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BRUNO VESPA. La sfida.
RAI ERI MONDADORI.
La crisi più pazza del mondo...
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santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
BRUNO VESPA. La sfida.
RAI ERI MONDADORI.
La crisi più pazza del mondo. La crisi più pazza. O no?
Mai più al Costanzo Show.
Fausto, se esci dalla maggioranza, ti isoli, non conti più niente. Non t'inviteranno nemmeno al Maurizio Costanzo Show. Ama i paradossi, Massimo D'Alema, e per convincere Fausto Bertinotti a non aprire la crisi più pazza del mondo, come la definirà un incredulo presidente del Consiglio, accanto ad argomenti ideologici e politici, usa anche mezzi spicci. Come chi per spegnere un incendio getta sul fuoco acqua, coperte e ogni altra cosa gli capiti sotto mano. Venerdì 3 ottobre a Roma è ancora una giornata di piena estate. I meteorologi sono indecisi nello stabilire se non faccia così caldo da cento o duecento anni. Ma insomma fa caldo: otto gradi più della media. Fa caldo anche alle otto e mezzo del mattino, quando D'Alema e Bertinotti s'infilano separatamente nel palazzetto dei gruppi parlamentari, in via degli Uffici del Vicario. L'incontro deve restare segreto. Vengono valutate diverse sedi e alla fine viene rispettata la classica regola dell'intelligence: il luogo più anonimo è quello pubblico. E il luogo più pubblico per due deputati è appunto la Camera.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE I due leader usano una sola accortezza: per incontrarsi usano uno dei vecchi passaggi segreti che mettono in contatto alcuni piani con altri all'interno del labirinto a ostacoli di via della Missione. Ai tempi del ribaltone, fu preziosissimo quello che nella Prima Repubblica metteva in comunicazione gli uffici del Pci con quelli della Dc. Ora la Dc è scomparsa, i Popolari ne hanno ereditato un sesto dei voti e un quarto dei seggi e nella loro vecchia sede abita la Lega. La sala Aldo Moro è diventata la sala Bruno Salvadori: ma insomma il passaggio è rimasto e fu di gran comodo a Bossi, D'Alema e Buttiglione che fecero qui la festa a Berlusconi, salvo ratificarla mangiando pane e sardine nella cucina proletaria del pied à terre romano del Senatùr. Quando i due leader attraversano piazza Colonna, nell'edicola vicina i giornali gridano a tutta pagina titoli di guerra. Corriere della Sera: Prodi Bertinotti, guerra di nervi. La Repubblica: Assedio a Bertinotti. La Stampa: Cresce il rischio di elezioni anticipate. Il Giornale: Bertinotti vuole tutto. Prodi gli dà di più. Rifondazione ha ormai deciso di uscire dalla maggioranza. D'Alema lo sa ed è convinto che c'è poco da fare. Ma cerca di mandare di traverso la giornata a Bertinotti dando fondo a quel po' di sarcasmo che anche quando non ce ne sarebbe bisogno conserva prudentemente in tasca in una scatolina da pastiglie. Come gli ammalati di angina pectoris fanno con le compresse di «Vedi, Fausto,» dice a Bertinotti «non illuderti di poter evitare il voto anticipato. Se alle elezioni l'Ulivo vince, tu non esisterai più. Certo, avrai un po' di deputati, farai le tue battaglie. Ma sarai considerato un arnese da museo. La gente dirà: guarda, c'è anche Bertinotti. Verrà a visitarti, ma la cosa morirà lì. Se invece l'Ulivo perde,
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sarai inseguito nei secoli dalla maledizione della sinistra. Berlusconi torna al governo e qua]unque cosa sciagurata faccia, la colpa ricadrà su di te. Pensaci, Fausto, pensaci...» Bertinotti non si lascia incantare. La sua scelta l'ha fatta da tempo ed è una scelta irreversibile. Basta leggere all'inizio di settembre Le due sinistre, scritto con il suo braccio destro Alfonso Gianni, per capire che Bertinotti considera chiusa la sua storia col governo Prodi. Vuole rifarsi una vita, seguire i suoi ideali, cavalcare la sinistra «antagonista», mandare al diavolo la guerriglia sui parametri di Maastricht. Lui è un gentiluomo e vuole una di quelle separazioni che fanno dire agli amici: ma guarda come sono civili quelli là. E se la sposa e i parenti della sposa strillano, strepitano e fanno piazzate sui giornali, pazienza. Al cuore non si comanda. Mi racconta Ersilia Salvato, vicepresidente del Senato e voce solista nella microscopica minoranza riformista di Rifon-
dazione: «Il ragionamento che Bertinotti e Cossutta fanno fin dall'estate è questo: al di là dei contenuti della legge finanziaria, dobbiamo preoccuparci del futuro del partito. Noi siamo nati come forza alternativa. Di questo passo viene messa in discussione la nostra identità. Il contrattualismo senza respiro politico ci soffoca. C'è il rischio dell'omologazione. D'Alema e Prodi capiscono subito che l'aria stavolta è diversa. Si vedono a fine agosto a palazzo Chigi e stabiliscono
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE due cose: il governo terrà al corrente gli alleati dell'Ulivo informalmente sull'andamento della Finanziaria, mentre tavolo del Welfare», cioè la riforma dello stato sociale, resta di stretta competenza delle «parti sociali, cioè degli imprenditori e dei sindacati. Una volta raggiunto un accordo in questa sede, è escluso che in sede politica si riapra la trattativa. Traduzione: Bertinotti si scordi di poter umiliare la Cgil e Cofferati ottenendo con un ricatto politico quel che il sindacato non ha ottenuto attraverso la trattativa. Martedì 2 settembre incontro a lungo il presidente del Consiglio e lo trovo molto sereno, ma in un particolare stato d'animo. E' convinto che il governo durerà, sa tuttavia che Rifondazione gli procurerà più problemi del solito, ma è determinato a seguire una strada a senso unico: «Non ho alternative» mi dice. «La Finanziaria può essere soltanto una. E avendo soltanto una strada da percorrere, sono sereno e determinato a fare il mio cammino.» La sera dopo Prodi invita Bertinotti e Cossutta a cena a palazzo Chigi. La mensa dei presidenti del Consiglio non trova posto negli annuari della cucina internazionale. Ma la cena del 3 settembre sarà ricordata come particolarmente indigesta.
Cofferati: «Io vado. Ma Prodi non mi scavalchi»
Alla crisi non crede ancora fino in fondo nemmeno Massi-
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mo D'Alema. è vero che un suo confronto con Bertinotti, nelle stesse ore in cui Prodi mi riceve, finisce come peggio non potrebbe: la strategia di Rc è il passaggio all'opposizione. Ma il segretario del Pds, pur prendendone atto, si consola con tre valutazioni dettate dall'esperienza. Uno: la crisi non basta annunciarla, bisogna aprirla. Due: è possibile che Bertinotti voglia fare soltanto la voce più grossa del solito col sindacato. La terza valutazione è quasi un'avvertenza di D'Alema a se stesso: è possibile che il segretario di Rifondazione usi con me questi toni perché tra noi il livello di scontro è stato sempre piuttosto alto, ma è possibile che con Prodi le cose vadano meglio. Finito il colloquio con Bertinotti, prende il telefono a chiama il presidente del Consiglio. D'Alema mette difficilmente in conto la possibilità di sbagliarsi. E infatti, se spazza via la prudenza di rito, non sbaglia. Anche a palazzo Chigi capiscono, infatti, che Bertinotti e Cossutta stanno facendo rullare tamburi di guerra. Se ne avvede in particolare Enrico Micheli, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che conosce da molti anni Bertinotti. Rilascia un'intervista al «Messaggeroe dice: attenti, non è un bluff. In quei giorni il Partito comunista cinese decide di ridimensionare la presenza dello Stato nell'economia e annuncia il licenziamento di trentamila operai. Bertinotti commenta che comunismo e licenziamenti non vanno d'accordo e D'Alema, ospite del "Costanzo Show", prende atto del fatto che
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «per ora il compagno Bertinotti si accontenta di mettere in crisi il governo cinese». Per un paio di settimane, il Pds mette in campo i pompieri. La crisi viene esorcizzata, ma le preoccupazioni crescono. I Popolari, in particolare, sono infastiditi da quella che considerano una rissa nella complicata famiglia della sinistra. Bertinotti e D'Alema, dicono, si parlano poco. Il clima rischia di prevalere sul merito delle questioni. Troppi ponti stanno saltando, si profila una nuova Albania. D'Alema è convinto che la partita principale non si giochi a palazzo Chigi, ma in corso d'Italia, dove abita la Cgil. Se i sindacati sposano la politica del governo, per Bertinotti la vita si fa dura. Ecco dunque il segretario del Pds inventarsi a tavolino un incontro con i segretari di Cgil, Cisl e Uil in una sede altamente simbolica: la festa nazionale dell'Unità a Reggio Emilia. Nel pomeriggio di mercoledì 17 settembre, Cofferati, D'Antoni e Larizza hanno un dibattito con Marco Minniti, numero due del Pds e gran negoziatore della segreteria sul fronte di Rifondazione. L'orario slitta e i tre possono incontrarsi con D'Alema. Qui Cofferati anticipa l'apertura sulle pensioni che provocherà la frattura irreversibile con Rifondazione e la trasformazione di un segmento importante di crisi in un duello tra il segretario della Cgil e Bertinotti.Io sono pronto a fare un passo avanti sulle pensioni di anzianità,dice Cofferati a D'Alema «ma debbo avere la garanzia assoluta che Prodi non ci scavalchi.» D'Alema gli risponde secco: «Questa garanzia c'è.
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Esco di qui e chiamo palazzo Chigi. Dall'auto diretta all'aeroporto di Parma dove è in attesa il piccolo jet che lo avrebbe riportato a casa, il segretario del Pds chiama prima Prodi, che gli assicura di condividere l'impegno appena preso, e Bertinotti, con il quale c'è uno scambio di informazioni. Due giorni dopo, venerdì 19 settembre, i due segretari s'incontrano nel primissimo mattino alle Botteghe Oscure. Bertinotti vorrebbe affiancare un tavolo politico di maggioranza sullo stato sociale al tavolo dove lo stesso tema è trattato da sindacati e imprenditori. Prodi e D'Alema gli rispondono che non è possibile: il tavolo politico taglierebbe le gambe a quello sociale e il vasellame finirebbe per terra. è in quell'incontro a quattr'occhi che D'Alema si convince che non esistono margini per evitare la crisi. Bertinotti non sta giocando al rialzo: ha messo in discussione la strategia del partito e vuole riconquistare lo spazio della sinistra antagonista. Il leader di Rifondazione, peraltro, nega e negherà sempre la natura ideologica della crisi. «Affermare una cosa del genere,» mi dirà quando la frattura sarà ricomposta «significa non aver capito niente della cultura politica di Rifondazione. L'alfa e l'omega della nostra scelta sono state sempre il programma. è attraverso il programma che si esprime la nostra natura politica. Se non si comprende questo, non si capisce nemmeno perché siamo poi arrivati a un'intesa.Ma lo stesso Bertinotti
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sa che l'opinione largamente prevalente è tutt'altra. La scelta ideologica, se tale è stata, è una scelta limpida e nobile. Che poi sia anche una scelta rovinosa per il primo governo della sinistra nella storia repubblicana è un altro discorso. Quando si presenta al colloquio con D'Alema, Bertinotti ha le spalle coperte. Nel giro di qualche giorno, quella settimana, la linea della rottura viene approvata quasi all'unanimità dalla direzione (su quarantasette membri, votano contro soltanto la Salvato e Antonio Carcarino, un sen.tore che ha fatto l'operaio alla Fiat di Pomigliano d'Arco). Compatti i gruppi parlamentari. Unanime la segreteria del partito: Bertinotti ha con sé Franco Giordano e Paolo Ferrero, Cossutta conta sul capogruppo alla Camera Oliviero Diliberto, su Marco Rizzo, Graziella Mascia, Claudio Grassi. Il nono membro, Aurelio Crippa, si divide tra le due correnti che almeno nella fase iniziale della crisi marciano compatte. La linea è talmente dura che in direzione viene bocciata una proposta di Giuliano Pisapia di aggiungere al documento di base un capoverso che consenta di non rompere tutti gli spazi.
«Inno alla gioia" per Bertinotti.
Dopo l'incontro con D'Alema, Bertinotti parte per Reggio Emilia dove lo aspetta, alla Festa dell'Unità, un dibattito con Marco Minniti. Testimone della serata come coordinatore
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della discussione, assisto a una scena imprevedibile che dimostra come per il popolo della sinistra sia spesso complicato mettere il cuore e il cervello sulla stessa lunghezza d'onda. Il cuore della base «comunistadel Pds rimpiange l'opposizione, quando gridare alla disoccupazione, all'evasione fiscale, all'alleanza tra governo e padroni assumeva per le orecchie di gente pure temperata dalla bonomìa emiliana la potenza liberatoria dell'lnno alla gioia nella Nona sinfonia di Beethoven. Ma il Pds è al governo e il cervello non può cantare: «O Freunde, nicht diese Tofze!...». Minniti, dunque, dovrebbe star tranquillo. L'ospite della serata è pur sempre quello che sta per sfrattare il Pds da una storica esperienza di governo e anche di potere, viste le migliaia di nomine «amiche» fatte in un anno e mezzo a tutti i livelli. E invece quando entriamo nell'arena, Bertinotti viene acclamato come Toscanini alla riapertura della Scala nel '46 o come Eva Perón quando s'affacciava nei suburbi di Buenos Aires. è vero che robuste truppe rifondatrici d'occupazione rifondarola sono state inviate fin dal pomeriggio a presidiare la parte centrale e strategica della platea (anche Fini, in questo senso, qualche giorno prima aveva fatto del suo meglio). Ma lo stesso Minniti ammette sportivamente che gli applausi vengono anche dal popolo del Pds. Altro che sindrome di Stoccolma. Altro che Patricia Hearst, che s'innamorò dei guerriglieri simbionesi che la rapirono e arrivò a combattere
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE al loro fianco. Minniti nel dibattito recupera bene e in sala si avverte che il cervello ogni tanto ha la meglio sul cuore. Mentre Bertinotti spiega di dritto e di rovescio come manderà in pezzi la maggioranza. E la memoria di chi scrive torna indietro di una quindicina d'anni, quando al posto di Bertinotti c'era un Pajetta e al posto di Minniti un Martelli. E scorreva sangue, tanto sangue, di cui le lotte interne della sinistra hanno bagnato copiosamente la storia moderna. D'altra parte la strategia di Bertinotti è proprio questa: far assumere al partito della Rifondazione comunista il ruolo che fu del Pci, al Pds quello del Psi e far diventate una rinnovata Democrazia cristiana qualcosa che nasca da una joint-venture tra Forza Italia, Ppi, Ccd, Cdu con uno spruzzo di pattisti e di diniani. Anzi, uno dei rimproveri di Bertinotti a D'Alema è proprio di voler impedire a Franco Marini di rifare la Dc. Il Pds teme insomma che dietro le tesi e le richieste di Rifondazione, si nasconda il rifiuto definitivo del bipolarismo, la nostalgia del sistema proporzionale e di un assetto in cui la sinistra «antagonista, come è stato a lungo il Pci, possa finalmente fare un'opposizione dura e pura. Sfogliando in quei giorni il nuovo libro di Bertinotti, Minniti s'accorge anche di come i miti possano trasfc-rmarsi in beffa. O se volete, di come si abbiamo gli stessi punti di riferimento ideale persino quando la lotta tocca i livelli di massima asprezza. Nella prima pagina di Le due sinistre sta scritto, infatti, un
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motto di Rainer Maria Rilke, poeta tedesco che nei primi due decenni di questo secolo s'angosciò dinanzi al problema esistenziale dell'uomo moderno: «Resistere!. Il caso vuole che fosse di Rilke anche lo slogan dell'ultimo congresso del Pds: «Il futuro entra in noi prima che accada». Quando domenica 21 settembre D'Alema chiude la Festa dell'Unità, cerca ancora una strada unitaria. Certo, deve dimenticare gli attacchi di Cossutta (I tuoi figli leggeranno sui libri di storia che hai fatto fallire la prima esperienza della sinistra di governo"). Ingoiare le nostalgie di Nerio Nesi ( primo Fanfani è migliore di Prodi). Mettere da parte la diffidenza dei suoi collaboratori delle Botteghe Oscure («Bertinotti sta riportando indietro l'orologio della storia). E spingere ancora verso una soluzione unitaria. Anche se non concede nulla sulle tre richieste chiave di Rifondazione: non toccare le pensioni di anzianità per il resto dei secoli, portare l'orario di lavoro a trentacinque ore settimanali per legge, ordinare all'Iri di assumere trecentomila giovani nel Mezzogiorno. Ma ormai D'Alema ha chiaro l'obiettivo di Bertinotti: a suo giudizio, poiché il Pds non si adatterà a mollare il potere copiosamente acquisito, grida alle elezioni, ma è pronto a stringere un patto con Berlusconi. In questo caso il calvario dell'opposizione diventa per Bertinotti un'autostrada per i Campi Elisi. Giovedì 25 settembre Micheli telefona a Bertinotti a nome
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE di Prodi: «La Finanziaria è pronta, vieni con la delegazione del tuo partito per discuterla". Rifondazione non ha infatti ministri e deve essere messa al corrente di quanto accade per altre vie. Bertinotti rifiuta: non posso, uno dei capigruppo è in viaggio. Viene allora improvvisata una conferenza telefonica con Prodi, Veltroni, Micheli e alcuni ministri. è allora che Bertinotti dice:Solo Dio può salvare il governo». Pronunciata da un non credente, sia pure con grande rispetto, questa frase non semina molte speranze. Sabato 27 settembre, il segretario del Pds decide di trascorrere l'ultimo fine settimana dell'anno sulla sua nuova barca Ikarus ormeggiata al Lido di Traiano, vicino a Civitavecchia. Un'occhiata al calendario gli dice che da allora a dicembre sarà difficile trovare altri spazi. Il tempo è splendido e D'Alema veleggia verso il Giglio per poi fermarsi sulle coste dell'isola di Giannutri. Nella tarda serata di sabato c'è un tentativo di mandargli di traverso la gita. Il giornalista dell'Ansa Paolo Corallo avverte il portavoce del segretario, Fabrizio Rondolino, che l'indomani Bertinotti avrebbe annunciato l'assassinio della Finanziaria appena deposta nella culla del Parlamento dal ministro Ciampi. Rondolino avverte D'Alema e Minniti, gli rovina il sabato sera, ma è un falso allarme perché l'indomani Bertinotti diffonde un documento del genere: torturo il nemico, ma lo lascio in vita.
«Io metterei in discussione la Nato»
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La sentenza di morte è peraltro soltanto rinviata. Tra lunedì 29 e sabato 30 settembre la direzione e i gruppi parlamentari di Rifondazione giudicano la Finanziaria «inemendabile». Difficilmente parola può essere più cruda e letale. è come se una donna orrida andasse dal chirurgo estetico che con grande fatica ora le ha dato un minimo di forma al seno, ora le ha riportato a dimensioni umane la pancia e quando finalmente c'è da intervenire sul luogo primario, cioè il viso, le dicesse: «Signora, il suo viso è inemendabile». Qualcuno dice che il presidente del Consiglio voglia rispondere prendendo dritta la strada del Quirinale. Prodi me lo nega con decisione. Ma insomma, se inemendabile significa inemendabile, c'è poco da fare. è allora che Marco Minniti (ormai ha un orecchio rosso per le telefonate quotidiane a Bertinotti e a Cossutta) chiede a D'Alema un ultimo incontro con il leader di Rifondazione. Arriviamo così a venerdì 3 ottobre e al dialogo segreto in cui si parla anche del «Maurizio Costanzo Show". I punti su cui si incentra tutta la discussione sono tre. Possibilità di ricucitura. Rapporto col governo. Legge finanziaria. Il colloquio va male su tutta la linea. D'Alema capisce subito che attraverso la crisi Bertinotti vuole ripensare la collocazione strategica di Rifondazione. «Vedi, Massimo,» gli dice «la mondializzazione dell'economia, I'integrazione europea,
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE l'omogeneità che nei fatti si riscontra tra centrodestra e centrosinistra richiedono che una sinistra antagonista lavori per una prospettiva diversa nel futuro. Soprattutto adesso che, grazie anche a te, la destra non è più la bestia nera pericolosa di un tempo.» D'Alema prova a rilanciare. «Ma allora entrate nel governo. Cercate di portare lì i vostri progetti. Voi chiedete il ritiro della legge finanziaria e Prodi non può farlo. Ma se nasce un altro governo con Rifondazione, la Finanziaria va necessariamente riscritta...» Bertinotti sorride e scuote la testa:No, Massimo. Non è possibile. Se entrassimo al governo, dovremmo chiedere la disdetta di Maastricht. E una ridiscussione dello stesso ruolo della Nato che con la caduta dei blocchi sta assumendo il dominio del mondo. No. Il nostro ingresso al governo non è immaginabile.» è a questo punto che Bertinotti presenta a D'Alema i suoi tre punti non rinunciabili: i trecentomila posti di lavoro delI'Iri nel Mezzogiorno, le trentacinque ore settimanali per legge e naturalmente il blocco di ogni revisione delle pensioni di anzianità per il futuro. D'Alema capisce che non esistono margini. Ma prova a contrattare. «I trecentomila posti di lavoro dell'Iri messi così sono impensabili. Può nascere, invece, un'agenzia che crei le condizioni per un certo sviluppo..." E Bertinotti risponde che l'agenzia non gli sta bene perché
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nascerebbe nell'ottica della ristrutturazione delle imprese in crisi che verrebbero perciò affidate al mercato. «Ma l'alternativa è la nascita di una gigantesca rete clientelare» replica D'Alema. E Bertinotti ribatte che almeno in parte si potrebbe provvedere con il collocamento. Anche sulle trentacinque ore le posizioni sono distanti. (San Jospin non ha ancora fatto il miracolo che consentirà di sbloccare la situazione.) D'Alema parla di un percorso lungo e di incentivi alle imprese. Bertinotti lo mette in guardia dal fare favori ai padroni che incassano benefici senza aumentare posti di lavoro. Disaccordo pieno anche sulle pensioni di anzianità. è a questo punto che D'Alema fa il discorso delle elezioni e del rischio per Bertinotti di diventare un pezzo da museo e di perdere perfino gli inviti di Maurizio Costanzo. «Fausto, rischi davvero di uscire dal gioco.» «Ho messo in conto anche questo» risponde Bertinotti. «Credo che alla fine voi potreste non fare un governissimo e che Scalfaro potrebbe sciogliere le Camere.» Ma per la politica di una sinistra antagonista una radicale perdita di seggi non sarebbe un problema gravissimo. Su un solo punto i due si trovano finalmente d'accordo. Dice Bertinotti: «Non farei saltare le alleanze periferiche. La sorte delle giunte è stata sempre distinta da quella del governo centrale...».
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE D'Alema: «D'accordo. L'omologazione non esiste ormai da decenni. Noi siamo stati nelle giunte locali con il Psi durante tutto il centrosinistra...».
Chiuso il colloquio, D'Alema ne riferisce l'esito disastroso ai tre collaboratori più stretti, Minniti, Velardi e Rondolino. Chiama Prodi, lo informa e gli manda le due cartelline di appunti che gli ha lasciato Bertinotti. Poi chiama Scalfaro e Veltroni. A tutti dice: «Parlate voi con Bertinotti. Per me la situazione è compromessa, ma con voi il colloquio può essere meno influenzato dall'ideologia.» Poi se ne va a una riunione dei Laburisti di Spini e da lì lancia un nuovo appello a Bertinotti. Nel pomeriggio parla a un'assemblea ambientalista del Pds e poi parte per Capri, dove l'indomani è atteso un suo intervento al congresso dei giovani imprenditori in coppia con Gianfranco Fini. A Capri è estate piena. Il mare è pieno di barche e di bagnanti, i faraglioni ancora non acquistano la luce fredda e nobile dell'autunno. D'Alema sale ad Anacapri, dove il fido Velardi soggiorna in lunghi fine settimana. Due tavoli per dodici accolgono l'ospite all'Europa Palace, che ha una magnifica vista sull'isola. D'Alema cena con amici capresi e pugliesi che fanno sosta qui prima di scendere verso casa. Si parla della crisi e delle elezioni. Nelle stesse ore, i giovani imprenditori offrono agli ospiti una cena ufficiale nella cornice aristocratica del Quisisana. E
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mai contrasto fu più forte tra la dolcezza dell'ambiente e del clima e la tensione che si respira nei tavoli, dove si teme fortemente che la crisi faccia saltare la legge finanziaria e l'ingresso in Europa. Le ultime illusioni cadono l'indomani, quando Gianfranco Fini dice che il Polo non voterà gratis la legge. L'unica prospettiva sono le elezioni, concorda D'Alema. Nello stesso fine settimana, Prodi incontra il premier francese Jospin a Chambery: i due affermano che si può lavorare a un progetto sulle trentacinque ore, ma Bertinotti giudica subito insufficiente questa proposta. Nel tardo pomeriggio di venerdì 3 ottobre, mentre scende in auto verso Capri, D'Alema viene raggiunto da una telefonata di Scalfaro che suggerisce un immediato incontro plenario e solenne tra il governo e una delegazione di Rc. D'Alema è d'accordo, Prodi è d'accordo, Bertinotti accetta. L'incontro viene fissato per lunedì 6 ottobre. Domenica 5 dai titoli di tre giornali emergono i diversi stati d'animo delle tre principali sinistre italiane. Il pessimismo di quella riformista si esprime attraverso "l'Unità»: «Rifondazione alza il prezzo. Trattative sul binario morto». Il «manifesto» incarna le speranze di una sinistra alternativa, ma che non vuole la caduta del governo: «Un giorno lungo un anno. Ci si arriva con grande affanno, ma anche con qualche speranza». «Liberazione», il giornale di Rc, abbassa la saracinesca:
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Cantiere di crisi». L'incontro di lunedì è in effetti un fallimento, nonostante la solennità dell'apparato e il grande ruolo politico che viene pubblicamente attribuito a Rifondazione. Dal Pds esce una battuta perfida: "è il riconoscimento delle Brigate rosse». Ma non serve. La crisi, di fatto, è aperta.
«Faust, mi ripaghi così?»
Lunedì 6 ottobre è per Prodi una giornata molto amara. Al di là delle gravi conseguenze politiche, il presidente del Consiglio vive la rottura con Bertinotti come una ferita al suo animo.Ho investito molto sul rapporto personale con lui,» dice ai suoi collaboratori «nessuno come lui è stato informato così nei dettagli, ho pagato pesantementre anche in termini personali l'esposizione del governo verso Rifondazione e vengo ricambiato così? è vero che Bertinotti mi ha detto che questo è un governo di galantuomini e che un altro così non ne capiterà più. Ma insomma... Un aspetto della trattativa procura a Prodi particolare amarezza. Il presidente era convinto che si dovesse modificare il sistema pensionistico passando dal sistema retributivo al sistema contributivo: tanto versi, tanto ricevi. Per venire incontro alle richieste di Rifondazione accetta di cancellare questa ipotesi. Ma Bertinotti gli dice: «Questa concessione
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non vale niente perché in nessun caso saresti riuscito a portarla a casa». E Prodi ci resta malissimo. Si tira un po' su soltanto la sera, quando il suo vecchio amico Silvio Sircana gli manda una poesia. «In questo Fausto dalla erre moscia un'intuizione mi coglie e ancor mi ango scia». Segue una rima baciata irriferibile e poi la rassegnata conclusione: «Con questi grandi scogli scatenat il rischio è uno: finire scoglionati». Prodi resta in ufficio fino a notte per calibrare il discorso dell'indomani. Con lui ci sono Micheli, Parisi, Pizzetti, il nuovo portavoce Ricardo Franco Levi. Fin dalla settimana precedente Fini aveva messo in mora la maggioranza chiedendo una verifica parlamentare. Scalfaro era riuscito a rinviare tutto fino a martedì. Ma ormai la resa dei conti è arrivata. Mi dice il presidente del Consiglio: «Ci sono momenti in cui stacchi e rifletti. Il primo è stato quello dei due discorsi alla Camera che per me`poi sono un discorso solo. E allora che mi son chiesto: posso andare più avanti? No. Questo è il punto fermo. Posso guidare un governo di larghe intese? No. Non è il mio mestiere". Il vecchio orologio della Camera segna le 19.29 del 7 settembre 1997 quando il presidente del Consiglio prende la parola in un'aula gremita. Tiene alla sua sinistra Veltroni, Bersani, Visco, Bassanini, Ronchi e Rosy Bindi. Alla sua destra
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Dini, Napolitano, Flick, Ciampi, Berlinguer e Treu. Cambia gli occhiali e comincia a leggere. Bertinotti, che siede tra Cossutta e Diliberto, apre le prime tre dita della mano destra a fasciare la fronte in segno di attenzione. Marini si accarezza la bocca con la mano chiusa a pugno. D'Alema appoggia due dita della mano sinistra sulla guancia. Poi comincia a giocare con fogli di carta bianca costruendo degli origami. Fini e Berlusconi prendono appunti. Prodi pronuncia un discorso orgoglioso, forse il migliore della sua ancor breve carriera parlamentare. «Il Paese non capirebbe questo abbandono, ora che il percorso è quasi concluso... Il Paese non capirebbe questo rotolare indietro.» Quando dice che nel corso di un anno «è stata fatta una manovra di dimensioni enormi, quale la storia d'Italia non aveva ancora visto compiere in un periodo così breve", l'opposizione rumoreggia. La maggioranza applaude. D'Alema s'associa con un po' di ritardo e la faccia di circostanza, tanto che il mio vicino di tribuna commenta: «Ha applaudito con maggiore convinzione il gol di Balbo all'ultima partita della Roma». La conclusione è solenne: «Una cosa sola non vogliamo fare: venir meno agli impegni assunti e riportare l'Italia indietro al tempo delle coalizioni continuamente mutevoli e degli equilibri sempre incerti». Le belle signore che stenografano l'intervento annotano sul verbale di seduta: «Vivi, prolungati applausi...» e via con l'indicazione di querce e cespugli della maggioranza. I deputati di Rifondazione restano ostentata-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
mente immobili e il loro gelo impressiona, visto che a due metri da Bertinotti siedono i plaudenti D'Alema e Mussi. La sentenza arriva per bocca di Bertinotti alle 18.37. «Avremmo voluto dire: ce l'abbiamo fatta... Avremmo voluto dire a un lavoratore di Brescia... a un giovane disoccupato... Ho sentito nelle parole del presidente del Consiglio l'eco di queste aspettative, non le soluzioni. Prodi l'ascolta senza guardarlo. è pallidissimo, la bocca piegata all'ingiù, le braccia conserte, gli occhi rivolti al cielo. Accanto a lui Dini non sembra particolarmente prostrato: che il destino gli riservi qualche sorpresa? Ma il banco del governo - dodici ministri più il presidente del Consiglio - assomiglia a un surreale Cenacolo che ascolta la sentenza di condanna alla Croce letta personalmente da Giuda. Un Giuda nobile e del tutto disinteressato, naturalmente, perché nessuno ha mai messo in dubbio la portata ideale e la trasparenza dell'attacco di Bertinotti. Poiché dopo il discorso di Prodi s'è sparsa la voce che Cossutta abbia preso le distanze da Bertinotti, ecco che alla fine dell'intervento quelle che sul verbale di seduta vengono annotate come «molte congratulazioni» all'oratore, sono in realtà abbracci di Cossutta, Diliberto e degli altri rifondatori dinanzi ai quali scompaiono quelli tributati nel febbraio del '97 nello stadio londinese di Wembley dagli azzurri a Gianfranco Zola che dopo vent'anni aveva restituito all'Italia l'or-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE goglio di battere gli inglesi in casa loro. La sera stessa Prodi è atteso al Quirinale. Incrocio il Professore nel «corridoio dei ministri, parallelo al Transatlantico di Montecitorio, un minuto prima delle 21, quando è atteso l'annuncio delle dimissioni. Sta per rientrare in aula. Incrocio anche Fabrizio Ferragni, il giornalista del TG1 che segue il Quirinale. Ha il telefonino all'orecchio e sta parlando col Colle: «Prodi parla quindici secondi e poi sale da Scalfaro». Mi precipito in tribuna stampa, ma per tre quarti d'ora non accade niente. è successo che il presidente del Senato Mancino, probabilmente d'accordo col capo dello Stato, ha ricordato l'impegno di Prodi a ripetere l'indomani il discorso a palazzo Madama. La seduta è dunque rinviata a giovedì a mezzogiorno. In realtà si vogliono guadagnare trentasei ore nella speranza del miracolo.
«Massimo, è la crisi"
Giovedì mattina nella stanza delle riunioni attigua all'ufficio di D'Alema in via delle Botteghe Oscure, il segretario riunisce i suoi collaboratori per un incontro riservato con i responsabili di tre importanti istituti demoscopici. Come in un consulto, al medico di famiglia che è Roberto Weber di Swg vengono affiancati Nando Pagnoncelli (Abacus) e Renato Mannheimer. Gli esperti concordano su tre punti: gli italiani
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non capiscono la crisi e non hanno voglia di votare; in diciotto mesi di governo, l'Ulivo, senza Rifondazione, ha quasi raggiunto il Polo; l'effetto Di Pietro esiste, ma non è eccezionale e va quindi valutato con estrema prudenza. Di Pietro è forte presso la popolazione di bassa scolarità, soprattutto nel Mezzogiorno. Può dunque rubare voti al Polo, ma sarebbe un errore confondere la sua popolarità con il potenziale elettorale. In questo senso, Di Pietro assomiglia per qualche verso a Gianfranco Fini: la fiducia degli italiani in lui sfiora il sessanta per cento del campione, ma i voti per An nei sondaggi migliori non superano il diciotto per cento. Attenzione, quindi, dicono gli esperti a D'Alema. E Rifondazione? è possibile che il partito di Bertinotti alle elezioni non guadagni nemmeno un seggio dei 475 assegnati col sistema maggioritario alla Camera, cc-n piccole incognite in Toscana. E che stenti a superare i quindici seggi nel proporzionale. L'incognita delle elezioni è comunque forte. I collegi marginali, dove ci si gioca tutto con tremila voti, sono un centinaio. In trenta o quaranta collegi ci si gioca il seggio addirittura per un migliaio di voti. Ultima valutazione: un eventuale indebolimento della Lega nel Nord favorirebbe i candidati del Polo. Orientativamente Polo e Ulivo sono intorno al quaranta per cento (il Polo sta un po' meglio), Rifondazione e Lega intorno al dieci per cento, con una forbice di due punti in favore di Ber-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tinotti. D'Alema è immerso in queste valutazioni, quando alle dieci la sua segretaria Ornella Massimi entra nella stanza e annuncia che Veltroni è al telefono. «Massimo, è la crisi.» D'Alema chiama subito Bertinotti: «Fausto, ci hai pensato bene?». «Massimo, abbiamo deciso.» La crisi si consuma due ore dopo alla Camera. Il Pds vuole dare l'impressione fisica della sua forza di governo e dell'enormità della crisi che sta per compiersi a causa di Rifondazione. I sei posti alla sinistra di Prodi sono occupati da Veltroni, Napolitano, Visco, Bassanini, Turco, Berlinguer e Finocchiaro, al cui banco si appoggia mestamente Gianmaria Flick. Invece del cappuccino, Prodi ha fatto colazione con una bistecca di tigre (l'espressione è di Montanelli). Il discorso è perfino più orgoglioso di quello di due giorni prima. Dopo trentacinque minuti, il presidente del Consiglio guarda Bertinotti e gli ribalta addosso i tre casi emblematici sui quali è maturata la crisi: «Dipende da lei, onorevole Bertinotti, il futuro dei malati cronici, dei lavoratori di Brescia e dei disoccupati del Sud». Seguono applausi da stadio e il silenzio di Rifondazione. Bertinotti riunisce i suoi. Esce Nerio Nesi, preziosissimo pesce pilota per i giornalisti. Non parla, ma tiene il pollice verso come Nerone. La sentenza viene affidata a Diliberto, che pronuncia un discorso durissimo. Avrebbe dovuto farlo comunque, in quanto capogruppo, ma qualcuno vede nel suo
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intervento il rinnovarsi dell'immutabile rituale comunista per cui una posizione deve essere sostenuta con grande forza proprio dal compagno che la condivide meno. E il Polo? Martedì 7 ottobre aveva parlato Silvio Berlusconi, esponendosi nell'offerta di una sponda in uno scenario politico nuovo: «Se dall'interno dell'ex maggioranza si indicherà una formula nuova di governo e un nuovo esecutivo che siano capaci di mettere a frutto per un tempo determinato le intese sulla riforma dello stato sociale e della Costituzione, il nostro appoggio non mancherebbe. Aveva anche ricordato che senza il Polo il governo sarebbe entrato in crisi sull'Albania e non sarebbe stato fatto un passo in avanti sulle riforme. Aveva inoltre detto di non temere le elezioni, ma di dubitare che da esse potesse nascere una maggioranza stabile. Giovedì tocca al capogruppo di Forza Italia, Beppe Pisanu, ripetere più o meno le stesse tesi, che erano state accolte con scetticismo soprattutto da Fini. Appena finito di parlare, Pisanu riceve un segnale di complimenti dal presidente della Camera, Violante, pronto - come vedremo - ad assumere un incarico esplorativo.
Cena autunnale in casa Letta
Nell'ufficio di Pisanu si riuniscono tutti i leader del Polo.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Entrano prima Urbani e poi Casini. Portano un messaggio di La Malfa e un mezzo invito di De Mita: e la vostra grande occasione, votate la legge finanziaria. Letta - che in un incontro di pugilato, incurante dei pugni, baderebbe soltanto ad asciugare il sudore dell'avversario - suggerisce subito di accettare. Nonostante il clima negli ultimi mesi sia sensibilmente peggiorato, Letta non ha abdicato al ruolo di leader della trattativa a ogni costo. All'inizio dell'autunno ha riunito segretamente a casa sua Berlusconi e D'Alema (mai più cene con troppa gente, dopo i pasticci di giugno). Si è riparlato di Bicamerale, del difficile cammino del governo, di possibili elezioni. Si è parlato del più e del meno. Ma insomma, il canale privilegiato che funziona ormai da due anni è riaperto. Sulla proposta di votare "gratis» la legge finanziaria, nello studio di Pisanu, Letta viene sommerso dai no dei quattro segretari. «Bisogna pensare a un altro incaricodicono tutti. E Casini fa capire che Violante è pronto, si discute se il Polo possa appoggiarlo in tutto o in parte. «O si fa un governo istituzionale» dice Fini «o si va alle elezioni. (Mi dirà Berlusconi: «Se avessimo regalato i nostri voti a Prodi per varare la Finanziaria, non sarebbe cambiato niente come non è cambiato niente dopo l'Albania. I sondaggi ci dicevano che l'87 per cento dei nostri elettori era contrario a che sostenessimo il governo in carica. Naturalmente ne abbiamo parlato tra noi per senso di responsabilità. Ma siamo stati unanimi nella decisione
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In questi giorni, in verità, si parla anche di «governo tecnico». Qual è la differenza tra governo tecnico e governo istituzionale? Nel primo ci si illude di mettere in fila ministri politicamente asessuati, ma provvisti di grande perizia nelle rispettive materie. Nel secondo ci si affida a una delle alte cariche dello Stato. Entrambi, ovviamente, sono governi di transizione. Un governo tecnico, nato a destra e sostenuto a sinistra, fu quello di Lamberto Dini. E nei giorni di crisi Dini, che ha sempre mantenuto un eccellente rapporto con Letta, lo chiama e gli si confida: sono nato nel Polo e faccio parte dell'Ulivo. Faccio parte dell'Ulivo, ma ne sono la parte più vicina al Polo. Ho inoltre una buona reputazione internazionale. Insomma, se si deve scegliere una persona di comune gradimento e al di sopra delle parti, chi c'è meglio di me? Letta annuisce, ma sa che difficilmente Fini accetterebbe una premiership del ministro degli Esteri. Poiché tuttavia i politici si sono accorti da tempo che i tecnici sono alla fine più politici di loro, la soluzione più probabile sembra un governo istituzionale. In questo senso, Luciano Violante è in pole position. Mancino, che pure sarebbe assai caro a Scalfaro, è bruciato da un sospetto fatale che cadrebbe sul Quirinale: vogliono rifare la Dc. Violante è presidente della Camera, è uomo eminente del Pds, è legatissimo a D'Alema, ha capacità indiscusse e magari riesce a tenere a freno perfino i pubblici ministeri più scatenati. Dunque, per-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ché non lui a presiedere un governo polulivista che approvi la legge finanziaria, cambi la Costituzione e faccia una legge elettorale finalmente priva di ambiguità? Inoltre Silvio Berlusconi potrebbe essere nominato presidente della Camera... Anche il ministro dell'Interno, Giorgio Napolitano, è nella rosa dei candidati possibili. Augusto Minzolini della «Stampa» giura di averlo sentito mormorare al telefonino: «Si fa il mio nome, suscitando proteste, smentite e indignazioni. Ma non c'è dubbio che, se indicato, Napolitano non rifiuterebbe. Il candidato ideale del Polo resta comunque Mario Monti, rettore dell'Università Bocconi di Milano e commissario europeo. E Monti potrebbe essere il candidato premier del Polo in caso di elezioni, visto che Berlusconi ha annunciato di voler fare il padre nobile del centrodestra senza concorrere di nuovo all'incarico di palazzo Chigi. Berlusconi, in realtà, parla in questi giorni di un candidato misterioso, da rivelare soltanto a Camere sciolte. è Vittorio Feltri, titola «L'Espresso» del 23 ottobre '97. Errore. è Gianni Letta. Quando parla di incarichi per Letta, Berlusconi - con rispetto parlando - sembra Charlie Brown. Come la deliziosa creatura di Charles M. Schultz, il Cavaliere si prodiga, si convince e s'illude, ma alla fine Lucy Letta gli rifila sempre la fregatura. Un giorno l'avevo invitato a «Porta a porta» e lui mi disse: «Guardi, al mio posto le manderei Gianni Letta. Da oggi è il mio alter ego e la sua trasmissione è un'eccellente occasione
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per farlo sapere a tutti». Il problema è che non lo sapeva Letta, il quale ama restare nella sua dimensione di puro spirito: senza incarichi, senza seggi, ma con un riconosciuto ruolo di ambasciatore. In questi giorni di crisi, per fare un esempio, Letta sale al Quirinale più di D'Alema e Prodi messi insieme. Berlusconi, dunque, annuncia ai suoi che Letta è il candidato premier e gli altri annuiscono, salvo riparlarne. Ma è l'interessato ad attaccarsi a tutti i campanelli dicendo che non è utile, né possibile, né opportuno. "Il merito del risanamento del Paese viene riconosciuto a Ciampi. è lui, insieme con Dini, a godere del credito internazionale e della fiducia dei mercati finanziari. Ma poiché l'uno e l'altro sono nell'Ulivo, l'unica persona che il Polo può proporre è Mario Monti, vera garanzia per l'Europa. A me in Europa chi mi conosce? Il pessimismo che Letta porta su di sé lo induce anche a raffreddare gli entusiasmi elettorali di Berlusconi. «Caro Gianni, stavolta vinciamo. Nel '96 abbiamo preso più voti di Ulivo e Rifondazione messi insieme, figurati adesso che sono divisi. Vinciamo a mani basse."Replica il Grillo Parlante: «Caro Silvio, rischi di sbagliare per quattro ragioni. Prima. Nel '96 l'Ulivo non aveva Di Pietro. Seconda. Anche se tu sei vittima di una persecuzione giudiziaria, potrebbe diminuire la percentuale di elettorato neutro in grado di sostenerti. Terza. Tu hai vinto nel '94 perché gli italiani non hanno voluto consegnare il governo alle sinistre. Adesso che l'Ulivo sta
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE contro Rifondazione, questa è un'arma scarica. Quarta. Non siamo pronti a votare tra un mese, mentre Eorza Italia sta ancora costruendo un radicamento periferico. «La scelta più difficile della mia vita»
Giovedì sera, 9 ottobre, Fausto Bertinotti e Marco Minniti partecipano alla trasmissione "Moby Dick» di Michele Santoro. Discutono come si conviene, escono insieme e sulla porta Bertinotti dice a Minniti: «La scelta di oggi è stata la più difficile della mia vita». Il braccio destro di D'Alema avverte che il leader di Rifondazione è molto provato e sotto pressione. Quando gli conferma che il Pds punterà con estrema energia sulle elezioni, mentre Cossutta tarda a crederci, Bertinotti gli risponde: «No, vi capisco. è una prospettiva possibile e per voi sarebbe una scelta ineccepibile». Sempre giovedì sera, al vertice dell'Ulivo, tutti i leader sono favorevoli alle elezioni, tranne Lamberto Dini. Franco Marini, detto «il santo degli impossibili», chiede a D'Alema carta bianca per portare in due giorni Casini e Mastella nell'Ulivo. La proposta è questa: venite, approviamo la Finanziaria, in primavera votiamo con voi nell'Ulivo. D'Alema concede carta bianca, ma Casini strappa il foglio. Va bene che Mastella (e non solo) è in crisi terminale d'astinenza dal potere. Ma c'è un limite a tutto. Venerdì 10 ottobre Violante sale da Scalfaro. Il capo dello Stato sente continuamente D'Alema al telefono e gli dice con
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chiarezza che lo scioglimento non può essere immediato. «Se non me lo chiede la maggioranza del Parlamento, non posso farlo.» Esclude, dunque, un reincarico a Prodi e si orienta verso un mandato esplorativo affidato al presidente della Camera. Sempre venerdì 10 Scalfaro chiama Bertinotti e gli fa invece capire che lo scioglimento delle Camere alla fine resta la soluzione più probabile, con tutto quel che ne consegue per le sorti elettorali di Rifondazione. (Mi dirà D'Alema: «Violante sarebbe stato una garanzia. Avrebbe fatto un giretto e avrebbe preso atto che lo scioglimento delle Camere era l'unica scelta possibile". Mi permetterò di dissentire: Violante sarebbe capace di fare un governo anche con Arafat e Netanyahu con l'appoggio esterno di Gheddafi e Fidel Castro.) Venerdì pomeriggio, improvvisamente, la segreteria di Rifondazione decide di rilanciare: facciamo il patto per un armo. La prima reazione di Prodi e D'Alema è molto scettica.
In quelle ore Minniti è a Napoli. Lo awicina il segretario campano di Rifondazione, Migliore: «Attenti,» gli dice «questa è una apertura vera». Nel mondo complesso e chiuso di Rifondazione sta capitando qualcosa di grossc . «In aprile,"mi dirà Minniti «Bertinotti non volle aprire la crisi sull'Albania perché il suo elettorato non l'avrebbe seguito. Annunciò fin da allora che l'avrebbe aperta giocando
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE in casa sullo stato sociale. Non poteva prevedere che in sei mesi il governo si sarebbe enormemente rafforzato. Se Prodi fosse stato nelle condizioni di aprile, la crisi di ottobre sarebbe stata certa. E invece...» In quella seconda settimana di ottobre, Bertinotti e Cossutta capiscono che vertice e base del partito la pensano diversamente, molto diversamente. Venerdì 10 ottobre il titolo del «manifestoè uno schiaffo: «Facciamoci del male». Scrive il giornale comunista: «Rifondazione comunista apre una pessima crisi che viene da lontano e che poteva e doveva essere evitata da tutti i protagonisti della maggioranza". Ingrao profetizza una «rottura per sempre» tra le due sinistre. Rossana Rossanda sconfessa Rifondazione. Ma è nella base operaia che matura la rivolta decisiva. La Fiom, il sindacato metalmeccanici della Cgil, punto di forza della lotta operaia, spinge per l'accordo. Mi dice Piero Fassino, sottosegretario agli Esteri del Pds e per molti anni dirigente del Pci torinese:A Mirafiori molti esponenti di Rifondazione si sono messi in mutua pur di non affrontare la discussione con i compagni del Pds. Mi spiega Armando Cossutta: «Avevamo messo in conto anche una rottura non superabile. Ma sentivamo il dovere di cercare una via d'uscita e abbiamo rilanciato. Certo, il nostro è un partito d'opinione e si è avvertita una divergenza tra la posizione del gruppo dirigente e quella del nostro popol(. Hanno avuto peso la posizione della Fiom, quella del "rr-.ani-
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festo" e di leader come Ingrao e Rossanda. L'imbarazzo del Quirinale a sciogliere immediatamente le Camere ha dato alla discussione un certo respiro. E poi c'è stato il miracolo di San Jospin...». Nello stesso fine settimana, infatti, il primo ministro francese decide di proporre la riduzione per legge dell'orario di lavoro. E questo consente sia a Rifondazione che al governo di 32 La.fida
fare un passo in avanti. Ma naturalmente per raggiungere l'accordo, Bertinotti deve votare la Finanziaria «inemendabile", così com'è. Mi dice un alto dirigente del Pds: «Portare fino in fondo una sfida e poi saperla capovolgere. Solo i grandi comunisti e i gesuiti riescono a farlo. E Cossutta l'ha fatto». Quando arriva l'imprevista retromarcia di Bertinotti, Micheli ha appena rilasciato un'intervista molto dura al «Messaggero». Il sottosegretario richiama il giornale, parla con Umberto La Rocca, capo del servizio politico e lancia un segnale molto deciso a Rifondazione: quando si usa il linguaggio che ha usato ieri alla Camera Diliberto, c'è poco da fare. Insomma, se la vostra è una proposta seria, fatecelo capire meglio. La stessa tesi Micheli sostiene nel successivo intervento in diretta nel TG3 delle 19. Sabato è una giornata in cui tutto il lavoro si svolge sottotraccia. Minniti chiama al telefono Cossutta e lo sente dire:
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «La destra sta rialzando la testa. I due, che hanno in comune parecchi anni di militanza comunista, si capiscono al volo. è un segnale di disponibilità che può essere tradotto convenzionalmente in accordo lavorando sulle trentacinque ore del modello Jospin. Questo segnale cifrato di apertura viene confermato sabato pomeriggio da Bertinotti e Cossutta a Scalfaro nell'udienza di consultazione al Quirinale. «Dal nostro punto di vista non sono né auspicabili né obbligate le elezioni anticipate. Meno che mai una sorta di ribaltone. Meglio riposizionare il nostro rapporto col governo Prodi su "equilibri più avanzati" [frase celebre usata da Francesco De Marl ino, segretario del Psi nella prima nzetà degli anni Settanta, per indicare un centrosinistra più rifoYmatore] con un nuovo accordo di programma.» Mi dice Prodi:Di fronte all'improvvisa apertura di Bertinotti mi son chiesto se non convenisse fare ogni sforzo per chiudere pur non andando fuori da quel che si voleva. Così sabato mi son preso quattro ore di stacco andando al mattino in bicicletta sulla Raticosa. Poi ho chiamato Micheli e gli ho detto: visto che sia tu che Bertinotti domani siete in Umbria, perché non lo chiami?".
In casa Micheli, a Montefalco.
Bertinotti è in Umbria per una amarissima marcia della pace.
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Domenica 12 ottobre nelle zone del terremoto il segretario di Rifondazione viene severamente contestato. Pur partecipando allo stesso corteo di D'Alema, non lo incrocia. E la prima volta che questo accade in una manifestazione. E il segnale per Bertinotti è preoccupante perché i gruppi pacifisti che si riuniscono ad Assisi sono spesso più vicini a Rifondazione che al Pds. A metà mattinata la marcia è già finita e Micheli raggiunge al telefono Bertinotti che sta entrando in auto a Foligno. «Possiamo vederci?» chiede il sottosegretario. «Meglio domani» risponde Bertinotti. «Fausto, io sto a Montefalco, quaranta chilometri da dove sei tu. Perché non vieni subito?» Bertinotti arriva alle 13.30 nella casa paterna di Micheli, affacciata sulla cascata delle Marmore. è con la signora Lella che s'intrattiene con Maria Rita Micheli, moglie del sottosegretario, mentre i due uomini salgono al secondo piano della casa. «Caro Fausto,» gli dice Micheli «tu rappresenti un partito anche numericamente importante. Se vuoi contare nella sinistra italiana non isolarti. Ragioniamo sul possibile.» «Il problema, caro Enrico,» gli risponde Bertinotti «è che io non mi riconosco più in un governo così tiepido sulle riforme." «Capirei» ribatte Micheli «se tu avanzassi queste richieste dopo il nostro ingresso in Europa e in condizioni economiche assai più solide delle attuali. Se posso fare un paragone medi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE co, l'Italia sta facendo le ultime applicazioni di chemioterapia per uscire da una malattia gravissima. Quando sarà arrivato il momento della riabilitazione fisica, potremo riparlarne.» In quel colloquio non si definisce niente di concreto. Ma Micheli capisce che Bertinotti è preoccupato del confronto elettorale e che il mutamento d'opinione del venerdì sera rispetto al giovedì pomeriggio è frutto di una riflessione seria e tormentata. Sono quasi le sedici quando i due scendono a pranzo. Maria Rita ha preparato all'improvviso qualcosa, alla tavola si uniscono il figlio di Micheli, Massimiliano, con la sua ragazza. Il sottosegretario parte per Roma al tramonto. A sera, a palazzo Chigi, c'è un vertice dell'Ulivo. D'Alema delinea i confini della trattativa: la Finanziaria non si tocca, il governo è disponibile a far propria la proposta di Jospin sulle trentacinque ore, va bene il patto di consultazione chiesto da Bertinotti, ma è meglio se Rifondazione entra con uno o due ministri nel governo. Prodi si oppone a quest'ultima proposta: «Lasciamo perdere. Bertinotti rischia di prenderla per una provocazione e magari salta tutto di nuovo». Ma il presidente del Consiglio capisce anche che se salta anche questa ultima trattativa, Scalfaro è pronto a dare l'incarico a Violante. Mi dice Prodi: «Il secondo momento in cui ho deciso di staccare e riflettere è stato lunedì. Sapevo che la grande maggioranza degli italiani non voleva le elezioni. Non possiamo chiamare i cittadini ogni anno a votare. E allora bisognava
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stringere, senza rinunciare a niente». Lunedì mattina, 13 ottobre, l'Ulivo va al Quirinale e si sente confermare l'ipotesi Violante. A ora di pranzo Minniti chiama Cossutta e Micheli chiama Bertinotti. Bisogna stringere. Il segretario di Rifondazione sale verso via Massimi a Monte Mario, dove abita il sottosegretario di Prodi. è inseguito dai giornalisti, prova a fare una deviazione verso la sua casa di Vigna Clara, ma poi rinuncia. Micheli lo riceve in salotto, poi i due si trasferiscono nello studio arredato con mobili rinascimentali umbri della Val Nerina. Sia Micheli che Bertinotti hanno avuto i pieni poteri per chiudere la trattativa. Si comincia a discutere sui diversi punti dell'accordo (progetto per l'Europa, approvazione della Finanziaria, consultazione sistematica, trentacinque ore e così via). Bertinotti suggerisce di riassumere l'accordo in un documento. Micheli prende dallo scrittoio un foglio dal blocco dove sta scrivendo (a mano, con un roller) il suo quinto romanzo, Le scale del Paradiso, che sarà preceduto nella pub blicazione presso Rizzoli da racconti surreali sotto il titolo L'uomo col panama. La stesura del documento va avanti senza problemi. (Dirà Micheli a un amico:A ogni riga temevo che Bertinotti mi fermasse. Non l'ha fatto».) Alle 17 i due telefonano a Prodi e Veltroni, che ha svolto un ruolo efficace nella parte decisiva del negoziato. Il presidente del Consiglio sta ricevendo una delegazione della
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Fiom di Brescia che lo stimola a cercare un accordo. Già fatto, grazie. Il fax di due paginette scarse all'indirizzo di D'Alema parte da palazzo Chigi alle 20.14. A quell'ora il segretario del Pds è arrivato da poco a Saxa Rubra per la registrazione di «Porta a porta». Quando con il direttore del «Corriere", Ferruccio De Bortoli, cerchiamo d'incalzarlo con la fatidica domanda: chi ha perso la faccia?, D'Alema pattina sul burro della diplomazia. Lunedì mattina è infatti fissata la direzione di Rc che deve ratificare l'accordo. Meglio evitare incidenti e mangiare il riso squisito cotto in studio da Gianfranco Vissani per una lezione in diretta a D'Alema, ripreso in una volenterosa esercitazione culinaria nella famosa casa di Nicolino La Torre al Testaccio dove pochi giorni dopo quella cena, in luglio, D'Alema avrebbe accettato la richiesta di Di Pietro di presentarsi nell'Ulivo. Lunedì, al telefono con D'Alema, Bertinotti da quel grande contrattualista qual è, tenta di giocare al rialzo sulle pensioni. D'Alema gli risponde picche e passa la palla a Minniti che chiama Cossutta, l'uomo che nella fase finale ha giocato di più sull'accordo. «L'accordo c'è o non c'è?chiede Minniti. E Cossutta: «Ti garantisco che c'è. Resta da chiedersi perché Bertinotti ha accettato tra venerdì e lunedì quel che gli era parso inaccettabile giovedì. «Perché un leader non può allontanarsi dalla sua base», mi risponde Prodi.
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«Perché le concessioni sulle trentacinque ore rendono più visibile la nostra battaglia,mi risponde Bertinotti «ma anche perché correvamo un pericolo reale d'isolamento, grazie a un sistema d'informazione che ha portato ad additare come nemico il produttore di instabilità. Il tempo ci dirà se quel che è stato indotto a pensare il cittadino che legge due giornali è lo stesso che sente di suo il cittadino di Sesto San Giovanni o di Tor Bella Monaca a Roma. Bertinotti ripete queste tesi alla direzione del suo partito martedì 14 ottobre: il mutamento di linea è stato determinato dallo scarto tra gruppo dirigente ed elettorato e da un mix perverso di pressioni politiche, sindacali, industriali sulla «stampa di regime. Giovedì 16 ottobre un abbraccio tra Prodi e Bertinotti chiude la partita. Due giorni dopo il presidente del Consiglio parte per un viaggio commerciale di sei giorni in Estremo Oriente («Sono orgoglioso di fare il commesso viaggiatore per il mio Paese»). Torna appena in tempo per vedere la grande manifestazione nazionale di Rifondazione, sabato 25 ottobre. Una marcia programmata per aprire una stagione di lotte, dall'opposizione. «E che invecemi dice Bertinotti «è diventata uno spot. Lo spot di una politica nuova, dove il partito cede il testimone al movimento.» Accanto alla bandiera di vicepresidente del Senato, Ersilia
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Salvato scuote la testa: «La partita vera è ancora tutta da giocare. Quale sarà il futuro della sinistra nel nuovo secolo?». Al ritorno dall'Oriente, Prodi trova sul tavolo due cose. La prima è la grana con sindacati e Confindustria sulle trentacinque ore («Hanno le loro ragionimi dice). La seconda è una poesia inedita di Silvio Sircana che si chiude così:
«Com'è andata davvero?, mi domando. Forse lo sanno solo Fausto e Armando. Comunque è certo, caro presidente, Va cancellato il poema precedente. Non era forse di grande dimensione Lo scoglio (volgarmente lo scoglione). Per come s'è concluso 'sto teatrino Più che uno scoglio mi sembra uno scoglino.»
Sinistra contro sinistra
n recinto di Tatò
Ricordate Tatò? Ma no, non il capo dell'Enel. Lui si chiama Franco, detto Kaiser Franz perché ha fatto vedere i sorci ver-
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di anche ai tedeschi quando lavorava in casa loro. E perché ascolta gli audiolibri (in tedesco) di Musil mentre passeggia (in tedesco) in montagna. Quando era in Mondadori per scucirgli una lira dovevi andare con il lanciafiamme. «Sto seduto sulla cassa» diceva. Usque ad finem. Se fissava Berlusconi, il suo azionista di riferimento, il Cavaliere mormorava: "Mi sento un costo da abbattere. «Vedrà, presto lo sarà anche lei» dissi una sera d'estate a Chicco Testa che si godeva il ruolo di presidente ecologista dell'Enel su una terrazza romana. Sorrise, ma il gelato gli andò di traverso. Poco distante, Tatò - il suo capo azienda pensava che utilizzare la rete elettrica solo per fatturare bollette della luce era uno spreco e stava decidendo di farci passare anche le telefonate. E quando nell'ottobre del '97 avrebbe deciso di tagliare gli sconti alle imprese si sarebbe trovato contro tutto il Parlamento. Il Tatò di questa storia si chiama invece Tonino e lo ricordano in pochi. Era il Gran Sacerdote del Bottegone, segretario di Enrico Berlinguer e suo uomo stampa. Alto. Bello. Potentissimo. Il Pci degli anni Settanta comandava quanto e più della Dc. La Dc aveva le banche e divideva con i socialisti e gli alleati più piccoli le presidenze degli enti pubblici. Ma senza il Pci non poteva muovere un passo, approvare una sola legge di spesa, fare un qualunque straccio di riforma. E il Pci, per parte sua, non doveva dividere con la Dc il potere nelle università,
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE nei giornali, nelle case editrici, in ogni settore artistico. Su tutta la nomenclatura comunista vigilava Tonino Tatò, con lo sguardo e la spada dell'arcangelo Gabriele. Un'intervista con Berlinguer veniva trattata, centellinata, lucidata in ogni virgola con la cura che un miniaturista medievale avrebbe riservato a una bolla pontificia. Interviste rarissime, perché nella Prima Repubblica nessuno di nessun partito sentiva il bisogno di spiegare quasi niente. Tatò amministrava anche gli altri. Volevi Pajetta? Ti mandava Bufalini. Chiedevi di Napolitano? Arrivava Ingrao. Come se oggi, con rispetto parlando, chiedessi un'intervista a Macaluso e al telefono ti rispondesse Gloria Buffo dicendo che fa lo stesso. O se nel momento di un possibile massacro invece dell'invitato Minniti a rappresentare la segreteria arrivasse Claudio Petruccioli. Misteri e grandezza del Centralismo Democratico. Solo Giorgio Amendola se ne impipava e Tatò non se ne dava pace. Un giorno lo incontrai all'ingresso del Bottegone. Lui entrava, io uscivo col corredo di luci e telecamere. Impallidì. «Sono andato da Amendola.» Impallidì ancora di più. Quando la riforma della Rai sciolse i cani da riporto (cioè Italo Moretti del TG2 di Andrea Barbato e chi scrive per il TG1 di Emilio Rossi), i congressi della Dc e del Psdi del marzo '76 furono sanguinosi. Andarono in onda i fischi a Tanassi e a Rumor. Nel primo caso dovetti barricarmi in una stanza difeso fisicamente da Pierluigi Romita e - solo per stretto do-
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vere d'ufficio - da Giampiero Orsello che era vicepresidente della Rai. Nel secondo, Tatò capì che perfino a via Teulada era cambiata l'aria. Capo del servizio politico al TG1 era Ugo Guidi, detto Pallino. Era talmente cauto che se gli dicevi: guarda Pallino, questa virgola potrebbe cambiare la linea politica del giornale, lui prudentemente la toglieva. Bene, in quelle settimane perfino Pallino diceva a noi ragazzi: facciamo un giornale piatto, così quando parte la riforma ci godiamo i fuochi d'artificio. Quel che aveva fatto saltare i nervi a Tatò erano gli arrembaggi. Moretti e io eravamo convinti di vendicare vent'anni di «l'onorevole, dal canto suoassaltando letteralmente gli oratori alla fine dei loro interventi o durante i discorsi degli altri. Parlava Fanfani? E tu correvi da Andreotti. Interveniva Piccoli? Tutti sotto il naso di Moro. Moro era l'unico che riusciva ad affondarci senza nemmeno spostare lo sguardo. Quando la situazione congressuale s'era incartata gli chiesi: «Onorevole, lei che è un grande mediatore...». Lui mi trafisse gelido, socchiudendo appena le palpebre da Grande Elefante che lavora per la storia:Io non sono un mediatore, io rappresento posizioni politiche". Poteva immaginare Tonino Tatò un'irruzione del genere nella vita politica di Berlinguer? Che odiava le dirette per non macchiare con un aggettivo sbagliato - disse a Villy De Luca quarant'anni di onorata carriera. Che per non subire più di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tanto le mie garbatissime domande senza telecamera durante l'elezione del successore di Giovanni Leone non si mosse più dall'aula col rischio di fare pipì sotto il banco. Che lasciava contrattare da Tatò i termini dell'intervista fino allo spasimo pur essendo lui, Berlinguer, il solo in grado - con Andreotti e Almirante - di rispondere con perfetta sintassi televisiva a qualunque quesito, foss'anche sulle guerre puniche. Non poteva. Il «recinto» nacque così. Il Grande Serraglio delle Telecamere e dei Giornalisti. Tutti lì dentro senza possibilità non dico di fare arrembaggi, ma nemmeno di muoversi. Volevi intervistare Bufalini? E lui ti portava Tortorella. Volevi Ingrao? Magari dimenticava di dirglielo. L'unico che continuava a impiparsene era Amendola che v eniva nel «recinto» e parlava con tutti.
I giornali, minaccia per la democrnzia
Per vent'anni il «recintoscomparve, salvo ricomparire un bel giorno di febbraio del '97. Berlinguer e Tatò se ne erano andati l'uno dopo l'altro, come se quell'uomo alto e bello si sentisse a disagio a restare sulla terra senza il suo capo. Se ne era andato anche il vecchio Pci. Sulle macerie del Muro di Berlino era nato il Pds, ma il suo fondatore Occhetto era stato cacciato nel '94 dopo le vittorie di Berlusconi. Al suo posto c'è Massimo D'Alema, quel «deputato di Gallipoliche s'era
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permesso di definirlo «tecnicamente obsoleto". Quanti secoli sono passati dagli anni di Pisa e della grande
contestaZione, gli anni in cui D'Alema e Mussi nei cortei della Fgci cantavano «Ingrao, Ingrao sei il nostro Mao e Occhetto / è il tuo Lin Piao», come avrebbe perfidamente ricordato sul «CorriereGian Antonio Stella durante il congresso del '97? desso il ragazzo della Fgci è l'uomo più potente d'Italia. Da quando nel novembre del '95 è entrato in casa di Maria Angiolillo facendo cadere gli ultimi calcinacci del Muro di Berlino, è conteso da tutti i salotti che contano e incontra tutte le persone che contano: banchieri e imprenditori, intellettuali e gran dame inebriate dal profumo del potere rosso. La sua freschissima nomina a presidente della Bicamerale poi, come temeva Gianfranco Fini, lo ha portato alla definitiva incoronazioneè vero che il Pci ha già conosciuto quel ruolo con Nilde Iotti è vero che con la stessa Iotti, con Ingrao, Napolitano e infine con Violante ha governato a lungo la Camera. Ma mai il privilegio di presiedere un così delicato e autorevole organismo era stato concesso a un segretario di partito in servizio. Eppure, D'Alema continua a non amare giornali e giornalistl. Sicuramente sottoscriverebbe, in cuor suo, il tenero giudizio col quale, secondo Mark Twain, il direttore della «Valanga» diIemphis raccontava il lavoro di un suo corrispondente: «Mentre scriveva la prima parola del suo articolo, piazzando i
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tagli alle t, i puntini sulle i e un bel punto fermo in fondo al periodo, sapeva di mettere insieme una frase colma di infamie e fetida di falsità. «I giornali? è un segno di civiltà lasciarli in edicola» (a Lucia Annunziata, «Prima Comunicazione). «In quel salone triste che è il Transatlantico» il segretario del Pds ha orrore di quelle chiacchiere svaccate, di quell'amalgama quotidiano, di quella mistura impropria e umiliante» tra giornalisti e politici (Alessandra Longo, «la Repubblica»). «Tra notizie gonfiate e politica raccontata dal buco della serratura, è minacciata non solo l'informazione, ma un punto nevralgico della democrazia moderna, perché cade una difesa immunitaria» (Stefano Di Michele, «l'Unità»). [Li difenderà soltanto il 20 ottobre '97, dalle accuse di aver massacrato Rifondazio)?e durante la crisi di governo. Ma sarà una difesa sospetta.] Può dunque immaginare, Massimo D'Alema, che un microfonO o un taccuino impertinenti vadano a stuzzicargli i baffi all'improvviso dopo una battuta di Veltroni o una smorfia di Occhetto? Come lo sfigatissimo e intemerato cronista di una ignota emittente della periferia romana che sbucato dal buio lo apostrofò così all'angolo di una strada: «Onorevole, e i disoccupati?», ricevendone la seguente risposta, nell'occasione ineccepibile: «Spero che lei vada presto ad accrescerne il numero». «Dimenticare è uscire dalla mente, scordare è uscire dal cuore» scrive Fabrizio Rondolino, portavoce del segretario,
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nel sesto capitolo del suo romanzo d'amore Un così bel posto. E riassume in quella frase dedicata ai sentimenti di due innamorati il nocciolo del suo quotidiano travaglio: far dimenticare ai giornalisti quel che di loro dice il segretario, senza farne uscire irreparabilmente il Pds dal cuore. «Tu dovresti essere la nostra quinta colonna presso la stampa e invece sei la quinta colonna dei giornalisti in queste stanze» lo apostrofa il segretario. Che comincia ogni mattina alle 8.45 la lettura dei giornali, presenti anche Velardi e Cuperlo (prima di trasferirsi alla Bicamerale), con l'elogio del «Sole-24 Ore» e del «Foglio» di Giuliano Ferrara, da cui peraltro talvolta è costretto a dissentire, e con l'invito a Rondolino a denunciare ora questo ora quel giornale. Minacce spesso disattese, ma che furono invece implacabili quando «L'Espressopubblicò la piantina del suo nuovo appartamento in via Avezzana, al quartiere Prati. (Senza venire per fortuna successivamente a conoscenza di un imbarazzante infortunio che frustrò la generosità di Alfio Marchini. Per adornare la terrazza del segretario, il bellissimo costruttore gli mandò una gigantesca pianta d'ulivo. Venne convocato per l'elevazione un gigantesco braccio meccanico, ma forse l'eccessiva dimensione dell'albero, forse l'amore contenuto che D'Alema ha sempre nutrito per quel tipo di pianta, ne produsse l'impossibile collocazione e il conseguente, immediato rigetto.)
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Come il bacio di Lady D.
Ecco dunque, vent'anni dopo Berlinguer, il congresso del Pds protetto dal Grande Recinto. Rumoreggiano i telecronisti, esplodono i fotografi quando vedono un solo, esile uomo con gli occhiali avvicinarsi liberamente al Palco Proibito. E Roberto Koch, agenzia Contrasto, diventato fotografo personale di D'Alema da quando nell'estate del '94, come racconta sul «MessaggeroMarida Lombardo Pijola, «Velardi girava inquieto per Botteghe Oscure tormentandosi che bisogna migliorare l'immagine del leader e invocando la Foto con la maiuscola. Cuperlo cercava, sondava, selezionava, finché rimase colpito dal lavoro di quel trentunenne dell'agenzia Contrasto un po' impacciato che aveva chiesto di fotografare D'Alema quando ancora non era segretario...». Ecco dunque Koch muoversi da solo a un passo dal leader, spiarne soddisfazioni e inquietudini, le occhiate a Veltroni e l'abbraccio a Occhetto, eseguire dall'angolazione del privilegio le foto che tutti vorrebbero e che in effetti scattano. Ma la distanza fa la differenza fatale, come se solo Koch - novello Mario Brenna - riuscisse a inquadrare le labbra della sfortunatissima Lady D. che toccano quelle di Dodi Al Fayed, lasciando agli altri soltanto l'ambiguo e innocente sfiorarsi dei corpi. Rispetto al vecchio apparato congressuale del Pci, la nuova scenografia è assai più in linea coi gusti dei media, che og-
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gi contano più della base. E vero che «L'Espresso"evoca «...la sensazione che tutto preluda a un'apparizione ultraterrena, quella del Capo... le parate a Norimberga, Hitler che compare di colpo al centro del cono di luce». Ma si sa che quel giornale non ama D'Alema e non ne è certo riamato. In realtà, la strategia politica e d'immagine da proporre nel congresso di fine febbraio viene studiata dagli uomini di D'Alema fin dall'autunno. All'inizio, come spesso accade, tra il segretario e lo staff c'è qualche apparente incomprensione. «Noi pensiamo a una convention» dice Velardi. «D'Alema teme che vogliamo montargli intorno uno spettacolo di suoni e luci col rischio di farne un fenomeno da baraccone.» Delle luci abbiamo detto. E i suoni? Nell'autunno del '96 Velardi incontra Ennio Morricone, musicista insigne da sempre vicino al partito. «Ci fai un inno?» Anzi no, cancelliamo la parola inno che qui dentro suona come una bestemmia. «Ci fai un tema musicale per la sinistra?» Morricone, che avrebbe accettato pure di fare l'inno, accetta sull'istante di fare il tema musicale per la sinistra di governo. Già, e il testo? Cosa rischiosissima il testo di un tema musicale per la sinistra.Qui c'è il rischio che ci prendano tutti per il culo» si dicono senza perifrasi gli uomini dello staff. E vanno sul sicuro. Il testo viene commissionato a Sergio Bardotti, paroliere insigne, anche lui tradizionalmente vicino al partito. Mentre a Roma s'avvia il congresso del Pds, io mi godo Bar-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dotti al festival di Sanremo. Dico mi godo perché Bardotti vale il viaggio. Il mondo della canzone è pieno di figli di buona donna assai più del mondo della politica. Nel senso che uno come me tornando a Montecitorio prova il sollievo della bimba che rientra dalle Orsoline dopo una inquietante passeggiata nel bosco. Se sopravvive a tutto questo dai tempi in cui scriveva In via dei matti numew zero per Gino Paoli e i versi giusti per Lucio Dalla e il mai sufficientemente compianto Luigi Tenco, anche Bardotti deve avere la sua bella pelliccia sullo stomaco. Ma non lo dà a vedere. Ha sempre gli occhi lucidi, il sorriso che gli spunta dalla barba bianca come a Babbo Natale e l'entusiasmo di un bambino che deve comporre un'ode per il compleanno della maestra. E poi è un avanguardista: ha scritto nel '61 una canzone rimasta inedita: L'ulizzo...
La mela di Biancaneve.
Bene, i versi del tema musicale per la sinistra vengono affidati a Bardotti che li scrive in aereo tornando dal Brasile e recandosi con frequenza insolita alla toilette, sotto lo sguardo allarmato delle hostess. Egli sa infatti che si sta giocando la virtù. Se una musica è brutta, pazienza. Ma con le parole sbagliate ti sputtani per la vita e amen. Appena ricevuto il testo, con sovrana perfidia gli uomini di D'Alema lo mandano in visione riservata a'eltroni. Il let-
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tore deve sapere che la cosa più innocua che possano scambiarsi il secondo piano di Botteghe Oscure, dove abita D'Alema, e il terzo piano di palazzo Chigi, dove abita Veltroni, è la mela di Biancaneve. I versi di Bardotti sono tutt'altro che avvelenati, ma Velardi e i suoi vogliono evitare di morire annegando nella critica musicale del vicepresidente del Consiglio che, come è noto, è uno del ramo. Anche Veltroni approva. Accade così che all'ora di pranzo di un giorno di fine gennaio una rispettabile delegazione del Pds esca dal palazzone
rosso di via delle Botteghe Oscure e compia a piedi i pochi passi che portano allo stupendo attico di Ennio Morricone in via dell'Aracoeli. D'Alema è accompagnato da Cuperlo, Rondolino e dal giornalista dell'«UnitàAlberto Leiss. Morricone si mette al piano, Bardotti canta i suoi versi. D'Alema approva. Morricone chiede una garanzia: «Non è che tra sei mesi questa roba non vi piace più e ve ne fate un'altra?». D'Alema garantisce. La pausa pranzo s'esaurisce con l'esecuzione di temi cari a Morricone e alla sinistra, da Novecento a Sacco e Vanzetti. C'è adesso il problema della presentazione e di una voce recitante all'altezza della situazione. A chi pensiamo noi della Rai quando ci serve una voce recitante per i cinquant'anni di sacerdozio del Papa? A Vittorio Gassman. A chi pensano
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE gli uomini del Pds per trattare alla pari il Papa Rosso? A Vittorio Gassman. Il vecchio, grande attore viene invitato a colazione. Cuperlo chiama Ettore Scola. Scola chiama Gassman. Tra le pareti affrescate della «Vecchia Roma», che videro riuniti a tavola Prodi, D'Alema, Veltroni per battezzare ufficialmente l'Ulivo all'indomani delle elezioni regionali del '95, il segretario del Pds, presente Scola, offre a Gassman la parte recitata della Cantata per l'Europa. La cantata offre brani di De Gasperi, Adenauer, Schuman, i padri fondatori, e anche di De Gaulle e di Churchill, che pure dell'Europa ebbero un'altra idea. Gassman accetta. E a chi scrive questo racconto l'episodio produce una sensazione strana. Quanta diffidenza ebbero i comunisti per l'Europa? Quante battaglie fecero contro il primo mercato comune, insieme con i grandi industriali protezionisti, e contro la decisione democristiana di darvi vita? Si scosse per primo il solito Amendola. Era il 23 novembre del '71 e Biagione Agnes mi disse:"I comunisti fanno una cosa sull'Europa. Fai un servizzietto". Me lo disse, come sempre, con la doppia zeta avellinese. Andai. I carri armati sovietici avevano normalizzato la Primavera di Praga soltanto da tre anni. L'eurocomunismo era di là da venire. E forse non mi accorsi che si stava staccando un piccolo, impercettibile pezzetto d'intonaco da un angolo nascosto del solido e invincibile Muro di Berlino.
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Adesso D'Alema può parlare a tavola d'Europa con l'autorità di vicepresidente dell'Internazionale socialista («Siamo al governo in tredici paesi su quindici", dirà dopo le vittorie di Blair e Jospin), mentre la storia italiana ha relegato in cucina i democristiani che la fondarono.
«Lascia a Walter la relazione».
Nell'autunno del '96, insieme con il tema musicale per la sinistra, nasce anche la strategia congressuale di D'Alema. Il pomeriggio di giovedì 12 dicembre, il segretario sta andando sulla Thema grigia d'ordinanza ad ascoltare la relazione d'apertura di Fausto Bertinotti al congresso di Rifondazione. In auto con lui sta Claudio Velardi che gli dice: «Se diventi presidente della Bicamerale, evita di leggere la relazione al nostro congresso. Falla fare a Veltroni, tu riservati la replica». Sul momento D'Alema non sembra convinto e lo sfotte, autoironico: «Vuoi farmi portare il saluto dell'Italia?». Nei giorni successivi gli vengono dubbi di sostanza: «Se faccio io la relazione, si può discutere con chiarezza. Se la fa Walter, viene privilegiato l'aspetto unitario e spettacolare e la discussione resta sacrificata. Teme insomma che la scena castri il dibattito (a congresso concluso si ricrederà). Ma alla fi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ne l'idea di limitarsi alla replica comincia a piacergli. D'Alema non ama le lunghe relazioni scritte. Sa che le repliche a braccio gli riescono molto meglio e sa che Veltroni non starà nella pelle nel fare lui una relazione governativa alta e nobile. E infatti il vicepresidente del Consiglio accetta subito. (Dirà Francesco Cossiga, commentandola:Ho chiuso gli occhi e mi sono ritrovato in un vecchio congresso della vecchia Dc, quando Mariano Rumor vantava i successi di uno dei suoi tanti governi Ma secondo gli uomini di D'Alema c'è un'altra ragione per cui Veltroni coglie al volo la proposta di un congresso unitario: il problema della conta dei voti. E noto che nella visione strategica del segretario il rafforzamento del partito (la Cosa 2 è ancora una nebulosa senza confini precisi, ma che certo proverà ad allargarsi) prevale su qualunque alleanza di governo. Veltroni al contrario vede il futuro del Pds all'interno dell'Ulivo. Il problema che fin dalle iniziative precongressuali dell'estate '96 si pone è il seguente: occorre contarsi sulle due posizioni oppure no? A sinistra un sostenitore dei documenti alternativi è Aldo Tortorella, a destra Emanuele Macaluso e lo stesso Achille Occhetto che si muove con prudenza sapendo quanto sarebbe imbarazzante (e rischioso) guidare in prima persona una contrapposizione al segretario. All'inizio D'Alema è per un congresso unitario. n Pds è il partito di maggioranza relativa, differenze fondamentali con
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Veltroni non ci sono, vuole mettere il governo al riparo del dibattito congressuale. Memore dei congressi democristiani che portavano regolarmente a nuovi equilibri, a rimpasti, talvolta a crisi di gabinetto. Certo, la chiarezza del dibattito vorrebbe che si votasse su un paio di mozioni: una socialista (D'Alema), l'altra ulivista (Veltroni) votata anche da Occhetto. Il rapporto di forza tra maggioranza e minoranza sarebbe chiaro, anche nelle sue possibili oscillazioni. Ottanta a venti? Settanta a trenta? Al secondo piano delle Botteghe Oscure si guarda con sorprendente attenzione alla storia e all'evoluzione della Dc per non ripeterne gli errori. E si constata che a piazza del Gesù le maggioranze hanno avuto in media i due terzi del partito e le mmoranze un terzo. Veltroni, tuttavia, non parla di una sua mozione. Che senso avrebbe dunque imporre la conta? Eppure c'è qualcosa nell'atteggiamento del vicepresidente del Consiglio che non convince il segretario. «Formalmente si dice d'accordo su tutto» brontolano nello staff del Bottegone. «Poi però basta aprire un giornale e si vede subito che nelle interviste Walter prende le distanze.» C'è un episodio, in particolare, che rischia di far saltare ogni ipotesi unitaria. All'inizio dell'estate '96 Veltroni, da poco al governo, va a commemorare Berlinguer a Padova, la città in cui il leader del Pci morì dopo un drammatico comi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE zio. E attacca D'Alema. O almeno dice cose che a D'Alema non piacciono affatto. Poco prima, partecipando con Giuliano Amato alla presentazione di un libro di Gino Giugni nella sede della stampa estera, D'Alema aveva riconosciuto che il primo Craxi, quello degli anni Settanta, aveva intuito con notevole intelligenza politica i nuovi bisogni della società italiana, dalla modernizzazione alla tutela dei diritti individuali. Nella stessa occasione, Amato aveva sostenuto che l'unico approdo di queIl'esperienza fosse il nuovo partito ipotizzato da D'Alema, cioè un grande partito socialdemocratico di marca europea (la Cosa 2). Amato s'era preso di risposta un bel fax di diffida da Hammamet (fax dopo fax Craxi è riuscito a togliere il nome del suo ex delfino dall'elenco dei fondatori del nuovo partito dalemiano). E D'Alema adesso si prende da Padova la reprimenda di Veltroni.
E Veltroni molla Occhetto
Tu vuoi mettere insieme chi ha creduto in Berlinguer e chi ha creduto in Craxi?, dice in sostanza Veltroni al segretario del suo partito. L'accostamento è esplosivo. Berlinguer è infatti tuttora il dirigente comunista più amato dalla base del Pci-Pds, Craxi il nemico più odiato e Berlinguer il dirigente
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comunista più anticraxiano che si ricordi. E mentre D'Alema prova a far cessare il vecchio ostracismo socialista, riportando a sinistra almeno una parte dei voti di quell'area che sono finiti al Polo, Veltroni gli risponde citando Berlinguer. Il segretario s'arrabbia di brutto. Nel congresso reale delle sezioni la gente si confronta su un impianto unitario e assiste invece sui media a un altro congresso virtuale. E qui che D'Alema viene toccato dalla tentazione di andare alla conta. Di fare chiarezza una volta per tutte, con una maggioranza e una minoranza. Ma viene dissuaso dai suoi e si riprende il lavoro su una mozione unitaria. Veltroni minimizza lo scontro:Dopo il mio discorso di Padova,» mi dice Veltroni «nella direzione del partito D'Alema fa una correzione di rotta abbastanza consistente. Il documento congressuale nasce allora. Lo staff del segretario nega la correzione di rotta. In luglio la clirezione del partito, che si apre con una relazione di Marco Minniti, decide comunque in senso unitario: D'Alema avrebbe presentato una mozione, la sinistra e gli ulivisti avrebbero presentato gli emendamenti, il segretario avrebbe deciso se accettarli e inglobarli nel documento unitario oppure no. Cuperlo cura la prima stesura raccogliendo opinioni e suggerimenti dalle diverse anime del partito: da Alfredo Reichlin e Beppe Vacca ad Aldo Tortorella e Giorgio Napolitano. Minniti si occupa della gestione politica del documento te-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE nendo contatti con Veltroni e il capofila degli occhettiani, Claudio Petruccioli. Già nella prima versione, prima degli emendamenti, l'impianto dalemiano è aperto verso l'Ulivo. Il segretario, in fondo, rivendica a se stesso il merito di aver capito dopo la sconfitta del '94 che senza l'apporto di una parte dei voti che furono democristiani la sinistra non avrebbe mai vinto.Chi se non io ha inventato l'Ulivo? Ma gli emendamenti sono sempre in agguato. A che servono gli emendamenti? A modificare la linea del partito? A tirare il segretario per la giacca in direzione della sinistra o dell'Ulivo? Quando a fine ottobre ne parlano nella stanza di D'Alema, saltando il pranzo per giocare al computer o concludendo allo stesso modo le giornate davanti alla scrivania di Ornella, il segretario e i suoi cominciano ad avere un sospetto. Negli organismi dirigenti nati dal congresso del '91, la sinistra ebbe il trenta per cento dei posti per evitare che l'emorragia verso Rifondazione fosse più grossa. Un altro dieci per cento scarso è andato via via ai sostenitori più accesi dell'Ulivo. Rappresentanze del genere - soprattutto quella della sinistra - sarebbero irreali oggi che quasi tutto il partito è con D'Alema. Vuoi vedere, si dicono gli uomini del segretario, che il gioco degli avversari interni è un altro? Essi sanno benissimo che chi tocca D'Alema muore e che presentare mozioni alternative sarebbe suicida.
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Ma chi impedisce di presentare emendamenti suggestivi e popolari, che scuotono la base congressuale, prendono magari il trenta per cento di voti in modo da autorizzare chi li ha presentati a chiedere il trenta per cento dei posti negli organismi dirigenti? Su questo per alcuni giorni dibattono il «centro» dalemiano del partito, la sinistra di Gloria Buffo,
Sinistra contro sinistra.
Aldo Fumagalli, Alfiero Grandi e Fulvia 13andoli, la destra di Claudio Petruccioli, Emanuele Macaluso e Claudia Mancina. I1 documento del segretario viene presentato per la prima volta nella storia del partito come base congressuale al consiglio nazionale del 4 ottobre. Si decide che entro un mese dovranno essere presentati gli emendamenti. E anche l'ottobre trascorre nel clima di ambiguità discreta che caratterizza l'intera fase precongressuale e che tanto disturba il segretario. I1 mattino decisivo - siamo ormai alla vigilia della festa di Ognissanti e mancano trentasei ore alla scadenza dei termini per la presentazione delle proposte - D'Alema esamina nella sua stanza con Minniti e Velardi gli emendamenti arrivati. Una dozzina di provenienza ulivista possono essere accettati e raccolti nella mozione unitaria, altri sono superati, quelli minori possono essere respinti. A un certo punto si sparge la
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE voce che Veltroni vuole firmare un emendamento (graditissimo anche a Occhetto) che cerca di spostare l'accento del congresso dal partito alla coalizione dell'Ulivo. Sarebbe la divisione netta. Si dice anche che alcuni ministri del Pds - in particolare Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer e Pierluigi Bersani - abbiano firmato lo stesso emendamento o stiano per farlo. Minniti va da Veltroni. Riscrive con lui l'emendamento, togliendo un po' della patina nuovista che sarebbe inaccettabile per D'Alema. A quel punto il segretario può farlo proprio. Dice D'Alema: «L'Ulivo sono io, più di Prodi e di Marina Magistrelli». (è questa l(na cominttíva cortigiana che presiede i Comitati dell'Ulizo.) Berlinguer fa sapere intanto che non ha firmato niente. Lo seguono poco dopo Bersani e ancora più tardi Visco. Occhetto, che vedeva nel documento di Veltroni l'apertura di quella dialettica congressuale a lungo invocata, tenta di tamponare la mossa immaginando di convocare una conferenza stampa. Ma l'annuncio che Veltroni e D'Alema hanno raggiunto l'accordo lo precede. Veltroni mi smentisce con energia di aver ipotizzato un documento concordato con Occhetto: «Un'ipotesi mai esistita, mai comparsa. Ripeto: la mia perplessità era nata nel giugno del '96 quando avevo avuto la sensazione che D'Alema e la direzione del partito non avessero colto per intero il significato strategico dell'Ulivo». A dimostrazione del carattere unitario del congresso mi rivelerà un piccolo inedito: «Nella relazione
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introduttiva ho posto il problema della flessibilità dei contratti di lavoro e della revisione dello stato sociale sulle quali Cofferati rispose duramente e sulle quali D'Alema replicò con efficacia riaffermando la necessità di quelle scelte. Bene, né D'Alema conosceva la mia relazione né io conoscevo le sue conclusioni. Vede, per quante differenze possano esserci tra me e Massimo per carattere, sensibilità, atteggiamento, curiosità, quando ci misuriamo sulla sostanza della politica, finiamo per intenderci. E alla fine io ho apprezzato la posizione che lui ha preso sulla Cosa 2. D'Alema, cioè, ha tenuto conto di due osservazioni che avevo fatto: la paura di veder rispuntare un partito socialista che fosse un ritorno al passato e l'idea che la Cosa 2 potesse mettere l'Ulivo in secondo piano. Queste due paure sono state rimosse. Eppure tra novembre e gennaio l'inquietudine del segretario non si attenua. Egli si sente stretto suo malgrado tra un congresso che si annuncia «bulgaroe ambiguità che non riescono a venire alla luce. Dice in gennaio in una intervista alla rivista di Macaluso «Le ragioni del socialismo», con trasparente allusione a Veltroni: «Se qualcuno pensa che non ci si debba integrare nella sinistra europea, ma si debba costruire una sorta di partito americano, benissimo: però avrebbe il dovere morale di presentare un documento alternativo». E poi: «Abbiamo aspettato mesi che qualcuno scrivesse un documento alternativo e questo non è accaduto. è positivo un
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE congresso unitario, ma le furbizie non servono a nessuno". D'Alema otterrà 1'88 per cento dei voti congressuali (era entrato con il 97 per cento, a dimostrazione di quante ambiguità ci fossero state nei precongressi). Sinistra e ulivisti avranno rispettivamente il quindici e il dieci per cento degli incarichi negli organismi dirigenti. Occhetto, a torto o a ragione, si sente abbandonato da Veltroni, che aveva sostenuto nel '94 come candidato alla segreteria contro D'Alema, e si chiude in un isolamento sdegnoso e sdegnato. Il segretario ripensa forse a quel brano della Ginestra di Leopardi che aveva dedicato a Occhetto tre anni prima, al momento della contesa per la segreteria:...Stolto crede così qual fora in campo / Cinto d'oste contraria, in sul più vivo / Incalzar degli assalti / Gli inimici obliando, acerbe gare / imprender con gli amici / E sparger fuga e fulminar col brando / Infra i propri guerrieri".
«Ho trovato Cofferati più chiuso, più sordo...»
Quando nel tardo pomeriggio di sabato 22 febbraio D'Alema entra nel cono di luce del suo congresso, si gode certo il trionfo di quello che in certe occasioni torna a essereil grande popolo comunista». Si gode il saluto di Francesca Borri, sedici anni, che lo riporta indietro di trentaquattro: giovane pioniere lui con Togliatti al congresso del '63, giovane pionie-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
ra o come si chiamano adesso i ragazzini della sinistra, con D'Alema al congresso del '97. Si gode l'autorevole parterre degli ospiti di lusso: ci sono tutti, da Fini a Bertinotti, passando naturalmente per il Cavaliere, I'ospite più ospite di tutti. Gode del trionfo annunciato, Massimo D'Alema, ma in testa deve ronzargli la prima pagina che gli ha dedicatoil manifesto». «O di qua o di là» scrive il quotidiano comunista, montando il profilo di Berlusconi contro quello di Cofferati. D'Alema va di là. Cerca di rassicurare Fini e Bertinotti ( bipolarismo non vuole tagli delle ali, «Non vogliamo dividere il Polo per fare il pentapartito della Seconda Repubblica»). Chiarisce il rapporto con Berlusconi («Io non ho alcun sospetto su di me», «Meglio l'antagonismo collaborante della consociazione rissosa",). Ammonisce gli ulivisti trionfanti («La nostra vittoria politica è stata quasi miracolosa in un Paese che non va verso il centrosinistra»), ne ottiene l'applauso convinto («Craxi divise la sinistra e si alleò con la destra dc. Noi abbiamo unito la sinistra alla parte più avanzata del mondo cattolico per governare il Paese). E li gela nelle prospettive («Non vogliamo una integrazione forzosa nell'Ulivo, senza rispetto della nostra identità. La prima e inattesa vittima degli ideologi dell'Ulivo sarebbe l'Ulivo stesso Ma la polpa dell'intervento è altrove. I baffi di D'Alema tirano la barba di Cofferati come nessun segretario comunista o post-comunista avrebbe immaginato di fare col segretario
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE della Cgil. I1 giorno prima il leader della Cgil ha detto che «nelle poli-
tiche del governo il lavoro è oggi una cenerentola». «I ritardi in materia di occupazione sono clamorosi... mentre in questo vuoto suona l'elegia della flessibilità.» «è incomprensibile che la sinistra alimenti un conflitto generazionale, quando nel nostro Paese ci sono sette milioni di pensionati che vivono con meno di un milione e centomila lire al mese.» D'Alema ha visto crollare il Palaeur sotto i suoi occhi per gli applausi. E adesso risponde per le rime. Da nuvole impercettibili d'alito, le sue parole diventano ciottoli, sassi, macigni. Ciascuna di loro, cadendo in platea, produce un tuono. Un tuono sordo, minaccioso, irreversibile che strappa al tempo stesso l'applauso e il cuore del popolo della sinistra. «La nostra è una società chiusa... La nostra è una società largamente organizzata contro i giovani e deve essere la sinistra a porre questo grande problema.» «Ho sentito Cofferati - a differenza di altre occasioni - più chiuso e più sordo rispetto a un'esigenza di riflessione critica, non riguardo soltanto al sindacato, riguardo anche alla sinistra.» «Sento anch'io l'enorme vergogna di due milioni di italiani che nel Mezzogiorno lavorano in nero, ma non sono sicuro che sia soltanto un problema di polizia e di ispettorati del lavoro. Non sono sicuro che se li scopriamo avremo settemila miliardi di entrate in più. Io temo che se li scopriamo, alcuni
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pagheranno le tasse, ma altri chiuderanno e forse avremo un milione di disoccupati in più in giro nel Mezzogiorno.» Mentre D'Alema parla, la cortesia degli apparati di sicurezza mi consente d'infilarmi tra le delegazioni dei partiti. Mi siedo accanto a Buttiglione che fuma il sigaro nonostante il divieto e prende appunti su carta intestata del Comune di Padova con la sua calligrafia larga e armonica. Davanti a me sono Berlusconi e Fini. Il Cavaliere indossa, tanto per cambiare, il doppiopetto scuro e prende appunti come in una lezione di bella scrittura, tenendo ben distante il braccio dal corpo. Riempie con ordine molte pagine grandi, lasciando larghi spazi tra una riga e l'altra. I1 Cavaliere firmerebbe volentieri larga parte del discorso dell'«amico Massimo» e quando questi dice «non è ragionevole che noi sospettiamo di noi stessi», gli scappa tra i denti un «bravo» di sollievo. Quante volte ha dovuto dire ai suoi che i colloqui con D'Alema non avrebbero portato a «inciuci»? Quante volte è stato lì lì per rifiutare i dibattiti televisivi con il leader della maggioranza, temendo reazioni negative presso il popolo moderato dei suoi elettori? Anche Fini prende appunti, ma più nervosamente. Poco più in là vedo scuotersi la testa di Fausto Bertinotti. Alla fine esco con loro. Gianni Letta sembra Santa Teresa colta dal Bernini al culmine dell'estasi. Berlusconi parla di un «discorso da statista» e giura che «di Massimo ci si può fi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dare». Bertinotti e Cossutta sono fuori di sé. I1 vecchio Armando è talmente arrabbiato che si calza bene in testa la lobbia grigia di buona memoria brezneviana e tace. Bertinotti vorrebbe dire cose assai meno signorili del solito. Si limita a raggiungere Gianfranco Fini: «D'Alema vi ha scavalcato a destra». L'altro annuisce: «Evidentemente ha ascoltato i nostri consigli». L'indomani «Liberazione», quotidiano di Rifondazione, commenta il discorso con un titolo in perfetto stile bertinottiano: «D'Alema celebra la nuova identità centrista del Pds". Il «manifesto» pubblica su tutta la prima pagina una grande foto di Cofferati durante il suo intervento congressuale con il timbro «Espulso». Scrive Rossana Rossanda: «Era meno monolitico il Pci che espulse me». Armando Cossutta, dopo una notte agitata, si lascia andare: «Imbroglione, avventurista, è come la Vispa Teresa a caccia di farfalle: prima ha cercato di acchiappare Buttiglione, poi Di Pietro, poi Dini e ora Berlusconi». E dice al «Corriere» che D'Alema vuole espellere Rifondazione dalla maggioranza perché glielo ha chiesto Kohl. La domenica mattina, in congresso, D'Alema s'acconcia a subire come un cireneo tutte le riserve dei compagni della sinistra. Ma quando un uomo del sindacato, Pietro Marcenaro, lo accusa di ripetere «cose già dette dal presidente di Confindustria», corre al microfono ed esplode: «Non possiamo accettare che chi vuole innovare la sinistra e trovare risposte
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nuove alla questione dello stato sociale sia tacciato di essere un traditore...».
In piazza con Bertinotti
Poiché l'unico vero strappo che D'Alema teme è quello con la Cgil, un mese più tardi fa la pace con Cofferati. Approfitta della comune presenza a un convegno del 19 marzo sulla funzione pubblica e afferma: «Lo dico in maniera autocritica: al congresso sono stato ingeneroso nel non riconoscere alla Cgil un impegno avanzato per il governo della flessibilità». Aggiunge, per attenuare l'impatto: «Certo, se Sergio avesse rivendicato più chiaramente le scelte del sindacato, la discussione sarebbe stata meno spigolosa.... Cofferati tende la mano. («Discutere in quel modo è servito... Non ho perso il sonno per le critiche... Semmai ho provato un po' di imbarazzo a sentirmi descritto come un radicale...») La pace è fatta. E come gli strateghi militari chiudono un fronte per scatenare l'offensiva sull'altro, nello stesso giorno e nella stessa occasione, D'Alema rilancia l'offensiva contro Bertinotti: «è sbagliato teorizzare l'esistenza di due sinistre. Oggi più che mai credo che ce ne possa essere una, con posizioni più o meno radicali o conservatrici». Ma se il giorno di San Giuseppe lavoratore D'Alema si scusa improvvisamente con Cofferati, non è solo per un co-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE struttivo consiglio del suo angelo custode. Si dà infatti il caso che tre giorni più tardi, il 22 marzo, il sindacato abbia indetto una marcia per l'attuazione dell'accordo sul costo del lavoro. Poiché l'attuazione dipende dal governo e dalla maggioranza di centrosinistra, la marcia sarebbe «contro"di essi. Lo stesso D'Alema, criticando Bertinotti, lo sbeffeggia: «Manifesterà contro se stesso, visto che i ritardi nell'attuazione dell'accordo sul costo del lavoro sono dovuti anche alla sua opposizione». In realtà, poiché al governo non c'è Berlusconi, ma Prodi e l'Ulivo che i sindacati hanno generosamente sostenuto, la marcia non potrà essere contro nessuno. E poiché Bertinotti ha annunciato la sua partecipazione, D'Alema non può permettersi di regalare la Cgil a Rifondazione. Di qui la pace con Cofferati. Di qui la sua improvvisa decisione di marciare anche lui. Spiegata così in un articolo per «Il Messaggero»: «Oggi sono in piazza con i lavoratori e con il sindacato, come ho sempre fatto. Troverei curioso il contrario». Finisce così in piazza sottobraccio a Bertinotti: alla persona dalla quale si sente divisa più che da ogni altra, il leader che considera intimamente - e non solo - il suo vero avversario politico.
D'Alema: «Elezioni sempre possibili»
«Bertinotti ha coltivato a mio giudizio, in una certa fase, il di-
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segno politico di spingerci verso un governissimo con il centrodestra, considerando in questo modo di poter portare Rifondazione a diventare un partito del 15-16 per cento."Così mi dice D'Alema nell'estate del '97 e spiega: «Per noi sarebbe un errore enorme: ne pagheremmo un prezzo molto alto come partito e soprattutto daremmo un colpo al bipolarismo. Si riprodurrebbe cioè in Italia una copia della "democrazia zoppa" che abbiamo avuto per tanti anni. Rifondazione certo non avrebbe il peso che ebbe il Pci, ma insomma avremmo una specie d7; centrosinistra allargato e una sinistra fuori dell'area della governabilità. Fin dai primi mesi del '97 ha seriamente pensato a una rottura con Rifondazione e a elezioni anticipate. D'Alema conferma: «Abbiamo studiato questa possikilità e continuiamo a monitorare uno scenario del genere. Vista la politica di Rifondazione, i suoi scarti, le sue irresponsabilità (l'Albania è stato il caso più clamoroso), è bene considerare anche l'ipotesi che il centrosinistra debba affrontare le elezioni senza Rifondazione. Resto convinto cheluesta prospettiva deve essere sempre considerata possibile. E l'unico modo per gestire il rapporto con Rifondazione,". Come uscirebbe Bertinotti da una rottura con l'Ulivo? «Rifondazione sa di puntare una pistola scarica. è in una posizione comodissima perché può condizionare il governo facendo parte della maggioranza in modo determinante, ma non si assume pienamente le proprie responsabilità. Ma il
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE giorno in cui dovessero separarsi dall'Ulivo, io le dico che non prenderanno il dieci per cento, prenderanno il sei." (Ln Cade per ora, dunque, il sogno dalemiano di riassorbire l'altra sinistra facendone la corrente più forte del I'ds. Procede
con qualche fatica la costruzione del partito nuovo - la Cosa 2 - che non avrà più la falce e il martello nel simbolo «perché il comunismo non esiste più» mi dice un collaboratore del segretario, e che dovrà puntare al trenta per cento dei voti «per legittimare l'enorme potere che abbiamoconfessa la stessa fonte. «Quello sul nome» mi dice D'Alema «è un falso dibattito. Non ci chiameremo partito socialdemocratico perché in Italia c'è già stato e c'è ancora. Solo un pazzo potrebbe immaginare di dire: sai una cosa? Oggi ho fondato il partito socialdemocratico. Ma se bisogna guardare al futuro, credo che nemmeno in Germania, se oggi dovessero fondare un nuovo partito, lo chiamerebbero partito socialdemocratico. Tutto il socialismo europeo è teso a rinnovarsi profondamente». Quindi? «Quindi noi siamo un partito del socialismo europeo. Al congresso dell'Internazionale socialista di Malmo, nel giugno '97, hanno fatto parlare le undici persone che considerano importanti. C'erano Blair, Jospin, Delors e c'ero anch'io. Coesistono dunque due verità e non ha alcun senso metterle l'una contro l'altra. Primo: noi siamo un partito socialdemocratico, nel senso che facciamo parte della socialdemocrazia
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europea. Secondo: noi non fonderemo un partito socialdemocratico perché lo siamo già e perché il problema della socialdemocrazia europea non è quello di essere socialdemocratica, ma semmai di allargare i suoi confini.» Già, ma raggiungere il trenta per cento non è uno scherzo. Con quali forze pensate di arrivarci? «Siamo in cammino, guadagniamo voti elezione dopo elezione. Il consenso dei cittadini ci arriva e non perché altre forze si sommano alla nostra. Ma intanto Giuliano Amato, che avrebbe dovuto essere il fiore all'occhiello del nuovo partito, non ci sarà. «Amato ci sarà. Non avrà una funzione politica di primo piano perché non la vuole avere, ma sarà uno degli intellettuali di riferimento di questo partito. Amato, in realtà, punta a compiti operativi di alto livello, politici ma estranei alla politica italiana: gli piacerebbe, forse, presiedere la Comunità europea, se dopo più di vent'anni quest'incarico tornasse a un italiano, e ha la credibilità internazionale e gli appoggi interni per riuscirci.)
Il nuovo partito di D'Alema non annuncia, dunque, acquisizioni strategiche di grande rilievo. Servirà a mettere ordine nelle piccole sigle personali che hanno sempre gravitato nel mondo della sinistra. Ci saranno Pierre Carniti e i comunisti unitari di Famiano Crucianelli usciti da Rifondazione, i labu-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE risti di Valdo Spini e le vecchie glorie della sinistra socialista Giorgio Ruffolo e Antonio Giolitti, lo spezzone socialdemocratico di Gianfranco Schietroma e gli amici di Amato come Luigi Covatta. In più, una parte rilevante dell'anima socialista del sindacato, da Epifani della Cgil a Larizza della Uil. «E il primo segnale in controtendenza rispetto alla frantumazione politica degli ultimi annimi dice Marco Minniti, il segretario organizzativo del Pds (e di fatto vice di D'Alema), che si occupa della questione. «Riusciamo inoltre a costruire un partito che ha tradizioni più ricche e complesse della sola tradizione comunista. Il gruppo dirigente del Pds viene dal Pci. Con il nuovo partito della sinistra, verrà anche da altre tradizioni politiche.» Obietto che non saranno persone pur assai rispettabili come Carniti e Giolitti a far cambiare fisionomia al Pds. «Non cambia la fisionomia,» risponde Minniti «ma si allargano i contorni.» Quando a fine agosto '97 Alberto Asor Rosa denuncia su «l'Unità» che il Pds ha un leader senza partito, Minniti conviene che il problema esiste. Si è avvertito già nei primi mesi dell'anno, dopo il seminario «ulivistadi Gargonza, quando si forma nel Pds una corrente di maggioranza: è la prima volta nella tradizione comunista. «Questa corrente» mi dice Minniti «ha il compito di far funzionare il partito. Ma il suo obiettivo principale è di costruire un nuovo gruppo dirigente. Oggi il Pds ha un leader
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e molte individualità, non ha ancora un gruppo dirigente organizzato. è un problema delicato, che non abbiamo ancora risolto.» Il problema esplode durante i momenti più difficili della Bicamerale. «Un partito» dice Minniti «esiste nel momento in cui il gruppo dirigente trova un comune terreno di coesione, che fa diventare anche le differenze politiche un punto di ricchezza. Ma se a queste differenze non corrisponde la coesione del gruppo dirigente, esse diventano divaricanti. Non può esistere, insomma, un leader circondato soltanto da indi vidualità: un punto di forza diventa così un elemento di debolezza."
La sera di martedì 21 gennaio del '97 Giuseppe Prencipe primo violino di Santa Cecilia, attraversò il palcoscenico con piccoli, rapidissimi passi. Sfiorò il pavimento senza rumore, quasi fosse in pantofole. Piccolo di statura, voleva confondersi - nero su nero - con l'orchestra già schierata. Ma i capelli canuti lo tradirono. Il pubblico che gremiva la sala lo vide e lo applaudì. Il costume sinfonico non prevede che il primo violino sia applaudito prima del concerto. Semmai gli sarà dedicato a fine d'opera il vibrare più intenso e personalizzato dell'ap-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE plauso quando il Maestro, secondo l'uso, scenderà dal podio per stringergli la mano. Ma prima no. Quella sera Prencipe fu applaudito. Non si sa perché, ma fu applaudito. Rispose con un inchino profondissimo e definitivo e dette rapidamente ai suoi colleghi in attesa la tonalità del primo brano in programma. Quando entrarono insieme Giuseppe Sinopoli e Uto Ughi il pubblico li sommerse con un'ovazione e a Prencipe non badò più nessuno. Da quel momento, lo strumento del primo violino cedette il passo a quello della star, che conquistò il pubblico con una memorabile esecuzione del Concerto in re maggiore per ziolino e orchestra di Beethoven. Tanto che Ughi meritò il pubblico abbraccio di Sinopoli. Prencipe e gli altri violinisti dell'orchestra fecero benissimo l'opera loro, così come i titolari degli altri strumenti a corda e degli ottoni. E conquistarono il pubblico stipato nell'auditorio Pio con la Settima sinfonia di Beethoven, dove non era prevista naturalmente la presenza di Ughi. Senza i violini non può esistere la Settima. Ma senza il Violino non esiste il Concerto in re maggiore, là dove nel larghetto, ogni volta che l'orchestra tenta di soggiogare il Legno Divino, esso si sottrae all'abbraccio e con un magico colpo di reni torna a dominare la scena.
Preso da altre cure e ancora ebbro degli abbracci del Chiapas e di Fidel, il subcomandante Fausto non intervenne alla
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serata. Ma qualcuno tra gli spettatori più usi a decrittare gli oscuri segni della politica vide nel concerto di Santa Cecilia, nel magico Ughi e nell'ottimo e inconsapevole Prencipe destino, gloria e dannazione del governo di Romano Prodi. L'orchestra di Santa Cecilia, col suo prestigioso direttore, i suoi solisti e i suoi violini di fila, impersonava agli occhi di costoro il governo e la maggioranza dell'Ulivo. Che salvo gli svarioni di quelli che Franco Bassanini definì «dilettanti allo sbaraglio» erano in grado di eseguire senza apporti esterni moltissime opere. Moltissime, ma non tutte. Per suonarne alcune occorreva un contributo esterno, il Grande Solista: Fausto Bertinotti. Senza di lui l'orchestra di Prodi non poteva operare. Ci aveva provato una volta, sulla Stet: era andata male. Ci avrebbe provato un'altra volta sull'Albania e il rischio sarebbe stato ben peggiore. Il Grande Solista lo sapeva. E il prezzo d'ingaggio diventava alto, sempre più alto, altissimo, quasi inarrivabile. Ma senza di lui, chi avrebbe potuto suonare?
Tra Leonardo e Paolo di Tarso
Adesso che sono nella sua stanza, mi chiedo chi avrebbe mai immaginato tanto potere nelle mani di Fausto Bertinotti. Un comunista vero e senza ambiguità, che ha come modelli
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Fidel Castro e il subcomandante Marcos, che nel libro Le due sinistre uscito da Sperling & Kupfer nell'autunno del '97 dice ad Alfonso Gianni:Noi riproponiamo la questione comunista non semplicemente come orizzonte, come fede o come etica. Il comunismo è invece riproposto oggi dalla gigantesca mondializzazione capitalistica. Ne abbiamo avuto la netta percezione quando abbiamo incontrato Fidel Castro e Marcos, avvertendo che esperienze differenti, persone diverse e così lontane: possono in fondo essere accomunate... da una ricerca comune che prende le mosse dai guasti che produce sull'umanità questa nuova fase dello sviluppo capitalistico e le politiche neoliberiste». Un comunista che s'ispira a Paolo di Tarso («Siamo in questo mondo, ma non siamo di questo mondo»). Ha tentato l'assalto al cielo e dice che «pur non avendocela fatta, non per questo bisogna smettere di provare ancora». Ha eletto a simbolo del suo congresso Leonardo da Vinci, non perché ami più di tanto la Giocondn o La vergine delle rocce, ma perché Leonardo è l'uomo della macchina volante, «figura emblematica del tentativo millenario dell'uomo che cerca di volare, prova e riprova e alla fine ci riesce». La stanza di Bertinotti nella palazzina di Rifondazione sul viale del Policlinico è ampia allegra luminosa e ripercorre con i suoi simbolismi i tentativi di conquistare il cielo che la sinistra italiana unita ha compiuto per quarant'anni. Dividendosi dopo la caduta del Muro sull'idea stessa di cielo:
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qual è l'oggetto delle nuove conquiste? «Lei mi chiede perché abbiamo scelto questa zona, lontana dai palazzi della politica? Perché siamo tra la città universitaria e il quartiere di San Lorenzo"mi dice Bertinotti evocando due luoghi simbolo della sinistra storica: studenti e operai. Una gigantesca scultura di Eliseo Mattioni e una grande stella di Gilberto Zorio dominano ricordi di grandi battaglie spesso perdute. «Quel manifesto purtroppo è dell'80.» Irresponsabile decisione della Fiat. No ai licelziamenti mascherati. Fiom. Fim. Uilm. «Il colore dominante è il verde perché speravamo in una soluzione che non ci fu. Ricorda la storia? La Fiat aveva annunciato quattordicimila licenziamenti, il ministro del Lavoro Foschi aveva fatto una proposta conclusiva che prevedeva la cassa integrazione a rotazione per tutti gli operai. Nella fase decisiva intervenne Cossiga, presidente del Consiglio. I sindacati accettarono, la Fiat assunse un atteggiamento interlocutorio. Poi una domenica fece l'elenco nominativo di ventiquattromila lavoratori da mettere in cassa integrazione. Non più la rotazione, ma ventiquattromila nomi secchi. Avevamo un'alternativa drammatica: se fossimo andati al lavoro il lunedì, i ventiquattromila automaticamente sarebbero rimasti fuori. Allora meglio fuori tutti.Trentacinque giorni di sciopero e di picchetti duri ai cancelli. Enrico Berlinguer che si espone in prima persona e va a parlare a Mirafiori. Poi la marcia dei quarantamila, la maggioranza silenziosa che solleva
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Torino, la grande vittoria della Fiat e dell'industria, la sconfitta più bruciante per il sindacato e la sinistra.
Fausto Bertinotti viene da lì. E non lo dimentica. L'approdo alla politica militante è recentissimo e me lo racconta chi l'ha battezzato, Armando Cossutta.
Come nasce la strana coppia.
«Quando nasce il Pds nel '91, Bertinotti è contrario alla nuova formula del partito. Vota no allo scioglimento del Pci insieme con me, con Ingrao, Natta, Tortorella. Poi qualcuno se ne va in silenzio, come Natta. Altri restano nel Pds, come Ingrao e Tortorella. Altri ancora - Sergio Garavini, Ersilia Salvato, Lucio Libertini, Lino Serri - vengono a costituire il partito della Rifondazione comunista. Bertinotti arriva più tardi per uno scrupolo personale. è il leader della corrente "Essere sindacato" della Cgil e per un po' rimane nel Pds, avendo avuto i voti di aderenti alle due componenti. Si iscrive in silenzio a Rifondazione nella primavera del '93." Poco dopo Sergio Garavini si dimette dalla segreteria e il partito resta senza leader alla vigilia del congresso. O meglio, un leader storico c'è, ed è l'Armando, presidente del partito. Ma senza segretario non si può certo stare. A Cossutta viene in mente di fare la proposta a Bertinotti.
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Lui nicchia, poi nell'autunno, a pranzo nella trattoria «Da Armando» (quando si dice...) al Pantheon e in un successivo colloquio nella sua casa di Vigna Clara, finisce con l'accettare. Quasi tutto il gruppo dirigente concorda con la proposta di Cossutta. Libertini è morto da poco, ma Lucio Magri e la Salvato sono favorevoli. Si oppone la frangia che fa capo a Guido Cappelloni. «Con un sindacalista, Garavini, abbiamo già sbagliato una volta. Bertinotti non viene dalla nostra storia.» Cappelloni propone per la segreteria Antonino Cuffàro, ingegnere, figlio di uno dei fondatori del Pci, che s'è occupato di ricerca scientifica nel vecchio Partito comunista. «Un'opposizione un po' settariasospira Cossutta, che porta comunque la sua creatura al successo. Al secondo congresso del dicembre '93, Cuffàro non viene presentato come candidato alternativo. Magri fa la relazione, Cossutta l'intervento chiave e lancia la palla a Bertinotti che debutta e segna. «Prendiamo due voti in meno ciascuno su novecento votanti a scrutinio segreto," dice Cossutta. «La coppia nasce lì." Una strana coppia per davvero. Ogni tanto si dice che l'uno tira l'altro per la giacca. Eppure quando provo a scavare nelle divergenze tra i due, ricevo sorrisi e cenni scoraggianti con la testa. «Abbiamo origini, storia e caratteri diversi» mi dice Cossutta. «Lui è espansivo e cordialissimo. Io sono gentile, perché così mi ha educato la mamma. Sono compìto, ma non mi pro-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE digo. Lui è brillante, io sono grigio. Lui è portato all'entusiasmo, io al ragionamento. Ma siamo sempre sulla stessa lunghezza d'onda. Arriviamo al punto di leggere i resoconti dei nostri discorsi senza esserci fatti una telefonata: concordano non solo sulla linea, ma anche nei giudizi e perfino negli aggettivi. Qualcuno è sorpreso, qualcuno è arrabbiato e vorrebbe seminare zizzania. Nel Pds mi dicono: ma come fai tu, un vecchio comunista, ad andare d'accordo con uno che viene da una storia antagonista e alternativa? Nello stesso Pds dicono a Fausto: ma come puoi tu, uomo della sinistra alternativa, andare d'accordo con un filosovietico come Cossutta? «Eppure... Anche nel nostro quotidiano "Liberazione" la direttora che s'è dimessa era Manuela Palermi, amica di Bertinotti, e il vice Carlo Benedetti, cossuttiano, già corrispondente dell"'Unità" da Mosca e marito di una figlia di Kruscev...» (Abbastanza vicino a Cossutta è anche il nuovo direttore, Piergiorgio Bergonzi.) Cossutta fa una pausa: «Questo atteggiamento perfettamente complementare non esiste in nessun partito degli attuali e non è mai esistito nemmeno nel grande Pci. Si è parlato di ruoli complementari tra Togliatti e Longo: il primo provvisto di grandi intuizioni strategiche (la svolta di Salerno, il rapporto con Badoglio, la caduta della pregiudiziale antimonarchica, il voto all'articolo 7 della Costituzione sul concordato); il secondo provvisto di una grande fantasia organizzativa che rendeva evidenti e attuava le grandi intui-
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zioni di Togliatti. Ma a parte la statura del segretario che sovrastava ogni altra, lui e Longo avevano la medesima cultura politica. Io e Fausto, invece.... Fa un'altra pausa: «In effetti una grande differenza c'è anche tra noi. Fausto è milanista, io sono interista. Berlusconi in Bicamerale si complimentava con me e si doleva con lui per l'arrivo di Ronaldo. E poi, detto tra noi, Bertinotti finge di intendersi di calcio, ma non è affatto vero. E a questo punto che il vecchio comunista, l'uomo di Mosca, il dirigente che porta con inossidabile dignità cappotti e cappelli in perfetto stile brezneviano, apre il portafoglio e ne estrae un cimelio. Una dedica di Stalin? Una confidenza di Kruscev? Una lettera d'amore di Breznev? No. Armando Cossutta mi allunga con orgoglio la tessera del Club Interista-Leninista di Ravenna. Neroazzurra, ovviamente, con i profili di Moratti e di Lenin affiancati come nelle icone sovietiche dei bei tempi.Ecco, la differenza con Fausto è tutta qui.»
Quanto costa Bertinotti
«Nel nostro sistema per ottenere una maggioranza elettorale si deve concedere spazio a minoranze dichiaratamente non omogenee sui programmi. Accade così che queste mino-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ranze esercitano un vero e proprio diritto di veto e operano contemporaneamente come partiti di lotta e di governo, ottenendo per di più grande visibilità senza alcuna responsabilità e frenando di fatto chi vorrebbe diventare partito di governo e non più di lotta. Ciò mette a rischio la governabilità e blocca la modernizzazione. Sarà pure «rudimentale», come scrive il braccio destro di Bertinotti, Alfonso Gianni. Sarà pure una «visione padronale». Ma questa analisi tracciata dal presidente di Confindustria, Giorgio Fossa, all'assemblea del 22 maggio '97 e messa in apertura del libro a quattro mani Le due sinistre è un credibile identikit dei rapporti tra Rifondazione e Pds nel quale lo stesso Bertinotti non fatica affatto a riconoscersi. La vittoria comune in Francia di socialisti e comunisti guidati da Jospin contro i conservatori guidati da Chirac e Juppé ha gasato Rifondazione convincendola definitivamente che D'Alema è una rovina per la sinistra italiana. Dice Bertinotti: fino a ieri il socialista spagnolo Gonzales, il laburista inglese Blair e l'ex comunista e ora socialdemocratico italiano D'Alema formavano un asse radicato sulla convinzione che per andare al governo bisognasse conquistare il centro di ogni sistema politico e sociale. L'esperienza francese dimostra invece che i socialisti vincono anche quando scelgono l'alleanza con i comunisti su un programma estremamente avanzato, che prevede la revisione di Maastricht e la riduzione dell'orario di lavoro a parità di retribuzione.
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Anticipatore dell'esperienza francese, pur senza commettere l'imprudenza di mandare ministri al governo («Se proprio dovessi andarci, chiederei gli Interni» mi dice un giorno Cossutta, immaginando la faccia del suo vecchio compagno Napolitano), Bertinotti nei primi diciotto mesi di vita del gabinetto Prodi ha contrastato almeno venti volte su questioni chiave il programma del governo, minacciando ripetutamente la crisi, aprendola virtualmente sulla questione albanese e sulla legge finanziaria del '98. Il settimanale "Il Mondosi è premurato di contabilizzare il costo in Borsa di quindici mosse di Rifondazione tra il luglio del '96 e il marzo del '97: il totale dà settantasettemila miliardi. Naturalmente larga parte di queste perdite è stata recuperata, ma a Stefano Romita che lo interpella per il giornale economico l'ex ministro delle Finanze del Polo, Giulio Tremonti, dice: «Il ribaltone di Bossi costò, per stessa ammissione successiva di Dini, circa ventimila miliardi. Non so dire quanto abbia inciso Bertinotti. Eppure sarebbe del tutto arbitrario mandare all'indirizzo di Bertinotti una specie di fattura morale a risarcimento dei danni provocati dalla sua politica. Per la semplice ragione che Bertinotti non si riconosce affatto nella politica di Prodi e di D'Alema. Sostiene il governo perché lo giudica più accettabile (o meno inaccettabile) di un governo del Polo. Ma la sua testa, i suoi progetti, le sue ambizioni stanno da tutt'altra
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE parte. Scrive sul «Mondo» Piero Ostellino, commentando i «costidi Bertinotti: «Che cosa avevano in comune l'Unione Sovietica di Stalin e le grandi democrazie liberali? Assolutamente null'altro che il nemico, il nazifascismo. Che cos'hanno in comune Rifondazione e l'Ulivo? Assolutamente null'altro che il nemico, il Polo». Con un'aggravante: secondo Bertinotti, D'Alema sta cercando di battere il Polo sul suo stesso terreno: «Il Pds ha smesso di rappresentare un fattore di contrasto per Forza Italia, cioè per l'espressione più compiuta della modernizzazione capitalistica della società italiana, per diventare suo concorrente nell'assumere questa stessa modernizzazione come base di una competizione per conquistare il governo del paese,". Bertinotti rimprovera a D'Alema (e a Blair) di aver creato il cittadino «medio», «indistinto», eliminando l'antagonismo tra le classi sociali, trovandosi a essere «culturalmente incapace» di intendere le critiche moderne al capitalismo. E al Pds, in particolare, contestadi non vedere spesso il pericolo della destra quando si manifesta sul terreno sociale,". Per questo, lungi dal rassegnarsi a rappresentare una costola ribellista della nuova sinistra dalemiana, Rifondazione punta a diventare partito di massa della «sinistra antagonista». «Lo stato di necessità» mi dice Bertinotti «costringe D'Alema ad assumere atteggiamenti che gli sarebbero estranei per cultura. Ed è questa una cosa radicalmente diversa dall'ac-
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cettare il terreno del confronto.» Per esempio?I livelli del confronto sono tre. Il più alto considera la diversità una ricchezza. Siamo in due? Meglio che uno. Avrebbe detto Franco Rodano: il problema è di cogliere la verità interna dell'altro. Secondo livello. Pensi che l'altro sbaglia, ma ti convinci al tempo stesso che le cose che dice sono la spia di una situazione dalla quale guardarti. «Esempio: dice cose diverse dalle tue sulle politiche neoliberiste, ma convenite entrambi che le politiche neoliberiste sono sbagliate. Terzo livello: vorresti che l'altro non esistesse, lavori per demolirlo, ma siccome c'è lo stato di necessità questo ti impone di cercare una convergenza. D'Alema è su quest'ultima posizione.» Voi contestate a D'Alema di aver cambiato opinione, dicendo che l'idea delle due sinistre era sua. «La sostenne nel '96 al convegno che si tenne nell'abbazia toscana di Pontignano. Tant'è vero che i nostri amici del "manifesto" temettero che ci fosse un'alleanza tra me e D'Alema. Adesso ha cambiato idea. Ha fatto un'inversione psicopolitica. In fondo, a ben vedere, c'è una componente integralista. Lui non accetta più l'idea delle due sinistre perché gli imporrebbe un confronto. E lui si va convincendo che esista una sola ipotesi possibile, la sua. Badi bene: non una ipotesi migliore, ma una sola ipotesi possibile. In queste condizioni, allora, il vostro rapporto non ha pro-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE spettive, è condannato allo stato di necessità permanente? «Questa domanda è davvero drammatica. A meno di una modificazione dell'asse strategico del Pds, mi son fatto l'idea che i rapporti tra le due sinistre siano rapporti di costrizione." Di fatto, però, in questo modo voi continuerete a essere i battitori liberi della maggioranza, a ignorare le posizioni del Pds e a esercitare sul primo governo della sinistra continue pressioni che spesso vengono vissute come ricatti. «Su alcuni punti questo continuerà ad accadere. Il Pds su certe questioni sociali non ha una propria fisionomia dentro la maggioranza e la dialettica si esaurisce nel confronto tra la posizione di Rifondazione e quella del governo, come quando abbiamo detto no ai tagli su sanità e pensioni. Questi elementi hanno determinato il vantaggio di Rifondazione, non una speciale propensione verso di noi del presidente del Consiglio. Che doveva fare Prodi? Chiunque al suo posto avrebbe cercato un compromesso senza il quale il governo avrebbe cessato di esistere. Se si riproducesse una situazione analoga, la risposta sarebbe la stessa.» Tra la primavera e l'autunno del '97 questo scontro è stato tuttavia meno visibile. «E vero, ma c'è una spiegazione. Nella dialettica è entrato un terzo elemento che prima non c'era: il sindacato. Invece di appiattirsi sul governo, ha mantenuto una sua autonomia. Ma se un domani, per assurdo, il sindacato concordasse col governo il taglio delle pensioni, la crisi avverrebbe un minu-
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to dopo.» Così è stato giovedì 9 ottobre. Salvo un ripensamento ventiquattro ore dopo.
«D'Alema ha urtn visione militare della politica»
Nasce così il tempestoso rapporto con D'Alema. «La differenza tra Prodi e D'Alema è questa. Prodi ha un ottimismo intrinseco e una notevole generosità personale. D'Alema ha un atteggiamento di tipo militare: se non accetti, ti spezzo. Se non fai così, faccio scendere in campo le armate e alle prossime elezioni non ci saranno più alleanze. Certe volte nei nostri confronti si fanno delle forzature perché si dice che in nome del realismo politico alla fine accettiamo tutto. E invece no: su questo punto vorrei essere chiaro. La coerenza è il rapporto tra il sistema di valori che si propone e i comportamenti che si tengono. Se gli interessi di massa che rappresentiamo fossero scaraventati fuori dalla politica, la coerenza ci porterebbe a difenderli costi quel che costi. Nel braccio di ferro, perderebbe il governo.» Un esempio, per favore. «Le pensioni. Noi diciamo che il quadro europeo migliora, che l'accresciuto potere della sinistra europea sta cambiando il quadro e così via. Se ci si risponde tagliando le pensioni, arriva per forza la crisi.» Gli fa eco Cossutta: «D'Alema non perde un colpo quando
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE vuole darci la lezione. Su tutto, perché lui sa tutto. Prodi non ha questa esigenza, a lui interessa far durare il governo. D'Alema sente il bisogno di rispondere a se stesso, deve rimordergli la coscienza. Ha atteggiamenti paradossali. Sul piano umano riesco a stabilire un rapporto più cordiale perfino con Occhetto, che pure ho contrastato con grande durezza alla Bolognina e al congresso di Rimini. Con lui posso usare dell'ironia, ma lo faccio senza livore. Con D'Alema è diverso. Lui ci voleva distruggere. Quando ci fu il contrasto decisivo sul governo Dini quattordici deputati nostri su trentotto andarono con lui. E se ne andarono perché D'Alema contratto la loro rielezione. Lui non mi ha mai smentito su questo perché avrei fatto i nomi di coloro che me l'avevano detto. Per questo al momento delle elezioni noi ponemmo la condizione che nessuno dei quattordici fosse rieletto nel collegio che fu di Rifondazione. Nessuno, tranne Garavini che è stato il primo segretario del nostro partito. Ci vedemmo con Fausto e D'Alema un dopocena a casa di Veltroni. La mia famiglia e quella di Walter si conoscono da molti anni. Veltroni ci offrì un gelato. In mezz'ora l'accordo di desistenza era fatto». Riprende Bertinotti: «Quando c'è stata la crisi albanese, D'Alema ci ha prospettato la rottura tra il centrosinistra e Rifondazione come rottura irreparabile. Ci ha fatto capire che avrebbe lavorato in via definitiva per l'autosufficienza del centrosinistra, anche se fosse dovuto passare per mille sconfitte. Questa incompatibilità tra Rifondazione e l'Ulivo si
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sarebbe determinata non solo a Roma, ma dovunque come conseguenza di un processo ineluttabile». E lei non ci ha creduto. «Non credo mai che queste cose accadano così. E poi la questione albanese non avrebbe sopportato un conflitto dirimente del rapporto tra le due sinistre italiane.» E soprattutto non l'avrebbe sopportato la base di Rifondazione che era molto, molto perplessa... «Nella segreteria del partito siamo stati sempre uniti. C'è stata in effetti una preoccupazione maggiore nel gruppo dirigente allargatoparlamentari, segretari di federazione. Una parte dei compagni pensava che la crisi avrebbe portato alle elezioni anticipate e temeva che non saremmo stati capiti. Si stava in campagna elettorale per le amministrative di primavera, i sondaggi ci davano in flessione per il nostro atteggiamento sull'Albania. Rompere sulle pensioni sarebbe stato un'altra cosa Ma sull'Albania certo D'Alema avrebbe avuto una forza di mobilitazione formidabile contro di noi, scaricandoci addosso la responsabilità di aver fatto fallire il primo governO delle sinistre. In ogni caso io non ho creduto alla crisi nemmeno per un momento.» Cossutta mi conferma l'assoluta identità di vedute con
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Bertinotti sull'Albania, mentre sulle questioni sociali osserva con un pizzico di civetteria che «il cliché che mi vede più prudente andrebbe rovesciato».
Tra Erstlia e Marcos
La diversità di vedute con Bertinotti non viene nascosta, invece, da Ersilia Salvato. Campana di Castellammare, insegnante e sindacalista, iscritta al Pci dal '74 («L'indomani della strage di Brescia» mi dice), fondatrice di Rifondazione con Cossutta e gli altri. Oggi seduta con solennità accanto alla bandiera nel suo studio di vicepresidente del Senato. «Il mio disagio è serio» spiega. «Non deriva dalla linea politica, ma dal continuo lanciare allarmi forti per poi tornare indietro. Produrre fibrillazioni costanti nella maggioranza non mi sembra il modo più idoneo e più forte per portare avanti il difficile ruolo che ci eravamo assegnati: stare in una maggioranza sapendo che molti punti del programma di questo governo non erano condivisi, ma i nostri voti erano indispensabili.» Come sono nate queste incomprensioni? «La decisione di appoggiare il governo all'inizio della legislatura fu frutto di una discussione molto bella e condivisa con grande larghezza. Avevamo un percorso obbligato, ma ci proponevamo anche una sfida: vedere fino a che punto sarebbe stato possibile
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spostare avanti il programma di governo. Oggi non possiamo ritagliarci il ruolo di quelli che allarmano l'opinione pubblica ma alla fine sono costretti a dare i voti.» La disturba, insomma, abbaiare sempre senza mordere mai? «L'espressione non mi piace, ma il senso è quello. Vorrei che riuscissimo a coniugare meglio radicalismo e saggezza.» Le pesa la gestione della crisi albanese? «Condividevo le ragioni di fondo contrarie all'invio delle truppe italiane. Ma all'esterno tutto si è mescolato in una sorta di indifferenza nostra verso il precipitare della crisi. Dobbiamo evitare di trovarci dinanzi a decisioni già prese. Nel caso albanese, la direzione del partito fu convocata quando la decisione era già stata resa pubblica. Vedo disincanto nell'opinione pubblica che ci è più vicina: in alcuni disaffezione, in altri delusione, in altri ancora allarme. Prenda la vicenda dei finanziamenti alla scuola privata: fa una certa impressione ricevere lettere come quella che mi ha mandato l'editore Zanichelli: tenete duro, ne va del futuro della scuola pubblica.", E il domani? «Non è semplice navigare con questo Ulivo, anche se paradossalmente tutti - Polo compreso - hanno interesse a tenere insieme a tutti i costi la barca. L'Ulivo sta cambiando fisionomia, il Pds ne sta cercando una propria. In Bicamerale faceva impressione vedere il partito di D'Alema diviso su tutto e l'intreccio continuo tra Popolari, Ccd, Cdu. Non le sembri un
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE paradosso: nonostante tutti cerchino di salvarlo, nell'Ulivo il rischio di implosione è molto forte.»
Quale sarà il futuro delle due sinistre? Bertinotti punta al partito di massa, Cossutta non crede molto al nuovo partito che D'Alema sta preparando. «Si fossero uniti il vecchio Pci e il vecchio Psi sarebbe stata una cosa grande a livello europeo. Ma così, con Ruffolo, con Spini... Quanto contano questi elettoralmente? Gli elettori di Craxi se ne sono già andati..." Bertinotti rimpiange i tempi del Pci e della Dc. Ebbene sì, anche della Dc. «Sono forze che si sono contrastate, ma almeno nella parte sociale trovavano entrambe la loro ispirazione nella Costituzione. Il punto di convergenza, pur nella diversità, era altissimo. Adesso la Bicamerale ha rovesciato l'arco costituzionale. Nel '47 dentro i comunisti e fuori i neofascisti. Adesso dentro An e fuori noi comunisti...» Siamo sulla porta. Bertinotti è un padrone di casa esemplare, sorridente, garbato, cortesissimo. («Gli perdonate tutto solo perché ha la erre moscia...» sibila D'Alema.) Non dico che vesta come un rotariano qualsiasi, questo no. Ma come un raffinato rotariano un po' dirazzato che abbia delle buone terre in Piemonte, una bella joint-venture agricola in Borgogna e sia pronto a discutere sul ruolo internazionale del barbaresco, questo sì.
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Scusi, Fausto. Ma Marcos? «Ha un fascino straordinario. Il fascino che viene dalla tradizione Maya precolombiana, un mix ineguagliabile di antico e di moderno, il cavallo e Internet. Un guerrigliero che non crede al futuro sulle canne del fucile... Marcos insegna che la mondializzazione dell'economia può essere modificata dal basso. La sua è una originalissima proposta politica del nostro tempo. Utile anche per noi...", A Prodi e D'Alema questa mancava.
TERZO.
«Si può votare il 15 giugno...»
Un sabato mattina, a Dublino.
Alle otto del mattino di sabato 14 dicembre 1996, Romano Prodi sta facendo colazione nella sala da pranzo di un grande albergo di Dublino, il Jury's Tower. Secondo l'abitudine, si adatta all'uso del paese che lo ospita e qui dà fondo a un robusto breakfast. ("Ne ho fatto uno memorabile con Major» mi racconterà «a base di carne bovina dopo la storia della "mucca pazza". Se la mangiava lui...») Non sono giorni facili per il presidente del Consiglio italiano. Già il nome dell'albergo («Torre della Giuria») non lo mette di buonumore, ricordandogli che tre sabati prima, il 23
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE novembre, il pubblico ministero di Roma, Giuseppa Geremia, ne ha chiesto il rinvio a giudizio per la vendita della Cirio. C'è stato poi un sondaggio della Swg di Trieste che valutava al 67.9 per cento gli italiani scontenti del governo (in settembre erano il 56 per cento). Infine, proprio due giorni prima il presidente della Fiat, Cesare Romiti, aveva parlato di «momento tragico» per l'ltalia, di «sfiducia», di classe dirigente «priva di personalità e incerta nelle proprie basi culturali». Il Professore sa da quindici anni che Romiti non gli vuole bene. (Ne avrà conferma a fine ottobre '97 quando Romiti accuserà Prodi di aver violato i patti sociali del '93 pur di accontentare Bertinotti.) Litigarono quando l'uno voleva l'Alfa Romeo (che alla fine ebbe) e l'altro, appena diventato presidente dell'Iri, non voleva dargliela. Da allora non gli vuole bene nemmeno Mediobanca, cioè Cuccia (al quale viene attribuita una feroce battuta, forse di fantasia, quando Prodi inciampa nell'inchiesta Cirio: «Siamo nelle mani della Peppa», riferita alla Geremia). Ma appena sbarcato a Dublino, Prodi è costretto a dire: «Non si è visto mai un industriale privato interferire così pesantemente. Giorni amari, dunque. Così quando il suo giovane portavoce Francesco Luna entra con la faccia scura nella sala da pranzo con la rassegna della stampa italiana appena arrivata per fax, il Professore rimane con una fetta di pancetta a mezz'aria. Titola «la Repubblica: «"Sì, difenderò Romano ma non sono soddisfatto." Le critiche di D'Alema per góverno e
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maggioranza". Dice il segretario del Pds a Federico Geremicca: «Difenderemo governo, stabilità e legislatura con le unghie e i denti. Ma sono abbastanza insoddisfatto per il punto al quale ci troviamo... L'Ulivo non può ridursi a una forza di gestione e resistenza contro il "paese cattivo", che non capisce... Se andassimo avanti solo rovesciando olio bollente su chi ci assedia, non andremmo avanti ancora molto» Prodi legge l'intervista e resta in silenzio. è dispiaciuto. Una importante occasione di politica estera cederà ancora una volta il posto a polemiche di politica interna. Luna gli dice che i giornalisti sono fuori della sala per registrare una replica. Prodi va, dice che il discorso di D'Alema è molto articolato e non privo di riflessioni giuste. Ma poi gli assesta la botta: «Nel governo ci sono nove ministri del Pds». Insomma, guarda anche in casa tua. Ancora una volta, l'albero dell'Ulivo soffre per opera della sua radice più robusta. E forse al Professore capita di ripensare a una pagina del Trionfo della morte di Gabriele D'Annunzio: «Si vedeva l'alberello agitarsi con un moto quasi circolare, come sotto lo sforzo di una mano che volesse sradicarlo...» Quella di Dublino è una delle infinite stazioni del caivario che dall'inizio del '96 alla primavera del '97 ha segnato il rapporto tra Prodi e D'Alema. I due si riconoscono reciprocamente delle qualità, ma hanno caratteri strutturalmente inconciliabili. Prodi non sopporta che D'Alema si creda il più
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE furbo di tutti. D'Alema non sopporta che Prodi aspetti regolarmente che passi la tempesta invece di affrontarla. I ritmi che Prodi imprime al governo sono diversi dai ritmi della politica che piacciono a D'Alema. I primi malintesi cominciano alla ripresa autunnale del '96. Alla Festa dell'Unità di Modena, D'Alema fa un discorso coraggioso sullo stato sociale: «Non è più tempo di rincorse demagogiche» dice. Prodi, che era stato informato in precedenza dal segretario del Pds, apprezza. Ma nell'autunno, pressato da Bertinotti, rinvia di un anno gli interventi sul]e pensioni. D'Alema resta spiazzato e teme di perdere consensi sulla sinistra. I rapporti tra i due sono gestiti da un congelatore. I loro collaboratori non si amano, i silenzi tra i leader sono lunghissimi. «Il Professore è stato sempre convinto che D'Alema non avrebbe aperto la crisi perché il suo elettorato non avrebbe capito» mi dice uno strettissimo collaboratore di Prodi. «Ma per poco meno di un anno il Pds si è limitato a darci una specie di appoggio esterno.» Ribatte uno strettissimo collaboratore di D'Alema: «Il segretario ha tenuto in piedi il governo senza un briciolo di ambiguità. Ma al tempo stesso aveva perso ogni speranza che Prodi fosse l'innovatore che ci si aspettava". «Tra i due c'è stata una lunghissima incomunicabilità» sostiene un amico di Prodi.è come nella barzelletta di Pasquale. Giuseppe ha bisogno di una bicicletta e decide di
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chiederla a Pasquale. Poi pensa che Pasquale tiene la bicicletta come fosse un figlio, sempre lucida, sempre a posto. Deve esserne gelosissimo. Finisce che non me la presta, conclude Giuseppe. Che si carica di risentimento nei confronti dell'inconsapevole Pasquale, va sotto le finestre dell'amico, lo chiama e quando questi si affaccia gli grida: Pasquà, va' a farti fottere tu e la bicicletta. Ecco, i rapporti tra Prodi e D'Alema sono stati a lungo questi.»
«Nessuna maschera. Sono Prodi e basta»
Chi ha sempre cercato di far sì che Giuseppe e Pasquale non litigassero per la bicicletta è Enrico Micheli, sottosegretario alla Presidenza. Micheli era direttore generale dell'Iri quando Prodi ne era presidente. E poiché, come dice un suo amico, «il Professore è un uomo libero e felice, ma non dirgli di occuparsi della macchina», una volta a palazzo Chigi Prodi ha tolto il macchinista dall'Iri. Preferendolo a due candidati «politici»: Roberto Pinza, un avvocato popolare di Forlì
e Claudio Burlando, uomo forte del Pds a Genova. «Avrebbero avuto una doppia fedeltà» dicono a palazzo Chigi. «Meglio Micheli, che di fedeltà ne ha una.» Quando si formò il governo, gli osservatori ritennero che il
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE braccio operativo di Prodi fosse l'altro sottosegretario, Arturo Parisi. Ordinario di sociologia politica a Bologna, Parisi è uno dei cervelli della casa editrice «il Mulino». E per insediarsi felicemente a palazzo Chigi, ha dovuto neutralizzare una specie di maledizione che lo storico nume tutelare di Prodi, Beniamino Andreatta, gli tirò addosso quando partì il pullman dell'Ulivo: «Lei ha già rovinato Segni, rovinerà anche quest'uomo. Cioè Prodi. Che è stato suo allievo all'università (e in politica) e, nonostante sia adesso suo presidente del Consiglio, gli dà ancora del lei. «Siamo assolutamente complementarimi diranno insieme Prodi e Parisi. Lo sono probabilmente nelle grandi strategie sul futuro. Ma chi decide che cosa si porta in tavola a pranzo e a cena è Enrico Micheli, un ternano che ha l'aspetto del protagonista del suo ultimo romanzo di fantapolitica, ma che la lunga e assai tormentata navigazione all'Iri ha dotato di un singolarissimo quanto prezioso realismo politico. I frequentatori del mondo politico che il 20 maggio '97 assistono al teatro dell'Opera di Roma all'esecuzione della Terza sinfonia di Brahms diretta da Wolfgang Sawallisch si dicono convinti di aver incontrato da qualche parte il maestro bavarese per poi constatare una impressionante rassomiglianza con Micheli. Hanno entrambi una espressione impassibile del viso (Micheli sembra un tantino più bavarese dell'altro). E se il maestro agita nell'aria le mani con uno stile addirittura partenopeo, può solo immaginarsi quali frenetici
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movimenti debbano fare ogni giorno sotto il tavolo le mani di Micheli per salvare il governo dalle infinite incomprensioni possibili. Col passar dei mesi Micheli diventa il canale privilegiato di D'Alema e di Letta per Berlusconi, costruisce un buon rapporto con Fini e soprattutto cerca di fare in modo, con risultati alterni, che Bertinotti non esca troppo spesso dal seminato. Fin dal mese di luglio '96 Micheli disinnesca la prima mina seminata da Rifondazione sulla strada del governo (il tetto degli aumenti contrattuali in rapporto all'inflazione, che porta il governo nella prima bufera). Poi nell'autunno partecipa a riunioni drammatiche con Bertinotti e Cossutta che entrano nella trattativa dopo l'Ulivo e riescono a ottenere sempre qualcosa di più. La criticatissima tassa sull'Europa ("Una imposta bulgara, un esproprio» mi dice Dini che pur l'ingoia) nasce dal veto dei segretari della Cisl, D'Antoni, e della Uil, Larizza, a toccare le pensioni baby nel pubblico impiego che Rifondazione avrebbe invece accettato di tagliare non essendone i percettori suoi fan. («Ma toccare quelle pensioni non sarebbe stato sufficiente» ammette Micheli.) Insomma una via crucis perpetua, con Bertinotti che dice «Se toccate i miei ideali, rompo sul mio terreno; il Professore che non crede alla crisi; il Polo che grida al governo dei comunisti; e D'Alema che non sopporta il trattamento privilegiato
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE che palazzo Chigi, a suo giudizio, riserva a Rifondazione. Naturalmente Prodi e D'Alema giudicano diversamente questi lunghi mesi difficili. «Il governo si poneva come mediatore dei rapporti tra il centrosinistra e Rifondazione,» mi dice D'Alema «quasi con l'idea che il problema di Rifondazione fosse un problema del Pds. Come se Prodi dicesse: ma insomma, adesso ci ho questo Bertinotti che litiga con D'Alema e mi tocca mediare un po' con l'uno e un po' con l'altro. A mio giudizio questo atteggiamento era sbagliato e ha comportato dei prezzi da pagare.» Per esempio? «Per esempio le misure per l'occupazione. Sono rimaste impantanate in Parlamento per mesi e mesi, dopo che era stato fatto un accordo con tutti: i sindacati e le associazioni degli industriali, dei commercianti, degli artigiani, dei contadini... Con tutti, insomma. Secondo me, su una cosa del genere il governo doveva mettere la fiducia. Nella sua prima fase, insomma, il governo ha rischiato di perdere ritmo, prigioniero di una eccessiva mediazione tra le diverse forze della maggioranza." Ribatte placido Prodi: «è vero, sembravo l'uomo di Rifondazione. Ho pagato un prezzo caro, per un anno sono stato su tutte le vignette. In campagna elettorale ero la maschera di D'Alema, poi sono diventato la marionetta di Bertinotti. Ma il tempo mi ha dato ragione. Sono Prodi e basta. Nego d'aver inseguito Bertinotti. Ho seguito semplicemente una li-
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nea di politica economica coerente. Già, ma Bertinotti ha dato proprio l'idea di contare parecchio. «Ha visto che è successo in Francia? Ha vinto il socialista Jospin che adesso ha i comunisti nel governo. S'è capito così che il problema non è italiano, ma europeo. Ogni coalizione ha i suoi problemi e noi non abbiamo avuto sbandamenti. In realtà l'immagine spesso travisa i fatti. Quando all'inizio dell'autunno '97 ho chiesto di avere rapporti più frequenti e corretti con l'opposizione, si è subito gridato all'inciucio. Sbagliando, ancora una volta.» Mi spiega Veltroni: «Tutti pensavano che Prodi e io corressimo dietro a Bertinotti. In realtà, durante la prima finanziaria del nostro governo, la nostra preoccupazione era di non andare a un confronto devastante con i sindacati. Il governo ha avuto al suo interno una compattezza esemplare e se entreremo in Europa, lo dovremo anche alle manovre da centomila miliardi votate da Rifondazione».
D'Alema da Kohl. Un giorno prima.
«Sa qual è la prima cosa che mi ha chiesto Kohl? Quanto duri? Me l'hanno chiesto anche alla prima riunione del G8. Alla seconda riunione hanno detto: ehi, per la prima volta l'italiano
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE è lo stesso dell'anno scorso. Sorridevano tutti, il giapponese era molto divertito. Quanto duri? Non me lo chiedono più dalla primavera del '97.» Con una vistosa parentesi autunnale. Sorride placido il professor Prodi nel salotto del suo studio a palazzo Chigi quando gli chiedo della sua visita al cancelliere tedesco del 7 febbraio '97. Che sarebbe una ordinaria visita di stato se il giorno prima lo stesso cancelliere non avesse visto Massimo D'Alema, leader del partito di maggioranza. Ne nasce un caso politico gigantesco. «D'Alema anticipa Prodi e va da Kohl» titolano insieme «Corriere della Serae «Messaggero». «Repubblica» piazza in prima pagina una micidiale vignetta di Forattini. Si vede Prodi in bicicletta vestito da prete, come sempre nelle vignette di Forattini, che arranca verso Bonn. D'Alema lo sorpassa in auto. «Dove vai?» gli chiede Prodi in un bagno di sudore. «Affankohl!» gli risponde garbatamente l'altro. «Una settimana di differenza tra un viaggio e l'altro sarebbe stata opportuna,» mi dice Prodi «ma la visita di D'Alema non mi ha danneggiato. Anche qui il tempo ha fatto giustizia di tutto. Abbiamo ruoli diversi, non c'è stata interferenza reciproca. Domande su Rifondazione? La Germania è interessata alla nostra stabilità. Quanto duri? mi ha chiesto Kohl. E io gli ho risposto che questo governo avrebbe avuto lunga vita. Mentre l'incontro di Prodi con Kohl è una normale visita di stato, il viaggio di D'Alema in Germania è frutto di mesi di lavoro compiuto con estrema riservatezza. Se ne occupa Umber-
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to Ranieri, un deputato cinquantenne di Napoli che si è formato alla scuola di Giorgio Amendola e ha cominciato per tempo il sofferto trasloco dalla destra comunista alla socialdemocrazia. Cominciando da un libro su Eduard Bernstein, riformatore socialdemocratico tedesco del pensiero marxista. Nell'ottobre del '96, Ranieri prende i primi contatti con l'ambasciata tedesca a Roma e con il nuovo ambasciatore italiano a Bonn, Enzo Perlot. D'Alema informa il leader socialdemocratico tedesco Lafontaine spiegandogli che l'Italia si prepara a compiere scelte decisive con un governo frutto dell'alleanza tra le grandi forze popolari del Paese, quella cattolica e quella che viene dal comunismo. «Sarà un incontro utile» gli dice Lafontaine. Il viaggio di D'Alema viene di fatto concordato in dicembre in un incontro riservato tra il segretario del Pds e il portavoce di politica estera della Cdu, il partito di Kohl, Lamers. Lamers non va a palazzo Chigi, ma chiede un appuntamento a D'Alema. Il viaggio è fissato, ma poiché già si parla del vertice italo-tedesco tra il cancelliere e Prodi, le due ambasciate concordano di spostare più in là l'incontro con D'Alema. A fine novembre, Ranieri riceve una telefonata dal ministro Mattei Hoffmann, dell'ambasciata tedesca: '"ll cancelliere sarebbe lieto di incontrare l'onorevole D'Alema alle 9.30 del 6 dicembre». Ranieri ringrazia e obietta: «Ma l'indomani il cancelliere non incontra il nostro presidente del Consi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE glio?». Hoffmann: «Sì, certo. Ma per noi non è un problema. Mi faccia sapere». Ranieri si trova a Napoli, cerca D'Alema che ha avuto un
analogo messaggio attraverso la sua segreteria, i due s'incontrano l'indomani e la prima risposta è di forte perplessità. Ranieri va a trovare l'ambasciatore tedesco a Roma, Dieter Kastrup: «Due visite a poche ore una dall'altra possono creare delle incomprensioni. Non con Prodi, ma certamente con la stampa italiana». «Capisco,", risponde l'ambasciatore «ma le suggerisco di accettare l'invito. Altrimenti chissà quando sarà possibile un nuovo appuntamento.» Pressioni favorevoli arrivano anche dalla segreteria di Kohl a Bonn. Ranieri riferisce a D'Alerna, che si trova alla Camera. Il segretario del Pds chiama Prodi e poi Dini dal suo stesso banco alla Camera. Poi avverte Ranieri: «Prodi ci invita a incontrare Kohl. Ha detto che ogni contatto con la leadership tedesca in questa fase è utile e mi ha invitato a non perdere l'occasione». In realtà, Prodi la prende malissimo. Trova maliziosa la coincidenza determinata da Kohl e inopportuna la decisione di D'Alema di accettare. Dinanzi a una richiesta di permesso da parte del segretario del Pds, non può dirgli di no. (Glielo dirà, come vedremo, durante la crisi albanese.) Ma vorrebbe dichiarare irricevibile la richiesta stessa, quasi a dire: fa' come ti pare, valuta tu con la tua testa se ti pare opportuno andare
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oppure no. Prodi infatti sa benissimo che cosa diranno l'opposizione e i giornali: Kohl ha voluto incontrare prima D'Alema per farsi spiegare le cose da quello che comanda nella maggioranza. E la cosa, naturalmente, non può fargli piacere. Con una assoluta eccezione sulle abitudini italiane, il Pds riesce a mantenere il segreto sulla notizia fino al momento dell'incontro. La sera del 5 dicembre D'Alema arriva in aereo a Francoforte, trova un'automobile della nostra ambasciata e va a cena a Bonn a casa di Perlot. Felice della riuscita dell'embargo, D'Alema dice al suo portavoce Fabrizio Rondolino che ha studiato filosofia a Berlino e l'accompagna: «Per la prima volta ho la prova che lavori per noi e non per quei criminali dei tuoi colleghi. L'indomani Kohl lo riceve nel suo ampio studio dove c'è una lunga scrivania ingombra di libri e giornali. Alle pareti due ritratti di persone care al cancelliere, Franc,ois Mitterrand e Konrad Adenauer. Kohl offre agli ospiti (D'Alema e Ranieri) caffè e biscotti, li intrattiene assai più del previsto. I due convengono sul fatto che l'unione europea non può essere soltanto un'operazione monetaria. Ma Kohl dice a D'Alema: «Dovete capire noi tedeschi quando abbiamo paura di scambiare il marco con l'euro. Abbiamo ancora in mente la terribile inflazione che dopo la prima guerra mondiale travolse la nostra economia e la nostra società spianando la strada al nazismo. Mio nonno aveva i suoi risparmi in titoli
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dell'imperatore. Perse tutto. Per noi marco significa sicurezza e coesione». D'Alema resta colpito da un altro racconto familiare di Kohl che riferirà anche nel suo libro: "'Il fratello di mia madre si chiamava Walter e morì nella prima guerra mondiale. Mia madre chiamò Walter il suo primo figlio, mio fratello, che cadde sul fronte russo durante la seconda guerra mondiale. Mio figlio si chiama Walter ed è vivo. Questo significa per noi tedeschi l'Europa. Innanzitutto la pace. Per troppo tempo tedeschi e francesi hanno badato solo a darsene di santa ragione. E mostra a D'Alema i ritratti di Adenauer e Mitterrand. D'Alema gli parla dell'alleanza italiana tra nuovi socialdemocratici e cattolici che sta portando stabilità politica ed economica, lo rassicura sulle riforme e sul risanamento del bilancio. Kohl ne approfitta per un parallelo tra la Dc italiana e la sua Cdu, «più laica, come ho sempre detto agli amici italiani». Chiede naturalmente di Rifondazione (non avrebbe mai previsto di trovarsi pochi mesi dopo i comunisti al governo in Francia), fa capire che il suo cuore resta democristiano e moderato e che Berlusconi non e tra i suoi parenti stretti. D'Alema esce dal colloquio colpito dalla statura di Kohl e ripensa forse ai luttuosi sberleffi con i quali il Pci ne accolse nell'82 la successione a Schmidt. Raccoglie Rondolino che ha atteso in anticamera parlando al telefono con Pierluigi Battista di «Panorama" (il quale però non sapeva dove si trovasse il portavoce di D'Alema), entra in auto e dal cellulare chiama
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
Prodi: «L'incontro è andato bene.
L'incidente di Gargonza
All'inizio di marzo l'Ulivo riunisce settanta politici e cinquanta intellettuali nel castello di Gargonza, in Toscana. è una replica del seminario indetto dal Pds nel dicembre del '95 nel convento di Pontignano. In entrambi i casi, partecipazione selezionatissima a inviti. Unica differenza, a Pontignano c'erano anche esponenti di Rifondazione e del «manifesto», a Gargonza no. Gargonza, per quanto riguarda D'Alema, rappresenta anche la pietra tombale dei seminari. Dopo il suo esito, ha giurato che non parteciperà più a roba del genere. Uscendo da Gargonza ha avuto infatti molta solidarietà con Dante Alighieri che entrando in quel castello senese all'inizio del suo esilio, notò «come sa di sale lo pane nltrui e come è duro calle lo scendere e 'I salir l'altrui scale». (Da allora, il segretario del Pds mangia sciapo.) L'idea di Gargonza è di Omar Calabrese, semiologo bolognese e padre fondatore dell'Ulivo, che se ne occupa con Marina Magistrelli, biondo avvocato marchigiano e presidente del Movimento dell'Ulivo (di cui nell'occasione si distribuiscono tessere), e Tana de Zulueta, già corrispondente dall'I-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE talia dell'«Economist» di Londra, che scriveva così male di Berlusconi da meritare d'ufficio un seggio ulivista al Senato. Tema della due giorni gargonzese, dice la Magistrelli, la «verifica delle compatibilità culturali che debbono diventare compatibilità politiche». Quando riceve l'invito, D'Alema è assai perplesso sulla opportunità di partecipare. Non capisce con esattezza a che cosa serva il convegno. Velardi lo sconsiglia, chiama Antonello Soro, capo della segreteria politica di Marini, e vede che nemmeno i Popolari sono convintissimi: «Se non va D'Alema,» dice Soro «non va nemmeno Marini». All'idea di una doppia defezione del genere, Calabrese e la Magistrelli tremano e suonano tutte le campane. Alla fine D'Alema cede (la stessa cosa fa Marini), ma dice ai suoi: «Vado, ma non parlo". E parte con Minniti, inseguito dagli improperi di Velardi. I giornalisti restano fuori delle mura del borgo medievale, Romano Prodi fiuta l'aria e dice che è un po' troppo chic, Veltroni e D'Alema ne approfittano per differenziarsi ancora una volta. Secondo quanto riferisce sul «Corriere» Maurizio Caprara, infatti, par di capire (il dibattito è a porte chiuse) che Veltroni giudichi l'Ulivo «sicuramente molto di più di un cartello elettorale e in un sistema compiutamente bipolare potranno esserci il partito dell'Ulivo e il partito del Polo». D'Alema si irrita. Non per l'intervento di Veltroni in sé, quanto per l'impostazione «nuovista» dell'intero convegno.
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Quando avverte che nel castello dei Guicciardini l'Ulivo viene considerato una cosa moralmente superiore ai partiti che lo compongono, chiede di parlare e son dolori. (E' il più umorale e il meno cinico di tutti noi,mi dice uno dei suoi «quando gli girano le scatole dice senza alcuna prudenza quel che pensa. E così fa a Gargonza.») «Voi mi scuserete se questo discorso potrà contenere qualche risposta un po' spigolosacomincia. E versa subito sale sulla piaga: «L'Ulivo è una aggregazione instabile e in fondo nessuno di noi può dire con certezza che cosa diventerà. Oggi è il luogo di raccolta delle correnti politiche fondamentali che hanno dato vita alla repubblica democratica del dopoguerra» All'Ulivo, «luogo di raccolta» non l'aveva mai detto nessuno. A D'Alema non è piaciuto il clima di sufficienza verso i partiti che ha respirato a Gargonza. E risponde così:Noi non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti. è una verità indiscutibile. Non possiamo raccontarci queste storie tardosessantottesche». Infine, una lezione provocatoria di realismo politico. "Il vero grande problema è che noi [i partiti dell'Ulivo] che rappresentavamo la quasi totalità del popolo italiano abbiamo perduto negli ultimi quindici anni quindici milioni di voti.» «Noi non abbiamo vinto le elezioni. Le abbiamo perdute, anche numericamente. Tra il '94 e il '96 le forze politiche che si
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sono poi raccolte nell'Ulivo hanno preso due milioni di voti in meno... Abbiamo sfruttato l'effetto del maggioritario, mettendo in campo il fatto che noi eravamo una minoranza, ma l'unica in grado di offrire al Paese un progetto di governo...» Il discorso di D'Alema porta il gelo nell'esclusivo circolo di Gargonza. Umberto Eco, uno degli ospiti più illustri, dice: se continua così, me ne vado. «Dopo quel discorso ho avuto un senso di tristezza» mi racconta nell'autunno successivo Romano Prodi al quale i giornalisti di Gargonza attribuirono un commento sferzante («Una caricatura»). «Ci vidi molto di esagerato, di provoca-
torio. Non ero contento di quelle parole, ma mi convinsi che a partire da quel momento si sarebbe rafforzata la coalizione. Il dibattito non oppose i partiti, ma le persone. E un confronto libero è sempre utile.» Gargonza finisce l'indomani, domenica 9 marzo, come si dice, a tarallucci e vino. Nella notte tra il sabato e la domenica il fantasma dell'Alighieri non riesce a prendere sonno, disturbato dal canto delle «osterie». In primissima linea Umberto Eco e il filosofo torinese Gianni Vattimo. «Non a caso» mi dice Prodi molto divertito «erano entrambi dirigenti dell'Azione Cattolica tra gli anni Cinquanta e i Sessanta.» Tre giorni più tardi, mercoledì 12 marzo, il testo integrale del discorso di D'Alema viene pubblicato in una intera pagina del «Corriere della Sera, con una nota (e una foto) di
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Omar Calabrese. Claudio Velardi arriva come sempre in ufficio alle otto. La sua stanza è una specie di junior suite nell'estremo angolo orientale al secondo piano del Bottegone. Diversissima dalle altre. (Rondolino occupa quella che fu di Berlinguer e tiene un ritratto di Togliatti nella parete centrale.) Il sapore è a metà strada tra uno studio di architettura e uno di pubbliche relazioni. Alle pareti, un regolamento delle Due Sicilie, un poster di palazzo Donn'Anna a Napoli e una foto di Blair che in tempi non sospetti fu mostrata all'interessato. Il salvaschermo del computer forma disegni criptici, come quelli che traccia il titolare, mentre ascolta musica classica. Velardi apre il «Corriere» e g!i viene un colpo. Alle 8.45 arriva D'Alema dopo aver portato i figli a scuola e viene un colpo anche a lui. Arriva più tardi anche Rondolino e si apre il consiglio di guerra. Come sempre gli accade in questi casi, D'Alema pensa a immediate iniziative giudiziarie. «Bisogna denunciarli.» Rondolino è più prudente: «Guarda Massimo che ci hanno regalato uno spot. Il testo è abbastanza curato, la pagina è ben fatta. Chi pensava di crearci un problema ha sbagliato». Viene giudicata «plastica» la differenza tra il discorso di D'Alema e il commento di Calabrese pubblicato in calce. Ma il segretario è furibondo e commissiona ad Antonio Soda, deputato di Melfi ed ex magistrato di Cassazione, una nota
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE (cinque cartelle) sul diritto alla riservatezza.
D'Alema invoca tre ragioni. La prima: è un convegno a porte chiuse, quindi il testo può essere stato passato soltanto da qualcuno attrezzato a registrarlo. Gli organizzatori sono dunque i più sospettati. La seconda: ho il diritto alla tutela della mia firma. Un testo di rilievo non può essere stampato su un giornale, peraltro così importante, senza che l'autore ne sappia niente e lo abbia rivisto. La terza: molti pensano che noi ne abbiamo autorizzato la pubblicazione. E infatti poco dopo arriva la telefonata di Veltroni: «Perché lo avete passato?». Lo stesso Prodi teme una iniziativa di D'Alema e Parisi comincia a fare telefonate. Un amico del Professore che conosce bene il mondo della stampa d'acchito dice: «è stato Velardi. Poi compie una indagine e arriva agli stessi risultati raggiunti con un'altra indagine da Rondolino: il testo è stato passato al «Corriere" da Omar Calabrese. Calabrese nega. Nasce così a palazzo Chigi un'interpretazione che sistema tutto: qualcuno aveva lasciato il telefonino aperto...
«Si potrebbe votare il 15 giugno...»
L'incidente di Gargonza avviene dopo le prime settimane di lavoro della Commissione bicamerale per le riforme e in
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un momento di forte diffidenza di Prodi per i lavori in corso. La nomina di Marini al vertice del Ppi lo inquieta. («Avevo un così buon rapporto con Bianco, era comprensibile che tifassi per lui» mi dirà Prodi in autunno. «Ma non ho interferito nella scelta nemmeno con una parola e adesso va benissimo anche con Marini.») Lo inquieta, soprattutto, il clima di dialogo che si è stabilito tra Berlusconi e D'Alema sulle riforme. «Governo e Bicamerale sono fratelli gemelli» mi dice tuttavia il Professore. «Ero preoccupato per il suo avviarsi faticoso. Non capivo dove ci avrebbe portato. Ma se dovessi giudicare cinicamente il suo rapporto col governo, i tempi costituzionali sono così lunghi... No, siamo stati complementari, non concorrenti.» Eppure, all'inizio della Bicamerale anche Veltroni mette in guardia Prodi da D'Alema. E nei primi mesi dell'anno, anche per opera di Bertinotti, il rapporto tra governo e Pds non car-
bura. Me lo conferma lo stesso D'Alema: «Prodi pensava forse in quella fase di doversi emancipare dal rischio di una presenza soffocante del partito maggiore. Era diffidente, all'inizio, perché pensava che noi cercassimo di metterlo in difficoltà, temeva che la Bicamerale fosse un modo trasversale per creare problemi al governo, per aprire la strada a nuovi, possibili scenari. Temeva che noi volessimo spingerlo a uno scontro con Bertinotti per poi far pagare a lui il prezzo con
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE una crisi di governo e raccoglierne noi il risultato. Era sospettoso. Sì, c'è stato un periodo in cui Prodi ha sospettato di noi. Poi ha capito che noi non volevamo usare la Bicamerale per far saltare il governo». Le cose tra Prodi e D'Alema stanno appena cominciando a sistemarsi, quando scoppia la crisi albanese e Bertinotti decide di non votare per l'invio delle truppe italiane incaricate di una missione umanitaria e di un controllo territoriale che consenta le elezioni albanesi. Si arriva così al 6 aprile, domenica in Albis. Titola in prima pagina "l'Unità: «D'Alema: se si apre la crisi, siamo pronti alle elezioni». Nell'intervista a Vittorio Ragone, il segretario dice:"Se Bertinotti continua su questa strada, si va a votare... Bertinotti sostiene: "Io perderò qualche deputato, D'Alema perderà le elezioni". Ma non me ne importa nulla. Ci sottovaluta, noi non abbiamo paura. In un passaggio drammatico come la crisi italiana, non Si pUÒ avere paura». E conclude: «Ai militanti e ai dirigenti del Pds dico: preparatevi». Il segnale di D'Alema è per Bertinotti, naturalmente, ma anche per il Polo: non illudetevi, dice il segretario del Pds, se si apre la crisi non ci saranno nuove maggioranze. è un bluff? è una minaccia con «la pistola scarica» come dice da giorni Cossutta? La mattina del 6 aprile Claudio Velardi, capo dello staff di D'Alema, vorrebbe godersi gli ozi di Anacapri, come fa spesso durante il fine settimana. Ma viene svegliato dallo squillo
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del cellulare che non si fermerà per l'intera giornata. «I germi del doroteismo ci sono anche tra noi» sospira Velardi, toccando con mano il terrore di una nuova campagna elettorale in chi ha un qualunque incarico di governo. Telefonano molti sottosegretari, segretari di sottosegretari, insomma una parte cospicua della nomenklatura postcomunista arrivata al governo sull'onda del 21 aprile. D'Alema fa sul serio?, chiedono tutti. E Velardi li trafigge rispondendo di sì. L'intervista a «l'Unità» non è frutto di un momento di irritazione di D'Alema per il precipitare della crisi albanese, ma la conclusione di un'analisi politica attenta e riservata cominciata esattamente un mese prima. Quando gli albanesi ancora non invadevano le coste italiane. D'Alema non ha mai pensato che Bertinotti potesse mettere in crisi il governo. «Non ha retto allo show-down sul governo Dini [dopo una notte drammatica, ritirò l'annuncio di crisi], figuriamoci se regge a uno show-down su Prodi» dice ai suoi. Ma col passar delle settimane, il ruolo assunto dal leader di Rifondazione comincia a stargli sempre più indigesto. Non gli piace, in particolare, il costume da Robin Hood che Bertinotti indossa sempre più spesso. E un'anomalia che rende fragile l'immagine internazionale del governo e ne rallenta pesantemente l'azione. Il Pds ha un monitoraggio costante dei flussi d'opinione, affidato fin dal '94 alla Swg di Trieste. In dicembre uno studio
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE diretto da Roberto Weber e Maurizio Pessato riscontra i fermenti più moderni e innovativi negli elettorati del Pds e di Forza Italia. Ma per l'Ulivo le cose vanno male. Le difficoltà autunnali della Finanziaria e il grande successo della manifestazione popolare indetta dal Polo contro il governo hanno ribaltato nei sondaggi della Swg i risultati elettorali del '96. All'inizio di marzo l'Ulivo recupera un po': il Polo è accreditato di un 40 per cento, l'Ulivo di un 32, che diventa 40 con 1'8 per cento di Rifondazione. Decisivo, come sempre, 1'8 per cento della Lega. Il vertice del Pds è interessato a questo punto a capire che cosa accade se l'Ulivo va alle elezioni senza Rifondazione. Rispondono da Trieste: Bertinotti viene penalizzato, non porta con sé nei collegi del maggioritario tutto il patrimonio dei voti di lista del proporzionale. Ma i rischi per l'Ulivo sono forti.
Prodi contro Berlusconi? Meglio D'Alema...
Altro scenario. Se si va alle elezioni, D'Alema può candidarsi in prima persona o deve di nuovo cedere a Prodi? Nell'ipotesi di un confronto diretto tra il Polo guidato da Berlusconi e l'Ulivo (senza Rifondazione) guidato da Prodi, il Polo vincerebbe per 40 a 32. Nell'ipotesi analoga, ma con l'Ulivo guidato da D'Alema, la forbice si restringe parecchio: Berlusconi è dato vincente di soli tre punti, 38 a 35. D'Alema recu-
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pera cioè una parte dei voti di Rifondazione («meglio votare per un "comunista" come lui che per un "democristiano" come Prodi») e toglie a Berlusconi una certa quota di voti moderati, soprattutto quelli che vengono dalla ex Dc. Gli uomini del segretario si convincono che portando le simulazioni sul terreno dello scontro elettorale, l'Ulivo - anche senza Prodi e Bertinotti - può vincere le elezioni e cambiare completamente lo scenario politico italiano. Al secondo piano delle Botteghe Oscure si comincia dunque a lavorare seriamente su un'operazione di «igiene politica» che purifichi il centrosinistra dal virus di Rifondazione. «Andiamo alle elezioni,» dice D'Alema a Minniti «così ti ricandidi." Il numero due del Pds non è infatti deputato. Leader indiscusso del partito in Calabria, si è ritagliato per dare l'esempio un collegio perdente a Reggio (380esimo in ordine di «sicurezza» con il Polo dato vincente per 60 a 40), convinto di entrare con un forte resto. Ma l'affermazione del partito è stata superiore a ogni attesa, non ci sono stati resti e Minniti è stato battuto per poche centinaia di voti. La decisione operativa di votare viene presa nei primissimi giorni di aprile, poco prima dell'intervista a"l'Unità». D'Alema gioca al computer e parla ad alta voce. L'idea della mo una chiave per uscire da questa situazione incredibile. La partita si gioca davvero.E rifila all'inconsapevole Bertinotti la dama di picche, decisiva nel trafiggere l'avversario del
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «bridge a perdere». D'Alema indica anche la possibile data della consultazione: 15 o 22 giugno. Ma il 15 giugno gli piace di più. Per il Pci fu una data storica: il 15 giugno del '75 ci fu la prima clamorosa vittoria comunista alle elezioni amministrative: quasi tutte le grandi città italiane ebbero un sindaco «rosso» e una giunta di sinistra. Come fa D'Alema a essere così sicuro che Scalfaro avrebbe sciolto le Camere? La ragione è semplice: senza il Pds non è possibile nessuna maggioranza parlamentare. Al Bottegone sono anche convinti che i rapporti tra il capo dello Stato e il presidente del Consiglio non siano idilliaci come un tempo. Uno degli elementi di frizione è stata la decisione del governo di abolire il Cai, il servizio aereo dei servizi segreti, senza informare il Quirinale. D'Alema sa quanto tenga Scalfaro a essere messo al corrente di tutto. Sa quanto si sia sentito in «esilio internodurante i pochi mesi del governo Berlusconi, quanto si sia adoperato perché cadesse, quanto tenga al ruolo di «traghettatore» dalla Prima alla Seconda Repubblica e di padrino della nuova Dc rinata di fatto con l'Ulivo. D'Alema sa tutto questo e prima dell'intervista a «l'Unità» sale al Quirinale. Bertinotti viene informato riservatamente da Cesare Salvi sul fatto che D'Alema non scherza, con una battuta molto esplicita: «Quello è pazzo, vuole votare sul serio.
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Sul taglieggiamento costante di Bertinotti-Robin Hood si è intanto innescata la crisi albanese. All'inizio il Polo non è orientato a correre in soccorso dell'Ulivo. Berlusconi sembra favorevole a una crisi che porti a una maggioranza diversa, legando ancora una volta (come per Maccanico) la maggioranza di governo alla maggioranza che si awia a riformare la Costituzione. Ma un duro discorso di Fini lascia capire a D'Alema che quella strada non e percorribile. «Rischiamo di ripetere il copione di Maccanico» dicono al Pds. «Fini ci farà fare qualche giro di valzer e poi ci porterà alle elezioni in una situazione poco limpida. Meglio giocare d'anticipo.» Al vertice del partito vengono valutate le diverse posizioni. Minniti è contrario alle elezioni: sa che è facile addossarne la colpa a Rifondazione, ma il Pds fallisce nell'occasione storica di tenere insieme il primo governo del nuovo centrosinistra. Prova a sondare la possibilità di un governo senza Rifondazione e senza elezioni. Ma D'Alema non è convinto. Minniti prova a chiamare Bertinotti per sondare se ci sono possibilità di ripensamento sul voto. è una telefonata piena di cortesia e d'imbarazzo. Al Pds sanno che non tutti in Rifondazione condividono la durezza del segretario. Ma Bertinotti risponde di no.
Mussì e Minniti prOvano a forzare senza rompere. Nell'in-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tervista all'«Unità» del 6 aprile D'Alema dà atto a Berlusconi e al Polo di aver imboccato una strada più responsabile sull'Albania, fa capire che se si apriSSe una crisi non ci sarebbe posto per governissimi e suona la carica: con le elezioni salterebbero anche le riforme costituzionali alle quali Berlusconi tiene molto. Al tempO stesso, nella votaZi°ne sull'Albania, D'Alema vuole evitare l'umiliazione del centrosinistra. Pur di salvare il governo/ infatti, Micheli ha fatto sapere di accettare che l'Ulivo voti la mozione del PolO Ma D'Alema cerca una soluzione più dignitosa. Fa sapere intanto a Bertinotti che gliela farà pagare. «Non faccio cadere il mio governo per colpa tua,» questO è il senso del messaggio «ma cercherò di isolarti sullo stato sociale e di punirti con la legge elettorale." (D'Alema s'innamora in questi giorIli del progetto Sartori che penalizza i partiti che corrono daoli ) Nei giorni successivi, il voto del Polo disinnesca la mina, il segretariO si convince dell'opportunità di soprassedere con uno dei suoi «processi carsici di riflessione". Mi dirà mesi dopo D'AIema: «Sull'Albania Bertinotti ha fatto un errore molto grande. La gente dimentica, ma lui aveva votato contro la missione dicendo che saremmo andati a difendere Berisha. Abbiamo invece garantito le elezioni, ha vinto la sinistra, lui ha poi votato per la permanenza delle nostre truppe Insomma, una figuretta. Bertinotti commise l'errore di isolarsi dimostrandO di aver costruito un rapporto
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amichevole con il governo in chiave polemica contro di noi. Contro il suo nemico principale che non è il capitalismo come potrebbe immaginarsi, ma il Pds". Ma prima d'archiviare il caso, c'è ancora un incidente grave. Stavolta con Prodi.
«Questa linea non può passare".
Roma vive una singolare stagione Marzo è stato soleggiato in modo inconSueto: un sole caldo e imprevisto ha sciolto i colori dei palazzi attenuando il grigiore della stagione politica. Si sono poi avuti molti giorni di pioggia e la Pasqua, a fine mese, è stata d'umore incerto, mentre nerissimo era quello del governo per il tragico speronamento della nave albanese nel canale d'Otranto. Nei primi giorni d'aprile è tornato il sole. Un sole diverso da quello di marzo, un sole gelido al mattino e al tramonto, che scalda la città soltanto nelle cre centrali della giornata. Tanto che giovedì 10 aprile, dopo aver pronunciato in Senato un discorso definito alternativamente «offensivo» e «incommentabile» da Popolari e Pds, Romano Prodi s'avventura con Arturo Parisi ed Enrico Micheli in una passeggiata a piedi fino al Pantheon, temperando in un celebrato caffè le angosce della giornata.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Ma insomma, che si vuole da me?stride il Professore. Già, che si vuole da lui? E soprattutto, che cosa sta accadendo? Torniamo indietro di ventiquattro ore. Mercoledì 9 aprile il governo Prodi si salva alla Camera perché sull'invio delle truppe italiane in Albania il Polo sostituisce i propri voti a quelli di Rifondazione. (Mi dirà Berlusconi: «Questo non è vero. Se il Polo avesse fatto mancare i suoi voti, il governo avrebbe ritirato il provvedimento. Non ci sarebbe stata la crisi, ma l'Italia - che aveva preso un impegno con l'Onu - sarebbe uscita dal G7 e non avrebbe certo potuto chiedere l'ingresso al Consiglio di sicurezza La sera stessa Prodi sale al Quirinale per riferire al capo dello Stato. Di fatto la maggioranza di centrosinistra non c'è più e Scalfaro vorrebbe fare una rapida verifica. Chiama D'Alema che lo sconsiglia: «Se facciamo una verifica, non sappiamo come andrà a finire. Rischiamo soltanto di fare una passerella per Bertinotti. Perché o la verifica è finta o bisogna prendere atto delle irrimediabili divisioni con Bertinotti sullo stato sociale. Meglio andare avanti al più presto". Prodi naturalmente è dello stesso avviso e il presidente lo rinvia la mattina dopo alle Camere per richiedere la fiducia, sapendo che, passata l'Albania, Bertinotti non l'avrebbe negata. (Scalfaro farà una ironica telefonata a D'Alema dopo la sorpresa del discorso di Prodi al Senato. E resta sorpreso anche Nicola Mancino, che era d'accordo con Scalfaro per una verifica più lunga. Sapendo che se per caso la verifica fosse
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andata male e si fosse aperta la crisi di governo, Scalfaro
avrebbe pensato a lui come a capo di un governo «istituzionale» che garantisse le riforme.) Nonostante gli abbia risparmiato la grave incognita di una verifica, D'Alema è piuttosto irritato col presidente del Consiglio. Ritiene che il governo abbia sottovalutato all'inizio la gravità della crisi albanese e abbia complessivamente gestito male la questione. La mattina di giovedì 10 aprile D'Alema si scontra col pessimismo del suo staff sulla governabilità della situazione, poi convoca il comitato politico del Pds nella stanza del capogruppo Cesare Salvi al Senato. «Sentiamo il discorso di Prodi e poi facciamo una valutazione collegiale. Arrivano Marco Minniti, Fabio Mussi, Claudia Mancina, Marco Fumagalli e Mauro Zani. Veltroni è al banco del governo, Salvi in aula. D'Alema s'aspetta un discorso conciliante con l'opposizione, ha parlato al telefono con Berlusconi e Fini, la sera prima c'è stato un durissimo scontro alla Camera tra Bertinotti e Mussi definito «giovane balilla. Insomma, ci si aspetta una ferma risposta al partito della maggioranza che, senza il soccorso dell'opposizione, avrebbe fatto cadere il governo. Tra l'altro, agli uomini del Pds arriva l'informazione (ine-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE satta) che Prodi avrebbe letto il discorso in Consiglio dei ministri ricevendo il plauso di Dini. Il presidente si è invece limitato a una generica informativa. Alle 12.35 Prodi comincia il suo discorso. «Signor presidente, onorevoli senatori...» D'Alema è attentissimo. Prodi racconta della decisione di Scalfaro di rinviarlo alle Camere. Poi prosegue: «In questi giorni dalla parte opposta dello schieramento politico ho sentito rivolgere verso di noi richiami alla dignità. Ho sentito dei buttafuori della politica accusarmi di non avere qualità morali...». Francesco Luna, portavoce del presidente del Consiglio, che segue l'intervento da un'altra parte, scatta sulla sedia. L'espressione «buttafuori della politica» è sua, l'ha suggerita al Professore in altra occasione e ha visto che Prodi non spreca niente. «...E vi confesso che quando il livello di decenza della polemica scende fino a questo punto, la tentazione di scendere allo stesso livello di volgarità è molto forte.» Nella stanza di
Salvi al Senato i dirigenti del Pds cominciano a essere nervosi. Alleanza nazionale rumoreggia in aula. «...La dignità è non reagire alle basse provocazioni di una opposizione che cerca solo di riconquistare un potere che ha malamente gestito e altrettanto malamente perduto...» Nella stanza di Salvi, D'Alema è immobile. «Ha la faccia scolpita" dice uno dei suoi. Mussi sbotta: «Ma li sta prendendo a calci in faccia», e giù una serie di colorite espressioni toscane. Gli
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altri lo guardano: tra i dirigenti del Pds presenti, il capogruppo alla Camera è certamente quello più vicino al governo. D'Alema annuisce in silenzio alle battute di Mussi. «...Lo voglio dire con forza a chi, anche ieri, nell'aula di Montecitorio, con tono irriguardoso e in verità assai poco adatto a un dibattito parlamentare, mi ha accusato di non vedere, di non sentire, di non parlare. Non tema, l'onorevole Fini, che vedo, sento, parlo, ma soprattutto cerco di pensare prima di parlare.» Nella stanza di Salvi dice Minniti: «Adesso sta menando sull'opposizione, tra poco arriverà l'affondo su Bertinotti». Claudia Mancina si associa. Prodi s'intrattiene invece a lungo sui meriti del suo governo nell'opera di risanamento economico e ringrazia le forze politiche di centrosinistra, nessuna esclusa. Non dimentica la Rete, i socialisti del SI e perfino il Patto Segni che sul presidenzialismo va raccordandosi con Fini e Cossiga. Dà atto anche a Rifondazione comunistache sostiene questo governo, di avere stretto con l'esecutivo, come gli altri citati, «un rapporto politico significativo». Nella stanza di Salvi al Senato sono arrivate intanto copie dattiloscritte del discorso di Prodi. C'è una corsa a sfogliare le pagine in anticipo sulla lettura per cercare le bastonate a Rifondazione e tranquillizzare l'uditorio. Niente. Quando il presidente del Consiglio esaurisce il suo discorso, il primo commento di D'Alema è: «Vedrete i giornali».
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE salito intanto Cesare Salvi, infuriato."I senatori sono sconcertati» dice.è impensabile starsene zitti."C'è uno scambio di battute tra i presenti: con una unanimità ormai rara del Partito democratico della sinistra, tutti giudicano il discorso del presidente del Consiglio una resa senza condizioni. «Prodi è un Ercolino-sempre-in-piedi» sospira Minniti. Alla fine D'Alema dice: «Questa linea non può passare». Non si puo subire nella speranza di accomodare. Dieci minuti dopo arriva la convocazione dei capigruppo del Senato e Salvi non va. Per la prima volta, in quel momento, gli uomini di Prodi temono sul serio la crisi di governo. «Pigliamo un po' d'aria"dice D'Alema ai suoi. Escono a piedi dal Senato e s'avviano al Bottegone.
«Forse mancava il J'accuse!..."
Appena D'Alema entra nella sua stanza, Ornella gli passa una telefonata. è Micheli, da palazzo Chigi, che cerca di mettere la prima pezza: «Mi rendo conto che il discorso è potuto apparire inadeguato. Prodi non ha avuto tempo di limarlo, l'ha letto mentre andava in aula...». D'Alema ha maturato un buon rapporto col sottosegretario e sarà merito di Micheli se dalla primavera migliorerà sensibilmente l'intesa tra Prodi e il segretario del Pds. La sua risposta, dunque, non è aggressiva. Per il discorso dell'indomani alla Camera suggerisce a
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Micheli di eliminare gli attacchi all'opposizione (in fondo, se il governo vive, il merito è del Polo) e di far intendere nei passaggi sullo stato sociale che il governo si muove così perché ne è convinto e non perché glielo ha chiesto Bertinotti. D'Alema attacca la cornetta con Micheli e Ornella gli passa Veltroni: «Massimo, non ne sapevo niente, non conoscevo il discorso». D'Alema è di ottimo umore. Quando la situazione gli sfugge di mano, diventa ilare e prodigo di battute. Ma ormai ci sono meno di ventiquattrlore per rimettere in piedi la baracca. Il punto centrale è questo: è possibile che il presidente del Consiglio abbia letto in Parlamento un delicatissimo discorso preparato dai suoi consiglieri, scorrendolo soltanto all'ultimo momento? Non è possibile. Quel discorso è infatti frutto della personale impostazione di Prodi, di una meditata discussione collegiale con il suo staff e di una stesura che il presidente del Consiglio ha condiviso in pieno. Il sabato precedente, 5 aprile, Prodi era andato in visita alla Dalmine e aveva pronunciato un discorso durissimo nei confronti di Rifondazione. Con lui c'era Silvio Sircana, suo amico e portavoce nella interminabile campagna elettorale dell'Ulivo, che poi non ha voluto seguirlo a palazzo Chigi preferendo restare a Milano con una propria, brillante attività di pubbliche relazioni. Sircana capisce che il Professore nei giorni successivi sfiderà la sua maggioranza all'insegna
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE di un motto che gli è ormai caro: «Vivere, non vivacchiare». Perché allora il discorso è cambiato? Uno che conosce bene Prodi mi dice: «Nella notte precedente deve aver prevalso una vecchia abitudine democristiana di Romano: mediare con se stesso». In realtà, nella notte sul 10 aprile al discorso ha lavorato Franco Pizzetti, ordinario di diritto costituzionale nell'Università di Torino, a suo tempo collaboratore di Goria a palazzo Chigi e ora consigliere del presidente per gli affari istituzionali. Nella serata Pizzetti ha partecipato a una riunione collegiale con Prodi, Micheli, Parisi, il portavoce Luna, il consigliere economico Franco Mosconi e il capo della segreteria Domenico Porpora. Nella discussione Luna sostiene che c'è lo spazio politico per picchiare su Rifondazione. «Si può essere duri» dice. «Si deve esserlo» lo interrompe Parisi. Micheli, come sempre, è il più prudente. Conosce Bertinotti da quando l'uno dirigeva l'Iri e l'altro era in Cgil. Lo ha chiamato al telefono: «Fausto, dimmi sinceramente: vuoi la crisi?". E l'altro: «Sinceramente no. Preferisco affrontare il rischio nella trattativa sullo stato sociale, che è il mio terreno. Se il governo cade lì, ho la coscienza tranquilla». Alla vigilia del voto alla Camera, Micheli aveva cercato di fare perno sulla mozione degli affetti: «Pensa al popolo del 21 aprile, alla delusione che gli diamo". L'altro, addolorato, gli aveva detto che non poteva recedere. Ma adesso Micheli
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invitava di nuovo tutti alla prudenza. Prodi detta la frase su Fini: il paragone con le tre scimmiette fatto il giorno prima dal leader di An lo aveva offeso profondamente. Pizzetti si ritira nel suo piccolissimo studio a scrivere. Poi, quando il personale va via, continua a lavorare al computer nella sua casa di via Nazionale. Alle otto del mattino torna a palazzo Chigi con il dischetto, fa stampare il discorso che fino alle dieci viene riletto prima dallo staff e poi da Prodi «con la piena consapevolezza politica di quel che era stato scritto», come mi dirà Arturo Parisi. Quando Micheli gli riferisce la reazione di D'Alema, Prodi resta incredulo. «Nessuno mi capisce, che si vuole da me?» sbotta. E convinto di aver fatto un discorso duro. «Forse mancava il l'accuse» dice Micheli, che è uomo di lettere e pensa al celebre scritto di Emile Zola sul caso Dreyfus. «In effetti ci sorprendemmo"mi dirà Parisi. «Volevamo fare un discorso di patti chiari e amicizia lunga con Rifondazione. Capimmo poi che la qualità delle parole e il tono del discorso non erano sufficienti. Il passaggio su Fini orientò negativamente il giudizio, aumentando enorrnemente il peso della seconda parte e facendo diventare l'opposizione molto più esigente.» Pizzetti si mette di nuovo al lavoro per correggere il discorso dell'indomani alla Camera. Micheli suggerisce un inciso a favore delle privatizzazioni (terreno arduo per Rifon-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dazione), Parisi chiede di rendere esplicito che il documento di programmazione economica e finanziaria dovrà esprimere la linea del governo. Prodi inserisce, corregge, cancella. Toglie ogni accenno polemico al Polo, inserisce sei righe per marcare «lo strappo compiuto da voi, deputati di Rifondazione comunista, uno strappo così grave...". Nelle stesse ore D'Alema si riunisce col suo staff per preparare il discorso da pronunciare nel dibattito alla Camera. La raccolta dei materiali è curata da Claudio Caprara (viene dal successo di copie di «Sabato sera», un giornale di cooperativa di Imola), che ha sostituito Cuperlo e che D'Alema aveva apprezzato nella preparazione di un convegno sulla sicurezza a Milano. Quando venerdì 11 escono i giornali, mi dice Sircana, «prima mi sarei messo a piangere, poi mi sono infuriato». Chiama Prodi: «Perché non hai fatto al Senato il discorso di Dalmine?".
E Bertinotti si regge la pancia
C'è sole anche il venerdì 11 aprile. Ma il presidente del Consiglio non ne gode, chiuso alla Camera a rappezzare una maggioranza che a leggere i giornali sembra essersi sciolta nella notte, come la neve delle Dolomiti quando l'aggredisce un tepore improvviso: il bianco è lì e della neve ha l'apparen-
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za. Ma si tratta di un miraggio: l'apparire è diverso dall'essere e quella neve non può più fare l'opera sua, si rivela molle e inaffidabile al primo tocco. Prodi - con l'aiuto di Pizzetti e degli altri - ha fatto comunque riserva di ghiaccio nella notte e al mattino spara neve gelata alla Camera dando alle sue parole un tono e una consistenza che al Senato poche ore prima non c'erano. Poi si incolla al banco del governo, aspettando che gli sciatori arrivino a giudicarla. C'è un'aria fiacca alla Camera, nonostante la gravità del momento e la ripresa televisiva diretta. L'aula è semivuota, soprattutto nei banchi della Destra. C'è un fuggevole lampo di vivacità all'ingresso di Berlusconi: il Cavaliere avanza sempre a passo svelto e sempre seguito da deputati di scorta. Parla Bertinotti, attento a salvare il governo dalla crisi e l'anima dal diavolo. «Oggi rivive il nostro consensoannunzia. Prodi lo sa e non batte ciglio. D'Alema guarda il grande lucernario liberty e corruccia ogni tanto il volto nelle smorfie di cattiveria che lo resero celebre in anni vicini, ma ormai dimenticati. Si scuote per mettere gli occhialini e cercare una penna solo quando Bertinotti, che doveva stuzzicare il Pds senza affondi, si chiede se quel partito sia ormai rinunciatario nella difesa dello stato sociale. Quando il segretario di Rifondazione finisce, applaudono soltanto i suoi. Sui banchi confinanti del Pds non vola una
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE mosca e gli abbracci, eccessivamente espansivi, dei Cossutta, dei Diliberto e degli altri rifondatori appaiono una danza di vittoria esaltata dal gelo degli uomini di D'Alema, compagni di fede della stirpe dei Cossutta per settant'anni e fino alla svolta di Occhetto. Parla Bossi, con la camicia verde sotto un'approssimativa grisaglia. «Il suo è un governo più adatto all'accademia della Crusca» sibila contro Prodi, avventurandosi in una spericolata esegesi linguistica delle contraddizioni della maggioranza. Ma il presidente del Consiglio non se ne avvede nemmeno, Veltroni continua a telefonare, la Bindi ad alzarsi e sedersi, Gianmaria Flick a chiedersi in silenzio che cosa mai farebbe se il governo cadesse. «Non si può governare a vista senza finire nelle secche»
esclama Franco Marini quand'è il suo turno: tace molte delle cose che pensa, comprime la rabbia di sentirsi prigioniero di un'architettura che lui stesso ha contribuito a costruire, invoca la riforma delle pensioni perché i pensionati possano continuare a percepirle. E in gabbia, Prodi lo sa e non batte ciglio. S'alza Pinuccio Tatarella: «Onorevole presidente del Consiglio, quando Fini l'ha paragonata alle tre scimmiette, non voleva offendere né lei né le scimmiette... Onorevole D'Alema, abbiamo atteso che nascesse la Bicamerale, poi che lei ne diventasse presidente, poi che il Pds facesse il congresso e che lei fosse confermato segretario, poi che sistemasse gli or-
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ganismi interni, poi che formasse la sua corrente di partito. Adesso basta. Che cos'altro dobbiamo aspettare, onorevole D'Alema, perché lei si decida a chiarire la sorte di questa maggioranza che non c'è? Bertinotti entri nel governo oppure cerchiamo tutti insieme soluzioni alternative...». D'Alema guarda il soffitto liberty, Prodi sfoglia carte, Veltroni passa il telefono alla Bindi, Flick pensa che tutto sommato la crisi non si fa e lui resta ministro. Parla Berlusconi: «Sono dispiaciuto e addolorato per questo spettacolo desolante». Silenzio.Gli uomini di Rifondazione sono i guastatori dell'economia di mercato.» Bertinotti scoppia in una risata silenziosa e al tempo stesso appariscente. «Brontosauro della cultura di sinistra» gli dice il Cavaliere. Altra risata. «Sostenete la più vecchia e inservibile ideologia contemporanea.» Bertinotti ormai si regge la pancia, mostrando nella risata aperta una apparente assenza di denti e quindi una bocca senile che non gli appartiene. Il Cavaliere sposta lo sguardo su D'Alema: «Avete deciso di incerottare un governo al quale nemmeno voi credete più. Gli italiani non ve lo perdoneranno. I banchi del Pds incassano in silenzio. Mentre i deputati del Polo si complimentano con Berlusconi, D'Alema estrae il microfono dal suo banco e aspetta che Violante gli dia la parola. Se Fabio Mussi, che gli siede accanto, facesse il giro dell'aula e delle tribune della stampa con il
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE cappello in mano esigendo un contributo senza il quale il segretario del Pds se ne starebbe zitto, incasserebbe moltissimo clenaro.
Tutti sono infatti certi che D'Alema stia per pronunciare un discorso memorabile, da televisione a pagamento. Lui non ha mai amato né Prodi né Bertinotti. Lo disturba il fatto che a palazzo Chigi ci sia un uomo senza partito laddove tutti i suoi colleghi dell'Internazionale socialista, quando vincono le elezioni, vanno a governare. Non è soddisfatto del governo e tanto meno del presidente del Consiglio. Non ritiene accettabile che l'Italia vada sui giornali di tutto il mondo come il paese in cui comanda Bertinotti, unico comunista d'Occidente a reggere una maggioranza parlamentare (il governo Jospin non è ancora arrivato). Giudica paradossale che il Polo abbia dovuto salvare il governo e che Prodi non gli sia stato nemmeno riconoscente. Ma la cosa più intollerabile è che la fonte di tutti i suoi guai stia alla sua sinistra: una sinistra che rimprovera all'altra sinistra la sua - di essere cedevole e di non saper tutelare gli interessi dei cittadini più deboli. (Proprio su questo tema nell'autunno successivo Bertinotti avrebbe scritto addirittura un libro.) Ora, in diretta televisiva, D'Alema avrebbe finalmente potuto assaporare il suo piatto preferito: la vendetta. Non prevedendo la legge esecuzioni sommarie che il segretario del Pds eseguirebbe volentieri con le sue mani «spezzaferro,
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D'Alema s'appresta a sguainare la sua lingua che talvolta è perfino più tagliente e micidiale. Tutti gli astanti avvertono i brividi che colgono collettivamente i testimoni d'una esecuzione capitale. I deputati distratti chiudono i giornali e le carte di collegio. Veltroni e la Bindi smettono di telefonare, Flick trascura il suo futuro. Il sottosegretario alla Presidenza, Enrico Micheli, assume l'espressione di sinistra solennità che lo fa di nuovo assomigliare per un momento a Gustav, il protagonista un po' sinistro del suo ultimo romanzo. (Sul titolo, La gloria breve, Romano Prodi fece riservatissimi scongiuri.)
San Petwnio resuscita Prodi
Infine, Prodi. La vittima designata assume uno specialissimo atteggiamento. Scosta la sua poltrona dal tavolo, appoggiandola allo scranno che tiene al vertice l'inflessibile Lucia-
no Violante. Incrocia le braccia sul petto, abbassa il mento, socchiude gli occhi. La concentrazione del presidente del Consiglio è assoluta, irreale, mistica. Lo spirito del Professore in quel momento abbandona l'aula e vola a Bologna, la città sua e di San Petronio. Vola in piazza Maggiore, entra in basilica per la Porta Magna - ope-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ra distinta di Jacopo della Quercia -, corre alla navata di sinistra e superando la preziosa cancellata di Francesco Tibaldi s'infila nella seconda cappella eretta da Alfonso Torreggiani a gloria del vescovo santo, difensore indimenticato delle libertà felsinee. Giunto a destinazione, lo spirito pio del Professore prega. Prega San Petronio. Lo prega di rinnovare un miracolo che fu al tempo stesso un prodigio di carità. Mentre D'Alema sistemava il microfono con le sue mani forti e un brivido correva nell'aula semivuota di Montecitorio, il Professore - come accade nei momenti decisivi della vita aveva avuto infatti una visione. Non una di quelle consuete, per le quali era noto che a suo giudizio tutto nel Belpaese andasse bene anche quando andava malissimo e che ancora quella stessa mattina dell'11 aprile aveva fatto gridare a molti giornali, come riconobbe egli stesso, che «Prodi era pazzo». Fu invece una visione mistica. Gli tornò in mente come d'incanto una sua antica visita alla Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano, dove, accanto alle straordinarie riproduzioni dell'universo mondo, c'è un affresco che mostra un prodigio di carità. Nel quarto secolo del Signore, un operaio edile bolognese stava costruendo un tempio, ma una colonna gli rovinò addosso e l'uccise. Prodi pensò che, dopo il suo discorso del 10 aprile al Senato, il governo era morto esattamente come l'operaio, schiacciato non già da una colonna infame, ma da un discorso suici-
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da. Che cosa avvenne nel quarto secolo del Signore allo sfortunato operaio? Passò San Petronio in abiti vescovili, con tanto di mitria bianca e bastone pastorale, si mosse a compassione per la terribile sorte del suo concittadino e lo resuscitò. Perché, si chiede Prodi, quel che fu possibile a lui non è possibile a me che di San Petronio, con rispetto parlando, son più devoto dell'oscuro e inconsapevole muratore? Questo deve aver pensato il Professore con le braccia raccolte, il mento basso e gli occhi socchiusi, mentre D'Alema comincia il suo discorso, secondo il galateo parlamentare, con un «Signor presidente (della Camera), signor presidente del Consiglio, colleghi deputati...». è in quel momento che San Petronio scende ad accarezzare i baffi del potentissimo padrone delle Botteghe Oscure. E millecinquecento anni dopo, il prodigio di resuscitare un defunto si ripete. I fogli dove la nervosa grafia del segretario aveva annotato una sentenza di morte si riempiono di aggettivi dolci e di farfalle primaverili, come negli amati quaderni della figlia Giulia. «Mettete dei fiori nei vostri cannonidiceva una canzone della beat generation. Così fa D'Alema. Ammette che il caso albanese è «un fatto serio», si è infatti ""determillato un dissenso profondo». Ma chiarisce subito, a scanso di equivoci, che Paese non può permettersi una crisi di governo,". Spara poi al-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE cune pallottole a salve contro Rifondazione, allineatasi con «i residui dello stalinismo» francese, greco e portoghese. Impallina Armando Cossutta dicendo che non poteva aspettarsi un «pacifismo integrale", da lui che - sottintende - era stato un fiero sostenitore dell'Armata rossa e delle sue «gite fuori porta». Cossutta arrossisce appena, come un cacciatore sorpreso sul terreno altrui e umiliato da una rosetta di pallini sul sedere sparati dal figlio del vicino. Ma sono pallini, appunto. Schiaffeggia con ironico garbo le aspirazioni del Cavaliere dicendo che non ci sarebbero stati governissimi o larghe intese, ribalta sull'opposizione le divisioni della maggioranza, chiama il Polo a una non chiara «responsabilità comune senza consociazione». Al quindicesimo minuto, Violante gli toglie la parola secondo regolamento e gli spegne il microfono. Viene forse sacrificato un moccolo contro Rifondazione, ma il miracolo di San Petronio è ormai compiuto. Prodi esce dalla crisi mistica e constata con sollievo di essere resuscitato. San Petronio, patrono di Bologna, ha fatto il miracolo. Quando il presidente del Consiglio esce da palazzo Chigi, il tramonto romano è freddo e sereno. Nuvole nere avrebbero voluto guastarlo, ma la tramontana le ha ricacciate indietro. «Io pago. Afine mese, ma pago»
Quando nell'autunno del '97 invito il professor Prodi a ripensare a quei momenti difficili, lui rivendica per intero la
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coerenza del suo comportamento: «Esiste anche la dignità. Avevo il dovere di dare una risposta politica ed emotiva ad attacchi di una arroganza unica. Si confonde una certa bonarietà del mio carattere con la disponibilità ad accettare tutto, che non esiste. Si paga a fine mese, ma si paga. Quel discorso doveva ristabilire la serietà e la dignità del governo». Ma non era un discorso un po' squilibrato? No. Dall'esterno poteva sembrarlo, dall'interno era coerente con le scelte e le alleanze che avevamo compiuto. Rifondazione ha poi votato la fiducia al governo, quel che ha fatto in un attimo si è perduto... La questione albanese si è risolta bene, le elezioni si son fatte nel giorno che avevamo stabilito, sono stato attentissimo a informare il leader dell'opposizione Fino delle richieste del presidente Berisha e viceversa. Ho bloccato D'Alema quando voleva andare in Albania. Guai se i partiti italiani avessero interferito in quelle elezioni...» Prodi nega che in quei giorni si sia davvero sfiorata la crisi. «Parlammo di questa possibilità con Veltroni e Parisi in corridoio, avviandoci al dibattito parlamentare. Ma non ci ho mai creduto fino in fondo. è difficile aprire una crisi quando la gran parte dell'opinione pubblica è favorevole alla decisione che si prende." E non ha mai creduto alla crisi in qualunque momento: «Abbiamo passato giornate difficili, ma quando durante la Finanziaria vedevo arrivare in aula per il voto i parlamentari più vecchi e acciaccati, gli infartuati, ho capito
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE che l'Ulivo lancia un messaggio davvero forte». A giudizio di Prodi, l'Ulivo italiano è stato trapiantato anche all'estero. "Il nostro è un fatto nuovo, credo che abbia permesso anche alla sinistra francese di vincere. La nostra sperimentazione ha dimostrato la compatibilità di programmi di centro e di sinistra.» Ma socialisti e comunisti francesi non si alleavano per la prima volta... «Sì, ma nel '97 è stato diverso. Si è visto lo sforzo di una sinistra postmarxista.«Non creda» mi dice «che io non abbia capito l'inquietudine del Pds nei primi mesi di governo. Dov'era l'altra sponda? Ci saremmo arrivati? Ciampi e io decidemmo di raccogliere la sfida dell'Europa fin dall'estate del '96. Ma capisco che al Pds si chiedessero: dove ci porta questo governo? Che prezzo pagheremo politicamente? Che succede se il nostro disegno fallisce?» E Rifondazione? «La Finanziaria del '98 è il completamento di un disegno che non mi ha mai visto al servizio di Bertinotti. Sa quando ho capito che avrei dovuto agire con gradualità? Quando gli scioperi per le pensioni hanno paralizzato la Francia di Juppé. Aveva ragione lui, quei provvedimenti andavano presi. Ma non dalla sera alla mattina, ci vuole tempo...» E il nuovo partito di D'Alema, la Cosa 2, non la spaventa? «Ma no, anzi prima la fanno meglio è, così potrà riprendere visibilità il dibattito nell'Ulivo stesso. Da troppi mesi le bandiere dell'Ulivo non appaiono a una manifestazione. Stanno a casa per non intralciare la Cosa 2. Ma è ora che tornino in giro,
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visto che la forza sta nella coalizione.
«è giusto che D'Alema ptlnti n pnlazzo Chigi"
Sogna il partito dell'Ulivo? «Ho sempre sognato una progressiva maggiore coesione. Ma il partito non è per oggi né per domani. E non ha senso parlare di concorrenza tra Cosa 2 e Ulivo.» Già, ma D'Alema punta al 30 per cento, i numeri son quelli che sono, se si rafforza la sua radice, le altre si indeboliscono. «La Cosa 2 al trenta per cento? E dove lo prende?» Un maggiore impegno di Prodi nel Ppi? «Sono parlamentare di quel partito. Se per maggiore impegno intende che io possa diventarne segretario, è escluso. è invece vero che il governo sta rafforzando il centro dell'Ulivo. Mai pensato alle dimissioni? «Mai." E giusto che la prossima volta D'Alema si candidi lui a palazzo Chigi? «Certo. è la bellezza del bipolarismo. Uno dei grandi meriti del mio governo è stato di aver fatto cessare il veto nei confronti di una candidatura alla guida del Paese del Pds e di Alleanza nazionale. Per An il merito è anche di Berlusconi. " A proposito di Berlusconi, nell'autunno del '97 è riesplosa la polemica sul suo conflitto d'interessi. "Il conflitto d'inte-
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ressi pesa molto su Berlusconi e sul futuro della politica italiana. è una faccenda che bisogna risolvere. è un problema del Polo, non mio. Anzi, a me in fondo il conflitto d'interessi di Berlusconi può fare anche comodo. Lei è uno del ramo, ha assistito tante grandi aziende nella sua vita. Che gli consiglierebbe? «La sua è una scelta. Se vuole far politica, vada in una banca d'affari e venda tutto.» Mica facile. «Guardi, è difficile acquistare. Vendere è facilissimo. E poi dai tempi di San Francesco esistono tanti modi per disfarsi della proprietà. Scelga lui.» Lei è terribilmente fortunato, i suoi compagni di scuola le grattavano la testa prima dell'interrogazione. «E vero, ci scherzo, mi aiuta a sdrammatizzare i problemi. E poi la fortuna bisogna saperla guidare.» So che ha pensato di portare la bici a Roma... «Ma non l'ho fatto perché qui non ci sono le strade adatte. Tranne che...» Sorride. E io che già so la risposta lo interrompo:A Castel Porziano, nella tenuta del capo dello Stato...». «Già, a Castel Porziano. Ci son cascato come un pollo.» E adesso che c'è cascato, non pensa che sarebbe bello andare al Quirinale se non altro per ragioni ciclistiche? «No, guardi, il ruolo di garante non mi piace. Mi piace la macchina, il giorno per giorno...-.
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Un suo amico m'ha detto che le è sempre piaciuto fare il presidente del Consiglio. (Quando si dimise Amato, Scalfaro voleva fare l'accoppiata Prodi presidente, Segni vicepresidente. Segni non accettò. «Se rinunci tu, chiama me» disse a Prodi. E invece chiamò Ciampi.) «Non l'ho mai nascosto. Ma il garante no. Può darsi che invecchiando...» ...Punta al Quirinale?... «Capisco che l'utilizzo ciclistico di Castel Porziano non è una ragione sufficiente.»
QUARTO.
Una sera d'ottobre...
Una sera d'ottobre, giocando al computer.
è una sera di metà ottobre '96: D'Alema come di consueto soffia il posto alla segretaria Ornella Massimi davanti al computer nella piccola stanza che introduce nel suo ufficio. Non ha documenti da leggere, né archivi da consultare. Le
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sue famose dita «spezzaferro" conducono rapidamente il «mouse» alla «cartella» dei videogiochi. Ne sono disponibili diciannove: otto nella prima e nella seconda fila, tre nella terza. D'Alema ne usa in genere soltanto due. Il secondo da sinistra nella prima fila (Golf) è un solitario. Quella sera sceglie il secondo da destra («Hearts), il famoso «bridge a perdere" che gli ha portato fortuna la notte del 21 aprile. I suoi avversari scelti dal computer sono Corrado, Roberto e Sergio. Insieme con Ornella, D'Alema decide di chiamare Pluto la propria posizione. Rifila a uno degli avversari la tremenda regina di picche che da sola fa perdere tredici punti, distribuisce con equità la fregatura contenuta nelle carte di cuori (Ull punto ciascuna). Incamera il resto e vince la partita restando a zero punti, sotto lo sguardo ammirato di Ornella che si esercita ogni tanto anche lei con notevole successo. Nella piccola stanza ciondolano Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino. Manca Marco Minniti, il numero due del partito, che in genere resta in piedi, con le braccia conserte, accanto alla finestra. Velardi è capo dello staff del segretario: definizione quasi veltronian-clintoniana per indicare quello che nella Prima Repubblica sarebbe stato il capo della segreteria politica. Rondolino è il portavoce di D'Alema. Quando avevano i capelli, l'uno era bruno, l'altro biondo. Ora che li portano rasati, per scelta o per necessità, D'Alema
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li chiama naziskin, convinto che sotto l'assente capigliatura il cervello di entrambi li porti a sposare cause di destra Velardi gli risponde dandogli regolarmente del comunista. In realtà, i due sospettano che le ingiurie politiche servano al segretario quale alibi psicologico per coprire scelte che un tempo si sarebbero definite conservatrici, se non addiritturadi destra», e oggi invece sono il ragionevole calvario delle nuove responsabilità di governo del Pds. Rifilando al computer l'ultima carta di cuori, quella sera di metà ottobre D'Alema sospira: «Adesso dice che debbo fare il presidente della Bicamerale. Lascia quel «dice» senza soggetto, non perché voglia nasconderlo, ma per annegare l'impegnativa affermazione nell'anonimato di una chiacchiera casuale. In realtà, non si tratta di una chiacchiera e tanto meno di una affermazione lasciata scivolare per gioco tra una donna di picche e una carta di cuori. L'invito a presiedere la commissione che dovrebbe rivoltare lo Stato come un calzino viene nientemeno che da Oscar Luigi Scalfaro e da Luciano Violante. Quella sera D'Alema non lo rivela ai suoi, ma Velardi e Rondolino capiscono che dietro il «dice» si nascondono una forte probabilità e anche un sicuro desiderio. Nell'autunno del '96 il segretario del Pds si trova infatti in una singolare condizione psicologica. è indiscutibilmente l'uomo più potente d'Italia, ma le ultime scorie del fattore K
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE (Kommunism), gli ultimi calcinacci del Muro di Berlino gli hanno impedito l'ingresso a palazzo Chigi. Né lo consola il ricordo della ferrea tradizione democristiana, secondo cui l'uomo più potente del Paese non univa mai la segreteria dc alla presidenza del Consiglio, memore del fatto che lo strapotere portava all'immediato declino: da De Gasperi a Fanfani, fino a De Mita. D'Alema si sente ormai cuciti addosso gli abiti del maggioritario e della tradizione socialdemocratica europea, ai quali pure il Pci è stato rigorosamente estraneo. Gli sembra stravagante non rappresentare il proprio governo nei vertici dei capi della sinistra europea (ne soffrirà assai più dopo le vittorie di Jospin in Francia e di Blair in Gran Bretagna). è dunque comprensibile che una investitura istituzionale come la presidenza della nuova commissione per la riforma dello Stato sia un riconoscimento gradito, in attesa di altri tuttora riposti nel grembo di Giove. (Lo ammetterà lui stesso quasi un anno più tardi nel libro La grande occasiolle, scritto con Gianni Cuperlo: «Non avevo nient'altro da fare", dopo la vittoria elettorale e la decisione di non occuparsi a tempo pieno degli affari di governo.) «è un casino, ti bruci se la commissione fallisce» gli dice subito Velardi. D'Alema non si nasconde le difficoltà dell'impresa e sorprendentemente ne intuisce anche la sorgente più insidiosa. «Non mi preoccupano né il Polo, né Rifondazione. Mi
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preoccupano i nostri.» Si riferisce all'Ulivo e soprattutto al Pds. In quei giorni, la schermaglia sui giornali è con Bossi, con Bertinotti, con Fini. D'Alema tranquillizza i Popolari: «Meglio l'indicazione del premier che il presidenzialismo". Ma sa che la partita è tutta da giocare, soprattutto in casa.
«Massimo, fatti pregare"
«Non dire niente", insiste Velardi. «Fatti pregare.» Nelle settimane successive, l'ipotesi che D'Alema possa guidare la Bicamerale incomincia a diffondersi nel partito. Gli uomini più vicini al segretario - i Minniti, i Folena, gli Zani sono prudentissimi. Alcuni segretari regionali manifestano inquietudine: "E il partito? Chi lo guiderà in quei mesi?». Ma D'Alema ormai è lanciato. Il ruolo di leader del partito di governo senza stare al governo gli brucia come la tunica bagnata col sangue di Nesso sulla pelle d'Ercole. E se la commissione dovesse nascere, lui sarebbe pronto a presiederla. Ma nascerà? Berlusconi e Fini sono perplessi. E D'Alema ne trova conferma in una delle cene a tre con il Cavaliere in casa Letta, riprese nella più assoluta riservatezza dopo la vittoria elettorale dell'Ulivo.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Il 2 giugno, incontrandosi in televisione per i cinquant'anni della Repubblica, D'Alema e Berlusconi si erano trovati su posizioni opposte: il primo insisteva per la nascita di una commissione di deputati e senatori, il secondo per l'assemblea costituente che D'Alema mai e poi mai avrebbe concesso, non intendendo mettere in gioco con una nuova votazione la striminzita vittoria dell'Ulivo alle elezioni del 21 aprile. E così che il 30 ottobre D'Alema lancia un amo che lui si rifiuterà sempre di considerare tale, ma che indubbiamente su Berlusconi esercita una certa attrazione. I due s'incontrano al San Michele di Roma per la presentazione del mio libro La svolta e si mostrano profondamente convinti della necessità di avviare insieme un processo riformatore: uniti oggi per dividerci domani. Rispondendo a una mia domanda, D'Alema dice: «Non c'è dubbio che il disegno strategico costituzionale abbia la prevalenza persino sull'attività di governo". Questa frase fa esplodere i sospetti di Prodi sulla lealtà del suo partner principale (lo riconoscerà implicitamente lo stesso D'Alema nel suo libro dell'autunno '97), ma suona dolcissima all'orecchio di Berlusconi: il Cavaliere per alcuni mesi spererà infatti che dalla Bicamerale possano nascere condizioni per un governo diverso. Subito dopo quell'incontro, mentre Fini firma il progetto di Segni per la Costituente, D'Alema intensifica il suo pressing su Berlusconi perché accetti la Bicamerale. Il Cavaliere torna a chiedere «tempi brevi, certi e definiti» e mostra di
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aderire alla proposta di D'Alema, quando questi assicura che in un semestre tutto sarà compiuto. La commissione viene votata dal Parlamento il 22 gennaio '97. «Se falliremo,» avverte D'Alema «un'intera classe dirigente sarà giudicata e spazzata via dai cittadini.»
E Marini va a casa Letta
Nei giorni precedenti le basi operative vengono tracciate ancora una volta in una cena riservatissima a casa Letta, rimasta segreta. Per la prima volta c'è un quarto commensale, Franco Marini, da pochi giorni nuovo segretario del Partito popolare.
Marini gioca in casa. Abruzzese come Letta, lo conosce dalla fine degli anni Cinquanta. Muovevano entrambi i primi passi ad Avezzano, l'uno come giornalista, l'altro come sindacalista. E Letta scrisse uno dei primi articoli sull'attività di Marini. Gli altri due commensali del tavolo inglese alla Camilluccia sono conoscenti più freschi, ma estimatori solidi di Marini. D'Alema è andato a salutarlo in piazza del Gesù subito dopo l'elezione alla segreteria dei Popolari, e Marini ha ricambiato l'incontro alle Botteghe Oscure. Berlusconi lo ha ri-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE cevuto con calore a palazzo Grazioli. Al di là della simpatia personale, il segretario del Pds spera di trovare in Marini una sponda per bilanciare la love-story tra Prodi e Bertinotti, mentre Berlusconi - odiato storicamente dalla sinistra democristiana - spera che il nuovo capo dei Popolari sia un interlocutore più aperto. Quella sera di fine gennaio a casa Letta ciascuno dei leader sventola la bandiera. Berlusconi insiste per il semipresidenzialismo sul modello francese, Marini obietta che il suo partito non accetta la centralità così forte di una persona: «E una continuità con il gollismo che non ci piace. E poi in Italia la coabitazione non funzionerebbe». Marini sa anche che il semipresidenzialismo si tirerebbe dietro il doppio turno nella legge elettorale, e per impedirlo i Popolari sono pronti alle barricate. D'Alema non mostra una predilezione particolare per l'uno o per l'altro sistema. Ha accettato l'elezione diretta del capo dello Stato (legata al doppio turno nelle elezioni politiche) ai tempi di Maccanico, ma sa che la maggior parte dei suoi alleati preferisce fare del primo ministro la figura centrale della nuova Costituzione. Tra un piatto e l'altro, quella sera il premierato cresce come un soufflé, di cui Letta è un esperto perché consuocero di Amedeo Ottaviani, proprietario del ristorante «Le jardin» del Lord Byron, dove li fanno buonissimi. (I casi della vita politica sono infiniti. Chi scrive scoprirà infatti che un soufflé di eccezionale livello viene servito da «Jean George», famo-
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sissimo ristorante della Trump Tower sul Central Park a New York, a pochi passi dall'abitazione di Giovanni Sartori, il maestro della scienza politica che proverà a gonfiare e sgonfiare decine di soufflé sulla nuova Costituzione italiana
e se ne ritornerà sdegnato in America gettando il suo prestigioso cappello da cuoco di riforme.) E alla comparsa della famosa crostata di Maddalena Letta, il gonfissimo soufflé del premierato ha i seguenti ingredienti: indicazione sulla scheda, quindi elezione diretta, investitura obbligata del capo dello Stato o primo ministro per il vincitore, formazione del governo senza la fiducia delle Camere, poteri di scioglimento del Parlamento affidati al premier. Eppure, quando Letta accompagna i suoi ospiti alle automobili in attesa nel cortile interno della palazzina, si è stabilito più il metodo che il merito. D'Alema ha infatti concordato con i suoi ospiti la nascita dei comitati sulle diverse e spinose questioni da esaminare. E per quanto riguarda la presidenza ha detto: «Non facciamo questione di nomi. La prenda lei, Berlusconi, o la prenda Urbani. Se voi prendete la presidenza, c'è la garanzia che la Bicamerale non fallirà.
Fini: «Silvio, perché hai cambiato idea?»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE A Berlusconi la presidenza farebbe certo piacere. L'amarezza durevole di un'uscita da palazzo Chigi così repentina e sofferta verrebbe lenita da un incarico istituzionale di quel prestigio. Ma il Cavaliere non può correre rischi. Sa infatti che alla cena con D'Alema e Marini in casa Letta assisteva un convitato di pietra. Gianfranco Fini era stato forzato ad accettare la nascita della commissione, non faceva mistero di non crederci, e il leader di Forza Italia temeva che avrebbe fatto di tutto per affondarla. Il fallimento per mano di Fini di una commissione presieduta da Berlusconi avrebbe portato alla disintegrazione del Polo. Nel mese di gennaio '97 si verifica infatti tra il presidente di Forza Italia e il suo collega di An uno dei momenti di incomprensione più gravi nella storia del Polo. Fini ritiene che al rientro di Berlusconi dalle vacanze di Natale in Messico non sia maturata nessuna delle condizioni che il leader del Polo ha posto in dicembre per la nascita della Bicamerale. E quando nei primi giorni dell'anno Gianni Letta va a trovarlo in via della Scrofa, chiamano insieme al telefono Berlusconi oltreoceano e sentono parole più che dubbiose.
Fini si convince così che anche Berlusconi vuole uccidere la Bicamerale e trova Segni e Cossiga che gli offrono un'occasione dorata per nascondere l'assassinio dietro una nobile morte naturale. Essi invitano il Polo a far mancare in Parlamento la maggioranza dei due terzi alla legge istitutiva della
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commissione, in modo da sottoporne l'esito a referendum popolare. Il Pds vede nella proposta un omicidio annunciato e lo stesso Fini riservatamente ne conviene. Subito dopo l'Epifania il presidente di An si convince di avere il gioco in mano. Né muta parere dopo una telefonata incoraggiante di Massimo D'Alema.Lui e io» scriverà il leader del Pds nel suo libro «eravamo i due leader politici più interessati a un mutamento di sistema. Abbiamo una storia che ha segnato profondamente le nostre biografie, le ideologie con cui siamo cresciuti sono morte... è giusto che noi due, più di altri, lavoriamo con impegno per la riuscita della Bicamerale...» Ma Fini continua per la sua strada. Fino al rientro di Berlusconi dal Messico. Traumatico per il presidente di An. Quando i due si incontrano a palazzo Grazioli, residenza romana del Cavaliere, quelli che a Fini nella telefonata dal Messico erano apparsi dubbi decisivi sulla Bicamerale da parte di Berlusconi sono sostanzialmente scomparsi. Lo scontro è durissimo. «Dimmi che hai cambiato idea e mi arrendo. Ma non dirmi che al telefono ho capito male"fa gelido Fini. E Berlusconi:"No, guarda, ci ho pensato bene, voglio andare a vedere, voglio verificare le intenzioni di D'Alema...». Fini lo incalza:Silvio, hai avuto le garanzie che chiedevi?». «Quali garanzie?," «Quelle sulla giustizia, per esempio... Perché i casi sono
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE due. O hai avuto garanzie che non conosco e allora hai il dovere di dirmelo. O le garanzie non le hai avute e allora devi spiegarmi che cosa è successo da quando ci siamo sentiti al telefono dal Messico in presenza di Gianni Letta.» Quando gli si parla di garanzie sulla giustizia, Berlusconi ripensa forse alla storia della fenice, il leggendario uccello del deserto arabico che ogni cinquecento anni si getta nel rogo risorgendo dalle proprie ceneri. Che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa... Come avrebbe dimostrato la storia della Bicamerale, oltre che riceverne, è tecnicamente impensabile chiedere garanzie individuali sull'uso del codice penale. Si parlasse d'amnistia, nel mondo politico e imprenditoriale si compirebbero d'incanto volteggi di festa nel cielo come fanno gli uccelli migratori al mutare delle stagioni. Ma così... «Non ci sono garanzierisponde dunque Berlusconi. «è che siamo senza alternative. Ci accuserebbero di volere lo sfascio, di essere un gruppo di irresponsabili. Ricorda, Gianfranco, che abbiamo ancora nella carne le polemiche per l'uscita dal Parlamento durante la discussione della legge finanziaria.»
«Perché dovremmo incororlarlo noi?»
Come spesso accade a palazzo Grazioli, le riunioni politi-
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che si svolgono nella sala da pranzo disegnata il secolo scorso dall'architetto Sarti. Alfredo, il maggiordomo, serve quel giorno i piatti del cuoco Michele anche a Casini, Mastella e Buttiglione. Ma quel che i coltelli della pregiatissima argenteria di casa tagliano con maggiore difficoltà è l'atmosfera. Fini accusa infatti Casini di pensare a un «ribaltino» con Franco Marini. Casini gli risponde dandogli dell'arrogante e del produttore di sconfitte in serie. Al caffè, come nell'uso, la diplomazia di Berlusconi e di Letta ha il sopravvento. «E va bene» si arrende Fini. «Votiamo la Bicamerale. Ma a un patto. Dobbiamo presentarci all'assemblea plenaria del Polo con dei punti irrinunciabili... E il primo pomeriggio di martedì 14 gennaio. La sera stessa i parlamentari del Polo votano unanimi un documento che considera irrinunciabili l'elezione diretta del capo dell'esecutivo (sia esso il presidente della Repubblica o il primo ministro), il federalismo e una riforma della giustizia penale in senso garantista. «In quei giorni ho sbagliato,ammette Fini «ma anche chi credeva di poter fare trattative separate ha messo in difficoltà il Polo. Questa volta ha vinto la ragione.» Oltre alla ragionevolezza politica, che sarà premiata sei mesi più tardi dall'esito della commissione, un'altra ragione ha indotto Silvio Berlusconi ad attenuare le sue riserve parte-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE cipate dal Messico a Fini all'inizio dell'anno: il problema della leadership del Polo. Berlusconi non ha mai dimenticato che Fini ha affondato (con l'aiuto di Casini) il tentativo di Antonio Maccanico e ha insistito per le elezioni anticipate del '96, perse dal Polo. L'idea di trovarsi un'altra volta pronto un piatto cucinato in via della Scrofa (su ricetta di palazzo Giustiniani, dove risiede Cossiga) non deve essergli piaciuta. Lo riconosce lealmente lo stesso Fini: «Col senno del poi» mi dice «l'affondamento della Bicamerale poteva apparire una scelta suggerita da Cossiga e da me pienamente avallata alla quale Berlusconi, al rientro dalle vacanze, avrebbe dovuto accodarsi. In quelle settimane i giornali titolavano: la leadership nelle mani di Fini, Berlusconi non controlla il Polo. è comprensibile che a un certo punto lui abbia detto: un momento, la Bicamerale si vota. Già il 15 gennaio Berlusconi, Casini e Buttiglione si esprimono a favore di una presidenza D'Alema. Anche qui Fini resiste e per la prima volta il 5 febbraio, al momento di votare il presidente, Forza Italia si distingue da Alleanza nazionale su una questione di alto valore politico. La sera del 4 febbraio si constata che il Polo può restare unito solo astenendosi sul nome di D'Alema e facendolo passare con i voti del centrosinistra. Fini dice a Berlusconi: «Questo ormai è diventato il re Mida della politica, trasforma in oro tutto ciò che tocca, gli stanno facendo l'arco di trionfo perché ha portato la sinistra al governo, si avvia a ce-
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lebrare un congresso plebiscitario. Mi spieghi perché anche noi dovremmo contribuire all'incoronazione?. è a quel punto che D'Alema telefona a Letta: «Se vi astenete, mi esponete al rischio di essere il presidente di una sola parte». Forza Italia, Ccd e Cdu sono possibilisti. Alleanza nazionale non ci sta. Il mattino successivo, poco prima del voto, Berlusconi chiama D'Alema: «Guardi, Massimo, noi siamo pronti a votarla. Ma sarebbe utile una sua telefonata a Fini». Risponde D'Alema: «Io posso fare una dichiarazione nella quale ribadisco che le riforme non si faranno a colpi di maggioranza e che non esisteranno vincoli di maggioranza». D'Alema fa la dichiarazione e intanto chiama Fini al telefono ripetendogli le stesse cose. Berlusconi incontra di nuovo Fini: «Gianfranco, l'astensione non ha molto senso. O si vota a favore o si vota contro. Noi votiamo a favore». Fini: «Una richiesta tardiva e una telefonata frettolosa poco prima del voto non cambiano le cose. Tu fa' quel che credi, io rimango fermo sull'astensione. D'Alema viene eletto con cinquantadue voti a favore e dieci astenuti. I sei leghisti indicano uno dei loro (Rolando Fontan, segretario comunale di Siror, nel Trentino) e abbandonano la Bicamerale. «Sono convinto che ce la faremo. Che Dio ce la mandi buona"dice D'Alema. Poi si chiude nella bella
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE stanza d'angolo che gli ha riservato Luciano Violante e festeggia sobriamente con i suoi.
Come Paolo Stampa CO12 i 11lUli11i a vento
Massimo D'Alema non conobbe mai Paolo Stampa. Né mai seppe d'aver mutuato come nessuno l'arte sua nel muovere con l'ingegno ciò che altrimenti sarebbe restato immobile. Forse veleggiando per le Egadi tra Favignana, Marettimo e Levanzo avrà visto, un giorno, da lontano, fantasmi giganteschi piantati nel cuore delle saline di Trapani. Forse guardando quei mulini a vento, inquietanti proprio perché immobili, avrà pensato che l'inconsapevole Prodi avrebbe potuto far sua contro l'inconsapevole Berlusconi la sfida di Don Chisciotte quando incontra il primo mulino nel second'atto dell'opera di Massenet: «Gigante, mostruoso Cavaliere, se il vostro cuore non è corazzato di valore, fateci luogo, altrimenti alla daga, alla lancia, vi lancio una sfida, io, l'Alto Cavaliere...». Certamente D'Alema non s'ancorò accanto ai mulini. E non vide i giganti muoversi tutt'insieme perché il comproprietario delle saline, Tonino D'Alì, senatore di Forza Italia, ordinò lo spettacolo una sola volta, quando il Cavaliere d'Arcore venne per davvero. Certamente non conobbe l'arte di Paolo Stampa, ultimo
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erede di una dinastia di maghi che dal 1508, quando il viceré spagnolo autorizzò la costruzione delle saline e degli indispensabili mulini a vento, montò nei secoli vele marinare su ciascuna delle sei pale di ciascun mulino. Costruendo poi ingranaggi di solo legno, perché il ferro sarebbe stato corroso dalla salsedine. Alternando tronchi d'albero teneri e durissimi per dosare la trasmissione della forza secondo la potenza del vento. Regolando l'intero meccanismo con una leva a mano mossa con sudore e fatica per secoli dagli uomini dei mulino di tacca in tacca, per orientare le enormi pale del «mostruoso Cavaliere"secondo la direzione del vento. Non servivano quei mulini a sollevare le acque, come tanti loro confratelli, ma a macinare il sale. Tutta l'opera di Paolo Stampa e dei suoi antenati serviva a muovere l'enorme macina di pietra perché frantumasse il sale marino. «I vostri grandi gesti esaltan vieppiù il mio coraggio» gridava Don Chisciotte al mulino. E quelli delle saline consumavano invece al loro interno la sfida secolare: la forza del sale quasi arrestava l'immensa macina di pietra e quando sarebbe stato lecito aspettarsi da questa la resa o almeno una sosta, il sale veniva infine frantumato e la macina riprendeva l'opera sua con sollievo e quasi con allegrezza. Non conosceva Paolo Stampa, Massimo D'Alema, e mai aveva visto le saline di Trapani se non veleggiando da lontano. Non sapeva dunque che per cinque interi mesi del '97,
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dal principio di febbraio alla fine di giugno, come presidente della Bicamerale egli avrebbe dovuto costruire meccanismi poderosi e delicati come quelli dello Stampa. Meccanismi impermeabili alle insidie delle infinite sostanze corrosive che invadono i palazzi romani, grazie anche a improvvise e fatali infiltrazioni padane. Pronti a muoversi solo a prezzo di fatiche disumane e sempre vicini ad arrestarsi, vinti da forze superiori, per poi riprendersi e continuare la corsa fino all'arrivo del nuovo ostacolo. Uomo di mare, D'Alema per cinque mesi visse ogni giorno la lotta tra la macina e il sale. E più d'una volta temette che la resistenza del sale vincesse la forza della macina, che la Commissione per la riforma costituzionale, da lui caparbiamente voluta e presieduta, finisse in secca per la stolta debolezza di un'ancora. S'arenasse, insomma, come l'incrociatore lanciamissili Vittorio Veneto, nave ammiraglia della flotta italiana, dinanzi al porto di Valona. E lui fosse costretto a «chiedere e ottenere» lo sbarco, come il capitano di vascello De Fanis, lanciato verso prestigiosi ammiragliati e ricondotto a terra dalla sorte avversa. Segue dunque il racconto di come l'intrepido velista di Gallipoli si risolse a prendere il mare, nonostante la burrasca annunciata e infatti presente per l'intera navigazione, conducendo il timone della Bicamerale con maggior perizia (o forse con maggior fortuna) di come abitualmente conduceva il suoMargherita, segnalato da tutte le capitanerie del Mediterraneo qua-
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le fonte perpetua di avarie e di naufragi discreti, come quello definitivo del Capodanno '97 a Crotone: auspicio pessimo per gli imminenti lavori della Commissione, ma causa di un nuovo e più prestigioso acquisto che dall'estate successiva avrebbe solcato i mari a maggior gloria del timoniere, assistito da tali e tanti strumenti elettronici che perfino i piccoli Giulia e Francesco certo avrebbero naufragato meno di papà. Che pure fu accusato, dai soliti ignobili giornalisti, d'essere riuscito ad arenarsi anche con Ikarus. Laddove invece, con atto di prudenza togliattiana e d'umiltà inedita per il suo carattere, s'era appena risolto a chiedere doverosa assistenza a una pilotina per guadare bassi e insidiosi fondali di Sardegna.
Avete presente Woody Allen?
Ai più giovani: avete presente la New York di Woody Allen (Everybody says I love you)? Ai meno giovani: ricordate la Manhattan delle inquadrature notturne nei film anni Cinquanta? Quella che Gaetano Afeltra, redattore capo del «Corriere» mai uscito dalla direttrice Amalfi-Milano, raccontava senza averla mai vista a Indro Montanelli che stava a New York e gli diceva: «è proprio come me la racconti tu, Gaetanino"? Bene, Giovanni Sartori abita lì. Appena bussate di sera a
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE casa sua, un piano altissimo di Central Park West, vi pare di entrare in un film. Fuori dalle enormi finestre, i grattacieli illuminati sembrano un poster attaccato al muro: più il buco da coprire è brutto, più il poster è bello. Sartori è il papà della scienza politica italiana. (Se lui è il padre, io sono almeno lo zio, direbbe subito Domenico Fisichella.) Se ne è andato dall'Italia nel '76 perché non c'era posto per un liberale come lui nella nostra università, dopo ventisei anni di onorato insegnamento al "Cesare Alfieri» di Firenze. («Arrivano i rinoceronti, così Sartori definì l'assalto alla cattedra dei precari stabilizzati dalla riforma, «rinoceronti per diritto di carica e di corno".) E accettò gli inviti prima di Standford, California, e poi di Columbia, New York. Toscano della specie più corrosiva, lui non l'ammetterà mai, ma l'idea di vendicarsi dell'ingratitudine del suo Paese rifacendogli la Costituzione deve averlo intrigato assai. Avesse fatto fortuna in America come costruttore, sarebbe tornato ricco a casa regalando al parroco una chiesa. Avendo fatto fortuna come scienziato della politica, può permettersi soltanto di offrire una riforma dello Stato. Sartori ci prova già all'inizio del '96. Caduto Dini, Maccanico sta provando a mettere insieme riforma costituzionale e governo appoggiato sia dal Polo che dal Pds. Il professore ritiene che possa funzionare perfettamente in Italia il sistema francese unito a una legge elettorale su due turni. Incontra D'Alema e Maccanico, poi li sente al telefono. Il progetto pia-
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ce. Sartori non incontra Berlusconi, ma sa che il progetto gli pare accettabile. Il segreto della formula Sartori sta nello scambio tra due esigenze: il Polo vuole l'elezione diretta del capo dello Stato, il Pds vuole il doppio turno elettorale perché nel ballottaggio (come hanno dimostrato dal '93 in poi le elezioni dei sindaci) la sinistra si accorpa più facilmente della destra. Quando si è a un passo dall'accordo, Maccanico salta e si va alle elezioni. I contatti di Sartori con D'Alema riprendono in autunno (i due si incontrano a un ricevimento a New York) e si fanno più intensi quando il segretario del Pds diventa presidente della Bicamerale. Io non ho cambiato idea, dice Sartori, il mio progetto è sempre lo stesso. Martedì 18 marzo 1997 il professore viene invitato a esporlo in commissione. In due parole è questo. Il presidente della Repubblica viene eletto dai cittadini e dura in carica sette anni. I deputati sono eletti a doppio turno e al ballottaggio vanno i primi quattro partiti o quelli che hanno superato la soglia del sette per cento. A questo punto, le forze politiche che desisto-
no invitando a votare per il candidato più vicino al proprio hanno diritto a un premio in seggi. Il vantaggio del sistema, dice Sartori, è che i piccoli partiti continuano a esistere, ma non hanno più la forza di condizionare la maggioranza. Sartori è per far passare al ballottaggio i primi quattro par-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE titi, D'Alema quelli che hanno superato la soglia del sette per cento.Gli spiegomi racconta il professore «che sui numeri è più difficile mettersi d'accordo. Ma insomma una soluzione si può trovare.» Sartori ritiene che su questa base possano raggiungere un accordo Pds, Forza Italia e Alleanza nazionale. Sorprendentemente chi si manifesta più soddisfatto dopo l'audizione è Fini. Non fa in tempo a rallegrarsi di persona perché Sartori deve correre a Parigi dove lo aspettano in televisione, ma l'indomani gli scrive un biglietto di plauso. Una settimana prima, Sartori ha pranzato da Ranieri, in via Mario de' Fiori, con Giuliano Urbani e Giuseppe Tatarella. Urbani è da sempre favorevole al doppio turno. E Sartori capisce che le riserve di An derivano da un equivoco formidabile: l'aver sospettato che il ballottaggio si sarebbe limitato a due soli candidati costringendo An, partito in genere più debole di Forza Italia, ad accordi preventivi penalizzanti. Il professore chiarisce che al primo turno ciascun partito prende i suoi voti con la propria bandiera e che al secondo turno il ballottaggio è a quattro. «è la formula francese integrale, con maggiori garanzie nel sistema elettorale» racconta Urbani. «Tatarella dimostra una disponibilità ai confini dell'entusiasmo.»
«Il professor Sartori deve essersi confuso...»
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Eppure c'è una sorprendente difficoltà in agguato. D'Alema dice a Sartori che Berlusconi ha avuto un ripensamento e non vuol sentir più parlare di presidenzialismo. Avrebbe infatti paura di stendere il tappeto rosso per Antonio Di Pietro sulle scale del Quirinale. Al professore la cosa sembra strana: posso controllare?, chiede. D'Alema autorizza. Sartori comincia così quello che a Roma si chiamail giro delle sette chiese.
Ulla sera d'ottobre 117
Il 21 marzo, giorno di San Benedetto, va a cena a casa di Giuseppe Gargani alla Camilluccia. Ospiti, Giuliano Urbani e Franco Marini. è il colloquio più difficile: i Popolari sono contrari a ogni tipo di presidenzialismo e temono di lasciare la pelle nel doppio turno. Ma Sartori ha deciso di giocare le sue carte fino in fondo e prova a convincere il segretario. Marini discute sempre con un pragmatismo mimetico che chi lo conosce poco può scambiare per disponibilità. Se gli proponete, per esempio, di sponsorizzare la candidatura di Natalia Estrada come ministro della Difesa, invece di mandarvi al diavolo, potrebbe rispondervi sorridendo: certo, sarebbe una scelta innovativa, parliamone. Così con molto garbo fa intuire a Sartori che va bene parlare di semipresidenzialismo, ma di qui a
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE convincere il partito ce ne vuole. E quando Sartori s'accalora a dirgli che in parecchi collegi il Ppi potrebbe entrare tra i quattro candidati al ballottaggio, Marini risponde:Mi sento lusingato, professore, ma se poi non ce la facciamo?. Il 25 marzo Sartori va a trovare Fini e Tatarella in via della Scrofa e li trova perfettamente d'accordo sul progetto. La sera dopo va a cena a palazzo Grazioli con Berlusconi, Letta e Urbani. Il Cavaliere smentisce i timori di D'Alema e si dice favorevole al semipresidenzialismo. Sartori cerca di tranquillizzarlo anche su Di Pietro. «Nel semipresidenzialismo italiano chi conterà sarà il primo ministro. Senza un partito alle spalle in ogni caso il potere di Di Pietro sarebbe molto limitato.» Berlusconi è più perplesso sul doppio turno. Già durante le trattative del gennaio '96 Urbani gli aveva detto che esistono tanti tipi di doppio turno e che si può trovare quello giusto anche per il Polo. Quando ora dinanzi ai piatti serviti da Alfredo, silenzioso e inappuntabile maggiordomo di Berlusconi, Sartori gli rinnova la proposta, Berlusconi risponde: «Mi faccia riflettere. Il problema di fondo, professore, è questo. Diamo per scontato che i primi tre partiti che arrivano al ballottaggio a quattro suggerito da lei siano Forza Italia, Pds e An. Se il quarto è Rifondazione, lei può star sicuro che un accordo col Pds lo trovano. Ma se fosse la Lega e la Lega avesse già ottenuto al primo turno un soddisfacente numero di seggi, lei può star sicuro che Bossi farebbe presentare il
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suo candidato pur di farci perdere».
è a quel punto che il diabolico professore toscano matura un'idea che - se fosse attuata - sarebbe promossa sul campo «madre di tutti gli inciuci». «Ma insomma,» dice Sartori «se temete tanto la Lega e dovete fare un patto costituente con l'Ulivo, fatelo anche nei collegi dove la Lega può funzionare da forza di disturbo. Voglio dire: si tratta di cento collegi? Bene, in cinquanta vi presentate solo voi del Polo senza Ulivo, in altri cinquanta si presenta l'Ulivo senza il Polo e la Lega non disturba più.» La proposta cade nel silenzio. Ciascuno degli altri tre commensali sa quanto sarebbe inattuabile una vera metastasi dell'inciucio. Sartori comunque esce rassicurato da palazzo Grazioli. Berlusconi, che in genere esaurisce in pochi minuti anche gli argomenti più spinosi, lo ha sottoposto a un interrogatorio di tre ore per verificare pregi e difetti di ogni proposta. E il professore se ne va nella notte convinto di avere quadrato il cerchio. Berlusconi vuole innanzitutto il semipresidenzialismo, Fini accetta il doppio turno, Marini non vuole né l'uno né l'altro, ma non farà certo barricate. Berlusconi ha inoltre autorizzato Sartori ad andare da D'Alema dicendogli che per lui il semipresidenzialismo non è un problema. «Quando il 4 aprile torno a Botteghe Oscure,» mi racconta
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Sartori «dico a D'Alema che il giro delle sette chiese è andato bene e c'è il via libera di Berlusconi e Fini. Ma lui risponde d'aver cambiato idea e di preferire l'elezione diretta del primo ministro. Io divento terreo. E rimango malissimo quando D'Alema mi dice: lei faccia il professore e lasci a me la politica. Ci congediamo così e del mio progetto non si parlerà più.» L'ultimo giorno di agosto, di passaggio a Roma prima di rientrare a New York, Sartori trova tra la corrispondenza Lu grande occasione, il nuovo libro di D'Alema, inviatogli dali'autore. A pagina 116 legge: «La mia sensazione è che, almeno in questo caso, Sartori si fosse un po' confuso. Non era vero che Berlusconi avesse scoperto l'intima bontà del doppio turno, semmai qualcuno nel Polo si era appassionato all'idea che l'accordo istituzionale con il Pds potesse far saltare il governo di centrosinistra. Ma questo era un calcolo miope. Per questo dissi a Sartori che il suo consiglio scientifico era acuto e brillante, ma avevo l'impressione che si stesse facendo coinvolgere troppo in una politique po1iticienne, in cui le sue ipotesi istituzionali venivano utilizzate per disegni politici di corto respiro...». Seguono parole di stima. Sartori legge, evita una reazione alla toscana, ma ci resta male. L'idea di passare per un vecchio rincitrullito che si presta ai giochetti dei politici senza capirli non lo diverte. E lo sorprende che alla base del fallimento del suo progetto D'Alema metta l'aspirazione del Polo di approfittare della Bica-
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merale per cambiare maggioranza di governo. Il professore sostiene infatti che fin dai tempi del tentativo Maccanico si era messo nel conto che un accordo sulle riforme potesse portare a un accordo di governo. Sapeva bene, ora che il discorso s'era ripreso, che un eventuale accordo tra Pds, Forza Italia e An sul semipresidenzialismo e soprattutto sul doppio turno avrebbe creato un fortissimo problema con Bertinotti (Cossutta aveva definito la proposta Sartori frutto di «una visione leninista della politica». E lui se ne intende). Ma Sartori aveva sempre ritenuto che D'Alema avesse messo in gioco questa possibilità. A lui, presidente della Bicamerale, dovevano interessare soprattutto le riforme. Se la sarebbe sentita Bertinotti di mettere in crisi il primo governo della sirlistra per un disaccordo sulla Bicamerale? E in questo caso, non era vero che in marzo si parlava di un governo di larga maggioranza presieduto dallo stesso Prodi? Questo rimugina Sartori martedì 2 settembre salendo sull'aereo per New York. E non si dà pace per quanto è successo.
«Gianfranco, è presto per il Quirinale»
All'inizio di aprile, D'Alema comunica alla Bicamerale la sua preferenza per il governo del premier rispetto al modello semipresidenzialista. Annuncia comunque che al momento
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE del voto presenterà una proposta in grado di raccogliere un gran numero di consensi. Ma la situazione s'è incartata. Per dirla chiara, Fini non si fida di D'Alema e di Berlusconi. Non dimentica che la comrnissione (e la presidenza D'Alema) sono frutto di una intesa tra i due e nonostante le assicurazioni quotidiane di Berlusconi e di Letta ha il sospetto che la disponibilità del Cavaliere nei confronti del segretario del Pds nasconda oscuri accordi sulla giustizia e sulle frequenze televisive di Mediaset. Nelle prime settimane di lavoro, Tatarella e Nanìa hanno giocato duro nell'ufficio di presidenza e non sono mancati scontri diretti tra Fini e D'Alema. Quando Berlusconi mostra di riflettere troppo a lungo sulla proposta dalemiana di potenziare il primo ministro rinunciando all'elezione diretta del capo dello Stato, Fini sbotta: «Ma insomma, Silvio. Noi abbiamo innalzato la bandiera del presidenzialismo e adesso dobbiamo rinunziarvi lasciando che fuori di qui la sventolino Segni e Cossiga, magari con l'aiuto di Di Pietro?». Berlusconi gli risponde che lui non vuole ammainare niente, ma gioca sottilmente sulle ambizioni di Fini: «Hai ragione, Gianfranco. Nessuno capirebbe una nostra resa dopo una così lunga battaglia di principio. Ricorda però che se si elegge direttamente il primo ministro, tu puoi correre. Converrai, invece, che nonostante la legittimazione che ti sta dando la Bicamerale, sarebbe presto per candidarti al Quirinale se
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passa l'elezione diretta del capo dello Stato.... Ma Fini non si lascia incantare: «Avevo l'impressione» mi dirà «che si cominciasse a discutere seriamente solo di premierato. E se il semipresidenzialismo fosse rimasto lì come un'opzione nessuno si sarebbe dannato l'anima. Anzi, in alcuni momenti sembrò addirittura che l'asse D'Alema-Berlusconi fosse proprio basato su questo. Be', lavoriamo intorno a un bel premierato, il presidenzialismo resta una bandiera... A quel punto io potevo solo far sì che la bandiera restasse alta fino alla fine accettando di ammainarla soltanto dopo un voto». Gli alberi della Camilluccia avevano portato fino alla terrazza di Gianni Letta i primi profumi della primavera quando una sera, riuniti in uno dei numerosi incontri a tre di questa storia, Berlusconi dice a D'Alema: «Senta, Massimo. Fini sospetta che noi ci vediamo in segreto per trattare intorno a chissà che cosa. Perché non lo coinvolgiamo nelle nostre discussioni?». D'Alema non obietta e pochi giorni più tardi, sempre nel mese di aprile, i tre principali leader della politica italiana si vedono in quattro. Il quarto non è Gianni Letta che fa parte della casa e quindi non conta. Il quarto, in questi casi, è sempre Giuseppe Tatarella, che per Fini è assai più della coperta per Linus. Un giorno ormai lontano Almirante, che gli voleva bene, disse a Fini: «Gianfranco, litiga con tutti, ma non farlo mai con Tatarella». E Fini ha sempre tenuto fede a quel-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE l'impegno, tanto da far dire a Vanni Sartori: «Tatarella è un grande tessitore. In fondo rappresenta per Fini quel che Letta è per Berlusconi». La cena si svolge serenamente, Fini mostra di non essere sospettoso, si discute degli scenari possibili. Lui ha sposato da qualche settimana l'idea del doppio turno cara a Sartori (lo stesso sistema elettorale verso il quale Berlusconi è diffidente, forse a causa dei sondaggi di Pilo che secondo Sartori «non hanno né babbo né mamma, ma che dicono al Cavaliere: col doppio turno il Polo non vincerà più). E non capisce perché D'Alema ha mutato atteggiamento sul semipresidenzialismo. Il segretario del Pds cerca di tranquillizzarlo: «Come sapete, io non sono pregiudizialmente contrario al semipresidenzialismo. Ma non c'è la maggioranza per votarlo. Un premierato forte verrebbe incontro anche alle esigenze del Polo». Fini resta della sua idea, ma in questa cena non si mostra totalmente chiuso. Si conviene che nel voto finale di indirizzo il Polo si pronuncerà per il semipresidenzialismo. «Ma se vincesse il premierato,"dice Fini «mi impegno a collaborare lealmente.»
«...e D'Alema va perfratta»
Sabato 3 maggio Berlusconi e Fini partecipano alla grande manifestazione elettorale di Milano per sostenere la candida-
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tura a sindaco di Gabriele Albertini. Lunedì 5 Berlusconi entra al San Raffaele per una delicata operazione che lo terrà lontano da Roma fino alla fine del mese. Telefonate discrete, ma assai frequenti, partono dal palazzo rosso di Botteghe Oscure in direzione dell'ufficio di Gianni Letta al largo del Nazareno per aggiornamenti sullo stato di salute del Cavaliere. In attesa di Berlusconi, infatti, la Bicamerale annaspa. Il 14 maggio D'Alema propone di accantonare il semipresidenzialismo e di approfondire soltanto le norme sul governo del primo ministro. A nome del Polo, Fini si oppone con durezza. D'Alema ne prende atto e manda a Giuliano Urbani questa poesia scritta a mano su carta della Camera dei Deputati: «La frittnta. Contro il frutto della fretta / qui si scaglia una gran frotta / la Bicamerale è fritta / e D'Alema va per fratta». Gli risponde Urbani: «Da ex marxista, sei il miglior sostenitore della mano invisibile di Adam Smith: segui il mercato e vedrai che il comportamento individuale, mosso dall'egoismo, porta al risultato migliore anche sul piano collettivo. Ma nelle transazioni politiche le convenienze debbono essere esplicite...». Al di là degli scambi epistolari tra D'Alema e Urbani, la commissione rischia di saltare in aria a giorni alterni. I dirigenti di Forza Italia restano molto impressionati da una frase pronunciata da Tatarella in uno dei vertici del Polo: noi rima-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE niamo in Bicamerale per farla fallire; con le dovute maniere, ma la faremo fallire. Quando si rinvia il voto sulla forma di governo, gli uomini di Forza Italia hanno la sensazione che Fini voglia forzare la mano e votare. Se vincesse il premierato, la Bicamerale potrebbe avviarsi al fallimento. Se vincesse il semipresidenzialismo con il voto determinante di Achille Occhetto e di altri dirigenti dell'Ulivo, sarebbe difficile evitare la crisi di governo... Gli stessi Ccd sono di pessimo umore. Alcuni dei loro alleati sospettano che abbiano mandato deliberatamente allo sbaraglio Francesco D'Onofrio con una proposta troppo avanzata di federalismo quasi per sfidare tutti gli altri, nel Polo e nell'Ulivo, e poter dire: vedete, se si fallisce non è per colpa nostra. Col passar dei giorni, Casini e Mastella cominciano a temere che il semipresidenzialismo sia l'anticamera del doppio turno. Fanno riunioni con Marini e trovano una sponda nei Verdi e in Rifondazione. Secondo i forzisti, sperano di perdere sul primo punto e vogliono comunque impegnare gli alleati a non accettare il secondo. Poiché Fini è quello che si è più esposto sul doppio turno, su di lui si esercita la pressione dei Ccd. Che succede se passa il semipresidenzialismo?, gli chiedono Casini e Mastella, in un vertice del Polo riunito nell'ufficio di Beppe Pisanu alla Camera. Non passa, risponde Fini. E se passa? Fini è costretto a promettere battaglia contro il doppio turno.
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Nell'agitatissima giornata del 26 maggio, nuova lettera manoscritta di D'Alerna a Urbani. "Caro Urbani, devi per piacere sentire, nell'intervento di Rotelli, che il gruppo di F.I. non insulta solo me. Certo, se si mettono insieme le esternazioni di Rebuffa, quelle di Rotelli, le impuntature di Calderisi, le virulenze della Parenti [Ettore Rotelli, Giorgio Rebuffa, Giuseppe Calderisi e Tiziana Parenti sono parlamentari di Forza Italia], si fa fatica a considerare tutto ciò come espressione di un gruppo "moderato". L'unica significativa eccezione a questa somma di fondamentalismi è il distacco anglosassone del presidente Urbani.» Manca un mese alla fine dei lavori. Tutti, ormai, nel Polo sono rassegnati a rinunciare all'elezione diretta del presidente della Repubblica. Intanto la Lega...
QUINTO.
Pds senza D'Alema. Ma non lo seppe.
«Salti allora l'inciucio romano"
«Guarda, Umberto: ho fatto due conti e ho visto che i nostri voti sono determinanti per decidere la forma di governo.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Non sappiamo che tipo sia il capo della segreteria politica del «Sinn Fein» a Londra: il motore organizzativo del partito indipendentista che dal 1906 cerca di strappare l'Irlanda del Nord agli inglesi. Ma Alberto Morandi deve somigliargli parecchio. I capi lumbard l'hanno paracadutato a dirigere l'ufficio della Lega a Roma e lui apparentemente vi conduce una normale vita da italiano. Ma nel retrobottega ha la radio ricetrasmittente e sabato 31 maggio stabilisce il contatto diretto con la casa madre di Gemonio. Quando sente che può dare una fregatura ai partiti «romani"" Umberto Bossi assume l'espressione di Nino Manfredi di fronte al profumo di caffè. «Vieni su domani con Maroni» grugnisce. «A che ora?» Subito dopo pranzo.» Che ore sono «subito dopo pranzo»? Nelle Langhe l'una e mezzo, nelle Eolie le quattro e mezzo. Casa Bossi, a Gemonio, gode invece di una particolarissima extraterritorialità geografica, politica e logica. Maroni e Morandi bussano infatti alle due, ma la signora Emanuela dice che il Senatùr sta dormendo. Non è la pennichella, l'Umberto sta consumando ancora il sonno notturno. I due non fanno una piega e aspettano in salotto tra il camino, il fax che vomita di tutto visto che Bossi non risponde mai al telefono, un glorioso Telegatto e un ancor più glorioso ritratto di Alberto da Giussano.
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Finalmente alle tre dai piani superiori della casa arrivano segni di risveglio. Maroni e Morandi li accolgono con l'entusiasmo che gli abitanti di Pompei riservavano normalmente al risveglio del Vesuvio. Di che umore sarà Vulcano? Come il celebrato dio dei romani (nessuno è perfetto), Bossi infatti può svegliarsi indifferentemente benefico nume del focolare e distruttore di tutto quello che gli capita a tiro. Quella prima domenica del giugno '97 l'umore di Bossi è medio. Salta il pranzo, beve tre caffè, mette a tutto volume la musica anti-intercettazioni ambientali e comincia a discutere della deliziosa congiura lasciatagli intravedere da Morandi, mentre Roberto, Renzo ed Eridano Sirio (l'unico dei figli ad aver pagato col nome un prezzo politico) giocano agli indiani attraversando di corsa il soggiorno per passare dal giardino alla cucina. «Allora, com'è la storia?» Morandi porta i conti: il governo del primo ministro può passare al massimo con tre o quattro punti di scarto, l'Ulivo ha qualche dissidente, ma il Polo non farà una tragedia se perde. Insomma, forse c'è già una specie di accordo. «Noi leghisti in commissione siamo sei e possiamo ribaltare il risultato.» «E tu Roberto che ne dici? Quali conseguenze possono esserci?» «Mandare all'aria gli accordi tra Berlusconi e D'Alema.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Bossi s'illumina: «Salti allora l'inciucio romano. Vulcano ha deciso per il pollice verso: sarà una nuova Pompei. Alla votazione mancano due giorni. L'indomani, 2 giugno, è la festa della Repubblica che per i leghisti equivale piu o meno a quel che per gli irlandesi è la riconquista di Cromwell del 1649, cioè un giorno di lutto stretto. Il voto è fissato per il pomeriggio di martedì 3 giugno. Il problema è come arrivare all'appuntamento senza che trapeli niente. Grazie alla sua pur breve esperienza di ministro di polizia, Maroni sa bene che, al di là della fama di compattezza militare, in certe operazioni di commando la Lega, plÙ che a una falange macedone, assomiglia - con rispetto
parlando - all'esercito di Francesco II di Borbone, non a caso detto Franceschiello. «Non è mai successo che una cosa decisa da noi fra più di due persone sia rimasta segreta per più di mezza giornata» dice Maroni. «Speriamo bene. Convoca con urgenza gli altri cinque leghisti della commissione bicamerale: Francesco Tabladini, Pietro Fontanini, Rolando Fontan, Luciano Gasperini e Guido Brignone. Dice a tutti che martedì pomeriggio a Roma c'è una riunione importantissima alla quale per nessuna ragione possono mancare. «Rientriamo in Bicamerale?» chiede qualcuno. «Nemmeno per idea» ribatte Maroni. Alle 13 di martedì 3 giugno cinque dei sei congiurati si tro-
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vano nell'ufficio di Domenico Comino, capogruppo della Lega Nord alla Camera. Maroni spiega la strategia ordinata da Bossi e poi dice: «Guardate, gli emendamenti in votazione sono tanti e potremmo confonderci. Noi non votiamo niente fino al momento giusto. Voi guardate sempre me. Quando io alzo la mano, alzatela anche voi. Qualcuno chiede come potrà giustificare ai colleghi degli altri gruppi il rientro in aula dopo quattro mesi di assenza. «Diremo che siamo degli osservatori» dice Maroni e aggiunge: «Sperando che qualcuno ci creda».
Presidente «romano» contro capo tribù.
In realtà, pochi giorni prima, il 22 maggio, i leghisti Tabladini e Fontan s'erano presentati in aula come «osservatori» restando muti: ma veniva illustrato il progetto federalista di D'Onofrio e Bossi aveva mandato i due a sentire per poter sparare a zero contro una soluzione giudicata insoddisfacente. Lo stesso D'Alema aveva incontrato Bossi e Maroni per indurli a rientrare in commissione. Bossi gli aveva chiesto di far ammettere la proposta di legge sul referendum propositivo per l'autodeterminazione della Padania che il presidente della Camera, Violante, si era perfino rifiutato di far stampare. Ma D'Alema non s'era impegnato. "Io non posso schie-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE rarmi» aveva detto. «Voi intanto rientrate.» Bossi aveva giudicato il prevedibile atteggiamento del presidente della Bicamerale come la richiesta di una resa senza condizioni e aveva rifiutato. Il colloquio era avvenuto in un clima molto formale, del tutto inconsueto negli incontri tra Bossi, Maroni e D'Alema. Al Senatùr il segretario del Pds era apparso uncl persona diversa da quella che mangiava allegramente formaggio e alici nella cucina romana di Bossi dove era stato messo in padella il governo Berlusconi. Glielo aveva anche detto, prima del congedo: «Non sei più il leader del Pds che conoscevo. Ormai sei un presidente romano nel suo ufficio pieno di quadri e di stucchi». (Avrebbe scritto D'Alema nel suo libro: «Non avevo di fronte il leader di una forza politica rappresentata in Parlamento, ma il capo di una tribù straniera che veniva a trattare con Roma. [Bossi] era scontroso, in preda a Ull CUpO isolamento estremista».) Eppure D'Alema si era adoperato molto perché la Lega rientrasse. La politica è assai più imprevedibile di quanto, con ogni sforzo, non si riesca a immaginare. E così, proprio da parte di Alleanza nazionale, che dopo il voto leghista del 4 giugno sposerà in pieno il ruolo della commissione contribuendo al suo successo, era venuto il più forte fuoco di sbarramento al rientro della Lega. Al punto da indurre D'Alema a scrivere a Urbani un furibondo biglietto: «Questa idea che la Lega deve essere tenuta fuori di qui è rivelatrice di una
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cultura. Sono fascisti. Malgrado i vostri sforzi, restano tali». In realtà all'inizio Alleanza nazionale temeva che D'Alema volesse ancora una volta utilizzare Bossi contro il Polo. Ma quando il Senatùr si accorge che il federalismo di D'Onofrio non solo cancella ogni idea di Padania, ma attribuisce alle regioni fortissime autonomie, capisce di rischiare due fregature. La prima: scompare Roma ladrona. La seconda: rischia di passare una legge elettorale fortemente punitiva per la Lega. Per questo Bossi vuole far saltare i giochi. Per questo dice ai suoi di tornare in aula. I cinque si presentano puntualmente alla ripresa pomeridiana dei lavori, martedì 3 giugno, ore 16.30. Saranno raggiunti più tardi dal trafelato senatore Gasperini che ha appena finito di difendere, al processo di Venezia, Luca Peroni, Flavio e Cristian Contin, tre dei sei «serenissimi» autori dell'assalto al campanile di San Marco.
Appena Maroni entra nella sala della Regina incrocia al tavolo della presidenza lo sguardo di Giuseppe Tatarella. Se l'editore lo consentisse, gli occhi di Maroni e Tatarella meriterebbero da soli un fondamentale saggio di costume. Maroni è di Varese, Tatarella di Bari. Hanno storie personali e politiche che non potrebbero immaginarsi più diverse. Ma i loro occhi, sommati, fanno l'Italia. Vi leggi l'intelligenza condita talvolta di genio e l'italico buonsenso, ma anche spregiudicatezza e inaffidabilità levantine arricchite da uno
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE spruzzo di cinismo. Che in politica, come è noto, non guasta. Tatarella parla poco, soprattutto in pubblico. Ma quando sgrana gli occhi non c'è Ruggero Ruggeri, non c'è Macario, non c'è Totò che riescano a tenergli testa. E Maroni? Nonostante l'origine rigidamente lumbard, sembra un ministro siriano di Assad. E gli occhi liquidi, intriganti, morbidi come quelli di un cucciolone e affilati come una scimitarra sono di Omar Sharif o di Renato Salvatori? Basta. Maroni guarda Tatarella, Tatarella guarda Maroni. Un istante dopo i due si appartano in fondo alla sala dove ci sono caraffe di bevande a disposizione dei commissari.
Come Totò con Peppino
Tatarella ha un approccio ammiccante, morbido, principesco: «Che cazzo siete venuti a fare?». «A votare per il semipresidenzialismo» risponde Maroni. Qualunque parlamentare della Repubblica (italiana o padana fa poca differenza) avesse udito da Maroni una risposta del genere, difficilmente gli avrebbe creduto. Ma con Tatarella il discorso è diverso. L'avvocato missino di Bari e l'avvocato leghista di Varese sono legati da quello che Maroni chiama «un patto di sangue»: la parola è la parola. Perciò a Tatarella basta tirarsi gli occhiali sulla fronte, aspirare una boccata dalla sigaretta perpetua come fosse l'ultima
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succhiata d'ossigeno, spalancare gli occhi in silenzio come avrebbe fatto Totò con Peppino. Maroni risponde: «è la verità, ma non dirlo a nessuno. A Maroni s'avvicinano altri esponenti del Polo. S'avvicina D'Onofrio, relatore del progetto federalista. S'avvicina Pep-
pino Calderisi che gli dice allusivo: «Ricordate che il semipresidenzialismo è incompatibile con il premio di maggiot ranza. Calderisi tocca un nervo scoperto della Lega, che teme il premio di maggioranza più dello stesso doppio turno. Ma Maroni resta sul vago. Nel Polo il senatore brianzolo Rotelli, ambasciatore di Forza Italia presso la Lega, deve aver saputo qualcosa e dà la notizia a Berlusconi e a Fini. Ma i due non ci credono perché si sparge la voce che altri leghisti hanno assicurato agli uomini dell'Ulivo che avrebbero votato per il governo del primo ministro. Invece dell'Ulivo non si fa vivo nessuno con Maroni. Solo Bertinotti gli s'avvicina, ma viene respinto con un garbatissimo sorriso. La sera arriva senza il voto che conta, con i leghisti fermi e muti al loro posto, come sei sfingi. Sul tardi chiamo al telefono Bossi che è rimasto a Milano. «Allora che fate?» domando. «Andiamo a far saltare i giochi romani» mi dice, e non aggiunge altro. Provo a bluffare con Maroni:Ho parlato con Bossi...». «Allora sai tutto...» dice lui. In realtà non sapevo niente.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Maroni capisce, mi racconta due frottole e stacca il cellulare. Mercoledì 4 giugno «il Giornaledi Feltri titola in prima pagina: «E se vincesse il semipresidenzialismo?. Ma nessuno gli dà retta. D'Alema è convinto che Bossi voglia far saltare la commissione votando contro entrambi i sistemi per affossarli e dimostrare che la Bicamerale non serve a niente. Il pomeriggio precedente, in verità, Cesare Salvi ha avuto il sospetto che qualcosa bollisse nella pentola di Bossi. I partiti sapevano che D'Alema avrebbe rinviato il voto sulla forma di governo. Maroni no. Quando il presidente ha detto: «Passiamo alla forma di governo, nessuno se ne è dato peso perché tutti sapevano che di lì a un istante D'Alema avrebbe proposto il rinvio. Maroni, che ignorava l'accordo, ha mandato a chiamare i suoi colleghi che erano in corridoio a fumare. Che fare?, si erano chiesti i membri del Pds. Rinviare il voto a tempo indeterminato sarebbe stato devastante dinanzi alla pubblica opinione. S'era dunque deciso di non fare niente e di sperare nella buona sorte. Sulla volontà distruttrice di Bossi c'erano pochi dubbi. Sul fatto che volesse dare una mano a Berlusconi e a Fini ce ne erano moltissimi.
Quando alle dieci del mercoledì entrano in aula i leghisti, Antonio Soda del Pds prova a sondare Maroni. Niente. Ci prova anche il popolare Bressa. Niente. Fini ha chiesto intanto a Tatarella conferma della voce di Rotelli. Tatarella ha con-
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fermato spalancando gli occhi in silenzio come Totò con Peppino. Ma Fini vuole fare una verifica diretta. Chiama Maroni nell'ufficio della Lega e non lo trova. Maroni viene informato e richiama immediatamente. Fini gli chiede: «Allora è vero?». L'altro annuisce. Ma il presidente di An si guarda bene dal dirlo a Berlusconi perché il Cavaliere racconta lui stesso un difetto che gli attribuisce la moglie: ogni cosa gli entri nel l'orecchio gli esce immediatamente dalla bocca. Dirlo a Berlusconi e dirlo all'Ansa sarebbe stata più o meno la stessa cosa. Per fortuna, quando Urbani gli dice che secondo lui la Lega può votare bene, il Cavaliere non gli crede. Eppure un buon motivo per dirlo Urbani ce l'avrebbe. Quando Maroni ha preso posto con le altre cinque sfingi, si è visto recapitare un biglietto da Urbani, che presiede il comitato per le garanzie: «Se passa il premierato, avrete un sistema elettorale basato sul premio di maggioranza. Quindi se non volete quella roba lì, dovete per forza votare il semipresidenzialismo». Letto il biglietto, Maroni ha fatto un cenno affermativo con la testa, ma Urbani naturalmente non gli ha creduto. D'Alema tenta l'ultima carta. Spogliandosi dei panni del presidente, pronuncia un'autentica orazione a favore del premierato che fa infuriare Fini, Tatarella, Casini e Buttiglione, oltre a Bertinotti e Cossutta. Berlusconi tace. Ma D'Alema ha cercato di ricondurre a casa i cinque ulivisti contrari al premierato (Occhetto, Spini, Boselli, Rigo e Dondeynaz).
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE L'unico modo per impedire alla Lega di affondare entrambi i sistemi è di fare votazioni alternative. Dopo la bocciatura di un testo proposto da Rifondazione, D'Alema mette ai voti il premierato che riceve trentuno voti. (Si sono astenuti Occhetto e Passigli e nel Polo Fisichella, che fin dai giorni del tentativo Maccanico si era detto contrario all'elezione diretta del capo dello Stato. D'Alema si dirà convinto di aver persuaso Occhetto a non votare contro grazie al suo discorso. Prima del voto, l'ex segretario dice a Nanìa:Mi astengo. Finirà trentuno pari». Qualcuno nella Lega ritiene invece che Occhetto sia stato avvertito all'ultimo istante della vittoria del semipresidenzialismo, in modo da poter arretrare su poSizioni di partito più prudenti. Naturalmente la tesi ufficiale resta la prima ) Il semipresidenzialismo a questo punto dovrebbe essere battuto per un solo voto. Einfatti trenta mani si alzano, ma appena Marco Boato, che funge da segretario, accenna a cominciare la conta, Maroni alza la sua, seguito all'istante dagli altri cinque commissari leghisti- L'elezione diretta del capo dello Stato batte il governo del primo ministro per 36 a 31. D'Alema è terreo. Il suo assistente Cuperlo ha assistito alla tragedia dalla tenda che separa l'aula dall'angolo dei rinfreschi. Non ha perso d'occhio Maroni e ha visto levarsi quella manO paffuta, assai nota agli appassionati di soul per saper spingere egregiamente i tasti dell'organo Hammond nel «DistrettO 51. The Capric Horns with the Sweet Soul Sisters».
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Nei banchi di An scoppia un entusiasmo da curva sud. Berlusconi si gira verso Fini:"E adesso che succede?». E l'altro: «Succede che abbiamo vinto».
Fini, la notte dell'Innominato
«...e il tormentato esaminator di se stesso... si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta volere e commettere... S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto... Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite: "Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia"...» Non sappiamo se nella notte tra il 4 e il 5 giugno del '97 Gianfranco Fini abbia avuto gli incubi e i trasalimenti virtuosi dell'Innominato nei Promessi sposi. Ma certo il giorno dopo l'inopinata vittoria del semipresidenzialismo egli è un uomo del tutto diverso da quello che il mercoledì fatale era entrato nella sala della Regina a Montecitorio. L'avesse incontrato sull'uscio di via della Scrofa un novello cardinal Federigo, certo gli sarebbe andato incontro «con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Dov'è finito il «signor No"? L'uomo gelido e inflessibile che ha affondato con un sol colpo Antonio Maccanico e ogni ipotesi di sposalizio costituzionale tra D'Alema e Berlusconi? L'uomo che ha imposto al Polo elezioni perdute? E ha certificato, contro le proprie attese, la minorità numerica di Alleanza nazionale rispetto a Forza Italia? E ha impedito, rifiutandosi di votare Violante alla Camera, che il Polo avesse la presidenza del Senato con tutto quello che essa comporta? E ha cercato d'affondare la Bicamerale? E ha tenuto spesso in soggezione il suo fratello maggiore, quel Berlusconi che solo al momento di votare per D'Alema presidente è riuscito ad affrancarsi da una sorta di minorità psicologica? Quell'uomo è morto nella notte sul 5 giugno. Al suo posto, dentro le stesse membra giovani e atletiche, al mattino è apparso un uomo diverso, politicamente convertito alla costruzione della casa comune e spiritualmente mondato d'ogni impurità. «Da quel momento,"scriverà D'Alema nel suo libro «Gianfranco Fini, l'uomo che più di altri era stato riluttante nel prendere posto nella sala della Regina, si convinse che bisognava lavorare per il buon esito della commissione.» (Un primissimo segno di conversione l'aveva notato in verità Cesare Salvi subito dopo il voto fatale. «Adesso che fai?» aveva detto a Fini.Qui può saltare tutto.» E l'altro: «Perché dici questo?". «Perché hai fatto saltare tutto già altre due volte.»
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«Scommettiamo una cena che stavolta va tutto in porto?» «Scommettiamo. ») D'Alema, per parte sua, non ha da stare allegro. Quando con i suoi assistenti Velardi e Cuperlo rientra nella bella stanza di presidente con vista sull'obelisco di piazza Montecitorio, la sconfitta gli brucia. E gli brucia averla subìta per opera di quel «capo tribù» con il quale ha flirtato in lungo e in largo per ben tre anni. Gli torna forse in mente la Festa dell'Unità di Modena, settembre '94. Bossi sta al governo con Berlusconi, ma viene applaudito come uno di casa. E ricambia così:Il presidenzialismo? Fini e il Cavaliere se lo possono scordare. Noi stiamo nel Polo anche per voi». E cinque mesi dopo, al congresso della Lega, dopo il ribaltone, è D'Alema a essere acclamato. «Caro
Pds senza D'Alema. Ma non lo sepl133
Bossi,» gli dice «grazie di esserci.» Fino all'ultima telefonata tranquillizzante del Senatùr pochi giorni prima del voto. E lui, che detesta i giornali, già si sente nella pelle lo stritolamento dell'indomani che infatti avviene con larghezza. (11 «Corriere» pubblicherà un pezzo intitolato: «Togliatteggiando. Come Archimede Pitagorico, quasi quasi pareva un genio». Testo: «L'apprendista stregone ha evocato il mostriciattolo che l'ha sbranato...».)
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Appena rientrato nella sua stanza, D'Alema chiama Marini. Sa che senza un accordo con i Popolari, contrarissimi da sempre a ogni forma di presidenzialismo comunque condita, la commissione rischia di saltare e l'Ulivo di andare in frantuml. Con sorpresa mista a sollievo D'Alema si sente dire: «Guarda, Massimo, nel momento in cui ho visto alzarsi il braccio di Maroni, ho pensato che dobbiamo trovare una soluzione largamente accettata. Bertinotti dice che dobbiamo ribaltare il risultato, ma noi non possiamo dargli retta. Qui è minacciata l'unità del Paese. Posso muovermi anche a nome tuo?». D'Alema acconsente. A sera il segretario del Pds scarica la tensione giocando al computer al tavolo di Ornella. Velardi e Rondolino ciondolano per la stanza per poi sedersi di fronte alla scrivania, Minniti sta accanto alla finestra con le braccia conserte. Ornella va a leggere uno dei suoi libri nella stanza del segretario. «Se resta il semipresidenzialismo,dice D'Alema «occorre il doppio turno nella legge elettorale per il Parlamento.» Il segretario del Pds sa bene che il suo partito è l'unico nel centrosinistra favorevole al doppio turno, che sacrifica le forze minori. Ma sa altrettanto bene che è inaccettabile far ingoiare al primo partito di governo una doppia sconfitta, sia nella guida dello Stato che nella legge elettorale. Nella piccola stanza di Ornella, la quercia bonsai che da una mensola di marmo assiste al gioco del computer abbassa
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le chiome. «Se il Polo accetta, bisognerà allacciare le cinture di sicurezza» dice Minniti. E nel silenzio generale, ciascuno dei presenti mette in conto elezioni anticipate. Pds senza D'Alem. Mnon lo seppe 135
D'Alema: «Berlusconi è sleale!
D'Alema non ha il tempo di formalizzare la proposta perché l'indomani il Polo già la boccia. Il segretario del Pds vola a Malmo, in Svezia, per partecipare al congresso dell'Internazionale socialista e resta colpito dalla posizione netta e bloccata del centrodestra: semipresidenzialismo e turno unico. Berlusconi propone inoltre l'aumento della quota proporzionale portandola da un quarto dei seggi, com'è adesso, a un terzo. Con D'Alema in Svezia sarebbe dovuto andare anche Minniti. Ma quando il numero due dice al numero uno: «Che dici, è il caso che resti?», D'Alema non obietta di certo. Il clima, nel Pds e fuori, è molto pesante. E nel Polo Berlusconi è bloccato. Non è un mistero che avrebbe accettato di buon grado anche la vittoria del premierato. E non perché non gli piacesse più l'elezione diretta del capo dello Stato (la strada maestra verso il Quirinale, nelle sue inconfessate aspirazioni). Ma perché sapeva da tempo che D'Alema avrebbe imposto in questo caso il doppio turno, come ai tempi del-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE l'accordo Maccanico. Dopo la vittoria prodotta dalla Lega, nel vertice del Polo Mastella fa il diavolo a quattro contro il doppio turno, seguito di buon grado da Casini e da Buttiglione. E nonostante Fini, come abbiamo visto, si sia lasciato convincere dalla quadriglia di Sartori nel ballottaggio, da qualche giorno le elezioni francesi hanno definitivamente convinto il Cavaliere che con il doppio turno il Polo è destinato a perdere sempre. Berlusconi infatti ritiene che Bossi sia il Le Pen italiano. E ha visto che in Francia i conservatori, pur essendo più forti della sinistra, hanno perso perché al secondo turno gli elettori di Le Pen non li hanno sostenuti. «Quello di D'Alema è un bluff» dice asciutto Fini. «Tutto l'Ulivo, a eccezione del Pds, è contrario al doppio turno. E allora chiediamogli di fare la proposta a nome di tutti. Vediamo se se la sente. Urbani va oltre: «Ci sono due ipotesi possibili e noi abbiamo da guadagnare in entrambi i casi. La prima: si tratta realmente di un bluff, D'Alema alza il gioco, poi non riesce a sostenerlo e noi otteniamo il risultato di sgomberare per sempre
il campo da un possibile doppio turno perché lui, una volta rimangiatasi la proposta, non può avanzarla più. Ma se D'Alema non bluffa e vuole davvero il doppio turno, anche contro l'Ulivo? è ovvio che salta il governo e salta l'Ulivo. E a noi regala la crisi su un piatto d'argento».
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Nel poker bluffare e vedere il gioco dell'avversario sono decisioni supreme, prese in totale solitudine e in totale assunzione del rischio. In un gioco di squadra, qual è necessariamente quello di una coalizione, è più difficile rischiare. E infatti il Polo non rischierà, salvando la compattezza dell'Ulivo. Il puzzo di bruciato deve arrivare anche a palazzo Chigi se con notevole sprezzo del pericolo sabato 7 giugno, intervenendo a Napoli a un convegno promosso dal mensile «Liberal», Walter Veltroni spara: «Azzeriamo tutto, non si cambia la Costituzione con le goliardate». Fini replica gelido che in questo caso Alleanza nazionale abbandonerebbe la commissione, ma tocca a Minniti sconfessare a nome di D'Alema il vicepresidente del Consiglio in un confronto pubblico dell'indomani, domenica 8 giugno, a Montecatini dove Maccanico ha riunito il suo gruppo. Veltroni, in realtà, non è impazzito. Sa bene che se il Polo accettasse il doppio turno la maggioranza di governo andrebbe in pezzi. A suo giudizio, dunque, meglio l'incoerenza del Pds di una crisi di governo. Rientrato a Roma, lunedì D'Alema conferma che il Pds intende rispettare il pronunciamento della commissione, a patto che ci sia anche il doppio turno. Berlusconi gli risponde nel pomeriggio con una mia intervista per il TG 1. Lo incontro dopo la pennichella pomeridiana impostagli dai medici. Nel sole pieno di giugno, i giardini di Arcore
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sembrano quelli di Ravello. I prati all'inglese sono perfettamente rasati, la piscina deserta aspetta che qualcuno lasci le cure politiche per farci un tuffo. Il Cavaliere è in buona salute, ma assai corrucciato. Non sembra il vincitore di una battaglia storica (immaginate in Italia un presidente eletto dal popolo, dopo cinquant'anni di insondabili alchimie?). Teme che ogni intesa salti e lui vuole invece che le riforme si facciano. Col doppio turno il Polo non vincerà maimi dice. Poi, più diplomaticamente, davanti alla telecamera dichiara che il doppio turno non gli piace e che D'Alema non può permettersi di andare contro la sua coalizione. Al segretario del Pds saltano i nervi. «Vogliono un semipresidenzialismo alla ciociara» grida provocando vibrate proteste in provincia di Frosinone. Incrocio D'Alema l'indomani, martedì 10, nel corridoio del Bottegone. Elegantissimo in un abito blu assai luminoso che fa risaltare in modo impressionante il pallore del viso, grida: «Sleale! Berlusconi è un uomo sleale». D'Alema si rifà agli accordi di un anno prima con Maccanico: semipresidenzialismo in cambio di doppio turno. Ma allora si sarebbe trattato di uno scambio (e sul tipo di doppio turno il Cavaliere avrebbe trattato allo spasimo). Oggi il negozio sarebbe imperfetto: Berlusconi ha già avuto in regalo da Bossi il presidenzialismo. Perché dovrebbe contraccambiare qualcosa a D'Alema che il semipresidenzialismo invece ha contrastato?
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Sei bottiglie contro illoppio turno
Mentre i giornali mostrano la matrigna e le sorellastre di Cenerentola che vanno trionfanti alla festa, in casa della fanciulla i topini virtuosi agli ordini di una fata preparano in silenzio il lieto fine. Quando sabato 7 giugno Veltroni propone di azzerare tutto, Franco Marini e Gianfranco Fini si trovano ospiti dei giovani industriali all'annuale convegno di primavera a Santa Margherita Ligure. La loro presenza è invero offuscata da quella di Fausto Bertinotti. In una sala in cui si registra pro tempore la più elevata quantità di ricchezza nazionale per metro quadro, ci si aspetterebbe nei confronti del subcomandante Fausto non dico ostilità, ma una cortese freddezza. E invece no. I giovani imprenditori sono così entusiasticamente trasgressivi che a un certo punto il presidente di Confindustria, Giorgio Fossa, può temere ragionevolmente che l'elegante rivoluzionario torinese gli rubi il posto, dopo avergli rubato la scena, e magari gli rubi anche l'azienda per donarla al suo amico Marcos. Tra gli applausi dei giovani imprenditori presenti. Quando arriva la proposta di Veltroni («Azzeriamo tut-
Pds senza D'Alema. Ma 1l0n loeppe 137
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE to»), Bertinotti vi si associa festoso e Fini dice: «Bene, noi ce ne andiamo. Dopo il dibattito, Fini offre a Marini un passaggio sull'aereo privato col quale rientra a Roma. «Grazie, guadagno mezza giornata» risponde l'altro. Salgono in quattro: oltre ai due segretari ci sono Publio Fiori e Checchino Proietti, l'assistente di Fini. Il discorso cade subito sulla Bicamerale. Marini: «Gianfranco, voi avete ottenuto il semipresidenzialismo e noi non vogliamo azzerare niente. Ma sia chiaro che oltre l'elezione diretta non andiamo. Non potete pretendere che il capo dello Stato abbia poteri di governo. Fini ascolta in silenzio. Interviene Publio Fiori:E invece noi lavoreremo perché il presidente della Repubblica abbia anche questi poteri...",. Fiori viene interrotto da Fini: «Publio, mi spieghi dove trovi in Parlamento i voti per sostenere un'idea del genere?». Fiori non risponde. Marini capisce che l'accordo è possibile. Perché Fini subisce nel giro di poche ore la conversione dell'Innominato? Le ragioni sono almeno tre. La prima è semplice realismo politico. Incontrando qualche giorno dopo Gerardo Bianco a Strasburgo, il presidente di An lo tranquillizza: «Nel momento in cui voi accettate l'elezione diretta del capo dello Stato, mi rendo conto che non possiamo chiedervi di più. Lavoreremo per un modello italiano». La seconda è la consapevolezza di essere al momento critico di «Lascia o raddoppia?». Raddoppiare all'infinito porta
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fatalmente a una perdita irreversibile. Già affondando il tentativo Maccanico, Fini aveva dato un calcio alla legittimazione della destra italiana come forza costituzionale. Esclusi dal patto del '47, rifiutato il patto del '96, i postmissini capiscono che il fallimento di questa Bicamerale li rigetterebbe pericolosamente indietro nella storia. La terza ragione la chiarirà lo stesso Fini intervenendo all'inizio di luglio alla Festa dell'Amicizia di Scandiano in un dibattito con Marini, Casini, Minniti e chi scrive. «Temevo che potesse rinascere la Dc.» Il fallimento della Bicamerale o l'adozione di soluzioni troppo penalizzanti per le forze minori avrebbe potuto produrre infatti un ricompattamento tra i diversi tronconi cattolici con la distruzione del bipolarismo. Quando sente la disponibilità di Fini, Marini procede spedito con la sua esplorazione. Fin dal primo giorno ha detto a D'Alema che avrebbe cercato di congelare il più possibile la figura del capo dello Stato (che invece del tutto congelata non sarà, tra forti poteri di scioglimento delle Camere e leadership in politica estera) e di potenziare quella del capo del governo (esattamente la soluzione temuta da Sartori). Va in visita da Berlusconi a palazzo Grazioli, trovando porte spalancate, sa di poter contare sulla sponda di Casini e Buttiglione nel Polo. Incontra Cossutta alla Camera e scopre che, al di là della battaglia di principio, a Rifondazione - come ai Verdi - interessa soltanto una legge elettorale che non
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE li penalizzi. Ma ancora una volta per tirare le fila è necessaria una cena a casa Letta. Si vedono in sei: oltre al padrone di casa, D'Alema, Berlusconi, Marini, Fini e l'inseparabile Tatarella. D'Alema, che è stato sempre tenuto informato da Marini sull'andamento delle sue esplorazioni, conferma di accettare il semipresidenzialismo, ma insiste nel chiedere una legge elettorale con doppio turno nei collegi. è Marini a dirgli subito di no. Lo sostiene Fini: «D'Alema, sta' attento ai tuoi. Son tutti contrari». Marini ricambia la cortesia inviando al domicilio del presidente di An tre preziose bottiglie di trebbiano d'Abruzzo e tre di cerasuolo di Edoardo Valentini, vignaiuolo in Loreto Aprutino (Pescara). Al momento della crostata, si decide di affidare a quattro esperti (Mattarella, Salvi, Nanìa e Urbani) lo studio di un sistema elettorale adatto a far convivere semipresidenzialismo ed elezione diretta della maggioranza di governo, incluso naturalmente il primo ministro. (Poche ore prima, in una riunione riservata a casa Salvi, i due delegati dell'Ulivo avevano avuto il mandato a trattare da Cossutta per Rifondazione e da Pieroni per i Verdi.) è la vendetta del fantasma democristiano. All'inizio del '96 - quando si riunisce segretamente un'altra commissione - nel salotto di casa Salvi in Prati sono invitati Bassanini, Fisichella e Urbani. Né Ccd né Cdu né - soprattutto - Popolari. D'Alema, Fini e Berlusconi cercano un accordo alle spalle dei
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loro alleati. Stavolta è un ex democristiano dell'Ulivo come Franco Marini a guidare il gioco - approfittando della sua esperienza sindacale di negoziatore - e quel che è bello, si muove anche a nome degli ex democristiani del Polo.
Un pomeriggio, sulla terrazza di Urbani.
«In quel pomeriggio il Pincio era quasi deserto. Nell'aria sorda morivano i romori rari..." Come nel dannunziano Trionfo della morte, i rumori del tramonto che illumina la piazza del Popolo non hanno la forza di salire fin sulla terrazza della piccola casa romana di Giuliano Urbani. Accade a molti parlamentari che vengono da fuori di poter costruire a Roma quel che impegni di famiglia e di status non gli consentono nelle città d'origine. Così, se le case di residenza abituale risentono quasi sempre della stratificazione dei decenni e dei compromessi familiari, i pie-n-terre romani sono il ritratto delle aspirazioni più trasparenti dell'anima. Quando il proprietario apre la porta, vi dice - senza dirvelo ecco, se potessi vivrei così. Ordine e buongusto, semplicità e raffinatezza in pochi metri quadrati e in genere una terrazza che molti romani sognano senza poterse]a permettere. Intorno al bel tavolo di pietra della terrazza Urbani, con
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE l'occhio che spazia da San Pietro all'Altare della Patria, dalle sei del pomeriggio di giovedì 12 giugno, i quattro negoziatori studiano per tre ore la quadratura del cerchio. Vengono valutate tre ipotesi possibili di legge elettorale. Noi ve le risparmieremo. Se avete avu to la forza di seguirci fin qui senza mal di testa, non ci pare garbato ricambiarvi COIl un'emicrania. Dietro il nostro semplice segno sulla scheda, si nascondono calcoli che procurerebbero le vertigini al ragioniere generale dello Stato. Ogni meccanismo semplice e puro va infatti fatalmente inquinato dalle convenienze di questo e di quello, in modo che alla fine non esca il metodo ragionevolmente più funzionale, ma quello che offre il maggior numero di garanzie al maggior numero di contraenti. Anche se il destino spesso si prende le sue vendette. Il sistema elettorale in vigore fu inventato, per esempio, da Sergio Mattarella come salvaguardia della decisiva centralità democristiana che invece fu immediatamente distrutta nelle elezioni del '94. (Ha funzionato invece il recupero proporzionale come assicurazione sulla vita per la nomenklatura dei partiti più deboli.) Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, colpito forse anche lui da un eccessivo tecnicismo della discussione, Giuliano Urbani viene colto da dolori lancinanti. Deve operarsi immediatamente di calcoli alla cistifellea. Incontrando Fini e Berlusconi a colazione lo stesso giorno 12, Urbani aveva promesso di rinviare l'intervento alla fine della Bicamerale, ma la crisi
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notturna lo costringe ad abbandonare il campo. "Gianni, dobbiamo rivederci con gli altri lunedì 16. Al posto mio vai tu» dice Urbani telefonando a Letta. «Ma io non sono un tecnico» obietta l'altro. «Non preoccuparti, la parte tecnica l'abbiamo esaurita nel primo incontro. Adesso bisogna scegliere fra i tre progetti sulla base di simulazioni.» Il doppio turno di collegio proposto da D'Alema è ormai fuori gioco. Urbani e Nanìa hanno spiegato così a Salvi e Mattarella che la cosa è improponibile: «Ammettiamo che nei collegi del Nord Italia vengano ammessi al secondo turno i tre candidati che superano la soglia di voti più alta: uno del Polo, uno dell'Ulivo e uno della Lega. è dimostrato che quando si è in tre vince sempre l'Ulivo. Ammettiamo ora che si faccia un ballottaggio a due, tra il candidato del Polo e quello dell'Ulivo. è dimostrato che l'elettorato leghista non vota prevalentemente per noi. Se invece andiamo al doppio turno di coalizione a livello nazionale e c'è il confronto PoloUlivo, è possibile che l'elettorato leghista resti a casa. Nel voto politico nazionale, tuttavia, e nella quota in cui sceglie, sceglie più noi che voi. In ogni caso, il peso della Lega a livello nazionale è enormemente meno influente di quanto non lo sia nei collegi del Nord. Non potete quindi chiederci una legge elettorale che sarà pure la migliore del mondo, ma che vi fa vincere le elezioni». Nella seconda riunione dei quattro negoziatori, che si
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE svolge in un ufficio riservato di Salvi al Senato, prevale quella che sarà la proposta finale. Attualmente i deputati vengono eletti per tre quarti nei collegi uninominali a turno unico e per un quarto nella quota proporzionale. L'innovazione è questa: i collegi uninominali maggioritari assegnati al primo turno scendono dal 75 per cento al 55 per cento, la quota proporzionale resta al 25 per cento: al primo turno viene asse-
gnato così l'ottanta per cento dei seggi totali. Se una delle due coalizioni maggiori raggiunge complessivamente al primo turno il 51 per cento dei voti, il restante 20 per cento dei collegi si assegna a tavolino garantendo alla coalizione vincente la maggioranza assoluta utile per governare. Se - come è accaduto nelle elezioni del '94 e del '96 - entrambe le coalizioni sono sotto la maggioranza assoluta, gli elettori saranno chiamati a scegliere una di esse al secondo turno. L'accordo si raggiunge anche perché Marini e Fini hanno tranquillizzato Rifondazione. Parlando con Cossutta, Nanìa capisce che in cambio di una legge elettorale tranquillizzante, Rifondazione non avrebbe fatto le barricate sull'elezione diretta del capo dello Stato. Questa garanzia viene data a Cossutta sia da Fini che da Urbani e il lavoro di Marini, che tiene anche lui a una legge elettorale che tuteli le forze minori, diventa più facile t (Quando la Bicamerale conclude la prima parte del suo lavoro il 30 giugno approvando questo testo, restano da defini-
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re molti delicati dettagli di ordine tecnico e politico, legati alla figura del premier e al ruolo del Senato. E su questi la commissione ha ripreso il lavoro tra l'inizio di settembre e la fine di ottobre, consegnando infine alle Camere i testi da votare per due volte ciascuna, trattandosi di norme costituzionali.)
«Fabrizio, Minzolini inseglle D'Alenla!»
«Claudio, sono Rondolino. Mi cercavi?» «E certo che ti cerco. Hai sentito D'Alema?» «No. Però ho sentito due clic sulle segreterie telefoniche del cellulare e di casa e ho capito che era lui. Che succede?» «Succede che Minzolini lo sta inseguendo in motorino. D'Alema sta andando a casa di Letta ed è piuttosto seccato.» (Naturalmente Velardi, da buon napoletano, usa un linguaggio assai più colorito.) Sono le otto e mezza di sera di mercoledì 18 giugno. Claudio Velardi, capo dello staff di Massimo D'Alema, comunica a Fabrizio Rondolino, portavoce del segretario, che il giornalista più informato e più pettegolo di Montecitorio ha scoperto il vertice plenario sulla Bicamerale addirittura prima che si tenga. In verità, ha provato a dirglielo lo stesso D'Alema, mentre
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE il suo autista cercava di seminare il motorino di Minzolini. Ma Rondolino è uomo di formazione e di abitudini mitteleuropee più che mediterranee. Quando rientra in casa, dopo aver cercato di arginare i danni all'immagine del segretario sui giornali dell'indomani, attiva le segreterie telefoniche, parla con la moglie, gioca con i figli e pensa alle cascate delI'Iguac,ú, al confine tra Brasile e Argentina, dove ha ambientato la storia d'amore del suo ultimo romanzo. Ogni tanto ascolta i messaggi. Chi lo cerca con urgenza, gliene lascia regolarmente. Quando Rondolino sente «clic», capisce che lo cerca D'Alema. Sentendo la segreteria telefonica, infatti, il segretario sarebbe portato a lasciare messaggi in linea con il suo umore. Ma per non guastarsi il rapporto con Rondolino, al quale vuole bene, evita. In ogni caso, l'idea di andare a un vertice «riservatissimo» e decisivo con Minzolini alle calcagna procura a uno come D'Alema lo stesso disagio che proverebbe Marianna Scalfaro se rimanesse in sottoveste all'inaugurazione della Scala. Se abitasse a Londra, Parigi o New York, Augusto Minzolini (definito nel suo libro da D'Alema «maestro in notizie riservate, confidenze esclusive e sussurrate, qualche volta inventate") verrebbe fermato ogni giorno dalla polizia. Ha infatti l'espressione sinistra e al tempo stesso coinvolgente di un killer di altissimo livello. Un tiratore scelto da utilizzare in attentati presidenziali. Un uomo con un assoluto controllo di sé: spara un solo colpo, naturalmente infallibile, svita la
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canna dal fucile di precisione, rimette in ordine la valigetta professionale e poi va tranquillo a bere uno scotch all'Harry's bar. A Roma la polizia lo conosce e sa che al massimo uccide qualcuno sulle colonne della «Stampa». Lo lascia quindi circolare liberamente. E Minzolini circola in motorino. Alle 19.45 di quel mercoledì parcheggia il suo Velocifero in via del Plebiscito, davanti all'abitazione romana di Berlusconi. E incrocia Gianni Letta. «è vero che c'è un vertice stasera?» «No."
«Non mi freghi?» «Ma no, Augusto. C'è ancora del lavoro istruttorio da fare, non siamo pronti. «Me lo garantisci?» «Te lo garantisco.» Letta sale e dice a Berlusconi: «Le cose si mettono male. C'è già Minzolini qua sotto. Allora guarda: io esco con la tua macchina e cerco di depistarlo. Poi te la rimando». Letta esce, saluta Minzolini dal finestrino e il giornalista lo segue fino al Senato. Letta entra e congeda l'autista di Berlusconi. Aspetta dieci minuti all'interno del palazzo, poi esce da un altro ingresso alla ricerca di un taxi. Sul marciapiede incrocia Cesare Salvi. Visto il buon lavoro dei quattro nego-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ziatori, Letta ha proposto di invitare anche loro a cena e ha detto di preparare un tavolo per nove: oltre al padrone di casa, D'Alema, Berlusconi, Fini, Marini, Tatarella, Nanìa, Mattarella e Salvi. «Che fai da queste parti?", chiede sorpreso Salvi a Letta che già immaginava a casa a controllare la cottura della crostata. «Sono entrato dall'altro ingresso per seminare Minzolini che è in giro» risponde Letta."Di' a D'Alema di tardare una decina di minuti.» I due si congedano per andare nelle rispettive abitazioni. Salvi con l'auto di servizio, Letta in taxi. Minzolini ha visto l'auto di Berlusconi tornare indietro, segno che il Cavaliere ne avrebbe avuto bisogno. Sa che Berlusconi non va mai a cena fuori, se non in casi assolutamente eccezionali. Ma - quel che è peggio - ha visto Letta parlare con Salvi. E allora indirizza il motorino verso il quartiere Prati dove a poche centinaia di metri di distanza abitano Salvi e D'Alema.
«èui la festa?»
Salvi aveva dato appuntamento a casa sua a D'Alema. «Parliamo un po' e poi andiamo insieme» gli aveva detto. E D'Alema, che come tutti ormai non si fida più dei telefoni, aveva risposto: «Mi dici poi dove dobbiamo andare», evitan-
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do di pronunciare il nome di Letta. Al mattino il «Corriere della Sera» era uscito con un articolo di Francesco Verderami che lasciava intuire la possibilità di un vertice. Ma incontrando il giornalista alla Camera alle cinque del pomeriggio, anche D'Alema - come Letta - aveva smentito. «Si vive tutto sulla scena, niente segreti» gli aveva detto. Ma Verderami non aveva abboccato. Una «gola profonda» (il più sospettato è Nanìa, ma lui ha sempre smentito) gli aveva sussurrato: «Ci sarà un vertice. Stasera o domani». E lui resta al giornale in attesa di conferme. D'Alema s'era dunque avviato tranquillo a casa Salvi, ma il suo amico lo aveva informato della presenza in pista di Minzolini. Il quale - avendo intuito che Letta sarebbe andato a casa - va a controllare i movimenti degli altri possibili invitati. Un vertice senza D'Alema non è un vertice, si dice Minzolini. E va in via Avezzana, dove abita da pochi mesi il segretario del Pds con grande gioia della moglie Linda. Sotto casa di D'Alema non vede nessuno. Si sposta a casa Salvi e lì nota la scorta del segretario del Pds e l'auto di servizio del capogruppo al Senato, che intanto è rientrato. Salvi non ha fatto in tempo a salutare D'Alema che lo chiama l'autista: «Presidente, c'è Minzolini in motorino». Salvi s'affaccia e vede sotto il portone le auto di servizio, gli autisti, gli uomini della scorta. E a cinquanta metri di distanza Minzolini sul motorino che sembra Sylvester Stallone quan-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE do arriva sulla scena dell'azione e sta per lanciare i missili dalla motocicletta. «Che facciamo con questo?» chiede Salvi ridendo «Che vuoi fare?i" risponde D'Alema. «Facciamolo almeno faticare. Partiamo verso due direzioni diverse. Io come se andassi a casa mia e tu dal lato opposto. Magari può pensare che tu hai un appuntamento da un'altra parte.» Minzolini segue naturalmente l'auto di D'Alema che si dirige prima verso via Avezzana, poi piega su viale Mazzini e infine s'incarta deliberatamente in una serie di strade strette intorno al viale. A quel punto l'auto di scorta di D'Alema si ferma davanti alla pizzeria Tesone bloccando la carreggiata, mentre l'auto col segretario prosegue. E un vecchio trucco che la polizia usava anche con Berlusconi presidente del Consiglio per fermare i giornalisti troppo intraprendenti. L'inviato della «Stampacapisce, si ferma a cento metri di distanza, spegne le due luci del suo Velocifero (ormai è notte) e aspetta. La scorta di D'Alema non lo vede più e riprende la marcia, seguita a distanza dal giornalista. Sulla salita della Farnesina, in prossimità di casa Letta, Minzolini viene raggiunto da Claudio Tito dell'agenzia Asca. Sfortunatissimo perché la sua agenzia chiude alle nove e le nove sono appena passate. D'Alema arriva per ultimo a casa Letta. Lo aspettano in terrazza il padrone di casa e gli altri sette ospiti. è stato appena servito l'aperitivo quando la scorta di Berlusconi chiama
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Letta: «Dottore, qua sotto ci sono i giornalisti». Mentre Minzolini e il suo Velocifero inseguivano la Thema grigia di Massimo D'Alema, la «gola profonda"di Verderami aveva mantenuto la sua promessa. Aveva chiamato il giornalista del «Corriere»: «Il vertice è stasera. Via della Camilluccia...». Verderami guarda l'orologio: le 21.15. Finisce di scrivere un pezzo sulle telecomunicazioni e il consueto corredo di polemiche. Prega la bella collega Paola De Caro di aggiungere due righe al suo servizio politico annunciando il vertice già per la prima edizione del giornale, prende il suo motorino e parte per casa Letta. «è qui la festa?» chiede a Minzolini. E il giornalista della «Stampa», che ha appena dettato un pezzo per la prima edizione del giornale torinese, capisce che l'esclusiva è saltata. Ma altri colleghi sono in allarme. In serata, infatti, Verderami ha chiamato Nino Bertoloni Meli del "Messaggero". «Novità?» gli ha chiesto. Quando un cronista chiede a un collega se ci sono novità, vuol dire che qualche cosa si sta muovendo. Bertoloni parte anche lui verso casa Letta, seguito a ruota da Vittorio Ragone dell'«Unitàe da Virman Cusenza del «Giornale». Alla fine dei quotidiani principali mancherà soltanto «la Repubblica» dove, si dice, verrà avviata un'inchiesta d'archivio interna per scoprire se nei vent'anni di vita del giornale era mai capitato di prendere unbuco" così
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE grosso da cinque concorrenti. Letta ha i giornali nel sangue. L'unica vendetta che può prendersi è far scendere i suoi ospiti quando anche l'ultima edizione è chiusa. Tatarella va via per primo, seguito da Salvi e da D'Alema che ignora i giornalisti anche con lo sguardo. Escono poi Marini e Mattarella, Fini e Nanìa. Berlusconi scende per ultimo alle due e un quarto del mattino. Si ferma, apre il finestrino, parla. L'auto blocca la cellula fotoelettrica del cancello e Letta, che non vuol farsi vedere, prega la scorta di fargli cenno con i fari di andare. Ma il Cavaliere, al contrario di D'Alema, è di buonumore. «In fondo a D'Alema è andata benecommenterà con il suo spontaneo cinismo tre mesi dopo Augusto Minzolini. «Il mio inseguimento poteva finire come quello della povera Diana.»
«Va bene Fini. Ma senza Berlusconi...»
D'Alema avrebbe definito nel suo libro quella cena un «errore di immagine». Fini invece la difende. «Ma insomma,» mi dice «non capisco dov'è lo scandalo. Anche i costituenti del '47 hanno riconosciuto che si incontravano riservatamente in casa di questo o di quello.» Tra i fusilli ai funghi e il vitello tonnato offerti dalla casa (Michele, il cuoco di Berlusconi, non ha mai cucinato da Letta), D'Alema e Salvi cercano di rilanciare il doppio turno,
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Marini e Mattarella stanno zitti lasciando agli uomini del Polo il compito di affondarlo. Al tempo stesso, Berlusconi e Fini capiscono che non possono tirare troppo la corda e che non è immaginabile far presiedere dal capo dello Stato il Consiglio dei ministri. Si riconosce però al capo dello Stato una certa leadership nella politica estera e della difesa che il Parlamento, nell'approvazione definitiva della norma, avrebbe dovuto meglio definire per evitare conflitti di competenza pericolosi con il presidente del Consiglio e i ministri interessati. Sul delicatissimo problema dello scioglimento delle Camere, Fini ottiene un successo rilevante: se il Parlamento, poniamo, ha una maggioranza di centrodestra (o viceversa) e il capo dello Stato eletto dal popolo in un momento successivo è di centrosinistra (o viceversa) può sciogliere le Camere e inclire nuove elezioni. La figura del nuovo presidente della Repubblica verrà così tratteggiata da D'Alema: «Un capo dello Stato in grado di esercitare un ruolo di leader effettivo quando può contare sulla maggioranza parlamentare, o di garante, compiendo un passo indietro rispetto a un ruolo di governo, quando la maggioranza in Parlamento è di diverso segno politico». Quel che colpisce di più i commensali è l'atteggiamento di Fini, completamente mutato dopo «la notte dell'lnnominato». «Paradossalmente si erano rovesciati i ruoli» mi confermerà l'interessato. «Prima l'ostacolo alle trattative era il mio
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE forte scetticismo che aveva una certa influenza sulle strategie del Polo perché Berlusconi capiva perfettamente che senza l'unità della coalizione un accordo con D'Alema sarebbe stato molto più difficile. Ora invece che Alleanza nazionale aveva ottenuto con l'elezione diretta del capo dello Stato una bandiera nella quale la sua identità si riconosceva perfettamente, io lavoravo in senso opposto, cioè per raggiungere un'intesa. E poiché alla fine l'intesa la volevano tutti, arrivarci in poco tempo è stato facile.» Fini conferma dunque con molta schiettezza che fino al voto a sorpresa della Lega, Alleanza nazionale era insoddisfatta di come stavano andando le cose e puntava implicitamente al «fallimento morbido» previsto da Tatarella. Il giorno successivo alla cena, in Bicamerale, Fini pronuncia un discorso che vale come verbale di accordo, rivendicando la necessità di un equilibrio di poteri tra presidente, governo e parlamento, riconoscendo i meriti di Marini per aver accettato la legittimità del voto a sorpresa sul sen-ipresidenzialismo.Ho messo in bella copia l'accordo di casa Letta", mi dice Fini. E riceve l'apprezzamento generale. A lavori conclusi, Scalfaro fa i complimenti a D'Alema, ma innalza Fini sul podio del vincitore. Non c'è dubbio che senza l'accordo di Fini la Bicamerale sarebbe fa]lita. Ma è altrettanto indiscutibile che sarebbe fallita senza la presidenza di D'Alema. E ha ragione anche Letta quando mi dice: «Senza Berlusconi la Bicamerale non sarebbe mai nata. Senza Berlusconi
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
D'Alema non sarebbe mai diventato presidente. Senza Berlusconi la Bicamerale sarebbe fallita, seppure in modo ovattato».
E D'Alema pensa di lasciare la segreteria
Massimo D'Alema è riuscito a chiudere la Bicamerale senza arrivare a una catastrofe più volte sfiorata. Come Paolo Stampa nei mulini a vento di Trapani, quando la macina stava per fermarsi vinta dalla resistenza del sale, ha trovato il meccanismo giusto per lo sforzo finale. Che nell'ultima fase è stato un prudente e appartato ruolo notarile, esercitato mantenendo peraltro uno strettissimo contatto con Franco Marini che a sua volta aveva convinto i suoi ad accettare qualcosa di più di quel che accettabile sembrava. Eppure, alla fine, D'Alema non può abbandonarsi al sollievo. Non solo e non tanto per la coda drammatica del rinvio delle norme sulla giustizia, che vedremo nelle prossime pagine, quanto per l'indifferenza, l'ingratitudine, addirittura l'ostilità che crescono in ampie fasce del gruppo dirigente del suo partito. Nel momento più difficile, D'Alema viene lasciato solo. Lui, per carattere, non chiede mai aiuti. Gli viene delegato molto, forse troppo, e lui carica le deleghe su di sé senza battere ciglio. Come un navigatore solitario, assume in proprio
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE meriti e rischi dell'impresa. «Almeno finora» mi dice Minniti «quando la partita si è fatta difficile, ha rilanciato e ha vinto.» Quando cade il governo Berlusconi e il Cavaliere indica Dini come proprio uomo alla guida del governo, D'Alema capovolge lo scenario. Il segretario del Pds, scopriamo adesso, fu molto contrariato dalla decisione di Scalfaro di designare quello che era stato il ministro del governo Berlusconi più duro verso la sinistra. E invece Dini è entrato nell'Ulivo. Dopo il fallimento di Maccanico, D'Alema è andato a elezioni non volute e le ha vinte. è riuscito a non far fallire la Bicamerale e a consolidare al tempo stesso il governo Prodi: ipotesi giudicata all'inizio illogica prima che impossibile. E sopravvissuta, contro ogni attesa, anche alla «pazza crisi" di ottobre Ha portato Di Pietro dalla sua parte. Eppure il partito non gli serba gratitudine. Dopo l'accordo con il Ppi e il Polo sulla forma di governo (e sulla legge elettorale, che trova anche il favore di Rifondazione e Verdi), Claudio Petruccioli dichiara al «Corriere della Sera»: «Se fossi D'Alema, mi suiciderei». Il segretario s'aspetta una reazione del partito. Nessuno apre bocca. Deve intervenire Minniti con una durissima intervista rilasciata all'«Unitàil 24 giugno, mentre viaggia con Marini verso la Festa dell'Amicizia di Scandiano. Veltroni propone di «azzerare tutto», esponendo il presidente della Bicamerale al rischio di una delegittimazione disastrosa. Napolitano dichiara: «Non capisco bene che cosa stia acca-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
dendo. Gli altri ministri si chiudono nel recinto di palazzo Chigi. D'Alema sente meno vicini di quanto vorrebbe anche i capigruppo Salvi e Mussi, che pure pubblicamente ringrazia. Su ogni questione si apre nel partito tutto il ventaglio delle soluzioni possibili, il Pds riassume spesso in sé tutto il frastagliatissimo arco politico nazionale. Dice Mauro Zani: «Tre correnti vanno bene, tre partiti no. La notte del 2 luglio D'Alema fa un discorso durissimo ai gruppi parlamentari. Dice di essere stato poco appoggiato dal partito durante la Bicamerale (ma ringrazia Prodi). Attacca gli «ulivisti» e la sinistra. E quando Claudio Sabbatini, uomo della sinistra, gli dice - secondo il racconto di Augusto Minzolini sulla «Stampa» - «Massimo, devi essere più tollerante, perché sei l'uomo più potente d'Italia", D'Alema gli risponde: «Sarò pure l'uomo più potente d'Italia, ma non nel mio partito",. E aggiunge, secondo Umberto Rosso di «Repubblica»: «La società è migliore del Pds, è molto più avanti». L'8 luglio si annuncia una direzione tempestosa. Invece tutto fila liscio, Veltroni - rientrato da un lungo viaggio in Sudamerica - approva l'esito della Bicamerale, le minoranze chiedono un'assemblea congressuale che viene subito accordata. Ma D'Alema non è sereno. Non sente una vera solidarietà. E pensa di lasciare. Decide di dimettersi da segretario del Pds conservando l'incarico di presidente della Bicamerale.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Non ne parla con nessuno, nemmeno con i suoi collaboratori più stretti perché sa che non saranno d'accordo. Matura da solo la decisione di dimettersi e poi - dopo una riflessione di giorni - quella di soprassedere, per non ricambiare l'ingratitudine del partito con una crisi senza sbocchi. Ma non è sereno. E soprattutto si sente ancora solo.
Giustizia. O politica?
Una sera d'agosto, a Positano.
Praiano sta appollaiato sulla collina di sinistra, come un presepe messo lì dal buon Dio perché di qua se ne potesse godere la vista completa del braccio di mare e dei golfi che portano ad Amalfi. Sulla destra c'è il presepe di Positano che digrada verso una fuga d'insenature interrotte all'orizzonte dai faraglioni di Capri, tremuli nella luce del tramonto. «Non ero mai stato qui, è un posto straordinario» dice Federico Grosso, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Sorridono compiaciuti Luciano Santoro, procuratore distrettuale antimafia aggiunto di Salerno e Alfredo Greco, procuratore della repubblica di Vallo della Lucania.
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Prendiamo l'aperitivo sulla terrazza dell'hotel San Pietro, circondati da roseti e buganvillee. Visto da qua il mondo è un altro mondo. Non ci fossero i magistrati a ricordarcelo, sembrerebbe un mondo senza guai. In questa sera dell'agosto '97 è programmata a Positano la presentazione del mio libro La svolta. Sono stato invitato con altri autori a questa manifestazione che fu inventata da Salvatore Attanasio, patron del San Pietro, uomo di genio imprenditoriale e di grande ottimismo, e che adesso, dopo la sua morte, viene portata avanti con molta signorilità dalla sorella Virginia. Se ne occupa Enzo D'Elia, un pezzo da collezione del mondo italiano del libro. Dice giustamente Fernanda Pivano, anche lei ospite di Positano: D'Elia è capace di fa-
re incontrare due persone che alla stessa ora stanno in due città diverse. Un giorno mi leggono il manifesto che D'Elia ha fatto affiggere per la presentazione del mio libro. «Intervengono Giancarlo Caselli, Ilda Boccassini, Federico Grosso, Gaetano Pecorella, Alfredo Greco e Luciano Santoro.Chiamo la Mondadori a Milano: «Fermate quel pazzo di D'Elia. Figuriamoci se Caselli, la Boccassini, Grosso e tutti gli altri vengono alla presentazione del mio libro». Invece vengono. Potenza di Greco e di Santoro, che sono di questa parte della costiera e hanno influenza nell'Associa-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE zione magistrati. Santoro è un uomo cortese, ha una moglie piacevole e una bella figlia che farà il magistrato perché, giustamente, non capisce quale strada si debba seguire per fare il giornalista. Anche davanti a un aperitivo i magistrati, soprattutto quelli delle procure, ti fanno sentire un po' a piede libero. è l'inverso dei mariti cinesi: tu non sai quello che hai fatto, loro sì. «Ho letto con grande attenzione il suo libro» mi dice Santoro mentre socchiudo gli occhi per vedere meglio i faraglio, ni di Capri, tremuli nella luce del tramonto. Grazie, molto gentile. «Ma stasera la contesterò."Grazie ugualmente. Non avevo capito. Quando introduce la discussione sul mio libro, Santoro non fa una presentaziolle, né una contestazione: pronuncia una requisitoria. Fin qui poco male. , Un autore deve essere pronto a subire critiche aspre e serrate. Il libro non deve certo piacere a tutti. E quando non piace a un pubblico ministero, fatalmente la costruzione sintattica delle sue obiezioni assume il carattere di una requisitoria. Il problema è di capire di quale libro il dottor Santoro stia P parlando. «Dunque, cominciò il giudice sfogliando il quaderno e chiedendo a K. ma piuttosto in tono affermativo: lei fa il pittore decoratore? No, rispose K., sono il primo procuratore di una grande banca.» Mentre Santoro parla del mio libro, mi sento come il protagonista del Processo di Kafka. Con chi ce l'ha il magistrato? Chi ha scritto quelle cose? Chi ha sostenuto quelle tesi?
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Non c'è dubbio che il libro che lui sfoglia sia mio, o almeno così appare. Riconosco la copertina, c'è il mio nome e quello dell'editore. Ma il testo? è ragionevole pensare che la
Procura distrettuale antimafia di Salerno abbia fatto delle interpolazioni? Non è ragionevole. Ma io quelle cose sono sicuro di non averle scritte. Eppure Santoro le legge... Quando il magistrato conclude, mi rivolge una domanda e io starei per rispondergli come K. nel Proccsso: «La sua domanda, signor giudice, è davvero significativa del modo in cui si procede contro di me... Continui pure a leggere, signor giudice, non ho davvero paura di questo registro di delitti...». Ma poi vado sul pratico e gli dico: adesso capisco che cosa voglia dire stare sotto un pubblico ministero. Quando infatti Santoro mi allunga cortesemente la sua copia del libro, vedo che ha evidenziato in giallo molte frasi isolandole da quello che mi sembrava il loro contesto naturale. Non c'è dubbio che quelle frasi siano mie e che quella copia del libro sia autentica. Ma il magistrato - in assoluta buonafede, naturalmente - ne ha stravolto completamente il senso. Così mentre le leggeva con la partecipazione emotiva e l'enfasi tipiche della requisitoria, io non capivo quale fosse l'oggetto della controversia o addirittura il delitto, essendo io peraltro- come il protagonista del Processo kafkiano - «il primo procuratore di una grande banca» e non "il pittore decoratore" col quale evidentemente ce
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE l'aveva l'inquisitore, a Praga come a Positano. Se Caselli e la Boccassini avessero usato lo stesso criterio, credo che avrei dovuto scrivere questo nuovo libro con l'assistenza permanente di uno studio legale. Per fortuna con loro avremmo parlato in termini più generali di giustizia, ma l'impostazione professionale e culturale dell'ottimo Santoro mi ha fatto capire meglio di tanti saggi e di tanti articoli di giornale quanto possa essere profonda la divergenza interpretativa tra chi compie un atto e il magistrato inquirente che deve occuparsene.
Perché il pubblico contesta Ferrara.
La decisione del Parlamento di riscrivere gli articoli della Costituzione che riguardano la magistratura nasce da qui. Non da Santoro e da Positano, evidentemente, ma dalla constatazione, per dirla in termini rozzi, che i pubblici ministeri - lo vogliano o no - sono diventati i padroni del processo e soprattutto di quella delicatissima parte preliminare che conta paradossalmente più della sentenza. E l'avviso di garanzia che infatti finisce sui giornali, sporca l'immagine dell'inquisito dinanzi alla pubblica opinione, lo fa scendere di stato, avvilisce la sua famiglia, espone i suoi figli ai lazzi dei compagni e l'inquisito stesso all'imbarazzo degli amici, all'esultanza dei nemici, al discreto fregarsi le
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mani dei colleghi e dei concorrenti. Se l'inquisito sarà riconosciuto colpevole e condannato, questo sarà un prezzo accessorio. Ma se sarà assolto o prosciolto nelle fasi preliminari o condannato per infrazioni infinitamente minori di quelle contestategli all'inizio dell'inchiesta? L'emergenza italiana ha portato all'inquisizione di massa. Sia pure per situazioni diversissime quanto a merito e gravità, sono inquisiti il presidente del Consiglio, il leader del Pds e della maggioranza parlamentare, il leader di Forza Italia e dell'opposizione. Il capo dello Stato e il presidente del Senato sono usciti senza conseguenze, ma stremati, dall'inchiesta sui fondi neri del Sisde. Cancellata l'intera generazione dei più alti manager pubblici della Prima Repubblica, scomparse imprese colossali come la Ferruzzi e l'Enimont, suicidi Raul Gardini, Gabriele Cagliari e tanti altri, restano in servizio, ma condannati, i presidenti della Fiat e della Olivetti, i capi delle principali imprese di costruzione, mentre il gruppo Fininvest ha subìto centinaia di perquisizioni, sta subendo e subirà decine di processi. Chiunque sfogli le cronache regionali di qualsiasi quotidiano troverà situazioni variabili, ma analoghe nella sostanza. Quando una volta all'anno, ormai da diversi anni, parlo di queste cose con un magistrato come Piercamillo Davigo duro fino al paradosso e alla provocazione, ma intelligente, cortese e disponibile, lui mi dice regolarmente: «Se non dobbiamo
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE più arrestare i ladri, lo si dica chiaramente. La classe dirigente italiana, la vecchia e anche la nuova, è dunque una gigantesca associazione per delinquere? O alla massa indiscussa e indiscutibile delle ruberie di stato si è aggiunta una presunzione inquisitoria per la quale chiunque occupi un certo posto «non possa non sapere» tutto quello che accade in un larghissimo raggio d'azione intorno a lui? Si è data rilevanza penale anche a infrazioni amministrative? Si è fatto un uso generalizzato del falso in bilancio e dell'abuso d'ufficio? Sono state compiute le acrobazie più spettacolari per forzare le leggi della competenza territoriale? Si è usata spesso la carcerazione preventiva come mezzo istruttorio, per ottenere da un imputato ormai a pezzi la conferma di accuse altrimenti indimostrabili e la chiamata di complici reali o supposti per riacquistare la libertà e far riaprire dal nuovo detenuto la catena di Sant'Antonio? I giornali sono entrati nelle inchieste come mezzi di pressione psicologica? La struttura dei pool organizzati come squadre compatte ha oggettivamente intimidito il giudice per le indagini preliminari chiamato a decidere da solo - e in tempi spesso ristretti - su provvedimenti proposti da un'intera procura della repubblica, elevata spesso dai giornali a congregazione dei santi? Quanti hanno coraggio di bestemmiare? Quanti se la sentono di affrontare da soli le reazioni dei colleghi procuratori e della pubblica opinione che attraverso i giornali conosce bene i magistrati dell'accusa e non accetta che un oscuro,
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singolo giudice mandi per aria il lavoro svolto per mesi da decine di investigatori? Quando i magistrati sbagliano, il Consiglio superiore della magistratura ha la forza per riconoscere i loro errori e stabilire le sanzioni necessarie? Alcune pagine di questo libro sono dedicate alla storia di persone note e meno note, la cui vita è stata travolta da carcerazioni ingiuste e da processi sbagliati. Nessun risarcimento sarà possibile per loro e per le loro famiglie. Quante storie simili non si conoscono? Sono queste, forse, alcune delle ragioni che hanno indotto l'intero Parlamento a voler ripensare gli articoli della Costituzione che stabiliscono le regole di base per amministrare la giustizia. E che hanno prodotto nel mondo politico e nella pubblica opinione strappi più forti di qualunque altro tema. Scrive D'Alema in La grande occasione: «Una larga parte della società civile si avvicina a queste tematiche in modo inadeguato e assai poco civile. Molti italiani non riescono a separare la sfera dei principi - e la giustizia è forse il più sacro tra i principi - dagli umori e dalle passioni più immediate. E questa è l'anticamera dell'invocazione della giustizia sommaria, del facile moralismo che invoca severità per gli altri e indulgenza per sé... Una parte della sinistra è stata partecipe di questa cultura:
non soltanto non l'ha combattuta, ma se ne è imbevuta e ha assorbito il peggio di uno spirito pubblico aggressivo e volgare".
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Quando la sera del 15 settembre Giuliano Ferrara annuncia al «Maurizio Costanzo Show» la sua candidatura al Mugello contro Antonio Di Pietro, una parte consistente del pubblico gridabuuuuuu» non perché ha le prove che quel che Ferrara dice è falso (o è vero), ma perché non accetta che venga messo in discussione il mito dell'Italia pulita che ha incarcerato l'Italia sporca.
«Caro Boato, ti suiciderai prima che ti ammazziamo..."
Si capisce, dunque, con quanta difficoltà da febbraio a fine giugno del '97 e poi di nuovo a fine ottobre dello stesso anno, la Commissione bicamerale abbia affrontato temi comunque laceranti. Ne sa qualcosa Marco Boato, relatore della commissione sul tema delle garanzie e parafulmine di ogni contestazione. Boato è un trentino cinquantenne che viene dal Movimento studentesco e dalla dirigenza di Lotta continua. è stato radicale, ha sfiorato i socialisti, è parlamentare dei Verdi. Chi lo conosce sa che è un garantista vero. D'Alema lo conosce da anni e senza dirglielo lo propone come relatore per la giustizia. L'idea è di Antonio Soda, sherpa del Pds. Al Bottegone sanno che sulla giustizia si rischia grosso, non vogliono esporsi direttamente, ma al tempo stesso non vogliono scherzi. Un giorno D'Alema incrocia Boato all'ingresso di Monteci-
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torio e gli dice:"Ho proposto la tua nomina, ma non so se passa». In effetti nell'Ulivo s'accende uno scontro trasversale. Chi non conosce Boato, lo teme. Chi lo conosce, è fiducioso. Tra questi ultimi c'è il popolare Ortensio Zecchino, presidente della Commissione giustizia del Senato. Ha lavorato con Boato, lo sostiene. Alla fine Boato passa. Lavora molto sott'acqua riprendendo decenni di proposte di riforma d'ogni partito e mai passate. Ma appena riemerge, i cecchini cercano di farlo secco. Partono in tre: «L'Espresso» e due settimanali di opposta fazione, «Avvenimenti» a sinistra e «il Borghese» a destra. Gli ultimi due sparano qualche botto e poi si chetano. «L'Espresso» corre invece la maratona. Boato conta dodici numeri consecutivi, dodici settimane di botte. La sostanza, secondo il settimanale, è che sulla giustizia comanda Forza Italia e che Boato rappresenta lo squallido strumento delle pastette tra D'Alema e Berlusconi. L'interessato prova a replicare: «Se sono uno strumento, si sono dimenticati di dirmelo. Ma serve a poco. Quando a lavori finiti vado a trovarlo nel suo piccolo ufficio alla Camera, Boato - che da vecchio rivoluzionario conserva tutto e ricorda tutto - mi porge un fascicolo rosa. C'è qualche lettera di consenso che viene soprattutto dalle carceri. Per il resto, centinaia di insulti e di minacce. Qualche condanna a morte, qualche garbato invito alla cautela quando attraversa la strada, accuse di essere servo di Gelli e di Berlusconi. Scrive un anonimo signore: «Innanzitutto saluto il Venerabile che
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Dio lo uccida presto», Boato o Gelli fa lo stesso. Un altro anonimo è schematicamente profetico:Ti suiciderai prima che ti ammazziamo noi». Si firma, onore al coraggio, la signora Marta Viresci di Rovigo: «Piccolo rompicoglioni, lei vuole imprigionare i giudici». In compenso il Grande Scrivano Bolognese, Luigi Preti, gli spedisce messaggi d'encomio e d'incoraggiamento destinati ad annegare nel resto. Boato abbozza. Ma quando ai primi di aprile sfila «l'Unità» dalla mazzetta dei giornali comincia ad allarmarsi sul serio. Alberto Asor Rosa, uno dei santoni del comunismo italiano, si chiede in prima pagina chi lo abbia nominato. è difficile che l'insigne letterato sia stato così assorbito dai suoi studi per non sapere che Boato è una creatura di D'Alema. Dunque attacca D'Alema. Dunque il gioco si fa duro. Anche perché Asor Rosa si meraviglia di come i magistrati se ne stiano zitti. «Quell'articolo» mi dice Boato «è come un segnale.» Come uno di quei razzi illuminanti che vengono lanciati per illuminare l'obiettivo e facilitare il lavoro dei bombardieri. Che infatti arrivano subito sul teatro delle operazioni. Boato diventa così strumento di Cossiga e attua i piani di Gelli e di Craxi. Cordova evoca la P2, Borrelli e Davigo lanciano bombe megatoniche. Boato trova il coraggio di rispondere: posso ascoltare il cittadino Borrelli, non il procuratore di Milano che mi resta indifferente. Ma teme che si stiano organizzando le forze giuste per farlo dimettere. La sera di mercoledì 16 aprile Boato è uno degli ospiti di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
«Porta a porta», dedicata alla giustizia. Poco prima della trasmissione, mi prende da parte e mi dice: «Cinquantanove senatori dell'Ulivo hanno firmato un documento di Bertoni contro la mia bozza». Raffaele Bertoni, ex segretario dell'Associazione nazionale magistrati, senatore del Pds e leader del «partito dei giudici», è uno dei più tenaci avversari di riforme che mettano in discussione il ruolo dei pubblici ministeri. Boato ritiene che l'iniziativa sia stata presa contro Cesare Salvi, capogruppo dei senatori pds, e soprattutto contro D'Alema, alla vigilia dell'audizione in Bicamerale di Elena Paciotti, presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Il giorno precedente, martedì 15 aprile, Boato ha depositato la seconda di quelle che a settembre diventeranno sette "bozze» di riforma. La distinzione di ruoli tra giudici e pubblici ministeri è molto evidente. Colpisce che sia il Polo sia l'Ulivo concordino sull'opportunità che il passaggio dall'una all'altra funzione possa avvenire soltanto per concorso, dopo dieci anni di permanenza nel ruolo che si vuole abbandonare e con il trasferimento in un'altra regione. (Alla fine i dieci anni scompariranno.) E che entrambi gli schieramenti vogliano rivedere sia la composizione del Consiglio superiore della magistratura, aumentando il numero di membri non togati di nomina politica, sia la sezione disciplinare che funziona male. (Ha detto il procuratore generale della Cassazione, Galli Fonseca: «In dieci anni su 998 sentenze del Csm a carico di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE magistrati, 267 sono state di condanna e 731 di assc luzione. Questo dà l'impressione di una giurisdizione domestica Giovedì 17 aprile Elena Paciotti parla in Bicamerale. Sostiene che le riforme possono farsi con legge ordinaria (sulla quale è più facile intervenire) a «Costituzione invariatae mette in guardia dalle modifiche allo studio in commissione. La Paciotti è abilissima, come nei suoi interventi televisivi, quando scarica le situazioni indifendibili come la promozione da ruolo requirente a ruolo giudicante all'interno dello stesso distretto di corte d'appello. Parla con toni equilibrati e molti commissari ne subiscono il fascino intellettuale. D'Alema riceve un forte impatto psicologico e tende la mano ai giudici, convincendo Berlusconi a fare altrettanto (solo la Parenti strilla). Ma chi spera in una composizione della vertenza o almeno in una tregua si sbaglia. L'indomani la magistratura associata si riunisce in un seminario a Roma. La Bicamerale, il suo presidente, il relatore sulla giustizia sembrano passanti sperduti nel corridoio dei cecchini di Sarajevo. Boato è presente, trattato col massimo garbo formale. Quando ha in corpo più colpi di San Sebastiano, si avvicina alla Paciotti. Mi racconta: «Le dico: Elena, se sei corretta, devi dire adesso quello che ieri hai detto a noi in commissione. Lei non accettò. Uscii, lo dissi ai giornalisti". Ma il botto più grosso c'è il giorno successivo. Mille magistrati si riuniscono in assemblea negli uffici romani di piazzale Clodio. Scende in forze il Pool di Milano. La bozza Boa-
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to viene messa nel tritacarne, poi nella centrifuga, infine nel frullatore. A Piercamillo Davigo viene attribuita la frase famosa: «Siamo i migliori. (Quando qualche mese più tardi gli chiedo come gli sia saltato in mente di dire una cosa del genere, Davigo mi risponde: «Infatti non l'ho detta. Ho detto un'altra cosa: ma insomma, vogliono modificare il nostro assetto disciplinare quando nelle altre amministrazioni vengono riammessi in servizio i corrotti? Noi sotto questo profilo siamo i migliori, da noi quando uno viene condannato per corruzione viene rimandato a casa. Allora perché si comincia da noi ancora una volta? Chi alza il tiro sui veri obiettivi politici è Francesco Saverio Borrelli. Il «Corriere della Seraattribuisce al procuratore questa frase pronunciata a margine dell'assemblea: «Berlusconi è una persona, una testa, non governa lui la Bicamerale. Credo che la commissione avrà l'autonomia per valutare ciò che deve essere fatto senza stare ai diktat di Berlusconi», con il quale non intende polemizzare perché «è anche un imputato del nostro ufficio. Il Polo s'indigna. Berlusconi risponde: «Se un magistrato sbaglia cinque volte, deve cambiare mestiere". Si indigna (e si allarma) anche il Pds. Il ministro della Giustizia Flick ipotizza un'azione disciplinare: una delle tante che non avranno seguito. Il vignettista del «Corriere, Giannelli, mostra il ministro sorridente mentre Borrelli con la scure in mano sta per decapi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tare Berlusconi sul ceppo. Dice il procuratore: «Sono per la separazione delle carriere: mezzo alla politica, mezzo alla Fininvest».
«Caro Gianmaria, sei il quinto birillo...»
La sera di mercoledì 7 maggio nel villino Giulia di Maria Angiolillo resta vuoto un posto a tavola. In ogni sua cena, Maria ha sempre trentacinque ospiti divisi in tre tavoli da dodici. Pur essendo i suoi amici persone assai impegnate, non accade rr.ai che qualcuno non arrivi. Maria è un'ospite perfetta e non accetterebbe defezioni o ritardi. Ma quella sera di maggio, solo quando nel quinto bicchiere di cristallo d'epoca che sta ritto dinanzi a ogni commensale è stato appena versato lo Chateau d'Yquem che saluta in modo trionfale la fine del pranzo, la sagoma imponente di Cesare Salvi s'affaccia nella sala da pranzo. Salvi si dirige verso la padrona di casa, saluta gli altri ospiti del suo tavolo e appena seduto vede materializzarsi al tavolo di fronte l'immagine di Giovanni Maria Flick. Quando il Guardasigilli fa gli occhi da cocker significa che è successo qualcosa, e infatti il sorriso affaticato di Salvi, che viene da una pesantissima giornata di Bicamerale, si spegne immediatamente. Viene servito in quel momento un bellissimo soufflé. Mentre Salvi, che non ha mangiato altro, ne apre nervosamente il cuore, chi gli siede accanto lo sente borbottare:E stato zitto per sei mesi. Adesso si sveglia perché ha parlato Borrelli».
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Il soggetto inespresso di questa frase di Salvi è naturalmente Flick. Che lascia intatto il soufflé per divorare con gli occhi il presidente dei senatori pds. La morbida poltroncina da pranzo di casa Angiolillo si trasforma infatti per il Guardasigilli in una sedia da fachiro. E Flick, che fachiro non è, ne soffre vistosamente. Quando finalmente Maria si alza perche i sigari appena offerti possano esaurirsi nelle conversazioni del piano superiore, i due eminenti politici si cercano e s'incollano come i protagonisti di Attrazione fatale, mentre qualcuno dei commensali mormora: «Se un ministro va contro la sua maggioranza deve dimettersi". Salvi dice al ministro quanto ha già deciso di dichiarare l'indomani ai giornali. Riporterà su «La StampaMaria Teresa Meli: «Trovo singolareha detto il capogruppo della sinistra democratica al Senato «che il ministro, e non e la prima volta che ciò accade, invece di venire in I'arlamento mentre si fanno le leggi, per dirci il suo punto di vista, intervenga di fat-
to contro la maggioranza. E interviene a seguire in tempo reale le dichiarazioni della Procura della Repubblica di Milano». Si sta discutendo in Parlamento la modifica del famoso articolo 513 del codice di procedura penale che consentiva, nella versione precedente, ai pubblici ministeri di far valere in aula la testimonianza di un imputato a carico di altri imputati per lo stesso reato, anche se il teste si rifiutava di presentarsi al di-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE battimento, sottraendosi al controinterrogatorio della difesa dell'accusato. La grande maggioranza del Parlamento è favorevole a che la modifica valga anche per i processi in corso. Le procure di Milano e di Palermo sono nettamente contrarie e il ministro della Giustizia si colloca dalla loro parte contro la sua stessa maggioranza parlamentare. Il Polo ne chiede inutilmente le dimissioni e la bufera passa senza conseguenze. Ma i sospetti su un eccesso di condiscendenza del ministro verso il procuratore di Milano cresceranno fino all'autunno del '97, quando Borrelli - chiedendo l'arresto del deputato forzista Cesare Previti per l'affare Imi-Sir - farà dipendere dall'esito (negativo) della domanda il suo giudizio sulla moralità del Parlamento. In quella occasione, Forza Italia accuserà apertamente il ministro di essere sotto schiaffo da Milano, ricevendo una durissima replica da Flick («Se avete le carte, tiratele fuori»). Flick è diventato ministro della Giustizia per una fermissima decisione di Romano Prodi. Si sarebbe candidato volentieri con l'Ulivo alle elezioni del '96, ma non gli si trovò un seggio e la responsabilità rimpallò a lungo tra Prodi, Marini e D'Alema. Al momento della formazione del governo, il segretario del Pds voleva quel posto per uno dei suoi. Quando Cesare Salvi (Pds) e Giuliano Urbani (FI) volevano diventare rispettivamente presidenti del Senato e della Camera, D'Alema impose alla Camera Violante. A chi protestava, si rispondeva: «Lo volete ministro della Giustizia?. Allora sembrava impensabile che il fondatore del «partito dei giudici» andasse in
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via Arenula. Col senno di poi, non si può escludere che con la sua autorevolezza avrebbe potuto gestire con polso fermo l'uscita delle procure dalla lunga supplenza politica. Promosso Violante alla Camera, Salvi sarebbe andato volentieri alla Giustizia, anche se D'Alema preferiva la candidatura di Anna Finocchiaro, un magistrato siciliano alla sua quarta legislatura nel Pci-Pds e dotato di fascino e di polso. Ma Prodi impose Flick. Flick e Borrelli sono amici da anni. Hanno scritto insieme un libro di riflessioni su Tangentopoli, si frequentano stabilmente nelle vacanze di Courmayeur. Quando faceva l'avvocato e il professore alla Luiss, Flick era il capofila di quanti cercavano una soluzione pulita, ma sollecita, per uscire dagli ingranaggi perversi di Tangentopoli, ventilando perfino un'amnistia. Ma i panni del riformista furono riposti e Flick decise d'indossare quelli di un ministro certo più attento alla linea delle procure che a quella del Parlamento e della stessa maggioranza che l'aveva votato. Due giorni dopo la cena a casa Angiolillo, il ministro se ne sente ripetere le ragioni da Ottaviano Del Turco a casa di un vecchio amico comune che ha invitato Flick per verificare se davvero non c'è più traccia di tanti discorsi garantisti fatti insieme per anni. «Caro Gianmaria,gli dice Del Turco, mentre il fumo del suo sigaro s'incrocia con quello della pipa del Guardasigilli, «io ti capisco, sei il quinto birillo e cerchi di re-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE stare in pledi.» Flick guarda Del Turco con aria allarmata e interrogativa. «Sai giocare all'italiana?» incalza il presidente dell'Antimafia. «L'italiana è un gioco del biliardo in cui vince chi riesce a far cadere tutti e cinque i birilli. La Procura di Milano ne ha fatti cadere quattro: Martelli, Conso, Biondi e Mancuso. Quattro birilli, quattro ministri della Giustizia. Tu sei il quinto birillo. Ti capisco, Gianmaria, ti capisco. Prima che Flick possa replicare qualcosa, gli squilla il telefonino. E Del Turco, che ha pronto un paragone per qualunque circostanza, commenta:Lo stesso squillo di Matt Helm». Prego? «Ma sì, Matt Helm, Il silenzintore, con James Bond.» Quando Flick finisce la telefonata, Del Turco - che ormai ha il gioco in mano - fissa allusivamente un piccolo quadro con i «tagli» di Lucio Fontana e rovina definitivamente la serata del ministro: «Non sai che botte arriveranno dalla Procura di Palermo...".
«Presidente, siamo stati sotto ricatto...»
Boato continua intanto a sfornare bozze e a offrirle come si fa con i sigari: l'Associazione magistrati e il Consiglio superiore aprono la scatola, annusano il tabacco, palpano la consistenza del sigaro, sfiorano le foglie per misurarne la stagionatura, arricciano il naso, infine chiudono la scatola senza prendere
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
niente. E dicono al sigaraio di ripassare con altra merce. A metà maggio si svolge nella bella sala del Refettorio a San Macuto un convegno di magistrati e docenti universitari Boato viene fatto a pezzi. Gli si avvicina Marcello Pera, pro fessore d'università e testa d'uovo del Polo per le questioni di giustizia, che aveva sempre guardato con spirito critico alle iniziative di Boato e gli sussurra: «Adesso ho capito. Ti difendero a spada tratta. Sono i giorni della quinta bozza, seguita il 27 maggio dal testo base del relatore, quello definitivo. All'inizio di giugno, la Bicamerale deve vedersela con il voto leghista che fa approvare a sorpresa il semipresidenzialismo e la giustizia passa per alcuni giorni in sott'o`rdine. Riesplode il 25 giugno quando D'Alema teme che i Popolari Si accordino col Polo per votare alcune norme che riaprirebbero la guerra con le associazioni dei magistrati. In particolare, il Pds non può accettare che l'articolo «I giudici e i magistrati del pubblico ministero sono soggetti soltanto alla legge» perda per strada «i magistrati del pubblico ministero», premessa - si teme - per una successiva ed eventuale limitazione di autonomia. Il 26 giugno è un giorno drammatico. La Lega torna in aula e Si sa che torna per votare la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri, richiesta dal Polo. D'Alema sa anche che cinque parlamentari dell'Ulivo sono
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE pronti a votare nello stesso modo: Enrico Boselli (socialista), Natale D'Amico (Lista Dini), Mario Rigo (Lega delle Regioni), il valdostano Guido Dondeynaz e il sudtirolese Karl Zeller Alle cinque del pomeriggio, quando sta per arrivare la resa dei conti, D'Alema manda un biglietto a Urbani: «Spero ti sia chiaro che se passa la separazione delle carriere (e magari l'elezione dei pubblici ministeri) con il voto della Lega, salta tutto. Nel senso che noi voteremo contro il testo finale». L'e-
lezione dei pubblici ministeri secondo il sistema americano è una vecchia utopia leghista che nessuno pensa di mettere in votazione. Ma è certo che la separazione delle carriere passerebbe. La commissione deve infatti stabilire se votare o no gli emendamenti presentati dai vari gruppi o limitarsi all'approvazione del testo base di Boato. Salvi va a trattare con gli ulivisti dissidenti. Gli dicono che, se ci si limita alla bozza Boato, loro votano a favore. Se invece il Pds insiste per votare i propri emendamenti, loro si riservano di votare secondo coscienza. Alle nove della sera, a quasi dodici ore dall'inizio della seduta, si capisce che, se si votano gli emendamenti degli opposti schieramenti, la Bicamerale salta. Basta sentire su quali e quante virgole si giochi il futuro dei pubblici ministeri: una parola aggiunta o tolta dalla Costituzione può aprire al legislatore ordinario strade opposte per ridisegnare l'assetto giudiziario italiano. è a questo punto che Sergio Mattarella propone di
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votare soltanto il testo base, rinviando all'autunno la discussione sugli emendamenti. D'Alema sospende la seduta e i venti minuti che seguono sono i più convulsi nella storia della commissione. Si formano capannelli eterogenei. Marini va a mediare col Polo, Fini con l'Ulivo. Mi dice Berlusconi:"Non ho creduto alla minaccia di D'Alema di far saltare tutto, come ha scritto nel biglietto a Urbani. Ma certo capivo che dopo essere stato sconfitto sul semipresidenzialismo e sulla legge elettorale, non avrebbe potuto accettare una sconfitta anche sulla giustizia». Al presidente di Forza Italia si avvicina Boato che lo sollecita ad accettare la proposta di Mattarella. Berlusconi sa di avere i numeri per forzare, ma sa anche che in Parlamento l'Ulivo, con la legge dei numeri, può stabilire ritorsioni su altri punti della Costituzione. Mi dice il Cavaliere: "I Popolari ci fanno sapere di essere stati richiamati con dureza e di non poter andare oltre un certo limite. In ogni caso, non possono votare con noi come era sembrato al mattino. Se nel v oto perdessimo, non avremmo i numeri per rimontare in Parlamento. Se accettiamo di rinviare, abbiamo il tempo per trovare una soluzione equa che si avvicini di più alle nostre posizioni. Il Polo accetta il rinvio. Tiziana Parenti, in lacrime, si dissocia e parla per annunciare le sue dimissioni:Mi dispiace di
aver votato per lei, onorevole D'Alema, come presidente della
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Bicamerale. Lei non è stato il presidente di tutti. Lei è stato il presidente di alcuni e soprattutto è stato il presidente dei magistrati. Abbiamo vissuto in una commissione costantemente sotto ricatto...». Fini si dissocia:"Io non l'ho votata, presidente, ma debbo dire che se la Bicamerale questa sera decide di non votare gli emendamenti sulla giustizia, lo fa non perché questo organismo parlamentare sia ricattato, bensì perché liberamente decide di non farlo». D'Alema lo ringrazia. Manca poco più di un'ora a mezzanotte quando si vota per mantenere solo il testo base di Boato. Il gruppo di Rifondazione è l'unico contrario.
Davigo: «Ma Boato chi rappresenta?»
«Sono forse io custode del fratel mio?Quando gli chiedo una previsione sul futuro di Di Pietro, Piercamillo Davigo mi risponde come Caino rispose al Signore che gli chiedeva dove fosse finito Abele. All'interno del Pool, Davigo è da sempre l'amico più stretto di Di Pietro. Si infastidì, come i colleghi, quando ascoltando la televisione scoprì che Di Pietro era andato a casa di Berlusconi ad Arcore e gli aveva detto che con l'avviso di garanzia di Napoli aveva poco o niente da spartire. Ma non c'è dubbio che quando torna in procura a Milano, Di Pietro entri innanzitutto in questa stanza che sta all'inizio dell'interminabile corridoio su cui si affacciano gli
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uffici degli altri sostituti. Era la sua stanza, l'ha ereditata Davigo che adesso la divide con un giovanissimo uditore. «La sua vita e la sua carriera saranno segnate per sempre da questa esperienza» dico al giovanotto. Davigo sorride, sorride anche lui, ma si guarda bene dall'aprire bocca. Sarà il testimone muto delle due ore del nostro colloquio. Fu a casa di Gherardo Colombo che a Pasqua del '95 Di Pietro cercò di ricomporre il rapporto con i suoi vecchi colleghi. Ma due anni più tardi, quando Colombo ha sposato la sua compagna, Di Pietro non c'era. C'erano tutti gli altri e Davigo mi racconta una storia che gli è capitata in treno con un collega. «Una signora ci riconosce, ci chiede del matrimonio, vuole sapere se Alessandra, la moglie di Gherardo, è bella. Noi rispon-
diamo che è bellissima. Lei sgrana gli occhi: ma come ha fatto a sposare quel mostro di Colombo? E cieca, le spiega il mio collega, inventando all'istante una storia struggente. La giovane virtuosa che suona il piano e s'innamora del magistrato... La signora aveva le lacrime. Ma io a un certo punto non ce l'ho fatr' ta e sono esploso in una risata..." Senta dottor Davigo, Boato ha lamentato pressioni forti sulla commissione da quei pochi magistrati che sono sempre r sui giornali e alla televisione. Condivide? «Pochi? Io faccio parte del comitato direttivo centrale dell'Associazione magistrati perché la componente cui appar-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tengo è presente nella giunta. Siamo sostanzialmente tutti d'accordo su tutte le deliberazioni che sono state prese su questo tema. Quindi c'è una coincidenza di vedute. Forse sui mass media finiscono i due-tre colleghi che vengono definiti l'altra campana della magistratura e dietro ai quali effettivamente non c'è nessuno. E poi io sono stato eletto, nella mia lista sono il secondo degli eletti a quattro punti dal primo. Boato è il secondo degli eletti nella sua lista? Questo a proposito di rappresentatività. Le battute gli scappano come copie di giornale a una rotativa. Eppure quando vai a ricordargli quelle incancellabili, dice che non sono sue. Nemmeno quella sull'Italia «da rivoltare come un calzino». «I diritti d'autore su quella battuta spettano a Giuliano Ferrara. Era l'estate del '94, c'era stata una serie di arresti di militari della Guardia di Finanza e di imprenditori che avevano versato denaro. Ferrara, ministro del governo Berlusconi, disse al TG1 una frase del genere: visto che qualcuno ha pagato la Guardia di Finanza, non possiamo rivoltare l'ltalia come un calzino. Io osservai: vi pare possibile che un ministro della Repubblica possa dire una cosa del genere? Allora che dobbiamo fare? Permettere che continuino a pagare la Guardia di Finanza?» E quella su certi politici che come le Brigate rosse cercano di non farsi processare? «Nemmeno quella. Ho detto: ogni tanto ci imbattiamo in
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soggetti che anziché difendersi nel merito, come è sacrosanto, giocano a non farsi processare. Allora, come è avvenuto quando le Brigate rosse cercavano di impedire i processi, lo Stato deve impiegare maggiori energie perché, oggi come al lora, non si può accettare che qualcuno riesca a non farsi processare.» Be', se non è zuppa... «Nella mia opinione, il fatto che qualcuno riesca a non farSi processare ha un carattere eversivo dell'ordinamento, perché manda in frantumi la scritta La legge è uguale per tutti.» E l'altra ancora secondo cui il problema politico dell'Italia sarebbe che la classe dirigente non ha accettato il principio di uguaglianza davanti alla legge? «Questa l'ho detta. La nostra legislazione è fatta in modo differenziato a seconda della categoria sociale di appartenenza del possibile imputato. Per esempio? «Prenda il pubblico ufficiale. Si dice che il componente del consiglio d'amministrazione delle Ferrovie dello Stato non è un pubblico ufficiale. Le Ferrovie sono una società per azioni, il consiglio non ha poteri autoritativi, certificativi, eccetera. Poi però si scopre che il signore che controlla i biglietti sul treno è un pubblico ufficiale. Allora mi domando: il signore che fora i biglietti è o non è alle dipendenze di un consiglio d'amministrazione che lo ha assunto e può licenziarlo, tra-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sferirlo, punirlo anche per come fora i biglietti sul treno? Come fa il bigliettaio a essere un pubblico ufficiale e il consigliere d'amministrazione no?" Mi pare più sorprendente definire Pippo Baudo incaricato di pubblico servizio. «Sono d'accordo, ma il problema di cui sto parlando è un altro. Come può una classe dirigente avere la fiducia e il rispetto dei subordinati se non sottopone se stessa alle regole che valgono per loro?» Ho la sensazione che invece alcune procure abbiano una speciale attenzione per le persone in vista. «Le giro un'osservazione del procuratore aggiunto di Torino, Marcello Maddalena, quando a proposito del falso in bilancio gli avvocati della Fiat gli obiettarono che alcune decine di miliardi sono niente di fronte al fatturato dell'azienda e comunque non ne intaccano l'essenza patrimoniale. Maddalena rispose: ma allora perché i vostri servizi di vigilanza denunciano gli operai che rompono un bullone? Se i parametri di riferimento sono alcune decine di miliardi, dovreste lasciar perdere e accontentarvi dei provvedimenti disciplinari...»
«I ministri non hanno la polizia a disposizione?»
Davigo non manda giù che si parli per i pubblici ministeri di carriere separate o distinte. «Fino all'89 i pretori cumula-
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vano le due funzioni. Eravamo allora un paese di selvaggi?" E considera aberrante parlare di queste cose prescindendo dal sistema costituzionale nel quale si vive. «C'è differenza tra un sistema politico in cui il capo dell'esecutivo sia anche il capo della maggioranza parlamentare e un sistema, per esempio quello americano, in CUl il presidente può trovarsi contro la maggioranza del Congresso. Nel primo caso le garanzie d'indipendenza dell'ordine giudiziario devono essere aumentate.» Anche il nostro sistema prevede che il primo ministro sia capo della maggioranza parlamentare (è accaduto con Berlusconi). Ma accade normalmente in Francia, in Gran Bretagna, in Germania... «E infatti molti in questi paesi si dolgono della inadeguatezza delle garanzie d'indipendenza della magistratura...» Dottor Davigo, sono sistemi di democrazia forte. In ogni caso voi siete molto più tutelati... «Per questo vorremmo evitare di passare a una posizione meno tutelata. In ogni paese le carriere dei pubblici ministeri e quelle dei giudici sono separate. «Da noi il pubblico ministero e il giudice fanno lo stesso lavoro. Noi pubblici ministeri abbiamo il compito di far rispettare la legge, che è esattamente la stessa funzione che l'ordinamento affida al giudice. In questa ottica, perché non separare
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE allora la carriera del giudice per le indagini preliminari da quella dei giudici di tribunale e di corte d'assise? Come vede, o c'è confusione oppure le finalità perseguite da chi vuole dividerci dai giudici sono diverse da quelle dichiarate. E poi chi vuole ridimensionare in questo modo i Pm è un suicida.» Suicida? «Ma sì, tra le righe del testo di Boato approvato in commissione si legge l'idea di fare un'unica struttura del pubblico ministero. Una struttura di duemila persone diretta gerarchicamente. Le chiedo allora come potrà un giudice non tenere in estremo conto il parere di un organo che ha tutta la forza di un pubblico ministero unitario e gerarchizzato quando dirà: ma tu, modesto giudice di provincia, vuoi discutere questa mia posizione che è stata deliberata dal procuratore nazionale dopo attente valutazioni dei nostri uffici studi? Lei prevede la nascita di un procuratore nazionale? «Per la mafia c'è già. Il documento di Boato parla di coordinamento dell'attività delle procure che è l'esatto contrario della linea di tendenza che c'è stata finora e cioè il potere diffuso per evitare al massimo le gerarchie.» Quindi la commissione ha sbagliato? «Non sta a me dire se questa tendenza sia giusta o sbagliata. Il problema è un altro. Si dice che i singoli magistrati del pubblico ministero stanno acquisendo troppo potere e un'ottica eccessivamente inquisitoria? Ma allora si faccia il contrario. Si dica che dopo cinque anni il pubblico ministero deve
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tornarsene in un collegio giudicante. Se invece si fa un corpo separato, tra qualche anno si dirà: ma questi pubblici ministeri non possono mica esercitare un potere così senza rispondere a nessuno." Lei dice quindi che una organizzazione del genere sarebbe l'anticamera del controllo del governo sul pubblico ministero. «Inevitabilmente. » Come Montanelli per una battuta è disposto a rompere un'amicizia, quando Davigo s'innamora di un'idea la porta inevitabilmente al paradosso. Parliamo del sistema francese e lui mi ricorda che lì il ministro della Giustizia può ordinare al pubblico ministero di procedere all'azione penale (non può ordinargli di non procedere). Gli dico: pensi che succederebbe in Italia se il ministro avesse lo stesso potere... «Perché, i ministri da noi non ce l'hanno?» Prego? «Dico: da noi i ministri non possono ordinare di procedere? Qual è il problema? In Italia ci sono molti ministri che hanno un corpo di polizia a disposizione...» Ma non la polizia giudiziaria. Siete voi comunque a dover decidere se il rapporto di un poliziotto, di un carabiniere o di
Giustizia. O politica? 169
un finanziere - in sintesi: di un ufficiale di polizia giudiziaria
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE - ha rilevanza oppure no. «Perché, si può omettere di procedere se c'è un rapporto che conclude in un certo modo? Bisognerà avere degli argomenti...» Di fronte alla tesi che alcuni dei nostri ministri possono di fatto promuovere l'azione penale mi arrendo. E cambio discorso. Davigo naturalmente non condivide nemmeno l'idea che per cambiare funzione (da pubblico ministero a giudice) il magistrato debba cambiare distretto. E quando obietto che non sarebbe elegante frequentare lo stesso ambiente, giudicare i colleghi di ieri, mi risponde: «Lei pensa davvero che un collega assolve o condanna qualcuno per fare un favore a me? Ma non scherziamo». S'indigna dinanzi all'ipotesi che venga depenalizzato il falso in bilancio: «Se lo faccio per fregare i creditori sono punito con la reclusione fino a cinque anni, se lo faccio per fregare tutti i cittadini, alterando le commesse pubbliche e il gioco democratico, commetto solo una violazione amministrativa? Ma non scherziamo». A proposito: perché arrestate per il falso in bilancio quando le carte truccate, se ci sono, stanno lì e nessuno può ripulirle? «Il documento sta lì, è vero. Ma io posso cambiare la rappresentazione della realtà che riferiscono i testimoni, i coimputati, altre persone. Se io sono l'amministratore delegato di un'azienda è difficile che i miei dipendenti possano testimo-
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niare sinceramente se mi vedono in circolazione.» Naturalmente la cosa ha una valenza diversa quando il reato si riferisce ad anni lontani, come spesso accade, ma è più facile spostare il Monte Bianco di un metro che Davigo da un'opinione.
«Niente amnistie. La cornlzione è vírlllenta»
Si è abbassato il livello della corruzione? «è diminuita certamente quella politica, almeno nelle forme più virulente. Prima c'era un imprenditore che raccoglieva denaro da tutti i colleghi della cordata e lo dava a un esponente politico per tutti i partiti. Adesso in modo così sfrontato non accade più. C'è una cautela maggiore e non se ne può più parlare apertamente.» E nella pubblica amministrazione? «Ho la sensazione che lì il fenomeno sia ancora virulentissimo. Vede, lì non si tratta di finanziare il costo della politica. Lì si tratta di finanziare il proprio tenore di vita. C'è gente che guadagna due milioni al mese ed è abituata a vivere con venti. E duro riabituarsi a vivere con due. Qui si riapre il vecchio discorso su quale tipo di pubblica amministrazione vogliamo: pochi funzionari ben pagati e stimati per le loro qualità professionali o tanti impiegati mal pagati perché la pubblica am-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ministrazione deve tamponare la disoccupazione?» Nemmeno l'arresto e le condanne frenano la corruzione? «La sanzione penale è abbastanza efficace per i politici perché presentarsi alle elezioni con il marchio di una condanna li porta a scomparire. Ma per i funzionari no. Le possibilità di essere presi sono irrisorie, se vieni preso patteggi, se patteggi vieni riammesso in servizio. Ma scusi, perché uno non dovrebbe rubare? In certe amministrazioni dello Stato possono accumularsi decine di miliardi, fare il salto di qualità per sé e per la propria discendenza di generazioni. Durante il governo Dini, il ministro delle Finanze disse che su ottantaquattro condannati per corruzione e concussione con sentenza definitiva solo uno è stato destituito, gli altri hanno ripreso servizio. E non mi dica che la legge prevede questo. Le commissioni ministeriali di disciplina possono destituire i dipendenti infedeli. Perché non lo fanno?» Secondo lei, quindi, la chiave del problema sta nella pubblica amministrazione. «Che senso ha la lotta per il potere se si arriva al vertice e poi la pubblica amministrazione non ubbidisce perché è gravemente deviata in alcuni suoi gangli? Per questo la classe politica dovrebbe avere nella magistratura il suo migliore alleato e invece il problema siamo noi. Se a Milano abbiamo arrestato centoventuno appartenenti alla Guardia di Finanza e se è difficile che tutti i cattivi si siano dati convegno a Milano, è un problema mio o è un problema grave dell'esecutivo?
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Lei sente qualcuno discutere di questo? No, si discute di separazione delle carriere. E guardi, io non credo che questo awenga per complicità. Avviene per miopia e mi spaventa ancora di più. L'Europa non richiede il rispetto dei soli parametri economici, ma anche di quelli corruttivi e criminali. Quindi niente amnistie. «Le amnistie servono quando un fenomeno è finito, non quando è virulento. Dovrà pure arrivare il momento in cui saranno create le condizioni per commettere meno delitti. Lei si è mai chiesto che cosa significa per un giovane funzionario entrare in un'amministrazione dove i suoi superiori prendono i soldi e glieli mettono in mano? Eppure su questo non c'è un serio dibattito parlamentare. Mentre ce ne è uno serio sulla giustizia. E allora: riusciamo a capire la differenza tra causa ed effetto o si sogna l'impossibile restaurazione senza i magistrati che danno fastidio?» Nella stanza che fu di Di Pietro entra il sole del tramonto. L'uditore ha bevuto due ore di conversazione senza battere ciglio e senza aprire bocca. Chiedo a Davigo: quando voi sei del Pool ve ne andrete e al vostro posto verranno altri sei magistrati, essi lavoreranno con la stessa energia, la stessa solidarietà di gruppo? «Sarò un ottimista inguaribile, ma sono convinto che le ultime leve di magistrati sono migliori della nostra.» Il Pool di fine '97 è lo stesso di cinque anni prima? Un magi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE strato mi risponde con questo paragone: "Siamo all'evoluzione della specie. Corrotti e corruttori sono come gll anlmali predatori della giungla. Nel '92 erano sazi, grassi e lenti. Bastava far cadere la rete ed era fatta. Adesso le leggi della giungla hanno fatto il predatore più agile, accorto e veloce. Ogni tanto ne catturiamo qualcuno. Ma è dura".
Nordio: «La Bicamerale è stata intimidita"
«Ma che bella novità, questa» osserva Carlo Nordio quando gli dico che nel nostro dibattito di Positano Giancarlo Caselli e Ilda Boccassini non erano ormai più contrari alla distinzione delle funzioni tra pubblici ministeri e giudici. "Se torna indietro di un anno, vedrà che a proporre anche il minimo controllo nel passaggio da una funzione all'altra si rischiava, come è capitato a me, di prendersi del craxiano e del piduista.
Poi finalmente anche il Pds ha capito che così non si poteva andare avanti e adesso si riesce a discutere. Tutto chiaro.» Nordio è un cane sciolto della magistratura italiana. Abbaia con una inflessione veneta assai signorile e si diverte a rappresentare nei mass media l'«altra campana» dei giudici, quella che Davigo considera senza seguito. Ma è vero? Sul «Corriere della Sera» del 18 aprile, alla vigilia della grande assemblea dell'Associazione nazionale magistrati a Roma,
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Rosario Priore - il giudice di Ustica, dell'attentato al papa e di Emanuela Orlandi - dice a Paolo Foschini: «Sono favorevole alla separazione delle carriere perché la forma mentis di giudici e pubblici ministeri è diversa. Ricordo personalmente un magistrato inglese che ebbe un moto di indignazione osservando da noi che giudici, pubblici ministeri e avvocati prendevano gli stessi ascensori. E badi, a pensarla così è la maggioranza silenziosa dei giudici». Nordio ha cinquant'anni, è in magistratura da venti e da quindici fa il pubblico ministero a Venezia. Ha fatto condannare per le tangenti venete democristiani e socialisti e in una indagine sul Pds spedì un avviso di garanzia a D'Alema. La notizia fu data ai giornali dallo stesso segretario. Nordio ha sostituito Di Pietro come consulente della Commissione parlamentare sul terrorismo e le stragi. Restarono tutti spiazzati dal fatto che la proposta fosse partita dalla Lega. I suoi attacchi ai procuratori di Milano e di Torino gli son valsi un procedimento dei probiviri dell'Associazione magistrati. Lui si è rifiutato di presentarsi e ha scritto: «La vostra decisione dimostra, una volta di più, che i pericoli denunciati nei miei scritti esistono e che i timori di molti cittadini sono fondati: per una parte della magistratura ogni dissonanza dal coro deve essere ignorata e, se questo non è possibile, soppressa... Avete scelto la via del bastone? Seguitela fino in fondo». Nell'estate del '97 è stato promosso consigliere di Cassa-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE zione per gli automatismi che regolano ancora la carriera dei magistrati. Poiché c'era aria di reintroduzione dei concorsi, il Csm fu straordinariamente rapido nel promuovere tutti quanti ne avessero i requisiti anagrafici. Roba da un minuto a testa. Per Nordio occorsero ore. Quando chiesi al vicepresidente Grosso come spiegasse questa eccezione, lui mi disse che s'era aperta una battaglia «politica» su un altro magistrato e che questo s'era trascinato dietro Nordio. Quando ripensa all'episodio, il procuratore veneziano sorride: «In realtà nel Csm ci sono un paio di consiglieri che mi detestano e sono ricambiati. Poiché la seduta era pubblica, ho chiesto a Radio Radicale le cassette della registrazione integrale in modo da poter riascoltare per bene le falsità inaudite che sono state dette sul mio conto. Le mie vendette arrivano tardi, ma arrivano. Come col Pool di Milano». Nordio mi ricorda un episodio vecchio di due anni:Fu intercettata illegittimamente una conversazione di Craxi col suo avvocato. L'avvocato gli disse che il pubblico ministero veneziano che indagava su di lui era una persona affidabile, nel senso che non si lasciava condizionare. Io avevo infatti indagato tutti, democristiani, socialisti, comunisti. L'intercettazione venne passata ai giornali e finì dappertutto in prima pagina. Io dissi che era una barbarie, che il Pool sapeva benissimo che quella intercettazione era illegittima, i milanesi si chiamarono fuori, andammo al Csm che chiuse tutto dicendo che avevamo un po' esagerato».
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Sulla separazione delle carriere Nordio è categorico: «Intanto non bisogna aver paura delle parole. La chiamino separazione, distinzione, come vogliono, non capisco la differenza. Ma deve essere stabilito un principio di civiltà, consacrato anche da uIIa pronuncia del Parlamento europeo, che impedisca il passaggio automatico e incontrollato da una carriera all'altra. Il cittadino non può essere giudicato da un tizio che fino al giorno prima nella stessa aula faceva il pubblico ministero. Lei sa che accade a Venezia?». Che accade a Venezia? «Un magistrato lavora come pubblico ministero con me a un'inchiesta sulla corruzione nel Veneto. Firma con me una autorizzazione a procedere contro Bernini e De Michelis sostenendo nella sostanza che s'erano spartiti molti affari del Veneto. Poi diventa giudice e si trova a giudicare altri democristiani della corrente di Bernini. Altra gente, un altro processo, la forma è rispettata. Ma lei pensi alla faccia di quelli che si son trovati di fronte a un magistrato che già s'era pronunciato in un certo modo sul loro capocorrente. E infatti si son presi una batosta spaventosa.» Viene mossa l'obiezione che un corpo separato dei pubblici ministeri diventa troppo potente. «Anche questa è una novità. Non s'era detto fino a ieri il contrario, e cioè che la distinzione o la separazione fossero il primo passo verso la soggezione del pubblico ministero al
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE governo?» E infatti i pubblici ministeri diventerebbero tanto potenti da far dire al potere politico che serve qualcuno che li controlli... «E neanche questa tesi regge. La formazione di un nuovo ordine requirente, quello dei pubblici ministeri, non porterebbe affatto né a un nuovo organismo svincolato da controlli né a un organismo controllato dal potere politico. Il controllo dovrebbe essere fatto da magistrati del pubblico ministero svincolati dal potere politico, ma vincolati alla legge. L'importante è dividere chi accusa da chi giudica. Ci sono commistioni infinite...» Per esempio? «Il lavoro dei magistrati viene giudicato dal consiglio giudiziario. I procuratorl generali, che sono pubblici ministeri, danno di diritto il loro parere su giudici giudicanti. E già non va bene. Poi ci sono i pubblici ministeri e gli altri giudici eletti nel consiglio. Quando, alcuni anni fa, io ero membro del consiglio giudiziario del Veneto e facevo il pubblico ministero, mi capitava di dover chiedere al mattino al signor giudice la condanna o l'assoluzione di questo o di quello e al pomeriggio mi trovavo in consiglio giudiziario a giudicare il giudice che al mattino magari mi aveva dato torto. Stabilendo se meritava la promozione o il trasferimento ad altro incarico." Secondo lei la Bicamerale ha potuto muoversi serenamente sulla giustizia? «Era partita bene. Ma ho avuto l'impressione che nell'ulti-
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ma parte dell'estate sia stata molto intimidita dalle reazioni dei magistrati. A mio giudizio questo è molto grave perché il Parlamento trae la sua legittimazione dalla volontà popolare e non deve tener conto non solo delle pressioni, ma neanche delle opinioni della magistratura.» C'è stata una sollevazione contro l'ipotesi che nascessero due consigli superiori della magistratura, che infatti in settembre è caduta. «Guardi, io non discuto le scelte legislative. Che ci siano due Csm o due sezioni di un solo Csm è un fatto tecnico. L'importante è che chi giudica i pubblici ministeri sia un organismo diverso da quello che giudica i magistrati giudicanti ", Il Consiglio superiore è stato carente in campo disciplinare? «Le do un giudizio storico, per evitare di essere a mia volta convocato di nuovo davanti al Csm. E allora, pur se nessuno ha il coraggio di dirlo, anche al nostro interno il giudizio storico è che i consigli superiori abbiano costituito una sorta di camera di compensazione tra i simpatizzanti dell'una e dell'altra corrente." I procedimenti vengono pero aperti dal ministro o dal procuratore generale della Cassazione. «E infatti il Csm non può procedere d'ufficio. Deve aspettare che uno dei due promuova l'azione. Ma bisogna dire che anche quando è stato investito di situazioni particolarmente pesanti il Csm non ha avuto la coerenza e il coraggic-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE di decidere.» Per esempio? «Per esempio, alla Corte d'appello di Milano lavora un magistrato che è stato condannato in via definitiva per calunnia nei confronti di un altro magistrato. Un reato doppiamente pesante. E io questo lo trovo di una gravità inaudita." Si sostiene che alcuni pubblici ministeri hanno svolto Ull ruolo politico. «Credo che la volontà di perseguire un disegno politico si sia verificata raramente. Escludo un disegno strategico messo in opera da una parte della magistratura, sia pure a fin di bene, anche se è possibile che qualche pubblico ministero, qualche cane sciolto, in cuor suo abbia perseguito un disegno politico. Però...» Però? «Però è sicuro che i pubblici ministeri hanno svolto oggettivamente un lavoro politico. Le loro incllieste hanno avuto un profondissimo significato politico. Per due ragioni. La prima: quando si indagano e si condannano esponenti politici come Craxi, Forlani e via dicendo, oggettivamente si demoliscono i loro partiti. Inoltre, attraverso una pericolosissima e perversa commistione di moralismo, di giustizialismo e di volontà di pulizia tra stampa e magistratura inquirente, si è voluto affermare per lungo tempo il principio che l'indagato dovesse dimettersi dalle cariche pubbliche. E questo è stato devastante perché si è stravolto il significato dell'avviso di
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garanzia. Ed è stato devastante anche per noi.» Per voi? «Certo. Se io so che spedendo un avviso di garanzia all'onorevole tal dei tali, cioè facendo un atto dovuto, produco una grave conseguenza politica, comincio a riflettere. Che succede? Cade il governo? Lui si dimette? E invece non dovrei riflettere nemmeno un minuto perché è un atto dovuto fatto addirittura a garanzia dell'indagato. Capisce a che punto siamo arrivati?»
Pentiti: istruzioni per l'uso
Giovedì 24 luglio Giancarlo Caselli con un articolo su «Repubblica» dichiara guerra al Parlamento. Lo accusa di aver abrogato la mafia, per via delle modifiche all'articolo 513 del codice di procedura penale (ne abbiamo parlato più sopra). La decisione può avere effetti enormi su molti processi e crea qualche oggettiva difficoltà ai gestori dei pentiti di mafia. Ma Caselli non usa mezze misure e scrive quel che l'indomani Giuliano Ferrara definisce sul «Foglio» «un contrattacco violento, intellettualmente brutale, moralmente ricattatorio». Due giorni dopo, Luciano Violante gli risponde duramente sul «Corriere» (La riforma del 513 «è un primo passo per costruire una strategia moderna di lotta al crimine»). Violante e
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Caselli sono professionalmente (e politicamente) fratelli. Dei due, Violante è il maggiore. Lo fu a Torino, quando entrambi lavoravano presso il tribunale (Violante come giudice istruttore, Caselli come sostituto procuratore). Lo è adesso, dal vertice delle istituzioni. Se Violante prende le distanze da Caselli, vuol dire che Caselli ha esagerato. Anche D'Alema ha un ottimo rapporto con Caselli. Lo sente spesso al telefono e anche in questo caso l'intemerata del procuratore non lo lascerà insensibile. Il segretario del Pds sulla giustizia deve muoversi come sulle uova. A uomini prudenti e garantisti, come Cesare Salvi, Giovanni Pellegrino ed Emanuele Macaluso, si contrappone l'ala dura di Raffaele Bertoni, Carlo Smuraglia, Salvatore Senese, Giovanni Russo e soprattutto Pino Arlacchi, prima di essere chiamato al vertice dell'Onu lasciando ad Antonio Di Pietro l'ormai mitico collegio senatoriale del Mugello. Tra duri e garantisti i rapporti sono spesso tesi. Bertoni è arrivato a usare contro Pellegrino in pieno Senato frasi tali che l'altro si è alzato, s'è tolto gli occhiali e ha reagito pesantemente. Eppure a D'Alema, in fondo, non dispiace di avere in casa anche i duri. Per le ragioni che abbiamo esposto all'inizio di questo capitolo, la base del Pds è tuttora largamente giustizialista. La concorrenza di Rifondazione per attrarre le simpatie di alcune procure calde (Palermo, Bari, Reggio Calabria) è molto forte e in Commissione antimafia un uomo pure tendenzialmente garantista come il vicepresidente Niki
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Vendola svolge con costanza un lavoro alternativo, tanto per cambiare, a quello dell'altra sinistra. Ma il messaggio di Violante a Caselli è chiaro (letto in controluce può avvertire che dal 513 parte una nuova fase dei rapporti tra magistratura e politica). E sposta su un fronte più prudente una parte dei pendolari del partito, a cominciare da Luigi Saraceni, fondatore a suo tempo di Magistratura democratica con altri giudici dal destino diverso e talvolta sfortunato: Michele Coiro, Francesco Misiani, Franco Marrone, Gabriele Cerminara. Nella stessa estate del '97, d'altra parte, Violante aveva dato proprio a Palermo il segnale che era ora di cambiare strada. C'era un convegno del Pds sulla mafia, che fu concluso dallo stesso D'Alema. Il partito portò con sé un pezzo rilevante di Stato, come non era mai capitato nemmeno alla Dc dei tempi d'oro. Alle dieci parlò Berlinguer, ministro dell'Istruzione. Alle undici Bersani, ministro dell'Industria. A mezzogiorno Violante, presidente della Camera. Alle cinque del pomeriggio, Napolitano, ministro dell'Interno, mentre il nuovo presidente della Consob, Luigi Spaventa, dette le coordinate sul sistema finanziario. Caselli lanciò il consueto grido di dolore sulla forza della mafia e il rischio di abbassare la guardia. Dinanzi a una sala che un testimone definisce «irrequieta e datata (sembravano gli anni Cinquanta), Violante fece un intervento molto pragmatico: questo modo di ragionare, disse in sostan-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE za, aveva un senso quando noi stavamo all'opposizione. Adesso è cambiato tutto, quindi calmatevi. Lo stesso D'Alema disse: stiamo esagerando, adesso siamo al governo noi, adeguiamo il linguaggio ai tempi nuovi, confortando Ottaviano Del Turco, socialista e presidente della Commissione antimafia che aveva detto ai presenti: signori, voi comandate, non po- tete parlare più come se al governo ci stessero gli altri. Del Turco è presidente dell'Antimafia per uno di quei sottili calcoli politici che hanno portato Marco Boato a occuparsi di garanzie. Abruzzese di Collelongo, dove torna ogni fine settimana con la bella moglie, pittore egregio, ex segretario generale aggiunto della Cgil e socialista sopravvissuto a Craxi, Del Turco è un garantista vero. Fu preferito a Pino Arlacchi che non se ne dette mai pace. Ma scegliendo lui, il Pds ha potuto dialogare con tutti, là dove con Arlacchi avrebbe dovuto ordinare elmetti e artiglieria pesante. Del Turco si trova a presiedere l'Antimafia in un momento assai delicato. Da un lato i successi investigativi contro Cosa nostra sono i migliori da molti anni, dall'altro la gestione dei pentiti diventa sempre più incontrollabile. Quando Balduccio Di Maggio chiede mezzo miliardo per deporre, la Montinaro, vedova di un poliziotto ucciso in una strage di mafia, grida in pubblico: io non riesco ad arrivare alla fine del mese e chi ha ammazzato mio marito è pieno di soldi. Il Cirm di Nicola Piepoli lancia un sondaggio: il 78 per cento degli interpellati non vorrebbe che i pentiti prendessero dallo Stato
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una sola lira, il 48 per cento vorrebbe addirittura che ai «collaboratori» fosse tolta anche la protezione. E la polemica riesplode a fine ottobre '97 quando si scopre che pluriomicidi liberi, come Di Maggio (l'accusatore di Andreotti) hanno di fatto ricostruito le loro cosche. In Commissione antimafia si scontrano due linee trasversali: una guidata da Filippo Mancuso di Forza Italia e da Romano Misserville di An dice basta con i pentiti, l'altra condotta dal rifondatore Niki Vendola e da Michele Florino diAn sposa invece la tesi di Caselli che vuole lasciare intatta la legge. La Procura di Palermo, com'è giusto, ha avuto dallo Stato tutti i mezzi necessari per combattere la mafia al miglior livel lo possibile: i più bravi uomini della polizia, la migliore «squadra catturandi» d'Italia, i carabinieri più selezionati. Le richieste di Caselli vengono accolte in ventiquattr'ore e questo ha determinato una sorta di «gelosia sociale» - così la chiama il Ministro della Giustizia - da parte degli altri procuratori (Cordova di Napoli, innanzitutto) esposti contro la criminalità. Ma se da un lato c'è la lotta alla mafia, dall'altro c'è la lotta politica fatta al riparo della mafia. Anche nell'autunno del '97 Del Turco si espone molto nel dividere il grano dal loglio e sul «manifesto» del 18 settembre il suo vicepresidente Vendola lo attacca a nome di Rifondazione. Dice Vendola a Daria Lucca e Guido Ruotolo: «Erede della commissione Parenti che aveva l'incarico di fare terra bruciata intorno ai giudici, questa com-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE missione ha passato più tempo a delegittimare i magistrati che ad analizzare le modifiche in corso della nuova mafia». Dietro queste posizioni, i dietrologi vedono il regolamento di conti che può nascere dal processo Andreotti. C'è chi dice che tra Milano e Palermo s'è formata una tenaglia per stritolare i simboli della Prima Repubblica. A Milano sono stati demoliti Craxi e il Psi, a Palermo Andreotti e la Dc. Ma col passare degli anni (perché di anni ormai si tratta) il processo Andreotti comincia ad assumere aspetti assai problematici. è evidente che se alla fine non si dimostrasse una partecipazione attiva del senatore alle attività della mafia, l'immagine della Procura di Palermo e il castello che è stato costruito sopra l'inchiesta rischierebbero di franare. Di qui la lotta sull'uso dei pentiti e sulla necessità di richiamarli in aula a confermare le accuse (513). Di qui la richiesta autunnale di Berlusconi (grande corruttore per la Procura di Milano, in odore di mafia per quella di Palermo) di non considerare valide le accuse dei pentiti se non corredate di riscontri oggettivi, visto che ancora non è chiaro come e da chi i pentiti vengano gestiti. (Enzo Tortora fu incastrato da una decina di collaboratori che si firmavano a vicenda la patente di credibilità.) Così quando in estate incontro Caselli a Positano, gli chiedo di spiegarmi una frase pronunciata il 16 novembre del '96: «Riscrivere Mani pulite a colpi di maglio significa demolire le basi su cui si è costruita la nuova classe politica... Se
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passa la delegittimazione di Mani pulite, si va a fondo tutti». Traduzione: voi siete lì, disse il procuratore ai politici, perché ci siamo stati noi. Se cadiamo noi, cadete anche voi. La frase fu interpretata come un monito alla maggioranza di centrosinistra (copriteci, altrimenti guai a voi), ma sia Caselli a Positano, sia in un altro momento D'Alema mi spiegano che essa non ha nulla di minaccioso e si riferisce alla credibilità dell'intera nuova generazione politica. E quando chiedo al procuratore capo di Palermo se negli ultimi anni la magistratura abbia svolto un ruolo di supplenza alla politica, la risposta è questa: «Supplenza non significa aver invaso ambiti di competenza altrui. Il fatto è che, adempiendo al suo dovere, la magistratura italiana si è occupata di cose di cui normalmente non dovrebbe occuparsi. E pur sapendo di sovraesporsi, non ha fatto marcia indietro. Ma poiché la magistratura non ha alcuna voglia di continuare a far supplenza, è giusto che la politica riacquisti il suo primato e provveda a fare controlli amministrativi efficienti. Così i giudici torneranno a occupare un alveo ridotto rispetto a quello che finora hanno doverosamente occupato». Non so se sono riuscito ad avvicinare il lettore all'enormità di questo problema italiano. Alla ripresa autunnale, Polo e Ulivo hanno trovato una prima intesa su un nuovo documento Boato. La sinistra l'ha spuntata ottenendo che non si parli in Costituzione di due consigli superiori, uno per i giu-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dici, l'altro per i pubblici ministeri. Se ne discuterà semmai con una legge ordinaria. Il Polo ha ottenuto la creazione di un procuratore generale scelto dal Senato che possa avviare d'ufficio l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, che diventa obbligatoria. Tutti i magistrati (i giudici, ma anche i Pm) sono soggetti solo alla legge e quindi indipendenti. Non sarà certo questo l'ultimo atto di una battaglia costituzionale, ma soprattutto politica, che durerà anni. Sperando che non s'avveri nel frattempo la maledizione di Filippo Mancuso: «Questa storia finirà quando l'ultimo magistrato avrà arrestato il penultimo».
Uno scimpanzé al Polo Nord
In vino veritas
«Che senso ha far nascere uno scimpanzé al Polo Nord?» Così Edoardo Valentini liquidò uno dei problemi più controversi della moderna filosofia enologica: dove si può produrre chardonnay senza bestemmiare? Battaglia persa, visto che questo vitigno - importato un tempo in quello che fu il placido Nord Est italiano - si trasferì poi d'ufficio in Piemonte, ren-
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dendo assai più della cara barbera e perfino in Sicilia dove i conti Tasca d'Almerita ne cavano uva e vino lussuosissimi. Valentini ha il carattere dell'orso marsicano, pur essendo di Loreto Aprutino, la parte dolce dell'Abruzzo che degrada subito verso la marina dannunziana. Non ama i compromessi, vende il suo vino soltanto a chi gli sta simpatico e non ha problemi di cassa. Produce il miglior trebbiano del mondo, secondo i critici del «Gambero Rossoe il mio maestro di bicchiere Luigi Veronelli. Fa inoltre un cerasuolo e un montepulciano d'Abruzzo che sembrano pagine di D'Annunzio: ci trovi sempre qualcosa d'eclatante che non t'aspetti. Conta poco che si commuova chi scrive, uomo della montagna abruzzese, abituato a più basse enologie. Valentini vende infatti in tutto il mondo sulla carta, a scatola chiusa. Chi mi ama, mi segua. Lo seguono in tanti. Lo segue Franco Marini, abruzzese di montagna anche lui, che adatta alle contingenze politiche due frasi dell'amato vignaiuolo. Una provocatoria («Che senso ha far nascere uno scimpanzé al Polo Nord?") e l'altra misteriosa e intrigante («Faccio il mio vino seguendo la maieutica socratica: aiuto a far venir fuori dall'uva quello che è già dentro»). I democristiani orgogliosi del Ppi sono scimpanzé al Polo Nord nell'alleanza strategica con Rifondazione? Oppure Marini sta silenziosamente scavando negli acini del suo partito per farne venire quello che già sta dentro? E c'è davvero il si-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE gnorile, affascinante, micidiale subcomandante Fausto nell'anima di quell'uva? Marini e Bertinotti si sono confrontati per decenni nel sindacato. L'uno era l'anima moderata della Cisl, l'altro l'anima alternativa e movimentista della Cgil. Entrambi conoscono da molto tempo Ritanna Armeni, che fu redattrice sindacale del «manifesto» prima di passare all'«Unità. «Le facevamo tutti la corteammette Marini. Una sera della primavera '97, la Armeni invita a cena i due amici del sindacato, diventati inaspettatamente (?) leader politici. Marini vuole stanare Bertinotti sullo stato sociale, superare il fuoco d'artiglieria classico di Rifondazione: se toccate le pensioni, è la crisi. Ignora quanto profetica sia questa frase. Quando diventò segretario del Ppi, nel gennaio del '97, Marini disse a Prodi: «Bertinotti può vincere novantanove volte. La centesima no. Ma nemmeno in quella serata conviviale il leader di Rifondazione si lascia andare: «Non vengo per litigare in pubblico, ma non posso non litigare». E descrive così l'atteggiamento di Marini sui temi chiave dello stato sociale: «Non potendo sostenere che certe nostre tesi sono sbagliate, dice che sono di attuazione impossibile». Amando il rischio, in casa Armeni Marini vuole elevare la sfida a un autentico no limits: il vino. Un abruzzese che sfida un piemontese sul vino è come il vostro cronista che vuol fare ingoiare a Tyson l'orecchio della sua vittima. «Vinco ad occhi chiusi» dice Marini al suo Tyson. Bertinotti risponde con
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signorile, garbatissimo, micidiale scetticismo. E come fino a qualche anno fa i francesi del rugby mandavano la seconda squadra a incontrare la nazionale italiana, Bertinotti non scomoda né un barolo, né un barbaresco per demolire l'imprudente collega: si presenta a casa Armeni con qualche bottiglia di aglianico del Vulture. Basterà. Marini porta il trebbiano e il cerasuolo di Valentini, senza nemmeno scomodare il formidabile montepulciano d'Abruzzo, che va in bottiglia dopo almeno cinque anni. «Al trebbiamo i commensali si guardano, al primo bicchiere di cerasuolo crollano."Così racconta Marini e Bertinotti si`gnorilmente conferma. Con il vino al leader popolare è andata bene, ma in politica quanti scimpanzé possono nascere al Polo Nord?
Il Cireneo va in Paradiso
Franco Marini comincia a scavare negli acini del suo partito fin dall'inizio del '95. Nelle elezioni del '92 ha dimostrato la sua forza elettorale con i voti della Cisl battendo a Roma, sul suo terreno, Vittorio Sbardella, il potentissimo proconsole andreottiano: 116mila preferenze contro 112mila. Il democrii stiano più votato d'Italia. Passano un paio d'anni e Marini si consolida. A dicembre
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE del '94 c'è stato il ribaltone che ha fatto cadere il governo Berlusconi. Bossi ha avuto da Scalfaro la garanzia che per un anno non si sarebbero sciolte le Camere. Al Cavaliere era stato promesso il voto l'11 giugno del '95, ma pazienza. Come sale sulla piaga, ha avuto lo stesso giorno il referendum sulle televisioni. L'avesse perso, Emilio Fede - e non solo - sarebbe in un pensionato per ex mezzobusti. A mangiare sardine nella cucina romana di Bossi, oltre a D'Alema c'era andato Buttiglione, allora segretario del Ppi. E chi aveva portato il filosofo amico del Papa alla guida dei Popolari? Marini, giocando sull'interdizione reciproca tra Andreatta e Mattarella e facendo il dispetto finale a Mancino che infatti da allora non lo ama più. («Che fortuna però» mi confidò una sera Mancino, smentendo la sua acrimonia per Marini, mentre il naso gli si allungava un pochino. «Quando mai sarei diventato presidente del Senato?) Quando nel febbraio del '95 Giovanni Bianchi, Nino Andreatta, Rosy Bindi, Sergio Mattarella e Nicola Mancino annunciano la candidatura di Romano Prodi, si dimenticano di dirlo al segretario del partito. Temono che Buttiglione stia segretamente flirtando con Berlusconi. Il professore risponde andando sul serio a via dell'Anima, dov'è ancora la residenza romana del Cavaliere e viene licenziato in marzo da un drammatico consiglio nazionale. Mentre passeggiamo nel salone del consiglio in attesa dei risultati del voto, Buttiglione mi dice che non prende in con-
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siderazione l'ipotesi di una sconfitta. Dieci minuti dopo fuori del partito. Chi ha guidato l'operazione? Marini. Quella sera scommetto una cena che sarà lui il nuovo segretario. La perdo. Marini, decisivo nell'abbattere l'uomo che aveva fatto nominare segretario, non vuole prenderne il posto. Fa nominare Gerardo Bianco, il più moderato della squadra, in modo che una operazione di sinistra non appaia tale. Marini si ritaglia un ruolo apparentemente più defilato: segretario organizzativo. Di fatto controlla tutto l'apparato del partito e gestisce le mosse più delicate. è stato lui, mi confesserà, che ha autorizzato all'ultimo istante l'alleanza di Badaloni con Rifondazione per le elezioni regionali del Lazio, sapendo che senza l'Ulivo avrebbe perso. (E infatti Badaloni vinse su Michelini per uno scarto simbolico.) è stato lui che ha promesso agli uomini di Bertinotti un ruolo di governo prima delle elezioni nel suo Abruzzo, pur pretendendone la presidenza per un suo uomo, monsignor Antonio Falconio, un bravo e curialissimo giornalista, rivoluzionario come poteva esserlo Mariano Rumor. (E anche in Abruzzo l'Ulivo vinse le regionali per una incollatura.) Laddove Gerardo Bianco, che ancora tarda a prendere sonno pensando di essere stato additato come lo schiavo di Bertinotti, mi dirà di avere impedito un'alleanza simile nella sua Campania, a costo di perdere il governo della regione. Marini ha un ruolo chiave anche nel decidere le candida-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ture per le politiche del '96. Impone il patto di desistenza con Rifondazione, sul quale il partito non è unito, porta la croce del Cireneo nelle logoranti trattative per i collegi elettorali. «Quando vediamo che Rifondazione riesce a ottenere molti collegi in cui il Pds è forte,» mi dice Gerardo Bianco «Marini fa un piccolo capolavoro puntando su molte situazioni incerte. E li vinciamo. Marini tratta dunque col Pds. Tratta all'interno del partito. Si fa molti amici e qualche autorevole nemico. Emilio Colombo, settantasette anni portati in modo spettacolare, vuole ricandidarsi nella sua Lucania dopo un paio di
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legislature di riposo. Bianco non ha il coraggio di dirgli apertamente che non è il caso e qualcuno gli sussurra in un orecchio che tutto è nelle mani del segretario organizzativo. Accade così che una domenica sera alie 22.30 qualcuno bussi al citofono di casa Marini ai Parioli. «Sono Emilio Colombo» dice una voce lirica e bene educata. Marini è uomo freddo, dice alla moglie di vestirsi e apre. Riceve Colombo in salotto, si sente chiedere la candidatura e risponde: «Presidente, tu sei nella storia di questo Paese. Che cosa aggiunge una candidatura parlamentare a un uomo come te?». Colombo è stato infatti ministro innumerevoli volte, è stato presidente del Consiglio, primo presidente del Parlamento europeo e come parlamentare nel '72
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fu eletto nel suo collegio lucano con il 73 per cento dei voti. Non sappiamo se Colombo esce convinto dall'abitazione di via Lima, ma certo difficilmente nelle sabbie mobili della politica una fregatura viene rifilata con maggiore rispetto. Marini non è mai stato uomo della sinistra politica democristiana. Viene semmai dalla sinistra sociale di Carlo Donat Cattin, che era tutt'altra cosa. Mandando via Buttiglione, ha acquistato sicure benemerenze da quella parte. Ma non basta. L'occasione per dividere il gruppo dirigente storico della sinistra dc arriva con la formazione del governo Prodi. Nino Andreatta vuole restare capogruppo, ma Marini lo convince ad andare al governo. Si libera così il posto per Sergio Mattarella che gli serba gratitudine. Rosy Bindi, la pasionaria che ha terrorizzato generazioni di segretari democristiani, è destinata al governo, ma le riservano un ruolo poco operativo come gli Affari Sociali. Marini si impunta e la Bindi diventa ministro della Sanità. Altra alleata importante. Prova a chiedere un incarico di sottosegretario per Giuseppe Gargani, ma lì il rifiuto dei "nuovi» per qualunque cosa sappia di Prima Repubblica prevale e Gargani resta a casa. Ma apprezza lo sforzo e si dedica ai problemi della giustizia.
Gerry White, Rifondazione Bianca
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Nel partito si apre intanto la resa dei conti post-elettorale. Il risultato ha due facce. Il Ppi incassa cinquantc tto deputati e tutti danno atto a Marini di aver svolto un ruolo magistrale nella stipula col Pds di un vantaggiosissimo contratto sui collegi buoni. Ma arrivano pochi voti, meno del sette per cento, appena un punto in più di Casini e Buttiglione. Il partito cerca una strada sicura. Ha subìto due scissioni (prima quella di Casini nel '94, un anno dopo quella di Buttiglione). Vuole uscire da una transizione logorante e infinita, ma - osserva qualcuno - «mentre ci si allacciano le scarpe, è difficile vedere che tempo fa». Si mette in discussione la linea di Gerardo Bianco, il bonario Gerry White delle vignette, accusato di essere diventato, proprio lui, un fondamentalista. Di aver trasformato un partito da un'immagine rassicurante in una specie di «Rifondazione bianca. Di essersi appiattito sul governo, rassegnandosi troppo presto al ruolo egemone di Fausto Bertinotti. «Gerardo sa gestire il consenso, non arbitrare lo scontro» mi dice un amico di Marini. Bianco non ha mai mandato giù queste accuse. è accaduto che un paio di volte in televisione abbia reagito male a mie domande sul ruolo di Bertinotti, che una volta giudicò perfino «surrettizie", animando una divertente polemica politicofilologica. Da quel galantuomo che è, ne fa ammenda quando ci in-
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contriamo per questo libro nell'estate del '97. «Le sue domande mi facevano infuriare, ma erano giuste. In realtà ero io a sentirmi in contraddizione. Allo sbocciare dell'estate '96, fatte le elezioni e fatto il governo, nel Ppi matura la voglia di crescere e di cambiare. Si pone con urgenza il problema delle due cifre, cioè di andare sopra il dieci per cento (problema imbarazzante per un partito che in quasi cinquant'anni è stato sempre tra il trenta e il quaranta). De Mita grida che sotto il quindici per cento non ha senso fare politica. Nello sguardo dei dirigenti si legge il terrore di morire cespugli senza essere mai diventati alberi. Il 21 e il 22 giugno '96 la prima svolta avviene a Montesilvano, sulla costa pescarese. Tutti, ancora una volta, sono addosso a De Mita: «Se il Pds vuole occupare il centro, io rifaccio la Dc». E non si accorgono che Franco Marini e Pierluigi Castagnetti hanno cominciato a muoversi. Deputato europeo di Reggio Emilia, la città di Prodi, Castagnetti è stato capo della segreteria politica di Martinazzoli, l'ultimo segretario della Dc e il primo del Ppi. E quando Martinazzoli si è chiuso tra le mura leonine di Brescia, Castagnetti è stato adottato dalla parte dura e pura della vecchia sinistra democristiana, quella degli Andreatta e degli Elia, che pensano subito a lui come al successore di Bianco. Castagnetti viene sollecitato anche da Roberto Pinza, amico di Prodi, e da molti dirigenti dell'Emilia, del Veneto, della Lom-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE bardia. è anzi al congresso regionale emiliano che Andreatta pone formalmente il problema della successione a Bianco. Il quale ci resta malissimo. Marini compie un percorso apparentemente più lungo. Di fatto si candiderà alla segreteria soltanto all'ultimo momento utile del gennaio '97. Ma già a Montesilvano mette a punto la sua strategia. Un mese prima dell'assemblea abruzzese, chiama al suo fianco due nuovi collaboratori, Michele Dau e Giuseppe Sangiorgi. Il primo, già braccio destro di De Rita al Censis, è consulente del Cnel per i problemi istituzionali. Il secondo, già braccio destro di De Mita alla segreteria dc, conosce bene il potere senza essere in prima persona un uomo di potere. Scrivono per Marini alcuni documenti, base per un intervento scritto che in effetti Marini prepara, ma non legge. Il presidente del partito, Bianchi, in un lunghissimo e appassionato discorso, anima la platea e spiazza il segretario organizzativo. Che butta i foglietti, parla a braccio, fa capire che si aprirà un gioco nuovo. E lui sarà puntuale al tavolo. E capisce che potrà contare su Mattarella e la Bindi. A Montesilvano torna in primo piano Sergio D'Antoni. Ma viene gelato dalla freddezza di Bianco e di Mattarella. Il primo non gli perdona la simpatia per Dini anche in campagna elettorale. («I nostri segretari del Veneto e della Calabria tenevano per lui» mi dirà amareggiato l'ex segretario.) D'Antoni rimprovera d'altra parte a Bianco di aver lasciato cadere
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una sua vecchia offerta di «mettersi a disposizione del partito per spirito di servizio». Mattarella, che vede come il fumo negli occhi la vecchia ambizione di D'Antoni di salire alla segreteria del partito, sbarra la strada a ogni ipotesi di rilancio. «Non si può entrare e uscire quando si vuole dai congressi della Dc» gli manda a dire. (Alla fine D'Antoni starà in parcheggio con Marini, che ha affiancato a lungo al vertice della Cisl.) Il secondo semestre del '96 scorre tranquillo tra il convegnO di Frascati e la conferenza programmatica di Genova. Bianco accumula in silenzio molte amarezze e beve l'amaro calice dell'ingratitudine, soprattutto da parte della sinistra che l'ha voluto segretario per attenuare nell'opinione pubblica l'impatto dell'uscita traumatica di Buttiglione. Mi dice alla vigilia del congresso del gennaio '97: «C'è qualcuno che adesso rni invita a rinviare. E tardi, avevo preso un impegno, voglio mantenerlo. Sono mesi che si dice: grazie, Bianco, ma occorre un ricambio generazionale. D'accordo, hai fatto duecentoventimila chilometri in giro per l'Italia, ma in televisione non sfondi. Castagnetti lamenta scarsa visibilità dei Popolari, Andreatta ha posto il problema della leadership, altri mi accusano di essere un ostaggio di Bertinotti. Basta, meglio lasciare». Bianco è parlamentare europeo come Castagnetti. I due s'incontrano spesso a cena nelle noiose serate di Bruxelles. E quando un giorno un amico di Castagnetti, Graziani, sostie-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ne che occorre insistere sulla candidatura di Bianco, il segretario uscente dice: «Ci deve essere un passaggio per Marini. E l'uomo che ha trasferito il partito dalla gestione di Buttiglione alla nostra, è l'uomo al quale dobbiamo il nostro successo parlamentare». Ma Castagnetti, Andreatta, Elia e l'ala dura del partito non ne vogliono sapere. «Non vorrei che si ripetesse il film già visto dopo le elezioni del '94, quando vinse Buttiglione» mi dice Castagnetti alla vigilia del congresso. «Non vorrei che qualcuno mettesse in testa a Marini l'idea che l'alleanza di governo è sbagliata.» Negli stessi giorni Marini mi giura che «in questa legislatura"non farà ribaltoni, ma a sinistra gli credono in pochi. (Mi confermerà Castagnetti sei mesi dopo il congresso: «Debbo dare atto a Marini di essersi comportato correttamente, ma alla vigilia del congresso eravamo convinti che Prodi potesse rimanere vittima di una operazione analoga a quella che ha portato alla caduta di Berlusconi. Per noi sarebbe stato un suicidio".) Quando subito dopo l'Epifania del '97 si apre il congresso del Ppi, ci sono attese, speranze e tensioni di segno diverso. Palazzo Chigi è nervosissimo, D'Alema al contrario non vuole che a piazza del Gesù vada un uomo molto vicino a Prodi corne Castagnetti. (Dice D'Alema a De Mita subito dopo le elezioni del '96: «Abbiamo bisogno di un interlocutore politico a piazza del Gesù», lasciando intendere di considerare Bianco tropp° appiattito sul governo.) Anche Berlusconi tifa per Ma-
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rini. Con gli altri la porta sarebbe sbarrata per sempre, con lui chissà. «Oggi con Prodi, domani chissà» titola ancheil manifesto» riassumendo le inquietudini della sinistra.
«Gerardo, ti candidi o no?»
All'immediata vigilia del congresso, tra Capodanno e l'Epifania del '97, Bianco si ritira per quattro giorni nella sua casa ordinata e tranquilla in cima alla collina Fleming, un quartiere residenziale di Roma Nord. La stessa in cui mi riceve placido nell'estate successiva, con la testa ormai tutta rivolta alla collaborazione lessicografica su autori latini per il monumentale dizionario biografico della Treccani. In questa casa Bianco lavora otto ore al giorno alla stesura del discorso d'apertura che in effetti gli esce bene. Quando grida ai nemici storici del partito: «Non volevate morire democristiani? Bene, sappiate che non ci rassegneremo a morire pidiessini», cade giù il soffitto per gli applausi. Marini sa che se si ripetesse il miracolo del conclave e una colomba bianca portasse stretto nel becco un biglietto col nome di Bianco, il segretario uscente non si tirerebbe indietro. Ma le ore passano e la posizione del segretario uscente non si chiarisce. Dopo il bel discorso d'apertura, Marini va da lui: «Gerardo, pensaci questa notte. Domani facci sapere. Se ti
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE candidi tu, io non mi presento. La frase sarà duramente rimproverata a Marini da De Mita: «Se ti avesse risposto di sì, cosa avremmo fatto?». Ma Bianco non risponde né sì né no. Con la freddezza che l'ha reso celebre («Spara col silenziatore» dicono i suoi avversari), la sera stessa di quel giovedì 9 gennaio, Marini mette a segno un colpo psicologicamente magistrale. Si trova con Bianco ospite di Lucia Annunziata in «Prima serata» al TG3 e gli spara a bruciapelo: «Gerardo, ti candidi o no?». «Ci rimasi malissimo» mi confesserà Bianco. «Marini aveva inteso evidentemente la mia relazione come quella di chi aveva lasciato aperta la porta a una ricandidatura.» Comunque risponde: «Io non mi candido, ma sono a disposizione del partito,". Che significa? «Significa che nel '95 decideste di farmi segretario senza interpellarmi. Le condizioni per quanto mi riguarda non sono mutate.» Il venerdì, secondo giorno del congresso, Mancino tenta la carta decisiva per confermare Bianco. Riunisce l'intero gruppo dirigente del partito: Nino Andreatta, Lapo Pistelli, Giuseppe Gargani, Rosa Russo Jervolino, Guido Bodrato, Francesco Russo e naturalmente Marini, Bianco e Castagnetti. Mancino, Bodrato e la Jervolino sollecitano Bianco a presentarsi. Castagnetti tenta il colpo di teatro e bluffa: «Se si presenta Gerardo, io mi ritiro». Gli amici di Marini sentono puzza di bruciato e Gargani interviene: «Se c'è una candidatura di Castagnetti, allora ce n'è anche una di Marini».
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Lapo Pistelli e Francesco Russo, amici di Prodi, cercano un nome nuovo per ricompattare il partito. E Bianco? Bianco che fa? Dice Rosy Bindi ai colleghi: «Voi non avete capito la posizione di Bianco. Lui dice: io non mi candido perché non sono candidato. Non ero candidato nemmeno nel '95 quando mi ha candidato l'intero gruppo dirigente. Ma non mi pare che le cose stiano andando nello stesso modo». Lo scioglilingua della Bindi è risolutivo. Bianco prende la parola e dice:Rosy ha rappresentato correttamente il mio pensiero. Avrei accettato una investitura congressuale o una designazione unitaria del gruppo dirigente. La Bindi ha già dato una risposta e io sono d'accordo con lei». Commenta avvilito Mancino: «Gerardo, hai fatto come Alfredo De Marsico in una celebre arringa. Invece di difendere il suo cliente, parlò a favore dell'avversario...». Uscendo, Bianco lascia cadere quasi incidentalmente una frase: «Come voi sapete, io non mi ricandido...». Contestualmente, parte la raccolta delle firme per formalizzare il confronto tra Marini e Castagnetti. A sera tarda Bianco torna a casa. Gli telefona Mancino: «Gerardo, c'è ancora tempo per una tua candidatura». Ma ormai è tardi. Marini sa che è l'ultima occasione politica della sua vita e che da perdente la sua progressiva emarginazione nel partito sarebbe inevitabile. («Franco, non hai molte strade» gli dice
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE un amico. «O diventi segretario o torni a giocare a bocce sotto il Gran Sasso, a San Pio delle Camere. Scegli tu.» E lui risponde: «Le bocce», mentendo anche a se stesso.) è tardi anche per il ritiro di Castagnetti. Quando nell'estate successiva gli chiedo se avrebbe mantenuto in piedi la sua candidatura per opporsi a quella di Bianco, ammette onestamente di sì. Al congresso romano del Ppi, arriva il giorno della conta. Il rituale prevede che parli prima Castagnetti e poi Marini. Emilio Colombo, che presiede l'assemblea, si sbaglia e inverte l'ordine. Si sbaglia o gli torna improvvisamente in mente la candidatura mancata? Parla Marini e ha un successo scontato. Parla Castagnetti e ha un successo superiore alle attese. Che si riversa nelle urne: 58 per cento a Marini, 42 per cento a Castagnetti che conquista un risultato impensabile alla vigilia. Gliene dà atto tempo dopo lo stesso Marini: «Hai avuto il 42 per cento, lo stesso risultato che ebbi io alla Cisl contro Carniti. So quello che significa.
«Romano, vuoi uila crisi per il Cnr?»
Eletto con uno scarto di voti inferiore alle attese, Marini si conferma un abilissimo uomo di macchina schivando condizionamenti pesanti e recuperando in poche settimane la so-
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stanziale unità del partito. Evita che Castagnetti diventi vicesegretario unico o presidente. Lavora per Bianco presidente, superando alcune resistenze interne («Ma come, lo volevate segretario e adesso non lo accettate come presidente?) e gli fa assegnare la stanza più bella di piazza del Gesù. Nomina vicesegretari due giovani brillanti, Dario Franceschini ed Enrico Letta (nipote di Gianni e uomo della sinistra interna). Accetta che Giampaolo D'Andrea, amico di Colombo, gli subentri come segretario organizzativo. In meno di un mese, il partito è pacificato. Già, ma su quale linea? Il partito di Marini acquista maggiore visibilità rispetto al partito di Bianco. Nei primi mesi successivi al congresso, soprattutto, Prodi sa che il nuovo segretario è un uomo col quale si deve trattare. Nel dibattito alla Camera sull'Albania dopo il no di Bertinotti all'invio delle truppe italiane, quandó vede che Luciano Violante toglie regolarmente la parola a tutti gli oratori appena scaduto il tempo disponibile, Marini getta via i foglietti e comincia il suo intervento dalla fine: «Qui serve una verifica...». Il sottosegretario Micheli, che sta accanto a Prodi al banco del governo, fa uno scatto e mormora il suo stupore all'orecchio del presidente. Marini cerca di tranquillizzare il suo elettorato facendo da contraltare alle proposte di Bertinotti anche in un coraggioso confronto a «Porta a porta» («Nessuno potrà più sostenere" mi dice «che i Popolari sono a sinistra del Pds").
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Preso in contropiede dalle nomine al vertice della Stet con l'improvviso benservito a Ernesto Pascale e Biagio Agnes, diventa un cerbero quando si parla di consigli d'amministrazione. Sa che il mondo cattolico soffre per lo strapotere di Luigi Berlinguer e del Pds sulla scuola e sull'università e impone un suo uomo (il professor Lucio Bianco, fratello di Gerardo) alla guida del Consiglio nazionale delle ricerche. «Quell'incarico è una bandiera politica e culturale del nostro partito» dice a Prodi quando bisogna sostituire il presidente uscente, Enrico Garaci. E quando il presidente del Consiglio prova a percorrere strade diverse, Marini lo ferma: «Vuoi la crisi di governo?». In realtà, Marini sa bene che una crisi di governo sulla presidenza del Cnr sarebbe stata impensabile e che con i consigli d'amministrazione si salvano la faccia e un po' di potere, ma non si fa una politica. E la politica vede presto il Ppi in mezzo al guado. Da un lato il segretario deve ingoiare il cucchiaio di olio di ricino che D'Alema gli offre in estate con la candidatura nel Mugello di Di Pietro: l'uomo che simboleggia il massacro giudiziario della Dc. Dall'altro, cerca di recuperare il seguito elettorale di uomini della Prima Repubblica che non entreranno nei libri di storia, ma non hanno rubato e sono stati formidabili conoscitori della insondabile macchina amministrativa dello Stato. è il caso di Remo Gaspari che Marini va a festeggiare a Città Sant'Angelo, in Abruzzo, rendendogli l'onore delle armi per
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non aver lasciato a Bruxelles un solo centesimo dei miliardi comunitari destinati all'Abruzzo. Invece di lasciarlo bocciare dagli elettori, se avessero voluto, la magistratura lo ha incriminato contestandogli un passaggio abusivo in elicottero. «C'è stata molta nostalgia in quell'incontro,n-i dice Marini «ma con la nostalgia non si fa politica." Giusto. E con che si fa? Mi dice Castagnetti: «Bisogna riflettere su quanti ci dicono che non possiamo muoverci col sei per cento dei voti, come se ne avessimo ancora il quaranta. Che non possiamo restare paralizzati sulle pensioni d'anzianità immaginando che la maggior parte dei lavoratori della Cisl voti ancora per noi. Che non possiamo fare il discorso sull'eccessivo carico fiscale come se fossimo stretti tra una massa di elettGrato fatto di lavoratori dipendenti che paga tutte le tasse e una massa di elettorato che le evade. Sa che cosa ci dicono? Avete i voti che quasi prendeva da sola la vecchia sinistra democristiana. Svegliatevi. Datevi un target». Già, ma quale? Col passar dei mesi Marini ha ricondotto a unità il suo partito cementandolo con la prudenza e la certezza ormai acquisita che il Ppi non avrebbe fatto scherzi al governo Prodi. "Il nostro posto è nel centrosinistrami dice. Un posto subordinato al Pds? «Con me non lo è.", Esiste in voi l'aspirazione di guidare un domani uno schieramento moderato alternativo alla sinistra, come avviene ai
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE democristiani tedeschi e spagnoli? «Nelle mie aspirazioni questo disegno non c'è. E se mai ci fosse, non sarebbe così imprudente da dirmelo.
De Míta: «D'Alema è un sovrano...
«Posso chiederle una cortesia?» Prego. «Può evitare di farmi domande?» Prego? «Le domande mi bloccano la costruzione del ragionamento." Scusi, come si fa un'intervista senza domande? «Naturalmente nella stesura lei le metta pure.", Me le invento all'istante? «Non si preoccupi, le domande adesso me le faccio da solo.", Non sarebbe nell'uso, ma proviamo. «Un'altra cortesia, per favore.» Oddio, quale? «Vede, mentre io costruisco, lei scrive.» La disturba? «No, ma scrivendo lei mi costringe quasi alla dettatura.» E allora? «Nella dettatura debbo essere stringato, nella riflessione libera sarei più articolato. Mi rilegge per favore l'ultimo perio-
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Ciriaco De Mita vale sempre il viaggio. So bene che il solo evocarlo fa venire l'orticaria alla grande maggioranza degli italiani. Ma un cronista non deve cercare strade comode e popolari. E De Mita, piaccia o no, è una testa pensante. Anzi, se mi si perdona la bestemmia, una delle più pensanti che stiano su piazza. Il fatto di essere una delle più autorevoli incarnazioni della Prima Repubblica (segretario della Dc dall'82 all'89 e nell'ultima fase anche presidente del Consiglio) lo ha messo ai margini. Ma dai margini De Mita pensa. Non so se cerchi rivincite. Sicuramente cerca risposte. E per capire dove diavolo vada il Partito popolare una chiacchierata nella sua biblioteca non è affatto inutile. De Mita si muove molto. Ha contatti privilegiati nel centrodestra e nel centrosinistra. è stato il grande sponsor di Marini al congresso del Ppi e lo ha presentato a Berlusconi. Iniziativa straordinaria, questa, se si pensa che durante il suo lungo regno a piazza del Gesù, se avesse dovuto scegliere tra Berlusconi e il diavolo, avrebbe certamente scelto il secondo. Il Cavaliere allora era soltanto un imprenditore e per potenziare le sue Tv andava spessissimo nella sede della Dc De Mita era convinto che Berlusconi avesse promesso di cedere Rete 4 al suo amico Calisto Tanzi e che poi non avesse mantenuto la parola. Sta di fatto che poiché si trovava spesso Berlusconi e Confalonieri nei corridoi di piazza del Gesù senza
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE saperne niente (altri, evidentemente, erano i contatti dei due imprenditori), il segretario democristiano dette ordine agli uscieri del palazzo di negar loro l'accesso. Ma in politica, si sa, le cose cambiano. E nell'autunno del '97 l'ex segretario democristiano viene addirittura indicato come consigliere di Berlusconi.
(A proposito: quando era il padrone d'Italia - seppure in parziale condominio con l'odiatissimo Craxi - De Mita amava i lunghi monologhi, i famosi, ininterrotti «ragionamendi" che nessuno dei giornalisti di sinistra che andavano in processione a Nusco osava disturbare, in omaggio all'alta considerazione in cui De Mita era tenuto a via delle Botteghe Oscure e alla pubblica storia d'amore tra lui ed Eugenio Scalfari. Allora pensavo che fossero una forma d'arroganza. Visto che li ripete adesso, quando nessuno lo cerca più, constato che rappresentano un modo di essere e di pensare. Discutibile, ma sincero. Meglio così.) «Ricorda quando al penultimo congresso del Partito popolare i delegati si spellarono le mani al discorso di D'Alema?» Certo, fu un'accoglienza perfino imbarazzante. «No, perché gli applausi non andavano a D'Alema, ma alle cose positive che D'Alema diceva sull'esperienza storica della Dc. Quell'intesa nasceva comunque dal fatto che il nuovo centrosinistra era ipotizzato come l'alleanza tra forze popolari che conservavano la loro tradizione storica e politica e
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si univano per dare la risposta più credibile alle nuove esigenze. Guardavano al nuovo senza inventarselo, insomma. La vittoria elettorale del '96 venne all'Ulivo proprio dalla capacità di aver fatto convergere su un comune impegno di governo opinioni diverse tra loro.» Bene, e allora? «Dopo le elezioni D'Alema ha progressivamente mutato lo scenario. L'invenzione del suo nuovo partito, quello che viene chiamato la "Cosa 2" lo ha cambiato in modo graduale, impercettibile, ma non ha motivato l'indicazione principale della sua linea politica.» Come? «La sinistra viene di fatto organizzata come un momento alternativo. Conta poco che per ora si sia ridotta alla raccolta individuale di personaggi quasi tutti collocabili all'interno della esperienza della sinistra italiana. Il problema è che non si fa politica limitandosi a rinnegare i propri errori, a conservare la memoria che conviene e a gestlre il potere in modo sempre più disinvolto. Se questo disegno rimane, potrebbe risultare rischioso alla durata del centrosinistra. Perché? 196 Lafida Uno seifnpanzé al Polo Nord 197
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Perché D'Alema si comporta oggettivamente come un sovrano che stabilisce che cosa politicamente è legittimo e che cosa non lo è. Le scelte non sono frutto di una convergenza sul progetto, ma appaiono più come un condono, una sentenza di assoluzione, il rilascio di un salvacondotto. In questo senso la scelta di Di Pietro come candidato del centrosinistra tocca il fondo di questa contraddizione.»
«n centro non s'improvvisa con Dini e Di Pietro»
Dica la verità: non le è andata giù, eh? «La sola utilità di questa scelta è l'illusione di catturare emotivamente un pezzo di elettorato moderato. Ma anche qui c'è una contraddizione: certe opinioni sono espresse emotivamente non da chi si propone di assumere un comportamento politico, ma da parte di chi spera in un miracolo politico. L'eroe è tale finché non fa la guerra... Nella cultura plebiscitaria i problemi vengono utilizzati per catturare l'emotività della gente, non per spiegare alla gente come i problemi possono essere risolti. E poi...» E poi? «Chi ha dichiarato che il consenso conquistato con una attività diversa dalla politica non si può automaticamente trasferire alla politica, viene calato nella politica attraverso comportamenti clandestini scoperti per caso e non su un palcoscenico
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chiaro, limpido, trasparente, con il coinvolgimento dei soggetti che concorrono a dare vita alla coalizione.» (Tra De Mita e Di Pietro c'è un vecchio conto aperto nell'agosto del '96. Il ministro dei Lavori Pubblici nella sua rubrica su «Oggi» muove un attacco durissimo a De Mita accusandolo di avergli chiesto favori per il restauro di una chiesa del suo collegio elettorale. De Mita è in vacanza a Praga. Lo raggiunge al telefono Peppe Sangiorgi, il giornalista che fu suo portavoce. Gli legge il pezzo. De Mita resta interdetto. Lo colpisce, in particolare, una frase che allude a una sua vicenda giudiziaria conclusasi con l'assoluzione e che suona più o meno così: «Si è salvato per la legge, ma gli resta l'ombra». «Avevo incontrato Di Pietro alla Camera» mi racconta De Mita «e gli avevo parlato di due problemi. Il restauro di una chiesa aveva avuto due finanziamenti: era possibile unificare l'appalto per guadagnare tempo? Una galleria è pronta, ma ci sono problemi per l'accensione delle luci: si può accelerare? Di Pietro fu molto disponibile, disse che avrebbe trasferito i funzionari responsabili se avesse riscontrato negligenze gravi, mi pregò di dettare un appunto alla sua segreteria.» Dopo la tempesta estiva, in ottobre a Parolise - nella zona terremotata di Lioni - s'inaugura la galleria. Alla cerimonia interviene il ministro dei Lavori Pubblici. «Ci sono anch'io» mi dice De Mita «e Di Pietro mi fa chiamare sul palco. Quando mi avvicino gli dico: mi spiega perché ha combinato tutto quel casino?
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE E lui: mi hanno detto che lei mi aveva attaccato.») In questa nuova situazione, resta da chiedersi quale sia la prospettiva dei Popolari. «Se D'Alema continua a muoversi lungo una linea che assomiglia al neofrontismo, il dilemma che si pone agli alleati è drammatico: la ribellione o l'assorbimento.» Non starà pensando a resuscitare il centro come polo autonomo diviso dalla destra e dalla sinistra? «No, non immagino di inventare spazi diversi. Il bipolarismo è nei fatti, anche se non è una novità. Fino al '68 in Italia si è votato per coalizioni alternative. è dopo quella campagna elettorale che in Italia si è determinato un misto di consociativismo diffuso e di esasperazione delle parzialità politiche.» E allora? «Il Polo e l'Ulivo hanno riavviato un processo bipolare, ma nc,n sono coalizioni politiche solide. Nella nuova linea del Pds, il centro è al tempo stesso una necessità e una cosa indeterminata. Non è che siccome il centro serve al centrosinistra uno si alza la mattina e lo fa. Il consenso non si compra al mercato, bisogna conquistarselo. Quest'area non si può riempire con personaggi improvvisati, non per le loro qualità personali, ma per la loro storia, le loro tradizioni: ieri Dini, oggi Di Pietro, domani le casalinghe. Il Ppi ha significato se recupera culture, storie, tradizioni, rinnovando le classi dirigenti... E lo sta facendo? «Il centro ha le sue difficoltà, ma tutto viene complicato dal-
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le oscillazioni del Pds che di volta in volta vuole essere qualcosa, ma vuole essere anche tutto. Il nuovo partito della sinistra. Il partito che recupera la tradizione comunista. Il partito che entra nell'Internazionale socialista. Il partito che occupa le posizioni moderate attraverso la pratica di governo. E qui il Pds deve stare attento: non si diventa moderati perché si tratta con chi rappresenta gli interessi contraddittori di una comunità. Si ha una cultura moderata se si sceglie la "governabilità possibile" rispetto a quelli che non vogliono mai cambiare niente e a quelli che per cambiare vogliono la rivoluzione. La moderazione non è soltanto un interesse economico. è un modo di essere, un'aspirazione, un difetto, un pregio, una virtù: insomma, l'insieme delle complessità che caratterizzano la nostra vita e determinano i nostri comportamenti.» E i moderati che fine faranno? «Il processo che avevamo immaginato di avviare col centrosinistra, oggi lo vedo in difficoltà.» Che cosa può accadere? «Se l'enorme fetta di cittadini che vengono classificati come moderati non trova nel sistema politico un riferimento più preciso, possono nascere problemi.» Per esempio? «La semplificazione sulle estreme - destra, sinistra - è un errore. Non possiamo di botto imporre agli italiani tradizioni politiche di paesi europei che hanno una storia radicalmente
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE diversa dalla nostra.» E allora? «Se il polo di sinistra sarà caratterizzato dalla prospettiva di rinnovare il socialismo, la parte moderata non vi troverà posto. E anche per il polo di destra sarà altrettanto difficile recuperare in positivo quest'area. Visto che non c'è posto per un terzo polo, chi vincerà? «Vincerà il polo che darà all'area moderata un rilievo consistente e non subalterno. Se D'Alema dovesse continuare a muoversi con disinvoltura, metterebbe a rischio il ruolo del Partito popolare. Perché nel centrosinistra, il centro o lo facciamo noi o non lo fa nessuno.»
Dini, tra Otello e Do1l Chisciotte
«Ardirò ancor tra i desinari illustri / Sul Meriggio inoltrarmi umil cantore...» è un mercoledì di maggio quando salgo i gradini della Trinità dei Monti per raggiungere - col Parini nell'orecchio - gli ospiti che da un paio d'ore allietano la mensa di Maria Angiolillo nel villino Giulia sulla Rampa Mignanelli. Vengo per il caffè dopo «Porta a portaavevo detto. Ma i commensali tirano tardi a tavola e Maria mi ritaglia un posto alla sua sinistra perché prenda un dolce. L'ospite d'onore, alla sua destra, è Lamberto Dini. «Chi ha avuto come ospite?» mi chiede garbato. Fausto Bertinotti, ri-
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spondo. Dini trafigge con un improvviso, secco, crudele colpo di forchetta la Bavaroise aux fruits de bois che giace con innocente lascivia sul suo piatto nell'attesa di più acconce carezze. E annega in un ruvido sorso di Sauternes il disappunto che gli sale su per la gola. «Bertinotti, ancora Bertinotti» ruggisce tra sé. Ecco, per trovare un'altra anima inquieta dell'Ulivo, basta percorrere i quattro chilometri che separano casa De Mita, nel cuore della Roma politica, dal palazzo littorio che tre eminenti architetti concepirono come sede suprema del Fascio nella campagna della famiglia Farnese e che oggi, come Farnesina, ospita il ministero degli Esteri. Diciotto mesi dopo la nascita del governo Prodi, Lamberto Dini mantiene rapporti cordiali con tutti, ma comincia a chiedersi quale destino gli riservi il centrosinistra per la fine del secolo. «Meno male che ho Dini di riservaringhiò D'Alema nel febbraio del '96 quando Prodi s'era messo di traverso al tentativo di Maccanico. Lo tenne di riserva fino al momento delle elezioni, ordinò a un po' di compagni duri e puri di fare una generosa iniezione ricostituente a Rinnovamento italiano perché raggiungesse il quattro per cento, soglia della sopravvivenza e della dignità. E poi? Poi Dini cominciò a soffrire. Prodi lo trascurava come leader politico, mentre Bertinotti dettava legge oltre l'immaginabile. «Nessuno poteva immaginare che Rifondazione avrebbe costituito un ostacolo così grosso. Un
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ostacolo di tipo ideologico. Vede, io ho molta simpatia per Bertinotti e so bene che le pensioni sono basse, gli ospedali funzionano male e le scuole non sono bene attrezzate. Ma è sui rimedi che casca l'asino. Bertinotti guarda all'interesse immediato delle classi a lui più vicine e dimentica quelle compatibilità economiche che domani saranno utili anche a loro.» Ma non è il peso di Rifondazione l'unico cruccio del ministro degli Esteri. La decisione di presentarsi da solo alle elezioni comunali di Milano e Torino nel '97 per Dini è stata rovinosa. («Un errore di presunzione da parte nostra", mi dice il ministro «da parte di chi ha creduto che ci fosse un elettorato di opinione disposto a non votare per il Polo, né per il Pds.») Le lezioni di morale per l'incontro al caffè Greco tra il suo ministro Augusto Fantozzi e il commercialista Sergio Melpignano sono state pesantissime. E soprattutto, è arrivato il colpo di grazia della candidatura di Di Pietro: «Perché è venuto? Sì è offerto lui? L'hanno chiamato? Non aveva avuto i suoi flirt con la destra? Non aveva detto che non sarebbe entrato in politica fino al momento in cui fossero stati risolti i suoi problemi giudiziari? E perché ci è entrato senza smentire certi suoi comportamenti?». Com'è lontana, nel secondo anno di governo dell'Ulivo, quella cena riservata di un martedì di dicembre in casa Dini. A quell'ora erano chiuse le bancarelle di stampe e libri antichi che danno colore alla piazza. Sonnecchiava il palazzo dei principi Borghese, frutto forse della mano cinquecentesca del
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Vignola e poi all'inizio del Seicento così ben curato nei dettagli dal cardinal Camillo che ancora oggi g]i eredi vanno all'Acea con le carte del tempo in mano: guardate, l'acqua è da quattro secoli a presa diretta nel palazzo, non dovete mandarci le bollette dei consumi. Al torpore del celebre palazzo gentilizio fatto a forma di cembalo, s'opponeva, sul lato destro della piazza, il rigoglio di luci che piovevano da un appartamento (con piscina) dell'ultimo piano. Donatella Dini e Linda Giuva legarono subito, Massimo D'Alema e Lamberto Dini avevano legato da tempo. Se infatti era stato Gianni Letta a inventare nel '94 la carriera politica di Lamberto, era stato D'Alema nel '95 a farsene patrono. E adesso? Sono altri gli amori del segretario del Pds? La sua lussuria poligama è senza freno? Il suo harem è destinato a riempirsi di bellezze sempre nuove dalla più disparata origine? Non si cura, il sultano, ch'esse possano odiarsi e combattersi, preso dall'ansia che solo acquisti sempre nuovi possano dissetare la sua virilità? Come il serpente che offre la mela, porgo a Dini la domanda avvelenata: non sarà che Di Pietro serva ad aggregare forze
moderate di qua e di là per rendere ininfluente il partito di Bertinotti? La risposta è gelida: «Se le cose andassero in questa direzione, dovrebbero preoccuparsi tutti i moderati del Polo e
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dell'Ulivo. Io non so se D'Alema vuole una tenuta di questa maggioranza. Ma sappia che se lui e Marini non riusciranno a gestire questo signore e lo lasceranno andare nella direzlone che lei ha indicato, mettono a rischio il governo. Tutto qui". E così Dini aspetta il giorno in cui «anche in Italia si opporranno un partito socialdemocratico e un polo liberaldemocratico». Lui starebbe naturalmente da quest'ultima parte, ma il processo è lungo, «servono scomposizioni e ricomposizioni politiche» e intanto Dini rimprovera al Polo di «non aver colto le occasioni per creare nuove maggioranze in Parlamento». Il Polo, per parte sua, non ha mai cessato di mantenere con Dini un rapporto sotterraneo e aspetta anch'esso pazientemente fatti nuovi. Ha fatto suo il motto di San Paolo, evocato da Berlusconi memore delle vittorie giovanili nelle gare salesiane di catechismo: «Quel che oggi ci appare misterioso, domani lo vedremo in una luce di chiarezza. Aggiunse il Cavaliere all'inizio del '97: «Ho l'impressione che l'enigma Dini un giorno Si sciogliera». è passato molto tempo da allora, ma la situazione non cambia. Quando incrocia ogni mattina il viso di Lamberto Dini pronto alla rasatura, lo specchio continua a dirgli: «Anche oggi sei un enigma, vero?i. Il ministro degli Esteri risponde compiaciuto:E già». Lo specchio sa che ogni Indagine sarebbe infruttifera e lascia perdere, fino all'indomani. Berlusconi, in cuor suo, fa come lo specchio di Dini. Sperando di poter ripetere un giorno, con esiti migliori, quel che Don
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Chisciotte disse di Dulcinea: «Ella m'ama e tornerà da me, con gli occhi molli di pentimento...». E di udire dalle labbra livide del suo amico Lamberto la pronuncia della condanna dell'Ulivo, come Otello nel quinto atto: «Chiamatemi assassino onorato. Niente ho fatto per odio, tutto per amore».
Fanfani: «è arrivato il loro momento»
«è arrivato il loro momento.» Amintore Fanfani mi soffiò questo breve messaggio nell'orecchio destro. Era la mattina di giovedì 6 febbraio 1997 e quello che fu l'uomo più potente (e più temuto) d'Italia riceveva l'omaggio di autorità e amici nella sala Zuccari del palazzo Giustiniani: là dove le mani del Fontana, del Maderno e infine del Borromini misero insieme le pietre che avrebbero visto nascere nel '47 la prima Costituzione italiana. Fanfani compiva gli ottantanove anni, sfiorando ormai la soglia dell'età più veneranda dell'umana condizione. Aveva seguito partecipe la breve orazione del presidente del Senato, Nicola Mancino. Aveva lasciato intuire una distrazione soltanto momentanea quando la vigile Maria Pia gli aveva dato la parola («Tocca a me?) e aveva letto con voce insospettabilmente ferma il testamento politico dell'ora, racchiuso in una paginetta.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Qualcuno» disse «cerca di presentare la storia italiana degli ultimi decenni come la storia di un fallimento continuo Ma questo non è assolutamente vero. Oggi son qui presenti amici che, pur facendo riferimento agli stessi ideali, dopo la scomparsa della Democrazia cristiana hanno preso strade diverse e amici che non sono mai stati democristiani, ma con i quali chi è stato democristiano ha condiviso in passato e può condividere tuttora gli stessi valori di democrazia, di libertà e di giustizia sociale restando fedeli ai quali è stato possibile assicurare all'Italia tanti decenni di progresso, di benessere e di pacifica convivenza. In un momento difficile come quello che stiamo vivendo non ha senso guardare al passato. E questa non è una riunione politica, tanto meno una riunione di nostalgici. Però, ricambiando i vostri auguri con sentimenti di sincera amicizia e gratitudine, credo di poter dire che se tutti coloro i quali continuano a credere in quei valori saranno capaci di superare le attuali divisioni, forse sarà più facile garantire all'Italia, che tutti amiamo, un futuro migliore.» Applaudirono insieme Nicola Mancino e Gaetano Gifuni, Giulio Andreotti ed Emilio Colombo, Franco Marini e Gerardo Bianco, Leopoldo Elia e Gianni Letta, Ettore Bernabei e Biagio Agnes, Pierferdinando Casini e - attraverso un messaggio del suo portavoce Rotondi - Rocco Buttiglione. Il messaggio del Cdu era del tutto esplicito: «Con vent'anni di meno, Fanfani sarebbe l'uomo giusto per riaggregare un'area moderata ancora in cerca di una organizzazione de-
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finitiva». «è arrivato il loro momento» mi soffiò a questo punto Fanfani nell'orecchio destro. Quale momento? Ai democristiani vecchi e nuovi, stiano al governo, all'opposizione o addirittura ai vertici dello Stato, la fine traumatica della Prima Repubblica e la cancellazione per ignominia del loro partito non è mai andata giù. Nessuno di loro pensa seriamente di rifare la Dc, perché i tempi ormai son cambiati, ma nessuno di essi accetta l'idea di morire lasciando la guida del Paese agli eredi dell'avversario di mezzo secolo: il Partito comunista italiano. Se l'obiettivo (almeno ideale) è chiaro, i modi per raggiungerlo - quando sono delineati - schizzano nello spazio da destra a sinistra, senza un briciolo di coordinamento apparente. Eppure... Un esempio per tutti. Se c'è una persona insospettabile di intelligenza col nemico, questa è il presidente del Senato Nicola Mancino. La sera del 30 luglio '97 Mancino incontra i senatori del Ccd-Cdu prima delle vacanze estive e sapete che gli dice? «Se passa il doppio turno nella nuova legge elettorale, ci costringerà a rimetterci insieme. Potrebbe essere una soluzione provvidenziale.» In attesa della Provvidenza, ciascuno coltiva i suoi disegni. De Mita, per esempio, vorrebbe portare il Ccd nell'Ulivo per sfiorare con i Popolari quel famoso quindici per cento sotto il
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE quale a suo giudizio non ha senso far politica e costruire insieme un'alternativa alla sinistra. Affida le sue riflessioni a lunghe corrispondenze con Marco Follini, vicesegretario del Ccd e suo vecchio amico. Ma Follini è scettico sulla possibilità di uno sganciamento del Ppi dall'asse ferreo col Pds: «La calamita sta là» mi dice. «Per quale miracolo dovrebbe avvenire di punto in bianco che una collaborazione che non ha incrinature entri in crisi rivoltando il Centro contro la Sinistra?» E ricorda che alle elezioni amministrative della primavera '97 in nessuno degli oltre cento comuni con più di quindicimila abitanti in cui si è votato c'è stata collaborazione tra Ppi e Ccd. «Un centrosinistra che sta a metà strada tra Giovanni Malagodi e Lelio Basso,» 204 La sQda
dice Follini «messo alle strette, sceglie la sua identità originaria, che è la sinistra.» Resta (inquieto) al suo posto anche Clemente Mastella presidente del Ccd e leader del «partito corsaro», accusato á giorni alterni di voler risolvere una volta per tutte le progressive crisi d'astinenza da potere con una definitiva endovena di Ulivo. Dopo l'arrivo di Di Pietro anche lui ha capito che nel centrosinistra ormai si è arrivati ai posti in piedi. Mastella dice in modo quasi ossessivo che «il Polo è morto», ma come accadde probabilmente con Mao, si rifiuta di dettarne il necrologio per mancanza di alternative.
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Il problema del Polo - dice ancora Follini - è far diventare valore politico l'opposizione che di fatto in Italia non è mai esistita, tranne che in gruppi «profondamente ideologizzati o sovversivi». Sostenere un'opposizione a tempo indeterminato, comunque, spaventa molti. La crisi di mezz'estate alla regione Calabria governata dal Polo dove sette ex democristiani hanno tentato un ribaltone con l'Ulivo è il segno di una oggettiva propensione - almeno in periferia - a vigilare sulle scialuppe di salvataggio in modo da approfittarne immediatamente al primo rollio della nave.
Casini e la ruota di Berlusconi
«E invece non è detto che la lunga marcia dell'opposizione non finisca col premiarci» mi dice Pier Casini. «In Spagna, in Irlanda, in Inghilterra, in Francia non ha vinto la sinistra, ha perso chi governava. Se noi del Polo ci mettiamo il cuore in pace e adottiamo una strategia di lunga scadenza senza sperare che qualcuno ci tolga le castagne dal fuoco o che ogni due minuti s'affacci la speranza del ribaltino o del ribaltone, tornerà il tempo giusto anche per noi. In questo senso la scelta di Di Pietro di andare di là ci facilita, togliendoci di torno una miccia pericolosa.» Casini sostiene di non essersi meravigliato della scelta di Di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Pietro, nonostante sia stato - come vedremo nei capitoli successivi - uno dei protagonisti del flirt dell'ex magistrato con il centrodestra. «Aveva dimostrato di essere inaffidabile» mi dice «già entrando nel governo dell'Ulivo. E poi nell'attuale situazione italiana a sinistra si sta più comodi, soprattutto se si è al centro di vicende giudiziarie. E stato folgorato per strada come San Paolo. Solo che l'apostolo ha proseguito a piedi, Di Pietro a cavallo. Comunque, se Di Pietro ha fatto una pessima figura, una ancora peggior l'ha fatta D'Alema. Se vuol fare lo statista, deve uscire da questi giochetti di bottega.» Il segretario del Ccd è convinto che Di Pietro «resta l'esernpio del presidenzialismo contro i partiti che non esiste in nessuna parte del mondo. Negli Stati Uniti la candidatura di uno come lui sarebbe impensabile». Casini è un bel bolognese col sorriso aperto e il carattere socievole. è amico di Scalfaro, col quale ebbe pure un semestre di gelo dopo le elezioni del '96. è amico di Prodi che vede una volta al mese a cena nelle case bolognesi di Piero Gnudi dell'Iri e di Franco Corlaita. («Dal numero di telefonate del presidente del Consiglio, controllo le condizioni di salute del governo. Ha chiamato spessissimo nell'autunno del '96 quando sperava che gli dessimo una mano nelle votazioni alla Camera. Ha smesso di chiamare dalla primavera del '97, segno che il governo sta bene.») Ma ha ripreso in autunno, se non altro per dare riscontro ai durissimi attacchi di Casini e Mastella a Berlusconi. E ha proseguito con una serie di
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urbane urgenti in ottobre durante la crisi con Bertinotti. Casini è naturalmente amico anche di Berlusconi. «Siamo nati grazie a lui. Se non ci fosse stata Forza Italia non ci sarebbe stato il Ccd. Ma questa non è una buona ragione per continuare in eterno a succhiare la ruota di Berlusconi.» Prego? «Vede, io vado volentieri a mangiare a casa sua, Michele è un ottimo cuoco, ma Forza Italia deve stabilire una volta per tutte un criterio normale di selezione della classe dirigente.» Anche per questo, quando gli chiedo se accetterebbe l'ipotetica offerta di fare il segretario di una federazione tra Forza Italia, Ccd e Cdu con Berlusconi presidente e leader, risponde di no. «Fino a quando nell'Ulivo c'è il Ppi, nel Polo deve esserci il Ccd-Cdu, che ormai è probabilmente più forte del partito di Marini. Soltanto quando di là dovesse nascere il partito dell'Ulivo, qui sarebbe logico rispondere federandoci con Forza Italia. In ogni caso, fare il segretario nelle attuali condizioni significherebbe avere poca autonomia e molte grane. Meglio il primo in Gallia che il secondo a Roma.» Casini insiste nell'utilità della dote del suo partito al Polo, anzi sulla dote comune del Ccd-Cdu ormai in via di unificazione. Insiste nell'utilità delle «tre gambe del Polo» con Forza Italia e An e sostiene che Marini condivide l'idea di un bipolarismo secco che non permetta pasticci. «Certo, lui è andato a cena a casa Letta e io no. Ma che dovevo fare? Offendermi come ha fatto Dini o difendere il menu7
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Abbiamo preferito difendere il menu. Alla fine, anzi, siamo stati i difensori più forti del menu, contro malumori che s'erano determinati anche in Forza Italia e in Alleanza nazionale.»
Buttiglione: «Berlusconi come Garibaldi»
«Sa che cosa ho detto a Berlusconi?» Non riesco a immaginarlo. «Gli ho detto: devi fare in politica quello che hai fatto nella tua impresa, passare da Fininvest a Mediaset. Non vedo il nesso. «E invece c'è. Devi passare, gli ho detto, da un'azienda familiare in cui sei tutto - il capo, il vice, quello che prende le iniziative e quello che le controlla - a un'azienda quotata in Borsa, in cui sei il socio di maggioranza, ma devi rispondere ad altri soci veri. Un'azienda, insomma, in cui non puoi agire di testa tua, ma devi rispettare i loro diritti. In un Centro così vengono tutti. E chiaro?» E chiaro. "Nelle condizioni attuali, invece, sono giuste le obiezioni di Mastella. Mastella obietta sempre. «Obietta che se facessimo la federazione di centro nelle condizioni attuali, entreremmo in una cosa gestita unicamente da Berlusconi. Lui si alza una mattina e dice: è cambiata la linea,
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andiamo con Bertinotti. E andiamo tutti con Bertinotti. Oppure: andiamo con Rauti. E andiamo tutti con Rauti. Occorre stabilire delle regole e chiarire come vengono prese le decisioni. L obiezione di Cossiga è l'obiezione di tutti.» Quale delle tante? «Cossiga non darà mai il suo patrocinio di padre nobile a
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una cosa che non si capisce se sia un partito o una banda di avventurieri.» Addirittura. «Pensi a Garibaldi.» Garibaldi? «Gli eserciti di volontari, come quello di Garibaldi, corrono sempre il rischio di trasformarsi in una banda di avventurieri. Forza Italia ha un problema simile a quello che si presentò allo Stato italiano dopo il 1861: trasformare l'esercito di volontari in un esercito regolare.» Tutto si può dire di Rocco Buttiglione, tranne che non parli con chiarezza. è stato il primo segretario post-democristiano del Ppi. Ha sedotto D'Alema in un ristorante di Gallipoli. Si è fidanzato con Bossi davanti a un piatto di sardine. Ha fatto con entrambi il ribaltone contro Berlusconi. Poi si è messo col Cavaliere facendosi scomunicare dai suoi, che tut-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tora non vogliono vederlo. (è Angelo Sanza, trovatosi un mattino leader della destra lucana, mentre Emilio Colombo nottetempo lo era diventato della sinistra, che mantiene i contatti.) Ma l'idea di fare il Centro della Destra non l'abbandona mai. «Dopo il fallimento dei referendum di Pannella, Berlusconi ha abbandonato definitivamente l'idea di fare di Forza Italia un partito liberal-radicale sostanzialmente antidemocristiano. Sa che cosa dice il capogruppo di Forza Italia al Senato, La Loggia?» No. «Dice quello che dico io: non si può costruire il centrodestra in Italia sul rifiuto dell'esperienza democristiana. rerché la nostra memoria storica del centrodestra è De Gasperi più Einaudi più Saragat. Di qui la necessità della federazione di centro con le caratteristiche e le garanzie di cui parlavamo poco fa. Chi lancia la linea prende la leadership. E Berlusconi è nelle condizioni migliori per lanciare la nuova linea. Visto che può sostenerla con gli otto milioni di voti di Forza Italia.» E Fini? «Se non fa la federazione di centro, Berlusconi si appiattisce sulla destra e perde la leadership. E poi c'è la questione di Di Pietro. Anche lei?
«Attaccando Di Pietro, Berlusconi ha messo in gioco la
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propria popolarità. è vero che schierandosi con l'Ulivo Di Pietro ha perso consensi. Ma ne ha persi anche Berlusconi Quelli di Fini, invece, sono rimasti intatti.» E allora? «Allora Berlusconi ha capito che non si può vivere di soli sondaggi e di sola popolarità. Deve camminare su due gambe come Fini. E qual è l'altra gamba?» Qual è? «Un'organizzazione politica vera che finora non c'è stata E la federazione di centro di cui ho parlato prima.» Tira il sigaro, il professor Buttiglione, soddisfatto.
Cossiga: «Se Berlusconi mi cedesse la Fininvest...»
«Credo che nelle attuali condizioni storiche Togliatti avrebbe approvato questa evoluzione del partito post-comunista. Non credo Berlinguer.Chissà se Massimo D'Alema bollerebbe anche questa affermazione di Francesco Cossiga come «una delle sue idee per metà sconnesse e per metà pericolose» (così ha definito in La grande occasione la proposta dell ex presidente di far saltare con un referendum la Bicamerale a favore di un'assemblea costituente). Ma se Cossiga evoca i post-comunisti, lo fa per parlare dei post-democristiani.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Lei mi chiede quale sia la funzione del Ppi. è quella di rappresentare l'anima di sinistra-centro del mondo cattolico. Badi, ho detto di sinistra-centro, non di centro-sinistra. Una funzione significativa e importante perché è l'anello di congiunzione e di mediazione del partito post-comunista con una parte del mondo cattolico. Quindi una riaggregazione dei vari spezzoni della Dc è impensabile... «La riaggregazione dovrebbe avvenire su basi moderate e alternative alla sinistra democratica. Tutto questo è già stato rifiutato nel '94, forse anche giustamente. Vede, nel mondo cattolico esistono due giudizi sul comunismo: uno lo considera il male, che non perde il suo carattere di male anche se è vlsto come bene in molte latitudini. L'altro giudizio considera il comunismo come un cristianesimo impazzito che aveva tanto di bene...» In Italia qual è il giudizio prevalente? «L'Italia è il paese in cui è più forte la componente che considera il comunismo un cristianesimo impazzito e non un male.» Quindi? «Quindi escludo che da noi il Ppi possa essere destinato a fare da contraltare al nuovo partito socialdemocratico di D'Alema come avviene invece per gli altri partiti cristianodemocratici europei.» Quando parli con Francesco Cossiga non sai mai se hai di
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fronte un pensionato di rango che ha accumulato, caso unico nel dopoguerra, tutti gli incarichi di maggior prestigio e potere (ministro dell'Interno, presidente del Consiglio, presidente del Senato, presidente della Repubblica), o un giovanotto senza età pronto a nuove e imprevedibili avventure politiche. Quando glielo chiedo, mi risponde asciutto: «Non ho spazio». E la volontà? «La volontà ha senso se esistono delle occasioni. Altrimenti è velleitaria. Io sono un realista." E allora? «Allora in politica non ho voglia di fare più niente. Mi piacerebbe invece collaborare alla pubblicazione di cinquanta libri che costituiscono l'ossatura del pensiero cristiano moderno per iiovani. Lei accetterebbe di candidarsi di nuovo alla guida dello Stato? «Non ci pensa nessuno.» E se qualcuno ci pensasse? «Sarebbe pericoloso che quel seggio fosse occupato da qualcuno che non avesse alle spalle una forza politica intesa come organizzazione di valori e di interessi. C)uesto tanto più, come mi auguro, se prevarrà una forma di semlpresidenzialismo in cui il capo dello Stato sarà partecipe della formazione dell'indirizzo politico del governo. Io sono fuori da
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tutto questo.» Un presidente con poteri maggiori di quelli che ha esercitato lei? «Contrariamente a quel che si crede, io ho avuto pochissimi poteri e non ne ho esercitato nessuno, se non la facoltà di parlare.» Che non è poco... «E infatti le mie parole mi hanno scatenato addosso l'opposizione della Dc e del Pci. A ripensarci, sarebbe difficile chiedersi se il mio più fermo oppositore sia stato la Dc o il Pci.» Siamo sufficientemente rispettosi dell'autorità dello Stato per eleggere direttamente il presidente della Repubblica? «E questo invece proprio uno dei motivi per eleggerlo. Il nuovo presidente dovrà infatti impegnarsi proprio nella ricostruzione del senso dello Stato e nel ripristinare la divisione dei poteri.» A che si riferisce? «Guardi, io rispetto i motivi della ribellione ricorrente di alcuni magistrati alle decisioni del governo e del Parlamento. Arrivo qualche volta a comprenderne i motivi. Ma saprebbe citarmi un altro paese in cui questo avviene? Tenuto conto che da noi la magistratura è un ceto burocratico e il Parlamento è espressione della forza popolare? Io mi limito a denunciare un fenomeno. Non ne faccio una questione di merito. Anzi, può darsi che nel merito i magistrati abbiano ragione.» Lei sta dicendo che negli ultimi anni la magistratura ha
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esercitato di fatto un potere politico? «La magistratura da ordine si è trasformata in potere e non vi è potere che non sia politico." C'è stato un contributo della magistratura alla vittoria politica della sinistra? «Da un punto di vista fattuale, sì. Ma a mio giudizio la sinistra avrebbe vinto anche senza l'aiuto della magistratura. Anzi, la sinistra aveva vinto da tempo, ma non poteva formalizzare la vittoria per i noti motivi della divisione dei blocchi. Caduti quei motivi, ha potuto trasferire sul campo del governo l'egemonia nella cultura e nell'informazione che aveva da almeno trent'anni.» A proposito, la Bicamerale l'ha delusa? «Non mi aspettavo di più.» Ma perché lei ha insistito tanto per avere l'assemblea costituente?
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«Sarebbe servita a coinvolgere e interessare la gente nella rifondazione etica e culturale dello Stato. E perché la proposta è caduta? «Perché era contro l'idea ormai imperante che conta lo Stato dei Partiti e non lo Stato dei Cittadini. I,o Stato dei Partiti ha avuto il suo trionfo nella cena a casa Letta...»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE A proposito, lei si è dichiarato un ammiratore della crostata della signora Maddalena... «Posso farle una confidenza? Un paio di settimane dopo la famosa cena dell'accordo, a casa Letta sono stato invitato io. Con chi? Con Berlusconi. è lì che ho mangiato la crostata. Buonissima.» Crostata a parte, come andò la cena? Berlusconi le ha chiesto di collaborare a qualche suo disegno? «Non me lo chiede mai. Sono io che gli ho suggerito di non dare un valore generale a polemiche su fatti singoli di giustizia. Di smetterla con la storia del complotto. Perché guardl: si denunziano i complotti quando la denunzia serve a bloccarli. Ma se c'è stato complotto contro Berlusconi, esso ha avuto successo. E allora è meglio smetterla.» Quale consiglio darebbe al centrodestra? «Si interroghi su che cosa vuol fare.» E secondo lei che vuole fare Berlusconi? «Credo che voglia fare qualcosa, ma non ho capito che cosa.» Se Berlusconi un domani le chiedesse di fare il leader del Polo, lei accetterebbe? «Le suggerisco di farmi un'altra domanda: se domani il presidente degli Stati Uniti le proponesse di fare il segretario di Stato... Ci sono le stesse probabilità." Ammettiamo che gliela faccia. «Non potrei accettarla. Non si può essere chiamati a fare i leader di una forza politica. Bisogna esserne l'espressione.
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Anzi...» Anzi? «Credo che potrei prendere in considerazione l'offerta se mi trasferisse il pacchetto di controllo di Fininvest. Le è piaciuta?» «Penso a un'alleanza di tipo giscardiano"
In attesa che il Cavaliere gli ceda il controllo di Fininvest (che a sua volta controlla Mediaset), Cossiga non perde tempo. A metà settembre va a Brescia, ospite di Mino Martinazzoli, sindaco della città. Martinazzoli è stato sempre uomo di punta della sinistra democristiana (anche Cossiga lo fu, sembrano passati secoli). Ma l'idea che il Ppi da lui fondato debba starsene rincantucciato all'ombra della Quercia lo intristisce. Martinazzoli, che già di suo allegro non è, si trova d'accordo con Cossiga nell'idea di muovere i moderati di quello che una volta era il vecchio centrosinistra e farne qualcosa di vivo e di autonomo. Ci hanno provato in tanti, si dirà. Ma quando venerdì 19 settembre compare su un'intera pagina della «Stampa» un'intervista di Cossiga a Ugo Magri, giovane e bravo capo della redazione romana, per alcuni giorni l'intero mondo politico entra in ebollizione. Perché? Qualche pagina addietro, in questo libro, Cossiga ci ha detto di non credere che il Ppi possa fare da contraltare al polo di sinistra dominato dal Pds perché costituito prevalente-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE mente da uomini che hanno sempre considerato il comunismo «un cristianesimo impazzito che aveva tanto di bene». D'altra parte, vede il centrodestra bloccato da Berlusconi e indeciso sulla strada da prendere. E allora? Allora dice a Magri: «Non vedo lo scandalo se in Italia si affaccia un centro liberaldemocratico che domani potrà rappresentare l'alternativa alla sinistra... Un centro nel quale porteranno la loro esperienza culturale cattolici, laici, repubblicani, liberali, ma anche socialisti non legati al marxismo... Penso a qualcosa come l'Udr giscardiana, un'alleanza non soltanto elettorale, ma anche politica tra varie componenti... Fini? Come non è illegittima l'alleanza del Pds con Rifondazione comunista, allo stesso modo si può ipotizzare un'alleanza tra il centro e An. In fondo, una tradizione nazionale in Italia è sempre esistita, da Crispi in avanti». Casini e Buttiglione esultano, Fini (che ascolta molto Cossiga) è d'accordo, e per non guastarsi il rapporto col Cavaliere dice che Berlusconi ha lo stesso progetto. Il problema è un altro. Nel progetto di Berlusconi non c'è Cossiga e nel progetto di Cossiga non c'è Berlusconi.
Come Giorgio e Ippolita
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Ma D'Alema è un dio o no?
«Signore hai detto: invocatemi e io vi esaudirò. Noi ti invochiamo, Signore, come hai ordinato. Tu sei colui che sempre mantiene la promessa.» La sera di giovedì 17 aprile Silvio Berlusconi è a Viterbo, dove dieci giorni dopo si vota per il sindaco. Non ha dunque modo di aprire il pacchettino delle novità Einaudi, di cui attraverso la Mondadori - è l'editore. In quel pacchettino c'è un bel volume curato da Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose. S'intitola 1l Iibro delle preghiere e reca a pagina 73 l'invocazione sopra riportata. è una preghiera musulmana, ma potrebbe adattarsi benissimo alle religioni cristiana ed ebraica, autorevolmente rappresentate nel libro di Bianchi. E anche alla religione dalemiana che il Cavalier Berlusconi professa da tempo con innegabile trasporto e con fede rimasta integra nonostante le insidie continue. Come i tre pastorelli della regione portoghese di Santarém furono testimoni muti ed emozionati del prodigio di Fatima nel '17, all'autore di questo libro toccò in sorte di assistere all'esplosione di fede tra Berlusconi e D'Alema nello studio di «Porta a porta» nel gennaio del '96. I due rinnovarono in pubblico il prodigio altre quattro volte nello stesso anno, fino al 30 ottobre quando vollero addi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE rittura benedire insieme un libro (La svolta), semplice e casuale testimonianza di un evangelista scelto dalla sorte. Tra l'autunno del '96 e l'inizio del '97, D'Alema e Berlusconi si rividero poi riservatamente in casa Letta e la comunione -spirituale fu di nuovo pubblicamente sancita il 5 febbraio quando il Cavaliere - distinguendosi per la prima volta in una scelta politica rilevante da Gianfranco Fini - votò per il segretario del Pds come presidente della Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione. Da allora, Berlusconi ebbe la sensazione di essere rimasto solo a pregare. La religione «consolare» era diventata rigidamente monoteistica: D'Alema era la divinità, Berlusconi si limitava sempre di più solo a invocarla. Lascia Bertinotti, o Signore, abbandona Prodi al suo destino, fa' che l'Italia abbia un capo dello Stato eletto dal popolo secondo il sistema semipresidenziale di tipo francese. Donami una legge sulla televisione che non mandi Emilio Fede in esilio sul satellite Non mettermi più di tanto le corna con Cecchi Gori. Concedi, infine, all'Italia una riforma giudiziaria che non consenta più ai pubblici ministeri di condizionare la magistratura giudicante, emettendo sentenze inappellabili fin dalla fase preliminare delle indagini. Conservami per sempre Gianni Letta e - se possibile - clonalo. Amen. Per propiziare la benevolenza di D'Alema, il Cavaliere aveva fatto in Parlamento un sacrificio spettacolare. Altro che vitello grasso: Berlusconi aveva salvato il governo Prodi
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votando per l'invio della missione militare in Albania, bocciata da Rifondazione comunista e quindi sprovvista della copertura politica della maggioranza. Ma dal secondo piano delle Botteghe Oscure venivano segnali sempre più incerti e inquietanti. Fino al congresso del Pds, in febbraio, D'Alema incarnava tutte le virtù umane e divine. Come Atena, combatteva per il buon diritto (Promachos), vigilava sulla salvezza delle città (Polias) e infine portava alla vittoria (Nikiphoros). Poi, tra il marzo e l'aprile, aveva creato tra fedeli e infedeli la confusione che causò tra i greci l'importazione del culto di Iside dall'Egitto: un giorno aveva le sembianze di Era e l'indomani quelle di Demetra, s'identificava con Afrodite per diventare un momento dopo Selene e perfino Io. Insomma, una confusione gravissima e pericolosa. Uno dei più esperti sacerdoti del Transatlantico, Augusto Minzolini, scrive proprio quel 17 aprile sulla «Stampa» un
articolo causticamente intitolato: "Il gambero rosso». Dice Minzolini: «Speriamo che i quattro o cinque D'Alema che si sono avvicendati negli ultimi tempi sul palcoscenico della politica siano parti in commedia di quella campagna elettorale che si concluderà fra tre settimane. Se, invece, per ragionare sulla politica del leader bisognerà rifarsi solo alle sue ultime uscite, c'è il rischio di perdere la bussola».
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Il 5 febbraio, infatti, nel discorso d'insediamento come presidente della Bicamerale, D'Alema aveva detto: «Per noi ci sono prima le riforme istituzionali e poi la maggioranza di governo». Il 16 aprile c'è stata l'inversione di marcia: «Qualcuno pensa che io voglia buttare a mare la stabilità di governo per fare le riforme costituzionali. Io, che sono un uomo prudente, dico che non sono d'accordo...». «C'è qualcosa di straordinario nella rapidità della trasfigurazione dell'immagine pubblica di D'Alema» nota l'indomani sul «Corriere» Paolo Franchi. «Ieri gli venivano attribuite virtù taumaturgiche assimilabili a quelle dei re capetingi, oggi viene raffigurato come una specie di Re Tentenna...» Lo stesso giorno, un autorevole osservatore interno al Pds, Emanuele Macaluso, scrive sul «Mattino» che dopo il congresso del Pds in febbraio D'Alema veniva «incensato e adulato al limite del culto della personalità», per diventare, nel giro di soli due mesi, «un pulcino nella stoppa, un leader dimezzato e contestato, mallevadore di inciuci indigeribili, ondivago da far apparire tetragono il vecchio Occhetto.... D'Alema, in effetti, si era caricato in poco tempo di pesi tali da far impallidire le fatiche di Atlante, il Titano condannato da Zeus a pagare un peccato di superbia sostenendo sulle spalle l'intera volta celeste. Come nota sul «Corriere» Paolo Franchi, egli s'è assunto il compito di recitare insieme le seguenti parti in commedia: «segretario del Pds, fondatore di un nuovo e più
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vasto partito della sinistra, azionista di maggioranza della coalizione di governo, leader ombra dell'opposizione, riformatore principe della Carta costituzionale...". Poteva non pagare dazio per tutto questo?, si chiede Franchi. No, non poteva. Eppure, nei primi mesi dell'anno, D'Alema dovette tapparsi le orecchie per non essere stordito dalle acclamazioni di consenso che gli venivano da ogni parte, anche opposta alla sua. Un nuovo Togliatti, dicevano al Bottegone. Un nuovo De Gasperi, acclamavano tra piazza del Gesù e i nuovi vicini uffici di Berlusconi, in via del Plebiscito. Un Titano, per l'appunto. Come Atlante, che fu punito per l'eccesso d'ardimento. Chissà se in quel periodo D'Alema si sia trovato nella condizione del giovane Wagner al quale, annota il biografo Aldo Orberdorfer, «l'incenso dell'ammirazione era necessario più del pane, per resistere». E chissà se al contrario, nell'aprile dello scetticismo e del dissenso, egli abbia trovato - come capitò al genio musicale tedesco, secondo un testimone, il Pecht - chi possa dargliil conforto di non sentirsi assolutamente solo, di sapersi intorno qualcuno che aveva fede in lui, che costituiva un minuscolo cenacolo del quale, egli, indiscutibilmente era il centro». Fa perno ancora sul Cavaliere tale cenacolo? Questo è il problema. E vero che Ornella, la segretaria di D'Alema (dietro l'atteggiamento marziale ha una sua profonda dolcezza), si scioglie quando sente i messaggi di Gianni Letta sulla se-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE greteria telefonica e quando ne riceve i cioccolatini. è intuibile che D'Alema farà nel suo libro di Letta un monumento nazionale e renderà onore allo stesso Berlusconi. Ma qual è il senso politico di queste buone relazioni, oltre a quello - civilissimo ed essenziale - di far partorire una vera Seconda Repubblica dall'interminabile travaglio della Transizione?
«Vinceremo!» dice Ferrara scodellando i rigatoni.
Per capire i rapporti tra Berlusconi e D'Alema bisogna tornare ai primi mesi del '96. Come accade tuttora in molti paesi, soprattutto del Mezzogiorno, la sera del funerale del defunto, gli amici più stretti preparano la cena per i congiunti. Il pretesto è umanitario, presumendosi che le lacrime della giornata mal si conciliano con la preparazione della pastasciutta. Ma una volta a tavola, i profumi di vita che salgono dai piatti, pur non attenuando i dolori della perdita - considerata per l'appunto irreparabile - favoriscono i discorsi sul futuro della famiglia. La sera dei funerali del tentativo Maccanico, Silvio Berlusconi e Gianni Letta portano un lutto troppo stretto per cenare in casa- Vanno perciò in via della Lupa, dove abita ancora per poco Giuliano Ferrara, e siedono alla sua mensa. Anselma, moglie di Giuliano, tiene il Cavaliere alla destra e Lucio Colletti alla sinistra. Giuliano, a capotavola, scodella i rigato-
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ni da una grande zuppiera. Con scarsissimo rispetto per il lutto dei suoi ospiti, Ferrara inneggia alla morte del tentativo Maccanico. «Meno male» dice con l'allegria che lo travolge quando sente il profumo della battaglia. «Così andiamo alle elezioni e le vinciamo.» Gianni Letta è di parere opposto. Quando gioca a tombola, non tiene nemmeno i fagioli, tanto è convinto di perdere. E se rileva che i primi tre estratti gli hanno fatto vincere un bel terno, non lo annuncia nemmeno, pensando a un errore di chi cura l'estrazione. «Caro Giuliano,» dice «io sono convinto di tre cose. La prima: abbiamo perso una grande occasione per risanare il Paese e fare insieme le riforme costituzionali. La seconda: credo che perderemo le elezioni. La terza se le vincessimo, non riusciremmo a muovere un passo perché i sindacati ci scaraventerebbero di nuovo la piazza addosso come hanno fatto nel '94. Adottare certe misure di risanamento economico sarebbe difficile per la sinistra, figurati per noi...» «Se hai paura di vincere, è finita" si scalda Ferrara versandosi con generosità altri rigatoni nella scodella. «Non ho paura di vincere"ribatte Lettadico semplicemente che solo un grande sforzo unitario del centrodestra e del centrosinistra potrebbe garantire le condizioni per entrare in Europa.» è consociativismo, è inciucio!» ribatte Giuliano che An-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE selma non osa interrompere quando si versa di nuovo i rigatoni. (Dopo la nascita della Bicamerale, Ferrara sarà invece tra i più accesi sostenitori del patto costituente tra D'Alema e Berlusconi.) E il Cavaliere? Mangia con molta parsimonia e si colloca a mezza strada tra l'amico del cervello (Letta) e quello dell'istinto (Ferrara). «Non dobbiamo avere paura"dice pronto alla battaglia. Ma ha fatto di tutto per convincere Fini e Casini a benedire l'accordo con Maccanico, essendo convinto - come Clemente Mastella - che il rischio di perdere le elezioni era fortissimo.
«L'Ulivo al governo più a lungo del giusto».
«La sera stessa del fallimento di Maccanico» mi dice Berlusconi «pensai che avremmo dovuto dare vita a un'assemblea costituente e lo dichiarai pubblicamente, impegnandomi a presentare un disegno di legge in tal senso. Cosa che feci il mese seguente. Ma la sinistra non fu mai d'accordo. E quando si è deciso di fare la Bicamerale, siamo passati attraverso assemblee dei parlamentari del Polo per varare la nostra linea.» E vero che Fini ha fatto sempre resistenza fino al voto leghista che vi ha dato il semipresidenzialismo? «Rimase incerto per alcuni mesi. Io gli ricordavo che dalla riuscita della Bicamerale avrebbe ricavato molti vantaggi. Alleanza nazionale si sarebbe costituzionalizzata, avremmo ot-
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tenuto l'elezione diretta del capo dello Stato o del primo ministro e finalmente la ricostruzione dello Stato di diritto. Se avessimo fallito, saremmo stati delegittimati come classe dirigente. Durante i cinque mesi di lavoro della Bicamerale (e poi nella ripresa d'autunno) non ho cessato di impegnarmi per il successo del comune lavoro.» Nella fase preparatoria della Bicamerale e nei primissimi mesi di lavoro, Forza Italia ha l'impressione che l'andamento dei lavori possa portare a un «clima diverso" e quindi a una diversa maggioranza di governo. D'Alema nega di aver mai avuto questa intenzione. Così quando nell'estate del '97 gli chiedo se non ci sia stato un suo mutamento d'opinione (il «gambero rosso» di cui abbiamo parlato), mi risponde così: «Quando dissi che le riforme sono più importanti del governo, feci una considerazione scontata. Le riforme segneranno tutta una fase della storia dell'Italia democratica e non c'è dubbio che la nuova Costituzione sia più importante del governo. Se il centrosinistra mancasse con le riforme, verrebbe meno a una grande occasione storica. Successivamente, ho detto anche una cosa diversa: se cade il governo, non avremo più le riforme e non avremo più la legislatura. Ho sempre pensato, cioè, che le riforme costituzionali e il governo si sostenessero a vicenda. Fare le riforme garantisce stabilità al governo almeno fino a quando il ciclo riformatore non si sarà concluso. La stabilità di governo ser-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ve a sua volta a fare le riforme. Questa verità elementare io
l'ho detta fin dall'inizio, ma nessuno mi ha ascoltato perché si ritiene che le cose che si dicono sono ipocrisie per nascondere disegni inconfessabili. Non si è capito perciò quello che poi è successo. Le riforme hanno rafforzato il governo». Diverso il parere di Berlusconi: «In effetti chi era favorevole al nostro ingresso in Bicamerale» mi dice «considerava che in commissione le forze meno estremiste si sarebbero incontrate sui punti principali e che quindi si sarebbe naturalmente formata una maggioranza costituente diversa dalla maggioranza di governo, una maggioranza che, successivamente, avrebbe potuto anche diventare maggioranza di governo. Per la verità, io non ricordo impegni assunti pubblicamente in questo senso da D'Alema, ma certamente il clima, l'atmosfera, le argomentazioni di chi voleva far nascere la commissione andavano in questo senso". Scrivendo La grande occasione, D'Alema ha avuto un atteggiamento bifronte con il Polo. è stato prodigo di riconoscimenti per Berlusconi, per l'ultimo Fini, per Letta, Urbani e ha invece sempre trattato il centrodestra nel suo complesso comelna coalizione di livello inferiore all'Ulivo, inadeguata ai problemi da affrontare. Lo conferma anche nella nostra conversazione: «Corriamo il grave rischio che il celltrosinistra debba governare per molti anni, più di quanto sarebbe giusto fisiologicamente. Questo rischio non deriva dalla cattive-
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ria di D'Alema o come si è scritto nell'estate del '97, dalla nostra volontà di creare un "regime". Il rischio nasce dalla confusione grave, dallo sbando della destra che non appare in grado di dare credibilità alla sua politica. Non c'è nessun cittadino italiano dotato di buonsenso, nemmeno tra quelli che votano il Polo, che pensa al centrodestra come a una vera alternativa di governo. L'incapacità del Polo di dare all'opposizione coerenza e prospettiva è un fatto negativo per l'Italia. Se lo immagina lei un conservatore inglese che difende la proprietà comunale della centrale del latte contro la sinistra che vuole privatizzare? Nell'estate del '97 il Pds ha vinto da solo a Roma un referendum contro Rifondazione comunista, Alleanza nazionale, Forza Italia per privatizzare il latte. è vero che c'è anche nel centrosinistra un certo grado di confusione, che soffriamo per Bertinotti. Ma il centrosinistra ha un asse di governo. Si capisce che cos'è. Non si capisce sinceramente che cosa sia il centrodestra. Berlusconi risponde a nuora perché suocera intenda. Parla a D'Alema, ma allude alle crescenti intemperanze autunnali di Casini. "E comprensibile che affermazioni del genere le faccia la sinistra per indebolirci. è inaccettabile che le facciano esponenti del Polo. Noi abbiamo sempre prodotto una opposizione decisa e responsabile, siamo persino arrivati a disertare le aule del Parlamento presidiandole soltanto con i capigruppo
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE e con i relatori, affinché, vedendo in televisione quelle aule vuote a metà, gli italiani potessero capire che il governo e la maggioranza stavano calpestando la Costituzione perché non consentivano all'opposizione di difendere i diritti e gli interessi dei cittadini. Abbiamo organizzato la più grande manifestazione di moderati della storia italiana, sfilando nelle strade e nelle piazze di Roma con centinaia di migliaia di persone che, per la maggior parte, mai prima di allora avevano partecipato a un corteo. Abbiamo organizzato cento Convegni per la libertà in cento città d'Italia. In trecentomila abbiamo manifestato in piazza Duomo a Milano contro le tasse e per il lavoro. Abbiamo presentato in commissione e in aula migliaia di emendamenti. E non parliamo degli interventi di tutti noi sui giornali e sulle televisioni." Qualche volta avete anche votato per il governo... «Certo, quando il governo ha fatto propri alcuni punti del nostro programma li abbiamo votati. Purtroppo in molte altre occasioni non abbiamo disposto della maggioranza necessaria per far passare i nostri progetti. Ma vorrei fare una affermazione precisa. Se il governo presentasse un prowedimento che ricalcasse una nostra proposta e il nostro voto negativo fosse sufficiente a produrre la crisi, noi non esiteremmo a votare contro il governo. Non saremo mai la stampella di Prodi.»
Mi bemolle e conflitto d'interessi
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Campane d'argento innevate accoglievano gli ospiti all'ingresso. Era il 17 dicembre del '96 e Maria Angiolillo riceveva, come ogni anno, gli amici per gli auguri di Natale. Sui tre elegantissimi tavoli da pranzo, bacche gelate valorizzavano le orchidee, fiori assai amati dalla padrona di casa. Sui tavoli, corni d'argento offrivano fiori ghiacciati, deliziando la memoria di Courtois Frère, che nel 18l6 riuscì a ritorcere il mi bemolle nel corno solista. E rese felice Ravel quando assegnò alla tuba il famoso a soloBydlo», orchestrando i Tableaux d'une exposition («Quadri di un'esposizione») di Modest Petrovic Mussorgskij, grazie all'aggiunta geniale di un pistone alla tuba standard. Inconsapevole di tube, pistoni e mi bemolle ritorti, Antonio Maccanico, ministro delle Poste, godette della serata in compagnia della principessa Boncompagni. Al brindisi, ringraziò chi s'era complimentato per il rilevante successo politico appena conseguito con l'accordo sul futuro delle televisioni e spese parole assai natalizie per i rapporti tra maggioranza e opposizione. Da buon artificiere, Maccanico - prima e dopo quella cena assai raffinata al villino Giulia - aveva disinnescato una per una le infinite mine che la legge sulle televisioni comportava. Non immaginando che nove mesi più tardi, nel settembre del '97, sarebbero stati due uomini del Polo, Pierferdinando Casini e Clemente Mastella, a farne esplodere una fragorosa-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE mente. Era capitato che alla ripresa autunnale Gianni Letta fosse andato in visita al presidente del Consiglio. S'era parlato di molti argomenti dell'agenda politica di fine anno. Ma anche delle prospettive Fininvest nel complesso e redditizio mondo delle comunicazioni telefoniche, sconvolto dall'arrivo all'Enel di Franco Tatò e della sua immediata proposta di trasformare la rete elettrica anche in rete telefonica. Berlusconi replicò che il problema non si poneva neppure perché il governo e la maggioranza avevano già deciso di assegnare la concessione all'Enel. Ma Casini e Mastella profittarono dell'occasione per accusare il Cavaliere di essere in qualche modo condizionato dal conflitto d'interessi. «Vorrei stendere un velo su questo argomento" mi dice Berlusconi che definì «miserabileil sospetto che era stato avanzato a questo riguardo. Un paio di mesi prima avevo affrontato lo stesso problema chiedendo a Berlusconi se la politica gli avesse salvato l'azienda. E il Cavaliere mi aveva dato in un primo momento la consueta risposta negativa: «La politica ha portato solo negatività al mio gruppo. Per cominciare, con la mia discesa in campo è venuto meno l'apporto di chi ne era il principale propulsore. «Le ritorsioni politiche sono state tante. Si è reso necessario, per fare solo un esempio, cedere Euromercato. I centri commerciali erano disertati da chi mi considerava un awersario politico, anzi un nemico. Sorsero dei "comitati" con il compito di boicottarli. Una volta passati ad altri, i negozi so-
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no tornati a riempirsi...» Mi dette invece una risposta diversa quando gli ricordai la situazione del '93. «Certo, allora la sinistra diceva di voler distruggere gli avversari... Non so, forse in quel senso la vittoria del Polo mi ha aiutato a non essere distrutto. «Certo sarebbe stato più facile adeguarsi al vento che spirava, consegnando alla sinistra la linea editoriale di due televisioni. Ma non mi sarei più potuto guardare allo specchio, avrei rinnegato i miei principi e tutto il mio passato di libero imprenditore.» Ogni volta che si parla di conflitto d'interesse lei si arrabbia e parla di menzogna... «Infatti è una menzogna. «Vogliamo metterla in chiaro una volta per tutte? «Allora, esiste certamente il rischio che chi comanda, chi è al governo, possa dare vita a dei provvedimenti che favoriscano i suoi interessi, il suo studio professionale, le sue aziende. «E un pericolo che va assolutamente evitato. Occorre quindi una legge che regoli la materia e noi, quando eravamo al governo, abbiamo appunto presentato al Parlamento un disegno di legge al riguardo. «I due governi della sinistra che si sono succeduti, quello di Dini e quello di Prodi, l'hanno bloccato. A loro ha fatto e fa comodo non avere alcun limite. Noi invece insistiamo affinché la legge venga approvata al più presto. Del tutto diversa
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE è la situazione per chi è all'opposizione. Anziché avere la possibilità di favorire i suoi interessi, le sue aziende, chi è oppositore, chi sta all'opposizione, si trova esposto al rischio che chi è al governo usi il potere di cui dispone per colpire, per danneggiare, per penalizzare, magari anche per distruggere le aziende del suo avversario politico. O tenti magari, anche più semplicemente, di condizionarne l'azione politica di opposizione minacciando ritorsioni sulle sue proprietà private. Sembra un paradosso ma questa è la realtà. Altro che conflitto di interessi per Berlusconi. Ci sarebbe bisogno di una legge che garantisse, a lui e alla sua azienda, di stare al riparo dai danni che il governo e la maggioranza potrebbero volergli infliggere «In conclusione: chi parla di conflitto di interessi del leader dell'opposizione è, fuor di ogni dubbio, in malafede.»
In Sardegna, tra ulivi e ulivastri
«Sa che cos'è quello?" «No.» «Un Junìperus..... «Sarebbe un ginepro.» «Non un ginepro qualunque. Quello è un ginepro con un portamento diverso dagli altri. Facciamo una passeggiata?» Capisco che palazzo Chigi dovesse sembrargli una prigio-
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ne. Capisco anche che palazzo Grazioli gli sembri un convento di clausura. Silvio Berlusconi non riesce a star fermo. Sono venuto a trovarlo a Porto Rotondo, lui è al telefono, il maggiordomo mi chiede, come fa con tutti gli ospiti, se voglio fare una doccia e se posso consentire che mi si stiri l'abito: come si fa a restare con i vestiti stazzonati dal viaggio per una intera giornata? «La certosa» resta la più bella tra le ville sarde del Cavaliere. Quand'era presidente del Consiglio stava per venderla a un arabo che gli aveva offerto una fortuna. Non lo fece, meglio per lui. Lì c'è Mortoro, quel rettangolo di ghiaccio è Tavolara, la fontana di pietra di Andrea Cascella le rende una specie di saluto militare. Intorno, molte decine di ettari di macchia mediterranea proteggono la casa. Il Cavaliere mi aspetta leggendo i giornali, indossa una tuta bianca da casa, è appena tornato dal mare, ma sulla poltrona del patio non resiste che pochi minuti. Le dispiace se mi muovo?, prego, io resto seduto col taccuino. E vero che Forza Italia senza Berlusconi non esisterebbe più? «No. Si diceva la stessa cosa della Fininvest. E la realtà ha ampiamente smentito questa previsione. L'équipe dei dirigenti che ho formato in tanti anni di collaborazione e le nuove generazioni stanno facendo benissimo...» Gli si illuminano gli occhi quando parla di Marina, la figlia maggiore, che a
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE quanto pare è una tosta, sa quel che vuole e soprattutto, dopo il passaggio di Fidel Confalonieri a Mediaset, sta rivoltando la holding Fininvest come un calzino. In politica, dunque? «In politica avverrà la stessa cosa. Naturalmente c'è bisogno di tempo. Oltre cento congressi provinciali che si stanno svolgendo faranno emergere una nuova classe dirigente per Forza Italia e per il Paese. Metteremo un grande impegno nell'approfondimento formativo, in sintonia con gli insegnamenti dei grandi pensatori cattolici e liberali. Abbiamo riscoperto Don Sturzo e Luigi Einaudi che l'egemonia culturale della sinistra aveva messo in un angolo negli ultimi trent'anni. Siamo l'unica forza politica che non ha responsabilità nel passato da farsi perdonare." Ripensando agli ultimi anni, crede di aver sottovalutato la politica? No, ho sempre guardato alla politica come a una grande speranza. Forse ho sottovalutato l'infingardaggine, la slealtà, la cattiveria di certi politici... Il salto da zero a palazzo Chigi è stato quasi miracoloso. Se il governo fosse durato un'intera legislatura avremmo davvero ammodernato il Paese. Già nei primi mesi stavamo riprogettando la previdenza, il fisco, l'amministrazione pubblica, la scuola e soprattutto, utilizzando per primi in Europa la leva fiscale, stavamo dando impulso allo sviluppo dell'economia con la conseguente creazione di nuovi posti di lavoro. Questo, della mancata possibilità per
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tanti giovani di sperare nel futuro e di realizzarsi, è il rammarico più grande che mi è rimasto dentro da allora...» E invece? «C'è stato un golpe di palazzo, un golpe giudiziario e sono stati traditi gli elettori. C'è stato un attentato al governo, è stato violato l'articolo 289 del codice penale, appunto, si è inferto un colpo mortale al bipolarismo, ed è stata cambiata la storia d'Italia con una violazione grave della nostra democrazia.» (Ne parleremo a proposito dei rapporti tra Berlusconi e il Pool di Milano.)
Ma lei davvero pensava di governare cinque anni con Umberto Bossi? Sospira: «Questo era il mandato degli elettori. E anche quelli della Lega prima o poi se ne convinceranno. La secessione non conviene a nessuno. Si renderanno conto di aver consegnato il nostro Paese, il nostro benessere, la nostra libertà nelle mani delle sinistre. I problemi del Nord non si risolvono fondando un'altra repubblica. I voti di protesta e di disperazione contro il fisco, la burocrazia, l'inefficienza degli apparati pubblici, la carenza di infrastrutture non si riconquistano con la retorica patriottarda. Si deve dare una risposta concreta in termini di autonomie reali, di statuti speciali, di riforme fiscali ed amministrative". Facciamo una lunga passeggiata nel parco. Berlusconi pas-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sa in rassegna le amate piante: «Ulivastro... lentischio... corbezzolo... mirto... oleandro... ulivo». Scommetto che le piace più l'ulivastro che l'ulivo... «...Buganvillea... pitosforo, poligola, verbena, mesobrianteno, arbelia, rosmarino, dipladenia..." Ma il giardiniere di casa non è sua moglie? «Mia moglie ha fatto cose straordinarie a Macherio. Di questa tenuta mi sono occupato personalmente.» E conosce a memoria tutte le piante? «Certo, ci sono una cinquantina di varietà. Quello è un tappeto di portulaca, fiori d'ogni colore che si aprono al mattino e si chiudono al tramonto. Quella è una pianta di gestroemia, quello è un Hibiscus.» E quel fiore vermiglio? «Si chiama Veronica, come mia moglie.»
A tavola con la famiglia Berlusconi
Compare la signora Berlusconi. è sempre molto bella. Scese a Roma due o tre volte quando il marito era presidente del Consiglio, ora non scende più. Palazzo Grazioli è diventato quel che è stato sempre Arcore: un grande ufficio dove si può pranzare, dormire, ospitare gente, ma pur sempre un ufficio. Arrivano i bambini. Barbara ha tredici anni e i colori della mamma. Nuota, gioca a pallacanestro, studia recitazione e
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suona piano e sax niente male. Negli hobby assomiglia al padre. Anche Eleonora, undici anni, ha i colori della mamma, nuota e gioca al basket come la sorella (mi pare di aver intuito un minimo di competizione), suona l'arpa e il pianoforte. Luigi ha compiuto nove anni a fine settembre, è il ritratto del padre. Se suona il pianoforte, forse è perché papà gli ha spiegato che da giovani serve a fare conquiste. Luigi pesca, gioca al calcio, tifa Milan ma grazie a Dio non ha perso spirito critico. Luigi chi vince lo scudetto? Pausa."ll Milan e la Juve. Secondo l'Inter.» Così abbiamo accontentato il papà nelle forme e fatto capire nella sostanza che il Milan è fuori gioco. Come tutti i bambini, i figli di Berlusconi non sopportano più di tanto i grandi che a tavola tirano tardi, chiedono il permesso di alzarsi, tra poco arrivano gli amici e dalla piscina saliranno grida da derby. Berlusconi si guarda intorno, gli dispiace non aver tempo di godere quel che ha costruito e soprattutto la famiglia. D'altra parte non ha detto D'Alema, che pure non fa il pendolare: «Mia moglie Linda è una vedova bianca»? è a questo punto che gli chiedo quanto tempo della sua vita pensa di dedicare ancora alla politica. Berlusconi fa una pausa, poi mi dice: «Continuerò fin quando sarò certo che non ci siano più rischi per il nostro benessere, la nostra democrazia, i nostri diritti di cittadini, la nostra libertà.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Altra pausa: «Lei parla di politica. Non ho in testa una definizione piuttosto che un'altra. Oggi, nel nostro Paese, io la sento come una grande speranza, come l'impegno di tutta la gente - che è tanta, le assicuro, tanta - che vorrebbe far vivere i propri figli in un Paese autenticamente libero e liberale». Si sente motivato? «Ogni tanto, le confesso, mi piacerebbe fermarmi e fare quel che non ho mai fatto, gustare le cose belle che mi sono sfuggite via, stare di più con le persone che amo. Il clima e il panorama politico attuale sono angoscianti. Trovo il coraggio di fare quel che faccio perché sento che ho il dovere di farlo. Il dovere di contribuire alla salvezza del mio Paese - glielo dico senza iattanza - dal populismo giustizialista, dal populismo secessionista, dal rischio di un regime. Credo spetti soprattutto a me e a Forza Italia di convincere la gente del Nord a non seguire le follie separatiste della Lega e tanti italiani a non credere al populismo autoritario di certa sinistra.", Non mi dica, dottor Berlusconi, che non sta facendo un pensierino al Quirinale. «Credo di averglielo già confidato: non ho alcuna ambizione al riguardo, proprio nessuna.» E il rischio di coabitazione? «Non mi preoccupa affatto. Un'eventuale coabitazione tra un capo dello Stato eletto dal popolo e un pur forte presidente del Consiglio, anzi, mi metterebbe più tranquillo in un periodo difficile di transizione come questo.»
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Già, ma può candidarsi al Quirinale Silvio Berlusconi con i suoi problemi giudiziari? Mi dice Walter Veltroni: «Per quanto mi riguarda, sì. Il problema è sempre quello dell'uso che la classe politica fa dei provvedimenti giudiziari. C'è l'avviso di garanzia? Bene. C'è il rinvio a giudizio? Ne riparliamo dopo il processo di terzo grado». Quindi se per ipotesi Berlusconi dovesse essere condannato due volte... «...per me potrebbe ugualmente concorrere alla carica di capo dello Stato. Naturalmente ci sarebbero valutazioni di opportunità, ma queste spettano ai singoli.» Un giudizio più o meno equivalente viene da Massimo D'Alema: «Si è colpevoli solo a sentenza definitiva, su questo non c'è il minimo dubbio. Quanto all'opportunità di candidarsi per una persona che fosse condannata in primo e in secondo grado per reati che abbiano una certa gravità, ci sarebbe un problema politico delicato, anche perché poi si dovrebbe essere eletti dai cittadini. Ma un impedimento giuridico non c'è». (Il quesito riguarda una pura ipotesi di scuola, perché Berlusconi è convinto di poter dimostrare la sua innocenza fin dal processo di primo grado per la corruzione di alcuni finanzieri, processo ripreso daccapo dopo la rinuncia del presidente del collegio del tribunale che aveva confidato in aula, durante una pausa, al pubblico ministero d'udienza, l'oppor-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tunità di usare con l'imputato ora il bastone ora la carota, erigendo all'istante un monumento almeno alla distinzione delle funzioni tra magistrati.) Come Giorgio e Ipr701ita 229
«Cossiga? Un leader lo fanno gli elettori»
A fine settembre '97, come abbiamo visto nel capitolo precedente, Francesco Cossiga riprende il piccone appeso al chiodo nel '92 e chiede una licenza di demolizione. Oggetto: Forza Italia e Berlusconi, visto che, come dice lui stesso, «Forza Italia senza Berlusconi non esiste». E il Cavaliere? Ignora demolizioni e paradossi e risponde così a una mia domanda sulla possibilità di convivere con l'ex capo dello Stato: «Cossiga ha una grande esperienza politica. Se ai partiti di centrodestra che oggi esistono se ne affiancasse un altro che avesse in Cossiga il suo leader, io non vedrei alcuna difficoltà a collaborare. Se Cossiga si metterà a capo di un nuovo partito cattolico, non credo che il suo programma potrà essere diverso da quello di Forza Italia. Una collaborazione non solo è possibile, ma è assolutamente auspicabile». (I sondaggi riservati di fine settembre accreditano a Cossiga un partito di almeno l'otto per cento, con l'assorbimento di Ccd, Cdu e Patto Segni e una erosione di un punto e mezzo su Forza Italia e di altrettanto sul Ppi.) Ma lei sarebbe disposto a cedere a Cossiga la guida dell'al-
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leanza? Berlusconi allarga le braccia: «Ma come possono inventarsi questi discorsi? La leadership la decidono gli elettori. Il leader di una coalizione non può essere altri che il leader del partito che ha più voti nella coalizione». Quindi se Fini... «Ma certo. Se Alleanza nazionale ottenesse più voti di Forza Italia sarebbero gli elettori ad aver consegnato a Gianfranco anche la leadership del Polo. E lei? «Sarei un alleato leale e disciplinato. Non mi si potrebbero certo mai addebitare comportamenti o dichiarazioni tali da diminuire il leader, disorientare gli elettori o indebolire la coesione dell'alleanza.» E possibile che si crei un asse politico-generazionale tra D'Alema e Fini? «Non credo che convenga a nessuno emarginare il centro moderato. E l'opinione pubblica non sopporterebbe l'unione di due culture che vengono una dal comunismo, l'altra dal fascismo.»
Senta, presidente: il Polo è nato per governare e molti dicono che non ce la farà a reggere a una lunga opposizione. «Non è facile, certo, tenere insieme una squadra quando tante aspettative sono state deluse, tante ambizioni frustrate. Ma stiamo imparando, e imparando bene.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Forza Italia ha conquistato dieci milioni di voti alle Europee del '94 e otto milioni di voti alle elezioni politiche del '96. In questi mesi si sta trasformando da movimento elettorale in movimento politico, con una organizzazione aperta e leggera, ma radicata in modo capillare su tutto il territorio per attuare una iniziativa politica più continuativa e per condurre le prossime campagne elettorali in modo più efficace rispetto al passato, anche a dispetto di provvedimenti ingiusti come la "par condicio" televisiva. Ricordo che le norme sulla "par condicio" ci hanno concesso meno del cinque per cento dello spazio in televisione, quando alle Europee avevamo avuto il trenta per cento dei voti... «La trovata della "par condicio", un provvedimento fantasma neppure mai discusso ed approvato dal Parlamento, fatto apposta contro di noi, per favorire le piccole e le nuove formazioni politiche, in primis quella di Dini, è di segno opposto al bipolarismo. Anzi dopo il tradimento della Lega e il mancato scioglimento delle Camere, la "par condicio" fu un altro colpo mortale al bipolarismo, perché la pari visibilità determina una grande frammentazione delle forze politiche anziché consentire ai grandi partiti di rafforzarsi così come meriterebbero se fosse a loro consentito di utilizzare uno spazio proporzionale alla loro forza elettorale, come sarebbe logico e corretto in una vera democrazia.» Ma sta nascendo per davvero il nuovo partito? «Per la verità è nato e cresciuto da tempo. è il partito della
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gente, è il partito del leader e della gente, è il primo ed essenziale baluardo della libertà nel nostro Paese. E i centoquindici congressi provinciali che si stanno svolgendo confermano che nessun altro movimento politico in Italia è espressione così diretta della propria base.» In che senso? «Nel senso che il coordinatore provinciale e gli otto membri della sua giunta sono eletti direttamente dagli azzurri della base, gente che si avvicina per la prima volta alla politica e che assegna il suo voto a chi ritiene più in grado di svolgere un buon lavoro per il movimento. E le assicuro che le scelte stanno avvenendo davvero sulla base della qualità delle persone, del loro livello culturale, della loro tensione morale, della loro passione civile. Sta nascendo un partito più liberale o più cattolico? «Forza Italia è un movimento cattolico-liberale. Il 67 per cento dei nostri aderenti si dichiarano cattolici. E tra i militanti prevalgono i giovani con una grande voglia di fare politica. Preoccupati soprattutto che possa nascere un regime illiberale e soffocante.» In conclusione che futuro assegna al Polo? «Se si vuol continuare a credere nel bipolarismo, il traguardo di un unico grande partito liberaldemocratico.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Menzogna, menzogna!» grídò il Cavaliere
«Uscimmo da palazzo Grazioli senza sapere che cosa avremmo incontrato...» Così Paolo Bonaiuti comincia il racconto di quel che accadde nel pomeriggio del 9 novembre '96, la giornata in cui il Polo fu protagonista a Roma della manifestazione antigovernativa più memorabile della sua storia pur breve. E passato un anno da allora. (E nell'anniversario, 1'8 novembre, '97, il Polo programma una manifestazione gernella.) I rapporti tra Berlusconi e il Ccd sono pessimi. (Berlusconi tarda a varare un governo ombra perché l'idea di doverci mettere Mastella gli toglie il sonno.) E prima di verificare come sono quelli con Fini conviene rivedere per un momento la giornata più forte del Polo all'opposizione, quella di massima coesione, che fece tremare Prodi e preoccupò non poco D'Alema. Torniamo dunque al racconto di Bonaiuti. Prima di diventare deputato di Forza Italia e portavoce di Berlusconi, Bonaiuti faceva il giornalista e ha raggiunto gli alti gradi della professione. Ma poiché le redazioni sono come le caserme e vi si scambiano ordini secchi, conditi di mòccoli, è difficile pensarvi coinvolto questo fiorentino che lo è nell'accento più che nel linguaggio all'arsenico della sua città. Fosse stato conosciuto da Tolstoj, Bonaiuti avrebbe avuto certo un posto di rilievo nello stato maggiore del generale Kutuzov in Guerra e pace, impegnato nel tracciare mappe e nel-
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l'immaginare strategie, ma anche - e con maggior gusto - nella selezione dell'annata di champagne da servire in tavola. «Berlusconi, Fini, Casini, Buttiglione e noi che li accompagnavamo fummo subito pressati da una folla assai più intensa e calda di quella che aspettavamo. Dovemmo fare una sosta in un albergo vicino alla stazione per riprendere fiato. Poi uscimmo di nuovo, per un chilometro andammo a piedi. Ma c'era una marmellata di folla, il servizio d'ordine fu travolto, tutti volevano toccare Berlusconi. C'era il rischio di restare schiacciati, furono chiamate le automobili per proseguire." La folla andava ingrandendosi ancora e nella strada che porta a San Giovanni, dov'era previsto il grande concentramento nella piazza storica dei comunisti dai tempi di Togliatti, un nuovo blocco costrinse il corteo a fermarsi. Fu chiesto asilo a palazzo Brancaccio, dove si stava celebrando una festa di matrimonio. Gli sposi furono lieti della sorpresa, reclamarono e ottennero di essere fotografati con i leader inattesi, fu socchiuso un balcone perché la giornata autunnale era calda. Berlusconi s'accostò ai vetri e seminascosto dai tendaggi guardò nella strada. Si vedeva la testa del corteo, poi la folla piegava in un'ansa all'altezza di palazzo Brancaccio e si perdeva senza che dal balcone il Cavaliere potesse scorgerne la fine. Berlusconi restò sorpreso dall'enormità dell'affluenza, del tutto inattesa nonostante l'ottimismo del generale Giannattasio che aveva curato la manifestazione.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Restò sorpreso anche dal gran numero di bandiere di Forza Italia e apprezzò la bellezza di alcune ragazze militanti del suo partito che passavano in quel momento. A Bonaiuti, toscano, fece piacere una fortunata circostanza: mentre Berlusconi guardava fuori dal balcone, semiprotetto dai tendaggi, sfilavano le delegazioni di Firenze, Livorno, Piombino. «Se questa è la Toscana...» si compiacque il Cavaliere, pensando a quanto sia «rossa» la regione del suo portavoce. Rientrò e andò a sedersi a un tavolo con Bonaiuti. Fini era seduto in un altro tavolo con la moglie Daniela e il portavoce Salvatore Sottile. Casini e Buttiglione passeggiavano nella stanza. Fu Buttiglione che incautamente accese un televisore. Nella sala risuonò un grido ripetuto: «Guardate, guardate!». Era la voce strozzata di Berlusconi. La diretta che il TG3 stava dedicando alla manifestazione mostrava in quel momento un gruppo di naziskin che cantavano un inno da naziskin. Chi conosce Berlusconi, anche soltanto attraverso la t, non l'ha mai visto in pubblico senza il doppiopetto d'ordinanza. Nessuno dei suoi collaboratori porta giacche sgargianti, capelli in disordine e cravatte fuori posto. C'è anzi il sospetto che qualcuno di loro, nel terrore di dimenticarlo, vada a dormire con l'abito scuro. Quel giorno di novembre, il cuore del Cavaliere s'era aperto vedendo una folla immensa e ordinata che sfilava dietro le bandiere del Polo. Poteva accettare che, sia pure per un momento, i telespettatori immaginassero una manifestazione
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
della destra estrema? Non poteva. E gridava: «Guardate, guardate!». Purtroppo, in quel momento il telecronista parlò della partecipazione di due-trecentomila persone, mentre ai dirigenti del Polo arrivavano dati vicini al milione (i giornali parleranno di ottocentomila partecipanti). «Menzogna, menzogna!» gridava Berlusconi. Casini e Bonaiuti cercavano inutilmente di calmarlo, Sottile chiamava Lucia Annunziata, arrivò una troupe del TG3 e la protesta del Cavaliere dilagò. Sui tavoli, le foglie sempreverdi essiccate, coriacee, dentate, orgogliose di essersi trasformate per Berlusconi in un profumatissimo tè, videro raffreddarsi irreparabilmente il frutto della loro stessa esistenza.
Berlusconi e Fini come Berenson e Caravaggio.
L'autunno del '96 è un momento felice per il Polo. I sondaggi (anche quelli commissionati dal Pds) lo danno vincente. Uno studio riservato della Swg di Trieste per Botteghe Oscure trova in una quota rilevante degli elettori di Forza Italia e in una percentuale appena maggiore di chi vota Pds la parte più moderna della società italiana. La parte più europeista, più innovativa, più aperta alle sperimentazioni scientifiche e - quel che sorprende per la sinistra - con un forte senso di identità nazionale.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE La stessa drammatica scelta di allontanarsi dall'aula durante le votazioni della Finanziaria («l'Aventino del Polo») è frutto della frustrazione della base parlamentare del centrodestra che non riesce a portare nella discussione d'aula la forza del consenso dimostrato dalla manifestazione di novembre. (Lo stesso D'Alema rimprovera riservatamente a Prodi un eccesso di deleghe al governo.) Pure uniti nella visione politica d'insieme e in una relazione personale sempre improntata alla massima cortesia reciproca, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini rischiano di oscillare tra il rapporto che Bernhard Berenson ebbe col Caravaggio e quello che Giorgio ha con Ippolita nel Trio1lfoella morte. Se il grande critico ammise che l'inquieto genio del Merisi per lungo tempo non venne a far parte della sua «intima cerchia anche dopo ripetuti incontri», il rimprovero di Giorgio all'amante nel romanzo dannunziano dipinge bene il rischio d'incomprensione reciproca dei due leader in alcuni momenti importanti.Tu provi in fondo all'anima una inquietudine, una specie d'impazienza vaga, che tu non sai soffocare. Standomi vicino, tu senti che qualcosa in fondo all'anima ti si leva contro di me...» E gli uomini del Polo che a cavallo dell'anno visitano la mostra antologica di Alberto Burri nel romano palazzo delle Esposizioni, trovano sinistri presagi nel passaggio dai volenterosi rammendi dei primi ""sacchl"" al tormento delle successive «combustioni» di lame sofferenti e composte che evol-
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vono tragicamente nel «tutto nero. Quando incontro Gianfranco Fini per un bilancio dell'anno politico del Polo che si è chiuso con l'estate del '97, lui mi parla davvero di Caravaggio Berlusconi come fosse Berenson: lo frequenta, ma non lo conosce. Prendiamo il discorso alla larga parlando del futuro di Alleanza nazionale. «Faremo un altro congresso,» mi dice Fini «ma non per stabilire nuovi principi dottrinari: quelli del '95 a Fiuggi sono validi oggi e lo saranno per il futuro. Le nostre coordinate culturali restano quelle. Fiuggi ha definito i valori, adesso dobbiamo definire meglio il nostro programma politico tenendo presenti due necessità. La prima: dobbiamo sottolineare meglio concetti già espressi, ma non tanto da diventare patrimonio politico comune nell'elettorato. Per esempio? "Le privatizzazioni. Se tuttora mi sento chiedere se siamo favorevoli o contrari alle privatizzazionievidentemente la colpa è nostra che non siamo riusciti a spiegarci a sufficienza.» E la seconda necessità? «è quella di dimostrare la nostra capacità innovativa sui temi chiave del futuro: economia liberale, solidarietà, stato sociale, libera iniziativa.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Filli: «Forza Italia? Non capisco che cosa sia»
Vorrei capire in che cosa la nuova Alleanza nazionale sarà diversa da Forza Italia. è qui che Gianfranco Fini diventa Bernhard Berenson. «Non lo so. Non ho capito qual è il programma di Forza Italia. Esiste un programma elettorale del Polo e in quello ci riconosciamo tutti. Ma il semplice fatto che Forza Italia non abbia mai fatto un congresso conferma l'impossibilità di una risposta alla sua domanda. Mentre dopo la nostra conferenza programmatica sarà facile capire dove il cammino di An sarà continuo o discontinuo rispetto al passato (non voglio più parlare di strappi di dottrina), per Forza Italia questo discorso è impossibile. Non esistono i precedenti...» Ma esisteranno pure delle basi sulle quali un elettore del Polo sceglie An piuttosto che Forza Italia e viceversa. «Prendiamo il Nord. Chi vota An ha un atteggiamento antisecessionistico molto maggiore dell'elettore di Forza Italia. I nostri consensi al Nord sono numericamente inferiori a quelli che abbiamo nel Centro-sud non per ragioni storiche [Resistenza e Repubblica di Salò], perché anche lì è passata molta acqua sotto i ponti. Accade invece che l'identità nazionale venga avvertita nel Nord meno che altrove. La vera differenza con Forza Italia sta qui, piuttosto che nelle venature più o meno liberiste del partito di Berlusconi. Se i parlamentari di Forza Italia eletti al Nord sono, come credo, lo specchio dei loro elettori, li
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sento pronti a riallacciare il discorso con la Lega. Lo stesso Berlusconi lo farebbe. Si ferma perché capisce che la secessione è una bestemmia. Ma lo fa a malincuore.» iE l'unica differenza? «L'altro aspetto presente invece su tutto il territorio nazionale è che il nostro elettorato avverte più di quello di Forza Italia la necessità di un rinnovamento politico profondo e ha una maggiore avversione verso il riciclaggio di certi personaggi della Prima Repubblica. Questo accade soprattutto per i quadri periferici di Forza Italia. Naturalmente questo non e un fatto negativo di per sé...» E i vostri quadri periferici non sono sostanzialmente quelli del Msi? «In alcune zone è così. Ci sono città in cui i voti del Msi sono passati da uno a cinque e anche da uno a dieci con la nascita di An, ma il gruppo dirigente è sempre lo stesso. Questo, per la verità, non è sempre frutto di una resistenza del vecchio gruppo ad aprirsi a forze nuove. In molti casi non c'è stata la disponibilità di quella che viene chiamata la società civile a entrare nella nuova squadra. Soprattutto i democristiani hanno fatto una certa resistenza. E questo è comprensibile. In certe zone lo scontro in passato è stato frontale e Tangentopoli lo ha acuito. è evidente che gli ex democristiani che hanno preferito il centrodestra per continuare a far politica abbiano preferito un terreno vergine come Forza Italia.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Ma insomma, lo stato di salute del I'olo qual è? «Se debbo guardare a quello che è accaduto tra l'estate del '96 e l'estate del '97 vedo luci e ombre. La luce sta nel fatto che il Polo non si è sfaldato. Dopo il voto nelle politiche del '96, molti scommettevano sull'effetto calamita. Questi, dicevano, cioè noi, non riescono a stare insieme, non hanno progettualità, perderanno le amministrative, il Polo ormai è finito... E poi quellialtro volo di fantasia... Quale? «Ma sì, il taglio delle ali. Si voleva ricomporre il bipolarismo emarginando la destra e la sinistra di Bertinotti...»
D'Alema e la gentaglia del regime.
E le ombre? «Avevamo detto: occorre andare oltre il Polo. E non ci siamo andati. Anzi, abbiamo visto che con la sua spregiudicata strategia togliattiana c'è andato D'Alema. Prima arruola Di Pietro, poi arruola i socialisti per la Cosa 2. Insomma, dico nei comizi, fa come le offerte speciali dei supermercati: con l'Ulivo paghi due e pigli tre. Eppure, come dice Cossiga...» Che dice Cossiga? «...Cossiga non fa mai osservazioni banali e dice che mentre all'apparenza D'Alema sembra prendere più soldati possibile da schierare in battaglia, in realtà persegue una strate-
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gia molto più raffinata.» Sarebbe? «Sarebbe che centro, destra e sinistra, le tre categorie della politica, le trovi tutte nell'Ulivo o comunque nella coalizione di centrosinistra che sostiene il governo Prodi. Bertinotti fa l'opposizione sociale, i moderati tranquillizzano i mercati. Si creano i presupposti reali per ricostruire quel modello che fece della Dc il partito-Stato.» D'Alema come i capi democristiani? «D'Alema sta cercando di fare del centrosinistra il luogo obbligato della mediazione come era la Dc. Ci sono stati momenti in cui il governo democristiano presentava certi provvedimenti e i parlamentari democristiani vi si opponevano. Ricorda la legge sulle televisioni o i registratori di cassa proposti da Visentini?» Il modello sarebbe questo? "Queste sono le prove di regime, come ha scritto Angelo Panebianco. Per cogliere la pericolosità del progetto e capire le differenze di fondo rispetto all'epoca democristiana, bisogna guardare al ruolo di Berlinguer nella scuola e al ruolo delle procure della repubblica. Per esempio? «La Dc perde la sua battaglia storica nel momento in cui lascia alla sinistra l'egemonia, intesa proprio in senso gramsciano, all'interno della magistratura e all'interno della cul-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tura. La tenaglia che sgretola il vecchio sistema politico è formata dai provvedimenti dei giudici e dalla mobilitazione degli intellettuali. Forse drammatizzo, ma se tu hai da un lato una maggioranza onnivora che comprende il centro, la destra e la sinistra e dall'altro l'asse tra procure della repubblica, mondo dell'informazione e mondo della cultura... La Turco pensa ai giovani in chiave di famiglia, Berlinguer in chiave scolastica, Veltroni in chiave di spettacolo...» E il Polo?
FINE prima parte.
Con Giorgio Ippolita, Il futuro del Polo sta nella capacità di non confondere l'accordo con il centrosinistra in Bicamerale con un armistizio. Se non stiamo attenti, rischiamo di contribuire alle prove generali per il prossimo regime... Dopo le picconate autunnali di Cossiga, anche lei sogna di sciogliere Forza Italia? «Nemmeno per idea. Guardi che neanche Cossiga vuole farlo. Sa benissimo che non è possibile, fino a quando Berlusconi resterà in politica.» E allora? «Usa questa provocazione per far capire meglio il suo disegno: la nascita di un nuovo contenitore di centro. Lui vuole mettere in moto un meccanismo che riunisca i cattolici mo-
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derati. I seguaci di Dossetti - in questo Cossiga ha ragione resteranno necessariamente dall'altra parte. Vuole creare un centro che sia autosufficiente come alternativa alla sinistra.» Autosufficiente significa che pensa di dare il benservito ad Alleanza nazionale. «Cossiga vede il rapporto del nuovo centro con noi come quello dell'Ulivo con Rifondazione. Oggi senza Rifondazione il centrosinistra non vince, ma spera di vincere domani. Così chi lavora per un nuovo centro a base cattolica immagina un'alleanza con noi se siamo indispensabili, sperando poi di farne a meno. Credo che sia lo stesso disegno immaginato sulla lunga distanza da De Mita e Martinazzoli." E lei che fa? A me che il centro si riorganizzi e diventi più forte va benissimo. Il mio compito è di rafforzare la destra in modo che il centro non sia autosufficiente.» Ma Cossiga e Berlusconi potranno mai collaborare? «Cossiga vuole trainare Forza Italia. Le due personalità sono molto forti, ma la loro collaborazione è obbligata.» "Ma quale Padania. Viva la Serenissima!»
Il Castello di Utopìa.
Nél tramonto della tarda estate il Mulino del Sale domina la lingua di terra di Formentera, l'isola catalana dove la li-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE bertà profuma nei paesaggi, negli abiti, nel cibo e nell'amore. Chi guarda verso Ibiza vede spuntare nella caligine della sera un castello incantato. Sulle mappe viene indicato come un'isola, l'isola di Vedrà, un enorme triangolo di pietra appoggiato sul mare. Chi su una barca voglia sondarne da vicino il mistero riconoscerà presto il profilo grifagno di Gianfranco Miglio scolpito nella roccia. Ma poco dopo, quando il lato superiore del triangolo s'impenna sulla destra, compare senz'ombra di dubbio il profilo minaccioso e sacrale di Umberto Bossi. Quella che le mappe indicano come l'isola di Vedrà, è infatti uno dei Castelli di Utopìa. L'Utopìa Secessionistica di Bossi che vola inquieta ora qui in Catalogna, ora in Scozia dopo il referendum autonomista voluto da Tony Blair nell'autunno del '97. I catalani hanno una loro storia e una loro lingua, ben distinta sulle insegné da quella castigliana di Madrid. Gli scozzesi parlano ancora in qualche distretto il gaelico, furono un regno che fece guerra e pace con l'Inghilterra e una regina come Maria Stuarda ci rimise anche la testa. E la Padania, amata anche dai sudisti lettori di Gianni Brera detto Giuanìn, non sarà forse soltanto un luogo dello spirito?
Bossi sveglia Maroni: «Sono i servizi»
Alle quattro del mattino di venerdì 9 maggio 1997 Umber-
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to Bossi si trova inaspettatamente l'Utopia stampata sul televideo. Il Senatùr è rientrato da poco in casa. Per lui la notte è il cuore della giornata: scrive, legge, lavora. Andrà a letto allo spuntar dell'alba. Accende il televisore e guarda il televideo. Guardare il televideo alle quattro del mattino richiede un notevole sforzo di volontà. A quell'ora nel mondo non accade assolutamente nulla. In America la giornata è finita, in Estremo Oriente è appena cominciata, l'Europa dorme. Può sempre capitare che un aereo sia precipitato in Australia. O che sia saltato in aria il Quirinale. Improbabile, ma possibile. Nel dubbio, Bossi accende. Accende e gli viene un colpo. «Commando del Veneto Serenissimo Governo ha occupato il campanile di San Marco.» Bossi si attacca al telefono, sfonda la segreteria telefonica perpetua di casa Maroni, racconta a Roberto la storia e gli dice: «Ci sono dietro i servizi. Questa è una provocazione. Voglio scoprire il loro gioco. Dobbiamo rispondere e denunciare questa manovra. Chiama Roma". Riaggancia con Maroni e sveglia Stefano Stefani, presidente della Lega e veneto di Vicenza, gli racconta la storia, chiama in causa i servizi e la provocazione, ma non gli dice di chiamare Roma. Stefani infatti non è stato ministro dell'Interno come Maroni: è un imprenditore orafo che da quando si trova ingabbiato in Parlamento conta ogni giorno i soldi che perde, nonostante tenga la moglie al pezzo.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Maroni non trova nessuno di quelli che vorrebbe trovare (il capo della polizia è in volo, di rientro dall'America), chiama prefetture e questure, ma insomma il golpe non gli si materializza in mano. «Appena quelli del commando vengono catturati» mi racconta «proviamo un sollievo immediato. Il mio timore era che li tenessero a cuocere lì sopra per un paio di giorni e che magari pOi Ci scappasse il morto.» Ma Bossi mette in campo l'artiglieria. S'è fatto appena giorno che detta alle agenzie:è una roba da matti. Una provocazione. Chiedete al Viminale per saperne di più». E da Washington, dove la notizia dell'attacco a San Marco gli ha mandato di traverso una cena in ambasciata, il ministro dell'Interno Napolitano ribatte: «Quello di Bossi è un delirio». Mentre Gianfranco Miglio si duole di non essere stato anche lui sul campanile, ai leghisti del Veneto la reazione del Senatùr non va giù. Enzo Flego, ex deputato veronese, uno di quelli che se Bossi gli ordinasse di annegare nell'Adige non batterebbe ciglio, si sfoga con Maroni: «Umberto stavolta sbaglia. Siamo sommersi da telefonate e fax di protesta. La nostra gente sta con quelli del campanile. Si scopre, infatti, che molti veneti sono stati disturbati dall'immagine pluritrasmessa in tutto il mondo del carabiniere del Gis che strappa la bandiera di San Marco dal finto blindato del commando. Maroni continua a non vederci chiaro. «La storia dei Gis che
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non avevano l'aereo pronto e son dovuti andare in pullman non mi convince. è possibile che abbiano voluto guadagnare tempo» mi dice ancora a fine estate. Sospetta che qualcuno dei servizi si sia realmente infiltrato in questa storia, ma la campagna contro la provocazione finisce subito. E quando qualche mese più tardi incontro Bossi, lui non si rimangia quasi niente sul Viminale, ma è più prudente col commando. «Una robetta, un teatro come quello del campanile può aprire il varco alla strategia della tensione. Per fortuna io lo dissi subito, bloccando manovre che potevano avvenire, anche se qualche bombetta vicino a sedi della Lega poi si trovò. Io sono convinto che chi fa i complotti nel modo migliore è lo Stato. Come diceva Silone, rendono di più e non hanno i rischi dei complotti veri. C'era il pericolo che, per spaventare la gente, tirassero delle bombe magari accusando noi.» Ma gli uomini del San Marco hanno sbagliato o no? Qui Bossi, memore delle reazioni venete, si fa prudentissimo: «La risposta sta nella terra di nessuno. Rispetto alla necessità di sostenere l'indipendenza della loro terra, non hanno sbagliato. Rispetto ai mezzi usati, secondo la legge vigente hanno sbagliato. Se oltre al cuore non ci si mette il cervello e qualcos'altro, si resta bambini. E quelli ci hanno messo il cuore... «Sì, ma questo ha avuto una sua importanza. Il coraggio dell'azione, per quanto sgangherata, resta. E poi si è dimo-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE strato quel che io sapevo: il popolo non vuole aspettare più. Quelli di San Marco son diventati simpatici a tutto il Nord e questo deve rendere cauti. Quando il popolo ritiene necessaria un'insurrezione, questa riesce. E se il popolo sorride dinanzi a un'operazione simbolica, vuol dire che ha maturato dentro di sé una certa convinzione." Cioè sarebbe pronto a insorgere? «Tutti, tranne i ciechi che non vedranno mai, sanno che al Nord c'è un popolo favorevole dentro la sua coscienza ad accettare l'insurrezione. E se il popolo sente questi meccanismi come assolutamente necessari, l'insurrezione può riuscire. Ma attraverso questa via si può arrivare alla secessione? "'Il Nord è potentissimo. In due settimane prende a calci in culo tutti. Basta, finito, non puoi resistere. Il Nord è una potenza sterminata come l'oceano. Puoi separare l'oceano? Quando si passa dalle parole ai fatti secondo me mettono il fazzoletto verde anche i carabinieri. E se Scalfaro insiste, mettono il fazzoletto verde anche a lui. [I leghisti ci proveranno, quasi, domenica 21 settembre a Verona e successivamente a Brescia, a Mestre e in altre città « padane.] Però..." Però... «Però io rispetto la forza dello Stato.» La forza o l'autorità dello Stato? «La forza fisica. Di autorità lo Stato non ne ha più. Sono ciarlatani, truffatori, statalisti. Il peggio che c'è sulla faccia della terra sta qui.»
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Riepiloghiamo: il Nord, se vuole, in due settimane mette il fazzoletto verde anche a Scalfaro, ma Bossi rispetta la forza fisica dello Stato. Qual è allora la strada per la secessione e l'indipendenza della Padania? «La secessione avverrà attraverso la legalità democratica, cioè attraverso il voto della gente. La Padania unisce tutto, la destra e la sinistra. Se la gente comincia a percepire Berlusconi come antipadano, lui qui chiude baracca e deve comprare casa a Roma.» Quanti anni ci vorranno? «Siamo arrivati.» La prima tappa, come previsto, è la proclamazione della «doppia legalità», a Venezia il 15 settembre, giornata della «Repubblica Federale Padana. E quando l'ormai famosa signora Lucia gli sventola il tricolore dal balcone, lui le grida: «Buttalo nel cesso"" prendendosi il mese dopo un nuovo avviso di garanzia.
Una notte di maggio, a San Marco
«Sono orgogliosa di lui.» Com'è minuta, Graziella Corvi sposata Peroni. Più minuta della foto grande che sta appesa nella parete del tinello. Luca sposa Graziella e dove la porta in viaggio di nozze? A Famagosta, porto orientale di Cipro.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE C'era da giurarci. «Grande battaglia, una delle più grandi» mi spiega Luca Peroni.1570, anzi no, 1571 perché l'assedio dei turchi è cominciato nel '70 ed è durato dieci mesi.» Chi è l'eroe veneziano ucciso a Famagosta? Marcantonio Bragadin. Come si chiama il figlio appena nato di Luca e Graziella? Marcantonio. E se fosse stata una femmina? Serena, come la Veneta Repubblica. «Dopo quattro mesi che ero incinta facemmo l'ecografia e sapemmo che era maschio» mi dice lei. "Ma i due nomi erano già pronti. Luca sfoglia un gran libro sui Dogi con la tenerezza con cui sfiora il suo Marcantonio.L'ho comprato insieme con un amico, costa più di un milione. Ha visto che bel libro sulla Serenissima ha fatto il Poligrafico dello Stato italiano?» Marcantonio Peroni dorme. Non sa che per nome porta un'idea. E soprattutto non sa che il suo papà per quell'idea s'è beccato quattro anni e nove mesi di reclusione per sequestro di persona, dirottamento, porto abusivo d'armi da guerra, occupazione di piazza San Marco a fini eversivi. Due mesi esatti di carcere, poi gli arresti domiciliari con divieto assoluto di contatto con l'esterno. (Ho potuto incontrarlo qui nel tinello di Caldiero, provincia di Verona, soltanto con un permesso del sostituto procuratore Rita Ugolini che al processo ha sostenuto l'accusa.) Marcantonio è ancora nella pancia di Graziella quando il 6 maggio Luca scompare. «è partito per lavoro» mente Gra-
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ziella alla madre («Altrimenti mi linciava"). Torna a casa per pochi minuti la sera del 9. «Andiamo a prendere il campanile di San Marco» le dice. Lei col pancione gli risponde come fanno le mogli di chi va in guerra:"Sta' attento, torna. Ma sia Luca che Graziella sanno che sta per cominciare uno scherzo senza ritorno. Almeno nell'immediato. Lei va a dormire in casa della mamma, ma resta con gli occhi fissi al soffitto. Marcantonio le nuota nella pancia, lei pensa al papà. Alle sei del mattino si alza piano, accende il televisore, vede il blindato in mezzo a piazza San Marco, che qui tra i «serenissimi» chiamano familiarmente «tanko», sa che Luca sta lì dentro insieme con un ragazzo più giovane, Cristian Contin, e si lascia scappare: «Finalmente l'ha fatto". Arriva la mamma, scopre in diretta quelia che sembra una tragicommedia, non lincia Graziella e invece esclama: «Finalmente c'è uno che ha due marroni così". I fratelli non apprezzano. «è un pazzo, gli daranno l'ergastolo., Il «tankoè un blindato fatto in casa nell'arco di oltre dieci anni: la sua stessa esistenza ne ha fatto a lungc prima un convitato di pietra della rivoluzione serenissima e poi la ragione stessa per operare. Ma quando in casa di Graziella Corvi sposata Peroni si accende il televisore alle sei del mattino, dentro il serenissimo campanile di San Marco ci sono altri sei uomini. Il capo del commando è Fausto Faccia di Agna (I'adova), trent'anni compiuti in carcere a fine ottobre. Lavorava col pa-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dre in un'azienda per la costruzione di macchine agricole. Gilberto Buson, capelli lunghi, quarantasei anlli, moglie e cinque figli a Cartura (Padova), artigiano tessile, è uno dei capi del gruppo. Come Flavio Contin, 7io di Cristian, che ha una ditta di impianti elettrici, vive da scapolc) COIl la madre novantunenne a Casale di Scodosia (Padova) ed è stato uno dei fondatori della Liga Veneta, dalla quale si dimise presto. In casa sua si è costruito il «tanko". L'artefice principale ne fu Luigi Faccia, fratello maggiore di Fausto. Perché un «tanko»? «C'è chi si fa un complesso rock, chi un ''tallko''. Mio fratello ha scelto il "tanko".» Nel campanile, con radio, sacchi a pelo e vettovagliamento da assedio, ci sono anche Antonio Barison (trentuno anni, Conselve, Padova), assemblatore di materiale elettrico. Moreno Menini, vent'anni, studente modello di Casale di Scodosia (Padova), rifiutato dalla Lega - scrive Alvise Fontanella nel suo libro Il ritorno della Serenissima - perché considerato una testa calda (ma a fine settembre prenderà un bel 28 all'università). Infine, Andrea Viviani (ventisei anni, Colognola ai Colli, Padova), operaio alle Vetrerie Riunite. Saranno arrestati in un secondo momento Giuseppe Segato, l'ideologo del gruppo, che avrebbe dovuto trattare con lo Stato italiano la restituzione di San Marco. Luigi Faccia, fratello di Fausto, uno dei fondatori del gruppo. E Severino Contin, padre di Cristian, che accompagna il commando fino all'imbarco di piazzale Roma.
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Da Radio Padova al TG1
Il gruppo passa all'azione a fine estate del '96, ma nessuno se ne accorge. «Ci sarebbe piaciuto diffondere via radio messaggi nel Veneto, ma quando provammo a sfondare su Radio Padova nelle modulazioni di frequenza, ci accorgemmo di non avere la potenza sufficiente.» Il racconto è di Fausto Faccia, che incontro nel carcere di Modena. Faccia è un bel ragazzone che parla bene e come vedremo ha idee molto chiare e assai meno estremiste di quelle di Umberto Bossi. «Bossi aveva annunciato per il 15 settembre del '96 la proclamazione della Padania e noi volevamo anticiparlo. Riuscimmo a inserirci per quindici giorni sulle onde medie, ma sono poco ascoltate e dei nostri messaggi non si accorse nessuno.» Esperti di elettronica, i nipoti della Serenissima fanno una scoperta clamorosa: inserirsi nel TG1 della Rai è più facile che disturbare Radio Padova. «Ci piaceva fare azioni non violente. Il fantasma che colpisce e fugge. Lanciammo il primo messaggio nel TG1 la sera del 17 marzo '97, facendo un errore madornale per eccesso di scrupolo. Faccia attrezza la sua Land Rover con le apparecchiature radio, la carica in modo che il tetto dell'auto sia alto: vuole che i custodi del parcheggio di piazzale Roma a Venezia sia-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE no costretti a permetterne la sosta sul terrazzo del garage e non all'interno. La targa è quella regolamentare. «Avremmo dovuto mettere una targa falsa,mi dice «ma avevamo paura che il computer del garage fosse collegato con quelli della polizia e che in questura si accorgessero presto dell'irregolarità, mandando subito una pattuglia.» Alle venti in punto, Faccia, Peroni e Cristian Contin lanciano nell'etere il loro messaggio: «Questa non è la Rai. Chi vi parla è l'organo ufficiale del Veneto Serenissimo Governo, istituitosi fin dal 1987 e operante in forma semiclandestina come in questo momento, al solo scopo di liberare la Veneta Patria...". Segue un lungo (e assai ambiguo) messaggio (per esempio, si parla dell'«umiliazione subìta dalla Serenissima Veneta Patria occupata dalle forze italiane che la invasero centotrent'anni or sono senza diritto alcuno, provocando guerre d'aggressione, lutti, miserie», che è una lettura quantomeno innovativa del Risorgimento). E si annuncia la convergenza, il 12 maggio '97, in piazza San Marco di «tutti i veneti che si riconoscono nella Veneta Serenissima Repubblica per bloccare l'infame quanto sciagurato tentativo, da parte delle forze d'occupazione e dei lacchè veneti che a esse si sono venduti, di festeggiare i duecento anni della cosiddetta "caduta" della Veneta Serenissima Repubblica». In realtà, come riconosceranno nei nostri colloqui gli stessi componenti del Serenissimo Commando, se lo Stato italiano compie una mancanza, non è quella di «festeggiare" il pas-
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saggio del Triveneto all'Austria con il trattato di Campoformio (12 maggio 1797) in cambio del passaggio alla Francia delle Fiandre austriache e del riconoscimento della Repubblica Cisalpina, a conclusione della campagna di Napoleone in Italia. Festeggiamento peraltro mai avvenuto. Il difetto imperdonabile è quello d'ignorare la storia patria, seme d'ogni orgoglio e radice. Così i romani pensano che Cola di Rienzo sia soltanto il nome di una strada dove si vendono scarpe, siciliani e sardi ignorano che le loro isole furono scambiate tra austriaci e Savoia come fossero album di figurine, dall'Abruzzo alla Puglia si sente parlare di Federico II senza un perché, i lombardi conoscono (in grande minoranza) Carlo Cattaneo soltanto di nome (come capita a Firenze per i Medici e a Parma per Maria Luigia), mentre nelle scuole venete non s'insegnano i secoli d'oro`della Serenissima. Fausto Faccia, dunque, lancia i suoi proclami da un'auto regolarmente targata e quando l'indomani scoppia il pandemonio la polizia, con notevole efficienza, lo individua in pochi giorni. I proclami vengono ripetuti da varie città del Veneto tra la fine di marzo e l'inizio di aprile, i giornali nazionali pubbli-
cano la notizia ormai su una colonna nelle pagine interne, i ministri allargano le braccia dicendo che non c'è niente da fare per impedire l'imbarazzante disturbo. E invece nel
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Profondo Serenissimo Veneto la Digos ha già individuato Fausto Faccia, Andrea Viviani e Cristian Contin. La casa di Faccia viene addirittura perquisita. «Tremai» mi dice «all'idea che andassero da Flavio Contin e trovassero il "tanko". Fu una delle ragioni per accelerare l'impresa di San Marco.» Gli altri due ragazzi si trovano le auto civetta sotto casa in maniera scoperta. «La moglie di un nostro simpatizzante, Franco Licini,» continua Faccia «la fece proprio sporca perché consegnò ai carabinieri, l'abbiamo saputo dopo, una busta con alcuni nostri documenti. Documenti si fa per dire, perché c'erano gli schizzi del famoso "tanketto" [un altro mezzo non utilizzato nell'azione] e un nostro piano.» Un mese prima dell'azione di San Marco, dunque, il commando è stato scoperto. E resta da chiedersi perché non sia stato fermato, visto che aveva fatto sapere di voler colpire nel cuore di Venezia fin col primo annuncio del 17 marzo. Anche se Faccia sostiene che bloccare il commando prima che agisse non era possibile: «Come facevano ad arrestarmi? A che titolo l'avrebbero fatto? La stessa sera dell'azione a Venezia, se mi avessero fermato, avrei detto che andavo a trovare una donna». Vistisi pedinati, comunque, i Serenissimi decidono tre cose: smetterla con i disturbi al TG1, condurre una vita del tutto normale e anticipare di tre giorni l'azione a San Marco: al 12 maggio sarebbe stato difficile arrivarci, nonostante la polizia mo-
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stri sorprendentemente di non intervenire.
All'attacco, col Serenissimo Tanko.
Gli uomini del commando si riuniscono tre giorni prima dell'azione in un luogo rimasto estraneo all'inchiesta. Con loro, finalmente pronto, c'è un simulacro di mezzo blindato (il famoso «tanko») che darà al mondo l'immagine fisica dell'occupazione militare di San Marco, visto che poggiare quattro ruote su quel serenissimo acquatico pavimento è una roba da sturbo. Mi racconta Cristian Contin, che ha compiuto in agosto ventitré anni: «In casa dello zio Flavio ho visto quel "tanko" in costruzione quando avevo sei o sette anni. Mi dicevano che era una ruspa da portare alla fiera di Padova. Poi quando ne avevo quattordici, una decina d'anni fa, mio zio ha cominciato a farmi capire a che cosa serviva». Il «tanko» è un mezzo blindato vero e proprio, che al posto dei cingoli ha le ruote. Le bocche da fuoco sembrano perfettamente funzionanti, in realtà per l'azione di San Marco non saranno messe in condizione di sparare. «Lo costruimmo» mi spiega Fausto Faccia «negli ultimi anni della "guerra fredda" pensando ad azioni di autodifesa, se ci fosse stato qualche problema con l'Est.» Pur mettendo
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE in conto la sindrome da «soglia di Gorizia» che da queste parti è stata sempre piuttosto forte, resta improbabile la prospettiva che il «tanko» di Faccia, Contin e Buson potesse opporsi alle colonne corazzate di Breznev, sia pure passando alla storia come i ragazzi di Budapest e quelli di Tien-An-Men a Pechino. Più realistica mi pare l'altra ipotesi avanzata da Fausto Faccia nel nostro colloquio autunnale nel carcere di Modena: «Abbiamo avuto per qualche tempo l'idea di fare un'azione dimostrativa davanti a una caserma. Andare col "tanko", seminare un po' di confusione e scappar via. Ma si rischiava troppo». Il sogno vero, in realtà, era un altro: riprendersi militarmente Palazzo Ducale, sede del governo dei Dogi. Mi dice Luca Peroni, il padre di Marcantonio: «Il palazzo è enorme. Abbiamo pensato di occupare qualche sala, appendendo cartelli e bandiere. Ma serviva troppa gente. E abbiamo rinunciato». Mi racconta Fausto Faccia: «Ci eravamo stancati di fare volantinaggio e di attaccare manifesti che un minuto dopo gli autonomi tiravano via. Avevamo pensato perfino di comperare un elicottero per fare volantinaggio sulla piazza come D'Annunzio su Vienna. Ma costava troppo. Già così ci siamo dissanguati...». Resta il campanile di San Marco: un obiettivo più facile, meno carico di simboli, ma più spettacolare. La sera in cui si parte, Cristian Contin si trova davanti al «tanko» con lo zio Flavio e col padre Severino, che accompagnerà il commando
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fino al Tronchetto, luogo d'imbarco («Ero l'unico abilitato a condurre un autotrenomi dice). Flavio consiglia al ragazzo di andar via."Io resisto, voglio partecipare a tutti i costi» mi racconta Cristian. «Mio padre mi lascia libero di decidere.» Severino, anche lui nel carcere di Modena, conferma sospirando:I figli seguono sempre le orme dei padri». Venerdì 9 maggio- la mezzanotte è passata da venti minuti - gli otto si presentano all'isola di Tronchetto, dove sta partendo l'ultimo traghetto per il Lido. Ordinano al comandante Giovanni Girotto di far salire il «tankoe il camion di supporto. Girotto li scambia per «lagunari, un reparto speciale dell'esercito di stanza a Venezia, e obbedisce. Fausto Faccia ha un mitra, un vecchio moschetto automatico Beretta. («Stava nascosto in una cisterna e l'ho presomi dice.) Tutti i testimoni dichiareranno al processo che Faccia non punta mai l'arma contro le persone, ma la tiene rivolta sempre verso l'alto. Il tragitto dura venti minuti ed è tranquillo. A bordo del traghetto ci sono soltanto tre inconsapevoli passeggeri che restano chiusi al bar. A San Marco, il commando trova ad aspettarli carabinieri e polizia. 112 e 113 sono stati messi in allarme da due telefonate, sei e dieci minuti dopo l'attacco al traghetto. «Soltanto quando ho visto che dei carabinieri stavano per salire a bordo,» mi racconta Facciaho inserito il caricatore per far vedere che facevamo sul serio." Dirà un militare al processo: «Faccia gridava: "Ve tiro zò
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tuti, ve copo!"». («Vi stendo tutti, vi ammazzo.") Ma l'arma resta provvidenzialmente rivolta al cielo. Carabinieri e polizia desistono, in attesa di ordini. Sei del commando guidati da Faccia e da Buson salgono ai diversi livelli del campanile, Cristian Contin e Luca Peroni guidano il «tanko» davanti alla basilica e creano l'inquadratura che fa il giro del mondo. Mentre comincia la trattativa e i carabinieri antiterrorismo del Gis partono da Pisa, Contin e Peroni dall'interno del blindato dicono che occorre aspettare l'«ambasciatore» della Serenissima Repubblica. Sarebbe Umberto Segato, l'ideologo del gruppo, che sarà arrestato più tardi e che in effetti arriva, ma nessuno se ne accorge perché già alle otto e mezzo del mattino il Serenissimo Commando sarà tutto ingabbiato.
Ho chiesto ai sei uomini che ho incontrato nell'autunno successivo (i tre più giovani agli arresti domiciliari, gli altri nel carcere di Modena) come potevano pensare che lo Stato se ne sarebbe rimasto tre giorni con le mani in mano a perdere ogni reputazione col mondo intero in attesa del fatidico 12 maggio, anniversario della caduta della Serenissima. E nessuno ha saputo darmi una risposta convincente. Per prender tempo avrebbero dovuto minacciare il monumento o prendere un ostaggio. Ma questo sarebbe stato in contraddizione con il loro amore per Venezia e il carattere non violento dell'azione. I collegamenti radio tra il «tanko» e i diversi piani del cam-
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panile dove si sono sistemati i sei del commando sono perfetti. Alle sei e mezzo, chi sta guardando Rai Uno sente questo annuncio: «Attenzione. Il Veneto Serenissimo Governo ha occupato il campanile di San Marco, Viva San Marco. Viva la Serenissima».
«Non fare scherzi. Ti sparo in testa»
Alle otto arriva il sindaco, Massimo Cacciari. Faccia scende nella parte bassa del campanile e il sindaco gli dice: «Ormai la notizia ha fatto il giro del mondo, le immagini della piazza col blindato sono state trasmesse da tutti i telegiornali della terra, avete raggiunto il vostro obiettivo. Che senso ha insistere?». Poi il sindaco chiede garanzie sulla sicurezza del monumento. Mi racconta Faccia:"Cacciari mi chiedeva se c'erano rischi di incendio e io gli rispondevo di no. Signor sindaco, gli dicevo, veda di prendere in mano la situazione lei, che abbiano un po' di pazienza... Gli stavo dicendo questo quando mi hanno chiamato via radio Luca e Cristian dal "tanko". Io prima gli avevo detto di non farsi intimorire, di avere più energia, di mettere in moto, ma capivo che la stanchezza stava arrivando anche per loro. Poi i rumori. Allora ho capito che stavano entrando. Mi sono affacciato sui gradini e ho vi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sto tre mitra spianati. Ho detto: è finita». Faccia: «Aspettate, stiamo parlando col sindaco...». Gis: «Non ce ne frega niente. Non fare scherzi, altrimenti ti spariamo nella testa".
Faccia: «Non sparate. Ci sono le taniche di benzina!». Gis: «Peggio per te. Noi abbiamo le tute ignifughe». Faccia:Voglio parlare di nuovo col sindaco». Gis: «Va bene, allora mandaci un altro al posto tuo». Arriva Flavio Contin con le mani alzate e si consegna ai Gis. «Andai verso la porta» mi racconta Faccia «per vedere se Cacciari c'era ancora. Ma invece del sindaco, trovai altri tre Gis con i mitra spianati. Mi hanno preso, buttato fuori e il discorso si è chiuso lì. Mi racconta Luca Peroni, che sta con Cristian Contin nel blindato: «Dalla feritoia del "tanko" vedevo i Gis sulla piazza. Dal megafono continuavo a dire di stare tranquilli, non avremmo fatto del male a nessuno, bastava aspettare l'arrivo del nostro ambasciatore. Stavo parlando via radio con Andrea Viviani nel campanile, quando ho sentito un gran rumore. Viviani mi ha detto: sono arrivati, ciao, chissà quando ci rivedremo. Allora ho detto a Contin che era con me: che facciamo, andiamo via anche noi? In quel momento ho sentito che strappavano i fili del mitico lanciafiamme, un Gis è saltato su da dietro, noi abbiamo detto: ci arrendiamo, siamo disarmati e siamo usciti con le mani alzate». (Secondo Alvise
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Fontanella, uno dei Gis disse ai due ragazzi: «Stiamo applicando l'esplosivo", facendoli schizzare come molle.) Mi racconta Gilberto Buson: «Sentiti i rumori, stavo tranquillizzando gli altri che nella cella campanaria dove stavo io la situazione era sotto controllo. Scesa una rampa di scale, ho visto una immagine che mi ha offeso: Antonio Barison completamente nudo con le mani dietro la nuca, gli avevano sfilato i pantaloni, tolto tutto, lo percuotevano. In quel momento sono arrivati alle mie spalle due Gis. Ho fatto in tempo a vedere soltanto la loro testa. Mi hanno ordinato di fermarmi e di poggiare in terra quello che avevo, un paio di binocoli e una ricetrasmittente. Mi hanno legato le mani dietro la schiena con materiale da elettricisti e pensavo che fosse finita lì. Ero con la faccia rivolta al muro, loro erano alle mie spalle. Ho sentito allora un colpo terribile sull'orecchio che mi ha fatto perdere conoscenza. Mi sono ritrovato non so come alla base del campanile». (Secondo quanto ha ricostruito Fontanella, a seguito delle testimonianze nel successivo processo e delle perizie giudiziarie, è possibile che Barison abbia subìto una perquisizione ruvida e che il grave malore da lui accusato subito dopo sia frutto di un colpo ricevuto al collo al momento dell'arresto. Secondo i carabinieri, invece, Barison avrebbe avuto il malore alla vista dei Gis. Sembra comunque accertato un suo tardivo ricovero in ospedale. Gilberto Buson, secondo il perito
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE medico della Corte d'assise, ha subìto la «perforazione di tre millimetri del timpano destro provocata da un colpo».) Due mesi più tardi, gli otto del commando vengono giudicati in Corte d'assise a Venezia. I più vecchi (Faccia, Buson, Barison e Flavio Contin) vengono condannati a sei anni, i più giovani (Cristian Contin, Menini, Peroni e Viviani) a quattro anni e nove mesi con il beneficio degli arresti domiciliari.
Pane e salame con i «patrioti Conti1l"
Arrivo all'ora di pranzo a casa di Cristian Contin. Sul tavolo del tinello c'è una copia del «Gazzettinodel 15 settembre '97: «Bossi: Padania nata, Italia divisa. Nessuno sembra interessato. Cristian è agli arresti domiciliari a Urbana, un paese del profondissimo Veneto, tra Padova, Verona, Vicenza e Rovigo. Mi accompagna il suo difensore, Luciano Gasperini, che è anche senatore della Lega e ha una bellissima Mercedes cabrio da «gran rimorchio» che guida serenamente a sessanta all'ora. Il padre di Cristian, Severino, e lo zio Flavio, fratelli gemelli, sono in prigione. Il primo è sotto il procuratore di Verona, Papalìa, per reati di sovversione, il secondo è uno dei serenissimi di piazza San Marco. La famiglia (moglie e cinque figli) viene mantenuta per ora dalla figlia maggiore Jessica e da Valentino, il fratello più vecchio di Flavio, che ha girato il mondo a mettere le luci ai negozi Benetton e adesso
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è rientrato a prendere in mano l'aziendina elettrica dei fratelli. Lui non può entrare in casa perché uno zio non è parente stretto e gli arresti domiciliari sono severi. Mi racconterà più tardi che Flavio, scapolo, vive con la mamma di novantuno anni. Quando è partito per l'avventura di San Marco, ha provato a farle credere che andava in Svizzera. Ma lei aveva capito tutto e gli disse: «Flavio, qualunque cosa tu faccia, cerca di non farti del male e soprattutto non farne a nessuno. La signora Contin ci prepara pane e salame, mette in tavola un vino rosso leggero conservato in una grande bottiglia dell'acqua minerale. La casa è piccola, modesta, ordinata. Fino al maggio del '97 deve essere stata anche serena. Intorno alla tavola, con Cristian e la mamma, ci sono le quattro sorelle: Jessica ventun anni, Jenny diciannove, Teresa quattordici, Veronica sette. Non sapevano niente di quello che stava per capitare addosso alla famiglia. L'hanno scoperto alle sette del mattino del 9 maggio. Il racconto è collettivo: «Quelli della polizia hanno bussato alle sette del mattino. Madonna come picchiavano forte sulla porta. Aprite, aprite! Nascondete armi? C'è droga in casa? Signora Contin, suo figlio si buca? La mamma piangeva, non sapeva niente, non capiva niente. Jenny era andata scuola, Veronica e Teresa stavano per andarci, ma sono rimaste bloccate in casa. Nessuno poteva uscire. La polizia è stata qui tre ore e poi è andata via portando papà alla questura di Padova dove è
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE stato interrogato dal procuratore di Verona, Papalìa. [Severino Contin sarà arrestato successivamente e giudicato alcuni mesi dopo gli otto del commando per reati di sovversione.] Non è potuta andare al lavoro nemmeno Jessica, che sta in una cooperativa di pulizie dell'ospedale di Montagnana. Papà è tornato alle sette di sera. La mamma piangeva, lui era preoccupato per noi e per Cristian che stava già in carcere. Ci ha detto di non preoccuparci. Lo zio Flavio e Cristian sanno quel che fanno. E se l'hanno fatto, l'hanno fatto anche per noi e per i nostri figli». Ma hanno fatto bene? Jessica e la madre, loquace la prima per quanto è taciturna la seconda, mi rispondono di sì. «Hanno fatto più che benedice la ragazza. «Non si poteva più andare avanti così» sospira la madre. E non capisco se si riferisce al disagio del popolo veneto o al disagio di una famiglia che è vissuta per dieci anni con un «tanko» tra i piedi che prima o poi bisognava pur muovere. «E stata dura sentirsi chiamare terroristi» mi dicono.è stato doloroso leggere sui giornali che odiamo i terroni.» Jessica: «Ho tante amiche meridionali. Cristian: «La nostra azienda ha tanti clienti nel Sud». Faccio a Jessica una domanda insieme scontata e infame: si sente italiana? «Più veneta che italiana.»
Le due cose non possono andare d'accordo? Jessica sorride imbarazzata e resta in silenzio.
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Interviene Cristian: «Rispondi sì o no». Jessica: «Non credo che possano andare d'accordo. Non con l'Italia che c'è oggi». Cristian taglia corto: «Io sono veneto e basta». Veronica, la piccola, sorride. Dice Cristian: «Veneta anche lei, crescendo capirà». Jessica: «L'estate scorsa Veronica doveva fare i compiti delle vacanze. Mi ha chiesto una spiegazione e io gliel'ho data in veneto. E lei: in italiano come si dice?". Interviene Cristian: «Per imparare l'italiano c'è tempo quando si cresce. Anche nella mia scuola tutti parlavano veneto. Il veneto non è un dialetto, è una lingua. A scuola mi piacevano tanto le storie della grande Roma. Ma nessuno mi ha detto che esisteva una grandissima Repubblica veneta. Quando l'ho scoperta, è stata una cosa stupenda. Una cosa che uno si sente dentro». Mangerei tutti i panini rimasti sul tavolo, ma è tardi, fuori lo zio Valentino che non può entrare mi aspetta con l'auto. Chiedo alla mamma: «Signora, ne valeva la pena?». E lei: "Sì, valeva la pena di avere problemi così grossi con una famiglia come la mia». Sulla porta mi raggiunge Jessica:Noi ci vogliamo molto bene. Io sono orgogliosa di lavorare per loro». Sulla credenza c'è, appena arrivata, una targa preziosa, dono della Lega di Merlara, il paese del Carroccio: «Quinta festa per l'indipendenza della Padania. Nel paese che il Po e
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE l'Adige riga / alla tua giovinezza rendi onore / fuori d'ltalia sali il campanile / e lascialo cantare il mio motore. Ai patrioti Contin».
«La Padania? Se l'è inventata Bossi»
Quando arrivo alla Pieve di Colognola ai Colli, a pochi chilometri da Verona, Andrea Viviani sta preparando il pranzo in una bella cucina di quelle che sognano gli sposi sfogliando i dépliant. «Pastasciutta e patate lesse. Si mangia a mezzogiorno e un quarto.» La mamma non torna, è lavoratrice stagionale alla Sanson, sta preparando il pandoro per Natale.
Rientra il papà, pensionato, un omone con gli occhi lucidi. Come ha saputo? «Mi viene il mal di testa solo a pensarci. Ero fora de mi, mai visto la polizia in vita mia e invece arrivano alle sette, tutti armati, quattro qui dentro e due volanti fuori. Dopo un'ora m'hanno detto cheAndrea stava dentro il campanile. » Andrea controlla la cottura della pasta e parla di Bossi: «Ce l'abbiamo con la Lega. è una forza politica che non sa sfruttare le proprie potenzialità, qualche volta non sa fare le cose per le quali ha preso tutti quei voti. Dovrebbe battersi di più, aveva i suoi uomini nei posti chiave del governo... Ci avessero dato il federalismo, magari tutto quello che abbiamo fatto non sarebbe successo. Ma ci hanno obbligato a farci sentire. Noi non vo-
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gliamo che il Veneto diventi come l'Irlanda e la Spagna [con l'Ira e con l'Eta che combattono per l'indipendenza con il terrorismo]. Ma vogliamo essere liberi di prendere le nostre decisioni, non dipendere da altri governi con i quali non ci identifichiamo. Vogliamo essere protagonisti del nostro futuro». All'interno dell'Italia? «Sarà l'Italia, saranno le trattative a decidere, se mai ci saranno. Certo, nei nostri cuori resta l'indipendenza. Il Veneto lo è stato per mille anni.» L'indipendenza della Padania? «Ma quale Padania. La Padania non è mai esistita, se l'è inventata un giorno Bossi, non ha radici storiche e culturali. La Padania è un'ideologia. Altra cosa è il Veneto...» Mi dice Luca Peroni, nel suo tinello di Caldiero, mentre Marcantonio di là dorme: «Abbiamo cambiato per sempre il corso della nostra vita, forse le cose potevano andare meglio, ma poteva anche finire a colpi di pistola. Eppure dovevamo farlo. Dovevamo fare qualcosa di eclatante per la nostra gente che non conosceva la propria storia. Adesso, se tutto il Veneto ha riscoperto la Serenissima, lo si deve agli uomini del campanile che hanno dimostrato che non sanno solo e sempre lavorare agli ordini degli altri. E Bossi? «Ci aspettavamo di più, anche se l'opinione della gente ha fatto cambiare l'atteggiamento dei capociòcome Bossi e Ma-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE roni. Mia moglie, i miei genitori, hanno ricevuto congratulazioni da tutti. Anche se la gente si tiene dentro la gioia, come se avesse paura di manifestarla...»
«Abbiamo visto due volte la cometa di Ha1e Bopp»
«Non accetto che la nostra azione venga presa come un momento di pazzia, come il frutto di una campagna senza valori, come un'iniziativa stravagante istigata dagli isterismi di Umberto Bossi. Essa è stata il frutto dello spirito veneto che non è morto e che ha saputo germogliare ovunque nel mondo, da Arborea, la colonia sarda dove ci mandò Mussolini, fino al Brasile.» Parla chiaro Fausto Faccia nel carcere di Modena, sotto gli occhi attenti di due guardie. Parla chiaro e non vuol sentire nominare Umberto Bossi: «Per me vale quanto un D'Alema o un altro qualsiasi politico padano. No, non è un punto di riferimento. La Padania è un'assurdità. Adesso ci mettiamo a inventare stati nuovi, mentre la storia torna indietro a riscoprire le origini degli stati esistenti e delle regioni che li formano». Frutto dell'ala scissionista della Liga Veneta nella prima metà degli anni Ottanta, il gruppo di San Marco non ha mai avuto ambizioni politiche: «Non aveva senso fare il partitino, il piccolo movimento che magari prende il sindaco, anche se questa può sembrare una scelta antidemocratica. Noi volevamo che i veneti riscoprissero chi sono. Vede, per me vale più
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un ideale che un conto in banca. Eppure, non creda, le comodità mi piacciono...». A un bel ragazzo che rischia di farsi sei anni di carcere (e la sentenza fu tutt'altro che dura, tecnicamente avrebbero potuto dargli il doppio) viene da chiedere se prima di partire il gruppo abbia valutato le conseguenze processuali. Faccia risponde: «Guardi, un rapinatore si fa i conti. Un idealista no. Abbiamo lavorato per tanti anni intorno a un obiettivo ideale, dovevamo essere coerenti con la nostra vita. E l'azione del campanile le ha dato un senso. Sapevamo che la nostra gente avrebbe capito. E infatti ci ha molto aiutato. Sapevamo poi che avremmo trovato i primi nemici in casa. Come la Lega. Che poi ha fatto marcia indietro". A metà settembre '97 il presidente della regione Veneto, Galan, ha chiesto per voi la grazia. «Stare in galera non fa piacere a nessuno. Ma non ci piace nemmeno quel chiedere la carità per noi, come se fossimo un branco di stupidotti. Dietro il nostro gesto ci sono tremilacin quecento anni di storia veneta.» Come ha votato nella sua vita? «Una volta da ragazzo per Alrnirante. Poi per la Liga Veneta. Da quattro, cinque anni non voto.» Come disegnerebbe la carta geografica d'Italia? «Come fece qualche anno fa la Fondazione Agnelli. Un certo numero di macroregioni aggregate mettendo insieme
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE storia, società, economia. Un'Italia logica, insomma. Indipendenza? Sì, ma non con la secessione.» «A me la politica di Bossi non interessa e la parola secessione non piace» mi dice Gilberto Buson. Ha cinque figli, «una moglie che sta più lei in galera di me», una famiglia «circondata dall'affetto dei vicini di casa e di tanta gente che ci aiuta». («Non hanno problemi» mi conferma l'avvocato Arman che è venuto a trovarlo. «Li aiutano la Life, la Liga Veneta, la stessa Lega Nord, tante altre piccole organizzazioni e tanti gesti di solidarietà personale.») «Non mi piace la secessione e non mi piace parlar male dei meridionali. Vede, nella mia sezione, qui in carcere, ci sono siciliani e calabresi. Il contadino siciliano e il contadino veneto seminano insieme il grano e insieme vanno a raccoglierlo. Voglio dire che se noi veneti vogliamo che vengano riconosciuti i nostri valori, dobbiamo innanzitutto riconoscere quelli degli altri.» Le piacerebbe un Veneto autonomo dentro l'Italia? «Come è sempre esistito nei secoli scorsi. Cesare voleva cavalli veneti...» La storia veneta, la grandezza della Repubblica Serenissima sono un'ossessione per il gruppo di San Marco. «Lo sa come è cominciata questa storia?mi dice Buson. «è cominciata vent'anni fa quando andando con mia moglie a Venezia m'è venuta un po' di curiosità sul passato. Siamo andati all'Archivio di Stato e abbiamo visto che era aperto al pubblico
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soltanto due mesi all'anno. Quando siamo riusciti a entrare, abbiamo visto che eravamo i soli italiani. E quando abbiamo chiesto alla direttrice perché non si pubblicizza l'apertura dell'archivio e quello che ci sta dentro, mi ha risposto che lei aveva fatto mettere venti manifesti in tutta la regione. Venti in tutto il Veneto? Non avevano altri soldi. Capito?» E' duro, Buson. Ma all'ultima frase sorride: «Ha visto la cometa di Hale Bopp? L'ultima volta era passata duemila anni fa. Bene, i veneti l'hanno vista due volte».
«Caro Bossi, ecco le mie medaglie»
«Senatùr, tenga duro e resista come abbiamo resistito noi partigiani negli anni dal '43 al '45.» Chissà cosa avrà detto Carlo A. Ferrazzino, partigiano leghista di Alassio vedendo le polemiche sul tricolore dell'autunno del '97. Forse avrà dato ragione a Bossi ancora una volta, come fece un anno prima, quando scrisse al capo della Lega questa lettera appesa nell'anticamera di Bossi in via Bellerio a Milano. «Sono un ex partigiano combattente dall'8 settembre '43 alla Liberazione. Ho sempre apprezzato il coraggio fisico e morale e a lei non mancano né l'uno né l'altro. Per questa ragione mi permetto di farle un modesto dono simbolico, le mie Croci delle campagne di guerra. Lei merita davvero più di una me-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE daglia. Auguro per il 15 settembre [la prima festa sul Po] una giornata radiosa e piena di speranza. A conclusione un modesto consiglio: non si fidi mai di sua Eminenza Scalfaro, Sacrae Romanae Ecclesiae Cardinalis nomen Quirinalis collis.» Chissà se nella lettera di risposta il Senatùr ha chiarito al partigiano latinista di Alassio che lui da Scalfaro non ha preso mai fregature: all'inizio del '95 Bossi s'azzardò a far cadere Berlusconi solo nella convinzione che il capo dello Stato non avrebbe sciolto le Camere per un anno. Altrimenti la Lega sarebbe stata stritolata. E così avvenne. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti del Po e la lettera è tra i cimeli più cari del Senatùr. Lì le medaglie di Ferrazzino, lì «la spada di Toledo che non perse mai una battaglia, lì un guerriero scozzese dell'Highlander Clan Ales (è l'Europa antistatalista e libertaria che si unisce," mi spiega Bossi). Sull'altra parete, stampe antiche di Pontida e foto leghiste della stessa. Infine, Alberto da Giussano accanto a Giuseppe Verdi, che invano gli spiritisti invocano per sapere se Vn' pe1lsiero..., considerato per un secolo il canto risorgimentale (e quindi unitario) per eccellenza, è stato scritto con profetica ispirazione protoleghista e separatista. Quando vai a fare due chiacchiere con l'Umberto lascia pure a casa l'orologio. Lui sa che a un certo punto fa giorno e molto più tardi fa notte. (Lo sa, peraltro, in modo piuttosto confuso perché dorme di giorno e lavora di notte.) Per il resto, le ore non hanno senso. Così cercare nelle sue risposte un riscontro a
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quel che gli hai chiesto è roba da "Giochi senza frontiere». Gli chiedi di D'Alema e parte da Lenin, gli chiedi di Berlusconi e parte da Hegel. Non gli chiedi niente e parte così. «Perdemmo un casino di tempo a parlare di rivoluzione, tra il '79 e 1'81. Quelli che venivano da sinistra facevano fatica a capire la differenza tra rivoluzione e colpo di stato. Da sinistra venivano Maroni e altri. Eravamo in tutto una ventina, la Liga Veneta stava appena strutturandosi, il resto non era strutturato affatto. I socialisti volevano impedirci di nascere... Eppure fu un periodo importante. Io posi la questione a quelli di sinistra: i bolscevìchi che in Russia cacciano via lo zar e ne prendono il posto, non fanno una rivoluzione ma un colpo di stato. Lo Stato restava infatti quello di prima, cambiava solo il comandante. Il Risorgimento invece fu rivoluzionario perché si dissolsero alcuni stati e ne nacque un altro. Anche lì però... I piemontesi s'unirono al Sud e s'accorsero di quel che era: il Medioevo in presa diretta. Cavour si mise le mani nei capelli: madonna, che abbiamo fatto. Speriamo che i padani salvino questo Paese. Fu fregato dai Savoia. Morì federalista.» E adesso? «Adesso l'unica cosa votata sul serio dalla Bicamerale è stata Roma capitale. Che poi facciano il colpo di stato, che arrivino i fascisti, i nazisti, i comunisti, i marziani, non gliene frega niente. Basta cambiarsi il colore della camicia. Caput
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Italiae significa che lì arrivano i soldi, il controllo dell'economia. Il resto non conta. Ma l'ordine statalista...» L'ordine statalista? «...porta fatalmente alla crisi. La Lega è nata così.» Così come? «Uno Stato che magna troppo fallisce. E allora la rivoluzione è possibile. Me ne convinsi fin dall'inizio. La Lega nacque nella convinzione che si potesse fare la rivoluzione. Su questo avvennero i primi scontri. Su questo i primi ci lasciarono. Chi? Alcuni piccoli imprenditori di Milano...»
Ma se nasce uno Stato federale, come ha deciso a settembre '97 la Bicamerale, se gran parte dei soldi raccolti al Nord vengono spesi al Nord, perché continuate a parlare di secessione e di parlamento della Padania? «Perché di fatto non cambia niente. Roma vuol fare la mediatrice tra Nord e Sud, tra Padania ed Esperia. Una mediatrice onnivora, che mangia di tutto e mangia molto. D'Onofrio aveva proposto un minimo di decentramento fiscale, ma anche lì era inaccettabile che alla fine dell'anno lo Stato avesse la possibilità di fare una tassa di compensazione sulla base delle proprie necessità.»
Tra Hegel e Berlusconi
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La Bicamerale ha avuto quattro protagonisti: D'Alema, Berlusconi, Fini e Marini. Quali rapporti hanno avuto con ia Lega? Cominciamo da Berlusconi, visto che con lui dopo un lungo periodo di freddezza Bossi ha ricominciato a dialogare. «Che cosa diceva Hegel dello Stato?» Parlavamo di Berlusconi... «In un momento di paranoia totale, Hegel si convinse che lo Stato era un'incarnazione dell'idea divina sulla terra. Ah, il potere teocratico della Chiesa. Ma lei lo sa che fece Gregorio IX?» Con Berlusconi? «No, con Federico Secondo. Si fece mediatore tra l'imperatore e i liberi comuni del Nord. Ora i liberi comuni del Nord potevano annientare Federico come volevano. E infatti lo fecero piu tardi, appena ebbero messa su una Lega. Allora il papa disse ai comuni: guardate, io parlo bene di voi con Federico e vi faccio restare liberi a patto che diventiate dei buoni cattolici. Insomma gli chiese di fare arrivare da queste parti la Santa Inquisizione. E cominciarono a bruciare la gente anche qui." (Ma poi Gregorio Nono scomunicò per due oolte Federico Secondo.) E Berlusconi? «Adesso ci arrivo. Ma apro un inciso perché successe allora esattamente quello che sta accadendo adesso. Allora Atea Romana Chiesa vendeva le indulgenze, che sono pezzi di carta di puro valore spirituale, ma diventarono denaro. La
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Chiesa fu la prima a inventare la moneta oscillante, libera nel mercato. Se su un pezzo di carta scrivi che vai in paradiso... Un pezzo di carta che non valeva niente era diventato come gli assegni: lo firmavano, lo giravano, lo trasferivano. Questo fece incazzare enormemente i tedeschi. E fu per questi brogli che la Chiesa cattolica perse il Grande Nord, la Germania, la Scandinavia...» Forse la storia sarà stata un po' più complessa. Ma tutto questo non sarà successo per colpa di Berlusconi? Non mi meraviglierei, visto tutto quel che gli addebitano. Tutto questo assomiglia maledettamente a quello che sta avvenendo oggi. Nei tempi moderni il potere teocratico attraverso la Democrazia cristiana ha inventato le nuove indulgenze che sono i titoli di stato. E cinquecento anni dopo Lutero, lo Stato perde la Padania per i brogli delle nuove indulgenze. Purtroppo Hegel...» Ancora. «...con la sua infinita follia, Hegel dice che lo Stato è l'incarnazione delle idee divine sulla terra. E allora la Chiesa non crede ai propri occhi. Ma insomma, dice, questi son proprio matti. Dopo tutto quel che abbiamo fatto con i roghi vogliono che torniamo? E sa che fa?» Chi, Berlusconi? «No, la Chiesa. Si riprende il potere teocratico non più con il Papa Re, ma con la Dc, il partito dei cattolici. Piatto ricco mi ci ficco. Poi arriva la Lega che inventa nell'88 il voto di protesta e
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fa venir giù baracca e burattini. è allora che Berlusconi...» Finalmente. «...viene mandato a riprendersi il potere con un voto di gelatina e a riportarlo a Roma. E sa da chi ha avuto i primi soldi Berlusconi?» Da Hitler, come minimo. «Nessuno lo spiegherà mai. Ma allora si disse che vennero dalla Chiesa. Il fatto è che Berlusconi è un imprenditore e gli imprenditori non sono mai favorevoli alle ideologie.» Ci sono ancora ideologie in giro? «Ce ne sono quattro, ma la prima - il nazismo, o almeno i suoi residuati - in Italia non c'è.» Meno male, e le altre? «Ci sono residuati di fascismo. A mio parere, Fini continua
«Ma qllale Pa,lania. Vivil ía Serenissima!» Z61
a restare un fascista. Può simulare, adattarsi, ma statalista era e statalista resta.» Fini lo nega e poi l'equivalenza tra statalismo e fascismo mi pare un po' spericolata. Comunque andiamo avanti. «La terza ideologia presente in Italia è il comunismo. D'Alema è comunista. Con me si è sempre dichiarato bolscevìco. Nato bolscevìco, rimasto bolscevìco. Magari non condivide più i metodi dei bolscevìchi, ma il rapporto con lo Stato è
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE uguale a quello di Fini.» Anche D'Alema avrebbe qualcosa da obiettare, ma non sottilizziamo. La quarta ideologia? «Il potere teocratico della Chiesa, tornato con la Dc nel '45. Sturzo, che era un siciliano di grande lucidità, capì che il Papa Re non sarebbe potuto tornare e che per riprendersi il potere la Chiesa doveva fondare un partito. Lo disse nel 1905, ci aveva visto giusto e finì in esilio, come tutti quelli che dicono la verità. In questo la Bicamerale ha fotografato in modo incredibile il momento storico che viviamo. Sarebbe? «Le tre ideologie si sono unite perché se fossero rimaste isolate la Lega le avrebbe portate nel water della storia. Ha presente un tubo di scarico?» Più o meno. «Un serpentello per volta sarebbe stato buttato giù dalla Lega senza misericordia. Soltanto unite le ideologie hanno formato un nodo più grosso del diametro del tubo di scarico della storia e riescono a resistere. Ma la Lega cercherà ugualmente di farcele passare disperdendole per sempre nella storia.»
Incontri segreti con D'Alema e Berlusconi
Ipotesi insieme colorita, temeraria e suggestiva. Ma Berlusconi...
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«I partiti cercarono di fermare la Lega facendo il sistema maggioritario. Sa a che cosa serve il maggioritario?» Me lo spieghi lei. «Se i partiti si presentano insieme, per noi diventano un bersaglio grosso e facile da annientare. Allora si dividono in due e fanno il bipolarismo. E quando la Lega, cioè la società, attacca una collina, l'altro polo l'aggredisce alle spalle. Cosi puntano a far vincere il centralismo. Poi cercarono di fermarci col Pool di Mani pulite.» In che senso? «Il Pool è servito a scoprire certe marachelle romane, ma colpì solo i segretari del pentapartito che non volevano andarsene. Poi colpì la forza di liberazione, cioè la Lega. Ma la Lega non aveva chissà che da nascondere e sarebbe passata comunque. Perciò costrinsero Berlusconi a scendere in politica per riportare a Roma il consenso elettorale della Padania.» Adesso ho capito... «Anch'io ho capito subito che cosa voleva Berlusconi.» Che cosa voleva? «Dopo le elezioni del '94, come si sa, voleva fare il governo con noi. Ma io volevo appoggiarlo da fuori, senza entrare. Gli dissi: io ti do una mano da fuori, quando hai bisogno di voti mi telefoni e io te ne mando a quintali, qualunque cosa tu faccia, anche se vuoi svaligiare la Banca d'Italia. Ma non voglio entrare, voglio andare a Mantova per costringerti da lì
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE a fare i cambiamenti necessari.» E lui? «Lui mi costrinse a entrare, minacciando di fare subito un'altra volta le elezioni. La gente non avrebbe capito. Ma io lo avvertii: così non cambierai una virgola, c'è la depressione, la crisi economica, potrai solo tirare a campare e allungare per cinque anni l'agonia del Paese. Ed è andata com'è andata. Ma poi vi siete rivisti... «Ci siamo rivisti perché anche se lui è un'anomalia sociale è pur sempre più vicino alla società di comunisti, fascisti e del potere teocratico della Chiesa...» Che vi siete detti con Berlusconi? Vi risparmio la risposta, che meriterebbe un altro libro. Non so se dawero Bossi abbia introdotto con Berlusconi il discorso come di nuovo lo introduce con me. (L'autonomia territoriale regalata dai longobardi al Nord, l'Atea Romana Chiesa che chiamò i franchi, il Sud disgraziato che ebbe la Santa Inquisizione, l'amico che gli ha mandato uno studio sugli eretici che venivano bruciati con la stoppa nei capelli, i domenicani che inquisivano e i francescani che pregavano, il rapporto tra popoli e nazionalità, la forza brutale dei Savoia...)
Ma se l'ha fatto, la faccia del Cavaliere doveva essere da televisione a pagamento. Dopo aver riempito un taccuino di storia patria rivista dall'Umberto, lo imploro di ridiscendere tra le umane cose.
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Allora, di che avete parlato in questi incontri segreti? «Be', io gli dissi di non fare il premio di rnaggioranza nella riforma elettorale, che non esiste da nessuna parte del mondo e assomiglia maledettamente al giochetto fascista. Mussolini andò al potere legalmente, rifece la legge elettorale e arrivò al partito unico con una aggregazione economico-sociale in ogni collegio. Oggi stanno facendo la stessa cosa. La contrapposizione non è destra-sinistra, ma Roma-Padania...» Quanti incontri avete avuto? «Tre o quattro.» Dove? «Da lui, poi andammo una volta in un ristorante di periferia... Gli dico sempre cosa diavolo ti metti insieme a Fini, quelli sono statalisti, sono passati. L'accordo fallo con la Lega e lascia fuori tutto il resto. Però capisco che la realtà meridionale è drammatica. Esperia è nel cuore, ma fa fatica a nascere.» (Sui colloqui con Bossi la versione di Berlusconi è diversa. Il presidente di Forza Italia mi parla di due o tre incontri avvenuti sempre ad Arcore. «Volevo che Bossi riconoscesse di aver sbagliato consegnando l'Italia ai comunisti. Lui convenne che una secessione della Padania dall'Italia non è realistica. Allora io gli dissi che non poteva continuare con i gazebo, a portare le ampolle dal Po, a fare disegni nel vento. La gente vuole meno tasse e meno burocrazia, gli dissi, soltanto se i moderati si uniscono è possibile fare un vero federalismo. Ma prima che si po-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tesse davvero scendere nel concreto, mi son cadute le braccia...» In realtà, Berlusconi sa che l'elettorato della Lega è più moderato del suo capo e punta a riconquistarlo, anche attraverso alleanze. Bossi sa che la Lega non può restare isolata a tempo indeterminato e ogni tanto lancia un amo al Cavaliere. A metà luglio lo ha chiamato: «Caro Berlusconi, non legarti a un carro soltanto perché possiamo venirci incontro». Uno degli incontri tra i due avvenne a metà maggio, ad Arcore, quando la convalescenza del presidente di Forza Italia dopo l'intervento era cominciata da poco. Bossi gli disse, come fa sempre: non capisci niente di politica. Berlusconi, come sempre, gli rinfacciò di aver rovinato l'Italia. Bossi aveva incontrato D'Alema una settimana prima. «Vi siete messi d'accordo?» chiese a Berlusconi. «Nemmeno per idea» rispose l'altro. «Siamo e restiamo presidenzialisti.» Finito il colloquio, Bossi e Stefani che l'accompagnava risalirono in auto con Aurelio, l'autista milanese del Senatùr. Bossi chiese al presidente della Lega: «Che ti pare?». E Stefani: «Mi ha convinto». Bossi non disse nulla, ma l'indomani richiamò Stefani: «Guarda che D'Alema e Berlusconi si son messi d'accordo». Non era vero, ma Bossi guardava sempre avanti...) Torno a chiedere al segretario della Lega: quante volte vi siete visti riservatamente con D'Alema? «Un paio. Dove? Non mi ricordo bene. Forse una volta al gruppo della Lega a Roma e un'altra a casa mia. Mi chiese di rientrare in Bicamerale e anche di votare per il governo del
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premier. Io dissi che erano tutte barzellette per far passare la legge elettorale col premio di maggioranza per fregare la Lega. E il premierato sarebbe stata la strada maestra per fare quel broglio legalizzato.» E poi? «Lui vuole fare dei passettini, ma di fatto propone di non cambiare nulla. La mia tesi è che la sua scelta D'Alema l'ha fatta due anni fa, mettendo insieme il potere teocratico, cioè il Ppi, i comunisti e i sindacati. Ha fatto il quarto partito-Stato della storia italiana. Ci sono stati Giolitti, il fascismo, la Dc e adesso la Balena Rosa..." Prego? «Ma sì, l'Ulivo, come lo chiamano. Berlusconi non può governare. Il sindacato sta dietro il Pds, la Chiesa dietro i Popolari. Come fa?» E dietro di voi chi c'è? è vero che ci sono i conservatori bavaresi? «Questa roba dei buoni rapporti con i bavaresi la diceva Miglio. Ma io onestamente non l'ho mai sentita.» Ho sentito che Gnutti sarebbe un tramite... «Fa piacere saperlo. Grande Bavaria. Teodolinda, regina dei longobardi, era bavarese...» Avete finanziamenti dall'estero? «Magari. In realtà all'estero l'Italia ci minaccia con i suoi ambasciatori. Ha una paura boia. Una volta che Pagliarini
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE andò in Catalogna e fu presentato come primo ministro della Padania l'ambasciatore d'Italia armò un casino...» Che futuro ha la Lega? «Mentre la Padania conquista la sua legalità, noi della Lega resteremo a Roma a rompere i coglioni ai centralisti, agli statalisti, ai neofascisti, ai comunisti. Sarà difficile per D'Alema mettersi in orbace, oddio per la verità già ci si è messo. La Lega a Roma sarà come Leonida alle Termopili, mentre la Padania se ne andrà libera.» Se lei fosse un consulente politico, che consiglio darebbe a Berlusconi e a D'Alema? «I centralisti di Roma cerchino il danno minore per loro che è quello di una confederazione. Ma debbono accettare la doppia legalità, quella italiana e quella padana. Non possono opporsi con la forza. Centocinquantamila poliziotti al Nord non possono fare niente contro trenta milioni di abitanti. E se chiamano i soldati, quelli di leva se gli dici di andare contro il popolo girano il moschetto. Io sono un grande estimatore della forza dello Stato. Però...» Bossi fa una pausa, poi sorride. Insomma fa quella cosa che in un'altra persona sarebbe un sorriso. «La Padania sta entrando nel canale del parto, sta per nascere, eccola.» Prendiamo in braccio la Padania e saliamo in macchina.
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A Cisliano, dove c'era la Dc
Poiché il mio lavoro consiste nel battere le strade d'ltalia per vedere che cosa arriva in giro di quel che si cucina a Montecitorio, ho chiesto a Bossi di seguirlo in un comizio. Anzi, in un comizietto piccolo di un piccolo centro: uno dei duecento comizi «qualunque» che fa Bossi in un anno. Voglio guardare in faccia la Lega fuori di Pontida e del rituale delle camicie verdi. Che però ci sono anche qui e fanno un servizio d'ordine assai più duro dei caramba. (Anzi, scopro di avere anch'io un'inflessibile scorta in camicia verde: «Stia tranquillo, ci siamo qui noi». «Grazie, non credo servirà.") Il Senatùr mi porta a Cisliano, centro agricolo di tremila abitanti vicino a Corsico e Abbiategrasso: uno degli ottantadue comuni della provincia del Ticino. Qui erano democristiane anche le mucche. C'era il grande Giovanni «Albertino» Marcora, che per giudizio unanime di amici e avversari aveva due cosi grossi così e se non fosse morto troppo presto sarebbe stato certo un segretario dc. E dopo di lui hanno dominato la Coldiretti e Pisoni, eurodeputato democristiano. Poi è successo quel che è successo, è arrivata la Lega, ma i democristiani debbono essere ancora forti se il comune è in mano a una giunta che mette insieme un po' di uomini dc polulivisti. La mia mania di contare sempre il pubblico annota sul taccuino un migliaio di persone. Non credo siano tutti leghisti,
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ma le famigliole di Cisliano son venute a prendere un po' di fresco dopo cena. Il discorso di Bossi (un'ora e quaranta) sarà interrotto quarantasette volte dagli applausi e mai dai fischi. Il giradischi suona Va' pensiero, Bossi canta con la mano sul cuore, a me vengono un po' di brividi di padana emozione e mi consolo sperando che Verdi si rotoli nella tomba come una trottola a sentire gli ebrei del Nnbllcco che cantano la secessione. Mi siedo in fondo al tendone, accanto a una signora che fa la maglia e a un'orda di bimbi che mangiano patatine. E mi godo l'Umberto Bossi Show. Altro che Costanzo, ragazzi. Questo è spettacolo puro di volo acrobatico.I Maya...» grida il Senatùr calcando con l'accento gutturale sulla frase sospesa. I miei bambini restano con la patatina in aria e lui ha già cambiato continente:I Persiani...». «Historia magistra vitae..." e i ragazzini più grandi sgranocchiano patate, lieti che il latino in fondo serva a qualche cosa. «C'è un'intesa tra D'Alema e le Grandi Famiglie per non cambiare niente...Dio mio, quali famiglie sono? «Fini non è più fascista di manganello, ma fascista di stato.» Bene, qui il discorso si fa più chiaro. «La Chiesa è il serpente più grosso...» M'aspetto qualche malumore post-democristiano. Invece i leghisti applaudono. «Atea Romana Chiesa, e qui ricomincia la giaculatoria della resina, dei roghi, dei domenicani e dei francescani, di Gregorio IX e del Papa Re. (Alla fine dirò a Bossi: «è il discorso più anticlericale che abbia mai sentito. Togliatti si sarebbe fatto il se-
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gno della croce...». Lui prenderà la mia osservazione per un complimento.) Per un'altra ora, come sempre, lui si siede su un panchetto e firma autografi, magliette, banconote e assegni padani. Un vecchio agricoltore gli porge un biglietto italiano da centomila lire per farselo firmare. Lui firma e poi dice: «è fuori corso». L'altro ricaccia dentro il panico, riprende le centomila e scompare. Poi il Senatùr bacia. Ma come piace alle donne questo Bossi... Vecchie e giovani, toste e ormai mollacchione. Un bacio a tutte, cameratesco o appassionato. Posso fare la foto?, prego, grazie, clic. Mi apparto in un capannello leghista un po' eterogeneo. Permette? La Fauci Benito di Messina, dipendente degli aeroporti milanesi. No, non ho perso l'accento. Perché sono leghista? Perché dopo quarant'anni passati a Cesano Boscone ho capito che certe cose me le può dare soltanto il Nord. E la secessione? Va benissimo. Una signora cambia discorso: il governo vuole la gente ignorante. Un uomo: non ci spiegano perché ha torto Pagliarini quando fa i conti tra Nord e Sud. Altra donna: l'assistenzialismo è la rovina dell'Italia. Il signor La Fauci Benito: vogliamo l'indipendenza per vivere anche quando andiamo in pensione. La signora di prima: le Coop che prendono i giovani, caro lei, li sfruttano senza pagarli. E questo sarebbe il lavoro interinale? S'avvicina un signore triste: sette anni fa mi è morto un figlio di droga, ho bussato a
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tante porte, le ho trovate tutte chiuse. Un altro: la burocrazia deve essere al mio servizio, se entro in un ufficio sono io al servizio della burocrazia. Un militante in camicia verde: lei è venuto a scrivere il capitolo sulla Lega del suo libro. Ma perché un capitolo solo? Già, il suo è un libro italiano. Andiamo a tavola. Bossi è circondato da donne. Mangiamo anatra alla celtica, arrosto alla longobarda, roast-beef scozzese e nervetti alla Papalìa, in onore del procuratore di Verona che processa la Lega. I miei commensali mi raccontano l'ultima. In un ospedale del Nord, tre gestanti sono in sala parto e i mariti aspettano con emozione l'esito. Uno è padano, uno meridionale e il terzo negro. Esce il medico con i tre bimbi in braccio. è pallidissimo. Tutto bene, dice, ma abbiamo scambiato i bambini. Il padre padano afferra il negretto e si mette spalle al muro. Finché non si trova il terrone, grida, tengo questo. Risate leghiste. Fratelli d'Italia...
Chi sfascia chi?
La Verità svelata dal Tempo.
è bella la Verità. è una giovane in fiore, che lascia esplodere la sua grazia senza paura. E invincibile la Verità. Ma è figlia del Tempo. E il Tempo la partorisce vecchio, sfinito, tenuto in pie-
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di solo dalla missione celeste di svelare, alla fine, la Verità. «Il tempo scoprirà la verità» mi sussurra Silvio Berlusconi la sera di mercoledì 23 aprile. Siamo nello studio di «Porta a porta», un tecnico gli infila il microfono sotto il doppiopetto grigioferro d'ordinanza e lui sussurra quella frase misteriosa e drammatica, accennando con dieci parole senza seguito alla vicenda oscura di Felice Maria Corticchia, l'ex carabiniere appena scarcerato dopo ottanta giorni passati a Forte Boccea. Accusato di calunnia dal Pool di Milano per aver cercato di indebolire le tesi dell'accusa al processo Berlusconi e di minacce a una giornalista perché denunziasse ricatti sessuali di Di Pietro, ritenuti falsi. «Io non so chi sia Corticchia,» mi dice il Cavaliere «ma ha toccato Di Pietro e s'è fatto quasi tre mesi di fortezza. Ma sulle vicende di questi anni il tempo scoprirà la verità.» Chissà se Berlusconi ha visto il grande quadro di Francesco Ruschi, pittore romano del Seicento e alunno di un altro Cavaliere, quello d'Arpino, conservato al secondo piano di palazzo Sciarra. Lì il Tempo è vecchissimo, ma la Giustizia lo consola del travaglio passato nella scoperta della Verità. Certo il presidente di Forza Italia non ha potuto vedere la Verità svelata dal Tempo del Bernini, custodita da settant'anni nella Galleria Borghese che sarebbe stata riaperta soltanto due mesi dopo. Quella Verità non ha certo scolpite nel viso l'angoscia divina di una Dafne inseguita da Apollo, né la di-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sperazione di una Proserpina rapita da Plutone, che raccolgono nelle sale vicine i mormorii stupefatti del pubblico. Né il sorriso di nobile degnazione della Paolina del Canova che fa gli onori di casa nella galleria. La Verità berniniana è felice, illuminata dal Sole che tiene nella destra, femmina più di Paolina, prorompente, limpida e invincibile. L'avesse vista, il Cavaliere ne sarebbe rimasto tuttavia turbato. Mentre vi lavorava Bernini patì, infatti, molte sofferenze ingiuste dovute al successo, e per tredici anni rinviò l'opera più drammatica: cavare dall'inquietante blocco di marmo, dal quale nasce la giovane, la figura del Tempo che l'ha disvelata. E alla fine lasciò l'opera incompiuta, come monito al primogenito della sua famiglia, che tramandò l'opera per quasi trecento anni. Quanto dovrò attendere?, si sarebbe chiesto l'onorevole Berlusconi se avesse conosciuto quella scultura. Ma per sua fortuna, forse non ha avuto ancora il tempo di vederla.
Di Pietro: «Posso venire a Napoli?»
Quel mercoledì 23 aprile, il «Corriere della Sera" titola così un articolo di Gianluca Di Feo: «Di Pietro pronto a tornare in politica. Tremaglia: prepara un grande progetto presidenzialista con Segni, Cossiga e Moratti». Quando incontro una prima volta Berlusconi per questo li-
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bro a mezz'estate del '97, i giochi sono andati diversamente e il Cavaliere rifà la storia dei tre Di Pietro: «Quello che voleva dimostrarmisi amico, quello che voleva sfasciarmi e il terzo, quello che ormai coltiva un disegno personale. Il discorso parte da lontano, da quel sabato 7 maggio 1994, quando nello studio di Cesare Previti, Di Pietro previene Berlusconi che vuole offrirgli il ministero dell'lnterno, ultima carta concordata con gli alleati per non dare il Viminale alla Lega. «Di Pietro» racconta Berlusconi «mi dice subito: guardi, io non posso lasciare la magistratura. Mi confessa che avrebbe accettato se Scalfaro non fosse intervenuto su Borrelli per fer-. marlo. Di Pietro lo ha detto anche a Cirino Pomicino.» (Mi dice Cirino Pomicino: «Nel luglio del '94 al Palazzo di Giustizia di Milano, Di Pietro mi raccontò che avrebbe accettato di entrare nel governo Berlusconi se Scalfaro non glielo avesse impedito». Scalfaro da solo o Scalfaro attraverso Borrelli? «Lui mi parlò di Scalfaro. ») Il 22 novembre del '94, dopo sei mesi di governo, Berlusconi riceve il celebre invito a comparire dal Pool di Milano mentre presiede a Napoli la Conferenza mondiale dell'Onu sulla criminalità organizzata. è noto che dopo aver firmato il documento, Di Pietro va a Parigi per la vicenda Mach di Palmstein. Scrive la giornalista Rosanna Santoro su «Panorama» del 14 agosto 1997: «"Questa è una guerra. Solo uno ne uscirà vivo: o io o lui." Era il 22 novembre 1994. Antonio Di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Pietro passeggiava nervoso in una pungente notte parigina, visibilmente irritato per la fuga di notizie sulla clamorosa iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati di Milano. Quella dell'eroe di Mani pulite sembrava allora una battuta. Che però oggi, a quasi tre anni di distanza...». Quella sera Di Pietro non avrebbe voluto essere a Parigi, ma a Napoli. Aveva chiesto infatti di poter partecipare alla Conferenza mondiale presieduta da Berlusconi. Mi racconta Franco Frattini, deputato di Forza Italia, presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti e confermato nel '94 da Berlusconi alla segreteria generale di palazzo Chigi dove era arrivato con Ciampi: «Nel giugno del '94, in un incontro tra Berlusconi e Clinton, matura l'idea di dimostrare al mondo che l'Italia è in prima linea nella lotta al crimine transnazionale. Si decide di organizzare una conferenza mondiale a Napoli come premessa alla creazione in Italia, sotto l'egida dell'Onu, di un'Alta Scuola di Polizia per funzionari di tutto il mondo. Berlusconi decide di presiedere i lavori per dimostrare il nostro impegno al più alto livello. Vengono incaricati dell'organizzazione due magistrati, Francesco Di Maggio, che era stato rimosso dall'incarico di vicedirettore degli istituti penitenziari (e che non era certo un amico del Polo) e Liliana Ferraro, rimossa dalla direzione degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Il problema degli inviti italiani è legato a un complesso ceri-
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moniale internazionale. Decidiamo di invitare i soli procuratori generali che sono meno di trenta, per non creare discriminazioni tra i procuratori della repubblica che sono centinaia. Personalmente, da ex magistrato, sono costretto a rifiutare l'invito a colleghi molto autorevoli. Di Maggio è amico di Di Pietro: si conoscono da anni, hanno lavorato insieme a Milano. La Ferraro assiste a una telefonata tra i due: Di Pietro insiste per essere invitato. "Non sono forse il simbolo di Mani pulite nel mondo?" Di Maggio gli spiega i criteri, poi mi parla della richiesta di Di Pietro e io dico di no. Tra l'altro, so che Di Pietro è stato invitato da Berlusconi a far parte del suo governo e questa è una ragione di più per non mostrare un trattamento di favore. Avverto Berlusconi soltanto dopo aver chiuso la questione. Il presidente è sorpreso. "Me lo potevi almeno dire," obietta "però hai fatto bene. Anch'io ho avuto tante richieste di deroga..." Di Maggio mi avverte che avrei ricevuto una telefonata di Di Pietro per una ulteriore insistenza, ma Di Pietro non mi chiama».
«Disse a Di Maggio: potremn10 110n arrestare Paolo...»
Entra a questo punto in scena Antonio D'Adamo, un imprenditore che conosce Berlusconi da molti anni e che Ull tempo ha lavorato per una delle sue società. D'Adamo è da
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE anni anche amico intimo di Antonio Di Pietro. Glielo ha presentato Eleuterio Rea, capo della Mobile di Milano prima di diventare capo dei vigili urbani, insieme con Giancarlo Gorrini, Paolo Pillitteri, Maurizio Prada, Claudio Dini e Sergio Radaelli (diventeranno tutti imputati di Tangentopoli). Mi racconta Berlusconi:"Quando ricevo l'avviso a comparire, mi chiama D'Adamo: Dottore, non si preoccupi. Di Pietro sta dalla sua parte, non consentirà a quelli del Pool di mettere in atto il loro disegno". «Non mi meraviglio» prosegue «perché D'Adamo da prima che io formassi il governo e fino all'autunno del '95 mi portava i saluti e le attestazioni di amicizia di Di Pietro. Anche nei giorni drammatici del luglio '94, Di Maggio ci fece sapere che Di Pietro aveva pronta una nuova richiesta di arresto per mio fratello Paolo, ma che era disposto a rinunciarvi se io avessi ammesso di conoscere le vicende per cui volevano incriminare mio fratello. Io non ero al corrente di nulla, ovviamente, e obiettai che se il presidente del Consiglio avesse fatto una dichiarazione del genere avrebbe dovuto dimettersi. Risposta di Di Pietro, sempre attraverso Di Maggio: è vero, ma nascerebbe subito un secondo governo Berlusconi perché non sarebbero possibili altre soluzioni. Ciò che emerse successivamente, mi fece invece capire che Di Pietro mirava assolutamente a farmi dimettere convinto com'era che avrebbe ricevuto lui l'incarico di formare il nuovo governo.» Mi dice Gianni Pilo, deputato di Forza Italia, notissimo al mo-
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mento della «discesa in campodi Berlusconi come uomo chiave dei sondaggi: «Nel maggio del '95 Gabriele Cimadoro, cognato di Di Pietro e deputato del Ccd, mi chiese un appuntamento perché doveva parlarmi. Venne a casa mia e mi disse: "Se Berlusconi si toglie di mezzo, Tonino è pronto a fare il capo del Polo. Fammi sapere". Restai così sbalordito che la cosa finì lì". Mi dice Franco Frattini: «Per almeno due volte, tra l'estate e l'autunno del '94, Di Maggio mi disse che Di Pietro puntava alla presidenza del Consiglio. Erano amici e Di Maggio prendeva queste affermazioni per battute: "Cose dell'altro mondo," mi disse un giorno "ma lo sai che va dicendo in giro Di Pietro? Che lui sarebbe diventato presidente del Consiglio". Né Di Maggio né io demmo peso a queste battute. E infatti non ne parlai mai con Berlusconi. Quando arrivò in piena Conferenza di Napoli la notizia dell'avviso a comparire, Di Maggio - che non era certo un simpatizzante politico di Berlusconi - mi disse: "La scelta di questo momento è il più formidabile colpo basso che si potesse dare alla Conferenza". Di Maggio capì che della proposta italiana dell'Alta Scuola di Polizia, già approvata dalla Conferenza, non avrebbe parlato più nessuno. E così avvenne. Tutto il mondo parlava ormai solo dell'avviso a comparire per fatti di corruzione al presidente del Consiglio italiano». (Nel novembre del '96, un ex deputato del Ppi, Michelangelo Agrusti, indirizza a Berlusconi una lettera in cui gli rivela una frase di Raffaele Tito, magistrato casertano che Agru-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sti conosce da molti anni e che ha lavorato nel Pool dopo la vittoria elettorale di Berlusconi: «O arriviamo prima noi a colpire Berlusconi, o arriverà prima lui a rafforzarsi e a normalizzare la situazione
Mi dice Berlusconi: «Come può un sostituto procuratore della Repubblica ambizioso come Di Pietro rifiutare il ministero dell'Interno se non ha l'aspettativa di un incarico più importante? Di Pietro, d'altra parte, non ha fatto mistero di queste sue ambizioni con i suoi amici di allora, da Gorrini a D'Adamo. Gorrini gli disse: "Non ti sarai montato la testa?". E quando D'Adamo gli parlò della possibilità di fare il ministro, lui gli rispose: "Soltanto il ministro?"». Dall'autunno del '94 all'estate del '95, Berlusconi è convinto che Di Pietro stia dalla sua parte. Anche dopo l'invito a comparire di Napoli, D'Adamo glielo conferma: «Dottore, Di Pietro non c'entra, anzi la prega di rimandare la sua comparizione perché non vuole essere lui a interrogarla.» «Me lo confermò lo stesso Di Pietro nel colloquio che avemmo ad Arcore, quando venne a trovarmi il 18 febbraio '95» racconta Berlusconi. «Mi disse che se il Polo glielo avesse offerto, lui sarebbe stato pronto ad accettare il ministero dell'Interno o un alto incarico investigativo istituzionale. E sarebbe stato disposto a dare notizia di questa sua disponibilità una settimana prima delle elezioni». Mi dice Pierferdinando Casini: «Nei primi mesi del '95,
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quando Di Pietro ha lasciato il Pool ed è consulente della Commissione stragi, viene a colazione a casa mia. Mi spiega che lui ha abbandonato il Pool perché riteneva che vi fosse stata un'azione persecutoria contro Berlusconi. Ricordo le parole esatte che mi disse: Berlusconi non è certo uno stinco di santo, come tutti gli industriali avrà fatto carne di porco, però l'accanimento di carattere politico del Pool non lo posso condividere». Dice Berlusconi: «Il 25 luglio del '95, durante un interrogatorio a Brescia, scopro che è stato Di Pietro a insistere perché mi fosse mandato l'invito a comparire. Rimango stupefatto. Chiamo D'Adamo che insiste: non è assolutamente possibile. D'Adamo mi dirà poi di essere andato a trovare di notte Di Pietro che confermò la sua precedente versione e si impegnò a una dichiarazione di smentita.» A essere increduli, per la verità, sono i colleghi di Di Pietro al Pool di Milano che sanno bene come nacque l'avviso a comparire e restano di sale quando rimane senza smentita una dichiarazione di Berlusconi a «Tempo realeil 13 aprile '95. (Dice il Cavaliere: «Di Pietro ha firmato quell'avviso di garanzia
solo perché è consuetudine che i prowedimenti si firmirlo collegialmente. Non sono così sicuro che fosse d'accordo».) Il vero ruolo di Di Pietro nella storia dell'awiso a comparire diventa di pubblico dominio nella seconda metà dell'ottobre '95, quando esce il mio libro Il duello. Nel libro viene rico-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE struito anche lo «scoop» del «Corriere della Sera» che dà per primo la notizia dell'awiso di garanzia a Berlusconi in piena Conferenza di Napoli. Lette le anticipazioni del mio libro su quella circostanza pubblicate dallo stesso «Corriere», Di Pietro presenta una denuncia contro ignoti alla Procura di Brescia per la fuga di notizie. Brescia, come è noto, è titolare del le indagini sui magistrati in servizio a Milano. Di Pietro ha dunque il sospetto che dietro la fuga di notizie verso il «Corriere» possa esserci un suo collega. Su questa fuga, in verità, la Procura di Milano apre un'inchiesta fin dalla fine del '94. Trasmette poi gli atti per competenza a Brescia: al di là dall'esposto di Di Pietro, è possibile in astratto che un magistrato milanese sia coinvolto nella vicenda. Ma Silvio Bonfigli, il sostituto procuratore bresciano che se ne occupa, non trova elementi contro i colleghi di Milano, né contro i loro collaboratori. Chiede il rinvio a giudizio di Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, autori dello «scoop», per la pubblicazione di atti coperti dal segreto e chiede l'archiviazione per la rivelazione di segreto d'ufficio perché non è riuscito a individuare nessun pubblico ufficiale responsabile. (L'archiviazione è stata decisa dal Gip il 13 ottobre e i due giornalisti hanno definito la loro posizione con il pagamento di una pena pecuniaria.) Personalmente, mi convinco negli anni successivi che deve esserci stato un ultimo passaggio mancante nella mia pur scrupolosa ricostruzione. è possibile, cioè, che nella notte tra il 21 e il 22 novembre 1994 la direzione del «Corriere» abbia
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avuto un avallo più autorevole della «gola profonda» di medio calibro di cui parlo nel Duello. Ma visti gli esiti dell'inchiesta, ogni illazione resta tale.
D'Adamo scrive due paginette...
Riprendiamo il colloquio con Berlusconi. «Nel settembre del '95, Fedele Confalonieri mi chiama per dirmi che, intervenendo nel seminario autunnale di Villa d'Este, Di Pietro ha fatto capire di voler far politica. L'8 ottobre 1995 con un articolo su "Repubblica" dal titolo "Berlusconi, quante frottole", Di Pietro si toglie la maschera e si schiera apertamente dall'altra parte.» In realtà, con quell'articolo scritto in difesa della Procura di Milano e delle sue indagini, Di Pietro manda al mondo politico un messaggio cifrato, ma di facile lettura. Scrive l'ex magistrato: «Berlusconi sa - per averglielo confidato io direttamente - come mi senta vicino col cuore agli elettori di Forza Italia. Ho detto a Lui [con lanaillscola] ciò che è sotto gli occhi di tutti: molti cittadini italiani hanno dato fiducia a questa nuova formazione politica appunto perché dava l'impressione di rappresentare una svolta nel panorama politico italiano. Doveva cioè rappresentare il nuovo. Questo desiderio di rinnovamento ha contagiato molti e, confesso, anche
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE me. Ho l'impressione, però, che se Berlusconi continua a raccontare frottole agli italiani, prima o poi in molti saranno costretti a rivedere la propria posizione. Tra questi, anch'io». Quali frottole avrebbe raccontato il Cavaliere? Secondo Di Pietro, sono frottole le accuse al Pool di avercela con lui, di non aver indagato a fondo sul Pds, i sospetti su interessi politici di Di Pietro collegati alle sue indagini su Berlusconi («Posso mettere la mano sul fuoco che non l'ho fatto per fini politici, ma solo perché quello era il mio dovere, anche se mi dispiaceva...»). Berlusconi capisce subito che dietro l'annuncio di «rivedere la propria posizione" c'è l'orientamento di Di Pietro a cambiare cavallo. E lo capisce anche D'Adamo. Sentiamo Berlusconi: «Dopo l'articolo su Repubblica dell'8 ottobre '95 D'Adamo finalmente si convince che, prendendo in giro me, Di Pietro ha preso in giro anche lui. Si indigna e si sfoga, raccontandomi dei cento milioni, del telefonino, della Dedra, dell'appartamento vicino al Duomo, dei miliardi di Pacini Battaglia e della sua promessa a Di Pietro di riservarne quattro e mezzo a lui al momento della restituzione. Per i primi cento milioni, di cui D'Adamo non attendeva in alcun modo una restituzione, sono convinto che Di Pietro li abbia invece restituiti non solo perché temeva gli ispettori del ministero, ma anche e soprattutto perché pensava di essere in procinto di diventare il presidente del Consiglio incaricato» Dopo il colloquio con Berlusconi, D'Adamo scrive di pu-
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gno un memoriale di due paginette con il racconto dei suoi favori a Di Pietro e lo consegna a una terza persona. Questo memoriale, come vedremo, arriverà alla Procura di Brescia soltanto nella primavera del '97. Passa un anno. L'ultimo trimestre del '96 segna momenti di altissima tensione. Il 2 ottobre Berlusconi guadagna un punto di sostegno alla sua convinzione di non essere amato dai giudici di Milano. Un microfono lasciato acceso nell'aula del processo al Cavaliere (sciaguratamente o provvidenzialmente, fate voi) registra - come abbiamo già visto nei capitoli precedenti - una frase incauta del presidente del tribunale, Carlo Crivelli, che, conversando con il pubblico ministero Gherardo Colombo, gli dice di usare «al massimo» con gli imputati «la tecnica del bastone e della carota. L'ultima settimana di settembre è ripreso intanto a Brescia il processo contro Cesare Previti e Paolo Berlusconi accusati dalla procura di aver manovrato per far dimettere Di Pietro dalla magistratura (verranno entrambi assolti). Formalmente Di Pietro è parte lesa, ma i tre interrogatori a Brescia ai quali è stato sottoposto dai sostituti Fabio Salamone e Silvio Bonfigli sono stati molto drammatici. E nessuno si meraviglierebbe che alla fine anche Di Pietro finisse sul banco degli imputati. I legali dell'ex magistrato sono molto preoccupati. Una settimana prima della ripresa del processo, il 19 settembre, viene intercettata una telefonata tra il difensore di Di Pietro Massimo
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Dinoia, e un magistrato del tribunale di Teramo. L'íntercettazione avviene perché Dinoia si trova nello studio del professor Federico Stella, sotto tiro per la questione Necci (l'amministratore delegato delle Ferrovie è stato arrestato tre giorni prima). Il magistrato abruzzese chiede se Salamone continuerà il processo e Dinoia gli risponde di no. «Sicuramente no.» In effetti, dopo alcune udienze preliminari, il 17 ottobre il procuratore generale di Brescia, Marcello Torregrossa, toglie il processo a Salamone per «grave inimicizia» nei confronti di Di Pietro. Viene tirato in ballo un rapporto processuale tra Di Pietro e il fratello di Salamone, Filippo, che fa l'imprenditore in Sicilia, è stato arrestato dalla Procura di Palermo ed è
Cilifi7scia chi? 277
pieno di guai. (Verrà arrestato di nuovo nell'autunno del '97 dalle Procure di Palermo e di Catania come raccoglitore di tangenti per i politici e per associazione mafiosa.) Secondo Fabio Salamone, Di Pietro incrocia per caso il nome del fratello: gliene parla in un interrogatorio il costruttore Lodigiani, riferendo cose già note alla Procura palermitana. Il magistrato non iscrive l'imprenditore siciliano nel registro degli indagati, trasmette correttamente la dichiarazione di Lodigiani a Palermo, dove peraltro gli uomini di Caselli sanno giù tutto. (Questa versione contrasta con quella di Mirko Tremaglia, il deputato di An amicissimo di Di Pietro, che a
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Francesco Battistini del «Corriere, 1'8 dicembre '96, parla di quaranta-cinquanta interrogatori condotti da Di Pietro sul fratello del pubblico ministero bresciano.) L'iniziativa di Torregrossa fa scalpore. è la prima volta nella storia giudiziaria italiana, infatti, che un pubblico ministero viene sollevato dall'incarico per inimicizia grave nei confronti della parte offesa. Deve lasciare il processo anche Bonfigli: a lui non si contesta niente, ma poiché la gestione dell'accusa passa alla Procura generale, è l'intero ufficio della Procura della repubblica di Brescia - gerarchicamente inferiore - che viene esautorato. Di Pietro incamera così un vantaggio: un processo in mano a Salamone sarebbe stato duro nei confronti di Previti e Paolo Berlusconi, ma sarebbe stato una mina vagante per l'uomo di Mani pulite. Ma lo perde su un altro fronte pochi giorni dopo.
«Quei due mi hanno sbancato».
Due frasi intercettate a Pierfrancesco Pacini Battaglia hanno infatti messo in moto la Procura di La Spezia (che indaga sui rapporti tra Necci e Pacini) e quella di Brescia, competente sui reati dei magistrati in servizio a Milano. Le frasi sono: «Quei due, Di Pietro e Lucibello, mi hanno sbancato e «Abbiamo pagato per uscire da Mani pulite. I magistrati delle
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE due procure si incontrano in segreto a Parma per scambiarsi gli atti e il segmento d'inchiesta che riguarda Di Pietro passa a Brescia. Che indaga Di Pietro, Lucibello e D'Adamo (vedremo poi perché) per concussione e corruzione. Di Pietro è da maggio ministro dei Lavori Pubblici del governo Prodi. Aveva chiesto la vicepresidenza del Consiglio e il ministero dell'Interno, ma era impensabile che il Pds - dopo una marcia di cinquant'anni verso il governo - vi rinunziasse. La popolarità di Di Pietro resta comunque enorme. Il 13 novembre i giornali pubblicano un clamoroso sondaggio Directa: oltre metà degli italiani voterebbe per Di Pietro dovunque si collochi politicamente (56.7 per cento lo voterebbe alla guida del centrosinistra, il 53.7 per cento alla guida del centrodestra e il 51.5 per cento alla guida di un partito suo). La sera dello stesso giorno esce la notizia della nuova indagine bresciana su Di Pietro. Il ministro è a Istanbul, viene a sapere la novità dal TG5, si chiude in albergo e scrive una durissima lettera di dimissioni dal governo. Una lettera con sette «basta!». (Il primo è per i magistrati bresciani «invidiosi e teorizzatori».) La lettera viene passata alle agenzie di stampa il pomeriggio dell'indomani, 14 novembre. Prodi ne viene informato così. Di Pietro scompare in montagna, non lascia recapiti a nessuno. Prodi riceve un fax di scuse, ma non trova il mittente, D'Alema riuscirà a parlargli dopo un paio di giorni. (All'inizio di dicembre, Michele Santoro gli attribuirà questa frase nella prima puntata della trasmissioneMoby Dick»:Ho de-
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ciso di dimettermi quando ho sentito che Craxi parlava a Vespa di un bottino». La mia intervista a Craxi, di cui parlerò più avanti nel libro, è andata in onda in «Porta a portail 12 novembre, la sera prima che si sapesse della nuova inchiesta bresciana e che Di Pietro scrivesse la lettera di dimissioni.) Pochi giorni dopo la botta più forte. Alle sei e un quarto del mattino, duecentotrenta finanzieri compiono contemporaneamente sessantotto perquisizioni in sette regioni italiane. Case e uffici di Di Pietro a Curno, a Roma e a Montenero di Bisaccia, nel Molise, vengono rivoltati come un calzino. Stessa sorte a case e uffici di Antonio D'Adamo, Maurizio Prada, Giuseppe Lucibello e di altri imprenditori. Perquisita anche l'abitazione del maresciallo Salvatore Scaletta, il più stretto collaboratore di Di Pietro. Secondo quanto scrive Marisa Fumagalli sul «Corriere» del 7 dicembre, Scaletta «è l'anello di congiunzione tra la gestione di Di Pietro e quella di Piercamillo Davigo: è stato lui a raccogliere le confidenze fuori verbale di Pacini Battaglia. Un argomento sul quale si discuterà a lungo». (La polemica sarà sull'uso di Pacini Battaglia come fonte confidenziale.) La perquisizione ha un'eco enorme. Viene lamentato il grande impiego di forze, l'ingresso all'alba in casa di Di Pietro (che non si trova in nessuna delle sue abitazioni) con grande spavento della moglie Susanna e dei bambini. I nemici dell'ex magistrato parlano di nemesi storica: «Quante vol-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE te la polizia giudiziaria mandata da Di Pietro ha sconvolto il sonno e la giornata di mogli e figli?». Il giurista Vittorio Grevi si chiede sul «Corrierea che cosa sia servita l'«ostentata spettacolaritàdella perquisizione. Nell'estate successiva rivolgo la stessa domanda al capo della Procura di Brescia, Giancarlo Tarquini, che dirige l'inchiesta con i sostituti Silvio Bonfigli, Antonio Chiappani e Francesco Piantoni. (Bonfigli è un giovane magistrato di buonsenso che garantisce la continuità operativa con Salamone, Piantoni ha fama di equilibrio e di prudenza, Chiappani ha buoni rapporti con il Pool di Milano.) Tarquini è in magistratura da trent'anni, ha fatto quasi tutta la carriera m Emilia, detesta il protagonismo dei magistrati, non gli cavi 1una parola sulle inchieste. E costretto a trattare «alcune centinaia» di inchieste ogni anno che riguardano i suoi colleghi di Milano, lamenta di avere pochi sostituti, ammette che il moltiplicarsi delle denunce deriva dal fatto che la magistratura è al centro della vita pubblica italiana, non avverte su di sé il peso dell'attenzione generale. E quando gli chiedo se valeva la pena di mettere in carnpo tanta gente per le perquisizioni, mi risponde asciutto: «O son fatte così o non hanno senso".
«Io quello lo sfascio»
I giornali di Sant'Ambrogio pubblicano pagine intere sul-
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l'inchiesta Di Pietro. La sera alla Scala s'inaugura la stagione lirica con un'opera assai raffinata e di rarissima esecuzione, Armíde di Gluck. Francesco Saverio Borrelli, che ha la virtù d'essere melomane, prende posto come sempre in una poltrona del settore sinistro. Ma alla fine del primo atto Armide, seguendo la magica bacchetta di Riccardo Muti, non ha fatto in tempo a dire «Perseguiamo fino alla morte il nemico che ci
offende» che vado a placcarlo, seguendo le migliori tradizioni rugbistiche della mia città d'origine. Borrelli è molto pallido e lo sembra ancora di più perché il volto «spara» sul nero dello smoking. «Credo che Tonino abbia avuto qualche amicizia discutibile, non altro» mi dice. «La perquisizione? Sia la benvenuta. Adesso si dovrà fare per forza chiarezza. Indietro non possono tornare.» Poi lascia la sala per affacciarsi sul foyer e viene inghiottito dalle telecamere in attesa. Nell'estate del '96, Borrelli mi aveva manifestato qualche perplessità sulla scelta dell'opera di Gluck per inaugurare la massima stagione d'opera italiana. Pochi giorni prima della rappresentazione era andato a deporre al processo di Brescia contro Previti e Paolo Berlusconi. E raccontando come Di Pietro fosse determinato ancora pochi giorni prima delle dimissioni da magistrato a condurre l'interrogatorio dell'indagato presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, aveva rivelato una frase del suo ex sostituto destinata a una durevole
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE notorietà. «Io quello lo sfasciogli aveva detto Tonino nel franco linguaggio dei giovani focosi d'ogni latitudine che scongiurano gli amici di «tenerli» per evitare una strage. («Reggèteme!», sarebbe la libera traduzione romanesca, e «tinitimi!quella più letterale siciliana.) Quando la sera di Sant'Ambrogio il procuratore torna alla sua poltrona, una signora veneta che gli siede davanti è l'inconsapevole testimone - seppure di spalle - di un amaro sfogo. E a me viene d'immaginare che il dottor Borrelli si senta nei confronti di Di Pietro come Rinaldo, eroe maschile dell'opera di Gluck, si sentiva nei confronti di Armide: «Avvinto dai suoi incanti e non dalla sua persona». Borrelli vorrebbe forse far sua, in qualche momento, l'ira di Armide. Come nella scena terza del terzo atto, quando la terribile eroina grida: «Venez, venez, Haine implacable!» (Venite, venite, Odio implacabile!) Subito obbedita dall'Odio che esce dagli inferi con il suo seguito. Qualche giorno prima, questi versi debbono aver ronzato nelle orecchie di Di Pietro perché, come riferisce Francesco Battistini sul «Corriere» dell'8 dicembre, Tonino avrebbe confidato all'amico barista di Curno Giuseppe Pelizzoli: «Dopo quello che ha detto Borrelli ["Io quello lo sfasció '], vedrai che mi renderanno la vita dura...». Mentre Susanna Mazzoleni partecipa a Curno a una fiaccolata di solidarietà al marito, Di Pietro s'infuria perché il «Corriere» pubblica alcuni verbali del Gico e dichiara («la Repubblica», 9 dicembre): «Questa storia è una barzelletta».
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
Le accuse contenute nel rapporto della Finanza sono «una volgare menzogna e una squallida vendetta. Per Di Pietro, nonostante i sondaggi continuino ad assicurargli un solidissimo consenso popolare, è questo uno dei momenti più difficili (anche se prima della fine dell'anno si prenderà la bella soddisfazione di veder bocciare le perquisizioni dal tribunale del riesame di Brescia). Se ne accorgono, con grande sorpresa, gli stessi milioni di spettatori che nei telegiornali della sera del 16 dicembre assistono alla mancata deposizione di Di Pietro al processo di Brescia in cui è parte lesa. «Un Tonino mai visto, quasi impaurito e smarrito davanti al tribunale, alla fine è costretto ad andarsene senza poter leggere, come chiedeva, una breve spiegazione del perché si avvale - come fecero decine di suoi inquisiti - della facoltà di non rispondere."E il racconto di Luigi Crovi sul «Corriere". Ma ancora una volta è la televisione il diffusore più implacabile. Dopo una serie di inviti a chiarire se vuole o no rispondere alle domande, ai quali Di Pietro replica cercando di leggere un suo documento, il presidente va per le spicce: «Sì o no, dottor Di Pietro?». Di Pietro risponde con una frase imprevedibile: «Non... Mi perdoni... Non... Sono una persona». Una persona. Il pubblico dei telespettatori, che in larga maggioranza vorrebbe ancora Di Pietro primo ministro non importa se a sinistra, a destra o al centro purché sia Di Pietro, scopre all'improvviso che chiun-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE que si sieda dinanzi a una corte di giustizia e non abbia il coltello dalla parte del manico, anche se si chiama Antonio Di Pietro, diventa una persona. Debole come tutti, esposto all'autorità come tutti, bisognoso di comprensione come tutti.
Dalle «gorrinate» a Pacini Battaglia
Tre giorni dopo, il 19 dicembre, Berlusconi viene convocato a Brescia. Nell'incontro con Tarquini e i suoi sostituti riferisce tutti i movimenti compiuti da Di Pietro per convincerlo della sua buona fede e del ruolo marginale da lui avuto nella storia dell'invito a comparire di Napoli. Berlusconi riferisce anche delle «gorrinatedi Di Pietro raccontategli da D'Adamo. Prima che nascesse Mani pulite, cioè tra 1'89 e il '90, Di Pietro aveva ricevuto da un suo caro amico, Giancarlo Gorrini, presidente della Maa Assicurazioni, una serie di benefici i cento milioni in prestito, la famosa Mercedes a prezzi di saldo (poi rivenduta a Lucibello), l'intervento in favore di un altro amico, Stefano Eleuterio Rea, capo dei vigili urbani di Milano soffocato dai debiti del gioco dei cavalli e così via. Su questo avevano già indagato i procuratori di Brescia e avevano chiesto anche il rinvio a giudizio di Di Pietro. Ma il 29 marzo del '96 - tre settimane prima delle elezioni politiche il Gip Anna Di Martino aveva invece prosciolto il suo ex collega. Pur avanzando talvolta riserve sul «discutibile modus
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operandi del Di Pietro» (se non si fosse dimesso dalla magistratura, difficilmente il Csm avrebbe potuto evitargli una sanzione), la Di Martino afferma che «manca una qualunque traccia di una condotta concussoria da parte del Di Pietro il quale - secondo la stessa prospettazione del Gorrini - non ebbe mai a fargli intendere che avrebbe orientato i propri poteri d'ufficio esclusivamente in funzione di ottenere dallo stesso le utilità in discussione». In ogni caso, al momento dei favori, Gorrini non è inquisito da Milano e, quando lo sarà Di Pietro non si occuperà di lui. Nemmeno Antonio D'Adamo è inquisito da Di Pietro al momento dei favori. Siamo tuttavia in un periodo molto più caldo, il '92-93, Mani pulite è nel suo pieno e drammatico fulgore. Anche D'Adamo subirà pesanti inchieste, ma su di lui Di Pietro chiederà espressamente di astenersi. E sarà l'unico caso Che cosa concede D'Adamo a Di Pietro? Si muove con maggiore larghezza di Gorrini. Cento milioni in prestito anche qui (restituiti senza interessi a fine '94 in una scatola di cartone che è stata consegnata dall'imprenditore ai magistrati bresciani). L'uso di una Lancia Dedra. L'uso di uno splendido piccolo appartamento affacciato sul Duomo di Milano, che Di Pietro trova sempre a posto e con il frigorifero ben fornito. La disponibilità di un residence a Roma. La possibilità di ritirare abiti di ottimo taglio da Tincati, una delle boutique più eleganti di Milano e in un altro negozio
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE di abbigliamento. La disponibilità di biglietti aerei sulla tratta Milano-Roma. Quando decide di candidarsi alle elezioni autunnali del '97 in un seggio toscano del Pds, Di Pietro riconosce di aver commesso delle leggerezze. In uno dei suoi rarissimi colloqui con un giornalista, confessa a Marco Travaglio per «Il Messaggero» del 19 settembre '97: «Eh, quante volte me ne sono pentito... Per me era un normale prestito di chi stava comprando casa e che avrebbe restituito - come ho restituito - appena ho potuto. Vorrei che tutti fossero messi in lavatrice come hanno fatto con me e poi vediamo chi può scagliare la prima pietra». Resta da chiedersi perché D'Adamo sia stato così generoso, visto che gli imprenditori non sono dame devote al culto di San Vincenzo de' Paoli. L'interessato fornisce una versione allo stato indimostrabile. Molti sono convinti che Sergio Radaelli, plenipotenziario del Psi nella «Milano da bere» degli anni Ottanta, abbia avuto da Di Pietro un trattamento di particolare riguardo nell'inchiesta sull'azienda tranviaria milanese alla fine dello scorso decennio. Radaelli, dice più o meno D'Adamo, era un mio socio occulto e - quel che più conta - era il «braccio armato» di Craxi e di Pillitteri. Lui mi faceva lavorare, Di Pietro è stato gentile con lui, io sono gentile con Di Pietro. Naturalmente Di Pietro nega di essere stato gentile con Radaelli e la tesi di D'Adamo resta appesa a se stessa. Ma dai colloqui privati tra D'Adamo e Berlusconi (e dalle
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tre deposizioni-fiume dell'imprenditore davanti ai procuratori di Brescia del luglio '97, alle quali t seguita una di tredici ore il 26 settembre successivo) vengono fuori un'altra storia e un altro nome, quelli di Pierfrancesco Pacini Battaglia, il padre di tutte le intercettazioni. Pacini si costituisce a Di Pietro il 10 marzo del '93 rientrando dall'estero con l'evidente assicurazione di un salvacondotto per la sua collaborazione. Prima di partire per l'Italia, il banchiere dice infatti alla moglie:Ho avuto garanzie che vado e torno con le mie gambe». E così è. Pacini incontra Di Pietro e il Gip Italo Ghitti in una caserma, viene arrestato, depone, viene scarcerato e se ne torna a casa in Svizzera. Tutto nella stessa giornata. (Secondo «L'Espresso» del 21 marzo '93, Pacini avrebbe parlato dei fondi neri dell'Eni e dei finanziamenti illeciti a Dc e Psi.) è possibile che in questo colloquio Pacini decida di usare per l'Eni quello che sarà sospettato di essere un doppio binario: l'Eni da buttare a mare e l'Eni da salvare. Pacini nomina come difensore Giuseppe Lucibello, un pittoresco avvocato meridionale amicissimo di Di Pietro. E come chiarirà agli stessi procuratori di Brescia nell'ottobre del '95, non lo nomina perché lo ritenga l'erede naturale dei maestri italiani del diritto, da Beccaria a Calamandrei, ma piuttosto per il suo saper vivere. «Meglio un avvocato sveglio e in contatto con la procura che un principe del foro» gli avrebbe detto un suo autorevole consulente, l'ex procuratore generale di Ro-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ma, Franz Sesti, che nell'autunno del '97 smentisce invece ogni indicazione del genere.
Di Pietro e le carte Gsm svízzere
Come riferisce Maria Antonietta Calabrò sul «Corriere» del 9 dicembre '96, quando viene interrogato a Brescia da Salamone e Bonfigli il 2 luglio del '95, Di Pietro dichiara: «Allorché venne emesso il mandato di cattura nei confronti di Pacini Battaglia, io, proprio per evitare accuse di favoritismo, spiegai agli altri colleghi del Pool che gestissero direttamente loro i contatti con l'avvocato Lucibello. Durante le indagini, i magistrati bresciani si convincono che Di Pietro può non aver detto la verità su questo punto. Essi ritengono infatti che l'ex magistrato abbia interrogato molte volte Pacini alla presenza di Lucibello. A Brescia mettono insieme diversi elementi che, pure in modo ipoteticamente casuale, accostano i nomi di Pacini e di Di Pietro. C'è innanzitutto la vecchia storia della scomparsa del nome di Pacini Battaglia dall'inchiesta sulla cooperazione del nostro ministero degli Esteri con i paesi del Terzo Mondo, che fu al centro di uno spettacolare giro di tangenti. Il pubblico ministero romano Vittorio Paraggio conduce l'inchiesta e Pacini è tra gli indagati. Gli scrive Di Pietro, che si sta occupando della stessa vicenda. Secondo "Il Messagge-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
ro» del 16 ottobre 1996, gli parla di «inopportune sovrapposizioni di indagini». Fatto sta che Paraggio cancel]a il nome di Pacini dall'elenco degli indagati dell'inchiesta romana e trasmette gli atti a Milano. Ma a Milano il fascicolo non arriva mai. Pacini è uscito dall'inchiesta romana, senza entrare in quella milanese. Nel settembre del '96, quando Pacini viene arrestato, stavolta su ordine della Procura di La Spezia, insieme con Necci, durante una perquisizione viene trovata nei suoi uffici una informativa di reato del nucleo di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza di Milano: l'informativa riguarda Pacini e i finanzieri l'hanno mandata all'attenzione di Di Pietro. Nel documento ci sono anche accuse all'amministratore delegato dell'Eni, Bernabè. Risulta inoltre che nei primissimi mesi del '95 (Di Pietro si è definitivamente dimesso dalla magistratura nell'aprile di quell'anno) l'ex magistrato abbia usato carte per cellulari Gsm provenienti da Pacini Battaglia. Pacini ha acquistato queste carte in Svizzera e le ha intestate al suo autista che formalmente paga la bolletta degli utilizzatori. Queste carte, che rendono la telefonata non intercettabile, vengono distribuite a numerose persone: alcune vanno a Lucibello, due a Cesare Previti, una a Emo Danesi e una Antonio Di Pietro. Pacini si chiama fuori da ogni rapporto con Di Pietro. Rinuncia a insistere nel dire che la frase «quei due mi hanno
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sbancato» fosse un errore di trascrizione rispetto a «sbiancato» o «stangato»: la registrazione è chiarissima e non ammette equivoci. Ai magistrati di Brescia spiega che intendeva riferirsi alla severità delle indagini di Di Pietro (ma perché allora «quei due», visto che le indagini non le faceva anche Lucibello?). Pacini Battaglia si chiama fuori anche dalla storia dei Gsm non intercettabili: io ho dato le carte telefoniche al mio difensore Lucibello. Che ne so a chi le ha date lui? Di Pietro viene interrogato a Brescia una prima volta nel febbraio del '95, una seconda nel luglio successivo. Tra le due date smette di utilizzare la carta Gsm di Pacini Battaglia. Quando i giornali pubblicano l'elenco dei favori di D'Adamo a Di Pietro, l'ex magistrato non smentisce. Ma s'infuria e spara querele quando si comincia a parlare di un'altra storia raccontata da D'Adamo a Berlusconi e poi ripetuta in modo fluviale ai magistrati di Brescia. Tra le sue attività di alterna fortuna, D'Adamo ha una casa '86 La.fida
editrice che si occupa prevalentemente di libri scolastici: la D'Adamo Editore. A metà del '93 la casa editrice va malissimo e D'Adamo chiede aiuto a Pacini Battaglia che acquisisce il controllo dell'azienda e versa nove miliardi a D'Adamo senza alcuna solida garanzia di restituzione. Mette peraltro un suo uomo dentro la casa editrice e questi non può far al-
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tro che constatarne la struttura a colabrodo. Per tapparne le falle, D'Adamo chiede altri tre miliardi che vengono versati da Pacini ed effettivamente perduti con drammatica rapidità. Nei primi mesi del '94 anche una persona naturalmente portata a opere benefiche come Pacini Battaglia si irrigidisce e chiede a D'Adamo di riprendersi la società e di dargli indietro i nove miliardi (i tre aggiuntivi sono ormai andati in fumo). Ma l'imprenditore amico di Berlusconi e di Di Pietro non li ha più. Concorda infatti la restituzione della metà (quattro miliardi e mezzo), ma finisce per liquidare a Pacini soltanto una somma simbolica: duecento milioni. Perché tra Pacini e D'Adamo si è parlato soltanto di quattro miliardi e mezzo? Perché, sostiene D'Adamo, l'accordo con Pacini sarebbe stato di tenere l'altra metà a disposizione di Di Pietro. Accusa che, fatta così, è pura calunnia: Pacini nega del tutto la circostanza, Di Pietro è fuori di sé e lo stesso D'Adamo sostiene di non aver versato effettivamente una lira al magistrato, né quando era in servizio, né dopo. Su questo delicatissimo passaggio e sulla versione che ne fornisce l imprenditore, esiste una nitidissima registrazione compiuta durante il racconto di D'Adamo da persone dell'entourage di Silvio Berlusconi. Pacini deve peraltro chiarire come mai una persona navigata come lui va a perdere dodici miliardi in un'azienda stracotta senza alcuna garanzia di quelle che una banca ti chiede
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE anche per prestarti centomila lire. (Dirà che era interessato a certe attività del costruttore nel mondo petrolifero.) E bisogna pur chiedersi perché D'Adamo, dopo anni di silenzio, vada a scavarsi la fossa con una versione così forte, se non fosse in grado di documentarla. (Nell'autunno del '97, «L'Espresso» scrive che le società di Berlusconi sarebbero venute incontro a D'Adamo. Ma gli ultimi rapporti tra i due gruppi si fermerebbero invece al '94.)
Nuovo dossier del Gico su Di Píetro
Nella primavera del '97, prima del secondo interrogatorio di Berlusconi a Brescia, le due famose paginette scritte di proprio pugno da D'Adamo nell'autunno del '95 vengono consegnate alla Procura di Brescia. Nello stesso periodo, l'imprenditore fa sapere ai magistrati bresciani di essere pronto a collaborare. Chiede tuttavia di poter aspettare qualche mese (sarà interrogato in luglio) perché i giudici della sezione fallimentare del tribunale di Milano che stanno trattando alcune sue cause non siano condizionati negativamente. Per proseguire nelle loro indagini, i procuratori bresciani debbono chiedere il permesso al Gip, essendo scaduto a maggio il primo termine. Nella richiesta, essi dimostrano di aver trovato la documentazione del passaggio dei dodici miliardi da Pacini a D'Adamo. Una rogatoria svizzera con l'uomo di fiducia del banchiere, Kees Van der Poel, ha dato esito favorevo-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
le. Tarquini e i suoi scoprono anche un'altra cosa. Con una complicatissima trafila, quattrocento milioni sono passati da Pacini a una parente di Lucibello. Il passaggio avviene nella primavera del '93, poco dopo che Lucibello ha assunto la difesa di Pacini. Attraverso la sua Karfinco, il banchiere bonifica quattrocento milioni alla Banca Commerciale che a sua volta li trasferisce alla sua filiale di Vallo della Lucania (il paese di Lucibello) sul conto della mamma della moglie del fratello dell'avvocato. Una parcella troppo generosa, visto che Lucibello era stato appena nominato difensore di Pacini? L'avvocato nega che si tratti di questo, dice che la cognata è vissuta a lungo in Venezuela e gli ha chiesto come far rientrare in Italia i risparmi di una vita. Allora, sostiene Lucibello, l'ho messa in contatto con Pacini. La vicenda meriterà comunque un chiarimento: se si trattava di un semplice rientro di denaro, avrebbe potuto provvedere direttamente la Banca Commerciale che ha una filiale a Caracas senza disturbare la Karfinco e Pacini. Berlusconi torna a Brescia sabato 31 maggio. Conferma che quanto è scritto nelle due paginette del memoriale coincide con quanto gli ha raccontato D'Adamo nell'autunno del '95 e allarga il discorso alla parte più delicata: i rapporti tra D'Adamo e Pacini Battaglia con Di Pietro sullo sfondo, secondo il racconto che gli ha fatto l'imprenditore. Il 2 giugno si riunisce il consiglio comunale di Milano. Berlusconi lo presiede come consigliere «anziano», cioè più votato.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE La seduta finisce alle dieci di sera. Subito dopo Berlusconi incontra nella sede di Fininvest in via Rovani l'ingegner D'Adamo e gli rende noto di aver confermato ai magistrati di Brescia il contenuto del memoriale e il resto. «Ero un teste, non potevo sottrarmi», gli dice Berlusconi. D'Adamo preoccupato per i procedimenti giudiziari che vedono implicate le sue aziende e che sono in corso a Milano, teme ritorsioni e quasi si dispera. L'indomani l'avvocato Ennio Amodio, su incarico di Berlusconi, informa i magistrati di Brescia dell'incontro con D'Adamo. Nel mese di luglio D'Adamo viene convocato per tre volte a Brescia e scoppia la bomba dell'estate. Ma i procuratori di Brescia ricevono l'impressione che le deposizioni fiume di D'Adamo non siano la conseguenza diretta delle deposizioni di Berlusconi. Quando scopre per esempio che la sua confessione sui supposti quattro miliardi e mezzo a disposizione di Di Pietro è stata registrata, ci resta male, ma va molto oltre nel suo racconto, intrecciandolo con i riscontri già in possesso dei magistrati bresciani. Racconto almeno in parte falso e calunnioso? Il nodo della questione sta proprio qui. Nell'ottobre del '97 il Gico di Firenze deposita alla Procura di Brescia una corposa relazione nella quale ritiene di aver documentato un particolare trattamento di favore che Pacini Battaglia avrebbe ottenuto da Di Pietro dal suo primo arresto (10 marzo '93) fino alle dimissioni del magistrato (6 dicembre '94).Il periodo coincide con i finanziamenti di Pacini a D'Adamo. Di Pietro si è sempre difeso sostenendo di aver chiesto il rinvio a giudizio di Pacini. Per far
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
questo, tornò in ufficio il 7 dicembre '94, giorno successivo all'abbandono della toga.
Articolo 289: «è punito Con la reclusione...»
Berlusconi si è convinto che sia stato perpetrato contro il suo governo il reato di cui all'articolo 289 del codice penale: «Attentato contro organi costituzionali... è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette un fatto diretto a impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al presi-
Chisfascia chi? 289
dente della Repubblica o al governo l'esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge...». «Di Pietro» mi dice Berlusconi «ha chiarito personalmente in uno dei suoi interrogatori a Brescia di aver avuto un preciso progetto politico: attaccare la Fininvest attraverso i suoi colleghi del Pool, occupare le strutture dello stato, modificare gli assetti politici, esportare Mani pulite nel mondo. Ricorda quell'intervista in cui Borrelli si diceva pronto a rispondere a un'eventuale chiamata di Scalfaro? Ricorda quell'altra intervista del procuratore capo di Milano pubblicata dal "Giorna-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE le" il 22 dicembre '94, giorno della caduta del mio governo? Diceva Borrelli: "Di Pietro è un uomo sicuramente al di fuori dei giochi politici e proprio per questo potrebbe riscuotere la fiducia di tutti i gruppi politici e di tutti gli schieramenti... La scelta dei partiti a favore di Di Pietro riceverebbe l'appoggio popolare verso questa figura che ha assunto ormai delle connotazioni carlsmatiche di gestore della giustizia".» Secondo Berlusconi, non si capisce ciò che accade per tutto il '97 se non si torna indietro di cinque anni, al '92: «Quando alcuni pubblici ministeri di Milano alzano contro la corruzione politica quella bandiera del moralismo che avevano tenuto ripiegata dentro un cassetto essendo essi stessi protagonisti della "Milano da bere"». Però la corruzione politica c'era... «Certo che c'era. Il finanziamento illecito ai partiti non era un mistero per nessuno. Il sistema obbligatorio di concussione comprendeva tutti i partiti. Ma vada a guardare chi è stato colpito. I socialisti di Craxi, ma non quelli della sinistra. I democristiani moderati, ma non quelli della sinistra. I liberali. I repubblicani. Ma non il Pds che fruiva di un suo sistema di capitalismo interno - le cooperative rosse - e in passato aveva fruito dei finanziamenti di una potenza amica. E quando veniva arrestato qualche dirigente, l'educazione rigida della scuola comunista lo induceva ad assumere interamente su di sé la responsabilità delle proprie azioni. Prenda Greganti: arrestato, reo confesso, scarcerato e salutato dai pidiessini come "eroe
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comunista". Chi voleva indagare a tutto campo, come Tiziana Parenti e Carlo Nordio, fu messo in condizione di non farlo." «Quel che successe lo sanno tutti. Il Pool di Milano scese in campo per abbattere Berlusconi e il suo governo prima che si consolidasse. C'è una dichiarazione esplicita in tal senso di uno dei pm del Pool, asseverata da diversi testimoni. Si diede un colpo mortale all'immagine mia e del governo con l'invito a comparire inviatomi proprio a Napoli durante la conferenza dell'Onu sulla criminalità organizzata che io presiedevo, per utilizzare la cassa di risonanza più ampia e ottenere l'effetto più clamoroso.» Secondo lei, perché? «Vediamo. Eliminata l'intera classe politica, fu varata nell'agosto del '93 la legge elettorale maggioritaria che consente a una minoranza organizzata di prendere il potere. Occhetto chiese a Scalfaro di sciogliere le Camere, certo della vittoria elettorale sulla via spianata dai giudici. Ma ci fu la sorpresa Berlusconi, il miracolo di un partito costruito in due mesi, il miracolo della coalizione con la Lega e Alleanza nazionale. Il Polo delle libertà vinse le elezioni e si insediò a palazzo Chigi. La sinistra dopo un primo momento di sbandamento, coalizzò tutti i cosiddetti poteri forti, dalla grande industria, con i suoi giornali, ai sindacati, dalle istituzioni alle procure rosse contro quel governo. Il disegno era chiaro: bisognava abbatterlo in fretta, prima che si consolidasse, prima che potesse
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE realizzare quei risultati che il passato di Berlusconi accreditava come possibili. Nessun altro governo mai si trovò a essere oggetto di così tanti attacchi concentrici. E si arrivò a concretizzare un piano preciso per cambiare la maggioranza uscita dalle urne. Si promise a Bossi (che dopo il "tradimento" nei sondaggi veniva accreditato del 2.3 per cento dei voti) che non si sarebbero sciolte le Camere per un anno, come invece sarebbe stato obbligatorio fare con il nuovo sistema del maggioritario, dando così anche un colpo mortale al bipolarismo. Mi si consigliò di fare un passo indietro. Il resto è storia recente. Ma intanto contro Berlusconi e la Fininvest ci sono sessanta procedimenti penali, sono stati eseguiti ventisette mandati di cattura nei confronti di dirigenti del gruppo, sono state effettuate centinaia di perquisizioni, sono stati sequestrati più di due milioni di documenti. Sa quante udienze si stanno svolgendo tra il settembre e il dicembre del '97, con Berlusconi, idealmente, alla sbarra? CinquantaquattrO. Tolga il sabato e la domenica, un'udienza ogni giorno e mezzo. Neppure il più grande criminale di tutti i tempi ha mai dovuto subire un trat-
tamento del genere. E il ritornello è sempre lo stesso. Da un lato il presidente di un gruppo con cinquecento società che "non poteva non sapere" anche nel dettaglio che cosa accadesse dentro ciascuno di loro. Dall'altro la trasformazione di dirigenti concussi che avevano subito una violenza in corruttori e l'attribuzione di rilevanza penale a situazioni contabili
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che non hanno procurato una lira di danno a nessuno, l'accusa di falso in bilancio un reato ipotizzato a tutela degli azionisti, relativamente a società di proprietà al cento per cento di un unico azionista, la Fininvest, per risibili errori contabili che non hanno prodotto danno alcuno non solo all'unico azionista ma neppure a creditori, a clienti, all'erario, a un qualsivoglia soggetto terzo.» «In nessuno di questi procedimenti c'è una firma, un documento, un contratto, una dichiarazione, una testimonianza, una denuncia, una chiamata in correità che mi coinvolge, che mi chiama appunto in causa direttamente. Sono chiamato in causa per un inedito principio, quello della responsabilità oggettiva, non potevo non sapere perché ero il presidente del gruppo Fininvest. Principio che naturalmente vale solo per Berlusconi. Non vale per nessun altro, al vertice di un'azienda o di un partito che sia. Anche per quelli, e sono tanti, che non sono stati messi sotto accusa per importi molto rilevanti, in qualche caso di decine o centinaia di miliardi. Berlusconi no, doveva sapere tutto anche di somme modestissime corrispondenti a trenta secondi dei movimenti finanziari delle sue società. Un tempo Berlusconi s'accalorava in questi racconti. Adesso ne parla come se riguardassero altri. E si indigna solo per pochi istanti anche quando «L'Espresso» del 2 ottobre gli annuncia che sarebbe iscritto nel registro degli indagati per l'accusa di alcuni pentiti che attribuisce a boss mafiosi l'in-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tenzione di investire 10 miliardi nella televisione. Caselli smentisce, «L'Espresso» conferma e rilancia, Berlusconi inserisce anche questa vicenda nel contesto politico. «Questa magistratura ha legittimato per sua diretta ammissione la nuova classe politica. [L'allusione è nella frase di Caselli, da noi riferita nel sesto capitolo, che dice in sostanza ai politici: voi siete qui perché ci siamo noi, se cadiamo noi, cadete anche voi.] E adesso torna in campo per assestare il colpo definitivo all'opposizione moderata colpendola nel suo leader. A Ottaviano Del Turco, presidente dell'Antimafia, qualcuno ha chiesto: lei ritiene che Silvio Berlusconi sia il capo della mafia? Ha commentato Del Turco: che Paese è quello in cui si possono fare domande del genere?» In effetti, un insondabile incrocio di pentiti (abbiamo perso il conto di quelli che i procuratori di Palermo considerano credibili e di quelli che invece non lo sono) ha chiamato in causa Berlusconi per pretesi rapporti con la mafia. «Un giorno sono il capo della mafia, un altro sono sovvenzionato dalla mafia, il terzo sono io a sowenzionare la mafia, il quarto sono l'ispiratore della strage di Capaci, il quinto della bomba di via dei Georgofili a Firenze... Si parla di miei giganteschi affari immobiliari nel centro di Palermo. Io non vi ho acquistato nemmeno un mattone. In quarant'anni di attività imprenditoriale, io non ho mai fatto non dico un affare, ma nemmeno una trattativa, un incontro, una telefonata in Sicilia.» La mafia può averla intimidita facendo saltare in aria la
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Standa di Catania? «Vogliamo parlare dei miei... be' diciamo "incontri" con la mafia? Il primo risale a ventitré anni fa. Compro la tenuta di Arcore, ho bisogno di un fattore che si intenda di campi e di cavalli perché nella tenuta c'è un impianto ippico con tanto di scuderia, di maneggi e di ippodromo. Nessuno di coloro che rispondono alle nostre inserzioni dispone delle qualifiche richieste. Il mio segretario, e amico, Marcello Dell'Utri, palermitano, si ricorda del parente o amico di un ragazzo della sua squadra di calcio in Sicilia che, per quanto gli dicono, risponde ai requisiti auspicati. Lo sente al telefono e questo accetta. Vittorio Mangano, così si chiama, arriva ad Arcore con madre, moglie e due figlie piccole, che diventano compagne di gioco di Piersilvio e Marina, loro coetanei. Mangano li fa giocare e li porta a spasso tutti insieme. E serio e competente, svolge con impegno e assiduità il suo lavoro, nessuno ha nulla di cui lamentarsi. Una sera un mio ospite che rientrava a Milano dopo una cena da me ad Arcore subisce un tentativo di sequestro Le indagini sul caso portano a scoprire che Mangano è pregiudicato. Il rapporto di lavoro si risolve e tutta la sua famiglia lascia Arcore, in lacrime. [Mangano è stato arrestato negli anni scorsi per associazione mafiosa. Nel suo libro Attentato al governo Berlusconi, Giancarlo Lehner riporta questa frase attribuita il 28 febbraio 1997 a Maria Anna Imbronciano, moglie di Mangano: «La Procura di Palermo vuole che mio marito accusi Berlusconi," .] Qual-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE che mese dopo mio figlio viene minacciato di morte attraverso una serie di messaggi di sicuro stampo mafioso. Il maresciallo Oscuri, esponente di rilievo della polizia a Milano, responsabile delle indagini al riguardo, mi consiglia: dottore, qui c'è di mezzo la mafia, non si può scherzare. Le consiglio di trasferire la sua famiglia all'estero, in una residenza sconosciuta. Comincia la nostra "fuga in Egitto". Dopo un sofferto peregrinare per far perdere le nostre tracce, approdiamo in Spagna. Io vivo una vita d'inferno. Raggiungo i miei la domenica e, per tenere segreta la destinazione, faccio scali in varie città europee utilizzando voli di linea. A un certo punto non ce la facciamo più: a parte la lontananza, gli addii, i disagi, ci sono i miei figli che disegnano dappertutto bandierine tricolori. Decidiamo di rientrare in Italia, mettiamo inferriate a porte e finestre, assumiamo un gruppo di specialisti della sicurezza, acquistiamo auto blindate. Un giorno telefonano a casa dalla scuola: signora, come mai Marina e Dudi non sono ancora qui? Erano usciti in orario ma l'auto si era bloccata. Ma mia moglie stette malissimo. E da quel giorno decidemmo che i nostri figli studiassero in casa. è chiaro? In casa, fino all'ultimo anno di liceo. Questo è stato il primo "rapporto" che ho dovuto subire come vittima, da parte delle organizzazioni criminali. Tralascio un'altra storia relativa a un tentativo di sequestro che sarebbe stato organizzato nei miei confronti da parte di una banda di criminali calabresi che erano poi, fortunatamente, finiti in carcere per altri reati e di cui ebbi informazioni dalla Procura di
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Milano diversi anni fa.» E la Standa? «E siamo al secondo episodio. Alcuni anni fa la Standa di Catania fu distrutta da un incendio che risultò appiccato intenzionalmente. Né prima né dopo l'incendio venne rivolta a Standa alcuna richiesta di denaro. I dirigenti Standa contribuirono alla scoperta dei responsabili e, per un certo periodo, furono anche protetti da una scorta della polizia. Non ci fu un'estorsione? Come mai non si concretizzò una estorsione? Mi pare chiaro. Credo che i mandanti dell'attentato volessero lanciare un avvertimento provocando un piccolo incendio. Qualcosa non funzionò e la sede Standa andò completamente distrutta. La minaccia non aveva più senso. Se avessero chiesto dei soldi e Standa li avesse pagati, lo avremmo dichiarato senza remora alcuna, come d'altronde aveva già fatto la Rinascente. Ricordo, se ce ne fosse bisogno, che Standa era una società quotata in Borsa.» Ritiene davvero che Forza Italia in Sicilia sia al centro di attenzioni sospette da parte della Procura di Palermo? «Riflettiamo su cosa è successo al presidente della provincia di Palermo. Arrestato, distrutto politicamente, infine scarcerato dal tribunale del riesame. Lei non ha idea di quanti siano i cittadini a cui è stata offerta una candidatura, che non solo non hanno accettato per timore di ritorsioni giudiziarie, ma che hanno pregato chi gliela offriva di non fare neppure
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE trapelare la notizia dell'offerta. D'altronde quando un candidato alla carica di sindaco sente il dovere di informare il procuratore della repubblica dell'offerta ricevuta, c'è qualche cosa che non funziona. Non è più possibile che si prendano per buone le dichiarazioni dei cosiddetti "pentiti" e che vengano diffuse a mezzo stampa senza che si sia verificata l'esistenza di riscontri oggettivi. Ci impegneremo per cambiare la legislazione su una situazione così paradossale. Non è possibile che le procure possano continuare a disporre di un enorme parco di pentiti da utilizzare a gettone, a gentile richiesta, come sostegno di loro teoremi accusatori. Che cosa ha da perdere un malavitoso che non ricorda nemmeno se ha ucciso cinquanta o cento persone? Non c'è menzogna che non sia disposto a raccontare pur di compiacere i pm da cui dipende in tutto e per tutto. Io dubito davvero che esistano le condizioni minime di una vera agibilità democratica, con questa tenaglia delle procure di Milano e di Palermo che agisce nell'indifferenza colpevole del ministro della Giustizia.» Una pausa e la conclusione: «Da questa situazione si può uscire soltanto con regole diverse per quanto riguarda l'amministrazione della giustizia, con una riscrittura in senso garantista della seconda parte della Costituzione, con una serie cospicua di leggi ordinarie di modifica del processo penale e del fenomeno del pentitismo, accompagnando il tutto con un provvedimento - un indulto o un'amnistia - che tolga di mezzo tutti i veleni che ammorbano la vita civile e politica e
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che risalgono ormai a un lontano passato».
Mi accompagna alla porta. "Ricorda che diceva Sant'Agostino?» Che diceva? «Mi piace dedicarmi all'approfondimento della verità. (Il Cavaliere non se ne accorge. Ma dietro un tendaggio dei saloni di palazzo Grazioli, dove abbiamo tenuto quest'ultima conversazione autunnale, comincia a materializzarsi un fantasma. Prima un sole, poi una mano, infine una vergine nuda e alle sue spalle un misterioso blocco di marmo non finito. è la Verità svelata dal Tempo di Gian Lorenzo Bernini. L'avessero tenuta ancora un poco per sé quella scultura, gli eredi del Bernini, come voleva il loro avo, Berlusconi l'avrebbe comperata di corsa. Ah, come l'avrebbe comperata...) Di Pietro a sinistra. O no?
La Madonna in tribunale
L'ultimo incontro era del '93. La mattina del 20 luglio s'era ucciso in carcere Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni fino al
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE momento dell'arresto, il 9 marzo. Centotrentatré giorni di San Vittore, un record anche per Mani pulite. Un uomo prudentissimo come il ministro della Giustizia Conso, abituato a centellinare anche i sospiri, disse in Parlamento che Cagliari era stato "dimenticato in carcere. Di Pietro arrivò tardi al nostro appuntamento. Pensavo che non sarebbe più venuto, viste le circostanze. Si scusò invece per il ritardo con una telefonata e poi arrivò. Si lasciò cadere sulla sedia del ristorante e disse:è una sconfitta. Era sconvolto. Pallidissimo. Per lui Cagliari poteva uscire, ma il suo collega Fabio De Pasquale agì con quella che il difensore del suicida, Vittorio D'Aiello, definì «una violenza inaudita. Cagliari aveva confessato tangenti Eni per ventisette miliardi, poi aveva parlato degli accordi tra Craxi e Ligresti per altre provvigioni ai partiti sulle polizze Sai per i dipendenti Eni. Lo fece perché aveva capito che De Pasquale lo avrebbe fatto uscire. E invece questi respinse la richiesta e se ne andò in vacanza. (Il suo comportamento fu peraltro ritenuto legittimo.) Cagliari rispose mettendo la testa in un sacchetto di plastica. «Non si può promettere e non mantenere» mi disse Di Pietro. Mi colpì che avesse accettato d'incontrarmi nono-
Di Pietro ainistra. O no? 297
stante mi fossi dimesso da poco dalla direzione del TG1 e
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contassi meno di niente. Nei quattro anni successivi, Di Pietro è stato sulle prime pagine dei giornali quasi quanto il calendario. Ma non dette mai interviste, né partecipò a trasmissioni televisive. Ci ritrovammo una mattina del luglio '97 davanti alla porta del giudice per le indagini preliminari di Bergamo. Mi ci aveva portato lui con una querela. Lì scoprii, anzi, che erano due querele gemelle. Come accade nei parti gemellari dispettosi, la seconda stava nascosta dietro la prima e non la vidi. Avevo intervistato Benedetto Craxi (così si chiama negli atti giudiziari) per «Porta a porta», e quando gli avevo girato una domanda di Di Pietro su dove avesse messo un bottino da trenta miliardi, lui aveva risposto insinuando che un bottino ce l'avesse il clan «del dottor Di Pietro. Era una calunnia e l'avevo tagliata. Ma Craxi chiamò «Porta a porta» in diretta e la ripeté. E io ripetetti che si trattava di una calunnia. Secondo Di Pietro, avrei dovuto impedire che lo dicesse (prima querela) e non avrei dovuto riproporre la frase, ormai nota, in una successiva trasmissione (seconda querela), nonostante lo avessi fatto per chiedere ai più incondizionati difensori di Di Pietro presenti in studio (Mirko Tremaglia, Elio Veltri e Federico Orlando) una lettura politica di quell'attacco di Craxi, pur ripetendo che esso era calunnioso. Il pubblico ministero aveva chiesto l'archiviazione del caso, Di Pietro si era opposto e ora ci trovavamo davanti alla
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE porta del giudice che avrebbe dovuto pronunciarsi (la causa fu peraltro rinviata). Anche quel mercoledì del luglio '97 Di Pietro era pallidissimo. Mi allungò la mano, gliela strinsi. Rispose con un sospiro e una smorfia, quasi fosse insidiato da un dolore fisico. Era la seconda volta che venivo querelato ritenendo di aver difeso il querelante. La prima mi capitò da ragazzo quando un professore della commissione di maturità al liceo classico dell'Aquila dette di matto, creò un caso clamoroso che raccontai su un quotidiano, credo, con una certa umanità. Fui prosciolto dall'accusa di «falso pietismo". Queste situazioni fanno parte del mestiere e a Bergamo dunque non provavo né disagio né rancore verso un uomo che non ritenevo affatto di aver danneggiato. Di Pietro aveva sporto qualcosa come duecentocinquanta querele, alcune fondate, altre meno. Più che una vittima, mi sembrava ormai un caso. Frequentava i tribunali di Bergamo e Brescia più degli avvocati del foro locale, nessuno si meravigliava, nessuno si girava, il suo difensore Massimo Dinoia aveva inserito da tempo un signorile pilota automatico e rispondeva a tutti con un sorriso in ciclostile, i cronisti avvertivano ormai il peso frustrante di taccuini e microfoni: quanta routine in attesa della prima pagina. Fu così che quella mattina, incrociandolo di nuovo nei corridoi del Palazzo di Giustizia bergamasco, gli chiesi della sua simpatia verso il movimento presidenzialista di Segni (e
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Cossiga) a una cui riunione quella mattina stessa aveva inviato un caloroso messaggio. La Commissione Bicamerale s'era appena chiusa e Di Pietro si era completamente dissociato dalle sue conclusioni. Subito dopo avergli fatto la domanda, capii di aver sottovalutato la situazione. Lui mi guardò in silenzio come se avessi sbagliato persona e solo in quel momento rammentai perché tanto spesso l'uomo che restava ai vertici italiani di popolarità veniva paragonato alla Madonna. Fui testimone io stesso di una di queste circostanze. Quando nel dicembre del '92 uscii con Di Pietro da un altro ristorante (l'avevo invitato io, volle pagare lui il conto), ci fermammo sul marciapiede per aspettare che passasse il tram. Appena lo vide, la gente che stava sopra la vettura si comportò esattamente come di fronte a un'apparizione. Schiacciò il naso contro i vetri e godette muta dell'evento. La Madonna appare quando vuole, parla pochissimo e non sta bene rivolgerle domande. Ve li immaginate i pastorelli di Fatima farle un'intervista sul Terzo Mistero? Nel 1858 Bernadette Soubirous, figlia del mugnaio di Lourdes, aspettò la diciassettesima apparizione per chiedere alla Signora come si chiamasse. «Sono l'Immacolata Concezione» rispose lei educatamente E la cosa finì lì. Mi sentii come uno che chiede per strada una sigaretta alla regina d'Inghilterra o come un fantasma che pretende di es-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sere riconosciuto e di avviare una conversazione. Capii all'improvviso il significato dell'espressione lesa maestà che rni aveva colpito molto da bambino. Rimasi insomma come un salame.
Un'intervista sul Terzo Mistero di Fatima
Dotato di un'ingenuità patologica, caddi di nuovo nella trappola tre mesi dopo, in ottobre, durante la campagna elettorale di Di Pietro che aveva trovato del tutto naturale candidarsi per l'Ulivo in un collegio così rosso che al confronto la copertina di questo libro diventa di un rosa impercettibile. Franco Marini mi aveva invitato a coordinare un dibattito tra Di Pietro e i due vicesegretari del Ppi, Letta e Franceschini. Il partito aveva messo in campo la squadra giovanile perché, sia pure con garbo postdemocristiano (e senza la potenza della vecchia guardia), qualche calcetto negli stinchi è in grado di assestarlo. Laddove Marini aveva ancora sullo stomaco l'olio di ricino anestetico che gli aveva fatto bere D'Alema il 16 luglio comunicandogli di aver chiamato a rappresentare l'Ulivo - e quindi anche i Popolari - l'uomo che aveva distrutto la Dc. (La quale Dc gli ha dato una bella mano, anche se Forlani non ha mai capito perché a lui Di Pietro fece venire la bava alla bocca - elevandolo a simbolo mortale
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della Prima Repubblica - mentre Craxi fu trattato dallo stesso pubblico ministero come la principessa Sissi al gran ballo delle debuttanti di Vienna.) I Popolari, ingenui pure loro, volevano che anche il giornalista coordinatore facesse qualche domanda. Ma Di Pietro mi ricusò. Disse a Marini che si era proposto di non fare dibattiti con gente che aveva querelato e questo significa quasi azzerare la categoria, togliendo per esempio di mezzo i principali direttori di giornale. In realtà, come sarebbe rischioso e penoso per una persona operata agli occhi ricevere improvvisamente la luce di mezzogiorno allo sparir delle bende, dopo quattro anni di silenzio Di Pietro non era pronto alle domande. Intendiamoci: non avrei rovinato la festa ai Popolari attingendo una qualunque delle cose contenute nel precedente capitolo di questo libro. Ma forse qualcuna delle domande «politiche» contenute in questo capitolo, be', forse mi sarei permesso di porgergliela, seppure servita in una porcellana d'epoca di Limoges su un vassoio settecentesco preso dalla collezione d'argenti di Sotirio Bulgari. Di Pietro rifiutò e aveva ragione. Ve li immaginate i pastorelli di Fatima fare alla Vergine un'intervista sul Térzo Mistero?
«Mirko, non ho visto D'Alema...
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Alle otto e mezzo del mattino di martedì 16 luglio 1997 Mirko Tremaglia entra nella clinica milanese «La Madonnina». Ha settantuno anni e porta sulle spalle otto legislature, un'intensa vita professionale di avvocato e una ancora più intensa carriera politica cominciata nel '43 con i ragazzi di Salò. Il medico gli ha prescritto un check up in anestesia totale, ma alle dieci e mezzo il vecchio leone è sveglio, alle tredici rientra nella sua casa di Bergamo, alle 15.45 prende il volo per Ciampino con Gabriele Cimadoro, deputato del Ccd e cognato di Antonio Di Pietro. Di Pietro è a Roma. Tremaglia lo ha sentito al telefono alle quattordici e gli ha dato appuntamento per le diciotto. Ma quando alle 16.40 Tremaglia e Cimadoro escono dalla pista di Ciampino, trovano dopo la porta a vetri Di Pietro con un agente di scorta che aspettano d'imbarcarsi sul volo delle 17.25 per Bergamo. Tremaglia è sulle spine. Sul «Messaggero" quella mattina è apparso un articolo di Carlo Fusi, «Di Pietro a casa di Ferrara?», che riferisce di un incontro riservato di Di Pietro in un condominio del quartiere Testaccio dove abita da poco anche il giornalista. Ma a Montecitorio comincia a girare la voce che l'ex magistrato abbia incontrato il leader del Pds. E Tremaglia comincia a soffrire: tra gli amici di Di Pietro, è quello di più antica data e di più provata fedeltà. Quando Di Pietro entrò nel governo Prodi, lui si sentì tradito. Un nuovo colpo sarebbe decisivo.
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«Hai visto D'Alema?» chiede a bruciapelo Tremaglia a Di Pietro. «No, ho visto soltanto Bargonerisponde l'altro, che si sfoga: «Sai, Mirko, i casi sono due. O me ne torno a Montenero e chiudo con queste aggressioni che vogliono troncarmi la carriera politica o scendo in campo. E la presenza di Berlusconi mi impedisce di schierarmi col Polo». Tremaglia: «Entra in politica con una tua iniziativa autonoma». Di Pietro: «Ci penserò, comunque entro questa settimana debbo decidere». Per Di Pietro sono forse i giorni più duri da quando ha lasciato la magistratura. I favori di Gorrini, che pure fecero tanto rumore, sono uno scherzo rispetto a quanto sta dicendo Antonio D'Adamo. Con la differenza che se Gorrini vale dieci come amico di Di Pietro, D'Adamo vale cento. Prendiamo i titoli di «Repubblica», giornale tradizionalmente vicino all'ex magistrato. Venerdì 11 luglio: «D'Adamo, quei soldi di Pacini... Il memoriale contro Di Pietro da due anni nelle mani di Berlusconi. Il costruttore: "Gli regalai auto, telefonino, garc,onnière e più di cento milioni per favorire gli amici indagati". Ma ci sono altre accuse». Sabato 12 luglio: «Brescia, la storia dei quindici miliardi [in realtà erano dodici] nelle confessioni di D'Adamo: avevo
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE bisogno di soldi. "Chiesi aiuto a Di Pietro e lui disse: vai da Pacini" .» Domenica 13 luglio: «D'Adamo racconta tutto. Interrogato fino a notte su Di Pietro e i miliardi del banchiere. Lo stesso giorno Pacini Battaglia dice a Giuseppe D'Avanzo, sempre su «Repubblica,":Io Di Pietro non l'ho pagato, quante volte lo debbo dire?». Conferma di aver perso tutti i dodici miliardi versati a D'Adamo, salvo gli interessi, dice che teneva d'occhio altre società dell'imprenditore, sapeva che D'Adamo era in forte difficoltà e che era amico di Di Pietro ma aggiunge: «D'Adamo non m'ha detto: mi manda Di Pietro». Di Pietro replica con durezza, presenta nuovi esposti alla magistratura, il suo avvocato Dinoia si chiede come mai Berlusconi si sia tenuto così a lungo le confidenze di D'Adamo e il Cavaliere risponde: «Ho prove formidabili". Comincia infatti a girare la voce che sia stato registrato il racconto in cui D'Adamo parla dei quattro miliardi e mezzo a disposizione di Di Pietro. L'ex magistrato ha dunque più di una ragione per pensare di essere di fronte a una svolta nella propria vita. Ma Tremaglia si sente rassicurato dalle parole dell'amico e va a Montecitorio.
«Tonino, non puoi prendermi per il..."
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
Appena arriva, conoscendo i suoi rapporti con Di Pietro, tuttl vanno a dirgli perfidamente che il suo amico la sera prima al Testaccio ha incontrato Massimo D'Alema, in previsione di un passaggio all'Ulivo. Tremaglia azzarda una risposta da galantuomo: «Non è vero, ho appena visto Di Pietro e mi ha detto che non è vero». Gli si avvicina Sandra Miglioretti del Giornale Radio Rai: «Guardi che l'ha visto per davvero». E lui: «Non è possibile». In quel momento Tremaglia deve sentirsi come le povere vittime del terremoto di Assisi. Nonostante la basilica superiore sia gravemente lesionata, entrano credendo all'assenza di pericolo. Poi comincia a sbriciolarsi la vela di Cimabue, loro guardano su e prima di rendersi conto che il pericolo c'è per davvero vengono sommersi dalle macerie. Coperto di calcinacci, la sera di martedì 15 luglio alle venti, quando la notizia filtra ormai anche dai telegiornali, Tremaglia chiama furibondo Di Pietro: «Tonino, non puoi prendermi per il culo. Tutti dicono che hai incontrato D'Alema e io faccio la figura che faccio andando in giro a dire che non è vero!». Di Pietro risponde con la voce alta e un po' nasale nota a tanti destinatari dei suoi interrogatori:Ti dico che non è vero. Ho visto soltanto Bargone. Tremaglia gli crede ancora. L'indomani la lettura dei giornali per lui non è agevole. Titola «la Repubblica» il servizio di Stefano Marroni: «"Grazie Massimo, ho voglia di politi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ca." L'incontro di lunedì tra depistaggi, smentite e mezze ammissionl». Nel primo pomeriggio sto scrivendo un commento al caso D'Alema-Di Pietro per il gruppo «La Nazione»-«II Resto del Carlino»-«Il Giorno» quando dal giornale fiorentino mi avvertono: «Guarda che qui gente del Pds ci dice che Di Pietro avrà un seggio al senato da D'Alema. Chiamo Fabrizio Rondolino, portavoce del segretario. Lui risponde: «Non ne so niente. M'informo e ti richiamo». In realtà Rondolino sa tutto, ma il Pds aveva deciso di ritardare la notizia di alcuni giorni per dare il tempo a Pino Arlacchi, senatore uscente destinato all'antidroga dell'Onu, di avanzare formalmente la proposta a Di I'ietro. Passano tre quarti d'ora e Rondolino mi richiama: «Non è vero. è un'ipotesi che non si può escludere per il futuro, ma allo stato non c'è niente». In quei tre quarti d'ora D'Alema ha fatto numerose telefonate paracadute informando dell'accordo con Di Pietro alcune persone che non ne erano a conoscenza. E ha deciso di farlo perché, negli stessi minuti della mia telefonata, Giuseppe Scozzari, deputato agrigentino della Rete e amico di Di Pietro, ha cominciato a diffondere la voce a Montecitorio. Passano pochi minuti e Rondolino mi richiama molto correttamente: «Scusami, ho dovuto dirti una bugia perché avevamo deciso di tenere riservata la notizia. Ma poiché sta filtrando e tra poco uscirà sulle agenzie, volevo avvertirti che
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la candidatura di Di Pietro in Toscana è vera". Nello stesso arco di tempo, Mirko Tremaglia riceve una telefonata più o meno identica da Antonio Di rietro: «Scusami, Mirko, prima che tu venga a saperlo dalle agenzie volevo dirti che scenderò in campo al posto di Arlacchi in modo autonomo e indipendente». (In realtà, la prima condizione postagli da D'Alema e accettata da Di rietro e di presentarsi sotto il simbolo dell'Ulivo con una dichiarazione di fedeltà al programma dell'Ulivo.) Il vecchio cuore di Tremaglia deve essere di ferro se resiste anche a questo. Non conosciamo le parole usate per commentare la scelta dell'amico. Lui mi dirà d'avergli fatto quella che Fini chiama una «tremagliata», e cioe, secondo l'autentica traduzione dell'interessato, «parole in libertà, insulti senza un coordinamento logico». C'è un momento della conversazione in cui Tremaglia perde letteralmente la testa. è quando Di Pietro gli motiva la scelta per contrasti con il «tuo Berlusconi. Si deve sapere che Tremaglia, ragazzo di Salò, si sente più vicino a Bertinotti che a Berlusconi e che il Cavaliere considera l'avvocato di Bergamo come un insolente residuato bellico. «Porca puttana, non puoi offendermi così con tutto quello che ho fatto io per te!» gli grida Tremaglia. E Di Pietro: «No, Mirko, ti chiedo scusa. Il pensiero del vecchio parlamentare torna alla fregatura
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE presa nel '96. "Il l° maggio mi disse che non sarebbe entrato nel governo e l'indomani s'è accordato con Prodi.» Scrisse in quella occasione Michele Brambilla su «Sette»: «Tradire, passare dall'altra parte, è una cosa che Tremaglia non ha mai accettato. Proprio per questo a diciassette anni si arruolò nella Repubblica sociale... Quel re che fa l'armistizio e poi scappa non gli va giù. E oggi non gli va giù questo Di Pietro che è di centrodestra, che s'incontra con Fini... e poi va a fare il ministro di Prodi». Dopo la candidatura del suo amico al Senato, Tremaglia scrive sul «Corrieredel 18 luglio '97:Io sono Bertoldo e sono vittima, ma come me lo sono i milioni d'italiani che hanno creduto in Di Pietro... Di Pietro ha perso il controllo di se stesso». La stessa frase che due sere prima dice a Montecitorio. Piangendo, scrivono i giornali. Senza lacrime, ribatte lui. Ma quando lo stesso 18 luglio incrocio Tremaglia al consiglio nazionale di An, il vecchio avvocato è ancora furente, ma Di Pietro sta ancora nel suo cuore.è una persona pulita» mi assicura. «Auto, telefonini? Ma insomma la moglie di Di Pietro era o non era l'avvocato di D'Adamo? I prestiti senza interessi? Nemmeno io ho mai chiesto a un amico una lira di interessi...»
Quella sera Fini a Sca1ldiano...
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Torniamo indietro di un mese. Il 13 giugno si celebra a Castellanza il "Di Pietro Day». Interviene Fini: e fin qui niente di male, visto l'enorme lavorìo che Tremaglia ha fatto sugli inviti (Berlusconi naturalmente manca). Ma interviene anche D'Alema. E la cosa viene interpretata come un segnale al Polo: attenti, se bisogna giocare pesante, Di Pietro me lo piglio io. In effetti, entrando all'università, Fini capisce che il clima è un po' cambiato. D'Alema è indiscutibilmente l'ospite d'onore e il clima dei lavori va verso una direzione che sorprende e indispettisce i leader politici. Introduce Scozzari, amico di Di Pietro e deputato della Rete. «Usa un tono» mi racconta Fini «che poteva essere agevolmente quello dei dirigenti periferici del Msi dieci anni fa. Partitocrazia ladrona e così via, tanto che lo stesso D'Alema sente il bisogno di dire: da questa parte del tavolo non ci sono degli usurpatori, ma dei leader politici. Per questo il mio intervento è molto duro: non accetto lezioni antipartitocratiche da chi la partitocrazia non l'ha mai combattuta. C'è una politica nuova e legittimata. Replico duramente anche a Davigo quando mi pare d'aver capito che secondo lui i diritti dell'imputato sono subordinati a quelli della vittima. Tant'è vero che Di Pietro interviene a mettere una pezza. Sono convinto che la repubblica giudiziaria sia finita, che la nuova classe politica sia più forte e pulita di quella che stava in un Parlamento con il sessanta per cento di inquisiti. Ma a Ca-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE stellanza ricevo l'impressione che una politica che riprenda in mano le redini del Paese dia fastidio a qualcuno.» Tremaglia è deluso dall'andamento dei lavori di Castellanza che aveva contribuito a organizzare. «Si risolsero in un discorso sulla Bicamerale con l'incoronazione di D'Alema» mi dice. è deluso e protesta con Di Pietro. L'ex magistrato capisce e cerca di recuperare il rapporto con Fini, al quale Tremaglia annuncia un intervento favorevole del suo amico su «Oggi". E infatti il presidenzialista Di Pietro puntualmente scrive che l'unico leader presidenzialista convinto è Fini. Fini ringrazia. E ricambia con un messaggio spedito a Di Pietro la sera di lunedì 23 giugno dalla Festa dell'Amicizia di Scandiano, in Emilia. Sto coordinando un dibattito con Fini, Marini, Minniti e Casini e verso la fine, parlando dei poteri del presidente della Repubblica, il presidente di Alleanza nazionale avanza una proposta del tutto nuova: sia consentito anche a un certo numero di cittadini di proporre i candidati al Quirinale. Gli altri leader politici riuniti intorno al tavolo vengono presi in contropiede e si dicono contrari alla proposta. Proprio per evitare candidature populiste, la Bicamerale aveva infatti previsto una serie di filtri istituzionali (per esempio consigli comunali, provinciali, regionali) in modo che il candidato venisse dalla base, ma non dalla luna. Ma Fini, naturalmente, non ha parlato a caso. L'indomani, infatti, Tremaglia prende la pagina di «Repubblica» con il re-
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soconto di Scandiano e la manda per fax a Di Pietro, vero potenziale beneficiario della proposta del capo di An. Passano alcuni giorni e alle 8.39 di lunedì 7 luglio la segreteria di Di Pietro a Castellanza manda all'attenzione di Tremaglia l'anticipazione dell'intervento di Di Pietro che due giorni dopo sarebbe apparso su «Oggi. Come usa tra uomini di mondo, Di Pietro scrive da solo (almeno in questo caso) sia le domande dei lettori che le risposte. Da un immaginario corrispondente si fa dunque chiedere: «Caro Di Pietro, con i suoi interventi sul presidenzialismo, lei mi sembra si sia spostato su posizioni di destra. Però fra le reazioni dei partiti, anche Fini ha preso le distanze. Insomma, lei è solo, che cosa pensa di fare?». La domanda serve a Di Pietro per ristabilire un rapporto con Fini. E infatti sostiene, come aveva fatto a Scandiano il presidente di An, l'opportunità che i candidati al Quirinale vengano scelti «anche da candidati indicati direttamente dai cittadini... Questa soluzione è stata fatta propria anche dal leader di An, Fini, tanto è vero che ha autorizzato alcuni suoi parlamentari a presentare un apposito emendamento in Parlamento. Ciò dimostra che sul terreno delle cose da fare non mi sembra proprio che Fini abbia preso le distanze da me». Tremaglia sottolinea quest'ultima frase, scrive sul fax di Di Pietro «Personale. Riservatissimo per Fini» e lo spedisce a sua volta al fax di Rita Marino, segretaria del leader. Due
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE giorni dopo, in contemporanea con l'uscita su «Oggi", il «Secolo d'Italia» pubblica l'intervento dell'ex magistrato sotto il titolo: «Di Pietro: sul presidenzialismo ho la stessa posizione di Fini». L'articolo è corredato di una grande foto del simbolo di Mani pulite.
«E la testa di Di Pietro se ne va»
La prima settimana di luglio vede un Di Pietro ondeggiante. Riguardiamo i titoli di «Repubblica». Mercoledì 2 luglio: «Di Pietro sfida la Bicamerale. Sarà bocciata dai cittadini». E uno schiaffo a D'Alema e allo stesso Fini che nell'ultimo mese della Bicamerale è stato uno dei padrini più convinti. (Ma nelle prossime pagine spiegheremo una interessante smentita di Di Pietro.) è una sponda, invece, al Pool di Milano e al «partito dei procuratoriche non ha mai mandato giù le proposte della Commissione sulla giustizia. Venerdì 4 luglio:Di Pietro, colpo di freno: non salgo su nessun carro». Sabato 5 luglio i giornali riportano un durissimo attacco di Berlusconi all'ex magistrato: «Un altro sarebbe già in galera». Martedì 8 luglio D'Adamo viene interrogato una prima volta a Brescia e rivela i regali, i favori, la storia dei miliardi di Pacini. Mi dice Tremaglia: «Quando Berlusconi rivendica il merito
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di aver convinto D'Adamo a parlare, la testa di Di Pietro se ne va. Ma io continuo a difenderlo accanitamente». La prima sparata di D'Adamo compare sui giornali dell'11 luglio. Lo stesso giorno, Tremaglia consegna alle agenzie di stampa un durissimo attacco a Berlusconi: ventiquattro righe micidiali, non concordate con Fini. «Nonostante la situazione sia tutt'altro che facile,» mi dice «io mi espongo molto per Di Pietro." Dice la nota: «Tremaglia - caso Di I'ietro. Verrà smontata pezzo per pezzo ogni falsità. E scorretto politicamente il comportamento di Berlusconi verso Alleanza nazionale. Non puo prendere iniziative così gravi senza concordarle con l'alleato». E poi: «Questo è solo un tentativo di Berlusconi di renderci servi dei suoi interessi e delle sue vendette". Venerdì 11, mentre Tremaglia legge al telefono a Di Pietro la sua dichiarazione contro il Cavaliere, Arlacchi conferma la decisione di lasciare il seggio al Senato per andare all'Onu. Domenica 13 Tremaglia, come quasi ogni fine settimana, raggiunge Di Pietro a Curno. «Hai visto?» gli dice. «Fini non ha smentito la mla dichiarazione.» «Ho visto,» risponde Di Pietro «ma mai e poi mai potrò schierarmi con Berlusconi.» Tremaglia: «Hai ragione, fa' un tuo movimento trasversale». «A quel punto» mi racconta il parlamentare Di Pietro mi dice: hai ragione, è la soluzione giusta."In realtà, l'appunta-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE mento segreto dell'indomani a Roma con D'Alema è già fissato. Dice Tremaglia: «Esattamente lo stesso scherzo che mi fece quando decise di entrare nel governo Prodi. Di Pietro non ha il coraggio di discutere con un amico le sue decisioni"". «In realtà» mi spiega Fini «la tecnica di Di Pietro è quella di usare con l'interlocutore di turno il linguaggio a questi più gradito. Tremaglia si è illuso che Di Pietro volesse costituire un movimento politico autonomo dai due Poli, basato sul presidenzialismo e sulla moralità pubblica. In questo io stesso ho sbagliato in pieno la previsione. Due giorni prima che annunciasse la sua candidatura nell'Ulivo, mi ero detto convinto che Di Pietro avesse scelto la strada di non pagare dazio, di dividere le ragioni e i torti, insomma di non intaccare con una scelta di campo una popolarità elevatissima.» E invece... «E invece ha trovato comoda la protezione dall'ennesima polemica giudiziaria che gli ha offerto D'Alema. Ha scelto in stato di necessità. Ma non sono certo di come si comporterebbe una volta passata la bufera. Non me lo vedo tranquillo nel suo banco al Senato a votare come gli suggerisce Cesare Salvi, il capo dei senatori del Pds. Io lo vedo impegnato a costruire comunque un movimento destinato a destabilizzare il bipolarismo..."
«Ha visto da dovè stato spedíto i1 fax?"
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Chiedo a Tremaglia: «Ha visto da dove è stato spedito il fax in cui Di Pietro fa da sponda a Fini?». «Da Castellanza. «Da Castellanza è stata spedita la copia per lei. Guardi invece l'originale per il direttore di "Oggi".» «Da Brindisi, il 6 luglio. «Il6 luglio era domenica.» «Scusi, Vespa. Come fa a ricordarselo?» «Perché è una data speciale. Chi tra gli amici di Di Pietro vive a Brindisi?» «Non lo so.» «Antonio Bargone, amicissimo di D'Alema, importante dirigente del Pds, diventato amico di Di Pietro quando questi era ministro dei Lavori Pubblici e Bargone sottosegretario.» «E allora?» «Il 6 luglio Bargone ha compiuto gli anni. Di Pietro era da lui. E se Di Pietro ha scelto di fare il senatore dell'Ulivo in quota Pds il merito è di Bargone.» Tremaglia ha già di suo grandissimi occhi chiari. Ma quando gli racconto questa storia, rimane con il fax in mano e li spalanca in silenzio ancora di più, come se volesse risucchiare e dimenticare per sempre quest'ultima amara novità. Domenica 6 luglio è proprio una sera speciale. Tant'è vero che Mino Nobile decide di dare fondo alle scarse riserve di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Patriglione, nobile e rarissimo vino di Cosimo Taurino di Guagnano, provincia di Lecce, frutto di vendemmia tardiva di uve negroamaro e malvasia nera che nelle annate '85 e '88 arrivò a guadagnare i «tre bicchieri» del «Gambero rosso». Nobile è il simpatico proprietario della «Lanterna», eccellente ristorante di Brindisi, ed è amico di Bargone. Il quale Bargone, avvocato, è nel Pci-Pds da vent'anni, ha fatto tutta la trafila in provincia, è stato alla Camera per tre legislature e nel '96 si è visto soffiare il seggio per millenovecento voti da Valentino Manzione di Alleanza nazionale. D'Alema lo mandò ai Lavori Pubblici come sottosegretario. Si disse che Bargone avrebbe dovuto gestire un ministro imprevedibile come Di Pietro e invece scopro che la sua nomina è caldeggiata anche dalle grandi associazioni dei costruttori: Dario Crespi (Impregilo) presidente dell'Agi, Giuseppe Zamberletti e Federico Titomanlio, rispettivamente presidente e consigliere giuridico dell'Igi, oltre che dall'Ance e dagli ordini professionali di ingegneri e architetti. Un plebiscito, a quanto pare, motivato da due ragioni. La prima è che dal '92 il mondo dell'edilizia è alla canna del gas, quasi tutti i grandi costruttori sono stati arrestati, le loro imprese si sono sciolte, fuse, riorganizzate alla bell'e meglio e hanno un disperato bisogno di interlocutori politici che contano. Se a palazzo Chigi invece di Prodi ci fossero andati Bertinotti o Rauti non avrebbero battuto ciglio. Né avrebbero potuto. La seconda è che in effetti Bargone conosce ormai il settore me-
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glio di ogni altro. è stato relatore delle diverse leggi Merloni sulla gestione dei lavori pubblici dopo Tangentopoli, ha collaborato con il ministro Paolo Baratta ed è stato l'interlocutore privilegiato del settore durante il governo Dini. Arrivato al ministero dei Lavori Pubblici, Di Pietro entra subito in contatto con Bargone. Il tramite è l'Igi, che raggruppa le grandi imprese di costruzione L'Igi, abbiamo visto, sponsorizza la candidatura di Bargone e ha avuto Di Pietro come consulente subito dopo le sue dimissioni dalla magistratura. «Ci accomunava una notevole capacità di lavoro» mi racconta Bargone. «Arrivavamo alle otto del mattino e nei nostri uffici c'erano ancora le imprese di pulizia.» Distrutto da Tangentopoli, il settore delle costruzioni aveva bisogno di nuova fiducia. «Di Pietro aveva contribuito a toglierla, Di Pietro doveva restituirladice Bargone. Viene così gradualmente eliminata la «sindrome della firma», che aveva paralizzato per quattro anni i ministri dei Lavori Pubblici, vengono «riaccesi i motori. Di Pietro si appoggia alla competenza parlamentare di Bargone, giorno dopo giorno nasce un'amicizia consolidata dalle pause alla tavola calda - oggi chiusa davanti al ministero o dalle cene al «Chianti». In quei sei mesi di lavoro comune, Bargone parla spesso a Di Pietro dell'Ulivo e del suo programma. Il ministro si sente fedele al patto sottoscritto, ma fa capire che il suo cuore non batte per l'albero di Prodi. «Cercare di coinvolgerlo allora»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE mi dice Bargone «sarebbe stato sbagliato." Quando il 14 novembre '96 decide di dimettersi, dopo la spettacolare perquisizione ordinata dalla Procura di Brescia, Di Pietro si trova in Turchia e non chiama nessuno. Quella sera Bargone si trova a Francavilla Fontana, nel suo collegio, a fare un comizio per le elezioni locali. Prima che la notizia esca sulle agenzie, lo chiama Luigi Giampaolino, capo di gabinetto di Di Pietro: «La notizia è riservata, il ministro si è dimesso". Bargone chiama immediatamente D'Alema che si trova in aula a Montecitorio. Anche lui non sa niente, esce dall'emiciclo, prova a chiamare Di Pietro. Niente. Dirà Di Pietro a Bargone:Mi sono dimesso per non creare difficoltà al governo. I casi erano due: o Prodi mi difendeva e avrebbe attirato sul governo le reazioni negative o avrei dovuto difendermi da solo. Ho scelto la seconda strada». Passano cinque mesi e nell'aprile del '97 Bargone comincia a sondare Di Pietro: «Che intenzioni hai?». L'altro è ancora turbato e ferito per le sue questioni. «Incoraggiarlo a saltare il fosso in quel momento sarebbe stato sbagliato.» Ma i segnali di fumo tra Di Pietro e D'Alema diventano sempre più frequenti ed espliciti. Bargone continua col suo lavoro politico ai fianchi dell'amico. Non può permettersi che Di Pietro spari contro la Bicamerale di D'Alema, gli spiega che il ruolo dei partiti è irrinunciabile, gli sconsiglia ogni iniziativa antiparlamentarista. Ma nonostante gli incredibili rapporti mantenuti con Tre-
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maglia, la strada di Di Pietro verso l'Ulivo è in discesa. Il 9 maggio Di Pietro e il segretario del Pds si scambiano pubblici attestati di stima a un convegno delle Federcasalinghe organizzato dalla diabolica Federica Gasparrini, da quindici anni presidente del potentissimo movimento che ha saputo traghettare da Andreotti all'Ulivo via Polo. Il convegno di Castellanza (13 giugno, festa di Sant'Antonio, onomastico di Di Pietro e Bargone) è l'incoronazione di D'Alema fatta alla presenza (sorpresa e indispettita) di Fini. (Fu uno spot alla Bicamerale di D'Alema," mi dice uno dei più stretti collaboratori del segretario «e anche lì c'era la regia occulta di Bargone.») Il segretario del Pds va al «Maurizio Costanzo Show» e dice di essere convinto dell'innocenza di Di Pietro, gli scrive una lettera di solidarietà che colpisce profondamente l'ex magistrato. E nei colloqui politici con Bargone, questi comincia a convincerlo che in un sistema bipolare la trasversalità è un'illusione, come lo è l'idea di mantenere un rapporto con il Polo prescindendo da Berlusconi. Si arriva così alla sera del 6 luglio.
Domenica sera, festa a sorpresa
Antonio Bargone compie cinquant'anni 1'8 luglio. Ma il martedì il sottosegretario è a Roma e così la moglie Margot decide di festeggiarlo la domenica precedente. Dove? Alla
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Lanterna», naturalmente. Con chi? Da sola. In realtà, da parecchi giorni la signora lavora sott'acqua e ha contattato in segreto una cinquantina di amici. Alcuni sono quelli di sempre. Altri sono persone legatissime al festeggiato, ma disperse dalla vita. Viene rintracciato per esempio uno scienziato che Bargone non vedeva da trentuno anni. E viene invitato anche Di Pietro. Mino Nobile, proprietario della «Lanterna», ha preparato in giardino. Ma con discrezione, in modo che nemmeno entrando Bargone s'accorga di niente. E quando Di Pietro arriva poco dopo le otto viene dirottato in un tavolo d'angolo, a sinistra dell'ingresso, sotto un venerando albero di mandarini. Quando arriva Bargone, gli amici gli vanno incontro e lui s'emoziona. Di Pietro resta nascosto sotto il mandarino e si mostra per ultimo, quando Margot e Nobile dicono al festeggiato: «Le sorprese non sono finite». Il sottosegretario si commuove, prende posto con Di Pietro e alcune signore, il grado di cottura dell'ex magistrato nella pentola dell'Ulivo ha una brusca accelerazione. Bargone è un politico della vecchia scuola. Sa aspettare. Dice all'amico anche quella sera: «Caro Tonino, il trasversalismo non ha prospettive. Metterti al centro dei due poli è velleitario. Anche per le tue legittime aspirazioni personali». Ma non lo forza. Di Pietro ascolta. Mangia gli antipasti caldi di mare, i tubettini alla sciapicòta (dal quartiere brindisino di Sciapìche,
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
dove abitavano i pescatori), il dentice in crosta di sale, la frutta fresca composta. Ride e applaude quando Bargone spegne da solo (gioca a calcio e ha un buon fiato) le cinquanta candeline azzurre dell'enorme millefoglie, consegna all'amico un regalo d'argento e all'una di notte si ritira. Ma le parole di Bargone gli ronzano nelle orecchie. Mi dirà il sottosegretario: «Avevo cominciato in effetti a essere più insistente. Anche se non sei un uomo di sinistra, gli avevo detto, puoi venire con noi. L'Ulivo è l'unica alleanza che può consentirti di fare quello che hai in testa di fare». Naturalmente Bargone ha tenuto informato Massimo D'Alema di tutti questi colloqui. Il segretario per anni si è vantato di essere l'unico leader politico a «non aver avuto rapporti con il dottor Di Pietro». Ma poi ha cominciato a nutrire nei suoi confronti una simpatia simile a quella che ha per Berlusconi e per Bossi, accomunati - nell'ottica di D'Alema - da un curioso carattere extrapolitico. Per Bossi e per Di Pietro s'aggiunge un singolarissimo carattere popolano che a D'Alema piace. Il segretario sa da tempo che l'ex magistrato gioca contemporaneamente su più tavoli, ma gli riconosce anche tratti d'ingenuità. E poi per uno come D'Alema valgono soprattutto due stimoli. Il primo è che la politica prevale su ogni altro interesse e i sondaggi gli dicono che Di Pietro conta, soprattutto nella prospettiva (concretizzatasi nell'ottobre
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE poco dopo le otto viene dirottato in un tavolo d'angolo, a sinistra dell'ingresso, sotto un venerando albero di mandarini. Quando arriva Bargone, gli amici gli vanno incontro e lui s'emoziona. Di Pietro resta nascosto sotto il mandarino e si mostra per ultimo, quando Margot e Nobile dicono al festeggiato: «Le sorprese non sono finite». Il sottosegretario si commuove, prende posto con Di Pietro e alcune signore, il grado di cottura dell'ex magistrato nella pentola dell'Ulivo ha una brusca accelerazione. Bargone è un politico della vecchia scuola. Sa aspettare. Dice all'amico anche quella sera: «Caro Tonino, il trasversalismo non ha prospettive. Metterti al centro dei due poli è velleitario. Anche per le tue legittime aspirazioni personali». Ma non lo forza. Di Pietro ascolta. Mangia gli antipasti caldi di mare, i tubettini alla sciapicòta (dal quartiere brindisino di Sciapìche, dove abitavano i pescatori), il dentice in crosta di sale, la frutta fresca composta. Ride e applaude quando Bargone spegne da solo (gioca a calcio e ha un buon fiato) le cinquanta candeline azzurre dell'enorme millefoglie, consegna all'amico un regalo d'argento e all'una di notte si ritira. Ma le parole di Bargone gli ronzano nelle orecchie. Mi dirà il sottosegretario: «Avevo cominciato in effetti a essere più insistente. Anche se non sei un uomo di sinistra, gli avevo detto, puoi venire con noi. L'Ulivo è l'unica alleanza che può consentirti di fare quello che hai in testa di fare».
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Naturalmente Bargone ha tenuto informato Massimo D'Alema di tutti questi colloqui. Il segretario per anni si è vantato di essere l'unico leader politico a «non aver avuto rapporti con il dottor Di Pietro». Ma poi ha cominciato a nutrire nei suoi confronti una simpatia simile a quella che ha per Berlusconi e per Bossi, accomunati - nell'ottica di D'Alema - da un curioso carattere extrapolitico. Per Bossi e per Di Pietro s'aggiunge un singolarissimo carattere popolano che a D'Alema piace. Il segretario sa da tempo che l'ex magistrato gioca contemporaneamente su più tavoli, ma gli riconosce anche tratti d'ingenuità. E poi per uno come D'Alema valgono soprattutto due stimoli. Il primo è che la politica prevale su ogni altro interesse e i sondaggi gli dicono che Di Pietro conta, soprattutto nella prospettiva (concretizzatasi nell'ottobre '97) di una possibile rottura con Rifondazione. Il secondo è che l'uomo è attratto dal rischio delle sfide decisive: puntò su Dini che era l'uomo più duro del governo Berlusconi e riuscì a strapparlo al Polo; adesso vuole togliere Di Pietro dalle tentazioni di andarsene con Tremaglia o più probabilmente di fare un movimento pasticciato e populista.
«Ca1ro Di Pietro, níente spighe...»
D'Alema s'accorge di poter controllare l'ex magistrato già
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE il 2 luglio. Quando Di Pietro, come abbiamo visto, dice che i cittadini bocceranno la Bicamerale, D'Alema chiama Bargone e gli chiede di sollecitare una smentita a Di Pietro. E Di Pietro provvede. La situazione ha una svolta giovedì 10 luglio. Il sottosegretario nota che l'amico è cambiato. Appena un paio di giorni prima, quando l'ha sentito per ringraziarlo di essere intervenuto alla festa di Brindisi, Di Pietro si è mantenuto sulle generali. Ma ora i nuovi attacchi sempre più duri e circostanziati di Berlusconi hanno colpito nel segno. Bargone sa che martedì 8 Antonio D'Adamo è stato interrogato per la prima volta a lungo dai pubblici ministeri di Brescia. E anche se nei suoi colloqui con Di Pietro sorvola sulle questioni giudiziarie, sa che le confessioni di D'Adamo pesano su Di Pietro cento volte quelle di Gorrini. In questa conversazione con Bargone, l'ex magistrato parla esplicitamente di dossieraggio politico ai suoi danni da parte di Berlusconi. «Nel Polo» dice «c'è gente inaffidabile. Non può esserci per me alcuna compatibilità politica. Da voi si gioca pulito. Vengo con voi.» In quelle stesse ore, «Panorama» anticipa alle agenzie il contenuto del memoriale D'Adamo. Di Pietro grida: «Non ci sto», e salta il fosso. Contrariamente a quanto si è scritto, Di Pietro si offre in questo momento senza sapere della disponibilità del collegio di Arlacchi. Bargone ne è a conoscenza, ma non gllene parla. Gli dice infatti: «Se ci fosse un collegio disponibile, l'Ulivo
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potrebbe certamente considerare questa tua possibilità». E si riserva di dargli una risposta molto sollecita. L'indomani sera Bargone incontra a Gallipoli D'Alema, rientrato come ogni fine settimana d'estate (e non solo) nel suo collegio elettorale. Gli dice che Di Pietro ha fatto il salto e D'Alema non se ne meraviglia. Sa da parecchi giorni che la situazione era ormai matura, sa che Di Pietro si trova in una condizione difficilissima per gli attacchi di Berlusconi. L'appuntamento viene fissato per il tardo pomeriggio di lunedì 14 luglio in casa di Nicolino La Torre, segretario di Bargone, che abita alla scala C di un enorme condominio di piazza dell'Emporio al Monte Testaccio. A Roma, che sta al livello del mare, ogni dosso viene chiamato monte. Stessa sorte è toccata al Testaccio, una collinotta di cinquanta metri formatasi con gli scarichi degli insediamenti annonari dell'antichità, forata di grotte scavate nei cocci e adoperate come cantine, usata nei secoli come luogo di carnevalate e di sacre rappresentazioni, frequentata dai bovari quando un secolo fa vi fu aperto un bellissimo mattatoio ad archi retti da colonne tuscaniche e ora luogo di abitazioni alla moda. La Torre è un funzionario della Cassa di Risparmio di Puglia, è stato sindaco di Fasano tra il '91 e il '93 ed è legato a Bargone da una fedeltà assoluta. «Le chiavi dell'appartamento? Ma certo che ce le ha Tonino. Lui ha tutto di me. Anzi, ha me...»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Meglio la casa di La Torre al Testaccio che la mia a Monteverde, pensa Bargone. (A Monteverde, D'Alema e Di Pietro si erano incontrati quasi per caso molto tempo prima. Bargone aveva un appuntamento con Di Pietro e quando questi arrivò gli chiese se avrebbe avuto piacere di salutare D'Alema. Che passò poco dopo, parlò di politica, ma né lui né Di Pietro si esposero più di tanto.) Purtroppo nel grande condominio di La Torre abita da una settimana anche Giuliano Ferrara. Così quando arriva Di Pietro e due ragazzini lo riconoscono, pensano che sia andato a trovare il suo nemico più aspro (che gli sta preparando un altro scherzo per il numero successivo di «Panorama»). Poi vedono D'Alema e chiamano'Il Messaggero»: «A casa di Ferrara al Testaccio c'è una riunione con Di Pietro e D'Alema». Il centralinista risponde: «E er papa nun c'è?». Viene invece presa in considerazione un'altra telefonata. è un informatore di questura che fa ugualmente i tre nomi e indica lo stesso posto. Carlo Fusi, notista politico, dice al suo capo Umberto La Rocca: «Forse è meglio dare un'occhiata». Arriva in un quarto d'ora a piazza dell'Emporio e trova soltanto due inconfondibili «scortaroli» seduti vicino alla fontana. Ma gli uomini di scorta, come si conviene, sono sordomuti. Dal portone del palazzo indiziato esce un ragazzo.Qui abita Ferrara. Non so altro.Per Fusi è una novità, visto che il trasloco è avvenuto da pochi giorni. Esce un uomo di mezz'età: «è vero, qui abita Ferrara».
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è possibile che i due seduti vicino alla fontana scortino Di Pietro, ma di D'Alema non c'è traccia. In casa di La Torre, intanto, il colloquio tra il segretario del Pds e Di Pietro, presente Bargone, dura quarantacinque minuti. L'ex magistrato conferma la richiesta di entrare nell'Ulivo e D'Alema gli offre il seggio di Arlacchi nel collegio di Firenze 3 (che per due terzi non è Mugello). Un collegio rosso e blindato. Di Pietro espone il suo progetto politico:Io non sono di nessun partito. Ma credo nella possibilità di svolgere in Parlamento, all'interno dell'Ulivo, anche con la formazione di un mio gruppo parlamentare, il ruolo di aggregatore di forze di centro, con l'ambizione di attrarre i moderati del Polo». D'Alema approva in pieno, ma tronca sul nascere il prevedibile tentativo di Di Pietro di presentarsi alle elezioni con un simbolo suo. «Niente spighe» gli dice D'Alema. «La candidatura è possibile soltanto se corri sotto le insegne dell'Ulivo.» Di Pietro accetta. Finita la discussione, D'Alema s'avvicina alla finestra e vede Fusi. Chiama il suo portavoce Rondolino sul portatile e gli dice: «Fabrizio, qua sotto c'è Fusi. Che facciamo?». E Rondolino: «Qua sotto dove?". D'Alema è infatti abbottonatissimo e quando ha un appuntamento riservato non lo dice nemmeno alla moglie. (Dopo questo episodio, che segue un'analoga situazione in occasione della cena a casa Letta, Rondolino cercherà di spie-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE gare al suo capo che gli incontri segreti vanno preparati meglio, studiando a tavolino le contromisure per i giornali.) D'Alema ha per fortuna la scorta sul retro e quindi può uscire senza essere visto. Di Pietro invece incontra Fusi e smentisce tutto. Il segretario del Pds prosegue per un altro vertice al quale tiene più di quello appena concluso. Incontra infatti alcuni amici di barca per discutere di una scelta assai impegnativa: di lì a pochi giorni Ikarus dovrà veleggiare per la Sardegna o la Corsica? Dall'auto, D'Alema richiama Rondolino. «Smentiamo?» chiede il segretario. «Se ti hanno visto, mi pare difficile» obietta il portavoce. Per fortuna, Fusi non ha visto e scrive per «Il Messaggero"dell'indomani un «indiscreto» in neretto dal titolo: «Di Pietro a casa di Ferrara?». L'indomani mattina D'Alema e Rondolino s'imbarcano prestissimo su un volo di linea per il Veneto dove il segretario del Pds deve prendere parte a un convegno. Appena arrivato, D'Alema chiama Prodi per dirgli che l'incontro della sera prima è andato bene. (Prodi sapeva dell'appuntamento.) Poi entra in sala. A metà mattinata, mentre sta parlando il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, il cellulare di Rondolino squilla due volte. La prima chiamata è di Amati dell'agenzia Asca, la secc nda di Minzolini della «Stampa». Un amico di Amati ha visto sia Di Pietro che D'Alema entrare nel grande condominio. Lì abita inoltre una figlia di Ingrao. I
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testimoni cominciano a essere parecchi. Rondolino smentisce, chiama subito Bargone, gli dice di chiedere a Di Pietro di tacere, ancora a ora di pranzo l'incontro non esiste. Nel primo pomeriggio viene confermato in modo indiretto: «Da fonti parlamentari del Pds si apprende che...». C'è ancora l'intenzione di costruire la sceneggiata di Arlacchi al quale l'angelo custode ha suggerito di offrire il seggio a Di Pietro. L'indomani, invece, la notizia della candidatura strariperà.
«Sandro, c'è D'Alema al telefono»
«Sandro, è D'Alema.» Nonostante conosca il segretario del Pds da una vita, Bruna Curzi è emozionatissima quando alle dieci di un mattino di fine settembre passa la cornetta al marito. D'Alema ha chiamato direttamente, senza chiedere a Ornella, la segretaria, di cercargli Curzi. E l'avvio della telefonata è molto amichevole: «Sandro, ma che ti è venuto in mente? Tu rappresenti tanto della nostra storia... Adesso che si è candidato Ferrara, il tuo compito è riuscito. Volevi che Di Pietro non avesse un plebiscito? Con un avversario forte non ce lo avrà. Quindi puoi tranquillamente ritirarti,". Curzi: «Massimo, è proprio la candidatura di Ferrara che
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE invece mi convince a resistere. Sono l'unico uomo di sinistra in lizza. Sia Di Pietro che Ferrara sono di destra...». D'Alema: «Ma come puoi rinnegare tutta la vita? Quale avvenire ti si apre? Capisci tu stesso che dopo una campagna elettorale fatta contro il nostro candidato difficilmente nel partito per te ci sarebbe posto. Va bene che sei un compagno scomodo, ma insomma: hai deciso di fare il capolista di Rifondazione da qualche parte?...». Curzi: «Dammi ventiquattr'ore per riflettere, Massimo. Ma non credo che cambierò idea». D'Alema: «In questo caso, Sandro, sappi che mi costringerai a venire nel Mugello a fare la campagna elettorale per Di Pietro». Sandro Curzi mi racconta la telefonata con un misto d'orgoglio e di tristezza. Anche per un «compagno scomodo» lo strappo non è stato facile. Formalmente il vecchio Kojak, come lo chiamiamo noi del mestiere, ha messo le cose in modo da rendere dura la vita a chi voglia espellerlo. Niente simbolo di Rifondazione sulla scheda, chi vota Curzi in apparenza vota soltanto lui. Ma insomma... Ci incontriamo a Firenze in un bellissimo sabato d'autunno. Nelle vigne qui intorno si sta facendo quella che s'annunzia come la vendemmia del secolo e dal roof del Baglioni, dove Curzi tiene il suo quartier generale prima di spostarsi in un albergo più modesto, il campanile di Giotto è di una bellezza struggente, soprattutto al pensiero delle ferite d'Assisi.
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Curzi ha sessantotto anni e conosce sia D'Alema che Ferrara (figli entrambi di importanti genitori comunisti) da quand'erano ragazzi. D'Alema aveva partecipato con Veltroni alla festa dei suoi sessantacinque anni, al roof del palazzo delle Esposizioni in via Nazionale. Poi il segretario l'aveva invitato a cena a casa sua con Stefano Balassone (braccio destro di Angelo Guglielmi a Rai Tre) nei primi mesi del '9per offrirgli un seggio alla Camera. Risposi di no» mi racconta Curzi «perché volevano mandarmi non so più dove. Candidatemi al collegio di Roma centro dove abito io. L'indomani Zani mi chiamò dicendomi che quel posto era destinato ai cattolici. Poi invece il candidato cattolico rinunciò e andò Veltroni a battersi con Mancuso. Meglio così, avevo deciso di morire giornalista come Montanelli.» Da allora, per un anno e mezzo, Curzi e D'Alema non s'erano più visti. E adesso, finita la telefonata, Bruna frigge. Che t'ha detto? Non sarai stato un po' sgarbato? Perché gli hai risposto così? Vuoi pensarci? Sandro deve essersi sentito come un cattolico che ha deciso di passare alla Chiesa anglicana e riceve una paterna e severa telefonata del papa: che farai, figliolo, lontano dalla tua Chiesa? Con la prospettiva di una scomunica. Curzi ci pensa, ma l'indomani prende un foglio di carta intestata e scrive di pugno una paginetta. «Caro Massimo...»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE E comunica a D'Alema che la scelta di presentarsi nel Mugello è irreversibile, l'errore è stato del Pds nel candidare Di Pietro, speriamo di ritrovarci in situazioni diverse. Poi compie con uno stato d'animo diverso da sempre il tragitto fatto mille volte dalla casa ai Fori Imperiali fino alle vicine Botteghe Oscure e consegna personalmente la lettera ai compagni della vigilanza che stanno dietro un tavolone a sinistra dell'ingresso e dal tipo di gente che arriva capiscono che significa stare al governo. «A Sa', che tu e Massimo ve scrivete lettere d'amore?" Curzi saluta con un sorriso insieme allegro e imbarazzato e se ne va.
Una sera di luglio, a Parigi.
La discesa in campo di Sandro Curzi comincia la sera di mercoledì 16 luglio alle ore 20. Il giornalista si trova con la moglie a Parigi dove possiede un piccolo appartamento nella zona intrigante di place des Vosges e dove - da gauchista incallito - è andato a festeggiare due giorni prima l'anniversario della Bastiglia. Nel '97 la festa è stata grande perché da poche settimane la sinistra è tornata al potere. Anche se la Rivoluzione francese nacque dalla borghesia, la sinistra l'ha sempre considerata cosa sua. Così Sandro e Bruna Curzi hanno ballato tutta la notte nelle strade e nelle piazze del
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Marais, dove l'aristocrazia parigina risanò una palude per farvi una delle oasi urbanistiche più raffinate della città. E ballando hanno ritrovato les italiens, i compagni eurocomunisti francesi di un tempo seguaci della svolta di Berlinguer che l'arcigno partito di Marchais aveva messo ai margini. Ma anche in vacanza il mestiere è mestiere. Così la sera alle otto Sandro Curzi si mette davanti al televisore per guardare il TG1. Accende e alle otto e un minuto gli viene un colpo. Di Pietro scende in campo con l'Ulivo e D'Alema gli assegna il collegio di Firenze 3, così rosso che più rosso non si può. "Quella sera» mi racconta Curzi «sto con Miriam Mafai, che per me è una sorella. E insieme conveniamo che la candidatura di Di Pietro è proprio una gran boiata, anche se poi Miriam mi bacchetterà. L'idea di candidarmi contro Di Pietro nasce in quel momento.» La moglie Bruna gli dice che è una follia, la Mafai lo implora di non mettersi contro tutto il partito (Curzi è iscritto al Pci dal '44). Niente. Curzi rientra a Roma dove trova l'incoraggiamento della figlia Candida, capo dei servizi giudiziari dell'Ansa. Chiama Enrico Boselli, segretario dei socialisti del SI e Luigi Manconi, leader dei Verdi. Entrambi lamentano che D'Alema non li abbia consultati, ma le risposte sono diverse.è un'idea stupenda» dice Boselli.I1 mio appoggio ce l'hai,» risponde Manconi «ma vedrai che nel mio partito ci saranno difficoltà.» E infatti i Verdi dopo un po' di storie de-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE cideranno di appoggiare Di Pietro. Curzi chiama al telefono Fausto Bertinotti. «Hai visto che vergogna?» si dicono. Parlano del più e del meno, Bertinotti invita il giornalista a cena, Curzi non gli parla dell'idea di candidarsi, ma gli chiede di vederlo subito al partito. Quando va a trovarlo nella sua stanza ampia e luminosa di viale del Policlinico, Curzi non scopre subito le carte. Aspetta che Bertinotti parli della «degenerazione gravedeterminata dalla candidatura di Di Pietro su proposta del Pds, di un «cambiamento di stile politico». «Stiamo pensando di rispondere con un candidato locale,» dice ancora Bertinotti a Curzi «anche se sarebbe bello se corresse un personaggio come Rossana Rossanda.» è a questo punto che il «compagno scomodo» dice: «Per la verità, sono venuto a proporti la mia candidatura». Bertinotti accoglie la proposta con favore, ma chiede due giorni di tempo per consultare i suoi. Poi la candidatura diventa pubblica e scoppia la bomba nel Pds: va bene le due sinistre, ma che Rifondazione debba fare la guerra al Pds utilizzando uno dei suoi iscritti più noti e di più antica data... Il primo a telefonare a Sandro Curzi per complimentarsi è Claudio Petruccioli che accoglie con refrigerio qualunque notizia dia fastidio a D'Alema. Curzi e Petruccioli sono in freddo da quattro anni. Mentre mangia una scaloppina davanti al campanile di Giotto, Curzi mi rivela un retroscena dell'estate '93 sulla sua
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estromissione dalla guida del TG3. «Era arrivato alla Rai il Consiglio d'amministrazione dei "professori". Petruccioli, braccio destro di Occhetto allora segretario del Pds, telefonò a Paolo Murialdi, membro del consiglio, per sollecitare il ricambio alla guida del TG3. E io fui cacciato.»
E a Curzi telèfona Occhetto.
Dopo quattro anni di gelo, Petruccioli si fa vivo con una telefonata: «Restituisci dignità a tutti noi, mi dice. E io ringrazio imbarazzato» mi confida Curzi. Telefona anche Achille Occhetto: se per Petruccioli i dispetti a D'Alema sono un refrigerio, per Occhetto sono un piacere sessuale. Poco dopo Curzi riceve una telefonata meno calorosa. è Claudio Velardi, capo dello staff di D'Alema, che gli dà appuntamento nel Transatlantico di Montecitorio. «ll segretario fino a quel momento era stato zitto» mi racconta Velardi «e, visto che sarebbe andato di lì a poco a Firenze con Di Pietro, volevamo sapere come si sarebbe mosso Curzi. Gli chiesi di ripensare alla sua candidatura visto che Di Pietro andava via via chiarendo la sua posizione politica nel centrosinistra. Curzi mi sembrò possibilista e ci demmo appuntamento di lì a qualche giorno. Un paio d'ore dopo ar-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE riva attraverso le agenzie di stampa la conferma della sua candidatura .»
Ai suoi compagni del Pds (e poi allo stesso D'Alema) Curzi dice che la candidatura Di Pietro gli fa tornare alla mente un'operazione inventata da Togliatti nel '53: Alleanza democratica nazionale. «Ho poco più di ventitré annimi racconta «e il Pci deve affossare il primo tentativo di rendere i governi stabili con il premio di maggioranza: la "legge truffa". Sto nella Federazione giovanile comunista con Enrico Berlinguer quando mi chiama Pajetta. Da oggi, mi dice, non sei più comunista. Mi prende un colpo. Che ho fatto? Mi viene subito in mente un'avventura sentimentale: evidentemente al partito non è piaciuta. Ma Pajetta va oltre: non sei più comunista, sei un giovane liberale. E mi manda da Togliatti: cosa assolutamente inconsueta per i tempi. Togliatti mi spiega che per battere i democristiani e la loro legge truffa bisogna mettersi insieme anche con persone molto lontane da noi. Da oggi, mi dice, sei il segretario di Epicarmo Corbino. Io resto secco perché abbiamo impiccato in varie manifestazioni il fantoccio di Corbino, ministro del Tesoro liberale. Mi spiega anche che da Roma in su viene fondata l'Unione popolare che mette i comunisti insieme con Codignola, Parri, Calamandrei. Da Roma in giù nasce Alleanza democratica dove stiamo insieme alla destra. Dopo due settimane passate a Roma come segre-
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tario di Corbino, vengo spedito in Sicilia. Lavoro con una principessa, tre o quattro generali, non so quanti colonnelli. Prendiamo venticinquemila voti, un'enormità. Il meccanismo della legge truffa non scatta per un soffio e io ricevo un biglietto di plauso di Togliatti.» E Di Pietro? «Con Di Pietro D'Alema sta facendo la stessa operazione, ma i tempi sono cambiati. Gliel'ho detto: Massimo, tu pensi di rifare Alleanza democratica nazionale, ma guarda che alla fine Di Pietro non lo controlli.» E come i Testimoni di Geova ricevono tante porte in faccia mentre predicano la loro Verità, Curzi si accorge sulla sua pelle di vecchio comunista quanto sia difficile fare campagna in casa del Pds contro il Pds. I1 vecchio Kojak, grande volpe della politica, si presenta con una scusa qualsiasi, non annunziato, alle Case del Popolo, ai circoli dell'Arci e nelle altre parrocchie storiche del Pci-Pds. Entra a bere un bicchier d'acqua, chiede se può fare pipì. Poi si siede accanto a quelli che giocano a carte e comincia a parlare. Qualcuno borbotta che ha tradito, qualcun altro lo sta a sentire, qualcuno è pronto perfino a dargli ragione. «Ma alla fine tutti mi dicono: se D'Alema ha deciso così, vuol dire che così sta bene.» E nessuno meglio di Sandro Curzi può comprendere le ragioni del centralismo democratico. Lui si consola con i clandestini: «Una volta in un bar vedo tre uomini che fanno Qnta
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE di non riconoscermi. Esco e nella notte sento tre ombre che si avvicinano. Sono loro, m'incoraggiano ma mi dicono che non possono farlo in pubblico. Dopo due mesi di campagna elettorale «leggera», a metà luglio Gluliano Ferrara si dimette da direttore di «Panorama». Una delle ultime copertine del settimanale aveva portato la foto di Curzi in copertina con la scritta: «Forza Sandro!». Curzi non aveva ringraziato Ferrara e approfitta delle dimissioni da «Panorama» per chiamare il vecchio compagno. (La madre di Giuliano è stata segretaria di Togliatti, il padre Maurizio uno dei principali giornalisti dell'«Unità».) «Caro Giuliano, mi dispiace che tu vada via. Grazie della copertina, anche se naturalmente mi hai inguaiato.» «Caro Sandro, appunto per non crearti difficoltà il tono degli articoli era particolarmente moderato.» La conversazione si chiude con Curzi che s'interroga sul candidato del Polo e Ferrara che scherzando dice al vecchio collega che sarebbe andato a fare campagna elettorale per lui. Nel pomeriggio i cronisti delle agenzie di stampa che assistono alla registrazione del «Maurizio Costanzo Show» annunciano che Ferrara ha accettato la proposta di Berlusconi di candidarsi nel Mugello. E Sandro Curzi capisce che il film cambia protagonista.
La malandrinata di Berlusconi
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«Ci sono soltanto due cose che invidio nella vita» mi dice Silvio Berlusconi. «La capacità di Fedele Confalonieri di suonare il pianoforte e la capacità di scrittura di Giuliano Ferrara. Confalonieri anche da giovane era così bravo che io ho dovuto smettere di suonare e ho cominciato a cantare. Ferrara mi ha fatto venire in mente una malandrinata...» Quando il pomeriggio di mercoledì 16 luglio le agenzie battono la notizia che Di Pietro si candida in Toscana per l'Ulivo, Giuliano Ferrara è appena arrivato a Bisceglie in casa dei suoceri. Il mercoledì è per «Panoramail giorno di chlusura. Il giornale viene stampato nella notte e distribuito l'indomani in tutta Italia in modo da essere puntualmente nelle edicole fin dal primo mattino del venerdì. E come il presidente degli Stati Uniti viaggia portandosi al seguito la valigetta nera con i comandi della guerra nucleare, il direttore di «Panorama» ha sempre con sé un computer portatile che gli consente di seguire la lavorazione del giornale dovunque si trovi. Quel numero di «Panorama» è particolarmente delicato. Dopo aver pubblicato la settimana precedente il resoconto del primo interrogatorio di Antonio D'Adamo («Per una Dedra in più»), stavolta si stampa un'altra durissima storia. In copertina sotto il titolo: "Il grande scroccone, c'è la foto di Di Pietro con una bella ragazza ripresa nella garconnière di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE D'Adamo a un passo dal Duomo. Didascalia: «Una simpatica immagine di Di Pietro quando Milano "era da bere"». Mentre a «Panorama" mettono in copertina sulla foto di Di Pietro un richiamo all'ultima intervista a Versace, ucciso qualche ora prima di quello stesso giorno, arriva la notizia della candidatura dell'ex magistrato. Ferrara sta lavorando nello stanzino messogli a disposizione da un parente sacerdote, don Mauro Cozzoli, docente di teologia morale nella Pontificia Università Lateranense. Ma lascia immediatamente il computer e telefona a Berlusconi, il quale ha appena rilasciato al settimanale un'intervista durissima e rivelatrice contro l'ex magistrato. «Vado io a candidarmi contro Di Pietro!"grida Ferrara. Ma è una battuta. «Come fa? Lei è direttore di "Panorama"...» replica infatti il Cavaliere. Passano due mesi esatti e giovedì 11 settembre una inserzione pubblicitaria sui quotidiani annuncia che l'indomani i lettori di «Panorama" troveranno allegata al giornale una videocassetta con una sintesi della deposizione di Stefania Ariosto nell'incidente probatorio della primavera '96 nel processo contro Cesare Previti e Renato Squillante. L'udienza dal Gip si è svolta a porte chiuse, ma il controinterrogatorio dei difensori degli imputati è stato registrato da una telecamera. L'Ariosto chiede il sequestro della cassetta, ma quando il provvedimento viene notificato il giornale è già in distribuzione. Alle otto e mezzo del mattino di venerdì 12 le sessantacinquemila copie del video Ariosto sono esaurite (il giorna-
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le non è riuscito a tirarne di più) e per l'intera giornata in tutta Italia gli edicolanti vengono sottoposti a richieste pressanti da parte dei clienti abituali perché trovino in ogni modo l'introvabile allegato di «Panorama». Fin dal mattino, Ferrara chiede di ristampare il video in barba alle prescrizioni del tribunale civile, ma la direzione aziendale si oppone e lo stesso Berlusconi, editore di riferimento di Mondadori, non se la sente di forzare. Ferrara esce dal giornale furioso e va a cena alla «Nuova Arena», in piazza della Lega Lombarda, dove è atteso per il compleanno di Vichi Festa. Alle undici e mezzo di sera prende il vagone letto per Roma e alle nove e mezzo del mattino successivo, appena arrivato nel nuovo appartamento al Testaccio, annuncia le sue dimissioni dal giornale nell'ordine al condirettore Pierluigi Battista, al vicedirettore esecutivo Massimo Donelli e all'amministratore delegato di Mondadori, Maurizio Costa. «Tutti sapevano che prima o poi avrei lasciato perché non ce la facevo a reggere "Panorama" e "Il foglio",» mi racconta Ferrara «ma certo la vicenda Ariosto ha accelerato i tempi. E siccome anche in Mondadori sanno che sono un po' matto, capiscono che non è il caso di insistere.» Berlusconi viene informato immediatamente, chiama Ferrara e trova un muro. Stessa sorte per Fedele Confalonieri. Ferrara se ne va al mare nella sua casa in Maremma, sale in
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE barca, ma lo scirocco lo fa arenare. Lì ha una casa anche Paolo Mieli, direttore editoriale del «Corriere» e suo vecchio amico. Pigi Battista deve avergli soffiato la notizia, ancora riservata, e Mieli chiede a Ferrara il permesso di farla uscire sul suo giornale. «Divieto assolutorisponde l'ormai ex direttore di Panorama. Ma Mieli, che è un furbo di tre cotte, la fa uscire ugualmente, fingendo che essa sia filtrata in serata da Venezia, dove tutto lo stato maggiore Mondadori è riunito per il premio Campiello.
Domenica, nuova telefonata di Berlusconi, un po' più tesa di quella del sabato. Ferrara gli dice: «Guardi, presidente: me ne vado senza sbattere la porta. Resto in casa a collaborare, anche perché non sono molti gli editori che mi vorrebbero con il carattere che ho. Ma non insista». Dopo di che detta alle agenzie la lettera di dimissioni, stacca il telefonino e scompare. Lunedì pomeriggio, 15 settembre, Ferrara sta andando da Maurizio Costanzo che l'aveva invitato per presentare «Il Foglio finanziario», supplemento dell'ormai unico giornale dell'ex direttore di «Panorama». Nell'auto, accanto all'autista mandato da Costanzo, ha preso posto Anselma, la moglie di Giuliano. Dietro ci sono Ferrara e Sergio Scalpelli, consigliere d'amministrazione delFoglio». A piazza Santiago del Cile, «un minuto e mezzo prima di arrivare», arriva la telefonata di Berlusconi. «Mi parla di pro-
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posta malandrinami dice Ferrara «perché fino al giorno prima c'eravamo un po' scontrati.» «Adesso che non è più direttore di "Panorama",» chiede il Cavaliere con la voce del serpente tentatore nel film Il libro della giungla «vuole candidarsi contro Di Pietro?» «Sì,» grida Ferrara «a due condizioni. Che lei mi faccia mettere a disposizione una Mercedes bianca [per emulare la famosa Mercedes data da Gorrini a Di Pietrol e che dica subito a Marinella [la mitica segretaria di Berlusconi] di prenotarmi una suite al Savoy di Firenze.(Mi dirà più tardi Ferrara: «Al Savoy non c'era posto e ho preferito comprarmi da solo una vecchia Mercedes».) Berlusconi chiama subito Fini (non Casini con cui è in freddo) e quando Ferrara annuncia in trasmissione che ha deciso di candidarsi, Costanzo gli porge un biglietto con il consenso del presidente di Alleanza nazionale.
«Di Pietro nunló giocà il cacio to»
Nelle ultime due settimane di settembre, Giuliano Ferrara tenta invano di incontrare il rivale. «Non potrà sfuggirmi per quaranta giorni", dichiara. Ma Antonio Di Pietro risponde: «Con lui solo confronti in tribunale». Un paio di irruzioni di Ferrara per «stringere la mano» a Di Pietro vengono re-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE spinte. «Quello nun vo' giocà il cacio vinto» gli dicono i sostenitori del Mugello alludendo alla riprovazione che suscita al tavolo di briscola chi non vuole rischiare nella rivincita la pizza di formaggio già vinta. «Significa"mi spiega Ferrara «che Di Pietro non vuole mettere a rischio in un confronto pubblico con me la popolarità acquisita quando faceva il magistrato.» In ottobre il giornalista si rassegna: «Di Pietro è diventato un grande pupazzone che parla, non ascolta, non interroga e non è interrogato. Come si fa a fare campagna elettorale così?». Così il 20 ottobre partecipa soltanto con Sandro Curzi al mio «Porta a porta» sul Mugello. Ferrara si consola sfruculiando i sostenitori dell'awersario e gettandosi in analisi politologiche sul comunismo toscano. «Tutti i politici professionali, anche quelli che lealmente hanno sostenuto Di Pietro durante la campagna elettorale, riconoscono in me un interlocutore. Di Pietro ha qualità organolettiche di un vino ancora poco maturo...» Eppure D'Alema lo apprezza. Prodi ne è un consumatore abituale... A proposito, a palazzo Chigi avete parlato soltanto di fringuelli? «A palazzo Chigi portai le istanze dei cacciatori. Ma parlammo anche di politica. Di Pietro? Prodi è consapevole dei suoi limiti...» E i compagni della Toscana? «Nell'inconscio i vecchi compagni hanno simpatia per
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
me» mi dice. «Di Pietro è un democristiano venuto dal Molise e imposto dall'apparato, anche se conserva una sua carica di uomo del Sud. Io sono pur sempre un figlio del partito...» Magari un po' dirazzato... «Certo, mi porto dietro da diciotto anni l'immagine di rivoltagiubbe. Ed è curioso che me lo rimproveri gente pronta a votare Nerio Nesi. Ma nel Pci questo è accaduto sempre: se approdi a un riformismo di destra, sei dannato; se ti perdi in un'utopìa di sinistra, sei accettato. Io sono un giornalista che ha sostenuto Craxi, Nesi ne era il banchiere. [«Era il presidente della Bnl» lo corresse Fausto Bertinotti incontrando Ferrara a «Moby Dick».] Eppure lui è accettato e io no. Qui si vive in una nuvola di follìa ideologica...»
Ferrara è stimato da D'Alema, «l'Unità» lo intervista e non usa toni comparabili con quelli dell'«Espresso» che lo sbatte in copertina chiamandolo «la donna barbuta del Mugello» e in ottobre pubblica sondaggi per dimostrare che Ferrara fa perdere voti al Polo. Ma il sostegno del segretario del Pds al suo candidato è pieno e assoluto.
D'Alema: «Di Pietro messaggio ai giudici e a Berlusconi".
«Candidando Di Pietro» mi dice D'Alema "ho trasformato
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE un pericolo in una risorsa.» In che senso? «Di Pietro poteva costituire un pericolo per il fragile bipolarismo italiano, nel senso che qualcuno poteva immaginare di scagliarvelo contro, ricostruendo intorno a lui una sorta di centro che sostituisse con il carisma di Di Pietro le capacità di mediazione che ebbe la Democrazia crictiana. In questo senso la sua candidatura è una cosa molto importante per l'evoluzione democratica del Paese. Anche se ci vorrà tempo per capirlo (e Prodi è stato il primo). E stato anche un segnale alla magistratura? «C'è stato un messaggio forte e chiaro anche in questo senso, ma debbo premettere una considerazione che aiuta a capire anche la psicologia di questa scelta. Quando in Bicamerale abbiamo fatto riforme concordate con i nostri avversari, abbiamo pagato qualche prezzo. Per esempio? «Per esempio, io avevo proposto il governo del primo ministro anche perché Berlusconi mi aveva detto che gli andava bene. E invece mi è stato imposto il semipresidenzialismo contro il quale non avevo nulla, ma se all'inizio mi avessero detto che quella era l'unica strada che il Polo avrebbe voluto seguire, io forse mi sarei mosso diversamente. Nella ricerca di una intesa, quindi, io ho preso anche qualche bastonata.» E sulla giustizia? «Sulla giustizia io sono sinceramente un garantista e credo
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che si debba fare un certo mutamento di rotta, trovare un equilibrio più convincente tra tutela della legalità e difesa delle garanzie individuali. Naturalmente tutto questo alimenta sospetti. E poiché io ho parlato sempre di "antagonismo collaborante'con i nostri avversari, c'è bisogno di collaborazione ma anche di antagonismo.» E siamo arrivati a Di Pietro... «Appunto. La candidatura di Di Pietro è una bella iniziativa antagonistica, un messaggio forte e chiaro anche nei contenuti: vuol dire che l'Ulivo difende l'operato dei magistrati che hanno combattuto la corruzione nel nostro paese. E nel momento in cui sostengo un'attenzione maggiore alle garanzie individuali, voglio dimostrare che questa svolta garantista non è la resa di conti contro il Pool di Milano e contro Mani pulite.» Eppure la candidatura di Di Pietro è stata vista come una mossa spregiudicata. «Lo dicono gli intellettuali di sinistra o almeno certi salotti di sinistra che arrivano sempre dopo. La stragrande maggioranza dei cittadini ha invece capito chiaramente il messaggio. Altro che mossa spregiudicata: raramente una candidatura ha avuto un valore programmatico come questo. Un messaggio che infatti è stato compreso dal settanta per cento degli italiani.» E stata anche una candidatura contro Berlusconi?
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «E stata una risposta anche a Berlusconi. Per ragioni che mi sfuggono completamente, dopo la chiusura della Bicamerale, Berlusconi ha avviato una campagna planetaria contro la magistratura. (Dico planetaria perché adesso ce l'ha pure con gli spagnoli.) è una cosa profondamente sbagliata e controproducente: un leader politico, uno statista non litiga con i giudici e se ha problemi con la magistratura li affronta con sobrietà.» «Vede,» aggiunge D'Alema «non voglio portarmi ad esempio, ma io sono oggetto di un'indagine giudiziaria che considero totalmente infondata e condotta con metodi incredibili. Da due anni un'indagine cerca di stabilire se una cooperativa veneta mi ha dato dei soldi o no. Non c'è una testimonianza, non un pezzo di carta. è una cosa sconcertante. Ma io non ho fatto di questa indagine un oggetto di campagne perché penso che un leader politico debba avere pazienza. Se io fossi un cittadino qualsiasi le assicuro che farei il diavolo a quattro, ma essendo il leader di un grande partito, so di non poterlo fare.» Bisogna riconoscere, però, che Berlusconi ha ricevuto dai magistrati un trattamento più massiccio del suo... «Io non entro nel merito di queste cose, ma mi ha preoccupato la sensazione che una parte dell'opinione pubblica potesse pensare che l'accordo in Bicamerale fosse il via libera a Berlusconi di poter attaccare la magistratura proprio in quanto rafforzato da questo accordo. Bisognava dare per
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
questo un segnale che il via libera non c'era stato. La candidatura di Di Pietro è servita anche a questo."
«Un movimento Di Pietro? L'errore della sua vita»
Lei si è vantato a lungo di non aver avuto rapporti con «il dottor Di Pietro». Poi improvvisamente ha cambiato parere anche sulla persona. «Antonio Di Pietro è un uomo simpatico. Esprime una potenza comunicativa, rappresenta in modo significativo una parte della nostra società, del carattere degli italiani, degli uomini del Sud. La cosa che temo di più è che intorno a Di Pietro possano muoversi degli scrocconi, degli adulatori, della gente che cerca di utilizzarlo per fargli fare il suo movimento sperando di avere un seggio alle prossime elezioni. Se Di Pietro capisce che stando nell'Ulivo conta di più che mettendosi alla guida di un suo movimento autonomo, se accetta la disciplina democratica del bipolarismo, svolgerà una funzione essenziale. Lui ha scritto che scegliendo di mettersi con una parte ha pagato un prezzo di popolarità. Vuol dire che ha capito.» Di Pietro dunque è passato dall'antipolitica alla politica? «Questa è una storia curiosa. Giovedì 17 luglio, insieme con l'annuncio della sua candidatura, il "Corriere della Sera"
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ha pubblicato un editoriale in cui massacrava me e lui e il supplemento "Sette" con un articolo beneaugurante per la sua discesa in campo alle prossime elezioni amministrative con il suo movimento "Democrazia e legalità" che si sarebbe opposto a tutti i partiti. Al giornale andava bene un Di Pietro che si presentava sotto un'etichetta da Sudamerica degli anni Cinquanta e non il candidato dell'Ulivo che invece suscitava indignazione.» Le perplessità sono nate dal fatto che un uomo di destra si candida a sinistra. «Ma queste sono obiezioni tipiche dei salotti di sinistra. La sinistra in Italia rappresenta un terzo dell'elettorato e in questo modo è destinata a perdere le elezioni. Per governare deve allearsi con un certo numero di estranei. Mi pare un ragionamento elementare, eppure a volte ho l'impressione che una parte della sinistra non mi perdoni di aver vinto le elezioni, che consideri l'affermazione del 21 aprile '96 come un peccato. Di Pietro non è un uomo di sinistra, ma un servitore dello Stato che ha combattuto la corruzione e su questo piano può incontrare la sinistra. Naturalmente avrebbe potuto incontrare anche la destra, ma nel sistema maggioritario vince chi riesce ad acquisire il consenso di quanti sono collocati in un'area di frontiera. Non crede che difficilmente Di Pietro rinuncerà a fondare un movimento proprio? «La sua idea iniziale era quella di presentarsi alle elezioni
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con un suo movimento appoggiato dall'Ulivo. Ma d'accordo con Prodi gli ho spiegato che questo non era proponibile. Nessuno, tuttavia, gli proibisce di fare un movimento una volta eletto. Nell'Ulivo ce ne sono già tanti, forse troppi. Ma se lo facesse, commetterebbe un errore. Secondo i sondaggi, il movimento di Di Pietro vale fra il 3 e il 4 per cento. Di Pietro nell'Ulivo vale il 55 per cento. Per quale ragione uno che vale il 55 per cento deve organizzarsi per valere il 4 per cento? Da consulente abbastanza esperto della materia potrei dirgli: guardi, lei sta per fare l'errore della sua vita. Ma lui naturalmente è libero di fare quel che vuole.» E se facesse un gruppo parlamentare? «Non ho idea di chi possa fare un gruppo parlamentare con Di Pietro, ma se vuole può fare anche questo. Mi pare un problema secondario. Quando sostenni Dini, poco mancò che mi annunciassero un suo colpo di Stato. Mi tormentarono dicendo che lui sarebbe stato il capo della destra e il candidato del Polo. Si è visto come è andata. Anche i problemi paventati per Di Pietro si risolveranno.»
Bertinotti: «Di Pietro è imbevibile».
«Di Pietro per noi resta l'uomo mascherato. Il magistrato è fuori discussione. Il politico è imbevibile.» Nella guerra autunnale tra le «due sinistre», tra pensioni e
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE lavoro, crisi di governo e rese dei conti, la candidatura di Antonio Di Pietro nel rosso collegio del Mugello resta insopportabile. «La nostra è una battaglia politica condotta con inquietudinemi dice Bertinotti. «La collocazione politica di Di Pietro ci offende, la sua indicazione verticistica contraddice tutte le istanze nuoviste di cui si era fatto portavoce soprattutto l'Ulivo. Di Pietro deambula nella politica italiana evitando una sola cosa: la declinazione del proprio programma politico. Dice: "la politica c'est moi" e quindi non ho bisogno di dire i miei programmi, dovete fidarvi di me.» Ma c'è un altro aspetto che disturba Bertinotti. «L'elemento più inquietante è che D'Alema e il Pds hanno sostituito con il mercato gli elementi che rendono decifrabile la politica. Tu dici una cosa e per questo sei di destra, di centro o di sinistra. D'Alema ha scelto il mercato che non ha valori, non declina programmi e si misura sulla base del risultato. è buono quel che si vende. Non importa se inquina o fa male alla salute.» I'erché dalla candidatura di un uomo pure importante fate discendere riflessioni così generali? «Perché torniamo al trasformismo italiano, che è la cifra più antica del paese. Dalla Resistenza all'altro ieri i partiti di massa avevano vietato le trasmigrazioni, bollando le rarissime persone che le facevano con l'accusa infamante di tradimento.»
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Non era un sistema un po' rigido? «Sì, lo riconosco, ma era un antidoto efficace per un paese come l'Italia. Siamo ritornati agli anni che precedettero il fascismo, al notabilato che da Crispi a Giolitti era la modalità per realizzare il trasformismo. Ecco, io vedo con Di Pietro riemergere il trasformismo italiano.»
Lettere dal carcere.
Pomicino: «Chiesi a Di Pietro l'orazione funebre».
«Caro dottor Di Pietro, anch'io, una volta che non ero più deputato, ho chiesto legittimamente a un mio carissimo amico un prestito di settanta milioni per transigere con la Montedison. Un prestito restituito dopo appena venti giorni per il semplice fatto che Montedison non accettò la mia offerta. Ebbene, per quel prestito io sono stato arrestato con l'accusa di estorsione e sono ancora dinanzi ai giudici del tribunale dei ministri di Napoli...» Vittorio Feltri pubblica sul «Giornale» del 21 luglio 1997 una lunga lettera aperta di Paolo Cirino Pomicino ad Antonio Di Pietro. Titolo di prima pagina: «Caro dottore, io per un prestito fui arrestato". è appena esplosa la nuova polemica SUl prestiti dell'imprenditore D'Adamo al pubblico mini-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE stero di Mani pulite e Pomicino ne approfitta per ricordare che a lui un prestito è costato carissimo. Cirino Pomicino è uno dei dirigenti più importanti della «vecchia Dc" o, se preferite, della Prima Repubblica. è andato sotto processo parecchie volte per Tangentopoli, ma - dice lui stesso al «Corriere"il giorno dopo la lettera apparsa sul «Giornale» - «tutte le procure che hanno indagato su di me, Milano compresa, hanno avuto modo di accertare che i contributi ricevuti sono stati destinati tutti alle attività politiche ed elettorali». Pomicino appartiene a quella cerchia di persone che quando hanno una battuta sulla lingua non rinuncerebbero a dirla
per nessuna ragione. Eppure il suo rapporto con Di Pietro è ottimo. Tanto è vero che quando nel gennaio del '97 sembrava che un infarto se lo portasse via, Di I'ietro corse al Gemelli per visitarlo. La notizia m'incuriosì. Chiamai e mi rispose una figlia. «Papà sta molto male e deve essere operato a Londra.» Lasciai i miei auguri. Il 5 marzo Pomicino mi richiamò dal suo letto di un ospedale inglese. La voce era stanca, ma lo spirito era inconfondibile: «Anche stavolta non sono morto. Il mio problema è stato sempre la precocità. Prenda Agnelli e Biagi: anche loro hanno avuto un secondo intervento di by-pass, ma a settantatré anni perché il primo infarto l'hanno avuto a sessanta. Io
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me lo sono preso a quarant'anni, a quarantasei ho avuto i primi quattro by-pass a Houston, poi ho avuto il secondo infarto a cinquantotto anni, nel gennaio del '97, e a febbraio m'hanno messo altri due by-pass. Adesso sono disarmato. Di Pietro? Un giorno ne parliamo». Quel giorno arriva nell'estate del '97 e la storia merita di essere raccontata. «Giovedì 23 gennaio alle dieci di sera mi viene l'infarto. [Pomicino è medico, quando è diventato deputato a ventisette anni ha lasciato una promettente carriera di neuropsichiatra.] Sono solo in casa a Roma con un giovane amico che mia figlia Ilaria mi aveva pregato di ospitare. Avverto Ilaria, chiamo un taxi e salgo ormai semisvenuto. Andiamo al Gemelli. Lì, secondo la tradizione ospedaliera italiana, mi mettono su una sedia a rotelle e mi dicono: aspetti un momento. Allora dico al ragazzo che mi accompagna: buttami dentro la medicheria. Vi entro di colpo sulla sedia a rotelle dicendo: sono Cirino Pomicino, ho quattro by-pass e l'infarto in corso. Detto questo, ho un arresto respiratorio, mi fanno di corsa un'iniezione e mi portano nell'unità coronarica. La mattina dopo la notizia comincia a circolare. Prego allora Ilaria di avvertire due persone: Giulio Andreotti e Antonio Di Pietro.» Ma che c'entra Di Pietro? «Adesso ci arrivo. Ilaria gli lascia la chiamata, lui molto carinamente dopo un paio d'ore richiama e Ilaria gli dice: guar-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE di, papà sta male, molto male e mi ha detto di ricordarle quell'impegno.» Quale impegno? «Un momento. Di Pietro le dice: io sono a Milano, prendo un aereo e in due ore sono a Roma. A mezzogiorno e un quarto arriva nell'unità coronarica. Il professor Masari mi sta visitando, lo fa aspettare venti minuti e poi lui entra. L'incontro è molto toccante...» E l'impegno? «L impegno con me Di Pietro lo ha preso all'inizio di gennaio del '95. Lui si è tolta la toga qualche settimana prima, io sono ancora imputato nel processo Enimont [verrà condannato a due anni e sei mesi per finanziamento illecito al partito], lo cerco, lui mi riceve nella sua casa vicino al Duomo e io gli dico: sto andando a Houston per fare una coronografia di controllo. Spero di rientrare e di avere il tempo per sconfiggere nell immaginario collettivo il ruolo di grande profittatore che mi è stato cucito addosso. Ma se non tornassi, io non potrei lasciare alla mia famiglia il marchio di corrotto. Poiché lei sa che io ho preso soldi solo ed esclusivamente per finanziare la politica del mio partito, le chiedo l'impegno di pronunciare l'orazione funebre davanti alla mia bara.» E Di Pietro? «Accetta.»
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«Ma poi decisi di non morire»
E che cosa avrebbe dovuto dire nell'orazione funebre? «Che iO non ho rubato. Di Pietro sa - e la Guardia di Finanza ha accertato - che i finanziamenti ricevuti dalla Ferruzzi sono andati solo ed esclusivamente alla corrente del mio partito.» Quanti soldi? «Poco meno di sei miliardi.» Tutti alla corrente andreottiana? «Tutti alla corrente dell'allora presidente del Consiglio. Le cose andarono così. Quando Raul Gardini uscì dalla Ferruzzi, Carlo Sama e Giuseppe Garofano [Sama, cognato di Gardini, era rimasto nella società di famiglia diretta da Garofano] volevano riaccreditarsi con il sistema politico. Nel maggio '91 Sama venne da me e mi disse: Agnelli finanzia il Partito repubblicano e la Dc, De Benedetti il Pri e il Pci, Berlusconi è vicino al Partito socialista. Noi della Ferruzzi non abbiamo avuto mai un rapporto strutturato con una componente politica e vogliamo farci carico delle necessità elettorali della corrente del presidente del Consiglio. Era il periodo in cui Cossiga minacciava di sciogliere le Camere e di far svolgere le elezioni anticipate nel '91. Ebbe per questo una forte polemica con la Iotti e con Scalfaro e al congresso socialista di Bari anche Craxi ventilò l'ipotesi di fare le elezioni anticipate.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE E i Ferruzzi finanziarono voi andreottiani. «I sei miliardi furono distribuiti tra i deputati della corrente. Ma la questione Enimont era di otto mesi prima, questo finanziamento non c'entra niente e Di Pietro lo sa.» Sama confermò? «Ci vedemmo davanti a Di Pietro per un confronto nel dicembre del '93. Io dissi quello che le ho appena detto. Sama disse di non ricordare. Ma Di Pietro sa come stanno le cose. Tanto è vero che nel 1996, quando lui era ministro dei Lavori Pubblici, gli scrissi una lettera in cui gli ricordavo che quando io volevo fare una transazione con Montedison offrendo settecento milioni, lui mi disse: ma perché glieli deve dare? Sono loro che son venuti a offrirle il contributo.» Che cos'altro avrebbe dovuto dire Di Pietro nell'orazione funebre? «Che è sbagliata anche la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione nel processo Enimont. Ma Di Pietro mi disse: guardi, io ho sbagliato a mettere il suo nome nella richiesta, la prego di avvertire Davigo e gli altri, io purtroppo non sono più magistrato, ma insomma è stato proprio un errore mio. Un errore materiale.» Non glielo poteva dire lui a Davigo che si era sbagliato? «Di Pietro mi disse che glielo avrebbe detto, ma mi suggerì di farmi interrogare sull'argomento. Nessuno mi ha mai interrogato. Insomma Di Pietro sa che il finanziamento è finito interamente ai deputati della mia corrente, che i soldi mi so-
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no stati offerti con la motivazione detta da Sama e che io non c'entro niente con Enimont. Per questo avrebbe dovuto pronunciare l'orazione funebre. E per questo l'ho chiamato a testimoniare davanti alla Corte dei conti.» Di Pietro testimone? «Certo. La Corte ha promosso nei miei confronti un'azione di risarcimento e io ho chiamato a deporre Di Pietro che sa come stanno le cose. Lei ha chiesto a Di Pietro di assumere l'impegno nel gennaio del '95. Prima dell'incontro di due anni dopo in ospedale non vi eravate più rivisti? «Ci siamo rivisti a Pasqua del '95. Ci incontrammo per caso vicino all'albergo Santa Chiara, qui a Roma, tra Camera e Senato. Lui mi disse che stava per diventare garante del "Telegiornale" di Gigi Vesigna, un quotidiano che sarebbe uscito di lì a poco [e che cessò prestissimo le pubblicazioni], in modo da aspettare un po' prima di fare direttamente politica. Io gli riSpOSi: se lei vuole scrivere sulle collezioni di vasi cinesi del periodo Ming, capisco che questo può essere un passatempo prima di entrare in politica. Ma se la sua attività pubblicistica tocca temi squisitamente politici, be' in politica c'è già entrato, magari senza accorgersene. E lui? «Era molto incerto. Lui sapeva che la popolarità è un po' come il vecchio potere: se non lo si usa, si consuma con l'an-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dar del tempo. Per questo lui aveva accettato di fare il ministro dell'Interno di Berlusconi...» Accettato? «Lui mi disse che avrebbe accettato se Scalfaro non glielo avesse impedito. Questo me lo disse nel luglio del '94.» Dove? «Al Palazzo di Giustizia di Milano quando andai a parlargli dei settecento milioni da restituire alla Montedison e lui mi disse: ma insomma, perché? Lei a questo punto si chiederà perché Di Pietro parlasse di queste cose con me.» Mi ha letto nel pensiero. «La ragione è semplice. Il30 novembre del '93, quando mi interrogò per la prima volta sulla vicenda Enimont, io gli spiegal che una volta sputtanati e spazzati via noi moderati della vecchia classe dirigente, lui sarebbe dovuto entrare in politica come Rudolph Giuliani a New York. E siccome la politica per chl non la fa è come una sirena, ne abbiamo riparlato sempre. Con lui ho sempre mantenuto un ottimo rapporto." Come mai? «Perché lui ha agito nei miei confronti con correttezza pro-
fessionale. Non ha fatto come i suoi colleghi napoletani che mi hanno scaricato addosso la corruzione, la concussione, la camorra, l'iradiddio.» Scusi, Pomicino. Posso chiederle come vive? «Faccio il giornalista e come free-lance guadagno discreta-
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mente.» Lei usa molti pseudonimi... «Yanez per "Il Tempo", Geronimo per "il Giornale" [quando Pomicino fu arrestato, Feltri fece scriz1ere subito un articolo a firma Geronimo per coprirlo], Forrest Gump per "Il Messaggero", ma lì ho smesso perché la linea del giornale è troppo vicina al Tesoro. Infine, Seneca per un settimanale economico napoletano.» A proposito: lei non è più morto. «Per la verità la sera del 24 gennaio, poco dopo la visita di Di Pietro, i medici dissero a mia moglie che avevo soltanto poche ore di vita e mi fecero impartire l'Estrema unzione. Chiamai allora mia moglie Wanda, le mie figlie Claudia e Ilaria, mio genero Antonio Tropeano e feci una specie di pistolotto pieno di raccomandazioni. Alla fine dissi: però, scusate, per certi miei calcoli scaramantici, io stavolta non muoio. E così fu.»
Aldo Femla, un giudice nel tritncarne
«Invece di un prestito, io ebbi uno sconto sull'automobile da un venditore che gli sconti li faceva a tutti e che insistette moltissimo perché io comprassi. Per questo fui condannato e poi assolto. Contro Di Pietro non ho niente e sono contento che sia stato assolto nei processi penali. Ma per favore, non
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE paragonatemi a lui, come hanno fatto i giornali. Io non ho avuto ricchi favori da persone importanti rivelatesi poi imputate di reati gravissimi. I nostri casi non hanno niente in comune. Hanno rivoltato la mia vita, mi hanno chiesto le ricevute per i lavori di ristrutturazione della mia casa nel '75 e, quando le ho portate, mi hanno detto che non servivano. Ma intanto hanno mandato fior di investigatori a casa di artigiani che avevano lavorato per me più di vent'anni fa. Hanno minacciato di accompagnamento coatto un idraulico che aveva giurato di essere stato sempre saldato regolarmente. Hanno interrogato tre volte un falegname: tutto a posto anche lì. Sono andati a un ristorante di Asti dove ogni anno offrivo un pranzo ai dipendenti della mia procura per vedere se pagavo il conto. Sempre. Ma tra le carte processuali non ne hamlo messa una a mio favore. Tutto questo mi è costato un cambiamento d'ufficio, una crisi depressiva due infarti e tre by-pass. E dopo l'assoluzione, il Csm mi há ammonito perché avevo accettato dei biglietti omaggio per le partite del Torino e un paio di cassette di bottiglie di vino senza sapere che me le aveva mandate il mio accusatore Qualche bottiglia nel Monferrato, capisce?, dove a Natale si regalano fiumi di vino. Eppure ho avuto la forza di riprendere con serenità il mio lavoro, il primo settembre '96 presso la Corte d'Appello di Torino. Perché guardi: io alla giustizia ci credo.» Aldo Ferrua, nato a Mondovì il 5 febbraio del '41, dimostra
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un po' più dei suoi anni. Probabilmente non è mai stato un Rodolfo Valentino, ma la storia dell'Alfa 33 comprata con lo sconto gli ha distrutto la vita e stava per mandarlo al cimitero. Me la racconta una sera dell'autunno '97, quando mi fermo un paio d'ore nella sua casa di Nizza Monferrato, tra Alessandria e Asti, per capire come possa essere forte l'accanimento giudiziario contro un giudice qualunque. Uno dei tanti procuratori della repubblica senza correnti e senza potere che fa il suo dovere con scrupo]o e diligenza, pur senza apparire sempre in Tv e sui giornali, che vive nella profonda provincia piemontese, ha avuto il nome sui giornali soltanto quando hanno trovato le armi in casa di Graziano Mesina che si era stabilito da queste parti e ha assaporato a sue spese la perversione di certe inchieste. Un magistrato messo nel tritacarne dai suoi colleghi e che ancora adesso si guarda intorno incredulo di essere nuovamente «il signor giudice» (anche se al posto di procuratore capo presso la Pretura circondariale di Asti ha rinunciato per dovere di trasparenza, come si dice, al momento della condanna che pure riteneva ingiusta e inaccettabile), ma insomma contento di essere tornato una persona rispettabile. Anche se non aveva fatto nulla per non esserlo più. Capito a ora di cena e la signora Egle, con l'aiuto della mamma, mi prepara un banchetto piemontese d'altri tempi. Chissà come, mi torna il pensiero alla ricostruzione del Friu-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE li. Anche le anime di questa casa sono state devastate da un terremoto e adesso si festeggia la ricostruzione. Durante la cena - davanti ai suoi ragazzi Elena e Andrea e all'amico di sempre Bruno Dalmasso - Aldo Ferrua, figlio di una famiglia semplice di operai, dove l'onestà e lo stare all'onore del mondo non avevano mai fatto rimpiangere la mancanza di lauree o diplomi, mi racconta così la sua storia. Un po' parlando e un po' leggendo qua e là dalla bozza del libro che ha cominciato a scrivere con il titolo Giudice, alzatevi!
Se è innocente, perché piange?
«Ho deciso di scrivere questo libro mi dice dopo che quest'estate mi hanno tirato in ballo giornali e televisioni per confrontare il mio caso con quello di Di Pietro.» Si è stufato di dire che l'errore giudiziario è un fatto fisiologico del processo, e di sentire mezze verità sulla vicenda. «Aldo, alzati, mi disse l'avvocato Bruno Dalmasso, mio vecchio compagno di scuola che mi difendeva insieme al professor Gilberto Lozzi. Stavano per leggere la sentenza, io sapevo bene che bisogna alzarsi, quante volte l'avevo ricordato a imputati che restavano seduti? Eppure in quell'aula del tribunale di Milano non ci riuscivo. Avevo la testa altrove, ero uscito da cinque giorni dall'ospedale dopo un infarto e un pesante intervento alle coronarie. Finalmente mi alzai e
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non riuscivo a rassegnarmi del fatto che fossi io, un giudice, a star lì con gli occhi bassi ad ascoltare un verdetto di condanna a due anni. Un giornale scrisse che battevo la mano sul banco. Non me ne accorsi. Mi dispiace d'averlo fatto, ma ero profondamente indignato. E disperato. Avevo voglia di piangere, ma mi trattenni pensando a una frase terribile che mi aveva detto Giovanna Ichino, il pubblico ministero di Milano, durante il primo interrogatorio: lei insiste nel dire che è innocente e poi piange; come si spiega? «Ha presente Beppe Fenoglio in La ma1,ra? Quando la madre del protagonista riceve una notizia terribile, commenta: è come quando d'estate ti tempesta sulla vigna. Sulla mia vigna la tempesta arrivò il 22 luglio 1994, nel campeggio Saragozza di Vignola Mare, in Sardegna dove teniamo da anni la nostra roulotte. Mi telefonò un amico di Asti dicendo: non è ancora ufficiale, ma quei due ti hanno denunciato. "Quei due" erano due pubblici ministeri di Asti, Saluzzo e Monti, con i quali avevo avuto seri problemi di convivenza, tanto che a Saluzzo avevo perfino tolto il saluto. Che significa: ti hanno denunciato?, dico io. Significa che hanno raccolto una denuncia contro di te e l'hanno trasmessa a Milano, competente a giudicare sui magistrati di Asti. Ma chi mi ha denunciato? E perché? Quella sera non cenammo. Mia moglie, mio figlio e io ce ne stemmo chiusi nella roulotte.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Ferrua legge qua e là dalla bozza del suo libro. Preferisce non anticipare certe cose: gli argomenti più intimi e delicati vuole essere lui a raccontarli in prima persona, soprattutto quelli che riguardano la sua vita; ma anche temi delicati che riguardano i pentiti (come il Torello che lo ha denunciato), la separazione delle carriere dei magistrati, l'attività della polizia giudiziaria. «L'indomani mattina chiamai Borrelli, il procuratore di Milano. Tra colleghi ci si dà del tu. Io gli diedi doverosamente del lei: in quel momento capii che ero diventato un'altra persona. L'indomani ero a Milano, per presentarmi spontaneamente. Quel Palazzo di Giustizia che avevo visto soltanto in televisione mi apparve orribile. L'inchiesta era affidata alla Ichino. Non mi disse chi erano i miei accusatori, né di che cosa mi accusavano. Mi chiese invece se potevo documentare come avevo acquistato e ristrutturato la casa in cui vivevo, se ero solito pagare i fornitori e i meccanici, come e perché avevo comprato un'automobile dal concessionario dell'Alfa Romeo di Asti Guido Torello, se questi mi avesse mandato qualche bottigliá di vino. I miei avvocati avevano capito l'aria e mi dissero a voce alta: così non va, lascia che ti muovano addebiti precisi, che il giudice scopra le sue carte in modo che tu possa difenderti. Io non li ascoltai, ma avevano ragione loro. Soltanto sei mesi più tardi seppi di che cosa ero accusato. Lo seppi con la richiesta di rinvio a giudizio, che conobbi da giornali e televisioni prima che dalla Procura di Milano.
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«Una sola pagina contro di me"
«Il mio accusatore si chiama Guido Torello. Piccolo, grassottello, sorridente, arguto. Pentito. Dopo il fallimento della sua concessionaria d'auto, mi aveva denunciato insieme con altre decine di persone. Una sola pagina contro di me su venti di verbale. Ma bastava. Avevo incontrato Torello all'inizio del '92 attraverso uno zio meccanico. Un giorno si presentò in casa mia, qui a Nizza Monferrato dove abitava anche lui. Venne senza preavviso dicendo di essere stato truffato e chiedendomi come si presentasse una querela. Anche se nei piccoli centri si usa chiedere subito al pretore come riparare a un'ingiustizia, io gli dissi di cercarsi un avvocato. Pochi giorni dopo presentò la querela dicendo di essersi rivolto a un tizio per un prestito e di avergli firmato delle cambiali che l'altro avrebbe messo all'incasso senza versargli il denaro pattuito. Chiedeva dunque il sequestro di tutte le cambiali. Seguendo la prassi del mio ufficio e con l'avallo del Gip sequestrai soltanto la prima cambiale, poi tentai una conciliazione senza riuscirvi, infine procedetti senza istruttoria e senza proteste da parte dell'indagato al sequestro delle altre cambiali alla scadenza, autorizzando peraltro una banca a procedere civilmente contro Torello non appena me lo chiese. «Che c'entra tutto questo? C'entra perché, dopo il primo se-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE questro, Torello mi aveva mandato in modo del tutto anonimo e con una bolla di consegna rivelatasi falsa un paio di cassette di vino che mia suocera ripose nella dispensa senza nemmeno avvertirmi. Successivamente, quando seppe che ero tifoso del Torino, Torello si offrì di girarmi alcuni biglietti in omaggio per le partite che lui non utilizzava, di quelli che tutte le società calcistiche regalano a centinaia per ogni partita.» «Successivamente decisi di sostituire una vecchia Talbot che avevo comperato di seconda mano nell'82. Cercai in giro un'altra auto usata e stavo per comprare una Fiat Tipo in ottimo stato da un brigadiere della Finanza per dodici milioni e mezzo. Quando Torello lo seppe, mi disse che allo stesso prezzo mi avrebbe venduto un'Alfa 33 nuova. Io dissi che preferivo la Tipo, lui insistette, mi disse che se gli avessi dato i soldi subito nel giro di un paio di giorni avrei avuto l'auto. Mi disse, calcolatrice alla mano che lui ci guadagnava ancora 342 La .fida Lettcrc dal carcere 343
bene, perché aveva occasioni speciali. E io tanto gli credetti che dissi il prezzo pagato a tutti gli amici, spiegando che se avessero comprato da lui avrebbero fatto un affare. Gli diedi quel che mi chiese: un assegno da quattordici milioni e mezzo, con uno sconto di sei milioni. Era riuscito così a farmi pagare due milioni in più rispetto a quello che avevo preventivato per la Tipo. Ma l'auto non arrivava. Dopo un mese
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quando gli avevo detto di restituirmi il denaro e annullare lá vendita, mi arrivò la macchina. Ma era senza targhe. Temevo che non avrei visto più né soldi né auto. «Ancora un mese e arrivarono anche le targhe. Ma non c'era il foglio complementare sicché temetti che la 33 non fosse nella sua disponibilità e che io fossi stato truffato. Dopo un altro mese ottenni il foglio complementare, ma pagandolo a mie spese. (Al dibattimento Torello ammise che si faceva negare perché aveva speso i soldi diversamente.) L'auto comunque aveva un mucchio di difetti: non funzionavano né la radio né il condizionatore e dovetti sostituire integralmente la centralina elettronica. «Inoltre al dibattimento emerse che nel 1992 su centoventi auto vendute, Torello ne aveva cedute una ventina sottocosto e almeno trenta, come la mia, al prezzo di costo, tanto che l Alfa Romeo aveva dovuto richiamarlo ufficialmente per aver fatto concorrenza sleale agli altri concessionari. Risultò anche che quello stesso anno Torello aveva regalato vino per nove milioni.»
«Cominciarono a venirmi brutti pensieri»
«L'incriminazione per concussione, abuso d'ufficio e omissione di atti d'ufficio in un paio di mesi distrusse la mia vita
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE I miei figli Andrea ed Elena cominciarono a saltare le sessioni d'esame all'università. Pur facendo di tutto per tranquillizzarmi, mia moglie Egle reggeva la situazione, ma cominciò a preoccuparsi per me. Dimagrii improvvisamente, tanto che dovetti andare a un supermercato (di soppiatto per non farmi vedere dalla gente perché mi vergognavo e non uscivo piÙ di casa) a comprarmi qualcosa di taglia 48, perché il 52 era ormai eccessivo. Non pensavo più al processo. I miei pensieri erano diventati altri. Pensieri brutti, sempre più brutti. A volte erano pensieri puerili, con accenti di magia e superstizione che non mi erano mai appartenuti. Ma erano sempre assillanti e orribili. In una delle mie tante notti di insonnia, mentre tutti in casa dormivano, mi venne la curiosità di controllare se in un cassetto chiuso a chiave c'era ancora una pistola di piccolo calibro che tenevo per difesa personale. Mi alzai piano per rovistare nella biancheria ma avvertii una mano leggera sulla mia spalla. Era Egle: "Vieni a letto, tanto non c'è più". «Il mio cervello lavorava a getto continuo, ma aveva quasi interrotto i contatti con la parola. Mi usciva ogni tanto di bocca qualche cosa di tronco e privo di senso. Se mi chiedevano che cosa stessi dicendo, rispondevo che non avevo parlato. Quando mi dissero, con mille giri di parole che sarei dovuto andare da uno psichiatra, urlai che io non avevo bisogno di niente e andai a chiudermi in camera mia. Poi per fortuna, parecchio tempo dopo, quando effettivamente mi
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
sentivo al lumicino e non avevo più la forza di oppormi, cedetti e accettai le cure, e in due mesi riemersi. "A Milano la Ichino intanto aveva fatto controllare tutti i miei conti bancari, concludendo poi che era tutto assolutamente regolare, ma costringendomi a passare una notte sveglio per darle spiegazione di alcuni piccoli versamenti di nessunissima importanza di alcuni anni prima. «Ma quando sembrava che il mio processo stesse per essere archiviato, la Procura della repubblica presso il tribunale di Asti sospettò qualcosa di illecito nel fatto che io non avessi disposto l'autopsia su un tizio che alla mia Procura risultava morto in un normale incidente stradale (secondo le indagini svolte da un mio sostituto, e stando al responso di tre certificati medici e di due rapporti dei carabinieri), ma che secondo le recentissime investigazioni dei miei colleghi Saluzzo e Monti pareva fosse stato finito da due killer, intervenuti a incidente avvenuto. (La Ichino ha poi chiesto l'archiviazione di questo "incomprensibile" procedimento a mio carico, ma lo ha fatto solo un paio di mesi fa; in compenso, però, del famoso processo contro i presunti autori di quell'ipotetico omicidio fino a ora non si è saputo più nulla.) «Nel gennaio del '95 arrivò però la richiesta di rinvio a giudizio per la storia di Torello. Poiché vi erano altre inchieste su altri magistrati di Asti per altre vicende, giornali e telegiornali si scatenarono: "Quattro giudici dalla doppia vita",
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE "Asti, soldi e sesso in Procura", "Toghe nel fango" e così via. «Il Gip Maurizio Grigo, quello di Mani pulite, su richiesta della Ichino e accogliendo integralmente le sue istanze, senza che mai io fossi posto a confronto con il Torello, aveva deciso che io fossi processato per concussione e abuso per i biglietti omaggio del Torino, per le bottiglie di vino e per aver chiesto in regalo la 33, adattandomi a versargli poi un prezzo ridotto! Nei suoi interrogatori Torello aveva detto una ventina di falsità, tutte smentite al dibattimento ma che avrebbero potuto essere smascherate già prima quando io le avevo puntualmente evidenziate, se solo si fosse indagato in merito. «La mia immagine, inoltre, risultava particolarmente offuscata davanti ai giudici milanesi, per i riferimenti che la pm faceva loro in merito alla questione della omessa autopsia, mentre ad Asti, Procura e polizia continuavano a indagare su quell'incidente stradale.
«Vergogna infinita,famíglia umi1iatn»
«La prima udienza del mio processo davanti ai giudici di Milano era fissata per il 12 maggio del '95 e io, sicuro com'ero di me, riuscii a non farla rinviare solo facendo leva sulla mia precaria salute, perché era in atto uno sciopero degli avvocati e il rinvio sarebbe stato pressoché obbligatorio. "Mi avevano fatto pochi giorni prima un'angioplastica con
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sette stent, una ferraglia che si usa per tenere aperte le coronarie. Lo stress in quell'anno era stato forte: tutta la mia vita analizzata al microscopio, analisi bancarie su di un conto fatto di soli stipendi, una vergogna infinita, una famiglia forte e incrollabile ma umiliata. I medici mi dicevano che avevo soltanto bisogno di tranquillità, ma che era assolutamente necessaria per evitare il peggio. Io credevo nel dibattimento, ne ero sicuro. Ma ci misi poco a perdere la mia sicurezza. Bastò una mia battuta scherzosa a un teste, che la Ichino riferì subito la cosa al presidente Gamacchio, e quasi mi fecero un processo nel processo. Di lì cominciai a capire che avevo poche probabilità di uscirne indenne. «Dopo la condanna arrivarono da ogni parte messaggi di solidarietà, ma io continuavo a ripetermi come un automa: che vergogna! La mia famiglia in apparenza era tranquilla e nascondeva la sua rabbia. Ma i ragazzi all'università perdevano colpi. Poco prima del processo morì mio padre che aveva più di novant'anni. Andavo a trovarlo ogni giorno: non leggeva più i giornali, ma quando mi guardava fisso negli occhi avevo il terrore che avesse saputo tutto anche se io non gli avevo detto niente. Sperando di evitare la sospensione, chiesi il trasferimento alla Corte d'Appello di Torino, come semplice consigliere, rinunciando alla mia funzione direttiva di Procuratore della Repubblica. «Ricordo la foga con cui un giovanissimo consigliere del
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Csm mi disse che in quei casi il trasferimento bisognerebbe chiederlo per sedi molto ma molto più lontane. Se un giorno lo incontrerò gli dirò ciò che in quella sede e in quella circostanza non ho potuto rispondergli. In ogni modo fui sospeso dall'ufficio a tempo indeterminato e il mio stipendio fu ridotto di un terzo. «Quando nel settembre del '95 furono depositate le settantaquattro pagine della sentenza in cui, tra l'altro, il mio accusatore veniva marchiato con giudizi pesantissimi, ebbi la certezza che, a dispetto del dispositivo di condanna, quel documento sanciva inequivocabilmente la mia innocenza. Le pagine di vera motivazione erano solo le ultime quattro, ma gli argomenti non stavano in piedi. Mi venne da commentare con il linguaggio di Di Pietro: "Quello che si dice non è vero, ma anche se si ammettesse che lo fosse, per puro amore di discussione, che ci azzecca con il reato di abuso per cui sono stato condannato a due anni?".
Due infarti, una assoluzione.
«Nel febbraio del '96 ebbi il secondo infarto: al contrario del primo questo era grosso, come i medici avevano temuto. Il cardiochirurgo entrando in sala operatoria disse a mia moglie: "Farò il possibile, ma non le assicuro niente". Fui operato d'urgenza, con tre by-pass, rimasi una settimana in sala di rianima-
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zione, un mese in ospedale e quindici giorni in riabilitazione. Proprio in quei giorni Elena discuteva la tesi in ingegneria ai Politecnico di Torino, figurarsi con quale entusiasmo «Il 27 giugno del '96 fui assolto in appello, perché il fatto non sussiste, senza necessità di assumere testi o produrre documenti. Bruno aveva i lacrimoni e andò dal presidente a dirgli: Avete assolto un galantuomo". Quello rispose secco' Il diritto è diritto, l'udienza è tolta". «Mia moglie mi abbracciò ma non riuscimmo a dire una parola Mio figlio era militare: quando gli diedero la notizia SCOpplÒ in un pianto dirotto davanti a tutto il plotone. La sentenza sancì tra l'altro che io, nel processo che riguardava Torello come parte lesa querelante, avevo compiuto atti non solo leglttimi, ma doverosi. Il procuratore generale non impugnò nemmeno la sentenza di assoluzione. «Tornai al Csm per la revoca della sospensione. Nessuno al palazzo dei Marescialli mi strinse la mano o si rallegrò per l'esito del mio processo. Ripresi il lavoro. «Ma il 22 luglio del '97 dovetti tornare davanti alla disciplinare: mi si contestava non di aver già acquistato quell'autovettura, ma di aver sfruttato quei biglietti omaggio per le partite del Torino e di non aver restituito quelle bottiglie di vino inviate a mia insaputa dopo le feste di Natale, così "mancando ai propri doveri di correttezza e fedeltà, rendendosi immeritevole della considerazione e della fiducia di cui
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE doveva godere, compromettendo il prestigio dell'ordine giudiziario". Ritenevo (e ritengo) di avere validissimi argomenti per contestare quell'addebito così pesante, ma mi ero comunque chiesto se si sarebbe messo sul piatto della bilancia anche quanto già avevo personalmente sacrificato sull'altare della giustizia relativamente alla mia vita pubblica e privata. Invece, nonostante l'appassionata difesa del mio collega Maurizio Laudi, mi è stata inflitta l'ammonizione, la più leggera delle sanzioni, ma pur sempre una sanzione. «Non appena mi sarà notificata la motivazione, presenterò ricorso contro di essa alle sezioni unite della Corte di Cassazione come previsto dalla legge. «Il 18 settembre '97 ho ripreso il lavoro dopo la pausa estiva, la pubblicità sui mass media e il Csm. è toccato a me pre-
siedere la terza sezione penale della Corte d'Appello di Torino (come delegato del presidente), così come ho già fatto nei tre quarti delle udienze cui ho partecipato in un anno. Nonostante tutto, non ho perso né fiducia né sicurezza. Nella giustizia ci credo ancora, io.» Sta per partire il vagone letto per Roma. Mi accompagna Andrea. Sulla porta, Ferrua mi dice: «Se mai decidessi di pubblicare il mio libro, mi farebbe la prefazione?». Certo, giudice, certo.
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Ma11ette brevi, manette lunghe
Quando viene interrogato a Brescia nel '95 da Salamone e Bonfigli, Di Pietro spiega la sua amicizia con Antonio D'Adamo e dice che il costruttore gli ha presentato alcuni degli uomini chiave di quella che fu chiamata «la Milano da bere». Tra questi, Di Pietro fa amicizia con Sergio Radaelli e Maurizio Prada, che si riveleranno i «cassieri"del Psi e della Dc. Radaelli è stato consigliere d'amministrazione della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde (la Cariplo) e il magistrato, come molte persone che contano, ottiene dal Fondo pensioni dell'istituto un appartamento a equo canone nel centro di Milano. Sia Radaelli che Prada vengono difesi da Giuseppe Rosario Lucibello, l'avvocato amico intimo del pubblico ministero. Radaelli viene arrestato il 5 maggio del '92, ma tutte le formalità vengono risolte in poche ore nella caserma dei carabinieri di via Moscova. Alle dieci del mattino Lucibello chiama Radaelli, il quale è ancora libero. Radaelli chiama Lucibello alle otto e mezzo di sera, già agli arresti domiciliari. Un paio d'ore più tardi, Di Pietro chiama per due volte Lucibello. Come risulta dai tabulati Sip di cui entrò in possesso Bettino Craxi e che diffuse a fine giugno del '95, nei giorni precedenti i contatti tra Di Pietro, D'Adamo e Lucibello sono fre-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE quentissimi. E lo sono anche i contatti di Radaelli con i] costruttore D'Adamo e con il suo avvocato. Di Pietro e Radaelli, invece, in questo periodo non si sentono. Il 30 aprile vengono annotate dieci telefonate fra i quattro. Il primo maggio, giorno festivo, Di Pietro chiama Lucibello quattro volte. Il2 maggio una sola volta e una volta Radaelli chiama Lucibello. Il 3 maggio Di Pietro chiama tre volte Lucibello e Radaelli. Il 4 maggio Lucibello viene chiamato tre volte da D'Adamo e una da Di Pietro. Il 5 è il giorno dell'arresto di Radaelli e del suo invio agli arresti domiciliari. L'indomani Lucibello è chiamato tre volte da Radaelli, due da Di Pietro e una da D'Adamo. Meno di mezz'ora dopo la chiamata di Di Pietro a Lucibello, ne viene annotata una di Lucibello a Radaelli. Se il percettore di tangenti per conto del Psi milanese non passa nemmeno un'ora a San Vittore, quello che svolge lo stesso servizio per la Dc vi passa una sola notte, contro il parere di Di Pietro che voleva evitargliela. Il 4 maggio Maurizio Prada sente che le cose si mettono male, nomina proprio avvocato Bruno Senatore e l'indomani fa sapere a Di Pietro che intende essere ascoltato sull'inchiesta. Lo stesso giorno Di Pietro e Ghitti decidono di arrestarlo. L'indomani mattina, 6 maggio, Prada viene perquisito e nel pomeriggio è interrogato dai due magistrati in stato d'arresto nella caserma dei carabinieri Monforte. Ricorda di essere stato
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nominato segretario della Dc milanese nel '79, dice che i partiti stanno nella Costituzione e non campano d'aria, ammette di aver quindi contribuito a raccogliere tangenti per il loro finanziamento, nega di aver mai costretto qualcuno a pagare o di aver fatto intimidazioni di sorta. L'avvocato Senatore e il pubblico ministero Di Pietro riconoscono all'unisono «il leale comportamento processuale dell'imputatoe ne chiedono gli arresti domiciliari. Ghitti si riserva di decidere, Prada passa la notte in carcere, ma l'indomani viene mandato a casa. Alla sua difesa si è intanto associato l'avvocato Lucibello. Gabriele Cagliari si è ucciso dopo centotrentacinque giorni di carcere, Franco Nobili e Clelio Darida sono rimasti mesi a San Vittore senza essere sostanzialmente interrogati o almeno senza aver detto nei brevissimi incontri con i magistrati quel che i magistrati si attendevano che dicessero. Basta questo a giustificare sorti tanto diverse? è così che quando incontro Piercamillo Davigo gli chiedo: è normale che ci siano persone trattenute tre ore in caserma e poi man-
Lettere dal carcere 349
date a casa e persone che siano rimaste mesi in carcere senza essere interrogate? «Certamente sì,» mi risponde il pubblico ministero «perché la giustizia consiste nel trattare in modo uguale casi
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE uguali e in modo diverso casi diversi. Diversa è la posizione di chi arriva e fa muro, nome cognome e numero di matricola e l'altro che dice: va bene, mi hai preso, mi dispiace di essermi lasciato indurre sulla strada del crimine, adesso ti dico che cosa ho fatto.» è permesso dire: non ho fatto niente? «Certo, ma il problema è che uno non resta dentro perché dice di non aver fatto niente, il problema è dei legami che mantiene fuori. Se Buscetta smette di essere mafioso perché si pente, spiega com'è strutturata Cosa nostra e viene messo fuori, gli altri non possono dire: ci tenete dentro perché non parliamo. Loro restano dentro perché restano affiliati a Cosa nostra. Davigo mi ripete la tesi di Mani pulite che mi è stata illustrata negli anni tante volte da Francesco Saverio Borrelli. Poiché la legge non consente di trattenere in carcere una persona che si rifiuta di rispondere o risponde in modo non soddisfacente per i magistrati, la tesi di Mani pulite è che questo infatti non accade. Accade invece che le persone che non rispondono non sono affidabili sulla loro volontà di redimersi e poiché la legge prescrive l'arresto per chi potrebbe commettere di nuovo lo stesso reato, ecco che chi non parla come ci si attende che parli può legittimamente restare in carcere per evitare che commetta di nuovo un reato. Resta da chiedersi perché esistono persone che vengono interrogate immediatamente dopo l'arresto e solo in caserma, altre che vengono interrogate in carcere dopo cinque
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giorni allo scadere dei termini prescritti dalla legge, altre ancora che vengono arrestate il venerdì in modo che possano auspicabilmente maturare durante il fine settimana. Ma questo è un altro discorso.
«Caro Nobili, ci racconti dell'Iri»
"Il 18 aprile 1920 padre Agostino Gemelli disse a padre Pio di essere venuto a esaminare le stimmate. Sicuramente pensava che quello gli avrebbe risposto: ma certo, si accomodi, quale onore, per lei questo e altro, o qualcosa del genere. Padre Pio invece si limitò a domandargli se aveva l'autorizzazione scritta del Sant'Uffizio. Il Gemelli non ce l'aveva, anzi era sicuro che senz'altro per lui si sarebbe fatta un'eccezione, vista la sua autorevolezza. Comunque rispose solo di no. E padre Pio fece altrettanto, andandosene. Padre Gemelli lo prese come un affronto e se lo legò al dito. Incassò e partì, dopo un: "Va bene, padre Pio. Ci rivedremo".» Mi dice Franco Nobili: «Quando lessi nella biografia di padre Pio scritta da Rino Camilleri la persecuzione che il frate subì per opera di padre Gemelli, mi misi tranquillo e il carcere non mi pesò più». Nobili è un uomo schivo e dopo alcune conversazioni che abbiamo avuto nell'estate del '97 sulla sua carcerazione di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE San Vittore, probabilmente prova disagio a vedere il suo nome e la sua storia stampati su queste pagine. Ma poiché Nobili è stato arrestato quando era presidente dell'Iri, le sue questioni hanno acquistato fatalmente una dimensione pubblica. E il fatto che il pubblico si sia dimenticato di quell'arresto, non toglie che esso meriti qualche riflessione. «Vennero qui il 12 maggio del '93 alle sei di mattina. Avevo ricevuto poco prima una telefonata muta. Avevo risposto io. Erano sicuri che fossi in casa. Erano finanzieri, molto gentili. Avvertii il mio avvocato, prendemmo il caffè qui in salotto, mi dissero quali sono le cose che un detenuto porta abitualmente con sé. Andammo poi nel mio ufficio all'Iri. Prendemmo un secondo caffè. Dissi che avevo una cassaforte dietro la scrivania, ma che era vuota. Al momento della nomina avevo consegnato le chiavi al direttore competente. Ma quella mattina non si trovavano le chiavi. Va bene, mi dissero i finanzieri, se lei dice che la cassaforte è vuota, ci crediamo. No, dissi, voglio che verifichiate. Chiamammo un meccanico, la cassaforte fu forzata, era vuota. Erano intanto arrivati l'amministratore delegato dell'Iri, Michele Tedeschi, il segretario generale della programmazione economica, Corrado Fiaccavento, e il consigliere d'amministrazione Lamberto Cardia. Pensai di dimettermi immediatamente dalla carica. Non volevo che una mia sostituzione decisa dal governo fosse vista come un avallo al provvedimento di carcerazione. Mi dimisi anche da tutte le altre cariche estranee all'Iri. Tede-
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schi e Cardia mi accompagnarono all'automobile: stia tranquillo, mi dissero.» Nobili fu arrestato da Di Pietro e Ghitti. L'ingegner Fulvio Tomich, dirigente di Italimpianti, una società dell'Iri, interrogato a Milano, aveva nella sostanza dichiarato quanto segue: «Nel primo semestre del '90, incontrando Nobili in un luogo che non ricordo, comunque non nella sede dell'Iri, gli ho riferito che un dirigente della Techint, Scarone, mi aveva detto che bisognava dare seicento milioni a Vincenzo Balzamo, tesoriere del Psi, per un appalto dell'Enel. Nobili non mi rispose né con un cenno, né con una parola. Mi ritenni autorizzato». Tomich non ricordava né il luogo, né la data di quest'incontro che Nobili negò fosse mai avvenuto. Ma lo collocò all'inizio del '90. L'amnistia che comprendeva anche il finanziamento illecito dei partiti copriva i reati commessi fino al 29 ottobre dell'89. Nobili fu designato il 3 novembre successivo e si insediò il 18 novembre. L'indicazione della data fatta da Tomich era assolutamente generica, ma sufficiente a escludere per pochi giorni Nobili dall'amnistia. I difensori del presidente dell'Iri obiettarono, peraltro, che l'offerta di Italimpianti per l'appalto Enel era del 1987, l'appalto fu aggiudicato nel maggio 1989 e Nobili aveva sostituito Romano Prodi alla presidenza dell'istituto soltanto sei mesi più tardi. Avrebbe dunque autorizzato con il silenzio una
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE tangente retroattiva. A San Vittore, dopo la trafila che seguono tutti i detenuti, Nobili fu assegnato al braccio dei «politici»: trovò Clelio Darida, già sindaco di Roma e ministro della Giustizia, il segretario amministrativo del Pci Cappellini, il capo della finanza Fiat Mattioli, il segretario di Claudio Martelli, Restelli, quello di De Michelis, Casadei, un deputato liberale di Torino. «Mi misero in cella con Vincenzo Santisi, un capomastro calabrese accusato di omicidio. Non ho mai capito se sia stato lui l'autore del delitto o se ne fosse incolpato per salvare un fratello più giovane. Vincenzo era molto affettuoso. Appena mi vide, disse: sarò il suo attendente. Anzi, il tuo, perché in carcere ci si dà subito del tu. Cucinava benissimo: riso, spaghetti all'amatriciana. Spesso offriva il pranzo anche a Darida. Le guardie erano molto disponibili, potevo comperare quel che volevo allo spaccio, fare la doccia anche ogni giorno.» Nobili fu visitato subito da Ghitti, il Gip dell'inchiesta condotta in Procura da Di Pietro, Colombo e Davigo. Durante l'incontro, Di Pietro si affacciò senza parlare e senza fermarsi. Qualche giorno dopo, ci fu un breve interrogatorio con Colombo. Nobili era assistito dai due difensori di Roma, Paolo Roscioni e Maria Rosaria De Mucci e dall'avvocato Giuseppe Bana di Milano. «Lei è qui per raccontarci tutte le nefandezze dell'Iri» gli disse Colombo. E Nobili: «Non le conosco. Desidero afferma-
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re, anzi, che sono stato io a inviare alla Procura della repubblica di Roma la pratica di Italsanità [una tentata truffa ai danni di questa società dell'Iri per un programma di case di riposo] con il parere favorevole di due consiglieri d'amministrazione dell'istituto, Cardia per la Corte dei conti e Azzariti, vice avvocato generale dello Stato. (L'amministratore delegato della Stet, Giuliano Graziosi, dirà che quando il dominus della telefonia di Stato Giuseppe Parrella aveva sollecitato tangenti per assegnare all'Iri certi appalti, Nobili aveva ordinato che si rifiutassero i lavori.)
Prodi, Di Pietro e «i soldi alla Dc".
La Procura di Milano riteneva evidentemente che Nobili fosse depositario di segreti importanti sulle tangenti pubbliche. Era noto infatti che la Dc e il Psi si erano divisi con le presidenze dell'Iri e dell'Eni le principali aree di influenza sugli enti pubblici. Ma se l'Eni per fatturato, liquidità e possibilità di agire all'estero si era trasformato in un pozzo senza fondo, l'Iri aveva maggiore facilità ad agire sul piano della clientela e del consenso elettorale, controllando gigantesche attività soprattutto nel Mezzogiorno. Questo non autorizza schematismi per i quali l'Eni era il mondo del peccato e l'Iri quello della virtù, ma certo il ruolo
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE strategico delle due holding era profondamente diverso. Nonostante questo, i procuratori di Milano restarono a lungo convinti che l'Iri fosse per la Dc quella tesoreria che l'Eni era per il Psi. Anche Romano Prodi restò impigliato in questa ragnatela di sospetti e ne uscì soltanto dopo una reazione molto ferma. Era stato presidente dell'Iri dall'82 all'89 (quando cedette l'incarico a Nobili) e poi era stato di nuovo richiamato da Ciampi nel '93. Il Professore aveva collaborato proficuamente con Gherardo Colombo negli anni Ottanta per la questione dei «fondi neri» dell'Iri e aveva recuperato anche dei quattrini. Questo non impedì che nel giugno del '93 subisse un interrogatorio di clamorosa durezza per opera di Antonio Di Pietro. Il pubblico ministero era partito da un'inchiesta su alcune aziende manifatturiere, era risalito fino ai rapporti tra la Stet e l'Azienda di Stato per i servizi telefonici e aveva interpretato in un certo modo un verbale d'interrogatorio di Giuliano Graziosi, che pure è stato definitoil verbale di un gentiluomo". Interrogando Prodi in quel mese di giugno, Di Pietro entrava e usciva dalla stanza gridando: «I soldi alla Dc chi glieli ha dati?». Prodi si indignò e rientrato a Roma andò a lamentarsi da Scalfaro per la violenza del trattamento subìto. Il presidente intervenne con un monito pubblico e quando Prodi tornò per tre volte in segreto ne'l'ufficio di Di Pietro, non c'erano giornalisti fuori della porta ad annotare le urla del
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pm e soprattutto non c'erano più le urla. Era il periodo di quelle che furono chiamate le «Davigonomics, cioè le teorie di Piercamillo Davigo che vedeva nelle inchieste del Pool un momento di pulizia dell'intero sistema economico nazionale. E testimone discreto della vicenda fu Filippo Mancuso, consulente giuridico dell'Iri dopo aver lasciato la carica di procuratore generale presso la Corte d'Appello di Roma. E chissà che non sia stato un rapporto di lavoro riservato a creare un silenzioso e imbarazzato momento di gelo quando alla fine della campagna elettorale del '96 Prodi e Mancuso si trovarono di fronte nel faccia a faccia di Polo e Ulivo nel salotto televisivo di Lucia Annunziata. (Nessuno, allora, avrebbe immaginato che Di Pietro sarebbe diventato ministro di Prodi e alla fine del '97 senatore dell'Ulivo. I due si rividero in segreto a Milano all'inizio del '95 a casa dell'ex presidente della Rai, Claudio Demattè, e poi a Roma a casa di Marisa Garito, amica dei Prodi. Mi racconta un testimone: «Di Pietro fece subito suo il motto di Cuccia: le azioni non si contano, si pesano. Prodi lo corteggiava sapendo che il suo antiberlusconismo non lo avrebbe mai mandato nel Polo. Di Pietro, che era anche profondamente anticomunista, con la sua furbizia contadina, diceva: mi metto al centro e poi pesiamo le azioni...".)
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Da via Rasella ad Andreotti.
Torniamo a Nobili: «In carcere mi trovai bene. Venivo trattato con garbo e con cura, ricevevo regolarmente libri (in quelle settimane ne ho letti un centinaio) e giornali, scrivevo appunti, rispondevo a molte lettere Idurante la carcerazione ne ricevette tremilacinquecento], mi fu consentito di frequentare il cappellano, don Giorgio Caniato. Andavo a messa quasi ogni giorno, la funzione domenicale veniva celebrata nella rotonda, il luogo sul quale convergono i diversi bracci del carcere. Dopo qualche tempo convinsi anche Cappellini a venirci [dichiarerà il segretario amministrativo del Pci: «Nobili ci ha insegnato in carcere la dignità dell'uomo"]. Vedevo raramente Cagliari perché lui aveva preferito stare in un altro braccio. Ci salutavamo con affetto incrociandoci nelle sale dei colloqui con gli avvocati. "Con questi magistrati non si ragiona" diceva. Io cercavo di fargli coraggio, ma era molto depresso. Quando a fine maggio venne a trovarmi il dottor Francesco Scopelliti, lo psicologo del carcere, mi disse: "Ma lei sta benissimo". Avevo 65/105 di pressione ed ero molto sereno. "Se non le dispiace," aggiunse "ogni tanto vengo a fare una chiacchierata con lei."». Una volta alla settimana Nobili incontrava i familiari: «Dopo l'incredulità dei primi istanti, avevano reagito con molta forza d'animo». Il quadro che ci sta di fronte, nell'attico romano sulla Salaria, fu comprato in un negozietto in
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piazza Farnese dalla figlia di Nobili, Susanna, che fa l'architetto. «Il ragazzo ritratto sono io. Abitavo a palazzo Taverna e lì c'era lo studio del pittore Barberis, posavo per lui e mi dava cinque lire l'ora.» Nobili è del '25, figlio di un sindacalista del Partito Popolare profondamente antifascista. Cominciò a far politica clandestinamente già al liceo, partecipando agli incontri con Spataro, Scelba, Gronchi all'Istituto De Merode in piazza di Spagna e al liceo San Gabriele dei Parioli. «Curavamo lo scambio dei messaggi tra i capi del Cln. Sono andato tante volte a San Giovanni in Laterano, territorio pontificio e per questo inviolabile, da monsignor Ronca che teneva nascosti in seminario De Gasperi, Nenni, Vassalli.» Indossando la divisa del Sovrano Militare Ordine di Malta, Nobili nel '44 prelevava armi nelle caserme con la complicità di ufficiali antifascisti e le faceva uscire con un'ambulanza dell'Ordine di Malta. Il 23 marzo del '44, giorno dell'attentato di via Rasella, Nobili doveva distribuire stampa clandestina, cattolica e di sinistra, subito dopo l'attacco. Ma mancò il coordinamento e quando esplosero le bombe si trovava in casa di Giorgio Sacerdote che custodiva i fogli proibiti. "Portammo le copie in terrazza dove c'erano i cassoni dell'acqua, scendemmo in strada attraverso le terrazze, andai al De Merode dove parlava Gronchi e la riunione fu immediatamente sciolta.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Il 4 giugno del '44, il giorno della liberazione di Roma, Nobili fece parte della redazione che pubblicò il primo numero ufficiale del "Popolo»: c'erano Guido Gonella, Giovanni Sangiorgi, Ferdinando Storchi, Manlio Contri, Giuseppe Sala. E c'era Giulio Andreotti. Nacque l'amicizia di una vita. Nobili, che come presidente della Cogefar ha guidato per decenni la principale impresa di costruzioni italiana nel mondo, fu chiamato all'Iri dal governo Andreotti. E questo, probabilmente, gli fu fatale.
In carcere a Salerno, per sbaglio
Dopo un mese di detenzione a San Vittore, Nobili fu interrogato da Di Pietro. è un verbale di due paginette che Nobili porta sempre con sé nel portafoglio. Una pagina e mezza è riservata alle formalità. Nell'altra mezza pagina, l'ex presidente dell'Iri esclude che qualcuno gli abbia mai parlato di denaro o di favori chiesti da politici in relazione ad appalti e commesse dell'Iri, esclude di aver ricevuto consegne in questo senso dal suo predecessore Prodi e dal suo vice Armani di aver mai disposto pagamenti illeciti o di aver consentito á chiunque di farne. Letto, confermato e sottoscritto. In questo verbale non c'è ombra di contraddittorio e di contestazione. Ma Nobili rimase in carcere. Lui non si lamentava, ma mangiava poco e Vincenzo, il suo «attendente», gli
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diceva sempre chechi fa la dieta perde chili e cervello. A fine giugno, quando l'avvocato Bana andò da Di Pietro a chiedere quanto tempo il suo cliente sarebbe dovuto ancora restare a San Vittore, venne a sapere che a carico di Nobili c'era un nuovo ordine di arresto della Procura di Salerno Nobili cadde dalle nuvole: l'unico rapporto che aveva con Salerno era di esserne professore onorario nell'università Fu comunque prelevato da un cellulare sabato 3 luglio e portato in Campania con un viaggio, assai pesante, di sette ore. «A Salernomi dice Nobili «mi colpirono tre cose. L'accoglienza dei detenuti comuni. (Arrivammo la sera, quando la cena era già stata distribuita. E loro mi mandarono in cella d'isolamento spaghetti, carne e insalata.) Il fatto che mi tolsero gli occhiali, temendo che potessi farmi del male. E il fatto che, arrestato di sabato, mi abbiano interrogato soltanto il martedì successivo.» Chi ha la fede di Nobili sopporta questo e altro, anche perché il cappellano Riccardo Sommella gli portava tutti i giorni la comunione in cella. Ma quando sentì la contestazione, a Nobili caddero le braccia. Era accusato di aver pagato non so quale tangente per non so quale lavoro della Cogefar tra il dicembre dell'89 e il gennaio del '90. «Ma io ero presidente dell'Iri da due mesi» obiettò Nobili. Si erano evidentemente sbagliati ma ammetterlo fu complicatissimo. Nell'istruttoria il nuovó pubbli-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE co ministero ne chiese il proscioglimento («Hanno arrestato un innocente» disse), ma il Gip, prudentemente, lo rinviò a giudizio. Scarcerato dal tribunale della libertà, Nobili tornò a San Vittore dopo una settimana con un altro cellulare. Era il 10 luglio. Il 20 si suicidò Cagliari, il 23 si suicidò Gardini, il 27- senza che fosse intervenuto alcun fatto nuovo dissero a Nobili che l'indomani sarebbe andato a casa. Dopo settantasette giorni di carcere, se ne fece tredici di arresti domiciliari per completare i novanta giorni canonici di carcerazione preventiva. «Vennero a prendermi mia moglie, mia figlia Susanna e l'avvocato Bana. Li fecero entrare nel cortile del carcere e non mi dettero nemmeno il tempo di un saluto a chi lasciavo. Tutto si svolse in gran fretta. Avevo perso sei chili» mi dice Nobili che è filiforme. «Non ebbi mai un momento di disperazione. Non mi è mai venuta meno la serenità. Era come se fossi stato in vacanza.» Ma se Nobili porta nel portafogli l'interrogatorio di Di Pietro, se ha ogni dettaglio di questa vicenda annotato in un'agenda comprata nello spaccio di San Vittore, quella vacanza deve avergli segnato la vita. A proposito. Il 10 luglio del '96 il ministro dei Lavori Pubblici Antonio Di Pietro presenziò all'assemblea dell'Igi, l'Istituto grandi infrastrutture di cui Nobili è vicepresidente. Incontrò molti imprenditori che aveva inquisito. Fu gentile con
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tutti. A Nobili cedette la poltrona.
Arresto a mezzo stampa
Il 20 marzo 1997 la quarta sezione penale della Corte d'Appello di Roma ordina al ministero del Tesoro di liquidare cento milioni all'ex ministro di Grazia e Giustizia Clelio Darida per l'ingiusta detenzione subìta quattro anni prima per ordine della magistratura milanese. Nell'estate successiva, Darida mi racconta così la sua storia: «Vennero a prendermi all'alba del 7 giugno 1993. Non li aspettavo. Un paio di settimane prima avevo letto sull"'Espresso" una storia che mi riguardava, l'avevo smentita e visto come si muoveva il Pool di Milano avevo messo in conto un avviso di garanzia. Ma l'arresto no. Il settimanale aveva riportato un interrogatorio del capo dell'ufficio di rappresentanza romano della Fiat, Umberto Belliazzi. Questi aveva sostenuto che incontrandolo durante un ricevimento io gli avrei riferito lamentele dei partiti che non erano soddisfatti del comportamento della Fiat Impresit a proposito dell'appalto della metropolitana di Roma [I'inchiesta Intermetro]. Secondo Belliazzi, io lo avrei messo in contatto con Crescenzio Bernardini, un vecchio commercialista romano, socialista, che avrebbe poi incontrato Antonio Mo-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sconi, capo del settore delle costruzioni Fiat, e questi, attraverso un suo dirigente, Enzo Papi, gli avrebbe versato una tangente di un miliardo e settecento milioni consegnata poi alla segreteria amministrativa del Psi.» E lei? «Per quel che mi riguarda la notizia era inventata di sana pianta. Già nell'ordine di arresto il Gip Italo Ghitti non mi accusava né di aver chiesto né di aver preso una lira. Io sarei stato l'ideatore dello schema di ripartizione" delle tangenti. Una cosa piuttosto curiosa, visto che io non ero più sindaco di Roma dal '76, non ero più ministro delle Partecipazioni Statali dall 87; della Roma democristiana si era impadronito, come si sa, Vittorio Sbardella dall'88. Quindi oltre a mancare la prova di quel che iO avrei fatto, mancava anche la logica. Quando danno tangenti, le imprese non fanno beneficenza. E come avrei fatto io a esserne il gestore se ero fuori da tutto? Avrei capitO una convocazione come teste, ma l'arresto...» L'uomo chiave mi pare il commercialista romano «Nel '93 Bernardini aveva settantotto anni ed è morto nel '96 anche in seguito a questi stress pazzeschi. Aveva settantotto anni e nonostante questo fu portato a San Vittore. Prima tre giorni di detenzione, poi lo riportarono a Roma, poi lo riarrestarono per un giorno...» (Quando chiesi al Gip Italo Ghitti se l'arresto di un uomo si settantotto anni fosse una forma di tortura, il magistrato mi rispose: «Ma lo liberammo subito».) E Bernardini che disse?
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«Disse che lui la tangente dalla Fiat l'aveva presa e l'aveva versata alla segreteria amministrativa del Psi. La cosa fu confermata da Mosconi, da Papi e da un funzionario socialista, visto che il segretario amministrativo Balzamo era morto Ma disse anche: Darida non mi ha chiesto niente, io non gli ho chiesto niente, io non gli ho dato niente.» Torniamo all'arresto. «Vennero cinque persone della polizia, tre di Milano, due di Roma. Avevano un ordine di perquisizione, ma sa, videro la casa piena di libri... Ho la sensazione che non cercassero niente Ho consegnato l'agenda, la rubrica telefonica, il libretto degll assegni. Non sapevano nemmeno che avevo un ufficio a Roma. Ce li ho portati io, hanno dato un'occhiata in giro... Per la verità ho anche un buco al Terminillo e una casa in affitto a Palo dove avrei potuto nascondere tonnellate di documenti. Ma non glielo dissi sennò avremmo passato la giornata in giro per il Lazio. Masone, che allora era questore di Roma, mentre eravamo in macchina ci dirottò in un ufficio di piazza dei Cinquecento perché in questura già c'erano i fotografi. Sulla strada di Milano ci fermammo a prendere il caffè, poi pranzammo. Prima di entrare a San Vittore mi dissero di mangiare qualcosa perché la cena era già stata distribuita.» E a San Vittore? «Il medico mi disse: la ricoveriamo in una cella dell'infermeria. Era un lurido bugigattolo con i soliti letti del carcere,
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE materasso di plastica e cuscino di plastica, un detenuto infermiere mi dette le sue lenzuola che erano nuove, mi misi a dormire. Fui svegliato durante la notte e trasferito d'urgenza in un braccio. Nel corridoio dell'infermeria ero stato salutato ironicamente da un brigatista rosso che aveva detto: ah, adesso ci hanno portato questo che ci applicò l'articolo 90, il padre dell'attuale 41 bis, cioè il carcere duro. E allora mi trasferirono nella cella dove sarei rimasto due mesi.»
«Come Attila al confronto con Bellíazzi»
L'interrogatorio di Darida fu condotto da Ghitti. «Avrebbe dovuto partecipare anche Di Pietro, ma tardava, Cominciò il Gip che mi chiese: ha letto l'ordine di custodia cautelare. Risposi: sì, ne ho letto la sintesi sull"'Espresso" di un paio di settimane fa. Ghitti non mise la frase a verbale, io per ragioni di opportunità non insistetti. L'interrogatorio fu fulmineo. Che cosa ha da dire? Respingo ogni addebito, mi dichiaro innocente, non ho altro da dire. Letto, confermato e sottoscritto. Poi è arrivato Di Pietro. Ha detto: mi dispiace, avevo da fare. Mi ha dato la mano, ha letto il verbale, rapido come il pensiero. Chiuso. Il mio rapporto con Di Pietro è cominciato ed è finito qui. Non l'ho più visto nei miei due mesi di carcere.» E il suo accusatore? Dopo il suicidio di Cagliari e di Gardini, e cioè dopo una
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quarantina di giorni dal mio arresto, i magistrati del Pool decisero frettolosamente di fare il confronto con Belliazzi. Ognuno restò sulle proprie posizioni, ma Belliazzi disse: guardate, Darida non mi ha mai chiesto quattrini nella maniera più assoluta. Allora, poiché nemmeno i magistrati di Milano mi accusavano di aver preso soldi, io sarei stato una specie di Caritas delle tangenti... La cosa divertente è che io e Belliazzi avremmo fatto il famoso discorso incontrandoci per caso nel salotto della signora Antea Navarra che usa far firmare un registro agli ospiti dei suoi ricevimenti e quindi mi ha consentito di ricostruire tutto. Insomma questa storia è piena di aspetti comici » Darida aggiunge un dettaglio sul suo confronto con Belliazzi: «Mi accorsi subito che i carabinieri stavano filmando l'incontro con il mio accusatore. Perché? Ma per fare quel che si fa nei film: cogliere il tremare delle mani, l'incertezza dello sguardo, la paura, lo sgomento, lo scoramento... E invece io sono arrivato lì come Attila e sa che è successo? Quando hanno dovuto trasferire gli atti a Roma, hanno mandato soltanto il verbale di Gherardo Colombo. Chissà come, la videocassetta non è stata mandata. Nell'ordine di cattura, Ghitti scrive che «le dichiarazioni del Belliazzi sono credibili perché plausibili sul piano logico». Ma ci furono altre indagini? «A quanto è risultato dopo, Belliazzi ha fatto il mio nome sol tanto al terzo interrogatorio e mentre era in carcere. Io penso
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE che ci fosse una qualche volontà di coinvolgermi perché i miei avvocati mi hanno detto che sono stati interrogati, anche in stato di detenzione, molti imprenditori interessati a vario titolo alla costruzione della metropolitana di Roma. Alla domanda se io avessi chiesto o ricevuto del denaro, tutte le risposte sono state negative. Ma dai verbali non risulta nulla, il mio nome non c'è. Io sono sicuro che se qualcuno avesse detto che io avevo sollecitato del denaro, questa dichiarazione si sarebbe trovata nei verbali. Insomma, contro di me non c'era niente.» E allora? "Il mio avvocato milanese, Salvatore Catalano, mi disse: se te la senti di restare in carcere, alla fine dovranno arrendersi visto che contro di te non hanno niente. Allora io mi son fatto l'idea che qualcuno possa aver pensato: questo è un signorino, se ne va un po' in cottura a San Vittore e vedi che miniera di notizie diventa Mi feci mandare un po' di libri da casa e cominciai a leggere.» Vedeva Nobili e Cagliari? «Con Nobili la cosa era comica. Lui aveva la cella di fronte alla mia. Ma se nel corridoio le guardie ci vedevano parlare, ci allontanavano. Poi invece ci facevano prendere l'aria insieme. Se c'era una persona che io non avrei dovuto assolutamente incontrare, questa era Nobili, perché eravamo imputati nello stesso processo [per Nobili la pubblica accusa avrebbe chiesto il proscioglimento]. E invece ci limitavamo a dire: ma noi, con Intermetro, che cosa c'entriamo?» (Nobili fu arrestato dai magistrati milanesi anche per l'inchiesta sulle tangenti Intermetro e pcr la cen-
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trale Enel di Montalto di Castro. Quando chiesi a Ghitti un giudizio sulla disparità di trattamento fra lui e i Prodi e i Radaelli, la risposta fu che questi due fecero clamorose confessioni, mentre per Nobili i pubblici ministeri impiegarono del tempo per fare luce sulla sua intera gestione. Indagini, si può osservare, che non portarono a nulla.) E Cagliari? «Cagliari era un uomo molto chiuso e molto triste. Lui era separato da noi perché aveva chiesto di non stare in un braccio speciale. Il nostro era speciale perché c'eravamo noi politici e c'erano i detenuti comuni a rischio: i pedofili perché i carcerati, soprattutto i meridionali, sono capaci di rappresaglie terribili contro chi tocca i bambini. C'erano i "femminielli" per salvarli dallo scherno. C'erano i delatori perché difficilmente noi li avremmo sgozzati su commissione. Incontrai Cagliari in sala avvocati la sera prima che si suicidasse. Poiché in carcere tutti sanno tutto di tutti mi disse: ma che ci fai ancora qui? Contro di te non hanno niente. Non immaginai nemmeno lontanamente che potesse uccidersi. Quando si ammazzò in carcere scoppiò una rivolta. I detenuti comuni incendiarono i materassi, durante la notte venivano battute le porte. Poi si uccise Gardini e allora i signori magistrati si accorsero che forse anche la mia situazione era un po' anomala e si precipitarono a organizzare il confronto con Belliazzi.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Risarcimento per ingiusta detenzio1le
Poi il processo arrivò a Roma... «Lo spostamento fu chiesto dal commercialista Bernardini. E la Cassazione gli dette ragione. D'altra parte, scusi, Milano aveva fatto uno scippo. Dove si fa la metropolitana? A Roma Dove sarebbero avvenuti i reati? A Roma. E allora Milano che c'entrava?» E qui Belliazzi cambiò spartito... «A Roma, Belliazzi scrisse una ritrattazione generale, motivandola con le condizioni in cui si trovava in carcere a Milano » Prima dell'udienza preliminare, in effetti Belliazzi scrisse una lunga memoria ai pubblici ministeri Francesco Misiani e Antonino Vinci: «Desidero rivelare a lor signori con sincerità il mio stato d'animo e il mio tormento su quanto mi è accaduto in quest'ultimo terribile anno. Continuando a rileggere i verbali dei miei interrogatori resi a Milano e a Roma, mi son reso ben conto di aver fatto affermazioni talvolta non chiare... Ie mie cattive condizioni di salute... Ie mie varie dichiarazioni in condizioni ambientali obiettivamente traumatiche qual è la detenzione... mi son trovato chiuso in un carcere con l'unica ossessiva aspettativa di riacquistare la libertà fisica...». Disse in un'altra occasione: «Laia concitazione non mi ha consentito di rendermi conto del fatto che le mie dichiarazioni rese a verbale non traducevano il mio pensiero la verità è - per dirla in breve - che non vedevo l'ora ogni
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vo7lta di porre termine a un'esperienza per me traumatica». (Cinque giorni dopo l'arresto di Darida, il professor Aldo Aureggi certificò a Belliazzi, visitato d'urgenza, «un grave stato di ansia depressiva» oltre a disturbi cardiocircolatori Scrisse «L'Espresso» a proposito dell'interrogatorio del dirigente Fiat: «Di Pietro comincia a massaggiarsi il polpaccio, come fa quando è irritato, e taglia corto: "Cerchi di ricordarsi meglio. Intanto torni a San Vittore" Darida lasciò il carcere dopo il confronto con Belliazzi. Rimase a San Vittore dal 7 giugno al 31 luglio '93 e restò agli arresti domiciliari fino al 9 settembre, fino cioè allo scadere dei novanta giorni previsti come massimo per la misura cautelare. E molto probabile che sul suo rilascio abbia inf7iuito un intervento di Sergio Cusani. Il finanziere fu arrestato il 23 luglio '93, giorno del suicidio di Gardini, e fu sistemato a San Vittore in una cella vicina a quella di Darida. «Ci incontravamo tutti i giorni durante l'ora d'aria» mi racconta Cusani. «Darida era molto scrupoloso, doveva fare ogni giorno degli esami medici e quindi quando gli chiedevo come stava, mi rispondeva: bene, ho fatto gli esami. Poi una mattina mi rispose: non ho fatto gli esami, ma va bene ugualmente. La stessa cosa l'indomani. Capii che stava cedendo. Allora poiché avevo un buon rapporto col giudice Ghitti, quando lo incrociai in sala avvocati gli dissi: guardi, lei mi ha chiesto di segnalarle se qualche detenuto sta male, allora le
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE dico che Darida sta cedendo. Fu scarcerato due giorni dopo. Mi mandò un messaggio di ringraziamento attraverso il direttore del carcere.» Il 25 luglio del '94 Darida fu prosciolto dal Gip di Roma Adele Rando per «la completa assenza di elementi probatori in ordine alla partecipazione dell'imputato all'accordo criminoso e alla sua attuazione». Il 13 giugno '96 il pubblico ministero romano del processo, Francesco Misiani, dichiarava a Massimo Martinelli del «Messaggero»: «All'epoca delle ispezioni ministeriali ordinate da Biondi a Milano [autunno 1994] il collega del Pool Francesco Greco mi chiamava per parlarmi del caso dell'ex ministro Darida, per il quale io avevo chiesto il rinvio a giudizio. Loro erano accusati dagli ispettori di averlo perseguitato dal punto di vista giudiziario. Allora Greco mi disse che era bene che non si chiudesse il procedimento contro Darida almeno fin quando c'era l'ispezione in corso. Io avevo già chiesto il rinvio a giudizio, ma il Gip Adele Rando aveva prosciolto tutti. Quindi Greco mi ricordava che se ci fosse stato appello contro il proscioglimento, era bene che fosse fatto anche per Darida. Ripeto, eravamo amici. Io feci appello perché ero convinto di farlo, non mi scandalizzai, come credevo che non si scandalizzasse lui». (Misiani si riferisce alla sua richiesta del gennaio 1996 a Greco su chi avesse messo la microspia al bar Tombini di Roma all'inizio dell'inchiesta Squillante. Greco riferì il fatto e guesto fu uno dei motivi per i quali Misiani,
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esponente storico insieme con Coiro di Magistratura democratica, fu trasferito d'ufficio dal Consiglio superiore della magistratura.) Greco negò di aver fatto pressioni su Misiani, questi confermò. Rispondendo a una interrogazione del capogruppo Ccd alla Camera, Carlo Amedeo Giovanardi, il ministro Flick rispose che l'indagine ministeriale aveva dovuto arrendersi, «atteso l'insanabile contrasto tra le versioni rese dai due magistrati». In realtà, Misiani non fece appello contro il proscioglimento di Darida. Appellò invece la Procura generale e fu battuta in secondo grado e in Cassazione. Nella sentenza che condanna il ministro del Tesoro a risarcire Darida con cento milioni i giudici ricordano i termini assolutori delle diverse sentenze, il trauma dell'ingiusta detenzione per chi è stato ministro della Giustizia. E affermano che anche se Darida fosse stato colpevole, l'arresto in ogni caso non sarebbe dovuto avvenire per l'equivalenza processuale tra elementi attenuanti e aggravanti.
XIII
Storia di Chiara
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Era piena di arnici
La protagonista di questa storia si chiama Chiara. Era una ragazza bella e credo che lo sia rimasta, a vent'anni. Ha letto centinaia di libri e molti restano nel suo cuore. Era molto forte e non lo è più. Era piena di amici, una leader, come si dice, e adesso non ha molto tempo per vederli. Molti, gli opportunisti, li ha persi. Quasi nessuno conosce Chiara, nemmeno io che ne parlo. Sono stato a casa sua nell'estate del '97, sono entrato nella sua stanza piena di bambole, di scritte e di cuscini e non sapevo che fare. Sono nato nel periodo sbagliato. Credo ancora nei simboli, ma non usa più. Nei saloni al primo piano di palazzo Chigi che introducono allo studio del presidente del Consiglio, saluto con un piccolo cenno del capo la prima copia della Costituzione repubblicana. Al Quirinale faccio la stessa cosa con i corazzieri e la bandiera. Un cenno impercettibile, sperando che nessuno mi veda e pensi che non mi senta bene. Nella stanza di Chiara volevo salutare in qualche modo la sua presenza invisibile, dirle che mi sembrava insopportabile il prezzo che stava pagando. Ma non ho detto nulla, non sapevo come fare. Mi sono fermato a lungo a guardare le scritte col pennarel-
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lo sulla porta bianca e gli armadi bianchi. Sull'uscio c'era Richard Bach, il padre del «gabbiano Jonathan»: «...gli altri gabbiani si rifiutavano di aprire gli occhi per vedere...». Sull'armadio, fra tante frasi scritte in momenti felici, mi colpì questa, presa da Carlo Dossi, lo scapigliato lombardo del secondo Ottocento: «Il falso amico è come l'ombra che ci segue finché dura il sole». I falsi amici e le false accuse a suo padre hanno tolto qualche petalo a questo fiore biondo. L'hanno portata lontano dalla famiglia e ogni due settimane il padre fa un lungo viaggio per starle vicino. Sperando che Chiara possa tornare presto nella sua camera piena di bambole, di scritte e di cuscini. Il padre di Chiara si chiama Vito Gamberale, è il capo di Tim, la società dei telefonini.
«Gamberale Vito? Dobbiamo arrestarla...,"
«Vennero a prendermi a Roma la sera del 27 ottobre del '93 alle 20.45. Ero appena rientrato a casa dal lavoro, m'ero seduto a tavola in cucina. Laura, mia moglie, mi serviva la cena. Chiara era con i suoi amici in salotto, non aveva ancora diciassette anni. Matteo, il piccolo di nove anni, giocava in camera sua. Bussarono, andai ad aprire. Tre signori mi dissero: lei è Gamberale Vito? Dobbiamo arrestarla per ordine della
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Procura di Napoli. «Per un momento fui preso dal panico. Tornai in cucina, mi sedetti, respirai profondamente, poi dissi a mia moglie: sono venuti ad arrestarmi. Laura è una donna forte. Restò immobile e muta. I ragazzi non si erano accorti di nulla. Pregai i carabinieri di muoversi con discrezione. Furono molto gentili. Non mi misero le manette, in auto mi fecero viaggiare da solo nel sedile posteriore, mi prestarono il cellulare perché avvertissi il mio avvocato ed Ernesto Pascale, presidente della Sip, la società di cui ero amministratore delegato. «A Napoli, in una caserma dei carabinieri, mi consegnarono l'ordine di custodia cautelare. Ero accusato di aver intimidito i dirigenti di una società fornitrice della Sip minacciando una riduzione delle commesse se non avessero assunto alcune persone segnalate dal deputato socialista Giulio Di Donato [vicesegretario nazionale del Psi, è stato coinvolto nella Tangentopoli napoletana]. Mi si contestava anche di aver tagliato poi effettivamente il lavoro alla ditta, la Ipm di Napoli, visto che "la vittima non aveva aderito alla richiesta". Sapevo che non c'era niente di vero e m'illusi di poter chiarire tutto immediatamente. Anzi, gli stessi carabinieri che mi accompagnavano dissero: "Se arriviamo presto a Napoli, troviamo ancora il magistrato, così lei chiarisce tutto subito e se ne va". Il magistrato non c'era, dormii in caserma, l'indomani mi accompagnarono al carcere di Poggioreale.»
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Nella casa vicino alla Cristoforo Colombo, Gamberale tiene nello studiolo una grande foto del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, simbolo del socialismo italiano. «Lei è stato sempre socialista?» gli chiedo. «Sì, fin da ragazzo» e m'indica un'altra foto: Agnone, il suo paese nel Molise, il primo trenino degli anni Trenta, sommerso dalla neve, il padre che posa con altri in primo piano. «Sono stato sempre socialista, ma forse un po' anomalo, stando a quello che il 31 agosto del '93 dichiarò a Di Pietro un importante imprenditore che si era rivolto al segretario amministrativo del Psi, Vincenzo Balzamo, per intervenire su di me: "Balzamo mi disse che Gamberale era un personaggio un po' strano e che già in un'altra occasione non li aveva favoriti...". «L'indomani - 28 ottobre - mi portarono al carcere di Poggioreale. Ero frastornato, la procedura d'accoglienza durò sette ore. Impronte digitali, foto, apertura della valigia, consegna di quello che non si può portare in cella, visita medica. La mia cella era la numero 14, nel padiglione Torino, quello a cinque stelle. Dividevo quei pochi metri con un giovane medico campano, che non aveva fatto niente nemmeno lui, ma uscì con cinque giorni di ritardo perché, si disse, il Gip era andato in vacanza. Accesi il televisore. Il TG1 delle 18 dette notizia del mio arresto. Poi alle 20 ci furono ampi servizi. L'indomani - 29 ottobre - mi svegliai all'alba. Cercai
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE il TG5 del mattino (quello che tra le 6 e le 9 si ripeteva ogni quindici minuti) per vedere il rullo dei giornali: stavo dappertutto in prima pagina. Capii che i pubblici ministeri che mi avevano arrestato, anche se avessi dimostrato da subito la mia innocenza, si erano esposti troppo per chiedermi scusa e lasciarmi andare. Dissi a voce alta: è impossibile che lo facciano. Venne a interrogarmi un magistrato (erano le 13 del 29 ottobre). La psicologia di un detenuto suggerisce accostamenti arditi. La notte in cui venni portato a Napoli era la notte tra il 27 e il 28 ottobre - pensai alla marcia su Roma. E adesso che mi trovavo di fronte un bel ragazzo alto e biondo, lei non mi crederà, ma lo vidi realmente in divisa da ufficiale nazista.»
Un testegià indagato
Gli spiegai la mia storia: le assunzioni non le aveva fatte la Ipm, ma la Sip che in quel periodo, tra la fine del '91 e l'inizio del '92, assumeva 2300 persone all'anno. Avevo detto le stesse cose il 6 ottobre, tre settimane prima del mio arresto, ai pubblici ministeri presso la Pretura circondariale di Napoli che mi avevano interrogato come teste. In assenza del mio avvocato i magistrati mi richiamarono più volte a dire la verità minacciando di mandarmi in carcere. Quando arrivai a Roma, bussarono i carabinieri per una perquisizione. Leggendo l'ordine
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vidl che esso era stato trasmesso prima che cominciasse il mió interrogatorio come teste. Ero dunque già indagato, ma i magistrati mi avevano interrogato senza il difensore. Le racconto questo precedente perché in quella occasione furono sequestrate alla Sip centinaia di schede con i candidati alle selezioni Con il mio riferimento ce ne era soltanto una con sette noml, cinque dei quali proposti da Di Donato. Erano tutti ragazzl diplomati con voti eccellenti, li avevo passati all'uffiCi0 del personale (che non dipendeva da me, ma da un altro amministratore delegato) che alla fine ne scartò due e ne assunse tre. E l'Ipm che c'entra? «La Sip stava rinnovando, dall'87, l'intera rete telefonica pubblica e della fornitura si occupavano due sole ditte specializzate, la Ipm di Napoli e la Urmet di Torino. Questa esclusività aveva portato la Sip a dividere alla pari, di fatto, le commesse tra le due imprese. Il programma prevedeva picchi di lavoro per i primi anni e suoi progressivi cali al saturarsi della nuova rete. «Sicché, verso la fine del '91, la Ipm, al primo verificarsi della prevista flessione di ordini, si rivolse, come emerge dagli atti istruttori, all'onorevole Di Donato, prospettandogli una corrispondente caduta dei livelli occupazionali. La questione mi venne trasferita da Di Donato, in una sua prima telefonata del gennaio '92.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Io colsi quella occasione, con determinazione aggressiva, per invertire i termini del problema. Dall'ottobre '91, e con sviluppo geometrico, dilagava, infatti, una pericolosa truffa a danno della Sip, consumata attraverso i telefoni pubbllci: con del comune nastro adesivo si rendeva di durata infinita una qualsiasi scheda telefonica. Le perdite per la Sip erano intollerabili, oscillando da circa 1 miliardo alla settimana dell'ottobre '91, ai circa 2,5 miliardi alla settimana per il periodo dicembre '91-marzo '92. «Occorreva che le imprese fornitrici individuassero il rimedio e modificassero gli apparecchi nelle zone a rischio. «Dissi a Di Donato che non poteva prospettarmi i problemi di un'azienda, i cui prodotti avevano concorso a procurare alla Sip già 38 miliardi di perdite nel '91 e che rischiavano di darne oltre 100 miliardi nel '92. «Eravamo furibondi perché le due ditte concessionarie, nonostante gli accordi, non erano riuscite a evitare questi clamorosi inconvenienti.» Però la Ipm ebbe una caduta nelle commesse. "'Al magistrato che mi interrogò il 29 ottobre '93 ho esibito la documentazione aziendale circa l'andamento degli ordini nel periodo '89-'93, da dove emerge che la Ipm non solo non è stata (né poteva essere) penalizzata, ma anzi, negli anni '92 e '93, in presenza di progressivi minori fabbisogni Sip, ha visto decrescere un po' meno della Urmet le proprie fornlture, sia pure permanendo un equilibrio tra le due.»
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Eppure Di Donato le disse nella famosa telefonata di «aver terrorizzato» quelli della Ipm. «I magistrati pensarono che quella frase alludesse a pressioni per le assunzioni che invece furono fatte dalla Sip. Di Donato in realtà si riferiva alle mie lamentele per il pessimo funzionamento dei telefoni Ipm che, oltre alle frodi, si guastavano in media otto volte all'anno, invece di una volta, come garantito dalla società." Storia di Chiara71
Carabinieri senza mandato
Contro di lei testimoniarono pesantemente gli uomini del-
«Il titolare della ditta, Paolo De Feo, e il suo direttore generale, Carmine Meloro, furono interrogati una prima volta come testimoni 1'8 ottobre. In quella sede esclusero mie richieste di assunzioni per conto di Di Donato e confermarono i forti contrasti che c'erano stati per le frodi alla telefonia pubblica «Il 27 ottobre furono arrestati per falsa testimonianza. In carcere cambiarono versione, tirando fuori, suggestionati dalla interpretazione riportata loro di una telefonata che gli era estranea, un'ipotesi accusatoria contro di me e furono rilasciati. Subito dopo essere uscito dal carcere, Meloro andò a casa di un suo carissimo amico, Domenico Petriccione, e alla moglie
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE di costui disse di sentirsi un verme, perché per tornare libero aveva stravolto la verità. E il 5 novembre successivo, mentre io ero a Poggioreale, Meloro si presentò allo studio dell'avvocatoanfredi e davanti a quattro persone disse: sono in una crisi di coscienza profonda, ho dovuto ritrattare il vero e dire il falso, non pensavo che per questo sarebbe stato arrestato un innocente, vorrei riparare all'ingiustizia. Seppi che i presenti restarono interdetti: gli dissero di parlare subito con il suo difensore, ma per mesi non accadde nulla.» Lei ritenne irregolari anche le modalità del suo arresto? «Mi accorsi subito di una cosa gravissima. Io fui arrestato alle 20.45 del 27 ottobre. Guardi bene l'ora. I pubblici ministeri fornirono al Gip l'interrogatorio di Paolo De Feo alle 22, sicché solo dopo quell'ora il Gip poté redigere l'ordine di arresto per me. Io dunque sono stato arrestato prima che maturassero le prove a mio carico e prima che il Gip firmasse l'ordine di arresto. Ma parecchi mesi dopo scoprii una cosa ancora più grave. Ai carabinieri che vennero a prendermi, io non chiesi l'ordine di custodia cautelare. In realtà non ce l'avevano perché sarebbe stato firmato dopo. Ripensandoci, immaginai che i carabinieri fossero partiti da Napoli intorno alle 17, il tempo per partire da Napoli e venire a casa mia. Invece...» Invece le cose andarono diversamente. Durante il processo di primo grado, Gamberale denunciò al Consiglio superiore della magistratura il comportamento dei magistrati di Napo-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
li, che a suo giudizio era stato illecito e scorretto. Il Consiglio archiviò la pratica, sostenendo in sostanza di non poter entrare nel merito di una pura attività giurisdizionale. Gamberale si rivolse allora al Tribunale di Salerno, competente a giudicare i magistrati di Napoli (Napoli giudica quelli di Salerno, esiste in molte procure abbinate - per esempio tra Brescia e Milano - una reciprocità di giudizio per cui un magistrato dell'una riflette assai prima di inquisire il collega dell'altra, potendo a sua volta finire sotto il suo giudizio). Denunciò due pubblici ministeri, Rosario Cantelmo e Nicola Quatrano, e il Gip che aveva firmato l'ordine di custodia cautelare, Luigi Esposito. Chiamati a testimoniare, i due carabinieri che avevano arrestato Gamberale dissero di essere partiti da Napoli per Roma il 26 ottobre, il giorno prima dell'arresto, con l'incarico di arrestare l'ingegner Gamberale. Ritennero, inoltre, di aver capito che l'ordine di custodia cautelare fosse già pronto e di dover andare a Roma per eseguirlo. I carabinieri confermarono di essere saliti a casa Gamberale sprovvisti dell'ordine di custodia cautelare e riconobbero che era la prima volta che si trovavano in una situazione del genere. Ricordiamo, infatti, che secondo Gamberale il Gip avrebbe firmato l'ordine di custodia cautelare soltanto successivamente alle dieci di sera. In calce all'interrogatorio di Paolo De Feo, diventato il teste chiave dell'accusa, sta scritto a ma-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE no: «Atto consegnato a mani del Gip Esposito in data 27/10/'93, ore 22.00 circa". Al processo di Salerno, Esposito disse di aver firmato prima l'ordine di arresto per Gamberale e che alle 22 gli era stata presentata soltanto la richiesta di De Feo di tornare libero, col parere favorevole del pm. Mentre il pubblico ministero di Salerno incriminava anche i due carabinieri per abuso d'ufficio e arresto illegale, il Gip di Salerno ha dato ragione ai magistrati napoletani archiviando il caso. Ma la Procura generale ha fatto ricorso in appello. La difesa di Gamberale sostiene infatti che solo a tarda sera del 27 ottobre De Feo aveva incastrato Gamberale, mentre i carabinieri erano partiti per Roma un giorno prima dell'interrogatorio decisivo per l'arresto dell'amministratore delegato della Sip. Torniamo al carcere di Poggioreale. I primissimi giorni cercai di resistere, di trovare una soluzione, seguendo il mio carattere. "Io mi devo intendere con il pm. Credo fermamente nella giustizia. Hanno commesso un errore. Lo capiranno ben presto" dicevo ai miei avvocati chiedendo di non ricorrere né al Tribllnale della libertà né alla Cassazione. Ma uno di loro mi gelò: "Ingegnere, lei qua non può fare il manager. Lei non ha capito in che guaio è capitato. Qui lei non sta alla Sip. Qui comando io". Gli risposi amaramente: lei già mi tratta da detenuto.» E i suoi familiari? Gamberale tira fuori da un enorme pacco di messaggi di solidarietà una lettera della moglie."è la prima e insieme arrivò questo biglietto di Chiara.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
«Lazostalgia è una soffere11zn fragile...»
Chiara ancora una volta aveva trovato la citazione giusta: «La nostalgia è una sofferenza fragile e gentile, essenzialmente diversa, più intima, più umana delle altre pene: è un dolore limpido e puro, ma urgente. Pervade tutti i minuti della giornata, non concede altri pensieri e spinge alle evaslom. Primo Levi». In calce aggiunse questa frase, molto usata dagli americani: «Proprio quando il gioco si fa più duro, i duri cominciano a giocare. Due punti esclamativi, tre crocette che nel linguaggio giovanile sono forse un rafforzativo dell'affetto e poi la firma, Chiara, larga e allegra, con la «a» che lascia scendere una treccia con un cuore appeso. Di Donato si fece vivo? Gamberale cerca sul tavolo un grande quaderno. Dalla prima pagina, comincia il suo diario di carcerato, scritto naturalmente a mano, ma con lo scrupolo e la cura formale tipica dell'ingegnere, i giorni perfettamente incolonnati, gli spazi bianchi al posto giusto e le ore segnalate con una «h». Alla data del 30 ottobre, ore 11.20, c'è la visita di Di Donato. «Era parlamentare, poteva entrare, ma pensai che fosse impazzito; e poi, in quei giorni, cominciavo a provare amarezza e delusione verso le istituzioni. Era venuto in realtà
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sollecitato dalla moglie di un dirigente socialista abbandonato da tutti. Ma quando si affacciò alla mia cella lo respinsi. Tu, gli dissi, sai che mi sono sempre comportato onestamente. E poi non voglio incontrare il rappresentante di un Parla-
mento che permette che accadano queste cose. Non gli strinsi nemmeno la mano.» Poco oltre, alla data del 6 novembre, ore 10, sta scritto: «Durante l'ora d'aria ho avuto uno spasmo coronarico. Mi ha salvato il Professor B., un clinico famoso detenuto per l'inchiesta sui prezzi dei farmaci. Gli altri compagni hanno fatto capannello, perché le guardie non si accorgessero di niente. Non volevo andare in infermeria, nel padiglione San Carlo, quello dei tossici, dei sieropositivi e degli ammalati di Aids. Tornato in cella, mi ha accolto Raffaele, un imprenditore che è il mio nuovo compagno. In carcere la solidarietà viene solo da una parte». Alla data dell'indomani, 7 novembre, ore 20.22, Gamberale annota: "Il telegiornale ha fatto un servizio sulle prossime elezioni comunali di Napoli. E ha intervistato soltanto il pubblico ministero Vincenzo Piscitelli. Ha parlato del voto di scambio». 8 novembre, ore 9.20: «Posso prendere la seconda doccia da quando sono qui». 9 novembre, ore 12.30:"Al termine del colloquio con i miei legali, mi portano in una stanza con cinque guardie e mi fanno
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denudare completamente per una perquisizione personale». 11 novembre, ore 8.00: «Ci buttano fuori dalle celle per la conta e la perquisizione personale completa. Ore 9.30: «Oggi c'è il giudizio al Tribunale del riesame. Non riesco a pensarci. La giustizia non esiste». Ore 23.00: «Le guardie mi annunciano che ho avuto gli arresti domiciliari. La notizia mi rattrista e mi innervosisce. E il modo peggiore per uscire». Alza gli occhi dal quaderno: «L'indomani mandai un telegramma ai miei familiari e agli avvocati, rifiutando gli arresti domiciliari. Ma la burocrazia carceraria mi disse: "Caro Gamberale, durante gli arresti domiciliari vitto e alloggio sono a carico del detenuto. Se ne deve andare"». Tornò a casa su un'auto civile dei carabinieri. Non aveva voluto che i suoi andassero a trovarlo a Poggioreale. S'illudeva di tornare libero, dovette aspettare il 25 febbraio dell'anno successivo, centoventidue giorni di detenzione complessiva. Eppure, Ernesto Pascale, presidente della Sip, riuscì a conservargli il posto: Gamberale non volle mai dare le dimissioni, nonostante sapesse quanto queste fossero gradite ai pubblici ministeri di molti processi eccellenti. Fin dal 5 novembre, Pascale aveva difeso il suo amministratore delegato con un comunicato al personale: trentanove righe di totale solidarietà e di piena convinzione della correttezza del suo principale collaboratore.
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«Figlia di carcerato»
Ma in casa Gamberale le cose non andavano bene. Non tutti i compagni di scuola di Chiara, al liceo Socrate, erano stati comprensivi. Qualcuno l'aveva chiamata «figlia di carcerato». L'appartamento vicino alla Colombo, sempre pieno di ragazzi, cominciò a vuotarsi. «Chiara sta perdendo gli amici per colpa miadiceva Gamberale. La figlia cercava di tranquillizzarlo: «Non è vero, papà, sono io che non ho voglia di uscire». Venne Natale. Il portiere della palazzina sulla Colombo portò il pranzo alla famiglia Gamberale. Sotto il piatto del padre, Chiara mise questo biglietto rosso: «Vi è una nuova specie di paura e cioè la paura di quello che possono dire i giornali. E questa è altrettanto terrificante della medievale caccia alle streghe. Quando il giornale decide di far fare da capro espiatorio a una persona assolutamente innocua, i risultati possono essere gravissimi. Era di Bertrand Russell, che morì nel '70, prima di vedere il peggio Gamberale è amico di don Luigi Ciotti che si offrì di portargli a Natale quelli che si chiamano i «conforti religiosi». Ma il Gip non dette il permesso: per il detenuto «non ricorrevano indispensabili esigenze di vita».
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Per tutto questo il 3 gennaio '94, Gamberale scrisse al capo dello Stato, al ministro della Giustizia e al procuratore generale di Napoli.Il mio avvocato, Titta Castagnino, era totalmente contrario. Mi diceva: ci macineranno tutti e due. Alla fine gli dissi: Titta, io la lettera voglio scriverla. Se non sei d accordo lo faccio da solo.» L'avvocato si convinse. Gamberale raccontò la storia e concluse: «Avendo svolto il mio ruolo con il dovuto rigore, non ho nulla da barattare sul consolidato tavolo del "mercato della libertà"». Un mese dopo Scalfaro scrisse al ministro della Giustizia Conso. Ne richiamò l'attenzione sul caso, trovò incredibile la storia di don Ciotti e concluse con una frase scritta di pugno: «Purtroppo più che di giustizia si ha la sensazione dell'arbitrio!!. Con due punti esclamativi. Il caso finì sui giornali, qualcuno seguì «il manifesto» che fin dal 30 dicembre aveva parlato dei «dimenticati di Tangentopoli», Gamberale fu sommerso da lettere di persone che non vedeva da decenni e un suo appello a cento uomini di cultura ebbe sessantacinque risposte. Il 25 febbraio del '94 il Tribunale della libertà ordinò la scarcerazione di Gamberale. Il 18 luglio del '96 il Tribunale lo assolse «perché il fatto non sussiste». Il Collegio ascoltò dieci testimoni dell'accusa, venti della difesa e nove convocati durante il dibattimento. «Vincemmo trentanove a zero. I più
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE forti testimoni di difesa furono i testi convocati dall'accusa e dal Tribunale. Ma né mia moglie, né Chiara poterono venire a Napoli per l'udienza finale. Lo stesso giorno mia figlia aveva gli esami di maturità. Dopo la prima liceo, volle abbandonare il Socrate. Fece la seconda al Dante, molto lontano da casa nostra. Era molto stanca e non andò a scuola gli ultimi quindici giorni, ma era andata bene e fu promossa. Tornò al Socrate, vicino casa, per la terza liceo, in un'altra sezione. Nonostante fosse stressatissima, si diplomò con sessanta sessantesimi. Quel giorno mi regalo un nastro di canzoni che porto sempre in auto con me.» Finora Gamberale non aveva mai parlato. Il giorno che decide di farlo, nell'estate del '97, mi dice: «La fase istruttoria del processo andrebbe ripulita della teatralità e del protagonismo attuali. Accusa e difesa dovrebbero avere gli stessi poteri, le stesse possibilità d'intervento. Ho sperimentato che l'onere della prova non tocca all'accusa. è l onere dell'innocenza che spetta alla difesa. La condizione peggiore in cui possa trovarsi un imputato è difendersi da innocente. Se nella mia vita di manager avessi fatto un solo atto di quelli che ho subìto io, non sarei più un manager. Loro fanno ancora i magistrati. Mi auguro che la mia esperienza possa servire anche ai pubblici ministeri che mi hanno perseguitato». «Forse è un regalo della vita»
Fa una pausa, pulisce gli occhiali e aggiunge: «In questi
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anni ho riflettuto molto su quanto sia delicato gestire il potere sugli uomini e su quanto facilmente esso possa degenerare in arbitrio. Io non posso smettere di aver fiducia nella Giustizia, ma lo Stato deve garantirne una più giusta». Un'altra pausa e la conclusione imprevista: «Credo che questa esperienza mi abbia cambiato in meglio. Forse può essere un regalo della vita». Andiamo nella stanza di Chiara. Nel drammatico San Silvestro del '93, la ragazza scrisse ai genitori: «Mamma e papà, è stato un anno bellissimo. E il prossimo sarà ancora migliore» Per lei non fu così. Cominciò a star male, a lottare con se stes sa. La ragazza delle tante letture e dei sessanta sessantesirni dovette trascurare l'università e conoscere tanti medici. Chiedo al padre perché l'esito felice, dopo tre anni, della sua drammatica vicenda giudiziaria non abbia aiutato la figlia. «Non si può aggiustare un bicchiere lesionato» rispose. «Ma vado ogni settimana qualche giorno da Chiara per combattere con lei anche questa battaglia e per vincerla. Come vincemmo insieme l altra.» Si commuove: «Chissà che alla fine questa esperienza non sarà un regalo della vita anche per lei». Telefona Matteo dalla vacanza-studio in Inghilterra Chiara stasera non telefona.
XIV
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE I ciechi di Bruegel
Con Cusani, a San Vittore
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt'e due in una buca?» Così chiede il Signore ai suoi discepoli (Luca, 6,39). «Ricorda i ciechi di Bruegel?» mi chiede Sergio Cusani. Per parlare della situazione dei carcerati, mi rimanda alla drammatica tela del maestro fiammingo conservata nel museo napoletano di Capodimonte. Sei ciechi pretendono di camminare offrendosi l'un l'altro l'estremità di un bastone. Cade il primo e gli altri lo seguono nella malasorte. I volti dei carcerati hanno dunque le orbite vuote o spente come quei disgraziati viandanti fiamminghi? «Ignorano ogni loro diritto, a cominciare da quello di dover tornare liberi se non vengono interrogati entro cinque giorni dall'arresto. Quando la Corte costituzionale ha stabilito una pronuncia su questo tema, duecento detenuti sono venuti a chiederne una copia. In carcere si agisce invece sull'opportunismo e l'acquiescenza. Se ti comporti bene, guadagni una caramella.»
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Per questo Cusani ha fondato all'interno di San Vittore un gruppo di lavoro per una «Carta europea delle comunità carcerarie». Prima sulla carta intestata c'era scritto «Centro archivio e documentazione giuridica San Vittore», poi Cusani ha dovuto togliere il logo perché i permessi della direzione del carcere e del ministero andavano e venivano. Nei sette mesi trascorsi da Cusani come detenuto definitivo, mentre 378 La .ifida
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I
cit7chi di Brucxcl 79
Michele Coiro dirigeva il mondo carcerario, i due stabilirono un rapporto molto proficuo. Morto Coiro, ha dovuto ricominciare tutto da capo col suo successore. Ma la costanza non gli fa difetto. Lo sa bene il direttore di San Vittore, che è tra i migliori del ramo. Cusani gli sta smontando la struttura ha messo in piedi una specie di rispettosa direzione alternativa. Lavora con quattro compagni: uno condannato per bancarotta, due spacciatori di droga, un piccolo trafficante sieropositivo, tutti condannati a pene medie e piccole. Fa orario di sportello, «uno sportello pregiuridico e documentale» dice lui. Riceve le segnalazioni, fornisce consigli, sforna documentazione, elabora proposte (dall'accredito dei vaglia agli interpreti per i detenuti stranieri), ha fondato per corrispondenza uffici analoghi in altre carceri italiane, pare che i risultati siano rivoluzionari. Ogni tanto un colpo di regolamento
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE gli chiude l'ufficio, ma poi si trova il modo di riaprirlo. Altrimenti a San Vittore scoppierebbe una rivolta. A fine maggio '97 ha trasmesso a D'Alema, come presidente della Bicamerale, una proposta articolata sulla riforma della giustizia. Per esempio: «Riteniamo opportuno che non possa accedere alla funzione di Gip un magistrato che abbia svolto una funzione inquirente nei primi cinque anni della carriera». E un modo per evitare iGip ragazzini, per evitare che chi ha acquisito una mentalità inquirente non si trovi troppo presto a svolgere il ruolo di giudice nei momenti più delicati. Venga a cessare, inoltre,"l'innaturale convivenza tra pubblico ministero e Gip che ha creato uno strapotere dell accusa, con conseguenze spesso aberranti». A fine luglio '97 sarebbe potuto uscire. Affidamento in prova al servizio sociale significa lavorare di giorno e rientrare in carcere per la notte. Lui ha proposto di invertire: otto ore di lavoro gratuito in carcere, la notte a casa. Com'era prevedibile, non glielo hanno concesso. Ha preferito rimanere dentro. è ricomparso in pubblico il 20 settembre '97, sfilando nella grande manifestazione antileghista di Milano alla testa di quaranta detenuti, dietro un cartello della «Agenzia di solidarietà per il lavoro». Un passante che ama Bossi ha commentato: «Ecco chi sfila, i delinquenti della galera» Cusani gli ha risposto: «Sì, siamo delinquenti che hanno maturato un permesso premio. Ma anche se reclusi, facciamo parte in-
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tegrante della società civile». Sabato 11 ottobre ha avuto un cordiale colloquio in procura con Francesco Saverio Borrelli e ne ha richiamato l'attenzione sull'attività dei sostituti nella gestione di alcune norme penitenziarie. Sergio Cusani è entrato a San Vittore il 13 novembre '96: deve scontare quattro anni di carcere per le tangenti del processo Eni-Sai. Passare in tre anni dall'istruttoria di un processo alla sentenza definitiva della Cassazione è un record assoluto della giustizia italiana: funzionassero per tutti così le cose, i tribunali non avrebbero un solo arretrato. Ma Cusani è un caso speciale. «Sono l'uomo più odiato d'Italia dopo il mostro di Firenze"disse nella primavera del '94 rispondendo a Di Pietro durante il processo Enimont. Adesso me lo trovo davanti in una stanzetta di San Vittore. è un bell'uomo, dimostra meno dei cinquant'anni che sta per compiere, ha la barba di un giorno, indossa un gilet di pelle sulla camicia a scacchi. All'altezza del taschino, molto visibile, il suo numero di matricola: 039925.
«Con te èfinita Mani pulite»
Mi aveva colpito una sua frase: «Strana fine, quella di una Repubblica che si chiude con un atto giudiziario. Che significa?
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «è una frase che mi disse Italo Ghitti, il Gip col quale avevo stabilito un buon rapporto personale. Mi disse: con te è finita Mani pulite. Lui mi dava del tu, io del lei. Mi disse che sarebbe andato via: forse gli interessava la direzione delle carceri.» Erano i primi mesi del '94. Ghitti considerava conclusa dopo due anni la sua esperienza con Mani pulite. Nel Duello rivelammo che in aprile Di Pietro disse a Ghitti che finito il processo Cusani avrebbe voluto fare politica. E il giudice gli rispose cii provare, se non avesse avuto scheletri nell'armadio, perché anche lui avrebbe lasciato Milano (nel frattempo gli era stato offerto un seggio al Consiglio superiore della magistratura). «La mia vicenda» dice Cusani «è stata costruita a tavolino. Dopo due anni di attività frenetica, di arresti su arresti [tra la primavera del '92 e l'autunno del '93 la Procura milanese aveva già arrestato trecentoquindici persone] alcune forze politiche attraverso i giornali chiedevano le prime conclusioni. Si gridava: al processo, al processo! Ricordo che nel settembre del '93, mentre io ero in carcere, alla festa dell'Unità il giudice Palombarini sembrò alludere alla necessità di un processo simbolo che desse un senso a Mani pulite.» E capitò a lei. «Sì. E tutto comincia da una frase di Borrelli. Ricorda? "Abbiamo acceso un faro su Mediobanca." La frase era stata costruita da Francesco Greco, il sostituto specialista in reati
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finanziari, ma fu detta da Borrelli. Come rispose Mediobanca? Dando il consenso a Guido Rossi perché mollasse l'osso della Ferruzzi. Così venivano lasciati in pace i poteri forti. E quando hanno avuto bisogno di fare il processo esemplare chi è stato scelto nella folla di Tangentopoli? Un soggetto-oggetto eclatante di suo: ex sessantottino, amico di Craxi, amico di Gardini. Insomma ero perfetto. E così hanno deciso per il giudizlo immediato. Torniamo indietro di qualche settimana. Lei venne arrestato il 23 luglio 1993. «Sì, dopo aver dormito una notte fuori casa. Io non mi sono mai sottratto all'arresto. Dormii fuori soltanto la notte del 22 luglio perché il 23 volevo partecipare ai funerali di Cagliari che si era appena suicidato. E se fossero venuti a prendermi al mattino, non sarei potuto andare. Si parlava in quei giorni della grande retata, si diceva che Greco avesse chiesto l'arresto dell'intera famiglia Ferruzzi e che il Gip Pisapia si fosse opposto. Poi intervenne Ghitti e decisero di arrestare soltanto me. Durante i funerali di Cagliari, si sparse la voce che Gardini si era ucciso. Che rapporto aveva lei con Gardini? «Gardini confidava a me e soltanto a me i suoi segreti. Lei lo ha conosciuto? Le pareva il tipo che andava a raccontare gli affari suoi ai manager? Sa come li chiamava lui i manager? Cani da riporto. Per questo Sama e Garofano sono innocenti [in una
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE certa fase furono rispettivamente amministratore delegato e presidente di Montedison]. Ero io il suo unico confidente. Col suicidio ha fatto una scelta di silenzio e ha scaricato tutto su di me.
«S'è ucciso per salvare Eleonora»
Lei se l'aspettava? «No.» Perché l'ha fatto? «Secondo me, l'ha fatto per la figlia Eleonora. Per caricare su di sé tutta l'onta della vicenda, per salvaguardare la famiglia e in particolare Eleonora che stravedeva per il padre. Con gli altri due figli lui aveva un rapporto meno intenso, ma il rapporto con Eleonora era fortissimo." Si è detto che un uomo orgoglioso come lui non avrebbe retto all'umiliazione del carcere. «No, non è vero. A me tante volte lui disse che voleva dare battaglia. All'inizio diceva: me ne vado all'estero e da lì pianto un casino. Voleva giocare la partita da protagonista...» E invece? «Invece la Procura l'ha tenuto a bollire: i suoi avvocati chiedevano incontri e i procuratori li negavano. Gardini era diventato un personaggio comodo, spendibile. La spaccatura della famiglia Ferruzzi lo aveva indebolito, ma anche da ex potente lui era famoso nel mondo. Un bell'uomo, un grande velista internazionale, uno dei maggiori imprenditori italiani. Per i me-
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dia internazionali sarebbe stato l'arresto del secolo. Gardini amava la caccia in botte e quando passava l'anatra lui diceva che era una bella preda. Per la Procura di Milano, era diventato lui la bella anatra da buttare giù.» Le aveva mai parlato dell'ipotesi di finire in carcere? «Di finire in carcere no, ma di poter affrontare seriamente i problemi giudiziari sì. Lui era convinto di subire lo stesso trattamento di Romiti e De Benedetti, pensava che la Procura si sarebbe accontentata di un memoriale di poche pagine presentato con decoro in questura. Pensava insomma che sarebbe stato rispettato il copione classico di Tangentopoli: salvaguardare l'economia e i poteri forti che sono i produttori di denaro e colpire gli intermediari politici.» Ma per Gardini non andò così. "No, perché Gardini non aveva valutato la cosa più importante. Non era più un potere forte dopo la spaccatura della Ferruzzi. Certo, la sua Gardini srl era una società ricca e importante, ma non con il potere ramificato che conta.» Che giudizio dava Gardini dei politici e della necessità di finanziarli? «Gardini è stato sempre sprezzante nei confronti del mondo politico, né ha mai inteso pagarlo per la vicenda Enimont. Mi disse: gli diamo una paghetta, un tanto al mese. Lui aveva vinto la partita. Aveva scalato Enimont, aveva la maggioranza, aspettava le assemblee dell'autunno per buttar fuori il
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE consigliere dell'Eni e prendere la maggioranza del consiglio. Il gestore di Enimont era Sergio Cragnotti, un suo uomo. Così lui pensava di portare a compimento la conquista della chimica: legalmente, senza dare una lira a nessuno e pronto a trattare da vincitore, una volta chiusa la partita. Era questa la sua logica lucida e determinata.» Che cosa avrebbe ceduto al settore pubblico? «Forse avrebbe frazionato Enimont, lasciando al settore pubblico alcune aziende alle quali il mondo politico era interessato. Ma l'avrebbe fatto ben volentieri, perché a lui interessava mettere dentro Enimont le aziende che aveva preso in America: Aimont, l'Ausimont e l'Erbamont. Portando in Enimont la chimica fine americana, lui avrebbe cambiato faccia alla holding.» E invece? «Invece il 9 novembre 1990 Gardini capì all'improwiso di aver perso la partita. Il giorno precedente l'Eni aveva chiesto al tribunale civile di Milano il fermo temporaneo delle azioni Eni e Montedison. Il provvedimento fu adottato immediatamente dal presidente vicario del tribunale civile, Diego Curtò, che nominò custode giudiziario delle azioni con diritto di voto l'avvocato Vincenzo Palladino, vicepresidente della Banca Commerciale. Fu un segnale pessimo perché Gardini aveva chiuso i rapporti con la Comit. Lui rimase sconvolto perché i suoi avvocati avevano escluso un colpo di mano del genere. Il tribunale è presidiato, gli avevano detto. E invece
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quando andarono da Curtò un paio di giorni più tardi a depositare una memoria, lui disse: siete venuti a discutere del sequestro delle azioni? Bene, parliamone subito. Gli avvocati vennero via senza nemmeno depositare le memorie. Se ci fosse stato il sequestro delle azioni, il tribunale sarebbe diventato padrone di Enimont e ne avrebbe nominato gli amministratori. Davanti a Gardini comparve lo spettro della Mondadori che era rimasta paralizzata per due anni nella "guerra di Segrate". C'era la guerra del Golfo e l'azienda perdeva ottanta miliardi al mese. Due anni di paralisi sarebbero costati duemila miliardi. Enimont sarebbe morta. Gardini capì di essere stato colpito attraverso la magistratura.» (Cusani raccontò per la prima volta questa storia al pubblico ministero di Brescia Guglielmo Ascione il 10 settembre del '93. Ne parlò a Brescia e non a Milano perché - disse - veniva sentito da «libero» come a suo giudizio avrebbero dovuto fare i milanesi, non essendosi mai sottratto «né al giudice, né al processo, né al carcere in caso di condanna». Si scoprì che, per alcune settimane di lavoro, Palladino aveva incassato sette miliardi di parcelle, di cui tre non fatturati. Portato in carcere, il banchiere dichiarò di aver consegnato una tangente di quattrocentomila franchi svizzeri a Curtò, che fu arrestato insieme con la moglie.)
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Diamo la paghetta ni politici»
Persa la battaglia per Enimont, Gardini capì che per rilanciare doveva pagare il mondo politico. «Il fermo delle azioni Enimont venne deciso il 9 novembre. Una decina di giorni più tardi la famiglia Ferruzzi decise di vendere le proprie quote, Gardini s'infuriò e si dimise da tutte le cariche. Fece nominare il figlio Ivan presidente della Ferruzzi con Garofano amministratore delegato e Garofano presidente di Montedison con Sama amministratore delegato. Ma il leader del gruppo restava lui.» E la chiamò per comunicarle la nuova strategia. «Lui mi voleva sempre vicino. Eravamo a Roma, lui mi chiamò nel suo appartamento all'Aracoeli e mi disse: adesso bisogna tenere a bada il mondo politico, altrimenti ce la fanno pagare. Abbiamo trentamila miliardi di fatturato in Italia e dobbiamo difendere le aziende. Abbiamo restituito alla politica la greppia di Enimont. Adesso diamogli la paghetta. Come dissi ai giudici di Brescia, bisognava favorire la soluzione finale pagando un ampio arco di soggetti che bussavano a cassa con insistenza, ai diversi e più singolari livelli, approfittando dello stato di debolezza di Enimont. Eravamo assediati dai cercatori d'oro, con i quali potevamo giocare soltanto al ribasso.» Gardini era sempre informato? «Certo, nei dettagli. Chi conosceva Gardini sa che non
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avrebbe dato un mandato in bianco nemmeno se si fosse trattato di cambiare una cima a una delle sue barche. Diceva che bisognava tenere a paghetta i politici, altrimenti ci avrebbero reso difficile la vita anche sullo zucchero, con l'Eridania.» Come reagì Gardini alla nuova situazione? «Male. Entrò subito in depressione, fece cure pesanti. Ricorda la sua frase famosa "La chimica sono io"? Uscire dalla chimica per lui era devastante. Fu per questo che decise la rivalsa, sul piano dell'immagine personale. Fondò la dinastia Gardini decidendo di cancellare il nome Ferruzzi dalla faccia della terra. Ma i Ferruzzi naturalmente si ribellarono e ci fu la separazione.» Lei non ha mai detto come sono state distribuite le tangenti. «Se sono qui in carcere è perché non l'ho detto. Altrimenti non mi sarei fatto un minuto di galera. La logica è questa » (Disse Cusani al pubblico ministero bresciano Ascione nella sua deposizione del '93: «Parlare solo per sé, accreditando o sviluppando diversamente i temi dell'accusa proposti con le ordinanze di custodia cautelare, non è mai sufficiente. Per essere creduti - anche quando si dichiarano solo mezze verità o mezze bugie - e per non cadere nella rete di misure restrittive della libertà a catena, occorre aggiungere sempre nuove accuse contro altre persone e per altri reati. Se cioè non si alimenta la crescita ad infinitum dell'inchiesta verso qualsiasi nuovo approdo, è inutile parlare Lei teneva per sé una quota, diciamo professionale, dei
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE soldi distribuiti? «Intanto i denari venivano distribuiti da ben altre persone. E poi, come è risultato dal processo, io non ho tenuto per me nemmeno una lira. La mia attività di banchiere d'affari andava a gonfie vele, guadagnavo benissimo di mio, avevo fatturato in tredici anni di attività centosessanta miliardi pagandone quindici di imposte...» Ma all'inizio l'appropriazione indebita le fu contestata. «All'inizio cercarono di piegarmi le ginocchia sparandomi cinque mandati di cattura in un mese. Il pubblico ministero Greco mi disse: attento, qui c'è l'ipotesi che lei abbia fatto un'appropriazione indebita di cento miliardi. Io risposi che non avevo preso nulla.» (Nella famosa requisitoria del 22 aprile '94, Di Pietro dette atto a Cusani di aver aiutato i magistrati a recuperare sedici miliardi.) Arrestato il 23 luglio del '93, poche ore dopo il suicidio di Gardini, Cusani ammise immediatamente di aver contribuito a eseguire le sue disposizioni per la distribuzione delle «paghette», ma si rifiutò subito di fare chiamate di correo. Lo stesso atteggiamento tenne nei tre interrogatori successivi ai quali fu sottoposto nell'ultima settimana di luglio. Il 26 agosto fu interrogato da Di Pietro a cui dettò un lungo memoriale, confermando le ammissioni già fatte e denunciando quelle che gli parevano una serie di violazioni normative.
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«E Di Pietro mandò a prendere il whisky".
«L'interrogatorio avviene in questa stanzami dice Cusani, nel nostro colloquio di San Vittore. «A un certo punto si rompe la stampante. Io dico: non fa niente, se crede possiamo riprendere domani. Di Pietro dice: no, aspettiamo un'oretta e riprendiamo. Capisco che vuole agganciarmi. Mi chiede: lei al posto mio che farebbe? Gli rispondo: mi affretterei a ricucire lo strappo fatto alle norme. Altrimenti lo faranno gli altri. Se lei sa guidare il convoglio, sa anche dove finisce. Ha ragione, dice Di Pietro, vuole un caffè? No, grazie, semmai la sera mi manca un dito di whisky. Subito, dice Di Pietro, e manda una guardia a prenderlo al bar. Anzi, guardi, l'agente è quello...» Cusani l'intravede dietro la blindatura della porta, lo chiama, l'altro arrossisce e non risponde. «Fu allora che Di Pietro mi disse: abbiamo deciso di venirle incontro sulla data del processo. Io quel giorno avevo chiesto che il mio processo si facesse subito. Mi riferivo a un processo normale. Di Pietro si riferiva invece al rito del processo immediato. Giocò sui sinonimi, io avrei capito soltanto il giorno dopo leggendo "Repubblica" dove il cronista giudiziario Pietro Colaprico scrisse che non ci eravamo accorti di essere stati messi nel sacco. Chiesi comunque a Di Pietro: quanto durerà il mio processo? Lui aprì tre dita della mano. Tre anni?, chiesi io allarmato. Tre giorni, rispose lui.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Il processo Cusani fu uno dei maggiori spettacoli televisivi del secolo e durò esattamente sei mesi, dal 28 ottobre del '93 al 28 aprile del '94. La rapidità dell'istruttoria è irripetibile. Arresto, 23 luglio. Richiesta di processo immediato presentata dalla Procura il 27 agosto e accolta dal Ghitti il 6 settembre. Prima udienza, 28 ottobre. In realtà, non ci volle molto a capire che si trattava del «processo esemplare". Il giudizio immediato viene infatti accordato quando la prova è inconfutabile: lo spacciatore preso con la droga in mano, l'omicida arrestato con la pistola calda in pugno. Nel caso di Cusani c'era la sua ammissione di colpevolezza per quanto riguardava il ruolo svolto, ma come si vide nelle cinquanta udienze, esso era il processo alla Prima Repubblica. Roba, cioè, di tutt'altro genere. Giuliano Spazzali, il difensore di Cusani diventato famoso presso il grande pubblico proprio con quel processo, capì la trappola e chiese fin dal 30 agosto che il processo al suo assistito fosse riunito a quello dei tanti coimputati, sospettando che si volesse lanciare un messaggio del genere: vedete chi non parla che fine fa? Ma la macchina ormai era inarrestabile. «Di Pietro» mi dice Cusani «aveva deciso fin dal giorno precedente il suo ultimo interrogatorio di separare il mio processo dagli altri. Sul verbale, infatti, fu cancellato il numero 8655/92 che caratterizza hltti i processi di Mani pulite. Io dovevo essere giudicato da solo. Cusani assistette ai primi due mesi del processo da dete-
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nuto: restò infatti a San Vittore cinque mesi. Per le sue responsabilità dovrà alla fine scontare molti anni di carcere, ma è difficile sostenere che dovesse fare una così lunga carcerazione preventiva per impedirgli di inquinare le prove, di ripetere lo stesso reato o di scappare perché il singolarissimo comportamento dell'imputato andava esattamente nella direzione opposta.
Diverso trattamento per Craxi e Forlani.
La giornata memorabile di questo processo è il 17 dicembre, quando vengono interrogati Arnaldo Forlani e Bettino Craxi sui finanziamenti illeciti ricevuti dalla Dc e dal Psi. Forlani sceglie una strada perdente: dice di non sapere niente di finanziamenti non registrati. Craxi usa la tecnica opposta: ne ero a conoscenza, dice, fin da quando portavo i pantaloni alla zuava. Al di là delle dichiarazioni, colpisce il differente atteggiamento di Di Pietro nei confronti dei due illustri testimoni. Tre sociologi, Pier Paolo Giglioli, Sandra Cavicchioli e Giolo Fele, hanno pubblicato all'inizio del '97 per il Mulino un saggio dal titolo Rituali di degradazione. Anatomìa del processo Cusani. Scrive Fele nel complesso linguaggio dei sociologi: «Nell'interrogatorio di Forlani possiamo vedere all'opera l'intero
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ventaglio di tecniche di discredito...: coercitività delle domande, aggravamento del formato interrogativo, uso strategico dei silenzi, domande di sfida.... Scrive la Cavicchioli sulla «relazione Craxi-Di Pietro»: «Ciò che ha soprattutto infastidito nell'atteggiamento di Di Pietro è stata una certa complicità manifestatasi nel lasciar debordare l'eloquio di Craxi - in particolare sui rapporti tra il Pci e i paesi dell'Est - nel sorridere e nell'approvare troppo spesso, nel confermare che quanto veniva dicendo era confermato da documenti. In definitiva, nel sanzionare positivamente i costanti allontanamenti dal topic processuale». E a proposito del rapporto Di Pietro-Cusani: «Durante la requisitoria, Di Pietro farà uso di quella che è una chiara strategia di provocazione. A Cusani, e con veemenza, darà del ladro, del quadruplice traditore, del camaleonte... Aggiungerà una sanzione morale assolutamente negativa, una sfida tale da convincere l'accusato a raccontare quanto sa in modo da ristabilire un'immagine più positiva». (Mi dice Craxi, quando lo incontro ad Hammamet nell'estate del '95 e nel novembre del '96: «Ero lì, ma Di Pietro non mi chiedeva niente. Perché non mi ha torchiato sui conti esteri del Psi?».) Mi dice Cusani a San Vittore: «In quel momento io mi sentii tradito da Ghitti. Come le ho detto, avevamo stabilito un buon rapporto personale. Mi disse: "Mi raccomando, ci stiamo avviando alla fine del processo, tieni il livello alto". Cominciava
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infatti a girare la voce che io sarei diventato un bastone per colpire altri. Dissi a Ghitti: lei sa che non è vero, non mi faccio usare da nessuno, mi prendo le mie responsabilità, ma ho tagliato col passato e sto per i fatti miei. Lui mi disse: "Guarda che questo l'ha capito anche Di Pietro, vedrai che ti farà un riconosci mento pubblico". Io in effetti mi aspettavo una frase di rispetto: era vero che non avevo collaborato con la Procura, ma avevo messo a disposizione tutti i miei conti, avevo procurato ai pubblici ministeri tutte le carte necessarie, avevo scritto un memoriale di centodiciassette pagine. Così quando mi arrivò in faccia quella valanga di insulti: traditore, bugiardo, ricattatore, io restai a bocca aperta. Ghitti mi disse: non so spiegarmelo. Ma da allora tagliai i rapporti: e su Ghitti oggi debbo dare un gludizio tremendamente negativo". (Mi dice Ghitti: «Di Pietro usò in effetti un linguaggio inammissibile. Quelle cose non si possono dire a nessuno. Il "tre volte traditore" detto a Cusani fu frutto di un impulso incontrollabile.
«Due persone sono state salvate".
Cusani non perdona a Ghitti un altro particolare: «Io sono stato giudicato anche per appropriazione indebita. Ho scoperto soltanto nel '96, per caso, richiedendo un fascicolo in cancelleria, che per quella imputazione Ghitti, su richiesta
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE della Procura, aveva deciso l'archiviazione il 12 novembre del '93 per infondatezza della notizia di reato. Il processo era in corso, io avevo confidato a Ghitti che per altre questioni avevamo accettato la modifica del capo d'imputazione perché non mi andava l'idea di passare la vita in un'aula giudiziaria. Lui sapeva di aver archiviato, ma non mi ha detto niente». (L'accusa archiviata fu riproposta in aula da Di Pietro nel febbraio del '94. Cusani fu condannato in primo grado e in appello anche per appropriazione indebita. Quando nell'ottobre del '97 chiedo a Ghitti perché non avesse avvertito la diksa di quell'archiviazione, il magistrato mi risponde: «Francamente, non ricordo. Ma perché avrei dovuto avvertirla?) Resta da chiarire un altro aspetto non marginale della vicenda. La differenza di fondo tra le tesi dell'accusa e quelle della difesa nel processo Cusani-Enimont è questa: secondo Di Pietro l'enorme tangente pagata ai partiti serviva a favorire la conclusione dell'affare Enimont, secondo Cusani - come abbiamo visto - è stata pagata dopo perché Gardini, sconfitto dall'Eni, era assediato da richieste di denaro dai partiti e cedette per tenerli buoni. Un paio dei molti miliardi distribuiti da Gardini (75 al Psi, 35 alla Dc, le briciole agli altri) furono versati da Pacini Battaglia su un conto della Ubs di Zurigo. Al processo si parlò di due versamenti fatti il 23 ottobre e l'11 novembre 1990. Un testimone (l'avvocato Agostino Ruju), interrogato durante il processo Cusani, disse che era stata falsificata la data: 1990
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invece che 1989. In questo caso cambierebbe tutto. Secondo la difesa di Cusani, l'alterazione è visibile. E l'intercettazione telefonica di un colloquio tra Pacini e il suo difensore Lucibello lascerebbe qualche dubbio. Di qui la denuncia di Cusani alla Procura di Brescia. Cusani rispose con una lunga autodifesa alla requisitoria di Di Pietro. Ma se il pubblico ministero ne aveva chiesto la condanna a sette anni, il tribunale ne dette otto a Cusani (più i quattro che sta scontando per l'affare Eni-Sai). E in appello la condanna è stata confermata. Quando chiedo a Cusani quale ruolo ha avuto in questa vicenda Pacini Battaglia, lui mi risponde di aver conosciuto il finanziere a Roma quando il tribunale di Milano andò in trasferta a interrogarlo (a porte chiuse, allora Pacini voleva rendersi invisibile). è vero che ci sono altre due persone che hanno avuto un ruolo superiore a Pacini e non sono state toccate? «Sono due persone molto importanti che a Milano hanno avuto un trattamento particolare. Se avessi commesso io i loro reati, avrei avuto una condanna a vent'anni. Loro hanno patteggiato una miseria e son contento per loro.» Può dirmi chi sono? «Non posso.» Con Craxi ha fatto affari? «Mai. Eravamo soltanto amici. Lo conobbi tanti anni fa
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE perché era amico di Aldo Ravelli, un famoso patriarca della Borsa italiana. Io ho fatto il mio percorso, Craxi faccia il suo. I magistrati lo giudichino senza pregiudizi.» Se fosse stata usata con altri la cura che è stata riservata a lei, come sarebbe andata? «Avrebbero dovuto mettere i detenuti a San Siro. O in uno stadio cileno.»
QUINDICI. Previti e Ariosto al duello finale.
«Nessun versamento al dottor Squillante».
Onorevole Previti, perché mi ha detto una bugia? «Quale bugia?» Nel settembre del 1996, per il mio libro La svolta, le chiesi se lei aveva mai pagato dei magistrati o dei pubblici ufficiali. Lei mi rispose: mai. «Le confermo: mai.» è la metà di ottobre del '97 quando vado a trovare Cesare Previti nel famoso studio di via Cicerone a Roma, a pochi metri da piazza Cavour e dal «palazzaccio» della Cassazione. Quando in questo stabile c'era l'abitazione di Previti, Stefania Ariosto sostiene di aver partecipato a una cena in cui il denaro per Squillante era sul tavolo. Ma la difesa del deputato di Forza Italia le contesta di non averci mai messo piede:
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sbaglia anno, dice, non sa descrivere gli ambienti. Qui, nel '94 per lui felicissimo, Silvio Berlusconi non fece in tempo a offrire il ministero dell'Interno ad Antonio Di Pietro che venne anticipato da un rifiuto. Qui Di Pietro è tornato due volte a incontrare Previti dopo le sue dimissioni dalla magistratura. Qui capita ogni tanto Pierfrancesco Pacini Battaglia, vecchio amico di Previti e suo vicino di villa, quasi, all'Argentario. Qui, nell'autunno romano del '97, tardivamente mossosi al freddo, Cesare Previti combatte il suo duello finale contro i procuratori di Milano che lo vogliono in manette. Migliaia di atti processuali entrano ed escono dalle porte di legno chiaro, nessuno bada più allo spettacolare Ponte della Vittoria sul Te-
vere progettato nei primi decenni del secolo da Adolfo Coppedè e appeso alla parete nobile dello studio. Previti è il capitano di questa grande nave nella tempesta. La sua plancia è una poltrona di pelle chiara, non siede da anni dietro il tavolo da sartoria del Quattrocento che la mamma calabrese gli regalò all'inizio della professione. Ci appoggio in compenso il mio quaderno e avvio la conversazione sulla bugia negata. Se lei non ha mai pagato un magistrato, onorevole, posso chiederle perché nella richiesta di arresto inviata dalla Procura di Milano alla Camera dei deputati nel settembre del '97 si parla di un versamento di 434 mila dollari, pari a mezzo mi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE liardo di lire, fatto a suo nome sul conto svizzero di Renato Squillante il 6 marzo 1991? «Io quel versamento non l'ho fatto al dottor Squillante. Le spiego perché. Vede questi fogli? Qui sono raccolti tutti i rapporti finanziari per i quali ho utilizzato il mio conto svizzero dall'87 all'inizio del '96. Vediamo un po'... Trentaquattro operazioni per pagina... Cinque pagine... Bisogna togliere qualche annotazione... Diciamo che sono circa centoventi-centotrenta operazioni. Di queste circa un terzo sono passate attraverso l'avvocato Pacifico.» E Squillante? «Aspetti. Il rapporto con Pacifico era molto lineare: mi faceva pervenire il denaro in contanti in Italia e io compensavo la rimessa accreditandogli l'importo equivalente sui conti svizzeri secondo le sue indicazioni.» Posso chiederle che tipo di denaro? «Denaro che mi veniva versato all'estero per la mia attività professionale in diversi paesi e che io facevo trasferire attraverso l'avvocato Pacifico in Italia, in base alle mie esigenze di spese. » Come avvenivano questi movimenti? «Sempre allo stesso modo. Pacifico mi diceva di inviare gli accrediti all'attenzione del dirigente di banca suo fiduciario. Le somme entravano quindi nella disponibilità dell'avvocato Pacifico che le utilizzava e le smistava, anche mediante compensazioni, in base alle esigenze della sua attività di gestore
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di capitali per conto di molti clienti. Così è avvenuto per i miei versamenti a Pacifico presso la Società Bancaria Ticinese
dove mi sono sempre limitato a indicare come referente il signor Dionigi Resinelli, che non conosco, in conformità alle indicazioni ricevute dallo stesso avvocato Pacifico. Nel marzo '91 io ho trasferito a Pacifico, estero su estero e attraverso Resinelli, cinquecento milioni di cui avevo bisogno in Italia e lui è venuto a consegnarmi l'equivalente a Roma nel mio studio. Così si realizzava l'operazione trasferimento da me verso Pacifico in Svizzera e da questi a me, in Italia.»
«Una compensazionefatta a mia insaputa"
E Squillante? «Naturalmente non mi passava neppure per l'anticamera del cervello di pensare a Squillante e ai suoi possibili conti all'estero e, ancor di più, di immaginare che avesse un conto nella stessa banca di Pacifico, né che Pacifico gestisse, tra i tanti, anche conti di magistrati e un conto di Squillante.» Né Squillante né Pacifico glielo avevano mai detto? «Non vedo perché avrebbero dovuto dirlo proprio a me.» Lei lo ha scoperto dopo l'arresto di Squillante? «Ovviamente sì.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Lei giocava a calcetto con Squillante, aveva un rapporto fiduciario con Pacifico e non sapeva niente? «è così. Guardi che al di là delle partite di calcetto, io non frequentavo il dottor Squillante. Quanto all'avvocato Pacifico, non era certo tenuto a raccontare a me quali erano i suoi clienti. Soltanto da poco sono venuto a sapere che gestiva i conti anche di magistrati romani come Filippo Verde e Antonino Vinci.» Torniamo al suo versamento. Come arriva sul conto di Squillante? «è semplice: Pacifico doveva accreditare dei fondi a Squillante nell'ambito di loro rapporti. Rapporti, sottolineo, assolutamente loro. Avendo ricevuto da me cinquecento milioni, ha operato, attraverso Resinelli, una compensazione diretta, naturalmente e logicamente a totale mia insaputa, nell'ambito dei suoi normali rapporti bancari e alle sue evidenti convenienze. Infatti non era logico spostare una somma dalla Svizzera all'ltalia e un'altra, all'inverso, dall'Italia alla Svizzera. Il risultato è stato che io ho avuto i miei soldi in Italia e Squillante i suoi in Svizzera. Una classica operazione di compensazione.» Converrà, onorevole, che non ci crede nessuno. «Non ci crede chi non vuole crederci. Ma è la pura verità che del resto ritengo di poter assolutamente provare.» Scusi, non è per mancanza di fiducia. Lei dice di poterlo provare? «Certo: basta che i magistrati lo chiedano all'avvocato Paci-
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fico, al dottor Squillante e al signor Resinelli. Se a Resinelli l'ordine di versare sul conto di Squillante è venuto da Pacifico, questa è già una prova. Ma per quanto mi riguarda, io ho raccolto la documentazione per dimostrare come ho speso quei 500 milioni. Ho reperito, nel mio archivio, la documentazione per almeno 380 milioni. Queste spese, per contanti e con ricevuta, sono state effettuate nei giorni immediatamente successivi all'arrivo dall'estero del denaro. Poiché, in quegli stessi giorni, non ho fatto alcun prelevamento dai conti italiani, questo prova in modo assolutamente certo che quel denaro speso non può essere che quello che ho prelevato dalle mie disponibilità estere e ricevuto in Italia tramite l'avvocato Pacifico." Non l'aiuta, tuttavia, il fatto che sul conto di Squillante fossero stati versati nel corso di una decina d'anni nove miliardi. «Come non mi aiuta? Che c'entro io con i depositi del dottor Squillante? Non so nulla delle disponibilità di Squillante, so solo quello che ho letto sulle carte processuali. Ripeto: io non ho dato una lira né direttamente, né attraverso l'avvocato Pacifico, né al dottor Squillante, né ad alcun altro magistrato. Ribadisco: la gestione da parte dell'avvocato Pacifico di conti del dottor Squillante è una vicenda a me sconosciuta e che non mi riguardava nel modo più assoluto.» Quindi i cinquecento milioni contestati a lei sarebbero stati versati in Italia da Squillante a Pacifico che doveva trasferirli all'estero e che invece utilizzò, sempre in Italia per ver-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE sarli a lei. E questo sia Squillante che Resinelli e Pacifico possono confermarlo? «Su questo non ho il minimo dubbio. Non ho parlato con nessuno di loro, ma ne sono certo. Ho chiesto ai magistrati di sentirli, come le ho detto, e posso provare di aver ricevuto quei cinquecento milioni in contanti, proprio negli stessi giorni in Italia. Che posso chiarire di più? Più che provare la natura dei miei rapporti con l'avvocato Pacifico e la ricezione del denaro in Italia con la documentazione dell'awenuta spesa, che posso fare? Tuttavia c'è poi un altro discorso indiretto...» Indiretto? «Certo. è un dato di fatto che sono sempre in attesa che i magistrati di Milano contestino le ragioni, le causali che sarebbero alla base di quel versamento. Io non ho mai avuto rapporti professionali con il dott. Squillante [l'avvocato Prèviti si è sempre occupato di diritto civile, Squillante ha fatto sempre il magistrato penale]. I miei clienti non ne hanno avuti. Io ho dato una spiegazione esauriente. I magistrati devono dimostrare il contrario. Altrimenti è difficile difendersi in assenza di un fatto specifico a cui si riferisca la corruzione che si pretende sia avvenuta.» Poi ci sono i conti in Italia. In varie banche lei ha versato complessivamente diciassette miliardi e mezzo e ne ha prelevati quattro e mezzo in contanti? «Così è stato scritto. Non sono ancora in possesso della documentazione bancaria, ma se è stato scritto così, è possibile
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che sia vero. I movimenti dei conti riguardano un periodo di ben dieci anni.» Posso fare una banale osservazione del cittadino comune? Questo traffico di soldi in contanti non è una violazione costante delle leggi valutarie? «No, la legge che proibiva questo tipo di operazioni è stata abrogata da quasi dieci anni. Oggi avere un conto in Svizzera è consentito.» Già, ma lei avrebbe potuto dire alla sua banca svizzera di accreditarle i soldi sul conto italiano senza disturbare Pacifico. Lei invece versava ogni volta diciannove milioni e mezzo per star fuori delle segnalazioni e dalle tasse... «Le segnalazioni bancarie sono un residuato della legislazione antiterrorismo. Per quanto mi riguarda, ho regolarizzato attraverso i condoni la mia posizione con il fisco. La cosa importante è un'altra. è vero che i soldi in entrata sono molti, ma sono molti anche i soldi in uscita. Io tutto quello che ho ricevuto l'ho speso e non ho fatto nessun versamento per corrompere nessuno. Quando i procuratori di Milano hanno interrogato la mia collaboratrice che si occupa di amministrazione, lei ha confermato che ci è possibile documentare praticamente tutto, anche se, in assenza di specifiche contestazioni, non spetta a noi l'onere della prova.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Prestazioni all'estero per il gruppo Fininvest.
L'indagine di Milano nei suoi confronti parte da Stefania Ariosto. L'Ariosto disse che lei poteva disporre di «fondi illimitati» messi a disposizione da Silvio Berlusconi per corrompere magistrati romani, attraverso Renato Squillante. Per un anno e mezzo, dal marzo del 1996 all'ottobre 1997, è stata dimostrata soltanto la rilevante disponibilità di denaro in Svizzera di Renato Squillante (i figli del magistrato, Mariano e Fabio, corrispondenti della Rai da Londra e della «Stampa» da Bruxelles, sono stati accusati dai magistrati di aver aiutato il padre nella gestione di denaro di provenienza illecita. Dopo alcuni mesi di riflessione, si sono costituiti a Milano il 14 ottohre 1997 e hanno ridimensionato il loro coinvolgimento nell'interrogatorio del 17). Lei, onorevole Prèviti, nega che i cinquecento milioni di cui abbiamo parlato poco fa sìano un suo versamento a Squillante. Non sono stati trovati, allo stato, versamenti di Squillante a magistrati... «...Non è stato trovato, e tanto meno provato, nulla di nulla. La cosa fondamentale è che non è stato fatto il nome di un solo magistrato che abbia avuto soldi dal dottor Squillante e tanto meno da me o, per mio tramite, da altri. Né potrà mai essere trovato o provato per la semplice ragione che il fatto non sussiste.» Esistono versamenti compiuti all'estero in suo favore collegabili al Gruppo Fininvest? «Certamente e anche per importi rilevanti.»
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Posso chiederle quanto rilevanti? «Per le numerose prestazioni professionali effettuate, estero su estero e lungo l'arco di molti anni, credo che le mie competenze siano ammontate a oltre tredici miliardi di lire. Ho diretto, sovrinteso e coordinato tutte le questioni legali inerenti ai rapporti del gruppo con la Francia (La Cinq), la Spagna (Telcinco), la Germania (Telefunf) e gli Stati Uniti (MGM). La cifra di riferimento per il calcolo degli onorari professionali, solo in Europa, è superiore ai mille miliardi. A questi deve aggiungersi un'azione di recupero di 160 miliardi dalla MGM-Credit Lyonnais andata a buon fine. Nell'espletamento di queste attività ho intrattenuto rapporti economici e contatti operativi con una infinità di soggetti diversi e con molti studi professionali. Credo che altri avvocati avrebbero richiesto onorari ben più elevati. Si tratta quindi di compensi esteri per attività svolte all'estero, per conto di società estere che operavano nel circuito Fininvest. Per conto dei miei clienti all'estero ho anche svolto il ruolo del mandatario e del tesoriere, specialmente per i rapporti con avvocati stranieri. I procuratori di Milano le hanno mai mosso una contestazione precisa a proposito dei suoi rapporti finanziari con Berlusconi e con la Fininvest? «No, nell'interrogatorio del 23 settembre 1997 i nomi del presidente Berlusconi e della Fininvest non sono mai stati fatti. Vede, quella del 23 settembre fu una mia presentazione
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE spontanea. Fu decisa dopo che la Camera ebbe restituito al mittente la richiesta d'arresto della Procura, richiesta che aveva bisogno dell'avallo del giudice per le indagini preliminari. Mi sono presentato ai pm spontaneamente dietro suggerimento dei colleghi del Polo ai quali andavo spiegando le mie ragioni. Mi dicevano: se le cose sono queste, devi andare a raccontargliele. Un atto di sottomissione in fondo non guasta... Io rispondevo: guardate che è inutile, contro di me è in atto una vera persecuzione. è una inchiesta ad explorandum, alla continua ricerca, contro ogni regola, di qualcosa che possa rendere credibile la mostruosa calunnia che è stata costruita contro di me. Alla fine, tuttavia, sono andato. Il 23 settembre i procuratori si sono trovati in imbarazzo, mi hanno rivolto poche contestazioni di scarsa rilevanza, riportandosi alla documentazione trasmessa in Parlamento. Tutto questo risulta chiaramente dal mio interrogatorio. E non le hanno parlato di Berlusconi. "No, nessun cenno né al dottor Berlusconi né ai "fondi illimitati" che mi sarebbero stati messi a disposizione presso l'Efibanca. Cosa naturalmente risultata assolutamente falsa. Io mi sono reso disponibile per rispondere a qualunque contestazione, ma nessuno mi ha accusato di aver corrotto qualcuno, in che modo, per quale motivo e in quale circostanza. Chi, perché, come e quando. Sarei anche disposto a una sorta di prova negativa, per ritornare ai cinquecento milioni di Squillante. Non è vero che li ho dati, ho ricevuto soldi miei e
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li ho spesi in direzioni documentate. Anche per le restanti somme ritirate in contanti, sono in grado di documentare la destinazione di spesa. Nessuna corruzione quindi, ma affari privati, corretti, regolari che sarebbero dovuti rimanere riservati, almeno sino alle mie spiegazioni. Ripeto: nessuna attività di corruzione, nessun corruttore, nessun corrotto. Solo introiti e spese private, operazioni assolutamente lecite, che avrebbero dovuto restare private e totalmente riservate.»
«A chi ho dato diciannove miliardi" .
Veniamo ora alla questione Imi-Sir per cui lei ha ricevuto dalla famiglia Rovelli una somma di ventuno miliardi. «Nell'interrogatorio milanese del 23 settembre ho ricostruito questa storia nei dettagli. Alla fine deg]i anni Settanta ci fu un'aggressione della magistratura romana nei confronti dell'ingegner Nino Rovelli e del suo gruppo chimico Sir. Un'aggressione che coinvolse i presidenti delle maggiori banche italiane e che toccò i vertici della Banca d'ltalia accusati di aver agevolato Rovelli nei percorsi di certi finanziamenti. Il direttore generale Mario Sarcinelli [attuale presidente della Bnl finì in carcere per diciassette giorni e il governatore Paolo Baffi fu inquisito pesantemente. Rovelli divenne presto il demonio, come lo sono diventato io in questa storia. Fu inseguito in mezzo
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE mondo dai mandati di cattura internazionali e la sua azienda andò distrutta: valeva qualcosa come diecimila miliardi. Io ho assistito il presidente dell'epoca di Bnl e Efibanca per gli aspetti civilistici, insieme con il professor Flick [attuale miilistro della Giustizia], presente per gli aspetti penalistici. Dopo lunga persecuzione, sia i presidenti di banche sia Rovelli vennero prosciolti da ogni accusa. Mi piace sottolineare che in quella occasione il mio ruolo di civilista con una rilevante esperienza in diritto bancario fu importante, forse determinante. Per questo anche Rovelli mi fu molto grato e prese a utilizzare le mie competenze professionali per i suoi affari esteri. » Torniamo a Imi-Sir. «Con il recupero della sua libertà Rovelli aprì un dialogo con l'Imi per riprendere l'attività produttiva, si creò un consorzio, vennero sottoscritti dei patti rispettati da Rovelli e non dall'Imi che si nascose dietro un dito sostenendo che chi aveva firmato le carte non aveva poteri per farlo. Nacque la causa che alla fine venne vinta da Rovelli con un risarcimento di cinquecento miliardi, che si raddoppiarono per gli interessi, e che è molto inferiore al danno subito.» Alla fine, però, i Rovelli vinsero la causa per una procura sparita. «Quella procura non fu mai allegata agli atti. E io sono convinto che se la procura fosse stata regolarmente depositata, alla fine - visti i fatti e i misfatti che mi sono stati raccontati successivamente - si sarebbe trovato il modo di non far
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vincere ai Rovelli quella causa o di costringerli a una transazione perché c'era la potenza dell'Imi e dell'intero sistema bancario contro una sola famiglia che chiedeva giustizia.» Nino Rovelli le affida un mandato fiduciario: la incarica, cioè, di onorare debiti con alcune persone. Quando avviene questo? «A metà del 1990. Rovelli muore alla fine di quell'anno e dice ai figli che debbono onorare gli impegni che lui mi ha chiesto di rispettare. Il figlio di Nino Rovelli, Felice, mi informa di questa decisione del padre e mi dice di aspettare l'esito della causa per il saldo.» (Felice Rovelli e la madre rivelarono ai magistrati l'esistenza di questo mandato. Felice fu arrestato negli Stati Uniti ed estradato in Italia dove giace in prigione senza essere neppure stato interrogato dai pm.) Mi scusi, onorevole. Se Nino Rovelli le affida un mandato a metà del '90, prima dell'esito definitivo della causa che è dell'inizio del novembre '90, evidentemente dispone anche dei soldi per onorarlo. Perché il figlio Felice aspetta di incassare il risarcimento per saldarla? «Io non sono mai entrato nel merito di questa vicenda che, le confesso, non era nemmeno in cima ai miei pensieri. Aspettavo che si facessero vivi loro.» E quando si fecero vivi? «Dopo la vittoria in Cassazione. Ma Felice mi disse nuovamente di aspettare l'incasso del risarcimento per provvedere.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE All'inizio del '94 mi richiamò dicendo di essere pronto.» E lei provvide. «Io feci verificare attraverso le banche che i nominativi che avevo avuto da Nino Rovelli fossero corretti, che le persone fossero vive e provvide.» Posso chiederle chi sono i beneficiari dei ventuno miliardi? «Dei diciannove, perché due sono una mia parcella. Dieci miliardi sono andati a tre avvocati stranieri di cui sono tenuto a non fare il nome per il dovere del riserbo professionale, ma che sono conosciuti dai magistrati di Milano. Nove sono stati versati a una società, la Codava. Soltanto da poco ho scoperto che faceva capo ad Attilio Pacifico.» Pacifico? Ma lui non ha avuto trentatré miliardi di suo dai Rovelli? Nonostante i vostri rapporti così stretti, lei non sapeva che la Codava era sua? «I miei rapporti erano stretti sul piano dell'amicizia personale, ma non su quello professionale dove l'unico punto di contatto era quello relativo al trasferimento di denaro dalla Svizzera all'Italia e talvolta viceversa." E perché Rovelli non ha dato quei soldi direttamente a Pacifico? «è quel che mi chiedo anch'io. Non conoscevo quali fossero i rapporti di Pacifico e di Acampora con Rovelli.» (Giovanni Acampora ricevette dagli eredi Rovelli tredici miliardi. Complessivamente Pacifico, Prèviti e Acampora ebbero sessantasette miliardi, pari al dieci per cento dei 678 miliardi del risarcimento Imi, al netto del-
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le tasse. Altri 33 miliardi furono versati dai Rovelli in vie ufficiali agli avvocati Are e Giorgianni per la loro lunga assistenzn professionale al finanziere.)
Battaglia sui debiti di Stefania Ariosto.
I procuratori di Milano hanno una profonda gratitudine per Stefania Ariosto perché fu lei a fare per prima il nome dell'avvocato Pacifico, fino a quel momento sconosciuto e certamente personaggio centrale dell'inchiesta. Ma l'Ariosto disse anche che Previti aveva dato del denaro in contanti a Squillante (una volta in casa dell'avvocato, un'altra al Circolo Canottieri Lazio). E l'ex ministro ha sempre smentito con indignazione queste circostanze. Quando il difensore di Squillante, Gaetano Pecorella, la interroga davanti al Gip e ai pubblici ministeri a fine maggio del '96, insieme con il difen-
sore di Previti, Grazia Volo, per venti minuti l'Ariosto sfoglia le sue famose agende del 1987 e del 1988, ma non riesce a risalire alla data della cena fatale in casa Previti. Non ricorda se fosse estate o inverno, né chi le sedeva accanto. «I procuratori di Milano» accusa Previti «hanno elevato un confidente bugiardo come l'Ariosto al rango di testimone. Ma l'Ariosto ha mentito su tutto. Non ne ha azzeccata una nem-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE meno per sbaglio. Non è mai stata a casa mia, nessuno l'ha mai vista ai Canottieri Lazio. E credo che questo ormai sia emerso con chiarezza. Bisogna allora chiedersi come nasce questo personaggio. Lei nasce certamente portando sulle spalle una situazione giudiziaria pesantissima per una serie di contestazioni molto gravi, dalla bancarotta fraudolenta al falso, dalla falsa testimonianza alla truffa in danno di una assicurazione Badi che le dico quel poco che ho letto sui giornali, visto che una indagine approfondita su questo punto non è stata mai possibile. Nasce poi con una situazione debitoria pesantissima per alcuni miliardi. Come li paga? Con la vendita di imprecisati gioielli di famiglia come dice nel corso dell'incidente probatorio? «La verità potrebbe emergere solo se un magistrato, in vena di fare il suo dovere, facesse una semplice indagine patrimoniale sui conti di questa donna. Io sono vittima di terrificanti indagini a tappeto su tutta la mia vita professionale e privata con centinaia di rogatorie e costanti messe in piazza dei fatti miei più riservati e derivati da una intensa attività di lavoro cui ho dedicato tutta la vita, mentre chi mi ha calunniato, non solo può continuare indisturbata nella sua opera, ma non è chiamata neppure a rendere conto dell'improvvisa sistemazione dei suoi gravissimi problemi giudiziari ed economici, in coincidenza con l'aver iniziato a raccontare le bugie all'origine di quest'indagine.» La difesa di Previti e di Squillante ha sempre molto insistito
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
sulla difficile situazione economica dell'Ariosto, sospettando - come traspare dalle parole dell'ex ministro - che la teste sia stata aiutata a sistemare almeno in parte i suoi conti. Nell'incidente probatorio del 25 maggio '96, davanti al giudice delle indagini preliminari di Milano, l'Ariosto dichiara che nel luglio del '94 i suoi debiti ammontavano complessivamente a due miliardi e novecento milioni. L'Ariosto ha avuto una vita assai avventurosa e per anni è andata tutti i giorni a giocare al casinò di Campione, perdendo somme rilevanti e cumulando debiti per un miliardo e mezzo con i «cambisti, cioè con professionisti del denaro che lo prestano a giocatori in bolletta. Poiché il gioco oltre un certo limite diventa una droga, i «cambisti» assomigliano molto agli spacciatori. Durante il controinterrogatorio condotto con una calma glaciale dall'avvocato Gaetano Pecorella, viene ricordata alla teste una sua dichiarazione secondo cui una parte del debito sarebbe stata estinta con la vendita di gioielli di famiglia. Quando Pecorella chiede a chi la signora abbia venduto i gioielli, in aula scoppia il pandemonio. L'Ariosto dice di sentirsi violentata nel suo privato, il pubblico ministero Davigo sostiene che nessuno può essere costretto a raccontare la sua vita se la cosa non ha rilevanza penale. Ilda Boccassini gli dà manforte con la sua voce energica e indignata, Davigo dice di non aver mai visto un interrogatorio così duro, il Gip Alessandro Rossato dice che in effetti ci sarebbe il problema dell'attendibilità del teste, ma insomma alla fine i
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE pubblici ministeri si oppongono e la domanda di Pecorella viene ritirata. L'episodio, pure abbastanza marginale all'interno del monumentale incidente probatorio, mi colpisce. E quando un anno dopo chiedo per inciso a Davigo come mai lui e la Boccassini si siano battuti all'arma bianca sulla storia dei gioielli, per la prima volta in tanti anni mi pare di scorgere un velo d'imbarazzo sul volto di Davigo. Ma forse mi sbaglio, visto che Davigo, anche nei momenti di maggiore disponibilità, non lascia al dubbio il minimo spazio. «L'Ariosto» dice Previti «sostiene di essere stata avvicinata nel '91 da due ufficiali della Guardia di Finanza che le avrebbero promesso una specie di impunità fiscale in cambio di informazioni sui famosi libretti al portatore di Silvio Berlusconi sui quali allora nessuno sapeva niente? Qui i casi sono due. O la Ariosto, per una volta, ha detto la verità e allora si tratta di attività spionistica perché la Guardia di Finanza parla con la Ariosto di fatti non ancora emersi in sede giudiziaria. O ha mentito, come sostengono i finanzieri, e allora non si capisce perché non venga perseguita. (L'Ariosto parlò di una persecuzione della Guardia di Finanza ai suoi danni, con molti avvisi di gnranzia, decine di pagine di verbali e un accertamento di due miliardi e 700 1nilioni da pagare.) Previti e sua moglie hanno denunciato fin dalla prima metà del '96 l'Ariosto per calunnia, ma i processi sono stati congelati dalla Procura di Milano in attesa che si definisca quello principale ai danni dell'ex ministro. (All'inizio dell'ot-
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tobre '97 il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Alfredo Robleto, ha chiesto l'archiviazione della denunciá per calunnia di Previti contro la Ariosto. Robleto mi spiega cortesemente due cose. La prima: la richiesta è stata fatta seguendo una giurisprudenza costante della Procura milanese La seconda: prima di stabilire se un teste ha calunniato l'in dagato, occorre accertare se abbia detto o no la verità nel processo principale. «Questo si fami dice Robleto «per evitare che due magistrati si occupino parallelamente dello stesso caso.» Alla fine del processo principale che vede Previti indagato, se le accuse risulteranno infondate, il pubblico ministero richiamerà la denuncia archiviata dall'ufficio del Gip e valuterà se procedere contro la Ariosto. Si può osservare che l'inconveniente di questa procedura sta nel far attendere anni al calunniato, se riconosciuto tale, prima di ottenere giustizia. Bisogna infatti aspettare il verdetto della Cassazione. In altre città si segue una procedura diversa: le due inchieste si svolgono parallelamente e per evitare duplicazioni vengono spesso affidate allo stesso magistrato.
Priore si rivolge al Servizio pentiti
Ma Previti sostiene di non capire per quali ragioni non sìa-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE no andati avanti i procedimenti che interessano altre persone «Siffatta procedura è semplicemente illegale. Sembra che i procedimenti per calunnia e falsa testimonianza contro la Ariosto, siano più di venti. Esistono delle archiviazioni a favore di alcuni calunniati, perché quindi non si procede7 «Prenda il caso di Vittorio Mele, l'attuale procuratore generale della Corte d'Appello di Roma. L'Ariosto l'accusa in sostanza non solo di essere in busta paga di Previti ma anche di essersi lasciato corrompere da Marcello Dell'Utri, amico di Berlusconi, con un quadro che sostiene avergli visto alle spalle. Ma dice il falso. Se ne accorge. Rettifica solo sul quadro. Il procedimento contro Mele viene archiviato. L'Ariosto deve rispondere di calunnia o di falsa testimonianza, ma non succede niente. E perché un magistrato come Rosario Priore, anche lui calunniato dall'Ariosto a proposito del viaggio in America con Craxi e indicato come in busta paga di Previti, non perseguito per alcuno di tali reati, ma diffamato da questa donna, deve vedere la sua denuncia per calunnia derubricata a false informazioni al pm e mandata in Pretura? «Gli esempi sono tantissimi e il risultato è sempre lo stesso: l'Ariosto non solo è immunizzata per le sue malefatte, ma ancora di più lo è per le sue bugie.» Rosario Priore è il giudice istruttore dei misteri italiani: dal caso Moro a Ustica, dall'attentato al Papa alla scomparsa di Emanuela Orlandi. (è lui che trovò vuoto il fascicolo dell'«operazione Panters», predisposta dal ministro dell'Interno Fran-
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cesco Cossiga dieci giorni dopo il sequestro Moro e per la cui soppressione nella seconda metà dell'ottobre '97 Giulio Andreotti è stato indagato dalla Procura di Roma.) Nella primavera del '96 decide di promuovere due azioni contro Stefania Ariosto. «La prima» mi racconta «è una denuncia per calunnia che la Procura milanese derubrica in false comunicazioni al pubblico ministero e trasferisce in pretura da dove in un anno e mezzo non ho saputo niente. La seconda è una citazione civile. La cosa buffa è che per me la seconda udienza è prevista al tribunale di Roma ventisei mesi dopo l'apertura della causa, mentre l'Ariosto, che mi ha controcitato, l'ha avuta in dieci mesi dal tribunale di Milano.» Per Priore il problema si pone quando deve notificare l'atto di citazione all'Ariosto. Dove abita la signora? Su richiesta del magistrato romano, l'avvocato Giuseppe Zupo chiede all'Anagrafe di Milano il rilascio del certificato che consenta di conoscere il nuovo indirizzo. Ma al suo corrispondente milanese, l'avvocato Remo Vitelli, gli impiegati dell'Anagrafe rispondono che non possono rilasciarlo per «ordine della magistratura». Zupo ritiene che questo ordine sia legittimo soltanto sulla base di due leggi del '91 e del '93 che tutelano i pentiti. Fa notificare allora la citazione al Servizio cenrrale di protezione, presso la direzione centrale della Criminalpol. «Lì,» mi racconta Priore «l'atto venne regolarmente accettato. E io non me ne meravigliai perché avevo letto che la si-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE gnora aveva debiti per circa tre miliardi e che la sua situazione era particolarmente curata dalla Guardia di Finanza.a pochi giorni dopo, il «servizio pentitirestituisce al mittente la citazione. Se l'Ariosto non è gestita dalla polizia, dice Zupo, l'Anagrafe di Milano non può trincerarsi dietro nessun ordine della magistratura. Parte una nuova richiesta senza alternative: o mi date il certificato, dice l'avvocato di Priore o mettete per iscritto quale magistrato e perché vi impediscé di rilasciarlo. Il certificato arriva. Torniamo a Previti. Gli chiedo se può spiegarmi la natura dei suoi rapporti con Pacini Battaglia. «Lo conosco da più di vent'anni e ho cominciato a frequentarlo più assiduamente da quando ha comprato una villa all'Argentario da Susanna Agnelli. Io ne ho una poco lontana. Da un punto di vista professionale gli ho affidato nel '95 un paio di operazioni finanziarie con la Svizzera del genere di quelle fatte con Pacifico. Con un vantaggio: Pacifico chiedeva una commissione, Pacini me le ha fatte gratis." Un'ultima questione. Lei è stato ministro della Difesa ed è stato sul punto di diventare ministro della Giustizia. Non pensava che tutti questi movimenti finanziari con l'estero avrebbero potuto metterla in imbarazzo? «Francamente no. Per due ragioni. Da un punto di vista fiscale c'era stato il condono. Ma da un punto di vista, diciamo così, deontologico, credo che non esista un avvocato del mio livello che non abbia avuto rapporti finanziari con l'estero.
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Tenga conto che io soltanto negli ultimi anni ho cominciato a svolgere la mia attività professionale prevalentemente in Italia. Ma prima stavo ogni mese a New York e a Rio de Janeiro in un'attività professionale tanto frenetica quanto ricca di soddisfazioni. » Mentre un esercito di efficientissimi collaboratori di Cesare Previti fotocopia migliaia di atti da inviare ai parlamentari d'ogni partito esperti del ramo, a un chilometro da qui, nel palazzo di Montecitorio, autorevoli esponenti del Pds si chiedono - indipendentemente dalle valutazioni di merito - se non sia un precedente pericoloso far arrestare un deputato dell'opposizione con un voto della sola maggioranza.
XVI
Il tamburo di latta
Una sera, un fantasma
Com'erano stati bravi i truccatori. Fosse stato un film, il fantasma sbucato dall'auto nella notte invernale di piazza Ca-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE vour avrebbe richiesto ore di lavoro e di pazienza: prima il cerone chiaro per il pallore, poi il fondotinta scuro per scavare le guance, infine il lattice per segnare le rughe. Solo quando il fantasma sorrise, capimmo che non si stava girando un film. L'espressione, dolorosa e intimidita anche nel sorriso, era quella di Lorenzo Necci. Manager prodigio dell'industria italiana, signore delle Ferrovie con sette governi d'ogni colore e presidente dell'associazione mondiale del ramo, amico un tempo di Ugo La Malfa e negli ultimi anni di Berlusconi, D'Alema e Maccanico, riserva d'oro della repubblica, sopravvissuto ai cicloni dell'Eni e della chimica, stroncato da una intercettazione ambientale nello studio di Pierfrancesco Pacini Battaglia. Il fantasma di Necci veniva da quarantanove giorni di cella a La Spezia e diciotto giorni di arresti domiciliari in Liguria. Tutti gli avevano chiesto un'intervista e lui aveva scelto «Porta a porta», all'inizio del gennaio '97. Avrebbe risposto sui punti più scottanti: i prestiti di Pacini Battaglia e le accuse di Sergio Cragnotti sulle tangenti della chimica, il carcere e alcune amicizie discutibili e infatti discusse. All'ultimo istante i suoi avvocati gli chiesero di tacere: era in attesa di giudizio il ricorso in Cassazione per annullare l'accusa di associazione per delinquere e l'ordine di carcera zione. Consigliavano prudenza. Rinviammo l'appuntamento a questo libro. E nell'estate ritrovo un uomo che assomiglia molto al Necci di prima: gli
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occhi celesti che sanno diventare di ghiaccio, i gesti eleganti e cortesi, che diventano lenti e sobriamente sacerdotali nella preparazione del «martini». «Sa dove ho imparato? A Bruxelles, tanto tempo fa. Avevo ventisei anni, ero come si dice un giovanotto brillante, lavoravo per un'azienda belga, la Sofinal. Conobbi un inglese che operava in Belgio per una società americana. Preparava splendidi cocktail, prendeva il ghiaccio con le mani, cenava con cinque "martini" e parlava di Barbra per notti intere.» Barbra? «Barbra era sua moglie, più giovane di vent'anni, se ne era andata alle Baleari per dipingere. Lui lavorava per mantenerla a Ibiza, ma la vedeva una sola volta all'anno Questi erano i patti. Ne parlava ogni giorno, ogni notte. Barbra... Era la metà degli anni Sessanta, cominciavano a volare regolarmente i primi jet. Cominciava a pendere forma allora la nuova economia mondiale. Io l'ho vista nascere.»
«Conosce il giardiniere appassionato?»
Necci va a sedersi su un divano. Tiene il «martini» nella mano destra, prende con la sinistra un libro di Adelphi con la copertina azzurra. «Conosce Il giardiniere appassionato?» Sfoglia il bel saggio di Rudolf Borchardt, scritto in Italia poco prima che la guerra distruggesse i giardini d'Europa.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Il giardino» dice Necci «è la ricerca di qualcosa che l'uomo ha perduto, la ricerca di un nuovo rapporto con la natura, il tentativo di ricomporre intorno a sé un'armonia fittizia." Fittizia? «Certo, perché nella costruzione del giardino la natura viene forzata, l'armonia è fittizia perché decisa dalI uomo secondo la sua cultura. Una cultura diversissima tra Oriente e Occidente. Gli orientali tendono a una visione mistica e bloccata. Nei loro giardini di sabbia e di roccia c'è lo spirito divino. Il nostro giardino è fatto di eleganza e di fiori. Il giardino di piante cambia con le stagioni, il giardino di fiori cambia ogni momento.
Mentre Necci parla, s'intuisce che il suo cervello è da un'altra parte. è approdato a Marina Velca, vicino Tarquinia, all'amatissima villa di campagna dove riuniva ogni domenica il clan familiare e qualche amico di passaggio, in un giardino costruito «con un gioco intellettuale, inserendo nei rigidi schemi orientali la cultura occidentale del cambiamento e dei fiori. Un giardino in cui le piante povere come i cavoli e i cardi sono di una bellezza incredibile». Fu lì, in quel giardino amatissimo, che domenica 15 settembre 1996 accadde tutto. «Alle tre del pomeriggio, stavamo ancora a tavola in giardino, quando arrivarono una decina di persone in borghese, sconosciute. Non so nemmeno come fossero entrate. Mi mostrarono un ordine di perquisizione, qualificandosi come fi-
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nanzieri, e rovistarono ovunque per molte ore. Raccolsero trecento reperti d'ogni genere. Avevo quasi completato un libro e presero il manoscritto. "Così la conosceremo meglio" dissero. Presero lettere d'ogni genere, qualunque carta in cui fosse nominato un uomo politico appena noto, fotografie, conti da pagare. Non capii a che cosa servissero. Quando pensai che avessero finito, mi dissero che dovevamo andare a Roma per un'altra perquisizione. Risposi che avevo un impegno e non potevo seguirli, avrei mandato qualcuno ad assisterli. Fu a quel punto che dissero: dobbiamo arrestarla. «Restammo tutti sconvolti. Chiesi di poter parlare con il mio awocato di Milano, il professor Federico Stella. Non me lo consentirono. L'atteggiamento di palese ostilità verso quel mio difensore fu la prima cosa che mi colpì. A tavola con noi c'era l'avvocato Paola Balducci. La nominai mio difensore, ma non le fecero leggere l'ordine di custodia cautelare. «Mi portarono in carcere a La Spezia e non capivo che cosa c'entrasse La Spezia. Durante il trasferimento, mi rifiutai anche di leggere le ragioni per cui il giudice m'arrestava. Pensai che si trattasse di una montatura scandalistica per farmi fuori dalle Ferrovie e dalla politica. Non riuscii nemmeno a preoccuparmi troppo. «Quando subito dopo l'arrivo in carcere mi presero le impronte digitali, mi sembrò d'interpretare un film sull'Inquisizione. Mi portarono in una cella singola di qualche metro
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE quadrato. Era ormai notte e quando chiesi di poter spegnere la luce mi dissero che non era possibile. Restò accesa per tutti i quarantanove giorni della mia detenzione. Montarono di servizio quattro guardie di una squadra speciale mandata da Roma. Ogni sei ore si davano il cambio. Sedici guardie si occupavano soltanto di me. Entrando avevo contato undici cancelli. Immaginare una fuga sarebbe stato difficile. Mi dissero che la vigilanza serviva alla mia sicurezza. Così fecero per i pasti. Non mi consentirono di comprare niente da fuori, come usa in carcere. Dopo qualche giorno in cui mangiavo il VittO del carcere, mi portarono un pasto speciale. Abbiamo paura che qualcuno l'avveleni, mi dissero. Chiesi perché. Non mi risposero. Era un sottile gioco psicologico. D'altra parte, durante la detenzione un giorno trovai in cella una cinta... «Preparando la roba per il carcere, avevo dimenticato i libri. Appena entrato ne chiesi uno in prestito. Fui fortunato, mi portarono il Tamhuro di latta di Gunther Grass. Dopo un po' cominciai a scrivere. Accanto al Giardiniere appassio1lato compare una dozzina di quaderni d'ogni tipo scritti a mano. Saggi, poesie, favole, appunti sulla detenzione. In tutto duemila pagine.
«Ammetti qualcosn, così esci...
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«Scrivevo dalle nove del mattino alle nove di sera, dopo i primi giorni spesi soltanto a dormire. Ero lontanissimo dalla realtà. Quando venivano i miei a trovarmi, ero quasi infastidito di dover tornare sulla terra. Anche quando mi scarcerarono..." Necci mi allunga alcuni fogli quadrettati e sciolti. La calligrafia era ordinata e poco decifrabile al tempo stesso, la p e la r erano laureate, altre lettere s'erano fermate alle elementari. Non a caso, nella storia singolarissima di quest'uomo nato a Fiuggi da una famiglia di ferrovieri e arrivato giovanissimo al successo. «Lorenzo» mi raccontò un suo compagno di scuola «prese la licenza elementare dopo aver saltato la prima, la seconda e la quinta. Completò gli studi regolarmente e si laureò in legge in tre anni. A scuola veniva messo regolarmente fuori classe per non umiliare i compagni di scuola. Se guardava una pagina di libro per quaranta secondi, la imparava a memoria. Leggeva in tre giorni Ifratelli Karamazoed era in grado di citarne ogni pagina. I suoi esami universitari erano uno spettacolo e talvolta un gioco. All'esame del diritto commerciale il professore gli citava un articolo del codice e lui partiva con l'argomento. Oppure il professore citava l'argomento e Lorenzo l'articolo. Li conosceva tutti, sono più di seicento...» «Eppure non sapevo scrivere» mi dice lui la sera del «martini» e di Barbra. «Cioè scrivevo in stampatello. I professori mi facevano riempire pagine di O, come in prima elementa-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE re. Nell'estate del quinto ginnasio decisi di imparare.» E imparò la calligrafia che ho ritrovato in questi quaderni dal carcere, minuta, modesta, con poca grazia e molta energia. «Nella cella non ebbi mai un tavolino, se non negli ultimi giorni. Scrivevo seduto sul letto. Le guardie per molto tempo restarono in piedi. All'inizio provarono a controllare i miei appunti, poi rinunciarono. Dopo un po' di giorni cominciarono ad appassionarsi alle favole. Qualche volta ci sedevamo tutti insieme sul letto, io leggevo le favole, loro mi ascoltavano. Avevamo ormai un po' di confidenza. Ma all'inizio non riuscivo ad abituarmi alla loro presenza continua, giorno e notte, anche nei momenti più intimi. Non andai in bagno per dieci giorm. » (Diceva Oskar, il protagonista del Tnmbllyo di Inttn ristretto in un manicomio:Il mio infermiere mi osserva di continuo, quasi non mi toglie gli occhi di dosso perché nella porta c'è uno spioncino, e lo sguardo del mio infermiere non può penetrarmi, perché lui ha gli occhi bruni, mentre i miei sono celesti... Ho preso a volergli bene, a questo controllore appostato dietro lo spioncino. Appena mi entra nella stanza, gli racconto vicende della mia vita; così, nonostante lo spioncino che gli è d'ostacolo, impara a conoscermi. Il brav'uomo sembra apprezzare i miei racconti...».) Necci - abbiamo detto - aveva nominato suo difensore l'avvocato Balducci, che era a tavola con la famiglia al momento dell'arresto. Ma per giorni in carcere gli fu impedito di incon-
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trare i suoi difensori. «Non immaginavo che si potesse esercitare una negazione così assoluta della libertà. Mi dissero che i miei avvocati avrebbero potuto non essere neutrali e condizionarmi nelle dichiarazioni "spontanee" al magistrato. Entro cinque giorni un detenuto ha diritto all'interrogatorio di garanzia. Fu quasi allo scadere del tempo che potetti incontrare il professor Stella e l'avvocato Balducci, pochi istanti prima che entrassero i magistrati. Stella mi disse: sono sicuro che non ce l'hanno con te. Era teso e preoccupato. "Io devo rinunciare alla tua difesa, perché qui anch'io forse sono sotto accusa. Per quel che ti riguarda, non sappiamo di che cosa si tratti. Ma in questi casi se si ammette qualcosa, si ottiene prima la libertà." Questa storia che non ero io l'obiettivo principale dell'inchiesta mi era stata già detta e mi fu ripetuta successivamente dall'avvocato Marco Franco, collaboratore dell'avvocato Balducci, al quale le stesse cose erano state riferite nel corso della perquisizione a casa mia a Roma.» Secondo Necci, fu questa la ragione per cui parlò del prestito di Pacini Battaglia, oltre al fatto che ritenne di non aver nulla da nascondere trattandosi di un rapporto esclusivamente personale. «Io avrei potuto dire che non ne sapevo praticamente niente. Ma in quelle condizioni, capisce... Ritenevo che il problema si sarebbe risolto in tempi brevissimi. Mi avevano arrestato per una operazione che non avevo mai fatto. Nell'av-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE vocato Stella avevo - e ho - una grande fiducia, anche se non è chiaro perché abbia lasciato la mia difesa. Quando nel '92 mi rivolsi per la prima volta a lui, finì quel colloquio con una frase che mi colpì molto: "Caro Lorenzo, tu per me sei praticamente indifendibile davanti a dei giudici, perché non hai nulla da dare". A me fin da allora parve di aver dato molto.» Necci fu arrestato con le seguenti imputazioni: peculato, corruzione aggravata, abuso d'ufficio, falso in bilancio, truffa, associazione per delinquere con Pacini Battaglia e il mediatore d'affari Emo Danesi. Un anno più tardi sarebbe rimasta in piedi soltanto l'ipotesi di corruzione. La truffa sarebbe diventata tentata truffa e sarebbe caduta, con l'associazione per delinquere, anche la validità dell'arresto. Durante i nostri incontri Necci è stato sempre reticente nell'approfondire i problemi giudiziari. «Non intendo parlarne» mi dice «perché sono cose che tratto esclusivamente con i giudici e di cui si potrà discutere soltanto dopo le loro decisioni.»
Un manager a disposizione?
Al momento dell'arresto, a Necci venne contestato di essere «destinato a recepire le direttive di Pacini Battaglia e di Danesi in merito all'organizzazione complessiva, anche futura, delle Ferrovie dello Stato e a permettere l'esecuzione materiale di singoli episodi». Il manager in sostanza sarebbe sta-
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to «a disposizione» dei due affaristi. I famosi «venti milioni fissi del mese» di cui si parla nelle intercettazioni di Pacini sarebbero stati il prezzo della corruzione. E il solo episodio concreto che dimostrerebbe la partecipazione di Necci al giro corruttivo sarebbe la tentata vendita alle Ferrovie italiane della società Contship. Questa azienda multinazionale voleva convogliare nel porto di Gioia Tauro il traffico delle grandi navi portacontainer dirette ai porti del Nord Europa, caricando i container sui vagoni ferroviari e facendo risparmiare agli spedizionieri tre giorni di viaggio. Contship voleva insomma trasformare la Calabria nel primo centro intermodale dell'Europa meridionale, con un traffico previsto di cento coppie di treni al giorno. Naturalmente il progetto non era amato dagli altri grandi porti italiani (Genova Voltri, in particolare) e anche da interessi stranieri contrastanti. Nel primo interrogatorio del 18 settembre '96, Necci difese la scelta sostenendo che le Ferrovie avrebbero fatto un affare eccellente acquistando Contship (che sarà venduta a un gruppo straniero a un prezzo molto più elevato di quello richiesto alle Ferrovie). Chiarì che Danesi rappresentava Contship, ma escluse qualunque interessamento in favore suo o di Pacini che lo sosteneva nell'affare il cui fallimento - secondo Necci - è stato una grande perdita per l'Italia, le Ferrovie e il Mezzogiorno. «Nonostante tutti questi vantaggi,mi dice Necci «l'ope-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE razione non fu portata a termine proprio per una mia decisione, poiché ritenevo che le Ferrovie da sole non potessero gestire l'impegno manageriale che l'operazione avrebbe comportato." Necci si assunse la responsabilità del prestito di Pacini incassato dalla moglie e si sfogò dicendo al giudice: «Ma le pare che gestendo decine di migliaia di miliardi mi sarei messo per pochi soldi nelle mani di Pacini Battaglia?». In effetti, l'aspetto che più colpì la pubblica opinione fu proprio questo: Lorenzo Necci, un grande passato di manager nel ricchissimo mondo della chimica e poi capo delle Ferrovie di Stato, aveva bisogno di prestiti di amici (vedremo poi se e quanto disinteressati) per tirare avanti? «Da quando mi dimisi da Enimont, nel '90,» mi dice Necci «io cessai di avere una retribuzione che mi consentisse di fare una vita di relazioni adeguata ai miei incarichi. Il mio stipendio alle Ferrovie era di duecentocinquanta milioni lordi all'anno, diventati trecento negli ultimi anni. Al netto siamo alla metà. Una dozzina di milioni al mese senza tredicesima, senza liquidazione, senza pensione, senza assistenza sanitaria e con la possibilità di essere licenziato dalla sera alla mattina. Capisco che in un momento di crisi economica generale una somma del genere può sembrare comunque rilevante Ma chiunque conosce i costi di una normale vita di relazioni sa che essa non è sufficiente. E per provvedere bisognava ricorrere a Pacini Battaglia?
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
Se un prestito è indispensabile, non bastano le banche? «E infatti all'inizio mi rivolsi alle banche. Nel '91-'92 alla Banca di Roma. Poi mi rivolsi alla Banca Nazionale del Lavoro che mi concesse un prestito a tassi d'interesse regolari, com'era giusto che fosse. Quando mia moglie scoprì che avevamo mezzo miliardo di debito con la Banca di Roma a un interesse del 19-20 per cento, mi disse che ero pazzo. Non dormiva più, nacque una tragedia familiare Tenga conto che per migliorare la mia situazione chiesi di essere assunto dalle Ferrovie. Ma la Corte dei conti rifiutò di accordare il permesso. La stessa Corte che dopo il mio arresto lo ha accordato (giustamente) al mio successore Giancarlo Cimoli [Il nuovo capo delle Ferrovie che subentrò a Necci ha una retribu zione molto più forte e adeguata al rilievo dell'incarico. Quando nell'agosto del '97 Necci rivelò che il suo stipendio era al centoventesimo posto nella classifica aziendale, Cimoli disse che il suo stipendio era di un miliardo lordo all'anno, meno di quanto guadagnasse nel suo precedente lavoro.] «Da quando diventai presidente della Tav, la società che si occupa dell'alta velocità, mi sarebbe inoltre spettata una forte indennità di carica. Rifiutai d'incassarla perché, volendo entrare in politica, volevo evitare che mi si contestasse di aver voluto la Tav per guadagnarci dei soldi.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Chiedi a Pacini, è una persona seria»
E Pacini? «Guardi, io sono amico da molti anni di Susanna Agnelli. Eravamo entrambi repubblicani. [Necci fu giovanissimo segretario regionale del Pri nel Lazio. A 36 anni entrò nella giunta esecutiva dell'Eni, a 41 diventò presidente di Enichem.] Eravamo entrambi molto legati a Ugo La Malfa. Incontrai Pacini Battaglia alcune volte negli anni Ottanta anche con Susanna Agnelli: erano amici, avevano insieme casa all'Argentario, dove Suni fu anche sindaco per il Pri. Alcuni amici mi dissero di rivolgerci a Pacini se avessimo avuto bisogno di aiuto. Così quando con mia moglie facemmo il quadro delle nostre disponibilità, anche alla luce di esigenze della sua famiglia, io le dissi che non potevo provvedere. Prova con Pacini, le dissi, mi pare una persona seria. E la cosa non è stravagante, visto che Pacini non mi ha mai chiesto niente e quando nel '94-'95 mia moglie ebbe dei soldi in prestito, lui era uscito con grande forza da Mani pulite.» (Nell'estate del '97 questa circostanza ripropose la natllra dei rapporti tra Pacini Battaglia e Di Pietro. Il 10 marzo del '93, come abbiamo visto nel decimo capitolo, il banchiere si costituì al magistrato rientrando dall'estero con l'evide1lte garanzia che la sua collaborazione gli sarebbe valsa un salvacondotto. Dopo l'arresto di Pacini, Necci e altri nel settembre del '96, Di Pietro fu chiamato di nlloz1o in causa, subì una serie di spettacolari perquisizioni, ma il tribunale del riesame di Brescia - dove l'inchiesta era stata trasferita - a fine an-
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no le twvò immotivate.) Obiettai a Necci che la sistematicità dei versamenti faceva pensare alla possibilità che Pacini Battaglia versasse al presidente delle Ferrovie interessi su una tangente della chimica gestita all'estero dalla Karfinco, pozzo senza fondo di oscure transazioni. "Ma chi è così scemo da farsi versare una tangente o gli interessi su una tangente a piccole rate mensili? Se avessi voluto dei soldi, avrei potuto farmi liquidare da Gardini, uscendo da Enimont, decine di miliardi. E le Ferrovie? Abbiamo dato lavori in appalto per decine di migliaia di miliardi. Se avessi chiesto un prestito cospicuo o un generoso contributo personale, pensa che me lo avrebbero negato? E le grandi banche che hanno gestito il passaggio di tutti questi soldi? La verità e che mia moglie si è rivolta a Pacini perché era un amico il più esterno possibile al mio mondo e nell'arco di un anno e mezzo ha avuto duecento milioni. A leggere le conversazioni intercettate tra Pacini Battaglia ed Emo Danesi vengono tuttavia i brividi. Essi sembrano i grandi burattinai della Seconda Repubblica.
«Quanta gente è stata nominata da Pacini...»
"Se legge tutte le intercettazioni di Pacini, vede che lui parla
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE di me una sola volta con la sua segretaria per la storia dei venti milioni, un paio di volte con Danesi e un'altra ventina di volte dice che è meglio che io vada via dalle Ferrovie perché non gli faccio fare affari. Poi parla a ruota libera di tutti, uomini della Tav, uomini di governo e altri ancora. Allora, se Pacini è credibile, dovrebbero incastrare tanta di quella gente... Se non è credibile, non capisco perché hanno preso me.» (Dice Pacini a Danesi, a proposito dell'a7nbizione di Necci di diventare ministro delle infrastrlltture nel costituendo governo Maccanico, febbraio 1996: «E vero che te dici in sei anni lui non è stato capace nemmeno... in due anni ai trasporti non farà una sega, questo è verissimo, sono d'accordo». La «disfunzionalità del Necci rispetto alle finalità perseguite dal Pacini Battaglia e dal Danesi» è stata riconosciuta nella primavera del '97 dalla Cassazione che ha scagionato il manager dall'associazione per delinquere, ritenendo illegittimo il suo arresto.) E' vero che a giudicare dalle intercettazioni, Pacini Battaglia e Danesi non si fidano molto delle sue capacità di procurare affari ai suoi amici. Ma in altri punti danno l'impressione di poter fare ciò che vogliono, almeno nel mettere gente loro al posto giusto. (Dicono Danesi e Pacini: «Un capo di gabinetto glielo si mette noi... se lui rimane alle Ferrovie noi gli si fa guesto organigramma e gli si fa passare...») «Pacini è un megalomane. Per dimostrarsi forte ha detto un mucchio di cose che non stanno in piedi, come si vede bene dal
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
complesso delle intercettazioni. Danesi? Aveva un ottimo rapporto con Publio Fiori, ministro dei Trasporti nel governo Berlusconi. Credo fossero compagni d'università. Avemmo uno scontro quando io, con l'aiuto del governatore della Banca d'Italia Fazio, decisi di cedere la Banca delle Comunicazioni." Vuol sostenere che Pacini Battaglia non ha fatto affari con le Ferrovie per conto proprio o di altri? «Quando alla fine degli anni Ottanta ci fu il grande processo alla gestione delle Ferrovie, con Ludovico Ligato, un consigliere d'amministrazione designato dal Pci, Caporali, disse in udienza che una quota degli appalti ferroviari andavano a tutti i partiti. Credo che le dimissioni di Mario Schimberni dalla carica di amministratore straordinario siano derivate dallo spavento che si prese per quella situazione." Sta dicendo che sotto la sua gestione dalle Ferrovie non è uscita una lira di tangenti? «Per evitare che si ripetesse questo fenomeno fortemente deviante sia sul piano dei risultati aziendali sia ovviamente sul piano etico e giuridico, dovendo gestire lo sviluppo di un'azienda che durante il mio mandato aveva in programma investimenti per oltre cinquantamila miliardi, ritenni indispensabile far partecipare i privati al rischio dell'investimento medesimo. [Il sessanta per cento della Tav è posseduto da quaranta banche, ventinove italiane, undici straniere. Il quarantll per cento è delle Ferrovie dello Stato.] E perché ciascuno si assumesse la responsabilità di quel che faceva, tutte le imprese che
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE lavoravano per noi dovettero sottoscrivere questo protocollo. Necci mi allunga un documento. è una sua delibera del 30 giugno '92. Ordina alle Ferrovie di esigere dalle imprese appaltatrici l'accettazione di una «clausola di trasparenza»: un impegno scritto a non pagare mediazioni di alcun genere, pena la risoluzione del contratto, e a tenere una contabilità separata per i lavori ferroviari mettendo le scritture contabili a disposizione delle Ferrovie per eventuali controlli. «Per un'azienda è terribilmente complicato mettere in piedi una contabilità separata per un singolo lavoro, seppure molto importante. Se si teme che siano state pagate tangenti, si vada a vedere nelle contabilità separate delle singole aziende. Dovrebbe esserci annotata ogni lira d'uscita e ogni lira d'entrata. Il tamhuro di latta 417
La liquidazione offerta da Gardirli
Necci viene interrogato altre tre volte a La Spezia tra la fine d'ottobre e l'inizio di novembre del '96. I pubblici ministeri ricostruiscono la sua vita, anche se la vita di ciascun imputato - fosse anche quella di un santo (e nel caso di Necci è soltanto quella di un manager) - è del tutto irrilevante ai fini giudiziari. Il nocciolo del processo, nella sostanza, resta questo. Secondo i magistrati spezzini, a partire dal '94 per una ventina
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di milioni al mese, il presidente delle Ferrovie si sarebbe venduto a due affaristi per essere «a disposizione». I due erano peraltro scontenti del rendimento di Necci, ma questi avrebbe potuto dare una mano per far vendere alle Ferrovie la società Contship che voleva fare di Gioia Tauro il porto chiave del Mediterraneo per la distribuzione delle merci al Nord. Necci ribatte che la vendita non fu mai conclusa, non esisterebbero atti che dimostrano un suo anomalo interessamento, il prezzo ipotizzato sarebbe stato più che congruo visto che, come abbiamo visto, successivamente lo stesso affare è stato concluso a un prezzo molto più elevato. Insiste sul suo ruolo strategico nelle Ferrovie («Non potevo decidere le misure del mio tavolo, ma potevo portare le Ferrovie italiane dal Sud America in Europa»). E sui venti milioni risponde che Pacini era un amico che mai l'ha condizionato, certo non era una dama di San Vincenzo e quei prestiti lasciavano immaginare che sperasse in una certa benevolenza per il futuro, ma che se lui, NecCl, avesse voluto percorrere la strada dell'arricchimento e della corruzione avrebbe potuto spillare miliardi su miliardi a destra e a manca in varie fasi della sua vita. A cominciare dalla «liquidazione," più che generosamente offerta da Raul Gardini al momento della rottura su Enimont. Alla più grossa vicenda della chimica italiana (quella che produsse la «madre di tutte le tangenti», centinaia di miliardi ai partiti politici) viene riservato uno degli interrogatori di
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Lorenzo Necci a La Spezia. Membro della giunta dell'Eni su designazione del Pri, Necci diventa nell'85 presidente di Enichem, il polo pubblico della chimica. (Dirà ai pubblici ministeri di La Spezia: «Prendevo seicento milioni all'anno di stipendio ed ero autorizza-
to ad addebitare all'azienda tutte le spese personali di rappresentanza. Alle Ferrovie, invece, ero al centoventesimo posto nella graduatoria delle retribuzioni aziendali e pagavo di tasca mia tutti i conti dei pranzi di lavoro. C'erano stati prima del mio arrivo gli scandali delle carte di credito aziendali e delle lenzuola d'oro. Con me le Ferrovie si costituirono per la prima volta parte civile in quel procedimento Quattro anni più tardi, si decide di formare un unico colosso italiano della chimica fondendo il polo pubblico (Enichem) con quello privato (Montedison). Capitò a me di darne l'annuncio al telegiornale intervistando in diretta i due presidenti, Franco Reviglio e Raul Gardini che firmarono le ultime clausole del protocollo d'intesa un quarto d'ora prima della trasmissione nello studio di Nuccio Fava, allora direttore del TG1, mentre Fava e io aspettavamo fuori della porta. Nel settembre dell'89, Necci viene nominato presidente della nuova società, Enimont. Quanto valeva la quota Montedison, cioè la quota di Gardini? Questa domanda rimbalzerà per quasi un decennio sui giornali e nelle aule di giustizia, poiché da quella quota derivano verosimilmente le
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centinaia di miliardi pagati da Gardini ai partiti politici. Il processo per le tangenti Enimont nasce a Roma e nel 1993, al pubblico ministero Ettore Torri, Necci dichiara che a suo giudizio la quota di Gardini - concordata tra Eni e Montedison prima della sua nomina a presidente della nuova società - fu sopravvalutata di una somma compresa all'incirca tra seicento e ottocento miliardi. Tra la fine di luglio e l'inizio di agosto del '97, «il Giornale» rilancia la questione: parla di una sopravvalutazione di seicento miliardi, cita le deposizioni di Sergio Cragnotti, già amministratore delegato della società, e di Alberto Grotti, membro di giunta dell'Eni, che parlarono di valutazione superiore alle attese. E chiama in causa il presidente dell'Eni, Franco Bernabè: secondo «il Giornale», non poteva non conoscere questo passaggio cruciale, visto che al momento della trattativa era direttore della programmazione, una delle figure chiave del vertice Eni. (Prima di Bernabè l'incarico di direttore della programmazione fu ricoperto dn Giorgio Mazzanti, che divenne poi presidente dell'Eni, e da Leonardo Di Donna che fu a lungo il plenipotenziario socialista nella società, C01l un potere tale che pur di non dover fare un logorante braccio di ferro con lui Umberto Colombo restò alla presidenza dell'Eni poche settimane.) Alle accuse del giornale di Feltri, Bernabè risponde con una querela, parlando di questioni note e già chiarite, e con una citazione per danni che viene notificata a tempdi re-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE cord un paio di giorni dopo la conclusione della campagna.
«Quando dissi di no a Gardini»
Ai magistrati di Perugia, dove il suo processo è stato trasferito da La Spezia, nel maggio del '97 Necci dichiara che quando nel gennaio '93 Bernabè seppe dell'apertura presso la Procura della repubblica di Roma di una inchiesta sulla tangente Enimont (Necci era stato appena sentito come testimone da Ettore Torri, procuratore aggiunto di Roma) gli disse che riteneva vi fossero maggiori garanzie a Milano piuttosto che a Roma. Il trasferimento awenne il mese successivo. Subito dopo Necci ebbe un avviso di garanzia rimasto senza conseguenze, ma che gli costò probabilmente la presidenza dell'Eni («Quell'avviso te l'ho mandato io» gli disse scherzando il presidente del Consiglio, Giuliano Amato, che lo aveva designato). Nominato presidente di Enimont nel luglio dell'89, già in settembre Necci verifica che l'uomo forte dell'operazione è Gardini e che l'Eni sembra destinato a passargli la mano. Il governo aveva infatti immaginato Enimont come una società in cui solo apparentemente il socio pubblico Eni e il socio privato Montedison avessero la parità di azioni, di diritti e di gestione. Quando si stabilì che ciascuno dei due soci avesse il quaranta per cento delle azioni e che il venti per
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cento restante andasse «sul mercato", si posero le premesse perché queste azioni fossero facilmente rastrellate da Gardini, consentendo a Montedison di acquisire il controllo totale di Enimont. All'inizio del nuovo anno, infatti, Gardini chiese che nel consiglio d'amministrazione della nuova società sedessero due rappresentanti in più degli «azionisti terzi», controllati già da Montedison: in questo modo, il cerchio si sarebbe
chiuso."Ne parlai con Cagliari, presidente dell'Eni,"mi racconta Necci «e lo trovai arrendevole.» Necci non se ne meraviglia. «Gardini aveva tentato subito di arruolarmi» dice «e insieme con Cagliari mi aveva detto che se non mi fossi messo dalla parte del socio privato, cioè di Gardini-Montedison, mi avrebbero tagliato la testa.» Il 12 gennaio arriva la richiesta formale del comitato direttivo del sindacato di controllo Enimont di convocare l'assemblea per la nomina dei nuovi consiglieri. Necci si oppone. Il 19 gennaio Gardini gli scrive una lettera durissima, intimandogli la convocazione, dettandogli l'ordine del giorno e richiamandolo alla «gravità» delle sue resistenze. L'indomani, 20 gennaio, Necci scrive a Cagliari una lettera di sette righe formalissime in cui chiede all'azionista Eni di confermare l'accordo con la posizione di Gardini. Cagliari gli risponde lo stesso giorno con quattro righe affettuose («Caro
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Lorenzo...»), ma nette: provvedi. Il comitato esecutivo nomina i due nuovi consiglieri che l'assemblea dei soci dovrà ratificare. «In comitatoracconta Necci «non mi fanno entrare fisicamente.» Il 27 febbraio, data prevista per l'assemblea, tutto si svolge secondo copione. Ma Necci esce dalla tenaglia con una lettera di dimissioni con effetto immediato scritta lo stesso giorno. Accusa la Montedison (cioè Gardini) di «mettere in discussione programmi e patti a suo tempo stipulati». Ventila la possibilità che si arrivi a un «aperto conflitto, anche per le diverse strategie» e lascia. Due giorni dopo, il primo marzo, Gardini gli dà un gelido riscontro, inviandogli una lettera a casa, a Roma. Respinge "l'illazione relativa a una pretesa volontà del gruppo Montedison di mettere in discussione programmi e patti a suo tempo stipulati» e parla di decisioni «a Lei ben note e concordate». Necci si dimette convinto di poter far saltare l'accordo tra Gardini e Cagliari. «Mi ritenevo molto più forte di quanto in realtà non fossi» mi dice. «Alessandra Carini scrisse su "Repubblica": il grande tessitore è caduto nella tela.» Necci sostiene - abbiamo detto - di non aver ricevuto una lira di liquidazione da Enimont e ricorda un rapporto complesso con Gardini. «Lui chiamava i manager "cani da riporto". [Doveva essere una espressione abituale, visto che anche Cusani mi ha ricordato la stessa definizione.] Lui controllava in modo ferreo i rapporti delle società con i fornitori e i manager do-
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vevano portargli indietro l'osso. L'unica azienda chimica con la quale avevo avuto rapporti era la Tpl. Ne ero stato capo del servizio legale dal '70 al '79 e mi ero dimesso al momento di entrare nella giunta dell'Eni. Presentai a Gardini il capo dell'azienda, Maddaloni, che aveva rapporti con l'Anic e con Sernia. Ma l'affare sulla chimica a Brindisi di cui si è discusso si concluse due mesi dopo le mie dimissioni. Anche su questa vicenda i giudici di La Spezia chiedono chiarimenti a Necci. Su di essa infatti aleggia una tangente di cinque o sei miliardi mai chiarita e considerata in ogni caso lecita dalla Procura di Milano in quanto transazione tra privati. In occasione dell'affare di Brindisi tra Enimont e Tpl, Gardini chiede a Maddaloni una somma da distribuire in questo modo: due miliardi allo stesso Gardini, due a Cragnotti e uno a Necci. A quale banchiere Maddaloni chiede i soldi? A Pacini Battaglia. E stato Necci a presentare Cragnotti a Pacini?, chiedono i giudici. No, risponde Necci, convinto invece che fosse proprio Pacini il trait d'unione tra Cragnotti e Maddaloni. Arrestato da Antonio Di Pietro nel quadro dell'inchiesta Enimont, Cragnotti racconta la storia, ammette di aver preso i due miliardi e conferma che un miliardo è andato a Necci, attraverso Pacini. Di Pietro convoca Pacini e questi dice di aver dato i soldi a Cragnotti e a Gardini, ma non a Necci. Di Pietro crede a Pacini e non a Cragnotti e lascia perdere. Ma essendoci l'accusa di Cragnotti, Necci esce malconcio dalla
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE storia, tanto è vero che al momento dell'arresto, ne; settembre del '96, più d'uno sospetta che i «venti milioni del mese» di cui parla Pacini nelle intercettazioni siano in realtà il versamento di interessi o siano comunque legati a fondi illeciti gestiti da Karfinco per conto del capo delle Ferrovie italiane. E vero che in un'altra intercettazione Pacini dice che Necci «è l'omo più onesto del mondo, ma di questa si perdono le tracce e comunque il dubbio resta. Soltanto otto mesi dopo l'arresto, Necci scopre l'esistenza di un'altra intercettazione mai pubblicata. In una conversazione del febbraio '96, Pacini Battaglia dice: «Che Cragnotti abbia dovuto dare un terzo a Gardini, un terzo a me e un miliardo a Necci, lui se l'è fatto come giustificazione per non entrare nella corruzione... Questo miliardo non c'entra col povero Necci, se vuoi la verità, proprio non c'entra nulla, te lo dico da uomo, cioè quando mi hanno interrogato ho detto questo. Non è cosa di Necci».
Tra Maccanico, D'Aleme Berlusconi
Lorenzo Necci entra in un libro politico perché a metà di questo decennio - e segnatamente nel 1996 - è stato uno dei pochissimi uomini chiave della transizione italiana dalla Prima alla Seconda Repubblica. Necci era uomo potentissimo e le Ferrovie gli stavano strette. Una volta lo incontrai per
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un'intervista. Immaginavo che avremmo parlato di treni e di alta velocità. Necci se la cavò con un paio di battute e poi cominciò a parlare del «progetto Paese» per l'Italia. Ricorda Gianni Letta: «Quando nel '94 presentai il suo ultimo libro nella sede dell'Associazione Bancaria Italiana, il salone era gremito e c'erano tutti quelli che contano. Non avevo mai visto tanta gente importante insieme". Nel gennaio del '97, quattro mesi dopo l'arresto di Necci, ospitai Antonio Maccanico in «Porta a porta». Dopo la trasmissione della breve intervista con Necci di cui abbiamo parlato all'inizio di questo capitolo, gli chiesi quale ruolo avrebbe avuto l'ormai ex capo delle Ferrovie se fosse nato il suo governo. Maccanico rispose di non averci mai pensato. Fu una risposta affrettata. In realtà, nel gennaio del '96, quando stava per nascere il governo Maccanico di unità nazionale, Necci era un interlocutore importante sia per D'Alema che per Berlusconi. Si parlava per lui dell'incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio (incarico chiave del governo) oppure di superministro per le infrastrutture, incaricato di occuparsi di trasporti e di lavori pubblici insieme. Repubblicani entrambi, Maccanico e Necci si frequentano da oltre vent'anni. Alle elezioni presidenziali del 1978 Craxi si rifiutò di far passare l'ipotesi che Ugo La Malfa fosse il successore di Giovanni Leone, preferendogli alla fine Sandro
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Pertini. A Pertini La Malfa chiese di prendere come segretario generale Maccanico, che restò al Quirinale anche nella prima parte della presidenza Cossiga, diventando poi per un breve periodo presidente di Mediobanca. La militanza politica nel Pri ha portato Necci a conoscere Massimo D'Alema quando questi era segretario dei giovani comunisti. Ad avere rapporti costanti con Giuliano Amato e Gianni De Michelis (con Craxi e Martelli Necci si vedrà soltanto dopo la nomina al vertice delle Ferrovie). Per conoscere Berlusconi dovette aspettare il '94, quando il Cavaliere sale a palazzo Chigi. Li presentò Gianni Letta. Il rapporto tra i due fu subito ottimo e l'intesa parallela con D'Alema fece di Necci un interlocutore politico a tutti gli effetti. Dopo la scarcerazione, Necci ha avuto attestati di stima da D'Alema e da Berlusconi, oltre che da Letta e da Maccanico. Ne chiedo conferma ai diretti interessati. «è caduto in una macchina infernale» mi dice Berlusconi. «Un uomo intelligente, pieno di ideemi dice D'Alema. Il segretario del Pds disse il 17 settembre del '96, alla Festa dell'Amicizia di Scandiano, subito dopo l'arresto di Necci: «Si è davanti a una vicenda dagli sviluppi inquietanti, che è diversa da Tangentopoli anche per la qualità della persona coinvolta. Commentò Bertinotti da Strasburgo: «Necci non può essere considerato uomo di parte per il significativo grado di consenso che aveva. Ha sempre goduto di uno stato di grazia e perfino i sindacati hanno avuto con lui un rapporto di benevolenza.
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«è il momento che Pacini dica la verità".
è per questo che quando viene arrestato dalla Procura della Spezia, Necci non capisce che cosa sia successo. E quando il pubblico ministero Cardino gli obietta che accettando prestiti ci si trova fatalmente a essere condizionati, Necci gli risponde: «Mi dispiace contraddirla. Se lei guarda la mia vita, vedrà che ho servito il mio Paese e sono uno dei pochi che ne ha sempre parlato con la fronte alta. Non mi sono mai lasciato condizionare dai presidenti del Consiglio, figuriamoci se mi sono venduto per i venti milioni di Pacini Battaglia. Lei capirà bene, dottor Cardino, che avrei potuto avere decine di miliardi da qualunque appalto, avrei potuto chiamare i mille, i cinquemila appaltatori delle Ferrovie auno a uno... Io posso restare in carcere anche dieci anni, a condizione che il processo di sviluppo delle Ferrovie riprenda il suo cammino. Ma debbo anche chiederle perché mi tiene qui. Se io avessi tre tesori da darle e gliene dessi uno come hanno fatto tutti, sarei felice. Ma non posso darle niente. Debbo ricominciare tutto da zero. Non ho pensione, liquidazione, conti in banca. Quanto vuole che le dica che mi hanno dato? Dieci? Cinquanta? Cento? Ho detto ai miei: la metta il dottor Cardino la cifra. Io sono sicuro che lei è in buona fede. Adesso ci mettia-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE mo qui, dottor Cardino, trattiamo su quanto mi ha dato Pacini Battaglia e buonanotte. Tanto il mio sogno è finito. Ma io ho bisogno di capire che cosa è successo". A oltre un anno dall'arresto, il desiderio di chiarezza e di riscossa per Necci si è moltiplicato. Nella grande crisi seguita al crollo della Prima Repubblica, l'ex amministratore delle Ferrovie è stato uno degli uomini di cui si è parlato meno e che hanno contato di più. è stato a un passo dalla grande politica. è caduto, ma non si darà pace fino a quando non avrà capito perché. Vive tra Roma e Parigi, dove lavora per una multinazionale finanziaria. I suoi ex colleghi che guidano le principali ferrovie del mondo, dopo le dimissioni da presidente operativo della loro unione, lo hanno lasciato presidente onorario. Il desiderio di rinascita diventa sempre più forte. I momenti di depressione sono lontani. «Lei mi chiede se ho pensato al suicidio in prigione"mi dice Necci. «Certo che ci ho pensato. è un'idea che non può non venire, quando senti che la violenza ti schiaccia e tu non sai come opporti, ma arriva il momento in cui lo scenario cambia. E più il comportamento degli altri diventa assurdo e opprimente più ti viene voglia di reagire, e allora dici: vediamo chi la vince. I cattivi pensieri son passati da ternpo quando, dopo l'interrogatorio di fine agosto, l'inviato del TG1 a Perugia, Pino Scaccia, riferisce quella che sarebbe stata una confidenza di Necci, attribuendogli questa frase: «Se mi succede qualcosa,
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non sarà per causa mia». Quando a metà ottobre chiedo a Necci di commentarla, la risposta è questa: «Be', diciamo che in effetti è successo di tutto. Si tratta di situazioni che hanno aspetti inquietanti. Ci si muove in un terreno paludoso e mi pare che non si possano trovare sicurezze.
Quando è tornato a Perugia il 28 agosto, terminate le sette ore di interrogatorio, ha commentato: «è passato un anno da quando è iniziata questa vicenda inverosimile. Qui vengo ascoltato in un ambiente professionale più sereno e penso che arriveremo presto a un chiarimento definitivo». Aquell'interrogatorio, due giorni dopo «il manifesto» dedica una grande «cover story»: «Nell'album di Lorenzo». Sottotitolo: «Dini, Maccanico, Prodi, Burlando, Gifuni, La Malfa, Cassese, De Rita, Lipari, Masone, Pollari, Squillante, Castellucci, Susanna Agnelli. I tanti consulenti. Il Quirinale. Palazzo Chigi, la Guardia di Finanza. Botteghe Oscure. Il porto di Gioia Tauro, l'assorbimento della Tirrenia, l'alta velocità Milano-Genova. Dalla deposizione di Lorenzo Necci ai magistrati di Perugia affiora una stagione di grandi alleanze e di grandi affari, incardinati intorno alla biografia di un ex potente che oggi si sente abbandonato e anche minacciato. Per questo parla, allude, avverte. E qualcuno perde subito la calma». Necci si rifiuta categoricamente di parlare di questo interrogatorio. Ma secondo «il manifesto, il filo conduttore della
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE lunga deposizione del 29 agosto sono ancora una volta le intercettazioni di Pacini Battaglia. Alla fine di maggio, chiedendo di poter proseguire le indagini, i procuratori perugini avevano lamentato che i colleghi della Spezia avevano trasmesso soltanto «trascrizioni parziali e inidonee» di quanto aveva detto il finanziere. Ora che il quadro è più completo, Necci entra nel dettaglio delle singole questioni, smentendo Pacini quando è necessario, confermando in altri casi e ricostruendo comunque la complessa ragnatela di rapporti che c'è dietro la vita di un manager che ha guidato due società colossali, come Enichem e le Ferrovie. Dai giornali emerge che in quell'interrogatorio, e nel successivo del 22 settembre '97, a Necci vengono chiesti anche chiarimenti sul ruolo di Andrea Rigoni, un ufficiale della Guardia di Finanza che fu assunto alle Ferrovie come capo del settore auditing, preposto alla certificazione dei bilanci. Rigoni fu segnalato a Necci da Nicolò Pollari, un alto ufficiale della Finanza oggi vice direttore del Cesis (servizi segreti) e provvide ad assumere altri finanzieri di sua fiducia. «Mi sembrava la scelta più professionale,» mi dice Necci «per controllare la trasparenza dei bilanci delle aziende che fanno capo alle Ferrovie.» In realtà, Rigoni ha cercato spazi sempre maggiori e più d'una volta s'è trovato in contrasto con l'amministratore delegato. Ma è da Pacini Battaglia che Necci vuole la verità: «I di-
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scorsi in libertà di Pacini con persone che non gli sapevo così familiari hanno distrutto la mia vita professionale, personale e politica e hanno danneggiato la mia vita familiare. Mi sorprende che su questo non abbia avvertito il dovere di dire una parola di chiarezza». Secondo lei, Pacini Battaglia sapeva di essere intercettato? «Non lo so. Ma in ogni caso Pacini deve ristabilire la verità sulle Ferrovie e su di me. Sono avvenute tante vicende giudiziarie complesse, in questi anni. Ma non era mai capitata una strumentalizzazione montata con tanto cinismo e sprezzo della verità come questa.» Pensa che Pacini si deciderà a parlare? «Pacini ha fatto tante interviste. Si è espresso con chiarezza sull'Eni, su Di Pietro, sul Pool di Milano. Su di me non ha detto niente. Lui sa che la nostra amicizia non si è mai basata su contropartite. Ma il suo prestito ha avuto sulla mia vita interessi troppo alti. Adesso può chiarire tutto in un modo semplicissimo: dica la verità. La dica su Eni, Enimont, Ferrovie. In questa storia, Pacini mi ha sbancato.
DICIASSETTE.
«Ciao, Giorgio».
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«Trentacinque anni di silenzio».
«Ciao, Giorgio.» Pietrostefani sorrise. La guardia chiuse la porta e scomparve. E adesso? Era inutile dirsi: come stai? Come si fa a riempire trentacinque anni di silenzio con una frase? Non era cambiato, Giorgio. Quando la guardia lo introdusse nella biblioteca del carcere «Don Bosco» di Pisa, rividi la nostra foto di prima elementare. Convitto Nazionale «Domenico Cotugno», L'Aquila. L'unica scuola che prendesse gli esterni anche a cinque anni. Anno scolastico 1949-50. Accanto alla classe, Pia Tozzi, grande e orgogliosa maestra. Lui in seconda fila, alto e massiccio, i capelli chiari, forti e ricci. Io in prima, con i più piccoli, i capelli scuri, lisci e fragili. Non era cambiato, Giorgio. Alto e reso più massiccio dalla camicia a quadri grandi. I capelli chiari, forti e ricci, erano appena imbiancati. Lo stesso sorriso, ironico, intelligente, forse involontariamente beffardo. Se non ci amammo, un po' fu colpa del maestro Colantoni. La Tozzi ci lasciò in terza (allora si usava che gli ultimi due anni li facesse un insegnante maschio). I due maestri del «Cotugno» erano Colantoni e Bologna. Entrambi anziani, o almeno tali apparivano a noi bambini. Magro e ruvido il pri-
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mo. Pingue e bonario il secondo. Ci toccò Colantoni. Stravedeva per Giorgio e teneva me sotto tiro. Ammirava la sua intelligenza e anche la sua robustezza fisica (in nome di questa, distribuendo in classe a Natale il torrone che gli porta-
vamo, dava sempre a lui il pezzo più grosso). E non dimenticava che il padre di Giorgio era una Autorità: viceprefetto. Il mio, invece, era un piccolo rappresentante di commercio. Al ginnasio ci separammo: lui scelse la sezione B, gran parte di noi andò alla A. Ma frequentavamo lo stesso circolo del tennis. «Guarda», gli dissi a Pisa. Misi sul tavolo una Storia del tennis aquilano. 1921-1995. A pagina 25 c'era il nostro anno, il '60. Lui diciassette anni, io sedici. Non ci amavamo nemmeno allora, caratteri troppo diversi. Ma una qualche attrazione reciproca doveva esserci, se decidemmo di fare coppia nei tornei. Lui era più bravo, come a scuola. Aveva un ottimo dritto incrociato. Io ero un pallettaro micidiale. Quando gli avversari scendevano a rete, li facevo secchi con pallonetti millimetrici. Se cercavo di passarli con un dritto lungo linea, spesso sbagliavo. E a ogni mio errore, Giorgio ruggiva. Vincemmo i campionati aquilani juniores e poi quelli abruzzesi. Lui vinse anche il singolare (lasciandomi appena due giochi in semifinale).
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Guarda: "Pietrostefani-Vespa battono Silvi-Silvi 6-1,1-6, 6-2".» «Non ricordavo che avessero vinto un set», disse asciutto. Ci tornarono in mente, filtrando dalla grata del carcere, L'Aquila, i nostri amici del tennis, la nostra giovinezza dimenticata. «Ricordi Franco Totani?», mi disse. «Certo, fa l'avvocato.» «Mi telefona a Parigi. Sono Franco Totani, sto qua qualche giorno e sto rintracciando tutti gli aquilani. Vicino a te abita Franca Squarciapino, no? Che tipo..." «Brava costumista, Franca, ha vinto anche un oscar, no? Belle gambe, bel gioco. Forse però giocava meglio Laura, la sorella, sempre in pantaloni lunghi...» Prendemmo la maturità nel '62 e non ci vedemmo più. Lui fece ingegneria a Pisa, io legge a Roma. La scelta delle città avrebbe segnato la nostra vita. «Io una volta ti ho visto», mi disse. «Doveva essere il '70, a un comitato centrale della Cgil. Tu stavi lì per il telegiornale, io facevo politica da tempo. Stavo per chiamarti, ma poi...» «Giorgio, che cosa è successo dopo la maturità?» Eravamo tutti in giacca e cravatta, il preside Bruno aveva il doppiopetto blu e gli sembrava una stravaganza che non lo portassimo anche noi. Ci dava del lei. «Loro vogliono che parli delle proprietà del carbone?» Era un chimico e appena un insegnante era indisposto, veniva lui in aula a sostituirlo. Riempiva la lavagna di formule senza che un solo baffo di bianco violasse il blu dell'abito. Già, e Tommaso Fanci che pensava in greco?
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Pensava in greco e la sua distanza accademica dagli altri era così abissale che per tutta la vita considerò umiliante sottoporsi a un concorso. Finché perse la cattedra... Giorgio, che cosa è successo dopo la maturità? «Andai a Pisa, le facoltà scientifiche erano una colonia di aquilani. Io stavo al collegio Toniolo, quello in cui aveva studiato Gronchi. Con me venne E3erardi, quel tuo compagno della sezione A con i capelli rossi. Gli altri aquilani stavano al Pacinotti, l'equivalente della Normale. Una bella colonia...» E poi? «Per due anni ho fatto lo studente modello. A scuola ero bravino, no? Feci subito il biennio. Poi nel '64 mi trovai coinvolto nella grande occupazione dell'università. Un'occupazione a oltranza per chiedere le dimissioni del rettore. Entrai nell'Ugi, l'unione degli studenti di sinistra, vincemmo le elezioni universitarie, facemmo la prima giunta unitaria che andava dai cattolici a quelli che stavano a sinistra del Pci. Ebbi un incarico in giunta, m'iscrissi al Pci. Cominciò così...» Fece una pausa, guardò sulla mia faccia il sole che entrava dalla grata. "Fui molto impressionato da Pisa. Una città di provincia, come L'Aquila. Eppure c'era un'aria così diversa dalla nostra. E curioso. Per noi aquilani andare a Roma, nella metropoli, non rappresentava una rottura. Era quasi uno sbocco naturale. Invece Pisa con il Pacinotti, la Normale, la grande tradizione della sinistra... Lì si respirava ideologia. Ci
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE si nutriva di marxismo. Noi studenti ci accostavamo alla classe operaia con un fervore quasi religioso...» E nel Pci che aria c'era? «Il partito faceva una corte serrata a noi studenti perché l'Università di Pisa era molto importante. E perché guardavamo con interesse agli operai.» Ma poi tu lasciasti il Pci... «Lo scontro politico arrivò nel '67, quando conobbi Sofri. Lui allora stava a Massa, facemmo un giornaletto politico che si chiamava "Il potere operaio", con l'articolo, da non confondere con "Potere operaio", che nacque successivamente con Toni Negri a Padova. Sofri portò gli operai, noi pisani portammo gli studenti e i tecnici universitari. Smisi allora di studiare. Dicevamo che per fare la rivoluzione non serviva la laurea...» Abbassò lo sguardo e la voce. Accennò un sorriso: «Era un discorso estremistico e infantile. Per cambiare il mondo bisogna studiare, laurearsi, essere preparati...». Lo guardai sorpreso. Lui, con quel percorso politico alle spalle, mi ripeteva le parole che annoiano invano i miei figli? «Venne il '68 e col '68 arrivò la conferma dei nostri sogni e dei nostri progetti: studenti e operai insieme per cambiare la società. Nacque l'idea di Lotta continua, io nel '69 mi trasferii prima a Torino con Adriano, poi lui restò lì e io andai a Milano con Mauro Rostagno che veniva da Trento.»
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E i tuoi genitori come reagirono?
"Mio padre era prefetto a Caltanissetta. Prefetto della repubblica, a quei tempi. Allora non sapevo che anche i figli del ministro dell'lnterno Taviani erano diventati militanti di Lotta continua. Me l'hanno scritto loro recentemente. Ma allora... Avesse avuto soltanto un figlio comunista, per mio padre sarebbe stata dura, ma insomma... No, scoprì che suo figlio era stato espulso dal Pci per frazionismo. Insomma s'infuriò. Mi chiamò in Sicilia con un imbroglio. Sono molto malato, vieni a trovarmi. In realtà stava benissimo. Mi disse: da domani ti trasferisci all'Università di Catania. Il giorno dopo, invece, me ne tornai a Pisa." Come vivevi? «A Pisa, prima del trasferimento al Nord, vivevamo tutti insieme. Sofri aveva già moglie e figli, mangiavamo a casa sua. Anche a Milano, nel '69, vivevamo in una specie di comunità: operai, intellettuali, studenti, giovani, una vita molto libera e molto bella. Tanto fanatismo..." E i soldi? «I soldi li metteva chi li aveva. In fondo, non serviva molto. Mangiare, fumare... Si fumava molto durante le riunioni. La cosa più importante era fare volantinaggio. Servivano i ci-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE clostili, la carta..." Senti, Giorgio. Si è molto discusso sul tuo ruolo in Lotta continua. Che cosa facevi con esattezza? «Innanzitutto mi interessavo delle fabbriche. Per me era una religione. A Torino andavo alla Fiat di Rivalta, a Milano alla Pirelli e all'Alfa Romeo. Ci si alzava alle quattro del mattino per incontrare gli operai del primo turno, alle sei, si faceva il volantinaggio, poi le riunioni a fine turno e così via.» Ma facevi anche molto d'altro... «Certo, ero io a tenere i fili dell'organizzazione. Aprivo nuove sedi, spostavo i responsabili quando mancavano, se chiamavo uno dicendogli: da domani vai in Sardegna perché bisogna fare Lotta continua anche lì, quello non batteva ciglio e partiva. Non siamo stati un partito, ma a un certo punto avevamo decine di migliaia di iscritti. Eppure non mi sono mai occupato del servizio d'ordine, come sta scritto invece in tutti gli atti processuali.» E possibile che ti abbiano accusato di essere il capo del servizio d'ordine perché questo dipendeva dall'organizzazione? «Ma no, guarda. L'accusa è nata da un buco nelle indagini.» Cioè? A un certo punto l'accusa si è trovata senza quello che nel gergo terroristico si chiama il responsabile logistico. Negli atti si parla di un famoso Luigi che avrebbe organizzato tutto. ..
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A proposito, chi è questo Luigi?
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«Luigi non esiste. In un primo momento si disse che io e Sofri eravamo i mandanti dell'omicidio del dottor Calabresi Bompressi l'esecutore materiale, Marino quello che guidavá l'auto di Bompressi e Luigi l'organizzatore di tutto: l'inchiesta preliminare sull'esecuzione del dottor Calabresi, l'assistenza logistica a Bompressi e Marino e tante altre cose.» Giorgio non disse «Calabresicome avrebbe fatto chiunque di noi in una normale conversazione. Disse «il dottor Calabresi", quasi stesse dettando un verbale o volesse forse istintivamente, risarcire la memoria del commissarió delle straordinarie violenze, almeno verbali, con cui Lotta continua lo perseguitò dal giorno della morte di Pinelli. Giorgio
mi colpì anche con un'altra parola: esecuzione. I terroristi parlavano così delle loro vittime e io non capii se nel linguaggio di Pietrostefani quella parola terribile fosse il residuo di un fraseggio ormai ripudiato oppure la presa di distanza, anche verbale, da quella che era stata davvero l'esecuzione di una sentenza scritta da tempo. Come uscì dall'inchiesta questo Luigi? «Lo cercarono a lungo. All'inizio pensarono a Luigi Bobbio, torinese, figlio di Norberto, uno dei primi contestatori che occupò nel '67 Palazzo Campana, perché la mia prima moglie è vissuta con lui una decina d'anni. Poi hanno capito che non poteva essere lui e cercarono altrove. Si convinsero a
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE un certo punto che Luìgi fosse Gigi Noia che ormai s'era trasferito in India e lavorava nella nostra ambasciata. I carabinieri andarono a Nuova Delhi e chiesero all'ambasciatore di aiutarli. Ma lui stimava Noia, si rifiutò e avvertì per cablo il ministero. Gigi si precipitò in Italia per presentare il suo alibi al magistrato...» Come era possibile dc po tanti anni ricostruire un alibi ineccepibile? «Il giorno della morte di Calabresi per noi di Lotta continua non fu un giorno qualsiasi. 1utti quelli che avevano partecipato alla campagna contro di lui ricordavano bene dove stavano e che cosa avevano fatto. Gigi Noia faceva il tipografo e riuscì a dimostrare che proprio quella mattina firmato un contratto per l'acquisto di certe macchine...» E allora?
«Allora Luigi scompare dall'inchiesta".
«Allora Luigi scompare dall'inchiesta e io da semplice mandante divento un esperto di armi e il capo del servizio d'ordine di Lotta continua che si occupa dell'attentato. Tu sai che Marino sostiene di aver avuto da me e da Sofri, il 13 maggio a Pisa durante un comizio di Lc, l'ordine di uccidere il commissario. Io a Pisa non c'ero perché su di me pendeva un ordine di cattura per un'altra storia e non potevo certo
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andare a un comizio di Lotta continua. [Pietrostefani era ricercato per apologia di reato comnpiuta inneggiando al sequestro di Macchiarini da parte delle Br. Si costituì l'8 luglio del '72, quasi due mesi dopo il delitto Calabresi.] Marino, infatti, sulla mia presenza a Pisa cambiò versione tre volte e quando il presidente della Corte gli chiese: "Ma insomma, Pietrostefani c'era o non c'era a Pisa?", lui alla fine rispose: "Non ho memoria". Nell'ultima sentenza sta scritto che Marino "non ha memoria", ma che non è stata dimostrata la mia assenza dal comizio di Pisa. La mia assenza, capito? Roba da pazzi.» (Nell'ultima e decisiva sentenza, confermata dalla Cassazione il 22 gennaio del '97, la Corte d'Appello di Milano si dice convinta dell'esistenza di «Luigi». A proposito della presenza di Pietrostefani al comizio di Pisa, la sentenza afferma: "Se non è stata raggiunta la prova della presenza di Pietrostefani a Pisa il 13 maggio del '72, manca altresì la certezza delln sua assenza. è una circostanza assolutamente neutra, né provata, né smentita. Non è consentito quindi strapparsi le vesti per le rettifiche del Marino in proposito, né sopravvalutarle".) E possibile che i giudici ti abbiano considerato il capo del servizio d'ordine di Lotta continua perché - come confermò lo stesso Sofri - tu avevi la responsabilità del coordinamento complessivo di Lc a Milano? «Il servizio d'ordine era un'attività specifica e non una struttura parallela. Certo, c'erano persone che si prestavano
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE a fare questo lavoro durante le manifestazioni. L'ho fatto anch'io. Ho fatto picchetti duri, ma non ero il capo del servizio. Non perché il mio grado in Lotta continua fosse superiore, ma semplicemente perché facevo altre cose. Il mio ruolo formale nell'organizzazione era di responsabile della commissione operaia. Ma in tutto il processo io sono stato il capo del servizio d'ordine. (A sostegno di questa tesi, la Cassazione riporta nella motivazione dell'ultima sentenza un brano del libro A viso aperto di Renato Curcio: «Proprio sulla questione del servizio d'ordine di Lotta continua ci fu un incontro scontro... Da parte loro ci arrivò la richiesta di un colloquio per discutere lo svilllppo dei nostri rapporti. Mi incontrai con due loro dirigenti: Giorgio Pietrostefani, responsabile del servizio d'ordine, ed Ettore Camuffo. Volevano sondare le possibilità di un'eventuale fusione o meglio la nostra disponibilità a confluire nel loro gruppo. Si trattava, in pratica della proposta di diventare il loro braccio armato. Io non me la sentii di reagire subito e risposi che avrei discusso la cosa con i miei compagni...». Nella sentenza si ricorda che il ruolo di Pietrostefani come leader dell'ala «militarista» di Lc fu confermato dalle testimonianze del brlgntlstn Albcrto Franceschini, ché lo incontrò per incarico di Curcio, e di Luigi Cassina.) Però Marino ha sempre detto che eri tu quello che sosteneva le attività illegali del movimento... «Lotta continua non aveva attività illegali...» Nemmeno le rapine per autofinanziarsi?
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«Non escludo che qualcuno dei nostri abbia fatto stupidaggini di questo genere. Marino, per esempio, ha confessato di aver fatto rapine fino all'87, un anno prima dei SUOl racconti ai carabinieri... Comunque è vero che mi interessavo anche dei problemi di finanziamento.» Dove trovavi i soldi? «I soldi li metteva chi li aveva. Quando nacque il quotidiano, molti proprietari di appartamenti che stavano con noi li vendettero e consegnarono il denaro all'organizzazione. Ci aiutavano molti artisti, gente del cinema. Nel '68 andai a Roma perché Godard voleva darci dei soldi: andai nel suo albergo, mi parlò della lotta operaia e alla fine mi dette del denaro che girai alla persona che si interessava della cassa. Io non ho mai avuto la cassa.» Ma allora come è nata la tua fama di duro? «Storie giornalistiche e storie giudiziarie. Tu sai che non ho mai avuto un ottimo carattere. Sono molto brusco, anche se più nella forma che nella sostanza. Insomma se dovevo dare un ordine a qualcuno, lo facevo in maniera secca, dura...» Fece di nuovo una pausa, Giorgio. Miissò imbarazzato: «Ormai abbiamo superato i cinquanta e se mi volto vedo tanti errori. Capisco che la durezza non serve a niente, la gente ti giudica più per le sensazioni che per i fatti, e anche se c'è il rischio di passare per ipocriti sarebbe meglio essere dolci. Ma insomma, è andata così».
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«è caduto? S'è buttato?,"
Come nacquero quegli orribili articoli su Calabresi pubblicati da «Lotta continua"? «Nacquero a Milano. Nacquero quando il povero Pinelli cadde dal quarto piano, cadde dalla finestra dell'ufficio del dottor Calabresi. Io non so che cosa sia successo in quella stanza. E caduto? S'è buttato? Lo avevano fatto sedere sul davanzale? Gli è scappato di mano? Non ci sono prove. Era naturale, comunque, che nella logica estremistica di quei tempi si dicesse: Pinelli stava nella stanza di Calabresi, è caduto dalla finestra, Calabresi è il commissario dell'Ufficio politico, l'attuale Digos, e poi della questura, Calabresi ha buttato di sotto Pinelli, Calabresi è un assassino. Cominciò così.» Tu scrivesti qualcuno di quegli articoli? «No, io ho avuto sempre un ruolo marginale nella redazione del giornale. Mi occupavano di fabbriche. Solo nel '71 fui più vicino, quando facemmo la campagna contro la candidatura di Fanfani al Quirinale. Ricordi? Il Fanfascismo...» Converrai che quegli articoli ebbero un certo peso nel demonizzare Calabresi. «Fu una campagna di stampa assurda. In uno Stato di diritto, in uno Stato che tuteli il rispetto della persona, non puoi fare una campagna di quel genere contro un uomo sen-
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za avere una sola prova. Quei toni, quelle parole. Però...» Pero? «Però quella campagna non la facemmo soltanto noi. Adesso non voglio fare nomi, ma i nomi ci sono. Nomi di estremisti che hanno sempre cercato il protagonismo e che furono protagonisti anche in questo. Non mi sentii di chiedere quei nomi al mio vecchio compagno di scuola. Comunque non credo che ne avrebbe fatti. Il pianeta dell'estremismo degli anni Settanta si è frantumato in una miriade di schegge volate in direzioni diversissime e spesso opposte, ma rimaste legate da una solidarietà di fondo unica e sbalorditiva. Non fu soltanto «Lotta continuaa demonizzare il commissario dell'Ufficio politico alla questura di Milano. Negli appelli contro il «torturatore responsabile della morte di Pinelli» troviamo ottocento nomi tra i più prestigiosi della cultura, del giornalismo, del cinema. A rileggere oggi quegli appelli pubblicati dall'«Espresso» nel giugno del '71 non si capisce perché un uomo come Calabresi potesse sopravvivere nell'Italia che avrebbe ammazzato oscuri capireparto della Fiat, ignote guardie carcerarie, magistrati e giornalisti colpevoli soltanto di aver Armato inchieste pulite e articoli coraggiosi. Eppure, nella sincera autocritica di Giorgio Pietrostefani, comparve un dubbio. «Io davvero non so se ci sia un rapporto diretto tra la cam-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE pagna di stampa contro Calabresi e il suo assassinio. Però ci sono ipotesi che non sono mai state prese in considerazione. Ricordi tanti anni fa quell'inchiesta sulle intercettazioni telefoniche illegali nella quale fu coinvolto anche Tom Ponzi?» E allora? «Bene, quando un pm di Roma interrogò una signora e il marito pensando che sotto ci fosse soltanto una questione di corna, si sentì rispondere dall'uomo che invece l'unica ragione che poteva venirgli in mente per essere spiato era il fatto di aver visto l'assassino di Calabresi e di aver dichiarato di poterlo riconoscere. Il magistrato romano trasferì l'inchiesta al collega milanese che indagava sul delitto, ma fu considerata irrilevante. Il dottor Calabresi indagava anche su un traffico d'armi in Friuli. E anche quella pista non fu approfondita. Insomma le indagini si svolsero a senso unico. Poi arrivò il miracolo. Un miracolo chiamato Marino...» Come mai da dieci anni è scattata intorno a voi la solidarietà totale di tutti gli ex militanti di Lc? Gente che ha preso strade opposte e che si ritrova unita nell'assistervi, firma appelli in vostro favore... «Lotta continua è stata fin dall'inizio una storia di amicizia. E poi Lotta continua si è sciolta bene. Nel '76 ci siamo sciolti al congresso di Rimini per non litigare. Non eravamo più un gruppo omogeneo, avevamo in mente ipotesi diverse, a un certo punto abbiamo detto: tutti a casa. L'utopia è mor-
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ta, ci abbiamo creduto, è stato bello, però non riusciamo ad andare avanti. Ognuno ha preso la sua strada, ma ci siamo sempre rivisti. E sai quando? Ai funerali e ai matrimoni, come una grande famiglia che si ritrova. Tra Enrico Deaglio e Paolo Liguori c'è una bella differenza, no? Eppure io sono amico di entrambi. Ho avuto anche la fortuna di fare un altro mestiere e non lavorando per i giornali o la televisione ho avuto il privilegio di non dovermi schierare.» Tu hai fatto il manager industriale. «Ripresi la strada medio borghese che avevo interrotto Già nel '72 quando vidi che cambiava l'aria mi laureai in tre sessioni in architettura al Politecnico di Milano. Insegnai un po' di matematica nelle scuole medie, poi entrai all'Eni, alla Snam Progetti. Conoscevo bene le lingue, mi mandarono all'ufficio commerciale. Cominciai subito a viaggiare: Inghilterra, Africa, Medio Oriente. Tutta l'epoca del terrorismo io non l'ho seguita. Quando fui arrestato nell'88, in camera di sicurezza i carabinieri mi dissero: il tuo caso è uguale a quello di Ramelli [Sergio Ramelli era un ragazzo simpatizzante del Fronte della gioventù e fu ucciso a sprangate sotto casa a Milano. Ma gli autori del delitto, una volta identificati dopo molti anni, si dichiararono colpevoli e furono tutti condannati]. E io non sapevo chi fosse.» Come si arrivò all'arresto? «Un mese prima che mi arrestassero ero stato nominato amministratore delegato delle Officine Reggiane dell'Efim, a
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Reggio Emilia. Dovevo partire per Gibuti. Hai presenti le cartoline di Gibuti? Be', si vede sempre una enorme gru per scaricare i container. Quel giorno avevo appuntamento con il presidente di Gibuti perché dovevamo vendergliene un'altra.» E invece arrivarono i carabinieri. «Aspettavo alle sei l'autista che doveva accompagnarmi all aeroporto. Alle quattro arrivarono trenta carabinieri armati fino ai denti...» Trenta? «Ma sì, una cosa da pazzi, come se si prevedesse uno scontro armato. Io vivevo solo. Forse non ti ho detto che ho due figlie. Una grande, ventisei anni, del primo matrimonio, e una piccina di sei, perché mi sono risposato nel '90, dopo l'imzio di questa storia.»
«Quando suonarono i carabinieri...»
Vennero dunque i carabinieri... «Quando suonarono, io guardai dallo spioncino e mi preoccupai. Non erano in divisa, avevano la barba non fatta. Insomma, con tutto il rispetto per i sardi, pensai che fosse una banda di sardi venuta a sequestrarmi, anche se non capi-
«Ciao, Giorgio), 437
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vo perché visto che non avevo una lira. Ma va a capire in quei momenti, ero pur sempre il direttore di un'azienda.» E quando apristi? "Mi dissero che dovevano fare una perquisizione. Io pensai istintivamente che qualche mio predecessore alla guida dell'azienda avesse combinato dei pasticci. Comunque dlssl prego, fate il vostro lavoro. Un'ora dopo mi dissero se volevo l'avvocato. E io risposi: no, voi siete dell'Arma, noi in azienda abbiamo rapporti continui con l'Arma, mi fido, ci mancherebbe altro...» E invece? "Il gruppo era comandato da un nostro paesano, un capitano di Ovindoli. Guarda le coincidenze della vita... A Ovindoli non ci andavo da quando ero piccolo, mi ci portava a sciare mio padre quando non c'era Campo Felice, non c'era niente. A un certo punto il capitano mi disse di sedermi perché doveva farmi una comunicazione importante. Io non capivo e lui insisteva perché sedessi. Disse a un carabiniere: porta un bicchiere d'acqua al dottore. Poi con grande gentilezza mi disse: dobbiamo notificarle un ordine d'arresto. Perché? Calabresi. Tu non ci crederai, Bruno, ma io risposi: vi sbagliate perché io con la Calabria non ho niente da spartire, non ho rapporti, non ci sono mai andato, anzi sì, una sola volta al mare tantissimi anni fa, non tratto partite commerciali con calabresi. Finché il capitano mi interruppe: no,
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE guardi, si tratta dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Mi portarono in caserma, dove i carabinieri degli uffici mi guardavano esterrefatti. Mi conoscevano benissimo, non sapevano niente del mio passato. D'altra parte sarebbe stato curioso che io andassi a raccontare in giro: guardate che ero uno dei capi di Lotta continua.» Se ti volti a guardare quella lunga parentesi della tua vita durata una dozzina d'anni, che giudizio ne dai? «Ti ho raccontato tutto quello che mi è successo dalla maturità classica a oggi. Io mi misi in disparte già nel '75 e se rientrai in Lotta continua nell'ultimo anno lo feci per evitare che tanti ragazzi, studenti e operai, prendessero la strada del terrorismo. Poi una piccola minoranza la prese ugualmente. Li ricordo bene, quegli strani discorsi che mi facevano. Io me ne ero già andato, lavoravo a Milano, mi richiamarono a Torino perché c'era una manifestazione per ricordare Tonino Micciché, un operaio della Fiat che era stato ucciso durante l'occupazione delle case. E sentii questi strani discorsi che cercai di bloccare perché eravamo convinti, tra l'altro, che il terrorismo avrebbe portato alla sconfitta politica delle nostre idee.» Chi erano questi ragazzi, che discorsi facevano? «Erano quelli che fondarono Prima linea. Parlavano di rivoluzione violenta. Intendiamoci, anche noi di Lc parlavamo di violenza, avevamo addirittura una canzone intitolata La violenza. Avevamo i nostri miti, più il "Che" che Mao. Anzi, noi Mao lo chiamavamo "il giallone". Però quei ragazzi vole-
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vano forzare la situazione con "azioni esemplari", le sciocchezze con le quali cominciarono anche le Brigate rosse. Eppure ne ho convinti tanti a non prendere quella strada...» Non sei stato quindi un «cattivo maestro"? Non hai qualche ragazzo sulla coscienza? «No, non in questo senso. Abbiamo detto tante sciocchezze, abbiamo fatto tante cose sbagliate, commesso illegalità, atti sconsiderati. Atti che non rifarei e che condanno. Ma non abbiamo ammazzato il commissario Calabresi.» Mi colpisce la vostra convinzione di uscire presto di qui. «Tu sai che io potevo non entrarci. Sono tornato da Parigi per venire in carcere. Il mio avvocato mi aveva detto: lei non è estradabile. La legge francese - a differenza di quella italiana dove l'accusa per i reati di omicidio non si estingue mai - prevede che non puoi accusare di omicidio una persona se per dieci anni non hai indagato su di lei. E di qui di anni ne erano passati sedici. Ma ho comprato il biglietto d'aereo ed eccomi qui.»
«Bruno, io sono innocente".
Si è detto che qualcuno di voi ha pensato al suicidio. «Vedi, a modo mio, sono credente. E quando mi vengono in mente certe cose, penso che la vita è sacra. No, credo che le iniziative dei nostri amici porteranno alla revisione del pro-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE cesso. Ma...» Ma? «Se dovessimo uscire per qualche artifizio istituzionale, io continuerei a vivere per recuperare il mio onore.»
Mi guardò fisso: «Bruno, io sono innocente". Per questo non chiederai la grazia? «Certo, un innocente non chiede la grazia. Guarda, potrei farti un lungo elenco delle cose di cui mi pento. Cose molto brutte, cose cattive nei confronti degli altri. Ero un fanatico, non sono mai stato un angioletto. Ma sono innocente.» I tuoi familiari, i tuoi amici condivisero la tua decisione di costituirti? «Quando decisi di rientrare in Italia lo dissi a mia moglie e alla mia figlia grande. Cara figlia, avrei deciso di andare. Le dissi proprio così. Lei mi confortò. Anche mia moglie alla fine capi.» Gli altri? «Mi dissero che ero pazzo. Tranne mio padre. Condivise la mia decisione fin dall'inizio. Non è stato facile per lui essere mio padre. Era prefetto di Arezzo quando io facevo la campagna contro Fanfani, l'aretino più illustre. Eppure dopo le arrabbiature iniziali è stato sempre al mio fianco. Pensa che quando nel '75 decisi di abbandonare la politica mi disse: perché lo fai? La tua vita è quella. Mi stupì. E mi stupì un'altra cosa: per decenni non mi ha mai parlato di suo fratello.
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Ho scoperto soltanto molto tardi che era stato ammazzato nel '44 dai nazifascisti a Rieti.» Quando Giorgio mi raccontava queste cose, il padre era appena uscito dal carcere di Pisa. Al mio arrivo, il vecchio prefetto era a colloquio col figlio. Gli aveva portato qui per la prima volta la madre. Hanno entrambi ottantotto anni. «Mamma in prigione non mi aveva mai visto. Non ha pianto. Si è limitata a dire: povero figlio mio.» L'aveva visto alla televisione: l'aeroporto, la ressa dei fotografi, l'arresto. «In quel volo da Parigi i passeggeri normali erano tre. Tutti gli altri erano giornalisti e operatori della Tv. Ho scoperto in quei giorni che cosa sia la televisione, quale dipendenza riesca a darti. Per qualche istante, sei il centro del mondo. Poi tutti si dimenticano di te.» Giorgio, e la famiglia Calabresi? «Niente. Non li ho cercati, loro non hanno cercato me. Li ho sempre guardati con imbarazzo. Ma pensavo che sarei stato assolto. Marino ha dato cinque versioni dei fatti...» Ti senti in debito nei loro confronti? "Né in debito né in credito. Anche se mi sento indirettamente responsabile di quella campagna. Me ne dolgo. E loro giustamente hanno del risentimento nei nostri confronti.» Il libro sul tennis aquilano è rimasto sul tavolo. Per una delle assurde regole del carcere non potei consegnarlo al mio
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE vecchio compagno di doppio. Facemmo un cenno alla guardia che era rimasta fuori della porta. Diedi a lei il libro, la guardia l'avrebbe dato al direttore, i1 dlrettore l'avrebbe dato a Giorgio. Uscimmo insieme. Sembravamo una coppia normale di vecchi compagni di scuola che si ritrovano dopo trentacinque anni. Ma un carcere non consente distrazioni. Così non vidi che un agente aveva fatto un cenno a Giorgio. Lui rispose alzando le braccia in alto con gesto secco, quasi militare Lo perquisirono. Ci salutammo davanti a una porta con le grate di ferro. «Ciao, Giorgio.Pietrostefani sorrise.
«C'era una volta la piccola malaz7ita..."
«C'era una volta la piccola malavita, l'unica a essere designata come delinquenza. I ladri con destrezza che ne erano la crema e via via tutti gli altri. Tutto questo è finito, c'è qualche residuo, qualche gattopardo sdentato che s'aggira ancora in questi cortili, ormai rassegnato e isolato. Il resto è droga. Non avrel mai immaginato che la droga potesse fare un'irruzione così sconvolgente nella vita italiana, fino a modificarne radicalmente la struttura più intima delle famiglie, dei rapporti umani, dell'amore, delle cose di cui ci si vergogna o non ci vergogna più. La droga ha trasformato anche il carcere. Tutti i titoli di reato - perfino molte delle violenze familia-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE
ri - ;sono ormai diramazioni del tronco unico che unisce la tosslcodipendenza allo spaccio di droga. Tutto questo ha fatto sprofondare il carcere romantico, il carcere epico, il carcere in cui ci si batte per restare se stessi. Io ho avuto un'educazione squislta, eccellente, mia madre sarebbe inorridita alla sola ipotesi che suo figlio finisse in galera. Eppure quando da adolescente leggevo Le letlere dal carcere di Gramsci, riuscivo a iscrivere la galera nel mio orizzonte. Ma era una galera meritevole, una galera onoraria, una iniziazione quasi desiderabile... Così quando nel '70 entrai nel carcere per la prima volta (poi fui assolto), queste strutture non mi sembravano particolarmente inique perché iniquo era lo Stato contro CUl mi battevo. Poi invece...» Uscito da una grande porta a sbarre, Adriano Sofri apparve più minuto, giovane e scattante di quanto non sia. Tagliò a passo svelto la biblioteca degli agenti e venne a sedersi accanto alla scrivania col piano di cristallo. «Pensa che quando ho fatto da qui un collegamento televisivo, sono arrivate lettere di protesta per dire che avevo una cella troppo lussuosa...» Siamo vissuti in pianeti diversi, era la seconda volta che ci incontravamo, eppure sembra che ci conoscessimo da sempre. Nella primavera del '96 era venuto con Renato Curcio a «Porta a porta". Sofri era libero, Curcio detenuto da molti anni col permesso di lavorare fuori. Prima della trasmissione, li
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE feci incontrare in un corridoio deserto di Saxa Rubra. «Ciao, Curcio. Sono Sofri.» Si strinsero la mano, ma non ci furono abbracci. Mi parve anzi che il capo delle Brigate rosse non manifestasse particolare calore verso il capo di Lotta continua. Questione di carattere, forse. Sofri è scattante ed espansivo, Curcio nasconde nella figura dimessa e nel linguaggio sobrio e cortese la freddezza aristocratica di un monaco combattente senza pentimento. Ebbi l'impressione che si incontrassero per la prima volta. E invece no, adesso nel carcere di Pisa Sofri mi diceva che si conoscono da decenni, ma non si vedevano dal '68. «Io ho avuto verso le Brigate rosse una ostilità molto maggiore di quella che puoi avere avuto tu, proprio per la nostra apparente vicinanza. Durante il sequestro Moro, io e altri come me avremmo fatto qualunque cosa, anche fisicamente, per liberare il prigioniero. Ci provammo? Facemmo quello che ci era possibile fare, cercammo di sapere tutto quello che potevamo, Enrico Deaglio fu perfino minacciato dalle Br. Però poi la carcerazione di Curcio mi diventò insopportabile. Non credo alla vendetta del carcere e tanto meno alla rieducazione.» Adesso si parla di risocializzazione... «Già, eppure tutta l'organizzazione carceraria è fatta in modo da togliere alle persone qualunque dignità e in particolare qualunque responsabilità. Avvilisce nell'arbitrio e nel capriccio di imposizioni futili o irrazionali tutti i momenti
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della vita qua dentro. E dota di risvolti terribili una legge pur benedetta come quella Gozzini che stabilisce premi, permessi, sospensioni della pena e semilibertà. Ben vengano, naturalmente, ma chi avrebbe pensato che una parola come libertà potesse venir dimezzata?» «La Gozzini toglie ai detenuti qualunque responsabilità sociale. Ognuno vede nell'altro una persona che casualmente è lì con lui, ma che persegue soltanto le proprie aspettative personali. E inquinata alla radici la fiducia reciproca tra i detenuti, viene punito il desiderio di fare cose collettivamente, perfino lo sciopero della fame. Gli agenti somigliano spesso ai detenuti perché la condizione li rende simili. Io negli anni ho capito che i carcerati non sono migliori dei carcerieri, ma se una guardia ti denuncia per una questione qualsiasi, una insofferenza sua o una insofferenza tua, prima ancora di qualunque accertamento viene sospesa automaticamente la concessione di qualunque beneficio per due anni.» E tu come vivi tutto questo?
«Sfonderò queste mura"
Sofri mosse le labbra e le fermò come quelle della Gioconda. Forse era un sorriso, forse una piega amara, forse un'espressione indecifrabile di scherno.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Io sono molto ragionevole e tutto questo mi procura un danno gigantesco...» Un danno? «Un danno gigantesco perché si può avere la sensazione che iO prenda sul serio tutta questa cosa che invece è abominevole. Contro di essa reagirò nel momento in cui deciderò di reagire, nell'unico modo in cui merita che io reagisca.» Cioe? «Cioè sfonderò queste mura, prenderò la rincorsa e sfonderò queste mura. Fino ad allora simulerò di essere una persona normale che sta in galera. Ma non dimentico nemmeno per un momento di essere fisicamente sequestrato con una violenza ignobile e inaudita.» Per il resto? «Le giornate in carcere sono velocissime. Mia madre, donna meravigliosa, diceva che gli anni volano, ma certi pomeriggi non passano mai. In galera, invece, sono le giornate che volano, mentre gli anni non passano mai. Non esistono qui dentro, al contrario di quanto s'immagina, il silenzio e la solitudine. Il tempo e lo spazio della galera sono frantumati da un'enorme quantità di eventi e sopraffatti dal rumore.» Rumore? «Il rumore della galera è un frastuono ininterrotto che ha al centro il concerto dei ferri battuti, delle sbarre, della ferraglia, delle blindate, degli sportelli, il tintinnio (ma è una parola che mal si adatta) di queste gigantesche chiavi che sbatacchiano
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tutto il tempo. Ogni giorno vengono per due volte nella tua cella a battere contro le sbarre per vedere se le hai limate, ogni notte vengono ad accenderti la luce in faccia mediamente dieci volte per fare conte assolutamente superflue visto che nessuno va via. Il carcere tortura in modo pazzesco.» Non sapevo che si usasse ancora battere contro le sbarre. «Si usa. Nessuno crede che abbia senso, ma si usa. Ricordi il piccolo principe che accendeva e spegneva l'universo? La consegna è la consegna, diceva. Lo dicono anche qui.» Basta un'ora di carcere per tracciare sul cervello e sull'anima di un uomo un segno incancellabile. Dovrebbero saperlo i cittadini giustizialisti che s'eccitano davanti alle ghigliottine, dovrebbero rammentarlo i magistrati che invocano il «momento magico» dell'arresto per fiaccare la resistenza dell'inquisito alla confessione e soprattutto alle chiamate di correo. Trent'anni fa, quando entrai per la prima volta tra i sepolti vivi di Porto Azzurro, il carcere assomigliava più di oggi a una comunità. Era perfino più umano. Ma non c'era speranza. I detenuti realmente come persone. Il direttore generale di allora, Manca, mi spiegò che essi non potevano parlare con i giornalisti perché con le loro dichiarazioni avrebbero potuto farsi del male, anche senza volerlo, incapaci com'erano non solo di esercitare qualunque diritto, ma anche di badare semplicemente a se stessi. Sofri poteva invece incontrare i giornalisti, fare perfino
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE collegamenti diretti in televisione dal carcere, tenere rubriche sui giornali, usare il fax della posta interna, telefonare due volte al mese come tutti i detenuti, avere giornali freschi. Eppure a queste opportunità un tempo impensabili, continuavano ad affiancarsi divieti incomprensibili e talvolta ridicoli «è vietato passare qualunque cosa ai detenuti di un piano diverso dal nostro. Giochiamo insieme a pallone e a pallavolo. Ma una volta che a un nostro amico marocchino abbiamo dato due patate, due di numero, queste sono state sequestrate. Ho dovuto fare una battaglia indicibile per avere una penna stilografica. è proibito avere libri rilegati e questo significa non poter leggere le cose più interessanti che escono... «In questo modo io dovrei stare qui per essere rimesso tra vent'anni in condizione di frequentare quella società esterna di cui non ero degno.» Con chi dividi la cella? «Con nessuno, per fortuna. Qui ci sono soltanto tre celle singole e la mia è infima, brutta, sordida. Però la sento adatta a me. Nonostante vi sia rinchiuso da solo per diciotto ore al giorno, non sopporterei la convivenza. Di fronte alla mia cella c'è quella bruttissima, umidissima e oscura in cui stanno Bompressi e Pietrostefani. Chiamiamo questa sistemazione "la bicamerale". Che facciamo? Quando siamo chiusi, magari ci tiriamo un limone attraverso le sbarre. Quando aprono le celle, stiamo insieme. Bompressi cucina magnifiche verdure che poi mangiamo noi perché lui è di una sobrietà alimen-
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tare straordinaria.» Guardi la televisione? «Guardo tutti i programmi d'informazione, ma tengo acceso stabilmente il televisore perché il suo rurnore è meno fastidioso del rumore di fondo del carcere, perché qui tutti per parlarsi urlano.
«Scusi, quando si suicida?
Ogni tanto dici: è già passato troppo tempo, bisognerà che questa storia finisca. Che significa? Qualcuno ha visto in queste frasi addirittura l'annuncio di un suicidio. «Per questo mi sono arrivate lettere con l'invito a impiccarmi presto, autorevoli manuali sul suicidio, visite di giovani giornalisti che volevano conoscere la data in cui mi sarei ammazzato. Il problema è che in me l'idea del suicidio è totalmente remota. Corro anzi il rischio di affezionarmi alla galera...» Ma? «Ma la nostra storia è così aberrante, perversa, mostruosa, grottesca, così sfuggita al controllo di chiunque, che io stesso non riesco a prenderla interamente sul serio." Quindi? «La cosa più semplice sarebbe stato squagliarsela. Siamo stati sollecitati a farlo. Non l'abbiamo fatto, anzi il tuo com-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE pagno di scuola Pietrostefani è addirittura tornato dall'estero. Se cercassimo una soluzione alla nostra detenzione, dunque, avremmo evitato di venire in galera.» E allora? «Il nostro problema è di rovesciare, sia pure tardivamente, il torto che ci è stato fatto. Un torto selvaggio, barbaro. Il nostro obiettivo è di ottenere la revisione del processo e la sanzione dell'ingiustizia di queste condanne. Tu hai detto che non siete stati vittime di un complotto, ma del «partito preso». Che significa? "Io ho studiato a lungo la storia e l'ideologia dei complotti. Magari ne avessero fatto uno contro di noi. Sarebbe stato assai più facile da sventare o, una volta avvenuto, da smontare. Allora tutta la vicenda Marino è nata spontaneamente? «Marino e la moglie hanno elaborato nel corso del tempo, un po' reciprocamente, un po' ciascuno per conto suo, delle antiche illazioni che hanno covato a lungo mischiandole con notizie che hanno ricevuto. A un certo momento, certamente per ragioni di disastro economico e poi forse anche per ragioni di disastro umano, personale e familiare, sono andati a mettere sul mercato tutta questa roba. Ma quando parlo di partito preso, penso ad altro. Per esempio? «Fin dall'inizio i carabinieri e alcuni magistrati di Milano hanno pensato che dietro l'omicidio Calabresi ci fosse Lotta
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continua. Non noi, ma qualcuno del movimento. Quindi c'era un terreno favorevole a far maturare quel che è accaduto. Ma il problema più grosso è un altro. Non mi aspettavo un tale livello di solidarietà di corpo della magistratura italiana. Nonostante i miei tentativi di far considerare il nostro soltanto un caso giudiziario da risolvere in uno Stato di diritto ha pesato su di noi il conflitto tra magistratura milanese e régime politico.» Vi sentite perseguitati dalla magistratura milanese? «Guarda, ci si sta accapigliando sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Di questo problema, francamente, non me ne frega niente. Ma voglio raccontarti un episodio clamoroso. Il nostro processo di primo grado era presieduto da un magistrato importante, autorevole, prepotente, Manlio Minale, che secondo me ha condotto il dibattimento con l'intenzione di condannarci. All'inizio del processo mi dissero che per Minale era l'ultimo, visto che era stato nominato procuratore della repubblica aggiunto. Fui consigliato di ricusarlo, visto che stava per giudicare l'operato della procura in cui si sarebbe trasferito. Io sono una persona sportiva e dissi: una ragione di più per tenerlo, sarà prudentissimo. Poi è andata come andata, anche perché il giudice relatore, che aveva un tic e muoveva la testa come fanno i cagnolini appoggiati al vetro posteriore delle automobili, ebbe un atteggiamento protervo e colpevolista durante tutto il
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE processo e poi passò anche lui in procura. Di più: se Borrelli diventerà presidente della Corte d'Appello di Milano, sarà lui ad avere in mano la revisione del nostro processo, ammesso che riusciamo a ottenerla. Processo che avviò lui come procuratore. Nell'arco di una quindicina d'anni Borrelli si troverebbe a essere l'alfa e l'omega della mia vicénda giudiziaria. .. Sostieni dunque di non essere stato giudicato serenamente? «Sostengo che i magistrati che si sono occupati del nostro caso l'hanno fatto in malafede, cioè lo hanno fatto addirittura manipolando le cose stesse che trovavano, seguendo da un lato la strada che avevano imboccato sontuosamente e chiassosamente e dall'altro una solidarietà di corpo che è stata affatto decisiva.» Non ti paiono affermazioni avventate e calunniose? «Ti racconto un altro episodio. Quando l'istruttoria era ancora aperta, una importante personalità andò a parlare con il giudice istruttore di Milano, Antonio Lombardi, un giudice che passava per essere scrupolosissimo. Questo giudice, per inciso, dopo ventiquattro anni tiene ancora segrete le carte SUI mandanti del processo Bertoli, carte che certamente metterebbero a disagio anche i riabilitatori della figura di Calabresi.» (Gianfranco Bertoli il 17 maggio del '73 lanciò davanti alla questura di Milano una bomba che uccise quattro persone. Nell'estate del '97 un vecchio militante comunista ha rivelato a Lombardi che vittima designata era il ministro dell'Interno, Mariano Rumor che
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stava per uscire dalla guestura dopo aver inaugllrato un busto in ricordo di Calabresi, e che Giancarlo Pajetta e altri dirigenti del Pci furono informati dell'attentato con due giorni di anticipo, ma per ragioni non chiarite, pur considerando la fonte assai attendibíle, non diedero l'allarme.) «Allora quando questa personalità andò da Lombardi a chiedergli come avrebbe proceduto nell'istruttoria, visto che era caduto l'entusiasmo iniziale di aver beccato tutto l'esecutivo di Lotta continua e non c'erano le prove, Lombardi scrisse nella sua ordinanza che è impensabile trovare le prove del mandato. Questa frase, ripetuta per anni in camera caritatis al tribunale di Milano, camere di consiglio comprese, era pO1 diventata: esiste la prova "non ostensibile" della loro colpevolezza. Che significa? Significa: abbiamo un confidente, qualcuno di cui non possiamo fare il nome? Sai a che cosa mi fa pensare tutto questo? Al caso Dreyfus... Che c'entri tu con Dreyfus? «Nel caso Dreyfus a un certo punto il governo francese chiamò il giudice militare, gli fece vedere carte segrete la cul divulgazione avrebbe messo in pericolo la sicurezza della Francia e che decisero la condanna di Drevfus. [Le carte illustravano nuovi modelli di artiglieria trancese e fuwno trovnte dn una donna delle pulizie in un cestino]. Bene, io ho la sensazione che nel nostro piccolo una carta del genere sia stata giocata contro di noi e ripetuta nel tempo. Si spiegano così le discre-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE panze tra il fatto che il racconto di Marino sia andato a farsi fottere e il fatto che lui, secondo i giudici, abbia detto la verità sulle responsabilità del delitto Calabresi." (La posizione dei giudici è evidentemente opposta. Leggendo le centinaia di pagine della motivazione dell'ultima conferma della condanna in Cassazione, si vede come i magistrati hanno ritenuto di confermare nei fatti il loro giudizio di colpevolezza.)
«Chi ha ucciso Calabresi?»
Scusa, Sofri. Secondo te, chi ha ucciso Calabresi? «Non lo so e se lo sapessi non so se te lo direi. Penso che Calabresi sia stato ucciso da persone di sinistra, convinte di fare giustizia dell'assassinio di Pinelli...» Tu sei ancora convinto che Pinelli sia stato buttato fuori dalla finestra della stanza di Calabresi alla questura di Milano? «Io non ho mai accettato la sentenza di D'Ambrosio sulla morte di Pinelli. [Gerardo D'Ambrosio, allora giudice istruttore, disse che Pinelli era precipitato per un malore, escludendo così sia il delitto che il suicidio. Un fermato, per giunta illegalmente che vien fuori dalla finestra del quarto piano della questura di Milano e finisce nel cortile è una cosa da cui non si torna indietro. Ci sono sei persone ancora vive che stavano in quella stanza e hanno visto tutto. Allora parlarono di uno "scatto felino" di Pinelli verso la finestra, si vide che mentirono, ma
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non hanno più raccontato niente... Ripeto oggi queste cose perché mi vergognerei a rinnegarle. Le ripeto nonostante nella mia attuale condizione di detenuto nessuna magnanimltà mi venga concessa.» La vostra tremenda campagna contro Calabresi sul giornale di Lotta continua ha armato la mano degli assassini? «Non so quanto sia diretta la relazione tra le due cose, ma certamente un rapporto c'è stato.» Vuoi dire che senza quella campagna Calabresi non sarebbe stato ucciso? «Non ne ho idea. Ma se quell'omicidio fu compiuto da persone di quella che allora si chiamava sinistra rivoluzionaria, certamente ci fu una connessione tra la nostra campagna (ma non fummo certo i soli) e la morte di Calabresi. Ma senza quella campagna non si sarebbe denunciato nemmeno il caso Pinelli.» Pensi che le persone di sinistra di cui parli fossero militanti di Lotta continua? «è possibile. Nel corso di questi anni molte persone avrebbero voluto assumersi responsabilità, compresa la gestione della campagna contro Calabresi, la scrittura di certi articoli. Ma io le ho dissuase spiegando che tutto ciò non aveva niente a che fare con il nostro processo. è inutile la meschina rin-
corsa a nomi e cognomi in uso in Italia invece dell'accerta-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE mento della responsabilità delle cose. Pensi dunque che la storia giudiziaria di quel periodo non andrebbe fatta? «L'espressione storia giudiziaria è brutta, ne diffido. Esiste un codice, esistono reati, i processi debbono giudicare i reati.» Rileggendo gli articoli che scrivesti dopo la morte di Pinelli provi imbarazzo? «No. Ho scritto soltanto un paio di articoli, anche se mi sono assunto la responsabilità di tutti gli altri. In uno degli articoli scrissi che il suicidio di un anarchico dalla finestra era un classico. Non solo di un anarchico, in verità, perché citai quel che la polizia comunista aveva fatto in Cecoslovacchia con Masaryk. Di quell'articolo rimango molto contento. Ma non scrivesti solo quello... «Ne scrissi un altro il giorno della morte di Calabresi. Non c'era scritto, come fu detto, che l'omicidio era un fatto di giustizia, ma insomma mi assunsi l'intera responsabilità sia di quell'articolo sia dei tanti altri che non scrissi io. («La giustizia del popolo è lenta. Lenta ma arriva." Questa frase comparve nell'editoriale di «Lotta co1ltinua" del 19 maggio 1972 che definisce «giusto» I'assassinio. Sofri sostiene di aver scritto soltanto quello del 18 in cui ribadiva peraltro un giudizio estremame1lte negativo sul commissario ucciso.) Erano sbagliati quegli articoli? «Sbagliati? Alcuni di quegli articoli erano atroci, abominevoli. Esprimevano un gusto compiaciuto del linciaggio. Scri-
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vemmo addirittura l'indirizzo di casa Calabresi, che era sbagliato, ma solo per un nostro difetto d'informazione. Si calcava la mano per costringere Calabresi a querelare: sapevamo che i suoi superiori non volevano, questa ci sembrava un'ammissione di colpevolezza e quindi rincaravamo costantemente la dose. Però non sono articoli miei. Anche stilisticamente...» Ma non vi rendevate conto che quegli articoli avrebbero potuto avere conseguenze terribili? «No. Tanto più forte era l'incarognimento, tanto più sventatamente spensierata era la previsione...» Era un gioco perverso, allora? «No, non era un gioco. Ricordi il mio litigio con Togliatti qui a Pisa? Sembrava lesa maestà, come s'era permesso un ragazzino... Bene, io gli rimproveravo di usare un doppio binario. Continuava a usare un linguaggio rivoluzionario e la sua pratica politica era completamente incoerente con quanto diceva Noi siamo rimasti vittime dello stesso meccanismo. Il nostro estremismo verbale è stato rincarato fino al punto che si materializzavano dinanzi a noi fatti che sembravano tradurre in pratica le nostre parole, ma in realtà le tradivano.» Esistono episodi particolarmente gravi nei quali è stata coinvolta Lotta continua e che non sono mai venuti alla luce? «No, non solo non esistono, ma la cosa più atroce è l'attribuzione a Lotta continua, a distanza di venti, venticinque an-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ni, di una qualità terroristica che le era assolutamente estranea. E' stato possibile immaginare che persone di Lc abbiano ucciso Calabresi, io stesso ho ammesso in tempi lontani che persone di Lotta continua avevano fatto rapine per finanziarsi, perché avevano preso armi e così via. Noi forse per qualche verso abbiamo anche sollecitato comportamenti del genere, ma poi li abbiamo fatti cessare. I militanti di Lc che hanno voluto continuare a fare queste cose hanno rotto col movimento.» E mai esistita all'interno di Lotta continua una struttura non riconosciuta che usasse sistematicamente la violenza? «No. Per l'intero arco di tempo in cui è esistita l'organizzazione, dal '69 alla fine del '76, gli episodi di violenza oscura, segreta, clandestina, sono stati minimi.»
«Lotta continua? Uno stato d'animo»
Che cosa è stata Lotta continua? «Uno stato d'animo. Un tentativo di rendere durevole un grande incontro comunitario fondato su due ragioni alle quali resto molto legato: una mescolanza di persone che oggi, in una società tornata rigida, è di nuovo molto difficile e il fatto di essere l'ultimo movimento unitario della storia italiana.» In che senso? «Molti di noi restarono colpiti dal fatto che la questione
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meridionale restasse ferma. La morte dei braccianti ad Avola l'arresto di contadini a Isola Capo Rizzuto. Trovammo al Nord le più grandi città meridionali d'Italia, soprattutto Torino, dove un'ondata di giovani immigrati nostri coetanei andava ogni mattina in fabbrica. Credevamo nello slogan: "Nord e Sud uniti nella lotta". Alla chiusura delle fabbriche andavamo nel Sud a fare le vacanze con gli operai...» er questo è rimasta una forte solidarietà tra voi a vent'anni dallo scioglimento di Lc? «Chi parla di una nostra lobby non ha mai conosciuto l'amicizia. Sai che mi ha scritto tanta gente disposta a dividere con me gli anni di pena ai quali sono stato condannato? Mi ritengo per questo una persona molto fortunata.» Marino dice che sei stato un cattivo maestro, che hai portato decine di giovani alla rovina... «No, assolutamente. Ho portato moltissimi giovani, ma anche molte persone di età, a fare quello che ritenevo giusto fare e che io stesso ero pronto a fare. Per questo l'accusa di essere il mandante dell'omicidio Calabresi è ignobile.» A proposito, qual è il tuo rapporto con la famiglia Calabresi? «è stato un rapporto povero che si è progressivamente immeschinito. Io ho una fortissima avversione per le cerimonie italiane di pubblica indiscrezione con tutti gli abbracci tra perdonatori e perdonati e tutti gli incontri plateali tra ex nemici. Non mi piace la pubblica esibizione di sentimenti privati.»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE E allora? «Allora quando è cominciata questa vicenda, avrei voluto avere con la famiglia Calabresi un rapporto molto rispettoso, molto civile, privo di qualunque inimicizia...» E invece? «Alla prima udienza, prima che si aprisse il dibattimento, in un'aula ancora semivuota, in un momento di distrazione dei giornalisti, mi avvicinai alla signora Gemma Capra, mi presentai. Sono Adriano Sofri, la saluto. Lei mi rispose altrettanto civilmente, ci demmo la mano e io mi allontanai. Restai molto amareggiato quando sentii nei telegiornali che la signora disse che nessuno degli imputati aveva alzato gli occhi in aula...» (La signora Calabresi spiegherà questo atteggiamento nel nostro incontro che racconteremo più avanti.) E poi? «Mantenemmo un rapporto distante ma civile. Stavamo seduti vicini, i miei figli salutavano i loro figli, senza ridurre questa distanza misurata. Un giorno andai a salutare il figlio maggiore di Calabresi, Mario, un ragazzo alto che mi era molto simpatico e che fa il giornalista parlamentare. Gli detti la mano e gli dissi qualcosa come: quando tutto questo sara finito, Cl vediamo e facciamo due chiacchiere. Naturalmente pensavo che la storia sarebbe finita in maniera diversa. Lui mi rispose. Dopo di che lui disse che mi aveva dato a mano solo perché era stato preso alla sprovvista, che non
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avrebbe fatto mai una cosa del genere. Infine, a chiudere la possibilita di un qualsiasi rapporto, intervenne uno degli avvocati dei Calabresi, Li Gotti, che disse delle cose infamanti come quella che io sarei il mandante del delitto Ros agno...» Ti senti in debito con la famiglia Calabresi? «Dovrebbe chiudersi una volta per tutte questo libro mastro di debiti, di conti aperti, di conti da regolare, compreso il Padre Nostro. Io, non per mio merito, ho due figli che sono una gran fortuna, mi rallegro vedendoli e al tempo stesso mi addoloro pensando che ci sono altri figli senza un padre che li guardi, si congratuli, si rallegri. Questo è quanto ho da dire.» Mi confermi che non chiederai mai la grazia? «Mal Il giorno in cui dovessi farlo, sarei completamente
Grazie, ti manderò il libro. A proposito, è rilegato. Come si fa? «Quando usclrà il tuo libro, io sarò fuori di qui.» Non sarà così. Quando esce questo libro, a fine ottobre del , Sofri, Pietrostefani e Bompressi hanno appena cominciato uno sciopero della fame perché si torni a parlare della loro sorte nelle sedi proprie. Al loro fianco, in ottobre, s'è schierato anche Dario Fo, dopo aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura. Ma la revisione del processo è lontana e allo stato improbablle, come i provvedimenti di clemenza.
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«Invece di andare in ufficio, ammazzi una persona»
«Quando entri in certi meccanismi, non sei più te stesso. Ti svegli al mattino e invece di andare in ufficio, vai ad ammazzare una persona. Fu così anche quel giorno di maggio
del '72. Non pensavo a niente, se non alla mia incolumità. Vidi il commissario che usciva, Bompressi gli si avvicinò mentre stava infilando le chiavi nella portiera della Cinquecento, gli sparò alla nuca, Calabresi cadde. Non ricordo nemmeno se ho visto il sangue. Pensai: è fatta. Mi venne un senso di nausea. Anche Bompressi era turbato. Appena rientrò in macchina mi disse: "Che schifo". E ce ne andammo. Com'è bella Bocca di Magra nel lungo autunno caldo del '97. A destra, le Cinqueterre cominciano con Lerici. A sinistra s'intravede la Versilia. L'acqua è trasparente, non caplsci dove finisce il fiume e dove comincia il mare. Le barche nposano, i bambini usciti dalle scuole e dagli asili giocano nei giardini del lungofiume. Pochi sanno sa che quest'uomo tarchiato con i capelli imbiancati troppo presto è il protagonista di una delle storie più inquietanti dell'Italia moderna. è Leonardo Marino, il pentito. Un infame della specie peggiore, per i tanti che militarono con lui in Lotta Continua. Un cittadino che ha fatto i conti con la giustizia e con la propria coscienza, secondo altri. Lui è approdato qui nell'85 dopo
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una vita balorda. Negli anni ha messo su un bel chiosco, vende crepes con la moglie e il figlio. Teme la vendetta dei SUO1 ex compagni («Sono potenti e stanno dappertutto»). Teme per il suo chiosco e il suo futuro. Ci sediamo accanto al fiume mentre i bambini più piccoli giocano facendo la voce delle rondini. E mi racconta la sua storia, la sua verltà, opposta a quella delle pagine che abbiamo appena letto. "Ovidio sparò con una pistola a tamburo a canna lunga. No, il silenziatore non c'era, parecchi testimoni hanno sentito i colpi. Era a canna lunga, ma l'ha messa in tasca. So che mi si contesta che una pistola a canna lunga bollente dopo aver sparato non può entrare in una tasca. Ma Ovldio aveva evldentemente una tasca grande. Quando siamo usciti di casa teneva lì la pistola e lì l'ha rimessa dopo il delitto. Quando siamo arrivati vicino a casa Calabresi, lui si è appostato per aspettare il commissario, io mi sono fermato con la macchma per aspettare lui. Sì, so della contraddizione. Ho detto che l'auto era beige e invece era blu. Può capire che si faccia un po' di confusione quando in quattro ore si deve raccontare a un magistrato tutta la propria vita? I giornali scrissero che l'auto era blu. Se mi avessero imbeccato i carabinierl, come dice qualcuno, non mi avrebbero fatto commettere questo sbaglio. Già, i carabinieri. Non è vero che mi hanno tenuto in cottura venti giorni prima di arrivare alla confessione. E che lO ho detto il 2 luglio dell'88 al maresciallo di Amelia, qua vi-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE cino, che volevo parlare. Poi è venuto il capitano Meo. Poi è venuto da Milano il colonnello Bonaventura. Poi mi hanno portato dal sostituto procuratore Pomarici e lì ho parlato. Era il 25 luglio, ma nei giorni precedenti io ho continuato a lavorare qui e non è successo niente.» Prima di andare dal maresciallo lei si era confidato con altre persone. «Quando decisi di liberarmi la coscienza, andai a parlare con Raffaele Bertoni. [E' stato presidente dell'associazione nazionale magistrati dall'aprile dell'88 al luglio del '91. Dal '94 è senatore del Pds.] No, non ero amico di Bertoni. Ero amico di Giovanni Forcieri, che era sindaco di Sarzana e adesso è senatore del Pds. Bertoni lo conoscevo e decisi di confidarmi con lui.» Gli parlò dell'omicidio? «Sì.» Lei incontrò anche un sacerdote. Disse anche a lui di Calabresi? «No." I preti non danno in questi casi maggiori garanzie di riser-
«Sono due piani diversi. Bertoni era stato un capo partigiano ed era uno che contava nel Pci. Preferii dirlo a lui e lui mi disse di rivolgermi alla magistratura.» Ha visto clle i suoi compagni detenuti a Pisa parlano di sciopero della fame perché sostengono di essere vittime di una mostruosa ingiustizia? Ha mai sentito qualche rimorso
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m questi anni nei loro confronti? «La mia coscienza si è rasserenata nel momento in cui mi sono liberato del peso che avevo per l'omicidio di Calabresi. Questa è la cosa essenziale. Se gli altri sono in carcere è perché la magistratura mi ha creduto, ma anche perché hanno tenuto un atteggiamento di sfida verso la giustizia. Bastava che ammettessero le loro colpe, che collaborassero e forse sarebbero fuori.» S'aspettava la reazione che c'è stata contro di lei in questi anni?
«Be', certo non pensavo che gli ex militanti di Lotta Continua avrebbero gioito dopo la mia confessione. Ma non mi aspettavo nemmeno che mettessero in piazza così la mia vita privata. Io non sono andato mica a dire con chi andavano a letto Sofri e Pietrostefani né dove prendevano i soldi per mangiare. Io ho raccontato episodi precisi. Invece loro mi hanno attaccato in modo così volgare...»
«Pietrostefani ci disse: eliminate il commissario".
S'è detto che viste le sue difficili condizioni economiche lo Stato potrebbe esserle venuto incontro... «Io non ho avuto nessun contributo. Dal '72 in poi mi sono
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE trovato in condizioni economiche forse peggiori dell'88, per cui se volevo vendermi, avrei potuto farlo prima. Il fatto è che io non mi sono venduto. La cosa più importante era liberare la mia coscienza. Sentivo quel delitto come una maledizione. Mi ero convinto che se non avessi espiato in qualche modo, mi sarebbe andato tutto sempre male.» Sofri l'ha aiutata economicamente? «Sì, alcune volte mi ha dato dei soldi. Ma non perché io lo ricattassi.» Pensa che su Sofri abbia pesato il fatto di saperla custode di questo terribile segreto? «Non credo. Sofri ha aiutato altri compagni in difficoltà.» Lei ha sostenuto di aver avuto da Sofri e da Pietrostefani l'incarico di uccidere Calabresi, insieme con Bompressi. La difesa dice che lei è caduto in contraddizione sulle circostanze in cui questi ordini le sarebbero stati dati. «Ma no, guardi. Le cose sono andate così. Io ho incontrato Pietrostefani che era responsabile del servizio d'ordine e del gruppo clandestino di Lotta Continua...» Lei sa che secondo Pietrostefani non c'era nessun servizio d'ordine e nessun gruppo clandestino... «E allora se l'è inventato anche Curcio, quando ha detto di aver incontrato Pietrostefani, in quanto rappresentante del servizio d'ordine di Lc, per decidere se aggregarci alle Brigate Rosse? Allora io tenevo i contatti con Pietrostefani e fu lui a dirmi a Torino, in casa di Paolo Buffo, che l'esecutivo di
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Lotta Continua aveva deciso di uccidere il commissario...» Ricorda la parola esatta che le disse a proposito di Calabresi? «Elimlnarlo. Mi disse che si era deciso di eliminarlo. Chi faceva parte dell'esecutivo di Lc? «Sofri, Pietrostefani, Boato, Rostagno, credo Morini...» Hanno smentito tutti, vero? «Sì.» A proposito di Rostagno, la sua morte c'entra qualcosa con questa storia? «Potrebbe anche entrarci, però io non ne so niente e preferisco non parlarne. Chi c'era quando Pietrostefani le disse di eliminare Cala-
«Ne discutevamo nel nostro gruppo. Ma in quel momento c era solo Bompressi.» E lei come reagì? «Dissi che ero d'accordo. Erano tempi terribili, quelli. C'era una manifestazione al giorno. Forse però in fondo al mio animo c'era qualche dubbio sul commettere un'azione così vlolenta. Bompressi? Era favorevole. Sicuramente favorevole. Pletrostefani ci disse che della logistica si sarebbero occupati i compagni di Milano.
«Sofri ci disse: avete fatto un buon lavoro...»
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Senta, Marino. Un punto mai chiarito del processo riguarda proprio i «compagni di Milano. Lei ha detto al processo h ei la loglstica faceva capo a un certo Luigi. Quante volte lo
«Un paio di volte.» Può descriverlo fisicamente? «Era giovane come noi. Statura normale, circa un metro e settanta, biondino... In questo stesso libro, Pietrostefani ripete che Luigi non esiste. Come può essere? «Luigi non si è mai trovato perché probabilmente sono stati fatti degli errori nell'istruttoria. Ma Luigi c'è. (Le indagini furono fatte su una decina di Luigi che gravitavano intorno a Lotta Continua. Nelle pngine precedenti, Pietrostefani racconta la storia di Luigi Noia che fu prima coinvolto e poi scagionnto. Per qunnto ho potuto ricostruire, I'attenzione di Marino si sarebbe concentrata su una casa in cui abitavano due fratelli, in due piani diversi e dai nomi o soprannomi simili. Le indicazioni del pentito sono state giudicate evidentemente insufficienti o inattendibili.) «Questo Luigi» riprende Marino «ci ha ospitato in casa sua per due notti. Perché noi avremmo dovuto uccidere Calabresi il giorno prima, ma il commissario non uscì di casa.» Lei ha detto che Sofri le confermò l'ordine di uccidere Calabresi. Lo fece durante una manifestazione a Pisa. Le si è
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contestato di non ricordare se piovesse o c'era il sole... «L'incontro l'ho avuto, la manifestazione c'è stata, non mi pare molto rilevante che non ricordi se piovesse o no. Era una manifestazione per la morte dell'anarchico Serantini. Il clima era tesissimo. Riuscii a parlare con Sofri soltanto una decina di minuti al termine della manifestazione. Io ero lì proprio per sapere se lui era d'accordo con questo omicidio. Glielo chiesi. E lui mi disse che soprattutto dopo la morte di Serantini bisognava dare una prova di forza. Mi disse anche di tornare tranquillo a Torino, perché poi mi avrebbero telefonato i compagni di Milano per gli ultimi accordi." E da Milano chi la chlamò? «Luigi.» Quando rivide Sofri e Bompressi? "Il delitto avvenne di mercoledì. Il sabato andai a Massa dove c'era un comizio di Sofri. Mi sembrò di aver visto Bompresi con i capelli più chiari del solito. Allora mi hanno accusato di aver detto che Bompressi s'era tinto i capelli. Non l'ho mai detto. Erano solo più chiari." Che le disse Sofri? «Che avevamo fatto un buon lavoro.» In questo libro Pietrostefani, oltre a negare naturalmente ogni coinvolgimento nel delitto Calabresi, nega l'esistenza stessa di un'ala militarista in Lotta Continua. «Guardi, io non escludo che ci fossero delle lotte di pote-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE re interne a Lc. Pietrostefani ci diceva sempre di parlare a nome dell'esecutivo. Millantava? Non lo so. Ma che si discutesse apertamente di lotta armata è un fatto. Al congresso di Rimini si parlò apertamente di svolta militare dell'organizzazione. Sono stati sequestrati documenti che confermano questa scelta. Io ho detto al processo che nel '71 abbiamo rapinato un'armeria. Bene, la pistola usata da Bompressi per uccidere Calabresi veniva da quell'armeria Quando furono fermati due dirigenti di Lotta Continua Albonetti e Pedrazzini, erano in possesso di pistole fruttó di quella rapina. Pedrazzini fu preso sotto l'abitazione del deputato missino Servello. Se le armi che abbiamo rubato noi a Torino sono state trovate addosso a due militanti a Roma e a Milano, vuol dire che c'era una organizzazione che queste armi le distribuiva."
«Quando pedinavo Stefano Delle Chiaie"
Dopo la rapina dove metteste le armi? «In un deposito a Torino. Poi Bompressi e Pietrostefani le distribuivano. » Lei ha mai visto Pietrostefani distribuire armi? «No.» Lo ha mai visto armato? «No "
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Ha mai visto Sofri armato? «No.» Quindi Pietrostefani si occupava soltanto degli aspetti organizzativi, senza mai partecipare direttamente alle azioni? «Si.» Quanti di voi erano in grado di sparare?» «Tanti. Sciolta Lc, l'organizzazione terroristica Prima Linea fu fondata da tutti i nostri militanti. Quante rapine ha fatto? «Otto. Cinque quando ero nell'organizzazione. Tre dopo.» Chi le ordinò le rapine per Lotta Continua? «Pietrostefani.» Il dibattito sull'opportunità di azioni militari era ideologico? «In un certo senso sì. Poiché le rivoluzioni possono farle soltanto le masse, le violenze d'avanguardia servono a far prendere coscienza alla gente che certe cose si possono fare.
La rivoluzione l'avrebbero fatta gli operai della Fiat, come me, quelli della Pirelli e di altre fabbriche.» Che cosa fece nel periodo successivo all'omicidio Calabresi? «Pietrostefani mi mandò a Roma. Forse pensava che era meglio che per un po' stessi lontano da Torino.» Che cosa fece a Roma? «Il capo dell'organizzazione romana dovevo essere io. Facevamo delle indagini per l'organizzazione...»
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE Per colpire qualcuno? «Più che altro facevamo indagini sui fascisti che allora erano abbastanza potenti all'università. Ricordo che pedinai alcuni fascisti...» Ricorda anche chi? Marino resta a lungo silenzioso. «Stefano Delle Chiaie. Pedinavo Stefano Delle Chiaie. Non l'avevo mai detto a nessuno...» A proposito, che cosa sapeva della famiglia Calabresi? «Appena tornato a Torino, a mezzogiorno, c'era già l'edizione straordinaria della "Stampa". Sapevo che Calabresi aveva due bambini piccoli, non sapevo che la moglie fosse di nuovo incinta. Restai sconvolto. Ha mai parlato con la signora Calabresi? «No. Le ho chiesto con una lettera di perdonarmi.» Le farebbe piacere incontrarla? «Sì, ma dovrebbe essere una cosa soltanto nostra.»
«Gigi mi disse: menti di destra, ma1l0vali di si11istra»
«Ero appena entrata in cucina per bere un bicchiere d'acqua. Entrò anche lui e senza dire niente mi dette un bacio sulla bocca. Poi uscì e andò a sedersi accanto a un'altra ragazza. Era il capodanno del '68. Poco dopo ci fidanzammo. Quando mi portò a Roma per conoscere i suoi genitori, ero
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magrissima. La madre mi disse: "Ma come farà 'sta fijia mia ad avere bambini si nun magna?". Gigi mi scriveva lettere d'amore bellissime. Aveva un sentimento cattolico profondo, leggeva Maritain e Bernanos, ma anche Pavese e i grandi russi. Padre Rotondi, che era un suo amico, ci sposò il 31 maggio del '69. Andammo ad abitare in un appartamento che mio padre aveva comprato come regalo di nozze dalla famiglia Feltrinelli. Tre anni dopo Gigi fu ucciso...» Gemma tacque. E ancora una volta il fantasma del commissario Calabresi entrò nell'appartamento luminoso e ordinatissimo in cui sua moglie vive da anni con il nuovo marito, un artista che insegna arte nelle scuole e che considera Gigi un fratello al quale rendere giustizia. Chiesi a Gemma se suo marito, al di là del caso Pinelli di cui avremmo parlato, avesse preso iniziative arbitrarie o magari soltanto impopolari. No. Il capo dell'Ufficio politico era allora Antonino Allegra, un uomo dalla personalità fortissima che voleva sapere tutto quello che accadeva nel suo ufficio ed era rispettato dai suoi perché era molto preparato. Gigi non è mai stato il suo numero due, era poco più che un novellino. Ma non aveva paura di esporsi, questo sì, aveva una certa preparazione psicologica e così quando parlava con i fermati delle manifestazioni di piazza riusciva sempre ad avere un dialogo e magari a sapere qualcosa in più degli altri. Non si poneva mai pro-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE blemi ideologici.» Davvero? «Guardi, ai funerali dell'agente Annarumma [Antonio Annarumma, autista di una camionetta della Celere, durante un "carosello", nel corso di disordini dopo un manifestazione sindacale al Teatro Lirico, rimase ucciso o perché colpito alla testa da una sbarra o perché, perso il controllo del mezzo, andò a sbattere contro un marciapiede in via Larga] stavano per linciare Mario Capanna. Bene, ci sono le foto che mostrano Gigi mentre lo porta in salvo dentro una farmacia. Adesso magari non è elegante raccontarlo, ma allora gli dissi: Gigi, potevi lasciare che gli dessero qualche legnata. E lui che era sempre allegro, gli piaceva sorridere in ogni momento, diventò serissimo no, rispose, questo mai. Erano anni terribili, il '68, il '69, il ;70. Noi avevamo un negozio in San Babila che mio padre dovette chiudere per la disperazione delle vetrine sfasciate e delle camionette sempre davanti...» Come visse suo marito quel periodo, che giudizio dava dei rossi e dei neri? «La sera della bomba di piazza Fontana non rientrò Lo vidi il giorno successivo. Mi disse: menti di destra, manovalan-
«Ciao, Giorgio» 461
za di sinistra. Aggiunse che quando avessero preso le persone che avevano messo la bomba, la prima cosa da fargli ve-
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dere sarebbero state le foto della strage. E una scena che non si è mai tolto dagli occhi. E poi quando si trovò Feltrinelli morto ai piedi del traliccio...» Che fece? «Tornò a casa senza parole, faceva una gran fatica a parlare. Mi disse: Gemma, se gli mettiamo un paio di baffi è Feltrinelli. Fu lui a riconoscerlo. Era sconvolto al pensiero che Feltrinelli avesse fatto personalmente un'azione del genere. E al tempo stesso lo ammirava perché aveva rischiato in prima persona, senza coinvolgere dei ragazzi." Torniamo a piazza Fontana, alla sera in cui morì Pinelli. "Gigi rientrò alle quatto del mattino. Apparentemente era calmo, non perdeva mai le staffe. Ma la tensione doveva pur scaricarla da qualche parte. Così andò in bagno e spezzò in due lo spazzolino del water. Un uomo che muore lo colpiva profondamente, pensi un uomo che si uccide. Le disse subito che Pinelli si era suicidato? "Io non so se oggi posso ancora dire così dopo la sentenza di Gerardo D'Ambrosio che parlò di malore. D'Ambrosio, magistrato di sinistra, si trovò in una situazione molto imbarazzante. No, non ho mai parlato con lui di quella sentenza. Quando ci siamo incontrati, c'erano sempre altre persone. Ma quando lo guardo negli occhi... Credo insomma che ci siamo capih.» Torniamo alla notte di Pinelli.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Quando Gigi tornò, mi raccontò tutto. Mi disse che aveva interrogato Pinelli fino a un certo momento, poi era stato chiamato da Allegra che gli sollecitava una conclusione perché a Roma avevano fermato Valpreda e lui voleva andare giù con il verbale. Allegra rimproverava spesso a Gigi il suo modo di interrogare. Lui permetteva che i fermati fumassero, prendessero il caffè, andassero in bagno, si alzassero, interrompessero l'interrogatorio. Allegra era molto più rigido.» Suo marito uscì dalla stanza in cui stava Pinelli... «Sì, con Pinelli erano rimaste cinque persone, tra cui un ufficiale dei carabinieri. Mentre Gigi stava da Allegra sentì che un suo collaboratore gli correva incontro gridando: si è buttato, si è buttato. Tenevano la finestra aperta perché si fumava. Gli dissero che Pinelli s'era buttato e un brigadiere aveva tentato di fermarlo, gli era rimasta una scarpa di Pinelli in mano...» Si è parlato di un buon rapporto personale tra suo marito e
«Sì, si conoscevano, si rispettavano, s'erano scambiati dei libri in regalo. Quella notte mio marito si rimproverava di non essersi reso conto dello stato d'animo di Pinelli. Diceva: non ho capito che fosse disperato fino a questo punto. L'aveva visto annaspare quando usò il vecchio trucco della polizia e gli disse: hanno preso Valpreda e ha parlato.» E Pinelli?
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«Gigi mi disse che Pinelli era impallidito e gli aveva detto: è la fine dell'anarchia, è la fine di tutto. Mio marito ripeteva sempre che Pinelli non poteva aver messo la bomba. Non sarebbe mai stato capace di uccidere un uomo. Forse qualcuno gli aveva chiesto di procurare dell'esplosivo, come era accaduto altre volte (e lui stesso l'aveva confessato), ma se era avvenuta una cosa del genere, sicuramente gli sviluppi successivi dovevano essergli sfuggiti di mano.»
«Capì che la sua víta sarebbe cambiata»
Suo marito capì che da quel giorno la sua vita sarebbe cambiata? «Credo che lo abbia capito immediatamente. Non me lo disse con le parole, ma con il suo atteggiamento. Mi parlò fino all'alba con profonda angoscia. Io cercavo di tranquillizzarlo, gli dicevo: tu non c'entri niente. Ma capii che lui temeva che qualcuno si sarebbe agganciato a quell'episodio per scatenare un'offensiva. E ne ebbi conferma l'indomani quando nella conferenza stampa il questore, con molta leggerezza, disse che Pinelli si trovava nella stanza di Calabresi. Ma non disse che al momento del fatto mio marito non c'era.» Cominciò tutto da quel momento?
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE «Non subito. All'inizio sembrò che anche la famiglia avesse accettato l'idea del suicidio. Gigi tra l'altro incontrò la mamma di Pinelli e le consegnò la tredicesima che Pinelli aveva in tasca. A proposito: le parlo di suicidio usando le parole di Gigi. Ma D'Ambrosio nella sentenza scrisse malore e io rispetto le decisioni della magistratura.» Quando fu avviata la campagna contro suo marito? «Parecchi giorni dopo, quando la vedova Pinelli fu convinta a presentare una denuncia. Allora partì un martellamento da parte di tutti i quotidiani.» Lei come reagì? «Avevo soltanto ventitré anni e un bimbo nato da poco, Mario. Gigi mi taceva tutto per non allarmarmi. Leggevo il "Corriere" e "l'Unità", ma lì non stavano scritte le cose peggiori. Quelle le ho lette solo dopo la morte di mio marito. Non sapevo niente degli articoli di "Lotta continua".» E la sua famiglia? «Chi capì tutto subito fu soltanto mio padre. Era così allarmato da convocare una riunione dei miei fratelli. Loro non lo presero sul serio, dissero che era stanco, esauritc-, aveva una grande casa di tessuti, lane, drapperie con 26() dipendenti e con parecchi problemi. Lui non si lasciò convincere. Chiamò Gigi e gli disse se voleva lasciare la polizia per diventare capo del personale della sua azienda. Mio marito gli rispose che forse un giorno avrebbe accettato, ma dopo aver chiarito la sua posizione. Altrimenti sarebbe sem-
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brata una fuga.» Arrivarono la primavera del '72 e i giorni che precedettero l'omicidio... «Quei giorni vennero dopo un semestre terribile. C'erano le Brigate rosse, si scoprivano i primi covi, Gigi non passava più una domenica a casa, veniva a cena e poi tornava in ufficio per restarci fin quasi all'alba. Mario aveva due anni e mezzo, Paolo undici mesi e aspettavo da tre mesi un altro figlio...» Lei percepì il pericolo? «Gigi faceva il possibile perché fossi serena, ma non ci riusciva. Il venerdì precedente il giorno dell'omicidio passeggiavo con i bambini vicino casa, tra via Cherubini e corso Vercelli, quando ebbi un momento di angoscia improvviso e fortissimo. Cominciai a piangere in mezzo alla strada, la gente mi guardava, ero imbarazzata ma non riuscivo a smettere. Percepii nettamente che sarei rimasta sola. Io sono vedova, mi dissi. Arrivai davanti a una farmacia e ripetei: io rimarrò sola. Poi per calmarmi pensai che ancora non era successo niente, che Gigi anche quella sera sarebbe tornato. Tardi, ma sarebbe tornato. Lui c'è ancora, pensai. E mi ripetei quell'ancora fino a ritrovare un po' di calma. L'indomani stavo meglio, ma dovetti smettere di allattare il piccolo.» E suo marito? «Aveva capito la mia angoscia e chiamò mia madre. Lei lavorava, non mi aveva mai tenuto i figli. Ma Gigi la chiamò
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE ugualmente. "Gemma non sta bene, non voglio lasciarla sola con i bamblni, puoi passare?" Poi aggiunse con accento romanesco: "Mà, tu Gemma non la lascerai mai sola, è vero?".» Era sabato e suo marito fu ucciso il mercoledì successivo. «Sl, il martedì sera Gigi andò a trovare un suo amico, lo stilista Baratta, che abitava in corso Monforte. Andarono a passeggio sotto i portici per prendere un aperitivo. Baratta aveva paura di un attentato e si girava continuamente per guardare dietro le colonne. Gigi invece passeggiava tranquillamente e non si girò mai. Tornò a casa alle nove con caramelle, cioccolatini e dolcetti che aveva preso al bar. Cenammo e poi lui giocò a nascondino con Mario.» Arrivò quel mercoledì mattina. «Quel giorno io aspettavo per la prima volta una domestica. Non l'avevo mai avuta. La trovò mamma che facendo volontariato incontrò una donna che aveva bisogno di lavorare e me la mandò. Io pregai Gigi di uscire prima che arrivasse. Lui amava gli scherzi ed ero sicuro che si sarebbe messo dietro la donna per farmi ridere, facendo con gesti e sberleffi i suoi commenti. Ma lui non mi dette retta, rideva e tirava tardi come ogni mattina. Gli piaceva prepararsi con calma, avere i capelli perfettamente in ordine, provava due o tre cravatte per ogni giacca. Uscendo mi disse: la tua donna già al primo giorno è in ritardo. Rientrò una prima volta perché aveva scoperto nello specchio dell'ascensore di avere il ciuffo in disordine. Tornò una seconda volta perché non gli piaceva
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la cravatta regimental sulla giacca nera. Prese allora una cravatta bianca di lana. E quando io gli dissi che stava bene anche con l'altra, lui rispose sulla porta: "Questa cravatta bianca è il simbolo della mia purezza". Ridemmo. Non lo vidi più.
«Hanno sparato a un commissario"
Come seppe del delitto? «Io non sentii niente, ma quando arrivò finalmente la donna, era trafelata. "Mi scusi per il ritardo, signora, mi faccia sedere. C'è un macello, hanno sparato a un commissario." Sentii il feto di Luigi fare un salto dentro di me, mi sedetti muta e lei mi fece: "Che le succede signora?". Risposi: "Mio marito è un commissario". Me ne pentii subito perché Gigi mi aveva raccomandato di non dire a nessuno, né ai negozianti né alla donna, che ero la moglie del commissario Calabresi. Lei fu bravissima, mi si avvicinò e disse: "Ma che ha capito, signora? Il macello non è successo qua sotto, io son dovuta scendere dal tram in piazzale Baracca. Lì c'era confusione". Mentre cercavo di aggrapparmi all'ultima speranza, immaginando che mio marito avesse fatto un giro con la macchina, mentre mi dicevo: aspetto qualche minuto che arrivi in ufficio e poi lo chiamo, bussò Federico, un amico carissimo di mio padre. Aveva visto portar via Gigi, ma non mi
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE disse nulla. Era pallidissimo. In quel momento capii. Venne un vice questore e mi parlò di un ferimento alla spalla. Ma io ormai sapevo che era finito tutto. Guardavo gli oggetti che stavano nella stanza e ripetevo: ormai non hanno più senso, non debbono restare più qui. Mario mi stava attaccato alle gonne. Sentì il mio grido. Per anni quando veniva a trovarci Federico, l'amico di papà, lui scappava terrorizzato.» Pensò a chi poteva averlo ammazzato? «Sul momento no. Pensavo solo che Gigi non c'era più. Poi per molti anni ritenni che l'avessero ucciso estremisti di sinistra e pensai a tutti quelli che lo avevano diffamato per il caso Pinelli. Scoprii tardi Lotta continua. Lui non ne aveva mai fatto cenno. Soltanto una volta mi parlò di certe vignette e io gli risposi: non ti riconosco più, adesso che le fanno su di te perdi il senso dell'umorismo?» Poi foste ricevuti dal Papa. «Paolo VI mi aveva cresimato quando era arcivescovo di Milano. Gli portai ibambini (era nato intanto anche Luigi) e lui chiacchierò con noi come un amico caro di famiglia, tenero, affettuoso, disponibile. Mi chiese come avevo riorganizzato la mia vita, ci disse che aveva pregato molto per noi e avrebbe continuato a farlo. Poi si sedette, prese i bambini in braccio e volle mettere nel pantalone di ciascuno un portachiavi con il suo stemma. Pregammo insieme e al momento del congedo mi diede del tu: "Gemma, ricordati di non odiare e di non allevare i figli nell'odio". Gli dissi che non l'avrei fatto.»
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Come seppe della confessione di Marino? «Come tutti, dalla televisione. Stavamo al mare a Bogliasco, in Liguria. Mi telefonò mia sorella gridando: "Gemma, apri subito il televisore perché stanno dicendo chi ha ucciso Gigi". E riattaccò. La notizia era diversa da tante altre che avevamo sentito nel corso degli anni. Mi colpì il fatto che Marino fosse un uomo libero e alla televisione il suo avvocato, poi seppi che era comunista, disse: il mio cliente confessa per un travaglio interiore e per liberarsi da terribili sensi di colpa.» Era la fine di luglio dell'88. Il primo processo cominciò l'anno successivo. «Quando entrai nell'aula, sentii che il cuore andava per conto suo, non riuscivo a respirare, ricordo la sensazione fisica di mancare. Mi feci forza e guardai bene uno per uno tutti gli imputati. Sapevo che Sofri aveva scritto quelle cose su mio marito, ma quel che mi respingeva erano le mani di Bompressi. Le guardai a lungo quel giorno, le guardai i giorni successivi e pensavo sempre: ecco, quelle mani hanno tolto la vita al padre dei miei figli.» Durante l'ultima parte del racconto di Gemma Calabresi, era entrato nella stanza il nuovo marito della vedova Calabresi, assai diverso dal primo per struttura fisica e interessi professionali. Si sedette, ascoltò in silenzio e a questo punto suggerì: «Gemma, perché non gli racconti l'episodio di Ma-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE rio e di Bompressi?».
«Ricordi quando volevi vendicare papà?»
Gemma non avrebbe voluto far riemergere dalla fossa dei ricordi le pagine più dolorose e controverse. Poi disse: «Non ricordo se fosse il secondo processo o il terzo. Nell'aula la nostra panca era immediatamente alle spalle di quella su cui stava seduto Bompressi. A un certo punto Mario, il mio figlio
maggiore, si sporse in avanti e la sua testa quasi sfiorò quella di Bompressi. Fu a quel punto che gli dissi: "Mario, quando eri piccolo dicevi sempre che volevi vendicare il tuo papà, che quando ce l'avessi avuto vicino avresti ammazzato il suo assassino. Bene, adesso che ce l'hai a venti centimetri di distanza dici che ti fa pena". I miei figli mi dicevano sempre: "Mamma, Bompressi è un depresso cronico, sta sempre solo, al bar del tribunale mangia il suo panino in un angolo, quando entriamo noi abbassa gli occhi, se ci trova davanti di colpo magari saluta, ma si vede che è un uomo provato, un uomo che soffre". Adesso che la testa dell'uomo che ha ucciso tuo padre, dissi a Mario, sta a venti centimetri dalla tua, mi ripeti che ti fa pena. Evidentemente, Mario, ti ho educato bene.» E Bompressi come reagì? «Pensavo che si sarebbe girato. Una persona dawero in-
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nocente mi avrebbe detto: signora lei ha ragione, ma guardi che mi hanno tirato dentro per sbaglio, hanno dei pregiudizi su di me, ma è stato un caso terribile di somiglianza. Lui invece non disse niente. 1enne la testa abbassata per ore, quando c'è stata la pausa del processo non si è mosso, contraeva continuamente le mascelle, era vittima di una specie di tiC L` nervoso da angoscia. Lui può dire tranquillamente di non aver sentito le mie parole. Ma mi pare impossibile.» Gli altri? «Pietrostefani si è sempre molto defilato, ci guardava come se fossimo trasparenti, era attento a starsene lontano da noi, ma non ha mai urtato la nostra sensibilità, non è mai stato aggressivo, mai invadente.» E Sofri? «Quando entravo in aula, mi venivano subito le palpitazioni perché sapevo che Sofri mi avrebbe gridato: buongiorno, signora. Io, dico la verità, facevo fatica a salutarlo, anche se non ho mai tolto il saluto a nessuno. Rispondevo insomma con un filo di voce, ma avrei gradito un cenno più discreto, invece di quell'ostentazione gridata. «Quando Sofri salutava i miei figli e questi qualche volta non gli rispondevano, andava a lamentarsene con i giornalisti. Lui continuava a gridare quel buongiorno, signora! Anche al bar, in modo che tutti si girassero. E a me dava fastidio. Dopo la prima udienza, i giornalisti parlarono con me e
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE scrissero che al nostro ingresso gli imputati avevano abbassato gli occhi. Erano lontani e sinceramente mi parve che le cose andarono così. L'indomani Sofri venne e mi disse: signora, ho letto i giornali, io la guardo e non ho bisogno di abbassare gli occhi.» Sofri non le ha mai detto una cosa tipo: mi dispiace, ma io sono Innocente? «Mai. Non si è mai scusato nemmeno per le cose che aveva scritto. Se lui fosse venuto e avesse detto: signora, io sono innocente per la morte di suo marito, ma mi scuso per quel che ho scritto e per le responsabilità morali che questo comporta Se mi avesse detto una cosa del genere, tutto sarebbe andato diversamente. Si sarebbe almeno stabilito un minimo di rapporto.»
«Con Sofri battaglia di sgllardi"
E con i suoi figli com'è andata? «Ci fu una battaglia degli sguardi tra Sofri e il nostro Luigi che durò giorni. Luigi è il bimbo che portavo nella pancia quando uccisero il padre. Perciò non lo ha mai conosciuto. Quando vide che Sofri resisteva al suo sguardo, Luigi si impuntò. E uno che non teme, è capace di avere uno sguardo cattivissimo, se vuole. Sofri non confermerà mai, ma Luigi dice che alla fine l'altro fece un gesto di stizza e allontanò lo
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sguardo. Nei giorni successivi, quando Luigi entrava in aula, Sofri gli gridava il suo buongiorno. Luigi lo sopportava male, finché un giorno al bar trovammo ancora una volta Sofri a un passo da noi: quando salutò di nuovo Luigi con un tono ironico, il ragazzo lo mandò a quel paese. Da quel momento Sofri non lo ha più infastidito. Anche perché Luigi è venuto pochissimo in aula. Non ce la faceva. Tornava a casa e si sentiva svenire, aveva dei mal di testa insopportabili. Lui non ha mai perdonato.» Lei è davvero convinta della loro colpevolezza? «Sì perché sono stata in aula. Lei non ha idea dei riscontri che ha portato Marino. Sofri e gli altri dicono di essere innocenti e non potrebbero fare altrimenti. Mi impressionano tutte quelle persone che dicono: io non conosco gli atti, ma loro sono innocenti. Non c'è sordo peggiore di chi non vuol sentlre.» Lei ha mai parlato con Leonardo Marino? «No, mai. Marino è un uomo semplice. In tribunale teneva sempre gli occhi molto bassi, era a disagio in un modo incredibile. I nostri sguardi non sono mai stati cattivi, nemmeno da parte dei figli. E poi Marino ci ha chiesto di perdonarlo ogni volta che è stato intervistato, mi ha scritto chiedendomi un incontro e adesso che i processi sono finiti sarei dlsposta a farlo. In Marino la sofferenza è palpabile. Quando in aula doveva passare accanto ai miei figli, si vedeva che sarebbe finito volentieri sottoterra. Abbiamo una sofferenza di origine
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE diversa, ma sento di poterlo perdonare.» Con gli altri, invece? So che lei gradisce che questa domanda non le venga più rivolta. Perché? «Perché non ha senso dirlo con la bocca se non si dice anche col cuore. Questo è un percorso lunghissimo. Vede, quando morì Gigi, mia madre mi suggerì di inserire nel necrologio la frase di Cristo sulla croce: Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno. Non sentivo mia quella frase, in quel momento, ma la accettai perché non si aggiungesse odio a odio, violenza a violenza. Negli anni successivi l'ho sentita sempre più mia perché ho cercato di interpretarla. Gesù sulla croce poteva benissimo perdonare lui stesso i suoi carnefici, ma in quel momento era un uomo e forse si rendeva conto di quanto fosse difficile per un uomo perdonare in quelle condizioni. Allora ha chiesto a Dio, al I'adre, di farlo in vece sua, dando all'uomo il tempo necessario per prepararsi. Io l'ho interpretata così. Sto camminando. Finora sono riuscita a non odiare. Se avessi odiato, non avrei potuto più ridere, rifarmi una vita, risposarmi e avere un altro figlio. Chi odia ha una tragedia in più.»
«Hanno cnmbiato vestito sulla stessa pelle»
Un giorno lei disse a proposito di Sofri e degli altri: hanno cambiato vestito sulla stessa pelle.
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«Non ho lo stesso stato d'animo di quando la pronunciai. Dopo la sentenza definitiva la riferirei di più agli altri, alla loro lobby, a tutti quelli che dicono: poveretti, sono in carcere da una settimana, poi da tre mesi, poi da sei dimenticandosi completamente di un uomo normale, padre di tre figli, che andava al lavoro, non è più tornato e sta sotto terra da venticinque anni.» Lei ha detto di essere disponibile alla grazia. Vuol dire che non vi opporreste a un provvedimento del genere? «Intanto io non voglio tutto sulle mie spalle il peso di una decisione del genere. Non voglio diventare importante soltanto quando serve una mia parola. Per questo siamo andati dal capo dello Stato.» Come nacque questo incontro? «Qualche settimana dopo l'ultima sentenza definitiva del '97 abbiamo chiesto udienza con una lettera recapitata a mano al mattino al Quirinale. Lo stesso pomeriggio Scalfaro mi ha telefonato per dirmi che ci avrebbe ricevuti subito. In quel periodo si era scatenata sui giornali una campagna degli amici di Sofri: sembrava che lui e gli altri condannati clovessero uscire subito. Noi ci sentivamo molto soli. Volevamo capire da che parte fosse lo Stato. E poi bisognava chiarire il contesto di un eventuale provvedimento di clemenza. Dopo la sentenza di primo grado, mi dissi: sono contenta perché conosco la verità, ma non voglio gioire, non stapperò champagne come for-
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE se qualcuno ha fatto il giorno della morte di mio marito. Ci sono altre famiglie, altri tigli che soffrono. Dopo la sentenza definitiva per me Sofri e gli altri possono anche uscire, però deve essere chiaro che loro sono i colpevoli. Quando chiedemmo l'incontro con Scalfaro, Sofri andava dicendo qualcosa del tipo: io esco e mi debbono chiedere scusa." Che cosa diceste al capo dello Stato? «Lui si è molto interessato della vita e del lavoro dei miei figli. Mario, il più grande, fa il giornalista parlamentare dell'Ansa a Roma. Paolo, il secondo, studia architettura, fa il volontariato con la Croce Verde ed è un ciclista bravissimo che ha riempito la casa di coppe. E Luigi? «Luigi l'ho tirato su un po' viziatino. Ha lasciato l'università dicendo che una laurea tirata e presa tardi non gli sarebbe servita a niente, ha studiato parecchi mesi in California, poi ha lavorato in un nostro negozio di Torino. Insomma, aspetta che venga fuori qualcosa di definitivo.» Mi diceva di Scalfaro. «Il presidente naturalmente conosceva molto bene il caso Sofri. Io ero rimasta molto colpita dal turbamento del mio più piccolo, Luigi, per la ventata assolutoria che s'era scatenata sui giornali dopo la condanna definitiva di Sofri e degli altri. Allora dissi a Scalfaro: lei è la più alta personalità dello Stato, io ho bisogno che i ragazzi credano in qualche cosa. Loro hanno visto che per parecchio tempo non c'è stato un
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solo giornale dalla nostra parte, cioè dalla parte della sentenza. Io dicevo ai ragazzi che la maggioranza silenziosa del Paese, quella che non grida, è con noi. Ma loro, soprattutto Luigi, erano molto avviliti. Allora, ho detto al presidente, noi non siamo venuti qui a chiederle la grazia per quei tre perché sarebbe veramente troppo. Ma noi ci fidiamo di lei. Per cui sappia che nel momento in cui lei dicesse, nella sua responsabilità, che è pronto a firmare un provvedimento di clemenza, sappia che noi non ci opporremmo.» E lui? Lui ci ha detto di essere molto angosciato per la situazione delle carceri. Si possono migliorare, ma sono sempre terribili. Ci ha anche fatto capire di essere particolarmente preoccupato per la sorte di persone che stanno dentro da più di vent'anni, o magari da quindici, o magari da dieci, perché in prigione ci sono da dieci anni persone che non hanno fatto cose gravissime. Scalfaro ci disse che... E sul vostro caso? Ci siamo fatti l'idea che lui, quando mai fosse maturo un provvedimento generale di clemenza, guarderebbe caso per caso, considerando gli anni di pena scontati e lo stato d'animo, l'eventuale dissociazione del condannato. Ha aggiunto che la sua personale posizione non è per cominciare da chi sta da poco tempo in carcere e non ha mostrato alcun segno di pentimento. Insomma, mi pare d'aver capito che lui escluda provvedimenti immediati e quando ha accennato al fatto che potrebbero esserci in futuro pressioni del governo, noi gli abbiamo detto: signor presidente, ci fidiamo di lei.
santa pace», santaspiega pace»,diE spiega diE E i suoi figli? Luigi all'uscita volava per il sollievo. Ha sentito che ai vertici dello Stato c'era qualcuno che lo prendeva in considerazione, che avrebbe tutelato la sua gravissima perdita e lo avrebbe protetto dopo l'enorme ingiustizia ricevuta. Fece una pausa e aggiunse: Sofri ha potuto crescere i suoi figli, Gigi no. Se m'avesse almeno detto: Gemma, ho sbagliato e chiedo scusa alla sua famiglia. Non l'ha fatto mai. Oggi mi basterebbe che ammettessero il fatto: andrei io stessa a chiedere a Scalfaro la grazia. Intervenne il nuovo marito della signora Calabresi: Con questi ragazzi, credo di aver svolto il ruolo di padre a tutti gli effetti. Li ho tirati su col cucchiaino, mia moglie e i suoi orfanelli, che stavano proprio giù. Sono orgoglioso d'averlo fatto come persona democratica, come uomo di sinistra che ha cercato di riparare il torto di una certa sinistra estrema. E dopo aver fatto tutta questa fatica, dopo il peso enorme che abbiamo sopportato insieme, vedere che questi escono dall'oggi al domani sull'onda dello sdegno degli amici e di un'altra campagna di stampa a suon di bugie, identiche a quella che ha portato nella bara Luigi Calabresi, è una cosa che mi ripugna. In famiglia io ho sempre detto: ragazzi, cattolici sì, coglioni no. FINE.