinta. O era lei che la ricordava tranquilla per come lui l'aveva abbracciata, con l'abbraccio pacato e protettivo con cui avrebbe poi stretto il loro piccolo? Lui era riuscito a non mostrarsi per nulla ansioso o teso, eppure i suoi problemi dovevano proprio essere gravissimi — gravi al punto da tenerlo lontano da casa per il resto della gravidanza, gravi al punto che si era quasi dimenticato di telefonarle a Natale. Lei aveva continuato a sperare di vederlo tornare per il momento del parto, e quando era squillato il telefono, un giorno tra Natale e Capodanno, aveva pensato che chiamava per dire che tornava, chi altro poteva telefonare dall'Arabia Saudita? Ma per quanto soffocata e incomprensibile, aveva capito subito che non era la voce di Arthur. Avevano richiamato quasi immediatamente, ma lei aveva dovuto correre al telefono dal bagno, perché c'era stato un nuovo movimento nel suo ventre, violento e spossante. Sì, diceva la voce, aveva chiamato un attimo prima, ma aveva pensato che lei non sentisse. Ora sentiva bene? Sì, chiamava per suo marito, Arthur Waugh, esatto. Sì, era morto. Le era parso tutto completamente irreale, poiché era già in travaglio. Il suo corpo non le aveva dato tempo di pensare o di sentire. Arthur era ancora più distante, ecco tutto, e lei era così lontana dal raccogliere il dato della sua morte che non ne aveva neppure accennato a Jan mentre l'accompagnava in macchina all'ospedale. Nella sala travaglio la verità aveva cominciato a insinuarsi dentro di lei, ma dopo ore di doglie aveva raggiunto uno stadio in cui si trovava sospesa in un limbo di inanità, al di là di ogni consolazione o aiuto. Aveva provato odio per le studentesse infermiere con le loro maschere simili ai veli delle donne arabe, per i medici arabi che non avevano salvato Arthur. E se lo choc dell'infarto di Arthur avesse ucciso anche il suo bambino? Poi, indipendentemente da lei, erano cominciate le spinte. Pareva quasi un compenso fin troppo facile, ma Angela stava arrivando a salvarla dalla disperazione. Angela respirava nell'intercom, forte come un astronauta in un film di Kubrick. Barbara cenò, poi tirò fuori il lavoro nel soggiorno. Non sapeva lavorare nella stanza di Arthur, che la opprimeva, così ingombra di angosce. Aveva quasi finito la revisione dell'ultimo romanzo della Spia invisibile. E pensare che aveva creduto che avrebbe avuto tempo di scrivere lei un romanzo! Non era costretta a farle, le revisioni — Arthur le aveva la-
sciato più che a sufficienza perché potessero mantenersi fin quando lei fosse stata in grado di tornare a tempo pieno all'editoria — ma le era d'aiuto sentire che non stava a vegetare, che la maternità non l'aveva inghiottita. O forse il lavoro era benvenuto perché le lasciava meno tempo per farsi prendere dal dolore? A volte desiderava potersi lasciar andare completamente, per tutto il tempo che ci fosse voluto; dall'arrivo della notizia della morte di Arthur non ne aveva mai avuto la possibilità. La perdita in se stessa ora sembrava lontanissima. « Non ne fotterai più di signore, ormai », ghignò Hilde Braun brandendo uno scalpello, ma dato che le parole spinte non erano adatte per il genere popolare, Barbara le fece esclamare: « Non avrai più molto da offrire alle signore, ormai ». Con una produzione di dieci libri l'anno non c'era da stupirsi che l'autore non stesse tanto a limare il suo lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo. Aveva rivisto un solo capitolo quando Angela cominciò ad agitarsi e a mormorare, emettendo suoni che amplificati riempirono la stanza. Sperò che la bambina non avesse un'altra notte inquieta; voleva consegnare il libro per la fine della settimana. Una voce maschile indistinta stava mormorando qualcosa — una delle tante comunicazioni vaganti che l'intercom intercettava. La prima volta che Barbara aveva sentilo la voce di un uomo nell'intercom si era quasi sentita male dal panico. Salì senza far rumore al piano di sopra. I primi tre scalini cigolavano e lei non poteva superarli tutti e tre. La casa vuota amplificò il cigolio. Ma Angela dormiva, avvolta in un fagotto di coperte, nella penombra della camera. Barbara ritornò in punta di piedi sul pianerottolo; aveva appena richiuso la porta che di nuovo sentì quella voce indistinta, dentro la stanza con Angela. Stava per girarsi e allontanarsi, dicendosi che il microfono accanto al lettino aveva raccolto una trasmissione, quando si rese conto che un microfono non può fare una cosa del genere. Qualcuno slava mormorando qualcosa ad Angela dietro la porta. La spalancò così malamente che avrebbe potuto svegliare Angela. La stanza era vuota e immersa nel silenzio, interrotto solo dal respiro regolare della bambina. Barbara dovette entrare a tentoni, poiché la penombra copriva tutto, modificando sagome familiari. Anche quando ebbe ricontrollato tutto per bene, sentiva il cuore insicuro. Forse udiva delle cose perché erano tante notti che Angela le spezzava il sonno, ma lasciò la porta aperta quando si costrinse a tornare al lavoro. Ogni volta che una scarica di elet-
tricità passava nell'intercom, le sembrava di udire un bisbiglio. Capitolo 3 1968 « Non vi allontanate », si raccomandò Jan. « Rimanete dove possiamo vedervi. » Lei e Barbara erano sedute nel giardino di Jan, in mezzo a un assortimento di giocattoli tirati fuori dalla casa. Jason accompagnava il fratellino e Angela in giro per i prati, per mostrare quanto era cresciuto. Sotto il pallido cielo immobile di aprile, la giornata era tiepida e limpidissima. Gli alberi nudi cominciavano a punteggiarsi di colori nuovi, le colline e i campi erano più verdi del giorno precedente, le prime api ronzavano tra i fiori. Angela si era fermata sul vialetto di cemento e stava indicando, eccitata, qualcosa verso la strada. Barbara non riuscì a sentire cosa stava dicendo per il rumore degli zoccoli di due cavalli che dei ragazzetti stavano facendo correre sul campo, e Jason disse solo: « Andiamo ». Lui era troppo grande per dare ascolto alle ciance di una bambina. Barbara guardò la figlia, con la sua tutina azzurra, che avanzava incerta e impaziente sul viottolo, e fece fatica a ricordarla neonata. « Dio, come le voglio bene », disse a Jan, ridendo. Angela si era staccata da Jason. Si avvicinò alle donne. « L'uomo che vola », disse con ansia, indicando la strada su cui dava il giardino. Le donne si alzarono per guardare, facendo tintinnare il ghiaccio nei bicchieri. Passava un funerale, diretto verso la chiesa. Nella prima delle limousine del corteo, la vedova si asciugava gli occhi. « L'uomo è sopra di lei », spiegò Angela. « Davvero, Angela? Bello. » Jan sedette in fretta perché dal corteo del funerale non si accorgessero che li stava osservando. « I bambini dicono delle cose talmente curiose », disse a Barbara. « Io non glielo direi che cosa è in realtà. » Forse ne sa più di noi, pensò Barbara. Noi lo sapevamo quando avevamo la sua età? Le pareva di no. « Ti ricordi che cosa ha detto quel giorno che siamo passate accanto al crematorio? » disse d'impulso. « Qualcosa sulla gente dorata, no? Qualcosa di strano. » « Gente dorata fluttuante, per la precisione. » « Sì, ha un vocabolario niente male. Evidentemente grazie a tutti i libri
che le leggi. Certo era una cosa ben strana da dire. » Il momentaneo rumore degli zoccoli sul cemento riportò l'attenzione di Jan verso il prato, dove Jason, che aveva dimenticato che il suo compito era di badare a Nigel, stava azzuffandosi con lui sul vialetto. « Smettila Jason », gridò lei, ma probabilmente lui non poteva sentirla. Prima che potesse raggiungere i bambini, c'era arrivata Angela. Smisero immediatamente di litigare e la scortarono con una certa solennità verso il ruscello, oltre il quale c'erano i cavalli che saltavano. « Non vogliono far brutta figura davanti alla loro amichetta », commentò Jan. « Credi che sia solo per questo? » « Che altro potrebbe essere? Che stai cercando di dire? » Forse era meglio non rivelare il suo segreto. « Probabilmente è solo che la amo tanto », rispose Barbara. « Continui a ripeterlo. Lo dici a me o a te stessa? » Quando la faccia di Barbara cambiò, incerta, Jan aggiunse: « Che cosa senti, veramente? » « Tu, Jason e Nigel li ami sempre? » « Sempre? Ma stai scherzando. Ucciderei il primo che gli mettesse un dito addosso, ma credimi, ci sono momenti in cui potrei allegramente annegarli tutti e due dentro lo stagno. » Lanciò un'occhiata ai cavalli che facevano volare le zolle d'erba nella loro corsa sul prato. « Ma credo che tu intenda dire altro. Ti senti frustrata, vero? » « È solo che in certi momenti mi sento in prigione. Comincio a pensare che sono anni che non vedo altro che l'interno della mia casa. » Barbara scosse i cubetti di ghiaccio nel bicchiere come se fossero dadi in un bussolotto. « E il lavoro che faccio lo trovo insopportabile, tagliuzzare i libri e chiamarlo chirurgia plastica. Ne hanno bisogno, non discuto, per certi versi sono libri spaventosi, ma non ho più voglia di essere io a farlo. » Lanciò i cubetti di ghiaccio sul prato, dove scintillarono prima di sciogliersi. « Quando ero a Londra potevo lavorare con libri che mi piacevano. » Il rumore del ghiaccio aveva risvegliato Keith dal suo dormiveglia sotto le pagine dell'Observer. « Sbaglio, o cominci ad avercela con Angela perché ti ha bloccato la carriera? » « Sì », ammise Barbara tristemente, « credo che sia proprio così. » « Saresti anormale se non fosse così. Perché non torni a lavorare? » suggerì Jan. « Posso badare io a lei durante il giorno. » « Oh, Jan, davvero lo faresti? » « Sono sicura che sarebbe una cosa ottima per lei e per Nigel. Li preparerebbe per l'asilo l'anno prossimo. »
Jason aveva riaccompagnato i due piccoli dal campo. « Angela dice che è stanca », annunciò con aria compunta. « Vengo dentro con voi, Barbara. Keith, da' un occhio ai ragazzi. » Quando furono su nella piccola camera da letto, Jan chiese ad Angela: « Ti piacerebbe venire a giocare da me in futuro mentre la tua mamma è al lavoro? » « Sì. » Ma il sorriso della bambina era incerto. « Però vieni, qualche volta », ingiunse alla madre. « Ma certamente, cara. » Barbara l'abbracciò e la mise a letto per il sonnellino pomeridiano. Una volta giù, dovette confessare a Jan: « Ora mi sentirò in colpa per aver desiderato di lasciarla ». « Meglio questo che avercela con lei, no? » « Forse sì. » Accese l'intercom e sentì una serie di bib, la parte in codice di una comunicazione della polizia che svaniva tra le colline. All'improvviso, tra i rumori che faceva sistemandosi nel lettino, Angela disse: « Papà ». Jan si volse in fretta verso la finestra, nel caso che Barbara volesse mantenere per sé i suoi sentimenti. « Torni fuori? » chiese Jan. « Credo che ora rimarrò in casa. Devo finire di macellare un capitolo. » Quando Jan fu uscita, tirò fuori il lavoro. Questo capitolo non pareva male, salvo le capriole che i personaggi erano costretti a fare pur di non dire le cose in maniera semplice. Se uno diceva « No », non lo diceva, lo abbaiava, scattava, latrava, buttava fuori, mentre il suo interlocutore proferiva, alitava, bofonchiava e vociferava. C'era qualcuno che tentava di interrompere, argomentare, proclamare, declamare, ma quelli lo ignoravano. Barbara non poté far a meno di ridere tra sé, e in parte a causa di Jan. Ma non era giusto. Jan aveva pensato che Angela risentisse della mancanza di un padre e chiamasse papà un immaginario compagno di giochi. Senza dubbio era andata via per lasciare che Barbara si abbandonasse in un bel pianto, ma Barbara ormai era certa che Angela sapesse esattamente quello che diceva, e a chi lo diceva. Certo, la prima volta che le era capitato di sentirla aveva pianto, eppure spesso aveva avuto la sensazione che loro due non erano sole in casa. Non aveva più sentito quella voce — forse era stata, almeno in parte, un'allucinazione — e il senso di una presenza invisibile le era stato molto più facile da accettare. Una volta abituatasi, le era parsa confortante e aveva finito per convincersi che lo era perché voleva proprio esserlo. Aveva sperato di sapere chi fosse molto prima che Angela avesse potuto
formulare delle parole, perché continuava a fare quei versi di benvenuto quando Barbara la lasciava sola, ma una volta che aveva cominciato a dire « papà », Barbara non aveva osato crederci. Magari Angela aveva imparato quella parola da Nigel o da Jason. Un giorno aveva lasciato l'album aperto a una fotografia di Arthur, prima di portare Angela al piano di sotto. Angela non aveva mai visto una foto del padre, perché Barbara aveva sempre ritenuto più opportuno aspettare che fosse la figlia a farle delle domande. Sulle scale le era venuta la tentazione di correre giù prima della bambina a nascondere l'album; si era sentita il cuore come stretto in un pugno e il respiro le si era fatto soffocante come fumo. Ma non appena Angela aveva visto la fotografia del padre, con quel suo sorriso aperto ma un po' timido, aveva detto: « Papà ». Questo per Barbara era sufficiente. Forse, nonostante tutto, Arthur aveva condiviso con lei l'esperienza di avere un figlio: Angela di un mese che strilla alle sue stesse manine, come a incitarle a raggiungere la bocca; il suo primo sorriso; la prima volta che era riuscita a girarsi sulla pancia ed era scoppiata a ridere; le sue prime parole. Durante il travaglio, Barbara era stata perseguitata dall'immagine del viso di Arthur che si disfaceva come sabbia e finiva soffiato via. E così non era stato altro che un incubo da sveglia. A volte si chiedeva se la sua presenza avesse qualcosa a che fare con quell'aura di pace che circondava la piccina. Non succedeva soltanto con i bambini di Jan: nessuno riusciva a essere arrabbiato a lungo quando c'era lei nei paraggi. Forse quella sensazione di calma che Barbara sentiva quando la guardava era qualcosa di più dell'amore materno. Non voleva analizzare quello che stava succedendo: era una cosa troppo delicata, troppo facile da rovinare. Ormai ci si era quasi abituata. Finì in fretta di rivedere il capitolo. Lui disse, lei disse, disse, disse, disse. Barbara finì per lasciare che l'uomo blaterasse e cianciasse e concionasse: ormai gli era troppo affezionata per sistemargli lo stile. Per la prima volta da mesi il lavoro le piaceva, perché sapeva che era quasi alla fine. Presto sarebbe stata di nuovo alla sua scrivania. Angela sarebbe stata al sicuro con chiunque, figurarsi con Jan. Capitolo 4 1970
Quando Barbara raggiunse Tottenham Court Road un uomo con un mazzo di manifestini cercò di bloccarla, mormorando: « L'Apollo 13 era segnato fin dall'inizio. Bisogna tener conto dei numeri ». Si rivolgeva alla gente da sotto il Centre Point, una gabbia vuota fatta di cemento e di centinaia di finestre. Oggi era stata già avvicinata da un altro fanatico a Piccadilly; un gruppo di giovanotti rapati salmodiava ballando lungo Oxford Street come la coda di un party, alcuni sedevano a gambe incrociate, meditando, vicino ai gabinetti pubblici di Leicester Square. Se non altro il tema del tizio dell'Apollo era relativamente attuale. Accanto alla torre dell'ufficio postale, quindici piani di finestre verdognole come lo stelo di un bicchiere intagliato da quattro soldi, l'ufficio della Melwood-Nuttall sembrava una piccola libreria. I tifosi di calcio provenienti da Euston si trascinavano lungo la via, tirando calci ai rifiuti, facendo incursioni nei negozi, imprecando contro i pub chiusi. Davanti alla Melwood-Nuttall un martello pneumatico sollevava pietrisco, dando il suo piccolo contributo all'interminabile ricostruzione di Londra. Ted Crichton era seduto dietro una marea di lettere e di dattiloscritti spiegazzati. Il largo viso le fece un gran sorriso e il piccolo naso si arricciò in segno di saluto. Quando si alzò, facendo cadere la giacca dalla spalliera della sedia, la scrivania parve diventare piccola come un banco di scuola. « È questo », disse, porgendole il romanzo che stava per pubblicare. « Credi che potremo fare l'edizione tascabile? » « Credo che potreste farlo benissimo. Fammi sapere al più presto, ci sono altri che annusano, in giro. » Barbara infilò il dattiloscritto nella valigetta, accanto ai libri per Angela. « Ci sono altre novità? » « Te lo vedi un romanzo con Hitler come eroe? Questo sì che farebbe fare un salto alla Melwood-Nuttall — anzi un salto dritto fuori dal paese. Ho detto all'autore che era un tantino in anticipo sui tempi », continuò ridendo. « Hai visto niente di veramente buono, ultimamente? » « Sì. Credo di aver letto la migliore opera prima degli ultimi anni, di uno che si chiama Paul Gregory. Riesce a dire in una frase più di quanto la gran parte degli scrittori sappia dire in una pagina. Ma il "Pontefice" ha detto che non era all'altezza e ho dovuto rimandarglielo. » « Be', questo è quello che si paga a lavorare in una grande casa editrice. Dovresti fare come me, solo io e la mia lista di scommesse sicure. Allora se non altro sapresti che non puoi permetterti di correre rischi. » Visto che lei non rideva tornò serio. « Sei rimasta molto delusa, vero? »
« Pensavo che meritasse di essere pubblicato. Sono sicura che sarebbe andato bene. È stato molto duro dover scoraggiare uno scrittore così dotato. » « Fammi avere il suo indirizzo, darò un'occhiata al manoscritto. Forse se riesco a promettere un'edizione rilegata tu puoi convincere il tuo capo. Sai », aggiunse tormentandosi la barba screziata di grigio, « ti ho già sentito parlare così. A Francoforte, mi pare. Fu il momento del nostro sfogo reciproco. » Si era preso cura di lei durante la sua prima fiera del libro di Francoforte, l'aveva presentata in giro, aveva fatto in modo che non si trovasse a mangiare da sola, le aveva dato consigli e spiegazioni. « Forse dovresti fare l'agente », riprese. « L'energia ce l'hai certamente. Ti darebbe più libertà, oltre che più quattrini. » Ted tacque un attimo, poi chiese: « Come va la famiglia? » « Oh, bene. Se pensi che io sia una persona energica, dovresti vedere Angela. » « È una bambina notevole. » « Credo di sì. » Tutti si innamoravano di sua figlia a prima vista — tutti tranne la donna con la faccia storta. Angela era, sì, speciale, ma non si comportava mai come chi sa di esserlo. Una volta, quando Barbara aveva tentato di chiederle qualcosa sulle chiacchierate con il padre, si era immediatamente trasformata in una bambina che ha un segreto e non sa se può rivelarlo. Barbara aveva cambiato argomento perché la figlia non pensasse che c'era qualcosa di male. A volte le veniva la tentazione di ascoltare attraverso l'intercom, che era ancora istallato anche se ormai si usava raramente, ma poi sentiva che sarebbe stato peggio che origliare. Ted si era finalmente accorto che la giacca era caduta per terra e cercava di scuoterne la polvere, per quello che serviva: poteva cominciare la giornata nella forma più impeccabile, ma all'ora di pranzo era ridotto da far pietà; ora pareva uno che avesse dormito su una panchina nel parco. « E non ti è stata minimamente d'intralcio nella carriera », aggiunse. « Ho avuto fortuna. Degli amici che abitano accanto me la curano, vanno a prenderla all'asilo e così via. A volte mi sento un po' in colpa — sono sicura che mi è più facile andare a lavorare che occuparmi di lei. Ma perché », chiese, notando il suo interessamento, « tua moglie aspetta un bambino? » « Sembra. Helen ha smesso la pillola, sai con tutto quello che si sente sui tumori. Be', immagino che potrò dedicarmi al mio famoso romanzo mai
scritto dopo che il rampollo se ne sarà andato a letto. » « Sei contento che stai per diventare padre, no? » « Certamente lo sarò quando il bambino sarà nato. » Si stropicciò le sopracciglia, abbastanza folte da nascondere uno sguardo grave. « Helen lo vuole, e questo è l'importante. » « Sono sicura che lo vuoi anche tu. Senti, devo andare. Il piccolo della mia amica è ammalato e le ho promesso di rientrare presto per toglierle Angela dai piedi. Doveri di noi genitori. Ne vale la pena, però, credimi. » Fuori, il giorno settembrino sembrava ancora più caldo. La torre dell’ufficio postale pareva irraggiare luce; Centre Point era fuoco in mezzo a una colata di cemento. La ventiquattrore cominciò a sembrarle più pesante. Doveva lasciare i libri da Ted? Ma aveva promesso ad Angela di portarglieli a casa quel giorno. La stazione della metropolitana era zeppa di tifosi di calcio, che si spingevano a vicenda sull'orlo della banchina, lanciavano lattine di birra vuote tra i binari, scrivevano sui muri, si buttavano sulle donne sole; un gruppo si strinse attorno a Barbara, finché lei non li mandò via con un'occhiataccia. L'atmosfera era carica di sudore, e le ventate che arrivavano insieme con i treni sembravano incapaci di rimuoverlo. Sul treno era ancora peggio. Anche se era riuscita a occupare un posto a sedere, Barbara si sentì sul punto di svenire. I tifosi ciondolavano dai reggimano come quarti di carne, il resto della folla era incuneata tra loro; le sciarpe puzzolenti di birra le svolazzavano sulla faccia. Il tunnel si chiuse stretto attorno al treno, che ondeggiava avanti e indietro al ritmo di un monotono sferragliare. La carrozza era affollata come il giorno in cui la donna dalla faccia storta si era seduta vicino ad Angela. Erano state da Hamley's in Regent Street, a comperare giocattoli. Alla fermata di Oxford Circus la folla le aveva spinte sul treno e nei sedili. Barbara stava per dire ad Angela di mettersi sulle sue ginocchia quando la donna si era seduta accanto alla bambina, bloccandola contro il finestrino. Sulle prime, Barbara le aveva dato solo una breve occhiata, registrando tuttavia che aveva la pelle tutta rovinata, sebbene non dimostrasse più di vent'anni, e che sopra un gran naso rosso e poroso come una fragola, c'erano due occhi posti uno più in alto e uno più in basso. Era di una bruttezza disperante. Poi Barbara aveva notato il modo in cui la donna guardava Angela. La fissava come se non riuscisse a distogliere lo sguardo, e i suoi occhi erano pieni di paura e di odio.
Barbara era stata sul punto di intervenire — non si era mai sentita così violentemente protettiva da quando Angela aveva poche settimane — quando il treno si era fermato a Green Park e la donna si era accorta che lei la guardava. Improvvisamente si era fatta largo tra la folla ed era scesa dal treno, o forse era risalita su un'altra vettura. Nella folla di Victoria Station e per tutto il tragitto fino a casa Barbara si era sentita pedinata. Ecco Victoria. Poté finalmente lasciarsi alle spalle i tifosi. Mentre aspettava il treno per Otford diede un'occhiata ai titoli dei giornali: il processo Manson continua, fucili mitragliatori ritrovati tra i bagagli lasciati all'Hilton di Londra. Certo, Angela non poteva piacere a tutti, ma quando le tornava in mente in che modo la bambina si era rinchiusa in se stessa sotto lo sguardo cattivo di quella donna veniva riassalita da un impeto di rabbia furiosa. Sul treno per Otford lasciò cadere la valigetta vicino al suo posto e si sistemò con un sospiro di sollievo. Il treno vicino sembrava la vetrina di un cappellaio: gli uomini come tanti manichini tenevano la bombetta sollevata per asciugarsi la fronte, uno si faceva vento con la tesa, prima di rimetterla a posto. Ben presto il suo treno superò Battersea Dogs' Home, un nome che faceva sempre ridere Angela. A Pecknam Rye i palazzi alti cominciarono ad allontanarsi verso l'orizzonte, lasciando il posto ai villaggi. Sopra il Kent il cielo cominciava a guastarsi, facendosi del colore del crepuscolo e della pioggia. Mentre raggiungeva Otford sentì un tuono lontano, il rumore delle colline che venivano spazzate dal vento sotto il cielo di piombo. Il treno si fermò lentamente e poi nulla più si mosse nella stazione deserta, sulle colline colpite dalla gelida luce dei lampi. Era come se l'aria si fosse mutata in resina trasparente. Era a metà del ponte pedonale quando vide che la stazione non era del tutto deserta. Sul marciapiede per Londra c'era una donna. Si spostò sotto il ponte mentre Barbara lo attraversava, quasi cercando di nascondersi. Senza riuscire ad afferrare il motivo per cui lo faceva, e dandosi anzi della paranoica, Barbara si affrettò per poter vedere la faccia della donna. Era quasi ai piedi della scala del passaggio sopraelevato quando si rese conto che era Jan. Non l'aveva mai vista così preoccupata — Jan pareva addirittura rimpicciolita — eppure quella mattina Nigel non aveva niente di più di un raffreddore. Chi stava badando ad Angela? Fece di corsa gli ultimi gradini. « Che c'è Jan? Nigel sta peggio? »
Esitò, vedendo che Jan retrocedeva, che si stringeva il petto con le mani. Stringendosi in quel modo non poteva non farsi male, ma pareva non sentir nulla. « Oh, Barbara, mi dispiace », disse. Capitolo 5 Barbara si svegliò al rumore del tuono, senza riuscire a capire che cosa non andava. Non che il rumore fosse minaccioso, dovevano essere i passi di Angela di sopra. Non avrebbe voluto addormentarsi in poltrona, ma adesso doveva proprio svegliarsi: non poteva lasciare la bambina su da sola per troppo tempo. Poi i passi cessarono e sentì Jan mormorare qualcosa. I passi erano quelli di Nigel, nella casa accanto. La voce sommessa di Jan fu come una frustata sui nervi scoperti e di colpo ricordò. Erano passate settimane, ma lei era ancora là che correva dalla stazione — solo che ora sapeva che cosa l'aspettava una volta arrivata a casa. Si era messa a correre prima che Jan potesse spiegare. Le case erano al di là dei lunghi giardini, le foglie degli alberi sembravano lucidate con l'olio. Tutto la serrava, l'opprimeva, tutto vicinissimo ma irreale, tutto piatto come il cielo oscuro. Non un uccello, che cantava. Nulla si muoveva tranne lei, ogni cosa cercava di trattenerla. Jan ansimava accanto a lei balbettando: « Qualcuno è andato all'asilo. Ha detto che era venuto lui perché io dovevo badare a Nigel. Ero in ritardo solo di un paio di minuti ». Barbara non la sentiva quasi; ci sarebbe stato tempo per le spiegazioni quando fosse arrivata a casa, quando avesse visto di persona cosa era successo ad Angela. Correva incespicando lungo Palace Field, lungo il sentiero segnato dagli zoccoli dei cavalli; la ventiquattrore piena di libri per Angela le strisciava dolorosamente contro la coscia. Il cielo aveva invaso le finestre della torre in rovina, aveva reso grigio come il fango il torrente, togliendogli ogni luce. Delle facce guardavano giù dalla casa di Jan. C'era Miss Clarke, la direttrice dell'asilo, una donna tarchiata di mezza età, piuttosto stupida, secondo Barbara, ma a cui i bambini erano affezionati. C'era Keith. E c'era il grosso, paterno sergente della stazione di polizia. Alla vista di quest'ultimo il cuore di Barbara ebbe un tuffo, ma se non altro c'era lui a prendere in mano le cose. Ora tutto sarebbe andato certamente bene. Il sergente uscì dalla casa nel momento in cui lei superava il cancello. Il viso dell'uomo si distese, assunse un'aria professionalmente solenne e ras-
sicurante, mentre lei attraversava di corsa il grande giardino comune. « Non deve preoccuparsi, Mrs. Waugh. La polizia di contea è stata avvertita. Controlleranno tutte le macchine. » Il cielo scuro parve precipitarsi su di lei, inondarle il cervello. « Non so di che cosa stia parlando. » « Ho cercato di dirglielo », disse Jan quasi supplicando, « ma non mi ha ascoltato. Barbara, qualcuno è andato da Miss Clarke e ha portato via Angela. » Barbara ora era seduta su una sedia da giardino e non riusciva a ricordare come c'era arrivata; il giardino le ballava davanti agli occhi. « Chi gliel'ha lasciata prendere? » chiese. « Non puoi prendertela con Miss Clarke », disse Jan con ansia. « Non aveva alcun motivo per sospettare qualcosa. » Non doveva farsi prendere dall'emozione, doveva sapere tutto per essere sicura che non avessero trascurato niente, doveva parlare per non rimanere sola con le sue sensazioni. « Quanto tempo è passato prima che avvertiste la polizia? » « In un primo momento non sapevo cosa era successo. Quando sono arrivata Miss Clarke era già andata via. Se n'era andata dopo che tutti i bambini erano usciti. L'ho cercata dappertutto facendo continuamente la spola tra il paese e qui nel caso che Angela tornasse. Nessuno le aveva viste, né l'una né l'altra. Ho pensato che magari erano insieme. » Pareva aver paura di andare avanti. « Ho trovato Miss Clarke dopo un'oretta e siamo andate direttamente alla polizia. » Accanto a lei il sergente sembrava perfetto per confortare la gente e per convincere i bambini a non rubare le mele, ma era in grado di riportare Angela? « Lei ha detto che stanno controllando le macchine », disse Barbara. « Avete preso la targa? » « Non ho neppure pensato a guardare », intervenne Miss Clarke, che era uscita anche lei, sistemandosi gli occhiali sul naso. « Sono sicura che nemmeno lei avrebbe guardato, Mrs. Waugh. » « Ha visto la macchina? » Quando la donna annuì Barbara si volse al sergente, che almeno non era così irritante. « Allora se non altro sapete la marca. » « Be' no, veramente no. » Gli occhiali di Miss Clarke le scesero di nuovo sul naso; un dito li rimise a posto. « Purtroppo non le distinguo. » « Sappiamo che è nera, o blu scuro », disse il sergente, « e pensiamo che sia una giardinetta.»
Quando Miss Clarke annuì piena di fiducia, Barbara sentì la voglia di tirarle un pugno in faccia. « Come avete potuto permettergli di portarla via? » « Sono certa che anche lei lo avrebbe fatto se si fosse trovata al mio posto, Mrs. Waugh. Era vestito benissimo e da come parlava pareva una persona molto per bene. Ma se davvero era un criminale come dite tutti quanti, come facevo a fermarlo, secondo voi? Sono solo una donna, sapete, e avevo anche da badare a tutti gli altri bambini. In ogni caso », concluse quasi trionfalmente. « non pareva assolutamente un cattivo soggetto. Angela è andata con lui molto volentieri. » « Che cosa le ha detto? » « Non saprei dire con precisione. "Ciao Angela, sto con tua zia Jan. Fai alla svelta o mi multano per parcheggio vietato. " Be', lo sapete tutti come è stretta, effettivamente, la strada. » I denti di Barbara avevano cominciato a battere. « Non le è sembrato strano che avesse bisogno di una macchina per un tragitto così breve, fino al villaggio? » « A me la macchina non è mai servita. E poi è facile ragionare con il senno di poi. » Miss Clarke cominciava a indispettirsi seriamente con i suoi occhiali. « Lei, Mrs. Waugh, l'ho vista prendere la macchina per distanze anche più brevi », concluse. Se Barbara avesse risposto l'avrebbe fatto urlando, ma il sergente stava indicando l'auto che aveva appena lasciato la carrozzabile. « Ecco, dovrebbe essere la polizia di contea. » Barbara riuscì a mettersi in piedi, nonostante il tremito. Ma il poliziotto era solo e non aveva niente di nuovo da riferire. Era giovane ed efficientissimo, e sembrava molto contrariato per come era stato permesso a tutti di disporsi così disordinatamente davanti alla casa. Condusse il sergente giù per il vialetto nel giardino per fargli delle domande, poi andò da Barbara. « Possiamo entrare in casa, per favore? » Appena dentro iniziò a interrogarla. Non pareva particolarmente partecipe, ma probabilmente sentiva che non ce n'era il tempo. Neppure lei doveva perdere tempo ad avercela con lui. Viveva sola? Dov'era suo marito? Di che si occupava quando era vivo? Aveva lasciato un'eredità consistente? Qual era la sua occupazione? Quanto guadagnava? C'era qualcuno che potesse ritenere di avere dei diritti sulla bambina? Le veniva in mente nessuno che corrispondesse alla descrizione del rapitore? « Nessuno », rispose lei. « Come faceva a sapere tutti i nomi, quello della mia bambina, quello
della vicina? » « Può darsi che lei abbia chiamato per nome sua figlia in strada. I nomi degli adulti sono nelle liste elettorali. Sembra un lavoro fatto da un professionista. Forse hanno pensato che, vivendo in un posto come questo, lei poteva permettersi di pagare un riscatto, o forse se ne erano accertati. » Possibile che fosse invidioso? Ora la stava informando del tipo di telefonate che probabilmente avrebbe ricevuto. Per il momento non le avrebbero messo l'apparecchio sotto controllo, ma se il rapitore le telefonava, lei doveva chiamare immediatamente la polizia. Uscì per interrogare gli altri, e per Barbara non ci fu altro da fare che aspettare, più niente che le impedisse di chiedersi come aveva potuto interessarsi così poco di Angela, più niente che le bloccasse il tremito che si diffondeva per tutto il corpo. Ma poi quel tremito si era placato, lasciandola fragile e vuota, con il pericolo costante di andare in pezzi. Forse era così che si sarebbe sentita, se ne avesse avuto il tempo, quando era morto Arthur, ma ora c'era in più il senso di colpa, il senso di colpa che invadeva lei e quello che aveva attorno, facendole apparire tutto squallido, meschino, indegno. Stava ancora aspettando, e la cosa peggiore era che non poteva mettersi in macchina e girare in cerca di Angela: non aveva il coraggio di lasciare la casa. Per settimane, ogni volta che sentiva un'auto, si irrigidiva, scattava con violenza tutte le volte — poche — che suonava il telefono. Di là dalle finestre le giornate serene sembravano finite. Niente era reale, tranne l'insopportabile silenzio della casa. Quando il giornale che teneva in grembo scivolò a terra, lo raccolse automaticamente. Le era venuta l'ossessione che il rapitore potesse mettersi in contatto non per telefono, ma con un annuncio su uno dei giornali locali. Se avesse accennato a qualcosa che solo lei e Angela potevano sapere? In quel caso la polizia non avrebbe capito che era quello il messaggio. Era terrorizzata all'idea che potessero far del male ad Angela se avessero saputo che c'era di mezzo la polizia. Ma non c'era niente del genere negli avvisi personali. E se era nascosto in un'altra rubrica per ingannare meglio la polizia? Cercò tra gli annunci delle case e delle macchine usate finché non si rese conto che l'unica che stava ingannando era lei. I bambini della ferrovia, Guai con le ragazze, Cuore di mamma... Piegò in fretta il giornale, prima di continuare a cercare nella pagina degli spettacoli. Rimase con gli occhi fissi sui titoli della prima pagina finché non cominciarono a tremolare come fiamme. Sentiva gli occhi ritirarsi dentro la
testa. A volte le pareva di vedere Arthur, sulla porta o in cima alle scale, che cercava di rassicurarla. Era certo un sogno che la sua insonnia spingeva fin nelle ore di veglia, un'allucinazione, come quella della voce lontana della bambina che chiamava « Mamma! ». Forse lui era sempre stato un'allucinazione, pensò con amarezza. Andò di sopra, nella stanza da bagno, per svegliarsi in qualche modo. I primi tre scalini cigolarono, rammentandole che non c'era più nessuno che si rischiava di svegliare. Desiderò che i bambini della porta accanto facessero più rumore — questo almeno l'avrebbe convinta che aveva qualcuno vicino — ma Jan li aveva tenuti tranquilli per tutte quelle settimane. Jan era stata così di aiuto, così sollecita che ben presto Barbara si era sentita quasi soffocare. Sulle prime Jan e Keith avevano tentato di farla uscire di casa, almeno per andare da loro a cena, finché non avevano rinunciato davanti alla sua ostinazione. Poi avevano cominciato ad andare a trovarla con l'inesorabile allegria di visitatori al capezzale di un moribondo. Alla fine era riuscita a convincerli che voleva rimanere sola, e Jan aveva continuato a insistere solo per andare a fare la spesa per lei. Era evidentissima l'ansia di Jan di farsi perdonare, ma se Angela tornava a casa sana e salva, quando Angela fosse tornata a casa sana e salva, Jan non avrebbe avuto niente da farsi perdonare. In bagno si spruzzò acqua fredda sugli occhi. L'acqua scivolò lungo il viso come lacrime, ma tempo per piangere non ce n'era. La comprensione di tutti sembrava tesa a qualche scopo particolare: sentiva che tutti cercavano di prepararla a qualcosa che doveva essere già successo — ma lei non aveva nessuna intenzione di prepararsi, sarebbe stato terribile quanto desiderare il peggio pur di smettere di soffrire. Purché Angela fosse tornata da lei, nient'altro aveva importanza. Avrebbe dato tutto quello che aveva. Come se quel pensiero avesse ridato il via all'azione, sentì bussare alla porta d'ingresso. Improvvisamente si sentì lo stomaco e tutta la carne del corpo a nudo come gli occhi. La testa le girò e temette di sentirsi male. Poi si rese conto che non aveva udito nessuna macchina arrivare. Doveva essere un'altra dose di simpatia dalla porta accanto: non preoccuparti, cerca di tenere la mente sgombra, non aiuterai Angela se ti riduci in questo stato. Solo quando i colpi si ripeterono si accorse che non era il modo di bussare di Jan o di Keith o dei bambini e allora si mise a correre.
Capitolo 6 Quando aprì la porta si trovò di fronte Miss Clarke. Accanto a lei c'era una donna che sembrava un'attrice: il trucco copriva le rughe del viso, su cui spiccava una fiammata di capelli rossi come il mantello di un setter; dalle maniche uscivano un paio di polsini di seta, giri e giri di sciarpe le formavano un collare attorno alla gola; i braccialetti le tintinnavano ai polsi quando alzò le mani in un gesto di immediata partecipazione. Forse la partecipazione era il suo lavoro. « So che non riceve visite, Mrs. Waugh, ma mi sentivo in dovere di fare qualcosa per lei. » Il tono di Miss Clarke era di quelli che non ammettono repliche. « Questa signora può aiutarla. » « Ma vai a farti fottere, maledetta imbecille. » Barbara riuscì a stento a non dirlo, e si rese conto che stava diventando aspra in maniera ingiustificata. Non stava forse usando Jan e Miss Clarke come capri espiatori per il suo senso di colpa? Poteva permettersi di rifiutare l'aiuto di chicchessia, di rifiutare qualsiasi aiuto che potesse farle ritrovare Angela? « Lei è molto gentile », disse. « Prego, accomodatevi. » La donna piena di sciarpe la oltrepassò, togliendole il respiro con il suo profumo, e andò direttamente nel soggiorno, la cui finestra dava sui campi. « Eccola! » esclamò. Quando Barbara la raggiunse, con il cuore che martellava e la bocca secca, la trovò che osservava la fotografia di Angela sul caminetto. « Oh, cara, che splendida bambina. Si calmi adesso, la prego. Sono qui per trovargliela. » D'un tratto Barbara si fece sospettosa. « Che cosa fa, esattamente, la sua amica? » « E un'esperta di psicometria », spiegò Miss Clarke, come se quella parola bastasse a mettere a tacere ogni obiezione. « Intende dire », disse Barbara sul punto di scoppiare dalla rabbia, « che è una di quelle che pretendono di ritrovare le persone scomparse maneggiandone qualche oggetto personale? » « È più di una pretesa, Mrs. Waugh. Le ho visto fare cose che non so spiegare, e io non sono un tipo da farsi imbrogliare facilmente, no? Deve assolutamente dare questa possibilità ad Angela. » La psicometra si era stretta la fotografia alla fronte; sui vetri era rimasta una macchia di trucco. « C'è un capo di abbigliamento che alla sua piccola piace particolarmente? »
« Sì », annuì stancamente Barbara, « una o due cose. » « Mi porti la sua preferita, svelta. » La psicometra, o l'attrice — Barbara non era del tutto convinta che non fosse la stessa cosa — sedette alla scrivania di Barbara, con i pugni serrati contro le tempie. « E un atlante del mondo », aggiunse. « Non ne ho. » La donna parve emergere da una leggera trance. « Non importa, sono sicura che è ancora in questo paese. Un atlante della Gran Bretagna andrà benissimo. » L'atlante stradale di Barbara ce l'aveva Keith, e non sarebbe rientrato prima di qualche ora. « Non ho nemmeno quello. » « Eppure Miss Clarke mi aveva detto che lei lavora nell'editoria. Altrimenti l'avrei portato io. » Pareva che stesse dicendo: come faccio a fare il mio lavoro se gli altri non fanno il loro? « Pazienza », disse magnanimamente. « Vedremo quanto ci dice il vestito. » Sulle scale Barbara si sentì mancare il fiato. Non era soltanto l'afosa giornata di ottobre; si sentiva addosso una sensazione di disagio fisico, come un sudore freddo e attaccaticcio. Che altro poteva essere questa storia se non una farsa? Entrò barcollando in camera di Angela. L'aveva messa in ordine, per distrarsi, nella prima settimana in cui era stata lasciata in pace, ma ora desiderò averla lasciata com'era, in attesa che Angela tornasse a casa. Poi si rese conto che la psicometra continuava a parlare di Angela al presente, mentre lei era certa che Jan e gli altri pensassero a lei al passato. Trovò la tutina preferita di Angela e la portò di sotto. La donna pareva non essersi mossa. Stava studiando la foto poggiata sul tavolo davanti a sé come se le fosse necessario fissarsi in mente ogni minimo particolare, anche se la fotografia non era recente: ora i capelli biondi di Angela non erano più ricci, ma le scendevano lisci sulle spalle, gli occhi erano di un azzurro ancora più penetrante; l'immagine non poteva mostrare come s'erano fatte lunghe le sue gambe, come fosse già aggraziata nella figura. Ma la donna era così immersa nella foto che non distolse lo sguardo neppure quando Barbara le porse la tuta. « Sì », disse, « è proprio quello che mi serve. » Miss Clarke fece cenno a Barbara di sedere e stare zitta. Non appena prese posto accanto al tavolo pensò che avrebbe fatto bene ad accendere la luce: le nuvole, spuntando dalle colline, stavano coprendo il cielo già buio; l'atmosfera nella stanza, caldissima e in penombra, si stava facendo irrespirabile per il profumo della donna. Ma forse la luce artificiale sarebbe stata
una distrazione per la medium; ora questa aveva chiuso gli occhi e teneva vicino a sé la tutina di Angela, con la parte inferiore in grembo. Tra la poca luce e lo stordimento dovuto all'insonnia, Barbara credette per un attimo di vedere la donna con un bambino vero in braccio. « Che splendida bambina », disse la psicometra. « E ancora più bella è di dentro. » Certo, pensò Barbara, questo avrebbe conquistato una madre più credulona di lei. A che altro poteva servire questo, oltre che a una vaga rassicurazione? Continuava a impedirsi di credere, come uno che non voglia addormentarsi. « Ora porta i capelli più lunghi », continuò la psicometra. « Sì, la vedo, una bambina alta con i capelli biondi e lunghi. » Poteva benissimo esserselo immaginato dalla fotografia, o poteva averglielo detto Miss Clarke. La sua visione di Angela era stata così immediata da essere sospetta — o forse era Barbara ad aver paura di sperare troppo presto? « Ha qualcosa sulla spalla », proseguì la donna. Barbara si irrigidì, sull'orlo di una crisi di tremito. « Che cos'è? » chiese. « Non lo distinguo bene. Sembra un distintivo — sì, una specie di distintivo. Porta un distintivo sulla spalla? » Prima che Barbara potesse decidere come rispondere la donna continuò: « Aspetti, adesso vedo meglio. È una ferita, una ferita sulla spalla destra. » « No », rispose Barbara stancamente. « Non ha niente sulla spalla destra. » « Forse era vero quando l'ha vista lei l'ultima volta. » Liquidò l'intoppo in uno scampanellare di braccialetti. « Ma non dobbiamo preoccuparci solo del suo corpo, mia cara. L'importante è l'anima. » Se era questo il genere di cose che aveva da offrirle, per quel che riguardava Barbara era meno che inutile. Il profumo era soffocante come incenso; la tutina di Angela ciondolava, a gambe inerti, vuota. Ma la psicometra si drizzò a sedere, stringendola tra le mani. « Oh, cara, vorrei tanto che potesse vedere la sua anima. » Intendeva dire che lei la vedeva? Evidentemente sì, perché continuò: « Ha così tanto da dare. Ha già un grande potere spirituale. Crescendo imparerà a usarlo. » Barbara stava per dire che ne aveva abbastanza — bastavano già gli incubi che aveva da sveglia, su quello che poteva essere capitato ad Angela: non aveva bisogno di queste idiozie per peggiorare le cose — quando la psicometra chiese: « Le ha mai parlato di visioni? » Angela era solo una bambina, una bambina in pericolo; quale aiuto po-
teva darle tutto ciò? Ma di tutto quello che aveva detto finora la donna, questa era la prima cosa che sembrasse più di un elemento indovinato a caso. « A volte diceva delle cose molto strane », ammise cautamente Barbara. « Non è strana, è meravigliosa. » Il tono era di rimprovero. « Ma l'avverto, non tutti la vedono così. La troveremo, di questo non deve preoccuparsi, mia cara. Ma l'avverto », ripeté, fissando Barbara con gli occhi spalancati, « chi l'ha presa rappresenta per lei un gravissimo pericolo. Bisogna trovarla prima che loro distruggano quello che c'è in lei. » « Si faccia coraggio », fece Miss Clarke. « La troverà, ne sono sicura. Quello che le serve è soltanto una mappa. » « Va bene », disse Barbara d'un tratto, « vado a prenderla. » Non sopportava più di star seduta lì, soffocata dalla penombra, dall'inattività, da quel profumo che dava alla testa. Forse Keith aveva lasciato a casa l'atlante, oggi; se no, avrebbe chiesto agli altri vicini finché non ne avesse trovato uno. Così almeno avrebbe saputo se la psicometra aveva altro da offrire oltre a quelle stupidaggini prive di senso. Non appena ebbe aperto la porta d'ingresso si arrestò: un uomo grosso si stava dirigendo verso le case districandosi a fatica nel traffico del rondò. La scarsa luce confondeva tutto e così per un pezzo non poté essere sicura che si trattasse del sergente di polizia. Per un momento pensò come in un sogno che potesse dargliela lui una carta. Quando il sergente mise piede sul sentiero le parve di uscire dal sonno: la testa le pulsava come un dente cariato, i nervi le si contraevano. Fu tale la cura con cui l'uomo chiuse il cancelletto prima di avvicinarsi, che seppe con certezza che non veniva volentieri. « La prego, Mrs. Waugh, entriamo in casa. Mi dispiace, ma devo farle una domanda. » Se doveva domandare, allora non c'era niente di definitivo, ma lei ebbe paura di insistere che le parlasse subito lì fuori. Anche se le tremavano le gambe lo precedette in fretta nel soggiorno. Lui accese la luce e la psicometra lo fissò a occhi sbarrati, sbattendo le palpebre come un pipistrello. « Che sta facendo? » chiese Miss Clarke, e poi lo riconobbe. Il sergente fece sedere Barbara e si chinò su di lei. « Mrs. Waugh, lei ha detto che Angela portava un abito a righe bianco e azzurro con una cintura. C'è qualcosa che ha trascurato di dirci? » Non lo reggeva quel gioco. « Di che genere? » « C'è qualcosa a proposito della cintura che non ci ha detto? »
La pulsazione nella testa ora era più acuta; non voleva parlare. « Aveva perso la cintura di quel vestito e io ne ho presa una da un altro abito. Non si vedeva quasi la differenza », gemette. « Era di una sfumatura più chiara, questo è tutto. » La faccia dell'uomo si rabbuiò. « Sono terribilmente desolato, Mrs. Waugh, ma sembra che l'abbiano trovata. » C'era qualcosa che doveva ricordare, qualcosa che avrebbe annullato l'orrore che la minacciava... « Il vestito non conta », disse, sul punto di cadere in una crisi isterica. « Se non hanno trovato la voglia sulla spalla allora non può essere sicuramente Angela. » « Una voglia », esclamò la psicometra. « Certo, ecco che cos'era quello che ho visto. » L'uomo si accigliò, con un'occhiata interrogativa, ma poi fissò con tristezza Barbara. « Ho paura che non possano identificarla da questo, Mrs. Waugh. Le hanno sparato a bruciapelo con un fucile. » E poi non ci fu altro che il vuoto, dentro Barbara e fuori di lei. Da qualche parte la psicometra stava dicendo: « Quando è stata uccisa? » « Dev'essere stato questa mattina presto. » La donna corse da Barbara, tentò di prenderle le mani. « Mrs. Waugh, deve ascoltarmi. Non è Angela. Lei era ancora viva quando ho toccato il suo vestito. In questo momento lei è viva, e in pericolo. » Barbara si alzò di scatto, urtando la donna e facendola indietreggiare. Le strappò di mano la tuta e la strinse forte, sentendo solo com'era vuota. « E devo pensare », disse con una voce così piena di odio, di disgusto e di dolore che non sembrava quasi più la sua, « che hanno ucciso un'altra bambina per farmi credere che fosse Angela. » Il sergente intervenne, « Credo che sia meglio che vada via, Miss Clarke, e che la sua amica spiritista venga con lei. » A Barbara non importava più; lo sfogo sembrava averle tolto tutta la forza che le restava e poté solo lasciarsi cadere in una poltrona. Lui tornò subito a parlarle e dopo un po' arrivarono anche Jan e Keith, ma lei non riusciva ad afferrare quello che le stavano dicendo o facendo. Di nient'altro era consapevole che della vuotezza della casa. E questo fu tutto, per tanto tempo. Continuava a comparire gente — un medico la visitò, Jan rimase con lei il più possibile visto che Barbara si rifiutava di lasciare la casa — ma lei non si accorgeva quasi di quando arrivavano o se ne andavano. A volte scopriva di essere davanti a dei piatti con dentro del cibo che qualcuno aveva cominciato a mangiare tanto tem-
po prima. Tendeva a rimanere al piano di sotto, perché il gemito dei primi tre scalini le faceva accapponare la pelle, continuava ad addormentarsi qua e là per la casa e a dimenticare. Sembrava non sapere più chi fosse o chi fosse stata. Ogni volta che le veniva in mente il suo lavoro a Londra il senso di colpa le toglieva il fiato. C'erano dei ricordi di Angela, ma sentiva di non averne più diritto. Dopo diversi giorni e diverse notti, che erano passati strisciando su per le colline e attraverso la casa, ci fu un funerale. Pareva incapace di afferrare l'idea che quella piccola cassa chiusa aveva qualcosa a che fare con lei. Mentre veniva inghiottita dal crematorio, ne immaginò le fiamme, che sfumavano via. Quando cominciò a rabbrividire Jan le si fece più vicina, nella speranza certo di consolarla, di scontare così un po' della sua colpa. Ma Barbara era scesa ancora più in profondità nel vuoto di se stessa, in un luogo inaridito dove lacrime non ce n'erano. Era passato del tempo — dei giorni forse — e Jan stava dicendo: « Perdio, spero che lo prendano quel porco. Lo so io quello che gli farei ». Improvvisamente Barbara la trovò insopportabile: questo avrebbe in qualche modo riportato Angela? Finalmente, proprio nel momento in cui Barbara stava per mettersi a urlare, Jan accettò l'idea che volesse essere lasciata in pace. Appena sola poté ammettere con se stessa che cosa aveva intenzione di fare. Accese l'intercom che la collegava con la camera di Angela e attese, sperando, pregando incoerentemente. Il ronzio delle scariche di fondo, lontane voci metalliche la raggiungevano per poi svanire. La casa si fece buia, il silenzio più profondo, e infine si rese conto che stava seduta lì come una catatonica, sperando ciecamente nel fantasma della sua bambina assassinata. Questo non poteva che sprofondarla ancor di più nella disperazione. A un tratto il disgusto per se stessa fu così forte che riuscì a tirarsi indietro. Il giorno dopo, di prima mattina, ammucchiò tutti i giocattoli, i libri e i vestiti di Angela nella macchina e uscì da Otford. Non aveva idea di dove stesse andando; presto si trovò a Madstone, dove l'odore del malto imprigionato sotto le grevi nuvole di novembre era quasi soffocante. Quando trovò una vendita di beneficenza nel cortile di una chiesa, lasciò tutti gli oggetti di Angela sul primo tavolo e fuggì. In aperta campagna, tra le nere colline inzuppate di pioggia, lasciò la macchina in pieno temporale e camminò in circolo per chilometri, singhiozzando e ricordando. Passò dei giorni a odiarsi perché sentiva il desiderio di tornare al lavoro; era stato quel desiderio a uccidere Angela. Ma se non tornava a lavorare
poteva tornare solo al vuoto di se stessa. Quando fu nuovamente alla sua scrivania di Londra, si gettò con tale foga nel lavoro che per un po' parve non avesse tempo di pensare a nient'altro. Ma invece tutto risvegliava i suoi ricordi — le cose che la gente evitava di dire, la particolare considerazione con cui i suoi colleghi e Jan la trattavano, i bambini e i ragazzi che trovava nella metà dei libri che le toccava di leggere. Non erano quelle le sole ragioni per cui si era finalmente decisa a usare l'eredità di Arthur e il denaro proveniente dalla vendita della casa per trasferirsi a Londra e aprire la sua agenzia, ma il trasferimento l'aveva aiutata a guarire, ad accettare il fatto che Angela se n'era andata per sempre. Solo che ora, a nove anni di distanza, una voce al telefono la stava chiamando mamma. Capitolo 7 Sotto la cupola il cielo notturno era come in trappola, e la luce cresceva tra le stelle. Sulle prime erano le nuvole che parevano cristalline, nuvole dal complicato disegno verde, azzurro e violaceo che scivolavano l'una sull'altra, dispiegandosi. Poi venne un enorme scarabocchio di forme geometriche, matematica al neon dal cielo. Gomitoli di colori attraversarono le stelle come spinti per gioco da gattini giganti, volute di luce scesero ruotando a prendere al laccio il pubblico, fiori geometrici sbocciarono e si chiusero e sbocciarono ancora. Poi le forme presero a susseguirsi troppo rapide per descriverle, così rapide che Judy dimenticò di avere ben nove anni e si mise a gridare dalla gioia. « Che bello », esclamò, quando le luci della sala si riaccesero. « Grazie, papà. » Uscì saltellando dal planetario su Baker Street mentre gli occhi di Ted stavano ancora adattandosi alla luce: gli pareva che i disegni del tappeto fossero sul punto di mettersi in movimento. Quando la raggiunse, al margine di un gruppo di ragazzi, lei disse: « La settimana scorsa mamma mi ha portato al museo, ma mi sono divertita molto meno di oggi ». Nella metropolitana la mappa dei treni sembrava il disegno dello spettacolo laser. « Ecco, magari alla mamma non lo direi in questo modo », le suggerì Ted. « Certo che no. » La furbizia nel sorriso di sua figlia lo stupì. Spesso i segni che ne mostravano la crescita lo prendevano di sorpresa. Certo, ogni volta che la vedeva era di una settimana più grande. Scese dì corsa la scala mobile, poi lo raggiunse risalendo controcorrente gli scalini. In attesa del treno gli tenne la mano e d'un tratto lui le vide u-
n'aria da donna, con quel vestito che le arrivava alle caviglie. Era consapevole di quanta fierezza gli dava lo stare con lei? Secondo lui sì. Mentre salivano sul treno le chiese: « Zio Steve vi ha portato di nuovo fuori tutt'e due? » « Aveva detto che ci portava in vacanza, ma poi invece è andato in Sudafrica. Non credo che a mamma piaccia troppo. » « Che peccato. » A Judy piaceva abbastanza e, da quello che raccontava, Steve le si era affezionato. Steve era un commercialista, ma a quanto pareva non era affidabile, fuori dal lavoro. C'era da scommettere che ora Helen si sarebbe fidata degli uomini ancora meno. Uscirono alla luce di Highbury e Islington. In Upper Street i negozi erano concentrati disordinatamente uno vicino all'altro come scatole dimenticate su uno scaffale a scolorirsi alla polvere e al sole. Sopra i negozi si accalcavano gli appartamenti, sulla porta a vetri di un ristorante gli adesivi del Fronte Nazionale spiccavano accanto a quelli delle carte di credito, un tavolo da toletta spuntava da un negozio di mobili d'occasione, con uno sportello a specchio ciondolante e privo di cardini. « Ti piace abitare da queste parti? » le chiese con tono disinvolto. « Sì, è proprio bello, davvero. Ma mi piaceva di più la nostra vecchia casa. » Aveva creduto che fosse troppo piccola per ricordarsene. Lo aveva sperato, perché i suoi ricordi, pensava, non dovevano essere molto piacevoli: l'appartamento così piccolo, insopportabilmente piccolo una volta arrivata la bambina; i litigi che dovevano certamente oltrepassare la parete della camera, quando lui e Helen si scontravano trovando sbagli in tutto quello che faceva l'altro. Poteva solo sperare che la bambina non si rendesse conto di essere lei la causa dei litigi. Una squadra di operai stava sventrando delle bianche case georgiane per fare spazio ai nuovi appartamenti. Helen abitava in fondo alla strada laterale, oltre una bassa arcata che probabilmente un tempo conduceva alle stalle e che ora dava su un piccolo complesso di appartamenti. Uscì sulla porta prima che Judy potesse suonare, con le mani rosa come quelle di un manichino con i guanti di gomma. « Spero che vi siate divertiti », disse. « È stato bellissimo, mamma, più bello di Incontri ravvicinati. E poi è stato buffo, l'uomo ha detto che se qualcuno aveva portato qualcosa da fumare doveva andare a farlo fuori. Ci siamo messi tutti a ridere, perché abbiamo capito che non intendeva il tabacco. » Quando corse in camera sua, Helen commentò: « Non mi pare che sia
una buona idea portare Judith a sentire cose del genere ». « Dio santo, l'ho portata solo a uno spettacolo di laser. Mica a un comizio per la legalizzazione della droga. » Non aveva voglia di discutere: lei appariva stanca e disfatta; la fascia tra i capelli sembrava tirarle la faccia, accentuando le rughe agli angoli degli occhi. « Lei cerca solo di far vedere che è grande », continuò. « Ah, è così che la pensi? » Evidentemente non riteneva che lui avesse diritto a un'opinione. Improvvisamente, con un mutamento di umore creato apposta per farsi notare, gli offrì da bere. « Buon compleanno », gli disse. « Al mio libro giallo da finire quest'anno. Alle promesse finalmente mantenute. » Il sorriso di lei fu così stentato che parve più un rimprovero. Per quanti sforzi lui facesse per cercare di mostrarsi cordiale, tutte le visite assomigliavano ai postumi di un litigio. « Come vi vanno le cose? » chiese, sperando di essere abbastanza neutrale. « Judith è contenta. Questa è la cosa principale. » « Ma non è l'unica cosa. E tu? Posso aiutarti in qualche modo? » Lei lo guardò fisso. « Non riesco a immaginare come. » « Be', per esempio », disse, pensando che lei non poteva guadagnare tanto alla libreria, « vorresti un aumento dell'assegno, ora che Judy sta crescendo? » « Checché tu ne possa pensare, ce la faccio benissimo. Se avrò bisogno di altri soldi farò domanda al tribunale. Judith ti sembra vestita male? Ha l'aria di non aver abbastanza da mangiare? » Sentì che gli stava tornando alla gola il vecchio impulso di odio. Un tempo lei era molto più intelligente, ma la maternità l'aveva come imprigionata, tanto che pareva che non riuscisse a pensare ad altro che alla figlia. Ora gli impediva del tutto di raggiungerla: si comportava come se gli alimenti fossero una punizione, continuava a chiamare Judy con il nome intero per rimproverargli l'eccessiva familiarità che si permetteva con la bambina. Ma fu proprio Judy a salvare la situazione. « Non glieli hai ancora dati i regali, vero? » chiese con ansia. « Aspettavo te. » Helen gli porse due pacchetti, una penna con il suo nome inciso sul fermaglio da parte di Judy, una scatola di fazzoletti da parte sua — un regalo anonimo che voleva intendere, sospettò lui, che più di questo non poteva permettersi. Judy lo abbracciò, Helen gli presentò il lato del viso come se stesse porgendo l'altra guancia. « Rimani con noi per la cena di compleanno? » chiese
« Mi dispiace, tesoro, ho già un impegno. » Quando la abbracciò di nuovo, ne avvertì la delusione. Helen gli volse la schiena. Era stata lei a farle credere che poteva rimanere, in modo da farlo sentire in colpa? Ancora adesso lei dava a Barbara Waugh la colpa del crollo del loro matrimonio, anche se non era mai stata in grado di provare niente: non c'era molto da provare. Di nuovo in strada, dopo aver promesso di rivedere Judy il weekend successivo, avvertì la sensazione di essersi lasciato dietro una parte di sé, che sperava ancora di risolvere la situazione. Helen gli aveva sempre fatto capire chiaramente che non desiderava che rimanesse a lungo. Gli concedeva una serie di istantanee settimanali di Judy, pronta a strappargliele di nuovo di mano. L'immagine gli piacque. Poteva metterla nel romanzo. Improvvisamente si sentì allegro, con la mente più leggera. Quando raggiunse il suo appartamento si stava facendo buio. Fece una rapida doccia e si cambiò. Poi attraversò il complesso del Barbican diretto a casa di Barbara. Lungo le gallerie, apparivano i pilastri tarchiati come giganteschi barili rivestiti di grezza pietra grigia. Sopra i marciapiedi i lampioni cominciavano ad accendersi, come cestini di rifiuti capovolti riempiti di luce. Un accenno di tramonto indugiava sulle lastre di cemento dall'altra parte del lago rettangolare. Presto arrivò a casa di Barbara, una specie di bastione medievale, un'enorme poltrona di pietra. Qualche anatra nuotava lentamente verso la piattaforma di mattoni rossi che si spingeva nel lago sotto la chiesa di St. Giles. In mezzo alle lanterne dall'alto stelo che sorgevano dalla piattaforma, un salice faceva dondolare la sua chioma di bambola. Mentre le ultime luci del tramonto raggiungevano il campanile della chiesa, pareva che le pietre grigie si raffreddassero, mutandosi in cenere. Barbara, sulla porta, gli augurò buon compleanno con un bacio, poi lo precedette nell'atrio. I suoi capelli corvini si lasciarono dietro una scia di profumo secco e dolce, e Ted colse con lo sguardo qualche filo d'argento tra quel nero. Addio al nostro quarto decennio, penso per se stesso e per Barbara. Quando raggiunse la sala, lei si era già avvicinata al divano e stava nascondendo un album di fotografie che presumibilmente aveva guardato prima del suo arrivo. Poi andò alla scrivania, dove pose un segnalibro nel dattiloscritto che stava leggendo, e infine si diresse verso la cucina, in fondo alla sala. « Per me uno sherry », gli gridò.
Due minuti dopo aveva portato la cena in tavola: insalata, vino bianco gelato, avocado. « Com'è andato finora il tuo compleanno? » « Molto bene. » Aveva lasciato a casa i suoi regali — non era il caso di farle pensare a Helen e Judy senza necessità — ma improvvisamente sentì voglia di parlarne. « Judy mi ha regalato una penna con un'incisione. Deve aver messo via i soldi per mesi. » Forse il tono diceva di più di quanto volesse. « Rimpianti? » chiese Barbara. « Be', ora che sta crescendo le voglio più bene. È difficile credere che non la sopportavo. » Non voleva che Barbara ricominciasse a sentirsi responsabile; qualcosa nel suo atteggiamento gli diceva che aveva già dei problemi per conto suo. « Sai, probabilmente ce l'avrei anche fatta a non dormire per un anno, ma quello era solo l'inizio. Helen insisteva a portarla a letto con noi mentre avrebbe dovuto avere una camera sua. Te l'ho mai raccontato? » Certo che gliel'aveva raccontato, proprio lì, nel suo appartamento, la sera che lei gli aveva detto: « Non andartene, se non vuoi », ma questo non era proprio il contesto giusto per ricordarle una cosa del genere. « La colpa è di Helen », aggiunse, sperando che non paresse una rassicurazione troppo ovvia. « Non ha mai fatto niente per impedire a Judy di arrampicarsi dappertutto. Dovunque io nascondessi i manoscritti Judy li raggiungeva sempre, e Helen si comportava come se non avesse nessuna importanza: potevo sempre chiederne un'altra copia all'autore. Qualche volta penso che in questo lavoro uno non dovrebbe avere figli. » Era così ansioso di rassicurarla che fece questa riflessione senza pensarci. Quali facce perdute stava guardando nell'album? « Hai avuto tempo per leggere il mio capitolo? » chiese in fretta. « L'ho trovato, il tempo, visto che saresti venuto. » « Non farti scrupoli di dirmi che è stato tempo sprecato. » Senza accorgersene gli era venuta una sensazione di disagio; mai chiedere agli amici di dare un giudizio sul proprio lavoro, anche quando il loro compito è proprio dare giudizi sui libri. « Voglio dire, lo so quanto sei occupata. I tuoi clienti dovrebbero avere la precedenza. » « Sono sicura che te ne rendi conto. Ma questo potrebbe essere un buon libro, se lo finisci, Ted. Che cos'è che ti blocca? » « Non conosco abbastanza l'ambiente degli investigatori privati. Non riesco a prevedere quello che farà. » « Ma questa è un'ottima cosa. Cerca di lasciarti prendere la mano dalla storia. Occupati della trama e guarda in che modo rivela i personaggi. Se-
condo me consumi troppa energia a cercare di fare l'inverso. » Quando era entusiasta, era molto più bella; i suoi occhi, sorprendentemente azzurri, diventavano più vivi, e lui rammentò quanta passione sapesse mettere in quella bocca. Eppure gli parve di sentirla preoccupata, oppressa. « Ti stai riprendendo dalla vendita del libro di Paul Gregory? » chiese. « Non è ancora davvero finita. Il grosso deve ancora venire, a New York », rispose lei e balzò in piedi perché il telefono, in camera da letto, stava suonando. Forse aspettava la telefonata, forse per questo sembrava nervosa. Salì in fretta la breve rampa e chiuse la porta. Evidentemente aveva lasciato il telefono inserito nell'altra stanza perché non voleva che lui sentisse, ma la voce gli arrivava ugualmente. Lui si guardò attorno per non cedere alla tentazione di ascoltare: il mobile dell'hi-fi, il televisore, i tavolini inseriti uno sotto l'altro, il divano di pelle che pareva un pezzo di cioccolato che stesse sciogliendosi per il caldo, le numerose librerie. Sparsi per gli scaffali, c'erano libri della Melwood-Nuttall che le aveva dato lui. Non voleva pubblicarlo lui il suo romanzo, voleva che qualcun altro gli dimostrasse che valeva la pena pubblicarlo. Dopo poco ritornò e portò via gli avocado, pur non avendo finito il suo. Tornò con il pollo. « Non so se hai sentito. La ragazza che doveva venire in Italia con me ha deciso che non può più venire. » Dietro di lei sulla parete c'era una litografia di Escher che rappresentava un paese del sud dell'Italia: i piani lisci e precisi delle case e delle rocce su cui erano costruite sembravano scolpiti in un unico blocco di marmo screziato; un'entrata misteriosa si intravedeva tra le colline in lontananza. « Mi piacerebbe vederla, l'Italia », disse. « Vieni con me, se puoi liberarti per la fine del mese. Provo a vedere se è possibile passare a te le sue prenotazioni. » Improvvisamente pareva molto più allegra e riuscì a mangiare quasi tutto il pollo prima che il telefono suonasse di nuovo. Stavolta sbarrò gli occhi per un attimo prima di riprendere il controllo. Sembrava riluttante, quasi bloccata. Se ancora aspettava una telefonata, aveva forse lasciato il telefono in camera da letto sperando che questo per magia tenesse lontano la chiamata? Quando la porta della camera si chiuse, lui si accostò alla finestra. I lampioni della piattaforma ora erano accesi; la chiesa pareva uno schizzo al carboncino, ritagliato e incollato su una zattera di mattoni rossi tenuta su
da luci galleggianti. Barbara parlava a bassa voce, ma gli parve di cogliere qualche frase. « Non puoi essere... » Era questo quello che aveva appena detto? Un movimento improvviso vicino alla chiesa lo distrasse. Doveva essere stata l'ombra del salice. Sentì lo scatto quando lei mise giù il ricevitore, poi ci fu una lunga pausa. La chiesa piatta si stagliava nel buio silenzioso. D'un tratto lei scese in fretta le scale. « Oh, il tuo dolce », esclamò incerta tra la tavola e la cucina. « Ti dispiace se io non ne prendo? Ho paura di aver mangiato troppo. » Lui avrebbe voluto fingere che non era successo niente. Certamente gliel'avrebbe detto lei a suo tempo, se avesse voluto. Ma mentre Barbara tagliava la torta, dimenticando che doveva tagliarla lui, Ted vide che le mani le tremavano. Capitolo 8 Nella metropolitana l'aria era soffocante, ma quando emerse a Notting Hill Barbara trovò che in strada era anche peggio. Sotto un cielo così azzurro che dava fastidio agli occhi, l'aria sembrava bianca di polvere. Camion, automobili e autobus passavano di corsa fungo Holland Park Avenue, sporcando i già sporchi alberi. Il rumore era forte come in una fabbrica di automobili e pareva ispessire materialmente l'aria. Non poteva riflettere finché non trovava rifugio dal frastuono. Finalmente attraversò verso Pembridge Road. Lì c'era un po' più di tranquillità, nonostante la fila ininterrotta di auto. Lungo il marciapiede svolazzavano i resti di una manifestazione dei lavoratori sanitari in sciopero. Mentre si affrettava a superare una serie di negozi dalle vetrine affumicate dal traffico, due cani la fissarono con i loro occhi di porcellana. Più avanti un'impalcatura circondava le case basse, un mucchio enorme di cemento scintillava sul marciapiede. All'angolo di Portobello Road si fermò, sforzandosi di riflettere. Che stava facendo qui? Non poteva accettare l'idea di essere stata semplicemente vittima di uno scherzo sadico? Fino alla sera prima era riuscita a credere che si trattasse di qualcosa di meno — che quella telefonata arrivata in ufficio fosse stata un errore, dopo tutto. Lei la bambina la sentiva abbastanza chiaramente, al telefono, ma questo non comportava necessariamente che la bambina sentisse lei. Eppure era rimasta agitatissima per tutto il resto della settimana e lo squillo del telefono la faceva sentire fragile e vuota, tenuta insieme solo dai nervi. La chiamata della sera prima, durante la cena di compleanno di Ted, era
arrivata quasi come un sollievo: se non altro era qualcosa da affrontare, o almeno, questo era quanto si era detta sentendo la voce, anche se il suo cuore batteva all'impazzata. Stavolta non avrebbe riattaccato. « Mamma, sono io. Ti prego, non andartene un'altra volta. » Barbara si era affrettata a sedersi sul letto, con gli occhi che le bruciavano per le lacrime. Aveva sentito il bip elettronico e il rumore di un gettone che cadeva, prima della voce. I fantasmi non infilano gettoni nel telefono: dunque quello non poteva essere il fantasma di Angela. « È inutile che tu faccia finta di essere mia figlia », aveva detto in tono duro. « Non puoi esserlo. La polizia ha trovato il suo corpo in un campo nel Kent. » « Non ero io. Volevano farti credere che ero morta. » Chiunque avrebbe potuto dire una cosa del genere, ma per un momento angoscioso Barbara aveva ricordato di aver detto: « Devo pensare che hanno ucciso un'altra bambina per farmi credere che fosse Angela? » Per un attimo la cosa le era parsa tremendamente possibile, ma non doveva lasciarsi imbrogliare in quel modo; la voce era più adulta di come avrebbe dovuto essere, e cercava di fingersi più infantile. « Chi è che voleva farmelo credere? » aveva chiesto. « E perché? » « Oh, mamma, non farmi tante domande. Te lo dirò quando verrai a prendermi. » « Venire dove? » Barbara non avrebbe voluto sembrare così ansiosa. « Dove? » « Adesso te lo dico. » Improvvisamente la voce era parsa stranamente infantile. « Ma devi promettermi che non lo dirai a nessuno. » « Va bene, adesso dimmelo. » « No, devi dire lo giuro. Non devi parlare a nessuno di me. Non devi andare alla polizia. » « Va bene, lo giuro », aveva detto Barbara, anche se tutto il suo corpo stava lottando per trattenere le parole. « Dove? » La voce pigolante aveva risposto immediatamente, acuta e insulsa come un risolino. « A Portobello Road. La casa con il cancello murato », aveva cantilenato la voce, prima di essere troncata dallo scatto elettronico. Almeno, questo fu quanto lei aveva deciso di aver sentito nelle ore in cui era rimasta a letto senza poter prendere sonno, dopo che Ted se n'era andato. Non riuscendo a dormire, si era messa a camminare su e giù per l'appartamento, temendo di essere di nuovo sul punto di richiudersi in se stessa, come dopo il rapimento; mai avrebbe voluto risentire quello che aveva provato allora. Dio, avrebbe tanto voluto scoprire chi era che la stava fa-
cendo sentire di nuovo così fragile e agitata — ed eccola qui, ora, all'inizio di Portobello Road. Prima di rendersene conto, si incamminò. Una curva tagliò fuori improvvisamente il frastuono del traffico. Un isolato di case a due piani, dipinte di verde, bianco e rosa, la condusse a un incrocio; in qualche punto la pittura appariva scrostata come fango secco. Dal marciapiede spuntavano degli alberi non più alti delle case. Qualche macchina era parcheggiata al margine della strada. Nessuno dei bassi muretti aveva il cancello murato, ma ovviamente non era detto che dovesse cercare proprio in Portobello. Dall'incrocio in discesa poteva vedere solo case di un bianco abbagliante che la sfidavano a non distogliere lo sguardo. Avrebbe potuto seguire l'una o l'altra delle direzioni, ma si rese conto di quante strade laterali potevano esserci, di quanto tempo le toccava perdere per uno scherzo. Se ne stava a girare così mentre avrebbe dovuto trovarsi al lavoro — finora aveva sempre considerato il suo lavoro come la cosa più importante, ma ora non poteva. Si affrettò lungo Portobello Road, passando accanto a una serie di gallerie, studi, negozi di antiquariato. Qui c'era Westbourne Grove, ma la voce al telefono non avrebbe dato quel nome? Forse lo avrebbe fatto se non fosse stata interrotta la comunicazione, o forse lo scherzo prevedeva che Barbara girasse così alla cieca, sentendo sempre di più il caldo e l'irritazione. Ma chi poteva organizzare una cosa così insensata? Percorse avanti e indietro Westbourne Grove — le case bianche balenavano come lampi — poi tornò su Portobello Road. Le strade laterali si facevano più numerose e dovette continuare ad andare avanti e indietro per esaminarle tutte. E se la voce non avesse detto « un cancello murato » ma qualcosa di completamente diverso? Improvvisamente si bloccò, tra i pilastrini che, come candele di metallo, chiudevano Lonsdale Road. Tutte le strade laterali avevano un nome; perché la voce non aveva dato il nome della strada prima di descrivere la casa? Poteva esserci altro motivo che prolungare lo scherzo? E se chi chiamava aveva letto di Barbara sul supplemento domenicale e l'aveva invidiata per il successo? E se chi chiamava era una squilibrata? Improvvisamente si sentì infuriata, decisissima a trovare la casa, se esisteva, poiché certamente la proprietaria della voce sarebbe stata lì ad aspettarla per vedere se aveva abboccato. Si fece largo a fatica in mezzo alla folla. I venditori delle bancarelle gridavano e litigavano, la mercanzia dei negozianti invadeva il marciapiede.
Qui c'era un'altra traversa, altre case bianche grinzose come facce di vecchi. Tendine da due soldi, di ogni colore ma stinte dal sole, facevano sembrare le coppie di finestre male assortite e come colpite da cataratta. Le case che potevano permettersi di avere un vialetto di accesso avevano il cancello, per quanto malfermo, o almeno uno spazio tra i pali laterali. Si girò e si trovò a faccia a faccia con una donna che la fissava. Era vestita di nero: calze nere, calzoni neri, un golf nero con dei fili bianchi, forse qualche capello ossigenato. Il suo viso rotondo da ragazzina era truccato in modo da nascondere l'età e aveva un vago sorriso insensato — esattamente l'aspetto che si sarebbe aspettato nella persona che aveva fatto la telefonata. Per un momento parve sul punto di parlare, ma non ci sarebbe stato niente di strano visto che Barbara la stava fissando. Barbara la superò schivandola, dandosi dell'idiota, arrabbiata, vergognandosi di se stessa. Quando le lanciò un'occhiata dall'angolo, la donna la stava ancora guardando. La fine del mercato per fortuna era in vista, sotto un cavalcavia ingorgato dal traffico. Ora la folla sembrava piena di ragazzine — certo, era vacanza a scuola — e tutte quante la guardavano. La cosa sicuramente non era strana, se il suo aspetto corrispondeva a come si sentiva. I negozi si aprivano all'improvviso come scatole a sorpresa; la presenza e il chiasso delle persone e degli animali, cani cacciati a calci dalle bancarelle, era opprimente. Cercò di affrettare il passo e quasi scaraventò a terra un cesto pieno di scarpe. Quando arrivò al cavalcavia, non trovò il sollievo che aveva sperato. Il frastuono del traffico, in alto, era insopportabile. La gente si accalcava sotto il cavalcavia come derelitti sotto un ponte, tastando gli abiti appesi su file di attaccapanni. Tutto aveva un'aria grigia e squallida, le facce non meno dei vestiti. Pensò che era non tanto l'ombra quanto il rumore che le stava offuscando la vista e soffocando i pensieri. Al di là del cavalcavia era ancora peggio, un rombo assolutamente ininterrotto proveniente dal traffico pesante, così intenso da essere fisicamente nauseante. Dovette fermarsi accanto a una fila di auto lerce, parcheggiate e tapparsi le orecchie con le mani, ma anche così il grosso del rumore passava lo stesso. La sua mente pareva cancellata come un nastro. Tutto sembrava piatto come quel cielo di plastica blu. Non poteva far altro che rimanere ferma e con gli occhi sbarrati cercando di assuefarsi al rumore. Le case a tre e quattro piani erano così anonime che le parve quasi di non vederle. I pilastri scrostati reggevano i loro portici, diverse finestre e-
rano fracassate, dietro alcuni di quei buchi pendevano tendine grigiastre. Altre finestre erano murate, e murato era uno dei cancelletti. Capitolo 9 Pareva una cosa da poco: una casa abbandonata, finale meschino di uno scherzo crudele. Nessuna delle finestre pareva schermata, se non dalla polvere. Ma senza entrarci, come poteva essere certa che fosse vuota, anche se tutt'e due le case adiacenti chiaramente lo erano? Non si capiva se era un'ombra sottile proiettata dal portico, quella sul bordo della porta d'ingresso, o se la porta era socchiusa. Alla fine attraversò la strada fino al giardino attiguo. Una poltrona fracassata, che sembrava buttata giù da una finestra, aveva rotto la rete tra i due giardini. Mentre scavalcava lanciò un'occhiata verso il mercato, sia per un senso di colpa, sia perché sperava di scoprire chi l'aveva attirata fino alla casa. Una o due persone la guardavano, ma da quello che poteva vedere da lontano, sembravano guardarla con simpatia. Forse l'avevano presa per un'abusiva. Scavalcata la poltrona, si diresse rapidamente verso il portico. L'erba secca era cosparsa di rifiuti: giornali ingialliti, pagine strappate di un libro, una bottiglia di sherry; altri rifiuti erano sul vialetto dissestato e verdastro. Salendo gli scalini del portico calpestò pezzi di intonaco sbriciolato. Sì, la porta era socchiusa, e la spalancò. Il pavimento dell'ingresso era coperto di polvere, ma non c'erano impronte. Allora di questo si trattava, ne era già quasi certa. Guardò verso la strada dal portico, più sollevata che arrabbiata con se stessa. Forse era stata una credulona, ma ora era finita. Stava ancora guardando fuori — il mercato sotto il viadotto ora le pareva buffo, e anche il rumore era quasi sopportabile — quando qualcosa la guardò da una delle finestre accanto al portico. Si girò così di scatto che cadde quasi dai gradini. Si afferrò a un pilastro e lo sentì sbriciolarsi sotto le dita. Ma la figura alla finestra non era altro che una ragnatela, carica di polvere. Vide un lembo della massa grigia che scivolava dietro la lastra un momento prima di sparire alla vista. Lanciò un'occhiata alla folla sotto il ponte per rassicurarsi e le parve di vedere una faccia che conosceva. Sì, una donna dai capelli tinti, quasi bianchi, e vestita di nero la stava osservando dall'ombra del muro. Mentre Barbara si dirigeva verso il varco nella siepe, la donna si dileguò tra la folla.
Era troppo. Ora che ci ripensava, quel vago sorrisetto della donna le pareva allusivo. Se Barbara riusciva a raggiungerla, avrebbe avuto poco da sorridere. Ma aveva perso troppo tempo. Quando raggiunse il marciapiede non le rimase che svoltare verso Ladbroke Grove. Nel silenzio della metropolitana sentì la testa come svuotata, una campana arrugginita senza batacchio, che echeggiava ancora con il suo suono metallico. Sul treno si tolse la polvere di dosso. Era avvilente che il suo successo potesse farla odiare tanto da qualcuno che non aveva mai visto, indulgendolo a cercare di farle del male in maniera così crudele, ma finalmente era finita. Certamente quella donna non avrebbe avuto il coraggio di tentare altro sapendo che Barbara l'aveva vista in faccia. Quando raggiunse Dover Street si sentì sorprendentemente sollevata. I taxi, neri come scarafaggi, si arrampicavano da Bond Street e Piccadilly, e lei riuscì a superarli facilmente. Era contenta di essere tornata in ufficio. Lì era padrona di sé, lì il gioco aveva delle regole chiare. Louise consultò il suo blocco dei messaggi. « Fiona dice che le dispiace, ma non possono trasferire le prenotazioni per l'Italia. » « Che bastardi. Come sono affezionati alle loro regolette, eh? » Ma forse lei e Ted sarebbero riusciti a trovare un'alternativa. « Che altro? » « Paul Gregory non ritiene che gli editori dovrebbero avere la percentuale sui diritti cinematografici. Fine dei messaggi. La posta è sulla tua scrivania, soprattutto proposte respinte e un manoscritto. Ah... » Barbara era impaziente di mettersi al lavoro, dopo la falsa partenza di quella mattina. « Bene, vai avanti. » « Volevo dirti se posso portare qualche volta Hannah, durante le vacanze. » « Ma certo. Perché mai non potresti? » Probabilmente, ora che aveva letto di Angela, Louise aveva qualche esitazione a portare la bambina in ufficio, ma ovviamente non era il caso di farsi problemi. Eppure per un attimo Barbara si chiese se non fosse troppo ansiosa di liquidare gli eventi della mattinata, di togliersi Angela dalla testa. Non doveva cominciare a rimuginare: Angela era morta nove anni prima, e lei era arrivata a farsene una ragione; lasciare che il suo senso di colpa interferisse con il suo lavoro ora sarebbe stata una falsa preoccupazione, ingiusta verso il suo ricordo di Angela. Arthur sorvegliava la posta sopra la scrivania. Barbara spinse la fotografia più vicino al telefono per avere più spazio. Lettere dall'America entusiaste di Torrente di vite, un autore che si lamentava perché un piccolo edi-
tore lo aveva plagiato subito prima di fallire per poter rientrare nell'attività con un altro nome, un agente che cercava di vendere i diritti americani, che lei aveva già venduto, di uno dei suoi libri. Prima apriva un ufficio in America e meglio era. Ecco poi un manoscritto restituito da uno dei maggiori editori, le pagine tutte in disordine e macchiate di cerchi di caffè. Ecco due libri di esercizi di un vicario della Cornovaglia. La sua lettera era scritta con impeccabile calligrafia: « Ho letto l'articolo su di lei nel giornale di domenica, e mi sono chiesto se potesse avere il tempo di piazzare un libretto che non è assolutamente di moda, ma, spero che sia d'accordo, tanto meglio per lui... » Da quando era uscito l'articolo si era trovata assediata dalle lettere di simpatia per Angela e dai manoscritti, quasi tutti battuti con nastri grigiastri quasi illeggibili, tutti impubblicabili. La snervava pensare a tutta la creatività frustrata che c'era al mondo. Be', come giornata di lavoro rientrava nella media. Prima voleva chiarire le cose con Paul. Finalmente il telefono di lui smise di suonare. « Chi è? » chiese una voce infantile. « Potrei parlare con Paul Gregory, per favore? Sono Barbara Waugh. » « E Barbara nonsoché », gridò il bambino. Dopo un po' arrivò la voce di una donna. « Veramente volevo parlare con Paul », disse Barbara, « Sono la sua agente, Barbara Waugh. » « In questo momento non c'è. » La moglie di Paul sembrava circospetta. « Vuole che la faccia chiamare? » « Sì, grazie. Gli dica che gli americani sbavano per la sua trilogia. Saranno tutti in fila quando vado a New York. » « Di questo dovrà parlare con lui », disse Mrs. Gregory, e riattaccò di botto. Era lei che aveva fatto cambiare idea a Paul sui diritti cinematografici? Ora che il marito stava facendo un mucchio di soldi, le pareva che Barbara ne stesse dando via troppi? Era impaziente di chiarire l'equivoco, ma arrivò Louise con la posta del pomeriggio — un nuovo dattiloscritto di Cherry Newton-Brown. Barbara lesse le pagine iniziali e si sentì subito rincuorata: se tutto il libro era così interessante, allora erano a cavallo. Poteva portarsi qualche capitolo da leggere al parco. Stava ancora leggendo quando allungò la mano per prendere il telefono; voleva chiedere a Louise di farle avere un sandwich — il romanzo era più che interessante, era appassionante — ma improvvisamente sentì qualcuno che discuteva animatamente con Louise. Barbara alzò il ricevitore non appena il telefono squillò. « C'è qui una certa Miss Margery Turner », disse Louise. « Non ha un appuntamento, ma
insiste per vederti. » « Cosa vuole? » « Dice che deve dirtelo di persona. » « Oh, una di quelle. » Un'autrice impubblicabile che tentava quel trucco nella speranza di convincerla a proporre il suo lavoro. « Pensi che abbia qualcosa da offrire? » « Decisamente no, direi. » « Dille di scriverci una lettera. Ah, e quando ti sarai liberata di lei, puoi andare giù a prendermi un sandwich? Una cosa qualsiasi con l'insalata. » Cercò di riprendere la lettura, ma non riuscì a concentrarsi: Miss Margery Turner stava ancora discutendo, con quella voce lenta, confusa e petulante. Si trovò a rileggere sempre le stesse parole: lui non poté fare a meno, lui non poté fare a meno. La discussione cessò improvvisamente e Louise entrò nell'ufficio. « Non vuole andarsene », bisbigliò. « Oh, sì che se ne andrà. Ho già avuto abbastanza idiozie per una sola giornata. » Barbara si avviò decisa verso l'anticamera — sentiva già come doveva essere fredda e secca la sua voce — ma si bloccò tra le due stanze, fissando la donna con i capelli ossigenati, il suo viso tondo da adolescente, il suo sorriso vago. Capitolo 10 Una cosa fu subito chiara a Barbara: se quella donna avesse avuto qualcosa a che fare con le due telefonate, non sarebbe mai andata lì, tanto più che anche Louise, oltre a Barbara, poteva vederla. Ma questo riapriva troppi interrogativi che Barbara aveva creduto definitivamente chiusi. Non sapeva cosa dire, riusciva solo a fissare Margery Turner e a sentirsi sempre più fragile. Alla fine la donna disse: « Posso parlarle in privato? » Barbara recuperò un po' di controllo; dopo tutto quello era il suo ufficio. « Dipende da quello che vuole. » « La stessa cosa che vuole lei. La stessa cosa che cerca lei. » « Che sarebbe? » « Lo sa benissimo. Il motivo per cui è andata in quella casa. » « Forse non lo so. » La conversazione stava diventando assurdamente inconsistente. « Forse può dirmelo lei. » La donna la guardò con sospetto. « Se vuole glielo dico, ma non potrei parlargliene a quattr'occhi? » La cosa principale era scoprire cosa voleva, cosa sapeva; Barbara si sentì
come se lei stessa non sapesse niente di niente. « Devo uscire », disse d'un tratto. « Se vuole può venire con me. » Mentre prendeva la borsa le parve che gli occhi di Arthur la guardassero come per metterla in guardia, ma doveva essere un riflesso del sole sul vetro. « Torno tra un'oretta », annunciò a Louise e si affrettò a uscire, per non darsi la possibilità di chiedersi che cosa si stava attirando addosso. Sulle scale Margery Turner spiegò : « Non volevo parlare davanti a quella. Non mi piace la gente che ti tratta come un criminale. Quando ho detto che cercavo la stessa cosa che cerca lei, intendevo dire le persone di quella casa che hanno rapito mia figlia, come la sua. » Barbara riuscì a non reagire. Non doveva mostrare niente finché non avesse saputo qual era il gioco della donna. Forse c'era un modo per far parlare più liberamente la donna. « Perché non ne discutiamo a pranzo? » propose. Arrivarono in fretta a Mayfair, giù per Hay Hill e in fondo a Lansdowne Row, dove il canaletto che separava il marciapiede dalla strada sembrava una crepa aperta dal calore. Camminando per Curzon Street, tra gli edifici bicolori di mattoni rossi e crema, a Barbara parve di entrare in una fornace; sentiva le pareti bruciare. Accanto alla chiesa della Christian Science, la bottega di un barbiere alitava dopobarba. Su un monticello, nella vetrina, erano piantati dozzine di pennelli da barba, come anemoni disseccati. Per tutta la strada fino al ristorante Barbara non riuscì a parlare, ma le parve una strategia sbagliata e pericolosa rimanere in silenzio. « Che cosa ne sa delle persone di quella casa? » chiese, e la domanda le parve sufficientemente vaga per non tradire la sua ignoranza. « Dove sono adesso? » « Le mostrerò la lettera quando saremo sedute. » La voce della donna era lenta come il suo grosso corpo. « Probabilmente si starà domandando come ho fatto a entrare in contatto con lei. » « Be', sì », ammise Barbara. « Devo confessare che l'ho seguita allo studio. Non mi piace la gente che fa queste cose, ma sentivo che non potevo fare altrimenti. Vede, l'ho riconosciuta dalla fotografia quando è venuta nella mia strada — ho letto di lei in biblioteca. E così quando ho visto che andava in quella casa ho capito che cosa stava cercando. » Questo non aveva senso. « Che cosa pensa che stessi cercando? » « La sua bambina, è chiaro. » Anche se il sorrisetto non era scomparso neppure per un momento, i suoi occhi apparivano impauriti, sospettosi. « Non mi ricordo come si chiama », aggiunse.
« Si chiama Angela, ma perché mai pensava che la stessi cercando, se è morta nove anni fa? » « Come sarebbe a dire? » La donna sembrava offesa. « Chi lo ha detto? » « Uno di quelli che lo hanno detto », rispose Barbara, con una specie di trionfo amaro, « è l'autore dell'articolo che lei ha letto. » Per un attimo fu di nuovo sicura che fosse stata Margery Turner a fare le telefonate, finché non vide quanto la donna era perplessa. « Quella parte non l'ho letta, ho letto solo di Angela. Non avevo nessuna ragione per interessarmi a lei, no? » continuò in tono insistente. « Quelli della biblioteca ti trattano come se andassi lì a rubare i libri, ci credo che mi è sfuggita quella parte. » Era troppo goffa per essere una bugia. « E comunque non può credere che sia morta, altrimenti non sarebbe andata in quella casa. » « Di questo ora non desidero parlare », disse Barbara in mancanza di una risposta migliore, e le fece strada attraverso l'arcata poco più grande di un portone, che dava nello Shepherd Market. Al centro del piccolo cortile piastrellato una prostituta con una corta pelliccia stava accanto a una fila di cabine telefoniche, rosse come il suo rossetto. « Pensavo che potessimo darci una mano a vicenda », spiegò Margery Turner. La cosa aveva un suono sinistro. « Certamente la polizia può fare più di me. » « La polizia? » Il sorriso della donna si fece incerto. « Non faranno niente, perché Susan ha più di diciassette anni. Loro dicono che non la credono in pericolo, ma vogliono soltanto tenerla lontana da me. Lei sa come trattano le ragazze madri. Adesso non so più a chi rivolgermi. » « Be', comunque può dirmi di che si tratta », disse Barbara con cautela, entrando nel locale. Fotografie di pugili gialle come pelle vecchia tappezzavano la parete sopra la scala di ingresso. Solo dopo il tramonto quell'atmosfera fioca color arancio poteva essere percepita come luce. Mentre si faceva strada verso un tavolino Barbara provò la sensazione di avanzare in mezzo a gelatina. Subito un cameriere si avvicinò al tavolo. Margery lo guardò fisso, sfidandolo a buttarla fuori. « Quello che prende lei », disse a Barbara quando questa le chiese di ordinare. Presto arrivò il vino. Margery sembrava riluttante a parlare: aveva continuato a lanciare occhiate agli avventori vicini, alle giacche buttate sulle
spalliere delle sedie. Ora aveva quasi vuotato il suo bicchiere e si sporse in avanti. « Voglio essere franca con lei », disse. « Non hanno rapito Susan nel modo in cui hanno rapito la sua bambina. Susan è scappata di casa. » Barbara poté soltanto annuire. « Non sopportava la gente che stava dove abitavamo noi », continuò Margery. « Non erano più anziani di lei o di me, ma parevano dei vittoriani. Se una faceva uno sbaglio e poi non poteva sposarsi, la trattavano come si tratta un lebbroso. Susan diceva sempre che non osavano neppure pensare che esistesse qualcosa di degno al di fuori di loro stessi. » Scostò il piatto di salsicce e si tirò vicino il bicchiere, che Barbara riempì. « Susan aveva un temperamento artistico, sa. Era brillante, ma non ha mai combinato niente. Io continuavo a tormentarla con la scuola d'arte — oh, devo averla tormentata per un anno di seguito, anche più. Vede, io non sono mai stata troppo brava a scuola, non volevo che finisse come me. Quando è scappata di casa ho pensato che forse era andata alla scuola d'arte, finché non ho avuto la sua lettera. Allora ho capito che se n'era andata per via dei vicini, anche se non lo diceva. I tipi artistici non sopportano la gente falsa. » « Voleva mostrarmi quella lettera », le ricordò Barbara. « No, non quella. Quella era solo per farmi sapere che stava bene — almeno lei diceva così, ma se non c'era niente da nascondere non mi avrebbe nascosto l'indirizzo, no? L'ho fatta vedere alla polizia, ma loro non hanno voluto far niente. Oggi dovremmo avere l'uguaglianza, ma ci trattano da mezze calzette se non siamo la regina o il primo ministro. » Frugò nella borsa nera. « È questa la lettera che intendevo. Ha sbagliato l'indirizzo, si era dimenticata dove abitavo. L'hanno consegnata all'altro capo della strada e quelli non è che me l'hanno portata, no, hanno cancellato l'indirizzo e l'hanno impostata di nuovo. Questo è il genere di cose che devo sopportare. Se me l'avessero portata potevo trovare Susan mentre era ancora in quella casa. » Era solo l'ultimo foglio della lettera, con qualcosa disegnato sul retro. La scrittura grande e piuttosto infantile se non altro si leggeva facilmente in quella luce color marmellata. Margery rimase attentissima mentre Barbara leggeva, pronta a riprendergliela quando avesse finito. ma adesso posso prendere le droghe o lasciarle esattamente come gli uomini o le donne o la vita per questo — e così ero pronta ad andarmene quando ho incontrato la gente con cui sto adesso — non ti piacerebbe o
non capiresti che cosa stavamo facendo ma non lo capiamo fino in fondo nemmeno noi — non lo sapremo finché non sarà fatto ma non mi importa — almeno vedremo che nessuno lo sappia prima — non dovrei parlarne a nessuno ma ho pensato che potevo vedere di dirlo a te così sapevi che non ero morta — non dovrei neppure usare il mio nome ma lo faccio casomai te lo sei dimenticato — questo è tutto da susan la bastarda Barbara si sentì in grande imbarazzo. La lettura era inquietante, ma che cosa dimostrava? La girò per dare un'occhiata al disegno e riconobbe tutto a prima vista: il mercato sotto il cavalcavia, la casa con il cancello murato, qualche tratto delle case adiacenti che finivano nel nulla. Una faccia spiava da una finestra alta della casa. Gli occhi erano due cerchietti vuoti, completamente vuoti. Margery nascose in fretta la lettera nella borsa e lanciò un'occhiata sospettosa al cameriere che passava lì per caso. « Non si lasci ingannare da come parla. Suona come se stesse cercando di scandalizzare, eh? Ma pensi solo a quello che dice. La lettera è un grido di aiuto. Non dovrebbe scrivere a nessuno, e neppure usare il suo nome, non può fuggire da quella gente neppure se lo volesse — se n'è accorta di questo, vero? Non dovrebbe dire dove si trova, e secondo me ha disegnato la casa perché disegnare non è proprio dire. La loro mente non è più come la nostra, una volta che cominciano a drogarsi. » Barbara poteva immaginarla a rimuginare sulla lettera, a scoprire nuovi sensi ogni volta che la leggeva. « Non sta immaginando un po' troppo? Voglio dire... » « Non è necessario che mi prenda in parola su questo. C'è qualcuno che è d'accordo con me. Magari potrebbe incontrarla. » « Magari. Chi è? » « Si chiama Gerry Martin. La conosce, no? Dovrebbe conoscerla. E una scrittrice. » Per un momento riprese un'aria sospettosa. « Be', forse non è il genere di scrittrice per lei — scrive per i giornali. Ha scritto un sacco, su queste sette in cui rapiscono i giovani delle famiglie, e io mi sono messa in contatto con lei. Secondo Gerry quelli che hanno preso Susan si sono spostati perché lei mi ha detto dove erano. Ora Miss Martin li sta cercando. » « Bene, allora c'è qualcuno che la sta aiutando. » « Ma io non posso lasciare tutto a lei e non far niente. Lei lo farebbe? » Barbara ricordò le allucinanti settimane vuote in cui aveva aspettato nella
casa di Otford. « Quando ho trovato quella casa del disegno ed era vuota, mi sono messa a girare come una pazza, come una di quelle vecchie che si vedono ciondolare senza meta. Poi ho trovato un appartamento libero nella strada dove mi ha vista e sa, mi son sentita come se ce l'avesse messo Dio, là. Andavo alla casa tutti i giorni e ci rimanevo finché potevo. Susan lo sa che quello è il solo posto dove posso cercarla. » Per un attimo Barbara sentì solo un senso di solidarietà. « È mai andata a guardare dentro la casa? » « Non ne ho avuto il coraggio, magari qualcuno mi faceva arrestare. La gente è fatta così, non ci crederebbe. Però potremmo andarci insieme, no? A lei le crederebbero. » In che cosa si era cacciata, pensò aspra Barbara. Ma era ancora abbastanza facile rifiutare, accampare esigenze di lavoro, e stava proprio per farlo quando un pensiero improvviso la fermò. E se la gente che Margery cercava era davvero quella che aveva rapito e ucciso Angela? Se lo scopo delle due telefonate era di avvertire Barbara della loro esistenza, sia pure in maniera indiretta? E se chi chiamava non aveva avuto il coraggio di essere più esplicito? Almeno poteva avere un'opportunità, per quanto piccola e tardiva, di fare ammenda per aver trascurato Angela. « Sta bene », disse, non del tutto sicura di sé e di quello in cui si stava imbarcando. « Non credo che ci sia niente di male. Oggi e domani sono occupata, ma domani sera sono libera. Passo a prenderla a casa verso le sette. » « È al numero otto, terzo piano. Non c'è il nome sul campanello. È meglio non far sapere troppo di sé alla gente. » Si ripassò il rimmel sugli occhi mentre Barbara chiedeva il conto. « Oh, mi lasci pagare la mia metà », disse, ma in maniera così meccanica che non c'era dubbio che sperava in un rifiuto. Si avviò verso le scale mentre Barbara pagava per entrambe. Lì inciampò, facendo quasi cadere il cappotto dalla sedia di un cliente. Si affrettò su per i gradini con un sorriso di scusa. Sembrava che avesse parlato liberamente perché aveva bevuto, ma Barbara si chiese se non le avesse taciuto qualcosa. « Se non troviamo niente nella casa », disse Margery, quando Barbara la raggiunse sulla strada, « potremmo dare una mano a Gerry Martin, no? Così saremmo più persone a cercare. L'unica cosa è che non potrei pagare dei viaggi troppo lunghi. » « Vedremo che cosa succede », rispose Barbara, sentendo che si stava
lasciando trascinare troppo in fretta. Guardò Margery sparire nel labirinto di strade secondarie, poi si diresse verso Curzon Street. Doveva trovare una scusa plausibile da raccontare a Louise, qualcosa che non la costringesse a spiegare, perché ora che ci pensava aveva le idee poco chiare su quello che stava facendo, e sul perché lo stesse facendo. Capitolo 11 Seduta sul letto, Margery guardava dalla finestra. Sopra le case scrostate e scolorite, l'azzurro sbiadiva nel cielo; da qualche parte nelle vicinanze un uomo e una donna litigavano. Margery stava leggendo un romanzo: una brillante attrice che usava il suo talento per rubare, sedurre, ricattare e per farsi strada nell'alta società internazionale. L'autore aveva dedicato il libro al suo agente, Barbara Waugh. Dov'era Barbara? A giudicare dal cielo, doveva essersi fatto tardi. Margery si affacciò alla finestra. Le case bianche erano come lenzuola appese, piene di buchi, sopra i grigi marciapiedi; l'uomo aveva smesso di gridare, la donna ora urlava; due uomini passarono tranquilli, ignorando quelle urla. A Margery piaceva la gente che si faceva gli affari suoi, ma a volte le pareva che in quei paraggi si esagerasse. Infilò il libro sotto il letto insieme agli altri. Ne aveva abbastanza, abbastanza di bugie. Susan occhieggiava dallo stretto scaffale sopra il letto. Il sole non ci arrivava mai, e pareva che il suo sguardo arrivasse attraverso la nebbia anziché attraverso il vetro, su in mezzo alle ombre e alle macchie di umidità che si raccoglievano sotto il soffitto. Se Margery accendeva la luce, le macchie scure erano ancora lì, e Susan veniva cancellata da una lama di luce sopra il vetro. Susan reggeva un libro di opere di Picasso, che aveva scelto come premio a scuola. A Margery non piaceva quasi nessuno di quei quadri, che parevano disegni di vandali fatti sul muro, ma d'altra parte non aveva mai preteso di capire niente di arte; se quelle cose aiutavano Susan, quello era l'importante. Magari avesse continuato su quella strada! Margery aveva cercato di incoraggiarla a migliorare il suo aspetto, ma Susan guardava appena le cose che lei le portava a casa in regalo. Prima di lasciare la scuola aveva cominciato a rivoltarsi contro tutto quello che la madre avrebbe voluto per lei. Troppo tardi Margery aveva capito che doveva esserci qualcuno che gliela metteva contro, ricordandole tutti gli sbagli della madre. E questo era stato
confermato dal fatto che tanti — i vicini, la polizia — erano stati contentissimi quando Susan l'aveva lasciata. E chi sa che Barbara Waugh non fosse uguale a loro. Era sembrata generosa quando aveva bevuto con Margery, ma forse il vino doveva servire a non farle fare tante domande. Possibile che sapesse così poco delle persone che vivevano nella casa abbandonata, se poi ne sapeva abbastanza da andare a cercare lì la piccola Angela? Che aveva voluto dire affermando che Angela era stata uccisa? Forse aveva solo fatto finta di essere comprensiva, perché Margery non insistesse e lasciasse senza spiegazione queste cose. Quel giorno era andata alla biblioteca per guardare l'articolo su Barbara Waugh, per vedere se veramente diceva che Angela era stata uccisa, ma quando aveva detto che non sapeva la data di pubblicazione l'impiegato l'aveva trattata come se fosse un'analfabeta. Le avevano detto, senza nemmeno controllare, che l'articolo non c'era. Era contenta di avergli rubato la copia del libro che aveva notato nell'ufficio di Barbara — loro non gliel'avrebbero mai dato in prestito — ma non le era stato di nessun aiuto per capire meglio Barbara Waugh. Come poteva essere sicura di quella donna? Ma sarebbe poi venuta? La sigla di « Charlie's Angels » strepitava nell'appartamento a fianco. Nei giorni in cui poteva permettersi di noleggiare un televisore, guardava sempre le « Angels » con un certo disprezzo — erano così impeccabili, intrepide e irreali — ma dentro di sé avrebbe voluto essere capace di risolvere i problemi con la loro abilità. Certo loro non dovevano affrontare la vita reale, troppo squallida e piena di delusioni. E ora le ricordavano appunto quanto fosse piena di delusioni, perché la loro sigla significava che erano le otto e che Barbara non sarebbe venuta. E così la serata era buttata via. Se c'era qualcosa da scoprire nella casa accanto al cavalcavia, sarebbe rimasto nascosto mentre loro portavano Susan ancora più lontano. Margery era una porcheria di madre, non sapeva far nulla per salvare la sua bambina. Improvvisamente si riprese. Ce l'avevano quasi fatta, ma lei era l'unica persona che quelli non potevano mettere contro Margery Turner. Erano quasi riusciti a farla diventare quello che tutti volevano che fosse, ma lei non la si vinceva così facilmente, no, e proprio quando Susan era in pericolo. Il mercato era chiuso adesso, non doveva esserci nessuno a chiedersi che cosa ci facesse lei nella casa vuota. Che l'arrestassero pure, aveva la seconda lettera di Susan per spiegare perché era lì. Poteva farcela benissimo da sola, non c'era bisogno di nessuna Barbara Waugh.
E, perdio, Barbara Waugh l'avrebbe aiutata se fosse stato necessario. Poteva garantire per Margery; dopo tutto anche lei era entrata abusivamente in quella casa, se quello era entrare abusivamente. Forse aveva pensato che poteva liberarsi di Margery mentendole, ma da come si era comportata davanti alla segretaria si capiva che aveva qualcosa da nascondere; eventualmente Margery poteva giocare su quello. Sorridendosi allo specchio sopra il lavandino, si truccò gli occhi e uscì. A parte il rumore del traffico sul cavalcavia, le strade erano più silenziose che durante il giorno. Ora che la luce era più fioca, chiunque aveva la possibilità di essere se stesso e lei riuscì a guardare direttamente le case bianche. Poteva distinguere ogni tratto di calce sui fregi dai bordi acuti dei comignoli. Mentre passava accanto alle finestre aperte, le « Charlie's Angels » correvano di casa in casa. Portobello Road, ora che il mercato era stato tolto, sembrava molto più larga. Le vetrine erano silenziose come bacheche di musei, ma più polverose. Si arrestò sotto il ponte, in mezzo ai rifiuti, e fissò la casa con il cancello murato. Non doveva perdere il coraggio. Forse non c'era niente, là dentro, da trovare, ma avrebbe comunque dimostrato che era in grado di affrontare le cose da sola, che non aveva bisogno di appoggiarsi ad altri, visto che erano tutti così inaffidabili. Fissò la mente su questo pensiero e si costrinse a uscire dall'arcata del ponte. Il rumore le inchiodò all'improvviso i pensieri. Aveva già fatto un po' di strada prima che diventasse proprio doloroso, altrimenti sarebbe tornata indietro. Sentiva il rumore come se le nascesse nella testa e sgorgasse verso l'esterno. Scavalcò a fatica la poltrona che aveva spezzato la recinzione tra i giardini e avanzò barcollando fino al portico, per trovare rifugio dal rumore. Non le importava più che qualcuno la vedesse. Esitò quando si accorse che la porta d'ingresso era chiusa; ricordava benissimo che Barbara Waugh l'aveva lasciata spalancata. Ma si aprì facilmente, rivelando un corridoio che portava, lungo la scala, fino alla cucina. Attraverso la porta della cucina si vedeva una finestra, oltre la quale era ammucchiata della spazzatura. C'era una porta aperta su ciascuno dei due lati del corridoio. Il pavimento, il tappeto troppo stretto e troppo corto per le scale, le scale stesse, tutto era bianco di polvere. A ogni passo, il rumore l'accompagnava. Avvertiva la polvere scricchiolare sotto i piedi, ma non ne sentiva alcun suono. Guardando indietro, vide le sue impronte che la seguivano. Nella polvere davanti a lei non c'era alcuna traccia. Contenta di riuscire a ragionare nonostante il rumore, chiuse
la porta d'ingresso e si affrettò lungo il corridoio. La cucina era piena di porte chiuse: armadietti pensili, un frigorifero malconcio, una stufa scheggiata strappata dal muro con i fili pendenti. La stufa era vuota, mentre in fondo al frigorifero c'era un oggetto marcito non identificabile. Quando riuscì ad aprire gli armadietti, con le loro porte scorrevoli intasate dalla polvere, trovò diversi barattoli che parvero ricoperti di pelo grigio. Tornò in corridoio. Il rumore era insistente e continuo, una sostanza fluida in cui la casa annegava. Aveva lanciato un'occhiata nelle stanze ai lati del corridoio mentre andava in cucina — stanze lunghe quanto la casa, nude salvo che per la polvere — perciò ora si fermò, con il cuore che le batteva fino a farle male. Ma la massa grigia appena dentro la porta di destra era un mucchio di ragnatele e di polvere, o di imbottitura di una poltrona, non un animale. Scansandola, entrò nella stanza. Non c'era niente dove cercare. A parte un caminetto che un tempo era stato bianco, la stanza era assolutamente vuota. Una cenere nera e untuosa le volò incontro mentre si chinava sulla grata. Ritornò velocemente nel corridoio, senza curarsi dello svolazzare della fitta massa di ragnatele. Anche la stanza di fronte era vuota. Il telaio della finestra che dava sul retro giaceva rotto sul pavimento. Se tutta la casa era così, che senso aveva cercare? Ma non poteva saperlo finché non avesse guardato. Perché doveva aver paura di andare al piano di sopra? Che importava trovarsi più o meno vicini alla porta d'ingresso, visto che la casa era così evidentemente disabitata? Eppure, salendo le scale, aveva la sensazione di qualcuno assolutamente immobile, non poteva dire dove, che la guardava. Il genere di sensazione che può avvertire chiunque in una casa deserta. L'odore della polvere si raccoglieva nelle narici, l'aria appariva grigia, buia e agitata. Sopra le scale una tela di ragno gonfia di polvere scura si mosse quasi impercettibilmente. Tutte le porte del primo piano erano aperte. La stanza da bagno conteneva un gabinetto senz'acqua in cui stava strisciando un ragno; una macchia oblunga sul pavimento mostrava il punto dove un tempo era stata la vasca. Le due stanze granai erano completamente vuote. Ragnatele lacere pendevano dal soffitto, ricadendo mollemente lungo le pareti. Fu contenta di non dover rimanere a lungo nelle stanze: non vedere le scale la metteva in agitazione. Ma le uniche impronte che andavano verso di lei erano le sue, e sulle scale davanti a lei non ce n'erano. Cominciava a
sentirsi irritata: era possibile che Barbara l'avesse imbrogliata per farla andare da sola, per farle capire di non seccarla più? Stava solo cercando una scusa per non andare al piano di sopra; era il nervosismo che la rendeva irritabile. Fece la faccia cattiva, al nulla, come se questo potesse spaventare e mandar via il suo nervosismo, e salì in fretta la rampa. Quelle scale erano più buie del resto della casa. Pareva che il caldo e la polvere si fossero accumulati tutti lassù, come una oscura opprimente presenza sotto il tetto. Salendo respirava a brevi boccate, ma sentiva il naso intasato. Improvvisamente si ricordò di una cosa che aveva visto dall'esterno: la finestra di sinistra dell'ultimo piano era murata. Non c'era da stupirsi che fosse così buio. Desiderò non dover entrare in quella stanza. Ma invece doveva entrarci, anche se dalla porta poteva vedere che lì dentro era ancora più buio del previsto. La finestra sul davanti era murata, ma perché non veniva nessuna luce dal retro? Lanciò un'occhiata, a disagio, alla rampa semibuia — nient'altro che le sue impronte — poi si fece forza ed entrò. Oltre la porta c'era un passaggio non più largo di una cabina telefonica. Sulle prime pensò che quello fosse il motivo del buio, poi riuscì a distinguere la stanza al di là di una porta aperta in fondo al breve passaggio. La stanza era ancora più buia. Si spinse avanti e si rese conto del perché. Non solo la finestra sul davanti, ma anche quella sul retro era stata murata. Stava muovendo la mano a tastoni nel buio in cerca di un interruttore — se quella stronza della Waugh non le avesse fatto il bidone ora non avrebbe avuto tanta paura — quando la raggiunse quell'odore. Era troppo lieve per poterlo identificare, ma era assolutamente tremendo. Per un attimo pensò di essere in trappola, che la porta che dava sul pianerottolo si sarebbe chiusa, bloccandola lì dentro nel buio e nel fetore. Nessuno avrebbe sentito le sue grida. Allora si precipitò fuori sul pianerottolo e sbatté la porta così forte che il tonfo risuonò al di sopra dell'onnipresente rumore, per tutta la casa. Susan aveva vissuto in quella casa. L'avvilimento di Margery era così intenso, anche vago, che temette di sentirsi male. Fu l'avvilimento che la costrinse a entrare nell'ultima stanza vuota, anche se poteva vedere che non c'era niente da trovare. D'impulso gettò un'occhiata dalla finestra posteriore. Dietro la casa c'era una vasca da bagno semisepolta sotto un mucchio di spazzatura che pareva provenire da tutte le case. Se c'era qualcosa da trovare, forse era in quel mucchio. Si stava affrettando verso il pianerottolo — si era resa conto che se la
porta della camera murata si fosse riaperta lei non l'avrebbe sentita, anche se non sapeva bene perché questo dovesse renderla nervosa — quando un'asse del pavimento si smosse sotto i suoi piedi. Il pavimento rovinato stava per cedere sotto il suo peso? Fu sul punto di cadere e fu così che notò il pezzo di carta che spuntava dalla tavola fuori posto. L'eccitazione svanì quando vide di che si trattava: una pagina accartocciata strappata da un libro, come le pagine che aveva visto sparse per il giardino davanti al portico. Ugualmente tirò fuori la pagina da sotto la tavola e la lisciò sul pavimento. Era di un libro intitolato I filosofi della camera da letto e descriveva le torture di una madre. Sul retro c'era un'illustrazione, ma se era disgustosa come il testo, Margery non voleva guardarla. Eppure, non faceva parte della vita che aveva condotto Susan? Riluttante, girò la pagina. Il disegno non illustrava il testo. Era un ritratto fatto da Susan. Lesse quello che Susan aveva scarabocchiato sotto, poi guardò lo schizzo del viso. Era più di quanto avesse sperato. Ora Barbara Waugh non poteva più rifiutare di aiutarla. Improvvisamente ebbe paura. Senza motivo, ebbe la certezza che non doveva portare via il disegno dalla casa, che già si era messa in pericolo trovandolo. Tutte le paure indistinte che aveva avvertito da quando era entrata nella casa la stavano aspettando sul pianerottolo. Vi si precipitò prima di essere troppo terrorizzata per farlo. La porta della stanza murata era ancora chiusa. Corse di sotto, spaventata dal rumore dei suoi stessi passi; non poteva sentire altro per il frastuono del traffico sul cavalcavia, ma se avesse potuto sentire? Pareva che attorno a lei incombesse qualcosa di più che il calore e la polvere. All'altro pianerottolo si bloccò, con gli occhi sbarrati. Le sue impronte nella polvere scendevano al pianterreno è pareva facile ripercorrerle, ma erano confuse, come se ci avessero trascinato qualcosa sopra. Forse la corrente le aveva semi cancellate, o forse, pensò disperatamente, erano già prima così. Ma il tempo stringeva. Ci avrebbe pensato una volta fuori dalla casa. Scese ancora incespicando fino al ballatoio successivo, afferrandosi alla ringhiera — una scheggia le si piantò nel palmo — ma lì dovette fermarsi. I polmoni le scoppiavano; la polvere pareva non aver lasciato spazio per l'aria. Solo un'altra rampa e avrebbe visto la porta d'ingresso sotto di lei. Ma da lì poteva già vedere il punto dove s'era raccolta la massa di ragnatele, e la massa di ragnatele non c'era più.
Non sapeva cosa l'avesse fatta voltare, stringendo tra le dita la pagina strappata: certamente non un rumore. Chiaramente un colpo di vento poteva aver spostato la massa grigia della porta e forse un colpo di vento stava facendo arrivare quella massa, o un'altra come quella, verso di lei, saltellando giù per le scale. Nella stanza a pianterreno le era venuto in mente un animale, ma questo appariva un essere informe, un feto coperto di ragnatele e polvere, o di ragnatele e polvere composto. Era così veloce che si era arrampicato lungo il suo corpo ed era arrivato quasi alla faccia prima che si mettesse a urlare. Capitolo 12 L'auto di Barbara si ingolfò sulla rampa di uscita del parcheggio sotto il Barbican. La usava così raramente in città che aveva avuto diverse settimane per guastarsi. Non avrebbe voluto usarla neppure quel giorno, ma diversamente sarebbe arrivata in ritardo all'appuntamento con Margery. E ora non poteva neppure lasciarla lì, perché aveva bloccato la rampa. Quando riuscì a trovare qualcuno che le desse una mano a spostarla aveva perso dieci minuti, e quando finalmente portarono la macchina in un posto tra le auto parcheggiate, era tutta sudata e ansante. Si pulì le mani annerite sui jeans. Meno male che si era vestita in modo da poter esplorare comodamente la casa polverosa. Fece di corsa la strada dal Barbican alla stazione. Aveva detto a Margery verso le sette e ora erano quasi le otto meno venti. Se solo Margery fosse stata sull'elenco avrebbe disdetto l'appuntamento, ma doveva vederla per poterle fare le domande a cui il giorno prima non aveva pensato. Nel buio oltre la banchina si susseguivano i treni della linea circolare. L'avrebbero portata a Notting Hill, ma non a Ladbroke Grove; doveva prenderne uno e fare il resto del percorso a piedi? Era certa che avrebbe fatto più in fretta a prendere la metropolitana, anche se questo voleva dire rimanere sulla banchina deserta a rimuginare sulla notizia che aveva avuto su Paul Gregory. Alle otto meno un quarto un treno la portò via. Le stazioni si avvicendavano stancamente. A metà strada due americani con dei berretti da caccia scesero a Baker Street, e mancavano ancora cinque stazioni. Il libro della Newton-Brown, almeno, era anche meglio di quanto avesse sperato e lo aveva proposto immediatamente. Alle otto e dieci correva su per le scale mobili a Ladbroke Grove, anche
se dentro di sé era certa che correre era assurdo: che senso poteva avere mai ispezionare la casa deserta? Aveva già avuto abbastanza complicazioni, quel giorno: da un amico editore aveva saputo che Paul Gregory era stato visto a pranzo con Howard Eastwood, un agente concorrente. Era per questo che Paul faceva storie sui contratti e che non si faceva mai trovare al telefono. Comunque, il problema immediato era Margery. Barbara si affrettò lungo le strade biancastre. La polvere gessosa le si posava sul viso, le case risuonavano come radio. Arrivò alla casa di Margery — numero otto, terzo piano — e suonò il campanello. Vedendo che non arrivava risposta, si sentì momentaneamente sollevata; ma perché? Doveva incontrare Margery, sapere come mettersi in contatto con Gerry Martin. Louise aveva chiamato il Telegraph Information Service, ma non avevano notizie di una giornalista con quel nome in nessun giornale. Forse ormai la giornalista aveva rintracciato le persone di quella casa — quelli che forse avevano ucciso Angela. Dopo alcuni tentativi al campanello si diresse verso il cavalcavia. Era possibilissimo che Margery la stesse aspettando alla casa vuota. Ma quando raggiunse il ponte, della donna non c'era traccia. Era possibile che fosse dentro la casa? In tutti i casi, visto che ormai ci si trovava, poteva anche entrare, farla finita. Stava cercando di resistere all'ondata di rumore, quando dalla direzione di Ladbroke Grove comparve un'auto della polizia. Si girò in fretta e fece finta di allontanarsi sotto il cavalcavia, aspettando che la macchina scomparisse. Finché non la vedevano entrare nella casa, di che cosa si preoccupava? Il suo stesso atteggiamento furtivo la irritò. Attraversò, dirigendosi verso la poltrona rotta. A parte lo scorrere del traffico sopra il ponte non c'era alcun movimento in vista. Si fece strada attraverso l'erba secca e le pagine strappate di un libro e salì gli scalini del portone. Spinse la porta ed era quasi in casa quando vide quello che c'era all'interno. Margery era stesa a metà della prima rampa di scale e la sua testa era ripiegata troppo bruscamente sul gradino. La gonna era tirata su, lasciando scoperto un pezzetto di coscia chiara sopra le calze nere. La mano destra era incastrata sotto il corpo. Ora non sorrideva, anche se pareva così: le sue labbra erano tirate sopra i denti. Barbara cercò di riflettere mentre correva verso la siepe: qualcuno degli apparecchi di allarme per la polizia funzionava, o avrebbe dovuto chiedere
di usare un telefono? Quando vide l'auto della polizia si mise ad agitare freneticamente le braccia cercando di issarsi sulla poltrona sconnessa. La macchina si accostò prima che potesse chiedersi quali spiegazioni poteva dare. Il poliziotto era giovane. Come molti poliziotti giovani, portava i baffi per sembrare più anziano. Scavalcò il cancello murato con un volteggio, e inciampò quasi. Improvvisamente la sua faccia si trasformò in una maschera che le ordinava di prenderlo sul serio. « C'è una donna in questa casa », gli gridò nell'orecchio. « Credo che sia morta. Credo che abbia il collo spezzato. » Lui l'aspettò perché lo accompagnasse nella casa. Il cicalino che teneva in tasca gracidava. Non appena vide Margery tirò fuori la radio e chiamò un'ambulanza. Barbara distolse lo sguardo dalla scala; la polvere attorno alla bocca aperta di Margery le faceva venire in mente uno sciame di mosche. Il poliziotto controllò il pavimento, poi uscì a dare un'occhiata alle case adiacenti. « Lei e la signora eravate insieme? » chiese, accostando la bocca all'orecchio di Barbara. « Dovevamo incontrarci qui. » Era così vicino che sentiva l'odore della sua uniforme. « Ero in ritardo e l'ho trovata così. » « Quando arriva l'ambulanza vorrei che venisse alla centrale a rispondere a qualche domanda. » Si girò come a farle capire che non aveva scelta e andò a raccogliere il contenuto della borsa di Margery, sparso ai piedi della scala. Portò la borsa con sé e stette accanto a Barbara nel portico. Il suo silenzio era come una minaccia piena di domande. E lei che cosa doveva dire alla polizia? Quanto convincente sarebbe stata tutta la faccenda? Quando arrivò l'ambulanza il poliziotto indicò la casa agli uomini e afferrò la borsa come se fosse un arrestato che teneva per la collottola. Barbara indugiò — forse Margery non era morta, aveva già sentito di persone rimaste vive anche con il collo spezzato — mentre gli uomini la caricavano sulla barella. Uno di loro lanciò un'occhiata a Barbara e scosse la testa, e lei fece per seguire il giovane agente quando il pezzo di carta scese svolazzando dalle scale. Era una pagina strappata, rimasta sotto il corpo di Margery. Forse la teneva in mano quando era caduta? Mentre Barbara si muoveva veloce verso le scale la pagina si depose quasi ai suoi piedi. Pur essendo spiegazzata, riuscì a vedere il disegno. Era uno schizzo che sembrava essere proprio un suo ritratto.
Immediatamente riconobbe la mano della figlia di Margery, ma perché aveva raffigurato Barbara così giovane? Poi riuscì a mettere a fuoco l'immagine e allora capì che non era il suo viso, ma un viso che le assomigliava. Era il ritratto di un'adolescente che le assomigliava. Probabilmente gridò — nessuno se ne sarebbe accorto, e tanto meno lei — quando si rese conto di chi si trattava. Si chinò così in fretta che la vista le si annebbiò — c'era scritto qualcosa sotto il disegno, ma ora non aveva tempo di decifrarlo — poi di colpo la pagina le sfuggì, svolazzando in una delle camere vuote. Si sentì come se le si fosse chiusa una persiana sugli occhi, ma corse come una pazza dietro il foglio, abbastanza in fretta da vederlo infilarsi nel varco di una finestra in pezzi. Raggiunse la finestra appena in tempo per vedere la pagina ricadere sopra un mucchio di spazzatura che bruciava. La pagina prese fuoco immediatamente. In pochi istanti fu ridotta in nera cenere, svolazzante nel vento. Quando si girò, tremante e come svuotata, completamente annichilita, il poliziotto la stava aspettando. « È pronta? » chiese. Ma lei lo costrinse ad aspettare, mentre esaminava ognuna delle pagine sparse tra l'erba davanti al portico. Capitolo 13 « Temo proprio che lei sia rimasta vittima di un brutto scherzo », disse l'ispettore. Le pareti del suo ufficio erano di un colore che ricordava la trippa, innaturalmente vivide sotto i tubi fluorescenti. Chiazze di luce si raccoglievano sulla scrivania, sulla plastica delle poltrone, sulla coppa della sottile lampada da tavolo; una macchia galleggiava come latte sulla superficie della tazza di tè, intatta, di Barbara. Tutto sembrava piatto come una pagina, sulla quale lei poteva vedere il disegno del viso di Angela. Doveva rimanere calma, per quanto agitata si sentisse, altrimenti avrebbe potuto dire troppo. « No, non credo. Sono sicura che questa setta esiste. » Cominciava a sentirsi confusa: Margery aveva detto che si trattava di una setta? Aveva dovuto raccontare che secondo Margery Susan era stata coinvolta nel culto, e anche così le sembrava di tradire la promessa di segretezza che aveva fatto alla voce al telefono. Ora era ansiosa di mantenerla, quella promessa, ma a quanto di tutta quella faccenda lei stessa credeva? « Non capisco perché pensa che si tratti di uno scherzo. »
« Be', per esempio, se la morta era così preoccupata che sua figlia si fosse aggregata a questa setta, perché non è venuta da noi, invece che da lei? » « Pensavo che lo avesse fatto. » Margery non le aveva detto che non avevano voluto aiutarla perché Susan aveva più di diciassette anni? « In effetti mi pare proprio che mi abbia detto così. » « Deve aver capito male, Mrs. Waugh. Forse intendeva che si è rivolta a noi quando Susan per la prima volta se n'è andata di casa. » L'ispettore era gentile con lei — la sua faccia placida e tonda con quei baffi macchiati di pipa la facevano pensare a un vecchio zio affettuoso — ma sentiva che stava preparando qualcosa. « Torniamo allo scherzo. Mi diceva che la Turner si è messa in contatto con lei e l'ha convinta che sua figlia Angela era coinvolta in qualche specie di setta. Non riesco a capire come avrebbe potuto saperlo, ma per il momento ammettiamolo », disse, con sollievo di Barbara. « Stasera lei doveva incontrarla a casa sua ma, visto che non c'era, è andata alla casa che le aveva descritto. Non le è parso curioso che vivesse così vicino a quella casa? » « No, no, per niente. Si era trasferita lì nella speranza di trovare la figlia. » « Questa è la spiegazione che ha dato a lei. » Improvvisamente l'ispettore era così gentile che lei si fece più nervosa. « Sì, e poi non le piaceva la gente, dove abitava prima. Era stata contenta di cambiare casa. » « Sono sicuro che è vero, ma il perché glielo ha detto? » « Non me lo ha detto esplicitamente, ma io ho capito che non si fidava di loro. » « Ho paura che sia il contrario. Era contenta di andare ad abitare in un posto dove non la conoscevano. Vede, quella donna aveva scontato una condanna in penitenziario. » Non aveva importanza quello che Margery era stata, non poteva modificare la realtà del disegno di Angela. Eppure, la stanza, così vivida, cominciò ad appiattirsi, a perdere prospettiva. « Cosa aveva fatto? » « Era una ladra. Un tempo era stata anche curata per questo, ma a quanto pare non era servito a molto. Posso pensare che quando ci venne a dire che la figlia era andata via di casa noi non fossimo proprio ansiosi di riunirle, date le circostanze. Deve essere stata un'ottima cosa che la figlia si sia fatta una vita per conto suo, non crede? Mi scusi », disse, sentendo che qualcuno bussava alla porta.
Mentre lui e un altro poliziotto mormoravano fuori dall'ufficio, una scena si ripeteva incessante davanti agli occhi di Barbara: Margery che inciampava su per le scale del ristorante, si afferrava alla giacca di qualcuno, si allontanava in tutta fretta. Che cosa aveva fatto la mano sinistra dopo aver preso la giacca? Si era aggrappata alla ringhiera per aiutarla a salire o era corsa alla borsetta? Ma c'era qualcosa di più importante che Barbara doveva ricordare. Prima di poterlo fare, l'ispettore tornò alla sua scrivania. « La Turner le ha mai chiesto soldi? » « No, assolutamente mai », rispose lei, e poi le vennero in mente le ultime parole che aveva sentito da Margery: « Non potrei pagare molto per i viaggi ». Che altro sarebbe venuto fuori su di lei, ripensandoci? « Almeno », aggiunse a malincuore, « non esplicitamente. » « Bene, vede che ci siamo arrivati. In realtà la condanna la ebbe per essersi procurata del denaro con delle storie inventate. Dio solo sa che altro può aver organizzato. In questo momento stiamo controllando il contenuto del suo appartamento. » Improvvisamente Barbara capì che cosa stava cercando di ricordare. « E anche la sua borsa? » « Sì, naturalmente. Perché me lo chiede? » « Lei pensa che si era inventata quella setta per estorcermi del denaro, ma io posso dimostrarle che ha torto. Tra le sue cose troverete una lettera di sua figlia che prova che quella cosa esiste. » Lui parve voler obiettare qualcosa, poi ci ripensò. « Tutte le sue cose sono qui. Me la mostri lei. » La condusse in un locale sotterraneo. Non c'erano finestre: la luce al neon congelava le pareti. Una giovane agente, con il viso rigido e senza trucco, stava sistemando degli oggetti su un tavolo. « Mi faccia il piacere di tenerli in ordine », disse a Barbara. C'erano i libri della biblioteca, un rotolo di banconote che parevano venire da un portafogli, un certo numero di abiti che avevano l'aria di non essere stati mai indossati, diversi gioielli. La vista di tutto ciò, esposto sotto la luce impietosa, fece sentire Barbara a disagio: c'era nulla lì che appartenesse a Margery, una traccia qualsiasi di lei? Sì, c'era la fotografia di una ragazza con un libro, e c'erano i libri di scuola con « Susan Turner » scritto sulla copertina con una grafia che si faceva sempre più sicura fino a essere esattamente uguale a quella della lettera che aveva visto Barbara. Ma la lettera non c'era. Scosse i vestiti e i libri della biblioteca, mentre la
poliziotta si mostrava sempre più contrariata e la luce pareva farsi sempre più intensa. « Dev'essere rimasta nella casa vicino al cavalcavia. » « Ma lei lì ha già cercato, Mrs. Waugh. L'agente ha detto che lei ha controllato tutti i fogli in giardino. Era la lettera quello che cercava, no? » Poteva raccontargli dello schizzo? Sembrava la stessa cosa che rompere il giuramento. Aveva assoluto bisogno di dirlo a qualcuno, a qualcuno che sapesse cosa fare, e avrebbe ceduto alla tentazione se lui non avesse aggiunto: « Secondo me lei deve guardare i fatti in faccia, Mrs. Waugh. La Turner ha letto di lei sul giornale e ha deciso di vedere quanto poteva spillarle ». Le ci volle un momento per capire che era stata imbrogliata, ma non da Margery. « Lei dal primo momento sapeva chi sono. Lei pensa che mia figlia sia morta nove anni fa, e così nulla di quello che le ho detto può essere vero. » « Sono sicuro che nessuno potrebbe dimenticare che cosa successe a sua figlia, Mrs. Waugh. Stia tranquilla, il caso non è chiuso. Un giorno forse riusciremo ad assicurare i colpevoli alla giustizia. Ma lei deve rendersi conto », disse, accompagnandola via dalla poliziotta che riordinava con aria sprezzante gli abiti di Margery, « che questa è l'unica speranza che abbiamo ora. Non deve permettere che gente come la Turner le dia delle false speranze. Quelli del suo genere prosperano sulle sventure altrui. » « No, lei non era così. Non è per questo che è venuta da me. Posso ammettere che fosse una ladra, ma era sinceramente preoccupata per sua figlia. » Ora era decisa a difenderla, ora che Margery non poteva farlo personalmente. « Senta, se fosse stato tutto un trucco, perché sarebbe andata in quella casa? Di cosa mi avrebbe convinto? Stava sicuramente cercando qualcosa. » Lui chiuse dietro di lei la porta dell'ufficio. « Mrs. Waugh, adesso mi dirà che sono stati quelli della setta a spingerla giù per le scale per chiuderle la bocca. » Lei non aveva pensato niente del genere, ma il suggerimento la mise a disagio. « No, sono sicura che ha perso l'equilibrio ed è precipitata. Ma potrebbe essere successo perché era agitata per qualcosa che aveva trovato. » Sentì un brivido, ricordando quello che aveva trovato. A un tratto lui si fece meno gentile: era un poliziotto, e ai poliziotti non piace aver torto; sembrava seccato dal suo tentativo di giocare alla detective. « Tutte le prove suggeriscono che la Turner si sia inventata questa cosiddetta setta e abbia scritto anche la lettera. Se la lettera fosse stata con-
vincente come lei vuole farmi credere, avrebbe potuto portarla a noi. » Prese il silenzio di Barbara per consenso e tornò gentile. « Non ha bevuto il suo tè. Ne vuole una tazza nuova? » « Se non ha altre domande vorrei andare a casa. » Aveva bisogno di un po' di tempo per riflettere indisturbata, ma improvvisamente quell'idea l'avvilì: sarebbe rimasta sola con l'immagine della schizzo di Angela. « Certamente. » Mentre le apriva la porta aggiunse: « Lo so, è difficile credere che qualcuno possa fare uno scherzo così crudele, ma non c'è proprio altro da credere, non le pare? Lei sa che sua figlia è morta, ha avuto il coraggio di affrontarlo. Molti non ce l'avrebbero fatta a ricostruirsi una vita come ha fatto lei ». Fuori, l'aspettava il frastuono del traffico. Un'auto sportiva tutta sporca le passò davanti vomitando fumo del colore del cielo. Nella semioscurità le case bianche di Ladbroke Grove tremolavano. C'erano tante ombre dove qualcuno poteva nascondersi per spiare, tanti giardini resi bui dai portici sporgenti. Si affrettò verso Holland Park Avenue, sul tappeto di luci davanti ai negozi, e poi giù nella metropolitana. I corridoi piastrellati erano deserti. Le scale mobili sfogliavano i loro gradini e li mandavano a strisciare sottoterra, e poi di nuovo in alto. Mentre la portavano verso il basso, le salivano incontro le facce con gli occhi sporgenti scarabocchiate sui muri. Non c'era nessuno sulla banchina, nessuno che la guardasse tranne Roddy McDowall schiacciato come una falena contro la parete, e non le importava anche se c'era qualcuno: lei la sua promessa l'aveva mantenuta. Al Barbican i marciapiedi erano bui e minacciosi come strade deserte e sconosciute; ogni pilastro poteva nascondere un intero gruppo di persone. I lampioni si riflettevano nel lago, sotto la chiesa che oscillava nel riflesso. I suoi pensieri le parlavano più forte del rumore del treno: se Angela era ancora viva — e sembrava non ci fosse altro modo di interpretare il disegno — dov'era adesso? E con chi? Erano loro quelli che Gerry Martin cercava di rintracciare? Anche quando si chiuse in casa, Barbara si sentì osservata. Aveva la testa vuota, i nervi scoperti, c'era una sola ragione per cui non si sentiva completamente impotente: doveva trovare Gerry Martin. Ma così facendo, non avrebbe infranto il giuramento? D'un tratto la tensione aumentò, e con essa il malessere. Lo scetticismo della polizia le aveva permesso di mantenere il suo segreto, ma se qualcuno di quelli l'aveva vista andare dalla casa vuota alla stazione di polizia poteva essere la stessa cosa che aver rotto il
giuramento. Capitolo 14 Il ricevitore del telefono era solido e reale nella sua mano, il segnale arrivava sonoro al suo orecchio, ma non appena le cadde l'occhio sulla fotografia di Arthur, si ritrovò sulla scala mobile. La penombra si attaccava a tutto come fuliggine; poteva sentirsela addosso. Forse si era infilata fin dentro i meccanismi, forse era per questo che le scale continuavano a sobbalzare e a scattare, e sentiva che non sarebbe mai riuscita a raggiungere la fine del ripido tunnel. Il tunnel era una massa di buio alta sopra di lei, oppure era solo un punto più scuro, reso più profondo dalla distanza? Gli occhi dei manifesti incorniciati la fissavano dalle pareti. Ogni volta che tentava di salire, le scale riprendevano a scivolare all'indietro. Arthur veniva giù per la scala mobile in discesa e lei ebbe l'impressione che volesse dirle qualcosa. Non poteva, era solo una sua fotografia, incapace di parlare e di muoversi. Lo vide svanire nel buio dove passavano i treni. Quando guardò avanti, era quasi arrivata in cima, e lì c'era Angela. Dietro di lei non c'era altro che l'oscurità, un'oscurità che pareva muoversi, ma l'aveva quasi raggiunta. Fu solo quando Barbara cercò di correrle incontro che lei prese a indietreggiare. Le scale scendevano troppo in fretta perché Barbara riuscisse a salire, e qualcosa stava succedendo al viso di Angela. Ma non era Angela, era un suo ritratto, e lei si sentì riprecipitare nel buio... Barbara tornò alla realtà avvertendo un profondo malessere. Aveva dimenticato per quale motivo la faccia di Angela l'aveva fatta sentire così disperata, ma la sensazione era ancora così viva che quando una voce disse: « Pronto », le ci volle un momento per ricordarsi cosa stava facendo. « Pronto, la biblioteca? » Ora ricordava, ed era urgente. « Può dirmi quali giornali comperate? » Annotò i nomi mentre la voce li elencava: Times, Telegraph, Guardian... Doveva essere sicura. « È giusta la mia informazione che una certa Margery Turner aveva l'abitudine di venire a leggere i vostri giornali? » « Sì, è giusta. » La voce, di un flebile tono tenorile, si era indurita. « E questo è tutto quello che faceva. Posso chiedere con chi sto parlando? » Barbara si sentì in trappola. « Solo un'amica », rispose, e riattaccò. L'altro telefono squillò immediatamente. La bocca le si fece amara e secca, il cuore le saltò come in un singhiozzo. C'era una sola voce che a-
vrebbe voluto sentire, invece era Louise. « Paul Gregory è qui. » « Lo ricevo tra qualche minuto. Puoi vedere se una giornalista che si chiama Gerry Martin lavora per uno di questi giornali? » Quando le ebbe dato l'elenco si sentì un po' meno impotente. « Va bene, adesso fallo entrare », disse. Paul portava una camicia di seta blu con una cravatta in tinta e un paio di costosi jeans stinti. « Allora, Paul », esordì lei. « Allora », ribatté lui, venendo al punto con una disinvoltura che gli era nuova. « Mi chiedevo come la prenderesti se qualcun altro si occupasse dei miei diritti in America. » « Qualcuno tipo Howard Eastwood. » « An, lo sai già che mi ha contattato? » Doveva averlo preso alla sprovvista, ma lui non lo mostrò. Il successo gli aveva dato una sicurezza che prima non aveva. « Editori e agenti fanno parte della stessa comunità, Paul. Le notizie viaggiano. Ovviamente sta esclusivamente a te decidere chi deve rappresentarti. » Per la prima volta quel giorno si sentì sicura di sé, in grado di dimenticare le sue preoccupazioni e di affrontare il momento. « Sto riscuotendo un bel po' di interesse in America per Torrenti. Vuoi che ritiri i libri così che possa ripresentarli Eastwood? » « Puoi farlo? Voglio dire, questo potrebbe indebolire l'interesse degli americani? » « Be', sì, ho paura di sì. » « Oh, allora non devi farlo. » La sua sicurezza cominciava a vacillare. « Ma non potresti, non so, come... » « Passare la contrattazione a Eastwood? No, Paul, questo non lo faccio. A parte il fatto che è stata una scorrettezza enorme da parte sua invitarti a pranzo, non ho nessuna stima per lui. Sanno tutti che ha l'abitudine di vendere diritti che non è autorizzato a trattare. Francamente, se decidi di far gestire a lui i tuoi diritti negli Stati Uniti, non mi sentirò a mio agio nel gestire quelli inglesi. » « Oh, ma non mi sono impegnato assolutamente in niente. » Il suo viso cercava di rimanere calmo, ma si strofinava la fronte, che ora era coperta di un velo di sudore. « Per quanto mi riguarda si trattava solo di un semplice pranzo. » « Non eri tenuto a saperlo. » Mentre si risistemava sulla poltrona, gli occhi di Arthur le mandarono uno sguardo. « Ma credimi pure, un agente che tenta di rubare il cliente di un collega non merita nessuna fiducia. »
Paul era chiaramente sollevato che gliel'avesse lasciata passare così liscia. « Comunque », disse, « volevo parlarti dell'idea che ho per il soggetto del prossimo romanzo. » Sembrava interessante — un uomo che dona il suo sperma per la fecondazione artificiale e poi anni dopo viene a sapere un terribile segreto sul suo patrimonio genetico e deve rintracciare il figlio e decidere cosa fare — ma lei si sentiva depressa e non vedeva l'ora di avere notizie da Louise. Poco dopo Louise comparve, con il caffè e la brutta notizia: « Non riesco a rintracciare Gerry Martin ». « Gerry Martin? Dove l'ho sentito questo nome? » Paul aggrottò la fronte e sorseggiò lentamente il caffè, come aspettandosi che questo gli stimolasse la memoria. Alla fine si strinse nelle spalle. « Forse ho in mente qualcun altro. » Barbara ebbe il sospetto che di Gerry Martin non ne avesse mai sentito parlare, ma che volesse semplicemente mostrarsi disposto a dare una mano per cancellare la storia di Eastwood. « Puoi vedere se ha scritto qualche libro? » chiese a Louise, e riuscì a nascondere la propria ansia. Congedò Paul appena possibile e si dedicò alla correzione di alcuni contratti. Arthur la fissava; quegli occhi fermi erano pieni di una domanda a cui lei non poteva dare risposta e alla fine girò la fotografia da un'altra parte. Doveva telefonare delle modifiche contrattuali a Cape, a Gollancz e alla New English Library, e continuava a pensare che questo avrebbe occupato una linea. Ma l'altro telefono era libero; Angela poteva raggiungerla. Perché aveva bisogno dell'assicurazione di una telefonata? Non c'era ragione di temere che qualcuno stesse a guardare la casa vuota accanto al cavalcavia, che qualcuno l'avesse vista con il poliziotto lì vicino. Forse aveva anche meno da preoccuparsi, forse era stata Margery a fare la telefonata, aveva architettato la lettera e poi era andata nella casa per metterci il ritratto; Barbara aveva solo la sua parola per pensare che non sapesse disegnare. La cosa peggiore era che non poteva essere sicura di niente. Louise entrò a ricordarle che aveva un pranzo con un redattore di Fontana. « Mi dispiace », aggiunse. « A quanto sembra Gerry Martin non ha scritto alcun libro. Che cosa sai di lei? Magari c'è qualche altro modo per rintracciarla. » « Non ne so niente, Louise. Lascia perdere, non importa. » Forse Margery aveva inventato anche Gerry Martin. Desiderò non aver organizzato l'incontro con il redattore proprio in quel ristorante. Chiese al cameriere se erano stati rubati dei soldi, quel lunedì, e
lui parve guardarla quasi come una complice di Margery, anche quando lei gli disse a quale stazione di polizia rivolgersi. Il redattore di Fontana tentò di metterla a suo agio e fece delle offerte per due promettenti opere prime che lei aveva proposto, ma la sua mente continuò ad andare per conto suo per tutto il pranzo; dove altro poteva cercare Gerry Martin? A chi poteva chiedere? Non le veniva in mente nessuno, ma quando lasciò il redattore una cosa le era chiara: doveva raccontare a qualcuno che cosa le stava capitando. Appena arrivata in ufficio telefonò a Ted. « Posso venirti a trovare oggi? Solo una visita amichevole, o per meglio dire un grido di aiuto. » « Sono contento di vederti in qualsiasi momento. Vieni adesso. » Sembrava che avesse voglia di uno scambio di confidenze. « Stasera devo tenere una conferenza sull'editoria alla biblioteca di zona. » « Arrivo tra un'oretta. Prepara da bere. » Sfogliò in fretta la corrispondenza e trovò la conferma alla prenotazione dell'albergo di New York. Ma come faceva a lasciare Londra anche per pochi giorni se c'era anche la più remota possibilità che il ritratto di Angela non fosse un imbroglio? Eppure a New York doveva assolutamente andarci per fare l'asta del libro di Gregory. Aveva quasi finito di sbrigare la corrispondenza quando chiamò Louise. « C'è Paul Gregory al telefono. » Ne aveva avuto abbastanza di lui per quel giorno. « Veditela tu, Louise, digli che non ci sono. » Buttò giù l'ultima delle minute e le portò a Louise perché le scrivesse a macchina. « Devo andare alla Melwood-Nuttall per un paio d'ore. Chiamami se hai bisogno di me. » Era sulla porta quando Louise disse.: « An, Paul Gregory... » « Cosa vuole? » Barbara non avrebbe voluto parlare così bruscamente, ma l'impegno del lavoro le aveva teso i nervi ancora di più. « Non può aspettare? » aggiunse in tono più gentile. « Penso di sì. Solo che si era ricordato di Gerry Martin. » La stanza cominciò a girare intorno a Barbara. « Ricordato cosa? » « Dove gli era capitato di sentire il suo nome. A quanto pare scrive per un giornale underground, l'Other News. » « Buon Dio. » E chiaro che la biblioteca non comperava quella rivista: dovevano essere delle copie omaggio. « Digli che sono dovuta uscire di nuovo, ma che gli sono molto grata. »
Era così eccitata per essere uscita da quella sensazione di impotenza che era arrivata quasi alla Melwood-Nuttall — Piccadilly, Shaftesbury Avenue, Charing Cross Road erano un unico miscuglio di sole e di facce — prima che le venisse in mente di cercare l'Other News. Ne trovò diversi numeri da Words & Music: a quanto pareva la rivista faceva il possibile per essere un mensile. Un titolo su una delle copertine rosse e bianche la portò a un servizio a quattro pagine all'interno: La trappola di Dio, di Gerry Martin. Si appoggiò al palo del semaforo vicino al passaggio pedonale e diede una scorsa all'articolo, che parlava di diversi gruppi religiosi che pretendevano dai loro membri la fede totale e tutti i soldi. Fin dalle prime frasi capì che la ricerca per il servizio era documentatissima. Pur sentendosi in colpa, sapeva cosa doveva fare, adesso. Sarebbe stata solo una perdita di tempo cercare di spiegare tutto a Ted, quando Gerry Martin, chiunque fosse, era già al corrente di quelle sette e forse sapeva cose che avrebbe dovuto sapere anche Barbara. Si diresse in fretta verso il suo ufficio. Louise parve sorpresa. « Ho telefonato a Paul Gregory da parte tua. Ti vorrebbe a cena con lui e sua moglie. » « Grazie Louise. » Il servizio informazioni del telefono le diede il numero dell'Other News, ma non rispose nessuno. Telefonò a Ted per scusarsi. « Non ti dispiace, vero? » « Se tu stai bene », rispose lui, e di nuovo Barbara si sentì in colpa; se i suoi problemi riguardavano la ex moglie lei si sentiva disposta, potendo, ad aiutarlo, a consolarlo almeno. « Non dovevo dirti niente che non possa aspettare », aggiunse lui. Chiamò Paul per accettare il suo invito per la fine della settimana successiva, poi continuò a fare il numero dell'Other News, di tanto in tanto, per tutto il pomeriggio, ma senza risultato. Riuscì a lavorare, ma la sua eccitazione calava un po' ogni volta che metteva giù il telefono. Gerry Martin esisteva; forse questo significava che era vero anche tutto il resto? Angela era da qualche parte, ragazzina di tredici anni e in potere di qualcuno? I suoi sentimenti erano come in tanti pezzi, che non riuscivano a rimettersi insieme. Se Angela è ancora viva, pensò amaramente, allora i suoi rapitori hanno avuto cura di lei meglio di me. Lungo la strada verso casa si fermò a un'autofficina; conosceva il proprietario e gli chiese di ripararle l'auto. Lui la accompagnò al parcheggio sotto il Barbican e portò via la macchina. Il soffitto basso incombeva come
una nuvola temporalesca, il tubo al neon sulla sua testa tremolava come un lampo. Mentre si dirigeva verso casa, per riprendere i tentativi di mettersi in contatto con l'Other News, si chiese distrattamente se qualcuno avesse mai ripulito il parcheggio: uno degli angoli bui sembrava pieno di ragnatele. Capitolo 15 Gerry Martin era molto più alla buona del suo articolo. Al telefono era sembrata sbrigativa, al limite dell'impazienza, e più giovane di quanto Barbara avesse immaginato. Certo, si disse, i giornalisti risultano spesso una delusione quando li si conosce, esattamente come gli scrittori. « Domani sera devo essere al giornale », aveva brontolato la giornalista. « Penso che potrei vederla lì. » « Domani sera » era arrivato, e Barbara era di nuovo a Hornsey. Le vie si arrampicavano fino a un'arteria importante che ricadeva improvvisamente verso Crouch End. Quando raggiunse la strada era senza fiato, sentiva la testa leggera e pulsante come il cuore. Attraversò e discese dall'altra china, dove la fila di case digradava come canne d'organo. La sede dell'Other News era una costruzione terrazzata uguale alle altre della via, di fronte alla gabbia vuota del giardino di una scuola. Una siepe di ligustro seguiva la strada, pendendo verso il marciapiede, e nascondeva quasi interamente il piccolo giardino. Passando vicino sentì il pulsare della macchina da stampa, il cuore rivelatore della casa. Suonò il campanello e attese. Il crepuscolo cominciava a scendere sulle colline, che apparivano rappezzate di panno verde; l'antenna di una radio era uno spillo puntato su un cuscino. Un giovane dai capelli lunghi, con una canottiera arancione senza maniche, le mani macchiate di inchiostro, aprì la porta. « Gerry Martin mi sta aspettando », disse lei. « Non c'è. Vuole parlare con il direttore? » Le voltò le spalle di scatto e rientrò in casa. Lei lo seguì. Il pianterreno era stato trasformato in un unico locale. Alcuni giovani stavano facendo gli ultimi controlli del prossimo numero del giornale su due lunghi tavoli a cavalletti, sotto un gran numero di lampade. Quattro poltrone, tutte diverse, occupavano lo spazio rimasto. Un ragazzo di una ventina d'anni salì di corsa dallo scantinato, portando alcune pagine e un odore penetrante di petrolio e di inchiostro. Barbara sedette in una delle poltrone cercando di evitare le molle rotte.
Finalmente il direttore discese dal piano di sopra. I calzoni e la camicia di tela dovevano essere gli stessi che indossava una settimana prima. Era un tipo robusto, sui trent'anni, con una pronuncia blesa quasi oxfordiana, un vago sorrisetto di superiorità. La settimana prima, quando lei aveva tentato disperatamente di raggiungere Gerry per telefono, lui l'aveva sottoposta a un interrogatorio serratissimo, ma lei aveva detto solo che era stata Margery a metterla in contatto. Ora la fissava. « Ah, sì », disse alla fine. « Gerry è fuori per un incarico. Aspetti pure se vuole, ma io non ci spererei troppo. » Una volta andato via, lei si trasferì su una poltrona lievemente più comoda e si guadagnò un sorriso di comprensione da parte di uno dei giovani, un ragazzo con l'orecchino, che lavoravano al tavolo. Quando fece il caffè lo portò anche a lei in una tazza scheggiata decorata con una figura di Paperino. Il caffè era schifoso, ma si costrinse a sorseggiarlo mentre gironzolava per la stanza, leggendo i fogli fissati alla parete: un rapporto sulle polizie private, il Race Relations Act, come comportarsi in caso di arresto. Lesse il più lentamente possibile, poiché era decisissima a non andarsene prima di aver parlato con Gerry Martin. Era lì ormai da quasi un'ora. Quando la porta d'ingresso si spalancò, rumorosamente, lei si girò di scatto, ma era una ragazzina in jeans e un maglione stinto e informe con dei buchi ai gomiti. La ragazza salì le scale di corsa, con i sandali che ciabattavano, i capelli lisci legati con gli elastici in due code saltellanti. « Quei porci stanno tormentando gli zingari », Barbara sentì dire. « E qualcuno ha messo dei cocci di bottiglia tutt'attorno a uno dei campi. Sono riuscita a far parlare qualcuno dei nomadi. » Il direttore mormorò qualcosa. « È ancora qui? » chiese la ragazza, e scese in fretta giù da Barbara. « Barbara Waugh? Non l'avevo vista. » Era meno giovane di quanto sembrava a una prima occhiata — qualche anno più di venti, valutò Barbara — e aveva un paio di occhi pronti e acuti. Ma Barbara dovette sembrare ugualmente insoddisfatta. « Non si lasci ingannare dal mio aspetto trasandato », disse la giornalista. « Oggi dovevo essere poco appariscente. Che cosa voleva dirmi? » « Speravo piuttosto che fosse lei in grado di dire qualcosa a me. » « Bene, prima devo sapere che cosa le interessa. Sta cercando quelli che hanno ucciso sua figlia? » Per un attimo Barbara si sentì mancare, poi si rese conto che evidentemente la giornalista — come tutti quelli che Barbara incontrava, a quanto pareva — aveva letto l'articolo che parlava di lei. « Voglio dire », continuò
Gerry Martin, « nove anni sono un bel po' di tempo, a meno che non si abbia una solida traccia. » « Non sono sicura che sia morta. » Barbara avvertì con un senso di disagio la presenza delle altre persone attorno ai tavoli. « C'è un posto dove possiamo parlare in privato? » chiese ansiosamente. Gerry Martin le fece strada su per le scale fino a una piccola stanza di fronte a quella del direttore, che le guardò con cipiglio mentre passavano. La stanza conteneva uno schedario arrugginito, tre sedie da ufficio tutte graffiate e due scrivanie; non c'era molto spazio per altro. Su una scrivania una tazza sporca di caffè fungeva da fermacarte accanto a un posacenere ricolmo di mozziconi. Gerry Martin si infilò a fatica dietro l'altra scrivania e fece cenno a Barbara di sedere sulla terza sedia. « Perché pensa che sua figlia sia ancora viva? » Barbara le raccontò tutto. Non importa che la giornalista avesse un'aria così anonima — era certo una caratteristica positiva nel giornalismo investigativo; Barbara era così sollevata nel trasmettere a qualcuno il suo racconto che le pareva quasi di aver affrontato un parto. Nonostante la promessa, raccontò alla giornalista ogni cosa. « Sì, ho pensato che era una cosa strana, quando ho sentito di Margery Turner », riflette la giornalista. « Non si muoveva troppo bene, vero? Il genere di persona da cui ci si può aspettare che cada dalle scale. E così lei non è mai andata a ispezionare la Casa. » « No, non ancora, comunque. E lei? » « Volevo farlo, ma sono stata piena di lavoro. Ora è troppo tardi. Dev'essere bruciata completamente poco dopo che lei è andata via. » Barbara la guardò fisso. « Non ne sapevo niente. C'era un fuoco dietro la casa. Evidentemente deve essersi propagato. Ma non le sembra strano che la casa sia andata distrutta non appena qualcuno ha cercato di ispezionarla? » « Forse. » Gerry Martin si strinse nelle spalle. « Ma mi ascolti, c'è una cosa che mi deve spiegare. Se era davvero sua figlia al telefono, perché l'avrebbe mandata in una casa che era vuota da settimane? » Questo Barbara se l'era già domandato; era una forma di assicurazione che aveva conservato nel fondo della mente, un motivo per credere che non poteva essere stata Angela al telefono. « Be', forse una spiegazione c'è », continuò la giornalista. « Se è rimasta nelle mani di quella setta per nove anni, forse è in grado di pensare solo ai luoghi dove ha vissuto. Se aveva paura di incontrarsi con lei vicino a dove si trova adesso, potrebbe aver
pensato all'abitazione precedente. » Le vibrazioni della macchina da stampa risuonavano leggermente attraverso la casa; Barbara non avrebbe saputo dire se stava anche tremando, e dovette chiudere gli occhi. « Mi scusi, Miss Martin, starò bene tra un attimo. » « Diamoci del tu. » Ora sembrava preoccupata. « Non voglio sconvolgerti, Barbara, ma stai pensando che l'assassinio di tua figlia sia stato inscenato deliberatamente? » « Può darsi. » Ora la voce di Barbara tremava. « Anche secondo me è possibile. Supponiamo che una delle loro donne volesse la tua bambina perché non poteva avere figli — sono proprio quel genere di menti fottute che vengono irretite da queste cosiddette religioni. È abbastanza raro che rapiscano dei bambini dell'età che aveva tua figlia, ma succede. La cosa in effetti potrebbe spiegarsi più così che non con un rapimento a scopo di riscatto. Se volevano dei soldi perché non si sono mai messi in contatto con te? » Stava pensando ad alta voce e pareva si fosse dimenticata della presenza di Barbara. « D'accordo, vediamo. Magari hanno pensato che avrebbero attirato meno l'attenzione tenendosi tua figlia piuttosto che facendo qualsiasi altra cosa. E così dovevano mettere fuori gioco la polizia. Prendono un'altra bambina, le mettono i vestiti di tua figlia, e l'uccidono. La questione è: da dove è venuta fuori questa bambina? E come mai non è stata denunciata la sua scomparsa? Non è un'idea allegra, ma magari poteva essere una dei loro » concluse la giornalista. Barbara sentì che la assaliva la nausea. « Certo non puoi credere una cosa del genere. » « C'era una quantità di cose a cui non credevo finché non ho cominciato le ricerche per La trappola di Dio. » Cercò di mostrarsi, sia pure in ritardo, rassicurante. « Ma è chiaro che tutto quello che dico è un'ipotesi. La cosa importante è che tu pensi che tua figlia sia ancora viva, e io tendo a darti ragione, per il disegno che hai visto. Voglio dire, Margery Turner non era proprio quello che definirei una personalità artistica. » Ormai il fatto che fosse d'accordo era più inquietante che tranquillizzante. « Ma che cosa è questa setta? Sai dove si trova? » « No, non lo so. Ho avuto un'indicazione, ma non l'ho seguita. L'ho avuta da qualcuno che poteva essere uno di loro. Ho messo insieme un po' di notizie sul gruppo. » « Quali notizie? » domandò Barbara, temendo di sentire la risposta. « Innanzitutto la loro segretezza. » Aprì il cassetto della scrivania e pe-
scò un blocco di appunti. « Mentre facevo le ricerche sulle sette continuavo a imbattermi in vaghe notizie su delle persone che non hanno nome. Le voci più antiche che sono riuscita a rintracciare circolavano a Londra alla fine degli Anni Quaranta. Poi queste voci si spostano a Dartmoor, Manchester, Inverness, Liverpool, di nuovo Londra, Newcastle, Birmingham, Sheffield, e nuovamente qui a Londra. Come vedi non c'è un disegno geografico preciso, e fin dove sono riuscita a risalire tra i periodi non c'è mai continuità. Ci sono dei vuoti che non riuscivo a spiegare, e ho finito per interpretarli come periodi in cui sono rimasti nascosti con successo. Sembrerebbero costretti a spostarsi continuamente così che nessuno possa scoprire troppo su di loro. » « Non potrebbero essere solo delle voci che si spostano? Non sono una prova che esistano davvero. » « In qualche luogo c'era qualcosa di più che delle voci. A Londra verso il 1970 e a Manchester alla metà degli Anni Cinquanta, dei ragazzetti furono invitati da altri ragazzi, che dicevano di non avere nome, a conoscere i loro genitori, anch'essi privi di nome. Per fortuna i ragazzi si spaventarono e non andarono. E in qualcuna delle altre città che ti ho detto l'Esercito della Salvezza diede l'allarme sulla presenza del gruppo. Non riuscirono mai a rintracciarli e non riuscirono a scoprire molto su di loro, ma la loro impressione nel complesso era che fossero seriamente pericolosi. » Chiuse il blocco di appunti. « Questo è tutto? » disse Barbara, incredula. « Più quello che ha detto Margery Turner. La lettera di sua figlia mi ha permesso di iniziare a mettere insieme un po' di dati che avevo raccolto, e ho fatto altre ricerche. In effetti c'era una cosa che mi aveva già spinto a riflettere in quella direzione. Ricorderai certamente il processo Manson. Una delle sue donne disse qualcosa come: "Forse la gente pensa che la Famiglia sia cattiva, ma c'è un gruppo che la fa sembrare Disneyland, al confronto. Erano gente senza nome invischiata in faccende in cui neppure Manson avrebbe voluto mettere un dito". » Quando vide gli occhi di Barbara, si affrettò ad aggiungere: « Non voglio dire che sia lo stesso gruppo, è chiaro. La gente in California è più sballata. Quel genere di cose non viaggia. Ma in ogni modo il gruppo che tu stai cercando deve essere trovato. Tu hai visto la lettera che aveva Margery Turner, sai che intendo dire. Non diffondono materiale scritto, ed è una cosa sospetta per un gruppo che è sopravvissuto per tanto tempo, e a quanto pare non hanno neppure denaro. Tutto ciò che è così segreto deve avere qualcosa di piuttosto brutto. Se sai come cercare, puoi trovare tutto
sulla Massoneria, ma prova a scoprire qualcosa sulla CIA. » Barbara pensò che alcuni degli anelli di quel ragionamento erano piuttosto deboli, ma non c'era tempo per sottilizzare. « Hai detto che hai rintracciato un membro della setta », disse. « Esatto. » Gerry aprì un cassetto dello schedario e tirò fuori un ritaglio. RAGAZZA SENZA NOME TORNA A CASA DAI GENITORI, diceva il titolo. Secondo l'articolo era fuggita da un'oscura setta religiosa. « Continuiamo a chiamarla Iris, nella speranza che ricordi », dice la madre in lacrime al giornalista. « Ho controllato attraverso il mio contatto stampa sul posto », spiegò Gerry. « Sembra proprio il gruppo che stai cercando tu. » Una cosa era chiara a Barbara: la ragazza, Iris, poteva confermare se Angela era o no nelle mani della setta, e anzi se era viva. « Sei già andata a trovarla? Posso venire con te? Potrebbe essere più disposta a parlare se le dico di Angela. » Gerry pareva dubbiosa, ma non aveva ancora risposto che entrò il direttore. « La roba sui nomadi è buona », disse, mettendosi davanti a Barbara come se lei non ci fosse. « Ora voglio che tu veda che cosa puoi scoprire su quei prestiti rhodesiani. Ho annusato qualcosa di grosso, e che puzza. Occorreranno un sacco di ricerche. » « Me lo dai proprio adesso l'incarico? Volevo andare avanti con quel gruppo che ti dicevo, quelli che abbandonano il nome. » « Quello è roba da giornali popolari della domenica, roba da stampa borghese. Poco, per noi. Troppo vago. » « Ho un'indicazione che sembra molto promettente. » « Non per noi. Comunque non credo che ti avanzerà tempo mentre farai ricerche su quei prestiti. » Visto che lei non rispondeva, continuò: « Sono affari tuoi se vuoi passare alla grande stampa. Basta che me lo fai sapere in tempo quando sei stufa di star qui ». « Be', ci ho provato », disse Gerry, quando lui se ne fu andato. « È la stessa cosa in tutti i giornali. Devi fare quello che ti dice il padrone, per imbecille che sia. Mi dispiace di non poter essere di maggior aiuto. Per essere sincera, ho praticamente abbandonato la storia quando ho sentito che Margery Turner era morta. » Barbara si alzò di scatto e chiuse la porta. « E se io fossi in grado di vendere il tuo rapporto a un giornale a grande diffusione? Se tu scrivi qualcosa di forte come l'articolo che ho letto, lo vendiamo senza nessuna difficoltà. Magari potrebbe essere una serie di articoli. Non ti farei pagare
la commissione », aggiunse, e si pentì subito di averlo fatto, perché scopriva tutta la sua disperazione. Gerry rimase per un po' a fissare il suo blocco. Finalmente alzò lo sguardo. « Va bene, vengo con te a trovare questa ragazza a Hemel Hempstead. Probabilmente sono in grado di tirarle fuori più di quanto faresti tu. Dopo di che, vedremo. Quando vuoi andare? » « Appena possibile. Domani. » « Be', prima devo fissare l'incontro. Non possiamo piombare lì senza preavviso, in un caso come questo. Ti telefono non appena ho preso contatto, va bene? Te lo prometto. » Quando Barbara raggiunse la strada, il marciapiede pareva tremolare. Mentre si avviava verso la stazione sotto la luce biancastra dei lampioni, dovette appoggiarsi a un muro. Ma perché mai doveva sentirsi così malferma? La giornalista pensava che Margery non potesse aver fatto lei il disegno, ma questo non significava molto. Le vennero in mente le ultime parole che le aveva detto Angela a Otford: « Mi porti qualche altro libro che posso leggere? » E poi, in modo più vivido e anche più doloroso, vide Angela che alzava lo sguardo dal libro e le diceva, ansiosa di farsi ammirare: « Vuoi che ti legga? » « Un'altra volta, amore », le aveva risposto Barbara, occupata con un manoscritto; ma non c'era stata un'altra volta. Si sentiva bloccata in un limbo tra le sue memorie e il suo corpo affaticato; tutto era lontano, irraggiungibile. Forse c'era pioggia nell'aria, o forse stava piangendo. Capitolo 16 Su Edgware Road, Gerry attaccò a parlare del suo direttore. « Mi ha sentito che chiamavo Hemel Hempstead e l'ha presa male. Avrei dovuto richiamare più tardi, ma già stavo sudando sette camicie per convincerli a lasciarmi vedere la figlia. » Passò di corsa con il rosso e sorpassò un autobus in curva. « E poi ha ancora tentato di farmi credere che è perché non interessa nessuno che non pubblica la storia dei senzanome. Ma non è questo il motivo. » Barbara non poteva far altro che trattenere il fiato e rimpiangere di non essere lei al volante — Edgware Road era disseminata di incroci, non tutti controllati dai semafori — ma la sua auto era ancora in garage. « E qual è il motivo? » chiese, perché Gerry la stava guardando. « Be', che potrebbe alienare i lettori. È facile che un bel po' di loro si in-
teressi di occultismo, di misticismo. Criticare qualcosa del genere sarebbe come dire che fumare l'erba poi ti lascia mal di testa, anche se è vero. » Bloccò la macchina con un gran stridio di freni davanti a una bambina che stava attraversando sulle strisce. « E poi evidentemente era convinto di avermi persuaso a non scrivere l'articolo, e così ho dovuto dirgli che me lo vendevi tu. Potrai farlo, vero? » « Certo. Un paio di giornali sono già interessati. » Aveva avuto due giorni per parlarne in giro, e poi era decisissima. « Inoltre, a seconda della quantità di materiale che finirai per raccogliere », aggiunse, « si potrebbe anche pensare a un libro. » Gerry si immerse con decisione sulla doppia corsia che portava all'autostrada. Nel calore di agosto il traffico tremolava come gelatina; i lampi di sole sparavano dai parabrezza. Un'autocisterna e un camion strinsero in mezzo la Fiat di Gerry, un autotreno gigantesco incombeva dall'alto; Barbara si sentì sul punto di essere schiacciata, in quel sottile guscio di lamiera. Sull'autostrada la guida di Gerry si fece ancora più folle. Camion grandi come bungalow si inseguivano a una velocità che a Barbara pareva terrificante, mentre Gerry zigzagava disinvolta tra di loro passando da una corsia all'altra. « Era imbestialito », riprese. « Mi ha detto che avevo tutta l'aria di voler passare a quel sistema che ci eravamo impegnati a combattere, e io gli ho risposto che stavo cercando di liberarmi dei miei pregiudizi. » Ma Barbara era riuscita a distaccarsi da se stessa — c'era qualcun altro inchiodato nel sedile del passeggero, non lei — e dovette fare uno sforzo per afferrare quello che Gerry intendeva dire. Hemel Hempstead non fu un gran sollievo. « Ha detto sopra il canale », ricordò Gerry, e passò a tutta velocità attraverso la cittadina, rallentando solo quando raggiunse i negozi. Un parcheggio a più piani faceva girare una palla a righe sulla punta del suo naso di cemento. Oltre i negozi c'era una rampa a due corsie e Barbara chiuse gli occhi. Quando li riaprì era accanto al canale; le chiatte passavano silenziose come nuvole, i cigni dormivano racchiusi nelle loro ali. Doveva essere vicina alla sua meta e all'improvviso si sentì inquieta. Poco dopo Gerry prese una strada che portava sopra il canale. Sulla porta di una bottega di sartoria, chiamata Sarah-Boo, un manifesto di Snoopy dichiarava Pace sulla terra, buona volontà a tutti. Gerry svoltò a sinistra in una via che saliva in mezzo a un gruppo di case isolate, raggruppate come conchiglie attaccate a uno scoglio. I giardini rocciosi mandavano bagliori viola e gialli. « E da queste parti », fece Gerry.
Più su raggiunsero un dedalo di strade anonime fitte di casette basse. Tutte le facciate delle case erano occupate per un quarto dalla porta del garage. Davanti a ogni casa un pezzo di prato senza recinzione grande il doppio di una macchina si allungava in mezzo ai vialetti di cemento. Gerry dovette rallentare, controllando i nomi delle strade, poiché ogni volta che girava un angolo la strada successiva pareva identica alla precedente. « Eccoci », annunciò, prima che Barbara si sentisse pronta. Scese dalla macchina e si lisciò la gonna nera: chiaramente si era agghindata per l'intervista. Barbara si sentì circondata dalle strade deserte; attraverso uno spiraglio tra le case poteva vedere le colline giallastre dell'Hertfordshire dietro l'edificio della Kodak, ma a parte quello non c'erano che le case, che cantavano il loro canto mattutino di aspirapolvere. Le auto erano fuori, le casalinghe erano chiuse dentro. Quando Gerry suonò il campanello più vicino, un uomo massiccio venne immediatamente alla porta. Aveva la camicia abbottonata anche ai polsi; la faccia e le mani erano di un rosso arrabbiato probabilmente per il sole, non per la pressione sanguigna. « Cosa volete? » domandò. « Io sono Gerry Martin e lei è Barbara Waugh. » « Lo so bene chi siete. Che cosa volete? » « Be', gliel'ho spiegato al telefono. » « No, non a me. » Parve sul punto di chiudere la porta. Barbara si slanciò in avanti, aprendo l'album di fotografie che si era portata — certamente la foto di Angela a quattro anni l'avrebbe toccato, lei stessa trovava sempre più difficile guardarla — mentre una donnetta tarchiata, sì e no un metro e mezzo, apparve dietro di lui, asciugandosi la schiuma di sapone dalle mani con uno strofinaccio souvenir di Brighton. « Non stare a discutere sulla porta, George », disse, con un accento che assomigliava a quello di lui. « Possiamo almeno farle entrare. » Le fece accomodare nella stanza anteriore, tappezzata con una carta dal disegno molto discreto. Su una credenza c'erano dei centrini, una ballerina di ceramica luccicante scintillava sul davanzale della finestra. « Lei è la signora che sta cercando la figlia », disse la donna a Barbara. « Questa è una sua fotografia. » La donna lanciò una rapida occhiata a Gerry. « Lei aveva detto che era più grande di così. » « Questa è la fotografia più recente che ho. » Per un attimo Barbara pensò innervosita che adesso la coppia le avrebbe detto di aver letto l'articolo su di lei. « È da allora che non la vedo », aggiunse e sentì gli occhi riem-
pirsi di lacrime. Forse la donna ricordò il dolore che aveva provato lei. « Oh, George, non credo che possa farle nessun male se facciamo vedere questa foto a Iris. » « Non ne sarei tanto sicuro, Maisie. Abbiamo assicurato al dottore che le avremmo dato pace e tranquillità. È di questo che ha bisogno. » « Siamo venute da Londra con l'intesa che l'avremmo vista », intervenne Gerry. « E io per questo mi sono dovuto prendere una giornata di ferie alla Kodak. » Si volse a Barbara. « Sentite, vi aiuterei se potessi. Solo che non capisco di che utilità vi potrebbe essere disturbare Iris. Non è riuscita a dirci neppure dove erano quei fottuti che le hanno fatto quello che le hanno fatto. Deve essersene andata via da loro un giorno ed è tornata qui chi sa come. Non staranno ancora dove erano allora, no? Chiamatemi insensibile, ma secondo me state perdendo tempo. » « Non mi aspetto che ci porti da loro. Voglio solo sapere se avevano o no mia figlia. » « Un po' tardi per preoccuparsi di lei, no? » All'improvviso si sentì pieno di vergogna. « Mi scusi, è quello che ora sento per me e Iris. Non so niente di lei e di sua figlia. Non avrei mai dovuto permettere a Iris di lasciare la casa, poteva seguire chiunque e non vedere dove la stavano portando. » Riluttante diede un'occhiata alla fotografia. « Gliela mostri, se deve farlo », brontolò. « Altrimenti se ne andrà convinta che potevamo aiutarla. Ma quando ve lo dico io dovete andarvene. » La moglie le accompagnò di sopra. « Non mettetevi a parlare d'improvviso », disse a bassa voce. « Non le piacciono i rumori. » « Sì, e non le piacciono nemmeno tanti estranei. Lei rimanga fuori », aggiunse lui, bruscamente, rivolto a Gerry. « Lascio la porta aperta. Potrà sentire, se c'è qualcosa da sentire. » La prima impressione di Barbara fu che Maisie avesse aperto la porta sbagliata: la donna seduta alla finestra della camera da letto era forse un'infermiera? Dimostrava più di quarant'anni, il doppio dell'età di Iris; l'abitino estivo a righe e il nastro rosa tra i capelli ingrigiti erano troppo giovanili per lei. Ma Maisie andò direttamente verso di lei. « Iris, c'è una signora che vuole vederti. » Iris si voltò con una lentezza penosa. A Barbara venne in mente una bambola meccanica a cui stesse finendo la carica; gli occhi e il viso parevano un'unica superficie continua, liscia e artificiale come plastica. Poteva
essere una bambola a grandezza naturale che Maisie aveva vestito delle cose di sua figlia, scolorite dai mesi passati seduta alla finestra. « La signora cerca la sua bambina », spiegò Maisie alla bambola. « Vuole che tu mi dica se l'hai mai vista. » Tenendo aperto l'album, Barbara si fece avanti. Quando Iris ebbe alzato la testa per guardare, le mani di Barbara tremavano per lo sforzo di tenere fermo l'album. Ci fu un barlume di ricordo negli occhi della ragazza? Forse era solo un riflesso indifferente verso l'album, poiché quel barlume era scomparso quando Iris alzò gli occhi. Guardò verso Barbara come se non ci fosse nessuno. « La bambina è più grande di così. Tredici anni », spiegò Maisie, quando Barbara glielo suggerì con lo sguardo. « L'anno scorso avrebbe avuto dodici anni, Iris. L'hai vista l'anno scorso prima di venire a casa da noi? » L'album scivolò tra le mani di Barbara, le dita scattarono con un rumore come di un bacio. « Dovrebbe essere molto magra », disse, ricordando il disegno. « Gli occhi sono azzurri, almeno lo erano. » Si accorse di essere in lacrime. « Mi dispiace », mormorò Maisie, dopo una pausa immobile. « Certi giorni non vuole proprio parlare. Ho paura che questo sia uno di quei giorni. » Improvvisamente Barbara si rese conto di come Maisie vedeva la figlia: si era imbattuta in cattive compagnie e aveva attraversato un brutto periodo, ma ora era a casa; tutto quello di cui aveva bisogno era tranquillità e la sua famiglia, si sarebbe ripresa con il tempo. Barbara si girò, sconfitta dallo sguardo vuoto di Iris, e si asciugò gli occhi. « Se mi lascia una fotografia posso fargliela vedere ancora », stava dicendo Maisie. « Potrei farle sapere se dice qualcosa. » « Grazie », rispose meccanicamente Barbara, e le porse l'album; lei non si sentiva capace di sceglierne una. Lasciò correre lo sguardo per la camera, su un faro in miniatura che doveva accendersi con una pila, una rivista scolastica del 1969, un manifesto con un disegno indiano composto di minuscole figure umane che tutte insieme formavano l'immagine di un occhio, un quaderno aperto a una pagina su cui una mano adolescente aveva scritto una poesia (« Oh, lascia ch'io mi cali nell'umido tepore del buio »), una bambola con le pupille tirate via che le ricordava sgradevolmente la faccia che l'aveva fissata da quel disegno della casa. Presumibilmente lo scopo di tutto questo era far sì che Iris si ricordasse di se stessa, ma a quanto pareva quello scopo era fallito; che possibilità aveva Barbara?
Quando Maisie le restituì l'album, si diresse verso il pianerottolo. George si girò pesantemente verso le scale e Gerry le fece un sorriso e le diede un abbraccio che voleva essere un incoraggiamento. Maisie lasciò la fotografia nella stanza e aveva quasi raggiunto la porta quando Iris disse: « Mi hanno fatto prendere qualcuno da New Street ». Sulle prime Barbara non fu sicura di aver sentito la voce, tanto era esile e confusa. Ma quando si precipitò nella stanza, con Maisie che di malavoglia indietreggiava per lasciarla passare, vide che le labbra di Iris si stavano muovendo, sia pure, per il momento, senza nessun suono. Alla fine la voce le raggiunse. « Dovevo svegliarlo. Lui venne via con me e... Dopo andammo a Sheffield e... » La voce continuava a sfumare, come una radio con le batterie scariche. « Io li ho lasciati un giorno e sono venuta a casa », concluse. « C'era una ragazzina con te mentre eri via? » Barbara cercò di non parlare troppo d'improvviso, ma doveva stabilire un contatto finché c'era la possibilità. « Una ragazzina sui dodici anni che somigliava a questa? » Forse Iris avrebbe esaminato la foto, ma un uccello si mise a cantare fuori dalla finestra. Si girò da quella parte come se avesse paura di farlo : la schiena curva, la testa ritirata tra le spalle come una tartaruga. La sua voce pareva venire da un punto che la luce del sole non poteva raggiungere. « Quando ero piccola trovai un uccello in giardino. Credevo che dormisse. Quando lo girai cominciò a muoversi, ma erano delle cose che gli strisciavano dentro. » La madre le prese le mani, ma lei continuò, monotona con lo sguardo fisso. « Dove io dovevo vivere con loro, le cose continuavano a essere vive. La cosa brutta entrava dentro le cose e le faceva muovere. » « Non ti agitare, Iris. Lo sai che è solo la tua immaginazione. Ora sei a casa. » « Entrava dentro di noi. Ci faceva fare le cose. » Divincolò la mano dalla stretta della madre. Con una voce semistrozzata dal disgusto di sé, continuò: « Mi piace ripensarci ». Fu questa la sua ultima parola. Il suo sguardo era come ripiombato verso l'interno, si stava stringendo tra le braccia come per tenere tutto fuori. « Non aveva mai detto delle cose del genere », commentò Maisie, in tono di evidente rimprovero per Barbara. « Non si può credere alle cose che dice », la rassicurò George. « È questo che le hanno fatto. Non ti ricordi, che ci scrisse che stava per lasciare il paese? Glielo avevano fatto scrivere loro, certamente, così che non l'a-
vremmo cercata. » Mentre accompagnava in fretta Barbara e Gerry giù per le scale, disse: « Adesso avete visto perché non volevo che la disturbaste. Dovrebbe proprio sperare di riavere sua figlia prima che sia ridotta nelle stesse condizioni. » Aveva un tono aspro, ma in un certo senso era rassicurante; se era stata davvero Angela a fare le due telefonate, certamente era più in sé di Iris. Ma Iris era un esempio della gente con cui stava? Quando Barbara uscì di casa la luce del sole le ferì gli occhi, come se il groviglio spigoloso dei suoi pensieri non fosse già abbastanza doloroso. Gerry si accorse del suo stato d'animo. Non appena raggiunsero l'auto le disse: « Non so se tua figlia è viva, ma farò tutto quello che posso. Credo di essere in grado di rintracciare questa gente ». La cosa fu troppo improvvisa. Barbara non poté far altro che fissarla mentre la macchina prendeva velocità giù, per la collina. « Ho un'altra traccia, ma non sapevo bene come usarla, finora. Scoprire i prestiti alla Rhodesia non serve a nessuno, questa gente invece va fermata. E tu sei sicura di poter vendere i servizi quando li avrò scritti, no? » Apparve il canale. Lo svincolo a due corsie portò la macchina dall'altra parte e la corsa riprese. « Ho intenzione di tentare di infiltrarmi tra loro. Può darsi che non ci sentiamo per qualche settimana, ma ti farò sapere se ho trovato Angela appena posso. » Barbara cercò di usare il tono più disinvolto possibile. « E dove conti di cercarli? » « Per ora questo preferisco tenerlo per me, Barbara, se non ti dispiace. Se ti metti a cercarli anche tu rischi di spingerli a nascondersi prima che io li abbia raggiunti. Cerca di non preoccuparti se non mi senti per un po'. » L'auto schizzò sull'autostrada; in lontananza il traffico e il paesaggio si fondevano. « Sai », confidò la giornalista, « ho la sensazione che questo possa essere un punto di svolta nella mia vita. » Capitolo 17 Il cielo della sera, mentre Barbara costeggiava in macchina Regent's Park, era del colore del fumo. Oltre i cancelli le foglie avevano un aspetto umido e tropicale. Un profumo di giungla arrivava dal finestrino aperto dell'auto, odori selvatici di animali, su tutti dominava il profumo dei fiori. Le scimmie strillavano di là dagli alberi, un leone ruggì. Le mani di Barbara erano appiccicate al volante dal caldo, i vestiti appesantiti dall'umidità.
Si sentiva già abbastanza a disagio senza dover cenare con Paul Gregory e sua moglie. In Camden Town tutte le porte dei pub erano spalancate; le coppie stavano sui marciapiedi a bere birra. Mentre svoltava nella strada laterale dove abitavano i Gregory, in un appartamento che si affacciava sopra una banca, un uomo uscì in fretta da un ristorante indiano facendosi aria con un ventaglio. Parcheggiò di fronte alla casa e suonò il campanello. Forse la serata non sarebbe stata poi tanto pesante, soprattutto se Paul le dava tanto alcool quanto ne prendeva lui. Se non altro non si trovava a casa o al lavoro, ad aspettare nervosamente che suonasse il telefono. Una donna alta con un abito nero lungo aprì la porta. L'abito, che presumibilmente avrebbe dovuto coprire le caviglie, le lasciava scoperte rivelandole ossute quanto le braccia della donna e il suo viso affilato. « Barbara Waugh? » disse, e strinse brevemente la mano di Barbara. « Sybil Gregory. » Al primo piano qualcuno faceva esercizi di scale di flauto, al secondo si sentiva una sirena della polizia. I Gregory vivevano all'ultimo piano, sotto il tetto spiovente. Nella stanza principale, dove il soffitto scendeva verso la parete, la prima cosa che Barbara vide fu il telefono. Non poté far a meno di sentirsi in ansia, anche se Gerry Martin aveva avuto solo un paio di giorni per mettersi in contatto con la setta. Era improbabile che potesse chiamarla così presto. « Paul, c'è la tua agente », annunciò Sybil vivacemente. « Dopo che le hai offerto da bere, ti spiace mettere a letto Bevis? Katrina, a quest'ora dovresti essere già pronta. Raggiungimi in cucina, Barbara, quando avrai avuto da bere. » Dopo che ebbe versato una vodka Stolichnaya a Barbara, Paul si affrettò, chiedendo scusa, verso il bagno, con il figlio piccolo in braccio. Lei si diresse verso la cucina, oltrepassando una stanzetta con un letto a castello dove una bambina si stava abbottonando l'uniforme da girl scout. Sybil stava cuocendo le bistecche. Un leone ruggì nel parco, come se avesse sentito l'odore della carne. « Questa è Imogen con suo padre », disse alla bambina, quando squillò il campanello. « Va' e fammi essere orgogliosa di te. È quasi una guida », comunicò a Barbara. « Sei mai stata negli scout? » A Barbara era quasi venuto in mente qualcosa, ma il pensiero svanì prima che riuscisse ad afferrarlo. « No, mai », rispose.
« Io sì, per anni. Ho iscritto Katrina alle scout, e Bevis sarà lupetto non appena avrà l'età. Non c'è niente di meglio per metterli in forma. » Forse era proprio quello di cui Paul aveva bisogno, una scout cresciuta che sapeva far andare avanti la casa e arrangiarsi con quello che avevano — ma Barbara stava ancora cercando di afferrare quel pensiero che le era sfuggito. In qualche modo sentiva che se fosse riuscita a definirlo avrebbe desiderato non averlo fatto. « Vederli crescere mi ha aiutato a superare i momenti difficili che abbiamo attraversato », stava dicendo Sybil. « Non c'è niente che possa sostituire la famiglia, checché qualcuno voglia farci credere. » Barbara annuì vagamente, poiché aveva appena capito dove Paul doveva aver scritto Un torrente di vite, lì su un tavolo nell'angolo più lontano dal fornello: momenti difficili, davvero. « Oh, ti chiedo scusa », esclamò Sybil, « sono stata molto indelicata. Paul mi ha detto che hai perso tuo marito e poi la bambina. » Barbara non fece nessun commento, riuscì solo a vuotare il bicchiere. « Hai già finito il tuo drink », notò Sybil, in tono di sorpresa o di rimprovero. « Versatene tu stessa un altro se Paul è ancora occupato. » Barbara sedette su un letto matrimoniale trasformato in divano e indugiò versandosi la vodka mentre cercava di definire le sue sensazioni. Le sovracoperte dei primi romanzi di Paul fissate alla parete cominciavano ad accartocciarsi, valigie come scatole cinesi raccoglievano la polvere sopra l'armadio. Doveva essere contenta che Gerry fosse in caccia. Non c'era nulla che lei potesse fare ora, se non andare avanti con il suo lavoro. . Tornata in cucina, Sybil le domandò: « Che ne pensi di Paul come scrittore? » « Penso che ha le potenzialità per scrivere qualcosa di ancora migliore di quello che ha scritto finora. » « Secondo me è il miglior scrittore che io abbia mai letto. » Non era la prima moglie di uno scrittore che Barbara sentiva parlare così. « Dimmi il nome di un solo scrittore vivente migliore di lui. » « È eccezionalmente bravo », annuì Barbara, ignorando la sfida. « Mi ha raccontato il soggetto del suo prossimo romanzo. Ha già cominciato a lavorarci? » « Comincerà solo dopo che ci saremo trasferiti. » Si era fatta guardinga. « Pensiamo di andarcene in Irlanda, quando vedremo un po' dei soldi della vendita che hai fatto tu. Laggiù sanno come si tratta un artista. » « Sì, diversi miei clienti sarebbero d'accordo con te. » Gli scrittori in Ir-
landa non pagano tasse. Barbara riuscì a spostare la conversazione sul modo in cui le diverse società trattano gli scrittori, terreno su cui le trappole di Sybil erano più facilmente evitabili. « Ho saputo che hai fatto delle obiezioni quando Paul ha incontrato un altro agente », disse comunque Sybil, durante la cena. « Paul è libero di cambiare agente quando vuole. » Paul arrossì come un bambino che deve rimaner zitto mentre gli adulti parlano di lui. « Ma credo che non gli convenga. » « Be', è naturale che tu lo creda. Spero che mi perdonerai la franchezza, ma voglio essere sicura che i suoi libri fruttino fino all'ultimo penny possibile. Voglio essere assolutamente certa che ai nostri figli non tocchi mai più un altro di quei brutti periodi. Certamente, Paul, sono sicura che non succederà, eppure », si rivolse a Barbara, « mi domando se da qui puoi gestire i suoi affari in America come farebbe un agente americano. » « Ma io posso essere lì in meno di una giornata ogni volta che ne ho bisogno. Devo trovarmi a New York il mese prossimo per condurre l'asta. Dato che gestisco tutti i diritti in lingua inglese sono in grado di negoziare un accordo complessivo migliore che se dovessi mettermi a discutere con un altro agente per decidere la spartizione dei territori. Spunterò delle condizioni che Howard Eastwood non oserebbe nemmeno prendere in considerazione. » « Scusami », ribatté Sybil, « ma noi non abbiamo modo di sapere se quello che stai dicendo è giusto o sbagliato. Questo devi ammetterlo. » « Eastwood è uno schifo di agente. » Barbara si rese conto che aveva bevuto un bel po', ma non aveva importanza. « Si fa pubblicità su una mezza dozzina di riviste. Un buon agente non ha bisogno di pubblicità. » Perché attaccare Eastwood quando poteva promuovere se stessa? « È inutile dire che faremo più soldi negli Stati Uniti che qui », continuò, « ma posso promettervi che sarà ancora meglio di quanto sperate. » Solo più tardi, mentre guidava con cautela verso casa lungo Euston Road, si chiese se non fosse caduta nella più grossa trappola della serata. Aveva presunto che la cena della sera fosse un'offerta di pace, ma non serviva invece a coglierla con la guardia abbassata? In un certo senso non aveva molta importanza — era certa che a New York avrebbe avuto ottimi risultati, come aveva promesso — ma questo significava che si era impegnata ad andarci il mese prossimo, qualunque cosa accadesse. Doveva convincersi di aver fatto tutto quanto era in suo potere; ora toccava a Gerry Martin.
Fu contenta di uscire dal parcheggio sotto il Barbican. Altri tubi al neon cominciavano a vacillare; sopra le gobbe semibuie delle macchine la luce creava l'impressione che il soffitto tremolasse. Un'ombra le fece lanciare un'occhiata verso l'angolo dove aveva visto il mucchio di ragnatele. Qualcuno doveva aver fatto pulizia, perché l'angolo era libero. Desiderò di poter fare qualcosa per fermare quel tremolio, quegli oscuri movimenti repentini dietro le macchine. Un piccolo riflettore era puntato sul lago. La chiesa di St. Giles sembrava ritta su palafitte grazie al riflesso dei lampioni. Quando fu pronta per andare a letto Barbara dovette spegnere tutte le luci, che non si era accorta di aver acceso. Finalmente si addormentò, ancora cercando di riafferrare l'idea che le era venuta prima di cena. Era sicura che aveva a che fare con Angela. Le pareva di essersi appena addormentata quando la sveglia telefonica chiamò, ma il sole già lambiva le tende. Cercò a tentoni il telefono, seccata perché era ancora mezzo addormentata. Niente poteva svegliarla al mattino come parlare con qualcuno. Sistemò il ricevitore sul cuscino. « Pronto », mormorò. Era la comunicazione più disturbata che avesse mai sentito. Non riusciva neppure a sentire la voce. « Pronto », riuscì ad articolare più chiaramente, e dopo una pausa la voce si fece più forte. « Sono io, mamma », disse. Barbara strinse il ricevitore, ma questo andò a sbattere sul pavimento, come se glielo avessero strappato via. Stavolta era certa che la voce era quella di Angela, non uno scherzo, e all'improvviso si rese conto di come era stata ansiosa di liquidare le telefonate, di credere che Angela fosse morta e sepolta. Si buttò disperatamente sul tappeto, con la testa che le scoppiava, e afferrò il ricevitore. « Dove sei? » gridò. Il mormorio di risposta era meno chiaro del ronzio dell'elettricità. « Non ti sento », disse Barbara, sul punto di crollare. « Parla più forte. » « Non posso parlare molto più forte. Ti chiamo adesso che tutti dormono. » Ma non tutti, perché proprio in quel momento Barbara sentì la voce di un uomo attraverso il ricevitore. Non riuscì a distinguere le parole, ma il tono era inequivocabile, crudele e beffardo. A un tratto la linea si interruppe. Barbara riuscì a fare il numero del centralino, nonostante le dita paralizzate. Quando finalmente il centralino rispose, spiegò in tono arrogante a Barbara che era troppo tardi per rintracciare la chiamata Barbara rimase all'apparecchio per dieci minuti mentre il telefono suonava all'Other News, e
cominciò a sentirsi sgomenta per la sua stessa incapacità di reagire. Finalmente la voce assonnata di una donna le rispose a fatica e pur di liquidarla le diede il numero di casa di Gerry Martin. Al numero di Gerry non rispose nessuno. Barbara si precipitò alla casa, un appartamento in un edificio a Brixton dall'aspetto fuligginoso e cadente. Non sapeva lei stessa cosa voleva: temeva che ormai la setta si fosse messa in allarme sospettando la presenza di una spia; e temeva ancora di più che Gerry tardasse a mettersi in azione, ora che forse sapevano che Angela li aveva denunciati alla madre. Ma le ragazze che abitavano nell'appartamento di fronte dissero che Gerry aveva pagato due mesi di affitto in anticipo e non aveva lasciato indirizzo. Dovunque fosse, era impossibile rintracciarla. Capitolo 18 Mentre attraversava Regent's Park il cielo si fece nero. Gerry era troppo lontana dallo zoo per rifugiarsi lì. Corse sotto una quercia, con la borsa di canapa sdrucita che le batteva sull'anca, quando i primi goccioloni cominciarono a cadere. Non appena si appoggiò al tronco le si chiusero gli occhi: una nuvola di sonno le si raccolse attorno, assorbendo i suoni, attenuando la sensazione di ruvido della corteccia e il mal di piedi. Si appisolò addossata all'albero e attese che lo scroscio passasse. Ma era un temporale. Quando si svegliò per la seconda o terza volta, le parve di trovarsi su un'isola nel mezzo di un lago in tempesta. L'aria era una massa di acqua grigia che l'inzuppava da qualsiasi lato dell'albero si mettesse. La pioggia le cadeva addosso dagli strati di foglie, trovandosi mille passaggi. Tutt'attorno a lei l'erba si agitava come sul punto di annegare. Poteva andare peggio, pensò acidamente; poteva ancora trovarsi a lavorare per un giornale locale, cercando di arrampicarsi su montagne di notizie — matrimoni, infrazioni stradali, conferenze nei locali della chiesa — per fare un altro passo sulla strada del giornalismo autentico. Oppure poteva star scrivendo per l'Other News, che era un altro vicolo cieco: La trappola di Dio poteva essere buono quanto si voleva, ma quel numero non aveva venduto molte copie in più. Più piccolo è il giornale, meno opportunità si hanno di farsi un nome. Be', eccola qui, giornalista investigativa indipendente, finalmente, e quello si presentava come il più bagnato e squallido lavoro possibile su questa costa del Mare del Nord. Stava diventando davvero la vagabonda per cui voleva farsi passare, e poteva solo sperare
che infradiciarsi in quel modo la rendesse ancor più convincente. Finalmente la pioggia cominciò ad attenuarsi. Il viso tondo del sole fece uno strappo nelle nuvole. Gerry tirò fuori dalla borsa il suo secondo paio di scarpe, poi si incamminò tra il fango e l'erba scivolosa verso Euston Road. Tutti gli edifici sembravano come lavati e messi ad asciugare; i tetti delle auto fumavano come barre di ghiaccio. Si affrettò verso la stazione, dove ormai cominciava a sentirsi come a casa sua. L'alta, spaziosa, anonima sala d'attesa di Euston era affollata di gente in coda che usciva dal varco di controllo dei biglietti. Qui c'erano una dozzina di ragazzini con lo zaino, là degli scozzesi con delle ginocchia che parevano ustionate, là un cieco che seguiva il suo cane nel dedalo di valigie e carrelli. Gerry si chiuse in un gabinetto della toilette per signore, si spogliò completamente e si asciugò con l'asciugamani che aveva nella borsa. Si era portata un cambio di biancheria, ma per altri vestiti non c'era spazio. Mentre la maglietta e i jeans sgocciolavano appesi alla porta lei sedette sul bordo della tazza, ciondolando la testa in cerca del sonno perduto di una settimana. Era una settimana ormai che faceva la vagabonda, e non aveva concluso niente. Possibile che fosse sulla pista sbagliata? Tutte le informazioni che aveva avuto sembravano combaciare perfettamente. Si era sentito parlare della gente senza nome anche a Londra, il che confermava le sue deduzioni: se Angela era nelle mani della setta non avrebbe osato avventurarsi lontano da loro per incontrarsi con la madre. Dato che le aveva promesso di incontrarla vicino a Portobello Road questo significava che erano da qualche parte in città. La giovane Iris aveva detto che doveva svegliare qualcuno a New Street: non poteva significare altro che la stazione di Birmingham, sede del gruppo subito prima di Sheffield. L'Esercito della Salvezza a Manchester aveva sentito di vagabondi avvicinati da persone che rifiutavano di dire il loro nome o quello della loro organizzazione. Doveva essere in questo modo che reclutavano i loro membri, e così Gerry si era trasformata in vagabonda nella speranza di farsi avvicinare. Si appoggiò oscillando alla canna dell'acqua e sobbalzò, tremando. Un conto era congratularsi con se stessa per essere riuscita a mettere insieme gli indizi, tutta un'altra cosa era trame delle conclusioni. L'ultima settimana le era parsa interminabile — fingere di dormire a Euston, e qualche volta senza fingere neppure, sonnecchiare durante il giorno sulle panchine di un parco — ma perché si era aspettata di poter stabilire il contatto così presto?
Non aveva idea di quanto fosse ampio il gruppo, della frequenza con cui reclutava nuova gente. Se solo fosse stata in grado di interrogare Iris ora sarebbe stata più preparata. Non doveva esitare. Doveva impedire a tutti i costi alla bambina della foto di Barbara di diventare come Iris. Nonostante quello che aveva detto per non alimentare troppo le speranze di Barbara, riteneva probabilissimo che Angela fosse viva. E poi, con questa indagine si sarebbe fatta un nome. Con un'improvvisa apprensione, afferrò il blocchetto dalla borsa, ma la busta di plastica all'interno della borsa aveva impedito alla pioggia di raggiungere il quaderno; stava imparando i piccoli trucchi della miseria. Le sue note parevano scarse per una settimana di lavoro, ma dovevano servire solo a rinfrescarle la memoria quando si fosse messa a scrivere gli articoli. Quando di nuovo si trovò appoggiata alla tubatura si decise a rivestirsi. Gli abiti erano ancora tutti bagnati, le ginocchia dei jeans ancora zuppe, ma una passeggiata al sole li avrebbe asciugati. Attraversò il salone di Euston, passando accanto a un giovane pallido che sembrava un monaco, un morto di fame, con la tonsura più lunga da un lato, e per un momento sentì che non ce la faceva: la folla era troppo rapida e caotica, il rumore enorme, incomprensibile, terrificante. Se solo avesse potuto introdursi di nascosto in casa per un giorno e recuperare un po' di sonno! Ma quello poteva essere proprio il giorno in cui il gruppo cercava reclute. Doveva rimanere pronta. Per quanto irrazionale fosse la cosa, stava cominciando a sentirsi senza casa e senza amici proprio come sembrava. Fu tentata di chiamare Barbara Waugh, ma non aveva niente da dirle. No, c'era qualcosa di meglio che poteva fare per sentirsi meno vulnerabile. Fuori dalla stazione infilò la tessera del bancomat nella cassa automatica sul muro e batté il suo numero di codice. Quando si fu infilata venti sterline in tasca si sentì più sicura, finché si rese conto che se un membro del gruppo l'aveva vista, la sua copertura era rovinata. Si guardò furtivamente attorno, ma quelli che la guardavano si stavano chiaramente domandando se avesse rubato la carta. Era incoraggiante. In cinque minuti fu in Tottenham Court Road e starnutì alla luce del sole. Un pranzo messicano avrebbe dovuto aiutarla a liberarsi del raffreddore, se ce n'era uno in arrivo. Ma da Viva Tacos non la lasciarono entrare. « I tavoli sono tutti prenotati », le disse senza espressione il cameriere. Stava vivendo tutte le conseguenze del suo travestimento. Finalmente trovò uno snack bar dove le avrebbero servito il suo san-
dwich attraverso un finestrino. Sedette su una panca di fronte a un negozio di televisori, dove la faccia di un uomo in vari colori e dimensioni stava muovendo la bocca. Gli occhi continuavano a chiudersi mentre mangiava. Si trattenne dal tornare subito a Euston e avanzò a fatica, in mezzo ai nugoli di turisti, per Oxford Street, per un po'. Di tanto in tanto trovava rifugio in qualche grande magazzino — alcuni erano più freschi — ma il personale di sicurezza la seguiva finché lei non ne usciva. Era ben contenta di essere così convincente, ma non poteva permettersi di farsi arrestare. Al Marble Arch svoltò per Park Lane. Le limousine argentate passavano silenziose, portieri in uniforme la guardavano con il cipiglio nel caso pensasse di avvicinarsi ai loro alberghi. Riuscì a dormire un'oretta in Hyde Park, ma si svegliò tremando nonostante il sole. In una farmacia comprò della vitamina C — avrebbe dovuto farlo prima — e convinse la commessa a darle un bicchiere di acqua calda per sciogliervi una di quelle bustine dal gusto di limone. Gironzolò per Piccadilly fino a Leicester Square. Al di sopra dei tetti le gru sembravano brancolare nel cielo. Ebbe la sensazione che la sua mente fosse lassù con loro, e cercasse di far presa su qualcosa, probabilmente il suo corpo. Dopo essere rimasta seduta per un po' in Leicester Square andò al cinema. Se non altro là dentro sarebbe stato meno umido. Si addormentò prima ancora che il film iniziasse, e quando il suo russare la fece svegliare di scatto, un uomo stava sbudellando un bambino deforme con un paio di forbici. Chiuse gli occhi in fretta, finché le grida del bambino la svegliarono di nuovo nel mezzo dell'identica scena. Un grumo di oscurità con gli occhi color lumaca la stava fissando da sopra la sua spalla. Uscì dal cinema prima che le chiedessero di andarsene, e fu sorpresa di scoprire che il giorno era finito. Era entrata nel cinema con la luce piena e ora era buio, tranne che per i fari delle macchine che fendevano la strada bagnata. Aveva dormito per due spettacoli di seguito. Si affrettò a risalire lungo Charing Cross Road, sui marciapiedi chiazzati di neon. Tottenham Court Road le parve un film dell'inizio della sua passeggiata pomeridiana, un film proiettato a scatti a ritroso. La fretta le faceva sentire il corpo infocato, e ora cominciava anche a pungerle dappertutto. Prima di raggiungere Euston Road dovette reggersi a un lampione temendo di sentirsi male. Quando arrivò nell'atrio di Euston rallentò, ansimando. Il rumore del suo respiro era sottile e irreale, troppo esile anche per provocare un'eco. Una voce rimbombava dall'alto, annunciando i treni. C'erano poche persone in
giro, che l'atrio e la voce facevano sembrare minuscole. Andò a cercarsi un sedile, con le gambe che le tremavano. I pochi sedili — panche strette fatte chiaramente apposta per scoraggiare i vagabondi dal dormirci — erano tutti occupati. Sui marciapiedi dei binari c'erano panchine? Se comperava un biglietto di ingresso, il controllore l'avrebbe lasciata entrare? Ma in quel caso sarebbe stata fuori di vista per qualcuno che andasse in cerca di vagabondi. Stava indugiando presso le transenne quando vide un giornalista che conosceva che si avvicinava a grandi passi. Era sul punto di salutarlo quando si rese conto di quello che stava facendo. Allora si infilò nella toilette, con una sensazione assurda di clandestinità. Certamente non sarebbero mancate altre occasioni di sentirsi assurda, prima che la ricerca fosse terminata. L'anziana incaricata della toilette delle donne le diede un bicchiere di acqua calda con cui prese un'altra bustina di vitamina C. « Sta bene, cara? » le chiese la donna premurosamente, e Gerry dovette spiegarle che era solo un po' di raffreddore. Nello specchio vide quello che vedeva la donna: i foruncoli le erano peggiorati, accentuati da un pallore malato; i capelli parevano spago fangoso. Più ancora che di dormire, quando questa faccenda fosse finita, aveva bisogno di passare delle ore dentro un bagno caldo. Ora doveva tornare nella sala della stazione. Si era quasi abituata a dormire in piedi — in quel modo era meno probabile che la mandassero via — ma quella sera aveva paura di non averne la forza. Tutto la svegliava, i pacchi dei giornali buttati a terra, le voci amplificate che davano le comunicazioni del personale, gli ubriachi che le alitavano in faccia, i poliziotti che erano lì quando apriva gli occhi come se fossero in attesa di arrestarla. Le sole persone da cui avrebbe voluto essere svegliata non avevano nome. Finalmente trovò un pilastro a cui appoggiarsi, nel mezzo della sala. Si assicurò che il libro di von Daniken sporgesse dalla borsa tra i suoi piedi — voleva che la prendessero per una credulona in cerca di qualche vago mistico segreto — poi chiuse gli occhi. Forse delirava, poiché le sembrò di sprofondare improvvisamente in un bozzolo; il pilastro dietro le sue spalle si fece soffice e orizzontale. La calda luce dietro le palpebre l'attirò dentro di sé. « Ho detto, vuoi venire da noi per la notte? » Era un ufficiale dell'Esercito della Salvezza, che mantenne la sua aria paziente quando lei lo fissò con uno sguardo assente, e anche quando mormorò malamente qualcosa. Non poteva essere certa che non fosse un sogno, uscito dalla sua ricerca sull'E-
sercito della Salvezza. Pareva tutto poco convincente, come l'orologio che le diceva che aveva dormito per un'ora. Ora che si era svegliata non riusciva più a riaddormentarsi, e il raffreddore era peggiorato. Il pilastro ondeggiava, il pavimento era il ponte di una nave durante una tempesta, il comandante era un gigante che si chinava verso di lei, che urlava informazioni sui treni. Sì, era in una stazione, la stazione di Euston, e c'era gente che girava ascoltando la radio, oppure quelle erano le voci delle persone? Era impossibile dirlo, erano tutti piccoli e confusi. Una cosa sembrava chiara: se avesse avuto adesso l'occasione di infiltrarsi nel gruppo, ne avrebbe potuto fare un ben scarso uso. Non aveva scelta. Doveva andare a casa per quella notte e cercare di smaltire dormendo il raffreddore, sperando di non aver perso l'occasione buona. Certo una sola notte non poteva aver importanza. Quando fosse tornata a Euston si sarebbe attrezzata meglio per far fronte ai cambiamenti meteorologici. Si girò, sempre appoggiata al pilastro, e guardò l'orologio, che aveva guadagnato una mezz'ora. Come faceva ad arrivare a casa ora che i treni erano fermi per la notte? A volte i taxi l'avevano ignorata anche quando era in condizioni migliori. Forse, se si. metteva in coda al parcheggio di Euston, e se era pronta a mostrare i soldi, un taxi l'avrebbe caricata. Si costrinse ad aprire gli occhi e pensò di aver visto male l'ora. Come potevano essere passati dieci minuti dall'ultima volta che aveva guardato l'orologio, un paio di pensieri fa? Eppure era così, e una giovane donna malconcia, con i capelli che parevano pece pettinata, la stava fissando. « Ti serve un letto? » Gerry stava per rifiutare quando si rese conto di quanto stesse male: la giovane donna dal lungo viso, la stazione, il suo corpo stesso, era tutto distante e inafferrabile come ghiaccio. Non ce la faceva ad affrontare una discussione con un tassista. « Da dove vieni? » chiese. « Dal London Refuge. Abbiamo un furgoncino, fuori. Non importa se non hai soldi. » Chiaramente questo significava che il letto era quanto di peggio, ma l'offerta era irresistibile. Se c'era altra gente a dormire al London Refuge, magari potevano dirle qualcosa sui senzanome; i barboni erano l'unico gruppo che non aveva interrogato, e potevano essere proprio quelli che ne sapevano di più. Seguì la donna nella notte rigida. Quando raggiunsero il furgoncino in una strada laterale comparve dietro di lei un giovane, con una tonsura da monaco. Non si era accorta che le
stava seguendo. « Tu viaggi dietro », disse, aprendo gli sportelli. Gerry pensò che sul sedile anteriore c'era posto per tre, ma non aveva voglia di discutere, neppure quando vide la confusione nel retro, scatole, attrezzi arrugginiti e mattoni, così lerci che sembravano saldati tra loro. Si sistemò nello spazio libero e lo sportello fu richiuso immediatamente dietro di lei. Si era appena seduta che il furgone partì con un sobbalzo. Il divisorio dietro il guidatore non aveva aperture, e dal finestrino posteriore non poteva vedere molto, salvo i lampioni che scorrevano nella notte. Riuscì ad appoggiarsi alla parete del furgone e tentò di ricordarsi se avesse mai visto prima il giovane e la donna. Non li aveva già scorti diverse volte a Euston? Mentre andavano verso il furgone aveva notato dei capelli bianchi tra quelli tinti della donna. Ogni volta che il veicolo rallentava Gerry si sporgeva verso il finestrino, e così quando giunsero a destinazione vide dove si trovavano: Earls Court, appena dietro Cromwell Road. L'avrebbe forse riconosciuta solo dal rumore. Quando il giovane aprì la porta, lei vide che si trovavano su un vialetto sotto un folto gruppo di alberi, di fronte a una casa a tre piani. Tutt'attorno al portico il terreno sembrava incrostato di vernice. Forse gli alberi aiutavano a bloccare il rumore, ma qui sembrava ancora più forte. Il fogliame ondeggiante risuonava come i camion che correvano ruggendo verso l'autostrada. Si sentiva intasata di rumore e di catarro. Quando alzò gli occhi verso la casa, da una finestra in alto Barbara Waugh la fissava. Per un attimo pensò che il delirio fosse peggiorato, poi si rese conto che era una ragazza magra che assomigliava a Barbara. Non poteva essere che Angela, e annaspò — ma aveva urtato contro lo spigolo del furgone, e i suoi accompagnatori dovettero pensare che era per quello che aveva fatto quel verso soffocato. « Sei stanca », disse la giovane donna con aria indifferente, mentre l'accompagnavano verso la casa. Gerry guardò in alto, senza alzare la testa, prima che raggiungessero il portico. Angela si stava ritirando nella stanza semibuia e pareva circondata da diverse figure; la stavano invitando o costringendo ad allontanarsi dalla finestra? La donna di Euston aprì la porta scrostata mentre Gerry saliva i gradini cigolanti. Oltre la porta, l'ingresso e le lampadine non schermate erano di un colore bruno sporco. In fretta, perché non si chiedessero come mai esitava, entrò nella casa.
Capitolo 19 QUANDO la porta si chiuse dietro di lei ebbe paura che non sarebbe riuscita a comportarsi con naturalezza, era troppo stanca e troppo malata per sostenere la finzione. Per fortuna doveva solo comportarsi come uno che è stanco, e questo non era un problema. Anzi, le cadde quasi la borsa, avendo dimenticato che la teneva in mano, mentre la donna la conduceva di sopra. Dentro la casa il rumore del traffico era attutito, un'ottusa massa confusa di suono che sembrava fondersi con la luce sporca in un unico elemento soffocante. Forse la carta da parati era marrone, forse le macchie sul tappeto delle scale avevano un disegno e un colore. C'erano delle voci che mormoravano dietro la porta della stanza dove aveva visto Angela? Non poteva dirlo con certezza. C'erano tre porte sul primo pianerottolo e tre all'ultimo piano, dove la donna accompagnò Gerry. Accanto alla lampadina grigiastra c'era un lucernario chiuso con delle assi. La donna aprì una porta e fece scattare un interruttore, ma la stanza rimase al buio. « Non funziona », disse piattamente. « Il tuo letto è vicino alla porta. » Quando Gerry avanzò poté distinguere due file di materassi contro la parete, tre letti per ogni fila. La luce proveniente dalla finestra aperta raggiungeva a stento quello che era stato assegnato a lei; delle forme oscure erano ammucchiate sopra gli altri. La donna attese finché Gerry non si fu spogliata, rimanendo in slip, poi le tirò addosso la coperta e chiuse la porta. Per un attimo Gerry temette che la chiudessero a chiave, ma la donna andò subito di sotto; il cigolio degli scalini si distingueva nel frastuono del traffico. Gerry rimase sdraiata, incastrata dagli altri letti e dal buio che aveva un odore di umido anche attraverso il raffreddore. Era riuscita a infiltrarsi nel gruppo. Era stato facile. Senza dubbio avrebbero cercato di tirarla dentro, probabilmente la mattina dopo appena sveglia; le sette devono acchiapparti quando e dove sei più vulnerabile. Ora era meno ansiosa e sentì di delirare meno. Potevano fare ogni sforzo per farle il lavaggio del cervello, non sarebbero mai riusciti a ridurla come Iris. Quel genere di cose funzionava solo con personalità meno solide della sua. Aveva bisogno di dormire per essere pronta per loro, ma ci sarebbe riu-
scita? Dormire in una stanza, insieme con gente che non aveva mai visto la rendeva oscuramente agitata, e poi c'era il rumore. Probabilmente il gruppo sceglieva di vivere in case di quel tipo perché il rumore abbassava gli affitti, se pure non ci si insediavano abusivamente, come a quanto pareva avevano fatto vicino a Portobello Road. Si stava chiedendo se sarebbe riuscita a sonnecchiare quando cadde profondamente addormentata. Si svegliò che era ancora buio, ma si sentiva più fresca e completamente libera dalla sensazione di delirio. Aveva solo un mal di gola così forte che fu contenta di non dover parlare. Rimase sdraiata aspettando che gli occhi si adattassero all'oscurità. La finestra era priva di tende, ma gli alberi erano efficaci quanto le imposte; i bagliori della pioggia scintillavano sopra le foglie. Il frastuono del traffico aveva raggiunto il tono di un lamento acutissimo. A parte quello, riusciva a sentire solo il suo respiro congestionato. Non sentiva il respiro dagli altri letti. Certo, il rombo del traffico poteva coprire ogni altro rumore, ma improvvisamente si sentì agitata. Sedette sul letto e si sporse verso quello vicino. Dalla figura raggomitolata pareva non giungesse alcun rumore. Gerry si tenne al bordo del materasso e si sporse ancora di più, ma la sua presa era più debole di quanto pensasse e perse l'equilibrio. La mano libera le finì dentro la forma nel letto accanto — si infilò in profondità in quella forma. Riuscì a trattenere un grido, rendendosi conto che non c'era una persona, solo un cuscino avvolto tra le coperte. Non aveva svegliato gli occupanti degli altri letti con il rumore della caduta? Si costrinse a fare un giro di ricognizione, nonostante l'agitazione le desse l'idea che uno di loro la stava guardando nel buio. Tutte le figure erano letti disfatti. Rimase ritta accanto alla finestra, dove c'era un po' più di luce. Ora anche nel suo letto pareva ci fosse qualcuno. Non riusciva a trovare un motivo per cui dovesse sentirsi a disagio — probabilmente la gente che dormiva in quella stanza ora era altrove — ma continuava a cercarne uno. Improvvisamente capì che cosa non andava: ora che era più vicina al traffico, quel tono acuto si era allontanato. Non aveva niente a che fare con il traffico. Era il pianto di un bambino all'interno della casa. Bene, lei sapeva che nel gruppo c'erano dei bambini, e si sa che i bambini a volte piangono. Dopo un po' tornò al suo materasso, ma invece di stendersi si accovacciò, cercando di localizzare il pianto del bambino. Fuori dalla finestra i rami sgocciolavano e ondeggiavano. Che c'era che non andava in quel pianto? Perché sembrava così soffocato?
Finalmente, riluttante, si alzò e socchiuse la porta. Per quanto la girasse lentamente, la maniglia cigolò. Uscì in punta di piedi sul pianerottolo deserto, tra due porte chiuse. Il pianto veniva dal basso, e ora capì che cosa non andava. Non era soltanto soffocato, sembrava anche imbavagliato. Doveva ignorarlo. Se si tradiva adesso il gruppo poteva fuggire prima di essere fermato — ma come poteva ignorarlo? E se era la figlia di Barbara? Non aveva importanza chi fosse, Gerry doveva scoprire cosa stavano facendo al piccolo. Si vestì in fretta, poi prese la borsa, nel caso qualcuno trovasse il suo quaderno, e scese furtivamente le scale. Mettendo i piedi sul bordo dei gradini riuscì a evitare che scricchiolassero, ma il corrimano era instabile. A metà strada perse l'equilibrio e dovette reggersi: appena lo afferrò quello cedette di schianto. Per un momento pensò che sarebbe andato giù, facendola precipitare nella tromba delle scale. Vi rimase attaccata per un po' trattenendo il fiato e chiedendosi se qualcuno avesse sentito. Finalmente raggiunse il piano inferiore. Nella luce marroncina le tre porte avevano un aspetto irreale, come disegnate e dipinte su un muro. Al di là della porta centrale, nella stanza dove aveva visto Angela alla finestra, fu sicura di sentire delle voci che mormoravano. Il rumore del traffico doveva aver impedito a quelli che erano dentro di sentire la ringhiera che aveva ceduto. Questo significava che se c'era qualcuno che la seguiva non ne avrebbe sentito i passi? Il pianto era ancora sotto di lei. Sembrava più lontano che mai. Superò le porte in punta di piedi e scese l'altra rampa. L'ingresso appariva immerso in quella luce cremosa che saliva verso di lei. Improvvisamente il pianto cessò e lei si bloccò, a metà dell'ultima rampa. Da là poteva vedere la porta d'ingresso e si rese conto che era chiusa con un catenaccio. Qualunque cosa scoprisse, da quella parte non sarebbe stata certamente in grado di trovare alcuna via d'uscita. Ma doveva rimanere finché non avesse scoperto tutto sul gruppo. No, non si stava esponendo, certamente chiunque sarebbe sceso per andare in aiuto al bambino — chiunque, non solo una spia. Forse il bambino ora stava bene, ma doveva accertarsene. Quando raggiunse l'ingresso guardò su, inquieta, verso le scale deserte, poi si costrinse a girarsi con le spalle alla porta chiusa dell'ingresso. C'erano quattro porte che davano sull'atrio, compresa una sotto le scale; probabilmente quella portava in cantina. In fondo all'atrio luccicavano nella cucina gli attrezzi metallici. Così rimanevano due stanze. Andò alla prima,
tra le scale e la porta d'ingresso. Quando spinse la porta all'interno cadde un indumento. Lo sentì cadere e sentì il morbido ostacolo mentre continuava a spingere. Temeva che l'indumento si incastrasse sotto la porta rendendola più rumorosa, ma ci fu solo un lieve fruscio. Dopo un po' la porta fu socchiusa abbastanza da permetterle di guardare dentro. La stanza era meno buia di quella all'ultimo piano: attraverso i tronchi passava più luce che tra il fogliame. Tuttavia passò qualche momento prima che fosse in grado di vedere. Fissò gli occhi sulla finestra senza tende e ignorò l'impressione di movimento accanto a lei. Quando riuscì a vedere meglio, si accorse che la stanza era completamente vuota. Non c'era nulla dietro la porta, neppure un gancio da cui potesse essere caduto un indumento. D'un tratto si sentì così terrorizzata che non fu sicura di potersi muovere. Era lì, sporta in avanti, mezza dentro e mezza fuori dalla stanza, le mani aggrappate alla cornice della porta una sopra l'altra, incapace di mollare la presa. Soprattutto aveva paura di alzare lo sguardo. Non ce n'era bisogno, poteva vedere che il bambino non era lì, poteva lasciarsi, spingersi via dalla cornice della porta, fuori dalla stanza. Ricadde nell'ingresso e a stento riuscì a non sbattere la porta chiudendola. C'era un'altra porta chiusa, verso la cantina e la cucina. Doveva andare avanti, non poteva uscire dalla casa. Andò comunque prima in cucina, la cui porta aperta la rendeva meno minacciosa. Nella penombra distinse il contorno di un lavandino, un fornello, una tavola con delle sedie attorno. Non c'era altro da vedere. Non poteva perdere altro tempo. Quello che c'era da scoprire, qualunque cosa fosse, si trovava nell'ultima stanza. Strisciò verso la sua porta, appoggiandosi con una mano alla parete umidiccia. La maniglia era fredda, appiccicosa. La sua ombra, un ammasso nero con una forma completamente diversa dalla sua figura, si acquattò. Quando ebbe socchiuso la porta scoprì che la stanza era buia. Dovette tastare alla cieca la parete invisibile in cerca dell'interruttore. Ecco qualcosa di rotondo, una sporgenza in cui si imbatterono le dita. Era effettivamente l'interruttore, con la levetta spezzata. Abbassò il mozzicone rimasto. Non c'erano bambini nella stanza. Sotto la lampadina non schermata c'era una sedia di legno e un tavolo zoppo, uno schedario, una scansia piena di libri messi a casaccio. Una tenda nera, spessa come una coperta, era inchiodata alla finestra. Fece d'impulso un passo avanti e si chiuse piano la
porta alle spalle. Forse questa stanza le avrebbe dato un'idea degli scopi del gruppo. Se i libri erano in disordine, il loro tema era fin troppo preciso. Enciclopedia del delitto, Storia della tortura, Cannibalismo e sacrificio umano, Il flagello della svastica — l'ossessione al sadismo era quasi soffocante. Qui c'era un'edizione illustrata di de Sade, poi un libro intitolato Il mandala Manson. Uno degli scaffali era pieno di libri con la copertina senza titolo, che per il momento preferì non aprire: gli interessi del gruppo erano già sufficientemente chiari. Non era l'influenza che la faceva star male, ora. Le era tornato in mente il tono di angosciato disgusto di Iris mentre diceva: « Ci facevano fare delle cose. Mi piace ripensarci ». Pensò ad Angela, al pianto del bambino. Perché era cessato? Evidentemente andando allo schedario, stava tentando di ritardare la sua ricerca perché era certa che i cassetti li avrebbe trovati chiusi a chiave. Quando tirò il cassetto superiore, questo uscì sferragliando, così forte in mezzo al rumore soffocato del traffico che la lasciò senza fiato. Conteneva nastri, cassette e bobine di film in scatole contrassegnate solo con dei numeri, e si sentì nonostante tutto sollevata dal fatto di non essere in grado di dire cosa contenessero. Ma anche il secondo cassetto era aperto, e questo era pieno di fotografie. Ne pescò una manciata e le portò sulla scrivania sotto la lampada. Dovette sollevare una foto per eliminare il riflesso, ma non appena realizzò quello che raffigurava senti l'impulso di buttarla via. Si costrinse invece a guardare meglio, nella disperata speranza che vista più attentamente si rivelasse un fotomontaggio. La foto era stata scattata in una foresta. Riconobbe immediatamente gli alberi giganteschi: sequoie, in California. Inchiodato a uno dei tronchi c'era un corpo nudo. Benché fosse nitido in modo abominevole, non avrebbe potuto dire né il suo sesso né la sua età. Troppa roba ne era stata asportata. Sfogliò la manciata di foto mentre tutto il suo corpo si rivoltava, disperatamente ansioso di andar via. Il resto delle immagini era ancora peggio. Molte erano state fatte in California. Le tornò in mente il riferimento a un gruppo che una delle donne di Manson aveva definito peggio della Famiglia; forse, dopo tutto, c'era una connessione. La gran parte delle foto erano state scattate in case molto simili a quella in cui ora si trovava rinchiusa Gerry. Gli interni erano tipicamente inglesi; qualcuno di essi poteva essere proprio di quella casa? Le mani non le ri-
spondevano più, era incapace di smettere di sfogliare le fotografie. Ormai sapeva che le foto non erano false; erano troppo fredde, piatte come reperti di polizia, spaventose nell'indifferenza per quanto andavano mostrando. Forse aveva sbagliato a supporre che il gruppo scegliesse le sue case in zone rumorose perché più economiche; probabilmente il rumore doveva servire a soffocare i suoni provenienti dall'interno della casa. Stava inconsciamente raccogliendo le foto, rendendosi conto di quanto altro poteva esserci nello schedario — cosa potevano aver registrato quei nastri, quei film? — quando il pianto riprese. Non aveva ancora guardato in cantina. Per un attimo si sentì ondeggiare sulla sedia e temette di essere sul punto di svenire, ma un momento dopo si trovò a correre verso la porta, dimenticando Barbara Waugh, il suo travestimento, la sua missione. Sapeva solo che doveva salvare il bambino. Corse in punta di piedi in cucina e sotto l'acquaio trovò un coltello da macellaio in un cassetto. Rabbrividì quando la lama le tagliò la pelle del pollice, ma così affilato la rassicurava. Nonostante il tremito alle gambe, si diresse a grandi passi verso la porta della cantina e la spalancò, tenendo basso il coltello. Un passaggio ingombro portava a una rampa di scale che davano su una seconda porta. La luce stagnante dell'ingresso si raccoglieva attenuata nel passaggio e luccicava su un interruttore di fondo. Il pianto era cessato già quando lei era in cucina, ma doveva venire da laggiù. Scendendo aveva la sensazione che la curvatura del soffitto la spingesse verso il basso. Quando aprì la porta con un calcio e vi trovò il buio dietro, immediatamente abbassò l'interruttore. La cantina era ampia, con i muri di mattoni non intonacati, e pareva completamente vuota. L'unica nuda lampadina lasciava gli angoli in ombra, ma in nessuno di essi poteva esserci un bambino. Sbigottita, si fece avanti. D'un tratto sbucò fuori, sopra di lei, qualcosa della grandezza di un bambino, lungo il soffitto. Fece un sobbalzo così violento che lasciò cadere il coltello, che tintinnò sul pavimento di cemento. Ma non c'era nulla sopra di lei tranne lei stessa: il soffitto era coperto di piastrelle di specchio. Si fissò nervosamente là in alto, pendere capovolta, rimpicciolita e impotente. Aveva appena cominciato a chiedersi se quelle piastrelle di specchio erano state messe lì in modo che la vittima del gruppo potesse vedere quello che le stavano facendo, quando sentì dei passi che scendevano verso la cantina. Raccolse il coltello e indietreggiò, desiderando subito di essersi nascosta
piuttosto dietro la porta. Le sarebbe servito a poco: sugli scalini c'erano quattro uomini. Entrarono nel locale e la fissarono, con visi inespressivi. Chiusero subito, mettendosi tra lei e la porta. Non l'avevano ancora raggiunta quando qualcun altro arrivò giù dalle scale correndo leggero. Era una bambina sui sei anni, con un pigiama rosa a coniglietti azzurri. Sorridendo a Gerry, si mise due dita in bocca ed emise un monotono lamento. Era quello il pianto soffocato .che aveva sentito Gerry. Gerry era stata attirata laggiù come una bestia al macello, e comprese una cosa che avrebbe dovuto immaginare molto prima: il gruppo non cercava reclute, tra i vagabondi, cercava vittime. La bambina ridacchiava e sembrava innocentemente contenta di sé. Gerry levò il coltello e lo strinse per il manico, scivoloso per il sudore. « State indietro », disse agli uomini. Loro si fecero avanti, fissandola negli occhi. Ora si stavano allargando; il coltello non ce l'avrebbe mai fatta a tenerli a bada tutti. « Non provateci », avvertì, con la voce che le grattava la gola. « Sono una giornalista. Sono stata mandata qui a fare indagini su di voi. » L'uomo sulla sinistra fece un sorriso cattivo, scoprendo pochi denti marci e giallastri dietro le labbra spesse. « Sì, come no », disse. « Lo sono. Guardate questo se non ci credete. » Riuscì a tirar fuori il quaderno dalla borsa che teneva sotto il braccio sinistro e lo lanciò all'uomo. « Al giornale sanno che sono qui. » Lui prese al volo il quaderno e lo strappò a metà senza neppure guardarlo. La bambina squittiva di gioia. Gli uomini, inarrestabili come robot, erano quasi arrivati a Gerry; sopra di lei la sua figura pendeva per i piedi mentre i quattro la serravano in mezzo. Era quasi contro la parete. « Barbara Waugh sa che sono qui », disse, e si rese conto che loro sapevano che stava mentendo; non poteva sapere dove l'avrebbero portata. « La madre di Angela », continuò disperata. « Qui i nomi non contano », ribatté l'uomo sulla sinistra, mentre quello sulla destra allungava la mano e le torceva il braccio finché lei non lasciò cadere il coltello. Quello con le labbra spesse lo raccolse. La bambina guardava affascinata mentre gli altri uomini la tenevano e lui le tagliava i tendini delle braccia e delle gambe. Capitolo 20 L'East Anglia era una verde pianura che terminava in scogliere frasta-
gliate. I gabbiani planavano lungo le spiagge, sfiorando la cresta delle onde. Il Mare del Nord aveva il suono di un'immensa foresta tempestosa; le ondate esplodevano contro le rocce dell'insenatura sopra la quale stava Ted. « La mamma ha detto che sarebbe bello se una volta potessimo uscire tutti insieme per un giro in macchina », disse Judy. Il vento sulla cresta gli faceva svolazzare la barba spingendone la voce dietro le spalle. « Ma sei sicura che è proprio quello che ha detto? » « Sì, perché ha detto che se potevamo permetterci una macchina potevamo andare in posti nuovi in vacanza. » Era proprio tipico di Helen, e certamente aveva sperato che Judy glielo dicesse. « Le parlerò io », promise. Nel viaggio verso casa, la linea dell'orizzonte sulla campagna piatta era tanto vicina da parere irreale; a un certo punto Judy chiese: « Sei proprio certo che la settimana prossima sei via? » « Sì, amore, devo proprio. » Aveva la possibilità di fare un viaggio in Italia che più o meno coincideva con quello di Barbara. Ora Barbara pensava di non riuscire ad andarci, ma era evidente che aveva un gran bisogno di una vacanza. « Visto che stai leggendo di re Artù, non appena ritorno ti porto a Glastonbury. » « Pensavamo che se non andavi potevi venire con noi. » Era certo che Helen non aveva pensato niente del genere, qualsiasi cosa potesse aver detto a Judy. « Ho paura di essere già impegnato. » « Vai via con Barbara? » « Cosa? » Il tono accusatorio nella sua voce fu un colpo spiacevole, ma lui sapeva chi ce l'aveva messo. « Che ne sai di Barbara? » Lui non gliel'aveva mai neppure nominata. « Era la signora che andavi a trovare quando eravamo nel vecchio appartamento. » Questo non poteva saperlo, a quel tempo, era troppo piccola. « Sì, Judy, vado via con lei. Proprio come tu e tua madre andavate via con tuo zio Steve. » Quel punto segnato non gli diede nessuna soddisfazione. Scopo del divorzio era stato evitare a Judy quel genere di ostilità. Stava per domandarle se c'era qualcuno nuovo — chiamarli zii gli pareva una cosa infantile, ma come doveva chiamarli? — quando Judy disse: « Mamma dice che tu preferisci Barbara a noi ». « Non a te, Judy. » Si trattenne dal dire altro, anche se si sentiva sempre più arrabbiato. Tuttavia, quando riportò Judy a casa e lei andò in bagno a
lavarsi, poté affrontare l'argomento con calma; non avrebbe ottenuto niente perdendo le staffe. « Helen, credo che non sia di grande utilità parlarle di Barbara Waugh. » « Che fastidio può darti? » Helen stava riducendo un vecchio vestito in strofinacci per la polvere, certo per mostrare fino a che punto le toccava fare economie. « Ti fa sentire in colpa? » chiese, senza alzare lo sguardo. « Sì, naturalmente. Tutto quello che le racconti di me mira a questo. Voglio dire, dirle che potevamo andar via insieme — davvero lo avresti voluto? » « È evidente che tu non avresti voluto. Già le lesini quell'unico giorno alla settimana. » « Chi ti ha messo in testa questa idea, in nome di Cristo? » Lo fissò dura. « Non farmi ridere. Non sei cambiato tanto, è inutile che cerchi di farmelo credere. La tua Barbara Waugh ti ha mai visto quando hai la luna? Probabilmente con lei ci stai più attento. Lei non dipende da te come noi un tempo. Può sempre piantarti quando ne ha abbastanza. » Sapeva quello che sarebbe seguito — allusioni, silenzi accusatori, sguardi che sottintendevano che avrebbe dovuto sapere quello che lei stava pensando, e se no era ancora più nel torto — ma non riuscì a fermarsi a questo punto; non ne era mai stato capace. « Che luna? » domandò. « Be', quella di adesso è un discreto esempio. Non dirmi che hai dimenticato gli anni in cui ti sentivi il capo di casa. Per quanto ne so sei esattamente lo stesso ora, quando porti fuori Judith. Lei dice di no, ma io spero solo, per il tuo bene, che sia vero. » Lo fissò mentre le forbici attaccavano l'ultimo pezzo di stoffa. « Lo sai che tutte le notti, prima che tu venga a prenderla, ha gli incubi? » « Non mi meraviglia. » « Se questo vuole significare qualcosa, certamente non significa niente per me. » Questa era sempre la via sicura per fargli perdere la pazienza. « Voglio dire che la metti in uno stato tale che non sa più che pensare. Mi piacerebbe sapere che razza di stronzate le fai ingozzare sul mio conto. » « Sei ignobile come certi libri che pubblichi. Questa è un'altra cosa che potresti insegnarle, solo che non te lo lascerò fare. Ricordati che in custodia ce l'ho io. Dammi solo un pretesto e ci penso io a non fartela vedere più. » « Forse non te la darebbero più, la custodia, se la contestassi adesso. » Si era intrappolato in una discussione che non voleva neppure vincere. « Ti
toccherà mostrare al tribunale ben altro che questa specie di isteria, per tenermi lontano da Judy. » « Secondo te loro ci credono che tu tieni a lei? No, se io gli dico quanto sei legato a una donna che non è riuscita neppure a badare a sua figlia. Non c'è da meravigliarsi che te la prendessi con Judith. Non sono gli altri che ti fanno sentire in colpa, sei tu stesso. » Aveva quasi ragione, ma per caso: quando era tornato a casa, la prima volta che era stato a letto con Barbara, aveva dovuto controllarsi per non apparire troppo felice. Ma Helen sospettava già da mesi una relazione con Barbara, e aver dato fondamento ai suoi sospetti lo aveva sollevato dal senso di colpa, lo aveva fatto sentire libero quanto non era mai stato in vita sua. Forse Barbara aveva contribuito a mettere fine al matrimonio, ma non proprio come intendeva Helen. « Scusami Helen, non ho intenzione di discutere di Barbara. » Bussò alla stanza da bagno mentre lei lo guardava con freddezza. « Sto andando via, Judy. La prossima volta ti porto a Glastonbury. » In Upper Street un tappeto arrotolato era appoggiato a una vetrina; accanto al tappeto uno straccione si drizzò e avanzò barcollando verso Ted, ma la bottiglia di vino vuota lo mancò. Non mi meraviglia che Helen sia depressa, pensò Ted costeggiando gli squallidi negozietti. La discussione era stata nel complesso troppo familiare per fargli del male ed era certo che Helen non intendesse seriamente separarlo da Judy. Davvero aveva una così scarsa opinione dei libri che lui pubblicava? Avrebbe dovuto chiederle per quali libri lo stava accusando, ma lei comunque non gli avrebbe risposto; era troppo tortuosa per questo. Era tortuosa come sarebbe stata l'investigatrice privata protagonista del suo libro. Perdio, certo che lo sarebbe stata. Schiacciò il clacson, che strillò a una strada vuota. Certo, in questo modo l'investigatrice avrebbe affrontato il suo lavoro, non come un Philip Marlowe in gonnella. Arrivò a casa in fretta, riscrivendo capitoli dentro di sé. Appena a casa si mise a scrivere, cancellando interi paragrafi scribacchiando tra una riga e l'altra. Improvvisamente tutto quello che andava male nelle pagine che aveva scritto sembrava chiaro e sistemabile. Rielaborò tre capitoli in due ore, e l'energia che aveva accumulato lo spinse a iniziarne uno nuovo. E lì si trovò arenato a metà pagina. La detective era autonoma, ora, non aveva nulla dell'amarezza adolescenziale di Philip Marlowe perché il mondo era meno romanticamente perfetto di come lo avrebbe voluto lui, ma il racconto esigeva un tradimento, dopo, un test per verifica-
re la sua compassione. Quale poteva essere? Barbara poteva aiutarlo. Quando guardò di là dal lago vide che la sua finestra era accesa; dietro il tetto di casa sua il ruvido tramonto si stava oscurando. Rispose al telefono prima che lui sentisse lo squillo. « Sì? » disse con ansia. « Ciao, Barbara, sono Ted. » Pensò che avrebbe dovuto dire: « Sono solo io ». « Ciao Ted. » Faceva del suo meglio per non far trasparire la sua delusione. « Cosa c'è? » « Ho fatto un po' di lavoro sul romanzo, ma ora sono arrivato a un punto morto. Ti andrebbe un drink? » « Sì, vieni da me e te ne offro quanti ne vuoi. Dammi solo qualche minuto. » Lui aveva pensato a un pub; ma in ogni modo sarebbe riuscito a parlarle: erano settimane che non parlavano a lungo. Lei gli era sembrata sempre troppo esausta o nervosa per starla a seccare con il suo romanzo. Si era concentrato nel tentativo di convincerla ad andare in vacanza, con o senza di lui. Era chiaro che aveva bisogno di uno stacco. Mise un disco di Charlie Parker per darle un po' di tempo, cercò un pezzo da inserire nel puzzle di Playboy, poi si avvio verso casa di Barbara, costeggiando il laghetto rosato. Sotto la chiesa di St. Giles stringhe bianche di luce si agitavano come vermi. Un giovane magro, pallido, con una tonsura da monaco, stava accanto al salice sulla piattaforma di mattoni rossi e osservò Ted mentre suonava al campanello. Ted riuscì, stringendosi i pugni in tasca, a nascondere la sua costernazione quando Barbara aprì la porta. Aveva un'aria ancora peggio che sovraffaticata; la sua faccia era devastata, quasi incolore sotto il trucco; gli occhi sembravano non vedere più. Era successo qualcosa da quando lui aveva chiamato. « Entra e mettiti seduto. » Stava facendo del suo meglio per apparire padrona della situazione, ma si vedeva quanto si stava sforzando. « Devo dirti una cosa. » Capitolo 21 « Dammi solo un minuto », disse Barbara, e sedette poggiando il viso sulla mano. Le girava la testa; era certa che se solo avesse spostato il gomito sarebbe crollata sulla scrivania. Lì o in ufficio, era sempre alla mercé
del telefono. Che cosa desiderava di più, ricevere la telefonata di Gerry, o non averla mai mandata in cerca di Angela? Tutt'e due le cose, desiderava, disperatamente e senza possibilità di scelta, fin da quando aveva sentito la voce crudelmente beffarda di uno dei rapitori di sua figlia. Poteva solo sperare che non si fosse accorto che Angela stava telefonando, sperare che a questo punto Gerry fosse riuscita a infiltrarsi nel gruppo, ma forse questo era sperare troppo. Se pure avesse trovato il coraggio di infrangere ancora di più il suo giuramento, non poteva rivolgersi alla polizia, con il rischio di spingere il gruppo a darsi alla macchia prima che Gerry fosse riuscita a penetrarvi. E comunque non le avrebbero creduto. Lei stessa ci aveva messo tanto a credere ad Angela. Si era buttata a corpo morto nel lavoro, in ufficio e a casa, per essere sicura che i suoi clienti non finissero per risentire negativamente della situazione. Qualche volta pensava che il vero motivo per cui faceva tutte quelle telefonate era impedirsi di stare a rimuginare attorno all'apparecchio. Spesso le pareva di essere osservata, soprattutto nelle gallerie e nei sottopassaggi del Barbican. Da sola, a letto, troppo esausta per dormire, le pareva di essere fatta di fil di ferro arrugginito. Si sentiva peggio di quando la polizia le aveva detto che Angela era morta. Almeno allora le era parso la fine di qualcosa. Finalmente lasciò la scrivania e si trascinò fino al bagno, dove si spruzzò il viso con un po' d'acqua fredda. Indugiò qualche minuto a truccarsi, pur sapendo che questo non le avrebbe cancellato dagli occhi i segni dell'angoscia. Le pareva di passare ogni notte, tutta la notte, a risalire sulla scala mobile, che scivolava all'indietro con il suo movimento regolare. A volte c'era Angela ad aspettarla in cima, a volte aveva l'aspetto di Iris, grigia e tormentata. La notte prima era comparso il viso di Arthur, non più grande di una capocchia di spillo. Angela aspettava contro un'oscurità irrequieta, impaziente di prendere forma, ma quando Barbara aveva guardato di nuovo la cima della scala mobile, ad aspettare c'era un serpente con la testa gonfia, rosa e umido come un feto. Uscì in fretta dal bagno: lo specchio non le restituiva che l'immagine dell'apprensione. Che poteva fare in attesa di Ted? Sulla scrivania, in due blocchi, c'era un manoscritto, ma dubitava di avere il tempo di leggere un altro capitolo. Era circondata da libri, da storie. Si sentì come murata dall'irrealtà. Non c'era nulla a cui fosse in grado di afferrarsi solidamente. La finestra di Ted era ancora illuminata. Si stava dirigendo verso la scri-
vania, per dirgli di venire pure quando volesse, quando il telefono squillò. Purché non fosse lui che le comunicava che non sarebbe venuto più... « Sì? » rispose con ansia. « Sono io », disse Angela. Barbara si sentì come ubriaca di sollievo e subito si mise a sedere. Allora i rapitori non l'avevano vista telefonare. Ma lo stesso domandò: « Stai bene? » « Ma sì, certo che sto bene. » Sembrava infastidita, proprio come una bambina con una madre troppo protettiva. Barbara si sentì vagamente imbrogliata: come parlare così quando era in pericolo? Prima di poter riflettere su questa sensazione, chiese: « Perché hai chiamato? » « Perché ho bisogno di te. » Barbara riuscì a trattenere le lacrime, non voleva che i singhiozzi le impedissero di sentire. Angela che aveva evidentemente ripensato alla domanda, disse di nuovo: « Perché stiamo per andar via ». « Dove? » L'orecchio le faceva male, tanto forte stava stringendo il ricevitore. Angela doveva trovarsi nella casa dei rapitori, perché parlava sottovoce. « In Scozia », rispose. « Non ti so dire dove. » Si trasferivano perché si erano accorti che Gerry li cercava, o era riuscita a penetrare nel gruppo? Non c'era modo di chiederlo, anche se Angela non avesse aggiunto: « Ora non posso parlare più. Devo andare ». Per un po', dopo che il telefono tacque, Barbara si sentì quasi rincuorata. Angela era incolume. Se aveva avuto un momento di irritazione quando Barbara le aveva chiesto come stava, era stato semplicemente perché forse non si rendeva conto di essere in pericolo. Ma più ci pensava più la cosa le pareva avvilente. Cosa mai le stavano facendo senza che lei se ne accorgesse? Se fino a questo punto Gerry non li aveva trovati, Barbara era la sola che avesse una qualche idea di dove stavano andando. Come poteva, sapendolo, sopportare l'idea di non far nulla? Si mise a camminare avanti e indietro per la gabbia del suo appartamento, lanciando ogni tanto un'occhiata alla finestra ormai spenta di Ted e a un giovane che pareva un monaco, fermo lì probabilmente ad ammirare la chiesa. Finalmente suonò il campanello. Non ce la faceva più a tenere per sé il suo segreto. « Entra e mettiti seduto », disse. « Devo dirti una cosa. » Raccontò tutto a Ted davanti a due bicchieri che nessuno dei due toccò. Lui la guardava fisso, nascondendo con una mano la bocca, e quel che provava. Quando Barbara ebbe finito di parlare desiderò di averglielo detto
prima: anche se lui non era informato quanto Gerry sull'argomento, avrebbe potuto esserle di appoggio più di lei. « Non capisco come questa setta avrebbe inscenato la morte di Angela », disse Ted. « Secondo Gerry Martin potevano aver ucciso una delle loro bambine. » « Gerry Martin ha l'aria di essere una che ama le notizie sensazionali. Ma ti sembra verosimile che dei genitori lascino uccidere una figlia solo perché qualcun altro voleva Angela? » Si accorse che stava aggrottando la fronte: quello che si era aspettata era conforto, non obiezioni. « Ti viene in mente una spiegazione migliore? » « Se non fosse per le prove dell'esistenza di questa setta, o quel che sia, mi verrebbe il sospetto che sei vittima di un'estorsione. » « Questo non riesco proprio a capirlo. » « Be', tanto per cominciare mi pare una coincidenza troppo comoda che Angela abbia cominciato a telefonarti proprio quando è uscito l'articolo su di te, non ti sembra? Potrebbe voler dire che qualcuno ha letto l'articolo e ha pensato che evidentemente stavi facendo tanti soldi, tanti che valeva la pena tentare qualcosa. Tutte queste telefonate potevano servire ad ammorbidirti, in modo che quando si fosse presentato qualcuno con l'offerta di restituirti Angela tu avresti accettato qualsiasi richiesta. Non dico che lo avresti fatto, solo che foro potevano pensarlo. Dopo tutto, il fatto che la setta esista non significa necessariamente che Angela sia viva. » Si sporse e le prese la mano, che lei lasciò, inerte, tra le sue. « Per quello che posso vedere », proseguì, « l'unico motivo per pensare che sia viva è che Margery Turner ti ha dato l'impressione di non saper disegnare. E se faceva parte del piano? » « No, Ted. Il motivo per pensare che Angela sia viva è che mi ha chiamata tante volte — due volte da quando Margery è morta. » « Se era Angela. Se non era una complice di Margery che ha deciso di andare avanti lo stesso anche se l'altra era morta. » Con uno sforzo Barbara riuscì a non ritirare di scatto la mano dalle sue. Arthur non avrebbe mai cercato di convincerla del contrario della verità, lui le sarebbe stato vicino finché Angela non fosse tornata. « Ted, lo so che la tua intenzione è di aiutarmi, ma non puoi aiutarmi cercando di dimostrare che ho torto. Io lo so che è Angela quella che chiama. » « Ne sei certa? Ti ha mai detto qualcosa che sapete solo tu e lei? Tu gliel'hai mai chiesta? Barbara, tu non hai il coraggio di affrontare l'idea che possa essere una mistificatrice. Ti stai riducendo uno straccio, e forse senza un motivo. »
Si sentiva intrappolata dalle attenzioni che le dimostrava, dalla confusione che stava creando. Il suo largo viso arruffato le incombeva addosso, e lei si sentì come una bambina sopraffatta da un adulto insensibile, solo che lei non era una bambina. « Lo so che in una certa misura ti senti responsabile di quello che è successo ad Angela... » « Oh, per l'amor del cielo, Ted. Io non mi sento responsabile in una certa misura, mi sento responsabile completamente. Devo essere certa, questa volta, di fare tutto il possibile. » « Bene, come vuoi tu. L'ultima cosa che vorrei è sconvolgerti ancora di più. È solo che guardando obiettivamente la situazione, trovo difficile credere che qualcuno si sia preso la briga di simularne la morte per poterla tenere con sé. » « Questo è perché tu, tua figlia non l'hai mai voluta. Era un tale peso che non sei riuscito neppure a vivere con lei. Mentre io Angela la volevo più di qualsiasi cosa al mondo, e ho permesso che me la portassero via. Non è giusto. » Tacque sbigottita. Non avrebbe potuto fargli colpa se se ne fosse andato via senza una parola, ma invece lui disse: « E così la settimana prossima vai su in Scozia ». « Sì, devo andare. Devo tentare di ritrovarla. » « Non puoi viaggiare sola per tutta la Scozia. È stata una cosa buona che non siamo riusciti ad avere quelle prenotazioni per l'Italia. » Le mancò il coraggio di parlare, per paura di scoppiare in singhiozzi. Lui dovette accorgersene, perché la tenne stretta senza parlare per un po'. Alla fine andarono in camera da letto. Lei aveva voglia di fare l'amore, ma cadde immediatamente addormentata tra le sue braccia. Tranne la promessa di aiuto, aveva già dimenticato tutto quello che lui le aveva detto. Capitolo 22 Fuori da Lancaster, la roccia grigia prendeva a salire, tagliando campi e boschi. Sull'orizzonte del Lakeland i cumuli di foschia si distinguevano a stento dal cielo. A volte i cumuli si facevano più vicini, incombendo sopra l'autostrada. Ruscelli e fiumi scintillavano tranquilli nelle vallette sassose, le pecore e i massi spiccavano tra l'erba delle scarpate. Oltre Carlisle la carta si venava di fiumi, ma non c'era nulla a segnare il confine con la Scozia tranne un cartello stradale e un improvviso spasimo di apprensione dentro le viscere di Barbara. Presto l'orizzonte apparve
striato di nuvole temporalesche, che negli strati più bassi riflettevano il verde dell'erba. Al di sopra della strada le balze erano rigate da strisce di terreno nudo o punteggiate da file di abeti. Quando la strada si faceva più diritta lei aumentava l'andatura, ansiosa di raggiungere i centri abitati, scure macchie enigmatiche sulla carta. Non c'era quasi anima viva quando giunsero a Dumfries, città fluviale dove non riuscirono a trovare nessuno che sapesse indicare loro un ristorante. A Kilmarnock le fabbriche sporcavano il cielo, le anonime case popolari racchiudevano una valletta e i ricordi di Robert Burns. Barbara cercò senza risultato in entrambe le cittadine; non riusciva a immaginare qualcuno che tentasse di nascondersi nell'una o nell'altra. Glasgow si presentava più promettente. Era anche più vasta di quanto il disegno sulla carta le avesse fatto credere, ed era ancora in espansione. La sua periferia invadeva i campi e li riempiva di cemento e rifiuti, grigi frammenti sparpagliati sulla carta. Addentrandosi, gli edifici si assiepavano spuntando dal verde; piloni, alti palazzi e ciminiere di fabbriche dominavano la zona. Era ormai da due giorni a Glasgow e aveva esplorato sì e no il centro della città. Cominciava a rendersi conto dell'inutilità della sua ricerca. Lasciò Sauchiehall Street ed entrò nell'albergo, attraverso le lame di luci intrappolate nella porta girevole. Il lampadario della hall diffondeva una luce nebbiosa; una delle ninfe che sostenevano la galleria aveva il naso spezzato. In una saletta attigua alcuni clienti guardavano la televisione. Un'anziana signora grattava il pavimento con il bastone e gridava « Donald », chiamando il facchino. Andò di sopra. Ted non era in camera sua. Fece una doccia, poi sedette accanto alla finestra. I palazzi degli uffici, in stile gotico come a Chicago, scendevano verso il Clyde, le automobili sobbalzavano lungo le discese; qualche guglia si levava come un totem senza volto tra i grattacieli della riva opposta. Un uomo dal viso rosso come vino scadente sedette sul marciapiede di fronte a lei e riuscì a fatica a togliersi la scarpa per studiarsi il piede nudo. Turisti e gente in giro per compere passavano in massa sotto la sua finestra, e lei non poteva fare a meno di scrutare quei visi, anche i più lontani, che svanivano nel caldo e non erano mai quelli che sembravano. Un editore scozzese un giorno le aveva detto che rimanendo abbastanza a lungo in Sauchiehall Street si vede passare tutto il mondo. In tutto il mondo ora c'era una sola faccia che lei avrebbe voluto vedere, e quel modo di dire le pareva uno scherzo di cattivo gusto.
Più cercava, più la difficoltà aumentava. I compiti più semplici erano tortuosi. Polizia ed Esercito della Salvezza non erano di nessun aiuto, e forse, le venne il dubbio, le nascondevano informazioni vedendola così evasiva. Doveva stare attenta a non dar loro un motivo per mettersi a cercare; chissà che non fossero state le indagini di Gerry Martin a spingere il gruppo lontano da Londra. Poteva solo sperare che al momento Gerry fosse con loro, e che stesse scoprendo tutto sulla setta. Perché avrebbero dovuto scegliere proprio Glasgow? Barbara sapeva che doveva essere la Scozia, e l'elenco dei luoghi che le aveva fatto Gerry faceva prevedere un grosso centro, una città importante, ma di città importanti ce n'erano a decine in Scozia. Quindi poteva solo continuare la sua ricerca ostinatamente, e sperare. Nella Mitchell Library, un bibliotecario che chiaramente la vedeva come una seccatrice un po' sballata la indirizzò all'università: lì forse avrebbe trovato un ricercatore di storia locale che potesse esserle d'aiuto. Nessuno poté farlo e lei si ridusse a girovagare per le strade, scrutando case e facce. La metà del tempo aveva la sensazione di essere osservata. Nessuna meraviglia che Ted fosse preoccupato per lei. Evidentemente era per questo che l'aveva accompagnata, non perché le credesse. Almeno oggi lo aveva convinto ad andarsene in giro per conto suo. Ma ora che era rimasta sola non poteva fare altro che rimuginare. Si era portata dietro del materiale da leggere, ma in quel momento lavorare le pareva impossibile. In strada continuava la sfilata interminabile di facce, il bulbo della doccia spuntava dal buio dello specchio del bagno. Quando si accorse che teneva gli occhi fissi sul telefono della doccia, si costrinse ad andare di sotto. Aveva telefonato in continuazione a Louise per chiedere se ci fossero state chiamate personali e per lasciare il suo ultimo numero, ma poteva darsi benissimo che se Angela e Gerry avevano telefonato avessero appeso subito sentendo una voce estranea. Rimase per un po' nel foyer cercando di liberarsi dell'idea di Angela che telefonava a casa sua, correndo chi sa quale rischio, e non riceveva risposta. Nella saletta i clienti residenti lavoravano a maglia o facevano le parole crociate, dando qualche occhiata annoiata alla televisione. Uomini e donne sembravano sbiaditi come le poltrone; c'era un lieve profumo muschiato di acqua di lavanda, un'atmosfera di vecchiaia che avanza su chi fa finta di non vederla. La strada sarebbe stata meno deprimente nonostante il caldo e la folla. Poteva guardare le facce e fingere di cercare Ted. Meglio ancora, poteva comprare i giornali della sera. Questo sembrava
un po' una speranza. Forse un titolo, un trafiletto, un annuncio pubblicitario le avrebbero fornito un indizio; c'era sempre speranza. Si spinse attraverso le porte girevoli verso la folla dai colori falsati, che tornarono normali non appena lei emerse dai vetri, nella polvere, nel sole e nel frastuono del traffico. L'edicola più vicina era nascosta all'angolo di un edificio di uffici. Una donna con un cardigan rosa appoggiato sulle spalle sedeva dietro il piccolo banco, lavorando ai ferri un golf da bambino. Quando Barbara aveva provato a lavorare a maglia per Angela, il suo tentativo di golfino aveva cominciato a disfarsi non appena aveva finito il primo ferro, e non aveva potuto fare altro che ridere di se stessa. Ora si morse le labbra perché il dolore portasse via il ricordo. Prese i giornali della sera e guardò in giro per trovare qualche altra cosa da leggere. Cosmopolitan era del mese prima, e lo aveva già letto; nient'altro pareva valesse la pena. Si ritrovò a fissare la rivista Fato, e, riluttante, la prese dal banco. Doveva guardare anche quella, non poteva permettersi di ignorare nessuna possibilità. « Spero che lì trovi conforto », disse la donna dietro il banco. « Prego? » La donna si ritirò immediatamente in se stessa. « Solo un'impressione che mi ha dato. Non intendevo offenderla. » « Non mi sono offesa. » Barbara trafficò nella borsa. « Non avevo capito quello che ha detto. » « Purché non pensi che la sto spiando. » La donna la guardò da sopra ai ferri ticchettanti. « Chiunque sia la persona che ha perduto, non deve disperare. » « Ci provo », mormorò Barbara, rissando il denaro per rimanere padrona delle sue emozioni. « Forse avrà sue notizie, se è questo che vuole. Ha provato con un medium? » « Dio ce ne guardi! » « Chiedevo solo. » La donna si era di nuovo ritratta; stavolta, pareva, definitivamente. Raccolse i ferri in una mano e prese i soldi di Barbara con l'altra. « Allora, le piace la nostra città? » « Sono certa che mi piacerebbe », rispose Barbara, sentendo un che di irragionevole in quello che diceva, « se avessi meno cose a cui pensare. » « Povera cara. » Mentre le passava il resto la donna le strinse la mano. « Forse c'è qualcuno che può aiutarla più di un medium. »
Barbara riuscì a mantenere un'espressione interessata e grata. « Chi? » « Me lo ha detto una persona che ha comprato la stessa rivista che ha preso lei. Ci è andata una sola volta, ma dice che l'ha trasformata. Si riuniscono giù a Broomielaw, sotto i ponti. Mi sembra che avesse detto il giovedì sera. » Cioè quella sera. Forse era una traccia, forse nel gruppo poteva esserci qualcuno in grado di aiutarla, qualcuno che magari conosceva altri gruppi più clandestini. « Questo è tutto quello che sa? Come si chiamano? » « Questo è tutto quello che mi ha detto, ma le dico che era una donna trasformata. Pensavo che potesse interessarle. » Riprese il suo lavoro a maglia, con l'aria di aver fatto tutto quello che poteva. « Non so come si chiamano. » « Grazie lo stesso. Davvero, è stata molto gentile. » Barbara si costrinse a sorridere prima di voltarsi. La donna aggiunse qualcosa e allora Barbara si precipitò a cercare Ted, per dirgli che dovevano andare alla riunione quella sera. La sua ansia era vicinissima al panico, poiché la donna aveva detto: « Forse non hanno nome ». Capitolo 23 Broomielaw era un'importante arteria a quattro corsie che correva lungo il Clyde. Quando ci arrivarono si stava facendo buio; tracce di luce balenavano sul fiume come un tubo al neon moribondo. Avevano impiegato venti minuti a piedi dall'albergo, e Ted aveva insistito perché prima mangiassero. « Certo che dobbiamo andarci », aveva detto, « ma potremmo aver bisogno di energia. » Come tutte le strade portuali, Broomielaw di sera era quasi deserta. Le marche fluorescenti dei whisky torreggiavano sopra i marciapiedi. Presumibilmente i bar sotto le insegne erano pieni: qualcuno beveva alla bottiglia seduto sulle panchine lungo il fiume. Nessuno li guardava. Barbara si sentiva osservata, ma perché mai qualcuno avrebbe dovuto seguirli dall'albergo? Notò immediatamente il ponte, sul quale correvano i binari della ferrovia fiancheggiati da due strade. Sotto le arcate, sul muro più lontano dal fiume, brillavano due violente luci arancioni. Tra le due luci, la strada era deserta, e deserto, a parte i tappeti d'ombra tra i pilastri, era il marciapiede. Non c'era assolutamente nessuno. Forse la donna dell'edicola aveva sbagliato il giorno, o forse erano sem-
plicemente arrivati tardi. I riflessi dei lampioni pescavano nell'acqua, chiazze di nafta defluivano lungo la corrente. L'ombra di Barbara allungava la testa fin dentro il fiume. Non avrebbe dovuto avercela con Ted per il ritardo, ma non poteva farne a meno. Fu Ted, però, a vedere la porta. Era socchiusa e si trovava sul muro tra due fanali arancioni. Coperta com'era di manifesti, lei l'aveva presa per un cartellone mezzo scollato. Si affrettò, stringendo gli occhi abbagliati. Accanto alla porta c'era un cartello che diceva LUCE IMMORTALE in grosse lettere. Evidentemente era stato messo sul marciapiede per annunciare la riunione. Qualunque cosa fosse la « luce immortale », si disse, poteva esserle d'aiuto. Quando Ted riuscì a spingere la porta, che cedette riluttante di un mezzo metro prima di bloccarsi, entrarono. Il corridoio, tappezzato con un parato che cadeva a pezzi, era reso ancora più buio dalla luminosità della sala che si vedeva in fondo. Qualcuno nella stanza stava parlando con una cadenza rapida e vivace, come quella di un venditore. Quando Barbara giunse in fondo al corridoio, pensò per un attimo, smarrita, che erano capitati per sbaglio nel mezzo di un concerto di un gruppo pop: quattro figure vestite di bianco salmodiavano sul podio, alternandosi abilmente nelle battute, davanti a un pubblico seduto su delle sedie pieghevoli di legno. Ma un ometto sui sessant'anni, con un vestito troppo largo, si avvicinò a lei e a Ted bisbigliando e cercò di farli sedere sulle sedie più vicine. Bastò lui a far capire che quella voleva essere una riunione religiosa. Barbara resistette al suo invito pressante e si trovò un sedile più vicino possibile al podio, in modo da essere pronta a interrogare quella gente non appena avessero finito il loro numero. Le pareti imbiancate erano cosparse di macchie lattiginose; dietro il palco, sulla parete, una serie di buchi circondava la zona dove una volta era stato appeso un bersaglio a freccette. Sedendosi fece cigolare forte la sedia, ma l'ometto ebbe solo il tempo di lanciarle un'occhiata severa prima di allontanarsi per accompagnare al suo posto un altro ritardatario. Il quartetto sul podio vendeva reincarnazione. Dal loro accento era impossibile stabilire da dove venissero. « Noi tutti siamo destinati ad avere una vita migliore di questa », disse la donna più giovane, ma più Barbara li guardava, e meno vivi le apparivano. Sembravano appena usciti da un serial televisivo, un giovane e una giovane dal viso fresco in mezzo a una coppia più anziana, tutti e quattro forniti dello stesso identico sorriso smagliante. Solo il gomito sporco dell'abito della donna anziana, che aveva e-
videntemente urtato contro qualcosa dirigendosi verso il palcoscenico, sembrava un elemento non previsto. Il pubblico era grigio. Dovunque guardasse Barbara vedeva abiti e capelli del colore del fumo stantio che la metà dei presenti aspirava da sigarette smozzicate. Il loro aspetto era di gente che lavorava in squallidi uffici o in botteghe in strade semiderelitte, se pure lavorava; di gente che invecchiava accudendo ai propri vecchi e che sarebbe morta senza sposarsi e sola nella casa decrepita dei genitori. Erano lì quella sera perché erano affamati di fede, di qualsiasi cosa che potesse dare una spiegazione alla loro vita. E il quartetto diceva loro esattamente quello che volevano sentirsi dire, e glielo diceva con tanta abilità che nessuno aveva il tempo di riflettere tra un'affermazione e l'altra. « Noi tutti siamo buoni, ma qualcuno di noi l'ha dimenticato », diceva il giovane, e immediatamente la sua giovane moglie, o sorella, aggiungeva: « È facile dimenticare. Questa è la difficoltà che Dio mette sul nostro cammino: per questo dobbiamo aver fede. E con la fede ognuno di noi può ricordare. Possiamo ricordare tutto il bene che abbiamo fatto in altre vite ». Sentì che Ted era irrequieto, e anche lei cominciava a irritarsi: come poteva questo garrulo quartetto dirle qualcosa sull'occulto, qualcosa di non previsto dal loro programma? Ma non doveva andarsene prima di essersene accertata. Ebbe più forte che mai l'impressione di essere osservata. Senza dubbio dipendeva dal fatto che era così tesa. Ora stava parlando la donna dall'aria materna. « Qualunque possa essere la nostra vita attuale, noi abbiamo avuto vite migliori, e ne avremo ancora. Una volta che vi sarete ricordati di quelle buone vite le vostre sofferenze attuali sembreranno meno che un sogno. » Fece un passo ondeggiante in avanti, e Barbara si rese conto che era zoppa; per questo doveva essersi sporcata la manica. « Noi possiamo darvi la chiave per quelle vite. » Adesso arriva l'articolo da vendere, pensò Barbara, ma l'uomo anziano disse: « Ma c'è una cosa che dovete ricordare. In quelle vite voi avete fatto del bene, ma anche del male. Ognuno dei vostri più nascosti brutti pensieri è il ricordo di qualcosa che avete già fatto in un'altra vita. Non è male avere questi pensieri, perché sono cose passate e già perdonate. Rendersi conto di questo vi aiuterà a sollevarvi al di sopra di essi ». Un treno rombò sopra la loro testa e diede a Barbara la possibilità di guardarsi alle spalle senza sembrare paranoica. Nessuno la stava osservando in quel preciso istante, ma qualcuno aveva appena smesso di farlo, una donna dal grosso naso nell'ultima fila, quella che era entrata subito dopo di
lei. Forse stava solo guardando il palcoscenico e aveva distolto lo sguardo imbarazzata quando Barbara si era girata: le persone del pubblico per lo più avevano un'aria timida, poco desiderosa di farsi notare. In ogni modo la donna aveva girato la faccia. L'uomo anziano stava ancora parlando, con dolcezza ma con energia, un padre che ha da comunicare sgradevoli fatti della vita. « Non è possibile mettere via questi pensieri. Loro non farebbero che entrare più in profondità dentro di voi e crescere. È così che inizia la corruzione, quando fingiamo con noi stessi che il male non ha niente a che vedere con la nostra persona. E così che si comincia a perdere il controllo di se stessi e delle proprie potenzialità. » Non pareva precisamente quello che il pubblico si aspettava o voleva sentirsi dire — Barbara si accorse che alcuni degli ascoltatori erano a disagio, qualcuno mormorava — né sarebbe servito a ritrovare Angela. Continuava a tornarle in mente l'amica medium di Miss Clarke, inutile come queste chiacchiere. Quando, con la scusa del mormorio che si era levato, si girò, non ebbe più dubbi che la donna con il naso a fragola la stesse osservando. Il viso della donna si girò immediatamente, con un ciuffo di capelli che le copriva un occhio. « Ma tutti noi abbiamo in noi stessi la capacità di fare il bene », proseguì la giovane donna, con grande sollievo del pubblico. « Il bene non si può uccidere. Risorgerà sempre. Nessuno è al di là della redenzione, a meno che non abbandoni tutto ciò che lo rende umano. Essere umani significa essere potenzialmente buoni. » Doveva essere lo sguardo della donna dal grande naso a far sentire Barbara a disagio, ma intuiva che c'era dell'altro, qualcosa che le era sfuggito. Lo sforzo di afferrare questo qualcosa le raschiava i nervi. « Ma il bene che è in noi può essere corrotto », gridava ora il giovane. « Dobbiamo stare in guardia contro coloro che vorrebbero distruggerlo. Ci sono sempre quelli che hanno dato le spalle alla loro umanità, a tutto ciò che potrebbero raggiungere con il bene. » D'un tratto Barbara ricordò quello che aveva quasi dimenticato, o che forse non poteva sopportare di riportare alla memoria. « Anche ai loro nomi? » domandò d'impulso. « Nomi? » Il sorriso rassicurante del giovane esitò: alle prove non era stato interrotto. « Hanno dato le spalle ai loro nomi, vuol dire? Sì, alcuni di loro abbandonano anche i loro nomi, forse. » Balbettava quasi, e la donna con aria materna intervenne pronta. « Pochi di noi incontrano qualcosa che
possa corromperli totalmente », disse al pubblico, ma Barbara sentiva solo le parole dell'amica di Miss Clarke. Ted le stava stringendo le mani come se sapesse cos'era che non andava, ma tutti i suoi sensi sembravano sopraffatti dalla voce della medium: « Già adesso ha un grande potere spirituale. Bisogna trovarla prima che distruggano quello che è ». La medium aveva avuto ragione a sostenere che Angela era ancora viva, quindi doveva aver ragione su tutto. Barbara si girò di scatto, senza accorgersi che stava strappando la mano da quella di Ted, e vide infine che la donna con il naso a fragola aveva il viso storto. Di colpo si ritrovò sul treno in cui la donna dal viso storto si era seduta accanto ad Angela. Non poteva essere la stessa donna, sembrava molto più vecchia dell'altra, anche se erano passati nove anni, ma mentre afferrava Ted per un braccio, costringendolo ad alzarsi, Barbara vide che la donna aveva paura di lei. Ricordò la paura e l'odio negli occhi di quell'altra mentre fissava Angela, ricordò Angela che si rinchiudeva in se stessa come per una premonizione, e l'incubo parve sul punto di ricomporsi in tutti i suoi elementi. Uscì nel passaggio tra le sedie e immediatamente la donna si infilò nel corridoio. « Quella donna », ansimò a Ted. « È una di loro. » Forse lui si domandò come facesse a saperlo, ma la seguì senza una parola. Le sedie pieghevoli si chiusero rumorosamente dietro di loro, l'uomo con il vestito troppo largo cercò di trattenerli, ma la giacca si impigliò e lo fece ricadere sulla sua sedia. Nel corridoio il cartello ondeggiò, cadde contro la parete. Lei lo superò di corsa, e così facendo lo buttò di lato. La strada deserta sembrava incendiata dai fanali arancioni. Oltre la strada il fiume e il cielo erano bui; la notte si raccoglieva come fumo sotto il ponte. Barbara fece appena in tempo a vedere un movimento dietro uno dei pilastri sulla sinistra. « Tagliale la strada! » gridò correndo verso la ferrovia. Quando raggiunse il pilastro non c'era altro che un uccello grigio che svolazzava tra una miriade di echi. Percorse disperatamente tutta quella gabbia di pilastri, si sporse dietro ognuno di loro, ritornò sempre correndo sulla strada principale, dove Ted si era fermato, senza fiato. La sua ombra affondava nel buio. Infine ritornò sul lungofiume. Le arcate sgocciolavano, uno sciame di zanzare si staccò da qualcosa che galleggiava sull'acqua e si precipitò sul suo viso, ma lei era troppo stravolta per scacciarle. Alla sua destra, contro
la bassa arcata del ponte stradale, una forma irregolare poteva essere l'abito bluastro della donna. Barbara avanzò lentamente. Un treno passò sferragliando sopra il ponte della ferrovia; lampi di luce pescarono nell'acqua. Avrebbe trattenuto la donna finché non fosse arrivato Ted ad aiutarla, per quanto forte quella potesse lottare — ma forse la forma bluastra non era affatto la donna, forse era una macchia, un fitto di erbacce. L'aveva quasi raggiunta quando la forma schizzò via infilandosi sotto l'arcata. « Da questa parte, Ted! » Se non si fosse chinata, correndo, lo spigolo della bassa arcata le avrebbe spaccato la testa. Il lungofiume era più buio della strada, ma questo voleva dire che poteva vedere la sagoma della donna, delineata contro le luci lontane e i riflessi nell'acqua. Il terreno, sotto i suoi piedi, era disuguale, come di pietrisco, e più di una volta inciampò. Tozze forme nane dalla testa arrotondata si allineavano sul suo cammino — bitte che a stento riusciva a scansare. Eppure la stava raggiungendo, anche se il respiro le si faceva sempre più affannoso a causa della corsa. Improvvisamente la donna svoltò sulla strada. Barbara la seguì ansando, scivolando su un tratto di prato che odorava di erba tagliata. La donna si infilò di corsa in una traversa deserta immersa nella violenta luce arancione. Ted arrivò con il fiato grosso da Broomielaw e raggiunse la traversa svoltando contemporaneamente a Barbara. Non c'era tempo o fiato per parlare. Corsero lungo la via deserta sotto finestre che per il gioco delle luci apparivano nere. Lei sentì lo sforzo nel respiro di Ted; anche lui, come lei, doveva essere fuori allenamento, ma la donna che stavano inseguendo era parsa meno in forma di loro. Erano ormai sul punto di raggiungerla quando lei si buttò sulla sinistra. Quando Barbara raggiunse l'angolo vide davanti a sé la stazione, con i grandi finestroni ad arco illuminati come quelli di una cattedrale. La donna correva sotto il largo ponte che portava le linee ferroviarie verso Broomielaw, correva sui tappeti di luce davanti a una dozzina di negozi. Mentre correva accanto a una coda di persone in attesa del bus, Barbara pensò di gridare perché la fermassero. Ma non le rimaneva più fiato, e comunque non era sicura di convincerli ad aiutarla. La donna svoltò a sinistra in Union Street. Lanciò un'occhiata a Barbara, poi parve fare uno sforzo finale. Quando Barbara arrivò, con il respiro ansante e rotto, all'angolo, pensò che la donna fosse riuscita a seminarla. Poi, dietro un gruppo di passanti, ne colse per un attimo l'immagine mentre si infilava in un passaggio tra due negozi.
Anche Ted la vide e corse sul marciapiede opposto per bloccarle la strada. Era all'altezza del passaggio e stava riattraversando quando Barbara lo raggiunse. L'espressione di lui era di sconfitta, e vedendo il passaggio lei capì perché. Non era l'ingresso di un negozio. Era un passaggio che conduceva alla stazione ferroviaria. Mentre si affannava su per gli scalini che portavano alla stazione sentì un treno che partiva. In cima alle scale un ubriaco cercò di bloccarla, ma lei riuscì a spingerlo via. La sala della stazione era affollata di persone che fissavano gli avvisi delle partenze e degli arrivi; il brusio era quello di un teatro durante l'intervallo. In quel momento stavano ritirando l'avviso di un treno per Edimburgo e lei corse al varco dei viaggiatori. « Per caso », ansimò al controllore, « è passata di qui una donna appena adesso? » « Una donna? Un sacco di donne. » « Un momento fa. » Lui stava già voltandosi dall'altra parte e lei dovette fare uno sforzo per non prenderlo per un braccio. « Una donna vestita di blu. » « Sì, di blu, di verde, di giallo e arcobaleno a pois rosa. Basta che abbiano il biglietto... » Era inutile. Sentiva i treni che partivano per altre città e non poteva controllarli tutti. Inciampò, e sarebbe caduta se Ted non l'avesse sorretta. C'era solo un'ultima vaga possibilità. « Dobbiamo tornare là », disse. Ma la porta sotto i ponti di Broomielaw era ormai chiusa e sbarrata con un catenaccio: la Luce Immortale era spenta. Tornò senza parole all'albergo, trascinandosi per le strade. Una pioggia leggera prese a cadere sul suo viso e sulle braccia nude, ma nulla poteva rinfrescarla. Non aveva il coraggio di chiamare la polizia, non poteva far nulla tranne sperare che Gerry avesse trovato la setta, sperare in un'altra telefonata. Certamente la setta si sarebbe di nuovo spostata non appena la donna avesse raccontato che Barbara l'aveva scoperta. « Non importa », mormorò Ted, prendendo Barbara per un braccio. « Cercheremo di trovarli domani mattina. » La stava accompagnando verso le scale e lei sentiva che la sua intenzione era di aiutarla — ma ora avrebbe dovuto spiegargli perché aveva inseguito la donna, e questo significava che alla fine avrebbe dovuto ammettere con se stessa tutte le sue paure. Capitolo 24 Quando fu certo che Barbara dormisse, Ted andò nella sua camera, che
era adiacente, telefonò in portineria per assicurarsi che non la disturbassero. Rimase accanto alla finestra e si sforzò di riflettere. La pioggia eseguiva una sua danza frastagliata nella strada; le finestre illuminate si sovrapponevano sopra il Clyde, fluttuavano lungo il fiume buio verso il mare. L'anonima gaiezza della stanza sembrava rallentare i suoi pensieri. Andò di sotto. Disse alla giovane donna al bureau di informarlo se Barbara chiamava la sua camera, poi ordinò un caffè. Nella saletta il televisore spento mostrava il riflesso rigonfio delle poltrone; un leggero odore di fumo di pipa e di talco aleggiava tra gli scaffali semivuoti e i tavoli cosparsi di riviste scompaginate. Sedette in una poltrona che odorava di tabacco e si mise a pensare a Barbara. Andava male. Capiva che se ne accorgeva lei stessa. Evidentemente si era sentita osservata per settimane, e l'incontro di quella sera con la donna sotto il ponte l'aveva convinta di aver ragione. Poteva non essere solo mania di persecuzione — un motivo per fuggire la donna doveva averlo — ma era magari banale, ragionevole addirittura, rispetto alle cose che Barbara fantasticava su Angela. Quelle cose sembravano riandare tutte al rapimento, alle affermazioni di una cosiddetta medium, e questo decisamente dimostrava la precarietà del suo stato mentale; poteva essere davvero questa la stessa Barbara Waugh che un tempo definiva i libri di occultismo trappole per imbecilli? Quella Barbara non si sarebbe neppure avvicinata a una montatura come la Luce Immortale, mentre ora era convinta che Angela avesse poteri psichici che i rapitori stavano tentando di distruggere, che aveva visto suo padre e dopo che era morto ci parlava, che emanava un alone di pace che dava serenità a chiunque si trovasse accanto a lei. A chiunque tranne ai killer, a quanto pareva: loro erano gente senza nome, gente convinta che lei rappresentasse una forma di minaccia; la donna dal viso storto era una di loro, e aveva avvertito i suoi poteri il giorno che le si era seduta accanto sul treno. Per questo ce l'avevano messa tutta per portar via Angela. La Luce Immortale aveva spiegato perché i senzanome non potevano semplicemente ucciderla: la minaccia che costituiva per loro sarebbe subito rinata. Ted non poteva dire a quanto di tutto ciò Barbara credesse, forse neppure lei era convinta. Forse lei intendeva dire solo che la setta riteneva Angela insopprimibile. Lui comunque aveva tentato di razionalizzare i suoi pensieri: udire il marito subito dopo la morte e credere che Angela lo avesse visto poteva essere la proiezione fantastica di un desiderio; niente esclude-
va che Angela avesse la capacità di pacificare chi le stava attorno, senza per questo cessare di essere una bambina normale. Ma alla fine si era accorto che non faceva altro che renderla ancora più tesa. Aveva dovuto insistere per farle prendere un paio di sonniferi, poi aveva dovuto rassicurarla che qualsiasi cosa potesse aver detto, l'avrebbe comunque aiutata. Certo che l'avrebbe aiutata, ma in che modo? Quando il fattorino si fu allontanato, lui bevve il suo caffè, dolce e bollente, nella speranza che gli acuisse la mente. Continuava a pensare che la ricerca non avrebbe condotto a nulla — uno dei motivi per cui aveva voluto accompagnarla era il sostegno che poteva darle qualora lei avesse ceduto alla disperazione — ma forse non era lucido e obiettivo come gli piaceva credere. Forse intimamente la sua speranza era che lei non trovasse Angela, che la bambina fosse davvero morta nove anni prima? Il fatto che Barbara non aveva figli non faceva forse parte di ciò che lo attraeva in lei? Forse sì, ma ora era ingiusto con se stesso; il suo interesse per lei non era poi così egoistico. Se questa gente senza nome aveva davvero Angela, se Barbara fosse riuscita a riaverla, come sarebbe stata la bambina dopo nove anni? Probabilmente Barbara non osava neppure chiederselo. La sua logica cominciava a impaniarsi. Non era il caso di seguire questo filo di ragionamento. Lui era ancora convinto che Angela fosse morta e che Barbara fosse vittima di un'estorsione: certamente questa era la spiegazione più semplice. La donna con il viso storto probabilmente la stava seguendo per controllare se le false tracce l'avevano ammorbidita. Il suo desiderio era solo mettere le mani su di lei, su uno qualsiasi dei bastardi che stavano facendo tutto questo a Barbara. E, perdio, forse ci sarebbe riuscito — forse c'era un modo per aiutare, comunque. Rimise giù rumorosamente la tazza sul vassoio. Ora che sapevano che aspetto aveva uno dei persecutori, dovevano rivolgersi alla polizia. Doveva convincere Barbara che Angela non ne avrebbe ricevuto nessun danno. D'un tratto si sentì molto più utile. Finì in fretta il caffè, poi andò per un po' sotto il tendone all'ingresso dell'albergo. Profumi di cucina greca e indiana aleggiavano in mezzo alla pioggia, i manichini nelle vetrine palpitavano dietro cortine d'acqua, i riflessi nuotavano sotto le automobili. Era lì quando arrivò un fattorino. « Mrs. Waugh », disse. « È sveglia? » Aveva sperato che dormisse fino al mattino. « Va bene, vado su. » « No, è qualcuno che le vuole parlare. Lei aveva detto che non bisogna-
va disturbarla. » Era mezzanotte passata. Poteva essere la ragazza che si faceva passare per Angela? Se solo l'avesse incontrata a faccia a faccia... Ma quando rispose al telefono nel foyer, la voce della ragazza sembrava troppo adulta. « Voglio parlare con Mrs. Waugh », disse. « Sta dormendo. Ha avuto una giornata faticosissima. Posso fare qualcosa? Io sto con lei. » « Posso parlare solo con Mrs. Waugh. » Chi poteva telefonare a quell'ora e con quell'aria di segretezza? « Mi chiamo Ted Crichton. Barbara mi ha chiesto di parlare con chiunque avesse chiamato mentre lei dormiva » Prima ancora di essere sicuro se faceva bene a dirlo, aggiunse: « Compresa sua figlia ». Ci fu una pausa. Aveva rivelato il segreto di Barbara e non sapeva neppure a chi. Allora la voce disse: « Lei sa chi sono io? » « Sì, credo di sì. » Non era neppure sicuro di chi lei voleva far credere di essere. « Cosa vuole? » « Volevo vedere la mia mamma. » Se lo scopo era di convincerlo, il risultato fu l'opposto: la voce suonava imbarazzata in maniera grottesca, un'attrice che poteva convincere una madre distrutta, ma non lui. Sentì crescersi dentro una rabbia gelida. « Se viene qui posso accompagnarla da lei. » « Non posso. Volevo vederla in un posto. » « Allora magari è meglio che veda me. » Stavolta il silenzio fu molto più lungo. Non doveva essere apparso sufficientemente convinto da questa voce che cercava di farsi passare per quella di una tredicenne. Forse era la donna con il viso storto, che non aveva preso nessun treno, ma era sgusciata da un'altra uscita della stazione. Stava imprecando con se stesso — l'aveva avuta quasi a tiro... Se solo non si fosse mostrato così ansioso — quando lei disse: « Sta bene ». « Vuole vedermi? Adesso? » « Non appena può arrivare dove le dirò. Venga il più presto possibile. » Gli diede le indicazioni; non pareva troppo lontano. « Deve venire da solo », aggiunse, « e non dica a nessuno che sta venendo. » « Non si preoccupi. » Mise giù immediatamente. Con un sorriso tirato, si precipitò di sopra a prendere il cappotto. Esitò un attimo solo, davanti alla porta di Barbara, prima di scendere. Anche se fosse stata sveglia, sarebbe stata l'ultima persona a cui avrebbe detto dove stava andando. Finalmente aveva la possibi-
lità di scoprire personalmente che razza di gioco stavano giocando i suoi persecutori. Capitolo 25 L'inseguimento della donna evidentemente lo aveva stancato più di quanto pensasse. A metà della salita dovette arrestarsi: la pioggia sulla pelle gli pareva fatta di gocce acide. Il cielo nero era bassissimo sui tetti sgocciolanti; un aereo o una folata di vento gli passò sopra la testa. Quando ebbe ripreso un po' di fiato ricominciò a salire. La strada era deserta, e deserta appariva Sauchiehall Street, là in fondo. La discesa asfaltata grondava acqua; i marciapiedi parevano oleosi sotto la luce di due lampioni. Superò arrancando una scuola con porte e finestre sbarrate e raggiunse Hill Street, dove gli era stato detto di svoltare. Hill Street era fiancheggiata da abitazioni con sporgenti finestre a bovindo. Attraverso la pioggia i graffiti balenavano sui muri, parevano agitarsi e fremere; un enorme scarabocchio dalle lunghe gambe pareva appiattito come un ragno sul fianco di una casa. Ted si sbottonò il soprabito — la pioggia stava diminuendo, l'umidità gli faceva accapponare la pelle — mentre avanzava lungo le case. Via via che procedeva, i porticati di pietra prendevano un aspetto sempre più cadente. Accanto ai portici, dove le targhe stradali erano state rimosse, spiccavano delle macchie pallide come erba cresciuta sotto una pietra. I giardini erano una massa di erbacce incontrollate. I globi vuoti dei lampioni ciondolavano nel buio. Non era nervoso, si disse. A vederlo, sembrava abbastanza minaccioso da scoraggiare qualsiasi aggressore, ed era certamente abbastanza forte da affrontarli, se necessario. Eppure lo snervava quella sensazione di essere osservato, anche se un tocco di paranoia non era affatto sorprendente in quelle circostanze. Quel movimento improvviso nel giardino dietro di lui era certamente un effetto della pioggia. Non si voltò neppure, sarebbe stato assurdo. In ogni modo, il movimento ora era davanti a lui. Il faro di una macchina di passaggio gli mostrò che doveva girare alla traversa successiva. Sul muro d'angolo spiccava una caricatura scheletrica, in mezzo a una ragnatela di graffiti. Quando raggiunse la strada vide che il muro era tutto un ammasso di graffiti, ma non riuscì a ritrovare la caricatura dalle lunghe gambe che lo aveva colpito pochi momenti prima. Ovviamente era solo un effetto della luce, della pioggia.
Questa strada era ancora più scoscesa della precedente. Scendendo tra un alto muro e una costruzione che luccicava come asfalto, dovette appoggiarsi per evitare di prendere velocità e inciampare. Pur essendo abbagliato dai lampioni, riuscì a vedere che anche lì i muri erano tutti coperti di scritte e disegni. Le ginocchia gli facevano male per la ripida discesa. Si fermò un momento e scrutò la via, che conduceva verso una superstrada e altre due larghe strade. L'illuminazione, almeno, era viva come quella dei fulmini, ma gli mostrava solo i marciapiedi in tutta la loro desolazione. Solo un ubriaco arrancava lungo lo stretto salvagente di cemento in mezzo alle corsie di traffico. Ted arrivò in fretta in cima al cavalcavia pedonale accanto al quale doveva aspettare. Presto l'ubriaco sparì tra le case grigie e la solitudine fu totale, salvo per le macchine che scivolavano via. Il lampo di un movimento vicino al cavalcavia doveva essere stato l'effetto della pioggia sotto la luce dei lampioni. Le corsie della strada si dividevano in due svincoli che si collegavano con l'Inner Ring Road, una superstrada a quattro corsie. Un traffico continuo le percorreva tutte; il frastuono era spaventoso. Cespugli, arbusti ed erbacce, biancastri come muffa sotto la luce dei fari, racchiudevano la rampa di cemento del cavalcavia. Chi doveva incontrarlo sarebbe venuto su dalla rampa? Per un po' la tenne d'occhio. Le foglie si agitavano sotto la pioggia, ma nient'altro si muoveva. Seguiva con gli occhi ogni macchina che passava, anche se era improbabile che arrivassero in auto: sarebbe stato poco convincente. Non c'era altro da guardare. Si sentiva come Cary Grant, in attesa in mezzo al deserto in quel film di Hitchcock. Sicuramente Inner Ring Road non era meno desolata. Cominciò a camminare avanti e indietro per il marciapiede, non avendo nient'altro da fare, ma all'improvviso fu assalito dai sospetti. E se fosse stata davvero Angela, al telefono, e le avessero impedito di venire? Ci credeva malvolentieri — non credeva ancora ad Angela — ma l'alternativa probabile non era incoraggiante. Era stato attirato lì perché loro potessero avere Barbara? Non potevano farle del male. Se avessero telefonato non le avrebbero passato la comunicazione, e se avessero avuto il coraggio di andare all'albergo non gli avrebbero detto in che camera era né li avrebbero lasciati salire. Eppure si chiese a disagio tra quanto tempo sarebbe potuto tornare da
lei. Un altro quarto d'ora — era l'una di notte ormai. Stava passeggiando avanti e indietro e discutendo con se stesso, quando tra i cespugli una faccia lo fissò. No, non poteva trattarsi di una faccia. Doveva essere stata una cartaccia rimasta impigliata un attimo tra i rami prima di essere soffiata via. Si era già spiegato perché si sentiva osservato. Eppure, quando colse di nuovo l'immagine di quella lunga cosa pallida, che spiccava più bianca tra il bianco sporco delle foglie, cominciò a scendere, per dimostrare a se stesso che non c'era niente. Il cavalcavia era molto più scuro delle strade. La vegetazione rendeva più strette le rampe di cemento, frammenti di raggi di fari scintillavano abbaglianti tra il fogliame. Le arcate inferiori del cavalcavia erano ricoperte di graffiti. Si chinò oltre la balaustra e scrutò i cespugli ma, da quello che poteva vedere, non c'era nascosto niente. Scese in fretta la rampa, per vedere dove conducesse, per vedere se ci fosse nascosto qualcuno lì, a osservarlo. A metà strada il cavalcavia si biforcava all'altezza di due frecce metalliche; i graffiti ne avevano resa illeggibile la scritta. Una rampa portava giù verso un marciapiede sul bordo dell'Inner Ring Road; un sentiero di cemento saliva sulla superstrada, parallelo alle corsie. Vedeva bene che non c'era nessuno in fondo alla rampa. Si diresse lungo il sentiero tra i cespugli agitati dal vento. Appena svoltò seguendo una curva si trovò circondato dal cemento. Le due ramificazioni della strada dove era stato ad aspettare portavano sopra di lui, la superstrada passava di sotto. Il rumore stringeva da tutte le parti; non riusciva a sentire neppure il rumore dei suoi passi. Non poteva vedere altro che le strade e l'argento dei terreni incolti in mezzo a esse. Il sentiero faceva un'altra curva tra i cespugli. Avanzò, pur convinto che non ci sarebbe stato niente da vedere. Le sottili membra pallide dietro il fogliame erano, chiaramente, degli steli che si agitavano nella brezza umida. Quando raggiunse il posto non riuscì neppure a ritrovarle. Un'altra rampa deserta riportava su al marciapiede opposto al punto dove era rimasto ad aspettare. Ne aveva abbastanza. L'appuntamento mancato cominciava ad apparirgli come uno scherzo che gli avevano giocato. Forse era per quello che l'avevano attirato lì, per fargli capire che era inutile che cercasse di avere la meglio su di loro. In ogni caso, aveva lasciato Barbara sola fin troppo a lungo: se si svegliava e non lo trovava? Tornò in fretta tra la folla di pila-
stri di cemento sopra la superstrada. Lì si fermò. Tra lui e le rampe, accanto alle frecce di ferro arrugginito, due uomini dal viso inespressivo erano in attesa. Non appena lo videro la loro espressione si fece ancora più vuota. Quando avanzarono lui si girò di scatto e si avviò in fretta sotto il cavalcavia. Non sapeva se quei due erano una trappola messa lì per lui, ma non aveva intenzione di scoprirlo, proprio ora che non aveva una via di scampo. Si precipitò lungo la stradina di cemento sopra la superstrada — se lo prendevano lì nessuno avrebbe sentito — fino alla curva tra i cespugli ondeggianti. Una volta raggiunta la strada principale poteva voltarsi a fronteggiare gli uomini — solo che altri due, con le facce ugualmente vuote, stavano scendendo dall'altra rampa verso di lui. Quando si girò i primi due l'avevano quasi raggiunto. Uno di loro, un giovane magrissimo con i capelli alla frate, gli pareva di averlo già visto. Ted si mise a correre verso di loro, prendendo l'aria più minacciosa possibile, ma i due gli bloccarono la strada. La luce di un faro attraverso il fogliame fece apparire le loro facce ancor più simili a maschere. Appena il giovane che pareva un monaco gli fu abbastanza vicino, Ted lo colpì. La sensazione che gli fece il suo mento fu di un pezzo di roccia dentro una sottile copertura di carne molliccia. Il giovane si appoggiò alla balaustra e si massaggiò la faccia, ma subito dopo si raddrizzò. Le nocche di Ted dolevano come se ci avesse dato una martellata, ma il giovane pareva non aver sentito niente. Di scatto Ted si mise a correre, ma non arrivò lontano. Due di loro lo raggiunsero all'altezza della discesa pietrosa. Quando lo agguantarono per le braccia lui cercò di colpirne uno con un calcio all'inguine, ma perse l'equilibrio sul cemento umido. Loro lo spinsero all'indietro sul terrapieno. I sassi gli si conficcarono nella schiena, la ghiaia e schegge di vetro gli ferirono le mani. Riuscì ancora a divincolarsi e a insultarli, anche se non poteva neppure sentire la propria voce. Dovettero mettersi in tre, e ci volle anche un po' di tempo, per immobilizzarlo al punto da consentire al più grosso dei quattro di colpirlo con violenza alla nuca. D'un tratto si sentì la testa come un pallone sgonfio; gli vennero le vertigini e una terribile nausea. I fari di un camion sopra di lui parvero bruciargli gli occhi. Si sentiva così male che quando la vecchia apparve dietro la curva non gli fece nessun effetto. Ma era una passante, un'anziana donna con i capelli tutti bianchi, e aveva visto quello che gli stavano facendo. Loro non l'avevano notata, e lei si
allontanò zoppicando più in fretta possibile. Ted riprese a dibattersi in modo da distrarre la loro attenzione, anche se lo sforzo gli aggravò la sensazione di nausea. Voleva ardentemente che facesse in fretta, che scomparisse prima che la vedessero, che chiamasse la polizia o qualcuno che potesse venire in aiuto. Era quasi arrivata a superare la curva quando cadde. Forse questo fu tutto: era inciampata e caduta attraverso un varco nella ringhiera. I fanali delle auto tremolavano tra le foglie, tutto passava fluttuando lentamente attraverso il suo cervello, e Ted non poteva essere sicuro di aver visto una figura aggrappata in mezzo ai graffiti sotto il cavalcavia. Forse era soltanto il movimento dei rami. Certamente era impossibile che qualcosa con una lunga testa biancastra fosse sgattaiolato giù a trascinare la vecchia tra i cespugli. Gli uomini lo tirarono in piedi e lo fecero scendere di corsa per il sentiero, nonostante le gambe molli. I suoi pensieri erano tutto quello che era in grado di controllare, e gli venne in mente che se mai uno degli automobilisti l'avesse visto l'avrebbe preso per un ubriaco che doveva essere portato a braccia fino a casa. Per un momento temette che i suoi rapitori fossero sul punto di buttarlo sull'autostrada. Lo spinsero invece tra i cespugli, tra i rovi che gli scorticavano le mani, in un sottobosco di rifiuti che gli impacciava il passo. Al di là di tutto questo, una rampa fatta di detriti portava giù a una casa. Pareva impossibile che ci fosse una casa in quell'isola di terreno abbandonato sotto i cavalcavia. Evidentemente avevano deciso di lasciarla lì perché non valeva la pena neppure di demolirla. Ted si sforzava di ragionare per convincersi che se non altro riusciva ancora a pensare lucidamente, visto che non poteva far nulla per impedire che lo trascinassero verso l'edificio. Una tenda sporca si scostò come la palpebra di un rettile: era atteso. La porta si aprì e fu trascinato dentro, con i calcagni che tentavano di impiantarsi nel pietrisco. Gli uomini lo spinsero con violenza nella sala buia e il rumore gli si chiuse attorno. Capitolo 26 Barbara non sapeva se stava sognando. La luce del sole filtrava tra le tende e illuminava il suo letto vuoto e disfatto, oppure c'era dentro lei, invisibile a se stessa, e sognava di guardarsi dall'alto? E se no, Arthur era davvero così vicino a lei?
Lui c'era, ma si andava rimpicciolendo. Se non lo avesse trovato in fretta sarebbe svanito, e lei sentiva quanto era ansioso. Barbara si affrettò alla finestra, ma nessuna delle teste che avanzavano oscillando in strada era la sua. Si stava dirigendo verso il bagno quando realizzò l'assurdità del suo comportamento. La sensazione della presenza dell'uomo svanì improvvisamente: la faccia si ritirò nel buio della sua mente, si fece più piccola di un atomo, e lei si trovò completamente sveglia. E non c'era nulla che la distraesse dalle sue paure — dalle peggiori delle sue paure, quelle che non aveva rivelato a Ted temendo di ammetterle anche con se stessa. Se la setta aveva rapito Angela perché aveva paura dei suoi poteri, questo significava che erano poteri troppo forti per loro; le telefonate di Angela dimostravano che era ancora in possesso di un forte senso della sua persona — ma cosa potevano averle fatto, o cosa contavano di farle, per piegarla? Niente di tanto terribile, a giudicare dal tono delle sue telefonate — o la ragazza era troppo ingenua e fiduciosa per rendersi conto di quello che stava facendo? Improvvisamente Barbara non volle più essere sola. Si infilò i vestiti e andò in fretta a bussare alla porta di Ted. Nessuna risposta. Bussò più forte e scrutò lungo il corridoio. Su un vassoio davanti a una porta una tazza di caffè stava goffamente in bilico su un'altra. Le radio nelle camere trasmettevano senza posa allegri motivetti. Quando un carrello pieno di biancheria si affacciò alla porta delle scale di servizio lei chiamò forte la cameriera. « Che ora è? » « Quasi le dieci. » Allora il suo orologio non andava male. Lui le aveva detto che si sarebbero rivisti a colazione, ma poi doveva aver deciso di lasciarla dormire. Si lavò in fretta e scese di sotto. C'era ancora qualcuno nella spaziosa sala da pranzo, sotto i lampadari ingialliti; un'anziana signora aspettava che qualcuno la spingesse via nella sua sedia a rotelle, un uomo dai baffi argentati abbassò il giornale e accennò un saluto a Barbara. Il rumore più forte era il tintinnio di un cucchiaio su una tazza, il grattare di un coltello su un toast. Nessuno dei clienti seduti a far colazione era Ted. Uno dei camerieri disse che gli pareva che Mr. Crichton avesse fatto colazione, ma chiaramente non ne era certo. Barbara ordinò il breakfast e cercò di mantenere la calma: sicuramente era uscito a fare due passi. O forse si era messo in cerca per conto suo? Gli ultimi occupanti dei tavoli andarono via, i camerieri cominciarono ad apparecchiare per il pranzo. Improvvisamente sentì che i suoi nervi non ce la facevano più a sopportare
quei rumori attutiti e andò in fretta al bancone della portineria per vedere se Ted le aveva lasciato un messaggio. Non c'era nessun messaggio, disse la ragazza, ma la sua chiave era in portineria. Barbara le chiese quando aveva lasciato la chiave. « Non saprei », rispose la ragazza. « Certo, prima che io prendessi servizio. » « A che ora, cioè? » « Le sei e mezzo. » Dove mai poteva essere andato così presto? Anche ammesso che non riuscisse a dormire — a volte gli capitava — non le avrebbe lasciato un biglietto? A meno che non contasse di rientrare prima del suo risveglio. « È assolutamente certa che Mr. Crichton non ha lasciato nessun messaggio? » « Be', anche se lo ha fatto, sicuramente qui non c'è. » Era possibile che si fosse perduto? Forse quella era una possibilità rassicurante, ma non al punto da lasciarla fare colazione. « Mi dispiace », disse al cameriere, « ho avuto delle brutte notizie. » E immediatamente desiderò non aver trovato proprio quella scusa. Per un po' attese nel foyer. Gli ospiti passavano come al rallentatore, battendo i bastoni da passeggio, scrutandola dalle sedie a rotelle. Il balenare delle porte girevoli sfocava le immagini, la costringeva continuamente a guardare fisso per assicurarsi che non fosse Ted. Avrebbe dovuto farle piacere vedere che lui non si sentiva legato, che si sentiva libero di uscire per una passeggiata. Evidentemente le aveva lasciato un messaggio che era andato perduto. Alla fine si fece strada attraverso la porta girevole e si mise ad aspettare davanti all'albergo. Di tanto in tanto una testa spiccava al di sopra del caos delle facce, ma non era mai quella di Ted. Non bastava che non riuscisse a trovare Angela? Avrebbe voluto mettersi a cercarlo, ma non aveva idea da dove cominciare. E se fosse ritornato mentre lei lo stava cercando, sarebbe stato lui a non sapere più dov'era lei. Si avventurò fino al marciapiede di fronte e lasciò correre lo sguardo lungo Sauchiehall Street. Da un lato si vedeva l'Inner Ring Road, dove le costruzioni parevano grigie come fumo. All'estremità opposta c'era un'area pedonale. La gente si fermava davanti ai negozi, degli operai si issavano su un'impalcatura come ragni che ricostruissero una tela, un cartellone davanti a una porta annunciava un'esposizione di libri prima della vendita all'asta. Ted si era chiesto che libri potessero essere. Prima di rendersi conto della sua intenzione, si trovò diretta alla sala d'aste. Poteva arrivarci e tornare in dieci minuti, anche meno. Non importava
dov'era stato, solo dov'era adesso, solo che fosse al sicuro. Ma certo che lo era, perché non avrebbe dovuto? Lei lo sapeva quanto potevano assorbirlo i libri. Non si sarebbe sorpresa se avesse scoperto che era stato un'ora e più a sfogliare vecchi volumi senza accorgersi del trascorrere del tempo. Passando veloce accanto a un centro commerciale sentì una fanfara che suonava. Un orologio a pendolo che pareva un castello-giocattolo dipinto d'oro aprì le sue porte per far uscire i cavalieri e batté sei colpi. Lo fissò, al di là di un poliziotto con le maniche corte e un tatuaggio sull'avambraccio, ma il quadrante diceva undici. Si fece largo tra la folla e salì di corsa i gradini che conducevano alla casa d'aste. In cima alla seconda rampa c'era una lunga sala vuota, grande come un bungalow. File di sedie attendevano la vendita all'asta davanti a un podio. Gli scaffali e i tavoli da esposizione, rimpiccioliti dalla vastità del salone, erano carichi di libri. Librai forniti di blocchetti per appunti studiavano le rilegature, una coppia di mezza età con un'abbronzatura da gente ricca gironzolava adocchiando le illustrazioni. Vide subito che Ted non c'era. Si scostò per lasciar passare due uomini che portavano una cassa piena di libri. Non c'era neppure un nome di autore che conoscesse. Un dorso diceva Il flusso psichico, ma lei ne aveva più che abbastanza dell'argomento. Se ne tornò avvilita verso l'albergo. L'aroma di pane appena sfornato le fece alzare lo sguardo verso il centro commerciale. Le figure uscite dal castello mentre scoccavano le sei si erano ritirate. Gli uomini del servizio di sicurezza si aggiravano per la zona, comunicando l'un l'altro con i walkie-talkie. In fondo alla galleria di negozi, dietro un carretto rosso e giallo riempito di piante grasse, c'era Ted. O forse qualcuno che gli somigliava. Era in piedi davanti alla cassa della panetteria, e lei poteva vederlo solo di schiena. Corse giù per la galleria sotto le luci fluorescenti, verdi, viola, rosa, gialle, azzurre. Il pavimento scintillante sembrava ricoperto di lurex. Dai negozi venivano motivi di canzonette, qualcuno così debole che poteva essere un'allucinazione. Niente era reale, salvo l'odore del pane — ma quando raggiunse Ted anche lui pareva sufficientemente reale. Si sentì così sollevata che dovette sedersi su una poltroncina scivolosa di plastica color cioccolato. Non appena ebbe modo di guardarlo più attentamente, esclamò: « Ti sei fatto male ». Lui si guardò le nocche escoriate come se non fossero sue. « Non è nulla. Solo un gatto che non era particolarmente cordiale. » Perfino lui non aveva mai avuto un'aria così arruffata; evidentemente
doveva proprio essersi alzato prestissimo. « Dove sei stato? » « Ho cercato la Luce Immortale per te. Sono solo uno dei mille gruppuscoli religiosi, uguali a tutti gli altri. Non sanno niente di quello che ti interessa. Ne sarebbero terrorizzati. » Il suo umore era strano, quasi esultante; forse dipendeva dall'insonnia. Nonostante il sollievo, Barbara non riusciva a condividere il suo stato d'animo; ma almeno ora lui pareva crederle, più della sera prima. « Che possiamo fare adesso? » chiese. « Be', non dobbiamo dire alla polizia della donna che abbiamo visto. Ora che l'abbiamo scoperta, i senzanome saranno più all'erta che mai. » Lei questo lo aveva già pensato, ma sentirselo confermare la rese ancor più apprensiva. « Pensi che faranno qualcosa ad Angela? » « No, non credo. Non ne hanno motivo. » « E allora tutto quello che possiamo fare », concluse lei disperata, « è sperare che Gerry sia riuscita a trovarli. » « Non mi stupirebbe se si facesse sentire presto. Ma no, credo che possiamo fare qualcosa di più che sperare. Ieri sera pensavo che la donna potesse essere entrata nella stazione per metterci fuori strada, ma quando ci ho ripensato mi è venuto in mente che aveva un biglietto in mano. » « Non me n'ero accorta. Sei certo? » « Lo vedo chiaro come vedo te adesso. » « E allora siamo di nuovo al punto di partenza. Possono essere dovunque. » « Be', non esattamente. Ho controllato i treni che sono partiti poco dopo che l'abbiamo vista. Ho un elenco delle loro destinazioni. È lì che dobbiamo cercare. » Non pareva un gran che come traccia, ma la sua foga era contagiosa. « Potremmo cominciare dalla più grande », continuò. « Dovrebbe essere Edimburgo. Dovremmo cominciare immediatamente. » Si alzò in fretta, e pareva impaziente che lei lo seguisse. Era un sollievo per lei essere guidata, una volta tanto; si sentiva troppo esausta per prendere l'iniziativa. L'odore del pane svanì, un torrente di facce che a stento vide la portò via. « Di una cosa sono certo », concluse Ted. « A Glasgow non troverai niente. » Capitolo 27 Quando Barbara si accorse che stava scendendo, tornò verso il rondò e
ripercorse la strada fino al punto di partenza, lungo il canale. Sotto un cielo che pareva sbiancato dal sole, Hemel Hempstead era un unico, continuo lampo abbagliante. Sul canale le increspature dell'acqua erano fulmini al rallentatore, il bianco dei cigni sulle rive era quasi accecante. I riflessi del sole sui finestrini della macchina la abbagliavano, come se non fosse già difficile guardare. Svoltò a sinistra all'altezza di Sarah-Boo, la sartoria, e riprese a salire. Sopra i giardini rocciosi e le costruzioni imbiancate, il labirinto di casette tutte uguali si richiudeva. L'aveva già percorso una volta ed era tornata indietro, ma le era difficile distinguere anche le strade in salita. Non conosceva il cognome di Iris, dato che all'Other News non erano riusciti a trovare il ritaglio; non riusciva a ricordare il nome della strada né il numero della casa. Sapeva solo che era su una salita, ma questo valeva praticamente per tutte le case. Le porte sfilavano una dopo l'altra come campioni di vernici in un catalogo. La madre di Iris aveva aperto la porta verde. La madre di Iris aprì la porta, che era dipinta di rosso. Dietro la porta azzurra c'era la madre di Iris. Barbara era avvilita di non essere in grado di ricordare un particolare così semplice; allora non si era resa conto che le sarebbe potuto servire in seguito. Da qualche parte ronzava una falciatrice, dei bambini si lanciavano una palla a strisce attraverso i vialetti e i radi prati senza siepi, ma questi dettagli sembravano troppo reali per quelle case. Forse in parte era effetto della tensione, ma non del tutto. Si accorse che stava di nuovo scendendo verso il rondò e ricominciò a cercare la casa. Non c'era altro posto dove andare. In Scozia non aveva trovato niente. A Stirling, Dunfermline, Kirkcaldy, Perth, Dundee, Montrose, Aberdeen e negli stretti vicoli che portavano alle spalle delle ampie vie di Edimburgo, non c'era nulla da trovare. Sospettava che l'incontro con la donna dal viso storto avesse spinto i senzanome a spostarsi in un'altra parte del paese. Barbara era tornata al suo ufficio e non aveva trovato nessuno dei messaggi che aveva sperato, ma solo una gran quantità di segni di interessamento per Cherry Newton-Brown. Per certi versi questo l'aveva fatta sentire peggio. L'interesse suscitato dal romanzo della Newton-Brown era notevolmente più alto di quanto lei avesse previsto, e questo significava che la sua capacità di giudizio era in calo. Non che fosse tanto sorprendente date le circostanze, ma non riusciva ugualmente a giustificarsi. Aveva sperato di condurre l'asta per Paul Gregory da Londra: anche se sarebbe stato meno complicato tenerla a New
York, non pensava di essere in grado di lasciare il paese, visto come stavano le cose. Adesso, però, a New York doveva andarci per forza, perché il romanzo della Newton-Brown meritava di essere presentato personalmente agli editori. Aveva anche prenotato un volo per gli Stati Uniti, ma non riusciva a decidersi ad andar via: prima doveva rivolgere qualche domanda all'unica persona a lei nota che avesse visto Angela. Le case assolate, senz'ombra, sfilavano via veloci. Le antenne della televisione erano scintillanti fratture nel blu patinato del cielo. Le porte dicevano giallo, arancio, viola, e non significavano niente. I bambini inseguivano ancora la palla, una matassa a strisce che chi sa come rimbalzava ancora. Magari poteva chiedere a loro dove abitava Iris, ma non c'era ragione di supporre che la conoscessero. Forse i loro genitori, ma perché avrebbero dovuto dirlo a Barbara? Non avevano nessun motivo per non essere diffidenti. Si sarebbero richiusi nei loro gusci, dietro le porte smaltate, le tende accuratamente tirate. Negli spazi tra le tende ogni tanto si vedevano delle bambole. Improvvisamente ricordò, e si mise in cerca. Dovette fare un quarto giro completo prima di vedere quel riflesso violetto. Dal fondo del prato non poteva essere sicura — il riflesso era brillante come una lama — ma sì, era proprio la ballerina di porcellana. Spense il motore e rimase seduta qualche minuto. Voleva davvero saperlo che cosa stava facendo la setta ad Angela? Poteva sopportare di non saperlo? Mentre si avviava lungo il sentiero verso la casa, incespicò; Ted la sorresse prendendola per il gomito. Le parve che qualcuno stesse sbirciando da una finestra del primo piano, ma quando guardò in su non vide nessuno. Forse era la madre di Iris, che si ritirava per non farsi vedere dai poco graditi visitatori; dovettero infatti suonare tre volte prima che Maisie venisse ad aprire. Lanciò un'occhiata dura a Ted per fargli capire che non la intimidiva affatto. « Cosa volete? » chiese a Barbara. « Volevo chiederle se potrei scambiare due parole con lei. » « Temo che non sia possibile. Sono occupatissima. A badare a mia figlia », aggiunse, sottolineando pesantemente la frase. Forse si accorse di essere stata cattiva e aggiunse più gentilmente: « Era soltanto con me che voleva parlare? » Non era il caso di mentire. « Veramente volevo parlare proprio con sua figlia Iris. » « Be', lei sa che ha tutta la mia comprensione, ma temo che questo non sia possibile. Oltre tutto mio marito non lo gradirebbe. » « Lui lavora non lontano da casa, no? » intervenne Ted. « Posso andare a
prenderlo? Magari cambierebbe idea. » Barbara desiderò che avesse tenuto la bocca chiusa, pur sapendo che parlava con l'intenzione di rendersi utile; dopo quello che gli aveva detto del padre di Iris lungo la strada, avrebbe dovuto capire che così le rendeva le cose più difficili. Aveva distratto Maisie, che chiese: « Lei è un altro giornalista? » « No, è solo un amico. La giornalista che lei ha conosciuto sta cercando di infiltrarsi nel gruppo che ha rapito sua figlia, e anche noi abbiamo fatto delle ricerche. Ci siamo arrivati vicino, li abbiamo rintracciati in Scozia, ma ora mi tocca andare in America senza neppure sapere dove hanno portato la mia bambina. » « Se la sconvolge tanto può non andarci. » « Non è così semplice », spiegò Ted. « C'è gente il cui lavoro dipende da lei. Se non ci andasse sarebbe lo stesso che lasciare il lavoro. » « Credo che la bambina stia bene, continua a telefonarmi. Voglio solamente sapere che cosa potranno farle », disse Barbara, e si sentì sul punto di scoppiare a piangere. Forse Maisie temette che Barbara potesse svenire o crollare davanti a casa sua. Alcuni bambini stavano guardando dai gradini della casa di fronte. « Entrate a sedervi per qualche minuto », li invitò Maisie. « Posso offrirvi una tazza di tè prima che andiate via. » Nella stanza sul davanti non era cambiato nulla. Solo che Ted la faceva apparire più piccola. Maisie stava mormorando qualcosa al piano di sopra: a Barbara parve di sentire: « Non venire di sotto ». Evidentemente aveva già fatto il tè per sé e per Iris, poiché quasi immediatamente rientrò spingendo un carrello con le tazze e una teiera. Sembrava diffidente verso Ted, e Barbara la capiva: era già piccola rispetto a Barbara, ma Ted avrebbe potuto sollevarla con una mano. Eppure, l'idea di aver timore di Ted era ridicola. « Come sta Iris? » chiese Barbara. « Meglio. Qualche giorno è abbastanza ciarliera. Vorrei che continuasse così. » « Abbiamo scoperto dell'altro su quelli che l'hanno rapita. » Ted stava bevendo il suo tè come se non si accorgesse che scottava. La tazza era un fragile guscio nella sua mano. « Sappiamo che aspetto ha una di loro. Se gliela descriviamo, potremmo provocarle uno choc e costringerla a ricordare. » « Non voglio assolutamente che abbia uno choc. » Maisie era allarmata, ma mai come lo era Barbara: che diavolo gli era venuto in mente? Prima
che Barbara potesse intervenire, Maisie chiese: « Come mai sapete com'è fatta quella persona? » « Perché ci ha seguito, a Glasgow », rispose Ted. « Vi ha seguito? » La tazza nelle mani di Maisie ondeggiò, versando del tè. « Ma allora potrebbero avervi seguito fin qui! » « Be' », cominciò Ted, e dal tono pareva così insensibile che probabilmente avrebbe detto che sì, era possibile, se Barbara non fosse intervenuta. « La donna sa che l'abbiamo vista », spiegò. « Anzi, l'avevamo quasi presa. Sono certa che non oseranno più seguirci. » « Come fa a dirlo? Poteva esserci qualcuno che voi non avete notato. » « Sono sicura di no », rispose Barbara, chiedendosi se ne era proprio convinta. « Ma guardi, ce ne andiamo appena possibile se la nostra presenza qui la rende nervosa. Potrebbe lasciarmi parlare per cinque minuti con Iris. Stia certa che non ho la minima intenzione di darle nessuno choc, voglio solo parlarle. Ted rimarrà di sotto e ci aspetterà lì, vero Ted? » Maisie non lo guardò, e forse fu meglio, perché lui non aveva affatto l'aria di accettare la proposta. « L'ha già vista una volta », obiettò. « Ma c'è una cosa che non avevo pensato di chiederle. » Improvvisamente Barbara fu contenta di continuare a discutere, anzi ansiosa di far andare avanti la discussione, poiché lei e Ted erano più vicini di Maisie all'ingresso, e Barbara sentiva qualcosa che sfuggiva alla madre: qualcuno scendeva dal piano di sopra. « Avrei dovuto chiederle se c'era una bambina che continuava a parlare di sua madre. Non so se Gerry Martin glielo ha detto — è la giornalista che mi ha condotto qui — ma Angela, sarebbe mia figlia, continua a telefonarmi. Se lei si fidava di sua figlia più che degli altri potrebbe aver fatto il mio nome. » Continuava a parlare, neppure convinta lei stessa di tutto quello che stava dicendo, ma i passi si avvicinavano, attutiti certamente da un tappeto e dalle pantofole, e Maisie non li sentiva. « Le ho fatto vedere la fotografia che lei mi ha lasciato », disse Maisie. « Me lo avrebbe detto, se sua figlia le avesse parlato di lei. » « Non è detto, magari non ha riconosciuto la foto. Probabilmente non conosceva Angela per nome, probabilmente per quello che ne sapeva Iris non ce l'aveva neppure, un nome. Se glielo chiedessi direttamente potrebbe ricordarlo », insistette Barbara, e cercò di bloccare Ted. Troppo tardi: lui si era alzato di scatto e aveva aperto la porta mentre i passi raggiungevano l'ingresso. « Salve Iris », disse. Barbara lo avrebbe preso volentieri a calci. Certamente la sua intenzione
era di fermare Iris prima che la madre la riportasse al sicuro di sopra, ma che scena doveva trovarsi davanti quella povera ragazza già così sofferente? Una porta che si spalancava in casa sua, un enorme sconosciuto che l'aspettava — nessuna meraviglia che si ritraesse di scatto fissandolo a occhi sbarrati. Maisie la fece entrare nella stanza, tenendola ben lontana da lui. « Tu conosci già questa signora. È lei che portò la fotografia della sua piccola da mostrarti. Questo signore è un suo amico », aggiunse, con un'occhiataccia a Ted. Quando Iris si fu sistemata — sedette come se fosse di porcellana, con la paura di rompersi — Barbara cercò gentilmente di farle delle domande, nonostante l'aperta disapprovazione della madre. Ma la ragazza sembrava incapace di distogliere lo sguardo da Ted, e più lo guardava più diventava visibilmente agitata. Barbara avrebbe voluto sentirle dire che la setta non aveva cercato di distruggere Angela, che averla catturata le era bastato, ma come poteva formulare la sua domanda in maniera che Iris non ripensasse a ciò che l'aveva ridotta in quello stato? Ted doveva sentirsi sempre più a disagio sotto quello sguardo, poiché si alzò e andò a mettersi accanto alla finestra. Questo non fece altro che distrarre Iris ancora di più, e farla ritirare ancora di più in se stessa. Non aveva detto neppure una parola. « Ted », disse Barbara, con tutta la calma di cui era capace, « ti dispiace aspettarmi fuori? » « Non c'è bisogno che l'aspetti. Potete andare tutti e due. » Maisie fissava le mani di sua figlia che si stringevano una all'altra in cerca di conforto, che si tormentavano sempre più disperatamente. « Scusatemi, non voglio sentire altro. Gliele farò io le sue domande non appena riterrò che sia possibile. Ho ancora il suo indirizzo. » Al centro del rondò la testa di Barbara cominciò a girare. Ted fermò la macchina sul margine della strada giusto in tempo perché lei si allontanasse barcollando verso il bordo erboso e vomitasse la sua tazza di tè. Dopo un po' anche lui scese dall'auto e le si mise accanto, fissandola con un'aria tranquilla che voleva evidentemente essere rassicurante. Quando lei fu in grado di risalire in macchina, lui guidò più lentamente attraverso le pesanti ondate di calore verso l'autostrada. « Lo so che ti ho rovinato l'occasione », disse, poi sorrise verso il paesaggio inuguale. « Ma mi era venuto in mente che c'è un'altra cosa che posso fare. » Capitolo 28
Quando Iris guardò nello specchio del tavolino da toletta, le parve di vedere il riflesso di un movimento nel letto illuminato dalla luce del sole, un dimenarsi sotto le lenzuola. Il movimento stava per spostare il lenzuolo, e così lei avrebbe visto com'era. Per un momento si sentì come si era sentita il giorno prima — le braccia volevano stringersi così forte al suo corpo che si sarebbe fatta troppo piccola perché qualunque cosa potesse raggiungerla — ma poi si accorse che a muoversi era solo l'ombra delle tendine. Era a casa ormai. Niente poteva farle del male. Il male non c'era, lì, anche se era andato a farle visita. Quando toccò il cassetto in alto la sua mano esitò. Nella strada un bambino cantava una canzoncina; giù per la collina qualcuno potava una siepe e il rumore era più tagliente delle cesoie; dentro la sua stanza il sole teneva tutto immobile, ma il suo timore era che non potesse farlo ancora per molto, ora che il male aveva visto dov'era lei. Ma proprio per questo doveva cercare. Il pensiero la spinse ad agire, le fece aprire il cassetto. Non c'era altro che la biancheria del padre, niente che se ne stesse nascosto in agguato mentre lei vi trafficava dentro in fretta. Sicuramente l'indirizzo non era lì: la donna lo aveva dato a sua madre. Si inginocchiò e aprì il secondo cassetto. Doveva fare in fretta, prima che sua madre scoprisse quello che stava facendo. Non glielo avrebbe lasciato fare, se avesse saputo. Forse a volte la madre aveva ragione. Il giorno prima le aveva detto di rimanere di sopra finché i due visitatori non fossero andati via. Iris era scesa in silenzio — non era una bambina a cui si poteva dire di rimanere in camera sua; si sentiva come se non lo fosse mai stata, si stava ricostruendo nel presente, avendo dimenticato praticamente tutto il suo passato — ed ecco che la porta si era aperta, e lì c'era quell'enorme uomo con la barba. Appena visti quegli occhi aveva capito che cos'era. Tutti i senzanome avevano quell'impronta nascosta che nessun altro era capace di riconoscere, quella fisionomia come se qualcosa li avesse mangiati all'interno fino a renderli gusci vuoti. Aveva cominciato immediatamente a richiudersi in se stessa. La cosa peggiore era che lui l'aveva chiamata per nome, nome che lei aveva appena cominciato a credere suo. I senzanome non le lasciavano neppure avere un nome a cui aggrapparsi per sfuggire al loro potere. Doveva farlo sapere alla donna, alla donna che cercava sua figlia. Non le veniva in mente nessun altro a cui dirlo: certamente sua madre non avrebbe voluto saperlo. « Ormai sei a casa tua, Iris. Non pensare a quelle cose. »
Voleva credere che Iris aveva dimenticato; e forse un giorno ci sarebbe riuscita. Possibile che la madre avesse buttato via l'indirizzo di quella donna? Non si era presa la briga di riportarlo nella sua rubrica. Ma il giorno prima aveva detto che ce l'aveva ancora, e sua madre non avrebbe mentito. Doveva essere da qualche parte là dentro. Forse era in uno dei vestiti di sua madre nell'armadio. Stava attraversando in fretta la stanza, rasentando il letto dove quel grasso rigonfio tremolante non era altro che un cuscino turbato dall'ombra, quando sentì la voce della madre sulle scale. « Iris, dove sei? » « Sono qui. » Ora riusciva a parlare abbastanza facilmente; solo quando l'argomento cadeva su cose che non voleva ricordare le sue labbra cominciavano a torcersi come vermi. Doveva trovare una scusa logica per trovarsi in camera della madre. Prese l'album di fotografie e si mise seduta sul letto. « Benissimo, Iris, stai pure qui se ti fa piacere. » Non appena si fu assicurata che Iris stesse bene, tornò di sotto. Iris aveva la sensazione che la madre fosse sempre stata così, sempre ansiosa di credere che nulla turbasse la figlia, sempre lì a controllarla, ma senza averne l'aria. Per un momento, guardando una foto di sé con i genitori, Iris fu sul punto di ricordare — ma doveva trovare l'indirizzo. Si alzò in piedi, cautamente per non disturbare il rigonfio sotto il lenzuolo, e andò all'armadio. Il biglietto da visita era nel terzo vestito in cui guardò. BARBARA WAUGH - AGENTE LETTERARIO, diceva. Doveva essere stato lavato insieme con il vestito, poiché la scritta a penna sul retro quasi non si leggeva più: riuscì a stento a decifrare l'indirizzo nel Barbican. Chiuse in fretta l'armadio: stava per venirle in mente la stanza buia dove l'oggetto appeso nell'armadio non era un vestito, ma qualcosa che guizzava come un verme su un amo. Forse era solo un incubo che le pareva un ricordo, dato che di ricordi ne aveva così pochi. Corse in camera sua. Ora doveva sbrigarsi. Tirò fuori la sua carta da lettere. Dall'odore pareva vecchia di anni, e lo era. Francobolli non ne aveva, ma pensava di procurarsene uno. Un orologio batté le cinque. Suo padre sarebbe arrivato in stazione alle sei. Se non riusciva a essere lì prima di quell'ora il suo piano sarebbe fallito. Non appena la prese in mano, la penna le sfuggì via. Non le riusciva di scrivere dei senzanome più di quanto le riuscisse di parlarne. Quella traccia di male era rimasta dentro di lei. Stava per ricordare cose che aveva
aiutato a fare, stava per ricordare quella volta che era caduta nel buio di una delle stanze dalle finestre murate e aveva cercato di dirsi che ciò che aveva toccato era solo un rotolo di fune viscida. Il rischio di ricordare le vuotò immediatamente la mente, con suo grande sollievo. Se non altro i ricordi non erano più tentatori. Poteva scrivere dell'uomo con la barba. Era arrivato più tardi dei suoi ricordi; i senzanome non potevano impedirle di scrivere di lui. Doveva dirlo a qualcuno, in modo che potessero prendere i senzanome prima che i senzanome riprendessero lei. Poteva scrivere, anche se la sua mano tremava. Ma l'orologio stava battendo il quarto, e non aveva ancora scritto nulla. Improvvisamente seppe con precisione cosa fare. Scrisse l'indirizzo sulla busta. Dovette scrivere tutto l'indirizzo in stampatello grande, poiché la sua mano tremava tanto che scrivendo in un altro modo la sua grafia sarebbe stata illeggibile; rimase appena lo spazio per il francobollo. Poi, senza interruzione, scrisse: L'UOMO CHE HA PORTATO A CASA MIA È UN SENZANOME. POSSONO FARGLI FARE TUTTO QUELLO CHE VOGLIONO. IRIS. Infilò il foglio nella busta. Leccò il lembo così in fretta che si fece un taglio sulla lingua, poi scese senza perdere tempo al piano di sotto nascondendo la lettera in una tasca del vestito. Aveva paura che le sue mani, contro la sua volontà, tirassero fuori la lettera e la facessero a pezzi. « Andiamo a prendere papà? » propose. « Sì, certo, se ti fa piacere. » Almeno questa parte del suo piano era semplice; sua madre si mostrò sorpresa e compiaciuta. A volte portavano Iris a fare una passeggiata serale, quando c'era meno traffico. Doveva apparire come un passo avanti della ragazza. Sua madre impiegò un po' di tempo per prepararsi, ma per quanto ne sapeva lei non c'era alcun bisogno di affrettarsi. Sarebbe anche scesa con tutto comodo giù per la collina, fino alla strada, se Iris non le avesse fatto fretta. Ma certamente la madre doveva essere contenta che Iris non rimanesse indietro intimorita dal traffico. Sulla strada lungo il canale, il rumore del traffico era un muro invisibile. Iris si fece forza per oltrepassarlo, ma ogni secondo si faceva più intenso, scuotendole i nervi. Cercò uno spazio nella colonna di macchine e la madre la fece attraversare fino al sentiero che portava giù al canale. Vicino all'acqua c'era molto meno rumore. I riflessi degli alberi ondeggiavano come alghe. Nel campo di calcio sulla riva opposta cavalli e mucche brucavano l'erba tra le due reti. Una chiatta aspettava che la chiusa si riempisse; alcuni giovani a torso nudo seguirono con lo sguardo Iris men-
tre passava. Sicuramente erano lì per una gita sul canale, non avevano niente a che fare con i senzanome. Quando l'orologio batté la mezz'ora la ragazza si sforzò di affrettare il passo, anche se erano ormai all'altezza del ponte stradale. Dalle due parti del canale il rumore del traffico era schermato dal terrapieno erboso, salvo dove il ponte incrociava il canale. Mentre ci passava sotto, veloce, l'acqua si faceva oscura, metallica; si trovò presa in quella trappola di cemento dal frastuono che bloccava entrambe le estremità, ma riuscì a farsi strada attraverso il rumore e spinse il cancello cigolante che dava sul viale. Ora niente poteva fermarla. Gli ippocastani coprivano il sentiero e lei raccolse una castagna d'india, con un gesto da bambina. Denti d'acciaio circondavano i tronchi per scoraggiare le arrampicate. Nell'erba alta lungo il canale, dei cavalli erano ritti vicino ai loro puledri sdraiati. Non erano ancora le sei meno un quarto quando le due donne raggiunsero il pub accanto alla stazione e Iris disse: « Devo andare in bagno. Non occorre che tu venga con me. Non ci metto molto ». « Va bene, cara. » La madre parve un po' ansiosa, ma anche contenta che Iris si sentisse in grado di avventurarsi da sola nel pub. Qualche avventore, pochi per via dell'ora, era appoggiato al bancone. Sopra una porta un cartello indicava la toilette, ma non era quello ciò che lei cercava. Andò direttamente dalla donna dietro il banco. « Devo imbucare una lettera con urgenza », disse: si era esercitata in silenzio per ore per dirlo bene. « Mi può vendere un francobollo? » « Un minuto, vedo. » Trafficò nella sua borsa per più di un minuto; il rintocco del quarto rieccheggiò attraverso la finestra. La madre di Iris probabilmente si stava chiedendo cosa le fosse successo: e se fosse entrata a controllare che Iris non fosse sgusciata lì dentro per farsi un drink di nascosto? La donna alzò gli occhi dalla borsa. « No, mi dispiace. Pensavo di averlo. » Quando Iris si volse con aria abbattuta dal bancone — era assolutamente impreparata all'eventualità che il piano fallisse — vide una piccola faccia piena di lentiggini e di venuzze rosse che la fissava. Si strinse forte, ma era solo un anziano pensionato più basso di lei di tutta la testa. « Era tanto urgente? » chiese. « Sì. » Non riuscì a dire altro, si sentiva le labbra gonfie. « Lo conservavo perché mi piaceva la figura. » Le porse un francobollo su cui Peter Rabbit torreggiava sopra la testa senza corpo della regina Eli-
sabetta. « Non dovrebbe essere difficile procurarmene un altro », concluse speranzoso. Lei incollò il francobollo sulla busta prima che l'uomo potesse ripensarci. Non appena gli ebbe dato i soldi corse fuori, nascondendo la lettera. La madre si avviò immediatamente su per la rampa che conduceva alla stazione. Sul muro appena fuori dalla stazione c'era una cassetta per le lettere. Approfittando del fatto che la madre la precedeva e guardava avanti, Iris si fece forza, tirò fuori la lettera e la infilò nel buio della finestra. Per un momento si sentì agitatissima, ma come altro poteva proteggersi? Si affrettò a raggiungere la madre. Un treno passò con un ruggito lacerante. Una faccia immobile la fissò attraverso lo sportello dei biglietti. Tutto sembrava ritirarsi davanti a lei: la piccola stazione a due marciapiedi, la luce del sole così fissa da parere irreale. La lettera era ormai al sicuro. Niente avrebbe potuto fermarla, ormai. Dopo poco un treno portò il padre. Lui non parve del tutto contento di vederla e guardò male la madre, a cui non aveva ancora perdonato di aver fatto entrare Barbara Waugh il giorno prima. « Stai meglio, oggi? » chiese a Iris. « Sì. » Ora c'erano tutti e due i genitori a proteggerla, niente poteva farle del male. Poi vide il furgone postale che si allontanava dalla buca, si immetteva sulla via principale e scompariva in fretta, e di colpo si sentì terrorizzata. Era stata così occupata a eludere sua madre che non si era resa conto di quello che stava facendo. Sarebbe stata al sicuro se non avesse scritto la lettera — l'uomo con la barba aveva visto che lei non costituiva una minaccia. Ora aveva tradito i senzanome, e sentiva che loro lo sapevano. Improvvisamente le tornò in mente il giorno in cui li aveva lasciati, il giorno in cui si era sentita così stordita da quello che aveva appena aiutato a fare che era uscita di casa senza pensare. Era così fuori di sé che forse loro, con tutto il loro potere, non si erano neppure accorti che se ne andava. In qualche modo aveva preso un treno per casa, ed era già a metà strada quando l'avevano trovata nello scompartimento deserto e assolato. Dopo di che non ricordava nulla per settimane, fino al giorno in cui si era ritrovata nella sua camera a casa, apparentemente al sicuro — al sicuro fino a quel momento. Seguì i genitori al sole, come se questo potesse esserle d'aiuto. Ora si stavano dirigendo verso il viale. Non si accorgevano di com'era buio sotto
gli alberi, di come scintillavano quei denti metallici? Non si rendevano conto che qualsiasi cosa poteva piombare giù dal basso fogliame o strisciare su dall'erba alta? I senzanome una volta le avevano detto che non sarebbe mai riuscita a tradirli; ma che se solo ci avesse provato loro lo avrebbero saputo. Ora se lo ricordava, troppo tardi. Per tutta la strada lungo il viale, un cavallo le camminò a fianco, fissandola. Quando i genitori videro che la cosa la turbava tentarono di scacciarlo. Il cancello cigolò e si fermarono ad aspettare che li raggiungesse sotto il ponte. La madre era davanti a lei, il padre dietro, ma non potevano impedire al rumore di circondarla. Ora ricordava perché la spaventava tanto: era uguale al rumore in quelle case decrepite in cui l'avevano costretta a vivere. Possibile che il male fosse anche là dentro? I senzanome ora dovevano essere più potenti. Sentivano di essere vicini al loro scopo, quale che fosse; le cose che facevano — le cose che lei aveva aiutato a fare — li avevano portati ancora più vicini. « Forza Iris », disse il padre, impaziente. Aveva tanta paura che potesse spingerla che immediatamente si fece avanti. Non appena si trovò sotto il ponte il rumore creò un muro dalle due parti: l'acqua rallentò, congelandosi in una grigia striscia corrugata. Il rumore le si chiudeva attorno, spessa atmosfera semibuia, impalpabile ma impenetrabile. Sentì rallentarsi tutti i movimenti. I genitori non se ne accorsero. Loro camminavano avanti, portandola con loro, e in qualche modo riuscì a trovarsi fuori dalla trappola del ponte. Il sole l'agguantò, ma almeno quello era neutrale. Gli alberi stavano a testa in giù nell'acqua, annegando. Di là dal canale una palla batté rumorosamente contro un bastone da cricket. Un treno sferragliò lungo la linea lontana, stridendo come un'unghia su una lavagna. Per lo meno adesso si trovava all'aperto, e più vicina a casa, ma quanto al sicuro sarebbe stata in casa? Non c'era in vista nulla che potesse farle del male; nulla si muoveva tranne la piccola forma sopra di lei. Alzò gli occhi. Era un uccello, e improvvisamente precipitò. Lei si ritrasse, ma non stava attaccando lei. Cadde sul sentiero ai suoi piedi. Continuava a muoversi, ma era tutto coperto di sangue. « Dio mio », mormorò suo padre, e le impedì di vedere mentre lo superavano in fretta. Le stavano dicendo che sapevano cosa aveva fatto, che potevano fare tutto quello che volevano. Non sarebbe stata più al sicuro a casa. Ricordò l'agitarsi sotto le lenzuola, e che altro poteva esserci ad aspettarla? Sedette
sulla riva del canale. L'erba secca le pungeva le gambe e le braccia, i suoi genitori la chiamavano, e poi la chiamavano più forte, ma queste distrazioni esterne già cominciavano a sfumare. Gambe e braccia le si erano strette forte contro il corpo, spingendola giù nel buio dentro di sé, dove nulla poteva raggiungerla. Capitolo 29 Quando le bambine uscirono schiamazzando dalla scuola sul lago, con i capelli e le mantelline rosse al vento, Barbara si rese conto che era mezzogiorno. Ted ormai avrebbe dovuto già essere lì. Si sporse dalla finestra e scrutò attraverso il ciuffo di capelli che il vento le spingeva davanti agli occhi, ma non riuscì a vedere altro che il postino sulla rampa del Barbican. Sperò che Ted si sbrigasse: quel ritardo dava tempo ai suoi dubbi di riprendere vita. Quando fece il suo numero non ebbe risposta, ma poteva vedere che era ancora in casa: dietro la sua finestra c'erano delle figure che si muovevano. Era successo qualcosa che gli impediva di venire a darle una mano? Il vento di settembre era inaspettatamente freddo. Il salice pendeva sopra la piattaforma di mattoni, la chiesa, capovolta, tremolava. Il postino era diretto al suo appartamento, ma non aveva il tempo di aspettarlo; era troppo occupata a lottare con le folate di vento lungo la rampa, un vento che le faceva svolazzare i vestiti e le spingeva i capelli sugli occhi. Il cicaleccio delle bambine continuava ad arrivare da sopra l'acqua, a ondate. Era sugli scalini che conducevano all'appartamento di Ted quando ebbe l'impressione che qualcuno la prendesse per la spalla. Solo afferrandosi alla ringhiera riuscì a non cadere. Doveva essere stato il vento, ma per un momento le era parso che qualcuno l'avesse toccata come per impedirle di andare oltre. E in quel momento aveva pensato ad Arthur. Suonò il campanello di Ted, suonò di nuovo. Il vento arrivava a folate lungo la balconata. Stava per bussare quando le fu aperto ma non da Ted. Era una donna più anziana di lei, con un fazzoletto legato stretto attorno al viso stanco. I suoi occhi si fecero ancora più sottili mentre diceva: « Lei è Barbara Waugh? » Una donna soltanto poteva accoglierla con tale freddezza. « Lei è... » « Sì, ero sua moglie. Sa, ho pensato spesso di affrontarla, ma sono contenta di aver lasciato perdere. Lei è proprio come me l'ero immaginata. » Ted comparve dietro di lei nell'ingresso, e lei avanzò sulla balconata. « Mi
chiedo soltanto se si rende conto di quanto lo ha cambiato », disse aspramente. « Neppure la figlia lo riconosce più. Immagino che sarà soddisfatta, ora che lo ha tutto per sé. » Si allontanò a grandi passi, il fazzoletto svolazzante. Barbara seguì Ted in casa mentre lui cercava le chiavi. L'incontro con Helen era stato troppo improvviso e breve per sconvolgerla, ma sollevava comunque degli interrogativi, nessuno dei quali lei aveva particolarmente voglia di porre. Prima di poter dire nulla notò il dattiloscritto in una cartella sul divano. « Hai finito il romanzo? » chiese. « Così sembra. Portatelo via, se vuoi. » « Sì, certamente. Lo leggerò sull'aereo. » Si accorse che Ted aveva bisogno di incoraggiamento: aveva un'aria del tutto indifferente al romanzo, come se non avesse nulla a che vedere con lui. Forse il motivo era Helen. « Che cos'era quella scena proprio ora? » dovette chiedergli. Lui la spinse fuori dall'appartamento. « Oh, niente, qualcosa su Judy. Non è più la stessa con me da quando sono andato in Scozia. » « Vuoi dire che si è ingelosita perché ci sei andato con me? Dimmi la verità. » Una folata gli distorse la voce: non poteva essere che stesse davvero ridendo. « Potrebbe essere così », disse. La stava incalzando così in fretta da non lasciarle quasi modo di riflettere. « Ma è tutto qui? Non mi pare un gran motivo perché sua madre sia venuta a trovarti. » « Helen esagera sempre, te l'ho già detto. Era solo un pretesto. » « Un pretesto per che cosa? Non vorrà cercare di non farti più vedere Judy, no? » « Non lo so. E comunque adesso non ha importanza. Ora non dobbiamo correre il rischio che tu perda l'aereo. » Evidentemente doveva essere rimasto scosso dalla visita di Helen, ma voleva fingere il contrario. Non appena lei aprì la porta lui si affrettò a seguirla. « Ti prendo le valigie, se mi dici dove sono. » Si fermò di scatto: aveva urtato con il piede un mazzetto di lettere sparpagliandole sul pavimento. Si chinò in fretta e le raccolse. Ne osservò una con attenzione, poi se l'infilò in tasca. « Questa non è per te. La consegno io più tardi. Ora non c'è tempo. » Effettivamente non aveva l'aria di essere indirizzata a Barbara: la scritta sulla busta era tutta in maiuscole tremolanti e lasciava appena lo spazio per l'affrancatura. Le altre lettere erano tutte di scarso interesse. Ted era già di
ritorno nell'ingresso con le sue valigie. Era così ansioso di andare che lei quasi dimenticò di lasciargli le chiavi dell'appartamento. Sulla via per l'aeroporto di Heathrow nessuno dei due parlò molto. Oltre Hounslow i campi sembravano congelati dal ghiaccio blu del cielo. In certi momenti Ted pareva quasi non accorgersi che stava guidando. Doveva essere preoccupato per Judy, e per colpa di Barbara. Quando si accorse che lei lo guardava con uno sguardo preoccupato, lo interpretò male. « Andrà tutto bene », disse. « È tutto sotto controllo. Sarò nel tuo appartamento tutte le volte che ci saresti tu. Se chiama qualcuno puoi star sicura che risponderò. » Questo lei lo sapeva — aveva passato tutto il viaggio da Hemel Hempstead a convincerla — ma quando fu il momento di fare il check in non si sentì più tanto sicura di riuscire a farcela. Lui sarebbe stato nel suo appartamento tutte le notti che lei avrebbe passato a New York, gli aveva detto cose che solo Angela poteva sapere, ma era sufficiente? Era troppo tardi per consentirsi dei dubbi: Ted aveva messo il suo bagaglio sul nastro trasportatore e ora le valigie si allontanavano, come tante bare verso il forno crematorio. « Non preoccuparti », le disse lui, stringendole il braccio così forte che le fece male. « Se Angela chiama, so esattamente cosa fare. » Capitolo 30 L'asta del libro di Gregory durò due giorni e quando fu terminata Barbara si sentì come se al mondo non esistesse nient'altro che la sua suite all'Algonquin e la veduta monocroma della Quarantaquattresima ovest attraverso l'alto finestrone vittoriano. Chiamò Paul per dirgli che la vendita si era conclusa con una cifra di milioni; le rispose Sybil, che dovette mostrarsi sia pure a malincuore entusiasta. Dopo l'asta, Barbara non riuscì a rilassarsi. Avrebbe potuto dare un party nella sua suite, ma era troppo occupata con gli incontri con gli editori per promuovere il romanzo della Newton-Brown. Tra un incontro e l'altro tentò di passeggiare. Cori invisibili cantavano Schőnberg in Bryant Park, le pietre nelle vetrine dei gioiellieri sulla Quarantaquattresima est sfolgoravano come se stessero ancora cristallizzandosi, i riflessi dei grattacieli si incontravano e si fondevano sulla gigantesca superficie curva del Monsanto Building. Non poteva allontanarsi troppo dall'albergo, poteva sempre chiamare Ted. Ma, anche se ora si sentiva stanca e nervosa, la sua agitazione aveva da-
to buoni frutti. L'interesse per il libro della Newton-Brown era forte, e poteva condurre l'asta da Londra. Doveva solo incontrare una redattrice sua amica per discutere del romanzo di Ted e poi poteva confermare la prenotazione sul primo volo disponibile per Londra. Stava per darsi una rinfrescata quando suonò il telefono. Era Cathy Danieli, la redattrice che stava guardando il romanzo di Ted. « Sali pure », le disse Barbara. Era arrivata in anticipo perché era ansiosa di comprare il romanzo? Barbara ci aveva dato un'occhiata in aereo, ma era troppo preoccupata per poterlo giudicare serenamente; aveva continuato a chiedersi come avrebbe reagito Angela se telefonando a casa sua avesse sentito una voce di uomo. E se avesse pensato che la setta aveva intercettato la sua chiamata? Barbara sperava soltanto che Ted riuscisse a convincerla del contrario. Cathy arrivò poco dopo, con un abito lungo e ampio e una coda di cavallo. Si salutarono con un bacio, poi Barbara si affrettò verso il bagno. Stava finendo di lavarsi, gli occhi le bruciavano per il sapone, quando il telefono suonò di nuovo. « Rispondo io », gridò Cathy. . Barbara si sciacquò in fretta il viso e chiuse il rubinetto in tempo per sentire Cathy che diceva: « Mi dispiace, la comunicazione è molto disturbata. Vuole ripetere il suo nome, per favore? » Improvvisamente Barbara si sentì in apprensione. Si precipitò dal bagno, strofinandosi il viso con l'asciugamano. Prima di raggiungere il telefono sentì Cathy che diceva: « Ecco, adesso la sento. Vuole attendere un attimo, per favore? » Si volse a occhi spalancati a Barbara, coprendo con una mano il microfono. « È Laurence Dean », disse. « Vuole parlarti. » Barbara ovviamente sapeva benissimo chi fosse — aveva prodotto diversi film di eccezionale successo — ma avvertì una sorta di fastidio: aveva quasi finito il suo lavoro a New York, voleva tornare a casa. « Che cosa desidera esattamente? Tu forse lo sai? » « Sarà meglio che glielo chieda tu stessa. È uno che ci tiene a fare le cose come si deve. » La morbida voce dall'accento californiano suonò molto compita, ma molto fioca; Barbara dovette tendere l'orecchio. « Conto di essere a New York all'inizio della settimana prossima, Mrs. Waugh », disse, « e ritengo che lei sia ancora lì. Mi chiedevo se sarà libera di vedermi. » « Be', veramente avevo una mezza intenzione di tornare a Londra domani. » Cathy la fissava a bocca aperta, suggerendole a gesti di cambiare ap-
proccio. « Voleva discutere di qualcosa in particolare? Mi scusi, rimanga un momento in linea », disse, visto che Cathy continuava a sbracciarsi. « Guarda che si impegnerà solo in un incontro diretto », le sussurrò Cathy. « Se cerchi di forzarlo perderà l'interesse. Ma credimi, non chiama mai un agente se non è seriamente interessato a uno dei suoi libri. Devi incontrarlo, Barbara. Ne verrà fuori qualcosa di grosso. » « Benissimo; Cathy. Mi scusi, continui, prego », aggiunse al telefono. « Stavo leggendo alcuni libri che credo tratti lei », spiegò pazientemente la voce lontana. « Pensavo che un incontro potrebbe essere utile per tutti e due. » « A quali libri si riferisce? » Cathy si batté avvilita la fronte con la mano e chiuse gli occhi. « Mi sembra che lei abbia un cliente che si chiama Paul Gregory. » « Sì, esatto. » Si sentiva impotente, incastrata dal suo interesse. Quando lui suggerì di vedersi il martedì lei accettò, poi riaprì la bocca per rifiutare, ma lui aveva già riattaccato. La sua perplessità doveva essere evidente, poiché Cathy chiese: « Si è ritirato? Oh, Barbara, te l'avevo detto ». Barbara le raccontò quello che le aveva detto mentre scendevano di sotto. « Barbara, è magnifico. Sono sicura che è la prima volta in vita sua che si impegna fino a questo punto. Ha l'aria di un affare grossissimo. » Barbara si sforzò di mostrarsi contenta, ma fu grata alla penombra della hall. Nel banco dei giornali un titolo in piccolo diceva: SEGUACI DI UNA SETTA CALIFORNIANA INCRIMINATI; c'era sempre qualcosa che le riportava lì la memoria, a quanto pareva. « Andiamo fuori a bere qualcosa », propose Cathy in tono fermo. « È un bel po' che te ne stai chiusa qui dentro. » Il bar era piccolo e semibuio. Alcuni uomini erano seduti a bere accanto al lucido bancone e guardavano un televisore su cui le facce avevano il colore della carne cruda. Le due donne sedettero a un tavolino e ordinarono due Black Russian. Dopo un paio di sorsi Cathy chiese: « Posso fare qualcosa per te? » « Credo di no, Cathy, ti ringrazio. È una faccenda personale, niente a che vedere con il lavoro. » « E allora parliamo di lavoro. Il romanzo di Ted Crichton mi è piaciuto molto. C'è bisogno di lavorarci, ma sarò felice di farti un'offerta. » Un presidente degli Stati Uniti di un rosa sfocato apparve all'improvviso sullo schermo televisivo. La voce forte dell'annunciatore continuava a intrecciarsi con quella di Cathy. « Questa è una buona notizia », commentò
Barbara, cercando di concentrarsi sul lavoro. « Ci sono dei punti particolari su cui secondo te c'è da lavorare? » « Dovrebbe rimaneggiare i primi capitoli. Sono le scene più avanti che mi hanno convinta definitivamente sul libro — sai, da quando l'investigatrice scopre che il suo amico è in combutta con l'organizzazione. Ma così com'è messa la cosa è un po' troppo improvvisa. Dovrebbe inserire un po' di indizi in anticipo. In questo modo dà l'idea di una soluzione affrettata. » « Glielo dirò. » Diverse persone tutte rosa televisivo venivano condotte in un tribunale, nascondendo le facce davanti alla telecamera. « Oppure potresti scrivergli tu facendo il mio nome. Ufficialmente non è un mio cliente. » « Ma ora gli farai tu da agente, no? » « Ho sempre pensato che è meglio evitarlo, con gli amici. Complica i rapporti in tutti i sensi. » Stava tentando di sentire quello che diceva l'annunciatore. Quando Cathy riprese a parlare, Barbara le fece cenno di star zitta e rimase male lei stessa per la violenza del gesto. L'aula di tribunale e le figure seminascoste erano scomparse, il lettore stava parlando di inquinamento. « Che stava dicendo del fatto che non trovano il nome di qualcuno? » chiese Barbara. « Non saprei, non stavo ascoltando. » « Qualcosa su certa gente portata davanti a un tribunale che ha dovuto incriminarla senza conoscerne i nomi. » « Ah, dovrebbero essere quegli sballati in California. Non ne hai sentito parlare? Evidentemente eri troppo presa dalla tua vendita. Be', la polizia non è stata in grado di rintracciare quasi nessuno dei loro nomi e così hanno dovuto dargli degli pseudonimi perché la corte potesse incriminarli. » Le braccia di Barbara cominciarono a irrigidirsi dalla tensione; mise giù il bicchiere. « Che altro sai di loro, Cathy? Puoi dirmi tutto quello che ricordi? » « Non l'ho seguita molto, questa storia. E uno strano posto, la California. Ma questi erano una specie di colonia di freak, mi pare, che facevano delle cose molto brutte, magia nera e tortura, quel genere di roba. Arrivavano voci su di loro in continuazione, ma nessuno era riuscito a rintracciarli fino a questo momento. Questa è l'unica cosa che ricordo. Secondo la polizia alcuni di loro hanno fatto in modo che fossero scoperti, perché erano terrorizzati dalle situazioni in cui si stavano cacciando di loro propria volontà. » Barbara si accorse di tremare, anche prima che Cathy continuasse: « La faccenda che mi ha più sconvolta è il fatto che alcuni di loro avevano dei
bambini. Voglio dire, riesci a immaginare in che modo crescono quei ragazzi? » Barbara cercò di alzare il bicchiere, ma dovette lasciarlo per non rovesciarne tutto il contenuto. « Chi potrebbe dirmi qualcosa di più? » riuscì a domandare. Cathy la fissò. « È importante, per te, vero? Va bene, aspettami qui mentre faccio una telefonata. Ho qualche amicizia utile. » Barbara fu grata a Cathy perché non aveva cercato di chiederle altro. Le teste degli avventori si sollevavano quando la loro mano destra alzava il bicchiere; il resto del corpo poteva essere anche paralizzato. In onda, due lottatori erano aggrappati l'uno all'altro e lei non riusciva a capire se quel colore di carne cruda era finto o era sangue. Finalmente Cathy le fece cenno di accostarsi alla cabina telefonica dall'altra parte del locale. « Quanto ci tieni a sapere? » « Moltissimo. » Barbara dovette appoggiarsi al bancone; le unghie le scivolarono sul legno lucidato. « Ti prego, fammici parlare », disse con ansia. « Questa non è la persona di cui hai bisogno. » Rivolta al telefono, aggiunse: « Sta bene, dille di chiamare Barbara Waugh all'Algonquin Hotel ». Riappese e sorrise, come se Barbara dovesse essere contenta. « Ti chiamerà tra un paio d'ore. » Pareva un'eternità. « Non posso chiamarla io adesso? » « Be', non credo. È una conoscenza della mia conoscenza. Voglio dire, in California è più presto di tre ore. Molto probabilmente ora sta andando al lavoro. » Strinse il braccio di Barbara come se così potesse farla smettere di tremare. « Cerca di rilassarti. Parlamene, se pensi che possa servirti. » « No, non posso. » Poteva solo immaginare il peggio se ne avesse parlato adesso. « Non posso », ripeté stancamente. « Non importa. Vieni, finiamo il nostro drink. » Ma, se qualcuno doveva chiamarla all'albergo, Barbara doveva tornarci immediatamente. Visto che non riusciva a portarla verso il loro tavolo, Cathy la seguì in strada. « Ti accompagno fino all'Algonquin. Possiamo parlare della faccenda di Crichton la settimana prossima, se preferisci, quando avrai sistemato quest'altra cosa. Non farti sommergere, d'accordo? Mia madre diceva una cosa che ho sempre trovato molto utile — niente è brutto come lo si immagina. » Capitolo 31
Quando Barbara, affannata, entrò nell'Algonquin, subito l'avvolse la penombra. La hall era affollata; i pallidi palloncini delle facce avanzavano ballonzolando da un'oscurità che sembrava resa più fitta dal loro mormorare confuso. Sfiorò con una mano la foglia fredda e untuosa di una pianta in vaso; con l'altra toccò una faccia all'altezza della sua coscia, una faccia che pareva di pasta di pane. Doveva essere un bambino. Si fece strada fino al banco dei giornali, ma non riuscì a trovare il titolo che aveva visto prima. Forse era in una pagina interna che era stata esposta per sbaglio. Comprò una copia di tutti i quotidiani e si avviò verso le scale, che spesso erano più rapide dell'ascensore. Gli occhi si stavano adeguando alla scarsa luce, ma si sentiva ancora minacciata dalla folla, che poteva vederla senza che lei riuscisse a distinguerla. Aveva quasi superato il banco della portineria quando l'impiegato la vide. « Mrs. Waugh, c'è stata una telefonata per lei. » Cathy si era sbagliata: il suo contatto l'aveva chiamata mentre lei non era ancora all'albergo. Adesso certamente sarebbe uscita per qualche servizio e Barbara non sarebbe neppure riuscita a sapere chi era: Cathy non sarebbe stata a casa prima di qualche ora. Ma l'impiegato consultò un appunto e continuò: « Ha telefonato il signor Crichton da Londra una mezz'ora fa ». Perché non le aveva lasciato un messaggio? Barbara fece di corsa il corridoio verso il suo appartamento, rasentando porte di un colore nero lucido, negative giganti sulle pareti bianche. Su ciascuna di esse pareva ci fosse la sua immagine non completamente sviluppata, un'ombra in corsa con macchie più chiare al posto della faccia e delle braccia. In una delle stanze la suoneria soffocata di un telefono stava squillando. Quando riuscì a girare la chiave nella sua porta e ad aprire, il telefono stava ancora squillando, ma non era il suo. Gettò i giornali sul pavimento del soggiorno, e cominciò subito a formare il numero. A metà si bloccò, gemendo come in un incubo, perché aveva dimenticato il suo numero di casa. Sei tre otto, mormorò, sei tre otto, e stava cominciando a chiedersi come si faceva a chiamare le informazioni per un numero in Inghilterra quando il numero le tornò in mente. Lo compose e rimase in ascolto. Nessuno rispose. Ricordò senza difficoltà il numero di Ted, ma fu inutile. A migliaia di miglia di distanza, ma vicino al suo orecchio, il telefono continuò a squillare all'infinito. Il suo orologio segnava quasi l'una, per cui a Londra dovevano essere quasi le sei. Allora aveva composto veloce e sicura, il numero della Melwood-Nuttall, e il telefono dell'ufficio aveva suonato a lungo
prima che le venisse in mente che era sabato: non poteva esserci nessuno. Rimise giù con cautela il microfono, per evitare di perdere il controllo, poi lo fissò come fosse una bomba. Le rimandò un bagliore, un nero grumo di silenzio. Ormai in California dovevano essere le dieci e forse la giornalista aveva ricevuto il messaggio che diceva di chiamarla. Che cosa voleva dirle Ted? Cominciò a cercare nei giornali, per impedirsi di pensare. Ben presto il pavimento attorno a lei fu coperto di sparatorie, bombardamenti, rapimenti. Finalmente trovò il titolo su una pagina in fondo, ma l'articolo diceva della setta molto meno che del suo capo, un uomo il cui nome era ora noto come Jasper Gance. O forse Kaspar Ganz. Questo era il nome con il quale si era spacciato per psichiatra per poter visitare il braccio della morte con il pretesto di fare delle ricerche. Più atroce era il crimine, più ansioso era di intervistare il criminale. Dopo essere stato scoperto era stato interrogato da un vero psichiatra, che aveva diagnosticato un interesse morboso per il sadismo e le mutilazioni. Ganz, o Gance, era stato imprigionato poco prima della seconda guerra mondiale, ma dopo l'attacco a Pearl Harbor era stato richiamato. Da allora non se n'era più sentito parlare, fino a ora. Il giornale riportava una versione del rapporto dello psichiatra più completa di quella pubblicata a suo tempo, e a Barbara pareva pazzesco che Ganz potesse essere stato rilasciato. Lui riteneva che i peggiori omicidi erano inesplicabili in termini di psicologia criminale. Uno dei criminali intervistati aveva descritto la sensazione di essere vicino a qualcosa, o parte di qualcosa, che l'atto del torturare non gli aveva mai lasciato vedere chiaramente: la sensazione di star tentando di placare una fame più grande di lui. Ganz aveva sostenuto che lui e gli altri — Gilles de Rais, Jack lo Squartatore, Peter Kürten — erano stati spinti a sperimentare i peggiori crimini per conto di qualcosa al di fuori di loro. Forse i criminali formavano un disegno nel corso dei secoli, o forse erano fasi di una ricerca dell'atrocità suprema. Lo psichiatra ipotizzava che tutto ciò facesse parte di una elaborazione fantastica di Ganz per giustificare il suo interesse irrealizzabile. Ma ora, continuava l'articolo, era chiaro che Ganz era riuscito a convincere altri delle sue idee. Certamente questo non poteva aver niente a che fare con Angela, certo lei non poteva essere coinvolta in una cosa del genere, eppure Barbara cominciava a desiderare disperatamente di sentire ancora la sua voce, che la rassicurasse. Il giornale non parlava di bambini, ma accennava al fatto che
Ganz probabilmente aveva mandato in giro dei discepoli per diffondere la sua parola e le sue pratiche, per impedire che se ne arrestasse la diffusione. Che cosa era così ansioso di dirle Ted? Perché non telefonava? La televisione! Il notiziario doveva essere più aggiornato dei giornali — avrebbe dovuto accenderla immediatamente. Vi si precipitò, calpestando e strappando i giornali, e cominciò a passare da un canale all'altro. Qui c'erano le vittime di un quiz, una coppia di mezza età che si agitava nervosa e perdeva colore. Qui Godzilla, che incombeva su una fabbrica, qui una pubblicità in spagnolo, ma lei già stava correndo di nuovo al telefono tra uno svolazzare di fogli di giornali, perché le era venuto in mente da dove, forse stava chiamando Ted. La sua ispirazione scemò di colpo: dovette sforzarsi per finire di comporre il numero. Ted poteva anche essere lì, ma ora le pareva del tutto improbabile. Lei gli aveva dato anche la chiave del suo ufficio. Poteva aver trovato Angela e aver deciso che quello era il luogo più sicuro dove nasconderla durante il weekend. Quando il telefono lontano cominciò a suonare, ora sfocandosi ora tornando chiaro, lei lo immaginò mentre squillava nel suo ufficio deserto, ma invece il ricevitore venne alzato immediatamente. « Ehm, agenzia di Mrs. Waugh », disse una voce fioca. Era una voce di donna, una voce giovane, una voce di ragazza. Barbara si sporse in avanti, chiudendo gli occhi come se questo potesse proiettare i suoi desideri più lontano. « Chi è al telefono? » chiese, più forte che poté. La risposta arrivò debolissima. Improvvisamente ci fu una scarica elettrica e Barbara credette quasi di aver sentito dire « Angela ». Era sull'orlo della sedia, l'orecchio le faceva male per la pressione del ricevitore. « Angela » gridò « sei tu? » Ma la ragazza non rispondeva più. Da qualche parte, in lontananza, al di là delle scariche, delle voci parevano litigare, o chiacchierare. Barbara si mise la mano libera sull'orecchio sinistro e sentì qualcosa come il rapido pulsare di una macchina dentro la testa. Una voce confusa arrivò al di sopra dei disturbi, senza preavviso. « Chi parla, prego? » « Sono Barbara Waugh e lei è nel mio ufficio. » Per lo meno fu in grado di tradurre il tremito in una fredda rabbia. « Farà bene a dirmi immediatamente chi è lei. » « Scusami, Barbara, sono Louise. Dovevo sbrigare un po' di corrispondenza. Hannah non è stata bene la settimana scorsa. » La sua voce si fece per un momento riconoscibile. Chiaramente la voce
infantile aveva detto Hannah, non Angela. Evidentemente Louise era rimasta indietro con il lavoro in assenza di Barbara, ma ora non aveva importanza. Barbara cercò una domanda da farle. « Abbiamo avuto notizie di Ted Crichton, recentemente? » « Sì, ha chiamato ieri. Voleva sapere se saresti tornata prima del previsto. Probabilmente aspetta notizie sul suo libro. » Ed evidentemente era per questo che aveva chiamato all'Algonquin. Salutò Louise e rimase seduta chiedendosi cosa fare. Le ombre si arrampicavano sugli edifici di fronte alla finestra, la faccia del giornalista portoricano di un'emittente in lingua spagnola comparve sullo schermo, i giornali frusciavano ogni volta che Barbara si muoveva. Forse poteva telefonare a uno dei giornali, forse lì sapevano dirle qualcosa di più sulla setta. Poteva avvisare il centralino dell'albergo di interromperla, se arrivava una chiamata. Allungò stancamente la mano verso l'apparecchio. Ma ecco i membri della setta sullo schermo, ancora nell'aula del tribunale, che si nascondevano la faccia. Anche se il giornalista aveva notizie più recenti, per lei era mutile, dato che non capiva una sola parola di spagnolo. Fissò lo schermo nella speranza di cogliere un'immagine delle facce dei seguaci e si trovò di fronte Kaspar Ganz che la fissava. Fu solo un attimo, poi il cameramen cambiò inquadratura. Sulla lunga faccia aguzza, secca e dura come quella di un insetto, quegli occhi sembravano uscirgli dalle orbite. Barbara poté solo pregare che quegli occhi non avessero mai visto Angela. Cominciò a cambiare canali, per non darsi il tempo di immaginare cosa stesse dicendo il giornalista portoricano. Un pubblico acclamava, i concorrenti facevano smorfie disperate, mostri rassicuranti zampettavano per la piccola gabbia dello schermo, il telefono suonava. Rimase impigliata con i piedi nei giornali. Tutta la stanza sembrava frusciare. Si liberò dei fogli scalciando e afferrò il ricevitore. « Accetta una chiamata a suo carico da parte di Janet Lieberman, da San Francisco? » chiese il centralinista. « Sì, certo. » La sua voce era ferma, anche se le gambe le tremavano. Janet Lieberman era molto sbrigativa, quasi scortese. « Mrs. Waugh, ho saputo che vuole delle notizie su Kaspar Ganz. Perché? » « Perché... » Certo non importava se rivelava il segreto, così lontano da casa. « Perché ho paura che mia figlia possa essere rimasta coinvolta con quella gente, in Gran Bretagna. » « Spero che lei abbia torto. » Improvvisamente assunse un tono com-
prensivo. « Cosa vuole sapere? » « Tutto. Tutto quello che è in grado di dirmi. » « Allora magari potrei scriverglielo. » « No, per favore, devo saperlo adesso. Ho letto di Kaspar Ganz. Voglio sapere che cosa faceva fare alla gente che apparteneva alla sua setta. » « Be', gli faceva mandar giù la sua teoria — sa, la storia che i crimini apparentemente immotivati vengono commessi per conto di qualcos'altro. Lo scopo degli omicidi sarà chiaro solo quando il disegno sarà completo. In un certo senso la teoria è impeccabile, dato che liquida tutte le obiezioni prima ancora che vengano sollevate, e immagino che i seguaci la trovassero rassicurante. C'è chi ha bisogno di quel genere di rassicurazioni. » Barbara la sentì riluttante a continuare. « Mi sta dicendo quello in cui credevano », si costrinse a dire. « Ma che cosa facevano? » « Immagino che avrà sentito che hanno abbandonato il proprio nome. Questo dovrebbe dimostrare che erano solo strumenti di quello che stavano facendo. » Non poteva più scantonare. « Quello che facevano: be', rapivano la gente e la torturavano a morte. Credevano nella reincarnazione, per cui potevano dirsi che le sofferenze delle loro vittime erano insignificanti, perché nessuno, sostenevano, può ricordare quello che ha sofferto nelle altre vite. Be', questa è la California, questo genere di spazzatura, e Ganz faceva drogare i suoi seguaci insieme con lui, cosa che deve aver irretito ancora di più le loro menti. Questo non vuol dire che i suoi seguaci in Gran Bretagna li abbiano seguiti in tutto e per tutto. » Barbara desiderò di potersi sentire rassicurata, ma c'era una domanda che doveva fare. « Non capisco come mai c'è voluto tanto tempo per prenderli. » « Be', i rapimenti non erano tanti. Le loro vittime se le facevano durare a lungo. » Chiaramente si pentì di averlo detto, poiché si affrettò ad aggiungere: « A quanto pare qualcuno di loro si è denunciato spontaneamente perché ormai erano abbastanza vicini al loro obiettivo da cominciare a farsene un'idea. Comunque gli arresti sembrano non aver preoccupato per niente Ganz. Da quello che ho sentito, infatti, i suoi qui vorrebbero far arrestare gli altri, solo che sono letteralmente incapaci di dare la minima informazione su di loro ». Dopo una pausa domandò: « Era questo che voleva sapere? » « No, non completamente. » Barbara lo avrebbe tanto voluto. « Ho sentito dire che alcuni avevano dei figli. Fino a che punto erano coinvolti? » Ci fu un silenzio più lungo. « Quanti anni ha sua figlia? » chiese poi Ja-
net Lieberman. « É solo una bambina. L'hanno rapita. » « Pensavo che fosse più grande. » Forse Janet Lieberman esitava per poterle dare la notizia più gentilmente, o forse sperava che questo desse a Barbara un po' di speranza. « I bambini vengono iniziati a tredici anni », disse. La stanza dell'albergo si fece piatta come lo schermo del televisore. I colori tremolarono, parvero sul punto di uscire dai contorni. Il pavimento pareva fremere come una scarica continua di elettricità. « Vuol sapere altro? » chiese Janet Lieberman. « No. » Più che una risposta era una preghiera. « Grazie di aver chiamato », concluse Barbara meccanicamente e rimise giù il ricevitore, ma non riuscì a staccare la mano, mentre tentava di riflettere su quello che poteva fare. Non avrebbe mai dovuto lasciare l'Inghilterra. Ora tutto quadrava, ma lei lo sapeva già da prima, Angela sarebbe stata iniziata, solo che non se n'era resa conto. Lo aveva quasi capito quella sera dai Gregory, quando Sybil aveva accennato alla figlia che doveva affrontare la cerimonia per diventare guida scout. Angela doveva aver cominciato a chiamare perché aveva paura dell'iniziazione e ora, se chiamava a casa della madre quando c'era Ted, avrebbe sentito la voce di un uomo, di un estraneo. Forse questo l'avrebbe spaventata e allontanata definitivamente. Barbara stringeva ancora il microfono quando il telefono suonò. La sensazione fu di aver ricevuto una scossa elettrica, ma riuscì ad alzare il ricevitore e a impedire al telefono di cadere dal tavolo. « Mr. Ted Crichton da Londra », disse il centralinista. Non poteva aspettare per avere notizie del romanzo? « Che cosa vuoi? » chiese, non appena ebbe la comunicazione. « Che cosa c'è? Perché continui a chiamarmi? » « Perché so dove è Angela », rispose lui. Capitolo 32 Quando Glasgow si fu allontanata per la terza volta, Barbara si sentì come intrappolata in una giostra. La voce del comandante annunciò che la pista non era ancora libera e nessuno parve preoccuparsi, salvo Barbara; le hostess camminavano imperturbabili avanti e indietro, i passeggeri si stringevano nelle spalle e sorridevano. Lei era sospesa a migliaia di metri
di altezza e gridava che la lasciassero scendere, ma nessuno la sentiva. Riuscì a soffocare il suo grido silenzioso: non l'avrebbe portata certo più vicina alla sua destinazione. Glasgow era passata un'altra volta ancora quando il paesaggio si inclinò d'un tratto. La giostra era caduta dal suo asse. Chiuse gli occhi, sentendosi irreale, sospesa in un sogno dal cambio di fuso orario, anche se invece finalmente quella era la realtà: Ted l'aveva convinta che stava andando davvero nel luogo dove si nascondeva la setta. Sulle prime non aveva osato credergli. E se la setta lo aveva imbrogliato? Era certo di aver parlato con Angela? Alla fine ce l'aveva fatta a convincerla. Anche Angela doveva averlo trovato convincente, se gli aveva dato l'indirizzo. Barbara non poteva impedirsi di avvertire un po' di senso di colpa. Non c'era niente di strano nel fatto che Angela avesse bisogno anche di un padre e Ted doveva esserle sembrato un sostituto più che accettabile. Poteva esserlo, con il tempo? Non era il caso di sognare. Angela non poteva essersi fidata completamente di Ted, altrimenti sarebbe andato subito lui a Glasgow, senza aspettarla. E invece aveva detto a Barbara che doveva andare anche lei nella casa. Improvvisamente comparve la pista. L'atterraggio andò liscio come l'olio. Si trovò circondata da persone che le si affollavano attorno per recuperare i propri bagagli, mentre lei era ancora bloccata nella sua poltrona. L'aereo non aveva neppure finito di rullare. Sarebbe stata fortunata se avesse lasciato l'aeroporto in meno di un'ora. Ted aveva insistito perché gli facesse sapere al più presto con quale volo sarebbe arrivata, per poterla andare a prendere a Glasgow. Alla fine era riuscita a prenotare un posto su un volo che raggiungeva Glasgow via Londra la domenica mattina. Quando lo aveva richiamato nel suo appartamento c'era voluto un po' di tempo perché rispondesse, quanto bastava a farle chiedere se c'era qualcosa che non andava. No, disse lui, tutto era perfetto. L'avrebbe aspettata. Il suo bagaglio parve metterci un'eternità. Le sue valigie erano quasi le ultime sul nastro. Mentre aspettava ripensò a Laurence Dean. Aveva dovuto mandargli un telegramma per disdire l'incontro. Forse questo avrebbe smorzato il suo interesse per Un torrente di vite, forse ora il film non si sarebbe mai fatto. Sybil aveva avuto ragione a essere così riluttante. Riteneva di non aver niente da dichiarare alla dogana, ma il funzionario non era tanto sicuro. Era giovane e visibilmente determinato a farsi valere.
Barbara aprì le valigie e attese mentre lui trafficava in mezzo alla sua biancheria. Due chiazze rosse di imbarazzo e di delusione gli comparvero sulle guance. La guardò con occhio severo mentre segnava il bagaglio con il gesso e le faceva cenno di andare. Nella sala d'attesa principale le suonerie amplificate squillavano come campanelli giganti, una voce chiara e sonora annunciava i voli. Tra la folla di persone che aspettavano i viaggiatori Ted non c'era, naturalmente. Secondo gli accordi, in quel momento lui la stava aspettando al Glasgow Airport, non qui a Prestwick, e ignorava completamente il cambiamento di programma di Barbara. Dopo avergli parlato al telefono a New York, lei si era infatti resa conto che non ce l'avrebbe fatta ad aspettare tanto. Mentre faceva scalo a Londra, cosa succedeva ad Angela? Più con disperazione che con speranza aveva richiamato la linea aerea e aveva saputo che c'era stata una rinuncia su un volo diretto per Prestwick. E così era sola. Quando le era venuto in mente che poteva mandare un telegramma per avvertire Ted, stava già correndo al Kennedy Airport, appena in tempo per prendere l'aereo. Per lo meno sapeva dove stava andando: si era fatta dare l'indirizzo della casa di Glasgow, per avere la prova definitiva che Ted sapeva. Avrebbe soccorso lei Angela — non avrebbe sopportato l'idea di aspettare Ted, con il rischio di arrivare troppo tardi. Davanti all'uscita il bus per Glasgow era pronto a partire. Le porte scorrevoli le si aprirono davanti. Lasciò cadere il bagaglio accanto all'autobus e rovistò nella borsa mentre l'autista attendeva pazientemente. Non aveva ancora trovato il borsellino che il panico cominciò a torcerle le viscere. Era stata così occupata a fare piani su quello che avrebbe fatto a Glasgow che si era dimenticata dei soldi. Non aveva quasi niente in moneta inglese. Racimolando tutte le monetine, riuscì a mettere insieme la somma necessaria; pagò il biglietto e trascinò il bagaglio a bordo. La domenica tutte le banche erano chiuse, ma poteva prendere dei soldi dalla cassa automatica in Sauchiehall Street, se ne aveva il tempo. L'autobus si avviò verso Glasgow. I campi scintillavano sotto la luce del primo mattino, nuvoloni dalla forma allungata si ammassavano sopra le colline, nel freddo cielo di fine settembre. Davanti a Barbara, un uomo dal collo che pareva fatto di carne cruda tagliata a dadini stava leggendo un giornale della domenica. DOV'È FINITA LA NONNINA AMATA DA TUTTI I BAMBINI? La foto sotto il titolo mostrava un'anziana signora con i capelli bianchi e un ciuffo argentato. I bambini del posto l'adoravano. Era scomparsa da settimane. La polizia concentrava le ricerche nell'area di
Glasgow, ma Barbara aveva i suoi problemi a cui pensare. Chiuse gli occhi e cercò di appisolarsi; aveva dormito poco sull'aereo. Si svegliò al terminal di Glasgow. Qualcuno aspettava tra gli autobus silenziosi sotto la bassa tettoia di cemento. Il viaggio era stato più lungo di quanto avesse previsto: erano quasi le otto. Aveva tempo per fare quello che doveva, o era meglio andare subito all'aeroporto di Glasgow a incontrare Ted? Fu tentata da questa seconda soluzione, ma non doveva perdere il controllo dei nervi. Se andava alla casa così presto avrebbe avuto il vantaggio della sorpresa. Lasciò le valigie al terminal, poi si diresse veloce verso Glasgow, costeggiando un parcheggio che pareva un grigio capannone di montagne russe pieno di ombre. Era sola in una città fantasma, era circondata da tombe, da una moltitudine di finestre bianche come ghiaccio. Un tubo al neon baluginava da una finestra al quarto piano. Tutto le si stringeva addosso in maniera opprimente. Uccelli che parevano grandi come coperte sbattevano le ali sotto le grondaie. In cima alla salita una ragnatela di cavi elettrici aveva catturato un uccello. Cadde mentre lei raggiungeva l'incrocio. Era solo un pezzo grigio di qualcosa, carta o stoffa, che si allontanò svolazzando giù per la collina. Girò a sinistra verso l'Inner Ring Road. Ne sentì il rumore non appena oltrepassò l'Albany, un albergo con le finestre che parevano quadrati di carta incollati sulle mura di cioccolato. Un troncone di strada, botteghe cadenti ricoperte di annunci, la condusse sulla via. C'era un isolato di case tutte scrostate. Alcune avevano negozi e bar a pianterreno, ma le finestre dei piani superiori sembravano semicieche. Oltre il limite non pavimentato della strada, il sottopassaggio dell'autostrada amplificava il rombo dei camion. Mentre attraversava il ponte stradale per raggiungere le case, le parve che una sega circolare le fosse penetrata nel cranio. Superò in fretta la Mitchell Library con le sue mura verdastre. Una donna di pietra sedeva davanti all'ingresso, aspettando che la biblioteca aprisse. Più avanti, dei pilastri reggevano un tratto abbandonato di autostrada, con le due estremità nel vuoto, come se il cemento già cominciasse a cadere in rovina. La colonna di traffico era ferma al semaforo, i motori pulsavano come una fabbrica. Ma in una fabbrica le avrebbero dato dei paraorecchi. Ormai doveva essere vicina al luogo dove doveva andare. Dall'altra par-
te del semaforo il marciapiede era rotto; sentiva carte di dolciumi che le si appiccicavano alle suole. La giornata si andava riscaldando, ora che si avvicinavano le nove. Le macchine la spruzzavano di polvere, che le si infiltrava anche in gola. Le porte di un cinema erano inchiodate sotto i graffiti; le lettere di plastica dell'insegna ciondolavano sopra la tettoia. Lo stretto marciapiede conduceva a una stazione di servizio, e all'improvviso sentì una morsa acuta di apprensione nello stomaco. Questa doveva essere la stazione di servizio di West Graham Street, vicina al punto da cui, le aveva detto Ted, avrebbe potuto vedere la casa. Quando raggiunse la stazione di servizio camminò lentamente, guardando al di là della strada. Sopra il sottopassaggio dell'autostrada i pilastri sfilavano spuntando uno dietro l'altro mentre lei avanzava. Come poteva esserci spazio per una casa in quel labirinto di cemento che era il bordo dell'autostrada? Ted era stato imbrogliato. Era arrivata fin lì per niente. I piani biancastri di cemento si incrociavano a mano a mano che lei andava avanti, in mezzo al rumore del traffico — ma uno di loro era più scuro degli altri e sembrava muoversi di meno. Un altro passo e poté vedere la luce del sole su una finestra, che mandava lampi in mezzo al sudiciume. Si arrestò nel punto in cui solo la strada e un caos di cemento la separavano dalla casa. Aveva avuto torto a mettere in dubbio l'efficienza di Ted. L'aveva portata proprio dove doveva andare. Capitolo 33 Non appena attraversò, in direzione dei pilastri, si accorse che sarebbe stata visibile dalla casa molto prima di raggiungerla. Tra la strada e la porta d'ingresso c'era infatti un pezzo di terreno abbandonato di almeno una ventina di metri. Per guardare più da vicino si nascose fra i pilastri. Era un edificio anonimo, con una coppia di finestre a bovindo una sopra l'altra. Forse un tempo era stata l'ultima casa di un isolato; ora si innalzava solitaria sul margine dell'autostrada. Quale che fosse stato originariamente il suo colore, adesso era annerita come il fondo di un camino. Sopra le tegole grigie e untuose del tetto, erano rimasti solo dei frammenti dei comignoli originari. Le finestre erano tutt'e due dotate di pesanti tende, Certamente sarebbero state schermate anche tutte le finestre del retro. Che cosa nascondevano quelle tende? Si girò a disagio; si era resa conto che il rumore dell'auto-
strada le avrebbe impedito di sentire se qualcuno la seguiva nascondendosi dietro i pilastri. Rimanendo lì ferma, l'ansia sarebbe diventata intollerabile. Non aveva modo di strisciare attorno alla casa senza esser vista, per cui si diresse spedita verso la porta d'ingresso. Una bambola senza capelli, con braccia e gambe girate all'indietro, la fissava con un occhio e un'orbita vuota. L'attenzione di Barbara era concentrata sulle tende delle finestre, ma il suo sguardo sfiorò distrattamente rifiuti sparsi in giro, uno specchietto retrovisore semisepolto, un mosaico di vetri rotti, una giacca, o un pezzo di tappeto bagnato, una crisalide gigante blu e bianca che era stata una scarpa, un pezzo di tubo di rame verdastro. Senza fermarsi raccolse il tubo, che apparve rassicurantemente pesante. Ma sarebbe poi stata capace di usare un'arma, lei che in vita sua non aveva mai incontrato la violenza? Per come si sentiva adesso, era sicura di sì. Le tende erano immobili. Era così intenta a non perderle d'occhio che raggiunse quasi la porta senza rendersi conto che era aperta. Era una trappola? Le auto rombavano sopra e sotto di lei, isolandola insieme con la casa; nessuno degli automobilisti poteva aiutarla, e anzi, probabilmente non potevano neppure vederla; e se anche l'avessero vista in difficoltà non sarebbero stati in grado di fermarsi. Alzò il pezzo di tubatura sopra la testa e spalancò la porta con un calcio. L'interno era inanimato come la facciata, ma più buio. Uno stretto corridoio, passando accanto a due porte aperte, conduceva a una cucina scolorita dall'unto e dalla ruggine. Una luce tetra aleggiava tra le pareti brunastre al di sopra del lucido tappeto annerito, coperto di impronte di fango secco. Da qualche parte doveva essersi rotta una conduttura perché l'acqua scintillava come la traccia di una lumaca sulla parete di sinistra, sopra le scale. Pareva evidente che la casa era disabitata da mesi. Ted si era sbagliato. Angela evidentemente non si era fidata completamente di lui, di quella voce estranea in casa di sua madre. Gli aveva indicato l'indirizzo vecchio, per dargli una lezione, forse. Ora era di nuovo fuori portata, e la sola ragione per cui Barbara riuscì a trattenere le lacrime, era che se avesse cominciato a piangere non si sarebbe più fermata. Finalmente si fece avanti. Stringeva sempre il pezzo di tubo, anche se apparentemente non c'era nulla da temere. Doveva vedere il genere di posto dove Angela era stata costretta a vivere. Avanzò nell'ingresso e d'un tratto ebbe paura. Non erano solo l'oscurità e il freddo improvviso. L'aria era fredda e
spessa, pareva di avanzare nel fango. O forse era la sua mente, più che il suo corpo, a sentirsi circondata, con i pensieri soffocati. Riuscì a convincersi che erano solo i suoi timori ad agitarla, la paura di quello che poteva trovare e il cambio di fuso orario stava facendo il resto. Niente poteva farle del male in una casa disabitata. Poteva vedere che anche le porte del piano superiore erano spalancate. Eppure si rese conto che stava strisciando contro la parete del corridoio e che, anche camminando con tutto il peso, non avrebbe sentito i suoi passi. Cominciò ad avanzare in fretta, per fare il giro della casa e uscirne il più rapidamente possibile, perché le pareti del corridoio sembravano troppo vicine. Era solo l'apprensione, il cambio di fuso orario e la penombra: non doveva permettere che questo le scombussolasse i pensieri. La prima delle stanze a pianterreno era vuota, a parte un certo numero di materassi sul pavimento, da cui uscivano, come vermi giganti, pezzi di imbottitura. Andò oltre, ed era quasi arrivata alla cucina quando si rese conto di aver sofferto di un momentaneo oscuramento, un buio nella coscienza, come per un intervallo di sonno. Inutile cercare nella cucina: il forno e gli armadi erano aperti — le loro viscere buie avevano l'aspetto schifoso di nidi di ragni. Si girò verso la seconda stanza. Lì non c'era altro che una mezza dozzina di poltrone di fronte a un camino pieno di fuliggine. Le si formò davanti agli occhi l'immagine grottesca dei seguaci della setta che si sistemavano davanti al fuoco, la sera, per chiacchierare o leggere il giornale: e infatti un giornale spuntava da sotto il bracciolo della poltrona più lontana. Anche se la penombra faceva parere le pareti rigonfie, lei entrò nella stanza. Quando guardò il giornale non poté credere alla data. Evidentemente al buio non riusciva a leggere bene. Fece per scostare le tende, ma non appena le toccò la sua mano si ritrasse: più che tende, parevano una massa di ragnatele sporche e appiccicose. Era stato solo il suo tocco a farle agitare leggermente? E se ci fosse stato qualcuno dietro? Furiosa con se stessa — stava diventando paurosa come Iris — le aprì con il tubo, poi si girò verso il giornale. Non si era sbagliata. Era il giornale del giorno prima. LA POLIZIA PERLUSTRA GLASGOW IN CERCA DELLA PENSIONATA SCOMPARSA, diceva un titolo. Tutto d'un tratto quel titolo le parve sinistramente significativo, ma non se la sentì di raccogliere il giornale, appoggiato a quella poltrona a tre gambe dalla cui pelle spuntava una specie di pelliccia biancastra. Non aveva mai visto una pelle che mostrasse così
palesemente la sua origine animale. Anzi, per come la poltrona deformata si protendeva verso di lei, pareva non completamente morta. E così la setta era stata lì fino al giorno prima. Quelle erano le condizioni in cui avevano costretto Angela a vivere. Uscì d'impeto dalla stanza — era tutto quello che poteva fare per esprimere la sua sgomenta furia impotente — e arrivò quasi in cucina prima di tornare di scatto in sé. Quei vuoti dovevano essere provocati dalla tensione e dal cambio di fuso, ma erano profondamente snervanti. La tensione era già abbastanza forte senza che ci si mettesse anche il suo corpo. Si avviò su per le scale. Qualche pezzo di tappeto le stridette sotto i piedi; un'umidità oscura le si raccolse attorno alle scarpe. Sopra la tromba delle scale si spalancava l'ingresso del solaio, irraggiungibile. In cima alle scale il linoleum era impregnato d'acqua: un filo d'acqua rugginoso si riversava dalla tazza intasata del bagno. Perse l'equilibrio quasi subito. Colpì con il palmo la parete e la sentì unta e pelosa. Doveva essere l'intonaco sbriciolato. Strofinandosi di furia la mano sulla manica, guardò nella stanza. Una doveva essere il dormitorio principale, poiché era piena di materassi. Se questi e i materassi del piano di sotto erano tutti occupati, in casa dovevano esserci state più di una ventina di persone. Dovette guardare a lungo prima di essere sicura che adesso non fossero occupati, che nessuno di quei mucchi di coperte lise si muovesse. Il rumore del traffico le pulsava dentro la testa, Le pareti le parevano sempre più lerce. Si precipitò nell'altra stanza. A parte uno schedario annerito, era semivuota. Era quasi arrivata allo schedario quando si accorse che il pavimento del camino era pieno dei resti inceneriti di libri. Quando le rimosse, le pagine carbonizzate si disfecero, sollevandosi in una fuliggine che la fece tossire. E rese la stanza ancora più buia, così buia che lei corse allo schedario, sperando che non contenesse niente che la obbligasse a rimanere. E infatti quando tirò fuori i cassetti vide che tutto il contenuto era stato bruciato. Ora che il suo desiderio era stato soddisfatto, si rese conto che non era rassicurante, anzi, pareva qualcosa di spaventosamente definitivo. Si sforzò di trovare un senso a quella impressione, ma l'aria della stanza, agitandosi oscuramente, le intasava il cervello come le narici. Corse fuori, scivolando sul linoleum bagnato, e si precipitò giù per le scale. Era solo il buio a far apparire gonfie le pareti. Il movimento strisciante che intravedeva sopra di sé sul muro non era altro che l'acqua che scorreva. Ora era al pian-
terreno. Tra un momento sarebbe stata fuori. Ma la porta posteriore era bloccata. Aveva avuto un altro blackout ed era tornata nella cucina senza neppure accorgersene. Doveva ammettere con se stessa che quei vuoti di coscienza erano paurosi, perché la paura l'avrebbe aiutata a correre lungo il corridoio e fuori dalla porta davanti invece di spingerla là. Ma non era a causa del blackout che stava entrando nella cucina e si girava a vedere quello che era rimasto nascosto dietro la porta per tutto il tempo: la porta della cantina. Non si era mai trattato di blackout. Era stata la sua volontà a essere soffocata, non la sua coscienza. Non poté far nulla per impedire alla sua mano di raggiungere la porta della cantina. Avvertì la sensazione tattile della maniglia — uno strato di polvere o di ragnatele che vi era attaccato e che ora si appiccicava alle sue dita — ma non poteva ritrarsi. Quando la porta si aprì cigolando in un momento di silenzio del traffico, non riuscì neppure a sollevare il pezzo di tubo. Al di là della porta una rampa di rozzi scalini conduceva nell'oscurità. Immediatamente si fece avanti. L'atmosfera buia della casa le aveva invaso il cervello; era incapace di fermarsi. Anche se l'ombra ai piedi della scala puzzava come un mattatoio e brulicava come se tutta una folla la stesse aspettando con il fiato sospeso, non poté far altro che richiudersi la porta alle spalle, scendere i gradini e aspettare nel buio. Non poté neppure allungare la mano in cerca di un interruttore. Quando si girò verso la porta, per chiudere fuori la scarsa luce, scivolò. Stava precipitando nel buio. Forse una parte della sua mente se lo aspettava, era in allarme, poiché aggrappandosi alla parete per riprendere l'equilibrio, la mano libera urtò l'interruttore. La luce si accese sotto di lei e vide dove stava andando. La cantina non era grande, ma la luce era troppo fioca per illuminare gli angoli. Erano pieni di ombre o di cos'altro? Quel posto le dava ancora la sensazione di essere affollato, anche se poteva vedere che non c'era nessuno. Sul pavimento sotto la lampadina c'era una gabbia improvvisata con delle sbarre di ferro tenute insieme dalla corda. Le sbarre erano conficcate nel pavimento. Dalle sbarre della gabbia, grande appena per contenere un bambino, spuntava una massa di capelli, tutti bianchi con un ciuffo argentato. Forse l'urto della caduta lungo le scale l'aveva fatta tornare in parte in sé. L'orrore di quello che stava fissando la trasse momentaneamente da quella sensazione di impotenza; barcollò verso la porta per aprirla. I tacchi le si
piegavano sui gradini, era come se l'avida oscurità l'avesse agguantata per trascinarla giù, ma riuscì ugualmente a emergere nella cucina e a correre in direzione del corridoio. La penombra gonfia le schiacciava i pensieri, la volontà stava cedendo, ma la porta d'ingresso era spalancata, la luce del sole era quasi raggiunta. Era appena uscita dalla cucina che si arrestò. In mezzo al frastuono del traffico sentì un passo veloce, più leggero di un piede nudo, ma sufficientemente pesante da far scricchiolare le scale. Tra lei e la porta d'ingresso, qualcosa stava scendendo al pianterreno. Capitolo 34 Rimaneva la porta posteriore. Non doveva aver paura di tornare nella cucina; almeno là c'era più luce che nell'ingresso, e poi aveva ancora il pezzo di tubo in mano. Poteva spaccare il vetro della portafinestra — era più basso della finestra sopra il lavandino — e uscire di lì. Le gambe le parevano molli dalla paura, ma riuscì a correre. Non aveva tempo per pensare. Appena entrata in cucina dimenticò quale porta cercava. Era quella più vicina, sicuramente, quella con gli scalini che conducevano in basso; poteva nascondersi lì. La minaccia sommessa ora aveva raggiunto l'ingresso e si stava avvicinando lenta, ma inesorabile. Dai tonfi ritmati dei passi sembrava che avesse una gamba molto più pesante dell'altra e che il corpo strisciasse contro tutt'e due le pareti. Improvvisamente a causa del rumore del traffico, Barbara non poté sentire più niente, neppure i singhiozzi di panico che cominciarono a scuoterla quando si rese conto che stava andando di nuovo nella cantina. Corse verso la porta chiusa, quella che dava sul retro della casa, sollevando il tubo con entrambe le mani. Non osò guardarsi indietro mentre scagliava il tubo con tutta la forza contro il vetro. Forse la finestra era stata rinforzata per tener lontano i ladri. L'estremità del tubo si curvò leggermente, ma il vetro rimase intatto. Qualcosa si stava facendo più vicino e più delineato nella penombra dell'ingresso e lei stava picchiando selvaggiamente contro il vetro con il pezzo di tubatura. Non poter sentire il rumore dei colpi amplificava la sensazione della loro inutilità. A un tratto apparve sulla finestra una crepa simile a un minuscolo rametto. Insisté con violenza con il suo attrezzo e le schegge caddero verso l'e-
sterno, scintillando al sole. Ora il varco era grande a sufficienza per lasciarla passare, ma doveva riuscire ad arrampicarsi. Non era mai stata un'atleta. Cercò di afferrarsi al telaio vuoto, ma le schegge taglienti erano incastrate dovunque cercasse una presa. Le parve di vedere un movimento nella sala d'ingresso, un movimento che prendeva quasi tutta la porta, ma le sue mani si ritraevano davanti ai frammenti di vetro. Allora vide il fornello. Era abbastanza vicino alla porta. Lo trascinò più vicino e avvertì qualcosa che si strappava dalla parete. Improvvisamente sentì odore di gas, e forse era il gas a intorpidirle i pensieri, facendole chiedere perché si dava tanto da fare quando c'era già una porta aperta che l'aspettava. Si issò di furia, con un piede dentro il forno. La scarpa le scivolò sul grasso, ebbe per un attimo la visione del buio soffocante del forno e allora riuscì a buttarsi fuori dalla finestra rotta. La caduta le graffiò le braccia e le provocò un taglio sulla spalla destra. Il tubo di rame le cadde di mano. Si rialzò immediatamente e si mise a correre verso i pilastri di cemento. Anche se era libera dalla casa, di nuovo nella realtà quotidiana, la assalì il terrore che qualcosa l'aspettasse dall'altro lato dell'edificio. Nulla si muoveva, a parte qualche cartaccia, nulla si nascondeva tra i pilastri. Ma neppure quando ebbe attraversato la strada e raggiunto la stazione di servizio ebbe il coraggio di rallentare la sua corsa sempre più frenetica. Alla fine rallentò di quel tanto che le permetteva di pensare. Dei pedoni stavano attraversando il cavalcavia verso Sauchiehall Street; le campane della chiesa in mezzo al frastuono del traffico si sentivano appena, un suono distorto come un motore guasto. Almeno lì c'era gente che pareva normale e lei la seguì attraverso il ponte. Quelli che incrociavano il suo sguardo lo distoglievano immediatamente. Mostrava tutta la disperazione che sentiva dentro? La setta doveva aver trovato un altro nascondiglio, ora che la polizia era alla ricerca della vecchia rapita. Ben più orribile dell'idea che avessero imbrogliato Barbara, c'era di nuovo il pensiero che avessero coinvolto Angela in quello che era avvenuto nella cantina. No, non era stata ancora iniziata, di sicuro. Barbara si aggrappò a questa convinzione, con tutta la forza della sua angoscia. Aveva seguito i pedoni fino a metà di Sauchiehall Street senza rendersi conto di dove stava andando. Doveva procurarsi del denaro per prendere l'autobus per l'aeroporto. Doveva assolutamente vedere Ted, stare con lui.
Le pareva che lui fosse l'unico punto fermo che le rimanesse. Quasi non poté credere all'orologio, quando vide che non erano ancora le dieci. Ted sarebbe stato ad aspettarla, al varco della dogana verso le undici e mezzo. Infilò la tesserina di plastica nella fessura accanto all'ingresso della banca e attese che la piccola saracinesca metallica si sollevasse scoprendo la tastiera su cui comporre il numero di codice. Non accadde nulla. Cercò di tirare la copertura, casomai si fosse bloccata, ma era solida come una patella sullo scoglio. Le ci volle un po' prima di accorgersi delle fioche lettere elettroniche che si erano accese sopra la fessura: NON ABILITATA AD ACCETTARE LA SUA CARTA. E allora perché la tessera non veniva fuori? Immediatamente vide il perché: una targa rossa lo diceva chiaramente: FUORI SERVIZIO. La fessura era troppo stretta perché potesse raggiungere la carta; e questa comunque sarebbe stata certamente nel profondo delle viscere della macchina. Stava per mettersi a urlare, ma a che sarebbe servito? Anche se pareva si fosse trasformato in farsa, l'incubo che stava vivendo non era meno intollerabile. L'unica era andare a piedi. Aveva visto un cartello stradale uscendo dall'Inner Ring Road: l'aeroporto era a diversi chilometri, dall'altra parte del fiume. Non sarebbe mai riuscita ad arrivare in tempo. E se fosse andata alla stazione degli autobus e avesse scongiurato uno degli autisti, o qualche passeggero, di aiutarla? Ma molto probabilmente sarebbe stata solo una perdita di tempo. Si incamminò verso il fiume. La gente che la guardava pareva chiedersi se avesse dimenticato che era giorno di riposo. Finalmente trovò un ponte ai piedi delle strade collinose, tra una selva di gru immobili. Impiegò dieci minuti ad attraversarlo. L'acqua scorreva, come a ricordarle maliziosa la sua sensazione di torpore. Lasciato il ponte perse la strada per l'aeroporto. Qualche minuto dopo ritrovò l'indicazione del cartello che la indirizzava verso la zona residenziale, fatta di linde casette simili a carillon. I bambini piccoli agitavano i loro sonagli nei giardinetti davanti alle case, quelli più grandi guidavano macchinine di plastica, altri si dondolavano sulle altalene. Le ci vollero più di venti minuti per percorrere quel placido quartiere. Alla fine imboccò una strada fra i campi, sotto un cielo che sembrava fatto di vapore e fumo, assolutamente immobile. La spalla le dava un dolore sordo, si sentiva il vestito fradicio di umidità. Il marciapiede ora era solo una gettata di ghiaia, che le mordeva i piedi attraverso le suole.
Alzare il braccio per chiedere un passaggio acuì il dolore. Un paio di automobilisti rallentarono, finché non la videro in viso. Negli intervalli tra una macchina e l'altra la strada odorava di erba, ma la sua testa era ancora piena del fetore della cantina, dell'immagine della gabbia. Che stavano facendo, ora, dove avevano portato Angela? Alle undici il marciapiede era scomparso del tutto. Dovette arrancare tra i campi e tenersi il più vicino possibile alla strada. L'erba alta le appesantiva il passo. Le farfalle volavano via, frammenti di colore che vedeva svanire nell'attimo stesso in cui comparivano svolazzando, come se la sua vista stesse facendosi irregolare. Le macchine lontane tremolavano come attraverso un velo d'acqua. Sentiva la gola arsa come il terreno al margine della strada. Qualche volta dovette fare dei giri tortuosi, cercando di non perdere d'occhio la strada. Le toccò scavalcare del filo spinato. Attraversò i terreni di qualche fabbrica, ma nessuno pareva badare a lei. Ormai era troppo stravolta dalla stanchezza per camminare diritto. Crollò a terra e vi rimase per qualche minuto. Erano le undici e venti e dell'aeroporto non c'era traccia. Dopo qualche minuto cominciò a vedere gli aeroplani, miniature scintillanti che si levavano o scivolavano giù lungo fili invisibili, ma era quasi mezzogiorno quando arrivò in vista dell'aeroporto. Dovette tornare sulla strada per poter attraversare un piccolo canale, e quando finalmente il traffico le permise di salire sul ponte, stava singhiozzando dalla rabbia. Giunta dall'altra parte cominciò a correre. L'edificio dell'aeroporto ondeggiava da una parte all'altra, ma rimaneva in lontananza. Gli automobilisti dovevano prenderla per ubriaca, poiché si tenevano ben distanti da lei; qualcuno si fermò aspettando che passasse. Un profondo boato le assordava le orecchie. Forse erano gli aerei in cielo. Un autobus stava fermo davanti all'edificio dell'aeroporto. Barbara lo aggirò barcollando, per controllare tra i passeggeri, ma nessuno di loro era Ted. Arrancò verso l'edificio, e si sarebbe appoggiata alle porte per trovare sostegno se quelle non si fossero aperte scivolando silenziose davanti a lei. All'interno faceva forse più fresco, ma non era in grado di notarlo. Un orologio segnava le dodici e trentasette. Tutto le girava attorno — centinaia di persone che parlavano tutte insieme, formavano code agli sportelli, ascoltavano gli altoparlanti e salivano in fila per due sulla scala mobile. Gli animali montarono a due a due, la voce era un computer che doveva parlare a numeri, un oracolo che traduceva ad alta voce il suo codice. I ba-
gagli sfilavano via dietro le quinte, per non farsi mai più rivedere, proprio come Angela. La gente si girava, sorrideva, perché lei era tanto disperata da sperare che uno di loro fosse Ted. Gira, gira, gira, questo stava facendo lei ora, alla ricerca di un uomo, quelle erano le prime tre parole di una canzone che aveva sentito una volta che portava Angela in braccio. Avrebbe dovuto portarsela sempre in braccio, mai lasciarla andare. Le facce si giravano, si gira una carta nella speranza che sia quella vincente, ma ognuna di loro era una carta perdente. La sua mente era sul punto di precipitare in se stessa. Finalmente vide il cartello delle informazioni. Riuscì a raggiungere la scala mobile e vi montò, trascinata dalla folla. Si sentiva come intrappolata in una vetrina, in mezzo ai manichini. La ragazza alle informazioni le sorrise con aria efficiente. Il volo da New York via Londra? Era stato trattenuto a Heathrow. No, si corresse la ragazza mentre Barbara provava una fitta di speranza, non era più lì, era arrivato un bel po' di tempo fa. Ormai i passeggeri dovevano essere usciti dall'aeroporto. Se c'era qualcuno ancora in attesa, doveva essere laggiù. Proprio là, signora, dove vede quella donna con i calzoni rosa e viola. Barbara barcollò verso il capannello. Qualcuno raggiunse il gruppo prima di lei e lo accompagnò verso l'uscita. Al di là dei pochi rimasti ad aspettare scorse una giovane donna magra che parlava tranquillamente con qualcuno che le sedeva accanto su una panca di plastica. Barbara girò zoppicando attorno a un gruppo di newyorkesi, che si lagnavano ad alta voce dei facchini, e vide che l'altra persona era Ted. Non osò parlare subito. Sedette accanto a lui — c'era appena posto sufficiente sulla panca — e gli strinse il braccio per qualche secondo. Alla fine disse: « Grazie a Dio sei qui. Avevo paura che te ne fossi andato ». Quando lui l'ebbe guardata per un po' senza parlare, lei realizzò che c'era qualcosa che non andava. Ted si alzò di scatto e lei fece per dirgli che avrebbe preferito rimanere seduta, che magari poteva portarle qualcosa da bere, ma vide che lui si allontanava da lei, che si allontanava dalla ragazza magra con i capelli biondi tagliati corti dall'altra parte della panca. La ragazza aveva qualcosa da dirle e improvvisamente Barbara si sentì al massimo della depressione: ecco un'altra traccia, un'altra pista falsa, un'altra mossa nel gioco interminabile che non avrebbe mai vinto. Allora la ragazza la guardò dritta negli occhi. « Ciao, mamma », le disse. Capitolo 35
Gli aerei si levavano silenziosi con il loro corpo massiccio. Si facevano più piccoli per poi fondersi con le nuvole. Giù nella sala dell'aeroporto, i viaggiatori si affannavano avanti e indietro in cerca di amici o di informazioni, ma finalmente Barbara poteva rimanere seduta immobile. La cocacola aveva placato la sua sete, il rum aveva attutito la caotica realtà dell'aeroporto abbastanza da poterle far credere che il suo sogno si era realizzato. Sulle prime pensò che si trattasse di un trucco. Questa giovane donna così sicura di sé, con i capelli come un cespo di paglia, non poteva essere Angela, non poteva essere la bambina che aveva avuto tanto bisogno della sua mamma. Ma il viso somigliava a quello di Barbara, era troppo simile allo schizzo che aveva potuto vedere per un attimo dopo la morte di Margery. La giovane si era alzata dalla panchina di plastica, con quegli occhi blu profondo che fissavano Barbara, e Barbara aveva visto la voglia violacea sulla spalla destra nuda. Si era alzata a sua volta e aveva stretto a sé Angela, piangendo. Ora Angela le sorrideva pacatamente dall'altra parte del tavolino al bar dell'aeroporto, rassicurandola che la sua agitazione era naturale, che con il tempo sarebbe andato tutto bene. Non c'era da stupirsi che Barbara si sentisse a disagio: aveva perso una bambina di quattro anni e ritrovava un'adolescente che dimostrava più della sua età. Probabilmente durante la ricerca non aveva mai creduto fino in fondo che si sarebbero riviste. Per quanto inquietante fosse l'aspetto maturo di Angela, esso era anche rassicurante, poiché significava che era sopravvissuta agli ultimi nove anni. Improvvisamente sorrise ad Angela. Certo, ora si mostrava sicura perché era insieme con sua madre. Certo, non aveva un tono così sicuro quando era nelle mani della setta, quando non aveva idea di cosa poteva capitarle. Ma questo ricordava a Barbara le domande che voleva farle, per quanto ansiosa fosse di non turbare la ragazza. Le prese la mano per ancorarla a sé nel presente. « Come hai fatto a scappare? Quando sono andata all'indirizzo che mi ha dato Ted » (cominciava a rendersi conto di quante erano le cose a cui non avrebbe dovuto alludere, almeno per molto tempo ancora) « la casa era deserta. » « Quando ho saputo che avevano deciso di trasferirsi ancora gli ho telefonato. Non ho fatto altro che uscire appena l'ho visto. Poi siamo venuti qui e ti abbiamo aspettato. » Le indagini della polizia dovevano aver reso i suoi rapitori meno accorti. Se è così, pensò Barbara, avrei dovuto avvertire la polizia mesi fa. La fine
della sua ricerca si dimostrava quasi banale: Angela pareva non rendersi conto del pericolo che aveva corso, del terrore che la madre aveva provato per lei. Tanto meglio così, ma il pensiero della setta metteva Barbara in agitazione. « Non sai dove sono andati? » Angela si strinse nelle spalle. « Ormai saranno molto lontani. » Come faceva a saperlo? Improvvisamente Barbara si sentì nervosa più di quanto fosse mai stata. Erano circondati da estranei, ognuno di loro poteva essere lì a spiarle. Se erano in attesa dell'occasione buona per riprendersi Angela probabilmente la ragazza li avrebbe riconosciuti; ma se non li notava in tempo? Quelle donne sedute al tavolo vicino all'uscita, non erano vestite in maniera troppo dimessa per viaggiare in aereo? Quell'uomo grosso di fronte a Barbara stava guardando Angela di sottecchi solo perché sospettava che non avesse l'età per entrare nel bar? « È meglio che ci muoviamo », disse Barbara d'un tratto. « Adesso mi sento bene. » Ed effettivamente si sentì bene, quando Ted si alzò in piedi. Lui sarebbe stato in grado di affrontare chiunque tentasse di portargli via Angela. Angela era al sicuro tra lui e la madre. Quando la folla ai piedi della scala mobile si fu chiusa attorno a loro, Barbara si mise all'erta, ma non aveva paura. Ted fece strada fino alla macchina, che era parcheggiata vicino all'edificio. « Ti dispiace guidare tu fino a Londra? » disse Barbara. « Non credo di sentirmela in questo momento. » « Non mi dispiace affatto. » La guardò senza espressione. « Anzi, ci tengo. » Passarono per Glasgow a ritirare il bagaglio, poi Ted insisté perché mangiassero qualcosa prima di iniziare il lungo viaggio verso casa. Trovarono un posto che vendeva hamburger di fronte alla stazione ferroviaria e a Barbara tornò in mente la sera in cui avevano inseguito la donna dal viso storto. La setta era proprio a Glasgow, nonostante quello che le aveva detto Ted, ma ora non aveva più importanza. Si sentì al sicuro dentro il ristorante, dove non c'erano finestre che dessero sulla strada. Doris Day e Marilyn Monroe, giovanissime, risplendevano sulla parete. Angela prese il suo hamburger con le due mani e Barbara provò un impeto di amore alla vista della sua bambina. Quando raggiunsero l'autostrada a Carlisle erano quasi le quattro. Finalmente Barbara fu in grado di accorgersi che l'autunno era cominciato; il sole era una macchia di luce sopra gli alberi color ruggine, le foglie frusciavano sotto le ruote della macchina. Lei sedeva dietro insieme con An-
gela, mentre Ted guidava e manovrava la radio dell'auto. Avvertiva il continuo desiderio di attirare Angela a sé, di stringerla, ma sentiva che la ragazza non era ancora pronta a concedersi. Era normale che fossero come estranee dopo nove anni, e inoltre adesso Angela si trovava improvvisamente in un mondo diverso. Dopo nove anni di segregazione, forse trovava la libertà perfino inquietante. Per un po' Barbara si limitò a rimanere seduta in silenzio accanto a lei. Era come un assaggio della tranquillità che avrebbero condiviso. File ordinate di pini si avvicendavano all'orizzonte, qualche macchina filava lungo l'autostrada. Ted aveva trovato una stazione locale che mandava in onda canzoni americane. Poi fu trasmesso il notiziario: i treni da Londra risentivano delle conseguenze di uno sciopero, c'erano banchi di nebbia sulla M6 tra Penrith e Kendal, un tratto dell'Inner Ring Road era temporaneamente interrotto, una casa era stata distrutta da un'esplosione e la polizia riteneva che la causa fosse stata una fuga di gas. « Dio mio, sono stata io », esclamò lei. « È quella casa. » Quando Angela fece un fugace sorriso Barbara si pentì di averlo detto. Anche se la casa e il suo influsso erano stati distrutti, e anche se questo l'aiutava a dimenticare, non era un buon motivo per ricordare ad Angela la vita che vi aveva condotto. Certamente Angela aveva altre memorie. « Ti ricordi la nostra casa di Otford? C'era un ruscello che ti piaceva tanto, oltre il prato dell'Archbishop's Palace. E le ochette nello stagno ti facevano sempre ridere. » Le stava parlando come a una bambina, ma non sapeva come altro parlare: doveva ancora abituarsi al fatto che la figlia non aveva più quattro anni. Ma Angela le stava rispondendo. « Qualcosa me la ricordo. Zia Jan abitava alla porta a fianco. Tu mi lasciavi con lei. » Per un attimo Barbara pensò che stesse per parlare del rapimento, forse per accusarla, ma Angela continuò: « E mi ascoltavi dall'intercom quando io ero in camera mia ». « È vero. » Improvvisamente ricordò quello che le sentiva dire. « Ti ricordi di tuo padre? » mormorò. « E come faccio? » Aveva un tono aspro. « Lui se n'era andato. » Era un modo infantile di dire che era morto prima che lei nascesse, o intendeva qualcos'altro? Barbara non volle chiederlo. « Sembra tanto tempo fa, Otford. Quasi un'altra vita », disse, sforzandosi di rivolgersi a lei come a una sua pari. « Ho fatto strada, da allora. Mi sta andando piuttosto bene. Solo che finora non avevo nessuno con cui dividere il mio successo. » Angela rispose alla stretta della sua mano, ma Barbara si sentiva imba-
razzata: con Ted presente le pareva di dire delle banalità, e forse quelle banalità finivano anche per tradire il vago sogno segreto di dividere con lui la sua vita — sì, forse aveva sognato anche quello. Ma lui pareva così assorto nella guida da non sentire neppure. Alle quattro e mezzo sulle creste rocciose del Lakeland scese la nebbia. Ted aveva spento la radio; l'unico suono che si sentiva era il ronzio del motore. Quando il soffice grigiore si strinse alla macchina, Barbara risentì le pareti gonfie della casa che la attorniavano. Aveva bisogno di dormire, ecco tutto. Ora che aveva Angela poteva addormentarsi, tanto c'era Ted a tenerla d'occhio. Quando raggiunsero lo svincolo di Kendal, la nebbia si diradò. Ted accelerò superando alcuni autostoppisti che inalberavano dei cartelli con su scritto Glasgow. In gran parte erano adolescenti — Barbara si chiese angosciata se la setta avesse mai rapito degli autostoppisti — ma uno degli uomini era notevolmente più anziano. Per un momento la sfiorò l'idea che fosse Arthur, finché vide la sua faccia. Dopo Kendal il paesaggio si fece più piatto. La strada sempre uguale pareva il disegno di un videogame ed era altrettanto irreale. La sensazione di aver visto Arthur la fece sentire improvvisamente spossata, ma cercò di rimanere sveglia. « Senti », propose ad Angela, « ti piacerebbe fare una vacanza? Avevo intenzione di andare in Italia, quest'anno, e credo che lo farò, per festeggiare. Devo vendere un libro per uno dei miei autori, ma appena fatto possiamo andare. » Le venne in mente Ted. « Oh, Ted, non ti ho detto la bella notizia! Ho trovato un acquirente per il tuo romanzo. Lo capisci perché ho dimenticato di dirtelo, no? Cathy Danieli ti scriverà. » « Bene. » Pareva avesse a stento registrato la notizia. Davvero, doveva proprio cercare di dormire, le pareva di stare in macchina con una coppia di estranei. Certo, Angela sarebbe stata un'estranea ancora per un po', ed evidentemente Ted si stava adeguando alla situazione. Eppure quella sensazione la metteva a disagio, e la cosa migliore che potesse fare era dormire. La svegliò il rombo del camion. Era circondata da camion e cemento. Il frastuono la avviluppava, le soffocava la mente. La casa era andata distrutta, ma il suo potere no. Li aveva riportati lì, dentro la gabbia di cemento. Poi vide che non era affatto l'Inner Ring Road. Era l'autostrada all'altezza di Birmingham, nel mezzo di un groviglio di strade. Si rilassò, anche se
sentiva il cuore batterle all'impazzata, poi si rese conto che Ted aveva preso la corsia sbagliata. Li stava portando a Birmingham. Quando lo avvertì dell'errore lui lanciò un'occhiata feroce attraverso lo specchietto. Doveva essere indirizzata al traffico dietro di loro, non a lei. Chiaramente, stava guidando da quattro ore senza un'interruzione, e chi sa da quanto tempo era sveglio, se aveva raggiunto anche la casa di Glasgow prima di andare a prendere lei all'aeroporto. Avrebbe voluto offrirgli il cambio alla guida, ma si sentiva ancora molto assonnata. Quando si avvicinarono al grill dell'autostrada a Corley lei insistette perché si fermassero. Il lungo locale era pieno di famiglie, con i bambini che giocherellavano con il cibo e piagnucolavano. Il sonno non le aveva fatto bene: tutti quelli che entravano la rendevano nervosa, anche quando i nuovi arrivati erano dei gruppi familiari: dopo tutto anche quelli della setta avevano figli. Non avrebbe dovuto sentirsi tranquilla ora che era con Angela? Ma dopo nove anni di prigionia non c'era da stupirsi che la ragazza non irraggiasse più pace. Forse aveva ancora i suoi poteri, forse sarebbero riapparsi con il tempo. Pazienza, non faceva sentire in pace sua madre. Ma Barbara doveva stare molto attenta, perché ora aveva delle allucinazioni. Sulla soglia del locale era apparso Arthur, e le faceva segno con urgenza di avvicinarsi, ma ovviamente quando guardò meglio non era Arthur. Quando lasciarono l'autogrill si stava facendo buio. Ted le era parso riluttante a proseguire. Quando gli chiese se ce la faceva a guidare ancora lui scattò: « Sì, certamente ». Si chiese se la sua irritazione potesse dipendere in parte dal fatto che si sentiva escluso dal ricongiungimento. Negli ultimi centocinquanta chilometri fino a Londra il paesaggio si fece più morbido, confuso e grigio. I campi si trasformavano in rapidi schizzi fatti di nebbia, i cespugli ai margini dell'autostrada erano cumuli informi che fremevano nel vento, l'orizzonte incombeva. Le lame gemelle dei fari sciabolavano senza posa. Una roulotte con le luci spente oscillò accanto alla macchina e Barbara credette di vedere una faccia schiacciata contro il finestrino posteriore. Le facce, in ogni macchina che li sorpassava, parevano fissarla. Doveva avere le allucinazioni, le pareva di vedere, dietro i cespugli al lato della strada, una figura magra che saltellava alla stessa velocità della macchina, spuntando a scatti con la testa grigia dal fogliame. Raggiunsero Hendon verso le dieci. Ted pareva avere difficoltà a trovare la strada per Londra; a un certo punto si rimise sull'autostrada, finché vide che le due donne lo guardavano fisso. Barbara insisté perché rimanesse
con loro per la notte e lui parve incapace di opporsi. Voleva che lui fosse lì nell'eventualità che la setta tentasse qualche colpo. All'indomani ci avrebbe pensato il giorno dopo. Prima di raggiungere St. John's Wood dovettero fermarsi spesso ai semafori. Barbara continuava a controllare che le portiere dell'auto fossero chiuse per bene. Se qualcuno le avesse spalancate e avesse afferrato Angela mentre erano fermi a un semaforo! Su Euston Road alcuni pedoni attraversarono davanti alla macchina, facendola irrigidire ancora di più. Anche quell'uomo dalla faccia triste che assomigliava ad Arthur la spaventò. Sarebbe stato così il resto della sua vita con Angela? Neppure il Barbican sembrava sicuro. Il garage sotterraneo pareva molto buio, gli angoli oscuri e intasati. Erano solo i tubi al neon tremolanti che facevano apparire inquieto il buio degli angoli. Però il soffitto pareva più basso che mai. Barbara si trovò circondata da automobili e furgoni, ognuno dei quali poteva nascondere un'imboscata. Ted stava tirando fuori le sue valigie. Barbara disse ad Angela di rimanere con lui mentre lei andava avanti ad aprire la porta di casa. Questo le permise di passare in fretta tra le file di veicoli parcheggiati e di accertarsi che non c'era nessuno a spiare. Salì gli scalini fino alla galleria e si accorse che era ancora agitata. Lunghe dita nere spuntavano dal salice verso la chiesa, il vento mormorava sotto i tozzi pilastri di cemento. La sua ombra la seguiva dal parcheggio e pareva immergersi in tutte le zone più buie. Certo era solo la sua ombra. Non ho motivo di essere nervosa ora, si disse. Angela era al sicuro con Ted e non c'era ragione per cui la setta potesse volere Barbara. Eppure, solo quando arrivò all'appartamento si sentì sollevata. La chiave era già nella sua mano. Aprì in fretta la porta e accese la luce. Ecco finalmente qualcosa di familiare — il tappeto verde scuro, la tappezzeria discreta, la litografia di Escher che ribaltava la prospettiva rovesciandola dall'esterno all'interno, perfino l'odore del suo profumo, anche se non si era mai resa conto che potesse essere così persistente — ma la prima cosa che notò fu la lettera sulla soglia. Richiuse la porta e si incamminò per il corridoio con la lettera in mano. Proveniva da Hemel Hempstead. L'intestazione della Kodak era sbarrata sulla busta. Tra un minuto avrebbe visto che notizie avevano per lei i genitori di Iris, ma prima voleva uscire dal corridoio, che le pareva più stretto del solito. Doveva essere l'effetto dell'esperienza che aveva vissuto a Glasgow. Sperò che svanisse appena avesse acceso tutte le luci.
Accese il lampadario centrale del soggiorno e si fece avanti, infilando un'unghia sotto il lembo incollato della busta. Ted doveva aver rovesciato una bottiglia di profumo nella fretta di prenderle il bagaglio per New York, perché l'odore era soffocante. Fece alcuni passi prima di alzare lo sguardo per vedere cos'altro ci fosse che non andava. La lettera le cadde immediatamente di mano, ma ebbe la sensazione che impiegasse qualche secondo prima di toccare terra. Era come se il suo choc l'avesse rallentata, congelandola in volo come aveva congelato i suoi pensieri. Libri e dischi erano tutti sparsi per il pavimento. Tutti i mobili erano stati spostati e sembravano pesantemente insozzati. L'album delle fotografie era sul tappeto davanti a lei. Quasi tutte le foto erano state strappate via. Stava raggiungendo disperatamente l'interruttore della luce quando due bambini, un maschio e una femmina sugli otto anni, vennero fuori da dietro le librerie. Rimasero a guardarla con gli occhi che brillavano, mentre il braccio di un uomo le stringeva con forza la gola. Quando la vista cominciò ad annebbiarsi, sentì che la presa allentava. Evidentemente la volevano viva. Ora li vedeva tutti, una ventina e più, che uscivano dalle altre stanze. Quando vide la donna dal viso storto cominciò a divincolarsi selvaggiamente, ma inutilmente. E così avevano trovato un altro nascondiglio. Si chiese sfinita se i loro poteri gli permettessero anche di aprire le porte senza chiave. Si sforzò di mostrarsi rilassata, per quanto possibile, così che la lasciassero respirare. Anche se l'appartamento era impregnato del suo profumo, riuscì ugualmente a sentire l'odore dell'uomo che la teneva, un odore di sudore stantio e di hascisc. Probabilmente sapeva che l'appartamento era isolato acusticamente, perché la presa si era allentata tanto da lasciarla libera di gridare se voleva. Questa era la sua occasione. Non appena la porta si fosse aperta si sarebbe messa a gridare a Ted e ad Angela di fuggire. Non doveva pensare a quello che la setta poteva farle, purché Angela si salvasse. Quando sentirono la chiave nella serratura, uno degli uomini si spostò mettendosi dietro la porta. La chiave esitò un momento, poi la porta si mosse. Il braccio le strinse immediatamente la gola e non le fu possibile emettere neppure un suono. Ma l'uomo che la teneva aveva calcolato male. Se ne rese conto anche se la vista le si stava oscurando. La teneva in modo fosse visibile anche in fondo al corridoio. Ted l'avrebbe vista subito. Forse sarebbe riuscita a dirgli con gli occhi di mettere Angela in salvo, di non far correre rischi ad
Angela per salvare lei. Quando la porta si aprì, Angela era sulla soglia. Ted appariva dietro di lei, il viso inespressivo. Tutti e due entrarono in fretta. Quando Ted chiuse sbattendo la porta, Angela vide la madre e gli altri. Gli occhi le si allargarono e il loro potere fu improvvisamente così intenso da far star male. Sorrise trionfante, vincitrice di una lunga gara. « Meglio imbavagliarla prima di portarla giù », disse. Capitolo 36 Un sobbalzo improvviso scaraventò Barbara contro la fiancata del furgone. Riuscì a rimettersi dritta, annaspando con le mani legate dietro la schiena, la spalla destra che le pulsava, in modo da poter guardare dal finestrino posteriore. L'odore della polvere le penetrava nelle narici, sentiva il sapore della carta e dell'inchiostro della lettera che le avevano ficcato in bocca. Sentì che stava per vomitare. Forse questo avrebbe spostato il bavaglio. Il furgone attraversava veloce la zona del porto. Magazzini anonimi incombevano lungo le strade deserte, una pioggia di luce calava dai freddi lampioni. Forse la setta cercava un posto isolato come quello? Raddoppiò gli sforzi per spezzare la corda che la legava. Doveva liberarsi prima che il furgone si fermasse, prima che venissero a prenderla. Ma i suoi sforzi non davano nessun risultato apprezzabile. I legacci che le stringevano polsi e caviglie, fragili all'apparenza, erano solidissimi. Non aveva molto spazio per divincolarsi: valigie e bauli occupavano quasi tutto il retro del furgone, dandole un senso di soffocamento. Anche se fosse riuscita a liberarsi, c'era dietro un altro furgone che li seguiva: non sarebbe mai riuscita ad aprire la portiera senza farsi vedere. Ciononostante continuò a lottare, cercò di separare a forza i polsi senza badare ai nodi che le penetravano nella carne. Doveva continuare a tentare finché c'era una possibilità di salvare Angela. Ma ce n'erano ancora di possibilità, se Barbara si era già tanto sbagliata su di lei, sulla sua iniziazione? Evidentemente non era qualcosa che cominciasse a un tratto quando i ragazzi compivano i tredici anni; quello era solo il momento in cui la cosa veniva completata. Evidentemente l'iniziazione di Angela era incominciata non appena l'avevano catturata. E il suo gioco con la madre, quell'attirarla da un posto all'altro, faceva parte dell'iniziazione. Forse Angela avrebbe continuato a giocare con lei,
confondendola e sfibrandola prima che fosse uccisa, se la setta non fosse stata costretta a lasciare alla svelta Glasgow. Ora che l'avevano catturata, in che consisteva il resto dell'iniziazione? Non doveva pensarci. Soprattutto non doveva ripensare allo sguardo di odio che aveva visto negli occhi di Angela. Era stata la setta a indurre quell'odio in Angela. Chissà di cosa l'avevano convinta — forse che Barbara le aveva portato via il padre, a giudicare dal commento amaro che aveva fatto in macchina. Senza dubbio l'avevano messa contro la madre, ma per il momento la cosa più importante era ricordare che avevano bisogno di corromperla completamente. Questo non voleva forse dire che finché l'iniziazione non fosse stata completata poteva sempre essere salvata? Forse sì, ma quando Barbara ricordò i suoi occhi, le parve che non ci fosse scopo a tentare. La medium aveva avuto ragione, nove anni prima: Angela aveva un grande potere. Ma ora quel potere si era pervertito, al servizio dei senzanome, al punto da essere irriconoscibile. Nessuna meraviglia che Ted fosse un burattino in mano loro — probabilmente lo era fin dal giorno in cui era scomparso a Glasgow — anche se una delle cose peggiori era stata il suo sguardo di indifferenza mentre le legava i polsi. Angela appariva molto peggio: al di là dell'indifferenza. Quando i loro occhi si erano incontrati, Barbara si era sentita distrutta, inutile, con nessun significato che quello della vittima da sacrificare. Gli occhi di Angela apparivano di un azzurro innaturale, come inquinati. Il loro sguardo era rimasto immobile sulla madre mentre la legavano e la imbavagliavano. Era grazie ad Angela che la setta era prossima al suo scopo? Poteva essere il suo potere quello che la setta attendeva? Barbara non poteva pensare a questo, l'avrebbe portata alla disperazione. Le braccia le si erano gonfiate e tremavano mentre tentava di allentare i nodi ai polsi, i malleoli strofinavano l'uno contro l'altro mentre strisciava le caviglie avanti e indietro. Doveva riuscire a far cedere i legami di un centimetro, anche di mezzo, per avere quella spinta in più di forza di cui aveva bisogno. Ormai il furgone si era lasciato Londra alle spalle. Non ci fu altro che la strada per miglia, tranne qualche fabbrica lontana illuminata dai fanali oltre i campi bui. I camion passavano vicini, animando con i fari le ombre tra i bauli che ingombravano il furgone. Tra due dei bauli era buttato un sacco, o un cappotto. Sarebbe riuscita ad attirare l'attenzione di un camionista? Cercò di strisciare verso le portiere posteriori, per poter schiacciare il viso contro il fi-
nestrino, ma un cumulo di valigie le bloccava la strada. Si sforzò di montarci sopra — non importava se fosse caduta — ma era impossibile. In ogni caso l'uomo al volante del furgone di dietro l'avrebbe vista prima di qualsiasi camionista. Tra i bauli vicini allo sportello, il sacco o il cappotto aveva il brutto aspetto di una piccola figura dalla testa ciondolante. Cercò tra i bagagli come meglio poté, alla ricerca di un bordo metallico con cui potesse tagliare le corde. Niente, evidentemente i rapitori si erano assicurati che non ce ne fosse nessuno. Le ombre si agitavano tra i bauli ogni volta che passava un camion. Il furgone pareva farsi sempre più piccolo e polveroso; si sentiva un odore aspro e secco. Quando i fari passavano accanto al furgone, la forma tra i bauli pareva annuire verso di lei, sollevando una specie di faccia scavata. Improvvisamente il furgone si staccò dai camion con un sobbalzo, immettendosi su una strada non illuminata. Barbara fu gettata a corpo morto sul mucchio delle valigie, una delle quali si aprì di scatto. Ora l'unica luce era quella proveniente dal furgone di dietro, una coppia di macchie fioche che traballavano sul soffitto lasciando il resto dell'interno al buio. Un altro scossone la ributtò contro la parete. Sentì qualcosa cadere con un tonfo dalla valigia aperta e rotolare fino alla sua coscia. Contorcendosi riuscì a toccare l'oggetto con una mano. Forse era un soprammobile, qualcosa di fragile, visto che era avvolto in un pezzo di stoffa, che pareva incrostato di sporco. In qualche punto era morbido, o era la stoffa? Forse era una qualche specie di contenitore. Ma perché quell'odore di terra che mandava doveva essere di per sé così orribile? Barbara si divincolò con violenza finché non riuscì a mandare con un calcio l'oggetto avvolto dall'altra parte del furgone. Quando il veicolo si fermò, per lei fu quasi un sollievo. Poi i fari del furgone di dietro si spensero e il sollievo svanì. Era sola al buio con quegli odori di terra e di polvere, con un impercettibile movimento tra lei e la portiera. Si sentiva soffocare per la carta che aveva in bocca, ma rimase assolutamente immobile, come se questo avesse potuto renderla invisibile. Quando arrivarono a prenderla stava tremando dallo sforzo o dalla paura. In un primo momento le parve che non ci fosse niente, fuori dal furgone, solo il buio attraversato dal sibilo del vento. Quando gli occhi si abituarono all'oscurità vide che si trovavano sulla riva di un piccolo fiume che presumibilmente finiva nel Tamigi. Tutt'attorno a lei la palude scintillava sotto un cielo che baluginava come di nebbia. Quelle macchie all'orizzonte potevano essere colline o nuvole. I cumuli di oscurità più vicini al fiume
erano case, forse abbandonate; tutte le finestre erano buie. Angela arrivò dove due degli uomini tenevano Barbara. Fissò la madre per un po'. La sua faccia nell'ombra era incomprensibile, come nebbia, ma i suoi occhi scintillavano. Alla fine il suo sguardo oltrepassò Barbara, posandosi sul furgone in cui era stata rinchiusa. Barbara non riuscì a capire perché i due uomini si fossero irrigiditi, stringendola più forte, finché sentì qualcosa che veniva fuori dal veicolo. Ted lo vide prima di lei. Per un momento la sua faccia si contrasse, sgomenta, poi tornò inespressiva. In un attimo la forma nana era arrivata saltellando fino ad Angela. Nel buio la si sarebbe potuta prendere per un bambino, non fosse stato per quella testa malferma sproporzionatamente piccola, per quella pelle cascante. Lasciò cadere l'oggetto avvolto che odorava di terra ai piedi di Barbara. Quando il pacco si aprì, Barbara chiuse gli occhi. « Pensavo che dovessi vederla », disse Angela. « Apparteneva alla tua amica Gerry Martin. » Barbara aspettò il più a lungo possibile prima di aprire gli occhi, ma quando li aprì Angela teneva ancora l'oggetto per i capelli perché lei lo vedesse. Non era spaventoso come aveva temuto: era così incompleto che poté fingere che fosse irriconoscibile. Anche così, dovette distogliere lo sguardo, strozzata dal tampone di carta. « Non importa », disse Angela, scrollando le spalle. « Sarai anche tu così quando avremo finito. Solo che nel tuo caso ci metteremo più tempo. » Porse l'oggetto alla cosa nana, che sgusciò via subito, verso la palude. Barbara non sapeva più reagire. L'unica cosa che riuscì a pensare fu che tutti si erano ritratti davanti alla cosa — tutti tranne Angela. Capitolo 37 Quando i bauli e le valigie furono scaricati, i furgoni si allontanarono nel buio. Svanito il rombo dei motori, non si sentì più alcun rumore oltre quello delle erbe della palude che si agitavano al vento. Anche i bambini erano silenziosi, i bambini con addosso l'odore soffocante del profumo di Barbara. Se fosse riuscita a spostare il bavaglio le sue grida di aiuto si sarebbero sentite fino a molto lontano. Certo avrebbero svegliato qualcuno nelle case vicine, se mai quelle case fossero state abitate. Stava cercando senza farsi accorgere di spingere in avanti quel tappo di carta che aveva in bocca, ma
questo era fissato solidamente contro il palato. Se lo avesse spinto via più violentemente, i suoi rapitori se ne sarebbero accorti; dovevano essere in grado di vedere la sua faccia, ora che lei riusciva a vedere le loro — la donna con il viso storto, un uomo grosso con i capelli a spazzola, una donnetta tarchiata con un sorrisetto fisso, un uomo dalle labbra spesse con la lingua che continuava a venir fuori guizzando. Tutti sembravano imbarazzati dalla sua presenza come vittima ed evitavano di guardarla. Certamente quando fosse venuto il momento di torturarla si sarebbero mostrati molto più entusiasti. Le pareva che fossero passate delle ore da quando aveva cominciato a lottare con il bavaglio. Era impossibile valutare il trascorrere del tempo sotto quel cielo così basso. L'inchiostro aveva un sapore amarissimo. I suoi guardiani parevano del tutto indifferenti a dove si trovavano, al vento gelido e alla desolazione. Senza dubbio questo era uno degli effetti della convinzione di essere solo strumenti, rispetto a ciò che stavano facendo. Avrebbe dovuto credere anche lei che Angela fosse solo uno strumento — incapace di comprendere quello che faceva — ma purtroppo le era impossibile. Prima che fosse riuscita a smuovere il bavaglio, gli autisti dei furgoni furono di ritorno. Gli uomini della setta raccolsero i bagagli e seguirono in silenzio Barbara verso il fiume. Sembrava banale come un incubo, la parodia di una gita domenicale che non osasse aver luogo alla luce del giorno. C'era perfino una coppia di vecchietti curvi, perché la scena somigliasse ancor più a una scampagnata in famiglia. Chiudeva la processione un uomo che non portava nessun bagaglio. Barbara non riuscì a distinguere fa faccia. Uno dei rapitori le aveva sciolto le gambe. I due uomini le camminavano a fianco ai lati del sentiero, in mezzo all'erba. Era già a metà strada quando si rese conto che il corteo si stava dirigendo verso le case. Se la setta intendeva nascondersi in uno di quegli edifici, certamente i vicini li avrebbero sentiti. Angela guidò la fila in uno dei lunghi giardini, dove il fiume scintillava sotto un rozzo ponte. La fila andò direttamente oltre il bungalow e Barbara vide che in fondo al giardino era ormeggiata una barca a motore, accanto a un piccolo pontile. Cercò di gridare, ma l'unico suono che emise fu un verso soffocato. La metà del bagaglio era già stata trasferita a bordo quando nel bungalow si accese una luce. Barbara si tese come una molla, pur fingendo di es-
sere inerte e disperata. Quasi immediatamente il portico posteriore si accese. La porta si spalancò e un uomo corpulento si affacciò a fissare la gente raccolta nel suo giardino. Lei riuscì a divincolarsi da una delle sue guardie e a fare un passo incerto verso il proprietario della casa, ma non servì a nulla. Quando ebbe visto le persone che aspettavano nel buio, spense la luce del portico e si avviò alla barca, vi salì e si mise ad aspettarli nella cabina. Barbara avrebbe dovuto notarlo, che era vestito per una traversata. Sul ponte c'era appena spazio sufficiente per tutti. I bambini, i due che aveva visto nel suo appartamento più una bambina, sui sei anni, furono mandati nella cabina di pilotaggio. Obbedirono immediatamente, e si misero a sedere a terra, contro la parete della cabina aperta. Quando Barbara fu spinta sul ponte in mezzo al gruppo, la barca oscillò paurosamente. Non avrebbe potuto sentirsi più vulnerabile di così. Non appena furono tutti a bordo, l'imbarcazione si staccò dal pontile con un ruggito. Certo il rumore avrebbe svegliato qualcuno nelle case — ma le case ormai si allontanavano, ed erano sempre buie. Le facce dei suoi rapitori erano illuminate, ora, verdi verso tribordo, rosse a babordo. Grazie al riflesso dei quadranti verso tribordo nella cabina di guida ora poteva vedere con chiarezza alcuni di loro. C'erano Angela e Ted, che la guardavano senza emozioni, un giovane con una tonsura che le parve di aver già visto, una ragazza con i capelli che parevano un cappello di catrame. Alcuni di loro cominciarono a fissarla con avidità, ora che erano in viaggio. Ben presto le case sparirono nella palude. C'era solo la piatta terra senz'alberi, interrotta dalle ampie strisce più scure dei canali. Sopra l'orizzonte, verso il Mare del Nord, le nubi avevano il colore della cenere. Qua e là qualche chiazza pallida si agitava, si allontanava acquattandosi tra l'erba. Erano, quelli, i soli segni di vita. Quando la barca raggiunse la scogliera, Barbara cominciò a tremare. Al di là delle paludi saline e delle insenature seminascoste, il Tamigi conduceva verso il mare aperto. Era lì che la barca si stava dirigendo. I senzanome erano diretti verso un altro paese? Come potevano pensare di fare la traversata, ammassati in quella barchetta? Forse dovevano incontrare una nave, o forse non gli importava neppure dove andavano, ora che erano vicini alla loro meta. E lei era la vittima che li avrebbe messi in grado di raggiungerla, finalmente, quella meta. Mentre la barca si immetteva nel Tamigi, la sua lingua lottava sempre più violentemente, graffiandosi sui denti. A distanza di mi-
glia, lungo la riva, dove le fiamme arancioni danzavano sopra la desolazione metallica di una raffineria di petrolio, si raccoglievano delle navi cisterna. Anche se fosse riuscita a lanciare un grido, non lo avrebbero mai sentito al di sopra del rumore del motore, e comunque la barca si stava allontanando dalla riva. La lingua scivolò, gonfiò la guancia, e Angela vide cosa stava facendo. Quando si fece avanti, Barbara si strinse in se stessa, sgomenta di aver paura di sua figlia. Ma Angela le ficcò due dita in bocca con disprezzo e tirò fuori la carta. Sua madre poteva gridare forte quanto voleva, in quell'enorme deserto. Dapprima Barbara non osò parlare. Non conosceva più Angela, non aveva idea di come entrare in contatto con lei, aveva paura di provare. Ma doveva provare. « Grazie, Angela », disse con voce incerta. Angela si stava già volgendo altrove e non le concesse neppure un'occhiata. Forse non riconosceva più il suo nome. Barbara non riuscì a sopportare la sua indifferenza. « Angela, ascoltami », disse più forte, cercando di ignorare le sue guardie, che apparivano pronte a chiuderle la bocca. Quando Angela si fermò, la sua espressione chiarì subito che non era stato, per le parole di sua madre. Barbara gridava al vento, la sua bocca era amara per l'inchiostro, ma doveva andare avanti. « Non lo so che cosa ti hanno detto di me, ma io avrei passato tutta la vita a cercarti, se loro non mi avessero fatto credere che eri morta. Hanno ucciso una delle loro figlie per farmelo credere. Non avrei osato sognare che eri ancora viva, fino al giorno in cui mi hai chiamata. Tu devi saperlo come mi sentivo, anche se non vuoi che loro lo sappiano. Tu te lo ricordi quanto ti amavo. Te lo ricordi quanto mi amavi. » Angela appariva irritata e improvvisamente Barbara credette di sapere perché: a giudicare dalle cose a cui aveva accennato nel viaggio da Glasgow, quello che ricordava con più chiarezza era il fatto che Barbara la lasciava per tutto il giorno, l'aveva lasciata per farla rapire dalla setta. Aveva ragione, ovviamente; aveva tutte le ragioni per odiare sua madre. Qualunque cosa le avessero fatto, sarebbe stata una forma di giustizia. Riuscì a scacciare lo sconforto: c'era un'altra cosa che Angela aveva detto in macchina. « Tu credi che io ti abbia portato via tuo padre », disse disperata. « Sono sicura che te lo hanno detto loro, ma non è stato assolutamente così. Sono stati loro a portarti via da lui portandoti via da me. » Per un attimo Angela mostrò i denti. Era gelosa come solo un bambino sa esserlo, o incolpava lei anche della morte del padre? Il ponte era scivo-
loso, Barbara si sentiva le gambe intorpidite per essere state legate tanto a lungo, la barca ondeggiava. Fu certo per queste ragioni che cadde disperata ai piedi di sua figlia, non perché Angela le avesse lanciato uno sguardo. Barbara riprese a parlare, angosciata. « Non lo so che cose vogliono che tu mi faccia, Angela, ma non capisci che questo comunque vuol dire che io per te significo ancora qualcosa? Loro se ne rendono conto ed è per questo che hanno cercato di farti sentire il contrario. Altrimenti non sarebbero stati così ansiosi che tu mi facessi cadere nella tua trappola. » Angela la guardò, e i suoi occhi erano vuoti come un cielo limpidissimo. « Non è stata un'idea loro. Ti ho scelto io. Prima abbiamo usato sempre estranei. Questa è l'unica ragione per cui avevo bisogno di te. » Appariva freddamente razionale, per nulla sulla difensiva. Le stava dicendo la semplice verità. Si girò: con sua madre aveva chiarito. Gli altri fissarono Barbara ed era evidente quanto fossero impazienti di cominciare. Solo gli occhi di Ted erano inespressivi. Ma non c'era stato un lampo di pietà nel suo sguardo, quando era caduta? Certamente si era mostrato spaventato quando quella cosa era uscita dal furgone. La sua personalità non era completamente distrutta, non avevano avuto abbastanza tempo. Forse poteva raggiungere quello che era rimasto di lui, se solo fosse riuscita a incontrare il suo sguardo. Era sdraiata sulla spalla che le faceva male e sperò che lui la guardasse; e alla fine la guardò. Si sforzò di sorridere alla persona che era stata un tempo, alla persona che era ancora da qualche parte dentro di lui, alla mercé del suo corpo di burattino. Cercò di mettere nella sua muta richiesta di aiuto un'immagine di lui, un'immagine di quello che erano stati l'uno per l'altra, dei momenti che avevano diviso. Lui oscillava avanti e indietro, ma la guardava ancora in faccia e una vaga espressione spaventata cominciava a disegnarsi nei suoi occhi, come se stesse iniziando a svegliarsi, ma con la paura di farlo. In quel momento la donna tarchiata indicò Barbara, il sorrisetto trasformato in un ghigno. « Sta cercando di farsi aiutare da lui! » strillò. « Ora con lui abbiamo finito. Non riuscirà a nuotare. » Infatti Ted non sapeva nuotare, ma pareva che Angela intendesse che anche se ne avesse avuto la capacità, lei gliel'avrebbe tolta. « Ha cercato di imbrogliarmi quando siamo venuti da Glasgow », disse. Non appena lo guardò, lui si girò e si diresse verso il parapetto di destra. Barbara non lo aveva svegliato abbastanza da metterlo in grado di resistere? Evidentemente no, poiché attraversò senza esitazioni il ponte, seguen-
do il varco che gli altri gli facevano. Le loro facce erano verdi per il riflesso delle luci di navigazione, e infiammate; la lingua dell'uomo dalle labbra spesse sgusciava avanti e indietro tra i denti, la donna tarchiata si fregava le mani. Il loro potere, o il potere che servivano, era più forte. Barbara poteva sentirlo, adesso, perché si era impadronito di lei come degli altri. Ted non importava, non significava niente. L'enorme buio di là dal parapetto lo rendeva completamente insignificante. Lui aveva senso solo come offerta a quel buio, a quello che il buio rappresentava. La corruzione di Angela non contava niente. Barbara non aveva significato, tutta la sua vita non ne aveva. Lei era un'offerta, come tutto il resto del mondo, e ben presto nient'altro che questo sarebbero stati tutti. Ben presto il potere sarebbe stato in grado di rivendicare per sé le sue offerte. La mente di Barbara si ritrasse, poiché aveva avuto un'immagine fugace della fonte di tutto ciò, che si gonfiava impaziente nella sua tenebra, infinitamente lontana e forse infinitamente grande, ma vicinissima come gli abissi della sua mente. Ora la sua coscienza tornò sulla barca, ma non servì. Ted era vicino al parapetto. Angela evidentemente gli stava imponendo di fare con calma per divertirsi, o per divertire l'oscuro potere. Dopo tutto Angela non era che uno strumento del potere, ma Barbara non aveva modo di sfruttare quell'intuizione. Anche se era vero, non aveva senso. Solo l'incedere di Ted conduceva verso un senso, e anche allora la sua morte sarebbe stata insoddisfacente, troppo rapida. Il buio incombeva sopra Ted, pareva chiudersi affamato attorno alla barca, beffarsi delle luci microscopiche del ponte e della cabina. Ted era al parapetto e lei sentì il rumore dell'acqua come "un'enorme bocca spalancata. Era rassegnata alla sua morte, quasi bramosa del suo significato. Ma qualcuno si stava curvando su di lei, prendendole la spalla come per scuoterla dalla sua trance. Era l'uomo di cui non era riuscita a vedere la faccia. Seppe immediatamente che era Arthur. Non aveva osato credere che fosse lì, e aveva avuto ragione a non sperarci: lui non era neppure in grado di farla alzare in piedi. Quello che poteva fare era solo farle sentire la sua pena per lei, una pena così acuta che irruppe nell'indifferenza e le rese le sue emozioni. Ora le era possibile di nuovo soffrire vedendo Ted che si avviava a morire, poteva gridare verso di lui, e il suo grido non otteneva niente. La guardarono tutti con aria vuota mentre Ted si afferrava al parapetto e lo scavalcava. Quando lei gridò più forte lui non si girò neppure. Ma si girò Angela, e guardò fisso Barbara. Per la prima volta appariva a
disagio. Forse si stava chiedendo come avesse fatto Barbara a gridare quando avrebbe dovuto essere ammutolita dal potere — ma no, non era solo questo. Stava guardando in direzione di Barbara, non proprio Barbara. La sua espressione si fece tirata e ostile. « Va' via », disse. Parlava con suo padre. Forse sentiva il suo dolore. Sì, lo sentiva, perché i suoi occhi brillavano malvagi cercando di prenderlo sotto il suo controllo. Come poteva legarlo con il suo potere se non riusciva neppure a vederlo? « Lasciami stare », disse gelida, ma lo sguardo esitava; forse stava lottando per non guardare i suoi ricordi. Stava ricordando i giorni in cui lei e il padre parlavano in segreto, quando lui aspettava vicino al suo lettino finché lei non si addormentava? Le stava parlando adesso? Gli altri la fissavano a disagio. L'oscuro potere sembrava farsi indietro ora che lei era distratta. Lei oscillava, forse non solo per il movimento della barca. Gli occhi le brillavano ancora, ma stava chiaramente lottando per liberarsi dall'assalto della pena. « Lasciami stare », grìdò, e ora la sua voce tremava. Improvvisamente ci fu un trambusto nella cabina di guida. Ted si era ripreso almeno in parte mentre il controllo di Angela si era allentato. Aveva aggredito l'uomo al timone e lo aveva abbattuto. Accertatosi che l'uomo era privo di sensi, si era messo al timone e aveva puntato verso la coste del Kent. Gli uomini della setta si volsero verso di lui. Era più facile da affrontare che il comportamento di Angela. « Facciamolo a pezzi », sibilò la donna tarchiata. Forse sentiva che torturandolo avrebbero fatto tornare il nero potere. Si affollarono dentro la cabina, schiacciando i bambini contro la parete. Le loro mani erano artigli. Ted cercò di mantenere la presa del timone con la sinistra mentre con l'altra mano si difendeva. L'uomo dalle labbra spesse indietreggiò al primo pugno; il labbro inferiore era tumefatto e sanguinava. Ma la barca oscillava da una parte all'altra, dirigendosi ora verso le navi cisterna ora verso l'altra costa, e Ted perse l'equilibrio. Improvvisamente una mezza dozzina di loro gli si attaccarono alle braccia. La ragazza con i capelli di pece gli piegava all'indietro le dita della mano, tentando di spezzargliele. La donna tarchiata gli aveva afferrato le gambe e gli mordeva con forza la coscia. Angela guardava i suoi, e d'un tratto la sua faccia si riempì di disgusto. Per come le tremava la bocca, Barbara pensò che parte del suo disgusto, forse la gran parte, era rivolto a se stessa.
Quando la ragazza spalancò gli occhi, gli uomini della setta cominciarono a urlare. Sciamarono fuori dalla cabina come insetti, strappandosi la carne come se le loro viscere avessero preso una vita loro. Le facce, voltandosi verso le luci rosse, parevano di carne viva, e forse lo erano. Cercavano di aprire il loro corpo per raggiungere quello che li stava torturando. Alcuni si precipitarono ciecamente in acqua, come per annegare quello che c'era dentro di loro. Barbara ricordò che Iris aveva detto che il male era dentro di loro, ma ora era Angela che provocava tutto ciò. Era come un'infantile dimostrazione esagerata di pentimento, un'esibizione di disgusto per se stessa, la prova che aveva ripudiato tutto quello che rappresentava la setta, forse per poter riconquistare l'affetto del padre. Le sue vittime barcollavano per il ponte ingombro, inciampando addosso a Barbara. Il giovane con la tonsura si torturava la faccia, e a Barbara parve di vedere uno dei suoi occhi spinto via dall'interno. Strinse gli occhi con forza e si raggomitolò in se stessa finché le urla non furono cessate e la barca parve vuota. Quando riaprì gli occhi era rimasta sola, con Angela, Ted e i tre bambini. I bambini erano accoccolati sul pavimento della cabina; apparivano storditi, incapaci di rendersi conto di quello che stava accadendo. Appena ebbe slegato i polsi della madre, Angela fece per ritirarsi, disgustata e piena di vergogna. Barbara la prese per le mani e la tenne stretta, nonostante i tentativi della ragazza di sottrarsi al contatto. Temeva che Angela potesse buttarsi in acqua per la vergogna. Ted aveva ripreso il timone. La costa del Kent appariva più vicina, nell'oscurità. I campi inondati scintillavano al di là dei frangiflutti. Sull'orizzonte delle paludi, le fiamme rendevano rosse le nuvole sopra la raffineria di petrolio. Barbara si chiese dove sarebbero riusciti ad attraccare. Improvvisamente Ted cominciò a lamentarsi. Pareva così disperato che Barbara gli andò vicino, portando Angela con sé. Non appena gli fu accanto lui lasciò il timone e si accasciò tremando contro la parete della cabina. « Oh, Cristo », continuava a mormorare incessantemente. « Va tutto bene, Ted. » Fu lieta di vedere che Angela prendeva il timone, con l'aria di essere veramente capace di guidare la barca. « Ora è finita. » « Non va tutto bene. Tu non sai che cosa ho fatto. Sì, lo sai in parte, l'ho fatto a te. » Quando lei cercò di abbracciarlo, lui si ritrasse di scatto. « Non devi lasciarti toccare da me! » grìdò. « Te le hanno fatte fare loro quelle cose. Non potevi farci niente. » La sua faccia si era fatta inespressiva, come nel tentativo di nascondere qual-
cosa dentro di sé, e lei ebbe paura di vederlo diventare come Iris. « Qualunque cosa tu abbia fatto, puoi dirmela. Non c'è nessun altro a cui puoi dirlo più che a me. » Non aveva scampo. « Stavo per portare Judy da loro, solo che loro non volevano che la polizia si mettesse poi a cercarla », proruppe, girando la faccia dall'altra parte. « Ma non lo hai fatto. Non hai fatto niente a cui non possa rimediare. Ora va tutto bene. » Tutto d'un tratto la barca si mise a vibrare. Barbara guardò ansiosa Angela, finché vide che avevano raggiunto un pontile. Al di là non c'era altro che il terreno buio e le fiamme lontane, ma aveva un'aria sufficientemente solida. Angela stava cercando di manovrare la barca in modo da accostare al piccolo molo. « Ormeggiate voi », disse. La poppa stava virando verso il pontile. Ted corse d'un tratto in fondo alla barca, contento di avere un compito che lo occupasse, e svolse la cima. « Non ce la fa da solo », disse Angela ansiosamente. Barbara corse da lui, passando davanti ai bambini che parevano non sapere più neppure dove si trovassero. Per un momento esitò accanto al parapetto, poi saltò nel buio. Il legno traballò sotto i suoi piedi, ma mantenne l'equilibrio, nonostante si sentisse esausta. Si mise ritta, pronta ad afferrare la cima — e allora vide Angela che la fissava. D'un tratto si rese conto che non c'era nessun bisogno di ormeggiare la barca, che questa si muoveva così lentamente che sarebbe stato facile prendere in braccio i bambini e saltare. Era stata Angela a fare in modo che non ci pensasse prima? E forse ora lasciava che lo capisse, ora che era troppo tardi. Mentre Ted si sporgeva per lanciare la cima, la barca ebbe un violento scossone, sbalzandolo oltre il parapetto. Il pontile era così vicino che riuscì a saltarci sopra e a mettersi in salvo. La barca puntò rombando verso l'ampia acqua oscura. « Angela! » urlò Barbara. Angela si girò al suono del suo nome. Improvvisamente pareva più piccola, una bambina che ha paura di rimanere sola al buio. Fece un passo pieno di desiderio fuori dalla cabina, verso Barbara. Allora dovette ricordare tutto quello che aveva fatto, poiché si coprì il viso con le mani. Era un'ombra quella accanto a lei, o la figura di un uomo che le teneva una mano sulla spalla? Comunque non poté far niente per trattenerla. Un attimo dopo la ragazza si trasformò in una torcia. Era l'ultima volta che usava il suo potere. Rimase assolutamente immo-
bile mentre le fiamme l'avvolgevano tutta. Quando Barbara corse sulla riva del fiume e allungò impotente le mani, le fiamme avevano già raggiunto il tetto della cabina e si levavano verso il cielo. La barca prese fuoco, scivolò fuori dal suo campo visivo, ma lei se ne accorse a stento, anche quando esplose. Continuava a fissare un punto carbonizzato della sua visione, dove aveva visto Angela per l'ultima volta. Alla fine si accorse di Ted che le stringeva il braccio, così che non si capiva se voleva rassicurare lei o se stesso. Parlò come tentando di capire, o di credere. « Non potevano ucciderla, potevano solo corromperla. E non ci sono riusciti, non completamente. Si è concessa un'altra possibilità. » Barbara doveva credere che fosse così. Quando lui riuscì a prenderle le mani, che ancora si tendevano verso l'oscurità carbonizzata, e la costrinse a girarsi, lei vide le fiamme lontane che si levavano oltre la palude. Una volta Angela aveva visto qualcosa del genere. Il vento fischiava tra l'erba, il fiume sciabordava tra i pali di legno, il cielo a oriente cominciava a schiarirsi. Si accasciarono contro un palo sul pontile e si abbracciarono, incapaci di parlare. Lei guardò le fiamme che non morivano e si sforzò di credere, mentre aspettava nell'aria grigia e gelida l'arrivo dell'alba. FINE