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LA VOCE DEL VENTO (The Mammoth Book Of Short Horror Novels, 1988) a cura di MIKE ASHLEY Indice Introduzione di Mike Ashley La voce del vento di Lucius Shepard Il parassita di Arthur Conan Doyle I dannati di Algernon Blackwood Fengriffen di David Case L'estremo obolo di A.C. Benson La corda fra le travi di Oliver Onions Il dio di Nadelman di T.E.D. Klein I morti convitati di John Metcalfe Mike Ashley Introduzione Nel compilare questa antologia ho perseguito un triplice scopo. Innanzitutto, mi proponevo di presentare agli amanti della letteratura dell'orrore una selezione dei migliori testi di narrativa horror che hanno avuto l'onore della stampa; in secondo luogo desideravo far rivivere se non tutti, almeno alcuni autori particolarmente negletti; e, infine, mi auguravo di far conoscere al pubblico dei lettori alcuni romanzi brevi che, a mio giudizio, sono stati a torto relegati nel dimenticatoio. Per fortuna, o forse in virtù di qualche disegno diabolico, sono riuscito nel mio intento. Il romanzo breve dell'orrore è una forma d'arte compiuta in se stessa, ma raramente, dopo essere stato pubblicato, viene proposto in edizioni successive. Infatti, come componimento letterario risulta troppo lungo per essere inserito all'interno delle normali antologie e troppo breve per venire presentato sotto forma di libro. In realtà, proprio grazie alla sua struttura narrativa, il romanzo breve consente allo scrittore noir di sviluppare appieno la storia che ne costituisce l'oggetto. Lo spazio in cui si dipana il racconto, infatti, è troppo esiguo per permettere di creare personaggi e situazioni credibili; d'altra parte è naturale che, per quanto il plot possa risultare nondimeno convincente, il racconto sia necessariamente incentrato su una singola idea. La formula del romanzo, al contrario, offre la possibilità di in-
fondere vita ai personaggi e alle vicende di cui sono protagonisti e di descriverne l'evoluzione nel corso della narrazione. Tuttavia, il romanzo non può esaurirsi in un unico motivo ispiratore, ma ha bisogno di essere sostenuto da una rigorosa impalcatura inventiva. Così accade spesso che alcuni scrittori tendano a dilatare artificiosamente la trama dei loro manoscritti, a «gonfiarli» senza motivo, al solo scopo di aumentarne il numero delle pagine. Nel romanzo breve, invece, è possibile sviluppare una certa gamma di temi e di personaggi senza correre il rischio di farli «ammuffire» né di abusare della pazienza del lettore, il quale, a sua volta, può calarsi nella vicenda senza paventare l'immediata caduta di tensione provocata da un finale improvviso. Dopo aver scelto fra gli scrittori di romanzi brevi dell'orrore quelli che giudico i rappresentanti più autorevoli di questo filone letterario, mi sono accorto che, per una curiosa coincidenza, degli otto autori presentati in questa antologia i cinque di origine inglese sono tutti scomparsi, mentre i tre di nazionalità americana sono viventi. Inoltre, uno degli autori statunitensi abita prevalentemente in Inghilterra, mentre uno dei prosatori britannici ha trascorso gran parte della propria vita negli Stati Uniti. Ma un tratto li accomuna tutti, senza distinzione: sono raffinati maestri dell'horror, anche, se, in molti casi le loro opere non hanno ricevuto il riconoscimento critico che meritavano. Non mi dilungherò oltre a presentarveli singolarmente in questa sede, ma vi rimando alle brevi note biografiche che ho posto all'inizio di ogni brano. Fra le varie espressioni della narrativa del soprannaturale nutro una particolare predilezione per la ghost story e riconosco la difficoltà che comporta il cimentarsi in questo genere narrativo. Descrivere una scena in cui un malcapitato venga trucidato a colpi d'ascia o divorato vivo dai vermi è relativamente facile perché si tratta di immagini che già da sole suscitano il nostro raccapriccio; molto più difficile è invece riuscire a creare una atmosfera sottilmente ansiogena e arricchirla di quegli elementi soprannaturali che ci portano a stringere spasmodicamente il libro fra le mani e a sbirciare, al di sopra della pagina, le ombre che si intravvedono oltre la porta semi-chiusa. E solo un grande maestro è in grado di inventare soluzioni convincenti, che possono farci rabbrividire, magari lasciarci un po' scossi, ma mai, in nessun caso, suscitare il nostro disgusto. Ciascuno degli autori che vi propongo in questa antologia possiede questa straordinaria abilità e mi auguro che possiate apprezzare l'intensità delle emozioni che sono capaci di creare.
Mike Ashley, Walderslade, Marzo 1988 LA VOCE DEL VENTO How The Wind Spoke At Madaket di Lucius Shepard Isaac Asimov's SF Magazine, aprile 1985 Lucius Shepard è balzato alla ribalta del panorama letterario nel 1984, l'anno successivo a quello della pubblicazione della sua prima opera, «Soltario's Eyes», e già nei primi mesi del 1985 qualunque critico, o amante della fantascienza o del fantasy, non lo avesse notato in occasione del suo debutto, non poteva più ignorare il suo nome. Formatosi all'interno di uno dei leggendari Clarion Writers Workshops (settembre 1980), Shepard, che ha da poco oltrepassato i quarant'anni, vede regolarmente nominati i propri racconti fra le opere candidate alla vittoria di prestigiosi premi letterari e raramente, finora, ha fallito il bersaglio. Nel 1985 è stato insignito del John W. Campbell Award, come migliore autore emergente e, nel 1986, ha ricevuto il Nebula Award per «R & R», giudicata la Migliore Novella dell'anno. Ma non fatevi fuorviare da questi titoli: Lucius Shepard non è solo un grande scrittore di fantascienza, la sua penna è altrettanto incisiva e fertile anche nel campo della fantasy e della narrativa dell'orrore. L'opera che me lo ha fatto conoscere è stata «The Night of White Bhairab» (1984), un racconto fantastico ambientato in Nepal, seguito, a brevissima distanza, da un altro testo indimenticabile, «The Man Who Painted the Dragon Griaule» (1984). A chi desideri apprezzare altri saggi della sua efficacia narrativa, consiglio la lettura del suo ultimo volume di racconti, intitolato The Jaguar Hunter (1987). Nel frattempo, potete godervi La voce del vento, il migliore romanzo breve firmato dall'autore nel genere horror. 1 Nel silenzio dell'alba, fa frusciare le foglie morte nella grondaia del tetto, fa sbattere i fili dell'antenna contro il muro della casa, fa ribollire la sabbia fra le piante di psamma arenaria; fa allungare i rami nudi di un biancospino a ghermire la porta del
capanno degli attrezzi, fa staccare allegramente una molletta dal filo del bucato, fa sospirare l'immondizia nel bidone, sbrindella le borse di plastica; crea migliaia di vibrazioni nervose, migliaia di sussurri ancor più spaventosi, e poi rinforza, rimane intrappolato nelle fessure delle finestre, fa sbatacchiare i vetri, rovescia una tavola di compensato che giaceva appoggiata a una catasta di legna; si gonfia in un fortunale in mare aperto, e il suo ululato è articolato dalla gola delle strade e dai denti delle case disabitate, finché inizi a immaginare un animale enorme e invisibile che rovescia la testa all'indietro e ruggisce, mentre i muri della tua casa scricchiolano come le assi di una vecchia nave... 2 Peter Ramey si svegliò alle prime luci dell'alba, ma rimase alcuni minuti a letto ad ascoltare il vento; poi, dopo essersi psicologicamente preparato ad affrontare l'aria gelida, gettò via le coperte, si affrettò a indossare i jeans, un paio di scarpe da tennis e una camicia di flanella e andò in salotto ad accendere il fuoco nella stufa a legna. Fuori, gli alberi si stagliavano contro uno sfondo di nubi color dell'ardesia, ma il cielo non era ancora sufficientemente illuminato da far riflettere l'ombra della finestra sul tavolo da picnic che vi era collocato immediatamente sotto, né sul resto della mobilia: un divano-letto e tre sedie di paglia consunte, che erano ancora immerse nell'oscurità. L'esca prese e, nel giro di pochi secondi, il fuoco incominciò a scoppiettare nella stufa. Ancora intirizzito dal freddo, Peter continuava a sbattere le braccia lungo i fianchi e a saltellare da un piede all'altro, facendo vibrare i piatti nella credenza e i cassetti. Aveva trentatré anni, era di struttura massiccia e carnagione pallida, che contrastava con i capelli ispidi e neri e la barba scura. Era così alto che ogni volta che doveva oltrepassare le porte del cottage era costretto a chinarsi; e, proprio a causa della sua statura, non era mai riuscito a sentirsi a suo agio in quella casa: si sentiva come un vagabondo che si era appropriato della capanna costruita per gioco da qualche bambino, per trascorrervi l'inverno. La cucina era separata dal salotto da un tramezzo; dopo essersi riscaldato un po', accese la stufa agas e preparò la colazione. Fece un buco in una fetta di pane, la mise in una padella e vi ruppe in mezzo un uovo (normalmente si limitava a mangiare cereali, cibi surgelati o ad aprire qualche scatoletta, ma Sara Tappinger, la donna con cui stava in quel periodo, gli ave-
va insegnato a preparare le uova in quel modo ed esercitarsi ogni mattina lo faceva sentire uno scapolo in grado di badare a se stesso). Stando in piedi accanto alla finestra, fece scivolare il pane e l'uovo nel piatto, mentre con gli occhi osservava, sul lato opposto della strada, le case di legno grigio emergere a poco a poco dall'oscurità, un ammasso indistinto prendere gradualmente la forma di un cespuglio di mirica e uno di alloro, e dietro a questi delinearsi un picchetto di pini giapponesi. Il vento era cessato e il cielo sembrava destinato a mantenersi nuvoloso, il che andava benone per lui. Da quando, otto mesi prima, aveva affittato quel cottage a Madaket, aveva scoperto che la desolazione aveva un benefico influsso sul suo spirito, e che le giornate di tempo coperto o burrascoso stimolavano la sua fantasia. Dacché era arrivato aveva già ultimato un romanzo e aveva intenzione di fermarsi fino a quando avrebbe concluso anche il secondo. E forse un terzo. Del resto, che senso aveva tornare in California? Aprì l'acqua per lavare i piatti, ma il pensiero di L.A. gli fece passare la voglia di fare il bravo uomo di casa. 'Fanculo! Che vengano a banchettarci le formiche! Si infilò un maglione, si ficcò un bloc-notes in tasca e uscì al freddo. Come se fosse stata lì ad aspettarlo, una folata di vento girò l'angolo del cottage e lo investì in pieno viso, raggelandolo. Peter abbassò il mento sul petto e, dopo aver piegato a sinistra sulla Tennesse Avenue, prese a camminare in direzione di Smith Point, lasciandosi alle spalle l'ennesima fila di case di legno grigio, con le caratteristiche impavesate, sulle cui porte spiccavano nomi fantasiosi come Capanna del Mare e Tenuta del Dente (la dimora estiva di un dentista del New Jersey). Quando era arrivato a Nantucket, aveva subito notato, con divertito stupore, come tutte le costruzioni dell'isola, perfino lo spaccio Sears Roebuck fossero rivestite di perline di legno grigio, e aveva scritto in merito una lunga e spiritosa lettera alla sua ex-moglie - della serie restiamo buoni amici - descrivendole la natura insolita e stravagante del luogo. Lei non gli aveva risposto, e Peter non poteva biasimarla per questo, soprattutto dopo quello che le aveva fatto. Il bisogno di solitudine era la ragione ufficiale che aveva addotto per giustificare il suo trasferimento a Madaket, ma per quanto questo fosse in parte vero, sarebbe stato più corretto ammettere che stava fuggendo dalla sua vita disastrata. Fino a poco tempo prima aveva condotto un'esistenza tranquilla, felice del suo matrimonio e superimpegnato a sfornare copioni per un programma della PBS, quando, come un fulmine a ciel sereno, aveva perso completamente la testa per un'altra donna, anche lei sposata. Avevano fatto progetti, si erano scambiati promesse e lui aveva lasciato sua moglie; a
quel punto, però, con un improvviso cambiamento di idea, lei, che non aveva mai espresso altro che noia e risentimento nei confronti del marito, aveva deciso di onorare i voti matrimoniali e lo aveva piantato in asso, facendogli fare la figura del cretino e del mascalzone. Disperato, lui aveva cercato invano di riconquistarla, altrettanto vanamente aveva cercato di odiarla e alla fine, nella speranza che la lontananza avrebbe indotto o lei o lui a mutare radicalmente posizione, si era risolto a venire a Madaket. Vi era giunto a settembre, subito dopo l'esodo dei turisti estivi; adesso era maggio e, benché facesse ancora freddo, a poco a poco i turisti stavano ricominciando ad affluire. Ma niente era cambiato sul fronte dei suoi sentimenti. Dopo mezz'ora di cammino a passo sostenuto, Peter raggiunse la sommità di una duna prospiciente Smith Point, una lingua di terra che si estende per un centinaio di metri nell'oceano, circondata su un lato da tre piccole isole; la più prossima di queste si era staccata dalla penisola nel corso di un uragano, ma se vi fosse stata ancora collegata, avrebbe conferito all'estremità occidentale della punta - insieme ad Eel Point, che dista poco più di un chilometro - una forma simile alla chela di un granchio. A parecchie centinaia di metri dalla riva, in mare aperto, un raggio di sole penetrò la coltre di nubi e riverberò sull'acqua con tale intensità da produrre l'effetto di una pennellata di vernice bianca. I gabbiani descrivevano linee curve nel cielo; libravano e lasciavano cadere i pettini sulla spiaggia ghiaiosa per romperne i gùsci e poi scendevano a capofitto per recuperare la carne. Folate di vento lamentose disperdevano nell'aria nugoli di ghiaia sottile. Peter si sedette a ridosso della duna, facendo attenzione a scegliere un angolino da cui fosse possibile vedere l'oceano oltre i fusti verde chiaro delle piante di psaria arenaria; poi estrasse il bloc-notes e lo apri. Sulla prima pagina spiccavano le seguenti parole, scritte in stampatello: LA VOCE DEL VENTO. Sapeva già che gli editori non ne avrebbero voluto sapere di mantenere quel titolo; con ogni probabilità lo avrebbero cambiato in Il Lamento Funebre o La tempesta, avrebbero impacchettato il romanzo in una copertina a colori sgargianti e lo avrebbero esposto negli scaffali di qualche drogheria accanto a Desiderio d'Amore di Wanda Lafontaine. Ma nulla di tutto questo importava, se il contenuto era buono; e lo era, anche se i primi tentativi non erano stati affatto felici. Però, da quando aveva cominciato a venire tutte le mattine a Smith Point e a scrivere a mano, era riuscito miracolosamente a ingranare. Si era reso conto che era la sua storia quella che voleva raccontare - la sua donna, la sua solitudine, le sue e-
sperienze paranormali, la sua determinazione - il tutto racchiuso nell'arcana metafora del vento; e le parole gli erano uscite dalla penna con tale facilità, che sembrava quasi che il vento stesso partecipasse alla stesura del libro, sussurrandogli preziosi consigli all'orecchio e guidando la sua mano sul foglio. Fece scorrere le pagine e i suoi occhi notarono un paragrafo un po' troppo formale, che avrebbe dovuto spezzettare e sviluppare nel corso della narrazione: «Sadler aveva trascorso gran parte della propria vita a Los Angeles, dove i rumori della natura erano sovrastati dalla cacofonia della realtà urbana, e per lui lo spirare costante del vento era la caratteristica più significativa di Nantucket. Soffiava sull'isola in qualsiasi ora del giorno e della notte, dandogli la sensazione di vivere sul fondo di un oceano d'aria, sbattuto qua e là da correnti che nascevano in regioni esotiche del globo. Era un uomo solitario e il vento dava voce alla sua solitudine, quasi a richiamare la sua attenzione sull'immensità del mondo dal quale viveva isolato; con il passare dei mesi aveva incominciato a percepire una certa affinità con esso, a considerarlo un compagno di avventura nel suo viaggio attraverso il vuoto e il tempo. Era quasi convinto che le sue espressioni vaghe, ma pur sempre articolate in un abbozzo di discorso, non fossero altro che la voce di un oracolo dalla capacità vocalica non ancora del tutto sviluppata, e prestandovi l'orecchio ne derivava l'impressione dell'incombere di uno strano evento. Sadler non minimizzava quella sensazione, perché era consapevole di averne già percepite di simili in passato, e sapeva che, nella maggior parte dei casi, avevano trovato riscontro nella realtà. Non era che possedesse il dono della profezia, la capacità di prevedere terremoti o omicidi; si trattava piuttosto di un modesto potere paranormale, che si manifestava in visioni brevi e improvvise, accompagnate da nausea e mal di testa. A volte gli capitava di toccare un oggetto e di trarne informazioni sul suo proprietario, altre volte di presentire vagamente un evento futuro. Ma queste premonizioni, non erano mai sufficientemente chiare da ritornargli utili, da consentirgli di evitare qualche disgrazia o, come aveva scoperto di recente, un insuccesso sentimentale. Ciò nondimeno vi prestava grande attenzione. E adesso era quasi convinto che il vento stesse cercando di rivelargli qual-
cosa a proposito del suo futuro, di metterlo in guardia da una circostanza destinata a complicare la sua vita, perché ogni volta che si appostava sulla duna di Smith Point, sentiva...» Pelle d'oca, nausea e la sensazione di un vorticoso turbinio dietro la fronte, come se i suoi pensieri si rincorressero senza controllo. Peter appoggiò la testa sulle ginocchia e respirò profondamente, fino a quando la crisi accennò a diminuire. Gli stava accadendo sempre più spesso, e benché si trattasse con ogni probabilità di pura e semplice suggestione, una conseguenza del fatto che stava scrivendo una storia di natura così personale, non riusciva a fare a meno di pensare di essere finito, per ironia della sorte, Ai Confini Della Realtà e di vedere la vicenda, che era intento a narrare, prendere forma davanti ai suoi occhi. Naturalmente, si augurava di tutto cuore che non fosse così, perché era una storia tutt'altro che piacevole. Quando la nausea cessò del tutto, Peter aprì il bloc-notes su una pagina bianca, estrasse un pennarello blu e si accinse a descrivere le sgradevoli sensazioni che aveva appena provato. Due ore più tardi, mentre con le mani intirizzite dal freddo, ultimava la quindicesima pagina, udì una voce che lo chiamava. Era Sara Tappinger, che stava arrancando in cima alla duna affondando i piedi nella sabbia. Era una donna maledettamente attraente, pensò con un certo grado di autocompiacimento. Sulla trentina; lunghi capelli ramati, zigomi ben delineati e dotata di quello che un isolano suo conoscente chiamava «grandi problemi di torace». Lo stesso conoscente si era congratulato con Peter per essere riuscito a conquistarla: dopo aver divorziato, gli aveva detto, si era portata a letto metà degli uomini dell'isola, per poi alla fine scegliere lui, fortunato figlio-di-buona-donna... Anche Peter si riteneva fortunato: Sara era una donna di spirito, brillante e indipendente (era la direttrice della locale scuola Montessori) e loro due andavano d'accordo su tutto. Eppure ciò che li univa non era una intensa passione, ma piuttosto un sentimento di amicizia, uno stare bene insieme, e questo lo preoccupava. Anche se stare con lei era soltanto un palliativo alla sua solitudine, con il passare del tempo si era accorto di dipendere sempre di più dal loro rapporto e temeva che questo, in qualche modo, stesse a indicare una drastica riduzione delle sue aspettative nei confronti dell'amore, e che ciò, a sua volta, fosse un sintomo dell'avanzare della mezza età, una condizione per la quale era del tutto impreparato. «Ciao», disse Sara, lasciandosi cadere accanto a lui e stampandogli un
bacio sulla guancia. «Hai voglia di giocare?» «Come mai non sei a scuola?» «È venerdì. Te l'ho detto, non ti ricordi? Oggi è giorno di ricevimento dei genitori.» Poi gli prese la mano. «Ma sei freddo gelato! Da quant'è che sei qui?» «Da un paio d'ore.» «Tu sei matto.» Rise divertita della sua follia. «Sono rimasta a osservarti per un po' prima di chiamarti. Con i capelli che ti svolazzavano al vento, sembravi un bolscevico pazzo intento a ordire un complotto.» «In realtà», le rispose Peter imitando l'accento russo, «sono venuto qui per prendere contatto con i nostri sommergibili.» «Oh? Di che cosa si tratta? State programmando un'invasione?» «Non proprio. Il fatto è che da noi in Russia mancano molte cose: il grano, l'alta tecnologia, i blue jeans. Ma l'animo russo può sopportare queste privazioni. C'è un bene, invece, di cui siamo a corto e al quale non possiamo proprio rinunciare: è per questo che l'ho attirata qui.» Sara finse di non capire. «Avete bisogno di direttori didattici?» «Oh, no. Si tratta di un problema molto più serio. Penso che in americano si dica...» L'afferrò per le spalle e la costrinse a sdraiarsi sulla sabbia, immobilizzandola con il proprio corpo. «Scopare... Non possiamo proprio farne a meno.» Il sorriso che increspava le labbra di Sara vacillò alcuni istanti e poi lasciò il posto a un'espressione di intenso desiderio. Lui la baciò. Attraverso la stoffa del cappotto sentiva il suo seno morbido. Ma poi il vento gli arruffò i capelli e, all'improvviso, ebbe la sensazione che li stesse spiando al di sopra della sua spalla e troncò il bacio. Aveva di nuovo la nausea e gli girava la testa. «Stai sudando», gli disse Sara tamponandogli la fronte con la mano guantata. «È una delle tue solite crisi?» Peter annuì e si abbandonò contro la duna. «Che cosa vedi?», gli chiese continuando ad asciugargli la fronte, mentre l'ansia le faceva contrarre i muscoli del viso e le incideva alcune linee leggere agli angoli della bocca. «Niente.» Ma in realtà lui aveva visto qualcosa. Qualcosa che balenava dietro una superficie torbida. Qualcosa che lo attirava e lo atterriva al tempo stesso. Qualcosa che sapeva gli sarebbe presto capitato fra le mani.
Benché nessuno all'epoca se ne fosse reso conto, il primo segnale della sventura fu la scomparsa di Ellen Borchard, tredici anni, avvenuta la sera di martedì diciannove maggio: un evento di cui Peter aveva scritto nel suo libro poco prima che Sara lo raggiungesse sulla duna venerdì mattina. Ma per lui la sventura non ebbe inizio che venerdì sera, mentre era seduto all'Atlantic Café di Nantucket a bere qualcosa con lei. Avevano deciso di uscire insieme a cena, ma poiché al ristorante non c'era neppure un tavolo libero, avevano optato per qualche sandwich e una bibita al bar. Si erano appena appollaiati sui rispettivi sgabelli quando Jerry Highsmith, un giovanotto biondo che organizzava escursioni in bicicletta sull'isola (... «il Fusto dei Fusti, come si era autoproclamato», stando alla descrizione di Sara), attaccò bottone con Peter; era un habitué del bar nonché un aspirante scrittore e coglieva ogni occasione per consigliarsi con lui. Come sempre, Peter lo incoraggiò, anche se in cuor suo nutriva la convinzione che un frequentatore dell'Atlantic Café doveva avere ben poco da dire al pubblico dei lettori: era una tipica trappola per turisti del New England, tappezzata di barometri d'ottone e di vecchi salvagenti, ma che, evidentemente, incontrava i gusti dei giovani villeggianti estivi, molti dei quali - appena tornati dalle Bahamas, come testimoniava la loro abbronzatura, - erano assiepati al bancone del bar. Poco dopo Jerry li lasciò per inseguire una rossa affettata che faceva parte del suo ultimo gruppo di escursionisti e, sullo sgabello che aveva lasciato libero prese posto Mills Lindstrom, un pescatore in pensione e vicino di casa di Peter. «Che mi venga un accidente. Tira un vento che ti spazza via», disse a mo' di saluto, e ordinò un whisky. Era un uomo grande e grosso, con le guance ricoperte da una ragnatela di capillari vermigli che quella sera era più pronunciata del solito, a riprova che aveva già bevuto parecchio. Indossava una tuta striminzita sotto un giubbotto Levi's e da sotto il berretto gli sfuggivano alcuni riccioli bianchi. «Che cosa fai qui?» Peter era rimasto sorpreso nel vederlo mettere piede nel bar; era risaputo che Mills considerava il turismo alla stregua di un cancro inarrestabile e i posti come l'Atlantic Café i luoghi in cui il gene mutageno si riproduceva. «Oggi sono uscito in barca. Era da due mesi che non uscivo.» Mills trangugiò in un colpo solo metà del suo whisky. «Pensavo di piazzare tre o quattro lenze, ma dopo quel che ho visto a Smith Point mi è passata la voglia di pescare.» Svuotò il bicchiere e fece segno al barista di portargliene un altro. «Carl Keating me l'aveva detto che era già un po' che si stava
formando. Evidentemente me ne ero scordato.» «Di che cosa si tratta?» gli chiese Peter. Mills sorseggiò il suo secondo whisky. «Un aggregato di inquinamento marino», disse con voce severa. «Questo è il nome che danno gli scienziati. In soldoni è un ammasso di rifiuti. Quasi un chilometro quadrato di mare coperto di schifezze: chiazze di petrolio, bottiglie di plastica e pezzi di legname galleggiante. In genere si accumulano durante le maree ferme, ma finora non era mai capitato che giungessero così vicine a riva. Questo aggregato qua è a meno di otto chilometri dalla punta.» Peter era incuriosito. «Stai parlando di qualcosa di simile al Mar dei Sargassi o sbaglio?» «Più o meno. La differenza è che questi ammassi sono meno grandi e che non ci sono alghe.» «Sono permanenti?» «Questo qui di Smith Point è nuovo, ma ce n'è uno a circa sedici chilometri al largo di Vineyard che è lì da diversi anni. Quando c'è qualche tempesta si divide in tanti pezzi, ma poi si riforma sempre.» Mills si tastò le tasche cercando invano la pipa. «L'oceano sta diventando come una pozza stagnante. Butti la lenza e hai più probabilità di pescare uno stivale che un pesce. Mi ricordo che vent'anni fa c'erano tanti di quegli sgombri che vedevi il mare nero per chilometri. Adesso quando vedi una macchia nera sai che una dannata petroliera se l'è fatta sotto!» Sara, che fino ad allora aveva chiacchierato con un'amica, mise un braccio attorno alle spalle di Peter e gli chiese di che cosa stessero parlando. Dopo che Peter l'ebbe ragguagliata, rabbrividì con una certa teatralità e disse: «Questa storia ha un che di sinistro!» Poi, affettando un tono lugubre, aggiunse: «Misteriose zone magnetiche che attirano i marinai verso il loro triste destino.» «Sinistro!» La schernì Mills. «Altro che sinistro, Sara! Sinistro!» Più ripeteva quella parola e più si infuriava. Si alzò in piedi e batté il pugno sul bancone, facendo rovesciare il bicchiere di un ragazzo abbronzato che era in piedi dietro di lui; poi, senza curarsi delle sue proteste, rivolse a Sara uno sguardo rabbioso. «Allora anche questo posto è sinistro! Perché è la stessa stramaledettissima cosa! Un cumulo di pattume! Con la differenza che qui le immondizie parlano e camminano...» Poi, voltandosi verso il ragazzo che continuava a protestare: «E pensano che il mondo sia tutto loro!» «Porca puttana!» esclamò Peter, guardando Mills che si faceva strada a
spallate verso l'uscita. «Volevo chiedergli se mi portava a vederlo.» «Glielo puoi sempre chiedere domani», gli rispose prontamente Sara. «Anche se non riesco a capire che cosa ti interessi.» Sorrise e, contemporaneamente, alzò le mani per prevenire la sua spiegazione. «Oh, chiedo scusa. Dovevo immaginare che per uno che trascorre giornate intere a guardare i gabbiani, vedere un metro quadro di spazzatura debba essere come minimo un'esperienza erotica.» Lui fece finta di afferrarle il seno. «Te lo faccio vedere io che cos'è erotico!» Lei rise e gli prese le mani, ma poi, con un improvviso cambiamento d'umore, gli sfiorò le labbra con le nocche. «No, me lo farai vedere più tardi.» Bevvero ancora un po', parlarono dei rispettivi lavori e programmarono di trascorrere un weekend insieme a New York. A poco a poco, Peter cominciò a percepire uno strano brivido caldo; in parte era dovuto ai numerosi drink ingurgitati, ma sapeva che anche Sara ne era responsabile. Benché avesse avuto altre donne da quando lui e sua moglie si erano separati, nessuna aveva lasciato la benché minima traccia nella sua vita. Si era sempre sforzato di essere onesto con loro, premettendo ogni volta di essere innamorato di un'altra, ma alla fine aveva capito che quella non era che una sottile forma di disonestà, perché per quanto uno chiarisca la propria posizione sentimentale, quando va a letto con una donna, lei si rifiuta di credere che possa esistere un ostacolo alla loro relazione che il suo amore non possa superare; e così, in realtà, lui le aveva sempre usate. Ma con Sara era diverso. Lui era rimasto affascinato da lei e l'apprezzava. Non le aveva neppure accennato all'altra, alla donna di L.A.: una volta l'avrebbe considerata una menzogna, ma adesso cominciava a capire che forse quello era il segno della fine della passione. Aveva amato per così tanto tempo una donna assente, che probabilmente aveva finito per convincersi che l'assenza fosse una condizione indispensabile per garantire l'intensità di un sentimento: al punto che adesso rischiava di non accorgersi della nascita di un nuovo amore, molto più concreto, ma altrettanto passionale, proprio sotto i suoi occhi. Studiò il viso di Sara mentre lei divagava sulla loro gita a New York. Era bellissima. Possedeva quel tipo di bellezza che conquista di nascosto, quella che uno inizialmente liquida come semplice grazia, finché dopo un po', notando la bocca un po' troppo piena, comincia a riconoscere alla donna un profilo interessante; e poi, osservandone il volto volitivo, l'intensità dello sguardo e la piega espressiva delle labbra, giunge lenta-
mente a percepirne la bellezza. Eh, sì, Sara gli piaceva proprio. Il problema era che in tutti quei mesi di solitudine (Mesi? Cristo, era più di un anno!) aveva preso le distanze dalle proprie emozioni; aveva attivato una specie di sistema di sorveglianza e così ogni volta che un sentimento lo trasportava in una direzione o nell'altra anziché abbandonarvisi lo analizzava e, in questo modo lo neutralizzava. Dubitava di poter essere ancora capace di lasciarsi andare. Sara rivolse uno sguardo interrogativo a una persona alle sue spalle. Era Hugh Weldon, il capo della polizia. Weldon salutò entrambi con un breve cenno e prese posto sullo sgabello accanto al loro. «Sara. Mr. Ramey. Sono contento di avervi trovato.» Peter aveva sempre considerato Weldon il prototipo degli abitanti del New England: magro, severo e con il viso segnato da un'intera vita trascorsa all'aria aperta. L'espressione del suo sguardo era sempre così cupa da lasciar supporre che portasse i capelli a spazzola in atto di penitenza; era sulla cinquantina, ma aveva l'abitudine di succhiarsi i denti, e questo vezzo lo faceva assomigliare a un bambino di dieci anni. In genere Peter lo trovava simpatico, ma quella sera nel vederlo aveva provato lo stesso senso di nausea e di disagio che accompagnava le sue crisi di preveggenza. Dopo aver scambiato alcuni convenevoli con Sara, Weldon si rivolse a lui. «Senza offesa, Mr. Ramey, ma io devo chiederle dove si trovava martedì sera verso le sei.» Peter sentì la nausea e il disagio crescere sempre di più e trasformarsi in un sordo senso di panico, che produceva su di lui lo stesso effetto di una medicina amara. «Martedì», rispose, «è il giorno in cui è scomparsa la piccola Borchard.» «Dio mio, Hugh», proruppe Sara con voce irritata «Che ti salta in mente? Diamo la caccia allo straniero barbuto ogni volta che un bambino scappa di casa, adesso? Perché è di questo che si tratta e lo sai benissimo anche tu. Anch'io sarei scappata di casa se avessi avuto un padre come Ethan Borchard.» «Forse.» Weldon incoraggiò Peter con uno sguardo neutrale. «Le è per caso capitato di vedere Ellen, martedì, Mr. Ramey?» «Sono stato in casa», rispose Peter, quasi incapace di parlare. Si sentiva la fronte e il corpo madidi di sudore e intuiva di aver assunto un'espressione colpevole; ma non gli importava perché stava vedendo quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Era seduto da qualche parte e sotto di lui, poco
oltre la portata della sua mano, c'era qualcosa che luccicava. «Allora deve averla vista per forza», riprese Weldon. «Alcuni testimoni hanno affermato di aver notato la bambina aggirarsi con aria mesta intorno alla catasta di legna che c'è nel suo cortile per circa un'ora. Era vestita di giallo. Difficile non vederla.» «Mi dispiace, ma non l'ho vista», disse ancora Peter. Si stava protendendo verso l'oggetto che luccicava e sapeva che per lui le cose sarebbero finite male in ogni caso, molto male, ma ancor peggio se l'avesse toccato, e ciò nonostante non riusciva a evitarlo. «Quello che dice non ha senso.» Gli sembrava che la voce di Weldon provenisse da molto lontano. «Il suo cottage è così piccolo che mi sembra naturale che uno muovendosi, noti la presenza di una ragazza vicino alla propria catasta di legna. Alle sei la maggior parte della gente mangia, e dalla sua cucina la catasta di legna si vede benissimo.» «Non l'ho vista», ripeté Peter. La visione si stava dileguando e lui si sentiva girare terribilmente la testa. «Non capisco come sia possibile.» Weldon si succhiò i denti e udendo quel suono glutinoso Peter si sentì rivoltare lo stomaco. «Ti è mai passato per la testa, Hugh», intervenne Sara con rabbia, «che magari stava facendo qualcos'altro?» «Se sai qualcosa, perché non lo dici chiaro e tondo?» «Ero da lui martedì scorso. Si muoveva, d'accordo, ma non come intendi tu; e non guardava fuori da nessuna finestra. Sono stata sufficientemente chiara?» Weldon si succhiò di nuovo i denti. «Direi di sì. Ma ne sei sicura?» Sara proruppe in una risata sarcastica. «Vuoi che te la faccia vedere?» «Non c'è motivo di agitarsi tanto, Sara. Non ci provo gusto a fare quello che sto facendo.» Puntellandosi contro il bancone, Weldon scese dallo sgabello e fissò Peter dall'alto al basso. «Ha l'aria di non sentirsi troppo bene Mr. Ramey. Spero non sia stato qualcosa che ha mangiato.» Indugiò a osservarlo ancora alcuni istanti, dopo di che si aprì un varco fra la folla dei clienti e si avviò all'uscita. «Dio mio, Peter!» Sara gli prese la faccia fra le mani. «Sei stravolto!» «Mi gira la testa», disse lui cercando il portafoglio. Poi gettò alcune banconote sul bancone. «Vieni, usciamo. Ho bisogno di una boccata d'aria.» Con l'aiuto di Sara, guadagnò la porta e si appoggiò al tetto di un'auto in sosta; poi, con la testa ciondoloni, iniziò a respirare affannosamente l'aria
fresca della sera. Il dolce peso del braccio di lei sulle sue spalle lo aiutò a calmarsi e, dopo alcuni secondi cominciò a riacquistare le forze e fu nuovamente in grado di alzare il capo. La strada, con i suoi ciottoli, le piccole botteghe, gli alberi pieni di gemme, e i lampioni vecchio stile sembrava la struttura di sostegno di una ferrovia in miniatura. Il vento assediava i marciapiedi, rincorrendo i bicchieri di carta e facendo svolazzare le tende dei negozi. Una folata più forte delle altre lo fece rabbrividire e, insieme a un nuovo accesso di vertigine, gli restituì un flashback della visione di poco prima. Si stava di nuovo protendendo verso l'oggetto che luccicava, ma adesso era molto più vicino di prima, anzi così vicino che si sentiva formicolare le dita della mano tesa allo spasimo... Se solo fosse riuscito ad allungarsi ancora un paio di centimetri... Lo stordimento crebbe fino ad avere ragione di lui. Peter si aggrappò al tettuccio della macchina, ma il braccio gli cedette e lui si accasciò, finendo con la guancia contro il metallo freddo della vettura. Sara stava gridando, chiamando aiuto, e lui voleva rassicurarla, dirle che nel giro di qualche minuto sarebbe stato di nuovo bene, ma le parole gli ostruivano la gola, e lui non poté fare altro che rimanere immobile a guardare il mondo che gli vorticava intorno, fino a quando qualcuno con le braccia più forti di quelle di Sara lo sollevò e gli disse: «Ehi, faresti meglio a smetterla di darci dentro coi cicchetti o la prossima volta ti pianto qui e me la squaglio con la tua signora.» Il lampione rifletté un rettangolo di luce gialla al limite della pediera del letto di Sara, illuminando le sue gambe e metà del corpo di Peter, che giaceva raggomitolato sotto le coperte. Lei accese una sigaretta, poi, furente per aver ceduto di nuovo al vizio, la schiacciò nel portacenere. Si voltò sul fianco e rimase distesa a osservare il petto di lui che si alzava e si abbassava con ritmo regolare. Dormiva profondamente. Perché, si chiese, finiva sempre per innamorarsi dei più disgraziati? Poi rise di sé: conosceva già la risposta. Lei voleva essere quella che li aiutava a dimenticare la causa della loro sofferenza, in genere un'altra donna. Una via di mezzo fra Florence Nightingale e una terapeuta sessuale, ecco quello che era, e più il caso era disperato e più le riusciva difficile rinunciare alla sfida. Anche se Peter non gliene aveva parlato, lei era certa che metà del suo cuore fosse rimasto a L.A., prigioniero di un fantasma. Non c'era bisogno che lui glielo confermasse: i suoi silenzi improvvisi, quel suo modo di estraniarsi dalla realtà e di fissare il vuoto, le sue corse alla cassetta delle lettere appena il postino vi deponeva la corrispondenza e la sua costante delusione per la posta che riceveva parlavano per lui. Lei credeva di aver conquistato l'altra metà del
suo cuore, ma ogni volta che lui si lasciava andare, dimenticava il passato e si immergeva nel presente, il fantasma ritornava a tormentarlo e allora lui innalzava una barriera invisibile fra sé e il mondo. Il suo approccio al sesso, per esempio. Le si avvicinava sempre con estrema delicatezza, ma ogni volta che erano sul punto di raggiungere una maggiore intimità, si tirava indietro, buttava lì una battuta oppure diventava brusco - come quella mattina sulla spiaggia, quando l'aveva afferrata per le spalle e l'aveva rovesciata sulla sabbia - e in quei momenti lei si sentiva umiliata e disprezzata. A volte pensava che avrebbe fatto meglio a dirgli di uscire dalla sua vita e di tornare da lei solo quando si fosse chiarito le idee, ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscita. Lui possedeva più della metà del suo cuore. Si alzò dal letto, facendo attenzione a non svegliarlo, e si sfilò i vestiti. Un ramo grattò contro il vetro della finestra, facendola trasalire, e lei si portò immediatamente la camicia al petto per coprirsi il seno. Questa poi! Un guardone che si arrampicava fino alla finestra del terzo piano! Fossero stati a New York ancora ancora, ma a Nantucket! Gettò la camicia nel cesto della roba sporca e intravvide la propria sagoma riflessa nel lungo specchio appeso alla porta del bagno. Nella luce incerta della stanza stentò a riconoscere la propria immagine stranamente allungata, ed ebbe la sensazione che la donna fantasma di Peter la stesse osservando attraverso un altro specchio dall'estremità opposta del continente. Riusciva quasi a percepirne i lineamenti. Alta, con le gambe lunghe e l'espressione afflitta. Sara non aveva bisogno di vederla per sapere che doveva essere stata una creatura triste: era sempre quello il tipo di donna che riusciva a infrangere il cuore di un uomo, il quale, poi, finiva inevitabilmente per diventare una testimonianza fossile di colei che l'aveva sedotto e abbandonato. Si trattava di donne che ostentavano la propria tristezza per essere curate, ma che in realtà non erano alla ricerca di una cura, bensì di un'altra ragione per alimentare la tristezza in cui si erano crogiolate per tutta la vita. Sara si avvicinò allo specchio e i contorni del suo corpo rimpiazzarono il profilo immaginario della sua rivale. «Questo è quello che farò oggi con te», sussurrò. «Ti cancellerò con un colpo di spugna.» Le sue parole suonarono vuote. Sara scostò il copriletto e scivolò accanto a Peter. Lui emise un gemito soffocato e lei vide la luce del lampione riflettersi nei suoi occhi. «Mi dispiace per prima», disse lui. «Nessun problema», gli rispose Sara con vivacità. «Bob Frazer e Jerry Highsmith mi hanno aiutato a riportarti a casa. Te ne ricordi?»
«Vagamente. Stento a credere che Jerry abbia lasciato perdere la sua rossa per me.» Sollevò il braccio in modo che lei potesse accoccolarsi sulla sua spalla. «Temo di averti completamente rovinato la reputazione.» «Questo non Io so, ma è certo che sta diventando sempre più... pittoresca!» Lui rise. «Peter?» «Sì?» «Queste tue crisi mi preoccupano. Perché hai avuto un'altra crisi non è vero?» «Hu-hu.» Peter rimase in silenzio alcuni istanti. «Anch'io sono preoccupato. Adesso mi capitano due o tre volte al giorno. Non mi era mai successo prima. Del resto non ci posso fare niente, se non cercare di non pensarci.» «Ma durante queste crisi riesci a vedere quello che accadrà?» «No, quello che vedo non è mai chiaro ed è perfettamente inutile cercare di interpretarlo. È solo quando il fatto accade che capisco che era quello a cui si riferiva la premonizione. In pratica, possiedo un potere che non serve a niente.» Sara si rannicchiò più vicina e mise una gamba di traverso sul suo bacino. «Perché non andiamo insieme fino al Capo, domani?» «Avevo intenzione di andare a dare un'occhiata all'ammasso di rifiuti di cui parlava Mills.» «OK. Quello possiamo farlo al mattino e poi prendere il traghetto delle tre del pomeriggio. Penso che ti farebbe bene allontanarti dall'isola, almeno per qualche ora.» «D'accordo. Non mi sembra un'idea tanto malvagia, dopo tutto.» Sara spostò la gamba e si accorse che lui aveva il pene eretto. Allungò la mano sotto le coperte per toccarlo e lui si voltò verso di lei per facilitarle il compito. Poi, mentre il respiro gli si faceva più affannoso, prese a baciarla dolcemente sulle labbra, sulla gola, sugli occhi, mentre i suoi fianchi si muovevano in sintonia con la sua mano: dapprima lentamente e poi in modo sempre più insistente e convulso, fino a quando il pene rigido cominciò a batterle contro la coscia e lei dovette togliere la mano e lasciare che lui scivolasse fra le sue gambe e la penetrasse. Allora i suoi pensieri si dissolsero nel desiderio e la sua coscienza si ridusse alla mera percezione del calore e delle ombre. Ma quando lui si sollevò sopra di lei, la separazione di quell'attimo ruppe l'incantesimo e all'improvviso Sara udì il sibilo stizzoso
del vento, distinse i tratti del suo viso e la fessura di luce sul soffitto alle sue spalle. L'espressione di Peter sembrò farsi più intensa, allarmata, e lui articolò le labbra per parlare. Ma lei gli sigillò le labbra con un dito. Oh, Peter, ti prego, non fare scherzi. È una cosa terribilmente seria. Gli irradiò i suoi pensieri e forse lui li percepì. I muscoli del viso di Peter si rilassarono e mentre Sara lo guidava di nuovo dentro il proprio corpo, lui emise un gemito, un gemito disperato come il grido di dolore che potrebbe lanciare un fantasma al termine della sua vita terrena. E allora lei si avvinghiò a lui, e lo attrasse ancor più dentro di sé e gli parlò, ma non con parole, bensì con suoni appena sussurrati, sospiri, bisbiglii pregni di significati che lui capiva. 3 Quella stessa notte, mentre Peter e Sara dormivano, Sally McColl stava guidando la sua jeep lungo la strada che conduce a Smith Point. Era ubriaca e non aveva la benché minima idea di dove stesse andando: capiva soltanto che lo sterzo continuava a girare in una S senza fine, mentre la luce dei fari zigzagava sulle colline basse, illuminando le ginestre e i biancospini contorti. In una mano stringeva saldamente una bottiglia di cherrybrandy, la terza di quella sera. Lei era per tutti Sally di 'Sconset. Sally la Pazza. Aveva settantadue anni, ma era ancora capace di sgusciare i pettini e di remare meglio della maggior parte degli uomini dell'isola. Avviluppata in un paio di vestiti dell'Esercito della Salvezza, due maglioni mangiati dalle tarme e una giacca di tweed con i buchi sui gomiti, sembrava una strega arrivata diritto dall'inferno. Dal vecchio cappello da pescatore che portava calcato sulla testa spuntavano ciuffi sfilacciati di capelli bianchi. La radio, disturbata dalle cariche elettrostatiche, mandava sibili e stridii che lei accompagnava con mugugni, imprecazioni e improvvise esplosioni canore, espressione sonora dello stato confusionale della sua mente. Parcheggiò vicino al punto in cui finisce la strada; scese barcollando dalla jeep e, piantando i piedi nella sabbia soffice, raggiunse la cima della duna. Qui vacillò alcuni istanti, stordita dalle folate di vento e dall'immensa oscurità del cielo, interrotta soltanto da una manciata di stelle all'orizzonte. «Oooh-oooh», urlò. Il vento raccolse il suo grido e lo incorporò nel proprio ululato. Sally traballò, scivolò e rotolò lungo il versante della duna; rimase immobile alcuni secondi, poi sputò la sabbia che le si era appiccicata alla lingua, si tirò seduta e guardò la bottiglia che era miracolosamente riuscita
a non farsi sfuggire di mano né a rovesciare, nonostante il tappo non fosse ben avvitato. Quindi, in un improvviso accesso di paranoia, cominciò a guardarsi affannosamente intorno. Doveva accertarsi che non ci fosse nessuno nei dintorni; non voleva che qualcuno la spiasse, per poi andare a metter in giro altre storie su quella vecchia ubriacona di Sally. Quelle che circolavano sul suo conto erano già abbastanza cattive. Per metà erano bugie e per metà erano state inventate apposta per farla apparire matta... Come quella secondo cui si era sposata per corrispondenza e, dopo due settimane, suo marito, terrorizzato a morte, se l'era battuta nascosto nella stiva di una nave e lei aveva attraversato tutta Nantucket a cavallo nella speranza di trovarlo e riportarselo a casa. Un tappetto di pelle scura, un italiano, non un inglese, che a letto valeva meno di un soldo bucato. Meglio arrangiarsi da sola che perdere tempo con un mezza cartuccia. L'unica cosa che voleva erano i maledetti pantaloni che gli aveva messo addosso e le malelingue l'avevano dipinta come una donna disperata. Bastardi! Manica di dann... I pensieri di Sally si arenarono in un tunnel buio e lei rimase seduta a fissare l'oscurità con sguardo assente. Faceva un freddo cane e tirava anche vento. Trangugiò un sorso di brandy che, non appena le arrivò nello stomaco, le fece aumentare la temperatura corporea di una decina di gradi. Un'altra sorsata le ridiede forza alle gambe, così che si alzò in piedi e, lasciandosi alle spalle la punta, prese a camminare lungo la spiaggia alla ricerca di un posticino tranquillo, dove nessuno venisse a romperle l'anima. Era tutto quello che voleva. Starsene seduta a sputare in santa pace e sentire la notte sulla pelle. Ma non era una cosa tanto facile di quei tempi, con tutta la gentaglia che arrivava dalla terraferma: mezze checche firmate dalla testa ai piedi e piccole oche pronte a spalancare le gambe al primo buon partito disponibile, generalmente aspiranti dirigenti grassi e incapaci di farselo rizzare, che le sposavano per il gusto di farsi umiliare tutte le notti... I suoi pensieri cominciarono a svanire in una spirale nebbiosa e lei con loro. Si lasciò cadere pesantemente sulla sabbia e si abbandonò a una risata chioccia (le piaceva quel rumore). Poi, tracannò un altro sorso di brandy, rammaricandosi di non averne portata un'altra bottiglia, e lasciò che i suoi pensieri sprofondassero in un susseguirsi frammezzato di immagini appena abbozzate e di ricordi che sembrava fossero stati risvegliati dalle sferzate rapide del vento. Dopo che i suoi occhi si furono adattati al buio, riuscì a discernere la sagoma di un paio di palazzi ammassati contro la fascia più chiara del cielo. Erano case estive ancora disabitate. No, no. Erano... Co-
me-diavolo-si-chiamavano? Ah, condomini! Che cosa aveva detto il giovane Ramey a proposito di quei palazzi? Ah sì! Che erano tanti «ini» con i condom! Profilattici viventi. Era un bravo ragazzo quel Peter. La prima persona che aveva conosciuto in tanti anni che possedesse il suo stesso potere; anzi un potere più forte del suo, che era a malapena utile per prevedere il tempo, servizio che, adesso che era vecchia, le sue ossa le rendevano altrettanto bene. Le aveva raccontato che in California alcune persone avevano fatto saltare in aria i condomini perché deturpavano il paesaggio e a lei era sembrata una buona idea. Il pensiero dell'isola assediata da tutto quel cemento le faceva rivoltare lo stomaco e, in una improvvisa crisi di nostalgia, propiziata dall'alcol, ricordò com'era bello il mare quando lei era ragazza. Pulito, puro e abitato da migliaia di spiriti. E lei riusciva a sentirli quegli spiriti... D'un tratto, dalle dune antistanti, provenne l'eco di colpi e di schianti fragorosi. Barcollando, Sally si alzò in piedi e tese l'orecchio. Ancora lo stesso frastuono, come se qualcosa venisse abbattuto a suon di poderose mazzate. Sally si incamminò in direzione della fonte del fracasso, verso i condomini. Con ogni probabilità erano giovani teppisti che si divertivano a distruggere l'altrui proprietà. Ma adesso gliela avrebbe fatta vedere lei! Non appena raggiunse la sommità della duna successiva, però, lo strepito si spense. Poi, il vento riprese a spirare senza gemere né rumoreggiare, ma articolandosi in un ululato strano, quasi una melodia, come se stesse soffiando attraverso i fori di un enorme flauto. Sally si sentì formicolare la nuca e un brivido di paura le serpeggiò lungo la spina dorsale. Era sufficientemente vicina ai condomini da poterne distinguere il tetto stagliato contro il cielo, ma questo era tutto quello che era in grado di vedere. C'era solo quella misteriosa musica del vento che ripeteva all'infinito lo stesso motivo di cinque note. Poi, anche quel suono svanì. Sally ingollò un altro sorso di brandy per farsi coraggio e riprese a camminare. Ondeggiando, le foglie della psamma arenaria le pizzicavano le mani e quella sensazione sgradevole le fece venire la pelle d'oca. Quando fu a circa sei metri dal primo fabbricato si fermò con il cuore che le batteva all'impazzata. La paura le stava facendo rivoltare il brandy nello stomaco. Ma di che cosa doveva mai avere paura, si chiese. Del vento? 'Fanculo! Bevve un altro sorso di liquore e proseguì. Era così buio che doveva camminare tastando il muro e rimase di sasso quando, nel bel mezzo della parete la sua mano incontrò un enorme buco, ben più grande di una porta. Tutt'intorno, le assi di legno erano spezzate e le perline di rivestimento di-
velte, come se un pesce gigante avesse squarciato il palazzo. Sally aveva la bocca arsa, ma varcò ugualmente l'ampia apertura. Dopo aver rovistato nelle tasche della giacca, estrasse una scatola di fiammiferi da cucina e ne accese uno, tenendo le mani a coppa sopra la fiamma fino a quando prese a bruciare regolarmente. La stanza era priva di mobili; c'erano solo la moquette, l'impianto del telefono e giornali e stracci sporchi di vernice. La parete di fronte a lei ospitava porte a vetro scorrevoli, di cui, in pratica, erano rimasti intatti solo i telai: le lastre, infatti erano ridotte quasi interamente in frantumi che, disseminati per tutta la stanza, scricchiolavano sotto i suoi piedi. Mentre si avvicinava, un pezzo a forma di ghiacciolo catturò il riverbero della fiamma trasformandosi per un istante in un dente aguzzo. Il fiammifero si consumò, scottandole le dita. Sally lo lasciò cadere, ne accese un altro e si avventurò nella stanza successiva. Buchi anche qui, e un'aria così pesante che sembrava che la casa stesse trattenendo il respiro. Un brutto scherzo che le stavano giocando i suoi nervi, naturalmente. Dannati nervi di vecchia. Forse erano stati dei teppisti: si erano ubriacati e avevano sfasciato i muri con le macchine. Un improvviso refolo di vento spense il fiammifero. Lei ne accese un altro, ma il vento spense anche quello e allora lei capì che non potevano essere stati dei ragazzi a combinare quel disastro: perché quella volta il vento non se ne andò, ma cominciò a palpitarle intorno, a sollevarle il vestito, ad arruffarle i capelli, a intrecciarsi intorno alle sue gambe e a frugarla tutta. E nel vento c'era un non so che, una presenza senziente che le faceva tremare le ginocchia e le stringeva le tempie in una morsa di terrore. Era arrivato qualcosa dal mare, qualcosa di malefico portato dal vento, perché un essere aveva sfondato i muri per suonare la sua musica folle e spaventosa e adesso era intorno a lei, giocava con lei, pronto a rapirla in un vortice e a trascinarla all'inferno. Aveva un odore acre e appiccicoso, che le rimaneva impregnato nella pelle ovunque la toccasse. Sally fece ritorno sui propri passi; voleva urlare, ma riuscì soltanto a emettere un gemito rauco. Il vento la inseguì, sollevando in aria stracci e giornali che, all'improvviso si avventarono contro di lei come pipistrelli bianchi. Allora lei urlò. Attraversò precipitosamente il buco nel muro e si lanciò in una corsa forsennata, inciampando, cadendo, balzando in piedi, agitando le braccia e gridando, con il cuore che sembrava sul punto di scoppiarle. Dietro di lei, il vento usciva a fiotti dalla casa, ululando, e nella sua mente lo vide prendere la forma di un gigante, di un demone nero che rideva di lei, e le dava l'illusione di salvarsi prima di afferrarla e farla a
pezzi. Rotolò giù dall'ultima duna e, respirando a fatica, abbrancò la maniglia della jeep; poi infilò la chiave nell'accensione e pregò fino a quando non sentì il rombo del motore; quindi facendo stridere le gomme, fece un'inversione a U e si immise bruscamente sulla strada per Nantucket. Fu soltanto quando ebbe percorso circa metà del tragitto che la separava da 'Sconset, che riuscì a riacquistare la calma necessaria per pensare al da farsi. Decise di andare immediatamente a Nantucket a parlare con Hugh Weldon, anche se solo Dio sapeva quel che avrebbe fatto o le avrebbe detto. Quella scopa vestita d'un uomo con una pietra al posto del cuore! La cosa più probabile era che le ridesse in faccia e poi andasse a raccontare ai suoi pari l'ultima storia di Sally la Pazza. No, disse a se stessa. Non si sarebbe più riso di Sally, vecchia ubriacona che vede i fantasmi e vaneggia sul vento. Non le avrebbero creduto e allora tanto valeva che pensassero che erano stati dei vandali. Un lampo di compiaciuta malizia le illuminò gli occhi, cancellando le ombre della paura e infondendole più calore nelle vene di un sorso di cherry-brandy. Che accadesse quello che doveva accadere. Solo allora avrebbe raccontato la sua storia e avrebbe detto a tutti che avrebbe tanto voluto avvertirli prima, ma che loro le avrebbero dato della pazza. Oh, no! Questa volta non sarebbe stata il loro zimbello. Che scoprissero da sé che il mare aveva partorito un nuovo demonio. 4 L'imbarcazione di Mills Lindstrom era una baleniera di Boston, sei metri di scafo blu di forma approssimativamente quadrata, con un paio di sedili ribaltabili, un pilone di controllo e un motore fuoribordo da cinquantacinque cavalli. Sara era costretta a sedere in braccio a Peter e, se a lui la cosa sarebbe stata gradita in ogni caso, quella mattina apprezzò in particolar modo il calore extra che gli assicurava quella vicinanza. Benché fosse calmo, l'oceano era solcato da onde lunghe, mentre sull'isola, coperta da nubi pesanti, si era instaurato un fronte d'aria fredda. Più oltre il sole era riuscito ad aprirsi un varco, ma intorno alla barca gravavano ancora banchi di nebbia biancastra in via di lento dissolvimento. La desolazione del paesaggio, comunque, non deprimeva Peter, che pregustando il piacevole weekend che avrebbe trascorso insieme a Sara, chiacchierava a ruota libera, senza quasi ricordare il motivo per il quale si trovavano lì. Per contro, Mills era pensieroso e taciturno e quando giunsero in vista dell'aggregato
di inquinamento marino, un'orribile macchia scura che si estendeva per centinaia di metri sulla superficie dell'oceano, trasse la pipa da sotto l'impermeabile e si mise a masticarne il cannello, come se volesse placare l'ansia che quella vista gli suscitava. Peter prese in prestito il suo binocolo e scrutò il mare. La superficie dell'aggregato appariva punteggiata da migliaia di oggetti bianchi che, a quella distanza, sembravano ossa per metà infisse in un sottile strato di terreno. Poco più sopra, festoni di nebbia si intrecciavano e si muovevano pigramente, formando un cappuccio osceno che scivolava sulla cupola di quell'escrescenza maleolente. Era una terra di nessuno, una macchia ributtante, che diventava sempre più disgustosa a mano a mano che la barca vi si avvicinava. Gli oggetti bianchi erano per lo più bottiglie di Clorox, quelle di cui i pescatori si servono per delimitare l'estensione delle reti; ma c'erano anche moltissimi tubi fluorescenti, oggetti di plastica, frammenti di rete e pezzi di legno, tutti invischiati in una gelatina oleosa di colore marrone chiaro. Era un Golgota del mondo inorganico, una manifestazione della suprema malattia spirituale, dell'entropia trionfante; forse, un giorno, pensò Peter, tutta la terra si sarebbe ridotta così. L'odore acre e salmastro che si levava dall'ammasso putrescente gli fece accapponare la pelle. «Oh Cristo!», esclamò Sara, mentre la barca costeggiava l'aggregato. Poi, aprì di nuovo la bocca per aggiungere qualcosa, ma le mancarono le parole. «Adesso capisco perché avevi voglia di bere l'altra sera», disse Peter rivolto a Mills, che si limitava a scuotere la testa e a mugugnare. «Possiamo attraversarlo?», chiese Sara «Tutti quei pezzi di rete si impiglierebbero nel motore e lo metterebbero fuori uso», le rispose brusco Mills. Poi, guardandola di traverso, aggiunse: «Perché non fa già abbastanza schifo visto da qui?» «Potremmo tirare su il motore e proseguire a remi», suggerì Peter. «Andiamo, Mills! Sarà come andare sulla luna.» E, infatti, mentre facevano scivolare la barca in mezzo all'aggregato, fendendo la superficie marrone chiara, Peter ebbe l'impressione di varcare il confine invisibile di un territorio non contemplato dalle carte geografiche. L'aria sembrava più pesante, gravida di energia repressa, e il silenzio più profondo. Il solo suono udibile era lo sciabordio dei remi. Mills aveva spiegato a Peter che a causa dell'azione opposta delle correnti marine, l'ammasso aveva assunto, grosso modo, una forma a spirale, e questo rafforzava in lui la sensazione di penetrare in un mondo sconosciuto. Imma-
ginava in loro tre i protagonisti di un racconto fantastico, intenti a muoversi con circospezione sopra un grande congegno inserito nel pavimento di un tempio abbandonato. Al passaggio della barca, i rifiuti rimbalzavano fuori dall'acqua, urtando contro lo scafo. La poltiglia marrone aveva la consistenza di una gelatina che non si fosse rappresa bene, e quando Peter vi immerse la mano, tante piccole gocce untuose gli si accumularono sulle sue dita. In alcuni tratti, la superficie che li circondava era di una bellezza orrida, quasi viva: viticci scoloriti e vermiformi di rete che gli ricordavano le tracce di un animale ammalato; schegge larvali di legno intrecciate insieme su un letto di cellophane luccicante; coperchi di plastica blu con l'effige di una ragazza sorridente invischiati in bave di schiuma. Peter, Mills e Sara si indicavano l'un l'altro quelle strane combinazioni di rifiuti, ma nessuno aveva voglia di parlare. La desolazione dell'aggregato era opprimente. Neppure un raggio di sole sfiorava la barca; era come se una torcia elettrica illuminasse il loro percorso dall'esterno, dal mondo reale, e pertanto fosse insufficiente a dissipare l'atmosfera tetra che gravava intorno a loro. Poi, a circa duecento metri dal limite dell'ammasso, Peter intravvide qualcosa che luccicava all'interno di un contenitore di plastica opaco: si chinò e lo raccolse. Nel medesimo istante in cui lo issò a bordo, si rese conto che si trattava dell'oggetto a cui si riferiva la premonizione che aveva avuto il giorno precedente e, d'istinto, fu tentato di rigettarlo in mare; ma, al tempo stesso, l'attrazione che provava era così forte che anziché disfarsene, tolse il coperchio ed estrasse dal contenitore un paio di pettini d'argento, di quelli che le donne spagnole portano per tenere in sesto i capelli. Toccandoli, Peter vide improvvisamente l'immagine nitida del volto di una giovane donna: un volto pallido, affaticato, che sarebbe stato bellissimo se non fosse stato scavato dalla fame e dalla sofferenza. Gabriela. Il nome filtrò nella sua coscienza nello stesso modo in cui le impronte di un animale sul terreno ghiacciato si sciolgono con la neve durante il disgelo. Gabriela Pa... Pasco... Pascual. Ricalcò con le dita il disegno inciso sui pettini e ciascuna voluta gli restituì un tratto della sua personalità. Tristezza, solitudine e, soprattutto, terrore: Gabriela aveva provato molta paura per un lungo periodo di tempo. Poi, Sara gli chiese di vedere i pettini, li prese in mano, e in quell'istante il fantasma della ragazza si dileguò come una bolla di sapone, lasciandolo disorientato. «Sono bellissimi», disse Sara. «E devono anche essere antichi.» «Sembrano di fattura messicana», intervenne Mills. «Mmm. E quello
che cos'è?» Allungò il remo cercando di agganciare un oggetto apparentemente informe; poi lo trasse verso di sé e Sara lo sollevò dalla pala: un cencio del quale, sotto lo strato di melma, si intuiva qui e là il colore giallo. «È una camicetta.» Sara la girò fra le mani, storcendo il naso per il ribrezzo che le procurava il contatto con la patina oleosa. Poi d'un tratto si bloccò e fissò Peter negli occhi. «Oh Dio! Ma questa è la camicetta di Ellen Borchard!» Peter gliela prese di mano. Sotto il talloncino era visibile un'etichetta su cui era scritto il nome della ragazza. Strinse la stoffa fra le dita e chiuse gli occhi nella speranza di poter ricavare qualche preziosa informazione, com'era avvenuto con i pettini. Niente. Questa volta il suo potere l'aveva tradito. Ciò nonostante, lui aveva la sgradevole impressione di sapere perfettamente quello che le era accaduto. «Meglio portarla da Hugh Weldon», disse Mills. «Forse...» Si interruppe bruscamente e fissò l'aggregato. Dapprima Peter non si rese conto di quello che aveva attirato la sua attenzione, ma alzando gli occhi sull'oceano, si accorse che si era alzato il vento. Un vento stranissimo. Soffiava debolmente, a una quindicina di metri di distanza da loro, descrivendo un cerchio intorno alla barca; il suo percorso era reso evidente dal movimento dei rifiuti che ondeggiavano al suo passaggio. Sussurrava e sospirava e ogni volta che completava il giro della baleniera sembrava aumentare di intensità. Poi, ad un tratto, con un improvviso risucchio, un paio di bottiglie di Clorox emersero dalla melma e vorticarono nell'aria. «Che diavolo sta succedendo?» Mills era sbiancato di colpo e la ragnatela di venuzze rosse sulle sue guance risaltava come un tatuaggio vermiglio. Sara piantò le unghie nel braccio di Peter, e fu solo allora che lui capì che era contro quel vento che la sua premonizione l'aveva messo in guardia. Preso dal panico, spinse via Sara, si precipitò verso poppa e abbassò il motore. «Le reti...» lo ammonì Mills. «Al diavolo le reti! Dobbiamo andarcene di qui!» Il vento stava rinforzando e nel volgere di una manciata di secondi l'intera superficie dell'aggregato incominciò a sollevarsi. Accovacciato a poppa, Peter fu nuovamente colpito dalla sua somiglianza con un cimitero, un cimitero in cui le ossa spuntavano per metà dalla terra; la sola differenza era che adesso le ossa si stavano dimenando, come se volessero liberarsi dalla
morsa che le tratteneva. Alcune bottiglie si muovevano lentamente, per poi rimbalzare con violenza ogni volta che incontravano un ostacolo. Quella vista lo paralizzò per un istante, ma non appena Mills ebbe acceso il motore, si trascinò carponi verso il suo sedile e prese Sara sulle ginocchia. Mills girò la barca in direzione di Madaket. La melma oleosa cominciò a ribollire e a infrangersi contro lo scafo, mentre macchie marroni schizzavano sul parabrezza e colavano di lato. L'impeto del vento aumentava sempre di più, finché il suo ululato soverchiò il rombo del motore. Un tubo fluorescente prese a volteggiare nell'aria come una mazza lanciata da una majorette. Da ogni parte volavano verso di loro bottiglie, pezzi di cellophane e schizzi della melma oleosa. Sara nascose il viso nell'incavo della spalla di Peter, e lui la tenne stretta a sé, pregando in cuor suo che le eliche non rimanessero invischiate nelle reti. Mills sterzò per evitare un pezzo di legno, che volò oltre la prua. Poi, finalmente, guadagnarono di nuovo le acque chiare e tranquille, lontani dal vento, che continuava a infuriare alle loro spalle. Rinfrancato, Peter accarezzò i capelli di Sara ed emise un sospiro tremante; ma quando si voltò a dare un'occhiata a poppa il suo senso di sollievo si dileguò. Migliaia e migliaia di bottiglie di Clorox, di tubi fluorescenti e di altri rifiuti vorticavano a mezz'aria sopra l'aggregato - folle mostro che campeggiava contro il cielo grigio - e, appena oltre il suo limite, sottili strisce d'acqua si agitavano violentemente, come se un coltello fatto di vento lo stesse tagliando a zigzag, incerto se inseguirli fino a casa. Hugh Weldon era venuto a Madaket per verificare i danni compiuti dai vandali sui condomini e dopo aver ricevuto la chiamata via radio, gli ci erano voluti solo pochi minuti per raggiungere il cottage di Peter. Si sedette al tavolino da picnic accanto a Mills e ascoltò la loro storia; visto dal divano-letto, dove avevano preso posto Peter e Sara, il profilo ossuto del poliziotto, stagliato contro la luce grigia della finestra, ricordava la sagoma di una mantide. Il gracchio arrabbiato della radio sembrava parte di lui, una radiazione che emanava dalla sua persona. Quando i tre ebbero terminato il loro racconto, si alzò, si avvicinò alla stufa a legna, sollevò il coperchio e vi sputò dentro: la stufa crepitò e gli sputò una scintilla di rimando. «Se si trattasse solo di voi due», disse rivolto a Peter e a Sara, «vi sbatterei dentro e cercherei di scoprire che cosa avete fumato. Ma Mills non sarebbe mai capace di simili fantasticherie e quindi sono costretto a credervi.» Abbassò il coperchio, facendo riecheggiare il suono metallico del fer-
ro e guardò Peter socchiudendo gli occhi. «Ha detto che ha scritto qualcosa nel suo libro a proposito di Ellen Borchard. Di che cosa si tratta?» Peter si protese in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Ha raggiunto Smith Point poco dopo l'imbrunire. Era arrabbiata con i suoi genitori e voleva spaventarli. Così si è tolta la camicetta - si era portata dietro altri vestiti perché aveva meditato di scappare di casa - e stava per strapparla per far credere di essere stata assassinata, quando il vento l'ha uccisa.» «E perché l'avrebbe fatto?» «Nel libro il vento è una specie di elementale. Spietato e capriccioso. Prima ha giocato per un po' con lei, divertendosi a farla cadere e a farla rotolare sui sassi; poi le ha permesso di rialzarsi, ma solo per scaraventarla di nuovo a terra. I ciottoli appuntiti e le conchiglie le hanno riempito il corpo di tagli e lei sanguinava e urlava. Alla fine, l'ha rapita in un vortice e l'ha trascinata in mezzo al mare.» Peter abbassò lo sguardo e fissò le proprie mani; si sentiva la testa piena, pesante, come se avesse il cervello fatto di mercurio. «Gesù santissimo!», esclamò Weldon. «E tu che cosa ne pensi Mills?» «Non era un vento normale. Questo è tutto quello che so.» «Gesù santissimo», ripeté Weldon. Si grattò la nuca e scrutò Peter. «Sono vent'anni che faccio questo mestiere e ne ho sentite raccontare di storie. Ma questa... Com'è che l'ha chiamato? Un elementale?» «Uh-uh. Ma non ne sono sicuro. Forse, se potessi tenere in mano ancora quei pettini, potrei capirci qualcosa di più.» «Peter.» Sara gli appoggiò una mano sul braccio e aggrottò la fronte. «Perché non lasciamo che se ne occupi Hugh?» Weldon le lanciò un'occhiata divertita. «Be' Sara. Lascia che Mr. Ramey veda quello che può fare», disse sogghignando. «Forse può anche dirmi che cosa faranno quest'anno i Red Sox. Intanto io e Mills andiamo a dare un'altra occhiata a quel cumulo di immondizie giù alla punta.» Mills trasalì e diede l'impressione di ritrarre il collo fra le spalle. «Io là non ci ritorno, Hugh. E se vuoi la mia opinione, faresti bene a starci alla larga anche tu.» «Maledizione, Mills!» Weldon si assestò una poderosa manata sulla coscia. «Io a supplicare ci vado solo in chiesa, ma tu sai che potresti risparmiarmi un bel po' di casini se mi accompagnassi. Mi ci vorrà un'ora per far alzare le chiappe a quelli della Guardia Costiera... Un momento!» Si voltò verso Peter. «Non è che forse avete avuto qualche strana visione? Chissà che vapori esalerà quell'ammasso di immondizia! Può darsi che abbiate re-
spirato qualcosa che vi ha dato alla testa.» In quel momento si udì uno stridio di freni, seguito dal rumore di una portiera che sbatteva; dopo un paio di secondi la figura sudicia di Sally McColl passò davanti alla finestra e bussò alla porta. «Che cosa diavolo vuole?» disse Weldon Peter aprì la porta e Sally lo salutò con un sorriso sdentato. «'Giorno Peter», disse. Indossava un impermeabile macchiato sopra la sua abituale accozzaglia di vestiti e di maglioni, e un cravattino da uomo a colori sgargianti a mo' di sciarpa. «È qui quel fottuto figlio di puttana di Hugh Weldon?» «Non ho tempo per le tue fesserie oggi, Sally,» tagliò corto il poliziotto. Sally spinse Peter di lato ed entrò nel cottage. «'Giorno Sara. Mills.» «Ho sentito che uno dei tuoi cani ha figliato», le disse Mills. «Hu-hu. Sei piccoli bastardi ringhiosi.» Si pulì il naso con il dorso della mano e poi controllò il frutto di quell'operazione. «Ti interessano?» «Può darsi che venga a darci un'occhiata,» rispose Mills. «Doberman o cani da pastore?» «Doberman. Promettono bene.» «Che cosa ti frulla nella zucca Sally?» intervenne Weldon frapponendosi ai due. «Ho una confessione da fare.» Weldon sogghignò. «Niente meno! E che cosa hai fatto? Non hai certo svaligiato un negozio di abbigliamento.» Sally corrugò la fronte e le rughe che le solcavano il viso divennero ancora più profonde. «Ehi, tu, pezzo di imbecille fottuto», disse senza mezzi termini. «C'è da giurarci che a Dio non fosse avanzato nient'altro che merda di cavallo quando ti ha fatto.» «Ehi, tu vecchia str...» «E deve averti strizzato le palle e avertele messe al posto del cervello», proseguì Sally. «Deve...» «Sally!» Peter si mise fra i due e prese la donna per le spalle. Mentre lo fissava, il suo sguardo si addolcì. Quindi, con uno scrollone si liberò della stretta e si accomodò i capelli: un gesto straordinariamente femminile per una persona così sgraziata e trasandata. «Avrei dovuto dirtelo prima», disse poi rivolta a Weldon. «Ma ero stufa marcia delle tue prese per il culo. Alla fine, però, ho deciso che poteva essere importante e che dovevo correre il rischio di sorbirmi ancora le tue stronzate. E così sono venuta a dirtelo.» Si voltò verso la finestra e guardò
fuori. «Io so che cos'è stato a devastare i condomini. È stato il vento.» Poi, dopo aver lanciato al poliziotto uno sguardo pieno di odio, aggiunse: «E ti assicuro che non sono pazza!» Peter si sentì mancare le ginocchia. Erano in pericolo. Lo sentiva nell'aria, come a Smith Point, ma adesso quella sensazione era ancora più forte: era come se la sua sensibilità si fosse acuita e adesso fosse in grado di percepirla con maggiore intensità. «Il vento», disse Weldon facendo finta di essere sbalordito. «Esatto», riprese Sally con tono di sfida. «Ha sfondato i muri di quei dannati palazzi e poi si è messo a soffiarci dentro come se suonasse della musica.» Lo guardò con occhio furioso. «Non mi credi?» «Sì che ti crede», intervenne Peter. «Pensiamo che il vento abbia ucciso anche Ellen Borchard.» «Non è proprio il caso di mettere in giro voci del genere! Non ne siamo mica sicuri!» Weldon pronunciò quelle parole in tono accorato, tenacemente abbarbicato alla sua incredulità. Sally attraversò la stanza e si parò davanti a Peter. «È vero quello che hai detto della Borchard?» «Penso di sì.» «E la cosa che l'ha uccisa è qui a Madaket. Tu la senti, non è vero?» Peter annuì. Sally si diresse verso la porta. «Dove stai andando?» le chiese Weldon. Lei bofonchiò qualcosa e uscì. Peter la vide misurare a passi il cortile. «Quella vecchia strega!» sibilò Weldon. «Forse lo è», lo riprese Mills. «Ma tu non dovresti trattarla così dopo tutto quello che ha fatto.» «Che cos'ha fatto?» gli chiese Peter. «Un tempo Sally abitava a Madaket», rispose Mills. «E ogni volta che un'imbarcazione si arenava a Dry Shoals o in qualche altra secca, lei l'andava a recuperare con la sua vecchia bagnarola. E la maggior parte delle volte arrivava prima della Guardia Costiera. Usciva con qualsiasi tempo. Deve avere salvato cinquanta o sessanta vite in tutti questi anni.» «Mills!», disse Weldon con enfasi. «Portami a vedere quel dannato ammasso di rifiuti di cui mi hai parlato.» Mills si alzò in piedi e si tirò su i pantaloni. «Non hai sentito quello che ti ho detto, Hugh? Peter e Sally hanno detto che quella cosa è qui da qualche parte.»
Weldon era visibilmente irritato. Si succhiò i denti e corrugò la fronte. Poi prese in mano il contenitore in cui si trovavano i pettini, lanciò un'occhiata a Peter e lo depose di nuovo sul tavolo. «Vuole che veda che cosa posso scoprire attraverso i pettini?» gli chiese Peter. Weldon scrollò le spalle. «Male non può fare, immagino.» Dopo di che si mise a fissare fuori dalla finestra, come se la faccenda non lo interessasse. Peter prese il contenitore e si sedette accanto a Sara. «Un momento», disse poi. «Non capisco. Se la cosa è qui vicina, perché non ce ne andiamo?» Nessuno rispose. Il contenitore di plastica era gelido e quando Peter tolse il tappo il freddo fuoriuscì e lo investì in pieno viso: un freddo intenso, doloroso, come se avesse aperto la porta di una cella frigorifera. Sally entrò all'improvviso nella stanza e indicò il contenitore. «Che cos'è?» «Sono un paio di vecchi pettini», le spiegò Peter. «Ma quando li ho trovati non emanavano questa energia. Per lo meno non un'energia così forte.» «Di che energia sta parlando?» intervenne Weldon. Ogni nuovo mistero sembrava renderlo più nervoso e Peter intuì che se la faccenda non si fosse risolta al più presto, il poliziotto avrebbe cominciato a dubitare di loro. Sally raggiunse Peter e diede un'occhiata all'interno del contenitore. «Dammene uno», disse poi protendendo una mano sudicia. Weldon e Mills avanzarono contemporaneamente verso di lei e si fermarono alle sue spalle, come due vecchi soldati pronti a proteggere la loro pazza regina. Con riluttanza, Peter prese uno dei due pettini. Il freddo che emanava gli si trasmise al braccio e alla testa, e all'improvviso si ritrovò in mezzo a un mare in tempesta. Era terrorizzato: le onde si abbattevano sui masconi di un peschereccio mentre il vento gli sibilava attorno. Lasciò cadere il pettine a terra. Gli tremavano le mani e il cuore gli impazziva nel petto. «Oh, merda!» esclamò senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Non so se lo voglio fare davvero.» Sara cedette a Sally il suo posto accanto a Peter e, per tutto il tempo in cui durò il loro esperimento con i pettini, che deponevano a intervalli di un minuto circa per riferire quanto erano riusciti a percepire, continuò a mordersi nervosamente le unghie. Capiva la frustrazione di Hugh Weldon: era
terribile doversi limitare a guardare e ad aspettare. Ogni volta che Peter e Sally stringevano i pettini, il loro respiro si faceva flebile e i loro occhi si arrovesciavano all'indietro, e quando li appoggiavano sul tavolo e riprendevano coscienza, apparivano stremati e impauriti. «Gabriela Pascual era di Miami», disse Peter. «Non saprei dire quando tutto questo sia accaduto, ma è stato anni fa... perché così come mi appare, Gabriela indossava abiti un po' fuori moda. Direi che si tratta di dieci, quindici anni fa. Qualcosa del genere. Comunque c'erano dei problemi per lei a terra, problemi di natura sentimentale e suo fratello non voleva lasciarla sola. Così l'ha portata con sé in quella battuta di pesca. Lui faceva il pescatore di mestiere.» «Lei possedeva un potere paranormale», intervenne Sally. «È per questo che è rimasto così tanto di lei nei suoi pettini. Per questo e anche perché lei si è uccisa e li aveva in mano quando è morta.» «Perché si è uccisa?», chiese Weldon. «Paura,» disse Peter. «Solitudine. Per quanto possa sembrare pazzesco il vento la teneva prigioniera. Penso che non abbia resistito perché era sola su una barca alla deriva con l'elementale come unica compagnia.» «Sola?», lo interruppe Weldon. «Che cosa è accaduto a suo fratello?» «È morto.» A Sally tremava la voce. «Il vento si è abbattuto sulla barca e ha ucciso tutti tranne Gabriela. Voleva lei.» Mentre la storia si dipanava, folate di vento cominciarono a scuotere il cottage e Sara evitò di chiedersi se fosse un fenomeno naturale oppure no. Distolse gli occhi dalla finestra e dagli alberi che ondeggiavano, e si concentrò sulle parole di Peter e di Sally. Ma il loro racconto era così spaventoso che non poteva fare a meno di trasalire ogni volta che sentiva sbattere una finestra. Peter disse che Gabriela Pascual aveva spesso sofferto di mal di mare durante il viaggio; fin dall'inizio aveva mostrato paura nei confronti dell'equipaggio, che la considerava portatrice di sventura, ed era stata costantemente posseduta dal presentimento di una catastrofe imminente. E la sua premonizione si era avverata, aggiunse Sally. Un giorno, in cui il mare era calmo e non c'era neanche una nube in cielo, l'elementale era sceso e aveva ucciso tutti, ad eccezione di Gabriela. Aveva sollevato in aria ogni singolo membro dell'equipaggio, compreso suo fratello, e dopo averli scagliati contro le paratie, li aveva fatti ricadere ad uno ad uno sul ponte. Anche Gabriela si aspettava di morire, ma sembrava che, per qualche oscura ragione, l'elementale fosse interessato a lei. L'aveva accarezzata e aveva giocato con lei, rovesciandola a terra e facendola rotolare per tutta la barca;
e di notte si era riversato nei corridoi e aveva infranto tutte le finestre, producendo un suono spaventoso che, a mano a mano che passavano i giorni e il peschereccio veniva trascinato verso nord dalla corrente, Gabriela aveva incominciato in parte a comprendere. «Non lo concepiva come spirito», disse Peter. «Non gli riconosceva alcuna caratteristica mistica. Lo considerava piuttosto come un...» «Un animale», lo interruppe Sally. «Un animale grande e stupido. Era corrotto ma non malvagio. O per lo meno a lei non sembrava malvagio.» Gabriela, proseguì Peter, non era mai riuscita a capire che cosa volesse da lei: forse gli bastava la sua presenza. La lasciava sola per gran parte del tempo, poi, all'improvviso, mentre tutto intorno era tranquillo, sorgeva dal nulla e iniziava a fare giochi di destrezza con i vetri rotti delle finestre e a rincorrerla. Un giorno la barca si era avvicinata a una spiaggia e quando lei aveva cercato di saltare a terra, l'elementale l'aveva colpita violentemente e l'aveva scaraventata sottocoperta. Col tempo, però, aveva cominciato a perdere interesse per lei, al punto che il peschereccio, di cui all'inizio controllava costantemente la rotta, aveva rischiato di affondare un paio di volte. Alla fine, comprendendo quale sarebbe stato il suo destino, Gabriela si era tagliata i polsi ed era morta stringendo in mano il contenitore in cui aveva riposto i suoi beni più preziosi, i pettini d'argento ereditati dalla nonna, mentre il vento le ululava nelle orecchie. Peter chiuse gli occhi e si appoggiò al muro. Sally sospirò e si percosse leggermente il petto. Per un lungo istante nessuno parlò. «Mi chiedo che cosa ci stia a fare quel cumulo di rifiuti in mezzo al mare», osservò Mills. «Forse non c'è una ragione precisa», disse Peter a bassa voce. «O forse è attirato dalle maree ferme o da determinate condizioni dell'aria.» «Non capisco», intervenne Weldon. «Di che diavolo si tratta? Non può essere un animale.» «E perché no?» Peter si scostò dalla parete, vacillò e poi si raddrizzò. «Che cos'è il vento, dopo tutto? Un insieme di ioni, masse di aria che si spostano. Chi può dire che alcuni gruppi stabili di ioni non possiedano un principio vitale? È possibile che simili forme di vita siano alla base di ogni temporale e che finora siano sempre state scambiate per spiriti, con relativa attribuzione di caratteri antropomorfici. Come Ariel.» Proruppe in una risata sconsolata. «In ogni caso non è certo un simpatico folletto del mare!» Gli occhi di Sally erano innaturalmente luminosi, come due gioielli trasparenti incastonati fra le pieghe del suo volto sfiorito. «È il mare che lo
nutre», disse alla fine con voce ferma, come se questa fosse una spiegazione sufficiente a giustificare qualsiasi fenomeno strano. «Aveva ragione Peter nel suo libro», osservò Sara. «È un elementale. E comunque è di questo che state parlando. Di una creatura violenta e feroce, parte spirito e parte animale.» Poi anche lei rise, ma era un riso un po' forzato, al limite dell'isterismo. «È dura da credere.» «È dura sì» disse Weldon. «Molto dura. E io mi trovo con una vecchia pazza e un uomo che non so neppure chi sia che mi vengono a raccontare che...» «Ascoltate», lo interruppe Mills. Raggiunse la porta e la spalancò. Sara tese l'orecchio e dapprima non capì, ma poi si rese conto che il vento era improvvisamente diminuito. Nello spazio di pochi attimi, le raffiche violente avevano lasciato il posto a refoli quasi impercettibili; ma in lontananza, proveniente dal mare, o forse più vicino, forse tanto vicino quanto lo era Tennessee Avenue, udì un fragore assordante. 5 Alcuni istanti prima, nella Tennessee Avenue, Jerry Highsmith si stava guadagnando il pane quotidiano e pregustando, al tempo stesso, una notte di piaceri esotici fra le braccia di Ginger McCurdy. Era di fronte a una delle numerose case grigie che sorgevano lungo il viale e che, come indicava il nome sull'impavesata, era stata battezzata AHAB-ITAT. La caratteristica dell'abitazione consisteva nel fatto che, su entrambi i lati della porta d'ingresso, faceva bella mostra di sé una collezione di arpioni e di ossa di balena. Jerry aveva appoggiato la bicicletta alla recinzione di ferro alle sue spalle e intorno a lui, a cavallo delle rispettive due-ruote, si erano radunati i ventisei membri del Club Ciclistico dei Vagabondi dello Stato della Pesca. Il gruppo era composto da dieci uomini e sedici donne, tutti rigorosamente agghindati in costosi completi da jogging o in tute da ginnastica color pastello. Le donne sfoggiavano una forma eccellente, ma avevano per lo più superato la trentina: un po' troppo mature per i gusti di Jerry. Ginger, invece, era nel fiore della giovinezza: ventitré-ventiquattro anni, con i capelli rossi che le sfioravano il sedere e un corpo al fulmicotone. Si era tolta la tuta e adesso prorompeva in tutta la sua floridezza da una canottiera e da un paio di calzoncini così corti, che ogni volta che scendeva dalla bicicletta Jerry vedeva fin su alle Porte del Paradiso. E lei lo sapeva bene. Ogni ondeggiamento delle sue curve generose era mirato all'incrocio dei suoi pan-
taloni. Ginger si era portata alla testa del gruppo ed era in attesa di ascoltare il suo racconto, le solite quattro chiacchiere sull'epoca in cui si praticava la caccia alla balena. Oh, sì. Ginger era pronta. Un paio di aragoste, una bottiglia di vino bianco, una passeggiata sul lungomare e poi, per Dio, ci avrebbe pensato lui a non farle mai più dimenticare quella vacanza sull'isola di Nantucket! «Dunque...», esordì, strascicando la voce. Gli altri ridacchiarono. Si divertivano nel sentirlo imitare il loro accento. Jerry sorrise imbarazzato, come se la sua presa in giro fosse stata del tutto involontaria. «Deve essere contagioso...» commentò sorridendo. «Dunque», riprese. «Immagino che nessuno di voi abbia ancora avuto occasione di visitare il Museo delle Balene...» Un coro di no. «Allora vi terrò una breve lezione sugli arpioni utilizzati per la caccia a questi grandi cetacei», disse indicando la facciata dell'AHAB-ITAT. «Quello che vedete lassù in cima, quello con un solo barbiglio, era il tipo di arpione preferito dai balenieri. È in frassino. Era il frassino, infatti, il legno più usato, perché,» proseguì fissando volutamente Ginger, «sopporta bene le intemperie e non si piega quando viene sottoposto a sforzi.» La ragazza cercò di trattenere un sorriso. «Quell'altro vicino, quello a forma di lancia e senza barbigli», continuò senza smettere di guardarla con la coda dell'occhio, «era usato soltanto da una minoranza di pescatori, che sostenevano garantisse una penetrazione più profonda.» «E quello con due barbigli?» chiese una voce. Jerry scrutò oltre le teste e vide che l'autrice della domanda era la ragazza sulla quale aveva posato gli occhi in alternativa a Ginger. Una certa signora o signorina Selena Person, una brunetta sulla trentina, piatta come un asse ma con due gambe mozzafiato. Nonostante fosse chiaro che lui mirava alla sua più giovane rivale, lei non demordeva. Peccato avere una sera soltanto. Ma chissà... Magari prima una e poi l'altra... Non era un'ipotesi da scartare. «Quello è il tipo di arpione entrato in uso successivamente, negli ultimi anni in cui si praticava la caccia alla balena», disse. «Ma in genere gli arpioni a due barbigli erano considerati meno efficaci di quelli con un barbiglio solo. Non so esattamente perché. Forse era solo un pregiudizio dei balenieri; sapevano che il vecchio arpione faceva bene il suo dovere e si accontentavano. In ogni caso, è un'ulteriore dimostrazione di quanto i pescatori fossero ostili ai cambiamenti.»
Selena Person rispose al suo sguardo vitreo con un barlume di sorriso. «Naturalmente», proseguì Jerry rivolgendosi all'intero gruppo, «oggi gli arpioni sono dotati di una carica esplosiva che scoppia all'interno del corpo della balena.» Ammiccò a Ginger e aggiunse sotto voce: «Dev'essere una cosa veloce veloce.» La ragazza si coprì la bocca con la mano. «OK, ragazzi, tutti in sella», riprese afferrando la propria bici. «Ci attende un'altra avventura elettrizzante.» Ridendo e chiacchierando i Vagabondi fecero per risalire sulle rispettive biciclette, ma in quello stesso istante una violenta raffica di vento investì la Tennessee Avenue, facendo volare via i cappelli e stridere i freni. Alcuni ciclisti persero l'equilibrio e caddero, e poco ci mancò che anche gli altri facessero la stessa fine. Ginger incespicò e si aggrappò a Jerry, gratificandolo con un massaggio petto contro petto. «Ottima presa», disse raddrizzandosi con una leggera smorfia. «Ottimo lancio», replicò Jerry. Lei sorrise, ma subito dopo il suo sorriso svanì lasciando il posto a un'espressione di sconcerto. «Che cos'è quello?» Jerry si voltò. In mezzo alla carreggiata, a una ventina di metri da loro, stava prendendo forma una strana colonna, composta da foglie che vorticavano nell'aria. Era sottile e alta poco più di un metro, e benché non avesse mai visto nulla di simile, Jerry non si preoccupò; o per lo meno non più di quanto si fosse preoccupato per la strana raffica di vento di poco prima. Ma nel giro di pochi secondi, la colonna raggiunse un'altezza di oltre quattro metri, risucchiando nel suo vortice rami, ghiaia e tutto quanto si trovava nel suo raggio d'azione: sembrava un tornado in miniatura. Qualcuno urlò e Ginger si avvinghiò a lui in preda a un genuino terrore. L'aria aveva assunto un odore fetido e Jerry sentì la pressione aumentargli nelle orecchie. Non ne era sicuro, perché la colonna roteava a una velocità troppo forte, ma aveva l'impressione che stesse assumendo una forma vagamente umana: una sagoma verde scuro fatta di pietre e di frammenti di piante. Si sentiva la bocca arsa e dovette trattenersi dall'istinto di liberarsi dalla stretta di Ginger e darsela a gambe. «Andiamo via di qui!» urlò. Un paio di ciclisti riuscirono a montare in sella, ma il vento che continuava ad aumentare di intensità li scaraventò in mezzo a un prato. Gli altri si raggrupparono insieme e, con i capelli che gli sferzavano sul viso, rimasero a fissare la grande creatura druidica che stava prendendo corpo sopra
le loro teste. Dalle case cominciarono a staccarsi frammenti di legno, che vennero immediatamente risucchiati dalla colonna d'aria. Cercando di sovrastare l'ululato del vento, Jerry gridò al gruppo di stendersi a terra e fu in quel momento che vide una violenta folata staccare le ossa di balena e gli arpioni dalla parete della AHAB-ITAT. Le finestre della casa esplosero e un frammento di vetro squarciò la guancia di un uomo, che si portò immediatamente la mano al viso grondante sangue, mentre una donna si afferrò la parte posteriore del ginocchio e si accasciò. Jerry lanciò un ultimo avvertimento e poi trascinò Ginger con sé nella cunetta. La ragazza si divincolò in preda al panico, ma lui la costrinse ad abbassare la testa e la tenne stretta. Adesso la figura sovrastava di gran lunga le cime degli alberi e benché stesse ancora ondeggiando, la sua forma si era pressoché stabilizzata. Aveva un volto: un sorriso sepolcrale fatto di schegge di legno grigio e due macchie rotonde di pietra al posto degli occhi: uno sguardo vacuo e terribile dal quale sembrava dipendere il costante aumento della pressione dell'aria. Jerry senti il cuore rimbombargli nelle orecchie e il sangue che gli si scioglieva nelle vene. La figura continuava a crescere di volume, mentre il rombo si risolveva gradualmente in un ronzio ritmico che faceva vibrare la terra. Ad un tratto le foglie e le pietre cominciarono a volteggiare ai limiti della colonna e a spargersi a raffica tutt'intorno. Jerry sapeva quello che sarebbe accaduto, ma ciò nonostante non riuscì a staccare gli occhi dalla scena. In mezzo a un turbine di foglie vide un arpione fluttuare nell'aria e trafiggere una donna che aveva cercato di rimanere in piedi. La violenza del colpo fu tale da trascinarla fuori dal suo campo visivo. Poi, la grande figura esplose e Jerry serrò gli occhi, mentre ghiaia e frammenti di legno e di rami spezzati lo colpivano come proiettili. Ginger balzò di lato e si accasciò contro il suo corpo, aggrappandosi ai suoi fianchi. Lui attese immobile che si verificasse il peggio, ma non accadde nulla. «Stai bene?», chiese alla ragazza, prendendola per le spalle e allontanandola da sé. No, Ginger non stava affatto bene. Una scheggia di osso di balena lunga un paio di centimetri le si era conficcata nel mezzo della fronte. Con un urlo di disgusto, Jerry si divincolò e si sottrasse al peso morto della ragazza. Un lamento. Uno degli uomini stava strisciando verso di lui, il viso ridotto a una maschera di sangue e uno squarcio osceno al posto dell'occhio destro, mentre l'altro era vitreo come quello di una bambola. Inorridito e senza sapere che cosa fare, Jerry balzò in piedi e indietreggiò. La scena che si presentò ai suoi occhi fu agghiacciante: ciascun arpione aveva trovato un bersaglio La maggior parte dei ciclisti giacevano immobili a terra in una
pozza di sangue, mentre i pochi superstiti erano seduti, feriti e storditi. Il piede di Jerry schiacciò qualcosa e lui si voltò di scatto. L'impavesata dell'AHAB-ITAT era crollata su Selena Person e l'aveva inchiodata al ciglio sudicio della strada, come un vampiro. Il parapetto si era conficcato così in profondità nell'asfalto che si leggeva solo la lettera A sui brandelli inzaccherati della sua tuta da ginnastica: sembrava un oggetto esposto a una grottesca mostra dell'orrore. Jerry cominciò a tremare e a piangere. Un refolo d'aria gli scompigliò i capelli. Qualcuno gemette, riscuotendolo dallo stordimento. Doveva chiamare le ambulanze e la polizia. Ma dove poteva trovare un telefono? La maggior parte delle case erano ancora vuote e i telefoni, di conseguenza, fuori uso. Ma qualcuno doveva pur aver visto quello che era successo! Non gli restava altro da fare che aiutare i feriti come poteva fino a quando non fossero arrivati i soccorsi. Facendosi coraggio, si diresse verso l'uomo senza occhio, ma non aveva compiuto che pochi passi quando una violenta raffica di vento lo colpì alla schiena mandandolo a finire lungo disteso sull'asfalto. Adesso l'ululato del vento lo avvolgeva tutto come in un bozzolo e la pressione dell'aria era così forte che aveva la sensazione che un ago incandescente gli perforasse i timpani. Chiuse gli occhi e si premette le mani sulle orecchie nel tentativo di attenuare il dolore. Poi si sentì sollevare in aria. Dapprima non vi credette, e neppure quando aprì gli occhi e vide che stava volteggiando a mezz'aria in lenti circoli riuscì a capacitarsi di quello che gli stava accadendo. Non sentiva più niente e il silenzio non faceva che accrescere il senso di irrealtà che provava. Una bicicletta senza padrone gli pedalò accanto. L'aria era piena di schegge di legno, foglie e sassi che formavano una specie di tenda trasparente fra lui e il mondo, e vide mentalmente il suo corpo salire verso le fauci dell'orribile figura scura. Ginger McCurdy stava volando alcuni metri sopra di lui, con i capelli rossi che fluttuavano nell'aria e le braccia che ondeggiavano languidamente, come se stesse ballando. Il suo corpo stava roteando a una rapidità molto superiore alla sua, ma lui si rese conto che con l'aumentare dell'altezza, anche la sua velocità di rotazione sarebbe aumentata. Sapeva che cosa sarebbe accaduto: sarebbe salito sempre più su girando sempre più velocemente, fino a quando la forza centrifuga lo avrebbe scaraventato fuori dal vortice, scagliandolo come un proiettile su qualche parte di Madaket. La sua mente si ribellava alla prospettiva della morte e, in preda al panico, Jerry cominciò a scalciare e a pagaiare con le braccia cercando disperatamente di muoversi nella direzione opposta a quella del vento. Ma a mano a mano
che il turbine lo trascinava verso l'alto, diventava sempre più difficile respirare e pensare, finché fu troppo stordito per provare paura. Il corpo di una donna volteggiò a pochi metri dal suo. Aveva la bocca spalancata, il viso contorto in una smorfia e perdeva sangue dalla testa. Tentò di aggrapparsi a lui e lui cercò di protendersi per afferrarla, senza neppure sapere perché: le loro mani mancarono la presa di un soffio. Il suo cervello riusciva a formulare un solo pensiero alla volta. Forse sarebbe caduto in mare. Uomo Sopravvive Miracolosamente a Violento Tornado. Forse avrebbe sorvolato tutta l'isola per poi atterrare sulla cima di un albero. Una gamba rotta e qualche livido, e poi grandi brindisi in suo onore all'American Café. Allora, forse, Connie Keating avrebbe finalmente riconosciuto le miracolose capacità di Jerry Highsmith. Forse. Ma adesso stava cadendo a testa in giù, con le braccia e le gambe che andavano per conto loro, e non aveva più tempo di pensare. Immagini flash di case scoperchiate sotto di lui e di altri corpi che danzavano nel vento con spasmodico trasporto. Poi, all'improvviso, mentre una violenta corrente ascensionale lo investiva alla schiena, un dolore straziante gli dilaniò le membra. Poi più nulla. O Dio mio! Oh Diooo! Una luce accecante gli esplose dietro gli occhi. Un oggetto azzurro gli piombò davanti e lui morì. 6 Quando la colonna di foglie e rami che torreggiava sulla Tennesse Avenue scomparve e l'ululato del vento svanì, Hugh Weldon si precipitò verso l'auto della polizia seguito a ruota da Peter e Sara. Vedendoli salire a bordo corrugò la fronte ma non fece obiezioni e forse questo, pensò, significava che non stava più cercando di dare una spiegazione razionale a quanto stava accadendo e che aveva incominciato a capire che il vento era un nemico per il quale non valevano le procedure ordinarie. Accese la sirena e la macchina partì a tutta velocità. Non avevano percorso che una cinquantina di metri quando Weldon inchiodò. Il corpo di una donna, trafitta in pieno petto da un vecchio arpione, penzolava da un cespuglio di biancospino. Non aveva alcun senso verificare se fosse ancora viva. Aveva tutte le osse principali fratturate ed era coperta di sangue dalla testa ai piedi: sembrava un'orribile bambola africana posta a guardia di una proprietà per scoraggiare gli intrusi. Weldom chiamò la centrale. «Un morto a Madaket», disse. «Mandate un'ambulanza».
È probabile che te ne serva ben più di una, Hugh», gli disse Sara, indicando altre tre macchie di colore verso il fondo della strada. Era estremamente pallida e stringeva la mano di Peter con tale forza da lasciargli le impronte bianche sulla pelle. Nei venticinque minuti che seguirono rinvennero diciotto cadaveri: erano fratturati, mutilati e, in molti casi, trafitti da arpioni o da frammenti di ossa. Peter non avrebbe mai immaginato che il corpo umano potesse venir ridotto a forme tanto grottesche. Ma per quanto lo inorridisse e lo nauseasse, quella vista lo stava soprattutto stordendo. Strani pensieri cominciarono ad affollargli la mente, di cui uno, il più martellante di tutti, gli suggeriva che quella terribile esplosione di violenza non era avvenuta per caso, ma era stata in parte voluta per lui, affinché lui capisse. Era un'idea orribile, perversa, che cercò di scacciare immediatamente. Dopo un po', però, cominciò a considerarla alla luce di altri strani fatti che erano accaduti in quegli ultimi tempi. Il romanzo che stava scrivendo, per esempio, La Voce del Vento. Per quanto sembrasse assurdo, non poteva negare che fosse stato il vento a suggerirglielo. Non voleva crederci, eppure era un'ipotesi credibile, almeno quanto lo era tutto quello che era avvenuto quel giorno. E se era vero, perché non doveva essere vera anche quella sua ultima intuizione? A poco a poco, cominciò a comprendere la progressione degli eventi, con la stessa immediata lucidità con cui era riuscito a risolvere i problemi del libro. Allora più che mai si pentì di non aver dato ascolto alla premonizione e di aver toccato i pettini. Fino a quel momento l'elementale non era ancora sicuro di lui: l'aveva studiato, aveva fiutato in lui qualcosa di famigliare, ma da quell'animale grande e stupido che era, proprio come lo aveva descritto Sally, non era riuscito a capire di che cosa si trattasse. Poi, invece, quando lui aveva trovato i pettini e aperto il contenitore, doveva essere avvenuto un misterioso contatto fra il suo potere e quello di Gabriela Pascual, e allora l'elementale aveva messo insieme i pezzi. Ecco perché aveva preso a zigzagare con tutto quell'entusiasmo ai limiti dell'aggregato. Quando svoltarono nuovamente sulla Tennessee Avenue, dove un gruppo di isolani stava ricoprendo i cadaveri con alcune lenzuola, Weldon si rimise in contatto con la centrale, interrompendo la sequenza di pensieri di Peter. «Dove diavolo sono finite le ambulanze?» protestò con voce infuriata. «Sono partite mezz'ora fa», rispose la voce dall'altro capo del filo. «Dovrebbero essere già lì.»
Weldon lanciò a Peter e a Sara uno sguardo torvo. «Prova a chiamarle via radio», aggiunse poi nel microfono. Dopo alcuni minuti il centralinista gli riferì che nessuna delle ambulanze aveva risposto alla chiamata. Weldon disse ai suoi che avrebbe fatto un giro di ricognizione e di non muoversi. Quando lasciarono la Tennessee Avenue per immettersi nella strada per Nantucket, il sole squarciò lo strato di nubi e il paesaggio fu inondato da una debole luce gialla, che riscaldò un po' l'interno della macchina. Fu come se quella luce improvvisa avesse messo a nudo la spossatezza di Peter, che solo allora si rese conto di quanto grande fosse la sua tensione e di quanto gli dolessero i muscoli, avvelenati dalla stanchezza e dall'adrenalina. Sara chiuse gli occhi e si appoggiò a lui, e il peso del suo corpo servì a puntellarlo e a infondergli nuova energia. Procedendo a velocità moderata, Weldon fece un giro di ispezione ma non rilevò nulla di insolito. Strade deserte e case mute, che sembravano fissarli con grandi occhi vacui. Gran parte delle abitazioni di Madaket erano vuote e, a quell'ora, gli occupanti delle restanti erano per lo più al lavoro o fuori per commissioni. Fu solo quando raggiunsero la sommità del lieve pendio che delimitava la discarica pubblica, a tre chilometri circa dal paese, che videro le ambulanze. Weldon mise il motore in folle e accostò senza staccare gli occhi dalla scena. A una trentina di metri di distanza, quattro ambulanze giacevano immobili sull'asfalto, formando un efficace blocco stradale. Una era capovolta sul tetto, come un grande scarafaggio bianco; un'altra si era schiantata contro un palo della luce ed era avvolta nei cavi elettrici tranciati, le cui estremità, percorse da sussulti minacciosi, penzolavano all'interno della vettura dalla parte del guidatore, sfrigolando ed emettendo scintille. Le altre due si erano scontrate fra di loro e stavano bruciando: al di sopra dei loro gusci anneriti, lingue di fuoco trasparenti deformavano l'aria. Ma non era stata la vista dei quattro relitti a indurre Weldon a fermarsi. A destra della strada c'era un ampio prato coperto di erbacce ingiallite, che da un lato era delimitato da alcune querce rachitiche mentre dall'altro si estendeva fino alla sommità di una collina sovrastante l'oceano, in cima alla quale tre case grigie si stagliavano contro l'azzurro pallido del cielo. Mentre intorno alla macchina si rincorrevano solo intermittenti folate di vento, il prato era spazzato da raffiche fortissime: l'erba ondeggiava, si appiattiva e si dibatteva in direzioni opposte, come se migliaia di piccoli animali scorazzassero avanti e indietro a velocità supersonica; l'oscillazione era così costante e violenta che sembrava che l'ombra
delle nuvole fosse ferma e il prato stesse volando via. Il vento produceva un sibilo penetrante e lugubre. Peter era rapito. Quella scena emanava un potere strano che lo opprimeva, impedendogli quasi di respirare. «Andiamo via di qui», disse Sara tremando. «Vi prego...» Guardò oltre il viso di Peter e un'espressione di agghiacciata consapevolezza le si dipinse sul viso. Il vento aveva ripreso a ululare. A meno di dieci metri di distanza, una folata aveva appiattito un riquadro d'erba e aveva sollevato in aria un uomo in uniforme da attendente, che adesso volteggiava lentamente sospeso a metà fra cielo e terra. Con la testa piegata a un angolo innaturale e la parte anteriore della giacca intrisa di sangue, non sembrava più un essere umano ma un grottesco spaventapasseri. La macchina vibrò. Sara lanciò un urlo e si aggrappò a Peter. Weldon cercò di inserire la retromarcia, ma non ci riuscì e, con un sobbalzo, l'auto si fermò. Il poliziotto girò convulsamente la chiavetta dell'accensione: dapprima il motore scoppiettò, ma poi singhiozzò e si spense. Nel frattempo, l'attendente continuava a volare sempre più in alto finché assunse una posizione verticale e cominciò a girare su se stesso come una trottola impazzita; e mentre la sua sagoma si faceva sempre più indistinta, il vento lo trascinava nella direzione della macchina. Sara urlava e anche Peter avrebbe tanto voluto poter gridare o fare qualsiasi altra cosa che gli consentisse di allentare la tensione che gli costringeva il petto. Alla fine il motore partì, il vento calò e l'attendente precipitò sul tetto dell'auto. Il sangue schizzò sul parabrezza. Per un attimo il cadavere rimase a fissarli attraverso il vetro con gli occhi sbarrati, le braccia e le gambe scomposte. Poi, con la lentezza ributtante di un serpente che indietreggia nella sua tana, crollò pesantemente a terra, lasciando una macchia rossa sul metallo bianco. Weldon chinò la testa sul volante e inspirò profondamente. Peter strinse Sara fra le braccia e la cullò. Dopo un secondo, il poliziotto si appoggiò allo schienale, accese la radio e chiamò la centrale. «Jack?», disse. «Sono Hugh. Mi senti?». «Chiaro e forte capo.» «Abbiamo un problema qui a Madaket». Weldon deglutì e contrasse i muscoli del viso. «Voglio che tu istituisca un posto di blocco a circa dieci chilometri dal paese. Non più vicino. E voglio che tu non lasci passare nessuno, intesi?» «Ma che cosa sta succedendo, capo? Alice Cuddy ha chiamato e ha parlato di uno strano vento, ma poi è caduta la linea e non sono più riuscito a
mettermi in contatto con lei.» «Sì, c'è stato un po' di vento.» Weldon e Peter si scambiarono un'occhiata. «Ma il problema principale è una fuga chimica. Adesso la situazione è sotto controllo, ma non può avvicinarsi nessuno. Da questo momento Madaket è in quarantena.» «Ha bisogno di aiuto?» «Ho bisogno che tu faccia quello che ti ho detto e basta! Attaccati al telefono e chiama tutti quelli che abitano fra il blocco e Madaket e digli di raggiungere Nantucket più presto che possono. Diffondi la notizia anche via radio.» «E per la gente che viene da Madaket? Devo farla passare?» «Non arriverà nessuno da qui», rispose Weldon. Silenzio. «Capo, va tutto bene?» «Sì, per Dio!», tagliò corto Weldon e spense il ricevitore. «Perché non gli ha detto niente?», gli chiese Peter. «Non voglio che pensino che mi sia bevuto il cervello e che si precipitino qui a vedere che cosa mi è successo. Non ha senso che crepino anche loro.» Innestò la retromarcia. «Dirò a tutti di chiudersi in cantina finché questa dannata storia non sarà finita. Forse riusciremo a trovare una via d'uscita. Ma adesso per prima cosa vi riporto a casa, così Sara potrà riposarsi un po'.» «Io sto bene», disse lei sollevando la testa dal petto di Peter. «Ti sentirai meglio dopo aver dormito un po'», la interruppe questi costringendola gentilmente ad abbassare di nuovo il capo. Era un gesto di tenerezza, ma anche un modo per impedirle di vedere il prato. Era screziato dall'ombra delle nuvole e su di esso risplendeva una luce pallida, del tutto differente da quella che illuminava la macchina. Sembrava stranamente lontano dalla strada, come se appartenesse a un altro universo in cui le cose apparivano famigliari, ma in realtà erano diverse. L'erba ondeggiava sempre più violentemente e ogni tanto si alzava una colonna di ciuffi gialli che, dopo aver descritto mulinelli furiosi, si dissolveva scagliando tutt'intorno quello che era riuscita a catturare nel proprio vortice: come se un bambino gigantesco stesse attraversando di corsa il prato, strappando l'erba a piene mani per dare sfogo alla propria esuberanza. «Non ho sonno», si lamentò Sara; era ancora molto pallida e aveva un tic nervoso alla palpebra. Peter si sedette sul letto accanto a lei. «Non c'è niente che tu possa fare.
Quindi perché non ti riposi un po'». «E tu che intenzioni hai?» «Penso che farò un altro tentativo con i pettini.» L'idea la turbò. Lui aprì la bocca per spiegarle il motivo per cui doveva farlo, ma poi ci ripensò e si chinò a darle un bacio sulla fronte. «Ti amo», le disse. Le parole gli sgorgarono con tale spontaneità che lui stesso ne rimase sorpreso. Era da molto tempo che non le rivolgeva a qualcuno che non fosse un fantasma. «Non devi dirmelo soltanto perché le cose si stanno mettendo male», gli rispose lei corrugando la fronte. «Forse è per questo che te l'ho detto, ma comunque non credo sia una bugia.» Sara proruppe in una risata malinconica. «Non sembri molto sicuro di te.» Lui tacque alcuni istanti, poi riprese. «Vedi, una volta mi sono innamorato di una donna, e quella relazione ha profondamente influenzato la mia visione dell'amore. Fino a poco tempo fa ero convinto che l'amore dovesse nascere sempre allo stesso modo: con una specie di deflagrazione nucleare. Ma adesso sto cominciando a rendermi conto che può anche andare diversamente, che la passione può arrivare per gradi.» «È bello sentirtelo dire». Poi, dopo una pausa: «Ma tu sei ancora innamorato di lei, non è vero?» «Io penso ancora a lei, ma...» Scosse la testa. «Sto cercando di buttarmi il passato dietro le spalle e forse ci riuscirò. Sai, l'ho sognata questa mattina.» Sara alzò le sopracciglia. «Davvero?» «Non è stato un bel sogno», proseguì Peter. «Lei mi raccontava come avesse cancellato tutti i sentimenti che provava per me. "Tutto quello che è rimasto", mi ha detto, "è questa cosa dura che ho qui nel petto". Poi ha detto che ogni tanto si muoveva e che si contorceva, e me l'ha fatta vedere. E allora io ho visto quella dannata cosa rimbalzarle sotto la camicetta e quando l'ho toccata - lei voleva che la toccassi - era incredibilmente dura. Come una pietra che le si fosse conficcata sotto la pelle. Quello era tutto quello che rimaneva di noi due. Mi ha fatto incazzare così tanto che l'ho scaraventata per terra. Poi mi sono svegliato.» Peter si grattò la barba, imbarazzato per averle fatto quella confessione. «È stata la prima volta che ho fatto un pensiero violento su di lei.» Sara lo fissò con sguardo inespressivo.
«Non so se sia importante», riprese lui in tono poco convincente. «Ma penso di sì.» Lei tacque. Il suo sguardo lo fece sentire in colpa per avere fatto quel sogno e dispiaciuto di avergliene parlato. «Non la sogno spesso», aggiunse dopo un po'. «Non ha importanza», lo rassicurò Sara. «D'accordo.» Peter si alzò. «Adesso chiudi gli occhi e cerca di dormire un po', ok?» Lei gli prese la mano. «Peter?» «Sì?» «Ti amo. Ma tu lo sapevi già, vero?» L'esitazione nella sua voce lo ferì, perché sapeva che era colpa sua se lei era titubante. Si chinò e la baciò di nuovo. «Dormi», le disse. «Ne parleremo più tardi.» Uscì dalla stanza e chiuse la porta alle sue spalle senza fare rumore. Mills era seduto al tavolo da picnic e osservava Sally, che stava camminando avanti e indietro nel cortile, agitando le braccia come se stesse discutendo con un invisibile compagno di giochi. «Quella vecchia ubriacona ha perso qualche colpo negli ultimi tempi», disse Mills. «Un volta era in gamba come poche, ma adesso si sta comportando come una pazza.» «Non posso biasimarla», commentò Peter, sedendo dalla parte opposta del tavolo. «Anch'io mi sento un po' andato con la testa.» Mills pigiò il tabacco nella pipa. «Hai idea di che cosa sia?» «Forse è il Diavolo». Peter si appoggiò al muro. «Non ne sono sicuro, ma penso che Gabriela Pascual avesse ragione a considerarlo un animale.» Mills masticò il cannello della pipa e frugò in tasta alla ricerca di un accendino. «Che cosa intendi dire?» «Come ho detto, non ne sono sicuro, ma da quando ho trovato i pettini la mia sensibilità è molto aumentata, o almeno questa è la mia impressione. È come se il legame fra me e lui fosse diventato più forte.» Peter vide una scatola di fiammiferi incastrata sotto la zuccheriera e la allungò a Mills. «Comincio ad avere delle visioni. Poco fa, quando eravamo in macchina ho percepito una caratteristica tipicamente animale della cosa. Stava difendendo il suo territorio: lo stava difendendo dagli invasori. Pensa un attimo a chi ha aggredito: le ambulanze e i ciclisti, cioè gente che era entrata nel suo territorio. E ha aggredito anche noi quando siamo penetrati nell'aggregato.» «Però non ci ha uccisi», osservò Mills.
D'istinto Peter seppe quale sarebbe stata la risposta logica al suo commento, ma si rifiutò di accettarla e la ricacciò. «Forse mi sbaglio,» si limitò a dire. «Se si tratta di un animale, possiamo prenderlo all'amo. Basterà capire dove ha la bocca», riprese Mills con una risata che era un mezzo grugnito. Poi accese la pipa e mandò uno sbuffo di fumo bluastro. «Quando stai fuori in mare per due settimane di seguito ti accorgi quando nell'aria c'è qualcosa di strano... anche se non lo vedi. Io non sono un medium, ma ho l'impressione di conoscere questa cosa, di esserle passato accanto almeno un paio di volte.» Peter alzò gli occhi e lo guardò. Per quanto Mills fosse una tipica figura da bar, un vecchio lupo di mare con un'ampia scorta di storie esotiche da raccontare, ogni tanto percepiva in lui un rigore assoluto, quel genere di rigore che deriva dall'aver trascorso lunghi anni di solitudine. «Non mi sembra che tu abbia paura», disse. «Ah, no?» Mills sogghignò. «Invece io paura ce l'ho, ma la vita mi ha insegnato che con la paura non si ottiene niente.» La porta si spalancò e Sally entrò nella stanza. «Che caldo fa qui dentro», disse, avvicinandosi alla stufa e tastandola con le mani. «Mmm. Dev'essere tutta questa roba che ho addosso.» Si lasciò cadere accanto a Mills, si mise comoda, poi socchiuse gli occhi e fissò Peter. «Quel dannato vento non vuole me», disse. «Vuole te.» Peter trasalì. «Che cosa stai dicendo?» Sally increspò le labbra, come se avesse messo in bocca qualcosa di aspro. «Avrebbe preso me se non ci fossi stato tu, ma tu sei troppo forte. Non c'è altra soluzione.» «Lascia in pace il ragazzo», l'ammonì Mills. «Non posso.» Sally lo guardò in cagnesco. «Lui deve farlo.» «Tu hai idea di che cosa stia parlando?», chiese Mills a Peter. «Certo che lo sa, per Dio! E se non lo sa gli basta uscire a parlargli. Tu capisci quello che voglio dire, vero ragazzo? Lui vuole te.» Peter sentì un brivido freddo percorrergli la spina dorsale. «Come Gabriela», bisbigliò. «È questo che intendi dire?» «Esci e parlagli», disse Sally puntando un dito ossuto verso la porta. «Basterà che tu metta piede fuori e sarà lui a venire da te.» Dietro al cottage, separato da questo da due grandi pini giapponesi e da un capanno per gli attrezzi, c'era un prato, che l'affittuario precedente ave-
va utilizzato come giardino. Peter, invece, l'aveva lasciato andare in malora e adesso l'intera area era soffocata dalle erbacce e dai rifiuti: bombole del gas, chiodi arrugginiti, un camioncino di plastica appartenuto a qualche bambino del vicinato, una palla da softball parzialmente decomposta, pezzi di cartone e altro ancora, il tutto depositato su un letto di viti essiccate. Osservandolo, Peter ripensò all'aggregato e rifletté che non poteva esserci posto più indicato di quello per entrare in comunione con il vento... ammesso che tale comunione non fosse soltanto frutto della fantasia di Sally. Cosa che Peter si augurava dal profondo del cuore. Il pomeriggio stava declinando e la temperatura si era abbassata. Bagliori argentei di luce invernale orlavano le nuvole grigio-nerastre che si rincorrevano sospinte dal vento, che spirava dal mare a ritmo costante. Peter non vi avvertì alcuna presenza e ciò lo stupì; ma nel momento stesso in cui pensò di far ritorno sui propri passi, una raffica dall'odore particolarmente pungente lo investì in pieno viso. Peter si irrigidì. Poi lo sentì di nuovo: agiva indipendentemente dal vento che soffiava dal mare; gli toccava delicatamente gli occhi, gli sfiorava le labbra e lo accarezzava, come avrebbe fatto un cieco nel tentativo di farsi un'idea mentale della forma del suo corpo. Gli arruffò i capelli e si insinuò sotto le patte della sua giacca militare come un topolino addomesticato alla ricerca di un pezzetto di formaggio; gli sbrindellò i lacci delle scarpe e lo accarezzò fra le gambe, solleticandogli l'inguine e facendolo rabbrividire in tutto il corpo. Non riusciva a capire la lingua del vento, ma intuiva che il suo modo di comunicare era simile a quello dei gatti, che si strusciano contro la mano dell'uomo e gli trasmettono cariche elettrostatiche. E la carica che il vento gli trasmetteva era reale: una lieve puntura accompagnata da un debole scoppio. In qualche modo, senza dubbio grazie ai suoi poteri, la carica si traduceva in conoscenza. Peter capiva che si trattava di una conoscenza personificata e che i suoi pensieri erano rappresentazioni umane di impulsi non-umani; ma al tempo stesso aveva la certezza che fossero fondamentalmente precisi. L'elementale era soprattutto solo. Era l'unico rappresentante della sua specie, o, se ne esistevano altri, non li aveva mai conosciuti. Peter non provava pietà per la sua solitudine, perché non provava alcuna simpatia per lui. Lui non lo desiderava come amico o come compagno, ma unicamente come testimone del suo potere. Si divertiva a vantarsi delle sue prodezze e a irritarlo e da ciò traeva un enorme piacere. Era molto potente. Benché il suo tocco fosse lieve, possedeva un'incredibile vitalità e la sua forza era ancora maggiore quando si esprimeva sull'acqua. La terra lo in-
deboliva e per questo desiderava ritornare sul mare al più presto, trascinandosi dietro Peter. Sarebbero scivolati insieme nel ventre selvaggio delle onde, nel caos delle tenebre rombanti e della schiuma salata; avrebbero percorso il più profondo di tutti i deserti - il cielo sopra il mare -, avrebbero misurato la sua forza contro quella più debole delle tempeste; avrebbero catturato pesci volanti e se ne sarebbero serviti come di spade d'argento, avrebbero raccolto reti piene di tesori galleggianti e avrebbero giocato per settimane con i corpi degli annegati. Avrebbero trascorso tutto il tempo giocando. Forse «giocare» non era la parola esatta, ma era quella che veniva sempre usata per esprimere la violenza capricciosa che costituiva la principale qualità dell'elementale. Forse Gabriela Pascual aveva sbagliato nel definirlo un animale, ma in quale altro modo lo si sarebbe potuto chiamare? Era parte della natura, non del mondo dell'aldilà. Era un io senza pensiero, potere privo di moralità e guardava Peter come un uomo potrebbe guardare un giocattolo intelligente: qualcosa di cui prendersi cura per un po', poi trascurare e dimenticare. E infine abbandonare. Sara si svegliò di soprassalto. Aveva avuto un incubo: aveva sognato di morire soffocata. Si sedette diritta sul letto, respirando affannosamente, il corpo madido di sudore. Dopo un po' si calmò, mise i piedi per terra e rimase alcuni istanti a fissare il vuoto. Nella luce incerta del crepuscolo, le venature scure del legno formavano strane immagini, simili a musi di animali pronti a balzare fuori dalle pareti. Guardò fuori dalla finestra e vide banchi di nubi che si rincorrevano spinti dal vento e i cespugli che ondeggiavano. Benché si sentisse ancora insonnolita si alzò e si diresse verso il bagno, con l'intenzione di sciacquarsi la faccia. Ma la porta del bagno era chiusa a chiave e Sally gracchiò qualcosa dall'interno. Mills stava sonnecchiando sul divano-letto, mentre Hugh Weldon seduto al tavolo da picnic, stava sorseggiando una tazza di caffè. Sul piattino, vicino alla tazza, si stava lentamente consumando una sigaretta e la cosa la sorprese: conosceva Hugh Weldon da quando era nata ed era sicura di non averlo mai visto fumare. «Dov'è Peter?», gli chiese. «È fuori, sul retro», disse con voce ingrugnita. «E se vuoi sapere il mio parere si è bevuto il cervello.» «Perché?» gli domandò lei. Weldon rise. «Sally dice che sta parlando con quel dannato vento.»
Sara sentì una stretta al cuore. «Che cosa intendi dire?» «Quella donna mi fa andare in bestia», le rispose Weldon. «Questa è un'altra delle sue stronzate.» Ma quando i loro sguardi si incrociarono, lei captò la sua disperazione e la sua paura. Si precipitò verso la porta. Weldon l'afferrò per un braccio, ma lei si divincolò e corse verso i pini giapponesi, sul retro del cottage. Scostò i rami, ma poi si fermò di colpo, paralizzata dal terrore. Il modo in cui l'erba si piegava e ondeggiava indicava che il vento stava spirando in circoli lenti, come un enorme animale che stesse strisciando il ventre sul prato, al centro del quale si trovava Peter. Aveva gli occhi chiusi e la bocca aperta: il vento gli scompigliava i capelli che fluttuavano nell'aria come quelli di un annegato. Quella vista la colpì come una pugnalata e, senza più pensare alla paura che l'aveva attanagliata pochi istanti prima, corse verso di lui, urlando il suo nome. Aveva percorso circa metà del tratto che li separava quando una raffica improvvisa la scaraventò per terra. Sbigottita e disorientata, Sara cercò di alzarsi in piedi, ma il vento la fece cadere una seconda volta, appiattendola contro l'erba umida. Come era accaduto in mezzo all'aggregato, dal prato cominciarono a sollevarsi i rifiuti. Frammenti di plastica, chiodi arrugginiti, giornali ingialliti, stracci e, proprio sopra la sua testa, un grosso pezzo di legno. Benché fosse ancora stordita, Sara vide con straordinaria chiarezza che l'estremità del blocco era spaccata e ricoperta a tratti da una muffa biancastra: il legno vibrava minacciosamente, come se la misteriosa mano che lo tratteneva stesse lottando per reprimere la rabbia. Poi, nel momento stesso in cui si rese conto che le stava per piombare addosso e che le avrebbe trafitto gli occhi e spappolato il cervello, Peter si tuffò sopra di lei. L'impatto del suo peso sul suo corpo fu tale da bloccarle il respiro, ma questo non le impedì di sentire il tonfo del legno sulla testa di lui. Allora inspirò più che poté, poi, con una forte spinta, lo fece ruzzolare lontano da sé, e si alzò sulle ginocchia. Era pallido come un morto. «È ferito?» Era la voce di Mills, che stava correndo goffamente verso di loro. Dietro di lui, Weldon aveva afferrato Sally, che si dimenava come un'ossessa per liberarsi della sua stretta. Mills era giunto a circa un terzo del prato, quando i rifiuti, che erano ricaduti sull'erba, ripresero a vorticare nell'aria e, spinti da un'improvvisa e potente folata di vento, si scagliarono contro di lui. Per un secondo l'anziano pescatore fu circondato da una tempesta di pezzi di cartone e di plastica: quando finalmente questa si acquietò, vacillò
e abbozzò un passo in avanti. Aveva il viso ricoperto di macchie nere, che inizialmente Sara scambiò per grumi di sporcizia. Dopo pochi secondi, però, intorno ad esse cominciò a sgorgare il sangue: erano le teste dei chiodi arrugginiti che gli si erano conficcate nella fronte, gli avevano perforato le guance e gli avevano trafitto il labbro superiore, fissandolo alla gengiva. Mills non gridò: gli occhi gli uscirono dalle orbite, le ginocchia gli si piegarono e, dopo aver compiuto una goffa piroetta cadde in mezzo all'erba. Sara guardò davanti a sé stordita, mentre il vento soffiava intorno a Weldon e a Sally, gonfiando i loro vestiti; poi li oltrepassò, sferzò i rami dei pini e scomparve. Sara intravvide il profilo dell'addome di Mills e sentì una lacrima scavarle un solco gelido sulle guance. Improvvisamente, il suo torace fu scosso dai singulti e Sara pensò che quello era un modo davvero patetico di reagire di fronte alla morte. Un altro singhiozzo e un altro ancora. Non riusciva a fermarsi e, ad ogni spasmo, aveva la sensazione di sentirsi più debole, più malferma, come se stesse sputando minuscoli frammenti della sua anima. 7 Quando calò il buio, il vento si riversò nelle strade di Madaket, giocando tiri mancini a ogni creatura in cui si imbatteva, viva, morta o inanimata che fosse. Agiva indiscriminatamente, come uno spirito sommamente libero che non obbedisce ad alcuna norma; eppure da quel suo comportamento scaturiva un certo qual senso di frustrazione. Sopra Warren's Landing ridusse un gabbiano a un cencio sanguinante; vicino alla foce dell'Hither Creek scagliò in aria alcuni topolini di campagna. Fece ruzzolare una ruota di scorta in mezzo alla Tennessee Avenue e si accanì contro il tetto di legno dell'AHAB-ITAT. Per un po' spirò qua e là senza meta; poi, dopo aver acquisito la potenza di un tornado, divelse un pino giapponese e lo scagliò come una lancia contro una delle case che sorgevano sul lato opposto della strada. La stessa sorte toccò anche a due querce e a un biancospino. Alla fine, cominciò a sventrare le pareti delle case e ghermirne gli occupanti, che cercavano disperatamente di mettersi in salvo. Abbatté la porta della cantina della vecchia Julia Stackpole e la scaraventò contro gli scaffali pieni di marmellate, dietro ai quali si era nascosta. Poi, raccolse i cocci di vetro in un turbine di lame taglienti che le trapassarono le braccia, il volto e il collo. Scovò anche il vecchissimo George Coffin (lui non si era nascosto, perché era convinto che Hugh Weldon fosse un perfetto idiota). Era
appena rientrato in cucina dopo aver acceso il barbecue e il vento sollevò i tizzoni ardenti e glieli scagliò contro con una precisione portentosa. Nel giro di mezz'ora, uccise ventun persone e scaraventò i loro cadaveri in mezzo ai prati, dove li abbandonò a inzuppare l'erba di sangue, sotto un cielo sempre più scuro. Poi la sua furia sembrò placarsi: si dissolse in una brezza leggera e, sibilando attraverso i cespugli e i rami dei pini, fece ritorno al cottage, dove qualcosa che adesso voleva lo stava aspettando nel cortile. 8 Seduta sulla catasta di legna, Sally stava tracannando una birra che aveva preso nel frigorifero di Peter. Era furiosa come una gallina bagnata, perché lei aveva un piano, un ottimo piano, e quell'imbecille di Hugh Weldon non voleva darle retta. Non voleva ascoltare neanche una parola di quello che aveva da dirgli; voleva fare l'eroe, lui. Il cielo era color indaco. Sopra il tetto del cottage, inclinata su di un lato, la luna la guardava di soppiatto. Ma a Sally non piaceva sentirsi osservata e sputò in direzione della grande falce d'argento. L'elementale catturò lo sputo e lo fece vorticare nell'aria finché brillò di una luce madreperlacea. Pezzo di imbecille! Per metà mostro e per metà cane gigantesco e invisibile. Le ricordava uno dei grandi maschi del suo canile, un vecchio pastore tedesco di nome Rommel: era capace di avventarsi sul postino e, un minuto dopo, buttarsi a zampe all'aria a implorare una coccola. Sally piantò la bottiglia nel terreno, in modo che non si rovesciasse, poi afferrò un bastoncino. «Tieni», disse lanciandolo lontano da sé. «Forza, vai a prenderlo!» L'elementale afferrò il bastoncino e, dopo averlo fatto volteggiare con destrezza per alcuni secondi, lo depose ai suoi piedi. La donna sogghignò. «Questo significa che noi due possiamo intenderci», disse parlando all'aria. «Perché né io né tu valiamo una cicca.» Per tutta risposta, una folata di vento catturò la bottiglia di birra e la sollevò da terra. Sally cercò di afferrarla ma non ci riuscì. «Maledetto!» urlò. «Ridammela immediatamente!» La bottiglia salì fino a un'altezza di circa sei metri, dopo di che si capovolse: la birra si rovesciò e si raccolse in una decina di grandi gocce che, a una a una esplosero in uno spruzzo, sottoponendo Sally a una doccia fuori programma. Sputacchiando e farfugliando, la donna balzò in piedi e cominciò ad asciugarsi il viso, ma l'elementale la mandò di nuovo a finire lunga distesa per terra. Sally avvertì un brivido di paura solleticarle la nuca. La bottiglia era ancora sospesa sopra la sua testa, ma dopo alcuni se-
condi cadde in mezzo all'erba con un tonfo. Allora, l'elementale si avvolse a spirale intorno al suo corpo, scherzò con i suoi capelli e si insinuò sotto il suo impermeabile. Poi, all'improvviso, come se la sua attenzione fosse stata attratta da qualcos'altro, si dileguò in direzione della strada, appiattendo l'erba al suo passaggio. Sally si appoggiò alla catasta di legna e finì di asciugarsi il viso. Attraverso la finestra del cottage, vide Hugh Weldon che camminava avanti e indietro per la stanza e quella vista rinfocolò la sua rabbia. Si credeva tanto potente lui, non è vero? Lui dell'elementale non capiva un fico secco eppure si prendeva il lusso di disprezzare i suoi consigli. Che il diavolo se lo portasse all'inferno! Se ne sarebbe accorto da solo che con il suo piano non sarebbe riuscito a cavare un ragno da un buco e che soltanto quello di Sally la Pazza poteva funzionare. Era un po' rischioso forse, ma infallibile, com'era vero Iddio. 9 Era già buio fitto quando Peter riprese conoscenza. Girò la testa e la ferita gli pulsò con tale intensità che per poco non svenne di nuovo. Rimase immobile e cercò di capire dove si trovava. Dai vetri della finestra la luce della luna si riversava nella stanza: Sara era appoggiata allo stipite e la sua camicetta risplendeva di un bianco fosforescente. Dall'inclinazione del capo era chiaro che era intenta ad ascoltare qualche cosa; dopo alcuni secondi, anche Peter fu in grado di distinguere l'insolito motivo del vento: cinque note, seguite da un glissando che portava alla ripetizione del brano. Era una musica pesante, irosa, un suono sinistro che sembrava preannunciare una minaccia incombente. Poco dopo, il motivo si frammentò in migliaia di note acute, come se il vento venisse forzato nei registri aperti di un coro di flauti. Poi fu la volta di un secondo brano, questo di sette note, più veloce ma ugualmente sinistro. Un brivido di terrore e di impotenza percorse il corpo di Peter, raggelandolo. Quella musica dissonante veniva suonata per lui e adesso stava aumentando di intensità, come se - lui ne era certo - l'elementale stesse annunziando il suo risveglio, fosse di nuovo sicuro della sua presenza. Ed era impaziente: non lo avrebbe atteso ancora a lungo. Quel messaggio gli perforava il cervello sull'onda di ogni singola nota. Il pensiero di trovarsi da solo con lui in mare aperto lo terrorizzava. Tuttavia non aveva altra scelta. Non c'era modo di combatterlo e, se non
gli avesse obbedito, lui avrebbe continuato a uccidere. Se non fosse stato per gli altri, Peter si sarebbe rifiutato di andare: avrebbe preferito morire lì piuttosto che sottomettersi a quel rapporto angosciante e innaturale. Ma era davvero innaturale? Si rendeva conto che la storia del vento e di Gabriela Pascual aveva parecchio in comune con le storie di molti rapporti umani. Desiderio, conquista, disinteresse, oblio. Forse l'elementale rappresentava una sorta di essenza della vita; forse al fondo di ogni rapporto umano c'era un vuoto desolato, una musica stridente. «Sara», disse, cercando di scacciare quei pensieri. Lei si voltò e Peter ebbe l'impressione che la luna la stringesse in un abbraccio. «Come ti senti?» gli bisbigliò andando a sedersi accanto a lui. «Sono un po' stordito.» Poi gesticolò in direzione della finestra. «Da quanto è che va avanti?» «Ha appena cominciato. Ha sfondato i muri di molte case. Hugh e Sally sono usciti poco fa e hanno trovato altri morti.» Gli scostò un ciuffo di capelli dalla fronte. «Ma...» «Ma che cosa?» «Abbiamo un piano.» Il vento stava eseguendo terzine paurose, e il suo sibilo concitato lo fece rabbrividire. «Sarà meglio che sia una bomba», disse. «Si tratta di un piano messo a punto da Hugh», riprese Sara. «Prima, quando eravamo fuori in mezzo al prato lo ha colpito una cosa: ha detto che nel momento stesso in cui mi hai toccato, il vento se ne è andato. Se non fosse stato così, ti avrebbe scagliato addosso quel pezzo di legno, anziché lasciarlo cadere e tu saresti morto. E lui non voleva che tu morissi... Almeno questo è quello che dice Sally.» «Sally ha ragione. Ti ha detto che cosa vuole?» «Sì.» Sara distolse lo sguardo e i suoi occhi catturarono la luce della luna: erano pieni di lacrime. «Comunque, pensiamo che l'elementale fosse confuso e che quando siamo tutti insieme non possa farci del male. Siccome non vuol fare del male né a te né a Sally, fino a quando Hugh ed io stiamo vicini a voi non può succederci niente. Se solo Mills fosse rimasto fermo dov'era...» «Mills?» Sara gli raccontò quello che era accaduto. Dopo un po', con l'immagine del volto di Mills trapassato dai chiodi vivida nella mente, Peter chiese: «In che cosa consiste il piano di Hugh?» «Io salgo nella jeep con Sally e tu vai con lui. Punteremo su Nantucket,
ma quando avremo raggiunto la discarica... hai presente quella strada battuta che porta alla brughiera?» «Quella che va verso Altar Rock? Sì, ho capito.» «A quel punto tu salterai sulla jeep e noi tre andremo verso Altar Rock, mentre Hugh proseguirà verso Nantucket. Hugh è convinto che l'elementale voglia isolare quest'estremità dell'isola e che quindi inseguirà lui, mentre noi dovremmo riuscire a uscire dal suo raggio d'azione; ma al tempo stesso, il fatto che ci muoviamo in due opposte direzioni dovrebbe confonderlo e impedirgli di reagire rapidamente: in questo modo anche Hugh dovrebbe riuscire a salvarsi.» Sara gli espose il piano tutto d'un fiato, come una ragazzina che cerchi di estorcere ai suoi genitori il permesso di restare fuori fino a tardi alla sera, elencando loro tutti i motivi per cui dovrebbero concederglielo prima che loro abbiano il tempo di sollevare qualche obiezione. «Forse hai ragione a proposito del fatto che non può farci del male se stiamo tutti insieme», disse Peter. «Dio solo sa in che modo percepisce le cose, ma questo sembra plausibile. Però tutto il resto è un'idiozia. In primo luogo noi non sappiamo se il suo territorio è limitato a questa estremità dell'isola. E poi che cosa succederebbe se perdesse le tracce mie e di Sally? Come reagirebbe? Se ne andrebbe via e basta? Ne dubito. Secondo me c'è il rischio che punti su Nantucket e replichi là la strage che ha fatto qui.» «Sally dice di aver un piano d'emergenza.» «Ma per Dio, Sara!» Con cautela Peter si tirò a sedere sul letto. «Sally è matta. Lei non ha la benché minima idea di quello che potrebbe accadere.» «E allora che cos'altro ci resta da fare?» La sua voce si incrinò. «Non puoi andare con lui.» «Perché, credi che io lo voglia?» La camera della porta si aprì e la sagoma di Weldon si profilò sullo sfondo di una luce arancione che ferì gli occhi di Peter. «Pronto per il viaggio?» Sally era alle sue spalle e mugugnava a bocca semichiusa, emettendo un ronzio simile a quello prodotto dai fili dell'alta tensione. Peter gettò le gambe giù dal letto. «Questa è pura follia, Weldon.» Si alzò in piedi e si resse alla spalla di Sara. «In questo modo lei finirà per venire ucciso. Crede che l'auto della polizia possa correre più forte di lui?» disse poi indicando con la mano la finestra e la costante musica del vento. «Forse il mio è un piano di merda...», esordì Weldon. «Ecco, l'ha detto!», lo interruppe Peter. «Se vuole davvero confondere l'elementale, perché non divide me e Sally? Uno viene con lei e l'altro va con Sara. Almeno in questo modo ha un po' di senso.»
«Da come la vedo io», riprese Weldon tirandosi su i pantaloni, «è il mio lavoro quello di mettere a repentaglio la vita, non il suo. Se Sally, poniamo, viene in macchina con me, lei ha ragione, potrebbe confonderlo. Ma altrettanto potrebbe accadere con il mio piano. A me sembra che abbia tanta voglia di tenere a freno noi persone normali quanta di scapparsene via con degli scherzi di natura come lei e Sally.» «Che cos...» «Chiuda il becco!» Weldon fece con cautela un passo avanti. «Se il mio piano non funzionerà, potrà provare il suo. E se neanche quello andrà bene, allora potrà andare a fare un viaggetto con quella dannata cosa. Ma non abbiamo alcuna garanzia che ci lascerà in pace, indipendentemente da quello che lei farà.» «No, ma...» «Niente ma! Questo è il mio distretto e farete tutti quello che dirò io. Se non funzionerà farete quello che dovete fare. Ma fino a quel momento...» «Fino a quel momento lei continuerà a fare la figura dell'idiota!», lo interruppe Peter. «Capito? È tutto il giorno che cerca un modo per far valere la sua fottutissima autorità! Ma lei non ha nessuna autorità in una situazione come questa, non lo capisce?» Weldon si avvicinò a Peter fino a sfiorarlo. «Ok», disse. «Vada, vada là fuori, Mr. Ramey. Vada. Che cosa aspetta? Può prendere la barca di Mills, o quella di Sally se ne vuole una più grande.» Lanciò una rapida occhiata alle sue spalle in direzione della donna. Tu sei d'accordo Sally?» Senza smettere di mugugnare Sally annuì. «Lo vede?» Weldon si voltò verso Peter. «Per lei va bene. Perciò, forza, vada! Porti quel figlio di puttana lontano da noi, se ne è capace.» Si tirò su i pantaloni e sbuffò con rabbia. Il suo alito sapeva di una tazza di caffè piena di cicche di sigaretta. «Ma se fossi al posto suo, sarei più propenso a provare qualche altra soluzione.» Peter si sentiva le gambe inchiodate al pavimento. Capiva di essersi lasciato trasportare dalla collera per soffocare la paura e non sapeva se sarebbe riuscito a trovare il coraggio di prendere la barca e uscire in mezzo al vento, in mezzo al terrore e al nulla che aveva affrontato Gabriela Pascual. Sara gli fece scivolare una mano sotto il braccio. «Ti prego, Peter», lo implorò. «Tentar non nuoce.» Weldon fece un passo indietro. «Nessuno la biasima per il fatto di avere paura, Mr. Ramey», disse. «Anch'io ho paura. Ma questo è il solo modo in cui concepisco di fare il mio lavoro.»
«Ma così lei morirà.» Peter deglutì a fatica. «E io non posso permetterlo.» «Lei non ha alcuna voce in capitolo a questo proposito», gli rispose Weldon. «Perché lei non ha più autorità di me. A meno che lei non possa dire a quella cosa di andarsene e lasciarci in pace. È in grado di farlo?» Le dita di Sara si irrigidirono intorno al braccio di Peter, ma si rilassarono quando lui disse: «No.» «Allora faremo come dico io.» Weldon si sfregò le mani in un atto che a Peter sembrò di genuina pregustazione. «Sally, hai le chiavi?» «Sì», gli rispose lei con voce irritata. Poi si avvicinò a Peter e con la mano artigliata gli prese il polso. «Stai tranquillo. Ho un piano di riserva, se questo non funziona. Gliela faremo vedere a quel diavolo!» Poi proruppe in una risata chioccia seguita da un debole fischio, come un pappagallo che esulta davanti a un frutto. Mentre percorrevano lentamente le strade di Madaket, il vento spirava attraverso i muri sfondati delle case, eseguendo strane melodie, lugubri e interrogative, come se fosse perplesso dai movimenti della jeep e dell'auto. La luce della luna illuminava quello che restava del paese: muri sventrati, cespugli denudati, alberi sradicati. Una casa li guardava con espressione sorpresa: una grande bocca a forma di O dove un tempo c'era la porta, e, ai lati, due finestre sventrate. I prati erano coperti di macerie: libri che svolazzavano, vestiti, mobili, vivande, giocattoli. E corpi umani. Alla luce argentea della luna la loro carne era pallida come l'emmenthal, le ferite scure. Non sembravano reali: sembravano elementi di un ambiente macabro creato da uno scultore moderno. Un coltello da scalco volò rasente l'asfalto e per un attimo Peter temette di vederlo balzare in aria e avventarsi contro di lui. Gettò un'occhiata a Weldom per vedere come reagiva. Profilo inespressivo, occhi sulla strada. Peter invidiava il suo ostentato senso del dovere; anche lui avrebbe voluto avere un ruolo simile da coprire, qualcosa che gli desse coraggio, perché ogni cambiamento del vento lo turbava e lo faceva sentire fragile. Piegarono sulla strada per Nantucket e il poliziotto si raddrizzò sul sedile. Continuava a controllare Sally e Sara nello specchietto retrovisore e manteneva la velocità a venticinque miglia. «Okay», disse quando furono prossimi alla discarica e alla strada per Altar Rock. «Non ho intenzione di fermare la macchina del tutto, quindi quando le dirò di andare lei salterà giù.»
«D'accordo», disse Peter afferrando la maniglia della portiera e inspirando profondamente. «Buona fortuna.» «Grazie.» Weldon si succhiò i denti. «Anche a te.» La lancetta del tachimetro calò a quindici, poi a dieci, a cinque, mentre il paesaggio illuminato dalla luna scivolava via lentamente. «Adesso!», urlò Weldon. Peter obbedì e mentre correva verso la jeep sentì l'auto accelerare con un forte stridio di gomme. Sara lo aiutò a issarsi sul fuoristrada, che sterzò immediatamente in direzione della strada battuta. Peter si aggrappò al sedile di Sara, sobbalzando a ogni irregolarità del terreno. I cespugli che ricoprivano la brugheria crescevano fin sul ciglio della strada e i loro rami sferzavano contro le fiancate della jeep. Sally era curva sul volante e guidava come una pazza: saltava sulle buche, tagliava le curve più strette, polverizzava ogni montagnola. Non c'era tempo per pensare, ma solo per tener duro e avere paura, per aspettare l'inevitabile comparsa dell'elementale. Peter sentiva in bocca il sapore metallico del terrore. E lo stesso terrore si leggeva nel luccichio bianco degli occhi di Sara, ogni volta che si voltava a guardarlo; era nelle macchie di luce lunare che scorrevano sul tettuccio, in ogni respiro di Peter e in ogni ombra tremante che vedeva. Ma quando, dopo circa un quarto d'ora, raggiunsero Altar Rock, lui aveva cominciato a sperare e a illudersi che il piano di Weldon avesse funzionato. Altar Rock era il punto più alto dell'isola. Era una collinetta brulla, in cima alla quale si trovava una pietra un tempo usata dagli Indiani per compiervi sacrifici umani; era un fatto storicamente documentato e ogni volta che Peter ci pensava si sentiva tremare i nervi. Dalla cresta si dominavano chilometri e chilometri di brughiera e da quella prospettiva l'alternarsi di avvallamenti e piccole colline sembrava un mare trasformato per magia in una distesa di foglie. Sotto la luce della luna, i cespugli di mirice risplendevano di un color verde argenteo, mentre il vento spirava con regolarità, apparentemente immune dalla presenza di forze innaturali. Sara e Peter scesero dalla jeep, seguiti a ruota da Sally. Peter si sentiva tremare le gambe e si appoggiò al tettuccio. Sara gli si affiancò e lui inspirò il profumo dei suoi capelli. Sally socchiuse gli occhi e guardò in direzione di Madaket. Continuava a mugugnare, ma Peter riuscì a captare alcune parole: «Stupido... sapevo che non mi avrebbe dato ascolto... brutto figlio di puttana... dovevo tenermelo per...» Sara gli diede un colpetto con il gomito. «Che cosa ne pensi?»
«La sola cosa che possiamo fare è aspettare.» «Andrà tutto bene», disse lei con fermezza e mentre pronunciava quelle parole sfregò le nocche della mano sinistra contro la base della mano destra. A Peter ricordò uno di quei gesti che fanno i bambini a mo' di scongiuro e ne fu intenerito. La trasse a sé in un abbraccio. Con il capo di lei sulla sua spalla e gli occhi fissi sulla brughiera che li circondava, dovevano proprio sembrare la classica coppia di innamorati raffigurati sulle copertine dei tascabili, pensò, sorridendo fra sé e sé: avvinghiati sulla cima di una collina solitaria mentre di fronte a loro si dispiegavano le infinite possibilità dell'esistenza umana. Un modo molto sentimentale di concepire la vita. Eppure, in quel momento, lui ne percepiva la profonda verità, l'emozione inebriante che dovevano provare gli amanti dei romanzi rosa. Non era una sensazione chiara e distinta come quelle che era abituato a provare. Ma forse non avrebbe mai più sentito le cose con la stessa lucidità mentale di prima. Forse la sua lucidità di un tempo era frutto di un errore di prospettiva, conseguenza di una condizione di immaturità adolescenziale, un'interpretazione equivocata del possibile. In ogni caso, l'autoanalisi non lo avrebbe certo aiutato a porre rimedio a quello stato di confusione. Era un modo di pensare che rendeva ciechi al mondo e riluttanti a correre rischi. Era la stessa cosa che accadeva agli studiosi: a poco a poco diventavano così devoti alle loro teorie che rifiutavano qualunque fatto le mettesse in discussione, e finivano per diventare sempre più prudenti nei giudizi e per negare ciò che è inspiegabile e magico. Se esisteva qualcosa di magico al mondo, e lui sapeva che era così, il solo modo di avvicinarsi a esso consisteva nel liberarsi dai limiti della logica e dalle esperienze maturate. Per oltre un anno lui aveva dimenticato questa regola e aveva eretto delle barriere di difesa contro il magico; e, adesso, in una sola notte, quelle barriere erano crollate e, pur pagando un prezzo altissimo, era riuscito a mettersi in gioco di nuovo, a rischiare e a sperare. Ma proprio in quel momento vide qualcosa che vanificò la sua speranza. Un'altra voce si era aggiunta al sibilo naturale del vento che spirava dall'oceano; e in ogni direzione, fin dove l'occhio poteva giungere, i cespugli illuminati dalla luna ondeggiavano violentemente, tradendo la presenza di raffiche molto più intense di quelle che soffiavano sulla cima della collina. Peter allontanò Sara da sé. Lei seguì il suo sguardo e si portò una mano alla bocca. L'immensità dell'elementale sconcertò Peter. Era come se si trovassero su un dirupo in mezzo a un mare in tempesta, un mare che era arretrato in un'oscurità interstellare. Per la prima volta, nonostante la paura,
percepì la bellezza dell'elementale, la precisione e la complessità del suo potere. Un minuto prima era una brezza capace di manipolare delicatamente le cose, e un minuto dopo poteva trasformarsi in un'entità grande come una città. Foglie e rami strappati dai cespugli, simili a particelle di spazio nero, stavano dando vita a minacciose colonne: a un centinaio di metri da loro, intorno ad Altar Rock, ce n'erano sei, disposte a intervalli regolari. Più la loro dimensione aumentava, cosa che avveniva a una rapidità sconvolgente, e più il rombo del vento diventava assordante. Nell'arco di una manciata di secondi, le sommità delle colonne si perdettero nella tenebra. Non possedevano la forma conica e tozza del tornado, né ruotavano intorno alla propria base, ma si limitavano a ondeggiare, snelle, aggraziate e minacciose. Alla luce della luna il loro moto vorticoso era quasi impercettibile: sembravano fatte di ebano lucente, come sei enormi animali feroci pronti ad attaccare. Cominciarono ad avanzare in direzione della collina. Dalla loro base esplosero verso l'alto frammenti di cespuglio e il rombo crebbe in un accordo dissonante: il suono di cento armoniche suonate contemporaneamente. Solo molto, molto più forte. La vista di Sally che correva a rotta di collo verso la jeep riscosse Peter dallo stordimento: spinse Sara sul sedile posteriore e prese posto accanto al volante. Benché il motore fosse acceso, il suo rumore era sovrastato dalla voce del vento. Sally guidò ancor più all'impazzata di prima; l'isola era percorsa da una miriade di minuscole strade battute, lungo le quali la donna lanciò la jeep a tutta velocità, sfiorando i cespugli piegati dal vento, volando sopra la cresta delle colline e tuffandosi a capofitto giù per pendii scoscesi. In alcuni punti i cespugli erano troppo alti e impedivano a Peter di vedere quanto stava accadendo; ma in un tratto in cui la vegetazione era stata bruciata da un incendio egli riuscì a individuare, a una cinquantina di metri di distanza, un'enorme colonna di ebano. Gli bastò un'occhiata per capire che si muoveva parallelamente a loro, costringendoli a correre avanti e indietro. Aveva completamente perso il senso dell'orientamento ed era convinto che neppure Sally sapesse dove si trovavano né dove si stessero dirigendo. Stava cercando di fare l'impossibile, di condurre la jeep lontana dal vento, che era dappertutto, e aveva le labbra ritratte in una smorfia di paura. Poi, all'improvviso - avevano appena piegato verso est - inchiodò. Sara volò con metà del corpo sul sedile anteriore e se Peter non fosse stato trattenuto dalla cintura di sicurezza sarebbe sbalzato fuori attraverso il parabrezza. Poco oltre, una delle colonne si era fermata in mezzo alla strada bloccando loro il cammino. Sembrava Dio in persona, pensò Peter. Una
colonna d'ebano che saliva dalla terra fino al cielo, disseminando tutt'intorno nuvole di polvere, rami e foglie. E avanzava verso di loro. Lentamente. Pochi metri al minuto, ma avanzava. La jeep vacillò sotto le raffiche del vento, il cui rombo sembrava provenire dalla terra sotto di loro, dall'aria, dal corpo di Peter, come se gli atomi di tutte le cose si stessero agitando contemporaneamente, urtando gli uni contro gli altri. Con espressione glaciale Sally lottava con il cambio; Sara urlava e quando il vento risucchiò il vetro del parabrezza anche Peter gridò. Cercò di contrastare la violenza dell'impatto avvinghiandosi al cruscotto, ma le sue braccia troppo deboli cedettero e, arrossendo di vergogna, se la fece addosso. La colonna, enorme pilastro rotante di tenebra, era a meno di cento metri da loro, e Peter riuscì a percepire distintamente il moto vorticoso della materia che si allineava al suo interno in cerchi compatti, simili agli anelli di un verme. L'aria era sciropposa e si faceva fatica a respirare. Alla fine, miracolosamente, la jeep riuscì a sterzare e, procedendo a marcia indietro, li portò lontani dal vento e dal suo ululato. Svoltarono in una curva a gomito e Sally innestò la prima: poi si lanciò su per una collina piuttosto grande, ma dopo aver percorso poche centinaia di metri inchiodò e abbandonò disperatamente la testa sul volante. Erano di nuovo ad Altar Rock. E lì c'era Hugh Weldon ad aspettarli. Era seduto con la testa appoggiata al masso tondeggiante che dava il nome al luogo. Aveva gli occhi pieni di ombre, la bocca aperta e il torace che si alzava e si abbassava convulsamente, come se fosse appena reduce da una lunga corsa affannosa. Dell'auto della polizia nessuna traccia. Peter cercò di chiamarlo, ma aveva la lingua attaccata al palato e il solo suono che riuscì ad articolare fu un grugnito. Provò di nuovo. «Weldon!» Sara iniziò a singhiozzare e Sally emise un grido soffocato. Peter non capiva che cosa le avesse spaventate e non gli importava: adesso la sua mente riusciva a formulare un solo pensiero alla volta. Scese dalla jeep e raggiunse il poliziotto. «Weldon!» Weldon sospirò. «Che cosa le è successo?» Peter si inginocchiò accanto a lui e gli appoggiò una mano sulla spalla; ma proprio mentre compiva quel gesto udì un sibilo e un brivido gli percorse tutto il corpo. L'occhio destro di Weldon cominciò a gonfiarsi e a protrudere verso l'esterno in modo ributtante. Peter perse l'equilibrio e cadde pesantemente sul
sedere. In quello stesso istante l'occhio del poliziotto sprizzò fuori dall'orbita e ruzzolò in mezzo alla polvere; poi, con un sibilo acutissimo vento e sangue cominciarono a schizzare dalla cavità vuota. Incapace di urlare, Peter si diede a una convulsa fuga gattoni, mentre il cadavere di Weldon rotolava di lato e il vento continuava a far ribollire la polvere sotto l'orbita vuota dell'occhio. Una macchia scura sulla roccia indicava il punto in cui la sua testa era rimasta appoggiata. Fino a quando il battito del suo cuore non rallentò, Peter rimase disteso a contemplare la luna, luminosa e lontana come il desiderio. Sentiva l'ululato del vento da ogni parte e capiva che stava rinforzando, ma non voleva ammetterlo. Dopo un po', tuttavia, si alzò in piedi e fissò la brughiera. Era come se si trovasse al centro di un tempio gigantesco, un tempio brulicante di decine e decine di pilastri neri e lucenti, che si innalzavano da un pavimento verde scuro. I più vicini si trovavano a circa un centinaio di metri da lui ed erano immobili, ma mentre Peter li osservava, altri, più lontani, cominciarono a roteare avanti e indietro, scivolando fra quelli fermi come cobra danzanti. L'aria era gravida di terrore e pulsava di calore e di energia: era questo, insieme all'assoluta irrealtà della scena, a stordirlo e a impedirgli di muoversi. Peter scoprì di aver oltrepassato il limite della paura. Non era possibile nascondersi all'elementale più di quanto fosse possibile nascondersi a Dio. L'avrebbe condotto sul mare e lì lui sarebbe morto, ma il suo potere era così irresistibile che quasi Peter gli riconosceva il diritto di farlo. Fece ritorno alla jeep. Sara lo guardò con espressione esausta. Sally gli appoggiò una mano tremante sulla gamba. «Se vuoi, puoi usare la mia barca», gli disse. Durante il viaggio di ritorno a Madaket, Sara rimase muta e immobile, con le mani intrecciate in grembo; esternamente sembrava calma, ma aveva il cuore in subbuglio. I pensieri si rincorrevano con tale rapidità nella sua mente, da lasciarvi solo impressioni parziali e queste, a loro volta, erano messe in fuga da brucianti lampi di terrore. Desiderava ardentemente parlare a Peter, ma le parole erano insufficienti ad esprimere quello che provava. Ad un certo punto risolse di seguirlo sulla barca, ma quella decisione le suscitò un'improvviso moto di risentimento. Lui non l'amava: perché avrebbe dovuto sacrificargli la propria vita? Poi si rese conto che lui si stava immolando per lei, che l'amava, o che per lo meno quello era un atto d'amore, e capì che andando con lui avrebbe privato di significato quell'atto. Alla fine però si chiese se quella non fosse una scusa per nascondere a
se stessa la vera ragione per cui si tirava indietro: la paura. Che dire dunque dei sentimenti che provava per lui? Erano così fragili da poter essere minati dalla paura? In un accesso di irrazionalità immaginò che Peter la stesse spingendo a seguirlo per provargli il suo amore, cosa che lei non gli aveva mai chiesto. Che diritto aveva di farlo? Una parte della sua mente era cosciente dell'assurdità di quei pensieri, ma questo non le impediva di provare quello che provava. Sentiva il suo cuore vagliare i suoi sentimenti e lasciarla vuota ...come Hugh Weldon, con solo il vento dentro a puntellarlo, a infondergli una sembianza di vita. Di fronte a quell'immagine grottesca, Sara si rinchiuse ancor più in se stessa, incapace di parlare, sempre più incupita e vuota. «Coraggio!» disse improvvisamente Sally assestando una poderosa manata sulla coscia di Peter. «C'è rimasto ancora un ultimo tentivo da fare.» Poi, con quella che a Sara sembrò un'euforia al limite dell'irrazionalità, aggiunse: «Se non funziona, a bordo c'è tutto il necessario per la pesca e ci sono anche un paio di casse di cherry brandy. Ieri non le ho scaricate perché ero troppo ubriaca per farlo! E il cherry brandy è meglio dell'acqua per quel che ci aspetta.» Peter non rispose. Quando entrarono in paese, l'elementale li inseguì, sollevando in aria foglie e macerie. Stava giocando, pensò Sara. Semplicemente giocando. Ruzzava come un cucciolo felice, come un bambino stizzoso che aveva ottenuto quello che voleva e adesso era tutto sorrisi e moine. Sara lo odiava dal profondo del cuore e conficcò le unghie nel sedile della jeep desiderando ardentemente di potergli fare del male. Poi, mentre oltrepassavano la casa di Julia Stackpole, il cadavere della vecchia donna si drizzò a sedere per terra. La testa sanguinante le penzolava sul petto, mentre le fragili braccia le sbattevano lungo i fianchi; tutto il suo corpo sembrava animato da un'energia aliena e, con un movimento orribilmente disarticolato, rotolò per metri e metri in mezzo a un turbine di carta e di rifiuti, per poi fermarsi contro una sedia rotta. Inorridita, Sara cercò rifugio in un angolo del sedile, col respiro rotto dall'angoscia. Il vento spazzò via una nuvola sottile che oscurava parzialmente la luna e una luce più intensa si riversò sul paesaggio, facendo apparire diafano e immateriale il grigio delle case; i buchi nelle pareti, neri e cavernosi, risaltarono in tutta la loro concretezza, come se fino ad allora i muri, le porte e le finestre avessero rappresentato soltanto la facciata dietro la quale si nascondeva il vuoto.
Sally parcheggiò a un centinaio di metri da Smith Point, accanto a una rimessa per imbarcazioni: una costruzione di legno traballante delle dimensioni di un garage, oltre la quale lo splendore della luna illuminava una distesa di acqua nera e calma. «Hai bisogno di una barca a remi per raggiungere la mia bagnarola», disse Sally rivolta a Peter. «I remi sono qui dentro.» Aprì la porta e accese la luce. L'interno della rimessa era malridotto come la sua proprietaria: assi di legno grezzo, ragnatele che si stendevano dai barattoli di vernice a vecchie nasse per aragoste e pezzi di legno sparpagliati dappertutto. Sally si mise a cercare i remi, bofonchiando e prendendo a calci tutto quanto le intralciava il cammino. I suoi passi energici facevano dondolare la lampadina che pendeva dal soffitto, cosicché la luce si riversava sulle pareti a ondate, come un grande mare giallo e sporco. Sara si sentiva le gambe di piombo e non riusciva a muoversi: forse, pensò, era perché ormai le restavano poche mosse da compiere. Peter avanzò di alcuni passi verso il centro del locale, poi si fermò con lo sguardo perso e le mani contratte. Guardandolo, Sara credette di veder riflessa nei suoi occhi l'espressione del proprio viso: prostrata e avvilita. Fu allora che reagì. Le emozioni che aveva dominato fino a quel momento esplosero, gli buttò le braccia al collo e, con frasi smozzicate e sconnesse, gli disse che non poteva lasciarlo andare da solo. «Sara», disse Peter, stringendola forte a sé. «Oh Dio!» Un secondo dopo lei udì il rumore di un colpo sordo e Peter si accasciò contro il suo corpo e poi crollò per terra. Brandendo un'asse di legno, Sally si piegò su di lui e lo colpì di nuovo. «Ma che cosa fai?» urlò Sara avventandosi su di lei. Per alcuni secondi le due donne lottarono, le braccia allacciate in una grottesca mossa di valzer, mentre la lampadina dondolava furiosamente. Sally farfugliava con voce stizzosa sputacchiando tutt'intorno. Alla fine, con uno spintone si liberò di Sara, che barcollò, inciampò sul corpo di Peter e finì a gambe all'aria accanto a lui. «Ascoltami!» Sally inclinò la testa e indicò il tetto con la mano. «Per Dio, funziona!» Con cautela Sara si alzò. «Di che cosa stai parlando?» Sally afferrò il suo cappello da pescatore, che aveva perso durante la lotta, e se lo calcò in testa. «Del vento, dannazione! Glielo avevo detto a quel pezzo di idiota di Hugh Weldon ma lui non mi ha voluto dare retta! Lui non ascoltava mai nessuno.»
Adesso il vento aumentava e diminuiva di intensità a intervalli regolari, e Sara ebbe l'impressione che la creatura stesse correndo freneticamente avanti e indietro. Poi l'eco di uno schianto in lontananza. «Non riesco a capire», disse. «Per lui privo di sensi equivale a dire morto», riprese Sally, indicando Peter con il pezzo di legno che stringeva in mano. «Sapevo che doveva essere per forza così, perché dopo aver ucciso Mills, ha preso di mira me. Mi ha toccato dappertutto e allora io ho avuto la certezza che avrebbe preso me. Ma quello stupido bastardo non mi ha voluto dare ascolto. Voleva fare a tutti i costi di testa sua!» «Che cosa significa che avrebbe preso te?» le chiese Sara abbassando gli occhi su Peter, che giaceva immobile e perdeva sangue dalla testa. «Intendi dire al posto di Peter?» «È ovvio.» Sally corrugò la fronte. «Non ha senso che vada lui. È giovane e ha tutta la vita davanti. Io invece...» Diede uno strattone al risvolto dell'impermeabile come se volesse buttarsi via. «Che cos'ho da perdere? Un paio di anni di solitudine. Non che sia felice di andare, ma è la cosa più sensata. Ho cercato di dirlo a Hugh, ma lui voleva fare l'eroe a tutti i costi.» I suoi occhi vivaci brillarono sotto le palpebre grinzose e guardandola Sara ritrovò la stessa sensazione che aveva provato quando l'aveva conosciuta da bambina: la sensazione di trovarsi di fronte a un vecchio spirito burlone, per metà matto ma con un occhio fisso su un angolo del creato che nessun altro era in grado di vedere. Ricordava tutte le storie che si raccontavano su di lei: Sally che cercava di comunicare con la luna attraverso la lanterna controvento, Sally che, con il grecale, era uscita in mare con la sua barca per portare in salvo sei marinai bloccati a Whale Sholas; Sally che si era ubriacata ed era svenuta durante la cerimonia che la Guardia Costiera aveva organizzato in suo onore; Sally che aveva lanciato i suoi cani contro il senatore del Massachussets che era venuto a insignirla di una medaglia. Sally la Pazza. Sally che improvvisamente era diventata così preziosa ai suoi occhi. «Tu non puoi...», esordì Sara, ma poi si fermò e guardò Peter. «Non posso non farlo», disse Sally, facendo schioccare la lingua. «Fa' in modo che qualcuno pensi ai cani.» Sara annuì. «E tu faresti meglio a preoccuparti di lui», riprese Sally. «Controlla che non l'abbia colpito troppo forte.»
Sara si accinse a obbedirle, ma un pensiero improvviso la fece bloccare. «Non è possibile che adesso capisca la differenza fra la morte e la perdita di coscienza? Potrebbe averlo imparato. Peter è già svenuto una volta.» «Sì, penso che potrebbe essere capace di imparare dall'esperienza», disse Sally. «Ma è così stupido che dubito che questo l'abbia capito.» Poi gesticolò in direzione di Peter. «Forza, guarda se sta bene.» Mentre si inginocchiava accanto a lui, Sara avvertì uno strano formicolio alla nuca e solo all'ultimo istante si rese conto di aver sempre saputo quello che sarebbe accaduto. Ma ciò nonostante trasalì quando sentì Sally vibrare il colpo. 10 Fu soltanto la sera del giorno seguente che i medici permisero a Peter di ricevere visite da parte di persone che non fossero investigatori di polizia. Continuava a soffrire di vertigini e di alterazioni della vista e, sul piano psichico, alternava momenti di serenità a fasi di profonda depressione. Ricordava i corpi mutilati, le gigantesche colonne d'aria e ogni volta che sentiva il vento aggirarsi furtivamente intorno all'ospedale, veniva sopraffatto da crisi d'ansia. In generale, si sentiva incapace di provare emozioni, ma non appena Sara mise piede nella stanza, quella sensazione sparì. La attirò sul letto accanto a sé e nascose il volto fra i suoi capelli. Rimasero a lungo abbracciati senza parlare e fu Sara che alla fine ruppe il silenzio. «Ti credono?» gli chiese. «Ho l'impressione che a me non credano affatto.» «Non hanno molta scelta», le rispose Peter. «Comunque io penso che non vogliano crederci.» Dopo un po' lei riprese. «Te ne andrai?» Lui si staccò da lei. Non gli era mai sembrata così bella come in quel momento. Aveva gli occhi dilatati, le labbra tese e le guance scavate dall'angoscia di tutte quelle ore. «Dipende da te. Se deciderai di venire con me oppure no», le disse. «Io vorrei andare via di qui. Ogni volta che sento il vento cambiare di intensità, i miei nervi saltano. Ma non voglio lasciarti. Voglio sposarti.» La reazione di Sara fu diversa da quella che si aspettava. Chiuse gli occhi e lo baciò sulla fronte - un bacio materno, comprensivo; poi si accoccolò di nuovo sul cuscino e lo fissò con sguardo calmo. «Era una proposta di matrimonio», riprese lui. «Non era sufficientemen-
te chiaro?» «Matrimonio?» L'idea sembrava sconcertarla. «Perché no? Abbiamo tutte le carte in regola», proseguì lui con un ghigno. «Abbiamo tutti e due una commozione cerebrale.» «Non lo so, Peter.» C'era una nota di esitazione nella sua voce. «Io ti amo, ma...» «Ma non ti fidi di me, vero?» «Forse, in parte c'entra anche questo», disse con una certa irritazione. «Non lo so.» «Ascoltami», continuò Peter lisciandole i capelli. «Lo sai quello che è veramente accaduto ieri sera nella rimessa?» «Non capisco che cosa intendi dire.» «Adesso te lo spiego. È accaduto che un vecchia donna ha sacrificato la sua vita perché io e te potessimo avere un futuro.» Lei aprì la bocca per interromperlo ma lui la zittì. «È questo il succo. Ammetto che la realtà possa apparire un po' più confusa. Dio solo sa perché Sally ha fatto quello che ha fatto. Forse il desiderio di salvare la vita agli altri era una manifestazione della sua follia o forse era stanca di vivere. O forse in quel momento le sembrava la cosa giusta da fare. E per quanto riguarda noi, non si può certo dire che finora siamo stati come Romeo e Giulietta. Io ero confuso e ho confuso te. E a prescindere dai problemi che potremo avere come coppia, abbiamo molto da dimenticare. Prima di conoscerti io mi sentivo perseguitato da un'ossessione e probabilmente mi porterò dietro questa sensazione ancora per un po'. Ma come ho detto, il punto è che Sally è morta perché noi potessimo avere un'opportunità: indipendentemente dai motivi che l'hanno spinta a sacrificarsi e dalla situazione in cui adesso ci troviamo, saremmo degli stupidi se ce la lasciassimo sfuggire.» Peter sfiorò lo zigomo di Sara con la punta dell'indice. «Io ti amo. Ti amo da molto tempo, ma ho cercato di reprimere quello che provavo perché volevo rimanere attaccato a un passato che è morto. Ma ora è tutto cambiato.» «Non possiamo prendere una decisione simile adesso», mormorò lei. «Perché no?» «Lo hai detto tu stesso. Sei confuso e lo sono anch'io. E non so quello che provo... in generale.» «In generale? Vuoi dire per me?» Sara fece un gesto vago, chiuse gli occhi e dopo un po' disse: «Ho bisogno di un po' di tempo per pensare.» Peter sapeva per esperienza che quando una donna chiedeva una pausa
di riflessione, c'era ben poco di buono da aspettarsi. «Oh Cristo!», disse con rabbia. «Possibile che debba essere sempre così fra due persone? Prima uno si avvicina e l'altro scappa e poi si invertono i ruoli. Come gli insetti che non sono più capaci di accoppiarsi perché l'inquinamento gli ha mandato a pallino l'istinto riproduttivo.» La frase gli sfuggì di bocca e si rese conto troppo tardi e con orrore di quello che aveva detto. «Dai Sara! Abbiamo già superato la fase di questi giochetti, non ti sembra? Non è necessario che ci sposiamo. L'importante è che prendiamo questa storia sul serio. Forse sarà un disastro, forse finiremo per annoiarci a vicenda. Ma almeno proviamoci. Forse non ci costerà poi tanta fatica.» L'abbracciò e la strinse a sé e in quel momento si sentì sprofondare in un mare di calore e di fragilità. Si rendeva conto di amarla con un'intensità che non avrebbe mai creduto di poter provare ancora. Per una volta la sua lingua era stata più intelligente del suo cervello. «Per l'amor del cielo, Sara! Sposami. Vivi con me. Fa' quello che vuoi ma condividi la tua vita con me!» Lei tacque. Con la mano sinistra gli accarezzò i capelli. Tocchi leggeri e distratti. Gli sistemava i riccioli dietro le orecchie, giocherellava con la sua barba e gli lisciava i baffi. Come se volesse renderlo presentabile. Peter ricordava come anche l'altra donna fosse diventata taciturna, distratta e gentile pochi giorni prima di dargli il benservito. «Maledizione!», gridò al limite della disperazione. «Dammi una risposta!» 11 La seconda notte che trascorse in mare, Sally intravvide una luce rossa che occhieggiava a babordo. Il fanale di fonda di qualche nave. Quella vista le fece ripensare a casa e lei non riuscì a trattenere una lacrima. Ma subito dopo si asciugò il viso con il dorso della mano e ingollò un'altra sorsata di cherry brandy. La timoniera della sua barca era piccola ma accogliente e abbastanza calda. Fuori, la superficie del mare, illuminata dalla luna, era increspata da onde lunghe. Anche se non hai nessun bel posto in cui andare, viaggiare per terra, per mare o per aria ti tira sempre su di spirito, pensò e rise. Soprattutto se hai una buona scorta di cherry brandy. Ne bevve un altro sorso. Un refolo di vento le si avvolse a spirale intorno al braccio e diede uno strattone al collo della bottiglia. «Maledetto!», berciò Sally. «Vattene via!» Colpì l'aria come se potesse scacciare l'elementale e
si strinse la bottiglia al petto. Il vento srotolò un pezzo di cima sul ponte alle sue spalle e cominciò a gemere per tutto lo scafo. Barcollando, Sally si affacciò sulla porta della timoniera. «Oooh-Oooh», cantò facendogli il verso. «Non suonare la tua dannata musica a me, maledetto bastardo! Va ad uccidere un altro pesce se hai voglia di fare qualcosa, e lasciami bere in santa pace.» Grandi onde, simili a denti neri, si gonfiarono a babordo. Per poco Sally non lasciò cadere a terra la bottiglia per la sorpresa. Poi si accorse che non erano vere onde, ma forme d'acqua create dall'elementale. «Stai perdendo colpi, brutto stronzo!» urlò. «Ho visto cose migliori al cinema!» Si lasciò cadere accanto alla porta e afferrò saldamente la bottiglia. La parola cinema le fece ritornare alla mente spezzoni di film che aveva visto molti anni prima e cominciò a intonare i motivi che ne formavano la colonna sonora. Cantò «Singing In The Rain», «Blue Moon» e «Love Me Tender». Fra un verso e l'altro trangugiava sorsate di brandy e quando si sentì pronta si lanciò nella sua canzone preferita. «Il suono che senti», urlò, «è il suono di Sally! Una letizia da udire nei secoli dei secoli!» Si interruppe un attimo e ruttò. «Le colline sono vive del suono di Sally...» Non ricordava la strofa successiva e quello pose fine al concerto. Il vento si ingrossò in un cupo ululato intorno a lei e i suoi pensieri sprofondarono in una dimensione in cui esistevano solo deboli impulsi, sentiva i suoi nervi sibilare e il sangue rimbombarle nelle orecchie. Dopo un po' Sally riemerse dallo stato di stupore in cui era caduta e si scoprì incline al rimpianto. Niente di particolare. Solo un rimpianto generale... General Rimpianto... Se lo figurò come un vecchio barbogio con i baffi spioventi e un'uniforme in stile Gilbert-e-Suillivan, con le spalline grandi come skateboard. Non riusciva a togliersi quell'immagine dalla mente e si chiese se vi fosse qualche ragione importante per cui le rimaneva così impressa. Anche quella, come il verso della sua canzone preferita, era andata perduta, scivolata via attraverso una delle crepe del suo cervello. Del resto, anche la sua vita si era dileguata allo stesso modo e tutto quello che ne ricordava era un'accozzaglia di notti solitarie, di cani ammalati, di gusci di pettini e di marinai mezzi affogati. E nessun fatto importante che emergesse da quella accozzaglia. Nessuna testimonianza di imprese o di storie d'amore. Hah! Lei non aveva mai incontrato un uomo che fosse capace di fare quello di cui la categoria maschile si vanta tanto. Quelli più sensati che aveva conosciuto erano i marinai che avevano fatto naufragio, con i loro grandi occhi scuri, come se avessero visto qualche cosa di così terribile da privarli del loro
orgoglio e della loro stupidità. Ad un tratto i suoi pensieri cominciarono a vorticare, mentre lei cercava di catturare la vita, di fissarla come si fissa una farfalla morta con uno spillo e di studiarla; dopo un po', però, si accorse che non era la sua mente a girare, ma lei stessa. Lentamente, anche se il moto diventava sempre più veloce. Si tirò in piedi, si attaccò alla porta della timoniera e guardò fuori. La barca stava girando come una trottola al limite di un'enorme cavità di acqua nera larga parecchie centinaia di metri. Un gorgo. La luce della luna ne illuminava le pareti ripide, ma non giungeva a rivelarne il fondo. Il suo frastuono assordante e la sua forza terrificante la spaventarono e per un attimo Sally si sentì girare la testa e credette di essere sul punto di svenire. Ma dopo un momento mise al bando la paura. Dunque quella era la morte. Una grande bocca che si apriva e ti ingurgitava in un solo boccone. Perfetto. Per lei andava benone. Si lasciò cadere pesantemente contro la parete della timoniera e bevve generose sorsate di cherry brandy: la barca affondava ma a lei non importava un fico secco e ascoltava il vento e la musica del suo sangue. Meglio morire così che vomitare quel che le restava da vivere una boccata alla volta in un letto d'ospedale. Continuò a bere rumorosamente dalla bottiglia, tracannando il brandy con voluttà: voleva essere il più ubriaca possibile quando fosse giunta l'ora. Ma l'ora non giunse e le ci volle poco per capire che la barca aveva smesso di roteare. Il vento si era placato e il mare era calmo. Un refolo le si avvolse a spirale intorno al collo, le si insinuò nel petto e poi cominciò ad arrotolarsi intorno alle sue gambe sollevandole l'orlo della gonna. «Ehi, tu, bastardo,» disse con voce impastata, troppo ubriaca per muoversi. L'elementale turbinò intorno alle sue ginocchia, gonfiandole il vestito e toccandola in mezzo alle gambe. Le faceva il solletico e lei gli mollò uno schiaffo, come se fosse uno dei suoi cani intento ad annusarla. Ma un secondo dopo lui la stimolò lì di nuovo, con più decisione di prima, strusciando avanti e indietro, finché lei avvertì un brivido di eccitamento erotico. Ne rimase così sorpresa che perse l'equilibrio e rotolò lungo il ponte, ma ciò nonostante riuscì a mantenere, non si sa come, la bottiglia diritta. Il brivido non l'abbandonò e per un istante l'impulso di un desiderio appassionato dominò il mosaico frammezzato dei suoi pensieri. Schiamazzando e grattandosi si alzò in piedi e si appoggiò alla battagliola. A una cinquantina di metri a babordo, l'elementale si stava modellando in una tromba marina, in una colonna di tenebra illuminata dalla luna che prendeva forma dalla superficie calma dell'oceano. «Ehi!», urlò Sally vacillando. «Torna qui! Torna qui che ti insegno un
altro giochino!» Il vortice diventava sempre più alto, un serpente nero e lucente che risucchiava la barca nelle sue fauci. Ma a Sally non importava. Era posseduta da una gioia demoniaca e la sua mente era attraversata da lampi di follia pura. Forse aveva capito qualcosa. Forse nessuno aveva mai dimostrato interesse per l'elementale e probabilmente era quella la ragione per cui alla fine si era stancato di loro. Ma lei no! A lei invece interessava. Quella dannata cosa non poteva essere più stupida dei suoi doberman. In ogni caso l'aveva annusata proprio come facevano loro. Lei gli avrebbe insegnato a rotolarsi e a supplicare e Dio sa che cos'altro. Prendimi quel pesce, gli avrebbe detto. Sospingimi verso Hyanis, rompi la finestra del locale in cui ci sono le casse di brandy e portamene su sei bottiglie. Gli avrebbe fatto vedere chi era che comandava. E forse, un giorno, sarebbe approdata nel porto di Nantucket tenendolo al guinzaglio. Sally di 'Sconset con il suo cucciolo di tempesta, Flagello dei Sette Mari. La barca stava incominciando a rollare e beccheggiare, trascinata dalla forza centripeta del vortice, ma Sally quasi non se ne accorse. «Ehi!», urlò di nuovo e sogghignò. «Forse possiamo andare d'accordo! Forse siamo fatti l'uno per l'altra!» Inciampò in una deformazione del tavolato e la mano che reggeva la bottiglia le ondeggiò sopra la testa. La luce della luna sembrò riversarsi nella bottiglia, accendendo il brandy e facendolo risplendere come un elisir magico, un rubino rosso scuro che le brillava fra le dita. La sua risata da folle raggiunse il cielo. «Torna qui!», gridò all'elementale, esultando in ogni fibra del proprio corpo al pensiero di mettersi in combutta con quel dio idiota; non si curava di quanto stava realmente accadendo, dell'urlo tuonante del vento e della sua piccola barca che scivolava verso la base schiumosa della tromba marina. «Torna qui, maledetto! Siamo fatti della stessa pasta noi due! Ti canterò la ninna nanna ogni notte! E tu mi procurerai la cena! Io sarò la tua vecchia sposa pazza e fin che durerà avremo una luna di miele d'inferno!» IL PARASSITA The Parasite di Arthur Conan Doyle Harper's Weekly, novembre 1984 Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) non ha certo bisogno di presentazioni: il personaggio di Sherlock Holmes da lui creato, gli ha assicurato
fama imperitura. Tuttavia, proprio come lo scrittore temeva, la grande fortuna incontrata dalle avventure poliziesche del celebre detective ha oscurato la sua restante produzione narrativa. Doyle ha sempre nutrito una particolare predilezione per i racconti del mistero e dell'orrore. La sua prima opera a ottenere l'onore della stampa fu «The Haunted Grange of Goresthorpe», una falsa «ghost story», mentre la novella che gli procurò il primo grande successo di pubblico, fu «The Mystery of Sasassa Valley», un thriller di grande suspence infarcito di elementi soprannaturali. Molti dei primi racconti di Doyle rientrano nel filone della letteratura del mistero e del soprannaturale e, sorprendentemente, sono di gran lunga più originali e convincenti delle opere scritte negli anni successivi, quando l'autore subì il fascino dello spiritismo. «Il Parassita», il romanzo breve che presentiamo in questa antologia, è uno dei primi firmati da Doyle e uno dei meno conosciuti, nonostante abbia fatto la sua prima apparizione sulle prestigiose pagine dell'Harpers Weekly, che l'ha pubblicato a puntate nel novembre del 1884 1 Ventiquattro marzo. La primavera è quasi arrivata. L'imponente castagno che si vede dalla finestra del mio laboratorio è interamente ricoperto di grandi gemme gommose e glutinose, alcune delle quali hanno già incominciato ad assumere una vaga sembianza di verde foglia. Passeggiando lungo i viali si avverte il fermento silenzioso delle feconde forze della natura. La terra bagnata emana un odore di fertilità e di sensualità. Dovunque spuntano germogli verdi. I ramoscelli sono turgidi di linfa e l'aria umida e pesante di Inghilterra profuma debolmente di resina. Le siepi sono cariche di gemme e sotto di loro si celano gli agnelli... Ovunque la natura si risveglia e si rigenera! Lo vedo nel mondo esterno e lo avverto dentro di me. Anche noi abbiamo la nostra primavera, quando le arteriole si dilatano, la linfa scorre più rapida, le ghiandole lavorano più alacremente, vagliando e filtrando. Ogni anno la natura rimette a punto l'intera macchina. In questo preciso istante sento il fermento del mio sangue, e adesso che il sole tiepido inonda impudentemente tutta la stanza potrei anche danzare come una zanzara nella sua luce. E lo farei, se non fosse che nel giro di pochi secondi Charles Sadler si precipiterebbe dal piano sottostante per vedere che cosa sta succedendo. Inoltre, devo ricordare che io sono il Professor Gilroy. Un vecchio profes-
sore può permettersi di essere se stesso, ma quando la fortuna assegna una delle prime cattedre dell'università a un uomo di quarantatré anni, questi non può che sforzarsi di recitare coerentemente la sua parte. Che strano tipo è Wilson! Se solo io riuscissi ad applicarmi alla fisiologia con lo stesso entusiasmo con cui lui si dedica allo studio della psicologia, diventerei come minimo un Claude Bernard. Lui si consacra anima e corpo a una sola causa; si addormenta mentre raccoglie e raffronta i risultati conseguiti durante il giorno, e si sveglia pronto a programmare il lavoro della giornata che lo attende. Eppure, al di fuori della ristretta cerchia delle persone che seguono la sua attività, ottiene così poco credito per quello che fa. La fisiologia è una scienza riconosciuta: se aggiungo anche un solo mattone all'edificio, tutti se ne accorgono e mi applaudono. Wilson, invece, sta cercando di gettare le fondamenta di una scienza del futuro e il suo è un lavoro sotterraneo di cui nessuno si avvede. Eppure lui continua con rassegnata tenacia, corrispondendo con un centinaio di mezzipazzi nella speranza di trovare una prova attendibile, esaminando minuziosamente cento dati con la probabilità di trovare soltanto un minuscolo granello di verità, confrontando tra di loro vecchi libri, divorandone di nuovi, facendo esperimenti, tenendo conferenze e cercando di risvegliare anche negli altri l'interesse che lo appassiona e lo consuma. Quando penso a lui, provo grande ammirazione, ma ogni volta che mi chiede di affiancarlo nella sua ricerca, sono costretto a rispondergli che, allo stato attuale, essa offre ben poco motivo di attrattiva per un uomo che, come me, è dedito alle scienze esatte. Se fosse in grado di dimostrarmi qualcosa di concreto e di oggettivo, allora forse sarei tentato di esaminare la questione dal punto di vista fisiologico; ma fino a quando i suoi argomenti saranno inquinati per metà da charlatanerie e per metà da isterismo, noi fisiologi dovremmo accontentarci del corpo e lasciare la mente ai nostri discendenti. Non v'è dubbio che io sia un materialista. Agatha sostiene che io sia un materialista di primo rango, e io continuo a ripeterle che proprio questo mio impellente bisogno della sua spiritualità costituisce un ottimo motivo per abbreviare il nostro fidanzamento. Eppure io potrei asserire di essere un curioso esempio degli effetti prodotti dall'educazione sul temperamento, perché, se non mi inganno, io sono di natura un uomo altamente spirituale. Da bambino ero eccitabile e sensibile, facevo molti sogni, soffrivo di sonnambulismo ed ero facile preda di impressioni e di intuizioni. I miei capelli scuri, i miei occhi scuri, il mio viso magro e olivastro e le mie dita affusolate sono tutti tratti rivelatori del mio reale temperamento e inducono
esperti come Wilson a reclamarmi come uno di loro. Ma il mio cervello è informato ai principi delle scienze esatte; con il tempo mi sono abituato a prendere in considerazione solo i fatti e le prove concrete. La mia mente non ammette supposizioni né fantasticherie; datemi qualcosa che io possa vedere con il microscopio, che possa tagliare con il bisturi, pesare con la bilancia e io consacrerò la mia vita al suo studio. Ma quando mi si chiede di investigare le sensazioni, le impressioni e le suggestioni, mi si chiede di fare una cosa disgustosa e anche depravante. Tutto ciò che si allontana dalla pura ragione provoca su di me lo stesso effetto di un cattivo odore o di una musica dissonante. E questa è una ragione più che sufficiente per giustificare la mia vaga riluttanza a recarmi a casa del Professor Wilson questa sera. Del resto, temo che non potrei declinare l'invito senza apparire maleducato e, in più, ora che Mrs. Marden e Agatha hanno deciso di andare, anche potendo, non lo farei. Ma preferirei di gran lunga incontrarle in un altro luogo. So per certo che non appena ne avrà l'opportunità, Wilson cercherà di coinvolgermi nella sua nebulosa pseudo-scienza, della quale è un fautore così entusiasta da essere assolutamente sordo a qualsivoglia consiglio o protesta; pavento che solo attraverso un'accesa discussione riuscirò a convincerlo della mia totale avversione per questo genere di cose. Inoltre, non ho dubbio alcuno che questa sera ci costringerà ad assistere all'esibizione di qualche nuovo ipnotizzatore, chiaroveggente, medium o di qualche altro imbroglione, perché anche i suoi ricevimenti sono improntati a questa sua passione. Se non altro, sarà una serata piacevole per Agatha, che dimostra un certo interesse per questo argomento; cosa affatto insolita del resto, perché è proprio della natura femminile venire attratta da ciò che è vago, mistico e indefinito. 10.50 di sera. Questa mia abitudine di tenere un diario, dev'essere, credo, la conseguenza di quell'abito mentale scientifico di cui ho scritto stamani. Mi piace prendere nota delle mie impressioni quando sono ancora vivide e, almeno una volta al giorno, cerco di verificare il mio pensiero. È un'utile forma di auto-analisi, e, a mio avviso, ha anche il pregio di rafforzare il carattere. Per altro, devo francamente confessare che il mio ha quanto mai bisogno di essere temprato. Temo, infatti, che, dopo tutto, gran parte del mio temperamento nevrotico sopravviva e che io sia ben lungi da quella fredda, calma precisione che contraddistingue Murdoch e Pratt-Haldane. Se così non fosse, perché le sciocchezze a cui ho assistito questa sera mi hanno sconvolto a tal punto che ancora adesso mi sento turbato? La mia sola consolazione è che né Wilson, né Miss Penclosa e neppure Agatha
possono essersi avveduti di questa mia debolezza. E che cos'è mai stato a farmi agitare tanto? Un nonnulla, un fatto così irrilevante, che ora che mi ritrovo a scriverne, mi appare perfino ridicolo. Le Marden erano giunte da Wilson prima di me. Anzi, per la verità, io sono stato uno degli ultimi ad arrivare e ho trovato la stanza già gremita. Avevo appena iniziato a conversare con Mrs. Marden e Agatha, che era molto elegante nel suo abito bianco e rosa e portava alcune spighe luccicanti fra i capelli, quando Wilson è venuto a tirarmi per la giacca. «Lei voleva una prova concreta, Gilroy», mi ha detto trascinandomi in un angolo. «Ebbene, mio caro amico, questa sera ho in serbo per lei un vero fenomeno.» Queste sue parole mi avrebbero colpito di più se non gliele avessi già sentite pronunciare tante volte in passato. Wilson possiede un temperamento così sanguigno che trasforma ogni lucciola in una stella. «Nessun dubbio circa la bona fide, questa volta», ha aggiunto poi, forse in risposta a un certo luccichio beffardo nel mio sguardo. «Mia moglie la conosce da molti anni. È originaria di Trinidad come lei. Miss Penclosa è in Inghilterra soltanto da uno o due mesi e non conosce nessuno al di fuori del circolo dell'università, ma le cose che ci ha detto sono sufficienti a decretare l'esistenza della chiaroveggenza su basi scientifiche. Non c'è nessuno come lei, né professionista né dilettante. Mi segua e mi permetta di presentargliela.» Io non sopporto nessuno di questi venditori-di-mistero, e meno di tutti i dilettanti. Se si tratta di un professionista pagato, puoi avventarti su di lui e smascherarlo non appena scopri il suo trucco. Lui è lì per ingannarti e tu sei lì per coglierlo in fallo. Ma come puoi fare altrettanto con l'amica della moglie del tuo ospite? Puoi forse accendere la luce all'improvviso e far vedere a tutti che sta percuotendo di nascosto un banjo? Oppure gettare una manciata di cocciniglia sul suo abito da sera, mentre si aggira furtiva con la sua bottiglietta di fosforo, blaterando le solite insulsaggini soprannaturali? Ne scaturirebbe una spiacevole scenata e tutti sarebbero pronti ad accusarti di essere un bruto. Per cui non ti resta che decidere se passare per bruto o per vittima. Non ero affatto di buon umore mentre seguivo Wilson al cospetto della signora. È difficile immaginare una donna più diversa dall'idea che me ne ero fatto quando il padrone di casa mi aveva detto che si trattava di una chiaroveggente originaria delle Indie Occidentali. Miss Penclosa è una creatura piccola e fragile, che, per quanto si può giudicare dall'apparenza, deve ave-
re già superato da tempo la quarantina; ha il volto emaciato e pallido e i capelli color castano chiaro. Non vi è alcunché di significativo nel suo aspetto e ha un modo di fare schivo e riservato. In mezzo a un qualsiasi gruppo di dieci donne, sarebbe senz'altro l'ultima che un uomo sceglierebbe. Il tratto più straordinario, e, sono costretto ad aggiungere meno gradevole della sua persona, sono gli occhi. Sono grigi, con una leggera sfumatura di verde, e, cosa che mi ha immediatamente colpito guardandola, decisamente furtivi. Mi chiedo, però, se l'aggettivo «furtivi» sia giusto o se non sarebbe invece più corretto definirli... feroci. Ripensandoci, direi che il termine «felini» descrive ancor meglio la profonda intensità del suo sguardo. La presenza di una gruccia appoggiata alla parete doveva farmi intuire ciò che si è reso penosamente visibile quando si è alzata in piedi: Miss Penclosa ha una gamba storpia. Wilson mi ha presentato alla donna, la quale, appena ha udito pronunziare il mio nome, ha gettato una rapida occhiata in direzione di Agatha. È stato un movimento fugace, ma a me non è sfuggito. Evidentemente, ho pensato, Wilson le ha parlato di me e, adesso, nel giro di pochi minuti, lei mi dirà che i suoi poteri occulti le hanno rivelato che sono fidanzato con una giovane fanciulla, che porta alcune spighe fra i capelli. «Il professor Gilroy è un inguaribile scettico», stava dicendo intanto Wilson. «E io mi auguro sinceramente che lei, Miss Penclosa, riuscirà a convertirlo.» Per tutta risposta, lei mi ha fissato intensamente e ha replicato: «Il professor Gilroy ha ragione di essere scettico, se non ha ancora visto nulla che lo abbia convinto. Però, direi che lui stesso potrebbe essere un ottimo soggetto.» «Per che cosa?» le ho chiesto io. «Per l'ipnotismo, per esempio.» «Finora, l'esperienza mi ha dimostrato che gli ipnotizzatori scelgono, per i loro esperimenti, soggetti malati di mente. E, poiché agiscono su organismi anormali, ritengo che i risultati da loro ottenuti siano viziati.» «Quale delle signore qui presenti possiede un organismo normale, secondo lei?» mi ha chiesto allora Miss Penclosa. «Desidererei che lei mi indicasse quella che, a suo giudizio, è dotata di maggior equilibrio mentale. Diciamo... la signorina vestita in bianco e rosa? Mi pare che si chiami Miss Agatha Marden.» «Sì, sarei disposto a considerare valido qualsiasi risultato ottenuto su di lei.»
«Non ho idea del suo livello di sensibilità. Sa, non tutte le persone rispondono con la stessa rapidità. Posso chiederle quanto è grande il suo scetticismo? Immagino che lei creda nel sonno ipnotico e nel potere della suggestione.» «No, io non credo in nulla, Miss Penclosa.» «Oh, povera me. Pensavo che la scienza avesse fatto qualche passo in avanti. Naturalmente, neppure io ne riconosco i risvolti scientifici, ma so solo quello che accade a me. Vede quella ragazza con l'abito rosso, quella vicina al vaso giapponese? Ecco, io vorrei che adesso lei venisse verso di noi.» Mentre pronunciava quelle parole, Miss Penclosa si è chinata in avanti e ha lasciato cadere a terra il ventaglio. In quello stesso istante, la ragazza vestita di rosso si è voltata di scatto e, con un'espressione interrogativa dipinta sul volto, ha iniziato a camminare diritta verso di noi, come se qualcuno l'avesse chiamata. «Che gliene pare, Gilroy?» Wilson urlettava come se fosse in estasi. Non avevo il coraggio di dirgli quello che pensavo; per me quella era la più sfacciata e ignobile delle imposture a cui avessi mai assistito: era fin troppo evidente che le due donne si erano messe d'accordo prima, per non parlare della spudoratezza con cui avevano scelto di usare il ventaglio come segnale. «Il professor Gilroy non è soddisfatto», è intervenuta a questo punto Miss Penclosa, lanciandomi un breve sguardo con quei suoi occhietti strani. «Tutto il merito dell'esperimento va al mio povero ventaglio. Vorrà dire che adesso tenteremo qualcos'altro. Miss Marden, ha niente in contrario se la ipnotizzo?» «Al contrario, mi piacerebbe molto», ha risposto Agatha con entusiasmo. A questo punto, tutti gli invitati si erano già stretti in circolo attorno a noi - gli uomini con i loro sparati bianchi e le signore con il candido decolté scoperto - e stavano fissando la scena, chi con riverente timore chi con sguardo dubbioso, come se fossero sul punto di assistere a una via di mezzo fra una cerimonia religiosa e l'esibizione di uno stregone. Nel frattempo, qualcuno aveva collocato una poltroncina di velluto rosso al centro del cerchio, in cui adesso sedeva Agatha; aveva le guance imporporate e un leggero brivido di eccitazione le percorreva le membra e faceva tremare lievemente le spighe che le ornavano i capelli. Poi, Miss Penclosa si è alzata in piedi e, appoggiandosi alla stampella, si è avvicinata a lei.
In quello stesso istante si è verificato un cambiamento nella donna. Non sembrava più la creatura piccola e insignificante di poco prima; era ringiovanita di vent'anni, gli occhi le brillavano di luce viva, le guance scarne avevano preso colore e tutta la sua figura sembrava ingigantita. Solo un'altra volta mi è capitato di assistere a un simile fenomeno: quando ho visto un ragazzo annoiato e indifferente animarsi di vita di fronte alla proposta di un lavoro in cui si riteneva maestro. Poi, Miss Penclosa ha guardato Agatha con un'espressione che mi ha indignato e offeso nel profondo dell'anima: la stessa espressione con cui un'imperatrice romana avrebbe potuto fissare uno schiavo inginocchiato ai suoi piedi. Dopo di che, con un gesto rapido e autorevole, ha levato in aria le braccia e le ha lentamente abbassate di fronte a lei. I miei occhi erano fissi su Agatha, mentre la donna le passava ripetutamente le mani davanti al volto. Durante i primi tre passaggi, ho avuto l'impressione che la mia fidanzata si stesse semplicemente divertendo. Ma al quarto, il suo sguardo si è fatto vitreo e le pupille si sono lievemente dilatate. Al sesto, le sue membra si sono irrigidite e al settimo le palpebre hanno iniziato ad abbassarsi. Infine, quando Miss Penclosa le ha passato per la decima volta le mani davanti agli occhi, il suo respiro si è fatto più lento e affannoso. Mentre la osservavo, ho cercato di rimanere freddo, come è d'obbligo per uno scienziato in casi come questi, ma ciò nonostante non sono riuscito a impedire che una sorta di ansia ingiustificata si impadronisse di me. Sono praticamente certo di essere riuscito a celare quello stato d'animo, ma nel mio intimo mi sono sentito come un bambino solo in una stanza buia. Non avrei mai creduto di essere così vulnerabile. «Ecco, è in trance», ha detto Miss Penclosa. «Sta dormendo!» ho replicato io urlando. «Provi dunque a svegliarla!» Allora, mi sono avvicinato ad Agatha, l'ho tirata per un braccio e le ho parlato all'orecchio. Ma né il mio gesto né le mie parole hanno suscitato la benché minima risposta da parte sua; era come se fosse morta. Il suo corpo era lì, sulla poltrona di velluto; i suoi organi, il suo cuore, i suoi polmoni funzionavano normalmente, ma la sua anima! La sua anima era scivolata via, in un modo che sfugge alla nostra comprensione. Ma dov'era finita? Quale potere l'aveva cacciata? Ero turbato e confuso. «E questo per dimostrarle l'esistenza del sonno ipnotico», ha ripreso Miss Penclosa. «Per quanto riguarda la suggestione, invece, posso assicurarle che sia adesso, che dopo essersi risvegliata dal trance, Miss Marden
farà esattamente ciò che io le ordinerò. Ne vuole una prova?» «Certamente», le ho risposto con prontezza. «Allora l'avrà, non dubiti.» In quello stesso istante ho visto un sorriso incresparle le labbra, come se un pensiero divertente le avesse attraversato la mente. Poi, Miss Penclosa si è chinata e ha sussurrato qualcosa all'orecchio di Agatha che, prima completamente sorda alle mie parole, adesso assentiva. «Svegliati», le ha intimato poi la donna, colpendo con vigore il pavimento con la gruccia. In quello stesso istante, Agatha ha riaperto gli occhi, e, a poco a poco, la sua anima, che si era momentaneamente eclissata, è ritornata a vivificare il suo sguardo, dal quale andava scomparendo, di pari passo, il velo di opacità che l'aveva offuscato pochi istanti prima. Siamo ritornati a casa piuttosto presto. Agatha non sembrava avere risentito affatto di quello strano viaggio; io, invece, ero estremamente inquieto, al punto da non riuscire ad ascoltare il fiume di spiegazioni che Wilson mi stava riversando addosso, né a controbattere. Quando le ho augurato la buonanotte, Miss Penclosa mi ha fatto scivolare in mano un biglietto. «La prego di perdonarmi, se mi sono presa la libertà di vincere il suo scetticismo. Legga questo biglietto domani mattina alle dieci in punto. È una missiva di natura piuttosto personale.» Non riesco a immaginare il significato di quelle sue parole, ma il biglietto è qui sulla mia scrivania e lo aprirò attenendomi alle sue istruzioni. La testa mi duole e ho già scritto abbastanza per oggi. Credo che quello che questa sera mi sembra inspiegabile, domani mi apparirà in una luce completamente diversa. In ogni caso, non rinuncerò alle mie idee senza combattere. Venticinque marzo. Sono stupito e confuso. È chiaro che devo rivedere il mio giudizio sull'intera faccenda. Ma prima è meglio che prenda nota di quanto è accaduto. Questa mattina, subito dopo colazione, mi ero messo ad esaminare alcuni grafici, che dovrò illustrare nel corso della mia prossima lezione. Erano passati pochi minuti da che mi ero immerso nello studio, quando la mia governante è venuta ad annunciarmi che Agatha mi stava attendendo nello studiolo e che desiderava vedermi subito. Quella notizia mi ha sorpreso enormemente, perché, come mi confermava il mio orologio, erano solo le nove e trenta. Agatha mi aspettava in piedi davanti al camino. Nel suo atteggiamento
c'era qualcosa che mi ha fatto immediatamente raggelare il sangue nelle vene e che mi ha fatto morire in gola le parole che mi stavano sorgendo spontanee dalle labbra. Aveva la veletta per metà abbassata, ma questo non mi impediva di discernere il suo pallore e l'espressione imbarazzata dei suoi occhi. «Austin», mi ha detto. «Sono venuta per dirti che intendo rompere il nostro fidanzamento.» D'un tratto ho sentito le gambe cedere e credo di aver letteralmente vacillato per alcuni istanti, perché dopo un po' mi sono ritrovato appoggiato alla libreria in cerca di sostegno. «Ma... ma... Agatha, così, all'improvviso...» La mia voce tremava almeno quanto le mie ginocchia. «Sì, Austin, sono venuta a dirti che intendo rompere il nostro fidanzamento.» «Ma Agatha, dovrai pure darmi una spiegazione! Non è da te comportarti in questo modo. In che cosa ho mai avuto la disgrazia di offenderti?» «È tutto finito, Austin.» «Ma perché? Tu sei sicuramente in errore, mia cara Agatha. Forse qualcuno ti ha riferito qualche falsità sul mio conto. Forse, hai male interpretato qualche frase che ti ho detto. Dimmi solo di che si tratta e chiariremo tutto.» «No, dobbiamo solo convenire che è tutto finito.» «Ma, ieri sera quando ci siamo separati, non vi era la benché minima ombra di disaccordo fra di noi. Che cosa è accaduto in queste ore per produrre in te un simile cambiamento? Non può che essere qualcosa che è avvenuto la sera scorsa. Tu ci hai ripensato e hai disapprovato la mia condotta. Si tratta forse dell'esperimento di ipnotismo? Mi biasimi per aver permesso a quella donna di esercitare il proprio potere su di te? Sai bene che a un tuo minimo cenno io sarei intervenuto.» «È inutile, Austin. È tutto finito.» La sua voce era fredda e misurata, il suo modo di fare stranamente formale e severo. Era assolutamente determinata a non lasciarsi coinvolgere in nessuna discussione, né a darmi spiegazione alcuna. Io, dal canto mio, ero così turbato che tremavo come una foglia e, ad un certo punto, vergognandomi di mostrarmi incapace di controllare le mie emozioni, ho distolto gli occhi dal suo sguardo. «Tu non sai che cosa significhi questo per me. È la fine di tutte le mie speranze, la rovina della mia vita! Tu non puoi infliggermi una simile pu-
nizione senza neppure ascoltarmi. Tu mi devi spiegare perché intendi lasciarmi. Tu lo sai che io mai oserei trattarti in questo modo. Per l'amor di Dio, Agatha, dimmi che cosa ti ho fatto!» Senza pronunciar verbo, lei mi è passata accanto e ha aperto la porta. «È inutile, Austin», mi ha detto poi sulla soglia. «Devi considerare rotto il nostro fidanzamento.» Dette queste parole, se ne è andata, e prima che io potessi riprendermi a sufficenza per rincorrerla, ho udito lo scatto del portone che si chiudeva alle sue spalle. Allora, mi sono immediatamente precipitato nella mia stanza per cambiarmi d'abito. Dovevo incontrarmi al più presto con Mrs. Marden e cercare di apprendere da lei quale fosse il motivo della disgrazia che si era abbattuta su di me. Ero così sconvolto che quasi non riuscivo ad allacciarmi gli stivali. Non dimenticherò mai la sofferenza di quei terribili dieci minuti. Avevo appena infilato il cappotto, quando mi è giunta l'eco dei rintocchi del pendolo che batteva le dieci. Le dieci. Ho immediatamente associato l'ora al biglietto che mi aveva consegnato Miss Penclosa la sera precedente. Giaceva lì, davanti a me, sulla mia scrivania e, senza indugiare oltre, ho strappato la busta. Il breve messaggio, di cui riporto integralmente il testo, era scritto a matita in una grafia particolarmente angolata. «MIO CARO PROFESSOR GILROY La prego di scusare la natura personale della lettera che le indirizzo. Il Professor Wilson mi ha menzionato per caso il legame che la unisce alla signorina che ho ipnotizzato questa sera, e ho pensato che il modo più efficace per convincerla dei miei poteri fosse quello di suggerire a Miss Marden di farle visita domani mattina alle nove e trenta, e di sospendere per mezz'ora circa il vostro fidanzamento. La scienza è così esatta che è difficile che qualsiasi dimostrazione possa risultare soddisfacente, ma sono convinta che, per lo meno, sia altamente improbabile che Miss Marden possa compiere di propria spontanea volontà ciò che io l'ho invitata a fare. Dimentichi le parole che le ha detto, perché lei non ha nulla a che vedere con quanto è accaduto e sicuramente non ricorderà alcunché di tale esperienza. Le ho scritto questo biglietto per abbreviare la sua pena e per pregarla di perdonarmi per la momentanea infelicità che la mia dimostrazione le ha procurato. Cordiali saluti,
«HELEN PENCLOSA» Devo ammettere che dopo aver letto il contenuto di quella missiva ero troppo sollevato per provare rabbia o rancore. Senza dubbio, Miss Penclosa si era presa una considerevole libertà per avermi incontrato per la prima volta soltanto la sera precedente, ma dopo tutto io l'avevo sfidata con il mio scetticismo e, come lei stessa aveva notato, sarebbe stato difficile pensare a una dimostrazione in grado di convincermi. Ebbene, c'era riuscita. Non avevo più dubbi: per me la suggestione ipnotica era un fatto assodato e, da quel momento in poi, avrebbe costituito una delle certezze della mia vita. Che Agatha, la donna più equilibrata che io conoscessi, fosse stata ridotta in uno stato di automatismo era cosa certa. Una persona l'aveva manipolata a distanza, proprio come un ingegnere potrebbe guidare una mina subacquea dalla spiaggia. Era come se una seconda anima fosse penetrata nel suo intimo, sovrapponendosi alla sua, e si fosse impadronita del suo sistema nervoso, dicendole: «Per mezz'ora lo comando io.» Agatha doveva aver percorso il tragitto fra la sua e la mia abitazione in uno stato di incoscienza. Ma sarebbe arrivata a destinazione sana e salva in quelle condizioni? Tormentato da quel dubbio ho afferrato il cappello e mi sono affrettato verso casa sua per accertarmi che stesse bene. Sì. Era a casa. Il maggiordomo mi ha fatto accomodare in salotto, dove ho trovato la mia fidanzata seduta sul divano con un libro in grembo. «Vieni a farmi visita di buon ora, Austin», mi ha detto sorridendo. «Ma sei stata tu a venirmi a trovare per prima.» «Che cosa intendi dire?» mi ha chiesto fissandomi con sguardo interrogativo. «Non sei uscita questa mattina?» «Assolutamente no.» «Agatha», le ho detto con voce seria, «ti dispiacerebbe dirmi esattamente ciò che hai fatto da quando ti sei svegliata?» A questo punto la mia fidanzata non è riuscita a trattenersi dal ridere. «Sei così terribilmente serio e professionale, Austin! Ecco che cosa succede ad innamorarsi di un uomo di scienza. Comunque ti farò un resoconto minuzioso della mia giornata, anche se non capisco come ti possa interessare. Mi sono alzata alle otto e alle otto e mezzo ho fatto colazione. Poi, alle nove e dieci sono venuta qui in salotto e ho cominciato a leggere le "Memorie di Madame de Remusat". Dopo pochi minuti, però, ho fatto a
questa gentile signora francese la scortesia di addormentarmi, ma in compenso ho fatto a lei, signore, il lusinghiero complimento di sognarla. Mi sono svegliata solo pochi istanti fa.» «E ti sei ritrovata nello stesso punto in cui eri prima di addormentarti?» «E dove altro mi sarei dovuta trovare di grazia?» «Ti dispiacerebbe raccontarmi il contenuto del tuo sogno? Ti assicuro che non è curiosità la mia.» «Ho solo avuto la sensazione che tu vi facessi parte in qualche modo, ma non ricordo nulla di preciso.» «Ma se oggi non sei ancora uscita, come mai hai gli stivaletti impolverati?» A quel punto Agatha mi ha fissato con un'espressione mista di dolore e indignazione. «Davvero, non capisco che cosa ti stia accadendo quest'oggi, Austin. Si direbbe che tu dubiti della mia parola. Il fatto che abbia gli stivaletti impolverati significa semplicemente che questa mattina ne ho infilato, per sbaglio, un paio che la cameriera non aveva ancora pulito.» Era chiaro che non sapeva nulla di quanto era accaduto poco prima nel mio studio, e io ho pensato che, dopo tutto, fosse meglio non rivelarle nulla. Forse, si sarebbe spaventata e inoltre, non vedevo l'utilità di metterla al corrente di quello strano fenomeno. Così ho rapidamente cambiato argomento e, dopo poco, sono uscito per recarmi a lezione. Ma sono profondamente turbato. L'orizzonte delle potenzialità scientifiche si è improvvisamente dilatato dinnanzi ai miei occhi, e non mi stupisco più dell'entusiasmo e dell'energia demoniaca di Wilson. Chi, avendo a propria disposizione un campo vergine, non si tufferebbe nel lavoro anima e corpo? Io stesso, vedendo al microscopio la nuova forma di un nucleolo, o la banale peculiarità di una fibra muscolare, sento il mio cuore esultare di gioia. Ma come mi sembrano futili, adesso, simili indagini, se raffrontate a questa nuova ricerca che esplora le radici stesse della vita e la natura dell'anima! Io ho sempre considerato lo spirito un prodotto della materia; pensavo che il cervello secernesse la mente così come il fegato secerne la bile. Ma come posso ancora ritenere che sia così, dopo aver visto la mente agire a distanza e operare sulla materia nel medesimo modo in cui un musicista crea la musica facendo vibrare le corde di un violino? Non è quindi il corpo che dà vita all'anima, ma esso è piuttosto lo strumento attraverso cui lo spirito si manifesta, così come il mulino a vento non fa levare il vento, ma ne indica la presenza. Una simile ipotesi esula totalmente dal mio abito
mentale, eppure è possibile e degna di studio. E perché dunque non dovrei io approfondire questo studio? Ieri ho scritto in questo diario che: «Se vedessi qualche cosa di concreto e di oggettivo, allora forse sarei tentato di esaminare la questione dal punto di vista fisiologico.» Bene, adesso ho una prova tangibile e manterrò la mia parola. Sono certo che l'indagine che mi appropinquo a intraprendere sarà di immenso interesse. Alcuni miei colleghi mi guarderanno con sospetto, perché gli scienziati sono pieni di assurdi pregiudizi, ma se Wilson ha il coraggio delle proprie convinzioni, posso averlo anch'io. Andrò da lui domani mattina, da lui e da Miss Penclosa. Se lei è stata in grado di farci vedere tanto, è probabile che possa mostrarci molto di più. 2 Ventisei marzo. Come avevo previsto, Wilson è entusiasta della mia conversione; anche Miss Penclosa è compiaciuta del risultato del proprio esperimento, ma ciò non le impedisce di mantenere il proprio abituale riserbo. Che creatura straordinariamente silenziosa e pallida è questa donna, quando non esercita i propri poteri! Invece, le basta parlarne per acquistare immediatamente vita e colore. Mi sembra che nutra un singolare interesse per me; quando mi aggiro per la stanza mi segue con gli occhi, e questo suo comportamento è così esplicito che io stesso non ho potuto fare a meno di notarlo. Abbiamo avuto una conversazione molto interessante sui suoi poteri, di cui anziché riferire sommariamente, riporterò fedelmente il contenuto, anche se le affermazioni di Miss Penclosa non hanno il benché minimo valore scientifico. «Questo non è che un fatto di poco conto», mi ha detto quando le ho manifestato il mio stupore di fronte al suo eccezionale esperimento di suggestione ipnotica. «Miss Marden non era sotto la mia diretta influenza quando è venuta a trovarla. Non stavo neppure pensando a lei ieri mattina. L'unica cosa che ho fatto è stato regolare la sua mente come si regola una sveglia; cosicché all'ora prestabilita ha iniziato ad agire spontaneamente. Se, anziché far scattare il meccanismo a dodici ore di distanza, avessi deciso di farlo scattare fra sei mesi, non sarebbe cambiato niente.» «E se le avesse impartito l'ordine di assassinarmi?» «Lei l'avrebbe senz'altro fatto.»
«Ma allora questo suo potere è spaventoso!» Non ho potuto trattenermi dall'esclamare con impeto. «Sì, proprio come ha detto lei, è spaventoso», mi ha risposto Miss Penclosa con voce grave. «E più lo conoscerà e più le apparirà temibile.» «Posso chiederle che cosa intendeva dire, affermando che quell'esperimento di suggestione non è che un fatto di poco conto? Se questa è una manifestazione secondaria del suo potere, quale ne è l'essenza?» «Preferirei non parlarne,» mi ha risposto con una decisione che mi ha lasciato sorpreso. «Lei capisce che io non glielo sto chiedendo per curiosità, ma nella speranza di dare una spiegazione scientifica ai fatti che lei mi mostra.» «Francamente, Professor Gilroy, io non nutro alcun interesse per la scienza, né mi importa che essa sia in grado di classificare i miei poteri oppure no.» «Ma io speravo che...» «Ah, ma questa è un'altra questione. Se si tratta di un suo desiderio personale», ha proseguito con il più cordiale dei sorrisi, «io sarò lieta di dirle tutto ciò che desidera sapere. Vediamo... Che cosa mi aveva chiesto? Ah sì, di parlarle dei miei altri poteri. Il Professor Wilson si ostina a non prestarvi credito, ma io le assicuro che sono assolutamente reali. Per esempio, un operatore può acquisire il pieno controllo della persona che sottopone alla propria influenza, ammesso, s'intende, che la persona sia idonea. In altre parole, può farle fare qualsiasi cosa desideri, anche senza averla prima ipnotizzata.» «E senza che la persona lo sappia?» «Questo dipende. Se il potere dell'operatore è molto forte, allora la persona non si rende conto di nulla, non più di quanto Miss Marden fosse cosciente di ciò che stava facendo ieri mattina, quando è venuta a casa sua a spaventarla tanto. Se, invece, il suo potere è meno efficace, la persona potrebbe essere conscia di ciò che sta facendo, ma incapace di impedire che accada.» «In altri termini, significherebbe che ha perduto la propria forza di volontà.» «In questo caso alla sua volontà se ne sovrappone un'altra più potente.» «E lei ha mai esercitato i suoi poteri per sopraffare la volontà altrui?» «Oh, sì, parecchie volte.» «Significa allora che lei possiede una volontà tanto forte?» «Non dipende soltanto da questo. Molte persone possiedono una volontà
forte ma non sono in grado di alienarla da se stesse. La cosa importante è avere la capacità innata di proiettare la propria volontà su un altro individuo, fino a sostituirsi alla sua e dominarlo. Per quanto mi riguarda, per esempio, ho scoperto che le mie capacità variano a seconda della mia forza fisica e delle mie condizioni di salute.» «In pratica, lei invia la sua anima nel corpo di qualcun altro.» «Sì, se la vuol mettere in questi termini, sì.» «E che cosa accade al suo corpo?» «Provo soltanto una sensazione di torpore.» «E non comporta rischi per la sua salute?» «Sì, forse qualche piccolo rischio c'è. Bisogna fare attenzione a non perdere completamente coscienza, perché in questo caso potrebbe essere difficile riuscire a ritornare indietro. Bisogna sempre mantenere il legame mente-corpo. Temo di esprimermi molto male, Professor Gilroy; del resto, non saprei come spiegarle queste cose in termini scientifici. Io posso descriverle solo ciò che mi accade e darle le mie spiegazioni.» Ora che rileggo con calma le affermazioni di Miss Penclosa, io mi meraviglio di me stesso. Sono dunque io, Austin Gilroy, lo stesso uomo che si è guadagnato la fama grazie al suo raziocinio e alla sua rigorosa fede nei fatti? Ed eccomi invece qui a riportare con la massima serietà i pettegolezzi di una donna che mi dice di essere capace di proiettare la propria anima al di fuori del proprio corpo e, mentre questo è in preda al torpore, controllare da lontano le azioni di un'altra persona. Ammetto io tali affermazioni? Certamente no. Dovrà provarmelo e riprovarmelo, prima che io ceda anche di un solo passo. Ma se sono ancora scettico, almeno ho smesso di deridere chi vi crede. Abbiamo stabilito di tenere una seduta questa sera, durante la quale Miss Penclosa cercherà di ipnotizzarmi. Se ci riuscirà, sarà un ottimo punto di partenza per la nostra indagine; nessuno mi potrà accusare di complicità. E se non ci riuscirà, allora dovremo cercare un'altra persona che come me, sia al di sopra di qualunque sospetto. Wilson non è per nulla influenzabile. Le dieci di sera. Credo di essere sul punto di iniziare un'indagine che farà epoca. Avere il potere di studiare questi fenomeni dall'interno, cioè possedere al tempo stesso un organismo capace di rispondere alle sollecitazioni di forze sconosciute e una mente in grado di capire quanto accade e di valutarlo criticamente, è senz'altro un grande vantaggio. Sono sicuro che Wilson darebbe cinque anni della sua vita pur di essere tanto ricettivo quanto lo sono io.
Non c'era nessuno oltre a Wilson e sua moglie. Mi sono seduto sulla poltrona con il capo reclinato all'indietro e Miss Penclosa, che era in piedi di fronte a me, leggermente spostata a sinistra, ha cominciato a passarmi le mani davanti al viso, come ha fatto con Agatha. A ogni passaggio, avevo la sensazione di essere colpito da una corrente di aria calda, che, sotto forma di brivido prima, e poi di vampata di calore mi attraversava il corpo da capo a piedi. Tenevo gli occhi fissi sul viso della donna, quando all'improvviso, ho visto i suoi lineamenti confondersi e poi dileguarsi. Ero conscio solo dei suoi occhi grigi che continuavano a fissarmi, profondi e inscrutabili; diventavano sempre più grandi, fino a quando, d'un tratto, si sono trasformati in due laghi di montagna, verso i quali io sono iniziato a precipitare a una rapidità terrificante. Un brivido improvviso ha percorso il mio corpo e, in quel momento, uno strato di pensiero più profondo mi ha detto che quel tremito corrispondeva al processo di irrigidimento che avevo osservato in Agatha. Un secondo dopo, ho toccato la superficie limpida di uno dei due laghi e sono sprofondato nelle sue acque, avvertendo una sensazione di pienezza alla testa e uno strano ronzio alle orecchie; e ho continuato a sprofondare sempre più giù, fino a quando, con un movimento rapido, il mio corpo è risalito. Ad un certo punto ho visto la luce filtrare attraverso l'acqua verde e stavo per raggiungere la superficie quando ho udito una voce che mi urlava: «Svegliati!», e, con un sobbalzo, mi sono ritrovato seduto sulla poltrona, con Miss Penclosa che mi guardava appoggiata alla stampella, e Wilson che spiava al di sopra della sua spalla con il taccuino in mano. L'esperimento non mi ha lasciato alcun senso di stanchezza o di oppressione. Al contrario, benché sia trascorsa soltanto un'ora da allora, sono così vigile da sentirmi più incline allo studio che al sonno. Ora, ci attende una lunghissima serie di sedute e io non vedo l'ora di incominciare. Ventisette marzo. Giornata noiosa e infruttuosa, perché Miss Penclosa è andata dai Sutton insieme a Wilson e a sua moglie. Ho iniziato a leggere «Magnetismo animale», di Binet e Ferre. Come mi appaiono strane e profonde queste acque! Risultati, risultati, risultati mentre la causa resta avvolta nel più fitto mistero. È estremamente stimolante per la mente, ma io mi devo guardare dal lasciarmi trasportare dall'immaginazione. Non devo lasciarmi fuorviare da illazioni o da deduzioni, ma devo attenermi solo ai fatti. So che esiste il trance ipnotico; so che esiste la suggestione ipnotica e so di essere ricettivo a tale forza. Sono questi i dati certi di cui dispongo allo stato attuale e, d'ora in poi, annoterò i riscontri scientifici che emerge-
ranno dalla mia indagine su un grande taccuino a parte. Lunga chiacchierata in serata con Agatha e Mrs. Marden a proposito del matrimonio. Siamo tutti d'accordo che il periodo migliore in cui fissare la data delle nozze sia quello delle vacanze estive (all'inizio). Perché mai dovremmo rimandare ulteriormente? Per me questi mesi di attesa sono anche troppi, ma come ha notato giustamente Mrs. Marden, ci sono innumerevoli preparativi da fare. Ventotto marzo. Miss Penclosa mi ha ipnotizzato di nuovo. Ho provato le stesse sensazioni della volta scorsa, con la sola differenza che oggi ho raggiunto lo stato di insensibilità molto più rapidamente. Vedi taccuino A per i dati sulla temperatura ambientale, la pressione barometrica, le mie pulsazioni cardiache e la mia frequenza respiratoria, presi dal Professor Wilson. Ventinove marzo. Altra seduta ipnotica. Per i particolari, vedi taccuino A. Trenta marzo. Domenica, giornata grigia e improduttiva. Detesto interrompere i nostri esperimenti, che per il momento riguardano soltanto i segni fisici che accompagnano la perdita di sensibilità nelle sue varie fasi: lieve, completa ed estrema. In seguito speriamo di passare ai fenomeni della suggestione e della lucidità. Ci sono stati professori a Nancy e a La Salpetriere che hanno dimostrato queste cose sulle donne, ma sarà più convincente quando sarà una donna a dimostrarli su un professore universitario e con un altro professore universitario come testimone. E proprio io, io lo scettico, il materialista, sarò l'oggetto dell'esperimento! Per lo meno, ho dimostrato che la mia dedizione alla scienza è superiore al desiderio di essere coerente con me stesso. Quello di rimangiarci la parola è il più grande sacrificio che ci impone la verità. Questa sera è venuto a trovarmi il mio vicino, Charles Sadler, giovane e piacente insegnante di anatomia, al quale avevo prestato un volume degli «Archivi» di Virchow. L'ho definito giovane, ma in realtà ha un anno più di me. «Ho sentito dire che Miss Penclosa sta conducendo alcuni esperimenti su di lei, Gilroy», mi ha detto. «Ebbene,» ha proseguito vedendo che annuivo, «se io fossi in lei, mi asterrei dal continuare. Immagino che giudicherà quanto meno insolente questa mia intromissione, ma ciò nonostante ritengo mio dovere esortarla a sospendere le sedute.» Naturalmente, io gli ho chiesto perché.
«Purtroppo non posso parlarle con la libertà che vorrei», mi ha risposto. «Miss Penclosa è amica di un mio amico e pertanto la mia posizione è estremamente delicata. Posso dirle solo questo: anch'io una volta mi sono prestato ai suoi esperimenti, e le assicuro che hanno prodotto effetti assai sgradevoli sulla mia mente.» Non poteva certo pensare che io mi accontentassi di una simile spiegazione, e così ho cercato di indurlo a esprimersi in termini più espliciti, ma invano. È possibile che sia invidioso del fatto che io abbia preso il suo posto? Oppure è uno di quegli uomini di scienza che si sentono personalmente offesi quando si accorgono che i fatti smentiscono le loro idee preconcette? Non può certo pensare che, per il semplice fatto che lui nutre qualche vago risentimento, io abbandoni una serie di esperimenti che si profilano tanto fruttiferi. Sadler si è mostrato chiaramente irritato per la leggerezza con cui ho accolto i suoi nebulosi ammonimenti e ci siamo accomiatati con una certa freddezza. Trentuno marzo. Ipnotizzato da Miss P. Primo aprile. Ipnotizzato da Miss P. (taccuino A). Due aprile. Ipnotizzato da Miss P. (diagramma sfigmografico redatto dal Professor Wilson). Tre aprile. È probabile che queste continue sedute siano un po' logoranti per il mio fisico. Agatha sostiene che sono dimagrito e che ho gli occhi perennemente cerchiati. Io, dal canto mio, mi rendo conto di essere stranamente nervoso ed eccitabile, cosa che non mi è mai capitata in passato. Il minimo rumore mi fa trasalire, e la risposta stupida di uno studente mi manda su tutte le furie anziché farmi sorridere. Agatha vorrebbe che sospendessi gli esperimenti, ma io le ho spiegato che il mestiere di scienziato è sempre impegnativo, qualunque sia l'oggetto di indagine, e che non si perviene ad alcun risultato senza qualche sacrificio. Quando vedrà l'enorme scalpore che, mi auguro, susciterà la mia relazione su «Il Rapporto fra Mente e Materia» si renderà conto che valeva la pena sopportare un po' di stanchezza. Non mi sorprenderei affatto se questa mia ricerca mi consentisse di guadagnare il titolo di Fellow of the Royal Society. In serata mi sono nuovamente sottoposto a ipnosi. Adesso il processo avviene più rapidamente rispetto all'inizio e le mie visioni sono meno definite. Prendo nota con cura di quanto accade nel corso di ogni seduta. Wilson andrà in città per una settimana o dieci giorni, ma noi non sospenderemo gli esperimenti, il cui valore dipende tanto dalle mie sensazioni quanto dalle sue osservazioni.
Quattro aprile. Devo stare in guardia. In questi ultimi giorni è subentrata una complicazione che non avevo previsto. La mia brama di dare una risposta scientifica a fatti che esulano da qualsiasi scienza esatta, mi ha reso cieco e sordo a qualsiasi altra realtà, compreso il rapporto che si è instaurato fra Miss Penclosa e me. Affido a questo diario ciò che non oserei confidare ad anima viva: temo che la povera donna provi un profondo attaccamento nei miei confronti. Non mi permetterei mai di affermare una cosa simile, neppure nell'intimità del mio diario, se non fosse così manifesta da non poter più essere ignorata. È da qualche tempo, cioè dalla settimana scorsa, che ne avverto i segni, ma fino a ieri mi ero rifiutato di prestarvi credito. La sua allegria quando mi vedeva arrivare, la sua tristezza quando mi accomiatavo da lei, l'espressione dei suoi occhi, il tono della sua voce... Ho cercato di persuadermi che non significassero nulla, che il suo modo di fare appassionato rispecchiasse il costume dei popoli delle Indie Occidentali. Ma ieri sera, mentre mi ridestavo dal sonno ipnotico, inconsciamente e affatto involontariamente, ho steso la mano e ho afferrato le sue e, quando mi sono ripreso del tutto, mi sono ritrovato seduto di fronte a lei, che mi sorrideva con espressione compiaciuta e speranzosa. E la cosa più orribile era che io mi sentivo costretto a dirle ciò che lei si aspettava di udire. Che sciagurato sarei stato e falso, se lo avessi fatto! Come mi sarei odiato oggi, se avessi ceduto alla tentazione di quel momento! Ma, ringraziando Iddio, sono stato abbastanza forte da alzarmi di scatto e abbandonare la stanza. Il mio comportamento deve esserle apparso quanto mai scortese, ma non potevo, no, non potevo indugiare un altro istante. Io, un gentiluomo, un uomo d'onore, fidanzato con una delle più dolci fanciulle d'Inghilterra, in un momento di insensata passione stavo per professare amore per una donna che conosco appena. Una donna che è molto più vecchia di me e che, per giunta, è storpia. È mostruoso, è disgustoso; eppure, in quel momento l'impulso era così forte che se solo mi fossi trattenuto un altro minuto, mi sarei dichiarato. Che cosa mi è accaduto? Che cosa conosco dei meccanismi del nostro organismo, io che sono deputato a svelarne i misteri agli altri? Si è trattato dell'affiorare improvviso di uno strato inferiore della mia natura? Di un rozzo istinto primitivo che voleva imporsi? La sensazione che ho provato era così travolgente, che sono quasi indotto a credere alla reale esistenza delle possessioni demoniache di cui ho udito parlare. Ebbene, questa circostanza mi pone in una condizione davvero infausta. Da un lato, sono profondamente riluttante all'idea di abbandonare gli espe-
rimenti, che ho già condotto in grande numero, e che sembrano promettere ottimi risultati. Dall'altro, se questa povera donna è giunta a provare un sentimento di passione per me... Ma sicuramente sto commettendo anche ora un terribile sbaglio... Alla sua età e con quella deformità! E poi lei sa di Agatha e conosce la mia situazione. Con ogni probabilità stava solo sorridendo divertita, forse proprio perché, mentre ero ancora parzialmente stordito, inconsapevolmente le ho preso la mano. È stato il mio cervello, ancora obnubilato dall'ipnosi, a conferire alla scena quell'altro significato e a giungere, con tanta bestiale celerità a quell'orribile conclusione. Vorrei tanto persuadermi che sia davvero questa la verità. Tutto considerato, forse, la cosa più saggia da fare è rimandare le altre sedute al ritorno di Wilson. Anzi, a dire il vero ho già inviato a Miss Penclosa un biglietto in cui, senza far menzione di quanto accaduto ieri sera, le comunico che la necessità di espletare alcuni lavori molto urgenti mi costringe a sospendere i nostri incontri per alcuni giorni. E poco fa mi è giunta la sua risposta, alquanto formale, con la quale mi avverte che se dovessi cambiare idea, la troverò a casa alla solita ora. Le dieci di sera. Ordunque, io sono davvero un uomo da nulla! Sto incominciando a conoscermi meglio ultimamente, e più mi conosco e più diminuisce la stima che ho di me stesso. È certo che non sono sempre stato privo di carattere come lo sono ora. Se alle quattro, qualcuno mi avesse detto che questa sera io mi sarei recato da Miss Penclosa io avrei sorriso; e, invece, alle otto ero puntualmente davanti al portone di casa Wilson. Non so come sia accaduto. La forza dell'abitudine, immagino. O forse esiste una mania ipnotica così come esiste la mania per l'oppio, e io ne sono una vittima. Io so solo che mentre lavoravo nel mio studio, ho incominciato a sentirmi inquieto. Ero incapace di concentrarmi sui fogli che avevo dinnanzi e ad un tratto ho cominciato a camminare su e giù in preda a una strana irrequietezza. Poi, all'improvviso, quasi prima ancora di rendermi conto di quello che stavo facendo, ho preso il cappello e mi sono affrettato al mio consueto appuntamento. La serata è stata interessante. Mrs Wilson è rimasta con noi per quasi tutta la seduta, e la sua presenza ha impedito che almeno uno di noi due si sentisse a disagio. Miss Penclosa si è comportata come al solito e non si è mostrata affatto sorpresa nel vedermi comparire nonostante il biglietto che le avevo fatto recapitare. Nel suo atteggiamento non vi era nulla che lasciasse trasparire che quanto è accaduto ieri sera abbia lasciato in lei qualche ricordo, e pertanto sono incline a sperare di aver mal giudicato l'intera
circostanza. Sei aprile (sera). No, no, no, non mi ero sbagliato. Non posso più cercare di nascondere a me stesso che questa donna è in preda a una passione per me. È mostruoso, ma è vero. Anche questa sera, quando mi sono svegliato dal trance ipnotico, mi sono trovato con la mia mano fra le sue e sopraffatto da quell'odioso sentimento che mi incita a rinunciare al mio onore, alla mia carriera e a ogni altra cosa in nome di questa creatura che, come mi avvedo chiaramente quando sono lontano dalla sua influenza, non possiede alcun fascino. Eppure, quando le sono vicino, io non penso più così. Lei suscita qualcosa in me, qualcosa di maligno, qualcosa a cui non oso neppure pensare. E mentre sollecita il lato peggiore della mia natura, rende impotente la parte migliore di me. Non ho dubbi: per me non è bene stare vicino a lei. Ieri sera la situazione è peggiorata rispetto alle volte precedenti. Anziché fuggire, sono rimasto seduto per qualche tempo con la mia mano fra le sue e ho discorso con lei degli argomenti più intimi. Fra le altre cose, abbiamo parlato di Agatha. Che cosa mi immaginavo? Miss Penclosa ha detto che Agatha è una ragazza convenzionale e io ne ho convenuto. Poi, in un paio di occasioni si è espressa in termini dispregiativi nei suoi confronti e io non ho protestato. Che essere abietto sono stato! Ma per quanto debole io sia stato, ora sono sufficientemente forte da porre fine a tutto questo. Non accadrà più. Ho abbastanza senno da fuggire quando non sono in grado di combattere. A partire da questa sera non mi recherò più a casa Wilson. Mai! Lascerò perdere gli esperimenti, lascerò che la mia ricerca si concluda qui; qualsiasi cosa è meglio dell'esser costretto a misurarmi con questa mostruosa tentazione che mi trascina così in basso. Non ho detto niente a Miss Penclosa; eviterò semplicemente di andare da lei. Capirà da sola il motivo della mia scelta, senza bisogno di alcuna spiegazione da parte mia. Sette aprile. Non mi sono recato a casa Wilson come promesso. È un vero peccato dover rinunciare a una indagine così interessante, ma sarebbe ancora più grave se, in nome di questa indagine, io finissi per rovinare la mia vita, perché io so che non posso fare affidamento su me stesso quando mi trovo al cospetto di quella donna. Le undici di sera. Dio mi aiuti! Ma che cosa mi sta accadendo? Sto forse per perdere la ragione? Calmo, devo restare calmo e cercare di riflettere. Per prima cosa, annoterò fedelmente quanto è accaduto questa sera. Erano circa le otto quando ho scritto le prime righe del diario di oggi. Mi
sentivo stranamente ansioso e irrequieto e così ho lasciato le mie stanze e ho raggiunto a piedi casa Marden, per trascorrere la serata in compagnia di Agatha e di sua madre. Entrambe hanno notato che ero pallido e affaticato. Verso le nove è arrivato il professor Pratt-Haldane e abbiamo iniziato a giocare a whist. Nonostante cercassi con ogni mezzo di concentrarmi sulle carte, il mio senso di irrequietezza è continuato ad aumentare, fino a quando, ad un certo punto, non sono più riuscito a contrastarlo. Non riuscivo a rimanere seduto al tavolo da gioco. Alla fine, proprio a metà di una mano, ho girato le carte sul tavolo e, dopo aver accampato l'assurda scusa di un appuntamento, mi sono precipitato fuori dalla stanza. Come in un sogno, ho il vago ricordo di aver attraversato di corsa l'ingresso, di aver afferrato il cappello dall'appendiabiti e di aver chiuso con decisione il portone alle mie spalle. E, sempre come se tutto fosse avvenuto in sogno, rammento la doppia fila dei lampioni a gas, e i miei stivali inzaccherati mi dicono che devo aver camminato al centro della carreggiata. Attorno a me aleggiava un'atmosfera nebbiosa e strana, innaturale. Sono arrivato a casa Wilson e ho visto Mrs. Wilson e Miss Penclosa. Ricordo pochissimo di quanto abbiamo parlato, ma rammento che Miss P. ha agitato scherzosamente l'estremità della gruccia verso di me, rimproverandomi di essere in ritardo e di stare perdendo interesse nei nostri esperimenti. Non v'è stato ipnotismo questa sera, ma io mi sono ugualmente trattenuto in compagnia delle due signore, dalle quali mi sono accomiatato solo poco fa. Adesso la mia mente è di nuovo lucida e posso ripensare a quanto è accaduto. È assurdo credere che tutto questo sia frutto di mera debolezza di carattere o della forza d'abitudine. Questa è la spiegazione che ho tentato di dare l'altra sera, ma adesso non è più sufficiente. È qualche cosa di molto più profondo e terribile di questo. Mi sono sentito obbligato a lasciare casa Marden, come se qualcuno mi avesse stretto un laccio intorno al collo e mi stesse trascinando via. Devo ammettere a me stesso che quella donna mi ha nelle sue grinfie. Però non devo perdere il senno; devo riflettere e trovare la soluzione più saggia. Ma che stupido e cieco sono stato! Il mio entusiasmo per la ricerca era tale, che sono finito diritto nella trappola che mi si apriva dinnanzi. Non mi aveva forse ammonito lei stessa? Non mi aveva detto, come posso leggere nel mio diario, che quando lei acquisisce potere su una persona può condizionarne la volontà? E adesso questa creatura storpia ha acquisito questo potere su di me e io obbedisco a ogni suo minimo cenno. Mi reco da lei ogniqualvolta me lo comanda e sono costretto a fare tutto ciò che lei
desidera. E, cosa più terribile di tutte, anche i miei sentimenti sono subordinati alla sua volontà. Io la odio e la temo, eppure, quando cado preda della sua malia, lei può indurmi ad amarla. Mi consola soltanto il pensiero che quegli impulsi odiosi per i quali mi sono biasimato non provenivano affatto dal mio animo. Per quanto io non me ne rendessi conto è stata lei a trasferirli su di me. E questo pensiero mi fa sentire più pulito e più leggero. Otto aprile. Sì, adesso, alla luce del giorno, con la mente fredda e il tempo per riflettere, sono costretto a confermare tutto quanto ho scritto ieri sera. Mi trovo davvero in una situazione terribile, ed è della massima importanza che io non perda la testa. Devo oppormi ai suoi poteri con tutta la forza del mio intelletto. In fin dei conti, non sono mica uno stupido burattino disposto a ballare a comando! Ho energia, intelligenza e coraggio e, nonostante tutti i suoi trucchi demoniaci posso pur sempre sconfiggerla! Posso? Io devo! Altrimenti che ne sarà di me? Devo cercare di ragionare e capire. Per sua stessa ammissione, questa donna è capace di dominare il mio sistema nervoso; può proiettarsi nel mio corpo e prenderne pieno possesso. Ella dunque possiede uno spirito parassita. Sì, è un parassita, un mostruoso parassita: si insinua nel mio fisico come fa il paguro Bernardo con l'attinia. E io sono impotente. Che cosa posso fare? Sono minacciato da forze che non conosco e non posso confidare a nessuno la mia sventura. Penserebbero che io sia diventato pazzo; se la notizia si diffondesse, l'università mi manderebbe a dire che non hanno alcun bisogno di docenti posseduti dal demonio. E Agatha! No, no devo affrontare da solo il mio destino. 3 Ho riletto la parte del diario in cui ho riferito quanto la donna mi ha raccontato dei suoi poteri. C'è un brano, in particolare, che mi riempie di paura e di sgomento. Miss Penclosa ha affermato che quando il potere dell'operatore è debole, la persona è conscia di quello che sta facendo, anche se non è in grado di affermare la propria volontà, mentre quando l'influenza esercitata è forte, il soggetto è del tutto inconsapevole di quanto gli sta accadendo. Ebbene, io sono sempre stato cosciente di quanto facevo, anche se ieri sera in misura minore rispetto alle volte precedenti: in altre parole, questo significa che finora lei non ha mai esercitato appieno il suo potere su di me. È mai capitata una disgrazia simile a un altro uomo?
Sì, forse sì, e anche a un uomo che conosco! Sì, Charles Sadler deve saperne qualcosa. Ora finalmente capisco il significato di quel suo confuso ammonimento. Oh, se lo avessi ascoltato allora, prima che, con queste ripetute sedute, io stesso contribuissi a forgiare gli anelli della catena che mi imprigiona! Ma oggi andrò da lui e dopo essermi scusato per avere dato così poco peso alle sue parole, vedrò quale consiglio potrà darmi. Le quattro del pomeriggio. No lui non può aiutarmi. Questo pomeriggio gli ho parlato, ma appena ho cercato di metterlo a parte del mio indicibile segreto, lui ha mostrato una tale sorpresa che non ho osato proseguire. Per quanto ho potuto inferire (più da allusioni che da esplicite affermazioni) la sua esperienza si è limitata a uno scambio di sguardi e di parole. Anzi, il suo stesso trasporto per Miss Penclosa dimostra che non è mai stato vittima delle sue insidie. Oh, se solo sapesse a quale pericolo è sfuggito! Di questo deve ringraziare il suo flemmatico temperamento sassone. Io, invece, sono di origine celtica e di natura lugubre, e l'azione malefica di questa strega ha avuto profonde ripercussioni sui miei nervi. Riuscirò mai a liberarmene? Potrò mai ritornare a essere l'uomo che ero solo due settimane fa? Vediamo quale può essere la soluzione migliore. Non posso lasciare l'università a metà dell'anno scolastico. Se però fossi libero, saprei che cosa fare: partirei immediatamente alla volta della Persia. Ma lei me lo permetterebbe? Oppure il suo influsso potrebbe raggiungermi fino là e ricondurmi nel raggio d'azione della sua stampella? Sarò costretto a sperimentare i limiti del suo potere demoniaco sulla mia persona. Lotterò, lotterò, lotterò e lotterò ancora... Che cos'altro posso fare? So che questa sera verso le otto sarò sopraffatto dall'irresistibile desiderio della sua compagnia e che un'incoercibile irrequietezza si impadronirà di me. Come potrò vincerla? Che cosa farò? Dovrò agire in modo da impedirmi di lasciare la mia stanza. Chiuderò la porta e getterò la chiave in giardino. E poi, domani mattina che cosa farò? Non importa quello che accadrà domani mattina. Devo rompere a qualunque costo la catena che mi imprigiona. Nove aprile. Vittoria! Il mio esperimento è riuscito magnificamente! Ieri sera, alle sette in punto, ho consumato rapidamente la cena, dopo di che mi sono chiuso nella mia camera e ho gettato la chiave dalla finestra. Ho preso dalla libreria un romanzo allegro, mi sono sdraiato sul letto e per tre ore ho cercato di concentrarmi nella lettura, ma invano: la mia mente era in costante e trepidante attesa dell'attimo in cui si sarebbe manifestato l'im-
pulso che le sere precedenti mi aveva trascinato davanti al portone di casa Wilson. E invece non è successo nulla e questa mattina mi sono svegliato con la sensazione che finalmente fosse finito un incubo. Forse la creatura si è resa conto di quello che ho fatto e ha capito che era inutile cercare di influenzarmi. In ogni caso, sono riuscito a sconfiggerla e, se l'ho fatto una volta, significa che posso farlo ancora. È stato piuttosto imbarazzante recuperare la chiave. Per fortuna, c'era un aiuto-giardiniere sotto la mia finestra e io gli ho chiesto di lanciarmela. Avrà certamente pensato che mi fosse caduta in quel momento. Ma io sono disposto a far inchiodare porte e finestre e a pagare sei uomini robusti per impedirmi di abbandonare il letto, prima di lasciare che quella strega si impossessi di me. Questa mattina mi è stato recapitato un biglietto di Mrs. Marden, con il quale mi invita a farle visita. Era mia intenzione farlo in ogni caso, ma non immaginavo mi attendessero cattive notizie. Sembra che gli Armstrong, dai quali Agatha attende un'eredità, stiano arrivando da Adelaide a bordo dell'Aurora e che abbiano scritto a Mrs. Marden di poter incontrare madre e figlia in città. Probabilmente, si assenteranno per un mese o sei settimane, e, poiché l'arrivo dell'Aurora è previsto per mercoledì, devono partire domani, ammesso che riescano a fare tutti i preparativi in tempo. La mia unica consolazione è che, la prossima volta che rivedrò Agatha, nulla più potrà separarmi da lei. «Desidero dirti una cosa, Agatha», l'ho ammonita quando siamo rimasti soli. «Mi devi promettere che se ti dovesse capitare di incontrare Miss Penclosa, o qui o in città, non dovrai mai più permetterle di ipnotizzarti.» Agatha mi ha fissato con sguardo incredulo. «Ma se solo l'altro ieri dicevi di trovarlo tanto interessante e di essere assolutamente deciso a condurre a termine i tuoi esperimenti...» «Lo so, ma adesso ho cambiato idea.» «E non prenderai più parte alle sedute?» «No.» «Oh, ne sono tanto contenta, Austin! Non puoi immaginare quanto tu sia pallido e affaticato in questi ultimi tempi. Il principale motivo per cui eravamo riluttanti all'idea di andare a Londra era perché non volevamo lasciarti in un momento in cui sembravi tanto depresso. A volte ti comporti in modo così strano! Come l'altra sera, quando hai lasciato il professor Pratt-Haldane a fare il morto. Sono convinta che questi esperimenti siano dannosi per i tuoi nervi.»
«Sono d'accordo, tesoro.» «E anche per quelli di Miss Penclosa. Immagino tu abbia sentito che è ammalata.» «No.» «Ce l'ha detto Mrs. Wilson ieri sera. Sembra che soffra di una specie di febbre nervosa. Il Professor Wilson rientrerà la settimana ventura e Mrs. Wilson è preoccupata che Miss Penclosa non si riprenda in tempo, perché il Professore ha fissato un programma di esperimenti che è impaziente di cominciare.» Sono felice della promessa di Agatha, perché è sufficiente che quella donna tenga uno solo di noi due nelle sue grinfie. Al tempo stesso, però, la notizia della sua malattia mi ha irritato, perché questa circostanza rende meno importante la mia vittoria della scorsa sera. Ricordo infatti di averla udita dire che la perdita della salute mina l'efficacia dei suoi poteri. Forse è per questo che ieri sono riuscito a dominarmi così senza difficoltà. Bene, bene: questa sera prenderò le medesime precauzioni e vedremo che cosa accadrà. Quando penso a lei, mi sento spaventato come un bambino. Dieci aprile. Ieri sera è andato tutto bene e questa mattina mi sono molto divertito nel vedere l'espressione che si è dipinta sul volto dell'aiutogiardiniere, quando gli ho chiesto di lanciarmi la chiave. Se la cosa continuerà a lungo, la servitù comincerà a chiacchierare sul mio conto. Ma quello che più importa è che sono rimasto tutta la notte in camera senza provare il benché minimo desiderio di uscire. Finalmente, sto cominciando a liberarmi da quel giogo indicibile... O forse dipende tutto dal momentaneo declino di forze della donna? Non mi resta che pregare per il meglio. Agatha e sua madre sono partite questa mattina e a me sembra che questo sole di primavera abbia perso la propria lucentezza. Eppure è così bello quando illumina i verdi castagni che crescono dirimpetto alle mie finestre e rallegra i severi muri dei college, maculati dai licheni! Com'è dolce e gentile la Natura e quale sollievo arreca! Chi mai penserebbe che in essa si celino forze tanto vili e odiose! Perché io credo che questa terribile cosa che si è impossessata di me non sia né soprannaturale né prenaturale; no, si tratta di una forza naturale che quella donna è in grado di usare e che il resto del mondo ignora. Il fatto stesso che diminuisca e aumenti di intensità a seconda della forza di cui lei dispone, dimostra chiaramente che obbedisce alle leggi della fisica. Se avessi tempo, lo dimostrerei con i fatti e ne scoprirei l'antidoto; ma non puoi domare una tigre, quando sei alla mercé dei suoi artigli: puoi solo di-
menarti per tentare di liberarti dalla sua presa. Ah, quando mi specchio e vedo i miei occhi scuri e i tratti netti del mio viso spagnolo, desidererei cospargermi di vetriolo o di ammalarmi di vaiolo. L'uno o l'altro avrebbe potuto salvarmi da questa calamità. Sono propenso a credere che questa sera mi troverò in difficoltà. Ci sono due motivi che mi inducono a paventarlo. Il primo è che ho incontrato per strada Mrs. Wilson, la quale mi ha detto che, sebbene sia ancora debole, Miss Penclosa si sta riprendendo. E io che speravo in cuor mio che quella fosse la sua ultima malattia! Il secondo è che fra uno o due giorni il Professor Wilson rientrerà da Londra e la sua presenza costituirà un grave limite per lei, perché io non dovrò più temere le sedute di ipnosi, laddove vi presenzi anche una terza persona. Per entrambe queste ragioni, presagisco problemi per questa sera e sarò costretto a prendere le medesime precauzioni dei giorni precedenti. Dieci aprile. No, grazie a Dio, ieri sera è andato tutto bene. Poiché non me la sentivo di affrontare ancora una volta lo sguardo interrogativo del giardiniere, dopo aver chiuso la porta, ho fatto scivolare la chiave oltre la soglia, in modo da poter chiedere alla cameriera di aprirla dall'esterno. Ma anche ieri sera, questa precauzione si è rivelata del tutto inutile, perché non ho avvertito alcun impulso ad uscire. Tre sere di seguito a casa! Sono senz'altro prossimo alla fine della mia sventura perché Wilson dovrebbe essere di ritorno oggi o domani. Farò bene a metterlo al corrente di quanto mi è accaduto? Sono convinto che non mi dimostrerà né comprensione né solidarietà. Anzi, pavento che si limiterebbe a vedere in me un caso interessante e che mi porrebbe al centro della sua relazione alla prossima riunione della Psychical Society, valutando con gravità la possibilità che io menta deliberatamente in rapporto alla probabilità che invece io stia uscendo di senno. No, Wilson non potrebbe essermi di alcun conforto. Mi sento meravigliosamente bene. Non penso di aver mai sostenuto una lezione all'università con tanto entusiasmo prima di quest'oggi. O come sarei felice se solo potessi cancellare quest'ombra dalla mia vita! Sono giovane, abbastanza benestante, ho una carriera ben avviata e sono fidanzato con una fanciulla molto bella e affascinante: non ho forse tutto quello che un uomo potrebbe desiderare? C'è solo una cosa che mi tormenta, ma di quale terribile natura! Mezzanotte. Finirò per impazzire. Sì, sarà questo il mio destino. Diventerò pazzo, anzi quasi lo sono già. La testa mi pulsa, ho le mani bollenti e tremo in tutto il corpo come un cavallo spaventato. Che notte ho trascorso!
Eppure, al tempo stesso, ho motivo di ritenermi soddisfatto. A costo di diventare lo zimbello di tutta la servitù, anche ieri sera avevo fatto scivolare la chiave oltre la soglia della porta, imprigionandomi nella mia stanza per la notte. Ma era troppo presto per dormire e così mi sono coricato vestito sopra il letto e ho iniziato a leggere un romanzo di Dumas. Avevo appena scorso le prime pagine, quando, del tutto all'improvviso, sono stato afferrato... afferrato e trascinato giù dal letto. Non potrei trovare altre parole per descrivere la natura travolgente della forza che, simile a un uccello rapace, si è impadronita di me. Mi sono aggrappato al copriletto, ho conficcato le unghie nel legno intarsiato della testata e credo perfino di essermi messo a urlare come un matto: tutto inutile. Dovevo andare, non avevo altra scelta. Sono riuscito a resistere solo per i primi minuti, poi la forza è diventata troppo potente e non sono più stato in grado di oppormi. Ringrazio solo il cielo che non ci fosse nessuno nella stanza a trattenermi, perché in quel caso non avrei potuto rispondere delle mie azioni. Il fatto più stupefacente è che oltre alla irriducibile volontà di uscire, avevo sviluppato anche un ingegno acutissimo, che mi rendeva estremamente astuto nello scegliere i mezzi per tentare la fuga. Ho acceso una candela e, dopo essermi inginocchiato per terra, ho cercato di reimpossessarmi della chiave spingendola verso l'interno della camera con la piuma della mia penna. Ma invano; la piuma era troppo corta e anziché avvicinare la chiave alla fessura, l'ha allontanata. Allora ho afferrato un tagliacarte e con quello sono finalmente riuscito a recuperare la chiave. Quindi, ho aperto la porta, sono entrato nel mio studio, ho preso una mia fotografia e, dopo avervi scarabocchiato qualche cosa sul retro, sono uscito di corsa alla volta di casa Wilson. Era tutto estremamente chiaro e, al tempo stesso, affatto dissociato dalla mia vita, come possono esserlo gli eventi che hanno luogo anche nei sogni più vividi. Era come se io possedessi una doppia coscienza. Da un lato c'era la potente volontà aliena, decisa a trascinarmi dalla parte del suo padrone, e dall'altro una debole personalità che vi si ribellava, nella quale io riconoscevo me stesso intento a oppormi fiaccamente all'impulso che mi travolgeva, come un cane che tenti di liberarsi dalla catena che lo trattiene. Ricordo di essermi reso conto della compresenza di queste due forze, ma non ricordo di essere giunto davanti alla casa di Wilson né di come vi sono stato ammesso. Rammento invece molto chiaramente il mio incontro con Miss Penclosa. Mi attendeva sdraiata sul sofà del piccolo boudoir in cui abbiamo condotto
i nostri esperimenti; teneva il capo appoggiato su una mano e aveva il corpo in parte coperto da un tappeto di pelle di tigre. Quando sono entrato nella stanza, mi ha rivolto uno sguardo speranzoso e, nel momento in cui la luce della lampada le ha illuminato il volto, ho visto che era estremamente pallida e magra e che aveva gli occhi cerchiati di nero. Poi mi ha sorriso e, con la mano sinistra, mi ha indicato una sedia accanto al divano. Allora mi sono precipitato verso di lei, le ho afferrato la mano con ardore e, mi biasimo nel ripensarci, l'ho premuta appassionatamente contro le mie labbra. Quindi, senza abbandonarla, ho preso posto sulla sedia, le ho dato la fotografia che avevo portato con me e ho iniziato a parlarle lungamente del mio amore per lei, del mio dolore per la sua malattia, della mia gioia nel vederla sulla via della guarigione e della tristezza che avevo provato per essere stato costretto a restare una sera lontano dal suo cospetto. Lei mi guardava dall'alto in basso con occhi imperiosi e con il suo abituale sorriso provocatore. Ricordo che, ad un certo punto, mi ha passato una mano sui capelli, proprio come si accarezza un cane, e che quel gesto mi ha procurato piacere; anzi, mentre la sua mano mi sfiorava, ho avvertito un brivido percorrermi le membra. Ero suo schiavo, anima e corpo, e in quel momento gioivo nell'esserlo. Subito dopo, invece, è avvenuto l'imprevisto. E che nessuno mi dica che non esiste la Provvidenza! Ero al limite della perdizione, i miei piedi lambivano l'orlo del baratro; è per pura coincidenza che proprio allora mi sia giunto l'aiuto? No, no la Provvidenza esiste ed è stata la sua mano a venire in mio soccorso. Nell'universo c'è qualcosa di più potente di questa donna e dei suoi trucchi diabolici. Quale sollievo è per il mio cuore saperlo! Quando ho alzato gli occhi su di lei, mi sono accorto che era avvenuto un profondo cambiamento nella sua persona. Il suo viso, che prima era pallido, adesso era di un candore spettrale; aveva gli occhi smorti e le palpebre pesantemente abbassate, ma la cosa più straordinaria era che il suo volto non esprimeva più la serena fiducia di poco prima. Aveva la mascella cadente e la fronte aggrottata; sembrava spaventata e indecisa e, mentre la osservavo, sentivo il mio spirito che palpitava e lottava per liberarsi dalla stretta che lo tratteneva, una stretta che, di secondo in secondo, diventava sempre meno sicura. «Austin», ha mormorato ad un tratto. «Ho cercato di fare troppo. Più di quanto le mie forze mi consentissero. Non mi sono ancora ripresa dalla mia malattia, ma non sopportavo l'idea di non vederti più. Tu non mi lascerai, vero Austin? Questo è solo un momento di debolezza passeggera; fra
alcuni minuti ritornerò ad essere me stessa. Dammi quella piccola caraffa che c'è sul tavolo vicino alla finestra.» Ma nel frattempo io avevo riacquistato la padronanza di me. La forza della sua influenza sulla mia persona era diminuita con l'accrescersi del suo languore e adesso io ero di nuovo libero. E aggressivo, aspramente, ferocemente aggressivo. Per una volta, almeno, potevo dire a quella donna quali erano i reali sentimenti che provavo per lei. Il mio cuore era colmo di un odio tanto bestiale quanto lo era l'amore contro il quale si ribellava. Era la passione selvaggia e assassina dello schiavo che si rivolta contro il suo padrone. Avrei potuto afferrare la stampella che era appoggiata al sofà e colpirla in pieno viso e, come se lei avesse intuito questa mia potenziale reazione, ad un tratto si è coperta il volto con le mani e ha cercato scampo dalla mia ira rifugiandosi nell'angolo del divano. «Il brandy! Il brandy!» continuava a ripetere con affanno. Allora ho afferrato la caraffa e ne ho versato l'intero contenuto sulle radici di una palma che occupava il vano della finestra. Poi mi sono avvicinato a lei e le ho strappato di mano la mia fotografia, che ho distrutto. «Tu donna infame!», le ho detto. «Se io dovessi fare il mio dovere nei confronti della società, non dovrei lasciarti uscire viva da questa stanza!» «Ma io ti amo, Austin, ti amo», ha replicato lei con voce piangente. «Sì», le ho urlato io di rimando. «E prima di me Charles Sadler e chissà quanti altri ancora!» «Charles Sadler? Ti ha parlato? Ah, così, Charles Sadler, Charles Sadler!» La sua voce filtrava fra le labbra pallide simile al sibilo di un serpente. «Sì, io ti conosco e anche gli altri adesso sapranno chi sei. Tu creatura ignobile! Tu sapevi quali sentimenti provavo, eppure non hai esitato neanche un istante a usare il tuo nefasto potere per attirarmi a te. E forse lo farai ancora, ma almeno ricorderai di avermi udito dire che amo Miss Marden dal profondo del mio cuore, mentre per te provo solo odio e repulsione. La tua vista e il suono della tua voce mi riempiono di orrore e di disgusto. Il solo pensare a te mi ripugna. Ecco, ora sai quello che sento e se ti divertirai ancora a conquistarmi con i tuoi trucchi diabolici come hai fatto questa sera, penso che ti sarà di ben scarsa consolazione cercare di trasformare in tuo amante un uomo che ti ha detto ciò che pensa di te. Potrai indurmi a fare tutto quello che vorrai ma non potrai fare a meno di ricordare...» A questo punto sono stato costretto a fermarmi, perché la donna era svenuta e il capo le era crollato all'indietro. Non era riuscita a sopportare il to-
no delle mie parole! Che soddisfazione mi dà il pensiero che, accada quello che accada, lei non potrà mai aver dubbi sui veri sentimenti che nutro per lei. Ma che cosa potrà succedermi in futuro? Che cosa farà adesso lei? Non oso immaginarlo! Oh, se solo potessi sperare che mi lascerà in pace! Ma quando ripenso a ciò che le ho detto, nulla più mi importa: per una volta sono stato più forte di lei. Undici aprile. Non sono quasi riuscito a chiudere occhio questa notte e poiché questa mattina ero febbricitante e terribilmente snervato, sono stato costretto a chiedere a Pratt-Haldane di tenere la lezione al posto mio. È la prima volta che non mi presento in aula. Mi sono alzato a mezzogiorno, ma ancora adesso la testa mi duole, mi tremano le mani e ho i nervi ridotti in uno stato pietoso. E questa sera chi è venuto a farmi visita? Niente meno che Wilson. Era appena ritornato da Londra, dove aveva tenuto conferenze, letto saggi, convocato riunioni, smascherato un medium, condotto una serie di esperimenti sulla trasmissione del pensiero, intrattenuto il Professor Richet di Parigi, trascorso ore intere a fissare un cristallo e trovato qualche prova del passaggio della materia attraverso la materia. In meno di due minuti, mi ha riversato addosso, tutto d'un fiato, il resoconto di un'intera settimana. «Ma a lei che cosa è successo?», ha detto alla fine, guardandomi stupito. «Lei non ha affatto un bell'aspetto. E anche Miss Penclosa è piuttosto prostrata oggi. Come sono andate le sedute?» «Le ho sospese.» «Vergogna! E perché mai?» «Perché ho l'impressione che si tratti di un argomento pericoloso.» «Molto interessante», ha replicato lui estraendo immediatamente il suo grande taccuino marrone. «E che ragioni ha per ritenerlo pericoloso? Mi elenchi i fatti in ordine cronologico, specificando per quanto possibile le date e i nomi di testimoni attendibili, con relativo indirizzo.» «Prima di tutto», gli ho chiesto io interrompendolo, «vorrei sapere se lei è a conoscenza di casi in cui l'ipnotizzatore abbia assunto il pieno controllo di una persona e l'abbia usata per scopi malvagi.» «Oh, sì, eccome!», ha risposto lui con enfasi. «Atti criminosi resi possibili mediante la suggestione...» «No, non mi riferivo alla suggestione. Intendevo dire casi in cui un soggetto venga colto da un impulso improvviso, per volontà di una persona che si trova lontana da lui, un impulso che non è in grado di contrastare.» «Ah, l'ossessione!» ha esclamato con voce stridula, esultando di conten-
tezza. «È la condizione più rara. Ne sono stati osservati otto casi, di cui cinque ben documentati. Lei non intenderà dire...» Il suo entusiasmo era tale che quasi non riusciva ad articolare le parole. «Assolutamente no», mi sono affrettato a rispondergli. «Buona notte, Professor Wilson. Lei mi perdonerà, ma non sto molto bene questa sera.» E così alla fine sono riuscito a liberarmi di lui, che ancora brandiva penna e taccuino. Può essere difficile sopportare in silenzio questa sciagura, ma preferisco di gran lunga tenere tutto per me, piuttosto che permettere a Wilson di andare in giro a illustrare il mio caso, come se fossi un fenomeno da baraccone. Lui ormai ha perso di vista gli esseri umani; per lui ogni cosa è ridotta ad oggetto di indagine. Morirò prima di ritornare con lui su questo argomento. Dodici aprile. Grazie a Dio, ieri è stata una giornata tranquilla, e anche la sera è trascorsa senza che si verificassero fatti degni di nota. La presenza di Wilson è di grande conforto per me. Che cosa può fare adesso la donna? Non v'è dubbio che, dopo aver udito quanto le ho detto l'altra sera, debba ora provare per me lo stesso disgusto che io sento per lei. Non può, non può desiderare per amante un uomo che l'ha insultata in quel modo. No, sono certo di non essere più oggetto del suo amore... Ma posso dire altrettanto del suo odio? Non sarà forse indotta a usare i suoi poteri per vendicarsi? Vergogna! Perché mi lascio spaventare dalle ombre? Lei si dimenticherà di me e io mi dimenticherò di lei, e staremo di nuovo bene entrambi. Tredici aprile. I miei nervi hanno quasi recuperato il loro tono. Credo di essere proprio riuscito a conquistare la creatura, ma devo confessare che, nonostante ciò, continuo a vivere in un certo stato di apprensione. So che lei è guarita, perché questo pomeriggio è stata vista attraversare in carrozza High Street, in compagnia di Mrs. Wilson. Quattordici aprile. Vorrei tanto poter fuggire da qui! Il giorno stesso in cui termina l'anno scolastico volo da Agatha. Immagino che tale proponimento denoti spregevole debolezza da parte mia, ma la presenza di questa donna è per me causa di terribile agitazione. L'ho rivista di nuovo e le ho parlato. È accaduto dopo pranzo. Io ero nel mio studio, intento a fumare una sigaretta, quando ho udito nel corridoio i passi di Murray, il mio cameriere. Ero languidamente cosciente della presenza di una seconda persona oltre a lui, ma non mi curavo di indovinare chi potesse essere, fino a quando la percezione improvvisa di un lieve rumore mi ha fatto balzare in piedi con
la pelle accapponata per la paura. Prima di allora non avevo mai prestato particolare attenzione al suono prodotto dalle stampelle, ma adesso i miei nervi tremanti mi dicevano che doveva essere del tutto analogo al ticchettio che riecheggiava dal pavimento di legno del corridoio e che si alternava ritmicamente al tonfo attutito del passo. Un secondo dopo, Murray, ha aperto la porta e ha fatto accomodare Miss Penclosa nella stanza. Non ho accennato al benché minimo convenevole di rito, ma sono rimasto in piedi a fissarla, con la sigaretta che mi si consumava fra le dita. Neppure lei ha abbozzato alcun saluto, ma si è limitata, a sua volta, a guardarmi in silenzio. Nell'osservare i suoi occhi, mi sono ricordato di come, nelle pagine di questo diario, io abbia cercato di descriverne l'espressione, incerto se definirla furtiva o feroce. Ebbene, oggi il suo sguardo era inesorabilmente glaciale e feroce. «Dunque», ha esordito dopo un po', «lei è ancora della medesima opinione dell'ultima volta che ci siamo visti?» «Io sono sempre stato della medesima opinione.» «Vediamo di capirci, Professor Gilroy», ha proseguito parlando lentamente. «Scherzare con me può essere molto pericoloso, come immagino abbia già compreso. È stato lei a chiedermi di sottoporla a una serie di esprimenti; è stato lei a guadagnarsi il mio affetto, è stato lei a professare il suo amore per me, è stato lei a donarmi una sua fotografia dopo avervi scritto sul retro parole piene di sentimento; e infine è stato lei che, quella stessa sera, ha ritenuto di dovermi insultare nel modo più oltraggioso che si possa concepire, rivolgendosi a me come mai nessuno ha osato fare. Ma se lei ora mi dice che quelle parole le sono sfuggite in un momento di collera, io sono disposta a dimenticare e a perdonarla. Tu non intendevi dire quello che hai detto, vero Austin? Tu non mi odi, vero?» Sono stato tentato di lasciarmi muovere a pietà di fronte a quella donna deforme, tanto grande era il desiderio d'amore che aveva sostituito la minaccia nel suo sguardo; ma poi mi sono ricordato di tutto quello che avevo sofferto e allora il mio cuore è diventato duro come la pietra. «Se mai mi hai udito parlare d'amore, tu sai che quella non era la mia voce, ma la tua. Le sole parole vere che ho potuto rivolgerti sono quelle che ho pronunciato l'ultima volta che ci siamo incontrati.» «Lo so. Qualcuno ti ha aizzato contro di me. È stato lui!» ha replicato la creatura percuotendo il pavimento con la gruccia. «Tu lo sai che, se volessi, potrei costringerti ad acquattarti ai miei piedi come un cane in questo preciso istante. Tu non mi troverai più nell'ora della debolezza, in cui puoi
insultarmi a tuo piacimento. Bada a ciò che fai, Professor Gilroy. La situazione in cui ti trovi è davvero brutta. Ancora non hai compreso quanto sia grande il potere che io ho su di te.» A quel punto io ho scrollato le spalle e mi sono allontanato. «Bene», ha sibilato lei dopo una breve pausa di silenzio. «Se tu disprezzi il mio affetto, vedrò che cosa potrò ottenere con il terrore. Adesso sorridi, ma arriverà il giorno in cui verrai a implorare il mio perdono. Sì, tu, orgoglioso come sei, ti ridurrai a strisciare ai miei piedi, e allora maledirai il momento in cui mi hai indotta a trasformarmi da tua migliore amica in tua più temibile nemica. Stia bene, Professor Gilroy!» Mentre pronunciava quelle ultime parole, ho visto un mano bianca agitarsi nell'aria e un volto che a stento si potrebbe definire umano, tanto i lineamenti erano stravolti dall'ira. Un istante dopo se ne è andata e io ho udito i suoi passi di zoppa allontanarsi rapidamente lungo il corridoio. Ma mi ha lasciato un grande peso sul cuore. Per quanto io cerchi di persuadermi che le sue non sono altro che sterili parole dettate dalla collera, sono angustiato da vaghi presentimenti di sventura. Il ricordo dei suoi occhi spietati è troppo vivido perché io possa illudermi di essere prossimo alla salvezza. Che cosa posso fare? Che ne sarà di me? Non sono più padrone della mia anima. Quell'ignobile parassita potrebbe penetrare dentro di me in qualsiasi momento e allora... Devo raccontare a qualcuno questo mio terribile segreto. Devo farlo o impazzirò. Se ci fosse qualcuno in grado di comprendermi e consigliarmi! Wilson è fuori questione. Charles Sadler è in grado di capirmi solo limitatamente alla sua esperienza. Pratt-Haldane! Pratt-Haldane è un uomo equilibrato, di grande buon senso e pieno di risorse. Andrò da lui e gli racconterò ogni cosa. Che Dio gli conceda di potermi essere d'aiuto! 4 Le sette meno un quarto di sera. No, è inutile. Non esiste essere umano in grado di soccorrermi; devo combattere da solo la mia battaglia. Non mi restano che due sole possibilità: o accondiscendo a diventare l'amante di quella donna, o dovrò piegarmi a tutte le persecuzioni che lei vorrà infliggermi. E se anche non accadrà nulla, io sarò costretto a vivere in un continuo stato d'apprensione. Ma lei può torturarmi, può farmi impazzire, può perfino uccidermi: io non cederò mai, mai. Quale pena maggiore potrà impormi della perdita di Agatha, della consapevolezza di essere un bugiardo
spergiuro e di aver perduto il nome di gentiluomo? Pratt-Haldane si è dimostrato affabile come sempre e ha ascoltato con molta educazione la mia storia. Ma quando ho visto l'espressione grave del suo volto, lo sguardo calmo dei suoi occhi e i massicci mobili che arredano il suo studio, per poco non mi è mancato il coraggio di rivelargli il reale motivo della mia visita. Ogni particolare della sua persona e della sua casa trasmettevano un così profondo senso di solidità e di concretezza! Per non parlare del fatto che non so come io stesso avrei reagito se, meno di un mese fa, un mio collega fosse venuto a raccontarmi di essere posseduto dal demonio. Forse, sarei stato addirittura meno paziente di quanto lo è stato lui. Pratt-Haldane, invece, ha preso puntualmente nota delle mie affermazioni sul suo taccuino, mi ha chiesto quanto tè bevo al giorno, quante ore dormo, se dedico molte ore al lavoro, se soffro di improvvisi mal di capo, se faccio brutti sogni, se avverto fischi alle orecchie e se vedo macchie luminose davanti agli occhi: tutte domande che già denotavano la sua convinzione che all'origine dei miei problemi ci fosse una congestione cerebrale. Alla fine mi ha congedato con una lunga sequela di luoghi comuni sull'utilità di svolgere attività all'aria aperta e la raccomandazione di evitare qualunque fonte di eccitamento nervoso; mi ha anche prescritto cloralio e bromo, ma appena uscito dal suo studio ho appallottolato la ricetta e l'ho gettata nel canale di scolo. No, non posso chiedere aiuto a nessun essere umano; anche perché se mi rivolgo a qualche altro uomo di scienza, è possibile che, se si consultano fra di loro, decidano di spedirmi in manicomio. Non mi resta che prendere il coraggio a due mani e pregare Dio di non abbandonare un uomo onesto come me. Quindici aprile. È la primavera più dolce a memoria d'uomo. Gli alberi sono fioriti, la temperatura è mite: è tutto così meraviglioso! Com'è grande il contrasto fra lo splendore della natura e lo stato della mia anima, lacerata dal dubbio e dal terrore! Oggi la giornata è trascorsa tranquilla, ma io sono consapevole di essere sull'orlo di un abisso; lo so, eppure continuo con la mia routine quotidiana. La sola nota positiva è che Agatha è felice e libera dal pericolo. Se quella creatura tenesse in pugno entrambi, che cosa non potrebbe fare? Sedici aprile. Quella donna è davvero geniale nella scelta dei tormenti da infliggermi! Sa quanto io ami il mio lavoro e quanto siano seguite e apprezzate le mie lezioni, per cui è su questo fronte che adesso lei mi attacca. Mi rendo conto che finirò per essere privato della cattedra, ma lotterò fino
in fondo; non le permetterò di distruggere la mia vita professionale, senza darle battaglia. Questa mattina, durante la mia abituale lezione, ho accusato, per un paio di minuti, un forte senso di vertigine; ma, ad eccezione di questo episodio, dal quale, peraltro, mi sono rapidamente ripreso, non ho avvertito altro cambiamento nella mia persona. Anzi, ero particolarmente soddisfatto perché ritenevo di essere riuscito ad affrontare l'argomento che mi ero proposto di illustrare (le funzioni dei globuli rossi) in modo chiaro e affatto noioso. È naturale, dunque, che sia rimasto profondamente sorpreso quando, al termine della lezione, uno degli studenti si è presentato in laboratorio lamentandosi di essere confuso per la discrepanza che aveva rilevato fra le mie affermazioni e quelle del libro di testo. Di fronte alla mia incredulità, lui mi ha mostrato i suoi appunti, dai quali risultava che, ad un certo punto della mia esposizione, io avevo asserito le eresie più scandalose che un uomo di scienza abbia mai pronunciato. Naturalmente, ho negato di aver sostenuto tesi così ridicolmente contrarie ai più elementari dettami scientifici, ma raffrontando le sue note con quelle dei suoi compagni, non ho potuto fare a meno di ammettere che aveva ragione. Naturalmente potrei liquidare l'episodio come conseguenza di un momento di aberrazione, ma nel mio intimo so che questo non sarà che il primo di una lunga serie. Manca solo un mese alla conclusione dell'anno accademico e prego di riuscire a resistere fino ad allora. Ventisei aprile. Sono trascorsi dieci giorni dall'ultima volta in cui ho avuto il coraggio di scrivere in questo diario. Perché mai dovrei prendere nota della mia umiliazione e della mia degradazione? Avevo giurato che non l'avrei mai più aperto, ma la forza dell'abitudine è dura a morire e così adesso mi ritrovo a riferire delle mie terribili esperienze con spirito non diverso da quello in cui un famoso suicida ha annotato gli effetti del veleno che l'avrebbe ucciso. Ebbene, la catastrofe che avevo previsto è accaduta. Ed è accaduta non più tardi di ieri: il senato accademico mi ha privato della libera docenza. Lo ha fatto nel modo più delicato possibile, dandomi ad intendere che si tratta di una misura temporanea per permettermi di riprendermi dagli effetti del sovraccarico di lavoro che ho sostenuto in questi mesi, e di riacquistare la salute. Ma l'ha fatto e da oggi io non sono più il Professor Gilroy. Sono ancora il direttore del laboratorio, ma dubito che lo potrò essere ancora per molto. Il fatto è che sono diventato lo zimbello dell'università; alle mie lezioni
accorrono gli studenti di tutti i corsi per sentire con quale nuova enormità se ne uscirà lo strambo professore di fisiologia. Non posso raccontare i particolari della mia umiliazione. Ah, quell'essere diabolico! Non esiste pagliacciata o imbecillità che quella donna malefica non mi abbia costretto a compiere. Iniziavo la lezione normalmente, anche se ero sempre angustiato dal presentimento dell'eclissi incombente, e quando avvertivo le prime manifestazioni del suo influsso perverso, cercavo di contrastarlo con tutte le mie forze, digrignando i denti e serrando i pugni, mentre la fronte mi si imperlava di sudore. Allora, udendo le mie frasi sconnesse e vedendo le mie contorsioni, gli studenti scoppiavano a ridere. E poi, quando alla fine lei riusciva a sottomettermi alla sua volontà, mi lasciavo andare alle manifestazioni più vergognose: raccontavo le barzellette più stupide, proponevo brindisi, intonavo brani di ballate e maltrattavo alcuni dei miei studenti; fino a quando, come per incanto, ritornavo in possesso di tutte le mie facoltà mentali e concludevo decorosamente la lezione. Nessuna meraviglia, dunque, che la notizia si sia sparsa rapidamente in tutti i college. Nessuna meraviglia che il senato accademico sia stato costretto ad occuparsi ufficialmente di uno scandalo di tale portata. Ah, quell'essere diabolico! E l'aspetto più terribile di tutta la vicenda è che sono solo. Siedo nel vano di un ordinario bovindo inglese, che si affaccia su un'ordinaria strada inglese, con i suoi omnibus sgargianti e il suo pigro poliziotto, e alle mie spalle grava un'ombra che è affatto estranea a questo luogo e a questo tempo. Nella dimora della sapienza io sono oppresso da un potere che mi tortura e che la scienza ignora. Nessun magistrato sarebbe disposto ad ascoltarmi, nessun medico crederebbe ai miei sintomi. I miei stessi familiari penserebbero che io sia uscito di senno. Sono completamente isolato dai miei simili. Ah, quella creatura demoniaca! Farebbe meglio a badare a se stessa, o la sua ira potrebbe costringermi a un passo estremo. Quando la legge non può aiutare l'uomo, questi può decidere di farsi giustizia da sé. Mi ha incontrato in High Street ieri sera e mi ha rivolto la parola. Forse è stato un bene per lei che non ci trovassimo fra le siepi di un'isolata strada di campagna. Con il suo sorriso di ghiaccio mi ha chiesto se non mi avessero ancora punito, ma io non mi sono neppure degnato di risponderle. «Dovremo provare a dare un altro giro di vite», ha detto allora. Bada a te, donna, bada a te. Ti ho avuto alla mia mercé una volta e forse potrebbe accadere ancora. Ventotto aprile. La decisione del senato universitario di sospendermi
dall'incarico di docente di fisiologia ha avuto, se non altro, l'effetto di privare quell'essere malefico di un'occasione per infliggermi la sua insopportabile tortura; così ho potuto trascorrere due interi giorni di pace benedetta. Dopo tutto non ho motivo di disperarmi. Da ogni parte mi provengono manifestazioni di solidarietà, e tutti concordano che sono state la mia devozione alla scienza e la complessa natura delle mie ricerche a scuotere il mio sistema nervoso. I membri del consiglio di facoltà mi hanno fatto pervenire un messaggio molto affabile in cui mi invitano a fare un viaggio all'estero e mi augurano di poter riprendere l'insegnamento all'inizio del trimestre estivo. Non vi è nulla per me di più lusinghiero delle loro allusioni alla mia carriera e dei servizi che ho reso all'università; è solo nelle disgrazie che un uomo può toccare con mano l'affetto e la stima di cui gode presso amici e colleghi. Se solo questa donna si stancasse di tormentarmi, tutto potrebbe andar bene di nuovo. Possa Dio concedermi questa grazia! Ventinove aprile. Nella nostra tranquilla cittadina è accaduto un fatto che ha suscitato non poco scalpore. Fino a ieri i soli delitti di cui si conosceva l'esistenza erano quelli commessi da qualche studente turbolento che, in un accesso di rabbia, rompeva qualche lampione o veniva alle mani con un poliziotto. La notte scorsa, invece, qualcuno ha tentato di fare irruzione nella filiale della Banca d'Inghilterra e, di conseguenza, oggi siamo tutti in uno stato di grande agitazione. Parkenson, il direttore, è un mio carissimo amico e, quando questa mattina dopo la colazione mi sono recato da lui, l'ho trovato in preda a un considerevole eccitamento. Se i ladri fossero riusciti a penetrare all'interno dell'edificio contabile, se la sarebbero comunque dovuta vedere con le casseforti: l'efficacia del sistema di difesa era dunque di gran lunga superiore all'abilità dei malfattori, che, a dire il vero, non dovevano essere molto esperti. I segni rinvenuti su due delle finestre del pian terreno fanno pensare che siano state forzate con uno scalpello o un altro strumento simile. In ogni caso, la polizia dispone di un ottimo indizio, perché gli stipiti di legno erano stati dipinti di verde proprio il giorno prima, e dalle sbavature che i criminali hanno provocato è evidente che devono essersi imbrattati le mani e gli abiti di vernice. Le quattro e mezza del pomeriggio. Ah, quella creatura maledetta! Quella creatura tre volte maledetta! Ma non importa! Lei non mi sconfiggerà! No, non glielo permetterò! Ma quale diavolo si nasconde in lei? Mi ha privato della docenza e ora mi vuole privare anche dell'onore! Non c'è nulla che io possa fare contro di lei? Nulla tranne... Ah, ma per quanto io sia esasperato, non posso giungere a pensare a questo!
Circa un'ora fa sono andato in camera mia e, mentre mi spazzolavo i capelli, ho visto, riflessa nello specchio, una cosa che mi ha fatto trasalire a tal punto che, sopraffatto dalla nausea, mi sono seduto sul bordo del letto e sono scoppiato in lacrime. Sono trascorsi molti anni dall'ultima volta in cui mi sono abbandonato al pianto, ma i miei nervi non hanno più retto e io mi sono messo a singhiozzare, impotente nel mio dolore e nella mia rabbia. Nel guardaroba, appeso all'attaccapanni c'era la mia giacca da casa, quella che indosso sempre la sera dopo cena, con la manica destra imbrattata di vernice verde dal polso al gomito. Ecco che cosa intendeva dire quando ha parlato di un altro giro di vite! Mi ha già reso ridicolo agli occhi di tutta la città, ma questo non è sufficiente per lei: vuole anche che io mi macchi di ignobili delitti. Questa volta non è riuscita nel suo intento, ma quale altra diavoleria escogiterà in futuro? Non oso pensarci. E che ne sarà di Agatha e della mia povera, vecchia madre? Come vorrei essere morto! Sì, questo è il giro di vite che mi ha promesso. Solo adesso capisco il significato delle parole che quell'essere demoniaco mi ha rivolto l'altra sera, quando mi ha detto che ancora non mi ero reso conto di quanto fosse grande il potere che lei ha su di me. E, infatti, rileggendo le pagine del diario, mi sono ritornati alla mente i nostri primi colloqui, in cui lei mi aveva spiegato come, quando un medium esercita una forte influenza su una persona, questa obbedisca ai suoi ordini senza neppure esserne consapevole. Anch'io ieri sera ho agito in stato di assoluta incoscienza; e dire che avrei giurato di aver dormito un sonno ininterrotto e senza sogni! E invece, le macchie di vernice sulla mia giacca dimostrano, in modo inequivocabile, che mi sono vestito, ho raggiunto la banca, ho tentato di forzarne le finestre e sono ritornato a casa. Che qualcuno mi abbia visto? È possibile che qualcuno mi abbia visto e mi abbia seguito fino a casa? Ah, che inferno è diventata la mia vita! Non ho più pace, ma la mia pazienza sta per raggiungere il limite. Le dieci di sera. Ho smacchiato la giacca con la trementina. Non penso che qualcuno mi abbia visto. I segni del tentativo di scasso che la polizia ha rinvenuto sulle finestre li ho fatti io con il mio cacciavite: l'ho trovato completamente imbrattato e l'ho pulito. La testa mi duole come se fosse sul punto di scoppiare, così ho preso cinque grani di antipirina. Se non fosse per Agatha, nei avrei presi cinquanta e l'avrei fatta finita. Tre maggio. Tre giorni tranquilli. Quel demonio sta giocando con me come fa il gatto con il topo: mi dà un po' di tregua solo per poi potersi av-
ventare come una furia su di me. E quando, come in questi giorni, non accade nulla, io sono ancora più atterrito. Verso in uno stato fisico pietoso: soffro di costante singhiozzo e di ptosi della palpebra sinistra. Le Marden mi hanno annunciato che saranno di ritorno domani, e io non so se esserne contento o dispiaciuto. A Londra erano al sicuro, ma una volta tornate qui potrebbero venire catturate nella terribile rete in cui mi dibatto. Sarò costretto a dir loro lo stato in cui mi trovo; non posso sposare Agatha, sapendo di non essere responsabile delle mie azioni. Sì, sarò costretto a dirglielo, anche se ciò significherà la fine del mio fidanzamento con lei. Questa sera c'è il ballo dell'università, e io non posso mancarvi. Dio sa quanto sia riluttante all'idea di prendere parte a una festa, ma non devo dare adito ai miei colleghi di pensare che io non sia in condizioni di apparire in pubblico. Se mi faccio vedere e parlo con qualcuno dei professori più anziani, forse riuscirò a dimostrare al senato universitario quanto sarebbe ingiusto privarmi per sempre della cattedra. Le undici e mezza di sera. Sono stato al ballo. Charles Sadler ed io ci siamo andati insieme, ma io sono rientrato prima di lui. Comunque, rimarrò ad aspettarlo sveglio, perché queste sere sono davvero terrorizzato all'idea di addormentarmi. È un uomo di temperamento gioviale e pieno di buon senso e conversare con lui mi aiuterà senz'altro a calmarmi i nervi. Nel complesso la serata è andata magnificamente. Ho parlato con i professori più influenti e penso di averli convinti a non considerare ancora vacante il mio posto. Anche la creatura era presente al ballo, ma poiché non può danzare ha trascorso l'intera serata in compagnia di Mrs. Wilson e, ahimé, ha continuato a fissarmi. I suoi occhi sono stati pressoché l'ultima cosa che ho visto prima di lasciare la sala. Ad un certo punto, mentre sedevo in una poltrona parallela alla sua, l'ho osservata, e ho visto che stava seguendo qualcun altro con lo sguardo. Era Sadler, che in quel momento stava danzando con la giovane Miss Thurston. A giudicare dalla sua espressione è una gran fortuna per lui non trovarsi nelle sue grinfie come mi trovo io. Non sa a quale sventura è sfuggito. Mi sembra di sentire il suo passo in istrada; adesso scendo e gli apro la porta. Se mai... Quattro maggio. Perché ho interrotto così il mio diario ieri sera? Dopo tutto non sono sceso o, per lo meno, non rammento di averlo fatto. Ma d'altro canto non ricordo neppure di essermi coricato. Quando mi sono svegliato, ho scoperto di avere una mano molto gonfia, eppure ieri non mi sono infortunato. A parte questo inconveniente, sto bene e sono molto soddisfatto per il modo in cui si è svolta la serata. Però non riesco a capire
come mai, avendone tutte le intenzioni, non mi sono intrattenuto un poco con Charles Sadler. È possibile...? Mio Dio, è più che probabile! Che quella donna mi abbia tirato un altro tiro mancino? Scenderò da Sadler e glielo chiederò. Mezzogiorno. La situazione è precipitata. La mia vita non vale più la pena di essere vissuta. Ma se io devo morire, anche lei seguirà la mia stessa sorte. Non la risparmierò, non le darò la possibilità di condurre un altro uomo alla follia come ha fatto con me. No, sono giunto al limite della sopportazione. Lei mi ha ridotto alla disperazione e ha fatto di me un uomo pericoloso. Dio sa che in vita mia non ho mai avuto cuore di far male neppure a una mosca, ma se in questo istante io potessi mettere le mani addosso a quella donna, non uscirebbe viva da questa stanza. La incontrerò oggi stesso e allora lei capirà che cosa può aspettarsi da un uomo come me. Sono andato da Sadler e, con mia grande sorpresa, l'ho trovato a letto. Quando sono entrato nella stanza, si è rizzato a sedere e, così facendo, mi ha palesato il suo volto, alla cui vista sono trasalito inorridito. «Oh Dio, Sadler, ma che cosa le è successo?», gli ho domandato, incapace di credere ai miei occhi; ma nel momento stesso in cui pronunciavo quelle parole, mi sono sentito mancare il cuore. «Gilroy», mi ha risposto esprimendosi a fatica a causa delle labbra tumefatte. «Da alcune settimane avevo l'impressione che lei fosse pazzo. Ora ne ho la certezza, e la prova che lei è anche pericoloso. Se non fosse che non intendo coinvolgere il college in uno scandalo, lei ora sarebbe già nelle mani della polizia.» «Lei intende dire...» «Intendo dire che ieri sera, quando ho aperto la porta lei si è avventato su di me come una furia e, dopo avermi colpito in pieno volto con due pugni, mi ha fatto cadere a terra. Poi mi ha preso a calci nel fianco e infine mi ha abbandonato sulla strada quasi privo di sensi. Ma guardi, è la sua stessa mano ad accusarla.» Era vero. Avevo la mano gonfia e le nocche contuse, come se avessi sostenuto una violenta collutazione. Che cosa potevo fare? A rischio che lui mi giudicasse pazzo, dovevo raccontargli ogni cosa. Allora mi sono seduto accanto al letto e l'ho messo a parte delle mie sventure, narrandogli tutto fin dall'inizio. Le mani mi tremavano e il tono della mia voce era così veemente che avrei potuto convincere anche la persona più incredula. «Quella donna la odia e odia anche me», ho concluso con impeto. «E l'altra notte si è vendicata di entrambi in una volta sola. Mi ha seguito con lo sguardo
quando ho lasciato il ballo e deve aver visto anche lei. Sapeva quanto tempo avrebbe impiegato a far ritorno qui e a quel punto le è bastato fare appello alla sua volontà malvagia. Il suo volto ammaccato non è che poca cosa rispetto alla mia anima oltraggiata.» Era chiaro che il mio racconto l'aveva molto colpito. «È vero, ho notato che Miss Penclosa mi osservava mentre lasciavo la sala», ha borbottato. «Lei è capace di simili azioni. Ma è possibile che l'abbia davvero ridotta in questo stato, Gilroy? Che cosa intende fare?» «Intendo fermarla», ho esclamato. «Ormai, sono un uomo disperato. Oggi l'avvertirò lealmente e la prossima volta sarà l'ultima.» «Non agisca in modo avventato», ha replicato Sadler. «Avventato? La sola cosa avventata che potrei fare sarebbe indugiare anche un'altra ora soltanto.» Detto questo, mi sono precipitato fuori dalla stanza e adesso sono qui, alla vigilia dell'evento più decisivo della mia esistenza. Non porrò tempo in mezzo. Oggi ho già vinto una battaglia, in quanto sono riuscito a convincere almeno un uomo della veridicità della mia mostruosa esperienza. E, se dovesse accadere il peggio, resterà questo mio diario a testimonianza della ragione che mi ha spinto a tanto. Sera. Appena giunto a casa Wilson sono stato fatto accomodare in biblioteca, dove ho trovato Miss Penclosa e il professore intenti a conversare. Per mezz'ora ho dovuto sopportare il minuzioso resoconto di Wilson circa la sua recente indagine sulla reale natura dell'evocazione spiritica, mentre la creatura ed io ci guardavamo in silenzio da una parte all'altra della stanza. I suoi occhi esprimevano un divertimento sinistro e lei doveva leggere nei miei odio e minaccia. Stavo per disperare di poter parlare a tu per tu con lei, quando Wilson è stato chiamato fuori dalla biblioteca e noi due siamo rimasti soli. «Ebbene, Professor Gilroy, o non dovrei forse chiamarla Mr. Gilroy?», ha esordito con uno dei suoi soliti sorrisi sarcastici. «Come sta oggi il suo amico Charles Sadler?» «Tu, serpe!», le ho urlato di rimando. «Per te è giunta l'ora di porre fine ai tuoi artifici. Io non li subirò più. Ascolta quello che ho da dirti.» Mentre pronunciavo queste parole, ho attraversato la stanza e l'ho afferrata bruscamente per una spalla. «Com'è vero Iddio, io giuro che se tenterai un'altra delle tue diavolerie su di me, pagherai con la vita. Accada quel che accada, io ti ucciderò. Ho sopportato tutto ciò che un uomo può sopportare e ora la misura è colma.» «Il conto fra noi due è ancora aperto», ha replicato la creatura con vee-
menza pari alla mia. «Io sono capace di amore e sono capace di odio. Tu hai avuto la possibilità di scegliere: hai scelto di disprezzare il primo e ora devi provare il secondo. Mi rendo conto che ci vorrà ancora un poco per piegare il tuo spirito, ma alla fine io ci riuscirò. Se non mi sbaglio il ritorno di Miss Marden è previsto per domani...» «E in che modo può riguardarti questo? È turpe il solo fatto che tu osi pensare a lei. Se solo immaginassi che potresti nuocerle...» Capivo che la creatura era spaventata, anche se cercava di reagire con sfrontatezza. Riusciva a leggere il pensiero che mi attraversava la mente e ad ogni secondo si rimpiccioliva sempre di più per la paura. «Miss Marden è fortunata ad avere un campione di questa specie! Un uomo che osa minacciare una donna sola. Dovrò proprio congratularmi con lei per il suo protettore.» Le sue parole erano aspre, ma il suo sguardo e il tono della sua voce erano ancora più mordaci. «Continuare a parlare non serve a nulla», le ho risposto. «Io sono solo venuto a dirti, e a dirti in modo solenne, che la tua prossima soverchieria sarà anche l'ultima.» Detto questo, e avendo udito i passi di Wilson sulle scale, ho lasciato la biblioteca. Ah, può apparire velenosa e caustica, ma ciò nondimeno si sta rendendo conto che ha da temere da me quanto io ho da temere da lei. Assassinio! Questa parola ha un suono terribile. Ma non si parla di assassinio quando si tratta di sopprimere un serpente o una tigre. Lascerò che per ora sia il terrore ad angustiarla. Cinque maggio. Alle undici ho incontrato Agatha e sua madre alla stazione. È così radiosa, così felice, così bella. Ed era così contenta di vedermi. Che cosa ho fatto per meritarmi tanto amore? Le ho accompagnate a casa e abbiamo pranzato insieme. In un attimo tutte le mie disgrazie sono svanite e anch'io mi sono sentito di nuovo un uomo felice. Agatha mi ha trovato pallido ed ha aggiunto che ho l'aspetto di una persona preoccupata e malata. La poverina attribuisce il mio stato alla solitudine e alle cure sbrigative della mia governante, e io prego che non scopra mai la verità! Possa l'ombra, se ombra deve esserci, oscurare la mia vita e lasciare che sulla sua risplenda la luce del sole. Sono tornato da poco da casa Marden e mi sento un uomo nuovo. Con Agatha al mio fianco penso che potrei affrontare senza paura qualsiasi difficoltà la vita abbia in serbo per me. Le cinque del pomeriggio. Ora devo cercare innanzitutto di essere preciso. Devo sforzarmi di descrivere esattamente quanto è accaduto. Il ricordo
è ancora vivido nella mia mente e sono quindi in grado di riferire ogni cosa correttamente, anche se dubito che verrà mai il giorno in cui dimenticherò gli eventi che hanno avuto luogo oggi. Questo pomeriggio, dopo aver fatto ritorno da casa Marden, stavo tagliando alcune minuscole sezioni con il microtomo ghiacciato, quando, d'un tratto, nell'odioso modo che ormai mi è noto, ho perduto conoscenza. Quando sono ritornato in me, ero seduto in una piccola camera affatto diversa da quella in cui stavo lavorando. Era accogliente e luminosa: i divani erano rivestiti di chinz, e sulle pareti, ricoperte di carta colorata, facevano bella mostra di sé centinaia di ninnoli. Un piccolo orologio ornamentale ticchettava proprio di fronte a me; le lancette segnavano le tre e mezzo. L'ambiente mi era familiare; ciò nondimeno mi sono guardato intorno per alcuni istanti in preda a uno stato di parziale stordimento, fino a quando il mio sguardo è caduto su una fotografia formato album del sottoscritto, collocata sul pianoforte. Dalla parte opposta, simmetricamente alla mia, vi era una fotografia di Mrs. Marden. A quel punto, naturalmente, ho capito dove mi trovavo. Ero nel boudoir di Agatha. Com'ero arrivato fin lì e che cosa c'ero venuto a fare? Un pensiero terribile mi ha stretto la gola in una morsa di paura. Ero stato indotto ad andare lì per compiere qualche diavoleria? L'avevo forse già compiuta? Non poteva che essere così; altrimenti, per quale motivo avrei ripreso conoscenza? Ah che agonia in quel momento! Che cosa avevo fatto? Disperato, sono balzato in piedi e, nel compiere quel movimento, una piccola bottiglietta di vetro è caduta dalle mie ginocchia sul tappeto. Non si è rotta ed io l'ho presa in mano per verificare la dicitura dell'etichetta: acido solforico. Forte. Quando ho tolto il tappo di vetro rotondo che la sigillava, ne è uscito un fumo denso e lento, mentre un odore acre e soffocante pervadeva la stanza. Era una delle sostanze che normalmente tenevo nella bacheca del mio studio e che utilizzavo per gli esperimenti chimici. Ma perché mai avevo portato una bottiglietta di vetriolo nella camera di Agatha? Non era questo forse il liquido spesso e maleolente con cui le donne sono solite sfigurare le loro rivali? Mentre controllavo la boccettina alla luce ho sentito il cuore arrestarsi nel petto. Grazie a Dio era ancora piena! La disgrazia era scongiurata. Ma se Agatha fosse entrata nella stanza un minuto prima, non è forse cosa certa che quel parassita diabolico che era in me le avrebbe rovesciato sul volto il vetriolo? Ah! Non oso neppure pensarlo. Ma non vi può essere altra spiegazione. Altrimenti perché l'avrei
portato con me? Al pensiero di quello che avrei potuto fare i miei nervi, già logorati, hanno ceduto, ed io mi sono abbandonato sul divano, in preda a brividi e contrazioni consulte: non ero che un relitto umano, la mera ombra di me stesso. Sono stati il suono della voce di Agatha e il fruscio del suo abito a farmi riavere. Ho alzato lo sguardo e ho visto i suoi occhi azzurri, colmi di tenerezza e di pietà, che mi fissavano. «Dobbiamo condurti in campagna per qualche tempo, Austin!,» mi ha detto. «Hai bisogno di pace e di riposo. Hai un aspetto così malato.» «Oh, non è niente», mi sono affrettato a risponderle cercando di sorridere. «È stata soltanto una debolezza momentanea. Adesso sto di nuovo bene.» «Mi dispiace averti fatto attendere. Poverino, devi essere qui da più di mezz'ora! Il vicario era in salotto e, poiché sapevo che non ti interessava incontrarlo, ho pensato fosse meglio dire a Jane di farti accomodare qui. Oh, temevo che non se ne sarebbe più andato!» «Grazie a Dio si è trattenuto, grazie a Dio si è trattenuto!», ho iniziato a gridare istericamente. «Ma che cosa ti succede, Austin?», mi ha chiesto Agatha prendendomi per il braccio, mentre io barcollando mi alzavo in piedi. «Perché sei contento che il vicario si sia fermato? E cos'è quella bottiglietta che hai in mano?» «Oh non è niente! Ma adesso devo andare. Ho un'importante commissione da sbrigare.» «Come sei serio, Austin! Non ti ho mai visto così. Sei in collera?» «Sì, lo sono.» «Sei in collera con me?» «Oh no, tesoro! Tu non puoi comprendere.» «Ma non mi hai detto perché sei venuto.» «Sono venuto per chiederti se sarai sempre disposta ad amarmi, qualunque cosa io faccia e anche qualora un'ombra oscurasse il mio nome. Continueresti a credere in me e ad avere fiducia in me, anche se le apparenze più ignobili fossero contro di me?» «Lo sai che ti amerò sempre, Austin.» «Sì, lo so. Qualunque cosa io farò, la farò per te. Sono costretto a farlo. Purtroppo non vi è altra soluzione, mia cara!» Dopo aver pronunciato queste parole, l'ho baciata e mi sono precipitato fuori dalla stanza. L'ora della decisione era giunta. Fino a quando la creatura minacciava la
mia vita e il mio onore potevo nutrire dubbi sulla natura dell'azione da compiere. Ma adesso che Agatha, la mia innocente Agatha, era in pericolo mi era del tutto chiaro quale fosse il mio dovere. Non avevo armi, ma questo non mi ha indotto all'indugio. Di quali armi potevo aver bisogno quando sentivo ogni muscolo del mio corpo vibrare con la forza di un uomo impazzito? Ho percorso le strade di corsa, ed ero così concentrato su quanto stavo per fare, che ho percepito con estrema vaghezza i volti familiari degli amici che ho incontrato, così come non mi sono quasi accorto del Professor Wilson, che stava correndo con altrettanta fretta nella direzione opposta alla mia. Senza fiato, ma risoluto, ho raggiunto infine la casa ed ho suonato il campanello. Una cameriera bianca in volto ha aperto la porta e, quando mi ha visto è sbiancata ancor di più. «Mi conduca immediatamente da Miss Penclosa», le ho ordinato. «Ma signore», mi ha risposto articolando a fatica le parole, «Miss Penclosa è morta questo pomeriggio alle tre e mezzo!» I DANNATI The Damned di Algernon Blackwood Incredible Adventures, 1914 Algernon Blacwood è stato uno dei padri fondatori dei racconti del soprannaturale. Diversamente da Sheridan Le Fanu e dal suo successore spirituale M. R. James, Blackwood non seguì il cammino tradizionale della ghost story inglese. Anche se la sua prima collezione, The Empty House (1960), conteneva diverse ghost stories convenzionali, lui si ricavò ben presto un'area speciale dove esplorò i regni dei poteri invisibili della Natura. Per Blackwood, la Natura era la divinità onnipotente per la quale il genere umano era solo una pedina interferente e instabile. A volte, l'uomo era in grado di accrescere la sua conoscenza del mondo circostante attraverso le droghe, una speciale educazione o una affinità naturale con la Natura, e poi ne diventava consapevole ed era alla mercé di poteri sconosciuti. Blackwood si servì di questo con sorprendente effetto in molti dei suoi racconti, diversi dei quali si basavano su qualche esperienza personale. Ne I Dannati, il primo che fu pubblicato della sua collezione Incredibile Adventures del 1914, aggiunse il ricordo della sua educazione avvenuta in un rigido ambiente evangelico dove era tenuto separato dal resto del mondo per paura che finisse sulla strada del Diavolo. Ne I Dannati, si
può dire che Blackwood rivisse il suo Demone personale. 1 «Ho superato la quarantina, Frances, e sono piuttosto ostinato», dissi, di buon umore, pronto ad arrendermi se lei avesse insistito con l'affermare che l'avrei fatta felice accompagnandola in quella visita. «In questo momento ho anche molto lavoro e tu lo sai. La questione è: potrei lavorare laggiù, con tante persone diverse in casa?» «Mabel non accenna ad altre persone, Bill», ribatté mia sorella. «Credo che sia sola... e solitaria, anche.» Mentre lanciava un'occhiata fuori dalla finestra, senza fissare un punto preciso, fu chiaro che era delusa ma, con mia grande sorpresa, non insistette; guardai l'invito della signora Franklin che giaceva in grembo a Frances e alla vista della chiara calligrafia infantile mi si parò davanti agli occhi la figura della vedova del banchiere, dalla limpida e insignificante personalità, gli occhi grigi e sbiaditi e l'espressione di un bambino ritardato. Pensai anche alla grande residenza in campagna che il suo defunto marito aveva modificato in base ai suoi particolari bisogni e alla visita che vi avevo fatto diversi anni prima quando quella nuda spaziosità mi aveva fatto pensare a un'ala del Kensington Museum temporaneamente adattata a una mensa e a un dormitorio. Paragonandola mentalmente al piccolo appartamento di Chelsea in cui vivevamo io e mia sorella, mi accorsi di certi vantaggi. Particolari insignificanti che mi tornarono in mente e mi attirarono: la bella biblioteca, l'organo, lo studio tranquillo che avrei avuto, il servizio perfetto, la deliziosa tazza di tè il mattino presto e un bagno caldo in qualsiasi momento della giornata... senza un geyser! «Si tratta di una visita lunga, un mese, no?» domandai, evasivo, sorridendo ai particolari che mi seducevano e provando vergogna per il mio egoismo di uomo, sapendo tuttavia che Frances se l'aspettava da me. «Ammetto che esistano certi vantaggi. Se hai deciso che debba venire con te, potrei sistemare le cose.» Mia sorella non rispose. Vidi i suoi occhi stanchi che guardavano la monotonia di Oakley Street e provai una fitta al cuore. Dopo una pausa durante la quale lei continuò a rimanere silenziosa, aggiunsi: «Allora, quando scriverai la lettera, potresti forse accennare al fatto che di solito lavoro tutta la mattina e che... be', non sono un visitatore molto vivace! Lei allora capirà, vedrai.» Mi alzai per tornare nello studio dove stavo sgobbando a
un difficile articolo sui Valori dell'Estetica Comparativa nel Cieco e nel Sordo. Ma Frances non si mosse. Continuò a tenere gli occhi fissi su Oakley Street alla quale la nebbiolina serale che si alzava dal fiume dava un aspetto tetro. Era la fine di ottobre. Udimmo gli omnibus attraversare rumorosamente il ponte. La monotonia di quell'ampia strada priva di caratteristiche sembrava più deprimente del solito. Era triste anche sotto il sole di giugno ma in autunno la sua malinconia pervadeva ogni casa tra King's Road e il lungo fiume. Induceva a pensare al passato anziché indurci a sperare nel futuro. La sua ampiezza era quella di un viale attraverso il quale le viuzze anonime che c'erano al di là del fiume lanciavano striscianti messaggi di depressione e io la consideravo sempre come l'entrata principale dell'inverno a Londra... nebbia, fango e oscurità vi si davano l'appuntamento ogni novembre, agitando i loro minacciosi vessilli finché non arrivava marzo a disperderli. La sua unica concessione al mio amore era che il vento del sud a volte arrivava fin lì, pieno di dolci suggestioni del mare. Quei lugubri pensieri, naturalmente, li tenni per me, anche se non cessai mai di rimpiangere quel piccolo appartamento che ci aveva sedotti per via del modesto affitto. Ora, mentre guardavo il viso impassibile di mia sorella, mi resi conto che forse anche lei provava i miei stessi sentimenti ma, da donna coraggiosa qual era, non li tradiva. «È stata all'estero un anno, Bill, ed è appena tornata», disse. «È arrivata piuttosto inaspettatamente, sebbene non avrei mai creduto che sarebbe andata a vivere laggiù...» Si interruppe all'improvviso. Era chiaro che parlava distrattamente. «Forse», continuo, «Mabel vuole riallacciare le antiche amicizie.» «E naturalmente», commentai, «tu sei in testa alla lista.» Tralasciai di fare riferimento alla casa per non parlare del marito defunto. «Sento che io devo andare, comunque», insistette lei, «e sarebbe più piacevole se venissi anche tu. Ti troveresti male qui, da solo, mangeresti cibi sbagliati, dimenticheresti di far prendere aria alle stanze e... oh, tutto, insomma!» Si mise a ridere. «Ma c'è il British Museum...!» «E laggiù c'è una grande biblioteca», feci, «con tutti i libri d'informazione che potrei aver voglia di consultare. Era a te che pensavo. Potresti riprendere a dipingere; vendi sempre la metà di ciò che dipingi. E sarebbe anche un splendido periodo di riposo. Il Sussex offre meravigliose passeggiate in campagna. Insomma, Fanny, ti consiglio...» I nostri occhi si incontrarono mentre farfugliavo nel tentativo di evitare
di esprimere il pensiero che avevamo entrambi in mente. Mia sorella aveva la debolezza di dilettarsi delle varie «nuove» teorie del giorno e Mabel, che prima del matrimonio aveva fatto parte di quelle folli società che curiosavano nella vita futura per dimenticare quella presente, aveva incoraggiato la sua poco piacevole tendenza. Il suo carattere amabile e impressionabile era aperto a ogni vento psichico che soffiava. Io deploravo e detestavo questa storia ma ancora più di questo in seguito avevo aborrito l'influenza di cui il signor Franklyn aveva imbevuto la sua vita, catturando il corpo e l'anima della moglie con le sue oscure dottrine. Avevo temuto che anche mia sorella potesse esserne attratta. «Adesso che è di nuovo sola...» Tacqui. Ora i nostri occhi non potevano più fingere perché la verità era uscita inevitabilmente e stupidamente, anche se non proprio espressa a parole. Ridemmo, voltandoci un momento a guardare le altre cose nella stanza. Frances raccolse un libro e ne esaminò la copertina come se avesse fatto una scoperta importante mentre io aprivo la scatola e accendevo una sigaretta che non desideravo fumare. Tralasciammo la questione. Uscii dalla stanza prima che altre spiegazioni potessero creare tensione. Il disaccordo si trasformava in lite a causa di piccole cose... aggettivi sbagliati o una strana inflessione di voce. Frances aveva il diritto di vedere la vita in un certo modo così come ce l'avevo io. Perlomeno, riflettei sollevato, ci eravano separati d'accordo, questa volta, dandoci vicendevolmente ragione senza averlo ammesso veramente. E questo punto di incontro era, piuttosto stranamente, il nostro modo di considerare qualcuno che era morto. Perché a nessuno dei due era piaciuto il marito di Mabel e durante i loro tre anni di vita matrimoniale eravamo stati soltanto una volta in quella casa... per un weekend; arrivando sul finire del sabato, eravamo ripartiti il lunedì mattina, subito dopo la colazione. Attribuendo l'antipatia di mia sorella a una naturale gelosia dovuta alla perdita della sua vecchia amica, mi ero limitato a dire che lui non mi piaceva. Tuttavia, avevamo capito tutti e due che il vero motivo aveva radici più profonde. Frances creatura leale e piena di senso dell'onore, era rimasta silenziosa; a parte la critica che aveva fatto alla casa e ai terreni... lui aveva apportato cambiamenti alla prima e modernizzato i secondi... dicendo che la angustiavano come un'espressione della sua personalità («angustiavano» era la parola che lei aveva usato), non erano uscite altre spiegazioni dalle sue labbra. La nostra antipatia alla sua personalità era facilmente spiegabile... tanto
per cominciare, perché noi due condividevamo il punto di vista dell'artista secondo il quale un credo, tagliato su misura e accuratamente inaridito, era una cosa turpe e un dogma i cui credenti devono sottoscrivere o perire per l'eternità era una barbarie fondata sulla crudeltà. Ma mentre la mia antipatia era dovuta semplicemente a un culto astratto della Bellezza, quella di mia sorella aveva un altro fondamento, perché assieme alle sue «nuove» tendenze, lei credeva che tutte le religioni fossero un aspetto della verità e che nessuno, neppure la persona più meschina, potesse evitare il «paradiso» durante la lunga corsa. Samuel Franklyn, il ricco banchiere, era un uomo universalmente rispettato e ammirato e il matrimonio, anche se Mabel era più giovane di lui di quindici anni, aveva ottenuto l'approvazione generale; la sposa, dal canto suo, era un'ereditiera... fabbriche di birra... e la storia della sua conversione durante una riunione in cui Samuel Franklyn aveva parlato fervidamente del paradiso e con terrore di peccato, diavolo e dannazione, conteneva persino un tocco di puro romanticismo. Lei era un marchio d'infamia sottratto al fuoco; l'eloquenza particolareggiata di Franklyn l'aveva trascinata con la forza verso il paradiso; la salvezza era giunta al momento opportuno; le parole di Franklyn l'avevano strappata dall'orlo di quel lago di fuoco e zolfo infernale dove il verme non muore e le fiamme non si estinguono. Lei lo considerava un eroe, sospirava di sollievo contro la sua santa spalla e accettava la pace che lui le offriva con grata rassegnazione. Poiché suo marito era un «uomo religioso» che univa con successo grandi ricchezze allo splendore delle anime vincenti. Lui era una figura corpulenta, anche se alto, con mani grosse e agili, le dita piuttosto tozze e rosse; e la sua dignità, che per un pelo non era pomposa, aveva un che di implacabile. Una sicurezza convinta, quasi priva di rimorso, luccicava nei suoi occhi soprattutto quando predicava e le sue minacce di fuoco dell'inferno dovevano aver spaventato anime più forti della timida e ricettiva Mabel che lui aveva sposato. Indossava lunghe redingote mai completamente allacciate, stivali squadrati e pantaloni sempre sformati al ginocchio e un po' corti; portava colletti bassi, a volte macchiati, e una lunga cravatta nera non di seta. La voce era ora dura, ora melliflua; e lui considerava i teatri, le sale da ballo e le corse come il vestibolo di quel lago di zolfo la cui geografia conosceva bene quanto i grandi uffici della sua banca nella City. Un filantropo fatto e finito, della cui sincerità nessuno dubitava mai; le sue convinzioni erano radicate, la sua fede nata assieme alla vita... a testimonianza di ciò il suo nome spiccava in molte ammirevoli società come teso-
riere, patrono o in cima alla lista delle donazioni. Occupava un posto importante nel mondo delle buone azioni, una pietra miliare nella difesa contro il diavolo. E il suo cuore era sinceramente buono e dolce verso gli altri... che credevano in ciò in cui lui credeva. Tuttavia, nonostante questa vera comprensione per la sofferenza e il suo desiderio di aiutare, era limitato come un filo telegrafico e rigido come la colonna di una chiesa; era profondamente egoista; intollerante come un giudice dell'Inquisizione; la sua anima borghese concepiva un rivoltante schema del paradiso che si riproduceva in miniatura in tutto ciò che faceva e progettava. La fede era il sine qua non della salvezza, e per «fede» lui intendeva accettazione del suo modo particolare di vedere le cose... «a meno che ognuno non accetti interamente questa fede, perirà senza dubbio per l'eternità.» Tutto il mondo tranne la sua piccola ed esclusiva setta doveva essere dannato per l'eternità... un peccato, ma, ahimè, inevitabile. Lui aveva ragione. Tuttavia pregava in continuazione e concedeva molto ai poveri... l'unica cosa che non poteva fare era concedere grandi idee alla sua provinciale e suburbana divinità. Più insignificante di un insetto e più ostinato di un mulo, aveva anche la superiore e melliflua umiltà di un «eletto». Era anche un custode della chiesa. Leggeva, a volte con freddezza a volte con voce eccitata, le lezioni in un «luogo di culto», dove non erano ammessi né organo, né paramenti né candele accese, ma dove l'aria era impregnata dell'odore di capelli lavati dei ragazzi seduti nelle ultime file. Questo ritratto del banchiere, che accumulava ricchezze sia in terra sia in paradiso, può forse apparire esagerato perché Frances e io eravamo dei «temperamenti artistici» che vedevano il tipo con un'antipatia e un disgusto che rasentava il disprezzo. La maggioranza della gente considerava Samuel Franklyn un uomo di valore e un buon cittadino. La maggioranza della gente aveva senza dubbio una visione più sana di lui. Ancora qualche anno e sarebbe diventato sicuramente baronetto. Alleviò molta sofferenza nel mondo, così come certamente causò a molte anime le agonie torturatrici della paura con l'enfasi che dava alla dannazione. Se ci fosse stato in lui un lato bello forse saremmo stati più clementi; ma non lo trovammo e, l'ammetto, non ci sforzammo molto per cercarlo. Non dimenticherò mai lo sguardo di austero perdono con il quale accolse le nostre scuse per essere mancati alle Preghiere del Mattino la mattina in cui eravamo in visita a Le Torri. Mia sorella venne a sapere poco dopo che era stato fatto un cambiamento, le preghiere venivano recitate dopo la colazione anziché prima.
Le Torri sorgevano solenni su una collina del Sussex tra terreni simili a parchi ma non si può descrivere meglio la casa... sarebbe così faticoso, tanto per cominciare... se non dicendo che era un incrocio tra una pretenziosa villa Norwood e uno di quei tristi Istituti per storpi davanti ai quali sfreccia il treno, come se si vergognasse, attraverso la zona meridionale di Londra per dirigersi nel Surrey. Era «riccamente» arredata e, a prima vista, imponente, ma a un esame più accurato, rivelava una personalità misera, nuda e austera. Si era tentati di cercare Regole e Regolamenti sulle pareti, tutti firmati Per Ordine. Il luogo era una prigione che escludeva «il mondo». Non c'erano, naturalmente, né la sala del biliardo, né la sala per i fumatori, né la sala per giochi di alcun genere e la grande hall sul retro, un tempo una cappella che si sarebbe potuta usare per balli, recite teatrali o altri divertimenti innocenti, era dedicata a incontri di varie specie, soprattutto associazioni, leghe missionarie o contro l'alcolismo. C'erano un armonium in un angolo, a pian terreno, un palco o una piattaforma in un altro e una balconata sopra per la servitù, i giardinieri e i cocchieri. Era riscaldata con le tubazioni dell'acqua calda e decorata con quadri di Doré, anche se questi vennero ben presto rimossi e accatastati fuori vista nelle soffitte, perché considerati troppo poco spirituali. C'era una rappresentazione miniaturizzata in legno lucido di quel piccolo ed esclusivo Paradiso che lui si portava dietro, esternandolo in tutto ciò che faceva e progettava, perfino nei terreni attorno a casa. I cambiamenti a Le Torri, mi disse Frances, erano stati fatti durante l'anno di vedovanza che Mabel trascorse all'estero... un organo messo nella grande hall, la biblioteca resa vivibile e ri catalogata... quando era ammissibile supporre che lei avesse ritrovato la sua anima e fosse tornata al normale e salutare modo di vedere la vita, il che includeva divertimento e teatro, letteratura, musica e arti, senza comunque un tocco di quella triviale mancanza di riguardo che viene solitamente definita mondanità. La signora Franklyn, per come la ricordavo io, era una piccola donna tranquilla, scialba, forse, e facilmente influenzabile ma fedele come un cane e attenta alle sue sincere amicizie. I suoi gusti nel cuore erano cattolici e quel cuore era semplice e privo di immaginazione. Il fatto che si tenesse occupata con i vari movimenti del giorno stava semplicemente a indicare che, nel suo modo limitato, era alla ricerca di un credo che le portasse pace. Era infatti una donna molto comune, con capacità mentali inferiori a quelle di Frances. Sapevo che erano solite discutere insieme di ogni genere di teorie, ma dal momento che quelle discussioni non conducevano mai ad atti pratici,
ero arrivato a considerarle innocue. Tuttavia, non mi ero dispiaciuto quando si era sposata e ora non ero contento che riprendessero la loro amicizia di un tempo. Il filantropo non le aveva dato figli, altrimenti lei sarebbe stata una madre buona e sensibile. Si sarebbe indubbiamente risposata. «Mabel dice che è dalla fine di agosto che è sola a Le Torri» mi rivelò Frances all'ora del tè; «sono sicura che si sente isolata. Sarebbe gentile andare a trovarla. E poi mi è sempre piaciuta.» Accettai. Mi ero ripreso dal mio attacco di egoismo. Espressi la mia approvazione. «Hai scritto che accetti» dissi, a metà tra l'affermazione e la domanda. Frances annuì. «Ho ringraziato da parte tua spiegando che al momento non eri libero ma che in seguito, se non le dispiace, mi raggiungerai.» La fissai. A volte Frances aveva quel suo modo indipendente di decidere le cose. Ero condannato e punito a entrare in quella faccenda. Naturalmente seguirono discussioni e spiegazioni, come accade tra un fratello e una sorella affezionati, ma la relazione della nostra conversazione potrebbe essere di scarso interesse. Fu dunque tutto stabilito e sia io sia Frances eravamo soddisfatti. Due giorni dopo, lei partì per Le Torri, lasciandomi solo nell'appartamento e sistemato in modo che mi trovassi a mio agio e mi comportassi bene... sotto un certo punto di vista, era un po' una tiranna... e le sue ultime parole mentre si allontanava da Charing Road mi risuonarono nella testa a lungo dopo la sua partenza: «Ti scriverò, Bill. Mangia come si deve, mi raccomando, e avvertimi se qualcosa non va.» Agitò la piccola mano guantata, mosse la testa finché la piuma non toccò il finestrino e scomparve. 2 Dopo il biglietto in cui mi diceva che era arrivata sana e salva, passò una settimana di silenzio, poi giunse una lettera che conteneva vari suggerimenti per il mio benessere. Per il resto c'erano le solite informazioni e descrizioni che Frances amava, generosamente sottolineate. «... e siamo completamente sole», scriveva con la sua enorme calligrafia che dava l'impressione di uno spreco di spazio e di fatica, «anche se credo che ora arriverà qualcuno. Qui potresti lavorare serenamente. Mabel capisce e dice che le piacerebbe ospitarti quando sarai libero di venire. È tornata quella di un tempo, non lo nomina mai. Anche il posto è cambiato sotto
certi aspetti; è più allegro, credo. È stata lei a portarvi questa allegria, se capisci quello che voglio dire; ma è un'allegria fasulla, non naturale. L'organo è una bellezza. Ora Mabel dev'essere molto ricca ma è gentile e dolce come sempre. Sai, Bill, penso che lui l'avesse costretta a sposarlo infliggendole qualche paura.» Quest'ultima frase era stata cancellata con l'inchiostro ma io la lessi attraverso lo scarabocchio; le lettere erano troppo grandi per essere nascoste. «Lui aveva una volontà inflessibile sotto tutta quella mielosa gentilezza che veniva considerata spirituale. Aveva una grande personalità. Sono sicura che, in un altro secolo avrebbe mandato al rogo sia me che te... per il nostro bene. Non è strano che Mabel non parli mai di lui, neppure con me?» Anche questo era stato cancellato ma non con l'intenzione di volerlo eliminare, probabilmente solo perché si trattava di una ripetizione. «L'unico ricordo che c'è di lui in questa casa, ora, è una grande copia del ritratto che si trova sulle scale dell'Istituto Multitecnico a Peckam... sai, quello a grandezza reale con una mano grossa ingioiellata posata su una Bibbia e l'altra infilata tra i bottoni di una redingote attillata. È appeso nella sala da pranzo e sembra dominare i nostri pasti. Vorrei che Mabel lo togliesse. Credo che piacerebbe anche a lei, se osasse farlo. Non c'è una sola fotografia di lui da nessuna parte, neppure in camera di Mabel. La signora Marsh è qui... te la ricordi, la governante di Franklyn, la moglie dell'uomo che fu condannato ai lavori forzati perché aveva ucciso un bambino o qualcosa del genere... tu dicevi che lei lo derubava e giustificava i suoi furti perché la storia del giudice ingiusto era scritta nella Bibbia! Che risate ci siamo fatti in proposito! Anche lei è sempre la stessa, si aggira per la casa e appare quando meno te l'aspetti.» Altri ricordi riempivano le successive due facciate della lettera che comprendeva anche, senza la minima traccia di punteggiatura, le istruzioni per una stufa Salamander per il riscaldamento del mio studio; a queste seguivano istruzioni che dovevo impartire alla cuoca e la richiesta di diversi indumenti che aveva dimenticato e che voleva che le mandassi, tra cui due camicette che mi descriveva così a lungo e in modo così contraddittorio che sospirai mentre leggevo... «A meno che tu non venga presto, nel qual caso forse non ti spiacerebbe portarmele; non quella color malva che metto qualche volta di sera, ma quella azzurra con il collettino di pizzo e le pieghine davanti. Sono nell'armadio... o nel cassetto, non ne sono sicura, della mia stanza. Chiedi ad Annie, se hai qualche dubbio. Ti ringrazio molto. Ricordati di mandare un telegramma e ti verremo incontro a qualsiasi ora. Non so se mi fermerò qui tutto il mese... sola. Dipende...» E concludeva la
lettera, con una sfilza di parole sottolineate, ripetendo che Mabel sarebbe stata contenta di ospitarmi sia per «me stesso», sia per avere «un uomo in casa» e che dovevo soltanto telegrafare il giorno e il treno... Quella lettera, che era arrivata con la seconda distribuzione della posta, mi interruppe in un momento di lavoro cruciale e, dopo averla letta per accertarmi che non ci fosse niente di urgente, la misi da parte e continuai con i miei appunti. Cinque minuti dopo, tuttavia, era di nuovo sotto i miei occhi. Quell'inquietante cosa nominata «tra le righe» mi tormentava la mente. Il mio interesse per gli stati Balcani... l'articolo di politica che mi era stato ordinato... svanì. Mi sentii in qualche modo agitato, disturbato. Dapprima insistetti con il lavoro, costringendomi a concentrarmi ma ben presto scoprii che una serie di nuove impressioni divideva la mia attenzione dall'articolo. Era come un'ombra ma un'ombra che si dissolveva sotto lo sguardo. Sollevai gli occhi un paio di volte, aspettandomi di trovare qualcuno nella stanza, o che la porta si fosse aperta e Annie fosse in attesa di istruzioni. Udii gli omnibus attraversare rumorosamente il ponte. Ero consapevole di Oakley Street. Il Montenegro e l'azzurro Adriatico si fusero con la nebbia di ottobre lungo la deprimente riva del fiume e le frasi della lettera mi si pararono davanti agli occhi e mi colpirono. Presi i fogli e li rilessi più attentamente, suonai il campanello e chiesi ad Annie di cercare le camicette, di impacchettarle per spedirle, facendole leggere la descrizione scritta e mi irritai per il sorriso di superiorità con il quale lei mi interrupppe, dicendo: «Io le conosco, signore». Dopo di che scomparve. Ma non furono le camicette: fu quell'esasperante cosa «tra le righe» che mise fine al mio lavoro con irritante noia. La prima impressione netta è l'unica che conta in un caso del genere perché, quando inizia l'analisi, l'immaginazione costruisce ogni tipo di falsa interpretazione. Più ci pensavo, più ero confuso. La lettera, così mi sembrava, voleva dire un'altra cosa, le otto pagine l'accennavano semplicemente. Arrivava al limite della rivelazione, poi si fermava. C'era qualcosa nella mente della scrivente e io mi sentivo a disagio. Lo studio delle frasi non mi portò ad alcuna rivelazione, anzi, aumentò la confusione; per un po' quel senso di disagio rimase mentre la prima chiara impressione era svanita. Alla fine, chiusi i libri e uscii per andare a occuparmi di un'altra questione alla biblioteca del British Museum. Forse così l'avrei scoperta... impegnando la mente in una direzione totalmente nuova. Pranzai all'Express Dairy in Oxford Street e telefonai ad Annie per avvertirla che sarei tornato a casa per il tè, alle cinque. E all'ora del tè, fisicamente e mentalmente stanco dopo aver respirato l'a-
ria pesante della Rotunda per cinque ore, la mia mente di colpo mi consegnò la sua originaria impressione, vivida e chiara; nessuna prova accompagnava la rivelazione; era solo un presentimento ma convincente. Frances, così sensibile e tranquilla, era mentalmente disturbata; era a disagio, forse persino spaventata; qualcosa nella casa la turbava e lei aveva bisogno di me. Se non fossi andato, il suo periodo di riposo e di cambiamento, la vacanza di cui aveva davvero bisogno sarebbero stati rovinati. Era troppo altruista per dirlo ma lo si capiva da ogni riga che scriveva. Ora lo vedevo chiaramente. La signora Franklyn, d'altra parte... e anche Frances, questo era sottinteso... gradivano avere un «uomo in casa». Era una frase sgradevole, un modo di suggerire qualcosa che lei non osava affermare apertamente. Le due donne in quella grande e solitaria caserma di casa avevano paura. Il mio senso del dovere, l'affetto, l'altruismo, comunque si potesse definire quell'insieme di emozioni, si destarono; e anche la mia vanità. Agii velocemente, meno riflettevo più il giudizio era chiaro. «Annie», dissi, quando lei rispose al campanello, «non è necessario spedire quelle camicette per posta. Le porterò io domani. Starò via un paio di settimane, forse di più.» E dopo aver controllato l'ora del treno, mi affrettai a telegrafare prima che potessi cambiare idea. Quella notte, tuttavia, non sentii alcun desiderio di cambiare idea. Stavo facendo la cosa giusta, la cosa necessaria. Avevo persino fretta di arrivare a Le Torri. Scelsi il treno che partiva nel primo pomeriggio. 3 Un telegramma mi aveva avvertito di arrivare a una città che distava dieci miglia dalla casa, così mi fu risparmiato il treno lento che portava alla stazione locale e viaggiai invece a bordo di un espresso. Non appena lasciammo Londra, la nebbia si dissolse e un sole autunnale, anche se privo di calore, dipinse il paesaggio di toni marrone dorati e gialli. Mi sentii sollevato mentre sedevo sull'elegante treno, sfrecciando davanti a boschi e siepi. Stranamente, l'ansia della sera prima era scomparsa, un'ansia indubbiamente dovuta all'esagerazione di particolari cui induce la riflessione in solitudine. Era da più di un anno che io e Frances non ci separavamo e la sua lettera da Le Torri non mi diceva molto. Mi sembrava innaturale essere privato di quegli intimi particolari del carattere cui ero abituato. Avevamo molta confidenza l'uno nell'altra e ci legava un affetto profondo. Sebbene
lei avesse soltanto cinque anni meno di me, la consideravo una bambina. Il mio atteggiamento nei suoi confronti era paterno. In cambio, lei mi coccolava a non finire. Non provavo alcun desiderio di sposarmi finché lei era in vita. Dipingeva con gli acquerelli con ragionevole successo e si occupava della casa per me; io scrivevo, rivedevo libri e tenevo lezioni di estetica; eravamo un'affiatata coppia di quasi artisti, soddisfatti della vita, e la mia unica paura era che lei potesse diventare una suffraggetta o che si lasciasse invasare da una di quelle selvagge teorie che a volte affascinavano la sua immaginazione e alle quali Mabel, per prima, l'aveva incoraggiata. Quanto a me, mi giudicava indubbiamente stolido o solido... non ricordo quale delle due parole preferisse... ma c'era comunque una differenza di opinioni sufficiente a rendere il rapporto suggestivo senza monotonia e, certamente, senza liti. Inalando profondamente la frizzante aria autunnale, mi sentii felice ed eccitato. Era come andare in vacanza ma con la differenza che, alla fine del viaggio, non avrei dovuto mercanteggiare per pochi centesimi. Nel momento in cui vidi la casa, tuttavia, provai un tuffo al cuore. Il lungo viale, fiancheggiato da ostili e solenni sequoie, era un semplice prolungamento del vialetto che portava a un migliaio di «residenze» suburbane semi isolate; e la vista de Le Torri, alla fine della curva, suggeriva la conclusione banale per una storia che era iniziata in modo interessante, quasi da thrilling. Una villa era sfuggita dall'ombra del Palazzo di Cristallo, si era fatta strada durante la notte, era diventata improvvisamente mostruosa sotto una pioggia ricca e si era insediata insolentemente per restarci. L'edera ricopriva le grosse mura di mattoni rossi, ma l'effetto che produceva era deturpante, finto come su una prigione o... la similitudine mi fece sorridere... su un orfanotrofio. Non c'era accenno del grazioso disordine dell'edera selvatica su una rovina. Era tagliata, curata e in ordine, come su una chiesa protestante nuova fiammante. Scommetto che su di essa non c'era un solo nido d'uccelli o un millepiedi. Attorno al portico era particolarmente fitta e soffocava un lampione del diciassettesimo secolo creando un contrasto assolutamente orribile. Le vaste serre sorgevano sull'altro lato della magione; le numerose torri alle quali la costruzione doveva il suo nome sembravano erette per contenere le campanelle della scuola; e i davanzali occupati da vasi di fiori mi facevano pensare ai desolati sobborghi di Brighton o Bexhill. In una posizione di comando in cima alla collina, dominavano miglia e miglia di campagna ondulata e boscosa che si estendeva a sud verso Down ma, dietro a nord, fitte file di lecci, l'agrifoglio e il ligustro la proteggevano dai venti più puliti e più stimolanti. Dall'altra parte, sebbene
fosse posta in alto, era chiusa. Erano trascorsi tre anni dall'ultima volta che l'avevo vista ma il ricordo spiacevole che mi era rimasto era giustificato dalla realtà. Il posto era deplorevole. È mia abitudine esprimere a volte a voce alta le opinioni che ho, quando le impressioni sono forti al punto di giustificarlo; ma ora mi limitai a sospirare «Oh, povero me!», mentre entravo in casa. Mi accolse un'alta cameriera con il portamento da granatiere e, accanto a lei, c'era la signora Marsh, la governante che ricordavo perché i suoi capelli neri arruffati mi avevano fatto dubitare che si fossero bruciati. Andai subito in camera mia perché la padrona di casa era già vestita per la cena, ma Frances venne a trovarmi mentre trafficavo con la cravatta nera che avevo annodato come se si trattasse di lacci delle scarpe. Si affrettò a farmi il nodo a dovere e, sollevando il mento, durante l'operazione, gli occhi fissi al soffitto, ebbi l'impressione... mi chiesi se non fosse il suo tocco a causarla... che qualcosa in lei tremasse. Si ritraesse, forse, era la parola più appropriata. Niente sul suo viso e nel suo comportamento lo dava a vedere né nel suo modo di parlare, piacevole e calmo, mentre si dava da fare a disfare i bagagli, com'era sua abitudine fare, domandandomi nel frattempo notizie della servitù. Le camicette, che erano quelle desiderate, erano state stropicciate e mi meritai la sgridata che mi diede. Non c'era neppure una punta di impazienza in lei, tuttavia, l'impressione che ci fosse qualcosa che si ritraesse in lei mi colpì di nuovo. Era stata sola, certo, ma non era quella la ragione; era contenta del mio arrivo, eppure, per un qualche motivo, avrebbe voluto che non fossi venuto. Parlammo delle cose che erano accadute durante la nostra breve separazione e, nel farlo, quell'impressione mi lasciò. La mia stanza era ampia e ben arredata; avrebbe contenuto l'ingresso e il soggiorno del nostro appartamento e sarebbe avanzato ancora dello spazio; ma non era il posto che avrei scelto per lavorare. Dava un'idea di transitorietà, mi faceva sentire provvisorio come in una camera d'albergo. E, infatti, era così. Ma alcune stanze possono apparire ospitali anche in un albergo; quella no; e dal momento che ero abituato a lavorare nella stanza in cui dormivo, almeno quando ero in viaggio, un'espressione di leggera irritazione dovette dipingersi sul mio viso. «Mabel ti ha fatto preparare uno studio accanto alla biblioteca» disse Frances, come se mi avesse letto nel pensiero. «Nessuno ti disturberà lì e avrai a portata di mano quindicimila volumi tutti catalogati. C'è anche una scala privata. Puoi fare colazione in camera tua e scendere dallo spogliatoio, se vuoi.» Si mise a ridere e il mio umore migliorò assurdamente come
era peggiorato. «E tu come stai?» domandai, baciandola in ritardo. «È bello essere di nuovo insieme. Mi sento perso senza di te, devo ammetterlo.» «È naturale», rise di nuovo lei. «E mi fa piacere.» Sembrava star bene e aveva le guance colorite. Mi informò che mangiava e dormiva molto, usciva a fare delle piccole passeggiate con Mabel, dipingeva di nuovo paesaggi e si godeva quel periodo di cambiamento e di riposo; tuttavia, nonostante ciò che diceva, le sue parole non risuonavano del tutto sincere. Le ultime, in particolare. C'era nel suo modo di fare, appena accennata, quella suggestione di esatto-opposto... di non riposo, di riluttanza, quasi di ansia. Certe piccole corde in lei sembravano tirate al massimo. «Tesa» fu la definizione che mi passò per la mente. Scrutai il suo viso mentre parlava. «Solo che le sere» aggiunse, notando il mio sguardo interrogativo ma evitandolo nel contempo, «le sere sono... be', piuttosto pesanti e faccio fatica a restare sveglia.» «Dopo Londra, quest'aria ti fa venir sonno», suggerii. «E a te piace andare a dormire presto.» Frances mi guardò per un momento con decisione. «Tutto il contrario, Bill, non mi piace andare a letto... qui. E Mabel invece si corica presto.» Lo disse piuttosto spensieratamente, facendo ordine sulla toilette in modo così strano che capii che pensava ad altro. Sollevò gli occhi di colpo dalla spazzola e le forbici con una specie di nervosismo. «Billy», disse, bruscamente, abbassando la voce, «non è strano che qui odi dormire sola? Non ci riesco proprio; non mi era mai capitato prima. Non credi che sia una sciocchezza?» E si mise a ridere, con le labbra ma non con gli occhi; c'era un che di sfida in lei che non riuscivo a capire. «Nulla in un carattere come il tuo è una sciocchezza, Frances», risposi, per rassicurarla. Anch'io, comunque, risposi soltanto con le labbra perché un'altra parte della mia mente era altrove e tra cose spiacevoli. Mi sentii leggermente sorpreso. Non sapevo come continuare. Se avessi riso, lei non mi avrebbe raccontato più niente, ma se la prendevo troppo seriamente, le corde si sarebbero tirate ancora di più. Pensai d'istinto che qualcosa di ciò che provava lei l'avevo provata anch'io, anche se in modo diverso. Vagamente, come l'arrivo della pioggia o del temporale che si annunciano ore prima con una debole eccitazione nell'aria. Ero da meno di un'ora in quella casa grande, comoda e lussuosa, ciononostante provavo quel senso di posticcio, di flut-
tuante... una specie di instabilità che devono avvertire i clienti di passaggio negli alberghi ma che un ospite in casa di un'amica non dovrebbe avvertire, breve o lunga che sia la visita. Per Frances, donna impressionabile, la sensazione era arrivata sotto forma di allarme. Non le piaceva dormire sola ma desiderava dormire. Non riuscivo a catturare l'idea precisa nella mia mente, la intravvedevo soltanto; capivo che provavamo entrambi la stessa cosa e che nessuno dei due era in grado di definire chiaramente cosa. Sentivamo crescere l'inquietudine ma la rivelazione non arrivava. Per un momento fui disorientato. Frances avrebbe interpretato l'esitazione come approvazione e l'incoraggiamento era l'ultima cosa che potesse aiutarla. «Dormire in una casa estranea», dissi infine, «è spesso difficile, e ci si sente soli. Dopo aver trascorso quindici mesi nel nostro piccolo appartamento, ci si sente persi e spaventati in una grande casa. È una sensazione spiacevole... lo so benissimo. E questa è una caserma non è vero? Tutti questi mobili non fanno che peggiorarla. Sembra di essere in un magazzino sotterraneo... i mobili non arredano. Non bisogna mai cedere alla fantasia ma...» Frances guardò in direzione delle finestre; sembrava leggermente irritata. «Dopo Chelsea, così popolata», mi affrettai a continuare, «questo sembra un posto isolato.» Lei non si voltò e fu chiaro che stavo dicendo la cosa sbagliata. Mi sentii cogliere da un'ondata di pietà. Forse era davvero spaventata? Sapevo che era fantasiosa ma mai triste; era piena di buonsenso, anche se a volte ipersensibile. Colsi l'eco di un certo irragionevole allarme in lei. Era lì, che guardava oltre il balcone il mare di alberi che si intravvedevano nell'oscurità del crepuscolo. Le ombre che si infittivano entravano nella stanza. Seguendo per un attimo il suo sguardo, provai un desiderio tanto strano quanto acuto di andarmene, di fuggire. Là fuori c'era lo spazio, c'era la libertà. Quell'enorme costruzione era opprimente, silenziosa, immobile. Mi faceva pensare a grandi catacombe, a cose sotterranee, alla prigione, alla cattura. Credo d'aver tremato un po'. Le toccai una spalla. Lei si girò lentamente e ci guardammo deliberatamente negli occhi. «Fanny», dissi, con un tono più grave di quanto non avessi voluto, «non sei spaventata, vero? Non è accaduto niente, no?» Lei rispose con enfasi: «Certo che no! Come potrebbe... voglio dire, per-
ché dovrei?» Balbettò come se la frase sbagliata l'avesse agitata per un secondo. «È solo che... che non mi piace dormire sola.» La prima cosa che pensai, naturalmente, fu di limitare al minimo la nostra visita. Ma non lo dissi. Se fosse stata quella la soluzione, Frances l'avrebbe trovata già da tempo. «Mabel non potrebbe dormire con te?» suggerii invece. «Oppure darti la camera attigua, in modo che tu possa lasciare aperta la porta che mette in comunicazione le due stanze? C'è tanto di quello spazio, qui dentro.» Poi, quando suonò il gong della cena, lei disse, con uno sforzo: «Mabel mi ha chiesto di farlo... la terza notte... dopo che le ho parlato. Ma ho rifiutato.» «Preferisci stare sola piuttosto che con lei?» domandai, con un certo sollievo. La risposta che diede fu pronunciata con una tale gravità che persino un bambino si sarebbe accorto che c'era qualcos'altro dietro: «Non è quello; è che lei non lo desiderava veramente.» Ebbi un'intuizione e la esposi, d'impulso. «Forse anche lei prova la stessa cosa ma vuole fronteggiarla da sola... e superarla?» Mia sorella chinò la testa e il suo gesto mi fece capire all'improvviso quanto fosse diventata solenne e grave la nostra conversazione, come se stessimo discutendo di una cosa portentosa. Era accaduto da sé... indefinito come un graduale cambiamento di temperatura. Nessuno di noi, tuttavia, ne conosceva la natura, perché, apparentemente, nessuno di noi poteva affermarlo. Non era successo niente, neppure nelle nostre parole. «Quella è stata la mia impressione», disse, «... che se Mabel cede alla paura, la incoraggia. E un'abitudine è facile da prendere. Pensa che noia sarebbe», aggiunse con un debole sorriso che era il primo segno di spensieratezza che aveva avuto fino a quel momento, «ovunque, se tutti avessero paura di stare soli... così.» Colsi immediatamente l'occasione. Ridemmo un po', sebbene quel modo di ridere sembrasse sbagliato. La presi per un braccio e la diressi verso la porta. «Sarebbe un disastro», ammisi. Lei riportò la voce al tono normale, come avevo fatto io. «Passerà, non c'è dubbio», disse, «ora che sei venuto. Si tratta in gran parte della mia immaginazione.» Era più sollevata, anche se niente poteva convincermi che fosse una questione da prendere sottogamba. «In ogni caso», continuò, stringendomi il braccio mentre percorrevamo l'enorme corridoio e vede-
vamo la signora Franklyn che ci aspettava, di sotto, «sono molto contenta che tu sia qui, Bill, e so che lo è anche Mabel.» «Se non passa», ebbi appena il tempo di mormorare, tentando di apparire allegro, «verrò di notte e russerò fuori della porta. Dopo di che, sarai così contenta di liberarti di me che non ti dispiacerà rimanere sola.» «D'accordo», convenne Frances. Strinsi la mano alla mia ospite, feci una banale osservazione sul lungo intervallo che c'era stato dall'ultima volta che ci eravamo visti ed entrai dietro di loro nella sala da pranzo, scarsamente illuminata dalle candele, chiedendomi quanto ci saremmo fermati io e mia sorella e perché mai avessimo lasciato il nostro accogliente appartamento per entrare in quella desolazione di ricchezze e di falso lusso. Lo spiacevole ritratto del defunto Samuel Franklyn, Esq., mi fissava da sopra il camino, all'altra estremità della stanza. Sembrava, pensai, un qualche pomposo Maggiordomo Divino che negasse al mondo, e a noi in particolare, il diritto di entrata senza i biglietti d'invito firmati di suo pugno come prova che noi appartenevamo al suo esclusivo ambiente. La maggioranza, con suo grande dolore, e a dispetto di tutte le sue preghiere, deve bruciare e «perire all'infinito». 4 Con l'istinto del sano scapolo, tentavo sempre di farmi un nido nel posto in cui vivevo, sia che vi rimanessi a lungo o per un breve periodo. Se sono in visita, in una camera in affitto o in albergo, la prima cosa che mi creo è appunto il nido... uno si sistema le proprie cose dentro le mura come un uccello si sistema tra le piume. Agli altri può sembrare desolato e scomodo perché il particolare centrale non è né il letto, né l'armadio o il divano, né la poltrona, ma un solido scrittoio che non balli e che sia abbastanza spazioso. E Le Torri sono viste da me come un luogo in cui io non riesco a crearmi il «nido». Mi ci vollero diversi giorni per scoprirlo ma la prima impressione di transitorietà fu la più vera che ebbi. Le piume della mente si rifiutavano di posarsi lì, si arruffavano, si facevano appuntite e diventavano selvagge. I mobili di lusso non significano comfort; avrei potuto benissimo cercare di sistemarmi nel reparto divani e poltrone di un grande magazzino. In camera da letto ci riuscii facilmente ma fu lo studio privato, preparato espressamente per me, che mi fece sentire estraneo e fuori posto. Visto dall'esterno, non si sarebbe potuto desiderare di meglio; un'anticamera della grande
biblioteca, dove si trovavano soltanto due grandi tavoli di quercia più altri più piccoli contro le pareti con spaziosi cassetti. C'erano dei leggii, congegni meccanici per posarvi i libri, una luce perfetta, riposante come in una chiesa, e vi si poteva accedere soltanto dall'enorme stanza attigua. E tuttavia non era invitante. «Spero che potrà lavorare qui», disse la mia piccola ospite, il mattino seguente, mentre mi ci accompagnava... l'unica volta che vi entrò durante la mia permanenza in quella casa... e mi mostrava il catalogo di dieci volumi. «È assolutamente tranquillo e nessuno la disturberà.» «Se non ci riesci, Bill, allora non sei molto bravo», rise Frances, che la teneva sottobraccio. «Persino io riuscirei a scrivere in uno studio come questo!» Guardai con piacere i grandi tavoli, i fogli di carta assorbente, le righe, la ceralacca, i tagliacarte e tutti gli accessori nuovi. «È perfetto», commentai con una segreta eccitazione e anche un pizzico di follia. Quello andava bene per Gibbon o Carlyle, non per le mie cose insignificanti. «Se non riesco a scrivere capolavori qui, non è certo colpa sua», aggiunsi e mi voltai con gratitudine verso la signora Franklyn. Lei mi stava fissando e nei suoi occhi sbiaditi c'era una domanda che non compresi. Mi chiesi se stesse notando l'effetto che quel posto aveva su di me. «Scriverà qui... magari una storia sulla casa», disse. «Thompson le porterà tutto quello che vorrà; deve soltanto suonare.» Indicò il campanello elettrico sul tavolo centrale, il filo che correva lungo la gamba. «Nessuno ha mai lavorato qui prima d'ora e la biblioteca è stata usata raramente da quando esiste. Perciò nessuna precedente atmosfera influenzerà la sua immaginazione... ehm... negativamente.» Ci mettemmo a ridere. «Bill non è così», commentò mia sorella e io desiderai che se ne andassero e mi lasciassero a sistemare il mio nido e a lavorare. Pensai, naturalmente, che fosse l'enorme biblioteca a farmi sentire così insignificante... i quindicimila libri che mi fissavano in silenzio, le corsie solenni, gli scaffali profondi. Ma quando le donne se ne furono andate e rimasi solo, l'inizio della verità si fece strada in me e sentii quel primo accenno di afflizione che più tardi diventò un imperativo No. La mente si chiuse, le immagini cessarono di apparire e svanirono. Leggevo, prendevo numerose annotazioni ma non scrivevo una sola riga a Le Torri. Non si concludeva niente laggiù. Non accadeva nulla. Il sole del mattino si riversava nella biblioteca attraverso le dieci lunghe
finestre strette; gli uccelli cantavano; l'aria autunnale, ricca della malinconia di novembre che colpiva piacevolmente l'immaginazione, riempiva la mia anticamera. Guardai il paesaggio ondulato e alberato, che terminava con la linea dei Down, e assaporai un alito di aria di mare. Le cornacchie gracchiavano mentre sorvolavano gli olmi e le mucche pascolavano nei prati vicini. Tentai una dozzina di volte di crearmi il mio nido e di mettermi a lavorare e una dozzina di volte, simile a un cane irrequieto disteso su un tappeto davanti al focolare, risistemai la sedia, i libri e le carte. La tentazione del catalogo e delle mensole era spiegabile per molte cose e, tuttavia, per nessuna. C'era una docile seduzione. Il mio lavoro, d'altra parte, non era del genere creativo che richiede concentrazione assoluta; consisteva nel leggere semplicemente la raccolta di dati che avevo accumulato. I miei quaderni d'appunti erano pieni di fatti pronti da catalogare... fatti che mi interessavano profondamente, anche. Era necessario un puro sforzo di volontà e un minimo di concentrazione. Tuttavia, il tutto mi sembrava impossibile: era come se qualcosa mettesse i fatti in disordine... e, alla fine, sedetti al sole, immerso in una dozzina di libri scelti dagli scaffali, arrabbiato con me stesso e divertendomi solo per metà. Ero inquieto. Avrei voluto essere altrove. E anche mentre leggevo, l'attenzione disertava. Frances, Mabel, il suo defunto marito, la casa e i terreni, ognuno a turno e a volte tutti insieme, occupavano non invitati il corso dei miei pensieri, ostacolando qualsiasi tentativo di lavoro. Queste immagini venivano in modo sconnesso a interrompere la concentrazione, tuttavia si presentavano come frammenti di una cosa più grande che la mia mente già cercava inconsciamente. Fluttuavano attorno a questa cosa nascosta di cui erano degli aspetti, delle fuggevoli interpretazioni, nessuna delle quali conduceva completamente alla rivelazione. Non esistevano aggettivi come piacevole o spiacevole che potessi attribuire a ciò che provavo, al di là di questo, il risultato era sconvolgente. Vago come l'atmosfera di un sogno e tuttavia persistente e io non riuscivo a dissiparlo. Parole isolate o frasi nelle righe che leggevo inviavano domande alla mia mente, segno evidente che la parte più profonda di me era agitata e a disagio. Domande piuttosto banali, anche... interrogazioni sciocche, come quelle di un bambino confuso e curioso. Perché mia sorella aveva paura di dormire sola e perché la sua amica provava una ripugnanza simile e tuttavia cercava di vincerla? Perché il solido lusso di quella casa era privo di comfort e l'ambiente mancava di senso di permanenza? Perché la signora Franklyn
aveva chiesto di venire a noi, artisti, vagabondi privi di fede, tipi quanto è più possibile lontani dal gregge protetto della casa di suo marito? Era forse una reazione contro l'isteria della sua conversione? Non avevo visto alcun segno di fervore religioso in lei; l'aria che aveva era quella di una comune donna dalla mente elevata e tuttavia una donna di mondo. Forse un po' priva di vita, ora che ci pensavo bene: non mi aveva fatto nessuna definitiva impressione. E i miei pensieri vagavano dietro a questo fragile indizio. Chiusi il libro e diedi loro libero sfogo. Perché, assieme a questa accidentale riflessione, veniva la scoperta che non riuscivo a vederla chiaramente... non riuscivo a sentire la sua anima, la sua personalità. Il suo viso, i suoi piccoli occhi sbiaditi, il suo vestito, il suo corpo e il suo modo di camminare, tutte queste cose le avevo davanti a me come una fotografia ma il suo Io mi sfuggiva. Lei non sembrava lì, priva di vita, vuota, un niente-ombra. L'immagine era sgradevole e io la misi da parte. D'un tratto, svanì, come se il pensiero avesse revocato un fantasma che non era veramente esistito. E in quel preciso istante, cosa piuttosto strana, il mio occhio la scorse mentre passava accanto alla finestra e si dirigeva in silenzio lungo il sentiero ghiaioso. La vidi ed ebbi una sensazione nuova e improvvisa. «Quella è una prigioniera», mi comunicò subito la mia mente, «una che desidera fuggire ma non può.» Che cosa dettasse quella strana informazione, Dio solo lo sa. La casa era di suo gusto, lei era due volte ereditiera e il mondo giaceva ai suoi piedi. Tuttavia era infelice, spaventata e prigioniera. Tutto ciò mi riempì il pensiero e mi provocò un'acuta impressione ancora prima che la scacciassi come un'assurdità. Ma un attimo dopo, giunse la spiegazione, per quanto lontana sembrasse... forzata come la prima impressione. La mia mente, che era logica, era costretta a trovare qualcosa, a quanto sembrava. Perché la signora Franklyn, anche se era vestita come se dovesse uscire, con gli stivaletti, il bastone e il cappello con una veletta per ripararsi dal vento, era ovviamente contenta di non andare oltre i sentieri del giardino. Il fatto che si fosse vestita era una finzione. Era questo ed erano i suoi movimenti agili e veloci che suggerivano l'idea di una creatura in gabbia... una creatura dominata dalla paura e dalla crudeltà che nascondeva entrambe le cose con benevolenza... passeggiando avanti e indietro, incapace di capire ciò che le impediva di andare oltre le stesse barriere che si trovavano esattamente nello stesso punto. Era la sua mente che la bloccava. La guardai percorrere i sentieri e scendere i gradini da una terrazza all'altra, finché gli allori non la nascosero; e in quel momento di pura immagi-
nazione giunse l'accenno a qualcosa di leggermente sgradevole per il quale la mia mente, per quanto curiosa fosse, non trovava alcuna spiegazione. Mi ricordai allora di certe altre piccole cose. Queste formavano un'immagine. In una mente che non cerca deliberatamente le conclusioni, i pezzi di un puzzle a volte si combinano a questp modo, conducendo alla rivelazione, cosicché l'immagine mi illuminò per un secondo e svanì in quello successivo prima che avessi il tempo di considerarla, un pensiero inquietante che posso descrivere soltanto vagamente come un'Ombra. Buia e orribile, opprimente, con qualcosa di spaventoso sul finire che suggeriva dolore, conflitto e terrore. E subito dopo mi tornò alla memoria l'interno di una prigione con due file di celle occupate da condannati, vista anni fa a New York... impossibile capire il collegamento tra le due impressioni. Ma le «altre piccole cose» accennate sopra erano queste: che la signora Franklyn, durante la cena della sera prima, aveva fatto continuamente riferimento a «quella casa», ma senza mai chiamarla «casa»; e per una donna ben educata come lei, aveva inutilmente enfatizzato la «grande gentilezza» che avevamo avuto andando a stare per un lungo periodo con lei. Un'altra volta, in risposta al futile complimento che avevo fatto alle «stanze ampie», aveva detto con calma: «È una casa enorme per un gruppetto così ristretto; ma io mi fermo qui pochissimo e solo finché non l'avrò rimessa di nuovo a posto.» Aveva pronunciate questa parole mentre stavamo salendo la scala per andare a letto e non sapendo che cosa volesse dire, avevo lasciato cadere l'argomento. Avevo però avvertito che aveva toccato un tasto delicato. Frances, dal canto suo, non aveva detto niente. Ora pensai di colpo a quel verbo «stare» che aveva usato quando «vivere» sarebbe stato più naturale. Poteva sembrare una sciocchezza, tuttavia, perché mi veniva in mente proprio in quel momento?... E, quando in camera di Frances per accertarmi che lei non si sentisse nervosa o sola, avevo improvvisamente capito che la signora Franklyn doveva averle parlato in modo confidenziale come non poteva certo fare con me, che ero soltanto un fratello in visita. Frances non mi aveva detto niente. Avrei potuto farglielo ammettere se non avessi creduto che non fosse gentile né leale discutere della nostra ospite e della sua casa mentre ci trovavamo sotto lo stesso tetto... «Ti chiamerò, Bill, se ho paura», aveva riso Frances sul punto di lasciarci... la mia stanza si trovava dalla parte opposta del corridoio. Mi ero addormentato pensando cosa diavolo significasse quel «l'avrò rimessa di nuovo a posto». E ora, nello studio attiguo alla biblioteca, il secondo mattino, seduto tra
montagne di fogli e di carta assorbente pulita, tutto inutilizzato da me, questi brevi accenni tornavano a colpirmi la mente e aiutavano a dar forma alla grande e vaga Ombra. Dentro a quest'Ombra, quasi sommersa e tuttavia non completamente, c'era la figura della mia ospite con il suo vestito da passeggio. Io e Frances sembravamo nuotare per andarle in aiuto. L'Ombra era abbastanza grande da comprendere sia la casa che i terreni ma oltre a questo non riuscivo a vedere... Allontanai quelle immagini e ripresi a leggere il mio libro. Ma non feci neppure in tempo a voltare pagina che fui colpito da un altro particolare sorprendente: la figura della signora Franklyn nell'Ombra non era viva. Galleggiava, come una bambola o un burattino privi di vita. Era sia patetica che spaventosa. Chiunque sedesse a sognare a occhi aperti potrebbe vedere simili immagini ridicole quando la volontà non porta più a nessuna costruzione. È così che si spiegano le incongruità dei sogni. Io registro semplicemente l'immagine che mi è apparsa. Se l'immagine sia rimasta in me per diversi giorni, vivida come lo sono i sogni, non lo so. Non permisi a me stesso di indugiarvi sopra. La cosa curiosa, forse, è che risale a quel momento la mia inclinazione, anche se non ancora il mio desiderio, di partire. Dico volutamente «partire». Non riesco a ricordare quando quella parola cambiò in un'altra aggressiva e frenetica che è fuggire. 5 Eravamo deliziosamente abbandonati a noi stessi in quella pretenziosa magione di campagna con l'anima di una villa. Frances riprese a dipingere e, visto che il tempo era bello, trascorreva ore all'aperto, a ritrarre fiori, alberi e scorci di paesaggio, il giardino, persino la casa, la parte di essa che dava sugli orti. La signora Franklyn sembrava sempre indaffarata con una cosa o con un'altra e non interferiva mai con noi se non per proporci di andare a bere il tè in un altro punto del prato e così via. Era in continuo movimento, preoccupata, tuttavia non faceva mai niente. La casa la opprimeva. Non veniva nessun visitatore. Prima di tutto perché non si sapeva che lei fosse già tornata dall'estero e poi perché, credo, i vicini... i vicini di suo marito... erano sorpresi che avesse improvvisamente smesso di dedicarsi alle opere buone. Le associazioni e le leghe contro l'alcolismo non chiedevano di poter tenere i loro incontri nella grande casa e il vicario organizzava le feste scolastiche altrove, senza spiegazioni. Il ritratto a grandezza reale in sala da pranzo e la presenza della governante con i capelli neri «bru-
ciati», invece, erano gli unici ricordi dell'uomo che un tempo aveva vissuto lì. La signora Marsh si occupava della casa in silenzio, sicuramente ben pagata, e tuttavia con un pizzico di quella disapprovazione soffocata che ci si aspettava da lei. Invece non c'era nulla da disapprovare dal momento che nulla di «mondano» entrava lì dentro. Durante la vita del suo padrone, era stata un altro «marchio di vergogna strappato all'inferno» e in quel periodo era sua abitudine dare vocifera «testimonianza» al ritorno conscio dell'Ombra; e che, lontana da occhi indiscreti, ne giacesse la causa, era qualcosa che mi lasciava con una vaga inquietudine, turbato, a cercare di fare il «nido» in un posto che non mi voleva. Solo quando questa parte più profonda conosce l'armonia, forse il buon cervello può dare dei risultati e la mia incapacità a scrivere fu dunque spiegata. Certo, qui ero sempre alla ricerca di qualcosa che non riuscivo a trovare... una spiegazione che continuava a eludermi. Mi si offrivano soltanto questi insignificanti accenni. Messi assieme, comunque, avevano l'effetto di definire un po' l'Ombra. Ero sempre più consapevole della sua reale esistenza. E, se ho accennato poco a Frances e alla mia ospite in questo collegamento, è perché hanno contribuito poco o niente alla scoperta di ciò che questo racconto tenta di riferire. La nostra vita era del tutto esteriore, normale, tranquilla e pacifica; le conversazioni erano banali... soprattutto quelle della signora Franklyn. Non dicevano niente che potesse portare alla rivelazione. Erano entrambe in quest'Ombra ed entrambe sapevano di esserci ma nessuna delle due tradiva con parole o fatti un accenno d'interpretazione. Indubbiamente parlavano in privato ma non sono in grado di riferire alcun particolare in proposito. E fu così che dopo dieci giorni di noiosa permanenza, mi ritrovai a guardare in faccia a una Stranezza che sfidava la comprensione. «Qui non accade mai niente», furono le parole che mi salirono alla mente, «ed è per questo che nessuno di noi può parlarne.» E mentre guardavo fuori della finestra i volgari merli che cercavano con le zampe i vermi, mi resi conto all'improvviso che persino loro, come ogni piccola e grande cosa in casa e sui terreni, dividevano quella stranezza e il loro normale aspetto era distorto da ciò. La vita, così com'era espressa in tutto quel luogo, era deformata, impedita, mutilata. Le intenzioni di Dio lì erano storpiate, il Suo amore e la Sua gioia erano soffocati. Nulla in giardino danzava o cantava. Vi era solo odio. «L'Ombra», il mio pensiero continuava a riflettere, «è una manifestazione d'odio; e l'odio è il Demonio.» E allora mi appoggiai spaventato allo schienale della sedia perché capii che avevo scoperto in parte la verità.
Lasciai i libri e uscii. Il cielo era coperto ma la giornata non era triste perché una luce diffusa traspariva attraverso le nubi e rendeva tutte le cose calde e quasi estive. Ma io vedevo i terreni ora nella loro nudità perché capivo. L'odio significa conflitto, e le due cose insieme tessono il vestito che il terrore indossa. Non credono in nessuna religione, non appartenendo ad alcun tipo di dogma chiamato credo, potevo stare al di fuori di quei sentimenti e osservare. Loro tuttavia penetravano sufficientemente in me da farmi capire ciò che gli altri, con anime più chiuse, forse provano. Quel ritratto in sala da pranzo era ovunque, si nascondeva dietro a ogni albero, mi guardava dalle sommità delle torri borghesi e lasciava l'impronta della sua possente mano su ogni aiuola di fiori. «Non devi fare questo, non devi fare quello», udivo attraverso l'aria. «Non devi lasciare questi angusti sentieri», ordinavano le cancellate di ferro dipinte di nero. «Non camminerai qui», c'era scritto sui prati. «Segui i gradini», «Non raccogliere i fiori; non fare rumore con risate, canti e balli», sembrava che fosse stampato su tutto il roseto e «I trasgressori saranno... non puniti ma... distrutti», appesi agli alberi. A proteggere i confini di ogni terrazza artificiale c'erano poliziotti implacabili dall'aspetto desolato, guardie, carcerieri. «Vieni con noi», cantavano, «o sarai dannato per l'eternità.» Ricordo d'essermi quasi compiaciuto con me stesso per aver scoperto l'ovvia spiegazione della prigione... la sensazione che dava quel posto. Che la postuma influenza del vecchio Samuel Franklyn potesse essere una soluzione insufficiente non mi passò per la mente. Con quel «rimetterla a posto» la sua vedova, naturalmente, intendeva dimenticare la paura e le predizioni che la deprimente fede del marito aveva temporaneamente lanciato su di lei; e Frances, sensibile com'era, non ne parlava perché si trattava dell'influenza dell'uomo che la sua amica aveva amato. Mi sentii più sollevato, più leggero. «Scoprire il non familiare per il familiare», diceva una frase che ho letto da qualche parte, «significa capire.» Era un vero sollievo. Ora non correvo più il pericolo di fare delle gaffe con Frances e persino con la mia ospite. Perché la chiave era nelle mie mani. Potevo forse aiutare a dissipare l'Ombra, a «rimetterla di nuovo a posto.» Sembrava che il nostro lungo invito fosse spiegato! Entrai in casa ridendo tra me. «Dopotutto, forse, il modo di vedere di un artista, privo di credi, è ristretto quanto quello degli altri! Com'è piccola l'umanità! E perché non esiste nessuna possibile e vera combinazione di tutti i punti di vista!» La sensazione di confusione era fortissima in me, allora, nonostante la
mia grande scoperta dovesse chiarire tutto. E in quel momento mi imbattei in Frances, sulle scale, che portava sotto il braccio una cartelletta piena di schizzi. Mi ricordai che, nonostante lei avesse lavorato molto da quando eravamo lì, non mi aveva mostrato niente. E mi parve di colpo strano, non naturale. Il modo in cui cercò di evitarmi confermò il mio sospetto che... be', che i suoi risultati non fossero quelli che sarebbero dovuti essere. «Fermati e fammi vedere!» Risi, mettendomi di fronte a lei. «Non ho visto niente di ciò che hai fatto da quando sei arrivata qui e, di solito, mi mostri tutto. Credo che siano atroci o degradanti!» La risata mi si gelò sulle labbra. Lei tentò di superarmi e io fui quasi sul punto di lasciarla andare perché l'espressione che aveva sul viso mi scioccò. Sembrava a disagio e vergognosa; arrossì e impallidì, facendomi pensare a un bambino che fosse stato scoperto dopo aver commesso qualche marachella. La sua era quasi paura. «È perché non sono ancora finiti?» domandai, rinunciando al tono scherzoso. «O perché sono troppo belli perché io li capisca?» A volte mi diceva che le mie critiche erano dure e da ignorante. «Ma più tardi me li farai vedere, no?» Frances, comunque, non colse la scappatoia che gli offrivo. Cambiò idea e sollevò la cartellina che teneva sotto il braccio. «Puoi vederli se davvero vuoi, Bill», disse, con calma, e il suo tono mi ricordò quello di una bambinaia che dice a un ragazzino appena uscito dallo stadio dell'infanzia, «sei abbastanza cresciuto, ora, per guardare gli orrori e le brutture... solo, non te li consiglio.» «Io voglio guardarli», ribattei e mi accinsi a scendere con lei. Frances, invece, con lo stesso tono di prima, disse: «Vieni in camera mia, là non ci disturberanno.» Perciò immaginai che avesse avuto l'intenzione di mostrare i suoi dipinti alla nostra ospite, ma che non le importasse che li vedessimo tutti e tre, insieme. La mia mente lavorava freneticamente. «Mi ha chiesto Mabel di farli», spiegò con una voce di sottomesso orrore, una volta che ebbe chiusa la porta, «anzi, mi ha pregata. Sai come sa essere insistente a modo suo. E io... be', sono stata costretta.» Arrossì e aprì la cartellina sul tavolo, accanto alla finestra, mettendosi al mio fianco mentre passavo in rassegna gli schizzi della campagna, degli alberi e del giardino. Di primo acchito, comunque, non compresi chiaramente perché il senso della modestia di mia sorella fosse stato offeso. Perché la mia attenzione andò per un attimo altrove. Un altro pezzo del puzzle
era andato a posto, definendo ulteriormente la natura di ciò che chiamavo «l'Ombra». La signora Franklyn, ora ricordavo, mi aveva suggerito in biblioteca di scrivere qualcosa sulla casa e io l'avevo presa per una delle tante frasi banali che diceva e non vi avevo prestato attenzione. Ora capivo invece che era stata detta con serietà. Voleva le nostre interpretazioni, quali espressioni dei nostri rispettivi «talenti», il dipingere e lo scrivere. Il suo invito era spiegato. Ci abbandonava a noi stessi volutamente. «Mi piacerebbe strapparli», stava mormorando Frances, scossa da un brivido, «ma ho promesso...» Esitò un momento. «Hai promesso di non farlo?» domandai con un senso di angoscia, gli occhi fissi ai fogli. «Ho promesso di mostrarli sempre a lei, prima», concluse con un filo di voce, tanto che la udii a stento. Non compresi subito il valore dei dipinti; i risultati penetrarono lentamente in me e sebbene ognuno valuti buona la sua capacità di giudizio, non oso affermare che la mia valga più di quella di qualsiasi altro profano. Frances mi aveva spesso rinfacciato la mia ignoranza. Posso soltanto dire che esaminai quegli schizzi con una sorpresa che conteneva repulsione se non addirittura orrore e disgusto. Erano oltraggiosi. Provai vergogna per mia sorella e mi sentii sollevato quando mi accorsi che si era spostata, fingendo di guardare qualcosa, e che non era lì ad esaminarli con me. Il suo talento è, naturalmente, mediocre, tuttavia ha dei momenti di ispirazione... momenti in cui la vista della Bellezza al di fuori del normale la colpisce. E queste interpretazioni mi parvero «ispirate», non sue. Erano incredibilmente ben fatte ma anche atroci. Il significato che contenevano era comunque sempre soltanto accennato. C'erano un'abilità e un potere profani che davano dei suggerimenti in modo abominevole, lasciando la maggior parte all'immaginazione. Trovare un tale significato nel giardino di una villa borghese e interpretarlo con tanta delicata e visibile certezza richiedeva un simbolismo sinistro, persino diabolico. La delicatezza era di Frances ma il punto di vista era un altro. E la parola che mi salì alla mente non fu la grossolana descrizione di «impuro» ma la qualifica più fondamentale di... «non puro». Li passai in rassegna uno dopo l'altro, in silenzio, come un bambino che ha fretta di sfogliare un libro non adatto a lui per paura di essere sorpreso. «Che ne fa Mabel?» domandai, sottovoce, quando ebbi quasi finito. «Li tiene?» «Prende degli appunti su un libro, poi distrugge i disegni», fu la risposta
di Frances dall'altra estremità della stanza. La sentii mormorare. «Sono contenta che tu li abbia visti, Bill. Volevo che tu lo facessi ma avevo paura a mostrarteli. Capisci?» «Capisco», dissi, anche se la sua domanda non necessitava di una risposta. Quello che capivo era che la mente di Mabel era dolce e pura come quella di mia sorella e che lei aveva qualche buon motivo per fare ciò che faceva. Distruggeva gli schizzi ma prima prendeva delle annotazioni! Era un'interpretazione del posto ciò che cercava. Come fratello, provai del risentimento per il fatto che Frances sciupasse il suo tempo e il suo talento quando avrebbe potuto dipingere quadri da vendere. Ma provavo anche altri sentimenti... «Mabel mi paga cinque ghinee per ogni schizzo», la udii dire. «Insiste assolutamente per farlo.» La fissai stupidamente, per un momento, incapace di parlare. «Devo accettare o andarmene», continuò con calma ma leggermente pallida. «Ho provato di tutto. C'è stata una scenata il terzo giorno che ero qui... quando le ho mostrato il mio primo risultato. Volevo scrivertelo ma ho esitato...» «Allora non è intenzionale, da parte tua?... scusa se te lo chiedo, Frances.» Tacqui, non sapendo cosa pensare o dire. Il suo messaggio mi era giunto «tra le righe» della sua lettera. «Voglio dire, fai quei disegni al solito modo e... il risultato viene fuori da solo, tanto per dirla in parole povere?» Annuì, sollevando le mani verso il cielo, come un francese. «Non è necessario che il denaro lo teniamo per noi, Bill. Possiamo darlo via ma... o accetto o devo andarmene», ripeté, rifacendo il gesto di prima. Si sedette su una sedia di fronte a me, gli occhi fissi al tappeto. «Hai detto che c'è stata una scenata?» Domandai. «Lei ha insistito?» «Mi ha pregata di continuare», rispose molto lentamente mia sorella. «È convinta... il fatto è che ha un'idea o una teoria che ci sia qualcosa in questo posto... qualcosa che non riesce a capire completamente.» Balbettava goffamente. Sapeva che non incoraggiavo le sue teorie selvagge. «Qualcosa che sente... sì», dissi, più che curioso. «Oh, sai che cosa intendo Bill», fece lei, disperata. «Che la casa è satura di una qualche influenza ma lei è troppo positiva o stupida per capirla. Tenta di rendersi negativa e ricettiva, come dice lei, ma non riesce ad avere successo. Hai notato come sembra vuota, impersonale e scialba, come se non avesse alcuna personalità? È convinta che, così facendo, arriverà ad
avere delle impressioni. Ma quelle non arrivano...» «Naturale.» «Così prova con me... con noi... che definisce temperamenti artistici sensibili e impressionabili. Dice che finché non è sicura di quale influenza si tratti, non può lottare contro di essa, sconfiggerla, "rimettere la casa a posto", queste sono le sue esatte parole.» Ricordando le mie singolari impressioni, mi sentii più indulgente di quanto non sarei stato altrimenti. Tentai di nascondere l'impazienza che provavo. «E questa influenza, cosa... di chi è?» Usammo il pronome che seguì con lo stesso filo di voce perché risposi alle mie domande nel preciso istante in cui lei disse: «Sua.» Le nostre teste indicarono involontariamente il pavimento, sotto il quale si trovava la sala da pranzo. Avvertii un tuffo al cuore, la mia curiosità scomparve e io mi sentii annoiato. Una casa frequentata da spettri era l'ultima cosa al mondo che mi divertisse o interessasse. Il solo pensiero mi esasperava con tutto quello che suggeriva l'immaginazione... nervi a fior di pelle, isterismo e tutto il resto. Oltre ai miei sentimenti c'era sicuramente del disappunto. Vedere un'immagine o sentire una «presenza» e raccontarsi l'un l'altro, giorno dopo giorno, strani incidenti sarebbe stata una forma di debolezza che non avrei mai potuto tollerare. «Ma, Frances», dissi con decisione, dopo un momento di silenzio, «è troppo forzata questa spiegazione. Le storie di spettri appartengono agli inizi dell'era vittoriana, lo sai.» E solo la mia precisa convinzione che ci fosse qualcosa che dopo tutto valeva la pena di essere scoperto e che molto sicuramente non era quella mi impedì di suggerire di porre subito fine alla nostra visita. «Questa non è una casa abitata da spettri», conclusi con una certa veemenza, posando la mano sull'odiosa cartellina. La risposta di mia sorella fece rinascere di colpo la mia curiosità. «Aspettavo te per dirlo. Mabel sostiene esattamente la stessa cosa. Lui è qui dentro... ma c'è qualcos'altro, qualcosa di più grande e di più complicato.» La sua frase sembrava indicare i disegni e anche se colsi il riferimento feci finta di niente, perché non avevo voglia di discutere di quelli con lei ora e, forse, mai. Mi limitai a fissarla e ad ascoltare. Le domande, ne ero sicuro, sarebbero servite a poco. Meglio lasciarle dire quello che pensava a modo suo. «Lui è un'influenza, la più recente» continuò lentamente e sempre con
molta calma, «ma ce ne sono altre, l'una sotto l'altra, più profonde, come se fossero a strati... sotterranee. Se la sua fosse l'unica, accadrebbe qualcosa. Ma non accade niente. Le altre lo impediscono... come se ognuna lottasse per predominare.» L'avevo capito già da solo. L'idea era piuttosto orribile e mi fece rabbrividire. «Il peggio è proprio questo... che non accade mai niente», fece lei. «C'è questa infinita attesa... si arriva sempre sull'orlo di un risultato che non arriva mai. È una tortura. Mabel è allo stremo, lo vedi. E quando mi ha pregata... mi riferisco a quello che provavo dei miei disegni...» Cominciò di nuovo a balbettare. La interruppi. Avevo giudicato troppo in fretta. Quel puro simbolismo contenuto nei suoi disegni, pagano e tuttavia non innocente, era, lo capivo, il risultato di un miscuglio. Non finsi di capire ma almeno potevo essere paziente. Di conseguenza rallentai il passo. Parlammo ancora un po' ma più in generale, evitando accuratamente la nostra ospite, i disegni, le teorie selvagge e lui... finché l'emozione che Frances aveva tenuto a bada con tanto successo non esplose di nuovo. Era nascosta tra le sue calme affermazioni, come si era nascosta tra le righe della lettera. Ora la investiva dalla testa ai piedi e si rivelò in quello che disse. «Allora, Bill, se questa non è una casa abitata dagli spettri, che cos'è?» domandò. Le parole erano piuttosto normali. L'emozione era nel tono della sua voce che tremava; nel gesto che fece, piegandosi e posando entrambe le mani sulle ginocchia, e nel pallore delle sue guance mentre gli occhi coraggiosi ponevano la domanda e scrutavano i miei con un'ansia che rasentava il panico. In quel momento, si mise sotto la mia protezione. «E perché», aggiunse, abbassando il tono della voce finché non risuonò come un mormorio, «non accade mai niente? Se soltanto», questo lo disse con enfasi, «accadesse qualcosa... questa terribile tensione si spezzerebbe e avvertiremmo un po' di sollievo. È l'attesa che non riesco a sopportare.» Subito dopo rabbrividì e apparve un'espressione selvaggia nei suoi occhi. Non so cosa avrei dato per avere una risposta vera e soddisfacente. La mente lavorò freneticamente per un momento ma invano. Non esisteva in me alcuna risposta sufficiente. Sentivo ciò che sentiva lei, anche se con qualche differenza. Non avevo a portata di mano nessuna spiegazione concludente. Non accadeva nulla. Desideroso com'ero di gettare l'intera faccenda in un cumulo d'immondizie dove l'ignoranza e la superstizione sca-
ricano le loro velenose erbacce, onestamente non riuscivo a farlo. Trattare Frances come una bambina e «condurla via» semplicemente sarebbe equivalso a ferire la sua fiducia nella mia protezione, così affettuosamente chiesta. E sarebbe stato anche disonesto per me... e debole... negare che avevo provato anch'io stress e tensione, proprio come lei. Mentre la mia mente continuava a cercare, ricambiai il suo sguardo in silenzio e Frances, allora, con più onestà e introspezione di me, diede la risposta a se stessa... una risposta la cui verità ed esattezza, per quanto lontane fossero, non fui subito in grado di contraddire. «Credo, Bill, che si tratti di qualcosa di troppo grande perché accada qui... perché accada da qualche parte tutto a un tratto... e di troppo orribile!» Sarebbe stato facile, in qualsiasi momento o in qualsiasi altro posto, mettere da parte la frase come una sciocchezza, dire che non aveva alcun senso; e, se la passata settimana non mi avesse portato nessuna delle vivide impressioni che mi aveva portato, quello è indubbiamente ciò che avrei fatto. La mia ristrettezza di mente era di nuovo provata. Capiamo negli altri solo quello che abbiamo in noi. Ma, in un certo qual modo, sapevo che la sua spiegazione era vera. Accennava al conflitto e alla lotta che la mia nozione di «Ombra» sembrava aver coperto. «Può darsi», mormorai, attendendo invano che dicesse qualcos'altro. «Ma hai appena affermato di aver sentito che la cosa era "a strati". Vuoi dire che ognuna... ogni influenza... lotta per avere la meglio?» Usai le sue parole per nascondere la mia povertà di linguaggio. La terminologia, dopotutto, non contava, purché raggiungessimo l'idea in se stessa. I suoi occhi risposero di sì. Lei aveva un suo concetto chiaro al quale era giunta indipendentemente, com'era sua abitudine. E, contrariamente al suo sesso, lo manteneva chiaro, non permetteva che fosse soffocato da troppe parole. «Una certa influenza colpisce me, un'altra te. A seconda dei nostri caratteri, credo.» Lanciò un'occhiata all'odiosa cartellina. «A volte si mescolano e perciò sono false. Forse c'è stata più in me che in te l'influenza pagana, anche se mai, grazie al cielo, così.» La sua franca confessione mi invitò a fare altrettanto. Ma era difficile trovare le parole. «In tutta onestà, non so dirti ciò che ho sentito in questa casa, Frances, perché... ehm... le mie impressioni non hanno preso alcuna forma definitiva che sia in grado di descrivere. Il conflitto, l'agonia della fuga cercata in-
vano e l'inquietudine... una specie di atmosfera di prigione... questo ho provato diverse volte e con vari gradi di forza. Ma non trovo nessuna etichetta definitiva da attaccarvi sopra. Non me la sentirei di definirla pagana, cristiana o qualsiasi altro tipo come invece fai tu. E come il cieco e il sordo, forse tu hai certi sensi più acuti che io non ho o persino un altro senso ancora allo stato embrionale...» «Forse», mi interruppe lei, ansiosa di arrivare al punto, «tu senti come Mabel. Lei sente il tutto completo.» «Anche questo è possibile», commentai molto lentamente, mentre pensavo. La sua strana osservazione che si trattasse di qualcosa di «strano e orribile» mi colpì di nuovo come vera. Fui di colpo pervaso da una vasta sensazione di disagio e sconforto. E anche di dispiacere, di fiero disprezzo, di rabbia amara e selvaggia. Rabbia contro qualche finta autorità. «Frances», dissi, mettendo da parte ogni finzione, «cosa diavolo può essere?» La fissai e per qualche momento nessuno dei due parlò. «Tu non hai provato alcun desiderio di interpretarlo?» domandò infine lei. «Mabel mi ha suggerito di scrivere qualcosa sulla casa», fu la mia risposta, «ma io non ho sentito niente di imperativo. Io non scrivo cose del genere, lo sai. Io provo soltanto l'impulso di spiegare», aggiunsi, capendo che lei si aspettava che continuassi, «di scoprire, di liberare in qualche modo me stesso e, di conseguenza, di liberarmene. Ma non scrivendo.» E ripetei di nuovo la domanda di prima: «Cosa diavolo credi che sia?» La mia voce era involontariamente diventata soffocata, piena di timore. Lei mi rispose con lenta enfasi, facendomi di nuovo rinchiudere in me stesso. La fraseologia era una provocazione. «Qualunque cosa sia, Bill, non è di Dio.» Mi alzai per tornare di sotto e scrollai, credo, le spalle. «Ti piacerebbe partire, Frances? Torniamo in città?» proposi, giunto alla porta, e non udendo subito la sua risposta, mi voltai a guardarla. Frances era seduta e si teneva la testa china tra le mani. La sua posa suggeriva lacrime. Nessuna donna, me ne rendevo conto, può sopportare la pressione di un'emozione forte a lungo come aveva fatto Frances, senza finire con il crollare. Attesi un momento, agitato, desiderando confortarla e tuttavia temendo di farlo... e in quel momento scoprii in me stesso l'esistenza della pesante emozione che fino ad allora avevo soltanto sospettato. Bisognava evitare a ogni costo una scenata che avrebbe portato all'esagerazione e ad affermazioni azzardate. Brutalmente, con la debolezza dell'uomo comune,
girai la maniglia per uscire, ma mia sorella proprio allora sollevò la testa. Il sole le illuminò i capelli ramati che incorniciavano il suo viso e notai con sorpresa la sua espressione. Pietà, tenerezza e comprensione vi ardevano come una fiamma. Era innegabile. Da tutti i lineamenti scaturiva l'indistruttibile amore e il desiderio d'autosacrificio per gli altri che avevo visto solo in un tipo di essere umano. Era lo sguardo della grande madre. «Dobbiamo rimanere accanto a Mabel e aiutarla a rimetterla a posto», mormorò, prendendo la decisione per entrambi. Le dissi che ero d'accordo. Confuso e vergognoso, lasciai la stanza e uscii all'aperto. E la prima cosa che capii chiaramente quando mi ritrovai solo fu questa: che la lunga scena che aveva avuto luogo tra noi non aveva raggiunto nessun risultato definito. Lo scambio di confidenze aveva portato soltanto ad accenni e vaghe suggestioni. Avevamo deciso di rimanere ma quella di non partire era una decisione sbagliata, non positiva. Tutte le nostre parole e le nostre domande, le supposizioni, le spiegazioni, le più sottili allusioni e insinuazioni, persino gli odiosi dipinti erano privi di risultati definiti. Non era accaduto niente. 6 E istintivamente, una volta sola, cercai i posti in cui lei aveva dipinto i suoi straordinari quadri; tentai di vedere ciò che aveva visto Frances. Forse, ora che aveva aperto la mia mente a un altro punto di vista, sarei stato sensibile a interpretazioni simili... e vicine all'espressione letteraria. Se dovessi scrivere qualcosa sulla casa, mi chiesi, come tratterei l'argomento? Invitai deliberatamente un'interpretazione nel modo che mi risultava più facile... lo scrivere. Ma in questo caso non giunse nessuna rivelazione. Guardando da vicino gli alberi e i fiori, i tratti di prato e le terrazze, il roseto e l'angolo della casa dove il rampicante era più fitto, non scoprii niente di quell'odiosa e impura cosa che i colori di Frances avevano inconsciamente rivelato. La realtà era lì, noiosa e brutta, accanto alla sua versione distorta di ciò che giaceva nella mia mente. Sembrava incredibile. Tentai di forzarla ma invano. La mia immaginazione, meno profonda della sua, o diversa, dava altri risultati. Dove io vedevo l'anima grossolana di un giardino suburbano troppo rigoglioso, ispirato dall'animo di un volgare e ricco promotore di un risveglio religioso che amava predicare la dannazione, lei vedeva quest'impeto di libertà pagana e di gioia, la strana sregolatezza della carne primitiva che,
inquinata da altro, produceva il risultato vile e adulterato. Certe cose, comunque, divennero poi gradualmente apparenti, si imposero a me, che lo volessi o meno. Giungevano lentamente ma in modo oppressivo. Non che i fatti fossero cambiati o i particolari naturali si alterassero nei terreni... questo era impossibile... ma notai per la prima volta vari aspetti che non avevo notato prima... abbastanza comuni e tuttavia per me significativi. Alcuni li ricordavo dai giorni precedenti; altri li vedevo ora mentre vagavo avanti e indietro, a disagio... quasi fossero visti da uno che prendesse nota delle mie impressioni. I particolari erano così folli, il risultato finale così formidabile. Ero consapevole solo in parte di cose che altri cercavano a tutti i costi di farmi vedere. Era qualcosa di voluto. La frase di mia sorella, «un'influenza colpisce me, un'altra te», mi tornò indesiderata alla mente. Perché vedevo, come con gli occhi di un bambino, quello che posso soltanto definire un giardino del demonio... casa, terreni, alberi e fiori appartenevano al mondo demoniaco nel quale i bambini entrano attraverso le pagine delle fiabe. E ciò che mi rendeva più consapevole di ciò era il mormorio del vento alle mie spalle, tanto che mi voltai di scatto, sentendo qualcosa che si muoveva accanto a me. Un vecchio frassino, brutto e goffo, era stato piegato artificialmente perché formasse un pergolato all'estremità di una terrazza che fungeva da campo da tennis e le foglie ora frusciavano, alzandosi e abbassandosi. Guardai l'albero ed ebbi la sensazione di aver superato in quel momento le porte per entrare nel giardino del demonio che si trovava dietro a quello reale. Sotto, forse a uno strato più profondo, si nascondeva quello in cui era entrata mia sorella. Per farla breve, comunque, lo chiamo demonio perché l'aspetto strano di quel luogo non aveva niente di pittoresco. Grottesco, forse, è la parola più esatta perché ovunque notavo, e per la prima volta, quella leggera alterazione del naturale dovuta o all'esagerazione di qualche particolare o alla soppressione di questi ultimi. La vita sembrava ovunque bloccata dalla totale consegna del suo dolce messaggio. Qualche influenza contraria la fermava... soppressione; oppure la distorceva... esagerazione. La casa in se stessa, ovvia espressione di una mente ristretta e limitata, naturalmente, era pura deformità e non richiedeva ulteriori spiegazioni. Questo valeva anche per i terreni e il giardino, quanto alla forma e al progetto in generale; ma era il fatto che gli alberi, i fiori e gli altri particolari naturali divenissero la stessa deficienza che rendeva perplesso il mio animo logico, se non addirittura spaventato. Mi fermai a fissare, poi ripresi a girare, quindi mi fer-
mai di nuovo. Regnava ovunque questa ironia di un aspetto sinistro e non definito. Cercai invano di ritrovare il mio normale punto di vista. La mente aveva trovato quel giardino del demonio e vi vagava avanti e indietro, incapace di sfuggire. Il cambiamento era avvenuto in me stesso, naturalmente, e così ovvi erano i dettagli che lo illustravano che sembravano assurdi, perciò li citai a uno a uno. Il tocco del diavolo è presente ovunque: sotto forma di alberi, piantati a intervalli regolari lungo i prati; in quel frassino distorto che frusciava alle mie spalle; nell'ombra delle tristi sequoie, le cui fronde cadenti oscuravano l'erba; ma, soprattutto, notai, nelle loro cime. Perché lì le delicate e armoniose curve dei rami cresciuti l'anno precedente sembravano ritorcersi su se stesse. Nessuna punta verso l'alto. Era mancata loro la vita nel momento in cui sarebbe dovuta essere trionfante. Il carattere di un albero si rivela soprattutto alle estremità ed era precisamente lì che tutti ricadevano e raggiungevano quell'accenno di distorsione demoniaca... nella crescita che risaliva agli ultimi pochi anni. Ciò che sarebbe dovuto essere fiabesco, gioioso e naturale era invece sgraziato al punto da apparire grottesco. L'espressione spontanea era stata bloccata. La mia mente percepiva un giardino del demonio e vi era catturata. Il posto mi faceva smorfie. Con i fiori era la stessa cosa ma era più difficile farne la descrizione nei particolari. E le verdure più piccole crescevano con un che di maligno. Persino le terrazze sembravano ammalate, come se le loro estremità si fossero piegate perché erano state costruite troppo grandi; le varie angolazioni davano un aspetto demoniaco e sorprendente alla loro sequenza che era spiacevole da vedersi. Si sarebbe potuto vagare per quelle ingannevoli distese e perdersi... perdersi tra terrazze aperte!... nonostante la casa fosse a un tiro di schioppo. In tutto il giardino si respirava un'aria non familiare, di inquietudine, quasi di conflitto, sicuramente di discordia. Oltre a ciò, il giardino cresceva in casa, la casa in giardino e in entrambi c'era quest'idea di resistenza al naturale... lo spirito che dice No alla gioia. Ero ovunque consapevole dello sforzo di raggiungere un'altra parte, della lotta per uscire e liberarsi, espressione spontanea che sarebbe stata felice e naturale, e tuttavia questo sforzo era sempre frustrato dal peso di quell'ombra scura che lo rendeva vano. La vita strisciava dentro a un canale chiuso a un'estremità; poi si ripiegava orribilmente su se stessa. Invece di fiori e frutti, c'erano erbacce. Sentivo questo inizio di vita... poi tetro fallimento. Non c'era alcuno sfogo. Non accadeva niente. E così, con questo umore singolare, arrivai un po' per volta a capire la
cosa impura che aveva preso forma attraverso il talento di mia sorella. Perché l'impuro è semplicemente negativo; non ha esistenza; è solo l'espressione distorta di ciò che è vero, facendosi strada a scatti su falsi confini alla ricerca del limite. Grande, piena espressione di tutto ciò che è puro mentre lì era solo incompleto, non finito e addirittura brutto. C'era conflitto e dolore e desiderio di fuga. Mi ritrovai intimidito dalla casa e dai terreni come uno lo è dal tocco di una persona mentalmente incapace, quelle persone in cui la vita si è distorta. C'era quasi una mutilazione in essi. Anche certi particolari del passato venivano ora a confermare questa sensazione che avevo mentre passeggiavo, libertà catturata e semimutilata, in un giardino mostruoso. Ricordai i giorni di pioggia che rinfrescavano la campagna ma che lasciavano quei terreni, inariditi dal caldo dell'estate, insoddisfatti e assetati; e come i forti venti, che spazzavano i boschi e i campi, lì soffiassero con difficoltà attraverso il denso fogliame che proteggeva Le Torri da nord, ovest ed est. Erano correnti inefficaci e lente. Non esisteva un vero vento. Non accadeva niente. Cominciai a rendermi conto... ancor più chiaramente, rispetto alla fantastica spiegazione che mia sorella aveva dato degli «strati», che lì agivano molte influenze contrarie che si distruggevano a vicenda. La casa e i terreni non erano semplicemente abitati dagli spettri; erano l'arena di pensieri e sentimenti del passato, forse di credo terribili e impuri, ognuno dei quali lottava per sopprimere gli altri e tuttavia nessuno raggiungeva la supremazia perché nessuno di loro era abbastanza forte, nessuno di loro era vero. Ognuno, comunque, tentava di vincermi, sebbene soltanto uno fosse in grado di raggiungere del tutto la mia mente. Per qualche oscuro motivo... forse perché il mio carattere aveva una naturale inclinazione al grottesco... era lo strato diabolico. Con me, era la linea di minor resistenza... Nei miei pensieri quel «giardino del demonio» rivelava, naturalmente, solo la mia interpretazione personale. Ora sentivo obiettivamente ciò che la mia mente aveva sentito da tanto tempo soggettivamente. Il mio lavoro, manifestazione essenziale di vita spontanea, si era fermato; la produzione era diventata impossibile. Ora ero giunto più vicino alla causa di questa sterilità. O, meglio, la Causa si era fatta più audace, mi si era avvicinata in modo insolente. Non accadeva nulla da nessuna parte; la casa, il giardino, la mente erano aridi, vani, divisi dal conflitto di impulsi frustrati, orribili, odiosi, peccaminosi. Tuttavia, dietro a tutto ciò c'era ancora il desiderio di vita... desiderio di fuga... di realizzazione. La speranza... una incrollabile speranza... me ne resi improvvisamente conto... ricompensava la tortura.
Compresi questo, sebbene in una certa parte di me, dove la Ragione aveva ceduto la presa, mi assaliva un'altra cosa più oscura che mi stringeva alla gola e mi faceva fremere con un senso di repulsione che rasentava il disgusto. Capii subito da dove veniva quell'ondata di avversione e disgusto perché, anche mentre vedevo rosso e sentivo la nausea crescermi dentro, sembrava che diventassi in parte consapevole dello strato che giaceva immediatamente sotto il demonio. Percepivo l'esistenza di questo strato più profondo. Uno apriva la strada all'altro e così via. Ce n'erano talmente tanti e tutti collegati tra di loro. Se indugiavo sarei stato catturato... orribilmente. Quelli lottavano con tale violenza per avere la supremazia tra di loro che quest'ultimo che stava per apparire veniva subito trascinato indietro ma non prima che mi si rivelasse e il rosso nei miei pensieri si riversava a colorare pesantemente e in modo orribile ciò che mi circondava... di sangue. Questo lurido aspetto si propagava al giardino, insudiciava le terrazze, dava al suolo la tinta di riti espiatori che mi bloccava il respiro mentre sembrava immobilizzarmi i piedi che desideravano tanto muoversi. Era così rivoltante che, nello stesso tempo, ne ero incuriosito e affascinato al punto da voler rimanere. Credo di essere stato irretito per un momento da quegli impulsi opposti, come trafitto da un fascino dell'Orribile. Attraverso il velo più leggero del demonio mi sentivo trascinare giù, giù, verso quel turgido strato che era molto più violento e più antico. Lo strato superiore, invece, sembrava fatato in confronto al terrore suscitato dal desiderio di sangue misto all'angoscia delle vittime dei sacrifici umani. Superiore! Allora stavo già sprofondando; i miei piedi erano stati catturati; stavo davvero cadendo! Non saprei dire quale corda atavica, nascosta dentro di me, fosse stata indotta a rispondere vilmente, lanciando questo flash di intuitiva comprensione. Gli strati lasciati dalla civiltà sono probabilmente abbastanza sottili in tutti noi. Feci uno sforzo supremo. Il sole e il vento erano tornati. Potrei quasi giurare d'aver aperto gli occhi. Qualcosa di atroce tornò nelle profondità, portando con sé un pensiero di boschi aggrovigliati, di grosse pietre disposte in cerchio, di figure bianche immobili, di una forma legata con funi e lo spaventoso luccichio del coltello. Come il fumo su un campo di battaglia, rotolava via... Mi trovavo sul sentiero ghiaioso sotto la seconda terrazza quando mi riapparve il familiare giardino demoniaco, ora doppiamente grottesco, doppiamente ironico e tuttavia, per via del contrasto, quasi ben accetto. La visione che avevo avuto delle profondità, a quanto pareva era stata momentanea ed era passata. Il mondo comune ritornò con un senso di vero
sollievo ma sinistro, ora e per sempre, per la consapevolezza di ciò su cui era stato costruito. In strada, a teatro, nelle feste di amici, in una sala da musica o in un campo da gioco, persino in chiesa... come poteva il ricordo di ciò che avevo visto e sentito non lasciare la sua traccia orribile? Avevo l'impressione che la stessa struttura del mio Pensiero fosse stata contagiata. Quello che altri hanno pensato non potrà mai essere cancellato finché... Le mie fantasie furono di colpo interrotte e svanirono, disperse da un rumore violento che riconobbi per la prima volta in vita mia come molto desiderabile. L'auto che ritornava significava che la mia ospite era rincasata. Tuttavia, così incalzante era stata la mia temporanea ossessione che l'immagine che avevo di lei del momento in cui mi era stata presentata la prima volta fu... be', non la stessa di ora. Vidi Mabel con il viso segnato dall'angoscia, una pura immagine catturata da pensieri di altri, che scendeva in quelle profondità di fuoco e di sangue che si erano appena chiuse sotto i miei piedi. Sprofondava. Svaniva, gli occhi fissi fino all'ultimo a un qualche salvatore che l'aveva abbandonata. E quella strana e incrollabile speranza era dipinta sul suo viso. Da quel momento, il mistero del luogo si fece ancora più denso attorno a me. Era l'ora del crepuscolo e il fantasma del sole al tramonto era irreale come se fosse stato malamente dipinto. Il giardino sembrava vigile attorno a me. Non so spiegarlo ma posso raccontarlo, credo, esattamente come accadde perché resta vivido in me per sempre... perché, per la prima volta, qualcosa quasi accadde, e io feci apparentemente da legame tra quel qualcosa e la sua manifestazione. Mi ero già voltato verso la casa. Avevo in mente delle immagini... non veri pensieri... dell'auto, del tè sulla veranda, di mia sorella, di Mabel... quando alle mie spalle ci fu quel tumultuoso e spaventoso rumore... mentre lasciavo il giardino. La bruttezza, il dolore, lo sforzo per fuggire, tutta l'agonia negativa e soppressa che era quel Posto, conversero in un tentativo concentrato di produrre un risultato. Era una tempesta accecante di desiderio a lungo frustrato che si sollevava verso di me, sorgeva spaventosa alle mie spalle come una folla angosciata. Stavo per attraversare di nuovo il confine del mio io normale quando arrivò, cogliendomi alle spalle. Potrei usare un intero vocabolario di aggettivi qualificativi senza tuttavia avvicinarmi più di così... il concetto di una grande folla decisa a fuggire con me o a riprendermi tra di loro. Le gambe mi tremarono per un momento e trattenni il respiro... poi mi voltai e corsi più velocemente che potei lungo le brutte terrazze.
In quello stesso istante, come se lo sbattere di un cancello di ferro interrompesse una frase non terminata, pensai l'inizio di una cosa orribile: «I Dannati...» Mi correva dietro da quel giardino diabolico che aveva cercato di trattenermi: «I Dannati!» Perché c'era rumore. So benissimo che era soggettivo, non veramente udito da tutti; in qualche modo il rumore c'era... un grande rumore che rombava come un tuono, lontano e sotto di me. La frase affondò nelle profondità che l'avevano originata, incompleta. Il suo completamento era impedito. Come al solito, non accadeva niente. Ma mi veniva dietro come un uragano mentre correvo verso la casa e il suo rumore soltanto io potevo paragonarlo a quei terribili sottotoni che si odono stando in piedi accanto al Niagara. Sono dietro il semplice scroscio del fiume che cade, dentro di esso, non udibili a tutti... più avvertiti che veramente uditi. Sembrava riecheggiare dalla superficie di quelle terrazze cedevoli mentre attraversavo le loro estremità in pendenza perché era in qualche modo sotto di loro. Era nel sibilo del vento che smuoveva il fogliame delle sequoie. Le aiuole dei fiori normali lo passavano ai rampicanti, rossi come il sangue, che ricoprivano la brutta costruzione. Nella struttura della casa volgare e austera scompariva; Le Torri lo ospitavano. Le porte e le finestre brutte sembravano bocche che avessero pronunciato le parole e all'ultimo piano, in quel preciso momento, vidi due cameriere che stavano di nuovo chiudendole. Sulla veranda, quando arrivai senza fiato e scosso fin nell'animo, Frances e Mabel, in piedi accanto al tavolino da tè, sollevarono lo sguardo per salutarmi. Sui visi di entrambe erano visibili i segni dello shock. Mi guardarono arrivare ma erano talmente turbate che notarono a malapena lo stato in cui mi trovavo. Sul viso della mia ospite, comunque, lessi qualcosa di diverso e di più grande che su quello di Frances. Mabel sapeva. Aveva provato ciò che avevo provato io. Aveva udito la terribile frase che avevo udito io ma non per la prima volta; e sono fermamente convinto che l'avesse udita completa. «Bill, hai sentito quel curioso rumore poco fa?» domandò Frances, bruscamente, prima che potessi aprire bocca. Sembrava confusa; mi guardò dritto negli occhi; e c'era un tremito nella sua voce che non riusciva a nascondere. «È il vento», risposi, «il vento che soffia tra gli alberi e attorno alle mu-
ra. Si è alzato all'improvviso.» La mia voce era incerta. «No, non è il vento», insistette lei, come se volesse farmi capire qualcosa di nascosto ma con scarso risultato. «Pensavamo che fosse più simile a un tuono lontano. Come se corressi anche tu!» aggiunse. «Che passo hai tenuto sulle terrazze?» Capii subito dal modo in cui lo disse che tutte e due avevano già sentito quel rumore ed erano ansiose di sapere se l'avevo udito e come. Era la mia interpretazione che cercavano. «Devo ammettere che era un rumore stranamente profondo. Come di grossi cannoni sul mare», suggerii, «di fortilizi o di incrociatori che facessero delle esercitazioni. La costa non è poi così lontana e con il vento che soffia nella giusta direzione...» L'espressione del viso di Mabel mi bloccò. «Come di grandi porte che si chiudono», disse lei, sommessamente, «di enormi porte metalliche che sbattono contro una massa di gente che esce gridando.» La gravità, il tono di disperazione della sua voce erano scioccanti. Frances era entrata in casa nell'istante in cui Mabel aveva cominciato a parlare. «Ho freddo», aveva detto; «credo che andrò a prendere uno scialle.» Io e Mabel eravamo soli. Forse era la prima volta che ci trovavamo veramente soli da quando ero arrivato. Lei sollevò gli occhi sbiaditi dalle tazze e li puntò su di me. Aveva fatto una domanda della frase. «Lo sente così?» domandai, con aria innocente. Usai volutamente il presente. Il suo viso era privo di espressione. Il passo di mia sorella risuonò sul pavimento della stanza alle nostre spalle. «Se solo...», iniziò Mabel, poi si fermò e io completai la frase che sentivo aveva in mente. «...accadesse qualcosa.» Lei mi corresse all'istante. Avevo colto il suo pensiero ma l'avevo espresso malamente. «Potessimo fuggire!» Abbassò leggermente la voce nel dirlo. Quel plurale mi sorprese e mi terrorizzò ma qualcosa nel suo tono e nei suoi modi mi confuse enormemente. C'erano gelo e terrore. Era una donna morente quella che parlava... un'anima persa e senza speranza. In quell'atroce momento, notai appena ciò che fu detto esattamente ma ricordo che mia sorella ritornò con uno scialle grigio attorno alle spalle e che Mabel osservò con la solita voce: «Fa freddo, sì; andiamo dentro a be-
re il tè», e che le due cameriere, una delle quali era il granatiere, trasportarono i vassoi in sala da pranzo e misero dei pezzi di legna nel grande camino. Dopotutto, era stupido rischiare di prendere l'aria fredda della sera perché l'oscurità stava cadendo e neppure il sole della giornata ormai al tramonto poteva trasformare l'autunno in estate. Io entrai per ultimo. Proprio mentre lasciavo la veranda, un grosso uccello nero volò di fronte a me, superando le colonne; si abbassò e si spostò di colpo, vedendomi, poi si diresse verso i cespugli, sulla sinistra delle terrazze, dove scomparve nell'ombra. Volava molto basso, molto vicino. E mi sorprese, credo, perché in un certo qual modo assomigliava alla mia Ombra materializzata... come se l'orrore oscuro che saliva ovunque dalla casa e dal giardino e si posava denso e tuttavia impercettibile su tutti noi si fosse incarnato in quella creatura che passava tra la luce del sole e la notte ormai vicina. Mi fermai un istante a chiedermi se sarebbe apparso di nuovo prima di seguire gli altri dentro e mentre stavo per chiudere le finestre, ebbi la fugace apparizione di una figura sul prato. Èra a una certa distanza, sull'altro lato dei cespugli, proprio dove l'uccello era scomparso. Ma nonostante la luce del crepuscolo in parte la ingrandisse, in parte la nascondesse, l'identità era inconfondibile. Conoscevo troppo bene la rigida andatura della governante perché potessi sbagliarmi. «La signora Marsh prende un po' d'aria», mi dissi. Sentii la necessità di dirlo e mi chiesi perché lo facesse a quell'ora particolare. Se avevo in mente altri pensieri, erano così vaghi, così veloci e soppressi che non riesco a ricordarli sufficientemente per riportarli qui. Una volta dentro, c'era da aspettarsi che ci sarebbero state spiegazioni, discussioni e conversazioni che riguardavano lo strano rumore e la sua causa, prove esplicite del turbamento che era stato tanto forte in noi da spingerci tutti dentro. Ma non ci fu niente di tutto questo. Ognuno di noi, volutamente e con vari espedienti, le evitò. Parlammo poco e di tutt'altro. Personalmente, provavo un tocco di quello stesso stupore che mi aveva pervaso durante il mio primo colloquio con Frances, la sera del mio arrivo, perché ricordo ora l'acuta tensione e la speranza e la paura che uno o l'altro di noi dovesse presto o tardi affrontare l'argomento. Ma non accadde; non venne fatto alcun riferimento a ciò, neppure lontanamente. Fu la presenza di Mabel, che sentivo positiva, a impedirlo. Perché presto avremmo forse discusso della Morte nella camera da letto di una donna morente. L'unico pezzo di conversazione che ricordo, al di fuori del normale e
dell'ovvio, fu quando Mabel si rivolse al granatiere per chiederle come mai la signora Marsh si era dimenticata di fare una cosa o l'altra... non ricordo cosa... e la cameriera rispose rispettosamente che «la signora Marsh era molto spiacente ma stava ancora male». Domandai, piuttosto casualmente, tanto che so a malapena quali parole usai, se si era fatta seriamente male e la risposta, «ha rovesciato una lampada e si è bruciata», fu pronunciata in un tono che mi fece capire che la mia curiosità era stata indiscreta. «Ma lei trova sempre una scusa per non fare quello che dovrebbe.» Quelle poche parole rimasero in me e ricordo soprattutto come Frances si affrettò a interrompere il discorso e a portarlo sulle mancanze della servitù in generale, raccontando certi incidenti della sua servitù nel nostro appartamentino con una volubilità che forse sembrava forzata e che certamente non incoraggiava la conversazione generale come probabilmente avrebbe dovuto. Cademmo nel silenzio non appena lei smise di parlare. Ma nonostante la nostra attenzione e il nostro silenzio calcolato, ognuno sapeva che in quegli ultimi istanti qualcosa si era avvicinato; ci aveva sfiorati nel passare; si era ritirato; e io sono incline a pensare ora che la grande cosa scura che avevo visto, probabilmente un uccello da preda, fosse in qualche modo un simbolo di ciò nella mia mente... voglio dire, che in realtà non c'era stato alcun uccello ma che lo stato di apprensione e di disperazione nel quale mi ero trovato aveva originato quella vivida immagine nei miei pensieri. Ci era volata davanti, si era ritirata ma ora, in quel momento, era nascosta molto vicino. E ci guardava. Forse fu anche per pura coincidenza che incontrai la signora Marsh, la sua governante, diverse volte, quella sera, nel breve intervallo tra il tè e la cena e che in ogni occasione la vista di quella donna dall'aspetto desolato accrebbe i miei pregiudizi sul suo conto. Una volta, mentre mi avvicinavo al telefono, mi imbattei in lei nel punto in cui il corridoio era ristretto dalla presenza di un tavolo quadrato sul quale c'erano il gong cinese, un orologio del nonno e una scatola di mazze da croquet. Ci facemmo entrambi da parte, poi avanzammo entrambi, di nuovo ci spostammo, contemporaneamente. Sembrava che fosse impossibile passare. Ripetemmo l'operazione e finimmo con lo scontrarci nel mezzo, dicendo le solite frasi banali di scusa che sono inevitabili in frangenti del genere. Quindi lei si appoggiò al muro per farmi passare, ponendosi proprio davanti alla porta che volevo aprire. Era ridicolo. «Mi scusi... volevo entrare... per telefonare», spiegai. E lei si spostò, scusandosi, ma, mentre lo faceva, mi aprì la porta. Le nostre mani si sfio-
rarono sulla maniglia. Ci fu un attimo di imbarazzo ma era sciocco. Mi ricordai della sua ferita e, tanto per dire qualcosa, le chiesi come andava. Lei mi ringraziò; era completamente guarita, ora, ma sarebbe potuta anche peggiorare; e c'era qualcosa in quel «grazie a Dio» che non colsi. Mentre telefonavo, comunque... una telefonata a Londra alla quale diressi la mia attenzione... mi resi improvvisamente conto che quella era la prima volta in cui avevo parlato con lei; e non solo... che l'avevo toccata. Era domenica e le linee erano libere. Ebbi presto la comunicazione e l'incidente fu dimenticato mentre pensavo a Londra. Salendo, poi, la donna mi tornò in mente, tanto che richiamai altre cose su di lei... come sembrava trovarsi in tutta la casa, spesso in angoli strani; come l'avevo vista seduta nella hall da sola, quella notte; come andava e veniva sempre con quei viso lugubre e quei capelli arruffati sulla nuca che tre anni prima mi avevano fatto ridere al pensiero che se li fosse bruciati; e l'impressione che avevo avuto quando ero arrivato a Le Torri che quella donna tenesse in qualche modo viva, senza prove evidenti, l'influenza del suo defunto padrone e dei suoi oscuri insegnamenti. L'idea della punizione e della vendetta era associata a lei. Ricordai anche la mia strana sensazione che lei cercasse di trattenere lì la sua attuale padrona, una prigioniera in quella casa priva di comfort, e che, nonostante il suo ossequioso silenzio, fosse intensamente contraria al cambiamento di idee che aveva spinto Mabel a un tipo di vita più felice. Rividi tutte queste cose come in un lampo e scoprii, o comunque ricostruii, la vera signora Marsh. Lei era decisamente nell'Ombra. Anzi, era nella sua facciata, che capeggiava un assalto contro Le Torri e i suoi occupanti, come se, consciamente o inconsciamente, si desse da fare senza tregua per distruggerli. Posso soltanto dire che un certo stato di nervosismo permise a quella serie di pensieri insignificanti di assumere una forma drammatica e che ciò che era accaduto prima preparava la strada e metteva la donna alla testa di una così formidabile processione. Riferisco ciò esattamente come mi si presentò. Avevo indubbiamente i nervi scossi. Altrimenti, difficilmente avrei ceduto all'esagerazione. Sembravo aperto a tante strane impressioni. Nient'altro, forse, può spiegare la mia ridicola conversazione con lei quando, per la terza volta, quella sera, la incontrai a metà scala, accanto a una finestra aperta, come se stesse ascoltando. Era vestita di nero, nero lo scialle che portava attorno alle spalle squadrate, neri i guanti che le coprivano le grosse mani che stringevano due oggetti anch'essi neri, libri di pre-
ghiere, apparentemente, e in testa portava un cappellino cosparso di perline. Dapprima, mentre scendevo, non capii che si trattava di lei; fu solo quando si fece da parte per lasciarmi passare che vidi il suo profilo contro la tappezzeria e la riconobbi. Mi colpì il fatto di trovarla sulla scala padronale, vestita a quel modo. Mi parve strano, impertinente. Mi fermai. Dalla finestra giunse il suono delle campane... le campane della chiesa... un suono per me più deprimente della superstizione, e nauseante. Sebbene l'azione fu mal giudicata, obbedii all'impulso improvviso... che fosse un segreto desiderio di attacco?... e le parlai. «È stata in chiesa, signora Marsh?» domandai. «Oppure ci sta andando?» Il suo viso, quando lo sollevò per rispondere, assomigliava a quello di una bambola di ferro che muovesse le labbra e girasse gli occhi, ma privo di qualsiasi altra imitazione di vita. «Alcuni di noi ci vanno ancora, signore», disse, mielosamente. Le sue parole erano piuttosto rispettose, tuttavia, l'implicito giudizio del resto del mondo mi rese quasi furibondo. Un'insolenza deferenziale giaceva dietro la sua gentilezza affettata. «Per quelli che credono è indubbiamente d'aiuto», sorrisi. «La vera religione porta pace e felicità, ne sono sicuro... gioia, signora Marsh, GIOIA!» Provai una grande soddisfazione nell'enfatizzare quell'ultima parola. Lei mi guardò con occhi taglienti. Non so descrivere l'espressione implacabile che apparve nel suo sguardo fisso su di me né l'ombra che le passò sul viso. Avvertii odio in lei. Sapevo... e lo sapeva anche lei... chi c'era nei pensieri di entrambi in quel momento. Replicò sommessamente: «C'è gioia, signore... in cielo per un peccatore che si pente e in chiesa si eleva una preghiera a Dio anche per quelli... be', anche per gli altri, signore...» Lasciò la frase a metà. La tristezza che l'avvolse mentre parlava era simile alla tristezza che c'è attorno a un carro funebre, a una tomba, all'oscurità di una grande cella sotterranea. Le parole mi uscirono di bocca con una specie di amara soddisfazione: «Dobbiamo credere che non ci siano altri, signora Marsh. La salvezza, lo sa, sarebbe un fallimento se ci fossero. Nessun Dio misericordioso e onnisciente avrebbe mai potuto escogitare un piano così terribile...» La sua voce, che mi interruppe, parve salire dalle viscere della terra: «Quelli respinsero la salvezza quando fu loro offerta sulla terra, signo-
re.» «Ma lei non li avrebbe fatti torturare per sempre a causa di un errore di ignoranza», dissi, guardandola dritto negli occhi. «Non è vero, signora Marsh? Nessun Dio degno d'essere adorato potrebbe permettere una simile crudeltà. Pensi un momento che cosa significa.» Lei continuò a fissarmi con una strana espressione nello sguardo. Ebbi l'impressione che la «donna» che c'era in lei si rivoltasse e che tuttavia non osasse tollerare che il suo severo credo potesse essere sbagliato. «Noi possiamo pregare per loro, signore, e lo facciamo... possiamo sperare.» Abbassò gli occhi al tappeto. «Bene! bene!» esclamai, allegramente, dispiaciuto ora di aver parlato. «Questo è più promettente, non è vero?» Mentre cercavo di passarle davanti, lei mormorò qualcosa a proposito del cuore di Abramo, e che il «tempo della salvezza non dura all'infinito». Poi fece un gesto che mi bloccò. C'era qualcos'altro che voleva dire... chiedere. Mi guardò furtivamente e nei suoi occhi scorsi la «donna» che si affacciava attraverso la paura. «Forse, signore», balbettò, come se un fulmine dovesse colpirla a morte, «non crede che una goccia di acqua fresca, data in Suo nome, potrebbe forse inumidire...» Ma la interruppi perché quella folle conversazione era durata anche troppo. «Certo», dissi, «certo. Perché Dio è amore, se lo ricordi, e amore significa carità, tolleranza, comprensione, risparmiare dolore agli altri.» Dopo di che mi affrettai ad andare, deciso a porre fine a quell'oltraggioso discorso per il quale sapevo che ero soltanto io da incolpare. Lei rimase immobile ancora per qualche minuto, in parte sorpresa, in parte allarmata, immaginai. Colsi una parola di un'altra frase... «punizione»... ma il resto mi sfuggì. La sua arroganza e la sua tolleranza condiscendente mi esasperavano ma, nello stesso tempo, ero segretamente contento perché forse avevo toccato in lei la corda del rimorso o della comprensione. La sua fede era ferrea; lei non osava venirle meno; sotto sotto, tuttavia, si nascondeva il germe di una salutare repulsione. Lei «li» avrebbe aiutati... se avesse osato farlo. La sua domanda lo provava. Vergognandomi, mi girai e attraversai l'ingresso velocemente per paura di cedere alla tentazione di dire di più e in me avevo una sgradevole sensazione, come se avessi appena lasciato la Corsia degli Incurabili di un qualche grande ospedale. Ebbi una reazione di nausea. Avrei voluto che certe
persone fossero purificate con il fuoco. Mi sembravano simili a centri di contaminazione e i loro pensieri andavano a sporcare il glorioso mondo di Dio. Vidi me stesso, Frances, soprattutto Mabel, alla tortura, mentre quell'odiosa immagine di crudeltà e d'oscurità ci sovrastava e ordinava di procedere perché potessimo essere «salvati»... vale a dire costretti a pensare e a credere esattamente ciò che lei pensava e ciò in cui lui credeva. Mi liberai dell'indignazione in un certo qual modo infantile che provavo sfogandomi con l'organo. La musica di Bach e di Beethoven mi riportò il senso della proporzione. Nel contempo, provò che c'era stata quella crescita di distorsione in me e che a provocarla, apparentemente, era stato il mio contatto più vicino... per la prima volta... con quella personalità funerea, la donna che, come il suo padrone, credeva che tutti coloro che avevano una visione di Dio diversa dalla sua dovessero essere dannati in eterno. La musica mi diede anche una debole indicazione, un'indicazione che ero incapace di seguire e che forse spiegava la natura del conflitto, del terrore e dell'influenza frustrata che c'era in casa. Che cosa c'entrava la governante in tutto ciò? Il suo pensiero era una specie di incantesimo che ondeggiava sulla testa della sua padrona. 7 Quella notte, fui svegliato da qualcuno che bussava con urgenza alla mia porta e prima che potessi rispondere, trovai Frances accanto al mio letto. Entrando, aveva acceso la luce. Aveva i capelli sciolti, il viso pallido come quello di un morto, l'espressione stravolta, gli occhi sbarrati. Sembrava quasi un'altra donna. «Bill, Bill, svegliati, presto!» mormorava, velocemente. «Sono sveglio. Che cosa c'è?» domandai, sorpreso, mormorando a mia volta. «Ascolta!» disse, fissando lo sguardo nel vuoto. Nella grande casa regnava il silenzio. Il vento aveva cessato di soffiare e tutto era immobile. Solo i tocchi che avevo sentito alla porta sembravano continuare nel mio cervello. L'orologio sul camino segnava le due e mezzo. «Non sento niente, Frances. Che cosa c'è?» Mi strofinai gli occhi perché mi ero svegliato da un sonno molto profondo. «Ascolta!» ripeté sommessamente lei, sollevando un dito e spostando lo sguardo verso la porta che aveva lasciato aperta. Aveva perso la sua abi-
tuale calma. Era in preda al terrore. Per un buon minuto, trattenemmo entrambi il fiato e rimanemmo in ascolto. Poi lei spostò di nuovo lo sguardo, incontrò il mio e diventò ancora più pallida di prima. «Mi ha svegliata», disse, con un filo di voce, e si avvicinò di un altro passo al mio letto. «Era il Rumore», aggiunse, tremante. «Il Rumore!» Ripetei la parola quasi senza accorgermene. Avrei preferito qualsiasi altra cosa al mondo ma non quello... terremoto, cannoni nemici, crollo della casa sopra le nostre teste! «Il Rumore, Frances! Ne sei sicura!» «Sembrava un tuono. Dapprima ho pensato che fosse un tuono. Ma un attimo dopo è arrivato di nuovo... da sottoterra. È spaventoso.» Balbettava, non aveva il completo controllo della voce. Ci fu una pausa, poi tutti e due parlammo contemporaneamente. Dicemmo sciocchezze, cose ovvie in cui né l'uno né l'altra credeva. Il soffitto era crollato, c'erano dei ladri di sotto, la cassaforte era stata fatta saltare. Dicemmo quelle cose tanto per confortarci, come fanno i bambini, e anche per guadagnare tempo. «C'è qualcuno in casa, naturalmente», mi udii dire infine, mentre scendevo dal letto e mi infilavo la vestaglia e le pantofole. «Non allarmarti. Vado di sotto a dare un'occhiata.» Presi dal cassetto una pistola che avevo l'abitudine di portarmi sempre dietro. La caricai sotto gli occhi di Frances che era ancora immobile accanto al letto. Poi mi diressi verso la porta. «Tu rimani qui, Frances», mormorai, il cuore che mi batteva all'impazzata, «mentre scendo. Chiuditi dentro a chiave. Non può accaderti nulla. Hai detto che veniva da sotto, no?» «Da sottoterra», rispose debolmente lei, indicando il pavimento. Poi corse a mettersi tra me e la porta. «Ascolta! Ascolta!» disse, gli occhi sbarrati. «Sta tornando.» Girò la testa per cogliere il rumore anche più piccolo. La guardai ma, mentre lo facevo, non udii niente. Da sotto arrivavano soltanto i ticchettii dei vari orologi. La tendina davanti alla finestra aperta, alle nostre spalle, ondeggiò leggermente, come se un respiro l'avesse mossa. «Vengo con te, Bill... al piano di sotto», disse Frances, rompendo il silenzio. «Poi resterò con Mabel... finché tu non ritorni.» La tendina tornò immobile, con un lungo sospiro, quando lei disse queste parole. La domanda mi salì alle labbra prima che potessi bloccarla: «Mabel è sveglia. L'ha udito anche lei?»
Non so perché la sua risposta mi procurò orrore. Era tutto così vago e terribile mentre eravamo lì a fare il grande gioco di quella casa sinistra dove mai niente accadeva. «Ci siamo incontrate nel corridoio. Lei stava venendo da me.» Qualcosa mi scosse, mi scosse dentro. Frances non lo vedeva. Ebbi la netta sensazione che proprio allora il Rumore fosse su di noi, che da un momento all'altro sarebbe potuto scoppiarci nelle orecchie. Ma il silenzio profondo continuava. Udii soltanto il mormorio di mia sorella che rispondeva alla mia domanda: «Allora, che cosa fa Mabel, ora?» E le sue parole provarono che stava infine cedendo alla mortale tensione perché parlò subito, incapace di continuare a fingere. Con una specie di sollievo, disse, guardandomi spaventata come un bambino: «Sta piangendo e digri...» La mia espressione dovette bloccarla. Appoggiai entrambe le mani sulla sua bocca, anche se, quando compresi di nuovo bene le cose, le scoprii premute sulle mie orecchie. Fu un momento di terrore insopportabile. La repulsione che provai era fisica. Mi avrebbe fatto un gran piacere sparare tutti i cinque colpi della mia pistola in aria, sopra la testa; il rumore... un sano rumore definito che si spiegava da solo... avrebbe recato sollievo. Fui pervaso anche da altri sentimenti. Inutile cercare di sbrogliarli, era impossibile. Confesso di aver sentito, tra le altre cose, un pizzico di paura paralizzante... anche se solo per un momento; poi passò, veloce com'era venuta, lasciandomi il viso in fiamme, come se avessi avuto un attacco di rabbia, e, subito dopo, mi ritrovai il corpo fradicio di gelido sudore. Tuttavia, posso dire onestamente che non si trattò di una comune paura né di un male dovuto a qualche ferita fisica. Era piuttosto una vaga contrazione impersonale... un senso di oppressione che proveniva dall'agonia e dal terrore che innumerevoli altri, da qualche parte, in qualche modo, provavano per se stessi. La prima sensazione che ebbi fu quella di una prigione, di amaro conflitto e folle sofferenza e l'atroce tortura del desiderio di fuggire che era irrimediabilmente presente... Aveva un potere incredibile. Era reale. La vana e insopprimibile speranza mi invase. Riuscii a controllarmi, ma non so come, e presi la mano di mia sorella. Era fredda come il ghiaccio mentre la guidavo con decisione verso la porta e fuori, nel corridoio. Apparentemente, lei non si era accorta che ero quasi crollato perché la udii mormorare mentre camminavo: «Sei coraggioso, Bill; magnificamente coraggioso.»
I corridoi superiori della grande casa immersa nel sonno erano ben illuminati; venendo da me, Frances aveva acceso tutte le luci di cui era riuscita a trovare gli interruttori; e mentre scedevamo l'ultima rampa di scale per andare al piano inferiore, sentii una porta chiudersi e capii che Mabel era rimasta in ascolto... aspettandoci. Accompagnai da lei mia sorella. Frances bussò e la porta venne dischiusa con cautela. La stanza era buia. Non scorsi Mabel dentro. Frances si voltò verso di me, mormorando: «Bill, farai attenzione, vero?» Ed entrò. Ebbi appena il tempo di rispondere che non ci avrei messo molto e lei di ribattere: «Ci troverai qui...» che la porta fu richiusa, interrompendo la frase a metà. Ma non fu soltanto la porta che si chiudeva a troncare quelle ultime parole. Frances... lo capii dal modo in cui scomparve... aveva fatto un movimento rapido e violento nell'oscurità, una specie di balzo. Si era gettata addosso all'altra donna, in piedi, al buio, perché, contemporaneamente all'interruzione della frase, un altro rumore era cessato... soffocato, represso per paura che lo udissi anch'io. Ma non in tempo. Io lo udii... un suono duro e orribile che spiegava sia il movimento brusco che l'improvvisa interruzione della frase. Mi fermai, per un momento. Fu come se tutte le ossa mi avessero abbandonato e fossi sul punto di accasciarmi e cadere. Quel rumore me le aveva strappate e, con loro, aveva strappato anche il controllo di me stesso. Sono sicuro che fosse un rumore che non avevo mai udito prima anche se i bambini, me ne ricordai, emettevano a volte suoni simili quando erano in preda alla rabbia perché non sapevano che cosa volevano. In una persona adulta, comunque, non l'avevo mai udito. Lo associai piuttosto agli animali... con orrore. Nella storia del mondo, indubbiamente doveva essere stato abbastanza comune ma, fortunatamente, ora solo in pochi potevano conoscerlo o riconoscerlo se lo udivano. Le ossa ritornarono al loro posto ma rosse e brucianti; il breve attimo di incertezza passò; ero diviso tra il desiderio di abbattere la porta ed entrare e quello di fuggire... fuggire da una cosa che non osavo affrontare. Liberatomi da quell'orribile tumulto, non feci né l'una né l'altra cosa. Senza riflettere, senza analizzare cosa fosse meglio per mia sorella, per me stesso o per Mabel, ripresi l'azione dal punto in cui era stata interrotta. Mi allontanai da quella spaventosa porta e mi diressi lentamente verso le scale. Ma quel rumorino orribile mi seguì. Cominciai a battere i denti. Il rumore sembrava invadere tutta la casa... nei vasti atri che si aprivano lungo i corridoi che portavano alla sala da musica e persino nei terreni che circon-
davano la costruzione. Dai prati e dal giardino spoglio, dalle brutte terrazze, saliva nella notte e, dietro a esso, c'era un altro curioso suono, incompleto e indefinito, come di gemiti per la liberazione, il gemito di anime disperate e angosciate, l'arida supplica di spiriti in prigione, privi di speranza. Che avessi potuto prendere quel lieve rumore dalla camera da letto in cui l'avevo udito e diffonderlo per tutta la casa e i terreni prova lo stato di nervi in cui mi trovavo. Il lamento era sicuramente solo nella mia mente. Ma più esitavo, più difficile diventava il mio compito e, sollevando la vestaglia per paura di inciamparvi nel buio, feci l'ultima rampa per giungere nell'ingresso. Non avevo con me né una candela né dei fiammiferi; ma sapevo dove si trovavano tutti gli interruttori presenti nella stanza e nel corridoio. L'oscurità era una copertura stranamente confortante perché impediva di vedere e impediva anche di essere visto. La pesante pistola che batteva contro la coscia mentre mi muovevo mi dava l'impressione di trasportare stupidamente il giocattolo di un bambino. Provavo in ogni terminazione nervosa quella vasta e primitiva paura che è il Brivido del buio. Solo il bambino che era in me era confortato dalla pistola. La notte non era completamente nera; al di là della porta a vetri erano visibili le sbarre di ferro e scorsi anche le grandi sedie di legno, nell'ingresso, il camino, le colonne che sostenevano la scala, il tavolo rotondo al centro con i libri e i vasi di fiori e il cestino che conteneva i biglietti dei visitatori. C'erano anche il porta ombrelli e bastoni e lo scaffale con l'orario ferroviario, la rubrica telefonica e i moduli per i telegrammi. Il ticchettio degli orologi era ovunque, simile a un rumore di passi. La luce cadeva ora qui ora lì, a chiazze, dal piano superiore. Mi fermai per un momento nell'atrio per permettere agli occhi di abituarsi all'oscurità, mentre decidevo un piano di ricerca. Vidi l'edera che si arrampicava all'esterno sopra una delle grandi finestre... e poi l'alto pendolo accanto alla porta d'entrata emise un rumore stridente all'interno del suo mobile... era il pendolo da Rappresentazione, grande e sinistro, regalato dalla congregazione della chiesa del signor Franklyn... e, temendo i suoi battiti assordanti e minacciosi, presi una veloce decisione. Se altri oltre a me erano in giro nella notte, il rumore di quei rintocchi avrebbe coperto i loro passi. Così mi spostai in punta di piedi verso destra, dove il corridoio portava in sala da pranzo. Nell'altra direzione c'erano il soggiorno e il salotto, entrambi poco usati, e varie altre stanze che erano state sue e che ora erano generalmente chiuse a chiave. Pensai a mia sorella, che mi aspettava di so-
pra con l'altra donna in preda al terrore. Camminai velocemente ma a scatti. E, con mia sorpresa, la porta della camera da pranzo era aperta. Era stata aperta. Mi fermai sulla soglia e mi guardai attorno. Mi aspettavo di vedere una figura immobile nell'ombra, contro la pesante credenza, o spuntare, dall'altra parte, sotto il suo ritratto. Ma la stanza era vuota; io la sentivo vuota. Grazie alla luce che penetrava incerta dalle ampie porte finestre e che si rifletteva sul pavimento lucido della sala, scorsi di nuovo i contorni delle sedie vuote, due delle quali, la prima e l'ultima, avevano lo schienale alto e lavorato. Anche i frassini, sulla terrazza superiore, erano visibili e si stagliavano contro il cielo come le sommità solenni delle sequoie, nella terrazza sottostante. L'enorme orologio sulla mensola del camino scandiva lentamente le ore, come se i suoi congegni fossero stati rallentati e io ne vidi il pallido quadrante rotondo. Resistendo al primo impulso di accendere le luci... la mia mano si era allungata fino a sfiorare il familiare interruttore... attraversai la stanza con tale cura che la credenza e le sedie, mentre posavo la mano sullo schienale o mi muovevo sul parquet, non scricchiolarono. Non mi girai né a destra né a sinistra e non guardai indietro. Proseguii verso il lungo corridoio, pieno di objets d'art di valore, che, attraverso varie anticamere, portava alla sala da musica e solo all'inizio di questo mi fermai un momento, incerto. Perché quel passaggio, che era illuminato dalle alte finestre sulla sinistra che davano sulla veranda, era molto stretto a causa delle mensole e dei tavoli che lo occupavano. Non avevo tanto paura di andare a sbattere contro qualcosa di prezioso mentre camminavo quanto, per via dello spazio limitato, che non ci fosse posto per un'altra persona... nel caso ne avessi incontrata una. E avevo la certezza che da qualche parte, in quel lungo corridoio e in quel preciso istante, ci fosse qualcuno. Lì, nella tetra atmosfera creata da tanti mobili impersonali, sentivo la presenza di un altro essere umano; e fu con questa convinzione che la mia mano strinse istintivamente la pistola che avevo in tasca ancora prima che ci pensassi. O qualcuno era passato di lì prima di me oppure era in attesa all'altra estremità... nascosto in qualche angolo, per permettermi di passare. Era la persona che aveva aperto la porta. E, mentre me ne rendevo conto, il mio cuore parve fermarsi. Non fu il coraggio a spingermi a continuare ma un forte impulso da dietro che mi impediva di ritirarmi: la sensazione che una folla mi premesse alle spalle, sempre più vicina; che fossi già mezzo circondato, travolto, trascinato, costretto in una vasta prigione-casa dove si gemeva e si digrigna-
vano i denti, dove i vermi non morivano e il fuoco non si spegneva. Non so né spiegare né giustificare quell'ondata di emozione irrazionale che mi invase mentre ero immobile e fissavo il lungo corridoio silenzioso alla cui estremità si apriva la sala da musica, posso soltanto ripetere che nessun coraggio personale mi fece andare avanti ma che quel sentimento negativo di paura era sommerso dal vasto mare di pietà e di commiserazione per gli altri che si agitava in me. I miei sensi, almeno, non erano affatto confusi; se non altro, il cervello registrava impressioni con più acutezza del solito. Notai, per esempio, che due porte di panno che interrompevano il corridoio a intervalli regolari, creando delle piccole stanze, erano aperte... nella fioca luce un particolare tutt'altro che spregevole. Inoltre, le fronde di una palma, a tre metri da me, si muovevano ancora per l'aria che qualcuno passato di recente aveva smosso. Le lunghe foglie verdi ondeggiavano avanti e indietro simili a mani. Allora mi incamminai a scatti lungo lo spazio angusto, fiero di avere quel controllo di me stesso, e così attento che i miei piedi non fecero alcun rumore sulla stuoia giapponese che ricopriva il pavimento. Fu un viaggio che mi parve interminabile. Non avevo idea se procedessi veloce o lento ma ricordo che esaminai deliberatamente gli oggetti da una parte e dall'altra, curiosando da vicino nei recessi del muro e delle finestre. Superai le prime porte di panno e subito dopo il corridoio si allargò abbastanza da ospitare delle mensole per i libri; c'erano divani e tavolini lungo la parete. Poi lo spazio si restrinse ed entrai nel secondo tratto. Le finestre lì erano più alte e più piccole e una serie di statuine di marmo di soggetti classici messe in fila sembravano guardarmi, simili a immagini di morti. Le loro facce bianche e lucide mi vedevano ma non davano alcun segno. Superai anche le seconde porte, sollevate anch'esse e legate a dei ganci fissati nel muro. Dunque, tutte le porte erano aperte... erano state aperte di recente. E così mi ritrovai nel tratto finale del corridoio che, ampliandosi, formava un'anticamera alla sala da musica. Un tempo era stata usata per accogliere le superaffollate riunioni. Nessuna porta la divideva dal vero e proprio salone ma delle pesanti tende, solitamente tirate, delimitavano i due ambienti. Quelle tende ora erano sollevate. E lì... posso soltanto registrare l'impressione che ebbi... capii di essere infine circondato. La folla che premeva alle mie spalle ora era anche davanti a me: una moltitudine mi guardava dalla grande sala, aspettava che entrassi; da una parte e dall'altra, nell'aria sopra la mia testa, la folla si fermò. Fu comunque una pausa mo-
mentanea perché di colpo il profondo e tumultuoso movimento riprese ma in silenzio, come in una caverna sotterranea. Sentii l'agonia che vi regnava, l'appassionato conflitto, la terribile lotta per la fuga. La semioscurità nascondeva i visi imploranti che lottavano per presentarsi a me, occhi bramosi e tuttavia privi di speranza, labbra aride, bocche che si aprivano per supplicare ma che non trasmettevano alcun messaggio, e una furia di miseria e di odio che mozzava la vita che c'era in me, gelata dall'orrore di vana pietà. Quell'insopprimibile, vana Speranza era ovunque. E la moltitudine, mi parve, non era una ma tante; perché, non appena una si avvicinava all'orlo della fuga veniva trascinata indietro da un'altra che le impediva di procedere. La folla selvaggia era divisa contro se stessa. Lì c'era l'Ombra che avevo «immaginato» settimane prima e in essa lottavano eserciti di anime perse come nelle profondità di qualche pozzo senza fondo da dove non è possibile fuggire. Gli strati si mescolavano, lottavano l'uno contro l'altro in una tortura senza fine. Era in quella grande Ombra che, con chiaroveggenza, avevo visto Mabel, ma attorno alla sua orribile bocca, ora ne ero sicuro, ronzava un'altra figura delle tenebre, una figura che cercava di tenerla in vita, dal momento che, secondo lei, erano necessarie quelle oscure buche di dolore senza possibilità di fuga... Ora le moltitudini avanzavano. Furono un suono e un movimento a riportarmi in me. Il grande orologio all'altra estremità della stanza proprio allora scandì le tre. Quello fu il suono. E il movimento...? Fui consapevole di una figura che camminava al centro della sala e ricaddi di colpo nell'arena del mio piccolo terrore umano. La mano strinse di nuovo stupidamente la pistola. Mi ritrassi dietro le pesanti tende ma la figura avanzava. Ricordo ogni particolare. Dapprima mi parve enorme... quell'ombra che avanzava... molto al di là delle proporzioni umane; ma mentre si avvicinava, la misurai, non coscientemente, con le canne dell'organo che luccicavano in deboli colori. Le superava, già a metà del suo lento procedere nella grande sala. Vidi allora che la sua statura era quella di una persona normale. I prolungati rintocchi dell'orologio cessarono. Udii un rumore di passi strascicati sul pavimento lucido. Udii un altro suono... una voce, bassa e monotona, come se biascicasse una preghiera. La figura parlava. Era una donna. E in entrambe le mani tese davanti a lei stringeva un piccolo oggetto scintillante... un bicchiere d'acqua. E allora la riconobbi. Mancava ancora un istante prima che mi raggiungesse e lo usai. Mi riti-
rai, appiattendomi contro il muro. La sua voce tacque un momento mentre lei si voltava e tirava con cura le tende alle sue spalle, chiudendole con una mano. Dimentica della mia presenza, anche se toccava la mia vestaglia con le dita che scioglievano le corde, riprese la sua terribile marcia solenne, scomparendo lungo il corridoio come un'ombra. Ma passandomi davanti, riprese a parlare e io udii distintamente ogni parola che emetteva, a testa alta, la figura eretta, come se si muovesse a capo di una processione: «Una goccia d'acqua fresca, data in Suo nome, inumidirà le loro lingue che ardono.» Ripeté monotonamente quella frase ancora e ancora, allontanandosi lungo il corridoio, finché all'altra estremità sia la voce che la figura non scomparvero nelle ombre. Per un po', non ho assolutamente idea per quanto, rimasi in quell'angolo buio, la schiena premuta contro il muro. Poco per volta, il terrore che la donna tornasse mi abbandonò. E mi resi conto che l'aria era vuota, la folla che la sua presenza aveva attirato era scomparsa; ero solo negli spazi tetri di quell'odiosa casa... Poi mi ricordai all'improvviso delle donne terrorizzate che mi aspettavano al piano superiore; e mi scoprii la pelle umida e gelata dopo l'abbondante sudata. Mi preparai a tornare indietro. Ricordo lo sforzo che mi costò lasciare il sostegno del muro e l'oscurità dell'angolo nel quale mi ero nascosto per rimettermi nella luce grigia del corridoio. Camminai dapprima rasentando la parete, poi, trovando impossibile procedere a quel modo, sollevai la testa, coraggiosamente, e proseguii spedito, incurante della mia vestaglia che sfiorava i preziosi oggetti nel passare. Il vento che sibilava sinistramente contro le alte e strette finestre parve entrare anche nel corridoio; faceva così freddo; e temevo di vedere da un momento all'altro i contorni della figura della donna in attesa in un recesso o in un angolo, contro il muro, che io passassi. C'era un'altra cosa che temessi di più? Non so dirlo. So solo che avevo superato le prime porte di panno e le seconde erano a portata di mano quando fui raggiunto da un grande tuono, lanciato a un volume così prodigioso che mi parve giungere da un altro mondo. Il tuono scosse il palazzo fino alle fondamenta. Io vi ero più vicino che l'altra volta, quando mi aveva seguito dal giardino del demonio. C'era forza e durezza in esso, come di riverbero metallico. Caddi sicuramente in uno stato di confusione, quasi di paralisi, ma non provai un vero terrore perché ricordo di essere rimasto immobile per udirlo meglio. «Quello è il Rumore», mi suggerì stupidamente il pensiero e credo di aver mormorato: «Le Porte si chiudono».
Si udiva il vento soffiare, fuori, contro le finestre, perciò non può essersi trattato di un rumore forte, per me, tuttavia, era il più forte e il più profondo che avessi mai udito ma così lontano, così remoto che cominciavo a dubitare delle mie orecchie. Sembrava provenire dalle viscere della terra... i cancelli del terremoto che si chiudono sbattendo senza rimorsi all'interno della terra... il prodigioso tuono finale. Loro si erano isolati di nuovo dall'aiuto. Le porte si erano chiuse. Sentii un'ondata di pietà, un'agonia di amaro e futile odio mi invase. Allora il ricordo che avevo della figura cambiò. La Donna con il bicchiere di acqua fresca era scesa dal Cielo; ma era l'Uomo... o gli Uomini?... che insudiciavano quel terribile strato di fede e Pensiero per il mondo! Attraversai la sala da pranzo, evitando di puntare gli occhi sul ritratto per paura di vederlo sorridere d'approvazione e finalmente raggiunsi l'ingresso dove la luce che proveniva dal piano superiore sembrava ora quasi forte in confronto. Mi chiusi dietro con cura tutte le porte ma prima dovetti aprirle. La donna le aveva chiuse una dopo l'altra. Poi, sulle scale, feci i gradini a due a due. Mia sorella era davanti alla porta di Mabel. Dal suo viso, capii che anche lei aveva sentito. Non c'era bisogno di fare domande, decisi velocemente tra me. «Non c'è niente», dissi e le raccontai dettagliatamente il breve giro che avevo fatto. «È tutto tranquillo di sotto.» Possa Dio perdonarmi! Lei mi fece un cenno, chiudendosi la porta alle spalle. Il cuore mi batté forte per un momento, poi si calmò. «Mabel», disse. Quella breve parola fu come la sentenza di un giudice. Tentai di scostarla e di entrare ma lei mi fermò con il braccio. Era completamente padrona di sé e lo si vedeva. «Ss!» fece, sommessamente. «L'ho calmata con del cognac. Ora dorme tranquilla. Non dobbiamo disturbarla.» Mi tirò nel pianerottolo, verso la sua stanza, e, mentre lo faceva, il pendolo di sotto batté le tre e mezzo. Ero rimasto trenta minuti nel corridoio sottostante. «Hai impiegato molto tempo», osservò semplicemente Frances. «Ho avuto paura per te», aggiunse e mi prese la mano nella sua che era fredda e umida. 8 E poi, mentre l'orribile casa ci ascoltava nelle prime ore di quel freddo
mattino alle soglie dell'inverno, mi raccontò, con laconica brevità, cose su Mabel che udii con distacco. Non c'era niente di così insolito e tremendo in quel breve racconto, niente che non avessi già sospettato da solo. Era l'ora e l'ambiente, la conclusione, anche, che lo resero tanto affliggente: l'idea che Mabel si credesse così sconsolatamente persa... dannata al di là di ogni possibilità di recupero. Che l'avesse amato con tanta appassionata devozione da dargli l'anima in custodia non l'avevo certo immaginato, probabilmente perché non ci avevo mai pensato. Lui l'aveva «convertita», e lo sapevo, ma che lei avesse aderito con tutta se stessa a quei crudelissimi dogmi... questo mi giungeva nuovo e provai un certo shock. In amore, naturalmente, il carattere più debole é ricettivo a qualsiasi proposta. Quell'uomo aveva «proposto» il suo lago di zolfo infernale con tale vigore che lei l'aveva ascoltato e gli aveva creduto. Lui l'aveva trascinata in paradiso e il suo paradiso, una località definita tra i cieli, poteva essere pregustato lì, in miniatura, sulla terra... a Le Torri, in casa e giardino. Nel suo doloroso schema che prevedeva una manciata di salvi e milioni di dannati, lui l'aveva trascinata nel suo recinto di pecore e di capre prima che lei ne fosse consapevole. Mabel non aveva più una mente sua. Ed era la signora Marsh che gliela manteneva aperta, anche se moderatamente, mentre giudicava con quel tocco di vile e superstiziosa compassione. Ma ciò che mi riusciva difficile capire, e ancora più difficile accettare, era che, durante quell'anno all'estero, fosse stata così tormentata dalla segreta paura di quell'orribile dopo-morte da essersi finalmente ribellata e da aver tentato di recuperare quello stato di mente più limpido di cui aveva goduto prima che il prepotente religioso la circuisse... e che, tuttavia, avesse provato invano. Era tornata a Le Torri per ritrovare la sua anima e invece aveva scoperto d'averla persa per sempre. Lo stato di mente più limpido, poi, era al di là della possibilità di recupero. Nella reazione che seguiva la rimozione di quella terribile «proposta», sentiva crollare tutto ciò che lui le aveva insegnato ma cercava inutilmente la pace e la bellezza che i suoi insegnamenti avevano distrutto. Non c'era niente che li sostituisse. Era vuota, desolata, senza speranza; desiderosa com'era della gioia e della spensieratezza di un tempo, trovava solo odio e calcolo diabolico. Quell'uomo, che aveva amato al punto da perdere l'anima per lui, le aveva trasmesso un'unica cosa, fiera e nera... il terrore del dannato. Il suo pensiero l'avvolgeva come una corazza di ferro. Tutte queste cose Frances me le raccontò più brevemente di quanto non
abbia fatto io qui. Nei suoi occhi, nei gesti e nelle frasi laconiche c'era la convinzione di grandi problemi di punizione e di dramma minaccioso che la mia descrizione non riesce a rendere. Era tutto così incongruo e lontano dal mondo in cui vivevo che più di una volta un sorriso, anche se si trattava di un sorriso di pietà, apparve sulle mie labbra; ma l'immagine che scorsi di me nello specchio mi mostrò piuttosto una smorfia. Non ci fu alcuna risata quella notte. L'intera avventura sembrava così incredibile, tenuto conto che eravamo nel ventesimo secolo... la delusione, tuttavia, quella debole parola, non entrò neppure una volta nei commenti che la mia mente suggeriva ma che non espressi a voce. Ricordavo quell'Ombra severa; gli acquerelli di mia sorella; la personalità scomparsa della nostra ospite; l'inspiegabile Rumore e la figura della signora Marsh, durante il rito notturno, che era tanto infantile quanto orribile. Rabbrividii nonostante la mia forma mentis «emancipata». «Non c'è nessuna Mabel», furono le parole con le quali mia sorella mi provocò un altro brivido lungo la schiena. «Lui l'ha uccisa nel suo lago di fuoco e di zolfo.» La fissai con occhi vacui, come in un incubo in cui non accadeva mai niente di vero o di possibile. «L'ha uccisa nel suo lago di fuoco e di zolfo», ripeté più debolmente. Avevo una gran voglia di dire qualcosa di forte e di appropriato che distruggesse l'opprimente orrore che cresceva fitto attorno a noi, ma di nuovo lo specchio trasformò il mio tentativo di sorriso in un vero e proprio ghigno, tradendo la distorsione che era ovunque in quel posto. «Vuoi dire», balbettai, con un filo di voce, «che la sua fede e scomparsa ma che l'orrore è rimasto?» Feci quella domanda pieno di stupida incertezza e mi spostai per non vedere più il mio riflesso nello specchio. Lei chinò la testa come se fosse schiacciata da un peso; la sua pelle era grigia come la cenere. «Vuoi dire», continuai, più forte, «che ha perso la... mente?» «È l'incarnazione del terrore», fu la sua risposta bisbigliata. «Mabel ha perso l'anima. La sua anima è... laggiù!» Indicò orribilmente il piano inferiore. «Lei la cerca...» La parola «anima» mi riportò alla normalità. «Ma il suo terrore, cosa spaventosa, non è... non può essere... trasferibile a noi!» esclamai con forza. «Non è assolutamente convertibile in sentimenti, visioni e... neppure suoni!» Frances mi interruppe quasi con impazienza, parlando con quella con-
vinzione con la quale mi conquistò tanto facilmente quella notte. «È il suo terrore che ha fatto rivivere «gli Altri». Il terrore l'aveva messa in contatto con loro. Sono liberi e la inseguono. I suoi sforzi di resistenza hanno dato loro anche la speranza... che la fuga, in fin dei conti, è possibile. Loro lottano giorno e notte.» «Fuga! Altri!» La rabbia che sentii in me morì già sul nascere, trasformandosi in un brivido incontrollabile. In quel momento, penso, avrei creduto possibile tutto ciò che mi diceva. Mi sembrava inutile discutere o contraddire. «La forte fede di lui e anche le fedi degli altri che l'anno preceduto», ribatté lei, così sicura di sé che mi voltai a guardarmi alle spalle, «hanno lasciato la loro ombra come se fosse un grosso deposito sulla casa e i terreni. Loro, le povere anime imprigionate dal pensiero, non avevano speranza, quasi che l'ombra fosse simile a pareti di granito... finché la resistenza di Mabel, il suo sforzo per dissiparla, non ha riportato la luce. Ora sono migliaia e si affollano dietro a quella piccola luce alla ricerca della fuga. La fuga di Mabel, non te ne rendi conto? Può liberarli tutti!» Mi sentii mancare il respiro. Che i predecessori di Franklyn, i precedenti proprietari di quella casa, avessero a loro volta predicato la dannazione di tutto il mondo, escludendo soltanto la loro setta esclusiva? Che fosse quella la spiegazione dell'oscuro discorso che Frances aveva fatto a proposito degli «strati» che lottavano l'uno contro l'altro per il predominio? E se gli uomini sono spiriti e questi spiriti sopravvivono, poteva il forte Pensiero determinare la loro condizione anche dopo? Erano talmente tante le domande che mi salivano alla mente che non ne scelsi nessuna ma rimasi silenzioso, meravigliato, fuori di me e dolorosamente turbato. C'era un tale miscuglio di possibile verità e di incredibile, inaccettabile spiegazione in tutta quella storia, gran parte della quale era confermata e tuttavia tanto ancora rimaneva più oscuro di prima. Ciò che lei disse offriva una quasi-interpretazione delle mie varie e abominevoli sensazioni... conflitto, agonia, pietà, odio, fuga... ma così forzata che solo la profonda convinzione contenuta nella sua voce e nel suo atteggiamento la rendeva tollerabile. Mi ritrovai in uno strano stato mentale. Non ero in grado né di pensare lucidamente né di dire una parola per confutare le sue sorprendenti affermazioni, bisbigliate lì, nelle fredde ore del mattino presto e con un solo muro che ci separava da... Mabel. Oltre alle sue parole, tuttavia, ricordo una cosa singolare... un'atmosfera da Inquisizione che sembrava salire e riempire l'ambiente, battendo le orribili ali nere sopra la mia te-
sta. Poi, all'improvviso, tornò in me il buonsenso e affrontai Frances. «E il Rumore?» domandai, con maggiore decisione. «Il boato delle porte che si chiudono? L'abbiamo sentito tutti! Anche quello è soggettivo?» Frances si guardò attorno con un'aria così sospetta da farmi venire la pelle d'oca. Parlai bruscamente, quasi con rabbia. Ripetei la domanda e attesi con ansia la sua risposta. «Quale rumore?» fece lei, con la franca espressione di un bambino innocente. «Quali porte che si chiudono?» Ma il suo viso da grigio diventò bianco e io vidi le gocce di sudore imperlarle la fronte. Lei si aggrappò allo schienale di una sedia, poi si guardò di nuovo attorno, furtivamente. E allora capii. Non credeva in ciò che diceva. Ora lo sapevo. Ascoltava... qualcos'altro. La scoperta fece rinascere in me un'emozione ancora più forte del semplice desiderio di una spiegazione immediata. Non solo non insistetti per avere la risposta, ma avevo un vero e proprio terrore che lei potesse rispondere. Oltre a ciò, avevo paura che mi domandasse di descrivere le mie esperienze al piano inferiore... accrescendo così la loro realtà e la realtà di tutto. Forse era in grado di spiegarsi anche quelle! Sempre ascoltando attentamente, sollevò la testa e mi guardò dritto negli occhi. Dischiuse le labbra per parlare ma le parole che pronunciò mi parvero giungere da una grande distanza e la sua voce aveva il suono di una pietra che cade in un pozzo profondo e il cui destino, per quanto nascosto, è noto. «Ci siamo dentro anche noi con lei, Bill. Ci siamo dentro con lei. Le nostre interpretazioni variano... perché ci siamo dentro... soltanto in parte. Mabel ci è dentro... tutta.» Mi sentii prendere da un desiderio di violenza. Se soltanto avesse detto una parola chiara! Se solo fossi riuscito a trovarne una in me che potesse esprimere ciò che mi gridava dentro! Se solo... lo stesso vecchio lamento... fosse accaduto qualcosa! Perché tutto quel misterioso discorso che mi intontiva la mente lasciava oscurità ovunque. L'atroce significato contenuto nelle parole di Frances... e non era niente di meno che atroce... faceva luce in me ma svaniva prima di rivelarsi completamente. Mi provocò comunque una certa reazione. Ritrovai la parola. Non potrei giurare che credessi davvero in ciò che dissi, ricordo soltanto che mi sembrò saggio, in quel momento. La mia mente era in uno stato di percezione inferiore a quello della normale coscienza.
«Sì, Frances, credo che ciò che dici sia vero e che ci siamo dentro con lei.» Avrei voluto parlare con enfasi ostile, invece quello che uscì dalle mie labbra fu soltanto un mormorio per paura che lei notasse il tremito della mia voce. «Proprio per questo, sorellina mia, domani partiamo, tu e io... anzi, oggi, visto che la mezzanotte è ormai passata da un pezzo. Lasciamo questa casa di dannati. Torniamo a Londra.» Frances sollevò lo sguardo, il viso stravolto, quasi irriconoscibile. Ma non erano state le mie parole a provocare quel tumulto nel suo cuore. Fu un suono... il suono che aveva udito... così debole che lo colsi a malapena e se lei non me l'avesse indicata, non avrei mai saputo da quale direzione provenisse. Piccolo e terribile saliva di nuovo nell'immobilità della notte, un rumore di denti digrignati. E dietro ce n'era un altro... un rumore di passi incerti. Erano entrambi oltre la porta. Per un secondo, la casa mi girò attorno. Il primo istinto, quello di impedire a mia sorella che si era precipitata verso la porta di uscire, cedette il posto a un altro quando vidi l'espressione dei suoi occhi. La seguii, invece, perché era più sicura di me. La pistola in tasca batteva inutilmente contro la mia gamba. Ero incredibilmente rosso e mi vergognavo di esserlo. «Stanimi vicina, Frances», dissi, con voce roca, quando la porta si aprì e una lama di luce cadde su una figura che si muoveva rapidamente. Mabel camminava nel corridoio. Oltre a lei, nell'ombra della casa, c'era una seconda figura che faceva dei cenni ma era appena visibile. «Svelto! Prima che la prendano!» mi fu gridato nelle orecchie e le nostre braccia la raggiunsero nello stesso momento. Fu una scena orribile. Mabel non si dibatté ma crollò quando la toccammo e cadde come morta contro di noi. Riprese, tuttavia, a digrignare i denti, senza mai smettere neppure quando Frances le posò una mano sulle labbra... La trasportammo in camera sua, dove giacque, abbastanza tranquilla. Finì tutto presto... La rapidità con cui si svolse la scena la rese quasi irreale. Sembrava più un ricordo che qualcosa cui si era veramente assistito. Mabel si addormentò così in fretta che ci parve quasi di averla sorpresa mentre faceva la sonnambula. Non saprei dire. Non chiesi niente né in quel momento, né in seguito. Il mio aiuto non era servito, come la protezione della mia pistola. Frances era stranamente competente e pronta... Rimasi inutilmente per un po' accanto alla porta finché, sollevando lo sguardo con un respiro, lei non mi indicò di andare. «Aspetterò qui accanto, nella tua stanza», mormorai, «finché non verrai.» Una volta uscito, invece, attesi nel corridoio in modo da poter essere
subito presente se mi avesse chiamato in caso di bisogno. Non dovetti aspettare a lungo perché, un quarto d'ora dopo, Frances riapparve e si chiuse la porta alle spalle. Io ero appoggiato alla ringhiera e la vidi. «Entrerò di nuovo verso le sei», mi annunciò, «non appena farà chiaro. Ora dorme. Ti prego, non aspettare più. Se accadesse qualcosa, ti chiamerò... Magari puoi lasciare la porta socchiusa.» E se ne andò, simile a un fantasma. Prima di ritirarmi, però, volli vederla a letto, sana e salva, e il resto della notte lo trascorsi su una poltrona, accanto alla porta aperta della mia stanza, l'orecchio teso al minimo rumore. Poco dopo le cinque, udii Frances trafficare con la chiave e, sporgendomi oltre la balaustra, attesi finché non la vidi uscire e rientrare in camera sua. Chiuse la porta. Evidentemente era soddisfatta perché tutto filava lascio. Allora, e soltanto allora, tornai a letto ma non per dormire. Non riuscivo a togliermi dalla mente la scena, soprattutto quell'odioso particolare che speravo e credevo che mia sorella non avesse visto... l'immobile figura oscura della governante che attendeva in fondo alle scale... attendeva, naturalmente, Mabel. 9 Dopo di che, mi parve di essere un semplice spettatore; prima di tutto mia sorella era molto sicura di sé e poi, sentivo più di quanto avrei voluto la responsabilità di lasciare sola Mabel... Frances l'aveva fatta ricadere sulle mie spalle. Inoltre, quando ci incontrammo tutti e tre, più tardi, durante la giornata, le cose continuarono esattamente come prima, senza frizioni o problemi, cosicché, una scusa improvvisa per interrompere la nostra visita sembrava fuori luogo. E, comunque, sarebbe stata una diserzione. A ogni modo, era al di là dei miei poteri e Frances era più che mai convinta che lei doveva rimanere. Perciò rimanemmo. Le cose che accadono di notte appaiono sempre esagerate e distorte quando il sole torna a splendere il mattino successivo; nessuno può ricostruire il terrore di un incubo, dopo, né comprendere perché sia sembrato così spaventoso, prima. Dormii fino alle dieci e quando suonai per la colazione, assieme al vassoio mi fu portato un biglietto di mia sorella nel quale mi comunicava la sua intenzione, usando un tono calmo e confortante. Mabel, mi assicurava, era tornata in sé e non ricordava niente di ciò che era accaduto; non era necessaria alcuna misura violenta; io dovevo trattarla come se non sapessi
niente. «E, se non ti dispiace, Bill, evitiamo anche noi di parlare della questione. La discussione conduce soltanto a esagerazioni; è meglio non toccare questo argomento. Mi dispiace di averti inutilmente turbato; ero stupidamente eccitata. Ti prego, dimentica tutte le cose che ti ho detto.» In un primo momento aveva scritto «sciocchezze», sostituendo poi la parola con «cose». Voleva darmi a intendere che quella notte era stata tutto un isterismo e io accettai mio malgrado la spiegazione, anche se non mi soddisfaceva minimamente. Avevamo davanti un'altra settimana di permanenza e la trascorremmo fino alla fine senza disastri. Il mio desiderio di andarmene diventava a volte frenetico, era un desiderio di fuga; ma lo controllai e lo tenni per me. Non accadeva nulla. Come prima e ovunque, non ci furono sviluppi, nessuna connessione tra causa ed effetto; e neppure la conclusione, qualunque fosse. La cosa ondeggiava avanti e indietro, sopra e sotto come una grande tendina mossa dal vento e io potevo soltanto immaginare che cosa provocava il vento o perché c'era la tendina. Uno scrittore riuscirebbe forse a dare a questo strano materiale una sequenza coerente che sarebbe interessante ma che non potrebbe apparire vera. Resta, perciò, non un'invenzione ma una storia. Non accadde nulla. Forse la mia intensa antipatia per il cadere dell'oscurità era interamente dovuta alla mia fervida immaginazione e forse la mia rabbia, quando venni a sapere che Frances ora occupava un letto nella stanza della nostra ospite, era irragionevole. Era indubbio che avessi i nervi a fior di pelle. Ero sempre alla ricerca di qualche evento che facesse apparire imperativa la fuga ma che tuttavia non si presentava mai. Avevo il sonno leggero quando dormivo, lasciavo la porta dischiusa per cogliere il minimo rumore, facevo persino dei giri per la casa mentre tutti gli altri sognavano nei loro letti. Ma non scoprivo niente; le porte erano sempre chiuse a chiave; non rividi neppure la governante in orari e luoghi irragionevoli né udii un rumore di passi nei corridoi e nelle anticamere. Il Rumore non si ripeté più. Quell'orribile tuono, la mia più intensa paura, giaceva nell'abisso dal quale era salito due volte. E sebbene nei miei pensieri ne fosse decisamente negata l'esistenza, la grande causa nera del fatto mi affliggeva in modo incredibile. Visto l'inutile sforzo di Mabel di fuggire, le Porte restavano spietatamente chiuse. Lei aveva fallito; loro avevano rinunciato alla speranza. Perché questa era la spiegazione che tormentava quella parte della mia mente in cui i sentimenti nascono e si mostrano prima di trasformarsi in vero linguaggio. Solo che io li tenevo lì e non permettevo loro di assumere un'e-
spressione. Ma, se avevo le orecchie tese, gli occhi erano sempre aperti ed era sciocco fingere di non notare centinaia di particolari che dettavano sinistre interpretazioni alle quali avrei ceduto se fossi stato abbastanza debole. Una specie di barriera protettiva si era eretta sulle rovine attorno a me, cosicché il Terrore camminava dietro il crollo generale, raggiungendomi attraverso le fessure. Gran parte di ciò, lo ammetto, doveva essere stata una semplice elaborazione di quelle sensazioni che avevo vagamente avvertito in un primo momento, prima degli eventi che erano seguiti e delle mie conversazioni con Frances che le avevano drammatizzate in pensieri vivi. Io perciò non le nomino in questa storia così come la mia mente le ha lasciate innominate in quell'interminabile ultima settimana. La nostra vita continuò esattamente come prima... Mabel irreale ed esteriormente così immobile: Frances, segreta, ansiosa, piena di tatto al limite dell'astuzia, e decisa a difendere la posizione di quella che voleva dimenticare. C'erano gli stessi stupidi pranzi, le stesse noiose e lunghe serate, la soffocante bruttezza della casa e dei terreni, l'Ombra che si insediava sempre di più tanto da sembrare quasi visibile e tangibile. Giunsi a pensare che le uniche cose amichevoli in tutto quell'ostile e crudele posto fossero i pettirossi che saltellavano sulle mostruose terrazze e persino sulle finestre della casa. I pettirossi soltanto conoscevano la gioia; danzavano, credendo che nessuna cosa demoniaca fosse possibile nel mondo raggiante di Dio. Credevano in tutti; nel loro piano di vita non c'era posto per l'inferno, la dannazione e i laghi di zolfo infernale. Arrivai ad amare quei piccoli uccelli. Se Samuel Franklyn li avesse conosciuti, forse avrebbe fatto un sermone diverso, predicando amore invece che terrore! Trascorsi gran parte del tempo scrivendo ma si trattava più che altro di una finzione e pericolosa, anche. Perché stimolava la mente a produrre con il risultato che ne venivano fuori altre cose. E lo stesso valeva per la lettura. Alla fine, scoprii che l'unica difesa possibile era un'aggressiva e deliberata resistenza. Era fuori questione l'idea di passeggiare per i campi perché ciò significava lasciare mia sorella troppo a lungo sola, così il mio esercizio fisico si limitò a dei giretti attorno alla casa. Durante quei giri, comunque, non ritrovai il giardino del demonio. Era a portata di mano ma io sembravo incapace di raggiungerlo. Troppe cose assalivano la mia mente perché qualcuna potesse averne l'esclusivo possesso. Tutte le interpretazioni, invece, tutti gli «strati», tanto per usare il termine di mia sorella, vi erano presenti a turno e vi rimanevano per un po'. Ar-
rivavano di giorno e di notte e sebbene la ragione ne negasse l'esistenza, quelli l'occupavano ugualmente con una specie di diritto degli abusivi. Stimolavano cose già presenti in me e non ne introducevano di nuove; perché ogni mente nasconde depositi ancestrali che sono stati coltivati a turno durante la lunga linea di discendenza. Qualsiasi giorno, un acquazzone accidentale può far sbocciare questo o quel fiore. Lo stesso accadeva a me. Dopo l'oscurità, l'Inquisizione passava per i corridoi vuoti e preparava congegni infernali nei tetri ambienti; e una volta, in biblioteca, fui colto dalla facile e deliziosa convinzione che confessando la mia malvagità poi mi sarei ripreso dal momento che la Confessione è espressione e l'espressione porta sollievo e ti lascia pronto a ricominciare. E in un simile stato d'animo, mi sentivo amareggiato e implacabile verso gli altri che la pensavano diversamente. Un'altra volta, ad assalirmi fu una cosa pagana... così banale e insignificante... quando sognai che un branco di centauri si avvicinava alla casa con un grande tumulto di zoccoli per distruggerla e poi mi svegliai per udire i cavalli che pascolavano nel campo sotto ai prati; nitrivano sinistramente e i loro versi sembravano arrivare da sotto la mia finestra. Ma l'episodio dell'albero, credo, fu il più curioso di tutti... fatta eccezione, forse, per l'incidente con i bambini che racconterò tra poco, perché la sua vicinanza alla realtà fu indimenticabile. Fuori della finestra della mia stanza, che dava a oriente, c'era una gigantesca sequoia sul prato, i cui rami arrivavano al livello del telaio superiore. Distava circa sei metri e si trovava sulla terrazza più alta. Spesso la vedevo quando chiudevo le tende per la notte, ne notavo le pesanti fronde e come la luce proveniente dalle altre finestre ne illuminasse delle parti che assumevano l'aspetto di una figura torreggiante e solenne. Era lì così straordinaria e in un certo qual modo così simile a un antico idolo che attirava la mia attenzione. La sua presenza era curiosamente formidabile. I rami frusciavano senza visibili movimenti e l'albero aveva un'aria portentosa e minacciosa, grande, scuro e mostruoso di notte tanto che ero sempre contento quando le tende erano chiuse. Tuttavia, una volta a letto, me la dimenticavo e, di giorno, non ci pensavo mai. Ma una sera, prima di andare a letto, chiusi le finestre contro il vento che soffiava da est e vidi... che ce n'erano due di quegli alberi. Una sequoia identica si ergeva misteriosamente accanto all'altra, della stessa altezza, altrettanto torreggiante e mostruosa. I due alberi minacciosi erano di fronte a me, là, sul prato. Ma in quel nuovo arrivo giaceva una strana suggestione che mi spaventò prima che potessi liberarmene. Copia esatta del suo gigan-
tesco compagno, rivelava anche quell'odiosa qualità che era presente in tutti i dipinti di mia sorella. Ebbi la strana impressione che il resto di quegli alberi, che crescevano in quantità sui prati più lontani, fossero simili e che, guidati dai primi due, si fossero tutti avvicinati alle mie finestre. In quel preciso momento, una tenda venne tirata in una stanza di sopra; il secondo albero scomparve nell'oscurità circostante. Era stata, naturalmente, la luce a portarlo nel campo visivo ma quando la tenda l'aveva nascosta aveva nascosto anche l'albero. Tuttavia, il modo in cui quest'ultimo era scomparso aveva fatto sembrare che fosse entrato nell'altro... quasi fosse stata una emanazione di quello che tanto odiavo! Il giardino si trasformava così in un mezzo per esprimere ciò che giaceva dietro il tutto! Il comportamento delle porte, piccole e comuni porte, non sembra essere degno di descrizioni, anche se si aprono e si chiudono da sole; il che poteva essere dovuto a centinaia di spiegazioni naturali e, a dire la verità, non ne vidi mai una nell'atto di muoversi. Solo dopo frequenti ripetizioni, invece, il particolare si impose alla mia attenzione e notatone uno li notai tutti. Se ne poteva ricevere, comunque, la spiacevole impressione di un continuo uscire ed entrare in casa, come se, tenendosi accuratamente nascosto, qualcuno nel palazzo avesse dei costanti e invisibili rapporti con... gli altri. Non mi addentro nelle descrizioni dettagliate di questi incerti incidenti, individualmente così insignificanti, ma, se messi insieme, così impressionanti e insolenti. Ma l'episodio dei bambini, accennato poco sopra, fu diverso. E lo riporto perché mostrò come la mente intuitiva del bambino ricevette vividamente l'impressione... un'impressione, comunque... di ciò che c'era nell'aria. Lo si può raccontare con pochissime parole. Credo che fossero i bambini del cocchiere e che l'uomo fosse stato al servizio del signor Franklyn; ma di nessuna delle due cose sono assolutamente sicuro. Udii gridare nel roseto che corre lungo le mura della stalla... era più o meno l'ora del tè del pomeriggio... e, quando accorsi, trovai una bambina di nove o dieci anni legata con delle corde a un sedile rustico e due altri bambini... maschietti, uno sui dodici anni e l'altro più piccolo... che raccoglievano dei legnetti sotto gli alberi di rose rampicanti. La bambina era pallida e spaventata ma gli altri ridevano e parlavano tra di loro così animatamente che non notarono il mio improvviso arrivo. Stavano facendo un qualche gioco, credo, ma un gioco che era diventato troppo serio per la felicità della prigioniera perché la paura che c'era negli occhi della piccola era vera paura. La liberai subito; le corde non erano state legate strettamente e non lasciarono segni sulla pelle, dunque non era stato questo a farla impallidi-
re. Lei crollò per un momento sulla panchina, poi si alzò e corse via, riparandosi nel cortile della stalla. Il mio intervento non ottenne nessun ringraziamento, dal modo in cui corse via, tuttavia, capii che doveva aver subito una qualche crudeltà da parte dei ragazzini. Probabilmente si trattava di semplice mancanza di riguardo, tanto più che i bambini di solito sono crudeli, ma qualcosa in me decise di scoprire che cosa esattamente fosse. E i ragazzini, niente affatto allarmati dalla mia presenza, si misero a ridere quando spiegai che la loro prigioniera era fuggita e mi dissero con franchezza qual era stato il loro «progetto». Non c'era ombra di vergogna in loro né, naturalmente, la più pallida idea che stavano imitando una mostruosa realtà. E che fosse una semplice finzione non aveva alcuna importanza. Per loro, comunque, fingere era fingere qualcosa che era giusto, naturale e in alcun senso crudele. Anche gli adulti lo facevano. Era necessario per il bene della bambina. «Avevamo intenzione di bruciarla, signore», mi informò il più grandicello, e al mio «Perché», rispose: «Perché non credeva a ciò che volevamo farle credere.» E anche se si trattava di un gioco, la sensazione di realtà di quel piccolo episodio era così sbalorditiva, in un certo qual modo così terrificante, che, in quell'occasione, feci una gran fatica a limitarmi ad ammonirli a parole. I ragazzini se la svignarono, a loro volta spaventati, ma, capii, niente affatto convinti di aver commesso un errore di principio. Era qualcosa che avevano ereditato. L'avevano respirato nell'atmosfera nella quale erano cresciuti. Avrebbero ripreso la salutare tortura non appena ne avessero avuto l'occasione... finché la bambina non avesse «creduto» ciò che loro volevano farle credere. Tornai in casa, tormentato da un miscuglio di pietà e di disperazione impossibile a descriversi, ma durante il breve percorso in giardino fui assalito da altri stati d'animo, ognuno più reale e più amaro dell'altro. Mi parve di essere un sommozzatore che tornava in superficie attraverso strati d'acqua a temperature diverse, dove l'ordine naturale era rovesciato, e gli strati più freddi erano quelli più in alto e i più caldi quelli in fondo. Venivo raggiunto dal tocco demoniaco dei salici che delimitavano il campo; dai rami ricurvi del frassino che formavano un passaggio verso il gruppetto di giovani querce dove fauni e satiri si nascondevano a giocare sotto la luce della luna davanti ad altari pagani; e dall'oscurità del boschetto di pini striminziti, l'uno vicino all'altro, dove figure incappucciate camminavano dietro a una croce orribile. L'episodio con i bambini sembrava avermi trafitto come
un coltello. Tutto il Posto mi si avventava addosso. Sospetto che questa sintesi di molti stati d'animo producesse in me quel culmine di ripugnanza e di disgusto che mi indicarono che avevo raggiunto il limite dell'emozione sopportabile, ragione per cui andai a cercare Frances per convincerla che io dovevo partire a ogni costo. Perché, sebbene quello fosse l'ultimo giorno della nostra permanenza in quella casa e avessimo già deciso si partire quello successivo, avevo una gran paura che lei trovasse qualche buona ragione per rimanere ancora. E un incidente inaspettato rese inutile la mia paura. La porta d'ingresso era aperta e un tassì era nel vialetto; un alto uomo anziano stava parlando con gravità nell'ingresso con la cameriera che chiamavamo il granatiere. Stringeva un pezzo di carta in mano. «Sono venuto a vedere la casa», lo sentii dire, mentre salivo le scale per raggiungere Frances che guardava, come un bambino curioso, dalla balaustra. «Sì», mi disse lei, con un sospiro, non saprei dire se di rassegnazione o di sollievo, «la casa deve essere affittata o venduta. Mabel ha deciso. Una società o l'altra, credo...» Ero felicissimo: questo rendeva la nostra partenza sicura. «Non me l'avevi detto, Frances!» «Mabel ne ha sentito parlare solo qualche giorno fa. Me l'ha detto questa mattina. Dice che è un'occasione. Lei non riesce a rimetterla "a posto".» «Sconfitta?» domandai, osservandola da vicino. «È convinta di aver trovato una via d'uscita. Vedi, non si tratta di una famiglia ma di una società, una specie di comunità... entrano per...» «Una comunità? Vuoi dire una comunità religiosa?» Lei scosse la testa. «Non proprio», rispose, sorridendo, «ma una sorta di associazione di uomini e di donne che vogliono un centro in campagna... un posto dove possono scrivere e meditare... pensare... perfezionare i loro progetti e tutto il resto... non so esattamente cosa.» «Sognatori utopisti?» domandai, sentendomi tuttavia invadere da un immenso sollievo. Feci la domanda per ignoranza, non con cinismo. E Frances lo capì. Capiva sempre tutto. «No, non proprio», ripeté. «I loro insegnamenti sono semplici e vecchi come il mondo. La base di qualsiasi religione prima che la mente umana le pervertisse con le fedi inventate...» Dei passi sulle scale e un rumore di voci interruppero la nostra strana conversazione mentre il granatiere saliva, seguito dall'uomo alto e dall'aria grave cui doveva essere mostrata la casa. Mia sorella mi tirò per il corri-
doio, in camera sua, poi chiuse la porta ma io feci in tempo a lanciare un'occhiata al visitatore... un'occhiata che mi permise di averne un'impressione precisa. C'era qualcosa di forte e di tranquillo nella sua presenza; si muoveva con calma dignità; l'espressione dei suoi occhi era così ferma e rassicurante che lo catalogai subito come una persona cui ci si sarebbe rivolti in caso di emergenza e che non avrebbe deluso. L'avevo visto solo per un momento ma per ben due volte, il suo modo di camminare lungo il corridoio, guardandosi attorno con aria competente, mi diede la stessa idea che avevo avuto quando l'avevo scorto accanto alla porta... un tipo senza paura, tollerante e saggio. «Un carattere sincero e buono», mi dissi, «un uomo che l'amore ha allenato alla dolcezza verso il mondo; non c'è ombra di odio in lui.» Non era poco quello che avevo notato con una semplice occhiata! E la sua voce me lo confermò. «Sono diventato di colpo sensibile alle atmosfere delle persone?» mi chiesi, sorridendo, mentre mi trovavo nella stanza e sentivo la porta chiudersi alle mie spalle. «Ho sviluppato il potere della chiaroveggenza, qui?» In qualsiasi altra circostanza, ne avrei riso. Mi sedetti di fronte a mia sorella e, per la prima volta da quando avevo messo piede a Le Torri, fui pervaso da uno strano senso di conforto e di pace. Frances mi guardava, sorridendo. «Lo conosci?» domandai. «Hai avuto anche tu la stessa impressione?» mi chiese lei per tutta risposta. «No», aggiunse, «non lo conosco... a parte il fatto che è un leader del movimento e che ha consacrato anni e denaro ai suoi obiettivi. Mabel ha provato la stessa cosa che hai provato tu... e non se l'è lasciato scappare.» «Ma l'avevi già visto?» insistetti perché ero sicuro che non le fosse estraneo. Lei scosse la testa. «È venuto un giorno all'inizio di questa settimana, mentre tu eri fuori. Mabel l'ha visto...» Esitò un momento, come se si aspettasse che la interrompessi con la solita impazienza che mostravo per argomenti del genere. «...e penso che lui le abbia spiegato tutto... Mabel afferma che le fedi in cui lui crede sono la sua salvezza... o, piuttosto, potrebbero esserlo se riuscisse ad adottarle.» «Un'altra conversione!» Mi ricordai delle ricchezze di Mabel e pensai a come sarebbe stata felice un'associazione di appropriarsene. «Gli strati di cui ti ho parlato», andò avanti lei, con calma, scrollando leggermente le spalle, «i depositi che hanno lasciato il forte pensiero e la vera fede... ma soprattutto la fede minacciosa e piena di odio perché, ve-
di... sfortunatamente c'è più passione vitale in quel genere...» «Frances, non capisco», dissi, ma in tono umile perché l'impressione che mi aveva lasciato quell'uomo era ancora forte in me e gli ero grato per il senso di pace e di conforto che mi aveva in qualche modo trasmesso. Gli orrori erano stati troppo spaventosi. Avevo i nervi indubbiamente tesi. Per quanto potesse sembrare assurdo, lo accomunai ai pettirossi, i felici e fiduciosi pettirossi che credevano in tutti e non pensavano al demonio! Risi per un attimo alla mia ridicola idea e mia sorella, incoraggiata da quel segno di pazienza, continuò più scioltamente. «È naturale che tu non capisca, Bill. Perché dovresti? Non hai mai pensato a cose del genere. Non sentendo il bisogno di una fede, sei convinto che siano tutte delle sciocchezze.» «Io sono pronto a farmi persuadere... sono tollerante», protestai. «Hai la mente ristretta come Sam Franklyn e piena di pregiudizi», ribatté lei, sapendo che mi teneva in pugno. «Allora, avanti, quali possono essere i credi suoi o della sua associazione?» domandai perché non avevo alcuna voglia di mettermi a discutere. «E come proveranno la salvezza della tua Mabel? Sono in grado di portare bellezza in tutto questo odio aggressivo e in tanta bruttezza?» «La pace e la speranza, sicuramente. Quella pace che è comprensione e quella comprensione che spiega tutti i credo e perciò li tollera tutti.» «Tolleranza! L'unica parola che un uomo religioso disprezza più di tutte le altre! La sua parola preferita è dannazione...» «Li tollera», ripeté lei, con pazienza, niente affatto turbata dalla mia esplosione, «perché li include tutti.» «Bene, è vero», ammisi, «molto bene. Ma come li include tutti?» «Perché la parola chiave della loro associazione, il motto è "Non c'è religione più elevata della Verità", e non ha dogmi di alcun genere. Soprattutto, perché afferma che nessun individuo può "perdersi". Predica la salvezza universale. È incivile, infantile, impuro condannare quelli che la pensano diversamente. Alcuni impiegano più tempo di altri... dipende da come pensano e da come vivono... ma, alla fine, tutti trovano la pace. Le fedi chiamano anima senza speranza quella che ha ancora del cammino da fare. Ma non esiste dannazione...» «Bene, bene» esclamai, capendo che correva troppo per me, «ma che rapporto c'è tra tutto ciò e questo orribile posto? E Mabel? Ammetto che su questa casa incombe un'atmosfera di... di inspiegabile orrore e che se non è di dannazione è comunque maledetta. Non sono troppo pieno di pregiudizi
da negarla perché l'ho sentita anch'io.» Con mio grande sollievo, fu breve. Faceva le sue affermazioni ma mi permetteva di accettarle o confutarle. «Il pensiero e la fede che i precedenti occupanti si sono lasciati dietro. Perché c'è stata coincidenza qui, una rara coincidenza. Il sito sul quale sorge ora questa casa moderna era romano e, prima, degli Antichi Britanni e, prima ancora, dei Druidi... pietre dei Druidi giacciono ancora nel boschetto sotto al campo e ci sono dei Tumuli tra i lecci dietro il viale. La precedente costruzione che Sam Franklyn ha modificato e che ha fatto praticamente demolire era un monastero: lui ha trasformato la cappella in una sala per le riunioni, che è ora la sala da musica; ma, prima che venisse qui, la casa era occupata da Manetti, un cattolico violento privo di tolleranza e di intuizione; e, nell'intervallo tra i due, c'è stato Julius Weinbaum, un ebreo rigidissimo... perciò hanno lasciato tutti le loro...» «Anche così», ripetei, curioso di sentire il resto, «che rapporto c'è?» «Semplicemente questo», disse Frances, con convinzione, «che ognuno a turno si è lasciato alle spalle il suo pensiero concentrato e la sua fede; perché ognuno credeva intensamente, assolutamente, al di là della minima possibilità di dubbio... il genere di forte fede e di pensiero che è raro al giorno d'oggi, il genere che domina con la forza di volontà, ne impregna gli oggetti, satura l'atmosfera, per farla breve, ossessiona. E ognuno, credendo di essere nel giusto, ha condannato con convinzione il resto del mondo. Uno e tutti predicavano questo, implicitamente se non esplicitamente. È la radice di ogni fede. L'ultimo di questa sinistra serie di fanatici è stato Samuel Franklyn.» L'ascoltavo, sempre più sorpreso. Fino a quel punto, la sua spiegazione era ammirevole. Era un vero e proprio studio di psicologia. «Allora perché non accade mai niente?» domandai. «Un luogo così ossessionato dovrebbe produrre una serie di risultati niente affatto comuni!» «Qui c'è la prova», rispose lei, abbassando il tono della voce, «la prova dell'orrore e della realtà distorta. Il pensiero e la fede di ogni occupante hanno tenuto a turno gli altri sotto controllo. Allora non dettero alcun segno di vita, ma i risultati del pensiero non muoiono mai. Si rivelano di nuovo non appena si presenta un'apertura. E, con il ritorno di Mabel nello stato negativo in cui versava che la portava a credere di non avere niente di positivo in sé, il posto per la prima volta si è trovato libero di riprodurre i suoi depositi sepolti. Dannazione, fuoco dell'inferno e tutto il resto... il concetto più permanente e vitale di tutti i credo, perché veniva applicato
alla maggioranza del mondo... si sono liberati di nuovo perché niente li teneva più a freno. Ognuno tentava di ottenere l'antica supremazia. Nessuno la conquistava. E i risultati sono stati un pandemonio di odio e di paura, di lotta per la fuga, di amari conflitti per la ricerca della pace... della salvezza. Questo luogo è saturo di quella spaventosa corrente di pensiero... il terrore del dannato. Si è concentrato su Mabel, il cui atteggiamento negativo forniva la via di uscita. Tu e io, per la nostra comprensione nei suoi riguardi, eravamo altrettanto coinvolti. Non accadeva niente perché nessuno strato riusciva a guadagnare la supremazia.» Ero così interessato... non oso dire divertito... che la fissai in silenzio quando si fermò un istante, timoroso che traesse troppo in fretta le conclusioni di quella favola. «I credo di quest'uomo o, piuttosto, della sua associazione, vigorosamente pensati e perciò vigorosamente distribuiti qui, rimetteranno a posto questo luogo. Agiranno come un solvente. Gli strati maligni negati si fonderanno e scompariranno nel fiume di gentile e tollerante comprensione che è l'amore. Perché ogni membro, degno del nome, ama il mondo e tutti i credo finiscono nel crogiuolo; anche Mabel, se li accetta con vera convinzione, troverà la salvezza...» «So che il pensiero è molto importante», obiettai, «ma non esageri forse il potere della sensazione e dell'emozione che in religione sono au fond sempre isterici?» «Che cos'è il mondo se non pensiero e sensazione? Il mondo di un individuo è interamente ciò che l'individuo pensa e crede... interpretazione. Non ce n'è un altro. E a meno che lui non pensi e non creda realmente, non ha un mondo permanente. So che poche persone pensano e che ancora meno credono e che la maggior parte prende vestiti confezionati o se li fa fare. Che solo le persone forti si fanno da sole le loro cose; le meno forti, Mabel è tra quelle, sono attirate da ciò che viene preparato per loro. E lo seguono. Tu e io ci siamo fatti da soli, Mabel no. Lei è una persona insignificante e quando la fede le viene strappata, la segue.» Non provai in quel momento il desiderio di criticare l'evasione o di trovare il cavillo nella verità. Volevo soltanto che lei continuasse. «Nessuno di noi possiede la Verità, cara Frances», azzardai, vedendola silenziosa. «Esatto», ribatté lei, «ma molti di noi hanno fede. E ciò che crede o pensa una persona riguarda il mondo intero. Pensa all'eredità d'odio e di cru-
deltà contenuta nelle dottrine che gli uomini hanno costruito sui loro credo in cui il sine qua non della salvezza è l'assoluta accettazione di un particolare modo di vedere le cose o la dannazione eterna... perché, solo rinnegando la storia, la si può ripudiare...» «Non sei molto giusta», la interruppi. «Non tutti i credo predicano la dannazione. Franklyn l'ha fatto, naturalmente, ma gli altri si sono leggermente modernizzati ora, no?» «Tentano di farlo», ammise lei, «forse lo fanno ma la dannazione dei non credenti... della maggior parte del mondo, in realtà... è il loro concetto preferito, se li senti parlare.» «Non mi è mai capitato.» Lei sorrise. «Ma a me sì», disse. «Perciò, se consideri ciò che i vari occupanti di questa casa hanno così vigorosamente pensato e creduto, non ti sorprenderà che l'influenza che si sono lasciati dietro sia un'eredità oscura e spaventosa. Perché il pensiero lascia...» La porta che si aprì, con mio grande sollievo, la interruppe. Il granatiere entrò per mostrare la stanza al visitatore. Lui chiese scusa a tutti e due, si guardò attorno e si ritirò. E anche la nostra conversazione terminò. Io seguii l'uomo fuori. A nessuno dei due, comunque, così almeno credo, interessava continuare il discorso. E così, per quanto ne so, termina qui anche la curiosa storia de Le Torri. Non ci fu alcuna conclusione perché, in realtà, non accadde mai niente. L'indomani mattina, partimmo per Londra. So solo che l'associazione in questione prese la casa e che, da allora, la occupa con grande soddisfazione e che Mabel, che poco dopo diventò un membro dell'associazione, ora risiede spesso laggiù, quando ha bisogno di riposo dalle fatiche ardue e altruistiche cui si è dedicata. Ha cenato con noi l'altra sera, qui, nel nostro piccolo appartamento di Chelsea, e non avrei potuto desiderare un'ospite più allegra, più equilibrata, più interessante e felice di lei. Mi è sembrata vitale, nel vero senso della parola. È tornata alla vita. Mi è stato difficile credere che fosse la stessa donna la cui effigie spaventosa fluttuava per i tetri corridoi e quasi scompariva nelle profondità di quell'Ombra atroce. Sono stato abbastanza saggio da non chiedere quali erano i suoi credo, ora, e Frances, con mio grande sollievo, ha mantenuto la conversazione alla larga da tali argomenti inappropriati. Mi è parso chiaro, comunque, che la donna avesse una qualche segreta fonte di gioia, che ora fosse una forza aggressiva e positiva, sicura di sé e, apparentemente, senza alcuna paura
del paradiso o dell'inferno. Attorno a lei, aleggiava una specie di speranza e di coraggio e parlava come se il mondo fosse un posto glorioso dove tutti erano gentili e belli. Il suo ottimismo era sicuramente contagioso. Le Torri sono state menzionate solo di passaggio. È uscito il nome di Marsh... non la Marsh ma come se si trattasse del nome di un libro di cui si stava discutendo... e io non sono riuscito a trattenermi. La curiosità è stata troppo forte. Ho fatto una serie di domande cui Mabel avrebbe potuto non rispondere se voleva. Ma non c'è stato alcun desiderio di farlo. La sua risposta è stata franca e allegra. «Ci credereste? Si è sposata», mi ha detto, nonostante fosse sorpresa dal fatto che mi ricordassi della governante. «Ed è felice. Ha trovato il suo rifugio. Si tratta di un sergente...» «Dell'esercito!» ho azzardato. «Dell'esercito della salvezza», ha spiegato lei. Frances mi ha lanciato un'occhiata. Io mi sono messo a ridere perché quella notizia mi ha sorpreso. Non so dire esattamente perché ma mi aspettavo di udire almeno che la donna aveva fatto una brutta fine, che era magari arsa viva. «E Le Torri, ora soprannominate la Casa di Riposo», ha continuato Mabel, «mi sembrano il posto più tranquillo e delizioso d'Inghilterra...» «Vero», ho commentato, educatamente. «Quando vivevo là, un tempo... mentre c'eravate voi, forse, anche se non ne sono sicura», ha detto Mabel, «circolava la voce che la casa fosse abitata dagli spiriti. Non è strano? È il posto meno indicato per ospitare fantasmi che mi sia mai capitato di vedere. Non c'era l'atmosfera adatta.» Parlando, si è rivolta a Frances e a me ha lanciato un sorriso che, apparentemente, non conteneva alcun significato recondito. «Ha notato qualcosa in proposito quando era laggiù?» Questa domanda l'ha diretta proprio a me. «Per me era... be', difficile dedicarmi a una qualsiasi cosa», ho risposto dopo un attimo di esitazione. «Non riuscivo a lavorare in quella casa...» «Eppure pensavo che avesse scritto quel meraviglioso libro sul Sordo e sul Cieco mentre era in casa mia», ha osservato lei, con aria innocente. «Oh, no, non allora», ho balbettato, «a Le Torri ho soltanto scritto qualche annotazione. La mia mente si rifiutava stranamente di produrre in quel posto. Ma... perché me lo chiede? È per caso... dovrebbe essere accaduto qualcosa laggiù?» Lei mi ha guardato direttamente negli occhi, scrutandomi per un mo-
mento, prima di rispondere, semplicemente: «Non che io sappia». FENGRIFFEN Fengriffen di David Case Fengriffen And Other Stories, 1971 David Case, nato nel 1937, è uno scrittore americano che trascorre gran parte della sua vita in Inghilterra e in Europa scrivendo romanzi sotto pseudonimo. Di tanto in tanto, volge il suo talento al soprannaturale, sebbene mai in modo tale da essere annoverato da un sufficiente numero di lettori tra gli scrittori di questo genere. Apparve al grosso pubblico per la prima volta nel 1969 con la raccolta The Cell, chiara espressione della sua predilezione per racconti di licantropia psicologica. Avrebbe scritto in seguito un intero romanzo sul tema, Wolf Tracks (1980). Era un tema che ricorreva nella sua seconda raccolta, Fengriffen (1971), titolo che ho scelto qui. Venne ripreso da Milton Subotsky per il film And Now the Screaming Starts, del 1972. Case suppone di aver visto una volta, in Grecia, un lupo mannaro - forse è questo lo spunto che lo ha indotto a scrivere, attingendo dalla sua personale esperienza. Esiste certamente una meravigliosa atmosfera intorno a «Fengriffen», il racconto di una maledizione familiare. Di recente, Case si è dedicate a un romanzo su una maledizione più antica in The Third Grave (1981). Si aspetta da parecchio tempo un suo nuovo libro. La mia prima impressione di Fengriffen fu: scheletrica. La vidi dalla carrozza, stagliata contro un tempestoso sole al tramonto come le ossa annerite di una qualche mostruosa bestia. Non le fragili ossa bianche di un uomo in decomposizione, ma le massicce colonne ad arco di un sauro primordiale che si fosse avventurato in quella desolata landa e là si fosse adagiato e morto, forse di solitudine, ere prima. Guglie e torri s'avventavano nel cielo in forme acute mentre la struttura sotto, sprofondata ma non intimorita, s'accovacciava pronta a scattare, cosicché la casa sembrava esistere su due piani nello stesso tempo massiccia e snella, corpulenta e leggera, grossolana e fragile. Era un costruzione passata attraverso una serie di errori architettonici, e incuteva timore. Arrivammo da est per un tortuoso sentiero attraverso le colline, e l'ago-
nia del tramonto faceva da sfondo alla casa. Il cielo volgeva al nero ai margini di un orlo rosso sangue inciso su una sera bassa e tempestosa. Le torri ardevano e gli alberi più alti catturavano gli ultimi raggi obliqui che le nuvole lasciavano ancora filtrare, mentre il mondo sottostante era già immerso nel sudario della notte. Sono un uomo di scienza, raramente contagiato dagli umori e non molto propenso a cedere a pensieri fantastici, e tuttavia, mentre osservavo quella rimarchevole costruzione, avvertii un male pervadermi, un segno di sacrilega oscurità. Per un lungo minuto continuai a fissare la casa prima di riprendermi e sorridere a me stesso per quelle mie sensazioni irrazionali, poi mi chinai verso il conducente. Il quale non aspettò la mia domanda. «Già, questa è Fengriffen», disse. Fece schioccare la frusta. Mi riappoggiai allo schienale. Il vento soffiava tra gli alberi facendo da contraltare al rumore degli zoccoli dei cavalli, e forse fu il freddo dell'aria a farmi rabbrividire. La carrozza girò attorno e si fermò davanti all'ingresso principale, un arco di pietra nel quale erano incastonate porte massicce di legno che, aperte, avrebbero lasciato passare un gigante. Porte che valevano un ponte levatoio, pensai, erette contro schiere di armati e assalti di dragoni. Un uomo avvertiva la propria nullità di fronte a portali come quello. Il conducente prese il mio bagaglio, lasciando i cavalli a brucare nervosamente l'erba, in attesa di essere condotti alla stalla. Mentre ci avvicinavamo, le porte s'aprirono silenziosamente e un servitore, curvo per gli anni, mi prese cappello e bastone e alleggerì poi il conducente del bagaglio. Il conducente se ne tornò alla carrozza e io passai sotto l'arco ed entrai nella casa. «Voi siete il dottor Pope?» chiese il servitore. «Sì.» «Il padrone vi sta aspettando nella biblioteca. Volete seguirmi, signore?» Mi condusse per un corridoio dai pannelli di legno di tali dimensioni che, nell'oscurità, non ne potevo scorgere la fine e bussò con discrezione a una porta. Una voce rispose: «Avanti». Il servitore aprì e si fece da parte per lasciarmi entrare in un'imponente stanza tutta quercia e cuoio, illuminata dalle candele. Charles Fengriffen venne avanti e tese la mano. «Ah, dottor Pope... Siete stato gentile a venire così presto. Vi sono grato.» La sua stretta era salda e asciutta. Era un uomo alto e magro, con linea-
menti aristocratici e una sufficiente condiscendenza che teneva a freno una certa arroganza. Tuttavia, sotto la superficie, si agitava qualcosa, un'emozione, e nei suoi occhi c'era un che di disperato. La cosa non mi sorprese più di tanto. Non mi aveva fatto venire da Londra senza una ragione. «Spero che il vostro viaggio non sia stato disagevole.» «Non mi lamento.» «E non infruttuoso.» Sostenne il mio sguardo per un momento, poi distolse nervosamente il suo. Era naturale che stesse sperimentando un certo grado di nervosismo a proposito del nostro incontro; naturale che avesse dubbi e incertezze su uno come me che praticava una scienza ancora giovane e non aveva riguardi per l'urgenza con la quale mi aveva fatto venire. Ero ormai abituato a simili reazioni e, devo dire, rassegnato perché molto spesso compromettevano l'efficacia dei risultati. «Spero di no, sir.» «Sì», disse lui. Si guardò attorno per la stanza con un'espressione vaga. Mi offrì poi una sedia accanto al fuoco, sedette di fronte a me, poi si alzò di nuovo e si avvicinò alla mensola del camino. Tornò con una caraffa e, senza chiedermi se volessi bere o meno, mi versò un cognac. Lo assaggiai e lo trovai eccellente. «Sarete stanco e affamato», disse. «Magari prima di parlare...» «Sono più incuriosito che affamato.» «Incuriosito?» «La curiosità è indispensabile nel mio campo.» Fengriffen annuì. «Chi vi ha parlato di me, sir?» «Il dottore del villaggio. Il dottor Whittle. Un brav'uomo, capace di aggiustare un osso rotto ma poco versato nelle moderne tecniche di... di...» «Psicologia.» «Ah, sì, psicologia. Sì. Il dottor Whittle ha sentito parlare dei vostri studi a Leipzig e del vostro successo e ha suggerito che mi avvalessi dei vostri servigi.» «Molto raro. Sono pochi i medici di provincia che hanno fiducia nella mia scienza. In realtà, sono pochi che la conoscono.» «Già, Whittle è un brav'uomo che riconosce i propri limiti.» «E il problema?» Fengriffen fece un gesto privo di senso. «Una questione di psicologia, indubbiamente?»
«Non ne sono sicuro, sir. Una questione davanti alla quale sono assolutamente impotente. Certo è che ho un disperato bisogno di aiuto, un aiuto che spero voi saprete darmi. Vi assicuro anche che non saprò mostrarmi ingrato...» Sollevai una mano per interromperlo. Non sono mai stato in grado di trattare l'aspetto finanziario di queste cose. «Il messaggio parlava di vostra moglie...» «Sì, è così.» «E c'è qualcosa che la turba?» Lui annuì, si guardò le mani, poi sollevò di nuovo la testa e mi fissò. «Temo che stia perdendo la sua sanità di mente», disse. Era più di quanto mi fossi aspettato. Ci guardammo per qualche momento l'un l'altro, poi lui rabbrividì e distolse lo sguardo. «Cosa ve lo fa pensare?» chiesi. «Ci sono certi sintomi... certi cambiamenti nei suoi atteggiamenti verso di me, delle alterazioni nel suo aspetto fisico, un disinteresse verso tutte quelle cose che pure non molto tempo fa trovava interessanti. È come un declino d'affetto e tuttavia sono certo che si tratti di più. Eravamo molto innamorati, capite?» Parve ripetere la frase più a se stesso, come per valutarne il significato o piangere su una perdita. Attesi in silenzio. «E dalla sua gravidanza, questi cambiamenti sono divenuti più rapidi; più evidenti.» «Capita ed è normale con la gravidanza.» «Non sono cambiamenti normali, ve lo assicuro. Mia moglie sembra disprezzarmi, temo. L'ho sorpresa spesso a guardarmi con un tale odio... E con lo stesso odio l'ho vista guardarsi il ventre gonfio, non so se mi capite... Con una specie di sogghigno disumano. Temo che non voglia il mio bambino. Se si trattasse soltanto di disaffezione nei miei riguardi... Ma non ci sono motivi, giustificazioni. Ho paura che la sua mente si sia fatta una qualche falsa congettura...» «Dovete capire, sir... Io sono un medico e uno psicologo, non un consulente matrimoniale.» «Sì, sì, me ne rendo conto. Forse vi sembrerà che mia moglie non mi ami più. Ma io conosco Catherine... la conoscevo, eravamo molto felici. Il suo comportamento è inesplicabile per me. Se voi poteste scandagliare questo mistero... trovare se non una cura, almeno un qualche motivo...» «Farò quello che potrò.» «Non posso chiedervi di più.»
«Vostra moglie sa perché sono qui?» «Sa che siete un dottore. Non l'ho informata della vostra... del vostro campo di studi. Volete parlare con lei?» «A tempo debito. Non direttamente. Cenerà con noi?» «Se pensate che sia bene.» «Sì. Spesso è meglio osservare una persona prima di affrontare i dettagli di una malattia. Aiuta a farsi un'opinione priva di pregiudizi. E adesso, se volete mostrarmi la mia stanza...» «Sì, naturalmente...» Scattò in piedi e tirò il cordone del campanello. Finii di bere il mio cognac e mi alzai anch'io. Fengriffen stava per dire qualcos'altro quando la porta si aprì ed entrò una cameriera. «Ah, signora Lune. Volete mostrare al dottor Pope la sua stanza?» «Molto bene, sir», disse la donna. La seguii fuori dalla biblioteca. Gli occhi di Fengriffen mi seguirono. La signora Lune era una vecchia donna dalla mascella volitiva, il genere di domestica che entra in una casa da giovane e vi rimane tutta una vita. Mi precedette su per un ampio scalone con passo autoritario, estendendo il candeliere davanti a sé come un'arma... un'arma inefficace contro le scure ombre di quel vasto edificio. Ma la signora Lune non aveva bisogno di illuminazione perché doveva conoscere a menadito quella casa per i lunghi anni che vi aveva trascorso. In cima alle scale svoltammo in un corridoio con dei ritratti alle pareti, probabilmente la famiglia Fengriffen, di personaggi in posa austera. Riuscii in qualche modo ad attardarmi per aver modo di guardarli, interessato alla somiglianza straordinaria che caratterizzava quella catena ancestrale. Trovo i tratti ereditari molto interessanti perché li ritengo un valido strumento per la comprensione di una personalità. Ritengo che una somiglianza fisica dia molti spunti per capire altre e più profonde caratteristiche dovute all'ereditarietà. Un uomo il cui sangue sia così potente da trasmettere la somiglianza trasmetterà anche aspetti meno ovvi della sua persona. Accorgendosi del fatto che fossi rimasto indietro, la signora Lune si fermò, si voltò e mi fece luce. Le severe facce Fengriffen mi fissarono dalla parete, circondate dalle massicce cornici dorate ognuna con le targhette in fondo dei nomi e delle date dei personaggi raffigurati. Sembravano disposti in ordine cronologico, a cominciare dallo scalone. Mi mossi lungo la fi-
la tenendo d'occhio le date e notando via via che le tele diventavano meno antiche. Erano messi a intervalli regolari come con il proposito di formare una specie di albero genealogico di facile lettura piuttosto che una galleria di un certo interesse artistico. Così regolare era la loro disposizione che quando giunsi a quella che sembrava una interruzione, il mio senso ottico ne fu colpito acutamente. Feci avanzare lo sguardo e vidi che i dipinti poi continuavano e che mancava solo quello. La parete, in quel punto, mostrava un rettangolo leggermente più bianco, segno che il quadro era stato rimosso di recente. Quel particolare stimolò la mia curiosità. «Sembra che manchi un antenato», osservai. «Sì, sir», rispose la signora Lune e si affrettò ad aggiungere: «La vostra stanza è proprio qui, sir.» «Chi era?» Lei parve non udirmi. Aprì una porta sulla parete opposta a quella dei quadri e si ritrasse in attesa che entrassi. Io invece camminai oltre e diedi un'occhiata al ritratto successivo. Scoprii che si trattava del penultimo, quello di Peter Fengriffen. L'ultimo era quello dello stesso Charles Fengriffen. Sulla tela, somigliava più a suo padre che a se stesso in carne e ossa, e, come gli altri ritratti, aveva lo stesso atteggiamento rigido e severo. Per la più semplice delle deduzioni logiche, il quadro mancante doveva essere quello del terzultimo Fengriffen, Henry, il nonno di Charles Fengriffen. «Che ne è stato del quadro mancante?» domandai. «Non saprei dire, sir», fece la signora Lune e immediatamente la mia curiosità crebbe. Non era possibile che a quella donna fosse tenuto nascosto un fatto tanto semplice avvenuto nella casa che mandava avanti. «Forse è stato tolto per essere restaurato?» «Potrebbe essere, sir», disse lei. Mi parve chiaro che non avrebbe detto altro. Mi strinsi nelle spalle e, passandole davanti, entrai nella stanza che mi era stata assegnata. La signora Lune entrò dietro di me e finse di occuparsi di cose che erano già state fatte. Il fuoco era già acceso, come pure le candele, le pesanti tende tirate e il letto già pronto. «Va bene così, sir?» chiese, quando ogni cosa parve soddisfarla. «Sì, molto bene.» Si avviò verso la porta, poi esitò. «Sì, signora Lune?»
«Voi siete un dottore, sir?» «Sì.» «Perdonate se ve lo chiedo, ma siete qui per la signora?» Un sincero interesse era subentrato nel suo composto atteggiamento e io mi chiesi se avesse notato qualcosa di strano in Catherine Fengriffen, ammesso che qualcosa di strano ci fosse. Charles Fengriffen era stato molto vago in proposito. Forse sarebbe stato il caso di sapere qualcosa di più da quella donna. «Ho intenzione di parlare con lei, sì», dissi. «Voi non... perdonatemi, sir, ma voi non la taglierete, vero?» «Tagliarla?» ripetei perché non ero certo di aver capito. «Voi non guarderete nel suo corpo, vero, sir?» «Santo cielo, no. Non sono un chirurgo.» «No, volevo dire... Be', fare dei buchi nel suo cranio o qualche altra diavoleria come quella?» «Trapanare?» chiesi, incredulo. «Se è così che si dice.» «Come vi è venuta una simile idea?» «Be', ne ho sentito parlare, sir.» «Qui? In questa casa?» «Oh, no, sir. Ai vecchi tempi.» «Molto vecchi, direi. Mia buona donna, quello era un rimedio preistorico per sradicare gli spiriti maligni.» «Sì, sir», disse lei. Non appariva affatto sorpresa di apprendere un fatto come quello. «Ve l'assicuro, non eseguirò alcuna operazione fisica. Io sono... un genere di medico diverso.» La signora Lune mi studiò. La candela che teneva in mano lanciava ombre lunghe verso il suo viso. I suoi occhi luccicavano nell'oscurità delle orbite. «Non è di un medico che c'è bisogno qui», disse. «Cosa volete dire?» «Oh, sir, non sta a me dirlo», rispose la signora Lune. Uscì e si chiuse la porta alle spalle. Piuttosto frettolosamente, mi parve. Rimasi per un momento a osservare la porta chiusa, riflettendo intanto sulla conversazione appena avvenuta. Poi mi voltai a guardare la stanza. Il mio bagaglio era stato già portato di sopra e nella bacinella c'era acqua calda... Cominciai a vestirmi per la cena.
Catherine Fengriffen mi accolse abbastanza cortesemente ma con una freddezza che mi parve più della normale reticenza che normalmente si manifesta davanti a un estraneo, una freddezza che era tanto più sorprendente in quanto fu per un lunghissimo momento che il suo sguardo indugiò sul mio viso. Fu impossibile per me giudicare i sentimenti che passarono in lei durante quell'esame, se curiosità o malizia o disprezzo o, perfino, amicizia. Fu difficile per me restituire quella equivoca osservazione. Alla fine, lei si voltò e fissò il marito allo stesso modo. La guardai allora di profilo e trovai che fosse una donna stupendamente bella. E tuttavia, quando aveva guardato me, non mi ero accorto di quella bellezza. Esisteva nella struttura superficiale del suo contegno, meno nella sua espressione. Era più giovane del marito, parecchio più giovane, e tuttavia, perfino nella sua giovinezza, si agitava un paradosso. La sua pelle era liscia, chiara, priva di rughe, e tuttavia appariva tesa e stanca. Il suo portamento era eretto e aggraziato, e tuttavia si aveva l'impressione che sopportasse un grave peso sulle spalle. I suoi occhi erano luminosi, ma si trattava della luminosità del sole filtrata da un cielo pieno di nuvole. I nervi del collo erano prominenti, come la sua testa girata, e teneva le mani strette a pugno lungo i fianchi. Era gravida e più avanti di quanto mi fossi immaginato, ma non aveva l'alone e lo splendore che la gravidanza normalmente aggiunge all'aspetto e alla personalità di una donna. Fissò Fengriffen anche più a lungo di quanto avesse fissato me, come se anche lui, come me, fosse un estraneo, cosicché ebbi tutto il tempo di studiare i suoi lineamenti. Decisi che, a dispetto della tensione, non contenessero nessuno dei chiari segni che normalmente un disturbo mentale lascia trasparire. Del tutto inaspettatamente, si girò verso di me. «Venite da Londra?» chiese. Le dissi che era così. «Un viaggio noioso», commentò e il tono lasciava intendere che il mio viaggio era stato inutile. Più inutile che stancante. Poi andammo nella sala da pranzo. Era spaziosa, con un soffitto Adam e un tavolo di quercia lucidissimo al quale ci sedemmo ben distanziati l'uno dall'altro. Jacob, il vecchio servitore che mi aveva fatto entrare, ci servì da una credenza laterale. Era molto attento ed efficiente, anche se un po' lento per via dell'età mentre l'enorme tavolo, che era costretto a percorrere avanti e indietro in tutta la sua lunghezza per servirci a turno, non lo aiutava. Il cibo fu abbondante e il vino
superbo, ma la conversazione non aggiunse niente alla bella atmosfera. Io feci qualche occasionale commento sul mio viaggio, Fengriffen parlò dei suoi cavalli senza la passione del vero amatore e tutti e due, molto brevemente, discutemmo delle differenze che avevamo trovato nella vita sul continente. Catherine non disse nulla. A un certo punto, mentre stavamo parlando dell'Italia, i suoi occhi s'illuminarono e lei assunse un certo atteggiamento d'interesse. Ma fu di brevissima durata. Subito dopo, riacquistò la sua espressione tetra e distaccata. Trovavo che il suo comportamento fosse un po' strano ma non troppo. Avrei detto che fosse più preoccupata che disturbata. Un po' per la mia persistente curiosità, ma anche per un tentativo di mantenere viva una certa conversazione, a un certo punto dissi: «Mi sono fermato a guardare i quadri della galleria di sopra. Sembra la storia completa dei Fengriffen.» Catherine sollevò di scatto la testa e Charles si gingillò con il vino che aveva nel bicchiere. «Non li ho contati», continuai. «Fino a quando risalgono i personaggi raffigurati?» Fengriffen ci pensò per un momento. «Dodici generazioni», disse. «È molto tempo.» «È una tradizione di famiglia. Io ho aggiunto soltanto il mio ritratto. Ma forse lo avete notato.» «Sì. C'è una notevole rassomiglianza fisica presente in tutti i ritratti. Abbastanza insolito.» Lui annuì. «Non è che approvi quel certo tipo di ritratto, solo non volevo interrompere la continuità.» Catherine mi stava di nuovo guardando. «Quella somiglianza mi disturba», disse. «Davvero? In che modo?» «Sarà anche bello avere una famiglia antica alle spalle ed essere fieri della propria linea generazionale, un uomo però dovrebbe essere un individuo... qualcosa di più dell'anello di una catena di persone morte.» «Tutti gli uomini che sono vissuti lo sono», osservai. «Chi più, chi meno.» «Mi sono espressa male», disse Catherine. Fengriffen continuava a far roteare il vino nel suo bicchiere.
«Voglio dire, se una così forte rassomiglianza fisica è frutto dell'ereditarietà, non è possibile che altri tratti vengano ereditati allo stesso modo? Il male, come il bene?» «Catherine...» disse Fengriffen, poi tacque. «Non necessariamente», dissi io. Lei sorrise. Forse eccessivamente amara. «Mi inchino alla conoscenza superiore», disse. «So qualcosa dell'ereditarietà...» cominciai. «Ne sono sicura, dottore. Non sono però molto interessata.» Fengriffen si voltò verso di lei e fu sul punto di dire qualcosa, ma io pensai che fosse meglio cambiare argomento di conversazione perciò intervenni. «Dodici generazioni, avete detto? E la galleria è completa?» Lui si voltò lentamente verso di me, le labbra già pronte a parlare, ma poi annuì soltanto. «Ho notato uno spazio vuoto. Un quadro rimosso per essere pulito o restaurato?» «Esattamente. È stato mandato a riparare. C'è stato un piccolo incidente. Uno dei servitori... portava un candeliere... è incespicato... Avrete sicuramente notato che la galleria è buia, di sera. È incespicato ed è finito contro il ritratto. Il candeliere ha urtato la tela e l'ha strappata. È stato necessario rimuovere il quadro.» «Ah, ecco... Ero curioso.» «Perché curioso?» volle sapere Catherine. «Lo sono di natura. Di quale antenato si tratta, se posso chiederlo?» «Di mio nonno», rispose Charles. «Henry Fengriffen», disse Catherine, come se le parole costituissero un anatema per lei. Charles aggrottò le sopracciglia. «Suppongo che la colpevole sia la signora Lune. Questo sembra il suo dominio.» «Sì», disse Fengriffen. «Sì, credo che sia stata lei. Non ricordo bene. Un incidente senza importanza.» «Lo riporteranno presto?» «Davvero non lo so. Non ci ho pensato. Perché me lo chiedete?» «Perché è un genere di lavoro che mi interessa molto. Un interesse da dilettante, si capisce. Mi piace vedere la qualità del restauro.» «Jacob, portate via», disse Fengriffen, indicando i resti della nostra cena. «Ha subito un grosso danno», disse Catherine, rivolta a me. «Non mi
stupirei che non si potesse più riparare.» E sorrise di nuovo, con lo stesso amaro sorriso, rivolta a suo marito questa volta, mentre Jacob si chinava tra di loro per assolvere alle sue incombenze come una specie di antico grondone gotico che sporgesse da una parete. Catherine si ritirò non appena la cena ebbe termine e io e Fengriffen ce ne andammo in biblioteca per un caffè e un cognac. Il vento batteva sinistramente contro i vetri ma il fuoco era acceso nel camino e la stanza era piacevole. Fengriffen rimase vicino alla finestra, con le mani dietro la schiena, e non disse nulla fino a quando non entrò Jacob con un vassoio d'argento e non cominciò a versare il caffè. «Allora, Jacob?» domandò, senza voltarsi. «Che cosa dicono le vostre articolazioni? C'è un qualche temporale in arrivo?» «Non questa sera, signore. Non mi hanno fatto molto male durante la giornata. Forse tra due o tre giorni.» «Possono dire quello che vogliono sulla moderna tecnica di previsione del tempo, ma non esiste niente di più sicuro delle vecchie articolazioni di Jacob», osservò Fengriffen. Jacob sembrava molto compiaciuto del fatto che le sue ossa fossero considerate alla stregua di un barometro. Stava perfino quasi sorridendo mentre usciva dalla stanza... Fengriffen si staccò dalla finestra e venne a sedersi di fronte a me, le lunghe gambe distese davanti a sé, il viso composto, le mani allacciate sul petto. Appariva persino troppo a suo agio. «Be', avete visto mia moglie», cominciò. Annuii. «Il suo comportamento non vi è parso... insolito?» «Solo un po' distaccato, forse.» «Ah, ma naturalmente, voi non l'avete conosciuta prima. Non avete il metro per giudicare fino a che punto sia cambiata. Era una donna dolce e affettuosa, esattamente il contrario di quello che è ora.» «Ma un cambiamento del genere non implica sempre uno stato di insanità mentale.» Era leggermente chino in avanti e mi guardava come un praticante dell'arte gentile che girasse cautamente attorno a un formidabile antagonista. Quella era la difficoltà della mia professione. Ero pagato per trovare la verità e lui tuttavia la temeva; ero abituato a mettere in relazione i fatti e lui li nascondeva. Quel caso avrebbe comportato qualcosa di più che studiare
Catherine; sarebbe stato necessario collegare quelle osservazioni con suo marito.. per giudicare obiettivamente il suo stato mentale e poi capire come quello stato potesse apparire alla percezione soggettiva di Fengriffen. Non dubitavo affatto di poter scoprire la dicotomica verità. La domanda era se avrebbe rappresentato la soluzione del problema. «Oh, lo so», fece Fengriffen. «Ritenete che abbia semplicemente cessato di amarmi.» Semplicemente? Sembrava una parola curiosa. «Se ha cessato di amarvi», dissi, «avrà i suoi motivi. Il mio compito consiste nel chiarire i tortuosi meccanismi del processo mentale, nel districare la ragnatela del disordine. Con la comprensione, solitamente arriva anche la cura. Questo però è tutto ciò che posso fare. Non posso convincerla ad amarvi se non vuole...» «Né mi aspetto che lo facciate.» «Forse sarebbe necessario un cambiamento da parte vostra.» Lui scosse la testa. Non ero sicuro di cosa volesse negare con quel gesto. Seguì un breve silenzio. Fengriffen si sporse per riattizzare senza che ce ne fosse bisogno il fuoco, spostando i ciocchi in fiamme. Il riflesso produsse strani disegni sulle sue guance. Sorseggiai il mio caffè con il cognac e attesi. Lui prese una scatola di sigari, me ne offrì uno e compimmo i gesti rituali del taglio delle estremità e dell'accensione. Una leggera nebbiolina grigia si alzò tra di noi e, attraverso il fumo, ci guardammo. «Non darete un giudizio affrettato?» domandò. «Parlerete con Catherine?» «Naturalmente.» «Da solo, suppongo.» «Alla fine. Prima però voglio parlare con voi perché possa formarmi una base di giudizio. Ditemi di come vi siete conosciuti e di come siete arrivati a innamorarvi e a sposarvi.» «Pensate che sia importante?» «Tutto può essere importante. Chi può dirlo? A un certo punto, dopo qualche fatto, o, piuttosto, dopo una serie di fatti, l'atteggiamento di vostra moglie e cambiato. È possibile risalire dal fatto alla causa ma credo che sarebbe più efficace cercare la causa e applicarla all'effetto. Non è tanto difficile. Me ne sto in disparte e osservo gli eventi come una persona coinvolta non potrebbe.» Fengriffen annuì. «Che poi, conosciuta la causa, possiamo cambiare l'effetto, questo è un
altro paio di maniche, naturalmente.» Fengriffen annuì ancora una volta. «Mi dica tutto così come le viene in mente.» Fengriffen aspirò una grossa boccata di fumo dal suo sigaro e si lasciò andare contro la spalliera. Aveva gli occhi chiusi. E dopo qualche momento, cominciò a parlare... «In realtà, c'è poco da dire», disse. Non avevo alcuna intenzione di dire qualcosa, ma il mio viso dovette riflettere i miei pensieri perché Fengriffen sollevò la mano e disse: «Sì, sì, lo so. Questo sta a voi deciderlo. Bene. Sono nato qui, in questa casa. Mia madre morì quando ero ancora un bambino e io la ricordo soltanto vagamente. A volte è più uno stato d'animo che un'immagine. Trascorsi la mia infanzia e la mia fanciullezza in questo circondario e fu per me, almeno credo, secondo un giudizio standard, un tempo felice. Ricordo infatti più cose piacevoli che spiacevoli, più felicità che dolori, e normali furono anche le mie irrequietezze di gioventù. Ma a quei tempi non conoscevo Catherine e quindi non vedo possibili connessioni. Be', quegli anni passarono, divenni un giovanotto. «Per un uomo, la felicità non è costante come quella di un bambino, perciò decisi di vedere un po' la vita. Mio padre non ebbe obiezioni a che mi sistemassi a Londra, anzi ritenne che fosse una bella idea, e mi procurò di che vivere adeguatamente. Perciò mi avventurai per la prima volta lontano dalla mia casa. «Rimasi subito affascinato dalla vita cittadina. Ero, temo, una specie di fannullone che trascorreva il suo tempo a inseguire piaceri e a sguazzare nel fascino della degradazione. Me ne rendevo conto anche allora, naturalmente, anche se adesso capisco tutto in una luce diversa. Ma potrei descrivere me stesso, anzi avrei potuto farlo anche allora, come una specie di bene educato briccone, o come un cascamo to, o forse come un moderato libertino. Avevo le tipiche intuizioni della giovinezza e, ancora più tipico, pensavo che fossero una mia prerogativa, senza mai arrivare a pensare che stavo sperimentando sensazioni che tutti gli uomini sperimentano.» Fece una pausa. «Ma penso che questo sia il genere di cose che voi avete già in mente, non è vero?» chiese senza il minimo imbarazzo. Colpito da quel suo modo naturale e diretto di arrivare all'autoanalisi, annuii. «Sì. Continuate.» «Bevevo molto, e giocavo anche, sebbene non arrivassi mai all'eccesso
di trovarmi nei debiti o in difficoltà di alcun genere. C'era sempre una parte sobria di me che, all'occorrenza, tirava le redini. E tuttavia era una vita selvaggia. Fu quella la Londra di un anno di vendemmia. Quante albe viste con occhi iniettati di sangue e percezioni confuse, quanti giri di carte sulle quali scommettevo senza freno credendo che la fortuna fosse un'entità vivente sempre alle mie spalle, quante commedie da piccolo romantico recitate tra un pubblico convinto d'essere primo attore... E, sì, quante donne di dubbia virtù, anche.» Fengriffen sorrise debolmente. «Catherine sapeva di quelle donne prima che ci sposassimo», disse, anticipando la risposta a una domanda che non avrei mai fatto. «Fu mentre ero a Londra che la conobbi. Accadde... vediamo... sette o otto anni dopo il mio arrivo in città. La mia idea originale era di rimanervi un anno, due al massimo, e poi tornare a casa. Solo che poi si finisce per cadere nel solco di un'esistenza. Il tempo passò rapidamente e così, prima che me ne accorgessi, il primo anno, il secondo, il terzo... La somiglianza degli eventi mette le ali al passaggio del tempo... ne riduce il valore costante. Ne ero come irretito. Non ho dubbi, pensandoci adesso, che fossi annoiato dalla mia vita senza significato... così annoiato da avere i sensi offuscati e non accorgermi della mia noia. Perciò, come Ettore attorno alle mura di Troia, ero trascinato dietro il carro della monotonia. «Poi conobbi Catherine e fui subito colpito dalla sua bellezza. Ma a quei tempi ero interessato a legami meno permanenti del matrimonio e fu subito chiaro che Catherine non era il genere di donna che... mi capite? Diventammo amici e nacque un grande affetto tra di noi, ma niente di più... niente di più... evidente, almeno, sebbene presumo che il seme dell'amore fosse già da lungo tempo gettato e avesse fatto presa. Catherine sapeva del genere di vita che conducevo e non me ne faceva un rimprovero. La guardava con una specie di divertita tolleranza.» Aspirò una boccata dal sigaro ed era come se, con quelle pause, chiudesse dei paragrafi del suo discorso. «Poi, inaspettatamente, mio padre morì. «Seppi d'essere diventato padrone di questa proprietà non senza un senso di filiale fallimento. Non l'avevo più visto da anni e per mia esclusiva negligenza. L'evento ricondusse un senso di realtà nella mia vita. Avevo ereditato delle responsabilità. E all'improvviso capii quanto fossi stanco della mia vita selvaggia e che era arrivato il momento di tornare a casa. «Lo feci. Ma non trascorse un mese che già solitudine e astinenza ses-
suale cominciarono a interferire con la mia felicità. Mi decisi a prendere moglie e Catherine fu subito presente nei miei pensieri. Aveva talento, era affascinante, piena di grazia e bellissima... tutto quello che un uomo poteva desiderare. I suoi mezzi finanziari erano limitati ma discendeva da una famiglia antica e di lignaggio. Il denaro significava poco per me perché ne possedevo più di quanto me ne servisse.» Con la mano che stringeva l'ottimo Armagnac, fece un gesto verso le belle cose che ci circondavano. «Credo che tutto questo significasse poco per Catherine, e che... che il denaro non abbia mai avuto influenza nelle sue decisioni. L'amavo e mi illusi che anche lei mi amasse. Forse è stato questo il mio errore. Prego Dio che non sia così. Sebbene l'alternativa... potrebbe voler dire qualche sopportazione...» Fengriffen si rannuvolò, agitato dai suoi pensieri. «Ma sto divagando. Dunque, l'amavo. Era strano come tutt'a un tratto m'accorgessi di quell'amore, come ciò che avevo creduto amicizia si fosse presentato sotto una falsa immagine, come i miei sentimenti verso di lei fossero un'anamorfosi che, quando interpretata correttamente, non era più deformata dalla mia percezione. Partii immediatamente per Londra e le proposi il matrimonio. Catherine accettò senza la minima esitazione; con un sorriso e un divertito e tollerante sguardo; come se avesse previsto la mia proposta ed era stata pazientemente ad aspettarla. Forse le mie intenzioni erano più ovvie a lei che a me stesso. A ogni modo, ci sposammo a Londra non appena la cosa poté essere organizzata e partimmo subito dopo per la nostra luna di miele in continente. «Fu un periodo di immensa felicità. Di più. Di benedizione ed estasi. Non avevo il benché minimo dubbio che mi fossi sposato bene e saggiamente... sposato, direi, alla perfezione. Catherine si dimostrò tutto quello che avevo desiderato, e più. Il mio amore cresceva oltre ogni restrizione, ogni limite, ogni capacità di pensiero. E lei rispondeva al mio amore nello stesso modo. Ci sentivamo legati da vincoli ancora più grandi dell'emozione e del raziocinio; più grandi della somma di entrambi. Viaggiammo per la Francia e per l'Italia, senza fretta, fermandoci quando più ci colpiva la fantasia e prolungando il viaggio di molti mesi rispetto a quanto avevamo preventivato. Dividemmo i piaceri di nuove scoperte senza la necessità di esprimerli con le parole, con il nostro modo di comunicare... un sorriso, la tenera pressione di una mano, un'occhiata... E questo bastava a riversare una cascata di sensazioni tra i nostri cuori e le nostre menti. Non avevamo
bisogno di nessuno, evitavamo le altre persone più che potevamo, cercavamo da soli esperienza e bellezza e le trovavamo dappertutto... nella carezza di una brezza mediterranea, nel colore di una nuvola, nell'eternità di un informe ammasso roccioso. Visitavamo musei e apprezzavamo il tocco dei vecchi maestri, poi il vento agitava i capelli di Catherine e tutto il talento e la gloria di un Rubens o di un Botticelli erano niente in confronto a tanto splendore. Lei era la parte chiara in un chiaroscuro di vita. Era il mistero svelato che rifletteva amore con una radiosità che avrebbe oscurato la luna... Ah, ma perché cercare di esprimere qualcosa che voi non avete conosciuto? Mi capite, vero? Eravamo illimitatamente innamorati.» Fengriffen si sporse verso di me. «Poi arrivò per me il momento di tornare a occuparmi delle mie proprietà. L'avessi saputo, avrei dimenticato tutto. Sarei vissuto come un villano sull'orlo di un qualche precipizio roccioso, come un pastore in un qualche rustico capanno, come un pescatore su un mare in burrasca. Ma non lo sapevo. Accidenti a me, non potevo saperlo. E così ritornammo. «E da allora è cominciato il cambiamento.» La voce di Fengriffen si indurì, il suo viso si fece teso. La cenere gli cadde dal sigaro e finì a poca distanza dalle sue lucidissime scarpe. «Potrei stabilirlo al secondo...» Inarcai le sopracciglia. Lui non vide la mia espressione perché i suoi occhi erano come rivolti all'interno. Stava rivedendo il passato impresso nella sua mente e che si agitava nelle ombre, forme acquattate e sempre pronte ad approfittare del momento in cui le difese erano abbassate per balzare sulla preda e divorarla. I rimpianti, quei parassiti che tormentano chi li ospita e ruggiscono come draghi nella mente. Mi sentii meno obiettivo di quanto la mia professione consenta. «Fu nel preciso momento in cui per la prima volta vide Fengriffen House», disse, infine. «Voi avete visto la casa. È imponente, un po' misteriosa. Perfino io, che pure ho trascorso la mia fanciullezza qui dentro, spesso ho l'impressione che una strana presenza trasudi dalle pareti. E tuttavia è soltanto una casa, niente di più. La presenza prende forma nella mente. Ma Dio solo sa se non era l'ultima cosa che mi passava per la mente la sera che condussi la mia sposa a casa... una sera come questa. Il cielo era in fiamme e la casa si stagliava contro il tramonto. Eravamo su una carrozza scoperta e venivamo giù dalle colline. Avevo gli occhi sul viso della mia sposa sperando di vedervi la prima emozione che vi fosse passata quando avesse visto quella che sarebbe diventata la sua casa, augurandomi che le fosse pia-
ciuta. Naturalmente, sapevo esattamente a che punto della strada, a una svolta, la casa sarebbe stata visibile. La carrozza fece la curva e improvvisamente Catherine si irrigidì e fu scossa da un brivido. Dischiuse le labbra ed ebbe un involontario sussulto. Pensai a un colpo di freddo e la strinsi a me. La sentii tremare e gliene chiesi il motivo. Non mi rispose ma continuò a guardare la casa con un'espressione difficile da descrivere... una premonizione, chissà. Fatto è che il cambiamento ha cominciato a verificarsi da quel momento.» Fengriffen tornò ad appoggiarsi allo schienale. La sua rivisitazione del passato era finita. «Capisco», dissi. «E tuttavia non capisco. Non vi ha mai detto cosa ha sentito la prima volta che ha visto la casa?» «Mai. Credo che non lo sappia neppure lei. Fu una sensazione, unica ma intangibile.» «Intangibile. Sì, ho sentito anch'io qualcosa del genere.» «Naturalmente, ci sono delle leggende», disse lui, con un gesto di deprecazione. «Quale casa antica non ha i suoi spiriti, o spettri, o superstizioni? Io certamente non credo a quelle storie. La servitù certamente ci crede. E, temo, ha finito per crederci anche Catherine. Ma al tempo in cui vide la casa per la prima volta, non poteva sapere delle leggende.» «Quali sono queste leggende?» «Delle sciocchezze. Non starò qui a farvi perdere tempo. D'altra parte, non me le ricordo bene neppure io. Il punto è che da quel preciso momento, e senza un collegamento apparente, Catherine ha cominciato a staccarsi da me. È diventata reticente e silenziosa. Fa delle lunghe passeggiate solitarie e trascorre ore nella sua stanza, o qui, chiusa in biblioteca. E dire che un tempo i libri non sembravano interessarla molto. Con l'ovvia deduzione che non desideri più stare con me. Tutti i piaceri che eravamo soliti dividere, adesso non esistono più. Ho cercato, all'inizio, di ignorare il cambiamento dicendomi che, dopo la passione, è così che finiscono solitamente i matrimoni; dopo il romanticismo della luna di miele, tutto assume l'impronta della necessità quotidiana. Ma era un modo per mentire a me stesso. Alla fine, ho dovuto ammettere che era cambiato il suo amore e ho cercato di scoprirne le ragioni. Catherine naturalmente non ha voluto parlarne. Le ho chiesto, l'ho implorata di dirmi se c'era qualcosa che non andava. Lei non ha neppure ammesso che ci sia stato un cambiamento. Le ho prospettato l'idea di andar via di nuovo, se le avesse fatto piacere... saremmo partiti subito, le ho detto, e avremmo rifatto lo stesso percorso che tanta felicità
ci aveva dato... Il suo amore era ciò che più mi stava a cuore e pur di riaverlo avrei fatto qualsiasi cosa. Si è limitata a scuotere la testa, tristemente, e, unica volta in cui è arrivata ad ammettere un qualche cambiamento, ha detto che era troppo tardi e che il passato non poteva tornare. E se ne è andata lasciandomi impotente e disperato a cercare qualsiasi cosa capace di lenire il mio dolore. Potevo soltanto sperare che il tempo, grande guaritore, avrebbe finito per guarire anche questo male misterioso. Ma il tempo non ha guarito. Anzi, ha giocato contro di me. Quando sapemmo che Catherine aspettava un bambino, il cambiamento era così evidente che se ne accorsero perfino i domestici. Li ho sentiti parlare fra di loro. Potete immaginare, sir, la mia agonia nell'udire simili conversazioni? Mia moglie non mi fa più neppur entrare nella sua stanza. Per quanto ne so, non ho mai fatto nulla per offendere la sua dignità. Basterebbe che lei facesse un cenno e mi voterei a qualsiasi sacrificio. Ma lei non vuole neppure il sacrificio. Sono disperato, sir.» E fu uno sguardo implorante e disperato quello che mi rivolse. Aspettava che parlassi. Avrei voluto avere parole d'incoraggiamento, ma era troppo presto e sapevo troppo poco; lì per lì mi sembrava anche che la risposta più logica fosse anche la più semplice, e cioè che lei non lo amava più, e che era stata la fantasia a creare in lui l'idea dell'improvviso cambiamento per proteggere i suoi sentimenti e dargli ancora un barlume di speranza. «Mi avete detto tutto?» gli domandai. Lui annuì lentamente. «Nessuna idea sulla causa?» «Nessuna. Catherine ha accennato alle leggende e ha detto chiaramente che disprezza questa casa, ma questo non mi sembra che abbia relazione con i suoi sentimenti verso di me. Le ho anche offerto di portarla via di qui e ha rifiutato. «Le leggende. Sì. Be', c'è da pensare che possano aver avuto influenza su di lei in questo senso: può avervi collegato a questa casa e a tutto l'odio e le paure che ha sviluppato in relazione alla casa stessa.» «Se soltanto fosse così semplice...» «No, Fengriffen. Non semplice. Non sarebbe un giudizio razionale, ma potrebbe trattarsi di una connessione profonda, difficile da separare.» «Mi rendo conto, sir. Ma temo certe possibilità più di quanto tema collegamenti irrazionali che possono aver avuto luogo nella sua mente. È egoistico, lo so. Ma amore è egoismo... necessariamente, dal momento che è riflesso. Ma altre possibilità... ciò che voglio dire è che... Ho accennato, cre-
do, a quella che era la situazione finanziaria di Catherine quando ci conoscemmo. È possibile che mi abbia sposato per il denaro, che mi abbia amato superficialmente nel contesto della vita gaia di Londra e durante la bella luna di miele, e che abbia scoperto poi che i suoi sentimenti non erano così forti da sopportare di vivere in questo posto appartato? Che abbia cominciato a rimpiangere di avermi sposato, e che quando è rimasta gravida si sia vista preclusa ogni possibilità di fuga? Abbia visto compromessa la sua libertà dal suo ventre gonfio?» «È questo che credete?» Lui fece per rispondere, poi richiuse le labbra e, a denti stretti, disse: «No, maledizione. No.» «Perché se fosse così, potrei fare ben poco.» «Potete scoprire la verità. Devo sapere.» Annuii. Sentivo molta pena per quell'uomo. «Parlerò con vostra moglie domani», dissi. «E, nell'attesa, mi sentirò come si sentiva Egeo, fermo sulla costa rocciosa ad aspettare il ritorno del figlio, e a pregare che alziate la vela bianca, sir...» Temevo però che sarebbe stata nera... Quella notte stentai a prendere sonno. Hypnos è un dio sfuggente quando la mente è eccitata, e il racconto di Fengriffen mi aveva messo in quella condizione. Mi sedetti alla finestra, a fumare la pipa e a osservare la landa illuminata dalla luna. Il paesaggio era silenzioso e terrificante, racchiuso in schemi d'argento e di nero. Pensieri s'affacciavano a casaccio nel mio cervello. Non cercavo una soluzione... sapevo che fino a quel momento non potevano esserci che congetture, ma i pensieri sembravano dotati di volontà propria, mi tentavano con vaghe sollecitazioni; un momento prima mi dicevano che era ovvio, lei non lo amava più, e un momento dopo che c'era un qualche mistero più profondo da scoprire. Mi ricordai dei curiosi commenti della signora Lune, del ritratto mancante e del sorriso amaro di Catherine, pensai allo strano freddo che mi aveva assalito quando avevo visto per la prima volta la casa. Tuttavia non cercavo affatto di mettere in relazione quei fattori. Si muovevano a un livello inferiore a quello del raziocinio e i miei pensieri controllati si mantenevano ben al di sopra. Continuai a guardare la landa e a fumare. La pipa si spense e io la ricaricai e la riaccesi. Il tabacco è alleato della contentezza e io dovevo essere contento, mi dissi: il camino era ancora acceso e il vento ululava inoffensivo fuori dalla finestra, scuotendo gli alberi con furia ma incapace di afferrare me... Cer-
cai di valutarne la forza dalle ombre sotto gli alberi. La filigrana della luna si spostava e diveniva evanescente, lasciando arazzi argentei sotto i rami. Era ipnotico. Persi la cognizione del tempo mentre studiavo i movimenti di quelle ombre. La pipa mi si era spenta una seconda volta ma continuavo a succhiare senza riflettere. I miei occhi si fecero pesanti. E, a un tratto, mi ritrovai a guardare un'ombra diversa. Forse l'avevo osservata già da un po' prima di rendermi conto che era qualcosa di più dell'ombra gettata dagli alberi mossi dal vento, e poi aveva a sua volta un'ombra tutta sua. Avanzò verso la casa e si fermò. Mi scossi bruscamente. Fissai quella forma scura ed ebbi la grottesca impressione che, di qualunque cosa si trattasse, stava a sua volta fissando me. Un dito di ghiaccio mi sfiorò lungo la spina dorsale, lasciandomi rigido lungo la sua scia. E in quel momento la forma scomparve. Mi avvicinai di più alla finestra, ma non c'era niente. Se qualcosa c'era stato, ora non c'era più. Uno scherzo della mia immaginazione, mi dissi. Ma poi, dagli alberi, giunse il lugubre ululato di un cane... un suono improvviso e altalenante che cessò bruscamente com'era cominciato, e come nessun cane avrebbe potuto interrompere. Un cane, mi dissi. Nient'altro che un cane. Ma dubbi strani e informi mi accompagnarono a letto, quella notte... Trovai Catherine che passeggiava in giardino. Era ancora presto e una nebbiolina umida sembrava aleggiare attorno a lei, cosicché mi sembrava che scivolasse sul terreno più che camminare. Dovetti affrettare il passo per raggiungerla. Quanto a lei, con lo sguardo perso in lontananza, parve non accorgersi neppure del mio sopraggiungere. E tuttavia, quando parlai, non rimase sorpresa. Sembrava anzi che mi stesse aspettando. Annuì e io mi portai al suo fianco. Era avvolta in un mantello di tweed e portava robuste scarpe da passeggio, tuttavia i suoi modi lasciavano intendere che fosse in giro per qualcosa di più che una salutare camminata prima di colazione, per qualcosa che aveva a che fare più con la nebbia. Camminammo per un breve tratto senza parlare, poi arrivammo a un ceppo d'albero spezzato. C'era ancora il tronco, piegato ad angolo verso il terreno, e Catherine ci si sedette. «Perché siete venuto qui, dottore?» domandò. «Mi ha invitato vostro marito.» «Mio marito è malato?» Lei sorrise leggermente.
Trovai un pezzo di corteccia mezzo staccata dall'albero e ne tirai una striscia. Sotto, il tronco non aveva ancora cominciato a marcire. «Charles mi crede pazza.» «Non pazza, no. Infelice.» «E voi sapete come trattare l'infelicità? C'è una qualche erba misteriosa per curarla? Un unguento o linimento per farmi contenta? Una sanguisuga per estirpare la tristezza dalla mia anima?» «Siete infelice, allora?» «Chiedete a me di diagnosticare la mia malattia?» «Vi chiedo di parlare con me.» «Di cosa?» «Di qualunque cosa vogliate.» «Di infelicità?» «Se volete.» Lei si strinse nelle spalle. Buttai via il frammento di corteccia. Il sole stava sorgendo, adesso, distorto dall'umidità, e dava al paesaggio una mano di pastello. Gocce di umidità cadevano dai boccioli amarantini e, raccogliendosi ai nostri piedi, facevano brillare il terreno. Catherine rimase silenziosa a lungo. Sembrava indifferente a ciò che la circondava, a me, perfino ai propri sentimenti. Poi si strinse una seconda volta nelle spalle e mi guardò. «Cosa c'è di male?» domandò. «A che serve, naturalmente, ma cosa c'è di male nel parlarne? Avete ragione. Charles ha ragione. Sono immensamente infelice. E non è colpa di nessuno, nemmeno mia. Sono maledetta.» La guardai più intensamente di quanto avessi voluto. «Una parola strana? Forse. Oppure pensate che sia l'espressione di una mente malata?» «Le parole sono simboli. Niente di più.» «Sì», disse lei. «Sì, ci sono cose peggiori delle parole.» «Volete parlarmene?» Lei cominciò il suo racconto... «Amo Charles con tutto il cuore», disse. «Ma cos'è il cuore? Batte tante volte al giorno, si ferma. Così è con l'amore. Il mio cuore batte ancora e io amo ancora. Presto o tardi... presto, direi, si fermerà. Ma amo mio marito e ho compassione di lui. Mi rendo conto dell'agonia che il mio comportamento gli procura. La vostra presenza qui è una prova del suo dolore. E tuttavia, non posso evitarlo. Il mio amore non è diminuito ma le mie risposte lo sono. Le risposte non sono governate da quel palpitante organo; le
reazioni non sono trasportate dal sangue. Non so esprimere a Charles i miei sentimenti. La confessione è impossibile per me. Mi sento come una donna infedele deve sentirsi... una donna che continua a essere devota al marito e tuttavia è spinta all'infedeltà da un qualche prepotente impulso.» Scosse la testa. «No, non sono stata infedele», riprese. «Non nel senso comune del termine. Ma qui abbiamo ancora dei simboli perché sono stata infedele in un modo anche più terribile di quanto le parole possano chiarire. Le parole che posso usare. L'infedeltà è un'entità vivente in questa casa, un organismo che si dibatte nei muri stessi. Nel preciso momento in cui misi gli occhi su queste diroccate torri e spirali, queste pietre spaventose che sorgono dalla landa desolata... Voi avete visto il posto, sir. Non sentite il maligno?» Non risposi. «Ah! Ciechi uomini di scienza. Io non conosco alcuna scienza e quindi non ho paraocchi. La verità non può penetrare la corazza della falsa conoscenza che uomini sciocchi hanno eretto in nome del progresso. Ma questo non mi frena. Quando questa casa apparve per la prima volta alla mia visuale, rabbrividii. Sentii una lama di freddo entrare nel mio corpo. Charles mi strinse, volle sapere perché tremassi, ma cosa avrei potuto dirgli? Era una sensazione e i simboli erano inadeguati. Oppure anche le sensazioni sono dei simboli?» «Forse sono indicative.» «Sì. Be', quella sensazione era indicativa. Se soltanto avessi saputo cosa indicava, non sarei mai entrata nella casa. Ma non lo sapevo. Dissi a me stessa che ero ridicola e oltrepassai quegli odiosi portali. Dentro, con il fuoco che ardeva nel camino e le candele accese, ci fu un momentaneo miglioramento. Per qualche momento, ridiventai più espansiva e pensai che le mie paure fossero assurde e irrazionali, che, come aveva suggerito Charles, mi fossi presa soltanto un colpo di freddo. Ma poi cominciarono a comparire altre indicazioni. La signora Lune mi guardava con occhi compassionevoli, come avrebbe guardato un bambino malformato, o come un prigioniero innocente condotto alla forca. Mio marito se ne accorse e, pensando che non notassi la cosa, le lanciò un'occhiata severa che la indusse a ritirarsi. Si sedette, poi, di umore tetro, il mento abbassato sul petto. Era la prima volta che lo vedevo così perciò gli chiesi cos'avesse. Quando sollevò la testa e mi guardò, per un istante vidi qualcosa nella sua espressione che avrebbe potuto essere paura. Ma, come me, anche lui fu incapace di esprimere le sue sensazioni. Disse che era soltanto stanco per il viaggio e sug-
gerì che ci ritirassimo...» Catherine fece una pausa. Quanto a me, presi il tabacco e chiesi il permesso di fumare. Mi fu accordato. Caricai accuratamente la pipa, premetti con il pollice il tabacco, l'accesi e soffiai il fumo grigiastro. La nebbiolina stava abbassandosi e l'aria si rischiarava. Nuvole erano sospese come pelli di pecora contro un cielo di El Greco. «Mi era stata data una stanza separata», riprese Catherine. «Non volevo stare divisa da mio marito, ma la modestia è una grande forza restrittiva. Mi fu impossibile esprimere un tale desiderio... non so neppure come faccia adesso a parlarne con voi, sir...» «Sono un dottore.» «Un singolare tipo di dottore, immagino... Ascoltare i fatti come se fossero dei sintomi.» «Ci sono nuovi metodi...» Lei sollevò la sua mano snella. «Non importa. Non significa niente per me. Ma stavo parlando... devo continuare?» Annuii, con la pipa tra i denti. «Quella prima notte, Charles dormì nella mia stanza e tutto andò bene tranne che per il fastidioso ricordo delle mie sensazioni. Ma il mattino dopo, ero sola davanti allo specchio e facevo toeletta, sperimentai di nuovo quell'agghiacciante sensazione. Mi avviluppò. Era anche più forte di quando l'avevo avvertita in carrozza, e diversa... non sembrava nascere dall'interno ma estendersi da una circostanza esterna. Era come se l'atmosfera stesse richiudendosi per schiacciare e raggelare il mio corpo. Per lunghi, terribili momenti rimasi impotente in balia di quella sensazione. Non potevo muovermi, né parlare. Ma ero decisa a combatterla. Mi dissi che era qualcosa di irrazionale, mi costrinsi... a prezzo di un terribile sforzo, sir... mi costrinsi ad alzarmi da davanti allo specchio e ad avvicinarmi alla finestra, comandando alle mie membra di obbedire, ai muscoli di funzionare, come se mi trovassi nell'acqua profonda. Sembrandomi che presto sarei rimasta soffocata, spalancai la finestra e respirai a pieni polmoni. Lentamente, la sensazione cominciò a dissolversi. La potevo quasi sentire, cosa fisica che veniva attratta dalla finestra. Il bozzolo di freddo lasciò la mia carne, le tende si mossero e infine rimasi tremante a fissare la landa vuota. Mi concentrai su quella vista per tenere impegnata la mente. Erano... sono... bellissime. Rigide, dure e solitarie, ma piene di pace. Un senso di eternità è incastonato nei frastagliati contorni. Un po' di quella pace mi rag-
giunse e io decisi che sarei arrivata ad amare questa terra come l'amava mio marito, in equilibrio tra questo desiderio e la paura di ciò che poteva aver causato la mia paura...» «Ah, ma questo è senza significato per voi... per uno che non ha sperimentato la sensazione.» «No, non senza significato. Da qualche parte c'è una chiave, dobbiamo soltanto trovarla... Una Stele di Rosetta che dischiuda il mistero, che decifri il linguaggio della mente» «Non è nella mia mente, sir.» Decisi di non ribattere su quel punto, almeno per il momento. Volevo che continuasse. Ma lei si alzò e si strinse addosso il mantello, e il vento scompigliò i suoi capelli dorati. «Venite, camminiamo», disse. Annuii. «Voglio farvi vedere il luogo dove andai quella mattina... la mia prima mattina a Fengriffen House; il luogo dove mi recai in perfetta solitudine nel tentativo di accettare quella pace dentro di me, decisa ad abituarmi alla mia nuova casa...» Girammo attorno all'albero caduto. «Un mal consigliato tentativo», disse. Seguimmo un sentiero quasi inesistente, invaso dalla vegetazione, che si dipanava dal giardino e attraversava un campo di ginestre, eriche e rovi. Mi tenevo leggermente dietro Catherine la quale aveva un passo deciso ed eretto e si muoveva molto più velocemente del normale per una donna nelle sue condizioni. La nebbia si era quasi del tutto sollevata e il cielo era sempre più coperto di nuvole, forme che si dividevano e si riunivano, si assottigliavano e si rompevano come creature monocellulari nell'atto della riproduzione. E in effetti si riproducevano. Adesso era visibile soltanto una striscia d'azzurro, e stava richiudendosi anche quella. Per il resto il cielo era scuro. Mi chiesi vagamente come stessero reagendo le articolazioni di Jacob. Il campo finiva a una disordinata fila d'alberi con i rami e i tronchi contorti in angoli grotteschi dal vento. Il terreno era qua e là illuminato dai raggi del sole che riuscivano a trapassare le nuvole. Catherine puntò decisamente verso gli alberi e siccome il percorso era adesso più accidentato, mi portai al suo fianco pronto a offrirle il braccio se ce ne fosse stato bisogno. Ma lei parve non accorgersene neppure. S'addentrò senza esitazione tra gli alberi. Grosse pietre erano prigioniere
dei grovigli di radici, su entrambi i lati, ma Catherine seguì una stretta apertura e passò tra ombre e squarci di luce, sicura del suo senso d'orientamento. All'improvviso, si fermò e fece segno con la mano. La raggiunsi e mi trovai in un cimitero. Per una qualche ragione, la cosa mi sorprese. Catherine mi stava fissando con un sorriso. Non era un sorriso piacevole e la sua mano era ancora distesa verso le pietre tombali. C'erano lastroni di granito e di marmo affondati nella terra, antichi e scoloriti come denti di draghi in decomposizione. Sembravano testimoniare marciume e corruzione. Non erano ben curati e non c'era neppure un certo apparente ordine nella loro disposizione... gravità e tempo dovevano aver agito su quel posto. «Qui è dove il mio camminare mi portò», disse Catherine. «Cercavo pace e tranquillità, e il caso mi guidò verso queste tombe dimenticate... verso questo luogo di memoria e di tristezza dove sono sepolti gli antenati di mio marito e dove un giorno i miei resti terreni saranno posti a ridursi in polvere. Non un piacevole pensiero, dottore. E nemmeno il genere di conversazione che ci si potrebbe aspettare da una giovane donna in attesa di un figlio. Ma non ho paura della morte. Sarebbe la benvenuta adesso se davvero portasse oblio. A quel tempo, non avevo simili pensieri. Vedevo la cosa come un cattivo presagio. Mi atterriva. E tuttavia mi impediva di fuggire. Vagavo tra questi odiosi monumenti a Thanatos come se i miei passi fossero preordinati. Guardavo le pietre ma mi muovevo...» Mentre parlava, Catherine avanzò nel cimitero. «Vedete, questa è la tomba del padre di Charles. È piuttosto recente. La pietra non è ancora affondata nel terreno. La bara sarà ancora intatta. Forse il cadavere non è ancora decomposto, forse brandelli di carne cadono ancora dalle ossa. In quanto tempo avviene la decomposizione, dottore?» Nonostante il macabro aspetto di quell'argomento, la sua voce era calma e distaccata. Catherine continuò a camminare tra le tombe. Notando come le sue scarpe affondavano profondamente nella terra scura, ebbi la spaventosa immagine di una qualche forza che, emergendo dal terreno e afferrandola per le caviglie, la tirasse giù verso le tombe. Oppure si trattava di una forza che agiva dall'alto e che la spingeva giù premendo sulle sue spalle curve? Seguendola, avrei voluto convincerla ad abbandonare quel luogo così macabro. All'improvviso, si fermò. «E qui è sepolto il nonno di Charles», disse. «I resti di un monumento
eretto a un uomo che comandò, governò e... Non è nient'altro che una pietra rozzamente tagliata, vedete? Non l'unica cosa che abbia lasciato ai suoi antenati...» Era una lastra di granito ad arco con una targa di bronzo. La vegetazione aveva già cominciato a coprire la pietra ma l'iscrizione era ancora leggibile. Henry Fengriffen era vissuto fino a un'età matura e i contorni rettangolari della tomba erano incassati più profondamente rispetto al suolo circostante... sembravano perfino più scuri all'interno dei confini. Catherine camminò direttamente su quella parte più bassa del terreno e sfiorò con la mano la volta della pietra. Il suo viso si contorse in un'espressione di disprezzo... un'espressione fin troppo intensa per esprimere odio o paura. Era come se stesse guardando non la tomba ma il suo contenuto. La fissai affascinato, ricordando che era stato il ritratto di Henry Fengriffen quello che aveva patito l'incidente. «Catherine...» mormorai. Parve non udirmi. Si voltò e si appoggiò alla pietra, e la terra nera parve trasudare ai suoi piedi. «Qualcosa mi attirò proprio verso questa tomba», disse. «Non sapevo ancora nulla della leggenda. E tuttavia superai le altre senza nemmeno degnarle di un'occhiata per venire direttamente qui come per un qualche magnetismo dei sensi. Tutto era come offuscato. Vedevo soltanto questa pietra. Attorno a me, il mondo era indistinto, ma questa pietra emergeva nitida, illuminata ai miei occhi. Mi avvicinai da questa parte...» La sua calma era scomparsa, adesso. Aveva gli occhi spalancati, rivolti verso di me, ma non mi vedeva. «All'improvviso, da dietro la tomba, un viso mi balzò incontro! Una faccia orrenda con occhi incavati, un liquido rossastro che saliva da un angolo della bocca verso lo zigomo... un liquido del colore del sangue... come se avesse affondato il viso nella carne viva. Barcollai all'indietro e gridai. Non ho mai conosciuto un orrore simile. Non credo che fosse una forma umana; pensai piuttosto che fosse un qualche demone che si cibasse di cadaveri. Cercai di chiudere gli occhi davanti a quella manifestazione di malvagità ma le mie palpebre erano rigide; desiderai perfino piombare nell'incoscienza, ma non svenni; desiderai gridare, ma le mie corde vocali erano come aggrovigliate in un nodo. Quella faccia si voltò verso di me. Gli occhi fiammeggiarono dalle fosse delle orbite, la bocca si contorse in un ghigno mostrando denti anneriti come queste pietre, spaziati, marcescenti. Ci guardammo per quella che mi parve un'eternità, poi, bruscamente, la fi-
gura scomparve tra gli alberi, lunga, spettrale, vestita di stracci. Per un po', ne sentii il passaggio tra la vegetazione, poi fu silenzio. Ero incapace di muovermi, pietrificata. Il tempo non aveva più significato, perfino il mio cuore sembrava raggelato. Rimasi lì per chissà quanto tempo, poi, all'improvviso, i miei riflessi ritornarono, i miei muscoli ripresero a obbedirmi, cosicché potei correre verso casa... «Da allora, ho perso ogni speranza di trovare pace in questo posto... Ho lasciato in questa tomba i resti mortali delle mie speranze, a diventare polvere...» Catherine rise. Senza volerlo, guardai verso gli alberi dietro la tomba. Lei se ne accorse e rise ancora di più, piegata all'indietro, in pratica seduta sulla lapide. «Allora, dottore? Cosa può dirci la vostra scienza?» «Quell'apparizione...» cominciai. «Oh, non era un'apparizione. La creatura esiste. Si può dire che sia perfino umana.» «Lo sapete?» Catherine annuì. «L'ho rivista», disse. «Allora si tratta sicuramente di qualche vagabondo che vive nei boschi. Un bracconiere, forse. Un eremita...» «Dottore... voi arrivate troppo frettolosamente alle conclusioni. I dottori hanno questa tendenza. Vi dico, invece, che la creatura era vera. Quando tornai a casa, salii nella mia stanza e vi rimasi per molte ore, raggelata. Alla fine, raccolsi le mie forze e scesi di sotto. Charles era in biblioteca. Gli dissi che cos'era accaduto e lo vidi irrigidire le mascelle, sbiancare leggermente. Gli chiesi se sapeva chi era la creatura e dapprima lui non rispose. Potevo leggere i suoi pensieri mentre cercava di decidere cosa dirmi. Rispose infine che si trattava di un cacciatore e che non dovevo aver paura. Tuttavia, mentre lo diceva, vidi che la paura aveva afferrato anche lui. Mi sedetti, gli presi la mano, e scoprii che era fredda. Ma non volle dirmi altro. «Sono sempre stata una donna incline alla curiosità, ma non fu soltanto la curiosità a spingermi a scoprire il mistero di quel misterioso quanto orrendo individuo. Sentivo che, in qualche modo, era indissolubilmente legato al mio destino. «Feci venire la signora Lune nella mia stanza. La buona donna arrivò e io cercai di assumere un atteggiamento calmo e di tenere lontana l'emozio-
ne dalla mia voce. Le dissi che avevo visto quell'uomo mentre passeggiavo e le chiesi se avesse idea di chi fosse. Le descrissi anche il segno rosso che aveva sulla faccia e il viso solitamente fermo della signora Lune parve dissolversi. Quasi vicina alle lacrime, mi disse che preferiva non parlarne. Insistetti, questa volta cercando di mettere nella voce una severità e un'irritazione che non provavo. "L'uomo dei boschi", mi rispose. "Ma chi è? Un servitore?" Lei scosse la testa e mormorò qualcosa, ma più a se stessa. "Allora perché si trovava sulle terre di mio marito?" Ebbe un tremito. Ripetei la domanda, in tono brusco. Non desideravo causarle ansia o dolore, ma dovevo conoscere la verità. "Non lo so", rispose. "Davvero non lo so. Ho sentito dire che ha ereditato il diritto di vivere nei boschi... in un casotto... dove viveva suo padre un tempo..." "Ma perché?" "Un'ingiustizia... del passato", rispose, torcendosi le mani. "Ne ho sentito parlare. Qualcosa che il nonno del padrone fece e che non... non avrebbe dovuto essere fatta. Lo lasciò scritto nel testamento che avrebbero avuto il diritto di vivere per sempre su queste terre..." "Di quale ingiustizia si tratta?" "Non saprei, madam." "Avanti, ditemelo". "Non posso. Non lo so. Dio mi aiuti, non lo so. Vi prego, madam... È tutto quello che ho sentito dire..." «E nonostante altri incitamenti e minacce, non riuscii a sapere altro dalla signora Lune.» «Sembra una donna superstiziosa», osservai. «Non vi sarete lasciata influenzare? Questa gente crede nelle leggende e nelle storie...» Catherine scosse la testa. «Influenzare?» disse. «Sì, mi ha influenzata. Ma di nuovo voi non sapete. Ero decisa a scoprire cosa diceva la leggenda. Dovevo sapere. Congedai Lune, con grande sollievo da parte sua devo dire, e riflettei su quel poco che sapevo. E decisi che avrei fatto qualche domanda a Charles quando fosse venuto nella mia stanza, quella notte. Più che fargli delle domande, volevo conoscere la verità. Era più forte di me. Dovevo sapere in che modo quella leggenda e quell'odiosa creatura avevano effetto su di me. Ritenevo che, sapendo, sarei stata in grado di difendermi contro quel senso di minaccia e di paura, contro quel senso di disperazione. Adesso penso che se fossi stata avvertita... No, non è vero. Era già troppo tardi.» Con il sole stava alzandosi anche il vento. Giocava con gli alberi contorti e agitava le esili ombre lungo gli antichi monoliti. Da qualche parte, un animaletto frusciò nel sottobosco mentre un uccello solitario descriveva un arco, alto nel cielo. Forse il roditore correva via perché anche lui aveva visto quel predatore stagliato contro le nuvole. Notai quelle cose perché ero
riuscito a mettere da parte le mie emozioni, ad ascoltare Catherine con obiettività così che gli eventi esterni fossero ingranditi nella mia percezione... così che i miei sensi s'affrettassero a riempire il vuoto dove le emozioni avrebbero dovuto regnare. Ero consapevole della sua voce, non in relazione alle mie sensazioni, ma perché rifratta da uno sfondo naturale. Il forte odore di ricca terra, mescolato a quello dell'aria pesante; il tremolante gioco di luce e ombre; il ponderoso movimento delle nuvole... tutto questo assumeva una realtà che andava oltre il naturale e formava la base sulla quale il monologo di Catherine s'innestava. «Charles non venne nella mia stanza», disse Catherine. «Ho scoperto che quando mio marito è turbato o preoccupato, cerca lo sforzo fisico. È sempre stato così. Suppongo che sia un buon sistema. Costringe il corpo alla fatica e rilassa la mente. Be', quel giorno era turbato. Trascorse il pomeriggio e parte della sera a cavallo, con i cani, facendo un percorso pazzesco a tutta velocità e non concedendosi neppure un momento per pensare. Attesi il suo ritorno. Lo vidi molte volte in lontananza piombare al galoppo attraverso i campi. Quando tornò, il cavallo era quasi sfiancato e Charles esausto. Mangiucchiò qualcosa a cena e poi si ritirò in camera sua. Fui costretta a fare la stessa cosa, con il risultato di rimanere sveglia a lungo, ad agitarmi nel letto. Sono una donna appassionata ma non irrazionale; la mia passione non si sveglia se prima mio marito non manifesta il suo desiderio. E a rendere irrequieti i miei pensieri e insonne la mia notte era il fatto che non fosse la passione a farmi desiderare che mio marito mi fosse accanto. Parlo di desiderio perché... Be', perché...» «Perché?» Catherine si strinse nelle spalle. «È una funzione basilare del genere umano.» «È più di tanto. Ma non importa. Fatemi continuare...» Non potei fare a meno di meravigliarmi del significato di quel riferimento al bisogno fisico ma decisi di non approfondire l'argomento. Catherine stava parlando liberamente e non osavo rischiare di farle cambiare atteggiamento. «I miei pensieri tornavano inevitabilmente all'uomo dei boschi. Vedevo il suo viso che mi perseguitava. Chiudevo gli occhi e scoprivo che la visione era anche più forte quando era intrappolata dietro le palpebre. Tutti i particolari erano là, graficamente più nitidi nella mia mente di quando lo avevo guardato dal vivo. Di nuovo rivedevo quelle terrificanti sembianze ergersi da dietro la tomba; rivedevo quel marchio di nascita tanto simile al
sangue di un qualche macabro festino, quegli spuntoni nella sua bocca e quegli occhi disumani rivolti verso di me. Non riuscivo ad allontanare quella figura dal mio febbricitante cervello e a pensare ad altro. Giacevo per ore, fradicia di sudore freddo, a fissare il soffitto e a vedere l'uomo dei boschi... «Sentivo alla fine il sonno strisciare sopra di me. Tentavo di accettarlo. La mia mente s'oscurava, poi scattava di nuovo sveglia. Gli oggetti nella stanza sembravano convergere verso di me, ingigantire e poi recedere di nuovo nell'oscurità. Gradatamente, affondavo in uno stato di torpore. La mente più di tanto non può sopportare, poi erige la barriera protettiva dell'insensibilità. I valori cessano di avere significato, un indifferente dormiveglia fa da sentinella sulla sanità mentale...» «E poi venne. «Ebbi la stessa sensazione che avevo avuto al mattino, solo aumentata di un centinaio di volte. Fu molto di più che un fluire d'aria, un chiudersi dell'atmosfera. Ci fu un suono alla finestra, le tende si gonfiarono verso l'interno e la cosa irruppe nella stanza, roteando negli angoli, cercando ciecamente e riunendosi. Si raccolse sopra il mio letto. Discese sopra di me... tocco d'aria così pesante e fredda da avere sostanza. Avvolse il mio corpo come una cosa vivente, immobilizzando le mie membra e spiando i miei seni fino a quando anche il mio cuore fu come impalato. Non potevo muovermi, non potevo gridare. I miei occhi erano spalancati, ero completamente sveglia, ma del tutto impotente in quella morsa soprannaturale. «Non so dire quanto quell'abbraccio di ghiaccio durò. Parvero ore, forse furono minuti, ma per la prima volta fui preda e prigioniera di forze che andavano al di là di ogni comprensione. Poi, alla fine, si ritrasse da me. Sentii la pressione diminuire, il freddo attenuarsi, il rigurgito d'aria esaurirsi fino ad annullarsi, e gridai... «Gridai all'infinito, pazza di terrore, svegliando tutta la casa. Non ero più tenuta prigioniera e tuttavia non potevo ancora muovermi... la mia paura aveva preso le funzioni dell'essere nell'annichilire le mie membra. «Charles fu il primo a entrare. «Rimase sulla soglia, gli occhi sbarrati, i capelli scompigliati, una pistola in mano. La sua nobile testa cercava ora da una parte, ora dall'altra un possibile bersaglio. La signora Lune apparve alle sue spalle, una mano alla gola, una gola che sembrava torcersi come un serpente. "La maledizione..." cominciò a balbettare fino a quando Charles non la spinse da parte e non chiuse la porta.
«Si avvicinò al letto, cercando di nascondere la pistola sotto la vestaglia, e si sedette accanto a me. Mi prese la mano e mi guardò negli occhi. Capii lo sforzo che faceva per mantenersi calmo. Mi accarezzò i capelli e mi parlò dolcemente, e io gli dissi quello che era accaduto, le parole che mi uscivano senza ordine dalla bocca. Cercò di calmarmi, mi disse che dovevo aver sognato, mentre io mi aggrappavo a lui e lo supplicavo di non andarsene e di non lasciarmi sola. Riuscii alla fine a riacquistare una parvenza di autocontrollo. Più per Charles che per me... la mia pace mentale se ne era andata per sempre in quegli interminabili momenti, in quella morsa di artigli invisibili... gli lasciai credere che mi avesse convinta... che era stato un incubo. «Ciononostante, perfino allora, sapevamo bene tutti e due...» Catherine premette un alluce nella terra umida, lasciandovi un'impronta che guardò con interesse. «E tuttavia», dissi io, e la mia voce incespicò in qualche ostacolo presente nella bocca, «deve essere stato un sogno.» Catherine mi lanciò un'occhiata sdegnosa e sprezzante. «Un sogno causato dalla vostra mente turbata e febbricitante...» «Naturalmente», disse. «Un sogno. Potete curarmi da un sogno, uomo di scienza?» «Solo se possiamo trovarne la radice. I sogni possono sembrare realtà. La linea di demarcazione è molto labile e quando la mente è intossicata dall'emozione...» «Ma non era un sogno», disse Catherine. «Era reale. Quella fu la prima volta, ma non l'unica. Da allora, ho sentito quel contatto gelido molte altre volte. E una volta Charles tornò di nuovo nella mia stanza... ma non importa.» Si sporse verso di me. «Sbaglio a irridere la vostra ignoranza», disse. «So che desiderate aiutarmi. Ma so anche che non potete farlo. Nessun essere vivente può.» I suoi occhi bruciavano, finestre dell'inferno che stava ribollendo nella sua mente. «Vi dirò un'altra cosa.» Attesi. «Il giorno dopo, andai nei boschi in cerca dell'uomo... Sì, andai da sola nel mezzo della foresta e cercai quello scherzo di tutto ciò che era umano... lo cercai e lo trovai.» Sogghignò.
La guardai incredulo, stupefatto. «Non si trattò di coraggio», disse. «Non avevo scelta. Era una necessità. Percorsi da sola e disarmata il sentiero pieno di vegetazione senza dubitare che l'avrei trovato. Era una certezza, la mia. Andai dritta al suo capanno, senza sbagliare, sebbene non fossi mai stata in quei boschi prima di allora e ci fossero molti altri piccoli sentieri che tagliavano il mio. Viveva proprio dove la foresta è più fitta e scura, e il capanno si trovava in una radura. Rimasi tra gli alberi per più di un'ora, a fissare quella struttura malmessa. Non mi sembrava reale... molto meno reale dell'esperienza che voi attribuite a un sogno. Ma non avevo più paura. Le mie gambe si ribellarono e per un lungo tempo si rifiutarono di farmi proseguire, ma la mia mente non sentiva nulla. E alla fine emersi nella radura e mi avvicinai alla porta. Era aperta. L'uomo dei boschi era dentro, accovacciato davanti a una pentola sporca sospesa sopra un fuoco. Aveva accanto la bestia orribile del suo cane. Mi guardarono entrambi senza apparire minimamente sorpresi della mia presenza sulla porta. Il cane scoprì i denti ma non emise alcun suono. L'uomo non parlò. Ora che lo vedevo nella sua misera capanna, il suo aspetto non mi sembrava più tanto repellente. Sentii qualcosa di molto simile alla pietà per lui. «Gli dissi che desideravo parlare con lui. «Non rispose. Prese un forchettone di legno e girò il contenuto della pentola. Mi avvicinai. Ciò che vi bolliva emetteva vapori fetidi dalla superficie oleosa. Odori fetidi salivano anche dal suo corpo sporco e dagli stracci che lo ricoprivano. Ebbi le vertigini per la nausea, ma ero decisa. Mi sedetti sul nudo pavimento accanto a lui e gli chiesi della leggenda. Sembra impossibile, ma allora era naturale, necessario. Lui parve esitare, ammesso che una simile mente sia capace di pensieri astratti, poi, sempre continuando a mescolare la sua brodaglia, cominciò a parlare. «Con un linguaggio rozzo e accenti crudi, mi raccontò della leggenda e della maledizione...» Catherine abbassò la voce ma sollevò gli occhi. «E così venni a sapere del mio destino...» Un lungo silenzio seguì quelle parole, un silenzio che ben s'adattava al nostro sepolcrale ambiente. Nessun animale correva più nel sottobosco, adesso. L'uccello da preda era sceso verso l'orizzonte e si era portato via il suono del vento. Era tutto così immobile che m'immaginai di poter sentire i vermi scavatori che, gonfi e ingordi, portavano a termine il loro necrofago compito sotto i nostri piedi. Rabbrividii a quel pensiero.
Catherine continuava a fissarmi, giudicando la mia reazione. «E la leggenda?» mormorai. Lei scosse la testa. «Di quella non dirò altro. Riguarda gli antenati di mio marito ed è un racconto di atrocità che non posso ripetere.» Si alzò dalla tomba e il vento tornò improvvisamente a gonfiare i suoi capelli d'oro, ad agitare il suo mantello. «Sono stanca, adesso. Ho detto abbastanza.» «Torno indietro con voi.» «Come volete.» Si voltò. Per un istante credetti che volesse rivolgere un saluto alla tomba, ma poi si voltò di nuovo e mi passò davanti. Camminava velocemente. La raggiunsi e, come aveva già fatto, ignorò il mio braccio. Superammo gli alberi e uscimmo all'aperto, nel campo. Le stalle erano all'estremità opposta e, oltre quelle, si ergeva la casa. Catherine vi si diresse, mantenendosi parallela al giardino. Apparve Fengriffen che andava verso le stalle, ma non diede segno di vederci. Aveva un'aria preoccupata. Catherine gli lanciò una breve occhiata, poi distolse lo sguardo. «Ebbene? Mi sono incriminata?» domandò. «Non capisco.» Si fermò così bruscamente che quasi ci scontrammo. E fu allora che mi prese il braccio e mi guardò intensamente. «Sono pazza?» domandò. Era retorico. Catherine non la pensava così. E io non sapevo cosa pensare. Salii nella mia stanza ma non appena chiusi la porta fui preso da un senso di irrequietezza, da un'urgenza di muovermi, di passare all'azione. Riempii la mia pipa e cercai di convogliare quella sensazione verso la riflessione, verso il tentativo di mettere insieme ciò che avevo sentito e scoprire, almeno in teoria, come un sogno e un rozzo boscaiolo e una leggenda potevano combinarsi nel disturbato stato mentale di Catherine, nella sua disaffezione verso il marito, il quale non sembrava in alcun modo coinvolto. L'apparenza però non era sufficiente. Sentivo che i Fengriffen non mi avevano detto tutto, che un qualche dettaglio importante mi era stato taciuto. Questa è una grave difficoltà nella mia professione. La gente si aspetta speranza senza dare fiducia. Nonostante tutti gli sforzi, non riuscii a tra-
sformare la mia irrequietezza in forza razionale. Mi alzai e andai alla finestra. La mossa logica seguente, pensai, sarebbe stata quella di scoprire in che cosa consisteva quella leggenda. Era ovvio che avesse avuto un tragico effetto su Catherine, sebbene fosse impossibile sapere se l'effetto fosse dovuto al contenuto della leggenda o al modo particolare in cui le era stato rivelato. Dalla finestra, allungando lo sguardo fino all'ala più lontana della casa, potevo vedere le stalle. Fengriffen era ancora là, che parlava con lo stalliere. Presi in considerazione la possibilità di chiedere a lui stesso della leggenda. Ma lui aveva negato di credere nella superstizione, aveva rifiutato con impazienza di parlare di quelle cose, e non avrebbe capito come qualcosa non avesse bisogno di essere vera per essere valida. Se mai mi avesse parlato della leggenda, l'avrebbe sicuramente modificata secondo la propria convinzione e non sarebbe più stato il racconto che aveva udito Catherine. Avrei avuto bisogno di obiettività. Ma chi, in quella storia, avrebbe potuto essere obiettivo? L'uomo dei boschi. Guardai il cielo, chiedendomi se il previsto temporale avrebbe tardato tanto da consentirmi una visita a quel capanno nella foresta... ma forse sperando che piovesse già perché non era che il pensiero mi allettasse molto. Dovetti vincere il mio timore, dirmi che Catherine c'era andata prima di me, sola e indifesa e in avanzato stato di gravidanza. Rivolsi lo sguardo verso la foresta. Il cielo era basso e nuvoloso ma non dovevo concedermi quella scusa. Era nel bosco che dovevo cercare la risposta che volevo. Mi misi addosso un pesante capo di lana scozzese e, rinunciando al mio, leggero, presi il pesante bastone che avevo comprato sulle Alpi svizzere. Non appena l'ebbi in mano, avvertii tutta l'ironia del fatto che un uomo di scienza traesse coraggio e ardire da un pezzo di legno scolpito. Tuttavia, così è l'uomo, e dire che un uomo conosce se stesso equivale a dire che ha guardato nel baratro senza fondo e ha dichiarato la scoperta... Fengriffen aspettava che lo stalliere gli sellasse il cavallo. Era vestito da sella di tutto punto e si frustava con aria assente uno dei suoi lucenti stivali. Vedendomi passare davanti alla stalla, mi venne incontro. «Avete parlato con mia moglie?» «Sì. Abbiamo parlato.» «E avete scoperto qualcosa?» «Delle cose, sì. È necessario metterle insieme.» «Per separare la verità dall'assurdo, volete dire?»
«No, non è quello che io cerco.» Lui mi studiò per qualche momento. «Allora non avete niente da riferirmi?» «Non ancora.» «Capisco. E adesso dove state andando?» «Faccio una passeggiata. Spesso cammino mentre penso.» «Non volete fare una cavalcata con me, invece?» «No. Una camminata solitaria è più adatta alla riflessione.» «Come volete.» Feci per proseguire. «Penso che Catherine vi abbia detto un mucchio di sciocchezze...» Mi voltai, senza rispondere. «Voglio dire... oggi come oggi, non potete prendere le sue parole per oro colato.» «Farò le mie valutazioni», dissi. Pensai per un momente che stesse per fare una qualche tagliente osservazione. Poi lo vidi stringersi elegantemente nelle spalle. «Naturalmente», disse. Attraversai il campo per una tangente al percorso per il quale mi aveva condotto Catherine e arrivai agli alberi un po' più a sud del cimitero. A quel punto mi fermai e mi voltai. Fengriffen mi stava osservando. Ebbi l'impressione che fosse stato a guardarmi per tutto il tempo che mi ci era voluto per attraversare il campo. Non avrei potuto dirlo con certezza, ma mi parve che fosse anche accigliato. Lo stalliere era alle sue spalle e teneva pazientemente il cavallo per le redini. Fengriffen si girò e montò con grazia in sella. Il cavallo scartò leggermente di lato, poi si lanciò al galoppo. Lo stalliere rimase a guardarli, grattandosi i capelli spettinati, attese che cavallo e cavaliere svoltassero dietro la casa e rientrò nell'oscurità della stalla. E io m'addentrai nel bosco. Sebbene fitto e selvaggio, non era grande e quindi non pensavo di incontrare molte difficoltà nel localizzare la baracca del boscaiolo. C'erano numerosi sentieri, segnati soltanto dalla vegetazione appiattita dal passaggio degli animali, e io presi il più largo. Di tanto in tanto, sollevavo la testa per giudicare, attraverso i rami, la posizione del sole dalla lucentezza delle nuvole e farmi una certa idea della direzione. Più m'addentravo in quella foresta, più gli alberi diventavano fitti e i rami bassi, che m'arrivavano alle
spalle, rallentavano la mia avanzata. Quegli alberi erano in qualche modo protetti dalla forza del vento ed erano disposti più simmetricamente rispetto a quelli disposti lungo il perimetro; ed erano più alti, quasi a contestare a quegli altri, il privilegio del sole. Era una lotta per la sopravvivenza, e non ancora vinta perché c'erano degli alberi piccoli, secchi e senza vita, che s'abbarbicavano ai vicini, che allungavano radici tortuose verso tronchi dove scorreva linfa più vitale... mendicanti arborei in un regno che non concedeva elemosina. Spesso ero costretto a passare sopra quelle forme sfortunate messe di traverso sul sentiero, e una volta un ramo secco crepitò quando lo sfiorai con il gomito. Non era difficile pensare a quella foresta come alla manifestazione fisica di una mente contorta e che, addentrandomi in quegli alberi, m'ero addentrato in labirinti mentali cercando l'anfratto più scuro nella più profonda e segreta solitudine. Il terreno divenne più umido, quasi acquitrinoso. Il fango risucchiava i miei stivali, riluttante a rilasciarli. Il procedere si fece più spiacevole tanto che dovetti ricorrere al bastone per aprirmi un varco tra rampicanti e viticci tenaci, sorprendendomi, mentre lo facevo, a ridacchiare per la rabbia con la quale menavo quei colpi, fermandomi a volte per accendermi la pipa e rilassare i nervi. Andai avanti, lentamente, e infine giunsi bruscamente a ridosso della baracca. Era una struttura di pietra grigia e assi di legno che necessitava di essere riparata. Un sottile nastro di fumo si levava dal camino frastagliato, s'innalzava nel cielo per qualche metro e veniva disperso dal vento. Fissai la baracca per qualche momento prima di rendermi conto della presenza del boscaiolo. Era seduto davanti alla porta, direttamente sulla linea del mio sguardo, ma così ben confuso con il territorio circostante che non lo avevo notato se non quando s'era mosso. Sollevò la testa e mi guardò. Il suo aspetto era terribile da vedersi. La voglia... perché di una voglia in fin dei conti si trattava... si allungava in una striscia di tessuto vascolare dall'angolo della bocca alla tempia, e i capelli unti ricadevano aggrovigliati sulle sopracciglia. Aveva un aspetto repellente e tuttavia quei lineamenti non erano privi di intelligenza... non l'intelligenza dell'uomo civilizzato, ma l'astuzia e la diffidenza di chi vive solo con la natura. Non si mosse al mio avvicinarmi ma aprì la bocca e la lunga mascella da lupo rivelò denti macchiati di tabacco. Accanto a lui, qualcosa che in un primo tempo avevo preso per un mucchio di stracci si agitò. Era il suo cane, una miserabile creatura tutta pelle e ossa, e mi guardava nello stesso modo in cui mi stava guardando il suo padrone.
Mi fermai a meno di un paio di metri dalla bestiale coppia e mi appoggiai al bastone. «Vorrei scambiare qualche parola con voi», dissi. Lui annuì. Il cane gli si fece più vicino e il boscaiolo gli mise una mano nodosa sul collo. «Potete concedermi qualche momento?» Lui ammiccò. Forse non era abituato a un approccio civile, se non alle relazioni umane. «Non ho fatto niente», disse. «Non ho detto che abbiate fatto qualcosa.» Le sue dita scolorite si mossero nervosamente nel pelo rigido dell'animale. «Questa è casa mia», disse. E annuì come per affermare a se stesso il senso di quelle parole. «Nessuno può negarmi questa terra. Non possono mandarmi via.» Chiuse lentamente un occhio e chinò la testa da un lato, mettendo in mostra il collo rinsecchito. «È tutto scritto come si deve.» «Non ho alcuna intenzione di mandarvi via, buon uomo.» «Venite dalla tenuta, allora?» Annuii. «Da Fengriffen?» Annuii di nuovo. Si voltò verso il cane ed emise un curioso suono gutturale, al che il cane drizzò un orecchio. I denti dell'animale erano in tutto e per tutto simili a quelli dell'uomo. «Sono un dottore», dissi. Una luce d'interesse s'accese nei suoi occhi. «La signora non sta bene?» domandò. Ignorai la domanda e dissi: «So che la signora ha parlato con voi qualche tempo fa». «Oh, sì.» «Mi piacerebbe sapere di cosa avete parlato.» Lui scosse la testa. La sua espressione era ostinata, ma diversa da prima. Era come se provasse piacere da quel suo capriccio. «Volete parlarmene?» «No.» «Perché?» «Non devo dare ragione. Questa è casa mia. Non devo se non mi va.» «Ma non c'è niente di male.» Lui scosse nuovamente la testa.
Presi in considerazione l'ipotesi di dare del denaro a quel rottame d'uomo, ma decisi di no. Non so perché, ma sentivo che mi sarebbe stato possibile corromperlo per indurlo a parlare ma che quello che mi avrebbe detto non mi sarebbe stato di alcuna utilità. Ero sicuro che per denaro mi avrebbe detto qualsiasi cosa gli fosse passata per la mente e avrebbe provato piacere nell'ingannarmi. «E tuttavia parlate volentieri con la signora.» «Non è la stessa cosa. Non è per niente la stessa cosa. Ho dovuto parlare alla signora così come ho fatto.» «Dovuto?» «Era un dovere.» «E non me lo direste...» «Non ho ragione.» Lo fissai, cercando di individuare la tortuosità del suo processo mentale, e mi chiesi se il suo rifiuto fosse dovuto a semplice perversità o a qualcosa di più motivato. «La signora è malata», dissi. «Ritengo che potreste darmi una mano a curarla rivelandomi il contenuto della vostra conversazione.» Parve incredulo. La sua odiosa faccia registrò prima stupore, poi piacere. «Curarla?» domandò. «Curarla?» E si mise a ridere. La sua risata era diabolica e disumana. Sembrava impossibile che un simile suono potesse essere formato da corde vocali di un essere vivente, che risonasse in un cranio umano. Vibrò a lungo, poi finì in un accesso di tosse che scosse l'emaciata forma. L'uomo sputò sul terreno e fissò con interesse la massa mucosa, come se fosse uno stregone che cercasse la conoscenza nelle interiora di una vittima sacrificale. Rabbrividii per la repulsione. E quando risollevò la testa, nessuna traccia di divertimento segnava il passaggio della risata. Poi, senza un'altra parola, si alzò ed entrò nella capanna. Il cane gli scivolò dietro e la porta si chiuse su cardini rotti. Rimasi solo, le mani strette sul bastone. Dall'interno, giunse la ripetizione della risata di prima, ancora una volta interrotta dalla tosse. Fui preso dal desiderio pazzo e irrazionale di colpire con il mio bastone la raccapricciante bocca dell'uomo, di far tacere quell'abominevole suono. Ma a cosa sarebbe servito? Stavo forse affondando anch'io nello strano umore che tormentava quella proprietà? Oppure il mio disprezzo per quella creatura era guidato da un qualche istinto più profondo del razionale, da una qualche paura atavica che riconosceva il
male e scatenava una reazione fisica? Un qualche ricordo razziale, a lungo dimenticato nei recessi della mente, che s'era risvegliato nel momento del bisogno? Voltai le spalle alla capanna e tornai nella foresta, troppo teso per considerazioni più appropriate... Non era difficile immaginare l'effetto che il boscaiolo aveva avuto su Catherine, sia al momento della sua comparsa nel cimitero, sia durante la visita che lei aveva fatto alla capanna. Trovavo già arduo io tenere lontana la sua immagine dalla mia mente in tutti i suoi odiosi particolari; doveva essere stato molto più terribile per lei, con la sua mente già stimolata dalla paura e precariamente in bilico sull'orlo della pazzia. Ancora più difficile era giudicare perché l'uomo fosse stato riluttante a parlarmi, mostrando tutti i segni di una coscienza colpevole. Aveva forse un qualche oscuro segreto da nascondere, oppure la sua silenziosa diffidenza non era che un suo costante stato mentale? Non riuscivo a decidere per cosa propendere. Una cosa però la decisi. Dovevo conoscere la leggenda. Il mattino dopo, chiesi a Fengriffen di poter usare la carrozza per un giorno. «Certamente», disse lui. «Posso chiedervi perché?» «Desidero recarmi al villaggio.» Lui aggrottò la fronte. «Il vostro tempo non sarebbe meglio speso qui?» «Ho deciso che sarebbe saggio scambiare qualche parola con il dottore del villaggio.» Si fece ancora più cupo. «Il vecchio Whittle? Vi ho già detto che, per sua stessa ammissione, non può fare niente in questa faccenda.» «E tuttavia penso che sarebbe bene parlargli. Devo conoscere i fatti da tutti i punti di vista possibili prima di metterli insieme. Whittle potrebbe aver notato sintomi che per lui erano insignificanti ma che per me potrebbero essere di grande importanza.» Fengriffen annuì, lentamente. «Come volete. Vi serve un cocchiere?» «Guiderò io stesso.» Fengriffen annuì di nuovo. «Vadoa dare disposizioni perché sia preparata una carrozza», disse. Fece per muoversi, ma poi si fermò.
«La vostra passeggiata di ieri ha prodotto qualche teoria?» domandò, guardandomi con intenzione. «È troppo presto per giudicare.» «Siete andato nel bosco, vero?» «Sì, in effetti.» «Non avete per caso incontrato qualcuno, laggiù?» Qualcosa nel tono della sua voce mise in allarme i miei sensi. «Perché me lo chiedete?» dissi, in tono casuale. «Oh, nulla. Ho qualche problema con un bracconiere. Nulla di importante.» Si voltò, le spalle erette e quadrate. «Era soltanto un'idea sciocca», disse. Non insistetti su quel punto. Feci avere il mio biglietto da visita al dottor Whittle e lui mi ammise subito nel suo ufficio. Era un uomo piuttosto avanti con gli anni, con i capelli bianchi ma con una luce di giovane interesse negli occhi. Il suo ufficio era una stanza piacevole, con odori di tabacco, caffè e libri... piacevole ma senza la pretesa del lusso. Ci stringemmo la mano. La sua stretta era ferma, il suo modo di inclinare la testa da un lato deferente ma non servile. Mi piacque subito. Riconobbi in lui le qualità che ne avrebbero fatto un uomo di valore in qualsiasi professione avesse scelto di svolgere. «Vorrei ringraziarvi per la vostra raccomandazione», dissi. «La ritengo un complimento.» «Ah, al contrario», ribatté. «Ritengo un complimento per me stesso averlo fatto. Ho letto qualcosa dei vostri studi e del vostro lavoro... tutto quello che sono in grado di fare. Il mio rincrescimento è che sono troppo vecchio per dedicarmi personalmente a questa nuova scienza.» Mi offrì da sedere e si accomodò di fronte a me, la sua scrivania in mezzo, la finestra alle sue spalle. Potevo vedere i tetti rossi e i comignoli del villaggio, e, in lontananza, qualche pecora sulla collina. Una vista tranquilla e pastorale alle spalle di un uomo tranquillo e pratico. La cosa mi colpì. Era strano che fossi venuto proprio lì per cercare qualche indizio che mi permettesse di dipanare la matassa di una mente tormentata e sconvolta. «Sì», disse lui. «Sono affascinato da queste nuove teorie... ma voi siete venuto per Catherine Fengriffen, suppongo.» «Sì.» Lui allargò le mani. «Temo di non potervi aiutare, dottor Pope. L'ho curata al meglio delle
mie limitate possibilità ma senza risultato. Dapprima pensai che fosse in uno stato iniziale di febbre cerebrale e prescrissi il solito trattamento, riposo e aria fresca. Ma si tratta di qualcosa di più profondo di un disordine fisico del cervello. La mente, forse. Ma quello non è il mio campo.» «E tuttavia, il corpo e la mente sono inestricabilmente collegati. L'uno può avere effetto sull'altro. Potrei prima farvi qualche domanda sullo stato di salute generale della paziente?» «Certamente. Ma, per quanto posso stabilire, la sua salute... il suo stato fisico... è soddisfacente. L'ho visitata attentamente e non ho riscontrato sintomi di malattie conosciute. È svogliata, non ha interesse per la vita e, cosa che potrebbe essere più attinente con il punto in questione, non sembra desiderare di riguadagnare quell'interesse. Sembra contenta di affondare nel torpore e nella letargia. Ma, sebbene riconosca questo stato, non riesco a trovarne la ragione.» Il dottor Whittle fece una pausa, con la fronte corrucciata. «Ho l'impressione», aggiunse, «che non trovi misteriosa la sua condizione... che creda di sapere cosa abbia causato questo stato di indifferenza e, inoltre, la creda cronica e incurabile. Ma è soltanto una mia impressione, dottore. Non sottoscriverei niente. L'acedia è presente ma quale ne sia il motivo sono incapace di scoprirlo.» Annuii. Era qualcosa che sapevo già. «Non avete delle domande specifiche?» domandò lui. «Non sulla sua salute, no. Desidero comunque fare una certa indagine. Forse voi conoscete la risposta... forse sarete perfino sorpreso per la domanda, ma credo che potrebbe avere una qualche relazione.» Tacqui. Ero improvvisamente restio a portare ulteriormente avanti quel tipo di indagine. Esaminai i miei sentimenti e mi scoprii stranamente turbato, come se mi stessi muovendo in un campo al quale non appartenevo, mi stessi intrufolando dove non avrei fatto niente di buono. Era uno stato d'animo unico e, considerata la mia scienza, avverso. E tuttavia persisteva nonostante che me ne rendessi conto... prova del fatto che, più della consapevolezza, è necessario tenere a freno le emozioni. Il buon dottore stava aspettando, ovviamente incuriosito dalla mia improvvisa esitazione, perciò mi feci forza e varcai i confini di territori sconosciuti. «Siete a conoscenza della leggenda di Fengriffen, dottore?» domandai. Lui parve momentaneamente sorpreso. Reazione classica del saggio: i suoi occhi chiari ammiccarono. «La leggenda che riguarda l'uomo dei boschi», aggiunsi. Il dottor Whittle annuì lentamente.
«Credo che possa esserci un qualche oscuro collegamento tra questa leggenda e lo stato d'animo di Catherine Fengriffen, che venirne a conoscenza l'abbia influenzata in qualche modo.» «Conosce la leggenda, dunque?» «Sì.» «Charles mi chiese di non farne menzione in sua presenza. Non che io l'avrei mai fatto, naturalmente. Forse riteneva anche lui che potesse esserne toccata?» «Credo di sì. Ma Catherine l'ha sentita. Ha una mente dotata di immaginazione. Se non superstiziosa, è perlomeno fervida e facilmente stimolabile. Sotto certi aspetti, questa fecondità di immaginazione è un bene; sotto altri, come nel nostro caso, può essere una maledizione. Potrebbe essere di grande aiuto se anch'io conoscessi la leggenda.» Lui annuì di nuovo. «Be', non è poi nemmeno una leggenda», disse. «In realtà, è un fatto accaduto. Un terribile fatto, ma vero. Lo so, dottore, perché c'ero anch'io. La maledizione, naturalmente, è una sciocchezza, ma il racconto in sé è da incubo. Capisco come venirne a conoscenza possa aver colpito una giovane donna. Non faccio fatica ad ammettere che per certi versi colpì anche me. Ebbi molte notti insonni e, nonostante tutti i miei sforzi per resistere, i raccapriccianti particolari occuparono un posto nella mia mente...» Fece una pausa e prese una piccola tabacchiera dal panciotto. Me la tese e io mi servii di un pizzico di tabacco. Forse ne presi troppo perché starnutii, ma ero troppo interessato alla conversazione perché quella sconvenienza mi preoccupasse. Il dottore mise la scatola sulla scrivania e trascorse qualche momento a metterla in squadra con l'angolo, come se quella regolarità fosse di grande importanza. «È stato molto tempo fa», disse. Mosse la scatola di un altro millimetro. «Ero un giovanotto, allora, al mio primo anno di professione, e forse non sarei rimasto tanto sconvolto se avessi avuto più esperienza in agonie da incidenti o malattie. È difficile da dire. Non ne ho mai parlato, capite... Lo faccio adesso perché mi rendo conto della necessità e perché voi siete un uomo di scienza. E tuttavia, attraverso tutti questi anni, l'interesse... ma è poi questa la parola, mi chiedo? Sono le cose terribili che mantengono il loro interesse? Il ricordo, perlomeno, persiste vivido in ogni dettaglio. Ricordo i suoni e gli odori e i colori che, a quel tempo, erano incisi così profondamente nella mia percezione. Ricordo, anche, le mie emozioni... indefinibili perché intrecciate e mescolate, ma con qualcosa di orrido e di ol-
traggioso e di nausea fisica. Ma voi volete i fatti, non le impressioni...» «Anche le impressioni possono avere valore. Ditemi tutto quello che ricordate, fatti e sensazioni.» «Ricordo tutto», disse il dottore. La tabacchiera era perfettamente allineata con l'angolo della scrivania, adesso. La spinse improvvisamente con l'indice facendola scivolare lungo il piano lucido e, prima che cadesse, la fermò con la mano. Il gesto fu sorprendentemente violento, come di chi avesse voluto schiacciare uri qualche disgustoso insetto. «Non è un racconto piacevole», disse, con un tono che smentiva la sua espressione. E cominciò la storia... «Fu ai tempi del nonno di Charles, Henry Fengriffen. Ero, come vi ho detto, al mio primo anno di professione e fui chiamato per un consulto subito dopo il fatto. Ma è meglio che vi dica tutto in ordine cronologico per evitare confusione e perché, perfino adesso, trovo difficile essere obiettivo e non vorrei dare alle cose aspetti sproporzionati. Fino a quel momento avevo avuto modo di abituarmi alla violenza, ma quello fu il mio primo coinvolgimento con la malvagità di cui può essere capace un uomo. Come il primo amore di un uomo, la prima cognizione del male rimane impressa nella sua anima. Perciò, sarà necessario che vi dica prima qualcosa di Henry Fengriffen... «Era uno strano uomo, questo Fengriffen, d'umore estremamente variabile. Non un lunatico ma un uomo dal modo d'agire impetuoso e di una insopportabile arroganza. Oltre che corrotto, devo dire. E tuttavia aveva una peculiarità: commetteva qualsiasi cosa e, poco dopo, soffriva di grandi rimorsi e faceva del suo meglio per riparare al male causato. Naturalmente, la cosa non era sempre possibile e lui sembrava non rendersene conto. Credeva di poter appianare qualsiasi malazione con una manciata di denaro. Nonostante i rimorsi, gli era costituzionalmente impossibile chiedere scusa. Forse non riusciva a vedere la benché minima possibilità di abbassarsi a un tale livello e credeva davvero che il denaro potesse procurare assoluzione e rispetto. Più probabilmente, non voleva neppure acquisire rispetto quanto assolversi nella propria mente. Oh, possedeva delle virtù, anche. Era molto generoso e assolutamente leale verso coloro che si erano comportati amichevolmente con lui; era ammirato e stimato da tutti quelli che non avevano subito torti. E, per giustizia verso l'uomo, devo dire che a quei tempi era molto più facile essere corrotti. A Henry piaceva il ruolo del gentiluomo di campagna: galoppava selvaggiamente per le sue tenute e
beveva molto con i compagni; partiva poi per le città dove andava a donne, giocava e si dava alle gozzoviglie con selvaggio abbandono. Non riesco a immaginare il grado di depravazione al quale possa essere arrivato durante quelle libagioni, né mi interessa. So che molto spesso s'accompagnava a tipi della peggior specie: la feccia dei docks, pugili professionisti, sfruttatori di donne, ubriaconi cronici e Dio solo sa cos'altro. Forse assorbì la sua malvagità da quel genere di persone, forse la loro presenza servì soltanto a ingigantire un'inclinazione già esistente, forse era irresistibilmente attratto dalla forza del male. Non so se dico tutto questo per scusare l'uomo o semplicemente perché è così che lo ricordo. Ricordo anche che dava generosamente ai poveri, che provvide in molte occasioni a farmi avere delle medicine e a pagarmi l'onorario per aver curato degli sfortunati, che finanziò la ristrutturazione della chiesa sebbene si professasse apertamente ateo, che, sebbene scandalizzato dal suo genere di vita, non potevo fare a meno di ammirare il suo fascino. Non un uomo facile, questo sì, ma un uomo di cui avrei pensato un gran bene, sotto quella sua volgare scorza esteriore, se non fosse stato per la storia di cui sto per parlarvi... «Dunque, Fengriffen aveva a quei tempi un giovane guardacaccia che viveva in una capanna nei boschi. Silas, si chiamava. Era un ragazzo del posto e io l'avevo visto spesso al villaggio. Sembrava un buon giovane, ben allevato e di aspetto piacevole, fisicamente prestante e attraente nonostante vestisse rozzamente e avesse una brutta voglia sulla guancia. Non intelligente, naturalmente... certamente non istruito... cionondimeno un bell'esempio di vigore e di natura incontaminata. Le ragazze della sua classe erano tutte attratte. Lo incontravano e arrossivano e abbassavano gli occhi quando passava per la strada. Suppongo che avrebbe potuto scegliere tra tutte loro e verso i venticinque anni, in effetti, sposò una del villaggio. Si chiamava Sarah. Aveva appena diciassette anni, di una bellezza virginea, ed era il primo amore per tutti e due. Si sposarono al villaggio e la prima notte di nozze Silas condusse la sposa nella sua rustica capanna, pensando che fosse appropriato consumare il matrimonio nel luogo dove avrebbero vissuto tutta la vita in armonia e felicità. E fu qui che il diavolo ci mise lo zampino...» Il dottor Whittle aveva ricominciato a giochicchiare con la tabacchiera, fissandola intensamente come se si trattasse di una sfera di cristallo nella quale leggesse il passato. «Henry Fengriffen aveva sentito del matrimonio e delle qualità virginali della sposa. Normalmente, la cosa avrebbe comportato soltanto qualche
commento sboccato con gli amici, ma in quell'occasione il destino giocò una mano crudele. Erano tre giorni che beveva con la sua compagnia e l'alcol aveva distrutto quel poco di giudizio che era in lui... lasciando un vuoto subito riempito dalla lascivia. Decise di vedere la sposa, forse perché pensava che fosse un suo diritto feudale. I suoi amici furono d'accordo, come al solito sempre pronti a qualcuna delle loro. Così, montarono a cavallo e si lanciarono in una galoppata pazzesca per campi e boschi, ignorando il pericolo degli alberi e facendo vibrare la foresta delle loro grida e dei loro schiamazzi. Sembra incredibile che nessuno di loro si facesse male. Forse la cosa avrebbe evitato il verificarsi di un evento peggiore. Ma il male guidò le loro cavalcature, cosicché arrivarono alla capanna. Credo fermamente che non avessero in mente di compiere un'azione malvagia, che si trattasse soltanto di una spacconata da ubriachi. A ogni modo, smontarono di sella e si presentarono alla porta proprio nel momento in cui i due sposi erano a letto. Fengriffen gridò che voleva entrare e bussò forte. Dopo un po', Silas venne ad aprire e guardò il gruppo con aria sospettosa. «"Sono venuto a vedere la sposa", ruggì Fengriffen. «"È a letto, padrone", rispose Silas. «"Tanto meglio", ribatté Fengriffen e, spinto da parte il guardacaccia, entrò prepotentemente nella capanna. Il suo seguito gli tenne dietro, ridendo e schiamazzando. Molti si erano portati delle bottiglie di vino che si passavano di mano in mano, bevendo a canna e versandosi addosso il liquido. Potete immaginare come si sentisse il povero Silas per quella intrusione. Quanto alla sposa, si era tirata le coperte fin sotto il mento e guardava la scena con occhi sbarrati. La sua paura, però, non faceva altro che eccitare maggiormente Fengriffen. Era abituato a donne d'ogni virtù, naturalmente, ma non tanto a donne vergini. «Afferrò le coperte e le scostò con brutalità, lasciando la povera donna nuda e raggomitolata sul materasso, mentre Silas guardava con rabbia e frustrazione impotenti. I compagni di Fengriffen s'affollarono attorno al letto, facendo commenti e bevendo e dandosi manate sulle spalle. Silas tremava violentemente. Roteava gli occhi selvaggiamente e stringeva i pugni e si mordeva le labbra a sangue. «Uno di loro disse: "Fengriffen non vede una vergine da molti anni, eh, gente?" Risero tutti rumorosamente e Fengriffen decise allora di riempire quella lacuna. «Si voltò verso Silas e chiese: "Non l'hai ancora presa?" «"No, padrone."
«"Allora reclamo il diritto di sverginarla!" «"No!", gridò Silas, avanzando. «Si guardarono negli occhi. Fengriffen giurò in seguito che fino a quel momento non aveva avuto alcuna intenzione di commettere quell'atto, che fino a quel momento avevano voluto soltanto divertirsi. Io gli credo. Ma era un uomo strano. Nel momento in cui il servitore gli negava il diritto, sentiva l'impulso irresistibile di prenderselo. Si guardarono l'un l'altro in una silenziosa lotta delle volontà. Nessuno parlava più, adesso. Tutti fissavano affascinati la scena. Se Silas fosse stato un uomo debole... ma non lo era. Un servitore, sì, ma nel suo pieno diritto. Si piazzò tra Fengriffen e il letto, le poderose braccia incrociate sul petto... «Forse sarebbe stato ancora possibile con parole ricondurre Fengriffen alla ragione. Magari anche implorando... Ma Silas non possedeva parole capaci di convincere e non avrebbe potuto parlare in quei termini al suo padrone. Fengriffen avanzò e Silas agì nell'unico modo che conosceva... agì come un animale minacciato. «Afferrò Fengriffen per le spalle e lo scagliò violentemente sul pavimento. Aveva gli occhi fiammeggianti, respirava con affanno e gli colava della saliva dalla bocca. Torreggiò minaccioso su Fengriffen e Fengriffen, terrorizzato dalla nera rabbia del suo servitore, e infuriato per essere stato abbattuto dal suo attacco, chiese aiuto. Sorpresi dalla scena che aveva avuto luogo, i compagni sul momento esitarono, poi obbedirono all'ordine di Fengriffen e bloccarono Silas. «Silas lottò con forza sovrannaturale, abbattendo diversi di loro. Fui io poi a curarne le ferite e posso dire che erano ben gravi. Ma erano troppi e alla fine Silas fu ridotto all'impotenza e tenuto... «Tenuto, dottore, e costretto a guardare Fengriffen che violentava la sua vergine sposa...» Whittle fece una pausa. «Non è una bella storia», commentai. Lui mi guardò tristemente. «Il peggio deve ancora venire», disse. «Quando Fengriffen ebbe finito con lei, si ritrasse dal letto e si inchinò beffardo verso il suo disobbediente servitore. Poi, con un gesto, offrì la violata sposa al marito. Era soddisfatto per aver punito giustamente l'insubordinazione dell'uomo. Silas era ancora trattenuto dagli altri. Aveva cessato di dibattersi mentre Fengriffen abusava della sua sposa, ma adesso lot-
tava di nuovo, con la bava alla bocca e ringhi bestiali. In preda a un attacco d'isteria, Sarah singhiozzava e gemeva, respirava a fatica, rovesciava gli occhi... E fu allora che vide l'ascia appesa al muro, vicino al letto. Era un attrezzo pesante che Silas usava non soltanto per tagliare la legna ma anche per dare il colpo di grazia agli animali caduti nelle trappole. Era infatti ancora sporca di sangue disseccato. La fissò per un momento come per valutarne il peso, poi l'afferrò e la trascinò verso il materasso. Non avrebbe avuto la forza di sollevarla. E prima che qualcuno intuisse le sue intenzioni, tenne la lama con il filo rivolto verso l'alto, vi appoggiò la gola e, presasi la testa con entrambe le mani, la mosse avanti e indietro come se si fosse trattato di una sega. La poveretta non avrebbe potuto affrontare la vita. Non senza impazzire. «A questo punto, senza badare alle conseguenze, tanta era la sorpresa per un fatto che non avevano previsto, gli uomini mollarono la presa su Silas. Per quanto atroce fosse stato il loro comportamento, avevano considerato il fatto alla stregua di un qualsiasi episodio di cui ridere, davanti al fuoco, all'avventura carnale con una donna di strada, o della fine particolarmente violenta di una battuta di caccia. Non avevano pensato minimamente al guardacaccia e a sua moglie come a degli esseri umani. «Silas approfittò di quel momento per liberarsi e correre a inginocchiarsi davanti al letto. Nessuno lo fermò. Sarah stava balbettando parole incoerenti. Silas le tolse gentilmente l'ascia dalle mani. La ferita non era mortale. Sarah non aveva avuto la forza di spingere più a fondo e tagliarsi la vena giugulare. Ma la carne era incisa e il sangue le scorreva giù per il corpo nudo, unendosi a quello della deflorazione. «Silas la guardò per un momento, gemendo dentro di sé... soffrendo nel profondo del suo cuore che per quell'unico momento aveva cessato di battere. Poi si alzò di scatto e, girandosi, menò un colpo d'ascia mirando alla testa di Fengriffen. Fengriffen sollevò un braccio per parare il colpo cosicché fu raggiunto alla spalla. Cadde contro il muro e Silas gli andò dietro deciso a fendergli la testa. Ma ancora una volta fu trattenuto dagli altri, ancora una volta si dibatté e dovette soccombere. «Fengriffen si alzò, tenendosi la spalla. Era furente di rabbia. Il suo arrogante orgoglio non gli permetteva di passare sopra un attacco di quella natura. Era sovreccitato oltre ogni limite. Per quanto colpevole, non poteva tollerare l'uguaglianza. Anche se semisvenuto, Silas stringeva ancora con la mano destra il manico dell'ascia e fu in quel momento che Fengriffen intravide la forma da dare alla sua vendetta.
«Ordinò ai suoi compagai di trascinare fuori Silas. Quelli lo fecero, sebbene Silas scalciasse e si dibattesse spasmodicamente tra di loro. Aveva la testa china, era stordito, e tuttavia non s'arrendeva. Fengriffen li seguì e ordinò loro che lo portassero alla catasta di legna che si trovava di fianco alla capanna. Vicino alla catasta c'era un ceppo e Fengriffen lo indicò con un dito tremante. Non intuendo le sue intenzioni e non volendo prendere parte a un assassinio, i suoi amici esitarono, ma Fengriffen si mise a sbraitare con una tale ferocia che quelli alla fine obbedirono e costrinsero Silas a inginocchiarsi davanti al ceppo. «Fengriffen mandò uno di loro a riempire un secchio d'acqua fredda mentre lui si toglieva la giacca e si arrotolava le maniche. Sudava, aveva gli occhi fuori dalle orbite e dalla spalla gli colava il sangue. Ma sembrava non sentisse dolore. La rabbia per essere stato ferito superava il dolore della ferita stessa. L'uomo ritornò con il secchio dell'acqua e Fengriffen lo prese e lo mise accanto al ceppo. «Poi diede un altro ordine e i compagni, rendendosi conto che non intendeva uccidere, furono questa volta meno riluttanti. Erano tutti uomini con il suo stesso temperamento e le stesse tendenze, e capivano l'intolleranza. Due di loro afferrarono il braccio destro di Silas e lo tennero con forza sul ceppo. La mano si contorceva come una pallida seppia al chiaro di luna. «"Hai osato sollevare la mano contro il tuo padrone per ben due volte questa sera!", ruggì Fengriffen. "Farò in modo che non accada più!" «Afferrò l'ascia e prese posizione a un lato del ceppo. «"Vuoi chiedere perdono?", domandò. «Silas voltò la testa da un lato, guardò Fengriffen con un occhio solo, di profilo, e pronunciò una bestemmia. «"Allora giustizia sia fatta!" disse Fengriffen, tra i denti, e vibrò il colpo. «La lama s'abbatté di traverso sulla mano di Silas, all'altezza delle nocche, e affondò con un tonfo nel legno. Le dita recise volarono via come schegge, roteando nell'aria. Il dito indice colpì Silas in volto. Quattro rivoli di sangue inondarono il ceppo. «Silas ebbe un sussulto convulso ma non un suono uscì dalle sue labbra. I suoi occhi erano ancora rivolti verso Fengriffen. Questi fece un passo indietro, annuì e i suoi uomini forzarono la mano mutilata nel secchio d'acqua fredda. Poi si ritrassero tutti. «Silas rimase inginocchiato sul terreno, con la testa sul ceppo e la mano nel secchio. L'acqua fredda attenuava il dolore, impedendo che salisse al braccio. Non si muoveva, né osava ritrarre la mano da quel freddo aneste-
tico. I gentiluomini stettero attorno a lui, silenziosi, tutti bruscamente colpiti dalla realtà del crimine che avevano commesso. Fengriffen era pallido e sudava abbondantemente quando si rimise la giacca. All'improvviso, tutti desiderarono essere il più lontano possibile da quella terribile scena. «Raggiunsero in silenzio le loro cavalcature, le sciolsero e montarono in sella. E allora Silas si mosse. Gli altri si fermarono. Fengriffen, che aveva un piede già in una staffa, s'arrestò bruscamente. Da sopra la spalla, vide la mano sinistra di Silas strisciare sul terreno come un animale privo di vista. A uno a uno, Silas recuperò le sue dita tagliate e le tenne in una mano. Poi passò il braccio attorno al secchio e, tenendolo stretto al petto, con la mano destra ancora immersa nell'acqua, si alzò e guardò Fengriffen. La luna illuminò i suoi lineamenti mentre estraeva la mano mutilata dall'acqua e la puntava verso il gruppo, un unico troncone di dito ancora eretto, accusatorio, verso Fengriffen. «Il freddo aveva fermato il grosso dell'emorragia, ma gocce di sangue cadevano ancora sul terreno. Il dolore, via via che l'aria sostituiva l'acqua su quella ferita, deve essere stato terribile, e tuttavia quel viso non ne tradiva il minimo segno... «E Silas pronunciò la maledizione... «Una maledizione che è diventata leggenda; una maledizione che deve essergli salita dall'anima perché quella lingua rustica non conosceva parole d'anatema. Con il braccio teso, fece la sua predizione: il mostruoso spirito evocato dal sangue di quella notte non avrebbe trovato riposo fino a quando non avesse avuto la vendetta, e la prima sposa vergine di Fengriffen House avrebbe assaporato l'orrore della violazione. «La sua voce parve trattenerli con catene di freddo acciaio. Nessuno si mosse. Perfino i cavalli rimasero immobili come statue, spalancando le orbite e mostrando il bianco dei loro occhi. Alla fine, Silas infilò di nuovo la mano monca nel secchio e se ne tornò barcollando alla capanna. Il sangue che gli colava giù dal braccio lasciò una scia lungo il percorso. Il chiarore della luna penetrò profondamente in quelle gocce scure e altrettanto profondamente un cupo terrore penetrò nel cuore di Fengriffen... «Be', come ho detto, Fengriffen era un uomo dall'umore variabile e la maledizione aveva agito da catalizzatore sulle sue emozioni. Divenne istantaneamente sobrio e tormentato dal rimorso. Nonostante la ferita, galoppò fino al villaggio per venire a chiamarmi. Irruppe nella mia stanza facendomi premura. Avrei voluto prima curare la sua spalla perché la ferita era molto brutta e perché ancora non sapevo cosa era accaduto nel bosco,
ma lui non me lo permise. Anzi mi insultò per averlo suggerito e a frasi smozzicate cercò di mettermi al corrente... In seguito avrei sentito più succintamente tutto il racconto e sarei stato in grado di mettere insieme tutti i particolari, ma in quel momento ricevetti più un'impressione che la conoscenza del fatto; impressione che mi veniva dal tono della sua voce più che dalle sue parole, dai suoi occhi selvaggi più che dal suo discorso spezzettato. E potete immaginare come fossero quelle impressioni. «Tornammo alla capanna, lanciando i cavalli a briglia sciolta. Non dimenticherò più quella galoppata. L'uomo mi aveva trasmesso il suo senso della velocità... era il genere d'uomo capace di trasmettere ad altri simili emozioni. In prossimità della capanna, non volle proseguire: non voleva trovarsi di nuovo faccia a faccia con il proprio crimine. Tornò indietro e io continuai da solo per i pochi alberi che ancora rimanevano e fino alla radura. La prima cosa che vidi fu il ceppo con l'ascia ancora infissa. Distolsi gli occhi, scesi da cavallo ed entrai nella capanna. «Silas era inginocchiato presso il materasso. Il secchio era sul pavimento e lui vi teneva dentro la mano. Con il braccio sinistro cullava la sua sposa. Mentre mi avvicinavo, voltò la testa. Dio solo sa come fosse riuscito a rimanere cosciente, ma c'era riuscito. Mi riconobbe. Sembrava anzi perfettamente conscio, razionale e coerente. Aveva perso molto sangue e il secchio era pieno di grumi, ma l'acqua gli aveva salvato la vita. Forse sarebbe stato meglio il contrario. «Rifiutò di mostrarmi la mano perché me ne occupassi fino a quando non avessi visto prima la ferita di Sarah. E quando esitai digrignò i denti. Lei diceva parole senza senso e aveva gli occhi offuscati. La ferita alla gola era frastagliata ma non grave. La ferita più grave era nella sua mente. In quei momenti di agonia e di terrore, era impazzita. Silas continuò a tenerla stretta al petto mentre io la medicavo, il pugno chiuso contro la sua spalla. Quando le rovesciai il mento all'indietro, Sarah gli scivolò leggermente dal braccio e lui per prenderla meglio allargò le dita e aprì la mano. «E così gli sfuggirono le dita. «Quattro dita tagliate caddero nel grembo di Sarah. Se c'era stata una benché minima speranza di ricondurla in sé, quella speranza scomparve del tutto. Emise un grido disumano, un suono che nessun essere umano avrebbe emesso. Non il suono di un'emozione umana, ma un grido privo di significato, la risposta automatica di una mente dalla quale è stata estirpata ogni comprensione. È un suono che ancora vibra nelle mie orecchie nelle notti solitarie e silenziose... vibra dall'interno, dove è annidato, intrecciato
al tessuto della mia mente...» Il dottor Whittle si alzò e andò alla finestra, dove rimase per un po' a guardare fuori, con le mani intrecciate dietro la schiena. Sembrava ulteriormente invecchiato, ma forse era perché non vedevo più la luce dell'intelligenza nei suoi occhi. Pensai che il racconto fosse finito e fui sul punto di dire qualcosa quando il dottore tornò da me. «Be'», disse, «il resto è banalità. Silas visse. Sarah visse. I rimorsi di Fengriffen non conobbero confini. Il nostro uomo volle rimediare ma Silas non accettò nulla. Rifiutò denaro e cibo e vino, cose alle quali Fengriffen ricorreva per appianare i suoi debiti. Il che gettò Fengriffen nella frustrazione più cupa; uno stato d'impotenza nel quale era solito riversare il fuoco della sua colpa. Era disperato, ansioso di pagare per il suo crimine... ai suoi occhi, naturalmente. Ma quando mandava il vino, questo veniva sparso nel terreno; quando mandava il cibo, questo veniva lasciato agli animali selvatici o marciva; quando mandava denaro, questo veniva disperso tra gli alberi. Per Silas, Fengriffen doveva pagare sì, ma in un'altra maniera. «Continuò a vivere nella capanna, traendo il necessario per una magra esistenza dai boschi e prendendosi cura della moglie. La quale era diventata, da bella com'era, un orrore con la gola segnata da una cicatrice, una megera vestita di stracci, con la saliva alla bocca e gli occhi selvaggi, secca come uno scheletro, con unghie lunghissime e insane abitudini. L'odiosa controfigura della donna. Scappò via molte volte, o forse, più semplicemente, si allontanò dalla capanna, e Silas fu costretto ad andare a cercarla nella landa e a riportarla indietro con la forza. «E l'amava ancora. «Sembrava rendersi conto che la sua pazzia non aveva alcun rapporto con la giustizia e continuava ad abitare con lei come marito. Anni dopo, sentii dire con grande meraviglia che aveva messo al mondo un figlio. Mi avventurai fino alla capanna più, devo confessarlo, per curiosità che per dovere. Il bambino era abbastanza robusto ma ereditariamente segnato dalla stessa voglia del padre... più grossa di quella di Silas e più odiosa a vedersi. Sembrava una ragnatela di sangue. Sarah era diventata un relitto, poco umana... la grottesca caricatura di una madonna che si teneva lo squallido infante al seno infossato. Anche Silas sembrava diventato come pazzo. Anche più incoerente. Ma con grande sforzo riuscii a capire che alla fine aveva accettato un dono da Fengriffen. Sì, perché Henry non aveva mai desistito dalle sue offerte e venendo a sapere del bambino aveva colto l'opportunità di offrire a Silas qualcosa che lui non avrebbe potuto né restituire
né rifiutare. Non aveva mai pensato che Silas avrebbe avuto dei figli ovviamente a causa della condizione di Sarah. Ora che l'evento c'era stato, fece una piccola variante al suo testamento... Silas e i suoi discendenti avrebbero avuto l'eterno diritto di risiedere nei boschi delle proprietà Fengriffen. Si era probabilmente aspettato che Silas rifiutasse, ma soltanto in teoria perché poi di fatto il guardacaccia sarebbe rimasto lì non avendo altro posto dove andare. Inoltre, il valore di quella donazione sarebbe andato un giorno al bambino. Non era comunque il caso. Silas parve sorprendentemente compiaciuto del fatto che quei diritti fossero garantiti anche al bambino. Dapprima presi la cosa come un segno che il suo odio fosse diminuito con il passare degli anni o che, nel suo cervello senile, il passato avesse finito per perdere la sua importanza. Ma non era il caso. «Mentre mi diceva quelle cose, prese il bambino in grembo e lasciò che giocasse con il moncone della sua mano. Il bambino cominciò a ridere e le sue minuscole dita esplorarono grotte e crepacci di quell'orrendo giocattolo. E gli occhi di Silas erano pieni d'orgoglio paterno e di qualcos'altro. «Dovete capire che era contento di sapere che suo figlio sarebbe rimasto lì, ad assistere alla vendetta. E, a quanto pare...» Il dottor Whittle inarcò le sopracciglia. «Il bambino di Silas, allora, è l'uomo dei boschi di adesso?» «Sì. Sarah e Silas vissero a lungo e durante la vecchiaia dipesero dal figlio per vivere. Per tutti quegli anni, Silas non fece altro che instillare il seme dell'odio nel ragazzo, influenzando la sua mente fino a fargli avere soltanto visioni di vendetta. Morirono a poche settimane di distanza l'uno dall'altra qualche anno fa, ma il figlio è rimasto.» «Questo spiega molte cose, dottore», dissi. «Servirà a qualcosa?» «Lo spero. Costituisce naturalmente la radice del danno e deve essere penetrato profondamente nella mente di Catherine Fengriffen.» Mi alzai e tesi la mano. «Siete stato molto gentile a dedicarmi tutto questo tempo», dissi. «Forse ci incontreremo di nuovo.» «Se rimarrete alla casa», disse lui. «Ah, naturalmente. Farete nascere il bambino...» «Già, come la maggior parte dei bambini del villaggio in tutti questi anni.» «Quando deve nascere?» «Oh, molto presto. In settimana, forse.»
Annuii, pensieroso. Whittle era un uomo di cui potevo fidarmi, perciò dissi: «Ho idea che la nascita costituirà un punto fondamentale di questa storia... la maternità e il bambino potrebbero far deviare la sua mente dal corso che ha preso. Certamente le lascerà meno tempo per chiudersi in se stessa. Siamo uomini di scienza, dottore. Non possiamo accettare il potere del soprannaturale. Ma Catherine Fengriffen è una donna, e credendo nella maledizione ha permesso che abbia potere su di lei... Questo potere le fa credere in un concetto non esistente.» «Allora preghiamo che questi nuovi interessi della maternità offuschino quel potere», disse Whittle. «Sì», dissi io, anche se avevo già da lungo tempo posposto la preghiera all'intuito. Ma c'era sempre una speranza. Tornai lentamente dal villaggio, riflettendo sulla relazione tra il crimine di Henry Fengriffen e Catherine, cercando di sovrapporre la mia mente alla sua e capire qual era stato l'effetto su di lei quando aveva sentito il racconto dal figlio di Silas e di Sarah... il bambino che era stato generato e allevato con un solo scopo, guidato verso una sola meta, allenato a due soli sentimenti: l'odio e la vendetta. Perfino il dottor Whittle, il quale non era stato coinvolto direttamente, aveva trovato impossibile essere obiettivo mentre richiamava alla memoria gli eventi di quella terribile notte. Quanto più terrificante era stato per Catherine ascoltare le parole dall'uomo dei boschi, guardare quei lineamenti bestiali, il torcersi di quella voglia con il muoversi delle sue labbra? E tuttavia, pur comprendendo quanto doveva essere rimasta sconvolta, era possibile che fosse stato il solo racconto a metterla nella sua attuale condizione? Era così irrazionale da incolpare il marito dei peccati del suo antenato? Oppure c'era qualcos'altro, qualcosa che il dottor Whittle non sapeva? Sembrava probabile. Catherine non presentava i sintomi di chi avesse la mente sconvolta dallo stress e dall'emozione, era ancora consapevole delle proporzioni della sua vita, e anche se credeva alla maledizione e viveva nel terrore costante, in attesa Dio solo sapeva di quale terrificante vendetta, la cosa da sola non poteva giustificare la sua reazione tanto negativa. Avrebbe potuto causare uno stato di paura e di nervosismo, ma non l'avrebbe gettata in quella rassegnata indifferenza. Ero confuso da quel paradosso e certo che mi fosse sfuggito un qualche fatto essenziale, o che mi fosse stato deliberatamente taciuto. Il mio primo compito, allora, sarebbe stato quello di scoprire la verità. Lasciai la carrozza alle stalle. Lo stalliere stava fissando le nuvole scure,
il giovane viso prematuramente segnato da un'espressione corrucciata. «Pioverà questa notte?» domandai. «Be', ch'io sappia, non abbiamo mai dovuto aspettare molto con delle nuvole così nere», rispose, indicando il cielo con il suo berretto unto. «Quasi sicuro. Il vecchio Jacob dice però che non pioverà fino a domani. E, ch'io sappia, non si è mai sbagliato. Quasi sicuro. Non c'è che da aspettare e vedrete che l'amico verrà.» Sorrisi a quella personificazione dell'imminente temporale. Il ragazzo si calcò il berretto sulla testa e cominciò a sciogliere i finimenti con gesti ormai provati dall'esperienza, sempre guardando il cielo nuvoloso con aria sospettosa. «E poi con un tempo così non c'è da divertirsi», disse. «Con il cielo basso e l'aria pesante e umida. Si sta come in una cella, senz'aria per respirare. Non va bene. I cavalli s'innervosiscono. Li sento tremare mentre li spazzolo e la notte raspano il terreno con gli zoccoli e sbuffano come maiali. I cavalli sentono le cose. Non sono molto intelligenti, i cavalli, ma sono furbi. Sanno quando il tempo non è come dovrebbe essere.» Fece per dire qualcos'altro, poi chiuse la bocca e si strinse nelle spalle, piuttosto imbarazzato per aver parlato tanto o, forse, per aver espresso un'opinione. Mi gratificò di un sorriso sciocco e se ne andò via. M'incamminai verso la casa. Catherine non cenò con noi, quella sera. Avvicinandosi il tempo, se ne stava sempre più a letto. Né Fengriffen né io avevamo molto appetito, cosicché la cena fu rapida e quieta. Ci ritirammo poi in biblioteca e dopo che fu servito il caffè e Jacob se ne fu andato, dissi a Fengriffen che sapevo della maledizione. Assunse un'espressione sardonica mentre svalutava la mia affermazione con un gesto d'intolleranza. La cosa provocò in me un po' d'irritazione e resi a mia volta il gesto. Le sue aristocratiche sopracciglia s'inarcarono. «Cos'è una maledizione?» disse. Si chinò verso di me, la fronte corrugata. «Parole, nient'altro che parole. Superstizione. Schiocchezze. Non ho chiamato un prete per esorcizzare la mia casa, ho chiamato un dottore.» «Ed è un dottore colui al quale state parlando, sir.» «Ma, in verità...» «Non è questione di verità, ma di credenza. Se vostra moglie crede in questa maledizione, quale importanza può avere la verità? La mente è in grado di costruirsi una propria verità.»
«Voi mi confondete, dottore.» «Ah, ma siete voi che avete aggiunto mistero al mistero. Non mi avete rivelato tutto quello che sapevate. Forse mi avete detto tutto quello che ritenevate rilevante ma vi siete sbagliato nella selezione. Sapevate che vostra moglie era andata a trovare l'uomo dei boschi?» Fengriffen si fece scuro in viso. «So che si è compromessa andando, sola, alla sua capanna, sì. Questa è l'unica cosa sbagliata, non l'assurda promessa di una vendetta.» «Voi la giudicate duramente.» «Ma con giustizia!» «Ah, sì. La giustizia dei Fengriffen. La giustizia che vostro nonno esercitò sul suo guardacaccia?» I suoi occhi lampeggiarono e per un momento credetti che fosse sul punto di colpirmi. Fengriffen aveva le mani strette a pugno sui braccioli della sedia e tutta la sua figura era tesa e tremante. Mi sporsi verso di lui, pronto a qualsiasi azione avesse intrapreso. La mia collera, in quel momento, era pari alla sua. Eravamo tutti e due sui bordi delle sedie, i nostri visi erano vicinissimi e con gli occhi combattevamo una battaglia a distanza. Nei suoi lineamenti vidi i caratteri ereditari di suo nonno, il discendente dell'uomo ingiusto che si era dibattuto nelle strettoie della sua ereditarietà. Poi Fengriffen si rilassò e si lasciò andare contro lo schienale, distogliendo leggermente il viso da me. E rimase assolutamente immobile. Si sarebbe detto che dormisse, ma io sapevo che stava aspettando che parlassi, che gli dessi una benché minima spiegazione. Era un uomo abituato alle emozioni violente, ma aveva fatto in modo di controllarle. La mia collera svanì. E quando parlai, lo feci con dolcezza. «La mia scienza sta muovendo ancora i primi passi. È ancora una pagliuzza nel campo della conoscenza. Non ho mai affermato di capire i meccanismi della mente, ma spesso mi sono soffermato a guardare i sintomi e, credetemi, possono essere spaventosi. Un giorno, quando il seme che ha fertilizzato questa scienza ancora in embrione, che l'ha fatta emergere e maturare... un giorno, nel lontano futuro, sarà possibile tracciare le funzioni del pensiero attraverso le circonvoluzioni del cervello e fino alle articolazioni del midollo spinale. Ma, al momento, siamo meno di un topo in un labirinto, e la mente è il più grande di tutti i labirinti. E, sir, se ci aggiriamo alla cieca nel labirinto, chi sa quale minotauro mentale potrebbe nascondervisi? Non sono Teseo. Non ho alcun filo che mi guidi e non faccio false affermazioni. Posso soltanto curare i sintomi dall'entrata fino a
quei tortuosi corridoi. Se non è abbastanza...» «È abbastanza», mormorò lui. «Allora, credetemi. La malattia di vostra moglie è collegata alla maledizione.» «Sia maledetto quell'uomo!» disse, ma non c'era collera in quella condanna. Fengriffen era calmo, adesso, sebbene il suo viso fosse terreo. «Può essere davvero responsabile del comportamento di mia moglie? Può Catherine aver creduto davvero alle parole di quella creatura?» «Responsabile? Solo per averle rivelato il passato. E lei gli ha creduto perché il fatto è vero. La responsabilità potrebbe giacere nelle azioni di vostro nonno, e nella volontà di vostra moglie di trasalire i fatti.» «Queste cose non le capisco», disse Fengriffen. «Ho l'impressione che stiamo discutendo di una qualche forma di magia nera, una qualche oscura arte antica.» Non aveva più il tono sarcastico, adesso. Appariva sinceramente sbalordito. «Voi state confondendo una scienza che ancora non comprendiamo appieno con qualche vaga notizia di stregoneria e arti magiche. Voi negate la maledizione... ma soltanto per voi stesso. Ma non potete negare l'effetto che ha avuto su vostra moglie. Per curarla, dobbiamo affrontare questa maledizione, cercare di sminuirla, dimostrare a Catherine l'errore del suo pensiero e farle vedere la verità tanto ovvia a noi.» Fengriffen annuì lentamente. «Forse possiamo cominciare adesso», dissi. «Ditemi di vostro padre. Anche lui negava la maledizione?» «Certamente. Se mai le abbia mai dedicato un pensiero. Non siamo una famiglia di imbecilli.» «E vostra madre?» «Naturalmente.» «Parlatemi di vostra madre.» «Ma come può avere a che fare con tutto questo?» «Non posso affermarlo se prima non me ne parlate.» «Tutto questo è assurdo. Non so quale miracolo abbia sperato che compiste, dottore... e non capisco quali curiosi metodi abbiate studiato a Leipzig, ma...» «Ho imparato prima di tutto che, senza fiducia, sono impotente.» «Quindi presumo che debba continuare a riporre fiducia in voi. La mia ultima speranza, eh? Be', cosa volete sapere di mia madre?» «Chi era?»
«Una nobildonna di grande distinzione», rispose lui, con un certo orgoglio. «Un po' più vecchia di mio padre. Vi ho detto che morì quando ero ancora bambino e quindi non ricordo molto di lei. Non posso separare ciò che ricordo da ciò che mi è stato detto in seguito. Era vedova...» «Vedova?» «Sì, la vedova del più grande amico di mio padre. C'era sempre stata una reciproca ammirazione tra di loro e dopo il periodo di lutto, durante il quale mio padre l'aiutò molto nel mandare avanti i suoi affari, fu naturale che il rispettò e l'amicizia diventassero amore. Non un amore di gioventù, voi mi capite, ma il profondo legame di un sentimento maturo. Perciò...» «Perciò», lo interruppi, «quando vostra madre venne la prima volta a Fengriffen House, non venne come sposa vergine.» Fengriffen sbatté le palpebre. «Naturalmente no. Una vedova...» Si bloccò, guardandomi con una strana espressione. Sì, Charles conosceva la forma che la maledizione aveva assunto. Non era quello il modo di confutarla, e per qualche momento rimanemmo in silenzio. Jacob bussò ed entrò. Portò via le tazze di caffè e domandò se volevamo qualcos'altro. Fengriffen lo congedò con un gesto della mano e lui ne andò, zoppicando più vistosamente del solito. Il temporale stava avvicinandosi con disappunto delle sue povere ossa. «Allora?» domandò Fengriffen. «Vogliamo tentare un approccio diverso?» «Come volete?» «Quando fu che vostra moglie distrusse il ritratto di Henry Fengriffen?» Lui non parve sorpreso dalla domanda. «Lo ha ammesso con lei?» «Era ovvio.» «Già, presumo di sì. È difficile dire certe cose a un estraneo, perfino a un dottore. Avrei dovuto, naturalmente, perché l'episodio costituì l'inizio del suo declino. «È accaduto qualche mese fa ed è coinciso con il peggioramento del comportamento di Catherine.» Charles Fengriffen fece una pausa. «Fu, in realtà, proprio il giorno in cui il dottor Whittle ci informò che Catherine aspettava un bambino. Ce ne parlò a tutti e due, sorridendo per l'opportunità che aveva di darci quella buona notizia. Io ne fui deliziato, naturalmente. Ma quando mi voltai verso Catherine, vidi che era diventata pallida, turbata. Quella reazione era inconcepibile perché avevamo discusso a lungo del-
la possibilità di avere bambini e lei si era mostrata desiderosa quanto me. Rimasi confuso. Allungai la mano per prendere la sua, ma Catherine si alzò e lasciò la stanza senza dire una parola. Fu una situazione estremamente imbarazzante. Il povero dottor Whittle non sapeva più che pesci pigliare. Era venuto come latore di una gioiosa notizia e veniva trattato come messaggero di disgrazie. Cercai di salvare la situazione inventando qualche scusa per Catherine. Naturalmente, questo accadeva prima che il suo stato mentale cominciasse a dare segni di cambiamento. Il dottor Whittle accettò le scuse con molta comprensione e se ne andò. Salii da Catherine. La porta era chiusa a chiave e dall'interno non proveniva alcun suono. Non bussai, ma mi ritirai nella mia stanza e andai a letto. Tuttavia, pensando a quella reazione, non riuscii a prendere sonno e le ore passarono. «Ero ancora sveglio quando sentii Catherine camminare nel corridoio. Riconobbi i suoi passi. In quei primi giorni del nostro matrimonio, riconoscevo tutto quello che apparteneva alla mia amata sposa. Pensai che stesse venendo nella mia stanza e aspettai speranzoso. Ma i passi superarono la mia porta e continuarono per il corridoio. Mi alzai e andai alla porta, pensando che forse soffrisse di sonnambulismo. Quando misi la testa fuori, udii un'esclamazione soffocata, uno sfogo senza parole, e vidi Catherine ferma nella galleria. Rimasi come trafitto. Se ne stava lì, essere selvaggio nella vestaglia, che fissava il ritratto. Mentre guardavo, improvvisamente lei squarciò l'immagine con un tagliacarte che teneva nella sua stanza. E continuò a menar colpi, mormorando parole incomprensibili e gemendo, fino a quando non ridusse la tela a brandelli. «Non tentai neppure di fermarla perché ero come impietrito per lo stupore. Quando l'opera di distruzione ebbe termine, Catherine si ritrasse e si avvolse nella vestaglia come se le fosse venuto freddo. All'improvviso, parve accorgersi d'avere ancora in mano il tagliacarte e, come se fosse sporco... contaminato dal contatto con la tela... lo gettò via con violenza. «Tornò indietro nel corridoio e, avvicinandosi, mi vide, ma passò oltre senza dire una parola. Il suo viso era atteggiato a una smorfia di malizia, di odio... e di Dio solo sa cos'altro. Non era il viso della donna che amavo.» Fengriffen rabbrividì. «Dio, fu spaventoso», disse. «E non avete messo quella distruzione in collegamento con la maledizione?» «La misi in collegamento con la pazzia», mormorò lui, e abbassò la testa.
E poi, simultaneamente, ci accorgemmo della presenza di Catherine sulla soglia... Fengriffen sollevò di scatto la testa, allarmato per la possibilità che lei avesse sentito la sua ultima affermazione. Catherine era molto pallida, malferma sulle gambe, e tuttavia la sua espressione era calma e tranquilla. Guardò suo marito, poi me, e qualcosa di simile a un vago sorriso le si disegnò agli angoli delle labbra. Fu un terribile torcersi della bocca, qualcosa che non aveva nulla a che fare con la placida espressione dei suoi occhi, il nascere deforme di una risata e il rictus del rigor mortis. Non riuscii a sopportare quel gioco di lineamenti e guardai altrove. Fengriffen balzò in piedi. «Cathy! Non dovresti essere qui!» «Oh! E dove dovrei essere?» Fengriffen avanzò verso di lei. Fece due grandi passi, poi si fermò come davanti a una qualche invisibile barriera. Si fermò e fissò impotente lo spazio ancora esistente tra lui e sua moglie, uno spazio dove emozioni sconosciute avevano eretto una frontiera, dove guardie di confine della loro tormentata relazione rifiutavano di lasciarlo passare. Le spalle gli ricaddero. Catherine guardò oltre lui e i suoi occhi si incrociarono nuovamente con i miei. «Dunque, avete sentito la maledizione», disse. Annuii. «E rifiutate una simile sciocchezza?» Scossi lentamente la testa. «Le sciocchezze vere sono poche», dissi. «Nulla che abbia radici nell'agonia di un cuore spezzato può essere una sciocchezza...» «Qui vi sbagliate», disse lei. «Non è vero che si sbaglia, Charles? L'accusa può essere una sciocchezza.» Fece poi un gesto, come se attribuisse alla cosa scarsa importanza. Fengriffen si voltò, cercando in me un alleato. Non sapevo cosa dire. D'altra parte, cosa avrei potuto dire davanti a tutti e due? Tornò a guardare sua moglie, ma lei aveva ancora gli occhi rivolti verso di me. «E vi sbagliate anche a proposito della maledizione», disse. «Non avete capito il significato. Avete guardato oltre l'ovvio e avete trovato qualcosa di meno estraneo per la vostra comprensione, di meno difficile da presentare al vostro addestrato sistema di validità. No, dottore. La maledizione non mi sta facendo impazzire. La pazzia stava nel crimine. Non lo capite?
La poveretta impazzì come risultato del crimine, così come temo che impazzirò come risultato della vendetta. Ma questo è soltanto un effetto secondario. La vendetta sceglie una forma ben più terribile della semplice pazzia...» E, in realtà, non vedevo nulla che assomigliasse alla pazzia nel suo aspetto, non avvertivo alcunché di pazzo nella sua voce mentre consegnava quell'astruso messaggio. Desiderai che continuasse perché avevo la sensazione che stesse per rivelare ciò che riteneva la verità. Ma Catherine si rannuvolò, si voltò e mordendosi le labbra corse via dalla stanza. Quel movimento parve rompere l'incantesimo che aveva immobilizzato Charles Fengriffen, il quale le andò dietro gridando il nome della signora Lune. La buona donna emerse nel corridoio e intercettò Catherine ai piedi dello scalone. Era pallida quanto Catherine mentre la prendeva per un braccio. Catherine si appoggiò a lei e Lune l'assistette nella salita, mormorandole parole che dovevano essere di conforto ma che perdevano il loro effetto per il tono preoccupato con il quale erano pronunciate. Fengriffen rimase ai piedi dello scalone, gesticolante. Seguì con lo sguardo le due forme che salivano fino a quando non furono scomparse, poi si voltò verso di me. «Che cosa avrà voluto dire?» chiese. Non risposi perché non lo sapevo. Ma c'era qualcos'altro che avrei voluto sapere, che dovevo sapere. Lo presi per un braccio e lo ricondussi nella biblioteca. Continuò a scuotere la testa, confuso, anche quando si fu seduto. Rimasi davanti a lui, in piedi, in attesa che mi guardasse. Ma non lo fece. Continuava a scuotere la testa ma non mi guardava. Ci sono dei trucchi che uno finisce per imparare. Presi l'orologio dal mio panciotto e lo lasciai pendere dalla catena. Gli occhi di Fengriffen subito s'appuntarono su quel pendolo e la sua testa smise di oscillare. «Non mi avete detto tutto», osservai. «E tuttavia vi ostinate a negarmi i fatti.» «Sì, sir», disse. «Vi ho detto tutto quello che poteva avere una certa importanza.» «Con notevole disagio per me e notevoli spese per voi, mi avete fatto venire da Londra...» «Le spese non significano niente per me!» scattò. «Neppure per me.» «Se preferite essere pagato in anticipo, sarò lieto di firmarvi un assegno in questo preciso momento...»
«Continuate a evitare il punto, sir. Il denaro è poca cosa, e non mi interessa molto. Ma non posso approvare che venga gettato via, e voi state gettando via il mio tempo e rendendo nulle le mie piccole capacità.» L'orologio ruotò. Gli occhi di Fengriffen vi si appuntarono, attirati come farfalle. Le sopracciglia si mossero, come ali, ma gli occhi rimasero incatenati, fissi in quel piccolo mondo dorato, in quella dimensione dove la sua sofferenza non era reale. In quel momento, si sarebbe tuffato con tutto il corpo in quel mondo di brillantezza dove già s'era rifugiata la sua mente. Feci ondeggiare più in fretta l'orologio e Fengriffen corrugò la fronte, come disturbato da quel cambiamento di schema. Poi fermai l'orologio. Fengriffen sbatté le palpebre e tornò alla realtà. Mi rimisi l'orologio in tasca. Non desideravo ipnotizzare l'uomo. Lo avevo condotto a quei confini e poi l'avevo riportato indietro e la cosa era servita. Fengriffen mi stava guardando, adesso. Ogni traccia d'aristocrazia era scomparsa dai suoi lineamenti. Strinse i denti e rovesciò gli occhi, ma era perfettamente conscio sulla sua esistenza. «Avete taciuto su almeno un punto importante», dissi. «Per colpa, o per orgoglio, avete taciuto. Vostra moglie ha parlato d'accusa. L'avete accusata di qualcosa, non è così? Di qualcosa che mi avete tenuto nascosto? Che ha a che fare con il suo comportamento?» Fengriffen annuì. Adesso avremmo saputo la verità. «Sì», bisbigliò. «Sì, ho taciuto su una cosa. Ma l'ho taciuta anche ai miei pensieri... Non posso espellerla dai miei sogni, non posso impedirle di insinuarsi nelle mia mente quando la guardia è abbassata... è come un pericoloso bandito che sbuca dal vicolo scuro in cui si è acquattato e colpisce selvaggiamente, aprendo vecchie ferite con nuovi spaventosi squarci. Le ferite del corpo sono cose semplici. Sono mortali o guariscono. Non così le ferite dell'anima. Anch'esse possono essere mortali, ma non uccidono. Anch'esse possono guarire, ma il tessuto rimane debole e può riaprirsi al minimo ricordo; sono ferite ogni volta dolorose allo stesso modo, ferite che non sanguinano, colpi violenti che non provocano incoscienza, colpi letali che affondano punte avvelenate nel cuore senza uccidere. Sì, dottore, ho taciuto...» Si alzò, andò alla mensola del camino e là con mano tremante si riempì un largo bicchiere di cognac. La bottiglia urtò contro il bordo del bicchiere e qualche goccia cadde sul tappeto. Fengriffen si portò il bicchiere alle lab-
bra come se avesse voluto vuotarlo d'un colpo, ma assaggiò soltanto. Poi si voltò di nuovo verso di me. «Avete ragione», disse. «Forse la soluzione giace in quella omissione. Forse non ci vuole un dottore. Sarebbe una soluzione semplice e tuttavia terribile da ammettere. Orgoglio? Ah, sì, orgoglio. E dolore. Dottore, dovete giurarmi che non ripeterete a nessuno ciò che sto per dirvi...» «Sono un dottore, sir.» «Perdonatemi», fece lui, chinando la testa. «Non mi rendo perfettamente conto di quello che dico. Concedetemi un momento.» Fece roteare il bicchiere, fissando il liquido ambrato senza in realtà vederlo. Vi vedeva qualcos'altro in quelle scure profondità, un qualche ricordo intrappolato nello specchio mobile, un ricordo che avrebbe voluto annegarvi per sempre ma che era capace di sopravvivere sotto la superficie fino a quando, in un momento qualsiasi, non emergeva, gonfio e mostruoso per divorare il fragile vascello della felicità. Per lunghi minuti, fissò quel liquido; poi, all'improvviso, sollevò il bicchiere e questa volta lo vuotò d'un fiato: questa volta bevve quei riflessi e rabbrividì quando gli discesero nello stomaco. E anche laggiù sopravvissero... Depose il bicchiere vuoto e si appoggiò alla mensola del camino, passandosi una mano sulla fronte. Mi aspettavo che parlasse a bassa voce, cosicché mi avvicinai, di lato, perché non fosse distratto dal mio movimento. «Una sera», disse, «otto o nove mesi fa, tornai inaspettatamente dalla città. Non ricordo esattamente il giorno in cui accadde, ma so per certo che fu prima che i sintomi fossero visibili... prima che fossimo consapevoli della gravidanza di Catherine, anche se deve essere stato una o due settimane dal concepimento. Be' ero stato in città per affari e pensavo di fermarmici per la notte, ma la cosa fu sistemata più in fretta di quanto mi fossi aspettato e così riuscii a prendere l'ultimo treno. Avevo lasciato la carrozza al villaggio, perciò potei tornare a casa non appena scesi dal treno. La casa era buia quando arrivai. Svegliai lo stalliere perché era necessario, ma non pensai di fare la stessa cosa con Jacob, perciò salii direttamente al piano di sopra. Per raggiungere la mia camera, devo passare davanti a quella di Catherine. Per non svegliarla, davanti alla sua porta mi mossi il più silenziosamente possibile, Ma in quel punto udii un rumore che mi fece fermare. Proveniva dalla camera di Catherine ed era un debole mormorio che poteva essere quello di una conversazione bisbigliata quanto quello
di un farfugliare inarticolato. Non avrei saputo dire. Non ero sospettoso, perciò pensai che stesse sognando o che avesse un incubo. Mi chiesi se non sarebbe stato il caso di svegliarla. Era molto tardi, perciò esitai. I suoni, intanto, aumentavano. Ho detto che non ero sospettoso, ma all'improvviso, divenuti i suoni più distinti, una fredda paura mi avviluppò. Avanzai silenziosamente e mi accostai alla porta... un atto vergognoso, me ne rendo conto, ma forse voi potete capire il tormento di un simile momento, l'impulsivo desiderio di conoscere la verità, il modo in cui la gelosia può avere la meglio sull'onore e sul giudizio e indurre ad agire non da gentiluomini. Ma basta con le scuse. Avanzai senza vergogna fino alla porta e vi appoggiai l'orecchio. «E conobbi la natura di quei suoni, dottore. Erano rumori d'amore.» Fengriffen era cupo e tempestoso. Mi guardava con occhi nei quali si indovinavano sentimenti anche più profondi della gelosia. «Rumori d'amore, dottore», ripeté. «Rumori che io conoscevo bene. Ansiti, movimenti, gemiti bassi, mormorii e sospiri e la protesta metallica delle molle del letto. E non si trattava soltanto di riferimenti oggettivi perché sentivo chiaramente la voce di mia moglie che emetteva quelle intonazioni non verbali ma espressive... Oh, quanto espressive! Quando uno vive come marito di una donna, ne riconosce la peculiarità della frenesia, la cadenza della passione, il ritmo unico. E in tal modo quei suoni si trasmisero alla mia mente... i sibili, i gemiti gutturali... «Rimasi a bocca aperta... forzatamente aperta, come per lasciare uscire la rabbiosa gelosia che minacciava di scoppiarmi in petto. Poi quelle emozioni proruppero sotto forma di un grido strozzato. Cieco di rabbia, mi lanciai contro la porta. Era chiusa. Picchiai con i pugni, i piedi... Alla violenza del mio attacco, i rumori all'interno della stanza di Catherine cessarono bruscamente. La porta resisteva. Mi feci indietro, mentre un terribile silenzio cadeva sulla casa. In quel silenzio, la mia agonia crebbe. Il silenzio sembrava peggiore dei suoni. Mi buttai a corpo morto e questa volta la serratura cedette e la porta si spalancò. Era una porta robusta, ma in quel momento la mia forza era stata soprannaturale. Niente di organico o comunque forgiato da essere umano avrebbe potuto resistermi. Solo che lo sforzo mi aveva svuotato di ogni impeto. Mi appoggiai barcollando contro gli stipiti scheggiati e guardai nella stanza. La scena si impresse come un marchio di fuoco nella mia mente. «Catherine era seduta nel letto. Era nuda. Le lenzuola erano sparse sul
pavimento. Si voltò verso di me, la bocca aperta e gli occhi velati, e per un momento parve non riconoscermi... per la verità, sembrava non rendersi conto neppure di dove fosse o di chi fosse. La sua carnagione bianca luccicava di sudore, i suoi capelli erano scompigliati, e si era portata una mano alla gola. Notai il pulsare della sua vena del collo e il modo in cui il seno si sollevava e si abbassava nel ritmo della respirazione. Notai, con vividezza, tutti questi dettagli del suo aspetto e poi, guardando oltre lei, vidi la finestra aperta. Le imposte erano spalancate, le tende erano per metà fuori come per il passaggio di qualcuno... un qualcuno che se ne fosse andato alla velocità della luce. Mentre guardavo, le tende scivolarono di nuovo nella stanza. «Corsi alla finestra, ma la notte era nera. Forse cadeva a proposito che quella notte fosse nera, nera come la tomba dell'amore, nera come la cripta del rispetto. Non c'era nemmeno la luna che pure aveva illuminato altre notti. Guardai fuori ma non riuscii a vedere niente; mi voltai verso Catherine e, nel farlo, mi resi conto di un odore che pervadeva la stanza... uno strano odore di decomposizione, come di un uomo che se lo fosse portato dietro dopo aver camminato a lungo nella foresta autunnale. Quell'odore penetrava nelle mie cavità nasali facendomi tossire e dandomi la nausea. Lottai contro la repulsione e mi avvicinai al letto. Il pesante odore stava dissolvendosi via via che dalla finestra entrava aria fresca. Catherine non si era mossa se non per voltare la testa e seguirmi con lo sguardo mentre andavo alla finestra, ma adesso i suoi occhi si erano ravvivati. In determinati momenti, c'è un certo modo in cui i suoi occhi si ravvivano... è una luce che le viene dall'interno, come del sole quando le nuvole cominciano a squarciarsi. Osservai quel cambiamento. I miei istinti rabbiosi si erano raggelati in una specie di calma obiettiva, come se il sentimento si fosse solidificato in una barriera protettiva di ghiaccio davanti al mio cervello, ed era da dietro quel muro difensivo che guardavo Catherine. «È mia moglie, dottore. L'ho amata e ho visto, in momenti felici, com'è fisicamente dopo l'atto dell'amore. E in quel momento, dottore, lei era proprio così. «Era proprio così...» Fengriffen tacque e allargò le mani in un gesto che non significava indifferenza. «L'accusai di infedeltà, naturalmente. Non c'erano dubbi. Non lo feci in quel momento perché non ero nelle condizioni di pronunciare parola, ma tornai nella mia stanza dove vissi la notte più terribile della mia vita. Ma il
mattino dopo l'accusai. Cosa avrebbe fatto chiunque altro al mio posto? Lei non negò l'accusa... per la verità, non fece alcun commento ma si limitò a guardarmi come se avessi detto delle cose incomprensibili, come se non avesse capito le mie parole. Non che avrebbe potuto avere qualcosa da dire, a ogni modo. I risultati della mia accusa?» Sorrise tristemente. «Fu come se fossi io quello che aveva torto, dottore. Da quella notte, non sono più stato ammesso nella sua camera. Ero io quello che le aveva fatto torto.» Fengriffen si allontanò dal camino e camminò lungo un lato della stanza prima e davanti agli scaffali poi. Dalla linea dura delle guance, capii che aveva le mascelle serrate. A un certo punto, si colpì molte volte con un pugno il palmo della mano, ma senza forza. «Se fosse stata infedele...» dissi. Mi fissò. «Non sarete stato voi ad allontanarla ancora di più? Anche il vostro comportamento è stato alterato dalla credenza...» «No, no! Desidero perdonarla, dottore. E l'ho detto anche a lei. Le perdonerei tutto se perdonarla mi ridesse il suo amore, perché io l'amo aldilà di ogni recriminazione, aldilà della gelosia, perfino aldilà dell'orgoglio. Ma lei non me lo permette, non vuole ascoltare le mie parole, non gliene importa nulla. Non vuole il mio perdono, dottore, perché mi disprezza.» «La reazione di una donna che si sente in colpa...» cominciai. «Sia maledetta la colpa! Scoprite perché ha cessato d'amarmi. Ditemi cosa devo fare. Fu dopo quella terribile notte che comparvero i primi sintomi della gravidanza. Speravo che la cosa ci avrebbe ravvicinati. Sapete invece che produsse l'effetto contrario. Mio figlio nascerà, dottore, ma in quale situazione? Curatela da questa pazzia prima che arrivi il bambino, per amore di Dio!» Mi guardò con un'espressione così angosciata, con un dolore così profondo negli occhi, che distolsi lo sguardo. Quando sollevai di nuovo la testa, Fengriffen se n'era andato. Rimasi solo, seduto davanti al fuoco morente del camino, a rimuginare nella mia mente tutte le possibilità, a tentare di dare forma al significato degli eventi. Non ero del tutto convinto che Catherine fosse stata infedele al marito. Trovavo il racconto di Fengriffen doloroso sì ma piuttosto improbabile, troppo vivido e troppo distorto dalle sue paure e dai suoi sentimenti. D'altra parte, sentivo che mi aveva detto infine la verità così come lui la vedeva e che qualcosa di straordinario doveva essere accaduto nella camera da letto di Catherine. La supposizione
di Fengriffen era la più logica e la più semplice. Inoltre, era rafforzata dal rifiuto di Catherine di negare il fatto e di accettare il perdono. E tuttavia non riuscivo a vedere il suo successivo comportamento in linea con questa soluzione, non riuscivo a vedere Catherine come una donna che ammetteva un altro uomo nella propria camera da letto e commetteva adulterio nella casa di suo marito. Se davvero non lo amava più, non c'era niente che potessi fare o tentare di fare perché un amore morente è al di là del raggio d'azione della scienza. Ma Catherine mi aveva anche detto che non era stata infedele, ammettendo il diniego che la teneva lontana da Charles. Questo creava un paradosso e presentava un nuovo approccio, una nuova alternativa. Ah, c'era un'alternativa, e aveva gradatamente preso forma nei miei pensieri, un'immaginazione della mente davanti alla quale non m'ero mai trovato, ma che avevo studiato come una classica aberrazione, e che doveva aver condizionato il comportamento di Catherine. Si trattava di un terrificante e maligno scompiglio della realtà, inesplorato e poco comune, una fissazione pervenuta da un'epoca oscura che non avrebbe dovuto sopravvivere alla luce della ragione ma che aveva trovato terreno fertile nella mente di Catherine quando era tornata a casa, infiammata e sconvolta dal terribile racconto dell'uomo dei boschi. Ma per quanto spaventosa fosse, poteva essere curata una volta che avessi scoperto come Catherine fosse arrivata a formulare un simile concetto. Qui stava il problema. Quando quella allucinazione si era impadronita di lei? Quando era nato il germe dell'idea? Con quelle domande che mi frullavano per la testa, guardai distrattamente la stanza attorno a me, le lunghe ombre che si formavano negli angoli, i ceppi arancione nel camino, i libri allineati lungo le pareti... Mi fermai. Fengriffen aveva detto che Catherine trascorreva lunghe ora da sola in quella stanza. Allora, il fatto mi era parso senza importanza... ovvio il desiderio di Catherine di cercare solitudine... ma adesso assumeva una nuova luce. Sentii con un rigurgito di improvvisa certezza che la risposa giaceva da qualche parte tra la conoscenza raccolta su quei scaffali. Non sapevo quale fosse il libro, ma ero certo che uno di quegli antichi volumi conteneva il segreto, ero certo che Catherine, a causa del suo disturbato stato mentale, si fosse rivolta a quei libri per dare un nome al proprio turbamento. E così come ci si può rivolgere ai libri per apprendere, ci si può rivolgere anche, spinti dalla frustrazione e dal dubbio, per cercare il male, pur senza desiderarlo. L'immagine era vivida. Riuscivo a vedere la povera donna, preda della sua febbricitante paura, spinta verso quei libri nel disperato
tentativo di capire cosa stesse accadendo, o credeva che stesse accadendo. Mi alzai e mi avvicinai agli scaffali. Presi qualche libro a caso. I dorsi erano senza polvere ma la parte superiore era sfuggita alla diligenza della signora Lune e conservava la patina di grigio accumulatasi con gli anni. Lessi i titoli e scoprii che erano disposti a casaccio, con libri di diverso argomento messi senza ordine particolare in tutti i campi della conoscenza. Nella seconda fila, trovai il libro che cercavo. Ne fui certo prima ancora di prenderlo. E seppi anche che non avrebbero potuto essercene di peggiori. Lo tirai giù e vidi che non recava la minima traccia di polvere. Catherine doveva averlo consultato più di una volta. Si trattava di Malleus Maleficarum. Era l'edizione parigina illustrata del 1497, uno di quei libri perversi che avevano dato origine all'Inquisizione, un sinistro lavoro di demonologia che aveva causato torture e patimenti e cristallizzato in isteria nere paure di superstizione. Ancora una volta, in un'epoca in cui avrebbe dovuto perdere ogni suo potere, aveva colpito una mente, quella di Catherine. Portai il libro al tavolo, conscio del peso e dell'odore di cuoio e di qualcos'altro... forse del maligno che pervadeva quelle pagine. Lo portai sulle braccia tese, forse nell'inconscio desiderio di tenerlo scostato dal corpo, e, appoggiatolo per la rilegatura dorsale, lasciai che s'aprisse a caso, certamente dove era stato aperto l'ultima volta e più spesso. S'aprì nella seconda parte. Guardai la pagina, già supponendo quale sarebbe stato il soggetto. Incubi. Rapporti sessuali con i demoni. Quello era il soggetto. Non mi presi la briga di leggere le righe che avevano divorato la ragione di Catherine. Chiusi rapidamente il libro, come se fosse stato una specie di vaso di Pandora dal quale avessero potuto prendere forma spiriti malvagi e demoni mostruosi, intangibili e senza sostanza, e tuttavia capaci di creare distruzione concreta, e lo riportai nello scaffale, con la sensazione che mi si rizzassero i capelli in testa quando mi resi conto di quale infernale tormento doveva aver patito la povera donna. Nonostante l'ora, dovevo parlare con Catherine senza ulteriori indugi. Chiamai la signora Lune senza informare Fengriffen. La signora si mostrò riluttante a disturbare la padrona: esitò, protestò, accampò delle scuse ma alla fine la convinsi dell'urgenza della cosa e, ancora dubbiosa, mi condusse di sopra.
Catherine era a letto, ma sveglia. Le coperte disegnavano il suo ventre gonfio. Parve sorpresa di vedermi. La signora Lune si fermò accanto alla porta, nervosa e incerta. «Devo parlare con voi», dissi. Catherine corrugò la fronte. «Gliel'ho detto che...» cominciò la signora Lune. «Va tutto bene. Potete andare.». Visibilmente sollevata, la signora Lune se ne andò lasciando la porta dischiusa. I suoi passi risuonarono giù per le scale. Mi avvicinai al lato del letto e mi sedetti su una sedia. Chino in avanti, parlai con tono urgente. «Dovete dirmi cosa credete che sia vero, madam. Per amore della vostra sanità mentale e del vostro bambino. Sono un dottore. Dovete ricordare questo e non pensare a imbarazzo o vergogna.» «Vergogna? Cosa mi importa delle vergogna? Non c'è niente che possiate fare. Perdete il vostro tempo, qui.» «So ascoltare.» Lei sorrise. «Se permettete, dottore, con tutta la vostra scienza, di questa faccenda so più io di voi. Per esperienza.» «Forse, allora, potrò imparare da voi.» Catherine parve colta di sorpresa. «Sapete cosa mi è accaduto?» domandò. «So cosa pensate che vi sia accaduto.» «Avete sentito parlare di quelle cose?» Annuii. «Molto bene, allora. Vi dirò, dottore. Non mi crederete, ma dovete sentire la verità.» Sorrise di nuovo. Poi cominciò a parlare. «Resistetti. Dovete credermi, dottore. Resistetti con tutte le mie forze, ma fu inutile. Non era una cosa fisica, capite? Era la mia volontà che veniva meno e si piegava. Come fosse possibile, non lo so. Ho cercato sui libri della biblioteca e ho trovato certi termini e certi nomi che potrebbero andare bene e tuttavia non sono altro che nomi di superstizioni e stregonerie e magia; di inganno e ignoranza. Non era nessuno di questi. Ed era reale. Se sono pazza, allora si tratta di una pazzia arrivata dopo la realtà. Se è stato un sogno, allora i sogni sono veri. E se mai è esistita ordalia più terribile,
allora la mente umana non può concepirla. «Veniva di notte, dottore. Di qualunque cosa si trattasse, veniva tutte le notti in cui dormivo sola. Preludio era una sensazione di peso soffocante e di freddo, e tutte le volte era più pesante e freddo, tutte le notti sembrava acquistare sostanza. Invece di un soffio d'aria fredda divenne una forma fredda che si muoveva dalla finestra e giaceva accanto a me mi copriva. Cos'è uno spirito, un'ombra, uno spettro? Una forma di temperatura? «Giacevo in silenzio quando quella presenza veniva da me e sussultavo di paura quando mi toccava. Per settimane lottai ma notte dopo notte la mia resistenza veniva meno. Non mi faceva male. Non c'era dolore, e perfino il freddo non era spiacevole, ma la sensazione era così orribile, così disumana, che mi sentivo trascinata in una diversa dimensione, un diverso piano d'esistenza, una diversa sfera di realtà. E sapevo, con opprimente autodisprezzo e odio, che alla fine avrei ceduto, sarei stata risucchiata via. Forse la mia volontà fu annullata perché mi rendevo conto che sarebbe stato inutile, ma questo ha poca importanza... quale differenza può fare una notte, una settimana, un mese, quando il risultato sarà inesorabilmente lo stesso? «E così mi arresi. «La cosa assunse una forma solida. E solidificandosi emetteva uno spaventoso odore di decomposizione e il freddo si attenuava. Le molecole d'aria si compressero fino a quando mi fu possibile vedere la forma della cosa. Era fluttuante e trasparente, ma aveva forma. Roteò nell'aria e poi discese sopra di me. Non m'erano rimaste energie. Le mie cosce si divaricarono. Sentii l'umida carezza e chiusi gli occhi perché non volevo vedere. Cercai di respingerla ma inutilmente perché le mie braccia la trapassavano. L'odore mi dava le vertigini, denso e fermentato, e quei fumi entravano nella mia mente. Poi la cosa mi prese. «La sentii entrare nel mio corpo. «La sentii tremare e dare in un gemito ultraterreno, come se un grande vento fosse sorto nei confini della mia stanza. Si mosse. Mi mossi con lei. Dio mi aiuti, non potei impedirmi di partecipare a quel terribile accoppiamento. Non so quanto durò, ma alla fine sentii la cosa completare l'atto. Sentii la spaventosa emissione dentro di me. «Poi si ritrasse, gemendo, dal mio corpo. Roteò nuovamente sopra di me, poi se ne andò. Le tende si mossero al suo passaggio e io rimasi di nuovo sola, tremante e... come potrebbero le parole descrivere tali sensazioni? Cosa posso dire di più?
«Dopo quella volta, l'essere tornò ogni notte. E io non tentai più di opporre nemmeno la mia debole resistenza. La mia volontà era stata distrutta dal carico spirituale depositato in me. Aspettavo il suo arrivo con odio e orrore e tuttavia, è terribile da dire, con ansia. Le sensazioni dell'atto non erano spiacevoli. Ero confusa. Ma aspettavo e l'essere venne tutte le notti. Ero diventata la sua amante e tutte le notti aspettavo il piacere che mi dava. Partecipavo all'atto sessuale con quell'orrido essere e affondavo nelle profondità del male. «Poi, una notte, non venne. «E quella notte capii quale terribile destino mi aveva assegnato; seppi che la sua missione era compiuta e che non sarebbe più venuto.» Catherine aveva gli occhi spalancati e un amaro sorriso giocava grottescamente sulle sue labbra. «Vi ho detto tutto», disse. «Adesso forse sarete in grado di dirmi qualcosa, dottore...» Non dissi nulla. «Avete letto Mallus Maleficarum?» «E il Dictionnaire infernal e Alexicacon e una dozzina d'altri libri, sì.» «E qual è la vostra opinione su un così tanto dibattuto argomento, dottore?» «Quale argomento?» «Possono gli incubi riprodursi nel corpo di una donna mortale?» Si guardò il ventre gonfio e il suo viso si contorse in un'espressione d'odio. «Vivo nell'incubo di portare il bambino del demone», mormorò. E fu con una fredda sensazione d'orrore che lasciai la stanza... Trascorsi una considerevole parte di quella notte a domandarmi se dovessi rivelare la vera natura della fantasia di Catherine a suo marito. Non era facile decidere sulla cosa migliore da fare. Fengriffen sarebbe stato sicuramente contento di apprendere che non era stato tradito così come pensava lui, ma siccome non era uomo di grande tolleranza e comprensione era difficile prevedere quali sarebbero state le sue reazioni quando avesse scoperto la diabolica allucinazione nella quale era sprofondata la sanità mentale di sua moglie. Decisi infine che sarebbe stato meglio parlargliene. Il mio lavoro, quello di bandire la mostruosa forma dalla mente di Catherine, ne sarebbe stato facilitato. Ma non volevo discutere la faccenda in biblioteca dove la conversazione sarebbe stata necessariamente influenzata
dal precedente discorso. Per la verità, nessun posto in quella casa mi sembrava adatto. Era un argomento così scabroso e cupo che sentivo di poterlo affrontare meglio all'aria aperta e di giorno. Perciò, il mattino dopo, attesi che avessimo finito di fare colazione e chiesi a Charles se non gli sarebbe andato di fare una cavalcata con me. Mi lanciò un'occhiata inquisitrice ma non fece commenti e annuì. Salii nella mia stanza a cambiarmi e quando ridiscesi c'erano due cavalli già sellati e in attesa nel cortile. Fengriffen teneva per le redini il suo baio più grosso e guardava il cielo. Lo stalliere teneva il mio, un animale più piccolo e dall'apparenza più tranquilla, il che per me non guastava. «Oggi pioverà», disse Fengriffen. «Jacob si è già pronunciato in proposito?» Lui annuì e montò in sella. «Be', non è necessario che andiamo lontano», dissi io. Fengriffen annuì di nuovo, serio in volto. Lo stalliere mi aiutò a montare in sella e, tirandosi il berretto all'indietro, com'era solito fare, stette a guardarci mentre ci allontanavamo. Fengriffen era uno splendido cavaliere e cavalcava con naturalezza, senza preoccuparsi dell'andatura, con la mente aperta a qualsiasi altro concetto, di tanto in tanto lanciando qualche occhiata al cielo. Da parte mia, stavo ancora valutando le varie possibilità, domandandomi se la mia non fosse stata una decisione errata, e cercando il modo migliore per tradurre in termini comprensibili ciò che stavo per dire. Desideravo che Fengriffen comprendesse appieno e capisse quali forze oscure si fossero impadronite di Catherine senza scioccarlo o provocare in lui repulsione. Cavalcammo fianco a fianco, seguendo i contorni del terreno in leggera salita e costeggiando gli alberi. L'altezza di Fengriffen, come quella del suo baio, mi fecero sentire relativamente piccolo accanto a lui. Lanciavo di tanto in tanto delle occhiate di sbieco e vedevo il suo profilo stagliarsi contro il cielo nuvoloso. Proseguimmo per una mezz'ora fino a quando la casa non fu più visibile alle nostre spalle, poi lui fermò il cavallo e mi guardò. Prese anche le mie briglie come se non si fidasse della mia capacità di fermare l'animale. «Allora?» domandò. «Smontiamo.» Lo facemmo. Fengriffen legò i cavalli al tronco di un albero vicino. In quel punto, c'erano diverse rocce grigie. Mi sedetti su una di esse e Fengriffen appoggiò un piede accanto a me e si abbassò, con un gomito sul gi-
nocchio. Anche smontato di sella, mi appariva sproporzionatamente angoloso. I cavalli ci guardavano pazienti. Fengriffen non era paziente. «Allora?» domandò di nuovo. «C'è un'anomalia nella mente di vostra moglie», cominciai, attento alla scelta delle parole. Lui fece per parlare, ma io sollevai una mano. «Un momento. Non interrompetemi. Ascoltatemi prima di parlare. È un'anomalia, ma non è pazzia. Lo diverrebbe se l'anomalia persistesse. Si tratta di una credenza molto comune in tempi antichi... nel Medio Evo. Ma non è comune adesso, e la sua unicità la rende molto pericolosa. È in relazione alla maledizione, ma non credo che sia stata causata dalla maledizione, né dalla conoscenza della maledizione. È stata piuttosto la sua mente a cercare la maledizione come metodo per autopunirsi. Credo che vostra moglie si senta colpevole per una qualche oscura ragione... un qualche atto che io non conosco, e dubito che lo conosca lei stessa... e che il suo senso di colpa sia stato ingigantito dal credito prestato al racconto dell'uomo dei boschi. La connessione ha preso la forma di un sogno, o di un incubo, che ricorre di tanto in tanto e ha una qualità che lo fa sembrare vero, che le impedisce di distinguere tra incubo e realtà...» «Sogni? Come possono i sogni arrivare a tanto?» «Per Catherine non sono sogni. Sono realtà. Sono molto più reali di ciò che ha causato il suo senso di colpa. La sua mente non ha riconosciuto l'origine di questo senso di colpa... l'ha bloccata come misura protettiva. Ma dev'essere questo il punto di partenza. Se io riuscissi a scavare nella sua memoria e a scoprire la ragione della sua colpa, riuscirei probabilmente a debellarla. Potrebbe essere però un processo molto lungo e noioso...» Fengriffen prese pipa e tabacco e cominciò a riempire il fornello con grande concentrazione. «Potrebbe questo senso di colpa avere radici nell'infedeltà?» «Potrebbe, ma non credo. Non credo perlomeno al fatto da voi citato. Ma poi, ripeto, potrebbero esserci un centinaio di altre motivazioni.» «E quei sogni?» domandò lui. Accese un fiammifero e accostò la fiamma alla pipa. «Qual è la natura dei suoi sogni?» «Sessuale.» Con la pipa stretta tra i denti, Fengriffen s'incupì, ma non per collera. Sembrava piuttosto per lo sforzo di capire. «Dovete capire che la colpa sessuale non ha necessariamente una causa sessuale», gli dissi. Lui non disse nulla.
«Sapete cos'è un incubo?» Fengriffen annuì lentamente. Si tolse la pipa di bocca. «Un demone o uno maligno che cerca rapporti con i mortali, non è così?» «E così e molto di più.» «Ma è un'assurdità.» «Per voi e per me. Non per Catherine. Nella vostra biblioteca c'è un libro che spiega dettagliatamente simili cose... le spiega non come le spiegherebbe la scienza, ma con la credenza di un'epoca oscura e di una fede superstiziosa. Vostra moglie ha letto quel libro. È comune pensare che ciò che si legge sia vero. Non ammettendo che i suoi fossero soltanto sogni, che facesse sogni di contenuto sessuale, Catherine ha cercato una risposta e l'ha trovata nei malvagi insegnamenti di quell'infame libro in un momento in cui la sua mente era già disturbata dalla conoscenza della maledizione. Si è formato un ciclo perverso. I sogni diventavano sempre più veri via via che la sua mente s'infiammava, e la sua mente s'allontanava sempre più dalla realtà via via che quei sogni vi si intromettevano.» «Ma perché avrebbe dovuto avere questi sogni erotici?» «Ed ecco qui l'origine sconosciuta del senso di colpa. Potrebbe trattarsi di qualcosa del suo passato, di un qualche dimenticato episodio della sua infanzia. O potrebbe nascere da un semplice bisogno, dalla vostra impossibilità di soddisfare adeguatamente i suoi istinti carnali. Sono più propenso a credere a quest'ultima possibilità. Ma, e questo devo metterlo in rilievo, è proprio la natura dei suoi sogni, la sua incapacità di ammettere che erano soltanto sogni, a provare la sua innocenza.» Fengriffen inarcò le sopracciglia. «I lascivi non impazziscono per le loro fantasie erotiche notturne. Ne godono, anzi, come sostituto ai loro desideri. Sono le persone che cercano di reprimere quelle sensazioni e quelle emozioni a soffrirne. Le probabilità di vedere la rappresentazione dell'atto sessuale durante il sonno aumentano in proporzione al grado di repressione. E, in aggiunta a una certa predisposizione all'instabilità, una severa repressione dei desideri erotici può condurre a fantasie che oltrepassano la realtà del sonno e sconfinano nella veglia. Mi capite? Vostra moglie non riesce a credere di avere sogni erotici e perciò si rivolge alla maledizione originata da un crimine sessuale, e alla quale ha dato come spiegazione concetti soprannaturali letti nei libri. È arrivata a credere di essere visitata da un demone.» «Questa è sicuramente pazzia.»
«Per secoli, è stata l'unica spiegazione accettata. Al giorno d'oggi è poco comune, ma concepibile.» Fengriffen mosse il piede sulla roccia. «E la notte di cui vi ho parlato? La notte in cui irruppi nella sua stanza? È mai possibile che abbia preso per infedeltà ciò che non era altro che un sogno?» «Possibile e, devo dire, probabile.» Lui emise un sospiro di dubbio sollievo. Si era alzato il vento, che giocava con le criniere dei cavalli, e il cielo si era fatto più scuro. Nell'aria, l'odore di pioggia era più pesante. «E questo potrebbe spiegare il suo comportamento nei miei riguardi?» «Certo. Catherine non vi disprezza, disprezza se stessa. Vi tiene lontano non per mancanza d'amore ma per impedire al marito di sporcarsi con una donna che convive con un demone. Catherine si ritiene sporca e indegna.» «Ed esiste una cura?» «Credo di sì.» «E voi rimarrete? Fino a quando sarà necessario, voglio dire?» Dopo la mia rivelazione, Fengriffen sembrava aver acquistato nuova fiducia in me, e io ero meno reticente a confidarmi... Commisi insomma l'errore di credere che vedesse la malattia di sua moglie nello stesso modo in cui la vedevo io e ne capisse la natura. «Rimarrò fino alla nascita del bambino», risposi. «Dopo, potrebbe non essere più necessario. Un fatto tanto normale come la nascita di un bambino e la maternità potrebbe costituire la cura migliore... potrebbe farle ottenere la propria guarigione, all'interno della propria mente.» «Non capisco... normale?» Fengriffen aveva aggrottato la fronte e io mi resi conto che non aveva seguito la nostra conversazione così da giungere alle stesse conclusioni su ciò che affliggeva la moglie. Adesso cominciava a capire e a vedere la terribile paura che ne teneva prigioniera la sanità mentale in una minaccia dai fetidi artigli. Il suo volto cambiò. Si fece per un istante incredulo, poi inorridì. Mi fissò con odio, per essere stato la causa del tarlo demoniaco che ora gli rodeva la mente, un tarlo che era impotente a vincere. I suoi lineamenti divennero terribili. «Crede questo?» bisbigliò. «Teme questo.» «Che porti in grembo il figlio di un demone?» «La sua aberrazione...» cominciai, con uno spaventoso senso di impo-
tenza nel fissare la sua faccia, nello scrutare, al di là di quei lineamenti, le profondità delle sue emozioni. Ma Fengriffen non mi ascoltava più. Era il fragile ghiaccio delle emozioni che stava incrinandosi pericolosamente sotto un peso impossibile da sopportare. Fengriffen abbatté il piede sulla roccia. Poi si colpì il palmo della mano con un pugno e in quel preciso istante il brontolio del tuono attraversò il cielo. Era come se gli stessi dèi condividessero l'agonia dell'uomo. Il cielo s'oscurava, come echeggiando i suoi cupi sentimenti, via via che le nuvole vi si ammassavano. In quell'oscurità, saettò un lampo e gli occhi di Fengriffen ne rifletterono la luce. Cominciarono a cadere le prime grosse gocce di pioggia, lente e pesanti come una speranza perduta, e al vento lamentoso che gli scompigliava i capelli Fengriffen rovesciò la testa all'indietro. In quel momento era meno di un uomo... e tuttavia di più. Appariva come un idolo scolpito da mani pagane, un colosso di marmo con occhi d'ossidiana che lucevano e rivelavano la fornace che ardeva nella caverna del suo cranio. Un altro tuono esplose sopra di noi. «Voi parlate di maledizioni!» disse Fengriffen. La sua voce era bassa, il timbro forgiato nella cavità del petto dove il cuore si era ridotto e aveva lasciato un vuoto. «Molto meglio l'infedeltà di tutto questo! Molto meglio la pazzia dell'idiozia! La pazzia alla perdita della ragione, alla stupidità!» Voltò la testa nella direzione dalla quale eravamo venuti, verso la casa. Sollevò una mano e le sue labbra si mossero senza emettere alcun suono. Non sapevo quale maledizione pronunciasse in quel momento, ma sapevo che doveva essere terribile. Poi si diresse verso il suo cavallo, slegò le redini e montò in sella con una violenza tale che fece scartare l'animale. Affondò poi gli speroni nel fianco della bestia e partì al galoppo, sollevando zolle d'erba dietro di sé. Una di esse mi colpì alla fronte. Mi ripulii con il dorso della mano e seguii con lo sguardo cavallo e cavaliere, schermandomi con la mano gli occhi dalla pioggia. Un che di angoscioso mi pervase in vibrazioni di compassione. Come oppresso da un grande peso, sentivo gli stivali affondare nel terreno molle. Era la gravità che mi aveva scelto per provare la sua forza e trascinarmi nel mondo sottostante? Dopo che Fengriffen fu scomparso, ri-
masi là per qualche minuto ancora, immobile. Poi il mio cavallo nitrì e quel suono mi riportò alla realtà. Montai in sella e cavalcai verso la casa. Il temporale era al massimo. Non riuscivo a vedere che a pochi metri davanti a me, e perfino quei pochi metri erano confusi. Lasciai che il cavallo proseguisse da solo e trovasse la strada del ritorno con l'istinto che gli animali solitamente si ritrovano. Intanto, imprecavo contro me stesso per essere stato ottuso, per aver supposto che Fengriffen avrebbe accettato di sapere con razionale obiettività. Il cavallo non era ottuso, non aveva bisogno della vista o dell'intelligenza, e tuttavia puntava senza sbagliare verso le stalle. Cosa se ne faceva della mente l'umanità?, mi chiedevo. L'uomo sopravviveva anche senza tanti pensieri, sopravviveva più sicuramente e con efficienza senza quei sottoprodotti del cervello che causano tante sofferenze all'Homo Sapiens, che spingono l'uomo, unico fra tutte le creature, a tormentare e a distruggere se stesso, così come io mi stavo tormentando in quel momento, così come Fengriffen stava facendo e a un livello che andava ben oltre le parole. La mente è discendente dell'esperienza e delle corde vocali, ed è sempre stata come un bambino malformato; un errore dell'evoluzione con l'esclusiva abilità di condursi all'estinzione. Così mi diceva la mente, mentre il cavallo proseguiva nella sua corsa e la pioggia mi inzuppava fino alle ossa. Gli zoccoli dell'animale risuonarono all'improvviso più acutamente, dal che compresi che eravamo arrivati nel cortile. Al chiarore dei lampi, vidi la casa venirmi incontro. Tenni la testa china e le spalle curve e attesi che fossimo entrati nella stalla prima di guardare. Il cavallo di Fengriffen era là, bagnato di pioggia. Lo stalliere, che gli stava togliendo la sella, sollevò la testa quando entrai. «Dov'è il padrone?» domandai, smontando. «Non lo so, sir. Sembrava di pessimo umore. Era tutto bagnato, ma è sceso di sella ed è corso via senza rivolgermi la parola. Ha preso il badile...» «Il badile?» «Sì, quello che uso per ammucchiare lo sterco. Non capisco cosa voglia farsene.» Mi prese le redini. «È andato verso la casa?» «Non saprei dire, sir.»
Guardai verso l'entrata delle casa. La pioggia cadeva più fitta di prima, ma, tanto, più bagnato di com'ero non avrei potuto essere. Mi avvolsi nel mantello, uscii dalla stalla e corsi verso la casa. Una luce ondeggiò davanti a me. Un momento dopo, la luce divenne lanterna e a sostenerla era il vecchio Jacob, con un cappuccio in testa per ripararsi dalla pioggia. «Il padrone è con voi, sir?» chiese. «Ha appena lasciato la stalla.» Jacob si guardò attorno, ma la pioggia formava un muro impenetrabile. «Il tempo della padrona è arrivato», disse. «Abbiamo mandato a chiamare il dottor Whittle, e la signora Lune ha mandato me per avvertire il padrone.» «Non l'avete incontrato venendo dalla casa?» «No, sir, altrimenti non sarei arrivato fin qui.» «Dove potrebbe essere andato?» domandai, ma non appena ebbi pronunciate le parole, ebbi la certezza di sapere dove Fengriffen si trovasse. Qualcosa mi diceva, come una specie di premonizione, che quando si era voltato verso la casa e aveva pronunciato quelle silenziose parole, non le aveva dirette a Catherine e nemmeno alla casa. Senza una parola di spiegazione, presi a Jacob la lanterna. E forse mi credette pazzo nel vedere che mi allontanavo sotto la pioggia, verso il cimitero... La pioggia adesso cadeva a tratti. Cessava per qualche momento, quando vento e nuvole giocavano a rimpiattino, poi riprendeva a cadere in una cortina densa come una cataratta. La debole luce della mia lanterna si scontrava contro quella barriera liquida e rimbalzava, illuminando un metro sì e no davanti a me, accecandomi più che rischiarando il mio sentiero. Scivolavo a causa del fango e più volte fui sul punto di cadere. Urtai improvvisamente contro un oggetto solido, procurandomi una brutta escoriazione, e alla luce di un lampo vidi che ero finito contro un'antica meridiana posta nel giardino e semicoperta dalla vegetazione. Mi parve strano come oggetto da incontrare in un giorno senza sole come quello. Era la testimonianza di tempi più radiosi. L'aggirai, facendomi strada tra la vegetazione, e scorsi il tronco abbattuto sul quale s'era seduta Catherine. Piegai verso il campo. Tutte le volte che un lampo illuminava il cielo, vedevo la linea degli alberi davanti a me, tutte le volte più alti, più vicini. Proseguii, affondando passo dopo passo, senza pensare al tempo o alla distanza o alla fatica, finché non mi trovai nel bosco.
Gli alberi offrirono un certo riparo ma non migliorarono la visibilità perché, se frenavano la pioggia, non lasciavano filtrare neppure la luce dei lampi. Sollevai la lanterna e sbirciai davanti a me. C'ero già stato, ma una sola volta e non ero sicuro della direzione da prendere. Non riuscivo a localizzare il punto dal quale ero entrato nel bosco. Avanzai di qualche metro, poi mi fermai di nuovo. Il bosco sembrava diverso sotto l'imperversare di quel diluvio. Le cime si piegavano e la pioggia batteva contro foglie e rami. Non avevo alcuna idea della direzione da prendere. Poi il sangue mi si gelò nelle vene. Udii il rumore del badile. Era un rumore attutito e a ogni colpo seguiva un gemito basso. Mi mossi nella direzione dalla quale provenivano quei colpi, come un sonnambulo, uno zombie, un nictafobo perduto nella notte. Davanti a me, la lanterna lanciava fasci di luce che si perdevano tra i tronchi e svanivano. Atterrito e affascinato, proseguii verso quei rumori fino a quando, senza preavviso, superai un albero e mi ritrovai ai margini del cimitero. Proprio allora un'altra saetta squarciò il cielo. Quando la luce accecante investì i monumenti in rovina e mandò bianchi tentacoli sulle tombe, scorsi Fengriffen... Era chino sulla tomba di suo nonno e non s'accorse della lanterna che tremava nella mia mano. Era intento nel suo compito. Si chinò e si sollevò... E una palata di terra nera andò ad aggiungersi al mucchio alle sue spalle. Le tenebre si frapposero nuovamente fra di noi e il chiarore della lanterna non riusciva ad arrivare fin là. Rimasi immobile come se avessi messo radici alle tombe stesse. Udii di nuovo il rumore del badile, poi un'altra lingua di luce serpeggiò nel cielo e Fengriffen fu nuovamente visibile, La montagnola di terra era più alta e lui era più basso nella tomba. Sollevandosi, rivolse il viso verso di me, accecato dal lampo. Aveva le labbra ritratte sui denti, gli occhi inondati di lacrime d'angoscia mescolate alle gocce di pioggia, e le narici erano dilatate come quelle di una bestia che avesse sentito la sua preda. Le potenti spalle erano gonfie di muscoli. Forse per pietà verso i miei occhi, la luce si dissolse e fu nell'oscurità che udii il tonfo del badile contro la bara. Chiusi gli occhi. Non volevo che un altro lampo illuminasse la scena. Ci fu un rumore di legno spezzato, poi di pezzi divelti, come di qualcuno che stesse manomettendo la bara con le mani nude. Emise un grido. Parole che non s'adattavano ad alcun linguaggio, suoni che simbolizza-
vano emozioni così profondamente sepolte che non esistevano parole che dessero loro un significato, così oscure che non erano mai state riconosciute dalla mente o da una lingua razionale. Udii altri suoni dalla tomba aperta. Non ne potei più. Mi ritrassi, barcollando, fino ai margini del bosco e mi nascosi meglio che potei sotto i rami di una quercia per non pensare. Fengriffen emerse dagli alberi pochi metri alla mia destra. Il temporale era cessato bruscamente qualche momento prima. Non so quanto prima o da quanto tempo fossi rimasto seduto sotto quell'albero. Qualche goccia continuava a cadere e la foresta era tutto un grondare d'acqua. Al di là del campo, la casa splendeva. Fengriffen sembrava confuso e incredulo e si teneva ai fianchi le mani strette a pugno. Le unghie erano spezzate e sanguinanti per come avevano divelto la cassa... cos'altro avessero poi riesumato, non m'era dato di sapere, né desideravo saperlo. Mi mossi verso di lui, rigido per l'umidità penetrata nelle mie ossa, i muscoli che protestavano per la lunga immobilità alla quale li avevo sottoposti. Lui si voltò senza mostrare sorpresa. Mi guardò senza mostrare di riconoscermi. Lo chiamai per nome. «Cosa? Sì? Cosa?» disse. Sillabe senza significato. «Torniamo a casa.» «Cosa? Oh, voi...» Gli presi un braccio. «Voi», disse. «Andiamo a casa.» «Sì, d'accordo.» «Hanno mandato a chiamare il dottore.» «Cosa? Perché?» «Vostra moglie...» «Oh, sì, capisco... Sarebbe stato meglio che ci fossi stato anch'io.» I suoi occhi guardavano oltre me, nervosi, irrequieti. Lo condussi verso la casa e lui non oppose resistenza. Non protestò per come gli tenevo il braccio e a poco a poco si rilassò. Eravamo già a metà strada, nel campo, quando mi ricordai che avevo lasciato la lanterna sotto l'albero. Non pensai nemmeno di tornare a riprenderla. Dopotutto, cos'era mai una lanterna? La carrozza del dottor Whittle era davanti alla porta. Mi chiesi vagamente se fosse venuto sotto quel temporale o se fosse ormai passato qualche
tempo da quando era cessato. Jacob ci venne incontro. Era eccitato e piuttosto compiaciuto. Ci informò che Whittle era già con Catherine. Fengriffen annuì e il suo viso cambiò, mostrando preoccupazione. Mi sembrava di poter sentire i suoi pensieri turbati... pensieri che io avevo scatenato... fluire dalla sua mente come i rivoletti d'acqua che scorrevano sui gradini di pietra sotto i nostri piedi, fluire dal suo cuore come le ultime gocce dalla nuvola inaridita. Il sole si era affacciato nel cielo, il giorno s'era ravvivato e la folle opera di Fengriffen nella tomba era servita a dissipare le sue energie rabbiose e l'avevano lasciato calmo e ragionevole, e permettevano ai suoi pensieri di tornare a sua moglie e al suo bambino. Non era stata una delle terapie più consigliabili, ma aveva funzionato, e forse era stato per il meglio, perché nessuno era in grado di dire quali altre alternative avrebbero potuto esserci. Entrammo nella casa. C'era un viavai di servitori affaccendati. La voce di Whittle stava impartendo istruzioni dal piano di sopra. Fengriffen e io andammo in biblioteca e scoprimmo che Jacob vi aveva già portato il caffè e aveva acceso il fuoco. Il vento, soffiando per il camino, alimentava le fiamme. Fengriffen fumò furiosamente, alternando la pipa e il sigaro come se non sapesse decidere quale dei due gli offrisse più tranquillità. Avvertiva il normale nervosismo del padre in attesa, e quel nervosismo era ingigantito, non avevo dubbi, dalla speranza che la nascita potesse guarire la moglie e restituirla a lui. Si sedeva, di tanto in tanto, ma ogni volta scattava di nuovo in piedi dopo pochi secondi e camminava avanti e indietro per la stanza. Dopo qualche tentativo di distrarlo con un po' di conversazione, anch'io mi rifugiai nel silenzio. Di tanto in tanto, guardavo l'orologio. Mi parve che passasse molto tempo, sebbene non avessi alcuna esperienza professionale in quel genere di cose. Fengriffen, comunque, con il trascorrere del pomeriggio si fece più calmo. Non misurava più la stanza, ma passava più tempo alla finestra, guardando nel giardino con lineamenti composti e mani non più irrequiete. C'era un uccello che cantava sull'albero più vicino. E, pensai, non soltanto perché la pioggia aveva fatto venir fuori i vermi... E, alla fine, giunse il pianto di un bambino. Fengriffen era proprio alla finestra, in quel momento. Si irrigidì e per qualche secondo non si mosse. Poi si girò e corse verso la porta. Lo seguii nel corridoio in tempo per vederlo salire le scale a tre a tre e precipitarsi nel corridoio del piano superiore. La sua eccitazione si rivelò contagiosa perché gli andai dietro a una velocità soltanto di poco inferiore. Arrivai in
cima alle scale proprio nel momento in cui la signora Lune usciva dalla stanza di Catherine. Era bianca in viso. Fengriffen aveva rallentato per non finirle addosso e lei non fece alcun tentativo per scostarsi dalla sua traiettoria. «Un bambino», disse. «Un bel bambino.» Ma c'era qualcosa di sbagliato nel modo in cui lo disse. Il che indusse Fengriffen a guardarla prima di superarla. Il dottor Whittle apparve sulla soglia, fermandovisi come se si fosse trattato della soglia di un bar. Da sopra la spalla di Fengriffen mi scoccò un'occhiata significativa. Implorante, la giudicai. Anche Fengriffen guardò da sopra la sua. Così come aveva guardato nell'altra occasione fatale. E assistette a una scena anche più terribile. Mi portai al suo fianco e guardai anch'io. Whittle continuava a fissarmi. Catherine era nel letto con il suo bambino. Il suo bambino. Lo teneva teneramente tra le sue braccia di madre, ma il suo viso era voltato, come se non riuscisse a sopportarne la vista. Fengriffen era rigido accanto a me e anch'io avvertii una sensazione di freddo. Il bambino aveva il rosso marchio di sangue sulla guancia. Fengriffen digrignò i denti. Fengriffen strinse i pugni. Fengriffen vacillò per un momento... Poi riacquistò il suo equilibrio e mosse un passo nella stanza. Il dottor Whittle, arretrando, rimase tra lui e il letto, e io andai a mettermi al suo fianco. Pensai che avremmo avuto bisogno di trattenerlo, di costringerlo all'impotenza. E Whittle pensò la stessa cosa. Ma Fengriffen fece soltanto quel passo. «Puttana maledetta», mormorò, a voce così bassa che Catherine non avrebbe potuto udirlo. Rivolse a Whittle gli occhi da bestia in trappola. «È possibile?» domandò. Whittle lo fissò. «È possibile che le sue paure abbiano influito sul bambino in questo modo? È possibile che la paura o lo shock abbiano segnato mio figlio con il marchio dell'uomo dei boschi?» Il dottore distolse lo sguardo, imbarazzato. Per un momento, i suoi occhi si posarono sul letto, poi ricaddero. Non sapeva più dove guardare. Catherine gemeva, con il viso rivolto verso il muro. La signora Lune era sulla porta, pallida, gli occhi colmi di paura e le labbra tremanti. Fengriffen si
voltò verso di me e mi afferrò per il colletto. Dettagli dilatati in tempo di tormento, notai che non si era preso la briga di lavarsi il sangue raggrumato dalle dita; notai anche che quelle dita torcevano nervosamente i miei vestiti... «Ditemi, è possibile?» «Non lo so», dissi. «Entro i canoni della scienza... entro la conoscenza dell'uomo... è possibile?» Aveva la bocca schiumante, ma la sua voce era calma e controllata. Avrebbe potuto essere Socrate alle prese con un'assurda domanda per conoscere la natura della verità; Diogene con le lanterne dei suoi occhi al di sopra di un onest'uomo... O Ercole che puliva le stalle d'Augia. Tentai un'alzata di spalle, ma il movimento mi riuscì impossibile a causa della sua potente stretta. Le sue mani anzi s'avvicinarono pericolosamente alla mia gola. «Forse», dissi. «Forse?» «La scienza non è un cul-de-sac». Temetti che mi strozzasse. Gli presi i polsi, cercando di allentare la stretta, ma la sua era una forza sovrumana. Mi parve di stringere freddo acciaio. Sentii quella forza scorrermi nell'avambraccio, fluire nel mio torace e riversarsi nel mio corpo come una scarica di pura paura quando quelle dita ancora sporche di sangue per la razzia commessa in una bara aumentarono la stretta. Gridai. Whittle si rese conto del mio disagio e posò una mano sulla spalla di Fengriffen per fermarlo, ma quella mano saltò virtualmente via quando i muscoli del trapezio esplosero lungo la linea della spalla di Fengriffen conferendogli un aspetto che non aveva più nulla di umano mentre torreggiava sopra di me. Fengriffen avvicinò il mio viso al suo. I suoi occhi parvero espandersi fino a dimensioni irreali come per accogliermi. «Sapevate che sarebbe accaduto?» mormorò, con la vena del collo che gli pulsava e la bava agli angoli della bocca. «Vi prego...» ansimai. Sbatté le palpebre e allentò la pressione. Nonostante il disagio fisico che stava infliggendomi, il suo non era un attacco vero e proprio... un uomo che annega non può attaccare il legno alla deriva che costituisce l'unica sua salvezza... e i suoi occhi scrutavano, la sua voce implorava. Non si era reso conto della minaccia che la sua forza poteva rappresentare. Aveva capito
una sola cosa: che esisteva per lui una sola possibilità alla quale attaccarsi, una sola speranza lo teneva lontano dall'abisso, una sola risposta da cercare. Ma era una risposta che non potevo dargli. Non mi ero mai sentito tanto impotente, mai tanto dispiaciuto per la pochezza della mia conoscenza. Avrei voluto con tutto il cuore dirgli una bugia, ingannare quella pietosa creatura, dargli pace con il mio inganno. Ma in quella stessa stanza c'era il bambino. E sul suo viso l'impronta ereditaria di un altro uomo. Nei cromosomi del povero infante giacevano i geni di un diverso lignaggio, in attesa di svilupparsi. Quale grande malvagità sarebbe stata adesso dargli speranza, sapendo che quella speranza si sarebbe mutata in sospetto, che il sospetto si sarebbe sottomesso alla catalisi letale dell'osservazione e sarebbe divenuto certezza, che la certezza sarebbe stata molto più terribile quando, aumentata dal tempo, avrebbe riempito il vascello vuoto originariamente occupato dalla speranza. Le mie labbra si dischiusero, ma le parole s'arrestarono alla barriera della mia gola. «Non lo sapevate che sarebbe accaduto?» disse Fengriffen. La sua voce mi ipnotizzò. Scossi lentamente la testa, una sola volta, da una parte all'altra, sapendo di maledire la donna che si trovava in quella stanza, così come l'aveva maledetta l'uomo dei boschi, e tuttavia incapace di fare altrimenti. Fengriffen meritava la verità. Osservò la mia testa eseguire il movimento della negazione così come avrebbe osservato il cobra che arretrava per colpire, affascinato dai velenosi denti del diniego, trafitto dal veleno della conoscenza, paralizzato dal tossico della verità che gli scorreva nelle vene. Lentamente, le sue mani si dischiusero. Mi spinse via, mandandomi contro la parete. Lo sforzo che aveva fatto gli aveva riaperto le ferite. Una scia di sangue segnava i miei vestiti. I suoi occhi vi si appuntarono, sbarrati. Si portò poi le mani davanti alla faccia e si fissò le dita con incredulità, come se fissasse qualcosa di alieno che vi si fosse attaccato. «Me ne ero dimenticato», disse, stupito. Scosse la testa. Si voltò a guardare sua moglie. «Per quello», mormorò, fissandola. Anche Catherine lo guardò, per la prima volta da quando era entrato. Si contorse spasmodicamente. Una lacrima solitaria le discese lungo la guancia. I suoi occhi erano ampi ricettacoli e ricevevano il disprezzo che lui le
lanciava. Strinse il bambino al seno, non per proteggerlo, quanto per proteggersi dall'odio del marito. Fengriffen le mostrò le mani perché le vedesse. «Per te ho strappato il mio antenato dalla sua tomba!» gridò. E se ne andò. L'eco del suo grido si ripercosse nella stanza, il rumore dei suoi passi sulle scale. L'eco morì. La porta di sotto sbatté. Guardai il dottor Whittle. Il dottor Whittle guardò me. La signora Lune entrò nella stanza. Piangeva con le mani strette al seno. Passò davanti a noi e si avvicinò al letto. Mi feci forza e la seguii. Sentivo di dover far qualcosa al di là del semplice dovere professionale. Mi chinai sul letto. «Catherine?» «Andate via», disse lei. La sua voce era razionale, ma si capiva che, sotto la superficie, qualcosa cominciava ad agitarsi, una qualche corrente prendeva vita. «Vi prego, ascoltatemi.» «Andate via. È il mio bambino. Non importa cos'altro possa essere, è il mio bambino. Lasciateci soli.» «Dovete affrontare la verità!» dissi, con voce dura, desiderando scuoterla, riportare in superficie quel tremore sotterraneo e farlo sfociare in una valanga di lacrime. Nonostante il marchio che proclamava la sua colpa, ancora le credevo... le credevo quando pensava che la sua fantasia fosse realtà, che nel suo subconscio negare la verità avesse subito una delusione assai più terribile. Scosse violentemente la testa. La signora Lune si abbassò sul letto e mise un braccio attorno alle sue spalle nell'inutile tentativo di darle conforto. Mi lanciò poi un'occhiata astiosa e guardò poi verso la porta, ovviamente suggerendomi d'andarmene. «La verità, Catherine!» gridai. «Per la vostra sanità di mente e per il vostro bambino!» «Conosco la verità!» strillò lei, lasciandosi sfuggire gocce di saliva dalle labbra. Il bambino raggrinzì il viso, pronto al pianto. Catherine sollevò la testa e io vidi la pazzia danzare nei suoi occhi. «È vero, vero, vero!» Tossì e il dottor Whittle mi tirò per la manica. «Forse più tardi», disse.
Annuii. Forse troppo tardi. Sentii tutto il peso della stanchezza gravarmi sulle spalle. Whittle aveva ragione. Non c'era nulla che potessi fare. Lo seguii fino alla porta mentre la signora Lune stringeva al petto Catherine e le accarezzava i capelli. Whittle chiuse la porta dietro di noi e sospirò. Avviandoci verso le scale, mi fermai senza motivo nella galleria e in quel momento arrivò il rumore attutito del cavallo di Fengriffen che attraversava il cortile al galoppo, diretto verso il bosco... Sedevamo in biblioteca, io e Whittle. Era quasi sera e l'oscurità faceva da sudario alle finestre. Whittle aspettava che io parlassi, mi guardava in silenzio e forse pensava che stessi cercando in campi bui dove strani fiori crescevano di notte dal fecondo terreno della scienza. Forse era il mio atteggiamento a dargli quest'impressione perché avevo gli occhi fissi alla finestra e la mia fronte era aggrottata. Ma guardavo semplicemente, niente di più. Non cercavo di penetrare quel vetro con il mio sguardo. Era al di là di ogni teoria. Il fatto sembrava innegabile. Ciò che Catherine credeva... che fosse stata visitata da un amante demone... era assolutamente vero per lei. Ma ciò che quell'odioso marchio significava era assolutamente vero per me. Le due verità esistevano su differenti livelli, in due dimensioni che non potevano incontrarsi. Se questo l'assolvesse dalla sua colpa non era una domanda per la scienza, né una alla quale desiderassi rispondere. Era una domanda alla quale doveva rispondere il marito. Dio lo aiuti. Whittle ruppe il silenzio. «Non potrebbe essere possibile?» domandò, cauto. «Cosa?» «Che sia stata la paura di Catherine a lasciare il segno sul bambino?» «Una diceria da vecchie comari. In teoria, è impossibile. In pratica? Be', voi avete più esperienza di me in questo campo. Ve la sentireste di dare a Fengriffen qualche speranza? Avete mai visto un bambino segnato a quel modo?» «No», rispose lui, e sospirò. «E tuttavia sembra incredibile che Catherine abbia permesso a quel boscaiolo di... che abbia potuto indurre quella creatura a lasciare i boschi, l'abbia fatto entrare nella sua stanza e... Incredibile.» «Ma non l'ha fatto», dissi. «Al livello della sua consapevolezza, non l'ha fatto. Chiunque sia stato... dobbiamo supporre il boscaiolo... a introdursi dalla sua finestra nella notte, lei l'ha creduto il demone evocato dalla sua
mente sconvolta.» «Dio aiuti quella poveretta», disse Whittle. «E Dio aiuti il povero Charles. Sarà possibile curarla da questa pazzia? Sarà lui tollerante al punto da ritenerla innocente almeno nelle intenzioni? Charles non è un uomo tollerante. Voi sapete, naturalmente, dov'è andato.» «Temo di sì.» Whittle aveva tirato fuori la sua tabacchiera, l'aveva posata sulla scrivania Regency e la stava squadrando con l'angolo. «Voi che lo conoscete da anni, dottore», dissi, «è un uomo capace di uccidere?» Whittle si strinse nelle spalle. Vendetta chiede vendetta. «È un Fengriffen», disse il dottore. E nel silenzio che seguì entrò la signora Lune. Stringeva una Bibbia nella mano e i suoi occhi erano rossi di pianto. Attraversò la stanza con passo deciso e venne verso di me. «La padrona dorme, adesso», disse. «Bene», approvai, sebbene non sapessi se fosse davvero un bene. «Vi prego, sir... posso parlarvi?» «Certamente.» Strinse maggiormente la Bibbia come un predicatore stringe il rostro quando è sul punto di lanciare la sua teologia alla congregazione. «So che voi siete un dottore e che cercate di fare quello che è giusto, ma, sir, se posso dirlo, ci sono molte cose che voi non capite a dovere. Se posso aprirvi la mente, e senza offesa, sir. La povera signora ha... voglio dire, ci sono delle cose...» «Sono al corrente dei particolari della maledizione», dissi, per aiutarla ad andare avanti. La signora Lune si morse un labbro. «Vedete, sir, se voi poteste convincere il padrone che è vero... che la povera signora è innocente...» «Non posso ingannarlo», dissi in tono fermo. Non volevo che continuasse perché lo ritenevo inutile. «Farò del mio meglio perché Fengriffen si mostri tollerante e comprensivo, ma non posso mentirgli.» La signora Lune si voltò verso il dottor Whittle. «Mi dispiace», fece lui. La signora Lune non conosceva molte parole. Il pensiero era nella sua mente e lei lottava per esprimerlo. Rivolse gli occhi alle pareti come per
ricevere, per osmosi, il vocabolario di tutti i libri allineati sugli scaffali. Aprì la bocca. E in quel momento, un urlo lacerante echeggiò nella casa. Balzammo in piedi sia io che il dottor Whittle. La signora Lune, ancora con la bocca aperta, tremava spasmodicamente. Non era stata lei a gridare. Uscii di corsa nel corridoio e il grido si ripeté, questa volta meno acuto. Mi precipitai su per le scale, muovendomi contro l'eco di quel grido come contro la corrente di un fiume. Non ci fu un terzo grido. C'erano soltanto i passi di Whittle, alle mie spalle, a sottolineare il silenzio mentre spalancavo la porta della stanza di Catherine. Catherine era sola nel letto. Il bambino non c'era più. La stanza era fredda. Incredibilmente fredda, più fredda di quanto avrebbe potuto renderla l'aria, e nonostante quel freddo c'era un odore di rancido, un odore così pesante da sembrare visibile. Attraversai la stanza e chiusi le imposte. In preda alla nausea per il fetore, mi sostenni per un momento al davanzale e scossi la testa per schiarirmi da quei fumi prima di voltarmi verso Catherine. «Il bambino», disse lei. «Ha preso il bambino.» Mi sedetti sul bordo del letto e le presi la mano. Era di ghiaccio. Cominciò a balbettare parole indistinte. Whittle, che si era fermato sulla soglia, si ritrasse per via del fetore. «Chi ha preso il bambino?» domandai. Catherine sogghignò e si contorse. Potevo vedere la carne raggrinzirsi sul suo braccio, come se soltanto la pelle ora fosse attaccata all'osso. «È stato l'uomo dei boschi?» Mi fissò senza capire. «Chi ha preso il bambino?» ripetei. «Lui l'ha preso. Lui.» «Chi, per amor del cielo?» «Il padre», gemette lei. La presi per le spalle e la scossi. I capelli le ricaddero sulla fronte. Non resisteva, ma sembrava accogliere con piacere quel movimento violento, tanto che cominciò a lasciarsi andare lei stessa. Smisi di scuoterla, ma lei continuò ad agitarsi tanto che sbatté la testa contro la spalliera del letto.
Fui costretto a trattenerla. Tremava. Cercai di mettere durezza nella mia voce e pronunciai le parole sperando che perforassero le nubi che avvolgevano la sua mente. «L'uomo dei boschi», dissi. «L'uomo dei boschi ha preso il bambino. L'uomo dei boschi è il padre. È sempre stato l'uomo dei boschi. Ti sei lasciata prendere dalla tua fantasia. L'uomo dei boschi! L'uomo dei boschi! Era un uomo, un uomo vivente, niente di più!» Ma Catherine non mi sentiva. Sotto quelle nubi, la sua mente si era richiusa su se stessa. Come un pescecane ferito, che si torceva per divorare la propria carne, si lanciava sulla propria sanità mentale. «L'uomo dei boschi!» gridai. «Il padre», disse lei. «Il mio bambino. Il suo bambino. Il padre. È venuto per il suo bambino. Ha preso il bambino. Andato, andato, andato. Dove, dove, dove?» «Catherine!» I suoi occhi si fecero improvvisamente lucidi. Aggrottò la fronte. «Dove?» domandò. «Dov'è andato?» E le barriere caddero nuovamente. Si contorse e balbettò. Sospirai e mi alzai. Comparve la signora Lune. Tremava quasi quanto Catherine. Si avvicinò al letto con cautela, la Bibbia saldamente davanti a lei. «Rimanete con lei», dissi. La signora Lune rivolse i suoi occhi su di me. Riflettevano una credenza che non avrei mai potuto smantellare. Forse era meglio così. La donna cullò Catherine tra le sue braccia. «Povera innocente», disse. Nel corridoio, Whittle mi prese per un braccio. «Per amor del cielo, cosa ha causato quell'odore?» domandò. «Non lo so. Un corpo vissuto nel fango e nella vegetazione putrefatta, cos'altro?» Lui scosse la testa. «Ho avuto a che fare con la corruzione della morte in attesa dietro porte chiuse da settimane, ho amputato arti così corrosi dal pus che si staccavano al solo toccarli, ma non ho mai sentito un fetore simile. Se penso che una creatura con quell'odore sia stata con Catherine...» Rabbrividì. «Deve essere stato l'uomo dei boschi. È venuto a prendersi il suo bambi-
no come ultimo atto della vendetta.» «Cosa possiamo fare?» domandò Whittle. Ci spostammo verso le scale, attraverso l'arco scuro della galleria. «Dove supponete che abbia portato il bambino? Nella sua capanna? Oppure ha fatto di peggio? Di quale azione potrebbe essere capace quella mente distorta?» Avevamo cominciato a scendere le scale. «Non credo che il bambino corra un pericolo immediato, tranne quello di stare all'aperto, però dobbiamo trovarlo al più presto. Il boscaiolo non gli farà del male. Dopotutto, è suo figlio. Non avrebbe ragione di infierire. Molto più probabile che voglia tenerselo come incarnazione della compiuta vendetta.» «Stare all'aperto è già un pericolo», disse Whittle. «Speriamo che quell'essere mantenga un minimo di umanità o di istinto animale e lo tenga coperto. C'è però un altro pericolo che dobbiamo considerare, dottor Pope.» Eravamo arrivati in fondo alle scale. «Fengriffen è andato a cercare l'uomo dei boschi», disse. «Se lo sta aspettando, nello stato mentale in cui si trova, chissà cosa può accadere. Dobbiamo affrettarci, inseguire l'uomo dei boschi e raggiungerlo prima che arrivi dove Fengriffen lo sta aspettando, e impedire... impedire Dio solo sa quale atto...» Annuii. Sapevo bene di cosa poteva essere capace Fengriffen quando era posseduto dalla rabbia e sconvolto dal dolore. Lo avevo visto nel cimitero, e sentito la forza delle sue braccia nella camera di Catherine. Era un bambino innocente, ma recava l'odiato marchio della vergogna di Catherine. Sì, dovevamo affrettarci. Ci avviammo verso la porta. Improvvisamente, Whittle si fermò. Ebbe un sussulto e chiuse gli occhi. Il suono del balbettare incoerente di Catherine giungeva fino a noi. Era alterato, una mutazione del suono umano, confuso e disarticolato mentre oltrepassava le porte chiuse, il pavimento, la pietra della stessa casa, allungato per scivolare tra i granelli, compresso per perforare la roccia, ricurvo su se stesso per superare gli angoli e lacerante quando cadeva negli spazi vuoti. Era un suono che saliva su per la spina dorsale con il tocco di una piuma e correva nel sangue come una dolce piaga. Era un suono che Whittle aveva già sentito. Non ebbe bisogno di dirmelo. Io sapevo. Era il suono che aveva emesso Sarah quando le dita tagliate di Silas le
erano cadute in grembo. Ci fermammo davanti alla imponente porta, con la grande casa che torreggiava monolitica sopra di noi. Respirai una boccata d'aria fresca e notai che Whittle faceva lo stesso. Ci dirigemmo entrambi verso la stalla, ma poi ebbi un ripensamento. «Forse sarebbe più saggio se lo seguissimo a piedi», dissi. «Ha solo un breve vantaggio, e deve portare il bambino. Perderemmo tempo mentre vengono sellati i cavalli e dalla sella sarebbe più difficile seguire le tracce.» Whittle annuì. Cambiammo direzione e prendemmo il sentiero fangoso sotto la finestra di Catherine. Avevamo fatto pochi passi quando un rumore di zoccoli rimbombò sulla pietra del cortile e Fengriffen apparve nell'oscurità, ritto e immobile sul suo cavallo. Non ci scorse fino a quando non lo chiamai. Si fermò, smontò di sella e lasciò le redini sul terreno. Il cavallo non si mosse. «È fatta», disse. Adesso era calmo. «Cosa avete fatto, Charles?» domandò il dottor Whittle. «Fatto? Un assassinio. Cos'altro?» Fengriffen si strinse nelle spalle. «Cos'altro?» ripeté e da sotto il mantello estrasse una pistola. Era molto grande, dura, reale. La fissò, poi, lentamente, se la rivolse verso il viso. Mi lanciai per fermarlo, ma lui fece un passo indietro e scosse la testa. «No, no. Non preoccupatevi. Non mi toglierò la vita», disse. «Stavo semplicemente guardando nella canna, domandandomi come deve essere apparsa all'uomo dei boschi nel momento finale della sua vita. È curioso. Avete un'idea di quanto largo sembri questo buco nero? È poco più di un buco attraverso un cilindro di metallo. Uno strappo nell'entità spaziotempo, un buco nero nella creazione, un pozzo senza fondo che può risucchiare l'anima di un uomo giù, giù... in qualsiasi altra dimensione esista. O non esista. Davvero curioso. E l'uomo dei boschi ha guardato nell'abisso, e ha sorriso. Non pensate che sia unico, signori? Il suo cane ha ringhiato, ma l'uomo dei boschi ha sorriso. E gli ho sparato. Ho sparato dritto in quella odiosa macchia che ha distrutto la mia vita cosicché il sangue la coprisse. Porterà quel sorriso fino alla tomba. «E poi, signori, sono rimasto là a lungo. C'era un'ascia in un angolo... forse la stessa ascia che usò mio nonno... e sono rimasto là a lungo a do-
mandarmi se dovessi usare quell'ascia per rimuovere quel sorriso. Alla fine, non l'ho fatto...» Fengriffen sorrise placidamente. «Sono contento di non averlo fatto, sapete? Sarebbe servito a poco.» «E il bambino?» mormorò Whittle. Fengriffen girò la pistola nella mano e me la porse. Me la infilai nella tasca. «Non sono un barbaro», disse. «Non potevo fare del male a un bambino innocente. Mia moglie deve andarsene e portare il bambino con sé. Non appena sarà in grado di farlo, naturalmente. Non nutro rancore verso l'infante.» «Ma dov'è il bambino?» domandò Whittle. Era una domanda disperata perché il dottore aveva già visto l'anacronismo delle nostre supposizioni. «Dove? Non vi capisco, dottore.» «Non...» Zittii Whittle con un gesto. «Quanto tempo è passato da quando... da quando lo avete ucciso?» Fengriffen parve confuso. «Non ne ho idea», disse. «Quanto tempo è passato da quando ho lasciato la casa? Sono andato direttamente alla capanna. Che differenza può fare?» Whittle e io ci guardammo. «Cos'è che non capisco?» domandò Fengriffen. C'erano molte cose che non avevamo capito... Non furono necessarie le parole. Whittle e io tornammo verso l'angolo della casa, fianco a fianco, accomunati dalla stessa emozione. Fengriffen ci guardava, stupito. Il terreno era inzuppato d'acqua. I nostri stivali lasciavano impronte profonde. Girammo attorno all'angolo e ci fermammo sotto la finestra di Catherine. Non era un gran salto. Era semplice per un uomo agile saltare da quell'altezza sul terreno molle. Poi guardammo il terreno. Non c'erano impronte. Non c'erano impronte, tranne le nostre. Nessun uomo si era lasciato cadere da quella finestra... «Potrebbe... potrebbe Catherine aver eliminato il bambino in qualche modo?» mormorò Whittle, inorridito. «Non lo so. Non so nulla.»
Fengriffen ci raggiunse e ci fissò senza capire mentre osservavamo il terreno. In quel momento sorse di nuovo il vento. Era sopra di noi, tra le cime degli alberi, e tuttavia nel suo passaggio lasciava una sinistra scia di freddo; freddo umido, come di tomba. Le querce gemettero e da una grande distanza giunse il latrato di un cane. Il vento passò in un momento e se ne andò... Dio solo sapeva dove, disperso, libero. Guardai la landa e rabbrividii. Il cane smise di abbaiare. Soltanto la risata pazza di Catherine venne a sostituire il vento, echeggiando tra le mura di quella casa maledetta... L'ESTREMO OBOLO The Uttermost Farthing di A.C. Benson Basil Netherby, 1926 Il mondo sembra aver riscoperto di recente E. F. Benson, il creatore di quei due simpatici intriganti che sono Mapp e Lucia. Il fratello di E.F., A.C. Benson, invece, aspetta ancora una resurrezione letteraria. Tuttavia, se molti non lo conoscono, sonoperò probabilmente più consapevoli dell'opera di A.C. che di quella di qualsiasi altro scrittore. Perché è stato A.C. Benson che scrisse le parole «Terra di Speranza e di Gloria» per la famosa marcia Pomp and Circumstance di Sir Edward Elgar. Arthur Christopher Benson (1862-1925) era il più vecchio dei tre fratelli Benson, Arthur, Freddie e Hugh, figli di Edward White Benson che fu arcivescovo di Canterbury dal 1883 al 1896. Tutti e tre furono scrittori prolifici e tutti e tre produssero un certo numero di novelle del mistero e del soprannaturale. Mentre quelle di Freddie ebbero un felice revival, quelle di Arthur e di Hugh sono ancora dimenticate. L'estremo obolo non fu pubblicata mentre Arthur era in vita ma fu trovata tra le sue carte dal fratello Freddie che si accertò che uscisse in una piccola raccolta di appena due novelle, Basil Netherby, nel 1926. 1 Sì, la stazione successiva era Hebden Hill, mi disse il facchino, e mentre il treno sbuffava vigorosamente per l'ampia pianura verde, tagliata dai canali che un tempo avevano fatto parte di una grande baia del mare, guardai con piacere le basse rocce, simili a scogliere in miniatura, ma ora ricoperte di alberi, che delimitavano la pianura a occidente, a mezzo miglio di di-
stanza, e pensai a come assomigliavano allo sfondo di un antico quadro italiano. Era la sera di una calda estate, non opprimente, perché c'era una brezza fresca che soffiava dal mare, sul quale delle nuvole bianche veleggiavano pigramente verso terra. Riuscivo a scorgere in lontananza piccoli villaggi piatti e fattorie solitarie sparse tra gli alberi; ed era bello vedere gli uccelli, i pivieri con il ciuffetto e i gabbiani grigio perla, che immobili sollevavano la testa al vento che spazzava i pascoli; e un airone grigio che fissava l'acqua. E poi cominciai a chiedermi come mai stessi andando a fare una visita così vagamente definita a Hector Bendyshe, che conoscevo appena. Che cosa sapevo esattamente di lui? Era un uomo simpatico, che non ci si sorprendeva mai di incontrare alle occasioni mondane e i cui discorsi erano interessanti, raramente noiosi. Era stato a Winchester e a Oxford; forse aveva fatto parte del servizio diplomatico e aveva sicuramente viaggiato molto. Era ricco perché possedeva un appartamento in città e una casa che si diceva interessante nel Sussex, a Hebden Hill. Ma per vent'anni non aveva fatto niente di particolare... era un uomo sulla cinquantina... leggeva molti buoni libri, era appassionato di musica, una specie di intenditore. Ma più riflettevo, meno mi sembrava di sapere. Non aveva relazioni di cui avessi mai sentito parlare e neppure amici intimi, ma molte conoscenze; andava ovunque e se l'intendeva con tutti. Non era un tipo misterioso o segreto; parlava facilmente e con franchezza delle sue preoccupazioni e occupazioni e soprattutto di argomenti di interesse generale. Ma allora come mi era venuta in mente quella visita? Ero anch'io un cosiddetto letterato che viveva, non prosperosamente, in città, rivedendo e scrivendo articoli di letteratura, mettendo insieme di tanto in tanto un libro e, grazie ai modesti guadagni e a una piccola rendita personale, in grado di condurre un'esistenza abbastanza confortevole. Avevo appena superato la quarantina e le ambizioni artistiche che avevo avuto una volta erano da lungo svanite; ma ero più che contento della mia vita e il mio interesse per le altre persone era più forte che mai. Le cose inaspettate che accadevano, gli strani contrasti e le contraddizioni di carattere, la sorprendente inconsistenza degli esseri umani e delle loro complicate relazioni, così differenti e tanto più ricche delle deboli tradizioni convenzionali della prosa narrativa... tutto questo aveva mantenuto vivo in me un senso di avventura romanzesca nella vita che mi riconciliava ampiamente con una carriera che era stata deludente e persino umiliante. Avevo incontrato Bendyshe a una cena, una sera di maggio. Me n'ero
andato con lui che mi aveva invitato a casa sua. Era ben arredata e confortevole ma con una certa austerità che aveva colpito la mia fantasia. Il discorso era caduto chissà come su argomenti psichici ai quali ero molto interessato; e dopo dieci minuti di conversazione mi ero accorto che Bendyshe si era liberato della maschera di amabile allegria che lo caratterizzava e che parlava seriamente e con profonda convinzione, come non l'avevo visto fare prima. All'improvviso si era rivolto a me, un po' bruscamente, avevo pensato, e aveva detto: «Ma forse a lei non interessano queste cose.» «Sì e no», avevo ribattuto, «ma, a dire la verità, mi sorprende un po' che interessino a lei.» «Be', non mi meraviglio affatto. Vede, ultimamente è diventato una specie di hobby. Un giorno le dirò perché, se le interessa saperlo. Ma mi spieghi una cosa; perché dice "sì e no"?» «Perché», avevo risposto, «in primo luogo penso che fare un discorso alla buona sulle cose psichiche sia una paurosa sciocchezza. A me sembra una questione scientifica; ma quando ne parla la gente stupida, è tutto un miscuglio di debole sentimento e di immaginazione.» «È così», aveva commentato lui, «ma se la pensa in questo modo, perché non si addentra nella materia?» «Perché il genere di esperimenti che prova la gente, come sedute e trance e scrittura automatica, mi sembrano ancora più disgustosi, come chi prende la droga; significa giocare deliberatamente con la parte più brutta della mente, la parte che ha a che fare con la paura. Io non voglio risvegliarla... Voglio pensare che non esiste e, oltre a ciò, mi interessano talmente tanto le persone che vedo e che conosco che non voglio esplorare l'ignoto.» «Direi che vuole vivere nel paradiso del pazzo», aveva detto Bendyshe e dal pallore del suo viso e dalle sue narici dilatate avevo visto che l'avevo fatto arrabbiare; ma lui si era controllato. «No», aveva aggiunto, «non avrei dovuto dirlo... sono stato scortese e sciocco. Le chiedo scusa.» «No, la prego, non è il caso, è stata colpa mia. Ho detto cose molto cattive; è come parlare di "chimica" a uno scienziato o di "dizione" a un attore... l'insolenza del dilettante; è imperdonabile.» «Be', ma io voglio veramente sapere», aveva insistito lui con aria piuttosto grave. «Sono d'accordo con lei fino a un certo punto; ma ciò che ha detto equivaleva a questo, che le interessa talmente tanto la gente quando è viva che non le interessa affatto ciò che accade loro dopo che muoiono?»
«Sì, esattamente questo. Mi interessa immensamente ciò che riesco a vedere e osservare nelle persone e dedurre da loro. Mi sembra drammatico, eccitante, bellissimo, a volte. Ma sono un uomo senza dimora e uno scapolo e non mi avvicino molto alla gente; vedo soltanto il lato gentile della vita; e quando la gente sparisce, perché sfortunatamente lo fa, e io non posso seguirla, allora ritorno a ciò che posso vedere e sapere.» «Capisco perfettamente», aveva detto, «ma per me è giusto il contrario. La gente mi sembra così sorprendente, così gentile, a volte, e così bassa, altre, che non posso credere che tutto cominci e finisca qui e mi ritrovo consumato dalla più intensa curiosità, tanto per usare una parola debole, di sapere qual è l'atto successivo. Mi dà l'impressione che sia una grande rappresentazione di cose del tutto banali, grottesche e noiose... due persone che fanno un sonnellino, una ragazza che mangia un panino mentre aspetta la battuta d'entrata... ma la commedia è eterna e ognuno ha la sua parte. Sento che devo sapere che cosa c'è dietro a tutto questo, se è possibile saperlo. Non esagero quando dico che ho pensato molte volte di puntarmi una pistola alla testa per scoprire che cosa succede; ma dubito che si possa scoprirlo a quel modo.» Era rimasto per un po' in silenzio, meditando tra sé. Io l'avevo osservato. Era un uomo alto e ben fatto, aveva i capelli neri, corti e ricci, leggermente brizzolati, la fronte alta e due grandi occhi scuri che mi era sembrato di non aver mai visto aperti prima di allora. Era sbarbato di fresco e il naso, lungo e diritto, spiccava sul labbro superiore sottile. Quello inferiore, invece, era pieno e il mento, come se non volesse apparire sproporzionato, era largo. Aveva un'aria leggermente sciupata ma il suo viso, quasi privo di rughe, possedeva il colorito fresco tipico dell'uomo che ha vissuto perlopiù all'aperto. Se la sua espressione era piuttosto critica, ora, quando l'avevo visto nelle precedenti occasioni, era allegra e amichevole. Non mi era mai passato per la mente che potesse essere un uomo minaccioso, anzi, l'avevo giudicato molto sereno e tranquillo. Non c'era niente di ascetico o di dotto in lui. Le sue mani erano grandi e mobili ed erano più espressive del viso, avevo pensato; e il suo modo di vestire aveva un tocco di negligenza che gli si addiceva. Non l'avevo mai reputato un uomo particolarmente interessante perché non si era mai lasciato andare o aveva mostrato qualche preferenza. Ma in quel momento l'avevo visto molto diverso, in un certo qual modo vigile, appassionato e persino terrificante. Ma quando aveva ripreso a parlare, il suo umore era cambiato e lui era
tornato quello di un tempo. «A proposito», aveva detto, «che cosa fa di solito in estate?» «Oh, vado un po' via, ma non posso staccarmi molto dal lavoro. Sono uno scribacchino e devo stare sempre pronto nel caso di una chiamata. Se mi capita di avere del denaro a disposizione, vado in qualche alberghetto tranquillo... mi piace esplorare la campagna; le vecchie case e le chiese sono molto interessanti. Ma alla fine mi annoio un po'.» «Vorrei che venisse a stare da me per un paio di settimane», aveva detto lui. «Ho una casa simpatica nel Sussex, un posto piacevole. È molto tranquillo e lei potrebbe lavorare se volesse oppure andarsene un po' in giro. Mi farebbe piacere parlare di queste cose con lei.» «La ringrazio molto. Farebbe immensamente piacere anche a me. Dove ha detto che si trova la casa?» «A Hebden Hill, non lontano da Ashford... è un villaggio piuttosto grande. Mi farò vivo.» 2 Quella era la fine di maggio. Non ne avevo saputo più niente per un mese e avevo cominciato a pensare che se ne fosse dimenticato o, forse, che si fosse pentito di avermi mostrato il lato più nascosto di sé. Ma alla fine di giugno, avevo ricevuto un biglietto in cui mi chiedeva di andare da lui per il sette di luglio e, un paio d'ore dopo, un telegramma. «Sono inaspettatamente solo e sarei contento di vederla domani, giovedì, se le fosse possibile, ma non cambi i suoi programmi. Ci incontreremo al treno che arriva alle diciotto e trenta. Spero che possa trattenersi per una quindicina di giorni.» Non aveva usato un tono un po' perentorio? No, non avevo impegni ed ero felice di fuggire dal caldo di Londra, così gli avevo spedito a mia volta un telegramma per comunicargli che accettavo l'invito, avevo preparato i miei libri e le mie scartoffie ed ero partito; e ora che ero in viaggio, cominciavo ad avere la strana sensazione di essermi imbarcato in un'avventura e non molto piacevole, anche. In ogni caso, arrivai al tramonto. Bendyshe era sul marciapiede ad aspettarmi e dalla cortesia degli addetti alla stazione capii che non era soltanto un personaggio importante ma anche molto popolare. Aveva una parola gentile per tutti e mi presentò formalmente al capostazione, dicendo con aria grave: «Ci tengo che il mio amico signor Hartley riceva una buona
impressione del posto; vede, scrive su tutti i giornali e potrebbe fare la nostra fortuna con un articolo.» «Davvero, signore?» domandò il capostazione, deliziato. «Sono sicuro che sarà il benvenuto a Hebden Hill, signore, Qui siamo all'antica ma, di questi tempi, ci stiamo un po' modernizzando.» Bendyshe aveva una bella macchina, fuori, che ci aspettava. La stazione si trovava ai piedi della collina e lui mi condusse per una stradina ripida e irregolare che si inerpicava tra case di mattoni rossi e di legno circondate da piacevoli giardini... un luogo bello e accogliente. In cima alla collina, sbucammo in una piazzetta alla quale si affacciavano cinque o sei edifici del diciottesimo secolo. Di fronte al lato occidentale della chiesa si ergeva un lungo muro di mattoni nel quale si apriva un cancello di ferro battuto finemente lavorato. Al di là del cancello, appariva una bella facciata; una costruzione di mattoni in stile georgiano con un frontone sul quale spiccava una finestra rotonda, delle solide colonne all'ingresso, sette finestre al piano superiore e tre a entrambi i lati della porta. Evidentemente, era la residenza principale del villaggio. Le finestre avevano pesanti battenti dipinti di bianco e la casa era fiancheggiata da antichi sicomori. «Ci siamo», annunciò Bendyshe. «La chiamano il Castello ma a me non dà assolutamente quest'idea.» All'interno, l'ingresso era dipinto di bianco e rivestito di marmo e di pannelli di legno, a ogni estremità c'erano due porte di mogano e da sotto un arco partiva una larga scala. Vidi diversi ritratti e qualche solida sedia Chippendale. Fummo accolti da un imponente e venerabile maggiordomo. «Le piacerebbe fare il giro della casa prima di salire a vestirsi?» domandò Bendyshe. «È bene che uno abbia subito chiaro in mente la pianta della casa in cui si trova.» Mi mostrò per prima la stanza alla sinistra della porta d'ingresso, una saletta da pranzo rivestita di pannelli scuri di quercia. Lì erano esposti altri ritratti e un bel busto italiano di un giovane uomo in porfido rosso, evidentemente un capolavoro. La successiva era una piccola biblioteca zeppa di libri, con una grande porta finestra che si apriva sul giardino. «Questa è la sua camera», spiegò Bendyshe, «e può usarla per lavorare. Il mio studio è di sopra.» La porta alla destra dell'ingresso era quella della sala da fumo, un luogo accogliente con diverse poltrone di cuoio rosso e dei quadri antichi di paesaggi a olio. «Questa è la stanza di tutti», fece Bendyshe. «Le altre porte conducono alle zone sul retro ma ora daremo un'occhiata al giardino.»
Superata una porta che si trovava sotto le scale, non potei reprimere un'esclamazione di piacere. Uscimmo in un portico sostenuto da colonne che continuavano per tutta la parte centrale della casa, tra due ali laterali basse; era pavimentato di marmo nero e bianco e arredato con comode panche di quercia e tavoli. Il giardino non era grande ma ben disposto. Lateralmente era cintato e una fila di sicomori lo proteggeva dagli sguardi dei curiosi. Il prato era perfettamente tenuto e dominato da una bella statua di un adolescente con le mani intrecciate e la testa rivolta verso l'alto, come se guardasse la casa... uno splendido capolavoro. In fondo, racchiusa da un muretto, c'era una grande aiuola piena di fiori colorati; e mentre ci avvicinavamo, vidi che il terreno scendeva ripidamente... verso un piccolo parco con gruppi di alberi al di là dei quali si godeva della magnifica vista della pianura verde delimitata a destra da una serie di basse montagne e colline e, a sinistra, a un paio di miglia di distanza, dalla vasta distesa del mare. Feci un breve commento sulla bellezza del luogo e la sua imponenza. «È una parola piuttosto grossa», disse Bendyshe. «In verità, la casa non è grande e la proprietà si estende per circa cinquanta acri. Ma è ben disposta ed è tutta godibile.» «Appartiene da tanto tempo alla sua famiglia?» «No. L'ho acquistata così com'è, con l'arredamento e tutto il resto, dall'ultimo membro di un'antica famiglia... i Faulkner... che era finita male. Era in uno stato pietoso... la casa quasi in rovina, il parco invaso dalle erbacce e dai cespugli spinosi. Nessuno se ne occupava. Io ne sentii parlare per caso, proprio quando volevo una casa, una quindicina di anni fa, e ci pensai sopra. La comperai per poco e non ci spesi molto per le riparazioni. Ma mi ci sono incredibilmente affezionato e mi sembra di essere vissuto qui per tutta la vita e anche un po' di più.» La luce cominciava a scemare mentre tornavamo e, una volta rientrati, trovammo la casa tutta illuminata dalle luci elettriche, accuratamente diffuse. Salimmo. C'era un corridoio sopra l'ingresso ma non altrettanto grande, con tre porte su entrambi i lati e una proprio di fronte alle scale; sono queste che devo descrivere con particolare precisione. La prima sulla sinistra... la scala curvava a destra, cosicché noi guardavamo in direzione della porta principale... portava a due scale, una che saliva verso le soffitte e l'altra che scendeva nelle stanze di servizio. La seconda porta si apriva nella camera da letto di Bendyshe, un locale molto
spoglio, con un paio di stampe e alcuni libri; dalla camera si accedeva al bagno e allo studio la cui porta era la terza che si vedeva sulla sinistra del corridoio. Lo studio era pieno di libri, aveva un grande tavolo ricoperto di documenti e due imponenti sedie di quercia. Ho visto raramente un locale meno lussuoso. Non c'erano ornamenti, fatta eccezione per un unico quadro, lo splendido ritratto di una ragazza con i capelli biondi e gli occhi azzurri, un'espressione di perfetta naturalezza, semplicità, vivacità e gioia. La stanza aveva due finestre, una che guardava sulla chiesa e l'altra verso il villaggio. Uscimmo di nuovo nel corridoio. La porta di fronte a quella dello studio era della mia camera da letto, con una finestra sulla chiesa e l'altra sul grande sicomoro che si ergeva all'angolo della casa. Attiguo c'era un piccolo bagno. La stanza era arredata in modo molto accogliente e adornata con qualche bell'acquerello. Tornando nel corridoio, le altre due porte appartenevano a camere da letto simili alla mia e l'ultima a un'ennesima stanza ma con la vista sul giardino. Questa, tuttavia, era completamente vuota e vi si respirava la caratteristica e spiacevole aria stantia che si forma in un locale che non viene mai illuminato dalla luce del sole. «Non mi piace questa stanza», affermò Bendyshe. «A dire il vero, è quella in cui fece la sua miserabile fine il farabutto dagli eredi del quale ho acquistato la proprietà. È una storia squallida e, quanto alla stanza, be', credo che vi sia qualcosa di sinistro. Che cosa gliene pare? È un peccato non usarla perché ha la vista più bella della casa!» «Non saprei», risposi. «Credo che il miglior modo per esorcizzare le associazioni sgradevoli sia quello di non prendersela con le cosa ma di farne un nuovo uso piacevole.» «Sì», ammise Bendyshe, «se avessi dei bambini, qui farei la loro stanza dei giochi... allora sì che andrebbe tutto bene!» Un'ora dopo, cenammo. Si trattò di un pasto semplice ma perfetto e servito rapidamente. «Non so come la pensi lei», mi disse Bendyshe, «ma mi sembra sempre incivile perdere tempo con il cibo.» Mangiò in fretta ma con appetito e bevve un paio di bicchieri di vino. Dopo cena, ci ritirammo nella sala da fumo. Lui era del suo umore familiare, in vena di piccoli aneddoti e reminiscenze. Mentre ci godevamo i sigari e il caffè, disse: «Ora mi permetta di dirle prima di tutto quanto sono contento di vederla qui. So che ci siamo messi d'accordo, più di quanto forse non sia parso quella sera, su ciò di cui avremmo parlato e credo che lei possa essermi di grande aiuto, se è dispo-
sto a farlo. Sono convinto che abbia una mente giusta e imparziale. Le dispiacerebbe dirmi in cosa esattamente crede? Oppure è stanco e preferisce rimandare? A proposito, domani sera verrà a cena il pastore, si chiama Fortescue, un uomo notevole e interessante, perciò, se non desidera parlarne, dovremo aspettare dopodomani... la sera è l'unico momento adatto a parlare seriamente di certe cose.» «Mi piacerebbe cominciare subito», ribattei. «Ma mi spieghi, che cosa intende dicendo che potrei esserle di aiuto?» «Perché, vivendo solo come faccio e con poche persone con cui parlare, si finisce per chiudersi in se stessi. Di solito ho un ospite o due perché la continua solitudine non è una bella cosa. Ma non si tratta di persone con cui posso davvero parlare; e proprio ora sono in possesso di materiale nuovo... raccolgo sempre del materiale... e non mi sembra che vada d'accordo con le mie idee. Ma il punto è questo... in cosa crede e fino a che punto ci crede?» «Oh», risposi, «la mia posizione è semplice. È solo una questione di evidenza. Qualsiasi materiale dovrebbe essere minuziosamente esaminato... non si deve né accettare né confutare sommariamente l'evidenza... e poi si può cominciare a trarre le conclusioni.» «Sì», fece Bendyshe, «sono perlopiù d'accordo. Ma è terribilmente difficile seguire le tracce di queste storie psichiche fino alla loro fonte. Ho tentato di chiarirne molte e questo mi procura una deplorevole opinione del valore dell'evidenza umana. Ma», continuò, «prima di cominciare, devo dirle nel modo più breve possibile come sono arrivato a interessarmi di queste cose. Non mi piace parlarne... è come riaprire una vecchia ferita... ma sono costretto a farlo. Venticinque anni fa ero fidanzato con una ragazza, la figlia di un pastore; forse avrà visto in camera mia il suo ritratto. Mi deve credere se le dico che era una creatura meravigliosa e che mi ha dato non solo un nuovo modo di vedere la vita ma qualcosa per cui vivere. «Avevamo stabilito tutto. Dovevamo andare a vivere a Londra e stavo seriamente pensando di candidarmi per il Parlamento quando, un mese prima del nostro matrimonio, lei prese la difterite e morì nel giro di una settimana. Non le so dire che catastrofe fu per me. Mi era sembrato d'aver aspettato da sempre il suo amore, l'unica cosa che mi avesse dato una ragione per vivere. Vede, io ero figlio unico, sicuramente viziato dai miei genitori, con molto denaro a disposizione e nessun motivo per darmi da fare. «Arrivai sull'orlo della follia. Una settimana prima, lei era con me, ri-
spondendo a tutte le domande che mi ponevo sulla vita, dandomi da bere l'acqua stessa della vita. E poi se n'era andata senza una parola. L'ultima volta che la vidi non mi riconobbe neppure. Era in coma, incosciente. E non era rimasto nulla, neppure uno sguardo o un segno o il più piccolo messaggio per me che aveva tanto amato o per un qualsiasi altro essere umano... ed erano molti quelli che l'amavano. Era incredibile ma era così. I suoi genitori erano gente meravigliosa. Avevano una fede religiosa profonda che fu loro di grande aiuto.» Bendyshe si fermò, si aggrappò ai braccioli della sedia e si abbandonò per un momento alla disperazione. «Mi ritorna di nuovo tutto in mente», disse. «Non mi guardi... starò bene tra un minuto.» Poco dopo, infatti, continuò sottovoce: «So a malapena cosa feci. Viaggiai, feci delle esplorazioni, cercai la morte che, tuttavia, non mi arrivò mai vicino. Ma non ebbi mai il minimo senso del contatto con lei o anche di un pensiero che venisse dall'aldilà. «Allora tornai e cercai di tenermi occupato in mille modi... in quelli che vengono definiti servizi sociali. Ma sono un individualista incallito e non mi interessano gli uomini come tali e piantai lì tutto più di una volta. «Poi cominciai questo lavoro e mi parve che fosse l'unica cosa che valesse la pena di fare... scoprire, se potevo, se c'era qualche possibile contatto con gli spiriti dei morti, ammesso che esistessero. Ebbi ogni genere di esperienza sgradevole ma non riuscii a scoprire niente di definito. «E non fui mai in grado di superare la soglia, sebbene giunsi a credere che, in certe condizioni oscure, le menti potessero comunicare direttamente le une con le altre, lontane dagli agenti materiali. E allora il caso mi parve peggiore che mai perché tutto sembrava dipendere dall'esistenza materiale come condizione necessaria.» Seguì un momento di pausa alla fine del quale riprese a parlare piuttosto faticosamente. «E ciò che rende le cose ancora peggiori è questo. Esistono molte storie di spiriti che sembrano contenere qualche elemento di verità. Ma la maggior parte sono collegate con avvenimenti orribili e tragici... crimini, assassini, prigionie solitarie, come se, supponendo per un momento che le cose siano vere, fosse una punizione di un qualche genere dover ritornare sulla terra e rivivere scene di disperazione e di malvagità. E anche le vittime infelici di tali oltraggi sembrano condannate allo stesso destino; come se l'unica forza motrice in grado di riportare indietro fosse la paura e l'orrore indelebile, la ricostruzione di incidenti che si darebbe qualsiasi cosa per di-
menticare ma non si può. «Sarebbe diverso se esistessero storie di spiriti che tornano sulla terra per rivivere scene di felicità e di amore, esperienze gioiose di gioventù e di amicizia e di ingenua aspirazione quando il cuore era pieno di speranza e di gioia; ma nessuno spirito sembra mai pensare a ciò. Che siano ingrati? Che abbiamo dimenticato?» «Le persone religiose direbbero probabilmente che la felicità dell'aldilà è talmente grande che uno spirito benedetto si guarderebbe bene dal tornare in quei cieli semiilluminati e al ricordo di gioie sempre adombrate da qualche paura di perdita e di separazione», dissi. «Ma questo significa estremo egoismo e indifferenza», ribatté Bendyshe. «Noi lo disprezzeremmo in un essere vivente. E anche se fosse così, non hanno desiderio di confortare i cuori che soffrono per i ricordi della felicità perduta? No, se gli spiriti dei beati sono alterati e intossicati di gioia al punto che in loro c'è ancora spazio per ricordi o tenerezza, la faccenda è ancora più spaventosa.» Rimanemmo per un po' seduti, in silenzio. «Credo che sia ora di andare a letto», osservò infine. «Non devo continuare a parlare con me stesso.» Mi accompagnò fino alla mia stanza e disse ancora qualcosa di gentile sulla mia visita, aggiungendo: «La colazione è alle nove... la prego, chieda quello che vuole. Spero che dorma bene; e troverà qualche buon libro, se lo desidera.» Mi coricai subito e mi addormentai in uno stato di piacevole anticipazione. Stavo per lanciarmi in un'esperienza nuova, ne ero sicuro, e le teorie di Bendyshe mi interessavano; e quasi immediatamente, così almeno mi parve, mi svegliai da un sonno privo di sogni. Il vecchio Bartlett, il maggiordomo, entrò in camera, tossicchiando in modo deferente, e mi chiese se volessi una tazza di tè e un bagno caldo e se desiderassi qualcos'altro. 3 Quel mattino, a colazione, trovai Bendyshe di buon umore. Mi parlò del villaggio, della gente e della campagna. Feci qualche domanda su uno dei ritratti, un vecchio dall'aspetto austero, gli occhi sporgenti e i capelli irti. «Che diamine!, lo chiamo io», rispose Bendyshe, sorridendo. «Ma lasceremo tutto ciò al vicario che verrà questa sera a cena... lui sa più cose di me sulla casa e la famiglia. È qui da trent'anni... anzi, sua moglie, che ora è morta, era in qualche modo imparentata con i Faulkner.»
Terminata la colazione, andai un po' a scrivere ma combinai ben poco perché la mia mente tornava con strana insistenza a ciò che Bendyshe mi aveva raccontato la sera prima. Non mi sembrava un uomo che avesse subito un grosso shock o che fosse passato attraverso tragiche esperienze; la sua passione per la materia psichica mi sembrava ancora un po' bizzarra e incompatibile con il fatto che lui viveva un'esistenza piena e attiva e si occupava dei problemi locali. Verso mezzogiorno, mi raggiunse, mi portò fuori e facemmo una passeggiata nel villaggio. Aveva una parola per tutte le persone che incontravamo; i bambini e le bambine li chiamava per nome e si toglieva il cappello per ogni donna. Ci imbattemmo in un vecchio che camminava appoggiandosi a due bastoni. «Salve, signor Barry», lo salutò. «Sono lieto di rivederla. Si sente meglio? Mi sembra di nuovo in forma.» «Grazie, signore... sì, sto meglio, signor Bendyshe, ma a volte mi gira terribilmente la testa.» «Oh, quello con un po' d'aria passerà presto», disse Bendyshe. «Senta, posso venirla a trovare, questa sera, per fare due chiacchiere, signor Barry? È lei che mi dà sempre le notizie del posto. Hartley, le presento il signor Barry; io lo considero il padre del villaggio. In gennaio compirà centouno anni... non è vero?» Il signor Barry ridacchiò e si rivolse a me. «Non creda al signor Bendyshe, signore. Gli piace scherzare. Ne ho soltanto ottantotto, compiuti lo scorso febbraio.» Bendyshe continuò sullo stesso tono e la sua cordialità non apparve mai forzata. Era piuttosto il modo di fare naturale ed esuberante di un vicino gentile; e, incontrando una vecchia vestita di nero, gli rivolse parole semplici ma piene di tenerezza. Con i bambini, poi, era assolutamente delizioso e parlava con loro usando frasi misteriose e allusioni. Glielo feci notare e lui mi disse: «Oh, sì. Ai bambini piace avere un segreto con una persona adulta, un segreto che nessun altro conosce. Sono certo che accade a tutti noi.» E con un sorriso, aggiunse: «Un segreto è una cosa quasi esplosiva.» Andammo in chiesa, una bella costruzione antica che era stata chiaramente restaurata con cura; un'ala era piena di monumenti della famiglia Faulkner, a partire da un cavaliere in armatura sistemato in una nicchia con il baldacchino per finire con una ninfa piangente di Chantrey. «È un peccato gettar via un'eredità del genere», disse, guardando le tombe antiche; «ma tutta la storia della famiglia è un costante
processo di caduta verso il basso. Uno di questi giorni le mostrerò i resti della loro antica casa, a mezzo miglio da qui. Il vicario pensa che siano rovine sacrileghe ma è un modo di vedere troppo rigido per me.» Col passare delle ore mi stupii sempre di più scoprendo che il gentile e solitario commensale lì si trasformava in un nobiluomo di campagna affaccendato e socievole. Non riuscivo a mettere insieme i pezzi del puzzle e tuttavia mi sembrava sempre meno un uomo che, nascosta nella mente, recasse un'aspirazione tanto strana e tormentosa. Il pomeriggio si rivelò molto caldo; facemmo un giro per la casa, ammirando i ritratti. Non erano particolarmente belli ma c'era una forte somiglianza tra loro; e il quadro dell'ultimo esponente dei Faulkner, un ragazzo di sedici anni, era pieno di grazia. Il giovane era rappresentato in piedi, in tenuta da fantino, accanto a un pony, snello, con gli occhi azzurri e i capelli biondi, un'espressione gentile, quasi ansiosa sul viso. Accanto al suo, c'era il ritratto di sua madre... una donna di fascino e rara bellezza... e, dall'altra parte, quello privo di originalità di suo padre, un robusto nobiluomo di campagna. «È tutto un enigma», disse Bendyshe, guardando pensierosamente i ritratti. «Fino a quel periodo, vede, erano state delle persone molto normali, moderatamente ricche ma non di grande successo e assolutamente non avventurose. Non risulta che tra loro ci sia stato un uomo di una certa importanza, neppure un soldato o un vescovo. Uno era un membro del Parlamento ma fu deposto per corruzione. E poi, quando nella famiglia entrò una vena di bellezza e un tocco di avventura, nello stesso momento entrò anche il diavolo. È come se ci fosse qualcosa nell'antica idea della Nemesi, come se la strada per essere felici fosse quella di non attirare l'attenzione dei poteri sovrumani. Quella graziosa donna era un'ereditiera e il ragazzo era nato ricco; ed era sicuramente affascinante e anche intelligente, credo... il vicario ci parlerà di lui questa sera.» Rimasi in qualche modo sorpreso dall'interesse che Bendyshe sembrava avere per l'antica famiglia. Di regola, l'ultima cosa di cui si interessa un nuovo proprietario è della storia della famiglia che ha soppiantato. Ma avevo l'impressione che Bendyshe volesse mettermi in contatto con le personalità dei suoi predecessori, come se desiderasse trarre una conclusione o risolvere un problema. Quando più tardi, nel pomeriggio, mi portò a vedere i relitti dell'antica casa dei Faulkner, una torretta ottagonale e un frontone a sbalzi, con una fila di camini di mattoni e una grande colombaia, il tutto faceva parte di una fattoria piuttosto cadente, fui ancora più sicuro di
ciò e glielo dissi. Bendyshe fece una breve risata, in parte compiaciuto e in parte sconcertato, e disse: «Sì, non crede che potrebbe essere lo spunto di un articolo pittoresco?» E, con un sorriso, continuò: «Vede, se l'allontano dal suo lavoro, in cambio devo darle del materiale. Ma non voglio annoiarla. Temo di avere la fastidiosa abitudine di fare congetture sui miei predecessori.» «Oh, non sono annoiato, anzi, tutto il contrario. Ho piuttosto la sensazione che lei abbia qualche idea in mente che desidera che percepisca anch'io e che me la stia, diciamo, inculcando!» Bendyshe mi guardò con occhi taglienti ma io capii che non era dispiaciuto. Dopo il tè, lessi e scrissi un po' in biblioteca. Mi sentivo assonnato dopo una giornata trascorsa all'aperto e mi addormentai sulla sedia, ma mi risvegliai di colpo e con la netta impressione che qualcuno fosse entrato silenziosamente nella stanza e, sempre silenziosamente, se ne fosse andato. E avvertivo anche qualcosa di freddo nell'aria e un debole odore di terra come quello che si associa a luoghi costruiti con pietre, sotterranei e senz'aria. Ma fu questione di poco; l'aria che profumava di fiori arrivava dal giardino e la campana della chiesa suonava per i Vespri. Mi alzai e scesi nell'ingresso dove trovai Bendyshe che stava uscendo con il cappello in testa. «È entrato lei in camera mia mentre dormivo?» domandai. Bendyshe mi lanciò un'occhiata veloce e rispose: «Be', pensavo che stesse facendo un sonnellino...», e aggiunse: «Il fatto è che sto andando in chiesa... il vicario fa dei bei servizi e non ha molti fedeli; del resto, mi fa sentire bene, come la signora Carlyle ha detto del bicchiere di porto. Vuole venire?» «Non rientra nelle mie abitudini», spiegai, «ma verrò con piacere... fa tutto parte dell'atmosfera. E poi, così entrerò nelle grazie del vicario.» Ci sedemmo nel coro. C'erano soltanto altre due persone presenti, entrambe donne. Il vicario, un uomo robusto dal viso sanguigno, con una bella testa di serici capelli bianchi, lesse la preghiera della sera con grande rapidità ma con estremo rispetto; e mi fece piacere notare che non si voltò mai a guardare nella nostra direzione. Rimasi impressionato dai passi che lesse; il secondo era un capitolo tratto dal Vangelo. «Quando lo spirito del male è uscito da un uomo, cammina per luoghi aridi, cercando riposo e non ne trova...» Il vicario aveva abbassato il tono della voce e letto come se si trattasse di qualcosa di troppo terribile da dire ma che lui leggeva solo per un senso di dovere. Poco prima della fine del passo, chiuse il libro e tacque per un momento; poi, quasi fosse un suo commento personale,
guardandoci, aggiunse: «Perciò l'ultimo stato di quell'uomo è peggiore del primo.» Dopo di che cominciò il Nunc Dimittis con aria di inconfondibile sollievo. Quando scesi, prima di cena, il vicario e Bendyshe sedevano nella hall, parlando sottovoce. Il vicario si alzò di scatto e mi strinse la mano con grande cordialità. Il suo viso era pieno di animazione e di benevolenza. Bendyshe mi aveva parlato di lui come di un uomo molto mistico ma non avevo mai visto una persona meno mistica. Era vivo come più non si poteva. Trascorremmo una serata divertente. Il vicario rese la cena piacevolissima e, su richiesta di Bendyshe, raccontò qualche aneddoto interessante sugli abitanti del villaggio. Io mi dilungai in pettegolezzi letterari e il vicario ascoltò con avidità infantile e buon umore le storie di certi noti scrittori del giorno d'oggi. «Eccellente, eccellente!» continuava a dire. «Non sono mai riuscito a leggere fino in fondo i suoi libri... piuttosto preziosi, suppongo... ma tenterò di nuovo; non sapevo che il vecchio avesse tanto sangue nelle vene!» 4 Dopo cena ci sedemmo nella sala da fumo e non appena fummo soli, Bendyshe disse al vicario: «Ora voglio che lei racconti a Hartley qualcosa su Hugh Faulkner.» E, rivolto a me, aggiunse: «È l'uomo di cui le ho mostrato il ritratto di quando era un ragazzo... e che cosa accadde quando venne qui. L'ho sempre considerata una storia straordinaria. Hartley non ne trarrà vantaggio, sa... è un tipo molto discreto!» «Bene», fece il vicario, «allora gliela racconterò. Più di trent'anni fa, Hugh Faulkner, un lontano cugino della mia defunta moglie, mi offrì attraverso il suo avvocato di venire a vivere qui. Quando arrivai, mi guardai attorno ma il signor Faulkner era ammalato e non potei vederlo. Allora avevo trent'anni e lavoravo in una tranquilla parrocchia di campagna; e questo mi offriva esattamente ciò che desideravo: più lavoro e l'occasione di stabilirmi in un posto... e anche una splendida chiesa... e non dirò che uno stipendio maggiore non mi allettasse. «Be', ci stabilimmo qui e poi, poco alla volta, mi accorsi che le cose in questa casa andavano davvero male. Hugh Faulkner aveva una quarantina d'anni. Suo padre e sua madre erano entrambi morti. Lui aveva fatto parte delle Guardie e aveva commesso una serie di azioni selvagge e quando infine aveva fatto qualcosa di così oltraggioso da essere espulso, era venuto
qui. Un uomo meno coraggioso... lui era pieno di coraggio... sarebbe andato per un po' all'estero e avrebbe atteso che le acque si calmassero. Ma lui non era di quel genere. Era venuto qui, con grande sfacciataggine. Ma tutti erano a conoscenza dello scandalo. La gente lo evitava e non si faceva trovare quando lui andava a fare delle visite. Era tagliato fuori ovunque. Qualche persona del villaggio lo trattava civilmente ma lui non riusciva a trovare servitù e nessuno accettava i suoi inviti. Ho visto certi voltargli le spalle per la strada per non salutarlo. Lui continuò a sopportare questa situazione per settimane e per mesi; e le dico sinceramente, signor Hartley, che provavo una gran pena per quell'uomo, sebbene non riuscisse a piacere a nessuno né a ispirare fiducia: ciononostante non potevo fare a meno di ammirarlo. Lui, di solito, faceva finta di niente ma in un paio di occasioni perse il controllo. Lo vidi con i miei occhi fermarsi in strada e rivolgersi con gentilezza a un fattore... un certo Pratt... che non gli badò affatto: Faulkner gli corse dietro e gli urlò qualcosa nell'orecchio... neppure Pratt era una persona esemplare... e l'uomo diventò bianco e cominciò a tremare. «Un giorno venne in canonica. Io e mia moglie lo vedevamo ogni tanto; andavamo a cena da lui ma era una cosa intollerabile. Era solito raccontarci storie spiacevoli, niente su cui ci fosse qualcosa da ridire apertamente ma si capiva ciò che intendeva; e aveva come servo un vecchio soldato, un tipo brutale che non faceva che ridacchiare. Come ho detto, un giorno venne in canonica a prendere il tè e mi sembrò stanchissimo. Mentre eravamo insieme, arrivarono un vicino pastore e sua moglie. Feci il nome di Faulkner e quelli si scusarono in fretta e furia, dicendo che non potevano fermarsi per il tè, che erano soltanto venuti a fare una visitina. Non rivolsero parola a Faulkner che rimase immobile, con la tazza in mano, ma con l'aria di chi freme dentro. Poi si avvicinò al pastore che stava uscendo dalla stanza e gli disse, sottovoce: "Dunque è questo che fa per i peccatori, signor Hale? Che tono usa con gli osti?" E ciò che rese peggiore la situazione fu che il vecchio Hale aveva la reputazione di essere un bravo conoscitore di vini. «Quindi ci salutò e se ne andò. Andai da lui, in seguito, e feci del mio meglio per parlargli. Noi pastori vediamo tante cose brutte, signor Hartley, ma non trascorsi mai ora peggiore di quella. L'uomo era posseduto dai demoni, non da uno soltanto. Non era né violento né osceno, era semplicemente disperato. E mi raccontò, seduto proprio in questa stanza, qualcuna delle sue bravate. Non ho mai udito niente del genere. Naturalmente, è tutto sub sigillo, come ben sa. Disse, lo ricordo ancora, che aveva accurata-
mente considerato se non poteva evitare di comportarsi così e che aveva deciso che non poteva farci niente e che avrebbe agito di nuovo allo stesso modo in circostanze simili. "Lo vede, non mi sono pentito", confessò. «Poi continuò a raccontare che, una volta lasciato l'esercito, si era tenuto alla larga dai guai ma che più tentava di soffocare i desideri, più quelli si facevano sentire. Lo disse usando una citazione di Martin Chuzzlewit, mi sembra... era un grande lettore... e subito dopo mi chiese di dirgli chiaramente se pensavo che avesse la possibilità di rimettere le cose a posto... "Sono un uomo di buon carattere", disse, con una specie di pathos. "Non mi aspetto di piacere ma voglio avere rapporti decenti con i vicini." Gli risposi che ci voleva tempo e che dipendeva da come lui si comportava... ma che se si rivolgeva alla gente come aveva fatto con Hale, al vicariato, non poteva aspettarsi che la situazione migliorasse. "Ma quell'uomo è stato maledettamente insolente!", protestò lui, "e questa è una cosa che non accetto da nessuno." «Be', continuammo a parlare e a un certo punto tentai di fare un passo avanti... sa, rientra nei miei compiti... e volli vedere se l'uomo provava una qualche specie di rimorso per qualcuna delle cose che aveva fatto. Si era un po' calmato ma mi disse senza tanti complimenti di ricordare che non ero alla scuola domenicale di religione. Persi la pazienza ma capii che non sarebbe servito a niente. Allora gli spiegai che ero lì per aiutarlo, se potevo, ma che non potevo fare niente se non sapevo quello che provava. "È come andare da un medico", gli feci osservare, "e poi non volergli esprimere i sintomi." «Poi, signor Hartley, ebbi per la prima e ultima volta nella mia vita l'occasione di guardare nell'animo di un uomo veramente cattivo. Mi disse che aveva dei rimpianti, in un certo qual modo, perché non gli piacevano le conseguenze. Ma che se non ci fossero state le conseguenze, non avrebbe avuto alcun rimpianto. Ricordo una sua frase: "Diamine, non credo in questo o in quello più di quanto lei non creda nella befana!" Continuò a raccontarmi che quando veniva preso da certe tentazioni, non aveva scelta... "Non credo di essere del tutto responsabile", ammise, "non c'è niente nella mia mente che desideri resistere." E quanto al fatto di aver bisogno di essere perdonato dalle persone che aveva oltraggiato o da Dio Onnipotente, la sola idea sembrava farlo ridere; e le dico soltanto questo, che per la prima e unica volta in vita mia ho avuto dei dubbi sul potere di Dio. Poi me ne andai. Posso aggiungere che per un mese o due stetti davvero male. Non riuscivo a dormire; non potevo scacciare dalla mente il viso di quell'uomo.
«E in seguito giunse una complicazione peggiore. Pratt, il fattore al quale Faulkner si era rivolto in strada, ebbe un incidente e fu sbalzato dal suo calesse; e Hale ebbe un colpo e rimase ammalato a lungo. E questo, credo, rese la situazione senza speranza. Sa che genere di cose dice la gente, e sotto una certa parvenza di civiltà giace ancora una grossa parte di antica e orribile superstizione. «Dopo di che, Faulkner si chiuse in se stesso. Usciva a cavallo o a piedi il mattino presto, d'estate, prima che la gente uscisse di casa. In inverno non lasciava quasi mai la casa e non ho idea di cosa accadesse qui... non mi piace pensarci. Leggeva moltissimo, si occupava del giardino. Venivo a trovarlo di tanto in tanto ma lui non mi parlava più liberamente. Gli facevo qualche domanda e a volte mi raccontava aneddoti della sua gioventù, cose che gli aveva detto sua madre... aveva uno strano affetto per lei... scherzi che aveva fatto a suo padre; mi sembrava un uomo in un sogno. Prese anche a fare speculazioni in borsa e perse molto denaro. L'unica persona che gli rimase fedele fu il vecchio soldato-servo. Vivevano in tre o quattro stanze, mangiavano, fumavano e bevevano insieme e la casa cadde in uno stato pietoso. Ma non accadeva nulla: lui non moriva, non era mai ammalato, continuava semplicemente a vivere. Un paio di volte dei vecchi amici vennero a trovarlo e ne ricordo uno... un colonnello in pensione, credo... che incontrai mentre usciva in fretta e furia di casa, apparentemente molto turbato. Mi si avvicinò e mi parlò, disse che era stato a trovare il suo vecchio amico Faulkner... erano stati insieme subalterni... e che era rimasto profondamente scioccato, "sebbene non sia molto impressionabile", aggiunse. Poi mi chiese all'improvviso: "Mi dica, è pazzo?" "Niente affatto", risposi. "Allora, buon Dio", fece il colonnello, "perché quell'uomo non si spara?" E andò dritto alla stazione. «Le cose continuarono allo stesso modo per più di dieci anni... pensi un po' cosa significa... il giardino era invaso dai cespugli e dai rovi, fatta eccezione per un sentiero che portava all'orto dove crescevano le verdure; sul davanti della casa, le erbacce arrivavano all'altezza delle finestre più basse e la maggior parte di quelle al piano di sopra erano rotte. Ma questo mostra che strana cosa sia la natura umana, signor Hartley, perché credo che la gente qui fosse contenta di questo stato di cose, anche se una volta ci fu una spiacevole dimostrazione. Il vecchio soldato-servo era solito farsi vedere in giro. E, strano a dirsi, quell'uomo arrivò a piacermi. Credo che sia stato una persona crudele ma la sua fedeltà al povero Hugh... era eroica. Avrebbe fatto chissà cosa per lui e lo adorava nel vero senso della parola.
Mi chiedevo spesso che cosa sarebbe accaduto a Hugh se il servo fosse morto. «Io continuavo a venire a trovare Hugh e credo che fosse contento di vedermi anche se, quando era di cattivo umore, aveva l'abitudine di chiedermi ogni genere di domande, ingenue e sorprendenti, sulla religione, alle quali non potevo rispondere; ma penso che non fosse neppure coscientemente infelice. I due vivevano secondo una routine e Hugh parlava misteriosamente dei suoi esperimenti... non capivo mai che cosa intendesse ma temo che non si trattasse di niente di buono. E poi nacquero delle storie... una volta corse voce che il giardino fosse invaso da grossi uccelli neri; un'altra si disse che fossero creature che grugnivano e sbuffavano tra i cespugli e che di notte emettevano grida acute. Fu anche detto che ci fossero strani cumuli in giardino, come di terra tolta da delle buche, a volte le finestre erano illuminate e si udiva della musica; e si parlò di un uomo che era stato visto arrampicarsi sul muro, come una mosca. Io non ho mai visto niente di tutto questo, dico soltanto che la casa a volte mi sembrava invasa di odori... odori cattivi e soffocanti, come non ce ne sono sulla terra; e di ombre, anche, ombre nere che passavano, simili a nebbia o fumo. Ma oso affermare che tutte queste cose avessero una qualche spiegazione. «È però ora che concluda il mio racconto e devo aggiungere che sebbene non avessi mai cessato di tentare di cogliere qualcosa nella mente e nel cuore di Hugh, sebbene avessi recitato molte preghiere per lui, fu tutto un fallimento; mi accorsi, tuttavia, di un certo cambiamento d'atmosfera nella casa e in Hugh stesso. Avevo sempre avuto la sensazione che da qualche parte, invisibile, avesse luogo una qualche lotta, o di essere osservato da qualcosa che avrebbe voluto manifestarsi se avesse osato. Hugh stesso era meno violento e più tranquillo, come se fosse esausto. «Una sera, verso la fine di aprile (io ero solo, allora, perché mia moglie era morta un anno prima; e devo dire che durante una delle nostre ultime conversazioni, lei mi aveva detto: "Non abbandonare Hugh... credo che stia per accadergli qualcosa", ma non aveva saputo spiegarmi cosa), era tardi e stavo ancora lavorando quando sentii bussare alla porta, con insistenza; e scoprii che era il servo di Hugh. Voleva che andassi subito da Hugh. "Ha chiesto di me?", domandai. "No, signore, ma ho paura per lui. Non mangia, non dorme... sta seduto a osservare qualcosa." L'uomo continuava a inumidirsi le labbra mentre parlava e poi sbottò: "Venga a vedere se può aiutarlo." «Andai subito e quando entrammo in casa capii che c'era qualcosa che
non andava. Regnava un silenzio che mi spaventò... non ero mai stato in un silenzio simile; e sebbene fosse una notte calda, la casa era mortalmente fredda. Ma, peggio ancora, sembrava esserci qualcosa che ci impediva di entrare. Salii faticosamente le scale ma il vecchio servo rinunciò, si sedette sul primo gradino e mi guardò. C'era un'unica candela nell'ingresso che lanciava ombre sinistre. «Raggiunsi la stanza di Hugh... la stanza in cima alle scale. Lo trovai disteso sul letto, completamente vestito, gli occhi chiusi, che faceva movimenti con le mani come se cercasse di allontanare qualcosa. Aveva la fronte orribilmente aggrottata e il viso sembrava gonfio e congestionato. Mi avvicinai e gli presi una mano e lui emise una specie di gemito... il lamento di una lepre che qualcuno vuole tenere ferma. "Non abbia paura", dissi, "sono solo io. John, sa!" A quelle parole, lui si sedette e aprì gli occhi. "Il sogno", spiegò, "il sogno... mi opprime!" Poi, con un filo di voce, continuò: "Sicuro che basti! È tutto vuoto e buio... mi sottrae la vita!" E, guardandomi: "Dove sono stato?" Capii. Non è soltanto un nome, signor Hartley, è una cosa reale... la più reale delle cose ma unica al mondo. Poi aggiunse: "Quindici anni di inferno, John... potrebbe mai esserci qualcosa che meriti tanto?" Allora non capii che cosa dicesse, perché il freddo che avevo sentito sulle scale stava aumentando, più che mai. Ma dissi... le parole mi uscirono chissà come: "Forse ha scontato la sua punizione, Hugh; ora è finita." Lui scosse la testa e giacque di nuovo; mi inginocchiai, recitai le ultime preghiere e, a metà, lui fu scosso dalla testa ai piedi da un brivido e compresi che era morto. «Sì, so che cosa le piacerebbe chiedermi, signor Hartley, e la mia risposta è che non lo so. Se n'era andato ma qualcos'altro se n'era andato con lui. Il servo arrivò di corsa e guardò dentro la stanza. Io gli feci un cenno. Entrò e si inginocchiò accanto a me e io finii le preghiere; poi mi prese la mano e la strinse; e prese anche Hugh tra le braccia e gli accarezzò il viso. Li lasciai soli e quando uscii mi sentii più saggio. «Venne l'avvocato di famiglia e insieme cercammo dei documenti. Hugh aveva conservato delle carte in una valigetta che teneva sempre vicino; ma quelle che cercavamo non c'erano e non si riusciva a trovarle. Non c'era niente che facesse luce sulla faccenda, tranne il fatto che il servo disse che lui ultimamente era apparso strano e apatico e che aveva perso l'appetito; e io dirò soltanto che ci fu un'inchiesta. Feci il mio racconto non senza qualche riserva e loro la definirono una morte naturale. Non esitai a seppellirlo nel cimitero della chiesa ed è lì che giace; ma al funerale non partecipò
nessuno. E il vescovo mi mandò a chiamare perché gli rendessi conto, date le circostanze; ma quando ebbi finito di riferire ciò che pensavo che si potesse dire, lui mi confessò con franchezza che era stata sua intenzione suggerirmi di andarmene ma che ora aveva cambiato idea e che non dovevo lasciare il mio posto. Non ho mai visto un uomo tanto imbarazzato. E la domenica successiva, preparai con impegno il mio sermone sulla frase "non giudicare se non vuoi essere giudicato". E, strano a dirsi, non ho mai avuto problemi a parlarne da allora.», Il vicario fece una lunga pausa e scosse la testa. Capii che aveva qualcos'altro in mente che aveva deciso di tacere. Confesso che questa strana e tragica storia ebbe uno straordinario effetto su di me. Tanto per cominciare, era tutto così oscuro e misterioso, così pieno di insinuazioni inspiegate e suggestioni del demonio che produsse in me un vago terrore, al punto da farmi desiderare di non averla mai ascoltata. La stessa cosa non si poteva dire di Bendyshe che, comodamente seduto, con le mani intrecciate, guardava il vicario con occhi scintillanti, come un uomo in procinto di fare una grande scoperta. Poi il vicario si rivolse a me e disse: «Ecco, signor Hartley, le ho raccontato la storia, su richiesta del signor Bendyshe. Forse penserà che è il genere di racconto che sarebbe meglio non fare e che è meglio dimenticare, seppellire nell'oblio una simile coincidenza di incidenti scioccanti. Ma ho due motivi per averlo fatto. Prima di tutto, la storia, a grandi linee, solo molto esagerata, è conosciuta e ripetuta da molte persone di questo villaggio e volevo che avesse una versione più accurata di ciò che accadde... tutto è preferibile alla segretezza per certe cose; e il signor Bendyshe dice di avere una ragione speciale che spiega il fatto di avermi chiesto di farle questo racconto, una ragione che lei sicuramente conosce e che io approvo. Credo che si dovrebbe fare una seria inchiesta. «E c'è anche un altro motivo. Esistono angoli molto oscuri in questo nostro mondo e fatti delle nostre vite che sembrano incompatibili con qualsiasi fede in un Creatore benevolo e onnipotente; e penso che non sia giusto ignorarli. La mia opinione personale... lo dico con franchezza... è che Dio sta facendo lentamente e pazientemente la conquista di un mondo nel quale esiste... non ho idea come... un forte elemento di qualcosa di atroce e di orribile che Lo sfida e coglie ogni occasione per distruggere il Suo operato. E, secondo me, l'orrore di questa storia è che sembra un deliberato tentativo di mettere a fuoco questo potere demoniaco, un tentativo che è fallito perché questa influenza maligna, così io la interpreto, è essenzial-
mente ciò che si definisce stupida. Non ha principi; lavora con laboriosa persistenza sui particolari, là dove si trova essenzialmente la debolezza; ma non dev'essere ignorata; deve essere affrontata da chiunque vi si imbatta con coraggio e intelligenza. Non credo che Hugh Faulkner abbia fatto qualche serio danno qui e, certamente, non ci è riuscito in nome del demonio. Può aver tirato qualche colpo a qualcuno e credo che l'abbia fatto... ma è tutto qui. E ora devo chiedervi di scusarmi se vi auguro la buonanotte. Posso avere il piacere di vederla al vicariato, signor Hartley? Forse ha qualche domanda da pormi su ciò che le ho raccontato ma non ho altro da aggiungere e non sono nella posizione di poterle dare una risposta.» Il vicario se ne andò, lasciandomi con un'impressione di grande semplicità e gentilezza. Lui e Bendyshe raggiunsero la porta insieme e rimasero a parlare per qualche minuto, sottovoce. Quando Bendyshe tornò, mi disse con uno sguardo curioso negli occhi: «Allora, che cosa ne pensa?» «Non saprei», risposi, «per il momento sono soltanto stupefatto. Uno cerca di vivere come meglio può e pensa che il mondo sia nell'insieme un luogo soddisfacente e bello e poi ascolta una storia del genere e si chiede se ha davvero un'idea di quello che accade oppure di ciò che può nascondersi nella mente degli uomini e delle donne. Vorrei non avere mai ascoltato quel racconto.» «Oh, via», fece Bendyshe, «non dica così... a me sembra che abbia tutti gli elementi di una grande avventura. Non so cosa darei per ottenere qualche altra informazione ma qui si ricevono soltanto stupidi pettegolezzi. Posso dirle che ho tentato di cercare il servo di Faulkner ma non si hanno tracce di lui.» «Mi aspetto che ormai sia morto.» «No», ribatté Bendyshe, «non è morto. Mi sento di affermarlo con certezza... ho le mie buone ragioni.» Rimanemmo ancora seduti per un po' e chiesi a Bendyshe un paio di cose. «C'è un punto nel racconto del vicario che non ho ben capito. Ha detto che Faulkner ha fatto del male a qualcuno. Che cosa voleva dire?» «Be', si riferiva prima di tutto ad Hale e al fattore Pratt ma ci sono anche altri casi, se le interessa conoscerli.» «No, non voglio sapere niente», dissi. «Ma un'ultima cosa. Lei e il vicario credete veramente che Faulkner avesse il potere di danneggiare fisicamente quegli uomini sfortunati senza ricorrere a un qualche agente umano conosciuto? Non si potrebbe trattare di uno shock mentale o di un deterio-
ramento fisico causato da uno spavento che...» Ma Bendyshe mi interruppe. «Lo crede?» disse. «Io lo so. Faulkner era responsabile delle loro malattie come se avesse loro sparato con una pistola.» «Ma com'è possibile?» «Ah, questo non lo so; ma è incontestabile che avesse il potere di fare cose del genere. Non lo usava spesso, lo ammetto; aveva paura di farlo, ma in questi due casi e in altri che potrei raccontarle perse ogni controllo di sé e liberò, credo, contro di loro una forte corrente del demonio; il vicario pensa la stessa cosa.» «Ma non è razionale», obiettai, «noi non crediamo nella stregoneria, nel ventesimo secolo.» «Forse sarebbe meglio se lo facessimo», disse Bendyshe, con tristezza. «Non possiamo liberarci di certi fatti chiamandoli irrazionali.» Capii che la conversazione cominciava a innervosirlo, perciò dissi: «Be', devo avere il tempo di assimilare tutte queste cose.» Un attimo dopo, comparve l'altro Bendyshe. «Sì», fece; «non dobbiamo trasformare questa sua visita in una serie di shock e di esplosioni. Non ho il diritto di farlo e, se lo desidera, lascerò perdere per un po' la mia teoria. Ma spero molto che vorrà aiutarmi ad andare a fondo della questione. Domani avremo una giornata tranquilla.» Mi accompagnò fino alla mia stanza e aggiunse: «Mi auguro che la storia non l'abbia reso nervoso. Forse questo la rassicurerà.» Mi mostrò, nascosto nel telaio, in un angolo del letto, un cerchietto che sembrava la parte finale di un piolo di legno, dipinto di bianco come il resto della stanza. «Questa è una mia fantasia. Il mio maggiordomo, Bartlett, non dorme qui, ha una casa al villaggio. E questo campanello suona nella mia stanza... ce l'hanno anche le altre camere da letto. L'ho messo quando il vecchio Ford stava qui e si sentì male di notte e non poté chiamare nessuno. Se lo preme, io arriverò nel giro di un minuto. Ho un sonno molto leggero!» «Oh, non sono nervoso. Ho un sonno pesante e poi sono un uomo razionale.» Bendyshe sorrise e disse: «Sì; è per questo che voglio che mi aiuti. Buonanotte, amico.» 5 Rimasto solo, quella sera, andai lentamente e deliberatamente a letto. Mi
sentivo stanco e sonnolento dopo la serie di impressioni varie che avevo ricevuto durante la giornata; ed ero anche conscio di una crescente eccitazione. La storia del vicario ne era responsabile più delle teorie semiscientifiche di Bendyshe. Il vicario, riflettei, era un uomo che non aveva un'ascia da brandire, e aveva un certo dovere da compiere nel mondo, il desiderio di illuminare le tenebre, di estinguere il demonio. Non gli voltava la schiena o lo ignorava e il suo era uno scopo pratico. Bendyshe, d'altra parte, era come un uomo assunto per fare delle ricerche; desiderava semplicemente arrivare ai fatti. A dire il vero, in certi momenti della giornata, avevo sospettato che fosse una specie di monomaniaco; ma era cordiale e la preghiera che mi aveva rivolto di aiutarlo mi aveva commosso. Ma aiutarlo in cosa? Non avrei saputo dirlo. Poco prima di addormentarmi, ebbi una curiosa sensazione di qualcosa di vago e di inquieto nella casa, qualcosa che mi urtava leggermente i nervi; era tutta soltanto una fantasia, ma pensai che qualcuno, privo di pace, stesse cercando qualcosa di segreto e di importante che era stato messo nel posto sbagliato o nascosto. Mi chiesi se il cervello inquisitore di Bendyshe, soppesando, considerando, discriminando, avesse una specie di telepatico effetto sul mio. La casa era assolutamente immobile; l'orologio della chiesa scandì le due con un mormorio dolce come il miele; e poi, cosa piuttosto strana, mi sentii mentalmente tranquillo. Se stava accadendo qualcosa, a me non doveva interessare; colui che si aggirava per la casa non mi voleva male... la mia presenza non aveva niente a che fare con lui. Subito dopo, mi addormentai. Mentre mi vestivo, il mattino dopo, vidi Bendyshe che camminava nella stretta striscia di giardino che c'era sotto le mie finestre, perso nei pensieri. Quando scesi, mi salutò con molte effusioni. «Dormito bene?» domandò. «Sono contento. Mi sembra in perfetta forma. Faremo una bella passeggiata, oggi... che ne direbbe di arrivare a Canterbury?» E tuttavia, chissà perché, avevo l'indefinibile impressione che Bendyshe fosse in qualche modo irritato. La passeggiata fu piacevole. Bendyshe non fece alcuna allusione alla storia della sera prima. Pensai che fosse dispiaciuto per avermi immerso, per così dire, fino al collo in quella oscura faccenda. Credo infatti che non fosse stata sua intenzione farlo ma il suo straripante interesse, in compagnia di una persona che considerava simpatica, aveva avuto la meglio su di lui. Mi sentivo particolarmente in pace e i campi, gli angoli boscosi, i giardini di luppolo, i gruppi di case attraverso i quali passammo, avevano su di
me un effetto calmante. Pranzammo sul fianco di un'altura attraversata da una strada; e fui sorpreso dalla conoscenza che Bendyshe aveva della campagna. Difficilmente c'era un campanile visibile di cui non sapesse il nome ed era pieno di aneddoti locali e personali che ci fecero trascorrere piacevolmente il tempo. Tornammo per l'ora del tè e fu allora che ebbi una specie di reazione. Nonostante la bellezza e l'ambiente accogliente della casa, m'invase una tristezza che non sapevo analizzare; stava accadendo qualcosa lì, nelle stanze fresche, nei corridoi con le pareti rivestite di pannelli di legno, che non riuscivo a penetrare. Cercai di lavorare, provai a leggere... Bendyshe era andato al villaggio a trovare un amico... e mi resi conto che non volevo essere solo. Quando suonò il gong che indicava che era ora di vestirsi per la cena, scoprii che non avevo alcuna voglia di lasciare la stanza. Dieci minuti dopo, sentii la porta d'entrata che si apriva... I passi di Bendyshe risuonarono per l'ingresso. Fu un sollievo per me; ma invece di raggiungermi in biblioteca, come mi ero aspettato, salì velocemente. Decisi che dovevo andare anch'io; ma quando arrivai in cima alle scale, udii qualcuno che percorreva il corridoio, come se fosse uscito dalla stanza di Bendyshe. Cominciava a diventar buio e non riuscii a vedere bene la figura. Era un uomo che indossava un vecchio vestito grigio, che camminava con passo strascicato, la testa china e un'aria decisamente accigliata e scoraggiata. Aveva un viso sano ma consumato dagli affanni e mi venne in mente che fosse qualche abitante del villaggio venuto a chiedere qualcosa a Bendyshe il quale gliel'aveva rifiutata senza tante cerimonie. Dissi: «Buonasera», all'uomo che mi passò accanto e poi rimasi spiacevolmente sorpreso perché lui non diede alcun segno di aver notato né me né il mio saluto, come se non mi avesse udito né visto; proseguì per il corridoio e scomparve nell'ombra, giù per le scale. Tuttavia la sua non mi sembrò una scortesia intenzionale, ebbi piuttosto la sensazione che lo sconosciuto fosse talmente preoccupato da non accorgersi di niente. Mi cambiai ed ero già nella sala da fumo quando Bendyshe fece la sua comparsa. «Ha avuto una serata piena», osservai. «Ho visto un visitatore venire da lei.» Bendyshe mi lanciò una veloce occhiata interrogativa. «Oh, sì», fece. «Vengono sempre delle persone che mi chiedono di fare di tutto.» «Ma immagino che non possa sempre accontentarli. Sono passato accanto al suo amico, nel corridoio, e non ho mai visto tanta delusione dipinta sul viso di qualcuno... non ha avuto neppure il tempo di rispondere al mio
saluto!» «Gli ha parlato?» domandò Bendyshe e aggiunse: «Povero diavolo, sì, ha problemi a non finire. Ma io non so proprio qual è quello vero. E così le è parso deluso, eh?» «Sì, molto. Ho persino pensato che lei gli avesse rifiutato un favore. Mi è sembrato così preoccupato e non si è neppure accorto di me. Mi piacerebbe conoscere la sua storia.» Bendyshe mi fissò in silenzio ed ebbi il dubbio di essere stato impertinente. «Mi scusi», dissi, «se sono stato troppo curioso.» «Buon Dio, non è quello. Il fatto è che quell'uomo non sa che cosa vuole o, perlomeno, io non so che cosa vuole... non riesco a scoprirlo ed è questa la vera difficoltà. Quando lo scoprirò, allora... be', allora saprò cosa fare.» Bendyshe era di uno stranissimo umore, quella sera... così strano che più di una volta pensai che la mezza congettura che avevo fatto la notte prima fosse vera. Sembrava che stesse lottando contro l'avvicinarsi di una gioia segreta e trionfante. Il discorso si spostò poi sull'alimentazione della mezza età e confessai di essere consapevole della necessità di una dieta. «Non credo che ci si possa curare da soli», disse lui, «molta aria, sufficiente esercizio fisico, svago, lavoro, affari di altre persone, mangiare, bere e fumare moderatamente; e più di tutto, se pensa di non poter fare qualcosa in particolare o di non volerla fare, la faccia, invece!» «È piuttosto spartano», osservai. «No», fece Bendyshe, «è semplicemente questo... tutti noi abbiamo dentro almeno tre persone o forse anche di più. C'è quella che ammira e che si diverte... e sta bene. Poi c'è quella che critica e riflette. C'è anche l'animale che ha bisogno di essere addestrato con sensibilità e buone maniere, come un cane o un cavallo, ed è un essere piuttosto paziente e servizievole. Ma dietro a tutti loro, in un angolino ben nascosto, c'è quella che ha paura e che non deve essere ascoltata neppure un momento altrimenti rovinerà tutto.» «Non ho mai pensato in questi termini», confessai. «Tuttavia, sono certo che lei ha ragione. Ma qual è quella che domina con la forza di volontà?» «Oh, tutte lo fanno», rispose Bendyshe, ridendo. «È una specie di consiglio. Il punto è che l'uomo giusto dovrebbe avere il voto decisivo.» E poi, fu di nuovo sopraffatto dalla sua tendenza alla risata e rise a crepapelle. Credo che notasse una certa irritazione sul mio viso perché smise all'improvviso. «Mi scusi», disse; «ogni tanto mi capita di scoppiare a ridere ed è una brutta abitudine. Ma oggi sono stato fortunato. Ho fatto dei progres-
si... più di quanto mi aspettassi.» Dopo cena, giocammo a picchetto e andammo a letto verso mezzanotte. Mentre mi allontanavo dalla scala, Bendyshe disse: «È qui che ha incontrato il mio povero amico? Che strada ha preso?» «È sceso per le scale», risposi; «ma l'ho perso di vista.» «Doveva scendere per le scale che danno sul retro ma immagino che se ne sia dimenticato. Oh, cos'è questo?» Si voltò di scatto. La porta che conduceva alla camera da letto vuota era aperta e la luce della luna che la illuminava mostrava il pavimento di legno e le pareti. «Chi diavolo è stato?» domandò, molto irritato. «Venga, andiamo a dare un'occhiata. Mi chiedo se è entrato qualcuno in cerca di bottino.» Entrò nella stanza ma io sentii un'insopportabile riluttanza a seguirlo. «Devo farla chiudere a chiave questa camera», osservò Bendyshe, come se parlasse da solo. «Qui è tutto nuovo.» Lo seguii, provando improvvisamente il bisogno di essere in compagnia. Chinai lo sguardo e vidi qualcosa sul pavimento. «Dev'essere entrata l'umidità», dissi, più a me stesso che a lui. Mi avvicinai e vidi che una certa quantità di intonaco era caduta dal soffitto dove si era formata un'apertura irregolare; ma ciò che, lo confesso, mi fece rabbrividire fu che il gesso sul pavimento rassomigliava stranamente alla forma di una figura prostrata. Mi resi subito conto che si trattava di una pura rassomiglianza accidentale e lo pensai anche mentre guardavo Bendyshe che con il piede cercava di riunire i detriti. Lui mi accompagnò fino in camera e mi salutò con parole amichevoli. Andai a letto e, contrariamente alle mie aspettative, sebbene quella fosse stata una sera movimentata, mi addormentai profondamente. Ma prima, decisi di non prolungare la mia permanenza. Bendyshe si comportava stranamente; poi pensai al vicario e, visto che mi aveva invitato ad andare a casa sua, mi ripromisi di farlo e di consultarmi con lui; questo mi diede un senso di sollievo. 6 La mattina seguente si rivelò caldissima. A colazione, trovai Bendyshe allegrissimo. Disse che aveva ordinato di mettere qualche sedia fuori, all'ombra dei sicomori. «In veranda non si può stare quando soffia il vento da nord», spiegò. Si era portato dei libri dalla città, libri nuovi che pensava potessero interessarmi. E quando uscii, vidi un tavolo, due sedie e un muc-
chio di volumi di tutte le forme e dimensioni. Ci sedemmo in silenzio; di tanto in tanto, lui entrava in casa e un paio di volte il maggiordomo lo chiamò perché c'erano dei visitatori. «Faccio una vita da cane», commentò Bendyshe, ridendo; «piena di scocciature.» Ero di nuovo immerso nella lettura del mio libro quando lo udii fare un'improvvisa esclamazione che tradiva un'acuta emozione e che mi indusse a sollevare la testa. Si era sporto in avanti, lo sguardo fisso alla facciata della casa. Alla finestra chiusa della camera da letto vuota, perfettamente visibile e illuminato dalla luce del sole, c'era un uomo che guardava in giardino. Da quel che potevo vedere, si trattava di un uomo anziano, con i capelli grigi, il viso paffuto, rosso e gonfio. Portava una specie di grembiule bianco, sporco, e aveva le braccia nude fino al gomito. «Chi è quello? Che cosa fa?» sbottò Bendyshe, incredibilmente agitato. La sua reazione mi parve talmente sproporzionata che dissi: «Be', visto che me lo chiede, direi che è il muratore venuto a riparare il soffitto.» «Ha ragione... ha ragione», fece Bendyshe, con un gesto di intenso sollievo. «Me n'ero dimenticato, naturalmente... ne ho parlato a Bartlett... ma non l'aspettavo oggi. Immaginavo... be', non so cosa immaginavo.» Si alzò dalla sedia e si affrettò dentro casa. A quel punto, ero veramente preoccupato per Bendyshe e cominciai a credere che fosse sull'orlo della pazzia. Decisi di andare subito al vicariato. Entrai in casa dove regnava il silenzio. Il vecchio Bartlett stava preparando il tavolo in sala da pranzo. Gli dissi: «Se il signor Bendyshe chiede di me, gli dica che sono andato al villaggio ma che tornerò tra poco.» Bartlett era un vecchio amabile. «Certo, signore», ribatté; «ma fa terribilmente caldo oggi, in strada... si metta il cappello, signore», concluse e andò ad aprirmi la porta. Arrivai al vicariato... una vecchia casa solida, dietro la chiesa... e venni condotto nello studio. Il vicario mi accolse con molto calore. «Sì, speravo di vederla, signor Hartley», disse. «Temo che pensi di essere finito in un posto davvero strano, qui, e non mi sorprende che sia venuto a trovarmi.» Mi sedetti e gli raccontai gli incidenti accaduti durante la mattinata e del giorno prima. Lui ascoltò con aria grave e, alla fine, commentò: «Ho paura di non poter far luce su ciò che è accaduto... vede, ho promesso al signor Bendyshe di non farlo. Ma l'importante è questo. Può stare assolutamente tranquillo riguardo alla sua sanità mentale. È a posto quanto lei e molto più di me. È un uomo con la testa dura, lo so. Signor Hartley, le assicuro che quell'uomo è passato attraverso esperienze che avrebbero fatto impazzire
nove persone su dieci. E ha anche una grande sensibilità emotiva, ma è pieno di coraggio e raggiunge sempre ciò che vuole. Ho molta stima e ammirazione per lui. Ma devo aggiungere questo: Bendyshe desidera che lei lo aiuti. Credo che valga la pena farlo e penso che, per quel poco che la conosco, abbia fatto la scelta giusta. Ma se lei si sente in qualche modo allarmato o è contrario alla sua richiesta, verrò con lei da Bendyshe e insisterò perché la liberi da ogni obbligo... e lui mi ascolterà.» «No», dissi, «dal momento che mi ha rassicurato sulla sua sanità mentale, non voglio rifiutare di aiutarlo. Farò tutto ciò che è in mio potere per lui... ma confesso di non avere molta fiducia in me stesso.» «Signor Hartley», fece il vicario, «ha scelto la strada giusta e la cosa mi solleva infinitamente; inoltre, i risultati potrebbero rivelarsi della massima importanza. La prego, mi consulti ogni volta che lo desidera.» Me ne stavo andando quando il vicario disse: «Le dispiacerebbe dare un messaggio a Bendyshe da parte mia? Verrò a trovarlo alle due e mezzo ma credo che debba avere subito questa notizia.» Scrisse qualche parola su un foglietto di carta, lo unì a un telegramma che giaceva aperto sul tavolo, infilò il tutto in una busta che chiuse e sulla quale scrisse il nome del destinatario e me la porse. Quando tornai, trovai il pranzo pronto e Bendyshe che camminava nell'ingresso, in uno stato di evidente eccitazione. Gli consegnai la lettera e riferii le parole del vicario. Lui strappò la busta, lesse il foglio e si lasciò sfuggire un grido di sorpresa e di soddisfazione. Pensai per un momento che mi desse lo scritto ma non lo fece e lo ripose invece nella busta. Poi sollevò gli occhi su di me, scrutandomi. «E così è andato a trovare il vicario, vero?» disse. «Posso chiederle che cosa voleva dirgli?» «Sì, certo. Questa mattina sentivo di essermi fatto coinvolgere un po' troppo in una faccenda piuttosto misteriosa e non mi sento molto sicuro di me stesso. Ricorderà certamente che sono nuovo e ho poca familiarità con questo genere di cose... anzi, tanto per parlar chiaro, conosco a malapena anche lei; e l'altra sera ho avuto l'impressione che il vicario fosse un uomo di cui potevo fidarmi, perciò sono andato a trovarlo per fargli qualche domanda.» Bendyshe posò coltello e forchetta e prese a tamburellare con le dita sul tavolo. «Be', e qual è il risultato?» chiese con serietà. «Secondo il vicario, lei ha bisogno del mio aiuto e ha insistito molto perché glielo dessi, ammesso che possa aiutarla. E io ho deciso che lo farò.»
Lui si illuminò in viso, mi porse la mano e io gliela strinsi, sentendo che stavo facendo un patto in qualche modo importante. «Be', vecchio mio», disse in un tono che esprimeva profonda commozione, «posso solo dire che sono davvero contento e grato. Si tratta di una faccenda grossa e voglio qualcuno a portata di mano di cui possa fidarmi, completamente. Vede, non ho paura, qualunque cosa possa accadere, ma voglio un uomo perfettamente sano di mente e che non abbia a sua volta paura e sento che lei è la persona giusta. Ora, non avrò segreti con lei. Mi faccia tutte le domande che vuole e io risponderò.» «No», dissi. «Non farò domande. So che lei vuole un osservatore imparziale. Vedo anch'io che succede qualcosa di molto strano in questa casa, ma non farò domande. Trarrò da solo le mie conclusioni e poi, quando riterrà meglio farlo, mi parlerà.» «D'accordo», disse Bendyshe, «è proprio quello che voglio. Mi sembra giusto. Tutto ciò che le chiedo è di tenere occhi e orecchi aperti. Potrà rimanere sorpreso, perfino scioccato, ma le posso assicurare che non c'è nulla di cui avere paura. Di nessun genere. Seguiremo la nostra strada per un po' e vedremo come si metteranno le cose. Dunque, questa lettera», proseguì, toccandosi la tasca, «è la cosa più importante che sia accaduta. Forse vedrà il vicario quando verrà e gli racconterà tutto ciò che avrà notato, le cose anche minimamente insolite; poi ci lascerà a discuterne... e di nuovo grazie.» Mentre fumavamo, arrivò il vicario e mi accorsi che sembrava turbato. Lasciai i due soli e, mezz'ora dopo, Bendyshe venne in biblioteca e disse che lui e il vicario erano costretti, a causa della notizia che avevano ricevuto, a partire, il giorno dopo. «Partiremo subito dopo colazione con la mia auto», spiegò, «e saremo di ritorno per cena, sempre che non accada qualche imprevisto. So che è scortese da parte mia», aggiunse, «e non sono sicuro che le faccia piacere rimanere solo così a lungo. Non c'è qualcosa in città che voglia fare? Oppure potrebbe trascorrere la giornata al vicariato. Temo che sia assolutamente necessario che noi partiamo.» «Oh, non si preoccupi per me», dissi. «Farò la cosa che preferisco... una lunga passeggiata... mangerò qualcosa al villaggio e tornerò prima di sera. Andrà benissimo e avrò il tempo di pensare un po'.» «È molto gentile da parte sua», commentò Bendyshe, decisamente sollevato. Il resto della giornata trascorse tranquillamente. Ci sedemmo in giardino
e l'unica cosa che mi colpì fu che uno dei giardinieri e l'autista, durante il pomeriggio, presero una scala in mezzo al prato e la portarono in casa con qualche difficoltà. Bendyshe era pensieroso ma, in certi momenti, anche allegro. Giocammo a carte, dopo cena, e ci demmo appuntamento per il mattino dopo, sul presto. Fui contento di andare a letto... la giornata era stata piuttosto agitata. Ma quando mi coricai, non riuscii a dormire. Ero preso da una specie di febbre da detective e mi scoprii a chiedermi quale potesse essere il mistero. Non credevo fermamente nel soprannaturale e, quanto al lato occulto delle cose, ero francamente scettico. Mi sembrava che il vicario e Bendyshe fossero ossessionati dal tragico destino di Faulkner e fossero inclini ad attribuire significato a circostanze di nessuna vera importanza, ma c'erano evidentemente delle cose che non mi avevano ancora detto. Mentre pensavo a ciò... era quasi l'una di notte... sentii dei passi nel corridoio. Mi avvicinai alla porta, l'aprii in silenzio e guardai fuori. Vidi Bendyshe, in camicia e pantaloni, una lanterna in mano, che si dirigeva lentamente, volgendomi la schiena, verso le scale. Raggiunse la porta della camera vuota, estrasse una chiave dalla tasca, aprì ed entrò, chiudendo poi con grande cautela. Avvertii il forte impulso di seguirlo ma pensai che la mia intrusione avrebbe potuto irritarlo; perciò lasciai la porta socchiusa e, nervoso e in preda all'ansia, mi misi addosso qualcosa e mi sedetti accanto alla porta, pronto a chiuderla nel momento in cui avessi udito aprirsi quella della stanza vuota. Ammetto che l'idea di quella solitaria esplorazione mi agitasse non poco ma avevo ormai una grande fiducia nella forza di volontà di Bendyshe. Per un po', non udii niente ma poi cominciai ad avvertire dei suoni debolissimi sopra la testa, come se Bendyshe (così almeno credevo) si muovesse lentamente e con cautela e cercasse qualcosa che non era facilmente trovabile... perché c'erano lunghe pause tra i rumori, come se la persona che cercava si fermasse, immobile. Capii di colpo cosa stava accadendo. La scala era stata sicuramente portata di sopra e messa nella camera vuota. Bendyshe la stava usando per passare attraverso il buco nel soffitto in una qualche stanza o soffitta al piano superiore, e stava frugando, di notte, per essere sicuro di non essere interrotto. Confesso che il coraggio che ci voleva per fare una cosa del genere mi sorprese, particolarmente quando pensai alle influenze soprannaturali che Bendyshe credeva agissero in quella casa. Circa mezz'ora dopo, fui certo che qualcosa di allarmante avesse inter-
rotto la ricerca. Udii sopra la testa dei passi pesanti e affrettati che poco dopo si fecero più deboli, poi il rumore di una caduta e di un gemito soffocato che proveniva dalla stanza vuota. Mi alzai e corsi in corridoio, aprii la porta della stanza e mi trovai davanti a uno spettacolo che mi terrorizzò. La luce della luna entrava dalla finestra chiusa. Bendyshe sedeva sul pavimento, le mani intrecciate sulla fronte; accanto a lui, giaceva la lanterna spenta. «Che cos'è accaduto, Bendyshe?» domandai, raggiungendolo. Lui staccò le mani e mi guardò e notai del sangue sulla sua camicia. «Ho avuto un incidente, vecchio mio», rispose, con voce roca, «ma non è niente di grave. No, non mi faccia domande... si limiti ad aiutarmi ad alzarmi.» Gli porsi una mano e lo sollevai. Lui si guardò attorno, confuso. «Buon Dio, che pazzo sono stato!» esclamò. «Avrei dovuto capirlo che non avrebbe funzionato... Hartley, raccolga la lanterna, faccia il bravo, e venga con me in camera mia. In fin dei conti, non credo di essermi fatto male. Spero soltanto che nessun altro abbia sentito. Come ha fatto a sapere che ero qui? È arrivato con la velocità di un lampo.» «L'ho vista entrare qui», risposi, «e l'ho sentita camminare di sopra... avevo la sensazione che avrebbe potuto volermi al suo fianco.» Uscimmo nel corridoio; lo sostenni con un braccio e lui parve contento dell'aiuto. Una volta in camera sua, accese la luce e io lo seguii in bagno. Era molto pallido e aveva i capelli arruffati; scoprii che si era ferito alla base della gola e che si trattava di un graffio o di un taglio. Lui se lo bagnò e vide che non era profondo. «Devo aver sfiorato con il collo l'estremità rotta di una qualche trave», disse. «Be', ringraziamo il cielo che non è accaduto qualcosa di peggio.» Tornò in camera e aprì una cassettina che vidi conteneva il necessario per il pronto soccorso. Versò del disinfettante su un po' si cotone, poi si fasciò il collo, facendo passare la benda sotto le braccia e chiedendomi di assicurargliela saldamente. Infine, bevve un bicchierino di liquore. «Ora, vecchio mio», disse, «vada a letto e mi lasci riposare. Domani sarà una lunga giornata.» «Ma vuole partire in queste condizioni?» «Sì, devo andare, ma guiderà Elton. Starò benissimo. Ho avuto un momento di shock... sono scivolato sulla scala e, fortunatamente, non mi sono rotto niente. Ora vada a dormire... Ho l'impressione che ne abbia bisogno; e mi raccomando, non si ecciti! Per questa notte non accadrà più niente, ne stia pur certo... Ho imparato la lezione.» Così lo lasciai ma giacqui a lungo sveglio, a ponderare e riflettere su ciò
che Bendyshe si era aspettato di trovare in soffitta e su ciò che aveva scoperto o visto che l'aveva indotto a battere tanto velocemente in ritirata. Perché conoscevo ormai abbastanza Bendyshe per sapere che doveva essersi trattato di qualcosa di allarmante e sorprendente per averlo così turbato. 7 Il mattino dopo mi sentii sollevato vedendo che Bendyshe non recava segni dell'avventura del giorno prima. L'uomo era duro come l'acciaio! Zoppicava leggermente e la ferita al collo lo costringeva a stare rigido ma era allegro, di un'allegria genuina, e sicuro come un soldato che fosse uscito inaspettatamente bene da una mischia pericolosa. Capii che l'elemento pericoloso, qualunque fosse, dell'intera ricerca era uno stimolo per lui invece che il contrario. Era una bella giornata fresca e il vicario e Bendyshe partirono verso le dieci. Bendyshe mi spiegò che il tragitto era di quattro ore e che speravano di essere di ritorno per le sette. «Se dovessimo ritardare», disse, «manderemo un telegramma; e se poi non volesse rimanere qui solo, il vicario ha detto alla sua governante di prepararle una cena fredda al vicariato.» Scrissi un paio di lettere e dissi a Bartlett che sarei stato fuori a pranzo e probabilmente anche per il tè e uscii dopo le undici. Il fatto di uscire di casa e di diventare molto più allegro e spensierato mi sorprese. Non mi ero accorto fino a che punto l'atmosfera di quel luogo pesasse sul mio morale. Non era tanto ciò che era accaduto che in se stesso era insignificante quanto il senso di suspense, di non sapere di ora in ora cosa sarebbe potuto accadere. Passeggiai per la campagna, godendomi il fresco dei viali verdi, il panorama dai punti più alti, i piacevoli villaggi e le fattorie per i quali passavo. In una locanda mangiai del pane e formaggio. Il proprietario era un vecchio chiacchierone, simpaticamente curioso. Mi chiese da dove venissi e quando risposi da Hebden Hill, si rallegrò. Conosceva bene Hebden e aveva degli amici che vi vivevano. Poi mi domandò se conoscessi il castello. «Si riferisce alla grande casa che si trova di fronte al lato occidentale della chiesa?» dissi. «Esatto, signore. Ha mai sentito parlare di Faulkner, il castellano?» «Sì», risposi, «credo che sia stato il vicario a nominarlo.» «Ah! Dovrebbe essere il signor Fortescue», fece. «L'ho conosciuto quan-
do ero giovane.» L'uomo continuò a raccontarmi del castellano, in modo incoerente. «Dicevano che avesse commesso un assassinio o qualcosa del genere e che abitasse tutto solo al castello con un vecchio soldato che gli aveva fatto da servo anche nel reggimento e che vivessero in maniera orribile. La gente diceva che si cucinassero gatti e topi e che se li mangiassero e che bevessero dalla mattina alla sera. E si raccontavano anche storie peggiori, signore», continuò, abbassando il tono della voce. «La gente mormorava che il castellano si fosse venduto... lei sa a chi, signore... non certo a colui che sta in alto... e che non pare valga la pena farlo. E se il castellano aveva dell'animosità con qualcuno, poteva ricorrere a ogni sorta di malefatta per avere la meglio. Non ne sono sicuro, signore, ma si pensava che non fosse salutare incontrare il castellano e si raccontava anche che quei due catturassero un gatto e lo bruciassero vivo e poi lo usassero come veleno da dare all'uomo per il quale il castellano aveva dell'animosità. «E circolava una brutta storia su una povera ragazza... una bella ragazza che si chiamava Annie Rogers e che viveva con la madre che era vedova e che aveva un piccolo gruzzolo. Il vecchio sergente, pare, se ne era innamorato e voleva sposarla ma lei non sopportava neppure di vederlo. Tutto ciò era già abbastanza triste ma poi il castellano venne a sapere della faccenda e pensò che se il sergente l'avesse sposata lui avrebbe perso il suo servo. Fecero una grossa lite, si dice, ma il castellano si mise segretamente al lavoro e prima la vecchia signora Rogers perse il suo gruzzolo e fu costretta ad andare a lavorare, poi morì; e il signor Fortescue fu molto buono con Annie e la prese come cameriera... ma lei aveva paura di incontrare il sergente; e un giorno, il vicario lo trovò alla porta di casa, che parlava con Annie e la spaventava con qualche sciocchezza; gli andò dietro al cancello. Delle persone che passavano si fermarono a guardare. Il vicario si mantenne calmo e avvertì il sergente, sottovoce, che voleva dire davanti a tutti ciò che pensava di lui; e gli disse che era un uomo crudele e un ubriacone... sono le sue testuali parole... e che se avesse mai importunato di nuovo la ragazza, l'avrebbe trascinato davanti ai giudici che l'avrebbero fatto rinchiudere dove sarebbe stato costretto a tenere la lingua a posto. «Dopo di che, il sergente se ne stette buono per un lungo periodo; ad alcuni abitanti di Hebden suscitava simpatia perché sapeva essere amichevole quando voleva. Ma la povera Annie si ammalò e il vicario la mandò al mare dove tuttavia lei morì, dicono, poco alla volta.» Il vecchio tacque per prendere fiato. «Ma se il castellano era davvero così», dissi, «e se la gente sospettava queste cose, perché non gli dissero mai
che cosa pensavano di lui?» «Be', non per molto tempo, signore. Vede, lui era un cugino del vicario e il vicario era solito difenderlo. Certi abitanti del posto un giorno andarono dal vicario e si lamentarono del castellano e il vicario disse loro: "Non è il castellano che fa del male, è la vostra paura di lui. La cosa peggiore che può compiere è indurvi a temerlo... e la paura fa il resto." Fu proprio così che andò. Ma qualche tempo dopo, gli stessi uomini, che avevano alzato un po' il gomito, andarono al castello e cominciarono a mettersi a gridare sotto le finestre, lanciando sassi e rompendo alcuni vetri... il castellano non li fece mai riparare ma chiuse quelle finestre con delle assi. Qualcuno assistette alla scena e andò a riferirla al vicario che corse subito al castello ma prima che vi arrivasse, la grande porta si aprì e il castellano uscì e si fermò sui gradini. "Sono qui", disse, senza scomporsi, un'orribile espressione sul viso pallido mentre gli occhi erano fiammeggianti; e poi chiamò gli assalitori codardi, bestie brutali e tante altre cose che non mi sento di ripetere. E li invitò a fare ciò che volevano di lui ma nessuno osò sollevare un dito. "Ecco", fece lui, "non osate neppure parlare." E allora qualcuno tra la folla gli indirizzò un insulto. "Oh, è questo che pensate", disse il castellano; "e se non foste tanto codardi, vi chiederei di venire qui e vi farei l'onore di uccidervi." Poi fece una pausa prima di aggiungere: "Ma c'è un mezzo migliore di questo!" Si guardò attorno, simile a un demonio, e quelli cominciarono a svignarsela, a uno a uno; alcuni si misero a correre. E così finì per quella sera. Ma ci credereste, signore, Billy Dane... quello che parlò... nel giro di una settimana impazzì e fu portato via; dopo di che, il castellano fu lasciato in pace.» Ebbi l'impressione che avrei fatto meglio a non ascoltare altro di quei racconti. Non sapevo quanto fosse vero e quanto inventato. Ma era chiaro che il castellano fosse un uomo sospettato di cose incredibili e non senza qualche motivo. Cominciai a capire che la cosa migliore da fare era dimenticare tutto. Ma allora, perché Bendyshe insisteva con il voler seguire certe tracce? E, di colpo, come un lampo, la verità, o ciò che sembrava essere la verità, mi si parò davanti. Il diavolo non era morto, era vivo e attivo; e Bendyshe tentava di riportarlo alla luce. Il diavolo, naturalmente, era dappertutto. Ma era stato fatto qualcosa, era rimasto qualcosa nella casa che fungeva da fortezza del diavolo? C'era un nucleo di influenza maligna che necessitava di essere estirpato? E se era così, da quale odioso agente personale, da quali incorporei ministri della paura veniva perpetuato? E poi compresi che se esisteva una qualche verità nei miei pensieri,
Bendyshe doveva essere esposto a pericoli di un genere che sfidavano la precauzione e più lui era coraggioso, più si avvicinava allo scopo, più terribile era il pericolo. Non riuscivo a capire quale parte avesse il vicario in tutto questo. Era dalla parte di Bendyshe, non c'era dubbio; ma pensai che la sua gentilezza e la sua natura generosa potessero forse accecarlo davanti al pericolo, inducendolo a credere che le cose non erano mai state così brutte come le si era immaginate. In ogni caso, il mio dovere era chiaro: dovevo stare accanto a Bendyshe, a tutti i costi, e dividere il pericolo con lui. Era una lotta di volontà, forse; e, mettendocela tutta, chissà che non avessi potuto rivolgere la corrente contro i nostri avversari. In ogni caso, sentivo che non dovevo più essere tenuto all'oscuro ma dovevo sapere esattamente che cosa era accaduto e che cosa aveva indotto Bendyshe a imbarcarsi in quella ricerca. Sempre in preda a quei pensieri, vagai senza sapere dove andavo; a un certo punto sentii che dovevo tornare subito a casa... che assomigliavo a una sentinella che avesse abbandonato il suo posto di guardia; ma, d'altra parte, mi dicevo che era semplicemente una follia tornare e aspettare da solo il ritorno di Bendyshe e del vicario e che sarebbe potuto accadermi qualcosa che avrebbe rovinato l'efficacia che era magari in mio possesso. Presi un tè in una locanda a cinque miglia da Hebden; poi tornai lentamente indietro e arrivai alle sette. Con mio grande sollievo, l'auto mi raggiunse a mezzo miglio dal villaggio. Sia Bendyshe che il vicario sembravano stanchi e avevano un'aria molto grave. Raccontai vagamente dei miei giri e loro mi prestarono una scarsa attenzione. Quando arrivammo, dissi a Bendyshe: «Se il vicario non è troppo stanco, non potrebbe venire a cena da noi? Ho una ragione speciale per fare questa richiesta. Vi devo raccontare una cosa e chiedervene altre.» Il vicario assentì e io e Bendyshe andammo a casa insieme mentre il vicario promise di raggiungerci per le otto. Bendyshe andò nella sala da fumo e si lasciò cadere su una comoda poltrona. «Come va rispetto a ieri?» domandai. «Oh, sono rigido come un pezzo di legno e stanco come una bestia», rispose, piuttosto impazientemente, «e proprio quando ho più bisogno di essere in forze; ma abbiamo trovato ciò che volevamo sapere, ed è quello che mi ero aspettato, solo peggio; e ora la faccenda è così complicata che non so cosa fare!» Poi aggiunse: «Perché ha insistito tanto affinché il vicario tornasse? Ha avuto uno shock e mi sembra stanchissimo.» «Non ho potuto farne a meno; oggi ho meditato su tutta la storia e le sta-
rò accanto anima e corpo; ma sento di dover sapere tutto e subito. Se devo dividere i pericoli, devo sapere di che pericolo si tratta; non posso essere di nessun aiuto se continuo a rimanere all'oscuro.» «Sì, ha ragione», fece Bendyshe. «L'ho capito anch'io... ma volevo che lei si formasse una sua opinione.» Quando andammo a cambiarci, si guardò attorno e disse: «Non mi piace l'aria che si respira in questa casa, questa sera. È come se si tramasse qualcosa di brutto... ma ce la caveremo!» Avvertivo anch'io un'atmosfera pesante; immobile ma non vidi niente né udii niente. 8 A cena, mentre la servitù era in sala, facemmo del nostro meglio per parlare del più e del meno. Un brutto gioco, pensai. Quando ci ritirammo nella sala per fumatori, Bendyshe disse al vicario: «Senta, vicario, Hartley è convinto che sarebbe meglio se conoscesse tutta la storia e io sono d'accordo con lui. Non sarà colto di sorpresa; ed è inutile fingere, adesso, che si tratti del caso di una blanda ricerca; è una battaglia dura e dobbiamo essere preparati, se possiamo. Ho commesso un errore la scorsa notte scatenando l'offensiva... e ora il diavolo è libero. Ma andrò avanti. «Le cose sono cominciate più o meno tre anni fa», continuò Bendyshe. «Non so perché non siano cominciate prima... forse erano cominciate; ma io ero sempre più interessato al mio problema e stavo coltivando le mie percezioni, credo, senza saperlo; la tenda si è alzata di colpo. Devo dire che quando venni qui, feci il mio studio nella stanza vuota. Ma non riuscii mai a lavorare in pace là dentro. Sembrava esserci qualcosa in movimento e, se mi sedevo al tavolo, avevo l'impressione di avere qualcuno alle spalle; e sentivo strani rumori anche sopra la testa. Feci esaminare il tetto... l'unica strada era attraverso uno sportellino nel soffitto, nell'angolo dal quale è caduto l'intonaco... ma sopra, c'era soltanto un solaio lungo e basso, illuminato da una finestra che dava sulle tegole e le grondaie, con una cisterna e delle tubazioni e il costruttore disse che i rumori provenivano dalle canne. «Comunque sia, un giorno stavo camminando nel corridoio quando vidi un uomo in piedi accanto alla porta della stanza... le dirò subito, Hartley, che si trattava dello stesso uomo che ha visto di sopra, con lo stesso vestito, la stessa espressione. Gli chiesi a voce alta: "Che cosa fa qui? Chi è lei?", ma lui non mi notò neppure e continuò a rimanere accanto alla porta,
come chi desiderasse disperatamente una cosa e tentasse da tanto tempo e inutilmente di raggiungerla. Non pensai assolutamente che potesse essere legato a questo posto... credevo che si trattasse di un'allucinazione causata dai miei nervi tesi. Mi avvicinai alla porta, gli occhi fissi sull'uomo, e lui di colpo scomparve. Non ero esattamente spaventato ma mi sentivo a disagio. Andai in città da un dottore, un mio amico. Mi visitò, mi fece delle domande... e mi dichiarò perfettamente sano. Gli raccontai dei miei studi e lui mi chiese se avessi mai visto una figura come quella nella vita reale, durante l'infanzia, o se non avessi mai subito uno shock a causa di quella figura. Ma io non riuscivo a pensare a niente. Mi disse infine che era francamente sorpreso ma che non aveva dubbi sul fatto che fosse un'allucinazione e che ciò risultava in qualche modo dal mio pensiero costantemente fisso su tali fenomeni. Mi consigliò di occuparmi d'altro per un po', di limitare il mio lavoro e, in casa, di stare più in compagnia... tutte cose molto sensate. «Seguii i suoi consigli ed ebbi una serie di ospiti che mi annoiarono a morte; e mi dedicai alla storia costituzionale, il soggetto meno eccitante che riuscii a trovare. Ma quindici notti dopo, vidi di nuovo la cosa, questa volta nel mio studio, che guardava lo sportellino. Mi avvicinai e lui non mi notò neppure, e quando gli arrivai a pochi centimetri, scomparve. «Allora feci ciò che avrei dovuto fare prima; andai dal vicario e gli raccontai tutta la storia... e così venne fuori. Il vicario mi raccontò, non senza una certa esitazione, che la figura che gli avevo descritto era sicuramente quella di Hugh Faulkner, così come era stato negli ultimi anni. Non è forse così?» Il vicario annuì. «La descrizione era inconfondibile. E mi provocò un terribile shock anche se non posso dire d'essere stato colto completamente di sorpresa.» Si voltò verso di me e aggiunse: «Naturalmente, signor Hartley, sono fermamente convinto dell'immortalità dell'anima; e credo che conserviamo identità e intelligenza e che la morte non ci alteri poi molto; solo che l'anima è priva di corpo... un'influenza consapevole e intelligente. Mi spiego meglio. Non c'era niente di materiale da vedere lassù; ma compresi che Bendyshe era arrivato in un modo o nell'altro nel raggio di pensiero di Faulkner, e che la figura si era sviluppata da questo pensiero che agiva sulla mente di Bendyshe, esattamente come sviluppiamo le immagini nei nostri sogni.» «Sì», fece Bendyshe, «ma ero anche consapevole del fatto che Faulkner non mi influenzava coscientemente... a dire il vero, credo che fosse assolu-
tamente ignaro della mia esistenza; e questo era un grande sollievo per me... ero solo uno spettatore di ciò che accadeva, proprio come lo è stato lei quando lo ha visto. Anzi, se mi è concesso dirlo, dubito che sia stata la mente di Faulkner ad agire sulla sua che gliel'ha fatto vedere. Credo che sia stata la mia. In seguito», continuò, «vidi la figura sempre più spesso. Ma mai in presenza di altri... la cosa sembrava assolutamente vietata e non so perché. Smisi di avere paura e l'accettai come un fatto. Un paio di volte lo vidi in giardino, altre di sotto, ma quasi sempre nel corridoio, di sopra, o nella stanza vuota. Ma non volevo correre rischi. Perciò feci cementare lo sportellino, tolsi tutti i mobili e chiusi a chiave la stanza. «Nel frattempo, riflettei sulla cosa e ne discussi con il vicario. Arrivammo alla conclusione che ci fosse una qualche particolare cosa che Faulkner... non dico che stesse cercando, ina che cercasse di rintracciare, qualche libro, forse, o un manoscritto... non avrei saputo dirlo... ma decidemmo infine che si trattava di qualcosa che qualcun altro aveva nascosto. Ma si trovava poi nella casa? E se era così, perché non riusciva a trovarla? E, se l'avesse trovata, cosa ne avrebbe fatto? Non credo che questi spiriti abbiano poteri materiali... possono soltanto agire attraverso cervelli viventi.» Mi rivolsi al vicario. «Lei l'ha mai vista questa figura?» dissi. «No», rispose lui. «Non l'ho vista... e non so perché. Sono stato vicino a Faulkner più di qualsiasi altro essere vivente, tranne forse i suoi servitori. Ma ho pensato che forse Faulkner desiderasse nascondermi l'esistenza della cosa, di qualunque cosa si trattasse, e stava attento a non mettermene a parte.» «Ma perché allora è stato Bendyshe a vederlo?» domandai. «Oh», fece Bendyshe, «ma io mi sono imbattuto in lui per caso, almeno credo... Si è trattato soltanto di un momento di amplificazione dei miei poteri di percezione.» «Un'altra cosa», dissi. «Come spiega il fatto di vederlo soltanto occasionalmente? Se la cosa è sempre nella mente di Faulkner, lei dovrebbe vederlo in continuazione.» «Be'», disse Bendyshe, «noi non sappiamo quale possa essere la sua occupazione mentale... Può anche darsi che abbia altre cose per la testa.» «Già», disse il vicario, scuotendo la testa. «Era un uomo ostinato e perverso... ha molto da imparare.» Bendyshe sorrise debolmente e proseguì. «Io credo che le cose stiano così. A volte, lo spirito di Faulkner ricorda la cosa, qualunque sia, e crede che si trovi ancora nella casa. Il risultato è che per quella volta il suo pen-
siero è rivolto alla casa e alle sue stanze; e, da essenza astratta, si aggira per il ben noto palcoscenico; e se qualcuno incrocia la sua strada, finisce inevitabilmente per vederlo.» «Ma perché, allora, la figura scompare quando le si arriva vicini?» «Ah, non è che sappia proprio tutto», disse Bendyshe. «In realtà, ci sono molte cose che non riesco a spiegarmi. Ma ho pensato che potrebbe trattarsi di questo: la figura viene cancellata dalla vicinanza del mio conscio, così come la luna cancella la luce delle stelle circostanti... Ma è soltanto una mia idea. «E adesso», continuò, «passiamo alla parte più seria della storia. Qualche settimana fa, ho avuto la netta percezione che lo spirito di Faulkner si sia accorto del mio. Suppongo che avessi cominciato a pensare più intensamente al posto in cui la cosa sarebbe potuta essere, e, soprattutto, di che cosa avrebbe potuto trattarsi. E mi era anche venuto in mente che il vecchio sergente potesse essere ancora vivo... il vicario mi aveva detto che pensava fosse morto... e avevo cominciato a fare qualche ricerca. Avevo perfino incaricato un investigatore per rintracciarlo. Venimmo a sapere che l'uomo era ancora vivo. Faulkner gli aveva dato del denaro a più riprese e, dopo la sua morte, il sergente aveva affittato una fattoria nell'Hampshire, una piccola cosa. Ma aveva cominciato a bere ed era quasi alla fine delle sue risorse. «Accortosi di essere seguito... secondo me, temeva anche di dover rendere conto di molte altre cose... ebbe paura, vendette la fattoria, ricavandone ben poco perché era ipotecata, e se ne andò alla ventura. Finito il denaro, si prese una polmonite perché dormiva all'aria aperta, e fu portato all'ospizio di Pentlow, vicino a Horsham, e ricoverato in infermeria con la febbre reumatica. «Ma devo fare un passo indietro. Mentre accadeva tutto questo, come vi ho detto, mi ero reso conto di essere entrato per una qualche strana ragione nella sfera di consapevolezza di Faulkner e che anche lui aveva percepito la stessa cosa. La sua espressione sembrava cambiare quando lo vedevo. Era arrabbiato e provocatorio, come se volesse proteggere la scoperta che era in procinto di fare. Ciononostante, dapprima non parve accorgersi della mia presenza fisica. Poi assunse un'aria minacciosa e arrivò a gesti di collera e di rabbia. Fu allora che le chiesi di venire qui. Sentivo che dovevo avere qualcuno con me, che non potevo rispondere appieno dei miei nervi. Inoltre, le sue apparizioni divenivano sempre più frequenti. «Poi è arrivato lei ma invece di dirle tutto subito, cosa che non sarebbe
stata saggia, ho aspettato di vedere se anche lei avesse avuto una qualche percezione di quella presenza. E quando ha cominciato a notare certi fenomeni, le ho chiesto scusa e le ho dato tutte le spiegazioni necessarie... era stato molto stupido da parte mia, lo ammetto... perché potesse fare le sue esperienze e trarre le sue conclusioni. «Poi c'è stato un nuovo sviluppo. Il vecchio sergente è morto all'ospizio e la prima conseguenza dell'evento è stata la comparsa di una nuova figura alla finestra, una figura che ha visto anche lei. Non sapevo cosa pensare, sebbene avessi un forte sospetto. Ma è accaduto che hanno trovato addosso all'uomo una lettera speditagli da qualcuno del villaggio... una sua vecchia conoscenza... il che sembrava dimostrare che fosse vissuto lì. Poi hanno telegrafato al vicario per dirgli che uno sconosciuto era morto all'ospizio... gli hanno dato una sua breve descrizione... un tizio che sembrava fosse vissuto un tempo a Hebden. Il vicario ha dato a me il telegramma, come sa, e io ho avuto la certezza di chi fosse. Siamo andati insieme a identificare il morto, e il vicario lo ha riconosciuto subito. Questo è tutto.» «Ma», dissi, «in che modo il morto sarebbe collegato a queste carte, o cos'altro sono?» «Ricorda», disse Bendyshe, «che il vicario ha detto qualcosa di una certa valigia diplomatica che andò persa dopo la morte di Faulkner?» Il vicario si girò verso di me. «Avrei dovuto essere più esplicito», disse. «Per qualche tempo prima della sua morte, notai che Faulkner scriveva sempre quando lo vedevo e che quando m'avvicinavo lui faceva scivolare i fogli in una vecchia valigetta diplomatica che teneva sul tavolo. Ricordo che una volta gli chiesi cosa stesse scrivendo. "Le mie memorie", rispose con un cupo sorriso. "Un libro interessante, non pensa?" Quando morì, sono certo che la valigetta era accanto al letto, sebbene non possa giurarlo. Pensammo... l'avvocato che venne a vedere la proprietà e io... che potessero esserci documenti importanti, ma quando interrogammo il sergente, il quale sapeva dell'esistenza della valigetta, rispose che non la vedeva da un paio di giorni e che quasi certamente Faulkner l'aveva nascosta da qualche parte... E non potevo escludere che non avesse ragione.» «Sì», disse Bendyshe, «e ciò che io penso accadde è che il sergente, pensando che il contenuto della valigetta potesse avere un certo valore, o che avesse potuto in qualche modo incriminarlo, se la sia presa e messa lui stesso in qualche posto con l'intenzione di tornare a riprendersela. Questo spiegherebbe ogni cosa... spiegherebbe perché Faulkner non sembri sapere dove sia e spiegherebbe anche ciò che è accaduto a me ieri sera.»
«Cos'è accaduto, esattamente?» domandai. «Le dirò come sono andate le cose», disse Bendyshe, guardandomi. «Mi ero portato una scala, lassù. La caduta d'intonaco poteva essere casuale, non lo so, ma mi dava l'idea che i documenti potessero essere nascosti nella soffitta. Non ho voluto chiederle di venire con me, Hartley, e ho fatto una cosa idiota, me ne rendo conto. Durante il pomeriggio, ho portato la scala nella stanza e quando la casa è piombata tutta nella calma e nella tranquillità sono andato di sopra con una lanterna e sono salito in soffitta. Ho cercato dappertutto e non ho trovato niente. Poi, all'improvviso, ho avuto la sensazione di non essere più solo e ho visto due figure, nell'angolo più distante della soffitta, che guardavano l'assito. Non ho avuto più dubbi: ero arrivato al nascondiglio. Avrei fatto meglio ad andarmene subito e aspettare un'altra occasione. Sono stato invece tanto sciocco da avvicinarmi alle due figure. E poi non so cosa mi sia successo. Mi si sono scagliate contro come due bestie. Non sarebbe stata una lotta fisica quanto lo scontro tra volontà e cervello, questo adesso lo so. Ma ho avuto paura di essere attaccato senza avere la possibilità di opporre una qualche resistenza. Sentivo semplicemente che la mia mente avrebbe ceduto. Sono corso giù dalla soffitta, solo che ho mancato l'appoggio mentre ero nel foro, mi sono tagliato il collo, suppongo, contro i bordi frastagliati del legno, e... e ha sentito poi il tonfo della mia caduta!» «Che storia incredibile!» commentai, e per qualche momento ci fu silenzio. Poi ripresi: «Ma perché il sergente non andò a prendere la valigetta dopo la morte di Faulkner?» «Ah! Questo posso spiegarlo io», disse il vicario. «Non ne ha avuto il tempo. Avevamo spostato il corpo di Faulkner in un'altra stanza e avevamo scambiato quattro chiacchiere con il sergente, signor Hartley. Penso che abbia avuto paura. Si era impadronito di una certa somma di denaro e, secondo me, non osò più tornare indietro.» «Ancora un paio di cose», dissi. «Cosa sono infine questi documenti?» «Ah, non lo so», rispose Bendyshe. «Ma immagino che siano quelli che Faulkner chiamava i suoi esperimenti... una descrizione di ciò che faceva, o cercava di fare, e dei mezzi di cui si serviva. La forza che usava era la paura, e la domanda è: quanto si può impaurire la gente attraverso la mente? Dobbiamo ricordare che Faulkner era un uomo abile e che il sergente, anche lui a suo modo, era un uomo furbo. Due tipi dotati di un coraggio notevole e di una certa forza di carattere.» «E, dando questo per scontato, cosa volevano farsene di quei documen-
ti?» domandai. «Credo», disse Bendyshe, «che volessero soltanto possederli... proteggerli. Penso che non avessero un'idea molto chiara al riguardo. Non volevano renderli di dominio pubblico e tuttavia vogliono passare i loro segreti a qualcuno che li userà. Se qualcuno di noi tre, per esempio, fosse incline a usare le forze del male, non incontreremmo alcuna opposizione; ma al presente sanno soltanto che siamo ostili, che vogliamo trovare i documenti, e forse distruggerli. E fanno tutto il possibile per evitarlo.» «Cosa facciamo?» domandai. «Temo che la domanda sia un'altra», disse Bendyshe. «Cosa fanno loro?» Aveva appena finito di parlare che la risposta venne... sotto forma di un'acuta risata di scherno che echeggiò nell'aria, tra noi. Non so dire quanto fosse orribile sentirsi in presenza di qualcosa di ostile, derisorio, e non sapere cosa avrebbe potuto fare. L'orrore era che, qualunque cosa fosse, era là. Il nostro silenzioso ascoltatore sapeva ciò che avevamo detto e cosa avevamo in mente. E noi non potevamo fare niente. Mi parve per un momento di aver perso il controllo di me stesso e che il mio cervello avrebbe ceduto sotto l'entità di quella presenza invisibile e intangibile. Guardai Bendyshe e vidi che si era aggrappato ai braccioli della sedia, con la fronte aggrottata e gli occhi bassi. Pallido in viso e incerto sulle gambe, il vicario si alzò. «Dio misericordioso», disse. «Combatto contro il male tutti i giorni e cerco di immaginarmelo più debole del bene... e adesso che mi trovo al suo cospetto, non posso fare nulla. Nulla.» «No», disse Bendyshe, sollevando la testa. «Non è esatto, vicario! Lei può affrontare la cosa meglio di me e del signor Hartley. Noi stiamo combattendo per noi stessi e la nostra sanità mentale, ma lei possiede forze più grandi. Le chiedo una cosa: Hartley e io... oppure io... dobbiamo andare a scoprire questa cosa, qualunque cosa sia... e non c'è tempo da perdere! Più rimandiamo e peggio sarà. Vuole rimanere con noi e vedere la fine? Qualunque cosa accada, lei non deve perdere la fede.» Quando Bendyshe parlò della necessità da parte nostra di andare dritti alla meta e senza altri indugi, confesso che ebbi un attacco di paura assai più terribile di qualsiasi altra cosa avessi mai sperimentato. Il sangue parve fermarmisi nel cervello... la forza parve abbandonarmi. Ma sentivo anche che se avessimo abbandonato tutto, avremmo lasciato un terrore anche peggiore alle nostre spalle. Non era questione di coraggio morale. Non c'e-
ra semplicemente via d'uscita. Il vicario non disse nulla ma tese la mano e prese prima quella di Bendyshe, poi la mia. E nell'istante successivo eravamo nell'ingresso. Bendyshe assunse il comando delle operazioni. 9 Ci eravamo alzati e ci guardavamo a vicenda, in silenzio. «Adesso, senza fretta», disse Bendyshe, «cerchiamo di pensare a quello che dobbiamo fare. Mi serve qualcosa per sollevare le assi. Ci sono!» Tornò nella sala per fumatori e tornò qualche momento dopo con un vecchio spezzaghiaccio. La lama era protetta dal cuoio. Bendyshe la tolse e si avviò verso le scale. Io seguivo lui e il vicario seguiva me. In pochi secondi fummo sul pianerottolo. La casa era silenziosa e immobile. Bendyshe prese la chiave e due torce elettriche e disse: «Vado prima io perché so dov'è la cosa. Quando sarò nella soffitta, lei mi segua, Hartley. Lei, vicario, rimanga nella stanza. Vuole? E ricordi questo: loro non possono farci niente fino a quando noi non ne abbiamo paura. O non ne mostriamo, pur avendola.» Aprì la porta ed entrammo nella stanza. Bendyshe accese entrambe le torce elettriche e ne diede una al vicario. La luna era chiara nel cielo e l'ombra della finestra giaceva scura sul pavimento. Poi, all'improvviso, m'accorsi di una strana ombra, di una impenetrabile oscurità, nell'angolo della stanza proprio sotto la botola. Ma Bendyshe andò dritto ai piedi della scala e per un momento lo vidi sparire in quell'ombra. Gli tenni dietro. Non c'era nulla. «Andrà tutto bene», disse Bendyshe, sottovoce. Ma proprio mentre ce ne stavamo lì, sotto la scala, una corrente d'aria fredda si precipitò giù dal foro della botola, come espulsa da una caverna di ghiaccio, così fredda che rabbrividii. Ma Bendyshe, con lo spezzaghiaccio in una mano, cominciò a salire. «Venga quando chiamo», disse, «e non prima.» Mi guardai attorno. Il vicario era in ginocchio e pregava. Ma né la preghiera, né il coraggio di Bendyshe potevano darmi sollievo. Pensavo soltanto alla prossima cosa da fare. Bendyshe scomparve attraverso la botola e lo udii poco dopo camminare sul pavimento della soffitta. Poi disse: «Venga, adesso!» Il vicario tenne la torcia alzata per farmi luce mentre salivo, gradino dopo gradino, verso l'aria gelida. Non appena fui con la testa e le spalle nella soffitta, sentii Bendyshe
prendermi per un braccio. «Attento», disse. «Salga piano.» Sollevò la torcia e mandò il raggio di luce attorno alla soffitta. Nel silenzio, arrivò uno strano tremore d'aria vuota. «Adesso», disse Bendyshe. «Sarà finita in un momento! Si aggrappi alla cima della scala e mi tenga d'occhio.» Camminò lentamente per la soffitta, allontanandosi di sei o sette metri, esaminando attentamente le assi di legno alla luce della torcia. «Adesso», disse, «venga su lentamente e tenga la torcia per me. Il posto è questo.» Si chinò ed esaminò da vicino le assi. Poi sollevò lo spezzaghiaccio e vibrò un colpo tremendo alla congiunzione tra due assi, poi un altro. Schegge di legno volarono via. All'improvviso, dal buco che aveva prodotto nelle assi emerse una cosa scura. Era la testa di un grosso serpente. Ne vedevo gli occhi ammiccanti, le macchie nere a forma di catena sulla testa, la lingua dardeggiante e il pallore verdastro della gola. Bendyshe vibrò un altro colpo e la creatura venne fuori, arretrò come per colpire, poi si infilò nuovamente nel buco. Bendyshe sollevò di nuovo lo spezzaghiaccio e colpì senza paura. Adesso il buco era considerevole. Bendyshe vi infilò il manico dell'attrezzo e premendo con il piede sulla lama fece leva fino a quando il legno non crepitò e si spezzò. A quel punto, lasciò lo spezzaghiaccio e, chinandosi, afferrò l'asse spezzata e tirò. Una visione spaventosa si presentò ai miei occhi. L'intera cavità era piena di serpenti aggrovigliati che si torcevano. A volte, una testa emergeva dalla massa, oppure una mezza dozzina di teste si staccavano dal groviglio e strisciavano sul pavimento della cavità. Devo confessare che adesso ero in preda al massimo orrore. Ma Bendyshe affondò le mani tra i serpenti e tirò fuori una vecchia valigetta diplomatica coperta di polvere. «Eccola», disse. Mi ero chinato anch'io a guardarla quando accadde qualcosa di ancor più spaventoso. L'aria fredda ci percosse. Voltai la testa e, ritto alle nostre spalle, vidi un cadavere, ancora fasciato dagli abiti da sepoltura, con le mani color del piombo penzoloni, il viso dello stesso colore, con una frangia scomposta di capelli grigi che gli ricadeva sulla fronte. Aveva un debole sorriso sulle labbra e i suoi occhi opachi, grigi, erano fissi sull'apertura nel pavimento. Un pesante tanfo di decomposizione stava spandendosi attorno a noi. E poi, per un momento, desiderai essere morto piuttosto che vivere in quel posto di orrori. Anche Bendyshe si voltò e affrontò lo sguardo della figura. Poi mi fece segno di prendere la torcia e lo spezzaghiaccio e camminò con fermezza per la soffitta verso la scala. «Scenda per primo», disse, «e io le passerò la valigetta. Non la lasci andare, qualunque cosa accada.» Mi affrettai. Non era il momento di esitare.
Mi infilai nella botola e quando arrivai nella stanza vidi il vicario voltato di spalle che guardava dalla finestra. Ma non avevo il tempo di badare ad altro. «La valigetta», gridai e la valigetta apparve all'imboccatura della soffitta. La presi e un momento dopo anche Bendyshe cominciò a scendere. Ma quando arrivò giù, vidi che le forze gli venivano meno. In quel momento, il vicario si voltò e venne verso di me con le mani tese come per ricevere la valigetta. Fui sul punto di dargliela quando Bendyshe gridò con voce incerta: «No, no... La tenga lei. Non vede?» Per qualche istante, non seppi cosa stava accadendo. Qualcosa venne verso di me mossa da un impeto che era metà rabbia, metà minaccia. Stavo combattendo con ombre. La figura che avevo pensato fosse quella del vicario venne più vicina e mi guardò in faccia. Era Faulkner. Rabbioso. Disperato. E mentre lo guardavo, affascinato, Bendyshe mi venne vicino. E anche il vicario emerse da un angolo in ombra. E dopo non seppi più nulla. Mi svegliai non molto tempo dopo come da una specie di torpore. Ricordavo di essere stato spinto per il corridoio. Ero nella mia stanza, sul letto, e il vicario sedeva accanto a me con un viso ansioso. «Come si sente?» disse, con voce gentile. «Oh», dissi. «Sto bene... di mente, almeno. Mi sento molto stanco e ammaccato, ma non danneggiato. Non irreparabilmente, almeno. Vorrei soltanto dormire. Sono svenuto, suppongo...» «Sì», disse il vicario, «e temevo che fosse peggio. Ma non ne parliamo, adesso.» «Dov'è Bendyshe?» «Oh, sta bene», rispose il vicario. «È andato a prendere qualcosa per lei. Sarà qui a momenti. È ansioso, e anch'io, di vedere quei documenti. Ma lui e io siamo in disaccordo. Quando se la sentirà, vorrebbe avere la sua opinione.» «Non so se la mia opinione varrà qualcosa», dissi. Ma in quel momento Bendyshe entrò nella stanza con una fiaschetta in mano. Mostrava pochi segni di quello che era successo e la sua espressione era più determinata che mai. Aveva la valigetta con sé, notai. Venne accanto al letto e mi prese la mano. «Be', vecchio mio», disse, «questa è una bella visione! Temevo... be', non dirò quello che temevo, ma sento che se le cose fossero andate male, non mi sarei mai perdonato per averla coinvolta. Come si sente? È soltanto svenuto? Bene... ha ceduto il cuore, non il cervello.» Versò dalla fiaschetta un liquido aromatico, e mi chiese di bere. «Non le farà male», disse. «Le darà lucidità di mente per una mezz'ora, poi
farà il più bel sonno della sua vita.» Bevvi e gli altri due rimasero seduti, in silenzio. Pochi minuti dopo, mi misi a sedere e dissi: «È molto strano... Non avrei mai creduto che mi sarei sentito così. Ricordo e vedo chiaramente tutto quello che è accaduto ieri... è stato ieri? Ma non c'è orrore. Mi sento straordinariamente felice... qualcosa di velenoso se ne è andato e penso che non ritornerà più.» «Sì», fece Bendyshe, «credo che abbiamo ripulito in qualche modo l'aria... abbiamo disperso il nido di vespe, forse! Ma ora... si sente pronto a udire le due versioni di una domanda? Queste orribili carte... che cosa dobbiamo farne? Secondo me, dovrei guardarle attentamente. Possono avere un immenso valore come prova. Ecco il pacchetto.» Aprì la valigetta... notai che ne aveva forzato il coperchio... e tirò fuori un pacchettino di carte, non più di un centinaio di fogli, sospettai, attentamente legati con un nastro nero. Me li mise in mano. Sulla prima pagina c'era scritto con una calligrafia chiara: Una documentazione di esperimenti fatti al castello di Hebden tra il 1890 e il 1903, con i risultati ottenuti da Hugh Faulkner e Harry M'Gee. Si desidera che nessuno nelle mani del quale possano finire li faccia esaminare da gualche autorità nel campo scientifico perché hanno a che fare con il sorprendente sviluppo di una forza psichica sconosciuta, e i cui risultati sono stati di un carattere straordinario. Firmato Hugh Faulkner. «Mi prenderò l'intera responsabilità di esaminare il pacchetto e aggiungerò che se fossi stato capace di trovarlo senza aiuti... come credo che avrei dovuto fare... avrei esaminato questi fogli con la massima cura.» «Bendyshe», fece il vicario, estremamente greve... e capii che era in uno stato di grande depressione e sfinimento... «La imploro di non parlarne! Se avesse tentato di impossessarsi del pacchetto da solo, le sarebbe costata la ragione e forse la vita. E forse avrebbe perso qualcosa di ancora più prezioso della vita. E devo dire un'altra cosa, per quanto dolorosa possa essere. Non è così forte come crede di essere! È in pericolo maggiore al momento di quanto non lo sia stato durante le due visite fatte a quel posto, lassù. Ho la sensazione che quelle carte dovrebbero essere immediatamente distrutte. Le guardo come guarderei una cassetta in cui sapessi che si trovano i germi viventi di tutte le malattie mortali conosciute dall'umanità. Perché leggerle sarebbe come introdurre deliberatamente nel proprio spirito le più sataniche di tutte le infezioni.» Bendyshe ascoltò le parole del vicario con un'espressione di mal celata impazienza, poi, volgendosi a me, disse: «Forza, Hartley, a lei la decisio-
ne. Io ho voluto fare questa ricerca ed è stato dovere del vicario aiutarmi; ma lei si è offerto volontario e sarebbe potuto diventare un martire che ha fatto la ricerca senza successo. Lascio a lei la decisione.» «Bendyshe», dissi, «mi ha affidato un compito orribile. Capisco ciò che prova ma non ho dubbi sul fatto che il vicario abbia ragione. Abbiamo sradicato il demonio con rischi terribili e lei proporrebbe di piantarlo di nuovo per il bene della curiosità scientifica?» Bendyshe si alzò con il pacchetto in mano. «Distruggerebbe la scienza che è stata espiata dall'anima di un uomo», disse. «Sì», fece il vicario, «perché è il prezzo del sangue... e lei non può osare mercanteggiare con il sangue!» Sollevai lo sguardo e come in un lampo vidi, leggermente distante dal gruppo, la figura di Faulkner inginocchiato, le mani allacciate e un'espressione d'agonizzante supplica sul viso. Persi il controllo di me stesso. «Dev'essere distrutta subito», dissi, «ora e qui!» «Molto bene», commentò Bendyshe, «mi arrendo... ma mi pentirò per tutta la vita!» Non aggiunse altro ma estrasse un coltello dalla tasca, tagliò il nastro, tirò fuori un mucchio di fogli fittamente scritti, li gettò nel camino vuoto e accese il fuoco. La piccola pila si incendiò e nel giro di cinque minuti si trasformò in una massa fiammeggiante; e un momento dopo, non era altro che cenere. Proprio allora, Bendyshe e il vicario, che avevano fissato il fuoco, alzarono le teste e anche loro videro la figura di Faulkner. Ma poi accadde una cosa strana e così velocemente che so a malapena dire che cosa fosse... una figura in bianco, giovane, raggiante, sorridente, sembrava avvicinarsi a Faulkner da dietro, simile a un latore di buone notizie. Bendyshe si mise una mano davanti agli occhi. Il vicario congiunse le sue. «L'estremo obolo!» disse con un tono di gioia intensa, «e adesso lui se ne va... questa è la misericordia di Dio.» LA CORDA FRA LE TRAVI The Rope In The Rafters di Oliver Onions The Collected Ghost Stories, 1935 Durante la prima metà di questo secolo, Oliver Onions (1873-1961) produsse una serie di romanzi e racconti raffinati ma anche molto originali. Dello Yorkshire, Onions cercò in ogni suo libro di esplorare nuovi terri-
tori, rischiando il successo popolare con lavori esclusivi e ricercati. Al giorno d'oggi, quando tutti si sforzano di mietere riconoscimenti con lavori difficili, i romanzi di Onions sono finiti nel dimenticatoio. Era così anche all'epoca della sua morte: il necrologista del Times scrisse di lui che «era un romanziere di sensibilità non comune, di immaginazione originale e di imponenti risorse di mestiere e di stile, e uno che, quanto a riconoscimenti, aveva ricevuto meno di quanto non gliene fossero dovuti». Nel campo del fantastico, Onions è ricordato per una degnissima raccolta di racconti intitolata Widdershins (1911). La raccolta conteneva The Beckoning Fair One, da molti ritenuta una delle più grandi ghost stories. Onions non aveva molta dimestichezza con il soprannaturale ma questo non gli impediva di creare atmosfere convincenti con terrificante verosimiglianza. In La corda fra le travi, però, pubblicato dapprima nella sua Collected Ghost Stories del 1935, Onions ricama su un vero episodio soprannaturale capitato al figlio Arthur. Una notte, nella camera da letto del suo appartamento, Arthur avvertì improvvisamente una presenza e sebbene non riuscisse a vedere niente, ne sentì il respiro e ne aspirò il potente aroma di terra umida. Era tutto quello di cui Oliver aveva bisogno. 1 Durante le ultime sette miglia di viaggio, le speranze di James Hopley erano andate affievolendosi e ora, alle porte del castello, desiderava con tutto il cuore di non aver mai lasciato la clinica di Parigi. Il conducente della vettura era sceso di cassetta e con la pioggia che gli batteva sulla schiena stava lottando con i chiavistelli arrugginiti. Uno dei cancelli era uscito dai cardini nel muro ed era tenuto insieme all'altro dalla serratura centrale e da un paio di giri di una vecchia catena per cani. Dovette sostenerlo quando aprì per far passare il cavallo tenendolo per le briglie. Con l'unico occhio che aveva, perché l'altro era di vetro, James Hopley guardò, attraverso il vetro del finestrino striato di pioggia, il viale desolato e in abbandono ed emise un gemito. Adesso si vedeva anche il castello. Tutta un'ala era coperta dallo scheletro di un'impalcatura. Stavano aprendo finestre nuove e costruendo camini. La pioggia batteva sui cumuli di mattoni rotti e detriti e assi tolte dai muri, e dai tassi gocciolava su carriuole, tavolati di passaggio ed erbacce. Un castello Enrico IV nel cuore della campagna! Quello era il luogo che, così gli avevano detto Blanche e i medici, gli avrebbe fatto un gran bene!
Le gentilezze che Blanche gli aveva mostrato per molti anni erano innumerevoli. Gli aveva scritto quando nessun altro l'aveva fatto, si era ricordata di lui quando il resto del mondo se ne era dimenticato. E che adesso gli prestasse il suo castello era l'ultima delle sue cortesie. Ma c'era una cosa che non avrebbe più fatto: avrebbe mantenuto dentro di sé il ricordo di lui come era stato e non l'avrebbe più rivisto. E lui, a volte, sentiva che quella era in assoluto la più grande delle gentilezze. Alla porta di una terrazza laterale della facciata l'uomo tirò l'asta di ferro di un campanello. Dopo un lungo intervallo, la porta fu aperta da un uomo anziano con la barba grigia e un grembiule di panno rosso. Alle sue spalle, c'era una donna magra vestita di nero. Dovevano essere i Marsac, le persone che si sarebbero occupate di lui durante la sua convalescenza. Senza dire una parola, l'uomo cercò dietro di lui un grande ombrello e uscì per tenerlo sopra la testa di James. Da sotto l'orlo dell'ombrello, James vide una lunga terrazza frontale con delle alte finestre e, sopra quelle, delle altre ancora più alte. In un atrio interno, c'era una seconda porta semiaperta. L'uomo con il grembiule era tornato a prendere le sue cose. Poi accadde qualcosa che se non era un miracolo, poco ci mancava. Camminando, James si ritrovò all'improvviso in una stanza austera, con le pareti ricoperte di pannelli di legno e tappezzeria, grandi armadi e un ampio camino di pietra nel quale, dietro alari massicci, ardeva un bel fuoco. Lì vicino, un tavolino d'epoca era apparecchiato per una persona, con posate, un tovagliolo e un grosso vaso di montbretia. C'erano anche un bicchiere e una grossa bottiglia di vino con il tappo invitantemente già mezzo estratto. Fuori, il fango e la pioggia, e dentro... quello! James passò in rassegna quella stanza sorprendente e poi si rivolse alla donna, che era in attesa di ordini. «Sembra che abbiate avuto parecchio da fare, Madame Marsac», disse. La donna aveva la voce stridula come quella di un pappagallo. Altroché! Fino a due giorni prima niente, neppure una sedia da smuovere, e poi, di colpo, mon Dieu, ecco che arrivava tutto da Parigi! Altroché! E se Madame Marsac aveva avuto il suo bel da fare lì, non meno occupata era stata la sua amica Blanche, alla sala delle aste dell'Hotel Drouot di Parigi. Da Drouot si può comprare un'antica canzone come un pezzo d'arredamento che nessuna stanza moderna accoglierebbe. Ed eccoli lì, gli arazzi e le poltrone con lo schienale di cuoio, le grandi lampade a olio di bronzo e onice, un campo di battaglia che sarebbe andato bene per una parete di Versailles, vasi di porcellana grandi come quelli dei Quaranta La-
droni. Ma James Hopley aveva allungato una mano verso la bottiglia col tappo già mezzo fuori. Anche a un gueule cassée, fatto saltare in guerra con l'esplosivo e rimasto sottoterra per una settimana, può piacere ancora il calore di un bicchiere di vino. Così, lì tutto era di Blanche. Il suo castello inutile e dispendioso non si rivelava poi così male, dopotutto. 2 Quel pomeriggio, con la pioggia che continuava a cadere, fece un giro per il luogo che gli era stato tanto generosamente messo a disposizione. Per essere chiari, non si trattava tanto di un castello quanto di un casino da caccia, a due piani più un abbaino, con una fila di finestre che davano sulla terrazza e un'altra sul parco abbandonato, verso il fiume che si gettava in mare a una dozzina di miglia di distanza. Ma fu l'ultimo piano che colpì immediatamente l'immaginazione di James Hopley. Che posto per dei ragazzini che volessero giocare a nascondino! Fatta eccezione per il tetto, quella parte non era mai stata del tutto completata. Le assi del pavimento terminavano di botto, lasciando scoperti i travetti e la vista del piano inferiore. Le prese di luce erano poche e il giorno cominciava già a morire. James ricorse ai fiammiferi ma le correnti d'aria, lassù sempre in agguato, glieli spegnevano in continuazione. Sarebbe stato più saggio scendere prima che fosse diventato buio del tutto. E all'improvviso si fermò. Qualcosa l'aveva colpito leggermente sulla faccia. Un pipistrello? Potevano essercene, lassù. I fiammiferi ormai scarseggiavano ma ne accese ancora uno, proteggendolo con cura tra le mani. L'oggetto che l'aveva colpito era una corda che pendeva da una trave sopra la sua testa e scompariva di sotto, tra i travetti, nell'ombra. Niente di strano se si considerava che il posto era pieno di operai, pensò, e tornò indietro. Ma a quel punto non aveva più ben chiara in mente la pianta della costruzione. Scese di nuovo al piano della mansarda e trovò una porta che si apriva su delle scale simili a quelle per le quali era salito. Le fece e nell'oscurità spinse un'altra porta, in fondo. Un momento dopo, si ritrovò in una specie di cucina alta e illuminata, con casse e scatole accatastate fino a mezz'altezza dal soffitto dalle quali fuoriuscivano carta e paglia. La luce batteva in pieno sulla testa calva dell'uomo con il grembiule rosso che, seduto a una nuda tavola con la donna magra che era sua moglie, consumava un pasto frugale. Era finito nelle stanze dei domestici.
Sul punto di scusarsi, si fermò di colpo. Vedendolo, la donna si era lasciata sfuggire un grido acuto e si era coperta gli occhi con le mani mentre anche l'uomo si era affrettato a mettere mano alla lampada come per lanciarla. La prese, invece, e la sollevò, alzandosi nello stesso tempo. «Monsieur ha indubbiamente perso la strada», disse, mantenendo la voce sotto controllo. «Da questa parte», aggiunse e, la lampada in mano, avanzò verso una porta d'angolo. Fece strada per un appartamento vuoto, in cui giacevano soltanto dei sacchi di cemento, e aprì un'altra porta. James si ritrovò di nuovo nella stanza grande che l'aveva accolto all'arrivo, questa volta dalla parte del camino. Mortificato e confuso, con la faticosa e lenta ripresa di settimane andata di colpo in fumo, si sedette in una delle poltrone con lo schienale di cuoio. Sempre, sempre la faccia, e così pensava che sarebbe stato fino alla fine. Perché a Parigi, quando si davano le rappresentazioni annuali e si raccoglievano i fondi per gli afflitti come lui, di sicuro non trovavi James Hopley vicino al chiosco dove si vendeva la sua cartolina-fotografia con la raffigurazione dei trapianti, la cera di paraffina, la guancia ricucita e l'occhio di vetro in mezzo che riluceva come quello di una bambola. A maggior ragione, allora, nell'incontrare per la prima volta della gente in un posto come quello, non avrebbe dovuto mostrarsi senza avvertire, apparire dal nulla ai piedi della scala di un appartamento privato. Ma non accennò all'incidente quando la donna entrò per preparare il tavolo per la cena. In quel momento era occupato a scrivere. E stava ancora scrivendo quando lei venne a sparecchiare. E poiché è su questo scritto di James Hopley che è largamente basato questo racconto, sarà meglio dedicarvi qualche parola. Il lucido quaderno con il dorso nero che aveva davanti era il quinto della serie. Quei quaderni contenevano il suo racconto del caso, fatta eccezione per ciò che avrebbero potuto dirne i medici, e visto che erano scritti solo per lui, escludevano molto più di quanto non includessero. Naturalmente, James Hopley non raccontava a se stesso cose che già sapeva. Ma ogni tanto affiorava qualche episodio inaspettato e ora stava appunto annotando quello sfortunato inizio con i Marsac. Quand'ebbe finito, si passò una mano sulla fronte, poi chiuse il quaderno, prese la candela e, poco dopo le nove, andò a letto. Anche la camera da letto era Hotel Drouot, con molto bronzo e alabastro e dorature scrostate e sbiadite. C'erano due letti a un metro di distanza l'uno dall'altro, come se Blanche li avesse predisposti sia per ospiti sposati che per una persona sola come lui, e su un comodino tra i due letti c'era il
secondo porta candele. James Hopley aveva fatto un lungo viaggio ed era stanco. Lanciò la vestaglia sul secondo letto e si distese sul primo dove, dopo aver spento la candela, giacque sveglio ad ascoltare i molti rumori, centinaia, di quel luogo desolato. Fuori, la pioggia continuava a cadere. Da qualche parte, una porta doveva essere stata lasciata aperta perché sbatteva a intervalli ricorrenti. Nel corridoio entravano spifferi dalle fessure delle finestre e in qualche punto del ponteggio qualcosa produceva suoni simili a dagli schiocchi. Lentamente, l'immagine mortificante di una donna che nascondeva il viso e gridava e di un uomo che afferrava la lampada accesa sbiadì. James Hopley sbadigliò, ritrasse le ginocchia e scivolò nel sonno. Fu svegliato da un rumore diverso da qualunque altro avesse mai udito. Sembrava provenire da sopra la sua testa e fu così pesante che lo indusse a sollevarsi sul cuscino, sorpreso e con le orecchie tese. Ma quando ci sveglia un rumore che non si ripete, non è difficile convincersi d'averlo sognato. James si riadagiò. Ma ora era quasi cosciente di un'improvvisa alterazione nell'aria; uno strano odore sembrava essersi diffuso per la stanza e, contemporaneamente, udì anche un nuovo rumore proveniente da qualche punto della stanza stessa: dall'altro letto ed era come il suono di un respiro profondo e doloroso. Ma era l'odore penetrante, pungente, che attrasse di più la sua attenzione. Due dei suoi componenti potevano essere facilmente spiegati. Erano gli odori di terra umida e di erba tagliata di fresco, odori che impregnavano l'aria, fuori. A questi se ne aggiungeva un altro: l'odore del petto e delle braccia di un uomo. Ma poi fu il respiro a interessarlo nuovamente. I fiammiferi erano sul comodino, ma non allungò subito la mano per prenderli. Persino lo strofinio di un fiammifero avrebbe potuto produrre un'interruzione. A volte, i rumori del respiro sparivano e poi, di colpo, tornavano a riempire la stanza. James Hopley non era mai stato in quel castello prima di allora, ma che si trattasse del respiro di qualcuno che aveva conosciuto, o d'altro, era improvvisamente uscito dalla buia tomba del passato. Perché è soltanto la prima volta quella che dimentichiamo. Se la corda vibra di nuovo, continua a vibrare finché ce ne ricordiamo. Nel buio, James rimase ancora un po' in ascolto del respiro; poi allungò la mano per prendere i fiammiferi. Ma di nuovo la ritrasse, perché l'aria si era fatta molto più fredda. Gli ci volle un minuto e forse di più per accendere una delle candele. L'altro letto era apparentemente intatto, con la vestaglia che lui si era tolto e vi aveva
deposto. Ma... brr... che freddo! Freddo, e quel pungente odore di sudore, e il respiro... Mise un piede giù dal letto e tese l'orecchio. Poi posò la mano sul copriletto. Ma, a quanto sembrava, non avrebbe dovuto farlo. Ci fu come un sospiro di chi passasse dall'oblio all'intollerabile fardello della vita. Il freddo scomparve. Il respiro si fece più debole e cessò. L'aria ridivenne priva di odori, pulita. La candela ardeva come se niente fosse accaduto. 3 Alla maggior parte di noi piace la propria camera da letto. Se la dobbiamo dividere preferiamo farlo con qualcuno che non puzzi né provochi tanto freddo nell'aria. Ma pochi di noi hanno passato quello che aveva passato James Hopley. La struttura principale del nostro corpo non è stata rovinata al punto da non poterlo essere di più se non nei singoli frammenti rimasti. Ciò premesso, è comprensibile che James Hopley non si lasciasse spaventare da qualcosa che avrebbe fatto tornare a Parigi con il primo treno la maggior parte di noi. Semmai, rimase solo leggermente deluso per il resto della notte che trascorse tranquilla. E prima di bere il caffè, il mattino dopo, annotò l'accaduto nel suo quaderno. A metà mattina, comunque, fu interrotto dall'annuncio di un visitatore. Il curé del posto non aveva perso tempo ed era venuto a informarsi sullo stato di salute di Madame Blanche, a Parigi, e sperava che anche il signor Hopley si fosse ripreso dalla fatica del viaggio. Queste almeno erano le ragioni che produsse per giustificare la sua visita. James dubitava invece che ne avesse delle altre. Una era probabilmente la curiosità, e James, che notava tali cose, apprezzò molto la sua compostezza di fronte ai suoi trapianti di pelle e cera di paraffina. Il curato tacque poi per una decina di minuti prima di dire che il castello, in quel particolare momento, forse non era il luogo migliore in cui trascorrere un periodo di convalescenza. «Quando cesserà di piovere, gli operai torneranno al lavoro», spiegò, tamburellando con le dita sulla piccola croce d'argento. «E vedo che scrivere è una delle sue occupazioni, un'occupazione che richiede tranquillità. Non credo che sarà comodo qui. Se vuole, venga da me, nella mia piccola casa. Sarei felice se ci venisse a trascorrere un po' di tempo. Il mio giardino è piacevole e le mele sono mature. Sarebbe anche una compagnia per me. Qui... così vicino al fiume... l'aria non è salubre.»
Era un'offerta generosa e James ringraziò il curé; ma, nello stesso tempo, era stato un po' come lasciare scappare il gatto dal sacco e James ne approfittò per fargli delle domande sul castello, sulla sua storia e... sulle sue leggende. Gli parve cosa naturale. Ma trovò che il curé fosse poco comunicativo. Nessun posto come quello era privo di leggende, centinaia di leggende, alcune con una base di verità, altre fondate sulle chiacchiere della gente, disse l'ospite. Su quelle stesse fondamenta, prima del castello, erano state costruite tre case, spiegò. Una leggenda diceva che, dopo la battaglia di Arcques, fosse stato portato un ferito tra le mura del castello. Correvano altre voci e risalivano al periodo del Terrore. In seguito, se si doveva credere ai racconti popolari, c'era stata una storia di contrabbando. Ma gli scheletri era meglio lasciarli negli armadi nei quali si trovavano. E questo era quanto sapeva. Gli raccomandò di nuovo la sua casa, accettò un bicchiere di vino ma rifiutò l'invito a fermarsi a pranzo e James lo accompagnò fino ai cancelli arrugginiti. Trovava interessante che la battaglia di Arcques fosse stata combattuta nelle vicinanze. Non sapeva con quale tempo fosse avvenuta ma una battaglia può essere una faccenda di terra, con molta erba calpestata, e coloro che vi prendono parte facilmente sudano. Ma James non credeva che una battaglia combattuta quasi trecento anni prima avesse molto a che fare con lui. E da allora non era accaduto nulla in quella parte di Francia? Il Terrore non risaliva esattamente al giorno prima. E quanto al contrabbando... be', quella gente doveva saperne certamente di più, pensò, scrollando le spalle. L'incidente aveva lasciato un'impressione troppo profonda su di lui per poter essere messo da parte così. Se si fosse trattato semplicemente di un qualche disperato che fosse stato ucciso o colpito alla testa mentre contrabbandava una balla o due di lana dall'Inghilterra, Blanche sarebbe stata orgogliosa del suo fantasma e gliene avrebbe parlato nelle sue lettere. Si incamminò lentamente, a testa bassa e con le mani dietro la schiena, pensieroso ma anche un po' divertito. Ciononostante, scoprì proprio quel pomeriggio stesso le prove della probabilità che il castello avesse avuto davvero a che fare con il contrabbando. Le trovò nelle cantine. Queste erano una serie di sotterranei a volta costruiti su antiche fondamenta di pietra. Erano grandi spazi nei quali trovavano posto un forno, una lavanderia, cantine per il vino con gli antichi contenitori di legno ormai in rovina. Al centro della casa, finì quasi in un pozzo privo di protezione. Una fune passata tra i travetti per appenderlo e un pozzo laggiù per annegarlo? Ma no. A un esame più accurato, il pozzo ri-
sultò asciutto. Poi, dopo una rapida riflessione, James fece scorrere sulla volta il raggio della torcia elettrica. Da alcuni segni, dedusse che doveva esserci stata un'apertura, un tempo. Una perlustrazione ai piani superiori, più tardi, rivelò i resti di altre botole, inchiodate e in disuso, ma tutte sulla verticale della corda e del pozzo. Con il fiume che passava in mezzo al parco e il mare a poche miglia di distanza, quello poteva essere un deposito di contrabbandieri già bell'e pronto. Ma di nuovo scosse la testa. Da qualche parte, poco lontano, doveva esserci una qualche altra spiegazione più plausibile. La pioggia stava rallentando. Forse un giro fuori avrebbe schiarito i suoi pensieri e suggerito allo James Hopley che aveva dentro ciò che doveva dire allo James Hopley che era fuori. Discese i gradini consunti alla fine della terrazza e camminò lungo il bordo ricoperto di vegetazione del fossato, superò il vecchio frutteto e tagliò per il parco, con i cardi che gli arrivavano alle ginocchia, fino alla riva in discesa del fiume. E vicino all'acqua fangosa, che doveva essere molto pescosa quando era limpida, cercò qua e là come se avesse qualcosa in mente. L'abitudine di evitare ogni compagnia e di starsene da solo aveva reso la sua mente poco fantasiosa ma molto ordinata. Di conseguenza, cominciò dalla parte giusta, vale a dire, dalla gente di cui sapeva qualcosa. Primo, il cure. Era gentile, ospitale e di buone maniere. James era rimasto favorevolmente colpito dall'offerta della sua casa e del suo giardino. Ma il curé doveva seguire un corso mediano tra due mondi. A parte quelle vaghe notizie su Arcques, sul Terrore e sul contrabbando, da lui, molto probabilmente, non sarebbe riuscito a cavare altro. C'erano poi i Marsac. Lui era avanti con gli anni. Non pagava l'affitto e i prodotti del giardino dovevano essere sufficienti per lui e la moglie. Se perdeva quel lavoro, non gli sarebbe stato facile trovarne un altro alla sua età. Avrebbe dovuto inoltre rassegnarsi a incontri di mezzanotte e ad alterazioni di temperatura in una parte della casa che non era chiamato a occupare. Poi c'era la stessa Blanche. Stava spendendo molto denaro nel suo commercio e sarebbe venuta a vivere là in primavera. Quanto agli operai, non li aveva ancora conosciuti ma, come i Marsac, non avevano alcun interesse contro la loro datrice di lavoro. Ma un posto doveva avere sulle persone la stessa influenza e nello stesso modo? Non c'era proprio nulla in ciò che un uomo poteva portarvi? Non c'era alcuna esperienza che James Hopley potesse aggiungere al castello della sua amica. Un odore al quale chiunque altro avrebbe semplicemente aperto una finestra era per lui carico di spaventosi ricordi. Il freddo per lui
non rappresentava un semplice momento di disagio ma il freddo della morte, il respiro faticoso della sofferenza di una forma umana non più in grado di sopportare. C'era quindi da meravigliarsi se, dopo quella prima notte, James Hopley fosse pronto ad appropriarsi di qualsiasi cosa insolita ci fosse a proposito del castello, del suo passato, del suo presente, o di qualsiasi altra cosa potesse avere in serbo? Continuò la sua passeggiata sotto gli ontani del fiume rigonfio, domandandosi se l'aria fosse davvero poco salutare come aveva detto il curé, ma sempre ritornando ai suoi pensieri... Se un uomo poteva portare in un posto più di quanto potesse trovarvi, allora egli conosceva già di quel posto molto più di quanto chiunque altro avrebbe potuto dirgli. 4 C'è soltanto un modo sicuro di essere presenti alla nascita di una leggenda. Ed è quello di esserne l'origine stessa. Quel pomeriggio, James Hopley lasciò il fiume con una bella idea nella mente. Aveva a che fare con quella storia della memoria rivissuta. Mostra, per esempio, a un uomo il disegno di una persona che ha visto forse una volta soltanto: è molto probabile che egli abbia dimenticato la persona; ma ricorderà il disegno. Così con gli avvenimenti della sera prima. Fossero accaduti una seconda volta, avrebbero rappresentato un evento eccezionale e non sradicarle. Non era impossibile che, sotto la forza della stimolazione, ne seguisse un terzo, e un quarto. Quella era l'idea con la quale James Hopley lasciò il fiume quel pomeriggio. Ma fu soltanto l'inizio. Seguì qualcosa di più significativo. Era stato nel 1916 che lui era finito in quell'esplosione ed era scomparso dalla faccia della terra per sette giorni e sette notti. Poi c'era stata quella inenarrabile ricaduta a Parigi. Di conseguenza, egli era adesso un uomo che faceva esperimenti sulle corde di uno strumento. Toccale nel modo giusto e ti risponderà la sua armonia. Potrebbe essere un'armonia orribilmente discorde, strimpellata rudemente sulla corda del 1916, ma sarebbe identica nelle note e nella durata, fedele nelle altre corrispondenze. Sette notti di vero inferno allora. Cosa sia accaduto dopo non sembra lo abbia toccato molto. Cosa accadrà adesso non potrebbe essere peggiore di ciò che è già accaduto. E quanto avrà imparato da quella settima notte! Mentre prendeva la candela per andare a letto, gli parve strano che si trovasse in quel castello dei suoi risvegliati ricordi da poco più di ventiquattr'ore.
Ma mentre spegneva le lampade di bronzo, la porta dietro il camino si aprì e Marsac comparve sulla soglia. E James già trovava che Marsac non fosse affatto un cattivo soggetto. Era intelligente più della media e aveva coraggio. Ovvio quindi che si fermasse per scambiare qualche parola con lui. «Un vero peccato lasciare quel fuoco», disse, osservando le fiamme che ravvivavano gli arazzi e gli alti soffitti. «Stavo giusto salendo...» «Fino a quando gli operai non avranno finito, non sarà possibile accendere il fuoco per monsieur, di sopra. Madame ha scritto all'improvviso e c'è stato poco tempo per preparare», rispose Marsac. «Madame pensava che mi fossi sposato senza dirglielo? Ci sono due letti», disse James, fissando con il suo unico occhio il domestico per vedere come prendeva la cosa. Ma Marsac non diede a vedere nulla. «Uno o due era la stessa cosa, e madame non ha detto quanto a lungo monsieur si sarebbe fermato.» «Perché il posto è poco salutare? È ciò che monsieur le curé ha detto. Per questo mi ha invitato ad andare a stare con lui.» Marsac fu quasi sul punto di tradirsi. «Allora monsieur senza dubbio lo farà?» si affrettò a domandare. «Io?» disse James e Marsac ridivenne il domestico controllato di prima. «Monsieur si trova bene qui? C'è qualcos'altro che desidera per questa notte?» «Nulla. Buona notte», disse James e mentre il domestico finiva di spegnere le lampade, soffitto e arazzi parvero più amichevoli per via di tutto ciò che James Hopley sapeva ad aspettarlo nella sua camera da letto, di sopra. Quella notte, gettò di nuovo la vestaglia sull'altro letto e spense la candela. Ma mentre giaceva sveglio sapeva cosa stava aspettando. Il mattino seguente, un giovane operaio in tuta e berretto a punta, salì su una scala e mise per caso la testa dentro una specie di finestra che dava sul lungo corridoio interno. All'improvviso, una porta si aprì nello stesso corridoio e apparve James Hopley. L'operaio s'affrettò a ridiscendere dove due carpentieri, sotto una parte del ponteggio, stavano segando qualcosa a un cavalletto. Si tolse il berretto e si asciugò la fronte con la manica. «Avete visto?» mormorò, guardandosi involontariamente attorno da sopra la spalla. «Visto cosa?» domandò il collega più anziano, smettendo di segare.
«Chi è arrivato? Mon Dieu! Jean il Contrabbandiere non avrà più via libera al castello, ora!» «È l'inglese gueule cassée. Me l'ha detto Mathilde Marsac. L'hai visto?» «Se l'ho visto!» esclamò il ragazzo. «Com'è?» «Come può essere un incubo che si ha di giorno? Vi dirò com'è...» E cominciò la descrizione. Uno dei suoi ascoltatori fece una smorfia, l'altro annuì. «È come ha detto Mathilde Marsac. L'ha visto arrivare, guardando da dietro le spalle del marito. L'ha visto mentre era fermo nel salone e si guardava attorno. E la stessa sera, mentre cenava, la porta che dà sulle scale posteriori si è aperta e lui è comparso, il viso cinereo con un pezzo di vetro dentro...» Ma l'altro carpentiere era un tipo più pratico. «Mathilde Marsac!» sbottò. «Le tremano le gambe se deve attraversare il cortile della chiesa di giorno!» «E non è di giorno che l'ho visto? Neppure cinque minuti fa?» fece il giovane. «La notte è notte. Certe cose appartengono alla notte. Ma all'inizio della giornata...» «Be', povero diavolo! Marsac mi ha detto... Madame Blanche l'ha scritto nella lettera con la quale avvertiva del suo arrivo... che non tornerà nel suo paese a causa di quelli che potrebbero ricordarsi di lui. Forse una donna... forse Madame stessa... chissà! Va! Mathilde Marsac e il nostro Francis, qui, ora hanno visto entrambi Jean il Contrabbandiere.» Il carpentiere riprese in mano la sega. Ma Francis il muratore aveva visto ciò che aveva visto e andò a cercare qualcun altro disposto ad ascoltarlo. In realtà, aveva assistito senza saperlo a uno sviluppo che aveva dell'incredibile. Uno sviluppo al quale lo stesso James Hopley, che in quel momento stava scrivendo una lettera di ringraziamento a Blanche, non aveva ancora pensato. Perché James era eccitato dal successo. Aveva previsto una cosa sorprendente e, guarda caso, si era avverata. Ma qualcos'altro di non meno vero era accaduto. Non aveva avuto un particolare motivo per guardarsi allo specchio con più attenzione del solito, quella mattina. Del suo risveglio, ricordava soltanto che, non appena era uscito dalla stanza, un giovane muratore, o chiunque altro fosse stato, si era affrettato a ritrarsi da una delle finestre. James, in realtà, aveva fatto la sua prima errata supposizione. Aveva dato per scontato che il lavoro dei medici fosse ora definiti-
vo. Una regressione fisica era l'ultima cosa che aveva previsto. Tuttavia, veloce come un rinculo, questa era avvenuta nel giro di poche ore, e se fosse andata avanti i danni interni avrebbero reso la sovrapposizione plastica una cosa spaventosa. Importava poco adesso che lui la descrivesse nel suo diario o che la lasciasse fuori. La cosa aveva già cominciato a scriversi da sola, terribilmente, sulla sua faccia. In quel momento, stava in realtà già progettando i passi successivi della sua avventura. Doveva tentare di cogliere di sorpresa quel suo compagno di stanza. Che cosa sarebbe accaduto se, per esempio, avesse cambiato la posizione dei letti? Se, avvicinandosi con cautela, avesse provato a vedere se quel respiro smuoveva la fiamma di una candela? O appannato uno specchio? Se avesse parlato all'improvviso e a voce alta, mettendo trappole sottili nelle domande? Ma ora che tutto era ben congegnato, c'era ancora molto tempo. Non si accorse che il pranzo, quel giorno, non gli fu servito da Madame bensì dal marito. Ma si ricordò dell'operaio che l'aveva visto nel corridoio cosicché, sollevando lo sguardo, chiese il suo nome al domestico. «Un ragazzo con gli occhi scuri e l'aria timida che porta la tuta e un berretto appuntito», disse. «Era su una scala.» «Dev'essere Francis, il muratore», rispose Marsac. «Francis, il muratore. Capisco. Bravi ragazzi gli operai di qui?» Marsac non espresse un'opinione. Erano comme çi comme ça... «Per il villaggio è indubbiamente una bella cosa che Madame Blanche abbia acquistato questa proprietà.» «Porta sicuramente denaro.» «E ne porterà di più quando lei verrà a stare qui.» «Il castello ha conosciuto anni di carestia. Ma adesso dovrebbe averne di prosperi», disse Marsac. «Lo spero sinceramente», commentò James, riprendendo a lavorare, e l'altro si ritirò. Il lavoro, al momento, doveva essere rivolto a Francis, il muratore, in una specie di monologo scritto. James infatti gli parlò con la sua penna stilografica, come se fosse stato lì. Sei giovane, Francis (scrisse), e ai giovani si concedono opportunità. Quando sarai vecchio come il nostro amico Marsac, qui, non guarderai un uomo a quel modo, per poi ritrarti come se per un momento avessi visto un fantasma. Forse hai finito il servizio militare ma aspetta di aver visto una guerra. Prima che tu possa affacciarti a una finestra e poi ritrarti, ti faranno apparire centinaia di fantasmi. I fanta-
smi forse non sono quelli che pensi, amico Francis. Molto dipende da quanto ti porti dietro. Sei sposato? Hai dei bambini? I bambini crescono e le donne invecchiano e se è tutto qui, la morte è la fine. Ma è la fine? È ciò che sto cercando di scoprire. Spero di saperlo tra pochissime notti. Piacerebbe anche a te saperlo? Sembri il tipo al quale potrebbe essere facile raccontarlo. Ma potresti non essere il primo. Madame Marsac forse lo è. Ma ti piacerebbe essere il secondo? E quando un uomo decide, da vivo, di scoprire che cosa gli accade quando muore, qualche giorno e qualche notte sono ben poca cosa per il compito al quale si accinge. 5 Il quinto pomeriggio, lo aspettava la prima, seria sconfitta. Cominciò con qualcosa per la quale, in seguito, si sarebbe dato del pazzo e dello stupido per non averci pensato prima. Lui respirava soltanto di notte? Lui non faceva mai un pisolino per riposarsi a metà pomeriggio? E ancora, fino ad allora era stato contento di scrivere di quel suo visitatore un certo periodo di tempo dopo che se ne andava. Ma dove andava? Perfino lui non poteva andarsene semplicemente da nessuna parte. Questo è ciò che accadde. Alle cinque di quel pomeriggio ebbe bisogno di qualcosa... di un fazzoletto pulito... che, si dava il caso, si trovava proprio in camera da letto e salì a prenderlo. E questa volta non limita la descrizione a ciò che accadde al momento in cui aprì la porta della stanza. È, infatti, spiacevolmente esplicito, così diremo soltanto che i segni erano al massimo della loro forza. E fu quando James si fermò a guardare con aria interrogativa quel piatto letto vuoto di sofferenza che ebbe l'ispirazione. Dove se ne andava il tizio quando era disturbato? Fino ad allora i suoi modi nei confronti dell'ospite erano variati. C'erano stati tutti quei furtivi esperimenti. Ma anche nelle intenzioni aveva mostrato una certa considerazione. Cambiò tattica e tolse bruscamente il copriletto. L'amico se ne tornava al campo di battaglia di Arcques quando lasciava il letto, vero? Al Quartier St. Antoine o alla Bastiglia? Ai compagni, nel covo di quella gang di contrabbandieri? Be', ovunque se ne andasse, questa volta avrebbe dovuto superare James Hopley, alla porta. Si fermò sulla soglia, in attesa che il soffio gli passasse sulla faccia. Perché era il freddo e l'odore, quell'odore potente, che lui avrebbe seguito. E li seguì. Dopo qualche istante, diventarono meno forti ma nel corridoio l'odore era ancora presente. E anche lungo il passaggio verso le scale
che portavano alla mansarda, sulle scale stesse e nello spazio sotto il tetto. Mantenne il sangue freddo. Non c'erano le ombre della prima volta, adesso, ma la pallida e polverosa luce del giorno che metteva in risalto i particolari di ogni angolo, di ogni trave. Arrivò fin dove le assi del pavimento finivano bruscamente e si poteva vedere il piano sottostante. Poi l'odore svanì come se fosse caduto oltre il bordo e James rimase a fissare stupidamente la corda che pendeva dalla trave sulla sua testa. Stupidamente, sì, e tuttavia con occhi improvvisamente acuti perché adesso James ricordava che la corda era la prima cosa che aveva visto al suo arrivo al castello. Con gli operai in giro, quella presenza non gli era parsa sinistra. Adesso, invece, gli lanciava messaggi come un'esca spaventosa. «La tua vita?» l'oscillante e sinuosa cosa sembrava bisbigliare. «Non è possibile che tu dia valore alla vita? Quando ricordi a te stesso com'eri vent'anni fa? Te ne sei dimenticato? Il Passato era il Meglio, il Presente è il Peggio, e il Peggio deve ancora venire! Venti anni fa tu vivevi ogni minuto perché sapevi quanto potevano essere pochi quei minuti. Se fosse accaduto qualcosa, te la saresti almeno conservata nella mente, o nel ventre, e nei tuoi genitali. Ciò che il tuo corpo sentiva era come vino per te, eri amico dell'improvvisazione. Dove sono i tuoi amici, adesso? Puoi trovarne almeno uno, quando un tempo tutti avevano un gesto della mano per te anche se non li avevi mai visti? I migliori sono morti. Sarebbero contenti di essere morti se potessero vedere oggi per cosa sono morti. Sarebbe almeno decente che tutti morissero prima che ricominciassero a pensare alla carneficina. Ma no, sono tutti astutamente al lavoro, perfino quelli che hanno visto com'è... sicurezza, diritti, il glorioso passato, la nostra storia immortale, il retaggio per cui sono morti i nostri padri, la nostra futura gloria. E cosa dire della moltitudine che crederà a tutto a condizione che la bugia sia sufficientemente grossa e altisonante? Che seguirà i suoi leader pronti al male e vedrà il male e lo renderà anche peggiore, ed è adesso stanca e indifesa di fronte al male al fianco del quale altri sarebbero capaci? Lo hai visto una volta, vuoi rivederlo? Davvero vuoi vivere, James? In questo mondo? Il Passato era il Meglio, il Presente è il Peggio, e il Peggio deve ancora venire. Guardami, James, e domandati se davvero vuoi vivere.» Tutto questo, e migliaia di altre cose, la corda sembrava dire a James Hopley, oscillando dolcemente dalla trave sopra la sua testa. E all'improvviso James Hopley si coprì la faccia con le mani. Martoriato com'era, desiderava vivere. E aveva paura di quella cosa che oscillava, dell'invito che gli lanciava. Si voltò e corse via. Corse via da una qualche o-
scura visione interna di ciò che sarebbe potuto accadergli se non avesse fatto le valigie e non avesse lasciato il castello al più presto. Corse alla porta della propria stanza ma ritrasse la mano con un grido non appena l'appoggiò al pomello. Nello stesso momento, la porta era stata aperta dall'interno. «Monsieur!» sentì che diceva la voce di Marsac, dura e scossa. «Cosa... cosa... cosa fate qui?» «Mon Dieu... un'altra cosa così e lascerò il servizio di monsieur...» «Vi ho chiesto... che cosa...» «Sono venuto ad aprire la finestra della stanza. Non è sano. La stanza ha bisogno di aria.» «Perché siete voi a fare queste cose? Perché adesso servite i pasti? Com'è che non vedo Madame?» «Il fatto è che Madame non sta bene. Se ne è andata per qualche giorno.» «E perché mi guardate così?» «Così come, monsieur?» Ma Marsac abbassò gli occhi. Forse James Jopley aveva ragione a proposito della propria faccia. «Come mi state guardando. Come mi guardava il giovane muratore. Come mi guardava monsieur le curé. Come mi guardavano i dottori quando ero malato.» «Io, monsieur? Se ho mancato di rispetto a monsieur...» «Significa che sono cambiato?» Erano faccia a faccia sulla soglia, uno ancora dentro la stanza, l'altro fuori. All'improvviso, Marsac si fece da parte per lasciare entrare James e quando parlò lo fece con voce mutata, più bonaria. «Questa mattina, ho trovato un letto pieghevole. Lo metterò nella stanza al pianterreno. L'estate è in ritardo. Di notte fa ancora fresco.» «Non è una risposta.» «Come dice monsieur, è stato malato. Vado a prendere una spazzola per togliere la polvere. Poi preparerò un bicchiere di vino, dabbasso.» «Prendete il vino», disse James Hopley, voltandogli bruscamente le spalle. Ma mezz'ora dopo, di sotto, con la bottiglia del vino davanti, e un bicchiere già bevuto, fu in grado di riprendere il filo dei suoi pensieri. Marsac era molto servizievole con lui, trovando continuamente scuse per andare e venire. Dopo il secondo bicchiere, James divenne politico come fino a poco prima era stato nervoso. Marsac stava ripiegando un manifesto. James
gli parlò in tono conciliante. «Non sapevo che Madame Marsac non stesse bene.» Marsac disse che non era niente, una leggera crise de nerfs. Madame ne andava soggetta. «Forse è il castello a non farle bene?» «Non tutti possiamo scegliere il posto dove vivere. Dovrebbe essere così. Lei è di Rouen.» «E dopo Rouen, questo...?» «Cosa, monsieur?» «Andiamo», disse James Hopley con improvvisa aria confidenziale. «Questo castello è un posto molto antico. Ci sono vissute e morte molte persone. Quando molte persone sono vissute e morte in un posto, il posto è come... come un posto dove sono morte e vissute molte persone.» Marsac stava tormentandosi il grembiule rosso con le sue mani nodose. Sollevò la testa. «Monsieur sta parlando della salute di Madame?» «Naturalmente. E del castello.» «Allora monsieur ha sentito qualcosa di ciò che si dice?» «Può darsi. È quello che vi chiedo. Andiamo, Marsac, siate franco. Se questo posto non fosse confortevole per me, ve lo direi. Una stanza ha bisogno d'aria? Allora dategliela. È fredda e non è come le altre stanze? Allora sceglietene un'altra. Sono soddisfatto della stanza in cui mi trovo. Sedetevi.» Ma il domestico preferì stare in piedi. Annuì, comunque, alle parole di James. Anche lui non aveva tempo per des riens, disse. Quante stanze c'erano in quella casa, fatta eccezione per quelle costruite di recente, in cui non fosse morto qualcuno? Importava come fossero morte? Quando si muore si muore. Non era morire ma vivere che Marsac trovava difficile. «Perciò, la stanza in cui dormo io adesso...» Al che la lingua gli si sciolse e Marsac raccontò tutta la storia senza altri tentennamenti. «Dal momento che monsieur ha una visione così razionale della cosa, e dal momento che è stato mio nonno a raccontarmi la storia... sì», disse. «Un tempo, questo posto era tristemente famoso per il contrabbando. Monsieur forse non l'avrà notato, ma posso mostrarvi i luoghi dove i pavimenti sono stati tagliati per permettere l'uso di una carrucola posta in cima alla casa fino al pozzo nelle cantine. C'erano botole e nel pozzo nascondevano le balle di merce. Piuttosto che venire preso, uno di quegli uomini... ricordato ancora oggi come Jean il contrabbandiere... cercò di
impiccarsi. La corda si ruppe, la botola cedette sotto il suo peso e lui cadde nella stanza di monsieur. Adesso comunque non si vede niente perché il soffitto è stato riparato molte volte da allora.» James Hopley non sorrideva spesso, questa volta, tuttavia, la sua faccia ebbe una di quelle contorsioni. Sempre così... Il soffitto è stato riparato. C'era sempre un vuoto tra il fatto e la sua prima registrazione. Ma quale la successiva, e l'altra, e l'altra ancora, tra le varie riparazioni del soffitto? Le pietre non erano rimaste molto a lungo ferme nello stesso posto da quando era cominciata la leggenda. Perciò, perché cominciare da Arcques? Secondo il curé, parti delle fondamenta risalivano a secoli prima di allora. Divertiva James fare piccole aggiunte proprie alla storia del castello. «Perlomeno, il poveretto lottò per la sua vita!» «La vita è la vita! Si lotta sempre per la vita.» «Senza dubbio dopo aver attraversato campi, essersi nascosto tra il fieno o nei fossi?» «È probabile che per arrivare al castello attraversasse i campi. Si dice che attraversasse il fiume a nuoto. Io stesso so di un posto per il quale pochi passerebbero dopo il tramonto.» «A causa di questo suicidé?» «Penso di sì. Ma c'è gente che non crede a niente.» «Ciononostante, queste cose fanno storia.» Marsac si strinse nelle spalle. «Come dico sempre, si muore una sola volta. E forse è un bene. E con Madame via, ho lavoro per due da fare. Monsieur non vuole che prepari il letto di sotto?» «Sto bene dove sono.» «Chiederò agli operai per il camino. Allora sarà possibile avere il fuoco di sopra», disse Marsac e si ritirò nelle sue stanze. James Hopley si riempì di nuovo il bicchiere. Quando si muore si muore! Chi l'aveva detto all'eccellente Marsac? E la leggenda del contrabbandiere passato attraverso il soffitto della sua stanza? Di quale altra sciocchezza avrebbero parlato? E dal momento che non era uno scherzo da poter rivelare al primo venuto, l'avrebbe diviso con il suo cahier, quella notte. C'è infatti un passaggio che James Hopley scrisse e che ho ritenuto di trascrivere interamente per non correre il rischio di una cattiva interpretazione, come è accaduto ad altre penne. È la prima, chiara indicazione che abbiamo dell'estensione verso la quale la sua mente si preparava. Scrive: «Dalla mia visita del pomeriggio in cima alla casa ho ottenuto perlome-
no di trovarmi faccia a faccia con qualcosa di reale. Ma quanto a Quando si muore si muore, chi potrebbe mai dirlo, tranne Marsac? Se tutti quelli che sono vissuti sono poi morti completamente, perché se ne parla tanto? Nessun uomo, dalle origini del mondo, è mai parzialmente morto? Mai? Mi sembra che ci sia parecchio da dire in proposito. Non sto pensando a Lazzaro. Se non fosse stato completamente morto, non ci sarebbe stato miracolo. E non sto lasciando fuori la Traslazione, perché "quelli non erano" e la morte non c'entra. Dico soltanto che qualcosa esiste in questo stato residuale e parziale. Ma a quale livello si manifesta, e a chi? Sicuramente a chi si pone sullo stesso livello. Prendi un uomo come me: né l'una, né l'altra cosa. Io sono, si potrebbe dire, un morto che vive o un vivente morto. In questo caso, ci sarebbe soltanto un margine di differenza tra lui, non del tutto morto, e me, non del tutto vivo. Lui è uomo quanto me, e io spettro quanto lui. Per quello che ne so, mi trovo sulla diretta linea di successione. È solo che in quel caso mi piacerebbe sapere. E, a proposito, mi è capitata una cosa piuttosto strana. C'è una serie di parole che si ripropongono alla mia mente da un'ora a questa parte e non ricordo affatto di averle mai sentite. Sono testualmente le stesse tutte le volte che arrivano: Il Passato era il Meglio, il Presente è il Peggio, e il Peggio deve ancora venire. Non ho bisogno di dire che non le ho inventate io. Sembrano piuttosto provenire da molto, molto lontano. Da dove?» E così avevamo un uomo che rifletteva con calma, e con un certo sfoggio di logica, sulla possibilità di diventare lui stesso uno spettro. Se (pare si domandasse) quel Jean il contrabbandiere era stato a sua volta preceduto da uno spettro del Terrore, e quello da una invisibile forma di Arcques, e il fantasma di Arcques da un'oscura linea di altri, perché la discendenza spettrale avrebbe dovuto fermarsi? Quanto alla citazione, quella, sì, lascia indubbiamene un po' perplessi. Ci rimangono pochissimi frammenti della filosofia Maya e in quanto tali non dovevano essere alla portata di James Hopley. Ma le parole, in qualche modo, emergono come fantasmi da abissi di tempo e aggiungono credito alle altre sue riflessioni. Ma con tutta la sua logica, James Hopley aveva dimenticato una cosa. Ed era che i fantasmi non danno appuntamento. È il consenso degli esseri umani a creare i fantasmi, e alla fine arrivano tutti, e non per James, ma per gli uomini e le donne delle vicinanze. Come solitamente accade, fu per puro caso che questo gli venne in mente, la domenica dopo il suo arrivo al castello. Fino a quel momento, aveva
limitato le sue passeggiate ai confini della proprietà annessa al castello. Il giorno in cui s'era avventurato oltre, con muratori e operai fermi a causa della pioggia, non aveva pensato ai rischi che correva. Ma era una bella giornata e, passo dopo passo, s'accorse d'essere arrivato a una posteria in rovina con campi di grano ed erba medica in parte tagliati che andavano elevandosi in una collinetta. Non c'era nessuno in giro, a meno che non si tenesse nascosto, né si scorgeva alcun segno di vita. Dopo la posteria, cominciò a salire su per la collinetta. Un uomo può arrovellarsi sulla meschinità dell'umanità e delle cose che fa sulla terra, ma può non vedere il grano ondeggiare al di sopra dei papaveri e dei fiordalisi, né sentire il mormorio del timo o il frusciare delle foglie di granoturco. Acuti ronzii di indaffarati insetti echeggiavano nelle orecchie di James Hopley, gli occhi rapidi di un uccello guardarono nel suo per un momento, e vicino ai suoi piedi una zolla di terra si mosse, un porcospino. E per quello che ne sapeva, James Hopley avrebbe potuto guardarlo per l'ultima volta. Qualcosa gli era salita in gola. Era la vita di cui avrebbe sentito la mancanza. C'era stato sicuramente un tempo... Ma cos'era il tempo rispetto a quella lineare semplicità? La macchiolina di un insetto sulla sua mano: la sua agonia, avesse voluto distruggerlo, sarebbe stata lunga quanto quella che James Hopley aveva sopportato, ma la sua gioia nei luminosi minuti di sole era lunga. Era senza fine come quei baci che le donne danno agli uomini, ma non a lui, baci che sembrano tenerli in vita per sempre durante lo smisurato minuto in cui le loro ciglia s'abbassano e palpitano. Oh, se l'uomo avesse potuto avere null'altro che retorica e amore e liberarsi di ogni malvagità! E in quel momento si ritrovò in cima alla collinetta, a guardare giù dall'altro versante. La snella forma di una chiesa si stagliava contro il fianco di un'altra collina e, oltre la chiesa, la strada si snodava tortuosa tra le fattorie. Ma c'era anche qualcos'altro. In un piccolo campo di fianco alla chiesa sembrava essersi radunata tutta la gente del villaggio. Marsac non aveva detto niente a James Hopley di una qualche fête, ma c'era, e in pieno svolgimento. Erano state allestite una mezza dozzina di tende con festoni che garrivano al vento. Vi si stavano facendo dei giochi e l'aria risuonava degli schiocchi di fucili ad aria compressa. Poté vedere il curé, piccolo e nero nella sua sottana, muoversi tra le madri e organizzare i bambini. C'era una siepe che circondava il campo. Fu pura fame di cuore che spinse James ad avvicinarsi. Se fosse riuscito a tenersi al coperto del fianco della collina, forse non l'avrebbero visto. Discese con cautela e si acquattò in un fosso asciutto con la vegetazione che gli arrivava alle gi-
nocchia. La prima cosa che vide, o quasi la prima, sembrava essere stata messa lì apposta per lui. Su una striscia di calicò, ritagliata a mano, erano state tracciate delle lettere: Anciens Combattants de la Guerre. Ed erano là, con mezze gambe e bastoni e maniche vuote e medaglie di guerra, e giravano tra la gente, e Dio solo sa se non avrebbero avuto anche la sterlina di James se qualcuno gliene avesse parlato. Ma c'erano mutilazioni decenti, mutilazioni che facevano sollevare la testa a un uomo e tenevano alto il suo onore tra gli amici e facevano nascere il rispetto verso i loro bambini. James invece poteva soltanto starsene lì, a guardare, tenendo la vegetazione scostata con la mano. Non aveva mai saputo quali erano stati i primi occhi a posarsi su di lui. Per sfortuna, s'era trattato di una bambina che si era messa a gridare. E sebbene un istante dopo James Hopley non fosse più lì, già la madre s'era precipitata al fianco della bimba. Anche altre donne erano accorse per consolarla, per domandarle cosa l'avesse terrorizzata. Ma la bambina, scossa dai singhiozzi, non aveva potuto parlare e s'era stretta a sua madre. Senza più pensare a nascondersi, riprese la via del ritorno, coprendosi il viso con le mani. Si voltò una sola volta. Vide che dal campo lo guardavano, lo additavano. Un monello gli aveva puntato contro il suo fucile giocattolo, ne udì anche lo schiocco. Fuori vista, scorse sotto di lui la posteria per la quale era venuto. Meglio se fosse rimasto sull'altro lato. Perché gli uomini potevano capire che la guerra era la guerra, e le donne avevano sempre gli uomini alle spalle, ma quando James Hopley si avvicinava a un bambino, la madre e il padre si voltavano a guardarlo con occhi fiammeggianti. Quel mutilé maledetto non aveva dunque la decenza di stare alle loro porte? Di guardare un bambino perché il suo viso spaventoso non lo perseguitasse anche la notte? Chi era dunque lui, quel cadavere che Madame aveva mandato a morire al castello? Lui che era costretto ad aggirarsi furtivamente nel castello e solo di notte, e nonostante tutto la buona Mathilde Marsac non era rimasta un giorno di più? E dov'era Mathilde? Corri e prendila! Lei era quella che faceva domande alla bambina. Povera piccola Leonie! Non avrebbe detto niente a sua madre, ma l'avrebbe detto a Mathilde. «Francis! Charles! Voi avete visto lo straniero, l'inglese gueule cassée; diteci com'è, questo animale che terrorizza i bambini!» E Francis il muratore avrebbe detto che aveva guardato dalla finestra in un corridoio e che per fortuna la scala era assicurata alla cima o lui e la scala sarebbero piombati giù tanto era stato lo spavento alla vista di quello
straniero. E Charles avrebbe detto anche di più, che lo aveva visto nella sua stanza, che si vestiva, che si «metteva su» la faccia, perché, bien sur, non era la faccia con la quale dormiva, ma un'altra, che si toglieva e metteva sul comodino prima di infilarsi sotto le lenzuola. Ma un terzo andò ben oltre. Quell'inglese, quell'orrore, disse, aveva un occhio di vetro, cosa che, Dio voleva, accadeva molto spesso a un copain in guerra e non c'era nulla di male. Solo che, con l'occhio, il copain non ci rimetteva anche l'anima. L'inglese, ce cadavre, non soltanto aveva un occhio di vetro ma ci faceva anche scherzetti malvagi. Glielo avessero chiesto a Jacques Martin quando fosse tornato! Jacques glielo avrebbe detto che aveva incontrato quel miserabile tre giorni prima lungo il fiume, in quel posto che sapevano... sì, lo stesso. Si era nascosto sotto gli ontani ed era rimasto lì per spaventare i bambini. E lo stesso Jacques lo aveva visto togliersi l'occhio di vetro, pulirselo con un fazzoletto e rimetterselo nell'orbita. Non solo, aveva poi messo mano anche all'altro e aveva finto di pulire anche quello e aveva guardato Jacques con tutti e due. Cosa ha fatto Jacques? Potete immaginarlo. S'è guardato attorno per cercare un bastone, qualcosa... Ma prima che l'avesse trovato, l'inglese... questo eretico... se ne era andato, sparito, sebbene Jacques l'abbia cercato tra la vegetazione per più di mezz'ora. Quanto a lui, quello che parlava, desiderava che qualcuno scrivesse una lettera a Madame, a Parigi, per dirle che doveva licenziare il suo revenant o trovare qualcun altro. Quando Madame assumeva la manodopera non assumeva anche i suoi nervi. Mon Dieu, avrebbe bevuto un cognac, adesso. La storia di Jacques Martin lo aveva sconvolto... Così gli operai andarono all'osteria per discutere dei loro rapporti con Madame Blanche. Ma James Hopley sedeva tra i suoi arazzi e le sue porcellane, con il morale a terra. Che cos'era il mondo se non un luogo dove le bambine si spaventavano nel vederlo e i più grandicelli gli puntavano contro le loro armi giocattolo? Ancients Combattants de la Guerre! Era arrivato il momento di fare posto. Vide dalla faccia di Marsac quando entrò che aveva già saputo dell'accaduto. E Marsac adesso non aveva neppure la scusa della moglie alla quale badare. Gli lasciò la cena, s'accertò che il fuoco fosse acceso e se ne andò. Avvicinandosi alla legna che ardeva e allungando le mani come se fossero già fredde e rigide, James Hopley non scrisse nemmeno nel suo libro. 6 Ogni volta che James Hopley ripensava a quei giorni del 1916, ripensava
a un mondo di uomini ognuno con un viso e un nome e un grado e un numero di reggimento e una propria storia. E quello era stato un bel periodo in cui conoscere un uomo, perché si imparava più su di lui in mezz'ora che in tutti gli anni dopo l'Armistizio. Ma in quell'armonica ripetizione, ognuna di quelle cose banali e prive di importanza era andata persa. Lui ora aveva trascorso quattro notti in quella stanza Hotel Drouot, di sopra, sapendo con una certezza che era andata crescendo di notte in notte, cosa era quel suo compagno di stanza, ma senza avvicinarsi di un centimetro a sapere chi era. Sedette a lungo, quella notte, accanto al fuoco. Le fiamme sembravano far muovere avanti e indietro le rigide figure della tappezzeria, davano una tenue vita e movimento al campo di battaglia che era grande abbastanza per una parete di Versailles, ma nessun viso amichevole uscì dal fuoco per guardare James. Maledizione a lui! James aveva fatto del suo meglio per farsi conoscere; perché lui non poteva fare la stessa cosa? Se James era già stato una volta in quella tempesta di divise kaki, di fiamme, di gas, di fango e di cloruro di calce, poteva farlo di nuovo ma non l'avrebbe fatto così, da solo. Avrebbe avuto un compagno con sé, questa volta. Be', c'era un'altra possibilità... di notte. Forse il suo compagno aveva cambiato idea. Si alzò pigramente. Il compagno aveva cambiato idea. Per tutta quella notte il secondo letto rimase vuoto. Nella stanza stessa non accadde nulla. James giacque sveglio fino alle prime luci dell'alba. Poi, esausto, si addormentò. Ma fu svegliato da un brusco shock, un'ora dopo. Un rumore di vetri rotti. Qualcosa rotolò sul pavimento e si fermò. Girando la testa sul cuscino, James vide che era una pietra. Ora avevano intenzione di farlo uscire dal castello a colpi di pietra. E lui? Cosa avrebbe fatto? C'era stato un tempo in cui non se lo sarebbe neppure chiesto. L'intero villaggio sarebbe potuto andare al diavolo prima che lui si fosse mosso. C'erano diversi modi per rendere la pariglia. Ma qual era quello buono? Non era l'ostilità del villaggio che contava. Era quel doloroso fallimento della notte. Tuttavia in cosa aveva sbagliato? Ripensò a tutto ma non riuscì a trovare alcun errore. Era forse la presunzione che veniva punita in lui? Qualche peccato? Se lo chiese, scrutando nel cuore. Non riesco a capire quale grande errore abbia mai potuto commettere nella mia vita. Ripensando al passato, ho migliaia di azioni grette e meschine per le quali implorare il perdono ma non è stata la mia una vita abbastanza importante per un grosso peccato. Neppure abbastanza impor-
tante per una grossa sofferenza perché questa non è vera sofferenza. Bisogna avere del coraggio per definire l'angoscia ma questo è soltanto trasalire sotto il colpo quando arriva, e attendere il successivo. Avevo sperato in qualcosa di più coraggioso. Gli sarei andato incontro. Mercoledì prossimo sarà il momento cruciale. E ho un'altra notte. Se non accade nulla, mi sentirò come... Ma il modo in cui si sarebbe sentito è cancellato. Cita di nuovo un pezzo Maya sul Meglio e sul Peggio e un paio di ore dopo scrive: E ora Marsac sta per lasciarmi. Me l'ha appena annunciato. Gli ho detto che non poteva andarsene così ma che avrebbe dovuto almeno trovarmi qualcun altro, ma lui ha scosso la testa. Nessun altro sarebbe disposto a venire. Ma ha acconsentito a rimanere un'altra settimana. Poi, al posto mio, dice che se ne andrebbe anche luì. Al posto mio!... E sono stato di colpo interrotto. Ecco il curé che si avvicina alla terrazza. Ma questa volta non era l'amabile curé venuto a chiedere notizie di Madame Blanche, a Parigi, e a invitare James ad andare a stare da lui al vicariato. Aveva il più inflessibile dei visi e non erano passati dieci minuti che stava chiedendo a James se non gli sarebbe piaciuto pregare. «Pregare? Perché?» domandò James. Il curé lo guardò con aria decisa. «Non avete nemici?» Al che, James rispose con il suo tono abituale: «Nessuno che non si sia reso tale.» «È possibile che l'intero villaggio si sbagli?» «Devo pregare per l'uomo che ha lanciato una pietra contro la mia finestra, questa mattina?» Il curé aggrottò la fronte mentre giocherellava con la croce d'argento. Il lancio della pietra era evidentemente una novità per lui e gli fece perdere un po' della sua austerità. «Come vi ho detto, quest'aria non è salutare per voi. È meglio parlare chiaro riguardo la cosa terribile che vi è accaduta. Per le vostre ferite fisiche, così peggiorate (credetemi) in questo breve periodo, purtroppo non ci sono medici. Se a Parigi hanno fatto tutto quello che potevano, è la volontà di Dio. Ma se è ammalata anche la vostra anima c'è sempre la preghiera.» «Così il villaggio dice che anche la mia anima è ammalata? «Devo tapparmi le orecchie se vi vantate della vostra integrità.»
«Allora, se la mia anima è ammalata, dovremmo recitare la stessa preghiera, per lo stesso Dio?» «La mia preghiera e il mio Dio trionferanno.» «Basta. Non mi inginocchierò con voi.» Il curé si fece di nuovo austero. «Monsieur, venite qui e in meno di una settimana turbate il mio gregge. Già si dice di voi che se la terra vi ha inghiottito è stato come quando ha inghiottito Dathan e Abiram, che si calarono velocemente nel pozzo. Ma l'incenso di Dio, di cui io sono un prete, si è alzato tra il morto e il vivo. Vi chiedo di nuovo di pregare.» «Io vivo la mia vita da solo. Pregherò da solo per quanto ne è rimasto.» «I nostri Anciens Combattants dovrebbero simpatizzare e capire?» «Che cosa dicono?» «Che dove c'era già paura voi la rendete visibile. Io ho la protezione della mia Croce», se la rigirò di nuovo tra le dita, «ma se gli altri pensano che siete il Demonio non posso essere il pastore del mio gregge senza entrare nei loro pensieri.» All'improvviso, troppo esausto per continuare quella disputa, James si lasciò pesantemente cadere su una sedia. Era esattamente ciò che aveva pensato. Quel curé si faceva strada tra due mondi. Be', che facessero un po' quel che volevano. Chiuse gli occhi. «Ero sicuro che, venendo qui, voleste essere gentile, monsieur.» «Era mio dovere. Anche il vostro caso sarà difeso presso di loro. Almeno non saranno lanciate altre pietre. E visto che non volete pregare con me, lo farò io per voi.» Ma il curé parlava al vento. James si era addormentato. Quando riaprì gli occhi, l'altro se n'era andato. Ma durante quel breve intervallo di oblio, James aveva fatto un sogno curioso. Aveva sognato che era di sopra, nella sua camera, a preparare i bagagli per tornare a Parigi. Ora che le manifestazioni si erano improvvisamente interrotte, cos'altro lo tratteneva lì? Marsac gli aveva consigliato di andarsene. Il curé gli aveva chiaramente detto che era considerato alla stregua del Diavolo e della paura personificata. Perciò stava facendo le valigie per partire. Ma quando, nel sogno, faceva per uscire dalla stanza, si ritrovava improvvisamente a cercare la sua bottiglia dell'acqua. I suoi familiari abiti civili si erano chissà come trasformati in indumenti del periodo di guerra. Sul secondo letto erano sparsi il cappotto pesante, lo zaino, gli arnesi da trincea, l'elmetto, la maschera antigas.
Guardandosi, si vedeva le fasce alle gambe, le ginocchia macchiate, gli orli della divisa consumati. Aveva la pistola nella fondina fissata in vita, la canna del fucile era oliata, un pezzo di straccio era legato sopra l'imboccatura. La licenza di dieci giorni era andata a monte. Waterloo, il treno notturno e la traversata sotto scorta. Dove diavolo era finita la bottiglia dell'acqua? C'era qualcosa di più forte dell'acqua dentro. Ah, eccola sul lavandino di alabastro; che pazzo era, non si trattava della sua bottiglia d'acqua ma della maschera antigas che aveva perso. L'aveva vista sul secondo letto un momento prima. Maledizione alle cose che si perdevano a quel modo, e a lui che aveva premura di prendere il traghetto... E d'un tratto, sempre nel sogno, si era trovato in piedi davanti allo specchio dorato, a fissarsi. Forse sarebbe stato meglio se avesse cercato la maschera; lo faceva sempre. Cristo, che immagine infernale era con gli occhi stralunati, il grugno suino, l'immonda trachea che rientrava in se stessa, i tegumenti rimboccati come putride pieghe di pelle nel colletto... E subito gli era parso di soffocare come se una mano gli stringesse forte il cuore. Quella che guardava non era la maschera. Era la sua faccia. Si svegliò con un grido. C'era poco da meravigliarsi se spaventava il villaggio quando, anche in sogno, riusciva a spaventare se stesso. La paura personificata? Ora era arrabbiato. Quale paura? Diamine, la paura che avevano sempre avuto, quei ratti! La paura che li spingeva a ridere di giorno ma che, di notte, li faceva riunire alla locanda a dirsi sopra un cognac che ci voleva ben altro che un'ombra per spaventarli. Ma dal momento che avevano paura dell'ombra la cercavano per darle un corpo e in James l'avevano trovato bell'e pronto e a portata di mano. Nel giro di una settimana, era diventato un personaggio non meno famoso del Diavolo. E a quel pensiero, un raggio abbagliante squarciò le nuvole grigiastre che avviluppavano la sua mente. Il Diavolo? Lui? Perdiana, se quelli lo credevano tale, allora era in suo potere essere il Diavolo! Scoppiò improvvisamente a ridere. Piccole anime miserabili prive d'immaginazione che volevano farlo sparire dalla loro vista per poter parlare con una migliore coscienza del glorioso passato e dell'eredità per cui i loro padri erano morti! La corda aveva perlomeno detto una verità più chiara e completa. Si era voltato e si era allontanato di corsa, allora. Doveva voltarsi e mettersi a correre ora? E quella non apparizione della notte prima: che cosa aveva afflitto James al punto da guardarla come una calamità? Nella verità non si trovava l'esatto opposto? Che cosa ne era stato della teoria di James della prima e se-
conda volta se si applicava alle apparizioni e non anche alle nonapparizioni? Quella prima notte di insopportabile solitudine era stata mandata per metterlo alla prova. Era stata mandata perché provasse se era già abbastanza spirito maligno da resistere da solo. E lui aveva resistito da solo. Il suo viso era ora difficilmente riconoscibile come faccia e il massimo che era riuscito a fare il curé era stato di guardarlo senza indietreggiare. La paura personificata? Scoppiò in una risata che lo sorprese ma che morì di colpo. Da' a James una seconda notte di tranquillità e il fantasma in lui sarà meravigliosamente forte. Non la trita storia di Jean il contrabbandiere, ma lui, James Hopley e il Demonio che gli attribuivano di essere sconvolgevano il gregge del curé. Oh, non permettere che il freddo o l'odore o il respiro venga stanotte a rovinare la ricca perfezione di ciò! Era ansioso di iniziare subito quel profondo sonno privo di sogni. Quella sera, andò a letto senza mangiare e dormì come un ghiro. 7 Da bambino, poco prima che tirassero le tende della nursery, sul pomeriggio tardi, James Hopley si era a volte fermato davanti alla finestra a guardare il falso fuoco che sembrava ardere a mezz'aria, fuori, magicamente alimentato da se stesso. La gente in strada pareva che vi passasse attraverso illesa e il giovane James non aveva dovuto fare che un passo da una parte o dall'altra e il fuoco era scomparso. Naturalmente, si era trattato soltanto del riflesso del fuoco acceso nella stanza e tuttavia per James la sua realtà era stata tale che l'illusione era rimasta con lui per tutta la vita. A ciò aveva dato nomi diversi in tempi diversi. Una volta l'aveva chiamata ambizione, ma non era mai stato fatto per quella e l'ambizione non era durata a lungo. Poi, l'aveva conosciuto sotto il nome di amore e si era meravigliato che anche altri non si fermassero a riscaldarsi le mani presso quella cosa meravigliosa, finché, un giorno, uno di loro l'aveva fatto e fuori anche quello se n'era andato. E l'aveva chiamata conoscenza e piacere e un sacco di altre cose e ora si chiedeva quale forma stesse per prendere. Aveva anche contato le pagine che rimanevano nel suo cahier perché era sua intenzione continuare a scrivere fino all'ultimo. Ce n'erano quindici e la sua scrittura normale era piccola. Quindici sarebbero bastate e mentre le guardava si chiese che cosa vi avrebbero trovato a quell'ora, il giorno dopo. Era arrivato al castello un mercoledì e alle sei del pomeriggio del martedì seguente guardava gli operai che se ne andavano. Uno o due di loro lan-
ciarono delle occhiate da sopra la spalla ma James si tenne nascosto accanto a una grande lampada di onice, vicino al camino. Poi, quando anche l'ultimo scomparve, fece un giro per la tenuta di Blanche. I suoi sensi erano più acuti del solito, il suo unico occhio più attento. Era come se stesse facendo un'ispezione finale della proprietà prima di prenderne possesso. Notò quanti lavori ci fossero ancora da fare. Il vecchio orto doveva essere zappato prima della semina, per pulire il fossato ostruito sarebbero occorse settimane, sarebbero trascorse molte estati prima che i giardini assumessero un aspetto ordinato e prima che le parti restaurate del castello cominciassero ad assomigliare a quelle vecchie. Ma col tempo si sarebbero confuse e sarebbe stato strano se James Hopley non avesse avuto parte nel luogo che sarebbe diventato. C'era almeno una ragazzina al villaggio che, divenuta nonna, sarebbe stata in grado di raccontare come, in pieno giorno, lo spettro del castello le aveva fatto boccacce attraverso una siepe, spaventandola al punto che non si era più completamente ripresa, e un uomo anziano, accanto al fuoco, avrebbe annuito con aria grave e detto che era tutto vero perché anche lui l'aveva visto, a metà collina, dietro la chiesa, e gli aveva puntato contro il suo fucile giocattolo e quello era scomparso. Il sole stava calando dietro i ponteggi. Tingeva di rosa i nuovi camini e dava riflessi dorati ai buchi senza finestre. La vita era breve e quando scoccava l'ora si riduceva a una tale manciata di giorni che ci si meravigliava di quello che era stata. E all'improvviso, come ad annunciare quell'ora, una campana dal suono curiosamente duro si sovrappose ai suoi pensieri. Da dove proveniva il suono di quella campana? Era nuova. Che si trattasse di un'altra cosa che Blanche aveva preso all'Hotel Drouot? Probabile. Forse era Marsac che, non riuscendolo a trovare in casa, gli annunciava che la cena era pronta. Aveva la sensazione che Marsac gli avrebbe servito una cena speciale, quella sera. Salì lentamente i gradini che portavano alla terrazza. Come tutti gli amici di Blanche sanno, lei non si trasferì al castello la primavera seguente. Con grande dispiacere degli uomini del villaggio ma anche come conferma finale che tutti aspettavano, i lavori vennero improvvisamente interrotti e sui giornali di Parigi apparve un'inserzione in cui si diceva che un castello Enrico IV, in parte arredato e che abbisognava soltanto di piccoli restauri, era in vendita, che non si rifiutavano offerte ragionevoli e che era libero subito. Nessuno ha ancora concluso l'affare. Ne andarono diversi a visitare la proprietà, che ora non ha neppure un custode, e l'ultimo, un industriale nel campo dei motori, fu avvicinato mentre torna-
va alla macchina da un vecchio calvo e con la barba che disse di chiamarsi Marsac e che viveva nel piccolo pascolo dietro la locanda, era in grado di raccontare a monsieur tali e tante cose sul castello, e che, per il resto, faceva strani lavori quando dovevano essere fatti mentre sua moglie badava ai bambini delle donne che lavoravano nei campi. Che cosa accadde tra Marsac e il magnate di motori non si sa, ma l'auto si allontanò e non si è più vista da allora. Così le cose si riunirono da sole. Uno insiste con il dare la sua versione della faccenda, un altro la sua e così via, ma quando si mettono tutte insieme, quei cahiers di James Hopley sono l'unica testimonianza diretta che rimane, una registrazione di ciò che accadde, fatta nel momento in cui accadde. Sono scritti a matita, apparentemente mentre chi scriveva era a letto. La prima annotazione è delle undici e trenta, quando tutto è fermo, fuori, e la quiete regna sovrana nella sala d'oro e alabastro. Il suo polso era normale, il respiro regolare e James Hopley non aveva bevuto vino. In tali circostanze, il suo racconto personale termina e la nuova leggenda inizia. 11.45... Ancora niente ma è presto. Scrivo per ammazzare il tempo mentre aspetto. Naturalmente è stata una sciocchezza quella di prendermi una rivincita tormentando questa povera gente. Ora ho altre cose cui pensare. Ma non credo che mi piacerebbe essere il curé di un posto come questo, anche se suppongo che la storia di Dathan e Abiram sia frutto di Madame Marsac. Ha quel tipo di sguardo cui ora penso. Povero Marsac! L'ha presa piuttosto male. Mi sono accorto che era indeciso nel darmi il preavviso. Non voleva rimanere ma non voleva neppure andarsene. Un bel legame tra di noi nel giro esatto di una settimana. Mi ricorderò di Marsac. Ammesso che ci si ricordi di queste cose, dopo. 12.15... Ancora niente ma mi chiedo che cosa abbia appena portato Tommy Allinson nella mia testa. È morto a Loos. Ma è morto bene e alla svelta, non come me e quest'altro tipo. Tu non hai anni di ricadute dopo e non entri in una clinica quando ti hanno trapanato la testa. È buffo che mi ricordi di Tommy e di qualche altro ma non di questo tipo. È sempre sulla punta della lingua. Nomi come Hobbs. Briggs. Crabbe. Comunque era un vero diavolo, appeso nell'oscurità sotto quella trave. Respirava ancora quando l'hanno portato fuori; è stato scosso da un brivido, ricordo, e quell'ora prima che venissero per me mi è sembrata più lunga di tutte le altre messe insieme. Australiano, sergente, Quinta Divisione. Dopo, a Horseferry Road, hanno pensato che fossi un po' tocco a chiedere di un uomo di cui non sapevo niente, niente nome, niente numero, niente unità, niente di
niente. Ma erano duri tutti quegli australiani. Quella volta, in trincea, quando hanno trovato una loro intera sezione di uomini morti che indossavano biancheria intima femminile. Non è venuto da Brisbane, ora? Diavolo, perché non ci ho pensato prima? Un tipo robusto, un benda sull'occhio destro, bestemmiava come una furia e veniva da Brisbane. Perché non l'ho detto a Horseferry Road? Higgs. Biggs. Certi nomi corti. 12.30... Continuo a guardare la botola che Marsac dice che hanno murato. Ma so che non è sempre puntuale. Aspetto. Che cos'è quello? Ho creduto di sentire qualcosa. Wee-e-e-o-o-o-ooo-bump! Non è niente. Solo Jerry che si è svegliato. Mezz'ora e la smetterà. Si può fissare l'orologio su Jerry. Vale la pena di vedere che cosa gli faremo quando sarà il nostro turno. Qualcosa di molto brutto, me l'ha detto un tale che è riuscito ad andarsene. Aspetta un momento... era qualcosa di sopra... 12.55... (Nota: questa annotazione consiste soltanto nell'ora.) 1.30... Non posso dire che mi dispiace che sia finita. Un inferno, ma era bello e solido sopra di noi quella volta! L'altra dev'essere stata l'ultima frana di terra. Perché non riesce a stare dove la mettono invece di scivolare e brontolare come la pancia di un uomo? Ti è mai capitato, sterratore? Non mi piace il fatto che lui sia così tranquillo. C'è qualcosa che preme contro il mio piede destro e che prima non c'era. Prima non puoi muoverti, poi allenta la pressione e tu hai paura di sollevare un dito. Cristo, quel bastardo si è svegliato. Eccolo di nuovo. Diavolo, calmati, uomo. Non sono neppure io su un maledetto letto di piume? Qualcosa striscia sulla tua faccia? Non te la fanno pagare di più per questo. Non sento più le gambe. Giorno o notte? Come accidenti faccio a saperlo? Che cosa credi che sia, una meridiana? Smettila o ci sarà un'altra maledetta vibrazione o qualcosa del genere. Ehi, puzzi, o qualcuno puzza! Ci sono altri oltre a noi, qui? Lo stesso vecchio odore, ragazzi, buon per voi, non vi fa pensare troppo a voi stessi. Per amor di Dio, basta, uomo! Ascolta, quelli erano picconi. Pale. Voci. Le ho sentite... maledizione a te, ti dico che le ho sentite! Oh, mio Dio, ha smesso! Svenuto, questa volta, credo. Ci sei? Tu... come ti chiami... vieni da Botany Bay... 2.05... Quella cosa contro la mia gamba destra è una scatola. Sono riuscito a toccarla con la mano. Comunque è di legno; il ferro è più freddo. La scatola delle munizioni, forse, con il manico di corda. Basta. Sta diventando eccitante. È un po' troppo grossa per essere una scatola delle munizioni. Forse è l'estremità di un carro rotto. Non si sa mai che cosa si può trovare quando un deposito salta in aria. Metri e metri. Mi meraviglio che
sia riuscito a passargli una corda e a dirgli di legarla in fretta a un tronco. Ehi, amico, sei sveglio? Hai una mano libera? C'è una corda qui. Una corda, uomo, mi senti? Molta. Allora libera le mani, scava e fatti strada. L'estremità di una corda che arriva... senza fretta... attaccati e prova di nuovo... abbiamo tutto il tempo che vogliamo... 2.15... Questo è strano. Il posto è tutto sottosopra e c'è una luce e io la vedo. Da dove arriva quella candela? Che cosa faccio a letto? Non cominciare a vedere cose che non ci sono, figliolo, o sei fatto. Sei saltato in aria. Due letti significano che vedi doppio e le camere da letto non puzzano così. No, legarla così in fretta alla trave non va bene. Vogliamo una presa sicura o il povero diavolo sarà ridotto in poltiglia se comincio a tirare. È svenuto di nuovo, adesso. Almeno avesse la fortuna d'essere morto. Puoi farti un sonnellino di dieci minuti, sterratore. Fa' tutto il bene del mondo, come dice Blanche. Sono stato un porco a svegliarti, quel pomeriggio; un vero egoista, non volevo il letto io e non volevo che ce l'avessi tu. Un uomo deve dormire quando può. Togliersi di torno. Spegnersi come una candela. Strano posto questo, una candela un minuto prima e niente quello dopo. E quella candela è quasi spenta. Meglio metterne un'altra in... Non ebbe bisogno di quelle quindici pagine. Le sue parole finali sono uno scarabocchio così tortuoso che dev'essere accaduto qualcosa di orribile. Una congettura è che infilando la nuova candela abbia rovesciato il portacandele sull'altro letto, facendo fuggire quel suo compagno; c'è infatti una piccola traccia di cera sul copriletto ma nessuna bruciatura. Il Cahier è stato trovato il mattino seguente rovesciato sul pavimento tra i letti, uno disfatto, l'altro intatto, come se fosse stato rifatto. La fine è quasi illeggibile, con le parole sparse per tutta la pagina. «Dannazione quiete si è mosso no si è solo voltato aspetto no si sta alzando la porta ascolta ho trovato una corda il Passato il Presente deve venire aspetta aspetta...» C'era un punto della grondaia che l'impalcatura di legno non riusciva a raggiungere, ma Francis, il muratore, pensò che legandola al punto più vicino dell'impalcatura sarebbe riuscito a curvarla sufficientemente e si sarebbe risparmiato la seccatura di fissarla di nuovo. Chiamò Marsac che passava di sotto. «Marsac! Avete una corda a portata di mano?» «Scendi un po' più giù ed entra dal finestrino. Ne troverai una sulle tra-
vi», rispose Marsac e se ne andò a preparare il caffè del signor Hopley. Francis scese ed entrò attraverso l'apertura. Trovò la corda o ciò che ne era rimasto perché era stata spezzata di recente. Sollevò lo sguardo verso la trave centrale dove si era staccata dalla carrucola e poi guardò di sotto, il pavimento senza assi. Là vide il resto della corda ma era attaccata a qualcosa. Il qualcosa indossava un pigiama e aveva i piedi scalzi. Francis volò via. Marsac era nel suo appartamento e stava versando dell'acqua bollente in un recipiente di metallo. Si voltò quando Francis, il muratore, entrò. «Hai trovato la corda?» Ma il giovane muratore riuscì soltanto a balbettare... «Sì... e voi... durante la notte... non avete udito niente?» Al tono della sua voce, il viso barbuto di Marsac cambiò colore. «Cosa? Udito cosa?» «La gueule cassée... suicidé... il s'est pendu... è opera di Jean il contrabbandiere... non l'ha fatto da solo... è lui che li spinge sempre a farlo... andate a vedere...» Ma in quel momento la porta ai piedi delle scale che davano sul retro si aprì lentamente, silenziosa. E quella di Jean il contrabbandiere fu un'apparizione che durò abbastanza soltanto per Francis, non per Henri Marsac. Il domestico diede in un grido acuto, come aveva fatto sua moglie prima di lui. Aveva ancora in mano il recipiente del caffè per il signor Hopley. Di colpo lo lanciò per l'appartamento, centrando il vano della porta, come prima aveva quasi lanciato la lampada accesa. Poi si lasciò cadere come uno straccio su una sedia e lì giacque, tremante. Il recipiente di metallo andò a sbattere contro l'estremità della porta aperta e cadde sul pavimento. Lentamente, ciò che era rimasto del caffè formò una pozza irregolare. «Mi ricorderò di Marsac», aveva scritto James Hopley. E se ne era ricordato. IL DIO DI NADELMAN Nadelman's God di T.E.D. Klein Dark Gods, 1985 Per molti T. E. D. Klein (1947) è balzato sulla scena dell'orrore nel 1984 con la pubblicazione del suo romanzo The Cerimonies che divenne un bestseller e vinse la British Fantasy Award per il miglior romanzo. Tuttavia, per gli appassionati Ted Klein è da lungo tempo un'autorità indi-
scussa di questo genere. La maggior parte dei suoi lavori sono pubblicati in piccole riviste ma nulla è sfuggito all'attento pubblico mondiale. Uno dei suoi primi racconti, The Events at Poroth Farm (1972), di fatto gettò le basi al successivo The Cerimonies e venne scelto da Richard Davis come uno dei migliori racconti horror dell'anno. Durante gli anni successivi, quando lo coglieva l'ispirazione, Klein scrisse racconti strani come Petey (1979), l'acclamatissimo Black Man With a Horn (1980) in perfetto stile Lovecraft, e l'altrettanto acclamato Children of the Kingdom (1980). Questi racconti vennero successivamente raccolti nel suo primo volume Dark Gods (1985), comprendente un nuovo racconto, Il dio di Nadelman. Nel 1986 la raccolta vinse il World Fantasy Award come miglior novella. Non c'è altro da aggiungere. Nadelman non avrebbe mai dimenticato il suo primo incontro con un mago. Successe un uggioso giovedì sera, in un novembre dei primi anni '70 in un club S&M conosciuto con il nome di Chateau 21. Il club si trovava nello scantinato di un edificio con la facciata di arenaria sul tratto occidentale della 21a Strada, proprio sotto uno dei vecchi negozietti di libri dell'occulto di tutto il quartiere di Chelsea. Al piano terra si potevano comperare edizioni economiche di libri scritti da gente con nomi come Ashtoreth Grove e dottor Hermes Fortune, oppure portachiavi fatti con sferette di cristallo, tavolini per i tarocchi, coltelli con il manico a forma di zampa di capra e piccoli satiri di cera. Lo scantinato invece era stato trasformato in un bar, pieno di drappi di velluto nero, candelabri di ferro battuto e con un murale raffigurante una bionda prosperosa distesa su un altare. Durante il week-end il posto si affollava di gente per i seminari di autoipnosi o di lettura dell'aura, mentre tutti i lunedì ospitava le sedute spiritiche di un gruppo proveniente dal New Jersey. Quella sera Nadelman e la donna che in seguito sarebbe diventata sua moglie avevano preso la metropolitana a Brooklyn pervasi da uno spirito di avventura. Nadelman indossava un giubbotto di pelle che non metteva da quando aveva finito l'università mentre Rhoda si era infilata quei pantaloni di cuoio nero dall'aria particolarmente scomoda che avevano attirato la sua attenzione il giorno in cui aveva fatto la sua prima apparizione all'agenzia pubblicitaria. Il Chateau era aperto solamente ai soci ma il giovedì sera, avevano letto sul Voice, si poteva entrare liberamente per controllare cosa succedeva, per la modica somma di dodici dollari per gli uomini, gratis per le donne.
Nonostante questa disparità di trattamento, la maggioranza della clientela comprendeva maschi dall'apparenza di uomini d'affari provenienti da fuori città alla ricerca di qualche ragazza da rimorchiare o semplicemente una persona con cui chiacchierare un po', forse per avere qualcosa da raccontare quando ritornavano a St. Paul. Nella debole luce del locale tutti avevano un'aria persa e vagamente imbarazzata. C'erano solo cinque o sei donne in tutto il locale, compresa una ragazza dall'aria bruttina e con il volto butterato che camminava tra gli avventori con un sorriso frastornato, coperta da un paio di mutandine di cuoio ed una pesante catena incrociata tra i suoi ridicoli e flaccidi seni. Sulla sua guancia sinistra si vedeva una stella capovolta a cinque punte, nera come se fosse stata appena tatuata, ma Nadelman era sicuro che era stata disegnata con un semplice pennarello. Quella stanza gli ricordava l'interrato ammobiliato di qualcuno che conosceva. Non c'era molto da mangiare, solo salatini in piccoli contenitori di latta. Si poteva bere solo birra in lattina che il barista pescava in un bidone di plastica grigio pieno di pezzi di ghiaccio galleggianti nell'acqua sozza. A pochi metri di distanza un uomo sulla cinquantina, grassoccio, si piegò su uno sgabello vicino al bancone, tirò giù i pantaloni e si lasciò sculacciare da una negra imponente. Gli uomini che si trovavano lì accanto allontanarono lo sguardo con aria preoccupata ma il suono delle staffilate echeggiavano nella stanza, coprendo persino la musica heavy-metal che un altoparlante diffondeva da un angolo. Il mago se ne stava appoggiato al muro di fronte con un manuale Budweiser in mano, a pochi passi da un mucchio di lattine contorte ammonticchiate sul pavimento. Il ventre dilatato dalla birra gli sporgeva dai jeans stinti e indossava una maglietta con un teschio dall'aria lasciva sotto la scritta UCCIDETELI TUTTI - CHE DIO LI SCELGA! Il volto era coperto da una barba irsuta che faceva un tutt'uno con il torace villoso. Non assomigliava affatto a un mago, anzi pareva piuttosto un Hell's Angel. Stava confabulando con una donna dai capelli rossi minuta e tracagnotta, muovendo il capo per sottolineare l'importanza di qualche sua idea. Da dove si trovava, Nadelman riusciva a distinguere qualcosa che luccicava sul lobo sinistro del suo orecchio. Si era all'inizio degli anni settanta e Nadelman non poteva considerarsi ancora un uomo navigato. Questo infatti era il primo uomo con un orecchino oltre a quelli che aveva visto nei film di pirati. Nadelman se ne stava lì a guardare quell'uomo che deglutiva la sua ulti-
ma birra e stritolava la lattina con un gesto distratto lasciandola cadere sul mucchio che si trovava accanto ai suoi piedi con la stessa indifferenza di un commensale che appoggia sul tavolo un tovagliolo stropicciato. Allungò un braccio attorno alla vita della rossa e si incamminò verso il bancone facendosi strada a spintoni e urtando violentemente con una spalla uno degli uomini d'affari che gli ostruiva il passaggio. Un attimo più tardi Nadelman li vide fermarsi a salutare la ragazza con le catene incrociate sul seno. La ragazza ricambiò il saluto con un cenno del capo, in modo familiare, con l'atteggiamento impettito tipico di una celebrità che riconosce i suoi pari e si allontanò. L'uomo si rivolse alla sua donna e le urlò qualcosa all'orecchio. Entrambi fecero una smorfia, la donna con malcelato disgusto, e poi si persero in mezzo alla folla di bevitori. Nadelman si appoggiò al legno chiazzato di birra del bancone e soprappensiero si chiese se non era forse ora di andarsene, Nonostante fosse fiero di se stesso per essersi avventurato in un locale della S&M, questo posto lo intristiva e lo deprimeva. Rhoda gli stava seduta accanto: grazie alla sua avvenenza era riuscita ad assicurarsi uno dei pochi sgabelli di tutto il bar. Alzò lo sguardo dalla sua lattina. «Credi che l'atmosfera diventi più allegra?» «Come no, in fine serata ci spruzzano con il selz.» «Magari lo facessero. Questi pantaloni mi fanno bollire!» «Ehi, chiappe calde!» biascicò una voce alle sue spalle. Nadelman si sentì urtare da dietro e si girò per vedere quello zoticone in maglietta che guardava Rhoda con sguardo spento e il braccio ancora attorno ai fianchi della rossa. Nadelman si inchinò verso lo sconosciuto sentendo la testa piena delle bollicine della birra ingurgitata quella sera. «Temo di non aver capito il suo nome.» L'altro allungò una mano che Nadelman si accinse a stringere ma all'ultimo momento si accorse che quella era occupata da una lattina. «Lenny» si presentò l'uomo. «Stavo ammirando l'equipaggiamento della sua signora.» Con la birra si limitò ad indicare le gambe di Rhoda. Nadelman abbozzò un sorriso controvoglia. «Io stavo ammirando il suo orecchino», disse facendo un cenno col capo in direzione del pezzetto d'argento che luccicava all'orecchio sinistro dell'altro. Era la versione in miniatura di una forma che aveva già visto, una stella a cinque punte capovolta. Si accorse solo in quel momento che la rossa ne indossava un altro uguale. «Bello» aggiunse «fattura eccellente.» «Ci mancherebbe altro» esclamò Lenny orgoglioso e al contempo irrita-
to. «Ce ne sono solo nove in tutto il mondo. Io e Tina conosciamo l'artista che li ha fatti.» Alzò una mano e sfiorò l'orecchino con un gesto stranamente civettuolo. Nadelman notò lo stesso disegno tatuato sul palmo della mano. «Quella stella ha un significato particolare?» La fronte dell'uomo si corrugò con aria minacciosa. «Particolare cosa?» «Voglio dire, è il simbolo di qualcosa?» Tina lanciò un'occhiata inquisitiva al suo compagno mentre Lenny squadrò per bene Nadelman e la sua amica, come se dovesse decidere seduta stante se doveva fidarsi di loro. «Sì» disse dopo un attimo, «proprio un simbolo... il simbolo del nostro sabba. Sai cos'è un sabba amico?» «Certo» disse Nadelman con aria sicura. Anni addietro, durante il suo secondo anno di università, gli era presa la mania dell'occulto e aveva letto tutto quello che si poteva trovare sull'argomento, da John Dee a von Daeniken. «È più o meno una congrega di stregoni.» «Niente male» rispose Lenny. Tina annuì in segno di approvazione. «Questo è esattamente ciò che siamo io e Lenny», aggiunse. «Siete dei maghi?» Nadelman cercò di mantenere un atteggiamento composto. Dietro di lui aveva sentito Rhoda trattenere a stento una risatina. «Hai fatto centro, amico» continuò Lenny grattandosi la pancia mentre Tina appoggiava un braccio sulle sue spalle muscolose. «Non è come probabilmente credete che sia. Cioè, non sacrifichiamo bambini o stupidaggini del genere.» Tina sogghignò. «Noi facciamo quello che dobbiamo fare, capite? Vivi e lascia vivere, questo è il nostro motto.» «Oh, sicuro.» Nadelman annuì con vigore, proprio nel modo in cui era solito fare quando si trovava nelle vicinanze di persone pazze, forse pericolose, che avevano la fortuna di essere più grosse di lui. Lenny aveva l'aria di essere ben fornito di muscoli, l'autentico tipo che alzava pesi nel suo scantinato o riusciva a sollevare un paio di pneumatici mentre lavorava sulla sua macchina, oppure proveniva dai sobborghi dove gli uomini sembravano nascere con braccia piene di muscoli e peli, proprio come le persone ricche nascevano con gli occhiali. Rhoda aprì bocca e parlò con molta più enfasi del solito grazie all'alcol che le circolava nelle vene. «Lei è la strega, giusto?» disse indicando Tina con la punta del naso. «Ma tu, cosa saresti? Uno stregone? Un mago?»
Lenny scosse la testa. «Ah, ah» disse, «queste sono esattamente le cazzate che la gente crede. Ci possono essere maghi e maghe. Gli stregoni...» Fece una smorfia. «È tutta un'altra storia. Quei bellimbusti si interessano di magia nera. Noi invece al Wicca, alla magia bianca... a meno che qualcuno non ci faccia veramente arrabbiare!» Rise soffiando alitate di birra in faccia a Nadelman. «Allora sì, ragazzi, che quel qualcuno fa bene a stare attento!» «E funziona veramente?» chiese Rhoda. «Alla grande!» Attesero che si decidesse a esplicitare quella esclamazione ma Lenny si guardò attorno, come se stesse cercando degli amici. Infine Nadelman ruppe il silenzio. «A cosa ti è servita la magia?» Tina ridacchiò urtando Lenny con un fianco. «Ha migliorato la nostra vita sessuale, vero?» L'uomo ghignò. «Adesso vi spiego» disse lanciando occhiate di fuoco ai due ascoltatori, «la nostra vita sessuale non ha bisogno di miglioramenti. La mia vecchia è un vero fenomeno a letto!» Nadelman guardò Tina furtivamente e si accorse che stava sorridendo in segno di approvazione. C'era qualcosa di eccitante nel modo in cui quel tizio si vantava della sua vita sessuale davanti alla sua donna, in quei termini. Tina aveva una corporatura minuta ma solida. Poteva essere vero, era proprio quel tipo di donna che non si sarebbe rifiutata di partecipare a un'orgia con maghi, ciclisti o con chissà chi anche se tutta quella accozzaglia di braccia pelose, ventri gonfi di birra e tatuaggi poteva non sembrare un diversivo. «È difficile dire con esattezza» continuò Lenny con lo sguardo fisso sui pantaloni di Rhoda. «Sarebbe come il tizio del nostro raduno che uscì e si trovò al primo colpo un lavoro migliore. Oppure un'altra coppia aveva cercato dappertutto un appartamento e come un fulmine a ciel sereno ne trovarono uno.» «E con affitto irrisorio» aggiunse Tina. Nadelman annuì, deluso. «Questo è già qualcosa, va bene.» «Ma è molto più di questo» aggiunse Lenny. «È anche una religione, capisci? Come una qualsiasi altra religione. Abbiamo le nostre funzioni, le nostre cerimonie, le nostre idee...» Scrollò le spalle. Sembrava stesse parlando della sua squadra di bowling preferita. «Noi cerchiamo di ritornare alle origini, capisci? Alla forza vitale. Prima dell'arrivo della chiesa e di
tutte le altre menate.» «Sì, capisco» disse Nadelman. «Una specie di religione precristiana, giusto? Come il paganesimo?» «Ehi, ma tu conosci un po' l'argomento» disse Lenny squadrandolo guardingo. «Non sarai mica un iniziato per caso?» Nadelman si sentì adulato. «A dir la verità, ho letto parecchio alcuni anni fa.» Scandagliò la sua memoria alla ricerca dei nomi. «Aleister Crowley, ad esempio.» «Conosco chi è» disse Tina. «Quel tizio pelato. Vendono i suoi libri su, in negozio.» «E quel tipo, Huysmans» continuò Nadelman, «quello che ha scritto LaBàs.» Due sguardi allibiti. «E Montague Summers...» «Oh, certo, lo conosco» disse Lenny. «Abbiamo un paio di libri suoi a casa. Un sacco di pagine in latino e tedesco!» «Esatto, e senza traduzione. Mi piaceva anche leggere un mucchio di narrativa sovrannaturale. Lovecraft, quel tipo di cose.» «Ehi, quella roba non è semplice narrativa!» disse il mago. «Assolutamente! Il tipo la sapeva lunga. Credimi, amico, lo so. Dovresti imparare a leggere tra le righe. È tutto scritto lì, i suoi dèi e demoni, e tutto il mito di Dagon...» Pronunciò quel nome biascicandolo un po'. «Te lo dico io, il tizio ne sapeva di più di quanto lasciasse trasparire dai suoi scritti. Devi sapere cosa cercare, proprio come faccio io.» Anni più tardi, quando iniziò a ricevere le lettere di Huntoon, Nadelman ricordò cosa di quel mago l'aveva spaventato così tanto: la sua millanteria, la sua sicurezza che la conoscenza era nascosta a tutti, tranne che a lui, e la sua profonda fede nei piaceri della vendetta. Allora sì, ragazzi, che quel qualcuno fa bene a stare attento... C'era una lezione da imparare dalla gente di quel bar e Nadelman non s'era fatto pregare per apprenderla. Aveva scoperto che il mondo era pieno di gente triste, solitaria e patetica. Fondamentalmente si trattava di brava gente, la maggior parte di essi, che si meritava un po' di compassione o addirittura era degna di rispetto. Ma molti di loro, in particolar modo quelli che avanzavano la pretesa di possedere la saggezza celestiale, il potere soprannaturale, una scappatoia magica alle leggi dell'universo, non erano esattamente il tipo di persone che avrebbe voluto avere come amici. Erano infatti troppo inclini a fantasticare, a recitare e anche a rimanere delusi nei confronti di qualsiasi cosa potesse dare alle loro squallide vite un tocco di
ingannevole drammaticità. Per troppi di loro l'occulto era nientemeno che un ponte che si estendeva tra la cosmologia e il sesso sfrenato. In una parola, erano delle persone sgradevoli. Più tardi avrebbero incontrato i loro consimili in altre classi sociali. C'erano i militari sgradevoli, i mangia-a-ufo come li chiamava lui, con il loro disprezzo per i civili e la loro inclinazione per quel gergo altisonante da macho. C'erano le persone sgradevoli e banali, quelli che leggevano il Times da cima a fondo e non si dimenticavano nemmeno le pubblicità; i cinefili sgradevoli che guardavano tre film al giorno e li esaltavano tutti e tre indiscriminatamente; i fanatici religiosi sgradevoli che avevano trovato Gesù o Jehovah e volevano che tutti lo sapessero. Aveva incontrato gli sgradevoli di sinistra, con i loro progetti per una rivoluzione dei lavoratori, e quelli di destra con montagne di armi nelle loro cantine. Si era incrociato con i tecnocrati sgradevoli che si vantavano della loro capacità di leggere lo Scientific American, gli enologi sgradevoli che si pavoneggiavano di sapere quale marca scegliere quando andavano al ristorante, i commensali della mensa che sproloquiavano sui propri quozienti di intelligenza, i consumatori che avevano fatto degli affari che nessun altro era mai riuscito a fare. I fissati di astrologia in ufficio gli avevano dato consigli insulsi riguardanti il mercato; nel suo condominio quelli che mangiavano solo frutta lo avevano avvertito che quanto mangiava era veleno, persino la verdura. I taxisti gli avevano assicurato che i risultati delle elezioni nazionali erano già stati decisi e che solo loro sapevano chi stava dietro a questa manovra. Una cosa li accomunava tutti, il semplice marchio della persona sgradevole, il fatto che tutti, indistintamente, sapevano, erano al corrente di informazioni negate agli altri mortali oppure che gli altri erano troppo stupidi per capirle. Credimi, amico, lo so... Questa gente aveva escluso qualsiasi domanda dalla propria vita perché già sapeva la risposta. Al contrario, Nadelman aveva concluso già da tempo che essi non sapevano nulla, o addirittura meno di nulla. Nel corso degli anni il mago dal petto villoso si era trasformato nella mente di Nadelman in un insieme di tutti loro, il loro rappresentante eletto al Congresso. Tuttavia bisognava dar loro credito di almeno una cosa: se Nadelman aveva conservato un fioco barlume di interesse adolescenziale per la stravaganza, il mago gliel'aveva dissipato completamente, quelle dita sudice avevano spento l'ultima candela mistica. Nadelman non avrebbe sprecato altro tempo per la càbala, la guarigione olistica, i trentanove sca-
lini verso il potere e la saggezza orientale; tutto questo non era altro che le bandiere attorno alle quali si riunivano i perdenti. Da ciò concluse che il campo di battaglia quotidiano della agenzia pubblicitaria gli sarebbe stato sufficiente e che la tredicesima e gli incentivi gli bastavano come ricompensa. I boschi pullulavano di pazzi armati di mantra a mandala, volumi di conoscenza esoterica, iter verso la divinità, ma dubitava che essi vestissero abiti decenti come i suoi, o si profumassero come lui, o che guidassero macchine grosse come la sua. Tutti morivano, in fin dei conti, i santoni come gli agenti pubblicitari. Questa robusta filosofia lo aveva sostenuto durante il successivo decennio in modo più efficace di quanto avrebbe potuto fare l'arte o la religione. Un tempo lui e Rhoda avevano vissuto a Cobble Hill, in uno scalcinato appartamento al quarto piano di un edificio senza ascensore, dove gli scaffali per i libri erano fatti di mattoni e assi di legno e la cucina era infestata dagli scarafaggi. Adesso abitavano sul lato prestigioso del fiume, in un appartamento con due stanze da letto e un garage nel seminterrato da 240 dollari al mese. Non andava più a correre attorno al piccolo parco di Congress Street ogni mattina, né scriveva poesie strane e disperate su un blocco a spirale prima di andare a letto. Si era iscritto a un circolo sportivo privato vicino al suo ufficio dove scioglieva, sudando, i chili in eccesso grazie a macchine di acciaio e cuoio, e l'ultima cosa che aveva scritto in rima era stato il jingle pubblicitario per la lozione Jergen. Aveva una moglie che era ritornata a lavorare in una ditta di grafica computerizzata, un figlio che frequentava la terza in una scuola speciale per dislessici, un'ipoteca di 160.000 dollari e un bassotto. Il venerdì, dopo l'ufficio, zittendo i sensi di colpa faceva dell'atletica erotica in un anonimo appartamentino al Village con una divorziata yugoslava conosciuta al circolo sportivo. Fumava ancora qualche spinello, ma insomma, lo facevano tutti. A metà della seconda settimana di ottobre la lettera di Huntoon arrivò come un'intrusione minore. Quando Nadelman giunse a casa dal lavoro quella sera, la lettera lo stava aspettando, appoggiata vicino al sollecito di rinnovo dell'abbonamento al New Yorker, all'estratto conto dell'American Express, la colletta annuale per l'associazione contro il cancro, tutta posta arrivata quel giorno. Corrugò la fronte quando la vide e mentre la stava leggendo scosse più volte la testa mormorando «Mio Dio!» e «Che tipo disgustoso!», anche se altri uomini nella sua stessa posizione avrebbero po-
tuto considerarsi adulati da una simile lettera. Essa infatti era, almeno in parte, la lettera di un ammiratore. Nadelman si rese subito conto che l'aveva ricevuta come risultato alquanto indiretto di una poesia che aveva scritta una ventina di anni prima all'università, durante quel suo periodo di amoreggiamento con l'occulto. La poesia dal titolo altisonante di «L'avvento dei Prometei: Una cantata», era una delle molte che Nadelman aveva pubblicato nel periodico letterario del circolo univesitario, L'Unicorno. L'aveva composta in segno di protesta contro l'obbligo di assistere alle funzioni domenicali che il suddetto circolo, da brava istituzione battista, aveva imposto in quel periodo a tutti gli studenti, cattolici, ebraici e atei. La poesia era stata, così la considerava, una specie di metaforico sasso scagliato contro la vecchia cappella e le sue orribili vetrate affollate di pii greggi di profeti, santi e salvatori. Il motivo più irresistibile era stato però la semplice imitazione. Aveva trascorso quasi sei mesi a leggere una quantità di libri sulla magia nera, si era trastullato con Swinburne, Huysmans, Villiers de L'Isle-Adam e il resto di quella combriccola decadente, per passare dai tormenti squisiti e grondanti di sangue di Lautrémont ai batraci orripilanti di Lovecraft. In poche parole, il sinistro e oscuro esoticismo cui tutti gli adolescenti vengono attirati lo aveva spinto a scrivere sul medesimo argomento. L'opera che ne derivò, un peana dedicato a un immaginario «rivale del Signore, dalle fattezze di lebbroso», era suddiviso in dieci parti, ciascuna delle quali con il proprio metro e, verso la fine, comprendeva una «Invocazione» dallo stile pacchianamente ricercato. Era stata la poesia più lunga, e più ambiziosa, mai tentata da Nadelman e che mai più avrebbe tentato. Contro ogni sua aspettativa, nessun membro del circolo era rimasto scandalizzato dalla poesia poiché al circolo nessuno leggeva L'Unicorno, salvo quelle quattro anime i cui nomi apparivano regolarmente sulle sue pagine. In ambito universitario gli avevano appioppato il nomignolo di L'Eunuco. Il destino del poema epico di Nadelman sarebbe stato identico a quello del resto dei numeri del periodico, ridotti in polvere e dimenticati sugli scaffali ammuffiti della biblioteca oppure, come la copia conservata da Nadelman, stipato in una vecchia valigia in un ripostiglio, in mezzo a una confusione di carte, fogli protocollo, scritti, blocchi fitti di annotazioni giovanili, se non fosse stato per Nicky Sondheim. Sondheim, di due anni più vecchio di Nadelman, era stato il redattore dell'Unicorno, un personaggio carismatico e chiacchierone dal sorriso sovversivo. Era la prima persona fumatrice di marijuana incontrata da Nadel-
man. Non viveva nel campus universitario, suonava la chitarra e si sapeva che aveva dormito con la moglie di un professore. Nadelman lo venerava come esteta e pensatore ma lo aveva perso di vista negli anni successivi alla laurea. Aveva sentito che Sondheim aveva tentato con poco successo di scrivere i testi di canzoni e, anni dopo, era diventato produttore discografico di spicco. Attualmente infatti era un dirigente della Warner con parecchi giovani gruppi rock emergenti nelle sue scuderie, tra i quali un gruppo da Astoria, i Queens, che, dopo essersi chiamati Rumpelstilskin, Fireflies, e una sfilata di altri nomi simili e poco originali, era ora conosciuto in tutto il mondo con il nome di Jizzmo. Come gli AC/DC, gli Iron Maiden, i Twisted Sister e una miriade di altri gruppi meno conosciuti, i Jizzmo si erano specializzati nella somministrazione di un rock assordante e satanico che faceva presa principalmente sui ragazzini in età preadolescenziale. La cantata di Nadelman, con i suoi versi che parlavano di «baci avvelenati», del «signore della tetra corruzione» e della «fame del verme digrignante» era pane per i loro denti. Quando, un anno più tardi, era giunto il momento di pubblicare il loro quarto album, Walpurgis Night, Sondheim era andato a rovistare nella sua collezione di vecchi numeri dell'Unicorno e fece in modo che il cantante solista del gruppo, Ray Minor, scrittore in gran parte delle loro canzoni, desse un'occhiata al poema di Nadelman. Si prestava alla perfezione al tipo di partiture arabescate, talvolta contorte che avevano decretato la fama di Minor. Nicky aveva persino convinto Reinhold Schramm, l'attore dall'aria grave e vestito con un camice che faceva la pubblicità della crema antiacne della Phiso-Derm, a declamare l'Invocazione. L'aveva descritto a Nadelman, tra una risata e l'altra, come «il pover'uomo di Vincent Price». Dopo una prudente opera di pulizia in qualche punto e la soppressione di qualche strofa sul castigo divino, il poema di Nadelman era riuscito ad entrare nel lato B dell'album ed era apparso con il nuovo titolo di «Il nuovo dio nel quartiere», proprio tra «Il corno maledetto» e «Diavolo d'un tempo». Nadelman non aveva mai sentito parlare dei Jizzmo prima dell'inverno precedente, quando Sondheim gli aveva telefonato inaspettatamente per dirgli che erano interessati al suo poema. Dato che dal modo in cui il gruppo lo cantava si riusciva a capire le parole solo se gli allungavano le orecchie per ascoltare e poiché i soldi che avrebbe ricevuto, milleduecento e rotti dollari più l'uno o il due per cento se la canzone usciva come single e un altro uno per cento se l'album saliva in classifica, era metà di quanto si sarebbe mai immaginato di ricevere; la scorsa primavera Nadelman aveva
accolto l'uscita dell'album con tiepido entusiasmo. Nicky lo aveva invitato a un party per festeggiare l'avvenimento a Tavern on the Green, dove Nadelman e la moglie, spiluzzicando tartine sporche di caviale, erano stati presentati ad alcuni membri di quel gruppo. Nonostante la loro aria trasandata e il loro ghigno minaccioso, caratteristiche richieste dall'immagine pubblica, Nadelman ebbe l'impressione di avere di fronte un gruppetto di semplici sbandati liceali, buoni e dalla risata facile, non più satanici di quanto non lo fossero i giovani impiegati dell'ufficio spedizioni. Con loro non aveva nulla da condividere, non si ricordava nemmeno i loro nomi. Dopo tutto aveva cose ben più importanti da fare. Aveva quarantadue anni, era uno dei più pagati dirigenti del gruppo Sheridan-Sussman, ideatore, praticamente unico, della riuscitissima campagna pubblicitaria per la Nobanana grazie alla quale si riuscì a guadagnare il nove per cento del mercato delle bevande analcoliche a base di frutta come la Sprite e la Seven-up. Si diceva che contenesse i gusti di otto frutti saporiti, eccetto quello della banana: per questo venne chiamato con quel nome e da qui il ritornello ormai sulla bocca di tutti: «Sì, abbiamo la Nobanana». Nadelman non nutriva illusioni sull'effettivo valore sociale del suo lavoro ma provava un certo orgoglio nel farlo in modo intelligente. Gli risultava difficile, invece, sentirsi fiero di venire immortalato in un album di rock-and-roll, soprattutto alla luce delle altre canzoni in esso contenute, la maggior parte delle quali era stata scritta da Minor. Tutte, senza esclusione, erano infantili e stupide. Anche le sue parole sembravano insignificanti, almeno quelle che riusciva a decifrare. La pazienza del ghiacciaio Il conforto dello stridio La crudeltà del rasoio che ti lacera il volto pio Cosa caspita mai stava pensando quando l'aveva scritta? Aveva conservato circa una dozzina di copie dell'album con l'intenzione di regalarle a qualcuno per scherzo un giorno o l'altro, oppure venderle se mai fossero diventate rare e di valore. Nicky gli aveva assicurato di sì: c'era, diceva, un «eccellente mercato per gli LP esauriti». «Un termine alquanto strano per i dischi» si limitò a rispondere Nadelman. «Esaurito!»
Due canzoni del Walpurgis Night erano uscite come singoli: «Il corno maledetto» e «La scopata della misericordia», meglio conosciuta con il titolo abbreviato di «Misericordia!». Grazie alla notorietà dei testi una versione spurgata di quest'ultima era riuscita a salire tra le prime quaranta canzoni in classifica, non che questo fosse un onore al quale Nadelman agognasse d'arrivare. Quel numero gli faceva venire in mente il concetto di mezza età. A differenza degli altri due successi, «Il nuovo dio nel quartiere» non divenne mai molto famosa. Era la canzone più lunga dell'album e per questo non era considerata adatta per un singolo. In qualche occasione gli amici gli avevano detto di averla sentita tutta intera, o nella versione leggermente più corta senza la parte strumentale nel mezzo, trasmessa da qualche radio d'avanguardia rock che non si limitava ai soli singoli. Ma Nadelman non ascoltava la radio, eccetto un paio di stazioni che trasmettevano sempre radiogiornali, e comunque non l'aveva mai sentita. L'unica menzione alla sua canzone che mai vide su un giornale fu su un periodico della costa occidentale, l'Ippodromo, rivista musicale specializzata di hard rock e heavy-metal con seri articoli dai titoli come «La Freak League batte il sentiero del ritorno» oppure «Il più grandioso concerto dei Motley Crue». Il numero di giugno di quell'anno conteneva un articolo di fondo scritto da un certo Jordan Steinbaum dal titolo «Satana è ritornato?» Nadelman sospettava che il punto interrogativo fosse stato la conseguenza di un ripensamento degli avvocati della rivista. In esso venivano analizzate tutte le canzoni del Walpurgis Night con particolari minuziosi e si concludeva che il principale messaggio dell'album si imperniava sul «nihilismo guardingo». Nadelman non avrebbe mai avuto tra le mani un giornale simile, non sapeva nemmeno che esistesse, ma Sondheim gliene aveva spedito una copia con una nota scritta su un foglio: «Sei famoso, ragazzo! Leggi a pagina 31.» L'articolo dava molto spazio alla canzone di Minor «Una vergine di troppo» e alla canzonetta dal titolo «Dannato» del famoso batterista del gruppo «Rocco» Roskone. Il contributo di Nadelman era stato lo spunto per un solo paragrafo sostanzioso: Ma per un semplice guazzabuglio metafisico, il grido di battaglia pagano di Roskone è un banale piagnucolio se lo confrontiamo con l'urlo più lungo dell'LP «Il nuovo dio del quartiere» dove la bravura di arrangiatore e l'abi-
lità pirotecnica della chitarra danno un valido sostegno heavy-metal alle arcane maledizioni di un paroliere non appartenente al gruppo dei Jizzmo, il misterioso «I. Nadelman» descritto dai pubblicitari della Warner come un semplice «poeta decadente e surrealista attualmente residente in un quartiere dall'aria bohemien di Manhattan». L'arrangiamento della canzone, che comprende una narrazione, è complesso in maniera sconcertante, come pure lo stesso testo che allude alla comparsa di una sinistra divinità «rivale» responsabile di tutti i mali dell'umanità: L'idolo del macello Il dio del cancro, della pazzia e del dolore. A meno che queste mie orecchie provate non mi traggano in inganno, essa fornisce agli ascoltatori una lista di ingredienti, una specie di ricetta allegorica per la costruzione di un servitore ad immagine del nuovo dio, presumibilmente in segno di venerazione. Musica esaltante per un gruppo caratterizzato da fans adolescenti come i Jizzmo, che indica forse la direzione che la banda intende prendere negli anni futuri. Nadelman si era divertito ad apprendere che il suo quartiere orientale della 76a Strada era la roccaforte dei bohemien. Forse Sondheim ci aveva messo lo zampino. Non conosceva più Nicky abbastanza bene da indovinare se quella battuta era uno scherzo ironico oppure semplice nostalgia. A quanto sembrava era stato quell'articolo che aveva fatto acquisire a Nadelman un corrispondente. Su una piccola etichetta bianca autoadesiva attaccata leggermente storta sull'angolo della busta si leggeva l'indirizzo del mittente: Signora Lonee Huntoon, 1152 Locust Court, Long Beach, Long Island, NY, con il profilo di una piccola aragosta rossa. Le prime tre parole erano state cancellate con un tratto pesante e infantile di penna simile a quello con cui era scritta la lettera, con una penna a sfera a inchiostro nero su pagine strappate da un blocco per appunti a spirale, lasciando lungo il margine superiore delle perforazioni irregolari simili a bastioni crollati. Gentile Signore, Lei è l'unico I. Nadelman abitante in Manhattan e perciò spero che la lettera le venga inoltrata. Se invece cade in mani sbagliate
scommetto che siamo spacciati, vero? Mi ero immaginato che lei fosse uno di quegli scrittori della costa occidentale e non avrei mai pensato che invece vivesse vicinissimo a dove abito io!! Basta con queste sciocchezze. Probabilmente lei è un uomo molto occupato e non voglio farle perdere tempo. Però devo togliermi tanto di cappello nei suoi confronti. Lei sa quello che dice, davvero. Avevo provato i diagrammi dei libri di Crowley ma non funzionano per niente e ho provato anche il metodo cromatico Bledsoe, mi sono iscritto alla Astar Society e alla E.O.D. ma francamente non sono riuscito ad ottenere una posizione di potere. Poi ho deciso di ascoltare il nuovo album di Judas Priest al rovescio (lei capisce cosa voglio dire) su un aggeggio che ho inventato io. Mi pare di aver sentito qualcosa che parlava di Chi sta lassù a riscuotere la quota (non devo dirle di Chi si tratta, vero?) e nell'ultima parte dell'album ho sentito parlare in modo distinto di colui che «ci aspetta», e «ci sorveglia» oppure che «ci vede soffrire» o cose simili, ma tutto il resto non era molto chiaro. Mi fa schifo ascoltare Priest dopo quel concerto a Jersey City. Insomma, signore, non si può dire che è colpa mia, o no? Però sono stato un ammiratore dei Jizzmo dal loro sensazionale album Out/Rage/Jizz. (A proposito, lei conosce Rocco Roskone? Che tipo è?) La vera ragione di questa lettera è che sono rimasto entusiasta della sua canzone. Il modo in cui si esprime direttamente e dà quelle istruzioni per quella Creatura al servizio di Dio. Una canzone che farà rabbrividire gli altri, non crede? Credo che lei sia una persona molto coraggiosa per rendere pubblico tutto il Procedimento. Sto costruendo una di queste Creature a immagine di Dio, proprio secondo le sue istruzioni, sul tetto di casa. Di sicuro spaventerà a morte quelle maledette pesti che continuano a vivere lì e fare i loro sporchi bisogni disturbando la mamma, e lei per questo è d'accordo. Mi sono procurato tutti gli ingredienti e seguirò alla lettera le sue istruzioni. Ebbene, signore, so che lei è una persona impegnata ma c'è ancora una cosa che vorrei chiederle: come faccio a fargli la faccia come quella descritta nella canzone? («Liquirizia» viene detto, no?) È maledettamente difficile capire con quel maledetto riff di chitarra in sottofondo. Non riesco a scolpire una roccia come viene detto nella canzone. D'altra parte nelle vicinan-
ze non ce ne sono di sufficientemente grandi e tutti i meloni con cui ho provato sono venuti fuori una schifezza. Per favore, risponda presto!!! Cordiali saluti dal suo discepolo Arlen Huntoon Senza ombra di dubbio questo ragazzo era un suo ammiratore ma Nadelman trovò la lettera particolarmente molesta perché gli ricordava le lettere di sconosciuti che di tanto in tanto arrivavano all'agenzia, piene di reclami incoerenti per un prodotto difettoso, a volte con toni di deferenza che rasentavano il servilismo, altre con velate minacce o velatamente richiedendo un indennizzo, spesso passando di frase in frase da un atteggiamento all'altro. Era solito leggerle provando una sensazione non ben definita di pietà e repulsione, aggiungendo mentalmente un sic ogni due righe. La lettera di Huntoon suscitò la stessa reazione. Gli dispiaceva che questo individuo sgradevole fosse riuscito a scovare il suo indirizzo. Grazie al cielo non abitava vicino: Long Beach distava quasi un'ora di viaggio dalla stazione ferroviaria di Long Island. Nadelman stesso aveva trascorso la maggior parte della sua infanzia nei pressi di Woodland Park, che si trovava a sole due fermate di distanza sulla stessa linea. L'ammiratore medio dei Jizzmo era dodicenne, ma questo sembrava più vecchio. Ad ogni modo, viveva ancora con la madre e, a quanto pareva, aveva tanta considerazione nei suoi confronti da costruire una specie di spaventapasseri sul tetto, uno spaventapasseri costruito con il progetto dettato da Nadelman. «Di sicuro spaventerà a morte quelle maledette pesti...» Nadelman si ricordava che, quando vivevano ancora a Brooklyn, continuava a spaventare i piccioni che tentavano di nidificare sul davanzale della finestra della stanza di suo figlio per paura che il bimbo contraesse una di quelle malattie causate dagli escrementi di quei volatili, malattie di cui Rhoda leggeva sempre sul Times. A Long Beach probabilmente si trattava di gabbiani. «Babbo?» Michael entrò trotterellando in cucina dove Nadelman stava leggendo la posta. Mancavano pochi mesi al suo ottavo compleanno e raramente si limitava a camminare. «Visto? Guarda cosa ho fatto.» Nadelman appoggiò la lettera sul tavolo e guardò cosa gli stava mostrando suo figlio. Era una comune matita di legno con un sottile chiodo a U che sporgeva nel mezzo, come una minuscola porta da crocket.
«E cosa sarebbe?» «È una matita con una maniglia, così te la puoi portare appresso. L'ho inventata io!» «Ah-hah, una cosa molto utile!» Baciò il ragazzo tra i capelli inanellati ricordando che anche Huatoon aveva alluso a un «un aggeggio che ho inventato io». Forse tutti gli uomini erano inventori, lui stesso non aveva forse inventato un dio? Nadelman non riusciva a immaginarselo questo Huntoon, ma per un attimo se lo dipinse come una versione più scialba e distante di suo figlio, un ragazzino con la bocca spalancata dalla meraviglia per le straordinarie possibilità di piegare, avvitare e unire la miriade di cose esistenti a questo mondo. «Sinceramente spero che tu risponda a quel ragazzino» aveva detto Rhoda quella sera a cena. «A dir la verità, non credo sia una buona idea» le aveva risposto Nadelman con tatto. «È meglio non scatenarlo. Lasciamogli credere che non sono il Nadelman che lui vuole.» «Ah...» Rhoda aveva un'espressione preoccupata, la stessa che, quando la vide per la prima volta anni fa rivolta a vecchie ciabattone e a fannulloni, l'aveva costretto a rendersi conto che anche lei era effettivamente molto di più che una donna tutta sesso. In fondo, però, preferiva ancora quest'ultimo tipo di donne. «Tesoro, non è molto carino», aggiunse. «Scommetto che è la prima lettera di un ammiratore che ricevi in vita tua.» «E forse anche l'ultima» rispose Nadelman, «a meno che non decida di diventare una rock star.» «Insomma, io credo che tu gli debba una risposta.» «Sì, sì, lo penso anch'io», disse per evitare altre facce preoccupate e per cancellare l'immagine di una versione di suo figlio adolescente che attende sconsolato una risposta amichevole in un angolo anonimo di Long Beach. Il giorno dopo andò in ufficio con la lettera e la mostrò ridacchiando a un paio di colleghi. Più tardi dattilografò una breve risposta, del tipo che non contenendo particolari domande avrebbe scoraggiato ulteriori risposte. Gentile Signor Huntoon, La ringrazio per la sua gentile lettera. È simpatico conoscere qualcuno che apprezza il mio lavoro. Mi dispiace informarla che non conosco il signor Roskone e nessun altro membro del gruppo.
Non ascolto quasi mai la musica rock. Per quanto concerne la domanda sul tipo di volto da dare alla Sua creatura, temo di essere stato poco pratico nel far scolpire il mio eroe «con un volto da lebbroso*, intagliato nella dura roccia». Probabilmente il modo più facile per fargli un volto d'effetto è comperare una maschera di gomma di Halloween e infilarla addosso a uno dei suoi meloni. Buona fortuna e spero che questo consiglio Le torni utile! * non «liquirizia» Appoggiò la busta sul ripiano della posta in partenza e, soddisfatto della propria efficienza, si dedicò al suo lavoro: un documento in carta patinata su un affare per un nuovo dessert surgelato con il quale doveva familiarizzare prima dell'incontro di domani, alcune copie da vagliare (Ma certo. Gli Holiday Farm Cherry Treets hanno un sapore che piace a tutte le ore!), una telefonata al suo agente di borsa. Nel bel mezzo della conversazione telefonica, quando l'agente, niente più che una semplice voce metallica, si allontanò dall'apparecchio per controllare i prezzi del giorno, un pensiero inquietante assalì Nadelman: Non scatenare questa gente! ma venne subito distratto dal ritorno del suo interlocutore e dalla litania di cifre che gli facevano intravedere la differenza tra una vacanza a Dubrovnick e una nel Vermont. Quando ripensò alla lettera, la sua posta in partenza era già stata spedita. Non c'era nessun altro in ufficio cui egli potesse mostrare la lettera di Huntoon, tutti avrebbero reagito con disprezzo. Le lettere di ammiratori ignoranti erano, nella migliore delle ipotesi, un dubbio onore, e sebbene la maggior parte dei suoi colleghi erano consci del fatto che un vecchio poema del periodo universitario di Nadelman era recentemente diventato una canzone rock, egli non era sicuro che fosse politicamente saggio ricordarglielo più del dovuto. In fin dei conti l'ufficio pullulava di scrittori falliti che non erano disposti a guardare con compiacenza un collega che si dilettava, benché con atteggiamento umile, con le arti. Infilò la lettera di Huntoon nella tasca della camicia e quella sera, dopo cena, mentre in salotto sua moglie e suo figlio guardavano assorti e in silenzio un programma televisivo, aprì la porta del ripostiglio e da un angolo odorante di galosce e pattini trasse la valigia malconcia che conteneva quanto era rimasto dei suoi giorni universitari. Gli sembrava che non esistesse posto più appropriato dove archiviare la lettera di Huntoon. Non gli era mai passato per la testa di gettarla via, un giorno gli avrebbe potuto da-
re mezz'ora di sollievo, come una vecchia lettera di un'innamorata. La valigia era un'eredità del padre di Rhoda, un tempo elegante e forse costosa, ma ora la pelle era ridotta a un reticolato di graffi, simile a un foglio inzaccherato da un imbrattacarte pazzo, e le due chiusure di ottone erano inceppate a causa dell'umidità. Le fece scattare e la valigia si aprì come un libro lasciando fuoriuscire una cascata di carte che si riversò sul tappeto. Ai suoi piedi riconobbe le tenui copertine sbiadite della rivista letteraria dell'università, alcuni blocchi contenenti i suoi primi tentativi di scrittore e un cumulo di antichi quaderni pieni di appunti delle lezioni e di scarabocchi. Qui, infatti, in mezzo a tutto questo cumulo in disordine c'era il numero dell'Unicorno in cui il suo poema era stato pubblicato per la prima volta. Si sedette sul tappeto incrociando le gambe, girò velocemente le pagine ingiallite della rivista, scuotendo la testa mentre rileggeva quei caratteri marcati e pesanti (i suoi colleghi della Sheridan-Sussman, quelli dell'ufficio artistico, sarebbero inorriditi vedendo una cosa del genere), l'interlineatura e i margini irregolari, la presuntuosa retorica rivoluzionaria e l'ambizioso «Manifesto Estetiko» (Buon Dio, l'avevano veramente scritto con la «k»?) con cui il suo amico Nicky aveva fatto la prefazione al numero («Non cerchiamo un vasto pubblico per le espressioni contenute in questa rivista, quanto piuttosto la comprensione colta di un ristretto gruppo di appassionati della parola scritta con cui si possa condividere la stessa opinione...» Cristo, avrebbe potuto ricattare Sondheim con queste affermazioni!). La storia di fondo del numero era un breve brano narrativo vagamente romanzato scritto da una studentessa di un corso misto, proveniente dal Connecticut, che parlava della perdita della sua verginità. Nadelman si ricordò che sia lui che Nicky avevano perso la testa per lei. La fragilità e l'intensità di quella ragazza lo avevano fatto sbavare in quei giorni, ma in questo preciso momento l'avrebbe trovata esasperante. Era strano pensare che adesso quella ragazza aveva quarant'anni. Ah, ecco la sua opera: «L'avvento dei Prometei. Una cantata.» Come diamine era arrivato a un titolo così pomposo? Non si ricordava nemmeno cosa diavolo significasse benché rammentasse che l'aveva cesellato per ore, quella notte nella sua camera da letto. Le strofe della «Cantata», almeno, le ricordava in modo vago. Si era ispirato a un poema che aveva dovuto studiare per un corso: «La cantata dei pezzenti» o qualcosa del genere. Sospettò che l'uso di quel termine fosse, tecnicamente parlando, scorretto
ma non v'era ombra di dubbio che all'epoca quel termine lo avesse colpito come le mot juste. Non era affatto piacevole rileggere il poema dopo tutti quegli anni. Non riusciva a credere che fosse un suo lavoro, sembrava piuttosto quello di un figlioletto testardo e ingenuo, a lui unito con legami di sangue ma talvolta causa di imbarazzo per il vecchio genitore. Sapeva che i Jizzmo avevano levato parecchie strofe del poema per la loro versione musicale ma non gli interessava affatto confrontarle tutt'e due. Iniziò a leggere con una certa trepidazione, socchiudendo gli occhi al primo refuso scoperto nel titolo della prima parte: «La divina incanarzione». Gesù, non c'era da meravigliarsi se si era buttato nel settore pubblicitario! Erano dieci parti in tutto, ciascuna con il suo nobile titolo preceduto da un numero romano. Che persona ambiziosa era allora! E pensare che aveva intenzione di demolire la figura di Dio! Infatti la prima parte era simile all'accusa di un querelante contro il Signore: Un dio che puzza di carogna che il nostro sangue Egli agogna e della nostra carne si rimpinza Egli era fatto così in quel periodo: aveva scritto con lettera maiuscola il pronome personale per ottenere un effetto mistico e, per il piacevole brivido del proibito, «dio» con la lettera minuscola, come qualcuno che deliberatamente pronuncia male il nome di un nemico. Dio non era esattamente un nemico, dopo tutto. La colpa era di tutte quelle maledette vetrate della cappella che ogni domenica lo assillavano con la loro visione zuccherosa e artificiale del paradiso. Aveva deciso da molto tempo che chiunque credesse a una simile visione della vita dopo la morte meritava di esserci subito mandato. Il suo interesse principale nella stesura di quel poema era stato infatti un semplice ma profondo desiderio di essere blasfemo. In quel suo modo adolescente, Nadelman aveva cercato di essere all'altezza del suo nome: era l'uomo dell'ago e aveva intenzione di punzecchiarlo, questo dio. Non doveva esserci una ragione particolare: i giovani amano il turpiloquio nello stesso modo in cui i più piccoli vogliono comportarsi bene. Ironico a dirsi, ma nonostante la passione per le sue geremiadi, anche al-
lora era uno scettico. Era ben lontano dal credere al nuovo e crudele «dio rivale» descritto nelle strofe successive del poema, perché nutriva seri dubbi riguardo a quello vecchio. Il Signore, infatti, era scomparso dalla sua vita già da molto tempo, proprio come le altre tre divinità della sua infanzia: Babbo Natale, la Formichina e la Colomba Pasquale. Persino quando andava alle elementari, nonostante gli insopportabili sermoni del rabbino e le meraviglie descritte nei testi ebraici, sembrava non sussistesse nessuna ragione per cui bisognava credere a questo dio piuttosto che agli altri. Tutti erano semplici e piacevoli invenzioni sovrannaturali per il conforto delle menti innocenti. Più tardi, al liceo, quando lesse «Il futuro di un'illusione» di Freud, scoprì la verità. Nutriva pure dubbi morali sul Signore. Era cresciuto credendo non solo a Babbo Natale, ma anche a favole, fiabe e filastrocche, a fantasie variopinte in cui la bontà veniva immancabilmente ricompensata e la cattiveria punita. Da bambino aveva creduto che tutto fosse vero. Grazie ai suoi bei libri pieni di illustrazioni di animali imbottiti e pelosi, aveva creduto che l'unica reazione adatta nei confronti di qualcosa ricoperto di pelliccia fosse allungare una mano e accarezzarlo. La conseguenza fu che il mondo si dimostrò una disillusione amara, costellata di tanto in tanto da qualche spiacevole sorpresa. All'età di tre anni aveva tentato di accarezzare un accattivante bombo peloso e giallo, di passaggio nel suo giardino, ma era stato ricompensato con una terribile puntura sul palmo della mano che si gonfiò subito. A scuola aveva scoperto che non esistevano eroi: il debole viveva nel terrore del più forte e Dio, a quanto pareva, dava una mano a quest'ultimo. Non poteva dire di avere granché di cui lamentarsi: a parte gli inevitabili dolori della crescita in questo mondo, la sua vita era sempre stata abbastanza tranquilla. Ma le vite degli altri, di quelli che vedeva nei telegiornali e nelle riviste, quelle sì che sembravano terribilmente tragiche. Era difficile avere fede nella giustizia delle cose quando la gente che lo circondava continuava a morire in modi curiosi e terribili. Talvolta era vero che le morti dei suoi simili erano state facili da accettare, morti che erano semplici dimostrazioni del buon senso dell'universo. Da ragazzino, aveva sentito parlare di un cacciatore di cervi che aveva inciampato su una radice e cadendo si era fracassato il cranio. Il racconto non aveva fatto altro che confermare l'equità delle cose. Alcuni anni più tardi aveva sentito le notizie riguardanti i rivoluzionari di ogni genere che morivano dilaniati mentre cercavano di fabbricare delle bombe a casa loro:
trovava queste storie molto divertenti. In una parola, il cosmo era giusto. Quando iniziò il liceo scoprì che, con un leggero sforzo intellettuale, era in grado di giustificare quasi tutto, e questo meccanismo lo aiutava a sottrarsi alla disperazione. Risultò che le persone innocenti non erano in pericolo, erano solamente i colpevoli che morivano. I fumatori di sigarette non mandavano forse in fumo le loro vite? Erano loro stessi la causa del proprio male. Un qualche poeta alcolizzato non affogava la sua esistenza nell'alcol? Era quello che si meritava. Quando un aereo zeppo di suore si schiantava sulle Ande, egli diceva a se stesso che erano cose che succedevano alla gente che aveva tentato di rifilare la propria religione giù per le gole del prossimo. Pii benefattori! Con alcuni facili contorcimenti logici si poteva portare il gioco ad estreme conseguenze. Una donna mondana era stata pugnalata a morte nel suo appartamento? Quella sciocca parassita se l'era meritata. Un avvocato era stato assalito e assassinato a tradimento? Di avvocati, ne abbiamo più che a sufficienza, grazie. Bastardi egoisti! Un dottore si schiantava con il suo aereo personale? Pensa un po' ai soldi che stava facendo! Un'altra rock star andata in rovina? Che banalità! Un padre di dodici figli rimasto ucciso in un incidente stradale? Incosciente imbecille, chi gli aveva detto di fare così tanti figli? Una famiglia nello Utah dispersa durante un tornado? Solo i gonzi abitavano in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Qualche volta il gioco si faceva difficile ma con ostinazione continuava a giocarlo, non fosse altro che per conservare la sua pace mentale. Gli anziani venivano colpiti dall'infarto? Forse avrebbero dovuto fare maggiore esercizio fisico. Dappertutto la gente moriva di ictus e di cancro? Insomma, avrebbe tenuto gli occhi ben aperti sul cibo che avrebbe mangiato. Un giorno, però, lesse la sconcertante notizia di un giovane studente ucciso da coetanei nella metropolitana mentre cercava di soccorrere uno straniero. Il ragazzo aveva la stessa età di Nadelman, aveva una famiglia simile alla sua, ed era come lui uno dei primi della classe. Avevano portato le stesse materie agli esami. A questo punto Nadelman non giocò più. Non tutti l'avrebbero fatto, comunque. Un Giobbe paziente forse sarebbe riuscito a convincerlo che tutti gli esseri erano colpevoli, lui come tutti gli altri; che tutti vivevano il tempo concesso dall'alto e che quindi il Signore era perfettamente giustificato nell'uccidere chiunque Egli avesse mai scelto puntando il suo potente dito. Ma allora Nadelman aveva considerato Giobbe un vero e proprio pazzo.
Egli stesso aveva raggiunto una conclusione vagamente più ragionevole: piuttosto che adorare Dio come un carnefice divino e estremamente arbitrario, avrebbe avuto più senso considerare vacante l'incarico. Lassù nessuno controllava, l'ufficio era vuoto, tutti se n'erano andati a casa. O forse, e da qui nasceva il germe del suo poema, la carica era ricoperta da un altro dio, pazzo e maligno che si dilettava a essere malvagio e crudele. Altrimenti come avrebbe potuto spiegare tutte quelle notizie che leggeva ogni giorno sul Post? Nadelman non lo leggeva, il giornale, perché aveva imparato che non era una cosa di cui fidarsi ma i titoli continuavano a estasiarlo: una coppia di novantenni si erano suicidati perché il nuovo padrone li aveva sfrattati dal loro appartamento con la scusa che ne aveva bisogno per dei parenti (la legge, e Dio, non avevano mosso un dito); una diligentissima studentessa liceale, di ritorno dal suo lavoro part-time pomeridiano, era rimasta accidentalmente uccisa da un proiettile vagante sparato dalla polizia (il poliziotto aveva sparato a un rapinatore, il quale era stato aiutato a scappare dal Signore); l'assistente sociale che, ritornando a casa dopo l'insegnamento a un cieco, era stata assassinata da uno psicopatico armato di mannaia (l'assassino era ancora in libertà); la bimba morta perché i genitori fondamentalisti si erano rifiutati di somministrarle una medicina che avrebbe potuto salvarle la vita (i genitori si erano trincerati dietro al concetto di «libertà religiosa» e nella malattia della figlia avevano visto la «giustizia divina» in atto). Nadelman era convinto che al giorno d'oggi gli imbecilli che sborsavano cinquecento verdoni per un paio di fine settimana stravaganti, (e ce n'erano molti in ufficio, uno più sgradevole dell'altro), forse avrebbero sostenuto che noi tutti eravamo responsabili di quanto ci capita, persino dei tumori o dei depositi di cellulite, o addirittura del mattone che ci cade in testa mentre passeggiamo lungo il marciapiede. Ma a Nadelman era sembrato maggiormente soddisfacente, allora, dare tutta la colpa a Dio, anche a un dio in cui lui non credeva. L'unico corso propedeutico di studi religiosi che l'Unione lo aveva costretto a frequentare non era riuscito a modificare i suoi pensieri, anzi gli aveva procurato una bella insufficienza. Il Dio le cui lodi venivano cantate nella Bibbia semplicemente non pareva collimare con la realtà che Nadelman si vedeva intorno. Nella Bibbia questa entità poteva essere crudele, vendicativa e gelosa, un vero e proprio bastardo, soprattutto nel Vecchio Testamento. Ma almeno Egli era un Dio giusto in un modo alquanto crudo
ed autoritario. Tuttavia, nonostante la propaganda somministrata agli studenti ogni domenica, Nadelman aveva notato che le redini erano in mano a un altro dio, «una divinità furtiva», asseriva il poema, «un dio avido»: Lottiamo per una risposta, che nessun Dio ci dà - una divinità di sosta, d'angoscia e malvagità. Corrugò la fronte mentre rileggeva quei versi. Sembrava una poesia burlesca, simile ad alcuni versi di una orrenda traduzione. Allora gli era sembrato una cosa giusta scrivere «devastato» nello stesso verso di «saccheggiato» e fare un uso improprio degli accenti, soprattutto quelli gravi, per dare un'aria maggiormente poetica al tutto. E, il Cielo lo assista, aveva usato parole come «spumeggiante» e «limaccioso». (Aveva veramente usato anche il «deh»? Controllò la rivista e ammiccò. Lo aveva usato.) La maggior parte del poema, ora lo sapeva, non era altro che un giovanile ed eloquente esperimento con un dizionario di rime. Se lo ricordava bene quel dizionario, un regalo per il suo bar mitzvah, il giorno del suo tredicesimo compleanno, ricevuto da zia Lotte, assieme a un costoso quaderno rilegato in cuoio i cui angoli sbucavano da sotto una pila di vecchie carte. Per quella sera Nadelman ne aveva avuto già abbastanza di teologia. Si alzò in piedi, infilò alla rinfusa le carte dentro la valigia, fece scivolare dentro anche la lettera di Huntoon, richiudendo il tutto con uno scatto. Dopo averla spinta in fondo allo sgabuzzino Nadelman ritornò in salotto per vedere la fine del programma. Quando si coricò la lettera era ormai dimenticata. Il giovedì della settimana successiva, inaspettatamente, la posta, simile a un mare ribollente di offerte, notizie, strani oggetti in cambio, gli portò una seconda lettera di Huntoon. Era più corta della prima, ma di gran lunga più inquietante, in parte, indubbiamente, a causa di quella fotografia. Gentile signor Nadelman, la ringrazio per avermi risposto subito. La mamma dice che incornicerà la sua lettera. È la prima volta che abbiamo un autografo di un vero autore anche se sono riuscito a dare la mano a Joe Elliott degli Def Leppard più di una volta e in tinello ho una fotografia con autografo di Eddie Van Halen. Quella della maschera è un'idea formidabile ed è proprio la soluzione. Li spaventerà a
morte, quei maledetti Braverman!!! (Non saranno poi così coraggiosi come dicono, no?) Non sono riuscito a trovare la maschera giusta in molti negozi, adesso si trova solo roba tipo Guerre Stellari o Gremlins, ma ho comperato un'enorme testa di uccello simile a quella di un gallo perché il verso della canzone parla della Creatura che «arriva prima che il gallo canti», e l'ho capovolta. In questo modo è diventata meravigliosa. Lo può vedere nella foto che mia madre ha scattato. Lo tengo sul tetto così il sole lo illumina e forse il dio gli concederà la vita. La fotografia mostrava qualcosa dall'apparenza di un'accozzaglia di ciarpame, lo stesso groviglio di cose trasportato dalla marea, luccicante di petrolio e infestato di pesci morti, che Nadelman quand'era ragazzino aveva visto passeggiando sulle spiagge di Long Beach in inverno. Se ne stava lì, un ammasso con la forma vagamente umana, le braccia distese come quelle delle immagini dei falsi velivoli che gli abitanti della Nuova Guinea costruiscono nel sottobosco per attirare gli aeroplani di passaggio. Quel figuro giaceva sulla superficie incatramata del tetto di un appartamento. In lontananza Nadelman intravedeva il tetto piatto di un edificio simile e i tetti spioventi delle case vicine. Oggetti dentellati simili a schegge di vetro, forse finestre rotte, luccicavano in mezzo a quel corpo, soprattutto nelle mani. Un rotolo vuoto di carta igienica e una gran quantità di Kleenex appallottolati sistemati come un fallo eretto mostravano dove Huntoon aveva svuotato il contenuto del cestino del bagno. Gli pareva strano vedere una creatura risalire dai recessi della sua fantasia, qualcosa che aveva inventato scarabocchiando alcuni versi nella solitudine della sua stanza, e assumere una forma disgustosa e reale in quella foto. Vederla realizzata lì, sul tetto, lo faceva sentire stranamente un dio, anche se un dio imperfetto e irresponsabile che faceva fare agli altri il lavoro di bassa manovalanza, e che non aveva la minima idea di cosa avesse creato fino al momento in cui non si trovava faccia a faccia con la creatura. Assomigliava un po' all'emozione violenta che aveva provato l'anno prima, quando aveva lavorato per una campagna pubblicitaria per una nuova marmellata vitaminizzata simile al burro d'arachidi chiamata Qiffle. Uno dei suoi disegnatori gli aveva fatto vedere quella strana creatura a forma di arachide che doveva abbinarsi allo slogan di Nadelman («Che roba, il Qiffle!»). Oppure alla strana sensazione che aveva provato, un orgoglio titubante accompagnato dall'incredulità, quando una raggiante infermiera gli
aveva mostrato per la prima volta suo figlio. La differenza stava nel fatto che questa creatura avrebbe preferito disconoscerla. Per un attimo si chiese chi fossero mai i Braverman e perché fosse così importante spaventarli. In cima alla foto c'era la testa della cosa, forse un melone, nonostante fosse nascosto sotto una grottesca maschera di plastica capovolta. Più che a un uccello assomigliava alla caricatura di una creatura marina, un enorme e levigato gamberetto dalla pelle rosata, pescato dalle profondità del mare con la bocca sigillata e le cavità degli occhi vuote. Accovacciato vicino alla testa, tenuta affettuosamente come un trofeo, vide un uomo sorridente dai lineamenti affilati, con baffi neri, basette lunghe e una mandibola allungata. Portava abiti invernali, (faceva freddo vicino al mare, pensò Nadelman) un paio di guanti pesanti e un soprabito verde sformato con due macchie marroni sul davanti. Teneva alzata la testa della cosa, verso la macchina fotografica, come un rappresentante della legge esultante che posa accanto al cadavere di John Dillinger, oppure come i soldati che alzarono la testa di Che Guevara. L'uomo non aspettava più i trent'anni, aveva ampie spalle e una corporatura massiccia, la tipica persona che non aveva intenzione di cambiare le proprie idee per evitare una rissa. Un tratto malizioso nel suo sorriso ricordava a Nadelman il mago che aveva incontrato quella notte al bar di Chelsea. La lettera proseguiva: Questo sono io sul tetto con la creatura. Non sganasci, per favore, per il mio brutto muso! Ci sono abbastanza abituato ma c'è gente che si pente di avermi incontrato per strada. Ora l'unica cosa che mi rimane da fare è invocare il dio per farlo muovere. S.A.P.S. (Suo Amico Per Sempre) Arlen P.S. Le dispiacerebbe se un giorno o l'altro le telefono? Ci sono molte cose che dovremmo discutere insieme. So che lei è una persona impegnata ma le prometto che non approfitterò del privilegio che mi concede. I battiti cardiaci di Nadelman erano aumentati. Allora era lui l'ammiratore adolescente, quello per cui provava una forte pena. O sarebbe meglio dire, quello per cui Rhoda si era dispiaciuta: questo era certamente un punto a suo sfavore. Il suo istinto aveva ragione: non avrebbe mai dovuto rispondere a quel grullo. Avrebbe potuto immaginarsi quella faccia inquietante
fin dalla sua prima lettera, cercando di dedurla dai bordi sdruciti della carta, mentre gli bisbigliava qualcosa dietro a quelle sbavature in inchiostro nero. E pensare che quello stupido bastardo aveva preso sul serio la canzone dei Jizzmo, credeva veramente che le parole rubacchiate da Nadelman in un dizionario di rime e in alcuni libri della biblioteca universitaria fossero un incantesimo magico e stava aspettando con pazienza che lo Spirito Santo arrivasse per infondere un'anima al suo ammasso di spazzatura. Nadelman si ricordò di una frase detta dall'analista di Rhoda: «La realtà a volte non è sufficiente per alcune persone». Decise che il giorno dopo, subito dopo essersi alzato, avrebbe fatto qualcosa che da anni sognava di fare, soprattutto per quei clienti che si sentivano in dovere di disturbarlo a qualsiasi ora del giorno anche a casa sua. Avrebbe richiesto un numero non iscritto negli elenchi telefonici e così avrebbe tenuto alla larga quella persona sgradevole. Quella sera fu la più fredda di tutto l'autunno, un assaggio di novembre con un anticipo di dieci giorni, mentre il mese di dicembre, mese del vero freddo, aspettava in agguato all'orizzonte. Tre piani più sotto, tra le sagome indistinte delle auto parcheggiate sulla 76a Strada, l'allarme di un'automobile iniziò a emettere un ululato animalesco e insistente, senza dubbio grazie al semplice tocco del paraurti di un'altra auto. Nadelman se ne stava immobile con la testa sul cuscino, percepiva le altre centinaia di persone nel vicinato che erano in attesa, come lui, che l'allarme venisse disinnescato. Un'ora dopo la mezzanotte udì un tuono lontano, cosa strana per una notte così fredda, e fors'anche l'ultimo che avrebbe mai sentito fino alla prossima primavera. Sferzati dal vento, scrosci di pioggia schiaffeggiavano le finestre, una vera presenza viva. Il suo pensiero corse alla creatura sdraiata sul tetto di Long Beach, infradiciata da quella stessa pioggia. In questo momento non era forse un cumulo di spazzatura bagnata? Oppure se ne stava distesa lì, come un cadavere? Scivolò fuori dal letto per non svegliare Rhoda che, durante gli anni del loro matrimonio, aveva sviluppato un sonno sempre più pesante mentre il suo era diventato incerto col passare del tempo; uscì dalla stanza in punta di piedi, coperto dalla sola biancheria, richiudendo dolcemente la porta della stanza. In cucina si versò un po' di cognac nella tazza per il «più formidabile babbo del mondo» che Michael gli aveva regalato per l'ultima Festa del Papà, ma dopo averne bevuto un sorso decise che gli avrebbe causato acidità di stomaco. Dopotutto questa robaccia non gli avrebbe fatto altro che male, doveva essere in for-
ma per l'incontro settimanale in centro, domani, con Cele. Travasò il liquido scuro dentro la bottiglia, con mano ferma. Dal salotto gli giunse il rumore della pioggia che batteva insistente contro le finestre. Si alzò e si incamminò in quella direzione. Sul bordo del tavolino accanto al divano era ammucchiato il resto della posta del giorno e dal mucchio prese l'istantanea contenuta nell'ultima lettera di Huntoon. Mentre studiava la cosa cieca e dalla faccia liscia che giaceva sul tetto si sorprese a sorridere al ricordo di un personaggio di fumetti della sua infanzia: «Mucchio» era il suo nome, un ammasso di viscida spazzatura attorniato da mosche emanante una serie di linee ondulate che alludevano al puzzo. E improvvisamente si ricordò come era arrivato al titolo del suo poema. La creatura che compariva nelle strofe finali, il servo del dio senza nome, era un mostro che aveva composto con eque parti di Mucchio, di Golem e di una terza figura, un personaggio che gli aveva suggerito quel titolo inverosimile, «L'avvento dei Prometei». Si era ispirato al «Moderno Prometeo», il sottotitolo del Frankenstein di Mary Shelley. Come un bambino spaventato da un volto dallo sguardo fisso stampato su una copertina di un giornale a fumetti che, anche in una stanza completamente buia, deve girare la foto prima di sentirsi sicuro e dormire, Nadelman sentì un urgente bisogno di nascondere la lettera e la foto nello stesso posto dove aveva messo la precedente. Aprì la porta dello sgabuzzino, e tirò fuori di nuovo la vecchia valigia. Ma quando fece scattare la chiusura, invece di infilare dentro la lettera allungò una mano per prendere l'Unicorno, che sfogliò subito fino alla pagina del suo poema. Forse non era poi così scadente e forse, allora, aveva avuto un po' di talento. La seconda parte, barbaramente accorciata nella versione dei Jizzmo, era intitolata «Una visione di rovina». Proponeva una spiegazione dell'apparente insensibilità e negligenza del Signore. Forse, sosteneva, Egli era semplicemente diventato vecchio, arteriosclerotico e debole: Un dio canuto e pigro, del tuono acerrimo nemico, un tempo con frastuono vociava, or invece semplice mendico. Nella terza parte, «Identificazione», il narratore decide che il puro sadismo da lui osservato nel dio era di gran lunga più vigoroso, e troppo diabolicamente ingegnoso perché potesse essere emanazione di un dio vecchio, malato e raggrinzito. Tutte le testimonianze facevano presagire un nuovo dio, un giovane rampollo assetato di sangue, sbucato dal nulla, «non vere-
condo/bensì selvaggio e immondo», «un dio iperattivo, malvagiamente scaltro per non essere lascivo». La sua intenzione di allora era stata quella di confrontare la posizione della razza umana con quella degli sventurati contadini medievali, pedoni disgraziati travolti da una incomprensibile guerra tra due signorotti egoisti. La battaglia infuriava facendo girare la banderuola degli eventi ed essi soffrivano le pene dell'inferno da entrambe le parti. La quarta parte, «Giustizia divina», era stata completamente tolta dal gruppo, forse a ragione perché in poche parole si trattava di versi pesanti. Il narratore cercava di immaginare l'origine di questa nuova divinità creatasi dal nulla. Forse era stato creato dal vecchio Dio («"Mi creerò un Creatore" diss'Egli») per punire l'umanità per la sua civiltà inquinata e per i modi guerrafondai che determinavano la rovina di ogni forma di vita sulla terra. (Nadelman scosse il capo mentre leggeva velocemente quei versi altisonanti che gli ricordavano le certezze dei primi anni sessanta). La parte successiva, «Inno alla Corruzione», per la quale attinse metà da Swinburne e metà da Pete Seeger, era stata lasciata intatta. In essa aleggiava il quesito sull'esistenza di «inquinamento in cielo, come impera qui, sulla terra» e sulla possibilità che questa nuova divinità potesse essere una specie di mutazione, in una parola, un vero e proprio avversario. Tale ipotesi veniva sostenuta dal narratore poiché in termini di pura infernale malvagità, il nuovo dio sembrava essere potente quanto il vecchio. «Un dio rivale, sostenitore del prepotente, ricco e maiale». «Tesoro, vieni a letto.» Era la voce di Rhoda che stava attraversando il corridoio per andare in bagno. Si sfregò gli occhi e si alzò, lieto di riporre il poema. Ma prima di chiudere la valigia riprese la rivista e la nascose nel cassetto del tavolino. Mentre se ne stava a letto in attesa che sopraggiungesse il sonno, ormai più rassegnato di prima, lo tormentava il dilemma se rispondere alla lettera di Huntoon o se forse sarebbe stato più saggio ignorarla. Cercò di allontanare quel pensiero concentrando l'attenzione sulla placida voce della pioggia. Ad un tratto la pioggia cessò e Nadelman scivolò lentamente in uno stato di torpore, ma sognò che qualcosa incombeva nei pressi della finestra, un'enorme cosa angelica con un volto da moscone. La sua preoccupazione su cosa fare con la lettera di Huntoon rimase solo teorica perché il venerdì della settimana successiva da lui ricevette una cartolina. L'illustrazione mostrava la sala da pranzo deserta della Sea Glades Manor, «Sul lungomare di Long Beach, Long Island. Ottima cucina e ser-
vizio insuperabile da oltre quarant'anni.» Ho cercato di telefonare ma mi hanno detto che il suo non è un numero attivato. Non ho ancora ricevuto nessuna informazione su come mettermi in contatto con lei, forse la sua risposta è stata persa. Ma è andata bene lo stesso perché ho seguito alla lettera le sue istruzioni e ora comunico con il suo dio e Lui è esattamente come lei lo ha descritto. Ancora grazie per il suo coraggio e la sua guida. Non si preoccupi, verranno puniti solo coloro che se lo meritano. Nadelman si sentì scivolare un po' più in giù lungo il soffice pendio verso i territori della follia. Innanzitutto quello sciagurato credeva che il Dio Rivale fosse realmente vero, e ora sosteneva di averci anche parlato. Qualche giorno prima in una rivista del settore pubblicitario aveva letto con schietta approvazione la storia di un inglese che, in un racconto di UFO, aveva parlato di un immaginario avvistamento nei cieli di Oxford ed era rimasto vittima del suo stesso racconto negli anni successivi quando l'incidente veniva citato come fatto realmente accaduto in decine di libri di fantascienza. La menzogna era divenuta realtà. E un certo scrittore gallese di nome Machen, proseguiva l'articolo, aveva scritto un racconto durante la prima guerra mondiale che parlava dei cosiddetti «Angeli di Mons», spettrali arcieri sassoni che erano venuti in aiuto delle truppe britanniche schierate in ordine di battaglia. La storia era diventata una vera e propria leggenda, con i reduci di guerra che sostenevano, a distanza di anni, di averli veramente visti, quegli spiriti. «Tutti noi impegnati nell'industria delle comunicazioni dovremmo imparare qualcosa da questa lezione» concludeva l'articolo. Nadelman impiegò tutto il fine settimana per preparare la presentazione sul resoconto della Holiday Farm e di domenica andò in macchina con Rhoda e Michael a fare un picnic sulla spiaggia di Jersey. Il giorno dopo, all'agenzia, nel bel mezzo di un incontro con uno dei direttori artistici sentì squillare il citofono: era la segretaria che lavorava nel corridoio fuori dal suo ufficio delle cui prestazioni egli usufruiva assieme al collega dell'ufficio accanto. «Il signor Huntoon per lei» disse. Nadelman, che stava esaminando una manciata di bozzetti appena rice-
vuti dall'ufficio artistico, si sentì il sangue gelare nelle vene. «È qui fuori?» «Ehm» rispose, «una telefonata. Gliela passo?» «No!» esclamò quasi urlando. La conversazione in corso all'interno dell'ufficio si interruppe bruscamente. Lasciò cadere una serie di disegni che rappresentavano un giovane George Washington mentre stava divorando dei dessert surgelati e si diresse con passo precipitoso verso la scrivania della segretaria. «Ascolta» le sussurrò, «prendi solo il suo messaggio. Non sono in ufficio e non sai quando sarò di ritorno. Per quel tizio io non sono mai in ufficio, hai capito?» La ragazza annuì con aria dimessa. Nadelman attese appoggiato alla scrivania mentre la ragazza riferiva a Huntoon che lui era fuori, maledicendo in cuor suo di essersi scoperto troppo rispondendo alla lettera di quel pazzo con la carta intestata della ditta. La segretaria appoggiò la penna su un pezzo di carta rosa per scrivere il messaggio ma si fermò quando si rese conto che sarebbe stata in grado di ricordarselo a memoria. «Va bene, glielo dirò» rispose. «Sì, certo. Sì, non si preoccupi.» Appoggiò il ricevitore e alzò lo sguardo verso Nadelman. «Che tipo strano» disse. «Si faceva fatica a sentirlo. Sembrava che stesse chiamando da un bar.» «Cosa ti ha detto?» Scrollò le spalle con indifferenza. «Mi ha detto di dirle: "Sono riuscito a metterlo in piedi e a farlo ballare".» La riunione si protrasse fin oltre le cinque, ora in cui la città al di là della sua finestra iniziava a essere avvolta nell'oscurità. Incoraggiato dall'arredamento del suo ufficio, le luminose fluorescenti, le morbide curve della sua IBM, lo sfarzoso tappeto rosso borgogna e la vista sull'East Side di Manhattan, tutto un mondo visto dall'alto e di conseguenza più sicuro rispetto a quello che riusciva a dominare dal suo appartamento, con i pinnacoli della Pan Am e della Chrysley che si stagliavano contro l'orizzonte come fedeli guardiani, Nadelman scrisse: Gentile Signor Huntoon, Indubbiamente Lei sarà «in comunicazione» con un dio ma desidero informarLa che non si tratta del mio dio in quanto il mio non esiste. Quel personaggio è qualcosa che ho inventato molti anni fa per un poema per una rivista universitaria, molto prima che i membri dei Jizzmo e tutti gli altri gruppi fossero ancora nati.
La prego di non fraintendermi: non desidero denigrare il suo credo religioso. Rispetto sinceramente il diritto di tutti a credere a qualsiasi divinità si desideri adorare e il modo in cui esse vengono adorate. Questa è una delle cose che ha reso grande la nostra nazione. Ma quel particolare dio con cui Lei sostiene di essere entrato in contatto è un personaggio fantastico, e mi inquieta il fatto che Lei abbia preso la cosa troppo alla lettera. Devo inoltre chiederLe gentilmente di smettere di telefonarmi in ufficio. Come Lei ha potuto notare, sono sempre molto occupato e non posso permettermi il lusso di intrattenere conversazioni personali durante l'orario d'ufficio. Il numero telefonico di casa non è inserito negli elenchi a causa di problemi di salute di un componente della mia famiglia e, sono certo che Lei capirà la mia impossibilità di renderlo pubblico. Qualunque cosa Lei desideri fare con quello spaventapasseri o la creatura che ha costruito, non è affar mio. La cosa non mi interessa e non voglio essere coinvolto. Le auguro buona fortuna e Le suggerisco di non ritentare di contattarmi. Sperò che questa lettera fosse sufficiente per sbollire gli entusiasmi di Huntoon. Più tardi, quella stessa sera, mentre camminava verso casa si sentiva stranamente oppresso da una minaccia incombente ed era quasi sicuro di avere intravisto una creatura nana, coperta da un mantello, sgattaiolare dietro a un edificio mezzo isolato più avanti. Dette la colpa di questa visione al suo stato mentale fino al momento in cui varcò la porta di casa e venne salutato da una piccola figura che urlava, suo figlio che piroettava davanti a lui vestito con un vecchio impermeabile nero di Rhoda, il volto truccato con ombretto rosso sangue e marcate occhiaie sotto gli occhi. Dietro al ragazzo, sorridente, c'era sua moglie con uno strofinaccio umido tra le mani. Nadelman si rese conto con un sospiro di sollievo che anche quest'anno si era dimenticato che quella era la notte di Halloween. La sua lettera doveva essersi incrociata con quella di Huntoon perché il mercoledì della stessa settimana, un'altra serata burrascosa agitata dagli echi di tuoni fuori stagione - sembrava che l'estate si fosse dimenticata di lasciare il posto all'autunno - trovò una terza busta che lo stava aspettando. Era più pesante delle precedenti perché conteneva parecchie istantanee.
Caro Signor Nadelman, Ho cercato di telefonarle ieri in ufficio ma mi hanno detto che lei era fuori. Capita proprio come con lo spedizioniere della ValR-Rite che non ha mai tempo per parlare con me da quando sono stato licenziato, ma non voglio insinuare che lei abbia lo stesso comportamento. Le hanno recapitato il mio messaggio? Le foto sono per lei, credo che lei sia l'unico che meriti di vederle. Sono sicuro che sarà in grado di riconoscere chi è quello nelle foto. Le ho fatte l'altra notte sul tetto ma non so usare il flash e non ha funzionato bene in tutte le foto. Verranno fuori meglio con la luna piena. In tutto c'erano sei fotografie e tutte erano ridicole. Assomigliavano al tipo di istantanee pazze che la gente di solito scatta durante le cerimonie di iniziazione delle associazioni studentesche maschili, gite di caccia oppure durante le feste di Halloween, a parte il fatto che in esse distingueva la presenza di una sola figura, senza dubbio quella dello stesso Huntoon con l'assurda maschera rosa che gli nascondeva il volto mentre danzava sul tetto nell'oscurità. Le mani erano alzate verso il cielo in modo grottesco, come le braccia di una bambola rotta, mentre in un'altra foto il suo braccio destro era piegato dietro la schiena in una posizione che doveva essere stata incredibilmente dolorosa. In parecchie foto una delle due gambe era alzata come quella di un cane che sta per orinare, mettendo in mostra uno stivale militare di uno scialbo color marrone con i lacci slegati. Indossava un paio di pesanti guanti grigi che gli ingrossavano le mani in modo ridicolo, eccetto una foto in cui alzava le mani verso il cielo in segno di supplica. Nadelman riconobbe i pantaloni sgualciti di Huntoon e il soprabito verde pieno di macchie che aveva visto nella foto precedente. Contrariamente alle affermazioni contenute in quella lettera, probabilmente le foto erano state scattate da sua madre, anche se una vecchia (forse un'amica della madre?) si intravedeva nello sfondo di una fotografia, grassoccia e con la testa avvolta in un fazzoletto come una contadina dell'Europa orientale. Il bagliore del flash la faceva risaltare contro l'oscurità uniforme dietro alle sue spalle mentre osservava la scena con solennità. Il volto della donna era solcato da profonde rughe ma raggiante, gli occhi di lei e quelli dell'essere mascherato danzante luccicavano stranamente in quella luce. Nadelman si sentì momentaneamente infiacchito quando scoprì che sul retro dell'ultima foto Huntoon aveva scritto in diagonale: mamma.
Ecco, qualche amico aveva scattato quelle foto. Persino persone come Huntoon avevano degli amici. Non era forse vero? Nadelman prese più volte in mano, furtivamente, quelle foto per tutta la serata, dopo cena, tra il programma Taxi e il telegiornale prima di andare a letto, come se fossero un tesoro nascosto di fotografie pornografiche. I suoi pensieri continuavano ad essere ossessionati dalla lettera che aveva spedito a Huntoon all'inizio della settimana. Si domandava se non l'avesse ancora ricevuta e se effettivamente l'aveva ricevuta, se ci fosse rimasto male e se era rimasto male quali conseguenze egli avrebbe dovuto sopportare. Nel frattempo Nadelman sbirciò fuori dalla finestra della sua camera da letto mentre la pioggia cadeva sui pochi passanti che camminavano lungo la 76a Strada e il fragore di tuoni lontani faceva rimbombare l'intero quartiere. Da qualche parte enormi navi stavano attraversando l'oceano, percorrendo una rotta segreta per avvicinarsi alla terra ferma. Gli sembrava quasi di sentirle. Si alzò, guardò ancora una volta il volto di quella creatura nelle fotografie sparpagliate sul tavolo del salotto e dal cassetto prese il poema. «Gli occhi senza palpebre e senza labbra la bocca»: la frase, così fastidiosamente appropriata, era tratta da «I tratti della Disperazione», la sesta parte del poema nel quale il narratore tentava di immaginare le sembianze del nuovo dio selvaggio. Questa parte Nadelman se la ricordava bene. A giudicare dal suo operato, il dio non era un'emanazione della bellezza bensì doveva essere davvero una «creatura dalle fattezze di lebbroso». Il narratore lo descriveva come un mostro, la caricatura di altre divinità e nel testo si riferiva a lui con «Occhi d'aracnide», «Il Dio Zanzara» e «L'Ape». Come ulteriore sfida alla logica, ma forse in un omaggio fuori luogo a William Golding, al dio veniva attribuito l'apposizione di «Signore degli Scarafaggi». La settima parte del poema, «Una celebrazione», gettava la spugna, filosoficamente parlando, con la dichiarazione secondo cui, in effetti, non si poteva combattere questo dio o, almeno, non si poteva sconfiggerlo. Al contrario, il narratore preferiva celebrarlo con la creazione di una creatura a sua immagine, «Qualcuno che cammini tra noi, che esegua la Sua opera». Lo libererò che uccida e depredi Secondo i dettami del dio senza nome L'ottava parte era il cosiddetto «Cantico dell'Artefice», la parte che i cri-
tici musicali avevano paragonato a una «ricetta» grazie al quale il narratore, con i toni di una Julia Child occulta, esortava il lettore a «Raccogliere pattume, ciarpame e lordume / Dalle discariche in cui regni il putridume (...) / Nei letamai, nelle fogne e negli aridi deserti, / dai rifiuti sulla riva.» Forse era questa la ragione per cui Huntoon, sulle spiagge di Long Beach, si era così emozionato, meditava Nadelman. Si doveva mescolare quanto si era raccolto, mettendo un masso come testa, dandogli «le sembianze del mostro che c'è in noi». Era finalmente giunta l'ora di infondere la vita alla creatura, per liberarla nel mondo, a vagare e insegnare la verità all'umanità. Per questo motivo la nona parte era stata intitolata «Prolegomeno alla Creatura». Comodamente seduto nel suo salotto Nadelman aggrottò la fronte come avrebbe dovuto fare vent'anni prima alla scoperta che anche questa parte conteneva un altro refuso alquanto sfortunato, forse persino malizioso: «un messaggio proveniente da dietro il velo della notte» era diventato «un massaggio». Si chiese se mai nessun altro se n'era accorto. Quella parte conteneva anche l'Invocazione che il vecchio attore crucco aveva declamato. L'avidità dei vermi che banchettano con il capro sacrificale. I lamenti del prete lontano che echeggiano finché la mia canzone non muore. Finché non verrà divorato da una bestia Che gli squarcia la gola con roco stridore! Il dio veniva invocato affinché con il suo alito infondesse la vita alla «mia umile creatura plasmata a Tua immagine.» Il narratore implorava: «Rendilo Tuo figlio». Nell'ultima parte, «La Creazione», la creatura si alzava in piedi. Secondo la descrizione essa aveva «gli occhi senza palpebre e senza labbra la bocca» del padre, «veleno nello sguardo e anche nel tocco», era una cosa «che attanagliava e con gli artigli scappare non lasciava». Con un solo gesto imperioso e pazzo il narratore gli aveva comandato: «Alzati deh, e fa' secondo i dettami di Tuo Padre. Insegnaci a temere.» Il poema aveva termine in questo modo. Come se l'autore volesse evitare che il lettore si soffermasse troppo a lungo sull'incantesimo di quegli ultimi lugubri versi, il poema era seguito sulla stessa pagina da un disegno disinvolto di un gruppo di universitari che si abbronzavano sui prati della
chiesa della facoltà. Se Nadelman pensò per un solo attimo di essere diventato pazzo, e per alcuni secondi in ufficio, quel giovedì, lo stava per credere, cambiò rapidamente idea perché venerdì, di ritorno dall'ora di ginnastica nella palestra, durante la pausa per il pranzo, dopo una doccia distensiva, ritornò in ufficio e trovò un messaggio di Huntoon che lo aspettava sul tavolo: Sono salito sul tetto stamattina e l'unica cosa che ho trovato è stato il paio di guanti. «Mi ha detto che lei avrebbe capito cosa voleva dire», disse la segretaria con una lieve alzata delle sottili sopracciglia in segno di commiserazione. Nadelman annuì. «Come no, certo. È una buona notizia!» Mentre lo stava dicendo non ne era completamente convinto ma si sforzò di sorridere. Oltrepassò la scrivania della segretaria ed entrò nel suo ufficio ripetendo a se stesso che effettivamente era una buona notizia. Forse quella maledetta robaccia era stata mangiata dagli uccelli. I gabbiani non si cibavano forse di spazzatura? Quella sera rimase fuori fino a tardi, fin dopo mezzanotte, con il pretesto ufficiale di una serata trascorsa di bar in bar con due vecchi amici dell'università appena arrivati dalla costa mentre in verità trascorse una lunga serata di celebrazioni con Cele nel suo appartamentino affittato sulla 9a Strada. Sulla tavola della cucina, accanto alla retta della scuola di Michael e a un catalogo dei Fagioli L.L., lo aspettava un'altra cartolina di Huntoon, un panorama in bianco e nero del lungomare di Long Beach in mezza stagione, un panorama che suscitò in Nadelman teneri ricordi della sua infanzia, anche se dal francobollo si rese conto che era stata spedita pochi giorni prima, in risposta della sua ultima lettera stile «lasciami-in-pace». Studiò la fotografia per un buon minuto nel tentativo di ritardare il più possibile la lettura del messaggio di Huntoon, alla ricerca lungo il lungomare e la spiaggia di un piccolo ragazzino ossuto che avrebbe potuto essere lui. Ci rinunciò, deglutì e lesse la cartolina. Non riesco a capire come possa negare l'esistenza di Dio. Egli dice che la conosce. Ha soffiato la vita nel Suo servo proprio come lei ha detto nella canzone e assomiglia proprio a quanto avevate previsto. Avete sbagliato una cosa, signor Nadelman. La Creatura ha un nome. Si chiama l'Affamatore.
Rhoda l'aveva teneramente aspettato, adagiata sui cuscini, immersa nella lettura del Commentario del mese scorso, una cosa che non avrebbe mai sorpreso Cele a fare, o almeno fingendo di esserlo in modo da creare una scena accogliente quando fosse entrato nella stanza. Forse nei recessi della sua mente lei sospettava cosa stava succedendo, anche se Nadelman giurava a se stesso che era una storia innocua. In entrambi i casi, lui si sentiva colpevole. Oppure forse era il breve benservito di Huntoon che lo infastidiva, quella riga sull'«Affamatore». Nadelman si immaginò un ghigno selvaggio, c'era una vena di veleno, un che di corrosivo, in quella frase. E tra l'altro, ne conosceva la ragione. «È semplicemente pazzesco», disse a Rhoda mentre si sedeva sul bordo del letto dopo aver raccontato abbastanza dettagliatamente, almeno sperava, le avventure di quella serata in tre diversi bar di Yorkville. «Quel tizio mi spaventa. È come se leggesse i miei pensieri. Sono sicuro di avere già letto quella frase da qualche altra parte.» «Nella canzone rock?» La sua voce tradiva impazienza. Sapeva che lei lo desiderava sotto le lenzuola, accanto al suo corpo. «No, non lì. Non c'è nella canzone, ne sono sicuro. E non è nemmeno nell'Unicorno. Non so come, ma ancora adesso lo associo a quel maledetto poema.» L'atteggiamento di Rhoda era impassibile, non voleva essere trascinata nel gioco. «E allora?» disse dopo una lunga pausa. «Da dove salta fuori?» Scrollò sconsolato le spalle. «Non lo so. Potrebbe essere nel mio dattiloscritto originale.» «Ma lo avrai consegnato al giornale.» «Certo, ma potrei averne conservato una copia.» Finché la frase non gli uscì di bocca non aveva ancora deciso cosa fare. Ma ora si rese conto che non poteva andare a letto senza prima assicurarsi che Huntoon avesse torto. Si alzò in preda a un forte senso di colpa, promettendo a sua moglie che avrebbe impiegato pochi minuti ma sapendo che era molto probabile che l'avrebbe trovata già addormentata quando fosse ritornato a letto. Non gli importava granché: quella sera dubitava infatti di essere in grado di mettere insieme quel tanto di passione a lei necessaria. «Chiudi la porta quando esci» disse con voce atona. Prima ancora di avere richiuso la porta alle sue spalle Rhoda aveva già spento la luce. Non gli fu difficile trovare la copia carbone del poema. La vide sotto una
pila di vecchi numeri dell'Unicorno, un fascio di veline tenute assieme da un punto metallico arrugginito. Era raro trovare cose del genere in piena era delle fotocopie. Dall'inchiostro nero sbavato riconobbe subito i caratteri irregolari della sua vecchia portatile Royal comperata di seconda mano. Lesse il poema velocemente ma con attenzione per controllare che fosse uguale alla versione pubblicata. Non trovò nulla, nemmeno una sola riga, che parlasse del nome del Dio Rivale. La scoperta ebbe una forza confortante: Huntoon non era altro che un pazzo, completamente alienato dalla realtà e, per giunta, da qualsiasi divinità. Stava per riporre la valigia al suo posto ma il solo pensiero di coricarsi con la moglie, di entrare in punta di piedi nella camera buia e infilarsi vigliaccamente nel letto dove lei dormiva desiderosa e insoddisfatta, lo fece titubare. O forse si trattava semplicemente del fatto che sapeva di sentirsi colpevole se rinunciava così presto alla ricerca della verità. Doveva risalire alla versione originale: ne valeva la pena perché questo ulteriore sforzo lo avrebbe rassicurato una volta per tutte che Huntoon aveva torto. Sotto alla copia dattiloscritta (benedetta la sua natura di collezionista!) vide un blocco giallo contenente una copia manoscritta dell'originale. Riusciva a distinguere i tentativi fatti per i diversi titoli, sul margine superiore del foglio: «Il Ritorno del Maestro», «L'Avvento del Maestro», «Il Prometeo postmoderno», «L'Ottavo Giorno della Creazione». Che aria solenne aveva assunto in quel periodo! I lunghi fogli gialli erano un groviglio di scarabocchi e correzioni. Come mai, si chiedeva, si era preso la briga di conservare robaccia simile, una testimonianza di uno sforzo scostante, di una mente disorientata? Probabilmente per la stessa presunzione che lo aveva spinto a comporre un poema. Aveva creduto che un giorno qualcuno avrebbe voluto ripercorrere passo dopo passo, frase dopo frase, il suo atto creativo più audace. Ma non si sarebbe mai aspettato che quel qualcuno sarebbe stato lui stesso, mosso da uno scopo così folle. Che pignoleria ossessiva aveva dimostrato per queste cose. Quasi tutte le righe del poema avevano subito variazioni e alterazioni minuscole. «L'idolo del macello» aveva iniziato a vivere sprovvisto di allitterazioni come «l'idolo del mattatoio». Il «dio che puzza di carogna» aveva debuttato in modo più crudele come «un dio che puzza di carne putrescente». Indubbiamente aveva trovato più poetica la parola «carcame» ma non era riuscito a trovare una rima a metà verso adatta per la parola «puzza». (Elencate a
margine del foglio vide, con aria sfrontata, olezza, strapazza, corazza, strabuzza, pagliuzza, sminuzza, tutte cancellate con un segno netto.) Erano divertenti le cose che lo avevano appassionato da giovane. Notò parecchi rimaneggiamenti indecisi tra «un dio che» e «un dio il quale», come se la questione avesse molta importanza. In modo curioso, uno dei versi che descrivevano la creatura che «con le mani s'aggrappa e non può lasciar andare». Quest'ultima immagine era stranamente inquietante. Chissà come gli era venuta in mente. Stava per mettere via i fogli gialli quando notò un verso scartato, in fondo alla settima parte. Sopra il distico che aveva optato come versione finale: Lo libererò che uccida e depredi Secondo i dettami del dio senza nome vide un verso alternativo che aveva rifiutato forse per mancanza di una rima adeguata. Eccolo qui, vicino alla versione definitiva, accuratamente segnato da tre linee blu, il suo pensiero originale: Secondo i dettami dell'Affamatore. Per un attimo i suoi occhi si rifiutavano di mettere a fuoco l'immagine. Le pagine avevano la pesantezza del piombo. Ricordò qualcosa che un giorno Nicky gli aveva detto all'università, riguardo al modo in cui si potevano confutare migliaia e migliaia di fasulle storie di case infestate dai fantasmi, di apparizioni, avvistamenti di UFO, storie sostenute a oltranza da fisici e ciarlatani. Ma se solo dell'esistenza di un fantasma, o incantesimo, o astronave se ne aveva la prova certa, allora quell'unico esempio avrebbe cambiato tutto, per sempre. Si garantisca pure la dimensione reale di un solo spirito per ritrovarsene davanti un intero universo. Improvvisamente gli balenò l'idea che era esattamente quello che gli era successo: in un istante tutto era cambiato. Quelle due parole insignificanti che lo fissavano dal foglio, dieci misere lettere scarabocchiate lunghe pochi millimetri, avevano aperto un minuscolo buco nel suo universo, come nel fondo di un secchio. Rimase seduto lì, immobile, a fissarle in silenzio, mentre tutte le sue certezze fuoriuscivano da quell'apertura. Altrettanto velocemente cercava delle spiegazioni. Quelle pagine che stava esaminando, forse anche Huntoon, in qualche modo, le aveva viste?
Ma dove? Nemmeno i redattori dell'Unicorno avevano visto la sua brutta copia. Persino Nadelman si era scordato cosa contenesse, tantomeno che avesse scritto quella frase. L'Affamatore... Cosa aveva detto Huntoon? «Egli ti conosce». Impossibile, disse tra sé. Impossibile! Egli semplicemente non riusciva ad ammettere a se stesso quanto era successo. Provò un'improvvisa tenerezza per la vecchia barzelletta del villano che, durante una visita allo zoo, guarda sbalordito la giraffa che lo sovrasta, la creatura più strana ed alta che abbia mai creduto potesse esistere in tutto l'universo, ed esclama: «Non esiste un animale simile». Dall'esterno udì un cupo stridore metallico seguito da uno sferragliamento. Sembrava un rumore non molto lontano dalla sua finestra ma sapeva che in città i suoni si propagavano facilmente. Al terzo piano sembrava di essere sul marciapiede. Si alzò per andare a vedere dalla finestra del vestibolo. In mezzo alla strada vide un bidone della spazzatura capovolto, il coperchio poco lontano, simile a un uomo assalito alle spalle il cui cappello è caduto per terra. Puro vandalismo motivato dal semplice fatto che i ragazzini sapevano che al giorno d'oggi era facile farla franca. La scorsa settimana qualcuno aveva dipinto delle svastiche sulle pareti del vecchio tempio grigio, a due isolati più a ovest, e aveva rotto una delle vetrate. Anche lui, una volta, aveva sentito l'irrefrenabile voglia di distruggere un paio di finestre. Sopra la strada la striscia di cielo s'era rannuvolata, senza una stella eccetto una macchia indistinta e giallastra che avrebbe potuto essere la luna. Con cautela ritornò col pensiero al suo problema, come se si rivolgesse verso un avversario il quale, mentre se ne stava a meditare vicino alla finestra, gli era rimasto alle spalle, aspettando pazientemente. La possibilità che Huntoon avesse ragione, che esistesse una creatura là fuori, che gli avesse parlato, che tutte le parole della canzone dei Jizzmo fossero vere, era un fatto troppo assurdo per essere degno di considerazione. In fin dei conti, maledizione, non era stato lui stesso a inventare l'intera storia? Si ricordava persino le circostanze della composizione: la sua stanza, la scrivania a un'estremità del muro e quella del suo compagno dall'altra, entrambe con una piccola e deprimente lampada da tavolo a stelo flessibile; i deprimenti pomeriggi invernali, di ritorno dalla biblioteca con un mucchio di antologie di poesia da cui trarre ispirazione che avrebbe riconsegnato il giorno dopo; la neve contro la finestra mentre scriveva a macchina la versione fi-
nale, cancellando con diligenza tutti gli errori, come se la neve ricoprisse il suo passaggio. Non era stato toccato da nessuna ispirazione divina, il poema era frutto di banali scelte, parola dopo parola. Sarebbe stato facile rintracciare le svariate influenze, avrebbe potuto indicare la fonte di quasi tutti i versi. Il riferimento all'Artefice «abitante in un viale, / in una casa di vetri avvelenati» si fondava su una superstizione cui credeva quand'era bambino, una storia di una vecchia casa abbandonata della sua città vicino all'oceano, che si diceva avere «finestre avvelenate» pericolose da rompere. (Probabilmente la storia era stata diffusa da qualche agente immobiliare). La creatura con «le braccia conficcate accanto alla testa» era una storia che apparteneva alla sua famiglia, una vecchia e sporca foca imbottita che Nadelman aveva posseduto fin da bambino e che era stata ricucita in questo modo dopo aver perso la maggior parte dell'imbottitura. «Gli occhi senza palpebre e senza labbra la bocca» del mostro si ispiravano al film Laguna nera che avevano proiettato al circolo un venerdì sera. Il verso che diceva «Il dio di Marte, di battaglie perdute e vinte, / Che ci elargisce le stelle ma ci priva del sol glorioso e stinto» era tratto da Swinburne. Ne era certo, poiché vicino a quei versi aveva scritto «Swinburne p. 59». Si ricordava che il numero della pagina si riferiva al vecchio quaderno rilegato in cuoio, il regalo di bar mitzvah di sua zia. Originariamente aveva anche una di quelle sottili penne argentee della Mark Cross, così scomode da tenere in mano, ma ora l'asola era vuota. Vuota era anche metà delle pagine del blocco: anni addietro aveva rivolto l'attenzione ad altri progetti e non ripensò più a questo. A pagina 59 erano scritti i versi: Il signore d'amore, d'odio e della lite Che ci dona un stella togliendoci un sole da «Atalanta a Calydon» di Swinburne. Svogliatamente sfogliò le altre parti del libro constatando meravigliato i quasi nulli mutamenti della sua scrittura nel corso degli anni. Era ancora lo stesso ragazzo che aveva scritto «Mi chiedo se l'annuario del liceo sarà l'unica cosa su cui metterò il mio autografo?» e «Se Iddio è così grande, perché il rabbino Rosen puzza di patate fradice?» C'erano anche decine di fantasticherie sulle ragazze: «Linda J. completamente nuda ma rivestita dalle sue lentiggini», «i capezzoli di Margie D. piccoli come i pollici di un neonato», e frasi copiate dalle sue innumerevoli letture, da Rapito al Giovane
Holden. Aveva consultato il suo libro durante la composizione del suo poema, saccheggiandolo di immagini e idee, proprio come Coleridge aveva fatto prima di addormentarsi e sognare «Kubla Khan». Ed era superfluo dirlo, ma quel libro si era dimostrato un vero tesoro. A pagina 46, ad esempio, c'era una storia sulla rassomiglianza del cervello a una nave portoghese che lui aveva poi usato nel Canto dell'Artefice. Un po' più indietro, a pagina 40, trovò la nota sulle piante antropofaghe «che s'insinuano nelle narici dei viaggiatori mentre dormono» che fece la sua comparsa nell'Inno alla Corruzione. I riferimenti al «Dio Insetto» nella medesima parte del poema si ispiravano a un anedotto riportato a pagina 33 che aveva scritto durante una gita nel Maine, in un campeggio infestato dalle zanzare. Sulla pagina precedente c'era una citazione di Mencken che aveva avuto senza dubbio un'enorme influenza su di lui: parlava di «un Creatore il cui amore per le sue creature si manifesta mediante la loro tortura» e più sotto venivano riportati i versi tratti da Melmoth il Vagabondo che gli avevano ispirato il passaggio del «Chi va là?» nella terza parte: Chi c'è tra noi? Chi? Non posso impartire una benedizione finché egli è qui. Non me la sento. Dove appoggia il suo piede, la terra è riarsa! Dove respira, l'aria ribolle di fuoco! Dove si ciba, il nutrimento si tramuta in veleno! Dove si gira, il suo sguardo è un fulmine! Chi c'è tra noi? Chi? Dalla strada venne uno stridore di freni accompagnato dallo strombettio di un clacson. Si avvicinò alla finestra appena in tempo per vedere i fanali posteriori di un'auto scomparire in lontananza in direzione della 2a strada. Le nubi del mattino si erano dileguate e una agghiacciante luna a pochi giorni dal diventare piena sovrastava le abitazioni della zona più povera del quartiere. La strada era assolutamente deserta eccezion fatta per qualcosa in movimento sotto di lui, una figura solitaria che oltrepassava frettolosa il suo edificio così rasente al muro che Nadelman intravide con difficoltà il guizzo verde di un cappotto e una lucente testa rosa completamente calva. Qualcosa di luccicante stretto nella mano dell'individuo rifletté un raggio di luce quando l'uomo svoltò l'angolo, in direzione dei negozi, delle auto parcheggiate e delle cabine dei telefoni a gettoni che si trovavano sulla 2a Strada.
Quanto mai accigliato, Nadelman ritornò ai suoi appunti esterrefatto a causa dell'enorme teschio rosa. Era sicuro che Halloween era ormai passato. Di proposito tenne lontano dal resto dei suoi pensieri le domande senza risposta portate dalla notte, come se li avesse rinchiusi in una borsa a tenuta stagna e si tuffò di nuovo nelle sue ricerche letterarie, andando a ritroso nel passato. A pagina 27, in un passaggio descrittivo, venne colpito da un paio di versi che sembravano annunciare parte del poema. I nemici tremano al Suo sguardo, e gli accoliti si prostrano ai Suoi piedi. Non si era reso conto che le sue idee estendevano le proprie radici così lontano: doveva aver avuto poco più di sedici anni quando aveva scritto quella frase. Tre pagine prima trovò lo stesso pensiero espresso in un modo leggermente diverso: «S'avvicina. La terra trema. I nemici si dileguano al suo passaggio. L'adorano gli accoliti al seguito». Un riferimento simile espresso in modo alquanto primitivo compariva a pagina 22: Si sveglia. Egli presto arriverà, un dio rivale, creatore d'ogni malvagità Prima, a pagina 19, si leggeva: Qualcuno lassù intende causarci del male. Fu a pagina 11 che lo vide, due semplici parole in una riga tutta sola, una parola scritta senza alcuna spiegazione: L'Affamatore Rimase seduto, stravolto dallo stupore, le parole gli bruciavano nel cervello come se fossero uno scarabocchio fatto con un cavo incandescente. Ad un tratto il telefono di plastica scadente appeso al muro della cucina emise un unico squillo sincopato accompagnato dal suono dell'apparecchio in camera da letto.
Nadelman si alzò di scatto e corse verso la cucina prima che suonasse ancora nella speranza che Rhoda non si fosse svegliata e temendo che potesse essere Cele in un rigurgito di passione. Afferrò con violenza il ricevitore. «Pronto?» Involontariamente si sentiva sul punto di gridare e il silenzio si protrasse troppo a lungo. «Pronto?» Nessuna voce, nessuna risposta: solo il soffio del vento, forse il brusio di un traffico lontano. Avrebbe voluto sussurrare il nome di Cele ma si ricordò che non poteva essere lei dall'altro capo del filo perché di proposito non le aveva dato il suo nuovo numero. Con gesto delicato ripose il ricevitore. È una pazzia, ripeté a se stesso. Aveva fatto cambiare il numero meno di due settimane fa e già iniziava a ricevere telefonate strane. Forse era il pensiero delle persone stravaganti che scatenò tutto, l'improvvisa presa di coscienza di chi avrebbe potuto essere l'anomino interlocutore. Huntoon, chiaramente, chi altro? Il numero non inserito nell'elenco non era affatto un problema: se quell'uomo era riuscito a indovinare cosa era sepolto nel vecchio quaderno degli appunti di Nadelman e a scoprire il nome segreto di un dio, sarebbe sicuramente riuscito ad avere anche un numero di telefono. Forse in qualche modo misterioso, ma senza dubbio perfettamente logico, che un giorno la scienza avrebbe spiegato, aveva trovato il sistema di leggere la mente di Nadelman. A meno che non fosse riuscito in qualche modo ad entrare nell'appartamento... Lo sguardo di Nadelman ritornò alla finestra nonostante continuasse a pensare a quella misteriosa telefonata. Quello che aveva sentito nel sottofondo era rumore di traffico, ne era sicuro. Reagendo d'impulso ritornò in cucina e sbirciò attraverso la sudicia finestra laterale che dava sull'angolo e, oltre la 2a Strada, su un paio di solitarie cabine telefoniche. Aguzzò lo sguardo e si avvicinò al vetro. Sembrava quasi che ci fosse un corpo accovacciato ai piedi di un telefono ma la luce dei fari di un'auto di passaggio illuminò un sacchetto di immondizie che qualcuno aveva abbandonato lì. Gli venne la tentazione di chiamare Huntoon e parlargli, c'era una miriade di cose che voleva chiedergli ma era troppo tardi, soprattutto se l'anziana madre del ragazzo era andata a letto parecchie ore fa. Si limitò a mormorare fra sé la parola «disgustoso!» per la decima volta quella notte e decise di telefonargli la mattina dopo.
Concentrò la sua attenzione ancora una volta sul vecchio quaderno, chiedendosi cosa diavolo gli fosse preso per scrivere quel severo inquietante nome in mezzo a pagina 11. Mentre esaminava le pagine che precedevano e seguivano, notò che quella parte particolare era piena di sogni infantili. Forse aveva letto qualche edizione economica sull'argomento oppure era stato influenzato da un amico di scuola. Ad ogni modo, in quel periodo sembrava essere assorto nei suoi sogni, annotandoli fedelmente ogni mattino con tutti i loro particolari sconcertanti. Ne lesse alcuni. «Su un prato, come quello del campeggio, solo che al limitare c'è una città...», «Nella sala studio fa veramente caldo ma poi entra quella ragazza...». Smise subito. Erano annotazioni estranee, noiose, simili a sogni di persone sconosciute. Ormai non avevano nessun significato. Si sforzò di leggerne altri. Nonostante la sofisticheria e i particolari con cui venivano composte le sue fantasticherie diurne, la maggior parte dei suoi sogni erano tendenzialmente banali questioni puerili, i melodrammi più assurdi, come la fuga da un leone, o tenere a bada un orso fuori dalla porta. La più comune di tutte, il cui significato non aveva bisogno di tante spiegazioni, comportava il vagabondaggio lungo i corridoi di alberghi sconosciuti alla disperata ricerca di una toilette. Invidiava coloro i cui mondi onirici erano costruiti con orizzonti più ampi, mondi opulenti e variopinti come una saga epica hollywoodiana, come il mondo di Lovercraft che forniva la trama alle sue storie, e quello di Fuseli, che era così vivido che l'artista soleva mangiare carne rossa prima di coricarsi nella speranza di sognarli. La Xanadu di Kubla Khan, l'argomento del grandioso sogno di Coleridge, anch'essa era stata ispirata da un altro sogno fatto mezzo millennio prima, l'Imperatore che ne aveva concepito il disegno nel sonno compresa la mastodontica cupola del piacere. Forse lui aveva concepito «L'Affamatore» nello stesso modo. Forse quelle due parole erano state il prodotto di un sogno. Era forse questa la ragione per cui le aveva annotate nel suo quaderno? Ora che ci pensava, si fece strada nella mente il vago ricordo di un risveglio, una mattina, e di avere scritto quelle parole proprio come aveva sempre fatto con gli altri sogni. Oppure se lo stava immaginando? In fin dei conti perché avrebbe dovuto scarabocchiare quelle due parole misteriose e null'altro? Alle sue spalle, in cucina, il telefono squillò ancora. Balzò in piedi e corse a rispondere.
«Pronto?» Questa volta la voce era più controllata. Nessuna risposta. Udì il sussurro del traffico, e poi un rumore più vicino, più intimo, simile a un soffice sciabordio di fango: melma che apre le sue fauci desiderose di proferire parola. Un suono metallico e qualcosa gli soffiò nell'orecchio. «Pronto?» Era la voce di sua moglie, un po' impastata dal sonno. Sentì anche il fruscio delle lenzuola. «È tutto a posto, cara. Il solito stupido. Torna a dormire.» Udì un crepitio soffocato come di carta stropicciata sfregolato contro il ricevitore del telefono. Gli venne il dubbio che provenisse dalla stanza da letto. «Riattacca, cara. Non ti preoccupare.» Rimase in attesa finché sua moglie non si tolse dalla linea e poi dette sfogo alla sua furia. «Ascolta», disse trattenendosi dall'urlare, «So che sei tu, Huntoon, e non è affatto divertente. Vuoi parlare? Va bene, perfetto. Parliamo! Aspettò, ma dall'altro capo del filo non arrivò nessun suono. «Va bene, gonzo, fa' pure di testa tua! Adesso ti telefono io e non me ne frega un cazzo se sveglio tua madre.» Con mano tremante riattaccò, poi riprese il ricevitore e formò il 516 per le informazioni. Impiegarono parecchio tempo per trovare quel numero. «No», disse finalmente il centralinista, «non c'è nessuno con quel nome a Long Beach. Siete sicuro che si chiami così?» Ad un tratto Nadelman ricordò: Huntoon non aveva lasciato nessun numero telefonico in entrambi i messaggi. A dir la verità la segretaria aveva detto qualcosa riguardo al fatto che le sembrava «che quel tipo stesse chiamando da un bar». Forse non aveva telefono o forse chiamava sempre da telefoni pubblici... Nadelman si affrettò verso la finestra. Non vide nessuno vicino ai telefoni a gettoni all'angolo. Anche il sacco di spazzatura che era stato messo lì non c'era più. La cucina improvvisamente divenne gelida. Adesso non desiderava altro che infilarsi nel suo comodo letto riscaldato dal corpo della moglie. Stancamente raccolse tutte le sue carte, come un bambino che raccoglie i giocattoli, per cacciarle di nuovo dentro la valigia. Guardò per un attimo il quaderno ma sapeva che non avrebbe osato riaprirlo e perciò lo appoggiò sopra alla pila di riviste. Sfogliò un'ultima volta le pagine gialle e scarabocchiate del manoscritto del suo poema. Qui, nel guazzabuglio di scritte, correzioni e frecce, c'era la
giungla dove era sepolto il mistero. Sulla penultima pagina, subito dopo l'Invocazione, un altro passaggio cancellato attirò la sua attenzione. Non era un semplice verso, questa volta, e non una semplice rielaborazione, bensì un'intera strofa di quattro versi rimati. Era un riquadro imprigionato sulla pagina da una grata di marcati X che non era mai riuscito ad entrare nella versione dattiloscritta. Oltre al nome del dio, questa sembrava essere l'unico altro elemento del poema che aveva subito una completa alterazione. Il passaggio che lo sostituiva, scritto in modo nitido lì accanto, era di più facile lettura: «Alfine, il successo! / Dopo secoli infruttuosi / vidi testé riflessi / i volti suoi gloriosi», ma attraverso la griglia di X Nadelman riuscì a fatica a decifrare i versi: Il rituale funziona! Il Dio alfine compare, Un dio che ci canzona e urla: «Le dita non ti lordare!» Quel sabato piovigginava come al solito e Nadelman dormì fino a tardi come se non volesse uscire dal mondo dei sogni, per quanto scialbi potessero sembrare i suoi in confronto a quelli di Kubla Khan. Rimase a letto per molto tempo dopo che Rhoda si era vestita per andare alla sua lezione di tennis al coperto, poi trascorse il pomeriggio con Michael, al quale aveva promesso di portarlo da Macy per acquistare un nuovo paio di stivali e un altro degli innumerevoli videogiochi tascabili. Per tutto il giorno, in modo talmente palese che persino il ragazzo lo notò, il suo comportamento era grave e scontroso, sprofondato nella meditazione di come avrebbe dovuto gestire alcuni fatti nuovi della sua vita, come qualcuno che avesse appena ricevuto una brutta notizia dal dottore. Quella domenica, giorno riservato alla visita dei genitori di Rhoda a New Rochelle, Nadelman evitò la spedizione. «Devo affrontare quel tizio, Huntoon» disse a colazione. «Quello sciagurato mi sta facendo impazzire, è una terribile seccatura e potrà essere pericoloso un giorno o l'altro.» «Mi preoccupa il fatto che tu vada lì, solo soletto» disse Rhoda con aria preoccupata come non lo era stata da molti anni. «Come fai a pensare che non è una persona pericolosa?» «A quanto pare, è molto attaccato a sua madre.» «Davvero» disse, «come lo è alla sua collezione di dischi. Questo non
vuol dire nulla. Credo che non sia una buona idea andare a stuzzicare una persona come quella. Non sai di cosa potrebbe essere capace. Ho letto quelle lettere.» «Attenta, non ho nessuna intenzione di stuzzicare quel tizio» ribatté Nadelman. «Anzi, sarò molto ma molto gentile con lui. Sai bene che posso essere estremamente carino quando mi ci metto.» «Me lo sono quasi scordato.» Abbozzò un sorriso preoccupato. «Mi inquieta moltissimo il pensiero che lui ti faccia entrare in casa sua. Perché non lo incontri in una caffeteria, da qualche altra parte? Non sarebbe più sicuro?» «Ti ripeto, tesoro, che non ha un telefono. Devo per forza andare a casa sua per parlargli.» «Be', se insisti a voler comportarti da babbeo per andare là, almeno non starci una vita. Entra appena e digli di uscire a fare una passeggiata o qualcos'altro. Non mi piace l'idea che tu entri in quella casa. Dio solo sa cosa ci ha messo dentro.» «Cos'ha a casa sua, mamma?» chiese Michael. Aspettò invano una risposta. «Cos'ha a casa sua, papà?» «Ho sentito dire che ha tutti i fazzoletti che tu continui a perdere» rispose Nadelman alzandosi da tavola. «E tutti i guanti.» Michael scoppiò in una fragorosa risata ma Rhoda lo fece star zitto. «Stella, vai a metterti le scarpe. Non dobbiamo arrivare in ritardo dai nonni.» Quando uscì dalla stanza, il velo di preoccupazione oscurò di nuovo il volto di Rhoda. «Tesoro, sono davvero preoccupata. Promettimi che gli parlerai fuori. E che non ti farai portare sul tetto.» «Te lo prometto», menti. Li portò in macchina alla Penn Station e li salutò con un bacio prima di uscire dall'auto per lasciare il volante a Rhoda. Mentre li osservava allontanarsi sentì crescergli dentro un senso di eccitazione come se fosse un ragazzino in partenza da solo per un'avventura, alla ricerca di qualche sconosciuto che deve affrontare faccia a faccia, nello stesso modo in cui Davy Crockett aveva ghignato agli orsi. Il treno lo stava aspettando rumorosamente nei recessi della stazione, un enorme tubo argenteo che lo avrebbe condotto verso il mare, e verso la conoscenza. Trovò il suo posto e sentì le porte automatiche chiudersi irrevocabilmente: il cuore gli batteva forte e cercò di ripetersi che stava semplicemente
andando a trovare un uomo che in qualche modo strano era riuscito a leggergli il pensiero. Doveva trattarsi di uno scherzo, di un trucco che doveva assolutamente conoscere. Si sistemò sulla poltrona con il suo Advertising Age e The New Yorker ma solo quando il controllore gli chiese il biglietto notò la donna seduta dall'altra parte del corridoio che, con aria distratta, si infilava le dita nel naso mentre leggeva assorta un libro in edizione economica. Sulla guancia sinistra, indistinta e oscena, vide una stella capovolta a cinque punte. La vita aveva usato la mannaia su quel volto pieno di rughe con la pelle flaccida e spessa, ma lui la riconobbe, dopo un solo istante. La scialba e butterata ragazza incontrata dieci anni fa nel bar S&M di Chelsea. Allora, però, era a torso nudo e indossava un paio di catene incrociate sul seno. Ora era seduta lì, infagottata come un bimbo in un'azzurra giacca a vento trapuntata. Il disegno sulla guancia adesso sembrava vecchio e pallido, non era più nero, simile alla cicatrice lasciata da una vecchia operazione. Si erano formate piccole rughe tra le linee della stella, minuscoli viticci che si aggrappavano a un graticcio. Per Dio, esclamò tra sé, allora quello era veramente un tatuaggio! Quella gente esisteva davvero. Si sentì disorientato nel vederla in abiti civili, dall'apparenza così comune, e sapere che solo lui conosceva il suo segreto. Era effettivamente bruttina, ma provò una certa eccitazione al ricordo di quei due piccoli seni nudi. Che aria bizzarra aveva in mezzo a tutta quella gente. Che faccia tosta aveva nel passare tra un uomo e l'altro! Esisteva qualcosa che una donna simile non avrebbe fatto? Si inchinò verso il suo posto e attirò la sua attenzione sventolando le riviste. «Mi scusi» disse, «non ci siamo forse incontrati in un bar sulla Ventunesima?» Alzò lo sguardo senza quel barlume di sospetto che una donna normale avrebbe tradito. «Vuole dire il Chateau?» «Esattamente.» Sorrise scoprendo le gengive. Il suo non era un bel sorriso, aveva denti lunghi e gialli. «Sì, ero proprio io» rispose. Sul suo volto si dipinse uno strano miscuglio di imbarazzo e fierezza. Era seduta accanto al finestrino ma ora scivolò sulla poltroncina centrale. «Ehi, mi stupisce che lei mi abbia riconosciuto.» C'era qualcosa di strano nella sua parlata, molto più che lo strano accento di Brooklyn nella sua voce. «A dir la verità, lei ha fatto la sua bella impressione» disse, restio ad ammettere che aveva semplicemente riconosciuto il tatuaggio.
«Temo di non ricordarmi di lei», continuò la ragazza. «Era un socio?» Scosse la testa. «No, ad essere sincero ci sono andato una volta sola.» «Io ci andavo ogni giovedì sera» aggiunse con fierezza. «Non perdevo una sola serata aperta a tutti, finché il circolo non ha chiuso.» «Adesso è chiuso?» «Come no, dev'essere stato ... almeno quattro o cinque anni fa.» Assentì educatamente, chiedendosi chi avrebbe potuto essere interessato ad ascoltare la loro conversazione in tutta la carrozza. «Mi dispiace.» «A me no» ribatté. «È una vita che non frequento più gente del genere. Tutta quella storia appartiene al passato.» Nadelman la guardò fissa. «Intende dire, cose più pericolose?» «No, sto solo cercando di incanalare tutta la mia energia verso l'aspetto spirituale della mia natura. Quelle erano cazzate, era come mangiare cibo in scatola, capisce? Cosa sto facendo ora mira all'integrazione con chi ero una volta.» «Ah.» Nadelman afferrò nervosamente il suo Ad Age. «Ho scoperto di essere stata una maga in una tribù di Celti.» Nadelman annuì col capo, sorridendo, ma si sentiva già depresso. «E prima d'allora ero una sibilla presso la corte di un faraone.» «Meraviglioso!» Invariabilmente queste persone sostenevano di essere state delle celebrità, mai persone del volgo, dei contadini. «E dove sta andando adesso?» le chiese. «A qualche raduno?» «Oh, no» rispose con una risatina. «Mi trovo con la mia amica Linda.» La frase le uscì di bocca tutta d'un fiato, cantilenando. «Lavorava nel mio stesso reparto da Woolworth ma è stata assunta dalla compagnia dei telefoni e non la vedo dall'estate scorsa. Scendo a Kew Gardens. Capisce, vive a quattro isolati dalla stazione.» Fece una pausa giocherellando con una ciocca di capelli. «E lei, dove sta andando?» «Oh, io, a Long Beach», rispose. «È molto lontano.» Tacque un istante per pensare. «La nonna della mia amica è stata messa in un ospizio da quelle parti. Lei viene da lì?» Nadelman scosse la testa. «È dall'età di dieci anni che non vado più in quel posto. Mia zia affittava una casa vicino al lungomare e la mia famiglia l'andava a trovare durante l'estate. Abitavamo a due città di distanza, a Woodland Park.» «Ma sì, certo» disse. «So dove si trova.» Stuzzicò qualcosa sul suo naso. «E lei scende lì?» Nadelman alzò le spalle. «Non ci ho ancora pensato.»
«Secondo me dovrebbe farlo. Mi creda, non è bene perdere contatto con il proprio passato. Potrebbero succedere brutte cose. Verrebbe escluso dalla sua storia.» Era arrivato il momento di scendere. Si alzò, sorrise scoprendo tutti i suoi denti accarezzando il libro che stava leggendo. Nadelman riuscì a leggere il titolo: Scoprite la vostra vita passata. Non si ricordava quanti anni erano passati dall'ultima volta che era stato a Woodland Park. La sua famiglia si era trasferita a Rye alla fine degli anni '50, circa due anni dopo la festa del suo bar mitzvah, si ricordava bene. Pochi anni prima di andare in pensione, nel '77, sua madre era ritornata lì, in gita da sola. Avrebbe voluto che lui l'accompagnasse ma l'ufficio stava passando un momento di crisi e Nadelman non era riuscito a liberarsi. Sì, il conto corrente della Ocean Spray e il suo fallimento. Quanti anni fa era successo?... Mio Dio, erano passati quasi trent'anni. Il treno arrivo a Woodland Park poco dopo l'una. La prima cosa che Nadelman notò fu che la stazione era stata ristrutturata. Scendendo dal treno si chiese se fosse ancora rimasto qualcosa della sua infanzia. Aveva controllato l'orario e poteva disporre di un'ora e mezzo per fare una passeggiata. Si mise a fischiare un motivetto con poca intenzione, si abbottonò il cappotto, infilò le mani nelle tasche e si diresse verso il viale principale della cittadina. A due isolati dalla stazione passò davanti alla sua vecchia scuola elementare. Era ancora in piedi, un enorme monumento vuoto della sua giovinezza. L'edificio era esattamente come se lo ricordava ma una decina d'anni prima, dopo la fine dello scoppio demografico e la conseguente mancanza di bambini, la scuola era stata trasformata in un centro amministrativo. Il cortile era diventato un parcheggio abitato solo da fantasmi. Le alte ringhiere di metallo che adesso fungevano da protezione a un reticolato di linee bianche, un tempo delineava un microcosmo umano: amanti, avventurieri, prepotenti e le loro vittime, giocatori, un mondo di compromessi e, talvolta, di falliti. Nadelman continuò a camminare e non si curò di guardarsi alle spalle. Grazie al cielo che Michael andava in una scuola più piccola. Il villaggio sembrava identico a quello di una volta anche se erano solo gli edifici che erano rimasti immutati. Le insegne appese ai muri erano nuove. Le vivaci vetrine di un negozio di informatica e un negozio che vendeva nient'altro che scarpe da ginnastica contrastavano in modo strano con i vecchi edifici di mattoni che li ospitavano, come fossero quadri mo-
derni in cornici antiche. Ma erano le cornici che stuzzicavano il suo interesse. Sopra una finestra vide una targa che diceva «1943» e provò un tuffo al cuore. La donna sul treno aveva ragione: era contento di essere ritornato. Aveva fatto un enorme balzo nel tempo, inaspettato, che lo riportava nel cuore delle cose. Continuava a fischiettare allontanandosi dal villaggio, oltre quartieri di case periferiche dall'apparente aria comoda e sicura contro il grigio cielo di novembre. I giardini erano vuoti adesso, eccetto che per un adolescente su un vialetto che stava lucidando la sua Toyota. Gli altri probabilmente erano rintanati in casa a guardare una partita di calcio. Riconobbe il profilo di un'enorme casa in stile Regina Anna, in un angolo, e Nadelman seguì la curva del viale che lo portava nel luogo dove aveva vissuto, sforzandosi di non mettersi a correre mentre passava davanti ad altre due ampie case, un piccolo cottage rosso a un piano, una siepe di sempreverdi. Stava cercando di prolungare l'aspettativa. Finalmente arrivò nel suo quartiere ma capì subito, provando una fitta al cuore, che tutte le case su un lato della strada, la sua casa e le tre adiacenti, erano state sostituite da una fila di edifici a piani sfalsati, i prati antistanti quasi privi di alberi. Proseguì per parecchi isolati, si girò, cercò, come un cane sperduto, l'odore di casa sua. Ma non c'era modo di trovarlo: la vecchia casa era scomparsa e con essa gran parte del suo passato. I ricordi si erano dileguati nel nulla e non sarebbero mai potuti ritornare. Ma il suo passato era là, lo circondava. Lo sentiva, ne sentiva l'odore trasportato dalla brezza salmastra dell'oceano. Si incamminò verso la stazione con aria stanca pensando alla distesa d'acqua che gli stava davanti, mormorando tra sé che stava andando verso l'unico elemento sicuro della sua gioventù, l'unica cosa che la storia non avrebbe potuto mutare. Long Beach si trovava oltre il ponte, su una estensione di sabbia lunga otto miglia che correva parallela alla terra ferma. La stazione ferroviaria si trovava nei pressi del centro della strada commerciale principale, piena di banche, negozi e sinagoghe. Nulla gli risultava familiare. Erano le tre quando riuscì a trovare la via di Huntoon, la più interna in tutta quella stretta striscia di sobborgo a ridosso dell'oceano, a parecchi isolati di distanza dai vecchi tavolati di legno sul lungomare che collegavano gli alberghi cittadini con gli ospizi. Locust Court era una piccola zona isolata e sciatta di appartamenti con giardino interno e case multifamiliari, un mondo di siepi di ligustro, di muri scrostati e marciapiedi stretti e
sconnessi. Persino in quel freddo pomeriggio di novembre aleggiava nell'aria un acre odore di cucina come se ci si trovasse in un corridoio di un vecchio condominio. La strada era deserta eccezion fatta per un vecchio rugoso con una giacca a vento e un berretto di feltro con paraorecchie, il respiro visibile nell'aria, mentre era intento a raccogliere foglie morte e cartacce che si erano accumulate sotto la verde rete metallica cascante che circondava una delle case private. Da qualche parte dietro alle sue spalle provenivano i deboli suoni di un cortile pieno di giochi, benché Nadelman non si ricordasse di avere visto passare dei bambini. In lontananza credette di sentire lo sciabordio della risacca ma forse si trattava semplicemente del vento. Si sentiva scombussolato qui, in questa piccola enclave senza sbocco sul mare, anche se era abbastanza certo che al di là dell'ultima fila di tetti iniziava l'oceano. Il numero 1152, la casa più trasandata di tutto il quartiere, era un edificio in legno e muratura con decorazioni a stucco che si trovava quasi sul marciapiede. Nel viale d'accesso erano parcheggiate due auto, la ghiaia disordinata era piena di erbacce, mentre altre due erano visibili in un garage aperto nel retro. Si chiese se una di quelle appartenesse a Huntoon. Quel nome si trovava in cima a una colonna di campanelli, come la domanda più difficile in un quiz televisivo. Nadelman premette il bottone e nel farlo notò il nome che era scritto sotto: Braverman. Era quella la gente che Huntoon desiderava terrorizzare... i vicini. Stava quasi per suonare di nuovo quando la porta emise un ronzio intermittente e rauco prima di aprirsi di scatto. La minuscola entrata avvolta nella penombra era in pessime condizioni come se fosse la stanza dei giochi di un bimbo. Sulla parete qualcuno aveva disegnato con i gessetti la cruda immagine di un cane colto nell'atto di defecare. Mentre saliva la stretta rampa di scale sentì, quattro piani sopra la sua testa, il rumore di una porta che veniva aperta. «Arly?» Era la voce di una donna anziana, una voce che ancora conservava un filo di forza. «Hai dimenticato le chiavi?» Si fermò su uno scalino. «Signora Huntoon? Sono la persona che Arlen stava aspettando. Quello che ha scritto la canzone.» «Lei è Nadelman?» «Proprio io. Posso salire?» Senza attendere una risposta continuò a salire, animato dal nervosismo cui aveva soggiaciuto per tutti quei giorni. «Arly è uscito», disse mentre Nadelman stava iniziando l'ultima rampa. C'era una traccia di accento nella sua voce ma Nadelman non riusciva a lo-
calizzarlo. Quando raggiunse la porta di casa, ansimando nonostante i suoi allenamenti in palestra, la donna aveva messo la catena alla porta. «Non sono tanto sicura se lasciarla entrare.» Vide una pallida fetta della sua testa che ondeggiava su e giù nella fessura, quasi volesse dargli la visione più completa possibile. La bocca era tesa in un'espressione torva. «Per Dio, signora Huntoon» disse riprendendo fiato. «Ho fatto molta strada per venire a trovare voi due.» Che gli prendesse un accidente se doveva rifare al contrario quelle maledette scale. «Be', credo che sarà a casa tra poco.» La porta si richiuse. Nadelman udì un rumore contro il legno e poi la porta si riaprì per farlo entrare. «Questa casa non dovrei farla vedere. Noi non abbiamo molti visitatori.» Stava ancora ondeggiando la testa pensando a qualche preoccupazione privata. La riconobbe dalla fotografia, una donna piccola e grassoccia, dai capelli grigi e con un volto simile a quello di una bambola Cabbage Patch. Allora non era stata lei a scattare le foto! «Avrei dovuto telefonarvi prima» disse, «ma a quanto pare non avete un telefono.» La donna corrugò la fronte, ancora persa nei suoi pensieri. «No, sono venuti e ce l'hanno tolto.» Si guardò intorno grattandosi le profonde rughe sulla fronte. Il vestito che indossava era tutto una piega e non molto pulito: probabilmente aveva dormito vestita. «Arly sarà sicuramente di ritorno tra poco, credo. Si stupirà di avere un ospite.» Era ovvio che le visite erano un evento davvero raro. La stanza anteriore, con il suo tappeto consunto e una piccola finestra che faceva entrare un po' di luce, era una confusione di cuscini, vecchi stracci e riviste. Tre sedie con lo schienale rotto erano disposte come vecchi pensionati attorno a un enorme televisore con l'antenna avvolta in un foglio di alluminio tenuto saldo da nastro adesivo. La stanza era evidentemente molto usata. Davanti al televisore, su un tavolino c'erano tazze e piatti sporchi e nell'aria aleggiava un leggero odore di spazzatura. Numeri stropicciati di Prevention, Fate e Guida TV erano sparpagliati sui mobili con le copertine piene di briciole di biscotto. Appoggiato su una sedia, il dorso completamente rovinato, vide un'edizione economica di Oltre la scienza. 73 casi documentati che la scienza è incapace di spiegare. «Questo posto è diventato un letamaio da quando Arly è stato licenziato» disse la donna mettendosi a sedere sulla sedia accanto alla finestra. Nadelman si sedette con esitazione al suo fianco.
«Quanto tempo fa è successo?» «Poco dopo la festa del lavoro. Gli hanno solo detto che non lo volevano più per le consegne. Non aveva mai fatto un incidente.» «Per chi lavorava?» «Per una ditta a Valley Stream. Facevano consegne ai negozi, album e cose del genere. A Green Acre, Gimbel e ad altri posti. È così che ha conosciuto quella musica.» Si mordicchiò le labbra. «Lo accusavano di furto, ma lei ed io sappiamo che non è vero. Ascoltava solamente quelle canzoni.» Nadelman annuì. «È una vergogna. Sono contento almeno che la mia canzone era una tra quelle che ascoltava.» «Oh, è un suo ammiratore adesso. Adora i suoi testi, davvero.» Dall'esterno giunse il rumore di ghiaia sul viale. Udirono il motore di un'auto spegnersi subito seguito dal rumore di una porta sbattuta. La signora Huntoon avvicinò il viso alla finestra socchiudendo gli occhi. «Sta arrivando. Sarà una sorpresa per lui, vederla qui.» Aveva un'espressione preoccupata. «La ragione per cui sono venuto», disse Nadelman sfruttando quel poco tempo che gli era rimasto per parlare da solo con la donna, «era perché volevo vedere il lavoro di suo figlio, quella cosa per cui si è ispirato alla mia canzone. È ancora sul tetto?» La donna scosse la testa, il mento flaccido seguiva quel movimento ondulatorio dando enfasi alla risposta. «No, no, abbiamo buttato via tutto. È rimasto lì per un paio di notti. Arly voleva solo scherzare.» Nadelman sorrise. «Sì, lo pensavo anch'io.» Al piano terreno una porta sbatté. Si udirono passi pesanti per le scale. «Questo è Arly» disse. Si alzò a fatica, si diresse verso la porta e la aprì. «Arly» urlò, «indovina chi è venuto a trovarci.» Un grugnito intercalò il rumore dei passi. «È quello che ha scritto quella canzone.» «Per la miseria!» Alcuni secondi più tardi un uomo massiccio dal volto affilato entrò di corsa nell'appartamento. Aveva un'espressione sorpresa più che compiaciuta. Era vestito come un povero contadino, con stivali, basette lunghe e una giacca di cuoio malconcia. In braccio teneva un vasto assortimento di legno con chiodi arrugginiti che spuntavano qua e là. «Volevo telefonare prima di venire» ripeté Nadelman, «ma non avete telefono.» Huntoon annuì con aria dubbiosa. «Be', adesso è qui, e allora si metta comodo.»
Da sotto la legna tirò fuori una mano pesante. «Sono appena tornato dalla discarica di Oceanside» disse sporgendo il legno per fornirgli una prova. «Ho dovuto buttare via della spazzatura.» Il suo sguardo eloquente era fisso su Nadelman, un'allusione alla sua complicità. Nadelman si immaginò che la creatura della fotografia fosse stata gettata sommariamente in un mucchio di immondizia. «E guardi cosa ho trovato!» disse appoggiando il legno in un angolo. «La posso veramente usare, questa roba.» Nadelman osservò la fila di chiodi arrugginiti. «Si diverte a costruirsi le cose, vero?» L'altro si sfregò le mani e annuì. «Davvero. Sono un vero genio per queste cose, come lei per la magia.» Improvvisamente ebbe un'espressione di colpevolezza. Il suo sguardo guizzò oltre la testa di Nadelman, sulla parete alle sue spalle. «Sa, avevo veramente intenzione di incorniciare la sua lettera» disse. «Non ho ancora avuto il tempo di farlo.» «Oh, non si preoccupi per queste cose» rispose Nadelman. «La ragione per cui sono qui è perché voglio parlarle.» Huntoon sorrise malizioso. «Certo, prima o poi sarebbe venuto per parlarmi.» Si sedette sulla sedia più comoda e dopo essersi levato gli stivali appoggiò i piedi sul tavolo. «Me lo sentivo che sarebbe venuto a trovarmi.» Nadelman si sedette davanti a lui cercando di non respirare troppo l'odore dei calzini di Huntoon. «Non ho cercato di evitarla» disse. «Mi sarei messo in contatto con lei molto tempo fa se solo ci fosse stato un modo per raggiungerla.» «Oh, di modi ce ne sono» disse Huntoon. «Ci sono molti modi per raggiungere la gente. Dovrei credere che anche lei ne conosce un paio.» Alle sue spalle la madre annuì con aria solenne. «Temo di dipendere troppo dal telefono.» «Davvero?» sogghignò Huntoon. «Che bisogno ha di un aggeggio simile? Si sprecano soldi e la gente chiacchiera e spettegola alle spalle di chiunque.» «Questo è vero» disse Nadelman. Si sentiva un corteggiatore nervoso. «Certa gente è veramente maliziosa. Anche voi avete questo problema con i Braverman?» Huntoon scosse la testa. «Non ho nessun problema con i Braverman.» «Sono andati via» aggiunse la donna. «Ho sentito dire alla signora Braverman che sarebbero andati via. In Florida, credo, o un posto del genere.» «Di che gente si tratta?» chiese Nadelman. Decise di seguire questo cor-
so finché non gli avessero opposto resistenza. Solo allora sarebbe ritornato sui suoi passi. «Sono i nostri vicini.» Huntoon sorrise. «Se li vuole definire così.» «Certo, capisco» ribatté Nadelman. «Vivono qui sotto.» Gli occhi di Huntoon ammiccarono leggermente e il suo sorriso divenne crudele. «Forse sì e forse no.» «Sono partiti» disse la signora Huntoon. «Ho l'impressione» disse Nadelman, «che non corra buon sangue tra voi.» Huntoon scrollò le spalle. «Diciamo pure che abbiamo opinioni divergenti su determinate cose.» «Tipo?» «Tipo dove far passeggiare il cane, e far cacare il cane sul tetto sotto il quale vive una famiglia che si dà il caso si diverte a camminare sulle tegole.» Ci siamo, pensò Nadelman. Ora capiva tutto. A lui la cosa non sembrava affatto insostenibile ma evidentemente disturbava parecchio questa gente. «In questo caso» aggiunse, «spero proprio che li abbiate spaventati a morte.» Huntoon ridacchiò. «Certo che li abbiamo spaventati! Non è vero, mamma?» La signora Huntoon annuì con il capo. «E non saranno di ritorno tanto presto.» «Ci credo!» si intromise Nadelman. Cercò di immaginarsi cosa poteva sembrare quell'effigie sul tetto a una persona che la vedeva nell'oscurità. O peggio, Huntoon in persona, vestito come l'aveva visto nella foto. La povera coppia probabilmente aveva lasciato lo stato, tanto erano spaventati. «Be', credo proprio che le cose saranno più pulite lassù, per un po' di tempo» disse. «Potrei mica salire e dare un'occhiata?» Stava cercando un modo per restare a quattr'occhi con Huntoon. Solo allora gli sarebbe stato facile parlargli. Huntoon scrollò di nuovo le spalle. «Faccia come crede. Non c'è più nulla sul tetto. Ma ci andiamo lo stesso, se lo desidera.» L'anziana donna lo afferrò per un braccio. «Arly, non vorrai mica portarlo sul tetto?» «Ci sono problemi?» chiese Nadelman, già in piedi ma pronto a sedersi di nuovo. La voce della donna tradiva una certa preoccupazione che gli fe-
ce ripensare alle parole dette da Rhoda quella mattina e improvvisamente si immaginò il pesante Huntoon mentre lo spingeva giù, oltre il cornicione. «No» rispose, «affatto.» Afferrò gli stivali. «Forza, daremo un'occhiata in giro.» Per raggiungere il tetto dovettero salire un'altra rampa di scale, alla fine della quale c'era una porta di ferro ammaccata, socchiusa. Huntoon l'aprì scoprendo un rettangolo di cielo grigio perla. Lontano si udivano voci di bambini. «Vede? Non c'è nulla qui. Gliel'avevo detto.» Con un ampio gesto indicò il panorama. Nadelman seguì quella mano ma non vide nulla di quanto aveva visto nelle fotografie. Il tetto piatto gli ricordava un'arena. Inspirò profonde boccate d'aria fredda e incontaminata e osservò la linea di alberghi che si intravedeva all'orizzonte, una schiera di spettatori mostruosi. «Ha ragione» disse. «Tra l'altro me l'aveva detto venerdì. Il suo messaggio diceva che quella cosa era sparita.» L'uomo inclinò il capo, improvvisamente timido. «Infatti, ha ragione. È scomparso.» «Adesso dov'è?» chiese Nadelman pur conoscendo già la risposta. «Alla discarica?» Se Huntoon l'aveva trasportata in quel posto, probabilmente aveva una buona ragione. Forse i Braverman ne erano rimasti talmente spaventati che aveva ritenuto opportuno disfarsene. Huntoon incrociò le braccia. «Forse è alla discarica o forse no. Forse è ritornato ieri notte oppure no. Non dico nulla senza un avvocato.» «Perché diamine avrebbe bisogno di un avvocato?» chiese Nadelman. Huntoon gli ricordava un bambino che aveva un segreto ma che desiderava ardentemente svelarlo al mondo intero. «Forse ne ho bisogno o forse no. Sta a lei e a tutti gli altri scoprirlo.» Quell'atteggiamento misto di spacconeria e ambiguità lo inquietava. Huntoon era forte e il tetto molto alto. «Insomma, non sono affari miei, dopotutto» disse. «Sono contento almeno di esserle stato utile a risolvere un suo problema.» Si guardò intorno. «Non vedo cacca di cane.» «E non ne vedrà» ribatté Huntoon con tono aspro. «Ci ho impiegato quasi due ore a pulire tutto, l'altra notte.» Esaminò il tetto con occhio critico. «Ma adesso con la luce vedo che mi sono dimenticato di un paio di cose.» Si chinò a raccogliere qualcosa che luccicò nella luce del tramonto. «Cos'è?» chiese Nadelman. «Stenda la mano» disse Huntoon avvicinandosi. Nadelman indietreggiò,
si sentiva il bambino più piccolo e indifeso di tutta la combriccola. «Forza, apra la mano. Non le farò del male.» Lasciò cadere la cosa nel palmo aperto di Nadelman. Nadelman la esaminò. Era una scheggia di vetro grande cinque centimetri e rossa come un rubino. La restituì a Huntoon, ricordando disgustato le altre schegge che aveva visto nella prima foto, dove dovevano essere le mani della creatura. «Proviene da dove penso provengano?» chiese. «Dal suo, ehm, servo?» Huntoon lo osservò guardingo. «È servo suo quanto è mio. Mi sembra infatti che preferisce prendere ordini da lei.» L'uso del tempo presente nel discorso dell'uomo lo fece tremare. «Be', almeno ha finalmente risolto il problema della servitù!» «Forse sì.» Huntoon non sorrideva. «E questo pezzo di vetro era una parte del suo corpo?» Il volto dell'altro si illuminò d'un tratto. «Giusto» rispose. «Ho usato un paio di finestre rotte.» «Finestre?» La scheggia era rosso fuoco. «Vuole dire, la finestra di una chiesa?» Huntoon alzò le spalle. «Una chiesa, un tempio, chi se ne frega?» Con un gesto indifferente del braccio egli lanciò il pezzo di vetro. «Forza, andiamocene di qui. Sto morendo di freddo.» Forse era dovuto al potere di suggestione ma Nadelman stava tremando quando entrò nell'appartamento. Dopo essere stato sul tetto trovò che l'aria dell'appartamento era talmente irrespirabile che se la sentiva persino in bocca. Ebbe un attimo di esitazione, forse era ancora possibile ottenere altre informazioni da Huntoon, qualche indicazione sulle origini del suo potere ma dubitava di riuscire a rimanere più a lungo nelle vicinanze di quell'uomo. «Dovrò partire tra poco» annunciò mentre si accomodavano uno di fronte all'altro attorno a un tavolo di formica in cucina. Si erano sistemati lì non perché Huntoon gli avesse offerto qualcosa da mangiare ma perché la vecchia signora stava guardando un gioco televisivo in salotto. «Si sta facendo tardi e ci sono solo due treni.» Non sarebbe mai riuscito ad arrivare a casa prima di notte. «Nah, non è tardi» disse Huntoon con un tono improvvisamente affabile. Portò il polso verso il volto di Nadelman, un finto pugno. «Vede? Quasi le tre.» «Sta scherzando.» Nadelman controllò sul suo Tourneau. Erano le quattro passate.
«Credo che il suo orologio sia rotto, Arlen.» Abbozzò un sorriso. «A meno che non abbia un orario diverso dal resto del mondo.» Huntoon scoppiò in una fragorosa risata che coprì il rumore della televisione proveniente dalla stanza adiacente. «Sapevo che lei era una persona troppo furba per cascarci!» Con un dito percosse il quadrante del suo orologio digitale in plastica nera. «Ho regolato questo aggeggio settanta minuti indietro.» «Perché?» Sorrise in modo strano. «Per fregare la gente. Non sopporto le persone che guardano l'ora sul mio orologio, capisce? Che se ne comprino uno.» Nadelman annuì. «Interessante.» Doveva andare via da quel posto. Rhoda aveva più ragione di quanta non credesse. «Ma ora credo proprio di dover andare.» Huntoon sembrò accettare la cosa, delusione e sollievo in lotta tra loro. «Aspetti un secondo, un solo secondo.» Si appoggiò sul tavolo sopra il quale c'erano i contenitori del sale e del pepe a forma di aragosta. «Dove sta andando?» «Torno in città.» «Prima deve vedere la mia invenzione. Per ascoltare i dischi a rovescio.» «Oh, sì, certo.» Huntoon gliene aveva parlato nella sua lettera. «Ricordo. Dove sarebbe?» L'altro indicò la porta con un cenno del capo. «Nella mia stanza.» La camera di Huntoon era del genere che avrebbe affascinato Nadelman quando era giovane e abitava a due città di distanza ma ora gli sembrava un vero e proprio negozio di cianfrusaglie dall'atmosfera particolarmente malsana. Gli scaffali lungo una parete erano pieni di souvenir, talismani, una sfera di plastica, oggetti che, se considerati singolarmente, avrebbero conservato una certa dignità ma ammonticchiati l'uno sull'altro avevano l'aria di una galleria di feticci. In un recipiente pieno di formalina fluttuava un piccolo polipo, simile a un organo estratto. Un coccio liscio e bianco che inizialmente sembrava un pezzo di ceramica, Nadelman si rese conto dopo un po' che si trattava di un pezzo di teschio, non necessariamente umano. Riconobbe nella sottile canna di alluminio che pendeva da un angolo accanto alla finestra una cerbottana comprata per corrispondenza. Avrebbe potuto scambiarla per una canna da pesca se suo figlio non avesse tentato di spedire la cedola di ordinazione per riceverne una. C'erano altre armi, un machete che penzolava da un gancio sulla porta del ripostiglio e, sulla mensola inferiore, baionette e coltelli a lama fissa con i relativi foderi
e una serie di minuscole STELLE DA GETTO color argento. A ridosso delle pareti erano ammucchiate pile di libri in edizione economica che tendevano verso il soffitto, simili a stalagmiti. Sulle mensole della libreria Gli schiavi della Gestapo si trovava accanto all'Autodifesa psichica. L'interpretazione sessuale dei Tarocchi era aperto sul comodino, comodamente adagiato su una copia della Sinfonia dello scudiscio. Di fronte alla finestra era appeso un poster di Rocco dei Jizzmo alla batteria, la bocca spalancata in un urlo silenzioso mentre Ray impugnava un microfono, lo sguardo luminoso come quello di un maniaco. Un altro poster era di un gruppo chiamato Orchidee mortali. Attaccato al muro sopra il letto in disordine c'era un enorme mandala color pastello, stile anni '60, con una stella capovolta dall'aria familiare: la versione dello sciagurato dalla faccia gialla sorridente che ormai imperversava dappertutto. «Mamma non entra mai qui» disse con aria disinvolta giocherellando con un giradischi sul pavimento vicino al letto. «Non glielo permetto, mi incasinerebbe tutto.» «Sono sicuri questi arnesi?» chiese Nadelman esaminando nervosamente un coltello il cui manico era composto da una serie di pugni di ferro. «Oh, certo, basta sapere come usarli.» «È sicuro che sono legali?» «Ascolti» disse Huntoon improvvisamente arrabbiato. «Questa è un'altra cosa che riguardava il vecchio Braverman. Sa cosa mi ha fatto quel maledetto? Ha cercato di ostacolare il mio diritto costituzionale al possesso di un'arma. Al diavolo, era quasi riuscito a mettermi nella merda con la legge.» «Ma cosa se ne fa di tutte queste armi?» gli chiese Nadelman. Si era messo con la porta alle spalle. «Devo proteggere mia madre, non le pare? Voglio dire, mia madre è costretta a rimanere in casa. Non esce più.» La logica gli sembrava distorta, ma Nadelman non cercava nemmeno di seguirla, perché ormai Huntoon aveva tirato fuori la sua invenzione. Era uno strumento semplice, un giradischi montato su una base di legno con un motore capovolto per farlo funzionare al rovescio mediante una sottile striscia di gomma. Con lo sguardo illuminato dall'emozione Huntoon fece suonare due canzoni da un album di Judas Priest ma Nadelman non riuscì a decifrare i riferimenti a Satana che l'altro gli aveva assicurato di aver sentito. Huntoon poi fece la stessa cosa con l'album dei Jizzmo, Walpurgis Night. «Questa è ancora più difficile da capire» spiegò mentre faceva sen-
tire una parte del «NUOVO DIO NEL QUARTIERE». «Ci si deve concentrare su quello che si sta ascoltando.» Ma tutto quello che Nadelman riusciva a sentire era un interminabile lamento alieno che si alzava e abbassava, abbastanza umano da far accapponare la pelle. Esaminò il poster dei Jizzmo sulla parete. «Ha declamato l'Invocazione qui?» Huntoon alzò lo sguardo, meravigliato. «No» disse. «L'ho detta sul tetto. Non si ricorda? Si deve farlo sotto le stelle, "sotto il vuoto dello spazio".» «Sì, ora ricordo» ribatté Nadelman imbarazzato per aver dimenticato il suo stesso poema. Si sentiva più che mai un impostore. «A proposito di quel dio, c'è qualcosa che vorrei chiederle. Come faceva a sapere che l'avevo chiamato "l'Affamatore"? Nemmeno io me lo ricordavo.» «Gliel'ho scritto nella lettera. Lui mi ha parlato.» «Ma come comunicava con lei?» «Sa» continuò Huntoon, «nel modo in cui un dio dovrebbe parlarci.» «Vuol dire con un oui-ja?» Huntoon gli lanciò uno sguardo scettico come se Nadelman stesse fingendo. «La smetta, non ci crede nessuno.» «Sentiva una voce parlarle in testa, come la voce della coscienza?» Huntoon dondolò la testa. «No, l'ho sentito come adesso sto sentendo la sua voce. La notte scorsa. Proprio come dice la canzone: "Udii la sua voce frammista al tuono".» Nadelman faceva fatica a respirare. «Ed è stato allora che le ha detto il proprio nome?» L'altro annuì. «Insomma...» Nadelman stava scegliendo con cura le parole che voleva usare, «questa mi giunge nuova.» I lineamenti sottili del volto di Huntoon si tinsero in un sorriso beffardo. «Suvvia, amico, certo che lo sapeva! Potrebbe darsi che sia stato proprio lei a dargli quel nome.» Più tardi, ripensando alle parole di Huntoon mentre scendeva le scale verso l'entrata, Nadelman ricordò un disgustoso odore di immondizia che aleggiava nell'appartamento di quell'uomo e si rese conto che il puzzo era più forte nella stanza da letto. Si allontanò di corsa dalla casa degli Huntoon per sfuggire alla loro squallida realtà inspirando lunghe boccate di aria fresca. Aveva un buon sapore. Ma a questo punto si rese conto di avere fame: Huntoon, quell'ignorante gentile, non aveva minimamente pensato di offrirgli nemmeno un
bicchiere d'acqua. Sapeva che probabilmente alla stazione avrebbe trovato qualche dolciume, ma non riuscì a resistere alle richieste del suo stomaco vuoto e a un'ondata di nostalgia che lo avevano invaso nel primo pomeriggio: avrebbe fatto un breve pellegrinaggio all'ultimo luogo frequentato quand'era bambino, il lungomare che si trovava a parecchi isolati di distanza. Si rendeva conto che non sarebbe stato come allora, non poteva esserlo. Allora, quando passava interi periodi delle sue lunghe estati con la famiglia del fratello di sua madre nella loro casetta gialla presa in affitto sulla Michigan Street - i nomi delle strade erano stati un buon metodo per imparare i nomi degli stati - il cielo era più azzurro, il lungomare poco lontano un luogo di divertimento e paura, di tagliandi che si raccoglievano per ricevere un premio, di mele candite che impiastricciavano le mani, di vertiginosi giri in giostra che facevano concorrenza a quelli di Coney Island. La zona commerciale della città: nella sua memoria, quella era un avamposto di frontiera contro il quale si compivano incursioni, sempre accompagnati dagli adulti, per approvvigionarsi di giornalini e caramelle e per infilare una serie senza fine di monetine nelle macchinette del supermercato. Lo scialbo paesaggio di periferia in cui si trovava ora, in questo grigio pomeriggio di novembre, assomigliava tanto a un risveglio dopo un bel sogno. Controllò un'altra volta il tempo che gli mancava per l'ultimo treno e si incamminò passando per strade quasi deserte che lo avrebbero portato verso il lungomare, nascosto in alcuni punti dai mille alberghi che lo popolavano, uno accanto all'altro, come enormi bestie davanti a una mangiatoia di legno. Poco lontano dalla strada principale trovò un bar illuminato alla fine di una serie di negozi avvolti nell'oscurità. Era uno dei pochi posti che sembrava ancora aperto. Dentro c'erano solo quattro avventori, l'atmosfera tranquilla si addiceva al suo umore. Un vecchio all'altra estremità del bancone, alla sua destra, teneva il giornale davanti alla faccia per leggerlo, studiando gli annunci economici con l'intensità di un camionista sperduto che sta controllando la sua cartina. Era l'edizione del sabato del Post, già sgualcito e quasi a brandelli, invecchiato assieme alle notizie di ieri. Di tanto in tanto l'uomo faceva cadere la cenere della sigaretta dentro una tazza da caffè vuota. Mentre ordinava un cheeseburger e una coca-cola Nadelman sentì che il suo sguardo veniva attirato, in modo inevitabile, da un enorme titolo: BUON SAMARITANO SCHIACCIATO MENTRE RESTITUISCE 50 CENTESIMI. Un'altro povero diavolo caduto vittima di un qualche dio. Quando
arrivò il suo panino rimase a guardare il liquido untuoso e rosso che cadeva sul piatto e provò un senso di nausea pensando al pavimento di un macello. Scostò il piatto e ordinò un normale toast. Aveva bisogno di pensare. Riesaminando gli avvenimenti di quel pomeriggio capì quali erano state le sue aspettative: era arrivato a casa di Huntoon mezzo convinto, o almeno speranzoso, che l'uomo si rivelasse essere una specie di mago casalingo, saggio e benevolo, la versione di periferia di un personaggio uscito dalle pagine di Castaneda. Gli avrebbe svelato come era riuscito magicamente a leggere la sua mente oppure, grazie ad altrettanta magia, ad avere accesso ai suoi quaderni privati. Qualsiasi cosa pur di confermare che il dio di cui avevano parlato in toni così familiari non era altro che un'invenzione condivisa da entrambi. Ma Huntoon non aveva confermato niente. Infatti, a giudicare dalla puzza nella sua stanza, aveva l'aria di nascondere un'altra creatura nel ripostiglio. E si era rifiutato di spiegare il perché dell'Affamatore. Peggio ancora, nell'ultima parte della conversazione Huntoon aveva addirittura insinuato non solo che il dio era una realtà ma anche che Nadelman in persona era responsabile della sua esistenza. Nadelman fece roteare il liquido ambrato della sua Coca e si chiese se tutto questo potesse mai essere vero. «...Potrebbe darsi» gli aveva detto Huntoon, «che sia stato proprio lei a dargli quel nome». Come se, in quel lontano giorno di trenta anni fa, quando per la prima volta aveva scritto «l'Affamatore» sul nuovo quaderno rilegato in cuoio, avesse introdotto qualcosa di nuovo nell'universo, qualcosa elaborato dal suo cervello, un essere che aveva iniziato ad esistere grazie a un semplice colpo di penna. (A meno che, naturale, non lo avesse creato con un sogno, l'appunto nel quaderno fosse una semplice annotazione del fatto, una specie di certificato di nascita. Chi poteva mai dire come era iniziato tutto?) Era possibile che nelle ultime ore di quel giorno, durante l'imposizione del nome, egli avesse dato vita a un dio nel momento stesso in cui pronunciò il suo nome, e gli avesse dato un corpo a mano a mano che componeva i versi del suo poema? Che strano sarebbe stato, l'idea che l'universo stesse in effetti ascoltandolo, in attesa delle sue decisioni, delle sue parole scelte con attenzione, per rispondere ai suoi ordini. Cosa diceva quel verso del poema? «"Mi creerò un Creatore" diss'egli», un dio creato per ordinare! Era una responsabilità terribile da contemplare! Perché poteva voler dire essere in qualche modo la causa originale delle cose che lo avevano sempre spaventato, inorridito, di tutto l'operato del dio oscuro che lui aveva in-
ventato: i padri pugnalati, le madri violentate, i figli lasciati morire di stenti. Alla sua destra il vecchio si alzò e prima di andarsene fece scivolare di proposito il giornale verso di lui, offrendogli un'altra ragione di colpa, un'altra morte di cui si sentiva responsabile: lo sventurato samaritano dei cinquanta centesimi. Le pagine del giornale erano unte ma non riuscì a non leggere la storia. Il portiere di notte di un piccolo albergo del centro era uscito per il suo solito panino serale. Non appena era ritornato al suo posto di lavoro aveva scoperto che il cassiere del negozietto indiano aperto tutta la notte gli aveva dato di resto mezzo dollaro in più e, siccome era un uomo onesto e osservante, aveva informato il suo capo che sarebbe uscito di nuovo per andare a restituirglielo. A mezza strada era stato ucciso da un pesante pezzo di cornicione che si era staccato dal tetto di un edificio. La storia era troppo perfetta, il dio aveva mostrato la sua mano in un modo troppo evidente. Stupido! Avrebbero cercato di distruggerlo da un momento all'altro. Si sforzò di leggere le altre storie, accarezzando la possibilità di essere responsabile pure di quelle. Una madre del Jersey e i suoi quattro figli erano stati uccisi da un giovane autista ubriaco che si era immesso nella strada investendo in pieno la macchina della donna. (Il ragazzo versava in pessime condizioni di un ospedale sconosciuto ma Nadelman sentiva che ce l'avrebbe fatta.) Cinque membri di una famiglia del Bronx, quattro dei quali erano bambini, erano morti in un incendio quella notte. Si sospettava fosse doloso. (Sicuramente, dietro a tutto questo si intravedeva la figura di un marito respinto, un amante geloso o un affittacamere senza scrupoli, e dietro a lui, un dio.) La polizia stava ancora cercando la testa di un spedizioniere impiegato in una locale ditta di trasporti su camion, il cui corpo mutilato era stato ritrovato all'inizio della settimana in un magazzino della ditta a Long Island. L'articolo parlava di possibili collegamenti con la mafia. (Nadelman sapeva che il colpevole non sarebbe mai stato trovato.) Poteva essere che qualcosa da lui creato fosse responsabile di questa carneficina? Era inconcepibile. Stuzzicandosi i denti Nadelman attraversò la strada deserta e i tre isolati che lo separavano dal lungomare. La spiaggia che aveva davanti agli occhi era grigia e irregolare, imbrattata lungo il bagnasciuga da cumuli di sterpi e immondizia che erano stati ributtati dalla marea e che prima dell'estate sarebbero stati tolti. Due vecchie signore avvolte in neri soprabiti cammina-
vano destreggiandosi sulla sabbia, le loro schiene ricurve dall'età e per la concentrazione. I gabbiani stridevano nel cielo. Oltre la linea di marea l'oceano ribolliva, affamato e squallido, infrangendo la sua forza addosso a una stretta striscia di sabbia. In preda al proprio stato d'animo, salì sul lungomare. Il sole scendeva verso la linea di alberghi verso occidente, oltre i quali, al di sotto dell'orizzonte, si trovava la città. Nadelman girò la schiena a quel bagliore accecante e s'incamminò in direzione di uno sgabuzzino per bagnini capovolto osservando la sua ombra allungarsi all'infinito sorpassando il legno rugoso della passerella. Profili anziani sedevano immobili come gargolle sulle panchine, molti portavano gli yarmulke, in contemplazione silente dell'oceano. Non c'era altro per loro in questo posto, tutto era chiuso - i pochi chioschi che ancora non erano stati distrutti, una striminzita fila di giochi i cui cancelli in lamiera erano coperti di graffiti. L'insegna diceva GALLERIA DEI DIVERTIMENTI, le lettere erano malmesse e scrostate. Lo aveva sempre saputo, nei recessi della sua memoria, che sarebbe stato così. Assieme a suo padre o agli amici era venuto qui spesso durante l'inverno. Questa stagione aveva la propria bellezza austera, fredda solitaria e corroborante. Ma oggi il lungomare era diverso. Gli alberghi, un tempo maestosi, - quando era ragazzo avevano un certo splendore decadente erano stati tutti trasformati in ospizi e case di riposo nonostante avessero mantenuto i nomi originali: Paradiso, Palace, Re Davide, come se continuassero a vivere nella speranza di una resurrezione futura. Volti di vecchi che puntavano i loro sguardi spenti dalle finestre. Alcuni tra quelli rannicchiati sulle panchine, infagottati come neonati, sembravano più morti che vivi. Un vecchio barbuto se ne stava seduto piegato come un coltello a serramanico, gli occhi chiusi. Ogni tanto si intravedevano gli imponenti accompagnatori vestiti di nero, sentinelle accanto a file di immobili figure su sedie a rotelle in alluminio oppure in movimento lento e dolorante lungo il lungomare mentre i loro fardelli ricurvi e avizziti si aggrappavano alle loro braccia. Un ciclista sfrecciò poco lontano, le ruote facevano rimbombare le tavole di legno, seguito da un corridore con un Walkman. Un uomo macilento avvolto da un impermeabile e una sciarpa stava parlando da solo con voce irata ma si fermò per un attimo quando Nadelman gli si avvicinò, come se fosse stato sfiorato da rimasugli di imbarazzo. Nadelman provava maggiore compassione per quelli che fissavano inebetiti l'oceano. Avrebbe voluto inventare una nave perché la guardassero, o anche un piccolo peschereccio. Ma l'oceano era vuoto come un deserto contro il limpido oriz-
zonte. La luce tremula gli ricordò che era ora di ritornare. Il vento era freddo e doveva ritornare in città. Si voltò e ripercorse i propri passi, la luce non era più abbacinante adesso che il sole era tramontato dietro alla distesa di nuvole e di tetti decorati degli alberghi. L'oceano e la sabbia erano irrorati da una luce triste e nostalgica, la scena finale di un qualche documentario di viaggio ormai dimenticato. Davanti a lui la striscia marrone della passerella si perdeva nell'orizzonte in un punto indistinto, in una curva gentile verso l'acqua. Qualcosa nella qualità della luce stimolò alcuni frammentari ricordi d'infanzia, immagini di una vecchia proiezione di diapositive. Si ricordò di quando, da ragazzo, camminava su questo tratto di lungomare osservando lo stesso punto vanescente. Era felice, si ricordava. Ma naturalmente, a quell'età non ci voleva molto: una girandola, un paio di conchiglie intatte, una nuvola di zucchero filato e l'aspettativa di un premio vinto al tiro a segno. Oggi il mondo era mutato, o piuttosto era lui che era cambiato. Gli sembrava che quanto stava vedendo, il lungomare, l'oceano e la sabbia, era destinato a svanire con la luce della sera e che questo trapasso sarebbe stato doloroso. Gli sovvenne in quel momento una terza e più probabile spiegazione alle parole oscure che da ragazzo aveva scritto nel quaderno, una che tra l'altro spiegava l'origine della conoscenza di Huntoon. Semplicemente egli non aveva inventato il dio, non lo aveva creato imponendogli un nome. La fantasia non aveva nulla a che fare con questa storia. L'essere che temeva, questa forza, questa pestilenza, esisteva davvero, ed era sempre esistita, da molto prima della sua presa di coscienza. Ne aveva avuto una visione fugace e la puntura dell'insetto sulla mano non era stato altro che un avvertimento. E col semplice annotare quelle due parole sul quaderno egli aveva messo per iscritto la sua identità con la fedeltà di un buon cronista. Non c'era stato forse un momento particolare in cui aveva avuto quella visione? Era sicuro che c'era stato. Ma la consapevolezza si trovava ai bordi della memoria, in un giorno lontano nel tempo, nel mondo stranamente livido della sua infanzia, quando il dio aveva fatto sentire la sua presenza. Più valutava seriamente questa possibilità, ad ogni passo diretto a occidente, verso il luogo da dove era partito, maggiormente Nadelman si sentiva convinto. E assieme alla certezza vennero i ricordi, istantanee sepolte da tempo che ora galleggiavano indolenti sulla superficie di una pozzanghera, fradice ma ancora riconoscibili dopo gli anni in cui erano rimaste nascoste
nelle profondità. Ricordò, lo sentiva, un mattino particolare, il sole offuscato dall'afa, alcuni salici piangenti vaporosi in mezzo a un boschetto, primavera. Stava andando a scuola, in pace con il mondo intero, un coltello da scout in tasca o un giornaletto da leggere in classe o forse il suo nuovo quaderno rilegato in cuoio. Allora la scuola non era ancora diventata oppressiva. Ricordò il calore del sole, il profumo dei germogli sugli alberi simili a piccoli broccoli verdi, il rumore delle sue scarpe sul marciapiede, il cinguettio degli uccelli e il ronzare snervante delle api... Era strano pensare che poteva essere successo allora perché il mattino aveva sempre rappresentato la sicurezza per lui, in quel periodo, fin dalla prima infanzia. Spesso si svegliava prima dell'alba e salutava il giorno con un sorriso di sollievo, finalmente libero di starsene disteso e abbassare la guardia, il terrore della notte dileguato ancora una volta, la presenza confortante della gente sulle strade, i marciapiedi animati da fischi, passi umani, voci. Tutto sarebbe andato a posto solo se fosse riuscito a resistere fino al mattino. Ma quella mattina era stato differente. Qualcosa si era insinuato in quella giornata, un'oscurità aveva invaso improvvisamente il cielo, come il buio che incombe prima di una tempesta, ma questa volta era peggio. Nell'oscurità serpeggiavano i lineamenti indistinti di un volto... Un momento. Era un ricordo vero oppure il semplice ricordo di un sogno fatto? Gli riusciva spaventosamente difficile esserne sicuro. Oppure aveva avuto quella visione a casa? Adesso era riaffiorato un altro ricordo: un pomeriggio a letto, solo e ammalato, nella sua vecchia stanza dove gli animali scoloriti sorridevano dalla carta da parati e, attraverso la finestra accanto alla sua testa, le assicelle di copertura di un tetto vicino si attorcigliavano marroni e familiari attraverso i rami degli aceri. Sì, adesso se lo ricordava. Giaceva lì sbalordito a osservare il soffitto e ascoltare le ondate di rumore di un aeroplano distante mentre si allontanava, e improvvisamente in quel rumore aveva sentito una nota di terrore, il sussurro di una voce mostruosa che parlava cantava e minacciava. A meno che, chiaro, anche questo non fosse un sogno. Oppure la fantasia semidelirante di un bambino. Un sogno notturno o una fantasia ad occhi aperti? Comunque, cos'era stato che aveva sentito in quell'attimo? Contro quale segreto era inciampato, là nella luce offuscata della sua infanzia, attimo che aveva annotato in modo così misterioso, così corretto, nel suo quaderno di appunti?
Non lo sapeva più. Tutti i misteri impallidivano assieme a quello del suo passato scomparso. Continuava a camminare, la passerella ampia e vuota davanti a lui, ma percepiva di essere giunto a un vicolo cieco. La pista era praticamente scomparsa, come le parole scritte su una lavagna e subito cancellate con un ampio gesto, come le case da tempo demolite del suo vecchio quartiere. Un gabbiano strillò, acuto e affamato, sopra la sua testa, e si ricordò. Non era a letto né stava andando a scuola. Era successo qui, su questo stesso tratto di spiaggia, in piena estate, l'oceano pullulava di bagnanti sotto un cielo senza nuvole azzurro opaco. Percepiva che qualcosa era inspiegabilmente sbagliato, un terrore si era impossessato del suo giovane cuore mentre camminava sulla sabbia. Un'intuizione improvvisa, una visione. Per un attimo l'immagine sopra la testa sfarfallò come durante un cattivo collegamento, un momentaneo oscurarsi del sole, e aveva pensato di aver intravisto un volto che guardava con sguardo cupido nel cielo, una faccia troppo ampia perché riuscisse a guardarla tutta, una vasta figura disumana che sogghignava beffarda, un individuo che guardava dentro a una boccia per i pesci... Non sarebbe potuta essere anche questa una semplice fantasia, un ricordo infantile di un volto che osservava dall'alto della sua culla, ora offuscato, svanito o distorto dall'intervento degli anni fino a diventare gigantesco e malevolo e riempire l'intero cielo? Il lungomare sul quale stava percorrendo la strada del ritorno sembrava estendersi fino all'orizzonte. Allontanò lo sguardo dal punto lontano, dove tutte le linee convergevano nella fornace solare, per osservare la spiaggia oltre al parapetto di ferro della passerella. Mentre lo faceva il ricordo si fece nitido. Gli era successo qualcosa, ricordò, lì sulla sabbia. Qualcosa lo aveva fatto inciampare, una buca, un sasso, un relitto, una piccola duna... No, non era così. Adesso sì che se lo ricordava. Il cielo si stava oscurando sotto lo sguardo di occhi grandi come galassie e lui aveva sentito un piede scivolare, sprofondare in un buco nella sabbia. E la sabbia aveva ceduto sotto i piedi, lo aveva risucchiato, avvinghiato, aveva tentato di prenderlo per sé, come se la terra desiderasse distruggerlo, soffocarlo, cancellare la sua memoria dal mondo. Come se il pianeta, la natura, la creazione, le stesse trame della realtà fossero ostili alla discendenza cui egli apparteneva. Non era forse successo proprio in questo tratto di spiaggia? Non era que-
sto il punto in cui, in quel giorno ormai dimenticato, egli aveva avuto sentore della verità? Tutte le divinità si placarono di fronte alle ineluttabili implacabili esigenze dell'abitudine. Lunedì accolse Nadelman di nuovo in ufficio con gli stessi impegni, al lavoro con diligenza sull'affare Holiday Farm. Ci impiegò un'intera giornata, saltando l'allenamento in palestra e riprendendo il lavoro subito dopo il pranzo, l'unico suo stacco dalla routine. Era come se grazie alla semplice laboriosità egli riuscisse a ripuntellare i sostegni della sua esistenza che avevano iniziato a cedere. Se ne rendeva conto anche lui, ogni tanto durante la giornata, mentre appendeva una serie di schizzi di ciliegi sulla lavagnetta di sughero accanto alla scrivania, e vedeva in se stesso, per un attimo, un uomo che stava rabberciando i buchi nel muro di casa, strati su strati di carta, mentre tutt'intorno le pareti crollavano. Quelle stesse pareti tremarono e quasi crollarono quando uscendo puntualmente dal lavoro alle cinque e trenta, contento all'idea che, sulla strada verso casa, avrebbe fatto qualche acquisto per Natale non ancora imminente prima dell'ora di chiusura dei negozi, scese nell'ascensore pieno del personale impiegatizio dell'ufficio e udì che la nuova telefonista si lamentava con una segretaria delle telefonate scherzo che aveva ricevuto durante il pomeriggio. «E quando dicevo pronto, nessuno mi rispondeva. Chissà a chi credevano di rompere l'anima.» Provò più un senso di colpa che rabbia, come un padre di uno psicopatico, un padre che non era riuscito ad ammonire il mondo intero. Sapeva che quelle telefonate erano per lui, che il rivoltante Huntoon ne era l'ideatore e che in qualche modo erano state provocate dalla sua visita del giorno prima. Non avrei mai dovuto darmi la pena di andare fino a là, pensò tra sé. Quel tizio mi perseguiterà fino alla tomba. Il giorno dopo Nadelman sfrecciò davanti alla telefonista per evitare il solito scambio di saluti. Era sicuro che se l'avesse affrontata faccia a faccia avrebbe tradito il suo sporco segreto, e alla sera, prima di andarsene, si trattenne dal farle la domanda che gli aveva martellato in testa tutto il giorno: aveva ricevuto altre telefonate misteriose? La sua domanda ebbe ben presto una risposta perché quella sera a cena, Nadelman ricevette un'altra telefonata. Rispose Michael dalla cucina: per lui rispondere al telefono era più un'avventura che un lavoro ingrato. «Pronto!» Come sempre la voce del ragazzo tradiva curiosità, come se un regalo lo attendesse all'altro capo del filo. Nadelman osservò l'espres-
sione del figlio con apprensione, in attesa della battuta successiva. Il ragazzo premette il ricevitore contro l'orecchio e corrugò la fronte confuso. «Pronto!» Nadelman balzò in piedi e attraversò la stanza in un battibaleno prendendo il telefono dalla mano di Michael. «Pronto!» Tanto valeva che la linea fosse caduta. «Ascolta, Huntoon!» urlò consapevole che la moglie e il figlio stavano ascoltando. «Adesso mi sto incazzando veramente! Tu e tua madre lasciatemi in pace! Giuro su Dio, siete da rinchiudere in manicomio!» Riattaccò con un colpo ma dopo un attimo di ripensamento rialzò il ricevitore e abbassò la suoneria. «Almeno adesso avremo un po' di pace e tranquillità in questa casa.» E rimasero tranquilli. Ancora una volta il mondo era stato rinchiuso fuori, e ci rimase fino al giovedì successivo, giorno in cui la segretaria di Nadelman citofonò nel suo ufficio mentre se ne stava comodamente seduto sulla poltrona, il cartellino NON DISTURBARE appeso alla maniglia della porta, per comunicargli che in entrata c'era un uomo che aspettava di essere ricevuto. «Non vedo segnato nessun appuntamento» rispose sgarbato, già pensando a Huntoon e sperando che esistesse un'uscita secondaria grazie alla quale avrebbe potuto sfuggirgli. «Non ha un appuntamento» disse la segretaria. Meravigliata, riportò il messaggio appena ricevuto: «Dice di non averne bisogno. È un tizio che si chiama Sergente Berkey.» Poteva essere uno scherzo? L'unico Berkey che Nadelman conosceva era un direttore amministrativo della Kone, Ruderman, incaricato della campagna Salvavita. «Cerca di scoprire cosa vuole.» Ci fu una pausa. «Denise dice che è un ufficiale di polizia.» Nadelman sentì torcerglisi le viscere. Cadaveri negli obitori, foto sfuocate sulle pagine del Post, già se le immaginava: Rhoda, Michael con il sorriso patetico e folle delle vittime da prima pagina. Deglutì a fatica chiedendosi a chi dei due era toccato. «Fallo entrare.» Si diresse verso la porta e l'aprì, tornò a sedersi e aspettò già vedendosi nei panni del padre, del marito che attende la terribile notizia. Sharon era già di ritorno e accompagnava un uomo di mezza età che indossava l'uniforme blu del poliziotto. Il cuore di Nadelman iniziò a battere all'impazza-
ta. La segretaria fece entrare l'uomo nell'ufficio e richiuse subito la porta. Quando Nadelman vide il sorriso distratto di quell'uomo capì che non aveva nulla da temere. L'uomo se ne stava in piedi con il cappello in mano e lo sguardo fisso fuori dalla finestra, oltre la testa di Nadelman. «Bel panorama» disse con un tocco di invidia lasciandosi cadere su una delle basse sedie di cuoio davanti alla scrivania. Esaminò l'espressione di Nadelman. «Sono il sergente Berkey. Siamo riusciti a rintracciarla grazie all'indirizzo sulla sua carta da lettere.» Carta da lettere? Come erano riusciti ad avere la sua carta da lettere? Ma l'ufficiale stava consultando il suo blocco nero rilegato in finta pelle. «La ragione per cui mi trovo qui, signor Nadelman, è che abbiamo trovato i corpi di due vostri amici...» Girò velocemente una pagina. «Un certo signor Arlen Huntoon e una signora Lonee Huntoon!» «Mio Dio!» Allora il Post avrebbe avuto qualcuno, dopotutto. Una sensazione di sollievo lo pervase, il conforto che, se qualcuno doveva morire, almeno era capitato a quei due. Ma subito provò un senso di colpa. Quella povera vecchia donna! «Quando?» chiese. «Come?» La madre non gli aveva forse raccontato qualcosa sul datore di lavoro di Arlen, qualcuno con cui si era azzuffato? Oppure quegli inquilini che abitavano di sotto erano finalmente ritornati per vendicarsi? Gli Huntoon sembravano avere molti nemici. Berkey scosse la testa. «Non posso dirglielo, signor Nadelman. Ma le dirò questo, i miei colleghi di Long Beach li hanno scoperti per caso, nel corso di un'indagine completamente diversa, o almeno così credono.» «Che tipo di indagine?» L'altro abbassò lo sguardo per un attimo, sfiorando con un dito la parte interna del suo cappello. «Mi dispiace ma non posso dirglielo. La sacrosanta verità è che sono qui per vedere se può rispondere a un paio di domande.» «Certamente.» Nadelman attese, aspettandosi che l'uomo tirasse fuori un foglietto plastificato dal quale gli avrebbe letto i suoi diritti. Quell'altro, invece, estrasse una penna biro dalla tasca della camicia e aprì il blocco su una pagina nuova. «Lei conosceva i due defunti?» «Superficialmente.» Parlava a voce bassa perché temeva che la segretaria lo sentisse. Nadelman raccontò alcuni avvenimenti che lo avevano por-
tato ad andarli a trovare il fine settimana appena passato. Non valeva la pena mentire. Al diavolo, se la polizia era già in possesso delle sue lettere di sicuro erano a conoscenza dei fatti principali della storia. «Allora mi dica esattamente la ragione che la spinse ad andare là?» Berkey si protese in avanti, la penna immobile. Nadelman alzò le spalle. «Perché temevo che quel tizio mi avrebbe perseguitato...» Accipicchia, quest'affermazione era troppo compromettente! «Voglio dire che poteva essere una seccatura per la mia famiglia e per me...» Vide il tutore della legge scrivere laboriosamente "seccatura" e si sentì meglio. «E visto che non possedeva un telefono, ho creduto opportuno andare fino a casa sua e parlargli. Mi creda, quella è stata la prima e l'ultima volta che l'ho visto.» L'ufficiale smise di scrivere. Questi tizi erano tutti taciturni, si chiese, oppure facevano finta, come Colombo? L'uomo infilò la penna nel taschino. «Non si preoccupi, signor Nadelman, lei non è nella lista dei sospettati. Abbiamo una descrizione dell'indiziato e non le assomiglia affatto. Una persona goffa e grossa, mi dicono. Io sto solo controllando un paio di cose.» Abbozzò un sorriso, probabilmente aveva fatto un paio di corsi accelerati di rapporti con il prossimo. «Dobbiamo fare il nostro lavoro, non crede? È per questo che tutti paghiamo le tasse.» Nadelman cercò di ricordarsi l'ultimo saluto agli Huntoon, la sua corsa per le scale per arrivare subito fuori a respirare aria pura. Li aveva lasciati entrambi vivi e sorridenti, indifesi. L'assassino stava aspettando, anche allora? Forse aspettava che lui se ne andasse? «Come le ho detto» riprese, «l'ultima volta che ho parlato con Huntoon fu martedì sera, anche se lui non mi ha risposto. Quando hanno ritrovato i loro corpi?» Berkey si grattò i capelli radi. «Mercoledì mattina, credo.» «Allora erano morti da poco.» «Credo proprio di sì. Fortuna ha voluto che i poliziotti fossero in quell'edificio altrimenti avrebbero potuto passare delle settimane. Ho l'impressione che quei due non dovevano avere molti amici.» Nadelman annuì. «Lo credo anch'io.» Nemmeno lui era stato un amico per loro, un amico di quelle persone disgustose? Roba da matti. Ma per il resto della giornata, dopo che Berkey aveva preso coraggio guardando fuori dalla finestra con aria invidiosa e se n'era andato, Nadelman sembrò di avere perso due vecchi e cari amici, un
po' eccentrici forse, ma non per questo senza valore. Si sentiva depresso. Almeno fino a quando non arrivò a casa quella sera e scoprì l'ultimo messaggio di Huntoon. Rhoda aveva portato Michael alla festa per l'ottavo compleanno di un amico e a Nadelman aveva lasciato del prosciutto e del formaggio nel frigorifero per la cena. La posta del giorno era ammucchiata sul tavolo di cucina, un pezzo di carta in cima con un messaggio scritto con la scrittura trionfante di Rhoda. Indovina chi ti ha scritto? Nadelman riconobbe immediatamente l'etichetta dell'indirizzo e la piccola aragosta rossa. Eccetto i casi di estrema curiosità, come quello che aveva provato la domenica precedente nella tavola calda di Long Beach, Nadelman, di regola, non leggeva il Post o il Daily News se non sbirciando sopra le spalle della gente in metropolitana. Le loro storie sembravano troppo precarie per perdere tempo a leggerle. Persino la lettura del Times, nei giorni feriali, era limitata alla prima pagina (se non c'erano titoli a caratteri cubitali, il mondo era salvo per altre ventiquattro ore), alla pagina delle lettere al direttore e alla pagina economica alla ricerca di notizie che riguardassero il mondo pubblicitario. E pertanto non c'era da stupirsi se, quando aprì l'ultima lettera di Huntoon, non aveva notato il contenuto, un articolo ritagliato dal Post di martedì che Huntoon doveva aver spedito lo stesso giorno in cui era stato COPPIA UCCISA E SEPOLTA NELLA DISCARICA DI L.I. Una foto mostrava un uomo in tuta da lavoro, il suo volto nell'ombra gettata dal cappello che portava, che indicava una depressione avvolta anch'essa nella semioscurità nel mucchio di spazzatura sul quale stava in piedi. «I corpi di un uomo e una donna sconosciuti sono stati trovati lunedì mattina da un gruppo di ingegneri della discarica mentre lavoravano nel deposito delle immondizie di Oceanside, Long Island» diceva l'articolo. In esso veniva sottolineato che la polizia aveva descritto i corpi come quelli di una «coppia di anziani bianchì, apparentemente sulla settantina» e che gli operai avevano trovato al loro fianco anche «un grosso cane, forse un terrier». Fu il riferimento al cane che fece scoccare la scintilla. Nadelman, in preda alla nausea, vide quanto ingenuo era stato. Ricordò l'odore proveniente dallo sgabuzzino di Huntoon e si rese conto che Huntoon, quella mattina alla discarica, non aveva portato affatto la sua creatura. Erano loro due, doveva essere proprio così. La coppia di vecchi del piano di sotto.
Sapeva adesso che la polizia era andata nell'appartamento degli Huntoon ieri. Molto probabilmente avevano avuto tempo di identificare i morti come il signor e la signora Braverman. A giudicare dallo stato di decomposizione, proseguiva l'articolo, la coppia era stata sepolta da poco tempo. La morte si riteneva fosse avvenuta durante il fine settimana. Citando la frase detta da un investigatore, riportata nel Post come sottotitolo dell'articolo, i corpi «erano stati tagliati a strisce». Nadelman si ricordò della scheggia di vetro sul tetto di Huntoon e rabbrividì. Scritto in cima, nella calligrafia pesante di Huntoon, quel vanaglorioso puzzone!, «Non si preoccupi, non permetterò che le faccia del male.» In piedi sotto un lampione della 2a Strada, le spalle incurvate per ripararsi dal freddo della sera, Nadelman sfogliò sbirciando velocemente tra le pagine del News e del Post che aveva appena comperato. Si sentiva un fuggitivo che scandagliava il giornale con sguardo furtivo alla ricerca dell'affermazione del suo crimine. La cronaca del News era striminzita in modo alquanto spiacevole. LA RICERCA DI INDIZI SULL'ASSASSINIO RIVELA ALTRI DUE CADAVERI La polizia di contea di Nassau, nel tentativo di identificare un'anziana coppia i cui corpi sono stati ritrovati lunedì nella discarica di Oceanside, L.I., hanno scoperto ieri altri due cadaveri nel corso delle indagini, ha riferito il portavoce della polizia. Le prime vittime sono state identificate: Leo Braverman, 76 anni, e sua moglie Flora, 73 anni, di Locust Court a Long Beach. Le due vittime più recenti sono Lonee Huntoon, quasi ottant'anni, e il figlio Arlen, 33 anni, coinquilini nello stesso condominio. Il Post ne parlava in toni più vistosi: ASSASSINO DELLA COSTA MERIDIONALE ELIMINA LE VITTIME NUMERO 4 E 5, e l'articolo comprendeva una fotografia dei Braverman, una coppia bassa, grassoccia e canuta, scattata a quanto pare durante una vacanza a Miami Beach. La donna sorrideva anche se quel candido sorriso non le aveva salvato la vita. L'uomo sembrava più serio come se avesse saputo dove sarebbe apparsa quella foto, un giorno. «I cadaveri della coppia di Long Beach, assieme al loro cane, sono stati ritrovati lunedì mattina dagli operai della discarica
municipale di Oceanside» riportava l'articolo. Nadelman rimase sbalordito dal titolo, come aveva potuto il conteggio delle vittime raggiungere il numero cinque? finché il suo sguardo non cadde su uno degli ultimi paragrafi in cui veniva identificata la prima vittima, «Esteban Farella, 46 anni, capo spedizioniere del Servizio Consegne ValU-Rite, a Valley Stream, il cui corpo decapitato è stato ritrovato la settimana scorsa.» Nadelman si irrigidì ricordandosi la storia che aveva letto domenica. Non era stato in grado di tirare le somme ma evidentemente le autorità c'erano riuscite, anche se stavano battendo un sentiero sbagliato. «La polizia presume di avere a che fare con un delitto di stampo criminale» affermava l'articolo. Nonostante il titolo non c'era nessuna fotografia delle vittime n° 3 e 4 ma la storia descriveva Huntoon come «un ex dipendente della Val-U-Rite licenziato lo scorso agosto.» Nadelman lesse qua e là il resto dell'articolo a titolo di autodifesa, «la vedova... il cadavere sfigurato... opera di un uomo solo... una persona non identificata è stata vista uscire dall'edificio quella sera...», ma quando lesse la parte finale della storia, il sangue gli si gelò nelle vene: «La polizia comunica che i corpi sono stati rinvenuti rinchiusi nello sgabuzzino del giovane Huntoon.» Chiuse il giornale con mano tremante. Si sentiva le punte delle dita sporche. Cosa mai aveva detto Huntoon sul tetto quel giorno? Qualcosa riguardo il servo che preferiva prendere ordini da Nadelman in persona? Esatto, proprio così. Nadelman ne era certo. Ma non si ricordava con esattezza cosa gli aveva urlato al telefono due sere fa, alla persona che credeva essere Huntoon, e per questo si sentì sollevato. L'idea che un bassotto incutesse terrore era semplicemente ridicola, specialmente se riferita a un cane piccolo come quello di Nadelman. La cagnolina si chiamava Brownie, il nome le era stato imposto da Michael che finora non aveva dimostrato una brillante intelligenza, ed era un animaletto comico e di buon carattere che trotterellava allegramente sul marciapiede con il sorriso compiacente tipico di una giovane madre attivista dell'associazione genitori e insegnanti. Per questo motivo a Nadelman sembrò particolarmente strano che una sera della settimana della Festa del Ringraziamento, mentre portava a passeggio l'animale per la 76a Strada con una borsa di plastica trasparente in mano, i due passanti che gli stavano venendo incontro si fermarono, sgranarono gli occhi e si dileguarono nel nulla. Uno
attraversò la strada, l'altro si girò di scatto e ripercorse frettoloso la strada dalla quale era venuto. Meravigliato, Nadelman si chiese se fossero stati spaventati dalla piccola Brownie... oppure da lui. Da non crederci, due adulti terrorizzati da una bassotta! Improvvisamente una terza alternativa si fece strada nella sua mente, ma quando si girò per guardare il marciapiede alle sue spalle non c'era più nessuno. Mercoledì pomeriggio della stessa settimana, il culmine della settimana visto che si dovevano sopportare ancora tre giorni lavorativi, Rhoda prese l'auto e porto Michael e il cane a Westchester. Avrebbero trascorso la notte con i nonni e Nadelman li avrebbe raggiunti il giorno del Ringraziamento. Aveva finito di aver un incontro con un importante industriale di bibite analcoliche nella mattinata di giovedì, venuto a New York per il weekend lungo ma che aveva insistito per trovare un po' di tempo anche per gli affari. In realtà sapeva che poteva contare su Cele unicamente per il fatto che lei era una straniera e questa festa non le diceva nulla. Sarebbe andata a cenare da un amico. «Che faccia tosta ha certa gente!» esclamò Rhoda mentre aiutava Michael a fare la sua valigia il mercoledì mattina. «Mi porterà via un'oretta, forse più» disse Nadelman. «La solita colazione di lavoro noiosa da Carlyle, con le uova strapazzate a sedici dollari a porzione. Prenderò subito il treno e verrete a prendermi alla stazione.» «Lasciati un po' di posto per il tacchino» disse Rhoda. «E chiamami stasera prima di andare a letto» ribatté mentre la baciava con passione sulla guancia prima di andare in ufficio. Quella sera vagolò per casa fino alle dieci e mezzo, poi arrivò la telefonata. Dopo aver chiacchierato sugli orari del treno riattaccò e dopo aver staccato di nuovo il ricevitore prese un taxi in direzione della casa di Cele. Quella notte non fu esattamente quello che Nadelman si aspettava. Forse erano i nervi, oppure il semplice senso di colpa, quasi che il ricevitore di casa stesse emettendo un segnale di avvertimento nel suo orecchio. Si sentì maggiormente inquieto quando il mattino dopo Cele aprì la porta e stava per salutarlo con un bacio quando improvvisamente arricciò il suo delicato nasino slavo. «Ugh, che gente abita in questo palazzo, sono così disgustosi!» Indicò una piccola pozzanghera di forma irregolare sul pianerottolo, proprio davanti alla sua porta. Nadelman la evitò agilmente con un salto te-
nendo in mano la sua ventiquattrore più che mai deciso ad arrivare alla stazione in tempo, ma un odore sgradevole di pesce gli fece ritornare alla mente per un attimo la casa di Locust Court. Ma fu un'idea che accantonò subito, perché in effetti il condominio di Cele era alquanto cadente. Fu solo quando sul treno diretto a New Rochelle aveva appoggiato i suoi Advertising Age e Fortune per osservare lo scenario in fuga che, come se all'improvviso una goccia ghiacciata lo avesse colpito in testa, venne assalito dalla visione di chi avrebbe potuto lasciare quella pozzanghera - qualcosa, sospettava, che aveva aspettato pazientemente accanto alla porta per tutta la notte. Ma a bordo di quel treno, le ordinate stradine di periferia che correvano sotto il suo sguardo dall'altra parte del finestrino e i profumi provenienti dalla tavola calda che gli stimolavano l'appetito, gli risultava difficile credere a quelle infami visioni. Nonostante ciò si sentiva rassicurato dal fatto che nel suo palazzo c'era un portiere. Una cosa sola, almeno, era sicura, o così diceva a se stesso ogni tanto nel corso delle settimane successive: era stata fatta giustizia. Quell'essere aveva mietuto quanto aveva seminato. Il suo poema aveva centrato il bersaglio: Un dio che ci canzona e urla: «Le dita non ti lordare!» E Huntoon, le dita se l'era proprio lordate! Un ultimo incidente era quasi certamente da imputare alla fantasia di Nadelman, anche se risultò essere un fatto snervante. Un sabato pomeriggio di dicembre si trovava solo in cucina mentre Rhoda si stava preparando in camera da letto per andare al supermercato. Nadelman sbirciò dentro il frigorifero e urlò: «C'è bisogno di caffè tostato!» A questo punto, come se avesse proferito un ordine, il sacchetto della spazzatura marrone che si trovava in un angolo obbedientemente crollò su se stesso riversando sul pavimento il contenuto che comprendeva un mucchio di fondi di caffè. Non entrò più in cucina fino alla settimana successiva. Di tanto in tanto si sorprendeva a mormorare qualcosa sul «problema della servitù». Un giorno la segretaria scoprì sulla sua scrivania un appunto compilato con distrazione: «C'è una persona mascherata che osserva il mio appartamento. E so che se scendo per vedere chi è, egli scompare. Quello
che mi spaventa è cosa succederà il giorno in cui scenderò... e lui mi starà aspettando? L'ultimo attimo di terrore l'ebbe una sera poco prima di Natale, mentre ritornava a casa carico di regali comperati all'ultimo momento. Quasi tutti i suoi amici si lamentavano delle vacanze natalizie, gli obblighi, il materialismo, il consumismo, ma Nadelman si era sempre divertito. Queste erano le rare occasioni in cui si sentiva veramente felice di essere un uomo di famiglia. Non era cristiano ma gli piaceva festeggiare il Natale. Lui lo interpretava così, le cose materiali davano un loro significato alla festa come succedeva nei tempi passati quando i pagani riempivano le loro dispense con buoni cibi e bevande. Questa era la stagione degli acquisti, una cosa che divertiva Nadelman nello stesso modo in cui si divertiva, dal punto di vista professionale, con le sdolcinate pubblicità della stagione, Babbo Natale con la solita bottiglia di Coca-Cola in mano e i piccoli elfi che si telefonano da lontano per tenersi in contatto. Diretto verso nord sulla 3a Strada a un isolato da casa, si incamminò verso l'unico negozio ancora aperto in quella zona, una piccola bottiglieria dove aveva intenzione di comprare del cognac, o se l'avesse trovato, una bottiglia di Armagnac. Passò davanti a una vetrina di un negozio di giocattoli, si fermò come di solito faceva, per esaminarla, anche se era tardi e il negozio aveva già chiuso. Improvvisamente, come un avvertimento, le luci del negozio si affievolirono e notò quasi subito una figura riflessa sul vetro, spettrale in quella luce fioca e indistinta tra le immagini di giocattoli, bambole e pupazzi. Per una frazione di secondo credette di essere lui, la sua immagine paurosamente distorta, oppure quella di un altro viandante che s'era messo un sacchetto di carta in testa. Ma qualcosa luccicò da sotto il polso, qualcosa di piccolo e irregolare, e allora riconobbe chi gli stava alle spalle. È risaputo che chi si trova in simili situazioni estreme lascia cadere quello che tiene in mano per darsi alla fuga, ma pochi di loro hanno appena sborsato duecentoquarantacinque dollari per un maglione di cashmere color salmone e altri centodieci per giochini vari e un nuovo joystick per l'Atari del figlio. Stringendo a sé i regali, Nadelman si mise a correre lungo la strada, gambe in spalla. Non gliene importava nulla se stava per travolgere due persone che gli camminavano davanti, e nemmeno si curò di cosa potessero pensare di lui quando gridò: «Al diavolo!» mentre si allontanava. Era molto più preoccupato che il suo servo lo potesse sentire e che avesse
ancora intenzione di obbedire ai suoi ordini. In prossimità del negozio di liquori Nadelman rallentò per prepararsi a entrare ma riprese velocità quando alle spalle udì un rumore che avrebbe potuto essere un lontano tintinnio natalizio ma che, ascoltando meglio, assomigliava di più al rumore di vetri rotti. Continuò a correre, i suoi passi pesanti echeggiavano sul marciapiede, e sentì la minacciosa presenza di un enorme volto che incombeva dall'alto del gelido cielo. Più avanti, all'angolo, intravide il profilo tozzo e grigio di una sinagoga, solenne e massiccia come una fortezza. L'antico portone di legno attraverso il quale un gruppo di fedeli vestito di nero era appena passato, si stava richiudendo lentamente. Ce la mise tutta, salì volando gli ampi scalini di pietra e si infilò dentro. La sinagoga era ortodossa, non vi era mai entrato prima. Un'enorme menorah d'oro con cinque candele accese si ergeva su una pedana. Un attendente dall'espressione scettica gli porse un yarmulke mentre entrava. Se lo mise in testa e si sedette in uno degli ultimi banchi tenendo in grembo i regali variopinti incartati con Babbi Natale e renne e rimase lì a guardare, ancora ansimante, le alte pareti di pietra, la tappezzeria, le candele, le figure dall'aria grave ritratte nelle finestre. Alcune ore più tardi, quando il custode si avvicinò per dirgli che era l'ora di chiusura, con aria gentile ma risoluta rifiutò di alzarsi. Aveva intenzione di spiegarglielo una volta, lo avrebbe fatto anche una dozzina di volte se fosse stato necessario, e sempre con estrema pazienza. Ma da lì non si sarebbe mosso e non si sarebbe guardato alle spalle, e non aveva intenzione di uscire finché non fosse spuntato il sole. Tutto sarebbe andato a posto solo se fosse riuscito a resistere fino al mattino. I MORTI CONVITATI The Feasting Dead di John Metcalfe The Feasting Dead, 1954 Scrittore affatto prolifico, John Metcalfe (1891-1965) apparteneva all'impavida legione britannica di scrittori del macabro. Trascorse gran parte della sua vita in povertà, vivendo per alcuni anni negli Stati Uniti come capitano di una chiatta lungo l'East River di New York. Caratterizzata da uno stile simile a quello di Oliver Onions, la sua produzione è raffinata e inflessibile, talvolta enigmatica ma sempre memorabile. Impiegai parecchio tempo per apprezzare Metcalfe poiché i racconti brevi non sono
il suo forte. Il mio primo incontro con The Smoking Leg, Il racconto che dà il nome alla sua prima raccolta apparsa nel 1925, non fu esattamente una scoperta esaltante. I suoi racconti brevi migliori sono senza dubbio The Double Admiral e The Bad Lands che a tutti consiglio di cercare e leggere. Tuttavia Metcalfe si trovava a suo agio quando aveva spazio sufficiente per creare la sua atmosfera di mistero e grottesco, come appunto ne I morti convitati, anche se gli editori inglesi rifiutarono un simile racconto perché lo consideravano troppo raccapricciante. Però lo scrittore ed editore americano, nonché amico fedele degli scrittori inglesi dimenticati, August Derleth pubblicò I morti convitati in un libro nel 1954 presso la sua Arkham House. Benché ingiustamente dimenticato, Metcalfe è un'altra prova del fatto che gli editori non riescono ad apprezzare il talento quando bussa alla loro porta. 1 Nostro figlio Denis non era mai stato molto forte e quando sua madre, che lui adorava, improvvisamente morì, lo andai a prendere nel suo collegio nei pressi di Edimburgo e lo feci restare a casa per un certo periodo. Povero ragazzino! Prima forse ero incline a comportarmi con una certa severità nei suoi confronti, ma ora avevamo bisogno l'uno dell'altro e feci quanto era in mio potere per farmi perdonare l'inflessibilità passata e addolcire, per amore della sua delicata sensibilità, il colpo per cui io stesso soffrivo penosamente. Ero senza dubbio diventato un padre «indulgente» e, presumo, non avrei provato rimorso per tale comportamento se non fosse per una serie di circostanze che ora mi accingo a narrare. In quel tempo vivevamo nell'enorme vecchia e piacevole dimora «Ashtoft», vicino a Winchester, che avevo acquistato dopo essermi congedato dall'esercito, e quando Denis mi chiese di fermarsi ancora un trimestre per «tenermi compagnia» ne rimasi segretamente adulato e confortato. La mite aria del sud e le scorribande giornaliere per le colline gli avrebbero giovato alla salute e non gli avrebbe fatto certo male rimanere lontano dal greco e dall'algebra per alcuni mesi. Nei mesi di maggio e giugno c'era una famiglia francese, o meglio, un padre con un figlio e una figlia giovani, che trascorreva parte dell'estate nelle vicinanze e considerai una cosa felice che Denis si affiatasse a loro e loro a lui. Cécile, mia moglie, era di discendenze francesi e quando fu palese che le nostre nuove conoscenze non solo abitavano nella sua stessa
provincia nativa ma dovevano essere lontani cugini (la scoperta venne comprovata dal confronto di appunti e da una comune ricerca), il nostro fortuito incontro ci appariva eccezionalmente felice. Cécile non si stancava mai di parlare di Auvergne a Denis, della sua storia, dei suoi paesaggi e soprattutto delle sue leggende, ad alcune delle quali ella stessa credeva fermamente. Di tanto in tanto ci dispiaceva che non avesse mai avuto la possibilità di visitarla di persona. Ciononostante sapeva leggere e parlare francese in modo accettabile, facendomi svergognare per la mia incapacità, e ora, succube di una certa lealtà, credo, nei confronti della memoria di sua madre, era doppiamente pregiudicato in favore di qualsiasi cosa o persona d'origine gallica. Per quanto riguardava questi Vaignon, il padre, che ci frequentava con ammirevole assiduità, credevo fosse un proprietario terriero con un castello non molto lontano da Issoire. Era un uomo esile, nervoso anche se taciturno, con guance incavate e un atteggiamento meditabondo da persona infelice che imputai al suo recente lutto. Il fatto che anch'egli avesse perduto la moglie l'anno precedente fu un'ulteriore ragione, anche se tacita, per sviluppare tra noi una certa solidarietà, e io ero contento che Denis avesse come compagni di giochi gli orfanelli Augustine e Marcel. La verità mi obbliga a confessare che essi non erano piccoli birbanti molto simpatici poiché avevano un'aria malaticcia, la carnagione bruna, gli occhi a fessura ed erano particolarmente litigiosi! Ma Denis evidentemente era affascinato dalla loro compagnia. «Questo è un au revoir e non un addio, Monsieur le Colonel» disse Monsieur Vaignon accomiatandosi. «Per Denis, almeno. Denis verrà a trovarmi a Auvergne, se lei glielo permette, durante le sue vacanze mentre, per essere pari, i miei Marcel e Augustine le faranno visita in cambio.» Questa mi giungeva nuova! Ma quando lo interrogai, Denis sembrava essere al corrente di tutto. «E ti piacerebbe andare?» gli chiesi sorpreso. «Oh, sì... posso, vero?» «Vedremo... Credo di sì» temporeggiai. «Aspetta e vedremo.» La proposta mi era stata lanciata nonostante simili scambi vacanzieri fossero costantemente pubblicizzati dalla stampa e nel mio caso le famiglie già si conoscevano, per non menzionare il grado, anche se lontano, di parentela. Per quanto concerneva la «vacanza», Denis ne aveva avute abbastanza nell'ultimo periodo e tra non molto sarebbe ritornato a scuola, più vicino a casa. Era inevitabile che fosse rimasto indietro con gli studi e ora,
pensavo, egli aveva un'occasione d'oro per rinfrescare il suo francese. L'agosto successivo lo accompagnai a Foant, lo assistetti mentre si sistemava nel castello di Monsieur Vaignon dove trascorsi una notte, e ritornai tranquillo a Hampshire con Marcel e Augustine il giorno successivo. Questo accordo rimase valido per oltre un anno fino al tredicesimo compleanno di Denis, per parecchi periodi di vacanza successivi, o parte di essi. La perseveranza e persistenza di mio figlio con questa storia, devo ammetterlo, mi stupiva alquanto. Che razza di divertimento ci trovava lì, mi chiedevo, che lo attirava in questo modo? Quando vivevano con me come erano soliti fare, Marcel e Augustine avevano modo di divertirsi ma Denis non aveva nessuno della sua età con cui giocare. Cécile aveva un giovane nipote, Willi, il figlio di suo fratello, ma egli era morto due anni prima, e pensavo con dispiacere che, se fosse stato ancora vivo, il mio Denis avrebbe potuto trovare in lui, fórse, una compagnia a lui congeniale. Ora, persino i genitori di Willi che erano vissuti a poca distanza dal castello, si erano trasferiti a Digione e Denis, come ho già detto, doveva ricorrere solamente a Monsieur Vaignon per la sua parte di divertimento. Ero perplesso e, forse, un po' geloso. Fino ad allora avevo avuto una fugace visione del castello poiché furono Monsieur Vaignon o il suo maggiordomo Flébard che, nelle successive occasioni, accompagnarono i ragazzi su e giù. E nella mia solitudine meravigliata, cercavo di rammentare il luogo con maggiore chiarezza. Il castello era vecchio e complessivamente in cattivo stato benché gli interni fossero gradevoli. Gli esterni, e le immediate vie d'accesso, erano avvolti dalle luci del crepuscolo quando arrivai, ma prima avevo dovuto noleggiare un taxi, a un prezzo esorbitante, nella più vicina stazione a una dozzina di miglia di distanza, e avevo avuto la possibilità di ammirare la campagna della zona. Era austera, tristemente ostile, con un aspetto bruciato e cinereo che trovai deprimente. Tuttavia ritenni che la cosa non doveva importarmi in modo particplare e le effusioni di benvenuto di Monsieur Vaignon, accompagnate da ripetute scuse per la rottura dell'auto che sarebbe dovuta arrivare a prenderci, mi avevano rassicurato, se proprio di una rassicurazione avevo effettivamente bisogno. Dopo che Denis andò a letto, il mio ospite ed io rimanemmo a conversare fino a mezzanotte sorseggiando un eccellente brandy. Da parte sua ci fu una vaga allusione ridanciana alla stanza infestata dai «fantasmi», sulla torre, ma la storia che l'accompagnò mi sembrò confusa e in seguito non riuscii a ricordarla con precisione.
«Sei ancora del parere di trascorrere tutte le tue vacanze a Foant?» un giorno avevo chiesto a Denis. «Perché non provi ad andare da zio Michael e zia Bette, invece? Sarebbero lusingati di averti con loro, a Digione.» «Oh, no... Mi piace stare a Foant, veramente...» Una repentina espressione ansiosa nel tono della sua voce mi sorprese. Fino ad allora avevo accettato l'accomodamento in modo tiepido, anche se indubbiamente senza apprensione. Ma sarebbe un'esagerazione affermare che non mi sentivo tranquillo. Semplicemente ritenevo che da un simile inizio del tutto fortuito e superficiale, la cosa era divenuta troppo importante o durava troppo a lungo. «Sono sicuro che talvolta ti annoi in quel posto. Cosa fai tutto il giorno?» «Oh... ci sono molte cose da fare. Noi...» ebbe un attimo di esitazione, imbarazzato, e provai una vaga e inquietante apprensione. La sua fragilità aveva sempre preoccupato sua madre e me, e alla sua morte avevo temuto gli effetti che tale evento avrebbe potuto avere sulla sua salute. Aveva sopportato il suo dolore in modo virile e per un certo periodo sembrava trovare giovamento nell'esercizio fisico e nella sospensione delle lezioni. Adesso, però, l'incarnato s'era avvampato nervosamente, forse per timore di un mio divieto per ulteriori viaggi, e il suo sguardo tradiva una strana tensione interiore come se, e l'idea mi colpì in modo curioso, egli si fosse fatto carico di un pesante fardello. Non fu detto null'altro, allora, sull'argomento, e l'apparizione del fedele Flébard, la settimana successiva - una persona rispettabile e sobria, l'incarnazione delle buone maniere - temporaneamente dileguò i miei dubbi. Ma dopo la partenza di Denis essi ritornarono con rinnovata persistenza. Non smettevo di chiedermi cosa c'era, in quel castello, che continuava ad attirare l'attenzione di mio figlio con immutata forza. Senza avere sentore che qualcosa fosse fuori luogo, riconobbi che la colpa della cosa o della situazione era da imputare a me per non averla esaminata con cura a suo tempo e che ora almeno avrebbe dovuto essere riesaminata con maggiore attenzione. Decisi che in occasione della successiva gita di Denis, se mai ce ne fosse stata un'altra, l'avrei accompagnato di persona o sarei andato a riprenderlo io stesso e, possibilmente, in entrambi i casi, sarei rimasto con lui a Foant per un giorno o due prima di ritornare. Ricordo benissimo quella visita. Rammento, al suo termine, che conclusi
che no, non c'era nulla di cui preoccuparsi e subito dopo un'ondata di indicibile depressione mi sopraffece, facendomi sentire vagamente sbalordito e indeciso come mai avevo provato prima d'allora. Insistendo perché mi fermassi più a lungo dei tre giorni da me decisi, Monsieur Vaignon si era dimostrato un ospite fin troppo premuroso, non perdendomi di vista un solo attimo. Con i propri figli, ch'egli avrebbe frequentato con minore intensità l'anno successivo perché uno avrebbe frequentato un liceo a Bourges, l'altra una scuola tenuta da suore nella stessa città, si dimostrava più severo che ad Hampshire e pensai con sarcasmo che, finché durava, questo sistema di scambio lo aveva indubbiamente favorito, poiché non potevano esserci paragoni tra il mio grazioso e gentile Denis e i suoi due «sostituti», quelle due scimmiette strane e ossute. Per quanto riguardava il mio soggiorno al castello si era dimostrato più conveniente scegliere non l'inizio bensì la fine della permanenza di Denis, per la durata di quattro settimane. Le ore passavano, in modo non sgradevole e fino alla mia ultima notte, alquanto monotono, in chiacchiere, spuntini, giochi di carte, puro e semplice ozio e una ristretta serie di passeggiate simpaticamente guidate per la tenuta. Denis ci accompagnava per nulla scontento di assistere Monsieur Vaignon nel ruolo di cicerone ma purtuttavia, pensavo, vagamente distratto e mite, i suoi serici capelli che brillavano nel sole davanti ai nostri sguardi. Si era a metà di agosto e la temperatura era particolarmente afosa; attorno a noi la campagna bruciata si contorceva spasmodica nella canicola. Verso Foant, il paesaggio sconvolto era un'ingarbugliata confusione di rocce imbrattate di muschio, come qualcosa sorpreso nell'atto di un'esplosione oppure - allora mi sovvenne una similitudine più fantasiosa - quasi che questi lastroni squarciati, guglie e pinnacoli marchiati a fuoco, anneriti lingotti di terra fusa fossero stati gli «uomini» che demoni scherzosi avevano lanciato sul tavolo da gioco di collinette di origine vulcanica durante un qualche torneo infernale ed ivi lasciati in disordine. Pensai tra me che mi sarei sentito molto grato quando mio figlio ed io ci saremmo ritrovati a casa. Ma quello che principalmente mi colpì durante quei tre giorni al castello fu un particolare, tenue cambiamento, nonostante la sua profonda cortesia, in Monsieur Vaignon. Una volta, quando per caso accennai alla prossima visita di Denis, un'espressione strana di confusione e imbarazzo gli contrasse il volto. «Sì» ribatté senza convinzione. «Ah, tutti cresciamo e anche le cose migliori giungono a una fine...»
Quella notte, la vigilia del. nostro ritorno in Inghilterra, mi sentivo irrequieto. Il materasso di piume mi toglieva il respiro e mi rammentai che una scala a chiocciola non lontano dalla mia stanza, adiacente a quella di Denis, conduceva a un piccolo giardino. Al fine di prendere una boccata di aria fresca, avvolto nella mia vestaglia, iniziai a scendere le scale ma mi fermai subito all'udire un rumore di voci. Era Monsieur Vaignon che parlava, presumetti, con Flébard. «No, no» un mormorio mezzo sussurrato e indistinto raggiunse il mio orecchio. «Non possiamo... Hélas, vi dico che è ritornato...». Veloce ma con passo leggero mi ritirai. Le ultime parole di Monsieur Vaignon erano state profferite con un'enfasi curiosa, con paura o una specie di disgusto disperato, e per un attimo rimpiansi di non avere atteso la conclusione della frase. Con passo indeciso ritornai sul pianerottolo e dalla fessura sotto la porta di Denis vidi una luce fioca. Aprii gentilmente la porta ed entrai. «Salve» dissi, «anche tu non riesci a dormire.» «No... fa così caldo...» Se ne stava seduto sul letto, una candela che bruciava in un candelabro a muro al suo fianco. Non riuscivo a capire ma aveva un'aria inquieta ed eccitata. «Non è così tranquillo come si potrebbe credere, qui in campagna», sottolineai, più per nascondere la mia crescente agitazione che per dimostrarmi interessato alla cosa. «In questo momento credevo di aver udito quelle due vecchie mucche muoversi nella stalla, oppure erano forse i cavalli nella scuderia...» «...oppure il fantasma» disse Denis, «nella stanza della torre.» Sorrisi, poiché presumevo che egli si aspettasse una reazione simile da parte mia. «Oh, e il fantasma fa rumore?» mi informai con espressione preoccupata e con la mia mente ancora occupata da Monsieur Vaignon. «Sì...» Denis fece una pausa, sorridendo e poi aggiunse con tono sibillino, «rumore di catene. Sono stato io la causa.» «Rumore di catene?» Venni distolto dai miei pensieri e fui meravigliato sia da quella strana descrizione sia dalla particolare intonazione della sua voce. «Come un rumore di pattini» esclamò. «Divertentissimo. Noi...» Improvvisamente si trattenne dal proseguire anche se il sorriso indugiò sulle sue labbra. Ebbi la spiacevole intuizione che fosse il sorriso di chi vede pensosamente al di là di quanto io ero in grado di vedere, il sorriso di un'intimità e conoscenza superiori, siano esse reali o fantastiche. Ma a
quell'ora della notte non ritenni saggio addentrarmi nell'argomento. «Buona notte» mi affrettai a dire e ritornai subito in camera. Dopo quanto era successo avevo concluso con tristezza che avrei trascorso il resto della notte vegliando. Al contrario, mi addormentai quasi subito risvegliandomi con un umore allegro e ritemprato. Ricordo di avere pensato che nella peggiore delle ipotesi non si trattava altro che di un'assurda superstizione che stava affliggendo Monsieur Vaignon e pertanto la mia ansia a riguardo non aveva ragione di essere. Ero semplicemente stanco di tutta quella storia. Ancora una visita, forse, e poi questo accordo di scambio di vacanze avrebbe iniziato a morire di morte naturale. Tuttavia, al momento della nostra partenza provai un lieve rifiorire della mia precedente inquietudine. Il volto di Monsieur Vaignon era soffuso di un pallore mortale e la mano che mi porse tremava. Improvvisamente, una parola adatta a descrivere i suoi modi alterati, la parola che avevo cercato invano per tre giorni, mi balenò nella mente, con imbarazzo. «Colpevole». Era un'assurdità...! Per quale ragione doveva sentirsi colpevole? Tuttavia... Un'ombra sembrò avvolgere me e Denis quando salimmo in auto e salutammo con un cenno della mano dai finestrini. In treno e sulla nave riuscii momentaneamente ad allontanare i miei noiosi presentimenti. Forse Monsieur Vaignon aveva deciso in privato di averci frequentato a sufficienza, di allontanarsi da noi in modo graduale e ciononostante aveva trovato difficile comunicarcelo con franchezza. Ordunque, da parte mia ritenevo che la presenza dei Vaignon pesava in modo eccessivamente oppressivo e duraturo sull'orizzonte degli Habgood e se la rottura fosse dipesa da loro piuttosto che dal sottoscritto, tanto meglio per me perché mi avrebbe facilitato il tutto! Quando arrivammo ad «Ashtoft» ero di ottimo umore. Erano passati due giorni quando il postino mi consegnò una busta raccomandata con il timbro postale di Foant. La lettera di Monsieur Vaignon diceva: Egregio Colonnello Habgood, È con vivo rincrescimento che mi trovo obbligato ad informarla che è divenuto consigliabile interrompere la sinora gradita intimità fra le nostre famiglie. Temo di trovarmi impossibilitato a fornirLe spiegazioni adeguate per questa deplorevole necessità. Risulta che sono diventato vittima di una persecuzione o visitazione fantastica con cui non sarebbe giusto che Lei venga lontanamente
o inconsapevolmente coinvolto. Questo è quanto sono in grado di dirLe per far perdonare un gesto che può sembrare brutale. Tuttavia mi trovo a dover porre un cordon sanitaire attorno a me, non per la mia protezione ma per quella di chi sta fuori! Posso solo sperare, con le mie più sentite scuse, che la persona che stimo tanto possa accettare il fatto che sfortunatamente si presenta, e d'ora in avanti mi garantisca il privilegio del silenzio. Vostro V. De La F. Vaignon Infilai la lettera sbalorditiva nella sua busta. Poco tempo prima stavo meditando un simile sviluppo della situazione, ma non certo in questo modo! Avevo a che fare con un pazzo? Strano a dirsi, la mia emozione predominante non era di offesa, oppure di rabbia nei suoi confronti. Era piuttosto un confuso smarrimento e persino una sorta di paura, quasi che, invece di finire, come sembrava, il vero problema stesse cominciando. Devo ammettere che la lettera mi colse di sorpresa. Non parlai subito della lettera di Monsieur Vaignon con Denis e per oltre una settimana fui occupato a trovare il migliore e più saggio modo possibile per farlo. Alla fine gliene parlai, affermando che i Vaignon stavano attraversando una crisi familiare delicata che probabilmente gli avrebbe impedito di frequentare il castello, almeno per un certo periodo. Certo che ciò lasciava adito ad ampie interpretazioni erronee sull'accaduto, ma d'altro canto come avrei potuto spiegarglielo? Facevo le mie congetture e forse Monsieur Vaignon aveva meditato sul passo da farsi per parecchi mesi e non era riuscito a fare appello a tutto il suo coraggio per dichiararlo verbalmente. Ma ora, quel suo assurdo annuncio in forma scritta, nero su bianco, era in tutta coscienza recisamente crudele, quali che fossero le scuse, e qualsiasi cosa avesse voluto dire con «persecuzione» e «visitazione»! Non avrei certo potuto mostrare a Denis una cosa del genere. Accettò la notizia con tranquillità sebbene capissi che quello stato d'animo era falso e ingannevole. Era sicuramente una questione seria per lui e, ora lo capisco, stava cercando intimamente e disperatamente di misurarne la gravità e decidere fino a quale punto tale sconfitta poteva essere neutralizzata o rimediata e aggiustata ai suoi desideri. Ero profondamente dispiaciuto per lui e nella mia mente mi misi a cercare qualsiasi metodo che gli rendesse meno cocente il colpo e lo rendesse un po' più felice. Strano a dirsi ma ben presto egli stesso cercò di aiutarmi ad uscire da
questo momento difficile in un modo che, però, non gradii affatto. «Credo che sarà Raoul a mancarmi più di tutti» disse con aria riflessiva anche se con una prontezza che non mi sfuggì. «Te ne avevo parlato, vero?» «Di "Raoul"? Assolutamente no.» «No? Mi ero scordato di parlarti di Raoul Privache? Di sicuro io...» «No, non me ne hai mai parlato. Chi è?» «Lui era il mio migliore amico laggiù, in un certo senso. Devo avertene parlato... Insieme cacciavamo talpe e pipistrelli e scalavamo la collina vulcanica. Lui, be', credo che lo chiameresti un uomo tuttofare. Fa il giardiniere, taglia gli alberi e si prende cura dei cavalli e... Oh, io sì che so!» Denis fece una pausa, quasi fosse stato colpito da un'improvvisa ispirazione. «Potrebbe venire qui. Potrebbe lavorare per te, babbo. Tu hai bisogno di una persona come lui? Oh, se Raoul lavorasse qui non mi importerebbe certo di non andare più al castello...» «Sciocchezze!» risposi con durezza. «Ora ascoltami... Quante possibilità credi che avrei di importare un articolo del genere dalla Francia?» Ciò che rese il mio tono di voce momentaneamente tagliente non era stato tanto la natura bizzarra della proposta quando la scoperta, in mio figlio, di una sorta di duplicità. Perché non aveva mai menzionato questo Raoul prima e doveva essersene reso conto solo ora. Io, da parte mia, non volevo nel modo più assoluto avere altri echi dei Vaignon di qualsiasi sorta, intensità o durata. La fronte di Denis si era corrugata in una specie di segreta sfida. «Oh, be'» disse malinconico, «credo che comunque si farà vedere qui da noi... comparirà dal nulla, un giorno o l'altro, comunque.» E il guaio fu che comparve sul serio. Avevamo appena finito colazione e mi ero appena acceso la pipa nel soggiorno quando udii un leggero picchiettare contro la finestra. Alzai lo sguardo e fuori vidi un uomo. Era di bassa statura e alquanto trasandato ma non riuscivo a distinguere bene il suo volto. Nella frazione di un secondo, con il cuore che batteva all'impazzata, mi resi conto della sua identità. L'uomo stava facendo dei cenni ed io, dal canto mio, mi trovai a rispondere a quei segnali indicandogli verso un lato la porta principale che avrei subito aperto. Stava in piedi là, sotto il portico, e ancora una volta, soggiacendo a una vaga sensazione di confusione, mi sembrava di non riuscire a distinguere con nitidezza i suoi lineamenti come avrei dovuto. Ma in quel preciso istante ci fu uno scalpiccio veloce alle mie spalle e vidi Denis buttarsi tra le
braccia del nuovo arrivato. «Raoul! Raoul!» esclamò estasiato. «Oh, sapevo che saresti arrivato!» «Bonjour, m'sieu.» Il nostro ospite aveva proteso una mano che strinsi con gesto meccanico. La mano era avvolta in una manopola che lasciava libere solamente le dita e stringendogliela provai una strana ripugnanza. Erano fredde e senza vita come quelle di un manichino. Quell'uomo però parlava, come presto verificai, e con loquacità. Denis lo aveva condotto in una stanza posteriore che dava sul prato e là la creatura iniziò a chiacchierare, presumibilmente in una specie di francese, troppo veloce perché lo potessi comprendere. Denis traduceva a grandi linee. «Raoul» sembrava che mi stesse offrendo i suoi servigi come uomo tuttofare. Aveva sempre desiderato vivere in Inghilterra e per lui sarebbe stata una benedizione avere mio figlio come giovane padrone. I suoi modi, mentre aspettava che Denis traducesse, erano un insolito, singolare miscuglio di deferenza e circospetto ardire. «Insomma, santi numi!» protestai. «Non posso assumerlo. Che dire del permesso di lavoro? Non può presentarsi qui da noi così e...» L'uomo rimase seduto dov'era, impassibile, il volto in penombra girato altrove. Denis gli stava parlando di nuovo per comunicargli, credo, la sostanza delle mie obiezioni. «Ad ogni modo si sistema qui, al villaggio» annunciò Denis, «anche se sarebbe più carino se potesse usare la soffitta della nostra vecchia rimessa mentre cerca casa...» «Non userà la nostra soffitta...!» ricordo di avere sbraitato in preda a una indignazione sorpresa. Ma alla fine, la occupò. Non so se una più aperta, o pronta, fermezza da parte mia avrebbe evitato questa situazione o avrebbe potuto allontanarlo dalla nostra casa. Ora ritengo che non sarebbe stato sufficiente e che, in un certo senso, quanto è successo doveva succedere. Dalla morte di Cécile non avevo negato nulla a mio figlio e se tale «vezzeggiamento» era da considerarsi una debolezza, essa era stata fino ad allora naturale e, forse, perdonabile. Ma la mia accettazione di questa creatura, o la mia tolleranza nei suoi riguardi, nei confronti di questo oggetto, di questo ambiguo cappio al collo nei confronti del quale l'infatuazione di Denis mi sembrava del tutto inspiegabile, fu la capitolazione all'insistenza frignona e imbronciata di mio figlio che oltrepassò qualsiasi mia preceden-
te indulgenza. Comunque siano andate le cose, «Raoul» prese dimora nella soffitta e, di fronte al fait accompli, mi resi tristemente conto che ciò avrebbe comportato una gran quantità di litigi e rimostranze per smuoverlo da lì. E allora, momentaneamente, cercai di sottolineare la parola momentaneamente, egli poteva restare. Mancavano quasi tre settimane al termine delle vacanze estive di Denis e, per mia mortificazione, egli trascorse tutte le ore del giorno quasi sempre in compagnia del suo idolo. Mi sentivo confuso. Com'era possibile che quest'uomo fosse arrivato qui e che esistesse una precedente complicità segreta tra lui e il suo ammiratore? Il suo passaporto era in ordine (visto che era riuscito ad arrivare fin qui) e cosa avrebbero pensato i vicini e i nostri stessi domestici? Tuttavia, a livello superficiale e per un certo periodo, ci furono meno problemi di quanti ne avessi previsti. Per garantirsi il dovuto l'uomo era riservato fino a rasentare la più spiccata modestia e infatti appariva ansioso di tenersi alla larga dalla gente. Insistette con la pretesa di lavorare per me e di tanto in tanto si vedeva a pulire stivali e bardature, tagliare i rami secchi dai cespugli e incombenze simili. Era solito consumare i pasti da solo, andandoseli a prendere in cucina per portarli in soffitta. Inizialmente non fui in grado di scoprire se andava d'accordo con la mia cuoca Jenny o con la mia cameriera Clara. Probabilmente avevano deciso che questa curiosa importazione rappresentava semplicemente un nuovo capriccio del signorino e per il momento soprassedevano. Per quanto riguardava il mio buon stalliere e giardiniere Dobbs, per combinazione si trovava in ospedale e pertanto non potevo ancora esaminare le sue reazioni. Comunque, la posizione in generale era bizzarra. Tra non molto Denis sarebbe ritornato a scuola e allora non ci sarebbero state altre scuse per prolungare la permanenza di Raoul. Mi sorpresi a pensare, un paio di volte, e nonostante il «silenzio» mi confacesse così misteriosamente, di scrivere una lettera in merito all'«assennato» Monsieur Vaignon ma, come si può ben immaginare, ne andava della mia dignità e inoltre non avevo alcun diritto di supporre che egli fosse implicato o coinvolto in qualche modo con Raoul. Avevo i nervi provati e mi sentivo abbattuto: vivere una situazione simile sembrava irreale come un sogno ad occhi aperti. Diventavo ogni giorno più sensibile alla presenza di questo Raoul e ciò mi infastidiva in un modo che non saprei descrivere. E un piccolo dettaglio in particolare ancora mi
disturbava. Ormai erano quasi due settimane che quest'uomo viveva con noi e ancora, per qualche imperscrutabile ragione, non ero riuscito ad avere un'idea chiara del suo aspetto. O i suoi lineamenti mi colpirono in modi diversi in situazioni differenti, oppure possedevano una strana indefinitezza che tendeva, per così dire, al nulla. Molto tempo dopo scoprii che questa piccola difficoltà generata dal suo aspetto indefinito aveva creato problemi anche ad altra gente. Un giorno, meno di una settimana prima della fine delle sue vacanze, Denis si prese un leggero raffreddore. Non sembrava nulla di grave, e non aveva affatto smesso i suoi vagabondaggi che duravano tutta la mattina come era solito fare, accompagnato dal suo odioso compagno di giochi, sulla collina. Ma il suo malessere era più che sufficiente per farmi preoccupare data la prossimità del ritorno a scuola. Mi ricordai di dirgli di starsene tranquillo a casa quel pomeriggio e poi mi ritirai nel mio studio con l'intenzione, ricordo ancora, di decidere una volta per tutte un futuro piano d'azione per l'intero ed esasperante «affair Raoul». Le mie riflessioni non erano andate molto lontano quando vennero interrotte da una visita del signor Walstron, un agricoltore locale con il quale mi stavo accordando per affittare un prato. Dopo che le condizioni vennero concordate con reciproco soddisfacimento, il vecchio proseguì a chiacchierare amabilmente di altre cose. «A vostro figlio manca una madre, sicuramente. L'ho incontrato stamattina sul Winacre... aveva un'aria triste e stava parlando da solo...» «Da solo? Perché mai...» Balbettai confuso e con apprensione. «Insomma, sì... Parlava, o poteva essere che stesse cantando, capite. E la cosa divertente fu che i miei cani - oh, cosa da non credere - ringhiavano e si dimenavano...! Non li ho mai visti comportarsi così con il vostro ragazzo prima d'ora...» Alla fine Walstron si accomiatò augurandomi una buona giornata: senza ombra di dubbio mi aveva fornito parecchio materiale su cui meditare. Era particolarmente strano. Sapevo che Denis era uscito, non solo ma con Raoul. E poi, quei cani... Era strano ma era stato proprio con i cani che Raoul aveva ottenuto finora il maggior grado di impopolarità. Il mio stesso setter, Trixie, non lo poteva sopportare e tremava e ringhiava, quasi fosse impazzito, quando l'uomo si trovava nelle vicinanze, apparentemente indeciso se fuggire o balzargli addosso.
Stavo ancora cercando di assimilare le implicazioni della storia di Walstron quando il profilo di Raoul in persona oscurò la mia finestra. Dal bell'aspetto e dal portamento distinto, Raoul aveva la pessima abitudine di avvicinarsi alle finestre e di battere con la mano per attirare l'attenzione. Questa volta, rendendosi conto che lo stavo già osservando, non toccò il vetro ma si limitò ad alzare una mano. Costernato e nel contempo disgustato, notai che il polso e l'avambraccio erano sporchi di sangue. Corsi fuori ed esaminai la ferita. La carne era malamente lacerata. «Chiens» lo intesi mormorare, «chiens...» Ecco che mi si presentava un'altra complicazione! I morsi di cane possono rivelarsi pericolosi e non mi sarei arrischiato a curare quelle ferite. Finora avevo evitato di portare a conoscenza, ufficiale o ufficiosa, di nessuno l'esistenza di quest'uomo in casa mia ma ora, se si doveva mandare a chiamare il dottore, si doveva dichiarare questo prezioso articolo di contrabbando e già prevedevo la sequela di tediosi quesiti inerenti la sua posizione nei confronti del ministero della sanità e le relative preoccupazioni da parte mia.... Perciò mandai a chiamare il mio vecchio amico e consigliere Goderich che aveva assistito Cécile durante la sua ultima malattia. Fasciò il braccio di Raoul e mentre si trovava lì visitò pure mio figlio. Il suo raffreddore era peggiorato. La temperatura era aumentata e Goderich promise che sarebbe ritornato il giorno successivo. Le diagnosi dei due pazienti erano scoraggianti. Raoul doveva essere trasferito in una piccola stanza nell'attico. La sua ferita era assai brutta e stranamente ebbi l'impressione che Goderich fosse perplesso da questo caso. Sembrava probabile che Denis non si sarebbe rimesso per ritornare puntualmente a scuola e per un certo periodo sospettai che stesse fingendo per ritardare la separazione dal suo amico. Gli era stato detto della brutta avventura di Raoul e aveva implorato invano di poterlo andare a visitare. I due erano alloggiati in due diversi piani, in due diverse ali della casa - il più lontano saranno l'uno dall'altro, pensai, meglio sarà per la loro guarigione. L'incidente di Raoul, che non voleva o non sapeva dire quale cane lo aveva attaccato, era successo un giovedì, ma giunti alla domenica il suo braccio non mostrava nessun miglioramento. Il mattino seguente Goderich mi sorprese alquanto chiedendomi di «vedere io stesso» e rimasi ad osservare mentre svolgeva le bende. Colsi sul suo volto, credo, l'espressione che
si assume quando qualcosa di meraviglioso si sta avvicinando, quando levò l'ultima benda dalla carne lacerata. L'intero avambraccio era gonfio e vidi un livido dal colore disgustoso. Goderich fece un cenno perché mi allontanassi. «Ci vediamo dopo» mormorò. «Per Diana» disse raggiungendomi dabbasso. «Devo confessare la mia perplessità. L'ultimo medicamento che avrebbe fatto meraviglie si è dimostrato un vero fallimento ed è straordinario ma... il suo avambraccio sembra...» «Sì, cosa?» lo incalzai impaziente. «Be', che sia necrotizzato. Ma non può essere arrivato a quel punto senza manifestare altri sintomi associati, sintomi evidenti, che non lo hanno minimamente sfiorato. Inoltre... bah... insomma, quel dannato braccio puzza quasi...!» Lo guardai mentre continuava a parlare. «Ora sto parlando non professionalmente, Habgood, e non vorrei apparire semplicemente indiscreto. Non voglio assolutamente sapere come sei venuto a conoscenza di questo strano individuo, ma...» La nostra conversazione venne interrotta da un trambusto concitato nel corridoio. La porta si spalancò di scatto e Clara entrò senza farsi annunciare. «Oh... scusatemi, signore, ma... il signorino Denis.» Alle sue spalle, dopo un istante, apparve Denis lacrimevolmente turbato. «Cosa sta succedendo?» chiesi facendo spostare Clara e prendendo mio figlio in braccio. «Cosa c'è?» Ma per un po', dopo che lo avevo riportato a letto, egli si rifiutò di dircelo. Fu solo grazie a Clara che scoprimmo che Raoul era uscito di soppiatto dalla sua camera, aveva attraversato tutti i corridoi e aveva fatto visita a mio figlio. Clara aveva sentito un urlo provenire dalla camera da letto e aveva visto Raoul uscire mentre lei vi si era precipitata. In preda alla rabbia, stavo per dirigermi verso l'attico di Raoul in quello stesso istante ma Goderich mi fermò. «Lascia» disse. «Ci vado io.» Ci impiegò parecchio tempo e quando ritornò le sue parole furono fonte di ulteriore meraviglia. «Io... ci rinuncio. Non sono più un dottore perché i dottori non vedono certe cose... Chiamami pure belga dalla testa pelata, e sia... ma io ci rinuncio!» «Cosa intendi dire?» «Insomma, quando sono andato lì, quell'uomo stava sorridendo. A proposito, ma quello ha una faccia con cui sorridere? Non ne sono particolar-
mente sicuro... aveva un'espressione enigmatica e alzando un braccio, sornione, mi ha detto: "guéri, guéri", come il gatto del Cheshire, se effettivamente si può ridere così... sono alquanto sopraffatto...» «Vuoi dire che...?» Voglio dire che era guarito, è guarito. Un lieve gonfiore e una leggera febbre. Dammi un sorso del tuo Glenlivet... Te l'assicuro, ci rinuncio.» Questo episodio, in sé grottesco, contrassegnò l'inizio di una nuova, più infausta fase nella mia relazione con Raoul e riversò nella mia mente una miriade di dubbi e paure di cui fino ad allora avevo avuto una consapevolezza indefinita. Alla stregua di uno sguardo meravigliato che all'improvviso percepisce le forme latenti dell'orrore nelle nubi lontane in eterno evolversi e nelle foglie irrorate dal sole estivo, o come i disegni da sempre familiari di una carta da parati possono contorcersi in un repentino labirinto infernale, allo stesso modo il corso degli eventi rivelò un andamento arcano. L'inenarrabile storia del braccio di Raoul mi aveva lasciato incerto su quanto credere o su cosa sarebbe potuto succedere. Le circostanze mi avevano obbligato a dare confidenza a Goderich ma tuttavia per un certo lasso di tempo entrambi rifuggimmo una conversazione schietta. Quanto era successo si era discostato in modo così fantastico dall'esperienza normale che, credo, dovevamo cercare di negarlo e screditarlo in qualche modo anche a noi stessi. Raoul si ristabilì completamente e la mia determinazione di sfrattarlo apparve rinnovata. La salute di Denis non migliorò affatto e io cercavo ancora di non addolorarlo. Quasi indovinasse l'oggetto delle mie meditazioni egli aveva alzato sempre più la voce a lode del suo compagno. «Non ti piace» accusò con tono di rimprovero ma con un sorriso a labbra strette che tradiva - come potrei esprimermi? - una specia di strana e ripugnante ritrosia. «Io, a dir la verità, non vedo in lui molte qualità... non può stare qui per sempre.» «Perché, che male ha fatto? Come vorrei che ti piacesse...» Non gli risposi e parlammo di altri argomenti ma continuavo a sentirmi confuso e, più profondamante, sgomento. Poteva essere che, come sosteneva Denis, Raoul apparentemente non facesse alcun male ma era proprio questa stessa negatività che era la ragione del problema e rendeva assolutamente incomprensibile l'attrazione che mio figlio provava nei suoi confronti. Con i suoi ruvidi abiti da lavoratore e le sue ridicole manopole, quell'uomo era una presenza incongrua, un'escrescenza sul paesaggio in-
glese. Tuttavia, ai limiti del paradosso, la sua caratteristica saliente era proprio la totale mancanza di carattere. Sembrava sinistramente insensibile e scevro di emozioni come un robot. Il giorno del ritorno a scuola di Denis era ormai passato. Era migliorato dopo una ricaduta con febbri ricorrenti e ribelli. Una radiografia al torace mi rassicurò sullo stato dei suoi polmoni ma la malattia non guariva. Provai un forte disappunto nello scoprire che, ora, mi era ancora più difficile dare a Raoul il suo congé e tutto cospirava a farmi mettere le due cose in relazione tra loro. Ero certo che Raoul era la causa dell'inappetenza di Denis, del suo aspetto sciupato e languido, delle sue ricorrenti crisi di eccitazione nervosa e di depressione. Denis dormiva nella stanza accanto alla mia e una o due volte credetti di udire rumori di salti e di qualcosa che allora potei descrivere come una sorta di monotono e prolungato strascinìo metallico proveniente da quella stanza. Fui colto da un inquietante sospetto. Raoul era con lui? Ma quando aprii dolcemente quella porta vidi Denis da solo e apparentemente addormentato. I rumori - se mai ce n'erano stati erano completamente scomparsi. Tuttavia, ricordando l'anomalia - o piuttosto il prodigio - del braccio guarito in un istante, rimanevo più che mai convinto che Raoul doveva essere, in ultima analisi, il loro autore. L'istinto, o la persuasione, che Raoul fosse l'origine di un'influenza perniciosa e distruttiva per mio figlio, guadagnò costante consistenza. L'atteggiamento di Denis nei miei confronti era mutato ed era evidente il suo costante terrore che io lo allontanassi dal suo strano compagno. E, in modo più specifico, i rumori che avevo udito erano effettivamente dei rumori, avrei potuto giurarlo. Aumentavano all'avvicinarsi della mezzanotte ma per un certo periodo, dopo una mia comparsa, svanivano. Goderich fece quanto le sue conoscenze gli permettevano di operare ma credo fosse convinto quanto lo ero io che i tonici e gli sciroppi per la tosse non avrebbero scalfito le radici del problema. Alla fine, dopo avergli confidato tutto sui rumori strani, commentò con molta discrezione: «Se fossi in te, Habgood, considererei bene l'opportunità di sbarazzarmi di quel Raoul, capisci... molto bene.» Il ritegno della sua raccomandazione era quasi comico ma non sorrisi. «Non sai nulla di lui? Mi chiedevo se, per puro caso, egli non avesse nulla a che fare con la famiglia di tua moglie, che avesse lavorato per loro tempo fa ad esempio, e avesse usato ciò come referenza per giungere sin
qui? Sto semplicemente congetturando...» «Oh, no» replicai in tono confidenziale. «Denis strinse una profonda amicizia con questa bellezza nel villaggio di Vaignon, ad Auvergne, ecco tutto.» «Quei rumori, non trovi mai nulla di rotto o in disordine dopo averli sentiti?» «No, non ho... aspetta un attimo...» Sì, ricordavo di avere trovato un vaso in frantumi, una volta, e più di un volta avevo notato i cassetti aperti e un'aria generale di trasandatezza o confusione. Lo dissi a Goderich. «Fammi sapere se le cose peggiorano. E, sul serio, personalmente darei il benservito a quell'uomo. Potrà turbare il ragazzo ma correrei questo rischio.» Quando Goderich se ne fu andato ponderai il suo consiglio saggio oltre ogni dire, con aria lugubre. Ero in grado di capire cosa aveva sottinteso quando, riferendosi ai rumori, mi aveva chiesto se avessi mai notato qualcosa di rotto o di spostato, ma il concetto di attività poltergeist non era esattamente la spiegazione del caso, anche se certamente si rivelava essere sufficientemente sgradevole. Per quanto ne sapevo, quel tipo di attività poteva essere presente ma nondimeno non forniva una spiegazione esauriente. Per la centesima volta, forse, giurai che Raoul doveva andarsene. Infatti, a prescindere dalle mie stesse decisioni, la situazione stava maturando. Il trambusto nella camera di Denis aumentò, ora anche la servitù lo sentiva, e alla fine venne ammesso da Denis stesso. Negò qualsiasi responsabilità, e in questo gli credevo ciecamente, ma non sembrava esserne impaurito o minimamente disturbato. «Ma quel rumore non ti sveglia e non disturba il tuo riposo?» «Oh... qualche volta. Ma non m'importa, mi riaddormento subito.» Era irrequieto nel rispondere alle mie domande. Ora si vestiva e di tanto in tanto era in grado di passeggiare all'aperto quando era una giornata di sole, ma trascorreva gran parte del suo tempo disteso su una chaise-longue, in camera sua oppure, più tardi, con Raoul, sulla veranda riparata. I due se ne stavano seduti a conversare sommessamente, l'uomo tagliuzzando dei bastoncini di legno che modellava come strane bambole, e il mio ragazzo che lo osservava, rapito, quasi che il destino del mondo dipendesse da quelle operazioni. Denis alzò lo sguardo con aria supplichevole. «Promettimi una cosa.» «Cosa?» Ma già sapevo di cosa si trattava.
«Che... che tu non manderai via Raoul.» «Come ti ho già detto, tesoro, non può stare qui per sempre. Perché credi che non dovrei mandarlo via?» Lo sguardo di Denis, due occhi sgranati in un'anticipazione segreta di un imminente disastro, incontrò il mio. «Perché morirei» fu la sua risposta. Come mi fu possibile e nonostante il modo evasivo e a discapito della mia onestà d'intenti, lo rappacificai e me ne andai. Cosa potevo fare? Era evidente che Denis stava esagerando ed era turbato ma quelle parole, sulle labbra di mio figlio...! Nell'ultimo periodo s'era allampanato in modo visibile e mi era sufficiente confrontare l'attuale aspetto cereo delle sue guance e le sue labbra pallide con l'aspetto discretamente vigoroso di un mese prima per rendermi conto dell'allarmante velocità del cambiamento. Affermare che non ero in grado di provare a Raoul che quanto avevo notato era ridicolo. L'inizio dei sintomi risaliva al giorno dell'arrivo di Raoul ed ero certo che egli ne era la causa. Questo manichino - questo fantôche, questa marionetta vuota - era lo strumento sacrilego di una ripugnante infestazione che aveva minato il fisico e il morale di Denis... Guardandoli insieme, come spesso facevo da una finestra che dava sulla veranda, venivo sospinto in una specie di agonia speculativa sulla natura del legame che esisteva fra loro. Il volto di mio figlio, assorto nelle sue meditazioni o sorridente di quel sorriso affascinato che ero giunto a odiare sempre più, di solito era scostato ma riuscivo a notare in esso, talvolta, un abbandono incantato, un profondo interesse che mi raggelava il sangue. Contemporaneamente quella creatura, Raoul, alla presenza del suo adoratore, sembrava rianimato, meno neutro e negativo, come se il suo stesso essere venisse abbellito - come spiegare? - a spese di Denis, a costo dello sfruttamento della vitalità di mio figlio. Sembrava che esistesse o che la sua realtà si scoprisse, quasi che se l'uno sorgeva, l'altro si rimpiccioliva e tramontava. Incurante di nascondere la mia agitazione causata da queste idee, un paio di volte avevo tentato di irrompere in questa ambigua intimità ma, come ben presto mi resi conto, senza sortire alcun risultato. I due ammutolivano momentaneamente, Denis mi guardava tra la colpevolezza e l'ira, ma poi, come potevo ben immaginare, nell'attimo in cui giravo le spalle il loro curioso tête-à-tête avrebbe ripreso. Nonostante la crescente preoccupazione e confusione, la mia vita aveva tuttavia conservato una parvenza di ordine e normalità. Gli amici mi facevano occasionalmente visita, oppure io a loro, come prima d'allora e non credo, ora, che essi avessero notato qualcosa di strano. A dir la verità si
espressero sull'aria esausta e languida di Denis e mi fecero coraggio quando dimostrai di essere particolarmente preoccupato ma non videro affatto Raoul, e forse i «pettegolezzi» che ritenevo diffusi erano principalmente confinati in casa mia. Qui sicuramente dovevano aver proliferato. Clara e la vecchia Jenny, nonostante fossero incapaci di apprezzarne il significato, non potevano essere cieche e sorde a buona parte di quanto stava succedendo sotto i loro nasi, e il loro rifiuto di diffondere storie o «dicerie» testimoniava la loro lealtà e tollerante discrezione. A riguardo dello status ufficiale di Raoul, questo era stato regolarizzato con minor fastidio di quanto avessi immaginato. Una settimana dopo il suo arrivo, su insistenza - come appresi con sorpresa - di Denis, Raoul era andato a Winchester e con l'aiuto di Denis come interprete, si era registrato alla polizia come straniero. «Come si è presentato?» avevo chiesto allarmato. «Non come mio dipendente, spero.» «Oh, no» Denis si affrettò a rassicurarmi. «È venuto in visita. Un tuo ospite.» Era più che sufficiente e a malincuore dovetti dare credito a Denis per la sua impresa ma andai di persona a Winchester il giorno successivo per riceverne conferma. Sì, mi dissero, tutto era in ordine; oh, sì, certo, mi sarebbe interessato vedere il passaporto che Raoul aveva dovuto presentar loro ma non insistetti più del dovuto sulla questione. Stavo raccontando a Goderich questa collaborazione, confortante e apparentemente soddisfacente, con le autorità legali. «Mah...» meditò con incertezza. «Quell'individuo è un incubo infernale, indipendentemente da chi sia, e vorrei veramente che tu gli indicassi la porta. Ti confesso che ciò esula dalle mie capacità di comprensione... Il caso credo si addica più a uno psicologo ricercatore o a uno psichiatra. Nutrì forti pregiudizi, capisco, nei loro confronti e non insisto, ma sono preoccupato per te quanto lo sono per Denis. Invece di uno solo, tra breve avrò due pazienti...» Era vero che l'intera storia mi stava distruggendo. Col passare dei giorni sentivo che non avrei sopportato ancora e che, per farla finita, sarei arrivato a commettere un atto di violenza. Quando mi sentivo sul punto di commetterlo mi sembrava, per un solo attimo, quasi un sollievo. La situazione aveva continuato a deteriorarsi. Dopo avere trascorso qualche ora con il suo amico, Denis assumeva in effetti un aspetto funereo, e l'idea che precedentemente si era andata formando nella mia mente ora mi assediava con crescente forza. Stava perdendo qualcosa, pensavo, ma non
voleva farlo, almeno deliberatamente, per nulla. Doveva ottenere qualcosa in cambio, venir tentato da qualcosa, ma cosa, per Giove, cosa? Vivevo in un incubo e il peso di quell'idea aumentava di giorno in giorno. Tra le molte possibilità, la più abominevole sembrava essere che la fanciullezza delicatamente curata di Denis divenisse preda degli appetiti di un fantoccio amorfo, carne per questo misero buffone. I particolari e la tecnica precisa di una simile relazione infernale esulavano dalle mie capacità di comprensione ma ero pressoché sicuro dell'esistenza di un agghiacciante mercimonio e che Denis fosse divenuto la sua devota vittima. Chi era questo «Raoul»? Non appena era arrivato, anche se mosso da un gesto riluttante di cortesia, avevo tentato di impegnarlo in una conversazione ma il suo stretto accento di Auvergne, almeno credo, mi aveva sconfitto e non avevo mai più cercato di conversare con lui. Mentre lo osservavo dalla finestra intagliare i suoi bastoncini con quella sua aria da spaventapasseri ben pasciuto, una muta rabbia si impossessava del mio essere. Quell'uomo era un furfante oppure uno sciocco? Per interminabili ore, con compiacenza e pigrizia muovendo solamente le mani, se ne stava seduto lì, la molle obesità e la persistenza sedentaria e spensierata di un gigantesco moscone mentre le mie dita si contorcevano dall'ira. «Se solo potessi coglierlo sul fatto» pensavo trattenendo il respiro, «se solo potessi coglierlo sul fatto, lo strangolerei...» «Se potessi...» Sì... Anche se solo emotivamente, avevo una idea vaga e generale, un sospetto di quanto poteva star succedendo, ma questo era tutto. Se invece volevo una «prova»... Se questo taciturno bietolone incancrenito era la sanguisuga psichica che temevo, in grado di succhiare avidamente la vitalità di mio figlio, la sua salute e la sua energia spirituale, come poteva succedere? Mi resi conto che si trattava forse di una domanda vana o almeno insolita cui non potevo dare nessuna risposta anche se l'intera questione, presumevo, doveva avere una sorta di spiegazione «razionale», un luogo e un tempo. Durante buona parte della giornata la coppia capitava o, se lo desideravo, poteva capitare sotto la mia diretta osservazione e a stento credevo che Denis ricevesse il suo compagno in camera sua, o viceversa. In quell'ultimo periodo Raoul era ritornato alla sua vecchia stanza da letto nell'attico e in ogni caso avevo preso precauzioni adeguate onde prevenire incontri notturni. Tuttavia era proprio allora, tra il crepuscolo e la mezzanotte, che i «rumori» e altri tramestii diventavano più molesti. Questo, riflettei, bene si accordava alla mia «teoria», almeno fino a un certo punto. Avevo sentito che i poltergeist erano considerati un
gioco burlone di eccessi di forza vitale o di energia ed era proprio dopo che questo flusso di forza, proveniente da Denis, era stato stimolato ma che non aveva trovato in Raoul il suo abituale ricettacolo, che tali bizzarre manifestazioni, incentrate attorno al mio ragazzo, avvenivano più di frequente. Per quanto concerne i poltergeist stessi, se poi di poltergeist si trattava, non ne ero eccessivamente preoccupato o seccato e ritenevo che ciò fosse una descrizione della situazione, che doveva essere considerata una semplice seccatura minore e aggiuntiva. Erano trascorse - quanto? - solamente cinque settimane dalla prima apparizione di «Raoul»...? A quel tempo le mie notti erano di regola distese oscure di insonnia tormentata e quando, spesso solo verso le prime luci del giorno, riuscivo ad addormentarmi, il mio riposo era interrotto e visitato da orribili sogni. Uno di questi lo ricordo in particolar modo. Mi trovavo in Francia e Cécile era ancora al mio fianco. Stava raccontando una leggenda della sua provincia natale e con un'insistenza inspiegabile stava richiamando la mia attenzione su un particolare passaggio del libro. Ci trovavamo entrambi davanti a un'ampia finestra e il diabolico paesaggio siluriano di Auvergne si estendeva davanti ai nostri sguardi, per molte leghe, sotto l'immobile calore estivo. Ma la cosa strana era che Cécile si copriva il volto con il libro e pretendeva che io leggessi attraverso la copertina e tutte le pagine! In un modo che oserei definire miracoloso, fui in grado, nel sogno, di farlo nonostante una certa difficoltà e una sensazione di crescente apprensione e angoscia. Di una frase, che lei era particolarmente ansiosa che io leggessi, riuscii a comprendere solo tre parole: «...banchetteremo con te...» Ero sul punto di decifrare anche il resto quando improvvisamente il libro scivolò dalle mani di mia moglie scoprendo non il suo volto, bensì aria pura. Urlando di terrore mi svegliai. Un sogno è pur sempre un sogno, mi dissi, e forse, pochi attimi prima di addormentarsi, la mia mente aveva ancora una volta rimuginato sulle domande di Goderich, su un possibile legame tra Raoul e la famiglia di Cécile. Tuttavia quel suo gusto teso e pregnante non mi abbandonava e aveva tutte le caratteristiche di un presentimento. Sentivo di non aver bisogno di chiedermi quale fosse quel presentimento. Già da tempo non ero riuscito a continuare a fingere di condurre una vita normale e una crisi non avrebbe tardato a presentarsi. «Se solo potessi coglierlo sul fatto» mi sorprendevo a ripetere, «se solo potessi...»
E un giorno, finalmente, ci riuscii. Era un pomeriggio di ottobre e Denis se ne stava seduto con il suo inseparabile compagno sotto il portico esposto al sole. Di tanto in tanto rinunciava a conversare con lui e prendeva un libro. Era un libro per bambini, preso dagli scaffali della sua vecchia stanza, e io rimasi alquanto sorpreso ch'egli fosse ancora interessato a quanto ritenevo dovesse essere ormai sorpassato per la sua età. La veranda, come ho già detto, era coperta da pannelli di vetro e su un lato c'era una protezione frangivento in vetro. Rami di glicine si erano rassegnati a crescere in modo irregolare su parte del tetto mentre lungo la parte anteriore erano disposti svariati vasi di ortensie. Le piante erano quasi sfiorite ma il luogo serbava un'offuscata verzura e, secondo i miei gusti, un aspetto piacevolmente trasandato e dimenticato che mi sarebbe dispiaciuto sacrificare per un maggior ordine. Una finestra mi permetteva di avere una veduta limitata di questo spazio ed era da questa finestra, l'alta portafinestra di un salottino vuoto, che avevo spesso osservato mio figlio e il suo compagno con un'inquietudine che aumentava col trascorrere delle settimane fino a diventare angoscia. A che pro, mi chiedevo? Con questo mio comportamento dovevano aver sentore dei miei sospetti dirompenti e della mia ostilità e ai loro occhi i miei sguardi tormentati non erano altro che «spionaggio». Denis si era alienato da me, dal suo stesso padre, e ormai non potevo fare più nulla. Quel pomeriggio abbandonai presto quell'infruttuosa sorveglianza. Dovevo trovare qualcosa con cui occupare i miei pensieri e le mie mani altrimenti sarei diventato pazzo e mi ricordai di una staccionata rotta nei pressi del pometo, bisognosa di una riparazione. Dopo aver recuperato martello e chiodi mi stavo apprestando a iniziare il lavoro quando un terribile presentimento di disastro si formò nel mio cervello. Ero cosciente di qualcosa di enormemente, incredibilmente malvagio, una consapevolezza nata da un'ispirazione interiore. Dovevo tornare indietro... L'identificazione di una impalpabile calamità fu così travolgente che lasciai cadere gli arnesi e mi misi a correre verso casa. Tuttavia un barlume di prudenza rallentò i miei passi e mi avvicinai con maggiore circospezione. Dal punto in cui mi trovavo non potevo essere veduto dalla veranda ma per essere più sicuro optai per un percorso alternativo lungo una folta siepe. La mia angoscia era frammista a una montante ira. Come potevo essere stato così cieco, ricordo di aver pensato, da non capire cosa stava succedendo davanti ai miei occhi? Perché l'intera faccen-
da si riduceva a questo. Perché mai pensavo che questo traffico infernale dovesse richiedere necessariamente un «rendez-vous» fissato, o una propinquità fisica? «Lo strangolo» udii dire alla mia voce. «Se lo merita e mi renderò giustizia.» Sembrava che le mie dita stessero già stringendo il collo di quella creatura, quasi che il tempo fosse stato annullato o in qualche modo ridotto, come se quello che doveva succedere fosse già avvenuto e io mi trovavo là... Il sole di quella giornata autunnale stava tramontando mentre molto lentamente stavo rientrando nel salottino e in punta di piedi attraversai la stanza per avvicinarmi alla finestra. Da dove mi trovavo Raoul era invisibile ma riuscivo a vedere completamente Denis, ancora seduto come lo avevo lasciato, su una vecchia e malconcia sedia di vimini, immerso nella lettura del suo libro. Non era esattamente «seduto», bensì accovacciato, rannicchiato in avanti in una strana posizione rigida sul bordo della sedia. Un ultimo raggio di luce serale infiammò i suoi capelli biondi ma il suo volto era nascosto dal libro. Un indizio di orrore e di innominabile corruzione mi riempì il cuore. Qualcosa nella strana e ingarbugliata posizione di Denis, nel suo intero aspetto, mi turbava e mi rivoltava. Trattenendo il respiro mi avvicinai ancora di qualche passo. I miei movimenti erano leggeri ma Denis se ne accorse o indovinò perché sussultò con violenza. Il libro gli scivolò dalle mani. Sul suo volto improvvisamente scoperto vidi dipinta un'espressione che non descriverò. Si trovava davanti ai miei occhi, come un terribile fiore. È risaputo che il male riscuote le sue spettanze di rovina dai virgulti più teneri, si è meno propensi ad ammettere l'altro lato della medaglia, che è maggiormente scioccante. Ora la subitanea scoperta dell'effimera ricompensa del peccato elargita a mio figlio infelice era oltremodo spaventosa. Se avessi potuto, avrei voluto chiudere gli occhi su quanto avevo appena intravisto. I lineamenti di Denis, immobili in quell'interminabile incantesimo, tradivano un'espressione che era la parodia della sua fanciullezza e un ricordo blasfemo delle sue giovani fattezze. Il volto, nella sua estasi, era contrito ma composto, e vecchio, di una vecchiezza che non aveva nulla a che fare con gli anni. Mentre lo guardavo, la sabbia della clessidra del suo essere scorreva ricevendo la terribile ricompensa e anch'io rimasi prigioniero di un'eternità irreale, anche se nel mio caso si trattava d'angoscia.
Poi, all'improvviso, l'incantesimo si ruppe. Denis emise un rauco grido disperato. Aprii la portafinestra e mi precipitai verso la veranda. Dov'era Raoul? Devo aver detto a me stesso quasi incoscientemente che Denis si sarebbe presto ripreso dal suo delirio e quindi la mia prima preoccupazione era rivolta al suo saccheggiatore. Era forse scomparso nel nulla? Non completamente. Poco lontano dalla veranda, in direzione degli arbusti, lo intravidi con difficoltà, già in una traballante e lenta fuga. Lo raggiunsi vicino alla siepe rigogliosa, mentre si dirigeva verso la rimessa. Nella luce del tramonto la figura indistinta si era girata al mio arrivo e in uno strano e inutile modo egli aveva alzato maldestro un braccio per tenermi lontano. Le mie mani si strinsero attorno alla sua gola e per un istante lottammo barcollando. Passarono alcuni secondi e finora il disgustoso babbeo era rimasto silenzioso ma improvvisamente udii un rumore. Si dice che certe creature, solitamente senza voce, in extremis emettano un flebile rumore, come le povere aragoste che nell'agonia della bollitura emettono un ultimo e unico debole strillo. Ora il suo fu un grido inconsistente che mi entrò in testa. Quel suono mi riempì di disgusto. Le mie dita premettero ancora mentre Raoul, durante la lotta, veniva lentamente obbligato a indietreggiare contro il tronco di un albero, contro il quale volevo bloccarlo e... O riuscì a farmi lo sgambetto oppure incepiscai da solo e caddi. Entrambi cademmo rovinosamente, io addosso a lui. Per alcuni secondi avevo la percezione del suo corpo sotto il mio che si dimenava e opponeva resistenza ma che in qualche modo mi stava sfuggendo. Un secondo dopo non c'era più. Sbalordito mi rialzai e mi guardai intorno alla ricerca di quel figuro che era svanito nel nulla sotto le mie dita. E non riuscii a trovare nessuna impronta sua, in nessun luogo. 2 I giorni che seguirono furono neri - non riesco ad esprimere con esattezza l'intensità di quel nero. Anche se con l'uscita di scena del sinistro compagno di Denis sembrava che il peggio fosse scongiurato, nel mio cuore presagivo, con un brivido, che questo non era altro che un attimo di tregua e la storia lungi dall'essere conclusa. «Un attimo di tregua»... no, non si trattava nemmeno di questo. Raoul
era stato bandito dalla mia casa ma il suo lavoro rimaneva. Denis era ammalato. Mi guardava con orrore e repulsione, come se fossi io l'unico autore del suo tormento, riusciva a malapena a sopportare che io gli parlassi o che mi avvicinassi al suo letto. Riconobbi con angoscia che la perdita del suo spaventoso e amato parassita lo avevano virtualmente prostrato ed egli aveva cessato di essere il ragazzo che Cécile ed io avevamo amato. Per quanto riguardava il misterioso babbeo che ci aveva perseguitato, conclusi che era riuscito, in qualche strano modo, a divincolarsi dalla mia stretta e sfuggirmi, che probabilmente si stava dirigendo verso la Francia e che, almeno di persona (se poteva essere definito una persona) egli non ci avrebbe più afflitto. O meglio, queste conclusioni erano ciò che tentavo di dire a me stesso per convincermi. La verità non è necessariamente e sempre «ragionevole», e mi rendevo conto nel mio intimo che c'era qualcosa in questa storia che non poteva esser interpretato mediante comuni spiegazioni e congetture «sensate». Quando rientrai in casa dopo la fuga di Raoul, trovai Denis semisvenuto. I domestici, richiamati dal rumore di passi precipitosi sulla veranda, lo avevano trovato steso accanto alla sedia e lo avevano trasportato in camera sua. Era rinvenuto ma aveva iniziato a emettere un rauco e continuo lamento che non si interruppe se non dopò l'arrivo di Goderich, che avevo fatto chiamare subito, e la somministrazione di un sedativo. Il medicamento gli garantì una notte di riposo ma il giorno successivo, come già ho detto, non riusciva a sopportare la mia vicinanza e una volta arrivò persino a barricarsi dietro la porta della sua stanza. Non sapevo più che fare ed ero terrorizzato dal fatto che potesse nuocere a se stesso. Goderich condivideva le mie pene. «Hai scoperto qualcosa di nuovo su questa creatura malvagia, adesso che se n'è andata?» mi chiese. «Qualcosa di nuovo? Perché mai, cioè...» «Voglio dire, adesso che si è effettivamente allontanato da casa tua, le lingue possono muoversi con maggiore libertà. La tua servitù, ad esempio...» «Oh, sì» assentii. «Certo, chiacchiere a iosa!» Era un fatto che Jenny e Clara mi avessero aperto il loro cuore su Raoul e sui loro sentimenti nei suoi confronti, confidenze finora rimaste represse, anche se ciò non aggiungeva nulla di materiale alle mie conoscenze. Lo dissi a Goderich. «Come hai spiegato loro l'improvvisa scomparsa di quell'individuo?»
«Non ho spiegato un bel nulla. Nessun particolare. Devono aver pensato che io... insomma, l'ho allontanato in malo modo. Non credo interessi lord come se ne sia andato, purché se ne sia andato.» «Mmm... be', onestamente non credo di potere fare molto. Vorrei che tu consultassi uno psichiatra...» Ma ancora non ero pronto per queste cose. E c'era forse un tono vagamente ferito o di rimprovero nella voce del mio amico? Se sì, doveva essere perché aveva intuito che anche con lui, nella mia descrizione della scena finale, ero stato reticente riguardo a quanto aveva definito con la parola «particolare.» Denis recuperò le sue forze tanto da permettergli di alzarsi dal letto e allontanarsi dalla stanza e camminare di tanto in tanto, da solo, nel frutteto e sul prato. Eravamo però estranei l'uno all'altro. La mia conoscenza, o parziale conoscenza, del suo terribile segreto mi rendeva ai suoi occhi uno spauracchio e sembrava esserci qualcosa di pateticamente orribile nei tentativi palesi di questo ragazzino di travisare la sua visione partigiana e mitigata degli avvenimenti, per assimilarla, modificarla o addolcirla in modo da rendersela più tollerabile e da considerare me, e non Raoul, un suo nemico. Credevo che la cosa non potesse continuare in questo modo. Se avessi vissuto fino a cent'anni, come avrei potuto dimenticare, oppure come egli avrebbe potuto dimenticare che io dovevo ricordare, sempre? Gliel'avrei ricordato per l'eternità. Se non adesso, tra qualche anno, con un'ipocrisia così intensamente imbarazzata, egli avrebbe desiderato la mia morte... Per una settimana circa, la situazione continuò in questo modo. La mia incertezza su quanto era realmente successo a Raoul mi impedì di assaporare la consolazione della sua assenza e subito dopo la sua scomparsa ricevetti una visita della polizia di Winchester. Dissero che «Privache» (in un primo momento non riuscivo a ricordare che quello era il cognome di quell'individuo) non era andato a registrare la scadenza del permesso di residenza e mi chiesero se abitava ancora presso di me. Potei limitarmi a rispondere, con un po' di verità, che egli era partito precipitosamente, e che non avevo idea di dove fosse andato. «Partito precipitosamente?» «Sì». Spiegai loro che l'ospite assente era un amico di mio figlio, del quale però non sapevo praticamente nulla. Notai che il degno e, ai miei occhi, rispettabilissimo agente era insoddisfatto e meravigliato. «Avrebbe dovuto controllare a dovere» mugugnò. «Se è ritornato in Francia, adesso ci saranno
problemi e discussioni, laggiù, al porto.» Nel frattempo i miglioramenti delle condizioni di salute di Denis s'erano, almeno superficialmente, mantenuti costanti. Vale a dire che sembrava leggermente meno pallido e aveva recuperato un po' d'appetito. Tuttavia i tramestii, i mormorii notturni e (una nuova acquisizione) le risate sguaiate erano aumentati e il baccano aveva raggiunto proporzioni tali che, per considerazione del riposo dei miei domestici, dovetti trasferire la sua camera quanto più lontano possibile dalle loro. Secondo il mio parere, i suoi modi rimasero ostinatamente ostili. Avevo più volte e con toni supplichevoli cercato di farlo parlare apertamente e con franchezza, di confidare la sua versione dei fatti, ma invano. Era quanto mai evidente che aveva sofferto una vera e propria perdita ed era ancora afflitto a causa della scomparsa del suo compagno. Con riluttanza stavo per rassegnarmi a seguire il consiglio di Goderich e consultare uno psichiatra. Questa decisione avrebbe esposto me e il paziente a una gran quantità di imbarazzo e di indottrinamento incredulo e stupido, ma non dovevo escludere a priori nessun metodo pur di guarire mio figlio. Le foglie stavano cadendo e le giornate d'ottobre diventavano più fredde quando ricevetti casualmente una lettera che mi ricordava l'avvicinarsi della cena d'anniversario del mio vecchio reggimento. Non ne avevo trascurata una e allegato alla lettera trovai l'invito formale, ma nelle attuali condizioni non avevo cuore d'andarci, e oltretutto la cosa era fuori discussione. D'altro canto, la lettera proveniva da Winchester, a nemmeno sei miglia di distanza, dove Mayfield, il mio vecchio aiutante, quell'anno stava organizzando la cena. Capitava, mi scriveva, che dovesse trascorrere un'intera settimana in quel luogo per affari e, probabilmente, credo si stesse aspettando un mio invito a stare da me invece che in albergo, comunque solo per sabato e domenica. Datala situazione, anche questo era praticamente impossibile, ma il minimo che potessi fare, pensai, era di recarmi a Winchester per fargli una visita. Decisi di affidare Denis alle amorevoli cure di Jenny e Clara e partii dopo pranzo. La mia conversazione con Mayfield, al quale spiegai la mia posizione nei limiti necessari, fu molto piacevole per quanto lo potesse permettere il mio stato di preoccupazione riguardo a Denis, ma feci in modo di affrettarmi per arrivare a casa per l'ora del tè. Con mia estrema costernazione, Clara e Jenny mi stavano aspettando sul portico e le loro prime parole, mentre scendevo di corsa dall'auto, mi pre-
annunciarono il peggio. Denis se n'era andato. Inutile quanto inevitabile era il rimorso. Dovevo agire. «Quando vi siete accorte della sua scomparsa?» chiesi. Era successo una ventina di minuti prima. Si trovava sulla veranda e poi, non vedendolo più e volendo essere sicure della sua presenza, avevano iniziato a cercarlo. La sua stanza era vuota, e abbastanza in ordine, ma non riuscivano a trovare una piccola valigia, come pure alcuni calzini e una camicia. L'indizio decisivo che sembrò spegnere ogni speranza su una sua eventuale passeggiata e un suo ritorno, fu il fatto che anche la stanza di Jenny era stata visitata da qualcuno e che il suo denaro era stato rubato. «Quanto?» «Quattro sterline e dieci, signore. Io, io li tenevo in una piccola scatola di ceramica e avevo intenzione di depositarli in banca martedì.» Aspettando il mio rientro da un momento all'altro, non avevano ancora dato l'allarme alla polizia e piuttosto che usare il telefono, decisi di ritornare di persona a Winchester, in auto. Intanto Jenny poteva telefonarmi al commissariato di polizia se il mio povero fuggitivo, nel frattempo, avesse deciso di ritornare. Il sergente mi conosceva bene e ascoltò con attenzione la mia storia. «È ancora troppo presto» mi incoraggiò, «e potrebbe darsi che si stia semplicemente divertendo. Non si preoccupi però, perché notificheremo la scomparsa e la comunicheremo agli altri commissariati nei dintorni. Cinque e un quarto... non può essere andato molto lontano.» «Controllate anche i porti» gli ricordai. Il mio primo pensiero corse naturalmente subito a Raoul, e il mio terrore era che Denis lo volesse raggiungere. «Oh, certo, lo facciamo sempre, d'abitudine... anche se non può traghettare, capisce, senza un passaporto.» Su questa faccenda, in cuor mio nutrivo seri dubbi. Data la sua sufficiente determinazione, esistevano molti modi per riuscirci, come un caso successo di recente. Dopo un'altra consultazione, questa volta con un sovrintendente locale nel suo studio adiacente, mi diressi verso casa. «Nessuna novità, vero, Jenny?» «No, signore.» Con la forza d'animo che ci era possibile, mentre passavano monotone ore piene di rimorso, ci rassegnammo a sopportare quella notte miserabile
e, nel mio caso, insonne. Ritenendo che l'urgenza avrebbe più che mai giustificato l'interruzione dell'imposizione del silenzio, inviai un telegramma a Monsieur Vaignon. Ricevetti una risposta alquanto veloce: «Non ancora arrivato.» Ciò mi lasciò maggiormente in subbuglio e invano mi sforzai di abbinare, per dire, un'intonazione reale ma indecifrabile alla parola «ancora». Sembrava che Monsieur Vaignon si aspettasse, prima o poi, l'arrivo di Denis, ma non potevo esserne sicuro. Rivolsi la mia attenzione al problema del passaporto. Denis aveva avuto un passaporto, un documento individuale che gli permetteva di viaggiare accompagnato da Flébard e talvolta da me. Ma lo avevo chiuso in un cassetto dopo il suo ultimo viaggio e da allora era rimasto là. Ad ogni modo, pensai, doveva aver capito che, prima di riuscire a raggiungere la costa, la polizia portuale sarebbe stata avvertita e quel documento gli sarebbe stato inutile. Mi fu detto che il distretto di Winchester era stato perlustrato a dovere ma senza risultato e, col passare delle ore, mi sorprese il fatto che un ragazzo potesse sfuggire alla rete della polizia per tanto tempo. Certamente questo significava un certo grado di inettitudine da un lato o una considerevole destrezza e intelligenza dall'altro. Forse, qualsiasi cosa sostenesse l'incredulità ufficiale, Denis era riuscito, camminando di notte e riposando su un albero di giorno - un metodo che avevo letto da qualche parte - ad arrivare in un luogo dove attraccavano i pescherecci francesi e a pagare qualche pescatore affinché lo trasportasse di nascosto oltre il confine... Questa nozione venne rafforzata soprattutto dalla scoperta fatta da Clara quando la caccia durava ormai da sei giorni. Mi raggiunse eccitata nel mio studio, un mattino, urlando: «Oh, abbiamo trovato qualcosa!» Si capì che, mentre puliva l'attico, si era imbattuta in due pagnotte, due scatole di sardine e un apriscatole, un vaso di marmellata e la valigia vuota, un vero nascondiglio! Quegli oggetti, che andai ad esaminare assieme a lei, erano nascosti sotto una tela di sacco vicino a una porta posteriore che dava su una piccola scala esterna grazie alla quale si poteva accedere all'attico senza passare attraverso la rimessa sottostante. Lì accanto, con ripugnanza, notai la grottesca collezione di bambole di legno, simili a birilli, che Raoul era solito intagliare e, cosa più significativa, una lattina vuota e alcune briciole sparse dimostravano che almeno un pasto era stato consumato lassù.
In modo illogico, questa scoperta, e particolarmente la valigia abbandonata, istillò, come una certezza emotiva, nella mia mente la convinzione che Denis fosse riuscito a raggiungere la Francia o stesse viaggiando in quella direzione. Mi dissi che aveva avuto sufficiente intelligenza da rimanere nascosto nelle immediate vicinanze mentre imperversavano le ricerche e fuggire di notte come avevo supposto. Sì, doveva essere successo così, proprio così! Giunsi a una rapida decisione. Dopo aver telefonato a Goderich per comunicargli i miei progetti, quello stesso pomeriggio partii per Southampton, fermandomi al commissariato di Winchester en route. Compresi subito che i miei piani per «inseguire» essi non ammettevano che si trattasse di una cosa simile - mio figlio in Francia avevano incontrato lo scetticismo e lo sfavore ufficiale, ma benché mi trovassi d'accordo con l'allestimento di un cordone di guardia, anche se tardivo, attorno all'attico, non avrei mai permesso che venisse versata acqua fredda per sbollire le mie decisioni. Ma avvenne che, pur a mia insaputa allora, avevo anticipato gli eventi di una sola notte. Seppi più tardi che un secondo telegramma da parte di Monsieur Vaignon, «Denis è qui», mi venne recapitato la mattina successiva alla mia partenza. Ancora una volta, il solito noioso treno, il rollio gentile sentito dalla mia cuccetta della quasi consueta nave, il porto familiare di Le Havre avvolto nella nebbia mattutina. Tutto uguale, sì, immutato, tuttavia tutto così diverso! Quante volte avevo fatto quella traversata, ma ora avevo il cuore colmo di preoccupazione. Gustai la mia petit déjeuner nel buffet della stazione dopo aver passato la dogana, comperai un giornale e una provvista di brioches prima di risalire in treno. Parigi e il pranzo, poi diretto verso sud, verso quale destinazione? Mentre il treno si apprestava a risalire i fianchi del massif, un'indefinita ma terribile inquietudine si impossessò di me. Mi resi conto di essere partito precipitosamente dall'Inghilterra soprattutto perché l'inazione era divenuta insopportabile. Ciononostante qui, in Francia, lo sgomento mi pervadeva. Era come se, mentre mi avvicinavo al nero e contorto paesaggio di Auvergne, mi stessi avventurando temerariamente in una cittadella popolata da presenze malvagie, contrapponendo la mia debole forza a una miriade di demoni.
Presi in mano il giornale e cercai, invano, di leggere. Denis, pensavo, dove sei? Cosa stai facendo in questo momento, e perché? Non senza fatica cercai di sforzarmi a riesaminare, da un punto di vista più critico e tranquillo possibile, la serie di circostanze che mi avevano condotto dov'ero e a questa disperata ricerca. Vaignon, Raoul... L'accordo per le vacanze era stato così casuale, fortuito, così propizio e tuttavia... Sì, doveva esserci un collegamento, che esulava da qualsiasi coincidenza, tra le due cose. Ricordavo l'atteggiamento pensieroso e colpevole di Monsieur Vaignon, e quel particolare stralcio di conversazione che avevo ascoltato di nascosto. «È ritornato» allora aveva detto a Flébard. Chi, cosa era «ritornato»? Poteva essere... All'improvviso la mia mente afferrò qualcosa e deliberatamente, per una frazione di secondo, cercai di non pensare, timoroso della luce che stava per inondarla. Arrivai al punto di prendere furiosamente in mano il giornale e fingere un eccessivo interesse nelle sue lunghe colonne di pubblicità. Un attimo più tardi, però, rinunciai e dalle labbra mi sfuggì un sospiro, la sorta di sospiro che accompagnava la presa di coscienza e l'ammissione. «Poteva essere...?» Senza ombra di dubbio, poteva essere. La Cosa, l'oggetto del terrorizzato lamento di Monsieur Vaignon, era Raoul. Non capii come questa congettura latente ma discretamente ovvia fosse stata relegata con successo nei recessi della mia mente, poiché ero sicuro che fosse avvenuto così, per un tempo talmente lungo prima di risalire in superficie e farmi trasalire. Ma ora trovai che ciò era un fattore di notevole disturbo. Senza essere ancora in grado di apprezzarne tutte le implicazioni ebbi il sentore di un'illuminazione dilagante, come se i contorni di una formidabile verità si delineassero di lì a pochi istanti. Per raggiungere Foant dovevo salire su un treno più lento con un certo numero di fermate. La campagna rimaneva nel suo complesso placidamente bucolica ma credetti di individuarvi, qua e là, deboli segni o indizi della sinistra caratteristica che l'Auvergne da me finora visitata aveva sempre avuto ai miei occhi. Monsieur Vaignon era stato avvertito del mio arrivo poiché glielo avevo comunicato mediante telegramma da Le Havre, ma non potevo immaginare che tipo di benvenuto avesse intenzione di accordarmi. Bisogna ricordare che non avevo ricevuto il suo telegramma, recapitato ad «Ashtoft» solo il mattino successivo, e al momento non c'era null'altro, eccetto la mia intuizione impulsiva, che mi portasse a credere che Denis si trovasse al castello.
Il sole stava tramontando mentre il treno rallentava per entrare nella stazione di Foant ma prima di ciò lo scenario aveva assunto quel carattere intimidatorio, un aspetto gigantesco e reboante di violenza che a ogni mia visita mi aveva fatto rabbrividire. Scendendo dal treno mi guardai intorno ma non vidi nessuno sul mio stesso marciapiede né sugli altri due eccetto che il bigliettaio e un paio di contadine. Forse Monsieur Vaignon era così indignato per la mia aperta sfida al suo precedente virtuale divieto che non aveva mandato nessuno a incontrarmi alla stazione! A causa della sua imposizione del silenzio mi ero sentito incapace di scrivergli - o forse porgli alcune domande riguardanti Raoul - e anche se ora sospettavo ch'egli ne sapesse molto più di quanto fosse disposto a confessare, il suo stato ufficiale si imperniava sull'ignoranza e probabilmente non riusciva ad apprezzare la serietà del caso. Per un quarto d'ora attesi con impazienza nella piccola salle d'attente. Monsieur Vaignon era dunque giunto a negarmi la sua ospitalità? Certo che no, egli dopotutto aveva risposto al mio primo telegramma e sicuramente, in seno all'umanità, egli non poteva comportarsi come un orso, come un bruto! Ciononostante l'esasperazione mi portò a pensare che o avrei telefonato al castello oppure, senza preavviso telefonico, avrei noleggiato un veicolo, se mi era possibile, ma ad un tratto un'auto arrivò sferragliando furiosamente nella piazzola della stazione. Il rumore era talmente forte che sperimentai una curiosa sensazione di delusione alla vista della persona che uscì con goffaggine dal sedile di guida. La figura avanzò verso di me velocemente con una specie di impetuoso e frenetico incedere zoppicante. Non c'erano dubbi, era Monsieur Vaignon. 3 Una sequenza di botta e risposta iniziò subito, senza tanti preamboli per i saluti. «È con voi?» «Certo... ma lei non può aver ricevuto il mio telegramma così presto.» «E... sta bene?» «Lui... vedrà lei stesso.» Salimmo in auto. «Flébard» spiegò Monsieur Vaignon intercalando, «se n'è andato e devo fare io da autista. Temo di essere giunto in ritardo.» Borbottai qualcosa che passò inosservato. Eravamo usciti dalla piazza
della stazione per immetterci sulla strada, tuffandoci nel crepuscolo incombente. La guida di Monsieur Vaignon era degna di un maniaco. Nondimeno i suoi modi avevano una specie di tetraggine indifferente e distratta, e le condizioni generali del nostro viaggio selvaggio verso il castello erano sfavorevoli alla conversazione. «Denis è stato terribilmente malato» dissi. «Non è lui, altrimenti non sarebbe fuggito e non avrei dovuto recarle fastidio. Come le sembra, ora?» Monsieur Vaignon scrollò la spalla più vicina alla mia urtandomi distratto. «Non le saprei dire... Siamo tutti confusi, n'est-ce pas, e siamo perseguitati da giorni infausti. E questi sono i giorni di suo figlio, il quale non sa che lei si trova qui e che, gliel'assicuro, non le permetterà di parlargli o di avvicinarsi...» Provai un tuffo al cuore ma la disperazione mi instillò un rivolo di rabbia. «Questo è tutto da dimostrare!» dissi. Arrivammo al castello, un luogo di tetra e inquietante pace, quando ormai era calata la notte. Un uomo la cui faccia non mi era familiare ci fece entrare ma subito dopo si ritirò. «Dov'è Denis?» chiesi a Monsieur Vaignon. «Dov'è?» Avevamo attraversato l'entrata ed eravamo entrati in un piccolo salon sulla sinistra, nel quale ricordo che mi era stato promesso che Denis avrebbe dedicato un'ora al giorno allo studio di De Musset, dei Dumas e di Victor Hugo. Dubito che l'abbia mai fatto ma notai che due pareti della stanza erano cariche di libri. «Dov'è?» ripetei, ma in quel preciso istante, udendo alcuni passi nell'entrata, alzai lo sguardo verso la porta e là, con uno sguardo fisso e glaciale rivolto nella mia direzione, vidi Denis. Lo vidi per un solo attimo perché un momento dopo, con un «Ah...» indignato e impaurito, svanì. Uscii dalla stanza per seguirlo, chiamandolo per nome. Mi trovai davanti a un uomo, quello che ci aveva fatto entrare. «La cena sarà...» stava iniziando a dire. «Dov'è il mio bambino, le jeune garçon?» lo interruppi. «Da che parte è andato? Qual è la sua camera?» L'individuo mi squadrò meditabondo mentre mi rispose con lentezza: «La solita, ma...» Si fermò e con un gesto veloce e quasi colpevole o furtivo, si segnò. La vecchia stanza di Denis si trovava al primo piano, in cima alla scalinata. La salii correndo, provai la porta ma era chiusa a chiave e
non ottenni risposta quando bussai. «Denis!» urlai. «Denis, sei là dentro?» Nessun rumore. Era possibile anche se assai improbabile che la porta fosse stata chiusa dall'esterno. Bussai e chiamai ancora, invano. Mentre scendevo verso il salon, venni assalito da un tormento interiore. Era oltremodo evidente che Monsieur Vaignon aveva detto la verità e che Denis continuava a considerarmi suo nemico. Mi echeggiava ancora in testa l'intonazione del suo «Ah...!» quando mi aveva visto alcuni istanti prima. Era stato un grido non semplicemente di turbamento e sgomento bensì, mi resi conto, una vera e propria maledizione. Monsieur Vaignon si era affacciato all'entrata. «Vedete» mormorò seccato, «avevo ragione...» A cena, non fu preparato nessun posto per Denis e Monsieur Vaignon dovette aver notato le mie occhiate deluse e indagatrici. Tuttavia, alla presenza dell'onnipresente domestico Dorlot - questo presumo che fosse il suo nome - non si poteva dire nulla d'importante e la nostra conversazione ebbe come oggetto semplici banalità. Contemporaneamente la mia mente esaminava con frenesia quanto avevo finora scoperto. Ahimé, avevo già visto abbastanza per capire che la situazione non poteva venire aggiustata su due piedi o in modo affrettato, e che il ritorno a casa del mio povero figliol prodigo non sarebbe stato affatto semplice e forse per nulla veloce. Ci sarebbero state difficoltà, soprattutto in un paese straniero, per costringerlo con la forza a venire con me, e per quanto riguardava il fatto di consultarmi con Monsieur Vaignon e giungere alla verità sull'intera faccenda dovevo costringermi a maggior pazienza e riservatezza. Dopo cena seguii Monsieur Vaignon nel salon dove mi fece cenno di sedermi accanto al fuoco. «Come senza dubbio avrà avuto modo di osservare» iniziò immediatamente, anticipando una, se non certamente la più pressante delle domande che mi bruciavano la lingua, «Marcel e Augustine non sono qui. Mi sono stati tolti con tutta la benevolenza possibile da una zia, la cognata, che considerava l'atmosfera di questo luogo non proprio congeniale ai miei giovani figli... Mon dieu, ah, ah... se aveva ragione...» Udendo queste parole, i miei buoni propositi andarono in frantumi e sbottai: «E mio figlio, Monsieur, che mi dice di lui? Non ha cenato con noi. Dove si trova, adesso? Si trova al sicuro, in questo preciso momento...? Quando è arrivato da lei, e perché? Lei non mi ha detto ancora nulla.
C'è una persona, una creatura, un certo "Raoul" che...» «Ah, çâ...!» Con gesto nervoso, ma che avrebbe potuto essere altezzoso, alzò una mano per mettere freno alla mia irruenza. «Che il suo nome non venga proferito ad alta voce! È un nome, per me, sinonimo di ridicolo e fastidio. Per gli altri, per molte persone, la cui suscettibilità dev'essere presa in considerazione, significa... oh, qualcosa di infinitamente peggiore. E...» Fece una pausa ma proseguì quasi subito. «Ora che lei si trova qui, sentirà parlare di questa... sciocchezza, comunque, e tanto vale che la prepari e l'avverta... Enfin, questo è l'argomento della lettera che le ho scritto, e comunque ciò che stavo pensando quando l'ammonii di non mandarmi mai più suo figlio qui. Quando le dissi di essere vittima di una persecuzione, come rammento di aver fatto in preda a un eccesso di esasperazione, non esageravo affatto e...» «Ma» lo interruppi, «non riesco a capire come...» Ebbi un attimo di esitazione ma non ero in grado di reprimere la mia domanda più urgente. «Dove... dove si trova lui, la cosa ora?» Monsieur Vaignon mi squadrò con circospezione. «Lui, la cosa, se vogliamo definire questo racconto "da vecchie signore" un lui o una cosa, momentaneamente non si trova qui, o almeno non è attivo. Vale a dire, enfin, non è qui adesso...» Dopo un istante proseguì cupo: «Per quanto riguarda la sua "comprensione", esistono cose di cui si può percepire l'effetto, su se stessi o sugli altri, ma che non si possono affatto comprendere. Anzi, talvolta possono venire addirittura, in un certo senso, ripudiate. Le ho appena detto che questa... questa seccatura, questa seccatura assoluta e perfetta, non è con noi actuellement ma suo figlio - suo figlio è arrivato ieri sera tardi - lo sta ricercando. Sta tentando di farlo ritornare e farà del suo meglio per...» Mi risulterebbe difficile descrivere l'infelice confusione in cui queste parole mi fecero sprofondare. Cosa dovevo credere? Monsieur Vaignon aveva alluso in modo alquanto beffardo a Raoul come stesse parlando di una malattia secondaria seppur noiosa o di un insetto nocivo del giardino, nello stesso modo in cui avrebbe potuto parlare di una scarlattina curiosamente periodica o del carbonchio delle patate! Tuttavia sotto quell'atteggiamento sbarazzino riuscivo a intravedere una preoccupazione genuina. Si alzò di scatto, in un eccesso di agitazione. «La cosa, questa sorta di molestia, oppure tale superstizione molesta non è affatto senza precedenti se si vuole dare credito a certi autori, a certi scrittori da strapazzo di, oh, almeno un paio di secoli or sono...» Si era spostato verso le mensole cari-
che di libri, faceva scorrere un dito sul dorso di alcuni tomi dall'aspetto pesante e ne tirò quasi fuori uno. «Non importa...» disse spingendo il volume al suo posto. «Sta lì... ed è catalogato con scrupolo nonostante l'appellativo evasivo. Li hanno chiamati, queste assurdità, o quelle menti che li hanno stuzzicati e generati, i sans noms, semplicemente. Gli "Innominati"...» Con passo indeciso si diresse verso il suo posto. «Io... le do la mia parola d'onore che quando l'ho incontrata per la prima volta e anche poco tempo fa, non ero a conoscenza del fatto che questo particolare "innominato" ci avrebbe infastidito anche se... non posso negare che la sua presenza, o le chiacchiere a questo riguardo, non ci abbiano mai infastidito in passato, ma si presumeva che se ne fosse andato. Tant même, c'era un rischio tecnico, nonché accademico, sul quale avrei dovuto ammonirla in anticipo...» Un'ondata di rabbia esterrefatta mi travolse. «Sì» replicai con amarezza, «"chiacchiere" o no, qualsiasi fosse la natura di quell'essere, indipendentemente dal fatto che siamo savi o pazzi, avrebbe dovuto farlo, senza ombra di dubbio! Avrebbe dovuto avvertirmi prima!» «Ma allora lei mi avrebbe riso in faccia all'udire una storia simile, giustamente o au moins in modo giustificabile. Lei non avrebbe creduto né a me né alla storia.» «Cosa importava se io mi fossi effettivamente comportato così?» urlai quasi, non più capace di contenere l'esplosione di impazienza. Avevo dovuto aspettare, sui carboni ardenti, per tutto il viaggio dalla stazione di Foant e durante tutta la cena per formulare la domanda che disperatamente desideravo fare, e ora, nel momento in cui potevo almeno fare domande dirette, mi si rispondeva con tergiversazioni e prevaricazioni. Monsieur Vaignon rimase in silenzio con la testa china. Ero assolutamente convinto che sapeva benissimo di non avermi raccontato l'intera storia e di avermi nascosto qualcosa. «Questo... questo "innominato"» insistetti. «Cos'è? Intendo dire, questa specie particolare... Stiamo menando il can per l'aia, mio caro signore, e non riesco affatto a seguire quanto lei pensa di svelarmi, se mai sta dicendo qualcosa. Cos'è? Questo è quanto voglio sapere! E qualsiasi cosa sia, lei avrebbe dovuto impedire che mio figlio lo incontrasse. È stato lui a dirmi che lo aveva incontrato in paese, una specie di semivagabondo, mi sembrava, ma...» Le mie parole si spersero nel nulla. Monsieur Vaignon, il volto pallido all'udire le mie accuse, faceva roteare il suo brandy. Un bicchiere mi era
stato messo davanti, ma non lo avevo nemmeno assaggiato. Alzò di scatto il suo bicchiere e lo vuotò. La sua espressione tradiva un'esaltazione quasi morbosa. «Ah, bah! "La cosa", lei dice, "lui"...! Eh, bien... Quella "cosa", se non le dispiace, è qualcosa che va e viene, e che si rifiuta di morire come i comuni cristiani, qualcosa che fiorisce, prospera e svanisce, e che si racconta che abbia terrorizzato la mia famiglia per tre generazioni. Qualcosa che a intervalli si è nutrito, così vuole il racconto, alle nostre spalle e il suo essere deve la sua esistenza e persistenza alle proprie vittime. Tutto questo ah, ah! - lo può leggere in quei libri... Oh, non siamo gli unici ad avere questo tormento. "Il Tal dei Tali" le capiterà di udire, "ah, sì, una vecchia e distinta famiglia ma hanno un sans-nom..." Per quanto riguarda questo, il nostro esempio, come dice, esso ha una parvenza umana, come ha potuto constatare. Mangia, beve, dorme come tutti gli uomini, mentre esiste. Mon dieu... "quell'essere" ha persino aggiustato le mie siepi, comperato sapone o tè o sali e le épicerie, prima che io lo sospettassi e fino al momento in cui lo riconobbi... solo allora, quando venne riconosciuto, oh, che situazione imbarazzante...! Ma per esistere, necessita, si racconta, di un... amico. E questo suo amico deve essere giovane. Se e quando la sua vittima, il suo petit ami, muore, il flagello trasferisce le sue attenzioni, siamo arrivati a credere, ai figli di un altro ramo, il più vicino. Quella cosa è amorosa e... rapace. Ah, nom d'un nom, quelle histoire! Quel fumisterie! Quelle imbécilité! C'est ridicule, fantastique, incroyable...! La sua voce si era selvaggiamente alzata di una nota, per disprezzo o per terrore, quando udimmo un picchiettio, inizialmente leggero, poi più forte, alla porta. Quell'uomo, Dorlot, entrò con un'espressione di protesta. «Monsieur dovrebbe sapere che una tale sovreccitazione, il cui rumore è giunto fino in cucina, è deleterio per la sua salute. Andate a letto, Monsieur, ve lo consiglio. Andate a letto, dove potete dimenticare le vostre preoccupazioni nel sonno.» Accettando affabilmente il rimprovero e, immaginai, accogliendo a braccia aperte la scusa per sfuggire a ulteriori mie domande, Monsieur Vaignon mi disse: «Dorlot ha ragione e, se mi vuole perdonare, ora la lascerò. Il mio stato di salute ultimamente è molto precario... Dorlot le darà qualunque cosa lei desideri. Ma prima» si rivolse all'uomo, «dov'è il giovane monsieur? Si trova nella sua stanza ed... è calmo?» «Sì, si trova nella sua stanza e ciò si può dedurre dal fatto che essa non è tranquilla. Ci sono ancora rumori anche se, finora, non eccessivi.»
All'udire queste parole sussultai, anche se non mi erano nuove. Nella mia mente i disturbi del «poltergeist», tuttavia, erano abbinati alla presenza di Raoul e il loro persistere mi deprimeva. «Buona notte...» disse Monsieur Vaignon. Ero oltremodo stanco ma mi soffermai un po' nella «libreria». Per essere onesto con me stesso, cosa potevo credere e cosa ancora potevo tentare di non credere? Normalmente la scenata che il mio ospite aveva appena concluso sarebbe stata definita un'accozzaglia di sciocchezze spiacevoli e orrende, ma, ahimé, avevo provato di persona come ciò entrasse apertamente in contraddizione con questa consolante visione. Mentre meditavo su quanto Monsieur Vaignon aveva detto e finalmente sorseggiando il mio brandy, il mio sguardo si posò sul volume che egli aveva iniziato a tirare fuori dallo scaffale. Fuoriusciva leggermente, ancora, e mi alzai per prenderlo e portarlo al mio posto. Légendes d'Autrefois era il banale titolo del tomo, ma avevo appena sfogliato un paio di pagine casualmente quando lessi, come se il mio sguardo fosse stato attirato da quella riga: «...et, c'est à dire, les morts se régaleront des vivants...» Provai il freddo raccapriccio della sorpresa che non può essere definita semplice sorpresa, ma misteriosa conferma, ed immediatamente riposi il volume. «I morti banchetteranno con i vivi.»... La frase stava lì, e io non volevo, al momento, saperne di più. Era il completamento della frase nel sogno che avevo fatto, alcune settimane or sono, con mia moglie che si copriva il volto inesistente con un libro... Non so cosa mi avesse reso così ottimista, quando abbandonai l'Inghilterra, forse le prospettive di un pronto ritorno con mio figlio. Indubbiamente avevo il diritto sancito dalla legge di obbligarlo a ritornare a casa, ma se si ostinava a rifiutarsi e continuava ad oppormi resistenza fisica, le difficoltà pratiche sarebbero state, a dir poco, eccezionali. Il mattino dopo il mio arrivo e nel corso della giornata e di quella successiva avevo cercato di parlargli ma o la sua stanza era chiusa a chiave e silenziosa oppure, se lo intravedevo sulle scale o nel prato, metteva letteralmente le ali ai piedi. «Dove mangia?» chiesi, poiché continuava a disertare i nostri pasti, ma sembrava che talvolta saccheggiasse la dispensa e che trasportasse il suo bottino in mezzo ai campi. Né Monsieur Vaignon né i suoi domestici avevano controllo su di lui e anche se lo avessero avuto, non avrei potuto fare
affidamento su di loro per poterlo sfruttare a mio favore. Per quanto concerneva la servitù, sotto tutti gli aspetti i domestici erano talmente restii a collaborare fino a rasentare l'ostruzionismo e in particolar modo la loro straordinaria reticenza mi faceva pensare che forse fosse stato proibito loro di «chiacchierare» con me, di questo o di altri argomenti. Desideravo ardentemente che Goderich fosse con me! Ma era evidente che non poteva allontanarsi dai suoi pazienti senza il minimo preavviso, né, ovviamente, l'ospitalità di Monsieur Vaignon era a mia disposizione. Scoprii che Denis aveva agito come avevo pensato ed era riuscito a imbarcarsi clandestinamente su un peschereccio a Brixham. Sarebbe stato inutile ch'egli fingesse di aver avuto il mio consenso per quella visita e doveva immaginarsi che lo avrei inseguito, ma oltre alla sua determinazione incapricciata di riunirsi ad ogni costo a Raoul, dubitavo che potesse aver avuto delle idee e un piano d'azione ben stabiliti. Si era tenuto il più lontano possibile, si presumeva, da Monsieur Vaignon e per quanto potevo dedurre egli aveva confidato la dinamica della sua traversata solamente, e inavvertitamente, a Dorlot, il quale aveva riportato subito la storia al suo padrone. A dirla in breve, mi trovavo in un bel pasticcio. Inviai un telegramma alla polizia di Winchester, meditando sulla leggera soddisfazione che provavo ad avere dimostrato il loro torto. In preda alla mia ansia, Monsieur Vaignon non mi fu di grande aiuto. Era veramente ammalato o fingeva di esserlo per sfuggire all'assillo delle mie domande. Non consumava mai la colazione con me e si ritirava, dopo innumerevoli scuse, subito dopo pranzo e cena. Inoltre, dalla nostra conversazione della prima sera, egli non mi aveva detto più nulla di minimamente serio, sincero o importante che riguardasse il nostro comune problema. Abbandonato a me stesso e alle mie risorse, vagavo miseramente per la tenuta e i villaggi vicini scambiando di tanto in tanto un bonjour con qualche contadino ma molto più spesso non incontrando nessuno poiché sceglievano i sentieri meno frequentati. I giorni d'autunno si trascinavano monotoni ma capitava che un raggio di sole mi invitasse ad allungare le mie passeggiate fino a una collinetta che sovrastava una serie di monticelli rocciosi verso nord. Un pomeriggio, era il quarto o quinto giorno del mio arrivo, mi ero incamminato in quella direzione che erano circa le tre. Non avevo prestato
particolare attenzione a dove stavo andando e proseguii, credo, con il capo appesantito da tristi pensieri, per i quali avevo sicuramente cibo con cui alimentarli. Era vero, quella posizione era fantastica e una sua descrizione, se non era fatta con attenzione, avrebbe creato solo pietosa incredulità. Tuttavia la storia era vera, vale a dire, sapevo che quanto avevo verificato con i miei occhi era vero. Per il resto, mi riservavo di giudicare le selvagge e quasi sdegnose elucubrazioni di Monsieur Vaignon sul tema. Era un uomo malato, indipendentemente dall'origine del suo male, e i suoi problemi sembravano riflessi nell'aridità, povertà e decadenza generali della sua tenuta e della sua dimora. Il castello stava cadendo in rovina e il personale era ridotto a meno dello stretto necessario, o per fuga o per licenziamento. Perché, ad esempio, il fidato Flébard se n'era andato? Il mio cuore era appesantito dal timore. Un diabolico sospetto mi balenò nella mente. Monsieur Vaignon avrebbe potuto inizialmente invitare Denis al castello, o comunque avrebbe insistito ad ospitarlo al castello per... per salvaguardare i suoi figli? Poteva forse essere stato tentato di promuovere ed alimentare quella disastrosa intimità tra Raoul e il mio ragazzo per proteggerli, per allontanare qualcosa da loro e avvicinarla invece a Denis...? Rifiutavo di credere a questa ipotesi infame, eccessivamente inverosimile. La mia testa doveva essere bacata se aveva potuto elaborare una teoria simile, eppure... All'improvviso, distraendomi dalle mie fantasticherie, mi guardai attorno. La campagna aveva un aspetto inconsueto e solitario. Una piccola chiesa, o cappella, semidistrutta con un piccolo cimitero adiacente, accentuava l'atmosfera generale di desolazione. In quella mancanza di intenti che scaturisce dall'esaurimento mentale piuttosto che da qualsiasi, benché minima, curiosità, entrai nel cimitero e vagai senza meta tra le tombe. Ad alcuni metri di distanza notai un uomo che si stava dirigendo verso di me lungo il vialetto. Mi attardai pigramente all'interno delle mura di cinta. Il cimitero era evidentemente in disuso e le tombe trascurate, molte delle quali ospitavano rigogliosi rovi o erbacce. Ogni tanto qualche data attirava la mia attenzione... 1830, 1813, 1770... Forse il... improvvisamente mi fermai, paralizzato, poiché nel silenzio un nome mi aveva colpito. Era iscritto su una lapide leggermente più alta delle altre, anche se, come le altre, era ricoperta di licheni, quasi divelta e consumata dalle intemperie. «Privache»... e poco più sotto, appena leggibile, sì... «Raoul. Mourut 1873». Un rumore di passi mi fece trasalire. Era l'uomo che avevo visto sul vialetto e il cui avvicinarsi sull'erba era stato silenzioso. Aveva l'aria di un
uomo rispettabile e corretto, il tipico «bon-homme» robusto, forse un piccolo commerciante o un coltivatore. Stava guardando me e la tomba con un cipiglio di cupa disapprovazione. Fece un cenno significativo con la testa, volendo indicare la tomba. «Monsieur conosce forse a chi appartiene quella tomba?» Doppiamente sconcertato, balbettai con un filo di voce: «Sì, io... io conosco, no, non posso, cioè, voglio dire che quello è il nome di qualcuno di mia conoscenza.» L'uomo indietreggiò di un passo, si segnò e disse con freddezza: «È sufficiente... allora si spera che Monsieur sappia inoltre che si tratta di un nome malaugurato... Alors, bonjour, Monsieur.» Si stava allontanando da me ma lo afferrai per un braccio impulsivamente. «Ehi, chi... chi era costui?» chiesi. «Era un criminale o...» La mia lingua si attorcigliò e nel momento in cui lo sguardo indagatore di quell'uomo incontrò il mio fu come se tra noi due migliaia di cose venissero trasmesse senza l'ausilio della parola. «No, Monsieur, in vita non era un criminale ma...» fece una pausa, poi chinandosi, tracciò con un dito una data, 1873. «Fu allora, Monsieur, che morì. È scritto là, intagliato nella pietra e, fino a un certo punto, è un dato corretto. Mio padre era maire del commune e si ricorda tutto. Persino io ho visto di persona il certificato di morte che si trovava tra le pagine del registro parrocchiale prima dell'unione dei due archivi. Non posso dirvi di più, me ne rammarico, Monsieur, oltre al fatto che egli morì quasi ottant'anni fa, nel 1873...» Si segnò ancora una volta, ma ora, mentre si allontanava non lo fermai. Mi trovai sopraffatto dal panico. In un certo senso, la mia conversazione avvenuta alcune sere prima con Monsieur Vaignon avrebbe dovuto prepararmi a questo inatteso colpo. Tuttavia credo che allora fossi più propenso a considerare gran parte delle sue parole vaneggiamenti di un pazzo, che non aveva ripetuto né tanto meno ritratto. Ma ora quella storia, raccontata da un'altra bocca, aveva assunto vigore e sostanza nuove. Qualcosa, un soffio mortale, mi aveva sfiorato sovvertendo l'equilibrio e sconfiggendo la ragione. «Raoul», se proprio si trattava di lui... morto ottanta anni or sono... O cos'altro avrebbe potuto spingere quel campagnolo tutto d'un pezzo e rispettabile cittadino ad avvicinarmisi con fare sospettoso e di disapprovazione? Attesi che scomparisse oltre un prato e mi affrettai verso il castello.
Quella stessa sera ottenni il consenso di Monsieur Vaignon a chiedere a Goderich, se gli era possibile, di raggiungermi il più presto possibile. Erano trascorsi sei giorni in quel posto, inutilmente. Mio figlio si ostinava ad evitarmi, rimanendo lontano dalla casa e consumando i propri pasti non sapevo né dove né quando. La storia non poteva andare avanti a lungo e Denis doveva essere trasferito in qualche modo ma non ero molto fiducioso delle mie capacità di trascinarlo a casa senza aiuto, e non desideravo nemmeno invocare l'aiuto della polizia, sia essa francese o britannica. A Goderich scrissi una lettera dai toni molto forti e dopo averla imbucata mi sentii leggermente sollevato. Per il resto ero più che mai tormentato dall'angoscia e la mia scoperta della tomba solitaria aveva avuto un'orribile conseguenza sul mio stato d'animo. Assieme allo strano modo in cui quell'onesto individuo mi aveva parlato ai piedi di quella lapide, i suoi sguardi dubbiosi e impauriti e la sua ambigua reticenza mi lasciarono preda di un totale smarrimento e deprimente turbamento. Come ho già detto, nel frattempo riuscivo a intravedere Denis di sfuggita. Monsieur Vaignon, dopo avermi avvertito che Denis «avrebbe fatto del suo meglio pur di riottenerlo», finse di intercedere presso di lui ma su questo punto non riponevo la benché minima fiducia. Non avevo la più pallida idea di cosa il mio ragazzo facesse tutto il giorno, se dormiva in quella stessa camera - anche se mi avevano assicurato che era proprio così - o se si alimentava, si lavava oppure se si cambiava d'abito. Riguardo a quest'ultimo punto, avevo portato con me camicie, calzini e biancheria pulita che avevo dato a Dorlot e, venni informato, erano stati subito usati. Tuttavia, in generale, mi sembrava che le sue condizioni rasentassero il vagabondaggio, essendo il castello niente di più che una base o un quartier generale dal quale partiva per i suoi «vagabondaggi» per la campagna. Il mattino successivo ricevetti alcune notizie sul suo conto che, benché non fossero nemmeno lontanamente rassicuranti, erano di gran lunga più dettagliate dei precedenti resoconti. Dorlot mi raccontò che negli ultimi tempi Denis aveva trascorso la maggior parte della giornata nell'ala orientale, «sotto la torre». Quando gli chiesi cosa facesse mio figlio in quel posto, l'uomo mi rispose scrollando le spalle: «Qui sait, Monsieur? L'ho visto leggere, o intagliare un pezzo di legno col suo coltellino...» «Si trova ancora là, adesso?» «Non, Monsieur. Questo è avvenuto ieri e l'altroieri. Stamane se n'era già andato.»
Questa conversazione era intercorsa durante la mia petit déjeuner, che ero solito consumare da solo in quanto il mio ospite preferiva che gli venisse portata a letto. Dopo colazione mi occupai della stesura di una breve lettera alla mia fedele Jenny, dalla quale avevo ricevuto notizie due giorni addietro. Mi diceva che tutto andava bene a casa e che assieme a Clara sperava, povere creature, di darci presto il benvenuto. Mi avviai per andare a imbucare la mia risposta ma mentre passavo sotto al port-cochère venni colpito dall'aria di abbandono del castello. Sembrava opera di un incantesimo, come se un'ondata di rovina e deterioramento galoppante lo avesse travolto. Certo, e aveva coinvolto anche i suoi abitanti, pensai, ivi compreso il Colonnello Walter Habgood! Per essere precisi, io ero un ospite temporaneo di quel luogo, di passaggio, ma ero cosciente del fatto che ogniqualvolta mi allontanavo dalle sue mura qualcosa della sua sinistra reputazione mi rimaneva attaccato. Anche per i contadini del villaggio ero latore di un pessimo profumo, il portatore di un'aureola, di un aroma lontanamente sinistro e minaccioso. E quando ero andato a impostare la lettera per Goderich il giorno prima nel piccolo ufficio postale, a tre chilometri di distanza dal castello, sulla strada per Foant, la direttrice dell'ufficio postale mi aveva guardato di sbieco e si era toccata una scapola mentre stavo uscendo. Ovunque andassi, ero accompagnato da una specie di ostilità angosciosa che si esplicitava in occhiate furtive, ostili, segni della croce e cambiamenti di marciapiede. Persino i bambini mi rifuggivano. Cos'era la verità, mi domandai per la centesima volta, di questa assurda storia fantastica? Questi zoticoni - assieme a Monsieur Vaignon, sospettavo - erano dei volgari superstiziosi. Si poteva credere che la recente guerra mondiale li avesse liberati da tali sciocchezze ma improvvisamente e con sarcasmo risi di me, anche se non c'era nulla di divertente in tutto ciò. Certo, era davvero buffo! Il manico che sparla della cesta...! Ero anch'io schiavo di un mito grottesco esattamente come la gente che stavo deridendo. Era una cosa esasperante non sapere esattamente cosa credere e cosa non credere. Tutto e tutti sembravano cospirare per gettarmi fumo negli occhi e mantenermi vergognosamente all'oscuro della verità. Mi trovavo là, genitore di Denis, riconoscente quando ero in grado di raccogliere, come in quel momento, alcune briciole di indizi di seconda mano che lo riguardavano, dalle labbra di quel domestico presuntuoso e scorbutico di Dorlot! Negli ultimi tempi, più di una volta mi era venuta la tentazione di interro-
garlo senza mezzi termini, chiedergli molte cose, ma il mio orgoglio non mi aveva permesso di interrogare quell'uomo all'insaputa del suo padrone. Riguardo al suddetto padrone, Monsieur Vaignon, dopo la sua prima esplosione d'ira, si era rinchiuso completamente nel suo guscio e si era dimostrato disponibile come un'ostrica. Ben presto capii che non sarei riuscito a sopportare ancora per molto questa sconcertante e assurda segretezza. Dovevo pretendere da qualcuno da chiunque - una spiegazione schietta dell'intero enigma e vedere almeno che tipo di risposta riuscivo a ottenere. Quando andai a imbucare la lettera per Jenny chiesi pertanto alla direttrice dell'ufficio di indicarmi qualche persona di responsabilità - il maire, forse, o il preside della scuola - con cui avrei potuto discutere una questione personale. La donna mi squadrò cupa e attesi qualche minuto prima di ricevere una risposta sospettosa. «Il maire è ammalato» disse, «ma c'è Monsieur Boidilleule la garde champêtre, qui était de la résistence, ma pure lui è ammalato, o Monsieur Tanvy, il pharmacien. Monsieur Tanvy» aggiunse con tono più amichevole, «è una persona di rara intelligenza e di enorme discrezione, poiché ha rivestito l'incarico di quartiermastro nell'esercito... C'è anche, ovvio, Père Puindison, il curé... Scartai il tanto incensato Monsieur Tanvy e optai per il curé, scelta ovvia che mi sembrava strano non mi fosse venuta in mente prima. Non mi fu difficile scoprire dove abitava. Era appena ritornato dalla Messa e mi accolse nella sua vicarie con estrema gentilezza. Con esitazione raccontai a grandi linee quanto era necessario della mia storia, compreso il particolare della scoperta della tomba. Era possibile, chiesi, che il «Raoul» di cui mio figlio si era così profondamento infatuato fosse un nipote del deceduto? Il volto del curé si rabbuiò e quando udì l'ultima parte della mia domanda la sua espressione si tramutò in un imbarazzo scandalizzato. Ero praticamente sicuro che egli sapesse tutto di me già da molto tempo. «Franchement, Monsieur, non è facile risponderle. Questa è una zona assez superstitieux e... Enfin, l'individuo la cui tomba lei ha visto a Saint Orvin non ha avuto discendenza. Sembra sia stato un maggiordomo presso il castello dei Vaignon dove si dice sia morto. Ma questo è avvenuto ottant'anni fa e...» «Sì, sì» dissi. «Ma... ma quell'altro tizio che mio figlio ha conosciuto... Chi è?» Il buon sacerdote socchiuse gli occhi con espressione cupa. Era un uomo
anziano dal viso rubicondo, con uno sguardo che apparteneva a questo mondo ma che talvolta appariva offuscato e lento. «Monsieur» disse con tono di rimprovero, «lei viene da me, non annunciato, per chiedermi cosa? Che io confermi e sostenga un dubbio che è stato precedentemente instillato nella sua mente, oppure forse perché lo neghi. Le posso assicurare solamente che il Privache di cui si hanno notizie è morto nel 1873. Il resto... il resto nient'altro che superstizione.» «E la superstizione, cosa dice?» Scrollò debolmente le spalle, a disagio e sdegnosamente restio a soccombere alle mie pressioni. «Evidemment, la superstizione che lei insiste perché gliela enunci con chiarezza racconta che il Privache defunto nel 1873 e colui per il quale, lei sostiene, suo figlio prova questa engouement sono la stessa persona... C'est ridicule! Alors. Le ho raccontato tutto, absolument tutto ciò che potevo raccontarle...!» I suoi modi, benché si mantenessero cortesi, tradivano una certa freddezza autoprotettiva e ancora una volta, meravigliato, mi sentii sconfitto. Tutta questa gente, quando cercavo di affrontarla e metterla alle strette sull'argomento di questo assurdo mito, esteriormente dimostrava disprezzo ma tutti, senza esclusioni, nei loro cuori, ne erano terrorizzati! Ringraziai il curé e me ne andai sconsolato e insoddisfatto. Era trascorsa una settimana dal mio arrivo al castello, una settimana completamente inutile! Ogni giorno avevo cercato ogni possibilità di implorare mio figlio, ma fino ad allora senza risultato. Avrei dovuto trascinarlo a casa come un prigioniero e farmi odiare con tutte le sue forze? Forse, se si fosse presentata la necessità, ma non prima di aver provato tutte le altre misure più persuasive. Denis era una cosa selvatica, un selvaggio vittima pietosa di un incantesimo, stregato, e credevo che sarebbe stata una vittoria di Pirro intrappolare e fermare il suo povero corpo se lo spirito continuava a sfuggirmi. Desideravo impedirgli la fuga, certo, ma tutto intero e desideravo farlo con amore. Corde e manette mi sembravano un metodo infelice per realizzare questo mio desiderio. Eppure se non voleva venire con me spontaneamente non c'era altro rimedio che la forza e fu considerando con attenzione questa necessità che feci appello a Goderich, la cui tollerante compagnia ausiliaria, in caso di emergenza, sarebbe stata certamente meno umiliante di una scorta della polizia! In questa condizione, Monsieur Vaignon era una persona poco affidabi-
le, un ammasso di nervi esasperati che opponeva una segreta resistenza passiva. E per quale motivo, dopo quella sua esplosione violenta riguardo i benedetti «sansnoms», si era fermato proprio a quel punto? Il curé a malincuore mi aveva illuminato fino ai limiti che i suoi scrupoli o la sua timidezza gli permettevano, ma perché mai Monsieur Vaignon non mi aveva raccontato tutto, e anche altre cose, di persona? Mi avvicinai alla finestra della sala dove stavo consumando la mia colazione e osservai i campi d'autunno. Da qui erano visibili, quadrati gialli e marrone, che si estendevano irregolari fino ai limiti di una conca ai piedi delle colline avvolte nella foschia, e sulla lontana cima di una di esse credetti, sbalordito, di vedere Denis. Assurdo, quella figura era immobile e ora ricordo che si trattava di uno spaventapasseri che si attardava indeciso tra le stoppie. La mia lettera doveva essere recapitata a Goderich quel giorno e, se e quando fosse venuto, avremmo potuto indire un consiglio di guerra. Gli sarei stato eternamente grato per la sua solida saggezza e chiara capacità di giudizio! Le mie idee erano diventate alquanto caotiche e la mia ragione oltraggiata veniva sbattuta ora dopo ora contro un muro di contraddizioni. Tutto era una vera e propria contraddizione. Da un lato si stava vivendo nella metà del ventesimo secolo, persino in questa terra tranquilla, con i suoi treni, poste, giornali e radio, se mai Monsieur Vaignon si fosse deciso a comperare un apparecchio, e qualche raro avion che turbinava sopra le nostre teste. D'altra parte, però, si doveva egualmente riconoscere l'esistenza di medievalismo bell'e buono, di una fertile mitologia e di uno strano anacronismo di orrori fantastici. Questi due mondi connessi tra loro erano incompatibili benché entrambi fossero veri. Mi incamminai con passo indeciso verso la mia stanza ma la oltrepassai e continuai a camminare lungo gli interminabili corridoi. Avevo sempre vagato liberamente per le scale ingarbugliate del castello, sotto arazzi stinti e signoreschi stendardi e attraverso echeggianti saloni, ma adesso i miei passi inquieti e non premeditati mi stavano portando verso l'ala orientale e la sua torre. Nessuna scoperta particolare ricompensò la mia perlustrazione, se così si poteva definire, sebbene in una stanza proprio sotto alla cosiddetta camera «infestata» dai fantasmi trovai un mucchietto di trucioli e schegge dei bastoncini che Denis, come mi aveva informato Dorlot, era solito intagliare. Fu solo quando ridiscesi la scalinata che un'ipotesi derivante dallla mia recente conversazione con il curé mi sfiorò. Père Ruindison aveva affermato
che «Raoul» era morto nel castello e Denis, molto tempo fa - lo ricordavo solo in quel momento - quando mi parlò della stanza sulla torre, mi aveva detto che «qualcuno era morto lì». Quel «qualcuno» era forse Raoul ed era forse morto nella torre? Tutto sembrava più che possibile. Trascorsi il resto della mattinata e gran parte del pomeriggio oziando ora qui ora lì, troppo agitato e distratto, in attesa almeno della risposta di Goderich prima di decidermi di concentrarmi su qualcosa. La mia visita all'ala orientale e le mie successive congetture su Raoul mi avevano indubbiamente turbato ma, oltre a ciò, non riuscivo a rendermi conto dell'esistenza di qualche altra causa della mia indistinta inquietudine e insoddisfazione. Avevo la sensazione che si trattasse di qualcosa che era successo, oppure che avevo appena notato, nel corso della giornata ma che non ero riuscito a palpare - qualcosa il cui impatto era stato percepito obliquamente ma che ora in modo irritante, oscuro e di persistente ammonimento, pungeva la mia povera mente. Per un certo lasso di tempo cercai invano di ricordare, di qualsiasi cosa si potesse trattare, ma infine rinunciai. Vagai agitato nella «libreria» e presi il volume delle «Leggende», nonostante provassi una certa sprezzante ripugnanza, al fine di considerare con maggiore attenzione quanto avrebbe potuto svelarmi. Trovai la pagina che volevo. Si trovava in un capitolo alquanto lungo intitolato, semplicemente Auvergne, e il suo contenuto attirò subito la mia attenzione per il suo mistero, il cui stile eccessivamente occulto ed entusiastico mi era difficile seguire. Maledissi l'inadeguatezza del mio francese e continuai a leggere disorientato. «...eccezionale tenacia alla vita... che permette ai cosiddetti innominati di ricavare la forza vitale...» (seguivano una o due righe che non ero in grado di capire) «...in modo da rigenerarsi attorno ad un fantoccio come ad un nucleo di fuoco e...» (ancora una sequenza di parole sconosciute mi sconfisse) «...oppure altri oggetti casalinghi purché abbiano la somiglianza di un uomo. Sciagurato chi li incontri, sia donna che fanciullo, qualora non venga fornito il fissativo appropriato...» Seguivano alcune frasi che sembravano essere una descrizione generale: «...la loro debolezza principale si trova nei polsi e nel bargiglio. Giallo quando essi godono con gioia e grigio venato di blu quando disprezzano, pertanto per eliminarli...» Ero scoraggiato dalla mia povera e stentata traduzione e appoggiai il libro aperto sulle ginocchia, fermandomi a pensare. In un certo senso, quan-
to ero effettivamente riuscito a tradurre mi permetteva un sospiro di sollievo poiché aveva l'aria di una vera e propria assurdità puerile. Certo, pensai mentre sentivo sgorgare una piacevole sensazione di gratitudine incerta e attonita, si trattava di un'assurdità bell'e buona. Una sciocchezza e potevo permettermi di riderci su. Come avevo potuto... ma la mia fugace ebrezza svanì. Denis, ricordai... sì, Denis... ecco dove stava il problema. «Assurdità» o meno, le condizioni di mio figlio erano reali e... Il mio ospite entrò, improvviso e brusco. Apparentemente a causa della sua continua indisposizione non ci eravamo incontrati da parecchi giorni e il suo volto aveva una vaga espressione corrucciata. «Bonjour» mi salutò irritato. «Mi dispiace vederla così poveramente occupata. Le sarà difficile trarre beneficio, o addirittura divertimento credo, da quello...» Stupito, lo vidi afferrare precipitosamente il volume per riporlo, con sfacciataggine, sullo scaffale. Non potevo negare che Monsieur Vaignon fosse una persona snervante. Di punto in bianco, come risultato di questo incidente relativamente banale, mi ritrovai ad avere un alterco di prim'ordine. Non v'era dubbio che da entrambe le parti il sistema nervoso fosse provato ed era stato sufficiente questa scintilla per infiammare gli animi. Mi ero alzato in piedi. «Monsieur, avrebbe almeno dovuto avere la cortesia di non strapparmi dalle ginocchia un libro che stavo effettivamente leggendo...!» Mi guardò con gli occhi pieni di lacrime. «È un mio libro. È mio!» ripeté con espressione puerile. «E con esso posso fare, come credo lei abbia detto, ciò che più mi pare e piace! Ho intenzione di bruciarlo, quel maledetto! Ecco, Monsieur! Può vantare dei diritti su una mia proprietà, incluso l'intero castello, se anche lo volessi bruciare, qualora lo ritenessi opportuno? E chiunque continui a gironzolare, dico a gironzolare, in questo incantevole castello quando gli appicco fuoco, brucierebbe con esso, a meno che...» Barcollando si portò una mano al petto. «Mi perdoni... Sono desolato se mi sono reso ridicolo ai suoi occhi e le ho fatto pensare che io sia un... commediante francese, n'est-ce pas, ma... ma alcune cose in questo edificio non sono come dovrebbero essere...! Un enorme, spaventosamente enorme moscone ha vagato per la mia stanza e mi ha tenuto sveglio per tutta la notte e anch'io, come il suo sans-nom, mi sento debole nei polsi e nel doppio mento...!» Stava forse diventando matto? Oppure fingendo di esserlo? Il «mio» sans-nom! Mi aveva letteralmente disgustato, soprattutto perché, grazie a
questo ridicolo incidente, era riuscito a sventare i miei piani. «Questa sua creatura, chiunque essa sia» mi sorpresi a dire, «questo suo preziosissimo sans-nom, perbacco, che ha attaccato mio figlio e di cui per qualche inspiegabile ragione lei non me ne vuole parlare, non è forse morto qui? Nella stanza della torre, o sotto...!» Monsieur Vaignon mi guardò, prima come chi non capisce ma subito dopo con aria pietosa. «Mio povero amico» disse lentamente. «Mio povero amico, è un fardello troppo pesante da portare per lei e ora... ah, ah, ora lei sta diventando pazzo. Mon dieu, c'est le comble, çâ!» Si avvicinò con passo armonioso e, ammutolito dallo stupore, mi schioccò le dita davanti al naso. «Glielo ripeto, Monsieur. Glielo ripeto, con mio indescrivibile rammarico, lei è un pazzo!» Avevo indietreggiato di qualche passo, troppo meravigliato per sentirmi insultato da quelle parole e da quel gesto sarcastico e fu in quel momento, proprio come durante la precedente e non dissimile crisi, che l'allampanato profilo di Dorlot si affacciò alla porta. «Calmez-vous, mon maître» protestò. «Calmez-vous! È questo tempo umido che sovraeccita i vostri nervi, ma soccombere a questi stati d'animo così e per queste pagliacciate è sconveniente. Calmez-vous! Grazie al cielo» aggiunse quasi mormorando, «che non può durare a lungo ancora.» Monsieur Vaignon ci lanciò un'occhiata selvaggia. «Mi perdoni» mormorò ancora, «mi perdoni...» Un'espressione strana, una sorta di disperazione lasciva e quasi sfrontata, gli sconvolse i lineamenti del volto e dopo avermi voltato le spalle, permise a Dorlot di condurlo via con passo malfermo. Rimasi immobile per un'intero minuto. L'intera scena aveva dell'incredibile: sfacciatamente, un pandemonio era scoppiato in mia presenza. Infine, frastornato, mi allontanai dalla casa. All'aperto mi rinfrancai. Ovvero, il mio scompiglio emotivo più immediato a poco a poco svanì ma mi sentivo esausto, come se avessi sostenuto una lotta o mi fossi trovato in una mischia, e la mia angoscia e confusione ne risultarono accresciute. È un incubo, pensai, un vero incubo. Ecco la ragione per cui tutti sembrano pazzi e anche tu ti comporti come uno di loro. Mi sarei risvegliato presto, forse all'arrivo di Goderich... L'atmosfera era pesante e umida, proprio come aveva osservato Dorlot. La temperatura era mite ma aleggiava nell'aria un infido indizio di tensione, di cosa non avrei saputo definirlo. I campi si estendevano davanti al
mio sguardo passivamente, troppo, pensai stranamente, quasi che cospirassero o si abbandonassero a un incombente furtivo incantesimo. Si spiegavano ondulati, gentili rettangoli di ocra, grigio spento e beige, fino ai piedi delle immobili colline, depositari di astuti sogni. Ne attraversai uno e notai oziosamente che lo spaventapasseri che avevo visto poco tempo prima dalla finestra del salon sembrava aver mutato leggermente la sua posizione. Monsieur Vaignon... Santi numi! «Sans-nom»... Il suo, se non le dispiace, ma non il mio! Le auguro ogni bene! «Sans-noms»! Iddio non voglia...! Chi mai ha intenzione di inventare simili spauracchi, quelle ridicole e disgustose creature a meno che... Alzai lo sguardo verso un cielo grigio e gravido di pioggia e tremai. No, per usare parole moderate, non ero affatto innamorato di questo diabolico angolo di terra, questa sinistra sacca di Francia provinciale e medievale, dove le superstizioni e le mitologie oscene, lungi dall'essere semplici argomenti decorativi, avevano la malsana caratteristica di scaturire ovunque più vivide che mai, e di far perdere il senno a chiunque ci rimuginasse sopra troppo a lungo. Se solo... Le mie elucubrazioni incoerenti si esaurirono a poco a poco. Guardai di nuovo il cielo, un leggero brivido mi percorse la schiena. Tutt'intorno a me, mentre camminavo, le colline, i campi appena arati, mi accompagnavano muti. Come potrei spiegare? Mi rendevo conto di una leggera aspettativa, di una clandestinità schiva, una sorta di maturazione restia a manifestarsi... Mi duoleva la testa ed ero pervaso da una sensazione indicibilmente opprimente. Dal punto in cui mi ero fermato in preda a un capogiro era visibile il castello, forse a un chilometro di distanza, ma il panorama era ostacolato da un pendio e da un sottile filare di alberi. Sarei ritornato il più velocemente possibile in caso questi spiacevoli sintomi fossero aumentati. Avanzai lentamente, conscio, a livello di piacere intellettuale, della recrudescenza di un sapore vagamente nauseabondo e quasi familiare. Avevo percorso quasi un terzo della distanza che mi separava dal castello quando mi si avvicinò un cane. Uggiolava. Era uno dei tre o quattro cani del castello, un piccolo animale simpatico, principalmente un barboncino, di nome Zizi. Denis si era affezionato a lui e credevo lo accompagnasse ancora nel suo attuale girovagare di zingaro. Ma adesso aveva un'aria afflitta e spaurita e continuava a camminarmi vicino uggiolando e scodinzolando. Camminammo insieme, aggirando un campo di stoppie. Era il campo
che ospitava quell'inutile spaventapasseri e ancora una volta, con mia enorme meraviglia, ebbi l'impressione che quell'oggetto si fosse mosso un po', in direzione del castello. Al diavolo! Pensai lagnandomi con me stesso, in una specie di perplessità seccata, che ciò era assurdo e che prima dovevo aver valutato erroneamente la sua maledetta posizione. Al mio fianco, Zizi si fece piccolo e sommessamente emise una serie di latrati curiosi e sincopati. Il cielo si era rannuvolato e la mia emicrania non era minimamente migliorata. Ebbi la sensazione che qualcosa stesse bollendo, qualcosa «in fieri», una sorta di silenziosa vigilia e prudente veglia, nell'aria stagnante, sugli alberi, sulle cime delle colline, nel cielo incombente, come se anch'essi fossero, come me, all'erta e su uno strano e semianimato qui-vive. Mentre passavamo oltre il centro del campo, il cane si allontanò di scatto da me e attraverso una siepe emise due latrati secchi, di terrore o di scandalo tipicamente canino. A mano a mano che ci avvicinavamo alla casa, l'emicrania si dileguò gradualmente. Tuttavia la convinzione di un'inquietante imminenza, il presentimento di un male incombente, bussò alla porta dei miei pensieri e ancora una volta, in modo più esasperato, desiderai la presenza di Goderich. Entrai nel castello e là, su un vassoio in entrata, trovai la risposta alle mie preghiere. Sì, lessi nel telegramma, poteva raggiungermi martedì, ovvero tra tre giorni. 4 Questa notizia incoraggiante venne confermata da una sua lettera il mattino successivo nella quale mi spiegava che mi avrebbe raggiunto subito se solo un suo collega non fosse stato indisposto e quindi non avesse dovuto, fino al promesso martedì, accollarsi il lavoro extra. Non potevo lamentarmi, era più di quanto osassi sperare: il mio amico aveva dovuto riorganizzarsi per raggiungermi - Iddio lo benedica. Tuttavia, durante il fine settimana la sensazione di tensione accrebbe e venne magnificata, per così dire, dal malumore del mio ospite. Monsieur Vaignon, dopo il nostro recente alterco, mi aveva presentato le sue sommarie e riluttanti scuse per la sua scortesia, ma era esasperato per ben altro motivo. Se da un lato avevo ricevuto da Goderich una lettera allegra e rassicurante, egli, invece, ne aveva ricevuto una particolarmente sconcertante.
Mi disse che la zia presso cui les petits erano ospitati aveva scritto per comunicare che doveva partire per la Tunisia per affari, forse per parecchi mesi, e si vedeva pertanto costretta a rimandare a casa i figli di suo cognato. «È una banale scusa!» esclamò adirato. «"Affari"... Puah! Non possono ritornare qui adesso... non ancora!» Non provai eccessiva compassione per lui quando rammentai la mia supplica in favore di Denis, e in cuor mio non biasimai certo la zia per essersi stancata dei piccoli Marcel e Augustin, ma l'esclamazione del mio ospite scatenò la mia fantasia, con rinnovata curiosità, sull'eventuale collegamento - o nel caso dell'attuale rapporto di Denis - tra le nostre famiglie, poiché era mediante la sorella di questa stessa indegna e scortese signora che esso esisteva. Prima del matrimonio con Monsieur Vaignon, questa sorella era una Mademoiselle Drouard e grazie a un comune avo di tre generazioni or sono, una cugina di mia moglie, anche se dubito che le due donne ne fossero a conoscenza. Questa serie di pensieri mi portarono naturalmente a riconsiderare l'intera questione della condotta e dell'atteggiamento di Monsieur Vaignon. E ancora una volta mi trovai quanto mai lontano da una conclusione soddisfacente. Aveva dato in escandescenze e poi si era improvvisamente calmato, era stato alternativamente sollecito e indifferente, cortese e volgarmente sgarbato. Si era dimostrato sufficientemente addolorato, se poi era vero, nel vedersi costretto a interrompere l'«interscambio» estivo, tuttavia insufficientemente onesto per avvertirmi, in modo chiaro, di Raoul. Aveva avuto la cortesia, più tardi di inviarmi un paio di telegrammi dopo la fuga di Denis in Francia ma in seguito, quando arrivai per il ricupero del mio fuggiasco, egli non mi aveva dato nessun aiuto. Non c'era modo di capirlo, quell'uomo... Stavo meditando, in solitudine, quel sabato sera, su questi e altri problemi connessi quando udii il rumore confuso di urla concitate. Le grida sembravano provenire dalle stalle, suggerendo dal loro volume e dalla loro persistenza che parecchie persone, forse una dozzina o più, erano impegnate in un violento battibecco. Ma quando uscii per vedere, la confusione si era placata bruscamente e i contendenti avevano sospeso la loro discussione e si erano dileguati. Mentre attraversavo la basse cour vidi un uomo che zoppicava dolorante e si allontanava tenendo uno straccio macchiato di sangue contro il viso. Riconobbi in lui l'uomo che avevo notato su uno di quei carri che traspor-
tavano il fieno, o latte e burro dalla laiterie, e avrei potuto chiedergli cosa stesse succedendo se non fosse stato che in quel preciso momento udii, non molto lontano, le strida furibonde di Monsieur Vaignon. Per quanto concerne questo incidente fu ancora una volta Dorlot che mi illuminò, anche se in modo incompleto. Il suo padrone, il quale non si preoccupò minimamente di alludere alla questione, si era ritirato subito dopo cena e Dorlot mi aveva portato, come di consueto, il mio solitario bicchiere di brandy nella biblioteca dicendo: «Quel branco di sciagurati di Saint Orvin hanno inseguito Batiste e suo figlio oggi pomeriggio, e quasi li hanno acciuffati...!» «Cosa!» esclamai allarmato. «Inseguito mio figlio? Per quale motivo? Sta bene?» L'uomo mi rispose con aria distaccata, rivolgendosi al soffitto piuttosto che al sottoscritto. «Il giovane monsieur è completamente illeso poiché non sono stati in grado di acciuffarlo ma Batiste, quello sì che si è preso un paio di graffi...» «Perché... perché mai li hanno attaccati?» Dorlot scrollò le spalle allargando le braccia. «La gente di qui, Monsieur, è superstiziosa. Credono ciecamente in tutte queste assurdità e forse il giovane monsieur aveva fatto qualcosa, certo inavvertitamente, che li ha fatti sospettare che egli, sans dire ingiustamente, si immischi in simili... storie. Non saprei dirle... Enfin, i due, lui e Batiste, sono stati inseguiti da quella banda di ignoranti e ruffiani fino all'interno del nostro cortile dove essi sono riusciti a trovare rifugio. È deplorevole» aggiunse con fare assorto «che persino alcuni tra i nostri stessi domestici prendano parte a questa baraonda... Basta, non sono affari miei e tantomeno un mio problema. Lascerò questo posto domani...» Ero particolarmente turbato non solo dalla storia di Dorlot e dalle relative implicazioni ma anche, in una misura inferiore, dal suo annunciato licenziamento. Sarebbe stato da stolti considerarlo un alleato, nondimeno egli non si era comportato nei miei confronti in modo attivamente ostile. Anzi, ultimamente, aveva costituito la mia unica fonte di informazioni riguardo a Denis. In quanto al racconto in sé, indubbiamente c'erano molte cose nascoste dietro a esso, molte più di quante Dorlot aveva intenzione di rivelare, ma questo potevo immaginarmelo da solo. Tra i contadini della zona Denis non poteva essere oggetto principale di sospetto ed era una vera e propria meraviglia che fosse riuscito a evitare molestie (se poi era vero) fino a
questo momento. Quell'uomo di nome Batiste apparentemente era stato suo amico o suo collega di scorribande e di conseguenza era stato marchiato con la stessa etichetta... Era evidente che la questione aveva raggiunto le dimensioni di una faida e il personale alle dipendenze di Monsieur Vaignon, all'interno del castello, era diviso in merito. Immaginai che Dorlot non sarebbe stato solo su quel treno, domani... Mentre contavo le ore che mi separavano dall'arrivo di Goderich, con rinnovata insistenza mi impegnai nel tentativo di diminuire l'ostilità di Denis. Ormai non speravo più in una veloce e completa riconciliazione anzi, lungi da essa, avrei gradito, prima che Goderich mi concedesse il suo aiuto, almeno recuperare un certo dialogo con mio figlio. Due volte mi cimentai in una conversazione dall'altra parte della porta chiusa a chiave e, alla prima occasione, non ebbi risposta alcuna mentre alla seconda, venni apostrofato: «Oh, vattene! Ti odio!» Altre due volte, inoltre, mi trovai quasi gomito a gomito in aperta campagna con il risultato di venir umiliato dalla sua fuga disinvoltamente sdegnosa. Era ovvio che, in qualsiasi momento, avrei forse potuto riunire gli avanzi dei domestici ancora fedeli a Monsieur Vaignon (un'altra coppia era partita con Dorlot quella stessa mattina!) per accerchiare la mia preda e forzarlo, in qualità di mio prigioniero, a parlamentare, ma conclusi che simili trappole e agguati sarebbero stati controproducenti e, capii subito, avrebbero fatto più male che bene. Mi chiedevo cosa pensasse dell'intera situazione? Dove, secondo lui, sarebbe andato a finire? Era evidente che si aspettava, o almeno sperava, di trovare il suo odioso compagno qui - Monsieur Vaignon non mi aveva detto forse che lui, Denis, avrebbe fatto del suo meglio per riavvicinarsi a Raoul? Però, in questo caso, per quanto ne potevo dedurre, egli era stato deluso. Non avevo la benché minima idea di cosa ne era stato del «Raoul» fisico, del suo «aspetto» fisico. Presumevo che dopo il mio tentativo fallito di strangolamento fosse ritornato in qualche modo in Francia ma egli non aveva ancora fatto la sua comparsa, speravo, nei suoi vecchi luoghi. Su questo punto, a dir la verità, non potevo avere nessuna certezza, ma chiunque o qualunque cosa fosse quella creatura, il suo quartier generale si trovava su questo lato della Manica e la successiva mossa di precauzione minima era di trasportare Denis dall'altra parte. Lunedì, e il giorno dopo sarebbe arrivato Goderich. Infatti una lettera per lui aux soins de Monsieur Vaignon, lo aveva inspiegabilmente preceduto,
recapitata assieme a una lettera per me da parte di Jenny. Il tempo si manteneva grigio e pesante di pioggia. Mi incamminai demoralizzato verso i campi vicini. Il paesaggio era come sempre arido e cupo ma mi sembrava, potere dell'immaginazione, che l'atmosfera fosse cambiata leggermente. Il senso di fermento nascosto e di male incombente si era dileguato e i monotoni ettari di terra avevano un aspetto vuoto, come se fossero stati liberati o sollevati da qualcosa. Lungi dall'accusarmi di essere eccessivamente fantasioso, mi guardai attorno, alla ricerca di qualcosa che confermasse questa mia impressione, senza però ottenere alcun risultato. L'unica differenza era che lo spaventapasseri che avevo notato poco fa era sparito dal suo posto e più tardi scoprii che era stato spostato e piantato, per qualche recondita ragione, in un altro campo più vicino al castello. Camminai lentamente verso casa. Un valido aiuto era ormai a portata di mano, poiché Goderich sarebbe arrivato la sera del giorno dopo, ma il mio cuore curiosamente era ancora pesante. Dominata da nuvole minacciose e silenziosa, dall'aspetto rilassato e vuoto del compimento supremo, la campagna sembrava avere un atteggiamento di malcelato scherno, una specie di ingannevole sonnolenza e soffocata derisione, come se si stesse burlando di me. Sciocchezze!, cercai di pensare. Una vera e propria assurdità...! Con abile e irriverente teatralità un trio di pipistrelli, incoraggiati dal crepuscolo, mi sfiorarono mentre aggiravo l'angolo di un fienile. E là, ad un tratto, sussultai. «Salve, babbo...» mi salutò Denis. Stava davanti a me, sorridendo timidamente e rivolgendosi a me in un modo che aveva smesso da anni perché lo riteneva «puerile». I suoi abiti erano macchiati e laceri e le sue guance pallidissime sotto lo sporco. Pensai che non si fosse lavato in modo adeguato per giorni e giorni. Non era tanto la sua aria da monello cencioso che mi terrorizzò quanto i suoi modi. Erano indolenti e annoiati, seppur sicuri di sé; spontanei e indifferenti in un modo così sbagliato, come se fosse talmente stanco di quanto aveva fatto finora che si era persino dimenticato di cosa si trattasse. Come avrebbe potuto altrimenti cavarsela con successo senza questa stanca, e secondo me terribile disinvoltura? Se ne stava immobile a guardarmi amichevolmente con un'aria sconsolata e assente, come se nulla fosse successo, del tutto ignaro del mio e del proprio tormento. «Entriamo» credo di avergli detto. «Così... così parliamo un po', va bene...?» «Sì...» replicò assente. «Va bene. Ho anche molta fame.» Fece una
pausa e poi aggiunse, per rettificare e precisare con maggiore attenzione. «Cioè, capisci, non proprio molta...» Avevamo iniziato a camminare verso casa dal fienile e la fioca luce serale illuminò fugace il suo volto, scoprendo un'espressione che mi fece trasalire ma che ora mi è difficile descrivere. Improvvisamente tradiva astuzia e stanchezza, un'espressione per così dire di suprema estraneità o impenetrabilità alla situazione, di una precoce indifferenza e profonda frivolezza o falsità, una falsità peggiore di tutte in quanto involontaria e ancora innocente. Lo stomaco mi si rivoltò come davanti a qualcosa di nauseabondo. Un'ondata di rabbia mi sopraffece e con mio enorme stupore mi ritrovai i pugni serrati, pronto a colpirlo. Fu con difficoltà che riuscii a controllare quell'impulso. «Denis...» sentii la mia voce sussurrare, «Denis...!» La mia furia si era subito tramutata in tenero affetto e lo presi dolcemente fra le mie braccia. Era leggero come una piuma, remissivo, e non pesava nulla, proprio nulla. Mentre lo stringevo a me, mi sembrava che ad ogni istante potesse scivolare dal mio abbraccio e scomparire nel nulla. Quando entrammo nel castello, Monsieur Vaignon era appena entrato nella sala, quanto mai sbalordito al vederci insieme. Non ricordo con precisione come trascorsero le ore successive, quali parole furono dette o cosa venne fatto. Ciò che so e ricordo è che non furono ore felici né trionfanti, anzi! Una profonda convinzione interiore di calamità o rovina incombente persisteva nel mio animo e non riuscivo ad allontanarla. Superficialmente erano stati accantonati gli inseguimenti, gli agguati e le trappole, ma cosa avevo avuto in cambio! Non certo Denis, questo era il problema. Avevo riottenuto la scorza più esteriore di lui. Era stato sostituito con qualcun altro, di pallore mortale, un qualcosa che in un modo terribile era la negazione di ogni tratto e lineamento del Denis che ricordavo e che al solo guardarlo provavo un'indicibile angoscia. Ciononostante, questo inaspettato mutamento degli eventi fu una vera e propria semplificazione. Alla fine Denis sarebbe «ritornato» senza difficoltà e non avrebbe dovuto essere trascinato a casa come un prigioniero. Al suo arrivo, Goderich non avrebbe dovuto fare altro che ritornare indietro con noi. E poi...? «Sei stanco?» credo di avergli chiesto. «Dopo tutto... quel campeggio...?» Mi lanciò un'occhiata strana, la testa inclinata, tradendo una sospettosa,
quasi intelligente incomprensione. Un'idea mi assillò subito: quasi come un pappagallo. «Un... un po'. Sì, un po'...» Questo era tutto: il suo atteggiamento, se non proprio il modo in cui rispondeva, era rimasto leggermente ostile, e oltremodo insoddisfacente. La sua voce tradiva una specie di deplorabile astuzia, o una finta scaltrezza, quasi che, a dispetto dell'improvvisa resa, egli avesse - o pensasse di avere - ancora un asso da giocare. Cosa lo aveva portato ad arrendersi? Si era forse stancato di fare la vita dura e desiderava la comodità della casa di cui non aveva goduto per ben tre settimane? I suoi progetti, qualsiasi fosse la loro natura, erano stati frustrati, o falliti così che si era dovuto arrendere? Oppure aveva forse deciso che con l'aiuto di Goderich - del cui arrivo, oltre alle chiacchiere della servitù, avrebbe potuto essere informato in ogni caso semplicemente leggendo la lettera sul vassoio - non sarebbe riuscito a far fronte a noi due e tanto valeva allora arrendersi a me solo, subito? Dovevo aspettare ancora per verificare tutti i miei dubbi, poiché sentivo che il tempo non era ancora propizio per un riscontro diretto. Fortuna volle che, almeno per quella sera, la questione non venisse sollevata poiché Denis disse di essere così stanco che subito dopo il tè e il bagno andò dritto a letto. Eccetto l'apparizione meravigliata nella sala, di Monsieur Vaignon non ne sapevo nulla dall'ora di pranzo. Cenai da solo e dopo una breve fumata con la pipa nel petit salon, me ne andai sollecito a letto. Riflettei che Denis e io ci eravamo dimenticati o almeno, forse entrambi quasi deliberatamente, avevamo evitato di darci la buona notte. Mi chiedevo se fosse ancora sveglio oppure, se il suo sonno assomigliasse solo minimamente a quello di suo padre in questo periodo, quali sogni gli stessero facendo compagnia. Il giorno successivo, ero indeciso se portare Denis con me alla stazione per ricevere Goderich, ma alla fine decisi che no, non credevo che mi sarebbe scappato di nuovo e se lo avesse fatto ciò avrebbe semplicemente provato che la sua capitolazione non era affatto tale. A questo riguardo, infatti, in essa percepivo ancora qualcosa di minacciosamente predeterminato o ingannevole, ma le mie inquietudini non comprendevano, per ora, timori per sue eventuali fughe. Non era successo nulla durante la mattinata. Incontrandomi poco prima di pranzo, con un disgustoso sorriso affettato, Monsieur Vaignon si congratulò con me per la mia entente migliorata con Denis e non oppose resi-
stenza nel concedermi l'uso dell'auto, che questa volta, siano ringraziati gli dèi, non si offrì di guidare personalmente. Goderich avrebbe trascorso una notte al castello e il giorno successivo noi tre saremmo ritornati in Inghilterra. Cercavo di immaginare la sorpresa del mio amico all'udire i nuovi sviluppi della situazione. In un certo senso aveva fatto quel viaggio per nulla ma ero convinto che ciò non gli sarebbe importato. Sarebbe stato sufficiente un telegramma spedito la sera del giorno precedente a quello per intercettarlo e fermarlo ma a dire il vero, l'inaspettata «resa» di Denis mi aveva fatto scordare il resto e in quel momento ero egoisticamente felice che ciò fosse successo. Alla stazione dovevo aspettare ancora una decina di minuti e fuori dall'entrata, al deposito bagagli che dava sul piazzale, notai un carro accostato al bordo del marciapiede dal quale veniva scaricata una cassa lunga per essere trasportata all'interno del deposito. Riconobbi il carretto del castello e il tizio che goffamente stava trasportando la cassa era, ne ero fermamente certo, lo stesso «Batiste» che avevo visto zoppicare nel bas cour un paio di giorni prima con un fazzoletto sporco di sangue contro il viso. Dopo aver ripreso il suo posto, lo chef de gare in persona uscì per conferire con lui per un paio di minuti a bassa voce. Ma ecco che stava arrivando il treno di Goderich. Il convoglio sferragliante non si era ancora completamente fermato che il mio amico scese con un balzo e mi afferrò le mani con vigore. «Insomma» stava dicendo, «sembra che il mal di denti sia scomparso appena arrivato dal dentista. Se non fossi "venuto per nulla", come ti sei premurato di precisare, tu e il tuo giovane damerino probabilmente sareste ancora ai ferri corti.» Ci stavamo avvicinando al castello ed ero risprofondato nei miei pensieri. L'esuberanza cordiale di Goderich, la sua cadenza connotata da allegra spensieratezza erano una ventata di salute e speranza che proveniva da un altro mondo, ma ciononostante dubitavo che fosse in qualche modo scioccato. «Se non siamo ai ferri corti, per così dire» mi ricordo di avergli risposto, «lo vedrai tu stesso tra poco.» Arrivammo sotto il porte-chochère e scendemmo. Monsieur Vaignon era uscito per salutarci, tutto gentilezze. Alle sue spalle si intravedeva un'ombra minuscola e indistinta, rannicchiata nella penombra.
«Salve, lazzarone!» esclamò Goderich. «Forza, vieni fuori di lì!» Denis si fece avanti con un passo indeciso. L'espressione del suo viso mortalmente pallido ancora una volta mi terrorizzò. «Ehi...» commentò il mio amico. «Non sei per nulla la pubblicità di una specie deambulante, devo ammettere. Questo è l'inconveniente di essere stato assente senza permesso... diciannove giorni di mancato rientro, eh? Ma questa volta non gli daremo nessun giorno di rigore, sergente maggiore...» In cuor mio, ancora una volta sussultai. Non sapevo se provare ammirazione o terrore per quella disinvoltura. Non era forse, dubitai, eccessivamente forzata? Mi turbò, credo, non tanto perché temevo le reazioni di Denis quanto per la sfida eccessivamente temeraria agli dèi malvagi. Ma sembrava che a Denis non importasse nulla di queste burle bonarie. Abbozzò addirittura un sorriso alle continue e audaci celie di Goderich, e sotto quel bombardamento amichevole mangiò con discreto appetito. Ciononostante indovinavo che sotto il suo scherzare Goderich nascondeva una certa preoccupazione. Quando Denis se ne andò, «per andare a vedere i cavalli mangiare», disse, accompagnato da Zizi, l'espressione del mio amico divenne cupa. «Cosa ne dici, caro Habgood?» mi sorprese chiedendomi. «Io...? Insomma, io - io vorrei che fossi tu a dirmelo!» «Evidente. Ma anzitutto sarei interessato a sapere le tue opinioni, nel caso ne avessi qualcuna. Ad esempio, credi veramente... Si interruppe per poi aggiungere subito: «Aspetta un attimo. Possiamo venire disturbati in questa stanza? Il nostro ospite perfetto non ha intenzione di ficcarci il naso vero?» «Credo proprio di no. È completamente impazzito in questi ultimi tempi e probabilmente non lo vedremo fino a sera.» «Perfetto... e se...» Ma in quel preciso momento, quasi a contraddire la mia profezia, Monsieur Vaignon effettivamente «ci ficcò il naso» insistendo per intrattenerci con le sue più strane e insulse chiacchiere fino a dopo cena. E fu non prima di essersi profusamente scusato e ritirato che io e Goderich fummo in grado di continuare la nostra conversazione. Anche Denis, come il giorno prima, era andato subito a letto. «Allora» riprese Goderich, «cosa ne pensi, di tutta questa storia, adesso? Ad esempio - cercando di extrapolarne un'immaginabile «personificazio-
ne» bizzarra, come credo possiamo fare - credi veramente che quel funesto pazzo che entrambi abbiamo conosciuto nello Hampshire è lo stesso Privache la cui tomba mi hai detto di aver visto qui vicino la scorsa settimana?» «Può sembrare assurdo, indubbiamente» replicai. «"Assurdo", certo che lo può sembrare. Ma anche le assurdità possono essere dinamiche. Nel suo stesso regno, dove essa detta legge e può dominare, ciò non è un'assurdità. E spesso, può infiltrarsi in una sfera che travalica i suoi confini. È divenuta a dir poco mentalmente reale per Denis e, fino ad un certo punto, anche per te. Volevo solo sapere quanto reale.» «Ad essere sincero, non lo so. Le cose semplicemente non quadrano.» «Perfetto, non quadrano. E se quadrassero, ad esempio, questo maledetto vagabondo potrebbe essere rintracciato e messo dentro per qualcosa. Ma per cosa, esattamente? In quali termini avanzeresti un'accusa? Non sopporto l'idea di vederti in difficoltà! La cosa sembrerebbe alquanto assurda e ciò ti dimostra che la situazione non può «quadrare» per noi in nessun modo reputabile normale. Tuttavia il prossimo passo ovvio da farsi è comunque allontanare tuo figlio da tutta questa storia il più presto possibile e sperare che più tardi egli... insomma, reagisca alle cure.» «Ma tu, cosa ne pensi, onestamente? È...?» Facevo fatica a parlare. «So cosa mi stai per chiedere. Ordunque, è o non è? Come posso saperlo? Quell'assurdo sempliciotto esisteva e sembrava un uomo più o meno accettabile e per qualche inspiegabile e rivoltante ragione indossava un paio di manopole. Inoltre aveva un braccio che non si muoveva in maniera ortodossa. Quello che non riesco a capire è come un semplice strangolamento, o presunto tale, abbia potuto metterlo fuori combattimento, almeno momentaneamente, come sembra essere avvenuto. Senza dubbio, questo spiega che non era una persona molto popolare e potrebbe rivelarsi un deterrente fino ad un certo punto, ma.... Anche Goderich ebbe un attimo di esitazione ma poi proseguì: «Non credo che saremo in grado di giungere a nessuna conclusione partendo da questi presupposti. È abbastanza semplicistico affermare che l'intera storia sa di farsesco, e se ne sei convinto quando lo sostieni, potrebbe andare anche bene. E qui rumori tipici del "poltergeist"? Si sentono ancora?» «Mi è stato detto di sì. Personalmente non li ho sentiti.» «E quella stanza "infestata" dai fantasmi, dove sei convinto che quell'orco sia deceduto. Cosa c'entra in tutto questo? Il nostro ospite ha ammesso con chiarezza che il Privache numero 1 è effettivamente morto in quella stanza?»
«"Con chiarezza"! Affatto. Non ha mai affermato nulla con chiarezza e tantomeno franchezza. Quando mi decisi a pretendere che negasse che... che il primo Privache era morto dove avevo immaginato, si comportò stranamente, fu estremamente scortese nei miei confronti e arrivò ad accusarmi di essere diventato pazzo...» Per un certo lasso di tempo la nostra conversazione continuò senza farci giungere a una conclusione più concreta di quella a cui eravamo già arrivati, ovvero l'unica nostra speranza per Denis rimaneva nel fatto di allontanarlo subito e che ciò sarebbe stato fatto proprio nel momento più opportuno. Goderich ed io avevamo programmato di riportare Denis a casa e quella mattina considerammo la nostra preziosa merce degna di qualsiasi misura cautelativa. Era indiscutibilmente vero che Denis era molto stanco e sciupato e un simile atteggiamento da parte nostra sarebbe stato normale in qualsiasi caso. Entrambi infatti eravamo convinti che se non prendevamo le dovute precauzioni, egli avrebbe potuto stramazzare al suolo o essere spazzato via da un semplice refolo di vento. Il suo sguardo era senza vita e la sua pelle molto secca, il suo atteggiamento aveva un qualcosa che non ero in grado di definire, apatico e al tempo stesso in trepidante attesa, o forse preoccupato. Il sole sorse su una giornata nuvolosa e dopo una nottata per me pressoché insonne. Avevo sognato ma non riuscivo a ricordare cosa. Vagamente si trattava di sogni assurdi, di Monsieur Vaignon che parlava a un consesso di pupazzi riuniti nella biblioteca, di Dorlot che precipitava dal cielo, e persino di quel ridicolo spaventapasseri che si spostava furtivo di campo in campo in una marcia ininterrotta verso casa. Il loro sapore persistente mi opprimeva e mi risvegliai con i nervi scossi. Il nostro treno doveva partire da Foant verso le dieci e trenta e ci eravamo alzati, mi resi subito conto, troppo presto. Guardandoci distrattamente di sottecchi, Denis aveva consumato una frugale colazione. Appariva immerso in un mare di fantasticherie e ad un tratto, riemergendo alla realtà con un sobbalzo, capovolse la tazza di cioccolata. L'incidente lo sorprese e rimase a bocca aperta, esterrefatto, in un grido senza voce. Questa volta non avevamo bisogno dell'auto del nostro ospite. Il giorno prima avevo prenotato una vettura che ci venisse a prendere da Foant, e ora speravo che fosse puntuale. I bagagli aspettavano in entrata. Avevo lasciato una mancia a tutti i domestici e Monsieur Vaignon, avvolto nella
sua vestaglia, aveva sceso flessuosamente le scale per dirci addio. Con un inchino e una fredda stretta di mano mormorò qualcosa che a malapena intesi: «...se vi lascerà andare...» Finalmente partimmo in auto. Per un po' il mio stato d'animo si sentì sollevato e respirai con maggiore libertà. «Ti senti bene?» chiesi a Denis. «Oh, certo...» Era seduto al mio fianco e davanti a Goderich, e guardava con aria trasognata, o forse estasiata, fuori dal finestrino. Il suo sguardo era lontano, come se stesse osservando qualcosa che noi non potevamo vedere o apprezzare. Notài che i suoi capelli erano cresciuti e necessitavano del barbiere. Improvvisamente, da sotto il sedile, provenne un debole guaito. Zizi! Come fosse riuscito ad entrare, non sapevo, ma la piccola creatura aveva sicuramente seguito Denis ed ora avremmo dovuto chiedere al capostazione di riportarlo al suo proprietario. Lo facemmo subito, non appena scesi dal taxi. Il treno entrò in stazione. Per qualche secondo, mentre Goderich ed io stavamo salendo in vettura, Denis scomparve e mi sentii mancare. Ma un attimo più tardi lo vidi provenire di corsa dalla direzione del consigne e ci raggiunse sul treno appena in tempo. Gioivo per averlo ritrovato! Sentii crescere in me un sentimento di appassionato affetto per il mio piccolo tesoro e gli strinsi un braccio. Il treno guadagnò velocità e ricordo di aver sospirato di sollievo al pensiero che ogni miglio percorso ci avvicinava sempre più alla salvezza. A dire la verità, mai mi sarei aspettato o avrei osato sperare di riuscire a sfuggire. Avevo continuato a temere che qualcosa, sebbene non fossi in grado di dire come o cosa, sarebbe successo oppure ci avrebbe ostacolato col semplice schioccare di due dita, ci avrebbe trattenuto, un incidente o un intoppo, e allora... La mia soddisfazione lentamente si attenuò, e svanì. L'atteggiamento di Denis improvvisamente mi allarmò. Non riuscivo a capire la ragione per cui egli aveva un'aria abbattuta. «Lo... lo spavent... Mi sembrava che stesse cercando invano di dirmi qualcosa. Poi, bruscamente parlando in francese, riuscì a dire: «...l'épouvantail, c'est dans...» Tacque ma si precipitò ad aggiungere, con una fretta a me incomprensibile, un'unica parola: «Zizi...» Confusamente seccato, mi resi conto che il cane era là, ed era sempre stato con noi, con o senza la complicità di Denis - non potevo saperlo. Ma non era la presenza di quel cane a turbarmi, era lo sguardo curioso e l'atteggiamento strano di mio figlio.
Un altro treno, sicuramente un espresso, ci stava sorpassando raggiungendoci con rapidità su un binario parallelo. Il nostro, quasi incitato a correre, aumentò la velocità e l'espresso iniziò ad avvicinarsi meno rapidamente. Zizi ci era balzato addosso, allegro, dal corridoio, scodinzolando gioiosamente ma ora sembrava stranamente sottomesso. Con un timido guaito di sfida, si infilò piccolo piccolo sotto il sedile di Denis. «Cosa c'è, Denis? Qualcosa non va?» lo implorai. Goderich aveva tirato fuori una bottiglietta di brandy e l'aveva appoggiata alle labbra di Denis. Lui le muoveva impercettibilmente, esterrefatto. «L'épouvantail... lo spaventapasseri... c'est...» Si divincolò dalle nostre attenzioni, bruscamente, e gemendo corse in corridoio. Goderich ed io tentammo di afferrarlo, invano. Quasi fosse dibattuto tra la paura e una sorta di lealtà, il cane era uscito da sotto il sedile e si era fermato sulla porta, uggiolando. Lo spostai con un calcio e seguii Denis. L'espresso ci stava velocemente sorpassando. In quel momento riuscivo a vedere il muso della locomotiva che stava raggiungendo la parte posteriore del corridoio e guadagnava terreno. «Denis! Denis!» ripetei. «Cosa c'è? Cosa stai facendo?» Lo trovai acquattato a terra che guardava l'altro treno con un'indescrivibile espressione di terrore che gli sconvolgeva il volto. Gli occhi si erano fatti enormi dalla paura e si era appiattito contro la parete interna del corridoio come se, nonostante il suo travolgente interesse, stesse cercando di allontanarsi il più possibile dalle carrozze del treno ormai parallelo. Quanto accadde in seguito fu caratterizzato da un terrore eccentrico e grottesco che mise talmente a dura prova la comune capacità di credere che persino a me che l'ho veduto con i miei occhi risulta tuttora impossibile rassegnarmi, o accettarla come «pura» verità. Non sono in grado comunque di darne spiegazione ma ora credo che qualcosa, in quell'attimo, non andò esattamente per il verso giusto, andò male dal punto di vista di Denis e Raoul. Voglio dire che qualsiasi tipo di macchinazioni e progetti terrificanti fossero stati preparati, all'ultimo momento essi vennero rovinati. Ciò che vidi, o in ogni caso, mi sembrò di vedere credo fosse il risultato di qualche bizzarro e odioso disguido... Avevo afferrato Denis per un braccio e lo scuotevo ma il ragazzo non mi prestava attenzione. Due uomini, poco più in là, si affacciarono sulla porta del loro scompartimento e rimasero stupidamente a guardarci a bocca aperta. Alle mie spalle, castigato nell'angusto spazio del corridoio, Goderich
stava urlando più forte dello sferragliamento dei due treni: «Forza, giovanotto, cerchiamo di farla finita! Torna indietro!» La sua voce era fredda ma mi sussurrò all'orecchio: «Santo cielo, cerca di tenerlo ben stretto!» Denis si era infilato nella porta semiaperta del corridoio e fu in questo momento, quando stavo lottando in questo spazio limitato per allontanarlo a viva forza, che il nostro treno improvvisamente rallentò permettendo all'espresso di sfrecciare davanti ai finestrini della nostra carrozza. Appresi più tardi che proprio in quel momento Goderich aveva tirato il freno d'emergenza. Nel frattempo non riuscivo a smuovere Denis dalla sua posizione. Mi rendevo conto che stava correndo un terribile pericolo ma la mia presa non sortiva alcun effetto. Come in un incubo, feci appello a tutte le mie forze finché il sudore mi imperlò la fronte, pregando in cuor mio di svegliarmi da quell'orrendo sogno. Ma non mi risvegliai né allora né mai. Per un istante guardai fuori dal finestrino. Il vagone postale dell'espresso stava scorrendo davanti ai nostri occhi. Qualcosa, una cassa lunga simile a una bara, si drizzò in modo osceno e scivolò lentamente verso l'apertura balzando improvvisamente fuori. Il corridoio scintillò di schegge di vetro. Il treno si era fermato con un violento scossone. La gente stava accorrendo e da qualche parte udii esclamazioni meravigliate: «Un épouvantail! In quella cassa, c'era solo uno spaventapasseri...!» Mi voltai di nuovo verso Denis, credevo di aver udito un suo lamento. Forse aveva invocato il nome di Zizi. Cosa era accaduto al cane non lo venni a sapere allora né più tardi. Certo non mi interessava. Il viso di mio figlio era segnato e rattrappito come quello di un vecchio e in esso vidi scolpita un'espressione di assoluto terrore. Il suo corpo era privo di vita tra le mie braccia. Goderich ed io lo trasportammo nello scompartimento e lo adagiammo sul sedile. Fu allora che vidi, prima del suo ultimo grido, che i suoi capelli, tramutati in una massa arruffata, erano diventati bianchi. FINE