WES CRAVEN LA SOCIETÀ DEGLI IMMORTALI (Fountain Society, 1999) A Esther Lurie, mia ispiratrice a amica, che tanto ha insistito perché raccontassi questa storia per iscritto 1 COMPLESSO DETENTIVO 14 HAIFA C'erano quindici uomini nella cella, un buco di tre metri di lato che puzzava di sudore, sporcizia e paura dove l'unico segno particolare era il gabinetto, un foro al centro del pavimento di cemento. Secondo Rashid alAssad, tra gli uomini c'erano tre appartenenti a un commando libanese, che si tenevano in disparte ed erano ancor più temuti dei carcerieri. Durante la cattura, uno era stato picchiato selvaggiamente e ora delirava per la febbre e le ferite infette, e così i suoi due compagni erano parecchio nervosi. C'erano anche sei palestinesi, dall'aria indefinita: operai, autisti o ex soldati trasformatisi in ladri. Erano la solita feccia sciita, che rovinava la fama dei veri combattenti: sotto tortura urlavano, se la facevano sotto e cedevano quasi subito. E poi non avevano niente di importante da confessare. Rashid li disprezzava. I quattro siriani dovevano invece essere spie, probabilmente uomini d'affari, che era meglio ignorare. Poi c'era lui, Rashid, orgoglioso di essere un musulmano sunnita e un guerrigliero hezbollah. Quando gli avevano strappato dal corpo con un paio di pinze tutto quello che potevano, non si era lasciato sfuggire nemmeno un lamento. E infine c'era quel porco di un russo, alto e biondo, là nell'angolo. Il russo non voleva essere identificato, Rashid l'aveva capito subito. Lì dentro era l'unico professionista, oltre a lui, ed era inavvicinabile. La prima notte un idiota aveva cercato di farselo ma lui l'aveva ammazzato prima che potesse aprire bocca. Il cadavere era stato portato via solo due giorni dopo, quando il fetore aveva raggiunto le guardie, due piani sopra.
Proprio in quel momento, nella postazione di guardia il tenente Joram Ben Ami, capo dell'ufficio di intelligence di Haifa, leggeva un messaggio del suo comandante da Gerusalemme. La chiamata che attendevano era arrivata alle 12.45 ora locale, l'1.45 di Washington, e questo era un buon segno. La CIA aveva trasmesso l'ordine quando le comunicazioni telefoniche cifrate avevano meno probabilità di attirare l'attenzione. La faccenda durava da un bel po' e con il tempo aumentava il rischio di errori, fughe di notizie, interessamento da parte di membri del Congresso moralisti o dal cuore tenero. Ma per il momento tutto era rimasto segreto, e israeliani e americani avevano continuato a scambiarsi favori. L'ordine per Ben Ami era di preparare altre due consegne. Con questi, sarebbero stati in totale dieci i prigionieri spediti negli USA negli ultimi sei mesi. In cambio, l'Aeronautica israeliana avrebbe ricevuto altri cinque missili aria-aria Sparrow. Un ottimo affare, secondo lui. Per primo scelse Rashid al-Assad, quel figlio di puttana sospettato di aver messo una bomba in un autobus pieno di coloni ebraici a Haifa, sei settimane prima. Purtroppo doveva essere consegnato integro. Il secondo gli era stato indicato dal comandante: era il russo beccato a fare la spia per l'Iraq. Ma prima doveva essere un po' lavorato, e Ben Ami trasmise l'ordine alla sua squadra migliore. Usarono un semplice martello, che avevano a portata di mano. Odiavano i russi venditori di Scud. Alla fine, seppure con parecchie difficoltà, tutti i denti vennero via. Poco prima dell'alba, un C-120 americano privo di insegne atterrò sulla pista prossima al complesso carcerario. Dalla stiva fu scaricata una mezza dozzina di lunghe casse e poi i due prigionieri, drogati e ammanettati, vennero trascinati a bordo da agenti della CIA. L'aereo presto decollò: l'affare era concluso. Venti ore dopo, a migliaia di chilometri di distanza da Haifa e altrettanti l'uno dall'altro, Rashid al-Assad e il russo sarebbero finiti nelle mani di un'organizzazione così segreta che neppure le spie della CIA che li avevano presi in consegna ne sapevano molto. Dopo l'arrivo, non sarebbero sopravvissuti per più di qualche giorno. St. Maurice, Svizzera Vicina all'orgasmo, Elizabeth fu invasa da un strana sensazione: le sembrò di essere la protagonista del Mago di Oz. Era nella casa di Dorothy e un uragano si era scatenato intorno a lei: il
vento faceva tremare le imposte e le sibilava nelle orecchie. Le sembrò che le assi del tetto si squarciassero e che lei fosse sollevata in aria. Poi finalmente non pensò più a nulla. Per tutta la settimana si era preparata a quel pomeriggio elencando, nell'agenda, su una colonna i motivi per andare all'appuntamento e sull'altra quelli per interrompere la relazione con Hans Brinkman. Ma nelle due colonne si ripetevano gli stessi argomenti. Inarcò la schiena e si arrese al ciclone. Sentì il grido di liberazione dell'uomo e subito dopo Hans aveva già la mente altrove. Si staccò da lei e andò ad aprire la finestra della stanza d'albergo. Respirò a pieni polmoni la gelida aria alpina. Elizabeth trattenne il respiro. Lui si girò con quel suo sorriso perfetto, tornò a stendersi accanto a lei, tirò le coperte su entrambi e la baciò. «È stato fantastico,» disse Elizabeth. «Ma tu non...» «No, ma davvero, Hans, non devi preoccuparti,» rispose lei in tono leggero, ricambiando il sorriso. Lui rotolò fuori dal letto con la stessa rapidità con cui c'era entrato e sospirò. «Sono un bastardo egoista, vero?» «Certo, ma questo è un problema mio.» Cercava di buttarla sul ridere ma non era affatto allegra. Non poteva fare a meno di chiedersi cosa le sarebbe rimasto di tutti quei sabati, una volta finita la loro storia. Certo, lui era ricco, bello, non aveva paura di niente, ma lei era già stata con uomini belli e potenti senza provare un briciolo di quello che sentiva per Hans. Gli altri erano stati affettuosi e l'avevano colmata di regali, lui no. Le riservava attenzioni, in occasioni imprevedibili, ma le sue giornate le trascorreva nel mondo dell'alta finanza e le sere le dedicava al suo matrimonio e ai molti impegni mondani. Insomma, frequentava posti che lei non conosceva e dove non veniva invitata. In realtà, lei sapeva di essere una figura segreta nella vita di Hans, del tutto ignorata da chi lo circondava. Nell'ambiente di Hans, Elizabeth semplicemente non esisteva. Esisteva solo lì, in quelle stanze, per qualche ora al mese. Non era abbastanza, ma per lei era diventato necessario, anche se sapeva che prima o poi doveva finire. E negli ultimi tempi si era resa conto che quel momento era vicino. Mentre Hans si vestiva, l'osservò da sotto le coperte, come un etologo che studi un animale raro da dietro uno schermo. Hans Brinkman aveva
trentacinque anni, dieci più di lei. Era biondo con gli occhi bruni screziati di verde: freddi e brulicanti di vita nascosta come le acque dei laghetti alpini, aveva pensato lei la prima volta che li aveva visti. La luce pomeridiana scintillava sul suo bel corpo muscoloso e sulla massa arruffata di folti capelli biondi. Dopo tre amplessi, non sembrava per nulla affaticato. Era un atleta anche a letto e aveva ingaggiato con lei una gara in cui Elizabeth era destinata a perdere sempre. La prima volta si erano incontrati su una difficile pista di sci, dove lui era apparso come un lampo di colore sulla neve al sole scintillante della Svizzera. «Attenta a sinistra!» Poi era scomparso. Era riuscito in tal modo ad attirare la sua attenzione, poiché di solito era lei a superare i pochi che osavano scendere su quella pista da campioni. Ma aveva provato anche qualcos'altro, una sensazione di conoscerlo tanto intensa da sembrarle irreale. In quella figura aerodinamica che gareggiava con lei, aveva dapprima colto una sorta di sorriso infantile, che poi si convinse però fosse un ghigno beffardo. Soprappensiero, Elizabeth aveva allora curvato bruscamente su un dosso, e quasi era caduta, volando scomposta per cinquanta metri giù per il ripido pendio. Era atterrata in piedi solo grazie a una combinazione di coraggio, abilità e pura fortuna. Però era riuscita a superarlo e intendeva restargli davanti. Aveva dunque puntato gli sci verso valle lanciandosi a uovo. Ma non era semplice spuntarla. I due avevano continuato a superarsi in una serie di sfide ed erano ancora affiancati nel punto in cui la pendenza si riduceva, quando un ragazzino in snowboard aveva tagliato di netto la strada al suo sfidante. In un attimo lei si era resa conto che, se non gli avesse ceduto la traiettoria, l'uomo sarebbe piombato sul ragazzino a più di cento all'ora con la violenza di una tonnellata di sassi. Lei aveva frenato bruscamente, e con un grido allegro lui l'aveva superata occupando la sua traiettoria senza nemmeno voltarsi a guardarla. Avrebbe dovuto capirlo allora. Più tardi, in albergo, lui l'aveva rintracciata e le aveva offerto da bere. Elizabeth aveva accettato. Dopo aver cercato invano di capire dove si fossero già incontrati passando in rassegna tutta la geografia del jet set, Hans le aveva fatto il primo complimento: «Siamo stati due pazzi.» Lei aveva riso. «È uno sciatore professionista?» La risposta di lui era
stata un ampio sorriso: quella domanda lo lusingava. «Lavoro nell'alta finanza.» Elizabeth aveva aggrottato la fronte, sinceramente sorpresa. «Per quanto ne so, lei potrebbe essere anche uno scienziato,» aveva commentato ridendo. «Sono stato sul punto di diventarlo,» aveva risposto lui in tono neutro. Per un attimo era sembrato perdersi nei suoi pensieri, affascinato da qualche fantasia. Poi era tornato a lei, di nuovo presente e attento. «Quando studiavo fisica, non facevo mai nulla di pericoloso, finché sono entrato nell'alta finanza. È lì che vale la pena di rischiare l'osso del collo. Come fa lei. Anche lei tratta soldi?» Elizabeth aveva sbattuto le palpebre, sorpresa. «Tratto soldi?» Che curiosa espressione. «No non sono così in gamba.» «Ma va'. Qual è il suo QI, 140?» Lei lo aveva guardato perplessa. «Vediamo se indovino,» aveva proseguito lui interessato. «Di solito non sbaglio mai. Che punteggio ha preso ai test SAT: sui 1500?» «Non li ho mai fatti,» aveva ammesso lei. «Niente università? Sono sbalordito.» «E questo, secondo lei, fa di me una bella oca bionda?» L'uomo si era chinato verso di lei, improvvisamente serio. «Elizabeth, sa perché gli uomini dicono che le bionde sono oche?» La sua solennità da bravo bambino era irresistibile. «No.» «Si sentono stupidi perché non riescono a esprimere quello che provano davanti a una bella donna.» A lei era parso che le sue parole contenessero un fondo di verità. Ma si era comunque trattato di una mossa tutt'altro che ingenua. Ripensandoci ora, mentre si rannicchiava ancora di più nel letto e ricordava l'incontro da una distanza di sicurezza, si rese conto che se Hans Brinkman avesse dubitato delle sue capacità intellettuali, non gliel'avrebbe certo detto. No, l'unica debolezza che lui avesse dimostrato da quando lo conosceva era l'incapacità di restarle vicino abbastanza perché lei potesse contare sulla sua presenza. Dio, come le sarebbe piaciuto godere di quel lusso. Invece le dava solo il brivido fugace dello stallone libero: nessun cavaliere per lei, solo il bellissimo destriero bianco. Ma lei si era presa una cotta con i fiocchi per quell'energia pura, e ora eccola lì, un anno dopo, alla luce al neon della re-
altà, un giocattolo da albergo per un ricco finanziere che aveva ben poco tempo da dedicarle. Avrebbe dovuto capirlo allora. Si avvolse nelle lenzuola chiedendosi se aveva paura di lasciarlo o se aveva semplicemente paura di lui. La risposta a tutte e due le domande era sì. E quella paura, che talvolta sconfinava nella voluttà, rendeva Hans ancora più interessante ai suoi occhi. Il fatto è che Elizabeth amava il rischio, le piaceva assaporare il gusto della sfida. Nel suo intimo era addirittura convinta che quello fosse il suo destino. Dalle ripide piste della Svizzera alle passerelle di Parigi, aveva trovato tutto ciò che le era più prezioso seguendo i sentieri della paura, diretta verso il lato oscuro della vita. Così aveva conquistato tutto ciò a cui teneva di più, compreso Hans. Ma in un'occasione, questa sua infatuazione per la paura l'aveva portata a un passo dal perdere la bellezza, il lavoro, e quasi la vita. Quindi, con il tempo, aveva sviluppato una maggiore prudenza. Ripensandoci in quel momento, in preda all'ansia, a un cupo presentimento e anche alla fame, si scoprì a osservare Hans Brinkman con superiore distacco. Elizabeth, puoi sempre andartene, pensò. Buttati tutto alle spalle! Lo vide sorridere, come se le leggesse nel pensiero. «Cosa stai covando, Elizabeth?» Lei si irrigidì. Perché quel modo condiscendente di chiamarla con il suo nome completo adesso la irritava? «Stavo ripensando al nostro primo incontro.» «Sei pentita?» la stuzzicò lui e, prima che lei potesse annuire, aggiunse: «Ti avevo mentito, sai?» Lei lo guardò, improvvisamente impaurita. «Be', non ti dissi una bugia vera e propria, solo una bugia di omissione,» aggiunse lui sorridendo. «Non ti dissi che stavo cercando di abbordarti.» Le mancò il fiato. «Abbordarmi?» «Avevo visto una tua foto su Allure. Ricordi quella piccola sala di lettura in albergo? E quando ho alzato gli occhi, tu eri lì. Era come una magia. Come se fossimo destinati a stare insieme, o come se ci fossimo già incontrati.» «In un'altra vita?» Cercò di essere sarcastica ma la frase suonò come una semplice constatazione e questo la spaventò ancora di più, perché lei aveva davvero provato una sensazione di déjà vu. «Sì, una cosa del genere. Avevo quasi paura di avvicinarti; non so per-
ché, non mi era mai successo prima. Così mi sono detto: be', la impressionerò con la mia abilità sulle piste di sci, almeno avremo qualcosa di cui parlare.» «E ha funzionato,» commentò lei calma. «Anche tu mi hai impressionato,» aggiunse lui quasi affettuosamente. Le accarezzò i capelli. «Non starai cominciando a pentirti, vero?» Improvvisamente, nella sua voce comparve una tristezza che le diede sui nervi. «No!» Hans sorrise di nuovo. Era felice? O le leggeva dentro ed era divertito come solo un vero cinico può essere? Lei si sentiva frustrata e arrabbiata con se stessa. Sì, sono pentita. Su, Lizzy, stai attenta al mondo animale: è lì che vive Hans, dove il sorriso è solo un modo diverso di digrignare i denti. «Tu mi ricordi quella canzone di Cole Porter,» riprese lui amabile. «Come si chiama?» «Non conosco nessuna canzone di Cole Porter.» Ma sapeva esattamente a quale lui alludesse. «"Too hot not to cool down",» canticchiò lui stonato. «"Troppo caldo per non raffreddarsi". È di questo che hai paura? Della "maledizione dell'angelo"?» Lo guardò aspettando la sua inevitabile spiegazione. «È un corollario della "regola delle bionde". Gli uomini pensano di non essere abbastanza per voi e agiscono di conseguenza: scompaiono o vi feriscono. Ti è successo sempre, non è così?» «Mentre tu sai di essere abbastanza per me, vero?» Chiese lei, senza curarsi di rispondergli. Ma dove diavolo voleva arrivare? «Io lo so perché noi eravamo destinati a stare insieme,» disse con una voce più dolce Elizabeth trasse un profondo respiro. Volontariamente o involontariamente, lui le stava offrendo uno spiraglio che non poteva permettersi di ignorare. «E allora perché non stiamo insieme? Hai paura di buttare all'aria il tuo focolare domestico?» Era la prima volta che alludeva alla moglie, e se ne pentì subito poiché lo vide farsi scuro in volto. Ma continuò. «Io penso che dovremmo parlarne,» disse preparandosi alla sua reazione. Poi, dato che lui taceva, aggiunse: «Non sono sicura di voler andare avanti così.» Lui annuì osservando pigramente verso le montagne fuori dalla finestra. «Sai, non sono sicuro di volerlo neanch'io.»
Elizabeth sentì una stretta al petto. Era già abbastanza penoso il pensiero di mollarlo: essere mollata era intollerabile. «Si è allontanata da me,» riprese cupo. «Mi trova... troppo assente. Penso solo al lavoro, dice. Non posso biasimarla. Negli ultimi tempi viaggiamo su binari separati e le cose sembrano funzionare meglio così.» Scrollò le spalle. «Senti, non voglio parlare di Yvette. Non oggi.» Guardò l'orologio. «E allora quando?» Hans ignorò la domanda. «Inoltre, è vero, odio gli alberghi,» disse leggendole nel pensiero. «Allora vediamoci da me. Avrei il vantaggio di giocare in casa.» «No, non voglio metterti in pericolo.» «In pericolo?» «Meno Yvette sa...» I suoi occhi si erano incupiti di nuovo. Lasciò la frase in sospeso. «Ne parleremo la prossima volta. Di tutto. Te lo prometto.» Improvvisamente riprese a vestirsi mentre Elizabeth cercava di mettere ordine nelle sue emozioni. Guardò il bel corpo di lui scomparire nel vestito grigio acciaio finché Hans non fu altro che un ricco ed elegante uomo d'affari. Lei cercò di controllare l'affanno senza riuscirci. Disperata, si rese conto di essere davvero molto innamorata. «A sabato, Elizabeth.» Già sulla porta, le mandò un leggero bacio. «Alla stessa ora, d'accordo?» Scomparve prima che lei potesse rispondere. A bassa voce, con incertezza e delusione, lei mormorò: «Sì, a sabato.» Lo udì allontanarsi rapidamente nel corridoio e poi avvertì il ronzio dell'ascensore che scendeva. Avvolgendosi nelle lenzuola, improvvisamente Elizabeth si sentì gelata fino al midollo. Si acciambellò e si tirò il piumino sulla testa, per nascondersi protetta dall'oscurità. 2 WHITE SANDS, NUOVO MESSICO RAMPA DELTA Peter Jance, settantasei anni che gli pesavano tutti sulle spalle, arrancava sul lungo pendio di cespugli e sabbia dura. Insieme ai suoi collaboratori, aveva soprannominato il luogo «Monte di Venere». I capelli ancora folti, un tempo biondi, si erano ormai trasformati in una criniera argentea, ma
era ancora un bell'uomo, con un viso da falco e un cervello che, almeno su quel progetto, viaggiava anni luce più avanti degli altri. Come al solito, questo lo metteva in una situazione imbarazzante. Solo alcuni tra i suoi colleghi scienziati ammettevano che il suo progetto fosse realizzabile, mentre gli altri lo consideravano un pazzo furioso. Forse avevano ragione, si disse, strizzando gli occhi per vedere lontano. D'altronde, era una giornata in cui era facile essere agitati e pieni di dubbi. Il sole dardeggiava sulla sabbia e sui mesquite, e intorno a lui tutti imprecavano per il caldo. Invece Peter ci si trovava a proprio agio. Sono come un penitente che loda il cilicio, pensò divertito, ma ciò non faceva diminuire il suo amore per il paesaggio. La base di lancio missilistica di White Sands occupava 5.000 chilometri quadrati di deserto del Nuovo Messico (un'area grande come un intero distretto). E adesso era tutta sua: un paradiso di praterie ondulate, dune di sabbia e colate laviche che formavano basse colline e canyon frastagliati. Amava gli animali che ci vivevano: pecore delle Montagne Rocciose, antilocapre, leoni di montagna, e poi aquile reali e rospi cornuti, serpenti a sonagli e tarantole. Di notte, i coyote, le linci rosse e le volpi andavano a caccia; di giorno si vedevano cervi muli, corridori della strada, millepiedi giganti e scorpioni. Persino animali come l'orice africana, un'antilope di oltre duecento chili originaria della regione del Kalahari, vi prosperavano a migliaia. Era uno dei vantaggi di lavorare in una base top secret con accesso limitato: c'era poca gente e gli animali venivano lasciati in pace, tranne quelli usati per gli esperimenti dall'Esercito degli Stati Uniti. Quelli gli ispiravano meno timore e neanche un po' di rimorso... Ma non ne era così sicuro. Accidenti, gli doleva la pancia. Era il senso di colpa o la malattia? O erano ormai legati in modo inestricabile? Hai voluto la bicicletta, adesso pedala, imprecò tra sé. Però le «truppe nemiche» non erano state una sua idea. Quando era sorta la questione, tre mesi prima, si era opposto con forza all'inclusione di soggetti viventi nell'esperimento, ma il colonnello Oscar Henderson, il militare incaricato del finanziamento del progetto, gli aveva imposto un ultimatum. L'ostinazione del colonnello Henderson poteva essere interpretata come un segno che non aveva più fiducia nelle idee dello scienziato, che dubitava delle sue capacità e persino della sua lealtà; oppure manifestavano semplicemente la volontà di dare la sua impronta al progetto. Peter aveva capito che il potere deve essere arbitrario, altrimenti è accademia politica. Lo aveva convinto di questa semplice verità una vita passata a lottare per affermare le proprie
idee contro quanti lo accusavano di sputare nel piatto da cui mangiava. Per spiegare l'insistenza di Henderson, sua moglie Beatrice propendeva per la teoria della prova della lealtà cui le gerarchie volevano sottoporlo. Avevano discusso della questione per una settimana, e Peter ripeteva che li avrebbe screditati tutti. Naturalmente lei l'aveva accusato di essere un maledetto presuntuoso e, come al solito, in questo aveva proprio ragione. Dopo tutto, lui poteva sempre fare dietro front e ridiscendere dalla collina. Ma non l'avrebbe fatto. In realtà, la discussione con la moglie l'aveva reso più che mai determinato a portare a termine il progetto. Tutte le preoccupazioni che aveva espresso a Beatrice erano solo il tentativo di placare la sofferenza che lo tormentava. Ma ovviamente, l'unico risultato era stato che i sintomi si erano fatti ancora più violenti. Le pillole gli scombussolavano l'orecchio e ora, arrancando sulla sabbia, sentì il bisogno di pisciare di nuovo, nonostante l'avesse fatto cinque minuti prima di lasciare il bunker. «Dottor Jance, non potremmo andare un po' più piano?» Lui gettò uno sguardo all'indietro. Più in basso, i suoi si trascinavano faticosamente e, a quanto pareva, Alex Davies si era fatto portavoce di una stanchezza generale. Peter sorrise. Solo Alex aveva tanta familiarità con lui da osare esprimere una richiesta del genere: lo conosceva da quando era bambino e quello ne approfittava. Era un bravo ragazzo, nonostante i capelli ritti in testa e i tatuaggi sul corpo. Forse Alex aveva persino una coscienza, una vera rarità tra i ricercatori della sua generazione. A Peter piaceva proprio per questo e, pensandoci bene, anche perché non aveva peli sulla lingua. Tutti erano scontenti e si lagnavano in continuazione mugugnando, ma nessun altro gli aveva mai espresso la minima lamentela su quel progetto difficile e faticoso a cui lavoravano come schiavi. Lui li aveva scelti proprio per questa dedizione assoluta. Provenivano un po' da tutte le università degli Stati Uniti, ed erano i ricercatori più brillanti nel settore dello sviluppo degli armamenti. Giovani e quasi privi di esperienza, certo (e, nel caso di Alex, anche un po' imprevedibili), ma chi sarebbe stato disposto a sgobbare tutte quelle ore in cambio di pochi soldi solo per il privilegio di lavorare con Peter Jance? Cap Chu, lo specialista di acceleratori, l'aveva strappato al MIT. Sinoamericano di seconda generazione di Oakland, Cap indossava invariabilmente una T-shirt Raiders e jeans Levi's tagliati alle ginocchia; aveva anche la tendenza a imitare l'accento del capo, e spesso Peter ne rideva dentro di sé. Ma nel giro di dieci anni o anche meno, Cap Chu avrebbe scritto
un libro sugli armamenti basati sulle particelle elementari fondamentale per il XXI secolo. Come aveva detto Beatrice, era stato un acquisto davvero a buon mercato. Hank Flannagan, che si era fermato ad accendersi una Marlboro, era un altro diamante allo stato grezzo. Capiva le applicazioni belliche della fusione nucleare come i ragazzini capiscono al volo il rapporto tra un sasso e il vetro rotto di una finestra. Si rilassava lanciandosi a cento miglia all'ora sulla sua lurida moto, terrorizzando persino gli altri motociclisti. Peter, che non disprezzava affatto il gusto del rischio, lo incoraggiava. Da quelle scorribande a tutta velocità, Flannagan tornava, non solo illeso, ma anche pieno di soluzioni ai problemi matematici più complessi che dovevano risolvere. La donna che camminava in mezzo ai due e che stava prendendo Alex Davies sotto braccio, era Rosemarie Wiener. Non era per nulla turbata dal fatto che l'obiettivo del progetto fosse di ottenere un fattore di distruzione senza precedenti. Anche lei era una studiosa versatile delle applicazioni tattiche delle microonde e degli ultrasuoni e un'accesa sostenitrice degli armamenti militari più sofisticati. Cresciuta in un kibbutz, non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, tranne forse da Alex Davies, per cui si era presa una bella cotta. La sua allegra risata si levò improvvisa nel calore soffocante. Peter si chiese se il suo fosse solo desiderio fisico o fine istinto politico: con personaggi di quella generazione di ricercatori era difficile dirlo. Certo, se tra quelle stelle nascenti c'era qualcuno destinato al potere, questi era Alex Davies; quindi, se Rosemarie mirava a coronare la sua ambizione, aveva fatto proprio una buona scelta. Ma, soprattutto, Alex era il nipote del dottor Frederick Wolfe, uno scienziato che conduceva con mano sicura un progetto top secret per l'Esercito in altre basi e anche lì, a White Sands. Se Alex era da sé un buon partito, il fatto di essere anche il nipote di Frederick Wolfe lo rendeva un autentico trofeo. Nella cerchia di Wolfe facevano tutti carriera rapidamente, e il suo progetto - nome in codice «Fontana» - era ormai leggendario nella base. Era generosamente finanziato e avvolto da una tale cortina di segretezza che neppure Peter, uno dei più vecchi amici di Wolfe, aveva la minima idea di cosa fosse. A rendere le cose ancora più intriganti, si aggiungeva il fatto che la moglie di Peter, Beatrice, lavorava per Wolfe come neurobiologa. Ma anche lei conosceva solo lo stretto necessario, almeno a giudicare da ciò che ave-
va detto al marito. Così, Peter era costretto a fare solo delle congetture nei suoi rari momenti di ozio. La specialità della moglie era la rigenerazione spinale, quindi lo scopo del progetto avrebbe potuto riguardare la terapia delle ferite di guerra. Beatrice giurava che solo il capo conosceva il quadro completo, ma lui non le credeva, considerando il numero di pezzi grossi dell'Esercito che andavano e venivano da quel laboratorio. Di certo, Wolfe e il Progetto Fontana erano protetti da qualche potente, forse addirittura dal comandante supremo, e ciò significava che i militari ne conoscevano gli scopi in dettaglio e lo consideravano importante. Enormemente importante, a giudicare dai fondi a disposizione di Wolfe. E allora, buona fortuna! Peter non era certo il tipo da invidiare un amico. I due si conoscevano da quando erano studenti, e avevano spesso condiviso basi sperimentali e collaboratori che, come in quel caso, erano addirittura loro parenti. Wolfe aveva dato a Beatrice una posizione importante nel progetto e, in cambio, Peter aveva accettato di imbarcare Alex nel suo. Jance aveva lasciato al ragazzo tutto lo spazio necessario per esprimersi al meglio, mentre Wolfe aveva assegnato Beatrice al laboratorio dei Caraibi. Questa soluzione permetteva ai Jance di restare abbastanza vicini ma non tanto da ingaggiare battaglie quotidiane, come facevano quando lavoravano insieme. Per Peter era una vera fortuna: lui e Beatrice avevano disperatamente bisogno l'uno dell'altra ma stavano bene solo a una certa distanza di sicurezza. Troppo vicini, erano infelici; troppo lontani, si sentivano perduti. «Ehi, zio Peter, siamo già arrivati?» Il ragazzo sapeva che, usando la giusta miscela di ironia e di affetto, l'avrebbe passata liscia. Alex Davies era un tipo imprevedibile, ma Peter era contento di averlo preso con sé. Sua moglie lo considerava invece un tipo incostante, il cui rendimento poteva svanire al primo soffio di vento. Qualsiasi remora Peter avesse nutrito per essersi lasciato più o meno imporre il ragazzo, se ne era andata durante la prima settimana di lavoro. Alex conosceva il complesso gruppo di supercomputer Kray della base come il palmo della sua mano. Ciò gli permetteva di inserire di continuo, non una volta all'anno come avveniva attraverso i canali ordinari, dozzine di teoremi, algoritmi e modelli matematici. Anche solo per tale capacità, Alex era un vero dono del cielo. Quindi al capo del progetto non importava nulla che fosse un acceso fan di complessi rock e che, nell'aspetto e nel linguaggio, sembrasse un esperimento genetico fallito. Pur coi suoi modi stravaganti, era di fatto indispensabile per la sopravvivenza del progetto e il successo finale.
Il dolore gli attanagliava le budella, ma Peter non rallentò il passo. Nonostante la malattia, aveva più energia di tanti uomini con la metà dei suoi anni. Con il suo metro e ottanta di statura e l'andatura sicura, durante la giovinezza e gran parte della mezza età aveva compiuto imprese fisiche di tutti i tipi. Aveva attraversato il Nepal in bicicletta quando era un paese noto solo ai fotografi di «National Geographic» e fatto trekking nel Borneo compiendo sopralluoghi per una compagnia petrolifera. Aveva partecipato a tutte le maratone della Costa Orientale per il puro piacere di correre e, fino a non molto tempo prima, giocato a squash con una grinta che lasciava stupefatti gli avversari. Ma tutte quelle imprese non lo avevano impegnato più di tanto. Il suo grande amore, la sua vera ossessione era comunque la fisica, fonte di tutte le sfide che valeva la pena di raccogliere. Gli era capitato in sorte un corpo quasi eccessivamente atletico che gli aveva permesso di condurre una vita di piaceri e libertà ma, soprattutto, che gli aveva rifornito il cervello di abbondante sangue superossigenato, permettendo per sei decenni al suo genio indiscusso di lavorare a pieno ritmo. Fino al tumore al pancreas. Era un vero peccato: nella sua roulette cellulare era uscito il numero sbagliato. Non che si aspettasse di scendere nella tomba integro, non era poi così ottimista. Comunque quel cancro, che l'aveva colpito come un fulmine a ciel sereno nel bel mezzo del lavoro più importante della sua vita, gli era sembrato un castigo immeritato. Non solo danneggiava il suo corpo ma era anche un'inutile distrazione per la sua mente. Su, si rimproverò stringendo i denti per il dolore, smettila di compatirti. Lottò per concentrarsi sulle centinaia di cose che doveva ancora concludere prima che il conto alla rovescia della sua vita potesse iniziare. Reagiva alla malattia immaginandola come un animale che gli lacerava a brandelli i visceri. Così il male perdeva tutto il suo alone di mistero: era solo un criceto che correva alla cieca sulla sua ruota. Finalmente giunse sul bersaglio. Si fermò davanti alle file e file di «soldati nemici» e li osservò come se li vedesse per la prima volta. A sua volta, il nemico lo fissò a occhi spalancati. Erano duecento pecore comperate all'ingrosso da un allevatore che non faceva troppe domande; quindici mucche, animali da latte oltre l'età riproduttiva e quindi a buon mercato; settantacinque maiali rinchiusi in gabbie di alluminio raffreddate ad aria, perché troppo furbi per poter essere solo legati.
Maiali, santo cielo! Distolse lo sguardo e diede un calcio a un sasso avvicinandosi alla prima infelice creatura. Controllò la cavezza e, quando Alex e il resto del gruppo lo raggiunsero ansimando, stava osservando i compagni d'arme dell'animale, schierati lungo il costone, nemici immobilizzati nel punto dove erano stati legati. «Be', sembrano contenti, non ti pare, capo?» disse Flannagan cominciando a fare il verso alla pecora più vicina. «Finiscila!» lo zittì Peter. Improvvisamente la sua malattia gli sembrò la punizione di un Dio arrabbiato e offeso. «Non ci stai ripensando, vero?» chiese tranquillo Alex. Peter si girò, preso alla sprovvista dall'acutezza della domanda. Lo sguardo del ragazzo era scherzoso ma indecifrabile e, prima che il capo potesse rispondergli, il vento portò fino a loro un urlo dai piedi della collina. «Ma quanti cazzo di gradi ci sono, qui?!» Era il mandriano, un tipo del luogo... Come si chiamava? Un nome che iniziava per P, o forse per K. Ora quella bestia dentro di lui gli faceva anche perdere la memoria. Ah, Perkins. Dimentica il cancro, scaccialo dalla mente. «Quarantotto gradi,» rispose qualcuno. «Palle, quarantotto! Fa molto più caldo!» Peter sussultò, il dolore si faceva sempre più violento. «Sono gradi Celsius,» spiegò Perkins quando comparve. Sotto l'ampio cappello da cowboy spuntavano due vivaci occhi azzurri. «Fa più di cento Farenheit, no?» «Più o meno centoventi.» «Cristo, ma fa caldissimo!» «Allora sarà meglio darsi una mossa,» riprese Peter rivolgendo un rapido sguardo ai maiali in gabbia. Il trillo improvviso del cercapersone del mandriano lo fece girare di scatto. «Signore, qui dicono di dirle che è arrivato B,» disse Perkins leggendo il messaggio. «Per lei significa qualcosa?» Improvvisamente Peter sentì il dolore diminuire un po'. Per la prima volta, quel pomeriggio, il suo cuore, il suo addome, tutto il suo corpo si rilassarono. «È Beatrice,» rispose sorridendo e passandosi le mani tra i lunghi capelli grigi. «Beatrice, signore?»
«Mia moglie, la dottoressa Jance. È arrivata dai Caraibi insieme al dottor Wolfe. Vuole vedere l'esperimento. Per favore, Perkins, accompagnala qui.» L'altro guardò perplesso gli animali. «Prima torni, meno soffriranno queste povere bestie,» borbottò Peter. L'altro annuì cupo e cominciò a ridiscendere la collina. Lo scienziato, irrigidendosi di nuovo, cercò di concentrarsi sugli animali. Non era facile: il baccano e il fetore erano tremendi, ma si sforzò di ignorarli. Il tempo era scarso e il colonnello Oscar Henderson aspettava solo un pretesto per bloccare il progetto. A Peter l'aveva detto anche Wolfe: dopo la caduta del muro di Berlino non c'era un politico al mondo a cui importasse qualcosa dei progressi della scienza militare, a meno che ciò non servisse a farlo rieleggere. Peter sapeva che era vero. Ci vuole infatti un vero nemico per continuare a far funzionare le cose. Naturalmente c'erano frange sempre più nutrite di pazzi estremisti opportunamente addestrati, terroristi miliardari e vari stati con armamenti nucleari, per non parlare della caotica e paranoica Russia. Peter aveva usato tutti quegli argomenti, ma i finanziamenti erano in costante pericolo. In realtà, ad eccezione della «Società della Fontana», che non sembrava affatto orientata agli armamenti, quasi tutti i progetti di grandi dimensioni della base venivano sempre più ridimensionati. Quindi, lui sapeva che le proprie ultime forze dovevano essere totalmente dedicate a quel compito: completare l'arma e dimostrare che poteva funzionare. Niente altro importava, né la vita di alcuni animali che sarebbero morti comunque, e neppure la sua. Solo il lavoro importava, solo il successo del progetto. Ignorando la nera spirale di dolore che si dilatava di nuovo nel suo addome, Peter si mise a osservare i suoi che si erano sparpagliati intorno per controllare le cavezze e regolare i dispositivi telemetrici. Mancavano cinquanta minuti all'ora zero e il tempo gli scorreva rapido tra le dita come quark attraverso un accelerometro. Il Premio Nobel, i riconoscimenti internazionali, il laboratorio del MIT che portava il suo nome: niente di tutto ciò gli importava in quel momento. Al di là delle lodi e dei dubbi, c'era solo l'idea, che veniva sviluppata attraverso ricerche e messe a punto nel corso di un tempo apparentemente infinito, per giungere fino a quel momento, che ormai si avvicinava a grandi passi. Tra soli cinquanta minuti, in un istante si sarebbe capito se l'idea era praticabile. Se l'idea diventava sostanza, quella sostanza avrebbe dominato il pensiero militare del prossimo
futuro. Ma c'era il fattore tempo. La necessità di innumerevoli ore, mesi e anni di studi, calcoli e continue prove, rendeva tutto una corsa sfrenata contro il tempo, contro i limiti stessi della vita umana. Budget stupidamente tagliati, scadenze arbitrarie, lagnanze di alti capi dell'Esercito, tutto cospirava contro il suo lavoro, contro il posto che gli spettava nella storia della scienza. Esperimenti che avrebbero funzionato egregiamente se finanziati a sufficienza, venivano condotti di corsa, passando a testa bassa dalla progettazione a tavolino alle prove sul campo e scartati per sempre anche dopo un solo fallimento. Era una vera follia. E ora si era giunti all'ultimatum: se quel giorno l'esperimento non avesse funzionato, lui e la ricerca non avrebbero avuto più sostegno e sarebbero stati buttati alle ortiche gli ultimi dieci anni della sua vita. Il dolore gli serrava l'addome. Imprecò silenziosamente. Adesso sei qui, e farai l'esperimento. Al diavolo i dubbi. Si girò e pisciò contro una yucca, ignorando il forte bruciore. Da qualche parte, dietro di lui, una pecora belava come se la stessero sgozzando. Perkins aveva ragione: dovevano sbrigarsi o sarebbero morte tutte, sotto quel caldo rovente. White Sand, strada di accesso sud Circa quindici chilometri a sud del punto in cui si trovava Peter, il deserto si appiattiva distendendosi a perdita d'occhio. Nuda sabbia di un biancore accecante si allargava fino al profilo del bacino di Tularosa. Quel desolato paesaggio lunare era tagliato da una pista su cui correva una Range Rover tutta sporca sollevando una nuvola di polvere al suo passaggio. Sull'auto c'erano la dottoressa Beatrice Jance, moglie di Peter, e il dottor Frederick Wolfe. L'uomo era sulla settantina, pallido ed emaciato, con ispidi capelli color acciaio, palpebre pesanti e una bocca carnosa sempre rivolta all'ingiù in un'espressione di perenne scontento. Aveva lunghe dita da chirurgo con grosse nocche, e l'ampia cupola del cranio era picchiettata di grandi macchie brune. Wolfe aveva l'aria di chi riceve sempre pessime notizie e la sua minima disapprovazione aveva la forza di una maledizione. «Nosferatu» l'aveva soprannominato un giovane genetista, che aveva lavorato per lui solo una settimana e poi si era ritrovato a insegnare biologia in un liceo messicano. Meglio essere temuto che amato, come diceva Machiavelli, uno dei suoi pochi idoli. Ancora meglio amare se stesso in modo
così totale da non porsi nemmeno la domanda. Questo era Wolfe. Intorno al suo genio, che conduceva esperimenti di biogenetica così audaci e di vasta portata che lui solo riusciva a coglierne in pieno il significato, si erano affollati scienziati di tutto il mondo. Con abilità machiavellica, Wolfe era sempre riuscito a metterli uno contro l'altro, in modo da ottenere il meglio dal loro lavoro senza dover rivelare i propri segreti, che condivideva in minima parte solo con la sua cerchia più ristretta. In sostanza, nessuno a cui avesse chiesto di lavorare per lui aveva mai rifiutato la proposta, e una volta salito a bordo, nessuno lo aveva poi lasciato di propria volontà. Beatrice Jance non faceva eccezione. Mentre guidava la Range Rover sulla sabbia del deserto, Wolfe la sbirciò con la coda dell'occhio scuro e penetrante. La donna era ancora bellissima: i suoi fantastici capelli biondo cenere erano da tempo diventati di un bianco scintillante e nuove rughe si erano formate intorno alla bocca generosa, ma la sua grazia atletica era rimasta intatta e i morbidi occhi grigi erano ancora molto energici. Nell'ultima mezz'ora, non aveva risposto nemmeno una volta ai suoi sorrisi. Di certo tutti i suoi pensieri erano rivolti a Peter. Beatrice lo guardò, si accorse che la stava fissando e finalmente gli sorrise. Lui distolse lo sguardo, non sapendo assolutamente come interpretare quel fugace sorriso. «Se mangio altra polvere,» gli disse gridando per superare il frastuono della corsa, «finisce che cagherò un mattone.» Wolfe sussultò leggermente. L'improvvisa trivialità di Beatrice, quando voleva essere volgare, appariva davvero stonata. Ed era lo stesso anche con Peter. Quei due, per quanto fisicamente lontani durante il lavoro, erano sempre in un certo senso vicini. Ciò lo sconcertava e lo irritava. Non era un bene essere troppo vicini: Peter e Beatrice alimentavano a vicenda i loro dubbi e le loro ansie, soprattutto ora che su di loro incombeva la malattia. Era commovente come avessero cercato di tenere segreto il cancro di Peter a lui, uno a cui non sfuggiva niente e anche l'unico che potesse salvarli. «Allora è una fortuna per tutti e due essere arrivati,» le rispose Wolfe emergendo improvvisamente dai suoi pensieri. Estrasse dalla tasca un lasciapassare e arrestò la Range Rover davanti a un cancello aggredito dalle erbacce. A lato del finestrino comparve un uomo che esaminò le credenziali. Wolfe l'osservò con olimpica impazienza.
«Lei deve essere nuovo.» La guardia, un tipo con la faccia tonda e il naso schiacciato, ignorò l'occhiata fulminante di Wolfe. Da qualche anfratto della sua divisa emerse il gracchiare di un walkie-talkie. L'uomo ignorò anche quello finché non ebbe terminato di esaminare il lasciapassare. «Normale rotazione semestrale,» spiegò poi, indicando il proprio tesserino di identificazione. «Com'era Washington, dottor Wolfe?» «Ignorante e inebriante, come al solito.» La guardia rivolse un'occhiata imbarazzata al passeggero dell'auto. «Beatrice,» sospirò Wolfe, «il signor Greenhorn vuole anche le tue credenziali.» La donna si mise a scavare nella sacca di pelle logora estraendo delle pubblicazioni, una calcolatrice scientifica, uno Spinhaler, un tubetto di crema solare, di tutto, tranne le credenziali. «Sono la dottoressa Beatrice Jance,» disse, come se ciò spiegasse tutto. La guardia si irrigidì leggermente. «Sposata con il dottor Peter Jance?» «E lui è sposato con me,» rispose lei sorridendo. «Non intendevo fare dello spirito, mi scusi.» La guardia fece qualche passo indietro e salutò militarmente i due. «Buona giornata a tutti e due.» Estrasse il walkie-talkie per annunciare il loro arrivo. Wolfe vide Beatrice sbattere le palpebre sorpresa scorgendo il fucile automatico che sporgeva dalla divisa dell'uomo. Mise in moto la Range Rover e poco dopo la guardia, la baracca e il cancello con il filo spinato scomparvero in un nuvolone di polvere. «A quanto pare, tutti conoscono Peter,» commentò lei, sempre gridando per sovrastare il rumore della corsa. Wolfe la guardò impassibile. Era semplice orgoglio di moglie o un tentativo di mettere un freno alla sua vanità? «A tutti i bambini piacciono i grandi che sanno fare bum,» commentò rivolgendole un'occhiata cauta. «Probabilmente.» Il suo tono era piatto, senza ombra di ironia o di rimprovero. È tanto bella quanto fedele alla causa del marito, concluse Wolfe. E, sentendosi improvvisamente vuoto come un pacchetto di sigarette finito, pigiò l'acceleratore a tavoletta. Dopo essersi addentrati nel deserto per circa tre chilometri, giunsero al
complesso di recinti e alloggi che, in quegli ultimi cinque anni, erano diventati la seconda casa di Wolfe. Il Complesso del Progetto Fontana, una serie di bassi edifici dall'aria un po' minacciosa che sembravano una prigione per impiegati, era in realtà una sede non ufficiale del Battlefield Environment Directorate - BED -, uno dei molti laboratori di ricerca sugli armamenti dell'Esercito sparsi a White Sands. I militari si erano stabiliti lì nel 1946. Nei primi anni, i Corpi di Segnalazione avevano fornito radar e supporti per telecomunicazioni per riconvertire i razzi V-2 tedeschi catturati. Si era all'inizio del programma spaziale USA. Ora il settore dei razzi era stato abbandonato e le ricerche riguardavano sistemi per armamenti e strumenti di guerra chimica e batteriologica che superavano di gran lunga i sogni più pazzi degli stessi ingegneri di Hitler. Il progetto di Peter Jance, nome in codice «Hammer», che aveva sede a ottanta chilometri di distanza nella stessa base, era uno di essi, mentre lì, al Complesso del Progetto Fontana, Wolfe coordinava il più segreto dei progetti top secret. Oltre che a White Sands, il progetto veniva condotto in una base segreta nei Caraibi, ma gli ultimi decisivi progressi erano stati compiuti proprio lì e non vedeva l'ora di mostrarli a Beatrice. Parcheggiò e accennò un saluto a un tipo appostato sotto un gruppo di palme. Riconoscendo il direttore del progetto, la guardia abbassò il fucile automatico. Beatrice si mise gli occhiali da sole per difendersi dal riverbero accecante. «Non è proprio come stare sull'isola,» commentò Wolfe. «Fa un caldo tremendo,» brontolò lei, sputando qualcosa che le era finito in bocca. «Neanche gli scarabei riescono a starsene fuori, all'aperto.» Wolfe si avviò verso un recinto vicino. «Forse è per questo che i locali non sono molto loquaci,» commentò dando una pacca a un grosso maiale rosa che sonnecchiava disteso su un fianco nella paglia. Aveva la pelle luccicante per l'ultima doccia rinfrescante, un numero fissato a un orecchio e una vistosa fasciatura sul dorso. «Perkins!» chiamò poi Wolfe, in tono seccato. Subito il maiale fece un sobbalzo e cominciò a trascinarsi faticosamente verso il recinto per la notte, continuando a grugnire. Le zampe posteriori sembravano prive di vita. La sua evidente sofferenza addolorò Beatrice e rese paonazzo di rabbia Wolfe. «Perkins!» sbraitò ancora e il maiale, preso dal panico, urtò lo steccato con il dorso. La fasciatura si lacerò rivelando i punti di una tremenda cica-
trice di traverso alla colonna vertebrale. «Oh Cristo!» esclamò Beatrice. «Frederick, ma dov'è la sorveglianza?» «Perkins!» Con un grugnito finale, il maiale si buttò scomposto dentro il recinto. In quel momento arrivò Perkins su un furgoncino rosso tutto impolverato. Su un angolo del parabrezza spiccava il contrassegno della sicurezza ATW; a parte ciò, il veicolo sembrava arrivare dritto dagli anni Cinquanta. Perkins scese mostrando un sorriso pieno di buchi. «Ehi, dottor Wolfe, come mai sta osservando quel maiale?» «Non è quello per cui mi hai chiamato?» strillò. Il mandriano deglutì e si fece serio. Occuparsi di tutti gli animali di White Sands era, nel migliore dei casi, un lavoro ingrato. E ora, con il ritorno del dottor Wolfe, doveva essere fatto esattamente come voleva il capo. «Quel maiale? Nossignore. È quell'altro che volevo farle vedere.» Si girò verso un vicino porcile facendo un verso di richiamo. Dopo qualche istante, attraverso la porta aperta comparve un secondo maiale, bendato come il primo. Questo era diverso, trotterellava ma, appena vide Wolf, si mise a scappare a zampe levate. «Avevo ragione a dire di chiamarla, no?» «Che numero ha questo animale?» «P365.» «Accidenti!» Wolfe si rivolse a Beatrice che, per la prima volta in tutto il pomeriggio, sorrideva raggiante. «È uno dei miei?» domandò. «Sì,» rispose Wolfe mettendosi improvvisamente a rincorrere il maiale come se volesse fargliene dono. Perkins rivolse uno sguardo perplesso alla donna, che osservava la bestia come se questa fosse stata un innamorato trasformato per incanto in maiale. Strana gente, questi cervelloni. Il mandriano scrollò le spalle e si schiarì la gola. «Alla rampa Delta sono quasi pronti, signora. Il dottor Jance mi ha chiesto di venirla a prendere.» «Sì, certo. Come sta il mostro dai capelli grigi?» chiese Beatrice. «Con il dovuto rispetto, signora...» «Pieno di piscio e di acido?» «Sì, signora.» Perkins le aprì sorridendo la portiera del furgone. Dietro di loro, lo scienziato aveva costretto P365 in un angolo del recinto per dar-
gli un'occhiata più da vicino. Il maiale si era rannicchiato terrorizzato all'ombra dell'uomo. «Verrà anche il dottor Wolfe?» Beatrice annuì seccamente. «Penso di sì.» Poi, pregustando l'imminente esperimento con un piacevole brivido, salì sul furgone. Quando era finita la seconda guerra mondiale, erano venuti gli anni della costruzione del Tevatron Collider al Fermi National Accelerator Lab nell'Illinois. Quel colosso era il più potente acceleratore di particelle del mondo, sparava protoni contro antiprotoni con un'energia di collisione di 1,8 trilioni di elettrovolt. Peter Jance aveva però dimostrato che non c'erano solo i protoni e gli elettroni che ruotavano intorno al nucleo. Mentre gli altri scienziati arrancavano faticosamente per cercare di tenere il suo passo, aveva aperto la porta di un vero e proprio «zoo di particelle»: gluoni, mesoni e quark. Fu però solo durante l'amministrazione Reagan che Jance aveva avuto finalmente mano libera, poiché non subiva le interferenze che lo avevano perseguitato dopo la tragedia di Hiroshima né i dubbi che sarebbero poi emersi con il collasso del comunismo. Poté così progettare e mettere a punto di tutto, da supercannoni ad armi a ultrasuoni in grado di liquefare gli occhi e le orecchie di chiunque si trovasse nel loro raggio di azione. I problemi non erano burocratici ma solo tecnici, questioni di dimensioni e di potenza. Tutti i dispositivi erano immensi, enormemente costosi e consumavano la stessa quantità di elettricità di Manhattan a luglio, e potevi sparare un solo colpo perché ci volevano da sei a otto ore per ricaricarli, che quindi non avevano nessuna possibilità di impiego pratico. Tutto questo fino all'Hammer. Questo prototipo prometteva di essere, insieme, efficiente e letale. Peter era riuscito a ottenere una miniaturizzazione incredibile, riprogettando l'hardware e gli algoritmi utilizzando la nanotecnologia. L'arma conteneva ingranaggi che potevano stare tranquillamente nell'intestino di una zanzara, circuiti visibili solo al microscopio elettronico. Ma, soprattutto, si era ridotto enormemente il consumo energetico collegando l'arma a un satellite super segreto che forniva l'enorme quantità di energia necessaria raccogliendola direttamente dal vento solare con grandi pannelli. Se funzionava, nel giro di quattro anni, nello spazio avrebbero orbitato ventiquattro satelliti di quel tipo, tutti geostazionari, almeno due dei quali accessibili da qualsiasi punto del pianeta. E una volta installate mille di queste armi, nessuno stato o tiranno avrebbe potuto resistere alla sua forza
letale, e i militari lo sapevano bene. Ma solo se avesse funzionato, solo se riusciva a stabilizzare quella maledetta arma. Un'arma a energia orientata come quella non sparava pallottole o granate ma raggi di particelle, prodotte accelerando ioni negativi fino a velocità mostruose e poi strappando loro, all'ultimo nanosecondo, l'elettrone in più, in modo da creare un fascio di ioni di litio da 30 milioni di watt e 5 milioni di ampère che liberava un'energia di 100 trilioni di watt per centimetro quadrato direttamente sul bersaglio. A causa dell'enorme potenza, l'Hammer era un po' capriccioso, ma aveva anche un meraviglioso potenziale di letalità «pulita». Fino a poco tempo prima, Peter aveva sentito di amarlo come un padre orgoglioso, e se avesse funzionato, il suo amore sarebbe stato eterno, pensò mesto mentre il dolore nell'addome sembrava acutizzarsi. Rivolse un'ultima occhiata all'apparecchio, chiuse il pannello di accesso e si girò verso Alex Davies, che seguiva ogni suo movimento con un sorriso. Il giovane intuiva le sue incertezze? E, in tal caso, cosa c'era da ridere? «Andiamo al bunker,» disse Peter. Il bunker A, a un chilometro e mezzo dall'arma e a tre dai bersagli animali, era una scatola scura di cemento con le pareti della camera di controllo spesse tre metri. Il tetto, otto metri di cemento armato, era stato progettato negli anni Quaranta per sopportare l'impatto della caduta di un grosso razzo, per esempio un V-2, da un'altezza di 150 chilometri a una velocità di 3000 chilometri all'ora. Il bunker aveva un'atmosfera umida e lugubre da mausoleo. Nel 1945 era stato usato per il Progetto Manhattan. Le pareti di cemento erano ricoperte di graffiti, per lo più opera di giovani fisici che poi erano diventati scienziati importanti. Se non sei parte della soluzione, aveva scritto Feynman negli anni Sessanta, allora sei parte del precipitato. Uno dei graffiti preferiti da Peter era una frase di Einstein trascritta da una mano sconosciuta: Relativamente parlando, quando ferma Monaco a questo treno? Si sentì un clacson. Stavano arrivando gli ultimi osservatori, tra cui il colonnello Henderson: «Henderson lo spietato» per amici e nemici, categoria quest'ultima nella quale Peter si era trovato incluso quasi automaticamente. Il colonnello era sulla cinquantina, muscoloso e ben rasato. Stringeva invariabilmente tra i denti un H. Upmann Corona Major spento. Gli occhi scuri, serissimi, erano costantemente socchiusi come se stesse esaminando dei conti che non qua-
dravano. Entrato nel bunker, indicò un monitor su cui si vedeva il lato della collina con gli animali bersaglio e si mise a illustrare con voce tonante la situazione ad alcuni grandi capi in visita. Peter si sedette ad aspettare. «Qui potete vedere una linea di assalto di trecento soldati nemici, diciamo: iracheni. Stanno per circondare un avamposto americano tagliato fuori da qualsiasi supporto... Dico bene, dottor Jance?» «Non è il mio campo,» rispose Peter senza entusiasmo. Ma dove diavolo era Beatrice? «E qui,» proseguì l'altro spostandosi al monitor successivo, dove l'arma luccicava sinistra nella luce accecante del deserto, «qui c'è l'Hammer, costato miliardi, che dovrebbe assicurarci il lieto fine, vero dottore?» Peter evitò lo sguardo scettico del militare e rivolse un'occhiata alla porta. Stava arrivando qualcuno. Vedendo Frederick Wolfe, ebbe un piccolo sussulto di delusione. «Sono contento che tu sia riuscito a venire, Freddy,» lo salutò. «Non mi sarei perso lo spettacolo per niente al mondo,» rispose quello come da copione, accomodando il suo lungo scheletro nella sedia riservatagli. Accennò un saluto al nipote, che all'ingresso del nonno si era spostato silenziosamente in un angolo. «Peter, ma sei sicuro di volere la presenza di Alex? L'ho visto far esplodere tastiere con il solo tocco delle dita.» Wolfe rise della propria battuta, attirandosi gli sguardi ostili degli altri membri dell'équipe scientifica. La sua abitudine di provocare il nipote metteva tutti a disagio. Peter vide che l'amico dava uno scappellotto ad Alex, poi la porta si aprì ancora ed entrò Beatrice. Era passato un solo mese, ma gli sembrava di non vederla da anni. Le tese la mano, lei gliela strinse e sollevò il viso sfiorando il suo con un bacio. «Pensavo di dover andare avanti senza di te,» disse lui. «No, assolutamente,» rispose la moglie, che subito percepì la sua ansia e, come molte altre volte in passato, gli rivolse uno sguardo speciale che significava: Sei meraviglioso, qualsiasi cosa accada. Il cuore di Peter esultò e il dolore all'addome scomparve. «Abbiamo avuto una piacevole sorpresa, al Progetto Fontana,» aggiunse lei sorridendo. «Un piccolo passo avanti.» «Davvero?» esclamò lui educatamente. Nell'ultimo anno, tutto preso dagli esperimenti e da vari altri problemi, aveva perduto il filo delle ricerche della moglie. «Sì. Ma tu, come ti senti?» «Meglio, molto meglio.»
«Peter...» «Davvero. Non ho avuto neanche uno spasmo per tutta la giornata.» La baciò ancora. Ogni buon matrimonio, amava dire, era fondato sulla paura. Nel suo caso, non era la paura di perdere Beatrice (una cosa impensabile) ma di darle un dolore o una preoccupazione. «Cosa hai visto? Una pecora?» «Un maiale.» «E la cosa era promettente?» «Molto, ma ne parliamo dopo, non sarò certo io a rubarti la scena.» Peter sentì un nodo alla gola. Se mai la frase «uniti nella buona e nella cattiva sorte» aveva avuto una traduzione pratica, era nella devozione di Beatrice verso di lui e il suo lavoro. Il loro matrimonio durava da cinquant'anni e, come Peter diceva talvolta per scherzo, si meritavano una medaglia non fosse altro che per questo. Mentre però le scoperte avevano già procurato a lui quattro pagine nell'Enciclopedia Britannica, la genialità di Beatrice nel campo della neurobiologia era nota solo nei circoli più ristretti della sua specialità. Lui dirigeva un proprio progetto, mentre lei era un'anonima collaboratrice di Frederick Wolfe. Ma non si era mai lamentata, nemmeno una volta, e questo non cessava mai di sorprenderlo. «In bocca al lupo,» gli augurò baciandolo di nuovo. «Su, dateci un taglio, voi due,» scherzò Wolfe dietro di loro aggiungendo, con un sorriso ironico: «È ora di salvare la democrazia mondiale.» Peter diede una rapida occhiata ai suoi collaboratori: erano tutti pronti e concentrati. «Collegamento stabile con il satellite,» annunciò Cap Chu con l'accento del capo. La sua voce rimbombò contro le pareti di cemento. «Trenta secondi all'ora zero, inizia il conto alla rovescia.» Nella stanza calò un silenzio assoluto. Peter osservò gli strumenti: sembrava tutto a posto. Desiderò ardentemente di poter dire lo stesso del suo corpo. Provava infatti un dolore lancinante all'addome e, quando mancavano solo dieci secondi all'ora X, la stanza cominciò a girargli intorno, tanto che vide la sua mano cercare quella di Beatrice. Poi l'arma sparò. Nonostante i tre metri di cemento rinforzato, si sentì un frastuono tremendo, una profonda vibrazione elettrica culminante in un'ondata di energia simile a un tuono. I monitor divennero tutti bianchi. Tutto bene, pensò Peter mentre la moglie gli affondava le unghie nel
palmo. C'era da aspettarselo, si disse. Beatrice si rilassò. Quello che non aveva previsto era la successiva esplosione. Fu un colpo forte e netto proprio contro il bunker che fece vacillare i presenti. Le spie rosse sui pannelli si accesero, tutto ciò che non era fissato cadde a terra e, un secondo dopo, l'onda d'urto incollò loro i vestiti alla pelle e provocò un ronzio violento alle orecchie. «Nessuno si muova finché non diamo il cessato allarme!» gridò Chu mentre ritornava al suo pannello di controllo. Sui monitor stavano tornando le immagini, e la collina bersaglio vi apparve come uno spettacolo davvero bizzarro. In ogni postazione prima occupata da un animale c'era un falò dove ardevano tessuti, ossa e peli. Non si vedeva niente che assomigliasse alla vita, da nessuna parte. Oscar Henderson sospirò deliziato. «Ma lo vedete? Dio onnipotente!» Respirando a fatica, Peter si alzò in piedi. Ci furono applausi e timide pacche sulle spalle tra alcuni dei militari, ma sul bunker era sceso un silenzio sospeso. Nessuno si aspettava una potenza del genere. «Merda, merda, merda,» continuava a ripetere, come un mantra, Alex Davies. Beatrice, ammutolita come gli altri per lo sbalordimento, fissava il marito con un'ansia indicibile che le stringeva la gola. Lui aveva il viso cinereo. «Peter?» «Sto bene.» Andò al monitor e verificò i danni a livello zero. Cap Chu lo scrutava incerto scuotendo la testa. «Cos'era quella fragorosa esplosione, dottor Jance? Pensavo che dovesse essere una cosa silenziosa.» Peter trasse un profondo respiro: lo aveva capito anche senza doverlo vedere. «Avevamo una videocamera puntata sull'arma, vero?» Chu annuì e premette un pulsante. Sul monitor si vedeva solo neve. «Cosa?!» esclamò il colonnello Henderson, mentre Peter gli passava accanto, diretto alla porta. Fuori, si era passati di colpo dal calore da fornace del deserto a una temperatura primordiale, terrificante. Sulla collina bersaglio, le fiamme stavano estinguendosi e migliaia di piume annerite volteggiavano nell'aria in un'unica nube scura. Peter si costrinse a guardare il punto in cui era stata collocata l'arma.
C'era solo un cratere di metallo contorto da cui si levavano fiamme violente. Nient'altro. Si girò. Henderson si avvicinava ansimando. «Be',» borbottò lo scienziato sarcastico, «potremmo cercare di venderla all'esercito polacco. Spara al nemico e allo stesso tempo ti fa saltare in aria le cervella.» «Ma ci siamo vicini, accidenti!» esclamò invece l'altro, entusiasta. «Voglio dire: guardi i bersagli!» Il colonnello osservava rapito la collina fumante, che alcuni istanti prima brulicava di animali, e poi chiese: «Lei sa cosa non ha funzionato?» «L'arma è esplosa,» rispose Peter in tono piatto. Ma il colonnello era tenacemente ottimista. «Ma lei lo sa perché?» «Sì.» Peter era furioso. «Perché abbiamo avuto fretta. Perché non abbiamo provato abbastanza. Perché, se avessimo rimandato la scadenza, come dovevamo fare, avremmo sforato il budget di tre milioni di dollari. Lei ce li ha negati e io ho sperato che potessimo essere fortunati.» Henderson guardò il buco fumante dove l'arma era esplosa. «Abbiamo un'altra arma, vero?» «Costruita per metà. Il finanziamento è stato interrotto dal suo ufficio, almeno credo.» I lineamenti grossolani del militare si contorsero in un sorriso. «Questo succedeva prima che lei polverizzasse un'intera divisione a un chilometro e mezzo di distanza.» Circondò le spalle ossute di Peter con il suo grosso braccio. «Se pensa di avere un'idea sul modo di mettere a punto l'arma, allora, per Dio, cominci già domattina.» «C'è solo un piccolo problema: non abbiamo un soldo.» «Farò in modo che abbia i soldi, non si preoccupi. Mi basterà una telefonata.» Sghignazzando allegro tra sé e sé, Henderson si allontanò passando accanto a Beatrice, ferma in piedi sulla soglia del bunker. «Lei può essere tremendamente orgogliosa del suo vecchio,» le disse entrando. «Be', lo sono,» rispose lei, e tese le braccia al marito, sorridendo come se lui avesse appena fatto un goal. Gli sussurrò qualcosa, lui si sforzò di sentire ma, nella sua testa, tutto veniva risucchiato da un profondo vortice nero che cancellava il suono delle parole. Un istante dopo, Peter cadde a terra. 3 ST. MAURICE, SVIZZERA
«Lizzy, non voglio vederti in questo stato. E non dirmi che il tuo lavoro non ne risente.» «All'agenzia sono contenti, non si è lamentato nessuno,» rispose Elizabeth osservando la brezza autunnale che increspava la superficie dell'acqua. L'inverno era già nell'aria e i pioppi che incorniciavano il panorama del lago erano avvolti da un manto color rosso sangue e oro antico. Foglie accartocciate svolazzavano sul tavolo del caffè all'aperto dove Elizabeth Parker e Annie Rodino stavano sorseggiando delle bevande. «Però i tuoi capelli non mi piacciono proprio,» disse Annie. «Davvero? Hai ragione: sono un via di mezzo.» Elizabeth si diede un colpetto sui capelli con mano esperta. Erano più lunghi di come li portava di solito e stavano lentamente riprendendo il loro colore biondo naturale dopo una breve parentesi corvina resa necessaria da una sfilata per Lancòme. Hans l'aveva vista con i capelli neri? Non se lo ricordava. Sapeva solo che non lo sentiva da due settimane e quel pomeriggio aveva la strana sensazione che presto lui l'avrebbe chiamata per scusarsi. Ma finora non l'aveva fatto. «Quel tipo non va bene per te,» dichiarò l'amica. Annie, più piccola di dieci centimetri ma con cinque chili più di lei, aveva capelli ondulati castano dorati e mani piccole e grassocce, costantemente in movimento. «Lo so. Ma qualche volta penso che sia la cosa migliore che mi sia mai capitata.» «Ti sbagli.» «Certo,» rispose conciliante. Sapeva che Annie, la sua più vecchia e cara amica, pensava che lei fosse la più vulnerabile e tormentata delle due. Di solito, Elizabeth trovava ridicolo quel gioco delle parti, ma ultimamente sembrava calzarle a pennello. «Ho bisogno di qualcuno che badi a me, vero?» «Non è una novità,» replicò l'altra sorseggiando un Campari. Da quando si erano conosciute, otto anni prima a Parigi, le due amiche si erano sempre aiutate. Sei anni prima del loro incontro, Elizabeth aveva perduto il padre per un infarto. Sua madre era crollata e la figlia, inquieta, si era lasciata prendere dalla voglia di girare il mondo. Aveva così abbandonato il college per un'avventura in Europa. Aveva incontrato Annie durante la sua prima settimana all'estero e, in pochi giorni, le due ragazze erano diventate inseparabili. Avevano trovato lavoro tutte e due nel mondo della moda: Elizabeth come modella per cataloghi, Annie come apprendista di uno stili-
sta di abbigliamento sportivo. E tutte e due avevano avuto successo, nella carriera e nella vita sociale. Elizabeth aveva avuto numerosi corteggiatori e molte offerte di matrimonio. Ma era stata l'amica a sposarsi, con Roland, un gioviale investitore svizzero in trasferta a Milano per vedere l'ultima collezione disegnata da Annie. Lei l'aveva poi seguito a Zurigo, ma le due donne si erano tenute sempre in contatto. Si vedevano il più spesso possibile, soprattutto nei periodi in cui, come adesso, Elizabeth sembrava confusa. «Lizzy,» proseguì l'amica mangiando un'omelette, «quell'uomo è un famoso collezionista di modelle. Potresti essere chiunque, purché tu sia bellissima. E tu lo sei, accidenti a te!» Elizabeth avrebbe dovuto ridere ma non ci riuscì. «Non ne sarei così sicura: lui dice che era destino che ci incontrassimo.» Annie la fissò un attimo, poi scoppiò a ridere. «Riderei anch'io, se non fosse che provo la stessa cosa,» disse Lizzy. «Il tuo vero destino è di venire abbandonata,» disse Annie ammonendola con un dito come una madre che abbia sorpreso il figlio vicino a una stufa incandescente. «Vuoi sentire la mia teoria sul perché sei così sensibile? Tuo padre è morto quando eri giovane, no?» Eccoci di nuovo, pensò Elizabeth. «A undici anni non ero poi tanto piccola.» «Comunque è prima della pubertà, è questo che intendo dire. Tu eri pazzamente innamorata di tuo padre e lui è morto prima che tu raggiungessi l'età della ribellione... Per questo adesso tu vedi tutti gli uomini attraverso occhiali con le lenti rosa.» «Non tutti gli uomini: questo uomo.» «E c'è dell'altro: tu eri la luce degli occhi di tuo padre. Non hai detto una volta che tua madre era gelosa di te? Che diceva che non saresti mai andata oltre la pubblicità della biancheria intima?» «Mia madre era pessimista. Ma era normale che si preoccupasse: lei non ha mai avuto denaro, una carriera, un'istruzione...» «Con il cervello che hai, avrebbe dovuto obbligarti a restare al college. Hai detto che volevi diventare un medico. Ti ricordi quando hai rianimato quel tizio sullo yacht...» «Quando volevo fare il dottore avevo sei anni. Insomma, Annie, qual è il problema?» «Lui è sposato, e gli uomini sposati tornano dalle loro mogli.» «Se è per questo, lui la sua non l'ha mai lasciata. Ma il loro è solo un
rapporto d'affari.» «Lizzy, risparmiami questa vecchia storiella.» «D'accordo, visto che vuoi psicanalizzarmi. Al college, Hans andava pazzo per la matematica. Voleva diventare un grande scienziato, nella fisica dei plasmi o qualcosa del genere. Poi, mentre studiava ha cominciato a giocare in borsa facendo presto un sacco di soldi. Allora ha lasciato gli studi, è entrato nel mondo della finanza e ha fatto una carriera strepitosa. Ma lui non appartiene veramente al mondo dorato in cui vive. Poi ha incontrato Yvette, che aveva le relazioni giuste e il padre nell'alta finanza. Ha fatto un piccolo compromesso con il suo cuore e l'ha sposata. Be', non dico che non provasse una certa attrazione per lei, almeno all'inizio, ma...» Si interruppe, il ricordo del loro ultimo incontro le attraversò in un lampo la mente. Il modo in cui avevano fatto l'amore e come, dopo, lui l'aveva ignorata mettendosi a guardare fuori dalla finestra come se qualcuno lo spiasse dalla strada. «Voglio dire, a modo suo Hans è un genio, solo non nel senso in cui lui sperava. E questo lo fa sentire un po' frustrato.» «Non capisco.» «Vuole fare le cose bene. Nel profondo, credo che sia anche un ambientalista.» Provò a sorridere ma Annie restò seria. «Davvero, Lizzy, lo credi? Stai cercando delle scuse. Ma tu meriti molto di più. Sei una persona meravigliosa, brillante, attraente e generosa...» «Attenta, il mio misuratore di sciocchezze è arrivato al limite.» «Ma è così. Tu hai una vecchia anima ma ti stai lasciando corrompere.» «Questa tua tendenza New Age mi fa accapponare la pelle. Se ho una possibilità di scelta, preferisco la psicologia spiccia di prima.» «Lo prenderò come un segno che mi dai ragione,» rispose allegramente l'amica. «Io credo che tu abbia già vissuto. Sei nata fiduciosa. Ecco perché questa faccenda di Hans non ha alcun senso.» Esasperata, Elizabeth alzò le mani in un gesto di resa. «D'accordo, insisti a parlare complicato? Bene, allora, se io sono una vecchia anima - come la chiami tu -, anche Hans lo è, non ti pare? Probabilmente è per questo che ci siamo legati. Sesso fantastico e due vecchie anime: un incontro combinato in paradiso.» «Tu sei proprio pazza.» Elizabeth sorrise, disposta ad accettare quel giudizio di Annie. «L'amore non è sempre un po' pazzo?» «Un po'. Diciamo che tu sei sul Titanic e stai bevendo un gin-tonic. Il
ghiaccio che c'è nel bicchiere è un po'. La montagna di ghiaccio dell'iceberg che si avvicina rapidamente alla nave invece non è un po'. Cogli la differenza?» L'amica non rispose. Poi si sentì il trillo di un cellulare. Le due donne presero le borsette. «È il mio,» disse Elizabeth speranzosa, «è Hans.» Aprì il telefonino e, prima ancora di poter profferire parola, sentì che lui era in macchina e si scusava moltissimo. «Sono stato davvero molto occupato. La prossima settimana ci vediamo, te lo prometto. Andremo ancora sul Learjet, che ti era piaciuto tanto. O al poligono di tiro.» «No» rispose Elizabeth guardando l'amica, che l'osservava severa. «Cosa significa no?» «Non ci rivedremo più.» Felice, Annie, alzò il pugno in aria in segno di vittoria. «Ma che significa?» «Non lo so.» Era la verità; aveva parlato senza pensarci e le sue parole avevano avuto un tono terribilmente definitivo e allo stesso tempo sbagliato. «Ti sei preoccupata per me, ma non dovresti esserlo.» Le parole di Hans ebbero su di lei l'effetto opposto. Elizabeth si sentì subito preoccupatissima e si chiese cosa preoccupasse lui. «È Yvette,» aggiunse subito Hans. «Che c'entra Yvette?» «Penso che mi faccia pedinare. Ehi tu... mi senti? Lo so che sei lì.» Poi aggiunse in fretta: «Sto solo scherzando, Elizabeth.» «Davvero? Non mi sembrava.» «Non volevo caricarti di questo peso; la mia è solo una stupida paranoia.» Lei rabbrividì e disse automaticamente: «Hans, penso di essere io il peso, in questa situazione. Stammi bene, d'accordo?» «Elizabeth... Mi dispiace.» «Addio, Hans» e chiuse di scatto il telefono. Annie le toccò la mano, quasi timidamente, come se ora fosse preoccupata che Elizabeth si fosse spinta sino a quel punto. «Tutto bene?» L'altra annuì. Si guardò intorno con la morte nel cuore. C'era meno gente, al caffè. Era quasi il crepuscolo e dal lago si alzava una leggera foschia. Gabbiani e anatre si tuffavano per rispuntare vicino alle barche ormeggiate, mentre un traghetto stava approdando al molo. Improvvisamente desi-
derò casa sua. «Hai fatto la cosa giusta,» disse Annie. «Lo so», mentì lei. «Continua a ripetertelo, d'accordo?» «Va bene.» «Promesso?» «Promesso.» In quell'istante ci voleva credere, con forza. Ma non aveva la più pallida idea di quanto sarebbe durato il suo proposito, se anni, mesi o solo poche ore. White Sands - Complesso della Fontana All'esterno del complesso di anonimi edifici governativi, le guardie si aggiravano lungo tutto il perimetro della base. Non si erano mai visti tanti addetti alla sicurezza né tanti veicoli: Humvees, Avis e Hertz a trazione integrale, una Lincoln Town Car incrostata di fango e persino un elicottero Cobra dell'Esercito con l'abitacolo di plexiglas avvolto da teli protettivi. Nella grande sala riunioni dell'edificio principale, Frederick Wolfe teneva banco. La sua esile figura da ragno si spostava lentamente nella penombra davanti alle immagini dei video. Davanti a lui sedeva una mezza dozzina di ricercatori di alto livello e grande fama e alcuni pezzi grossi dell'Esercito, tutti in borghese, tranne Oscar Henderson. «Come ben sappiamo,» disse Wolfe con una voce così calma e priva di emozioni che un brivido percorse la stanza, «non si può ottenere nulla se non si trova il modo di riattaccare il midollo spinale reciso. È sempre stato questo il principale ostacolo, impenetrabile, inespugnabile. E questo è il nostro primo obiettivo: l'inversione di una resezione completa del midollo spinale umano.» Diresse la freccia luminosa laser verso un video ad alta risoluzione, che mostrava l'ingrandimento di un topolino bianco anestetizzato. Con una rapida incisione, gli venne aperto il dorso rasato, mettendo a nudo la colonna vertebrale in tutta la lunghezza, fino alla coda. Un paio di forbici chirurgiche si insinuò sotto il bianco cordone di nervi e ossa e lo tagliò in due senza tanti complimenti. Molti uomini, compresi i militari più agguerriti, trasalirono visibilmente. Gli occhi infossati di Henderson si illuminarono pregustando uno spettacolo interessante. Accanto, nell'ombra, Beatrice Jance osservava tutto senza muovere un muscolo. Nonostante gli schizzi impressionanti di sangue e liquido spinale,
non distolse mai gli occhi né trasalì. Nei suoi cinquant'anni come neuroricercatrice aveva visto di peggio. Negli occhi le brillava qualcosa di ben diverso dalla repulsione degli ufficiali o dal rapimento estatico di Henderson. Ne traspariva un'intensità dello sguardo tale che, in circostanze normali e in una stanza illuminata, tutti avrebbero voltato la testa. Ma ora nessuno badava a Beatrice: tutti gli occhi erano incollati sullo schermo. «Ammettiamolo: all'inizio i nostri metodi erano piuttosto rozzi,» proseguì Wolfe. «Il fatto è che, fino a pochissimo tempo fa, ogni tentativo di ricongiunzione risultava rudimentale e inutile.» «Mi sembra comunque che l'ambizione non l'abbia mai fermato, prima,» osservò asciutto Henderson. Si udirono alcune risatine educate provenire dalla parte degli ufficiali inferiori, ma un'occhiata di Wolfe li fece ammutolire all'istante. Lo scienziato fece un cenno al nipote, seduto davanti a una serie di computer e di generatori di immagini collegati allo schermo. Alex premette alcuni tasti e comparve un ingrandimento microscopico del midollo reciso, con l'estremità tagliata rivolta verso la videocamera. «Anche la colonna vertebrale di un mammifero così piccolo è formata da una rete straordinariamente delicata e complessa di ossa, liquidi, membrane e fasci nervosi. Oltre tutto, una volta recisa, la colonna vertebrale tende ad autodistruggersi intorno al punto di rottura, aggravando il problema. È come se la natura fosse programmata a terminare il lavoro mettendo fuori gioco per sempre l'individuo per risparmiare un carico inutile alla specie.» Gli osservatori guardavano, ciascuno secondo la propria soglia di resistenza, una serie di tentativi sempre più complessi di riunire le estremità recise del midollo spinale di vari animali da laboratorio, una parata di suture e di giunti metallici. Gli occhi di Henderson non si staccavano un istante dai monitor. C'era nell'aria qualcosa di grosso e lui l'aspettava con un'attenzione sfacciata. «Poi finalmente,» annunciò Wolfe dopo una pausa a effetto, «abbiamo compiuto un passo avanti. Basandoci su un lavoro iniziato dall'Istituto Karolinska di Stoccolma, abbiamo eliminato ben quattro millimetri di midollo spinale ad alcuni ratti colmando poi il vuoto con fibre nervose prelevate dal torace.» «Perché nervi del torace?» chiese un ufficiale con una voce così flebile che Henderson dovette ripeterne la domanda. «In realtà, sarebbe andato bene qualsiasi nervo, tranne il midollo spinale, ma le fibre toraciche sono più lunghe. Il fatto è che solo le fibre dei nervi
spinali si autodistruggono quando subiscono una lesione. Quelle delle altre parti del corpo tendono invece a ricrescere. Per esempio, se un braccio viene tagliato in modo netto, può essere ricucito e i nervi si rigenerano. Ma prima di noi,» proseguì Wolfe posando lo sguardo su Beatrice, «nessuno aveva mai pensato di usare fibre nervose non spinali per riunire il midollo spinale reciso. Quando abbiamo tentato, abbiamo scoperto che le fibre riuscivano a scavalcare il taglio colmando il vuoto; non sempre e non perfettamente, ma con un notevole tasso di regolarità. Così, per la prima volta nella storia della medicina, abbiamo ottenuto dei movimenti negli arti posteriori di animali dopo la rescissione del loro midollo spinale. Alex...» Il nipote premette altri tasti. «Poi siamo passati ai conigli, sperando che le zone più ampie su cui intervenire avrebbero facilitato i nostri tentativi...» Dalla prima fila si levò un mormorio di disapprovazione. Lo schermo mostrava una processione di animali morti. «Ma non ottenemmo alcun risultato,» disse Wolfe assaporando l'effetto emotivo sui militari della sua esposizione accuratamente pianificata e ancor più attentamente provata. «La crescente complessità della loro neurologia lavorava contro di noi.» Henderson si schiarì rumorosamente la gola. «Se non ci riesce con uno stramaledetto coniglio, come può pensare che noi finanziamo un progetto che...» Si interruppe, messo a tacere dall'indice dello scienziato rivolto allo schermo. Adesso era comparso qualcosa di nuovo: un coniglio era finalmente riuscito a mettersi faticosamente in piedi. La povera creatura non riusciva a camminare ma nemmeno si limitava a trascinarsi. Si muoveva goffamente, come un piccolo Frankenstein peloso. «Alla fine, dopo numerosi tentativi e altrettanti fallimenti, abbiamo avuto successo con questi animali più complessi: non solo non morivano ma si registrava una guarigione parziale.» Sorrise. «Di solito non diamo un nome ai nostri animali, ma questo l'abbiamo chiamato Duracell.» Dai camici bianchi salì un piccolo scoppio di risa, ma Henderson rimase serio e gli alti ufficiali seguirono il suo esempio. «Naturalmente,» riprese Wolfe parlando più in fretta, «abbiamo dovuto passare a qualcosa di ancora più complesso.» A quel punto, Alex premette un tasto del pannello di controllo e comparve il vispo maiale che Beatrice aveva visto nel recinto. Era tenuto al guinzaglio da un sorridente Perkins.
«Abbiamo scoperto che lavorare su animali più grossi ci dava un certo vantaggio. Nonostante l'architettura spinale dei maiali sia enormemente più complessa (gli assoni e i dendriti sono formati dall'interconnessione di diversi milioni di fibre nervose), le loro maggiori dimensioni li rendono più visibili e quindi più facili da collegare.» Ora Henderson annuiva lentamente, come per indicare agli altri che comprendeva perfettamente le parole dello scienziato. Quanto sono sciocchi questi mortali, pensò Wolfe. «Ma, usando fibre nervose prelevate da altre parti del corpo, osservavamo una ripresa solo parziale. Dovevamo escogitare un modo per riunire il midollo a livello submicroscopico, elemento per elemento.» Si rivolse all'unica donna presente. «È a questo punto che la mia collega, la dottoressa Beatrice Jance, ha fatto la sua straordinaria scoperta, degna del Premio Nobel.» Henderson fece un segno di impazienza. «Potrebbe arrivare al sodo?» La donna si alzò e tutti si volsero a guardarla. Wolfe sorrise: Beatrice era tanto regale che nessuno osò mostrarsi impaziente. «Sono sicuro che Beatrice saprà spiegarlo meglio di me,» aggiunse lo scienziato. Lei si avvicinò allo schermo rivolgendo un rapido sguardo a Henderson, che sedeva rigido, attentissimo. Dentro di sé, Wolfe sorrise. «Questa notizia le piacerà, colonnello, potrebbe persino procurarle un'altra stelletta,» commentò lo scienziato. Il militare fece finta di non sentire. «Ecco cosa ho scoperto,» esordì Beatrice con una voce così piena di dignità e di drammaticità che gli astanti si raddrizzarono sulla sedia, più attenti. «Durante le autopsie sugli animali superiori che avevano subito le resezioni spinali, abbiamo notato che l'organismo stava cercando di far guarire le ferite, e si osservavano tentativi specifici nello stesso midollo spinale.» «In cosa consistevano?» chiese Henderson «Erano secrezioni di enzimi fino ad allora passati inosservati e tracce di DNA che aveva avviato un processo di riparazione a livello submicroscopico.» «Di riparazione, cioè di guarigione?» «Esattamente,» confermò Wolfe. «Vuole dire che, lasciato a sé, il midollo spinale guarisce da solo?» «No, certo,» rispose Beatrice. «Questa sostanza funziona solo per lievi alterazioni spinali. È equivalente, diciamo, a un meccanico che riesce a eliminare una botta sulla carrozzeria ma non a sostituire un paraurti fracas-
sato.» A Henderson piaceva il modo di parlare di Beatrice: era molto comprensibile. «Quindi uno strappo o qualcosa del genere potrebbe essere riparato?» «Esatto, per esempio una lesione a livello microscopico. A questo livello non ci era di alcuna utilità, ma ipotizzammo che potesse rappresentare un precursore evolutivo.» «Traduzione!» «Ossia, la versione iniziale di qualcosa che, se sviluppato, poteva dimostrarsi molto più potente e promettente.» «Che tipo di cosa: una colla spinale miracolosa?» Con un sorriso, Beatrice proseguì ignorando il chiacchiericcio e trattando Henderson come il primo della classe. «Esattamente: una specie di colla del DNA, una colla molto intelligente. Una colla che diventa parte integrante del midollo, che possiede una copia dell'impronta unica del DNA ed è progettata dalla natura per aiutare il midollo a guarire. Solo che è così debole che finora nessuno l'aveva notata, probabilmente perché nessuno aveva pensato di cercarla.» «Forse nessuno aveva le risorse che avete voi,» intervenne Henderson. «Ne è valsa senz'altro la pena, mi creda,» lo rassicurò Wolfe. «Il passo avanti compiuto da Beatrice non consiste solo nella scoperta dell'agente legante ma nella sua sintesi e nel suo potenziamento.» Il colonnello sbatté le palpebre, come se improvvisamente gli apparissero chiare le implicazioni di tutto ciò. «Siamo riusciti,» riprese Beatrice, «a spalmare la nostra colla genetica sulle estremità recise del midollo spinale e a ottenere un legame.» «Un legame? Cioè una saldatura completa?» domandò Henderson prudente. «A quanto pare sì.» La stanza fu percorsa da un'ondata di commenti eccitati a mezza voce. Wolfe tornò sul podio accanto alla donna. «La nostra colla possiede in realtà due funzioni. Primo, è un agente legante; secondo, ma molto più importante, è un catalizzatore nervoso.» Vedendo gli sguardi interrogativi di tutti, Beatrice intervenne. «La nostra colla fa in modo che i nervi e le sinapsi recisi si trovino e si riuniscano, a livello microscopico, dove il chirurgo non riesce ad arrivare, e attraverso una rete di milioni di dendriti.» Henderson si piegò in avanti sulla sedia. «È un'autentica bomba, se è tut-
to vero.» «Lo è. E sono lieto che lei ne comprenda il valore, colonnello,» replicò secco Wolfe. «In realtà, abbiamo saltato a piè pari un processo evolutivo che la natura potrebbe impiegare un altro milione di anni a completare. Abbiamo ottenuto una sostanza naturale in grado di riparare vie nervose recise.» Passò quindi al tono adulatorio. «In effetti, colonnello, qui ci è stato particolarmente utile il suo contributo nel superare le solite pastoie burocratiche.» Era un preciso segnale per Alex Davies. Un attimo dopo comparve sullo schermo il forte ingrandimento di una colonna vertebrale. Era protetta da teli sterili e pennellata con un disinfettante arancione. La pelle era stata staccata da entrambi i lati mettendo a nudo l'osso: si vedevano le strisce bianche e rosse dei muscoli e delle costole. Mentre Henderson guardava con un sorriso di incredulità, il becco lucente di un potente strumento da taglio fu infilato e affondato nel tessuto vicino alla colonna vertebrale. Alcune mani asciugarono lo scarso sangue e la lama superiore dello strumento fu appoggiata direttamente sul midollo. «Questo era il primo dei dieci soggetti forniti dall'agenzia,» spiegò Wolfe facendo un cenno al colonnello. «Il taglio è stato praticato a livello dell'incisura sovraclaveare tra le vertebre C1 e C2, poco sotto il tronco cerebrale. A parte il midollo e le meningi, sono state recise solo le arterie vertebrali.» Da, da destra e da sinistra, entrarono nell'immagine due paia di pinze che bloccarono entrambe le arterie in alto e in basso. In sala, silenzio assoluto. «Il taglio non ha presentato alcun problema dal punto di vista chirurgico,» proseguì Wolfe. La lama dello strumento fu affondata, passò tra due vertebre e tagliò il midollo spinale. Questa volta, la perdita di sangue e liquido fu abbondante, ma la voce dello scienziato non rivelava alcuna emozione: avrebbe potuto benissimo essere il commento a un video sul sezionamento di un cavo telefonico. Per qualche istante, i militari chiusero gli occhi o guardarono altrove. Henderson rimase invece con lo sguardo incollato allo schermo che ora mostrava, in un'inquadratura ancora più ravvicinata, il moncone reciso in sezione trasversale. «Naturalmente, a questo livello dell'evoluzione, ci troviamo di fronte a un organismo di enorme complessità. Non solo c'è una grande quantità di materia grigia e bianca ma abbiamo circa venti milioni di fibre nervose. Inutile dire che non era mai stato tentato niente del genere, prima.» A quel punto, l'inquadratura si allargò improvvisamente. Si vedeva l'in-
tera sala operatoria: Wolfe in camice e mascherina e una ventina di persone, tra personale medico, neurochirurghi, anestesisti, perfusionisti, infermiere e anche alcuni ufficiali dell'esercito in uniforme. E un'altra cosa risultò chiarissima: il soggetto dell'esperimento non era un animale. Era un uomo. Henderson balzò in piedi. «Cristo! Chi diavolo vi ha autorizzato a mostrare i volti?» Improvvisamente si vide un primissimo piano. «Colonnello, si calmi, è una copia per solo uso interno.» «Wolfe, voglio immediatamente il nastro originale!» «È al sicuro,» lo rassicurò lo scienziato. Nella stanza era calato nuovamente il silenzio, questa volta accompagnato dalla consapevolezza agghiacciante che quello scambio di battute aveva spostato il centro del potere: qui era Wolfe a comandare. Dio solo sapeva dove fosse il nastro originale, ma lo scienziato aveva in mano una carta vincente. Wolfe fissò candidamente il militare. «Ma lei voleva o no che facessimo tutto questo?» La domanda rimase sospesa nell'aria. Henderson si risedette senza una parola. «Quanto avanti vi siete spinti?» domandò calmo. Alex premette rapidamente un tasto e comparve un'altra inquadratura: un uomo, pallidissimo e con la barba lunga, disteso su un letto di ospedale con il torace avvolto dalle bende. Accanto c'erano Wolfe e altri in camice, che lo incitavano a muoversi. L'uomo muoveva una gamba, poi l'altra. I movimenti erano spastici, deboli, ma chiaramente visibili. «Questo era il Soggetto Cinque,» dichiarò lo scienziato. Si passò a un altro individuo. Era ancora più magro ma riusciva a stare seduto sul bordo del letto. Wolfe gli sussurrava qualcosa nell'orecchio e lui cercava di mettersi in piedi. Non ce la faceva e ricadeva, debole. Veniva allora sollevato da alcuni ausiliari dell'ospedale, mentre lo scienziato se ne andava. «Il Numero Sei è riuscito quasi a stare in piedi, ma purtroppo è morto il giorno dopo. È con il Numero Sette che abbiamo iniziato a vedere qualche risultato di rilievo.» Lo spezzone successivo del filmato mostrava un altro uomo, con il petto bendato, che riusciva a stare in piedi, con un sorriso enigmatico, gli occhi che oscillavano tra la speranza e un terrore cieco. Come tutti gli altri soggetti dell'esperimento, era mediorientale e il suo pallore suggeriva una lun-
ga prigionia. Beatrice, tornata a sedersi, osservava lo schermo con uno sguardo cupo e perplesso. Nella stanza aleggiava una strana sensazione: era stato superato un limite considerato moralmente invalicabile. Ma era lei l'unica a sentire quel problema? No, anche Alex Davies sembrava scosso: notò che la mano gli tremava, tanto che sbagliò l'attacco tra due spezzoni del video e dovette ripeterlo. «Rashid al-Assad,» lo sentì mormorare Beatrice: dunque sa come si chiamano, conosce la loro storia, pensò. Era sbalordita. E agghiacciata. «Con il Soggetto Nove,» proseguì Wolfe dopo aver rivolto un'occhiataccia di rimprovero ad Alex per essersi lasciato sfuggire il nome, «abbiamo usato materiale prelevato dal midollo dei soggetti precedenti e l'abbiamo combinato con materiale di sintesi. Così siamo riusciti a farlo stare in piedi.» Questa volta Alex premette i tasti giusti e l'immagine sul video si fermò. «E come andò?» chiese Henderson. «Durò cinque giorni, poi purtroppo la giunzione non resse,» rispose Wolfe scrollando le spalle ossute. «Santo Dio!» «Forse abbiamo avuto troppa fretta, per esigenze di bilancio,» riprese lo scienziato. «Ma la procedura è sicuramente realizzabile.» Henderson guardò Beatrice. «Ma ne siete sicuri al cento per cento?» domandò rivolgendosi di nuovo a Wolfe. L'altro estrasse di tasca un pacchetto di sigarette e ne prese una. «Quello di cui sono sicuro al cento per cento,» disse accendendola e scoccando uno sguardo a Beatrice, «è che dobbiamo provare. Ma sì, credo che presto potremo salutare il primo membro della nostra Società.» «Quanto presto?» «Alcune settimane, forse meno. Purtroppo siamo rimasti a corto di campioni umani, per non parlare del tempo. È qui che abbiamo bisogno del vostro aiuto.» «Ma lei pensa che i terroristi crescano sugli alberi?» «È troppo tardi per preoccuparsi di questi dettagli,» rispose Wolfe tranquillo. «Adesso risponda lei alla mia domanda: pensa che gli scienziati come Peter Jance crescano sugli alberi?» 4
BERNA, SVIZZERA Hans Brinkman era di pessimo umore. Tanto per cominciare, stava marinando gli impegni ma non riusciva a non pensarci e questo lo faceva uscire dai gangheri. Un uomo del suo calibro avrebbe dovuto essere capace di prendersi una mattinata di vacanza ogni tanto per tirare due pugni al club senza essere colto da attacchi di ansia pensando a quanti stavano combinando dei casini in sua assenza. E sicuramente li stavano combinando, pensò. Salì sul ring ignorando gli sguardi puntati su di lui. Lo Sportklub era uno dei più costosi ed esclusivi della Svizzera e, senza un'adeguata presentazione (del suocero, nel caso di Hans), era più facile vincere alla lotteria nazionale che esservi ammessi. Ovviamente, il lato negativo di tanta esclusività erano i soci, in gran parte segnati da una debolezza fisica congenita, dalla tendenza alla pancia e al triplo bypass: tra quei vecchi bufali che invecchiavano, Hans Brinkman appariva un giovane e fiero leone. Ma era un leone molto inquieto. Non riusciva a togliersi dalla mente Elizabeth né la sensazione, ugualmente inquietante, che lo assillava nelle ultime quarantotto ore: aveva fatto una cazzata colossale, che avrebbe pagato con la vita. Era un pensiero da pazzi, lo sapeva, ma il fatto che riuscisse a turbarlo lo faceva infuriare. Non aveva paura di morire ma era terrorizzato dall'idea di perdere il controllo della situazione. Non gli piacevano le cose che non riusciva a controllare, compreso se stesso. E non riuscire a dominare completamente le sue emozioni era, per lui, inaccettabile. E poi c'era la sensazione che qualcuno lo osservasse: non quei pomposi idioti della palestra, che speravano ardentemente che lo sparring partner lo mettesse k.o., ma la gente per strada, nei caffè, in auto, addirittura fuori dal suo chalet, quella mattina. Era convinto che qualcuno lo stesse studiando, e questo poteva significare solo due cose: Yvette lo faceva pedinare, come aveva detto scherzosamente a Elizabeth, oppure lui stava entrando in una spirale di paranoia che gli faceva proiettare sugli estranei i dubbi che nutriva nei propri confronti. Cercò di scacciare questi pensieri dalla mente. Guardò l'uomo dall'altra parte del ring, un funzionario di banca con cinque anni meno di lui. «Pronto?» «Sì.» Gli girò intorno come un gatto, colpendo e alzando la guardia, una volta,
due volte. Poi, con un terribile gancio sinistro centrò quel povero diavolo. Mentre l'avversario si piegava di lato barcollando, Hans gli sferrò un destro micidiale mettendolo alle corde. Avanzò saltellando verso l'avversario ma quello alzò terrorizzato i guantoni. «D'accordo, hai vinto!» Hans si allontanò molleggiando rapido sui piedi e fendendo l'aria con una serie di furiosi destri e sinistri. Era leggermente sudato, ma l'altro era addirittura già fradicio e tremava. «Meglio il golf la prossima volta?» chiese indifferente. «Meglio di no. Non vorrei che tu ti presentassi impugnando una clava.» Hans scrollò le spalle, poi il suo cellulare iniziò a trillare. Scavalcando le corde, lo prese al secondo squillo. Quasi subito si mise a imprecare, strappandosi i guantoni e buttandoli in aria. «Cosa sei, il pivello ultimo arrivato? Vendi tutto! Te l'avevo detto che l'Aia non l'avrebbe sostenuto!» Seguì un'ondata di improperi che fece ammutolire l'intera palestra. Un attimo dopo, Hans era già sparito, lasciandosi dietro un silenzio sbigottito. Lo sfortunato interlocutore del telefono avrebbe ricevuto una bella lavata di capo, e Hans era così infuriato da volergliela dare di persona. Sulla strada verso lo chalet di Monthey, chiamò dalla Porsche Carrera l'aeroporto ordinando all'equipaggio di tenere pronto il Learjet. Ma, appena chiuse il telefono, ebbe di nuovo la sensazione che la morte gli stesse alle costole. Riflettendo meglio, gli sembrò una sciocchezza, eppure quella sensazione era forte a tal punto che decise che non doveva volare quando era così arrabbiato o distratto. Pilotava il suo jet privato da oltre cinque anni e aveva collezionato una certa dose di collisioni mancate per un pelo: era sempre successo quando era di umore nero. Richiamò e cancellò l'ordine. Un lungo viaggio in auto attraverso le montagne avrebbe forse spazzato via tutti quei cattivi pensieri. Quando frenò nel vialetto dello chalet, vide la Bentley color crema parcheggiata in uno dei quattro garage. Yvette, l'ultima persona che desiderava vedere in quel momento, era tornata da una delle sue interminabili colazioni. Riluttante a incontrare la moglie, si fermò sulla terrazza a guardarsi intorno. Lì, a 2.500 metri, il panorama si stendeva fino al Lago di Ginevra, venti chilometri a nordovest. Nel cielo azzurro si stagliavano nettamente le cime frastagliate delle Alpi, disseminate di villaggi, vette e ruscelli che
scendevano precipitosamente a valle. Di solito però, lui si piazzava davanti a quella straordinaria bellezza solo per parlare furioso nel suo cellulare, poiché all'esterno la comunicazione era più nitida. Raramente si godeva il panorama, ma ora si rendeva conto della maestà di quel paesaggio e che, se non ci fosse stato, gli sarebbe certo mancato. Costeggiò l'ampia piscina coperta e, dirigendosi verso la camera da letto, lanciò un ordine a una cameriera che stava pulendo le vetrate. La donna corse nel guardaroba, tirò giù una borsa e iniziò a prepararla. Hans si tolse gli indumenti sportivi e indossò un doppio petto Schiaparelli fatto confezionare su misura a Parigi, a cui abbinò un paio di mocassini cuciti a mano di Cleverly. Rinunciare a tutto questo? Ma chi voleva prendere in giro? Quando fu pronto, la cameriera aveva già chiuso la borsa. Stava girandosi per uscire, quando Yvette entrò nella stanza fermandosi di colpo. «Pas encore?» chiese con gentile irritazione. Aveva le labbra scure gonfiate con il collagene e indossava un carico di gioielli sufficiente a finanziare una rivoluzione. «Chi è questa volta, caro?» «La filiale di Zurigo. Vado a licenziarli tutti.» «E la festa dai Tavernier?» «Ti divertirai, sono più amici tuoi che miei.» «Non potrebbe essere diversamente: tu non ci sei mai. Quando torni?» E pensare che una volta l'amavo. E adesso mi ha messo alle costole dei detective privati, rimuginò tra sé. «Domenica, sul tardi.» Si ricordò: domenica, oh Dio, Elizabeth! Pensò di doverla chiamare per scusarsi: bisognava cambiare programma... Però, l'ultima volta che l'aveva chiamata, il suo saluto era stato così brusco, così definitivo. L'avrebbe comunque chiamata per strada, pensò evitando lo sguardo di Yvette che lo osservava triste dall'altro lato del letto. «Hai perduto qualcosa?» gli chiese. Sì, la tranquillità mentale, pensò lui, mentre le immagini di Elizabeth gli balenavano nella mente: il corpo in tutto il suo mistero, il viso dolce e i capelli di seta, il lieve gemito ogni volta che entrava in lei, il biancore morbido del ventre, e poi le battute fulminanti, i chiari occhi grigi. Smettila di pensare a lei. Trova invece un modo di uscire da questa situazione. Bene, allora, dov'è il portafogli? Ovviamente, nei pantaloni... C'era anche il problema dell'auto. Nonostante fosse tentato di usare la Lagonda Rapide del '37, un gioiellino appena comprato da Coys a Kensington, prese le chiavi della BMW 750. Per quel viaggio gli occorrevano ve-
locità e affidabilità. Inoltre, nello stato di grande agitazione in cui si trovava, se la Rapide si fosse rotta durante il viaggio, come accadeva spesso, le avrebbe dato fuoco sul posto. Sarebbe stato un vero peccato, dato che era costata 500.000 dollari. Guarda in faccia la realtà, pensò mentre la BMW affrontava la prima curva fuori dal cancello dello chalet e il viso di Yvette scompariva dalla finestra della camera da letto. Tu hai bisogno di Elizabeth. La desideri come un tossico brama la sua dose. Hai cercato per mesi di scacciarla ma sei terrorizzato all'idea di perderla. Chiamala da Zurigo durante la riunione e magari dille qualche bugia per farle piacere. Oppure dille la verità: che hai deciso di cambiare vita. Ospedale militare di Bethesda, Maryland Peter sentì qualcosa scuoterlo nel profondo: rabbia furibonda, paura, e un senso di urgenza. Si svegliò di colpo e vide la moglie china su di lui. Poi si rese conto dei tubicini infilati nelle braccia, degli elettrodi fissati al petto. E del tremendo dolore all'addome. «Peter?» disse Beatrice. Si sforzò di mettersi seduto ma era completamente privo di forze. Ricadde indietro e la guardò con occhi freddi. «Ma dove diavolo sono?» «Al Bethesda,» rispose lei con un tono di rimprovero, come se lo avesse sorpreso a fumare a letto. «Cosa?! Ma che sta succedendo?» «Ti devo parlare.» Peter si guardò lentamente intorno come se si aspettasse di vedere il bunker dopo l'esplosione. «I ragazzi stanno bene?» «Stanno tutti bene.» «E allora che c'è? Abbiamo perduto i finanziamenti? Henderson ha detto "Lo sapevo che non avrebbe funzionato?"» Beatrice scosse la testa ricacciando indietro le lacrime. Gli prese la mano e, per un attimo, sembrò incapace di parlare. «Dimmelo, posso sopportarlo.» «Peter, le cose per noi non stanno andando bene.» «Mi vuoi lasciare?» Ora gli sembrava che la camera stesse ruotando lentamente. Che strano fenomeno, poteva servire come paragone con l'atomo, pensò.
«Peter,» riprese brusca Beatrice, «sii serio.» «Ma sono serio. In effetti stavo pensando al moto di rotazione...» «Tu stai morendo.» Lui non disse nulla. Era questo che doveva dirgli? «Hai sentito cosa ho detto?» «Sto morendo. Sì, lo so. Ma non moriamo tutti, una volta o l'altra?» «Ma tu stai morendo in fretta, vecchio cocciuto. Smettila di scherzare.» «Benissimo.» Parlava a fatica per il dolore all'addome. Cercò di sorridere. «Suppongo che tu abbia parlato di nuovo con quei ciarlatani di medici.» Beatrice chiuse per un attimo gli occhi. «Lo capirebbe anche uno studente del primo anno: hai delle metastasi, nel fegato e nel midollo osseo. «E Dio solo sa dove ancora.» Lei gli afferrò la mano. «Peter, c'è una sola possibilità, una sola soluzione.» L'uomo fissò il soffitto che roteava lentamente e si mise a contare le file di fori dei pannelli isolanti. «E quale sarebbe?» Beatrice abbassò gli occhi in grembo. «Frederick pensa che siamo pronti.» «Pronti? Per cosa?» La moglie stava scegliendo con cura le parole, scacciando il proprio disorientamento e i dubbi. Nei momenti critici faceva sempre così. «A Henderson è piaciuto quello che ha visto alla rampa di prova. E anche agli altri.» «Sì, lo so cosa piace al colonnello.» «Sono eccitatissimi.» «Riguardo all'arma.» Sentì Beatrice stringere i denti. «Riguardo a te, alla tua... longevità.» «Mi fa piacere per loro. E qual è l'asso nella manica di Wolfe?» «Allora lo sai che si tratta di Freddy.» «Si tratta sempre di lui. Dimmelo, Beatrice, smettila di girarci intorno.» Lei allora si decise a parlare. Per un po', a Peter sembrò di trovarsi in un incubo. La differenza era che, quando un sogno diventava troppo pauroso, aveva imparato un trucco per svegliarsi. Ma da questo incubo non riusciva a svegliarsi. Beatrice continuava a parlare, in una cantilena fiduciosa che gli ricordava tanto Frederick Wolfe. Era lui che le aveva detto cosa doveva dire, che le aveva messo in bocca le parole giuste, che l'aveva addestrata tanto bene da farle risparmiare anche la fatica di pensare. Più Beatrice par-
lava, più tranquilla era la sua voce. Il contrasto tra quella calma forzata e l'orrore di ciò che diceva gli stava facendo esplodere la testa. «Dio del cielo!» esclamò senza rendersene conto. Ma da quanto tempo era lì, seduta accanto a lui? Fuori dalla finestra, la luce era diventata di un grigio deprimente. «Peter, avresti potuto intuire cosa stava accadendo.» «No,» insistette lui debolmente. «Lo so che, nell'ultimo anno, non ti sei interessato alla mia ricerca, ma ne conoscevi benissimo le implicazioni. Cosa pensavi che stesse succedendo, qui? E nei Caraibi? L'ambulatorio per la cura della sterilità diretto da Freddy, pensi proprio che ci lavorasse per bontà d'animo?» «D'accordo. Sì, va bene.» «Non dirmi che non ti è mai passato per la mente di cosa si trattasse in realtà.» «Certo che mi è passato per la mente, solo non pensavo...» «Cosa? Cosa non pensavi?» «Che la tecnologia fosse arrivata a questo punto, né che ci sarebbe mai arrivata.» «Be', ci è arrivata. È lì, e lì ci siamo anche noi.» Sentì che le ultime forze lo abbandonavano. «Hai ragione, ho fatto finta di non vedere.» Stringendogli una mano, Beatrice proseguì paziente. «Che ti piaccia o no, tu sei uno dei soci fondatori.» La sua voce aveva una lieve sfumatura di rammarico. «Socio fondatore? E di che? Wolfe pensa forse di gestire un country club? Un socio fondatore di cosa?» «Della Società.» «Tipico di Wolfe: nascondersi dietro stupidi eufemismi...» Beatrice gli strinse ancor più la mano nelle sue, tremanti. «Dovevano pure darle un nome. L'hanno chiamata la Società della Fontana, lo sai, perché la Fontana...» «Beatrice, per favore, sono malato, non scemo.» «Scusami. Ma tu non essere villano, per favore.» «Dio santo, Beatrice, ma tutto questo non ti fa orrore?» «Certo che mi fa orrore. Non pensavo che saremmo mai arrivati a questo punto, ma ci siamo arrivati. E ne avevamo anche parlato, solo che tu non te ne ricordi.» «No, noi non ne abbiamo parlato.»
«Quando io ho avuto quella discrasia ematica, la trombocitosi, e l'idrossiurea che non andava bene, non ti ricordi?» «Ma quella era solo un'ipotesi speculativa.» «E cosa abbiamo concluso?» Lei era un prodigio di tenacia. Peter lo sapeva ma non riusciva ad accettarlo. «Ma questo è diverso, è mostruoso.» «Perché è diverso? Tu eri d'accordo: era un male necessario. A volte è il meglio che offre la vita. E questa è una di quelle volte.» L'uomo guardò fuori dalla finestra: si stava facendo buio. Gli sembrò di scorgere un filo di fumo. Forse erano i suoi sogni che andavano in fumo, tutta la sua vita ridotta in cenere. «Peter, ti prego! Non c'è più tempo. Ce n'è ancora meno di quello che pensi.» «Non è questo il punto.» «Invece è proprio questo il punto.» «E al mio lavoro non ci hai pensato? A cosa diavolo serviva? A costruire qualcosa che incenerisse le persone sgradite a gente come Henderson? Dio ci aiuti. Questa malattia, Beatrice... forse era destino che mi ammalassi...» «Peter, ma lo senti cosa stai dicendo?» «Forse ne sono responsabile io stesso, magari è una punizione.» «Di chi? Dell'Altissimo? Per cosa? Perché facevi quello che sei nato per fare? Mille anni di pace, Peter, è di questo che parlano quelli dell'Esercito, è quello che produrrà l'Hammer...» «Ma davvero? E sono pronti a uscire dal giro? Chi è che fa finta di non vedere adesso?» «Allora, se non vuoi farlo per te, fallo per me. Bastardo!» proruppe Beatrice mettendosi a singhiozzare per la rabbia. La guardò e nel suo viso lesse un terrore cieco e un amore assoluto. Chiuse gli occhi: l'emozione della moglie era troppo intensa per lui, evocava troppi ricordi. Se stava per morire - e su questo non c'era assolutamente alcun dubbio - tutta la vita gli sarebbe dovuta passare davanti agli occhi in un lampo. Ma non era così. Quello che gli scorreva davanti agli occhi era la loro vita insieme. L'amore, le case, i letti, i laboratori, la determinazione a fare funzionare le cose, tutto quanto. E tutto quanto stava per svanire. Ma non poteva certo essere conservato a un tale prezzo. «No,» disse d'impulso, «neanche per te.» Pensò che così dicendo si sarebbe sentito meglio. Si girò dall'altra parte e rimase in attesa, magari di un senso di liberazione. Invece era solo spro-
fondato in un dolore ancora più atroce. La notte dopo ebbe la sensazione di cadere, spinto da un vento gelido giù da un declivio scivoloso. A poco a poco si rese conto di avere davanti qualcosa di enorme e nero che lo attirava verso un oblio assoluto e terribile. Ora il dolore era molto violento e nessun calmante riusciva a contenerlo. Erano passate meno di ventiquattro ore da quando aveva espresso il suo netto rifiuto a Beatrice, ma gli sembrava una vita. Il dolore dilatava il tempo e lo distorceva. Trasformava i secondi in secoli e amplificava la sua paura. Improvvisamente, sentì che tutte le sue convinzioni lo abbandonavano, lasciandolo con il desiderio primitivo che qualcuno lo liberasse, a tutti i costi, da quella sofferenza. Tutto il resto era solo un'idiozia: era la vittoria sul male che contava. Cercò di risollevarsi al livello della sua coscienza, ma era come cercare di nuotare in uno stagno gelido e pieno di alghe. Con sua enorme sorpresa, capì che desiderava unicamente vivere. Quando aprì gli occhi, Beatrice era seduta accanto al suo letto. Allungò una mano, sentì che la prendeva nella sua, e fu come aggrapparsi a un'ancora di salvezza. Lei gli aveva letto nel pensiero ed era lì per rispondere alle sue preghiere. Il calore dell'altra mano lo rese ancora più consapevole di quanto fosse fredda la propria. Chiuse gli occhi, una fitta improvvisa lo colpì mozzandogli il respiro. Sentì il cuore galoppare come un cavallo impazzito, intrappolato in una stalla in fiamme, e decise il proprio destino. «Dio abbia pietà di noi, Beatrice. Farò quello che dici.» La moglie fece un sospiro di sollievo. Ora lui era in preda al panico: temeva che fosse comunque troppo tardi. Il dolore era ormai insopportabile. «Ho bisogno di una flebo di morfina,» disse rauco. «Grazie, Peter.» Con gli occhi pieni di lacrime e premendosi un pugno sulla bocca, Beatrice si alzò e si voltò verso la porta. Frederick Wolfe era già lì, un'ombra spettrale sulla soglia della camera. Da quanto tempo stava in quella posizione, nell'attesa dell'istante in cui Peter si sarebbe arreso? Beatrice gli fece un cenno di assenso con la testa e Wolfe si allontanò rapidamente lungo il corridoio, chiamando varie persone. Quasi subito si udì uno scalpiccio di piedi che accorrevano e voci attutite, poi molte figure si chinarono su Peter come angeli della morte. Con un senso di sollievo e di incredibile eccitazione, l'uomo sentì finalmente l'ago penetrargli nel braccio. Le ultime cose che vide furono Beatrice scossa dai singhiozzi e, accanto a lei, la sagoma pallida di Wolfe, con le lunghe dita congiunte come se pregasse, gli occhi
neri scintillanti e un sorriso di trionfo sul viso. Poi piombò nell'oscurità. Montagne del Giura, Svizzera A cento chilometri da Berna, sulla strada per Zurigo, Hans era ancora ossessionato dal pensiero di Elizabeth. Per alleviare la sofferenza aveva messo il CD di Kind of Blue, la session di Miles Davis della fine degli anni Cinquanta con Coltrane, Bill Evans e altri musicisti. Quel disco riusciva sempre a metterlo di buon umore. Era stata Elizabeth a farglielo conoscere: gli aveva chiesto dolcemente il permesso di metterlo, un sabato, mentre facevano l'amore. Allora lui aveva pensato che lei stesse solo cercando di assumere il controllo della situazione. Ma ora si rendeva conto che aveva cercato, forse inconsapevolmente, un modo per distrarlo dal suo piacere egoistico e quindi per prolungare il proprio. Dio mio, pensò, quante cattiverie le ho fatto. È lei la donna giusta per te. Non era forse questo che diceva la canzone? Ogni ritornello gli evocava sensazioni tattili e olfattive, piccoli preziosi ricordi dei loro fantastici pomeriggi insieme. Alzò il volume e aprì il tettuccio dell'auto. Forse mi sono proprio innamorato. Immediatamente una parte di Hans insorse contro quel pensiero: non esageriamo! E allora trova una parola più adeguata, ribatté alla voce interiore. Ma quella non rispose. Non mollerò assolutamente questa donna, pensò con decisione. Al contrario, d'ora in poi ci vedremo più spesso. Di giorno e di notte, durante la settimana e nei week-end, e al diavolo i sospetti di Yvette. Dobbiamo riuscire a cavarcela in questa situazione, è il nostro destino, lo sapevamo tutti e due. Improvvisamente ebbe l'impulso di andare a prendere Elizabeth e poi di continuare a guidare, cambiare nome, farsi crescere la barba e scomparire con lei a Bora Bora. Premette l'acceleratore. Il grosso motore a dodici cilindri rispose prontamente e la macchina percorse sfrecciando uno dei passi tortuosi del massiccio del Giura. Hans si sentì pieno d'amore anche per quelle montagne. Fin dal liceo, la geologia era stata una delle sue grandi passioni, e per rievocarla non c'era un posto migliore di quelle scure montagne del Giurassico - uno spaventoso labirinto di pietre, conifere e cascate -, soprattutto
quando, come a quell'ora, non vi si incontrava nessuno. Mentre la macchina affrontava ruggendo le antiche gole, ritornò indietro nel tempo, ripensando ai mari preistorici e alle prime forme di vita che avevano lasciato in eredità i loro resti a quelle altezze. Sarei dovuto diventare paleontologo, qualsiasi cosa, tranne ciò che sono diventato, meditò guardando il paesaggio. Si sentì più calmo, sospeso in quella vastità preistorica che rendeva piccole e insignificanti le sue preoccupazioni. Gli sembrò di sentire ribollire gli antichi oceani, quando la spinta della tettonica li avevano proiettati verso il cielo fino a formare le cime che ora incombevano su di lui. Una volta o l'altra, devo fare questa strada con Elizabeth. Probabilmente anche lei ama queste montagne. Quando l'ho portata a volare... sono stati tra i momenti più belli passati insieme... virare sopra le cime incappucciate di neve, restare senza fiato di fronte alla loro maestà. Ma, c'erano mai stati dei momenti brutti, con lei? Non riusciva a ricordarne nessuno. Chiamala, idiota senza cuore. Dille quello che provi, prima di dimenticartelo. Frugò nella memoria alla ricerca del numero di Elizabeth. Quando aveva avuto la sensazione che lo pedinassero, che Yvette avesse assoldato degli investigatori privati, aveva cancellato il suo numero dalla rubrica del cellulare. Chiamò due numeri sbagliati prima di ricordarsi quello giusto, ma le montagne impedirono il collegamento. Niente campo, linea muta. Continuò a provare. Stava per rinunciare, quando sentì la sua voce, debole, sconsolata, e poi piena di speranza. «Pronto? Pronto?» «Elizabeth? Sono io.» «Hans? La linea non prende. Ma dove sei?» «Sto andando a Zurigo. Sono le montagne, parlerò in fretta, va bene? Voglio che noi due stiamo insieme. Mi hai sentito?» Silenzio. Poi: «Sì, ti ho sentito.» «Non ci credi, lo so. Ma è vero. Voglio trovare un modo per stare con te, e al diavolo Yvette e tutto il resto. D'accordo, Elizabeth?» «Non so cosa dire.» «Dimmi di sì, di' che vuoi stare con me e niente ci potrà più fermare. Allora? Ti prego.» Una pausa tremenda. «Sì, sì, va bene.» «Sono stato un autentico idiota...» «Nessuno è perfetto. Hans, ho avuto tanta paura...»
«Di cosa?» «Di quello che mi hai detto, della gente che ti spia. E se adesso ci stessero ascoltando, potrebbero...» Hans non riuscì a sentire il resto. Arrivato in cima a una salita, vide un enorme furgone nero messo di traverso con il cofano aperto, che ostruiva gran parte della stretta strada. «Cristo!» «Hans?» Frenò di colpo, la BMW rispose prontamente ma era ormai troppo tardi: stava per finire addosso al furgone. Terrorizzato, l'uomo che stava trafficando nel motore fece un balzo e Hans, bestemmiando, sterzò verso il precipizio. Era l'unico modo per evitare di ammazzare quel povero diavolo. La 750 colpì con violenza il guardrail di acciaio zincato, tornando verso il centro della strada. Sbatté con forza contro il fianco della montagna e i vetri e le cromature volarono via in un turbinio di scintille. Tutti gli airbag si gonfiarono contemporaneamente in un'esplosione di gomma, propellente ed essiccante. Assordato dal botto, Hans pensò di essere finalmente in salvo, ma una frazione di secondo dopo la macchina tornò di nuovo verso il precipizio. Questa volta colpì frontalmente il guardrail e lo ruppe. Sotto si spalancava un immenso precipizio. Ma la spinta si era ormai esaurita e la BMW malconcia si fermò in bilico sul ciglio della strada. Al di sotto del suo terrorizzato pilota c'era il vuoto, e solo un delicato equilibrio permetteva ad Hans di non andare a sfracellarsi sui massi del Giurassico dopo un volo di settanta metri. Troppo stordito e troppo scosso per rendersi conto del pericolo, cercò di muoversi, scostando l'airbag e toccandosi la testa per verificare di averla ancora al suo posto. Poi sentì l'urlo. «Per Dio, non si muova!» Il grido gli schiarì la mente facendogli capire che si trovava letteralmente su un'altalena. L'uomo del furgone stava correndo verso di lui. Hans si inclinò indietro sul sedile e sentì le ruote posteriori della macchina riappoggiarsi sull'asfalto. Cercò di aprire la portiera, ma era bloccata. «Ma che diavolo faceva di traverso sulla strada?» ruggì furioso. L'uomo del furgone alzò le braccia per cercare di calmarlo. «Calma, ragazzo, calma!» L'auto stava inclinandosi di nuovo verso l'abisso. Hans si immobilizzò, fissando fuori dal parabrezza il panorama che si
inclinava paurosamente. Poi si sentì una botta e la macchina riacquistò l'equilibrio, tornando orizzontale. Si guardò alle spalle e vide che un altro uomo si era seduto sul bagagliaio dell'auto, mentre un terzo stava correndo a raggiungerlo. Il guidatore del furgone stava accanto all'auto e lo incitava a uscire. «Esca dal finestrino, amico, ora va tutto bene!» Aveva un accento americano. Avrebbe dovuto immaginarlo: maledetti turisti con un maledetto furgone. Hans si sporse dal finestrino e l'altro lo aiutò lestamente a uscire e a rimettersi in piedi. Si stava girando per affrontarlo a muso duro, quando sentì una puntura al braccio. Si ritrasse confuso pensando di avere urtato contro uno spuntone d'acciaio. Però, ormai era fuori dall'auto. La puntura era provocata da qualcosa che l'uomo teneva in mano: un piccolo oggetto scuro con un pistone e un ago. «Ma che fa?» gli gridò infuriato, ma la sua voce divenne subito un borbottio confuso. Poi tutto fu buio. I tre uomini si mossero rapidi. Erano esperti, ben addestrati. «Fase uno,» ordinò l'autista sollevando i piedi di Hans e guardando l'auto sull'orlo dell'abisso. Uno degli altri annuì e afferrò le spalle dell'uomo svenuto. «Ma chi poteva immaginare che guidasse così veloce?» In un minuto, lo spogliarono e lo infilarono nel retro del furgone dove un quarto uomo, nudo e ammanettato, li osservava terrorizzato. Aveva più o meno l'età di Hans, la stessa altezza e identici capelli biondi, ma il suo pallore indicava che aveva passato molto tempo in prigione. Pregava sottovoce in russo. Gli uomini lo liberarono dalle manette ordinandogli, sotto la minaccia della pistola, di indossare i vestiti dell'uomo svenuto. Il russo tremava, era chiaro che non capiva cosa diavolo stesse accadendo, ma intuiva che non si trattava di niente di buono. Aveva lo stesso corpo atletico di Hans ma un viso curiosamente senile per la mancanza dei denti, che gli erano stati malamente fatti cadere a suon di martellate dai carcerieri in Israele. Appena si fu rivestito, lo tramortirono con un colpo, lo trascinarono all'auto e, attraverso il finestrino, lo spinsero sul sedile di guida. Uno degli uomini versò cinque galloni di benzina sul russo svenuto e dentro l'auto, poi accese un fiammifero. Ci fu una violenta fiammata arancione e nera.
Gli altri due uomini saltarono prontamente giù dal bagagliaio della macchina. Poi la forza di gravità fece il resto. L'auto si inclinò in avanti, scivolò giù dal ciglio della strada e infine precipitò ruotando lentamente per quasi cinque secondi prima di andare a fracassarsi contro uno sperone roccioso. Al momento dell'impatto, il serbatoio esplose e il veicolo divenne una cometa di fuoco e acciaio contorto. Quando infine si arrestò, molto più in basso, sulla strada non c'era più traccia del furgone. Non erano ancora trascorse due ore e Hans Brinkman, imbottito di farmaci per indurne il coma, già si trovava a bordo di un C-20 grigio equipaggiato in modo speciale, versione militare del Gulfstream III. Con una velocità massima di 576 miglia orarie e un'autonomia di oltre 4.000 miglia nautiche, l'aereo era perfetto per la missione. Era registrato come proprietà dell'Air West, una società di copertura della National Security Agency, e la missione era stata organizzata attraverso un tale filtro della gerarchia segreta dell'intelligence americana che il volo risultava praticamente inesistente. Hans era tenuto sotto costante controllo dal dottor Emilio Barrola, 65 anni, un neurochirurgo scelto personalmente da Frederick Wolfe. Alto un metro e ottantacinque, con occhi verdi e narici frementi, Barrola aveva fluenti capelli scuri e mani forti con le lunghe dita aggraziate di un pianista. Portava occhiali con una sottile montatura di metallo e vestiva una camicia a righe di sartoria. Era tanto ambizioso quanto esperto, e si rendeva perfettamente conto che, se fosse diventata di pubblico dominio, la sua partecipazione al progetto l'avrebbe fatto finire diritto in prigione. Ma, se lui e i suoi colleghi avessero avuto successo - cosa di cui non dubitava -, poteva raggiungere i massimi livelli della carriera scientifica. Così, nonostante la calma apparente, il cuore gli batteva furiosamente nel petto. Barrola era assistito dal trentaduenne tenente Lance Russell, anche lui scelto personalmente, ma questa volta dal colonnello Oscar Henderson. Russell era un colosso di forti ossa e muscoli potenti, con una mente semplice e affilata come un pugnale. Sotto i capelli tagliati a spazzola, il cranio presentava un profondo solco sul lobo temporale sinistro, ricordo di uno shrapnel durante una missione omicida a Bagdad. Aveva gli occhi cerulei chiarissimi, quasi color ghiaccio. Doveva difendere il corpo di Hans anche a costo della propria vita, uccidendo chiunque minacciasse di farlo fallire nel compito assegnatogli. Più volte cintura nera, esperto in tecniche belliche non convenzionali e privo di qualunque cosa che potesse assomigliare anche lontanamente a una coscienza, Russell era perfetto per quel-
l'incarico. I controllori del traffico aereo della NATO fecero passare in modo anonimo il volo da un settore militare all'altro, finché non fu ben lontano, sul nord Atlantico. Cento miglia al largo di Long Island, gli venne incontro un Boeing KC-135R Stratotanker della Guardia Nazionale Aerea del New Jersey, alzatosi in volo dietro ordini riservati e pilotato da ufficiali esperti, che lo rifornì di carburante. Da qui, il Gulfstream passò sotto il controllo della rete radar NORAD di Colorado Springs. Scivolò lungo la Costa Orientale degli Stati Uniti, sotto il controllo costante di occhi attenti: era solo un minuscolo segnale tra le decine di migliaia che rappresentavano mezzi in volo, i satelliti e persino ogni frammento orbitante nello spazio che avesse dimensioni superiori a una palla da baseball. Il volo venne denominato FS2308, priorità uno. A parte la sigla, quell'aereo era assolutamente ignoto. Sopra la penisola della Florida virò dieci gradi a est-sudest sorvolando Nassau, nelle Bahamas, e una fila di isole e isolotti in mezzo a un mare turchese. Giunse poi in vista di Cuba. Ne evitò lo spazio aereo ma si avvicinò abbastanza da essere avvistato dalla torre di controllo del traffico aereo della base di Guantanamo. Sorvolò Haiti e la Repubblica Dominicana, poi su Puerto Rico iniziò ad azionare i flap riducendo l'altitudine. Era il tramonto, e passò sopra la fortezza del porto di San Juan a quota così bassa che l'equipaggio riusciva a vedere i turisti sottostanti. Poi il pilota avvistò un puntino, poco oltre l'estremità orientale di Puerto Rico. L'isola Vieques. Il jet atterrò ormai in riserva, arrestandosi all'estremità della minuscola pista di atterraggio. L'aeroporto era avvolto in un silenzio assoluto. Frequentato quasi esclusivamente da apparecchi equipaggiati per il volo a vista, dopo il tramonto era deserto. Quella sera, l'assoluta sicurezza del luogo era garantita da sei Umvees della Marina parcheggiati intorno al perimetro della pista con l'ordine di tenere alla larga tutti i civili. Un solo veicolo, una Chevrolet Suburban nera, si mosse e andò incontro all'aereo. Dietro i suoi finestrini oscurati c'era praticamente un intero ospedale. Il colonnello Henderson si avvicinò all'aereo, strinse la mano al tenente Russell, poi si assicurò che Hans venisse trasferito nell'auto con la massima rapidità e discrezione. Mentre l'auto si allontanava, il C-20 scaldò i motori e si accinse a decollare. Nonostante fosse quasi senza carburante, non gli era permesso di rifornirsi lì. Doveva dirigersi subito su Guantanamo per essere rifornito e as-
segnato a un'altra missione. La sera seguente, aereo e pilota sarebbero stati in Indonesia per prelevare un agente che aveva appena assassinato un banchiere per il Fondo Monetario Internazionale. Avendo completato questa prima missione, di cui il pilota non sapeva nulla nei dettagli e ancora meno doveva importargliene, l'aereo e la sua eco si dileguarono in fretta, così come la misteriosa auto. Le Humvees si disposero alla testa e alla coda del corteo che svanì nella notte. Nel giro di pochi minuti, l'unico rumore presente nel piccolo aeroporto fu il coro vibrante dei grilli e delle rane che segnalava l'inizio di un'altra notte di lotta per il cibo e la riproduzione delle specie. 5 ST. MAURICE, SVIZZERA Elizabeth non dormiva da trentasei ore. Il giorno prima, sul set di un servizio fotografico per Calvin Klein, l'aveva colta una sonnolenza improvvisa. Si sentiva come Annie quando era stata colpita dall'infezione di Epstein-Barr. Durante le pause sonnecchiava sulla sedia e reagiva agli ordini del fotografo con tale lentezza che alla fine questo si era messo a urlare. Poi l'art director e il cliente avevano deciso che fosse meglio cancellare il lavoro della giornata e prendere un'altra modella. A quel punto Elizabeth aveva finalmente raccolto le forze e si era faticosamente concentrata. Così, grazie al cielo, alla fine della giornata era tutto un «sei stata fantastica... lavoriamo ancora insieme...» Ma era stato mortificante. Lei era una professionista, nessuno l'aveva mai potuto negare, neanche nei primi tempi, quando faceva la modella per cataloghi. Trascinatasi a casa, si era messa ad ascoltare i messaggi della segreteria telefonica: niente di Hans. Buttatasi a letto con la speranza di un sonno profondo e ristoratore, subito la sua mente si era però messa a girare a velocità folle. Poco dopo mezzanotte, si era dovuta alzare e si era messa a leggere: in realtà, aveva solo scorso rapidamente tutto Ragione e sentimento. Alla fine non poteva che pensare a Hans, preoccupatissima e senza speranza di riuscire a dormire. Messa da parte Jane Austen, era infine passata a un'edizione molto sciupata di Alice nel paese delle meraviglie, che almeno sembrava una lettura più vicina al suo stato d'animo allucinato. Poi fece una cosa che aveva giurato non avrebbe mai fatto: telefonò a Hans al numero della BMW, l'unico che le fosse consentito chiamare. Infatti, come lui le aveva spiegato, Yvette non sarebbe mai salita su un'auto
da yuppie come quella. Nessuna risposta. Secondo il messaggio registrato, l'utente non era raggiungibile. Cosa significava? Era forse volato a Roma a farsi un piatto di spaghetti? Ma perché non l'aveva richiamata? Alle prime luci dell'alba stava sorseggiando del tè, cercando di essere ottimista, quando squillò il telefono. Era Annie, che stentava a trattenere le lacrime. O il mondo si stava restringendo o Elizabeth si espandeva come Alice, perché si sentì la testa attaccata al soffitto. «Annie, che c'è?» domandò spaventata. «Lizzy, ho una notizia tremenda.» Stava quasi per domandarle se si trattava di Roland. Ma sapeva già che non era così. Poi le sembrò di essere diventata sorda: Annie continuava a parlare ma lei non riusciva a capire assolutamente cosa dicesse. «Tu lo pensavi che, un giorno, sarebbe potuto accadere. Avevi avuto una premonizione. Ti ricordi? Me l'hai detto quel giorno a pranzo.» «Una premonizione?» «Quando Hans ti ha chiamato gli hai detto: "Non ci rivedremo più." E poi, a me: "Non so cosa volevo dire." Credevo che tu lo dicessi perché volevi rompere con lui ma...» Si sentì tutta intorpidita. «Ma stai parlando di Hans...» «Oh Dio, Lizzy. È sconvolgente, mi dispiace.» «No. Ripetimi tutto, ti ascolto.» Annie le spiegò tutto in un torrente di frasi sconnesse. La mattina seguente alcuni automobilisti avevano notato il guardrail danneggiato. Il primo che si era fermato aveva creduto di vedere un relitto carbonizzato in fondo al precipizio. Avevano chiamato la polizia ed erano stati inviati degli scalatori. «No! No!» Il telefono le cadde di mano finendo sul letto. Lo raccolse. «Era la sua BMW, Lizzy. E lui era lì dentro. C'erano segni di pneumatici, l'auto aveva sbandato per più di sessanta metri. Dicono che andava troppo veloce. La moglie ha dichiarato ai giornalisti che, quando era uscito di casa, era furibondo. Qualcuno, alla banca, aveva fatto una cazzata e lui stava andando a fargli una lavata di capo... O forse si è addormentato al volante... Mi spiace moltissimo.» «Non si è addormentato.»
«Come fai a saperlo...» «E l'altra auto?» «Quale auto? Non c'erano altre auto. Ha perduto il controllo della macchina...» «Annie, io gli stavo parlando!» «Gli stavi parlando?» «Sì! Ha urlato, imprecato, come se ci fosse un ostacolo, doveva esserci un'altra auto. Poi la linea è caduta...» «Ma non è stato coinvolto nessun altro automobilista... Lizzy, ci sei?» «Sì. Sono qui,» rispose lei scivolando a terra e rannicchiandosi in un angolo della stanza. Aveva la bocca secca, tutto le appariva come attraverso una lente scura. «Oggi devi lavorare?» chiese Annie gentile. «Abbiamo finito ieri.» Poi si mise a piangere. Si sentiva gelata e terrorizzata, come un bambino sperduto in una tempesta di neve. «Lizzy? Lizzy, tesoro, sei ancora lì? Sto arrivando, coraggio.» La morte di Hans Brinkman provocò uno shock negli ambienti finanziari europei. Aveva una larga cerchia di amici e un gruppo ancora più ampio di conoscenti, sia ammiratori sia leccapiedi. Quelli che poterono entrare nel cimitero Fluntern di Zurigo invitati al funerale erano più di quattrocento. Riempirono la cappella e si riversarono sui prati circostanti per ascoltare, sotto gli alberi centenari, l'elogio funebre diffuso dagli altoparlanti. Annie, che aveva insistito per accompagnare l'amica al funerale, l'andò a prendere in ritardo. Quando arrivarono, Elizabeth rimase delusa: dovettero accontentarsi di ascoltare da fuori, in mezzo alla folla. «Comunque la bara è chiusa, almeno credo,» disse Annie in tono poco convincente. «Allora devo vederla.» «Lizzy, mi dispiace di non essere arrivata prima: ho dovuto fermarmi a fare benzina. Ma non ti avrebbero lasciata entrare comunque.» «No, hai ragione.» Improvvisamente vide che intorno a sé stavano solo gli spettatori occasionali, gente comune, insomma tutti quelli che non erano abbastanza importanti da venire invitati alle esequie. Questo è quello che ero per Hans, pensò Elizabeth: non abbastanza parte della sua vita. Ma no, ci siamo legati per la vita quella sera al telefono. Avvertì una profonda e istintiva fusione con lui, un'intimità segreta che nessuno dei due aveva mai nemmeno osato descrivere. Voglio che stiamo
insieme, aveva detto lui. E ora Elizabeth si stupiva dell'intensità del suo desiderio, della sua necessità quasi fisica di stargli vicino nella morte. Sentiva il bisogno di esserci, di stare insieme a quelli che lo piangevano sinceramente, che lo avevano veramente amato. Se fosse riuscita a entrare, si sarebbe gettata sulla bara e avrebbe pianto tutte le sue lacrime. Dietro di lei, due uomini con gli abiti gessati la osservavano parlando sottovoce: investigatori privati assoldati da Yvette con il compito di evitare che lei provocasse uno scandalo? C'era un'altra auto, ne sono sicura. Ma Annie aveva detto che non c'erano altre macchine, accidenti! Rivolse nuovamente l'attenzione agli altoparlanti. Il sacerdote stava concludendo l'orazione funebre: parlava della transitorietà della vita umana, di Dio che ci accoglie a braccia aperte in un luogo dove non soffriremo più i dolori terreni e i guasti del tempo. Poi fu il turno dei colleghi e dei vecchi compagni di scuola. Tutti parlarono delle doti di Hans come banchiere lungimirante, sciatore, pilota e sportivo di livello olimpionico. Per un'ora ascoltò con attenzione i tributi alla tenacia, al vigore, all'intelligenza e all'ambizione di Hans. Si aspettava che qualcuno parlasse di Hans come di una persona cara, ma nessuno lo fece. E questo la fece rabbrividire. Quando tutto fu pronto per l'inumazione, gli ospiti furono invitati a raccogliersi intorno alla tomba. Elizabeth e Annie percorsero insieme un ampio viale di olmi. Si sentì un po' rincuorata; almeno ora l'avrebbe visto riposare in pace. Ma, quando giunsero al settore indicato, scoprirono che era recintato e che anche lì erano ammessi solo gli invitati. Gli altri venivano allontanati educatamente e invitati a firmare il libro delle condoglianze nella cappella. Era assolutamente impossibile che Elizabeth fosse inclusa nell'elenco degli ammessi. «Tutta colpa della moglie,» brontolò Annie. «Se non esclude qualcuno, non lo considera un vero evento mondano.» Aggrottò la fronte preoccupata: Elizabeth era impallidita, in preda a un'emozione che non riusciva a decifrare. «Dai, non ti torturare. Perché non andiamo a prenderci una bella sbronza?» «Annie, non offenderti, ma vorrei restare sola. Tu vai ad assistere alla sepoltura. Me la potrai descrivere, mi farà bene.» L'amica ci pensò un attimo, poi rifiutò. «Ti do uno strappo fino a casa.» «No, posso prendere un taxi.» Le era venuta un'idea. «Scriverò qualcosa
sul libro delle condoglianze e magari farò una passeggiata.» «Lizzy, sei sicura? Mi sembri sconvolta.» «In effetti lo sono. Ma sto bene,» la rassicurò Elizabeth baciandola sulle guance. Aspettò che l'amica si allontanasse superando i due uomini con l'abito gessato: uno aveva una videocamera appesa alla spalla. Appena Annie fu scomparsa, si girò e si diresse dalla parte opposta. Non andò alla cappella. Cosa avrebbe potuto scrivere infatti sul libro? Uscì invece sul viale e percorse la Zürichbergstrasse costeggiando il muro del cimitero. Il disgelo fuori stagione aveva fatto già sciogliere la neve. L'acqua gocciolava dalle grondaie e il cielo era troppo terso per il suo umore cupo. La superò una coppia di ragazzi: si tenevano abbracciati ridendo, e lei aveva infilato la mano nella tasca del cappotto di lui. Chinò la testa e affrettò il passo. Dall'altra parte della strada c'era l'estremità nord dello zoo di Zurigo, delimitata da un alto muro coperto di edera. Si udiva una specie di verso, un profondo e ripetuto ugh-ugh-ugh che la riempì di terrore. Elizabeth si sentiva intrappolata tra il regno misterioso della morte, da una parte, e il suo puro istinto animale di sopravvivenza dall'altra. Percorse un centinaio di metri lungo il muro meridionale del cimitero, poi si fermò guardandosi intorno con circospezione. Tra il muro e il marciapiede c'era un alberello alto un paio di metri. Aveva la corteccia ruvida e il tronco era diritto come un fuso. Senza pensarci un attimo, Elizabeth si aggrappò ai rami per arrampicarsi sul muro di cinta. Dopo pochi istanti si lasciava cadere nel cimitero, in mezzo a un boschetto di betulle: nessun segno di presenze umane. Si sentiva già meglio. Attraverso gli alberi, si fece strada fino a una zona di servizio deserta, oltrepassò senza fare rumore alcune baracche pieni di macchinari e fiori secchi ed entrò nell'area delle sepolture. Si fermò e si mise in ascolto. Un leggero venticello sibilava tra le betulle e, da qualche parte, arrivava il verso di una colomba, contrappunto lamentoso alla cantilena del Padre Nostro recitato dal sacerdote. Si avviò in quella direzione finché non scorse lo scintillio del sole sull'argano cromato che ancora reggeva la bara di Hans. Si avvicinò silenziosa. Una donna alta con turgide labbra pallide si avvicinò alla tomba. Si fermò, lasciò cadere una rosa sulla bara e poi si ritirò, coprendosi il viso con un velo nero. Yvette, pensò Elizabeth tenendosi nascosta dietro una cappella di fami-
glia. Improvvisamente ricordò che Hans non le aveva mai mostrato una foto della moglie. Era quasi dispiaciuta di vederla per la prima volta in quell'occasione. La donna appariva amareggiata in modo strano, come se Hans l'avesse lasciata senza un soldo. O era il suo dolore che le faceva pensare queste malignità? Cercò di sentire la morte di Hans, di accettare la realtà della situazione. Ma non riusciva a piangere. C'era qualcun altro che si sentisse svuotato come lei? Era questa l'eredità di Hans per lei? Non lasciarsi dietro nulla, solo un senso di vuoto e di disorientamento? Poi scorse un'altra donna, un po' discosta, che piangeva squassata dai singhiozzi. Nessuno sembrava conoscerla e molti, imbarazzati, si erano allontanati di qualche passo da lei. Improvvisamente Elizabeth si ritrovò a piangere con tale violenza che provò un terribile dolore all'addome e uno spasmo così violento alla gola che le sembrò di soffocare. Non c'era speranza che passasse inosservata. Singhiozzando disperata, fece infatti girare molti dei presenti. Anche la donna piegata dal dolore si era voltata verso di lei e i suoi occhi la fissavano, improvvisamente pieni di conforto. Nonostante il dolore, Elizabeth cercò di capire chi potesse essere quella donna. La madre di Hans? No, non poteva essere: questa era minuscola e scura, quasi mediterranea, con un'aria umile anche nel dolore, come una zia dimenticata o una vecchia domestica affezionata. Forse era stata la bambinaia di Hans? Ma ne aveva avuta una? E se non era sua madre, allora sua madre dove era? E suo padre? I suoi genitori erano ancora vivi? Ma cosa sapeva davvero lei di quest'uomo? Cosa conoscevano di lui tutti i presenti, a parte i successi finanziari e i trofei sportivi? La donna le si stava avvicinando. Elizabeth cominciò ad arretrare, poi si fermò. Ora che era più vicina vide che, quella che aveva scambiato per una carnagione mediterranea, era in realtà un'abbronzatura fortissima. La donna allungò una mano minuscola afferrandola per il polso. «Elizabeth,» le disse, fissandola intensamente. Sbalordita, lei guardò la donna velata di nero. Erano fuori dalla portata di orecchi indiscreti, e la donnina abbronzata non allontanava la sua mano appoggiata al braccio di Elizabeth, che sentì un brivido gelido. «Come fa a sapere il mio nome?» «Sono... ero sua madre.» «Oh, quanto mi dispiace,» riuscì a dirle. Ma, dunque, Hans aveva parlato di lei a qualcun altro: addirittura alla madre. Il cuore le martellava in petto
e faticava a respirare. Rimase immobile ascoltando il respiro della donna e sentendosi, almeno per qualche istante, stranamente calma. Era la prima volta che si trovava con qualcuno che avesse conosciuto e amato Hans. E ciò le dava forza. «Vorrei parlarle,» riprese la donna. «Davvero?» «Sì.» La osservò con gli scuri occhi infossati. Aveva un accento del Sud: forse era texana. «Penso che anche a me farebbe bene parlare con qualcuno,» disse Elizabeth calma. «La capisco. Io mi chiamo Rose-Anne,» disse tendendole la mano. «E sapeva di me?» le chiese a voce bassa, rivolgendo una rapida occhiata in direzione di Yvette. «Sì, certo.» Raccolse tutto il suo coraggio. «C'è qualcosa che devo dirle: io stavo parlando con Hans al telefono, poco prima che morisse, poco prima... dell'incidente.» Mentre parlava si rese conto di quanto fosse spaventata. Guardò verso Yvette e notò che la stava fissando. Un istante dopo, i due uomini che aveva visto fuori dalla cappella si girarono lentamente venendole incontro. «Forse non dovrebbe stare qui,» suggerì Rose-Anne. Elizabeth la fissò e si accorse di colpo che non aveva più tempo. «C'è qualcosa che non quadra nella morte di Hans, nell'incidente.» L'altra annuì gravemente. «Conosce il ristorante Kronenhalle?» «Dove, qui a Zurigo? Quello vicino al fiume?» «Sì, su Ramistrasse. Ci vediamo al bar, martedì prossimo. Alle tre. Va bene?» «Alle tre, martedì prossimo. Sì, va bene. Ci sarò.» «Allora a presto,» disse Rose-Anne lasciandole il braccio e tornando verso il gruppo dei dolenti. Elizabeth vide uno degli uomini bisbigliare nell'orecchio dell'altro, che annuì. Si sentì prendere da un'ansia così acuta che si rintanò dietro un monumento funebre. Poi iniziò a correre verso il boschetto di betulle. Mio Dio, pensò disperata. Yvette l'ha fatto uccidere! Ma no, è una pazzia. E allora perché mi guardavano? Se davvero mi guardavano, se non sto impazzendo io. Si fermò e si voltò. Attraverso gli alberi, vide che nessuno prestava at-
tenzione a lei. Erano tutti con lo sguardo rivolto alla tomba. Yvette, RoseAnne e gli altri fissavano la bara che veniva calata nella fossa. Ma non vedeva più i due uomini con i gessati. Si girò e raggiunse correndo le baracche degli attrezzi. Aveva il cuore in gola. Trovò una scala abbastanza lunga, l'appoggiò al muro, ci salì e saltò sul marciapiede. Poi si mise a correre a perdifiato, come se la sua vita fosse in pericolo. E, per quanto intuiva, era proprio così. Isola Vieques, territorio di Puerto Rico Vieques era un'isola caraibica speciale. Innanzi tutto, era per metà territorio civile e per metà base militare e nota a pochissimi, a parte gli isolani. A meno di dieci chilometri dall'estremità est di Puerto Rico, a cui ufficialmente apparteneva, a Vieques convivevano due epoche in forte contrasto. Mandrie di bestiame e uccelli selvatici abitavano le sue verdi colline, e i suoi ottanta chilometri quadrati ospitavano solo 8.000 abitanti, che si guadagnavano da vivere allevando il bestiame, pescando o coltivando la canna da zucchero come avevano fatto i loro antenati fin dal XVI secolo. Ma l'altra Vieques, appartenente a pieno titolo al XX se non addirittura al XXI secolo, ospitava una grande base navale degli Stati Uniti che dominava le estremità est e ovest dell'isola. La gigantesca base, fatta installare nel 1940 dal presidente Franklin Delano Roosevelt, si chiamava Roosevelt Roads. Si distribuiva su 40.000 chilometri quadrati, 10.000 a Puerto Rico e 30.000 sulla stessa Vieques. Oltre a diciassette postazioni navali fisse, la base comprendeva basi minori e strutture dell'Esercito, dei Marines e della Guardia Costiera degli Stati Uniti. Era praticamente un alveare di incessante attività militare, in gran parte segreta. L'estremità est dell'isola, che ospitava una campo di prova dell'artiglieria, era stata per trent'anni al centro di una controversia feroce. Sin dagli anni Sessanta la comunità locale e diversi gruppi ambientalisti avevano combattuto la presenza militare sostenendo che c'erano più crateri lì che sulla Luna. Per aggiungere il danno alla beffa, recentemente la Marina aveva ripreso le esercitazioni con il napalm. Il colonnello Oscar Henderson sapeva che alcuni figli di puttana, ben nascosti tra gli alberi, continuavano a sorvegliare con il binocolo la zona. Per questo, fin dal 1958 era stata scartata la proposta di Frederick Wolfe di costruire un laboratorio sulla costa orientale, neanche nascondendolo sotto terra. Henderson aveva invece chiesto i finanziamenti per la costruzione di una
struttura modernissima all'estremità ovest della base. Dato che l'isola era per la maggior parte di proprietà della Marina, c'era molto spazio per prevedere anche una necessaria zona cuscinetto. Là, a partire dagli anni Sessanta, lo scienziato era stato autorizzato a condurre i propri esperimenti di genetica, protetto da una cortina di segretezza che gli aveva concesso una ben maggiore libertà rispetto a molti altri ricercatori al servizio del governo. Ottimo amico di una serie infinita di funzionari e segretarie della Marina, Wolfe aveva promesso sensazionali risultati che avrebbero apportato grandi benefici all'umanità, a cominciare dallo stesso personale militare. Ma, soprattutto, aveva accettato, per conto della Marina, di controllare le eventuali modificazioni genetiche provocate nel personale militare e nei civili dalle varie attività segrete della base. A ogni esplosione, le munizioni che venivano sperimentate liberavano nell'aria una miscela sempre più bizzarra di particelle e di gas. In una normale giornata di attività della base, quasi tre tonnellate di munizioni (TNT, NO3, NO2, RDX e Tetril) liberavano nel vento i loro fumi e detriti. Quelli della Marina erano sospettosi ma, dato che era molto meno costoso far atterrare i loro cacciabombardieri lì, dalla base di Cherry Point nella North Carolina, piuttosto che mandarli al Nellis Air Force Bomb Range in Nevada, nessuno voleva chiudere il campo. E così Wolfe aveva effettuato i necessari controlli e dispensato preziosi consigli, tenendo tutti tranquilli circa i suoi esperimenti di genetica, di cui peraltro la Marina non capiva nulla. Per rendersi ancora più gradito, si era offerto anche di aprire e gestire nella base un ambulatorio ostetrico-ginecologico di prim'ordine, che avrebbe fatto l'invidia delle intere forze armate. In esso, uno dei servizi più popolari e di successo che veniva offerto era la cura della sterilità. Ben presto, il piccolo edificio di assi bianche di quell'oscura base navale su un'isola ancora più sconosciuta, divenne una Mecca per le coppie frustrate nel loro desiderio di avere figli. Si diffuse rapidamente la voce che il dottor Frederick Wolfe facesse miracoli nel campo delle gravidanze, e coppie giovani e meno giovani cominciarono a bussare alla sua porta. Per venticinque anni, prima che l'ambulatorio fosse assorbito dall'Ospedale militare di Bethesda, a Vieques nacquero più di 1500 bambini. Quasi 200 vennero alla luce grazie alla fecondazione in vitro, all'uso di sperma da donatore e, successivamente, di farmaci contro la sterilità. Alla base, Frederick Wolfe era considerato un eroe, e nessuno avrebbe
mai osato metterlo in discussione. Il suo prestigio aumentò ancora quando gli fu assegnato un contratto a tal punto top secret che neppure la Marina ne conosceva lo scopo. Tuttavia, i militari beneficiarono di un ricco aumento di fondi. Aggiunsero quindi di buon grado un altro anello di stretta sorveglianza intorno agli edifici in cui si lavorava al progetto e, una volta di più, non fecero domande. Proprio in quegli edifici era stato portato Hans Brinkman. «Allora, quante probabilità abbiamo?» Emilio Barrola, il neurochirurgo, alzò lo sguardo al di sopra degli occhiali con montatura metallica. La domanda veniva dalla galleria degli osservatori, dopo la sua esposizione delle modalità dell'intervento. Normalmente avrebbe ignorato la domanda, ma il colonnello Henderson e i suoi erano quelli che pagavano, quindi doveva loro una risposta. Il suo maestro, Frederick Wolfe, avrebbe saputo sicuramente cosa dire ma, sfortunatamente, in quel momento non c'era. Si trovava nella stanza verde, impegnato a entrare in uno stato alfa così profondo che, si diceva, il Dalai Lama una volta aveva inviato un contingente di monaci buddisti per osservarne gli effetti, ma i monaci erano poi ripartiti grattandosi la testa perplessi. Naturalmente, la storia era solo una divertente leggenda, ma la trance era vera, e Wolfe la considerava assolutamente indispensabile per ottenere una prestazione al massimo livello. Così Barrola era solo, almeno per un po'. «Le probabilità? Forse una su mille, una su un milione. È stupido dire...» Si corresse rapidamente. «Direi che è piuttosto difficile formulare una previsione precisa. Si deve pensare in termini di previsione... di bilancio rischio-beneficio. Il fallimento ci costerebbe solo la perdita del soggetto che voi signori ci avete tanto generosamente elargito per l'esperimento.» Stava andando bene, avrebbe voluto che lo sentisse Wolfe. «Mentre il successo,» aggiunse indicando il soggetto con un gesto che, nelle sue intenzioni, aveva una maestà papale, «ci porterà benefici incalcolabili. In altre parole...» Dietro Barrola, in piedi accanto al tavolo operatorio, c'era Beatrice Jance, che stringeva la mano del marito, sforzandosi di non sentire i discorsi di Barrola. Peter e Beatrice detestavano i presuntuosi. Quando si trovavano in una situazione del genere, in una conferenza, in una riunione, a una festa o al cinema, si guardavano in silenzio e si stringevano la mano finché il momento di imbarazzo non passava. Era uno dei loro numerosi rituali di tele-
patia coniugale sviluppatisi nel corso degli anni, noto solo a loro due e immutabile in qualsiasi circostanza. Ma il marito, disperatamente debole, non poteva renderle la stretta. Ciò non le impediva però di credere che avesse sentito le sciocchezze di Barrola. Continuò a tenergli la mano, fissando le potenti luci scialitiche. Tieni duro, non abbiamo niente da perdere, tranne le nostre anime. Poi avvertì la vibrazione di una barella in arrivo e, sebbene non riuscisse a vedere l'altro uomo, diviso da lei dai teli sterili, sapeva che era lì, a meno di due metri. Sentì che lo stavano spostando e sistemando sul tavolo operatorio. Strinse ancora più forte la mano molle del marito e si costrinse a guardare. «Lo vedi?», chiese Peter con una voce che era poco più di un soffio. Guardò il viso del marito, i cui occhi la fissavano con incredibile intensità. «Mi assomiglia?» Si sforzò di non contrarre il viso in una smorfia. «Ma Peter, sei tu!» Un'immagine terribile balenò nella mente di Beatrice, un quadro che aveva visto in passato: un uomo enorme, un gigante deforme stringeva nel pugno una figura umana inerme, sul punto di divorarla. Era di Goya? Oh, sì: era Crono divora suo figlio. Sussultò vedendo un gruppo di infermiere avvicinarsi al tavolo. Aspettavano che lasciasse la mano del marito. La preparazione del corpo iniziò immediatamente. In pochi secondi, Peter scomparve sotto una montagna di teli verdi. Le infermiere si muovevano rapide e, poco dopo, del marito restarono esposte solo la testa e la parte superiore delle gambe. Barrola diede un segnale e l'anestesista infilò un tubo nella gola di Peter per somministrargli un cocktail accuratamente dosato di barbiturici. L'uomo affondò in un sonno profondo, lo stesso coma controllato in cui avevano fatto sprofondare Hans Brinkman dieci ore prima. I barbiturici abbassarono nettamente il consumo di ossigeno del cervello e, quindi, il suo fabbisogno di sangue. Dopo venti minuti di accurata regolazione della miscela di gas, Peter e Hans vennero affidati alle rispettive équipe chirurgiche. In ciascuno dei due uomini furono praticate due incisioni, una nella grande arteria femorale, all'interno della coscia, l'altra nella vena femorale. Furono poi inseriti e sigillati cateteri di grosso calibro. Il sangue fu prelevato dalle arterie e pompato nell'enorme ammasso di tubi, cilindri cromati
e camere di raffreddamento delle due preziose macchine cuore-polmoni, del valore di vari milioni di dollari. Poi il sangue venne pompato di nuovo nelle vene dei due uomini. I loro cuori erano stati scavalcati e resi superflui. A quel punto gli osservatori, che avevano ascoltato attentamente le spiegazioni di Barrola, si sporsero in avanti sulle sedie. L'intervento stava per introdurre qualcosa di diverso, di assolutamente nuovo. I tecnici delle pompe osservavano quadranti e azionavano interruttori, le macchine ronzavano e sussultavano, e la temperatura interna dei pazienti iniziò a calare nettamente insieme a quella della sala operatoria. Il personale nei camici sterili emetteva dense nuvolette di fiato, mentre il cervello dei due uomini sui tavoli operatori raggiungeva l'arresto ipotermico. Questa procedura - come aveva appena spiegato Barrola - era stata perfezionata in sale operatorie civili e militari ed era essenziale per il successo degli interventi di bypass e trapianto cardiaco. Ma era straordinariamente complessa. Ora erano arrivati al punto critico. Quando la temperatura corporea raggiunse 23 gradi, Barrola ordinò di iniettare una forte soluzione di cloruro di potassio. I due cuori si fermarono immediatamente, come se fosse stato spento un interruttore. E subito l'aria fu lacerata da un allarme: l'ECG era diventato una linea perfettamente orizzontale. L'allarme continuò a suonare finché qualcuno non si diede la pena di spegnerlo. Barrola inspirò profondamente. Di solito, nei trapianti di cuore, il sangue viene pompato in tutte le parti del corpo tranne che nel cuore. Ciò viene fatto innumerevoli volte nelle sale operatorie di tutto il mondo. Ma Frederick Wolfe sfruttava questa procedura in una direzione del tutto nuova, e Barrola seguiva i suoi ordini alla lettera. L'arresto dei cuori di Hans e di Peter era solo il primo passo. Raggiunta una temperatura cerebrale abbastanza bassa, il sangue fu prelevato completamente dai due corpi. Tutto ciò aveva un nome, suggeriva Alex Davies, seduto in prima fila nella galleria, al colonnello Oscar Henderson. A giudicare dall'irritazione che si leggeva sulla sua larga faccia vissuta, il militare stava perdendo la speranza di vedere un'altra stelletta sulle sue spallette. «Si chiama dissanguamento.» «Ma cosa diavolo è?» «È quello che i vampiri fanno nei film o i medici legali nelle autopsie,» proseguì il giovane ricercatore, vedendo il colonnello impallidire. Fece un
lieve sorriso, l'altro non osò fare domande. Il bypass che riportava il sangue nel corpo dei due pazienti fu chiuso e, in dieci minuti, tutto il sangue si trovò nelle macchine. Senza il sangue, l'ossigeno non raggiungeva le cellule del cervello o di qualsiasi altro organo. Anche questa condizione aveva un nome e Alex Davies, sempre attentissimo, lo pronunciò a beneficio dei vicini. Era «morte». In realtà, non c'era niente di magico nel riportare indietro i pazienti da quello stato. Wolfe l'aveva già fatto molte volte ed era una tecnica adottata nei più importanti centri medici del mondo occidentale. Ma quello che si annunciava non era routine: era semplicemente impensabile, e c'era un solo neurochirurgo al mondo con le capacità tecniche e la presunzione per poterlo fare. Barrola andò personalmente a chiamare Frederick Wolfe nella stanza adiacente. In genere, il maestro impiegava quindici minuti a emergere dal suo profondo stato alfa, il tempo sufficiente per la preparazione finale dei pazienti. La testa dei due uomini era stata accuratamente rasata. Barrola si mise a lavorare su Hans e il suo assistente su Peter. Intorno al cranio di ciascuno fu tracciata una linea che partiva dall'occipite e passava intorno al temporale, poco sopra le orecchie per Hans, poco sotto per Peter. Poi la linea attraversava il viso a metà orbita e proseguiva sul dorso del naso per poi tornare all'occipite attraverso un percorso speculare. Dopodiché, utilizzando modernissimi bisturi al laser, i due chirurghi incisero la cute. Dato che i due corpi erano praticamente dissanguati, le tracce di sangue furono minime. Il lavoro procedeva rapidamente. Per Barrola, il taglio più delicato e importante era intorno agli occhi. Tra le sue numerose specializzazioni c'era la chirurgia plastica, e non a caso gli era stato assegnato il lavoro su Hans. Quello era il corpo ospite, quindi era indispensabile che dopo funzionasse perfettamente, compresi i dotti lacrimali, che infatti il chirurgo evitava accuratamente. Gli occhi in sé non avevano alcuna importanza. Dal punto di vista funzionale, erano semplici estensioni del cervello e ora il cervello di Hans Brinkman non aveva più alcuna importanza. Barrola completò le incisioni e si fece da parte. Sarebbe toccato alle infermiere l'ingrato lavoro di scollare la pelle mettendo a nudo il cranio. Il chirurgo passò a supervisionare la fase finale della preparazione di Peter e coprì con due dischetti di titanio gli occhi dello scienziato moribondo. Era
importantissimo che non venissero feriti dalla sega o da una scheggia di osso. In quel momento, gli occhi e il cervello erano la cosa più importante del corpo di Peter. Appena Barrola ebbe finito, nella galleria calò il silenzio. Stava entrando Frederick Wolfe. Sembrava più alto, come se lo stato zen avesse aggiunto qualche centimetro alla sua figura già allampanata. Erano scomparsi lo sguardo adorante che, di solito, riservava a Beatrice, il disprezzo rabbioso che intimidiva i militari, l'imperiosità indifferente con cui trattava il nipote. Ogni traccia di malizia era stata spazzata via dalla meditazione e dall'importanza eccezionale del momento. Aveva assunto un controllo assoluto, di se stesso e della sala operatoria. Alcuni assistenti sistemarono le radiografie e altri fecero partire il lettore di CD che, per il resto della notte, avrebbe suonato ad alto volume la sua registrazione preferita dei Vier Letzte Lieder di Strauss. Quel capolavoro pieno di malinconia, completato dal compositore pochi mesi prima di morire, non mancava mai di riempire il cuore del grande chirurgo di un'intensa sensazione deliziosamente dolorosa, soprattutto se cantato da Jessye Norman. I militari storsero il naso e Beatrice desiderò stringere la mano di Peter, ma Wolfe era beatamente e giustamente indifferente alle loro opinioni. Quello era il suo momento, il suo posto, il suo intervento. Adesso (e, se esisteva una giustizia a questo mondo, da allora in poi) lui era semplicemente il massimo scienziato vivente. Si allontanò dalle radiografie. Le aveva memorizzate la sera prima e non c'erano stati cambiamenti. «Non perdiamo tempo.» «Se lei è pronto, lo sono anch'io,» disse Barrola, più umilmente di quanto intendesse. «Sono prontissimo, partiamo.» Wolfe si avvicinò ai tavoli operatori. Erano circondati dalle relative équipe. Tutti sapevano che, se avessero fallito, non avrebbero più avuto un'opportunità del genere per raggiungere la fama e il potere, almeno nell'ambito dei progetti segreti, la punta più avanzata della tecnologia medica militare. D'altro canto, se avessero avuto successo, il loro prestigio sarebbe salito alle stelle. E Wolfe si rendeva conto che, come padre e ideatore del progetto, gli avrebbero attribuito il merito di una scoperta paragonabile a quella del DNA. Le sue mani non erano mai state così ferme.
Sistemò personalmente la pinza Mayfield, un ingegnoso apparecchio di acciaio che terminava con quattro punte, all'apparenza simile a un paio di pinze da ghiaccio complicate. Serviva a mantenere la testa del paziente immobile e nella posizione desiderata, evitando che spostamenti involontari potessero disturbare il lavoro dei chirurghi. Doveva essere fissata perfettamente al cranio, e una piccola schiera di tecnici si muoveva allo scopo intorno a Wolfe e un'altra intorno a Barrola. Wolfe rimproverava nervoso i suoi, mentre i bulloni venivano stretti e allentati, i giunti piegati e riposizionati. Quando l'apparecchio assunse la forma desiderata, lo fece fissare al tavolo operatorio. Le punte furono quindi appoggiate al cranio di Peter, orientate verso i quattro punti cardinali, e fissate. Alcuni minuscoli rivoli di sangue furono rapidamente asciugati dalle infermiere, mentre i tecnici iniziavano a sollevare la parte superiore del tavolo operatorio. Nella galleria degli spettatori, Alex Davies vide Beatrice Jance distogliere lo sguardo per la prima volta. Il corpo di Peter, per metà sostenuto dalla parte sollevata del tavolo e per metà appeso come un quarto di bue all'apparecchio, sembrava quello di un povero diavolo abbandonato su una panchina del parco. Chissà come si sente, pensò Alex fissando Beatrice con occhi acuti. Lui non avrebbe saputo definire le proprie emozioni, e nemmeno gliene importava. Provava un misto di repulsione, di curiosità e di profonda compassione per quell'uomo moribondo sul tavolo operatorio, il cui genio gli incuteva rispetto. Ma sentiva anche qualcos'altro, di nascosto e perverso: il desiderio segreto di vedere l'intera operazione terminare in una baraonda di schizzi di sangue e di apparecchiature che esplodevano mentre quell'abominevole musica che considerava nazista suonava a tutto volume. Suo nonno cercava di fargli amare quella musica di merda da quando aveva tre anni. La testa gli ricadde sul petto. Dio mio, pensò Beatrice distogliendo lo sguardo, Alex si è addormentato. Poi si costrinse a guardare di nuovo giù. I tecnici si erano allontanati dai tavoli operatori. Wolfe guardò Barrola: era pronto anche lui. Allora fece un respiro lento e profondo concentrandosi sul centro del proprio essere finché non riuscì a sentire il respiro nel suo ki. Quindi chiese con tono tranquillo di portare dentro il suo Midas Rex. Barrola fece lo stesso. Fu così introdotta la sega da ossa, con l'estremità di ottone, grande e po-
tente ma priva di qualsiasi fascino: un puro prodotto della tecnologia anni Sessanta. Le Midas Rex erano seghe ad aria compressa, e il grosso tubo verde che usciva dal serbatoio dell'aria le faceva apparire più adatte all'uso in un garage. Ma la loro potenza riduceva al minimo il pericolo di frammentare le ossa perché il taglio risultava nettissimo. Il controllo del macchinario era assicurato dal chirurgo e, in questo, Wolfe e Barrola erano i migliori. Dopo quindici minuti di lavoro accurato, la camera operatoria sembrava una sala d'attesa piena di fumo. Alex Davies aveva risollevato la testa. La fine polvere di ossa craniche svolazzava leggera sotto le lampade scialitiche mescolandosi alle nuvolette di vapore prodotte dalle due dozzine di tecnici e di medici all'opera nella stanza gelida. Era uno spettacolo affascinante. Finalmente le macchine tacquero. Furono consegnate ai tecnici e portate via: non sarebbero più servite. Wolfe, fermo accanto al corpo di Peter, guardò su, incontrando per la prima volta gli occhi di Beatrice. Percepiva l'enorme ansia di lei ma anche la sua profonda gratitudine. Ciò lo riempì di piacere. Lei sapeva cosa sarebbe successo adesso e lui era lieto che ci fosse... che vedesse il suo genio all'opera. Ma, con sua grande delusione, la donna era pallidissima, scuoteva piano la testa. Chiaramente si sentiva male. Difatti, un attimo dopo si alzò e si fece strada tremando verso l'uscita. Wolfe pensò che forse non l'avrebbe più rivista fino al termine dell'intervento. Tornò verso Peter, gli sollevò la calotta del cranio e la lasciò cadere in una bacinella di acciaio inossidabile. Lì sotto, roseo e grigio, lucente sotto la luce ad argon, c'era ciò che Wolfe era stato chiamato a conservare: il cervello di colui che, secondo il parere di molti, era il massimo genio vivente del XX secolo. Adesso doveva assicurare che quel formidabile strumento continuasse a funzionare anche nel XXI secolo. E lui sentiva di avere iniziato a prepararsi a quel compito trentacinque anni prima, a soli due edifici di distanza da lì, nell'ambulatorio ostetrico ginecologico, facendo nascere Hans Brinkman. Già pochi mesi dopo il loro primo incontro, Frederick Wolfe e Peter Jance erano diventati colleglli e, nel modo apertamente competitivo dei geni, anche grandi amici. Durante la giovinezza avevano condiviso la base con dozzine dei massimi scienziati che lavoravano per il governo alla ricerca di qualsiasi cosa
che assicurasse al Pentagono l'egemonia assoluta negli anni del dopoguerra. Peter faceva esperimenti nel campo orientale di Vieques, lavorando a quell'epoca sui supercannoni, enormi dispositivi ingombranti che sparavano particelle super cariche sfruttando una tecnologia che oggi sarebbe apparsa medievale. Non riusciva mai a renderli abbastanza piccoli da essere utilizzabili, neppure per le battaglie navali, e i suoi fallimenti erano fonte di grande divertimento per Wolfe e Beatrice (e, a dire il vero, anche per lo stesso Peter). Nonostante ciò, i federali lo amavano perché, per quanto fossero enormi, a ogni sparo i cannoni si portavano via oltre un chilometro quadrato di isola. Nutrivano grandi speranze nei suoi confronti: era solo questione di tempo. Wolfe era invece già molto avanti nella ricerca genetica e spesso chiedeva agli amici di fornirgli un po' di materiale per il suo lavoro. Niente di eccezionale: una sacca di sangue qui, un frammento di pelle là... In cambio regalava loro una stampa incorniciata dell'impronta del loro DNA da appendere dietro la scrivania. Nel caso di Peter e Beatrice, aveva anche cercato di aiutarli a portare avanti una difficile gravidanza. La donna aveva una serie di fibromi uterini che rendevano la maternità pressoché impossibile. Aveva abortito e poi non ci avevano più provato. A volte, Wolfe pensava che Beatrice lo incolpasse inconsciamente di quel fallimento, convinta - come gli aveva confessato una volta in un alterco - che la sua invidia per la loro felicità coniugale avesse in qualche modo provocato il fallimento della gravidanza. Tutte assurdità, pensava Wolfe. Come aveva osservato una volta Nietzsche: un filosofo sposato diventa un personaggio da commedia. Secondo lui, lo stesso si poteva dire degli scienziati. La gelosia era un sentimento vile e quindi non gli apparteneva. In effetti, talvolta la fama di Peter lo infastidiva, ma lui scacciava rapidamente tale sensazione pensando a quanto più importanti e di vasta portata sarebbero state le sue scoperte. Durante quegli anni dovette lavorare in segreto, nascondendo il suo genio. E tuttavia il progetto che un giorno gli avrebbe procurato un posto nel pantheon degli scienziati, molto al di sopra di Peter e di chiunque altro, era partito quasi per caso. Allora tutti conoscevano il modo di clonare, non solo le piante ma anche animali come i girini, e lui non vedeva perché non si potesse fare lo stesso con gli esseri umani. Non servivano apparecchiature particolarmente complesse, bastava una certa dose di audacia, un po' di intuito e una buona conoscenza della struttura genetica (un campo in cui nessuno poteva reggere
il confronto con lui). E servivano uno o due ovuli sani, che era tutto sommato facile procurarsi dato che gestiva un ambulatorio di cura della sterilità. Gli ovuli erano la sua materia prima. E, se i suoi esperimenti fossero falliti, be', un aborto non sarebbe stato un evento straordinario per chi era abituato a quel genere di delusioni. Ogni volta che, invece, una gravidanza proseguiva per un altro trimestre, era considerato un dio. Così fu un gioco da ragazzi, una volta che ebbe perfezionato la tecnica per estrarre il DNA intatto dai frammenti di tessuto degli amici. Anche estrarlo dagli ovuli delle donne che venivano da lui in cerca di aiuto non era un problema. Infatti non importava quanto fosse rovinato, purché si riuscisse a estrarlo integro. Il colpo di genio fu l'invenzione di una pipetta di vetro abbastanza piccola e appuntita da riuscire a pungere un ovulo umano senza distruggerlo. Perfezionato lo strumento, era a posto: usando la pipetta di Wolfe, veniva estratto il DNA presente negli ovuli e vi era iniettato quello dei suoi colleghi scienziati. Ci riuscì nove volte, compresa la volta in cui usò il DNA di... Peter Jance. Le gravidanze furono poi ottenute attraverso vari metodi, a volte con una presunta fecondazione in vitro, a volte grazie all'uso dello sperma di un donatore. Lo fece centinaia di volte: e quasi sempre fu un fallimento. Ma nove volte funzionò. Il bello era che solo Wolfe conosceva il nome dei donatori del DNA e aveva accesso ai dossier sui soggetti riceventi che i federali curavano e aggiornavano per lui, tanta era la fede che nutrivano nel suo genio scientifico. Quando ormai era in procinto di fare nuove sensazionali scoperte, aveva però avvertito un'atmosfera di sospetto intorno al suo lavoro e si era fermato. Aveva già ottenuto quello che voleva: la consapevolezza segreta di essere, almeno, un genio come Peter Jance e altri esimi colleghi del mondo scientifico. Lui era l'unico ad aver creato nove cloni umani sani! Fu allora che si ritirò e rimase a guardare. Per anni. Ogni bambino, ogni clone, era nato in una coppia che non sospettava nulla. Naturalmente, i genitori convinti che la fecondazione fosse stata ottenuta con il seme di un donatore non ebbero alcun sospetto quando videro che il bambino non assomigliava loro. Ma anche quelli che cercavano qualche somiglianza, raramente rimasero delusi, perché ogni volta Wolfe aveva cercato di utilizzare il DNA di amici che avessero una certa somi-
glianza con i genitori ufficiali. Con rare eccezioni, le coppie felici presumevano dunque di essere i genitori biologici. Ovviamente, sia i genitori sia i bambini erano solo di passaggio a Vieques. Appartenendo al personale delle forze armate, venivano poi congedati o trasferiti e, dopo un certo tempo, i miracoli viventi di Wolfe si erano cosi sparsi per i cinque continenti. Leggeva i rapporti sulla loro vita con intensa avidità e devozione, e i genitori scambiavano questo suo vivo interessamento per la gioia di un nonno. Non ebbero mai dubbi, erano certi che avesse a cuore solo l'interesse dei figli che aveva concorso a mettere al mondo. Non molto tempo dopo i successi iniziali, Frederick Wolfe aveva fatto una riflessione ben più importante. Dato che ogni bambino corrispondeva esattamente, a livello cellulare, a conoscenti dello scienziato, se il tempo e le circostanze lo avessero richiesto, lo stesso bambino cresciuto avrebbe potuto donare qualsiasi parte del suo corpo senza alcun pericolo di rigetto nel ricevente. Assolutamente nessun pericolo. Quasi subito lo colpirono le implicazioni estreme della sua scoperta. Grazie a quell'intuizione eccezionale, Wolfe sarebbe entrato per sempre nei libri di storia. Bastava che andasse dai pezzi grossi dell'Esercito e illustrasse la sua scoperta. All'inizio lo accolsero con sospetto: non riuscivano assolutamente a crederci. Ma lui espose l'intero progetto con tanta cura, tanti dettagli e ponendo un tale accento sulle sue potenzialità, che alla fine gli credettero. E non erano solo convinti: erano sbalorditi. Così vennero i finanziamenti e il nome: la Società della Fontana. In teoria - aveva spiegato lui - non c'erano motivi per cui un uomo o una donna geniali (come erano di sicuro gli amici che aveva già duplicato) non potesse vivere per sempre grazie al corpo dei suoi cloni. E, dato che quasi tutti i cloni appartenevano a importanti ricercatori nel campo degli armamenti che stavano inesorabilmente avviandosi verso la terza età, il fattore tempo era decisivo. I militari compresero il messaggio più in fretta di quanto lui stesso sperasse. Il progetto fu avvolto nel segreto più assoluto e finanziato con tanta generosità che Wolfe pensò che i militari si fossero convinti che avrebbe clonato anche loro. Era al settimo cielo, vicino alla fama che giustamente gli competeva. Se tutto fosse andato per il verso giusto (e sicuramente sarebbe stato così), lo avrebbero eletto a genio dei geni: l'uomo che era riuscito a sconfiggere la morte.
Venti ore dopo aver tolto la calotta del cranio di Peter Jance, Frederick Wolfe continuava ancora a lavorare con un'intensità che galvanizzava l'intera sala operatoria. Venti ore erano il limite assoluto di sopravvivenza di un cervello privo di ossigeno, anche conservato al freddo. Era una lotta contro il tempo, alleato della Grande Mietitrice. La procedura chirurgica era affascinante ma spietata. Dato che il corpo di Peter non serviva più, Wolfe lo aveva tagliato in profondità, avvicinandosi alla preziosissima materia grigia da sotto la scatola cranica. Aveva isolato i dodici nervi accessori e i quattro rami delle arterie carotidi recidendoli ed eliminando il tessuto circostante. In tal modo, aveva potuto lasciare le connessioni arteriose e nervose abbastanza lunghe prima di reciderle dal corpo di Peter. L'ultimo legame del cervello con il corpo era il midollo spinale, che venne tagliato tra la prima e la seconda vertebra con lo stesso bisturi laser di precisione usato per gli altri nervi. Il raggio a calore ridotto era capace di una tale esattezza da riuscire a passare tra due molecole di carbonio senza danneggiarle. Per ironia della sorte, il laser era un prodotto del primo lavoro sulle armi condotto dallo stesso Peter Jance. Ma, in quel momento, né Peter né Beatrice potevano certo apprezzare il lato bizzarro della situazione. Il moncone di tronco cerebrale fu temporaneamente coperto per impedire l'uscita del liquido cerebrospinale. Senza quel liquido, che forniva energia per il funzionamento delle cellule sia del cervello sia del midollo spinale, e anche proteine e linfociti per combattere le infezioni, Peter, o più precisamente il suo cervello, non sarebbe durato un giorno. Effettuato il taglio e protetto il moncone, niente più ancorava il cervello al corpo. Wolfe lo estrasse. Con un leggero rumore di aspirazione, il cervello, gli occhi e i nervi ottici uscirono dall'enorme foro praticato sulla sommità del cranio. Poi lo immerse delicatamente in una bacinella piena di soluzione fisiologica dove iniziò a fluttuare, scintillando come una strana creatura estratta dalle enormi profondità marine. Con Hans, la procedura fu più cruda. L'équipe chirurgica si limitò a estrarre il cervello avendo cura solo di mettere a nudo le radici dei nervi accessori che attraversavano la calotta cranica, provenienti dal corpo. Questi elementi di collegamento, dodici nervi e quattro arterie, erano tutto quello che occorreva conservare. Che lo si facesse sacrificando il cervello, solitamente una perdita catastrofica, in questo caso era irrilevante. Per quanto
brillante fosse stato, il cervello di Hans Brinkman era solo un'ombra di quello di Peter Jance. Non aveva quell'indefinibile dono di Dio che aveva elevato, fin dal giorno della nascita, quel cervello alla statura di genio. Il cervello di Hans, un ammasso rosa e grigio di consistenza quasi gelatinosa, fu portato via in una bacinella di acciaio inossidabile. Ora iniziava la procedura finale, la più difficile: il matrimonio tra il vecchio cervello e il giovane corpo. Il modo di ottenere l'unione era risultato sempre estremamente difficile, e le varie procedure erano costate la vita a interi branchi di maiali, vitelli e primati. Il problema erano i nervi accessori, le dodici paia di vie nervose vitali poste alla base del cervello. Controllavano una schiera di funzioni, come i movimenti e la sensibilità facciale, il movimento delle spalle e della testa, l'equilibrio, l'udito e l'olfatto. Un tronco nervoso, il vago, finiva nella cavità corporea influenzando le funzioni sensoriali, motorie e autonome delle ghiandole, la digestione e il battito cardiaco. Anche se la colla genetica di Beatrice funzionava su queste fibre più rapidamente che sul midollo spinale, molto più complesso, la loro sede anatomica rappresentava un problema estremamente delicato. Era difficilissimo accedervi perché si trovavano dietro la gola, alla base del cervello. Le apparecchiature e le procedure usate in quel momento non sarebbero comparse nei laboratori civili prima di alcuni decenni o, forse, mai. C'erano microbisturi al laser, guaine di tessuto porcino fetale, un apparecchio per la TAC piccolissimo e potente che permetteva di operare completamente attraverso schermi video, e dispositivi di agganciamento robotizzati così piccoli da poter essere infilati tra la colonna vertebrale e la trachea senza provocare altro che un po' di singhiozzo. Tutto ciò rendeva teoricamente possibile la procedura. Ma la sua reale attuazione richiedeva prestazioni virtuosistiche a un livello finora mai raggiunto. Anche gli spettatori profani sapevano che Wolfe si stava spingendo all'estremo. Adesso il cervello di Peter Jance non era altro che un chilo e mezzo di freddo protoplasma, mentre il corpo di Hans Brinkman era mortalmente freddo, senza una goccia di sangue e con un cuore fermo da ore. Finché non venivano collegati, nessuno, in quella sala operatoria, poteva dire di aver raggiunto un risultato, se non quello di sprecare un sacco di tempo e di denaro del governo. Lottando contro il tempo, completarono i primi collegamenti. I controlli iniziali dell'impedenza da parte dell'equipe di monitoraggio neurologico rivelarono la presenza di una comunicazione tra il cervello e il
corpo. L'attività non era ancora assolutamente normale, tuttavia le informazioni passavano da un regno all'altro. Il fatto elettrizzò la sala. Oscar Henderson muoveva silenziosamente le labbra, sembrava pregare. Anche Alex Davies si sporse in avanti, mordicchiandosi il pollice. Se i collegamenti funzionavano, era possibile che l'intervento, un salto nell'evoluzione stessa della specie, riuscisse. I due chirurghi continuavano a lavorare mentre gli assistenti annunciavano, a beneficio del pubblico, che i vari collegamenti erano completati. Wolfe e Barrola lavoravano come ossessi, con le mani infilate nei comandi robotizzati, controllando con i pedali la messa a fuoco dei dispositivi video e soffiando delicatamente nei tubi di servocontrollo che traducevano l'intensità del loro respiro nella posizione delle dita meccaniche. C'erano indici di ogni tipo, riguardanti ogni collegamento. Nessuno sapeva se si sarebbero normalizzati. Ma ora si doveva tentare qualcosa di molto più difficile. Nessuno, nella storia della medicina, aveva mai ottenuto quello che di lì a poco Wolfe avrebbe tentato di fare. Il collegamento fra il tronco cerebrale e il midollo spinale era talmente complesso che quanto fatto fino ad allora sembrava uno scherzo. Ma c'era qualche speranza, come ripetevano disperatamente a se stessi i chirurghi. I tagli dalle due parti, il midollo spinale di Hans e il tronco cerebrale di Peter, erano netti, senza i bordi frastagliati delle lesioni conseguenti, per esempio, a un incidente. E i piani di contatto fra il tronco cerebrale di uno e il midollo spinale dell'altro avevano una particolarità ancora più importante: dato che Hans era un clone di Peter, un'estremità recisa era perfettamente identica all'altra, cellula per cellula, fibra per fibra, filamento di DNA per filamento di DNA. Iniziarono la procedura di collegamento. Su ciascuna delle estremità fu spalmato uno strato della colla Krazy Glue di Beatrice, lasciandola colare attraverso la superficie per diversi minuti. Ciò dava agli elementi contenuti nella colla il tempo di replicare le impronte di ciascun moncone in modo che non ci fosse alcuna differenza tra la colla e la porzione di midollo su cui era stata spalmata. Poi, quando l'adesivo non era troppo liquido né troppo solido, le due parti vennero unite. Usando una tecnologia laser messa a punto per il montaggio di computer con hard disk microscopici, Wolfe e la sua équipe allinearono il tronco cerebrale del vecchio cervello con il midollo spinale giovane con tanta precisione da attaccare tra loro le matrici identiche delle fibre, collegandole con la colla di Beatrice. Immediatamente, le superfici replica-
te della colla genetica iniziarono a compenetrarsi a livello subatomico, seguendo le mappe del DNA originale tracciate per la prima volta quando i filamenti di DNA della madre e del padre di Peter si erano fusi dando origine all'impronta di un nuovo essere umano unico. La giunzione fu rinforzata con un anello sottile ma molto resistente di acciaio inossidabile, non più grande di un portatovaglioli. Ora restavano da unire le arterie gemelle che correvano ai lati del midollo spinale. «Attività neurologica a livello della giunzione,» urlò una voce. L'uomo quasi balbettava e sembrava lottare per restare calmo. Wolfe alzò gli occhi cauto. «Volume?» Per un momento, il tecnico lasciò cadere la mascella rimanendo muto. Come volume ottimale di impulsi elettrici tra le due metà riunite, Wolfe sperava in un venti per cento, forse addirittura in un trenta. Ciò avrebbe permesso al corpo di sopravvivere, forse con qualche problema di movimento agli arti inferiori. In quelle condizioni, Peter sarebbe quantomeno vissuto pur su una sedia a rotelle. «Ottanta per cento. No, ottantaquattro!» Wolfe guardò l'uomo, che gli fece un sorriso: aveva gli occhi fuori dalle orbite. «Migliora di secondo in secondo, signore.» «E il fascio cranico?» «Presenti tutti i valori di collegamento nelle giunte,» riferì un altro specialista, invisibile dietro montagne di monitor. «Sempre più chiari. Tutti gli altri nella media. Nessuna degenerazione.» Nella stanza l'attenzione era massima. Wolf annuì cauto. «A quanto pare, la colla di Beatrice sta facendo un ottimo lavoro.» Si chinò sul nuovo corpo di Peter. «Finiamo il lavoro; potremmo essere fortunati.» Con enorme cura sistemarono gli occhi di Peter nella metà inferiore delle orbite; il taglio orizzontale rese l'operazione abbastanza semplice. Poi riposizionarono la calotta cranica. Applicarono ancora un po' di colla lungo il cranio, lungo il margine delle palpebre e sul cuoio capelluto, poi iniziarono a bendarlo. L'ultimo passo era innestare le cornee più fresche di Hans sugli occhi ultrasettantenni di Peter, fornendogli così delle finestre trasparenti attraverso cui guardare il mondo, letteralmente, con occhi nuovi. Poi, il più era fatto.
Wolfe si sedette, mise su della musica di Mozart e bevve una tazza di latte macchiato, preparato da un sergente appositamente addestrato che sapeva esattamente cosa il chirurgo preferisse bere e quando, compresa una coppa di champagne Cristal tenuto in fresco nella stanza verde. Presto sarebbe arrivato anche il momento di Barrola, appena riposto l'ultimo strumento. Mentre Wolfe si riposava, Barrola e la sua équipe ricollegarono le carotidi, e non appena ebbero finito, il capo del progetto si rialzò. Era il momento cruciale; tutti in sala lo sapevano. Era l'ora del trionfo o della sconfitta: o riportavano dall'anticamera della morte l'uomo sul tavolo operatorio o gli coprivano per sempre il viso con un lenzuolo. «Chiamate Beatrice,» ordinò calmo Wolfe. «Voglio che sia qui.» Un'infermiera si affrettò ad andarla a cercare. «Avviate la pompa,» ordinò il chirurgo. I tecnici eseguirono l'ordine e i cilindri cromati del cuore artificiale iniziarono a pulsare, i tubi trasparenti tra la macchina e l'uomo divennero scarlatti e il sangue cominciò a rifluire al cuore e al cervello. La pelle livida del nuovo, giovane Peter, assunse un colorito roseo. «Ma come lo chiameremo?» si chiese improvvisamente Barrola, ad alta voce. Wolfe gli lanciò uno sguardo interrogativo. «Intendo dire,» riprese l'altro sperando di non aver offeso nessuno, «non è Peter e non è nemmeno quell'altro.» Il capo sorrise, improvvisamente affabile. «Era Peter prima, sarà Peter anche dopo ed è Peter adesso. Punto.» «Ma allora, quello chi è?» insistette Barrola indicando il cadavere del vecchio scienziato che giaceva abbandonato come una macchina priva di motore. «È una questione metafisica,» ammise Wolfe, «e non ci riguarda. Le persone sono quelle che sono da vive. Ciò che muore cessa di esistere. Ciò che non è mai stato non esiste, quello che viene trasferito si trasforma, ciò che viene prestato o rubato diviene proprietà del nuovo padrone. Stiamo solo spostando atomi da un contenitore a un altro. Restano gli stessi atomi e la loro energia è eterna e senza nome.» «Ma gli altri, fuori...» «Fuori, dove?» «Là fuori.» «Naturalmente daremo l'annuncio della sua morte.»
«Ma questo, chi diremo che è?» Barrola guardò il corpo di Hans Brinkman in cui ora avevano impiantato il cervello di Peter Jance. Questo è il vero problema della scienza moderna, pensò Wolfe. In fin dei conti, non importa quanto geniale tu sia, purtroppo hai sempre bisogno di collaboratori. «Ma perché vogliamo che la notizia si propaghi?» concluse esasperato. L'altro aggrottò la fronte in cerca di una risposta, ma Wolfe lo zittì con un brusco gesto della mano, perché Beatrice stava rientrando nella sala operatoria. Si avvicinò alla ringhiera della galleria, pallida e insicura, fragile, guardando giù verso il marito. Tutta la stanza era ripiombata improvvisamente nel silenzio. La donna si guardò intorno nella galleria, poi spostò lo sguardo su Wolfe e tornò a guardare Peter. Non è Peter, pensava. Niente rughe, niente cicatrice dell'appendicite, niente vene sporgenti sul dorso delle mani. E invece, per Dio, era proprio lui, come lo ricordava a fatica ai tempi del loro primo incontro, quando erano stati uniti dalla passione e da un amore profondissimo. Ma ora sembrava in qualche modo più... nitido, più asciutto. Nemmeno un grammo di grasso, muscoli scolpiti, un corpo atletico, una macchina perfetta; improvvisamente normale e strano, conosciuto ed estraneo. «Reinfusione ematica completata,» annunciò l'addetto alla pompa. Beatrice guardò Wolfe con il cuore colmo di angoscia. Chiunque fosse, quello era il suo Peter, perché non si muoveva? Lui cercò di rassicurarla con un piccolo cenno del capo come per dire: è di me che hai bisogno, adesso. Poi tornò a chinarsi sul suo lavoro. «Presto, le piastre!» Beatrice vide portare dentro il defibrillatore. Nelle ultime ore - tre o otto, alla fine aveva perduto il conto - si era sentita perduta. Ma, santo cielo, perché si era lasciata convincere da Wolfe a lasciar fare a Peter quell'iniezione, tacitando così i suoi pensieri di morte, assumendosi tutta la responsabilità morale dell'intervento e poi lasciandosi andare a tali speranze irragionevoli? Forse suo marito avrebbe potuto sopravvivere al cancro, nonostante le resistenze sempre più deboli. Dopo tutto, i miracoli possono accadere. Ma non così, non... «Libera!» gridò Barrola appoggiando le piastre sul petto nudo di Peter. Il corpo fece un forte balzo e ricadde immobile. Tutti aspettarono che la macchina si ricaricasse. Beatrice stringeva con violenza la ringhiera; aveva
le nocche tutte bianche. «Libera!» Il corpo ebbe un'altra convulsione e di nuovo ricadde senza vita. Barrola guardò sconsolato Wolfe, poi riappoggiò le piastre sul torace. «Libera!» Il corpo si inarcò sulla spina dorsale. Wolfe strinse i denti ricacciando la disperazione. La giuntura avrebbe retto a quei sobbalzi? Il corpo ricadde un'altra volta. E rimase immobile, un ammasso di carne fredda su un tavolo. Poi si sentì un urlo. «C'è una pulsazione!» Era l'anestesista, che osservava incredulo i suoi strumenti. Poi lo sentirono tutti: era l'inconfondibile bip del monitor cardiaco che raccoglieva il battito della vita dentro il corpo addormentato. Peter Jance era vivo! «EEG,» urlò Wolfe con voce tesa. «Piena attività nervosa alfa e delta. Funzionale a livello di coma. Forti valori di tutte le vie nervose. Spiccato miglioramento dall'ultima rilevazione!» Tutti si guardarono sbalorditi. Uno strano silenzio calò sulla stanza scintillante, sulle decine di tecnici, chirurghi e specialisti esausti. Sembrò durare un'eternità. Infine il silenzio fu rotto dallo schiocco del tappo sparato dal collo della bottiglia di Cristal. Tutti si girarono a guardare il sergente sorridente che si precipitava nella stanza con la bottiglia schiumante di champagne, seguito da un assistente con un vassoio di bicchieri. L'atmosfera si riempì di grida e congratulazioni. I membri dell'équipe cardiovascolare si misero a ballare, le infermiere piangevano e si abbracciavano. Nella galleria, i militari si davano grandi pacche sulle spalle, affollandosi intorno a Henderson per congratularsi. Solo Alex Davies non partecipava all'euforia collettiva. Scivolò fuori dalla galleria così silenziosamente che nessuno se ne accorse. Sotto, al centro della sala operatoria, Barrola tese la mano a Wolfe, che la guardò per un attimo con una regale indifferenza, e poi gliela strinse. Nella galleria, Beatrice si premeva le mani alla bocca, sull'orlo del pianto. Barrola passò al capo una coppa di champagne. Lui la sollevò sorridente, brindando alla salute dei presenti, poi alzò lo sguardo verso Beatrice, che singhiozzava felice. Si tolse i guanti di lattice, li lasciò cadere al suolo e lasciò la stanza.
Si incontrarono al piano di sopra. Wolfe circondò con le braccia le fragili spalle della donna, la strinse forte e l'accompagnò al parcheggio. «Cosa devo aspettarmi?» chiese lei, con la voce impastata dall'emozione. «Il collegamento terrà?» «Non abbiamo precedenti» rispose, e si deterse la fronte sudata con il polso ossuto. «Lo so.» «Possiamo solo aspettare. L'intervento di chirurgia plastica glielo farà tra qualche giorno Barrola, quello scervellato.» «Freddy...» «Scusa, ho scelto la parola sbagliata. La tua colla ha funzionato benissimo. Ora ci vuole tempo.» «Ma cosa succederà?» Wolfe inspirò profondamente, eccitato dalla profonda riverenza e gratitudine che leggeva negli occhi grigi di lei. Adesso mi ama, pensò. «Beatrice, dobbiamo aspettare. Ma, detto tra noi, penso che abbiamo ottime possibilità di vedere il tuo Peter sorriderci abbastanza presto.» Con infinito tatto, l'abbracciò di nuovo, dolcemente. Poi l'accompagnò alla Town Car in attesa all'esterno, che rapidamente la portò via. Anche lui si lasciò finalmente cadere nella sua auto, dove l'autista lo aspettava. Si avvolse nel benessere dell'aria condizionata e nella musica della Nona di Mahler. Bevve un po' di Armagnac da una fiaschetta che teneva vicino al sedile e si chiese se avrebbe dovuto offrirsi di passare la notte a confortare Beatrice. È quello che lei vuole? pensò. Sì, sospirò lasciandosi andare alla sensazione di trionfo che permeava tutto il suo essere. Ma tutto deve accadere a suo tempo. Finito di bere lo champagne e abbassate le luci, il corpo settantaseienne di Peter Jance, vittima del cancro e dell'età, venne messo in un sacco insieme ai resti devastati del cervello di Hans Brinkman. Il sacco fu sigillato e portato a un impianto di incenerimento. Nel giro di pochi minuti, il suo contenuto fu ridotto in gas e ceneri: i primi salirono nel cielo limpido dei Caraibi, mentre le ceneri furono raccolte. Su espressa richiesta del capo progetto, sarebbero state consegnate personalmente a Frederick Wolfe, che le avrebbe depositate nella prima delle nove urne vuote d'acciaio inossidabile che conservava in un armadietto chiuso a chiave nel proprio appartamento. A otto chilometri di distanza, nei caffè e nei locali di Vieques nessuno si
era accorto di nulla. I turisti ordinavano mai-tai e Heineken, beatamente ignari dei problemi di arroganza scientifica o di etica medica. L'economia prosperava e i militari non avevano problemi. Tutto andava bene. L'uomo nuovo uscito dall'intervento venne trasportato in un reparto postoperatorio severamente sorvegliato, e la mattina seguente, mentre ancora dormiva, fu raggiunto dalla moglie. Rimasta sola con lui, Beatrice appoggiò la testa sul petto del marito. Una parte di lei sapeva benissimo che, in realtà, quello era solo il petto del corpo che ospitava suo marito, ma cercava di tenere chiusi in sé questi pensieri, come Wolfe teneva ben chiuse le sue urne di acciaio. Devo riuscire a controllarmi: è per il suo bene, pensava. Peter non ha certo bisogno dei miei dubbi. Ha bisogno che io sia forte e che, come ho sempre fatto in passato, gli infonda coraggio nella mente e nello spirito, anche se ora si trovano in questo nuovo corpo. Se aveva violato una legge della natura e condannato se stessa e Peter a un destino che non riusciva neppure a immaginare, be', adesso era troppo tardi per i rimpianti. Sebbene nelle ultime ventiquattro ore avesse pregato silenziosamente, non credeva assolutamente che esistesse un Dio, o, se c'era, non riteneva di averlo offeso. La natura non era altro che pura necessità di sopravvivenza, secoli e secoli di esperimenti complessi che producevano combinazioni sempre più bizzarre. Tutto ciò forse non aveva nessuna ragione apparente, ma almeno, in quanto moglie innamorata, lei una ragione l'aveva: voleva la sopravvivenza per lei e per l'uomo che amava. E tutto il resto poteva tranquillamente andare al diavolo. 6 ZURIGO Per recarsi al Kronenhalle, Elizabeth attraversò il Limmat sul Quaibrücke, un ponte di pietra dolcemente arcuato dove una volta lei e Hans avevano osato darsi appuntamento prima che i sospetti di Yvette li costringessero a vedersi in luoghi chiusi. Nelle settimane prima della morte di lui, ci era andata diverse volte rivivendo la gioia di quel bacio sul ponte, soli di fronte a Dio e a un autobus carico di turisti che si erano messi addirittura a fotografarli. Oggi, come allora, i cigni e le anatre andavano e venivano indifferenti sull'acqua trasparente, le barche ondeggiavano dolcemente nelle darsene del lago e alcune alte nubi grigie coronavano il cielo apertosi dopo la pioggia. L'aria era limpida e la vista spaziava fino alle cime innevate
delle montagne. Ma oggi lei aveva il cuore in gola e il vento gelido che spirava dall'acqua le penetrava fin nelle ossa. No, non era il vento a sferzarla, ma una paura che la pervadeva nel profondo e le faceva battere i denti. Terrorizzata, attraversò il ponte correndo e svoltò a sinistra per Ramistrasse. Al numero 4, c'era il ristorante e caffè Kronenhalle, situato in uno stravagante edificio déco di legno scolpito con le vetrate colorate tipiche del primo Novecento. Rose-Anne Brinkman, in abito a fiori e turbante dorato, l'aspettava seduta a un tavolo appartato. Il cameriere, un italiano con una faccia pallida, le stava accendendo una sigaretta. La donna le fece segno di sedersi ed Elizabeth scivolò piano nel separé rosso. «Come ti senti?» Rose-Anne la fissava con i vivaci occhi azzurri. «Ho avuto momenti migliori.» «Anch'io... Marco!» Chiamò il barista che le stava osservando attraverso lo specchio dietro il bancone del bar. «Porta a questa signora qualcosa per scaldarsi... Diciamo, due Courvoisier.» Si rivolse di nuovo a Elizabeth. «Da dove vieni?» Se non l'avesse vista singhiozzare disperata al cimitero, l'avrebbe considerata assolutamente incapace di soffrire. Alla luce artificiale, sembrava dura come l'acciaio. Ma forse era solo colpa dell'alcol o una risposta al dolore. In ogni caso, ciò rendeva più facile confidarle i suoi sospetti, che si erano ingigantiti enormemente dopo il funerale. La domenica prima, incapace di togliersi dalla mente la voce di Hans e il rumore della telefonata interrotta, Elizabeth era andata sul luogo dell'incidente e aveva visto qualcosa che non riusciva a dimenticare. «Dove sono nata? A Lansing, nel Michigan. E lei?» «A Waxahachie, nel Texas. Ho sposato uno della Marina, e siamo stati a Pensacola, a Guam, in Svizzera e a Cherry Point, nella Carolina del Nord. Ah, e a Vieques.» «A Vieques?» Quel nome le fece risuonare un campanello nella testa, debole ma ossessivo. «E dov'è?» «Oh, è un'isoletta dei Caraibi. Dunque,» riprese Rose-Anne sporgendosi in avanti e dandole un colpetto sul braccio, «hai conosciuto mio figlio.» A quel tono improvvisamente dolce, Elizabeth si sentì allargare il cuore ma, allo stesso tempo, si disse che doveva essere prudente. «Sì, attraverso un comune amico.» «Eravate amanti,» la incalzò bruscamente l'altra. «Gliel'ha detto Hans?» Elizabeth arrossì; cercava di mostrarsi calma e
appoggiò in grembo le mani tremanti. «Non ce n'era bisogno, era evidente. Lascia la bottiglia,» aggiunse RoseAnne rivolta al barista. «Sì, mi ha parlato di te.» Era musica per le orecchie di Elizabeth. «Spesso?» «Abbastanza. Delle altre non mi aveva mai detto niente.» Sollevò il bicchiere invitandola a un brindisi. «Aveva molte altre donne?» chiese Elizabeth facendo un brindisi. «Tu cosa ne dici? Dai, avresti dovuto immaginarlo, era un uomo molto affascinante. Bevici sopra.» Elizabeth ubbidì: il liquore le bruciava la gola, ma poi le diede una piacevole sensazione di calore che si irradiava in tutto il corpo. Rose-Anne annuì con aria di approvazione. «In questi giorni bevo di più.» E buttò giù il liquore a rapide sorsate. «Brandy e Patsy Cline mi aiutano a passare la notte.» Riempì il bicchiere di Elizabeth. «Se può aiutarti, le altre non significavano nulla per lui.» «Come fa a saperlo?» Era spaventata e, insieme, lusingata dalla franchezza della donna. Desiderava disperatamente crederle. «Gliel'ho chiesto io, non sono certo timida. Ero preoccupata per lui.» «Preoccupata?» «Ti avrà parlato di Yvette.» «Un po'.» «Non che io sia favorevole alle scappatelle extraconiugali. Sono texana e, da noi, una donna spara a chi cerca di portarle via il suo uomo. Ma il loro matrimonio era già finito. Hans non ha mai avuto chiaro in mente ciò che conta davvero nella vita. Si spingeva sempre un po' troppo al di là delle sue forze.» «Se intende quello che penso io, è proprio vero.» Elizabeth si mise a ridere. «Io e suo padre non sapevamo come prenderlo. Non ci assomigliava affatto. Be', tranne la passione per il volo, ma quella è venuta più tardi, dopo la morte di Dave, quando Hans ha abbandonato la fisica.» Aveva un tono pratico che la faceva rabbrividire. «Suo padre è morto?» domandò. «Vedi come era riservato. Onestamente, non so da chi l'abbia preso. Sì, cara, mio marito è morto da molti anni: un missile SAM a Hanoi nel 1972. Sai, Dave poteva volare in cerchio intorno a uno sparviero.» «Anche a Hans piace volare.»
«Probabilmente è l'unica cosa di cui sentiva parlare suo padre. Hans si interessava di tutto, anche di un sacco di cose troppo complicate per me o per suo padre.» «Vieques...» Elizabeth rifletté un momento. «Che c'è?» Lei rabbrividì. «Non so. Questo nome mi frulla nella mente, come Oz o Tara, capisce?» «No.» «Neanch'io, tranne che mi sembra come i luoghi delle fiabe, che conosci bene anche se non esistono.» «Invece esiste, è lì che è nato Hans, in quell'isoletta al largo di Puerto Rico. C'è una grande base della Marina. Dave si addestrava al bombardamento con la sua squadriglia.» Dopo un attimo di esitazione aggiunse: «C'era anche un ambulatorio per la cura della sterilità.» «Un ambulatorio antisterilità?» Elizabeth sentì il cuore battere più in fretta. «Io e Dave ci avevamo provato per cinque anni. E finalmente potemmo dire: Dio benedica il dottor Wolfe.» «Perché? Chi è il dottor Wolfe?» «Il medico che gestiva l'ambulatorio. Hans gli doveva la vita e noi la nostra felicità. Tutto il tempo che abbiamo dovuto aspettarlo ci ha fatto amare ancora di più il bambino, anche se, a volte, il suo sembrava un amore a senso unico. Quando Dave morì, Hans infatti non sembrò assolutamente scosso. Secondo me, si teneva tutto dentro.» Fece un sorriso amaro e distolse lo sguardo. «E tu, come hai affrontato la morte di tuo padre?» Elizabeth si stupì. L'aveva accennato a Hans una sola volta, nel cuore della notte, dopo aver fatto l'amore, esausti ma troppo felici per dormire. «Gliene ha parlato Hans?» «Era strano, ma parlare di te ci faceva sentire più vicini. Anche tu sei una figlia dell'esercito?» «No... Cioè sì; mio padre è stato in Marina per un certo periodo. Ma ho cancellato dalla memoria gran parte della mia infanzia.» «La morte di un genitore può avere questo effetto. E poi anche tu hai sfiorato la morte, vero? Eri una brava sciatrice, me l'ha detto Hans. Cos'è successo, un incidente?» Elizabeth era sbalordita che Hans avesse detto tante cose di lei alla madre. Per un attimo si sentì nuda, ma poi pensò, felice: allora ero importante per lui. Rimase sul vago. «Sì, è stato un incidente.»
«Adesso sei tu che non vuoi parlare. Fu in un salto con gli sci, vero?» Ma, pensò Elizabeth, sapere quanto avesse contato per Hans, non peggiorava solo la situazione? «Fui sfortunata: un solco su una pista ghiacciata proprio nell'istante sbagliato: sono finita contro la rete di protezione a quasi centoventi all'ora.» «E poi contro gli alberi, mi ha detto Hans. Dove hai sbattuto la faccia: terribile!» «Be', non sono mai stata una sciatrice a livello olimpionico.» «Non ti sei spaventata?» «No. Anzi, l'incidente ha avuto l'effetto opposto.» «Me l'ha detto Hans. Ti piace cavartela nelle situazioni difficili, andare fino in fondo alle cose. E l'incidente non ha di certo rovinato il tuo aspetto.» «In effetti, l'ha migliorato.» «È quello che diceva anche Hans. Allora, ti hanno rifatto completamente la faccia?» «Quasi. Comunque, hanno fatto un lavoro migliore che sul ginocchio.» «Be', avevano un bel materiale su cui lavorare. Mi piace quella tua foto su Marie Claire. Tutte le volte che vado a farmi i capelli, vedo la tua faccia su qualche rivista. Ricordati di darmi il nome del tuo chirurgo plastico.» Bevve un sorso di liquore, poi sorrise con aria di cospirazione. «Vuoi vedere qualche foto di Hans?» Senza aspettare la sua risposta, aprì la borsa ed estrasse un gruppo di istantanee. Erano soprattutto vecchie foto, in formati bizzarri: piccole, lunghe, ritagliate, persino alcune foto dell'album scolastico. «Hans al liceo, lanciatore di punta della squadra di baseball.» Elizabeth studiò avidamente la foto: a quattordici anni, Hans era già Hans. «E qui, nella squadra di tuffi del liceo. Per due anni ai campionati nazionali. Era un vero atleta. E prendeva sempre il massimo dei voti... come te,» disse con affetto. Scorse le foto, sfiorando dolcemente il viso di Hans con un dito: sentiva di nuovo quella strana sensazione di affinità che la ossessionava sin dal loro primo incontro. Vide una foto di lui a venti anni: stava in piedi vicino a un biposto Cessna, accanto a un uomo sorridente, con la barbetta a punta, di circa quarant'anni. «È il giorno in cui ha volato da solo,» spiegò Rose-Anne. «È suo padre?»
«No, l'istruttore. Diceva che Hans aveva un istinto naturale per il volo. Ma a lui tutto riusciva facile, tranne che allacciare veri rapporti con la gente. Tu sei quella che gli è stata più vicina.» Ricacciando le lacrime, Elizabeth passò a un'altra foto: Hans da piccolo, sorridente su una spiaggia con una grossa palla rossa tra le mani. Senza neanche chiederlo, capì che era a Vieques. «Sembra così felice.» «Hans amava Vieques. Ha sempre desiderato tornarci, ma non ci è mai riuscito. Era tanto occupato, non aveva neanche il tempo di riposarsi. Forse adesso potrà farlo.» Per la prima volta, la donna parlò in tono amaro, quasi rabbioso. «Dunque,» riprese cambiando argomento, «cos'è questa cosa che non quadra?» Elizabeth fece un respiro profondo. «Poco prima dell'incidente, io gli stavo parlando. Qualcuno aveva fatto una manovra sbagliata, lì doveva esserci un'altra automobile con cui Hans stava per scontrarsi... Poi la comunicazione si è interrotta.» «Ne sei sicura?» «È proprio quello che mi è sembrato.» «La polizia non ha parlato di un'altra auto. C'era solo il segno dei suoi pneumatici.» «Non si tratta solo della telefonata. Io sono stata là, ho visto i segni delle gomme. Ha fatto una tremenda frenata, lo si vede molto chiaramente. Poi deve avere sterzato. Sul guardrail c'era una grossa ammaccatura con un po' di vernice dello stesso colore della sua auto.» «Ma ha sfondato il guardrail!» «Non in quel punto. L'auto dev'essere rimbalzata sulla strada, dove ha sbattuto contro la montagna per poi rimbalzare un'altra volta contro il guardrail.» Rose-Anne bevve un altro sorso. Elizabeth si rese conto di quanto fosse duro, per la madre, sentire tutto questo. «E a quel punto l'ha sfondato, giusto?» Elizabeth cercò con gli occhi il cameriere, che le stava osservando attraverso lo specchio. Quando si accorse di essere guardato, si mise ad asciugare un bicchiere. Lei si chinò verso la madre di Hans, abbassando la voce. «I segni si arrestano sull'orlo dell'abisso. L'auto non aveva abbastanza spinta per superarlo. Si vede chiaramente il punto in cui si è fermata: le gomme sono affondate nel terreno. Si è arrestata e solo dopo è precipitata nel burrone.» Rose-Anne vuotò il bicchiere.
«Dunque, stai dicendo che...» «Non lo so.» Finì anche lei il suo drink ma non ne ordinarono altri. La madre di Hans la fissava. «Hans le ha mai confidato di essere seguito?» le chiese Elizabeth. «Stai proprio diventando un detective.» «Se occorre.» Rose-Anne sorrise comprensiva e le batté affettuosamente sulla mano. «In effetti, ne parlava continuamente. La scorsa settimana sono andata a trovarlo e stava facendo setacciare la casa alla ricerca di microspie.» «Lei che ne pensa?» L'altra si mise a ridere. «Dimostra quanto poco conoscesse la gente: credere che Yvette lo facesse pedinare! A lei non importava un fico secco degli affari del marito. Era solo un buono pasto, per lei.» «Ma io pensavo che il padre di Yvette...» «Fosse ricco? Nemmeno per sogno. Aveva ottime relazioni, certo. Era stato ricco, forse. Ma quando si arrivava al sodo, era praticamente sul lastrico. Sembrava ricco, perché la capacità di nascondere le sue reali condizioni finanziarie era grandiosa come il suo tenore di vita. No, Yvette dipendeva completamente da Hans.» «Ma non potrebbe averlo fatto per denaro?» «Forse le proprietà di Hans le permetteranno di restare a galla ancora per un po'... ma, no, Yvette le farà fuori in un baleno. È una sciocca, ma non fino al punto da uccidere la gallina dalle uova d'oro.» «Ma lui era sicurissimo che stesse succedendo qualcosa di strano.» «Paranoie.» Elizabeth si mise a fissare la foto: Hans con il pallone tra le mani e, dietro di lui, una palma e l'oceano color turchese. Si aspettava quasi che la foto prendesse vita, che la palma muovesse la chioma al vento e Hans la chiamasse con voce infantile. Sentì di nuovo la mano di Rose-Anne sul suo braccio. «Davvero, Elizabeth, non prendertela. Devi rassegnarti e andare avanti. Che è poi quello che sto facendo io.» Ma lei non poteva. Era convinta che qualcuno avesse provocato l'incidente di Hans. Vieques La sopravvivenza di Peter all'intervento fu un miracolo cui ne seguirono
altri. Con l'eccezione di alcune piccole emorragie che furono eliminate facilmente, il corpo era vivo e in condizioni stabili. Inoltre, le prime TAC non avevano evidenziato segni di lesioni o anomalie cerebrali. Le funzioni autonome erano normali e i riflessi degli arti completi. Ciò indicava che il tronco cerebrale non aveva subito danni. Per quanto risultava a Wolfe e ai suoi assistenti, tutti i principali collegamenti avevano tenuto e trasmettevano messaggi nervosi in entrambe le direzioni con la stessa capacità di prima. Il cervello era sopravvissuto al trasferimento e il corpo al trapianto. Facendo il verso al Frankenstein di Mary Shelley, Wolfe dichiarò che l'esito dell'intervento era «elettrizzante». Henderson inviava tutti i giorni fiori e champagne. Alla fine della prima settimana, Wolfe aveva ordinato di far emergere Peter dal coma artificiale in cui veniva tenuto. In due giorni, le onde cerebrali relative alle funzioni superiori avevano fatto tremare gli aghi dell'EEG segnalando occasionali episodi di attività. Barrola aveva raccomandato di sottoporre il paziente a un'infusione di Valium per evitare il possibile trauma psichico derivante da quel bizzarro matrimonio tra corpo e cervello. Al risveglio dal coma, la psiche del paziente poteva venirne annientata. Ma, non avendo osservato segni di alterazioni nelle TAC cerebrali, Wolfe aveva sospeso il Valium. In effetti, tutti i valori corticali erano vicini alla norma. A parte la somministrazione di ossigeno attraverso una sonda, qualsiasi sostegno artificiale del paziente fu sospeso. Il corpo continuava a vivere con le proprie forze. Venne revocato lo stato di allerta dell'équipe di rianimazione cardiologica e di quella di chirurgia d'urgenza. A parte il personale della sicurezza, gradualmente e per scaglioni il Complesso della Fontana si svuotò. Dopo settimane frenetiche, tutti andarono a godersi il meritato riposo. Nel frattempo, Wolfe, Beatrice ed Emilio Barrola aspettavano, facendo la guardia a turno al capezzale del paziente. Non si attendevano altri miracoli, oltre a quelli a cui avevano già assistito, ed erano sempre pronti al peggio. Ma i miracoli continuavano a sopraggiungere, giorno dopo giorno. Il cervello di Peter sembrava prosperare nel nuovo corpo. Le onde cerebrali erano sempre più potenti, finché si avvicinarono al livello corrispondente al sonno profondo. Gli elettrodi fissati alle palpebre segnalavano la presenza di attività REM: il paziente dunque sognava. In parole povere, Peter era vivo e stava facendosi una bella dormita.
Ma c'era una differenza, una differenza decisiva: quando sopraggiungeva il mattino, Peter non apriva gli occhi. Dopo cinque giorni di tale situazione, Wolfe iniziò a mostrare segni di impazienza. «Adesso si dovrebbe svegliare» esclamò una mattina. Ma subito, vedendo Beatrice farsi pallidissima, si pentì delle sue parole. Non avrebbe mai voluto darle un dolore. Provarono con iniezioni di leggeri stimolanti, senza risultati. Provarono con rumori forti: niente. Lo toccarono, lo scossero: niente. Beatrice gli lesse Lewis Carroll, l'autore preferito da lei, e Thomas Pynchon, l'autore preferito da lui: niente. Gli descrisse tutti gli alberghi dove avevano passato le vacanze e, quando non c'era Wolfe, anche i dettagli della loro vita erotica: niente. Gli fecero ascoltare Haydn, che Peter amava ancora più di Mozart. E provarono anche con Ornette Coleman, che lui detestava con tutto il cuore. Niente. «Quanto tempo aspetterai?» domandò Beatrice a Wolfe, mentre le settimane di attesa diventavano tre e la preoccupazione lasciava via via il posto alla disperazione. «Non sono io che devo prendere questa decisione,» rispose lui prudente. Sapeva che la donna voleva verificare la sua lealtà. Al di là della sua preoccupazione per la salute dell'amico, Wolfe era il capo dell'intero progetto e aveva ben altro da fare. Ma, per il momento, non c'erano altri soggetti sperimentali a disposizione e lui pensava solo alla sopravvivenza dell'essere importantissimo che dormiva in quel letto. «Stai pensando di staccare la spina?» chiese lei, guardandolo con la disperazione di una persona messa con le spalle al muro. Wolfe la guardò con tutta la dolcezza di cui era capace. «Beatrice, tanto per cominciare, non c'è nessuna spina da staccare. A questo punto, data la vitalità delle onde cerebrali, sospendere la nutrizione potrebbe essere considerato un omicidio...» «Freddy,» rispose lei allontanandosi dal corpo del marito e dai monitor lampeggianti. «Sei tu quello senza cuore qui, non Henderson.» «Sono d'accordo con te: è pienamente vitale e non lo abbandoneremo comunque.» «Anche se...» Giunse una voce dietro di loro: Alex Davies aveva preso il posto di Barrola, che era andato sulla terraferma per operare alcuni pazienti danarosi. «Pensaci: chi vi potrebbe contestare l'accusa di imperizia?»
«Alex,» disse Wolfe gentile, «smettila.» Il ragazzo guardò Peter e si grattò il mento. «Forse ha paura di svegliarsi,» proseguì ignorando il nonno, che era diventato paonazzo. «Cosa significa, ha paura?» domandò Beatrice tesa. «Non dargli corda.» «Ma paura di che?» insistette lei. Alex si sfregò il naso. «Di affrontare le delicate implicazioni della situazione. Capisci cosa voglio dire? Personalmente, io avrei paura. Lui doveva morire, era pronto a morire, poi voi gli avete fatto un'offerta che non ha potuto rifiutare.» Li guardò sorridendo. «Forse ha paura di incontrarvi di nuovo; Dio solo sa cosa vorrete in cambio da lui.» I due lo fissarono. «Scusate, è solo un'idea stravagante,» concluse il giovane. Wolfe l'avrebbe voluto fulminare con gli occhi. Era furibondo. «Alex, vattene. Immediatamente!» «Era solo un'idea,» rispose l'altro, facendo spallucce. E, con un amichevole cenno di saluto, si avviò alla porta. «Qualcuno vuole un caffè?» Si fermò per guardarsi indietro, poi alzò di nuovo le spalle e scomparve. «Forse Alex ha ragione,» disse Beatrice. «Non mi sembra affatto.» «E allora perché Peter non esce dal coma?» «Non lo so.» Quella situazione cominciava a dargli sui nervi. «Questa non è la risposta giusta!» gli gridò lei. «Rivoglio mio marito!» Wolfe impallidì. Era possibile che, in un recesso perverso della sua anima, lui non volesse che l'amico si svegliasse? Assurdo: se Peter muore, io ho fallito. Il resto sono solo assurdità infantili. «Qui non è questione di giusto o di ingiusto.» Si sentiva preso alla sprovvista e del tutto impotente. «Naturalmente, noi faremo tutto il possibile. Considerando quello che ci abbiamo investito, non farlo sarebbe una pazzia.» «Ah, capisco. Adesso è una questione di soldi...» «Non intendevo dire questo! Intendevo ciò che tutti noi, e soprattutto Peter, abbiamo investito nell'operazione dal punto di vista emotivo, spirituale. La vita di tuo marito è di importanza fondamentale, non c'è bisogno di dirlo.» «No, Freddy. Sei tu che hai bisogno di dirlo.» E uscì di corsa dalla stanza, furibonda. Wolfe sentì l'eco dei suoi passi nel corridoio e si maledisse per la man-
canza di tatto. Tutta la gratitudine e l'affetto di lei faticosamente conquistati, erano forse andati in fumo? Non fare l'idiota, si disse. Si volse di nuovo verso l'amico: si sarebbe sistemato tutto appena lui si fosse svegliato, e allora avrebbero visto chi era il debitore. «Giusto, Peter?» disse ad alta voce. Sul monitor, l'EEG registrò un picco momentaneo, come una risposta. Santo cielo, pensò Wolfe, sto diventando come Alex. E, pensando al nipote, si precipitò fuori con l'intenzione di ordinargli di non metterlo mai più in difficoltà davanti a Beatrice. 7 VIEQUES Beatrice si era di fatto trasferita nella stanza di Peter: voleva vegliarlo da sola, non si fidava più degli altri. L'atteggiamento di Wolfe le bruciava ancora e Alex Davies sembrava evitarla. Alla fine incontrò il ragazzo a un tavolo della caffetteria della base. Alex si informò educatamente sulle condizioni di Peter. Beatrice sapeva che le conosceva benissimo, ma decise di fare finta di niente. «Cosa sta succedendo tra voi due?» gli domandò. «Che vuoi dire?» chiese lui di rimando. «Sai cosa intendo. Tra te e tuo nonno.» «Niente di speciale.» «Lui stravede per te,» disse lei gentile. «Sì, come re Lear stravede per il buffone di corte,» replicò il ragazzo ridendo. «Tu sei tutt'altro che un buffone, Alex.» «È solo una definizione difensiva,» concordò lui con un sorriso, infilzando del cibo nel piatto. «Pensi che Frederick creda ancora nel progetto?» «Intendi dire se crede ancora in Peter Jance?» Dovette ammettere che quel ragazzo era sempre uno o due passi avanti rispetto a ciò che ci si aspettava da uno della sua età. «Sì. Pensi che lui consideri Peter una buona preda?» «Finché può, credo di sì. Se ne starà qui, incollato al dottor Jance, se non altro per una questione di orgoglio. Inoltre la scienza deve andare avanti, giusto?» «Forse ognuno di noi meriterebbe di vivere un po' di più; ci renderebbe più saggi.» Sentiva freddo al cuore. Non credeva neppure lei alle sue paro-
le. Alex fece un lieve sorriso. «Prima vengono gli scienziati. Lui l'ha sempre messa in questi termini, sottintendendo ovviamente che dopo, a breve distanza, vengono i pezzi grossi delle forze armate. Perché finanziano i suoi progetti, non certo perché li rispetti.» Beatrice vide negli occhi di Alex tutti i dubbi che lei stessa aveva nutrito nei confronti del progetto. Ma fu solo un attimo: era troppo pericoloso per la sopravvivenza del marito mettere in discussione l'intera faccenda. «Mi sorprendi. Non pensi che sia il governo, a volere che il presidente diventi immortale?» «No, i militari sono più potenti del presidente, durano molto di più e sono molto più protetti.» Sorrise malizioso. Era serio o la stava prendendo in giro? Lei non riusciva a capirlo. «Ma, alla fine, il nonno mollerà i militari e cercherà i finanziamenti tra i privati: è lì che ci sono i soldi, oggi. Le grandi società pagherebbero qualsiasi cifra per l'immortalità, e hanno fondi veramente infiniti.» Lei lo guardava stupita, ancora non capiva. «E gli artisti? I filosofi?» Alex rispose con una risata. Poi si sporse in avanti e, improvvisamente serio, disse: «Il biglietto di ingresso del nonno è Peter. Se si sveglierà, sarà pressoché onnipotente. Non rinuncerà mai a lui, non può permetterselo.» Ma perché queste parole non la confortavano? «Cosa significa se? Sai forse qualcosa che io ignoro?» «Volevo dire quando, quando Peter si sveglierà. Ascolta,» continuò come se le leggesse nel pensiero, «non so niente che tu non sappia. Solo che...» «Cosa?» Il ragazzo fece una curiosa espressione, poi scrollò le spalle. «Non c'è molto che tu sappia che non sappia anch'io.» La fissò in silenzio per darle il tempo di comprendere in pieno il significato delle sue parole. «Cosa intendi dire?» chiese Beatrice, ma subito si pentì. Alex distolse per un attimo lo sguardo, sorridendo come un ragazzino troppo furbo per essere preso sottogamba. Poi, indirizzando uno sguardo furtivo oltre le spalle di lei, disse: «Ai tempi dell'ambulatorio contro la sterilità, il nonno ha prelevato dei campioni di pelle a tutti voi, giusto?» Beatrice mise giù la forchetta. Improvvisamente aveva perduto l'appetito. «Te l'ha detto Frederick?» «Be', più o meno. Tiene tutto in un file criptato. È stato veramente un
piacere aprirlo.» La guardò con aria amichevole. È proprio un ragazzo strambo, pensò lei. Però le piaceva. «Hai mai letto Peanuts?» proseguì Alex. «Intendi dire il fumetto?» «Sai, il bracchetto Snoopy, che dice: "Tutto quello che c'è sul pavimento è mio"? Be', io penso: tutto quello che c'è in un computer è mio. Non esiste logaritmo di crittografia che io non possa risolvere. Il nonno ha il DNA di tutti voi.» Lei annuì, sbalordita che un evento così nascosto nel suo passato le fosse rivelato con tanta disinvoltura da un ragazzino. Ma Alex non aveva ancora smesso di sorprenderla. «Ha anche il tuo, vero?» le chiese. «Sì, credo di sì.» Si sentì gelare il sangue e la sua voce le parve lontanissima. «Be', il gioco è fatto.» «E tu sai chi sono i cloni,» riuscì finalmente a dire Beatrice dopo avere cercato invano di recuperare la calma. «Cosa te lo fa pensare?» chiese lui con una lieve smorfia che nelle sue intenzioni doveva essere un sorriso. «Quel giorno, alla riunione, tu sapevi chi era l'uomo a cui hanno riattaccato i nervi spinali. Ti ho sentito farne il nome.» «Rashid al-Assad? Lui era una cavia, non un clone. No, mio nonno tiene i dati da qualche altra parte, nella sua testa o forse sepolti in giardino, chi lo sa?» Le sue parole avevano un'allegria forzata. Si alzò. «Scusa, mi dispiace di colpire e fuggire in questo modo, ma ho delle equazioni differenziali da risolvere, stramaledetti affari di secondo grado. Voglio essere pronto quando tuo marito tornerà in circolazione... e sono sicuro che tornerà,» la rassicurò a bassa voce. Alzò i pollici in segno di vittoria e uscì dalla caffetteria. Beatrice lo guardò allontanarsi. Chissà se ciò che le aveva detto era vero. Poteva anche darsi che il giovane sapesse tutto. E quella forse era la ragione per cui lo avevano reclutato nel progetto di Wolfe. Forse lui sapeva dove erano seppelliti i corpi. Beatrice decise di tenerlo d'occhio e di parlargli ancora al più presto. Ma non andò così, perché nei giorni successivi, sia Wolfe che il suo bizzarro nipote scomparvero dagli schermi radar di Beatrice. Lei aveva lasciato da parte il lavoro di ricerca: il suo unico pensiero era Peter. Fece sistemare una brandina nella stanza del marito sacrificando anche il sonno per
sorvegliare i suoi progressi. I segni vitali erano immutati ma, in cuor suo, lei sapeva che lui era lì, e sperava che ci fosse tutto intero. Wolfe l'aveva chiamata «locked-in syndrome»: cioè Peter, pur essendo cosciente e vigile, non era in grado di comunicare. E pur parlandone a Beatrice con toni rassicuranti, Wolfe le aveva però detto che, se Peter non fosse uscito presto da quella condizione, sarebbe morto. Beatrice aveva ribattuto che conosceva Peter meglio di lui: il marito era un lottatore, non si arrendeva mai. E pregava che fosse davvero così. Passarono altre due settimane. Beatrice trascorreva innumerevoli ore accanto al letto di Peter, scrutando quell'uomo che era, insieme, suo marito e un perfetto estraneo. Un estraneo comunque molto familiare. Infatti, quella figura era lo stesso Peter a trentacinque anni, un'età che la riportava ai primi tempi del loro amore, alla propria giovinezza. Quando gli era stato prelevato il DNA, Peter aveva quaranta anni, ma il suo clone era ancora più giovane, con la pelle rosea ed elastica, le unghie lisce, i capelli biondi, lucenti e folti, e le labbra morbide e piene. Quella visione la meravigliava e la raggelava. A distanza di alcune settimane, il corpo non presentava già più tracce di tessuto cicatriziale. La colla genetica di Beatrice aveva rifuso la pelle quasi senza lasciare cicatrici. In un momento di sconforto, pensò che se avesse lavorato per l'industria avrebbe fatto una fortuna nella cosmetica. Saranno invece altri ad arricchirsi con la mia colla, in un futuro non molto lontano rimuginò -, quando la scoperta sarà annunciata nel mondo civile; ma oggi i governi non esiterebbero a uccidere per impadronirsi della colla e della procedura sperimentata su Peter. «Hai proprio lo stesso aspetto che avevi nel 1958,» gli disse carezzandogli le mani forti e belle. «Ti ricordi quell'anno?» Si interruppe. Nella stanza c'era qualcosa di diverso... ma cosa? «Ti ricordi quando lanciarono nello spazio l'Explorer I? Quante volte abbiamo fatto l'amore quella notte? Tre, quattro? Sono stati i tuoi calcoli a rendere possibile quel volo. Dio, ero proprio orgogliosa di te.» Ma cos'era quel rumore? Gettò un'occhiata ai monitor. Era solo un suo pio desiderio o il monitor cardiaco indicava un leggero aumento del polso? Gli strinse più forte la mano. «Ricordi Von Braun? Odiavamo la sua
presunzione, pensavamo che volesse prendersi tutto il merito, invece poi lui ti ha ringraziato pubblicamente. E come lo imitavi bene, e quanto ridevamo. Ricordi il letto a baldacchino? E lo champagne scadente che ci ha mandato?» Non c'erano dubbi: il cuore di Peter batteva più rapido. Beatrice si sentiva il cuore in gola «Sì, te lo ricordi. Che altro è successo nel 1958? Dai, questo gioco ti è sempre piaciuto. Elvis andò a fare il militare, e poi che altro? Van Cliburn vinse il Premio Ciaikovskji, Pasternak il Nobel. Qual era quel disco di Miles Davies che mi facevi sentire continuamente? Alla fine, era arrivato persino a piacermi.» Il respiro di Peter si fece più rapido e gli occhi di Beatrice si riempirono di lacrime. La donna avvicinò tremando la bocca all'orecchio del marito. «Si intitolava Kind of Blue. E poi ci fu il nuovo Papa. Il 1958 fu uno dei dieci anni migliori del secolo. Ti ricordi quali erano i nostri anni preferiti?» L'uomo respirava con difficoltà e la moglie allungò una mano per sistemargli la piccola sonda tracheale. Lo aveva appena toccato, quando Peter alzò una mano per scacciare quella di Beatrice. «Fa male,» gracchiò. La parola era appena intelligibile ma la donna diede un urlo che fece accorrere le infermiere e, dietro di loro, Frederick Wolfe. Negli occhi dello scienziato, Beatrice scorse una luce che, anche se non di reale ottimismo, le infuse un'immensa fiducia. Lui la strinse al petto, poi aspettarono che Peter parlasse ancora, ma questi ripiombò nel sonno. Nulla di grave: Dio volendo, se le cose stavano come sembrava, il peggio era comunque passato. Peter era vivo e lottava per tornare. A volte riusciva a intravedere la stanza, ma per altri tre giorni lottò inutilmente per raggiungere la luce, che gli sfuggiva proprio quando sembrava a portata di mano. La realtà andava e veniva, a sprazzi, come la stazione di una gigantesca radio su cui era difficile sintonizzarsi. Lottava eroicamente per rimanere sveglio, per conservare la consapevolezza della presenza di Beatrice al suo fianco, che gli teneva la mano e gli carezzava la fronte. Desiderava con tutte le forze restare in quello stato familiare di coscienza, ma continuava a scivolare dentro e fuori dalla realtà. Poi affondava di nuovo in un oceano immenso, ma non mancavano le sensazioni piacevoli, soprattutto quando avvertiva la presenza di Beatrice,
anche se non riusciva a sentirne le parole. Dopodiché, improvvisamente era di nuovo altrove, in una completa oscurità, senza dolore, né stress, né pensieri, immerso in uno stato uterino primigenio. Disperato e puro. In altri momenti si sentiva avvolto dal calore del suo segreto terribile e meraviglioso: sono vivo, sono rinato. Il dolore è finito, il cancro è passato, è come se non ci fosse mai stato. «Beatrice...» Era la prima volta che pronunciava quel nome? Vedeva i suoi occhi, che gli parvero due soli grigi in un oceano di oscurità. «Sono qui. Peter, mi senti?» «Non qui.» Lottava per riuscire a parlare. «Sì, ci sei. Sei qui.» «Non io... Io, non io...» Il silenzio della moglie gli rivelò tutto. «Ho acconsentito, vero?» «Sì. Grazie a Dio, hai detto di sì.» Gli sembrava che la propria mente stesse lottando per fuggire da un corpo a cui non apparteneva. Era terrorizzato. «Peter, sei sveglio?» Aveva la lingua impastata. «Fame... Sì, fame.» Lei rise. Quel suono la liberò per un attimo da tutte le preoccupazioni. «Pensavo tu l'avessi fatto per me,» disse lei. «No.» Beatrice non disse nulla: sapeva cosa lui voleva dire. Avvertì tutta l'angoscia e il senso di colpa di Peter. Ma anche la nascente speranza. Provava per il marito un fortissimo istinto materno, voleva confortarlo e proteggerlo in quella nuova esistenza. «Peter, ti ricordi cos'hai detto? Che era destino che le cose accadessero? Be', questo era destino.» «Miracolo,» sussurrò con difficoltà, poi gli occhi gli si annebbiarono. «Sì, è un miracolo.» Improvvisamente, lui si mise a piangere come un bambino. Un attimo dopo cercò di strapparsi la sonda e gli elettrodi. Furono chiamate le infermiere. Dopo qualche minuto si calmò e chiese del cibo solido. «Peter, non ancora.» «Me ne vado,» dichiarò Peter, con voce incerta ma chiara. Non sapeva neanche lui se l'avesse detto seriamente o con ironia. Beatrice si mise a ridere, mentre le infermiere corsero da Wolfe a chiedergli cosa fare per il ci-
bo. Wolfe fu prudente: diedero a Peter una specie di omogeneizzato di sostanze nutritive essenziali. Lui lo trovò delizioso e lo mangiò con lo stesso piacere di un neonato attaccato al seno della madre. Ogni volta che chiedeva qualcosa, tutti si precipitavano a procurarglielo. Una volta soddisfatti i suoi bisogni primari, sentiva di avere pensieri sempre più complessi. Ora possedeva forse un potere terribile? si chiese. Era un'imbarcazione pioniera per l'esplorazione di un nuovo mondo, una barca fragile e straordinaria che navigava in un mare sconosciuto. Questa era stata la prima immagine usata da Beatrice quando avevano potuto condurre una vera conversazione. Peter non trovava il coraggio per confessarle quanto fosse spaventato. Le diceva che si sentiva normalissimo ma, ogni volta che guardava quel suo nuovo corpo, era terrorizzato dalla sensazione di completa estraneità che gli comunicava. Però con la moglie fingeva, e lo faceva bene. A dire la verità, non doveva mentire su tutto. Le dichiarò dunque il suo immenso amore e l'enorme gratitudine per essergli stata vicina, per tutto quello che aveva saputo sopportare durante la tremenda operazione e nell'angosciante periodo successivo. Lui era vivo grazie a Beatrice, non solo grazie a Wolfe e alla sua organizzazione ombra. Ma quando restava solo, l'assalivano paure terribili. Era lui e non era lui. Era una terza cosa. La paradossalità della situazione lo tormentava soprattutto quando stava per addormentarsi. Ma peggio ancora si sentiva quando emergeva, ancora intontito, dai frequenti incubi in cui provava di nuovo il dolore del cancro. Una settimana dopo aver ripreso coscienza, Peter iniziò improvvisamente a sputare teoremi, postulati, formule, frammenti di ogni tipo di manuali di fisica, come se il suo cervello stesse facendo ginnastica dopo un sonno lunghissimo. E ben presto si chiese dove fossero finiti tutti i dubbi e le angosce sulla sua nuova condizione. Dopo sei settimane si alzò per la prima volta. A volte si metteva d'improvviso a parlare del progetto Hammer, esponendo nuove idee che facevano correre Wolfe alla ricerca frenetica di qualcuno che lo stenografasse o registrasse. Un giorno chiese uno specchio a figura intera. Lo portarono. Sotto lo sguardo attento di Beatrice, Peter stette per alcuni minuti muto, in piedi, davanti allo specchio. La vista di quel corpo, che pure gli era familiare, sembrava deluderlo. Sono io, si diceva. E allora perché me lo sento così estraneo? Fino a circa sessant'anni aveva percepito una continuità senza fratture tra il passato e il presente, come se non fosse mai
stato diverso, nel corpo o nella mente, da quello che era a venti anni, come se non fosse mai stato bambino. E ora eccolo lì, tornato a trentacinque anni. L'effetto era veramente stupefacente, come se si trovasse davanti allo specchio deformante di un luna park o si vedesse da un'angolazione totalmente nuova in un negozio di vestiti. Non sono io, disse tra sé al suo riflesso. E infatti non lo sei, gli rispose quello. «È passato tempo,» mormorò con la lingua impastata. Per quanto migliorasse di giorno in giorno, il controllo del linguaggio era ancora imperfetto, soprattutto quando parlava di cose che lo spaventavano. «Quanto tempo è passato da quando avevi questo aspetto? Circa quarant'anni,» gli suggerì la moglie. «Neanche mentre facevo la barba.» La moglie comprese al volo: con il passare degli anni, Peter aveva preso l'abitudine di non guardarsi mai allo specchio, per paura di notare nuove rughe o macchie della pelle. Beatrice conosceva fin troppo bene quella sua paura. «Il corpo è... è meglio del mio.» «Sì, è vero.» «L'ha trattato bene.» Era questo il vero problema: il suo corpo era appartenuto a un altro. Lui, un uomo anziano coinvolto in un processo che la natura aveva imposto, in tutte le epoche, a tutte le specie animali, era andato contro quella legge appropriandosi di quel corpo giovane. In tale appropriazione indebita aveva forse perduto qualche lato prezioso della propria identità? Forse, ma un'altra parte di sé si ribellava con violenza ai dubbi e al senso di colpa. Adesso quel bel corpo era suo, e non importava quanto equivoca ne fosse la proprietà. In ogni caso, non poteva certo renderlo al legittimo proprietario, si disse. «Grazie a Dio l'ha tenuto bene,» commentò con la moglie. Si girò lentamente a fissarla e la vide sussultare leggermente. All'improvviso lei si era resa conto della differenza della propria età rispetto a quella del corpo del marito. Peter la prese un po' goffamente tra le braccia. Era bello stringerla. L'odore familiare dei suoi capelli e della sua pelle eccitava i suoi sensi: l'amava con tutto il cuore. E forse era solo questo che importava. Nei giorni seguenti, Beatrice lo colmò di ogni tipo di attenzioni e lui si dimostrava ben felice di farsi coccolare. Si lamentava della qualità del cibo della base, così fecero venire dei piatti di pesce dai ristoranti locali. Peter mangiava sempre più con voracità, comprese pietanze che in passato aveva
imparato a evitare, come le salse alla panna e i formaggi grassi. Riusciva a leggere il giornale a tre metri di distanza e a sera sentiva il profumo dei gelsomini anche se il cespuglio più vicino era a quattrocento metri. Iniziò a fare dei sogni erotici. Erano abbastanza vaghi da poter essere confidati a Beatrice. Ma chiunque fosse la sua partner in sogno, scompariva immediatamente appena lui si svegliava. «Allora non ero io,» fu il commento della moglie. Peter intrecciò le dita dietro la testa avvertendo la piacevole sensazione di tensione dei muscoli pettorali. «Ma certo che eri tu. Chi altra poteva essere?» Lei accettò quella rassicurazione senza fare commenti e lui non aggiunse altro. Ma non riusciva assolutamente a ricordare chi fosse quella donna. In un tempo molto più breve del previsto, da White Sands arrivarono i principali collaboratori di Peter. Quando atterrarono all'aeroporto di Vieques, Hank Flannagan, Cap Chu e Rosemarie Wiener sapevano solo che avrebbero avuto una bella sorpresa e che dovevano prepararsi a rimanere. Beatrice cercò Alex Davies, ma il giovane la evitava. Lo scovò nel suo cubicolo, le cui grigie pareti nude erano interrotte solo da un enorme quadro che raffigurava un pagliaccio vestito di velluto. Era tanto concentrato sullo schermo del computer che non alzò nemmeno gli occhi quando lei entrò. Beatrice vide di sfuggita sullo schermo un file - H. BRINKMAN 1963-? che il ragazzo stava scorrendo furiosamente. Quando Beatrice si avvicinò, Alex si girò sulla sedia con un sussulto. «Scusa se ti ho spaventato,» gli disse. «Cosa stai facendo?» aggiunse in tono distratto. Lo schermo era pieno di finestre ma, non appena lei aguzzò la vista verso il computer, Alex fece comparire rapidamente lo screen saver. «Stavo solo scaricando un po' di posta. Cosa c'è?» Aveva un modo di fare molto furtivo, ma lei doveva assolutamente parlargli. «Abbiamo fatto una piccola riunione su Peter. Stanno arrivando i suoi e dobbiamo concordare una storia credibile da raccontare.» «Sì? E cosa ne pensa il vecchio? Cioè, volevo dire, il nuovo?» «Mi sembra che Peter si senta un po' ambivalente.» «Eh, già. Pensi che riuscirà a gestire la situazione? Da vecchio cavaliere si ritrova nuovo stallone...» «Sono sicura che la gestirà benissimo.» La donna era un po' seccata dalle battute di Alex. «Il suo cervello funziona meglio di prima.»
«Con le vecchie arterie e tutto...» La frase fulminò Beatrice. Ma perché non ci aveva pensato prima? Era vero: le vene e le arterie del cervello di Peter avevano la sua età di anziano. Bisognava dunque essere ben più prudenti. «Hai visto cosa è già riuscito a fare?» ricordò ad Alex cercando di nascondere l'effetto che aveva avuto su di lei quel terribile commento espresso dal giovane in tono quasi casuale. «E dice che è solo l'inizio: è pronto a tornare al lavoro a pieno ritmo.» «Fantastico! Grande!» Il ragazzo si passò una mano tra i capelli selvaggi. «Allora, che storiella racconteremo?» «Diremo che il posto di Peter è stato preso dal figlio: Peter Jance Jr.» «Oh, un nome davvero originale. E quanto ci ha messo il nonno a escogitare una cosa del genere? E pensate che la berranno?» «E perché no?» «Be', tanto per cominciare, tu non hai figli.» «E perché dovrebbero saperlo?» Beatrice era venuta proprio per parlargli di quello. «A meno che tu non ne abbia accennato a Rosemarie Wiener nelle vostre chiacchiere di letto.» Alex scoppiò in una sonora risata: era stato preso alla sprovvista, proprio come lei sperava. «Chiacchiere di letto? Non ricordo che abbiamo chiacchierato; mi ricordo battaglie, questo sì... Sì, hai ragione. Sono un allarmista. Peter Jance Jr.? Benissimo. E cos'ha fatto per tutta la vita questo ragazzo?» «Ha lavorato su un suo progetto.» «Quale?» «Un progetto segretissimo, così top secret che nessuno ne conosce neanche l'esistenza.» «Più o meno come il Progetto Fontana. O l'Hammer.» «Esattamente. Tale il padre, tale il figlio.» «Sì, potrebbe funzionare,» replicò Alex con un lieve sorriso. E funzionò. L'unica altra spiegazione, cioè che Peter Jance Jr. fosse in realtà il clone di Peter in cui ne era stato installato il cervello, difficilmente avrebbe sfiorato la mente di Flannagan, Chu o della Wiener. Non che Beatrice se ne preoccupasse poi molto. Peter non aveva mai condiviso le proprie faccende personali con i suoi collaboratori, preferendo concentrarsi sul lavoro. La comparsa improvvisa di un figlio destò quindi più interesse che sorpresa. Avendo trascorso quasi tutta la loro vita professionale lavorando su progetti governativi segreti, lontano da familiari e amici, Flannagan, Chu e la
Wiener avevano un profondo rispetto per la segretezza. Per quanto li riguardava, così andava il mondo. Il momento più preoccupante venne quando Rosemarie cominciò a flirtare con il nuovo attraente capo. Continuava ad accavallare e allargare le sue gambe grassocce, pompando a tutta forza ferormoni nell'aria, secondo la felice descrizione di Alex. Da parte sua, Beatrice studiava attentamente il viso del marito alla ricerca di segni di risposta alle avances della ragazza. Ma non vide altro che entusiasmo professionale e, terminata la riunione, il marito l'abbracciò teneramente. «Sono tornato!» E uscì in uno dei suoi nuovi e sorprendenti urli di trionfo. Il ritrovato entusiasmo di Peter contagiò tutti, cancellando l'atmosfera di diffidenza e imbarazzo dei primi giorni. Per quanto riguardava Wolfe e i suoi collaboratori, quell'uomo, che alcune settimane prima si era trovato sulla soglia della morte, aveva semplicemente riavuto indietro il suo corpo, come un orologio che venga ricaricato e regolato. A parte il fisico prestante e le inconsuete grida di giubilo, era lo stesso uomo, con i ricordi e la mente geniale del tutto integri. Gli era stata semplicemente restituita la sua giovinezza. In un certo senso, come aveva detto Wolfe, era una cosa del tutto naturale. «Naturale come un paio di scarpe da tennis nuove,» aveva ironizzato Peter. «Esatto. Ponce de León, va' a nasconderti!» Seguì un'ondata di risate compiacenti da parte dei militari presenti. In genere, lo scienziato non si lasciava andare a questo tipo di battute. Alex alzò la mano. «Sfortunatamente, il conquistatore Ponce de León finì assassinato dagli indiani.» «Se non ti diverti, te ne puoi pure andare a lavorare.» «D'accordo, d'accordo.» Con un sorriso forzato, il ragazzo uscì dalla stanza. La festicciola riprese. Beatrice distribuì dei bicchieri di carta e i ricercatori si versarono lo champagne gentilmente inviato da Henderson. Ma il giorno dopo Peter non si ricordava nemmeno chi fosse. Accadde in un modo tanto repentino che, all'inizio, avevano pensato che scherzasse. Poi, all'improvviso, aveva perduto la sensibilità della parte sinistra del corpo e l'uso degli arti. Lo avevano riportato di corsa a letto somministrandogli anticoagulanti e ipocolesterolemizzanti per cercare di eliminare eventuali placche nei suoi vasi cerebrali di ultrasettantenne. Peter aveva risposto nel giro di poche ore ed era stato sottoposto alla TAC. Nell'emisfero cerebrale sinistro si vedeva una zona sfocata, che risultò pe-
rò accidentale. «Può essere stata qualunque cosa,» commentò Wolfe con un'espressione grave, «forse una minuscola particella di sangue coagulato proveniente da una delle dozzine di suture. Siamo fortunati che non sia successo prima.» Il giorno dopo Peter ci scherzava già sopra, ma l'umore generale tendeva al nero. Lo sottoposero a una sorveglianza continua e programmarono un severo protocollo di monitoraggio e di verifica dei suoi parametri fisiologici, tre volte al giorno. Nel frattempo, lui riprese a lavorare su una sedia a rotelle. «Dov'è Stephen Hawking? Gareggerò con lui alla fila della mensa!» esclamò allegro, ma nessuno rise. Beatrice si era rifugiata nella sua camera cercando di non crollare. Flannagan e Chu si chiedevano dove fosse finito il nuovo capo e perché le sessioni di laboratorio fossero state sospese, mentre Rosemarie Wiener soffriva già di nostalgie amorose. Oscar Henderson telefonava a Wolfe ogni ora chiedendogli come andava e quando pensava sarebbe ripreso il lavoro sull'Hammer. Quanto a Peter, aveva ripreso l'uso parziale del braccio e della gamba sinistri e ricordava ben poco di quanto era accaduto il giorno precedente, comprese le idee strabilianti che aveva illustrato agli altri. Con il cuore pesante, iniziarono a insegnargli quello che lui aveva insegnato loro solo ventiquattro ore prima. Zurigo Elizabeth non dormiva da tre giorni. La notte prima era riuscita a sonnecchiare solo un paio d'ore, in preda a incubi terribili. Vedeva le mani di Hans, tutte coperte di fango, emergere guizzando dalla terra fradicia. Poi lo sentiva in cucina, intento a preparare la colazione per loro due. E lo vedeva, avvolto in una ragnatela, dibattersi in preda a dolori lancinanti; la ragnatela resisteva ai suoi tentativi di spezzarla mentre enormi ragni con le mandibole d'acciaio accorrevano per mangiarlo. Elizabeth non aveva mai fatto un sogno tanto spaventoso e, a un certo punto, non era più riuscita a dormire. Per alleviarle l'angoscia, Annie le aveva consigliato la meditazione. La tecnica aveva funzionato quando Elizabeth era stata ricoverata in ospedale dopo l'incidente di sci per curarsi il ginocchio e la frattura della gamba. In seguito la tecnica di meditazione l'aveva aiutata anche a sopportare il dolore della chirurgia plastica massiva. Elizabeth costruì dunque nella sua men-
te un'immensa stanza bianca, poi si mise a percorrerla aprendo tutte le porte e le finestre. Si piazzò infine al centro e si dispose ad aspettare. In quel momento, vide le tende leggerissime sollevarsi verso l'interno come se fosse penetrata una folata di vento. «Era Hans,» le aveva spiegato Annie. «Stai aiutandolo a trovare la pace.» Ma Elizabeth dubitava che l'esercizio potesse essere utile. Quella notte, mentre cercava di addormentarsi, sentì Hans grattare con le unghie la sottile parete divisoria che divideva il sonno dalla veglia. Doveva proprio uscire di casa. Si recò di nuovo alla polizia per riferire circa le tracce delle gomme che aveva visto sull'orlo del burrone e che contraddicevano la ricostruzione ufficiale dell'incidente. Ma il caso era stato archiviato, le dissero, e rifiutarono di raccogliere la sua testimonianza. Elizabeth passò un paio di pomeriggi con l'amica, ma le sue prescrizioni New Age cominciavano a darle sui nervi, e inoltre non voleva scaricarle addosso i propri dubbi e sospetti. Tanto più che Annie aveva già chiaro in mente il responsabile dei problemi di Elizabeth. «Tu stai rivivendo la morte di tuo padre. Il suo infarto è stato un evento imprevedibile, come l'incidente di Hans. Ecco perché ti inventi queste teorie: stai cercando di dominare la situazione.» «La macchina non ha oltrepassato il ciglio del burrone a una velocità tale da lasciare un segno chiaro delle gomme. Hans avrebbe potuto buttarsi fuori. Quindi l'auto deve essere stata spinta giù.» «Dai detective privati della moglie?» «No, questo non lo penso più.» «Perché sua madre ti ha dimostrato che non poteva essere così. Lizzy, tu sei come quelli che prevedono la fine del mondo per un certo giorno. Quando il mondo non finisce, devono allora trovare una spiegazione, per esempio inventandosi che è stato merito delle loro preghiere. Questa si chiama dissonanza cognitiva. Ti darò un libro...» Un giorno che si sentiva ancora peggio del solito, Elizabeth era andata al cimitero Fluntern con il portafogli gonfio di soldi e aveva offerto ai becchini una bella somma per riesumare Hans. Erano dei nordafricani e all'inizio avevano pensato che volesse prenderli in giro. Quando era riuscita a convincerli che faceva sul serio, avevano preso il denaro dandole appuntamento per mezzanotte. Così la sera lei era tornata, terrorizzata ma decisa a vedere in faccia Hans.
Ma i becchini non si erano presentati, e al loro posto c'era la polizia. Si era sentita umiliata quando Annie e Roland le pagarono la cauzione per farla uscire e ancora di più quando dovette prendere un avvocato per far cadere le accuse contro di lei. Se la cavò con un severo ammonimento, ma intanto all'agenzia pubblicitaria erano venuti a saperlo. Il capo dell'Helvetica le aveva detto che, se osava compiere un'altra impresa del genere, la sua carriera di modella era finita. Ma Elizabeth era tanto sconvolta che diede scarsa importanza alla minaccia. Intanto, i fotografi cominciavano a fare commenti sul suo aspetto stravolto, stanco, e le chiamate per i servizi diminuivano paurosamente. Annie iniziò a lasciarle sulla segreteria telefonica il nominativo di vari psicoterapeuti. Elizabeth ignorò i messaggi. E, quanto alle offerte di lavoro, scoprì che non le importava poi molto. Era contenta di avere del tempo libero: le serviva per condurre altre indagini. Scovò gli autisti dell'ambulanza che si era recata sul luogo dell'incidente e li interrogò a fondo. Uno le descrisse gli indumenti della vittima: i pochi frammenti scampati al rogo, tra cui un'etichetta di Schiaparelli all'interno della giacca. Hans in effetti aveva un vestito di quella marca, che amava mettere alle riunioni. Era di flanella color tortora, morbido come le piume di un pulcino. Chiese anche se l'autista avesse notato qualcosa di insolito nella vittima. «Sì, c'è una cosa,» si ricordò quello. Era un francofono con una faccia da topo, gengive rosa gonfie e grossi mustacchi. «Cosa?» «Non ne voglio parlare, mademoiselle. Forse potrebbe aiutarla qualcuno dell'obitorio. Hanno delle foto, le tengono sotto chiave, ma ho un amico che potrebbe fargliele vedere.» «Come si chiama il suo amico?» «Questo dipende da lei.» Lei stava per estrarre il portafogli ma l'uomo scosse la testa. «Mademoiselle, glielo dirò se sarà carina con me.» Elizabeth si sentì soffocare. «Ma ha visto davvero qualcosa di strano?» «Lo giuro su mia madre.» Avrei dovuto costruire un altare a Hans, pensò lei. Attaccare al muro la sua foto, quella di Vieques, e metterci tutto intorno delle candele. Hans, lo faccio per te, pensò poi, incerta, sbottonandosi la gonna.
Lasciò l'appartamento dell'autista senza nemmeno farsi la doccia. «Se è una bufala,» lo minacciò stringendo in mano il foglietto con il nome dell'inserviente dell'obitorio, «ti giuro che tornerò e ti farò molto, molto male.» All'obitorio trovò l'inserviente che aveva preso in consegna il corpo. Era diffidente; lei gli sembrava una barbona venuta dai bassifondi della città. Quando si guardò nello specchio della sala delle autopsie, Elizabeth rimase sconvolta dall'aria disordinata dei capelli e dallo sguardo allucinato. Diede diecimila franchi all'inserviente e gli strappò di mano il fascicolo. Le foto la sconvolsero. Era rimasto poco più di un torso bruciato con le braccia che terminavano in monconi carbonizzati, e la testa era praticamente un teschio. Pensò di fotocopiare o rubare la documentazione riguardante i denti ma, a una prima occhiata dell'ingrandimento del cranio, capì che era inutile. Nel teschio non era rimasto nulla di simile a una dentatura, solo un buco nero al posto della bocca. Elizabeth vomitò in un cestino dei rifiuti, e forse perse anche conoscenza per qualche secondo perché, quando riuscì di nuovo a mettere a fuoco la stanza, l'inserviente stava rimettendo a posto il fascicolo. «Ancora un attimo, non ho finito,» e gli strappò di mano l'ingrandimento del cranio. «Dove sono i denti?» «Comment?» «I denti, non ha i denti. Voglio vedere la documentazione sui denti.» «Pas de dents.» «Esatto. È proprio quello che le sto dicendo. Dovrebbero esserci i denti e anche la relativa documentazione... où sont-ils? Comprenez?» «Non. Je ne comprends rien. Allez. Vite.» Mentre l'inserviente era girato, Elizabeth si infilò la foto del cranio sotto il cappotto e si mise a correre a perdifiato verso l'auto. Salì e partì a razzo. Nello specchietto retrovisore vide l'inserviente precipitarsi fuori dall'ingresso dell'obitorio. Terrorizzata, accelerò passando due volte con il rosso e finalmente arrivò a casa. Chiuse a chiave la porta, aprì un cassetto e prese la foto che Rose-Anne le aveva dato: Hans a 7 anni, c'era scritto dietro. E poi, Vieques 1970. Il viso di Hans le sorrideva, con le piccole labbra piene leggermente dischiuse... Estrasse dal cappotto la foto del cranio carbonizzato fissando il foro della bocca, scuro, vuoto, privo di denti.
Squillò il telefono. Ancora la polizia, pensò lei, e non rispose. «Lizzy, sono Annie,» disse la voce nella segreteria. «Ho un nuovo nome per te, da questo devi proprio andare: il dottor Bender è svizzero, junghiano, e ha una lista di attesa lunga un chilometro ma è disposto a vederti subito...» Elizabeth afferrò il telefono. «Non aveva neanche un dente.» «Ma chi? Lizzy, di cosa stai parlando?» «Di Hans. Aveva perduto tutti i denti. Ma i denti non bruciano, se non bruciano anche le ossa e il suo cranio era intatto.» «Povera bambina, cosa stai...» «Annie, ti ho mai parlato di Vieques? Ti dice qualcosa? Perché anche questo mi sta facendo impazzire... continuo a pensare di esserci stata.» «Vieques? No. Cos'è?» «Un'isola. Non importa, adesso la cerco su Internet, avrei dovuto farlo da un pezzo...» «Ma cosa stavi dicendo dei denti? Lizzy?» «A meno che non fosse...» pensò ad alta voce senza curarsi di Annie. «Non fosse cosa?» «A meno che il corpo non fosse di un altro. E per questo non c'erano denti da confrontare con la cartella clinica del dentista.» Il pensiero la colpì con una tale violenza che dovette sedersi sul letto. «Accidenti...» fece Annie. «Proprio così.» «... sei arrivata allo stadio della negazione. Dovresti avere superato questa fase ed essere in quella della rabbia. Devo proprio chiamare Bender.» «No. Annie, va tutto bene. Dimentica quello che ho detto. Davvero, sto bene. Sono solo arrabbiata.» «Stai lì seduta tranquilla. Non uscire assolutamente. Arrivo subito.» Annie chiuse la comunicazione. Elizabeth posò il telefono e prese le due foto, una per mano. Per quanto il cranio carbonizzato fosse orribile, l'idea era ancora più agghiacciante: un uomo sostituito? E da una vittima innocente? Poteva essere così? Hans era vivo? Era solo una speranza, un'idea dettata dalla disperazione, ma Elizabeth si sentì improvvisamente più calma. Si abbandonò sul letto, si tirò la coperta sul corpo e sprofondò immediatamente in un sonno di piombo. Quando si svegliò era la sera del giorno dopo e sotto la porta c'era un bi-
glietto allarmato di Annie. Elizabeth si sentiva tremendamente intontita. Aveva dormito troppo. Le faceva male la testa, i vestiti le pendevano addosso informi e puzzava di sudore. Si tirò su barcollando, andò in bagno e finalmente urinò. Quando si guardò allo specchio, notò le profonde rughe lasciate sulla faccia dal cuscino e i capelli scarmigliati. Ma adesso tutto ciò non importava. Dopo tutto, pensò, non era pazza. Si tolse i vestiti e si fece una doccia così calda che presto fu avvolta da una densa nuvola di vapore. Lasciò che l'acqua, il calore e il sapone si portassero via tutto: la fatica, la sporco, la vergogna e il ricordo di quello che aveva fatto e di come si era sentita nelle ultime settimane. Si fece delle abluzioni accurate: shampoo e balsamo, capelli tirati indietro, filo interdentale e spazzolino... Poi si mise tuta e scarpe da tennis. Un bel bricco di caffè, una tazza fumante in mano, e poi davanti al computer. Il liquido bollente le scorreva piacevolmente in gola mentre Microsoft Windows si apriva con la sua musichetta stranamente rassicurante. Premette «Start», «CompuServe4.0 for Windows95» e inserì la password. Stava per premere «World Wide Web» quando sentì l'allegra voce sintetizzata che le diceva: «C'è posta per te!». Premette il tasto per aprire il messaggio e le si rizzarono i capelli in testa. Argomento: Fortunata te Data: 28-2-99 Da:
[email protected] A: SwissMs@Int'lAccessCompuServe.com CONGRATULAZIONI. HAI APPENA VINTO UN SOGGIORNO GRATUITO ALLA LOCANDA ALL'ORIZZONTE BLU DELL'ISOLA DI VIEQUES, PUERTO RICO, MESSO IN PALIO PER FESTEGGIARE IL NOSTRO VENTESIMO ANNIVERSARIO. SEGUE CONFERMA VIA FAX. IN ALTRE PAROLE, ELIZABETH, VORREI CHE TU FOSSI QUI! Roosevelt Roads, Vieques Gli effetti dell'ictus di Peter - ma nessuno era pronto a giurare che fosse stato davvero un ictus - risultarono passeggeri. Verso la fine della settimana sembrò completamente ristabilito. Il lavoro sull'Hammer procedeva be-
ne, l'équipe di ricerca era tornata al lavoro e Peter aveva un aspetto brillante. Anche se talvolta si interrompeva a metà della frase con lo sguardo fisso nel vuoto, nel complesso appariva meno distaccato dagli altri e da se stesso. Confidò a Beatrice che aveva ancora l'impressione che il cervello, staccato dal corpo, incombesse su di lui, indegno di prendere possesso della nuova casa o, peggio, alla ricerca del corpo fantasma che gli era stato amputato. Quando queste fantasie lo assalivano, negli occhi di Peter balenavano scintille di terrore. Ma lei aveva imparato a riconoscere quei segni e sapeva come fargli superare i momenti difficili. «Sei un pioniere, prima di te nessuno ha mai fatto questa esperienza.» «Quindi, non abbiamo nessuna ricerca da consultare.» «Esatto. Ma, sai cosa mi ricorda? La storia della macchina.» Nel 1961, quando aveva vinto il Nobel per la fisica con i suoi studi sulle proprietà del plasma nel vuoto assoluto, Peter aveva impiegato una parte del denaro per comperarsi una costosa BMW. In laboratorio era stato molto preso in giro, ma quell'auto gli aveva insegnato alcune cose importanti anche su se stesso. All'inizio era sopraffatto dal rimorso dell'acquisto, imbarazzato dall'enorme costo della BMW. Poi si sentì indegno dei suoi lussuosi appuntamenti con quella macchina e, stranamente, incapace di guidare un simile bolide. Beatrice aveva cercato di liberarlo dal senso di colpa: dopo tutto non era il primo Premio Nobel a permettersi un'auto di lusso. Quanto all'essere intimidito dalla velocità e dalle dimensioni dell'auto, in una settimana Peter scoprì invece che riusciva a farla sfrecciare a tutto gas sull'autostrada e a parcheggiarla con la stessa facilità della vecchia Volvo. La potenza e la maneggevolezza dell'auto iniziarono a sedurlo. Gli piaceva lasciare indietro tutti gli altri al semaforo, raggiungere in pochi secondi i centocinquanta all'ora o affrontare le curve senza il minimo sbandamento. Un giorno percorreva ad alta velocità una di quelle lingue di asfalto a due corsie, diritte come fusi, fuori da Los Alamos. Appena si era trovato davanti quindici chilometri di strada sgombra, si era lanciato a tutta velocità osservando affascinato il tachimetro superare i 150, i 190 e poi i 220, finché vide i cespugli e le piante sfrecciargli accanto come macchie indistinte. C'erano solo la strada e le montagne, in lontananza, sospese nel tempo e nella velocità. Peter stava ripensando a quando, da ragazzo, aveva compreso le equazioni della relatività di Einstein, ed ecco all'improvviso l'auto decollò su un leggero dosso quasi impercettibile andando ad atterrare non sull'asfalto ma sulla dura sabbia. Poi ci fu solo un turbinio di polvere e
frammenti di parabrezza, pezzi di cactus sradicati, spicchi di cielo azzurro e filo spinato teso come una corda di chitarra. Il volo era durato oltre cinquanta metri, e quando infine l'attrito e gli ostacoli del terreno ebbero ragione della velocità e la macchina si arrestò, Peter rimase seduto al volante, silenzioso, eccitato. Era circondato da un'enorme nuvola di polvere. Nell'auto filtrava solo una debole luce marrone, molto adatta a riflessioni sulla mortalità dell'uomo. «Come ti eri sentito? Te lo ricordi?» gli chiese Beatrice. «Felice.» Miracolosamente, l'auto era atterrata sulle ruote. Lui era vivo e illeso. Era andato più veloce di quanto avesse mai immaginato. Non aveva più bisogno di possedere un'auto così, perché ora l'aveva assaporata con una intensità maggiore a quella accumulata da un automobilista in tutta la vita. «E ti ricordi quando sei tornato a casa, quella sera?» «Avresti voluto uccidermi.» «Pensavo che fossi impazzito.» «"Quelli rovinati dal successo": mi hai fatto leggere quel brano di Freud.» «E il giorno dopo, con i soldi dell'assicurazione ci siamo comperati il Maggiolino.» «Ma, a quarant'anni, io mi sentivo rinato.» «Forse potrai provare di nuovo quella sensazione. Quando avrai superato il rimorso per questo acquisto.» Nelle settimane successive all'incidente nel deserto, Peter aveva intrapreso alcuni dei suoi lavori più audaci, e le scoperte importanti si susseguivano una dopo l'altra. Quella sensazione esaltante era durata per anni. Ma niente dura per sempre. Lentamente, in modo quasi impercettibile, Peter aveva poi iniziato a rallentare il ritmo. Aveva smesso di esporsi a rischi fisici e rinunciato a fare ginnastica regolarmente. «Poi però ti eri messo a bere di più,» gli ricordò la moglie. «Non voglio che accada ancora.» Se non lo diceva solo per farle piacere, Beatrice era lieta di sentirglielo dire. Era un segno che iniziava a considerare il nuovo corpo come una sfida invece che un mistero ossessivo. «E perché dovrebbe accadere ancora?» Ora Peter aveva il corpo di un trentacinquenne. Il tono muscolare era stupefacente, il senso di vigilanza sbalorditivo, e il volume di sangue che
raggiungeva il cervello talmente abbondante da farlo funzionare a pieno ritmo e dissolvere qualsiasi placca delle arterie cerebrali. Tuttavia, nonostante non avesse avuto ricadute nelle ultime due settimane, lui non riusciva a scacciare il pensiero che tutti quei progressi stupefacenti potessero svanire da un momento all'altro. «È il tuo senso di colpa. Ma lascia che sia io a preoccuparmi, d'accordo?» gli aveva detto Beatrice. Quando era da solo, di solito in bagno (l'unico posto che gli consentiva una certa privacy), Peter studiava quel nuovo corpo di cui l'avevano dotato. Faceva scorrere leggermente le dita sulla pelle tesa del collo, picchiettava le orbite sotto gli occhi, dove era abituato a vedere pesanti borse. Si ripeteva che non era una creatura aliena quella che lo fissava incredula dallo specchio, ma qualcosa che era suo a pieno diritto. Si accorgeva però che stava dicendo una pericolosa bugia: non importava quanto cercasse di razionalizzare il problema, perché quello era pur sempre il corpo di un altro, che lo faceva sentire semmai come un padre che osservi il figlio. «Cosa dice Freud sull'infanticidio?» chiese una mattina a Beatrice. «Peter, non puoi continuare a tormentarti.» «Non mi sto tormentando, sto solo domandando.» «Non è tuo figlio.» «Sì, lo so. È solo una parte del mio corpo arbitrariamente staccata e lasciata sviluppare in modo indipendente, cellula per cellula, gene per gene. È una mia proprietà personale: è me stesso, solo con quaranta anni di meno. Ma io dico che è una balla e... al diavolo!» Beatrice sapeva che, chiedendole di tornare continuamente sulla questione, il marito voleva sfogarsi. E lei era ben disposta ad assecondarlo, perché alla fine Peter si sentiva meglio, come quel giorno sulla BMW. Consapevole della forza e della perfezione del nuovo corpo, all'inizio si era sentito a disagio, poi soddisfatto di esserne diventato padrone e, infine, quasi in estasi dentro quella macchina splendente e perfettamente funzionante. Insomma, il problema non era di essere dentro quel corpo ma semplicemente di essere quel corpo, a proprio agio, pieno di energie. E giovane! Ma c'era la questione del sesso, si ripeteva Beatrice. A partire dai cinquant'anni, per Peter i rapporti sessuali erano diventati sempre meno importanti. Poi, verso i sessanta, trascorrendo ore sfibranti e piene di tensione in laboratorio o sul campo di prova, semplicemente non voleva che il sesso lo disturbasse. La vista di Beatrice nuda riusciva ancora
ad eccitarlo, ma non sopportava più di vedere se stesso nudo. Sua unica salvezza era che la vista gli si era tanto indebolita che, senza occhiali, quasi non vedeva le rughe e la pelle flaccida. Ma adesso le cose erano cambiate. Peter era costantemente eccitato e ogni giorno si alzava dal letto turgido e pronto. Una mattina si svegliò tutto appiccicoso e con il suo ultimo sogno ancora vivido nella mente. Fluttuava in un mare di stelle con una donna che tra sé definì come «l'angelo dell'eros». Era bionda, sulla ventina, flessuosa, atletica e molto attenta al piacere di lui, molto sensibile a ogni suo pensiero e movimento. Era stato il rapporto sessuale più esaltante e soddisfacente che ricordasse. Prima ancora che potesse togliersi le mutande, Beatrice notò la macchia. «Oh!» esclamò lei timidamente. Poi piegò la testa da un lato cercando di sorridere. «Congratulazioni. Me ne vuoi parlare?» In passato si raccontavano sempre i sogni, con la sola esclusione dei pochi che potevano ferire la sensibilità dell'altro. Ora Peter esitava: quel viso d'angelo era ancora stampato nella sua mente. «Ehi, sai cos'ho notato? Dormo di nuovo sul fianco sinistro. Ricordi quando avevo la spalla sinistra rigida e potevo dormire solo sul fianco destro? Cominciai anche a soffrire d'insonnia, ma quando finalmente riuscivo ad addormentarmi, facevo quei sogni dell'emisfero sinistro. Ora all'improvviso non è più un problema, è veramente strano...» «È così che lo chiami: un sogno dell'emisfero sinistro?» La moglie lo fissò, per nulla divertita. «E poi c'è un'altra cosa. Quando mi vestivo, la mattina, mi mettevo prima le calze?» «Perché? Adesso le metti dopo le scarpe? Sarà meglio farti fare qualche altro esame.» «No, voglio dire, prima di mettermi la biancheria. Adesso mi metto prima le calze. È una cosa da niente, nulla di preoccupante, ma è curioso. Anche sotto la doccia mi sembra di fare le cose in modo diverso: mi insapono il torace prima delle braccia. Non avevi fatto un lavoro sulla memoria cellulare?» «Sì, all'università. Ma non ha dato alcun risultato.» «Peptide circolante, RNA messaggero... Non era quella la teoria?» «Ma che c'entra con le tue polluzioni notturne?» «Ho forse detto che c'entra?» «O è questo o ti stai di nuovo masturbando.» «Be', ricordati quello che disse una volta Oliver Wendell Holmes.»
«Per favore, non divagare...» «Uno studente di legge gli si avvicinò - lui era sugli ottanta - e gli chiese: "Giudice Holmes, lei che è l'uomo più saggio d'America, mi potrebbe dire quando un uomo smette di masturbarsi?" E Holmes rispose...» «"Deve chiederlo a qualcuno più vecchio di me". Peter, smettila di dire cazzate. Tu non hai ottantacinque anni, adesso ne hai trentacinque e non sono per nulla imbarazzata...» «Va bene, d'accordo, è stato un sogno erotico. Non ne avevo uno da quando ero un ragazzino.» «Lei era bella?» «Chi?» «La ragazza del sogno. È qualcuna che conosciamo? Non avrai mica avuto un orgasmo sognando Madame Curie!» Accidenti se era bella, e a Peter sembrava proprio di conoscerla. Come se l'avesse già sognata molte altre volte, ma dimenticandola poi al risveglio. Questa volta però se la ricordava. In realtà, non riusciva proprio a togliersela dalla mente. Per quasi tutta la giornata, frammenti dell'immagine di quella donna continuarono a invadere la sua mente. «Dovresti stare attento, non vorrai mica che ti venga un altro ictus?» riprese la moglie, sarcastica. «No, sono convinto che mi faccia bene alla circolazione,» rispose lui con un sorriso. Più tardi, mentre Peter faceva la doccia, Beatrice telefonò a Wolfe. «Come sta il nostro paziente?» chiese lui. «Lubrico come un rospo. Ma cosa gli mettete nel succo d'arancia?» Come al solito, la risata dello scienziato aveva una sfumatura grottesca. «Assolutamente niente. Le ghiandole pompano ormoni, il sistema vascolare funziona a meraviglia. È un ottimo esempio di giovane maschio! Significa che sta bene e questa è una notizia fantastica, per noi.» Beatrice aggrottò la fronte. C'era qualcosa di viscido in quel «noi». «Naturalmente, intendo dire che è un bene per il progetto,» aggiunse lui colmando l'improvviso silenzio della donna. «Sì, certo.» No, tu intendevi proprio alludere a noi due: tu e io, Wolfe e Beatrice, pensò in realtà. Ma cosa mai stava fantasticando Frederick? «È un bene anche per te. È ora che tu ti renda conto della fortuna che hai avuto. La sua morte ti avrebbe distrutto. Invece adesso hai avuto un marito nuovo, un progresso decisivo della genetica e uno scienziato che lavora al massimo delle capacità, di nuovo felice del suo lavoro.»
«Felice?» «Non lo è?» «Sì e no.» «È inevitabile che abbia dei conflitti. Deve compiere un enorme lavoro di adattamento, ma presto starà benissimo.» «Speriamo che Dio ti ascolti.» Ma, in cuor suo, Beatrice non pensava che Dio l'ascoltasse. Se Lui esisteva, li avrebbe sicuramente cacciati tutti all'inferno. Un'ora dopo, Peter era sul tapis roulant del laboratorio medico, collegato al monitor cardiaco e a quello polmonare. Emilio Barrola aumentò gradualmente la pendenza per sottoporre il suo corpo a un carico maggiore. Il problema era che Peter non si limitava a camminare in fretta. Nonostante le proteste del medico, presto passò a trotterellare. Apparentemente, il cuore sopportava il maggiore carico senza problemi: nessuna aritmia, nessuna extrasistole, niente che potesse far pensare a un'occlusione dei vasi cerebrali. A volte, Barrola era tentato di buttare al vento la prudenza per gridare la sua meraviglia. Il test del giorno precedente, un'ecografia Doppler delle carotidi aveva indicato che il flusso del sangue al cervello era enormemente aumentato. Ma non c'era alcun motivo di sfidare la sorte: Peter era stato salvato da morte sicura per poter compiere miracoli mentali, non fisici. Così, nonostante le proteste del paziente, Barrola spense il tapis roulant. Ma Peter non si rilassò. Rincuorato dai risultati di quel giorno, si vestì rapidamente e andò al laboratorio, dove i suoi, e soprattutto Rosemarie Wiener, l'attendevano con ansia. Mentre tutti gli si affollavano intorno, davanti alla lavagna la ragazza, che era senza reggiseno, sfregò i seni contro il braccio di Peter in un chiaro gesto di offerta. Lui si domandò se quella ricercatrice scura, piccola e tozza potesse essere l'angelo erotico che il sogno aveva elevato a visione di perfetta felicità. Neanche per sogno! In effetti, per tutta la giornata era stato perseguitato dall'idea che la donna del sogno esistesse realmente. Sapeva che era frutto della sua fantasia, ma anche il solo pensare a lei gli provocava i brividi. E la sua mente esultava. «Per questa procedura, mio padre impiegava il protocollo Purcey,» spiegò ai collaboratori, mentre il gesso volava sulla lavagna e gli occhi di Rosemarie brillavano di aperta ammirazione. «È stata alla base del suo lavoro fino alla morte, quindi continueremo in questa direzione. Tuttavia,» proseguì, godendosi l'abbondante flusso di idee che gli attraversavano la mente,
«proviamo i raggi gamma per accendere il generatore centrale. E invertiamo la polarità del circuito degli interruttori epsilon. Secondo i miei calcoli, ciò dovrebbe aumentare notevolmente la velocità di trasmissione e, nello stesso tempo, raffreddare la temperatura interna. In tal caso, avremo risolto il problema del surriscaldamento e il raggio avrà una potenza quasi raddoppiata.» Giorno dopo giorno, Peter continuava a formulare piani, teorie e procedure per la realizzazione del secondo sistema di armamento. Verso la fine della settimana, gli altri ricercatori si resero conto che le proposte di Peter Jr. non solo erano straordinariamente originali, come quelle del padre, ma anche pratiche. Il lavoro per la nuova arma, nome in codice Grande Slam, si avviava al completamento a un ritmo che sbalordiva lo stesso Oscar Henderson. Peter Jance era diventato il brillante successore di se stesso e persino Wolfe ne era sbalordito. Era tempo di avviare le prime fasi della costruzione dell'arma. Più tardi, quella notte, mentre Peter e Beatrice si coricavano nei rispettivi letti, lui si rese conto, per la prima volta, di quale pesante carico fosse, per la moglie, la nuova situazione. Notò che cercava di indossare il pigiama senza farsi vedere da lui, e che era scivolata poi a letto mentre lui si era assentato a lavarsi i denti. «Sono un idiota, vero?» le chiese. «Oh, non so.» «Cioè, sì. Scusami, sono stato tutto preso dai miei problemi. E dal ritorno al lavoro.» «Non posso certo biasimarti per questo.» Beatrice dormiva ancora sulla brandina pieghevole. Peter le si avvicinò sedendosi sul bordo. Lei lo guardò con un debole sorriso. «Sono sempre io, Beatrice.» «È solo questione di abituarsi.» «Ti amo ancora.» Beatrice non disse nulla, ma i suoi occhi si riempirono di lacrime. Poteva contare sulle dita di una mano le poche volte in cui avevano dovuto rassicurarsi sulla propria devozione, e la parola «ancora» non era mai stata pronunciata nei loro discorsi amorosi. L'amore c'era senza bisogno di parole: doverlo affermare significava mentire, soprattutto se si usava il termine «ancora». «Lo so che mi ami,» gli rispose infine. Peter le accarezzò i capelli. Sentiva il suo alito un po' pesante, ma non
gliene importava. Si distese accanto a lei. «Non so se è giusto,» disse lei. «Perché no?» La prese tra le braccia e la baciò. Beatrice sentì le sue labbra calde e piene, la tensione del suo ventre e, sotto, la sporgenza dura e caldissima. Ridacchiò nervosa. «Che c'è? Stai fingendo?» le sussurrò lui. «Non sono poi così vecchia.» «Per me, tu non sarai mai vecchia.» «Davvero?» «No. Sei fantastica, B. Sei la donna più bella del mondo, un vero angelo.» «In tal caso...» rispose lei, guardandolo da un abisso di tristezza, di amore e di comprensione. Peter si chinò delicatamente sulla moglie e lei spense la luce. 8 PUERTO RICO Meno di tre ore dopo aver ricevuto il fax di conferma dell'e-mail di IslandMan, Elizabeth lasciò Zurigo. Riuscì a prenotare un posto sul volo Swissair delle 10.20 per Boston dove, con il fuso orario, arrivò più o meno alla stessa ora della partenza. Nonostante avesse il passaporto americano, fu trattenuta alla dogana, di certo perché non aveva altro bagaglio che quello a mano. La perquisizione rivelò solo un ricambio di biancheria, una T-shirt del Bruxelles Film Festival e un paio di jeans. «Viaggia piuttosto leggera,» osservò il funzionario. «Un viaggio improvviso.» L'accompagnarono in una cabina chiusa da una tenda, dove fu sottoposta a una completa perquisizione personale da una agente con gli occhi svegli e una grande massa di capelli. «Benvenuta negli USA,» commentò acida Elizabeth. La donna alzò la testa. «Potremmo guardarle dentro anche con i raggi X o farle prendere dei lassativi.» «Ma perché?!» esclamò lei. Avrebbe volentieri strangolato la donna. «Magari lei sta cercando di introdurre sostanze proibite nel paese. Una volta abbiamo trovato trenta preservativi pieni di eroina nell'intestino di un
tale... Quanto tempo è stata in Svizzera?» «Ci ho vissuto per cinque anni.» «La natura dei suoi affari?» «Sono una modella, dell'Helvetica International Agency.» Se avessero controllato, avrebbero scoperto che era stata licenziata per aver cercato di far riesumare un cadavere, e a quel punto l'avrebbero probabilmente messa in cella buttando via la chiave. Invece l'agente fece un passo indietro. Apparentemente, fare la modella dava a Elizabeth una certa importanza. «Mia figlia sta cercando di diventare modella e magari lei può aiutarla.» «Certo, posso provare,» rispose Elizabeth scorgendo una facile via d'uscita. «Ha tutte le doti necessarie: bellezza, cervello e senso degli affari. Ho letto che è quello che occorre, oggi.» «Quanti anni ha?» «Quindici, il prossimo luglio.» Elizabeth scarabocchiò il suo nome su un blocchetto, insieme al numero dell'Helvetica. Con la mano guantata di gomma, l'agente le fece segno di andare. «Non si offenda, sono le procedure.» «Non si preoccupi. E auguri per la carriera di sua figlia,» rispose, abbottonandosi i jeans. Dovette mettersi a correre per riuscire a prendere la coincidenza. L'imbarco dell'American Airlines era lontanissimo dagli arrivi internazionali, e per un soffio non perse l'aereo. Il volo 97 dell'American Airlines atterrò alle 20.30 all'aeroporto internazionale di San Juan di Puerto Rico, importante scalo aereo dei Caraibi, a est della città. Non avendo bagagli da recuperare, alle 20.45 Elizabeth era su un taxi e alle 21.15 nella hall dell'Hyatt. Il volo per Vieques partiva solo il pomeriggio seguente, quindi aveva un sacco di tempo da occupare. Chiamò subito l'ufficio turistico, nella remota speranza che fosse ancora aperto. Per un insperato colpo di fortuna, chiudeva dopo quindici minuti e si trovava proprio al secondo piano del suo albergo. All'impiegata dal viso tondo e sorridente segnato dall'acne, Elizabeth spiegò che era venuta a prendere il suo voucher. Ma la donna non ne sapeva nulla. Allora le mostrò il fax di conferma. «Vieques? Non mi sembra. Mi può ripetere il nome dell'albergo?» Aguzzò la vista sul foglio. «Locanda all'Orizzonte blu.»
«Mi spiace, signorina. Non penso che pratichino offerte del genere.» Elizabeth sentì il cuore accelerare. «Prima di tutto, non è uno dei nostri fax, vede? I nostri hanno questa intestazione.» Estrasse un foglio con un'intestazione decorata con palme e gabbiani su una spiaggia. «Vede, questo non ce l'ha.» Rilesse il testo. «... "hai appena vinto un soggiorno gratuito alla locanda all'Orizzonte blu... per festeggiare il nostro ventesimo anniversario..." No, senta: l'Orizzonte blu c'è, al massimo, da dieci anni, quindi questa cosa dell'anniversario non corrisponde. Non sono neppure sicura che siano ancora aperti...» concluse l'impiegata. Ma Elizabeth era già fuori dalla porta. Al banco di ricezione dell'albergo scoprì che il primo traghetto per Vieques partiva da Fajardo alle 22.30. La cittadina dell'imbarco si trovava a circa 60 chilometri, lungo la strada costiera. Ciò significava una corsa di cinquanta dollari in taxi senza alcuna garanzia di riuscire a prendere il traghetto. Sopra c'era una comoda stanza con la doccia, il servizio in camera e un morbido letto. Non poteva proprio aspettare fino al mattino dopo? A quanto pareva, no. Quante erano le probabilità di ricevere un fax da una persona che risiedeva a Vieques? Quell'isola era un minuscolo puntino sulla carta, noto, tra i suoi conoscenti, solo alla madre di Hans Brinkman e... Ma allora poteva essere stato... Da quando aveva posato gli occhi sull'e-mail, non aveva osato formulare quel pensiero, per scaramanzia. No, l'unica cosa da fare era raggiungere al più presto l'isola e indagare con cura e metodo, tenendo per sé le proprie elucubrazioni. Non doveva pensare che si stava precipitando a capofitto verso un destino che aveva evitato per tutta la vita, o che qualcuno che la conosceva meglio di se stessa le stava fornendo l'occasione per usare tutte le sue qualità (che Hans l'aveva accusata di sprecare) così da raggiungere quel destino... e quell'uomo. Sì, doveva spicciarsi. Bellezza, cervello e senso degli affari... Uscì, scelse il taxi in condizioni migliori e l'autista più giovane e gli promise cento dollari se fosse riuscito ad arrivare a Fajardo in tempo per il traghetto delle 22.30. L'autista gettò via la sigaretta e aprì lo sportello posteriore di una Cougar dell'85. Per un'ora, mentre il taxi filava anche sbandando sulla costa di Puerto Rico, Elizabeth temette per la propria vita. Per distrarsi, accese la tremo-
lante lampadina interna e si mise a leggere quel poco che era riuscita a trovare su Vieques in Internet. Vieques è un'isoletta vulcanica al largo della costa orientale di Puetro Rico. I primi abitanti l'occuparono circa 3000 anni fa, giungendo dalle altre isole dell'arcipelago. Testimonianze risalenti al 200 a.C. indicano che vi vissero importanti comunità indiane. Il francese Le Guillou vi avviò la dominazione coloniale dell'isola dando inizio alla coltivazione della canna da zucchero sotto il governo della Spagna. In breve tempo, tutti gli alberi furono abbattuti e, da costa a costa, venne piantata la canna da zucchero. Poi l'isola passò di mano in mano tra le potenze imperiali. Nel 1898, il controllo di Vieques passò dalla Spagna agli Stati Uniti, e le sue condizioni sociali rimasero immutate fino alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1941, la Marina prese possesso di oltre tre quarti di Vieques, organizzando campi di addestramento e basi di prova per l'artiglieria. Gran parte della popolazione indigena venne bruscamente fatta sloggiare e per tutta l'isola cominciarono a risuonare gli ordini urlati dagli ufficiali e il fragore delle bombe, dei razzi e dei proiettili di artiglieria lanciati dagli aerei e dalle navi. La località venne assorbita come parte dell'enorme base navale di Roosevelt Roads, situata su Puerto Rico, che si compone del Campo Garcia del corpo dei Marines, di diciassette dipartimenti NAVSTAR e ventiquattro comandi della Marina, dell'Esercito e dei Marines. È una base militare, pensò Elizabeth. Certo: Rose-Anne Brinkman gliel'aveva detto. Ma perché all'improvviso si sentiva tanto a disagio? Secondo l'articolo recuperato su Internet, negli anni successivi alla fine della Guerra Fredda la situazione politica si era un po' calmata e Vieques aveva potuto godere di un certo turismo, che aveva contribuito a rimpiazzare l'industria zuccheriera ormai scomparsa. La parte turistica dell'isola era nota soprattutto per i boschetti di mangrovie, le spiagge deserte e gli animali selvatici. E cos'era successo intanto ai militari? A cosa si erano dedicati, negli ultimi dieci anni? La lampadina dell'auto si spense definitivamente ed Elizabeth si rassegnò a guardare il fogliame sfrecciare fuori dal finestrino e a contare il numero di insetti giganti che si spiaccicavano sul parabrezza dell'auto in corsa.
Giunse al traghetto all'ultimo minuto, comprò il biglietto e salì a bordo. Costruita per portare quattrocento persone, l'imbarcazione ne ospitava solo poche decine, turisti che tornavano in albergo dai casinò di San Juan. Elizabeth li lasciò fare baldoria intorno al bancone di formica del bar e uscì sul ponte. Il cielo era punteggiato di stelle e il mare liscio. Rimase a contemplare la notte finché il traghetto non arrivò a destinazione, a Isabel Segunda. Davanti a lei si stagliavano le rovine di un altissimo faro e, in cima alla collina di fronte al molo, lo scuro profilo di una fortezza spagnola. L'aria calda era piena di suoni alti e dolci, simili a cinguettìi che, nel suo stato di eccitazione, la stordivano. Li sentiva ancora dal bagno pubblico del molo, dove si era affrettata appena sbarcata poiché i gabinetti del traghetto erano assolutamente indecenti. «Raganelle,» disse una voce dal lavabo accanto. «Sì, coquis,» confermò Elizabeth, un po' sorpresa della propria risposta. «Allora sei già stata qui,» riprese l'altra. Aveva capelli rossi simili a fil di ferro, un viso aperto e amichevole e sopracciglia sottilissime. «No, mai.» «Lasciami indovinare. Lavori per uno zoo oppure guardi spesso Animal Planet?» «Non so come taccio a saperlo,» rispose, a disagio, asciugandosi le mani. Quella parola le era uscita di bocca come se l'avesse pronunciata centinaia di volte. «Devo averlo letto su Internet o qualcosa del genere,» riprese senza convinzione, ricordando improvvisamente di aver dimenticato l'articolo su Vieques nel taxi. «Tu lavori per l'American?» chiese alla nuova conoscenza, notando il simbolo della linea aerea sulla giacca della donna. «Mmm. La nostra sede è Puerto Rico, ma Vieques è il mio rifugio preferito.» «Mai sentito parlare della locanda all'Orizzonte blu?» «Non mi dice proprio niente. Tu alloggerai lì?» «Pensavo di sì,» rispose Elizabeth tenendole aperta la porta dell'uscita. «Ma non sembra neppure sicuro che esista ancora. Pensi che riuscirei a trovare una camera da un'altra parte, per stanotte?» «Qui a Isabel? Non hai prenotato?» «Sono partita all'improvviso.» «Dev'essere proprio un tipo fantastico.» «Sì, lo è.» Fece un sorriso forzato. Lo è... lo era. Insomma: lo è.
«Scusa,» riprese la hostess notando l'espressione di Elizabeth, «non sono affari miei. Ma, di solito, è per questo che le donne vengono qui.» Le tese la mano. «Mary Blanchard.» Dopo un istante di esitazione gliela strinse. «Elizabeth Parker.» Cinque minuti dopo era in un taxi con Mary Blanchard e due sue colleghe, una delle quali continuava a insistere di averla vista recentemente in un film, in aereo. Negarlo non serviva a nulla. Le tre assistenti di volo si misero a chiacchierare amabilmente di uomini, tavoli da gioco e passeggeri cretini, e Mary Blanchard offrì a Elizabeth di dormire in una branda nella sua stanza. L'albergo, chiamato Casa del Francés, era una villa restaurata dei primi del Novecento, un tempo residenza padronale di una piantagione francese di canna da zucchero Si rivelò un posto abbastanza piacevole: dominava l'oceano e la cittadina di Esperanza. Il proprietario, Ivor Greeley, era un tipo brusco, originario del New England. Si accorse immediatamente che c'era una persona in più e si fece dare venti dollari come supplemento. «Ho una camera libera domani,» disse a Elizabeth. Aveva vivaci occhi scuri e, dal naso, gli sporgevano robusti peli biondi che si andavano ingrigendo. «Può pagare in anticipo, a meno che preferisca andarsene a dormire sotto i ponti.» Ma poi, come benvenuto alla nuova ospite, mandò su in camera una bottiglia di rum gratis. Per la prima volta da settimane, Elizabeth sprofondò in un sonno vero, normale. Al mattino sognò di fluttuare in un mare di stelle. Era un paradiso liquido, oceanico e salato, e con lei c'era Hans. Nell'acqua luccicava un milione di puntini luminosi. Poi lui scompariva e lei lo inseguiva su per una scalinata di antichi gradini di pietra, fino alla sommità di El Fortín, dove Hans scompariva in un'improvvisa calca di animali da fattoria furibondi. Fuori dalla finestra, sentì belare delle capre e cantare un galletto, e si rese conto di essersi svegliata. El Fortín? Prese una guida sul televisore e si mise a sfogliarla finché non trovò l'immagine che cercava. El Fortín era la fortezza che aveva visto dal traghetto, l'ultima roccaforte spagnola nel Nuovo Mondo, secondo la didascalia. Devo avere scorso la guida ieri sera, pensò, mettendola giù. A meno che... A meno che cosa? A meno che Hans non le avesse parlato di Vieques. Ma no, non l'aveva
mai fatto. Non aveva mai parlato della sua infanzia, né di quell'isola; nemmeno una volta. E Rose-Anne non le aveva fornito tutti questi dettagli. Allora come faccio a saperlo? Annie avrebbe detto che lei stava cercando di elaborare il suo lutto per Hans. Significava dunque che, nel suo intimo, era convinta che lui fosse morto? No, si disse, è vivo: non era suo il corpo nella bara, è per questo che sono qui, in questa situazione pazzesca. Bene, d'accordo, continua a ripetertelo. Ma allora, come fai a saperlo? Suo padre, quando era ufficiale di Marina aveva fatto un bel po' di traslochi trascinando la famiglia da una base all'altra del continente. Poteva darsi che fosse stato di stanza anche lì? Ma Elizabeth se lo sarebbe ricordata, o qualcuno glielo avrebbe detto. Non trovava risposte plausibili, nemmeno una, a quella sua conoscenza del luogo. Fuori dalla finestra si era fatto giorno pieno ma l'aria era fresca, filtrata dall'abbondante vegetazione. Lasciò un biglietto a Mary Blanchard e scivolò fuori dalla stanza. Gli uccelli della costa sfrecciavano nel cielo azzurro, emettendo le loro strane grida. Sentì il sole caldo sulla pelle, troppo caldo per i suoi vestiti. Ivor Greeley era sulla terrazza, beveva caffè e faceva un cruciverba. «Caffè?» le domandò e, quando lei annuì, andò a prenderlo lui stesso. «Devo comperare dei vestiti,» gli annunciò Elizabeth. «Certo, in questi cuoce. Non ha degli short?» «Sono partita all'improvviso.» L'uomo strinse gli occhi, diffidente. «Ha preso il volo? Ha qualcuno alle calcagna? Le brucia la coda? È ricercata? Hanno messo una taglia sulla sua testa?» «No.» Non ancora almeno, pensò. «Peccato, da queste parti non succede mai niente di interessante. Com'è il caffè?» «Fantastico,» rispose lei educata. Ne aveva bevuto un solo sorso. «È cubano, di contrabbando, per questo è così buono. Odio che mi proibiscano di acquistare il caffè di qualcuno solo perché non fa la stessa politica dello zio Sam. Dalle mie parti, per questo motivo un tempo abbiamo buttato un bel po' di tè inglese nelle acque del porto.» «Lei è di Boston.» «Esatto. Ho una nipote che frequenta la Emerson ed è convinta che la Seconda Guerra Mondiale e la guerra del Vietnam siano lo stesso conflitto.
Allora, come mai una ragazza intelligente come lei viaggia senza bagaglio?» Tra gli alberi, dietro la terrazza rimbombò un forte tuono, che evitò a Elizabeth di dover rispondere un'altra volta alla stessa domanda. «Sembra che voglia piovere,» osservò. «A volte piove, di mattina. Ma questa non è pioggia: stamattina la Marina bombarda. Dal rumore, direi che sono bombe da duecento quintali.» Ancora la Marina. Ma che c'entra con tutto questo la Marina? L'esercitazione militare durò un'ora, mentre lei prendeva un'abbondante prima colazione in un ristorante vicino, a base di pesce fritto, riso e arepas, una deliziosa frittella che le suscitava vaghi ricordi. Stava fantasticando, forse solo per placare l'ansia: chi mai l'aveva invitata in quel lontano paradiso dove però tutto le sembrava stranamente familiare? La prima colazione la calmò un po' e, quando aprirono i negozi, si comperò un paio di short, una T-shirt e una camicia da lavoro consunta in un negozio di vestiti usati gestito da locali. Prese anche un paio di occhiali da sole e un piccolo zaino di nailon per metterci i nuovi acquisti. Le sue vecchie scarpe da tennis andavano invece benissimo. La destinazione successiva fu l'ufficio del turismo. La donna dietro il banco, un'ottuagenaria abbronzata con i capelli candidi come la neve, si dimostrò anche lei piuttosto scettica riguardo al fax. Comunque, le confermò che la locanda all'Orizzonte blu esisteva veramente e le suggerì di andarci. Quando Elizabeth trovò finalmente il posto, fu sorpresa dall'eleganza e dal fascino. Era una vecchia locanda sulla spiaggia, con l'atrio arredato con mobili di vimini e bambù. Andò dall'impiegata al banco di ricevimento, una bella donna con una rosa di carta tra i capelli, che stava inserendo le ricevute del bar in un'addizionatrice. C'era effettivamente una prenotazione a nome di Elizabeth Parker, ma lei era arrivata un giorno prima. «Ho preso il traghetto. Allora, ho vinto un soggiorno gratuito qui?» La donna alzò la testa. «Gratuito?» «Be', guardi qui.» Ed Elizabeth estrasse ancora una volta il fax. «Deve avere il ragazzo in una delle basi, eh?» disse quella, sorridendo. «Come fa a dirlo?» L'impiegata si mise a sfogliare un registro logoro facendo scorrere il dito su alcune annotazioni, sino a che arrivò a quella che includeva il nome di Elizabeth. «Vede qui? La camera è stata prenotata da Roosevelt Roads, non c'è
dubbio. Il soggiorno è stato pagato con una carta di credito e non c'è la data di partenza. Lui deve essere veramente molto impaziente di incontrarla.» Elizabeth sentì un brivido di terrore. «Qual è il nome sulla carta di credito?» La donna scosse la testa. «Ci sono solo una lettera e un numero di codice. Lo fanno spesso: i militari sono fissati con la segretezza. In quelle basi accadono un sacco di cose top secret. Qualcuno è convinto che stiano smontando un'astronave aliena... come si dice...» «Ingegneria inversa,» rispose Elizabeth cercando di mostrarsi calma e riponendo il fax nello zaino. «Nessuno di quelli dirà mai cosa succede là. In realtà, sono due mondi separati: noi che viviamo qui e loro che fanno quello che vogliono e quando lo vogliono. Desidera vedere la stanza?» «No.» «Però vuole registrarsi, vero?» «No, temo di no.» E girò sui tacchi dirigendosi verso la porta. «Ma è una bella camera!» le urlò l'altra. Elizabeth era già a metà del vialetto, quando sentì aprirsi la porta e la donna gridare ancora. Si girò, pronta ad attaccare. «Signora, ho trovato un messaggio telefonico. Mi scusi, non l'avevo visto prima, era sul fondo della casella.» Lei si fermò, paralizzata. «Che messaggio?» «Glielo leggo io, perché la ragazza del turno di notte scrive con i piedi.» La donna aguzzò la vista sul foglietto rosa. «Dice che le verrà incontro all'aeroporto.» «Chi?» «Non c'è il nome. Sarà il ragazzo che l'ha invitata, no? Allora la vuole la camera, adesso?» «No, non adesso.» Elizabeth afferrò il messaggio; in effetti era illeggibile. «Ma lei può dirmi una cosa?» «Qualsiasi cosa, chieda pure. Non ci tengo a perderla come cliente.» «Dove atterrerà l'aereo?» L'aeroporto civile di Vieques era una striscia di asfalto cotta dal sole, non lontano da Isabel Segunda dove aveva attraccato il traghetto. Elizabeth aveva noleggiato una Honda Civic e adesso se ne stava accucciata sul sedile del guidatore bevendo Coca Cola e ascoltando la radio. Dalla base navale di Roosevelt Roads, sull'altra isola, trasmettevano una chiacchierata in-
formale sulle condizioni del tempo. Temperatura 25,5 °C, umidità 68 per cento, temperatura di condensazione 68, vento da est 7 nodi, leggera nuvolosità, visibilità 16 chilometri. Diede un'occhiata all'orologio: le 18.45. Le notizie sul tempo furono improvvisamente sommerse dal rombo di un aereo sulla sua testa. Spense la radio. L'aereo stava già planando per atterrare. Il bimotore Cessna Navajo della Caibair si arrestò in fondo alla pista. Elizabeth prese il binocolo che si era fatta prestare da Ivor con la scusa di «fare un po' di bird watching», insomma per osservare un po' la natura del luogo. Si trovava a oltre cento metri dal parcheggio, dove alcuni taxi e diverse auto a noleggio attendevano i passeggeri dell'aereo. Osservò l'aerotaxi: la porta della cabina di pilotaggio era già aperta. Nel parcheggio, varie persone emergevano dalle auto con l'aria condizionata. Alla fine uscirono tutte, tranne una. Restava accucciata in una Range Rover con una targa diversa dalle altre. Una targa governativa. Da una fessura del finestrino si alzavano piccole volute di fumo di sigaretta. Mentre i passeggeri sbarcavano dal Cessna, la persona che si trovava al volante spense la sigaretta e si raddrizzò. Non era Hans. Doveva avere dieci anni di meno: era sulla ventina, con capelli disordinati ossigenati e un tatuaggio a braccialetto sul bicipite. Un po' strano, ma davvero un bel tipo. Comunque non era Hans. Dai, Lizzy, ti aspettavi veramente che fosse lui? Ma se non era così, perché questo tuffo al cuore? La Range Rover non si muoveva. Elizabeth volse di nuovo il binocolo sul Cessna. Il pilota e il copilota stavano scendendo a terra: sull'aereo non c'erano altre persone. Frustrato, il ragazzo sferrò una violenta manata sul cruscotto, poi avviò l'auto per uscire dal parcheggio. All'inizio guidò adagio, ma poi le sfrecciò accanto così veloce che lei si accucciò istintivamente sul sedile. È IslandMan, pensò. Nello specchietto retrovisore vide di nuovo la targa: una targa delle forze armate, ne era sicura. Aspettò che il ragazzo fosse alla distanza di una dozzina di auto, poi lo seguì. La Range Rover si diresse verso Esperanza seguendo la fila di auto e ta-
xi che avevano raccolto tutti i passeggeri all'aeroporto. Elizabeth lasciò passare un camion che trasportava attrezzature subacquee sperando con tutte le sue forze che il ragazzo stesse guardando avanti. Più o meno a metà della via principale di Esperanza, la macchina accostò al marciapiede. Lei fece altrettanto, un isolato dietro, e si dispose ad aspettare. Il ragazzo uscì dall'auto e attraversò la strada. Elizabeth lo seguì con il binocolo: era diretto alla spiaggia e alla locanda all'Orizzonte blu. Con il cuore in gola, ripartì e gettò un'occhiata furtiva alla locanda mentre la superava. Il ragazzo era nella hall e parlava con la donna con la rosa di carta tra i capelli. Lei scuoteva la testa e faceva spallucce, poi Elizabeth non riuscì più a vederli. Fece il giro dell'isolato e si fermò nello stesso punto di prima. Il ragazzo uscì dall'albergo, strapazzando irritato la T-shirt con Scooby-Doo. Tornò alla Range Rover e ripartì sgommando. Elizabeth si rimise a seguirlo, lasciando che almeno due auto si frapponessero tra loro. Ma adesso lui andava molto più in fretta e temeva di perderlo. Il ragazzo tornò all'aeroporto per una strada diversa, poi si diresse verso nord. Un quarto d'ora dopo, mentre superavano El Fortín, svoltò improvvisamente a destra. Elizabeth ebbe l'impressione che si fosse accorto di essere seguito. Guardò nello specchietto retrovisore per valutare a quale distanza mantenersi per non essere notata, e vide una seconda auto con targa SUV che rallentava insieme a lei. Il riflesso del sole sul parabrezza le impediva di vedere il viso del conducente ma era convinta che la stesse seguendo, quindi rallentò ancora. No, adesso la macchina svoltava in una strada secondaria. Attraverso i finestrini laterali vide che dentro c'era una famiglia. Tornò a guardare avanti: la Range Rover era scomparsa. Si maledisse: si era spaventata inutilmente e così aveva perduto la sua preda. Spinse l'Honda a tutta velocità. Arrivò in cima a un dosso, dove la strada si stendeva diritta davanti a lei, ma la Range Rover non c'era. Sentieri di terra battuta si perdevano fra i cespugli in tutte le direzioni ed era impossibile capire quale avesse preso quello strambo ragazzo. Ma brava, Lizzy, te lo sei lasciato scappare! Fece un respiro profondo. Aveva stretto così forte il volante che le dolevano le mani. Era terrorizzata, fradicia di sudore e tutta tremante per il nervosismo. Accostò al ciglio della strada e si accese una sigaretta. Probabilmente è meglio così, si disse inspirando profondamente per cercare di calmarsi. Pur
avendo perso le tracce del ragazzo, provava un certo sollievo. Adesso poteva tornare in albergo, fare la doccia, bere un margarita e magari uscire a divertirsi con le hostess. Avviò il motore ed entrò in uno slargo per fare inversione di marcia. Subito si trovò di fronte un cancello con il filo spinato e un marine armato che la fissava con estrema attenzione. Elizabeth sentì il sangue gelarsi nelle vene. Dietro la testa del marine spuntava l'insegna: CAMPO GARCIA - CORPO DEI MARINES USA. Il militare le si stava avvicinando. Lei cercò di ripartire ma la macchina si spense. Merda! Il militare era ormai all'altezza del finestrino dell'auto. «Serve qualcosa, signora?» «No, grazie, sto solo girando l'auto.» Il marine annuì e le fece un breve cenno di saluto. Sembrava un quindicenne ma doveva avere almeno diciotto anni. Quando si era chinato per parlarle, dietro il suo viso Elizabeth aveva visto sporgere la canna del fucile. Le mani le tremavano di nuovo, ma riuscì ad avviare l'auto e ripartì. Gettò un rapido sguardo allo specchietto retrovisore: no, il marine non si era attaccato al telefono. Quando tornò a Esperanza e alla Casa del Francés, non c'erano messaggi né ragazzi punk ad attenderla nell'atrio, né soldati nascosti nell'armadio e neppure mostri sotto il letto. Lizzy, sei l'essere più idiota e paranoico dell'isola. O è così o questa volta, per un puro colpo di fortuna, l'hai scampata bella. Per due giorni, Peter Jr. aveva messo sotto pressione i suoi collaboratori. Adesso erano tutti ugualmente esausti ed eccitati. In sole quarantotto ore sbalorditive e folgoranti, il figlio geniale di un uomo che avevano prima venerato e poi pianto, aveva completamente ridisegnato l'arma. «Ma dov'è stato finora?» domandava Rosemarie Wiener. «E come mai il padre non ce ne ha mai parlato? Voi Jance, sempre pieni di segreti.» E fissò l'inguine di Peter in modo così spudorato che lui si mise a ridere. Il rifiuto di quelle avances aveva avuto l'unico effetto di rinfocolare la curiosità della ragazza. Quando il capo lasciò momentaneamente la stanza, Rosemarie si rivolse ad Alex. «Assomiglia moltissimo al padre.» «E allora? Di solito, i figli hanno questa abitudine.» «Gli somiglia... troppo. Hai presente la foto del padre sull'Enciclopedia
Britannica? È praticamente identico.» «Non sarà mica il suo clone?» «Tutto quello che so,» riprese lei senza degnarlo di una risposta, «è che è attaccatissimo alla madre. Ogni volta che incontro Beatrice, c'è anche lui.» «Mmm.» Alex si grattò la testa continuando a inserire cifre in un laptop. «Non mi sorprenderei se dormisse con lei.» «Ma quanto sei divertente, Alex!» «Quello che mi piacerebbe sapere,» intervenne Flannagan, che aveva speso la mattina a navigare in Internet, «è perché, quando il vecchio vinse il Nobel, ringraziò la moglie ma i giornali non parlarono di un figlio.» «Perché,» gli rispose Alex, «il bambino aveva meno due anni, cioè... sarebbe nato due anni dopo. Fa' un po' di calcoli... Oh, io sono stufo di fare tutto il lavoro pesante.» Il ragazzo uscì e gli altri si guardarono in faccia perplessi. «Ma che gli prende?» «Non chiedetelo a me,» rispose Rosemarie e tornò al lavoro, sempre in una posizione vicinissima a quella del capo. In realtà, nessuno prestava grande attenzione alla questione Peter Jance Sr.-Peter Jance Jr. C'erano argomenti molto più interessanti. I calcoli cominciavano a quadrare. La nuova arma si dimostrava due volte più piccola e tre volte più potente della precedente, sia sulla carta sia sui modelli computerizzati di Alex. Ora si trattava di passare dalla progettazione alla costruzione. E questa nuova fase sarebbe arrivata presto: negli ultimi tre giorni, Henderson lo Spietato aveva continuato a entrare e uscire dal laboratorio. «La prossima settimana si torna a White Sands,» annunciò, in privato, il colonnello a Peter. «Se la sente?» «Mai stato più in forma,» rispose l'altro scribacchiando IMPORTANTISSIMO! NON CANCELLARE sulla lavagna del laboratorio. «E mai stato così pronto per l'amore.» Mise via gli appunti e, dallo stesso cassetto della scrivania, estrasse un paio di scarpe per correre. Ma Henderson non era affatto divertito. L'ossessione di Peter per la forma fisica era diventata oggetto di preoccupazioni quotidiane per Barrola e tutta l'équipe medica. Solo Wolfe sembrava non preoccuparsene, ma secondo il colonnello era diventato troppo permissivo. «Se ne torna sul tapis roulant? Siamo sicuri di non affaticare troppo le arterie cerebrali?» gli chiese Henderson. «Le sue, non lo so, ma le mie stanno benissimo. Inoltre, Freddy mi ha
dato il permesso,» mentì Peter. Dopo l'intervento, si era molto seccato di dover rispondere direttamente a Henderson invece che all'équipe di Wolfe. «È sicuro?» «Mens sana in corpore sano. Dica, a West Point non insegnano il latino?» «Affanculo,» gli rispose l'altro duramente. Jance stava diventando davvero troppo arrogante per i suoi gusti. Tutte quelle arie «sono un genio e ho i miei privilegi» iniziavano a dargli sui nervi. «Barrola dice che è un rischio inutile.» «Lui è un culo di piombo,» replicò Peter con un sorriso gelido. «Ho bisogno di rilassarmi. Non vorrà che sfoghi la mia pazzia su di lei?» Passò trotterellando accanto a Henderson e uscì dalla stanza. Quel pomeriggio corse per mezz'ora, sudando pochissimo. Fu monitorizzato da una delle api operaie di Barrola, istruita dal capo di informarlo al minimo segno di anomalie. La donna rilevò alcune irregolarità benigne del fascio AV, ma un confronto rapido tra gli ECG di Peter Sr. e di Peter Jr. dimostrò che si trattava di caratteristiche congenite. Come punizione per la sua pignoleria, la donna dovette starsene seduta altri tre quarti d'ora mentre Peter raggiungeva un'altitudine equivalente a quella di Machu Picchu. Tornato nel suo appartamento, Jance si fece una doccia e indossò indumenti puliti. Le nude pareti beige e il soffitto basso gli davano la claustrofobia. Quell'appartamento aveva il fascino di una stanza di motel. Nonostante Beatrice avesse cercato di aggiungere un tono di colore con un grande mazzo di crisantemi secchi in una fiaschetta gigante di Erlenmeyer, quelle tre stanze gli apparivano estranee e soffocanti, piccole e vecchie, troppo vecchie per contenere la sua ritrovata energia. Uscì sul terrazzo, l'unica zona all'aperto loro concessa. E lì lo trovò Beatrice di ritorno dalla cena, notando che aveva lo sguardo perso in lontananza. «Peter? Stai bene?» Annuì senza guardarla. «Non è che ti gira di nuovo la testa?» «Sto bene, sto solo ascoltando,» rispose lui, un po' seccato. «Che cosa?» «L'oceano.» «Ma da qui non si sente.» «Sì che lo sento, e ne sento anche l'odore.» La moglie gli si avvicinò e annusò l'aria. «Io non sento un accidenti.»
«È veramente sbalorditivo. Lo vedi quell'uccello su quell'albero?» E glielo indicò. «Dove?» Il marito glielo indicò ancora. Beatrice vide solo qualcosa di indistinto. «Ma sei sicuro che non sia una foglia?» «È una gru delle dune.» Le prese la mano e gliela strinse. «Ti ricordi? Me l'hai insegnato tu a riconoscerle. Un mese fa non avrei visto nulla, tanto meno la macchia rossa che hanno sulla fronte. O sto confondendo due specie diverse? Tu sei sempre stata più brava di me in queste cose.» «Stai solo cercando di essere gentile, comunque grazie.» «B., non sto cercando di essere gentile.» «Vorrei che, d'ora in poi, la mettessi tu la tua biancheria nel cesto.» «D'accordo.» «Scusa se sono così schizzinosa. E anche le lenzuola.» «D'accordo, mamma,» commentò con una venatura sarcastica. Se ne pentì subito. Forse Henderson e gli altri avevano ragione: stava diventando un po' stronzo. «Lo sai che non intendevo in quel senso. Scusami, B.» Beatrice strinse le labbra, segno sicuro che era irritata. La sua mano, in quella del marito, era diventata un peso morto e Peter la lasciò andare. «Se vuoi strillare con qualcuno, fallo con il mio sistema nervoso autonomo.» «Sto forse strillando? Sei tu quello che sta strillando.» Ma lui non aveva alzato la voce. O forse sì? Sentiva avvicinarsi a grandi passi un litigio, uno di quelli brutti. Era meglio che se ne andasse prima che scoppiasse la bufera. Ma, chissà perché, non riusciva a muoversi. «Non sono tua madre,» gli sibilò Beatrice tra i denti. «Potremmo tornare a dormire in letti separati, se la cosa ti disturba tanto.» «Benissimo.» «Non dirai sul serio? Stavo solo scherzando. Dai, B.» «In effetti, sarebbe una buona idea dormire in appartamenti separati.» «Beatrice, piantala.» «I tuoi cominciano a mormorare.» «E lasciali fare. Non sanno che dormiamo nella stessa camera, questa faccenda è off-limits.» «Ma le cameriere parlano.»
«Smettila, stai diventando impossibile. Dai, vieni qui.» Cercò di prenderla tra le braccia ma lei lo respinse. Negli occhi le spuntarono grosse lacrime. «È una cosa orribile.» «Sst. Non te la prendere...» «Io sono vecchia, e tu giovane. Questa è la fine di tutto.» «La fine di cosa? Ti prego, B., smettila. Non sono diverso, sono sempre io.» La donna si sedette sul terrazzo accendendosi una sigaretta. Peter riconobbe il pacchetto blu: Gauloises, la marca di Wolfe. «Stai diventando frenetico, lo dicono tutti.» «Frenetico?» rispose lui, cercando di sorridere. «Be', penso che dovrei essere loro grato per la definizione. A proposito, da quando hai ripreso a fumare?» «Da quando mi sento così.» Sbuffò rabbiosamente una boccata di fumo. «Era ancora lei?» gli chiese. «Chi lei?» «Quella che hai sognato per tutta la settimana: miss Sistema Nervoso Autonomo, la bionda con le grandi tette.» «Non ho mai detto che avesse delle grandi tette.» «D'accordo. Ma stavi pensando a lei.» «Beatrice, scherzavo,» mentì Peter. Cominciò a giocherellare con i capelli bianchi della moglie nel punto in cui si arricciavano dietro le orecchie, ma subito ritirò la mano. «Tu sei l'unica bionda dei miei sogni. Ascolta, se vuoi parlare della mia sessualità...» disse Peter senza riuscire a guardarla. «Oh, bene, non vedo l'ora. La sai una cosa? Sei proprio insopportabile.» Beatrice schiacciò la sigaretta, si alzò e tornò in camera da letto. Va bene, voltami le spalle anche tu, pensò lui, sopraffatto da un'ondata di rabbia e autocommiserazione. Cos'ho fatto che avrei potuto non fare? Proprio niente. Ho avuto sogni erotici anche in passato. Sì, quando avevi quindici anni. E non era sempre la stessa donna, notte dopo notte. Okay, B., mi hai scoperto, rimuginò guardando oltre le palme, verso il rumore delle onde. Allora, cosa dobbiamo fare? L'angelo dell'eros è una pazzia chiusa nei miei sogni, non ha alcun senso. Ma davanti agli occhi gli balenò il viso di quella donna. Dannazione! Il sogno stava riaffiorando. Sentiva tra le dita i capelli della donna, una
cascata di seta che cambiava continuamente colore: biondi, neri, arancione, e poi di nuovo neri. Cercò il corpo sodo e accogliente, ne percepì il lieve peso, le linee flessuose, la perfezione. Tutto gli era profondamente familiare. Anche se cercava di scacciare quell'immagine, ricordava con una chiarezza che gli mozzava il fiato la sensazione estatica di completa fusione che aveva coronato quella apparizione la notte precedente. Per la prima volta da quando l'aveva incontrata nel mondo dei sogni, la donna gli aveva mostrato il viso. Era, insieme, tremendamente familiare e profondamente sconosciuto: la fronte alta, le labbra piene e gli enormi occhi grigi con una lievissima cicatrice sull'orbita superiore. Era straordinario come la mente riuscisse a inventare lineamenti, geografie, edifici, paesaggi nei minimi dettagli, in continuazione, momento per momento, e tutto dal nulla. Sì, perché non trasformi tutto ciò in uno studio scientifico? Terrà sicuramente a freno i tuoi ormoni, si disse. Ma quella storia doveva proprio finire. La donna cominciava a interferire con il lavoro, gli compariva davanti anche nei momenti creativi, come uno spirito incapace di sopportare la separazione da lui. B., se potessi me la strapperei dalla mente come un'erbaccia. Peter si scostò dalla balaustra del terrazzo. «A proposito, da quando Wolfe ti passa le sue sigarette?» domandò entrando nell'appartamento. Sentì una porta sbattere da qualche parte. «Beatrice?» Sperando di essersi sbagliato, attraversò di corsa le poche stanze: l'avrebbe trovata a lavarsi i denti o a prepararsi il tè. Invece la moglie se n'era andata. Non fece il minimo tentativo di seguirla. Si sedette e si versò un po' di vodka dalla bottiglia conservata in frigorifero. Non beveva dall'intervento ma, dopo quel litigio, si meritava senz'altro un goccetto. Il liquore gli bruciò come acido. Piegato in due, Peter corse al lavandino per sputarlo. Dio mio, pensò mezzo soffocato, questo corpo non ha mai assaggiato alcolici! Accidenti, c'era un miliardo di cose che doveva insegnare a se stesso. Ma c'era un grosso problema: chi era l'insegnante e chi l'allievo? Poi, il viso della ragazza gli balenò di nuovo davanti, e questa volta riempì tutto il cielo.
9 Peter non riusciva proprio a dormire, e non solo a causa dell'assenza di Beatrice. Decine di volte, durante il loro matrimonio, la moglie aveva trascorso notti intere in laboratorio. A volte lo faceva anche per ripicca, ma la mattina dopo era sempre tornata. Era abituato alle sfuriate della donna, e spesso anche lui si era arrabbiato e aveva passato la notte nel suo laboratorio. Nei lontani esordi del loro amore, quando litigavano ferocemente, Peter la riaccompagnava a casa dicendole che tra loro era finita. Poi continuava a fare il giro dell'isolato dove abitava Beatrice finché lei non ricompariva. Allora restavano seduti nell'auto in silenzio, a volte per intere ore, finché uno dei due si arrendeva e chiedeva scusa. La moglie aveva l'ostinazione e l'orgoglio del padre e non era disposta a cedere a un qualsiasi aspirante al trono della fisica moderna. Il padre di Beatrice era stato uno degli artefici della rivoluzione della fisica, collega di de Broglie e di Bohr. Uomo irascibile e autoritario, dotato di grande fascino ed enorme influenza sui comitati di finanziamento e i politici, aveva poco tempo e pazienza per l'unica figlia. Senza neppure rendersene conto, lei aveva lottato per sfuggire al suo campo gravitazionale così da affermarsi nel mondo della scienza con le proprie forze. E Peter amava pensare di essere stato lui a darle la fiducia necessaria per staccarsi dal padre. Ma Beatrice continuava a venerare la figura paterna, negando persino che ci fossero motivi di ribellarsi. Ai suoi occhi, il padre era un semidio e, su questo, Peter doveva concordare, seppure a malincuore. L'adorazione per il padre era l'unico punto debole nella personalità di Beatrice. Su Peter, invece, lei non proiettava le proprie debolezze: si limitava ad amarlo con tutte le sue forze. I desideri del marito erano i suoi, i sogni di lei quelli di lui; tutto ciò di cui uno dei due aveva bisogno, gli veniva dato dall'altro, con piacere e senza riserve. Tranne, naturalmente, quando litigavano. I litigi mantenevano comunque vivo il matrimonio, e più o meno dal loro venticinquesimo anniversario non duravano mai più di poche ore. Ma questa volta era diverso. Stavolta, Beatrice se ne era andata e mancava da due giorni. Naturalmente, si trovava ancora alla base, dove dormiva in una delle stanze riservate ai visitatori di alto rango. Lei non aveva ceduto, ma neanche lui, sebbene la testa consigliasse a Peter di andare dalla moglie per fare la pace.
Ma il corpo gli parlava diversamente. Quello che il corpo voleva veramente dirgli, lui non l'aveva ancora capito. Per due notti ebbe degli scatti ai muscoli delle gambe, come una rana in un laboratorio di biologia o un cane che sogni di rincorrere un coniglio. La carenza di zinco o di potassio era la diagnosi usuale, ma non in un corpo di quell'età. E il miorilassante prescritto da Wolfe aveva solo reso Peter assonnato e indifferente al ritardo di due giorni sul programma di lavoro del suo gruppo. Lui restava però indifferente anche quando l'effetto del Valium svaniva. In effetti, nelle ultime quarantotto ore aveva lasciato molto a desiderare. Cosa diavolo gli stava succedendo? Non riusciva proprio a capirlo. Aveva trascorso gran parte del tempo a scorrere vari database alla ricerca di informazioni sulla memoria cellulare. Erano per lo più lavori pseudoscientifici, bizzarre ipotesi sulla memoria dei ricordi nell'RNA. C'erano esperimenti della fine degli anni Ottanta su batteri che, misteriosamente e senza apparenti mutazioni, ricordavano come metabolizzare il cibo di cui si erano nutriti i loro precursori cellulari. Le ricerche era costituite in parte da vere stupidaggini larmarckiane aggiornate sugli sviluppi della biologia molecolare. Faceva eccezione un esperimento particolarmente agghiacciante, in cui gatti decorticati sembravano aver imparato ad attraversare un labirinto dopo aver mangiato l'RNA dei loro genitori. Cose ridicole, o incredibili. Ma chi era lui per parlare di esperimenti «agghiaccianti»? Per punizione, Peter aveva letto tre volte il protocollo degli esperimenti sui gatti. No, la metodologia era tutta sbagliata. Non dimostravano un bel niente, e le loro ipotesi non lo portavano da nessuna parte. Inoltre, lui disponeva di un laboratorio migliore: il proprio corpo. Partì dalle differenze più evidenti. Non solo lui aveva i muscoli più sviluppati, ma anche i riflessi più rapidi, come aveva notato una mattina. Gli era caduta una pastiglia del farmaco contro il colesterolo, e nella frazione di secondo in cui si era reso conto che stava cadendo dal tavolo, la mano era già pronta a raccoglierla. Fulminea, istantanea, molto più veloce di quanto avesse mai fatto con il suo corpo di un tempo, a qualsiasi età. L'uomo che l'aveva dotato di quel nuovo corpo doveva essere stato un atleta. Forse aveva anche praticato un po' la boxe. La prima mattina che Beatrice non era tornata, Peter stava in piedi davanti allo specchio, furibondo. Improvvisamente si scoprì a tirare rabbiosi destri e sinistri verso
la sua immagine riflessa. Ma era difficile immaginare che un uomo con doti del genere mettesse a repentaglio il proprio cervello su un ring. Forse non dava alcuna importanza alla sua mente, oppure era così bravo da non doversi preoccupare di venire messo k.o. Ma cosa diavolo sto facendo?, disse tra sé, sentendo una fitta di senso di colpa. Non voglio sapere nulla di quell'uomo. Ne ho già parlato fino alla nausea con Beatrice. Ma io sono uno scienziato. Sto solo facendo ciò per cui sono programmato fin dalla nascita: cercare di arrivare alla radice delle cose. Per esempio, cercare di capire come mai si era scoperto un abile giocoliere. Proprio quella mattina, Peter aveva notato anche quest'altro talento nascosto. Niente di spettacolare: giocò solo con tre arance, ma non l'aveva mai fatto prima. Aveva visto le arance in cucina e, senza farci caso, le aveva prese. Mentre aveva la mente concentrata sulla formula di un nuovo raggio a impulsi, improvvisamente aveva cominciato a lanciare in aria le arance. Era troppo interessante per lasciar perdere: non vedeva l'ora di discuterne con Beatrice. E, quanto a Wolfe, la biologia molecolare era il suo pane. Più tardi, nel pomeriggio, raccolse quindi le sue carte e attraversò il lungo portico a protezione dal sole rovente per raggiungere Freddy. Lo scienziato era nel suo studio con Alex, e Peter li sentì nonostante la porta chiusa. L'uomo stava rimproverando il nipote poiché gli erano giunte notizie sulle assenze del ragazzo dal laboratorio. Poco dopo Alex uscì, salutò rapidamente Peter e si allontanò tranquillo lungo il corridoio. Wolfe era alla scrivania e si teneva la fronte corrugata e piena di macchie brune con una mano. «Mi hai risparmiato la fatica, stavo venendo a trovarti,» esordì. «Ho sentito dire che il lavoro sta rallentando. È vero?» «Niente di irrimediabile,» rispose Peter con aria vaga. Si diresse alla porta finestra del terrazzo. Lo studio di Wolfe aveva una veranda grande il doppio di quella degli altri, eccezion fatta forse per Henderson. «Li senti?» chiese scrutando nella penombra che iniziava a calare. «Che cosa?» «I coquis, le raganelle. Quando ero bambino, qui, li cacciavo con la pila.» L'altro tese l'orecchio, poi scosse la testa. «Evidentemente il mio udito è
peggiore del tuo.» «Con alcune specie, puoi persino calcolare la temperatura esterna. Conta il numero di gracidìi in quindici secondi, poi togli dieci.» «Affascinante,» replicò secco l'altro. «È di questo che volevi parlarmi?» «Mi ero dimenticato di essere un appassionato della natura.» «Veramente era Beatrice che amava osservare gli uccelli, fare bird watching.» «Sì, ma lo facevo anch'io. E adesso...» «Adesso cosa?» «Adesso,» riprese Peter ricominciando a scrutare fuori, «uso la natura per sperimentare mezzi di distruzione di massa incenerendo animali innocenti.» Scambiando il tono trasognato del vecchio amico per un malcelato sarcasmo, Wolfe se ne uscì in una delle sue caratteristiche risate abbaianti. «Be', se ti piace vederla così...» Ma subito si accorse che l'altro era serio e smise di ridere. «È per questo che sei venuto? Per essere liberato dai dubbi? Ma non è sempre stato il compito di Beatrice?» Una nota falsa nel tono dell'amico mise Peter in allerta. «Sai che abbiamo litigato?» «No,» rispose l'altro, un po' troppo frettolosamente. «Un paio di sere fa abbiamo avuto una delle nostre solite liti. Siamo tutti e due cintura nera in discussioni coniugali, quindi non c'è niente di preoccupante.» Ora era lui a fingere. «In realtà, sono venuto a parlarti di questo corpo.» E si diede un colpo sulla coscia. «È così che lo consideri: "questo corpo"?» «Sì. All'inizio mi terrorizzava, adesso invece mi incuriosisce parecchio. Per esempio, è stato operato al ginocchio: due giorni fa ho scoperto le quattro piccole cicatrici dell'artroscopia. Non è abbastanza massiccio da aver giocato a football e la circonferenza delle due braccia è identica, quindi probabilmente non era neanche un giocatore di tennis. Ho pensato fosse uno sciatore, magari professionista. Il ginocchio funziona benissimo, quindi probabilmente è stato operato da un chirurgo di prim'ordine. Era ricco?» Wolfe lo guardò come se l'amico avesse bestemmiato in chiesa. «Ma perché mi fai tutte queste domande?» Fuori dalla finestra, i coquis continuavano a gracidare. «E so anche fare il giocoliere.» «Scusa?»
«E faccio a pugni con le ombre. E sogno persone che devo avere conosciuto. Sta succedendo qualcosa di veramente strano... Sto facendo un po' di ricerche sulla memoria cellulare...» «Ti prego, Peter, risparmiamelo...» «Sì, lo so, sono quasi tutte stupidaggini. Ma, ascoltami e non ridere. Ho letto di un caso: una donna sottoposta a un trapianto di cuore. Appena uscita dall'ospedale è andata a farsi una pizza e una birra. Ora, il fatto strano è che odiava la pizza e non aveva mai bevuto cose alcoliche in vita sua. Ma continuava a desiderare la pizza e la birra. Allora cercò di scoprire chi fosse il donatore del cuore. Vivendo in una piccola città, non le fu difficile: nelle ventiquattro ore precedenti al trapianto era morta una sola persona con il cuore utilizzabile. Era un venticinquenne deceduto in un incidente motociclistico avvenuto mentre stava andando a farsi una pizza e una birra. Era il suo pasto preferito e lo faceva una volta alla settimana, puntuale come un orologio.» «Ho già sentito questa storia. È solo una grossa cazzata,» fece l'altro, accendendosi una Gauloise. «Come fai a dirlo? L'hai forse chiesto alla donna? Freddy, te lo giuro, questi sogni... e poi i giochi di abilità con le mani, come te li spieghi? C'è sotto qualcosa, ma non ho sufficienti competenze in biologia. Potremmo lavorarci insieme.» Wolfe lo fulminò con lo sguardo, così Peter aggiunse rapidamente: «Naturalmente, lo farei nelle ore libere.» «Quali ore libere? Sei indietro di due giorni rispetto al programma. Mi spiace, Peter, non mi importa un fico secco di questa faccenda.» «Ma importa a me. Gli piaceva tirare di boxe? Era sposato? Cosa faceva per vivere?» «E magari era un attivista dei diritti degli animali? Così si spiegherebbe la tua crisi di coscienza...» «Be', no. Non pensavo esattamente questo...» Paonazzo, Wolfe balzò dalla sedia. «Peter, sei completamente impazzito? Per tua fortuna non c'è Henderson a sentirti. Santo cielo, conosci le regole!» «No, non conosco le regole. So pochissimo di questo progetto.» «Intendo dire, le regole di segretezza. Sono sicuro che sei perfettamente a conoscenza del protocollo. Non fare l'ingenuo.» «Io voglio conoscere le regole del progetto, che sono state formulate in mia assenza. Sono io il primo soggetto sperimentale, quindi ho il diritto di sapere come stanno veramente le cose.» Poi, abbassando la voce: «Ho il
diritto di sapere chi era il mio donatore.» «Ma cosa credi, che si tratti dell'adozione di un povero orfanello? Sono informazioni top secret.» «Potrei domandarlo ad Alex.» «Alex? E perché mai?» «È anche lui nel giro, no? Beatrice l'ha beccato a frugare nei file del Progetto Fontana.» «Lo so cosa tua moglie crede di avere visto. Invece non ha visto niente e mio nipote non stava facendo un bel niente.» «Forse dovrei parlarne con Henderson?» «Ma cosa vuoi fare?» Wolfe era fuori di sé. «Minacciare di abbandonare il progetto? Hai la vocazione del suicida? Peter, conosco Henderson meglio di te ed è una brutta bestia, da non provocare. Ha un carattere violento, e se lo fai arrabbiare ti potresti giocare tutto. Hai riavuto indietro la tua vita, non metterla a repentaglio stupidamente.» «Per Dio, questa sembra proprio una minaccia, Freddy.» «Peter, è solo la tua fervida immaginazione a parlare. Io non ho mai avuto bisogno di minacciare nessuno. Ti sto solo dicendo di tornare subito al lavoro e di non agitare le acque. La gente è già abbastanza nervosa. Quanto a raccontare a Beatrice i tuoi sogni erotici con belle ragazze, ti consiglio di piantarla. Anzi, ti consiglio di toglierti questi grilli dalla testa. Mi fido di te: sei un professionista, onora l'impegno che abbiamo preso reciprocamente.» Poi, con un sospiro: «Non voglio vedere crollare tutto. Non voglio che tu ti faccia male come un ragazzino che vuole fare di testa sua.» «Capisco,» rispose l'altro alzandosi. Wolfe sorrise aspirando la Gauloise. «Adesso io ti voglio bene come a un figlio, Peter... Su, torna al lavoro.» Invece di tornare in laboratorio, Peter ripercorse il portico fino all'ala riservata e al suo appartamento. Beatrice non c'era. Sentiva di nuovo le pareti richiudersi su di lui e, forse per vendetta, erano ricominciati gli scatti alle gambe. Si domandò se dovesse andare a correre in palestra. Uscì sul terrazzo e, alzando gli occhi al cielo che si stava scurendo, si rese conto che ne aveva fin sopra i capelli di quel maledetto tapis roulant. Corro, corro e non arrivo da nessuna parte. Prese un Valium e si sdraiò sul letto, ma non riusciva a calmare la mente. Poco dopo lo colpì un pensiero: come faceva Wolfe a sapere della donna dei suoi sogni? Quel vecchio bastardo aveva sicuramente parlato con Beatrice. Ma cosa diavolo stava succedendo?
E poi, cosa significava che la gente era già abbastanza nervosa? Chi era nervoso, oltre a lui? Nel suo letto, alla Casa del Francés, Elizabeth pensava alle raganelle. Da qualche parte aveva letto che non erano più grosse di una moneta, ma erano sicuramente molto più rumorose. Non riusciva a togliersele dalla mente e questo la turbava. Non aveva mai visto un coquis, tuttavia quell'immagine, con gli occhi scuri e bulbosi e le dita prensili, continuava a fluttuarle nella testa, come se l'osservasse rinchiusa in un barattolo. Ivor, che era diventato il suo migliore amico, le aveva raccontato che, negli stati del sud, di notte i ragazzini andavano a caccia di raganelle. Il padre di Elizabeth era stato di stanza nel Mississippi, a Hattiesburg o in qualche altro posto, quindi forse ciò spiegava tutto. Non c'era dunque bisogno che lei fosse già stata a Vieques. Se invece c'era stata, doveva essere successo un evento traumatico o innominabile. O era piuttosto l'insonnia che stava minando la sua salute mentale? Dal giorno in cui aveva seguito il ragazzo con i capelli ossigenati fino alla locanda all'Orizzonte blu, aveva dormito non più di un paio d'ore alla volta, svegliandosi di colpo al minimo rumore. Di giorno, si era recata diverse volte alla locanda ma non aveva visto segni del ragazzo o della sua Range Rover. L'impiegata dell'albergo le aveva confermato che, dopo che si erano parlate, era venuto un giovane chiedendo di lei. Le aveva domandato anche se, nel caso il ragazzo fosse tornato, doveva dirgli che lei era arrivata. No, molte grazie, le aveva risposto Elizabeth. Pensò di chiamare la madre di Hans e di dirle dove si trovava, nel caso... Nel caso di che? Era anche tornata due volte all'aeroporto civile, per controllare gli arrivi con la Caribair e poi per verificare i voli in partenza. Ma non era arrivato né partito nessuno che lei conoscesse, e lei stessa non voleva andare da nessuna parte, non prima di avere compreso la situazione e il mistero che l'aveva condotta fin lì. La misteriosa e-mail continuava a ossessionarla: IN ALTRE PAROLE, ELIZABETH, VORREI CHE TU FOSSI QUI... Che fosse o meno già stata a Vieques, ora Elizabeth si sentiva appartenere profondamente al luogo. Partire sarebbe stata un'azione da codardi. Ma cosa fare per sentirsi in qualche modo attiva, invece di ciondolare tutto il giorno in albergo? Non era abituata a quella vita. L'unico modo per riusci-
re a sopportarla era convincersi che, in un modo a lei sconosciuto, le era stato chiesto di restare. Doveva aspettare pazientemente come un fedele che attenda l'illuminazione, e intanto arrendersi a qualcosa che superava la sua comprensione. Così Elizabeth aspettava. E pensava. Chi sapeva che lei stava alla Casa del Francés, oltre alle tre hostess e a Ivor Greeley? A quanto ne risultava, nessuno. Poteva aspettare ma doveva uscire da quel maledetto albergo. Doveva assolutamente fare qualcosa, anche solo vagabondare per le strade. Qualsiasi cosa pur di scuotermi da questa immobilità, pensò afferrando le chiavi dell'auto. Percorse a passi felpati l'albergo immerso nell'oscurità e raggiunse il parcheggio, dove un vecchio dormiva su una sedia a sdraio. Aveva lunghi capelli bianchi, enormi vene azzurre sulle palpebre sporgenti e una lunga cicatrice sulla mascella. Era il guardiano. Una sera, nel suo spagnolo zoppicante, lei gli aveva chiesto se aveva visto aggirarsi nei dintorni qualcuno che somigliasse al ragazzo con i capelli ossigenati. Assolutamente no, le aveva risposto lui, e vedendolo russare sonoramente sulla sedia, adesso Elizabeth capiva perché. Ma non ebbe il coraggio di svegliarlo. Non era il caso di preoccuparsi: il vecchio non si mosse neanche quando fu illuminato in pieno dai fari dell'auto. Andò a Esperanza, dove si mise a vagare senza meta per un'ora buona lungo i viali illuminati e i vicoli silenziosi, finché trovò il Bananas. Mary Blanchard le aveva detto che era uno dei suoi bar preferiti. Era pieno di rumore e di americani, tra cui Mary e le sue due colleghe. «Ehi, Lizzer, prendi una sedia!» Elizabeth si sedette e divise con loro una ciotola di cipolle fritte e un giro di Corona. Dopo averle dispensato storie di celebrità ubriache e di parti felici a 35.000 piedi di altitudine, Mary accostò la sedia alla sua. «Allora, cos'è successo al fusto che dovevi incontrare? Non dirmi che ti ha mollata?» «Temo di sì.» «Incredibile! Be', adesso, per evitare che sia una disfatta totale, dobbiamo proprio farti divertire, d'accordo?» «Forse è ora che me ne torni a casa.» «Intendi, a casa negli States?» «Credo di sì.» Improvvisamente si era decisa. «Grazie di tutto quello che avete fatto per me, davvero. Siete state fantastiche. Non so come me la sa-
rei cavata se non vi avessi incontrato.» Abbracciò Mary d'impulso, come una sorella, e uscì dal bar. Qualcosa, nella musica troppo forte, nell'odore della birra, in quella gente che cercava facili rapporti per una notte, la intristiva tremendamente. In qualche modo, sentiva Hans vicino, sentiva che doveva andarsene immediatamente. Ma, quando arrivò all'auto, tutta la sua decisione era già scomparsa e, invece di tornare alla Casa del Francés a fare i bagagli, si diresse lungo la costa. Se senti Hans vicino, è stupido andartene, meditò. Vai via quando lo senti lontano. Ma adesso non lo sentiva affatto lontano. La luna piena tingeva d'argento il mare. Oltrepassò la baia del sole e la baia della mezzaluna e, dopo circa otto chilometri, fermò l'auto. C'era qualcosa di strano dietro gli alberi. Dalla spiaggia sottostante saliva un leggera luminosità verdastra, troppo innaturale e troppo diffusa per provenire dalle case. Forse qualcuno stava girando un film. Mary le aveva detto che, nell'isola, ne avevano girati parecchi, come Heartbreak Ridge e Il signore delle mosche. Ma non vedeva i soliti camion delle riprese né le immancabili tracce di una troupe cinematografica. Sentiva solo i coquis. Colta da un'altra ondata di quel bizzarro senso di déjà vu, uscì dall'auto. Sono già stata su questa spiaggia. Forse da piccola? O ci sono passata il giorno che ho seguito quello strano ragazzo? Chiuse gli occhi cercando di ignorare il gracidio delle raganelle. L'aria e le onde le ricordavano Cannes. Chiuse l'auto e rimase ferma, indecisa. Forse dovrei tornare in albergo e farmi un bel bagno caldo. Invece si diresse verso il rumore dell'oceano. Peter guardava fuori dalla terrazza. Non è poi così alto, pensava. Davanti all'edificio stazionavano le guardie e ogni ora passava la pattuglia di ronda. I sensori di movimento erano orientati verso l'esterno, contro gli alberi, e non contro l'ala residenziale del complesso. Il pannello di comando si trovava alla fine del corridoio, in uno sgabuzzino che aveva ispezionato dopo cena. Se necessario, poteva disattivare i sensori. Ed era proprio necessario. Ne aveva abbastanza di tutte quelle regole, era stanco, stufo di essere trattato come un fenomeno da baraccone. Non sono un prigioniero io, sono un volontario. Per la miseria, adesso pensava come il paziente di un ospedale psichiatrico. In effetti, l'incontro con Wolfe l'aveva fatto sentire un pazzo con la mente ronzante di domande assurde e il corpo agitatissimo, come un ani-
male appena catturato che non sia ancora abituato alla gabbia. Non voglio disertare. Voglio solo andarmene a correre a piedi nudi sulla spiaggia. È chiedere troppo? Si immaginò mentre faceva jogging sulla battigia: sentiva la sabbia morbida sotto i piedi, annusava l'aria salmastra, guardava la luna che illuminava la baia. Diavolo, tutti hanno festeggiato la mia nuova nascita, adesso tocca a me. Indossati gli indumenti per correre, Peter decise di saltare giù dal terrazzo. Per un attimo restò appeso alla ringhiera, sentendo l'agilità dei suoi muscoli: solo poco tempo prima non avrebbe potuto spiccare un salto del genere. Sorrise, poi si lasciò andare, atterrando agile e silenzioso come un gatto. Raggiunse a grandi passi il retro dell'edificio. Scivolò dentro, aprì il pannello, trovò l'interruttore del circuito e lo staccò. Si mise in ascolto. Nessun allarme. Nessuno scalpiccio di piedi. Diavolo, quel posto si trovava dentro una base della Marina in un'isola di proprietà delle forze armate statunitensi. Perché mai avrebbero dovuto preoccuparsi? Si avviò verso il bosco. Quando fu abbastanza lontano, si mise a correre. Sentì i muscoli delle gambe che lo spingevano senza sforzo attraverso gli alberi. Provava una crescente sensazione di libertà: la luna appariva e scompariva tra le palme, e lui sentiva l'aria che entrava e usciva dai polmoni con un lieve sibilo, mentre il leggero sciabordio del mare copriva i rumori della notte. Meno di dieci minuti dopo arrivò alla sabbia, poco dopo era in riva all'acqua. Era una spiaggia vietata ai civili, perché riservata allo sbarco con mezzi anfibi in caso di operazioni di guerra. L'ultima volta che vi aveva visto dei soldati era stato prima dell'operazione Tempesta nel Deserto. Ma ora era vuota: un ritorno alla natura, pensò Peter. Si tolse le scarpe e cominciò a correre a piedi nudi: si sentiva più felice di quanto aveva immaginato. Elizabeth si era girata almeno una decina di volte per tornare all'auto ma continuava a sentirsi attratta da una forza misteriosa che la spingeva verso l'oceano. Si fece strada tra l'erba scura, le palme e le mangrovie. Spesso, la luminosità scompariva e poteva avanzare solo alla luce della luna o a tentoni, quasi come una cieca. Si concesse solo altri cinque minuti, cioè altri cinquecento metri. E intanto pensava. Sono proprio una stupida. E se trovo un ubriaco, uno spacciatore o un animale selvatico? Parlo proprio come mia madre, si disse, continuando ad avanzare. Poi, quando fu troppo scuro
per vedere, si fermò a riprendere fiato. Ma che stava facendo, di notte, in un posto sconosciuto? Sull'isola c'erano serpenti velenosi? Sabbie mobili? Leoni, tigri e orsi, oh Dio! Elizabeth si girò per tornare indietro. Non aveva ancora fatto tre passi, che un improvviso avvallamento del terreno la fece sbilanciare in avanti: inciampò in un cespuglio e cadde lunga distesa in un'oscurità di pece. Dopo la botta si sentì rotolare per il pendio, arrestandosi contro una duna. Era comunque illesa, spaventata ma felice di essere ancora tutta intera. Si mise a ridere di sé: era un sacco di tempo che non faceva una cosa così, d'impulso. Si accorse infine che la luminosità verde chiaro le permetteva di vedere meglio intorno. Intravide la baia. Nascosta tra la strada e l'oceano, ora la baia emergeva da un stretto passaggio tra due ripide colline profumate di gelsomino e si distendeva davanti a lei come un magico tappeto di smeraldi. Luccicava di un tremolio verde-azzurro, come se miliardi di stelle fossero affondate nell'acqua. Era uno spettacolo che mozzava il fiato. E anch'esso le era assolutamente familiare. Io conosco questo posto. Ma come mai? Ricordò vagamente che Ivor Greeley aveva parlato con Mary Blanchard e le sue amiche della baia fosforescente. Doveva essere questa, e lei in qualche modo l'aveva trovata a memoria. Si rialzò, si scosse la sabbia di dosso e rimase incantata a guardarla, con la meravigliosa sensazione di sentirsi a casa. Mentre si avvicinava alla baia, la luna si nascose dietro le nuvole ma la luminosità non diminuì. La superficie del mare brillava di diverse sfumature, che si dispiegavano via via che lei si avvicinava alla pallida striscia di spiaggia. Giunta sulla riva, vide che la luce non si irradiava da un punto centrale ma da milioni di puntini minuscoli. Erano microrganismi a emettere quella luce? La sua non era però una domanda: lo sapeva con certezza. Si ricordò del sogno in cui aveva visto Hans in un mare di stelle. Il posto era quello, ne era sicurissima. Ma come aveva fatto ad arrivare a colpo sicuro in un luogo visto solo in sogno? L'assalì una ventata di paura e si girò per svignarsela. Ma non si mosse. Qualcuno stava correndo sulla spiaggia incontro a lei. Vedendolo avvicinarsi, a Elizabeth mancò il respiro. No, non poteva essere! In città, nei bar, per strada, spesso le era successo che per una frazione di secondo ogni uomo le sembrasse Hans. Poi si accorgeva dell'errore e
aspettava che i battiti del cuore si calmassero. Ma questa volta il cuore continuava a batterle furiosamente nel petto. L'uomo rallentò, poi si fermò, passandosi le mani tra i capelli biondi in un gesto che lei aveva visto centinaia di volte. La fissava e lei fissava lui. Tutti e due stettero come paralizzati, finché la luna non spuntò da dietro una nuvola. E allora si riconobbero. Elizabeth vide Hans e Peter vide la donna che aveva sognato da quando occupava quel corpo: era l'angelo dei suoi sogni, perfettamente identica e assolutamente terrorizzata da lui. Pur non avendola mai vista in carne e ossa, sapeva che quella era la donna che aveva amato, notte dopo notte, senza freni né riserve. Per un attimo, nessuno dei due riuscì a muoversi né a parlare. Poi Peter vide la donna fare un passo avanti, poi un altro. Si mosse allora verso di lei e sentì che lo chiamava. «Hans?» Hans! Si chiamava Hans. Peter aprì la bocca per parlare ma si ritrovò a correre verso la donna. Anche lei si precipitò verso di lui, ridendo. Si scontrarono finendo uno nelle braccia dell'altra. «Sei tu, sei proprio tu... Ma come...» Lui la fece tacere con un bacio. «Sì, sono io,» le disse. «Sono così... spaventata...» «Non devi esserlo. Sst,» disse Peter, vedendo le lacrime sgorgare da quei grandi occhi grigi. Senza altre parole, i due si abbracciarono. Intorno a loro, la notte scomparve e si sentirono affondare insieme nella sabbia. Si tolsero reciprocamente i vestiti con mani frenetiche, senza fiato tanta era la felicità. La mente di Peter fu attraversata dalla tremenda consapevolezza che la donna dai capelli biondi, gli occhi grigi e gli zigomi alti, la creatura forte e affettuosa, l'angelo appassionato, era l'amante del suo clone. Poi però tutti i pensieri svanirono e fu sopraffatto dal desiderio fisico, una sensazione così potente che cancellò tutti i dubbi e le paure. Peter entrò in lei con incredibile facilità: per la prima volta nella sua vita, il corpo dominava completamente la mente e faceva tutto quanto in suo potere per dare amore a quella donna. Lei sembrava assolutamente affamata di lui, ed era un tale miracolo di calore ed energia che lui eiaculò quasi subito. Invece di essere delusa, la donna ne sembrò felice. Fece una lieve esclamazione di sorpresa e gratitudine, poi si rannicchiò tra le sue braccia baciandogli il collo ed emettendo
gridolini di piacere. Giacquero abbracciati finché il loro respiro non si calmò e i cuori smisero di galoppare. Lei parlò per prima. «Oh Dio!» «Amen.» «Hans, spiegami cosa sta succedendo.» Peter cercò disperatamente qualcosa di logico da dire, poi disse l'unica verità possibile. «Non riesco ancora a parlare...» Sulla battigia l'attirò verso l'acqua tiepida, dove lei appoggiò i seni morbidi contro il suo petto. «Non eri tu dentro l'auto, lo sapevo. Ma allora chi era?» Che auto? Peter scosse la testa, impotente. «Non lo so.» «Dio mio, sei nei guai?» Istintivamente, lui rise tra sé. C'era forse qualche guaio in cui lui non fosse coinvolto? «Ho il dono di dire le cose più ovvie,» riprese lei, con un imbarazzo da ragazzina. «Questo significa che anch'io sono nei guai?» Santo Cielo, spero di no, pensò Peter. «No, no, certo.» «L'hai mandata tu l'e-mail? Sei tu IslandMan?» E-mail? IslandMan? Sentì un brivido gelido e cercò di assumere un'espressione neutra. Dille di tornare a casa, pensò disperato. Dille di metterci una pietra sopra, supplicala di dimenticarti, dille che non la rivedrai mai più. «Mi sei mancata tanto,» le disse invece, sentendo le lacrime pizzicargli gli occhi. Era il suo corpo a parlare per lui o era lui che parlava per il suo corpo? O forse non c'era più alcuna differenza? Questo pensiero lo spaventò e, insieme, lo fece sentire libero. Guardò la donna, incantato dalla sua bellezza mentre lei ammirava la baia luminescente. «Ho sognato questo posto,» disse lei. «Davvero? Anch'io... almeno credo.» Lei lo guardò con un sorriso affettuoso. Quanto calore, quanta dolcezza c'era in quel sorriso. «Tu venivi qui, da bambino.» «Te l'ho detto io?» «No, mi sembra di no.» Poi si rabbuiò. «Tu non mi hai mai detto nulla. L'hai mandato tu quel fax? Chi era il ragazzo nell'auto?» Peter la strinse a sé, la mente gli vorticava. La sentì tremare e si rese conto che tremava anche lui. «Non voglio che ti preoccupi, ma devi essere
prudente. Non possiamo restare troppo tempo qui insieme. Almeno, non adesso.» «Ma non posso lasciarti adesso che ti ho appena ritrovato.» «E io non voglio che tu te ne vada.» Era di nuovo il cuore di Peter a parlare. «Dici che dovrei essere spaventata? Be', io sono spaventata.» «Di quale auto parlavi?» chiese lui gentile. «Una Range Rover, guidata da un ragazzo sui venticinque anni. Mi aspettava all'aeroporto quando è atterrato il mio aereo e poi è venuto all'albergo.» «Gli hai parlato?» Elizabeth scosse la testa. Improvvisamente si sentì del tutto sana di mente per aver fatto quello che, prima, le era sembrato viceversa folle. «Io non ho preso l'aereo. Sono venuta con il traghetto e poi sono andata all'aeroporto. Lì ho visto il ragazzo, ma lui non ha visto me.» Peter provò una grande ammirazione: era una donna intelligente, coraggiosa e dotata di intuito. E anche fortunata. Ma chi era quel ragazzo? «Sembrava un militare?» «La sua auto mi sembrava militare. Lui sembrava... un po' inquietante.» La mente di Peter lavorava all'impazzata. La baciò dolcemente sperando che il martellare del cuore non tradisse la paura che l'aveva invaso. «Cambia albergo.» «Non ce n'è bisogno. Sto alla Casa del Francés.» «Bene, ottimo.» «Hans, tua madre...» Lasciò la frase in sospeso. Lui si limitò ad annuire: era lacerato dal desiderio di sapere di più del proprio passato e di quella donna meravigliosa, ma qualcosa gli suggeriva che fosse meglio restare nell'ignoranza. «Sì?» disse in tono vago. «Abbiamo parlato molto. Di te.» «Meno lei sa...» «Sì, capisco. Non puoi parlarne neanche con me?» «No, non ancora.» Sono all'inferno, pensò Peter, e contemporaneamente sono in paradiso e non riesco a vedere la differenza. «Ce la fai a sopportare questa situazione poco chiara, per ora?» Cristo, pensò, non conosco neanche il suo nome. «Sì. Ma non voglio perderti di nuovo.» «Non mi perderai,» la rassicurò, prendendole il viso tra le mani. Le loro labbra si incontrarono e fecero di nuovo l'amore. Questa volta con più
calma, più profondità e mistero. A un certo punto la sentì tremare, vicina all'orgasmo, e si trattenne, poi si lasciò andare, ancora e ancora. E poi fu il suo turno di venire, e poi il turno di tutti e due. Il mare, la luna e le stelle, tutto scomparve: c'erano solo loro due, fusi insieme, sospesi in una luce miracolosa contro l'oscurità primordiale. Quanto tempo era passato? Peter si sentiva completamente disorientato e, dopo un po', fu assalito dall'inquietudine. Da quanto tempo mancava dalla base? Non ne aveva la minima idea. «Devo andare.» «Dove?» Lui scosse la testa e, con suo enorme sollievo, fu lei stessa a formulare la risposta. «Va bene, non puoi ancora dirmelo. Quando potrò rivederti?» «Domani sera,» disse Peter d'istinto, come se la voce provenisse da un altro. «Ti posso credere?» «Sì.» Era sincero. «E mi dirai cosa sta succedendo?» «Ti spiegherò quello che potrò. Stai alla Casa del Francés?» «Sì.» «Allora aspettami lì. Non uscire. Cercherò di arrivare per le sei. Ce la farai ad aspettarmi fino ad allora?» «Certo.» La guardò negli occhi. Era tutto esattamente come aveva sognato, perfino la lieve cicatrice sull'orbita, perfino nella stranezza di quel viso cui si accompagnava una straordinaria sensazione di familiarità. «Con che nome ti sei registrata?» Lei aggrottò le sopracciglia, stupita. «Ma con il mio! Oh, intendi per via del ragazzo? Non avrei potuto fare altro: ho dovuto dare la mia carta di credito.» «Sì, certo.» Benissimo, scoprirò il nome all'albergo, pensò. «Ciao, a domani.» La baciò appassionatamente e scomparve. Elizabeth lo guardò andarsene. Attese finché non lo vide scomparire dietro una roccia, poi si rivestì e tornò all'auto. Poteva avere sognato o essere impazzita? No, non era così: per la prima volta da settimane si sentiva lucida e forte. Aveva ritrovato
Hans, in un modo o nell'altro, e nient'altro le importava. Non solo l'aveva riavuto ma era un Hans come temperato da un'esperienza che lei non osava nemmeno supporre, dotato di una profondità che prima non gli aveva mai riconosciuto. Per la prima volta, nel fare l'amore, lui aveva messo il piacere di lei prima del suo, con una delicatezza, una malinconia e, nel pieno della passione, un tatto lontani anni luce dall'Hans conosciuto in precedenza. Era come se nel frattempo fosse maturato, trasformandosi da giovane arrogante e cinico in uomo tenero e affettuoso, più saggio della sua età. In nome di Dio, cosa gli è successo? Stordita, Elizabeth si rese conto di non sapere assolutamente chi fosse in realtà il suo amante Hans Brinkman, e si sentì terrorizzata: che cosa avrebbe scoperto? 10 Peter tornò tutto stordito. Ma cosa diavolo mi sta accadendo, e come faccio a scoprirlo?, si domandava. E poi, cos'ho fatto stanotte, e quell'altro, chi era? Come ho potuto fare una cosa del genere a Beatrice? E, infine, la domanda che lo spaventava di più: ma chi diavolo sono io? Non riusciva a trovare le risposte. Sapeva solo che era successo qualcosa di terribile e che, se non riprendeva il controllo di sé, il peggio doveva ancora arrivare. Aveva tradito Beatrice per la prima volta e il fatto lo tormentava. Per lui non c'era mai stata nessun'altra che la moglie, anche durante i primi difficili anni della loro unione, quando litigavano tutti i giorni e sembrava che il matrimonio non sarebbe durato un altro mese. Non c'è nessun'altra neanche adesso, cercava di convincersi tornando di corsa dalla spiaggia e osservando la sua pallida ombra avanzare sulla sabbia davanti a lui. Forse era stato solo un episodio di fuga, pensò. Oppure, durante il trapianto, avevano fatto un collegamento sbagliato e adesso lui era imprigionato in un incubo. Era un pensiero pazzesco, se ne rendeva conto, eppure perfettamente plausibile. Peter era terrorizzato: in qualche modo, per una causa a lui sconosciuta, si era rotto irreparabilmente il confine tra la fantasia e la realtà. La sua coscienza aveva subito un colpo mortale e lui non avrebbe più goduto della sicurezza e dell'ordine del mondo razionale che aveva sempre dato per scontati. Cosa dirò a Beatrice?
La cosa più saggia, per risparmiarle un dolore, era tenere tutto per sé. Ma non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di avere infranto un muto patto tra loro. E ora rischiava di venire schiacciato sotto le rovine del paradiso di calore e stabilità che la moglie gli aveva garantito per tanti anni. Ma lui non era il solo in quella situazione confusa. C'era anche l'altra donna, la fantastica donna senza nome. La sua pura e semplice esistenza minacciava la salute mentale di Peter. Ma la cosa più grave era che l'incolumità di quella meravigliosa creatura era messa a repentaglio dalla catena degli avvenimenti che lui stesso aveva innescato. Sei proprio tu il responsabile di quanto è successo e di come è successo, si disse, e adesso devi fare in modo che lei ne esca sana e salva. Quindi dovrai mantenere la tua promessa: rivederla ancora. A meno che non fosse il desiderio fisico per la giovane donna a dettargli quelle parole... Ma c'era molto più che un semplice desiderio, lo sapeva bene. Hai mai provato qualcosa di simile con tua moglie?, si chiese. Forse nei primi tempi, quando Beatrice era al culmine della passione. Ma la sua passione e la sua sensibilità erano state uguali a quelle di Beatrice? No, solo stanotte, con un'altra donna, con quella donna, con anni di esperienza e un corpo nuovo, lui aveva provato un tale stato di grazia. E non era un sogno ma realtà, una realtà che però travolgeva tutti i suoi principi e il suo stesso decoro. Guarda in faccia la realtà, bastardo egoista, si disse: prima ti sei venduto l'anima e adesso hai buttato alle ortiche il tuo matrimonio. Abbi almeno la decenza di non accampare scuse ridicole. E, per amor del Cielo, usa la testa e cerca di capire cos'è questa storia dell'e-mail. Ma chi diavolo aveva mandato un'e-mail alla donna? Poteva essere stato solo Alex Davies, pensò. Allora il ragazzo aveva veramente curiosato nei file del Progetto Fontana, proprio come aveva sostenuto Beatrice, sebbene Wolfe lo negasse. Probabilmente la sorveglianza dei cloni includeva anche le mogli o le amanti, e così il giovane era venuto a conoscenza del nome dell'amante di Hans, soprattutto se i due si vedevano spesso e se, come sembrava, avevano un legame molto intenso. Quella ragazza era venuta fin lì solo con la remota speranza di trovare il suo amante. E se Alex Davies è a conoscenza dell'esistenza della ragazza, chi altri lo sa? E come posso affrontare queste persone?
Spossato ed esausto, Peter smise di correre, cercando di rispondere a questa domanda urgente. Non posso affrontarle, non senza esporre la giovane donna a un rischio ancora maggiore. Gesù, pensò facendosi strada silenzioso attraverso le palme in direzione del complesso, questa volta ho combinato proprio un bel casino! Avvicinandosi agli edifici, Peter rallentò cercando di fare meno rumore possibile. Poi sentì un sibilo, come il ronzio acutissimo di un vecchio televisore alla ricerca della sintonia. Si fermò ad ascoltare e capì: qualcuno aveva rimesso in funzione i sensori all'infrarosso. Improvvisamente, da dietro, venne assalito e scaraventato a terra con la rapidità di un fulmine. «Fermo! Non muoverti! Metti quelle cazzo di mani sopra la testa!» Altre sagome, uomini armati in uniformi scure si gettarono su di lui. Stordito, Peter si rese conto di essere stato beccato dalle sentinelle delle Forze Speciali. Ora aveva una mezza dozzina di armi puntate alla testa, pronte a sparare. «Sono il dottor Peter Jance!» gridò, e dopo una frazione di secondo aggiunse: «Junior!» Qualcuno lo colpì duramente alle costole una, due volte. Poi sentì altre grida e una donna che urlava. Si rese conto che erano le voci di Beatrice e di Wolfe. «Ma cosa fate, idioti!» urlava lo scienziato, furibondo. Le guardie lo lasciarono. Beatrice corse verso il marito e lo aiutò ad alzarsi. Dall'oscurità emerse il colonnello Henderson sbraitando ordini ai suoi uomini. Le sentinelle scattarono sull'attenti. Peter si alzò lentamente, toccandosi le costole doloranti, e vide che da ogni direzione stavano accorrendo altri uomini per presidiare e difendere il perimetro del complesso. Da cosa lo difendessero, non lo sapevano neanche loro. Henderson abbracciò la scena con lo sguardo: sulla sua bocca aleggiava una smorfia di disprezzo. «Perbacco, sono già arrivate le vacanze di Pasqua?» Peter si girò per affrontarlo. «Stavo solo facendo un po' di jogging sulla spiaggia. Ma lei cosa gestisce, colonnello, un campo di prigionia?» L'altro gli rivolse un'occhiata gelida sibilando: «No, una base militare, dottor Jance. Dove ci sono tremila militari, quattordici comandi e un numero imprecisato e segreto di progetti molto delicati e top secret, uno dei quali, guarda caso, è proprio lei.» Diede un colpetto sulla pancia a Peter, come se il fatto che lo scienziato ora fosse giovane gli desse il diritto di prendersi delle confidenze. «E i
progetti delicati e top secret non se ne vanno in giro a fare jogging sulla spiaggia di notte, senza scorta. Soprattutto se sono affidati alla mia sorveglianza.» Si girò verso Wolfe. «Suggerirei l'uso di un guinzaglio.» E girò sui tacchi insieme ai suoi uomini, lasciando Peter ad affrontare Beatrice. Lei fissò i vestiti bagnati e in disordine, i capelli scompigliati e gli occhi evasivi del marito e se ne andò senza dire una parola. Ci fu un momento di silenzio imbarazzato, poi Wolfe tastò il polso all'amico e lo guidò verso l'ala riservata del complesso. «Bel lavoro, veramente un lavoro di prim'ordine. Fin dove sei arrivato?» Zitto Peter! si ordinò l'altro. Qualsiasi cosa dirai a Wolfe stasera, domani lo saprà anche Beatrice. «Ascolta,» rispose cercando di non avere un tono risentito, «non sono uno di quei topi da laboratorio che corrono sulla ruota. Se voglio fare jogging di notte, sulla spiaggia, invece di usare quel dannato tapis roulant, lo faccio.» «E al diavolo le tue arterie cerebrali.» «Le arterie cerebrali sono le mie. A meno che tu non voglia che interrompa il lavoro sull'Hammer.» «Adesso chi è che si mette a minacciare?» chiese Wolfe a denti stretti e scostandosi. «Ti darò delle guardie del corpo per correre con te.» «Preferisco correre da solo.» «Non posso permettertelo.» «Ho detto da solo: prendere o lasciare.» «Se solo fossi sicuro che non fai altro,» aggiunse lo scienziato, scrutandolo. Non dire nulla, pensò Peter. «Cerco solo di eliminare un po' di ragnatele.» Wolfe alzò un sopracciglio, sospettoso. «E le hai eliminate? Sei al passo con il programma?» Lo fissava sfidandolo a mentire. «Sì.» «È una buona notizia. Allora puoi correre su qualsiasi spiaggia della base a tutte le ore del giorno e della notte.» Gli tese la mano e l'altro gliela strinse: le lunghe dita ossute di Wolfe si avvolsero intorno alle sue nocche. Mi ha ridato la vita e adesso vuole schiacciarmi, pensò Peter. «Come vanno le costole?» «Mi fanno un male del diavolo, grazie.»
«Prego. Andiamo in ambulatorio.» I due vecchi amici si avviarono insieme lungo il corridoio, procedendo fianco a fianco. In questo modo, nessuno dei due mostrava le spalle all'altro. Quando Elizabeth arrivò alla Casa del Francés erano già le quattro. Anche lei non riuscì a rientrare inosservata. Nel suo caso la sentinella era un vecchio canuto abbandonato su una sedia a sdraio. L'uomo aveva chiuso a chiave il cancello, obbligandola a suonare il campanello. Elizabeth suonò ma il custode non rispose. Lo vedeva nel suo gabbiotto vicino alla stradina, appoggiato alla parete; la cicatrice perlacea sul viso luccicava alla luce della luna. Allora lei si attaccò al campanello finché non si accese una luce in una camera a pianterreno dell'albergo. Sulla porta comparve Ivor Greeley in una vecchia vestaglia, tenendo in mano un mazzo di chiavi attaccate a un grosso anello. «Di solito i nostri ospiti non tornano così tardi,» brontolò. «Mi scusi, Ivor. Ho cercato di svegliare il custode ma non si muove neanche.» Greeley gettò un'occhiata al vecchio, poi gridò: «Toro!» Quello fece un balzo in avanti e le sue palpebre gonfie, coperte di vene azzurre, si aprirono. Il padrone dell'albergo diede un colpetto sulla spalla di Elizabeth e notò che aveva gli indumenti fradici. «Basta conoscere il trucco. Faceva il torero a Città del Messico. Ma si ruppe tutte le ossa una volta che prolungò troppo il saluto alla folla nell'arena. Qualcuno doveva pur dargli un lavoro.» «Però non è molto sicuro come custode, non le pare?» disse lei rivolgendo un'occhiata furtiva alla strada dietro di sé. Sulla via del ritorno era stata agitatissima, quasi paranoica. Prima di fermare la macchina davanti al cancello, aveva percorso avanti e indietro due isolati. Ivor fece spallucce. «Comunque, lei non è riuscita a entrare inosservata.» Tornò in albergo mentre l'ex torero si dava un gran daffare a richiudere il cancello. Elizabeth andò diritta in camera, chiuse la porta a doppia mandata, si sdraiò sul letto e cercò di mettere insieme i pezzi degli ultimi eventi. Primo, perché Hans era lì? E perché avevano inscenato la sua morte? Poi venivano domande più angoscianti: chi era l'uomo delle foto dell'obitorio? Chi c'era nella bara? Elizabeth non riusciva a trovare risposte plausibili. C'entra la droga? È
un cartello colombiano che opera attraverso le isole caraibiche verso Miami? Oppure Hans si era impossessato di una grossa somma e adesso i legittimi proprietari gli davano la caccia? No, doveva essere qualcosa di ancora più strano, decise. Le deflagrazioni sull'isola, le basi militari: di sicuro c'entrava la CIA. Oppure si trattava di qualche operazione sotto copertura. La carriera nell'alta finanza e il matrimonio altolocato facevano parte di una messa in scena e il vero Hans era quello della spiaggia? Lui però non sapeva assolutamente nulla dell'e-mail: glielo aveva letto negli occhi. Anche il ragazzo della Range Rover era una notizia inattesa per lui: una cattiva notizia. Ma, se non era stato Hans a scriverle il messaggio, chi l'aveva fatta arrivare fin lì? Perché? E la sensazione, che non riusciva a scrollarsi di dosso, di essere già stata a Vieques come se ci avesse vissuto da piccola, che significava? Pensò a Rose-Anne. Quanto l'aveva vista devastata dalla morte del figlio, e con quanto coraggio aveva cercato di riprendersi da quel tremendo dolore! Hans poteva far soffrire così tanto la madre senza dirle nulla? Sì, ma solo se fosse stato completamente diverso dall'uomo che lei aveva conosciuto. Ma quale era dunque la sua vera natura? Mai, in tutti i mesi della loro relazione, lui aveva fatto l'amore con lei come quella notte. Cosa era accaduto sull'isola per mutarlo a tal punto? Era stato semplicemente il ritorno nei luoghi dell'infanzia? Oppure era il fatto di non dover più mentire conducendo una doppia vita? E se era veramente un agente della CIA, perché, quando l'aveva incontrato in quella che era senz'altro la sua base operativa, era stato tanto tenero, affettuoso, spontaneo? Oppure faceva tutto parte della commedia, e anche i suoi modi affettuosi erano frutto di un addestramento? Impossibile. Se era una commedia, l'intera faccenda non aveva alcun senso. Elizabeth pensò di chiamare Annie, ma scartò immediatamente l'idea. Meno persone innocenti erano a conoscenza di quanto aveva scoperto, meglio era. E Rose-Anne? Questo era un problema più complesso. No, non ancora, pensò alzandosi dal letto per la terza volta per controllare se c'era qualcuno che la spiava dalla strada. Doveva riuscire a comprendere la situazione e valutare i pericoli, e inoltre Rose-Anne poteva risultare a sua volta coinvolta nella misteriosa faccenda. Non l'aveva forse incoraggiata a
venire nell'isola nominandola spesso durante la loro conversazione e dicendole quanto Hans amasse sia lei che Vieques? Madre e figlio insieme nella CIA? A questo punto, niente era troppo strano, nulla poteva essere escluso. Con la mente occupata dall'immagine di Rose-Anne e di Hans vestiti di nero dalla testa ai piedi mentre falciavano orde di trafficanti di droga con i loro AK-47, Elizabeth scivolò in un sonno profondo e agitato. 11 Nel laboratorio centrale del Complesso della Fontana, Peter Jance Jr. sognava a occhi aperti. Intorno ronzavano quelli della sua équipe, indaffarati a perfezionare le idee che lo scienziato aveva seminato nelle loro menti e che nell'ultima settimana erano germogliate brillantemente. Cap Chu e Rosemarie Wiener avevano finalmente formulato le equazioni ausiliarie per il raggio di propulsione rinforzato, mentre Hank Flannagan aveva completamente ridisegnato il circuito di fusione. Ora era in grado di gestire possibili sovratensioni con una potenza tripla. Alex Davies aveva preparato una dozzina di modelli alternativi dell'arma completa e adesso, con voce bassa e monotona, stava facendo rapporto al capo sui suoi successi. Intanto Peter si fissava le scarpe. La stanza odorava di mare, di polvere di gesso e del nuovo profumo di Rosemarie Wiener, l'ultima arma segreta della ragazza per cercare di conquistare il capo. «... un'azione di distruzione completa dei tessuti biologici. In poche parole, il raggio scioglierà letteralmente i nemici. Una bomba atomica all'ennesima potenza più uno,» disse Alex asciutto. «Sì, ma poi sarà in grado di sparare di nuovo?» chiese Cap Chu. «Continuo a fare delle prove, ormai ne ho fatte milioni. Neanche un fallimento, una resa garantita al 100%.» Peter sollevò lo sguardo dal linoleum verde chiaro. Era chilometri lontano da lì, ancora nella baia fosforescente, in quell'acqua calda e luminosa dove si scioglieva nell'abbraccio di un angelo senza nome. «E le conseguenze?» Sentì la sua voce dire. Tutti i presenti si girarono verso di lui. «Noi vinciamo,» rispose Flannagan. «E la gente che rimarrà uccisa?» La stanza piombò nel silenzio. Solo un civile o uno studentello del pri-
mo anno poteva sollevare un'obiezione del genere e Peter non era certo né l'uno né l'altro. «Se ne andranno senza nemmeno accorgersene,» proseguì Flannagan. «E, probabilmente, è quello che si meritano.» Peter provò dei crampi alla pianta dei piedi. «Come con i nazi, intendi.» I presenti si scambiarono alcune occhiate nervose. «Sì, proprio,» intervenne Cap Chu. «Non è forse per questo che tuo padre ha lavorato alla costruzione della bomba A? Per mettere al tappeto i tedeschi...» «All'inizio, era questa l'idea. Poi noi...», si corresse «... mio padre e gli altri si resero conto che i nazisti si erano cacciati in un vicolo cieco. La loro idea di un'arma nucleare era una pila atomica caricata su una barca e mandata in un porto nemico. Ma noi...», proseguì rivolgendo uno sguardo ad Alex Davies, che si mordicchiava soprappensiero il labbro inferiore «... loro andarono avanti comunque. Perché ormai c'erano arrivati. Una volta che si resero conto che potevano costruirla, non vollero fermarsi.» «D'accordo, ma se i nazi tornano?» intervenne Rosemarie. «E se questa volta sapessero come fare?» «Quando torneranno i nazi,» la rassicurò Alex Davies, «non avranno certo le svastiche. Sarà gente che parla di pace e di armonia.» I suoi occhi ebbero un lampo malizioso. «Più o meno come noi.» «Di chi parli?» chiese Cap Chu. «Per esempio di Charles Manson... erano proprio queste le sue parole. Scusa, amico», Alex si rivolse nuovamente al capo, «cosa stavi dicendo?» Peter si alzò e iniziò a misurare la stanza a grandi passi. «E se questa tecnologia che stiamo perfezionando sarà ulteriormente miniaturizzata fino a raggiungere le dimensioni di una valigia (avverrà, prima o poi), e se questa valigia verrà rubata o consegnata a una persona assolutamente insospettabile finendo poi in quelle che, con un eufemismo, possiamo definire "mani sbagliate"? Allora sì che vedremo New York friggere letteralmente d'estate.» Tutti lo fissarono per un lungo istante, poi Cap Chu scoppiò a ridere. «Dio, come sei forte!» «Scusa?» chiese Peter. «Pensavo che tuo padre fosse un artistoide, ma tu sei un sacco meglio.» Gli altri risero tutti, tranne Alex Davies, che non staccava gli occhi dal capo. «In ogni caso,» disse Alex, «se le simulazioni al computer continuano a dare buoni risultati, presto potremo tornare a White Sands.»
A questo punto tutti si fecero attenti. «Davvero?» chiese Flannagan. «Quindi,» proseguì il ragazzo fissando Peter, «è un po' tardi per gli scrupoli da liberal preoccupati dei destini della democrazia.» Quando il capo incontrò il suo sguardo, il ragazzo si girò verso la lavagna. «Accidenti, proprio adesso che stavo per prendere il brevetto subacqueo,» si lamentò Rosemarie. «Forse potrai fare qualche immersione nella sabbia a Los Alamos,» la prese in giro Flannagan. La conversazione riprese in modo informale e disordinato. Ognuno parlava di sue faccende personali, ma Peter non li ascoltava. Sentiva solo una voce interiore che lo spronava a trovare in fretta il modo di portare quella donna con sé nel Nuovo Messico. Studiando la schiera di monitor allineati nell'ufficio di Henderson, Wolfe si rivolse al colonnello. «Sì, è di nuovo nel mondo dei sogni.» Potevano vedere Peter in due inquadrature: panoramica e primo piano. Mentre i suoi si davano da fare nel laboratorio discutendo tra loro e scribacchiando sulla lavagna, lui sedeva fissando la parete di cemento come se vi fosse una finestra. «Non c'è dubbio,» proseguì Henderson, «in città si è fatto trastullare. Lo vede, stiamo assistendo a una bella scena di fantasie solitarie.» «Davvero?» domandò Wolfe in tono piatto. Oltre alla preoccupazione per il futuro del progetto, provava una certa perversa soddisfazione. Se Peter metteva le corna a Beatrice, ciò poteva segnare la fine della loro unione. Quel matrimonio era mai stato messo alla prova, prima? No, che lui sapesse. Nel corso degli anni aveva spesso sperato che qualcosa andasse storto tra i suoi due vecchi amici, in modo da avere il campo libero con lei. Ma le priorità erano priorità: sgattaiolando fuori dalla base, Peter aveva comunque messo in pericolo non solo se stesso ma anche l'intero progetto. «Se avessi potuto fare a modo mio quando l'abbiamo ripreso,» disse il colonnello, «prima l'avrei abbattuto con un fucile caricato a tranquillanti e poi gli avrei fatto una castrazione almeno parziale.» «Chissà come sarebbe contenta Beatrice.» «Pensavo che lei lo tenesse per le palle. Facciamo venire qui questo testa di cazzo.» Henderson premette un pulsante per nascondere i monitor e chiamò il suo attendente.
Cinque minuti dopo la porta si aprì e Peter entrò con un'espressione irritata e distratta. Henderson aprì e chiuse la questione in una sola battuta. «Jance, deve piantarla di fare cazzate.» «Intende, niente più Coltrane in laboratorio?» «Anche quello.» Il colonnello girò intorno alla scrivania; aveva un modo di fare pesantemente paternalistico. «Ascolti,» proseguì appoggiando una mano gigantesca sulla spalla dello scienziato, «capisco che è stato un colpo, per lei, tornare improvvisamente giovane, con tutto quel testosterone che le circola nel cervello, ma...» Peter si scrollò di dosso la mano di Henderson. «Non è solo questo.» «Allora perché non ne parliamo? E, per favore, si tolga dalla faccia quel sorrisetto furbo.» Wolfe accorse in difesa del vecchio amico. «Oscar, non c'è alcun motivo di essere tanto ostile.» «Non ti preoccupare, Freddy,» fece Peter. «Vuole sapere come stanno le cose, colonnello? Bene. Qui non si tratta solo di ormoni, ma del fegato che mi ripulisce il sangue, del cuore che mi inonda il cervello di sangue perfettamente ossigenato. Inoltre, guardi le articolazioni delle mie ginocchia: non sono più cerniere calcificate, che lavorano osso contro osso, ma macchine perfettamente calibrate, con legamenti, cartilagini e muscoli integri e tonici, ammortizzati da menischi pienamente funzionanti. Salire le scale è tornato a essere un piacere per me. Riesco ad annusare, gustare, percepire, vedere e sentire un milione di cose che i miei sensi degradati ignoravano. Adesso invece riesco a sentire anche gli acuti più estremi della corda di un violino che suona una partita di Bach... Avevo assolutamente dimenticato persino l'esistenza di tutte queste cose.» «Io parlo piuttosto del suo cazzo,» intervenne Henderson duro. Wolfe osservò che la gelida eloquenza dell'amico aveva avuto l'unico effetto di far infuriare ancora di più il colonnello. «In particolare, di quel cazzo che la fa andare in giro di notte.» L'altro lo fissò gelido. «Non capisco.» «Dico che è una cazzata e lei lo sa benissimo.» L'altro fece una risata di sfida. «Vaffanculo, colonnello. Non devo certo renderne conto a lei.» Con un solo balzo felino, Henderson gli fu addosso. Lo sbatté contro il muro, serrandogli le mani alla gola prima che riuscisse anche solo ad alzare un braccio per difendersi. Il colonnello avvicinò il suo viso a quello dello scienziato, allontanando Wolfe con un cenno del capo.
«Jance, conosco più modi io di uccidere un uomo a mani nude che lei con la sua arma a due chilometri di distanza, quindi non faccia il furbo con me. Non mi disturba affatto guardare in faccia la gente mentre l'ammazzo.» Inspirò profondamente. Poi, con molta calma, aggiunse: «Attento al culo, Peter, oppure lei e la sua pupa finirete tutti e due nella spazzatura.» Gli occhi dello scienziato tradirono un lampo di terrore. Quando è troppo, è troppo, pensò Wolfe. «Henderson,» disse con la massima calma possibile, «se continua su questo tono, dovrò fare rapporto a Washington.» «Se non lo fa lei, stia certo che lo farò io,» rispose quello, a bassa voce. Fissò Peter per un lungo secondo, poi lasciò andare la presa. Peter riuscì a restare in piedi ma Wolfe vide che gli occhi gli lacrimavano per l'aggressione subita. Aveva il respiro rauco e faticoso. Ora Henderson li fissava entrambi. «Lo so che voi siete due geni e avrete il nome su tutti i libri di scuola mentre il mio sarà solo su una pietra numerata ad Arlington. Ma, per Dio, mi è stato ordinato di controllare che questo progetto non venga ostacolato da nessuno, e per nessuno intendo proprio nessuno. Nessuno escluso!» «Mi ha quasi ammazzato, quindi non andrà molto lontano col suo progetto,» rispose rauco Peter. «Crede di essere lei la carta vincente? Pensa che il suo amico abbia messo tutte le uova in un solo paniere? C'è dell'altro.» Wolfe vide Peter insospettirsi. «Che significa?» «Cosa le fa pensare che lei sia l'unico a condurre il gioco?» abbaiò il colonnello. Peter non rispose. Guardò Wolfe, che si rivolse a Henderson con il massimo tatto possibile. «Oscar, per favore, posso restare un momento solo con il dottor Jance?» Il colonnello li salutò con una scrollata di spalle. «È ora che il nostro ragazzo impari le cose della vita. Prego, l'ufficio è tutto suo.» Uscì sbattendo la porta. Dannato stronzo, pensò Wolfe. Aveva sperato di poter evitare quella conversazione ma, ora che vi era costretto, doveva condurla con estrema delicatezza. La vista di Henderson che serrava alla gola il vecchio amico gli aveva suscitato sentimenti contrastanti, ma soprattutto spiacevoli. «Cosa intendeva dire?» Wolfe lo guardò con aria cauta. «Penso che tu lo sappia.» «Scusami, ma non lo so.» Peter distolse gli occhi come se stesse mentendo. «E poi cos'era quella minaccia? Crede che io abbia incontrato qual-
cuno?» L'amico continuava a fissarlo. «Dimmelo tu. Hai visto qualcuno? Sei stato con qualcuno?» Peter sostenne il suo sguardo, fissandolo forse un po' troppo a lungo. «No.» Wolfe non insistette. «Ti credo.» «E cos'era quell'accenno al fatto che c'è dell'altro nel progetto?» «Naturalmente,» rispose Frederick iniziando a frugare nella scrivania di Henderson, «se funzionerà con te, ci saranno altri tentativi. È sempre stato il progetto della Società.» «Ma lui non intendeva questo, vero? Sono forse in corso altri esperimenti?» Attento, si ammonì Wolfe. I sensi di quest'uomo sono diventati acutissimi, e anche quand'era vecchio riusciva sempre ad accorgersi di una bugia. «In corso? No, tu sei l'unico, Peter, te lo giuro.» Nel cassetto della scrivania, sotto delle riviste militari, trovò una fiaschetta da mezzo litro di Jim Beam. «Eureka!» Dopo averne buttata giù una breve sorsata, l'offrì all'amico, che rifiutò. «Questo corpo non beve alcolici.» «Ma il tuo cervello sì. Dai, mi manca il mio vecchio compagno di sbronze.» Peter prese la fiaschetta, bevve e sussultò. «Christian Barnard o Mengele?» «Scusa?» «Che tipo di scienziati siamo, Freddy? Come ci ricorderanno i posteri?» «Boh,» rispose l'altro assaporando il bourbon. «So che cosa mi vorresti rispondere. Se l'uomo si fosse fermato ogni volta che si sentiva inadeguato, vivremmo ancora convinti che la Terra sia piatta e senza la penicillina.» Il liquore gli bruciava le budella ma sentiva una certa euforia. «E staremmo ancora qui a pregare divinità selvagge,» proseguì Wolfe, «in cima a ziqqurat sacrificali. In realtà, io non...» «Hai mai letto I viaggi di Gulliver?» «Sì, quando avevo dieci anni.» «Ti ricordi gli Studbug? O gli Struldbrugg, o come diamine si chiamavano...» Peter accettò ancora una volta la fiaschetta. Al diavolo tutto il resto, anche lui aveva piacevoli ricordi delle sue bevute con l'amico ai vecchi tempi. «Ad ogni modo, Swift descrisse una società in cui ogni tanto nasce-
vano delle persone immortali. L'unica differenza rispetto a tutti gli altri era che avevano un puntino rosso sulla fronte e non morivano mai. E tutti quelli con una durata normale della vita finivano per disprezzare gli Studbug. Tutti nascevano, vivevano e morivano mentre quei dannati tipi con i puntini rossi restavano in circolazione per sempre.» «Certo che me lo ricordo: ne hanno fatto i loro capi.» «No, ti confondi con un altro libro. Tutti li odiavano perché possedevano tutto. Non morivano mai e quindi non lasciavano in eredità il loro denaro o la terra; non cedevano mai la loro attività al figlio né se ne andavano in modo che la figlia potesse assumere un ruolo adulto. Oh, e poi, dopo un po' puzzavano anche. Capisci cosa sto dicendo?» «A dire la verità, no.» Peter lo fissò. Era possibile che non capisse quella verità lampante? «Le specie devono rinnovarsi per non entrare in una stasi artificiale. Stiamo cercando di porre fine a due miliardi di anni di evoluzione.» Wolfe fece una brusca risata. Si chinò in avanti sulla scrivania. «Ma siamo noi i due miliardi di anni di evoluzione, babbeo! È il principio dell'entropia, Peter... le leggi della natura esistono perché il nostro cervello può immaginarle. Noi siamo il balzo quantistico dell'evoluzione. Per milioni di anni abbiamo compiuto continui tentativi, finché non abbiamo inventato noi stessi. In questo secolo siamo passati dai biplani alle navicelle per lo sbarco lunare nella durata di una sola vita e, se una cosa può essere concepita, può essere fatta. E sarà fatta. Punto.» Peter rifletté un attimo, poi contrattaccò. Si concentrò su quello che gli sembrava l'unico punto debole dell'amico. «Ma che cosa sta combinando Alex?» «Cosa?!» rispose l'altro, chiaramente preso in contropiede. «Perché manda in giro e-mail?» «E-mail? Non so cosa intendi. La mia impressione è che Alex sia tornato a bordo. C'è qualcosa che dovrei sapere?» Osservò attentamente l'amico. Negli occhi di Peter era ricomparso lo stesso terrore di prima, quando Henderson aveva minacciato di ammazzare la sua pupa. Forse c'era veramente una donna, pensò. Bene, in tal caso, non sarebbe stato poi tanto difficile trovarla. «Scusa, Peter, ma non ti seguo.» «Io credo invece che tu mi segua benissimo. E, a proposito, perché ti vedi tanto spesso con Beatrice?» Qualcuno dovrà pur farlo, pensò Wolfe, rendendosi improvvisamente conto di aver quasi parlato ad alta voce. «Ti sei comportato male con lei,»
riprese duro mettendo giù la fiaschetta. «Se cerco di consolarla, sono convinto di fare un piacere a tutti e tre.» Peter sembrò più calmo. Bevve una lunga sorsata di whisky; questa volta aveva un buon sapore. «In tutti i casi, grazie per avere richiamato il tuo cane da guardia.» «Henderson non è il mio cane da guardia, quindi non posso affatto richiamarlo. Capisci cosa intendo?» «Certo.» «È una faccenda seria, Peter. Ci sono molte vite in pericolo.» «Compresa la mia.» «Temo di sì. Non è una situazione da cui tu possa tirarti fuori. Ci siamo impegnati per la vita.» «E oltre.» «Esatto.» «Apprezzo la tua schiettezza. E... hai ragione riguardo all'evoluzione.» «Davvero? Sono contento di sentirtelo dire.» «In effetti,» aggiunse l'altro, alzandosi un po' incerto sulle gambe, «quel briciolo di libertà che mi avete concesso ha aumentato la resa del mio cervello. Penso che quasi ci siamo.» «Davvero, Peter?» «Sì. Siamo sul punto di montare l'arma.» «Con la stessa potenza letale di quella che abbiamo già sperimentato? Comunico subito la bella notizia a Henderson.» «Meglio ancora: non lascia assolutamente alcun residuo. Gli avversari scompariranno letteralmente a battaglioni,» rispose Peter descrivendo un ampio gesto nell'aria. «Il trucco sarà limitare la potenza, non cercare di aumentarla.» «Dunque ci siamo?» chiese Wolfe osservando attentamente l'amico. «Direi di sì.» «Ottimo.» Erano arrivati al traguardo, quindi Peter non serviva più e poteva essere tranquillamente eliminato. Henderson aveva più ragione di quanto egli stesso pensasse. «È abbastanza potente da spazzare via dalla faccia della Terra qualsiasi essere vivente nel raggio di otto chilometri e poi scindere la struttura atomica delle molecole più grandi. Per esempio, potrebbe disintegrare le molecole di carbonio trasformando quindi le rocce in minuscoli ordigni nucleari. E, Freddy, sai qual è la notizia migliore? Questo conferma tutte le tue ipotesi sulle potenzialità della Società della Fontana. Dopo, potrai
camminare con le tue gambe, mandare Henderson a quel paese e disporre di finanziamenti illimitati per condurre qualsiasi tipo di esperimenti. Ci traghetterai tutti nel ventunesimo secolo.» «E basta con i dubbi?» «Basta con i dubbi. Ma adesso devo andare a pisciare.» «Bene, sono lieto che questo breve incontro sia stato così utile.» Con una risata, i due si strinsero vigorosamente la mano e sulla porta si abbracciarono. Wolfe guardò Peter percorrere il corridoio diretto verso il bagno, poi richiuse la porta. È veramente convinto di avere recitato bene la commedia, pensò. E ha fatto tutto questo solo per guadagnare un po' di tempo per stare con la sua innamorata? Peter, povero illuso, io posso sempre fartela, cosa credi? Adesso so anche che posso farti bere finché non rotoli sotto il tavolo. Rimise il tappo al Jim Beam, ripose la fiaschetta nel cassetto e schiacciò il pulsante che faceva ricomparire i monitor di sorveglianza. Su un video c'era Peter: stava lasciando il bagno tamponandosi la bocca con un tovagliolo di carta. Wolfe sorrise: il whisky l'aveva fatto stare male. Si sentì invadere da una sensazione piacevolissima: un giorno non molto lontano, lui avrebbe veramente avuto tutto. Più tardi, nel pomeriggio, Peter si sdraiò sul letto e stette a fissare i pannelli acustici del soffitto. Gli faceva male la testa per il bourbon e aveva tutti i sensi intorpiditi, ma sentiva quella donna sdraiata accanto a lui, percepiva la consistenza dei suoi capelli, il tocco della sua mano, il sapore della sua bocca. Aveva cercato, non sempre con successo, di scacciare il ricordo della notte sulla spiaggia ma adesso, con le minacce di Henderson che gli ronzavano ancora nelle orecchie, non riusciva a pensare ad altro che alla donna misteriosa. Finirete tutti e due nella spazzatura: lei e la sua pupa. Il colonnello l'aveva forse già trovata? Alex Davies gli aveva spifferato qualcosa? No, di proposito certamente no, non riusciva nemmeno a concepirlo. Di tutti quelli che lavoravano alla base, compreso Wolfe, il ragazzo era il meno capace di tenere nascosto il proprio disprezzo per i militari. Tuttavia, con lui tutto era possibile. Per esempio, da che parte stava? Non poteva domandarlo direttamente al giovane senza implicare ancora di più in quella faccenda se stesso e la donna della spiaggia. E allora, che fare? Avvertila, in qualche modo... dille di saltare sul prossimo aereo e di tornare da dove è venuta. Ma Peter sapeva che non voleva
assolutamente perderla. Stava forse amplificando la gravità delle minacce di Henderson solo per sentirsi giustificato a rivederla? No. Il pericolo era reale e il suo dovere nei confronti della donna era chiarissimo, indipendentemente dai suoi sentimenti. Aveva promesso di rivederla e adesso aveva tutte le ragioni del mondo per tornare da lei. Peter giacque per altri dieci minuti sul letto, cercando di immaginare come sgattaiolare fuori dalla base e poi ritornarvi senza suscitare altri sospetti. Una chiave girò nella serratura. Si tirò su di colpo. Si aspettava di veder comparire Henderson, invece era Beatrice. Scorgendo la sofferenza dipinta sul suo volto, si sentì subito molto infelice. «Scusa, credevo che fossi ancora in laboratorio,» disse lei. Imbarazzatissimo, lui fece una piccola alzata di spalle. «Non mi venivano più idee.» «Ci metto solo un istante. Ho dimenticato alcune cose.» La guardò attraversare la stanza e sfiorare la fiasca di Erlenmeyer piena di fiori secchi mentre apriva un cassetto del comò chiaro tutto rigato. Osservando i movimenti aggraziati della moglie, vedendo la sofferenza nei suoi begli occhi grigi, Peter sentì improvvisamente il bisogno di confessarsi, di condividere con lei il suo dolore e disorientamento. Beatrice, sono nei guai, ho bisogno dei tuoi consigli. «A cosa stai lavorando?» le domandò invece, gentile. Lei gli scoccò un'occhiata: come dimenticano in fretta, gli uomini. «All'uso di sangue manipolato geneticamente per curare le ferite in battaglia,» rispose con voce incolore. «Sì, certo, scusa.» La moglie fece un leggero cenno di assenso, che gli bastò per sentirsi incoraggiato a parlare. «Mi sento malissimo.» «Sì? Per cosa?» Se lo sa Henderson, lei lo sospetta senz'altro, pensò Peter. «Siamo lontani l'uno dall'altra,» esordì incerto. «Io direi una quindicina di centimetri, ma certo è già qualcosa.» A questa battuta, che sembrava indicare che lei ignorava il coinvolgimento di un'altra donna nei loro problemi, Peter si sentì rincuorato. Si alzò dal letto e si avvicinò alla moglie. Lei si scostò ma non in direzione della porta, e tale reazione lo rese ancora più speranzoso. «A quanto pare, presto torneremo a White Sands,» gli disse.
No, si era sbagliato. Beatrice era più arrabbiata di quanto lui pensasse: stava svuotando i cassetti e riempiendo una piccola valigia. «Te la senti di viaggiare?» gli domandò. «Certamente.» La moglie si girò e si scostò una ciocca di capelli dagli occhi. «O forse preferiresti rimanere qui?» «Perché dovrei?» Lei esitò un attimo, tornando a voltargli le spalle. «Per riprenderti meglio.» Aveva un tono piatto, come se in gioco ci fosse solo la salute del marito. Mentre lasciava cadere nella valigia alcuni articoli da toilette, Peter le si avvicinò e le toccò i capelli. Beatrice gli allontanò la mano. «Ti prego, non fare lo sdolcinato.» «B., non sono sdolcinato, voglio toccarti.» «E non chiamarmi B. Così mi chiamava mio marito. Beatrice va benissimo, grazie.» Lui si sedette sul letto. «Ti prego, non abbandonarmi perché ora sono diverso. Ho bisogno di te.» «Davvero, Peter?» «Sì.» La sua voce, rimbalzando sulle pareti nude, suonava incerta. Si sentiva come un bambino che a un funerale veda un adulto piangere e che, sebbene non comprenda quel dolore, si mette comunque a piangere. Girandosi, Beatrice vide che il marito era sul punto di piangere e si sentì crollare. Se riesco a sentirmi così emozionato, pensò lui, significa che c'è ancora speranza. «Io sono sempre io. E tu sei sempre tu. Lo sapevamo che ci sarebbe stato qualche cambiamento nell'identità...» «Qualche cambiamento? In confronto a te, il dottor Jekyll e mister Hyde sono dei dilettanti!» lo interruppe la moglie. Peter non poté fare a meno di ridere. E anche Beatrice rise, anche se un po' imbarazzata. Si lasciò infine prendere tra le braccia dal marito e scoppiò a piangere. Le accarezzò i capelli. «È stato un inferno,» disse lui. «Davvero? Mi fa piacere.» Si asciugò una lacrima dalla guancia. «Ma, ti dispiacerebbe essere un po' più preciso?» Peter non sapeva da che parte cominciare. «Mi chiedo continuamente chi è che comanda.» «Intendi: tu o il tuo corpo?» «È una cosa che mi fa impazzire, mi terrorizza. E poi mi tornano i dubbi. A milioni.»
«Raccontami.» Beatrice appoggiò le mani in grembo come per cercare di nascondere le rughe che ne solcavano il dorso. «Non sono più vecchio, non ho più i pensieri di un uomo anziano, e ora capisco che sono i vecchi a mandare i giovani allo sbaraglio,» esordì sentendosi sollevato. Per il momento riusciva a generalizzare il problema in modo da non dover confessare la presenza di quella donna. «Ma quando sei entrato nella ricerca sugli armamenti, tu eri giovane» «Sì, lo so... ed è proprio qui che cominciano i dubbi. Perché adesso tutto mi sembra tanto diverso?» «E perché il cielo è azzurro? E perché ci sono tante cose invece del nulla? Dimmelo tu, Peter, perché io non lo so più. Tu hai comperato questo corpo insieme alla tua carriera, ed eccoci qui.» «Sì, eccoci qui.» La strinse a sé. «Mi sei mancata così tanto.» «Davvero?» Lei stava per cedere. «Sì.» La baciò. Le mani di Beatrice tremavano: gli sfiorarono il petto e poi scivolarono sulla camicia, sui pantaloni, fino all'inguine. Peter distolse gli occhi con aria colpevole e lei ritirò subito la mano. «Beatrice, sono esausto... scusami.» «Nonostante la tua giovinezza?» aggiunse lei piccata. «Ti prego, non voltarmi le spalle. Dammi almeno una possibilità.» «Peter, c'è un'altra?» Lei lo sbirciava con la coda dell'occhio. «Te lo giuro, non mi importa se è solo il tuo corpo ad andare in giro come un gatto randagio. Considerate le circostanze, potrei anche perdonartelo. Ma se sei tu a farlo... se c'è un'altra che significa qualcosa per te... È questo che ti sto domandando.» Peter le sollevò il mento, costringendola a guardarlo diritto in volto. «Beatrice, non c'è mai stata nessun'altra.» «Stata?» Gli occhi grigi della moglie si fecero gelidi. «E non ci sarà mai.» «Me lo giuri?» No, c'era un limite che lui non poteva oltrepassare. Non poteva mentire a Beatrice come aveva fatto con Wolfe. Se lo avesse fatto, avrebbe perduto per sempre la sua anima. Ma mentì. «Te lo giuro.» Con tutto il cuore, lui voleva credere che fosse così. «Mi stai mentendo!» Dio mi aiuti, pensò Peter. «Sei un maledetto bugiardo!»
Sentendosi assolutamente impotente, la guardò agguantare la valigia, andare alla porta e uscire precipitosamente dall'appartamento. Poi però, ancora prima che Peter potesse capire la situazione, Beatrice tornò dentro. Negli occhi pieni di lacrime adesso c'era anche un tremendo furore. «Ma cosa diavolo sto facendo?!» Lasciò cadere a terra la valigia. «Vattene tu!» gli disse. Spalancò la porta e fece un passo a lato. Era preda di una rabbia violentissima. I suoi occhi avevano una forza primordiale, più devastante di qualsiasi arma che lui avesse mai progettato. E quella forza si abbatté su di lui mettendo a nudo tutto il suo squallido egoismo. Peter uscì senza dire una parola e sentì la porta sbattere dietro di sé. Rimase fuori, in corridoio, incapace di sollevare i piedi da terra. Dal portico giungevano delle voci. Una era sicuramente quella di Henderson. Scuotendosi dal suo torpore, Peter si affrettò nella direzione opposta cercando di non farsi sentire. Uscì da una porta laterale e attraversò la striscia di sabbia soffocata dalle erbacce che circondava l'edificio. Si diresse verso il boschetto di palme senza quasi accorgersi della guardia che si trovava all'inizio del sentiero, e si incamminò velocemente verso la spiaggia. In pochi minuti raggiunse la battigia e iniziò a correre verso le luci che brillavano all'orizzonte. Mezz'ora dopo aveva raggiunto il confine della base e stava per entrare nella baia fosforescente. Da lì avrebbe potuto proseguire a piedi o chiedere un passaggio fino a Esperanza per raggiungere la donna che lo attendeva alla Casa del Francés, ignara dei tremendi pericoli che incombevano su entrambi. Solo che, accanto al reticolato che divideva le due spiagge, c'era una sentinella. «Dottor Jance?» «Sì, sono io.» «Abbiamo l'ordine di non lasciarla correre oltre questo limite, signore.» Peter non si scompose. «Lo so. Pensavo solo di fare un salutino alla baia prima di tornare indietro. È bella, vero?» Il ragazzo gettò una rapida occhiata indietro, all'acqua scintillante, e scrollò le spalle. «Direi di sì. Dio solo sa che genere di merda ci hanno buttato dentro per farla luccicare così, probabilmente scorie radioattive della base.» Peter annuì, si girò e tornò indietro. Riprese a correre. A mano a mano che il suo obiettivo si allontanava, sentiva crescere il panico dentro di sé.
All'altra estremità della spiaggia si fermò: un'altra sentinella, a circa mezzo chilometro. Disperato, guardò a destra, poi a sinistra e infine il mare. Ce la posso fare. Si tolse le scarpe, se le appese al collo e si inoltrò nell'acqua. Da giovane era stato un bravo nuotatore, ma si rese conto immediatamente che il nuovo corpo non possedeva grandi capacità natatorie. Lottava contro le onde e doveva concentrarsi per insegnare ai muscoli e agli arti ad affrontare l'acqua. Gli ci volle un buon quarto d'ora per impartire al corpo un decente ritmo a crawl, lo stile in cui aveva vinto numerose gare all'università. A circa cento metri in mare aperto, girò verso destra mettendosi a nuotare parallelo alla riva e lottando contro una potente corrente contraria. Per un'ora procedette faticosamente. Ogni volta che si fermava, esausto, la corrente lo sospingeva indietro. Maledicendo la sua goffaggine, Peter si rimetteva allora a nuotare con rinnovata disperazione. Nella seconda ora gli vennero dei forti crampi e, nonostante l'acqua fosse calda, cominciò a sentire gli arti intorpiditi. Infine, qualcosa di grosso lo colpì. Bestemmiando, cercò scompostamente di allontanarsi pensando con terrore a tutte le specie di squali che popolavano quelle acque. Quando urtò con il piede una superficie metallica, si rese conto che era solo la boa che segnalava il canale del porticciolo della baia del sole. Ci si aggrappò per riprendere fiato, poi si diresse verso la riva. Dopo altri venti minuti, il mare lo depositò sulla spiaggia. Aveva perduto le scarpe, era gelato fino al midollo e tremava tanto che quasi non riusciva a mettere a fuoco le immagini. Incespicando si diresse verso la strada e fermò un'auto di sbalorditi turisti tedeschi ai quali raccontò che la sua barca era affondata. Apparentemente, quelli bevvero la storiella e lo accompagnarono gentilmente alla Casa del Francés dandogli anche un paio di scarpe che, per fortuna, erano proprio della sua misura. Peter si profuse in ringraziamenti e si avviò barcollando verso la locanda. Nonostante fosse esausto, non si era mai sentito così puro: era come Byron quando aveva attraversato a nuoto l'Ellesponto, pensò. O forse, e pensandoci si sentì di cattivo umore, era come un salmone che lottasse per risalire la corrente per raggiungere il luogo dove deporre le uova. Ipocrita, pensò all'improvviso, non dovevi correre tutti questi rischi. Potevi trovare un altro modo per avvertirla: bastava una telefonata. No, sicuramente il suo telefono è sotto controllo e l'avrei messa ancora
più in pericolo, rifletté. Ma, sto facendo la cosa giusta oppure sono completamente impazzito? Peter suonò il campanello al cancello. Dentro il gabbiotto vedeva un vecchio con i capelli bianchi e il viso scavato e pieno di cicatrici sonnecchiare su una sedia a sdraio. Raccolse un ciottolo sulla strada e lo colpì. L'uomo si svegliò di soprassalto, raggiunse il cancello trascinando i piedi e lo fece entrare. Peter gli diede un biglietto da dieci dollari tutto fradicio e, faticando a respirare, gli domandò della donna americana dai capelli biondi. Il vecchio sorrise e gli indicò una finestra illuminata. Quindi, con un sonoro «Olé» si accomiatò da quello strano gringo che tremava come una foglia. 12 Elizabeth sentì due colpi alla finestra: qualcuno stava cercando di attirare la sua attenzione. Con un tuffo al cuore si precipitò giù per le scale, nella hall, dove trovò Peter, disorientato, fradicio e tutto tremante. Era pallido come un morto, con gli occhi vitrei, non riusciva neanche a parlare. Lo accompagnò in camera e gli tolse i vestiti bagnati. Lo asciugò, massaggiandogli anche le mani, poi lo fece distendere sul letto e lo coprì bene. Si sedette accanto a lui e finalmente poté meravigliarsi di vederlo in quelle condizioni. «Hans, ma cosa ti è successo? Tesoro, a me lo puoi dire. Cosa sta accadendo?» A quelle parole affettuose, lui ricominciò a tremare in tutto il corpo e si aggrappò a lei temendo di morire. Era terrorizzato, e non solo per paura di impazzire. Per lo sforzo tutta la parte sinistra del suo corpo era diventata insensibile, come gli era già successo dopo l'operazione. L'udito e la vista andavano e venivano come le luci di un albero di Natale. Forse lo sforzo della nuotata, insieme alla stretta di Henderson alla gola, aveva compromesso uno dei collegamenti dei nervi alla base del collo? Sentiva il cuore pompare con più forza che mai, come se cercasse disperatamente di spingere abbastanza sangue attraverso i fragili vasi del cervello da ultrasettantenne. Pericolosamente vicino a un ictus, Peter si sentiva come un vecchio che cerchi di cavalcare uno stallone selvaggio senza riuscire a dominarlo. Quando riuscì finalmente a mettere insieme una frase, si accorse che aveva paura anche di parlare. «Quel ragazzo che hai visto all'Orizzonte blu, aveva i capelli biondi tin-
ti? Ti sembrava un po' strano?» «Sì.» Bene, era proprio Alex. «E c'era qualcuno con lui?» «No, che io abbia visto.» «Un militare? Magari un colonnello: faccia da mastino, mascella prominente, tempie sporgenti, un tipo dall'aria brutale...» Elizabeth lo fissò con gli occhi grigi colmi di spavento. Ero lo stesso colore di quelli di Beatrice, notò lui, con le iridi chiare, il bianco trasparente. Anche la voce era la stessa, un contralto di gola. Subito dopo pensò: Dio ti aiuti, Jance, è il trucco più vecchio del mondo. Beatrice, non ho potuto farne a meno, mi ricordava così tanto te. No, sei proprio un uomo falso, qui è solo la tua erezione a parlare. Da questo punto di vista, la circolazione sta funzionando benissimo. «Ma questo colonnello sa che io sono qui? Intendo dire, in quest'albergo?» «Se ancora non lo sa, presto lo scoprirà.» «Ma come? Perché? Hans, cosa sta succedendo?» Non poteva dirglielo, però doveva prepararla. «Se te lo dicessi, mi odieresti. E io non voglio che tu mi odi.» «Perché?» «Perché sei tutta la mia vita.» Le parole gli erano uscite di bocca spontaneamente. Bastardo! Pensò di sé. Dille che deve assolutamente andarsene: è per questo che sei venuto, non per sedurla. Peter aveva ricominciato a tremare ed Elizabeth gli stringeva forte una mano. «Tanto per cominciare, sono sposato.» Si rese subito conto di avere sbagliato. Lo sguardo di lei, così affettuoso un istante prima, era diventato gelido. Cercò di correggere il tiro. «Ma finora siamo riusciti a convivere con questa situazione, no?» La ragazza tirò su le gambe sul letto, si abbracciò le ginocchia e vi appoggiò il mento. «Hans, sei della CIA?» Benissimo, pensò lui, qui posso guadagnare un po' di tempo. «Se credi che io sia della CIA,» rispose cercando di sorridere, «vuol dire che l'Agenzia gode di un'immagine migliore di quanto pensassi.» «Le foto del tuo cadavere erano un trucco, vero? E l'incidente?» «Più o meno,» rispose calmo, ma sentendo la sua anima scivolare tra le pieghe di questa maldestra bugia. «E tua madre? Non lo sa oppure lo sa e mi ha mentito?»
«No, lei non lo sa.» Dio, ma quante erano le persone implicate nella faccenda? «Hans, lei soffre moltissimo.» «Lo so, ma non potevo dirglielo. L'avrei messa in pericolo.» Ed è proprio per questo che tu devi andartene, pensò, ma non riuscì a dirglielo. «Vuoi mollarli, uscire dal giro? È per questo che sei nei guai?» «Sì.» Questa era finalmente la verità, anche se non osava confessarlo neanche a se stesso. E perché mai? Per Beatrice che era comunque ancora leale alla causa? Sarebbe stato nobile pensare che fosse l'unica ragione. Ma proprio in quel momento sentì la sua voce dire: «Mi sono innamorato di te.» «Lo so, Hans,» rispose lei con enorme tenerezza baciandolo sulla fronte. «Me l'ha detto tua madre.» Chissà cosa vuole dire, pensò Peter. Ma adesso non voleva più conoscere altri dettagli della vita di quell'Hans: voleva saperne di più della donna. «Non cominceranno ad avere nostalgia di te, a casa?» «Sì, certo, quelli del lavoro, almeno lo spero. E anche Annie.» «L'immaginavo.» Bravo, Peter, va' avanti così. «Veramente l'agenzia non mi sta correndo dietro. Dopo la tua "morte", infatti, sono crollata e ho perduto vari ingaggi.» Attrice? Cantante? Modella? Lei lo studiava con gravità. «Sono persino andata a letto con un altro,» gli confessò. Peter provò una fitta di gelosia che lo scosse. «Be', ti capisco, sono scomparso così all'improvviso...» «Ma l'ho fatto proprio per trovarti. A proposito, anch'io ti amo.» Lui sentì il cuore gonfio d'amore ma le disse: «Ti sei cacciata proprio in un bel pasticcio, lo sai?» «È il mio destino, Hans. Ma dicevi sul serio, poco fa? Che li vuoi mollare?» Gli stava di fronte a gambe incrociate, eccitata, scuotendo all'indietro i capelli. «Sì.» «Allora perché non lo facciamo? Non posso più sopportare di starti lontana. Penso continuamente a te. Prima, a St. Maurice, avevo dei dubbi su noi due. Cominciavo a pensare di essere un po' masochista a continuare a rimanere con te. Ma adesso mi sembra tutto diverso...» «Ti piace il pericolo.» «No, non è solo il pericolo: sei tu. Adesso ti sento molto vicino. Prima eri lontano, distaccato. Eri davvero impossibile.»
«Forse lo sono ancora.» Dai, diglielo ora, pensò. «Tu sei cambiato. Adesso sento che tra noi funzionerà. Non voglio sapere chi tu sia o cosa hai fatto; se veramente vuoi stare con me, non mi importa altro.» Aggrottò le sopracciglia. «Hai il passaporto con te?» Il passaporto. «No, non ce l'ho con me.» «E dov'è? Vivi in albergo? Se ti senti ancora debole, vado a prendertelo io.» «No, non puoi andare: si trova alla base.» Ripensando al cancello con il filo spinato e alla sentinella armata, Elizabeth provò un brivido di paura. «Ma non è pericoloso, per te, tornare lì? Forse non dovresti.» «Invece devo. I traveller's checks, il passaporto, ho tutto lì.» Dai, almeno questo glielo devi dire: «Non sarà una cosa facile... E poi, alla base c'è un'altra persona.» Lei si irrigidì, subito sulla difensiva. «Una donna?» «Be', sì.» «Yvette è qui con te?» Era tutta una cospirazione che coinvolgeva persino sua moglie? «No, non è questo. Non è Yvette...» Fece una pausa. La situazione gli stava sfuggendo di mano. «Credimi, tu non conosci questa persona. Ma non posso proprio abbandonarla, è troppo pericoloso.» «È coinvolta in questa faccenda con te?» domandò lei, timidamente. «Sì, molto coinvolta. È esposta a rischi enormi. E quanto a te, sei già in pericolo...» Elizabeth fece un lieve cenno di assenso con la testa ma non capiva. «Per colpa dell'uomo a cui hai accennato... quel colonnello?» Peter le prese la mano, poi la guardò negli occhi. Almeno su questo poteva finalmente dirle la verità. «Quel tipo ha un potere enorme... non posso neanche rendertene l'idea.» Improvvisamente lo colse la sensazione della propria mortalità e, con terrore, si rese conto che quella fuga notturna era stata una vera pazzia. Il progetto era l'unica cosa che importasse a Henderson e agli altri del gruppo. Nessuno però era indispensabile, nemmeno lui, soprattutto dopo quelle vanterie da ubriaco davanti a Freddy Wolfe sulla nuova arma che aveva detto essere ormai pronta. Così facendo si era esposto a un rischio mortale, se ne rendeva conto solo ora. Rise amaramente dentro di sé. Il ridicolo era che aveva cercato di convincere Wolfe della propria lealtà, come se le sue parole valessero più delle sue azioni. «Quanto denaro hai? Abbastanza per noleggiare una barca?»
«Certo, con la mia fedele Visa.» «Sai manovrare un'imbarcazione?» «Sono sicura di riuscirci, ma perché...» «Probabilmente l'aeroporto è sorvegliato. Capisci quanto è grave la situazione?» Lei annuì: non era impaurita ma addirittura eccitata. «E tu verrai con me?» Peter si fece cauto. «Vedremo.» «Capisco.» L'eccitazione negli occhi di Elizabeth si spense. «Vuoi tenerti aperte tutte le possibilità.» «Mi preoccupo solo della tua sicurezza,» rispose lui deciso, «e anche della mia. Domani, a mezzanotte, a quattrocento metri dalla riva, a metà della striscia sud della zona militare, poco oltre la baia luminescente dove ci siamo incontrati.» Dove ci siamo incontrati di nuovo, pensò con un lieve sussulto. Ma lei non l'aveva nemmeno notato. Ora i suoi begli occhi grigi brillavano. «A mezzanotte, ci sarò.» «La barca deve essere abbastanza affidabile da portarci a Puerto Rico.» «E poi?» «Poi prenderemo un aereo.» «Insieme?» Lei lo fissava piena di speranza, con le labbra socchiuse. Invece di rispondere, Peter la baciò ed Elizabeth gli si mise a cavalcioni, sfilandosi rapida la T-shirt. Lui sfiorò delicatamente i suoi seni, lei sorrise e chiuse gli occhi come se conoscesse quei gesti a memoria. Dopo pochi secondi già si muovevano all'unisono, spinti dalla passione. Per Peter, l'immenso amore e il desiderio di quella donna superavano ogni possibile comprensione, la memoria cellulare o qualunque cosa la sua scienza potesse concepire. Il fatto lo allarmava profondamente: la naturalezza con cui riusciva a cogliere ogni mutamento di umore di lei, ogni lievissima modifica delle sue necessità, il loro facile rapimento e la sensazione di completa fusione, tutto ciò lo turbava ma, allo stesso tempo, lo elettrizzava. Venne la mezzanotte. Peter aspettò che lei si rivestisse e andasse a far asciugare gli indumenti fradici nella lavanderia dell'albergo svegliando bruscamente il proprietario. Poi andarono all'auto. Elizabeth dovette svegliare anche il guardiano, addormentato come al solito. Usò una sola parola: «Toro!» Il vecchio balzò in piedi e aprì il cancello. Elizabeth fermò la macchina a circa un chilometro dalla base. Per un
quarto d'ora rimasero nell'auto a noleggio senza dire nulla, incapaci di separarsi. Alla fine, Peter aprì lo sportello e scese. Elizabeth sgusciò anch'essa dal posto di guida. Si baciarono ancora sotto un cielo stellato, così a lungo che lui perse persino il senso del pericolo. Poi la guardò risalire sull'auto, fare inversione e tornare verso la Casa del Francés. Notò che nelle ultime due ore non si erano quasi scambiati neppure una parola. Io la conosco, pensò Peter con un brivido. La conosco troppo bene. So tutto di lei, tranne il nome. E Beatrice? In quel momento non riusciva neppure a immaginare il viso della moglie senza vedere anche il volto di quest'altra donna, come se fossero lo stesso viso. E questa percezione non faceva che accrescere il suo turbamento. Tornata nella sua stanza d'albergo, Elizabeth si mise a preparare i bagagli. A un tratto si fermò e prese il telefono. Se, come sembrava, stava per scomparire per un po', c'erano alcune persone che doveva avvertire. Naturalmente Annie e, forse, il padrone di casa e quelli dell'Helvetica. E Rose-Anne, la madre di Hans. Era l'una di notte, dunque le nove di mattina a Zurigo. Usando la carta telefonica, chiamò il servizio informazioni elvetico e chiese il numero di Rose-Anne Brinkman. Gliene diedero due. Al primo, le rispose però in tedesco una voce femminile giovane. Quando chiese di Rose-Anne, le disse che era lei. Elizabeth si scusò, compose il secondo numero e aspettò a lungo. «Sì?» «Rose-Anne? Sono Elizabeth.» Silenzio. «Pronto, Rose-Anne?» «Elizabeth, dove sei? Ti sento così lontana.» Lizzy, dille solo lo stretto necessario, si raccomandò. «Rose-Anne, ho delle notizie sconvolgenti.» «Oh Dio, devo sedermi?» «Sì.» E, dopo un respiro profondo, aggiunse: «Riguardano Hans.» «Oh Dio, e adesso che succede?» «Non si agiti, sono buone notizie. Hans è vivo.» Silenzio assoluto. «Rose-Anne, mi sente? Sta bene?» Un improvviso crepitio sulla linea, poi silenzio.
«Rose-Anne? Pronto?» Elizabeth guardò il telefono come se potesse spiegarle perché taceva. Premette il pulsante del ricevitore, cercò il tasto di richiamata: non c'era. E niente segnale. Impiegò un po' a rendersi conto che la linea era interrotta. Allora la paura avvolse tutta la stanza con spire di serpente e le si attorcigliò intorno al petto ostacolandole il respiro. Elizabeth andò alla finestra per controllare se c'erano figure o se sentiva rumori insoliti. Vide un gruppetto di palme da dattero, un riquadro di asfalto e un cielo color piombo su cui aleggiavano alcuni cirri sparsi. Da qualche parte, un bimotore stava sorvolando la zona. Ricontrollò la strada, poi attraversò la stanza e aprì l'armadio. Aveva appena finito di fare i bagagli e stava chiudendo la valigia, quando sentì un leggero scricchiolio fuori dalla porta. Bussarono. Una lunga pausa. Dall'altra parte della porta, qualcuno stava ascoltando. Elizabeth appoggiò l'orecchio alla porta, poi fece un salto indietro, terrorizzata da una seconda serie di colpi, più forti. Trattenne il respiro finché non iniziarono a farle male i polmoni. «Miss Parker, è lì? Vedo la luce accesa.» Ivor Greeley. Elizabeth trasse un sospiro di sollievo e cercò di assumere un tono di voce normale. «Sì, Ivor, cosa c'è?» «Dobbiamo parlare.» «Perché?» «Può aprirmi per favore?» Lei si guardò in giro alla ricerca di un oggetto pesante. «Non possiamo aspettare domattina?» «Domattina lei se ne dovrà andare. Ho pensato di dirglielo stanotte, visto che è ancora sveglia.» Elizabeth fissò la porta, il regolamento dell'albergo e la piantina con l'uscita di emergenza come se fossero istruzioni inviate da Dio. Ma come mai Ivor era sveglio a quell'ora? «Andarmene? E perché?» «Lo sa benissimo.» «Mi scusi, ma non lo so.» «Miss Parker, la sua carta di credito non è valida.»
Elizabeth riprese coraggio. Era un semplice equivoco, e il tono di Greeley non sembrava affatto minaccioso; forse era un po' seccato, ma null'altro. Tolse la catenella e aprì la porta. L'uomo stava in piedi di fronte a lei scuotendo tristemente la testa. «Mi scusi, non intendevo spaventarla. Ma domattina dovrà andarsene, subito. Naturalmente, può passare qui il resto della notte.» «Senta, ho un'altra carta, adesso gliela do.» «No, non andrà bene neanche quella.» Elizabeth, che stava andando a prendere la borsa, si fermò a metà stanza. «Perché no?» «Quando ho chiamato la Visa, mi hanno detto che la carta era rubata e probabilmente lo sarebbero state anche altre carte che lei mi avrebbe dato. Senta, non ho tempo per questi trucchetti. Tra l'altro è proprio per cose come queste che ho lasciato Boston.» Greeley girò sui tacchi e si allontanò lungo il corridoio. Sotto, in giardino, un pappagallo si mise a gracchiare. Elizabeth chiuse la porta ma la riaprì subito. «Ivor?» L'uomo si girò, con gli occhi colmi di diffidenza. «Per caso mi ha anche tagliato il telefono?» «Il telefono? No, non saprei neppure come farlo.» E si riavviò lungo il corridoio. «Per piacere, potrebbe dirmi un'ultima cosa?» Greeley si girò un'altra volta, con uno sguardo impaziente. «Conosce per caso il nome della persona della Visa con cui ha parlato?» «No, perché dovrei? In ogni caso era un uomo, molto gentile. Mi ha detto che probabilmente lei è una moglie in fuga dal marito e mi ha raccomandato di non trattarla con troppa durezza.» Si girò e scomparve definitivamente. Elizabeth richiuse a chiave la porta. Hans l'aveva avvertita che l'avrebbero rintracciata, e adesso? Senza carta di credito non aveva i soldi neanche per noleggiare un kayak, figurarsi una barca in grado di arrivare a Puerto Rico. Si sedette sul letto e si mise a pensare. Chiama Annie, fatti mandare dei soldi. Ma sarebbero arrivati in tempo? O non sarebbero arrivati affatto? Riprese il telefono. Ancora muto. Strano. E poi, la carta di credito bloccata... Non aveva senso, era sicura di aver pagato regolarmente il conto tutti i mesi. Qualcuno voleva metterla in difficoltà, qualcuno molto potente. Vattene! Lascia più presto che puoi questa maledetta Vieques!
No, non senza Hans. E se lui non vuole venire? Gliel'aveva accennato poco prima e poi le aveva già mentito tante volte, in passato. Le aveva tenuto nascosta la sua vera identità: come poteva avere ancora fiducia in lui? Il suo sguardo, quando gli aveva accennato alle foto del corpo, le era apparso strano, sbigottito. E perché non le aveva fatto domande su sua madre? E il modo in cui le aveva detto che era sposato, come se fosse una novità per lei, come se non avessero mai parlato di Yvette... La CIA aveva forse trafficato con la sua testa, cancellandone selettivamente i ricordi? E chi era la persona, alla base, a cui lui era tanto legato? È evidente che non voglio saperlo, altrimenti gliel'avrei domandato, pensò. Lui l'amava: questa era la cosa importante. Stranamente, del suo amore non dubitava più. Ma adesso si chiedeva: ciò non la rendeva forse ancora più stupida? Era infatti il suo amore ad averla attirata in quella situazione pericolosa. Riprese ad essere diffidente. Elizabeth capì che non doveva trascorrere neppure un altro secondo lì. Quella camera d'albergo era esposta e facilmente accessibile dalla strada arrampicandosi su un solido traliccio. Quando a lei, era stata sfrattata, non poteva parlare con nessuno e, probabilmente, aveva il telefono sotto controllo. Cosa aspetti? Vattene! si disse. Afferrò le chiavi dell'auto. In un posto affollato, era lì che doveva andare: un bar aperto tutta la notte o qualsiasi posto in cui ci fossero altre persone. Avrebbe dovuto tenere duro fino al mattino e poi, in un modo o nell'altro, procurarsi la barca e recarsi all'appuntamento con Hans. Ma come recuperare una barca? Non ne aveva la minima idea. 13 L'arrivo di Peter, a piedi, al cancello principale della base venne immediatamente considerato sospetto. La sentinella, un ragazzone con le orecchie a sventola e l'accento texano, imbracciò l'M-16, gli ordinò di fermarsi all'istante e di mostrare il documento di identificazione. Tolta la sicura e con il fucile in posizione di sparo, la sentinella si mise a studiare la patente. «È sua?» «Sì, sono Peter Jance, lavoro alla base. C'è qualche problema?» «Sì, c'è un problema. Sembra piuttosto giovane per essere nato nel
1924.» Gesù, non si sono neppure preoccupati di darmi falsi documenti di identità, pensò Peter. E subito dopo meditò che dove c'è stupidità c'è anche speranza. «È un errore di stampa, in realtà sono nato nel 1964, ma non ho mai avuto il tempo di correggerlo.» «Ed è lei in questa foto?» «Sì.» «Ho visto delle brutte foto di patenti, ma questa le batte tutte.» La sentinella gliela rese. «Perché non se ne torna in città, signore? Non mi sto divertendo affatto.» «Ma io sono il dottor Peter Jance, vivo qui: controlli l'elenco del personale.» La sentinella si diede uno strattone a un gigantesco lobo auricolare e gli rivolse un'occhiata di crescente impazienza. «Non si muova di qui.» Andò nel gabbiotto di guardia, fece una telefonata e tornò: aveva l'aria veramente scocciata. «Non c'è nessuno con questo nome nell'elenco. Farà meglio a darsi una mossa.» Puntò l'arma più o meno in direzione di Peter e si appoggiò al cancello. «Lavoro a un progetto segreto, quindi probabilmente il mio nome non è nell'elenco. Chiami il dottor Frederick Wolfe.» «Sì, ai suoi ordini...» «Oppure chiami la dottoressa Beatrice Jance. È mia moglie.» «Io non chiamo proprio nessuno. Lei si tolga di torno se non vuole trovarsi in un mare di guai, signore.» «Allora chiami il colonnello Henderson. Sono sicuro che sarà felicissimo di vedermi.» Quando nominò Henderson, la sentinella ebbe un attimo di incertezza. «Il colonnello mi conosce bene,» gli assicurò Peter. Il ragazzo alzò di nuovo la cornetta e lui pregò che chiamasse l'attendente e non il colonnello in persona. Dopo avere parlato e ascoltato attentamente per alcuni istanti, la sentinella sbatté giù la cornetta, si girò e puntò l'arma contro di lui. «Faccia a terra! Braccia e gambe larghe, maledetto figlio di puttana! Subito!» Il ragazzo era isterico e Peter ubbidì all'istante. Si sdraiò umiliato sull'asfalto mentre la sentinella continuava ad agitarsi; l'arma produceva sinistri rumori metallici che lui si sforzava di non sentire. Ma fine, dall'oscurità si materializzò un veicolo militare e si avvicinarono di corsa nume-
rosi uomini. Peter stava per alzare lo sguardo, quando due paia di mani lo sollevarono di peso: erano quelle del ragazzo texano e della sentinella della notte prima. Aprirono lo sportello di una Humvee e lo buttarono dentro con violenza. Sentì qualcuno saltare a bordo accanto a lui, spianandogli il fucile sulla faccia con l'intimazione di stare tranquillo se ci teneva alla pelle. Poi il veicolo partì a tutta velocità, fece una brusca inversione e si addentrò rombando nella base. All'ingresso della zona riservata l'autista si fermò e l'altra sentinella aprì lo sportello ordinando a Peter di andare di filato nel suo appartamento e di non muoversi di lì fino a nuovo ordine. Lui osservò il militare - un piccoletto di origini italiane dall'aria vivace con un forte accento newyorkese che gli indicava con il fucile l'ala residenziale. Estrasse la chiave magnetica cercando di non tremare, l'infilò nella serratura ed entrò dalla porta di servizio. Percorse il corridoio sentendosi come un insetto su cui incomba minacciosamente un tacco pronto a schiacciarlo. Se mai aveva dubitato che il suo carisma e i suoi privilegi potessero venirgli tolti in un attimo, quell'attimo era arrivato. Tutto, nel modo in cui l'avevano trattato, parlava della sua estrema precarietà. Gli sembrava quasi di sentire l'ordine che doveva essere stato impartito alle guardie: se quel bastardo di Jance vi crea qualche problema, fatelo fuori. Il suo appartamento era buio e deserto. Non c'erano segni di Beatrice né delle sue cose: solo le nude pareti beige, due stampe di soggetto botanico abbandonate in camera da letto e i miseri mobili da motel. Anche la fiasca di Erlenmeyer, il tocco personale della moglie, era scomparsa e i crisantemi secchi erano sparpagliati per terra in attesa di qualcuno che li spazzasse via. «Beatrice?» chiamò Peter nell'oscurità. Nessuna risposta. Era solo: abbandonato e, insieme, completamente libero. In preda a un panico crescente, si mise ad aprire con violenza tutti i cassetti, raccogliendo denaro sparso, traveller's checks, il passaporto e tutti gli indumenti che riuscì a ficcare in una vecchia sacca da viaggio. Poi guardò la porta. Gli avevano intimato di andare nella sua stanza e di aspettare. Non gli avevano dato alcuna possibilità di scelta. Vada nella sua stanza e aspetti! Affanculo, lui doveva andarsene. Ma prima doveva assolutamente vede-
re Beatrice, per chiederle scusa, salutarla, supplicarla di perdonarlo. Forse le poteva dire che era diventato (o stava diventando) qualcuno o qualcosa di diverso da quello che era stato fino ad allora. Era una possibilità a cui tutti loro dovevano aver pensato. Solo che adesso non c'era più tempo per pensare. A causa dell'assurda realtà che loro stessi avevano creato, c'era tempo solo per l'azione. Lui non poteva che andare da quella donna senza nome, da quel magnete di forza vitale e di desiderio che l'attirava in modo irresistibile. Non voleva assolutamente resisterle. Uscì di nuovo in corridoio e chiuse silenziosamente la porta dietro a sé. Le luci, con le enormi falene che urtavano silenziosamente contro i globi, brillavano gialle e fioche fino a dove iniziava il portico. Sulle pareti si stagliavano le ombre bizzarre delle falene. Ma dov'era sua moglie? In laboratorio o nella sua nuova camera? Magari era impegnata in segreti conciliaboli con Wolfe e Henderson. Doveva assolutamente trovare qualcuno che gli dicesse dove si trovava Beatrice. Rosemarie Wiener, Cap Chu o Flannagan: uno di loro conosceva certamente la residenza della moglie. Peter raggiunse la porta di ingresso e si affacciò all'esterno, ma fece subito un balzo indietro. Oltre la soglia stazionavano due sentinelle, armate ed equipaggiate con walkie-talkie. Era prigioniero. I suoi carcerieri erano armati di tutto punto e, con tutta probabilità, furibondi nei suoi confronti. Era stato uno stupido a tornare alla base? No, senza passaporto non poteva certo scomparire. E, in quel momento, fuggire era la sua unica possibilità. Anche se non avesse mai incontrato la donna della spiaggia, il fatto di avere completato la progettazione dell'arma (senza peraltro progettare un piano di fuga) l'aveva reso del tutto superfluo. Inoltre, mettendo apertamente in discussione quello che facevano alla base, si era messo decisamente nella categoria dei pericolosi piantagrane. Beatrice non sopportava più di vivere con lui, e probabilmente il suo vecchio amico e concorrente Frederick voleva vederlo morto. A sua volta, il colonnello l'avrebbe dimenticato in men che non si dica, convinto che ormai senza di lui il progetto fosse più sicuro. E chi c'era, oltre a Wolfe e a Henderson a minacciarlo? Sopra quei due aleggiava un'oscura presenza, un mondo kafkiano di organizzazioni ombra e di poteri senza volto per i quali lui rappresentava una semplice pedina. Immaginò quel sistema di potere, esteso e multiforme,
che andava dalla violenza degli atomi pieni di quark alla lotta incessante tra le nazioni, gli imperi e lo stesso DNA. In quell'immenso maelstrom, lui non era nessuno. E non aveva alcun modo di sfuggire alla propria fine, se così avevano deciso. Tutto il suo patrimonio genetico, fragile ma vitale, risalente agli inizi della specie umana, ora si trovava sull'orlo di un'assoluta e irrevocabile estinzione, e lui non aveva alcun potere per opporsi. La morte era l'ultimo imperatore nudo. Se in quel momento qualcuno avesse ridotto Peter a puri e semplici atomi, questi si sarebbero mescolati con quelli di altri poveracci come lui, con quelli degli scarafaggi, delle specie in via di estinzione, delle foreste alluvionali bruciate e della smisurata massa di concime formato dall'umanità defunta. Poi, tra uno o due millenni, si sarebbe riaggregato dando luogo alla materia delle stelle e a mondi nuovi da qualche altra parte nel cosmo. La morte in realtà non esisteva. Affanculo tutto, si disse pensando alla difficile situazione in cui si era cacciato. Adesso doveva trovare Beatrice, ma come? Non ne aveva la minima idea. Peggio: sapeva che non se ne sarebbe andato senza prima averla vista. Doveva precipitarsi fuori mettendosi a urlare il suo nome? In quel momento di dubbio e di sofferenza, in fondo al corridoio risuonarono due voci maschili. Una lama di luce si stagliò contro una parete e da una porta aperta emerse una figura magra e trasandata. Era Alex Davies. Stava ingobbito e imprecava. Aspettandosi di vedere spuntare Wolfe dietro al nipote, Peter arretrò prudentemente verso la camera, buttando dentro la vecchia sacca da viaggio. Ma la porta in fondo al corridoio venne sbattuta con violenza. Wolfe non si vedeva: c'era solo il ragazzo, che misurava il corridoio a grandi passi, furioso. Quando vide Peter sulla soglia del suo appartamento, Alex si fermò impietrito, poi gli si avvicinò rallentando il passo. «Figli di puttana,» borbottò gettando rapide occhiate da una parte e dall'altra. Sembrava che gli fosse appena venuta in mente una risposta pungente e volesse tornare indietro per riprendere la lite con il nonno. Si lasciò andare contro la parete passandosi le mani tra i capelli, sull'orlo delle lacrime. «È veramente uno stramaledetto pazzo,» disse a Peter, come se quest'ultimo avesse sentito tutto. «Alex, sai dov'è Beatrice?»
Il ragazzo gli rivolse uno sguardo strano, poi fece una risata incerta e scosse la testa. «Amico, proprio non lo so. Ma deve essere parecchio incazzata con te.» «Non hai idea di dove possa essere?» «No, assolutamente. Il nonno l'ha sistemata da qualche parte, non so dove. Vuoi che le riferisca un messaggio, se la vedo?» «Sì, dille che le chiedo perdono, che mi dispiace di tutto. E che mi metterò in contatto con lei.» «Perché? Dove stai andando?» Alex si staccò dal muro e fece qualche passo. «Ehi, non fare lo stupido. Quei tipi non stanno affatto giocando, lo capisci?» «Sì.» Guardando l'espressione di devastazione e di resa sul viso di Peter, il ragazzo si rese conto che l'altro capiva perfettamente. «Che cosa pensi di fare?» «Pararmi il culo,» rispose lui con una frase che aveva sentito ripetere continuamente alla base. Sapeva di aver già parlato fin troppo. Arretrando sulla porta dell'appartamento, salutò Alex con un gesto. Quello si gettò uno sguardo dietro le spalle, poi si avvicinò a Peter e gli diede un colpetto affettuoso sul braccio. «Sono con te, amico.» Aveva un tono da cospiratore. Poi si allontanò veloce lungo il corridoio. Appena fu scomparso, Peter tornò dentro, afferrò la sacca e uscì sul terrazzo, silenzioso come un gatto. Guardò giù: la sentinella stava parlando al cellulare con qualcuno che, molto probabilmente, era la sua ragazza. Che fortuna! Infrangendo il regolamento, quel bastardo gli stava dando un'ottima possibilità di fuga. Con un'unica agile mossa, Peter saltò sopra la ringhiera. Nel preciso istante in cui si lasciava andare, provò una profonda liberazione e una grande decisione. Piombò sul ragazzo gettandolo a terra. Quello non ebbe nemmeno il tempo di gridare. Fu inchiodato al muro, ricevette un gancio sinistro e poi un destro che gli fecero sbattere la testa contro l'intonaco e ricadde come un sacco di patate. Peter guardò le armi della sentinella. Nel cuore gli montava una furia cieca, amplificata dalla mancanza di informazioni chiare sulla situazione. Il senso di colpa si intrecciava con la sensazione soverchiante che non ci sarebbe mai più stata pace nella sua vita. Ciò che doveva fare andava persino al di là della difesa della propria vita. Con un'intuizione folgorante,
capì che la sua scelta riguardava la sopravvivenza di quella donna che lo amava in modo tanto intenso da fare di lui un altro uomo. All'improvviso, il suo unico desiderio era proteggerla e difenderla trovando un posto dove poter andare con lei, lontano dalla follia di questa vita. E così sia! Prese alla sentinella la pistola di ordinanza, scaricò il fucile e buttò il caricatore tra gli alberi. Poi si girò e si mise a correre. Superato il portico, svoltò oltre i laboratori centrali, attraversò un campo di erba alta fino alla vita e si diresse al parcheggio. La Humvee che l'aveva trasportato poco prima era lì, con le chiavi inserite. Prenderla fu dunque semplicissimo. Quando Peter arrivò al cancello principale a quasi novanta all'ora, vide che la sentinella era già stata avvertita ma non ebbe esitazioni. I lampi prodotti dal fucile del militare gli sembrarono semplici lampi di calore all'orizzonte. Non provava affatto paura. Spingendo l'acceleratore a tavoletta, sfondò il cancello facendo schizzare di lato la sentinella. Rimase impressionato dalle proprie doti di guidatore. Dopo l'episodio della BMW, non si era più molto preoccupato della guida, ma ora il suo piede destro sembrava avere una volontà autonoma e anche le mani sapevano da sole cosa fare. Senza un attimo di esitazione e senza alcuno sforzo, fece descrivere all'auto una curva a 90° immettendosi su un nastro di asfalto a due corsie e scomparendo alla vista prima che sopraggiungessero altri veicoli della base. Seguì la strada sulla collina, poi rallentò e tagliò prudentemente per la boscaglia con l'intenzione di far perdere le sue tracce. Proseguì attraverso i campi, su strade di campagna, a volte su sentieri del bestiame, una volta addirittura lungo un ruscello, come da ragazzo aveva visto fare a Hopalong Cassidy in un film che gli era piaciuto un sacco. Sorrise: era molto divertente. Perfetta per quel compito, la jeep volava sul terreno sconnesso con tutta la competenza con cui era stata progettata e pagata dai contribuenti. Dopo tutto, quello era un aspetto positivo del progresso militare, pensò amaramente. Aveva evitato almeno otto chilometri di autostrada tutta curve e relativi posti di blocco. Peter non riusciva a pensare ad altro che a raggiungere al più presto la baia. Elizabeth aveva deciso di andare in città e di mescolarsi ai turisti, quando vide che la sua Honda stava per essere caricata su un carro attrezzi dell'Island Towing. L'autista, un isolano con i capelli lunghi, le rivolse uno sguardo che diceva chiaramente di non rompergli le palle. «Ma che diavolo sta facendo?» gli domandò.
Quello non si curò nemmeno di togliersi la sigaretta di bocca né di fermare l'elevatore. «Sto recuperando quest'auto.» «Alle tre del mattino!» «È il momento migliore per trovarla al suo posto.» «Ma è la mia auto!» «Io direi piuttosto che è della Hertz.» Fissò il cavo di traino e tornò alla cabina di guida, seguito da Elizabeth. «Ma hanno la garanzia della mia American Express!» «La sua carta non è buona. Niente carta di credito, niente auto.» Sbatté lo sportello e accese il motore. Elizabeth corse dietro all'auto trainata per cercare di vedere, attraverso i finestrini, se vi aveva lasciato dentro qualcosa di suo. La pianta dell'isola e il contratto di noleggio erano incastrati tra i sedili anteriori ma, prima che riuscisse ad aprire lo sportello, il carro attrezzi stava prendendo già velocità portandosi via tutto. «Stronzo!» urlò. Ma il grido si perse nella notte e, dato il rombo del motore del carro attrezzi, l'autista non la sentì nemmeno. Rimase ferma in piedi per qualche istante, furiosa, chiedendosi che diavolo fare. Poi qualcosa la colpì: non si sentivano più i coquis. Si guardò intorno: era buio pesto e il silenzio era assoluto. Elizabeth si sentì sola e minuscola sotto l'immenso cielo stellato. Tornò indietro e riattraversò il cancello. Strano, era aperto. Come al solito, l'ex matador stava abbandonato sulla sedia a sdraio. Elizabeth pensò stupidamente di denunciarlo al padrone dell'albergo; forse Greeley si sarebbe sentito abbastanza in colpa e le avrebbe dato una mano a noleggiare un'altra macchina. Ma non ne ebbe il coraggio. Chiamò il vecchio. «Toro! Toro!» Quello non si mosse. Poi la ragazza notò qualcosa sotto la sdraio: la luna si rifletteva in una pozzanghera che lentamente si allargava. Si avvicinò e vide che anche i pantaloni dell'uomo erano bagnati. Quel liquido era troppo denso, troppo rosso: non poteva essere altro che sangue. Non riuscì a gridare, ma il terrore cresceva dentro di lei. Gli si avvicinò sperando di poterlo in qualche modo aiutare. Aveva la pelle d'oca e sentiva come degli strani insetti camminarle sulle braccia. Nonostante l'oscurità, vide che gli avevano tagliato la gola da un orecchio all'altro. Senza nemmeno rendersene conto, si mise a correre a perdifiato.
Attraversò il parcheggio ed entrò nell'albergo. Con la disperata consapevolezza di un animale braccato, solo ora vedeva quanto indifesi fossero quei luoghi: verande aperte, terrazze aperte, ingressi di sottile bambù al posto delle porte. Si arrestò nella hall immersa nell'oscurità. Sentiva una musica provenire dall'appartamento di Greeley. «Ivor! Chiami la polizia!» Nessuna risposta. Forse non voleva più avere nulla a che fare con lei. «Ivor?» La porta della sua camera era socchiusa. Si avvicinò e cercò di aprirla, ma non ci riuscì. C'era un ostacolo dall'altra parte. La porta sottile ed elastica cedeva in alto ma non in basso: qualsiasi cosa fosse a fermarla, doveva trovarsi sul pavimento. Elizabeth spinse la porta con la spalla aprendola di quel tanto che bastava per infilare la testa nella stanza. Quello che vide la raggelò. Oltre la porta c'era Ivor, con una livida maschera di sorpresa e di orrore dipinta sul viso. Poi vide tutto il sangue, e un istante dopo si rese conto che ci stava proprio in mezzo. Girando sui tacchi delle scarpe insanguinate, corse nella sua stanza e chiuse a chiave la porta. La serratura era vecchia, arrugginita, e la porta poteva essere sfondata con una semplice spallata. Elizabeth afferrò una sedia di legno e cercò di incastrarla sotto la maniglia, ma serviva a poco. Allora si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa di pesante da appoggiare contro la porta. L'unico mobile di una certa mole della stanza era il letto, ma risultò tanto leggero che riusciva a spostarlo con le ginocchia. Prese il telefono. Era sempre muto, ma sentì un rumore sulla linea e, dopo una pausa, un bisbiglio. «Russell? Sei entrato?» Sbalordita e terrorizzata, la ragazza mollò il telefono, che cadde sullo scrittoio. In un attimo si rese conto che, chiunque ci fosse all'altro capo del filo, adesso si era sicuramente allarmato. Una violenta ondata di panico la percorse da capo a piedi. Si precipitò in bagno chiudendosi dentro. Forse aveva ancora il tempo di scappare dalla finestra sopra la vasca da bagno. Elizabeth scostò con uno strattone la tenda della doccia e finì praticamente tra le braccia di un tipo, grosso come un orso, che vestiva bermuda e una T-shirt della Budweiser. «Ehi!» fece quello, chinandosi su di lei. Ma Elizabeth era già balzata indietro mettendosi a urlare. Sbatté contro la porta chiusa, in preda al panico. Dentro di lei, una voce primordiale di-
ceva: qui si tratta di vita o di morte! Per fortuna, il gigante barbuto era inciampato con il piede contro il bordo della vasca ed era finito faccia a terra sul pavimento. In un attimo, Elizabeth girò la chiave e riaprì la porta, ma l'uomo riuscì ad afferrarla per una caviglia. Tornata lucida, la ragazza sferrò un calcio con tutte le sue forze con l'altro piede e colpì il gigante diritto in faccia. Sentì il rumore di qualcosa che si era rotto e sperò di avergli fracassato il naso. Si rinfrancò un po': anche lei poteva fargli male. Si girò e vide che l'orso stava rialzandosi coprendosi il viso con le mani. Il sangue gli filtrava abbondante tra le dita, ma l'uomo stringeva un coltellaccio e avanzava incespicando verso di lei. Elizabeth vedeva tutto al rallentatore, come una serie di paletti durante una gara di slalom. Alla fine di infilarle la lingua in bocca. L'altro, repentino, gli affondò allora il coltello nel cranio. L'orso fece uno scatto indietro con un'espressione incredula, cadde su un tavolino e poi crollò sul pavimento. Si dibatté per qualche istante in preda alle convulsioni. Da un angolo della bocca gli colò un sottile filo di bava. Poi rimase immobile. Elizabeth era sospesa tra il terrore e la nausea. «Fine della serata del dilettante,» commentò Russell. Si rivolse alla ragazza. «Vieni qui!» Tirò fuori un pezzo di corda dalla tasca posteriore dei pantaloni. Mi vuole impiccare, pensò lei terrorizzata. L'uomo le afferrò un polso avvolgendovi intorno la corda. Possedeva una forza incredibile. La sbatté contro la parete per impedirle di muoversi. L'afferrò a sua volta per i capelli tirandole indietro la testa. Il coltello descrisse un ampio arco verso la gola di Elizabeth, poi si fermò. «Se avessi voluto,» le disse calmissimo, «ti avrei potuto uccidere. Ma io obbedisco agli ordini.» Mentre iniziava ad avvolgerle la corda intorno ai polsi, improvvisamente, da dietro qualcuno lo assalì. Fu un attacco tanto improvviso e violento che, in un attimo di disorientamento, Elizabeth pensò fosse balzato in camera un animale selvatico. Inorridita, vide il marine volare lontano da lei con un altro uomo aggrappato alla schiena. I due atterrarono sul letto e poi sul pavimento. Un secondo dopo si accorse che l'aggressore era Peter, che fece un balzo mentre l'altro cercava di recuperare il coltello. Peter gli piombò addosso afferrandogli il polso, ma quello gli sferrò una gomitata al mento. Peter barcollò all'indietro e Russell gli fu subito addosso, piantandogli un ginocchio sul torace per cercare di bloccarlo e accoltellarlo. Peter spostò la testa di lato, la lama gli sfiorò l'orecchio e andò a conficcarsi nel pavimento. Imprecando, Russell lottò per liberare il coltello. Elizabeth afferrò allora la
sedia che prima aveva cercato di infilare sotto la maniglia della porta e gliela fracassò sulla schiena. Il militare cadde pesantemente a terra. La lama del coltello scomparve sotto di lui. Era impossibile dire se gli fosse penetrata nel corpo, ma una cosa era certa: lui non si muoveva più. Peter ed Elizabeth si misero a correre all'impazzata. Si precipitarono nel parcheggio, ma frenarono di colpo trovandosi sotto il tiro della pistola di un terzo uomo. Era l'autista del carro attrezzi, e questa volta era armato. «Dov'è il Señor Russell?» chiese con voce stupita. Era chiaramente sconcertato di vedere un altro uomo insieme alla ragazza. «Di sopra,» rispose Peter cercando di impedire alla sua voce di tremare. Poi aggiunse: «Non è lei.» Appoggiò la mano sulla spalla di Elizabeth per guidarla e oltrepassò con ostentata sicurezza il ragazzo. La conosceva abbastanza per sapere che lei avrebbe assunto un'aria straordinariamente tranquilla, pur avendo perduto la parola. L'autista del carro attrezzi li seguì a una certa distanza. Aveva dieci anni meno dell'orso, al massimo diciotto, e sicuramente non era un militare. Dunque, era un'operazione non autorizzata, pensò Peter. Probabilmente Henderson, di sicuro la mente di quella missione, non voleva darle troppa pubblicità. Cosa avrebbero detto i capi sapendo che aveva ordinato la soppressione di una vita che a loro era costata così tanto prolungare? «Ehi!» li chiamò improvvisamente il ragazzo. I due si voltarono: avevano una pistola puntata contro. «Andiamo su e vediamo cosa dice quel militare.» «Non ne sarà molto felice,» rispose Peter minaccioso. «Sta facendosi un riposino. Sueño. Non sarà affatto contento di essere svegliato. Anzi, si arrabbierà come una bestia.» L'altro rivolse un'occhiata dubbiosa alle finestre dell'albergo e si inumidì le labbra perplesso. «No, venite su con me.» Peter finse un'espressione da scocciato. Accanto a lui, Elizabeth fece un sospiro esagerato. «Ascolta, vuoi tenerti il carro attrezzi? Se non ti levi dai piedi, ti giuro su Dio che, in un baleno, avrai la polizia alle calcagna,» lo minacciò lei. Il ragazzo la fissò incerto. Peter fece un passo avanti e appoggiò la fronte alla canna della pistola. «Se vuoi spararmi, sparami adesso. Ma prima sappi che stai uccidendo il dottor Peter Jance del Programma di Sperimentazione di Armamenti A-
vanzati dell'Esercito degli USA, Dipartimento della Difesa. Spara, e sarai braccato e ucciso come un cane.» Il tipo appariva disorientato. Appena si rese conto di ciò che aveva appena detto, Peter rivolse uno sguardo allarmato a Elizabeth. Oh, Gesù! Ma forse lei penserà che sia un'identità di copertura. Magari non le dovrò spiegare nulla perché il ragazzo ci ucciderà tutti e due. Invece quello abbassò la pistola e si schiarì la voce, imbarazzato. «Rimanete qui, vado su a parlargli.» Si girò ed entrò nell'albergo. Peter fece un segno a Elizabeth e se la diedero a gambe. «Da questa parte,» le bisbigliò correndo verso la Humvee, nascosta dietro degli ulivi. «Ma come facevi a sapere che ero qui?» gli domandò lei. «Quando non sei venuta alla baia, ho pensato che fosse meglio fare un controllo.» «Grazie al cielo, mi hai salvato la vita. Sei stato fantastico.» «Non ho nemmeno avuto il tempo di pensare,» le disse sincero, poi si interruppe. Sul viso di Elizabeth era comparsa una strana espressione. Si sentì lo scatto della sicura della pistola. Peter si voltò e vide il ragazzo, tremante e furibondo. «Sei stato un pazzo, amico, a ucciderlo. Adesso sei un uomo morto perché mi hai visto in faccia e io non...» Le sue parole furono coperte dal suono di un clacson, dietro, sulla strada. Il ragazzo si girò e, preso dal panico, lasciò cadere l'arma: una Range Rover con la targa governativa e gli abbaglianti accesi puntava diritto su di lui. Fece un balzo di lato e l'auto lo mancò di un soffio, arrestandosi bruscamente accanto a Peter ed Elizabeth. Lo sportello posteriore era aperto. Peter riconobbe di sfuggita la testa di capelli biondi disordinati: era Alex. Allungò la mano per afferrare quella della ragazza ma lei si scostò impaurita. Aveva riconosciuto il misterioso ragazzo che l'inseguiva da quando era arrivata nell'isola. «È tutto a posto,» la rassicurò Peter. «Su, vieni.» Ma lei non si muoveva, e così l'autista del carro attrezzi ebbe il tempo di recuperare la pistola e puntarla di nuovo contro di loro. A quel punto, i due si tuffarono letteralmente nella Range Rover, che ripartì con un sobbalzo. A Peter sembrò di sentire sibilare vicinissimi i proiettili della calibro nove, ma Alex schiacciò l'acceleratore a tavoletta e udì solo il ruggito del motore e il vento che fischiava attraverso i finestrini.
«Benvenuta a Vieques, finalmente.» Alex salutò Elizabeth. Poi, attraverso lo specchietto retrovisore, rivolse uno sguardo divertito a Peter. «Tutto bene, doc?» «Sto bene.» L'adrenalina cominciava a calare e lui sentì una fitta all'orecchio. Lo toccò: sulla parte alta del padiglione auricolare c'era un taglio che gli faceva un male del diavolo. Ma capì che era una ferita di striscio, e si considerò fortunato a essere ancora vivo. C'è mancato poco che quel ragazzo facesse fuori questo mio corpo meraviglioso proprio ora che comincio a sentirmene veramente il padrone, pensò. «Sai chi fosse quel tipo, su nella stanza?» gli domandò Alex. Peter guardò Elizabeth, che scrutava fuori dal finestrino posteriore. Si girò anche lui e vide una colonna di tre veicoli governativi che si avvicinavano rapidamente; i fari brillavano dietro la curva. «State giù!» urlò Alex e loro si appiattirono sotto il sedile. Quando le auto li superarono senza rallentare, tutti e tre trattennero il respiro. Il ragazzo fece un allegro cenno di saluto con la mano ai loro fanalini di coda e poi diede il segnale di cessato allarme. I due si rialzarono. «Si chiamava Russel,» rispose Elizabeth, che tremava ancora. «È uno degli scagnozzi di Henderson... Dove stiamo andando?» domandò Peter. «All'aeroporto.» Alex si girò verso Elizabeth. Sembrava volere parlare, ma Peter gli ordinò di fare attenzione alla strada e il giovane non disse nulla. Tornò a guardare avanti e accelerò. Peter vide che Alex faceva un'espressione buffa, sollevando le sopracciglia e contorcendo il viso in uno strano sorriso. «Ce l'abbiamo fatta, eh?» «Grazie.» «Non c'è di che. E non preoccuparti, forse non mi collegheranno a voi.» A Peter sembrò invece una cosa di cui preoccuparsi. «Hai finalmente tagliato il cordone ombelicale con Freddy?» «Diciamo così,» rispose l'altro evasivo, tenendo gli occhi fissi sulla strada. Elizabeth si chinò in avanti e fissò Alex. «Ma perché mi hai mandato l'e-mail?» «Ho cercato di attirarti qui, in modo da poterti avvertire.» «Avvertirmi di cosa?» «Di sicuro tu non lo vuoi sapere. Non vuole saperlo, vero Peter?» «Giusto,» rispose l'altro. Rivolse uno sguardo allusivo alla donna: non
sapeva assolutamente cosa volesse dire quel ragazzo un po' matto. «Volevo solo mettergli i bastoni tra le ruote,» proseguì Alex. «Immagino che abbiamo tutti e due visto la luce nello stesso momento, eh, doc?» «Giusto.» «Voglio dire, la Guerra Fredda finisce e noi invece andiamo avanti. Avremmo dovuto capirlo allora.» «Capire cosa?» domandò Elizabeth passando con uno sguardo interrogativo dall'uno all'altro. «Di che cosa volevate avvertirmi?» chiese di nuovo, esasperata. Alex alzò gli occhi al cielo, allora lei fissò Peter. «Se sono una minaccia così grave, perché quell'uomo su in camera non mi ha ammazzato subito? Mi ha detto che aveva l'ordine di non uccidermi. Voleva solo legarmi.» «Sono perplesso quanto te,» rispose Peter sincero. Voleva domandare ad Alex se era riuscito a parlare con Beatrice, ma non sapeva come farlo senza mettere in allarme la ragazza accanto a lui. «Ti ricordi quella cosa che ti ho chiesto di fare? L'hai fatta?» Per un attimo, Alex aggrottò le sopracciglia perplesso, come se non riuscisse a ricordare, poi il suo volto si rischiarò. «Sì... Oh, sì. La persona in questione... comprende. Si è resa conto che dovevi tagliare la corda. Le spiace di non avere capito prima il pericolo. Ti augura ogni bene.» «Ma fino a un certo punto,» concluse Peter. «Sì, fino a un certo punto, hai ragione,» riprese quello lanciando uno sguardo furtivo a Elizabeth. «Ha detto anche di dirti di non tornare.» Peter distolse lo sguardo. Fuori il cielo cominciava a rischiararsi. Gli sembrava di sentire il profumo dei gelsomini. «La persona in questione... è ancora dentro il programma?» domandò a voce più bassa. «Difficile dirlo, vecchio mio. Direi che sta sul confine.» «Dannazione!» sbottò Elizabeth. Si chinò in avanti sopra lo schienale del sedile e staccò la chiave dell'accensione. Prima che Alex riuscisse a capire cosa stesse succedendo, il motore si spense. «Uau!» esclamò allarmato mentre la Range Rover rallentava e poi si fermava. «A quanto pare, c'è un problema...» Fuori i coquis avevano ripreso a cantare. Dalle due direzioni non erano in arrivo auto, ma nessuno poteva prevedere quanto sarebbe durata quella fortuna. Peter guardò Elizabeth con aria supplichevole: lei teneva saldamente le chiavi nel pugno. «Ascolta, non possiamo restare fermi qui. Siamo facili bersagli.» «Resteremo qui finché non avrò avuto delle spiegazioni.» «Allora dagliele, Hans,» disse Alex.
«Ti prego, adesso non c'è tempo,» la supplicò Peter. «Prima di salire su un aereo, voglio sapere cosa sta accadendo. Pensavo di conoscerti, ma adesso non ne sono più tanto sicura.» «Mi dispiace.» «Mi dispiace, Helen,» lo corresse lei. «Mi dispiace, Helen.» Grazie al cielo, finalmente sapeva il suo nome. Poi vide l'espressione di Alex. «Oho...» fece il ragazzo. Peter tornò a guardare la donna. «Mi chiamo Elizabeth,» disse lei dura. «Lo sapevo.» Si sentì perduto. «E il mio cognome, qual è?» Lui la fissò, poi distolse lo sguardo. «O Dio del cielo,» mormorò lei, profondamente scossa. «Ma cosa diavolo ti è successo?» «Adesso dobbiamo proprio andare,» intervenne Alex a denti stretti. «Io non sono Hans.» «Cosa?!» «Io... ero Hans.» «Gente, che ne dite di continuare questa conversazione in aereo?» «Ero?! Cosa diavolo significa ero? Tu sei Hans.» Elizabeth indicò vagamente il ginocchio di Peter. «Quelle cicatrici sul ginocchio... le conosco come il palmo della mia mano. Cosa ti hanno fatto, per amor del cielo? Ti hanno fritto il cervello?» «No, anzi, me l'hanno salvato.» Era alle corde, ma non dovette aggiungere altro: dall'oscurità spuntò una macchina. Avanzava rapidamente verso di loro. «La chiave, Elizabeth!» urlò Alex. Terrorizzata, lei gliela gettò e lui l'infilò nel pannello d'accensione. Il motore tornò alla vita e la Range Rover partì quando ormai la Humvee si trovava vicinissima. Ora le due auto gareggiavano pericolosamente. Davanti a sé Peter scorse le luci dell'aeroporto ma, quando tornò a guardare dietro, vide che l'altra auto era a meno di venti metri. Dalla jeep si sprigionarono una serie di lampi. «Non preoccupatevi, è solo una tattica per spaventarci. Finché sarai con noi,» fece Alex rivolgendosi a Elizabeth, «non tenteranno di ucciderci. Fammi un piacere, mostra bene la tua faccia.» «Cosa?» «Guarda dal finestrino posteriore. Fagli un cenno di saluto.» «Ma sei impazzito? Gesù!» strillò lei mentre il parabrezza andava in mil-
le pezzi e la Range Rover sbandava di lato. Dall'alloggiamento di una ruota posteriore si sprigionarono scintille e fumo. Alex era stato sbalzato di lato e aveva perduto il controllo del veicolo. Peter si lanciò sul volante ma era troppo tardi. La macchina uscì di strada, si impennò e finì contro alcune mangrovie sulla riva di un piccolo stagno. Urtò il terreno sollevando un'enorme massa di acqua e fango e poi tutto fu coperto dall'oscurità. Percorso da una violenta ondata di adrenalina, Peter riuscì ad aprire lo sportello e aiutò la ragazza a uscire. Poi cercò di capire dove fosse finito Alex: lo sportello del guidatore era aperto. Gli sembrò di sentirlo, nell'oscurità, incitarli a correre. Poi altre grida, più lontane, e l'odore della benzina nell'acqua. In una frenesia cieca, trascinò con sé Elizabeth. Un istante dopo, lo stagno fu illuminato dall'esplosione accecante della Range Rover. «Santa madre di Dio!» esclamò Peter, spingendo la ragazza davanti a sé. La luce di quella enorme palla di fuoco trasformò il boschetto in un spettacolo di scure ombre danzanti. «Alex!» chiamò Peter. Nessuna risposta. Vide una sagoma tremante attraverso le mangrovie ma non capì se fosse lui o uno degli inseguitori. Tornare indietro era un'impresa disperata. Avanzarono faticosamente con l'acqua ai polpacci; il fragore delle fiamme che erano seguite alla deflagrazione copriva il rumore dei loro movimenti. In pochi minuti, attraverso gli alberi contorti scorsero l'aeroporto. Un leggero bimotore a turboelica stava scaldando i motori. Vicino alla scaletta, alcune persone erano ferme a osservare l'incendio. All'improvviso, Elizabeth si mise a correre davanti a lui facendo gesti frenetici a qualcuno che Peter non riusciva a individuare. Quando sbucarono dagli alberi finendo nell'acquitrino accanto alla pista di asfalto, qualcuno, forse un'assistente di volo, corse loro incontro. No, in realtà le assistenti di volo erano tre. «Mary!» gridò Elizabeth sbalordita arrampicandosi sull'argine che divideva la pista dall'acquitrino. «Mary Blanchard...» «Lizzer?» gridò qualcuno di rimando. Adesso Elizabeth correva tanto in fretta che, improvvisamente, Peter ebbe paura che volesse scappare anche da lui. La ragazza raggiunse la pista e afferrò le mani dell'assistente di volo. «Mary, devo andarmene via di qui, subito...» Peter sentì una stretta al cuore, ma poi Elizabeth si corresse. «Dobbiamo andarcene, voglio dire.» L'hostess li fissava sconcertata. Erano sanguinanti, bagnati e tutti infan-
gati. «Ragazzi, ma i biglietti li avete?» «No,» rispose Peter, gettando uno sguardo ai tre veicoli che si avvicinavano rapidi lungo la strada di accesso all'aeroporto, «ma dobbiamo assolutamente salire a bordo con lei.» Iniziò a spingere Elizabeth verso la scaletta dell'aereo, un volo dell'American Airlines molto in ritardo a causa di problemi tecnici. Ma il pilota, che aveva sentito la confusione e non era assolutamente disposto ad accumulare altro ritardo, si mise tra loro. «Cosa desiderate?» Aveva un tono neutro, assolutamente privo di comprensione. «Vogliamo acquistare un biglietto per il suo volo,» rispose Peter. «Spiacente, siamo al completo.» Poi, osservando con palese disappunto i loro indumenti, aggiunse: «Ma, se volete, c'è un volo domani. Così avrete il tempo di ripulirvi un po' e...» Peter si girò verso la strada. Le auto governative avevano rallentato e si erano disposte a ventaglio, mettendosi a cercare tra gli aerei. Una Humvee stava dirigendosi verso di loro. «Le darò mille dollari.» «E io chiamo la sicurezza dell'aeroporto, che ne dice?» fece minaccioso il capitano, tornando nella cabina di pilotaggio e sollevando il microfono. Mary Blanchard tirò da parte Elizabeth. «Ascolta,» Peter la sentì dire, «non so in che razza di guai vi siete cacciati, ma noi dobbiamo proprio andare a Puerto Rico per prendere la coincidenza con il nostro volo, capito? Se riuscite ad arrivare lì, in qualche modo vi farò salire a bordo. Te lo prometto: volo 99 dell'American delle 6.00.» Accennò con la testa a Peter. «Finalmente si è fatto vivo, eh?» Poi, senza aspettare la risposta, si affrettò a salire a bordo. Dietro, la Humvee si stava dirigendo verso di loro. Elizabeth afferrò la mano di Peter e cominciò a correre. Lui la seguì ciecamente, poi vide che erano diretti verso un monomotore Cessna poco discosto che stava scaldando i motori. «Butta fuori il pilota!» gli gridò Elizabeth. «Ma tu sai pilotare un aereo?» fece lui stupito. «No, idiota, sei tu quello che lo sa pilotare!» Merda, pensò Peter, è proprio duro interpretare la parte di Hans. Spalancò il portello e tirò giù di forza dall'aereo il pilota, un americano con un cappellino da baseball su cui era scritto "Lasciatemi volare". Quello fece alcuni passi indietro barcollando, mentre i due pirati dell'aria tutti infangati gli portavano via l'aereo.
«Ehi!» esclamò, ma non fece granché per fermarli. Gli occhi di Peter avevano uno sguardo troppo determinato e, in fin dei conti, quel maledetto aereo era a noleggio, non di sua proprietà. In cabina, Peter fissò paralizzato l'incredibile schiera di strumenti e di leve. «Andiamo!» strillò Elizabeth. Stavano arrivando a tutta velocità due Humvee. «Cosa devo fare?» «Tira quella!» urlò lei indicando la manetta di accelerazione. Lui la tirò: con un rombo tremendo e un violento sobbalzo, il velivolo si mosse acquistando rapidamente velocità. Manovrare la manetta come il volante di un'auto non aveva assolutamente l'effetto desiderato. L'aereo iniziò a sbandare fuori pista. Mentre il panico gli faceva gelare il sangue, i piedi di Peter trovarono i pedali del timone di direzione e pigiarono abilmente i freni. L'aereo tornò infine sulla pista, e continuò a guadagnare velocità mentre i motori producevano un sibilo assordante. «Sei sicura che io sappia pilotare?» le domandò lui, gridando. «Non scherzare, Hans o chi diavolo sei! Non so cosa ti hanno fatto alla testa, ma Hans sapeva pilotare un aereo come questo a occhi chiusi, quindi piantala di pensare e vola!» Peter obbedì. Sgomberò la mente da tutti i pensieri e con la mano sinistra tirò leggermente la colonna dei comandi. L'aereo si sollevò nell'aria. Stupefatto, guardò giù e poi all'indietro. La pista era già un nastro lontano, i veicoli degli inseguitori sembravano automobiline giocattolo. «Ben fatto!» si complimentò Elizabeth. Lui sentì il sangue salirgli alla testa e si lasciò andare a quella nuova pazzia. «Bel lavoro, Peter,» esclamò lui, e ringraziò Dio perché Hans sapeva pilotare. 14 Peter sapeva che Puerto Rico era a meno di quindici chilometri da Vieques. Quello che ignorava era che aspetto avesse dall'alto, di notte, confusa tra gli innumerevoli punti luminosi emanati da barche, stelle, case e locali pubblici delle centinaia di isole e isolette dell'area. «La mia conoscenza dell'aerodinamica è limitata alla teoria,» affermò con un'aria di tranquilla pazzia, «ma direi che stiamo guadagnando altitu-
dine.» «Invece stiamo scendendo in picchiata! Tira su!» Peter si sentì offeso e si mise sulla difensiva. A volte, anche Beatrice sapeva essere dura, ma lo faceva in modo più indiretto, invece questa donna non aveva proprio peli sulla lingua. «Sono sicuro che sarebbe un errore,» disse cercando di calmarla. «Vedi, stiamo sorvolando acque calde, quindi verremo quasi certamente sollevati dalle correnti ascensionali.» «Allora spiegami come mai vedo le onde!» Peter guardò meglio e le vide anche lui: gli venivano incontro veloci. «Accidenti!» esclamò chiedendosi come si faceva a far guadagnare quota a un aereo. «Tira su!» urlò Elizabeth. Quando le creste delle onde cominciarono a fare pericolosamente capolino davanti al parabrezza, la mente dell'uomo si liberò di ogni pensiero e le mani si strinsero alla barra di comando. L'aereo sfiorò con le ruote la cresta di un cavallone, poi si impennò in una brusca risalita. In cabina risuonò forte un allarme. «Cos'è?» domandò Peter. «L'allarme di stallo, penso. Mettilo un po' in orizzontale.» «Non penso di...» «Non pensare, fallo!» Lui costrinse la sua mente a farsi da parte, la svuotò completamente e le braccia spinsero avanti la barra, portando senza difficoltà l'aereo in assetto orizzontale. L'allarme si spense. La mano destra trovò la manetta di accelerazione e diede gas; poi, sempre da sola, si mosse autonomamente e regolò i flap. «Ma guarda un po',» si stupì lui. Elizabeth aveva gli occhi spalancati dal terrore. Peter vide la propria mano avvicinarsi al pannello degli strumenti, poi esitare. «Forse voleva usare la radio,» spiegò come se stesse osservando un cane da caccia in un campo. «Semplice abitudine,» sibilò lei tra i denti. «Tu sintonizzi sempre la radio, dopo il decollo. La memoria non ti dice niente?» «Temo... temo di no.» Senza guardarlo, Elizabeth gli domandò: «Ma perché hai detto che ti chiami Peter?» «Perché è vero.»
«È il nome che ti hanno dato loro, la tua nuova identità?» «Esatto,» rispose lui, sperando che questo le bastasse. Elizabeth si mise a guardare fuori dal finestrino: non ci capiva un accidente. Ma perché non riusciva a detestarlo? Proprio non ci riusciva, almeno per ora. «Ti dirò quello che penso io: tu hai avuto un ictus.» Se sopravviverò a tutto questo, pensò Peter, le spiegherò tutto, lo giuro. Ma ora non posso. «Sì, può darsi... senz'altro.» «La scorsa notte, quando sei venuto da me, ne avevi appena avuto uno.» «Per la lunga nuotata?» Forse era stato davvero così. Aveva sentito i vasi della testa pulsare. Magari... «Eri tutto intorpidito e non riuscivi a parlare,» riprese Elizabeth cercando di convincerlo di una realtà più semplice di quella vera. «E scommetto che non era la prima volta. Non ti ricordi chi sei né chi sono io e hai perduto anche parte delle facoltà cognitive superiori, almeno per quanto riguarda la guida dell'aereo.» «Ma ora mi stanno tornando, forse ho avuto una serie di leggeri ictus,» rispose lui. Adesso si sentiva però pericolosamente vicino ad averne un altro. Aveva veramente avuto un ictus? Chissà, ma la paura che provava in quel momento non aveva niente a che fare con l'ictus: era pura e semplice paura. Ricordò a se stesso che, tanto per cominciare, lui non sapeva affatto pilotare un aereo. «Mi ricordo quasi tutto,» mentì cercando di portare un po' di calma e sicurezza in tutta quella follia. «Per quanto riguarda il pilotare, intendo. Guarda come sto andando bene.» Elizabeth lo fissò cercando di convincersi che avesse ragione. A quanto pareva, quando era assolutamente necessario, lui pilotava bene. Ma le procedure più complesse lo lasciavano sconcertato. «Quali sono le coordinate di Puerto Rico?» lo sfidò. Peter non ne aveva la minima idea. «Ma è qui sotto. Gli aviatori esperti non usano le coordinate.» Si raddrizzò cercando di assumere un'aria da vero pilota. «Balle, certo che le usano. E tu le hai sempre usate... ho già volato con te!» Lui si irrigidì, geloso del suo stesso corpo. Ora la sua mente stava virando in tre direzioni e una quarta era senza dubbio in vista. «Adesso piloto in un modo più istintivo.» Con la coda dell'occhio la vide alzare le mani in un
delizioso gesto di esasperazione. «Elizabeth, adesso avrei veramente bisogno di meno critiche e più collaborazione. Quelle luci laggiù sono isole o barche?» «E come faccio a saperlo? A me sembrano tutte uguali. Ma l'importante è: quali di quelle luci davanti a noi sono aerei che ci stanno venendo addosso e non stelle?» «Sono tutte stelle, non fare la paranoica. Ce la caveremo, e poi...» La sua voce fu coperta da un Piper Seneca che li superò con un fragore assordante. Passò tanto vicino che, al debole chiarore del pannello degli strumenti, scorsero il viso sbalordito e terrorizzato del pilota. La mente di Peter si paralizzò, ma il corpo di Hans eseguì una superba manovra di allontanamento. L'aereo si tuffò in picchiata curvando e poi si distese liscio come l'olio, con le ali in assetto perfettamente orizzontale. Appena Peter si mise a riflettere su quanto era appena accaduto, ricominciò a pilotare in modo pazzesco. «Senti,» gli disse Elizabeth quando le tornò finalmente la voce, «dobbiamo almeno restare sulle rotte aeree.» «D'accordo.» Una rotta era una specie di autostrada per gli aerei. Ma dove diavolo era? Gli sembrava di giocare alla roulette russa con tre o quattro cartucce nel tamburo della pistola. Fece un respiro profondo: meglio mettere subito in chiaro alcune cose. «Ascolta, io non sono un pilota.» Lei lo guardò. Certo questo non avrebbe fatto fatica a crederlo, pensò lui. «Mi chiamo Peter e non sono un pilota. Sono un fisico e non sono il gemello cattivo di Hans. Be', no, forse lo sono.» Elizabeth lo fissava sbalordita: quell'uomo doveva essere completamente impazzito. «Ma, tu non ti occupi di fisica da almeno venti anni!» «Tu dici?» «Eri un banchiere, un finanziere, sì o no?» La ragazza era sull'orlo delle lacrime. «Non ho mai maneggiato nemmeno un libretto di assegni.» «Hans...» «Peter, Peter Jance,» la corresse lui. Il semplice suono del suo nome lo faceva stare male. Poi, a voce molto più bassa, le chiese: «A proposito, Hans come?» «Brinkman.» «Allora, io sono Peter Jance e anche Hans Brinkman.»
«Vuoi dire che hai una personalità multipla?» «È peggio di così. Comunque, per te è molto più sicuro non saperlo.» Si sentiva sollevato di poterle finalmente dire almeno in parte la verità. «Davvero? Ti sembro al sicuro adesso, su un aereo insieme a uno schizofrenico che non sa pilotare?» «Hai detto che quell'uomo all'albergo voleva legarti. Questa non è la procedura ordinaria per uccidere. Il manuale dice chiaramente: colpire e scappare. Forse volevano rapirti.» Elizabeth deglutì, spaventata. Almeno questa parte della storia suonava plausibile. Quel militare avrebbe potuto ucciderla ma non l'aveva fatto. «Perché?» «Non lo so. Forse per obbligarmi a tornare.» «Tornare dove?» «È una domanda da sessantaquattromila dollari.» Elizabeth gli rivolse uno sguardo strano e Peter si accorse che quel modo di dire era nuovo, per lei. Si rese anche conto che, negli ultimi cinque minuti, la sua mente non aveva pensato ai comandi e il corpo aveva pilotato l'aereo senza problemi. Continua a parlare, si disse. Non pensare al volo. «Hans... Peter... non credo che tu sia della CIA.» «Non ho mai sostenuto di essere nella CIA, è stata una tua illazione. Te l'ho lasciato credere perché dirti la verità era troppo rischioso.» Ma perché stava urlando contro di lei come se fosse tutta colpa sua? «Rischioso per chi?» strillò lei. «Dimmi la verità!» «Per te.» Peter cercava disperatamente di convincersi che questa fosse tutta la verità. «Ero convinto che, se avessero scoperto che tu sapevi, ti avrebbero ucciso.» E aggiunse: «Quanto a me, mi avresti subito abbandonato, te ne saresti andata su due piedi senza neanche fermarti a prendermi a schiaffi.» Scossa, Elizabeth si voltò a guardarlo. Nella sua voce aveva sentito una tremenda vulnerabilità che la intenerì un po'. «Non sopporto più di mentirti,» riprese lui. «E questo mi mette in grossi pasticci. Il modo in cui loro pensano fa diventare schizofrenici,» proseguì rendendosi conto che lei poteva considerare quei discorsi dei puri vaneggiamenti. «Sono disperatamente innamorato di te e non voglio morire di nuovo.» Lei sbatté le palpebre, sorpresa e intenerita. «Di nuovo?» Peter chiuse gli occhi per ricacciare le lacrime. «E il peggio è che mi ricordi tantissimo mia moglie.»
«Oh Dio!» «Lo so che per te è una cosa tremenda, ma è la verità.» «Ti ricordo Yvette?» «No, Beatrice. Mia moglie si chiama Beatrice. Si trova alla base e non so quali pericoli stia correndo. Se è intelligente e la pensa come la penso io, fingerà di stare al gioco sperando che io mi faccia vivo con 60 Minutes o con il New York Times. Tuttavia, in tal caso, tu non serviresti più come ostaggio e noi due saremmo completamente superflui.» Elizabeth taceva; le tremavano le mani. «Può darsi invece,» continuò Peter che, a quel punto, desiderava solo vuotare il sacco, «che Beatrice sia così arrabbiata con me da non riuscire a vedere chiaramente la situazione. Se è furibonda come lo sei tu adesso, non posso certo biasimare nessuna di voi due. Magari è disposta a collaborare con l'organizzazione che pensa di averci in suo possesso entrambi: in questo caso, cercare di mettersi in contatto con lei sarebbe praticamente un suicidio. Almeno, così la vedo io». La sua voce aveva di nuovo assunto un tono di incertezza. Le sto nascondendo qualcosa, pensò, qualcosa di straordinariamente importante per tutti e due. «Ma perché dovresti andare al Times? Cosa vuoi fare?» «Voglio fermare una cosa, una cosa cui io stesso ho dato iniziato.» E, dopo un istante, aggiunse: «Si tratta di un'arma.» La vide irrigidirsi, ma i suoi occhi grigi si fecero più dolci, come per ringraziarlo del tentativo di essere onesto con lei. «Che tipo di arma?» «Un'arma come tutte le altre. Uccide, solo che lo fa in modo particolarmente efficiente.» «Come un'arma nucleare?» Per la prima volta, nella voce di Elizabeth era comparsa una nota di paura. «Meglio. O forse peggio, dovrei dire. Uccide in modo selettivo, da una distanza di sicurezza. Contro quest'arma non esistono scudi protettivi. L'abbiamo miniaturizzata e adesso la renderanno ancora più piccola. Non emette radiazioni, quindi si può sterminare la popolazione di un'intera città ed entrarvi il giorno dopo. Diciamo che è perfetta per mettere fine a qualsiasi guerra nel XXI secolo. Ma potrebbe anche aumentare enormemente le guerre, rendendole più economiche per l'aggressore, che potrebbe spazzare via dalla faccia della Terra intere popolazioni. Adesso dimmi,» aggiunse sentendo l'aereo iniziare a rollare, «cosa sai delle rotte aeree?» «Non molto.» Aveva la voce fioca e, negli ultimi secondi di quella con-
fessione, era impallidita visibilmente. «So solo quello che hai cercato di insegnarmi tu.» «Quello che Hans ha cercato di insegnarti. Va' avanti.» «Come sai, dovremmo volare in un certa direzione mantenendo una determinata altitudine.» «Per esempio?» «Per esempio, altitudini dispari per il nord e il sud, pari per l'est e l'ovest. Poi le altitudini sono suddivise ancora, per esempio, 2000 piedi per l'est, 2200 per l'ovest.» «È così? Dispari per il nord e il sud, pari per l'est e l'ovest, alle altitudini che hai detto?» «Quelle erano solo un esempio, non so quali siano in realtà...» Elizabeth si interruppe: un aereo sfrecciò a circa trecento metri sulla loro sinistra. Passò come una pallottola, facendoli ammutolire tutti e due. «Qual è l'altitudine minima a cui è consentito volare?» domandò Peter in fretta. «Cinquecento piedi, credo, ma le rotte iniziano più in alto.» «Okay, quindi se voliamo più o meno a cinquecento piedi non dovremmo incontrare nessuno, ti pare?» «Credo di sì.» Lui spinse in giù la barra di comando e l'aereo perse quota, finché non videro la cresta delle onde. Poi portò l'aereo in assetto orizzontale e lo mantenne in tale posizione. Quella che poteva essere definita come la sua «non mente» gli diceva che così sarebbero rimasti invisibili agli schermi radar. Tuttavia volare così era, a dir poco, snervante. La schiuma dei cavalloni spruzzava il parabrezza e Peter temette che, da un momento all'altro, un gabbiano errabondo colpisse il parabrezza di plexiglas con la violenza di una palla di cannone. «Penso che sia là», annunciò indicando un chiarore all'orizzonte; sperava ardentemente che fosse Puerto Rico. Virò in quella direzione ma, quando si avvicinarono, risultò che si trattava di una nave da crociera. La sorvolarono così bassi che i passeggeri sul ponte alzarono la testa allarmati. Poi si ritrovarono di nuovo in un'oscurità di inchiostro. Con l'aiuto di Elizabeth, Peter riuscì a trovare l'indicatore del serbatoio del carburante. Era simile a quello di un'auto e criticamente vicino al rosso. «In quale direzione stiamo andando?» «Secondo me, verso il mare, verso il largo,» rispose lei dando un'occhiata al pannello degli strumenti. «A est abbiamo l'Africa, a soli ottomila chi-
lometri. Per trovare Puerto Rico, dobbiamo invece puntare verso ovest; è a tredici chilometri.» Cercava di scherzare. Buon segno, pensò Peter. Provò a virare... ma aveva ancora troppi pensieri... e poi vide l'ago della bussola girare fino a 270 gradi. Sentì Elizabeth sussultare e alzò gli occhi: davanti a loro si stendevano le luci di Puerto Rico, un enorme panorama di luminarie di benvenuto. Si rese conto che, negli ultimi cinque minuti, avevano volato con l'isola proprio dietro di loro. «Là!» gridò Elizabeth indicando una fila di luci verdi. Davanti, Peter riconobbe finalmente le luci di una grande pista di atterraggio. Adesso faceva molta più fatica a bloccare i pensieri: sapeva benissimo che l'atterraggio era la parte più pericolosa del volo. Immaginò che, nella sua mente, ci fosse una schiera di bastoncini, i suoi pensieri, e vi passò sopra con un bulldozer per cancellarli. L'aereo si inclinò e virò agevolmente verso l'aeroporto internazionale di San Juan di Puerto Rico, come se Peter fosse tornato ad essere quell'esperto pilota che era Hans. Descrisse tre cerchi sull'aeroporto, sempre più stretti, finché vide un grande jet di linea interrompere la discesa e riprendere quota. Il loro aereo doveva essere stato avvistato e il traffico veniva dunque deviato. Puntò verso il basso; i piedi e le mani lavoravano da soli, regolando il timone di direzione, riducendo l'altitudine di dieci gradi, tirando indietro la manetta di accelerazione e portando l'aereo in picchiata. Sentì gli alettoni frenare il velivolo e si rilassò, fiducioso che il corpo di Hans avrebbe fatto tutto quanto occorreva. L'aereo si apprestava a compiere un atterraggio da manuale, quando la mente di Peter si rimise improvvisamente a lavorare. Dovevano allontanarsi dall'aereo non appena questo si fosse fermato al suolo. La sua mano allora fallì, l'aereo perse quota di colpo, e nel terrorizzato Peter riprese subito il sopravvento l'istinto del pilota. Cercò di manovrare il velivolo come un'automobile. Girò verso sinistra la barra di comando con l'unico risultato di muovere gli alettoni, del tutto inutili a quella velocità. Sentiva confusamente che doveva azionare i pedali del timone di direzione ma usava solo il destro e schiacciava il pedale come se fosse il freno di un'auto. L'aereo urtò con violenza la pista e rimbalzò in aria a un'angolatura bizzarra, mentre i motori rombavano in modo assordante. Non c'era più tempo per pensare o non pensare: l'aereo non aveva una velocità sufficiente ed entrò in stallo. Il carrello destro si accartocciò e il muso urtò contro la pista mentre l'elica si frantumava in una pioggia di scintille. L'aereo scartò a de-
stra, si appoggiò sulla punta di un'ala e infine rimase immobile. Peter ed Elizabeth uscirono dal velivolo terrorizzati, con le gambe molli. Verso di loro avanzavano luci e sirene a una velocità allarmante; dovevano essere a non più di quattrocento metri. Si misero a correre nella direzione opposta cercando di mantenersi nelle zone più in ombra di lato alla pista, tra la sabbia e l'erba, lungo la barriera anticiclone che circondava l'aeroporto. Infine si tuffarono dietro alcuni cespugli. Guardando verso la pista, videro i veicoli di emergenza fermi intorno al relitto del Cessna. Si fermò anche una Humvee nera: il suo faro spazzava nervoso nella semioscurità che si andava aprendo sotto le prime luci dell'alba ad oriente. Tenendosi rannicchiati, ripresero a fuggire. Poi Peter cadde. Era come se l'avessero colpito con una sbarra di ferro. Cadde a terra tenendosi la testa: un dolore violento gli trafiggeva la nuca e gli serrava il cranio quasi accecandolo. Allarmata, Elizabeth lo prese per le spalle scuotendolo. «Peter? Hans? Mio Dio, sei ferito?» Ma lui quasi non la sentiva: c'era solo quel tremendo dolore. Si teneva la testa come un pazzo. Poi, con la stessa rapidità con cui era venuto, il dolore passò. Era come se un inquisitore sadico gli avesse tolto dalla testa uno strumento di tortura medievale. Sbalordito e senza fiato, si mise a sedere. «Peter?» «Sto bene.» Me lo merito, pensò tristemente. «Cosa ti è successo?» Lui si alzò a fatica. «Credo che le mie arterie cerebrali siano troppo fragili. Hanno settantasei anni, non riescono a sostenere la potenza di questo cuore.» «Settantasei anni... ma che diavolo dici?» «Non è l'età del mio corpo, che invece è quello di un gagliardo trentacinquenne.» Stava troppo male per fingere ancora. La ragazza lo fissò come se non parlassero la stessa lingua. Lui distolse gli occhi: non riusciva a reggerne lo sguardo. Oltre la pista più vicina c'erano il terminal, una moltitudine di persone e dei container incustoditi. Probabilmente, in quell'ambiente i loro inseguitori avrebbero esitato a ucciderli. Peter afferrò Elizabeth per una mano e si misero a correre verso i container. Quando li raggiunsero, lui si guardò indietro: non c'erano fari puntati
nella loro direzione. Si ritrasse nell'ombra e osservò la donna. Sembrava così giovane e spaventata... e non aveva alcuna colpa di quella situazione pazzesca. «Io non sono Hans,» le disse gentilmente. «Non lo sono mai stato. Hans è morto, Elizabeth, è morto con la sua mente, il suo cervello e tutti i ricordi di voi due insieme. È stato incenerito nella base di Vieques.» Sentì la mano di lei, stretta nella sua, diventare molle. «Ma cosa stai dicendo?» «Hans era un clone: il mio clone, per la precisione.» «Non è affatto divertente,» gli rispose lei riprendendosi dallo shock dopo qualche istante. Dal modo in cui le tremavano le labbra, Peter capì che stava iniziando a comprendere l'enormità della situazione. «Hai ragione, non è divertente.» Sentiva il cuore colmo di amore e di senso di colpa. Elizabeth cercò di staccare la mano ma lui la strinse. «Prima che tu cerchi di scomparire per sempre dalla mia vita, c'è un'altra cosa che devo dirti: dobbiamo prendere un aereo.» Mancavano solo dieci minuti alla chiusura del portellone e all'inizio del decollo del volo 99 dell'American, ma risultò che la Caribbean Food Services aveva fornito dieci pasti in meno. Venne dunque mandato immediatamente un furgone alle cucine, a otto chilometri di distanza, mentre ai passeggeri innervositi venivano offerti un drink di benvenuto e la visione di una videocassetta dell'NBA. In attesa che portassero i pasti mancanti, l'assistente di volo Mary Blanchard stava in piedi davanti al boccaporto di servizio aperto insieme alla collega Heather Zuckerbrod godendosi l'aria profumata dei Tropici. Per la prima volta da mesi, Mary era felice del suo lavoro, soprattutto perché sapeva che stava per lasciarlo. Era incinta. Adesso il suo fidanzato, primo pilota sulla tratta Los Angeles-New York, l'avrebbe sposata. Mary era proprio contenta. Basta con i congressisti sbronzi; basta con passeggeri in preda alla paura del volo che fumavano di nascosto nel gabinetto; basta con le celebrità che lasciavano figli e cani scorrazzare liberamente nei corridoi della prima classe. Fece un respiro profondo e immaginò tranquilli fine settimana a casa con Charlie e non a diecimila metri di altitudine. Fuori, nell'aria umida, Mary notò un certo movimento. Una comunicazione della torre di controllo li aveva messi in guardia: sulle piste c'erano due civili non autorizzati. Aveva subito pensato a Elizabeth e al suo fantastico ragazzo. Se erano loro, lei era ben decisa ad aiutarli. Cosa potevano
farle quelli dell'American: licenziarla, bandirla dall'industria aeronautica? Non gliene poteva importare di meno. Guardò con attenzione e li vide: stavano nascondendosi tra due container. Una serie di fari ruppe la semioscurità: veicoli della polizia aeroportuale e Humvee si spostavano lungo la fila di velivoli in attesa di decollare, frugando con i fari ogni centimetro di terreno. Mary Blanchard di Waltham, Massachusetts, corse giù per la scaletta di servizio e si affrettò furtiva verso i container. Si appoggiò a uno di essi ed estrasse una sigaretta fingendo di fare una rapida fumata prima della partenza. «Allora,» disse con tono casuale coprendosi la bocca con la mano, «che fate, ragazzi?» «Mary?» La voce di Elizabeth proveniva dai container. «Sono io, va tutto bene. Ditemi solo una cosa. Se vi aiuto, finisco dentro?» Una breve pausa, non del tutto rassicurante, poi la voce dell'uomo. «Lei non ha infranto alcuna legge.» «E tu?» «Nessuna che non abbiano infranto anche quelli della Humvee.» «D'accordo, allora zitti!» Mary si girò: il furgone del cibo si era fermato accanto all'aereo e l'autista era balzato giù. La vide e si fermò per scusarsi. «Ho portato i pasti, scusatemi per l'inconveniente.» Mary gli rivolse un'occhiata severissima. «Tito, sei in debito con me.» L'autista sembrava intimidito. «Dimentica i dieci pasti e il ritardo del volo. Adesso quello che devi fare, per me, è metterti a guardare di là.» Sconcertato, l'uomo ubbidì fissando la pista, come gli veniva ordinato. Mary fece un segno ed Elizabeth e Peter emersero dall'ombra. «Continua a guardare di là!» ordinò l'hostess all'autista, guidando i due sul retro del furgone. Appena furono al sicuro, girò la testa verso di lui. «Ma che aspetti, Tito? Dammi subito quei pasti!» L'uomo si mise al lavoro azionando l'elevatore del furgone. Tutta la sezione di carico del furgone venne sollevata, fermandosi al livello del boccaporto di servizio dell'aereo. Mary uscì per prima, si guardò intorno e poi fece segno a Elizabeth e Peter di uscire dal furgone e di entrare nella cambusa dell'aereo. In quel momento arrivò Heather Zuckerbrod, l'altra hostess; si fermò di colpo e rimase a bocca aperta vedendo i due in compagnia di Mary. «Sono due VIP molto speciali,» le spiegò lei.
«B... bene,» rispose perplessa Heather. In quel momento, fuori dal velivolo si arrestarono due Humvee e, pochi secondi dopo, sulla scaletta risuonarono dei passi pesanti. «Presto, il montacarichi!» ordinò Mary alla collega. Quella, con gli occhi spalancati per la sorpresa, aprì una piccola porta di alluminio. Mary spinse dentro Elizabeth e Peter. C'era spazio per una sola persona ma, in qualche modo, riuscirono a starci. La hostess chiuse la porta, premette un pulsante e il montacarichi iniziò a scendere. Qualche istante dopo che i fuggitivi erano scomparsi dalla vista, un paio di militari armati entrò nella cambusa. «Avete ricevuto il nostro messaggio?» domandò uno di loro, giovane e chiaramente molto seccato dalla situazione. «Sì,» rispose Mary. «Allora, chi è che va in giro da queste parti?» «Lei non lo deve sapere.» «E tu lo sai?» «No,» ammise quello. «Un uomo e una donna, forse dei dirottatori, non so altro.» Le mostrò un fax con due foto: una era della patente di Elizabeth, l'altra sembrava il fotogramma di un video. Si vedeva Peter davanti a una lavagna con una schiera di simboli e di numeri sullo sfondo. «Li ha visti?» «Sì,» rispose Mary in tono piatto. «Ma certo, sono proprio loro. Li abbiamo promossi. Stanno bevendo champagne e mangiando caviale in prima classe.» «Davvero?» «Ma va' là!» Il soldato le rivolse uno sguardo ferito e si avviò lungo il corridoio insieme a un altro militare armato. Il comandante uscì dalla cabina di pilotaggio con una tazza di plastica vuota in mano. «Che succede?» «Niente di importante,» rispose Mary. «Lo immaginavo. Appena ci danno il via libera, siamo i primi.» «Grazie, oh Dio, per avere ascoltato le nostre preghiere,» disse scherzosa Mary riempiendogli la tazza di caffè. Due minuti più tardi, dopo aver controllato i volti dei passeggeri con le foto del fax e aver dato un'ultima occhiata ai bagni e alla cabina di pilotaggio, i due militari lasciarono il velivolo. Mary Blanchard chiuse i portelloni e i boccaporti, poi si lasciò cadere sul sedile e afferrò il microfono.
«Signori e signore, ci scusiamo per il ritardo; adesso siamo pronti per il decollo. Allacciate le cinture di sicurezza e assicuratevi che i piani dei vassoi e i sedili siano in posizione verticale. Il capitano vi assicura che farà il possibile per atterrare a Miami in orario.» Il DC-10 era già a metà della pista di decollo quando la torre di controllo ordinò a tutti i velivoli in partenza di fermarsi immediatamente. Nella cabina di pilotaggio, il comandante Larry S. Graham sapeva che, portando la potenza al massimo e frenando a tutta forza, poteva interrompere il decollo e riuscire a fermarsi verso la fine della pista. Le conseguenze erano però almeno una dozzina di colpi di frusta, cinque o sei cause di risarcimento alla compagnia, ventimila dollari di gomme buttati via e un aumento irrecuperabile del ritardo. Ma, soprattutto, Graham si sarebbe trovato a duemila miglia nautiche dalla consueta partita settimanale di poker a Boston, la sera dopo. E doveva assolutamente rifarsi delle perdite della settimana prima. «Affanculo a quegli stronzi!» disse al secondo pilota, tenendo la mano sulla manetta di accelerazione. Il DC-10 decollò. «La vostra linea sta per cadere,» disse sorridendo il secondo e, alla torre di controllo: «Ripetete, prego, ripetete.» L'aereo fece una perfetta virata dirigendosi verso il mare aperto e poi a nord. Elizabeth e Peter si ritrovarono in una cabina di tre metri per due con il soffitto basso. Un'intera parete era occupata dai carrelli dei pasti e da una schiera di forni a microonde. Non c'erano sedili. Si sedettero sul pavimento, e Peter si mise a parlare rivolgendo occhiate furtive a Elizabeth. Lei sedeva il più lontano possibile da lui. Si abbracciava il torace con le braccia e teneva gli occhi serrati. Avrebbe voluto addormentarsi, un po' perché era molto stanca, un po' per non sentire quello che lui stava per dirle. «All'inizio lo facemmo quasi per scherzo, trentacinque anni fa. Un gruppo di noi lavorava nello stesso complesso di laboratori governativi e un ricercatore prelevò a tutti dei frammenti di tessuto.» Parlava sussurrando addolorato, ma Elizabeth sentiva nella voce anche un sinistro tono di orgoglio. Le ricordava qualcosa che Hans le aveva detto a suo tempo a proposito di Robert Oppenheimer e del suo pronunciamento dopo il primo test con la bomba A: Sono diventato Shiva, distruttore dei
mondi, o una stupida sentenza del genere. Hans aveva poi continuato a parlarle di «Oppy», e ora lei ricordò che era successo la notte in cui le aveva confessato di avere abbandonato gli studi di fisica. Adesso qui c'era un altro Hans che le diceva lo stesso genere di cose. Lei aveva la morte nel cuore, ma non poteva evitare di ascoltarlo. «Il DNA estratto fu introdotto in alcuni ovuli, solo per vedere se funzionava. Il nostro ricercatore era trenta anni in anticipo rispetto agli altri. Mi segui?» «Sì, trent'anni, ti ho sentito.» Tutto è vero per trenta anni: era uno dei detti preferiti di Hans. «Le donne sterili che si affidavano a lui pensavano che le avrebbe aiutate ad avere dei bambini. Rimasero incinte, certo, ma il DNA degli ovuli non era più il loro. Nel caso della signora Brinkman, il DNA era tutto mio.» «E tu avevi dato l'autorizzazione?» domandò lei con voce calma. «No.» «Ma sapevi cosa stava succedendo?» «No. Tutti compivamo esperimenti su una grande varietà di fenomeni di fisica, biologia e matematica. E tutti ci usavamo l'un l'altro come cavie. Ma non voglio accampare scuse. A un certo punto... molto, molto più tardi... io ho saputo. Me l'hanno detto. E alla fine ho acconsentito. L'ho fatto.» «Va' avanti.» Elizabeth si sentiva sprofondare. «Dunque, mi stai dicendo che sei Hans. Ma che sei anche Peter. Sei il cervello di Peter nel corpo di Hans...» «Sì, è la pura verità. Lo so che ti sembra impossibile, ma è così.» «Va' avanti,» lo incalzò lei. «È sbalorditivo, lo ammetto. Sono d'accordo con te.» «Sei proprio uno stronzo.» Le lacrime iniziarono a rigarle le guance. «Te l'ho detto che è una situazione complicata.» Peter desiderava prenderla tra le braccia. «Dopo tutto, sono solo un essere umano.» Lei lo guardò. «Ne sei proprio sicuro?» «Sono stato uno sciocco, lo so.» Ci credeva con tutto il cuore. «E proprio questo fa di me un essere umano...» «Un bastardo mentitore!» aggiunse lei così forte che Peter ebbe paura che, di sopra, qualcuno potesse sentirli. Lei ignorò il suo sguardo allarmato. «Ma come hai potuto acconsentire a mostruosità del genere?» Lui si fissò le mani. «Stavo per morire. Ho rifiutato a lungo ma, sulla soglia della morte, ho ceduto. E poi era una cosa che loro pretendevano da
me, ne avevano un assoluto bisogno.» «Loro chi?» «Mia moglie... e Frederick Wolfe, l'artefice di tutto questo. Siamo stati amici e colleghi per molti anni, noi tre. Beatrice desiderava disperatamente che io sopravvivessi, e non posso biasimarla. Per quanto mi riguarda, riconosco in pieno le mie colpe, sono da condannare. Quello che abbiamo fatto è inammissibile.» «Avevano bisogno di te per lavorare sull'arma.» «Questo è quello che serviva a Wolfe. Pensavo che lo facesse soprattutto per amicizia, ma adesso mi accorgo che si preoccupava solo della sua carriera, del completamento del programma. Il progetto era tutto per lui e anche per quelli al di sopra di lui. L'arma a cui stavo lavorando, per esempio, sarebbe probabilmente finita insieme a me. Molti importanti progetti possono morire insieme a chi li ha ideati, a meno che non riusciamo a prolungare la vita di questi scienziati.» «E tu, tu hai continuato a lavorare su quest'arma, come prima. Senza nemmeno pensarci su.» «Avevo dei dubbi, sempre di più con il passare del tempo.» «Aha,» sogghignò lei. «Soprattutto dopo che ti ho incontrata. È la verità, te lo giuro.» Allungò una mano, ma Elizabeth si ritrasse. «Non toccarmi.» Peter ritirò la mano. Non c'era più niente da dire. Si udirono vibrare i carrelli dei pasti: l'aereo aveva incontrato un vuoto d'aria. Per un istante rimasero immobili, immersi in un silenzio pieno di tristezza, poi Elizabeth lo guardò. «E sei riuscito a mantenere segreto tutto questo?» chiese, sorpresa dalla sua curiosità. «Wolfe era finanziato per mantenere tutto top secret. Poi sono arrivati gli scozzesi, che hanno sbandierato tutto ai quattro venti con la pecora Dolly. Allora il governo ha pensato: "Be', i maledetti iracheni stanno producendo un esercito di cloni di Saddam come panini da un fornaio, allora perché non cloniamo i nostri uomini migliori?"» «Insomma, non volevano rimanere indietro con i cloni.» Lui la guardò e sorrise. «Proprio così, una cosa del genere.» «Non volevano che i nostri figli dovessero studiare arabo alle elementari.» Lei fremeva di rabbia. «Questa era l'idea generale,» disse Peter fissandola. Elizabeth vide tanto
rimorso, tanta sincerità e anche tanto amore nei suoi occhi che distolse bruscamente lo sguardo. Non lasciarti incantare da quest'uomo, pensò. «Cosa facevi in Svizzera? Voglio dire, cosa fai?» «Non voglio parlarne.» «Sei una scrittrice o un'artista?» «Ma cosa diavolo te lo fa pensare...» «È solo che sembri tanto...» «Cosa?» «Tanto brillante, tanto intelligente.» «Per essere cosa? Una bionda? Una modella?» «Ho capito. Allora sei una modella.» «Sembri deluso. Sei ancora più snob di Hans.» «Hans era snob?» «Vuoi sapere una cosa? Non voglio parlare di lui.» Subito dopo sentì però crescere di nuovo in sé un'irrefrenabile curiosità. Rivide loro due insieme, il cervello di Peter con il corpo di Hans, e lei stessa, sulla spiaggia della baia fosforescente. Tutto questo significava che erano in tre? Tre persone sono già una folla, pensò Elizabeth. Provò una sensazione di orrore e di humour nero che la lasciò esterrefatta. Poi le tornò in mente il canto dei coquis sugli alberi e fu invasa da un terrore senza nome. «Allora intendi dire che non sei l'unico?» «Per ora, sì. Penso di essere stato il porcellino d'India.» «Io sottolineerei porcellino.» Elizabeth si concentrò sul rombo dei motori cercando di scacciare dalla mente i coquis: il loro canto sembrava farsi beffe di lei. «Non sai chi altro ci sia sulla lista? Gli altri geni di questa... come si chiama?» «Il nome in codice è Società della Fontana. No, non so chi altri possa essere stato clonato, te lo giuro.» «E quella persona alla base... quella della cui lealtà ti informavi... sarebbe tua moglie?» «Esatto,» rispose Peter, impressionato dal senso di osservazione e dalla memoria della ragazza. La fissò con ammirazione e affetto, ma Elizabeth reagì duramente. «Gradirei che non mi guardassi in questo modo. Appena l'aereo atterra, me ne torno di filata in Svizzera.» «Non te lo permetteranno. No, niente Svizzera, è sicuro. Ma noi potremmo andare da qualche altra parte.»
«Noi?» Elizabeth era sbalordita. «In effetti, devi stare appiccicata a me. Scusa il complimento, ma ti sei comportata in modo magnifico a Vieques. Tuttavia, devi credermi, quello che hai passato non è nulla rispetto a ciò di cui loro sono capaci. Non hai ancora conosciuto tutti i giocatori. Se tu li incontrassi in una stanza affollata, non li sapresti riconoscere. Non sapresti se nascondono un coltello, un paio di manette o un'arma ancora peggiore...» Sembrava riflettere ad alta voce, come se anche lui avesse qualcosa da imparare da quella litania. Elizabeth vide che Peter aveva le lacrime agli occhi. «Cosa fanno i tuoi genitori?» le domandò. Lei gli rivolse un'ultima occhiata di sfida, poi fece spallucce. «Mio padre era in Marina, mia madre faceva la casalinga.» «E dov'era di stanza tuo padre?» «Non mi ricordo... Per amor di Dio, perché piangi?» «Piango? Non me n'ero accorto.» Aveva un'aria esausta. «Pensavi a tua moglie?» Lui la guardò pieno di gratitudine. «Sì, in effetti, sì.» «Avresti dovuto restare con lei,» ribatté Elizabeth, ma con un tono meno velenoso di quanto volesse. «Sì, lo so.» Cercava gli occhi della ragazza. No, cercava le sue sopracciglia. Ma cosa cercava? «Non rimarrò con te, Peter. Appena atterriamo, io sparirò dalla tua vita.» Lui fece una leggera scrollata di spalle che la infastidì molto. All'improvviso il motore del montacarichi si avviò sferragliando e ronzando. Elizabeth cercò istintivamente la mano di Peter. Ma appena lui gliela strinse, si scostò di nuovo, furibonda con se stessa e più confusa che mai. Arrivò il montacarichi e ne uscì Mary Blanchard con due tazze di caffè fumante. Peter ed Elizabeth le accettarono volentieri mentre la hostess li osservava attentamente. «Cosa fate? Vi state comportando bene?» Elizabeth annuì e Mary, accorgendosi che si era inoltrata su un territorio minato, cominciò a trafficare con i carrelli dei pasti. «Ragazzi, siete proprio fortunati. Il DC-10 è l'unico nostro aereo che abbia una vera cambusa. La maggior parte della gente non lo sa neanche.» Peter teneva gli occhi chiusi: sembrava perduto nel vapore che saliva dalla tazza. Elizabeth le sorrise, Mary sospirò. «State già litigando. Mi dispiace, ma forse tutto questo trambusto vi darà
un po' di tregua. Devo iniziare a preparare le colazioni.» Cominciò a infilare i vassoi dei pasti nei forni e a manovrare i pulsanti ignorando i due. Aveva proprio ragione: la sua presenza li aiutava. Peter si rilassò ed Elizabeth si alzò per aiutare l'amica. Dandosi da fare riusciva a far tacere il canto dei coquis che continuava a risuonarle nelle orecchie. 15 JET LEAR 94838 Alla Società della Fontana, nell'euforia per il successo del trapianto su Peter, Oscar Henderson aveva messo a disposizione di Wolfe un jet Lear. Frederick adorava quell'aereo, nonostante avesse un pedigree un po' imbarazzante: era stato l'ufficio volante di Ollie North durante i viaggi in Centro America. A parte questo, il Lear aveva lussuosi sedili in pelle, tavolini di noce massiccio e un bagno di vero marmo. Nei primi anni da ricercatore sottopagato, Wolfe aveva sempre espresso un nobile disprezzo per i beni terreni. Adesso, invece, considerava quella presa di posizione giovanile nient'altro che una posa. Il jet gli aveva fatto riemergere un intenso desiderio delle cose belle della vita, diventando il simbolo del suo crescente orgoglio per essere finalmente arrivato in cima alla carriera dopo tanti anni di fatica. Quel giorno, ai comandi del jet c'era il capitano Bob Culpepper, un veterano dell'NSA, appena tornato da un volo di consegna di un pacco a un agente di Bogotà. Anche se Culpepper non lo sapeva (e non doveva comunque importargliene), dentro quel pacco c'erano la testa e i genitali di un affiliato al cartello di Medellin. Il giorno prima, in Texas, l'uomo aveva ucciso un agente della DEA, e quei macabri trofei erano un chiaro messaggio inviato ai trafficanti colombiani. Per Culpepper, l'unico fatto degno di nota di quel viaggio era il violento mal di pancia, conseguenza di due tapas acquistate da un venditore ambulante all'aeroporto di Bogotà. Maledicendosi per la sua stupidità, il comandante passò i comandi al secondo ufficiale David Anspaugh e si diresse verso la parte posteriore del velivolo. «State comodi?» domandò con indifferenza. Tutti annuirono e Culpepper proseguì per la toilette, situata nella coda dell'aereo. Appena il pilota passò oltre, Henderson e Wolfe si rimisero a confabulare, avvicinando le teste. «Credevo che questo figlio di puttana di un clone fosse un banchiere.» Il
colonnello era fumante di rabbia. «Infatti lo era,» rispose a bassa voce lo scienziato gettando occhiate furtive in direzione di Beatrice. Apparentemente la donna, seduta dall'altra parte della cabina, stava guardando fuori dal finestrino le nubi tinte di rosa, ma lui temeva che potesse sentirli. «Be', allora come ha fatto a mettere fuori gioco uno dei nostri e a beffare quei duri di civili che abbiamo assoldato?» «Non faccio fatica a immaginare la qualità dei duri di Vieques,» rispose secco l'altro. Henderson non commentò, maledicendosi in cuor suo: sapeva benissimo che lo scienziato aveva ragione. «Insomma, Hans Brinkman era un atleta,» riprese Wolfe. «Ho ricontrollato il suo dossier: era un buon pugile dilettante, uno sciatore esperto e pilotava personalmente il suo jet. Era ben dotato, non solo intellettualmente, ma anche fisicamente. E questo non deve sorprenderci, se consideriamo chi è il padre. Inoltre, stava lottando per la sua vita e forse anche per quella della ragazza. In conclusione,» disse con voce fredda come l'acciaio, «se lei non fosse tanto spilorcio, avrebbe usato solo personale militare.» «Non è stata una questione di soldi, l'ho fatto per mantenerci puliti. Se sul posto restavano delle impronte (e in effetti ne sono rimaste), volevamo che sembrasse una rapina.» «E adesso cosa sembra?» Wolfe sentiva crescere in sé un'ira violenta. «Avrei dovuto metterlo sotto chiave quando potevo farlo, insieme al suo caro nipotino.» «Per favore, piantatela, tutti e due!» Beatrice si era girata e li guardava con ostilità. Wolfe e Henderson tacquero, come due bambini litigiosi zittiti dalla mamma. Lei andò a sedersi di fronte a loro e si mise a fissarli tetra. «Che altro sapete di questo clone?» «Niente che tu voglia sentire,» le rispose Wolfe gentile. I begli occhi grigi della donna avevano uno sguardo distaccato che lo infastidiva: lui voleva conoscere tutto quello che lei aveva nel cuore. «Aveva altri hobby, oltre alla boxe e al volo?» Il tono disinvolto di Beatrice incoraggiò Frederick. «Sci, tennis, bird watching, un po' di arti marziali. Era anche un geologo e un paleontologo dilettante.» «Affascinante.» «Sì, non ti pare?» Wolfe decise di correre il rischio. «Anche Peter amava la paleontologia,» riprese assumendo un tono di educato rimpianto.
Henderson schiacciò il sigaro nel portacenere. «Be', deve avere imparato il tae kwon do da un maledetto tirannosauro, perché ha lottato come una furia giù in albergo.» «Oscar,» sibilò Wolfe, «se almeno cercassi di dimostrare un minimo di comprensione, renderesti la cosa più facile a tutti noi.» Beatrice fece un cenno seccato all'amico. «Non ti preoccupare, va tutto bene. In realtà, la cosa più sensibile che il colonnello può fare adesso è risparmiarmi la sua comprensione.» A questa affermazione, Wolfe si tranquillizzò e decise di non aggiungere altro. Il pilota stava tornando in cabina: dal gabinetto proveniva un odore leggero ma inconfondibile. «Gesù, cos'ha mangiato, rospi?» abbaiò Henderson guardando verso la parte posteriore dell'aereo. «Lance, per favore...» Lance Russell, il marine, si alzò e andò a chiudere la porta della toilette. Aveva sentito tutta la conversazione e, dalla sua espressione truce, era chiaro che il suo primo desiderio era di incontrare di nuovo il dottor Peter Jance Jr. Tornò a sedersi flettendo le dita e immaginando di stringere tra le mani la trachea di quel bastardo. «Non è la prima volta che mi ritrovo in una situazione del genere,» proseguì Henderson cercando di mostrarsi comprensivo. «Un brav'uomo rovinato da una avvenente ragazza malvagia...» Beatrice fece un vago cenno di assenso. «A me sembra che anche quella donna abbia lottato con coraggio.» Fissava Frederick diritto in faccia. «Ma era in preda al panico,» rispose quello accendendosi una sigaretta. «In ogni caso, senza le carte di credito non potrà andare lontano. In effetti, lei non ha più un'identità.» «Come si chiama?» chiese Beatrice. «Elizabeth Parker,» rispose il colonnello. «E com'è che conosciamo il suo nome?» Dopo aver scoccato uno sguardo di ammonimento a Henderson, Wolfe riempì di vino il bicchiere della donna. «È il nome con cui si è registrata in albergo.» «Deve essere davvero una persona speciale,» disse semplicemente lei. Il cuore di Wolfe sanguinava per Beatrice: decise di intervenire per cercare di lenire il suo dolore. «Non ne sono del tutto sicuro, ma probabilmente lo conosceva già da prima.» Beatrice lo guardò stupita. «Peter?»
«No, il clone. Anche la ragazza viene dalla Svizzera. Può darsi che sia scivolata tra le maglie della nostra sorveglianza di Brinkman. Forse lei rappresentava un segreto nella vita del nostro uomo.» «Intendi dire che era la sua amante?» Beatrice aveva compreso, ma Wolfe non riusciva a capire se la notizia la rassicurasse o se la facesse ingelosire. «È possibile. Quindi, può darsi che ci fosse una specie di attrazione, diciamo così, congenita del corpo di Peter nei confronti di questa donna.» Beatrice si appoggiò allo schienale e per alcuni istanti non riuscì a parlare. Poi si raddrizzò fissando Wolfe negli occhi. «In tal caso, cosa ci faceva lei, qui? Di sicuro Peter non era razionalmente consapevole della sua esistenza e meno che mai conosceva il suo numero telefonico.» «No, hai ragione,» ammise lo scienziato. La conversazione stava prendendo una piega che non gli piaceva affatto. «Non è possibile.» Beatrice continuava a fissarlo ma lui non aggiunse altro. «E allora come ha fatto ad arrivare fin qui?» insistette la donna. Lui si mosse sul sedile, a disagio. «Alex.» «L'ha fatta venire Alex?» Wolfe distolse gli occhi: Beatrice lo guardava con un'intensità che lo turbava. «A quanto pare, ad Alex sono cominciati a venire dei dubbi...» «Dubbi a proposito di che?» «Su tutto: sul Progetto Fontana, sull'Hammer. E la defezione di Peter non ha certo migliorato le cose.» Beatrice rimase un attimo soprappensiero, sbalordita da quella rivelazione. «Ma perché l'ha fatta venire qui? Cosa mai sperava di ottenere, tuo nipote?» «Penso che volesse sabotare il progetto.» «L'ha incontrata?» «Non lo sappiamo, ma riteniamo di no. A quanto pare, non ha mai scoperto dove stava. E nessuno di noi lo sapeva, finché non l'ha trovata Peter,» aggiunse a bassa voce. «E Alex dov'è, adesso?» I due uomini si scambiarono uno sguardo. «Ha disertato, è scomparso senza lasciare tracce,» rispose il colonnello. «Credi che possa essere insieme a loro? Con Peter e... come hai detto che si chiama? Elizabeth?» «Ne dubito molto,» rispose Wolfe. «Sarebbe il terzo incomodo. Credimi,
maledico il giorno in cui ho permesso ad Alex di partecipare al progetto. È troppo curioso. Deve essere riuscito in qualche modo a penetrare nei file criptati. È come un ragazzino che fruga nei cassetti del comò dei genitori per vedere cosa c'è.» Wolfe estrasse un pacchetto di Gauloises e ne offrì una a Beatrice. «E cosa fa per vivere, questa donna?» domandò lei accettando l'offerta. «Beatrice, non devi torturarti,» le rispose accendendole la sigaretta. «Ho solo fatto una domanda.» «Fa la modella fotografica.» «Capisco. Allora è molto bella.» «Non deve preoccuparsi, signora Jance,» intervenne Henderson. «La prenderemo.» «Per favore, mi chiami Beatrice. Non sono più la signora Jance. E Peter non è più Peter. Penso di averlo saputo fin dall'inizio. E se fossi stata completamente onesta con me stessa, mi sarei risparmiata un sacco di dispiaceri e di preoccupazioni.» «Sono sollevato di sentirtelo dire,» esclamò Wolfe. Solo sollevato? Le parole di Beatrice l'avevano davvero elettrizzato. «Ci ha fottuti tutti quanti,» disse Henderson, brutale come sempre. «È una minaccia che non possiamo permetterci di ignorare.» Lei annuì, con lo sguardo opaco. «Direi proprio di no. Pensate che lui abbia detto a questa modella chi è veramente?» «Oh, ne dubito molto,» rispose Wolfe. «Dipende da quanto ne è innamorato,» proseguì lei con un sorriso triste. «Non penso che ne sia innamorato,» riprese lo scienziato cercando di recuperare terreno. «Temo che, in questi casi, si tratti più o meno di un istinto animalesco.» Beatrice distolse lo sguardo. «Anche in questo caso, è probabile che Peter abbia vuotato il sacco. Lo conosco bene.» «In tal caso, probabilmente la ragazza lo mollerà, non credi?» Lei si studiava le unghie. «O magari cercherà di avvertire i media. E, in questo caso, cosa faremo?» Li fissò interrogativa, ora con gli occhi fiammeggianti. «Avete l'ordine di farla fuori?» «Be', no,» ammise Wolfe. «E perché? Se Peter diventa superfluo, perché non lo è anche lei? O pensate forse di usarla come esca per riportare lui nell'ovile?» «No, non intendiamo usarla in questo modo.» «E allora perché non ucciderla?»
Lui la fissò intensamente. «Perché è essenziale per il nostro futuro.» «Non capisco.» Wolfe aspirò una boccata di fumo e cercò di darsi un tono casuale. «È nata a Vieques, e può darsi che là sia stata vista da qualcuno che la conosce. Dobbiamo essere molto prudenti.» La mente di Beatrice lavorava a pieno ritmo. «Per caso, suo padre era in Marina?» «Sì.» «E lei è passata per il tuo ambulatorio?» «Può darsi.» «Be', è davvero interessante.» Beatrice scandì le parole come se fossero la dichiarazione del secolo, poi si alzò e andò nella parte posteriore dell'aereo, dove si sedette vicino a Russell che stava affilando il suo coltello su una cote. Quando la vide, il militare richiuse il coltello e se lo mise in tasca, quindi si alzò e andò a raggiungere gli altri uomini davanti. Lei appoggiò la testa contro il finestrino. Gettando un rapido sguardo indietro, Wolfe si accorse che stava piangendo. Le si avvicinò con il bicchiere di vino in mano e le si sedette accanto, porgendole un fazzoletto. «Mi dispiace, lo so che per te è un inferno.» «Da quanto tempo ci conosciamo, Freddy?» «Non lo so, deve essere stato un po' dopo il ritiro dei ghiacciai, ma non mi ricordo la data precisa.» Lei sorrise e gli appoggiò per un momento la testa sulla spalla. Wolfe chiuse gli occhi inspirando il suo profumo. Il cuore gli batteva forte. «Io ho fiducia in te,» gli disse a bassa voce. Aprì una mano e lasciò che lui la prendesse tra le sue. «Sono felice di sentirtelo dire,» disse lui prudente. «Da quando ci conosciamo, ho sempre desiderato che tu fossi felice, nel lavoro e nel matrimonio. E ora che la tua unione con Peter è fallita, provo l'impulso di proteggerti e spero che tu mi permetta di farlo. Desidero proteggerti e difenderti... Capisci cosa voglio dire?» Gettò uno sguardo al di sopra della spalla per assicurarsi che Henderson e Russell non lo sentissero, poi si chinò ancora di più verso di lei. Lo scintillio negli occhi di lei gli dava coraggio: «Finché morte non ci separi.» «Allora, che facciamo?» domandò bruscamente Beatrice. Wolfe fece un respiro profondo. «Dobbiamo ancora valutare i rischi del-
la procedura. Gli accidenti cerebrovascolari di Peter, i minuscoli ictus, continuano a rappresentare un problema molto grave, che potrebbe essere mortale. Tuttavia io confido che le alterazioni sclerotiche siano reversibili, se il resto dell'organismo è sano. Oggi ne sappiamo molto di più.» Lei sfiorò con un dito le vene sporgenti sul dorso della mano di Frederick. «Opererai di nuovo...» «Il lavoro deve andare avanti. Abbiamo ancora tanto da imparare ma, questa volta, dovrebbe essere più facile.» Lei annuì. «È all'estero o negli USA?» «Chi, il soggetto?» «Il clone.» «A New York.» «È questa la nostra destinazione finale?» «Sì.» Beatrice si portò la mano di Wolfe alle labbra. «Grazie per avermi detto tutto questo.» «Prego.» Rimase seduto accanto a lei per un lungo attimo cercando di raccogliere tutto il suo coraggio, poi aggiunse: «Non credo che sia mai stato un segreto, per te, il sentimento fortissimo che provo da tutti questi anni... Ti amo, Beatrice. E ho sempre sentito che, in qualche modo, Peter non era adatto a te.» Lei fece una leggera scrollata di spalle e gli accarezzò mestamente la mano. «Mi sembra che l'abbia dimostrato, non ti pare?» «Certo.» «Sì, anch'io ho sempre saputo quello che provavi per me. Grazie per avermelo finalmente detto e grazie, Freddy, per avermi reso le cose più facili.» «Beatrice, presto noi saremo insieme, per molto, moltissimo tempo. Ne sono sicuro.» «Anch'io, Freddy.» Gli diede un leggero bacio sulla mano. «E adesso vuoi scusarmi?» Wolfe spostò le gambe per lasciarla passare e Beatrice gli fece una lieve carezza sulla guancia. Poi si avviò lungo il corridoio verso la toilette: entrò e chiuse la porta. Si avvicinò allo specchio e si studiò attentamente il viso, passandosi le dita sulle guance, sugli occhi, sui capelli. Si osservò per diversi minuti, scossa da un lievissimo tremito, poi si girò, alzò l'asse del gabinetto e si mise a vomitare. Era la prima volta che vomitava, da quando aveva di fatto
smesso di bere, oltre quarant'anni prima. Vomitò a lungo, finché non le sembrò di avere eliminato dall'organismo e disperso nell'oblio tutto ciò che aveva condiviso con quegli uomini: ogni filo di fumo di sigaro, ogni sigaretta, ogni goccia di liquore o di vino che aveva accettato da loro. Ora sapeva, Wolfe lo aveva ammesso: avrebbero ucciso Peter senza esitazione. Ma istintivamente sapeva anche un'altra cosa. Se la donna per cui il marito l'aveva lasciata veniva da Vieques e lui se ne era innamorato in un modo così disperato e irrazionale, la spiegazione era una sola e trovava conferma nella circospezione di Wolfe riguardo al destino di quella donna. Quella donna era lei stessa! Anche Beatrice aveva infatti donato le sue cellule cutanee. A quanto le risultava, non ne avevano fatto nulla, né allora né in seguito, ma era del tutto ragionevole presumere che, se Frederick l'aveva fatto in altri casi, poteva senz'altro averlo fatto anche nel suo. La invase una bizzarra sensazione di sollievo, a cui seguì una violenta ondata di paura e di profonda repulsione Beatrice prese la trousse da trucco. Finché rimaneva insieme a quel pazzo e ai suoi sicofanti, era importante mantenere un aspetto normale, assolutamente normale. E, per Dio, l'avrebbe avuto, anche se ciò poteva ucciderla. Appena il Lear atterrò a Puerto Rico, il tenente Roger Thornton, un massiccio ranger USA che comandava le forze di sicurezza di Roosevelt Roads, fece rapporto a Henderson; Wolfe e Russell ascoltavano attenti. Dovunque c'erano truppe e veicoli semiblindati. L'aeroporto era sotto assedio. «L'abbiamo isolato e perquisito, colonnello. È impossibile che il dottor Jance o chiunque altro ci fosse con lui sia potuto sfuggirci. Abbiamo piazzato un veicolo ogni cento metri.» «Però Jance non l'avete preso,» commentò Henderson. «Nossignore, non l'abbiamo trovato.» «E il terminal, la zona bagagli?» domandò Russell. «Signore, oltre agli aerei, le mie truppe hanno setacciato ogni edificio, capannone e veicolo presente nell'aeroporto.» «Qualche velivolo è decollato dopo l'incidente?» chiese il colonnello, che aveva le orecchie paonazze per la rabbia. «Uno solo, signore, il volo 99 dell'American. Quando abbiamo isolato l'aeroporto, era già a metà della pista di decollo. Ma l'avevamo già perquisito con cura.»
«Dov'è diretto?» «Al Miami International, signore. Dovrebbe essere atterrato cinque minuti fa.» «Allora dovete piazzare una squadra a ogni uscita di quell'aeroporto entro... entro cinque minuti fa!» gridò Henderson precipitandosi verso il Lear. Gli altri uomini si affannarono cercando di tenerne il passo, mentre Beatrice fissava ostentatamente fuori dal finestrino. Miami, Florida Dopo l'atterraggio del volo 99 dell'American all'aeroporto internazionale di Miami, Peter ed Elizabeth erano rimasti ancora venti minuti nascosti nella cambusa. Quando tutti i passeggeri e l'equipaggio furono sbarcati, Mary Blanchard andò a prenderli. Usciti dal montacarichi, scesero lungo la scaletta di servizio. Grazie al tesserino dell'hostess, entrarono senza problemi nella sala degli assistenti di volo attraverso la porta riservata al personale, scesero una rampa di scale e attraversarono la caotica zona di smistamento dei bagagli. Mary conosceva molte delle persone che lavoravano nei settori dell'aeroporto vietati al pubblico, così si mossero rapidamente e senza incontrare problemi. Se qualcuno li avesse notati, li avrebbe sicuramente scambiati per una coppia di passeggeri in cerca dei bagagli smarriti, scortati da una hostess. Mary li portò fino all'area pubblica dell'aeroporto, vicino al settore di ritiro dei bagagli numero 3 che, in quel momento, stava vomitando i bagagli di un volo appena arrivato da Chicago. Si trovarono in mezzo a una baraonda di passeggeri esausti, che si spingevano e si urtavano afferrando borse e carrelli, desiderosi di uscire dall'aeroporto per godersi il sole della Florida meridionale. «Questo è tutto quello che posso fare per voi,» disse l'hostess. «Grazie, Mary. Davvero molte grazie.» Elizabeth aveva le lacrime agli occhi mentre abbracciava in fretta l'amica. Rimasti soli, i due si fecero largo tra la folla dirigendosi verso l'uscita. Avevano ancora i vestiti tutti impastati di fango secco e qualcuno si girava meravigliato al loro passaggio. «Cerca di sorridere e fai almeno un tentativo per farci sembrare una coppia,» chiese Peter a Elizabeth. Lei non rispose. Per tutto il tempo impiegato ad attraversare l'enorme aeroporto, la ragazza ignorò qualsiasi tentativo dell'uomo di parlarle e si scostava bruscamen-
te ogni volta che le loro braccia si sfioravano accidentalmente. Ma, appena oltrepassarono la porta scorrevole di uscita emergendo nell'aria umida di Miami, Peter ed Elizabeth videro tre auto della polizia accostare al marciapiede a circa trecento metri da loro. Quando ne scesero alcuni agenti in uniforme, lui vide la ragazza immobilizzarsi. Ostentando tranquillità, la prese per il braccio e la guidò verso il parcheggio dei taxi. Questa volta lei non si scostò. La fila per il taxi era lunga. Peter pescò nel portafogli gli ultimi venti dollari e li mise in mano all'addetto. «È un'emergenza medica,» spiegò agli altri in attesa per zittire i loro immediati mugugni di protesta, e spinse rapido Elizabeth nell'auto. Sperò che la sua fosse solo una bugia innocente perché, negli ultimi cinque minuti, era stato assalito da una forte emicrania che gli provocava scintillìi minacciosi al limite inferiore del campo visivo. Quando il taxi superò le autopattuglie, Peter si mise a sfregarsi le palpebre cercando di far scomparire i lampi. «Peter? Stai bene?» Era la prima volta che Elizabeth parlava dopo i saluti all'amica, e il suo tono era involontariamente tenero. «Ho avuto momenti migliori.» Il semplice suono della voce della ragazza gli fece sobbalzare il cuore in petto. «Sei sicuro?» «Sì, ma grazie per avermelo chiesto.» Per un attimo i loro occhi si incontrarono, poi lei distolse lo sguardo. Ma, in quell'istante, Peter vi scorse moltissimi sentimenti, confusi e mescolati tra loro. C'erano dolore, rabbia, amore e terrore. Provò un fortissimo desiderio di proteggerla. Non si sentiva così protettivo nei confronti di una donna da quando, nel terzo anno del loro matrimonio, Beatrice aveva avuto un aborto che l'aveva precipitata in un tale stato di depressione da non sapere nemmeno se voleva continuare a vivere. Le sfiorò la mano. Lei non rispose ma non la ritirò: Peter sentì di provare un amore incontenibile per lei. «Come ti ho detto, dobbiamo restare insieme ancora per un po',» le disse. Poco dopo aver imboccato la Dolphin Expressway, il taxi incrociò una fila di auto della polizia e di veicoli militari che procedevano a tutta velocità con le sirene spiegate e le luci rotanti accese. Rimasero entrambi in silenzio. Di colpo si resero conto che c'era mancato solo un pelo al loro arresto all'aeroporto. La caccia si era davvero fatta feroce ed estesa.
«Ma cosa sta succedendo?» voleva sapere l'autista. Era sui quarantacinque, non più alto di un metro e mezzo, e aveva una grossa cicatrice gommosa sporgente sull'orecchio come un pezzo di chewing gum appiccicato. La testa sporgeva appena sopra il volante. «Non lo so proprio,» rispose Peter. L'autista li guardò attraverso lo specchietto retrovisore. «Voi due sembrate appena usciti dagli Everglades. Siete stati a caccia di alligatori?» «No, eravamo su un aereo sporchissimo. Mai volare con Air Guyana.» L'autista scoppiò in una sonora risata. «Sì, d'accordo. Avete dell'erba? State portando una partita di marimba?» Scrutò velocemente Elizabeth. «No,» rispose lei, «ma grazie per avercelo chiesto.» «Abbiamo fatto un lavoretto a Cuba,» intervenne Peter, dopo aver gettato una rapida occhiata al luogo di origine del tassista sulla targhetta del cruscotto. «Davvero?! Che tipo di lavoretto?» «Be', diciamo un lavoretto per la libertà. E loro hanno abbattuto il nostro aereo.» «Davvero?! Siete con quelli che lanciano i volantini?» «Più o meno.» In quel momento, avevano bisogno di tutto l'aiuto possibile. «Qua la mano, amico!» esclamò l'autista, girandosi per stringere la mano a Peter. Lui gliela strinse rapidamente, fissando i veicoli militari a pochi metri da loro. «Adesso, occhio alla strada!» gli raccomandò. Il tassista tornò a guardare avanti. «Conoscevo gli ultimi ragazzi che hanno abbattuto,» disse scuotendo la testa. «Erano proprio dei bravi ragazzi.» Si infilò in un minuscolo passaggio tra due fuoristrada suonando forte il clacson e rivolgendo occhiate minacciose agli automobilisti. «Amico, al tempo della baia dei porci io ero solo un ragazzino, ma per poco non ci rimettevo il culo. Sai cosa ti dico: bravo! Ecco, prendi il mio biglietto da visita. Se hai bisogno di qualcosa, di un'auto o di un po' di fumo, basta che fai uno squillo a Ramón Martínez.» «Ci potrebbe consigliare un buon albergo fuori mano dove possiamo rimetterci un po' in sesto?» «No problema, amico.» Il tassista frugò in un vassoietto pieno di biglietti da visita e ne porse uno a Elizabeth. Con grande sollievo di Peter, lei lo prese. Era tornata a bordo, non importava quanto si sentisse in conflitto con se stessa. Certo, aveva tutti i diritti di sentirsi confusa e minacciata.
Ma intanto, Wolfe e Henderson, che scuse avevano escogitato come copertura per motivare l'urgenza di quella caccia all'uomo? Molto probabilmente, avevano detto che lui o entrambi erano "Due terroristi da catturare, pericolosi come Unabomber e Patty Hearst". L'emicrania gli provocava lampi di calore al margine inferiore dei globi oculari: sapeva che in qualsiasi momento poteva essere colpito da un'embolia massiva. Ma era molto più terrorizzato di perdere la donna al suo fianco che di morire. Quando arrivarono al Rosaria Hotel di Coral Gables, Martinez aveva già dato loro l'indirizzo dei suoi ristoranti preferiti all'Avana e il nome dello zio, un generale a una stelletta dell'esercito cubano. «Generale Jesus Pinar del Río. Sta complottando dall'interno per cacciare il vecchio maricón, sai cosa intendo? Se avete bisogno di un biglietto o di qualsiasi altro favore, alzate la cornetta e lo chiamate. Jesus Pinar del Río, non dimenticatelo.» Strinse la mano ai due e ripartì rifiutando decisamente di farsi pagare. Peter prese due camere attigue ed Elizabeth non fece commenti. Nella sua stanza c'erano solo il letto, un tavolo di formica e un televisore. Il bagno non aveva nemmeno una mensola. L'autista del taxi e il padrone dell'albergo erano sicuramente parenti, ma andava bene così. Il posto sembrava anonimo, tranquillo e, per il momento, relativamente sicuro, se i suoi vasi cerebrali continuavano a funzionare. Si fece una lunga doccia lasciando che l'acqua bollente gli riscaldasse il cranio e, magari, dilatasse anche i vasi sanguigni. Apparentemente, funzionò. Si sentì molto meglio, addirittura un po' ottimista. Si fece la barba con il rasoio Bic e la saponetta forniti dall'albergo. Poi alzò la cornetta e fece il numero del laboratorio della moglie. Fu sollevato di sentire il telefono squillare: Beatrice, sono ancora vivo, sei contenta? Nessuna risposta, poi un leggero singulto: stava per inserirsi una segreteria. Molto probabilmente Henderson aveva fatto installare nel telefono un identificatore del numero di chiamata, pensò Peter. Dunque, una volta ascoltato il messaggio in uscita solo per sentire il suono della voce della moglie, Peter appese. Il messaggio della segreteria non era stato modificato e il fatto un po' lo deluse. Idiota, ma cosa ti aspettavi? si disse. Salve, se sei Peter, sappi che ti ho perdonato tutto. Anche se a lei fossero venuti dei dubbi sull'intera vicenda del progetto, non si sarebbe certo arrischiata a mettere in allarme Wolfe: era troppo intelligente e prudente.
Rimase seduto per un po' fissando il pavimento, smarrito tra il senso di colpa e l'amore, poi bussò alla porta della camera di Elizabeth usando il codice concordato in precedenza. Un minuto dopo, lei lo fece entrare. Aveva sciacquato la T-shirt e i jeans asciugandoli poi con l'asciugacapelli del bagno. «Devo fare delle spese,» le annunciò Peter. «Se decidi di andartene, lasciami un biglietto per informarmi che l'hai fatto di tua volontà. Non che tu mi debba delle spiegazioni... Ma il fatto è che, se io so che puoi tornare, ti aspetto e...» «Vengo con te.» Elizabeth aveva un'aria solenne e Peter capì che voleva fargli altre domande. L'uomo sperava che, in qualche modo, potessero passare ancora un po' di tempo insieme, anche se il loro margine di manovra era ridottissimo: secondo lui, avevano guadagnato al massimo ventiquattro ore. Presero un taxi per Coral Gables, superando lussuose case di stile mediterraneo e prati accuratamente pettinati. «Uno dei primi insediamenti comunitari d'America,» spiegò il tassista, scambiandoli per turisti. «Noi non parla molto inglese,» rispose Elizabeth con un marcato accento teutonico. Peter la guardò stupito. Lei fece una leggera scrollata di spalle, poi gli si rivolse in un perfetto inglese americano. «Com'è tua moglie, Peter?» Lui fu preso tanto alla sprovvista che dapprima non rispose. «Lo so che è una domanda difficile,» aggiunse lei, più gentile. «Beatrice è una vera forza della natura, una donna meravigliosa,» disse lui sentendo un tuffo al cuore. «È una scienziata?» «Sì, una specialista di neuroscienze.» «È medico?» «È laureata in medicina.» Stavano oltrepassando una laguna corallina di acqua dolce soprannominata la laguna di Venezia. L'autista decise di tenere le informazioni turistiche per sé. Aveva concluso che quei due avessero una relazione illecita e decise di non spartire più nemmeno una parola con loro: era un battista fondamentalista e giudicava severamente i peccati della carne. «Che aspetto ha?» proseguì Elizabeth. Peter la guardò: la ragazza non aveva un'aria di sfida, sembrava semplicemente molto curiosa. Sospirò. «Che aspetto ha? È graziosa, bella. Una bella donna, direi.» Si pentì di avere aggiunto tali apprezzamenti. In bocca, le parole avevano il sapore della cenere. «Siamo sposati da cinquant'anni,»
aggiunse, come se fosse il dettaglio più importante. Lei incassò bene. «Cinquanta!» «Cinquanta, lo scorso giugno.» «E l'ami ancora?» Elizabeth cercava di mantenere un tono di voce neutro. «Sì.» «Bene. Dunque pensi che sia possibile amare contemporaneamente due persone?» Il suo tono aveva una sfumatura tagliente e accusatoria ma anche vagamente allegra. Anche il fatto che lei avesse sollevato quell'argomento lo confortava. «Sì, a quanto pare è possibile.» «Ne sei sicuro?» «Sì, io ne sono un esempio perfetto. Amo lei e amo te, so solo questo.» La ragazza lo fissò a lungo, poi il tassista li interruppe. Erano arrivati a destinazione. Li depositò nel quartiere commerciale di Miracle Mile, dove si comperarono indumenti sufficienti per una settimana e una borsa per trasportarli. Peter aveva domandato consiglio a Elizabeth sugli acquisti e lei gli aveva risposto quasi sempre a monosillabi. Lui si comperò anche gli accessori per la barba, poi trovò uno sportello automatico e prelevò trecento dollari in biglietti da venti. Entrò in un negozio di articoli sportivi con un debole per le dotazioni di sopravvivenza, si comprò una bomboletta di gas lacrimogeno e prese in visione un coltello da combattimento Gerber/Applegate. Era un coltello a serramanico da 12 centimetri che si apriva premendo un pulsante con il pollice e che quindi poteva essere «armato» - il commesso usò proprio questo termine - con una sola mano. Aveva l'impugnatura di nailon rinforzato con fibra di vetro, e quasi metà della lama era dentellata; aperto, la lunghezza complessiva era superiore a 25 centimetri. Peter lo comprò, colpito dalla facilità con cui, in America, fosse possibile armarsi e da quanto quella cruda realtà comunque lo confortasse nelle nuove circostanze in cui si trovava. Per l'ultimo acquisto si recò in un negozio di elettronica. Trovò due walkie-talkie Motorola a banda cittadina. Pensò che, se si fossero dovuti separare, avrebbero almeno potuto tenersi in contatto. Gli apparecchi erano abbastanza piccoli da stare nel palmo della mano e, secondo le istruzioni, avevano una portata di quattro chilometri e mezzo. Purtroppo, al momento di pagare ci fu un problema con la carta di credito.
«L'ho usata un sacco, oggi,» spiegò al commesso. «Probabilmente questo li ha messi in allarme. Mi faccia parlare con loro.» Il giovane gli passò il telefono. «Salve, sono Peter Jance.» «È Peter Jance?» chiese una voce maschile. «Sì, gliel'ho già detto.» «Lei sta facendo una quantità insolita di acquisti.» «Sì. Noi... io sono in vacanza. È tutto a posto. La carta di credito non è stata rubata. Per conferma, vuole conoscere il nome da ragazza di mia madre?» «Abbiamo notato che ha comperato un articolo alla Coral Gables Wilderness Inc, per novantacinque dollari,» proseguì la voce, ignorando la domanda di Peter. «Un coltello a serramanico da combattimento Gerber/Applegate. Conferma di aver fatto questo acquisto?» «Sì.» Peter sentiva i capelli rizzarsi sul collo. «È un coltello da tasca.» «È piuttosto un coltello a serramanico da combattimento.» «Sì, be', lo sa anche lei, di questi tempi amano dare nomi fantasiosi alle cose.» «Ma lei sa usarlo?» «Cosa?» «Sa usarlo?» La voce dall'altro capo del filo ripeté la domanda. Peter sentì un brivido freddo percorrergli la spina dorsale. Quella voce aveva assunto un tono duro. «Allora, lo sa usare o no?» «Sì,» rispose cercando di assumere un tono deciso. «Be', meglio per lei.» Una pausa, poi un clic. Peter si girò. «Elizabeth!» Assurdamente gli echeggiò nella mente una frase di Emily Post, una scrittrice che amava moltissimo quando era giovane, ai tempi in cui aveva iniziato a fare il filo a Beatrice: "In pubblico, un uomo non chiama mai la sua dama per nome". «Elizabeth!» «Peter?» Lui si girò: lei era lì, a non più di dieci metri. «Vieni.» La ragazza vide la sua espressione preoccupata e non disse nulla. Si precipitarono fuori dal negozio, lungo il marciapiede affollato, quasi correndo fino al vicolo più vicino. Alcuni secondi dopo, una Ford Bronco verde con i finestrini oscurati accostò al marciapiede davanti alla Sunshine
State Electronics. Cinque uomini in abiti civili ma dall'aspetto chiaramente militare irruppero nel negozio. Peter ed Elizabeth attesero che non fossero più in vista, poi percorsero tutto il vicolo sbucando sulla Cinquantasettesima sud-ovest. Lui stava per fermare un taxi ma lei si diresse con decisione verso un taxi abusivo. «Questo non ha la radio,» gli spiegò mentre si lasciavano andare senza fiato sui sedili tutti sciupati. Peter sentiva la testa pulsargli forte e dovette fare uno sforzo per capire cosa diceva. «Giusto, avvertiranno anche le società di taxi.» Lei annuì. «State attenti a due tipi che indossano vestiti con il cartellino del prezzo ancora attaccato.» Peter controllò i suoi indumenti. Sulla linguetta di regolazione del suo berretto da baseball con la scritta "Cacciatore di alligatori" c'era il cartellino. Buttò il berretto fuori dal finestrino. Il taxi era già a un isolato di distanza quando i rinforzi piombarono nella zona commerciale isolandola completamente in attesa dell'elicottero che avrebbe controllato il quartiere dall'alto. Peter stava per dare all'autista il nome dell'albergo, ma Elizabeth lo fermò. «Hai pagato le camere con la carta di credito.» «Hai ragione anche questa volta.» Ora la testa gli pulsava forte e lei stava prendendo in mano la situazione, come se percepisse il suo stato di debolezza. Nello stordimento provocato dalla sofferenza, Peter si chiese se lei avesse capito di avere maggiori possibilità di sopravvivere restando appiccicata a lui. «Vieques,» mormorò lei. «Scusa?» Elizabeth teneva gli occhi chiusi. «Niente, sto solo pensando ad alta voce. Quegli esperimenti di clonazione di cui mi hai parlato, furono condotti tutti sull'isola?» «Mi sembra di averti detto proprio così.» Non tornava volentieri su quell'argomento. «Perché?» «Stavo solo mettendo in ordine alcuni ricordi.» Lo guardò e gli sorrise, ma aveva un sorriso un po' acido. «Ci sono alcune coincidenze: il modo in cui ci siamo incontrati alla baia fosforescente, per esempio. Ti ho detto che avevo sognato quel posto prima di vederlo? E poi, El Fortín: io sapevo cos'era ancora prima di vederlo. E lo stesso per le raganelle. Non te l'ho mai detto?» Lui sorrise a disagio. «No, credo di no.»
«E naturalmente tu sai che forse mio padre è stato di stanza nei Caraibi.» Peter era invaso da una sensazione di panico crescente, che iniziava ad annebbiargli la mente. «Elizabeth, adesso dobbiamo pensare a come uscire vivi da qui. C'è qualcuno a cui puoi telefonare per farti mandare dei soldi per un paio di biglietti aerei?» Lei lo guardò, vide il suo stato sofferente e capì. «Mi trovi una banca,» ordinò all'autista. «E poi una cabina telefonica.» Con una scorta di monete, Elizabeth chiamò Annie a Zurigo. Peter stava di guardia fuori dalla cabina cercando di tendere l'orecchio per sentire la conversazione. «... in grossi casini, Annie,» diceva Elizabeth. «Se mi manca? Non quanto vorrei. Scusa se sono così misteriosa... Sì, direi che sto malissimo... Spero che tu mi possa aiutare.» Peter si avvicinò un po' di più ma lei se ne accorse e si mise a fissarlo fino a che Peter si allontanò, ben fuori dalla portata della voce. Si mise vicino a una pila di gomme nuove fissate a un cartello con una catena. Lei stava chiamando infatti dal telefono pubblico di un distributore, e Peter cominciò a osservare pigramente gli affari che vi si svolgevano. Sentiva in bocca un sapore metallico, preannuncio di un altro piccolo ictus o sintomo della sua crescente confusione. Quando lo stomaco iniziò a brontolare, si ricordò che non mangiavano da dodici ore. Alla fine lei appese. Sorrideva. Tornarono verso il centro commerciale. «Missione compiuta?» «Sì, grazie ad Annie.» «È lei che ti manderà i soldi?» «Sì, alla Home Savings.» «Deve essere proprio una buona amica.» «La migliore del mondo.» Elizabeth si mise a scrutare i ristoranti del centro commerciale. «Da prima dell'incidente,» aggiunse quasi senza pensarci. «Quale incidente?» Ancora una volta lei si richiuse in se stessa. «Non vale la pena di parlarne.» Si scostò i capelli dal viso. «Ascolta, vuoi mangiare qualcosa mentre aspettiamo? Io mi mangerei un cavallo. O almeno un burrito.» Indicò un vicino ristorante. «Certamente,» rispose lui prendendo il resto delle monete. «E prendimi anche una Coca, per piacere. Intanto io vado a rinfrescarmi un po'. Ci vediamo lì.» Indicò un tavolo vuoto.
Peter acquistò due burritos, una limonata e una Coca Cola, dando le spalle alla guardia del centro commerciale che passava in quel momento. Ma la donna in uniforme, che camminava al ritmo della musica rap diffusa dagli altoparlanti, non sembrava per nulla allarmata e alla fine si infilò in un negozio di video. Peter addentò il suo burrito assaporandone il gusto semplice e genuino. Lo finì in fretta e buttò giù anche la limonata. Stava cominciando a preoccuparsi per un dolore che gli era comparso dietro lo sterno (semplice riflusso di acido o connessioni del vago che stavano staccandosi?), quando si rese conto che erano già passati quasi venti minuti e lei non era ancora tornata. Prese la Coca Cola e l'altro burrito e andò a cercarla nei bagni. Il bagno delle signore era aperto e vuoto. Per altri lunghi minuti, Peter rifiutò di accettare la situazione. Continuò a tornare negli stessi posti come uno che abbia smarrito il portafogli, finché la sorvegliante non iniziò a insospettirsi. Lo sapevi che sarebbe accaduto, si disse, mentre si dirigeva verso un taxi fermo lì fuori. Ma perché proprio adesso? Si sentì uno stupido e concluse che non poteva incolpare altri che se stesso. Era uno stupido. La perdita di Elizabeth, la placca nelle arterie cerebrali, l'accumulo di senso di colpa e di dolore represso si riversarono su di lui come il panico di un tossico che cerchi di disintossicarsi ma che improvvisamente si renda conto di avere davanti anni di dolore. Come Beatrice gli aveva insegnato a chiamare tutto ciò? Effetto rebound. Sì, era proprio così. Un sensazione di profonda depressione calò improvvisamente su di lui come un temporale estivo. Si sentì perduto come un bambino di pochi anni. Prese un taxi e tornò al Rosaria Hotel. Mentre faceva i bagagli, vide una autopattuglia entrare nel parcheggio. Scese in tutta fretta le scale di emergenza e uscì dalla porta posteriore. Chiamò un altro taxi e si fece portare a una cabina telefonica. La più vicina era nei pressi della Dixie Highway. Chiese all'autista di aspettarlo, prese quello che restava delle monete che gli aveva dato Elizabeth e ne infilò una nel telefono. Sapeva il numero a memoria. Una voce registrata gli annunciò che stava effettuando una chiamata interurbana: costo 3,35 dollari per i primi tre minuti e 1,05 per ogni minuto successivo. Peter andò dall'autista per cambiare venti dollari e poi tornò in cabina, dove compose il numero del cellulare. Dopo alcuni sospiri e ronzii, finalmente una voce.
«Pronto?» «Pronto, Beatrice...» Un silenzio impressionante dall'altra parte. La fronte gli si imperlò di sudore. Poi risentì la voce della moglie. «Peter?» «Sì, sono io. Sei sola?» «Sì.» Chissà se era vero, probabilmente no. «Dove sei?» chiese la moglie. «Dove sei tu?» «A Miami. Peter, se sei qui in città, corri grandi pericoli.» «Credimi, lo so. Stai bene? Ho cercato di chiamarti al lab...» «Sì, sto bene.» «Grazie a Dio. Ascolta,» iniziò ma non riuscì a continuare. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Lo so perché mi stai chiamando.» «Allora dimmelo tu.» «Ti ha lasciato.» «Non è per questo. Io devo vederti.» «Adesso lei sa?» «Ho dovuto dirglielo.» «Cosa hai dovuto dirle?» Ma perché Beatrice era tanto ottusa? «Tutto.» «Tutto? Ne sei proprio sicuro?» La sua voce aveva una bizzarra sfumatura importuna. «E lei, come l'ha presa?» «Non bene. Come ti aspettavi che la prendesse?» Il fatto che stavano mettendosi a bisticciare, chissà perché, lo rincuorava. «Mi sei mancata, Beatrice.» «No, tu credi che io ti sia mancata.» «Di' come vuoi. Mi dispiace. Comunque tu voglia farmela pagare...» «Hai avuto me, Peter. Per tutto questo tempo.» «Beatrice, quello che dici non ha senso...» «Credo di no. Ma tu eri sempre un passo indietro, come Einstein, sconcertato dai rimborsi delle tasse. Dimmi, caro, sai viaggiare nel tempo?» Caro: Peter non riusciva a pensare che a quella parola. «Pensi di riuscire a tornare all'estate del '67?» «Beatrice, io soffro tanto.» «Lo so. Sali sulla macchina del tempo. Qualcuno ti verrà incontro, te lo
prometto.» La sua voce scomparve e poi tornò, questa volta molto forte. «Mi spiace, non rispondo a richieste telefoniche. In ogni caso, come ha avuto il mio numero?» «Beatrice, è entrato qualcuno? Freddy? Henderson?» «Eh, no,» riprese a bassa voce, «non mi sogno neanche per un attimo di perdonarti. Addio, addio.» 16 L'estate del '67 era stata la prima che avevano trascorso insieme a Vieques. Ogni volta che desideravano allontanarsi dalla base o da Freddy o dal peso delle loro coscienze, Peter e Beatrice volavano a Miami, noleggiavano un'auto e percorrevano la soprelevata fino a Key West, dove avevano scoperto la pesca d'altura, il sesso tantrico e la cucina francese. Per loro, quello era il Paradiso ritrovato. Key West: il nome colpì Peter con la violenza di un tuono. Era lì che lei voleva farlo andare. Lì lo aspettava... A meno che non fosse una trappola. Ma, se era una trappola, Beatrice doveva avere riserve di odio più profonde di quanto lui sospettasse, più astuzia di un Machiavelli e una brillante carriera come attrice davanti a sé. Nella sua voce, Peter aveva però sentito solo una tenera condiscendenza e il tono di disapprovazione di una moglie. Non gli era parso di trovarvi rabbia: non era la voce di una donna che lo scherniva. Sembrava piuttosto che gli parlasse in modo controllato, ma quel tipo di autocontrollo poteva dimostrarsi mortale. No, non mi tradirà, anche se un po' me lo meriterei, pensò. Mentre il taxi scivolava lungo la Route 1 e nel cielo si sentiva forte il rombo degli elicotteri, Peter continuava a girarsi per scrutare attraverso il finestrino. E continuava a ripetere nella mente la loro conversazione telefonica. Ho detto tutto a Elizabeth. Magari Beatrice aveva già passato quell'informazione a Wolfe e Henderson. Dopo tutto, lei cosa doveva a Elizabeth? Se Beatrice si fosse dimostrata vendicativa, chi poteva biasimarla? Lui l'aveva ferita in un modo terribile. L'aveva gettata via per un'altra, una donna più giovane, così come aveva buttato via il proprio vecchio corpo. Cinquant'anni di matrimonio e niente di quello che avevano costruito insieme era sopravvissuto agli imperativi della giovinezza ritrovata di Peter. Ecco come alla moglie si presentava la nuova situazione. Ma Beatrice voleva davvero Elizabeth morta? Si ricordò che, quando si era trattato di decidere la morte di Hans, la
moglie era stata d'accordo. Ne aveva sofferto, senz'altro, ma alla fine aveva approvato. L'importante era salvare il numero uno, il genio dello scienziato, suo marito. Era stata una pirateria morale, ecco cos'era stata in realtà, ma lei si era detta d'accordo. O si era resa conto di quell'aberrazione solo adesso? Immerso in quelli che anche uno psichiatra dilettante avrebbe riconosciuto facilmente come pensieri ossessivi, Peter oltrepassò Key Largo, Islamorada, Layton e Key Colony Beach. Da qualche parte, verso Marathon o Big Pine, si appisolò. Era agitato. Sognò la moglie sotto le sembianze di Giano bifronte con una faccia giovane e sdegnosa e l'altra vecchia e sorridente. Poi il viso giovane diventava tenero mentre il vecchio si trasformava nel volto di Medusa. Alla fine, sentì l'autista che lo scuoteva: erano arrivati a Truman e Duval, nel cuore di Key West. «Dove vuole andare, signore?» Peter si scosse sfregandosi gli occhi. «Sa dov'è il Café des Artistes?» «Quello sulla Simonton?» «Sì, quello.» Si fece lasciare un isolato prima e si avvicinò con prudenza fermandosi a poca distanza. Doveva arrischiarsi ad entrare o prima era meglio fare una telefonata al ristorante? Vide personale della Marina entrare e uscire dal locale, uomini in uniforme, quasi sempre accompagnati dalla moglie o dalla fidanzata. I suoi inseguitori erano in borghese, si ricordò. Oppure no? Lì c'erano molte basi, quindi la presenza di militari, in uniforme o in borghese, era un fatto normale. Inoltre, quel posto emanava un'atmosfera losca. Il locale faceva parte di un vecchio albergo che si diceva fosse stato costruito da Al Capone nel 1934. Non c'era da meravigliarsi che Peter si sentisse paranoico. Ma come avevano fatto, lui e la moglie, a trovarlo tanto invitante, in passato? Forse erano tempi più innocenti. Entrò e domandò se la signora Beatrice Jance fosse arrivata. L'impiegato gli rispose che si era registrata proprio quella mattina. Con il cuore che gli batteva furiosamente in petto, si avvicinò ai telefoni interni e chiamò la camera della moglie. Nessuna risposta. D'impulso, riattraversò la hall ricca di decorazioni dirigendosi al ristorante. Sentiva il pavimento inclinarsi stranamente sotto i piedi. Ignorò la sensazione di stordimento e si guardò intorno. Eccola là, che mangiava tranquilla al loro tavolo preferito. Tra addobbi di fiori e dipinti di artisti di Key West, sullo sfondo dei legni scuri e delle
pareti tappezzate di lino, Beatrice lo lasciò senza fiato, come un gioiello incastonato nella sua memoria. Era come trenta anni prima: lui era appena tornato da una passeggiata solitaria lungo la banchina del porto e si incontrava con lei per il pranzo. Anche la suite per clavicembalo di Rameau diffusa nella sala era la stessa, si ricordava anche quella. «Beatrice?» Lei alzò gli occhi spaventata. «Dio santo, sei completamente impazzito!» Aveva i capelli grigi raccolti in un morbido chignon e indossava un ampio abito da spiaggia stampato a orchidee. Appariva languida e sfinita. Era sempre affascinante. «Posso sedermi?» Lei studiò il viso del marito come se l'avesse dimenticato. «E se mi hanno pedinata? Non ti è venuto in mente?» «Ma ti pedinano o no?» «Sì, se tengono sotto controllo il mio cellulare.» «Hanno motivo di diffidare di te?» «No.» Si rilassò un po'. «Pensano che io desideri vederti sotto due metri di terra. Jack...» Accorse un cameriere. «Sì, signora Jance?» Aveva un forte accento della Georgia. «Ci vorremmo spostare in terrazza. È più appartata.» L'uomo rivolse un'occhiata a Peter. «Capisco.» «Jack, te lo giuro, questo è mio figlio, Peter Junior.» Lo disse in modo tanto naturale che il marito fu preso alla sprovvista. Si rese conto che lei aveva pensato a quell'incontro più di quanto lui immaginasse. Il cameriere lo scrutò attraverso le palpebre semichiuse, piacevolmente colpito. «Ma assomiglia tutto al padre!» «È tale e quale suo padre, vero? Mio marito purtroppo è morto.» «Oh, sono veramente dispiaciuto, signora Jance.» «Non devi esserlo. In realtà, è stato meglio così.» «Capisco.» «Demenza senile.» Lanciando un'occhiata significativa a Peter, Beatrice si mise a raccogliere le sue cose. «Comunque molte grazie per le condoglianze, Jack,» aggiunse affettuosamente e si avviò su per le scale, verso la terrazza. C'era una leggera brezza e si sentiva lo stridio delle cicale. A quell'ora gli avventori erano pochi. Beatrice scelse un tavolo da cui si poteva vedere bene la strada. O era un tavolo dove poter essere visti? pensò lucido Peter,
nonostante le emozioni che gli si agitavano nel petto. Si sentiva un ragazzino al primo appuntamento: era come se stessero ricominciando tutto da capo. Poi si ricordò che aveva provato esattamente lo stesso sentimento per Elizabeth. E la testa ricominciò a girargli. «Bene, figliolo,» esordì Beatrice sarcastica, «hai avuto un bel daffare negli ultimi tempi.» Almeno non fuma, pensò Peter. Aveva notato che il portacenere del tavolo della sala sotto era vuoto. Basta con quelle maledette Gauloises di Wolfe. «È stato interessante,» fu tutto quello che riuscì a dire. Voleva allungare la mano e prendere quella della moglie, ma sapeva che lei l'avrebbe ritirata. «Non fare quello sguardo da pesce lesso,» gli disse lei confermando le sue supposizioni. «L'ultima cosa che desidero è sembrare una tardona che ha rimorchiato un surfista per il week-end.» Quando arrivò il vino per Peter, lei alzò rapidamente il bicchiere verso di lui e bevve un sorso pensierosa. «Dunque, lei ti ha lasciato,» disse alla fine. «È scomparsa. Penso che si possa dire che mi ha lasciato.» «È quello che direi io se il mio amante fosse scomparso.» Estrasse un pacchetto di Gauloises e ne prese una. Peter si sentì deluso. «D'altra parte, questo almeno ti ha indotto a chiamarmi. Altrimenti non l'avresti fatto, ne sono sicura.» «Beatrice, non è vero. Per tutto il tempo in cui sono stato con lei...» «Pensavi a me? Ma certo...» Scosse le spalle. «Scusami. È solo che, da un certo punto di vista, questa cosa non ha proprio senso.» Distolse lo sguardo, diede un'occhiata alla strada e poi aggiunse: «Però, da un altro lato, è tutto plausibile.» Guardò la sigaretta, poi prese il pacchetto di Gauloises e lo buttò nel portacenere insieme alla sigaretta. Afferrò il portacenere e l'appoggiò su un altro tavolo. Peter continuava a fissarla ma Beatrice era impassibile. Jack portò un secondo menu e la bottiglia di vino che lei aveva ordinato: era il cabernet che piaceva a lui. L'etichetta era un po' cambiata con gli anni, ma Peter aveva ancora un ricordo vivido di tutte le volte che si erano bevuti una bottiglia di quel vino parlando di tutto e di niente. Quando il cameriere si fu allontanato, lui si chinò verso la moglie. «Beatrice, ti prego di perdonarmi.» «Non essere servile, lasciami pensare.» Lui si tirò indietro, tenendosi a una distanza più rispettosa.
Dopo avere ordinato, Beatrice si mise a fissarlo. Nonostante l'evidente disapprovazione della moglie, Peter buttò giù tutto d'un fiato il vino e se ne versò un altro bicchiere. «Ragazzo mio, lo sai che vogliono spararti a vista?» «Lo immaginavo.» Il vino gli stava andando rapidamente alla testa. «Alex ha condotto la simulazione sui modelli dell'Hammer e sembra che funzioni. Hanno già cominciato la fabbricazione, giù a White Sands.» «Alex è tornato?» domandò lui incredulo. «No, è stata l'ultima cosa che ha fatto prima di scomparire. Chissà dove si trova adesso. Stanno cercando anche lui.» Lo studiò per un attimo, poi gli chiese: «Dimmi, l'ami, Peter?» «Non potremmo andare in un posto più tranquillo, per esempio al quartier generale della polizia?» domandò l'uomo, sulla difensiva. Ma lei non rise e lui fece spallucce. «Sì, d'accordo, me ne sono infatuato.» «Sei un tipo volubile, vero? Francamente, Peter, sono un po' delusa. Solo infatuato? E dimmi, del suo corpo o della sua mente?» «Di tutti e due,» rispose lui con rabbia. «Ma forse la mia non è stata solo un'infatuazione. L'amavo e l'amo ancora, almeno credo. È pazzesco, ma la mia è molto più di un'infatuazione. Lei conosceva questo corpo e questo corpo conosceva lei. Capisci quello che ti sto dicendo?» «Temo di sì. E grazie per la tua onestà.» Beatrice bevve il vino e si riempì di nuovo il bicchiere. «Non devi biasimarla: lei amava Hans Brinkman. Non era del tutto felice di esserne l'amante ma lo adorava.» «Parli proprio come un vero uomo. E tu che scuse hai?» Dato che non ne aveva, Peter tacque e prese il bicchiere. Tranne che... «Ricordi la tua ricerca sulla memoria cellulare?» «Ti prego, risparmiamelo.» «Non sto accampando scuse, ma penso che forse stavi approdando a qualcosa.» «Ti stai solo arrampicando sugli specchi.» «Ho pilotato un aereo. Eppure, come sai, io non capisco un'acca di volo.» Suo malgrado, lei lo ascoltò. «Hans invece sapeva pilotare. Era un pilota, un esperto di arti marziali, a quanto pare addirittura gli piaceva battersi. Ti avranno certo parlato di quello scontro in albergo.» Lei annuì. Non voleva dare alcun credito ai racconti del marito, ma ripensando a quel killer che seguiva Henderson come un cagnolino, si domandò come avesse fatto Peter ad affrontarlo.
«Rispondi solo a questa domanda: in tutta la vita, mi hai mai visto colpire qualcuno?» «Alla cena dei Nobel, quando quel piccolo chimico croato ha iniziato a punzecchiarti.» «Ma ero sbronzo.» «E lo sei anche adesso. Vuoi dire che è stato il diavolo a farti fare tutto quello che hai fatto?» «No, certo. A meno che il diavolo non siamo noi. Sto solo dicendo che lei non ha alcuna colpa. Appena le ho detto chi ero, se ne è andata.» «Non è l'unica ragione per cui se l'è svignata,» fece la moglie, misteriosa. Lui si tolse gli occhiali e la fissò. «Beatrice, se sai qualcosa che io dovrei sapere, ti prego di dirmelo, non torturarmi!» «Ma tu meriti di essere torturato. Sei una testa di cazzo, uno stronzo superficiale, un presuntuoso in cerca di giustificazioni...» Lui alzò le mani in segno di resa. Era colpevole di tutte le accuse. Fissò gli avventori che li guardavano incuriositi dagli altri tavoli. «Scusate, è solo un litigio tra innamorati.» Gli sguardi passarono da Peter a Beatrice, tutti scossero la testa e tornarono al proprio piatto. Lei arrossì violentemente. «Davvero molto divertente,» commentò dura. Aspettò che arrivasse un altro cameriere con il cibo, poi si chinò di nuovo verso di lui. «Dove pensi che sia andata?» «Non ne sono sicuro, ma forse sta cercando di tornare a Zurigo. Magari con un volo diretto per non toccare più il suolo americano.» «Questo significa che partirà da Miami in aereo. Dobbiamo fermarla.» «Ma, se vuole andarsene, sono fatti suoi.» «Non sospetta nemmeno la metà dei pericoli che corre,» affermò solenne Beatrice, «altrimenti non se ne sarebbe andata di sua volontà.» «Ho cercato di spiegarglielo, ma è tremendamente testarda, quasi quanto te.» «Direi proprio quanto me,» aggiunse Beatrice in un tono strano. «Ma non la uccideranno... Be', non proprio.» Peter si sentì ghermire da un profondo terrore. «Sei preoccupata per lei?» «In realtà, noi abbiamo bisogno del suo aiuto quanto lei ha bisogno del nostro,» gli rispose la moglie, enigmatica. Il suo sguardo non rivelava nulla, tranne che lui sapeva ancora meno di quanto credesse.
«Ma perché ci serve il suo aiuto?» «Dobbiamo trovare il nono clone.» «Il nono?!» «Stanno per trovarlo. E noi non vogliamo che questo accada, vero?» «E allora io cos'ero, l'ottavo?» Non riusciva a staccare gli occhi dalla moglie. Era sbalordito. «Tu eri il settimo, Peter,» rispose lei con un'occhiata beffarda. «Forse il sette risulterà il tuo numero fortunato.» Gli girava la testa. «E i primi sei?» «Non ce l'hanno fatta,» rispose lei distogliendo gli occhi. Peter rabbrividì. Quanto era stato ingenuo, in tutti quegli anni. Non aveva conosciuto davvero né la donna che era sua moglie da mezzo secolo, né gli amici con cui aveva condiviso il proprio lavoro. «I primi quattro morirono sotto i ferri,» proseguì lei. «Per quanto riguarda il quinto, poco prima dell'inizio dell'intervento subentrò la morte cerebrale. E così dovettero staccare la spina: era il clone di Barrola, per la precisione.» Peter sbarrò gli occhi, non riusciva assolutamente a parlare. «Barrola cadde in uno stato di profonda depressione. Ma naturalmente tu non l'hai notato. Quando si tratta dell'umore degli altri, hai sempre le fette di salame sugli occhi.» Lui trattenne il respiro: si sentiva attanagliato da una tremenda paura che risaliva dalle viscere. «Questo era il numero cinque. E il numero sei?» «Morì durante il trasporto.» Beatrice si avvolse il golf intorno alle spalle. Anche Peter si sentiva invaso da un improvviso gelo. «Ti ricordi quella collisione nel cielo sopra Vieques, due anni fa?» «Tra quei due jet privati?» «Esatto. Il nostro aereo non aveva comunicato il proprio piano di volo, quindi l'altro non sapeva che era lì.» «E l'aereo stava trasportando un clone?» Ora tutto iniziava a farsi più chiaro. «Di chi era, lo sai?» «Di Moore.» «Il chimico che lavorava al cosiddetto aerosol della morte?» «Proprio lui. Morì poco tempo dopo di scompenso cardiaco. O forse di crepacuore. Chiunque perda il proprio clone fatica ad accettarlo: hai l'immortalità a portata di mano e ti scivola tra le dita... Poi è arrivato il tuo turno, con il tuo clone: Hans Brinkman. E fu il successo.» Lui abbassò gli occhi; si vergognava di far parte di una macchinazione
così mostruosamente cinica. «E il prossimo?» «Vive a New York.» «Nello stato di New York?» «No, nella città di New York. Dove, non lo so.» «Ma New York è grande, Beatrice. Ci vivono otto o dieci milioni di persone. Chi ti ha detto tutto questo... Wolfe?» «Sì.» «È innamorato di te, vero?» «In modo grottesco.» Lui si allungò di nuovo sul tavolo e prese le mani di Beatrice tra le sue: erano gelate. Nonostante gli sguardi curiosi dei clienti dei tavoli vicini, continuò a stringerle tra le sue. «Ma tu mi sei stata fedele.» «Anche tu lo sei stato a me,» rispose lei in tono piatto. «A modo tuo.» Tolse le mani da quelle del marito e gli diede un colpetto sul polso. «Nove cloni, Peter.» Si mise a fissarlo finché, finalmente, lui capì. Peter fece un respiro profondo, come un ragazzino che si trovi in cima alle montagne russe più alte del mondo, mezzo eccitato, mezzo terrorizzato. «Cristo santo!» «Benvenuto nel nuovo millennio.» «Ma... non è possibile...» «Tu più degli altri dovresti sapere che tutto è possibile.» «L'avrei riconosciuta... avrebbe avuto esattamente lo stesso aspetto di...» «Di me, hai ragione. Infatti lo aveva, fino a diciotto anni. Poi ebbe quell'incidente di sci che le sfigurò il volto. Vennero gli interventi di chirurgia plastica: nuovi zigomi, naso nuovo, tutto nuovo. E, naturalmente, oggi ti rifanno sempre anche le labbra, in pratica è una scelta obbligata. Sono un po' sorpresa che tu non abbia riconosciuto me nel suo corpo, ma può darsi che si sia fatta rifare anche altre parti.» «Era la sua voce, Beatrice... E i suoi occhi: erano i tuoi. E anche l'amore che io provavo per lei... Santo cielo!» «Mi piacerebbe pensarlo.» Lei sorrise triste. «In effetti, quando guardo la cosa da un certo punto di vista, mi sento quasi lusingata. Se solo mi sforzassi, penso che potrei persino trarre un certo piacere riflesso dalla tua relazione.» «Dio del cielo,» mormorò ancora Peter. «Credi che lei lo sappia?» «Non è una stupida,» rispose lei quasi orgogliosa. «Se non lo sa già, lo capirà abbastanza presto. Ti ha detto che suo padre era in Marina? Di stan-
za nei Caraibi?» «A Vieques?» «Sì, per due anni.» «Così ora la stanno cercando per...» Guardò la moglie; non voleva crederci. «Per me,» disse lei con semplicità. «Vogliamo riavere la nostra gioventù, tutti e due?» «Oh Gesù!» Si prese la testa tra le mani. «Non possiamo farlo, Beatrice.» «Tu sì e io no? È così?» Quando alzò lo sguardo su di lei, l'uomo aveva gli occhi pieni di lacrime. «No, non è giusto.» Lei lo fissò a lungo con uno sguardo duro, poi infilò la mano nella sua. «Grazie a Dio. Adesso capisci perché dobbiamo trovarla? In un certo senso, è il figlio che non abbiamo avuto.» Fece segno al cameriere di portare il conto. «Ma se non torni da Wolfe...» «Ha bisogno di tutte e due noi. La sua scommessa è che, una volta tornata giovane, io cambierò idea. Diciamo che esistono alcuni precedenti a sostegno di questa teoria. Ma dato che, per inciso, io sono una persona migliore di te,» aggiunse addolcendo un po' il suo sorriso, «non credo che rispetterò lealmente il programma. Per caso, conosci la password dell'e-mail di Elizabeth?» «No, non eravamo così intimi.» Peter prese le mani della moglie tra le sue e le baciò. Gli aveva tolto un enorme peso dal cuore. Per alcuni preziosi istanti, poté permettersi di non avere paura. Dopodiché uscirono, e lasciarono Key West per tornare a Miami. 17 La cosa migliore, pensò Elizabeth, era di andare all'aeroporto all'ultimo momento. Inoltre doveva chiarirsi un po' le idee; così, quando il tassista tagliò per Little Havana, gli chiese di lasciarla a uno dei caffè di Calle Ocho. Ordinò il caffè più forte che avevano: le diedero una colada, un espresso corretto con lo zucchero. Con grande sorpresa del barista, la buttò giù tutta d'un fiato e ne ordinò subito un'altra.
Il luogo vibrava di musica piacevole, come se la caffeina fosse andata alla testa a tutti quanti. Nell'aria fluttuava il fumo delle sigarette mescolato al dolce accento spagnolo dei cubani e alla litania del televisore che elencava i punteggi delle partite di baseball. Per la prima volta dopo molti giorni, Elizabeth si sentiva al sicuro. Stai calma, Lizzy. In questa faccenda non sei tu la pazza. No certo, ma sono di sicuro un mostro, vero? Era come scoprire di essere stata depositata sulla Terra da un'astronave aliena. Sii onesta: ti sei sempre sentita un po' strana. Tuo padre, il defunto ufficiale di Marina tanto poco conosciuto, e tua madre che ti metteva costantemente in guardia dall'essere troppo ambiziosa, non erano forse sempre sembrati anch'essi dei completi estranei? Non è per questo che hai costantemente ignorato i consigli di tua madre? In realtà, quelli non erano sua madre e suo padre... Elizabeth rabbrividì. Ma se voleva trovare i suoi veri genitori, dove cercarli? I genitori di Beatrice Jance: ecco chi erano suo padre e sua madre. Erano dunque morti da tempo e, a parte il codice genetico, completamente irrilevanti nella sua vita. Ma la si poteva ancora considerare vita? Tu non sei una persona, Lizzy, sei un prodotto di laboratorio. Buttò giù la seconda colada. Ma se non aveva fiducia in se stessa, poteva averla in Hans: lui era una persona. Una persona vera. Certo, aveva dei difetti, ma non era ancora un cyborg senz'anima. In lui c'erano sentimenti, sogni e tenerezza, come in chiunque altro. Chi diceva che l'umanità di una persona era sempre un diritto di nascita? Aveva conosciuto un sacco di persone tutt'altro che umane, eppure erano nate in modo naturale. Le persone che aveva considerato dei veri esseri umani si erano date da fare per diventare tali, se lo erano meritato. E quanto a te, pensò: hai lavorato duramente anche tu e hai lo stesso diritto di chiunque altro di reclamare l'etichetta di essere umano. Non hai trafficato con i geni di nessuno, non hai passato metà della vita a progettare un metodo per far saltare in aria il mondo o per arricchirti e accumulare solo beni materiali. Erano cose che Annie le aveva ripetuto in continuazione, e ora ringraziava l'amica per questo. Lei aveva dunque tutti i diritti per reclamare una propria umanità: la tua vita non coincide con il tuo DNA, la tua vita è quello che fai, disse tra sé. Magari, le venne da pensare, è tutta solo un'orribile bugia... La storia che lei sarebbe un mostro di laboratorio, l'ombra di un'altra persona clonata:
forse era un espediente diabolico per stupirla e prenderla alla sprovvista. Li odiava tutti con una rabbia muta. D'altro canto, ora capiva però che non avrebbero esitato un istante a ucciderla. Aveva la testa piena di pensieri e si sentiva stordita: se si mutilava il corpo, l'avrebbero voluto ancora? Doveva andare dal chirurgo plastico e farsi rifare come era prima dell'incidente? E se le avessero sparato e fosse rimasta senza una gamba o le avessero cavato un occhio? Forse, in futuro, le uniche persone libere sarebbero state quelle che avevano qualche difetto fisico. Smettila, sei venuta qui per chiarirti le idee, non per tormentarti. Non si curano del tuo aspetto, purché il tuo corpo sia un ricettacolo sano per il cervello di Beatrice. Sono odiosi e pazzi, tutti, nessuno escluso. Ma allora perché sei così triste? Dio mi aiuti, sto continuando a rivivere la morte di Hans. E se, per me, lui è ancora vivo, lo è dunque anche Peter. Ricordati, Lizzy: non è di te che lui si è innamorato. Lui ha continuato a innamorarsi della moglie. Elizabeth guardò fuori. Nella bruma mattutina, numerosi operai e pendolari, per lo più ispanici o neri, si affrettavano verso il lavoro. A quante guerre, a quante schiavitù e a quanti orrori erano sopravvissute quelle persone e i loro geni? E adesso parlavano, ridevano, vivevano la loro vita. Sopravviverai anche a questo, si disse svuotando il vassoio nel cestino e affrettandosi a uscire. Chiamò un taxi e si fece portare al Miami International Airport. Infilò un paio di occhiali da sole e una parrucca nera che aveva acquistato, per cinquanta dollari, in un centro commerciale. Le dimensioni dell'aeroporto internazionale di Miami la rassicurarono. Era l'ottavo aeroporto degli Stati Uniti, come le aveva detto Mary Blanchard: 1.500 decolli e atterraggi al giorno, collegamenti con 2.200 città sparse su cinque continenti. Elizabeth si ricordava quelle cifre come se l'hostess gliele avesse appena sussurrate all'orecchio. Anche queste capacità di memoria le aveva ereditate da Beatrice Jance? No, pensò con ostinazione, queste sono solo mie. E mi aiuteranno a cavarmela da questo pasticcio. Le venne in mente la teoria dei giochi: Hans non le aveva fatto una lezioncina, una volta? Le enormi dimensioni dell'aeroporto si sommavano alla probabilità che gli inseguitori non si aspettavano che lei se ne andasse dallo stesso posto in cui era arrivata il giorno prima. Trenta milioni di passeggeri all'anno, cioè 82.000 al giorno; 118 uscite in otto sale, contro la disponibilità di circa duecento uomini del personale di sorveglianza... Be', aveva ottime probabilità di non essere beccata.
Invece la beccarono. Quando prese l'ascensore per il quarto piano e imboccò il tapis roulant, si rese conto di essere seguita. Sentì passi affrettati e si mise ad attraversare veloce il labirinto di librerie, bar e boutique. Per raggiungere il banco della Martinair/KLM nella Sala B, dovette attraversare metà del gigantesco ferro di cavallo che costituiva l'elemento architettonico caratteristico dell'aeroporto. Si fermò a un chiosco che vendeva occhiali da sole e si provò un paio di Ray-Ban, osservandosi nel minuscolo specchio dell'espositore. Dentro vi vide riflesse tre persone, che si erano appostate in una posizione di noncurante attesa. La prima era un tipo sui venticinque anni, con capelli rossicci tagliati a spazzola, e si stava allacciando le scarpe. La seconda era un ufficiale di volo o un uomo travestito in modo da sembrarlo: guardò una sola volta nella sua direzione e poi distolse lo sguardo. La terza era una giovane dalla corporatura robusta con una tuta sportiva e una borsa da viaggio dai colori brillanti (con un'arma dentro?) appesa alla spalla. Elizabeth rimise a posto con cura i Ray-Ban e andò all'edicola, dove acquistò il Miami Herald. Mentre aspettava il resto, fece di nuovo un rapido controllo. Il pilota e la ragazza muscolosa se ne erano andati mentre l'uomo che si allacciava le scarpe era ancora lì, a meno di 30 metri da lei, fingendo di studiare un monitor delle partenze. Cercò di seminarlo infilandosi nella hall affollata dell'albergo del terminal e riemergendo dalla parte opposta del salone. Svoltò a sinistra, scese di un piano con la scala mobile, poi camminò di buon passo per cinque minuti senza mai voltarsi. Alla fine, vicino all'uscita del suo volo, si fermò davanti a una vetrina di Starbucks. Osservando con attenzione le immagini riflesse nel vetro, vide l'uomo tra la folla. La stava fissando apertamente. Si sentì chiudere la gola: era il militare della Casa del Francés. E adesso si stava dirigendo verso di lei. Lottando contro il panico che cresceva, Elizabeth si allontanò il più velocemente possibile, cercando però di non attirare l'attenzione. Poi sentì i passi veloci dell'uomo dietro di lei e si mise a correre a perdifiato. Lui era veloce ma lei lo era ancora di più. In venti secondi accumulò un distacco sufficiente a scomparire tra la folla. Il tenente Lance Russell svoltò di corsa l'angolo e frenò di colpo, allarmato.
Quella troia è sparita! L'aveva individuata abbastanza facilmente: chi credeva di essere per cercare di imbrogliarlo con il vecchio trucco della parrucca nera? Ma, accidenti, ora l'aveva seminato. Altro problema: uno stronzo della sicurezza dell'aeroporto si stava dirigendo verso di lui. Russell si infilò in un negozio di souvenir cercando di riprendere fiato. Affanculo, pensò, ma il poliziotto l'aveva visto svoltare l'angolo a tutta velocità e voleva sapere cosa stava succedendo. All'addetto alla sicurezza era stato ordinato di cercare un certo dottor Peter Jance Jr., trentacinque anni. E quel tipo con i capelli a spazzola e gli occhi chiari aveva più o meno quell'età: la guardia tolse dunque la linguetta alla fondina della pistola e gli si avvicinò. «Posso vedere il suo biglietto, signore?» Non posso fare nulla, pensò Russell. In missioni del genere non portava mai documenti di identità, neppure falsi, e lì intorno non vedeva l'agente che gli aveva fatto passare il controllo al metal detector. La sua missione era segreta e, se lo arrestavano, doveva rimanere in silenzio e usare l'unica telefonata concessagli per chiedere aiuto all'ufficiale della sicurezza della Marina addetto a quel compito. Non poteva assolutamente permettersi di venire fermato. «Devo incontrare una persona,» disse allontanandosi dall'ingresso del negozio. «Vorrei vedere un suo documento di identità,» insistette la guardia avvicinandosi e stringendo la mano intorno all'impugnatura della calibro 9. Russell gli rivolse un ampio sorriso, ma poi, facendo finta di niente, si infilò nella porta di una toilette per gli uomini. Uno dei gabinetti era occupato ma, per il resto, il locale era deserto. Quando la guardia, furibonda, fece irruzione dietro di lui, il tenente si girò e gli sferrò un esperto colpo con la mano slogandogli la mascella. L'uomo svenne. Per un attimo pensò di ammazzarlo, ma poi capì che il clamore suscitato dalla scoperta del cadavere avrebbe potuto ritorcersi contro di lui. Così si limitò a trascinarlo in un gabinetto e a issarlo sulla tazza. Chiuse dall'interno e, appoggiando un piede al distributore della carta igienica, balzò oltre la porta, atterrando un istante prima che entrasse un tipo vestito da perfetto uomo d'affari che trascinava una valigia con le rotelle. Russell gli passò accanto e tornò nel salone. Adesso gli era venuta un'idea su dove poteva essere finita la ragazza. La toilette delle signore era una decina di metri più indietro, nello stesso corridoio. Ne stavano appena uscendo due donne delle pulizie; spingevano
un carrello con il bidone della spazzatura e lo straccio dei pavimenti sul supporto a rotelle. Il tenente si piazzò davanti a loro. «Dipartimento della Sanità di Miami. C'è dentro qualcuno?» «È tutto pulito,» rispose una delle donne. «Noi appena pulito.» Stupida guatemalteca. «Devo controllare. È il regolamento cittadino. C'è qualcuno dentro?» «Una signora.» «Sta facendo le sue necessità o solo gironzolando?» «Era allo specchio, lavava le mani. Sembra nervosa.» Bene, pensò Russell. Gli piaceva leggere la paura negli occhi delle sue vittime poco prima di abbatterle, e quella puttana se lo meritava. Gli dispiaceva solo di avere l'ordine di non ucciderla. Il suo mandato era semplicemente di impedirle a tutti i costi di salire a bordo di un aereo fino all'arrivo di Wolfe e di Henderson. Pescò in tasca una banconota da cinque dollari tutta stropicciata. «Impedite a tutte le signore di entrare per qualche minuto, d'accordo? Solo finché finisco la mia ispezione.» Le donne delle pulizie si scambiarono un'occhiata e la più anziana prese la banconota. Russell entrò. Il locale, più grande della toilette degli uomini, era diviso in due zone, una con i gabinetti e l'altra con i lavandini, una panca e un fasciatoio. Quando entrò, sentì il rumore del chiavistello di un gabinetto che si chiudeva. Si immaginò la ragazza accucciata dentro che si pisciava nelle mutandine per la paura: gli piaceva quell'immagine volgare. Se era furba però (secondo lui credeva solo di esserlo), probabilmente stava in piedi sul coperchio della tazza trattenendo il fiato e pregando che lui controllasse i gabinetti solo dalla fessura sotto la porta. Ma la aspettava una grossa sorpresa. Estrasse il coltello dalla guaina sotto l'ascella e girò l'angolo avvicinandosi alla zona dei gabinetti. Ma la ragazza non era al gabinetto: stava davanti a uno specchio lisciandosi la gonna, mentre dal gabinetto più vicino si sentiva ancora scorrere l'acqua. C'era qualcosa che non andava. Quando la donna si girò, Russell rimase di sasso. «Be'?» lo apostrofò Beatrice, arrogante e seccatissima, «ha preso lezioni di stupidità o era già abbastanza stupido quando si è arruolato?» «Mi scusi, signora...»
«Metta via quel coltello prima di fare del male a qualcuno. Ha compreso bene il suo compito o no?» «Sì, signora, certo.» «La ragazza non deve subire alcun danno fisico. Assolutamente nessuno.» «Sì, be'... Il coltello è solo un ottimo mezzo di persuasione.» Comunque lo mise via. «E se la ragazza iniziasse a urlare?» «So come affrontare la situazione, signora. Siamo addestrati al sequestro di persone, altrimenti non mi sarebbe stato assegnato questo compito. Il fatto è, signora, che l'ho persa di vista cinque minuti fa e pensavo fosse entrata qui.» «No, l'ho appena vista all'imbarco dell'uscita 15» «Mi scusi, signora, ma perché non l'ha detto a nessuno?» Beatrice lo fulminò con lo sguardo. Russell si precipitò fuori dalla toilette con una furia cieca. Anche le donne delle pulizie se ne erano andate: non erano rimaste a coprirgli le spalle come pattuito con la mancia. Estrasse il walkie-talkie e chiese rinforzi. D'accordo, dimenticati che sarai tu di persona a catturarla, ma quella troia deve comunque finire in manette. Si precipitò verso l'aereo in partenza dall'uscita 15, mentre altri uomini accorrevano anch'essi verso l'uscita. In soli sessanta secondi, l'aereo fu messo sotto assedio, con mezza dozzina di militari che lo setacciavano dal muso alla coda. Se necessario, avevano l'ordine di perquisire anche il bagagliaio e le turbine. Nel frattempo, Maria Morales ed Elena Contrares si erano bloccate nella zona di servizio del primo livello, esattamente come era stato loro raccomandato. Le due erano vecchie amiche sin da quando, otto anni prima, avevano condiviso il viaggio in furgone con altri quindici immigrati illegali piangenti e terrorizzati di El Salvador. Nei molti anni vissuti in zona di guerra avevano visto un sacco di stranezze. E ancora di più l'anno della fuga, quando erano andate verso nord attraversando il Guatemala e le montagne del Messico. Ma nessuno aveva mai chiesto loro di fare una cosa tanto assurda per denaro, e certamente non una signora così elegante. Cento dollari! In America, la pazzia sembrava proprio colare abbondante dalle classi alte. Ora quella signora piena di classe stava proprio dietro di loro: si era fatta dare uno strappo da una delle carrozzine elettriche riservate agli anziani e ai di-
sabili. «Hay otras aquí, amigas?» chiese la signora, emergendo infine dall'ascensore e risistemandosi una ciocca di capelli grigi. «No,» risposero quelle. «Bueno.» Beatrice diede un colpo al carrello della spazzatura. «Tutto a posto, fine della corsa, sei al sicuro.» Gli asciugamani di carta si mossero e dal bidone emerse la faccia di Elizabeth, sbalordita e grata, ma chiaramente diffidente. «Grazie,» disse a Beatrice mentre Maria ed Elena l'aiutavano a uscire. «Di nulla, non mi sono mai divertita tanto da quando sono entrata in menopausa.» «Ma lei chi è?» «La signora che ti ha appena salvato la vita,» rispose Beatrice, sentendo il risentimento farsi strada nella sua voce. Ma questa ragazzina non si sarebbe mai riconosciuta in lei? Erano sette anni che aveva quella faccia nuova, ma possibile che si fosse dimenticata quella vecchia, originale? O cercava solo di tenere segreti i propri piani? Forse era solo un po' tonta. «Vieni, parleremo in taxi.» Elizabeth esitava, ma Beatrice fece un passo deciso verso di lei. «Preferisci aspettare che circondino di nuovo l'aeroporto?» La donna diede a Elena e Maria altri cinquanta dollari, poi si diresse al parcheggio dei taxi, con la ragazza che la seguiva a una distanza di prudenza. «Ma perché fa questo?» «Perché voglio che tu viva. Ti sembra una ragione sufficiente? Hai ancora degli amici, a questo mondo.» «Annie? È stata lei a mandarla?» «No, non mi ha mandato Annie, chiunque sia.» Santo Cielo, stava fingendo o l'ottusità di Peter si era già riversata in parte anche su di lei? Cominciò a immaginare il marito insieme a Elizabeth e faticò a non odiarla, nonostante la comprensione che provava per la difficile situazione della ragazza. E le riemerse il senso di colpa, naturalmente: chissà quando se ne sarebbe liberata. La portiera del taxi era aperta, ma la ragazza era ancora recalcitrante. «Penso di avere il diritto di sapere chi è lei.» «Lo capirai. Su, sali,» rispose brusca la donna afferrandola e spingendola dentro. «Se fossi in te, starei un po' giù.» Elizabeth ubbidì, mantenendosi sotto il livello del finestrino. Il tassista uscì sfrecciando dall'aeroporto. Una volta in autostrada, Elizabeth si rialzò e si mise a osservare Beatri-
ce, che si sforzava di non mettersi a fissare apertamente la ragazza. Io mi sarei riconosciuta di certo, pensò la donna. In un batter d'occhio, mi sarei riconosciuta. «In quale albergo stiamo andando?» domandò la ragazza. «Pensavo di andare allo Sherry Netherland.» «L'ultima volta che ci sono stata, lo Sherry Netherland era a New York.» È sicura di sé, ironica, pensò Beatrice. Magari questa ragazza finirà per piacermi. Narciso non sarebbe verde di invidia? «Sì, penso di sì. Autista, si fermi alla prossima piazzola.» Il tassista uscì dalla corsia, si fermò su una piazzola e suonò il clacson. «Va tutto bene,» disse Beatrice vedendo l'altra irrigidirsi, «stiamo solo prendendo a bordo un altro passeggero.» L'autista scrutava la boscaglia circostante. «Señora, è sicura che è qui che l'abbiamo lasciato?» «Sì.» Elizabeth sembrava sul punto di esplodere. Beatrice le appoggiò con fermezza una mano sul braccio. Intanto, il tassista scendeva e si avvicinava al guardrail. «Señor?» chiamò. Non ricevendo risposta, l'autista scavalcò il guardrail e scomparve tra i cespugli. Elizabeth voleva divincolarsi dalla stretta dell'altra. «Ma che diavolo sta succedendo?» «Stai calma!» le ordinò Beatrice. Si sentiva stringere il cuore per l'angoscia. «Ma chi è lei? Me lo dica, altrimenti me ne vado.» La donna continuava a scrutare i cespugli. «Mi chiamo Beatrice Jance.» Elizabeth sbiancò in volto. «Sono la moglie del tuo amante... o meglio, del tuo ex amante. Tu l'hai lasciato e io me lo sono ripreso.» Elizabeth abbassò la testa sul petto e si coprì il viso con le mani. «Oh, mio Dio...» «Penso di essere anche la tua... non saprei come dire...» La ragazza la fissò negli occhi. «Mia madre di DNA?» «Una definizione abbastanza corretta, direi.» Beatrice stava per aggiungere qualcosa ma si fermò, lasciando il braccio della ragazza. Spalancò lo sportello e si precipitò fuori. Il tassista stava trasportando qualcuno all'esterno della boscaglia: sembrava che fosse ubriaco, ferito, o ancora peggio. Poi anche Elizabeth si precipitò fuori dalla macchina.
A quel punto la ragazza, che pure avrebbe potuto scappare facilmente, si mise a correre con Beatrice verso Peter, che teneva gli occhi chiusi e aveva la camicia tutta macchiata di rosso. Insieme aiutarono il tassista a sostenere il peso morto dell'uomo. Dalla bocca e dal naso gli colava un rivolo di sangue e respirava a fatica. Sembrava morto. «Peter...» lo chiamò Elizabeth. Una risposta indistinta. Poi guardò terrorizzata Beatrice. «È accaduto di nuovo.» «Quando è già successo?» «Una volta, a Vieques, e poi ancora all'aeroporto di Puerto Rico. Ma mai così grave.» «Aveva sanguinato?» domandò l'altra, calmissima. «No.» «Aveva il polso frequente? Le pupille dilatate?» Elizabeth si addossò quasi tutto il peso di Peter e lo sistemò sul sedile posteriore del taxi. «Non sono un dottore,» sibilò sotto lo sforzo. «Sì, certo,» rispose Beatrice, salendo in auto. «E non c'entro nulla con quello che ha potuto ridurlo in questo stato,» aggiunse la ragazza, seccata. Beatrice non le rispose. «Vada, I-95 nord,» ordinò all'autista. L'auto partì a razzo. La testa di Peter ciondolava da una parte e dall'altra sul logoro sedile. Sembrava che, nel suo delirio, cercasse di ascoltarle tutte e due: Beatrice alla sua sinistra, Elizabeth alla sua destra. «La prima volta sembrava come... appannato,» riprese la ragazza a voce bassa, mentre l'auto si immetteva nel flusso del traffico. «Poi, a Puerto Rico, quando stavamo scappando dopo l'incidente con l'aereo, gli è venuto un dolore lancinante alla testa ed è caduto... Cos'è, una specie di ictus?» «Una cosa del genere.» Poi la voce di Beatrice si addolcì. «Dio solo lo sa.» «I vasi sanguigni del cervello sono ancora quelli vecchi?» «Sì.» Peter sbatté le palpebre e aprì gli occhi. Improvvisamente era di nuovo cosciente, anche se molto stordito. «Moolto astutoo,» biascicò. «Grazie,» disse gelida Elizabeth. Prese un Kleenex e gli ripulì il sangue dall'angolo della bocca. Lui le rivolse uno sguardo indecifrabile, poi si girò verso Beatrice. «Tu okay?» Allungò goffamente una mano verso il viso della moglie e quasi le infilò un dito in un occhio. «Scusa.» «Tutto a posto, sto bene. Tu piuttosto, come ti senti?»
«A terra.» «È senz'altro al lobo frontale. Come ti chiami?» «Peter Brinkman.» Beatrice guardò Elizabeth. «È tutto tuo.» Lui lasciò ricadere la testa e si mise a studiare la ragazza come se la vedesse per la prima volta. «Elizabeth?» disse confusamente. «Sei tornata?» Lei accennò con la testa a Beatrice. «Tua moglie è venuta a prendermi.» «Beatrice?» Contorse il viso, incredulo. «È così, Peter,» confermò quella. «Peter,» ripeté lui. «A proposito, Peter chi?» gli domandò la moglie. «Peter Jance.» «E io, chi sono?» «La mia metà migliore?» domandò guardando Elizabeth per avere una conferma. «Hai maledettamente ragione, vecchia capra,» gli disse la moglie. «Quante sono queste dita?» E alzò una mano a dita aperte. «Quattro.» «Prova ancora.» «Quattro, più il pollice.» Le fece un sorriso scaltro e sbilenco. Lei lo sgridò. «Davvero molto divertente. Adesso piantala di spaventarci a morte.» «Io mi sono spaventato a morte,» rispose lui solenne raddrizzandosi e scuotendo la testa. Sembrava riacquistare velocemente lucidità. Si girò verso Elizabeth e le domandò se stava bene. Lei fece spallucce, ricacciando a fatica le lacrime. «Non l'hanno presa per un soffio,» spiegò Beatrice. «Davvero? Te l'ho detto che saresti stata meglio con noi, Elizabeth.» «Non hai mai detto "noi".» «Perché allora non lo sapevo... Così Beatrice ti ha salvato la vita?» «Ha i suoi buoni motivi, vero?» Lui fissò la moglie. «Te l'avevo detto che l'avresti trovata sospettosa.» «Ha i suoi buoni motivi.» Beatrice guardò Elizabeth: quella ragazza cominciava davvero a piacerle. «Puoi abbracciare Hans, ma tieni giù le mani da Peter.» «Grazie, ma passo.» «Come vuoi.» Il taxi affrontò lo svincolo della I-95. Elizabeth si rivolse a Beatrice,
chinandosi in avanti oltre Peter. «Cosa intendevi quando hai sottolineato che, certo, io non ero un dottore?» «Non avrei dovuto farlo.» «Infatti. Sei come quelle madri che sanno fare le torte e sono felici se le figlie non ne sono capaci.» «Non posso certo salvarmi la vita mettendomi a fare una torta,» rispose la donna a bassa voce. «Ma scommetto che tu saresti un ottimo medico.» «Mi è sfuggito qualcosa?» intervenne Peter. «Sst,» lo zittì la moglie. Le due donne rimasero a fissarsi finché non si sentirono un po' imbarazzate, poi tacquero tutti e tre. Mezz'ora dopo il taxi arrivava all'Aeroporto internazionale di Fort Lauderdale/Hollywood. Avevano fatto indossare a Peter una camicia nuova e l'avevano ripulito abbastanza da non attirare l'attenzione. Lui era ancora debole ma vigile. Dopo essersi disfatti del coltello da combattimento e della bomboletta di gas lacrimogeno acquistati a Coral Gables, tutti e tre presero senza intoppi il volo 406 della Delta Airlines per New York. In volo, da certi discorsi delle hostess capirono perché il loro imbarco fosse stato così facile. All'aeroporto internazionale di Miami avevano nel frattempo trovato un addetto alla sicurezza mezzo soffocato in una delle toilette degli uomini, chiaramente vittima di un attacco terroristico. Dunque, tutte le forze disponibili all'aeroporto di Fort Lauderdale erano state mandate là in aiuto. 18 VOLO DELTA 416 Il Boeing 767 era riempito solo a metà, così riuscirono a trovare tre sedili liberi dietro, lontano da altri passeggeri. Per i primi trenta minuti, Peter ebbe i nervi a fior di pelle: si aspettava che, da un momento all'altro, un assistente di volo gli appoggiasse la mano sulla spalla. «È sempre stato un po' nervoso,» spiegò Beatrice a Elizabeth in tono confidenziale. «Quando eravamo giovani e poveri, avevamo l'abitudine di scivolare di nascosto nell'atrio dei teatri durante l'intervallo per poi entrare in sala nel secondo tempo. Lui era sempre sicuro che, una volta o l'altra, saremmo finiti in galera.» «Sì, e una volta ci hanno sbattuti fuori,» aggiunse Elizabeth. Improvvi-
samente ricordava la mano della maschera appoggiata sul suo braccio. Beatrice sbatté le palpebre, stupita. «Solo una volta, ma era solo una maschera villana che voleva dimostrare il suo potere. È successo una volta su decine.» Non riuscì a continuare nel tono di una semplice chiacchierata. Il ricordo di Elizabeth l'aveva scossa. «Caro, perché non ti siedi vicino al finestrino? Noi due dobbiamo fare un discorso tra donne.» Ubbidiente, Peter si alzò scambiando il posto con la moglie. Beatrice si sedette di lato ragazza e si chinò verso di lei. «Quante ore dormi, di notte?» «È una curiosità medica?» «Diciamo così.» Elizabeth decise di accontentarla: almeno Beatrice la trattava come una persona speciale. Ne ammirava la calma, l'ironia e la flessibilità. Tra cinquanta anni io sarò così, non poté fare a meno di pensare. Se sopravviverò fino ad allora, si corresse subito. «Mai più di sei ore,» rispose. «Presto a letto, presto in piedi?» «Sì, tranne quando... Be', diciamo che questo è il mio ritmo naturale.» Elizabeth si rilassò un po'. Beatrice aveva un'espressione decisamente benevola, un modo di fare alla mano, come dice la gente di certi dottori. E lei era stata un medico, pensò la ragazza. «Oh, e quando mi alzo, so sempre l'ora, senza...» «... dover guardare l'orologio,» concluse l'altra a bassa voce. «Con uno scarto di soli cinque minuti.» Beatrice sorrise. «Anch'io. Affascinante. E ora parlami dei tuoi genitori.» Lo chiese in tono neutro, ma Elizabeth rabbrividì. Adesso era il medico, lo scienziato che parlava. «Mio padre è morto quando ero una ragazzina.» «E tu lo veneravi?» le chiese Beatrice all'improvviso. «Sì.» Elizabeth ebbe un tuffo al cuore. «Anche tu?» «Avevo proprio un debole per lui. Pensa, credevo che gli uomini fossero perfetti. Ma adesso sappiamo entrambe come stanno le cose, non ti pare?» Il sorriso di Beatrice divenne più tenero. Un sorriso materno, pensò la ragazza. «Dimmi, fai jogging?» le domandò Beatrice. «Non tanto, da quando mi sono distrutta il ginocchio nell'incidente.» «In ogni caso, non ti farebbe bene. Intorno ai cinquanta, comincerai ad avere un po' di artrosi.»
«Grazie dell'avvertimento.» «Bevi?» «Quel tanto che basta.» «Io ho scoperto che la tequila mi aiuta ad affrontare le lievi depressioni. Ti piace lavorare durante i weekend?» «No, se posso evitarlo.» «Bene. Ti ammiro. Il dolce far niente... Io non sono mai riuscita a conquistarlo. Ero troppo determinata, troppo irritabile. Anche tu?» «Solo quando riguarda gli uomini.» «In poche parole, siamo così,» concluse Beatrice con un sospiro. Elizabeth non poté fare a meno di ridere. Seppure per un suo delirio di onnipotenza, quella donna le aveva però dato la vita tramite il DNA, era dunque carne della sua carne, e adesso gliel'aveva salvata. E quell'uomo accanto al finestrino, che ogni tanto rivolgeva loro un'occhiata furtiva, era il marito e l'amante di tutte e due. Ma questo è niente, pensò: Beatrice infatti è, allo stesso tempo, mia madre e la mia gemella. «Se sopravviverò a questo...» sussurrò. «...scriverai un libro,» continuò la donna anticipando il suo pensiero. «Sì.» Beatrice le toccò una mano. «Non riesco a immaginare cosa ti aspetta, te lo giuro, ma so che ce la farai. Te lo prometto.» Ma come puoi promettermi qualcosa? pensò Elizabeth. «Noi faremo in modo che sia così. Io e Peter.» «Non è che state semplicemente tenendo aperte delle possibilità per voi due?» L'altra scosse decisamente la testa. «Ti giuro di no.» «Dovevo chiedertelo.» «Non devi credermi sulla parola. Io non sono un'estranea. Pensa a te stessa: sei forse una persona subdola?» «Ma io non ho ricevuto la tua istruzione,» fece l'altra con un debole sorriso. Beatrice rise. «Hai ragione. I peggiori criminali sono proprio quelli istruiti.» Poi si fece seria. I suoi occhi grigi fissarono gli occhi grigi della ragazza e sentì qualcosa scattare in profondità dentro di lei. Era come una chiave nella serratura, un modem che si collegava, un puzzle che ritrovava l'ultimo pezzo mancante. «Non voglio il tuo corpo per il mio cervello, Elizabeth. La sola idea mi sembra oscena.»
«Adesso lo pensi?» «Non insulterò la tua intelligenza accampando stupide scuse.» Elizabeth allontanò la mano, apparentemente per scostarsi i capelli dal viso ma soprattutto perché quella intimità la metteva a disagio. Quale destino avevano in serbo per lei, quei due? Cosa l'aspettava a New York? Si sentì assalire dalla paura ma, stranamente, questa volta non era paralizzante. Almeno adesso aveva qualcuno con cui parlare. «Quante persone prevede di clonare questo Wolfe?» «Quante gliene pare. Se riesce a ottenere quello che vuole,» intervenne Peter. «E chi sceglie i soggetti? Lui?» «Finché non diventa il capo assoluto, dovrà accettare anche i pareri degli altri. Elizabeth, pensa all'elenco degli ospiti della Casa Bianca degli ultimi anni.» «È proprio un'idea terrificante.» Beatrice annuì. «E poi, naturalmente, c'è la questione dei pezzi di ricambio.» «Ho letto qualcosa in proposito. Pensavo che fosse fantascienza... corpi conservati in magazzino apposta per te.» «Questa era fantascienza ieri, ma oggi è realtà la coltura di corpi clonati brevettati a cui sono state rimosse tutte le funzioni cerebrali superiori. Sono corpi che aspettano solo che uno abbia bisogno di un trapianto di rene, di polmone o di cuore.» «O possono essere usati come unità speciali di soldati killer,» aggiunse Peter, che si era ripreso completamente. «Soldati ottenuti mediante clonazione, da ovuli manipolati geneticamente in modo da avere un'estrema aggressività. E che ne dici di lavoratori-robot, api operaie felici di lavorare in cambio di salari da Terzo mondo? E poi, quando la tecnologia criogenica ci arriverà, si potranno congelare eroi di statura mondiale, tenerli al fresco per mezzo secolo, finché la storia non formulerà il suo giudizio su di loro... A quel punto, quelli che non avranno retto alla prova saranno scartati, mentre i migliori saranno clonati.» «E fino a poco tempo fa tutto questo vi sembrava un bene?» domandò Elizabeth. «Non sono mai stata tanto visionaria,» rispose Beatrice. «Ma Wolfe era così,» intervenne il marito. «Non si chiedeva mai: "dovremmo?", ma sempre e solo: "ci riusciremo?".» «Be',» intervenne la moglie, «il fatto è che, quando si è trattato di me e
di Peter, ho un po' receduto dai miei principi morali.» Lui annuì. «Questa è la parte veramente orribile: ciò che, nonostante i nostri dubbi, abbiamo comunque fatto.» Si alzò e andò alla toilette. La ragazza lo fissò preoccupata, poi si girò verso Beatrice. Ora che il marito si era allontanato, la donna aveva uno sguardo più preoccupato. «Dobbiamo fermare tutto questo, Elizabeth. E ci serve il tuo aiuto.» «Perché mai dovrei aiutarvi?» «Bella domanda,» rispose l'altra, ma non c'era sarcasmo nella sua voce. «Prima di tutto, se non fosse stato per la nostra protezione, adesso saresti in stato di coma controllato, in viaggio verso Vieques, pronta per il prelievo del cervello. Secondo, perché in realtà tu non vuoi lasciare Peter.» Elizabeth stava per protestare ma Beatrice la fermò. «Ti conosco e conosco i tuoi sentimenti: sono anche i miei.» «Senti,» rispose l'altra con gli occhi fiammeggianti, «il fatto che il nostro DNA sia identico non ti autorizza affatto a pensare di potermi leggere nel pensiero.» «Non occorre leggerti nel pensiero: non riesci a togliergli gli occhi di dosso.» Elizabeth non rispose. Forse non sapeva cosa dire. Beatrice annuì soddisfatta, come se la ragazza fosse un'allieva che aveva finalmente compreso una complessa equazione. «Senti, Alex non ti ha mai parlato di New York?» «No.» «Non ha mai accennato ad altri che potrebbero essere in pericolo?» «Siamo restati nella sua auto solo pochi minuti, prima dell'incidente. Ci stavano dando la caccia e ci sparavano addosso. La nostra conversazione era piuttosto limitata.» «E l'e-mail?» «Era solo un falso invito per un soggiorno gratuito in un albergo di Vieques. Non conteneva altre informazioni.» Alzò gli occhi: Peter le aveva di nuovo raggiunte. «E quando non ti sei presentata in albergo, ti ha mandato un'altra email?» «No.» «Ne sei proprio sicura? Hai controllato?» «No.» Peter indicò il corridoio. «Là, al 26B, c'è un tizio con un notebook. E accanto c'è un posto libero.»
Fissò le due donne. «Vale la pena di tentare,» disse Beatrice. Quando sei placcata da due avversari, non puoi proprio sfuggire, pensò Elizabeth. E poi, Peter aveva uno sguardo che la fece rimescolare tutta. «È tutto quello che ti chiediamo,» insistette Beatrice. «Quando arriveremo all'aeroporto La Guardia, sarai libera di andartene dove vuoi, anche se te lo sconsigliamo vivamente.» Alcuni conducono una vita normale, pensò la ragazza. Tuttavia, a causa della biologia molecolare, io non sono tra quelli. Si alzò e percorse il corridoio fino alla fila 26, dove un uomo con il viso roseo e il naso a patata giocava a Tetris su un computer portatile. Lo oltrepassò, poi tornò indietro. «È un Toshiba?» «Certo,» rispose quello, senza staccare gli occhi dallo schermo. «E funziona bene?» «È il migliore.» «Che tipo di modem ha?» «Cinquantasei baud.» L'uomo mise il gioco in pausa e alzò gli occhi. Squadrò Elizabeth: veramente carina. «Vuole provarlo? Si sieda qui.» Le tese la mano. «Darlington... Frank Darlington.» Lei gli strinse la mano e gli si sedette accanto. «Heidi Boone. È vero che con questi cosi si può controllare la posta elettronica attraverso il telefono dell'aereo?» «Oh sì, certo. È semplicissimo. Vuole controllare la sua posta?» «Oh, non vorrei approfittare, con quel che può costare il collegamento.» «No, è al costo di una telefonata urbana.» «Fino alla Svizzera?» «Ma certo.» «Impossibile.» «Invece no,» rispose lui estraendo un cavo. Ne infilò un'estremità nel notebook e l'altra nella presa telefonica nello schienale del sedile davanti, poi entrò in AOL e premette MAIL. Elizabeth gli diede il suo indirizzo, SwissMs presso International Access di CompuServe.com. Alla fine, l'uomo le passò il notebook. Mentre controllava i messaggi, a Elizabeth tremavano le mani. «Non aver paura, Heidi, non morde mica,» la rassicurò Darlington e, per lasciarle un po' di privacy, si mise a sfogliare una copia di Business Week. C'era una dozzina di messaggi per lei, tra cui tre dell'Helvetica Agency. Ma l'ultimo era di IslandMan.
Argomento: C8 Data: 24-3-99 Da:
[email protected] A: SwissMs@Int'lAccessCompuServe.com Rif: Phillip C. Kenner//10 West 65" Street App. 7E // New York, NY 10023 (212) 724-1386 data nascita 2 agosto 1966 DEVI AVVERTIRE QUESTO TIPO: LUI NON CONTROLLA I MESSAGGI DELLA SUA POSTA. BUONA FORTUNA, AD. PS: SE LEGGI QUESTO, SIGNIFICA CHE SONO DISPERSO IN MISSIONE, QUINDI, PECCATO CHE NON CI SIAMO TROVATI. SAREMMO ANDATI D'ACCORDO. SEI L'UNICA CON LE PALLE, LORO SONO SOLO DEI CERVELLONI SU DUE GAMBE. AFFANCULO NONNO WOLFE E VIVE LA REVOLUTION! PS2: CANCELLA QUESTO MESSAGGIO MA NON FARTI CANCELLARE. SE BEATRICE È CON TE, VUOL DIRE CHE STA BENE, SE NON C'È, NON STA BENE. PETE JR. È PIÙ DEBOLE DI BETTY CROCKER, CREDE A TUTTO. NON CERCARE DI VOLARE IN SOLITARIO, FINIRAI IN UNA SCATOLA DA SCARPE. COSÌ SPUTÒ ZARATHUSTRA. Rilesse il messaggio due volte per imprimerselo bene nella mente, poi lo cancellò dallo schermo e da RECEIVED MAIL. «Grazie, è stato veramente gentile.» E si riavviò al suo posto. Visibilmente deluso, Darlington tornò al suo gioco. Peter e Beatrice l'ascoltarono con estrema attenzione; lei diede loro l'indirizzo di Phillip Kenner ma omise i post scripta di Alex. «Così Alex è vivo, grazie al cielo!» «E noi stiamo andando ad avvertire Kenner?» domandò Elizabeth. Al "noi", i due coniugi si scambiarono uno sguardo di intesa. «Dovremo fare molto di più. Se Wolfe sospetta che vogliamo avvertire il clone, gli piomberà subito addosso,» rispose Peter. «E allora che facciamo?» «Diremo tutto ai media,» affermò Peter.
«E come? Loro negheranno sicuramente» lo incalzò la ragazza. «No, se avremo con noi il clone,» rispose Beatrice. Elizabeth spalancò gli occhi. «Se sarà necessario, lo porteremo da Mike Wallace. Appena lo vediamo, sapremo di chi è il clone, e li sfideremo a sottoporsi al confronto del DNA,» disse il marito. «Ma Wolfe sosterrà che il clone è il gemello identico di quell'individuo,» replicò Elizabeth, «nato per esempio da un embrione congelato.» Poi si interruppe, sempre più interessata. «No, aspetta, non può farlo. Quando infatti il clone è nato, non esisteva ancora una tecnologia di criogenica così avanzata, vero?» «Intelligente la ragazza,» commentò lui con un cenno di assenso alla moglie. «Non avere quell'aria di condiscendenza con me,» replicò Elizabeth seccata. Beatrice alzò gli occhi al cielo. «Auguri, è una vita che cerco di farlo smettere.» «Torniamo alle cose serie,» riprese la ragazza. «E se Kenner non ci crede?» «Allora faremo meglio a imbarcarci su una navetta spaziale. Sulla Terra non ci sarebbe più un posto sicuro per noi... Ehi!» L'aereo precipitò in un vuoto d'aria. Peter allungò la mano verso quella della moglie, mentre Beatrice afferrava la mano di Elizabeth. Si tennero stretti tutti e tre. Risuonarono gli allarmi, e gli assistenti di volo percorrevano il corridoio raddrizzando schienali e controllando che tutti avessero le cinture allacciate. «Ho dimenticato di domandarti delle tue paure,» fece la donna alla ragazza. «Paura dei ragni sì, paura di volare no.» «Affascinante: allora ci sono delle differenze tra noi!» «Forse la natura non ama ripetersi.» «Proprio così,» annuì Beatrice convinta, stringendo forte la mano di Elizabeth. «Grazie al cielo.» New York Superarono abbastanza velocemente i controlli dell'aeroporto La Guardia, ma arrivare a Manhattan fu tutt'altra faccenda. Non solo era l'ora di punta, ma il Presidente si stava recando a una raccolta di fondi al St. Regis.
Così, con metà della città chiusa e la Long Island Expressway trasformata in un enorme ingorgo, il taxi impiegò due ore per arrivare nell'Upper West Side. Durante il viaggio si fermarono in un negozio di articoli sportivi a Queens per comperare un altro coltello a serramanico e una bomboletta di gas lacrimogeno, che un commesso riluttante vendette loro per una banconota da cinquanta, avvertendoli che era illegale. Poi percorsero l'Ottava e girarono intorno a Columbus Circle fino a Central Park West, fermandosi all'altezza della Sessantacinquesima, dal lato del parco. Stavano per attraversare la strada, quando Peter spinse in fretta le due donne dietro un furgone parcheggiato. «Accidenti!» Più o meno all'altezza del numero dieci della Sessantacinquesima, due uomini erano sbucati all'improvviso da un edificio infilandosi in una lucente Town Car nera. «Wolfe?» chiese Elizabeth. Il veicolo si diresse verso Columbus Circle acquistando rapidamente velocità. «Insieme a Henderson,» concluse Beatrice. «Henderson?» chiese la ragazza. «La mente e i soldi. Dannazione!» aggiunse Peter. «Stai calmo,» gli raccomandò la moglie, cercando di indovinare la frequenza del suo polso. «Forse Kenner non era in casa,» suggerì Elizabeth. «Speriamo. Peter, non è che ti sta venendo un altro attacco?» chiese Beatrice. «No, sono solo un po' preoccupato.» «Cerca di restare calmo,» gli disse lei. Uscirono dal nascondiglio e attraversarono Central Park West. Peter procedeva alle loro spalle per proteggere le due donne. Sull'aereo non aveva potuto fare a meno di osservarle. Tra di loto si era formato un legame speciale; per loro, lui era una specie di figlio imprevedibile a cui era necessario badare. E le due donne sembravano ben disposte ad assumersi quel compito. Tra sé ne sorrise, ma, a mano a mano che si avvicinavano all'edificio, la sua espressione si fece seria. Era arrivato il momento della verità. Il numero dieci, benissimo. L'edificio, privo di custode, aveva un tendone a brandelli che si proiettava sul marciapiede. Era una piccola isola di squallore in un mare di prosperità. La porta interna era chiusa e il vetro tutto sporco, ma Peter riuscì a intravedere il corridoio del pianterreno. Non c'erano segni di vita: solo un ombrello vicino alle scale, alcune impronte di
scarpe infangate e quella che sembrava una piuma di piccione. Controllò il pannello dei citofoni: era tutto pieno di graffiti e il nome Kenner non c'era. Premette il pulsante del 7E. Nessuna risposta. «Facciamo così,» disse Elizabeth impaziente iniziando a premere altri pulsanti. Continuò finché non le rispose una voce. Allora disse: «Exterminator.» «Era ora,» gracchiò la voce. Un istante dopo, la porta si aprì. Nell'ascensore, la ragazza premette il pulsante del settimo piano. «Oh oh!» esclamò. «Cosa c'è?» le domandò Peter. Poi vide che Elizabeth aveva la punta del dito macchiata di rosso. «Forse non è sangue.» «Be', io direi che ne ha proprio l'aspetto.» L'uomo si palpò le tasche per controllare la sagoma dura del coltello a serramanico nella tasca destra e della bomboletta di gas lacrimogeno nella sinistra. Quando la porta dell'ascensore si aprì, fece cenno alle donne di aspettare e andò a controllare l'uscita di sicurezza e la tromba delle scale. Niente, a parte un odore stantio di cucina e un'eco lontana di passi nella densa aria grigia; forse qualcuno correva giù per le scale di ferro. Peter percorse il corridoio, aspettandosi di scorgere a ogni passo una scia di sangue sulla moquette consunta. Ma non c'era nulla. Svoltò l'angolo e, due porte prima della fine del corridoio, si trovò davanti all'appartamento 7E. La porta era socchiusa. Dietro di lui, le due donne si avvicinarono rapidamente. Cercò di allontanarle con un gesto ma non ubbidirono, quindi accennò in silenzio alla porta semiaperta. La raggiunse e la spalancò con il piede. Era l'appartamento di uno studioso: scaffali di libri coprivano tutte le pareti. Silenzio di tomba. Peter entrò, Beatrice ed Elizabeth lo seguirono a breve distanza. Istintivamente, l'uomo rivolse un'occhiata agli scaffali. C'erano soprattutto testi di matematica, fisica e medicina. Andò in camera da letto, controllando anche sotto il letto e nell'unico armadio: nessuno. Lo stesso nel minuscolo bagno. Quanto alla cucina, era così piccola che non ci si poteva nascondere nemmeno uno scoiattolo. Tornò indietro e raggiunse le donne in soggiorno. Sulla scrivania c'era un computer acceso. Sullo schermo scorrevano le immagini di un cartone
di DOGZ. Peter mosse il mouse e lo screensaver scomparve rivelando una schermata di Microsoft Word e la pagina 36 di uno studio: Teoria delle interazioni deboli... Peter ne scorse diverse pagine. Lesse abbastanza per capire che era un buon lavoro, una guida agli strumenti matematici necessari per comprendere la teoria unificata dei campi, completa di esercizi per gli studenti. «Peter?» chiese la moglie. «Ci è sfuggito, vero?» domandò Elizabeth. «Nessun segno di lotta. Forse non l'hanno trovato, come noi, e se ne sono andati perché qualcuno li ha spaventati, chi lo sa?» «A giudicare dai libri è un professore,» osservò la ragazza. «E anche piuttosto bravo,» concordò lui. «Peter...» Era Beatrice. Stava uscendo dalla camera da letto con una fotografia incorniciata in mano. Gliela diede; appariva piuttosto scossa. Il marito vi vide un giovane togato in mezzo ai genitori orgogliosi. Aveva un'ampia fronte lucida, labbra piene con gli angoli rivolti in giù e scintillanti occhi scuri. «Ti sembra che assomigli a qualcuno di nostra conoscenza?» gli chiese lei. «Oh Gesù!» Era sin troppo facile scambiare quel ragazzo per il figlio di Frederick Wolfe. «Stava aspettando,» aggiunse la moglie. «Cosa?» esclamò Peter, che poi comprese. «Ha aspettato di essere sicuro dell'esperimento. Ne erano già morti sei e, a quel punto, la scelta era tra te e lui.» «Allora io ero solo la cavia successiva?!» «Proprio così. Quando sei sopravvissuto, per lui è arrivato il momento di fare la sua mossa. Prima lui...» «... e poi tu,» concluse Peter rivolgendo uno sguardo a Beatrice e poi a Elizabeth. Le due donne erano pallidissime. «Qui il tizio sembra giovane, avrà più o meno diciannove anni,» proseguì Peter. «Più giovane del padre Freddy quando l'abbiamo conosciuto noi.» «Ci serve un'immagine più recente,» concluse lui rendendole la foto. Tornò in camera da letto. Anche lì c'erano libri e libri che si riversavano dagli scaffali e dai cartoni. Polverose tende gialle, unico tocco femminile di tutto l'appartamento, tenevano fuori il sole. Beatrice entrò nella stanza dietro di lui; sembrava
nervosa. «Peter, dobbiamo proprio andarcene.» «Solo un minuto.» L'uomo si mise a frugare nei cassetti, in mezzo a mutande lise e calze scure scompagnate. Poi sentì qualcosa scricchiolare sotto il piede. Si chinò: era una cornice rotta. Tra il legno scheggiato e il vetro rotto c'era una foto. «Questa gli assomiglia di più.» Era Kenner intorno ai trent'anni, in piedi, mentre cingeva con il braccio le spalle di una ragazza paffuta con riccioli neri a cavaturaccioli. Lei lo baciava sulla guancia. «Peter, come si sarà rotta questa cornice?» «Bella domanda.» Beatrice uscì dalla stanza. Lui aprì il primo cassetto del cassettone. C'erano gli effetti personali di Kenner: un portafogli, circa venti dollari in contanti, una vecchia calcolatrice tascabile, un cubo di Rubik e una raccolta di poesie di Yeats. «Peter,» lo chiamò la moglie dal soggiorno, «noi andiamo. È pericoloso restare a gironzolare qui in casa. Vieni.» «Arrivo.» C'erano anche una copia tutta sciupata del Castello di Kafka e un CD della Sinfonia degli addii di Haydn. Questo tipo mi piace, pensò Peter. Poi gli venne in mente che, probabilmente, avrebbe potuto amare anche Hans. Eppure gli aveva rubato la vita e il corpo. E per cosa? Per surriscaldare i liquidi corporei a livello cellulare e far esplodere i suoi simili? Davvero fantastico. Anche se non era più un mostro del genere, lui lo era stato, quindi non poteva permettersi di formulare giudizi morali su Freddy. In un nuovo rigurgito di senso di colpa, frugò nel portafogli di Kenner: un'altra ragazza, non quella della foto nella cornice; una tessera dell'Unione americana per le libertà civili; una tessera dell'Associazione americana automobilisti da cui risultava che ne era stato membro per tredici anni; un tesserino della New York University. Tutta una vita. Kenner, come Hans, stava iniziando a ottenere i primi successi e a subire le prime sconfitte, presumendo (a torto) che la sua vita fosse solo sua. Peter rimise tutto a posto e richiuse di colpo il cassetto. Cristo, se solo avesse potuto davvero rimettere tutto a posto! «Gesù, B.» sospirò sentendola entrare. Ma quando si voltò, si trovò di fronte la sagoma di un uomo che brandiva un enorme coltello. «Salve, dottor Jance!» L'ombra entrò nella zona di luce: era il militare della Casa del Francés. «Allora me lo da il suo coltello tascabile, dottore?» Peter rimase paralizzato. Fissò la lunga lama nelle mani di Russell, te-
mendo di vederla macchiata di sangue. Ma la lama luccicava come uno specchio e lui ringraziò Dio per avere risparmiato le due donne. «Allora, dottore?» «No,» rispose lui arretrando verso la soglia. «Se ne pentirà,» rispose l'altro avanzando minaccioso. Peter sentiva la testa girargli, in preda a un terrore indefinibile. Invece di afferrare il coltello a serramanico nella tasca destra, prese la bomboletta di gas lacrimogeno nella sinistra. Quando Russell si scagliò su di lui, gli spruzzò il gas negli occhi. Il militare arretrò barcollando, poi cominciò a menare colpi alla cieca imprecando, sibilando e facendo cadere tutto quello che incontrava sul suo cammino. Peter sentì le donne arrivare di corsa dall'anticamera urlando il suo nome, mentre il tenente rovinava addosso a una sedia e poi cadeva sbattendo la faccia sul pavimento. Gli saltò sul polso con entrambi i piedi e sentì le ossa spezzarsi, poi diede un calcio al coltello. Il coltello roteò lontano. Peter si precipitò a recuperarlo, cercando però di non far rumore come per evitare di eccitare la furia cieca del sofferente Russell. «Presto, andiamo!» incitò le donne. Gettò il coltello in soggiorno verso le donne, in modo che anch'esse avessero un'arma, poi chiuse la porta della camera da letto. Si girò appena in tempo per affrontare la violentissima carica di Russell. Muovendosi con gesti automatici come Hans Brinkman, Peter schivò il militare, gli sferrò un pugno nel plesso solare, si piegò di lato per evitare una seconda carica e infine l'inchiodò con un destro che lo mise al tappeto. Rimase in piedi a osservare l'avversario a terra, come se aspettasse che l'arbitro contasse i secondi. A quel punto si rese conto che Hans aveva sempre combattuto secondo regole sportive. La testa gli girava e sentiva il sangue caldo gocciolargli dall'orecchio sul collo. Arretrò barcollando. Perdeva sangue dal naso. Poi vide tutto rosso. Da qualche parte, nel cervello, aveva un'emorragia. Cercò di tenersi in piedi vedendo Russell che si agitava ansimando come una bestia ferita. Il militare frugò nell'orlo dei pantaloni con la sinistra ed estrasse una semiautomatica. L'istinto consigliò a Peter di sferrargli un calcio violento, non importava dove. Ma un'onda buia gli passò sugli occhi impedendogli di muoversi. Sentì un forte clangore e pensò che fosse il gong del diavolo che lo condannava all'inferno. Invece, quando cercò a fatica di aprire le palpebre, si ritrovò a terra ma ancora in camera da letto. Russell giaceva a sua volta immobile sul pavimento come un toro abbattuto mentre Beatrice, ansiman-
te e sbalordita, incombeva su di lui con una padella di ferro in mano. «La pistola,» gemette Peter. Beatrice raccolse con cautela la semiautomatica. «Questa dalla a me. Tu occupati di lui!» le gridò Elizabeth afferrando la pistola. «Hans mi portava al poligono di tiro. So sparare bene.» Si assicurò che ci fosse un proiettile in canna, tolse la sicura e puntò l'arma contro la testa sanguinante di Russell. Beatrice gettò via la padella e si inginocchiò vicino al marito, scrutandolo negli occhi. «Sto bene. L'emorragia si è fermata. È stato lo sforzo,» cercò di rassicurarla lui, sorpreso della sua grande calma. Rivolse un'occhiata all'altro, che giaceva a faccia in giù sulla soglia. «È morto?» «No, vedo la carotide pulsare.» «Pensi di riuscire a fargli riprendere i sensi?» «Perché?» «Probabilmente è venuto con Wolfe, quindi sa con che mezzo Freddy tornerà a Vieques. Frederick ha portato via Kenner, non c'è dubbio.» «Sul Lear?» domandò Beatrice. «Forse. Da quale aeroporto decolleranno?» «Non ne ho la minima idea... Peter, stai calmo.» Lui l'allontanò con un gesto e cercò di alzarsi ma ricadde. «Riposati, Peter. Lascia fare a noi ragazze,» gli sussurrò la moglie sfiorandogli il volto con una carezza. Con le tempie che gli martellavano, osservò le due donne trascinare Russell fino al bagno. «Non ti preoccupare se senti un po' di confusione,» gli disse Beatrice chiudendo la porta dietro di sé. Peter sentì il rumore della porta che si richiudeva e poi lo scorrere dell'acqua. Stanno facendo rinvenire il ragazzo, pensò, cercando nuovamente di mettersi in piedi. Ma riuscì solo a ricadere in una posizione ancora più scomoda. Sentì i deboli grugniti dell'uomo che riprendeva i sensi e voci femminili arrabbiate. Poi un breve silenzio e una serie di bestemmie di Russell. Quindi, un grido di dolore, seguito da un'ondata di implorazioni. Poi, ancora silenzio. Infine la porta del bagno si aprì. Il militare era in piedi e stava tirandosi su le mutande con mani tremanti. Elizabeth gli puntava la pistola alla testa mentre Beatrice chiudeva un rasoio da barbiere e lo appoggiava sul bordo del lavandino. «Dov'è l'aereo?» domandò Peter.
«All'aeroporto La Guardia. Hangar 17, settore Aviazione generale.» «Tipo?» «È un C-20, a due turboreattori, di colore grigio. Codice di registrazione NX-12 sullo stabilizzatore verticale. Nessun altro contrassegno.» «Grazie, è una descrizione dettagliata.» «Affanculo!» gli rispose quello a testa bassa. Peter iniziò ad alzarsi, quando un tremendo colpo alla vita lo fece ricadere a terra scompostamente. Quasi nello stesso istante, sentì un netto crac e Russell gli finì lungo disteso addosso. Cercò di spostarsi ma era senza forze, inchiodato sotto l'altro uomo. Per fortuna, quello non si muoveva. Elizabeth fece alcuni passi avanti, infilò la pistola fumante nell'orecchio del militare e lo spinse da parte. Russell rotolò sul pavimento, lontano da Peter. Sotto la sua testa si allargava una pozza di sangue. Sulla fronte aveva un foro frastagliato, e brandelli della sua materia cerebrale si erano spiaccicati sulla manica di Peter. «Gesù!» esclamò questi stancamente. Mentre gli tornavano le forze, perdeva qualsiasi stupore. Elizabeth fissava la pistola come se le si fosse materializzata in mano in quel momento. «Ora puoi darla a me,» le disse Peter. Lei gliela consegnò, osservando il disastro intorno a sé. «Di certo qualcuno avrà sentito tutto questo casino,» disse con tono incolore. «Siamo a New York, la gente ci è abituata,» le spiegò Beatrice. «Proprio così,» confermò Peter. Quando lasciarono l'appartamento di Kenner - Peter con una camicia pulita e la pistola di Russell in tasca - neanche un'anima aveva bussato alla porta per chiedere cosa diavolo stesse succedendo. E nessuno si era affacciato sul corridoio. Era vero, questa era New York. Chiusero la porta dietro di sé, si diedero una sistemata ai vestiti e scesero a cercare un taxi. Questa volta non fu necessario convincere Elizabeth a seguirli. Tra Manhattan e l'aeroporto La Guardia, nella lucente Town Car nera si verificò un incidente. Il clone numero nove, il trentatreenne professore di fisica Phillip C. Kenner, fece un disperato tentativo di sfuggire ai rapitori. Era convinto che lo volessero uccidere perché doveva oltre ventimila dollari al suo bookmaker e non poteva renderglieli. L'avevano già minacciato: la mafia non prendeva affatto alla leggera questo genere di cose. Tra l'ex moglie che gli succhiava fino all'ultimo centesimo e il denaro perduto in-
vestendo in azioni del petrolio siberiano, Kenner era rimasto completamente al verde. A complicare le cose, non era riuscito a ottenere il posto di ruolo all'università e Stacey, una precoce studentessa del secondo anno, lo minacciava di andare dal rettore se non l'avesse sposata dando un nome al bambino che portava in grembo. Aveva ben poco da perdere. Inoltre, uno solo dei suoi rapitori sembrava in grado di difendersi e lui l'aveva colpito duro alla pancia, prima che capisse cosa gli stava accadendo. L'altro, che doveva essere il più anziano mafioso sulla piazza, aveva espresso chiaramente la sua riluttanza a lottare coprendosi con le braccia il viso pieno di macchie brune e pallido come un cencio. Kenner schizzò fuori dall'auto a metà del ponte della Cinquantanovesima. Sicuramente avrebbe potuto scegliere un posto migliore ma, in realtà, non aveva molta scelta. Cominciò a correre e, per un istante, pensò di essere libero. Dal 1982 correva ogni anno la maratona di New York, piazzandosi in genere tra i primi cinquecento. Rallentò e assunse un'andatura più sciolta, senza accorgersi che l'autista della Town Car l'aveva seguito e ora si gettava su di lui afferrandolo con un placcaggio al volo. Dopo un istante, arrivò come una furia Henderson, ancora paonazzo per il colpo ricevuto. Strappò Kenner dalle mani dell'autista e gli sferrò un calcio ai testicoli trascinandolo poi fino alla spalletta del ponte. «Vuoi scappare di prigione?» gridò al terrorizzato professore. «Vediamo come sei bravo a spiccare il volo!» Spinse l'uomo singhiozzante in bilico sul ponte, ma a quel punto arrivò correndo il vecchio, rosso in faccia e ansimante. «Henderson, ma che cavolo fa?! È me che sta pestando!» Il colonnello spostò lo sguardo da Wolfe al suo sosia giovane. «Mi ha tirato un fottutissimo colpo!» «Allora prenda a pugni quella trave! Qualsiasi cosa fa a lui, io ne porterò il segno per il resto della vita!» Henderson scaraventò Kenner sul marciapiede. Il traffico sul ponte si era fermato. Wolfe e Henderson guardarono indietro, verso Manhattan, e videro un mare di babbei che allungavano il collo per assistere allo spettacolo. «Lo riporti nell'auto,» ordinò Wolfe. Il colonnello spinse Kenner verso l'autista. «Ficcalo in quella maledetta auto,» fece eco allo scienziato. L'uomo ubbidì, quindi riportò la Town Car nel flusso del traffico. Ken-
ner sedette docile e perplesso tra il vecchio e il gangster. Il contatto con la morte doveva avergli sconvolto la mente perché, macchie brune o no, adesso il più vecchio mafioso del mondo gli sembrava, stranamente e spaventosamente, perfettamente identico a lui. Mezz'ora dopo, nell'hangar 17 dell'aeroporto La Guardia, Henderson scortò quel maledetto clone, il dottor Frederick Wolfe e il personale medico di Vieques al C-20 pronto in attesa del decollo. Il colonnello sarebbe salito anche lui sul C-20 o avrebbe raggiunto gli altri successivamente, con il Lear. Dipendeva da quanto ci metteva Russell a raggiungerli. Henderson aspettò che il personale medico riducesse Kenner allo stato semicomatoso, poi rivolse un brusco cenno di saluto a Wolfe e chiuse il portello dell'aereo. In realtà, era ben felice di non dover viaggiare con lo scienziato. Quel vecchio stronzo arrogante di Wolfe stava già entrando nel suo solito stato di esaltazione preoperatoria, e Henderson era ben felice di risparmiarselo. Mentre il colonnello si allontanava dal C-20, il secondo pilota del Lear gli si avvicinò e gli diede un colpetto sulla spalla. «Mi scusi, signore. Temo che il nostro pilota, il capitano Culpepper, sia stato colpito da una grave diarrea.» «Dov'è?» domandò Henderson. Ancora una seccatura: ne aveva le tasche piene! «È nella saletta dei piloti e desidera solo morire. Penso che gli abbia fatto male qualcosa che ha mangiato a Bogotà. Non può assolutamente pilotare, stasera.» «Stai scherzando?» «Nossignore. Ma c'è una via d'uscita. L'aereo praticamente vola da solo: lo piloterò io. Volevo solo informarla.» Henderson lo squadrò: quel tipo aveva scritto in faccia che veniva da un'università di campagna. «Come ti chiami, figliolo?» «Secondo ufficiale David Anspaugh, signore.» «Bene, secondo ufficiale David Anspaugh, farai meglio a riportarci a Vieques senza nemmeno un graffio perché, altrimenti, ti faccio uscire il culo dalla testa, chiaro?» Il ragazzo si fece pallidissimo, ma sulle guance si disegnarono due macchie rosso fuoco. «Perfettamente, signore.» «Ottimo,» fece il colonnello fissandolo finché il ragazzo non abbassò gli occhi, poi si voltò affrettandosi a tornare all'aereo. Estraendo una Camel
dal pacchetto, Henderson guardò il C-20 di Wolfe allontanarsi. Avrebbe aspettato Russell ancora dieci minuti, poi era chiaro che qualcosa era andato storto. In tal caso avrebbe dovuto tornare sul luogo del rapimento per controllare cos'era successo. I militari non si lasciano mai indietro i loro caduti e non l'avrebbe fatto neanche lui. Inoltre, quel tenente aveva già subito due attacchi e, dopo una serie di fallimenti, gli uomini tendono a diventare troppo loquaci. In questo caso, doveva abbatterlo prima che andasse al National Enquirer a vuotare il sacco per qualche migliaio di dollari. Il colonnello si avvicinò al Lear. Era meglio informare quel pivello nervosetto che non sarebbero decollati subito, altrimenti era capace di tenere accesi i motori dell'aereo per un'ora surriscaldandoli. Lui doveva solo ripulire l'appartamento e tornare... un'ora e mezza al massimo, anche tenendo conto del traffico. Ma cosa tratteneva Russell? Provò con il walkie-talkie: scariche elettrostatiche. Chiamò con il cellulare: nessuna risposta. Cominciava a preoccuparsi. Salì sul Lear e trovò Anspaugh seduto al posto del comandante con l'espressione pietrificata di un civile al suo primo volo in solitario. «Sei sicuro di essere in grado di pilotare questo affare?» «Sissignore!» Si avvicinò. Il giovane aveva la faccia verdastra. «Ti giuro: a me non ne sembri affatto capace. Hai anche tu la diarrea?» «Nossignore.» «E allora cosa c'è che non va?» Il giovane fece un lieve cenno con la testa verso destra. Henderson si girò e si trovò puntata in faccia la canna della Beretta calibro 9 di ordinanza di Russell. Cristo! Jance! «Lo sa che non ho nulla da perdere, vero? Prego, colonnello, si sieda.» «Va a farti fottere.» Fulmineo, Peter lo colpì con un sinistro dritto alla mascella. Con un grugnito di sorpresa, il colonnello cadde sul pavimento. L'altro estrasse il coltello a serramanico, tagliò un paio di cinture di sicurezza e gli legò le mani dietro la schiena. Lo issò su uno dei sedili di pelle fissandolo con la cintura di sicurezza del sedile. Appena finito, fece un fischio. Dalla toilette emersero Beatrice ed Elizabeth. «Tieni d'occhio il nostro amico,» disse Peter passando la Beretta a Elizabeth. Poi andò in cabina e si mise in piedi dietro il secondo pilota. «Andiamo. Niente trasmissioni in codice. Se fai capire in qualsiasi modo
che a bordo c'è qualcosa di strano,» disse imitando come meglio poteva Clint Eastwood, «ti taglio la testa e te la metto in braccio.» Rivolse un'occhiata alle due donne: entrambe erano trasalite vedendolo atteggiarsi a quel modo da duro. «La prego, non lo faccia.» «Segui il piano di volo e portaci a Vieques.» «Nessun problema.» «Meglio così.» 19 JET LEAR 94838 Il Lear sfrecciava lungo la costa orientale degli Stati Uniti superando Atlantic City, Filadelfia, Cape May, Chesapeake Bay. Peter sorvegliava attentamente Anspaugh, cercando di prevedere le mosse del ragazzo nella cabina di pilotaggio. Da un punto di vista razionale, il jet era troppo complesso per le competenze di Peter in materia, eppure lui sentiva fisicamente quando l'aereo richiedeva una regolazione dell'assetto o un aggiustamento della manetta di accelerazione: ragionava come Peter ma guidava con l'istinto, come i veri piloti. Come avrebbe fatto Hans, pensò. Ho addirittura cominciato a parlare come lui, aggiunse tra sé sarcastico. Benissimo: qualsiasi cosa significhi, mi sono preso il suo corpo per motivi sbagliati, e adesso lo sto usando per buoni motivi. Comunque, ora non è più possibile tornare indietro... Non dimenticare però quelli che stanno rischiando il culo insieme a te. Si girò a guardare Beatrice ed Elizabeth. La loro presenza gli dava forza ma lo riempiva anche di rimorso. Volevi che fossero qui e avevi bisogno di loro, ma se ti venisse un'altra emorragia? Ce la farebbero a cavarsela da sole? E lo vorrebbero? Beatrice condivideva i suoi rimorsi per la situazione assurda che si era creata... ma Elizabeth? Cosa mai aveva fatto per meritarsi questo? Niente. E, nonostante tutto, era là, quella giovane donna bella, coraggiosa e decisa. Dio mi aiuti, le amo tutte e due, pensò. Si raddrizzò sul sedile e si mise a scrutare fuori. Stavano sorvolando Norfolk: tenne gli occhi ben aperti alla ricerca di eventuali velivoli decollati dalla locale base militare. Nel cielo non erano comparse presenze minacciose, ma sapeva che un F-14 poteva spuntare in un baleno e abbatterli
prima ancora che se ne accorgessero. Beatrice si materializzò al suo fianco con una tazza di caffè. «Dove l'hai trovato?» «C'è un grosso thermos, dietro. Abbiamo tutti i comfort, come a casa.» «Come sta Elizabeth?» «Sta bene.» «È preoccupata?» «Sì, ha moltissimi dubbi, ne sono sicura. E tu, come stai?» «Oh, mi sento piuttosto intontito. Mi è venuto in mente che sono tre giorni che non dormo.» Bevve una sorsata di caffè e diede un colpetto con il piede al pilota. «Ne vuoi un po'?» «Sì, grazie.» Dal decollo, era la prima volta che Anspaugh parlava. «Prometti che non cercherai di buttarmi addosso il caffè bollente?» «Nossignore.» Peter osservò per un istante il pilota chiedendosi cosa pensasse. Chissà se aveva un'opinione sulle responsabilità del governo. «Sai cosa fanno quelli, giù a Vieques?» «Nossignore, e non credo che mi piacerebbe saperlo.» «Be', non fanno niente di buono e nessuno lo sa meglio di me... perché lo facevo anch'io. Pensavo che fosse un lavoro da Dio. E, una volta che sei convinto di questo, ti senti autorizzato a fare qualsiasi cosa. B., per favore, puoi portare al signore un po' di caffè?» «Certo, se la pianti di scocciarlo.» «La sto scocciando?» «Nossignore.» «Questo è un mondo pericoloso, ragazzo mio.» «Sissignore, certamente.» «Di solito, la gente che parla così lo vuole rendere ancora più pericoloso. Almeno, per quanto ne so io. Il caffè,» aggiunse poi, rivolto alla moglie che cominciava a scambiare occhiate perplesse con Elizabeth, seduta di fronte allo svenuto Henderson oltre la porta della cabina. Quando Beatrice tornò, Peter cambiò di nuovo argomento; sentiva delle ombre passargli rapide nella mente. Concentrati, pensò, fa' un po' di conti. Non erano tanto lontani dal C-20, quindi avevano buone possibilità di arrivare a Vieques prima che l'intervento privasse Kenner del cervello. Lui era decisissimo, non solo a salvare il professore, ma a impedire a Wolfe di vivere altri cinquanta anni. Se avesse avuto tutto quel tempo per proseguire le sue pericolose attività, avrebbe certamente trovato un modo per assicu-
rarsi l'immortalità. Ma come sarebbero andati dall'aeroporto alla base, e come ci sarebbero poi penetrati? Wolfe aveva di certo allertato le truppe, soprattutto dopo aver scoperto che Russell e Henderson mancavano all'appello. Quindi, tutto il complesso sarebbe stato nel massimo allarme. Anche disponendo di qualche alleato all'interno, sarebbe stato impossibile andare oltre il cancello. E il suo unico alleato, Alex Davies, era nascosto non si sapeva dove. «Anspaugh, puoi collegare questo coso con una linea telefonica, vero?» «Questo velivolo dispone di un telefono, sissignore.» «Ma può essere sotto controllo.» «Nossignore. È un telefono sicuro.» «Stai cercando di prendermi in giro?» «Nossignore!» Naturalmente non era così. Peter si chinò verso il ragazzo. «Se continui su questo tono, ti taglio i pollici e gli alluci, così per il resto della tua vita ti trascinerai in giro come un orangutan ubriaco.» «Non cercherei mai di imbrogliarla, signore,» rispose l'altro, sincero. «Ma si può anche telefonare usando la radio di bordo, no?» «Sissignore. Basta chiamare l'UNICOM e chiedere una linea di terra. È un servizio civile. Lo si fa di continuo e non controllano le telefonate.» «Be', allora fallo. Collegati e chiama il New York Times.» «Chiamerò il 411, signore,» rispose quello collegandosi con la radio. Nel giro di qualche minuto, Peter chiamò il New York Times, il Boston Globe, il Washington Post e il Wall Street Journal. A seconda del giornale, appesero immediatamente, gli risero in faccia o, al massimo, dimostrarono un'educata curiosità. Questo, finché il Post non rintracciò il suo nome nel computer, scoprendo che risultava morto da due mesi. Poi, nell'ultima chiamata, si sentì solo una serie di misteriosi scricchiolii e sfrigolii sulla linea, e lui appese. «Qualcuno era in ascolto. Li hai avvertiti tu?» «Nossignore, glielo giuro.» Peter rimase in attesa di qualcosa, un fulmine dal cielo o una voce dalla radio, ma non successe niente. Dopo un po' si calmò e chiese a Beatrice di portare al pilota il caffè promesso. Per quanto fosse già molto agitato, ne bevve anche lui un'altra tazza. Strano, quel caffè sembrò calmarlo. Riprese a guardare fuori dal finestrino, come un turista al suo primo volo nei Caraibi. A Capo Hatteras, la costa mutò direzione, arretrando verso sudovest. Il Lear puntò verso il mare aperto, mantenendosi un po' più basso
dei velivoli civili. Il panorama gli mozzava il fiato. Goditelo finché puoi, pensò... perché forse presto dovrai lasciare questo grande pianeta azzurro. Quando l'aereo superò il margine della placca continentale, i suoi occhi di scienziato notarono la sottile differenza della superficie dell'oceano: l'acqua aveva un colore azzurro più cupo mentre il fondale sprofondava verso gli abissi. Stavano sorvolando la dorsale Blake, un massiccio sottomarino che, come lui ben sapeva, era alto come le Montagne Rocciose. Era piacevole conoscere tutte quelle cose. Non tutto il suo sapere era dunque stato al servizio della distruzione e della morte. Ora riusciva a vedere, al di là della Florida, fino al golfo del Messico: davanti, si stendevano le Bahamas, prime perle della lunga collana dei Caraibi. Erano quasi arrivati a casa. Poi Peter guardò fuori dal finestrino e fece un sobbalzo sul sedile. Avevano compagnia! Era un pilota, senza dubbio decollato dalla base dell'Aeronautica di Homestead, vicino a Miami, a bordo di un caccia Eagle F15C armato di tutto punto. L'aereo era a non più di quindici metri: vedeva chiaramente il fulmine disegnato sul casco e poteva quasi leggere il nome del pilota sulla tuta. Il caccia luccicava di razzi e cannoni. Dalla radio uscì una voce incolore con uno spiccato accento del Midwest. «Hello Lear nove-quattro-otto-tre-otto, mi sentite?» Peter si girò e puntò il coltello alle costole di Anspaugh. «Non costringermi a farti del male.» «Cosa devo fare, signore?» «Ignoralo.» Improvvisamente il giovane perse tutta la sua timidezza. «Ignorare un F15? Signore, è come ammettere di essere un velivolo non autorizzato. Ma lo sa cosa porta quel coso? Cannoni Vulcan da venti millimetri, probabilmente quattro missili Sparrow AIM-7, altri quattro Sidewinder. Può spazzarci via in un batter d'occhio.» «Non puoi lasciartelo indietro?» Peter sperò che le donne non l'avessero visto e si chiese se, per caso, Henderson fosse rinvenuto. «Lasciarlo indietro? Noi facciamo 540 nodi al massimo, lui fa più di Mach 2,5! Quando supera la barriera del suono, può abbatterci con il solo bang sonico!» «Allora digli chi sei e rassicuralo che va tutto bene.» Anspaugh lo fissò a bocca aperta, convinto che fosse impazzito. La voce gracchiò ancora dalla radio.
«Lear nove-quattro-otto-tre-otto, rispondete o sarete considerati nemici.» Il caccia era vicinissimo, e Peter fece al pilota un gesto di saluto con la mano. «Salutalo,» ordinò a denti stretti ad Anspaugh. L'altro premette il microfono. «Lear nove-quattro-otto-tre-otto.» «Nove-quattro-otto-tre-otto, dichiarate la destinazione.» «Destinazione, base aerea della Marina di Roosevelt Roads, isola di Vieques.» Il pilota guardò Peter in cerca di aiuto. Altre scariche elettrostatiche, mentre il pilota dava loro un'altra rapida occhiata. «Chi è l'uomo seduto a destra in cabina?» Peter sentì che il labbro superiore gli si imperlava di sudore e sperò che, attraverso quindici metri di troposfera, non si vedesse. Con la coda dell'occhio scorse Beatrice che si avvicinava, curiosa di capire cosa stesse succedendo. Cercando di non farsi vedere dal pilota del caccia, le fece cenno con la mano di andarsene. «Di' che sono il colonnello Oscar Henderson,» ordinò al pilota. «Il colonnello Oscar Anderson,» ripeté quello, terrorizzato. «Henderson,» lo corresse Peter. «Henderson.» Altre scariche elettrostatiche. «Mi è stato ordinato di parlare direttamente con il colonnello. Può passargli il microfono, per favore?» Anspaugh guardò Peter, che fece un profondo respiro e afferrò il microfono. «Che diavolo significa?» domandò, cercando di imitare come meglio poteva il ringhio di Henderson. «Ci stai pericolosamente vicino, cowboy! Vuoi provocare una collisione aerea? Chi è il tuo ufficiale superiore?» «Sono il colonnello Howard Price dell'Aeronautica degli Stati Uniti, comandante di questa squadriglia,» rispose la voce proveniente dal caccia. «Questi uomini sono ai miei ordini.» Quali uomini? si domandò Peter. Si avvicinò al finestrino di Anspaugh e guardò in su. Sentì un tuffo al cuore: sopra di loro volavano altri tre caccia in formazione. «Colonnello Henderson, ho l'ordine di richiederle il codice missione. Può darmelo, per favore?» Il codice missione? Gesù! pensò Peter. «Siamo l'Operazione Fountain Society,» bluffò. Scariche elettrostatiche. Poi: «Codice missione?»
«È nella mia borsa. Non ce l'ho qui.» Peter aveva il viso madido di sudore. «Le chiedo formalmente di recuperarlo, signore. Devo effettuare la verifica del codice.» Peter era in preda a una paura così intensa che si muoveva a scatti, come una marionetta. Una volta, a Vieques, era stato invitato ad assistere a un'esercitazione di mitragliamento a bassa quota con i caccia e sapeva cosa potevano fare questi aerei e le loro armi. I bersagli non venivano colpiti da semplici proiettili: si disintegravano in frammenti rosso fuoco e non ne rimaneva praticamente nulla. «Un momento.» Peter si girò e guardò con disperazione la moglie. «Cosa farai?» gli chiese lei. «Non sa proprio che cazzo fare.» Una voce fin troppo familiare rimbombò in cabina. Cristo! Era Henderson, perfettamente sveglio e sogghignante. Peter si alzò e si fece incontro al colonnello. «È una procedura di sicurezza di base,» ringhiò Henderson. «Senza il codice, sei un groviera.» L'altro l'afferrò per i risvolti della giacca. «E adesso lei me lo dirà.» «No, e vuoi sapere perché?» «Perché?» «Perché tu non sai proprio fare i nodi,» rispose Henderson calmissimo, facendo un balzo avanti. Aveva i polsi graffiati e sanguinanti ma le mani libere. Spinse Peter contro la paratia con una tale violenza da farlo quasi svenire. Dietro di lui, Elizabeth cercava a tentoni di recuperare la Beretta. «Mettila via prima di farti male,» la derise il colonnello. Sferrò un calcio indietro alla cieca e beccò all'inguine Peter che cercava faticosamente di rialzarsi. La ragazza sparò. Mancò Henderson ma, sul finestrino vicino, si formò una crepa verticale e un foro frastagliato al centro emise un tremendo sibilo di vento e decompressione. Beatrice ed Elizabeth si tapparono le orecchie mentre la pressione atmosferica scendeva di colpo spingendo un getto di aria gelida in cabina. Sorpresa dal frastuono, la ragazza si voltò troppo tardi: il colonnello si spinse avanti, le tolse la pistola di mano e la scaraventò sul pavimento. Poi si girò per puntare l'arma contro lo scienziato, ma l'inclinazione dell'aereo in picchiata spinse Peter contro i sedili e il colonnello indietro, contro il fi-
nestrino lesionato su cui si era aperto un buco più grosso. E lì rimase incastrato, con un'espressione di orrore sul volto. In un attimo, l'addome di Henderson si incavò, il finestrino divenne tutto rosso e il vetro scoppiò completamente. Il corpo dell'uomo fu risucchiato con una forza mostruosa. Con un rumore sinistro, la colonna vertebrale si spezzò e il corpo si piegò in due, incastrandosi nell'apertura del finestrino mentre i visceri ondeggiavano nei pantaloni, fuori dall'aereo. Gli occhi del colonnello ebbero un ultimo fugace scintillio, poi furono risucchiati nel cranio. Il colonnello stava implodendo ma, ancora per qualche istante, il suo corpo tappava la falla. «Scendiamo di quota o esploderemo!» gridò Peter al pilota. Si volse verso Beatrice ed Elizabeth. «Legatevi con le cinture!» In cabina risuonò l'allarme di stallo. Lo scienziato riuscì ad accostarsi ad Anspaugh, che lottava per riportare l'aereo in assetto orizzontale mentre la radio gracchiava: la solita voce stava domandando cosa succedeva. Peter si ributtò sul sedile. Dietro di lui, in cabina si sentì un forte scricchiolio. «Non resterà per molto tempo incastrato nel finestrino!» gli urlò Elizabeth. «Allora tieni duro!» strillò Peter mentre Anspaugh spingeva avanti la cloche portando l'aereo in picchiata. «Nove-quattro-otto-tre-otto, rispondete, rispondete!» Bestemmiando, Peter afferrò il microfono. «Mayday, mayday! Abbiamo una decompressione esplosiva e stiamo tuffandoci in picchiata per ridurre l'altitudine. Avvisate la base più vicina. Non è un'azione diversiva, ripeto, non è un'azione diversiva!» Il vento irrompeva ululando nella cabina mentre l'altimetro ruotava all'indietro come un orologio impazzito. Peter vide i caccia tuffarsi in picchiata insieme a loro, con i flap abbassati. A tremila piedi ripresero l'assetto orizzontale. Alcuni istanti dopo, i poveri resti del colonnello Oscar Henderson si staccarono dal finestrino del jet e caddero fluttuando nell'oceano sottostante. Poi la radio si rimise a gracchiare. «Nove-quattro-otto-tre-otto.» Le mani di Peter afferrarono tremando il microfono. «Nove-quattro-ottotre-otto.» «Confermate che è stata una fatalità?» «Confermato.» «Identità?»
«Dottor Peter Jance.» «Roger. Ha trovato quel codice?» «È volato fuori dal finestrino insieme alla mia borsa.» Una lunga serie di scariche elettrostatiche. «Consigliamo di virare di duecentosessanta gradi a ovest e atterrare a Guantanámo. Stanno approntando le attrezzature di emergenza.» «Roger,» rispose Peter e premette il microfono due volte per congedarsi. Mentre Anspaugh faceva virare l'aereo di venti gradi, vide la bussola ruotare. «Dove stiamo andando?» domandò Beatrice. Era comparsa improvvisamente dietro di lui, mentre Elizabeth era tornata a sedersi in cabina e si stringeva le braccia intorno al corpo cercando di smettere di tremare. Anspaugh fissò Peter muto, bianco come un cencio, in attesa di istruzioni. «Alla base navale di Guantanámo, Cuba. Beatrice, legati la cintura e dillo anche a Elizabeth.» «Perché lì? Non è più vicina quella di Santo Domingo?» «Ma è una base civile. Loro invece vogliono farci atterrare in una base militare.» «Hanno attrezzature di emergenza migliori?» «Spero che il motivo sia questo. Oppure lo fanno per non avere scomodi testimoni.» La vide irrigidirsi, poi sorridere, fingendo di non essere poi molto preoccupata. «Credo di avere superato la paura dei vuoti d'aria.» «Terapia d'urto,» commentò lui, ostentando una grande calma. «E adesso cosa dici di fare?» le chiese dandole un colpetto affettuoso sulla mano. Lei lo fissò per un lungo istante. «Peter, lo sai che ti amo....» «Anch'io ti amo. Ti ho sempre amato e ti amerò sempre.» «Ed Elizabeth?» Lui scrutò fuori, nell'immensità del cielo azzurro. «Anche lei. Lei è te e tu sei lei e credo di amarla molto. È solo che io ed Elizabeth non abbiamo alle spalle quello che noi due abbiamo passato insieme.» «Mi è sempre piaciuta la tua onestà. Sai cosa mi sono chiesta, parlando con lei?» «Che cosa?» «E se la situazione fosse stata invertita? Se io avessi avuto ventiquattro
anni e ti avessi incontrato come sei ora? Anch'io mi sarei innamorata di te.» «Capisco... Anch'io ho sempre amato la tua onestà.» «Penso che le dovresti parlare.» «A Elizabeth? Perché?» «Anche se ha molto da perdere, non se ne andrà. In realtà, la nostra Elizabeth ha avuto un'idea veramente molto buona.» 20 VIEQUES Il C-20 che tornava da New York con a bordo Frederick Wolfe e Phillip C. Kenner in stato semicomatoso, fu accolto da molti più veicoli di quelli che, non molto tempo prima, avevano atteso l'arrivo di Hans Brinkman da Zurigo. Oltre alle solite Humvee, c'erano due APC, veicoli per il trasporto di truppe con armamento leggero, equipaggiati con mitragliatori calibro 50. Su ciascun mezzo avevano preso posto dieci uomini pesantemente armati, con l'ordine di presidiare il perimetro della base dalle due estremità della pista. L'aereo atterrò nella luce declinante del tramonto e Kenner fu trasferito sull'ambulanza mentre Wolfe gli trotterellava vicino come una chioccia ansiosa. Dovevano avere sbagliato nel calcolo della dose degli anestetici, perché il giovane si contorceva cercando di liberarsi dai lacci, chiaramente in preda a un incubo. Seduti nei veicoli, i soldati osservavano in silenzio, e alcuni distoglievano subito gli occhi. Dio solo sapeva che cosa avrebbe fatto a quel povero diavolo sulla barella il vecchio scienziato, Mister Morte, come lo chiamavano loro. Avevano l'ordine di non parlare di quello che accadeva durante le missioni ma, dopo avere visto molti arabi e, più di recente, anche caucasici, arrivare lì in quelle condizioni, avevano cominciato a farsi non poche domande. Tutta quella faccenda era diventata tanto disgustosa che gli uomini delle Forze Speciali tiravano a sorte la loro partecipazione a quelle missioni. «Presto, presto!» gridava Wolfe scrutando il cielo, come se temesse di essere colpito da un fulmine divino sbucato dall'oscurità che avanzava rapida. Quando ancora si trovavano a bordo del C-20, attraverso la radio l'avevano informato che Russell era stato trovato morto nell'appartamento di Kenner, a Manhattan. Qualcuno gli aveva fatto saltare le cervella, apparen-
temente con la sua pistola. Inoltre, il loro Lear errabondo aveva scaricato un corpo da uno dei finestrini laterali e, almeno fino a un quarto d'ora prima, era diretto proprio a Vieques. Mentre l'ambulanza filava a tutta velocità verso il Complesso della Fontana, un tenente colonnello di cui Wolfe non si era mai curato di imparare il nome, gli fece un ragguaglio completo della situazione. «Il corpo caduto potrebbe essere quello del colonnello. L'occupante del Lear si è identificato come Henderson ma non è stato in grado di fornire il codice missione. Pensiamo che si tratti di Jance.» «Impossibile.» «A quanto pare no, signore.» «E adesso dov'è il Lear?» «Gli è stato ordinato di dirigersi su Guantánamo ma non ha obbedito. Sta sorvolando lo spazio aereo di Cuba. L'NSA ha intercettato una telefonata tra una donna non identificata e un certo generale Jesus Pinar del Río.» «Un cubano? Un comunista? Ma che diavolo c'entrano loro? E la donna chi era?» «Come le ho detto, non lo sappiamo. Adesso il Lear si è accodato a un aereo di linea cubano, il volo 1204 della Cubana de Aviación.» «Abbattetelo!» Il tenente colonnello scosse la testa. «Impossibile, volano troppo vicini al velivolo civile e, a quanto pare, con grande abilità. Non possiamo rischiare un incidente internazionale.» «Cristo! Non è Jance, di questo possiamo essere sicuri. Può anche essere riuscito a uccidere Russell ma, di sicuro, non sa pilotare un Lear, non importa quanta sia buona la sua memoria cellulare.» «Ma non è lui ai comandi: a bordo dell'aereo c'è un pilota.» «Allora, santo Dio... cosa vuole che sia: qualche cubano?» «Mi scusi un attimo,» l'interruppe il militare rispondendo al cellulare. Furibondo e preoccupato, Wolfe rivolse un'occhiata all'uomo sulla barella. Nonostante gli sforzi dei paramedici, stava rapidamente riprendendo coscienza e si contorceva e lamentava. Gli fece venire in mente il laboratorio che frequentava al primo anno di fisiologia, con dei poveri tecnici che correvano in giro come giocolieri impazziti impugnando siringhe ipodermiche per cercare di impedire a quei maledetti cani da esperimento di guaire. Sentì Kenner pronunciare la parola "mafia" e poi il tenente imprecare. «Cosa c'è?» domandò. Presentiva altre brutte notizie.
«Ora il Lear ha una scorta: quattro MIG-23 MLD, classe flogger, armati con missili Aphid aria-aria.» «Cristo santo, non è Jance, sono quei maledetti rossi cubani.» «Non possiamo esserne certi.» «Ma io ne sono sicuro, maledettamente sicuro.» Sì, e avrebbe dovuto prevederlo. Il corpo scelto cubano per le operazioni sotto copertura era molto famoso e, con la marijuana, Castro faceva abbastanza quattrini da potersi comprare qualsiasi segreto. Be', era proprio per questo che avevano avviato l'intera faccenda, per dare una lezione ai bastardi come lui. Se lui fosse stato Castro e avesse saputo che gli USA stavano per allungare la vita anche di secoli al loro gruppo dirigente (proprio ai leader che gli avevano strizzato le palle in tutti quegli anni, mentre lui invecchiava e si ammalava) avrebbe senz'altro cercato di sabotarli. Sarebbe stato un ultimo gesto grandioso ed eroico. Kenner borbottò ancora qualcosa a proposito di killer su commissione implorando pietà. Wolfe fece un profondo sospiro. L'altra possibilità per spiegare quegli imprevisti era molto più inquietante. «E la signora Jance?» «Quale signora Jance?» «La dottoressa Beatrice Jance, la moglie del fuggitivo dottor Peter Jance. È tornata alla base?» «Nossignore, sembra di no.» Il cuore di Wolfe prese a battere forte: aveva un sinistro presentimento. «Ne è sicuro?» «Sì, altrimenti lo sapremmo, signore.» «La sua ultima località conosciuta?» «L'aeroporto internazionale di Miami.» «Era lei che doveva aiutarci a trovare quella Parker.» «Sì, infatti.» «E ha idea di dove possa essere la ragazza?» «Elizabeth Parker? Anche lei è stata vista per l'ultima volta al Miami International. Pensiamo che, in questo momento, possano essere tutte e due con Jance.» «Sull'aereo?» «Molto probabile.» No, pensò Wolfe rabbrividendo, è impossibile. La ragazza, forse, ma Beatrice non poteva essere tornata con Peter: ormai lo disprezzava. E la tenerezza che gli aveva dimostrato in volo verso Miami, non poteva essere
una finzione. Aveva cambiato idea dopo avere incontrato il suo clone? No, Beatrice non era un essere debole come Peter: era fatta d'acciaio, come lui. Buttare via la possibilità di un'eterna giovinezza? Mai. Prima o poi sarebbe spuntata fuori, probabilmente portandosi dietro la Parker in manette. Lui e Beatrice erano destinati a trascorrere la loro luna di miele nel XXI secolo, non aveva alcun dubbio. Nel frattempo doveva però occuparsi dei comunisti. «Voglio che ogni volo in arrivo venga seguito a vista dalla torre di controllo,» ordinò al tenente colonnello. «Inoltre, fino a nuovo ordine, è proibito l'atterraggio di tutti i jet.» «Sissignore, se è questo che vuole, possiamo farlo.» «E voglio un bulldozer parcheggiato al bordo della pista. Se un jet ignora il nostro divieto, l'autista deve portarlo immediatamente sulla pista, capito?» «Faremo quanto possibile, dottore.» «No, farete quello che dovete!» «Sissignore.» L'ambulanza si fermò all'interno del complesso, e Wolfe saltò giù. C'era ancora molto da fare. Beatrice o non Beatrice, se tutto quel sogno doveva realizzarsi nelle ventiquattro ore successive, lui voleva assolutamente trovarsi nel nuovo corpo quando ciò sarebbe accaduto. Jet Lear 94838 Elizabeth ringraziava Dio che fossero ancora vivi e tutto sommato integri. All'inizio temeva che il frastuono nell'aereo, il vento che spazzava incessantemente la cabina e il ruggito dei motori attraverso il finestrino rotto li avrebbero assordati tutti. Per non parlare del caccia, là fuori, che prima minacciava di abbatterli e poi ordinava di atterrare alla base navale di Guantànamo dove, per quel che ne sapeva, sarebbero stati subito uccisi. A quel punto si era ricordata del piccolo tassista di Miami, quell'ometto con la grossa cicatrice sull'orecchio e lo zio generale dell'esercito di Castro. Aveva ancora il biglietto da visita che le aveva dato. Con il suo spagnolo impeccabile, Beatrice aveva allora chiamato il numero e, meraviglia delle meraviglie, aveva risposto il generale in persona: Jesus Pinar del Río. O almeno così avevano capito, perché il frastuono in cabina rendeva praticamente incomprensibile la conversazione. Poi, proprio quando l'F-15 aveva minacciato di attaccarli, dietro di loro
era comparso il massiccio aereo di linea cubano. Anspaugh, incitato da Peter, aveva eseguito la migliore manovra della sua carriera. Il Lear si era sollevato al di sopra dei vortici creati dai quattro turboreattori posti sulle ali del grosso velivolo e si era sistemato sulla scia dell'aereo civile, esattamente come voleva Peter. E adesso erano comparsi rombando i MIG cubani di scorta inviati dal generale in persona, che avevano fatto allontanare l'F-15. Sì, pensò Elizabeth, se Peter e Beatrice avevano offeso Dio, forse Lui aveva deciso di perdonarli. Quantomeno per il momento. Proprio quando le due donne stavano meravigliandosi della capacità di Peter di reggere tutto quello stress, lui aveva cominciato a vederci doppio e ad avere una paralisi parziale. Anspaugh, per discrezione, scrutava in silenzio attraverso il parabrezza fingendo di essere solo nella cabina di pilotaggio, e intanto Beatrice ed Elizabeth si rannicchiarono accanto a Peter per assisterlo. Nessuno dei tre voleva allontanarsi dagli altri. La ragazza faceva molto affidamento sulla soluzione che aveva previsto per l'intera operazione. C'erano alcune cose da domandare al generale, ma non doveva farlo in presenza dei due scienziati. Aveva dei progetti per loro, ma non voleva suscitare una resistenza prematura. Poteva contare sulla ragionevolezza di Beatrice, ma con Peter sarebbe stato tutto più complicato. Lo scrutò alla ricerca dei segni del leggero ictus, e vide che lui cercava di mettere a fuoco il gigantesco velivolo sotto di loro scrutando attraverso il parabrezza. «Lo sanno già che noi siamo qui?» domandò Elizabeth, alzando la voce per superare il frastuono assordante. Alla loro destra, il sole si stava tuffando nel mare. «È difficile dirlo. Speriamo che del Río li abbia avvertiti. Non vorrei che scendessero improvvisamente: ci schiaccerebbero come una mosca.» «Cuba ha un aeroporto internazionale?» domandò la moglie. «Dovrebbe averne nove,» rispose Anspaugh. Aveva deciso che, se non poteva batterli, si sarebbe alleato con loro. «Stiamo andando a L'Avana?» chiese Beatrice. «All'Avana? No,» le rispose il marito. «È a novecento chilometri da qui. Penso che l'aereo che ci sta dando uno strappo sia diretto a Santiago de Cuba. Tu che ne dici?» fece, rivolto al pilota. Quello indicò verso il basso per confermarlo. «Sì, signore. Sta dispiegando i flap.»
In effetti, l'aereo di linea stava rallentando e abbassandosi sempre più. Anspaugh si manteneva ancora alto, pensò Peter, per evitare la turbolenza prodotta dalle ali. Poi videro l'aeroporto davanti a loro. Rombando sopra le loro teste, i MIG si allontanarono nel cielo. Beatrice era nervosa. «Non ci arresteranno, appena atterrati?» Dei tre, sembrava la più preoccupata, pensò Elizabeth. Sapeva qualcosa che lei e Peter ignoravano? Ma, a quel punto, cos'altro poteva essere stato tenuto segreto? La ragazza preferì pensare che quella di Beatrice fosse semplicemente una paura per l'incertezza della situazione. «Se vogliono arrestarci, lo faranno all'aeroporto. Ma tu hai parlato con del Río in persona, vero? Non con un attendente, ne sei sicura?» chiese Elizabeth. «Non sono assolutamente sicura di niente, ma sembrava potesse essere proprio lui,» rispose Beatrice. Mentre l'aereo perdeva quota nell'ultima luce del tramonto, si vedevano solo una ripida scogliera e una baia che si perdevano nella penombra sottostante. Davanti comparvero le luci della città e il profilo delle montagne. Un minuto dopo, sotto di loro si stendevano le file di innumerevoli puntini luminosi della pista dell'aeroporto. Poi videro le jeep russe che sputavano nuvolette di gas di scarico correre a fianco del Lear e, più in là, scorsero un tale numero di soldati, camion e veicoli armati da poter scatenare una piccola rivoluzione. Il Lear, toccata terra, frenò e si arrestò rumorosamente. Dentro, rimasero tutti intontiti per l'ulteriore frastuono prodotto dal jet in atterraggio. «Lascia i motori accesi,» ordinò Peter ad Anspaugh. Il pilota annuì immediatamente, disposto ad accettare qualsiasi ordine in quell'ambiente surreale. «Dobbiamo essere pronti al peggio, ma speriamo di restare piacevolmente sorpresi.» Si avviò barcollando verso il portello, l'aprì, fece uscire la scaletta e scese dall'aereo nel bagliore di innumerevoli luci. Dal portello aperto, Elizabeth vide soldati correre e veicoli militari sfrecciare verso di loro. Poi un uomo con una candida chioma leonina, in uniforme, avanzò verso Peter a braccia tese. «Benvenuti a Santiago de Cuba!» gridò superando il forte sibilo dei motori. «Sono il generale Jesus Pinar del Río. Vi do il benvenuto in nome della libertà, dell'amicizia...» rivolse un'occhiata a Elizabeth, «... e della felicità. È lei la donna con cui ho parlato al telefono?» «No, sono io,» intervenne Beatrice comparendo sulla soglia dietro alla ragazza.
«Il suo spagnolo è ottimo, señora!» «Gracias.» Sorrise alle due donne. «Sono completamente al vostro servizio, per qualsiasi cosa.» Salì la scaletta per baciare la mano alle signore. Aveva grandi occhi vivaci e una bocca larga racchiusa da due parentesi di rughe profonde. «Come sta mio nipote Ramón? Guida ancora il taxi?» «Sì,» rispose Elizabeth. «Grazie a Dio.» «È il figlio di mia sorella. È cresciuto almeno un po'?» «Certo,» intervenne Beatrice, «adesso è alto almeno un metro e ottanta.» Il generale scoppiò in una sonora risata gettando indietro la testa leonina. «Povero niño... è cresciuto fino a undici anni e poi basta.» «Comunque è un ottimo autista,» intervenne Peter, che si presentò senza tralasciare il suo titolo di medico. Il generale gli strinse solennemente la mano. «Ci ha parlato molto bene di lei.» Le rughe agli angoli della bocca del generale si approfondirono. L'aereo era circondato e non poteva andare da nessuna parte. «Allora, queste signore...» Peter mise un braccio intorno alle spalle di Beatrice. «Questa è mia moglie, la dottoressa Beatrice Jance.» Il generale fece allegramente spallucce, come per dire che all'amore non si comanda nemmeno con la differenza di età. Poi guardò la ragazza. Peter circondò le spalle di Elizabeth con l'altro braccio. «E questa è la nostra carissima e leale amica Elizabeth.» «Sì? Avrei detto che fosse la figlia della signora.» «Molti lo dicono.» Peter sospirò. «Siamo in fuga dai nemici della libertà, dell'amicizia e dalla felicità e abbiamo bisogno del suo aiuto.» «L'avevo capito,» rispose il generale aggrottando improvvisamente le sopracciglia mentre i motori del Lear tossicchiavano. Si udì una decelerazione prolungata e poi un silenzio sinistro. Uno dei soldati che presidiavano l'aereo disse qualcosa al generale indicando il velivolo. Il generale si infilò sotto l'aereo ed emise un leggero fischio nell'oscurità. «A quanto pare, siete atterrati appena in tempo, amici miei.» Rivolse un rapido sguardo ad Anspaugh, che proprio allora scendeva tutto stordito dall'aereo. «Avete un bel buco nel serbatoio del carburante.» Fece scorrere il dito lungo il margine di una lacerazione seghettata: dopo aver forato il finestrino, il colpo sparato da Elizabeth si era conficcato nell'ala. Poi il generale alzò lo sguardo verso il finestrino esploso e vide la lunga striscia rossa lungo la fusoliera.
«Avete avuto qualche problema?» «Poquito,» rispose Beatrice, a bassa voce. Sorrise con aria schiva. «Cosa le ha detto esattamente di noi, suo nipote?» domandò Peter. «Che lei è una brava persona. È vero?» «Adesso sì,» rispose l'altro guardando Elizabeth. Non è il momento di sottilizzare, pensò lei, ma notò che il generale annuiva con aria comprensiva. «Non ha sempre lottato per la libertà?» «Ero convinto di farlo.» «La capisco perfettamente,» disse con franchezza del Río. «Ho percorso un cammino simile al suo e anch'io desidero la libertà per il mio paese. Ma, prima o poi, nelle prossime ore potrebbero arrivare degli altri che forse saranno meno comprensivi. Prima di allora, cosa posso fare per aiutarvi, amici?» Elizabeth vide che Peter prendeva da parte il generale. Lei e Beatrice si sentirono seccate per essere escluse. Stavano per raggiungere i due uomini, quando quelli si strinsero la mano. Del Río urlò alcuni ordini e diversi soldati si precipitarono nell'aereo. «Che vi siete detti?» domandò Beatrice al marito. «Cose da uomini?» «Gli ho chiesto di consigliarci un posto dove rimetterci un po' in sesto.» «E lui?» «Ci ha invitati da lui per la cena.» «E il pilota?» «Gli troveranno una camera vicino all'aeroporto. Domattina c'è un volo in partenza dall'isola.» Mentre osservava alcuni uomini del generale accompagnare Anspaugh verso il terminal, Elizabeth iniziò a sentirsi più tranquilla. I tre si accomodarono sulla Bonneville d'epoca del generale, che licenziò con un gesto l'attendente dichiarando che l'avrebbe guidata personalmente. Del Río chiacchierò ininterrottamente per tutta la durata del viaggio attraverso le scure colline verdeggianti, indicando uno stabilimento tessile, una raffineria e la strada per la Sierra Maestra, dove Castro si era rifugiato con i suoi barbudos. Mentre parlava dell'uomo che aveva profondamente amato e contro il quale però si era infine schierato, la sua profonda voce baritonale si colmò di tristezza. La hacienda del generale si trovava al termine di una strada polverosa illuminata dalla luna. Di tanto in tanto si intravedevano le ombre di sagome animali. Del Río spiegò che allevava gatti, un hobby che assicurava com-
pagnia alla moglie, molto amante degli animali, e un adeguato apporto proteico ai suoi uomini durante i rigidi inverni. La casa, immersa in una piantagione di caffè di cinquanta ettari, aveva un'aria americana. Era infatti la copia di un palazzo di Palm Springs che il precedente proprietario, un giocatore professionista statunitense, aveva fatto costruire per l'amante cubana. A tavola, accanto all'allegra moglie del generale, Elizabeth si sentì veramente rilassata per la prima volta dopo molto tempo. La padrona di casa desiderava conoscere le ultime tendenze della moda e del make-up e sapere tutto di Tom Cruise. La giovane era ben felice di rivolgere la sua attenzione a cose più frivole. Anche Beatrice non aveva più l'aria preoccupata e Peter appariva senz'altro sollevato. Era impegnato in una discussione con il generale sui sublimi quartetti per archi di Haydn e di Mozart. Poi il discorso tornò su Castro e i due uomini si fecero seri. Spuntarono i sigari e presto la stanza fu avviluppata dal meraviglioso fumo fragrante. «Le riforme possono diventare un problema,» osservò il generale. «E la tirannia è la tirannia. In America, c'è sempre libertà di scelta.» Peter non rispose. Non ne aveva il coraggio e non voleva rovinare quella sensazione euforica di trovarsi finalmente al sicuro sulla terraferma. Per il momento, il peggio sembrava passato. Il generale insistette perché passassero la notte lì e si alzò per andare a dare disposizioni al personale. Beatrice stava per dire quanto si sentisse al sicuro, quando vide Peter guardare l'orologio con un'espressione improvvisamente grave. «Cosa c'è?» «Mi è solo venuta in mente una cosa di poca importanza.» «Non è vero. Non mentirmi.» Il marito la fissò per un lungo istante, poi fece spallucce. «Probabilmente il trapianto inizierà solo tra diverse ore. Questa volta Barrola è solo e Wolfe vorrà ripassare tutta la procedura con lui prima di sdraiarsi sul lettino.» La moglie lo guardò preoccupata. «Peter, togliti quest'idea dalla mente.» Lui sorrise e le circondò le spalle con il braccio. «Hai ragione. Adesso non possiamo fare niente. Anche se noleggiassimo una barca e riuscissimo a coprire le seicento miglia da qui a Vieques, arriveremmo che Wolfe sarebbe già convalescente...» «Peter.» «... e chi sa se Hans ha mai guidato una barca? Mi pare di non averlo
mai fatto.» «No, non l'ha mai guidata,» intervenne Elizabeth. Si voltarono. Era a pochi metri da loro e aveva sentito tutto. «È per questo che volevi che fossi io a noleggiarne una, ti ricordi?» Lui annuì contrito. «Adesso non sono più un forte nuotatore, l'ho capito. Inoltre, cosa potrei fare, una volta arrivato là?» Beatrice lo fissava cupa: non le piaceva quel modo di affermare una cosa facendo finta di non volerla fare. «La base è piena di uomini armati fino ai denti. Spero che tu non voglia fare l'eroe. Siamo fortunati a essere ancora vivi.» «Potrei incatenarmi al cancello,» disse lui con aria sognante. «Giusto. E io ed Elizabeth potremmo portarti da mangiare.» «Un cheeseburger, per favore. Condito con tutto.» «Il cheeseburger saresti tu. Carne tritata dalla guardia nazionale... e il tuo gesto non salverebbe certo Kenner. Quindi, dimentica tutte le sciocchezze che stai pensando, Peter. Hai fatto tutto quello che potevi. Quell'uomo non lo conosci nemmeno.» «E questo rimette le cose a posto?» Beatrice si mise a fissarlo risoluta e lui le restituì lo sguardo a lungo. Poi lei distolse gli occhi. «Vado a chiedere al generale quali sono le nostre stanze,» disse la moglie. «Ho visto una bella amaca qui fuori. È fantastico addormentarsi sotto le stelle. Ricordi, B., la prima estate a Bar Harbor, quella meravigliosa amaca doppia?» «Sì. Se vuoi, vacci tu. Le mie vecchie ossa hanno bisogno di un letto, il più morbido possibile.» Il marito la baciò sulla guancia e uscì sulla terrazza. Beatrice ed Elizabeth lo osservarono allontanarsi. «Non vorrei sembrarti allarmista,» osservò la donna, «ma dobbiamo pensare al da farsi. Non possiamo assolutamente restare qui. Il generale ci ha detto con molta chiarezza che lui non potrà coprirci a lungo. Non vogliamo certo finire in una prigione dell'Avana o trovarci al centro di un incidente diplomatico.» «Ma del Río ha detto che ci avrebbe aiutato.» «Sì? E come?» «Dice che conosce un posto nelle isole Cayman, un'isola minuscola con una piccola casa invisibile dal cielo, dotata di tutti i comfort. Potreste na-
scondervi là per un po', finché le acque non si calmeranno.» «È un pensiero gentile.» «Non è solo un pensiero,» insistette la giovane. «Si può fare.» «Sei molto cara. Ma, per me e per Peter, le cose non si risolveranno così. Ci siamo dentro fino al collo in questa faccenda, e in gioco ci sono cose troppo importanti per gente troppo potente.» Pensando alla difficoltà dell'intera situazione, le due donne si abbracciarono e i loro occhi si riempirono di lacrime. «Non avrei potuto chiedere un regalo più bello di te,» disse Beatrice. «Ma, ora vai a dare la buona notte a Peter. So che lui lo desidera.» Abbracciò ancora la ragazza e andò in cerca della sua camera. Elizabeth guardò fuori sulla terrazza. Peter si dondolava sull'amaca sotto le stelle, beato come un bambino. Gli si avvicinò e rimase in piedi vicino a lui. Sotto la luce della luna, l'erba appariva bianca. «Ti ricordi queste stelle enormi sopra la baia?» le domandò. «Certo che me le ricordo.» Si sistemò accanto a lui sull'amaca. «Sono coquís» gli domandò accennando in direzione degli alberi. «Dimmelo tu, sei tu la figlia dei Caraibi.» Lei sussultò. «Non ricordarmelo.» Peter le accarezzò la guancia con il dorso della mano. «Mi dispiace.» «Di cosa?» «Di quello che è successo, di tutto.» «Non esserne dispiaciuto. Molte scelte le ho fatte io, nel caso te lo fossi dimenticato.» «Ami il rischio, me l'ero scordato.» «Be', solo fino a un certo punto. In realtà,» riprese Elizabeth con dolcezza, «non mi sarei persa questa storia neanche per tutto l'oro del mondo.» «Mi fai sentire meglio, anche se non ti credo.» «E fai male.» «Ma tu rifaresti tutto quello che hai fatto?» «Be', non esageriamo.» «Capisco. Ti informo che hai fallito il test di Nietzsche: se non si è disposti a rivivere la propria vita, perché darsi la pena di viverla adesso?» «Perché una volta è divertente, ma due no.» Lui rise e, quando Elizabeth si chinò per baciarlo sulla guancia, girò la testa verso di lei. Per un lungo istante, le loro labbra si incontrarono dol-
cemente, poi la ragazza rientrò in casa. Trovò la sua stanza e si buttò a faccia in giù sul letto, esausta. Peter aveva lasciato l'amaca e adesso lo sentiva parlare con la moglie, dall'altra parte della parete. Elizabeth si addormentò sognando la Svizzera e si risvegliò al gracchiare dei corvi nel vicino boschetto di cedri. La colazione era pronta sulla veranda, apparecchiata per tre. Quando la ragazza uscì, la cameriera le rivolse un timido sorriso. «Dov'è il generale del Río?» La cameriera parlava poco l'inglese. Riuscì comunque a spiegarle che era andato via per un po' ma che aveva lasciato qualcosa per lei in biblioteca. Elizabeth vi trovò un atlante nautico con una lente di ingrandimento appoggiata su una pagina. Al centro della lente c'era un cerchietto color smeraldo: Isla Traquillo. Prese l'atlante e lo portò in camera di Peter e Beatrice, ma trovò la porta aperta e la stanza vuota. Notò che il letto era stato usato da entrambe le parti e su un cuscino c'era una macchia di sangue della grandezza di un'unghia. Elizabeth corse freneticamente nella casa, chiamando i due a gran voce. Nessuna risposta. Sulla veranda, la governante stava togliendo due coperti alla tavola della colazione. «Dov'è l'uomo che stava qui?» le domandò. «Lui presa colazione. Lui via.» «Dove?» «Con el general.» Provò un tuffo al cuore. «E sua moglie? La signora con i capelli grigi?» «Andata dopo. Preso taxi per aeroporto.» Elizabeth si sentì gelare. Le sembrò che fosse passato un secolo prima che la governante trovasse un altro taxi disposto a portarla fin là. E, quando arrivò all'aeroporto di Santiago, Peter era già decollato. Aeroporto di Santiago de Cuba Il vecchio DC-3 rappresentava solo metà dell'accordo che Peter aveva concluso, subito dopo l'atterraggio, con il generale del Río. Quell'aereo aveva paracadutato truppe americane in Corea ed era ancora abbastanza affidabile quando aveva trasportato pacchi per il servizio postale USA. Poi, acquistato a un'asta da alcuni imprenditori specializzati in commerci illegali, aveva importato dignitosamente marijuana da Cartagena finché alcuni
problemi ai motori non l'avevano costretto ad atterrare a Port-au-Prince, nell'isola di Haiti. E là era stato confiscato dai tonton macoutes. Per un carico di armi russe e di sigari cubani, papà Doc aveva quindi venduto l'aereo a Fidel Castro, che l'aveva fatto volare per altre diecimila ore e infine assegnato al generale Jesus Pinar del Río. Per il generale era stato un affare senz'altro vantaggioso: un vecchio DC-3 in cambio di un Lear 60 leggermente danneggiato ma peraltro nuovo di zecca, con bagni di marmo e sedili di pelle. E il carburante era stato fornito dal generale praticamente gratis. Dieci minuti dopo essere arrivato all'aeroporto, Peter stava già rullando lungo la pista di decollo. Per molti versi, l'aereo era più facile da pilotare del monomotore Cessna che lui (o, meglio, che Hans) aveva pilotato, perché i comandi erano più semplici. Dopo tutto, il velivolo era stato costruito più di mezzo secolo prima, e in cabina aveva ancora i sedili di vimini. Ma rullare con la coda trascinata da una ruota di soli quindici centimetri era complicato. L'aereo virò e cominciò a sbandare malamente finché Peter non si affidò all'istinto e diede gas. Appena acquistò una velocità sufficiente, il vecchio aereo si raddrizzò. Ma sarebbe riuscito a sollevarsi? Peter mantenne la manetta tirata e la testa sgombra dai pensieri. E, proprio alla fine della pista, l'aereo si alzò dolcemente, mancando le cime delle palme di un soffio. Sto diventando piuttosto bravo in queste manovre, pensò. Uno di questi giorni potrei persino prendere lezioni di volo. Si appoggiò allo schienale e lasciò che le sue mani livellassero flap e alettoni per ridurre il coefficiente di resistenza, finché l'aereo non si mise a volare senza scosse guadagnando quota. Poi si inclinò, virò dirigendosi a est, parallelo alla pista. Peter guardò giù appena in tempo per scorgere una dozzina di auto e di veicoli armati dirigersi rapidamente verso l'aeroporto dalla strada di accesso. Quella mattina, il generale era stato costretto varie volte a infilare strade secondarie per non incrociare veicoli militari. Gli aveva spiegato che non era da escludere che la sera prima, vedendo Peter nella Bonneville, si fossero diffusi sospetti sul loro conto. Quindi, anche se del Río aveva fatto il possibile per tenere al largo le autorità, qualcuno di certo poteva essere andato a casa sua a fare delle domande. Peter sperò che le sue due donne non incappassero in altri guai, ma dava per certo che tra il personale qualcuno avesse già spifferato che il generale e il gringo erano andati all'aeroporto. Poi vide i caccia: minuscoli punti che venivano rapidi verso di lui, dal-
l'alto. Scomparvero rapidissimi ma, qualche secondo dopo, sentì un rombo crescente e vide i caccia ricomparire ai lati dell'aereo, con i flap completamente spiegati e i freni aerodinamici verticali per volare alla sua stessa velocità restandogli a ridosso. Erano cubani, ma se erano al comando dei nuovi arrivati, giù all'aeroporto, per lui era la fine. Si preparò a essere attaccato ma, quando rivolse un rapido sguardo al velivolo che guidava la squadriglia, vide che il pilota lo salutava e gli faceva un segno di vittoria a pollici alzati. «Che io sia dannato! Del Río è davvero potente!» esclamò. «È un bene, altrimenti ci avrebbero ridotti a cibo per i pesci,» disse una voce dietro di lui. Per un attimo pensò di avere le allucinazioni: per tutta la notte aveva perduto sangue dall'orecchio. «Beatrice?» sussurrò. Non osava guardarsi intorno per paura di scoprire che era solo. Poi fece un balzo: sua moglie gli era scivolata accanto sedendosi sul sedile del secondo pilota. Non credeva ai suoi occhi. «Beatrice, cosa ci fai qui?» «Per favore, non me lo chiedere.» Gli rivolse un'occhiata gelida e gli diede un colpetto sul braccio. «Io direi che sto a fianco del mio uomo.» «Come hai fatto a infilarti nell'aereo?» «Il mio taxi è arrivato prima del tuo. Il generale deve essere stato trattenuto. A quanto pare, l'argomento del vostro colloquio all'aeroporto era questo baratto.» «Tu hai sempre saputo che avevo in mente qualcosa.» «Peter, tu per me sei un libro aperto.» «Se mi fossi semplicemente messo d'accordo per restare un po' nascosti, non mi avresti creduto.» «Non ti ho creduto comunque.» Peter si appoggiò allo schienale scuotendo la testa: le donne erano veramente una specie superiore. «Non abbatterti troppo, tesoro. Elizabeth l'ha bevuta.» «Lei non mi conosce da tanto tempo come te. Te ne sei andata senza dirglielo?» «Sì.» «Bene. L'abbiamo già coinvolta abbastanza. Devo finire questo lavoro, lo sai.» «Lo so.» Beatrice sospirò. «Dopo tutto, sono stato io a dare inizio a tutta la faccenda.»
«Siamo stati noi. E, se tu avessi saputo che io mi ero nascosta sull'aereo, non saresti mai decollato.» «Invece sì,» mentì lui. Lei gli stava chiedendo di rassicurarla che quanto stavano facendo era una cosa razionale. «Ti amo, B.» «Anch'io ti amo, vecchio babbeo.» Salutò con un cenno della testa i caccia cubani, fuori dal finestrino. «Presumo che questi aerei siano tutti amici, altrimenti saremmo già ridotti a una nuvola di frammenti.» «Sembra di sì.» «E ci scorteranno per tutto il volo fino a Vieques?» «È un po' troppo chiederglielo: credo solo fino al limite dello spazio aereo. Poi, saremo da soli. In ogni caso, com'è quella citazione di Dickens?» «"Quello che faccio è molto, molto meglio..."» disse lei sorridendo. «"... di quello che ho mai fatto... prima"? O solo "meglio di quello che ho fatto"?» «Solo "fatto", credo. Ma adesso la mia citazione preferita è quella di Voltaire: "Dio è un attore comico che recita davanti a un pubblico che ha paura di ridere".» Peter rise rendendosi conto che, infine, non aveva paura. «La mia preferita è: "I guai di un uomo derivano dalla sua incapacità di starsene seduto tranquillo nella sua camera".» «Pascal, vero?» «Sì, brava.» La guardò teneramente. «Ma noi abbiamo trascorso la maggior parte della nostra vita in camere tranquille, non ti pare? Forse dovrei passare a frasi del tipo: "Chi di spada vive, di spada muore".» «Il Nuovo Testamento va sempre bene.» «O forse "Temi per la tua vita quando tutti parlano bene di te". Pensi che parleranno bene di noi, Beatrice?» «A questo punto, non ci conterei troppo.» «Allora stiamo facendo la cosa giusta.» Si sorrisero e rimasero in silenzio. I jet cubani li accompagnarono per oltre cento miglia. Poi, sopra Haiti, si allontanarono infilandosi come razzi nelle formazioni nuvolose. «Dev'essere bello volare in quel modo,» osservò lei. «Dicono che si sente puzza di cherosene in cabina,» rispose lui ironico. «E poi non puoi sputare fuori dai finestrini, come in questi aerei piccoli.» «È vero.» Beatrice allungò una mano per toccare quella del marito. «E non puoi portarti dietro la moglie.» Lui le strinse forte la mano e lei ricambiò la stretta. I loro pensieri flui-
vano insieme: lei sapeva cosa lui doveva fare, e il cuore di Peter si sentì pieno d'amore per Beatrice. «Proprio così.» Vieques Quella mattina, nella sala operatoria di Wolfe, l'attività si era messa in moto rapidamente, anche troppo per i gusti del dottor Emilio Barrola. Lo scienziato gli aveva ordinato bruscamente di effettuare l'intervento di trapianto, qualsiasi cosa fosse accaduta. Poi aveva addolcito un po' il tono e gli aveva promesso di clonarlo di nuovo, appena si fosse rimesso in piedi nel suo nuovo corpo. Nessuno si era però preoccupato di spiegare a Barrola il motivo di quella fretta del diavolo, e le voci su terroristi cubani o altre dicerie senza senso che giravano per la camera operatoria l'avevano allarmato. Era sempre stato diffidente verso la politica, e il suo non era dunque lo stato d'animo giusto in cui trovarsi in quel momento. Osservò gli assistenti trasferire il soggetto, un certo Phillip C. Kenner, dalla barella sul tavolo operatorio. Quel nome non significava nulla, per lui. Per quanto lo riguardava, era semplicemente il corpo di Wolfe riportato indietro nel tempo di circa quaranta anni. Il giovane aprì gli occhi. Si guardò intorno intontito osservando le luci, le apparecchiature luccicanti e le figure in camice e mascherina. «Oh, merda!» esclamò con la bocca impastata. «Questo non è un covo della mafia, vero?» «Adesso si rilassi,» gli raccomandò il chirurgo. «Tra un minuto sarà tutto finito.» Barrola fece cenno a un infermiere, che infilò un ago ipodermico nel braccio dell'uomo. Kenner si sentì invadere dal torpore. Si voltò e, in un attimo di terrore assoluto, si rivide, vecchio, sulla barella accanto. Quel se stesso invecchiato lo fissava con un'aria tremendamente affamata, come un cannibale. Poi tutto piombò nell'oscurità. Wolfe aveva insistito non solo per essere tenuto al corrente della situazione fuori della sala operatoria, ma anche per osservare la procedura fino all'ultimo secondo possibile. Dalla sua barella cominciò a borbottare istruzioni risapute mentre il Valium gli scivolava lentamente nelle vene. A Barrola venne in mente il padre: gli stava sempre alle spalle tutte le volte che l'auto di famiglia aveva un guasto, continuando a raccomandargli di fare attenzione, altrimenti il cric gli avrebbe schiacciato la mano. È un miracolo
che abbia imparato a vestirmi da solo, pensò il neurochirurgo. Nel giro di alcune ore, Barrola procedette sino a scoperchiare il cranio di Kenner e tagliare i fasci nervosi dietro la gola. Dopo queste operazioni, eseguite brillantemente nonostante il costante borbottio di Wolfe, Phillip C. Kenner, a trentatré anni dalla nascita e con una promettente carriera di professore di fisica o giocatore di carte davanti a sé, cessò completamente di esistere. Il neurochirurgo fu disturbato dall'ingresso in camera operatoria di un attendente del tenente colonnello incaricato della sicurezza del progetto. Il militare riferì un messaggio al dottor Wolfe, disteso in attesa sul tavolo operatorio. Barrola si morse la lingua e cercò di origliare. A quanto pareva, era stato avvistato un DC-3 privo di insegne che proveniva da Cuba e si dirigeva verso di loro. L'aereo era stato scortato fuori dallo spazio aereo cubano da una squadriglia di caccia e si riteneva che fosse pilotato da Jance. La situazione era politicamente complessa. Se fossero stati sicuri che a bordo non si trovavano altre persone, potevano abbattere impunemente l'aereo. Ma se c'erano anche dei cubani, che avevano il pieno diritto di sorvolare i Caraibi, il loro intervento sarebbe stato veramente imbarazzante. E se poi a bordo non c'era Jance? Per quanto ne sapevano, potevano magari abbattere un carico di scolari, attirandosi le ire del mondo intero e mancando il loro vero obiettivo. Quando Wolfe sentì che all'aereo era stato impartito l'ordine di identificarsi, borbottò spaventato qualcosa a proposito di Beatrice. Era infatti probabile che, se l'aereo non avesse risposto alla radio, l'avrebbero abbattuto uccidendo la donna del suo cuore. Ma come posso operare in queste condizioni? pensò il neurochirurgo. Fece un cenno discreto perché aumentassero l'anestetico a Wolfe: presto le palpebre del vecchio si chiusero. Grazie a Dio. Ma dopo pochi istanti, con grande frustrazione di Barrola, il vecchio riaprì un'altra volta gli occhi, che gli scintillarono rivelando una sorta di misterioso sguardo pieno di saggezza. «Non sono i comunisti,» biascicò. Chissà cosa voleva dire. Poi gli occhi si richiusero e, mentre Barrola si accingeva al suo lavoro, Frederick Wolfe sprofondò in un sonno senza sogni. DC-3 L'aereo sorvolò a bassa quota le verdi colline di Haiti, scavalcò le mon-
tagne poste al centro dell'isola e superò la Repubblica Dominicana scendendo a così bassa quota che videro i lavoratori nei campi di canna da zucchero e i bagnanti sulle spiagge, tutti avvolti dal fulgore dorato del sole pomeridiano. Poi sorvolarono per un po' il mare aperto, meravigliandosi delle diverse sfumature di azzurro. «Nassau,» dissero quasi all'unisono. «Oh, ti ricordi quanto eravamo felici di venire qui?» chiese Beatrice. «Ma come si chiamava la nave?» «Homeric?» «Tuo padre ci ha pagato tutta la luna di miele o solo la crociera?» «Mi pare che lo sherry fosse a carico nostro.» «Hai ragione, bevevamo parecchio sherry nella nostra cabina.» «Quella cabina con le cuccette.» «"Era come essere in prigione, con in più il rischio di annegare".» «Samuel Johnson. E il bagno era in corridoio. Come l'appartamento sulla Trentunesima, che aveva la vasca da bagno in cucina, ti ricordi? Ci appoggiavamo sopra la porta per formare un piano di lavoro...» «E quella tipa che batteva sempre sul soffitto con la scopa?» «È vero, tutte le volte che facevamo l'amore. Sembrava una di quelle facce arcigne che ci sono sulle banconote da un dollaro.» Si misero a ridere. La costa di Puerto Rico scorreva sotto di loro. Poi tacquero: Vieques stava comparendo all'orizzonte. Rimasero silenziosi per un po'. Dopodiché, come se fosse trascorso solo qualche attimo, ripresero la conversazione dove l'avevano interrotta. «Qual era l'appartamento da cui ci hanno sfrattato?» «Quello sulla Quarta strada. Tu eri al terzo anno di medicina.» «Non era prima?» «No, ne sono sicura. Ti ricordi? Scassammo il letto, vennero fuori le molle e così appoggiammo il materasso direttamente sul pavimento.» «Era tremendo.» «E il nostro terrier con le pulci!» «Sì, Buntle, che leccava sempre il sedile del gabinetto.» «Io dormivo con le calze, e alla mattina avevo le caviglie piene di morsi di pulci.» «Continuavi a dire che gli scarafaggi ci avrebbero portato via il materasso.» Lei era ormai rauca dal tanto ridere. «Erano scarafaggi giganteschi! Sembravano dei lillipuziani che trasportavano Gulliver.» Peter le diede un colpetto affettuoso sulla mano.
«Che c'è?» gli chiese. «Niente.» «No, dimmi cosa ti è venuto in mente.» «Solo un discorso che ho fatto una volta: parlare di Swift me l'ha fatto tornare in mente.» «Che discorso?» «Con Freddy, ma tu non c'eri. Dicevamo che vivere in eterno non è sempre una festa...» Improvvisamente Peter si interruppe. Diritto davanti a loro era comparso un F-14. Dapprima fu una forma indistinta, poi un'enorme sagoma sfrecciò accanto ai finestrini della cabina a una velocità sbalorditiva senza produrre il minimo rumore. Ma lo sfondamento del muro del suono li colpì come il martello di Thor, incurvando il loro parabrezza e disegnando sul vetro un fittissima ragnatela di crepe. Si tapparono le orecchie con le mani. L'aereo sobbalzò per il violento impatto dello spostamento d'aria, e Peter sentì una calda ondata di sangue scendergli dal naso, ma lottò per mantenere il velivolo sotto controllo. «Buon Dio!» «Possiamo contattarli per radio?» chiese Beatrice. «Sì, sto cercando.» Il vecchio apparecchio non rispondeva. «Il bang sonico...» «Ha scassato l'apparecchio radio?» «Può darsi.» Peter aprì il finestrino laterale e fece un cenno di saluto nel cielo. «Non penso che riescano a vederti,» disse la moglie. Scrutò fuori dal finestrino. «Siamo nello spazio aereo di Vieques?» «Sì. Tutto bene. Forse balleremo un po'. Hai del sangue sulla guancia.» «Penso che mi sia partito l'orecchio sinistro,» rispose lei, tamponandosi. «Sì, ma è solo una cosa temporanea. Stiamo bene.» Qualcosa esplose alla loro destra. «Un Sidewinder,» spiegò lui. Si arrese alla sua competenza di scienziato: «Fa Mach 4. Si dirige automaticamente verso i nostri gas di scarico. Se fossimo stati un moderno jet, ci avrebbe centrato in pieno, ma questi vecchi motori emettono molto meno calore.» «Spiegazione del tutto plausibile,» affermò lei con la stessa noncuranza scientifica. «Ma penso che sia comunque successo qualcosa all'aereo.» Il velivolo tendeva a ruotare su se stesso. «Un frammento di proiettile deve avere forato la fusoliera. Forse ha tranciato un cavo dei comandi o
messo fuori uso lo stabilizzatore verticale. Stai bene?» Lei annuì, tesa. «E tu?» «Io sto bene. Vedo la pista. Non ci spareranno più, siamo troppo vicini alle zone abitate.» «Bene.» Ma lei non sembrava convinta. «Tieni duro. Sai, prima sbagliavamo: io ero al secondo anno di medicina. Ti ricordi tutti quei trucchetti mnemonici che avevi inventato per il corso di patologia, perché quell'anno eri mancata così spesso a lezione? Quando alla fine ti sei presentata all'esame, hanno persino applaudito. Hai ragione, era senz'altro nella Quarta. Siamo stati felici, là.» «Siamo stati felici dappertutto.» «Sì, è vero. Anche quando lavoravamo per il diavolo. Tu la rifaresti?» «Esattamente la stessa vita?» «Non intendo solo i bei momenti. Tutto il bene, il male, gli sbagli, gli errori di valutazione, i compromessi, le bugie che ci siamo detti...» «Se solo potessimo fare le cose nel modo giusto,» disse lei, mentre un secondo Sidewinder esplodeva un centinaio di metri più vicino del primo. «Peter?» lo chiamò con voce debole. «Sono qui. L'ho acchiappata,» rispose lui lottando con la barra di comando. Beatrice si teneva le costole. Vicino a lei, nella parete della cabina c'era un foro e, fuori, violente lingue di fuoco si sprigionavano dal motore di destra. Senza neanche pensarci, Peter chiuse il serbatoio del carburante e mise in bandiera l'elica per evitare che l'aereo ruotasse su se stesso. Poi si sporse per abbracciare la moglie. «Beatrice?» Lei sollevò la testa e gli toccò il viso, poi la mano ricadde. Dal fianco le stillava un po' di sangue. «Beatrice!» «Sono qui, Peter.» «Oh, Gesù! Beatrice!» «Sto bene, non preoccuparti per me. Te la stai cavando bene. Ce la stiamo cavando bene.» «Lo so. Tieni duro. Ce la faremo,» rispose. Sentiva la testa girargli in modo incontrollabile. Il DC-3 rollò bruscamente e iniziò una leggera picchiata. Peter cercò di governare il velivolo per quanto poteva, ma aveva la vista offuscata dalle lacrime. Il suo cuore galoppava impazzito, mentre il motore residuo non riusciva più a reggere l'aereo. Millecinquecento metri sotto vide l'aeroporto di Vieques. C'erano veicoli armati su entrambi i lati e
un bulldozer di traverso sulla pista. Poco più in là, vide gli edifici segretissimi della Società della Fontana, racchiusi al centro della base, circondati da reticolati di filo spinato. Non sarebbe mai riuscito a penetrarvi. Non a piedi. Con un ultimo sforzo, localizzò quello che cercava, spinse in avanti la barra dirigendosi in picchiata contro il complesso medico. «Beatrice? Allacciati la cintura, tesoro.» Ma lei non rispose. Aveva gli occhi chiusi e teneva le dita intrecciate a quelle del marito; il sangue le colava sui vestiti, gocciolando sul pavimento della cabina. Peter sentì la mano della moglie perdere le forze. Si mise a gridare di dolore, mentre la sagoma allungata della sala operatoria di Wolfe si profilava davanti al parabrezza. Pochi istanti prima dell'impatto, il dottor Peter Jance chiuse gli occhi e strinse con tutte le forze la mano della moglie morta. Per una frazione di secondo, il personale della camera operatoria sentì incombere il rombo di un motore, poi il soffitto esplose, e insieme ad esso esplodeva il carburante dei serbatoi del DC-3. La violenza dell'impatto e della deflagrazione, moltiplicata dalle dozzine di bombole di ossigeno presenti nella sala, squarciarono l'edificio riducendo in briciole la camera operatoria con tutto quello che conteneva. Una nube nera e arancione di carburante in fiamme e di detriti oscurò il cielo. A otto chilometri di distanza, a Esperanza, i bagnanti che sorseggiavano i loro drink nei caffè sulla spiaggia si bloccarono a osservarla. A trenta chilometri di distanza, all'altra estremità dell'isola, alcuni turisti la scambiarono per un tuono e alzarono perplessi gli occhi al cielo limpidissimo. I nativi l'attribuirono invece a un'ennesima esercitazione con bombardamenti. E quasi tutti maledissero la Marina. 21 HOTEL COPACABANA, CUBA Mentre finiva la seconda tazza di caffè, Elizabeth osservava il giovane giornalista trafficare con il suo notebook. L'uomo tolse il floppy disk e se lo ficcò nel taschino della camicia. «Non so se qualcuno le crederà. Mi hanno mandato qui per indagare sulle conseguenze politiche della visita papale, non per scrivere una storia de-
gna del Mondo Nuovo di Orwell,» affermò. Lei si accese una sigaretta. Negli ultimi giorni aveva ripreso a fumare. Si ricordò che, di tanto in tanto, Beatrice fumava e Peter la sgridava. Ora, ogni volta che si accendeva una sigaretta, si sentiva più vicina a loro. Non era un pensiero razionale, ma Elizabeth sapeva che non sarebbe tornata a essere una persona razionale ancora per un bel po'. «Allora tenga la storia per sé,» rispose. Doveva essere un inviato free lance del New York Times. Aveva un tesserino che lo dimostrava ma, in quei giorni, le riserve di fiducia di Elizabeth si erano praticamente esaurite. Paffuto e morbido come un neonato, con acquosi occhi azzurri, le sembrava un po' troppo giovane per poter lavorare in posti diversi da McDonald's. Ma ora le persone apparivano sempre più giovani e con la voce sempre più acuta e uguale. Gliel'aveva fatto notare Peter o era stato Hans? «A quanto pare, l'esplosione di Vieques è considerata un evento trascurabile per gli USA. Mi hanno persino comperato il biglietto per Zurigo.» «Be', se fossi in lei, questo mi preoccuperebbe.» Lei scrutò la strada e le case con le bianche facciate accecanti di fronte all'albergo. «Se mi capita qualcosa, lei ha quel floppy... e un campione dei miei tessuti. E se riesco a mettere le mani sui resti della signora Jance...» «Su questo non ci conterei proprio. Da quello che mi ha detto, probabilmente le diranno che è andata letteralmente in fumo.» «E ciò non convalida la mia storia, vero?» fece lei sospirando. Lui la guardò. Per un momento, non le sembrò poi così giovane. Ora appariva lucido e serio. «Ha corso un bel rischio, comportandosi così.» «Li amavo moltissimo.» «Davvero? Scusi se glielo dico, ma a me sembrano due mostri.» «Mostri?» «Intellettualmente erano dei giganti, ma moralmente degli idioti.» Allora il tipo non aveva capito proprio niente? Oppure non aveva creduto a una sola parola del racconto e pensava che anche lei avesse bisogno di essere risistemata nel cervello? «Avrebbero potuto nascondersi,» protestò lei. «Io ho cercato di convincerli. Potevano trascorrere il resto della loro vita insieme da qualche parte.» «Forse pensavano di dover rendere a Dio le loro vite, una o due che fossero.» «Lei non voleva che lui morisse, lo so. Lo adorava.» «Oh, certo, e tutto il resto era secondario. E tutto quello in cui anche la donna era coinvolta?»
Lei aspirò con forza la sigaretta. «È mai stato innamorato?» «In effetti, no,» le rispose facendo spallucce, come se gli avesse appena chiesto se era mai stato in Afghanistan o se gli piaceva una certa torta. «Il fatto è che uno desidera che la cosa duri. E se puoi ottenerlo...» «... al diavolo gli scrupoli morali,» concluse il giornalista. La vide schiacciare bruscamente la sigaretta e finalmente sembrò rendersi conto di quanto fosse seccata. «Mi scusi. Io non li conoscevo, non c'ero. Sicuramente erano tutte e due delle persone in gamba che hanno però fatto delle scelte sbagliate lungo il loro cammino. Accade a tutti noi, ma le loro scelte erano... un po' più sbagliate.» Diede un'occhiata all'orologio. «Le auguro di riprendersi.» «Può scommetterci,» rispose lei facendo un cenno al cameriere. «E adesso cosa farà?» «Valuterò le mie possibilità.» «Lo sa? Cindy Crawford si è laureata in ingegneria chimica alla Northwestern,» aggiunse il giornalista cercando di rendersi simpatico. «Davvero?» «Sì. E Brooke Shields si è laureata con la lode a Princeton.» «Scommetto che mi vuole suggerire qualcosa.» «Voglio solo dire che lei mi sembra così... perspicace, così intelligente...» «E dunque?» «Niente. Non importa. Sto solo diventando, come dire?» «Maschilista?» suggerì lei. «Sì, ecco. No, in realtà volevo dire: stupido. Ascolti, posso aiutarla in qualche modo?» Elizabeth ci pensò su un attimo. «Il suo computer ha un modem?» «Certo.» In pochi minuti, si collegò con il suo computer a St. Maurice. Con grande gioia trovò un altro messaggio di Alex. Lo lesse e subito lo cancellò. «Grazie.» Si alzò e strinse la mano al giornalista, attraversò la hall dell'albergo e salì su un taxi per andare all'aeroporto internazionale José Marti. Nella mente continuava a frullarle quel messaggio. Argomento: Fine del gioco Data: 30-3-99 Da: IslandMan@AOL. com
A: SwissMs@Int'lAccessCompuServe.com PENSO CHE TI FACCIA PIACERE SAPERLO: L'ARMA È QUASI PRONTA, MA HO FALSATO TUTTI I MODELLI COMPUTERIZZATI. SPERO CHE SERVA. TI AUGURO UNA BELLA VITA, TE LA MERITI. FORSE CI INCONTREREMO ANCORA, UN GIORNO. White Sands: sei mesi dopo L'arma era stata terminata a tempo di record. Con la chiusura del Progetto Fontana, nuovi finanziamenti si erano riversati sull'Hammer. Gli appunti di Peter Jance e i file del computer erano sopravvissuti all'esplosione di Vieques, essendo stati archiviati con cura da Alex Davies prima della defezione e recuperati al suo ritorno. Sul fianco della collina avevano piazzato più di duecento animali, legati alla cavezza, ben monitorizzati. C'erano anche vecchi carri armati russi, catturati durante la guerra del golfo e altre armi di cui era stata sperimentata la resistenza. E c'erano più telecamere di quelle che avevano ripreso il lancio dell'Apollo 13. In sé, l'arma era abbastanza piccola da stare in un Abram modificato, una miniaturizzazione sbalorditiva che deliziava gli spettatori stipati nel bunker. Oltre ai pezzi grossi dell'esercito, c'erano Alex, la cui partecipazione era considerata essenziale dai successori di Henderson, e i giovani collaboratori di Peter: Hank Flannagan, Cap Chu e Rosemarie Wiener. Al momento dell'esplosione, nessuno di loro si era trovato tanto vicino al complesso medico da subire gravi danni. Al massimo, qualcuno aveva perso un po' di sangue dal naso. Solo Flannagan, cristiano avventista, era stato sbalzato dal letto e, per un istante, aveva pensato che fosse arrivata la Seconda Venuta. Era presente anche Perkins, il mandriano, che adesso odiava il progetto con tutte le sue forze. Assisteva all'esperimento solo perché due settimane dopo sarebbe andato alla Utah State University per studiare veterinaria. Non vedeva l'ora di passare il suo tempo a curare e salvare animali invece che controllarli e legarli in attesa che fossero ridotti in cenere. Però quelle ultime due settimane di salario gli erano assolutamente indispensabili per pagarsi gli studi. Tutti si sistemarono per il conto alla rovescia. All'ora zero, l'arma sparò e immediatamente scomparve dalla faccia della Terra. Si autodistrusse con una tale violenza che le porte antiesplosione
interne del bunker si spalancarono, mentre i 2,5 miliardi di dollari spesi per la ricerca e lo sviluppo se ne andavano velocemente in fumo. La nube di gas bollenti era tanto intensa che saettò verso il cielo portando con sé un intero acro di polvere e cespugli. Tutti quelli che si trovavano nel bunker furono scaraventati a terra dall'impatto, ma le spesse pareti ressero. In seguito, nessuno riuscì più a ricordare con precisione quanto tempo avessero impiegato a riprendere i sensi ma, alla fine, tutti riuscirono a uscire barcollando nell'afa del deserto. Un intero lato del cielo era oscurato dalla nube, che stava assumendo la familiare forma di fungo delle detonazioni nucleari. Dal cielo piovevano cespugli carbonizzati, frammenti rocciosi e ammassi vetrosi di sabbia fusa. Per protezione, i sopravvissuti si rifugiarono sotto la sporgenza del tetto del bunker. «Così presto sarò morto e sepolto anch'io,» disse Perkins. «Non sempre si può vincere,» commentò Alex. Il giovane annuì solennemente e indicò nella direzione opposta al cratere formatosi dove prima c'era l'arma. Sul fianco della collina si vedevano le gabbie degli animali rovesciate, le catene strappate e i paletti divelti. Gli animali erano solo una serie di punti lontani che correvano lungo il pendio della collina. A giudicare dalla velocità e dalla determinazione della loro fuga, non mostravano alcuna nostalgia dei loro custodi umani. Alex pensò che Elizabeth, Peter e Beatrice sarebbero stati contenti di quello spettacolo. FINE