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JONATHAN SANTLOFER L'ARTISTA DI MORTE (The Death Artist, 2002) Per Joy Prologo Già prima della catastrofe aveva avuto la sensazione che sarebbe stata una giornata schifosa. Ne attribuì la colpa al mal di testa con cui si era svegliata. Ma anche più tardi, quando il mal di testa si attenuò, la sensazione rimase, quasi come un presentimento. Ciò nonostante arrivò alla fine della giornata. Forse la sera sarebbe stata migliore, pensò. Si sbagliava. «Che ne dici di bere qualcosa, magari un caffè?» le propone sorridendo. «Dovrei andare a casa.» L'uomo guarda l'orologio. «Ma sono solo le otto e mezzo; dai, ti offro il miglior cappuccino della città.» Chissà cosa la spinge ad accettare, forse perché il mal di testa è finalmente sparito, oppure perché la giornata è stata meno peggio del previsto, o perché non si sente di stare sola, non subito perlomeno. «Camminiamo un po'.» L'aria della sera è fresca, forse un po' umida; sotto la giacchetta di cotone un brivido la scuote. «Freddo?» chiede mettendole un braccio sulle spalle; lei non è sicura di desiderarlo, resta un attimo pensierosa e sospira in modo evidente. «Che cosa c'è?» La donna accenna un sorriso e risponde: «Non capiresti». "Perché mai non dovrei capire?" Il commento lo irrita al punto da fargli togliere il braccio dalle sue spalle e in cuor suo lei si domanda il perché. Percorrono in silenzio un altro isolato dove si alternano ristoranti e palazzi di arenaria bruno rossastra: «Forse è meglio che prenda un taxi e vada a casa». Lui la ferma dolcemente trattenendola per un braccio. «Dai, si tratta solo di un caffè.» «Penso che farei meglio ad andare.» «Come vuoi, però ti accompagno a casa.»
«Non essere ridicolo, posso andarci anche da sola.» «No, insisto. Prendiamo un taxi e ci fermiamo per un veloce cappuccino dalle tue parti. Che ne dici?» Lei sospira ma non ha la forza di mettersi a discutere. Durante il tragitto in taxi non si parlano; lui osserva dal finestrino, lei si guarda fissamente le mani. Lo Starbucks dell'angolo è chiuso; dietro la vetrina il ragazzo addetto alle pulizie li invita ad andar via con un gesto. «Maledizione, avevo proprio voglia di un caffè.» Triste come un bambino la guarda, poi le mostra il suo sorriso più accattivante. «Okay, hai vinto» gli dice facendo un sorrisetto. «Te lo preparo io.» Davanti al portone lei cerca le chiavi, ne infila una nella toppa ma, prima ancora di girarla, la porta si apre. «Qui dentro va tutto a catafascio. Stanno facendo dei lavori, continuano a spaccare dappertutto. Ma è del tutto inutile protestare col portinaio.» Al primo piano devono aggirare un mucchio di legname e di materiale elettrico. «Penso che stiano trasformando due appartamenti in uno per poter chiedere un affitto più alto. Sono settimane che vanno avanti e il rumore mi fa impazzire.» Giunti al terzo piano la donna apre la serratura principale dell'appartamento e poi quella di sicurezza. Entra per primo lui che si toglie l'impermeabile, lo butta su una sedia, si mette a suo agio, anche troppo secondo lei, si siede sul sofà, uno strato di gommapiuma foderato di vivace cotone stampato, con cuscini comprati nella Quattordicesima Strada, uno con la faccia di Elvis, l'altro con quella di Marilyn sulla cui sgargiante bocca rossa fa scorrere il dito, avanti e indietro, avanti e indietro. La donna si accorge di avere ancora addosso la giacca, se la toglie e la appende al gancio dietro la porta di ingresso che chiude a chiave e blocca con il paletto. «È l'abitudine, sai» constata sorridendo nervosamente e si dirige nel cucinino, una rientranza rettangolare del salotto, non più grande di un armadio. Tira la catenella della lampadina che accendendosi illumina il minuscolo frigorifero, il fornello a due fuochi, il piccolo lavandino, una mensola con il forno elettrico e la macchina del caffè di cui stacca la parte superiore ed elimina il filtro scuro e bagnato che butta nella piccola pattumiera di plastica. «Ti posso aiutare?»
«Non c'è spazio qui dentro, mi arrangio da sola.» Mentre prepara il caffè si sente addosso gli occhi di lui e avverte che il movimento del suo corpo e lo svolazzare dei suoi capelli lo attraggono. Invitarlo forse non è stata una buona idea. Tornata in salotto si sistema sulla sedia davanti al tavolo del computer, di fronte al sofà. «Il caffè sarà pronto tra un minuto.» In silenzio lui la guarda sorridendo mentre lei giocherella con un filo che si è sfrangiato dal polsino della camicetta cercando un modo per rompere il silenzio. «Che ne dici di un po' di musica?» Si alza, fa i pochi passi che la separano dallo stereo nell'angolo. «Questo è il mio unico lusso.» L'uomo attraversa la stanza, le si inginocchia accanto e sceglie un disco dal porta CD. «Metti questo.» «Billie Holiday» esclama, levandoglielo di mano. «Mi fa morire.» "Mi fa morire mi fa morire mi fa morire mi fa morire..." queste parole gli rimbombano nel cervello. Mentre il suono del clarinetto sgorga da due piccole casse acustiche, seguito dall'inimitabile gemito appassionato di Billie, i primi versi di God Bless the Child inondano la stanza di tristezza inesprimibile. Lui la osserva mentre inginocchiata al suo fianco canticchia seguendo la musica, il capo chino e i capelli che le cadono sul viso. È tutta la sera che la studia, pensando e progettando, ma non si sente sicuro. Ricominciare da capo? È passato tanto tempo; si è comportato così bene. Solo quando allunga la mano per toccarle i capelli capisce che ormai è troppo tardi. La donna piega indietro la testa e si alza di scatto. «Scusa, non volevo spaventarti» mormora, attento a non alzare la voce mentre la guarda, provando piacere per i suoi movimenti scattanti e guardinghi come quelli di un gatto. Ma quando se la trova in piedi che lo sovrasta, guardandolo dall'alto in basso come un essere inferiore, non riconosce in lei più nulla di felino. Un lampo di rabbia gli attraversa il corpo ed è pronto ad agire. «Vado a prendere il caffè.» Si gira mentre lui le afferra il braccio. «Ehi, smettila.» La lascia andare e, sollevando le mani in un gesto di resa, le sorride. Lei lo guarda, incrocia le braccia sul petto e «Credo che dovresti andartene» gli dice. Ma l'uomo torna a sedersi sul sofà, intreccia le mani dietro la testa, con un sorriso ironico stampato sulle labbra. «Non facciamone una tragedia,
okay?» «Alcune cose lo sono. Ma adesso non mi va di discuterne e comunque... dubito che capiresti.» «No? E perché? Oh... aspetta, credo di cominciare a capire.» «Vattene» dice lei, mostrando sempre quell'atteggiamento di sfida. «Lo so, io sono l'uomo cattivo e tu sei l'innocente fanciulla molestata. Oh, certamente. Davvero innocente.» Si alza. «Beh, lascia che ti dica una cosa...» «Ehi. Calmati» risponde lei, tentando di riprendere il controllo della situazione. «È tutto normale.» «Normale?» e ripete la parola come se non ne comprendesse il significato. Non rinunciare! «Un momento!» grida lui. «Cosa?» domanda la donna, ma si accorge che lui non sta parlando; le sue palpebre battono come se stesse per cadere in trance. Lui fa un passo nella sua direzione con le mani strette a pugno. Lei perde la testa, corre alla porta e sta trafficando con il paletto quando l'uomo le salta addosso; tenta di urlare ma lui le preme forte la mano sulla bocca. Poi l'afferra, le tira le braccia, grida, borbotta, con voce aspra e irriconoscibile, le tende le braccia sopra la testa. La sua forza la sorprende, riesce comunque a liberare una mano e lo colpisce sulla bocca. Un sottile rivolo di sangue gli cola sul mento, lui sembra non accorgersene, la sbatte per terra, le blocca le braccia con le ginocchia premendo con tutto il peso, le strappa la camicetta, le tocca il seno. Lei tenta di allontanarlo coi piedi ma le gambe si agitano a vuoto nell'aria. Poi le afferra il mento, si china e preme le labbra contro le sue. Il gusto del sangue le riempie la bocca, di colpo piega la testa, gli sputa in faccia, sente la propria voce urlare: «Ti uccido!». Lui la colpisce duramente sul viso, poi le si stacca di dosso e resta in piedi accanto al sofà guardandola dall'alto. «Come preferisci che lo facciamo? Piacevolmente o... in modo sgradevole?» La donna ha la vista annebbiata, non riesce a sollevarsi e quasi sta per vomitare. Lui le è di nuovo addosso e le si struscia contro, imprecando; lei morde rabbiosamente il cuscino e cerca di concentrarsi sulla musica di Billie Holiday.
I movimenti dell'uomo diventano frenetici, impreca ad alta voce, lei si accorge che non c'è stata penetrazione e questo le procura una sensazione di sollievo. Lui si rigira e tirandosi su i pantaloni borbotta: «Non mi hai eccitato». È stato un errore. Certo che è stato un errore. Non tradire il tuo progetto. Lei si risistema la gonna. «La donna moderna... così forte» dice, farfugliando la prima cosa che gli viene in mente pur di placare il suo ego ferito. «Così forte da non riuscire a soddisfare un uomo.» Lei si sforza di trovare un argomento convincente perché se ne vada. «Sì» dice «hai ragione, io... mi dispiace. Non è stata colpa tua... io...» L'uomo le afferra il viso e lo gira bruscamente verso sé. «Cosa? Cosa hai detto?» Lei cerca di liberarsi dalla sua presa ma non ci riesce. «Fai la difficile con me? Con me? Tu, puttanella del cazzo!» Le stacca le mani dal viso e la colpisce così rapidamente con una sberla da lasciarla sbigottita e frastornata per un istante prima che possa gridare. «Vattene, maledetto fottuto! Vattene via di qui!» Si allunga verso il telefono ma lui è più rapido e lo afferra per primo, strappa il cavo e il cordone libero fende l'aria. Le afferra i capelli e la trascina nel cucinino con un braccio che le cinge la vita; il vetro bollente della macchina del caffè le scotta la schiena nuda. La scaraventa contro il muro e la macchina del caffè cade a terra; il liquido caldo le schizza le caviglie. Lei tenta invano di graffiargli la faccia e lui reagisce colpendola violentemente con un pugno. Nella mente all'improvviso si concretizza l'immagine di lei ragazzina nell'abito bianco della cresima; poi il candore si offusca e alla fine tutto viene avvolto dal buio. L'uomo quasi non ricorda come la mano ha trovato il coltello nel lavandino, ma ora la ragazza non si muove più; è a terra, una gamba piegata sotto il corpo, l'altra tesa in avanti, e c'è sangue dappertutto, sul fornello, sugli armadietti, sul pavimento. Non ricorda neppure il colore della camicetta, che ora è un'unica macchia di un fantastico rosso scuro. Rosee bolle di saliva spuntano agli angoli della bocca; occhi spalancati lo fissano con un'espressione di sorpresa e lui resta in contemplazione di quello sguardo vuoto. Quanto tempo è passato? Qualcuno li ha uditi? Tende l'orecchio ma non ode nulla: niente sirene, televisioni, radio, o altri segni di vita provenienti
dagli appartamenti vicini. Si sente fortunato. Sì, è sempre stato fortunato. «Che casino» borbotta con la gola secca. Trova un paio di guanti di gomma accanto al lavandino, vi infila le mani insanguinate, lava accuratamente il coltello e lo ripone in un cassetto. Poi si toglie le scarpe per non lasciare tracce di sangue e le posa sulla mensola di fianco al forno. Prende alcuni strappi di carta asciuga, li appallottola, vi spruzza un po' di detersivo per i piatti e pulisce ogni cosa che ricorda di aver toccato. Arriva persino a togliere dal lettore il CD di Billie Holiday, lo rimette nella custodia e lo infila tra gli altri. Controlla di non aver lasciato nulla sul sofà, bottoni o capelli; ne vede un paio che ritiene siano della ragazza e per sicurezza stacca il piccolo aspirapolvere dalla parete del cucinino, lo passa ripetutamente sul sofà, lo spolvera e lo rimette a posto. Inavvertitamente si tocca il labbro, sente che brucia e ricorda il bacio. Torna nel cucinino, prende una spugna dal lavandino, la cosparge di detersivo, lava il sangue dalle labbra della ragazza e le pulisce l'interno della bocca. Le solleva la mano inerte. "Smalto?" No, sangue. "Mio o suo?" In questo caso la spugna non serve e tracce di rosso restano testardamente appiccicate sotto le unghie. Mette la spugna nella tasca dei pantaloni, sopra la carta umida, il liquido penetra nel tessuto e gli bagna la coscia. Estrae, da una tasca interna, il piccolo servizio da manicure che porta sempre con sé e si mette al lavoro. Dieci minuti più tardi le unghie della ragazza sono immacolate e perfettamente limate. Si prende un momento di pausa per ammirare l'opera compiuta. Infine, con la forbicina le taglia una ciocca di capelli e se la infila nella tasca della camicia, sul cuore. Le si avvicina, le sfiora la guancia e il dito ricoperto dal guanto si tinge di scarlatto. "Fatto!" Partendo dalla tempia fa scorrere il dito lungo la guancia, lentamente, con precisione, fermandosi una volta sola per immergerlo nella pozza di sangue sul petto della ragazza, poi continua con una leggera curva fin sotto l'orecchio per fermarsi sulla protuberanza dello zigomo. "Perfetto." Ora gli serve qualcosa di utile. Nella minuscola camera da letto, si ferma ad analizzare il quadro sopra il letto: troppo grande. Forse il grosso crocifisso nero appeso a una pesante catena d'argento? Lo passa da una mano all'altra come se fosse un giocattolo, poi lo lascia cadere in un cassetto del mobile.
Ma, dopo aver dato un'occhiata al contenuto, la cosa più giusta gli pare il piccolo album di plastica delle fotografie. Va alla porta, apre le serrature, si infila le scarpe e il lungo impermeabile. Esce dall'appartamento, scende le scale. Nell'atrio esita mentre da una televisione si diffonde una voce: «Laura, tesoro, sono a casa...», e risate a comando. Esce furtivamente dal palazzo e il portone si chiude alle sue spalle con un tonfo sordo. In strada, con le mani inguantate affondate in tasca, si impone di camminare con passo normale, tenendo la testa china. A sei o sette isolati dall'appartamento della ragazza riesce a sfilarsi un guanto senza estrarre la mano di tasca e con la mano libera ferma un taxi. Indica all'autista dove portarlo restando sorpreso dal tono calmo della sua voce. "È successo davvero? È stata un'allucinazione?" Non ne è mai del tutto sicuro. Forse è stato solo un sogno ma proprio allora sente l'umido sulla coscia e una mano ancora chiusa nel guanto: questo sì è reale. I muscoli del collo e della mascella si contraggono; per un istante tutto il suo corpo freme. Voleva proprio questo? Non ricorda. Troppo tardi ormai. È fatta. Finito. Scorge la sua immagine riflessa nel finestrino sporco del taxi. "No" pensa "è solo l'inizio." 1 Kate McKinnon Rothstein, soprannominata Stretch dalle ragazze del Saint Anne perché a dodici anni aveva già superato il metro e ottanta, attraversò a lunghe falcate il pavimento grigio cenere del salotto del suo attico. Le ciabattine assecondavano il ritmo soul di Lauryn Hill che si propagava nelle dodici stanze dell'appartamento. La musica scivolava su quadri moderni e contemporanei, maschere africane, qualche raro pezzo medievale e altri dettagli che rivelavano l'intervento del miglior arredatore di New York: maniglie di cristallo antico, rubinetterie di ottone scovate nei mercati delle pulci parigini, cuscini ricamati acquistati nei vicoli del Marocco, un paio di vasi Ming dal prezzo inestimabile accanto a costose ceramiche Fulper. Nella camera da letto, quasi interamente bianca, Kate scalciò via le cia-
battine, ebbe la tentazione di stendersi sul grande letto - un'isola spumeggiante con il piumone di pura piuma d'oca e una dozzina di guanciali di pizzo bianchi e avorio - ma mancavano solo trenta minuti all'appuntamento con la sua vecchia amica Liz Jacobs. Anche dopo tanti anni, lo splendore della stanza così come quello della sua vita continuava a stupirla e, nitida come i quadri sulle pareti, prese forma nella sua mente l'immagine della misera cameretta dove aveva trascorso i suoi primi diciassette anni: lettino con materasso sottile, cassettone ricoperto di carta finto legno, tappezzeria più vecchia di lei scollata dal muro. Kate fu colpita dalla sua immagine riflessa nel grande specchio dell'armadio. Fortunata, pensò, maledettamente fortunata. Si sfilò l'elegante tailleur, indossò un paio di pantaloni grigio scuro e un maglione dolcevita di cashmere. Sistemò i folti capelli scuri tra i quali recenti fili d'argento erano diventati d'oro grazie a Louis Licari, parrucchiere dei ricchi e belli, li fermò con un paio di pettinini di tartaruga e si passò dietro le orecchie il suo profumo preferito, Bal à Versailles. Fu colta da una reminiscenza proustiana: sua madre in abito da sera, alta e regale quanto lei, nonostante l'etichetta dei magazzini JCPenney, che le rimbocca le coperte dandole il bacio della buonanotte. "Non farti mordere dalle pulci, micina." Se sua madre fosse stata ancora viva, pensò Kate, le avrebbe comprato litri di profumo costoso e riempito l'armadio di abiti firmati, l'avrebbe tirata fuori da quella misera casa nel Queens. Provò una vampata di imbarazzo: che importavano il profumo e i vestiti firmati? Se sua madre fosse rimasta in vita abbastanza a lungo, Kate le avrebbe regalato qualsiasi cosa. In bagno si passò un lucidalabbra quasi incolore e osservò a lungo nello specchio la faccia della donna in cui si era trasformata: non era poi così diversa da quella di dieci anni prima. Bastava togliere qualche ruga, aggiungere un'uniforme, una pistola e un atteggiamento che intimoriva metà degli uomini del Centotreesimo distretto di polizia. Ma quello era successo tanto tempo prima, in un'altra vita, una vita che Kate preferiva dimenticare. Non aveva mai pensato di fare il poliziotto, sebbene ce l'avesse nel sangue; suo padre, suo zio, i suoi cugini erano tutti poliziotti. Kate aveva scelto l'università per studiare storia dell'arte, ma dopo quattro anni trascorsi in aule buie a guardare diapositive di quadri famosi, a leggere una valanga di saggi che sezionavano le opere d'arte destrutturandole, come si diceva, a memorizzare date e termini tecnici, archi rampanti, affresco, velatura, pentimento, dopo tutta quella fatica, non c'era lavoro per la borsista laureata a
Fordham in storia dell'arte. Dopo sei mesi di impiego temporaneo trascorsi a battere a macchina e ad archiviare lettere anonime, aveva pensato, perché insistere? Il lavoro del poliziotto l'aveva sempre affascinata e l'addestramento al NYPD, il dipartimento di polizia di New York, risultò molto più semplice che decifrare il simbolismo di un quadro fiammingo. Grazie al suo curriculum, Kate non dovette mai pattugliare le strade e naturalmente tutti i casi correlati con l'arte finivano sul suo tavolo, ma fu solo quando le assegnarono casi di minori scappati da casa - settore che gli uomini le lasciarono volentieri - che si appassionò realmente al lavoro. Fu un errore, e dopo un decennio di inutili tentativi di ritrovare e salvare ragazzi, era pronta per un trapianto di cuore. Grazie a Dio, arrivò Richard Rothstein che le offrì una seconda opportunità, la specializzazione, il dottorato di ricerca, del tempo per scrivere la sua dissertazione in storia dell'arte e infine Vite d'artisti, un inaspettato bestseller. Ora Kate salvava i ragazzi prima che si perdessero ed era il sistema che preferiva. Tanti giovani in difficoltà avevano trascorso una notte, talvolta settimane, a casa Rothstein, circondati da affetto e buon cibo anche se era la governante, e non lei, a cucinare. Chi mai avrebbe immaginato che un giorno questa ragazza di Astoria, orfana di madre, avrebbe condotto una serie televisiva basata sul proprio libro o dato ricevimenti per candidati al governo e divi del cinema nel suo appartamento del palazzo San Remo su Central Park? La sua vita continuava a sorprenderla, talvolta a imbarazzarla, e si impegnava strenuamente per placare il senso di colpa e restituire con generosità ciò che la sorte le aveva riservato. Sostituì le ciabattine con un paio di mocassini, si buttò sulle spalle un giacca leggera ed era pronta. Quando Kate entrò nel bar del Four Seasons Hotel e, sull'altro lato della stanza, scorse l'amica Liz seminascosta dietro l'ultimo numero della rivista «Town and Country», quello con la sua faccia in copertina e sullo sfondo un quadro astratto con il titolo Nostra signora delle arti e delle discipline classiche, tutte le teste ruotarono di trecentosessanta gradi. «Metti via quella porcheria, per favore» disse Kate con la sua voce bassa e roca. «Se si fossero presi il disturbo di scrivere due parole sulla mia triste e patetica giovinezza, non apparirei come una presuntuosa donna di mondo nata con la camicia.» «Ah, la modesta ragazza copertina!» Liz passò velocemente gli occhi
azzurri dall'immagine sulla rivista all'originale. Kate si chinò, baciò l'amica sulle guance e, con grazia naturale, si sedette stendendosi in tutta la sua lunghezza sulla sedia di bambù. Esaminò il viso lentigginoso, privo di trucco dell'amica, sorrise affettuosamente, quindi ordinò un Martini al cameriere in smoking che stava posando un'acqua tonica davanti a Liz. «Sempre astemia, vedo» disse tirando fuori un pacchetto di Marlboro. «Sempre fumatrice, vedo» ribatté Liz. «Sempre sul punto di smettere, piuttosto. Vorrei avere la tua forza di volontà.» Kate accese la sigaretta e ripose il pacchetto nella borsa. Osservò il lungo bancone di mogano, il soffitto a volta, le coppie in abiti eleganti che parlavano a bassa voce, ridendo e godendosi la vita. Emise una lunga boccata di fumo, la guardò spezzarsi e svanire. A volte la sua vita sembrava illusoria come il fumo, una sera a discutere di Vite d'artisti con Charlie Rose, quella dopo a stringere la mano di un teenager in una clinica per l'Aids. «Ti giuro, Liz, non so cosa mi abbia preparato a questa vita.» «La scuola di Saint Anne per... come si diceva? Ragazze caparbie?» «Giusto!» Kate rise e levò il bicchiere. «Alla mia più cara e vecchia compagna» e brindarono. «Allora, cosa ha schiodato la mia impegnatissima amica dalla sua scrivania di Quantico?» «Un corso intensivo di un mese per aggiornarmi sui segreti dei computer, qui a New York.» «No!» Kate batté le mani sul tavolo di mogano. «Non prendermi in giro, Liz Jacobs. Non credo che a Quantico possano fare a meno di te per un mese intero, per lasciarti qui a New York con me.» «Non scherzo. Ma l'FBI non mi ha mandato qui per stare con te, anche se tu, naturalmente, sei la ciliegina sulla torta. Sono qui per imparare ad accedere a programmi che mi consentano di lavorare più rapidamente di quanto non si appiattisca il mio sedere. C'è tutto a disposizione se sai come accedere, profili, casi precedenti, informazioni di ogni genere sui criminali.» Si batté il dito sul mento. «Se avessimo avuto accesso alle informazioni disponibili in database, sui tuoi ragazzi scomparsi per esempio, non avresti mai perso l'ultima; ricordi come si chiamava?» Oh sì, Kate lo ricordava. Ruby Pringle, alias Judy Pringle. Dodici anni. Vista per l'ultima volta con tre paia di jeans Calvin Klein - due blu, uno nero, tutti taglia 5 - buttati sulla spalla della giacca da cheerleader di Forest Hills mentre entrava
nel camerino del reparto giovani del Queens Plaza Jeans Store... Kate tentò senza successo di scacciare il ricordo. Un angelo nudo e malconcio, gli occhi spalancati, vitrei come quelli di un gatto sonnolento, galleggiante su un mare di sacchi di plastica nera. Ruby Pringle fissa Kate. Braccia e gambe allargate, smalto rosa scrostato, pelle nero inchiostro. Un cordone del telefono stretto al collo che quasi sparisce nella carne. Jeans taglia 5 abbassati alle caviglie. L'odore della morte di Ruby Pringle è inconfondibile, mescolato a croste di pizza ammuffita, fondi di caffè, avanzi di verdura, latte rancido. Il detective Kate McKinnon sa che non deve inquinare la scena del crimine, ma non può fare a meno di tirare su i jeans di Ruby Pringle. Inciampa risalendo la discarica, strizza gli occhi nel sole del mezzogiorno, cercando di cancellare l'immagine della ragazza. «Senti mai nostalgia?» domandò Liz. «Cosa? Oh.» Kate ritornò al presente. «Scherzi? Tra il libro, la serie televisiva, che grazie a Dio è finita, e il lavoro per la fondazione» Kate sbuffa brevemente «non ne ho proprio il tempo.» «Scommetto che ricevi un mucchio di posta dai tuoi ammiratori.» «Oh sì, a pacchi. Figurati che Richard ha chiuso lo studio legale per aiutarmi a smistarla.» Liz scoppiò a ridere. «Come sta il tuo provocante marito?» «Non abbastanza provocante» replicò Kate con un sorriso mesto. «Quell'uomo lavora troppo; oltre alla solita montagna di casi legali, si occupa gratuitamente della fondazione, e gliene sono grata. Ma anche le sere in cui riesce ad arrivare a casa prima di mezzanotte è stanco come un cane.» «Di quelli con le zampe lunghe e il pedigree.» «Il pedigree? Il mio Richard? Sai benissimo, Liz Jacobs, che Richard e io condividiamo la stessa umile origine: siamo entrambi di pura razza bastarda.» Sorrise. «Naturalmente, quando Richard decide di essere sexy, beh... lasciamo perdere.» Sorrise di nuovo. «E tu? Come stanno i ragazzi?» «Benissimo. Tutti e due all'università. Incredibile, vero? Per fortuna gli investimenti del loro disgustoso padre sono serviti a qualcosa.» «Naturalmente, i piccoli geni godono entrambi di borse di studio; dovresti esserne fiera.»
«Lo sono» disse Liz, incapace di nascondere lo sguardo tipico delle madri, quel sorrisetto che dovrebbe camuffare l'orgoglio. «Oh, non avrei dovuto dire che ...» «Cosa? Che sei fiera di loro?» «No. Che Frank è un padre disgustoso. Lo era solo come marito.» «Ti ha dato due figli magnifici.» Kate scolò il Martini, sperando che le potesse anestetizzare la ferita che le si era appena aperta nel cuore. "Maledizione." Questo non era ciò di cui aveva bisogno ora che era seduta accanto alla sua migliore amica che amava, amava davvero, ma che improvvisamente voleva ingannare raccontando i successi della sua vita straordinaria perché in quella semplice domanda... «Come stanno i ragazzi?» seguita dallo sguardo di soddisfazione materna di Liz, Kate aveva avuto l'impressione che il suo scintillante e perfetto mondo si stesse sbriciolando. "Maledizione. Maledizione. Maledizione." Liz notò il suo sguardo sperduto. «Tutto bene?» «Sì, certo.» L'amica la osservò attentamente. «Davvero?» «Giuro.» Kate si impose di sorridere. «Ehi, quando ti sei tagliata i capelli? Mi piace.» «Da poco. Sono troppo vecchia per portarli lunghi.» «Oh oh...» Kate scosse dalle spalle i capelli scuri spruzzati di fili biondo-rossi. «Cosa dovrei dire io?» «A te donano.» «Avvertimi quando comincio a somigliare a Che fine ha fatto Baby Jane?» «Direi che ti manca circa un anno» replicò Liz ridendo. «Molto divertente.» Kate socchiuse gli occhi e soggiunse con un sorriso malizioso: «Ti rendi conto che ho appena compiuto quarantun anni? Quarantuno. È stato uno shock» e ripensò al suo primo anno nella polizia. Si sentiva ancora addosso l'uniforme di una taglia sbagliata, i pantaloni rimboccati in vita, la camicia azzurra di taglio maschile che tirava sul seno. Liz l'aveva presa in giro dicendo che probabilmente quella sarebbe stata l'unica camicia a farla sembrare pettoruta. Il ricordo la fece sorridere, poi sospirò. «Ho sempre creduto che sarei arrivata a ventotto anni, trenta al massimo.» «Ehi, io ne ho quarantacinque, non aspettarti che ti compatisca. Cambiamo argomento.» Scosse il capo. «Che cos'hai in programma stasera?» Il viso di Kate si illuminò. «Richard e io usciamo con i nostri due ragaz-
zi preferiti e andiamo a uno spettacolo downtown, una cosa molto speciale e all'avanguardia, su questo non ho dubbi.» Kate strabuzzò gli occhi. «Perché non vieni con noi?» «Non posso; questa sera ci occupiamo dei nuovi programmi. Io sì che so vivere!» Liz mimò un grande sbadiglio. «Grazie, comunque, ma lascia che indovini... ti riferisci a Willie ed Elena.» «Esatto.» Kate sorrise. «Sono diventati famosi, dopo il tuo libro.» «Oh, ce l'avrebbero fatta anche senza di me.» Kate agitò la mano in aria. «Il mese prossimo Willie espone una serie di quadri alla Biennale di Venezia, un successo notevole nel mondo artistico. Poi avrà la sua personale qui a New York, al museo di arte contemporanea.» «Wow!» «Wow, davvero. Elena quest'estate farà una tournée in Europa» proseguì Kate con la voce carica di entusiasmo. «Oh, mi sarebbe piaciuto che tu avessi visto il suo spettacolo l'altra sera; era veramente interessante.» Per un momento il bar del Four Seasons si trasformò nel piccolo anfiteatro del museo di arte contemporanea, con Elena sul palcoscenico, figura solitaria sotto i riflettori contro un fondale di orgiastiche e pulsanti immagini astratte in continua trasformazione, metamorfosi informatiche delle sue modulazioni vocali. «Elena potrebbe facilmente fare carriera come cantante lirica,» disse Kate, «ma ha scelto questa strada particolarmente difficile e singolare. Ha stupefatto quella banda di pezzi grossi pieni di sé.» Kate si ricordò che la direttrice del museo, Amy Schwartz, una tipa nervosa di natura, era rapita, come impazzita per la voce dall'ampio registro di Elena e anche il sovrintendente Schuyler Mills, uomo di gusto e cultura, l'aveva giudicata brillante. Persino quel pomposo vecchio trombone di Bill Pruitt, il nuovo presidente del consiglio di amministrazione del museo, era riuscito a non addormentarsi, indubbiamente una grandiosa impresa per un uomo che di solito russava durante le letture di poesia e le conferenze sull'arte. Il giovane viceconservatore Raphael Perez non le aveva staccato gli occhi di dosso; non c'era da stupirsi, Elena era bellissima. «Mi è veramente dispiaciuto aver perso lo spettacolo e tu hai fatto un ottimo lavoro con quei ragazzi, Kate.» Ora fu Kate a fare quel sorrisetto che celava un orgoglio incontenibile. Sì, era vero, aveva contribuito non poco al successo di Willie ed Elena. I due migliori laureati del primo gruppo di ragazzi che lei e Richard avevano
accolto, quasi dieci anni prima, tramite la fondazione culturale per ragazzi disagiati "Offriamo loro un futuro". D'accordo, non erano figli biologici, e neppure adottati, ma era possibile amare qualcuno più di quanto lei amasse quei due? Forse li sentiva più suoi di quanto li senta una madre naturale, perché nel loro rapporto mancava quella tensione viscerale che nasce dal sangue e finisce col mettere genitori e figli gli uni contro gli altri. Nulla di tutto questo con Willie ed Elena, anche se c'erano stati alcuni momenti di disaccordo. I suoi figli. E sul suo viso apparve un caldo sorriso. «Dio, le adoro quelle due piccole pesti.» «Oh, Kate» Liz giunse le mani come in preghiera «ti prego, ti prego, ti prego, adottami. Sarò brava... terrò in ordine la mia stanza, mi laverò i denti... lo giuro.» Kate rise, infilò la mano nella borsa e prese il pacchetto di Marlboro. Quindi sollevò dal tavolo una fotografia piegata in due. «Da dove viene questa?» «È caduta dal pacchetto.» Kate smise di ridere. Tenne la foto sotto la piccola lampada al centro del tavolo. Era leggermente sfocata e coi colori sbiaditi. «È del diploma di Elena.» «Lo vedo, è bella» disse Liz prendendogliela di mano. «Però non ho idea di come sia finita qui.» «Beh, anche la dura Kate McKinnon può ammettere di portarsi appresso delle foto per ragioni sentimentali.» «Non avrei difficoltà ad ammetterlo, se non fosse che l'unica foto che tengo in borsetta è quella della patente e anche di quella mi sbarazzerei volentieri.» «Potrebbe avertela messa qualcuno per farti una sorpresa.» Per un attimo Kate ebbe una sensazione che non provava da anni, quella che il detective McKinnon sentiva quando stava per trovare un indizio importante, oppure quando sapeva che, pur rifiutandosi di ammetterlo, il caso era senza speranza, finito, e il ragazzo che cercava era morto. Tentò di scrollarsela di dosso. «Forse è stato Richard» disse, pur non riuscendo a immaginarne il motivo, o la sua governante Lucille. Ma perché non lasciarla sulla scrivania o sul tavolo della cucina o in altri posti più abituali? Kate ripose la fotografia nella borsa e con essa i pensieri che le aveva suscitato. «Ehi,» disse rasserenata, «perché non stai da me questo mese? Parlo sul serio. Abbiamo delle stanze in cui non mettiamo mai piede.» «Quantico mi ha affittato un appartamento a Midtown, vicino alla bi-
blioteca.» «Oh, smettila di cercare di impressionarmi.» «Non è male, in verità» Liz si infilò in bocca un paio di noccioline. «Comunque, Kate, non sono adatta al tuo mondo.» Kate frugò nella borsetta di pelle color burro. «Ecco le chiavi della mia umile dimora, è una copia in più. Sono tutte tue, puoi andare e venire come ti pare.» «Sai, ho sempre desiderato un attico di venti stanze affacciato su Central Park come piccolo pied-à-terre personale.» «Dodici.» «Dodici schifose stanze.» Liz lasciò cadere le chiavi sul tavolo. «Lasciamo perdere.» «E va bene, ci aggiungo anche Richard. Puoi usare i miei vestiti e dormire col mio affascinante marito.» «Adesso cominciamo a ragionare» replicò Liz prendendo le chiavi. 2 I dollari che brillavano sul salvaschermo del computer - dono di un cliente - spargendo luce iridescente su documenti legali, deposizioni e corrispondenza ordinatamente accatastati sull'elegante scrivania di Richard Rothstein, parevano modelli in scala di grattacieli. Dietro le montagne di lavoro, passato presente e futuro, c'erano fotografie incorniciate che testimoniavano una vita piacevole: un uomo e una donna sotto il portico di una casa di vacanze dall'aria indiscutibilmente costosa, la medesima coppia in abito da sera che danzava guancia a guancia e, in un ritratto scattato da un fotografo professionista, la donna sola con i capelli scuri che sfioravano la mascella un po' troppo forte in un viso interessante e intelligente. Bella? Per lui lo era. Solo pochi giorni prima, nel vederla in azione al museo di arte moderna, mentre teneva una conferenza sull'arte minimale e concettuale, non riusciva a smettere di pensare: è mia, questa stupenda e brillante creatura, è tutta mia; io sono il fortunato che torna a casa con lei. Non poté fare a meno di sorridere. Richard e Kate. Kate e Richard. In cima al mondo. Chi ci avrebbe creduto? Richard, quel ragazzo di Brooklyn, figlio di Sol, pupilla degli occhi di Edie, primo della classe a scuola. Dieci anni prima era un avvocato di successo e guadagnava un mucchio di soldi. Poi era ar-
rivato il caso del professore di studi afro-americani della Columbia University, accusato di discriminazione per le sue burrascose lezioni, soprattutto quelle in cui esponeva sgradevoli pregiudizi antisemiti. Naturalmente nessuno voleva sporcarsi le mani con quel caso, persino il sindacato aveva esitato. A quel punto si era fatto avanti Richard Rothstein. Il caso occupò le prime pagine dei giornali per sei mesi: AVVOCATO EBREO DIFENDE IL DIRITTO DI PAROLA DI UN PROFESSORE NERO. Alla fine Richard aveva vinto, così come il cliente che venne reintegrato nella sua cattedra, per continuare ad alimentare i fuochi dell'odio. Quello era stato il suo caso più famoso. E il più redditizio? Aver tenuto il presidente e i soci di maggioranza di una notissima società di brokeraggio di Wall Street fuori dalla galera, contro ogni previsione, dimostrando che gli imputati non si erano arricchiti con speculazioni ma per pura "coincidenza". Per quella brillante manovra legale Richard aveva ricevuto, oltre al suo onorario, un riconoscimento a sette zeri che aveva investito in numerose proprietà in una zona di New York a quel tempo depressa, in società con il suo partner specializzato in beni immobili. Pochi anni dopo, quando l'economia girava al massimo, avevano venduto i terreni e la cifra a sette zeri di Richard si era quadruplicata. Infine, un abile consulente finanziario aveva investito il denaro rendendo Richard più ricco di quanto avesse mai osato sognare. Poco dopo aveva accettato un piccolo caso che gli procurò un premio di diverso tipo: l'opportunità di interrogare una giovane poliziotta, il detective Kate McKinnon. Non avrebbe mai scordato la ragazza che percorreva a lunghe falcate la sala del tribunale, tutta gambe e sicurezza, e rispondeva alle domande scostando i lunghi capelli dagli occhi. La loro relazione ebbe inizio soltanto due mesi dopo il processo, perché Richard aveva dovuto trovare il coraggio di affrontarla. L'agente McKinnon costituiva una novità per il bell'avvocato. Richard l'aveva corteggiata con una serie di cene in ristoranti di lusso, il Lutèce, il Four Seasons, la Côte Basque, ma a sedurla fu la rappresentazione gratuita a Central Park della Tosca, lo champagne, il caviale e i pasticcini francesi che aveva portato per il picnic. Lui trovò irresistibile il suo sano appetito, la naturalezza con cui parlavano e il fatto che non riuscissero a togliersi le mani di dosso. Al quinto appuntamento, in una pizzeria di
Queens, scelta da Kate come ripiego ai ristoranti costosi, Richard le chiese di sposarlo e lei accettò tra un boccone e l'altro di pizza alla salsiccia piccante. Era stata la scelta giusta. Kate lo aveva sorpreso per la facilità con cui si era adattata alla nuova vita, da un lato proseguendo gli studi e prendendo la specializzazione in storia dell'arte, dall'altro reinventandosi come colonna portante della vita mondana newyorkese, senza tuttavia smarrire per strada la sua coscienza sociale e la sua chutzpah, la faccia tosta, come l'avrebbe chiamata sua madre. Sì, lui e Kate formavano una buona squadra. E sebbene ultimamente lei avesse cominciato a sottrarsi a un buon numero di cene con i suoi clienti, riusciva ancora a trovare il tempo per interpretare il ruolo di moglie di un avvocato famoso tra i crescenti impegni di "Offriamo loro un futuro" e gli sforzi per aiutare i giovani artisti a pagarsi l'affitto. Richard avviò il computer e i dollari sparirono dallo schermo. Per l'ennesima volta in quella giornata dalla macchina uscì una pagina zeppa di cifre; numeri che ancora una volta gli parvero privi di senso. Si appoggiò alla sedia e si massaggiò la nuca senza riuscire a rilassarsi. Dalle casse acustiche sgorgò il suo concerto privato di Billie Holiday che invase l'ufficio: Good morning heartache... No, non era quello che aveva in mente. Premette un altro bottone e stavolta era Bonnie Raitt con Something to Talk About. Meglio. Malgrado tutto quei numeri insensati sullo schermo continuavano a tormentarlo. Era troppo tardi per chiamare Arlen? Il vecchio di solito lavorava fino a tardi. Controllò l'orologio: le sette passate. "La cena, accidenti." Se n'era scordato. Anche se fosse partito subito, sarebbe arrivato in ritardo. Chiamò il Bowery Bar e lasciò un messaggio: avrebbe raggiunto Kate a teatro, ma si rese conto di non averne l'indirizzo appena attaccò il ricevitore. Guardò il computer e premette il pulsante della stampa. Forse avrebbe dovuto far visita a Bill Pruitt, anche se quell'idea gli parve ancora meno attraente che andare a sedersi in un teatrino di downtown per vedere un artista squilibrato che si inchiodava il pene su un tavolo... no, non lo attraeva, ma per amore di Kate lo avrebbe fatto. Pruitt. Come diavolo quel tizio era riuscito a insinuarsi nel museo di arte contemporanea? Aveva avuto il coraggio e l'audacia di mostrare condi-
scendenza nei confronti della collezione d'arte di Richard che, maledizione, chiunque capisse qualcosa sapeva trattarsi di una delle migliori collezioni di arte contemporanea di New York, o addirittura del paese. Proprio quel giorno, alla riunione del consiglio di amministrazione del museo, Richard si era dovuto frenare per non prenderlo per il collo e ucciderlo. Pensare a Pruitt gli faceva dolere disperatamente i muscoli del collo. Strappò la pagina dalla stampante così bruscamente che le ultime colonne uscirono sbavate. Nella sua nuova giacca di pelle nera Willie accompagnava con la testa il ritmo di De la Soul. William Luther King Handley Jr., soprannominato 'Willie' dagli amici, 'Little Will' dai pochi compagni di scuola rimastigli (un soprannome che gli era stato appiccicato durante il liceo, quando aveva raggiunto la statura definitiva di un metro e sessantacinque), e recentemente 'WLK Hand', per la firma che usava sulle sue tele funky multimediali, non riusciva a decidere se indossare la costosa giacca nuova era un'esagerazione per uno spettacolo artistico nell'East Village. "Chi se ne fotte." Poteva vestirsi come cazzo gli pareva, comunque l'avrebbe abbinata ai soliti jeans neri il cui orlo sbrindellato sfiorava le pesanti Doc Martens nere. La camicia bianca, che metteva in risalto la pelle ambrata, eredità della famiglia materna, e gli occhi verdi, trasmessi dal suo antico antenato John Handley, piantatore bianco di Winston-Salem, era un regalo di Kate, che sarebbe stata contenta di vedergliela addosso. Kate, che era peggio di sua madre quando si trattava di abbigliamento, alimentazione e ore regolari di sonno; che aveva scritto di lui in Vite d'artisti, lo aveva inserito nella serie televisiva, gli aveva procurato i primi contatti con curatori e collezionisti; e Richard, che gli aveva comprato il primo quadro, apponendo alla sua opera e a lui medesimo il marchio della propria approvazione. I suoi mentori, collezionisti, genitori delegati; Kate e Richard erano tutto quello per lui e molto altro. Tuttavia, le altre caratteristiche di Willie, le labbra piene, i denti perfetti e bianchissimi, erano un dono del padre naturale, o almeno così sembrava dall'unica fotografia esistente di quell'uomo: un sorridente afro-americano di bell'aspetto, in divisa dell'esercito USA, scattata in qualche parte dell'Asia, o dell'Africa. Dovunque fosse, non era mai tornato. Il fatto che i genitori di Willie non si fossero mai sposati non faceva differenza per sua madre Iris. La fotografia, racchiusa in una cornice dorata dei grandi magazzini Woolworth, aveva troneggiato accanto al letto di Iris
nell'affollato appartamento del South Bronx che Willie divideva con la madre, il fratello, la sorellina e la nonna e quando sei mesi prima le tre donne, a sue spese, si erano trasferite in una casa con giardino in una zona residenziale di Queens, la foto era rispuntata nella nuova camera da letto di Iris. Il successo del figlio aveva colto Iris di sorpresa non per mancanza di fiducia, ma perché non immaginava che fosse possibile. Willie sapeva che la madre era orgogliosa della sua carriera e del fatto che vendesse i suoi quadri guadagnando molto denaro. Tuttavia teneva per sé i prezzi esatti, che di recente avevano toccato le sei cifre, perché temeva che Iris li ritenesse eccessivi e non propriamente cristiani, anche se non avrebbe saputo spiegarne la ragione a chi non era della famiglia. Poi c'era Henry, il fratello maggiore, il fratello "perduto"; così lo chiamava Iris: perduto anche se, di tanto in tanto, si presentava a casa, chiedendo denaro per tirarsi fuori da qualche guaio. Willie non voleva pensare a Henry: non ora. «Voglio essere un artista.» Le parole aleggiarono nel piccolo ingresso dell'appartamento del Bronx, eternamente invaso dal profumo di lavanda della cipria della nonna e da quello del Lysol che la madre spruzzava dappertutto. «Un... cosa?» disse sua madre. «Un artista.» «Che cosa significa, un artista?» Willie non aveva né una risposta né un'idea, aveva solo una sensazione; però, che sensazione! Disegnare, tracciare linee che prendevano forma, produrre delle immagini, farle vivere, smarrirsi nei pensieri; forse era solo un mondo che creava sulla carta, ma ben lontano da quello pidocchioso dell'appartamento del Bronx. Il ricordo sbiadì e nella sua mente prese il sopravvento quello della discussione che aveva avuto con Elena pochi giorni prima. Era ancora convinto di avere ragione, ma voleva riappacificarsi con lei. Dopotutto Elena era la sua migliore amica, quasi una sorella. Quella sera l'avrebbe vista e avrebbero fatto pace. Willie spense la televisione e rimase immobile, in silenzio, in preda a un'improvvisa sensazione di disagio, una vaga malinconia collegata alla serata che lo aspettava. Che cos'era? Sollevò le spalle nella giacca di pelle, tentando di scrollarsela di dosso. Qualunque cosa fosse presto se ne sarebbe scordato; dopotutto andava a cena con le tre persone che più amava,
Kate, Richard ed Elena; non aveva alcun motivo di sentirsi depresso o ansioso. Tuttavia, in strada, mentre si dirigeva verso l'East Village, eccola ripresentarsi, stavolta come brevissimi frammenti di un film... Un braccio che fendeva lo spazio. Il primo piano di una bocca contorta, urlante. Tutto rosso sangue. Poi nero. Willie si appoggiò a un lampione e ne afferrò la colonnina di metallo per sostenersi. Sua madre Iris diceva sempre che lui riusciva a prevedere le cose, ma erano anni che non gli capitava più. No. Aveva trascorso troppi giorni solo nello studio: ecco tutto. Aveva bisogno di uscire e vedere gente. 3 Crosby Street era intasata dal traffico; il frastuono dei clacson, un taxista urlava oscenità agli operai intenti a scaricare balle di ritagli di stoffa da un furgone parcheggiato di traverso sulla strada come un treno deragliato. Appena Willie superò Broadway, lo scenario si trasformò in una fitta serie di boutique, gallerie d'arte contemporanea e bella gente incredibilmente elegante che si prendeva molto sul serio in uno studiato abbigliamento nero. Un giovane uomo, con i capelli biondo platino in cui si notava un dito di crescita nera perfettamente in tono con la barba di due giorni cresciuta su guance scarne, lo chiamò. Era Oliver Pratt-Smythe, tra gli artisti newyorkesi, a dir poco, il meno amato da Willie. Un paio d'anni prima avevano esposto insieme in una galleria di Londra. Pratt-Smythe, più esperto e furbo, era arrivato due giorni prima di Willie e aveva cosparso il pavimento della galleria di crine di cavallo, si era piazzato in mezzo allo spazio con una vecchia e rumorosa macchina da cucire e trascorreva la giornata facendo passare il crine nella macchina per produrre... cosa? Willie non era mai riuscito a capirlo, però era riuscito a capire che i visitatori non potevano avvicinarsi alle sue opere se non affondando fino alla caviglia nel crine che svolazzando a ciuffi si era appiccicato alla superficie ruvida dei quadri. Per mesi, dopo la mostra, aveva dovuto staccarlo con le pinzette.
Ora gli fece un cenno poco entusiasta, notando le macchie di vernice, studiatamente distribuite sui jeans neri nuovi di zecca, incongrue visto che quel tipo non era un pittore. Pratt-Smythe non esitò a metterlo al corrente dei suoi ultimi successi. «Ho una mostra a Dusseldorf» disse con uno sguardo annoiato negli occhi grigio spento. «Non hai ricevuto l'invito? No, beh, sono sicuro di avertelo mandato, comunque ne riceverai uno per la mia mostra a New York, in novembre, il mese migliore. Inoltre, ho un lavoro che sto tentando di finire per Venezia, la Biennale, sai.» «Ancora crine di cavallo?» domandò Willie. «No» rispose Pratt-Smythe senza l'ombra di un sorriso. «Adesso mi dedico alla polvere. Ne sto raccogliendo da mesi, la mescolo con la saliva e la spalmo formando disegni biomorfici.» Si mordicchiò le unghie sporche, assunse un'aria annoiata e domandò: «E tu?». «Ci vado anch'io a Venezia» disse Willie. «Porto un aspirapolvere di dimensioni industriali, lo tengo acceso tutto il giorno ed espongo quello che raccoglie.» Per un istante Pratt-Smythe parve allarmato, poi arricciò le labbra in un mezzo sorriso. «Oh, ho capito. Mi stai prendendo in giro. Buona questa.» «Già» replicò Willie. «Immagino che esporrai, uh... cosa? Quadri?» Pratt-Smythe lo disse come se stesse parlando non solo della forma più bassa di arte, ma della più bassa espressione umana. «Sì. Esporrò quadri... circa trenta... quest'estate nella mia personale al museo di arte contemporanea.» Ciò detto si allontanò, lasciando il collega sull'angolo tra Prince e Greene, alla disperata ricerca di qualcuno, chiunque, a cui raccontarsi. Con la giacca di pelle buttata sulle spalle, Willie percorse a passo rapido Houston e Great Jones Street in direzione dell'East Village. Svoltò nella Sesta Est dove una dozzina di ristoranti indiani riversavano profumo di curry e cumino nella tiepida aria della sera e fece di corsa l'ultimo tratto che conduceva al cadente condominio a tre piani di Elena. Un biglietto era attaccato sul portone col nastro adesivo: CITOFONO ROTTO. «Oh, splendido.» Willie scosse il capo e pensò che Elena doveva andarsene da lì. Il cosiddetto rinascimento dell'East Village era già finito. Diede una spallata al vecchio portone di legno che si aprì con un gemito. All'interno, l'ambiente odorava di muffa e di marcio: il portinaio, come
al solito, non aveva rimosso la spazzatura. L'atrio era illuminato da una fioca lampadina gialla. Sul pianerottolo del primo piano il fetore si intensificò e in cima alle scale era decisamente pungente. Willie bussò alla porta. «Elena? Sei in casa?» Kate bloccò il volante della vettura. Richard sarebbe impazzito se avesse saputo che parcheggiava la Mercedes in strada, e nell'East Village, per giunta. Ma per Kate una macchina era soltanto un mezzo di trasporto; inoltre le sarebbero bastati pochi minuti per caricare i ragazzi, raggiungere Richard al Bowery Bar e mettere la macchina in un posto sicuro. Cominciò a salire le scale con passo deciso e con la mente in parte occupata dalla serata in programma e in parte ancora al Four Seasons con la sua amica Liz. Poi sentì quell'odore... La mente di Kate fu invasa da una serie di immagini che da decenni vi giacevano sopite: Un barbone trovato in mezzo a cartoni ammuffiti. Un suicida penzolante dalla trave di una soffitta con ancora il lenzuolo annodato per impedire all'aria e al sangue di arrivare al cuore e al cervello che la giovane agente McKinnon aveva scoperto quasi due settimane dopo. Ora Kate saliva gli scalini due alla volta, inciampando, la vista annebbiata e quel fetore che si intensificava annullando ogni altra sensazione. Non udì nulla, non sentì dolore quando dovette posare a terra una mano per non cadere, non vide neppure il sangue sul palmo. Sul pianerottolo dell'ultimo piano, dalla nebbia che le offuscava la vista si materializzò la figura di Willie, abbandonato contro il muro con la testa china sul petto. Kate si inginocchiò sul pavimento sporco e gli mise una mano sotto il mento per sollevargli la testa, ascoltò, "Sì, respira" cercò nella borsetta lo stick mentolato e glielo mise sotto il naso. Willie batté le palpebre. «Gesù, Willie! Stai bene? Cos'è successo?» C'erano lacrime nei suoi occhi sorprendentemente verdi. Kate seguì il suo sguardo diretto verso la porta aperta dell'appartamento. Tornò a guardarlo e in un terribile istante comprese. Si alzò e andò alla porta. Il tanfo la aggredì. Il cuscino di Marilyn Monroe sporgeva da sotto il sofà. "Oh, Dio. Oh, Gesù. Ti prego. Ti prego. Ti prego." Kate si coprì il naso col braccio, si appoggiò alla porta per sostenersi e guardò le scure linee verticali e le
chiazze di sangue sulla parete di fronte. Sollevò i piedi dall'impiastro denso e appiccicoso che copriva il pavimento e vide una gamba contorta tra il lavandino e il frigorifero. E poi il viso di Elena. Il bel viso di Elena, o ciò che ne restava. Girò il capo, col cuore che le martellava e l'odore della morte che le toglieva l'aria dai polmoni. "No. No. No." Chiuse gli occhi ma l'orrore non svanì. "Oh, Dio. Non può essere vero. Io voglio salvarli i miei ragazzi, non perderli." Era incollata al muro, incapace di mettere un piede davanti all'altro. Anche questa volta era arrivata in ritardo. Ondate di impotenza miste a disperazione la travolsero, esplodendole dentro come fuochi artificiali, scuotendole il corpo dalla testa ai piedi. Per un attimo pensò che stava per morire. "Sì, voglio morire." Ave Maria, frammenti di preghiere, brani di Messa in latino che non credeva di ricordare le ronzavano in testa. Si asciugò le lacrime che scorrevano sulle guance e aprì gli occhi. Quel cuscino vistoso sulle assi nude del pavimento; a parte quel dettaglio, l'appartamento era maledettamente ordinato, come se là dentro non fosse successo nulla; sulle pareti del salotto non c'era sangue. Come ci era arrivata in camera da letto? Non ricordava di essersi mossa. La trapunta patchwork era accuratamente ripiegata in fondo al letto, sopra era appeso uno dei primi lavori di Willie, un piccolo collage composto di frammenti ritagliati da un foglio di musica scritto da Elena, mescolati a schegge di legno e metallo. Era così bello che Kate ricominciò a piangere e pensò che il cuore le si sarebbe spezzato. Deglutì, distolse lo sguardo e notò che la piccola finestra era chiusa con la sicura. Sulla porta del salotto esitò, pregò; forse quel Dio feroce e punitivo di cui le avevano parlato a scuola avrebbe compiuto un miracolo: la morta non era Elena. Ma no. Ancora una volta l'aveva delusa perché nonostante il gonfiore della putrefazione, il viso di Elena era riconoscibile. "Mio Dio. Quante coltellate ci vogliono per uccidere una ragazza?" Kate lottò contro la nausea per cercare di contarle, senza riuscirci. Gli abiti stracciati di Elena erano talmente intrisi di sangue che il corpo pareva coperto da un'unica ferita. Seguì con gli occhi le linee di sangue che dal muro scendevano al pavimento dove la ragazza era morta dissanguata. "Solo un cadavere."
"Solo un cadavere." "Solo un cadavere." Kate lo ripeté come un mantra per dimenticare che quel mucchio di sangue era Elena, la sua bambina. "Solo un cadavere. Solo un cadavere. Solo un cadavere." Ancora e ancora, nella mente e ad alta voce: «Solo un cadavere...», mentre usciva dall'appartamento, attenta a non toccare nulla, quasi senza respirare. Willie sedeva sui gradini davanti al portone quando Kate finì di telefonare alla polizia. La visione che aveva avuto... il braccio che fendeva l'aria, l'urlo... era questo che aveva visto? Tremò, si strofinò gli occhi col braccio coperto dalla giacca di pelle, sentì un odore rancido. Tirò su col naso. «Non ci si libera di quell'odore» disse Kate, con una voce così neutra che la stupì. Quando era avvenuta la trasformazione, quando era tornata a essere un poliziotto, lei che diceva di non volerlo essere mai più? Dall'espressione sul volto di Willie, Kate comprese che era spaventato da quel cambiamento. Tuttavia, aveva già preso la sua decisione, o forse vi era stata costretta. Ora non poteva più tornare indietro, se voleva fare qualcosa per Elena. «Sei sicuro di non aver toccato niente?» «Te l'ho detto. Non mi pare.» «Non basta. Devi esserne sicuro.» «Beh, non lo sono. Sono rimasto poco là dentro. Non lo so! Merda. Merda. Merda!» Batté la mano contro il muro. Aveva le guance rigate di lacrime. Kate gli mise un braccio sulle spalle e improvvisamente le mani cominciarono a tremare, anche il mento cominciò a tremare e comprese che stava per perdere il controllo. «Dannazione!» Inspirò cercando di pensare a ciò che doveva fare; qualsiasi cosa pur di non cedere al dolore. «Qualcuno deve aver visto qualcosa. Tu resta qui.» Davanti alla porta dell'appartamento del pianterreno girò l'anello col brillante verso il palmo e bussò col pugno. Nessuna risposta. In fondo all'atrio, nell'appartamento sul retro dell'edificio, udì dei passi strascicati e uno spicchio del volto di una anziana donna di circa ottant'anni apparve nella fessura della porta protetta dalla catena di sicurezza. «Cosa? Cosa c'è?» disse una stridula voce con un pesante accento dell'Europa dell'est. In lontananza si udivano le sirene. «C'è stato un... incidente» disse Kate. «Ho bisogno di parlarle.»
«Polizia?» «No, sono... sono un'amica.» Ora le sirene erano davanti al portone. Che fare? Cercare di strappare qualche informazione alla vecchia o andare a proteggere Willie? Fu la vecchia a decidere, sbattendole la porta in faccia. Qualunque cosa avesse o non avesse da dire, apparteneva ormai alla polizia. 4 Il pianerottolo davanti all'appartamento di Elena brulicava di poliziotti. Come una tribù di grossi scarafaggi la Scientifica aveva preso possesso del posto infestando ogni angolo. Kate sbirciò dalla porta. Una donna in tailleur pantalone marrone scuro indossò un paio di guanti di gomma, infilò le mani sotto la camicetta insanguinata di Elena e il sottile cotone macchiato si mosse come se una creatura aliena stesse per emergere dal petto. Sforzandosi di non piangere o gridare, Kate rilasciò la sua deposizione a un poliziotto che avrebbe potuto essere suo figlio. In fondo al corridoio illuminato da un'unica lampadina appesa a una catenella, un agente in divisa parlava a un tizio con il farfallino. "Un detective," immaginò Kate, "e importante, a giudicare dal suo atteggiamento." La donna tese l'orecchio per udire cosa stessero dicendo. «La vecchia dell'appartamento 1 B, sul retro, dice che l'ultima volta che ha visto la ragazza viva c'era un nero qui dentro.» L'uomo col farfallino incrociò lo sguardo di Kate, fece girare l'agente in modo che le volgesse le spalle e scrisse bisbigliando sul suo taccuino. Il giovane poliziotto che la interrogava domandò: «E poi?». «Come?» Dall'appartamento giunsero un suono e un lampo. «Ah, sì» disse Kate riprendendo il racconto dei fatti: l'ora dell'arrivo sulla scena del crimine e la telefonata alla polizia. Un altro lampo. Kate ne fu accecata e grata di esserlo, perché stava fissando il medico legale che aveva infilato le dita nella gola di Elena mentre il fotografo scattava. Kate si sentì svenire quando due agenti chiusero il corpo di Elena in un sacco di plastica verde scuro. Con gli occhi accecati dalle lacrime Willie osservò il gruppo che usciva dal palazzo. Per un istante fermò l'immagine di quell'ultimo momento con Elena, tentando disperatamente di imprimerselo nella mente. L'isolato pullulava di curiosi che due agenti tenevano a distanza. Le auto della polizia erano parcheggiate in doppia fila con le luci lampeggianti.
Agenti e detective armati di macchine fotografiche, borse e valigie passavano davanti a Willie e imboccavano le scale. "Elena. Assassinata." Così vero e assolutamente inaccettabile. Avrebbe dovuto convincerla ad abbandonare quella zona miserabile. Ci aveva provato, e non una volta sola, ma lei faceva sempre quello che voleva. Willie batté la mano contro il muro senza provare dolore. «Ehi, tu. Rispondi. Dimmi cosa cazzo ci facevi qui?» lo aggredì un tizio con il taccuino del NYPD guardandolo negli occhi. Era un trentacinquenne in borghese, con i capelli a spazzola e un farfallino cachemire rosso scuro a disegni. Improvvisamente Kate fu al fianco di Willie e posandogli una mano sulla spalla disse: «Gli ho chiesto io di incontrarmi qui. Qual è il problema?». Farfallino si voltò a guardarla: «E lei è...?». «Katherine McKinnon Rothstein.» Pensò rapidamente e soggiunse: «Amica del capo della polizia Tapell». Comprese dallo sguardo dell'uomo che il nome aveva fatto effetto; infatti la squadrò dalla testa ai piedi facendo schioccare la lingua. Si presentò senza porgerle la mano: «Randy Mead, capo della Squadra Omicidi, gruppo speciale. Per quale motivo è qui?». Gli occhi già piccoli di natura diventarono due fessure orizzontali. «Perché conosco la vittima.» «Beh, questo ragazzo è stato il primo ad arrivare sulla scena del crimine; deve fare una deposizione: è la procedura.» «So tutto sulla procedura.» Il farfallino di Mead guizzò sul pomo d'adamo. «Oh, davvero?» «Sono stata nella polizia per dieci anni, a Queens» disse Kate «distretto di Astoria. Mi occupavo di omicidi e minori scomparsi.» «Assstorrria» ripeté Mead allungando le consonanti in tono di scherno. Willie guardava Kate in silenzio con un'espressione che poteva essere mista di stupore e di sgomento. Gli aveva mai detto che era stata nella polizia? Non se ne ricordava. «Ma chi l'avrebbe detto» commentò Mead. Kate schiacciò col tacco il mozzicone della Marlboro. Il poliziotto superava di poco il metro e settanta e sembrava sopraffatto dalla sua statura. «Senta» intervenne Willie. «Deve fare qualcosa per...» «Me ne occupo io» interloquì Kate. «Willie aspettami in macchina, per favore.» Ricondusse Mead davanti all'edificio. «Forse ricorda» sibilò lui tra i
denti come un serpente a sonagli infastidito «che chi trova il cadavere spesso è l'omicida.» «Mi risparmi queste merdate da principiante, okay? Gliel'ho già spiegato. Avevamo un appuntamento; Willie mi aspettava qui. E la ragazza...» Kate si interruppe. "No, non una ragazza qualsiasi." Davanti al portone le emozioni la aggredirono scalpitanti come nervosi purosangue. «Elena» disse con calma «è morta da un pezzo. Sono certa che l'ha notato.» «Un'amica del nostro esimio capo Tapell, eh?» disse Mead con un sorriso antipatico. «Senta» disse lentamente Kate. «Non ho intenzione di prendere il suo posto. So che ha un lavoro da svolgere, sto solo cercando di aiutare, di chiarire qualche...» «Beh, questo è davvero gentile da parte sua... signora Rothstein, mi pare? Ma credo di essere in grado di cavarmela da solo.» Oh cielo! Kate dovette imporsi di non afferrarlo per quello stupido farfallino e tenerlo sollevato da terra finché non gli fosse venuta la faccia blu. Le prudevano le mani ma si controllò. La verità era che la rabbia che le stava per esplodere la spaventava a morte. Strinse il cellulare per tenere occupate le mani, cercò di premere il bottone per formare il numero dell'ufficio di Richard ma non ci riuscì. Anche col telefono non aveva fortuna. "Maledizione." Mead ne approfittò per allontanarsi e confabulare con un paio di agenti, poi tornò da lei e disse: «Ehi! Signora, ehm, ex poliziotta! e il suo amico, non allontanatevi; ci servono le vostre deposizioni». Nonostante il finestrino aperto, nella macchina mancava l'aria. Pur non potendo udire ciò che Kate e Mead dicevano, Willie comprendeva che non si trattava di una conversazione amichevole. Mead indicò nella sua direzione e borbottò qualcosa agli agenti. Willie cercò di attirare l'attenzione di Kate ma lei era già rientrata nel palazzo, seguita da altri agenti e detective. Che cosa facevano là dentro? Rilevavano le impronte digitali? Fotografavano la scena del delitto? Willie girò la chiave e accese meccanicamente la radio. Il gracchiare del telefono di una pattuglia lo fece sobbalzare. Un poliziotto nell'auto accanto a lui stava dando informazioni: «Donna, ispanica, ferite da coltello...». «Mi scusi.» L'uomo lancia un'occhiata feroce alla grossa donna ispanica
che tentando di sbirciare la scena del delitto gli sbatte continuamente l'enorme borsa di paglia contro le gambe. «Eccitante, no?» dice lei fissando i gradini che portano all'ingresso, l'andirivieni di poliziotti e tecnici, le auto della polizia e l'ambulanza con le sirene spiegate che bloccano la strada aggiungendo un tocco cinematografico alla drammaticità della scena. «È morta una ragazza. Una giovane vita è stata spenta. Le sembra eccitante?» Gli occhi scuri della donna si velano di vergogna. «Oh» mormora «non sapevo si trattasse di una ragazza, giovane.» Poi domanda, sospettosa: «Come fa a saperlo? Abita nel palazzo?». La donna lo guarda ma lui non le bada più perché nel momento in cui gli viene rivolta quella stupida domanda, il suo corpo si irrigidisce. Gli occhi, le orecchie, i muscoli si tendono verso i gradini di mattoni scuri trasmettendogli una certezza assoluta. Proprio allora Kate esce dal portone e lui respira affannosamente ma senza che nessuno lo avverta. "Magnifico." Fissa stupefatto Kate che si accende una sigaretta inspirando a fondo catrame e nicotina. Gli pare di vederli penetrare negli organi, bloccandole il battito cardiaco, scatenando l'adrenalina che pulsa nelle arterie. Fa due passi indietro nascondendosi tra la folla dei curiosi. "E adesso?" Cerca di trasmettere telepaticamente la domanda a Kate, concentrandosi con tanta intensità da fargli dolere la testa. Kate fumava e guardava la gente senza vederla. Se solo le fosse riuscito di ricordare quello che insegnano ai poliziotti alle prime armi sui malati mentali, che si divertono a tornare sul luogo del delitto e cercano di avvicinarsi il più possibile per vedere gli altri mettere ordine nel disastro che hanno combinato. Improvvisamente Kate se ne ricordò. Con la rapidità con cui si accende una luce, il velo si sollevò dai suoi occhi ed esaminò le persone radunate. Troppo tardi. L'uomo è già sparito, inghiottito dalla folla. Non la vede più ma non importa, deve andarsene. Lo sta nuovamente assalendo quella sensazione, anche con maggior violenza. Attende. Se solo sapesse che cosa c'è in serbo per lui.
«Maledizione.» Kate girò la chiave. «Willie, Gesù, mi scarichi la batteria». Willie aprì la bocca come per parlare ma non disse nulla. Aveva l'aria di chi sta per scoppiare in lacrime. «Cazzo, mi dispiace.» Kate si sentì una merda. Avrebbe voluto abbracciarlo, tenerlo stretto e piangere per il resto della vita; ma non poteva. Non qui, davanti alla casa di Elena, con una dozzina di auto della polizia e una trentina di poliziotti; non se voleva reggere fino a quando avrebbe ottenuto qualche risposta. «Dovrai fare la tua deposizione» disse, premendo l'accendino della macchina e prendendo una sigaretta dal pacchetto. «Di cosa parlavi con quel coglione col farfallino, indicando me?» «Della tua deposizione.» L'accendino brillò come un tizzone ardente. Kate inspirò e altro fumo le entrò nei polmoni. Due agenti si avvicinarono alla macchina. «Andrà tutto bene» disse Kate chinandosi su di lui per aprirgli la portiera. «Di' la verità.» «Non vieni con me?» «Devo occuparmi di una cosa.» Respirò a fondo. «Una cosa che devo... che ho bisogno di fare.» Lo sguardo incredulo di Willie era come l'accusa che viene rivolta a un comandante che abbandona la nave che sta per naufragare, e Kate si sentì un verme. «Ehi» gli disse dolcemente, fissandolo negli occhi. «Stai tranquillo. Dirò a Richard di raggiungerti alla stazione di polizia.» Senza degnarla di uno sguardo Willie si trascinò fuori dall'auto. La donna mise in moto e abbassò il finestrino. «Willie, aspetta.» Gli porse dei fazzoletti di carta. «Pulisci il sangue dalle scarpe.» «Ehi!» Mead tamburellò sul parabrezza, un ghigno gli arricciava le labbra sottili. «Dove va?» «Devo vedere una persona» disse Kate. «Oh, davvero?» Il ghigno si trasformò in un sorriso rigido. «Beh, la vedrà più tardi. Adesso viene con me.» 5 "Storto. Quel dannato quadro è storto." William Mason Pruitt afferrò tra le dita carnose l'angolo della cornice
che tanto lo aveva irritato. Non sopportava la mancanza di equilibrio, soprattutto quando si trattava dei suoi preziosi quadri. Fece un passo indietro, emise un respiro carico dell'odore dei sigari da quaranta dollari, sistemò il paesaggio inondato dal sole di Monet - uno degli ultimi capolavori del maestro di Giverny - che aveva acquistato dal Metropolitan Museum of Art di New York circa sei o sette anni prima. A quell'epoca era membro del consiglio di amministrazione e, grazie al disperato bisogno di soldi del museo, aveva concluso un buon affare. Che importava se il consiglio si era espresso sfavorevolmente? Dio mio, avevano reagito come se avesse messo della dinamite sotto il loro prezioso museo. Dopo, aveva ritenuto opportuno dimettersi prima che la faccenda diventasse di dominio pubblico. "Una combriccola di palloni gonfiati." Pruitt rise perché immaginava che molta gente considerasse lui un pallone gonfiato. Se solo avessero saputo. Un'altra risata gli salì dalla pancia che riempiva i pantaloni color cammello. Gusti eclettici, ecco cosa aveva. Come la sua passione, che qualcuno avrebbe potuto chiamare debolezza, per l'arte classica. Impiegò un paio di minuti a staccare il nastro con le dita goffe, e un altro minuto a togliere la protezione di plastica. Gli occhi sporgenti di Pruitt si addolcirono guardando la delicata incisione su foglia d'oro che circondava le teste di Maria e del Bambino. Stavolta era stata una piccola parrocchia toscana ad avere bisogno di soldi anche se quelle intollerabili autorità italiane ostacolavano la vendita delle antichità. Peccato. D'altra parte non erano affari suoi. Pruitt si accomodò su una comoda sedia girevole di pelle, tirò una boccata del sigaro cubano arrotolato a mano, soffiò nuvole di fumo grigio verso il ricco elaborato soffitto di stucco della sua stanza prediletta, la biblioteca, una stanza prettamente maschile, tutta cuoio nero e mogano. Che cosa aveva detto quella ragazza che si riteneva così importante e sicura di sé a proposito della biblioteca e dell'intero appartamento di Park Avenue? "Prevedibile e stereotipo" o un analogo commento di disprezzo. All'inizio, la sua franchezza gli era piaciuta, ma non per molto; sembrava un tipo che chiedesse di essere trattata in modo rude, ma poi si capiva non gradirlo. Peccato. Pruitt avvicinò la piccola ancona alla luce ambrata dell'antica lampada di ottone, studiò la pennellata e i colori delicati: quanta cura, quanta attenzio-
ne ai dettagli. Caratteristiche che Pruitt apprezzava perché erano diventate rare. Nessuno aveva più gusto; né il suo museo di arte contemporanea né i curatori o quei noiosi membri del consiglio di amministrazione, specialmente Richard Rothstein, il signor Rolex da diecimila dollari. "Quando la finirà di mettersi in mostra quella gente?" Pruitt era sicuro che questo purtroppo non sarebbe accaduto presto. Riposta nella fodera di plastica la piccola pala d'altare del Trecento, Pruitt l'infilò nel cassetto in basso della scrivania americana del diciassettesimo secolo. Non aveva ancora deciso cosa farne: tenerla o... beh, ci avrebbe pensato. Si alzò sentendosi addosso il peso dei suoi due o tre Martini quotidiani, del fois gras almeno una volta la settimana, dei tartufi neri quando erano di stagione, dei blini e caviale il più spesso possibile. Si palpò il ventre sotto la camicia su misura a righe bianche e rosa: era ora di mettersi a dieta? In boxer bianchi e calzini neri salì sulla bilancia che confermò la brutta notizia. "Dovrò fare a meno dei blini almeno per un po'." La fronte aggrottata di Pruitt era riflessa nello specchio incorniciato di marmo della stanza da bagno. Si protese in avanti ed esaminò la rete di vene bluastre sulla punta del naso bulboso. Avrebbe dovuto farle eliminare col laser? Forse. Si spruzzò l'eau de toilette all'acqua di rose. Dopo aver indugiato con la pala d'altare e meditato sul suo peso, non c'era il tempo per fare un bagno; beh, si sarebbe lavato al ritorno. Era solo una serata al Dungeon, solo su invito e non vedeva l'ora di andarci. Scegliendo una camicia pulita, azzurro pallido con le cifre ricamate sul taschino, Pruitt ripensò alle belle notizie che aveva appena ricevuto: Amy Schwartz si era finalmente dimessa. Era ora, considerando che, da quando era presidente del consiglio d'amministrazione, Pruitt le aveva reso la vita impossibile. Finalmente avrebbe potuto scegliersi il suo direttore, che sicuramente non sarebbe stato quell'ispanico parvenu di Perez, né Schuyler Mills, non gliene sarebbe importato nulla anche se quest'ultimo fosse stato sovrintendente per dieci, venti o duemila anni. Naturalmente sapeva benissimo che parecchia gente si chiedeva che cosa ci facesse uno come lui in un'istituzione come il museo di arte contemporanea; in verità si era affezionato a quel nuovo centro di potere che pensava essere più confacente all'immagine di modernità che stava costruendosi. Naturalmente gran parte di ciò che in quel luogo passava per arte era merda pura. Il suo ottimo amico, il senatore Jesse Helms ci aveva messo lo zampino, ma non era per quello che Pruitt occupava quel posto.
Completò il nodo windsor della cravatta di Yale. Il sorriso riflesso nello specchio dell'antico armadio di noce era di piena soddisfazione. Dopotutto, era il presidente del consiglio del museo più trendy della città, tesoriere della celebre fondazione culturale "Offriamo loro un futuro", recente proprietario di un'opera d'arte raramente visibile al di fuori delle più riverite istituzioni artistiche. Spostò il nodo della cravatta sotto il doppio mento. Sì, poteva considerare soddisfacente la sua vita. Nella grigia stanza senza finestre degli interrogatori mancava il senso del tempo. Kate guardò l'orologio: quasi le dieci di sera. Possibile? Sembravano trascorsi giorni, settimane. Per lei il tempo si era perso. Da quel giorno in poi la sua vita l'avrebbe calcolata in prima e dopo Elena. Eppure riuscì a fare ciò che doveva: seguì i poliziotti al Sesto distretto, ripeté la sua deposizione, firmò dei moduli. Si guardò allo specchio e per un attimo rimase sbalordita. Era proprio lei quella donna che testimoniava su un omicidio in una stazione di polizia? Sapeva che sull'altro lato dello specchio c'erano dei poliziotti che la spiavano. Per dieci anni aveva recitato lei la parte del poliziotto dietro lo specchio, quello che giudica, esamina ogni gesto, soppesa colpa e innocenza. Kate spinse i capelli dietro le orecchie con un gesto che le sembrò innaturale. Si sentiva spaesata e allo stesso tempo stranamente a suo agio. Conosceva ogni dettaglio della vita alla stazione di polizia: i ruoli, i meschini giochi di potere, l'alleanza dei buoni contro i cattivi, tuttavia, in quel momento, tutto, persino le tetre pareti beige e la maledetta luce fluorescente, parevano in un certo senso rassicuranti. Avrebbe potuto trovarsi nella sua vecchia sede di Astoria. Un altro sguardo allo specchio. Era tutto là, davanti a lei: un ritratto eseguito con cura, un'immagine sovrapposta a un'altra, che diventava visibile mentre il colore colava; erano i primi, duri anni della sua vita appena camuffati dall'elegante vernice dell'ultimo decennio. Kate si guardò leggendosi nell'animo. Chi cercava di ingannare? Bastava intaccare lo strato superficiale e tutti avrebbero visto la poliziotta, la rozza ragazza di Queens. La stavano osservando? Non potevano sospettare di lei, eppure l'avevano fatta aspettare prima di rivolgerle le solite maledette domande. Faceva parte della routine, lo sapeva bene. Così si faceva e si era sempre fatto: continuare a ripetere la medesima domanda, osservare il nervosismo del testi-
mone, notare se si contraddiceva. Ma adesso ne aveva abbastanza. E dove diavolo era Richard? La porta si spalancò. Mead indicò il suo taccuino. «Ha detto di aver sentito per l'ultima volta la ragazza il...» «Senta» disse Kate, «l'ho già detto all'altro poliziotto. Parecchie volte: sono stanca.» Guardò Mead negli occhi. «E dov'è Willie?» «Stanno ancora interrogando il signor Handley. Lei vuole che appuriamo i fatti, no?» «Certamente. Ma è ora che ci mandiate a casa.» «Ancora qualche domanda.» Mead succhiò l'aria tra i denti. «Ha detto di essere arrivata all'appartamento della vittima verso...» «L'informazione è contenuta nella mia deposizione.» Mead sfogliò il taccuino. «Handley è arrivato prima di lei?» «Detective, mi ascolti bene. Ho già risposto a queste domande. Le sarei grata se leggesse le risposte nella mia deposizione, risparmiandoci una perdita di tempo.» «Preferisco sentirlo da lei.» «Io invece preferisco andare a casa.» Kate aprì il cellulare e digitò un numero. «Sono io, Kate Rothstein. Scusa l'ora tarda ma... Oh, l'hai saputo...» La voce si spense. «Sì, sono al Sesto distretto, mi stanno interrogando. Come? Sì, è qui.» Passò il telefono a Mead e disse: «Il capo della polizia Tapell desidera parlarle». «Sì, capo?» Gli occhi di Mead saettavano da un angolo all'altro della stanza per non incontrare quelli di Kate. «Mmm, sì... uhm.» Si appoggiò al muro afflosciandosi come se i muscoli fossero entrati in sciopero. «Bene, uhm, ah... uhm.» Sospirò, spense il cellulare. «Tapell dice che vuole vederla.» «E Willie?» «Può andare a casa.» «Voglio che sia accompagnato da un agente.» Mead annuì, senza guardarla. Ancora una volta Kate riuscì a compiere le operazioni necessarie: percorrere la West Side Highway, imboccare l'uscita giusta, fermarsi ai semafori, aprire il portafogli, prendere la patente e mostrarla all'agente di guardia davanti alla casa di Tapell. Poi restò seduta al posto di guida, appoggiò la testa al sedile, chiuse gli occhi e le lacrime scivolarono sulle guance mentre una sequenza di imma-
gini scorreva nella sua mente come un film: il viso diffidente di un ragazzina che le aveva rubato il cuore, frammenti di conversazioni durante tante cene insieme, una discussione tipica tra madre e figlia a proposito della scelta del vestito per un'occasione importante, il diploma di Elena alla Juilliard, la sua esibizione al museo di una settimana innanzi. Soffocata dai singhiozzi, Kate sentiva il dolore penetrare come una lama incandescente nel muscolo delicato del cuore. Ancora una volta, tuttavia, riuscì miracolosamente a tenere l'emozione sotto controllo, si asciugò gli occhi, ripassò il rossetto, scese dall'auto e si incamminò. Pochi minuti dopo, entrata in casa, attendeva fissando gli scaffali che coprivano le pareti dal pavimento al soffitto: centinaia di riviste legali, di raccolte di casi importanti, di libri di criminologia. Considerò che la biblioteca era l'ambiente ideale per Tapell. Come l'aveva sentita chiamare ultimamente, l'imperturbabile Tapell? Diavolo, cosa si aspettavano dal capo della polizia, un mollaccione, tenero e impressionabile? Anche ai suoi tempi, quando comandava il distretto di Astoria e Kate era un poliziotto, Tapell lavorava sodo e non scherzava. Ma si erano subito piaciute, forse perché avevano capito di essere entrambe ambiziose e che Astoria per loro era soltanto un trampolino di lancio. Poco dopo Tapell era a capo dell'intero dipartimento del Queens e, in breve tempo, della Centrale operativa di Manhattan. Allora Kate aveva già lasciato la polizia e stava diventando riferimento per l'élite newyorkese di cui faceva parte anche il sindaco. Quando uno scandalo travolse il precedente capo della polizia e il suo staff, Kate raccomandò l'integerrima Tapell per sostituirlo. La porta dell'ufficio si aprì e apparve Tapell contornata da due uomini massicci, goffi in abiti mal tagliati; detective, immaginò Kate, che stavano praticamente appiccicati ai fianchi del loro capo. Come se la vedesse per la prima volta, Kate fu colpita dalle proporzioni statuarie di Tapell: alta quasi quanto lei, spalle larghe accentuate dall'imbottitura della giacca di tweed, gambe solide ma snelle nelle calze velatissime. Il viso era tutto spigoli: zigomi sporgenti, mento appuntito, fronte alta sottolineata dai capelli spruzzati di grigio, raccolti in una severa crocchia. La carnagione scura era perfetta e sorprendentemente liscia per i suoi cinquantuno anni. Non portava trucco visibile, eccetto un tocco rosso scuro sulle labbra fortemente delineate. Clare Tapell, la prima donna a essere a capo della polizia di New York, un'afroamericana per giunta, non si poteva definire bella ma era un tipo che certamente non passava inosservato.
Tapell le strinse la mano. «Scusa» disse congedando i detective con un cenno del capo. «Una riunione notturna. Figurati che hanno sparato a un uomo in una cabina telefonica da una macchina, in Madison Avenue.» Si interruppe e sempre stringendole la mano la guardò negli occhi. «Mi dispiace tanto, Kate, per... la tua Elena.» Le parole echeggiarono tra le pareti della biblioteca. La tua Elena... «E mi scuso se la polizia non è stata tenera con te. Ne parlerò con Randy Mead.» Kate alzò le spalle. «No, no, ha fatto solo il suo lavoro, ma io ne avevo abbastanza.» Tapell annuì. «Gli dirò di incaricare del caso i suoi uomini migliori. Mead sembra un po' ridicolo, ma è sufficientemente in gamba da essere arrivato a capo della Squadra Omicidi a trentasei anni, il che non è poco.» «Vorrei partecipare all'indagine» disse Kate. Tapell stava per replicare ma si fermò e camminò per la stanza sfiorando con la mano gli scaffali. Poi si voltò e sul viso forte apparve un'espressione addolorata. «Non credo sia possibile, Kate.» «Tutto è possibile, Clare, e nessuno lo sa meglio di te» e guardandola fissa negli occhi soggiunse: «Ero un poliziotto alle tue dipendenze, ricordi? E anche dannatamente in gamba». «Lo so» disse Tapell, «ma è stato tanto tempo fa. Ora tu sei la signora Rothstein, famosa esperta d'arte, personaggio in vista dell'alta società, filantropa e, a mio giudizio, uno dei membri più influenti di questa città. Come posso giustificare la tua partecipazione a questo caso?» Kate si sedette sul morbido sofà di pelle, improvvisamente esausta. Chiuse gli occhi e il viso insanguinato di Elena le balenò dietro le palpebre. «C'era qualcosa sulla scena del delitto...» mormorò. «Lo so che ti sembrerà strano... ma aveva un'aria familiare.» «Cioè?» Kate chiuse gli occhi e cercò di visualizzare l'arredamento essenziale della stanza, i cuscini sul pavimento, il corpo di Elena, ma non ci riuscì. «Non so. In questo momento mi sfugge ma...» «Sei troppo coinvolta emotivamente, troppo legata alla vittima, Kate.» «Balle! Ero legata a metà dei ragazzi che sono riuscita a ritrovare, e tu lo sai.» «Sì, ma dopo averli trovati» replicò Tapell. «Sono stati i miei sentimenti e le mie emozioni ad aiutarmi a trovarli» disse Kate. «E provo la medesima sensazione anche in questo caso.»
Tapell si sedette davanti a lei e intrecciò le lunghe dita. «Ascolta, Kate, vorrei accontentarti ma devi fornirmi qualcosa di più di una sensazione se vuoi essere autorizzata a collaborare al caso.» Scosse il capo e si alzò in piedi. «Ti do un consiglio. Vai a casa dal tuo meraviglioso marito e digli che il capo della polizia ti ha promesso che si occuperà personalmente del caso. Ti assicuro che lo farò.» Prese la mano di Kate tra le sue e mentre lo sguardo esprimeva affettuosa partecipazione, le sue mani erano fredde. «Vai a casa, Kate.» Il ghiaccio nel secondo bicchiere di scotch si era sciolto. Richard Rothstein guardò il quadrante fosforescente dell'orologio: mezzanotte e venti. Era stanco e agitato. Temeva che il ristorante non avesse riferito il suo messaggio e Kate si fosse irritata. Probabilmente lo aveva cercato sul cellulare che era scarico. Si avvicinò alle finestre. Sotto, in Central Park West, ululava una sirena. I lampioni illuminavano gli alberi ai margini del parco proiettando chiazze di luce su Strawberry Fields mentre sull'altro lato gli elaborati tetti mansardati degli hotel della Quinta Strada si stagliavano in geometrico disordine contro il cielo nero. Per irritata che fosse, Kate lo avrebbe perdonato per non essersi fatto vivo; ci contava, perché gli aveva sempre perdonato tutto. Richard finì lo scotch annacquato e accese un'originale lampada moderna il cui cono di luce cadde su un recente acquisto: una maschera della Costa d'Avorio comprata a un'asta del museo di arte africana. Il pezzo era perfettamente accostato a uno schizzo di Picasso: un autoritratto con un occhio solo eseguito nel 1901. Mentre cominciava a meravigliarsi che lo spettacolo durasse tanto a lungo, udì sbattere la porta. «Kate?» chiamò, poi andò nell'ingresso e vide sua moglie appoggiata al muro. «Tesoro, che c'è?» disse correndo da lei. «Oh, Richard...» La voce le si spense e Kate gli si gettò tra le braccia singhiozzando. Richard la lasciò piangere. Durante gli anni trascorsi insieme l'aveva raramente vista in lacrime. Certo, aveva pianto dopo gli aborti, quando aveva saputo di non poter avere figli, ma mai così. Le carezzò i capelli, la guidò dolcemente in salotto, la fece sedere sul sofà tenendola abbracciata e attese. Finalmente lei riuscì a dirgli di Elena. «Dio mio.» Richard si staccò da lei come se fosse stato schiaffeggiato e
Kate ricominciò a singhiozzare. Impiegò un po' di tempo a riprendersi quanto bastava per riferirgli l'incontro con Tapell. «Vuoi partecipare all'indagine? Sei impazzita?» «Lo so che sembra una pazzia, Richard, ma... devo farlo.» Il marito la guardò stupefatto, andò verso il mobile bar di mogano intarsiato, mescolò gin e vermouth per Kate e si versò un altro goccio di scotch. Si pizzicò il naso e le rughe sulla fronte parvero più profonde. «Sei stata tu a decidere di mollare, Kate, credevo non volessi più saperne della polizia.» «È così ma...» Kate si concentrò ma non le fu facile con gli occhi azzurri di Richard che la fissavano increduli. Gli prese la mano. «Avrò bisogno del tuo appoggio.» Lui esitò un istante, poi intrecciò le dita alle sue. «Naturalmente puoi contarci.» Restarono in silenzio nella penombra del salotto, poi Kate ricordò che aveva tentato di mettersi in contatto con lui per ore. «Dov'eri?» «Quando?» «Stasera.» Dopo un attimo di esitazione Richard disse: «In ufficio, poi fuori con dei clienti. Per giunta mi si è scaricato il telefono. Mi dispiace, tesoro, se avessi saputo...». «Avevo bisogno di te... della tua influenza, per togliermi di torno i poliziotti.» «Ti hanno trattato male?» Gli occhi di Richard scintillarono di rabbia. «No, ma...» Kate chiuse gli occhi e ancora una volta vide il viso gonfio, sfigurato, di Elena. «Stai bene?» «Sì.» Kate scosse il capo e sussurrò: «No». Si appoggiò al marito che la condusse in camera da letto. «Sdraiati, tesoro» disse Richard aiutandola dolcemente ad adagiarsi sul letto. «Ti amo, Richard» disse lei cercando i suoi occhi. «Anch'io ti amo.» Le prese la mano e la strinse. Kate si allungò sul grande letto bianco e chiuse gli occhi. Pensò a Mead e al suo frivolo farfallino cachemire a disegni. "Chi trova il cadavere spesso è l'omicida." Quell'uomo si sbagliava. Ma allora chi era stato? E perché? 6
Due terribili giornate negli Hamptons. Kate non capiva come Richard fosse riuscito a convincerla ad allontanarsi da New York per distrarsi passeggiando su quella perfetta striscia di spiaggia annidata sotto le dune della loro casa di East Hampton. Appena smetteva di piangere veniva sopraffatta dalla rabbia. Ancora un giorno e si sarebbe messa a sparare in mezzo al mercato locale. Due giorni. Due giorni! Maledizione, sapeva quanto i primi giorni fossero importanti per l'indagine. Sebbene Richard avesse ribadito che nulla si sarebbe risolto in quel weekend, Kate temeva che nulla si sarebbe mai risolto, nonostante le rassicurazioni di Tapell. Quello era un caso destinato a venire trascurato a meno che qualcuno non continuasse a insistere. Ora che erano finalmente tornati a Manhattan, almeno poteva agire. Quando Richard andò in ufficio dopo essersi assicurato che Kate stava bene, lei cominciò col riordinare le carte sparse sulla sua scrivania Biedermeier. Prima di tutto il materiale per la ricerca di storia dell'arte: copie delle sue conferenze, riproduzioni con appunti scritti a mano, riviste d'arte, periodici, pubblicazioni e centinaia di cartoline. Fortunatamente disponeva di un archivio; non che avesse intenzione di metterlo in ordine ma almeno aveva un posto dove riporre le carte. Che fare di una montagna di altre informazioni accumulatasi in un decennio? Un dépliant dei migliori ristoranti di New York con i nomi e i numeri di telefono dei vari maitre, un elenco di fornitori per ogni occasione, indirizzi dei fioristi di New York e delle principali città americane, cataloghi di vivai sudamericani specializzati nella spedizione di orchidee, articoli su famosi vigneti francesi e americani. Le sembrava tutto assurdo e insensato. Buttò le carte in un antico cestino d'argento, uno dei primi regali di Richard quando aveva deciso di trasformare quella stanza nel suo studio. Era stato dopo il secondo aborto, quando i palloncini dipinti sulle pareti e le nuvolette sul soffitto erano stati eliminati e la culla tolta dalla circolazione. Cosa le era sembrato familiare nell'appartamento di Elena? Kate chiuse gli occhi e tentò inutilmente di ricostruire la scena del delitto. Delusa, rivolse l'attenzione a due scatoloni di libri che da anni giacevano in un angolo ed estrasse La maschera della normalità di Hervey Cleckley, Disordine mentale e criminalità di Sheilagh Hodgins, Inconsapevolezza: gli psicopatici sono tra noi di Robert D. Hare. Prese Criminalità e la mente umana di David Abrahamsen, soffiò via la polvere, lo sfogliò e notò i
suoi appunti sbiaditi sui margini ormai gialli delle pagine. Indubbiamente ora esistevano testi più aggiornati, erano anni che non consultava quei libri. Doveva telefonare a Liz. Se c'era qualcosa da sapere, la sua amica era la persona giusta. Naturalmente Liz era più interessata al suo stato d'animo che ad aiutarla ad approfondire gli studi di criminologia, ma dopo pochi minuti di conversazione, temendo di cedere al dolore, Kate disse: «Basta. Facciamo finta che sto bene, okay?». Quindi soggiunse: «Ho bisogno di agire, Liz... ufficialmente o no». «Pensi che sia una buona idea?» «Forse no, ma che altro posso fare?» «Lasciare che se ne occupi la polizia?» «Questo guaio non me lo sono cercato, merda, mi è caduto addosso all'improvviso.» «D'accordo» disse Liz rassegnata. «Cosa vuoi da me?» «Ho preparato un elenco. Immagino che come funzionario dell'FBI tu possa ottenere le informazioni molto più rapidamente di me.» «Cosa ti serve?» «Gli ultimi studi sugli omicidi sessuali e gli aggiornamenti sui casi di stupro che possano aiutarmi a capire.» «Kate, ti rendi conto della quantità di informazioni su questo tipo di crimine che abbiamo raccolto solo negli ultimi anni? Abbastanza da riempire la biblioteca del Congresso.» «È per questo che ti ho telefonato. Nel weekend ho preso appunti su ciò che ho osservato sulla scena del delitto.» Nei successivi cinque minuti Kate mise Liz al corrente. «Puoi inserire questi dettagli nei tuoi programmi e vedere che cosa ne ricavi?» «Hai detto che non risultano segni di effrazione. Potrebbe essere un appuntamento finito male piuttosto che un omicidio premeditato.» «Liz, Elena è morta. È omicidio.» «Vero. Vedrò cosa riesco a mettere insieme.» Kate ringraziò l'amica, riattaccò, cercò una sigaretta nella borsa e trovò un pacchetto vuoto. "Maledizione." Rovesciò la borsa sulla scrivania: chiavi, chewing-gum, rossetto, pettine, un flacone spray di Bal à Versailles, fazzoletti di carta, alcune sigarette sciolte e la fotografia a colori. Questa volta Kate la osservò attentamente. Elena in tocco e toga accanto a lei nel giorno del diploma della scuola superiore, cinque... no, sei anni
prima. Una foto già vista, anzi, Kate era sicura di averne una copia. Andò in biblioteca e frugò negli album rilegati in pelle finché la trovò. Identica. Ripensò a quel giorno nel giardino del liceo George Washington: c'era il sole. Era stato Richard a scattare la fotografia con la macchina di Elena e lei poi le aveva mandato una copia. Quindi quella che aveva in mano era l'originale? Di Elena? Kate avvicinò il braccio della lampada per esaminare la stampa. Una sottile pellicola colorata era stata dipinta sugli occhi di Elena che sembravano ciechi, morti, come in un inquietante quadro surrealista di Dalì. Lasciò cadere la foto come se scottasse, ma subito prese la lente di ingrandimento e proseguì l'esame; sì, c'era della vernice sugli occhi. Un lavoro accurato, meticoloso, interessante da esaminare in laboratorio, sebbene le impronte digitali fossero ormai confuse, cancellate. Quale laboratorio? Dove poteva portarla? E cosa poteva dire: "Oh, questa foto è arrivata nella mia borsa misteriosamente. Guardate che stranezza, c'è della vernice sugli occhi della ragazza e, sì, la ragazza ora è morta". L'emozione le fece accapponare la pelle come se un ragno le strisciasse sul braccio; o era paura all'idea che qualcuno avesse sottratto la fotografia a Elena per infilarla nella sua borsetta? Kate sapeva che alcuni psicopatici provano l'impulso di mescolarsi alla folla quando la polizia scopre il delitto e guardano le notizie alla televisione per sentir parlare delle loro imprese e aveva addirittura quaderni zeppi di articoli sull'argomento. L'assassino di Elena era uno di quelli? Decise di mostrare la fotografia a Tapell. Il cellulare squillò. «Oh, Blair.» Il tono della voce di Kate rivelava che non era in vena di parlare con la copresidente della fondazione. «Kate, cara, sono stata in ansia per tutto il fine settimana. Non sono riuscita a chiudere occhio e ho esaurito la mia riserva di Valium. Mi vedessi, faccio spavento. Oh, è terribile! Terribile, terribile, terribile.» Tirò il fiato e riprese: «E tu come stai?». Kate avrebbe voluto dire: "Non si tratta di te, Blair! Possibile che tu non lo capisca?". Invece disse con tono neutro: «Diciamo che tiro avanti». «Complimenti, tesoro. Questa è la Kate che conosco» e dopo un attimo di pausa: «Sai che detesto disturbarti in un momento simile ma dobbiamo stabilire alcune cose. "Offriamo loro un futuro" pesa praticamente sulle nostre spalle e ci sono ancora un mucchio di dettagli da discutere per il
ballo di beneficenza». Kate ascoltò l'assegnazione dei posti a tavola, i fiori, gli omaggi per le signore, ma alla sua mente non arrivò nulla. Certamente la fondazione doveva andare avanti e c'erano altri ragazzi da aiutare, ma gli omaggi per gli ospiti! Gesù! Blair poteva considerarsi fortunata che Kate non la mandasse a quel paese; è vero che era stata Blair a introdurla nell'alta società di New York, quando Kate era rozza e impreparata, a insegnarle come comportarsi e a collaborare con "Offriamo loro un futuro", dando alla fondazione un tono che senza di lei non avrebbe avuto, ma venire a parlarle di composizioni floreali in quel momento? Per favore! Ogni volta che Kate vedeva Arlen James, il fondatore di "Offriamo loro un futuro", era colpita dal suo aspetto maestoso, a dispetto del bastone cui si appoggiava. Un metro e novanta di statura, una criniera di capelli candidi, occhi azzurrissimi. Nonostante l'elegante abito di tessuto inglese e le scarpe italiane, la sua storia di povero figlio di contadini appassionato di modellini di aereo, che crea un'industria aeronautica e diventa ricchissimo, era assolutamente americana. L'uomo aveva una coscienza e ne diede prova fondando "Offriamo loro un futuro", riscatto e realizzazione di un sogno infantile: investire del denaro per l'istruzione dei ragazzi bisognosi. Dieci anni fa, un piovoso sabato sera, Kate da poco diventata la signora Rothstein, aveva conosciuto Arlen James a un ricevimento. Il lunedì successivo era nel suo ufficio e il venerdì entrava in una settima classe del Bronx, si inginocchiava accanto ai banchi e domandava ai bambini che cosa volevano fare da grandi. Le risposte? Qualcuno voleva diventare Michael Jordan, ma la maggior parte reagì con stupore. Soltanto il fatto di crescere sembrava già una sfida. Naturalmente Willie aveva la risposta pronta. «Un artista» disse, disegnando con tanto vigore da spezzare in due la matita. Quindi toccò a Elena. Kate attese, osservando la dodicenne con gli occhi scuri che rifletteva attentamente. «Non sono sicura» disse guardando Kate negli occhi. «Ma mi piace cantare e recitare.» Alla fine della giornata, era riuscita a convincere Richard ad adottare l'intera classe, garantendo a tutti gli studi superiori ed eventualmente il college. Una decisione che cambiò per sempre la sua vita. Arlen James le mise un braccio sulle spalle e lei si sentì rassicurata, tuttavia quel gesto paterno era il massimo che potesse accettare e non appena il ricordo del suo vero padre si insinuò nella mente, lo respinse. Si staccò
gentilmente dal vecchio signore. «Ti senti bene?» Lui annuì, sebbene l'aspetto lo smentisse. Recentemente i medici avevano parlato di inserirgli un pacemaker, Kate era preoccupata, improvvisamente consapevole dell'età di quell'uomo meraviglioso e del fatto che non avrebbe potuto occuparsi per sempre della fondazione. «Hai letto questo?» disse Arlen battendo il pugno sull'articolo del «New York Post» con tanta forza da spostare la scrivania. GIOVANE BORSISTA MASSACRATA! Cominciò a tossire. Le vene della fronte sporgevano sul viso arrossato. «Calmati, Arlen.» «No!» Le strappò di mano il giornale. «Senti questo... "La vittima Elena Solana si stava specializzando con la fondazione culturale "Offriamo loro un futuro", creatura del filantropo miliardario Arlen James."» Scosse il capo oltraggiato. «Non prendertela, Arlen. È il solito giornalista che...» «E qui... "La polizia non ha ancora elementi per il movente ma pare che si tratti di un incontro finito male. Una donna che si porta a casa l'uomo sbagliato."» «Cosa?» «Aspetta. C'è dell'altro. "L'unico sospetto nelle mani della polizia è un altro laureato della fondazione, la cui identità non è stata rivelata. Il sospetto è a piede libero, mancando le prove per trattenerlo. Una fonte anonima del quartiere generale della polizia sospetta che la fondazione benefica si stia dando da fare per proteggere il proprio discepolo."» «La fondazione benefica? Fammi vedere.» Kate gli strappò di mano il giornale e continuò a leggere: «Oppure può darsi che il sindaco stia cercando di coprire la faccenda, ora che finanzia la fondazione con il denaro del bilancio municipale?». Kate buttò il giornale sulla scrivania. «Gesù!» Arlen James sospirò. «E pare che questo non sia nulla in confronto al "News".» L'ULTIMO NUMERO DELL'ATTRICE Impossibile, pensò Kate fissando il «Daily News» appeso all'edicola. Invece era vero. Non avrebbe voluto comprarlo ma lo acquistò. Lesse: «Giovane donna dell'East Village pugnalata a morte. La storia a
pagina 5». Sfogliò le pagine sottili, fresche di stampa. Tre fotografie a grana grossa, una accanto all'altra: quella del diploma di Elena, un ritratto ufficiale di Arlen James, uno di Kate tratto dal suo libro. «Katherine McKinnon Rothstein,» diceva la didascalia a caratteri minuscoli «nota filantropa del mondo dell'arte.» Seguivano due righe copiate dalla quarta di copertina di Vite d'artisti, un riferimento alla serie televisiva e l'informazione che era stata lei a trovare il corpo di Elena. La vera sorpresa fu scoprire che il cronista aveva svolto delle ricerche sul passato nella polizia di Kate e persino sulla sua specializzazione in minori scomparsi. Col dito disegna un ghirigoro nella polvere spessa che copre il tavolo di metallo. Che cosa gentile e tenera avere qualcuno che veglia su di lui e pensa alle sue necessità. "Un angelo custode." Gli piace l'idea e il suono delle parole. Alza gli occhi ai raggi di luce che filtrano tra le travi del soffitto, immagina un nudo angelo alato che li cavalca come un cowboy da rodeo e sorride. Allarga i tre quotidiani di New York sul lungo tavolo, li apre sulla storia dell'assassinio di Elena Solana che, lui sa, nessuno ha raccontato correttamente. Passa da un articolo all'altro per vedere se qualcuno ha notato la sua firma, poi, deluso, si appoggia allo schienale della sedia. "Idioti!" Un attimo dopo ha in mano il coltello e ritaglia accuratamente la foto di Kate, ruotandola da ogni lato. Poi, comincia a disegnare un paio d'ali sulla schiena e, dopo un'esitazione, aggiunge un'aureola. La fissa con una puntina al muro scrostato e ammira il suo lavoro. Un angelo custode. Posa i libri sul tavolo, pensa alla ragazza. La teneva d'occhio. Il suo modo di muoversi, la voce straordinaria. Fu così che gli venne in mente l'idea, non esattamente un piano, piuttosto un'improvvisazione nella quale stava diventando bravo; anche con l'uomo aveva dovuto improvvisare. Bravo? No, geniale. Chissà se Kate aveva capito il messaggio? Ci pensa su, la vede sui gradini della casa di Elena, con quell'espressione ferita sul viso, intenta a rovinarsi i polmoni con tutto quel catrame e quella nicotina. Ora però deve smetterla di improvvisare e cominciare a pianificare, a prendersi sul serio, come sicuramente farebbero gli altri.
Vuota le borse sul tavolo e mette in ordine gli attrezzi. Quel posto è umido. Trema e guarda negli spazi cavernosi sopra le travi e i muri bucherellati la bella luce pacifica che arriva dal fiume. Un topo corre sulle assi irregolari del pavimento. Un rapido movimento del polso e il coltello sibila e inchioda a terra lo squittente roditore. Ha sempre avuto degli ottimi riflessi. Osserva le zampette che si agitano, la coda che solleva una piccola tempesta di polvere. Basta ora; c'è del lavoro da fare. Vuole creare un altro messaggio, qualcosa di audace che la convinca che sono entrambi coinvolti in quella faccenda. Appoggia il suo ultimo souvenir, la piccola pala d'altare, a un paio di libri, e carica la macchina fotografica. Ogni lampo del flash lo acceca ed evoca una visione: un coltello piantato in un corpo femminile, il rantolo di un uomo che muore, lo strillo di una bambina. Le immagini si fondono con le Polaroid allineate sul tavolo, una nuova serie di immagini che si sviluppano sotto il suo sguardo impaziente. Mentre i dettagli dell'ultima fotografia stanno ancora prendendo forma lui è già intento a tagliare le stampe in minuscoli frammenti che poi sparge, riunisce a caso e infine incolla, rendendo irriconoscibile la figura originale. Solleva l'opera con le dita protette dai guanti e si chiede se deve spedirla, l'idea è così eccitante da procurargli un brivido di piacere. Certo che gliela manderà. Infila il collage in una busta, si appoggia allo schienale e contempla la foto del giornale, quella con le ali e l'aureola, finché la figura di Kate si sbriciola in una miriade di puntini grigi. Lucille passò uno strofinaccio di carta sulle fotografie di Mapplethorpe allineate sulle pareti color talpa del corridoio, immagini di fiori, così seducenti che la governante evitava di soffermarvisi. «Buonasera» disse con l'accento cantilenante della sua isola. «Ho preparato del pollo al limone e un'insalata di pasta per lei e il signore. Non sapevo se cenavate in casa.» Kate la ringraziò cordialmente, poi notò il grosso pacco FedEx di Liz, lo infilò sotto il braccio e marciò verso lo studio. Quando Lucille apparve sulla porta per comunicarle che andava a casa, il cielo al di là della finestra era diventato scuro e Kate aveva già letto due delle monografie spedite da Liz: Stupratori di Nicholas Groth e Colloqui a orientamento behavioristico con vittime di violenza sessuale di Robert R. Hazelwood, riempiendo mezzo taccuino di appunti.
Parecchie ore più tardi l'eco delle immagini non si era ancora spenta. Mangiarono in un'atmosfera greve, nonostante i tentativi di parlare del più e del meno. Infine, sbocconcellando il pollo al limone, Kate disse: «Va bene se ti faccio qualche ipotesi?». Richard riempì i bicchieri di cabernet della California. «Certo.» «Sto cercando di mettere insieme i tasselli. Prima di tutto, la teoria che si tratti di un balordo di strada, non regge. Elena è stata uccisa da qualcuno che conosceva.» «Perché?» «Uno: non c'erano tracce di scasso; la serratura era intatta. Due: la finestra era bloccata. Tre: lei stava preparando il caffè.» Richard la guardò da sopra il bordo del bicchiere. «Come lo sai?» «In cucina c'era un pacchetto di caffè aperto accanto alla scatola dei filtri e la parte superiore della macchina era a terra, in frantumi» disse con gli occhi che brillavano. «Elena gli prepara il caffè... ma non lo bevono. Non c'erano tazze sporche, neppure nel lavandino.» «Le ha lavate lui?» «Può darsi. È probabile. Ma ho la sensazione che siano passati al sesso prima di bere il caffè.» Kate sollevò il bicchiere ma non bevve. «Forse all'inizio lei era consenziente ma non sono mai arrivati in camera da letto. Il letto non è stato toccato.» Riprese fiato e proseguì: «Ovviamente, qualcosa è andato storto». Tamburellò con le dita sul calice di cristallo. «Devo trovare il modo di dare un'occhiata al rapporto del medico legale per sapere se Elena è stata violentata. Non conosci nessuno nel suo ufficio?» «No» replicò Richard aggrottando la fronte. «E poi? Voglio dire, una volta che conosci il risultato dell'autopsia, cosa conti di fare?» «Non lo so ancora, ma sicuramente ne saprò di più sull'accaduto.» La fronte di Richard era tutta una ruga. «Non mi piace che ti comporti di nuovo da poliziotto. Adesso sei mia moglie. E io ti amo.» «Allora sii paziente con me.» Richard riuscì a sorridere. Anche Kate sorrise ma subito la mente traboccò di immagini: le schegge di vetro attorno ai piedi di Elena, il disegno geometrico della trapunta, il sangue coagulato sul pavimento della cucina. «Abbracciami.» Richard scattò in piedi e la cinse con le braccia. Per un attimo Kate si sentì bambina, un ruolo cui aveva dovuto rinunciare prematuramente. Pen-
sò di mostrargli l'inquietante fotografia del diploma ma decise di aspettare per non rovinare quel momento. Le dita di Richard le solleticarono il braccio. In camera da letto Kate accese lo stereo, scelse Barbara Lewis, un'apprezzata cantante dei Motown degli anni Cinquanta e canticchiò Hello Stranger mentre si sfilava il pullover. Richard si tolse la cintura e i pantaloni che s'impigliarono nei mocassini oxford. Kate finì di spogliarsi e si distese sulla nuvola bianca dei cuscini. «Sei bella» disse lui, in boxer a calzini, guardandola dall'alto. «Lo saresti anche tu» replicò lei con una smorfia «se ti togliessi le calze.» Le calze sparirono in un lampo e ancora più rapidamente Richard le slacciò il reggiseno e la baciò. Le canzoni di Barbara Lewis suonavano già da tempo. «Sono d'accordo con Barbara» disse Kate guardandolo negli occhi azzurri e baciandolo sulle labbra. La lingua di Richard esplorò delicatamente la sua bocca. Kate chiuse gli occhi e vide uno schermo azzurro che diventava lilla, poi rosso. La mano di Richard le stringeva i capezzoli. Il rosso virò al viola e si raggrumò nel buio della mente formando lunghe strisce verticali. Un lampo di luce: il flash di un fotografo. Bianco accecante. Le palpebre di Kate fremettero e aprì gli occhi. La faccia di Richard era vicinissima, un ingrandimento fotografico: ciglia lunghe una spanna, pori larghi come crateri, ma le sue labbra erano calde e la lingua danzava. Kate chiuse gli occhi. Nero totale. Sì, era quello che voleva: il vuoto e il contatto fisico per sentirsi viva. La mano di Richard le carezzava la coscia, le dita sfiorarono l'orlo delle mutandine e si infilarono sotto. Ma ora il buio si schiariva: ambra che sfumava in terra di siena, poi nel rosa grigiastro della carne devastata che assumeva forma di braccio, di gamba, una tesa in avanti, l'altra piegata; e, tutto attorno, chiazze di sangue rosso sparse come un pomodoro troppo maturo come se il cuore di quel torace violato stesse ancora pulsando. Kate si impose di ascoltare la musica, ma era soffocata dal sibilo dei ventricoli e dell'aorta, oppure era il suo stesso cuore che le rimbombava nelle orecchie? Richard era su di lei, infilato tra le sue cosce; sentiva sul viso il calore del suo respiro. Dietro gli occhi chiusi di Kate le pupille ferme di Elena riflettevano il
nulla. Spalancò gli occhi. Oltre le spalle nude del marito, le tende bianche appena percettibili ondeggiavano come fantasmi. «Stai bene?» «Sì» mentì stringendolo forte. «Sto bene.» Sì, stava bene, ma avrebbe tenuto gli occhi aperti. Fissò gli oggetti nell'oscurità, cercando di coglierne i contorni: le antiche maniglie di ottone dell'armadio, la bottiglia di Bal à Versailles sulla toeletta, il collage di Willie fatto di schegge di legno, riccioli di filo di ferro, impasto di colori. Accanto al quadro una scultura astratta di bronzo scuro pareva pulsare sul suo piedestallo, poi scivolare a terra come lava primordiale e rapprendersi in una forma vagamente umanoide. Dal nulla si materializzò una donna in tailleur pantalone marrone che piantò le dita inguantate in quel grumo di materia. Ansimò quando Richard penetrò in lei muovendosi nel suo corpo. Aprì gli occhi. Li chiuse. Li aprì. Li richiuse. Nessuna differenza; vedeva strisce di sangue, flash che scattavano, cadaveri infilati nei sacchi di plastica. Kate gridò. Richard si fermò. «Che succede?» «Nulla» disse lei stringendolo. «Sei sicura?» «Sì.» Fissò le lentiggini sulle spalle di lui, i capelli che si arricciavano dietro le orecchie, inspirò il profumo del suo dopobarba per mantenersi legata alla realtà di quel momento, per sentirsi viva. 7 Willie guardò l'indirizzo del mittente e aprì lentamente la busta rinforzata. Dentro c'erano un foglio bianco e un libro. Notò la data: tre giorni prima della morte di Elena. Caro Willie, mi dispiace di aver litigato con te; sai che ti voglio bene e sto dalla tua parte. Ho pensato che avresti gradito questo libro di poesie di Langston Hughes. Leggi Tema per l'esame di inglese, tratta del rapporto che esiste nell'arte tra razza e colore. Onestamente non sono sicura se Langston Hughes sostenga la tua o la mia teoria, ma non
importa. Prima che tu abbia finito di leggere, ci saremo già riappacificati. Con affetto Elena. Willie attaccò la lettera alla parete dello studio e fissò le parole finché le lacrime non le ridussero a una macchia sfocata. Il colore seccava sulla grande tavolozza di vetro e con la spatola Willie ne grattò via una scheggia. Se c'era una cosa in cui credeva, quella era l'arte, la sua unica salvezza che gli aveva permesso di mantenere vivo lo spirito e lo avrebbe salvato anche in quella situazione. Prese un grosso pennello bianco dal barattolo vuoto di caffè Maxwell House e lo intinse nel rosso cadmio. Dopo un numero indefinibile di ore, Willie era immerso nella pittura. L'immagine centrale del suo nuovo lavoro, la testa di un uomo gigantesco copiata dalla copertina del libro di poesie di Langston Hughes, era stata realizzata con mano intenzionalmente rozza, tuttavia la somiglianza era notevole. Sul viso del poeta erano tracciati alcuni versi di Tema per l'esame di inglese in brillante acquamarina, e attorno alla testa erano dipinti degli squallidi edifici neri tagliati da pennellate bianche. Il primo squillo del campanello fu soffocato dal suono vigoroso di un rap dei Notorious B.I.G. Al secondo squillo Willie decise che doveva trattarsi di un idiota che suonava tutti i citofoni per divertimento; dopotutto, a Manhattan nessuno si presentava senza avvisare. Tuttavia, quando il campanello ricominciò, un lungo belato seguito da quattro colpetti, Willie sbatté i pennelli sulla tavolozza e andò a rispondere. La voce rauca di suo fratello disse: «Sono io». "Henry. Merda." Henry aveva perso peso, le guance erano più incavate del solito, gli occhi febbrili. Invece di tre, sembrava almeno dieci anni più vecchio di Willie. Nessuno li avrebbe presi per fratelli. Anche da bambini erano molto diversi. La faccia di Henry, lunga e sottile, somigliava a quella della madre; i lineamenti di Willie, invece, erano più morbidi e rotondi, simili a quelli del soldato che non era mai tornato a casa. Henry spostava nervosamente il peso da un piede all'altro. Le scarpe erano spelate e consumate; non portava calzini nonostante la giornata fredda e umida, più simile a una di marzo che a una di maggio. Rannicchiò il corpo sottile su una sedia di legno della cucina. «Hai qualcosa da bere?»
«Caffè?» «Qualcosa di più forte?» «Ho della birra e del bourbon. Nient'altro.» «Va bene il bourbon.» Willie mise a bollire dell'acqua e cercò sotto il lavandino una mezza bottiglia di bourbon che era lì da più di un anno. Osservò il fratello versarsene un sorso e berlo d'un fiato. «Non puoi aspettare il caffè, eh?» Henry lo guardò con l'espressione torva e vile che Willie ricordava dai tempi in cui vivevano tutti insieme, quando aveva cominciato a drogarsi pesantemente e litigava sempre con la madre, con lui e con chiunque altro. «Ti dà fastidio?» Willie sospirò. Non aveva voglia di discutere. «No, nessun problema.» Henry giocherellò con le bustine di zucchero, ne aprì parecchie contemporaneamente e si versò i granelli in bocca. Willie riconobbe l'ingordigia del drogato. «È bello vederti, fratellino» disse Henry con la solita espressione turbata dipinta sul viso. «Ho avuto dei momenti difficili... in queste ultime due settimane.» Si versò dell'altro bourbon. «Le cose non mi vanno bene come a te.» Willie si passò ripetutamente il palmo della mano sulla fronte: stava venendogli mal di testa. Il CD suonava a tutto volume; Willie rimpianse di non averlo abbassato prima che Henry salisse. Preferendo non muoversi, rimase seduto ad ascoltare i Notorious B.I.G. che cantavano Somebody's gotta die, Qualcuno deve morire. Henry gli afferrò il polso. «Che bell'orologio. Quanto lo hai pagato?» «È un regalo.» «Oh, davvero? Nessuno mi ha mai fatto un regalo così. Ti sei fatto una ragazza, eh? Una pollastrella bianca, giusto? Quanto vale?» «Ti ho detto che me l'hanno regalato. Non ne ho idea» mentì Willie, che invece un'idea l'aveva. Era il regalo di compleanno di Kate. Aveva visto degli orologi di platino come quello nei negozi e sapeva quanto costavano; una cifra che lo aveva sorpreso e commosso, tanto era importante. Henry indicò lo studio con un cenno del capo. «Ti sei sistemato magnificamente», e puntando il dito verso il nuovo quadro di Langston Hughes: «La vendi, questa porcheria?». «Sì» sibilò Willie tra i denti. «Quanto?»
«Dipende» replicò senza curarsi di nascondere l'irritazione. «A me arriva solo la metà. Divido il ricavato con la galleria.» «Davvero? Si direbbe che loro siano sistemati anche meglio di te.» Versò il bourbon nella tazza del caffè. «Quindi, quanto è la tua parte?» «Non sono affari tuoi.» Henry lo guardò strizzando gli occhi scuri. «Anch'io avrei potuto diventare un fottuto artista. Lo sai.» La solita vecchia storia di ciò che sarebbe potuto diventare. C'erano finalmente arrivati. Willie annuì poco convinto. «Avevo del talento, fratello. Molto talento.» «Sì, Henry, lo so» sospirò Willie. «Eri bravo.» «Maledettamente bravo; più che bravo. Ero dotato di autentico talento.» Un altro cenno col capo verso lo studio di Willie, un altro sorso di liquore. «Cazzo, potrei fare quella merda a occhi chiusi.» I Notorious B.I.G. continuavano a ripetere all'infinito lo stesso ritornello: qualcuno deve morire. «Tu hai avuto tutte le opportunità, fratellino.» Willie si alzò, stanco di attendere che Henry si decidesse a chiedergli i soldi che, lo sapeva, erano la ragione della sua visita; lui veniva solo quando aveva bisogno di qualcosa. «Non ho molto denaro in casa» disse con impazienza «e do gran parte di ciò che guadagno alla mamma.» «Sì, lo so.» Lo sguardo corrucciato di Henry si velò di malinconia. «Non sono venuto per questo.» «No! Perché allora?» Henry si guardò le mani, staccò una crosta. «Credi che venga solo per i soldi?» «Allora dimmi cosa vuoi, Henry?» Il bourbon traboccò dalla tazza; le mani di Henry cominciarono a tremare. «Sai che mi piace quella tua amica. Lo sai, vero?» «Chi? Intendi... Elena?» Henry annuì e vuotò il contenuto della bottiglia nella tazza. Gesù. Henry la conosceva da anni, da quando erano bambini nel Bronx. Willie guardò attentamente il fratello: la pelle scura ingrigita dal pallore del drogato, gli occhi iniettati di sangue, gli zigomi troppo sporgenti nel viso scarno. Sotto l'espressione sfottente del ragazzo di strada notò uno sguardo spaventato che gli strappò il cuore. «Già. E tu piaci a lei, Henry.» Parlare di Elena al presente gli faceva male. «Sai cosa è successo?» «Mi piace tanto e...»
«L'hai già detto.» Willie stava di nuovo perdendo la pazienza. «Ti ho chiesto se sai cosa è successo a Elena. Che è... morta.» «Sì.» Henry tremò da capo a piedi. «Lo so.» «Come? Come fai a saperlo?» «So leggere» disse Henry. Willie sospirò. «Allora, cosa vuoi dirmi di Elena?» Henry si raggomitolò su se stesso, gli occhi si velarono come se stesse ascoltando una voce interiore. «Che cos'hai, Henry?» Il ragazzo fissò la tazza vuota e domandò: «C'è dell'altro bourbon?». «No.» Willie strappò la bottiglia dalla mano tremante del fratello e la buttò nella pattumiera di metallo. Il rumore del vetro infranto echeggiò come musica atonale. Henry scattò in piedi e spinse il corpo spigoloso contro quello di Willie; le vene della fronte pulsavano, la rabbia era alimentata da una forza improvvisa. «Rilassati, Henry. Stai calmo.» «Calmo?» Gli occhi erano neri come la pece. Willie si liberò dalla presa. «Gesù, cosa ti prende?» Henry lo guardò e si acquietò. «Scusa.» Scosse il capo e la rabbia scivolò dalle sue membra come neve sciolta. «Non volevo. È che....» Aveva le lacrime agli occhi. «Oh, merda, scusami tu.» Henry agitò una mano e si trascinò alla porta. «Aspetta.» Willie andò in camera da letto e tornò col portafogli. «Ho trentasei dollari in tutto» disse infilandogli il denaro nelle mani piene di macchie. «Mi hanno licenziato come fattorino, ma prestissimo troverò un altro lavoro, un altro posto da fattorino. Te li restituirò.» «Certo.» «Non ho fatto niente, Will.» «Chi ha detto il contrario?» «Ma... potrebbero...» Willie guardò negli occhi il fratello che aveva le pupille dilatate e il bianco iniettato di sangue. «Di cosa parli?» Henry deglutì. «Niente.» Le mani avevano ricominciato a tremare. «Merda, Henry, cosa ti preoccupa?» Ma Henry tremava tanto da non poter parlare. Willie lo abbracciò. La
forza era svanita, il corpo tremava come una fascina di ramoscelli secchi sul punto di spezzarsi. Willie lo tenne stretto finché il tremore si placò. «Sto bene...» mormorò Henry staccandosi da lui. «Ehi, aspetta un momento.» Willie frugò in un cassetto e trovò un paio di calze di lana. «Indossale; è umido oggi.» Henry si tolse le scarpe e infilò le calze lentamente, con cautela, come se la morbida lana gli irritasse la pelle. Willie osservò i piedi gonfi e chiazzati del fratello. Sentiva le lacrime premere sotto le palpebre. «Non hai un cappotto, una giacca?» «L'ho persa» disse Henry guardando lontano. Willie staccò una vecchia giacca a vento blu dall'attaccapanni e gliela posò sulle spalle. «Ehi! Il mese prossimo sarà troppo pesante» disse cercando di sorridere. Tuttavia, dopo che Henry se ne fu andato, per quanto impegno mettesse nel quadro nuovo o quante volte cambiasse disco, nulla pareva funzionare. 8 Il detective della Omicidi Floyd Brown Jr., con tre ore di ritardo, si era appena seduto a tavola per la cena quando suonò il telefono. Sua moglie Vonette andò a rispondere e, con la mano sul ricevitore, sussurrò: «Mead». Floyd posò la forchetta, di certo l'ispettore lo chiamava per un aggiornamento sull'arresto del cecchino di Central Park che gli aveva causato tre ore di ritardo sull'orario della cena. Il detective temeva che Mead non ritenesse sufficienti le prove per incastrarlo; quel balordo aveva colpito cinque persone negli ultimi sei mesi ma le sue vittime erano morte prima di poter fare un identikit. Ciò nonostante, Floyd non era preoccupato. Quel pomeriggio aveva trascorso tre ore con quello psicopatico che evidentemente aveva voglia di confessare, e non aveva esitato ad aiutarlo a scaricarsi la coscienza tormentata. Ora si era conquistato una meritata vacanza dopo due mesi di lavoro ininterrotto, notti e fini settimana compresi. «Brown...» Mead fu interrotto da una voce che si distingueva dalle altre che facevano da sottofondo. «Scusa. Ottimo lavoro oggi. Ho saputo che hai fatto meglio del solito.» «Grazie.» Attese ma Mead non parlò. «Sono sicuro di questo tizio» disse infine. «Eh? Oh, sì. Scusa. Slattery mi sta mostrando qualcosa.» Brown attese ancora. La sua bistecca con patate al forno stava raffred-
dandosi. «Le servono altre informazioni sul cecchino, signore?» «Il cecchino? No. Senti, non ti ho chiamato per il cecchino... naturalmente volevo congratularmi con te... hai fatto un buon lavoro, ma questo lo sai già.» Mead sospirò nel telefono. C'erano momenti in cui Brown provava compassione per il capo della Omicidi. Si rendeva conto di innervosirlo, in parte perché l'ispettore non capiva di che razza di appoggio politico potesse godere un poliziotto nero come Brown, in parte perché lui era vecchio del mestiere, un poliziotto stagionato che non sempre mascherava i suoi dubbi su individui come il suo nuovo superiore: non tollerava di vedere uomini come Mead fare carriera velocemente e senza fatica. «Ho bisogno che tu venga qui. Tra Park e la Settantottesima, numero... merda, qual è il numero? Slattery! Dammi 'sto cazzo di indirizzo.» «Subito?» «Merda, sì. Subito. Voglio che tu veda la scena prima che i ragazzi della Scientifica ci mettano le mani. Abbiamo un morto nella vasca da bagno. Potrebbe trattarsi di incidente ma il medico legale vuole intervenire. Quindi ho bisogno di te prima che lui cominci.» Floyd Brown guardò la cena riscaldata che si raffreddava per la seconda volta e si domandò se sottoporre il cibo a tutte quelle operazioni provocasse il cancro o qualche altro malanno. Guardò Vonette che fissava il muro tenendo la tazza di caffè appoggiata alla guancia, come a chiedersi perché avesse accettato di dividere con un poliziotto ventisette anni di solitudine. Una donna maledettamente carina, pensò Floyd, e mancava solo un mese al suo cinquantunesimo compleanno. Lui avrebbe desiderato stare a casa e godersi un po' d'amore e di tenerezza, ma... guardò l'orologio e disse: «Sarò lì tra circa mezz'ora». Vonette gli lanciò un'occhiata, sospirò e distolse lo sguardo. Randy Mead agganciò prima che Brown potesse aggiungere altro. Non aveva bisogno di farsi sopraffare dai suoi uomini, non dopo mesi di frenesia con quel dannato cecchino psicopatico che aveva fatto impazzire New York, con il capo della polizia Tapell che gli soffiava sul collo, e a questo ora si aggiungeva il tizio morto nella sua dannata vasca da bagno, e non sembrava un incidente. Passò nel salotto e urlò qualcosa a un tecnico che rilevava le impronte. La stanza era piena di opere d'arte. Mead notò un paesaggio assolato e decise che la firma di Monet doveva essere autentica in quell'ambiente tanto pretenzioso. Buttò giù un appunto per ricordarsi di far controllare ai detective che non mancasse nulla di prezioso. Poteva essere
lì il movente del delitto, se di delitto si trattava. Del resto, era piuttosto improbabile annegare nella propria dannata vasca da bagno; non c'erano biglietti d'addio che potessero far pensare a un suicidio e il pavimento attorno alla vasca era bagnato, come se il morto avesse sguazzato nell'acqua. Per giunta l'uomo era un personaggio in vista dell'alta società. Gesù! Proprio quello che ci voleva! Mead sapeva che c'erano molti pretendenti pronti a soffiargli il posto e sospettava che il capo della polizia non vedesse l'ora di sostituirlo con un nero. Si ripromise di essere particolarmente gentile con Floyd Brown, inspirò e si augurò che la morte di quel riccone fosse il risultato di un gioco erotico. «Ehi, Mead, dia un'occhiata a questo.» Un poliziotto massiccio e calvo attraversò lentamente il salotto reggendo nelle mani protette da guanti una busta di plastica contenente un grosso pezzo di cuoio nero: un cappuccio da schiavo grossolanamente cucito, con tagli per gli occhi, il naso e la bocca. «Dove l'hai trovato?» «Nell'ultimo cassetto della toeletta.» «Trovato altro?» «Delle riviste pornografiche, ma stiamo ancora cercando. Il morto potrebbe essersi portato a casa qualche pervertito e poi il gioco è degenerato.» L'idea che quel riccone fosse un patito del sesso sadomaso generò un sorriso sul viso di Mead. «McKnight!» Il massiccio poliziotto calvo tornò indietro. Mead indicò col capo il cappuccio di cuoio. «Non aprire bocca su questo reperto, okay? Non una parola alla stampa, niente rivelazioni. Capito?» «Sì, certo, capo» disse McKnight scrollando le spalle. Mead prese un pennarello nero dalla mano di McKnight e scrisse a stampatello il nome della vittima sulla busta di plastica: WILLIAM MASON PRUITT. 9 Aveva pianto per la morte di sua madre? Perché Kate non riusciva a ricordarlo? Ogni altro dettaglio di quella giornata era inciso profondamente nella memoria: suor Margaret che entrava in classe; il ticchettio metallico delle scarpe di Kate che echeggia contro le pareti grigio-verdi del corrido-
io; il cipiglio della suora - le scarpe da tip tap erano proibite - ammorbidito dalla compassione sul suo viso di vecchia; il taxi che aspettava per portarla a casa; suo padre nell'ingresso, con l'abito grigio appena più scuro delle guance color cenere, e naturalmente zia Patty che, in attesa dell'invasione dei parenti, cucinava e puliva la casa che già odorava di detergente PineSol e di cavolo bollito... e sua madre morta solo da poche ore. Aveva pianto? «Katie, mi senti? Voglio dire, dopotutto la ragazza era come una figlia per te; è normale essere sconvolta e piangere.» «Certo, zia Patty, lo so» disse Kate tornando in sé. Immaginò la sorella di suo padre nell'appartamento di Forest Hills, seduta nel salotto con la tappezzeria a fiori sul bracciolo del sofà foderato di plastica. In quel momento levò gli occhi e vide quella maledetta fotografia che aveva attaccato alla parete, proprio quella di Elena con le palpebre dipinte. Aveva intenzione di mostrarla a Tapell ma temeva di venire invitata, per la seconda volta, a tornarsene a casa a rivangare il suo dolore. Doveva saperne di più. «Perché non ti prendi una vacanza, Katie? Potreste venire qui da me, a Queens. Vi preparerò un bel po' di quel chili che piace tanto a Richard.» «È gentile da parte tua, zia Patty, e verremo presto» disse Kate che non l'ascoltava più, attratta da un piccolo titolo sulla pagina della cronaca cittadina: FINANZIERE DELL'ALTA SOCIETÀ TROVATO MORTO «Ora devo andare, ma ti richiamerò presto. Grazie ancora» disse prendendo il «Times». Kate lesse rapidamente l'articolo che citava la partecipazione di Bill Pruitt a "Offriamo loro un futuro", i club di cui era membro (Yale, Century), la sua carica di presidente del consiglio di amministrazione del museo di arte contemporanea e il fatto che era stato trovato morto nella vasca da bagno. "Nella vasca? Ha avuto un infarto?" Chiamò immediatamente Richard. Lo sapeva? Tamburellò con le unghie sulla scrivania ascoltando i trilli del telefono. Richard era in tribunale; tutto il suo tempo era dedicato alla causa in cui i membri di una società di Wall Street si accusavano a vicenda: Avidità contro Cupidigia, così Richard aveva soprannominato quel caso. Kate stava esaminando i dettagli dell'articolo quando suonò il citofono. Era Ryan, il giovane portiere. C'era un pacco per lei e glielo avrebbe porta-
to su, disse con troppo entusiasmo. Gli occhi di Ryan le accarezzavano le spalle e Kate strinse la cintura della vestaglia. Una normale busta marrone, consegnata a mano, senza indirizzo del mittente, soltanto il suo nome scritto a stampatello su un'etichetta autoadesiva. Dentro c'era una specie di mosaico, un guazzabuglio di pezzi colorati incollati insieme, della misura di una cartolina. L'invito a una mostra? Kate guardò il retro. Nulla. Se realmente era un invito risultava molto enigmatico. Fece scorrere le dita sulla superficie, sfiorò i bordi frastagliati. Era fatto a mano. Per lei? I nervi di Kate fremettero mentre nella mente prendeva corpo la fotografia del diploma. Che ci fosse un collegamento? Perché le avevano mandato quel cartoncino? Lo lasciò cadere e lo osservò svolazzare a terra, poi lo raccolse e prese la lente di ingrandimento che usava per esaminare i dettagli negli angoli dei quadri fiamminghi. Ebbe la conferma che si trattava di un collage fatto con i ritagli di una fotografia. Dopo essersi sforzata la vista attraverso la lente per dieci minuti, dai frammenti riconoscibili di una croce, una foglia d'oro, un seno, Kate fu certa che si trattava di un quadro, probabilmente una Madonna. Conosceva la persona giusta che le avrebbe dato la certezza assoluta. Durante la corsa in taxi il cuore di Kate batteva forsennatamente. Qualcuno le mandava quelle strane cose, ma perché? Kate entrò nell'elegante palazzo tra Madison e la Settantacinquesima Strada con il collage infilato nella busta e si augurò di non averlo toccato anche se ormai era troppo tardi per preoccuparsi. Sulla piccola targa di bronzo si leggeva: GALLERIA DELANO-SHARFSTEIN, un'oasi di pace e bellezza, un mondo di quadri e oggetti d'arte di valore inestimabile. Con le sue pareti di legno scuro e i tappeti orientali la galleria sembrava un piccolo museo privato, invece gli oggetti erano in vendita. Da studente, Kate vi si recava regolarmente e alla terza o quarta visita era stata avvicinata, con estrema gentilezza, da un ometto di corporatura robusta con una magnifica faccia ben scolpita dalla quale spiccava un imponente naso adunco. Le si era messo accanto osservandola, così le era sembrato, mentre lei, a sua volta, fingeva di studiare un ritratto del sedicesimo secolo. «Delizioso, no?» «Già» aveva replicato Kate, prendendo atto dell'elegante abito con pan-
ciotto. «In questi ultimi mesi non ho potuto non notarla.» La voce era raffinata ma costruita, pensò la donna, e poteva ben dirlo lei che se ne era costruita una a sua volta. Le tese la mano piccola e perfetta. «Merton Sharfstein.» «Oh, questa galleria è sua. Piacere.» E fu davvero un piacere. Quando Kate gli disse che studiava storia dell'arte, Sharfstein le fece fare il giro completo dei locali, accompagnandola al primo piano dove c'erano le sale private, solitamente riservate ai clienti intenzionati a comprare, e illustrandole opere d'arte che lei non credeva esistessero fuori dai musei. Kate diventò una frequentatrice abituale e le attenzioni del proprietario ottennero infine un riscontro. Dopo il matrimonio Kate portò il marito alla galleria Delano-Sharfstein e sebbene Richard si interessasse soprattutto di arte contemporanea, Merton gli fece notare che una collezione senza "storia" non era "abbastanza importante per una persona del suo gusto". Oh, sì, Merton era in gamba e Richard non esitò a sborsare alcune centinaia di migliaia di dollari per acquisire un pezzo di storia. «Joel, come va?» «Benissimo, grazie, signora Rothstein» rispose in un sussurro il bel giovanotto dietro lo scrittoio di mogano. «Il signor Sharfstein la aspetta alle due.» Kate attraversò le sale con gli enormi camini di marmo, i pavimenti intarsiati e i soffitti artisticamente stuccati. Lo scalone circolare era una degna scenografia per un'attrice di altri tempi, come quella Loretta Young che tanto piaceva alla madre di Kate. «Un caffè, un tè?» offrì un altro giovanotto, ancora più carino di Joel, che sussurrava come se nella stanza accanto ci fosse un neonato addormentato. Kate si sedette in una saletta privata abbellita con una serie di acqueforti di Goya. «Merton sarà occupato a lungo?» «Pochi minuti» sussurrò il ragazzo. «È con un cliente.» Kate si avvicinò a un Goya: macchie di inchiostro nero e grigio, scure, misteriose. L'assistente l'invitò a fare un passo indietro e improvvisamente l'immagine prese vita: un matador che uccideva un toro. «Era troppo vicina per vedere» disse il ragazzo. Un'osservazione interessante.
Kate si avvicinò nuovamente per esaminare i grigi nebulosi, il nero tagliente, e in quel momento si spalancò la porta dell'ufficio del mercante d'arte che uscì accompagnato da un giovane in pantaloni di pelle incollati alle gambe e camicia di seta maculata aperta fino all'ombelico. «Kate Rothstein. Il signor Strike.» «Strike, amico, solo Strike» disse l'uomo chinando verso Kate la criniera di capelli corvini. «Oh, il musicista. Adoro Mosh Pit Stomper» replicò Kate facendo schioccare le dita, poi imitando la voce di Joan Jett accennò: «"Prendimi a calci, prendimi a pugni, amami fino alla morte, oh, mosh pit stomperrr..."». Merton la fissò a bocca aperta. «Musicista, dici bene, amore.» Strike buttò il braccio pieno di tatuaggi sulle spalle di Kate e strizzò l'occhio pesantemente truccato. «Per tutti gli altri sono solo una maledetta rock star.» «Il signor Strike, mi perdoni, solo Strike, ha un senso estetico molto sviluppato. Ha appena scelto tre disegni stupendi, un Rubens e due Dürer.» «Non ci capisco niente, amore, ma mi sono piaciuti un sacco. Su questo non c'è dubbio.» «Già.» Merton si sforzò di sorridere e un minuto dopo, congedato Strike con il consueto garbo, sospirò in modo esagerato. «Sinceramente... la gentaglia con cui mi tocca trattare al giorno d'oggi...» «Strike ha appena sborsato, un milione o due e io dovrei compatirti? Te lo sogni, amore» replicò Kate baciandolo sulla guancia. Poi si fece seria. «Mert, voglio mostrarti una cosa.» Estrasse il collage dalla busta con le dita che tremavano leggermente. «Potresti metterti i guanti, per favore?» Per le sue impronte era troppo tardi, ma perché aggiungerne altre? Soltanto a guardarlo, Kate provò paura. Mert infilò le mani delicate nei guanti di cotone bianco. Kate gli passò la lente d'ingrandimento e gli occhi apparvero grandi come palline da tennis. «Potrebbe essere una figura, un bambino oppure... aspetta, ho un'idea.» Poco dopo un altro dei bei ragazzi di Merton stava analizzando il collage al computer: l'immagine sullo schermo era ingrandita quattro volte rispetto all'originale. Merton batteva le dita sulle labbra indicando ora un frammento ora un altro. «Ingrandiscili tutti e stampali.» Un quarto d'ora più tardi l'assistente aveva ingrandito una ventina di minuscoli frammenti e su indicazione di Kate e Merton li aveva ritagliati come i pezzi di un puzzle. La donna li spostò sulla scrivania, unendoli in
modo da ricreare circa un terzo del quadro: la testa di un bambino, un seno e un braccio, una parte di un manto blu intenso: una Madonna col Bambino. «Sembra un test universitario di storia dell'arte. Scoprite il quadro da un frammento» commentò Kate piazzando un altro pezzo. «Dallo stile direi che è troppo sofisticato per un dipinto medievale però... non è ancora Rinascimento. Che ne dici, Mert?» Il mercante d'arte sorrise. «Quattordicesimo secolo, più o meno. Italiano, senza dubbio.» «Chi colleziona questa roba a New York?» «Beh, così su due piedi mi viene in mente tuo marito.» «Ha solo un paio di pezzi, grazie a te. E non ne compra da quando sono diventati troppo cari. Chi altro?» Merton storse la bocca. «Il tuo presidente del museo di arte contemporanea, il signor William Mason Pruitt, ha manifestato interesse per un pezzo che avevo circa sei mesi fa, ma il prezzo lo ha spaventato.» «Bill Pruitt?» «Un taccagno terrificante... almeno lo era. Perdonami, ho appena saputo la notizia. Ma ha tentato di convincermi a vendergli un acquerello di Rubens a metà prezzo, solo perché lui era un uomo così importante. Gli ho detto di rivolgersi altrove.» «Non ti viene in mente nessun altro?» «Parecchie persone, ma dovrei controllare l'archivio. A New York ci sono altri mercanti che trattano questo genere, parecchi naturalmente in Europa e non tutti rispettabili. Come sai, Kate, il traffico di quadri e oggetti rubati è un'attività molto redditizia e...» Merton si bloccò e osservò i frammenti ritagliati. «Aspetta un momento.» Gli occhi astuti si strinsero, il naso a becco fremette sfiorando l'interfono dell'ufficio. «Joel, per favore, portami subito l'ultimo elenco delle opere d'arte rubate. No, quello degli ultimi sei mesi.» «Che c'è, Mert?» domandò Kate colpita dalla sua eccitazione. «Riceviamo degli aggiornamenti mensili» spiegò Merton sfogliando pagine e pagine di un catalogo finché trovò ciò che cercava. Sbatté il foglio sul tavolo accanto al puzzle incompiuto. Italiano. Quattordicesimo secolo. Senese. Tempera su tavola di legno. Questa piccola pala d'altare, parte della predella di una chiesa di
Asciano, Italia, è sparita dall'undici marzo. Il lavoro è attribuito alla scuola di Duccio, forse alla mano stessa del maestro. Valore approssimativo: da tre a sei milioni di dollari. Gli esperti controllino la filigrana sullo sfondo a foglia d'oro. Kate passò da un'immagine all'altra, prese la lente e verificò l'identica filigrana in entrambe. «Sei un genio, Mert!» Afferrò il rapporto sulle opere rubate e lo infilò nella busta con gli ingrandimenti dei ritagli e il collage originale. «Mi servono.» Gli occhi d'aquila di Mert diventarono due fessure. «Che cos'è questa storia, Kate?» «Quando lo scoprirò» replicò lei, «sarai il primo a saperlo.» 10 Completi scuri e tailleur neri come si addice alla solennità dell'avvenimento. Il sacerdote, che evidentemente non conosceva Bill Pruitt, pronunciò vaghe dichiarazioni di stima per le "buone opere" dell'uomo. Nessuno si fece avanti quando domandò: «Qualcuno desidera dire qualche parola per commemorare il defunto?». Kate fu tentata di alzarsi ma quello che avrebbe detto sarebbe servito solo per spezzare il silenzio imbarazzato. Osservò la gente raccolta nella cappella dell'Upper East Side: il personale del museo di arte contemporanea e della fondazione "Offriamo loro un futuro", parecchi noti politici repubblicani, una manciata di potenti di New York, Amy Schwartz, direttrice del museo quasi a fine mandato, fiancheggiata dal sovrintendente Schuyler Mills e dal vicecuratore Raphael Perez, entrambi col viso di pietra in contrasto col tocco stonato del garofano rosso all'occhiello di Mills. Sull'altro lato della navata Blair, amica e collaboratrice di Kate alla fondazione, roteava gli occhi a ogni tributo che il sacerdote riusciva a inventare. Una folla di dimensioni rispettabili anche se tutti guardavano annoiati l'orologio e un uomo stava addirittura bisbigliando nel cellulare. Richard si era rifiutato di partecipare; non voleva fare l'ipocrita, ma evidentemente gli altri non erano stati turbati da quello stesso scrupolo. Persino la madre di Pruitt, venerabile membro del bel mondo, continuava a sbadigliare cercando di nascondersi dietro il fazzoletto di pizzo. Dopo venti minuti il gruppo uscì nella luce rarefatta del pomeriggio ri-
versandosi in Madison Avenue. Blair si avvicinò a Kate e le sussurrò: «Tesoro, se dovessi schiattare all'improvviso, ti prego, inventa qualcosa su di me, qualsiasi cosa, oltre alle mie opere caritatevoli». «Tipo "dedita a shopping compulsivo" o... "instancabile frequentatrice di ristoranti"?» «Strega» rise Blair. Quindi soggiunse: «Hai controllato tutto per la festa di beneficenza?». Kate contò sulle dita. «Fiori, fornitori, gente delle pubbliche relazioni. Sì.» «Splendido.» Blair baciò l'aria attorno alle sue guance. «Vado da Michael Kors per l'ultima prova del mio abito da sera. Di te chi si cura, tesoro?» «Oh» fece Kate che non ci aveva neppure pensato. «Immagino Richard, anche se raramente purtroppo.» La risata argentina di Blair continuò finché l'autista chiuse la portiera della BMW. La signora Pruitt posò la mano sul braccio di Kate. «Come sei stata gentile a venire, cara.» L'elmo compatto dei capelli luccicava di lacca. Kate provò una fitta di rimorso: era venuta solo per dovere. «Beh» disse, «Bill era sempre così...» La donna anziana attese che Kate completasse la frase. «... ben vestito» riuscì finalmente a dire. La donna approvò con un cenno del capo, poi sospirò. «Hai voglia di venire a bere qualcosa? Abito qui a due passi.» Kate non se la sentì di rifiutare. Winnie Armstrong Pruitt Eckstein si accomodò con assoluta naturalezza su un divano Impero che poteva essere appartenuto all'imperatrice Giuseppina. Nell'appartamento di Park Avenue si notava la mano di Sister Parish, la grande arredatrice defunta, prediletta dalle famiglie di antica ricchezza. Sembrava di trovarsi in una residenza inglese di campagna nel bel mezzo di Manhattan, con tanto di broccati, chintz, vecchi tappeti persiani, un enorme mazzo di fiori di campo sul pianoforte a coda e una parete ricoperta di ritratti di cani. La cameriera posò un vassoio tra loro e versò il Martini da uno shaker stile art déco. «Cin cin» disse Winnie sfiorando il bicchiere di Kate mentre gli occhi le scintillavano sotto le palpebre scurite dall'ombretto blu. Il brindisi e l'atteggiamento di Winnie non erano appropriati alla circo-
stanza. La donna le ricordava sempre un'attrice dei tempi andati, in particolare quella che interpretava la madre svampita di Cary Grant, un misto di ereditiera e di soubrette, in Intrigo internazionale di Hitchcock, un vecchio film molto amato da Kate. Era un mistero come avesse fatto a generare un figlio come Bill. «Come sta quel tuo affascinante marito?» domandò Winnie. «Lavora troppo ma sta bene.» La voce di Winnie si abbassò in un sussurro confidenziale. «Mia madre diceva sempre che gli ebrei sono i mariti migliori», si voltò verso Kate e le lanciò una strizzata d'occhi. «Io credevo che sarei sempre stata sposata con Foster Pruitt, il padre di Bill, ma poi, beh, lui è morto e a essere proprio sincera...» si protese verso Kate «non mi ha lasciato nelle condizioni che mi auguravo. Non che abbia sposato Eckstein per interesse, per carità!» La mano svolazzò verso il petto. «Larry Eckstein era l'uomo più meraviglioso del mondo!» sospirò drammaticamente. «Oh, quell'uomo mi manca da morire!» Le si inumidirono gli occhi, prese un campanello dal tavolo e lo scosse con forza. «Un altro drink?» La cameriera riempì i bicchieri. «Mio figlio fu l'unico a disapprovare decisamente il mio matrimonio con Larry.» «Per qualcuno non è facile accettare i cambiamenti» commentò diplomatica Kate. «Oh, balle! Era uno snob. Abbiamo avuto uno scontro terribile su questo argomento.» Scosse il capo. «Sebbene dopo la morte di Larry ci siamo più o meno riavvicinati, credo che ora William si senta un po' in colpa e questo torna a suo merito.» La signora Pruitt protese le labbra. «Oh, cielo, ne parlo come se fosse ancora vivo.» «È difficile credere che se ne sia andato. Ci...» Kate fece fatica a pronunciare la parola: «mancherà». Winnie sollevò il sopracciglio e assunse un'espressione scettica. "Povero Bill." Non piaceva neppure a sua madre. Kate cercò qualcosa da dire e indicò la parete con i quadri dei cani. «Vedo che condivideva con suo figlio l'amore per l'arte.» «Oh, no. Avevamo gusti assolutamente diversi. Adoravo naturalmente i suoi impressionisti, a chi non piacciono? Ma tutti quei quadri religiosi, beh... li trovo un po' troppo cattolici.» Finì il secondo Martini e continuò: «Ne ho qui uno che mi ha lasciato Bill». «Un dipinto tardo-medievale?» l'attenzione di Kate si risvegliò malgrado
avesse bevuto due Martini. «Posso vederlo?» Winnie frugò in un anfratto della biblioteca foderata di legno, prese una crocifissione dipinta su legno, non più grande di un tascabile, e la consegnò a Kate con indifferenza come se fosse stata una vecchia guida ai programmi della televisione. Dapprima Kate fu delusa: si era aspettata che Winnie avesse la Madonna col Bambino del collage? «Ritengo sia molto antico» disse Winnie alzando le spalle con noncuranza. Kate osservò le crepe della vernice, i residui di foglia d'oro lungo i bordi. Richard sarebbe stato disposto a uccidere per averlo, pensò, se era autentico. Lo guardò con maggiore attenzione. «Pensi che sia di valore?» «Difficile dirlo» rispose Kate, «non sono esperta in questo campo, ma è probabile. Quando glielo ha dato Bill?» «Oh, un paio di mesi fa. Una cosa strana. Me lo ha affidato come fosse un cane o un gatto pregandomi di averne cura.» «Gliene ha dati altri?» «Uno o due di quei magnifici ritratti di cani» disse Winnie illuminandosi, poi si interruppe per riflettere. «Sai... ho visto un altro dipinto di soggetto religioso in casa di Bill, proprio il giorno prima che morisse. Era sulla scrivania della biblioteca, ancora mezzo incartato. Una Madonna col Bambino.» Winnie fissò il muro, perplessa. «Ora che ci penso...» Andò a prendere delle carte dalla scrivania e corse in fondo a una pagina col dito. «Vediamo... no, la Madonna col Bambino non c'è. Strano.» Passò il foglio a Kate. «È l'inventario delle opere d'arte trovate nell'appartamento di Bill. Me l'ha dato la polizia: sono stati anche molto irritanti» commentò protendendo le labbra. «Pretendono che sia io a controllare con l'assicurazione se manca qualcosa. Ma ti pare...» «È sicura di aver visto... una Madonna col Bambino?» «Kate, mia cara, sarò vecchia ma non rimbambita.» «Mi scusi, non intendevo...» Kate esaminò l'elenco, poi tirò fuori dalla borsetta i ritagli del quadro e li sistemò sulla scrivania. «Assomigliava a questo?» «Accidenti.» Winnie inclinò il capo da una parte e dall'altra. «Sai che non sono un'esperta, cara, ma direi che è proprio lo stesso.» Kate rifletté. «Bill potrebbe averlo venduto.» «Mi sembra poco probabile. L'ho visto il giorno prima che morisse; non
ne ha avuto il tempo.» Delizioso. Gli occhi indugiano sulla delicata filigrana della foglia d'oro, sulle minuscole crepe della tempera, sullo sguardo tenero degli occhi semichiusi della Madonna. Così bello, così commovente, che ha quasi paura di guardare l'emozione che l'artista ha riversato in un quadro dipinto per suscitare riverenza e compassione. Ha fatto bene a prenderlo. Quell'uomo non lo meritava. Cerca di rivivere il momento in cui teneva sollevate le gambe magre di quel vecchio scemo osservandolo agitarsi nell'acqua. La parte migliore? Tamburella con la matita sul bordo del tavolo di metallo. Oh, sì, il colpo di fortuna è stato trovare la ricevuta della lavanderia. Il tocco perfetto per la messinscena. Eppure, ciò che ha fatto gli ha ricordato un po' troppo il lavoro. Rimpiange di non aver preso qualcosa, un talismano, un souvenir. Lascia scorrere lo sguardo nel vasto ambiente spoglio, verso quella che un tempo era una finestra e adesso è soltanto un riquadro storto, con i bordi frastagliati, una cornice per un pezzo di fiume, come una vecchia fotografia. Ecco. Una macchina fotografica. La prossima volta si porterà dietro una Polaroid. Tira verso di sé il pesante volume, sfoglia le pagine. La prossima volta deve essere più divertente. Come fare perché risulti al contempo essenziale e piacevole? Difficile perseguire il piacere. È mai riuscito a provarlo veramente? Ora comincia a dolergli il capo. Si massaggia la fronte, premendo con le dita fino a far bruciare la pelle, si appoggia allo schienale e respira profondamente; un attimo di sollievo. Infila i guanti, gira le pagine con cura, si ferma quando trova qualcosa di interessante. Ma dove potrebbe procurarsi tutti quei fucili? No, non è fattibile. Non ancora, per lo meno. Ha trovato! Duro, drammatico, vivido. Gli piace. Pensa che piacerà anche all'artista. Forse è troppo vivido, troppo perfetto. Ma importa davvero? Dopotutto, quel tizio è soltanto una pedina, null'altro che una comparsa. Com'è stato facile ottenere l'appuntamento. Un po' d'adulazione e si raggiunge sempre lo scopo, specialmente con un artista. E l'accento è stato un tocco da maestro.
Immagina l'artista nel suo isolato studio di Hell's Kitchen, circondato dai suoi insipidi quadretti, si allunga sulla sedia, fa scorrere le dita sul muro irregolare seguendo rigonfiamenti e crepe, si ferma sulla fotografia di Kate, il suo angelo custode con le ali e l'aureola tracciate a matita. Le sta dando troppe informazioni? Le ha già fornito parecchio materiale su cui riflettere. Quanto avrà capito? Quanto sa? Beh, in fondo quello è il suo lavoro e stavolta non ha intenzione di renderle la vita facile. Controlla l'orologio. Ha caldo e fame. Manca poco. «Lieto di conoscerla» dice ad alta voce, esercitandosi a parlare con accento tedesco. 11 Ethan Stein riordinò le recensioni dei suoi lavori sul tavolo imbrattato di vernice accanto all'ingresso dello studio di Hell's Kitchen. Le aveva fatte ingrandire del dieci per cento, per renderle più efficaci agli occhi del lettore. Che importava se risalivano ad alcuni anni prima? Cosa gli aveva detto al telefono il collezionista? Che era "da tempo un ammiratore" del lavoro di Ethan Stein? Qualcosa del genere. Comunque, quella era musica per le sue orecchie, la manna dal cielo e tutte le altre metafore immaginabili. Ultimamente non aveva ricevuto molti complimenti; collezionisti e conservatori di musei non facevano certo la fila davanti alla sua porta. Forse questo spiegava perché Ethan avesse trascurato di chiedere dei dettagli, sapeva solo che l'uomo aveva visto un suo quadro, a casa di un altro collezionista, da qualche parte. L'importante era che l'uomo stava venendo nel suo studio "con l'intenzione di comprare". Questo lo aveva udito chiaro e forte. Dieci anni innanzi Stein era uno dei cosiddetti "ragazzacci", una promessa venticinquenne nel mondo dell'arte concettuale post-minimalista, e decisamente ne era fiero. Tuttavia, dalla sua ultima mostra a New York erano trascorsi sei anni; sei lunghi anni. Beh, le cose dovevano cambiare, e presto. La telefonata era un buon segno; un auspicio favorevole. Inoltre, i suoi nuovi quadri erano belli. Non esattamente rivoluzionari, ma non importava. Il suo lavoro era sempre stato onesto. Versò dell'acquaragia sulla grande tavolozza di vetro. Era ormai una set-
timana che non dipingeva ma voleva che l'odore dello studio dimostrasse il contrario. Tentò di ricordare il nome del collezionista mentre cercava tra i CD la musica più appropriata ai suoi quadri astratti minimalisti; scelse un jazz morbido. Si era presentato, quel tizio? Avrebbe dovuto prestargli più attenzione. Forse era un nome straniero, sicuramente parlava con un accento particolare. L'artista diede un'ultima occhiata allo studio mentre il sole calava dietro il vecchio palazzo McGraw-Hill, verificò che la bottiglia di Sancerre fosse al fresco nel minuscolo frigorifero, sbriciolò qualche scaglia di colore in una ciotola e risistemò per la centesima volta le recensioni. Poiché raramente si fermava in studio fino a tardi, si sentiva a disagio nell'edificio completamente deserto dopo che gli impiegati se ne erano andati alle cinque in punto. Di notte l'Undicesima Strada era priva di vita ma valeva la pena aspettare. Il citofono ronzò. Ethan guardò l'orologio: le otto. Il collezionista era puntuale al minuto. Quando riprese conoscenza Ethan Stein rimpianse di non essere ancora privo di sensi: non poteva muovere gambe e braccia, faticava a respirare, aveva la mente confusa e la testa gli doleva come se il cranio fosse troppo stretto per contenere il cervello. Cos'era successo? Ricordava soltanto di aver aperto la porta. "Oh, già." La mano sulla faccia, l'odore di anestetico, un tentativo di lotta prima di sprofondare nell'oscurità. Ethan batté le palpebre. Le scarpe dell'uomo gli passarono davanti agli occhi. Era disteso a terra con la guancia appoggiata al linoleum macchiato di vernice e il naso pieno di polvere. L'uomo fischiettava. Il panico ebbe il sopravvento. L'odore dell'etere era ancora così intenso nelle narici che temette di vomitare. Era lui che gorgogliava? «Calmati» disse una voce dall'alto. Ethan cercò di guardare ma non riusciva a muovere la testa. L'uomo si chinò, avvicinò il viso a un centimetro dal suo. Ethan vide dei lineamenti sfocati. «Sarà una cosa lunga, rilassati.» Ora l'uomo era salito su una sedia ed Ethan lo udiva svitare le lampadine. La stanza stava sprofondando nel buio. «Abbi pazienza» disse l'uomo. Il cuore gli rimbombava nelle orecchie come fa, in una partita di tennis
sotto la pioggia, una palla pesante e fradicia. Plop. Squish. Plop. Squish. Erano lacrime le gocce sulle guance? Non si era mai sentito così impotente, così terrorizzato. Aveva freddo e abbassando gli occhi sul petto si rese conto di essere nudo. Il panico aumentò. Dalla gola gli uscivano dei suoni che non riusciva a trasformare in parole. Le labbra e la lingua erano gonfie, paralizzate. Ora l'uomo gli era accanto, apriva un giornale, mormorava tra sé. Ethan provò a girare il capo: era impossibile. Le mani dell'uomo entrarono nel suo raggio visivo e il rasoio lampeggiò. "Noooo!" Ma Ethan non poteva gridare. Le parole uscirono sotto forma di patetiche bolle di saliva. «Inizierò dalla gamba» disse l'uomo afferrando Ethan per le caviglie e sollevandole per incastrare un tallone nudo tra due bianchi quadri minimalisti. Appeso a testa in giù, Ethan guardava ma non vedeva che un profilo scuro nella luce fioca. Tenendo il giornale in mano, l'uomo cominciò a staccare la pelle della gamba con il rasoio. Non fu per il dolore che svenne, sentiva soltanto una lieve pressione, come un pizzicotto; no, fu vedere l'uomo che penetrava sotto la pelle col rasoio, recideva muscoli e tendini, separava la carne dall'osso come se stesse spolpando un pollo. 12 ARTISTA TROVATO MORTO A MIDTOWN Il corpo di Ethan Stein, 36 anni, è stato scoperto ieri notte nel suo studio di Hell's Kitchen dall'addetto alla manutenzione Joseph Santiago residente al 427 West della Trentanovesima Strada, che ha notato il sangue filtrare sotto la porta dello studio dell'artista. Dell'omicidio, che presenta connotazioni ritualistiche, si sta occupando il NYPD, per ora senza successo. L'artista era... La luce mattutina entrava dalle alte finestre dell'attico disegnando macchie d'oro sul tavolo della cucina, sulla tazza di caffè nero di Kate e sul «New York Times». Ethan Stein; da anni Kate non ne sentiva più parlare. Uno di quegli artisti che spariscono dal mondo dell'arte quando il loro momento e il loro sti-
le cessano di essere di moda. Richard aveva comprato un suo quadro cinque o sei anni prima. Per qualche tempo era rimasto appeso in salotto ma in seguito era stato trasferito in una delle stanze degli ospiti, un piccolo pezzo minimalista in cui strati di bianco e avorio disposti con spatola e pennello creavano una pallida sfumatura di grigio. Carino. Nulla di eccitante. Ora Kate provò rimorso, non sapeva se per aver abbandonato il pittore al suo destino o per aver spostato il suo quadro o... Una giovane vita spezzata era sempre un evento tragico. Ma le connotazioni ritualistiche? Il sangue sotto la porta? "Gesù!" Le doleva la testa, colpa dei Martini con Winnie Pruitt uniti, a cena, al paio di bicchieri di cabernet con i clienti di Richard. Kate quasi non era stata in grado di fare conversazione; insolito per lei e Richard, più di una volta, lo aveva notato. Non che lo facesse apposta ma era ossessionata dal collage e dall'idea che Bill Pruitt avesse avuto a che fare con opere d'arte rubate. Spostò la pagina della cronaca cittadina e una fotografia scivolò sul tavolo. Una Polaroid, quasi interamente bianca, con una vaghissima ombra grigia e sfocata nell'angolo. Che cos'era? La studiò. Che fosse finita accidentalmente nel giornale? La settimana precedente lo avrebbe creduto ma ora no. Kate ingoiò due pastiglie di Excedrin, prese il telefono e chiamò Richard. «Mi dispiace, signora Rothstein, è in riunione» rispose la fidatissima segretaria. «Per favore Anne Marie, gli dica che ho chiamato.» «Certamente.» Kate osservò con più attenzione la Polaroid, ma non c'era nulla da vedere: bianca con una traccia di grigio, un'immagine completamente sfocata. La posò, allungò la mano verso la tazza di caffè, si fermò. La Polaroid sotto l'annuncio della morte di Ethan Stein assunse improvvisamente un significato. Kate si alzò. Gesù, era stato lui a mandargliela? Come era riuscito a infilarla nel suo giornale? Il pensiero la raggelò. Nella camera degli ospiti Kate avvicinò la foto al quadro di Ethan Stein. Non poteva esserne certa ma, sì, c'era un'evidente somiglianza: bianco con una traccia di grigio.
Nel suo studio si strofinò gli occhi per scacciare il sonno e osservò la foto con la lente di ingrandimento. Erano pennellate. Era un dipinto. Prima la fotografia del diploma. Poi il collage della Madonna col Bambino. Ora quella. Certo non aveva modo di collegare la Polaroid a Ethan Stein ma la somiglianza e la coincidenza, dopo due altre missive, le facevano tremare le mani. Perché le arrivavano quelle cose? C'era una relazione oppure era la sua mente turbata dalla morte di Elena a inventare misteri inesistenti? No, Kate era sicura che non si trattava di una casualità e provava la medesima sensazione di quando era la giovane detective McKinnon. Quella mattina doveva vedere Tapell, ma prima aveva bisogno di qualche conferma. Indossò un paio di pantaloni e una camicia di seta, si spazzolò i capelli e non perse tempo a truccarsi. Kate si infilò nel séparé del bar. «Grazie per essere venuta, Liz.» «Figurati, farei qualsiasi cosa pur di allontanarmi dal mio istruttore di computer, un ragazzino che da giorni mi rimprovera come se fossi un'idiota.» Liz scrutò l'amica al di sopra del bordo della tazza. «Che c'è, Kate? Non credo tu mi abbia chiesto di mollare il quartiere generale dell'FBI solo per bere un caffè e dirmi quanto sono brava.» «Beh, perché no, ma...» Spinse i capelli dietro le orecchie e si fece seria. «Ricordi la foto del diploma... di me e Elena?» «Quella che hai trovato nella borsetta?» «Esattamente. Beh, ce ne sono state altre.» Kate posò sul tavolo una copia della Madonna col Bambino e la Polaroid che riteneva in qualche modo collegata ai quadri di Ethan Stein e forse alla sua morte. «Me le hanno mandate. Credo intenzionalmente, Liz.» Kate si sforzò di controllare il tremito delle dita. «Non capisco» disse Liz. «Beh, la foto del diploma è di Elena e... lei è morta. Il collage è una pala d'altare che probabilmente apparteneva a Bill Pruitt, morto anche lui. La Polaroid assomiglia in maniera preoccupante ai quadri di Ethan Stein, e lui...» Kate si interruppe per prendere fiato. «L'artista che è stato ucciso? L'ho letto.» Liz guardò le immagini e assunse un'espressione sempre più turbata.
«Questa storia comincia a spaventarmi» disse Kate massaggiandosi i muscoli tesi della nuca. «Non mi sorprende che ti spaventi. Voglio dire, se qualcuno sta cercando di mettersi in contatto con te...» Liz socchiuse gli occhi. «È una faccenda seria, Kate. Devi parlarne con qualcuno... e ti consiglio di farlo subito.» «Sto andando da Clare Tapell.» Kate smise di massaggiarsi la nuca e giocherellò con la catena d'oro che portava al collo. «Il capo della polizia; buona idea.» «Ma, e se esagerassi... se si trattasse solo di un balordo?» Kate lasciò la catena e tamburellò con le dita sul bordo del tavolo. «Fammi un favore» disse Liz con l'indice puntato. «Vai da lei. Potrebbe trattarsi di un balordo ma potrebbe anche essere qualcuno che vuole farti del male.» «A me?» Kate si sforzò di ridere ma le dita continuavano a muoversi nervosamente. «Non è facile fare i furbi con me.» «Kate.» Liz posò la mano sulle dita agitate dell'amica con gli occhi azzurri maledettamente seri. «Sono dieci anni che mi occupo di cose di questo genere. Se c'è in giro uno psicopatico che ti ha preso di mira...» Scosse il capo. «Questi individui sono dei bastardi tenaci, dei veri cacciatori...» «Cacciatori?» Kate tentò di mantenere la calma pur sentendo aumentare l'agitazione. «Quasi tutti gli assassini, quelli di tipo seriale, perseguitano costantemente, e non mollano.» Gli occhi azzurri di Liz la guardavano rannuvolati. «Quando sono molto giovani sfogano la rabbia contro gli animali o altri ragazzi, ma poi le loro fantasie crescono, prendono forma e si concentrano su ciò che li disturba. È a quel punto che cominciano a perseguitare vittime all'altezza della loro considerazione.» «Oh, andiamo, Liz, io non sono all'altezza.» «Ti conosco, Kate McKinnon. Vuoi fare l'eroina coraggiosa e strafottente.» Liz era sempre più accigliata. «Sto dicendo che questi individui vanno a caccia di qualcuno per realizzare le loro fantasie violente, sono bastardi malati alla disperata ricerca di selvaggina e...» «So badare a me stessa» disse Kate incrociando le dita per tenerle ferme. «Le scarpe coi tacchi non sono indicate per inseguire i delinquenti, ex detective McKinnon» replicò Liz grattandosi il naso. «Perdona la battuta scontata.» «Un bel po' scontata» scherzò Kate. «Personalmente preferirei che continuassi a occuparti di arte.»
«Non ho mai pensato di mollare l'arte o la fondazione o qualsiasi altra cosa, se è per questo, ma non posso lasciar perdere, Liz. Non lo farò. Tutta questa storia riguarda me e forse anche il mondo dell'arte. Ancora non so cos'è, ma qualcosa ci deve essere.» Con un sorriso poco convincente Kate posò la mano su quella dell'amica. «Stai tranquilla. Adesso vado a parlare con Tapell.» L'edificio di mattoni rossi, vagamente simile a una piramide Maya, suscitò in Kate il ricordo dei seminari tenuti da un esperto di psicologia criminale sulle patologie che presentano i ragazzi che fuggono da casa. Come detective di Astoria, Kate McKinnon non aveva avuto molte occasioni di frequentare la One Police Plaza, ma il posto le era noto: un labirinto di camminamenti e slarghi con vista sul tribunale e sul municipio circondati da archi, automobili e furgoni della polizia che cingevano il complesso architettonico come una collana di metallo. L'atrio sembrava un'imitazione di bassa lega dei film di propaganda di Leni Riefenstal, con statue, bandiere, guardie in ogni angolo e lo slogan CORTESIA, PROFESSIONALITÀ, RISPETTO. Kate firmò il registro, attraversò il metal detector, due volte perché le chiavi e l'accendino lo fecero scattare, e finalmente salì sull'ascensore, ansiosa di agire, di spiegare a Tapell ciò che pensava stesse succedendo. Kate distese il materiale sulla scrivania di Tapell: la fotografia del diploma di Elena con le palpebre dipinte, il collage e gli ingrandimenti della Madonna col Bambino fatti alla galleria di Merton, la Polaroid così simile ai quadri di Ethan Stein. Batté il dito sulla fotografia del diploma. «Questa l'ho ricevuta prima della morte di Elena Solana... no, dopo, ma io non sapevo che Elena fosse morta.» «Come l'hai ricevuta?» «Non so. Me l'hanno infilata nella borsetta.» Tapell inarcò un sopracciglio. «Il collage è stato recapitato a casa mia e questi sono gli ingrandimenti. È una pala d'altare, probabilmente rubata, che forse apparteneva a Bill Pruitt.» La ruga tra le sopracciglia di Tapell diventò più profonda. «William Pruitt? Rubata a lui?» «Sì. Ma forse lui l'aveva rubata a sua volta. Beh, non lo so con esattezza, può darsi che l'abbia comprata sapendo che era stata rubata.»
«Cosa stai dicendo, Kate?» «Ero un poliziotto in gamba, Clare?» «Certamente.» «Allora abbi un momento di pazienza.» Kate inspirò. «Stavo cercando di dire che se la pala d'altare apparteneva a Pruitt, ora è nelle mani di chi lo ha ucciso.» Prese una sigaretta dalla borsa. «È vietato fumare in tutto il palazzo» disse Tapell. Kate sbriciolò la sigaretta nel cestino della carta straccia. «La Polaroid l'ho ricevuta stamattina, il giorno dopo la morte di Ethan Stein... ed è molto simile a uno dei suoi quadri.» «Come l'hai ricevuta?» «Era dentro al giornale.» «Gesù!» Tapell scosse il capo. «Kate, mi stai dicendo che un assassino, ma potrebbero essere tre diversi assassini, si è messo in contatto con te?» Gli occhi di Tapell si spalancarono per l'incredulità. «L'assassino è uno solo.» Tapell aprì la bocca, la chiuse stringendo le labbra in una linea sottile. «Ti rendi conto di cosa stai insinuando, Kate? Non sono al corrente di ogni singolo dettaglio di questi casi, ma posso dirti che il movente è assolutamente diverso. Quindi, sei fuori strada.» «Ascolta, esiste un legame tra le vittime: Elena Solana ed Ethan Stein erano artisti e Bill Pruitt presiedeva il consiglio di amministrazione di un museo; potrebbe esserci un unico assassino. È semplicemente questo che sto cercando di dire... è un collegamento al quale potrebbe arrivare anche un cronista.» «Gesù, Kate.» Tapell si tirò la pelle del collo. «Stai facendo l'ipotesi di un serial killer. Te ne rendi conto?» Kate guardò Tapell negli occhi. «Mi rendo conto che ci sono stati tre omicidi a proposito dei quali qualcuno mi manda dei messaggi.» «Se è così, voglio che tu sia protetta ventiquattrore al giorno, ma...» Tapell si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. Non voleva prendere troppo sul serio la storia di Kate ma sapeva per esperienza che spesso le sue intuizioni erano corrette. «Potrebbe trattarsi di un balordo. Tu sei una persona famosa.» «Sì; ne ho tenuto conto. Cosa dicono i tuoi uomini a proposito degli omicidi?» Tapell smise di camminare e si appoggiò alla scrivania. «Non molto. Ma la morte di Pruitt potrebbe essere accidentale.»
«Può darsi. Senti, Clare, non sto dicendo di avere delle risposte pronte, solo che... beh, tu vuoi di più di una sensazione e il mio psicopatico potrebbe esistere veramente. Lasciami lavorare con i tuoi uomini, per offrire qualche suggerimento o...» Tapell si sedette alla scrivania. «L'idea di un serial killer...» sospirò. «Sì, forse è meglio se dai un'occhiata ai fascicoli di questi casi.» 13 Kate spese cento dollari in pannelli di sughero e ne diede altri cento all'uomo che li montò per rivestire una parete del suo studio. Indubbiamente, avrebbe potuto farlo da sola ma credeva nell'importanza del far circolare il denaro. Impiegò pochi minuti ad appendere la collezione di immagini: la terrificante fotografia del diploma con le palpebre dipinte, il collage della Madonna col Bambino, gli ingrandimenti fatti con Merton, la Polaroid sfocata. Rispettava la procedura che le avevano insegnato al distretto di Astoria: fotografie, reperti, appunti, tutto il materiale esposto come in una mostra d'arte. Aveva bisogno di averlo sotto gli occhi per guardare e riguardare. Ricordava ancora la parete coperta di fotografie di ragazzi scomparsi... quei dolci visi infantili. Passò da un'immagine all'altra. Non avevano nulla in comune, eppure... Kate aprì il fascicolo a fisarmonica, estrasse alcune cartelline bianche con sopra stampato NYPD e le posò sulla scrivania. I polpastrelli sfiorarono il bordo della prima ma la copertina non ne rivelava il contenuto; la prospettiva di cominciare da Elena non l'attirava per nulla. Tuttavia, già provava l'antica sensazione, l'adrenalina le pulsava nelle vene, i nervi erano tesi, era combattuta tra l'eccitazione e la paura. WILLIAM M. PRUITT Bene: questo si sentiva in grado di affrontarlo. Lesse sul rapporto tossicologico il contenuto dello stomaco di Pruitt: un miscuglio di droga e alcol. Pruitt? Non sapeva che si drogasse, ma bastava a giustificare l'annegamento nella vasca da bagno? L'ora della morte era stata fissata tra mezzanotte e le quattro. Il fascicolo conteneva una busta di fotografie a colori del morto nella vasca ripreso da ogni angolatura. Alcuni ingrandimenti del viso, bocca spalancata nell'agonia, un livido bluastro sul mento. Kate appese le fotografie
alla parete, fece un passo indietro, poi uno avanti, passando da una foto all'altra. Qualcosa la disturbava. Cosa? Che cosa aveva Pruitt in mano? Kate avvicinò la lente alla foto. La ricevuta della lavanderia? Questo era un dettaglio sconcertante. Non sapeva come interpretarlo. Passò al fascicolo successivo. ETHAN STEIN Causa della morte: dissanguamento. Tracce di cloroformio nelle narici e sulle labbra della vittima. Presenza di fibre nel naso. Esame tossicologico (in corso). Uno straccio imbevuto di cloroformio premuto sul viso della vittima. Kate riusciva a immaginare la scena ma le fotografie erano sconvolgenti. Nel lago di sangue sul pavimento dello studio, l'artista nudo era disteso sul dorso, con una gamba, o ciò che di essa restava, simile a un bastone sanguinolento, appoggiata alla parete, il petto rosso scuro, i muscoli esposti come nei quarti di bue dei macelli. Kate strinse i denti e posò una mano sulla scrivania per sostenersi. Lesse i particolari sul rapporto: Gamba destra e pettorale sinistro della vittima, scuoiati. Scuoiati? Si impose di osservare ancora le fotografie. La faccia di Ethan Stein era una maschera di dolore. Gesù Cristo: scorticato vivo? Il rapporto non lo precisava, ma la spaventosa perdita di sangue, quando il cuore ancora pulsava, pareva indicarlo. Perché tanta brutalità? Mentre appendeva le fotografie raccapriccianti accanto a quelle di Pruitt, Kate notò la particolare illuminazione che ne aumentava la drammaticità: metà del corpo devastato di Stein era fortemente illuminata, l'altra metà immersa nell'oscurità. Ancora una volta le parve di cogliere un che di familiare in quella scena. Ma cosa? Ora toccava al fascicolo di Elena; Kate non poteva rimandare oltre.
I particolari della morte: la temperatura corporea, alcune contusioni facciali, le molteplici ferite, non aggiunsero nulla a ciò che già sapeva. Buttò il fascicolo sulla scrivania e le fotografie scivolarono lentamente a terra come piccole slitte sul ghiaccio. Doveva proprio vedere l'ingrandimento del viso di Elena? Kate fissò lo strano disegno del sangue sulla guancia, poi il corpo allungato davanti al frigorifero. Mise le foto sulla parete evitando di guardarle; infine fece un passo indietro e si accese una Marlboro, grata al velo di fumo che le offuscava la vista. Le tornarono in mente le incisioni di Goya che aveva visto alla galleria di Merton. Anche in questo caso era troppo vicina per vedere? Scacciò il fumo con la mano e osservò la tetra collezione di immagini. C'era qualcosa in quelle foto, ne era sicura. Ma cosa? Prese la lente, le esaminò una ad una, si soffermò su un microscopico violino nell'angolo di un quadro di Ethan Stein. Strano. Che il pittore stesse passando al figurativo? Non capiva. Per venti minuti Kate passò da una foto all'altra, scrutandole attraverso la lente, ma non trovò nulla di significativo. In compenso le bruciavano gli occhi e le era venuto mal di testa. Nella stanza da bagno di marmo di Carrara, Kate girò gli antichi rubinetti di ottone dell'enorme vasca e versò un gel profumato. Si spogliò, buttò i vestiti sul letto e prese dal comodino l'ultima copia del «New Yorker». Il bagno l'avrebbe rilassata. La stanza era piena di vapore e di profumo di giacinto. Kate provò la temperatura dell'acqua con il piede e si immobilizzò. "La vasca!" Infilato l'accappatoio, percorse il corridoio a gran passo. In biblioteca tirò giù dei libri dagli scaffali e li buttò sul divano di pelle facendone cadere alcuni a terra. Finalmente trovò quello che cercava, un venerabile vecchio tomo. Lo infilò sotto il braccio, tornò nello studio e cominciò a sfogliare le pagine con tanta furia da strapparle. "Okay. Calmati. Controlla l'indice." Kate quasi non riusciva a girare le pagine tanto le tremavano le mani. Eccolo, il famoso quadro storico che Kate aveva studiato al college e sul quale aveva addirittura sostenuto un esame: Marat assassinato di Jacques-Louis David. Aveva fatto centro. Marat appoggiato al bordo della vasca, la testa avvolta in un asciugamano. Gli occhi di Kate passavano dalla foto di Bill Pruitt appesa alla parete alla pagina del libro. Le due teste, di Marat e di Pruitt, si trovavano nell'i-
dentica posizione; il braccio di Pruitt posato sul bordo della vasca, esattamente come quello di Marat. Lo sguardo di Kate si spostava come una pallina da ping-pong, avanti e indietro. Pruitt aveva un pezzo di carta in mano, proprio come Marat. "Gesù, come ho fatto a non accorgermene prima?" Kate strappò la pagina del libro. Poi osservò le grottesche fotografie di Ethan Stein. Sì, anche qui c'era qualcosa di familiare. Cosa esattamente? Sfogliò le pagine ma non trovò nulla. Tornò in biblioteca e per un istante fu sopraffatta dalla quantità di libri. "Ragiona. Ragiona." Osservò gli scaffali, fila dopo fila, volumi, diari, riviste, periodici, ma non le venne in mente nulla. Corse nel suo studio, staccò dal muro due fotografie del cadavere di Ethan Stein, afferrò il fascicolo e lo rilesse tornando in biblioteca. Sì, c'era qualcosa, ma cosa? Cosa? Tutti quei libri la intimidivano più che esserle d'aiuto. Kate tornò nello studio e si sedette sospirando sul piccolo divano di pelle. Aveva bisogno di un momento di pausa, per pensare. Guardò le foto che teneva in mano: l'artista disteso sul dorso, nudo, la gamba e il torso scorticati. "Scorticati! Ecco!" A piedi nudi sulla scaletta, estrasse a fatica dall'ultimo scaffale un grosso volume, Pittori italiani del Rinascimento, e lo portò nello studio. Sparse tutte le fotografie di Ethan Stein sul pavimento accanto al libro e cominciò a sfogliare rapidamente le pagine. Trovato! Aveva fatto centro un'altra volta. Di Tiziano, il grande pittore del Rinascimento: Apollo e Marsia. L'immagine allucinante di un uomo scorticato vivo, esattamente come Ethan Stein. Kate osservò la scena del delitto, poi il quadro. In entrambi, le figure erano nude, a testa in giù, la pelle della gamba staccata. E il violino? Ma certo! Nel quadro di Tiziano Apollo suona una viola mentre Marsia viene scorticato. Quell'individuo era attentissimo ai dettagli. Emozionata, Kate si sedette sui talloni. Era l'arte il legame tra i delitti. Quindi, se il ragionamento filava con Pruitt e Stein, doveva adattarsi anche a Elena. Tuttavia nel suo caso le foto del delitto non avevano suscitato altro che dolore. Tornata in biblioteca, Kate esaminò gli scaffali, ogni singolo libro di pittura, storia dell'arte, monografie degli artisti, finché i titoli cominciarono a confondersi davanti agli occhi. Aveva bisogno di una pausa e si sedette su uno dei sofà del salotto.
Chiuse gli occhi cercando di cancellare i pensieri e le immagini. Riaprì gli occhi che si posarono su un'opera di Willie, sulle pale d'altare di Richard, su un grande quadro astratto e infine sul prezioso autoritratto di Picasso, quello con un occhio solo. "Accidenti!" Kate attraversò di corsa il corridoio, afferrò la foto con il primo piano del viso devastato di Elena, tornò in salotto e, con mano tremante, lo avvicinò all'autoritratto. Identico. Sulla guancia di Elena il profilo di Picasso: fronte, naso e mento, era tracciato in una linea di sangue. Kate si sentì gelare. "Ma allora è stato qui, in casa mia, che ha visto il quadro?" Prese il grosso catalogo Ritratti di Picasso dall'antico leggio di ottone e sfogliò le pagine fino alla riproduzione: Autoritratto. 1901. Olio su tela. Collezione privata Rothstein. Kate sospirò di sollievo. "Ma certo." Chiunque avrebbe potuto sapere che il ritratto apparteneva a lei e a Richard. Ma evidentemente quell'uomo aveva scelto quel quadro proprio perché sapeva che era suo. Perché? Non aveva la risposta; non ancora perlomeno. Una scarica di adrenalina accelerò la pulsione del sangue nelle vene. Voleva chiamare Richard, dirgli ciò che aveva scoperto, ma decise di aspettare il momento opportuno. Raccolse tutto il materiale per mostrarlo a Tapell. Un paio di minuti per disporre le foto accanto ai rispettivi quadri. Dieci minuti per esporre la sua teoria. Tapell ascoltò attentamente. «Sei assolutamente sicura di quel che dici?» domandò, già conoscendo la risposta ma restia ad ammetterlo. Kate annuì. «Sicurissima.» Le due vecchie colleghe si guardarono. «D'accordo» sospirò Tapell. «Spiegherai tutto al gruppo speciale della Omicidi.» Osservò ancora una volta le foto e le pagine strappate dai libri. «Adesso li chiamo.» Kate era così eccitata che quasi non ascoltò quello che Tapell diceva al telefono. «È deciso» disse il capo della polizia posando la cornetta. «Sei autorizzata a collaborare con la squadra di Mead, non ufficialmente. Naturalmente
lui non ne è entusiasta ma non gli ho dato scelta. Dovrai dimostrargli che sei in grado di contribuire alle indagini.» «Grazie, Clare, io...» «Dovrai adeguarti alle regole e ai modi di Mead. E niente eroismi, siamo d'accordo?» Kate annuì. Il capo della polizia le rivolse un'occhiata solenne. «I giornali devono restare all'oscuro di tutto. Non una parola, Kate. Ci siamo appena sbarazzati del maledetto cecchino di Central Park. L'unica cosa di cui non ha bisogno questa città è di un altro serial killer.» 14 Central Booking aveva un aspetto anche troppo familiare. Era più grande della vecchia stazione di Astoria, ma l'atmosfera e persino l'odore stantio di fumo, sudore, panini ammuffiti, caffè scadente, erano gli stessi. Kate aspettava camminando avanti e indietro: evidentemente Randy Mead intendeva mettere in chiaro chi era il capo. Osservò un uomo con i capelli unti, ammanettato a una gamba del tavolo di metallo, una rozza aquila tatuata in nero e blu sull'avambraccio sopra un cuore con un nome, Rita, appena leggibile. Davanti a lui un poliziotto dall'aria stanca faceva le domande di rito e batteva a macchina con due dita. Si udiva un ronzio confuso di attività priva di entusiasmo. Detective e agenti in divisa scortavano i soliti personaggi, prostitute, drogati, ladruncoli, tra le file di tavoli di metallo verso le stanze degli interrogatori o le celle. Gli arrestati gridavano i loro diritti e alcuni erano così drogati che bisognava trascinarli. «... figlio di puttana, succhiacazzi, buco del culo, porco, schifoso, troia...» Gli insulti fluttuavano nell'aria pesante. Le donne in divisa o in borghese squadravano Kate dalla testa ai piedi. Lei le fissava finché non distoglievano lo sguardo stringendo i pugni in tasca. Avrebbe preferito che Tapell l'avesse accompagnata personalmente per presentarla. «McKinnon?» Il giovane poliziotto pareva appena uscito dall'accademia. Kate annuì. «La squadra è pronta a riceverla.» La sala riunioni era grigia e beige, colori sobri per antonomasia, e arre-
data con una semplicità deprimente. Il neon diffondeva una fredda luce bluastra. L'unica 'nota di colore' veniva da una trentina di fotografie di scene del crimine appese a un pannello di sughero: cadaveri pallidi ravvivati da lividi violacei e tracce di sangue scuro come il vino. Tra gli altri anche quelli di Solana, Pruitt e Stein, tre corpi che Kate ormai conosceva fin troppo bene. Si accomodò su una rigida sedia di metallo e batté le dita sul fascicolo che aveva portato, evitando di guardare i detective le cui caratteristiche Tapell le aveva brevemente esposto. Floyd Brown: eccellente poliziotto della Omicidi, pessimo carattere, un duro. Maureen Slattery: già della Buoncostume, due anni con la squadra speciale Omicidi, intelligente, tenace. Kate notò l'arruffato caschetto biondo del detective Slattery, il rossetto rosa evidenziato dalla matita rosso ciliegia e, pur sapendolo già, domandò: «Da quanto tempo sei alla Omicidi?» tanto per rompere il ghiaccio. «Due anni» rispose Slattery con il piatto accento di Brooklyn o di Queens. «Prima ne ho fatti cinque alla Buoncostume.» «Un periodo lungo da passare tra minigonne e calze a rete» commentò Kate con un sorriso. Slattery roteò gli occhi e gli angoli della bocca si piegarono all'ingiù. «Altroché.» Dal punto di vista di Maureen Slattery l'Omicidi non era tanto diversa dalla Buoncostume, se non per il fatto che ora gli uomini non le guardavano il culo. Osservò la giacca costosa di Kate, l'eleganza che denotava una situazione privilegiata, domandandosi cosa ci facesse lì dentro quella donna. Appoggiato a una parete, Floyd Brown fissava il suo caffè nella tazza di plastica. Chinò leggermente il capo quando Kate si presentò. Randy Mead entrò nella stanza con un pacco di incartamenti sotto il braccio. «Bene. Vi conoscete tutti?» Deglutì e il pomo d'adamo sussultò sotto il farfallino blu a pallini che, secondo Kate, lo faceva somigliare a un dodicenne. Risucchiò l'aria tra i denti con il rumore che Kate ricordava dal primo incontro e la guardò di sottecchi. «McKinnon ha una sua piccola teoria che Tapell vuole condivida con noi.» Kate decise di ignorare il tono accondiscendente. «Prima di tutto» disse, «non sono qui in veste ufficiale ma per ordine di Clare Tapell.» Diede loro il tempo di prenderne atto e proseguì: «Tanto per cominciare, ho lavorato nella polizia, ad Astoria, per oltre dieci anni». «Aspetta un momento» interloquì Brown scuotendo la testa confuso.
«Non sei l'esperta d'arte di Canale Tredici?» Kate sorrise. «Sì. Ho condotto una serie televisiva sull'arte.» Maureen la guardò senza scomporsi; evidentemente non aveva mai visto il programma. «Quindi perché sei qui?» domandò Brown. «Lo spiego subito.» Kate aprì il dossier e dispose la fotografia della scena del delitto Pruitt accanto alla riproduzione strappata dal libro. «Questo è Marat assassinato, un famoso quadro del diciottesimo secolo di JacquesLouis David. Notate la somiglianza. Non solo la vasca, anche la testa di Pruitt avvolta nell'asciugamano, la posizione delle braccia, esattamente come quelle di Marat. Inoltre Pruitt ha in mano un biglietto, come Marat.» Brown si protese in avanti. «La fottuta ricevuta della lavanderia» disse Slattery. «Come se Pruitt avesse avuto un infarto mentre leggeva la lista del bucato...» «Ma non è stato un infarto» disse Kate. «Ne sono sicura. La ricevuta della lavanderia fa parte della messinscena.» «Come a teatro» borbottò Brown tra sé. «Perché questo Marat è nella vasca?» domandò Slattery. «Aveva una malattia della pelle» spiegò Kate. «Doveva stare nell'acqua per lenire il prurito.» Mead risucchiò l'aria tra i denti. «C'è qualche collegamento tra Pruitt e il tizio del quadro?» Kate meditò un momento. «Beh... Marat era un importante uomo politico durante la Rivoluzione francese e Pruitt era il presidente di un museo. Forse è il fatto che entrambi erano a capo di qualcosa.» Rifletté e soggiunse: «Inoltre, si potrebbe dire che il museo di arte contemporanea è in un certo senso rivoluzionario.» Mead sembrò colpito e Brown prese un appunto. Kate posò sul tavolo la fotografia della scena del delitto Stein accanto all'immagine strappata dal volume di pittura del Rinascimento. «Questo è di Tiziano. Si chiama Apollo e Marsia.» «Accidenti!» esclamò Brown osservando la riproduzione. «Le scene del delitto sono state accuratamente allestite» disse Kate. Poi si appoggiò allo schienale della sedia e attese che i tre la guardassero. «L'assassino si ispira a opere celebri. Crea dei quadri viventi... con dei cadaveri. Sono ricostruzioni vere e proprie.» «Ma per quale motivo?» domandò Mead. «Chiedeteglielo quando lo prendete» disse Kate.
«Quindi» mormorò Brown osservando i quadri, «il nostro assassino si intende di arte.» «Sì, ma potrebbe farlo chiunque, con un libro d'arte o un poster.» Kate si batté il dito sulle labbra. «Stavo pensando... nel Tiziano Marsia viene scorticato per la sua presunzione. Che sia un altro messaggio? L'artista presuntuoso?» «Povero cristo» disse Maureen Slattery. «Cosa ha fatto questo tizio, Marsia?» «Ha sfidato il dio Apollo a una gara di musica... e ha perso.» «Però...» commentò Slattery. Kate guardò la smorfia di orrore sul viso del pittore morto. «È stato il dettaglio dello scorticamento a ispirarmi, del tutto simile a quello del quadro, così come il violino appiccicato sulla tela di Stein.» Kate lo indicò nella foto. «Lo si vede chiaramente con la lente d'ingrandimento. Sono sicura che è stato l'assassino a mettercelo. Qualcuno lo ha tolto?» «Probabilmente è ancora là» disse Brown. «Andremo a prenderlo.» Kate riprese in mano il dossier di Stein. «Credo che quando riceverete il rapporto tossicologico scoprirete che nel sangue di Stein c'era qualche droga paralizzante. Nessuno potrebbe subire quella tortura restando immobile» e rivolgendosi a Mead: «I suoi uomini hanno notato nulla di strano nell'illuminazione dello studio di Stein?». «Cioè?» «Ritengo che l'assassino abbia imitato il quadro anche nel chiaroscuro.» «Il cosa?» domandò Maureen aggrottando la fronte. «L'intensa luce laterale nera e bianca. La usavano anche Rembrandt, e Caravaggio e molti altri pittori. Tiziano se ne serve per ottenere un effetto drammatico.» Kate posò sul tavolo una fotografia del corpo di Stein. «Credo che se tornate sulla scena del delitto, vedrete che metà dei faretti dello studio erano stati disattivati.» «Controlleremo» disse Maureen prendendo un appunto. «Quindi, se le cose stanno come dici, stiamo cercando la stessa persona per Pruitt e Stein?» disse Brown. «Sì» rispose Kate. Brown sussurrò qualcosa a Slattery. Mead alzò una mano per farli tacere. «Sentite, qui non c'è nulla di definitivo. Non sposiamo subito la tesi di un serial killer... non ancora.» Lanciò a Kate un'occhiata che le parve sincera. «So che Tapell ha fiducia in questa teoria, e forse ha ragione, ma dobbiamo dimostrare tutto, e intendo
tutto, prima di parlare di omicidi in serie.» «Sono assolutamente d'accordo» disse Kate. «Bene. E per quanto riguarda l'omicidio Solana?» «Anche quello è una messinscena» replicò Kate sforzandosi di parlare con tono normale. «Seppure meno evidente.» Aprì il volume Ritratti di Picasso alla pagina dell'autoritratto con un occhio solo, scelse tra le fotografie della scena del delitto un ingrandimento del viso di Elena e accostò le due immagini. «Notate che il ritratto è formato dalla faccia intera e dal profilo. L'assassino ha scelto il profilo e lo ha tracciato sulla guancia di Elena Solana.» «Col sangue. Un sistema economico» commentò Brown. «O forse non si era preparato» disse Kate. «Perché un occhio solo?» domandò Slattery. «C'è un significato?» In quell'istante Kate si rese conto con orrore che lo psicopatico avrebbe potuto strappare un occhio a Elena per replicare il ritratto nella sua interezza. «Picasso dipingeva velocemente» disse. «Quando gli sembrava di aver comunicato il suo messaggio, smetteva e passava ad altro. Ha lasciato studi e case pieni zeppi di quadri in vari stadi di composizione, che si possono considerare incompleti.» Dopo una pausa soggiunse: «Forse questo vale anche per l'assassino, forse anche lui riteneva di aver comunicato abbastanza». Fece un'altra pausa. «Ma la scelta di questo Picasso in particolare è significativa perché... il quadro è mio.» «Cosa intendi con tuo?» «Mi appartiene. È nel mio salotto.» Brown parve allarmato. «Vuoi dire che questo tizio è stato in casa tua?» Kate alzò una mano. «Ci ho pensato anch'io, ma guardate il libro. È scritto, qui c'è il mio nome.» Kate non riusciva a distogliere lo sguardo dal profilo tracciato col sangue sulla guancia di Elena. «Non so perché, ma credo che l'abbia scelto per questa ragione... perché è mio.» Mead si chinò su di lei. «Ha dei nemici, McKinnon?» «La metà del mondo dell'arte, immagino.» Slattery inclinò il capo. «Perché mai?» «Il mio libro sull'arte è un po' controcorrente... e ha avuto un successo esagerato. Poi c'è stata la serie televisiva.» Kate alzò le spalle. «Forse il successo suscita invidia... e nemici.» Kate osservò le fotografie delle scene del delitto: Elena, Bill Pruitt, Ethan Stein. «Ci sono troppi collegamenti» disse. «Elena si era laureata con "Offriamo loro un futuro", William Mason Pruitt era membro del consiglio di amministrazione della fondazione e suo
consulente finanziario, era inoltre presidente del museo di arte contemporanea, l'ultimo posto dove si era esibita Elena Solana... da viva.» Le mancò la voce per un istante. «Anch'io faccio parte del consiglio e conoscevo bene Elena Solana.» Fece una pausa e proseguì: «Naturalmente, sapete già che sono una delle persone che hanno trovato il corpo». Nei successivi venti minuti la squadra esaminò i tetri dettagli dell'omicidio Solana: le diciassette coltellate, la posizione del corpo, l'assenza di impronte digitali. Kate era sorpresa di ascoltarli parlare come se si fosse trattato di un caso qualsiasi. "Strano" pensò "con quale rapidità ho assunto l'atteggiamento distaccato del poliziotto." «Ci sono prove che suggeriscono che avete a che fare con un assassino molto ben organizzato» disse. «Non soltanto si dilunga a preparare la scena del delitto, ma cancella le tracce. Secondo la Scientifica, non ha lasciato impronte. Inoltre direi che gli omicidi Pruitt e Stein hanno richiesto una notevole programmazione.» «Ne convengo» disse Brown chinando il capo verso di lei e socchiudendo gli occhi. «Ma perché continui a ribadirlo?» «Hai mai provato a sfuggire all'attenzione di un portiere di Park Avenue, detective Brown? Non è facile. Per introdursi inosservati nel palazzo di Bill Pruitt era necessario essere informati sui turni di guardia oppure attendere, anche per ore, il momento opportuno. Richiede organizzazione o pazienza, probabilmente tutte e due. Quanto a Stein... chi ha visto il suo studio?» Brown chinò il capo. «Sbarre alle finestre e serratura di sicurezza alla porta. Nessuna traccia di scasso.» «Quindi è stato Stein a far entrare l'assassino, e credo che la stessa cosa valga per Solana.» «L'omicidio Solana potrebbe essere sessuale» suggerì Slattery. «L'hai detto anche tu che in quel caso non c'è stata programmazione.» «O forse la ragazza adescava» disse Mead. "Elena? Adescava?" Le parole di Mead agirono su Kate come un'anfetamina. Gli altri detective la guardarono aspettando la sua reazione. Conoscevano i suoi rapporti con Elena e volevano vedere come l'avrebbe difesa. Kate strinse il bordo del tavolo di metallo. «Maureen, tu hai perquisito l'appartamento. Hai trovato biancheria sexy?» «Soprattutto pigiami di flanella.»
«Capisco. Nessuna agendina zeppa di appuntamenti con persone indicate dalle sole iniziali?» domandò battendo nervosamente il piede sotto il tavolo. Maureen scosse il capo. «E il contenuto dell'armadietto dei medicinali? Niente preservativi, eccitanti, nitrato di amile, ecstasy, cose di questo genere?» «No. Niente.» «Una prostituta molto tranquilla.» Kate fissò negli occhi la giovane poliziotta bionda. «Hai detto di aver lavorato cinque anni nella Buoncostume, quindi sei in grado di riconoscere l'appartamento di una prostituta, no?» Mead l'interruppe. «Abbiamo capito, McKinnon», e con un sorriso mite: «Stavo semplicemente suggerendo che forse la tua protetta non era candida come la neve». Brown allargò sul tavolo un foglio tratto dal fascicolo Solana. «La tua deposizione afferma che eri stata con la vittima quella sera, prima che venisse uccisa.» «Non esattamente.» Kate percepì una crepa nella sua armatura. L'anfiteatro, Elena sul palcoscenico, viva. «Aveva dato uno spettacolo al museo di arte contemporanea. Io ero presente.» «Qui dice che l'hai lasciata verso le nove.» Un addio rapidissimo. Il bacio della buonanotte. «Sì, al termine della rappresentazione. Avevamo combinato di andare a cena insieme, ma Elena era stanca e...» Il corpo spezzato di Elena. Il sangue coagulato nelle fessure delle piastrelle del pavimento. Kate ansimò, tanto vivida era quell'immagine. Inspirò profondamente e disse: «Qualche giorno dopo io, noi, io e Willie Handley, abbiamo trovato il corpo». «Fammi capire» ricapitolò Brown esaminando prima un dossier e poi l'altro. «Tu conoscevi entrambe le vittime... Solana e Pruitt.» Kate batté le palpebre. «Sì, è così.» «E Stein?» «Non lo conoscevo personalmente ma possiedo un suo quadro.» «Sembra che tu conosca tutti, McKinnon» commentò Mead socchiudendo i suoi piccoli occhi. «Non tutti. Non credo di avere mai incontrato Ethan Stein, anche se non lo escludo, en passant, per via dei miei rapporti col mondo dell'arte.» Inspirò ancora una volta, posò sul tavolo la fotografia del diploma e soggiunse: «Non è finita. Questa l'ho trovata nella mia borsetta. Sono io con Elena Solana. L'ho avuta prima che fosse uccisa, cioè prima di sapere che era sta-
ta uccisa. Guardate attentamente. Gli occhi...». «Meglio portarla al laboratorio» disse Mead. «Ho anche questi.» Kate dispose sul tavolo la Polaroid sfocata, gli ingrandimenti dei frammenti della Madonna col Bambino, spiegò come li aveva ricevuti e cosa ne pensava. «Perché mandarli a te?» domandò Brown. «Non lo so.» Le labbra di Mead si serrarono ulteriormente. Per questo il capo della polizia gliela aveva appioppata, perché le facesse da balia? «Hai mostrato queste cose a Tapell?» «Naturalmente.» «Beh...» Mead succhiò l'aria tra i denti. «Ti mettiamo subito il telefono sotto controllo e una guardia sotto casa» disse scribacchiando un appunto. «Ha già provveduto Tapell» replicò Kate. «Se McKinnon ha ragione» disse Brown, «ci toccherà interrogare tutto il mondo dell'arte di New York.» «Sono d'accordo» disse Kate porgendogli una guida. «È l'elenco per circoscrizione di tutti i musei e le gallerie della città», e con un cenno a Mead: «Manderei degli agenti per farsi rilasciare da ognuno delle deposizioni». «Davvero? Grazie per il suggerimento, McKinnon» replicò Mead con un sorriso gelido. «Ma prima facciamo il punto della situazione. Siete d'accordo?» «Credo che dovremmo passarli tutti, a uno a uno» disse Brown sfogliando la guida. «Forse tu hai il tempo di interrogare ogni singolo artistoide di New York» disse Mead tirandosi il farfallino, «ma io ho parecchi altri casi per le mani e sono a corto di uomini.» «Ascolti» disse Kate. «Io sono qui per aiutarvi, non per intralciare il vostro lavoro. Però avete già tre cadaveri, ne volete un quarto?» Guardò Brown e Slattery. «Io potrei cominciare con il personale del museo di arte contemporanea; li conosco.» «Quelli li ho già interrogati io» intervenne Slattery. «Era l'ultimo posto frequentato da Solana.» «Ben fatto» disse Kate sorridendo alla giovane poliziotta. «Ma se non vi dispiace, vorrei sentirli anch'io.» Un'immagine, poi un'altra, riempiono il piccolo schermo, distinte l'una
dall'altra ma tutte intensamente colorate. La telecamera indietreggia, rivela i quadri sulla parete di un museo, una donna che scende una scala, camicia di seta bianca, pantaloni neri, capelli sciolti sulle spalle. Il respiro gli si blocca in gola. «I Fauves» dice la donna sullo schermo, sguardo diretto, occhi fissi alla telecamera, cordiale, invitante, intelligente. «Significa belve in francese.» Sorride. Sorride anche lui. Belve. Gli piace il suono della parola. «E non era inteso come un complimento» prosegue la donna inarcando le sopracciglia. «Il termine venne usato per definire un gruppo di pittori, Matisse, Derain, Vlaminck, Marquet, perché i loro quadri erano diversi, disinibiti, al punto che le loro opere furono esposte, al Salon d'Automne di Parigi nel 1905, in una sala a parte isolata dall'arte più convenzionale. I quadri erano così audaci, così... potenti da suscitare rabbia negli altri pittori.» Diverso. Disinibito. Isolato. Dio, come lo capisce bene quella donna. «Sì» sussurra allo schermo. «Ti ascolto.» «"Il colore per il colore" diceva il pittore André Derain. È il colore che conta, intenso, esagerato, distorto. Viola vistoso, rosa acceso, verde acido, rosso sangue.» Rosso sangue. Gli riporta alla mente Ethan Stein, il pavimento dello studio dell'artista. Bellissimo. «Sono Katherine McKinnon Rothstein e questo è Vite d'artisti.» La telecamera si avvicina per un primo piano. Lui si protende in avanti, percepisce l'elettricità statica dello schermo televisivo; è così vicino che quasi gli pare di sentire il profumo, il calore che emana quella donna. Ferma l'immagine. Il viso sorridente di Kate si trasforma in una macchia confusa di puntini colorati, più impressionista che fauve. Avvicina la guancia a quella di lei. 13 Schuyler Mills, sovrintendente del museo di arte contemporanea, aveva mal di testa; forse perché nessuno, assolutamente nessuno, al museo lo apprezzava? Oppure era dovuto a un po' di debolezza per aver saltato troppi
pasti e aver esagerato quella settimana con la palestra? Gonfiò compiaciuto i bicipiti, e pensare che i suoi compagni di scuola lo chiamavano 'Lardo'. Beh, era cambiato. Ora non c'era un grammo di grasso superfluo sui suoi centottanta centimetri di statura. Entrando nel museo, si controllò allo specchio e si raddrizzò la cravatta a strisce rosse e blu. Aveva un ottimo aspetto, e i capelli prematuramente grigi vi aggiungevano un tocco di distinzione. Se soltanto il museo avesse riconosciuto il suo valore! Beh, non lo aveva mai fatto nessuno. Persino alla scuola d'arte erano gli altri studenti, quelli capaci di stupire con una rapida pennellata di colore, ad attirare l'attenzione dei professori. Forse per quel motivo era passato ai corsi di storia dell'arte. Schuyler attraversò l'atrio senza curarsi di salutare la nuova giovane impiegata, quella col piercing nel naso, nelle labbra e dio sa in quale altra parte del corpo. Chissà chi aveva deciso di assumerla? Poi, per peggiorare la situazione, salì sull'ascensore contemporaneamente al suo giovane collega, il suo vice Raphael Perez. Una sua disattenzione non essere riuscito a evitarlo. I due uomini si salutarono freddamente con un semplice cenno del capo. Mills si ravviò i capelli; Perez giocherellò con un mazzo di chiavi che teneva nella tasca dell'elegante blazer Andrew Fezza. «Giacca nuova?» domandò Mills. «Sì» rispose Perez facendo scorrere le dita sui risvolti del doppiopetto. «Nuovissima.» «Ecco dove sei stato ieri tutto il giorno, a fare shopping.» «Ero impegnato» sibilò Perez tra le labbra serrate «per questioni artistiche, fuori dal museo. Non condivido il vecchio concetto che un conservatore dovrebbe trascorrere le sue giornate chiuso in una torre d'avorio. Là fuori c'è un mondo favoloso di giovani artisti e cose nuove. Ma evidentemente tu lo ignori o non te ne curi, sei troppo occupato, a fare cosa... leggere?» «No» disse Mills, «a scrivere la mia conferenza per la Biennale di Venezia. Ho intenzione di dire qualcosa di significativo sull'arte americana di oggi, non voglio limitarmi alla solita retorica New Age» e sorrise malignamente. Perez fissò l'indicatore dei piani, spiando il riflesso di Mills nelle lucenti porte di metallo. Provò l'impulso di spaccargli quella faccia arrogante ma non avrebbe osato, avendolo visto una volta in maglietta con tutti i muscoli
in evidenza. Perez aveva ventisette anni, almeno venti meno del suo superiore, ma Mills era sicuramente più forte. Sorrise acidamente al collega. Le porte dell'ascensore si spalancarono e i due uomini ebbero un istante di esitazione. «Dopo di te» disse Perez. Schuyler Mills gli passò davanti pensando che così doveva essere e sarebbe sempre stato: Raphael Perez veniva dopo di lui. Kate attraversò le raffinate porte di vetro fumé dell'ingresso sulla Cinquantasettesima Strada del museo di arte contemporanea di New York, l'ultimo posto dove aveva visto Elena viva. Voleva informazioni dettagliate sui movimenti di tutto il personale durante la settimana precedente. Come ottenerle? Naturalmente non poteva chiedere dove si trovavano la sera in cui Elena era morta, ma l'esperienza le aveva insegnato che per individuare il punto debole delle persone era necessario farle chiacchierare. La segretaria col piercing, china su una biografia di Frieda Kahlo, si raddrizzò immediatamente vedendola entrare. Kate le sorrise e passò rapidamente davanti alla targa di bronzo sulla quale erano incisi, tra quelli dei finanziatori, i nomi dei signori Rothstein. Nell'imponente atrio di un candore celestiale, i centottanta centimetri di Kate divennero improvvisamente insignificanti. L'illuminazione a tubi fluorescenti creava l'illusione che l'atrio fosse opera di un artista, non di un architetto. Kate lo adorava perché le dava l'impressione di essere una creatura fatata, fluttuante. La sala principale, col suo soffitto a volta e il pavimento di piastrelle bianche, sembrava una luminosa piscina ultramoderna, priva di acqua. Dapprima pensò che stessero allestendo una mostra, poi scorse dei foglietti bianchi, appesi alle enormi pareti candide del museo: erano riquadri di carta igienica. Avvicinandosi notò che su ognuno c'era una parola, amore, odio, vita, morte, potere, debolezza, scritta a biro nel centro dei riquadri. "Minimale? Concettuale? Usa e getta? Le tre cose insieme" pensò Kate, annusando un riquadro di carta. "E non profumata." «Kate!» Il sovrintendente Schuyler Mills attraversò con atteggiamento impettito il pavimento lucidissimo facendo svolazzare la carta igienica appesa alle pareti. «Sono felice di vederti.» Sorrise cordialmente poi si accigliò. «Ho tentato di parlarti al funerale di Bill Pruitt ma...» Si chinò verso di lei e soggiunse: «Era ubriaco o cosa?».
«Che intendi dire, Schuyler?» «Beh, annegare nella vasca da bagno? Suvvia.» Il sovrintendente si morse il labbro. «Immagino che non avrei dovuto dirlo. Perdonami.» E con un tono solenne, insolito per lui: «Oh, spero che tu abbia ricevuto il mio biglietto. Mi dispiace tanto per Elena; era una ragazza piena di talento. Avevamo avuto una conversazione deliziosa prima del suo spettacolo. Povera piccola, era un po' nervosa. Le ho offerto un bicchiere di brandy, sai, di quello speciale che tengo a portata di mano per addolcire i generosi mecenati del museo, come te» concluse sorridendo. «Hai parlato con Elena dopo lo spettacolo?» «No. Sono tornato subito nel mio ufficio per preparare un catalogo.» Fece una pausa. «Mi capita spesso di lavorare di sera.» «Non ti senti solo qui dentro?» domandò pensando se era possibile verificare questo affermava Mills. «Amo la quiete.» Kate non aveva difficoltà a immaginare il sovrintendente tutto solo nel suo ufficio col naso sprofondato in un libro. Quell'uomo non pareva avere vita sociale al di fuori del lavoro e degli eventi artistici. Cambiò argomento. «Conoscevi Ethan Stein?» «Orribile» commentò Mills scuotendo il capo. «No, non ci eravamo mai incontrati.» «Mi chiedo...» Kate si batté il dito sul labbro e formulò con cura la domanda, «se facesse ancora quadri minimali.» «Non saprei.» «Non seguivi il suo lavoro?» «Non sono particolarmente interessato all'arte minimale.» «No?» «No. Preferisco l'arte con più vita dentro.» «Però, devi ammettere che Stein ha dato un importante contributo al movimento.» «Suppongo di sì» disse Mills scrollando le spalle. «E tu non hai mai incluso le sue opere in una mostra, mai visitato il suo studio?» «Te l'ho già detto, Kate. Il suo lavoro non mi interessa. No.» Le labbra del sovrintendente si arricciarono in un sorriso sospettoso. «Parli come un poliziotto; è un ruolo che non ti si addice, Kate.» «Davvero?» la donna scoppiò a ridere. «Vuoi dire che non mi vedi come un tipo alla Angie Dickinson... dura, bella e senza un capello fuori posto?»
«Angie chi?» «Non dirmi che non hai mai sentito parlare di Cagney e Lacey?» «Sono personaggi della televisione?» Il sovrintendente rise beffardo. «Non la guardo mai. Mai. Oh, tranne la tua magnifica serie, naturalmente.» «Naturalmente.» Kate inclinò il capo e gli lanciò un'occhiata velenosa. «No, davvero, l'ho seguita, ed era magnifica» disse Mills ravviandosi i capelli. «Di solito, non ho il tempo né la pazienza per la divulgazione culturale.» Tirò su col naso. «Secondo me è la distruzione del mondo civilizzato, una malattia incurabile come l'herpes!» «Deliziosa similitudine, Schuyler. Di chi è, Proust o Molière?» Il sovrintendente non sorrise. «Sto semplicemente cercando di conservare un minuscolo frammento di buon gusto e di intelligenza nella nostra cultura decadente.» Gli occhi di Kate si posarono sui riquadri di carta igienica. «Io non c'entro con quella roba!» Le labbra di Schuyler sbiancarono e le parole uscirono a fatica. «Questa mostra è arrivata a noi tramite un conservatore indipendente e io purtroppo non sono il direttore del museo.» «Magari lo diventerai, ora che Amy ci lascia.» Kate posò la mano sulla manica del blazer blu di Mills. «Sai» disse, «io potrei sostenere la tua candidatura presso il consiglio di amministrazione.» «Lo faresti?» «Certamente. Procurami un elenco dettagliato delle tue attività dell'ultimo mese; così non solo saprò che cosa fai ma potrò anche mettere in evidenza che lavori moltissimo, cosa di cui non ho dubbi.» «Non hai idea» mormorò lui. «Il lavoro è la mia vita. Sarò lieto di metterti giù due righe.» «Oh, non perdere tempo, Schuyler. Mi basta una fotocopia della tua agenda degli appuntamenti.» Raphael Perez scelse tra la gran confusione della scrivania una diapositiva dieci per venticinque, in cinque colori, la sollevò controluce: riproduceva un uomo che si leccava il copioso sudore sotto l'ascella, e la posò su una delle numerose pile di diapositive e fotografie. Doveva completare la raccolta del materiale da appendere alle pareti del museo. Se Bill Pruitt non gli avesse messo il bastone tra le ruote, quella dannata mostra sarebbe stata inaugurata l'anno precedente alla data prevista. Perez temeva che Funzioni corporali, che indubbiamente avrebbe inserito il suo nome nel mondo dell'arte, potesse venire giudicata al momento della sospirata inau-
gurazione autunnale un tantino obsoleta. Si augurò che l'interesse notoriamente volubile del mondo dell'arte rimanesse desto fino ad allora. Anche se, in fin dei conti, quel dettaglio non avrebbe cambiato le cose. L'incarico di vicecuratore del museo di arte contemporanea era solo l'inizio della sua carriera. Quando fosse diventato il direttore... Assaporò il suono del titolo mentre osservava un altro possibile candidato per la mostra. Nella fotografia a colori, venti per venticinque, un ragazzo nudo era appollaiato sul water con il viso contratto per lo sforzo di evacuare. Perez la buttò a terra. Se avesse avuto l'energia l'avrebbe fatta a pezzi e buttata nel cesso: quella era proprio la fine che meritava. «Scusa il disturbo» disse Kate entrando nell'ufficio e osservando il naso dritto, le labbra piene e le lunghe ciglia scure del giovane curatore. Perez scattò in piedi come un pupazzo a molla che sbuca dalla scatola e invitò con un cenno l'importante membro del consiglio di amministrazione ad accomodarsi, il tutto così rapidamente da creare un movimento d'aria nell'ufficio privo di finestre. «Stavo dando un'occhiata alla mostra» disse Kate con tono disinvolto, «e ho pensato di passare a salutarti.» «Che bell'idea» disse Perez. «Spero che la mostra ti sia piaciuta. È piuttosto stimolante, non ti pare?» «Direi... igienica più che stimolante.» Perez rise, troppo forte, troppo a lungo. Kate raccolse la fotografia dal pavimento. «Costui desidera un posto da lavacessi o sta solo dimostrando che sa come usarne uno?» «Artisti» disse Perez con disprezzo. «Ce ne sono così tanti là fuori e tutti vogliono diventare famosi. Forse potresti parlare di lui nel tuo prossimo libro» e inarcò le sopracciglia scure. «Suppongo che potrei dedicare un capitolo all'arte dei gabinetti, risalendo al celebre Orinatoio di Duchamp. Ma preferisco lasciare questo genere audace agli esperti come te.» Sorrise e domandò: «Come va la tua mostra?». «È stata rimandata. Sto cercando di rimetterla in moto.» «Scommetto che ora sarà più facile, senza Bill Pruitt che ti soffia sul collo. Oh, Dio, che osservazione di pessimo gusto. Perdonami.» «Non devi scusarti con me» replicò il giovane cercando di nascondere un sorriso. «So che Bill aveva gusti piuttosto conservatori.» «Già.»
«Sai, Raphael, ora che Bill è morto e Amy Schwartz se ne va, il museo avrà bisogno di direttive nuove.» Il giovanotto si raddrizzò sulla sedia come un cucciolo eccitato. «Dovresti fornirmi un rendiconto di ciò che hai fatto nell'ultimo mese. Intendo un elenco dettagliato delle tue attività, giorno per giorno. Il consiglio deve sapere chi lavora qui dentro, e chi no, capisci cosa intendo dire.» Perez mosse su e giù la testa come una marionetta. «La cosa migliore» proseguì Kate «è mandarmi la fotocopia della tua agenda degli appuntamenti.» «Uso un palmare che purtroppo cancella automaticamente di settimana in settimana, ma scriverò tutto quello che ho fatto.» «Non tralasciare eventuali cene con collezionisti o artisti e tutte le sere che hai lavorato, qui o a casa, anche se si trattava solo di pensare alle attività del museo.» «Soltanto il mese scorso?» «Basterà per dare un'idea al consiglio di amministrazione, non credi?» Perez annuì calorosamente passandosi una mano tra i folti capelli neri tra i quali spiccava una sorprendente ciocca bianca. «A proposito, spero che tu sia riuscito a parlare con Elena, la sera dello spettacolo. È...» Kate inspirò, si sforzò di controllare la voce, «era una ragazza straordinaria.» «Purtroppo ho dovuto andarmene subito» disse Perez. «Avevo un appuntamento per cena con due artisti. Sono andato nei loro studi e poi abbiamo mangiato un boccone in un piccolo locale della Decima Strada Est.» A quattro isolati dalla casa di Elena, pensò Kate. «Ci sono tanti ristorantini deliziosi in quella zona. Dove siete stati?» «Fammi pensare...» Inclinò il capo da un lato, poi dall'altro. La ciocca bianca si mosse avanti e indietro come il punto interrogativo in un cartone animato. «Oh, sì. Si chiamava Spaghettini.» Kate prese mentalmente nota del nome. Conosceva il posto, il minuscolo giardino sul retro dove ricordava di aver bevuto vino rosso con Elena, davanti a grossi piatti di pasta. «Ecco, Raphael, è esattamente questo il tipo di informazioni che dovresti scrivere per il consiglio di amministrazione. Una cena con degli artisti, anche questo è lavoro. Metti giù tutto: la data, i nomi delle persone che erano con te, dove siete andati e così via.» «Lo preparo subito.» «Bene» disse Kate.
L'auditorium del museo di arte contemporanea era in fondo a una grande scalinata che recentemente un artista aveva trasformato ricoprendola interamente di carta dorata. Un'allusione al consumismo, quel rendere straordinario qualcosa di ordinario come una scala? O semplicemente un inutile sovraccarico di orpelli? Comunque fosse, pensò Kate, il risultato era bellissimo. Salì sul palcoscenico e osservò le file di poltrone vuote. In quel posto Elena si era esibita per l'ultima volta. Kate cercò di ricostruire gli ultimi istanti di quella serata: Richard che lavorava nel suo ufficio, Willie che dipingeva in casa sua, Elena che non aveva voglia di andare da nessuna parte. Il bacio della buonanotte e via. Fine. Si sentì venir meno. In quel momento qualcosa si mosse in fondo all'auditorium, distraendola. Kate strizzò gli occhi nella penombra. Un ragazzo percorse lentamente il corridoio, si fermò alla prima fila di poltrone e si appoggiò a una scopa dal lungo manico. «Scusi. Non volevo spaventarla.» Lei lo guardò: meno di trent'anni, favoriti alla generale Custer, baffi spioventi, capelli chiari, carino. «È da molto che lavori al museo?» «Circa sei mesi. Sono un artista. Faccio le pulizie per pagarmi l'affitto, sa com'è, finché non arriva la grande occasione.» «Arriverà di sicuro» disse Kate rispondendo al suo sorriso irresistibile. Aveva gli occhi celesti. «Come ti chiami?» «David Welsey.» Le porse la mano. «Ehi, ma io la conosco. Lei è quella che ha fatto la serie televisiva Vite d'artisti. Proprio bella. Ho anche il suo libro.» Improvvisamente sembrò intimidito, o forse fingeva. «Mi piacerebbe farle vedere i miei quadri una volta o l'altra.» «Ne sarei lieta. Mandami delle diapositive dei tuoi lavori.» Il ragazzo sorrise, raggiante. «Per caso, lavori qui anche di domenica?» «Purtroppo sì» sospirò allontanando i capelli biondi dalla fronte. «Dalla domenica al giovedì mi trova qui a spazzare, lucidare i pavimenti eccetera. Eccitante, no?» «Quindi sei qui durante gli spettacoli della domenica?» Il ragazzo abbassò lo sguardo sui pesanti scarponi. «Di solito me ne vado prima dell'inizio. Stacco alle cinque.» «E domenica scorsa? Lo spettacolo di Elena Solana?» «Ho letto quello che è successo. Che orrore.» «Allora tu non c'eri?»
Si grattò un orecchio e disse: «Veramente, sì». «Mi pareva avessi detto che non ti fermi per le manifestazioni.» «Beh, ci siamo parlati quando è entrata. Elena Solana era un bel pezzo di ragazza, sa; così sono rimasto.» «Durante lo spettacolo?» «Sì. Speravo di aver fortuna con lei.» «E l'hai avuta?» «No» disse scuotendo il capo. «Mi ha liquidato. Ha detto che era stanca.» Kate attese ma il ragazzo non aggiunse altro. «Sto pensando a un nuovo libro e forse anche a un'altra serie televisiva. Vorrei vedere il tuo lavoro.» «Quando vuole.» Kate tirò fuori dalla borsetta un taccuino e una penna. «Scrivi il tuo indirizzo e il numero di telefono.» Il giovane artista era talmente eccitato che non riusciva a scrivere. Kate notò che stringeva la penna con tanta forza che le nocche sbiancarono. Avrebbe lasciato delle impronte perfette, ma come togliergli la penna di mano senza lasciarvi sopra anche le sue? Prese un fazzoletto di carta e finse di soffiarsi il naso. «Ecco.» Il ragazzo le offrì la penna, il taccuino e un sorriso incantevole. Rapidamente, per non farsi notare, Kate raccolse la penna col fazzoletto. «Bene» disse. «Mi metterò in contatto.» 16 Il sole scintillava sugli edifici in vetro e acciaio della Cinquantasettesima Strada. Nel cielo azzurro correvano tondeggianti nuvolette bianche, rassicurante presagio della primavera imminente. Kate procedette a zigzag tra una fiumana di donne cariche di sacchetti di Bendel's e Saks, superando vetrine di gioielli strabilianti che soltanto la settimana precedente avrebbero attirato la sua attenzione. Ma non oggi. Doveva portare la penna al laboratorio e controllare le agende degli appuntamenti di Mills e Perez. Tuttavia aveva bisogno, innanzitutto, di chiarirsi le idee, pensare, e stava andando nel posto ideale per farlo. Raffaello, Rubens, Delacroix. Vermeer, Hals, Rembrandt. Il Metropolitan Museum of Art di New York.
Kate fece un cenno di saluto al custode, sorrise, passò nella sala della pittura barocca e si avvicinò al Ratto delle Sabine di Poussin, le cui figure erano fissate in movimento come attori sul palcoscenico. Sapeva che quel pittore lavorava con figure di creta che spostava in un teatrino di sua creazione. Quella caratteristica le ricordò un altro artista, quello che popolava le sue ricostruzioni di cadaveri. "Maledizione." Sarebbe mai più stata capace di godersi l'arte senza pensare alle brutali e sadiche riproduzioni di quell'individuo? In una saletta laterale osservò una piccola esposizione di stampe di Edvard Munch, alcune incisioni della sua opera più famosa Il grido, una xilografia intitolata Ansia, facce violentemente bianche su sfondo nero, e due litografie che conosceva bene: Marcia funebre, che sembrava un agglomerato di cadaveri, e Camera ardente, un gruppo di personaggi in nero, in piedi e seduti, muti e solenni. Pensò all'ultimo anno di suo padre, che lottava per morire ma continuava a vivere anche dopo l'infarto, pur semiparalizzato e impedito nella parola, quel padre che aveva tanto temuto, e anche amato, diventato nei suoi ultimi mesi di vita un estraneo fragile e quasi affettuoso. Difficile credere che quel vecchio malato, l'uomo per cui lei aveva cucinato e pulito dopo la morte della madre, fosse stato capace di tanta crudeltà e brutalità con la figlia. "Come spiegarlo?" Dopo anni di analisi, Kate ancora non se ne era fatta una ragione. Suo padre la riteneva responsabile della morte della moglie? Non si rendeva conto che quella donna era anche sua madre? Tuttavia, era stata lei a curarlo, a tenere pulito il corpo in disfacimento, a vuotare le padelle, a spalmare il linimento sulle piaghe e infine a iniettare la dose letale di morfina nella vena del braccio destro. La sala successiva, dedicata a Tiziano e Veronese, esibiva quadri di grandi dimensioni, imponenti e carichi di dettagli. Kate pensò subito all'ultimo capolavoro del maestro, Apollo e Marsia, e con esso al corpo di Ethan Stein. "Maledizione." Voltandosi quasi si scontrò con un giovanotto in giacca di pelle consunta, capelli selvaggi e barba lunga. Le sorrise. «Scusi» disse. Kate lo osservò, domandandosi se fosse il tipo d'uomo che sarebbe piaciuto a Elena; bohémien e piuttosto attraente, dopo una bella ripulita. Era strano che Kate non ricordasse di aver mai incontrato un ragazzo di Elena,
e neppure di averne sentito parlare. Naturalmente conosceva alcuni dei suoi amici, prevalentemente pittori e poeti; una volta era apparso un regista che le interessava, ma era subito sparito dalla circolazione. Strano davvero, perché Elena era carina, intelligente, eterosessuale, almeno a quanto ne sapeva Kate, anche se forse avrebbe dovuto verificarlo. Poteva essere stata una donna a ucciderla? Per la prima volta prese in considerazione quella possibilità. Le statistiche dicevano che nove volte su dieci l'assassino di una donna era un uomo o almeno così era una volta. Doveva chiedere a Liz se nell'ultimo decennio le cose fossero cambiate. Kate attraversò rapidamente parecchie sale e si fermò davanti all'opera più celebre di Daumier, Il vagone di terza classe, un quadro scuro, meditativo, su tonalità fonde e cupe: personaggi anonimi, uniti dal caso in un vagone ferroviario, emotivamente distanti, ognuno isolato nel suo mondo. La figura a sinistra, una vecchia con la cuffia, fissava il vuoto con occhi ciechi, evocando nella mente di Kate il ricordo del Picasso con un occhio solo, quindi della guancia insanguinata di Elena, quindi della spaventosa fotografia del diploma. "Ecco." Aveva capito cosa doveva fare: esaminare gli album di fotografie di Elena, controllare se quella foto mancava. A Saint Mark's Place sembrava di essere tornati al 1965. Gruppi di ragazzi in pantaloni a zampa di elefante, con i tatuaggi sulle braccia che avevano preso il posto dei fiori dipinti in faccia, fumavano e ridevano, alcuni con l'aria piuttosto 'fatta'. Era vacanza quel giorno, si domandò Kate, oppure erano troppo vecchi per la scuola? Lei non gli avrebbe dato più di quindici anni. Svoltando nella Sesta Est notò due poliziotti: uno sull'angolo, l'altro davanti al portone della casa di Elena al quale mostrò il suo distintivo provvisorio. Bessie Smith cantava a basso volume. Elena piroettava per la stanza con la lunga gonna a ricami multicolore. «Mi piace.» Un altro giro e la gonna si sollevò sopra le ginocchia. «Avresti dovuto vedermi» disse Kate. «Non sono brava a contrattare. Scommetto che quella donna se ne è accorta subito. Ero così intenta a parlare spagnolo che temo di averle dato più del doppio di quanto voleva. Probabilmente hanno appeso la mia foto in tutti i mercati messicani, con sopra scritto "babbea".»
Elena rise. «Ehi, perché non mi parli in spagnolo? Magari riesco a spillarti più denaro di quanto mi dai.» L'odore della morte aleggiava ancora nell'atrio. Kate alzò gli occhi al soffitto come per vedere attraverso i due piani che la separavano dall'appartamento di Elena. Vuoto. Nessuno vi piroettava con una gonna messicana. Imboccò lentamente le scale. Ora che era arrivata, non aveva fretta di rivedere la scena. Il nastro che bloccava la porta cedette facilmente e cadde a terra avvolgendosi come un molle serpente giallo. Kate infilò i guanti di gomma ed entrò nell'appartamento. Sui davanzali delle finestre c'era ancora la polvere grigia per il rilievo delle impronte. La vivace fodera del sofà era sollevata, la struttura di gommapiuma visibile sul fondo. Erano stati quelli della Scientifica o era sempre stato così? Kate non ricordava. Nella minuscola cucina il cassetto delle posate era aperto a metà, il contenuto sparito. Sulle pareti le macchie di sangue si erano scurite, diventando quasi nere nelle fessure tra le piastrelle. Sul tavolo del computer era rimasta soltanto la polvere di New York. Sentendo che la testa le girava, Kate si rese conto che stava trattenendo il fiato da quando era entrata. Si guardò attorno tentando di ricostruire la scena del delitto: il corpo di Elena abbandonato sul pavimento della cucina, il sangue dappertutto... improvvisamente più vero, più vivo che nelle fotografie. In camera da letto trovò ciò che era venuta a cercare: tre piccoli album, due su uno scaffale in mezzo a libri di arte e poesia, uno sul cassettone. I primi due contenevano le fotografie dei viaggi a Portorico e in Italia; il terzo erano vecchie foto di Elena bambina. Doveva essercene un altro. Se non era nell'appartamento, l'aveva portato via l'assassino. Con un grande sforzo Kate controllò i cassetti e l'armadio, ma non trovò che resti della vita di Elena: una camicetta, una maglietta stampata, ricordi che le avrebbero strappato il cuore se il pensiero che quell'individuo era stato lì, si era mosso in quelle stanze, aveva toccato le stesse cose, non le avesse distolto la mente. Kate ne percepiva la presenza inquietante. All'improvviso si rese conto del proprio respiro ansimante, del silenzio, e udì un leggero movimento alle sue spalle. Si voltò di scatto e vide un piccione appollaiato sul davanza-
le. Tirò un sospiro di sollievo. Un attimo dopo, sentì di nuovo una presenza, la sensazione che qualcuno le sfiorasse la spalla suggerendole dove guardare. Kate fremette da capo a piedi. In salotto raccolse da terra il cuscino Marylin e un vago profumo di patchouli, usato da Elena, si diffuse nell'aria. Se restava ancora lì dentro, sarebbe crollata. Benedisse l'intenso odore di cavolo che aleggiava nell'atrio: qualsiasi cosa pur di cancellare quel profumo che le era diventato intollerabile. Avrebbe voluto uscire subito in strada ma doveva ancora parlare con il portinaio. Secondo il poliziotto che aveva raccolto la sua deposizione, l'uomo non era presente la sera del delitto, ma poteva avere informazioni utili. Mentre passava accanto a quattro bidoni della spazzatura traboccanti di pattume che quasi bloccavano l'accesso all'appartamento del seminterrato, il leggero tessuto grigio del suo blazer si impigliò nei bordi frastagliati strappandosi. «Maledizione!» Bussò alla porta staccando alcune schegge di smalto blu che svolazzarono come farfalle notturne. Nulla. Bussò ancora. L'unica risposta furono altri frammenti di vernice. C'era un buco al posto della maniglia. Kate si chinò per guardare attraverso quella bocca sdentata. Frugò nella borsetta e tra pettine, sigarette, accendino, profumo e Tic Tac, trovò una lima da unghie di metallo con cui riuscì a far scattare la serratura. La giovane detective Kate McKinnon si era sempre distinta come abile scassinatrice. «C'è qualcuno?» gridò nella penombra dell'ingresso costellato di giornali vecchi, scatoloni vuoti, un grosso sacco di lettiera per gatti, una cassetta di attrezzi e pile di riviste pornografiche. Scavalcò il tutto e passò nell'unico locale che costituiva l'appartamento arredato con un materasso a strisce rosa sul pavimento e due sedie pieghevoli intorno a un tavolino da gioco anni Cinquanta. Un gatto bianco e nero si strofinò contro le sue gambe e Kate per un pelo non urlò. «Oh, gattino, quasi me la facevo addosso.» Cacciò un sospiro di sollievo, accarezzò il gatto e raddrizzandosi intravide una massa colorata sulla sua destra. Improvvisamente fu come se le pareti grigio sporco le crollassero addos-
so. Kate afferrò alla cieca un braccio carnoso e molle e tirò. La massa colorata, che puzzava di zuppa rancida di pollo in scatola, le piombò addosso, cadde sul linoleum sbiadito con un tonfo sordo, borbottò come un motore diesel e scoreggiò. Kate piantò il tacco nel collo che sembrava un copertone d'auto e bloccò il braccio flaccido dietro la schiena del pachiderma. Solo allora vide che si trattava di un uomo sui centocinquanta chili vestito con una camicia a colori vivaci. Gemeva come un cucciolo. Anche a un metro di distanza l'alito puzzava di formaggio putrido, in sintonia con la scoreggia. Solo due settimane innanzi Kate faceva colazione con Philippe de Montebello nella sala da pranzo privata del museo Metropolitan discutendo di Vermeer e prendeva il tè con l'ultima signora Trump per assicurarsi un assegno di un milione di dollari per "Offriamo loro un futuro". Ora saltava i pasti e teneva il tacco della scarpa da quattrocento dollari saldamente piantato nel collo di quell'energumeno. «Nome?» domandò premendo col tacco che scomparve tra la ciccia biancastra. «Johnson» belò l'uomo. «Sono il portinaio! Wally Johnson. Mi stai spezzando il...» «Aggredisci sempre così i tuoi ospiti?» «Sei entrata in casa mia, Cristo!» Non aveva tutti i torti. «Polizia» disse allentando la pressione. Gli si avvicinò e subito si ritrasse. Che alito puzzolente! Fece promettere al grosso Wally che sarebbe stato tranquillo. «Perché non l'hai detto subito?» l'uomo rotolò su se stesso, si sedette, si massaggiò il braccio e gemette. «Gesù!» «Ho bussato. Ho chiamato. Non hai risposto.» «Ero al cesso, perdio!» Gli occhi piccoli tra le pieghe di grasso la osservavano scettici. «Sei un poliziotto?» «Lavoro al caso Solana» replicò Kate, assaporando compiaciuta il suono delle parole. Era contenta di aver messo sotto quel bestione. Ringraziò mentalmente il suo allenatore personale, pur dovendo ammettere che Wally era tutt'altro che in forma. «Senti» disse ammorbidendosi. «Non sono qui per farti del male...» «Cazzo, mi hai già rotto il braccio» piagnucolò. Kate si impose di non dargli del piagnone. «Ho letto la tua deposizione. La sera in cui fu uccisa Elena Solana, tu non eri qui. Giusto?»
«L'ho già detto alla polizia. Ero da mia sorella a Staten Island. Mi aveva cucinato spaghetti e polpette.» «Squisito. Ma io sto cercando qualcosa di più interessante delle polpette.» «Cosa?» «Hai mai visto gli amici di Elena Solana?» «Ehi, io non ficco il naso negli affari degli altri.» «Lo so» disse Kate con tono meno duro. «Senti, Wally, tu e io sappiamo che un buon portinaio conosce l'andirivieni dei residenti. Fa parte del tuo lavoro, che sono sicura svolgi molto bene.» L'uomo si massaggiò il braccio e disse: «Aveva degli amici neri». Per un attimo Kate pensò di spezzargli anche l'altro braccio, ma non sarebbe servito a farlo parlare. «Descrivimeli.» Wally alzò le spalle. «Che devo dire? Uno era piccolo, uno magro, uno grosso.» «Grosso come?» «Come un buttafuori, un pugile, così.» «L'altro?» «Quello piccolo aveva i capelli... sai... ehm...» «Riccioli rasta?» «Già. Rasta. Molto giovane. Veniva spesso.» "Willie." «E quello magro?» «L'ho visto solo un paio di volte. Sembrava un drogato.» «E il pugile?» «Non si vede da un po'. Forse avevano rotto. Sparito!» Rise, mostrando i denti gialli e un paio di buchi neri. «Saresti in grado di identificarli?» «Il giovane, quello coi capelli rasta, di sicuro. Forse anche quello grosso. Forse. Non l'ho mai guardato bene, ma era molto grosso, come ho detto. L'altro, il drogato, beh... era un drogato...» Magnifico. L'unico dei tre che Wally avrebbe riconosciuto era Willie. Sai che progresso. «Oh!» Il grassone si protese verso di lei e Kate fece un passo indietro per proteggersi dal puzzo d'alitosi. «Ce n'era un altro, anche lui magro, un bianco. Capelli biondi, statura media, un tipo femmineo. Probabilmente un finocchio.» «E quando l'hai visto?» «Io non tengo un diario. Qualche volta. Davanti al palazzo, mi pare, o
anche mentre suonava il citofono della Solana. Forse una volta o due sono usciti insieme sottobraccio.» Ghignò in modo allusivo. «Forse non era un finocchio, dopotutto.» Fuori, nella luce fredda del pomeriggio, Kate verificò i danni subiti: un bellissimo paio di pantaloni e un magnifico blazer rovinati; quindi valutò ciò che aveva appreso: tre uomini, oltre a Willie, passavano regolarmente da Elena. Un nero grosso, un nero magro, un bianco pallido. Chi erano? Tornata a casa, Kate andò dritta nella camera degli ospiti. Si era sentita troppo vulnerabile quando il grasso Wally l'aveva aggredita e c'era il rischio che la prossima volta il suo antagonista fosse in una forma fisica migliore. Doveva cautelarsi. Aprì l'armadio, spostò delle sciarpe di seta e in una scatola da scarpe trovò ciò che cercava, esattamente dove l'aveva riposto dieci anni prima. Si sedette sul letto, scartò lentamente gli strati di carta velina ed estrasse la sua vecchia Glock. Se la rigirò in mano. Emanava ancora un vago odore pungente di lubrificante per armi. Nella scatola c'era anche un caricatore intero. Lo inserì e sentì montare l'eccitazione, il senso di potenza cui aveva rinunciato tanto tempo prima per sostituirlo, forse, col potere del denaro. Un tempo Kate non sapeva nulla del denaro e di ciò che con esso si poteva ottenere. Le dita strinsero il calcio. Ora aveva un'arma e, sì, si sentiva molto più forte di prima. Domandate a un quindicenne che ha tenuto una pistola in mano e vi dirà che senso di sicurezza offre per compiere qualche stupida bravata. Kate sostituì gli abiti rovinati con un paio di pantaloni e una camicia. Si sentì più a suo agio, nonostante fosse comunque molto più elegante di quando faceva il detective. Allora amava le minigonne e i colli a V. Ma tutto ciò apparteneva al passato e non valeva la pena ritornarci sopra. Uno sguardo nello specchio le rivelò che aveva bisogno di una settimana in una clinica di bellezza. Si spazzolò i capelli e spruzzò sui polsi qualche goccia di Bal à Versailles. Perché il fatto di aver perso la madre l'aveva sempre messa in imbarazzo, come se ne fosse stata responsabile? Solo quando frequentava la decima classe al Saint Anne aveva saputo la verità, grazie alle provocazioni di Mary Ellen Donaghue. «Ti credi di essere chissà chi, McKinnon... beh, almeno mia madre non si è ammazzata.» Kate l'aveva picchiata finché non erano arrivate le suore a dividerle.
Perché tutti le avevano mentito? Pensavano che si fosse uccisa per colpa sua? Oh, Dio! Quanti anni aveva sprecato sul sofà dell'analista per trovare una risposta. Kate infilò la pistola in una borsetta di pelle nera con la tracolla e cercò qualcosa da indossare. Nell'armadio, l'unico indumento non firmato era una vecchia giacca di jeans, con il simbolo della pace applicato sul taschino, un residuo di chissà quando. Fuori, nonostante il clima ancora invernale, sugli alberi di Central Park West sbocciavano le gemme. Kate toccò l'artiglieria che teneva in borsetta; era armata solo per sicurezza. Non aveva intenzione di uccidere nessuno. 17 Le catacombe, pensò Kate, ascoltando il suono dei tacchi che echeggiava sui muri del lungo corridoio scuro. Vernice scrostata, umidità, freddo: è il laboratorio nel seminterrato del Sesto distretto. Hernandez infilò la fotografia del diploma nel supporto di vetro e accese la colla a presa rapida. Nella nuvola di vapori le due donne osservarono il collage cercando le impronte digitali. «Un pasticcio» disse Hernandez togliendo la foto con le pinzette. «Impronte sovrapposte.» «Mi dispiace» rispose Kate. «Quando l'ho toccata non sapevo cosa fosse e l'ho fatto senza guanti.» Il tecnico la guardò comprensiva, sfilò i guanti dalle mani tozze e li lasciò cadere nel cestino. Era sui trentacinque e la figura giunonica riempiva il camice. Kate le porse la penna avvolta nel fazzoletto di carta. «Queste dovrebbero essere più chiare. Controlla se corrispondono alle impronte rilevate per il delitto Solana.» Hernandez sospirò. Kate prese una Marlboro. «In corridoio» l'avvertì Hernandez. «Anzi, no, vai a fumare fuori. Dammi una mezz'ora e vedrò cosa riesco a trovare.» Un caffè e tre sigarette più tardi, Kate ascoltò il verdetto di Hernandez. «Le impronte sulla penna sono chiare ma non corrispondono a nessuna di quelle del caso Solana o degli altri delitti.»
«Era solo un'ipotesi» ammise Kate. «E il collage?» «Poca roba. Segni confusi. Forse un quarto di impronta nitida.» «Potrebbe essere mia» affermò Kate. «Esistono i guanti, McKinnon.» «Non indosso i guanti per aprire la posta.» «Beh, d'ora in avanti ti consiglio di farlo» disse Hernandez consegnandole alcune pagine di tabulato coperte di numeri, simboli, parole uscite dalla stampante. «Non ho molto da dirti. La colla usata per il collage è di tipo normale. La fotografia è una Kodacolor di quattro o cinque anni fa. Il materiale applicato sugli occhi è un colore a tempera, sicuramente a base di acqua. Quanto all'altra, la Polaroid...» La donna scosse il capo. «Niente impronte. Al contrario di te, l'assassino usa i guanti.» «Puoi farmi una copia del collage e della foto?» Hernandez indicò la Xerox nell'angolo. «Puoi farlo tu. Le immagini ora sono sotto plastica. Protette» concluse con un sorriso caustico. Un attimo dopo Kate osservava le fotocopie uscire dalla macchina. «Oh, McKinnon» la chiamò Hernandez. «Aspetta ad andartene. Devo rovinarti lo smalto sulle unghie per prenderti le impronte e inserirle nel computer semmai decidessi di inquinare altre prove con le mani.» Floyd Brown guardò il foglio strizzando gli occhi. Nessun segno di effrazione. Probabile arma: coltello da cucina con lama di diciotto centimetri trovato sulla scena del crimine (nel cassetto della cucina) uguale ad altri due coltelli presenti nel cassetto - nessuna impronta. Studiò la fotografia. Diciassette ferite. Decisamente brutale. Con la lente di ingrandimento cercò segni erotici. Niente morsi o altro, niente di niente. E non c'era segno dei soliti trofei: capezzoli, lobi delle orecchie erano intatti. Ma allora, che cosa cercava l'assassino? Tracce di alluminio sotto le unghie. La manicure? Quel dettaglio pareva strano persino a Floyd che ne aveva viste di tutti i colori. Un qualche rituale in cui non si erano ancora imbattuti, oppure l'assassino aveva voluto eliminare ogni traccia rimasta sotto le unghie della vittima? In entrambi i casi, era chiaro che quel tizio aveva agito con calma.
Tre omicidi. Un unico assassino? Forse. Mead non voleva crederci... diavolo, chi voleva ammettere che ci fosse un serial killer in libertà? Brown si scostò dalla scrivania e ruotò ripetutamente sulla sedia. Vent'anni abbondanti di esperienza gli dicevano che non poteva essere una coincidenza. Probabilmente McKinnon aveva ragione. Per giunta, l'aveva colpito il materiale che quella donna aveva raccolto, seppur gli seccasse ammetterlo. Ma chi era quella gran dama con una risposta per tutto? Floyd ricordò come buttava indietro i capelli abbelliti da mèches e il suo profumo quando le si era avvicinato per esaminare le fotografie. Gesù, l'ultima cosa che voleva era lasciarsi influenzare dalla femminilità di McKinnon. Tuttavia non vedeva l'ora di raccontare a Vonette che lavorava con quella famosa esperta d'arte. Sua moglie ne sarebbe stata orgogliosa; era appassionata di arte e l'aveva costretto a registrare il football del lunedì sera per non perdere Vite d'artisti. Come se fosse divertente vedere una partita quando già se ne conosce il risultato. Il mondo era piccolo, su questo non c'erano dubbi. La donna che gli rovinava la sua trasmissione televisiva preferita, ora stava lavorando con lui a un omicidio, anzi a una serie di omicidi. Il mese precedente aveva discusso con sua moglie sulla possibilità di andare in pensione. Impossibile prendere in considerazione quell'eventualità ora che forse c'era in circolazione un serial killer. Inoltre, doveva far buon viso a cattivo gioco. Quella non era una persona qualsiasi, era amica del capo della polizia. L'ufficio bastava appena a contenere un tavolo e una sedia, ma era già qualcosa. Kate non si era aspettata nulla, sicuramente non il distintivo provvisorio del NYPD appuntato sul pullover di cachemire. Accese un'altra Merit al posto della solita Marlboro. La settimana precedente aveva promesso per l'ennesima volta, anzi giurato, a Richard di smettere di fumare. Ma non era quello il momento giusto. Aprì una pagina nuova del taccuino, tamburellò con la matita e iniziò a elencare le cose da verificare: gli amici di Elena, i colleghi, la madre, sebbene dubitasse che la signora Solana avrebbe accettato di parlarle. Kate ripensò all'ultimo anno di scuola superiore di Elena, quando la ra-
gazza le aveva confessato in lacrime che Mendoza, il compagno della madre, la molestava pesantemente da mesi mentre la madre faceva finta di non vedere. Fu allora che Kate la aiutò ad andarsene di casa per trasferirsi nell'appartamento della Sesta Strada Est, pagandole l'affitto per un paio di anni. Ora quel pensiero la tormentava: se Elena fosse rimasta a casa di sua madre, sarebbe stata ancora viva? Allontanò questo pensiero e aggiunse all'elenco il nome sottolineato di Mendoza. Kate tirò una lunga boccata: la Merit era così insipida da non darle alcuna soddisfazione. Avrebbe fatto meglio a comprarsi delle sigarette decenti, anche perché di quelle leggere ne fumava il doppio. Si domandò se gli altri detective avrebbero collaborato con lei. Maureen Slattery le piaceva; nella giovane poliziotta riconosceva qualcosa di sé, la stessa voglia di riscattarsi, di farsi valere. Inoltre, Maureen l'aveva già aiutata controllando i tabulati telefonici di Elena. Kate li esaminò e riconobbe il suo numero, quello di Willie e altri che avrebbe dovuto verificare. Potevano essere importanti. Che dire di Brown? Forse era il momento di fargli una visita. «Tua moglie» chiese Kate indicando la fotografia incorniciata sulla scrivania di Brown. «Molto carina. Sta cercando di farti fuori?» «Cosa?» «Nel tuo colletto c'è una quantità d'amido sufficiente a bloccarti la circolazione.» «Lei è fissata con l'amido.» Brown represse un sorriso e prese in mano il fascicolo di Pruitt. «Tu lo conoscevi. Aveva dei nemici?» «Direi che la loro lista d'attesa era lunga. Quell'uomo era un fottuto leccaculo, falso, forse addirittura un criminale.» «Tu non abiti a Park Avenue?» «Sì, sul lato occidentale» replicò Kate, senza specificare che viveva a Central Park West. «Quindi, cosa significa criminale per una come te?» «Non escludo che potesse trafficare in opere d'arte rubate.» «Qui non è scritto» disse Brown facendo scorrere le dita sul dossier. «L'ho appena scoperto.» «Hai lavorato su questi casi, McKinnon? Da sola?» «Ero curiosa.» Kate sorrise e gli spiegò ciò che le aveva detto la madre di Pruitt sul dipinto sparito. «Penso che chi ha ucciso Pruitt abbia portato via la pala d'altare.» «Se la troviamo, abbiamo l'assassino? È questo che intendi?» Brown
prese un appunto, poi estrasse una pagina dal fascicolo. «Hai visto queste dichiarazioni?» Fece scorrere il dito su un elenco di nomi. «Richard Rothstein? È un tuo parente?» «Mio marito. Era a una riunione con Pruitt la mattina del giorno in cui è morto.» Brown le piantò addosso gli occhi scuri. «Ma non è stato tuo marito a ucciderlo, no?» «Richard? A uccidere Bill Pruitt?» Kate scoppiò a ridere. «Beh, veramente non me l'ha detto. Dovrò chiederglielo.» «Fallo» disse Brown appoggiandosi alla spalliera della sedia. «Io e mia moglie abbiamo visto la tua trasmissione.» «Grazie.» «Non ho detto che mi sia piaciuta, solo che l'ho vista.» La osservò attentamente, tamburellando con le unghie sul bordo del tavolo. Kate attese. Voleva concedergli del tempo. Non doveva essere facile per un detective di prim'ordine, con oltre vent'anni di servizio, essere costretto a collaborare con un'ex poliziotta di cui sapeva soltanto che apparteneva all'alta società. Se la situazione fosse stata capovolta, Kate sarebbe stata furiosa. «Non hai raccontato a nessuno le tue teorie, vero?» «Solo a Tapell.» Brown serrò le labbra. «Sarebbe un disastro, un disastro vero e proprio se la stampa venisse a sapere di un serial killer... specialmente adesso, appena chiuso il caso del cecchino.» «Se la gente non fosse tanto famelica di notizie di questo tipo, i giornali non le stamperebbero.» Kate guardò il dossier Pruitt e proseguì: «A proposito, la contusione sulla mascella di Pruitt era recente?». «Non ne sono sicuro.» «Cosa dice l'autopsia?» «Sono sovraccarichi di lavoro. Il rapporto si farà attendere.» «Forse» disse Kate. «O forse no.» 18 Anche se il dipartimento di medicina legale era sovraccarico di lavoro bastò una telefonata del capo della polizia per smuovere le acque. La targhetta di plastica col nome SALLY RAPPAPORT era appuntata, leggermente di sghembo, sul taschino del camice del tecnico del laborato-
rio medico, tra chiazze rosa scuro che Kate pensò fossero sangue e non sicuramente pinot d'annata. Rappaport poteva avere tra i trenta e i quarant'anni, statura media, magra. Dal pallore si sarebbe detto che da anni non vedeva la luce del sole. «Mi dispiace tenerti qui fino a tardi.» «Scherzi?» rispose Rappaport alzando le spalle. «Ho appena iniziato il mio turno.» Il corridoio che conduceva alle sale delle autopsie aveva le pareti e il soffitto di colore bianco sporco con un triste zoccolo grigio-verde alto circa un metro. Kate seguì le robuste Adidas di Sally Rappaport che scricchiolavano sulle piastrelle verdi del pavimento. Sembrava di trovarsi nelle antiche terme romane, con numerosi archi abbastanza imponenti da poter essere utilizzati come sfondo all'ingresso trionfale in Roma di Liz TaylorCleopatra. Lucide piastrelle bianche, acciaio inossidabile, un'aria così fredda da far condensare il respiro e, infine, un odore di formaldeide venti volte più intenso di quello dei laboratori scolastici. L'obitorio di Astoria, che faceva parte dell'ospedale di Queens ed era costituito da una stanza attrezzata con tre o quattro barelle, lì dentro ci sarebbe entrato dodici volte. Il tecnico guidò Kate accanto a un paio di cadaveri coperti da teli di plastica verde, da cui sbucavano piedi pallidi come la cera, segnati da vene bluastre. Le porse una maschera, ne infilò una a sua volta e ravviò i ricci capelli castani fermati da due barrette blu a forma di pesce. Kate si domandò se le portava da quando era ragazzina; subito si rimproverò per essersi lasciata distrarre da dettagli insignificanti mentre stava per vedere il corpo di Elena che era stata come una figlia per lei. Non aveva bisogno di farselo spiegare da uno psicanalista: le barrette di plastica erano una scusa per non pensare a ciò che l'aspettava. Rappaport sfilò da una scatola un paio di guanti di plastica e con un cenno invitò Kate a imitarla. Si avvicinò a una parete formata da cassetti di metallo, ognuno con una grossa maniglia e una targhetta con dei numeri scritti con il pennarello nero. Una colossale biblioteca di morti. Il medico legale controllò il nome sul taccuino e tirò il cassetto S-17886P che si aprì cigolando. Il corpo di Elena era uguale a tanti altri che Kate aveva visto in passato: carne colore avorio come i tasti di un pianoforte, il taglio a Y sul torace lasciato dall'autopsia, vistosi punti di sutura sul cranio. Ma quello non era un cadavere qualsiasi. Kate riusciva a malapena a respirare dietro la masche-
ra. Perché stava facendo quella cosa orribile? Era pazza? No, voleva farlo, doveva farlo. Una canzone, ecco di cosa aveva bisogno. Era un vecchio trucco che aveva usato per osservare scene troppo brutte da vedere. «Baby Love» canticchiò sottovoce. Una scelta sbagliata, ma era tardi per cambiare. Diana Ross e le Supremes - capelli gonfi, gonne lunghe, mani svolazzanti - già cominciavano a risuonare nella mente di Kate mentre Rappaport indicava le ferite rosso scuro, quasi nere, sul petto di Elena. «... due, tre, quattro... dieci nella parte superiore del torace. Una, due, tre... sembrano una sola ma sono tre coltellate diverse.» La donna alzò gli occhi su Kate e disse: «Vedi?» toccandole con un bisturi. «Il primo rapporto del patologo parlava di diciassette ferite, ma in realtà sono ventidue.» Il ritornello di Baby Love le risuonava ininterrottamente nella mente. Rappaport prese in mano una lastra e la posizionò verso la violenta luce fluorescente. «Queste due coltellate, qui...» indicò «hanno perforato i polmoni. Queste altre due l'hanno colpita al cuore, uccidendola.» «Non è l'arma a uccidere» mormorò Kate. «Vero» disse Rappaport posando la lastra sulla coscia grigiastra di Elena. «Queste altre, qui, all'addome, sono superficiali.» «È stata violentata?» riuscì a domandare Kate, superando il rumore assordante della canzone. «Non è stato trovato sperma, solo qualche abrasione vaginale.» «Quindi c'è stato un tentativo di stupro... ma l'aggressore non ha eiaculato?» Rappaport si chinò sulle cosce di Elena e scostò il pelo pubico con un'asticella di metallo. «È possibile. Sì. Peccato che manchi lo sperma per rilevare il DNA.» Kate sollevò delicatamente una mano di Elena. Era fredda come il marmo, viscida. «Si è difesa?» Il medico legale annuì. «Trovato niente sotto le unghie?» Rappaport sfogliò il taccuino. «Niente. Sorprendentemente pulite.» Kate guardò la mano inerte che teneva tra le sue. Qualcosa stonava: le unghie pulite. Già, aveva letto il rapporto. «Credi che l'aggressore le abbia limato le unghie dopo la morte?» «Impossibile stabilirlo.» Gli stanchi occhi castani della donna guardavano annoiati sopra la maschera. «Elena portava le unghie lunghe» disse Kate. «Deve avergliele limate
lui.» «Beh, se è così, ha fatto un buon lavoro. Ha cancellato ogni traccia. Né capelli né pelle, niente di niente.» «Trovati frammenti di pelle o peli da qualche altra parte?» «Finora soltanto i capelli della ragazza. Nel rapporto ci sono i risultati preliminari delle analisi su stomaco, fegato e reni. Per il test completo ci vorrà una settimana.» "Una settimana?" stava per urlare Kate, ma si trattenne. Meglio rivolgersi a Tapell. «Puoi farmi avere i risultati appena sono pronti?» «Li manderemo all'ufficio di Randy Mead.» Rappaport la guardò di sottecchi. «L'aiutante di Tapell ha detto che lavori con Mead?» disse con tono interrogativo. Kate non si curò di rispondere. «Per ora prendo i risultati preliminari. Il resto lo vedrò più tardi.» Stava per prendere il fascicolo quando si accorse che stringeva ancora la mano di Elena. Per un attimo non volle lasciarla, come se tenendola potesse mantenere un contatto con lei. «L'altro cadavere aspetta» sbadigliò Rappaport. «Dovremmo procedere.» Kate posò delicatamente la mano di Elena. Rappaport spinse con forza il cassetto che si chiuse con un tonfo sordo. Il cadavere di Bill Pruitt era lucido, come di cera. «Cos'è quel livido sul mento?» domandò Kate. Rappaport si chinò e premette il mento col dito. In un attimo la carne passò dal viola al bianco al giallo e tornò viola. «Direi che è successo durante l'omicidio, comunque non più tardi di quel pomeriggio.» Quindi era stato l'assassino, l'artista sconosciuto, a colpirlo. La cosa non aveva senso. «Perché colpire qualcuno che stai affogando? Mi sembra un eccesso di violenza.» Rappaport si strinse nelle spalle. «Ed Ethan Stein?» «L'autopsia è ancora in corso» disse Rappaport scuotendo il capo. «Lì sì che c'è stato eccesso di violenza. Manderò il rapporto appena finiscono.» Kate infilò i risultati preliminari di Pruitt nella borsa con quelli di Elena. Non vedeva l'ora di uscire e si sentiva piena di energia. Nella stanza dal soffitto basso l'odore della polvere da sparo aleggiava come una nuvola di pioggia acida. Kate premette ripetutamente il grilletto.
La pistola vibrava nella mano facendole tremare il braccio. Aveva quasi scordato l'emozione di sparare, di tenere in mano tanta potenza. Il bersaglio le balzò davanti. Pur non avendo colpito il centro, finora tutti i suoi colpi avrebbero causato danni gravi. Niente male dopo tanti anni senza allenamento. Caricò e ricominciò a sparare, esercitandosi a tenere il braccio fermo e a concentrarsi. Tuttavia non poteva evitare di pensare cosa avrebbero detto Blair e le altre amiche se l'avessero vista. Chissà? Magari si sarebbero rivelate ottime tiratrici. Quando stava per finire il quarto caricatore vide Maureen Slattery a pochi passi di distanza e le si avvicinò. Slattery si sfilò le cuffie di protezione e la salutò. «Bel colpo» disse Kate ammirando il perfetto centro della giovane poliziotta. «Grazie. E tu?» «Un po' arrugginita.» «Si fa in fretta a recuperare. È come nuotare.» «O fottere.» Slattery la guardò sorpresa. «Parli fuori dai denti, McKinnon.» «Mi sono diplomata in parolacce al Saint Anne.» Maureen sorrise. «Io al Saint Mary di Bayonne, New Jersey.» «Com'era la tua divisa?» «La gonna arrivava un centimetro sotto le mutande.» Kate si fece il segno della croce. «Non potevo assolutamente chinarmi. Se mi cadeva una matita, era perduta per sempre.» Le due donne ridacchiarono come scolarette. Maureen infilò la pistola nella fondina e si avviarono agli spogliatoi. «C'è qualcosa di nuovo sui nostri casi?» domandò Kate. «Ho controllato Perez. Quelli con cui è uscito, due artisti di Downtown, dicono di averlo accompagnato a casa subito dopo cena.» «È rimasto in casa?» Slattery alzò le spalle. «Non lo so. Comunque afferma che era fuori città quando Ethan Stein è stato ucciso.» «Sto aspettando la sua agenda e anche quella di Schuyler Mills. Poi vedremo cosa risulta abbiano fatto in quei giorni e lo confronteremo con gli altri indiziati.» «D'accordo.» «E Mendoza?» domandò Kate. «Il suo alibi è stato controllato?» «La signora Solana ribadisce che è stato con lei tutta la notte.»
Kate annuì. Era lieta che fosse toccato a Maureen occuparsi di Mendoza e della signora Solana. Non se la sarebbe sentita di affrontare la madre di Elena. «Nient'altro?» «Gli effetti personali di Pruitt sono nella stanza dei reperti. Controllali. Poi ti dirò il resto. Oh, non dimenticare di mettere i guanti, e non lo dico perché potresti inquinare le prove; quella stanza è un porcile.» Schedari di metallo dal pavimento al soffitto. Scatoloni di cartone, alcuni coperti di ragnatele così spesse da poterle filare per farne dei maglioni. Kate quasi rimpianse di essersi fatta aprire la stanza dei reperti. «Laggiù» disse l'impiegato tirando su col naso. Era giovane, sui vent'anni, con lievi tracce di acne sulle guance glabre. «I casi nuovi sono in quest'angolo, nello scaffale in basso. Le cose di Pruitt dovrebbero essere lì.» Indicò e si grattò il naso. «Sono allergico alla polvere, temo.» «Ragazzo mio, hai sbagliato mestiere» replicò Kate con un sorriso di compassione. «Già. Le dispiace se esco?» disse col naso che fremeva. Kate si guardò attorno. Notò un ragno che si arrampicava sul muro. Fra qualche minuto anche lei avrebbe cominciato a sentire prurito. Il contenuto della scatola di Pruitt la colmò di tristezza: una saponetta, un guanto da bagno, entrambi nelle loro buste di plastica; crema da barba, rasoio e un flacone di acqua di rose in un altro sacchetto. Dentro la scatola ce n'era un'altra più piccola. Kate infilò i guanti. In cima vide una busta con scritto in stampatello nero WILLIAM MASON PRUITT. La aprì e osservò la maschera sadomaso, con dei grossi punti attorno ai fori per gli occhi, per il naso e per la bocca. "Possibile che appartenesse a Bill?" Se non ci fosse stato il suo nome sulla busta non ci avrebbe creduto. Frugò nella scatola e trovò un pacco di riviste, prevalentemente pornografiche; alcune con foto di adolescenti, non proprio da pedofilo ma poco ci mancava. Il disgusto di Kate si tramutò in sorpresa quando scoprì che quattro o cinque erano di giovani travestiti neri e altre di pornografia sadomaso, al confronto delle quali la maschera di cuoio pareva un oggetto innocente. Sotto le riviste c'erano parecchi video hard con le solite immagini di sesso sulla copertina, ma particolarmente squallide e all'altezza del nome della società produttrice Film Amatoriali scritto in grossi caratteri neri. Magari valeva la pena di visionarli un giorno o l'altro, ammesso che trovasse il
coraggio. Kate si affacciò al piccolo ufficio di Slattery. Maureen le sorrise. «Hai visto le riviste? E la maschera?» «Sì. È stata una vera sorpresa, credimi. Bill Pruitt, chi l'avrebbe mai detto» disse Kate scuotendo il capo. «Preparati a sentirne di peggio» disse Slattery. «Ho visitato un paio di bar, giù ai moli. Il Branding Iron e il Dungeon.» Fece una smorfia e finse di rabbrividire. «Mai stata in quei posti?» «Come no? Il sabato sera, per divertirci, metto il collare a mio marito e lo trascino là.» Kate inarcò il sopracciglio e domandò: «Cos'hai trovato?». «In una saletta privata del Dungeon c'era un tizio incatenato e appeso al soffitto per la delizia dei clienti. Uno gli aveva infilato il pugno nel culo e un altro il cazzo in bocca.» «Tutto secondo le regole.» «Esattamente. Comunque, tornando al nostro Pruitt, ho fatto circolare la sua fotografia.» «Allora?» «Era un cliente abituale. Oh, aspetta. Forse questo ti interessa. È l'inventario degli oggetti asportati dallo studio di Ethan Stein. Ci sono alcune cosette piccanti.» Un tubo di pittura a olio azzurro cielo (sul pavimento, accanto al cadavere). Coltello (idem). Pellicola Polaroid (non è stata rinvenuta la macchina fotografica). Vestiario della vittima (rimosso prima dell'omicidio) camicia di cotone blu, jeans Levi's neri, boxer Calvin Klein, calzini bianchi. Orologio dell'esercito svizzero (trovato su una sedia). Ciotola di ceramica colma di scaglie di colore (marca Terra). Agenda degli appuntamenti. 2 paia di manette di metallo. Frusta di nylon nero. Morsetti per capezzoli. 2 bavagli di seta. 6 peni artificiali - 2 a doppia testa.
37 riviste sadomaso. Kate esaminò la lista. «Gesù! Nessuna dignità nella morte.» «Non quando ti dedichi a questi passatempi.» «Aspetta un momento...» Kate si fermò sull'ultimo gruppo di reperti. Conosceva degli artisti che usavano quel tipo di materiale per i loro lavori, però non era il genere di Stein. Evidentemente era per uso personale. «Non ti pare curiosamente strano che Pruitt e Stein avessero le medesime tendenze sessuali?» «Già» commentò Slattery passandole una pagina stampata. «Guarda questo. È il rapporto degli agenti che ho mandato al Branding Iron e al Dungeon con la fotografia di Stein.» Le lanciò un'occhiata d'intesa. «Pruitt non era l'unico cliente abituale.» «Gesù. Credi che si siano incontrati in quel bar?» «Nessuno ricorda di averli mai visti insieme.» Kate cercava di ragionare. «Può essere una coincidenza che questi due avessero gli stessi gusti sessuali, frequentassero gli stessi locali e siano morti entrambi?» Kate scosse il capo. «Quando posso vedere gli effetti personali di Stein?» «Brown ha l'agenda e il portafogli. Chiedilo a lui.» «Lo farò.» Slattery cambiò argomento. «A proposito, la vecchia del numero Uno del palazzo Solana...» Kate ripensò alla sera in cui aveva trovato Elena morta e al viso della vecchia attraverso la fessura della porta. «Sì; le ho parlato per circa dieci secondi.» «Beh, dice che era a casa a guardare la televisione e di aver visto un nero nel palazzo, ma l'agente che ha raccolto la sua deposizione non è riuscito a strapparle altro. Nessun dettaglio. Niente. Ci ho provato anch'io. Nada.» «Lascia che ci tenti io.» 19 Aveva bisogno di una pausa, una breve fermata ai box prima di ripartire, ma qualcuno aveva lasciato il «Post» sulla sua scrivania e Kate non poté fingere di non vederlo. L'ARTISTA DI MORTE
L'uccisione ritualistica del pittore Ethan Stein potrebbe essere il terzo di una serie di omicidi brutali. Sebbene gli alti gradi del NYPD smentiscano assolutamente le voci di un serial killer, gli agenti hanno perquisito le gallerie d'arte da Chelsea a SoHo, dalla Cinquantasettesima Strada a Madison Avenue. Pare che il killer sistemi le sue vittime in modo da imitare quadri famosi. Come ha efficacemente riassunto un pittore da noi intervistato: «L'assassino è un artista di morte». Il direttore di una galleria, che preferisce restare anonimo, ha detto di temere che le autorità assumano un atteggiamento sprezzante nei confronti della comunità artistica di New York. Ciò è avvalorato da commenti negativi espressi da un agente investigativo sui quadri di Ethan Stein. Si dice che il NYPD abbia richiamato in servizio l'ex poliziotta Katherine McKinnon Rothstein, noto membro dell'alta società, famosa per la recente serie televisiva Vite d'artisti. A One Police Plaza nessuno è disposto a confermare o smentire la notizia e la signora McKinnon Rothstein non ha rilasciato dichiarazioni. «Gesù! Cristo santo!» Kate lasciò cadere il giornale sulla scrivania. Non aveva mai pensato di dover leggere il «New York Post» con tanta regolarità. L'artista di morte? Posa delicatamente il giornale sul tavolo. È stata un'idea di Kate? Guarda le lame di luce che penetrano dai travi marci. Lo spera, altrimenti sarebbe stato tutto inutile. Deve essere stata Kate. Chi altro aveva informazioni sufficienti per giungere a quella conclusione? Tuttavia, non aveva previsto che ci arrivasse così rapidamente. È in gamba. È più in gamba di te. Prende il walkman, si infila gli auricolari nelle orecchie ma le voci sono più potenti della musica. "Scemoscemoscemoscemoscemoscemo... " Si tura le orecchie con le mani. Taci! Sul tavolo sono sparse le fotografie di Kate con le ali e l'aureola, ne ha fatto dozzine di copie. Lo conforta guardarle; riesce quasi a scacciare le voci. Per un momento. Da un po' di tempo tenta di capire i suoi sogni, gli incubi, quell'altra per-
sona che vive dentro di lui. Un fratello? Un gemello? Un altro essere che è con lui da sempre, gli sembra, inizialmente senza farsi notare, poi sempre più evidente, con delle esigenze implacabili che deve soddisfare. Una presenza ciclica: latente, attiva, controllata, feroce. Ne è perfettamente consapevole. Non è pazzo. Chi è dei due? Non lo sa. Desiderava mandarle quelle immagini per sentirsi vicino a lei. Ora gliene manderà un'altra. Prende il pennarello rosso, disegna un bordo attorno all'immagine; poi, per scherzo, scrive CIAO in stampatello. Questo è solo un regalo, per mostrarle quanto sia importante per lui e per complimentarsi con lei per aver capito così in fretta la prima fase. Non che ci volesse tanto, dopo il fatto, e con il suo aiuto. Ma ora bisogna passare alla seconda fase. Ora la avvertirà in anticipo, non più a cose fatte. Carezza con le dita la plastica liscia del walkman. Capirà? Beh, è un suo problema. Attenzione. Alza il volume del walkman per scacciare le voci. Che bisogno c'è di fare attenzione quando si è più in gamba e più fortunati di chiunque altro? La sua mente eccitata è una fucina di idee: deve trovare il modo di pubblicizzare il prossimo evento. Che il gioco cominci. 20 L'atrio era claustrofobico. L'aria irrespirabile. Kate bussò all'appartamento sul retro, in casa c'era qualcuno, si udivano grida e battimani da una televisione ad alto volume. Un quiz o un talk show. Nessuna risposta. Kate bussò più forte. «Chi è?» Kate infilò il distintivo nella fessura della porta. «La signora Prawsinsky? Scusi il disturbo. Polizia.» La catena fu sganciata, la porta si aprì. Kate torreggiava sulla donna, un metro e mezzo di statura, sopracciglia disegnate a matita, palpebre turchese, labbra scarlatte stile Lucille Ball, capelli color paglia arrotolati sui bigodini come lumache anemiche. «Ho già parlato con la polizia» disse la
donna. «Più volte. Vuole che inventi qualcosa di nuovo per lei?» «Devo farle solo qualche domanda.» «Dica.» La vecchia incrociò le braccia sottili sulla vestaglia a fiori. «Ha detto di aver visto un nero nel palazzo.» La vecchia si limitò ad annuire. «Può descriverlo?» «Tesoro, lei sarebbe in grado di distinguerli l'uno dall'altro?» Kate soffocò l'impulso di prenderla a schiaffi. Ma era lì per lavoro, non per fare una conferenza sulla diversità culturale. Doveva giocare sul fatto che quella era una donna vecchia e sola. «Signora Prawsinsky» disse cordialmente, «lei vive sola in un quartiere difficile. La capisco.» «Tesoro, lei non ha idea...» «Oh, sì» replicò paziente Kate. «Capisco che deve stare molto attenta... e ho la sensazione che non le sfugga nulla. C'è qualcosa, e intendo anche un dettaglio insignificante, che ricordi di quest'uomo estraneo al palazzo? Era giovane, vecchio, alto, basso?» La donna chiuse gli occhi e protese le labbra sottili come per fischiettare. Il rossetto cremisi formò crepe verticali. «Medio; direi che era di media statura.» «Vede che ricorda? Ottimo.» "Medio? Non mi serve a nulla." «Che altro?» «Direi tra i trenta e i quaranta. E...» Strizzò ancora gli occhi. «Magro... magrissimo.» Aprì gli occhi e sorrise fiera di sé. «Mi è stata di grande aiuto, signora Prawsinsky» disse Kate sollevata. La descrizione eliminava Willie, che era giovane, basso e robusto. «Ricorda qualcos'altro? Qualche segno particolare? Un dettaglio?» «Cosa intende per particolare, tesoro?» «Cicatrici? Zoppicava? Cose di questo genere.» La vecchia scosse il capo. «No... niente. Ma... ora vedo la sua faccia.» Strizzò gli occhi concentrandosi. «Mmm... è stato due sere prima che la trovassero... la ragazza. Era tardi, lo so perché guardavo Nick at Nite, sa, il programma di vecchie canzoni, il mio preferito.» «Oh...» Kate inspirò profondamente. «Anche a me piace moltissimo.» Il trucco funzionò. La signora Prawsinsky l'invitò nel salottino, identico a quello di Elena ma zeppo di mobili, con al posto d'onore un televisore da ventidue pollici la cui luce colorata si rifletteva su lussureggianti piante verdi e sgargianti fodere di plastica. Kate si sedette sul sofà con una tazza di pallido tè Lipton sulle ginocchia.
«Guardo la televisione tutte le sere» disse la signora Prawsinsky. «Io e Lucy, Bewitched...» Le porse una ciotola di bustine di dolcificante. «Zucchero, tesoro?» Kate rifiutò con un cenno del capo. «Mi piace la madre, sa, Agnes Moorehead. La mia amica Bunny, che la sua anima riposi in pace, diceva che le assomiglio.» Sollevò il mento e si mise in posa. Kate confermò l'opinione di Bunny. La signora Prawsinsky ridacchiò modestamente ma era compiaciuta. «Comunque quella sera non stavo guardando Bewitched ma il Dick Van Dike Show, quello vecchio con Mary Tyler Moore nella parte della moglie, prima che avesse il suo spettacolo personale, da sola. È molto bello ma, secondo me, non quanto il Dick Van Dike Show.» «Le dirò, signora Prawsinsky, che non ho approvato il matrimonio di Rhoda. Quel Joe non mi sembra adatto a lei.» «Ma certo! Ha ragione! Che sbaglio! Avrebbe dovuto continuare ad abitare con Mary. Erano così amiche quelle due. Adorabili!» «Quindi...» Kate inspirò nuovamente «stava guardando Dick Van Dike e ha visto quell'uomo...» «Sì.» Ora tutto il viso era corrugato, come una prugna, anzi, un acino d'uva passa. «Cominciamo dall'inizio. Mi sta tornando tutto in mente. Credevo di avere dimenticato... mi lasci pensare...» «Sì, sì; ci pensi.» Kate trattenne un sospiro. «Faccia con comodo, signora Prawsinsky» disse tamburellando sulla tazza con le dita. «È stato prima, molto prima; forse durante Taxi. Non mi piace quanto Bewitched o il Dick Van Dike, ma quel piccoletto, Louie, è simpatico.» «Oh, sì. Irresistibile» la incoraggiò Kate. «Quel prima a che ora poteva corrispondere?» «Ho udito un rumore, uno schianto al piano superiore, come se fosse caduto qualcuno o un oggetto pesante.» «Ed è andata a vedere?» «No.» Agitò un ossuto dito ammonitore e proseguì: «Non mi metta le parole in bocca, tesoro. Stavo guardando Taxi e ho udito il rumore; un tonfo. Doveva provenire dall'appartamento della ragazza, perché al piano di sotto non abita nessuno. Non ci ho fatto caso al momento. Ma dopo pochi minuti, un altro tonfo, e poi un altro. Vado alla porta e guardo fuori. Niente. Allora penso di essermelo immaginato». «E poi?» «Poi? Niente. Taxi è finito. Dopo ho guardato il Dick Van Dike, sa, l'episodio dove Laura compra il vestito nuovo ma ha paura di dirlo a Rob per-
ché...» Non si fermava più e Kate impiegò dieci minuti per riportarla sull'argomento. «Mi alzo per spegnere la luce, là» indicò lo sbrindellato paralume cinese di carta che proteggeva la lampadina davanti alla porta d'ingresso. «La tengo quasi sempre accesa per spaventare i ladri, ma mi dava fastidio, si rifletteva sullo schermo. Allora mi alzo per spegnerla e sento il portone che sbatte come se qualcuno l'avesse chiuso con forza. Ma al contrario.» Fece una pausa drammatica e inarcò il sopracciglio tracciato con la matita. «Come, al contrario?» «Qualcuno stava entrando, tesoro, non uscendo. Il portone ha sbattuto contro il muro aprendosi verso l'interno. Bang. Schiudo la porta, lentamente e senza far rumore, esco nell'atrio e vedo questo nero, magro, come ho già detto, sulle scale. Sta salendo e... venga, tesoro, le faccio vedere.» La signora Prawsinsky la prese per un braccio e la trascinò nell'atrio. «Si abbassi e si faccia piccola come me, tesoro. Ora guardi.» Kate eseguì; era quasi in ginocchio, a un metro dalle scale. «Era sul primo o sul secondo gradino quando l'ho visto. Eravamo vicinissimi.» Si portò una mano al viso e scosse il capo. «Oh! Non si direbbe ma ho creduto di morire. Un estraneo! Un nero! Sulle scale! Nel cuore della notte!» «Che è successo?» «Non è successo nulla, non mi ha neppure guardato. Forse era sotto l'effetto di qualcosa. Mi ha capito? Droga» sussurrò. «Allora io filo nel mio appartamento e chiudo la porta, subito.» «Ha sentito altri rumori dopo? Altri tonfi? Come di lotta?» «Niente. I rumori e i tonfi erano prima. Ricorda cosa le ho detto, tesoro?» Pur ricordando soprattutto la trama dell'episodio del Dick Van Dike, Kate annuì. «A essere sincera, ho pensato che la cosa non mi riguardasse. I giovani d'oggi... Chi sono io per giudicare? Però...» Si protese verso Kate che era ancora chinata e cominciava a sentir male alla schiena. «La ragazza, era spagnola, sa. E...» Kate si raddrizzò in tutta la sua statura. «Signora Prawsinsky, c'erano altri uomini che frequentavano la signorina Solana?» «Intende quella sera?» «In generale.» «Mi faccia pensare.» Il viso si arricciò nuovamente come una prugna.
«Sì, c'era il suo amico. Nero anche lui.» «Ma non quello che lei ha visto quella sera.» «Oh, no. L'amico è un ragazzo molto educato. Mi tiene sempre la porta aperta, come a una regina.» Sorrise compiaciuta. «Una volta mi ha persino aiutato con le borse della spesa. Un giovanotto molto simpatico, anche se non capisco perché porti i capelli in quel modo» disse con una smorfia. La testimonianza era incontestabile. L'uomo sulle scale non era Willie. Kate provò un tale sollievo che avrebbe potuto baciare la faccia di prugna di quella vecchia razzista. «Signora Prawsinsky, dovrebbe fare due cose.» «Parli.» «Uno: firmare una dichiarazione che l'uomo che ha visto sulle scale non è l'amico della vittima. Due: descrivere dettagliatamente l'uomo delle scale a un agente che ne trarrà un identikit. Crede di riuscirci?» Il viso della donna si illuminò. «Vuol dire come alla televisione?» «Esattamente come in Perry Mason.» «Oh, io adoro Della Street.» «Allora pensa di essere in grado di descriverlo?» «Tesoro, se sapessi disegnare, potrei farlo io.» Kate accompagnò la signora Prawsinsky lungo la rampa di scale che portava al secondo piano della centrale di polizia. A metà la vecchia si fermò ansimante, la mano posata sulla ringhiera. «Niente ascensore?» «Si sente bene?» «Bene, tesoro, bene.» Si fermò ancora una volta per riprendere fiato. "Per favore, non morire, signora Prawsinsky. Ho bisogno di te." «È sicura di stare bene?» insistette Kate. «Perché? Vuole portarmi in braccio?» «Scherza? Lei potrebbe portare me.» La signora Prawsinsky ridacchiò. «Questa è davvero buona, tesoro.» Quattro poliziotti seduti davanti ai computer ascoltavano le descrizioni delle vittime e toccavano i tasti per ingrandire o rimpicciolire gli occhi, aggiungere o cancellare barbe e rughe. Kate non era abituata agli identikit al computer e pensò che avrebbe fatto meglio a imparare. Tuttavia, sebbene gli addetti al ritratto a mano fossero una razza in via di estinzione, era affascinante osservare il carboncino che si muoveva, le continue cancellature, il rimodellarsi dei lineamenti, in una parola, l'artista che si sporcava le
mani. Oggi era fortunata; era in servizio uno della vecchia scuola. Calvo, la carnagione olivastra, sui cinquantacinque, le dita imbrattate di carboncino. Calloway era il nome scritto sulla targhetta di riconoscimento. «Sei libero?» domandò. Calloway fece una smorfia. «Stavo per smontare. Sono quasi le sei.» «Ancora uno, per favore» lo pregò Kate con il suo sorriso più seducente. «Sono della squadra speciale, lavoro con Randy Mead. Gli parlerò bene di te.» «Sai che me ne importa. Mi mancano due mesi alla pensione.» «Che ne dici di cento dollari?» L'uomo la guardò sospettoso. «Sei degli AI o qualcosa del genere?» «Degli Affari Interni? No, sono alla disperazione. Allora?» Calloway la guardò rassegnato. Kate fece sedere la signora Prawsinsky. Il poliziotto prese il carboncino e domandò: «Faccia ovale, quadrata o rotonda?». La vecchia aggrottò la fronte. «Stavo guardando il Dick Van Dike e...» Kate diede a Calloway il suo biglietto da visita. «Chiamami quando è pronto.» La signora Prawsinsky si agitò sulla sedia, ansiosa di procedere, strizzando gli occhi dalle palpebre turchesi. Kate chiese che le venisse spedito l'identikit a casa via fax. Aveva bisogno di una pausa per riflettere con calma. Diede un colpetto sul polso della testimone. «Dopo la riaccompagneranno a casa in macchina.» Lanciò un'occhiata a Calloway che la guardava imbronciato. «Faccia con comodo, signora Prawsinski, il nostro Calloway è un uomo molto paziente.» L'uomo era riconoscibile a distanza, come la parrucca di Andy Warhol, pensò Kate, osservando il berretto da baseball portato al contrario, l'andatura nervosa e gli occhi che sfrecciavano in tutte le direzioni. Davanti a uno dei palazzi più lussuosi di Central Park West, il San Remo, il suo aspetto gridava ai quattro venti: SONO UN POLIZIOTTO. Kate lo salutò con un cenno discreto. L'uomo chinò il capo senza guardarla e continuò a camminare avanti e indietro. Il portiere gli lanciò uno sguardo di rimprovero, come accusandolo di rovinare la reputazione del quartiere; poi sorrise a Kate. I vicini lo avevano notato? Non era certo un tipo da passare inosservato. Le mancava solo un poliziotto sotto casa per mettersi ulteriormente in mostra con l'amministrazione del condominio.
Al sicuro nel suo appartamento, Kate scalciò via le scarpe, posò la giacca su una sedia e percorse il corridoio senza accendere la luce. In camera da letto si spogliò, buttò gli indumenti a terra e andò in bagno, evitando di guardarsi allo specchio, non aveva bisogno di prove per sapere che era un disastro. Sotto la doccia, mentre si insaponava, notò un livido blu sul gomito destro, le nocche delle mani escoriate, un segno color arcobaleno sul ginocchio. "Grazie, Wally il grassone." Doveva ricomporsi prima di incontrare Richard nel nuovo ristorante di cui tutti parlavano e dove nessuno riusciva a prenotare un tavolo. Controllò il fax. Nulla. Probabilmente la signora Prawsinsky stava ancora facendo impazzire il povero Calloway. Tornò in camera da letto e prese appunti sull'uomo notato sulle scale la sera in cui Elena era stata uccisa. Era la stessa persona che Wally il grassone aveva visto in compagnia di Elena? Kate sbadigliò. Scrisse qualche parola. Sbadigliò di nuovo. Perché non appisolarsi per cinque minuti? Staccò la cornetta del telefono e l'infilò sotto il cuscino. Marilyn Monroe, lasciva, non umana, labbra di velluto applicato. Il cuscino sul pavimento dell'appartamento di Elena, enorme, in primo piano, nella stanza scura, soffocante. Il viso immobile di Elena. Gli occhi spenti. Il sangue sulle guance. Kate fissa le linee cremisi. Da lontano una voce la chiama. Dolcemente, poi sempre più forte. «Kate. Kate!» Il viso di Richard si sostituì a quello di Elena. «Oh, Richard.» Kate si strofinò gli occhi. «Che ora è?» Si sentiva pesante, intorpidita. «Quasi le undici.» «Oh. Devo essermi addormentata...» Kate gli sfiorò la guancia. «Mi dispiace.» «Beh, è stato piuttosto imbarazzante.» «Perché non mi hai chiamato?» «Ti ho chiamato mille volte.» «Ah... già» disse Kate prendendo la cornetta da sotto il cuscino. «Scusami.» «Dov'è il cellulare?» «Nella borsa, all'ingresso.» Kate sorrise timidamente.
Richard si sfilò la giacca Hugo Boss e l'appese a un attaccapanni nel suo spogliatoio. «Continuavo a ripetere, mia moglie sta per arrivare... fino al dessert... a proposito, era ottimo.» «Hai idea di quante volte ti ho aspettato io?» Con voce artificiale recitò: «Richard? È un po' in ritardo, è vero. Probabilmente questa è la sera in cui si fotte la segretaria. Cercate di capire». «Okay, okay» sospirò Richard. «Ma ero preoccupato. Queste cene sono importanti per me, Kate... ti voglio al mio fianco. Noi due siamo una squadra, non dimenticarlo.» Kate si sforzò di sorridere. «Concedimi un po' di tempo, d'accordo?» Sospirando Richard si avvicinò al letto, sfiorò il livido sul gomito, le nocche spelate. «Cosa ti sei fatta?» Kate scosse il capo. «Non è niente.» «Niente? Sembra che ti sia passato sopra un camion.» Kate si sedette sul letto ravviandosi i capelli e tirandosi l'accappatoio sulle ginocchia. «Sembra peggio di quel che è. Ho urtato contro qualcosa. Tutto qui.» «O qualcosa ha urtato contro di te» replicò Richard aggrottando la fronte. «Ferite sul campo?» «Più o meno.» «Dieci anni fa non volevi più saperne di questo lavoro e non vedevi l'ora di sposarmi per tornare a occuparti di arte.» «Allora era così e tutto tornerà normale: le cene, la nostra vita e il resto, ma prima devo risolvere questa faccenda.» Kate fece una pausa. «Per Elena.» «So quanto ti manca» disse Richard con voce più morbida. «Manca anche a me.» «Davvero?» domandò Kate con tono di sfida, incrociando le braccia sul petto. «Non l'hai nominata una volta da quando è stata uccisa.» «Non volevo farti soffrire» replicò lui posandole una mano sul braccio. «Parlando di ciò che provo?» Gli occhi di Kate si riempirono di lacrime. Richard le prese la mano e la strinse tra le sue. «Mi dispiace, tesoro, davvero.» Kate si asciugò le lacrime. «Credimi, anch'io vorrei che tutto fosse come prima. Ma non lo è, Richard.» Si staccò da lui, si tolse l'accappatoio e infilò un pigiama di seta. «Scusami.» Richard appallottolò la camicia di cotone egiziano e la buttò nel cesto di vimini del suo spogliatoio.
Kate si impose di cambiare argomento. «Richard, ritieni possibile che Bill Pruitt trattasse opere d'arte rubate?» Richard schizzò fuori dallo spogliatoio. «Cosa?» «Winnie Pruitt ha detto che suo figlio aveva una pala d'altare italiana di probabile provenienza furtiva.» «Winnie ha detto che l'ha rubata lui?» «No. Solo che l'aveva.» Richard infilò i pantaloni del pigiama a righe e tirò l'elastico con tanta forza da strapparlo. «Accidenti a questi pantaloni!» «Calmati.» Kate scivolò sotto il piumone bianco e agitò le dita dei piedi contro le morbide lenzuola di cotone. Richard sembrava ancor più teso di lei. Lo guardò buttare i pantaloni in un angolo e indossare dei boxer a righe. «Allora, cosa dici? Credi sia possibile?» Richard sbadigliò. «Sono stanco. Non potremmo rimandare la discussione su Pruitt a un altro momento?» 21 Un tempo era SoHo il cuore pulsante del mondo dell'arte. Adesso lo era diventato Chelsea, l'ex zona depressa stretta tra il fiume Hudson e la Decima Avenue, confinante a nord con Hell's Kitchen e a sud col mercato della carne della Quattordicesima Strada. I magazzini, le concessionarie di automobili e i garage erano stati sostituiti da grandi gallerie d'arte, negozi di moda, ristoranti sofisticati. La trasformazione, tuttora in corso, procedeva e dilagava con la velocità di un fungo nella foresta tropicale. Nonostante la carenza di trasporti pubblici (gli habitués del mondo dell'arte si spostavano in taxi o con autisti privati), la zona vantava strade ampie e panorami da cartolina sul fiume Hudson. Non tutto era perfetto: in certe ore le strade erano talmente deserte che pareva di trovarsi fuori dal mondo e l'odore nauseabondo della carne penetrava in gola soffocando il respiro. Ma non importava. Entro un paio d'anni le strade solitarie sarebbero state affollate di negozi di abbigliamento, arredamento, enoteche e altri ristoranti, e i macellai, non potendo permettersi di pagare gli stessi affitti esorbitanti delle grandi gallerie d'arte, si sarebbero trasferiti con le loro carcasse a Long Island City o a Secaucus. Infine, trascorso un decennio durante il quale le strade si sarebbero riempite di negozi, turisti e residenti, il mondo dell'arte si sarebbe semplicemente spostato altrove. Willie non aveva voglia di andare al vernissage, ma la sua gallerista
Amanda Lowe lo aveva convinto a farsi vedere, ricordandogli che doveva presenziare per promuovere il suo lavoro e le mostre future. Prima di diventare famoso, Willie riteneva che quello fosse il lavoro di Amanda e a lui toccasse soltanto dipingere. Si sbagliava. Per giunta, negli ultimi giorni si sentiva soffocare nel suo studio e non sopportava più l'odore di trementina. La galleria di Amanda Lowe era situata all'estremità occidentale della Tredicesima Strada, un'ex concessionaria d'auto recentemente trasformata in un capolavoro post-millennio, con cristalli verdi all'ingresso, altissimi muri bianchi e pavimenti di cemento grigio, così irregolari da spelare le ginocchia degli adoratori delle ultime divinità dell'arte. Soltanto un anno prima quella zona era il regno dei travestiti afro-americani, e sebbene ne sopravvivessero alcuni in minigonna e parrucca, la loro presenza si era decisamente ridotta ora che la folla degli artisti si era appropriata del quartiere. La galleria di Amanda Lowe, come quella di Willie, era il punto di ritrovo dei giovani artisti emergenti. Vi si incontravano anche alcune vecchie stelle la cui luce ancora brillava, spalla a spalla con altre appena accese, oltre al solito gruppo di coloro che speravano di venire prima o poi assunti nel firmamento. Da un isolato di distanza Willie vide la folla traboccante sul marciapiede. Provò l'impulso di fare perno sulle sue Doc Martens per tornare di corsa alla sicurezza del suo studio, ma era un professionista, o almeno stava imparando a diventarlo, e doveva sforzarsi di affrontare la gente pur non avendone voglia. Inspirò profondamente, raddrizzò le spalle, salutò alcune persone e si buttò nella mischia. All'interno della galleria ci si muoveva a fatica tra la folla che discuteva in gergo artistico, sempre tenendo d'occhio la situazione per non lasciarsi sfuggire qualche personaggio particolarmente importante. Fendendo la calca Willie udì frammenti di conversazione, in gran parte sull'artista di morte. «Credimi» diceva una donna sulla trentina interamente vestita di pelle nera, le braccia muscolose tatuate dal polso al gomito, come dei lunghi guanti «mi fa accapponare la pelle, cazzo. Non mi sento affatto tranquilla in quel cazzo del mio studio.» «Ti capisco» replicava il cinquantenne con il piercing al naso e la testa rasata. «Anch'io ho una fifa fottuta. La notte scorsa ho dovuto ingollare una manciata di sonniferi per dormire.»
«Willie!» Schuyler Mills si fece strada tra la ressa e gli mise un braccio sulle spalle. «Ci stiamo divertendo?» «Se ricordo bene sei stato tu a dirmi che questa roba è lavoro, altro che divertimento.» Il sovrintendente del museo di arte contemporanea gli diede una pacca sulle spalle. «Bravo ragazzo. Vedi dove sei arrivato con le mie lezioni? Tu sei e sarai sempre il mio discepolo preferito.» Gli strinse paternamente il braccio e sorrise raggiante a qualcuno dietro le spalle di Willie. «Ah! Regina della notte!» Amanda Lowe sfiorò la guancia di Schuyler baciando l'aria. Era una donna spaventosamente magra, in un abito di alta moda di Azzedine Alaïa il cui tessuto si tendeva sulle ossa delle spalle e delle anche minacciando di strapparsi. I capelli color melanzana, tagliati di netto all'altezza delle orecchie (a una delle quali era appeso un enorme orecchino che sfiorava la spalla), formavano un elmo severo attorno al viso bianco calce. Le sopracciglia erano virgole nere, gli occhi pesantemente bistrati, la bocca una ferita rossa. L'effetto complessivo stava a metà tra una maschera Kabuki e un cadavere. Amanda schioccò le labbra attorno alle guance di Willie, poi prendendo per mano lui e Schuyler li condusse entrambi, l'artista e il sovrintendente, a visitare la mostra mentre la folla si apriva come il Mar Rosso al loro passaggio. «L'artista di morte, l'artista di morte, l'artista di morte. Non sento parlare d'altro stasera. Sono stanca morta dell'artista di morte.» «È un gioco di parole?» domandò Willie. Schuyler scoppiò a ridere. «Beh, devi ammettere che questo artista di morte è creativo. Sicuramente ci ricorderemo di lui.» Amanda lo guardò stupita. «Dimentichiamoci di costui e concentriamoci sull'arte» disse, e li gratificò di un sorriso terrificante, aprendo e chiudendo la rossa bocca simile a quella di uno squalo. «Credo che l'FSA abbia fatto un grande favore a Martina» proseguì, riferendosi al fondo sussidi per l'arte che alcuni anni innanzi aveva clamorosamente revocato le sovvenzioni ad alcuni artisti le cui opere erano state giudicate oscene. «L'ha affrancata, l'ha costretta a semplificare. Chi ha più bisogno di materiali costosi?» Amanda allungò il braccio verso le opere esposte. «Esiste nulla di più economico?» domandò, indicando i disegni creati dalla pittrice su carta di giornale col suo stesso sangue mestruale. Schuyler Mills disse: «Oh... niente teste di vacca, squali morti o Madon-
ne cosparse di cacca di elefante? Sono deluso». Amanda fece cenno alla pittrice di avvicinarsi. In scarponi neri, jeans neri stracciati e giubbotto da motociclista, Martina avanzò pesantemente verso loro come un pugile che sale sul ring. Gli occhi di Schuyler Mills brillavano maliziosi. «Dimmi. Raccogli il sangue mestruale in una bottiglia per usarlo quando ti serve oppure...» si passò una mano sull'inguine e agitò il dito come un pennello, «lo prendi direttamente alla fonte?» «Alla fonte» disse Martina giocherellando con l'anello al naso. «Altrimenti non avrebbe senso. Lo capirai se guardi i disegni nell'ordine in cui sono esposti. Replicano il mio flusso mestruale. Vedi? All'inizio sono ricchi e densi, poi cominciano a sbiadire. Negli ultimi non si vede quasi più nulla.» «Ah...» fece Mills. «L'effetto sgocciolamento.» La risata di Willie fu interrotta dall'apparizione di Charlaine Kent, direttrice del Museo della diversità, che infilò la testa tra Martina e Schuyler. «Meraviglioso» disse come se avesse seguito la conversazione dall'inizio «come i primi disegni sono così duri e viscerali mentre gli ultimi sono evanescenti. È quasi... sarcastico, direi. Superano la linea di demarcazione tra minaccia e seduzione, non ti pare?» Rivolse la domanda a Willie battendo le lunghe ciglia nere mentre le dita giocherellavano con un enorme crocifisso posato sulla scollatura del tubino rosa. Willie sorrise ammirando il procace seno nero di Charlaine, i cortissimi ricci decolorati, il rossetto vivace che accentuava le labbra sensuali. «Ci siamo già incontrati. Sono Charlaine Kent ma tutti mi chiamano Charlie» disse porgendogli la mano. «Sono una tua grande ammiratrice.» Parole che un artista adora sentirsi dire. Willie le strinse la mano sorridendo calorosamente. Charlie si passò la lingua sulle seducenti labbra cremisi. Il momento magico fu interrotto da Raphael Perez che riuscì a mettere il braccio sulle spalle di Willie intrufolandosi tra Schuyler Mills e Charlie Kent. Charlie lo guardò come se avesse desiderato trafiggergli i delicati mocassini di coccodrillo col tacco a spillo. Non volendo offendere nessuno di quei tre potenti rappresentanti del mondo dell'arte, Willie tentò di sciogliersi il più educatamente possibile dall'abbraccio, ma mentre faceva un passo indietro si scontrò con Amy Schwartz, la direttrice del Museo di arte contemporanea. Schuyler Mills si gettò sul suo superiore circondandole le spalle gras-
socce e baciandole la guancia. Immediatamente il vicecuratore Raphael Perez si insinuò tra i due con un sussurro da congiurato: «Amy, devo assolutamente parlarti delle tue dimissioni, della possibilità...». «Per favore, ragazzi. Sono fuori servizio» replicò Amy guardando alternativamente il sovrintendente e il curatore. «Vi lascio chiacchierare.» Con un sorriso forzato osservò i disegni mestruali di Martina bisbigliando a Willie: «Hai mai provato a dipingere con lo sperma?». Scostò i capelli arruffati dal viso con la mano tozza e carica di anelli. «Sì» disse Willie «ma dopo averlo raccolto la mia mano ero troppo stanca per reggere il pennello.» Amy sghignazzò di gusto prendendolo per il braccio per allontanarlo dagli altri. «Gesù, quei due mi mangeranno viva. Verrebbe da pensare che l'incarico di direttore renda un milione all'anno.» «A Schuyler non interessa il denaro» sussurrò Willie. «Per lui è l'arte la cosa più importante al mondo. È lui il prescelto, no?» Amy sussurrò in risposta: «Senti, Willie, so che Schuyler ti ha sostenuto molto e, sì, è un uomo che vive esclusivamente per il lavoro, anche troppo a mio giudizio... mi dà i brividi. Però non so chi prenderà il mio posto, e anche se lo sapessi non te lo direi. Ti metterei in una posizione imbarazzante. Quindi, lasciamo perdere, okay?». Amy sollevò gli occhi e vide che Mills e Perez si erano avvicinati e la stavano guardando. «Oh, Dio» disse. Anche Charlie Kent si era avvicinata e posò il braccio sulle spalle di Willie. «Hai dei quadri nuovi nello studio?» domandò. «Sì» rispose Mills prima che Willie potesse aprire bocca. «Ma sono tutti riservati per la mia mostra al Museo di arte contemporanea.» «Beh, non tutti» precisò Perez. «C'è quella grossa tela sui diritti civili che non interessa a nessuno di noi due.» «Davvero?» disse Charlie guardandoli entrambi con aria provocatoria. «Perché mai?» Perez si passò le dita affusolate tra i folti capelli scuri. «Prima di tutto è troppo grande, poi mi sembra che il soggetto sia un po'... datato.» «Datato?» Gli occhi di Charlie Kent bruciavano di indignazione. «Posso ricordarle, signor Perez, che per gli afroamericani come me e Willie il movimento per i diritti civili non è mai finito, non è mai datato?» Strinse il braccio di Willie e domandò con tono allusivo: «Quanto è grosso esattamente, Willie?». «Bello grosso» replicò Willie con gli occhi che ridevano. «Un pezzo di
notevoli dimensioni. Ho preso delle vecchie fotografie di cortei per i diritti civili, le ho coperte con polvere e cera, poi le ho inchiodate su dei frammenti di croci di legno bruciate.» «Mi sembra stupefacente» esclamò Charlie, e prendendolo per il braccio lo allontanò dagli altri due. «Sai» disse «se ti sei stufato di questa roba», indicò Mills, Perez e la folla della galleria, «vedrei molto volentieri quel quadro... subito, se è possibile.» Willie guidò Charlie Kent verso l'uscita. Il gruppo musicale in onda su MTV era piuttosto prevedibile e il loro rap fragoroso riverberava dallo schermo in quella che Willie considerava la sua camera da letto: un materasso posato su una piattaforma di legno e un lungo attaccapanni su ruote che fungeva da armadio. Mucchi di libri e riviste, volumi d'arte, soprattutto africana, sulla tradizione e cultura nera, sul folklore, erano sparsi sul pavimento in modo da tracciare una specie di sentiero irregolare che conduceva dal sottotetto allo studio dove altri cumuli di pubblicazioni, simili a piccoli templi maya, si ergevano tra tele arrotolate, frammenti di legno, metallo, stoffa e oggetti vari che Willie usava per i suoi lavori. Charlie Kent avanzò cautamente tra materiali e scatole, formicai di segatura e pile di libri. «Adoro come riesci a usare di tutto nella tua arte. È pura magia.» Lasciò cadere la giacca su una sedia, rivelando le dolci colline dei seni nell'abito rosa, si accomodò su uno sgabello e accavallò ripetutamente le gambe. «Dio, è anche meglio di quanto immaginassi. Genio allo stato puro. Sono sicura che i membri del consiglio del museo della diversità saranno felici di esporlo... se a te sta bene.» «Oh, certamente.» Gli occhi di Willie esaminavano le gambe tornite e le cosce solide di Charlie. «È magnifico che ti piaccia tanto» disse. «Devi sapere che lo ritengo uno dei miei pezzi più importanti.» Per il momento. «Sì, è davvero notevole. E non soltanto per gli afroamericani.» Sorrise leccandosi le labbra. Un invito? Willie le restituì il sorriso. "L'ho capito bene il messaggio?" Charlie cambiò posizione sullo sgabello mostrando fugacemente un lembo delle mutandine di pizzo. "Oh, sì. Chiaro come il sole." Willie le posò la mano sulla coscia e baciò la bocca rossa e piena. Mentre Willie, scansando le pile di libri e le tele arrotolate, la guidava verso il letto, Charlie pensava al quadro, a quanto il consiglio avrebbe
ammirato la sua abilità nell'ottenerlo. Willie si sfilò la felpa; per un istante vide tutto nero, poi un'immagine prese forma. Il bel viso di Charlie, gli occhi spalancati, il collo circondato da un profondo lago rosso. «Oh.» «Qualcosa non va?» Willie batté le palpebre. A pochi centimetri dalla sua, la bocca di Charlie sorrideva. «No. Nulla» e la spinse gentilmente sul letto. Lei sfilò il miniabito e le mutandine di pizzo. «Quando possiamo prenderlo?» «Cosa?» «Il quadro, per il museo.» «Oh, già.» Rotolò via da lei e allungò la mano verso l'agenda palmare. «Vediamo. Devono fotografarlo giovedì, quindi dopo, in qualsiasi momento.» «Ottimo» disse lei slacciandogli i jeans neri. «Ti farò telefonare dal segretario per fissare la data.» Willie le infilò la lingua in bocca per farla tacere, ma si interruppe. «Ancora una cosa. Il quadro deve essere esposto nella prima sala del museo, quella principale. Beh, visto che è così importante per noi due.» Si tolse i jeans. «E non metteteci niente attorno... a meno che non vogliate esporre anche gli schizzi preparatori. Sai, per offrire al pubblico un'idea del processo compositivo» concluse premendole i capezzoli eretti. «Schizzi... ohh...» gemette Charlie. «Ti piace?» «Oh, stupendo, baby, stupendo.» Un altro gemito. «Quanti ce ne sono? Di disegni, voglio dire.» Charlie inarcò il dorso protendendo il seno strepitoso. Willie le leccò i capezzoli. «Circa una dozzina. Puoi scegliere quelli che preferisci.» La guardò, le sorrise. «Scegline uno per te.» «Un quadro per il mio museo e uno schizzo tutto per me? Oh, Wil...» Gli prese il viso tra le mani e lo baciò appassionatamente. Charlie stava scaldandosi sempre più. «Willie» disse, eccitata di aver concluso l'affare. «Vieni con me alla Biennale di Venezia. Convincerò il museo a pagare le spese del viaggio.»
Venezia! «Oh, baby!» Willie si infilò tra le sue cosce ed entrò nel corpo accogliente. Nel momento dell'orgasmo Charlie immaginò il quadro appeso alla parete del museo e si domandò se non convenisse assumere un PR per l'evento. Quando i tremori si quietarono, aveva deciso che era una buona idea. Non avrebbe dovuto farlo. Non lì. E se fosse entrato qualcuno? Ma è tardi. La porta è chiusa a chiave. Si appoggia al sofà e gli occhi si posano sul videoregistratore. Quante volte l'ha visto? Trenta? Cento? Tante che le immagini sono praticamente scolpite nel suo cervello, ed è quello che vuole. Perché questa è l'ultima volta e vuole ricordare l'immagine di lei che si muove, viva... per memorizzarla prima di distruggerla. Prima di sacrificarla. La ragazza è già nuda, la telecamera inquadra i capezzoli, la curva dei fianchi, mentre lei balla su una musica silenziosa... non c'è colonna sonora. Lui ansima, infila la mano nei pantaloni, si tocca attraverso i boxer. Maledizione. Perché non tengono ferma quella fottuta telecamera? Film Amatoriali: un nome che è un programma. Eppure è per quello che li ha sempre cercati e collezionati: per le riprese di infimo livello e gli attori non professionisti di cui si servono. È più vero. Vorrebbe che l'uomo sul letto sparisse. È lei che vuole vedere: vitale, sexy. Pura e adorabile lussuria. La mano di lei diventa un'eco della sua; le dita penetrano tra il pelo pubico, si tocca, butta indietro la testa, chiude gli occhi. Oh, maledizione. Ecco di nuovo l'uomo. La tira sul letto, spinge la bella testa contro il suo inguine. La odia questa parte, non vuole vederla. Cazzo. Proprio quando stava per venire. Preme il tasto per accelerare le immagini. Inutile. Ora stanno fottendo. Torna indietro. Qui è meglio. C'è lei che si spoglia ballando. Guarda intensamente. La mano lavora mentre la ragazza sullo schermo balla. Quando ha finito, si infila i guanti, estrae il video dal registratore, toglie il nastro dalla cassetta e lo mette in tasca. Sarà un regalo perfetto. L'esca perfetta. E lei abboccherà. Ne è sicuro. 22
Nonostante fosse alla terza tazza, il caffè non le faceva effetto. La notte era stata terribile, piena di incubi, con Richard che continuava ad agitarsi e rivoltarsi nel letto scatenando un potente terremoto. Peccato che tutto quel movimento non fosse affatto divertente. Kate aveva sulla scrivania l'identikit disegnato dal poliziotto: un viso nero, sottile, occhi spiritati, l'uomo che la signora Prawsinsky affermava di aver visto sulla scala la notte in cui Elena era stata uccisa. Kate aveva distribuito copie dello schizzo alla squadra e gli agenti lo stavano inviando a tutti i distretti della città. Passò a esaminare la sua posta, tre borse di plastica colme, che dall'appartamento di Central Park West erano state portate alla stazione di polizia. Kate infilò un paio di guanti. Nella prima borsa c'erano fatture, pubblicità e un assortimento di cataloghi. Il contenuto della seconda era più o meno uguale. Nella terza c'era la bolletta della TV via cavo, «The New Yorker», «Business Week», altre fatture, la cartolina di un'amica dal Belize, la conferma dell'hotel di Venezia che avevano prenotato per la Biennale e una busta bianca che attirò la sua attenzione. Dentro c'era la copia della sua fotografia sulla quarta di copertina di Vite d'artisti, con le ali e l'aureola disegnate sopra, legata con un nastro nero di plastica. Nastro nero. "Un simbolo di morte?" La foto era contornata da un bordo rosso e da un messaggio: CIAO. Nel tratto del pennarello rosso e nelle lettere scritte a stampatello c'era qualcosa che stuzzicava la sua memoria. Kate avvolse il nastro nero attorno alla penna e la sollevò alla luce. Non era un nastro, era un pezzo di pellicola. «Non è necessario che indossi i guanti tutto il giorno, McKinnon» disse Hernandez infilando la foto nella macchina per rilevare le impronte. «Oh, non ricordavo di averli» rispose Kate, osservando la colla speciale che compiva il miracolo. «Mi dispiace. Niente impronte. Nulla. Chi l'ha spedita le ha cancellate.» «Che altro puoi fare?» Hernandez rigirò la fotografia tra le mani protette dai guanti. «Controllare se ci sono delle particelle dentro la carta. Non posso dire dove è stata fatta la copia, potrebbe essere ovunque in città.»
Hernandez le restituì il pezzo di pellicola infilato in una busta di plastica. «Portalo a Jim Cross dei servizi tecnici, reparto foto e film.» Jim Cross sedeva davanti a un videoregistratore, con gli occhialini infilati tra i radi capelli, e liberava il viso dai pochi che sfuggivano. Bobine, attrezzi e cassette coprivano interamente la grande scrivania, le due sedie e il pavimento del minuscolo ufficio. Fece cenno a Kate di sedersi ma non c'era un posto libero. «Scusa» disse l'uomo spostando da una sedia un mucchio di bobine che caddero a terra e cominciarono a rotolare come se qualcuno avesse suonato il gong per la partenza di una corsa. Kate gli mostrò il nastro nella busta di plastica. «Ce n'è abbastanza per vedere di cosa si tratta?» Cross esaminò il nastro attraverso la busta. «Direi che sono venti secondi di film. Posso incollarlo e riversarlo su una cassetta.» «Quanto ci vuole?» «Dammi un paio di minuti» replicò Cross liberando un pezzo di scrivania. «Non credo importi dove lo incollo, no? Ho della vecchia pellicola da qualche parte.» Frugò tra alcune cassette aperte, trovò ciò che cercava e si mise all'opera. Dopo qualche minuto si girò verso Kate e disse: «Guarda qui dentro». Kate si chinò su un monitor che sembrava lo schermo di un drive-in per formiche. Jim Cross accese un interruttore e il film partì: pellicola vergine, poi una specie di planimetria di un edificio della polizia quindi, improvvisamente, un cambiamento, una figura, di donna?, sì, seni, una donna nuda. Infine di nuovo una planimetria. «È troppo piccolo» disse Kate raddrizzandosi. Cross estrasse il nastro dalla macchina e lo infilò in una cassetta. «Tieni» disse. «Portalo in sala visioni. Proprio la porta accanto.» Non era esattamente un cinema multisala quella stanzetta con le pareti scrostate, la luce fluorescente, tre televisori e sei sedie di metallo. Kate infilò la cassetta in un videoregistratore e non si curò di sedersi. Sentiva un ronzio nel cervello, era tesa per l'eccitazione di vedere cosa l'assassino le avesse mandato. Avviò il registratore. Qualche secondo della vecchia pellicola della polizia con la pianta di una stanza, poi il mutamento improvviso. Colori di qualità scadente, illuminazione dilettantesca. Ma la donna era chiara, nuda, si toccava. Per un attimo il suo viso apparve nitido,
perfettamente a fuoco. Kate riavvolse la pellicola. "Non è possibile." Di nuovo la planimetria di un appartamento. Kate si protese in avanti. Riavvolse e riavviò. "Elena." Kate fermò il registratore, si sedette su una sedia e fissò lo schermo grigio. "Cosa può essere?" E come l'aveva avuto quell'individuo? Aveva filmato Elena di nascosto? Doveva vederlo ancora una volta; al rallentatore. Terribile. I venti secondi diventarono un minuto. Kate studiò i dettagli. Non era l'appartamento di Elena. Ne era sicura. Lo guardò e lo riguardò. Elena. La stanza. Il letto. E alla fine del pezzo, prima che apparisse la fottuta pianta della polizia, l'ombra di un uomo che entrava nell'inquadratura. Kate rivide la scena una decina di volte per tentare di identificarlo, ma senza riuscirci. Guardò la fotocopia della fotografia che teneva in mano: l'aureola, le ali, il tratto del pennarello rosso, il CIAO. Ora non evocava più nulla nella sua mente. I venti secondi di pellicola erano impressi nel cervello. Non sembrava che Elena fosse stata costretta a esibirsi. Inoltre, non era sola. "Che cos'è?" Una specie di cassetta pornografica? Magari un film casalingo, girato da Elena con un amico? Era la soluzione più plausibile che Kate potesse concepire. Ma allora perché lui, chiunque fosse, glielo aveva mandato? Le tornarono in mente l'equipaggiamento sessuale di Ethan Stein, la maschera di cuoio sadomaso e le cassette hard di Bill Pruitt. Kate si rifiutava di immaginare un legame tra Elena e quei due. Finché non avesse scoperto esattamente che cos'era quel nastro, non ne avrebbe parlato con nessuno. Non l'attirava l'idea di leggere la storia sul «New York Post». Aveva bisogno di sapere. Willie. Doveva vedere Willie. 23 Agli occhi di Kate lo studio di Willie ricordava un laboratorio scientifi-
co, pasticciato e trasandato, ma pur sempre un laboratorio, con il lungo tavolo coperto di tubi di colore schiacciati a metà, pennelli di ogni dimensione, spatole, raschietti, bottiglie di olio, trementina, vernici, resine. «Ti dispiace se continuo a dipingere?» domandò Willie, trascinando verso la tela a cui stava lavorando la tavolozza su ruote di sua creazione, un carrello da tè coperto da una spessa lastra di vetro incrostata di mucchietti di colori a olio secchi e umidi. «No, se a te non dispiace che io guardi» rispose Kate liberando una vecchia poltrona da alcuni stracci macchiati di pittura a olio. «Stai attenta. La sedia potrebbe essere sporca.» Kate alzò le spalle, in quel momento i vestiti erano l'ultima delle sue preoccupazioni. Osservò la grande tela bianca su cui spiccavano linee schizzate a carboncino. «È un pezzo per una mostra?» «Sì, se lo finisco, è per la mostra di quest'estate al museo di arte contemporanea.» Willie spremette del rosso e del bianco sulla tavolozza di vetro. «I due lavori per la Biennale sono stati spediti l'altro giorno. Tu ci sarai, no? A Venezia, voglio dire.» «Sì, certo.» «Bene.» Willie mescolò con il pennello il rosso cremoso e il bianco abbagliante che formarono strisce di colore prima di fondersi in un rosa brillante. «Ho cercato di farmi una ragione della morte di Elena» disse. «Non so se è possibile.» «Per me, e forse ti sembrerà sbagliato o presuntuoso, il mio lavoro è l'unico mezzo per superare le difficoltà.» «Gli artisti cercano sempre di aggiustare le cose con l'arte» replicò Kate «e tu sei fortunato ad avere la tua. Credimi.» Willie appoggiò il pennello sulla tela, dapprima leggermente, poi strofinandolo avanti e indietro, facendovi penetrare il colore. Un viso cominciò a prendere forma. «Forse ho cercato di trovare una compensazione per le mie origini, sai, come se potessi aggiustare le cose col solo fatto che sono un artista.» Posò il pennello, svitò il tappo di una bottiglia, versò un denso liquido untuoso in un barattolo di vetro. Olio di lino. Kate lo riconobbe dal colore dorato e dall'odore particolare, vischioso e dolce. Vi aggiunse del giallo pallido, simile al vino bianco, una goccia di cobalto e infine della trementina. Avvitò il tappo del barattolo e lo agitò per ottenere un'emulsione. "È veramente un laboratorio", pensò Kate. Era un'operazione che gli aveva già visto compiere; come tanti pittori, Willie creava una mistura spe-
ciale da aggiungere ai pigmenti per ottenere l'effetto desiderato: liscio o secco, grasso o asciutto. «Sono piuttosto idealista, no?» «L'idealismo è un'ottima cosa, Willie» disse Kate. Willie versò un po' di miscela in una lattina e vi immerse il pennello. Quando lo posò sulla tela, il colore scivolò, trasparente e luminoso. Con un altro pennello circondò di nero la forma rosa, fece un passo indietro per studiare l'effetto, poi passò uno straccio sulla tela lasciando tracce di nero dentro e attorno all'ovale rosa: tracce spettrali di ciò che era in precedenza, come un quadro dipinto sopra un altro per un improvviso cambiamento di idee. Kate era affascinata dal procedimento, dalla magia della pittura. Per la prima volta da giorni provava un'emozione che non era dolore, ansia o sospetto. «Però, non riesco assolutamente a spiegare con l'arte ciò che è successo a Elena. Mi sembra che quello che faccio non abbia più senso.» Smise improvvisamente di lavorare e lasciò cadere il pennello sulla tavolozza. «Adesso stammi a sentire» disse Kate. «Non puoi cambiare quello che è successo, ma sono sicura che se Elena fosse qui ti direbbe di continuare a dipingere. Lei era come te, Willie. Il tuo dovere è dipingere meglio che puoi. Il mio è scoprire cosa è successo a Elena.» «Ci riuscirai?» Kate si appoggiò allo schienale e tacque un istante. «Sì» rispose infine, «credo che ci riuscirò.» Willie prese un pennello, esaminò le setole piegate, lo buttò in una grossa pattumiera di metallo e mancò il bersaglio. Il pennello rimbalzò sul pavimento dello studio. «Riuscirai anche a liberarmi dai poliziotti?» Kate estrasse dalla borsetta lo schizzo di Calloway. «Questo dovrebbe farti sentire meglio. È l'uomo che la polizia sta cercando; è stato visto entrare nel palazzo di Elena. Ti sembra familiare?» Willie guardò l'identikit e subito distolse lo sguardo. «Credi che conosca tutti i neri di New York?» Kate batté le palpebre come se fosse stata schiaffeggiata. «Ho insinuato qualcosa del genere?» «Quello schizzo potrebbe riferirsi a chiunque, Kate.» Con la fronte aggrottata Willie scelse un altro pennello e lo immerse in un barattolo da caffè pieno di trementina. Kate notò che in quei giorni era suscettibile quanto lei. Non volendo in-
sistere, aprì il taccuino ed esaminò i tabulati telefonici di Elena, dove ai numeri erano già stati abbinati i nomi e gli indirizzi. «Forse puoi aiutarmi a capire chi sono queste persone.» Willie lasciò a bagno il pennello e si chinò sulla spalla di Kate. «J. Cook è Janine. Janine Cook, la conosci.» «Già.» Una con cui la fondazione aveva fallito. Un caso difficile fin da quando frequentava la settima classe. Una ragazza con la quale Kate non era mai riuscita a legare; ma allora perché si sentiva ancora in colpa nei suoi confronti? Non poteva salvarli tutti. «La frequenti ancora?» «Sì, ma solo con Elena. Loro erano ancora amiche.» Kate staccò una scheggia di vernice dal bracciolo della poltrona. Okay, ora era il momento di parlare, non poteva rimandare oltre. «Willie... Elena era coinvolta in qualcosa di... beh... di torbido? «Torbido?» «Sai a cosa mi riferisco: sesso.» «Dove vuoi arrivare, Kate?» «Ho visto un filmato... beh, forse trenta secondi di un film, di Elena, e sembrava una pellicola pornografica. Io...» Staccò un altro pezzo di vernice e lo lanciò lontano con l'unghia. Le tremavano le dita. «Potrebbe essere un film fatto in casa. Forse lo è, ma...» «Cosa?» esclamò Willie. Poi, dopo averci riflettuto proseguì: «Hai detto un film girato in casa? Magari con un amico?». «Sì. È esattamente quello che pensavo.» "O speravo." «Beh, c'era quel regista. L'ho incontrato un paio di volte con Elena.» «Ricordi come si chiamava?» «Damien... qualcosa.» Kate gli porse i tabulati telefonici. Willie si pulì le mani con uno straccio e prese i fogli. «Trip. Eccolo qui: Damien Trip. Studia cinematografia alla New York University, credo, anche se è un po' vecchio per essere uno studente. Forse è fuori corso.» «Per quanto tempo sono usciti insieme?» «Qualche mese. Elena non stava bene con lui. So che voleva rompere perché me l'aveva detto.» «Uno studente di cinema?» Forse Elena lo aveva nominato una volta. Kate non mollò. «Dai, andiamo a trovarli, Janine Cook e Damien Trip. Se vieni con me sembrerà una visita casuale.» «Eccellente. Sono la tua copertura, eh?» Gli occhi di Willie brillavano eccitati.
«Questo non è un episodio di Law and Order, Willie. Lasciati guidare da me, e non aprire bocca se non te lo chiedo io.» Il traffico ingolfava la Seconda Avenue costringendo Kate ad attraversare l'East Village a passo di lumaca. Ne approfittò per osservare i luoghi dove era stata con Elena: i caffè polacchi con le insegne anni Cinquanta, tra i quali il loro preferito, Veselka, che serviva colossali pirogi ripieni di formaggio e patate, ricoperti di cipolle fritte e panna acida; il Saint Mark's Cafè, frequentato da vecchi e nuovi beatnik, con barbette caprine e magre braccia tatuate, e tanti altri locali che suscitavano molti ricordi. Due isolati a nord dell'abitazione di Elena, Kate imboccò l'Ottava Strada e il traffico si assottigliò. Improvvisamente il panorama mutò come se fossero entrati in un altro mondo: il quartiere polacco cedeva il passo a quello spagnolo. «Sei sicura che l'indirizzo sia giusto?» domandò Willie. «Così risulta dai tabulati telefonici. Cosa ha detto Trip quando lo hai chiamato?» «Che ci aspettava. Ha abboccato alla tua idea di una commemorazione per Elena.» Dopo Tompkins Square Park, Kate scorse un tendone nero con la scritta SIDEWALK in grandi lettere bianche e una vetrina coperta di insegne al neon accese. «Lì ho mangiato un paio di volte con Elena» mormorò. L'Avenue B era affollata di gente che parlava tutte le lingue, come in una moderna Babele, con borse o carrelli della spesa. «Il Poet's Cafè è a due passi da qui. Ricordi quando...» La voce di Willie si spense. Certo che Kate ricordava. Ci erano andati per uno degli ultimi spettacoli di Elena, le poesie di avanguardia di un amico musicate con un sintetizzatore e cantate da Elena, se si potevano definire canto quegli straordinari vocalizzi astratti che avevano ammaliato il pubblico. Kate accese una Marlboro e aspirò a fondo: decisamente non era quello il momento per smettere di fumare. Al semaforo abbassò il finestrino, soffiò fuori il fumo e osservò un ispanico e una nera che spazzavano il marciapiede davanti a tre condomini ognuno di tre piani di diverso colore, verde, azzurro e panna. «Sai, questa zona sta migliorando. Diventerà bellissima.»
«Già. Dicono la stessa cosa di Watts» commentò Willie. «Un punto per te, nella gara tra giovane nero scettico e ingenua donna bianca.» Willie si leccò l'indice, segnò un punto nell'aria e rise. Tuttavia, la parte affascinante del quartiere stava cedendo il passo a un'area abbandonata, cintata da un muro che sembrava dipinto da Diego Rivera in preda all'acido: un Cristo alto tre metri che piangeva lacrime di sangue. Svoltarono e videro un altro murale: colossali teschi bianchi e neri, croci e le parole IN MEMORIA DI COLORO CHE SONO MORTI. Un'immagine sorprendente e raggelante. Kate rallentò cercando di leggere i numeri civici. «Tre... qualcosa» disse Willie. «Vai avanti. La casa di Trip è in fondo alla strada.» Infatti era l'ultima. Kate parcheggiò davanti a un palazzo grigio di quattro piani. Willie strizzò gli occhi attraverso il parabrezza, osservando il conglomerato di pilastri di un cantiere. «Assomiglia a casa mia.» Il piano terra del palazzo di Trip era occupato da una drogheria spagnola. Sulla tenda arancio sbiadito si leggeva FUCK YOU scritto con vernice a spruzzo rosso vivo. Accanto al portone, a destra della drogheria, c'erano alcuni citofoni i cui fili si arrampicavano sul muro esterno come un'edera senza vita. Un lavoretto artigianale e nessun nome leggibile. Ma non importava perché il portone era aperto. Nell'atrio aleggiava l'odore di cavolo bollito caratteristico di quel tipo di edifici. La scala era stretta e ripida; su ogni pianerottolo si affacciavano due appartamenti. Ai primi due piani si udivano i rumori familiari di bambini che giocavano e della televisione; al terzo piano le porte erano sbarrate con assi di legno; al quarto si entrava in un altro mondo. Una sola porta di metallo lucido, costellata di adesivi di ditte di allarmi e, accanto al campanello, una targhetta con un biglietto: FILM AMATORIALI. Film Amatoriali? Il nome risvegliò l'attenzione di Kate richiamandole alla mente le cassette hard di Bill Pruitt. Una coincidenza? Forse, ma il suo istinto di poliziotto le consigliava di non fidarsi. Kate premette il campanello. La pesante porta di metallo si aprì cigolando. Damien Trip era sui trentacinque anni, con un viso d'angelo: carnagione
chiarissima, lucenti capelli biondi, occhi azzurri trasparenti e una cicatrice sul mento alla Harrison Ford che aggiungeva un tocco così perfetto di durezza e vulnerabilità da far pensare che fosse voluta. Una sigaretta, nota stonata su quella faccia da cherubino, pendeva dalle belle labbra piene. Era il biondo descritto da Wally il grassone. Willie gli strinse la mano. Lo stesso fece Kate presentandosi: «Kate McKinnon Rothstein, l'amica di Elena». «Kate... McKinnon... Rothstein. Beh... che mi venga un accidente.» Trip parlava come se le parole gli uscissero di bocca inconsapevolmente. «Elena mi parlava di lei... la mamma perfetta... così la chiamava.» C'era un ghigno di scherno sulle labbra piene? Kate non ne era sicura. Però le parole "la mamma perfetta" erano così dolci e amare che provò una fitta di piacere misto a sofferenza. Trip la scrutò attraverso il fumo che saliva verso gli occhi azzurri da bambino. Le teneva ancora la mano. «Ho visto... il suo libro» disse. «Lei è... la dea dell'arte per la... gente.» Sì, era evidente che la stava schernendo. Tuttavia, Kate sorrise. Sorrise anche lui. Un errore. I denti erano gialli e anche sporchi. L'angelo precipitò a terra. «Cristo, io... non riesco a crederci. Elena... morta.» Scosse lentamente il capo; il sorriso si spense. «Non la vedevo da... mesi... sei mesi... almeno.» «Come mai?» Trip si passò un dito sulla cicatrice del mento. «Noi... ci siamo allontanati.» «Perché?» domandò Kate. Trip esitò, strinse gli occhi; poi sorrise mostrando i denti da angelo marcio. «Se devo essere sincero, non parlava d'altro che del CD che stava preparando e... beh, ho avuto l'impressione che per lei quel CD fosse più importante di me... capisce? Una vera... donna in carriera. Non mi fraintenda, Kate. Cioè... ero felice per lei, ma un uomo sopporta solo fino a un certo punto... capisce?» Willie guardò Kate inarcando le sopracciglia. Kate annuì guardandosi attorno. La stanza stava a metà strada tra l'ufficio e una garçonnière anni Sessanta: pareti fucsia, un consunto divano di finta pelle, due armadietti dipinti di rosa e az2urro, una grande scrivania di legno che pareva uscita da un film di gangster degli anni Trenta, coperta da centinaia di cartoline di opere d'arte, di inviti a mostre, di riproduzioni, di fatture.
Ancora una volta Kate ebbe l'impressione di qualcosa di familiare. Guardò le carte sulla scrivania e tentò di leggere le fatture al contrario. Chi voleva prendere in giro? E per giunta senza occhiali? Meglio rinunciare. «Lei abita qui?» Trip le passò davanti e, spegnendo la sigaretta, spostò il grosso portacenere di ceramica in modo da coprire le fatture. «Lavoriamo qui... in genere» disse con la sua parlata lenta, ipnotica. «Talvolta... noi ci accampiamo per la notte... se è molto tardi, capisce?» Sembrava che stesse per crollare addormentato da un momento all'altro o che fosse sonnambulo. Finalmente Kate comprese. Quel tizio era completamente fatto. Questo non si adattava al viso d'angelo e all'abbigliamento ricercato: camicia rosa button down e impeccabili pantaloni chiari. Se avesse tenuto la bocca chiusa avrebbe potuto sembrare una pubblicità ambulante di Gap. «Noi?» domandò Kate. «Il mio amico... i soci.» «Film Amatoriali» disse Kate sorridendo il più cordialmente possibile. «Che tipo di film producete?» «Soprattutto... sperimentali.» «Ha sempre fatto il regista?» Per un attimo Trip la guardò sospettoso. «No... ho frequentato la scuola d'arte. Pensavo di fare il... pittore.» «Anch'io ho frequentato la scuola d'arte» disse Willie. «Sì? Beh, non faceva per me. Io... avevo bisogno di una tavolozza più grande, se mi... capite.» Regista. Studente d'arte. Pornografo. «Che scuola ha frequentato?» domandò Kate. Trip strinse nuovamente gli occhi. «Questa... è... una storia... vecchia. Cioè, che importa?» Kate osservò le cartoline sulla scrivania. «Ma evidentemente l'arte continua a interessarla» disse prendendo in mano la riproduzione di un vivace dipinto astratto. «Veramente, no» disse Trip. «Ne ricevo... un mucchio. Il mio nome deve essere su... cento mailing list.» Tra la massa di cartoline Kate ne scelse una che aveva attratto la sua attenzione. La girò e vide il nome: Ethan Stein, e il titolo White Light. Il cartoncino le bruciava in mano. «Ethan Stein? Lo conosce?» domandò sforzandosi di sembrare indifferente. «Chi?» Trip alzò le spalle. «Ah, è di scarsa importanza.»
"Allora perché lo hai conservato?" «Le dispiace se lo tengo io?» domandò Kate. «Mi piace.» Trip sbadigliò in maniera esagerata. Kate non capiva se stava fingendo oppure era veramente cotto. Trip si sedette, posò i piedi sulla scrivania, si infilò in bocca una Gauloise senza filtro e l'accese. «Allora... a proposito di questa... commemorazione?» «Un gruppo di amici desidera organizzare qualcosa» disse Willie. «Abbiamo pensato che ti avrebbe fatto piacere partecipare.» «Oh... certamente» disse Trip staccando del tabacco dai denti ingialliti. «Contate su di me... per qualsiasi cosa. Sono... con voi.» Kate indicò la pesante porta di acciaio. «È là dietro che scorrono le vene creative?» «Al momento non sta succedendo nulla» disse Trip, improvvisamente attento. Kate provò l'impulso di correre alla porta e passarci attraverso come Superman. No, se Trip era il suo uomo, doveva giocare con freddezza. La sua forza erano le informazioni che possedeva, e non aveva alcuna intenzione di rivelarle. Trip si alzò dalla scrivania. «È tardi; devo proprio andare.» «Così presto?» domandò Kate. «Un appuntamento» disse Trip spegnendo la sigaretta. «Ci terremo in contatto» replicò lei infilando la cartolina di Ethan Stein nella borsetta. «Cosa?» Gli occhi di Trip passarono rapidamente da Kate a Willie e poi di nuovo a Kate. «Per la commemorazione» disse Kate con un gran sorriso. «Oh, già.» Trip li accompagnò alla porta, la chiuse alle loro spalle e girò serrature e catenacci. «Sapevi che Elena stava preparando un CD?» domandò Kate mentre andavano verso l'automobile. «Me ne aveva parlato. Ma è stato un po' di tempo fa.» «Con chi?» «Col mio amico Darton Washington.» Kate ricordava il nome dai tabulati telefonici. «Lo hanno finito?» «Non credo. Se così fosse, lo avrei saputo.» Come mai lei non ne era informata? Kate doveva scoprirlo.
Ma prima toccava a Janine Cook. La giovane donna sembrava a suo agio sul sofà di velluto dall'aspetto quasi comodo, nel suo quasi attico, quasi su Park Avenue. Era di bell'aspetto: carnagione scura, occhi di cioccolato, capelli stirati ben acconciati. La mini di pelle nera copriva pochi centimetri delle calze a rete e l'aderente maglioncino color panna che metteva in mostra i capezzoli non bastava a mascherare un che di decisamente mascolino, forse i modi bruschi o la voce roca, che ricordò a Kate l'attore Jaye Davidson in La moglie del soldato. Kate non la vedeva da tempo e fu colpita dal fatto che Janine apparisse molto invecchiata e come indurita. Su quale elemento poteva basarsi l'amicizia tra lei ed Elena? Willie si accomodò su una lucida poltrona di pelle. Kate esaminò l'arredamento: il sofà era di ottima qualità, il tappeto aveva l'aria di un persiano autentico e i bicchieri del bar sembravano di cristallo. «Si direbbe che ti sia sistemata bene» disse sorridendole. «Uhm» fece Janine. «È un bellissimo appartamento» ritentò Kate. «L'hai arredato tu?» «Cosa intendi dire?» domandò Janine socchiudendo gli occhi dalle palpebre viola. Kate inspirò. «Semplicemente che tu o il tuo arredatore avete un ottimo gusto.» E con un altro sorriso: «Io devo affidarmi all'arredatore». «Beh, quella fottuta morte si è presa la mia arredatrice. Così ho dovuto fare tutto da sola. Peccato, eh?» Janine si appoggiò al sofà e la guardò al di sopra della lastra di marmo del tavolino. «Senti, Janine, stiamo soffrendo tutti» mormorò Kate. Janine chiuse gli occhi e i lineamenti duri si ammorbidirono. Elena con i codini; Janine con le trecce. La corda che rimbalzava sul cemento sbrecciato del cortile. Un avaro raggio di sole che riusciva a penetrare tra le miserabili case del quartiere. «Elena era una mia grande amica» disse Janine. «Ne sono sicura» rispose dolcemente Kate. «Allora aiutami, okay?» Janine aprì gli occhi. C'erano lacrime negli angoli. «Sai qualcosa che può farci capire cosa è successo?» Janine ruotò il capo e morse il rossetto viola intonato all'ombretto. «Che cosa c'è da sapere?»
«Andiamo, Janine» la incoraggiò Willie, «Elena era in confidenza con te. Ti raccontava tutto. Parla.» La mascella di Janine si irrigidì. «Fai il poliziotto adesso, Willie?» Kate gli posò la mano sul braccio per farlo tacere. «Vogliamo soltanto sapere cosa è successo. Tu no?» «Cosa credete che possa dirvi... esattamente?» «Tu hai perso un'amica» disse Kate con voce rotta, gli occhi pieni di lacrime. «Ma io ho perso una figlia.» Commossa, Janine posò la mano sulla sua e si mise a piangere. «Janine» riprese Kate carezzando la mano dai lunghi artigli viola, «Elena stava ancora con Damien Trip?» Janine annuì e parve indurirsi al suono di quel nome. «Li ho visti insieme circa una settimana fa.» «Una settimana fa? Ne sei sicura?» «Se erano ancora insieme» disse Willie, «allora Trip ha mentito.» Janine li guardò attentamente. «Avete già parlato con lui?» Respirò affannosamente, gli occhi improvvisamente pieni di paura. «Stai tranquilla» disse Kate lanciando un'occhiataccia a Willie. «Elena è morta» disse Janine. «Non voglio più parlare di lei.» Girò il viso ma Kate notò che stava lottando per nascondere l'emozione. Cercò inutilmente di abbracciarla. Janine la respinse. «Non posso aiutarvi.» Si alzò tirando la minigonna sulle cosce. «Non so nulla.» «Ti avevo pregato di non aprire bocca» disse Kate premendo il pulsante dell'ascensore. «L'hai fatto apposta a rovinare tutto?» «Scusa.» Willie si guardò le scarpe. «Ti porto a casa.» Willie batté le palpebre. Una donna che lotta. Una grande stanza buia. Acqua sporca che filtra tra le assi marce del pavimento. Ombre e raggi di luna. Un uomo e una donna che lottano. La donna si volta, la faccia è a fuoco. È Kate. «Willie? Willie! Stai bene?» Kate lo scosse. «Che ti prende?» Willie era abbandonato contro la parete dell'ascensore. «Gesù, Willie. Stai bene?» Willie si passò la mano sul viso. «Ho avuto un'altra visione.» «Beh, sei sotto pressione» lo confortò Kate.
«Ti ho visto, Kate.» «Dove?» «Nella visione. C'eri tu.» Una pioggerella picchiettava sul parabrezza. Kate e Willie sedevano, in silenzio, nell'automobile. Lei accese una sigaretta, aprì il finestrino, sentì il vento e la pioggia sul viso. Il ricordo di un'altra giornata di pioggia le lampeggiò nella mente. «A proposito di visioni, ho una storia da raccontarti. È successo molto tempo fa, quando lavoravo al distretto di Astoria. È stato il mio ultimo caso, sebbene allora non lo sapessi. Una ragazzina scappata di casa, come al solito.» Kate guardò fuori dal finestrino. La pioggia cadeva sempre più fitta. Un altro giorno di pioggia e altri tergicristalli che andavano avanti e indietro cigolando. Kate accese una sigaretta, controllò il foglietto sul quale aveva segnato il percorso, accelerò all'incrocio tra Queens Boulevard e la Ventunesima Strada. "Per favore, fai che stavolta mi sia sbagliata", pensò, premendo l'acceleratore. I tetri condomini scivolavano accanto all'auto come in un film. Doveva raggiungere la fabbrica abbandonata, poi svoltare nella strada isolata che conduceva alla discarica di Astoria. SO DOV'È PERCHÉ CE L'HO MESSA IO. Le parole rosse, tracciate con una grafia arricciolata, sembravano scritte col sangue. I palmi della giovane detective McKinnon erano madidi di sudore quando fermò l'auto accanto a un grosso camion della spazzatura arrugginito. Impugnò la pistola. Gli stivali scricchiolavano sulla ghiaia. Quel povero angelo nudo era abbandonato su un mucchio di sacchi di plastica nera e attorno al capo, come un'aureola, svolazzava un foglio di stagnola. Perché quel vecchio caso continuava a tormentarla? Kate guardò la pioggia, la strada bagnata, la luce sfocata dei semafori. «Avevamo consultato una medium» disse a Willie. «Per due settimane ci infilammo in una serie di vicoli ciechi per verificare sogni, visioni e percezioni extrasensoriali. Avrei dovuto lasciare che se ne occupasse qualcun altro. Io avevo un mucchio di lavoro, troppo per potermi dedicare a quel caso. Quando infine
me ne occupai... era troppo tardi.» «Tutti commettiamo degli errori» sentenziò Willie. «Ma non muore nessuno.» Kate buttò il mozzicone dal finestrino. «L'avevo quasi preso. Sullo zaino c'era un'impronta che non collimava con quelle della ragazza, dei genitori, degli amici. Ero sicura di incastrarlo con quella prova. Arrivai addirittura a vantarmene con un giornalista.» Kate scosse il capo. «Maledetta presunzione.» Ma Willie non l'ascoltava più. Stringeva l'identikit che teneva nella tasca della giacca e sentiva montare la paura. 24 Deve concentrarsi. A volte gli sembra di trasformarsi in una persona completamente diversa. È lucido, sa cosa sta facendo, eppure è come se gli mancasse un pezzo di sé. Scrolla la testa, le braccia, le gambe; deve essere sveglio, attivo. In fondo non si tratta che di lavoro. Il gioco. Le nuove regole. Si augura che lei sia all'altezza. Lo sarà sicuramente! «Sta' zitto!» Nonostante la musica del walkman che gli pulsa nelle orecchie, quelle maledette voci riescono a filtrare. Un fallito! Una parola che ha udito troppo spesso da bambino. Tuo padre ti ama. Lo ripeteva sempre sua madre. Suo padre, che aveva convinto la giovane moglie a lasciar piangere il figlio appena nato, a non prenderlo in braccio, non coccolarlo. La madre gli aveva raccontato che stava sveglia e piangeva con lui. Una volta che, rientrato in anticipo, il padre l'aveva trovata con il bimbo tra le braccia, aveva dato di matto. Li aveva picchiati entrambi. Poi aveva chiuso la madre in camera da letto per tre giorni, lasciando il figlio di sei mesi solo nella culla a piangere, senza cambiarlo. È sicuro di ricordare ancora il fetore della cacca, il senso di abbandono, la vergogna. Strano come facendo soffrire gli altri riesca a lenire il suo dolore ed è
per lui una sorpresa il provare piacere nell'infliggere sofferenza. La busta è dove l'ha messa. La ciocca di capelli è intatta. Con cura la avvolge nel nastro adesivo, creando una specie di appiglio. Ha già scelto la prossima immagine. I capelli vi aggiungeranno un tocco nuovo: un collegamento tra il vecchio e il nuovo lavoro. Posa i capelli sulla riproduzione e, dopo qualche spostamento, decide di incollarli sulla testa della donna. Questo indizio non sarà di facile comprensione. Metterà a dura prova l'intuito di Kate. Dovrà faticare per arrivarci. Stacca i capelli dall'immagine, se li passa sulla guancia, sulle palpebre, sotto il naso. Annusa ciò che resta del profumo della ragazza, li infila in bocca, li succhia. Quasi istantaneamente ha un'erezione. Se solo quella stupida ragazza potesse vederlo adesso. Beh, ha fatto del suo meglio con lei, non che lei se ne curasse, né che meritasse tante attenzioni. Un'ultima schermaglia amorosa prima del sacrificio. Abbassa la cerniera dei pantaloni, sfiora lo scroto con i capelli, su e giù, lungo il pene eretto. Solo i capelli, non usa la mano, nulla di osceno. Dolcemente, lentamente, su e giù, poi più rapidamente. Pensando alla ragazza che balla nuda, che si tocca, raggiunge l'orgasmo. Un attimo dopo, si ricompone e, con una fitta di vergogna, vede se stesso in una stanza buia, nudo e solo, coperto di escrementi, piangente. Adesso basta. È ora di lavorare. Immerge il ciuffo di capelli nell'alcol. Devono essere puliti, immacolati. Il duecentosessantasette di Washington Street era un vecchio edificio di mattoni, forse una ex fabbrica ristrutturata e trasformata in condominio di lusso. Dal vicino fiume Hudson soffiava una brezza rinfrescante. «Mi chiamo Washington e abito in Washington Street. Carino, no?» aveva commentato Darton dando l'indirizzo a Kate. L'atrio era elegante; l'ascensore vasto e lucente come una gabbia gigantesca. Kate si specchiò nelle porte di metallo, si passò le dita tra i capelli. Come affrontarlo? Solo una settimana innanzi Kate si fidava della gente, ma ora era diventata sospettosa come quando lavorava ad Astoria e considerava tutti colpevoli a priori. L'intera parete nord dello studio di Darton Washington era occupata da finestre alte fino al soffitto. La pallida luce dorata del tramonto cadeva su grandi divani di pelle nera, su due enormi piante di plastica e su un tavolo
di legno lungo come una pista da bowling, circondato da una dozzina di sedie imponenti che ricordavano i troni di un castello. L'elemento più sorprendente era il pavimento smaltato di un rosso così brillante da proiettare ombre scarlatte sulle pareti. Darton Washington era appoggiato a una sedia e sorrideva. «Le piace il pavimento? Ho preso l'idea dalle sale cerimoniali africane.» «È stupefacente» commentò Kate avvicinandosi a due lavori firmati WLK Hand sulla parete opposta. «I pezzi di Willie stanno benissimo qui dentro.» «Quel ragazzo è un genio» disse Washington sfiorando i baffetti sottili che sottolineavano il labbro sensuale. Kate osservò su un'altra parete una serie di stampe di Jacob Lawrence: la cronaca della vita degli schiavi africani negli stati americani del sud. «Queste sono stupende.» «Sì. Semplici ma efficaci» disse Washington col suo accento preciso, quasi britannico. «Posso chiederle di dov'è?» «Harlem. Non si direbbe dall'accento, vero?» rispose Washington con un sorriso. «E lei?» «Astoria, anche nel mio caso non si nota... spero.» Washington scoppiò a ridere. «Questi di chi sono?» chiese Kate indicando dei dipinti a olio di uomini neri. «Horace Pippin.» «Oh, sì. Naturalmente.» Si avvicinò a una serie di fotografie minimali e raffinate con didascalia, una coppia di neri sull'uscio, a tavola, a letto. Lesse parte del testo. «Carne Mae Weems?» «Indovinato» approvò Washington. «Una delle artiste concettuali che preferisco.» «Bellissime, addirittura commoventi.» Kate era colpita dalle scelte di Washington, ma fu un piccolo quadro quasi interamente bianco, nascosto in un angolo, ad attrarre la sua attenzione. «Ethan Stein?» «Mi sorprende che l'abbia riconosciuto. Non sono in molti a conoscere il suo lavoro. È uno dei rari pittori bianchi che colleziono. Mi piace la sua purezza.» «Sì, è incantevole.» Kate studiò il dipinto, le pennellate bianche che coprivano un'impercettibile griglia grigia. Era molto simile al suo, e anche a
quello della Polaroid. Sebbene tutti i quadri di Stein si assomigliassero, sentì un brivido nella schiena. «Ne ho uno quasi uguale.» «Davvero?» «L'ho comprato alcuni anni fa. Questo lo ha da molto?» Washington tirò il colletto della camicia. Era alto quasi un metro e novanta e probabilmente si vestiva nei negozi per taglie grandi. «Oh, da qualche anno» disse. «Rimpiango di averne comprato solo uno.» «Perché?» «Beh, mi piace e... immagino che i prezzi saliranno ora che Stein è morto. Perdoni l'osservazione di cattivo gusto» ridacchiò Washington. «E come sta Willie?» «Bene» disse Kate, notando che l'uomo aveva cambiato argomento. Si sedette su un divano e si godette la splendida vista, il fiume Hudson, il New Jersey, il cielo e la musica che risuonava nell'ambiente, chiara come in una sala da concerto. «Philip Glass» disse Washington, come se le avesse letto nel pensiero. «Grande compositore moderno.» Si accomodò sul divano di fronte. «La sorprende? Pensava che un nero grande e grosso come me ascoltasse solo Stevie Wonder, Bob Marley o il rap?» «Non ci avevo pensato, signor Washington, però Willie mi ha detto che lei rappresenta dei gruppi rap.» «Sì, per soldi. O meglio, lo facevo, ma adesso lavoro per conto mio. Da un paio di settimane ho lasciato quella dispotica casa discografica, la FirstRate, e finalmente posso dedicarmi alla musica che voglio: rap, pop, jazz, moderna, classica. Qualsiasi cosa.» Sorrise e proseguì: «Ho studiato musica e arte al college. Per l'arte mi mancava il talento necessario, o almeno così ritenevano i miei insegnanti; comunque, sono contentissimo di occuparmi di musica. Mi piacciono Steve Reich, Glass, Meredith Monk, Strawinsky, e soprattutto Bach». «Io sono una nullità in musica» disse Kate. «Per me, sono grandi Mary Wells, Martha e le Vandellas, Sarah Vaughan, Ella.» «Non male» commentò Washington prendendo un lungo cigarillo da una coppa d'argento e infilandolo tra le labbra carnose. «Le dà fastidio?» Kate tirò fuori una Marlboro con tale rapidità che lui scoppiò a ridere. Darton spinse verso di lei un portacenere di cristallo e le porse l'accendino. Per tenere ferma la fiamma, Kate gli toccò le mani, che erano grandi e belle. «Grazie» disse soffiando fuori il fumo. «Stavo pensando... al CD che preparava con Elena Solana... è stato completato o...»
Il sorriso svanì dal viso di Washington. «No. Non è mai stato finito.» «Perché?» L'uomo alzò le spalle possenti. «Immagino che Elena avesse perso interesse... un peccato.» «Era buono?» «Era eccellente.» Per un istante Kate lesse qualcosa di inspiegabile negli occhi di Washington. «L'avrebbe resa famosa.» «Non capisco. Se era ottimo, perché Elena non...» Washington schiacciò il cigarillo nel portacenere con forza, come se avesse voluto spezzare il cristallo. Kate lo osservò dibattersi in preda all'emozione. «Tutto quello che posso dire... stava venendo molto bene, poi mi è sembrato che a Elena non interessasse più. Ma è successo mesi fa.» «Quindi lei non era in contatto con Elena da mesi?» «Precisamente.» Kate prese i tabulati telefonici e li posò sul tavolino. «Da questi risulta che Elena le ha telefonato il giorno prima di morire.» Gli occhi scuri di Washington diventarono due fessure. «Sa che questa conversazione comincia ad assomigliare a un interrogatorio? Se la polizia desidera sentirmi sulla signorina Solana, per me va bene. Ma al momento non ho altro da dire.» «Si sbaglia» disse Kate posando sul tavolino il distintivo del NYPD. Darton scattò dal divano come se fosse stato punto e si allontanò da Kate, quasi danzando sul pavimento rosso vivo. «Che storia è questa? Mi telefona, afferma di essere amica di Willie e...» «Sono amica di Willie... ma collaboro con la polizia» dichiarò Kate alzandosi. «E lei risponderà alle mie domande, signor Washington... qui o al distretto, come preferisce.» Washington fece un paio di passi verso di lei, la mascella tesa, le mani frementi. Erano a un metro di distanza e l'aria tra loro vibrava di elettricità. Kate sfiorò la Glock nella borsetta, ma riuscì a conservare la calma. «Senta, non sono venuta qui per incastrarla. Voglio solo colmare qualche lacuna della vita di Elena.» «Nessuno può incastrarmi. Nessuno. Né me né le persone che mi sono care. Capito?» «E nessuno frega me, signor Washington. Capito? Quindi mi dica di cosa avete parlato quando Elena Solana le ha telefonato, oppure la farò portare al Sesto distretto da un'auto della polizia» disse Kate senza staccare gli occhi dai suoi ma attenta a ogni minimo movimento.
Washington sospirò. «Voleva ricominciare a lavorare... al CD.» «E?» «E... io no.» «Perché no? Non ha detto che era eccellente?» «Erano passati dei mesi e la cosa non mi interessava più. Ho altri progetti in corso. Non avevo intenzione di mollare tutto per riprendere dove avevamo smesso.» «Smesso... cosa, esattamente?» «Il CD. Che altro?» «Me lo dica lei.» «Gliel'ho già detto. Per me era una faccenda chiusa.» «Chiusa con il CD o chiusa con Elena? Voi due eravate legati, no?» «Legati per fare il CD... finché Elena ha smesso.» «E questo le ha dato fastidio.» «Ero seccato, sì. Che si fosse defilata, che avesse lasciato perdere. Io avevo investito su di lei. Contavo su un futuro insieme... professionalmente» precisò stringendo le labbra carnose. «Ammetto che mi ha ferito nell'orgoglio.» «Quindi Elena l'ha danneggiata.» «Ha danneggiato se stessa e la sua carriera.» «E la sua di carriera?» «La mia va benissimo» disse Washington incrociando le braccia sul petto. «E non avevo alcuna intenzione di mollare tutto per ricominciare a lavorare con Elena solo perché lei ne aveva voglia.» «Posso ascoltarli?» «Cosa?» «I nastri di prova.» Washington si voltò e accese un altro cigarillo. «Se riesco a trovarli.» «Non completare il CD di Elena avrà comportato un danno economico.» «Avevo già preso la decisione di ridurre le spese» dichiarò Washington. «Davvero?» disse Kate. «Strano modo di gestire gli affari, signor Washington.» Washington e Elena? Mentre percorreva il corridoio bianco Kate cercò di immaginarli insieme. L'uomo corrispondeva alla descrizione di Wally il grassone: un nero che sembrava un giocatore di football o un pugile, sebbene Wally non fosse quello che Kate riteneva un testimone affidabile. Washington aveva ammesso un rapporto d'affari con Elena, ma c'era
dell'altro? Kate avrebbe voluto torchiarlo ma prima doveva informarsi meglio. Troppe erano le connessioni: Trip, Pruitt, i film a luci rosse, il quadro di Ethan Stein in casa di Washington. Le sembrava di aver inciampato in un nido di vespe. Controllò l'orologio. Aveva appuntamento con Richard per cena e sarebbe stata di nuovo in ritardo. 25 Passò una macchina della polizia con le luci lampeggianti e con la sirena così acuta che le orecchie di Willie tremarono di paura. Harlem, tra la Centoventicinquesima e il Martin Luther King Boulevard. Willie controllò la targa stradale: AFRICAN SQUARE, un nome scelto dai bianchi per compiacere gli africani d'America. Un'altra sirena, dei pompieri stavolta. Willie si turò le orecchie mentre l'autopompa gli sfrecciava accanto. Andava nella stessa direzione della polizia? Dopo un attimo ne arrivò un'altra e Willie la seguì con gli occhi, domandandosi se un bambino fosse caduto da una finestra priva di sbarre perché, in quella zona, il padrone di casa sapeva di poterselo permettere. O forse un'intera famiglia era morta soffocata per mancanza di allarmi antincendio o scale di sicurezza. Il suono delle sirene si fuse con una feroce musica rap proveniente dal registratore di un ragazzo in enormi jeans a vita bassa da cui spuntavano i boxer. Oh, sì, sei forte tu, pensò Willie, forte davvero. Vedi solo di non battere ancora queste miserabili strade quando avrai quarant'anni. Comparvero due bianchi che si guardavano attorno con aria circospetta. In cerca di guai, pensò Willie. Meglio aspettare il mattino, ragazzi, quando arriveranno i gruppi di turisti bianchi con le macchine fotografiche, pronti a immortalare i pittoreschi neri di Harlem. Strinse i pugni nelle tasche della giacca di pelle già passata due volte in tintoria. Ora non puzzava più di morte, e neppure di pelle, solo di detersivi chimici. Annusò una manica: nonostante i lavaggi, gli ricordava ancora quella sera e il corpo devastato di Elena. «Merda.» A Lennox Avenue la folla si infittì: quasi tutti uomini giovani, alcuni vestiti per la sera che si avvicinava; altri, per i quali il sabato sera non richiedeva un abbigliamento speciale, camminavano verso i condomini abban-
donati che circondavano la sopraelevata come gusci vuoti. Costoro avevano la testa avvolta in stracci e portavano alle labbra bottiglie avvolte in sacchetti di carta. La caffettiera si schiantò a terra. Il liquido scuro si allargò lentamente. Le schegge di vetro lampeggiarono metalliche, poi si trasformarono in un coltello che fendeva l'aria. Elena gridava proteggendosi il viso con le braccia incrociate. Un altro viso che la lampadina ondeggiante della cucina dissolse in una rete di ombre frantumate, un quadro astratto, indecifrabile. Willie tentò di trattenere la visione nella speranza di vedere il viso. Inutilmente. Il rosso del sangue sfocò nella facciata rosa del bar dell'angolo, il Lennox Lounge. Un posto che Willie conosceva bene. Séparé di velluto, birra dal sapore amaro, un grande sforzo per apparire più vecchio dei suoi sedici anni. E Henry con lui. Tante chiacchiere, senza rabbia, senza paura. Uomini che parlavano e ridevano. Il braccio di Henry sulle sue spalle, un padre più che un fratello. Ricordarlo adesso era un dolore intollerabile. Sull'altro lato della strada, il neon dell'Apollo annunciava PIONEERS OF MOTOWN: i Four Tops, Smokey Robinson e i Miracles, la musica preferita da Kate. Merda. Non voleva pensare a lei. Continuò a camminare a testa bassa. Aveva una meta e sperava fosse quella giusta. Il vento trasportava una leggera foschia. Willie tremava nella giacca di pelle. Sarebbe mai arrivata la primavera? Ora era tra i disperati, accanto alla sopraelevata, attorniato da cani randagi che cercavano cibo tra i rifiuti con la stessa determinazione con cui gli uomini cercavano droga e alcol. Willie avanzava nella strada buia dove il sole non arrivava mai, coperto dalla struttura arrugginita dei binari. Era la Centotrentaduesima? Non ne era sicuro. Sembrava che la strada fosse in attesa di qualcosa che spezzasse l'immobilità degli uomini accovacciati nell'ombra degli androni. Comunque non era quella la strada che cercava. Più avanti si ergeva la Chiesa Battista, con le sue vetrate colorate su cui spiccava la testa di Cristo. Il giorno seguente, domenica, le donne vestite a festa avrebbero cambiato radicalmente l'aspetto della zona. Forse avrebbe fatto meglio a tornare il giorno dopo, ma non poteva aspettare.
All'angolo della Quinta, davanti alla chiesa, c'era un edificio bianco che aveva bisogno di essere tinteggiato. Sull'insegna arrugginita, penzolante sulle doppie porte, lesse AFFITTASI SETTIMANALMENTE. Valeva la pena provare. «Mi prendi in giro, ragazzo?» La pelle attorno agli occhi dell'uomo era rossa come carne cruda. Forse è una malattia, pensò Willie, come quella di cui pare soffra Michael Jackson. «Qui non ho il nome di nessuno. Cosa credi, che mi paghino con un assegno firmato?» L'uomo si grattò il collo bicolore. Willie guardò la scala sulla destra. La carta da parati, fenicotteri rosa su sfondo azzurro, sebbene in pessime condizioni sembrava dipinta a mano, come se quell'albergo avesse conosciuto giorni migliori. Quanto tempo prima, era difficile immaginarlo. Domandò se poteva controllare le stanze, ma mentre le parole gli uscivano di bocca si rese conto dell'assurdità della richiesta. L'uomo non rispose neppure, si accese una sigaretta e gli agitò il fiammifero in faccia. La foschia si era tramutata in pioggia. La luce gialla dei lampioni si rifletteva sui marciapiedi bagnati formando cerchi color miele. All'angolo successivo c'era la scuola elementare 121 dove, in autunno, Willie ed Elena avevano incontrato una nuova classe di scolari adottati dalla fondazione, ed Elena si era esibita in alcuni dei suoi numeri di musica e versi. Quando era giunto il suo turno Willie aveva portato i bambini in cortile per raccogliere le foglie cadute dagli alberi che avevano incollato su carta e dipinto. Alzando gli occhi vide che le finestre del secondo piano, dopo tanti mesi, erano ancora decorate con quelle opere d'arte e gli si strinse il cuore. Un altro isolato. Un'alta recinzione di lamiera ondulata attorno all'edificio d'angolo. Un uomo gli lanciò un'occhiata furtiva, si coprì il volto con la giacca, scivolò dietro la protezione. Un altro lo seguì. Il lampione proiettava una luce giallo acido sui mattoni. Lo scheletro delle finestre prive di vetri si stagliava irregolare come un quadro astratto. Un altro uomo si intrufolò dietro la lamiera. Willie camminò avanti e indietro, cercando di farsi coraggio. Vide altri due uomini sparire dietro la recinzione. "Okay. È ora. Agisci." Inspirò profondamente per farsi forza, poi, senza pensare, passò dietro la lamiera, salì i gradini sgretolati, attraversò l'arco
che un tempo era il portone. Nell'atrio si fermò. Allungò le braccia nel buio ma non incontrò muri. Dei sussurri echeggiavano nel vuoto. Attraverso l'oscurità scorse un chiarore rossastro e delle ombre. Impiegò un attimo a capire che si trattava di un fuoco acceso in un bidone della spazzatura, attorno al quale erano accovacciati quattro o cinque uomini, con bicchieri, siringhe, cucchiai incandescenti. Un respiro profondo e Willie uscì allo scoperto. «Cosa cazzo...?» La silhouette nera di un uomo, delineata dal chiarore delle fiamme, avanzò verso di lui. Willie sentiva sul viso il calore del fuoco. O era la paura? Vide le sue mani illuminate e si rese conto di essere l'unica persona visibile. Allora parlò un altro uomo, uno spaventapasseri con un cucchiaio in mano che scioglieva il crack sulla fiamma: «Wil? Sei tu?». «Henry!» esclamò Willie con un sospiro di sollievo. «Devi venire con me.» «Cosa? Sei pazzo? Che cazzo ci fai qui?» «Sei nei guai, Henry. Guai grossi.» Willie non lo vedeva ma sentì le dita del fratello stringergli il braccio. «Aspettami fuori, fratellino.» «È una cosa seria, Henry. Devi...» «Aspetta fuori» ripeté Henry spingendolo verso la porta con una forza sorprendente, che non si confaceva al suo fragile aspetto. Henry sparì nel buio e riapparve stagliato contro la luce arancione delle fiamme, con il cucchiaio in mano. In strada Willie prese a calci schegge di vetro e guardò le finestre della scuola con le loro malinconiche foglie dipinte. La pioggia gli bagnava il viso e i capelli. Quei dieci minuti che attese gli sembrarono ore. Finalmente arrivò Henry, sorridente e allegro. Willie lo avrebbe ammazzato. «Sei in un fottuto pasticcio» disse estraendo dalla tasca l'identikit stropicciato e umido. Henry prese il ritratto e lo guardò. Con voce tremante ma tono impudente disse: «Accidenti a te. Questa stronzata potrebbe essere chiunque». «Lo credi tu» disse Willie sforzandosi di non perdere la calma. «Se è così, com'è che io ci ho messo un fottuto secondo a riconoscerti? Quanto pensi impiegherà la polizia?» Alla luce del lampione Willie notò lo sguardo disperato che all'improvviso animò il volto di Henry. Bastò quel particolare ad addolcirlo, almeno
temporaneamente. «Ti prego, dimmi cosa facevi a casa di Elena?» Henry si accasciò su se stesso. «Io... io volevo vederla. Niente di speciale, magari bere qualcosa insieme. Stare un po' con lei.» «Perché?» «Io...» Henry teneva gli occhi fissi sul marciapiede bagnato. «Io la conoscevo dai tempi della scuola. Da prima di drogarmi. Lo sai. Mi piaceva. Cosa c'è di male?» «E quella sera? La sera che è stata uccisa? Tu eri là.» «Ma non ho fatto niente, Wil. Devi credermi.» Camminò avanti e indietro sotto la fioca luce gialla, le mani sprofondate nelle tasche. «Quando sono arrivato, il citofono non funzionava, ma il portone era aperto. Così sono salito e... l'ho vista, tutta ferita. Io... io sono scappato. Mi credi, vero?» «Ti credo... ma c'è un assassino in giro e la polizia pensa che sia tu.» «Cosa? Credono che io sia quel cazzo d'artista di morte?» Henry restò a bocca aperta, poi arricciò le labbra in un ghigno e la sua risata echeggiò nella foschia. «Lo trovi divertente?» disse Willie prendendolo per le spalle. Improvvisamente Henry strinse le mani attorno al collo del fratello. Willie ansimò; non poteva respirare. Il fratello maggiore, pur devastato dalla droga, era più forte di lui. Willie gli afferrò le mani e tentò di parlare senza riuscirci. La luce gialla del lampione lo abbagliava, era un vortice in cui precipitava perdendo conoscenza. Un minuto o un'ora più tardi, Willie era seduto sul marciapiede bagnato e si massaggiava i tendini dolenti del collo. Mise a fuoco il viso di Henry, a pochi centimetri dal suo. «Willie, Willie, perdonami» implorò Henry abbracciandolo. «Non volevo. È colpa del crack. Ti voglio bene, Wil, lo sai, no?» Willie lo guardò severamente. Anche la sera della morte di Elena suo fratello era sotto l'effetto della droga? Fissò negli occhi quell'uomo distrutto che era stato il suo amato fratello maggiore. «Sì, lo so» disse. «E mi credi?» «Ti credo.» Sì, lo conosceva bene: suo fratello non era capace di uccidere. Willie se lo ripeté ancora una volta, cercando di convincersi e arrivò quasi a crederci davvero. Ma gli altri? «Perché non me l'hai detto prima, Henry?» «Ci ho provato. L'ultima volta che ci siamo visti, ma...» Willie gli mise in mano una busta con dei soldi. «Devi sparire da New
York prima che la polizia ti trovi.» Henry si leccò le labbra aride, toccò le banconote. «Sono cinquecento dollari. Prendi un treno, un aereo, una corriera, ma vattene.» «Non ce n'è bisogno» rispose Henry che aveva ripreso sicurezza. «Ho un nascondiglio sicuro dove nessuno mi troverà.» «Allora vai là» sospirò Willie. «E non sprecare i soldi con la droga.» «Sono quasi pulito» disse Henry con un sorriso. «Un po' di crack e basta. Non mi faccio di altro da settimane. Mi credi, vero?» A Willie parve di udire la voce della madre, "Stai buttando via il tuo denaro, figliolo", ma lo faceva anche per lei, che sarebbe morta di vergogna. Innocente o colpevole, Henry era un perfetto capro espiatorio. Gli prese la mano che solo pochi minuti prima aveva cercato di soffocarlo. Henry gliela strinse teneramente. Allora Willie gli voltò le spalle e si allontanò in fretta. "Perdonami, Kate. È mio fratello." Richard era seduto da Joe Allen's, all'ultimo tavolo sul lato del bar, nella luce fioca di quel popolare locale vecchia America. Kate lo vide sorridere e quasi strizzare l'occhio alla giornalista. Si sentiva irresistibile? Ma certo! Proteso verso la giovane bionda - chissà poi perché dovevano essere sempre bionde? - la Kathy Kraft dello stupido «New York Times», che rideva a piena gola, la testa platinata buttata indietro, come se Richard le avesse appena raccontato la fottuta barzelletta del secolo. Non era assolutamente ciò che Kate si aspettava. Invece di arrabbiarsi, decise di prendersi la rivincita. Un'occhiata nel vecchio specchio del bar la rassicurò: non era uno dei suoi giorni migliori ma neppure dei peggiori. Ravviandosi i capelli camminò voluttuosa fino in fondo al bancone affinché Richard la vedesse; quindi tornò sui suoi passi, posò le mani sulle spalle di un Calvin Klein e di un Armani e si protese in avanti tra i due. Scosse i capelli, scoccò un sorriso seducente, e con voce roca alla Lauren Bacall mormorò: «Scusate il disturbo, signori, credo di aver scordato le sigarette». Tra Klein e Armani iniziò una specie di gara a chi trovava prima sigarette e accendini. Armani quasi saltò giù dallo sgabello. «Ehi, si sieda qui con noi.» «Sarebbe un onore» tubò Klein, e con un gesto al barista: «Un drink per
la signora». Kate li ringraziò con un sorriso smagliante, poi lanciando un'occhiata verso il tavolo di Richard disse: «Mi piacerebbe ma...» e con un altro sorriso: «Grazie signori». E si allontanò seguita dallo sguardo dei due. Richard si era alzato in piedi. «Tesoro» esclamò Kate con un sorriso malizioso. «Ah, finalmente» replicò lui e guardando la giornalista sorridente. «L'eternamente in ritardo signora Rothstein. Mia moglie Kate» la presentò. Kate strinse la mano della giornalista. «Sono in ritardo? Mi dispiace.» «Non importa» disse la giornalista. «La compagnia di suo marito è deliziosa.» «Lo so, non è vero, tesoro?» rispose Kate guardandolo col sopracciglio inarcato. «Ma ora devo andare.» La donna si alzò porgendo la mano a Richard. «E non preoccuparti per il mio articolo, Rich.» "Rich?" Kate inarcò anche l'altro sopracciglio. «Grazie, Kathy» replicò Richard sorridendole e quasi strizzandole l'occhio. «Hai qualcosa nell'occhio, caro? Non sarà di nuovo la congiuntivite, spero», e rivolta alla giovane giornalista proseguì: «Una cosa terribile. Tutto quello spurgo appiccicoso... beh, lasciamo perdere. È troppo disgustoso per parlarne». Richard accompagnò rapidamente la giornalista alla porta del ristorante e, salutandola, le tenne la mano più a lungo del necessario. No, decise Kate, non si sarebbe arrabbiata. Richard le stava facendo pagare l'esibizione di poco prima. Tuttavia, non seppe resistere a un ultimo colpo e, imitando la voce di Walter Cronkite, disse: «No, vostro onore, siamo solo amici. E, lo giuro, non sapevo che avesse tredici anni». «E tu quanti ne hai, signorina che seduce gli uomini al bar, sedici?» «Stavo semplicemente scroccando una sigaretta.» «Oh, oh. Quei due poveretti stanno ancora sbavando sui loro abiti da milleduecento dollari.» Kate lo baciò scostandogli i riccioli dalla fronte. «Mi scuso per il ritardo. Davvero. Comunque hai avuto tempo per ammaliare il "New York Times". Mi perdoni?» concluse con un sorriso. «Per stavolta.» Kate fece cenno al cameriere di portare da bere. «Come è stata la tua giornata? Altri lividi?» domandò Richard.
«Solo sul cuore.» Kate scolò il Martini appena arrivato. Richard la guardò preoccupato. «Stai bene?» Kate ne ordinò un altro e sentì svanire l'umore scherzoso di poco prima. «Non mi piace quello che sto scoprendo su Elena.» Nella sua mente si affollavano le immagini di Trip, Washington, Elena che ballava nuda. Bevve metà del secondo bicchiere per scacciare l'ultima visione. «Cioè?» «È come se non la conoscessi.» «Ci sono sempre cose di cui siamo all'oscuro... anche di persone a noi molto vicine» disse Richard con gli occhi fissi al suo scotch. «Forse è normale non rivelare tutto di sé.» «Non mi piace questa affermazione, avvocato. Mi tieni nascosto qualcosa?» «Non dire stupidaggini» disse Richard senza alzare gli occhi dal bicchiere. «Elena ti ha mai parlato dei suoi ragazzi?» «Quello era il tuo campo, no?» «Pare di no» replicò Kate che aveva voglia di piangere. Che importava ormai che Elena le avesse o meno raccontato la sua vita sentimentale? Era morta. Svanita. Non sarebbe tornata mai più. Kate bevve un sorso di Martini. «Stai bene, tesoro?» Richard le carezzò la mano. «Sopravviverò, spero.» «Ci conto.» «A proposito, forse Bill Pruitt aveva una vita sociale più interessante di quanto sospettassimo.» «Cioè?» «Sesso sadomaso.» «Riguardo a quell'individuo, nulla potrebbe sorprendermi.» Con la fronte aggrottata, Richard prese il bicchiere. «Ci sono novità sul quadro rubato?» «Non ancora. Non ti sorprende neppure che possa essere stato coinvolto nel furto di opere d'arte?» «Sì e no. Non mi fidavo di quell'uomo.» «E non ti piaceva.» «Perché, conosci qualcuno a cui piacesse?» No, a Kate non venne in mente nessuno. Tuttavia, la faccenda non era chiara. Pruitt, Elena, Ethan Stein perché erano stati uccisi? Esisteva un col-
legamento? Non se la sentiva di pensarci in quel momento. Le scoppiava il cervello. Domani. Come Rossella O'Hara, ci avrebbe pensato domani. 26 Una buona notte di sonno, con l'aiuto di un sonnifero, e Kate era pronta a ricominciare. Dispose le fotografie dei delitti sul pannello di sughero, accostandovi le rispettive opere d'arte. BILL PRUITT - Marat assassinato di Jacques-Louis David ETHAN STEIN - Apollo e Marsia di Tiziano ELENA - Autoritratto di Picasso Compilò delle schede con nomi e appunti. DAMIEN TRIP Sospetto? Ragazzo di Elena Regista, probabilmente di film pornografici Ultimo contatto con la vittima? DARTON WASHINGTON Sospetto? Legato a Elena? Produttore di dischi/Amante dell'arte Collaborato al CD di Elena Ultimo contatto con la vittima? JANINE COOK Amica della vittima (Solana) Prostituta? Conosce Damien Trip SIGNORA PRAWSINSKY Testimone (Solana) Ha visto un nero magro nell'atrio la sera del delitto WINNIE PRUITT
Madre della vittima (Pruitt) Afferma che la vittima aveva un quadro, ora scomparso Kate attaccò tutto alla parete, fece un passo indietro, considerò i dettagli mancanti e subito compilò altre schede. PRUITT Presidente di museo/Finanziere Annegato STEIN Artista/Pittore minimalista Scorticato vivo SOLANA Performer Pugnalata Kate osservò la parete. Cosa mancava? File e file di identici ufficetti, muri beige e legno chiaro, pannelli di sughero, spessa moquette marrone che attutiva il rumore dei tacchi di Kate. Telefoni che suonavano, ticchettio di tastiere, voci soffocate. Il quartiere generale dell'FBI a Manhattan. Kate trovò la sua amica a metà della seconda fila. «Immagino sia tu, dietro quegli occhialoni» disse Liz, strizzando gli occhi per leggere la targhetta di riconoscimento appuntata sul pullover di cachemire. «Questo posto mi dà i brividi» replicò Kate. «Shhh» bisbigliò Liz roteando gli occhi. «Questo è l'FBI, tesoro. Non puoi parlare così.» «No?» «No.» Due agenti rigidi come pali, alti e con l'identico taglio di capelli a spazzola, passarono senza neppure un cenno di saluto. Kate si chinò e sussurrò rumorosamente: «Replicanti?». «Oh, Gesù, tu mi farai licenziare.» «Scusa.» Kate si morse il labbro. «Allora, quanto ai riscontri che ti servono... chi e cosa riguardano?» sus-
surrò Liz guardandosi attorno. «Ethan Stein, una delle vittime. E anche un certo Damien Trip. L'altro nome è Darton Washington» disse Kate sedendosi accanto a Liz. «Su Internet non ho trovato nulla su Trip e Washington. Stein aveva un sito web, ma con informazioni riguardanti solo il suo lavoro.» «Cosa stai cercando esattamente?» «Qualsiasi cosa tu riesca a scovare... a cominciare dai tempi della scuola. È possibile?» «Posso consultare il sito web dell'FBI. Non crederesti alle cose che contiene.» Guardò furtivamente il collega dell'ufficio accanto, aveva gli auricolari e non poteva udire. «Ripetimi i nomi.» Kate glieli disse e Liz digitò dei codici sul computer. Dopo un quarto d'ora Kate raccoglieva i fogli vomitati dalla stampante. «Ho imparato a usare questa merda di computer o no?» disse Liz. «Stupefacente» commentò Kate. «Io o le informazioni che ti ho procurato?» «Tutti e due.» Kate le lesse rapidamente con crescenti scariche di adrenalina. Kate era seduta al tavolo della sala riunioni con Mead, Brown e Slattery. Brown infilò i guanti di plastica e posò un libretto sul tavolo. «L'agenda di Ethan Stein.» La aprì a una pagina segnata. «Ore dieci. D. Washington. Visita allo studio.» «Fammi vedere» disse Kate infilando i guanti. «Solo due settimane prima che venisse ucciso. Gesù, Brown, avresti dovuto dirmelo prima che parlassi con Washington.» «L'abbiamo appena ricevuta dal laboratorio. E dobbiamo verificare che sia proprio il tuo D. Washington.» «Ha un quadro di Stein» affermò Kate. «Ci scommetterei. Ci sono altri nomi interessanti nell'agenda?» «Li ha controllati Slattery.» «Trentanove colloqui con proprietari e direttori di gallerie» disse Slattery. «Parecchi di loro avevano il nome di Stein sulle agende degli appuntamenti. C'è un mucchio di gente antipatica tra i tuoi colleghi, McKinnon.» «Per favore» sospirò Kate «non sono i miei colleghi.» «Comunque...» Slattery alzò le spalle. «Finora l'unico personaggio sospetto è il proprietario della...» controllò l'elenco «galleria Ward Wassermann, sulla Cinquantasettesima. Un posto pretenzioso, credetemi. Questo
tizio, Wassermann, compare sei o sette volte nell'agenda di Stein. Si è molto agitato quando gli ho chiesto dov'era nelle sere dei delitti.» «Conosco Ward Wassermann» disse Kate. «È un uomo adorabile anche se un tantino eccitabile, ecco tutto.» «Beh, sarà adorabile» replicò Slattery roteando gli occhi, «ma in caso non lo sapessi, ora controlla il patrimonio di Ethan Stein. E la sua galleria non perde tempo; Wassermann sta già organizzando una mostra commemorativa. Mi sono informata sui prezzi: da venti a trentamila dollari per dei quadri bianchi, mi sembra una presa per il culo.» «No» commentò Kate, che subito cambiò registro notando le tre paia di occhi increduli. «Beh, certo trentamila è un mucchio di denaro, ma non è eccessivo per un artista della sua reputazione, specialmente ora che è morto. Anche se ultimamente era in ribasso, Stein è stato un elemento importante del movimento post-minimale.» Mead, Brown e Slattery continuavano a guardarla sbalorditi. «Post-minimale» precisò Kate «significa che è venuto dopo la prima fase di arte minimale. I dipinti bianchi di Stein sono quadri sulla pittura... sul linguaggio della pittura.» «Ti spiacerebbe tradurre nel nostro linguaggio?» chiese Mead. «Consideratela come una scienza, una scoperta o invenzione che conduce a un'altra. Succede così anche nell'arte. Un artista riduce la pittura a puro colore, poi ne arriva un altro, come Stein, che la riduce a pennellate bianche. È un'idea di ciò che può essere la pittura nel suo stato più essenziale e riduttivo... soltanto delle pennellate su una tela.» Mead sbadigliò. «Se lo dici tu» disse Slattery. «Comunque io lo faccio pedinare, quel Wassermann. Ha troppo da guadagnare dalla morte di Stein.» «Come vuoi» rispose Kate. «Ma è una perdita di tempo. Ward Wassermann è innocuo come un agnellino.» «Dicevano la stessa cosa di Ted Bundy» commentò Mead. «A proposito, ho controllato le copie dei movimenti di Perez e Mills, quelle che ci hai mandato» disse Slattery. «Perez ha ricostruito la sua agenda palmare, ma direi che è piuttosto approssimativo. Invece Mills è stato preciso al minuto: quando ha mangiato, con chi, praticamente ci dice anche quando è andato a pisciare.» «Non mi sorprende» asserì Kate. «È un tipo meticoloso. Hai controllato i loro alibi per le sere dei delitti?» «In parte. Non ho finito» rispose Slattery. «Datti da fare» ordinò Mead.
«Certamente Mills e Perez avevano l'opportunità» affermò Kate. «Quella sera erano entrambi presenti all'ultimo spettacolo di Elena.» «Sì, ma il motivo?» domandò Mead. Kate scosse il capo. «Non mi viene in mente nulla.» «Ho ricevuto dall'Interpol l'ultimo elenco di opere d'arte rubate.» Brown lo posò sul tavolo. «Questo mese non risulta una pala d'altare.» «Però c'era sul rapporto precedente che ho visto alla galleria DelanoSharfstein.» Kate posò sul tavolo la cartolina di White Light di Ethan Stein e spiegò dove l'aveva presa. «Damien Trip aveva questa riproduzione dell'opera di Stein sulla sua scrivania. Inoltre, ha mentito quando ha detto di aver rotto con Elena Solana da sei mesi. Janine Cook, un'amica, afferma di averli visti insieme circa una settimana fa.» Guardò Mead e soggiunse: «Voglio perquisire lo studio di Trip». Mead succhiò l'aria tra i denti. «Puoi portarlo qui per interrogarlo, McKinnon, ma per una perquisizione serve un motivo ragionevole.» «Damien Trip era il ragazzo di Elena. Conoscete le statistiche. Quando una donna viene assassinata, si controllano il marito o il compagno. Otto volte su dieci, è lui il colpevole» disse Kate guardando alternativamente Mead e Brown. «Okay, supponiamo che l'abbia uccisa Trip. È una supposizione. Ma ora che sono andata a parlargli, lui ha un po' di fifa.» «Però tu non ti sei identificata come poliziotto» osservò Brown. «Perché dovrebbe aver paura di un'amica della vittima?» «Devi avere una risposta per tutte le domande, Brown?» «Solo per quelle importanti» replicò l'uomo appoggiandosi allo schienale della sedia. «Brown sta solamente cercando di metterti in guardia» dichiarò Mead. «Oggi bisogna fare tutto secondo le regole. Tu pianti casino, McKinnon, e rischi di bruciarti il culo.» Si tirò il cravattino a righe rosa e azzurre. «Naturalmente, visto che sei amica del capo della polizia, sarà il mio culo ad andare arrosto, non il tuo.» «Non morirò di dolore» ribatté Kate con un sorriso beffardo. «Okay, volete un motivo ragionevole?» Esibì il pacco di fogli avuti da Liz. «Qui ci sono parecchie informazioni interessanti.» «Da dove arriva questa roba?» domandò Mead sfilandole un foglio di mano. «FBI di Manhattan. Ho un'amica là dentro.» «Sembra che tu abbia amici dappertutto, McKinnon.» «Sono una ragazza popolare, che posso farci?» replicò lei inarcando il
sopracciglio. «Nulla di particolarmente interessante su Darton Washington, tranne che ha dei reati giovanili a suo carico, ma non è specificato di che tipo. Dovrò controllare. Ma guardate il nostro Trip. Arrestato per trasporto di minorenni oltre i confini dello stato quando aveva venticinque anni. E questo...» disse aprendo davanti a Mead il tabulato di Trip. «Istituto d'arte, il Pratt di Brooklyn. Diploma in belle arti. Trip ha la preparazione adatta per questi delitti. Ora guardate qui.» Indicò i fogli su Ethan Stein. «Anche lui ha frequentato il Pratt, esattamente negli stessi anni di Trip. Erano compagni di scuola, per la miseria.» Kate sfogliò il tabulato. «Controllate il curriculum scolastico di Trip. Ecco: sospeso tre volte al liceo per pestaggi; una volta per aver preso a pugni un insegnante. Quel ragazzo ha un temperamento violento. Se guardate la documentazione del Pratt vedrete che Trip non ha superato gli esami di pittura e disegno. Secondo il maestro di pittura l'unica cosa in cui riusciva bene era copiare, il che è piuttosto interessante, direi. Ha lasciato la scuola, o meglio, gli è stato chiesto di andarsene, a metà del primo anno. Ora notate il curriculum di Stein: migliore allievo del suo corso. Diplomato con lode.» «Ciò non prova che Trip lo abbia ucciso.» «No» ammise Kate. «Però conferma un legame tra i due uomini. Si conoscevano.» Sfogliò i tabulati. «Da qualche parte c'è la trascrizione della carriera di Trip alla New York University. Ha frequentato soltanto un semestre. Un altro fallimento. Oh, ed ecco alcuni rapporti dei genitori adottivi riguardo agli anni precedenti. Trip era continuamente nei guai.» Kate scosse il capo. «Anche se devo ammettere che è stato un bambino sfortunato.» «Oh, un altro povero orfanello, eh?» commentò Slattery. «Voglio delle copie di tutto» disse Mead osservando i tabulati dell'FBI. «E qualsiasi altra cosa tu abbia su Trip, droghe, insomma tutto. Ti procurerò il mandato, ma ti accompagnerà Brown.» «Sono in grado di fare una perquisizione» replicò Kate. «Non ne dubito» ribatté Mead «ma la farai con la scorta.» Cosa aggiungere alla riproduzione? Questo dettaglio o forse quello. La preparazione era quasi divertente quanto l'atto stesso. E ora che documenta il suo lavoro, è anche meglio. Unisce alla lunga fila di immagini sul muro ruvido le Polaroid di Ethan Stein: ingrandimenti della gamba e del petto dell'artista, con la pelle che si stacca rivelando la carne viva.
Delizioso. Così delizioso che il membro preme contro le mutande. Non deve guardare quelle immagini. Lo distraggono troppo. Si appoggia allo schienale chiedendosi se lei ha interpretato il pezzetto di nastro che le ha mandato. Se ci è riuscita sarà fuori di sé. E una mente ottenebrata dalle emozioni, beh... Studia la riproduzione: la sedia, la giacca, la figura femminile con quei tubi di vetro che sporgono dal ventre. La scena di Ethan Stein è stata relativamente semplice da allestire. Questa sarà più complessa. E si tratta di un cartoncino di buon compleanno. Ora non gli resta che trovare qualcuno che compie gli anni. 27 La luce del mezzogiorno giocava tra i condomini e i cantieri quando Floyd Brown svoltò nella Avenue D. «Allora, McKinnon, cosa cerchiamo esattamente?» «Qualsiasi cosa possa incriminarlo» rispose Kate, volutamente generica. «Potresti essere più precisa?» «Una perquisizione di routine» replicò lei. Poi aprì la portiera della macchina e si trovò faccia a faccia con un giovane nero dai capelli selvaggi e incrostati di sporcizia che cantilenò: «Bella signora... come stai oggi?». «Io sto bene» disse Kate dandogli un paio di dollari. Brown le prese rudemente il braccio e la spinse verso l'edificio. «Perché gli hai dato dei soldi? Credi di essere Rockefeller che dona generosamente ai poveri?» «È un pezzo che nessuno mi chiama bella; ti va bene come spiegazione?» Brown scosse il capo. «La gente come te proprio non capisce.» «La gente come me?» «Già. Ricchi, bianchi, liberali. Credi proprio di aiutare quell'uomo? Lo aiuti a restare com'è. Ma se ti fa sentire meglio... è questo che conta, no?» «Hai sbagliato mestiere, Brown. Avresti dovuto diventare un pastore battista, di quelli che predicano in TV la domenica mattina.» «McKinnon, quel nero non ha bisogno che tu faccia ciò che lui non è in grado di fare per se stesso. Ogni volta che dai l'elemosina a qualcuno, gli insegni a non contare su di sé, lo tieni in condizione di inferiorità.» «Okay, mi hai convinto. Mi dichiaro colpevole di liberalismo bianco di terzo grado» disse Kate porgendogli i polsi uniti. «Mi ammanetti, agente.»
Il portinaio riferì che Trip era appena uscito e consegnò le chiavi dell'appartamento. Kate e Brown salirono al quarto piano. Non c'era nessuno nell'ufficio impregnato di odore di fumo. Kate diede un'occhiata alle fatture che Damien Trip aveva cercato di coprire, riguardavano video e attrezzature cinematografiche. Nulla che potesse incriminarlo. Tuttavia, ne infilò alcune in tasca prima di passare a esaminare le cartoline artistiche tra le quali non trovò altre riproduzioni delle opere di Stein. Dietro la porta di metallo c'era un ampio locale con le pareti imbiancate e le finestre sbarrate con assi. Al centro una telecamera professionale era puntata su un letto enorme con lenzuola color lavanda spiegazzate, fiancheggiato da due lampade alogene. Ciò che Kate, pur augurandosi di sbagliare, cercava. In un angolo c'era un tavolo di legno coperto di cassette e riviste; accanto due televisori con videoregistratori. «Pare che i gusti del signor Trip non siano esattamente letterari» commentò Brown sollevando alcune pubblicazioni pornografiche dal tavolo, Coppie dilettanti, Giovani vergini, Ore di delizia. Kate tratteneva il respiro. Brown le passò dei guanti e ne infilò un paio prima di prendere un cucchiaio che fece cadere in una busta di plastica. Poi raccolse il contenuto di un portacenere. Kate recuperò una siringa da sotto il letto e, senza parlare, la consegnò a Brown. Lavorarono in silenzio, muovendosi nella stanza come astronauti sulla luna. Un corridoio, un minuscolo bagno. L'acqua verdastra nella tazza poteva essere un disinfettante ma sembrava piuttosto muffa. Il lavabo era unto e cosparso di capelli. Lo specchio dell'armadietto dei medicinali era crepato. All'interno Kate trovò alcune fiale interessanti che infilò in una busta. Dietro un pannello scoprirono degli scaffali di metallo carichi di cassette. Kate ne prese una: sulla copertina una bionda esibiva seni al silicone. Ne esaminò altre: Cosce profonde, Le troie di Eastwick, Il ritorno della topa rosa, tutte prodotte dalla Film Amatoriali. In un altro momento e in un altro luogo si sarebbe fatta una risata, ma non lì, non ora, sapendo cosa cercava. Tenendo tra le braccia un mucchio di cassette Brown disse: «Diamo un'occhiata. Vediamo cosa c'è». Kate inspirò. Avrebbe voluto fermarlo, ma come?
Senza parlare ammucchiarono le cassette accanto ai televisori. Brown caricò il videoregistratore. L'immagine era imperfetta, i colori smorti. "Familiare," pensò Kate, "troppo familiare." Entrambe le televisioni erano accese. In cinque minuti, con lo scorrimento veloce, riuscivano a vedere un'ora di filmato. Kate quasi non respirava. Dopo quindici minuti e parecchie cassette riconobbe Janine Cook, nuda eccetto alti stivali neri, che frustava un uomo corpulento di mezza età il cui viso era nascosto da un cappuccio di pelle. Kate fece scorrere la pellicola al rallentatore. «Quella è Janine Cook, l'amica di Elena Solana» disse, senza staccare gli occhi dallo schermo. «Aspetta un momento. Quel tizio...» Accelerò la visione ma la scena era sempre la stessa: frustate e segni rossi sul petto villoso dell'uomo. «Cosa c'è?» domandò Brown. «Non ne sono sicura» rispose Kate. «Cioè, con il cappuccio... ma potrebbe essere Bill Pruitt!» Brown si avvicinò allo schermo. Kate riportò indietro la pellicola e l'uomo si tolse il cappuccio, per un nanosecondo, prima che il film terminasse. «È lui?» domandò Brown. Rividero parecchie volte quell'istante. «Credo di sì» disse Kate. «Beh, potrebbe essere il cappuccio che abbiamo trovato nel suo appartamento.» «Porta l'orologio e un anello. Possiamo far ingrandire la pellicola» suggerì Kate riflettendo. «Pruitt portava l'anello di Yale. E non sarà difficile avere informazioni sull'orologio... se lo aveva quando è morto.» «Gli effetti personali sono stati consegnati alla madre.» «Bene, allora possiamo chiedere a lei. Così avremo la conferma.» Kate guardò il film al rallentatore. La frusta di Janine si inanellava pigramente nell'aria. «L'uomo ha la cicatrice di un'appendicectomia. Possiamo verificare se Pruitt è stato operato... oppure chiederlo al medico legale.» Kate guardò ancora una volta la frazione di secondo in cui l'uomo si sfilava il cappuccio. «Sono sicura, è lui» dichiarò. Brown estrasse la cassetta, la mise in una busta, ci scrisse sopra COOK, poi PRUITT?, commentando: «Questo potrebbe collegare Trip agli omicidi Solana e Pruitt».
La mente di Kate era in subbuglio. Voleva parlare con Janine Cook, ma prima doveva visionare altre cassette, maledizione. Accese una Marlboro e pregò in cuor suo di non fare altre scoperte. Invece, dopo venti minuti e cinque film, vide ciò che non voleva vedere. Si protese in avanti e schiacciò il bottone dello stop. Brown la guardò, poi guardò lo schermo grigio. Pur conoscendo la risposta domandò: «Solana?». Kate chinò il capo. A bassa voce disse: «Ti dispiacerebbe...». Brown si alzò allontanandosi dal televisore. Kate accese il video: Elena davanti al letto. Stavolta l'immagine era chiarissima. Kate aveva l'impressione che Elena fosse nella stanza con lei, reale, non sul piccolo schermo con brutti colori e brutte luci. Elena sorrideva, forse era nervosa. Non la solita regina del porno, ma indubbiamente era lei. Kate si sforzò di esaminare i suoi sentimenti e si rese conto di non provare nulla. Elena cominciò a spogliarsi; ondeggiando, quasi danzando, sgusciò fuori dalla gonna. "Gesù! La gonna messicana." La testa pulsava ma si impose di guardare. I movimenti di Elena erano insopportabilmente lenti, come se il tempo non passasse mai. Cinque terribili minuti, un'eternità, prima di restare nuda. Kate accelerò la pellicola. Ora Elena era sul letto con una figura maschile accanto. Kate riportò il film alla velocità normale. L'uomo era Trip, guardava la telecamera con quel suo sorriso da angelo marcio mentre Elena gli praticava del sesso orale. Kate accelerò di nuovo. Ora Elena e Trip scopavano. La telecamera inquadrava il viso di Elena, gli occhi chiusi, la testa buttata all'indietro. Un primissimo piano: gocce di sudore sulla fronte, labbra dischiuse. Kate fissò quell'immagine finché si dissolse in una confusione astratta di puntini. «Era Trip?» Brown l'aiutò a mettersi in piedi e infilò la cassetta in una busta. «Sì.» Kate allungò la mano tremante verso la cassetta. «Aspetta.» Per un istante provò l'impulso di scagliarla contro la parete per farla a pezzi. Invece notò il titolo: Meno è più. «È il famoso motto della Bauhaus» osservò. «Cioè?» «Non scordarti che cerchiamo un artista. O qualcuno che finge di esserlo. Trip era studente d'arte oltre che regista» disse Kate meditando. «Meno è più non era soltanto il motto del movimento tedesco della Bauhaus. È stato ripreso, qui negli Stati Uniti, dagli artisti minimalisti ed è diventato il loro slogan. Ethan Stein era un pittore minimalista. Potrebbe esserci un
collegamento anche con Stein.» Improvvisamente Kate provò un senso di nausea. Andò in bagno, si spruzzò dell'acqua fredda in faccia evitando di guardare il lavabo lurido che l'avrebbe fatta vomitare. Aveva voglia di urlare, di prendere a pugni e calci qualcuno, qualcosa. Per calmarsi colpì col piede la parete e la base di legno del lavabo che si spaccò. Ne uscirono dei sacchetti di polvere bianca e delle siringhe che rotolarono sul pavimento. «Brown!» Kate sorrise mostrandogli ciò che aveva trovato. «Ecco il motivo ragionevole per incastrare Trip.» Brown annuì e infilò tutto nelle buste di plastica. «Hai un pessimo aspetto, McKinnon. Vai a casa. Mi procurerò un mandato di arresto per Trip.» «Andrò a casa dopo aver visto Janine Cook» dichiarò Kate. Pur non conoscendo quanto sapessero, o che cosa avessero trovato esattamente, Damien Trip non faticava a immaginarselo. "Troia. Troia fottuta." Attraversò la strada ed entrò in un negozio scrutando dalla finestra finché vide Kate e Brown uscire dal palazzo e salire in macchina. Indubbiamente erano poliziotti. Lo sospettava da quando aveva visto la donna. Ora doveva decidere da che parte cominciare a tirare le fila. Immaginava dove Kate sarebbe andata e con chi avrebbe parlato, ma quello non era un problema, poteva affrontarlo. Stringendo la videocassetta tra le mani Kate disse: «Perché non me l'hai detto?». Janine Cook alzò le spalle agitando una mano. «Se non ti piace, non guardarla.» «Janine» la pregò Kate afferrandola per le spalle. I lustrini viola del body incollato alla pelle sembravano squame di pesce sotto le dita. Non aveva voglia di tergiversare. «Sai chi è l'uomo del film?» «Quale uomo?» domandò annoiata Janine. «A che film ti riferisci?» Kate le mostrò la copertina. «Un film sadomaso. Tu frusti un uomo di mezza età che porta un cappuccio di pelle.» «Oh, quello.» Janine finse di sbadigliare. Kate provò l'istinto di prenderla a schiaffi ma si trattenne, imponendosi di non perdere la calma. «Credo che sia William Pruitt. È stato assassinato, Janine. Assassinato. Dalla stessa persona che ha ucciso Elena, e tu potresti essere la sua prossima vittima.» Kate fece una pausa per dare alla ragazza
il tempo di riflettere. «Affermi di esser amica di Elena. Beh, dimostralo, perdio.» Janine si mordicchiò il labbro con un gesto infantile. «Conoscevi quell'uomo?» «No, ma...» Allungò la mano verso il bracciolo del sofà di velluto, come per sostenersi. «Damien ha filmato personalmente la scena. Quel tizio gli ha dato un rotolo di banconote. Un mucchio di soldi.» «Era il prezzo del film o cosa?» «Non lo so. Non l'avevo mai visto, né prima... né dopo.» Kate si sforzò di ragionare: Pruitt finanziava la produzione di video di Trip oppure era stato un caso isolato? E ancora intendeva interrompere il finanziamento oppure il regista lo ricattava con il film? Le girava la testa. «Janine, sapevi che Elena girava film con Trip?» La ragazza annuì. «Aveva bisogno di soldi.» Kate era sbigottita. Perché Elena aveva bisogno di soldi? E perché non li aveva chiesti a lei? «Trip la ricattava con i film?» «Non so.» Janine si staccò da lei, urtò il tavolino e fece cadere a terra un delicato vaso da fiori. Lentamente si chinò a raccogliere una lunga scheggia violacea. «So cosa pensi» disse guardandola dal basso, i lineamenti contorti, lottando per non piangere. «Che io sono una puttana e lei era un angelo. Che ero gelosa di lei, che volevo nuocerle perché lei era meglio di me. Ma non è vero. Non avrei mai potuto farle del male.» Kate fece per abbracciarla ma la ragazza strinse la mano attorno alla scheggia. «Oh, merda.» Kate le prese il braccio ferito. «Dov'è il lavabo?» Janine indicò una porta girevole nell'entrata del suo stravagante appartamento. China sul lavabo, la ragazza piangeva guardando lo strofinaccio che Kate le aveva avvolto attorno alla mano, sul quale apparivano piccole macchie di sangue simili a ninfee. «In che modo Elena ha conosciuto Trip? Tramite te?» Kate le domandò con tono dolce. Janine si limitò ad annuire. Le lacrime le rigavano le guance. «Sì» rispose. Le ninfee rosa stavano diventando rosse. «Ho cercato di metterla in guardia, ma...» «Damien aveva qualche motivo per eliminare Elena?» «Tu sei convinta che sia colpa mia, vero?» disse Janine guardandola negli occhi. «Le ho fatto conoscere Trip e ora Elena è morta. Colpa mia. Ec-
co cosa pensi.» «Non do la colpa a nessuno, Janine, e non è questo che mi interessa, ma...» Lo strofinaccio sembrava una rosa appassita, rosso vermiglio. Kate trovò della garza e bendò la mano. «Per favore, dimmi che potere aveva Trip su Elena? Puoi spiegarmelo?» Janine scosse il capo. «So solamente che Elena voleva liberarsene ma lui non ci stava. La dominava in qualche modo. Non ho mai capito esattamente come. Ma non voleva mollarla.» «Perché?» «Forse perché Elena era la cosa più bella che avesse mai avuto.» Kate completò la fasciatura. La sua mente era ossessionata da immagini: Trip e Elena che giravano film pornografici; Trip ed Ethan Stein che andavano a scuola insieme; Bill Pruitt in un film di Trip. Tutto le vorticava nel cervello, confondendola. Guardò la mano di Janine: il sangue filtrava attraverso gli strati di garza. «Gesù. Meglio andare al pronto soccorso.» Quattro ore all'ospedale Lenox Hill per sei miserabili punti. Quattro ore per sentirsi ripetere la stessa storia: Elena, Trip e il suo misterioso potere su di lei. Kate aiutò Janine a scendere dall'automobile, attenta a non toccare la fasciatura. «C'è qualcuno che posso chiamare?» domandò Kate mentre entravano nel grattacielo dove abitava Janine. «Sì, chiama... stavo per dire che potevi chiamare Elena. Buffo, no?» «No» rispose dolcemente Kate. «Io comincio a fare il suo numero una mezza dozzina di volte al giorno.» «A me è successa la stessa cosa per più di un anno, dopo che è morto mio fratello. Ancora adesso, qualche volta me ne dimentico. È come...» I grandi occhi scuri di Janine erano pieni di lacrime. «Tutte le persone che amo... muoiono.» Kate la abbracciò e la ragazza pianse come una bambina contro la sua spalla. E adesso? Kate non poteva andare a casa. Non ora che nella sua mente vorticavano immagini di Elena e Trip che non avrebbe mai voluto vedere. Doveva fare qualcosa, vedere qualcosa, qualsiasi cosa per cancellare quelle immagini.
Chiamò Richard sul cellulare. «Hai voglia di portare una stanca donna di mezza età a vedere un film e a mangiare un hamburger?» Per non fargli capire che aveva disperatamente bisogno di lui, aggiunse una battuta: «Chissà, magari riesci a combinare qualcosa». «Certo» replicò lui. «Dammi il suo numero.» Ora che l'aveva seguita, non sapeva che fare. Si nascose tra la folla. L'avrebbe osservata da lontano. Ordinò un cappuccino e un croissant dall'aria poco attraente, ma gli era venuto appetito dopo la consegna molto speciale all'amica di Elena, quella puttana chiacchierona che presto non avrebbe più parlato. Non si meritava un dono tanto splendido ma, diavolo, lui era un uomo davvero generoso. Vive o morte, erano tutte uguali: dannate troie bastarde succhiacazzi! Bevve un sorso di cappuccino per calmarsi. Doveva restare calmo. La gente che affollava il marciapiede e intasava il vasto scalone dell'Angelika Film Center di SoHo sembrava una rappresentazione dei personaggi più eccentrici di New York: artisti funky, programmatori televisivi, pubblicitari, funzionari di Wall Street, gay, eterosessuali, individui di incerte tendenze, neri, bianchi, gialli, di tutte le sfumature. Erano tutti là. Perché? Perché l'Angelika era un cinema artistico, uno degli ultimi del genere, e improvvisamente popolare. Ci andavano coloro che erano o volevano essere all'ultimo grido, e naturalmente i cinefili. Richard allentò la cravatta quando finalmente raggiunse il botteghino in cima allo scalone. Kate aspettava aspirando disperatamente le ultime boccate di Marlboro. «Biglietti esauriti» gridò Richard. «Ma alla stessa ora inizia quel film danese.» «Va bene» rispose Kate. Più che un cinematografo lo spazioso atrio dell'Angelika ricordava un caffè anni Cinquanta, se soltanto i tramezzini di brie e prosciutto della Westfalia non fossero stati così cari e l'espresso abbastanza decente. Ciò nonostante, la variegata folla newyorkese masticava, beveva, rideva e chiacchierava. Il pubblico stesso era un film d'arte, una di quelle pellicole esistenzialiste francesi con molti personaggi e niente trama. Kate si appoggiò a Richard che le massaggiò la nuca. «Dio, hai i muscoli duri come il marmo.» «Sono tesa come una corda. Spero di riuscire a stare ferma durante la
proiezione. Oggi ne ho già vista una che non mi è piaciuta.» Le immagini di Elena e Trip sul letto continuavano a ossessionarla e se cercava di cambiare scena vedeva Janine che frustava il grasso Bill Pruitt. Stava per parlarne a Richard quando un tozzo triangolo azzurro culminante in una massa di riccioli arruffati si fece strada tra la folla. «Kate! Richard!» Avvolta in una delle sue solite tende extralarge, azzurra a pallini bianchi, Amy Schwartz, direttrice del museo di arte contemporanea, baciò Kate sulla guancia. «Dove hai preso quel vestito?» domandò Kate. «Il colore riflette quello dei tuoi occhi.» «Mi sono intrufolata all'obitorio la notte in cui è morta Mama Cass e l'ho rubato al cadavere!» Kate scoppiò a ridere. «Sono contenta di vederti. Che film vedi?» «Chi lo sa. I biglietti li ha Roberta. Credo sia una tetra lagna scandinava, una specie di triangolo postmoderno: lui, lei e il cane.» «Splendido» commentò Kate guardando Richard. «È quello che vediamo noi?» «Non chiedermelo. Non leggo il danese.» Amy fece cenno a una donna dai corti capelli grigi. «Roberta, siamo qui.» «Devo andare in bagno altrimenti scoppio» disse Kate allontanandosi dagli altri. In quel momento la folla si aprì formando un passaggio. Kate si immobilizzò: lui era là, vicino al bar, mangiava un croissant. Anche lui l'aveva vista e per un istante parve sul punto di scappare; invece no, restò al suo posto e sorrise. Kate non sapeva cosa avrebbe fatto nel momento in cui lo avesse raggiunto. Non era in grado di ragionare; era dominata dall'istinto. Circondata dal frastuono di risate, di voci, dell'altoparlante che annunciava l'inizio dei film, arrivò a pochi passi da Damien Trip che la guardò negli occhi col suo sorriso da angelo marcio accarezzandosi col dito la cicatrice sul mento. «Bene bene bene... ma che sorpresa» disse infilandosi in bocca l'ultimo pezzo di croissant e leccando l'indice unto di burro. Gli occhi celesti la squadrarono dalla testa ai piedi. «Non riesci a stare lontana da me, non è così, Kate?» «Oh, vedrai che ti augurerai di non avermi incontrato...» Poi dissero altro, ma le parole sembravano venire da lontano, perché il sangue pulsava nelle orecchie di Kate. Vedeva solo la lingua rosa che leccava il dito ossuto e il ghigno uguale a quello colto dalla telecamera. Al-
lungò il braccio per colpirlo ma Trip fu rapido a schivare il colpo e il pugno di Kate centrò una locandina incorniciata di La Mort aux Tousses, la versione francese di Intrigo internazionale di Hitchcock. Il sangue filtrò sotto il vetro, macchiando la fossetta sul mento di Cary Grant e i candidi denti perfetti di Eva Marie Saint. Trip strillò: «Sei impazzita?». Kate non sentì dolore alla mano e non vide il sangue. Era cieca, dominata da quella collera spaventosa che aveva scoperto di possedere quando aveva impugnato per la prima volta una pistola per fare giustizia. Trip glielo lesse negli occhi. Usò ciò che aveva, ciò cui si era affidato negli anni: il sorriso, le fossette. «Calmati, Kate» disse posandole una mano sulla spalla. «Oh» sussurrò lei. «Tu... sei... un... uomo... morto.» Trip ruotò su se stesso e cercò rifugio in mezzo alla ressa, ma il luccichio dei capelli biondi apparve per un attimo all'imboccatura del piccolo corridoio che portava alla toeletta. «Trip!» urlò Kate sopra le teste della gente. «Fermati dove sei!» Un grido: «È armata!», e la folla si disperse. Kate non ricordava di aver impugnato la Glock, ma eccola, la teneva stretta nel pugno. Richard fendette la folla, vide sua moglie che attraversava l'atrio con la pistola in mano e la furia negli occhi. La chiamò ma lei non udì, stava percorrendo lo stretto corridoio a passo di carica. Spalancò col piede la porta del bagno, staccando i cardini dallo stucco e scheggiando il legno. «Gesù! Aiuto!» gridò Trip. «Questa troia è pazza!» Kate irruppe nel minuscolo locale dove Trip aveva trovato rifugio tra il water e il lavabo. Udiva una voce dura ed estranea che urlava il nome di Elena, ma solo quando Richard si infilò tra loro due si rese conto che era lei a gridare, con una mano stretta alla gola di Trip e l'altra che gli puntava la pistola alla tempia. «Fermi!» Due agenti con le pistole puntate in alto arrivarono dal corridoio, seguiti da altri due. Un poliziotto grasso che sbuffava come se avesse corso la maratona spinse fuori Richard e puntò l'arma in faccia a Kate. «Sono del NYPD» disse lei. «Questo criminale ha opposto resistenza all'arresto.»
«Dio santissimo!» Amy Schwartz si fece strada tra la folla, osservò la porta spaccata, gli agenti, Kate che ansimava sotto l'effetto dell'adrenalina ed esclamò: «Wonder Woman è viva! Dimenticate il film e guardate questo spettacolo. Questo sì che vale il costo del biglietto! Accidenti! D'ora in poi, se ci sei in giro tu, starò bene attenta quando vado alla toilette!». Kate si toccò la guancia che pulsava, notò le nocche che sanguinavano e traballò facendo un passo avanti. «Trecento dollari di scarpe buttate nel cesso» borbottò scrutando il pavimento del corridoio. «Qualcuno ha visto il mio tacco?» Richard le lanciò un'occhiata difficile da interpretare. Era quasi mezzanotte. Due agenti passarono accanto al piccolo ufficio di Kate trascinando un minorenne che farneticava di demoni e fantasmi. Damien Trip fu messo sotto chiave dopo essere stato perquisito da un giovane poliziotto, il medesimo che disinfettò e bendò la mano di Kate. «Stai bene?» domandò Richard. «Sopravviverò.» «Bene, sono contento. Vado a cercare del caffè. Ne vuoi?» «Te ne pentirai» disse Kate scuotendo il capo. «Mi riferisco al caffè. Fa schifo.» Ora che la scarica di adrenalina era esaurita, aveva voglia di sdraiarsi a terra. Floyd Brown era in tuta e scarpe da ginnastica e pareva arrabbiato. «Hai avuto una serata impegnativa, vero, McKinnon?» «Effettivamente ne ho avute di migliori» replicò lei toccandosi il viso con le nocche spelate. «Avevo un mandato di cattura per Trip. Avrei apprezzato una telefonata.» «Lo so. In un certo senso ho esagerato.» «In un certo senso? Devo insegnarti tutto? Elencare gli errori che hai commesso? Per esempio, fare di testa tua e via di seguito? Vuoi che continui?» Rendendosi conto di aver colpito nel vivo, Brown sospirò: «Comunque lo abbiamo preso. C'è qualcuno disposto a testimoniare che presumibilmente Trip ha opposto resistenza?». «Solo se riusciamo a far deporre il lavabo e il water...» «Questo non è un gioco, McKinnon. Dobbiamo costruire un caso.» «Lo so. C'è la droga e...» «Ma nessun modo di collegarlo agli omicidi, senza impronte o DNA.»
«Tieni» disse Richard entrando con due tazze fumanti in mano. «Mi sto bruciando le dita.» Alzò gli occhi. «Oh...» Kate prese la tazza. «Floyd Brown. Mio marito Richard Rothstein.» I due uomini si guardarono prima di stringersi la mano. «Il detective Brown mi stava rimproverando.» «Un'ottima idea» disse Richard. «Sua moglie non scherza» commentò Brown. «No davvero.» Kate li guardava in silenzio. «Okay» disse Brown che sembrava a disagio. «Ci vediamo domani, McKinnon. Di buon'ora. Dobbiamo lavorare al caso Trip.» Scosse il capo. «Buffo, non riesco a trovare un quarto di dollaro per fargli chiamare il suo...» Si interruppe e guardò Richard. «Non faccia conto su me» asserì Richard. «Non ho intenzione di rappresentarlo.» «Ti rendi conto, McKinnon, che Trip potrebbe denunciarti?» «Non credo che Kate debba preoccuparsi» rispose Richard. «Quell'uomo si è opposto al fermo e lei ha agito su informazioni ottenute legittimamente dalla polizia. È stato un arresto da manuale.» «Lei è il suo avvocato?» «Se gliene serve uno.» «Grazie per essere intervenuto» disse Kate quando Brown se ne fu andato. «Non ero in grado di sostenere un altro scontro.» «Ho detto qualche stronzata in gergo legale, ma chi se ne frega.» Buttò la tazza nel cestino. «Allora chi è questo Trip?» «Era il ragazzo di Elena. Produttore di film porno e trafficante di droga.» «Mi prendi in giro?» «Magari.» «Quando lo hai scoperto?» «Da poco.» «Forse avresti dovuto ucciderlo. È un bel po' che non mi capita un caso di omicidio.» «Mi pare di vederti: "Marito difende moglie pazza".» «Lo farò sempre» disse Richard sorridendo. Kate intrecciò le dita alle sue e per un istante si sentì rivivere. Ma era sfinita e desiderava soltanto dormire. 28
Un agente depositò uno spesso pacco di fogli sul tavolo, tra Kate e Brown. «Mead ha detto di esaminarli.» Kate sfogliò le prime pagine. «La situazione finanziaria di William Pruitt. Le sue partecipazioni azionarie.» Prese un foglio e cominciò a leggerlo ma la stanchezza le annebbiava la vista. Aveva dormito meno di quattro ore e sentiva dolore dappertutto. «Azioni, movimenti del conto corrente.» Posò il foglio sul mucchio. «Sono troppo stanca per leggere. Chiederò a un detective di controllare il tutto confrontando i sospetti con le vittime, per vedere se scopriamo qualcosa.» «Buona idea» approvò Brown. «Te la senti di interrogare Trip?» Kate lo guardò severa. «Certamente.» «Oh, sappi che era Pruitt l'uomo del video. L'anello di Yale e il Rolex erano suoi.» Kate annuì. «L'ho controllato con Mead, che sorvolerà sulla procedura poco ortodossa dell'arresto. È contento che tu abbia arrestato Trip» disse Brown con un sorriso cordiale. «Mead voleva che lo interrogassi io, ma gli ho detto che spettava a te. Quindi non rovinare tutto, okay? Hai una sola opportunità con lui.» Kate annuì una seconda volta. «In base al rapporto, Trip se l'era cavata con una ramanzina per quel trasferimento di minorenni da uno stato all'altro. Non capisco come ci sia riuscito.» «Immagino avesse un buon avvocato» commentò Brown. «Se Trip è coinvolto in pornografia e droga, probabilmente ha davvero un buon avvocato.» Brown tamburellò con le dita sul bordo del tavolo. «A proposito, è ora, o piuttosto l'ora è passata; devo permettergli di contattarlo, prima che tu lo interroghi.» Janine Cook stava male e nulla riusciva a calmarla. Aveva già sniffato un po' di cocaina, che era servita a rilassarla un po', ma non abbastanza. Frugò nei cassetti, spostando mutandine di pizzo, giarrettiere, reggiseni Wonderbra e trovò una borsetta che conteneva un paio di spinelli. Ne accese uno e trattenne il fumo nei polmoni. Si sentì meglio, ma ancora non bastava. Guardò la fotografia - due ragazzine in gonna scozzese, camicetta bianca e calze al ginocchio - e la testa cominciò a vorticare. Maledizione. Era solo un'istantanea, persino un po' sfocata e sbiadita. Janine ricordava il giorno in cui suo fratello Germaine l'aveva scattata, e
lui era morto da sei anni, ucciso da un colpo di pistola in quello stesso cortile. Un'altra lunga boccata di marijuana. Janine si osservò nella fotografia, notò il suo sorriso ingenuo e si domandò dove fosse finita quell'innocenza. Forse non era mai esistita. Accanto a lei, Elena rideva tirandole i capelli. Elena che l'aveva sempre tolta dai guai negli anni di scuola. Girò la foto e lesse IO E JANINE, 1984 scritta con la grafia nitida e particolare di Elena Fuori il cielo stava schiarendo. A New York cominciava un'altra giornata. "Grazie a Dio," pensò Janine, "la notte è finita." La saletta 4 degli interrogatori era uguale alle altre: un piccolo cubo grigio con uno specchio sulla porta. Due tubi fluorescenti come grosse lucciole incombevano dal soffitto, diffondendo una luce fredda e sgradevole. L'arredamento consisteva in un tavolo rettangolare di metallo e due sedie intenzionalmente scomode. Sebbene non entrasse da molto tempo in una stanza simile, Kate non ne aveva scordato l'atmosfera. Controllò le sedie come si aspettava, una era leggermente più alta dell'altra - e le posizionò ai due lati del tavolo. Prese il pacchetto di Marlboro dalla borsa e, poiché ne restavano solo tre, andò a comprarne un altro alla macchinetta del corridoio. Nella toeletta delle donne, si spruzzò dell'acqua sul volto. Non bastò a ravvivarla dopo la notte insonne ma lavò via il fondotinta Estée Lauder, scoprendo il livido sulla guancia che si era procurata entrando nel bagno dell'Angelika. Non avrebbe dovuto guardarsi allo specchio ma quando lo fece vide una quarantunenne stremata che avrebbe fatto meglio a tornare a occuparsi di beneficenza e libri d'arte, come le consigliavano il marito e gli amici. Troppo tardi ormai. Kate si asciugò il viso con un foglio di carta. Al diavolo il trucco! Era pronta. La luce sempre più intensa illuminava il salotto ma Janine chiuse le tende e guardò la brace arancione del secondo spinello che sbiadiva e si spegneva. Le otto del mattino. In città la gente si alzava, si vestiva, usciva per andare al lavoro. Abbandonò il sofà di velluto e avanzò a piedi nudi sugli spessi tappeti, sul parquet del corridoio, sulla moquette della camera da
letto. Accese la televisione per avere compagnia, si allungò sul grande letto a baldacchino, accarezzò le lenzuola di raso, ascoltò Vanessa Williams che interpretava una canzone d'amore e canticchiò distrattamente, pensando che Vanessa era una nera in gamba. La testa pulsava. Desiderava soltanto dormire. Sprimacciò i cuscini, li spostò e infine li scagliò a terra. Trip era pieno di lividi e si muoveva lentamente. Kate notò che era messo peggio di lei. Gli offrì la sedia più bassa. Lui la guardò prima di sedersi. Ci era già passato. Conosceva i trucchi. Kate girò due volte attorno alla stanza. Aveva bisogno di muoversi per darsi coraggio. Trip la osservava con gli occhi gonfi. «Immagino che ti abbiano letto i tuoi diritti?» disse Kate. «Non ho nulla da nascondere» rispose Trip giocherellando con un bottone della camicia. «Bene.» Kate si sedette sulla sedia più alta. Torreggiava su Trip. Accese lentamente una sigaretta e spinse un foglio di carta sul tavolo. «È l'elenco di quello che abbiamo trovato nel tuo appartamento, specialmente sotto il lavabo del bagno.» Emise un soffio di fumo. «Forse vuoi controllare le ultime voci: eroina e cocaina. Da quanto mi dicono, ce n'è a sufficienza da metterti il fuoco al culo per un bel po'. Il tuo bel culetto delicato, Damien.» «Va' al diavolo» disse Trip «e non illuderti che non ti denunci.» «Fai come credi. Nel frattempo ti racconto una storia.» Kate si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia sul petto. «C'era una volta un ragazzo chiamato Damien Trip che incontrò una ragazza chiamata Elena Solana...» «Ehi... vuoi che te la racconti io una storia?» Trip scosse il pacchetto, prese una sigaretta, l'infilò in bocca e l'accese con dita tremanti. «Beh, ne so una che non ti piacerà.» «Procedi. Ho voglia di divertirmi.» Sotto la luce spietata la faccia di Damien era grigia, le fossette sembravano ferite. «Okay. È la storia di Damien e Elena» disse con un sorriso a labbra serrate. Kate provò l'impulso di prenderlo a pugni. «Attore di film porno?» disse Trip con la testa inclinata, la sigaretta appesa all'angolo della bocca come il protagonista di un film francese. «Ce n'è a bizzeffe. Non ero male ai miei tempi. Sai Kate, ero timido, ma accidenti, mettimi davanti alla telecamera e... beh, non voglio vantarmi ma...»
«Stavi per diventare un divo?» «No, Kate. Non hai capito niente. Avevo chiuso con la recitazione... anche se riesco ancora a farlo rizzare a comando.» «Oh, sono molto interessata ma, ti sembrerà strano, ho sempre pensato che gli spacconi abbiano dei problemi in quel campo.» Scosse lentamente il capo. «Non potevi più scopare. È così?» «Già.» «Niente sperma, niente penetrazione.» Kate si protese sul tavolo. «Non ce la facevi più, Damien.» Si interruppe e cercò di assumere un tono compassionevole. «Senti, ti capisco. È una questione di orgoglio. Elena rideva e tu ti ammosciavi. È imbarazzante. Dovevi chiuderle la bocca. Non potevi permettere che lo raccontasse in giro. Impossibile, con il tuo lavoro.» «Continui a non capire, Kate. Elena era un'esibizionista. Oh, perdonami, un'esibizionista artistica» sghignazzò Trip. «Che strazio fottuto. Comunque l'ho convinta a esibirsi... ed era bravissima.» Fece una pausa e fissò Kate negli occhi. «L'hai vista no? Era dotata.» I muscoli di Kate fremevano. Trip non poteva immaginare quanto era fortunato di trovarsi al sicuro in una stazione di polizia. «Saremmo stati grandi, grandi davvero. Elena era diversa dalle altre.» «Forse molto più diversa di quanto credevi, Damien.» «Forse molto diversa di come credevi tu, Kate.» Kate socchiuse gli occhi e lo guardò da vicino. «Non ti piaccio, vero?» «Perché cazzo dovrei preoccuparmi di te?» «Oh, perché Elena parlava di me... come di una madre. E tu sei il povero ragazzo senza madre. Non era piacevole, credo. Ho visto il rapporto sulle tue famiglie adottive. Ne hai cambiate sette in otto anni. Brutta cosa.» «Se vuoi vederla in quel modo.» Trip arrotolò la manica e mostrò una serie di cicatrici. «Ti hanno mai spento una sigaretta sul braccio, Kate? O versato addosso dell'acqua bollente perché chiedevi da mangiare?» «So che la tua vita non è stata facile, Damien.» «Davvero?» Gli occhi chiari erano duri come pietre. «Proprio tu?» Ridacchiò. «Ehi, sai che Elena mi ha detto che non puoi avere figli? Hai qualcosa che non funziona, Kate?» Kate accusò il colpo ma fece finta di nulla. Perché non ci aveva pensato prima? Perché era una stupida, ecco perché. Janine aprì il tubetto di Percodan che quel giovane dottore gentile le aveva dato nel caso i punti della mano le avessero fatto male.
Prese la vodka dal freezer e tornò in camera da letto stringendo tra le dita il collo gelato della bottiglia. Sistemò i cuscini, vi si appoggiò, ingoiò un paio di pillole e le buttò giù con la vodka ghiacciata. La luce fredda della televisione illuminava la stanza sfumando i margini dei mobili e delle lenzuola di raso. Vanessa Williams cantava un'altra ballata malinconica e Janine pensò che se anche lei avesse avuto il pelo sullo stomaco, gli occhi verdi e le labbra sottili di Vanessa, beh, forse la sua vita sarebbe stata migliore. Forse anche lei avrebbe potuto mollare la pornografia, guadagnare milioni e vivere felice. Tuttavia, pensarci le faceva pulsare la testa. Prese un'altra pillola e un altro sorso di vodka. Perché mai aveva presentato Elena a Trip? Cazzo. Pensare alla sua amica la faceva soffrire, di un dolore difficile da localizzare, ma intenso, che la rodeva dall'interno. Janine scese dal letto. Aveva bisogno di qualcosa di più forte. Aveva intenzione di tenerla da conto, ma perché preoccuparsi? Era l'eroina che le aveva dato Damien Trip, senza che gliela chiedesse e senza fargliela pagare. Strano. Forse non era di buona qualità e gliela aveva regalata perché non poteva venderla. Oppure voleva liberarsene. Janine non era scema. Sapeva che Trip cercava di comprare il suo silenzio sperando che, se era gentile, lei non avrebbe detto di averlo visto con Elena il giorno in cui fu uccisa. Gli aveva giurato che non avrebbe aperto bocca e, fatto unico, Trip non l'aveva minacciata. Strano, non era da lui. L'effetto delle pillole mescolato all'alcol le confondeva le idee. In cucina preparò un po' di eroina e riempì una siringa. Mancava l'aria nella saletta degli interrogatori. «Meno è più» disse Kate. «Un titolo veramente strano, Damien. È un gioco di parole sull'arte?» «Dimmelo tu. Sei tu la fottuta esperta d'arte» replicò Trip. «Vite d'artisti. Che merdata quel libro.» «Mi dispiace che non ti sia piaciuto. Ma torniamo al tuo magnifico film. Gli artisti minimalisti ripetono continuamente che meno è più, non è vero? Tu conosci degli artisti minimalisti, Damien?» «Chi se ne fotte dell'arte minimalista?» «Ethan Stein, per esempio» proseguì Kate. «Conoscevi Ethan Stein?» Trip esitò un istante. «No.» Kate cercò tra i tabulati dell'FBI che erano sul tavolo e trovò quello sulla carriera scolastica di Trip. «Mi sorprende, perché eravate compagni al
Pratt.» Trip tentò di leggere i tabulati. «Forse.» «Non forse, sicuramente.» «Non mi ricordo di lui.» «No? Non ricordi il miglior allievo di pittura del tuo corso? Quello che ha fatto carriera nell'arte mentre tu... tu...» Kate fece scorrere il dito lungo il foglio. «Vediamo. Tu sei stato bocciato in pittura e disegno, anzi, ti hanno sbattuto fuori dalla scuola.» Si protese verso di lui con un sorriso cattivo. «Tu sei un fallito, non è così, Damien? Un artista frustrato.» Trip la guardò negli occhi. «E adesso ti vendichi, non è così?» Kate posò la cartolina di Ethan Stein, White Light, sul tavolo. «Odiavi Stein e ti infastidiva il suo successo. Non lo sopportavi, vero?» «Quel tizio si sentiva dannatamente superiore, non lo tolleravo.» «Oh, allora lo conoscevi?» «Ho seguito la sua carriera» ammise, osservando la riproduzione del quadro di Stein. «La chiami arte quella merda? Potrei farlo a occhi chiusi.» «Quindi sei divorato dall'invidia per gli artisti di successo, non è così, Damien? Loro lavorano, creano, vanno avanti, mentre tu...» «Io?» disse Trip dopo un attimo di esitazione. «Io non invidio nessuno.» «No?» Kate allargò sul tavolo una serie di fotografie di Bill Pruitt nella vasca da bagno. «E queste? Ti sembrano familiari?» «Cosa? Stai cercando di appiopparmi questo omicidio?» «Pruitt possedeva una collezione di film di tua produzione.» «Bene. Sono contento di avere un ammiratore.» «Ma lui era più di un ammiratore» disse Kate posando il video sul tavolo. «Bill Pruitt e Janine Cook in un filmetto delizioso.» Trip impallidì. «Mi ha pagato per realizzare quel film.» «Come lo hai conosciuto?» «È venuto da me. Apprezzava il mio lavoro.» Kate si protese sul tavolo. «Così Pruitt ti paga per filmarlo. E poi? Tu tieni una copia della pellicola e cominci a ricattarlo?» «Voglio il mio avvocato.» Kate non gli staccava gli occhi di dosso. «Oppure Pruitt finanziava la tua piccola attività a luci rosse ma a un certo punto ha deciso di tirarsi fuori e tu ti sei arrabbiato?» Spinse verso di lui il foglio della sospensione dalla scuola superiore. «Hai sempre avuto qualche problema a controllarti, non è vero?» Trip distolse lo sguardo ma Kate indicò la fotografia di Elena, quel-
la con l'autoritratto di Picasso tracciato sulla guancia col sangue. «Che è successo, Damien? Elena voleva mollarti e tu non potevi accettare l'umiliazione?» Trip le piantò addosso gli occhi pallidi e disse freddamente: «Chi ha detto che voleva mollarmi?». «Da quanto ho saputo, lei voleva piantarti ma tu non ci stavi.» «Da chi l'hai saputo? Da quella puttana della sua amica Janine? Beh, mente! Elena non voleva andare da nessuna parte.» «Quindi, mi stai dicendo che tu ed Elena non avevate rotto, è così?» Gli era talmente vicina che vedeva i pori del naso. «Deciditi, Damien. O stavate insieme o eravate separati. O hai rotto con lei oppure no. Parla!» Trip si ritrasse ma Kate non mollò. «La data sul film Meno è più, con te e Elena, è solo di un mese fa. Un mese fa. Hai capito o devo insegnarti la matematica?» «Okay. Stavamo insieme. Sei contenta?» Brown infilò la testa dalla porta. «L'avvocato sarà qui tra pochi minuti.» Kate afferrò il polso di Trip. «Ancora una domanda, Damien. Perché Elena ha fatto il film?» Un ghigno apparve sulle labbra gonfie di Trip. «Per i soldi, Kate. I soldi.» La luce filtrava nella camera da letto in penombra. Sul comodino c'era la fotografia di due ragazze sorridenti. "Elena," pensò Janine guardando l'immagine, "Elena che è stata uccisa." Ora era Nina Simone che cantava, un vecchio concerto registrato. Nina Simone, rabbiosa, infelice, la preferita di Janine. Nina seduta al pianoforte che cantava senza musica una delle sue tristissime canzoni. Janine strinse il laccio, picchiettò le vene del braccio, inserì l'ago e sparò la droga nel sangue. Nina Simone sfiorò i tasti del pianoforte che echeggiarono delicati come gocce di pioggia; Nina cantava di un uccello, della brezza, dell'alba di una nuova vita. Janine ripeteva le parole. La voce usciva lenta e densa come la vodka. Poi sentì l'eroina che pulsava nelle arterie, arrivando al cervello, al cuore. Era di una nuova vita che cantava Nina Simone? La voce giungeva da lontano, i colori sullo schermo si fondevano dissolvendosi. La droga bruciava come fuochi d'artificio. Janine batté le palpebre. Il respiro le si bloccò in gola. Allora vide le due ragazzine vestite uguali, gonna scozzese,
camicetta bianca, calze al ginocchio, che ridevano mentre la droga le fermava il cuore. La giovane donna passò decisa davanti a Brown, posò la morbida cartella di pelle sul tavolo di metallo, la aprì con uno scatto. «Voglio una copia del mandato di arresto, con tutti i capi d'accusa» disse, e rivolta a Trip: «Non hanno alcun diritto di interrogarti» poi a Brown e Kate: «Nulla di ciò che ha dichiarato il mio cliente potrà essere legittimamente impiegato contro di lui». Guardò il viso livido e gonfio di Trip. «Lesioni? Percosse? Oh, questo sarà un caso molto divertente.» «Mi hanno tenuto qui tutta la notte» piagnucolò Trip. «In cella.» «Trattenete il mio cliente da ieri sera?» disse la donna togliendosi gli occhiali con la montatura di tartaruga. «Sono sorpresa, detective Brown. Da lei non me lo sarei mai aspettato.» «Lieto di vederla, Susan» rispose Brown. L'avvocato infilò le mani nelle tasche del tailleur gessato e guardò Kate. «Lei chi è?» Kate pensò che era vestita come un gangster. «Katherine McKinnon Rothstein.» «Oh.» Evidentemente l'avvocato sapeva chi era. «Conosco suo marito» e con un sorrisetto ironico soggiunse: «Ho la sensazione che avrà bisogno dei suoi servigi». Poi tornò a occuparsi del suo cliente. «Ho pagato la cauzione. Possiamo andare.» «Avvocati» borbottò Brown disgustato quando la porta della saletta si chiuse. «Susan Chase. Ti dice niente questo nome?» «Superavvocato della droga, giusto?» «Giusto. Trip deve essere legato a dei pezzi grossi.» «Però noi abbiamo Janine Cook. Lei può testimoniare che Trip era con Elena Solana il giorno dell'omicidio.» «Meglio portarla qui in fretta.» disse Brown. «Ho già mandato un agente a casa sua.» La testa di Kate cominciava a dolere. «E se Trip decide di lasciare la città?» «Con quell'avvocato?» replicò Brown. «Non andrà da nessuna parte. Dubito persino che sia preoccupato.» Venti minuti più tardi Kate era seduta davanti a Floyd Brown. «Janine Cook è morta» annunciò lui. Kate si protese in avanti. Era improvvisamente impallidita. «Come?
Quando?» «Stamattina. Overdose di eroina.» Kate scosse il capo. «Maledizione. Forse gliel'ha fornita Damien Trip. Lui aveva la droga.» «Già» disse Brown aggrottando la fronte. «Ma bisogna provarlo.» La sala riunioni era soffocante. Kate provava eccitazione e stanchezza, come quando studiava tutta la notte per un esame di storia dell'arte e l'effetto dello stimolante veniva meno. Mead sudava. «Ho appena ricevuto un pacco di carte dallo studio legale Chase, Shebairo e Mason» annunciò. «Gli avvocati di Trip ci accusano di averlo picchiato e...» «Non me ne preoccuperei» asserì Brown. «No?» Mead si allentò il colletto. «Beh, credo che invece faresti meglio.» «Senta,» disse Brown, «abbiamo materiale sufficiente per collegare Trip a Pruitt e Stein...» «Prove indiziarie» sbottò Mead. «Sappiamo che era con Solana il giorno dell'omicidio» intervenne Slattery. «Già,» ribatté Mead succhiando l'aria tra i denti, «secondo una testimone morta.» Sospirò. «Okay. Ammetto che Trip è collegato alle vittime, ma perché ha scelto te, McKinnon?» «Mi odiava a morte. Elena mi considerava una specie di angelo, la mamma perfetta. Credo che gli sia rimasto sul gozzo. Poi c'è la questione dell'arte, il fatto che ho scritto un libro che ha reso famosi Elena e altri artisti. Trip è un fallimento totale. La sua invidia verso gli artisti veri è palpabile.» Mead annuì e intrecciò le dita. «Va bene. Trip è convocato dal giudice martedì prossimo. Nel frattempo raccogliete tutto il materiale su di lui e consegnatelo al procuratore distrettuale.» Guardò Brown e Kate. «Voi due tornate a perquisire l'appartamento di Trip. Setacciate ogni millimetro.» «Dobbiamo cercare qualcosa in particolare?» domandò Brown. «Voglio vedere tutti i video, ogni lettera, ogni ricevuta, ogni pezzo di carta. Voglio vedere anche la sua biancheria del cazzo, perdio!» Mead si asciugò il sudore dal labbro. «C'è qualcosa che non mi avete detto? Non dobbiamo assolutamente farci cogliere impreparati.» «Una cosa» disse Kate. «Darton Washington. Compare sull'agenda di
Ethan Stein e i tabulati telefonici provano che aveva contattato Elena Solana poco prima che venisse uccisa.» «Occupatene tu» ordinò Mead. 29 La grande stanza ronzava di attività: più di trenta agenti e detective lavoravano ai telefoni. Era la centrale investigativa ma la si sarebbe potuta scambiare per una sala scommesse. Kate trovò il detective dietro un tavolo coperto di mucchi di carte, lattine vuote, un panino di tonno con la lattuga già avvizzita sbocconcellato a metà. L'uomo alzò lo sguardo e si passò una mano tra i capelli sale e pepe. «Mi hai chiamato, hai qualcosa per me?» «Sì.» Cominciò freneticamente a spostare le cose che affollavano la scrivania. «Giuro che è qui, da qualche parte.» «Come fai a trovare quello che cerchi, Rizak?» «Ho un mio sistema.» Buttò le lattine nel cestino pieno fino all'orlo. «Ecco» disse consegnando a Kate un foglio con un unico paragrafo dattiloscritto. «Abbiamo controllato al computer la situazione finanziaria di Pruitt in relazione ai nomi che mi hai dato: Solana, Stein, Washington, Trip. Risulta solo un contatto: Darton Washington. Ha lavorato per FirstRate Music di cui Pruitt era un azionista importante.» Rizak spostò altre carte e trovò un post-it stropicciato. «I miei appunti. Ho telefonato alla FirstRate e chiesto di Washington. È stato licenziato tre settimane fa. Secondo un tizio che si chiama Aaron Feldman, il consiglio di amministrazione voleva sopprimere il settore musica rap. Era considerato troppo indecente, pare.» Rizak fece una smorfia come per dire chi se ne frega. «Comunque sia, il più determinato nella battaglia contro quella musica oscena era proprio il tuo William Pruitt.» Kate gli batté la mano sulla spalla. «Ottimo lavoro. Parlerò di te alla Omicidi.» Il detective rise e diede un grosso morso al panino di tonno. Era una biblioteca schizofrenica: da un lato file polverose di scaffali carichi di scatole, dall'altro una serie di computer modernissimi. Kate compilò velocemente i moduli. D. Washington licenziato a causa di William Pruitt.
Voleva un controllo accurato per scoprire qualcosa di più sul reato commesso in gioventù. L'impiegata batté le unghie sul banco come se stesse esercitandosi al pianoforte. «Dovevo andare in pausa cinque minuti fa» cinguettò con l'accento nasale di Brooklyn. Guardò il distintivo, poi squadrò Kate da capo a piedi. «Non mi sembra di conoscerla.» «Lavoro con Mead» si limitò a dire Kate. «Che fortunata!» commentò la ragazza roteando gli occhi. Le prese il modulo di mano e sparì dietro il computer. Kate osservò la parete coperta di comunicati della polizia: una festa di beneficenza, un poster per il reclutamento di candidati al Grande Fratello, un paio di richieste di condivisione di appartamenti. Il pallido viso dell'impiegata apparve allo sportello. «Abbiamo circa duecento Washington in memoria, sessantatré dei quali col nome che comincia per D.» «Oh, mi scusi. Si chiama Darton.» La ragazza sparì nuovamente, si sedette, sospirò e batté i dati al computer. «Sì. Washington, Darton. Sì. Eccolo.» Sbatté un altro modulo sul banco. «A cosa serve questo?» «Deve firmarlo, se vuole la stampata.» «Allora è lui?» «Washington, Darton. Due arresti. Pestaggio e corruzione di minorenne.» Kate scrutò attraverso il finto specchio della saletta degli interrogatori e osservò Darton Washington che rigirava il grosso anello d'oro attorno all'indice. La sedia di legno pareva sul punto di spezzarsi sotto il peso del suo fisico poderoso. Kate raccolse ciò che restava delle sue forze ed entrò nella stanza. «Cos'è questa storia?» esclamò Washington con gli occhi che brillavano di collera. «Devo farle qualche domanda.» L'uomo spostò il peso del corpo e la sedia scricchiolò. «Non dico una parola senza il mio avvocato.» Kate gli passò le copie dei suoi trascorsi criminali. «Questo? Vuole scherzare? Avevo diciassette anni al tempo di quella sciocchezza, altro che pestaggio del cazzo. E quest'altro... si è presa la bri-
ga di leggere fino in fondo? Sono stato prosciolto. Capito? Nessuna condanna. Quella ragazza sembrava più vecchia di me. Quindici anni? Ne dimostrava trenta.» Apriva e chiudeva i pugni con movimento meccanico. «Il mio avvocato aveva ottenuto l'archiviazione.» Batté nervosamente la mano sul tavolo. «Non dovrebbe neppure apparire. Voglio vedere il mio avvocato.» Kate parlò con calma. «Parli pure col suo avvocato. Se aveva diciassette anni, questo reato avrebbe dovuto essere cancellato dalla fedina penale. Quanto all'altro, non so, ma è ancora nel programma e non risulta che sia stato archiviato.» Kate allargò le mani sul tavolo. «Senta Darton, non è questo che mi interessa.» «Allora perché sono qui?» «Lei aveva un quadro di Ethan Stein...» «C'è una legge che lo proibisce?» «È stato nello studio dell'artista una settimana prima che venisse ucciso.» «Non è vero.» «Il suo nome appare nell'agenda degli appuntamenti di Stein.» Washington spostò il corpo nervosamente. «Ho annullato l'appuntamento per un impegno di lavoro.» Naturalmente, ora che Stein era morto, Kate non poteva smentirlo. «Intendevo comprare un altro quadro, visto che i prezzi erano calati. Mi piaceva il suo lavoro. Gliel'ho già detto.» «Però non mi ha detto che aveva combinato di vederlo la settimana prima che fosse ucciso.» «Non l'ho ritenuto importante.» «Davvero? Un uomo viene ammazzato... un uomo con cui ha un appuntamento... e lei non lo ritiene importante?» Washington abbassò le spalle e tacque. «Conosceva William Pruitt?» «No.» Kate fece una pausa prima di proseguire con tono sbrigativo. «Lei non ha lasciato spontaneamente la FirstRate Music, signor Washington. È stato licenziato.» «E allora?» «William Pruitt possedeva una notevole quantità di azioni della ditta, e secondo il suo capo Aaron Feldman, è stato Pruitt a farle perdere il posto.» Gli occhi di Washington lampeggiavano. «Una banda di coglioni spa-
ventati da un po' di musica. Ma vuole sapere una cosa? Pruitt mi ha fatto un favore. Lavoro molto meglio in proprio... gliel'ho detto quando ci siamo visti.» «Vero. Ha semplicemente omesso di dire che conosceva Bill Pruitt.» «Non lo conoscevo» sbottò Washington guardandola sprezzante. «Sapevo chi era, sapevo che era a capo del gruppo che vorrebbe linciare tutti i negri pazzi e assatanati di musica come me. Ma non l'ho mai incontrato.» Kate lo guardò negli occhi. «Sapere che era stato Pruitt a farla licenziare è un motivo sufficiente per odiarlo.» «Le ho già spiegato che quell'uomo mi ha fatto un favore. Sto meglio da solo.» «Può darsi» disse Kate. «Supponiamo che le creda su questo punto. Vuole essere franco con me... a proposito di Elena?» L'uomo incrociò le braccia massicce sul petto. «Cioè?» «La frequentava.» Washington la guardò senza parlare. «Darton» disse Kate protendendosi verso di lui. «Lei corrisponde alla descrizione dell'uomo che il portinaio di Elena Solana definisce un visitatore abituale. Vuole che convochi il portinaio e la faccia riconoscere in mezzo a una fila di comparse, oppure preferisce dirmi la verità?» «Okay.» Le grosse spalle di Washington si abbassarono. «Ci frequentavamo.» «Cosa è successo?» «Andava tutto bene, o almeno così credevo, poi, bum, mi ha piantato per un altro.» «Sa chi è?» Gli occhi di Washington evitarono quelli di Kate e fissarono le tetre pareti grigie. «L'ho vista una volta, senza che se ne accorgesse, con lui, un biondo, alto, magro, sui trentacinque. La teneva abbracciata.» Le mani di Washington si strinsero a pugno. «Mi ha piantato per un bianco. Così va il mondo, no?» Rise amaramente. «Li ho seguiti. Ho visto dove abitava. Ho scoperto il suo nome. Damien Trip.» I suoi occhi erano diventati buchi neri. «Però con Elena avete continuato a sentirvi. Darton, la prego di ricordare che abbiamo i tabulati telefonici.» «Sì. No. Le ho sbattuto giù il telefono. Lei voleva che la aiutassi ma...» mormorò abbassando lo sguardo sulle mani. La voce di Kate assunse un tono insistente. «Perché voleva il suo aiu-
to?» «Credo che avesse paura di Trip ma...» Scosse il capo. «Non so. Non ho voluto ascoltarla. Pensavo, oh, adesso vuoi che ti aiuti, eh? Mi aveva fatto soffrire e... Cazzo! Perché non l'ho ascoltata?» Il corpo era in tensione ma c'erano lacrime nei suoi occhi. «Cazzo» ripeté, ma stavolta era un sussurro. «Abbiamo interrogato Trip.» Washington si raddrizzò sulla sedia. «Dio, ti ringrazio.» «Beh, non è ancora il momento di ringraziarlo. Trip ha un ottimo avvocato.» «L'avete lasciato andare?» «Non avevamo scelta» sospirò Kate. Darton Washington fletté le spalle e i muscoli del collo si tesero come corde. «Dovete incastrarlo.» «Ci stiamo provando.» «Non basta provare» disse stringendo la bocca in una smorfia rabbiosa. «Fatelo.» Kate percepiva la sua ira, ma poteva trattarsi di un trucco per distogliere i sospetti da se stesso buttandoli su Damien Trip. «Lei vuole togliere di torno Trip, è così, Darton?» «Voi no?» «La mia domanda era un'altra.» Kate avvicinò la sedia alla sua. «Ricapitoliamo, va bene?» e iniziò a contare sulle dita. «Uno: Elena Solana le telefona e qualche giorno più tardi è morta. Due: Ethan Stein ha il suo nome sull'agenda. Dopo qualche giorno muore. Tre: lei è licenziato. Un paio di settimane più tardi l'uomo responsabile del licenziamento è morto. Le dico una cosa, Darton. Dal mio punto di vista, non è una bella storia.» «Dal mio, invece, è tutta una coincidenza. Non mettevo piede nell'appartamento di Elena Solana da settimane. Non sono andato all'appuntamento con Ethan Stein perché stavo incidendo un disco. Non ho mai incontrato Pruitt. Non avete nulla di tangibile che mi colleghi a questi omicidi.» «Non ancora» disse Kate. «Ma ci lavorerò su.» Washington si guardò le mani e mormorò: «La amavo... Elena». Amore non corrisposto? Accidenti, quello era un motivo ancora più forte. «L'amava e lei se n'è andata con un altro» affermò Kate. «Non l'ho uccisa io.» Washington la guardò con gli occhi umidi di lacrime. «Gliel'ho detto. L'amavo.» Kate bussò sul pannello dell'ufficio di Maureen Slattery. «Hai un mes-
saggio per me?» «Oh, McKinnon.» Maureen la guardò, le dita appoggiate alla tastiera del computer. «Sì. Ho un messaggio di Brown. È a Brooklyn per il caso del cecchino di qualche mese fa. Ha lasciato detto che vi vedrete alle sei da Trip. Ci sarà anche la Scientifica. Dovresti portare il mandato di perquisizione nel caso Trip sia in casa.» «Grazie.» Maureen indicò con un cenno del capo la bacheca sopra la scrivania dove aveva appeso la riproduzione di Marat assassinato. «Ehi, mi stavo chiedendo perché il pittore, come si chiama... David, abbia dipinto questo quadro.» «Era pittore di corte di Napoleone» rispose Kate. «Ha fatto molti quadri storici. A quell'epoca, se volevi documentare o ricreare un evento, dovevi ricorrere a un pittore. Quando hanno inventato la fotografia le cose sono cambiate.» Guardò la riproduzione considerando che il povero Bill Pruitt non era all'altezza di Marat. «Ti procuro un libro su David. Aspetta di vedere l'Incoronazione di Napoleone. È formidabile.» «Questo artista di morte finirà per trasformarmi in un'amante dell'arte» rise Slattery. Rise anche Kate, poi tornò seria e le riferì com'era andato l'interrogatorio di Darton Washington. «Credi che ci stiamo sbagliando su Trip... che dovremmo sospettare Washington?» «È una possibilità» disse Kate riflettendo. «Però gli ho creduto quando ha detto che amava Elena.» «L'amore è sempre un motivo valido per uccidere.» «Sono d'accordo, ma non abbiamo nulla per provare che fosse sulla scena del delitto Solana. Né impronte né DNA. Sostiene di essere stato fuori città quando Elena morì, a casa da solo la notte in cui Pruitt fu annegato e al lavoro in uno studio musicale, dal pomeriggio alle due di notte, quando morì Ethan Stein. Sto facendo controllare tutti gli alibi, ma per il momento ho dovuto lasciarlo andare.» «Dovremmo farlo pedinare... e anche Trip. Ne parlerò a Mead.» «Buona idea» approvò Kate che già sentiva crescere l'eccitazione. Controllò l'orologio. Aveva un'ora da aspettare. «Vuoi una tazza di caffè?» «Mi piacerebbe ma non posso. Mead vuole immediatamente i rapporti degli interrogatori alla galleria e al museo.» Slattery squadrò Kate dalla testa ai piedi. «Hai l'aria stanca, McKinnon. Perché non ti riposi prima di
cominciare la perquisizione?» Kate aveva effettivamente bisogno di riposo, per esempio avrebbe gradito un mese di vacanza su un'isola caraibica. Controllò di avere in borsetta il mandato. «Più tardi, magari» disse. Dall'altro lato della stanza osserva la natura morta: il piatto di frutta in putrefazione, alcune fette di tacchino coperte di muffa verde e blu, cosparse di veleno per topi, e i topi, in vari stadi di decomposizione, uno con la bocca aperta, un altro con i piccoli occhi rossi che sembrano sul punto di schizzare fuori dal cranio. Dovrebbe mandargliene uno? Si appoggia allo schienale, la vede aprire il pacco, immagina il fetore, l'espressione sul viso di lei. Le starebbe bene. Ma no, non fa parte del gioco, non dimostra nulla. Fissa la riproduzione. Ha appena terminato il suo ultimo pezzo, il biglietto d'auguri. Ammira ciò che vi ha aggiunto: l'orologio, il calendario, la ciocca di capelli veri che vi ha incollato. Resiste alla tentazione di accarezzarli; sa cosa succederebbe se lo facesse. Cammina. È pronto, più che pronto. Ha tutto ciò che serve. Sei coltelli, una boccia di plastica per pesci, una vecchia valigia che ha trovato al mercato delle pulci. Solleva la valigia sul tavolo. Non è uguale a quella dell'originale ma ci assomiglia. Vi infila accuratamente i coltelli, notando la fodera consunta, cercando di immaginare le persone cui è appartenuta, i luoghi dove hanno viaggiato. Era di una famiglia, una orribile famiglia tormentata? Gli duole la testa ma il vedere come la boccia e i coltelli entrano perfettamente nella borsa lo consola. Apre il Who's Who dell'arte americana alla pagina segnata e gli occhi corrono ancora una volta alla biografia che ha scelto, soprattutto alla data di nascita. Poteva fare di meglio? Ne dubita. 30 Per una volta che non aveva fretta non c'era traffico. Kate fermò l'automobile sotto il palazzo di Trip e attese l'arrivo di Brown e della Scientifica imponendosi di rilassarsi. Girò la chiave, avviò il CD di Sade, si accese una sigaretta e appoggiò la testa. Osservava le volute di fumo uscire dal finestrino quando udì tre colpi
uno dopo l'altro. Spari. Ne era sicura. Scese dall'auto, spinse il portone, salì le scale a passo di carica con la pistola in pugno. Al secondo piano una donna con un bambino in braccio apparve sulla porta, vide Kate e si immobilizzò. «Dentro! Subito!» gridò Kate. Affrontò più lentamente la rampa successiva. I gradini di legno scricchiolavano sotto le scarpe. C'era qualcuno ad aspettarla? Trip? Tuttavia tutto era tranquillo all'ultimo piano, la porta di Trip appena schiusa. Kate puntò la pistola, ruotò su se stessa ed entrò. Damien Trip era seduto a terra accanto al letto e si teneva il ventre con le mani. Trip la guardò, gli occhi celesti pieni di paura. Il sangue scorreva tra le sue dita così velocemente da sembrare finto. Kate prese il lenzuolo dal letto, strappò una striscia, la appallottolò e la premette sul ventre di Trip. In pochi secondi era zuppa di sangue. Trip aprì la bocca per parlare ma ne uscì solo sangue che gorgogliò passando tra le labbra. Indicò col capo la finestra aperta, battendo le palpebre come un personaggio dei cartoni animati. Kate corse alla finestra e scorse una figura in fuga nettamente delineata sulla scala antincendio. Un'occhiata a Trip, che era scivolato sul pavimento e giaceva in un lucido lago rosso, le confermò che era troppo tardi per aiutarlo. La scala antincendio gemeva sotto il peso di Kate che scendeva a velocità vertiginosa. Sembrava il set di un film espressionista tedesco, tutto grigiore e linee oblique. Sotto di lei l'uomo balzò via dall'ultimo piolo. Dopo un attimo Kate toccò terra pesantemente, urtò il muro e cadde su un bidone della spazzatura. Sicuramente le sarebbe restato il livido sul torace. Corse attorno all'edificio e scorse un'ombra salire su una BMW che partì sgommando. Kate balzò in macchina, mise in moto e schiacciò l'acceleratore. "Cristo santo. Un inseguimento in auto. Un fottuto inseguimento come al cinema." Quanti anni aveva l'ultima volta che le era successo? Ventotto? Alimentata dall'adrenalina, come l'auto dal carburante, Kate pensava: "Trip. Ucciso. Da chi? Perché?". La velocità aumentava, i cantieri edili sfrecciavano attraverso i finestrini. Udiva suoni di clacson, vedeva pedoni spaventati rifugiarsi sui marciapie-
di. La BMW bruciò sei semafori rossi di fila. Kate fece lo stesso. Attorno le altre auto frenavano bruscamente, salivano sui marciapiedi, si urtavano. Sebbene fosse trascorso più di un decennio dal suo ultimo inseguimento, Kate McKinnon era stata la regina delle corse automobilistiche ad Astoria. Nessuno le teneva testa; non Johnny Bertinelli sulla sua Chevy II truccata, né Timmy O'Brien sulla Grand Prix otto cilindri del padre. Kate aveva fatto mordere la polvere a quei due ragazzini come cuccioli con la coda tra le gambe. Tenendo il volante con una mano, riuscì a chiedere rinforzi. «Damien Trip è morto» comunicò dando l'indirizzo. «Brown è già sul posto» rispose il telefonista. «Ha chiamato.» «Sono all'inseguimento dell'assalitore. Ho appena superato la Diciottesima a Park Avenue South. Direzione nord. Le prime tre lettere della targa sono DJW.» Spense il telefono. La BMW si avventò sulla Ventitreesima e svoltò sgommando a sinistra, tallonata da Kate. Attraversarono la West Side sfrecciando tra automobili, camion, taxi e vigili che gesticolavano come burattini impazziti. Per un istante Kate si affiancò e scorse un vago profilo sfocato. All'incrocio tra la Nona Avenue e la Ventitreesima, la BMW restò intrappolata tra un autobus e un taxi ma Kate era bloccata a sua volta. Da qualche parte stavano avvicinandosi le sirene. La BMW e la vettura di Kate riuscirono a svincolarsi e scattarono in avanti. L'auto in fuga aveva un mezzo isolato di vantaggio e si dirigeva verso i moli e il nuovo complesso sportivo di Chelsea, all'intersezione dove la West Side Highway incrociava il traffico cittadino e dove convergevano quattro o cinque strade. Kate rallentò. L'aveva raggiunto. Era impossibile attraversare quel punto a tutta velocità. Le sirene erano alle sue spalle, le luci lampeggiavano nello specchietto retrovisore. Ma l'uomo non rallentò e l'auto quasi volò attraverso l'incrocio. "Gesù! Dove va?" Come inquadrata nel parabrezza di Kate, la BMW sbandò violentemente a sinistra sollevandosi sul lato destro, si raddrizzò e partì a tutta velocità in direzione ovest. Con gran stridio di freni e gomme il traffico si fermò, lasciando il campo alle auto della polizia, a eccezione di un autobus che, dopo aver scaricato
un gruppo di turisti sul lungofiume, uscì dal parcheggio dei moli di Chelsea imbattendosi in un proiettile d'argento che correva a velocità folle. Troppo tardi per frenare. La BMW si accartocciò come una fisarmonica e il cofano quasi sparì tra le fauci dell'autobus con un fragore da grande orchestra di cimbali e percussioni e uno strano coro di lamenti. Le autopompe bloccavano la Ventitreesima dalla Decima Avenue fino al fiume Hudson. Una dozzina di auto della polizia con le luci lampeggianti circondava la zona; gli agenti, rigidi soldatini che tenevano a bada i curiosi formavano un cerchio. Due ambulanze erano ferme con le sirene a tutto volume. Due furgoni di televisioni locali erano riusciti a intrufolarsi e a parcheggiare sul marciapiede. Alcuni pompieri innaffiarono l'autobus sollevando nuvole di vapore mentre altri stavano aprendo la BMW con la fiamma ossidrica quando Kate si avvicinò a Floyd Brown. «Trip è morto» disse lui scuotendo il capo. «Ovviamente lo sai già.» Kate annuì ma senza prestargli attenzione. Osservava i pompieri che staccavano la portiera accartocciata dell'auto e gli uomini del soccorso che tentavano di estrarre il corpo massiccio di Darton Washington dalla massa di metallo fumante. Le fecero cenno di avvicinarsi. Kate strinse la mano di Washington. Il giovane medico le indicò la parte inferiore dell'uomo dove il cruscotto si era incastrato amputandogli le gambe sotto il ginocchio. Le pupille dell'uomo erano dilatate per lo shock. «Ho freddo» mormorò. Kate gli posò la sua giacca sul petto. Il medico gli iniettò della morfina nel braccio, una quantità sufficiente per ucciderlo prima che morisse dissanguato. In ogni caso, era questione di minuti. I reporter delle televisioni si affollavano attorno agli agenti manovrando i microfoni come clave. Brown agitò le braccia per allontanarli. «Dicono che è l'artista di morte» asserì un ragazzo con una tessera stampa appuntata sulla giacca di velluto a coste. «È morto?» «No comment, signori» disse Brown guardando Kate che teneva tra le braccia la testa di Washington morente. Gli fece venire in mente la Pietà di Michelangelo, la Vergine col Cristo morto in grembo. Ricordava di aver visto la statua, da bambino, all'Esposizione mondiale di New York, e di aver pianto.
Kate tentò di bere il caffè ma le tremavano le mani. Trip morto. Washington morto. Non sapeva cosa pensare. Entrambi avevano rapporti con le vittime: Elena, Pruitt, Stein. Erano morte con loro anche le risposte alle sue domande? «Le vie del Signore sono misteriose» intervenne Brown osservando i resti di Darton Washington che venivano caricati sull'ambulanza. «L'omicidio di Trip è un atto passionale» affermò Kate. «Washington la amava. Amava Elena.» «La amavi anche tu, ma non hai sparato a Trip.» «No» disse Kate. «Però avrei voluto farlo.» 31 Randy Mead tamburellava con la biro sul bordo del tavolo della sala riunioni. «Chi credi di essere, McKinnon, un Superman del cazzo?» In qualsiasi altra occasione Kate lo avrebbe guardato con disprezzo, ma stava pensando a Darton Washington e l'immagine di quell'uomo che moriva nella BMW distrutta non l'avrebbe mai abbandonata, aggiungendosi alla sua personale galleria degli orrori. «Non è che per caso hai ottenuto da Trip una confessione sul letto di morte, eh, McKinnon?» «Quando l'ho trovato, non era più in grado di parlare. Per quanto mi dispiaccia ammetterlo, credo che dovremmo perquisire l'appartamento di Washington. Vedere se troviamo qualcosa che lo colleghi definitivamente agli omicidi.» «Non è un po' tardi per questo?» domandò Mead. «No, se cerchiamo qualcosa di conclusivo. Trip e Washington erano in contatto con le vittime. Può darsi che Washington abbia ucciso Trip per chiudergli la bocca.» «Okay. Manderò una squadra nell'appartamento di Washington» disse Mead. «E la stampa? Ieri erano tutti sul luogo dell'incidente» osservò Brown. «Che dichiarazione ufficiale rilasciamo?» «Non so.» Mead si grattò la radice del naso. «Prima devo parlare con Tapell. E tu, McKinnon, devi vedere la Mobile, il reparto incidenti e la scena del delitto Trip. La tua esibizione di ieri ha coinvolto tutte le divisioni del NYPD. Voglio i rapporti sul mio tavolo appena possibile, oltre a una tua relazione sul concatenamento di eventi che ha portato al decesso di
Trip e Washington.» Dopo sei ore di colloqui e di compilazione di fogli Kate era esausta. Tuttavia si recò allo studio di Willie per comunicargli personalmente come era morto il suo amico e ammiratore. Arrivò in ritardo; il notiziario l'aveva preceduta. Come avevano fatto a impossessarsi della notizia così in fretta? Kate seguì con gli occhi Willie che si muoveva nello studio scavalcando scatole di chiodi, strisce di carta smerigliata, tubetti spremuti di colori a olio. «Darton mi aveva detto che ti occupavi del suo caso, che gli davi la caccia.» «Non è così.» «Ma ora è morto. Come lo chiameresti?» «Un incidente.» Kate avvolse nervosamente una ciocca di capelli tra le dita. «Ascolta, Willie. Darton ha ucciso Damien Trip. Gli ha sparato a sangue freddo e...» «E cosa? Dovrebbe dispiacermi?» Willie guardò lontano, vide Darton Washington nel suo studio, ricordò l'eleganza raffinata di quell'uomo che gli assomigliava, anche lui uscito dal ghetto per trovare la sua strada e fare carriera, interessato alla musica, all'arte e al 'genio' di Willie. Guardò Kate con gli occhi verdi penetranti e gelidi come un laser. «Trip ha ucciso Elena. L'ha uccisa lui. Credevo che fosse questo che ti interessava.» «Io...» balbettò Kate «io sono dispiaciuta quanto te per Darton.» «Non ci credo» disse Willie voltandole le spalle. «Adesso vai, per favore.» Quelle parole, seppure sussurrate e a malapena udibili, penetrarono sotto la pelle di Kate colpendola al cuore. MUORE L'ARTISTA DI MORTE La città, e soprattutto il mondo dell'arte, tirano un sospiro di sollievo alla notizia che il serial killer noto come «l'artista di morte» è deceduto ieri. Al momento le autorità non si sbilanciano sulla sua identità, in attesa che vengano risolti i dettagli concernenti il decesso. Corre voce che sia stato ucciso da un parente o un amante di una delle vittime, morto a sua volta in uno scontro automobilistico mentre fuggiva dalla scena del delitto. Probabilmente nell'incidente è coinvolta Katherine McKinnon
Rothstein, collaboratrice del NYPD, che non ha rilasciato dichiarazioni. Si dice che la polizia... Come ha funzionato bene. D'accordo, lui è un genio, tuttavia questo è stato un colpo di fortuna, deve ammetterlo. Pur prevedendo che lei avrebbe interpretato il video nel modo sbagliato, neppure nei suoi sogni più sfrenati avrebbe osato immaginare che lei potesse elaborare connessioni non previste. E adesso? Improvvisamente si rende conto che potrebbe mollare tutto e riprendere la sua vita normale. Sorride alle parole "vita normale". Il fatto è che gli risulta sempre più difficile controllarsi. Talvolta ha voglia di dirlo, di sussurrarlo all'orecchio di qualcuno: "Sono io, sai. Sono io". Cosa lo frena? Forse il non sapere esattamente se è davvero lui, non sa chi è il suo vero se stesso. Quell'idea lo contraria, perché non conosceranno mai il suo capolavoro e avrà fatto tutto per nulla. Scuote il capo per scacciare quel pensiero molesto. Solleva il biglietto d'auguri completato. «È la mia opera migliore.» Fa una pausa, riflette. «No. Sarà la mia opera migliore. Perfetta.» Ora deve soltanto aspettare. Ci riuscirà? Le mani cominciano a tremare e sente l'impulso bruciare nello stomaco come un carbone ardente, penetrando negli organi. Gli pare di vedere il cuore che scoppia, le costole che bucano la pelle, il sangue che schizza dappertutto. Preme le mani sulla camicia ma non riesce a placare il dolore. Il fegato è una poltiglia rossastra, l'inguine brucia con un'intensità tale che deve togliersi i pantaloni e gli sembra di vedere il sesso che ribolle, che fuma. Un istante dopo tiene il pene ammosciato sotto l'acqua fredda che esce rugginosa dal rubinetto di quell'edificio abbandonato. Tuttavia l'acqua fredda non basta a spegnere l'incendio che lo divora. Con mano tremante infila il biglietto in una busta. Sì, è ora di spedirlo. Non può più aspettare. 32 Un'altra di quelle notti, veglia, sonno, caldo, freddo. Sogni folli. Incubi. Richard era già uscito quando Kate si trascinò giù dal letto. Su un post-it incollato allo specchio del bagno lesse TI AMO.
Kate faticava a ricordare cosa aveva detto a suo marito la sera precedente: qualcosa sulla visita a Willie, la sua terribile giornata di colloqui con diverse sezioni del NYPD, che era stanca, tanto stanca. Desiderava tornare a letto ma non poteva. C'erano ancora tante domande senza risposta e non sapeva dove o come trovarle. Alla centrale regnava una certa calma. Poche cose sulla sua scrivania: un appunto di Mead su una riunione, la solita busta di posta da esaminare, un ombrello da tre dollari acquistato il giorno prima. Kate infilò i guanti e rovesciò la posta sul tavolo. Il caso era chiuso? Poteva ricominciare la sua vita: feste di beneficenza da organizzare, colazioni con le amiche, una conferenza ogni tanto? Forse era ora di iniziare un altro libro. Nel mondo dell'arte circolava la battuta che avrebbe dovuto scrivere il seguito: Morti d'artisti. Con un crescente senso di noia Kate scartò bollette e pubblicità, finché vide una semplice busta marrone. La sua attenzione si risvegliò all'istante. Le dita, racchiuse nei guanti, tremarono sfiorando i bordi della busta. Un'altra riproduzione di un'opera d'arte. Una composizione stavolta: una figura in plexiglas distesa sul lettino del ginecologo, con sei tubi di vetro sporgenti dal ventre e una boccia da pesci in bocca; accanto alla figura, una giacca appesa a un attaccapanni, una sedia, una valigia aperta sul pavimento di piastrelle quadrate; sul muro un orologio, un calendario e due quadri indecifrabili. Ma fu la ciocca di capelli appiccicata alla testa della donna a far rabbrividire Kate. "Kienholz." Era di Ed Kienholz, un artista pop degli anni Sessanta. Kate non conosceva quell'opera ma lo stile era inconfondibile. Al college aveva scritto una tesina su di lui. Tenne il cartoncino in mano e lo osservò attentamente. Era possibile che Damien Trip o Darton Washington lo avessero fatto prima di morire? E perché? Per documentare cosa? A meno che non ci fosse un cadavere che non avevano ancora scoperto. Kate sentì un brivido salire dalla schiena. Naturalmente c'era un'altra possibilità: che l'artista di morte fosse ancora in circolazione. Nell'aria gelida del laboratorio Kate vedeva il suo respiro quando consegnò a Hernandez la riproduzione di Kienholz. «Scusa il freddo» disse la donna. «Abbiamo un paio di cadaveri da mandare all'autopsia e non vogliamo che ci impuzzolentiscano l'ambiente.»
Kate rabbrividì. «Avete dei campioni di capelli delle vittime precedenti, specificamente Elena Solana ed Ethan Stein? Non possono essere di Pruitt. Era praticamente calvo.» «Dovresti chiederlo al medico legale... no, aspetta, ho qui i capelli di Solana. Vediamo se corrispondono.» Hernandez scrutò nel microscopio. «Sono di Solana, senza dubbio.» Kate prese la riproduzione con le mani inguantate. «Devo mostrarla subito alla squadra. Te la riporto.» «I guanti!» le gridò dietro Hernandez. «Mettetevi i guanti!» Kate posò la riproduzione sul tavolo della sala riunioni tra Floyd Brown e Maureen Slattery. «Non è uno scherzo né l'opera di un mitomane. I capelli sono di Solana.» Slattery appoggiò i gomiti sul tavolo. «Ma è diverso dagli altri. Voglio dire che non abbiamo trovato vittime di questo tipo.» «Ho la sensazione che stia cambiando le regole del gioco» affermò Kate. Slattery aggrottò la fronte. «Perché cambiarle adesso?» «Da quanto ho visto» disse Brown «questi individui cambiano le regole più velocemente di quanto noi possiamo concepirle. Non hanno altro in mente che il loro dannato rituale.» «Il suo rituale è l'arte» asserì Kate. «Questo non è cambiato.» Slattery esaminò l'immagine. «Queste fottute cose che le escono dalla pancia. Orribili.» «Oppure infilate dentro» obiettò Brown. «Come interpretate la boccia per i pesci piazzata sulla bocca aperta?» «Un grido muto? Soffocamento? Kienholz è simbolico» disse Kate. «Allude all'aborto, oppure a una violenza sessuale, o a tutti e due.» Randy Mead entrò nella stanza e il suo sorriso si spense vedendoli chini sulla riproduzione. «Cosa cazzo è?» Kate glielo spiegò. Mead si tirò il cravattino aggrottando la fronte. «Forse era qualcosa che Trip stava organizzando ma non ha avuto il tempo di realizzare.» «Ci ho pensato anch'io» rispose Kate. «Ma controlli il timbro postale. È un espresso inviato dalla Posta centrale tra la Trentaquattresima e l'Ottava, alle sedici e venticinque di ieri.» «E io sto ancora aspettando l'assegno che il mio ex marito dovrebbe aver imbucato una settimana fa» commentò Slattery scuotendo il capo. «Erano circa le cinque quando ho trovato Trip» proseguì Kate. «Gli ave-
vano appena sparato. Non ha avuto molto tempo per arrivare da Midtown al Lower East Side.» «Però è fattibile» osservò Mead. «Se ha lasciato la Posta alle quattro e venticinque, potrebbe essere rientrato per le cinque, in taxi e con un traffico tranquillo.» «A quell'ora?» Kate tamburellò sul tavolo con la mano inguantata. «Con la metropolitana non è diretto» soggiunse Slattery. «Bisogna cambiare.» «E percorrere parecchi isolati a piedi» aggiunse Brown. «E arrivare a casa e litigare con Washington» concluse Kate. «Non ci vuole molto per sparare a qualcuno» disse Mead. «Oppure potrebbe essere opera di Washington. Non possiamo escluderlo.» Crollò su una sedia. Era impallidito. «Avete delle buone ragioni ma concedetemi che potrebbe essere Trip... o Washington. Voglio dire che forse c'è un cadavere che non abbiamo ancora trovato.» La disperazione gli faceva tremare la voce. «Faccio contattare tutti i distretti per vedere se è saltato fuori qualcosa.» Brown si strofinò la testa con la mano. «Dobbiamo prendere in considerazione che il nostro uomo sia ancora in circolazione, Randy. Che non sia Trip quello che cerchiamo... e neppure Washington.» «Credi che non lo stia considerando?» Randy Mead pareva sul punto di scoppiare in lacrime. «Vi rendete conto che stanno per intervenire i federali? Si erano tirati indietro dopo la morte dei nostri due sospetti, ma ora...» «Parlerò alla mia amica Liz» propose Kate. «Nel frattempo concentriamoci su quello che sappiamo.» «Se le regole sono diverse...» disse Brown osservando la riproduzione ritoccata di Kienholz. «Come interpretiamo questa roba?» «Non so, ma il calendario e l'orologio sono stati disegnati sopra» fece notare Kate. «Quindi devono significare qualcosa. Forse ci indica il giorno e l'ora. Le lancette sono sulle undici e sul calendario sono cancellati tutti i giorni fino a oggi.» «Allora potrebbe succedere oggi? Merda.» Mead succhiò l'aria tra i denti. «Forse» ammise Kate. «Ma non sappiamo se sono le undici di mattina o di sera.» «Io scommetto sulle ventitré» disse Brown. «Tutti gli altri sono stati uccisi di notte.» «Può darsi che di giorno il nostro uomo lavori» osservò Kate.
«E le due date cerchiate sul calendario» domandò Slattery. «Il dieci e il tredici?» «Sono già passati. Potrebbe riferirsi al mese prossimo» ipotizzò Mead. «Non credo» obiettò Kate. «Il mese è chiaramente maggio.» «Questi individui sono come pentole a pressione» dichiarò Brown. «Più uccidono, più vogliono uccidere. Gli intervalli tra gli omicidi diventano sempre più brevi, non più lunghi.» «A meno che non ci sia sfuggito questo omicidio» meditò Mead. «E il cadavere ci stia aspettando. In questo caso il colpevole potrebbe essere Trip... o Washington.» Kate si rendeva conto che Mead se lo augurava, ma il suo intuito le diceva che non era così. «C'è un'altra cosa. Vedete qui?» Indicò una minuscola carta da gioco, un jolly, incollata su una piastrella del pavimento. «Forse è un simbolo» asserì Brown. «È lui il jolly della partita.» «Può darsi.» Kate ci pensò su. «Ma potrebbe essere qualcosa di completamente diverso.» «Cioè?» domandò Mead. Kate alzò le spalle. «Non lo so ancora.» Mead si staccò dal tavolo. «Se è lui che ce l'ha mandato ed è ancora vivo, è possibile che non colpirà fino alle undici di stasera. Nel frattempo prendiamo ogni precauzione, contattiamo i distretti, vediamo se c'è qualche uccisione collegata a un aborto, qualsiasi cosa che possa riguardarci. Brown e Slattery, mettete insieme una squadra e datevi da fare.» Si rivolse a Kate e proseguì: «E tu, signora dell'arte, studia questa riproduzione come se ne dipendesse la vita di tua madre». 33 Non era stato esattamente il tipo di festa che Amanda Lowe aveva immaginato. Un'altra delusione. Come quasi tutto, del resto. Perché? Era una delle più importanti galleriste in città e rappresentava, su un mercato di grido, una dozzina di giovani artisti interessantissimi... beh, otto su dodici lo erano, eppure si sentiva... come? Insoddisfatta? Depressa? Sola? Tutte e tre le cose, probabilmente. Com'era possibile? Prendeva religiosamente quel dannato Zoloft ma il suo malessere, quella specie di ennui, non svaniva e le rovinava la vita. Solo per un po' quando riusciva a vendere qualcosa si sentiva rivivere,
quasi felice. Come l'altro giorno, quando aveva venduto due WLK Hand a una coppia di tedeschi dopo averli convinti che per quei quadri c'era una lista d'attesa. Non era vero, naturalmente, ma Amanda Lowe sapeva come inventare un mercato ed era sicura di poter vendere qualsiasi cosa. E allora perché quella sera, dopo la festa nella sala privata di un locale, con tutti i suoi artisti promettenti, i suoi collezionisti e un paio di emarginati pronti a baciarle il culo, perché Amanda Lowe si sentiva così giù di corda? Non bastava a giustificarlo che fosse il suo quarantasettesimo compleanno e stesse tornando a casa da sola. Cristo, se aveva voglia di una scopata poteva sempre portarsi a casa un giovane artista sconosciuto. No, non era quella la ragione. Allora che cos'era? La Tredicesima Strada era piuttosto deserta, solo un gruppo di persone che rideva all'altra estremità. Amanda le detestò, per la giovinezza e bellezza che immaginò possedessero, perché la vita si stendeva davanti a loro piena di promesse. Voleva gridare: "Vedrete! Diventerà tutto uno schifo!". Invece, distolse lo sguardo e si affrettò nella strada buia trattenendo il respiro. Si domandò quando gli affitti alle stelle avrebbero finalmente scacciato dalla zona quegli orridi macellai e grossisti di carne, liberandola dal loro fetore. Sempre troppo tardi per lei. Sebbene non facesse freddo, Amanda tremava, come se, per un istante, qualcosa fosse penetrato nel suo corpo. Uno spirito? Si strinse nella giacca Prada di pelle nera, incrociò le braccia sottili sul petto ossuto e affrettò il passo. La saracinesca di metallo che proteggeva la vetrina verde della galleria era abbassata per la notte. Amanda provò un senso di tristezza, come se l'unica cosa che amava, il suo lavoro, fosse ingabbiata, imprigionata. Dovette lottare con il vecchio ascensore, uno degli svantaggi di essere padrona dell'intero stabile, e finalmente approdò sul suo nuovo pavimento di quercia. Entrò, sfiorò l'interruttore e le lampade alogene illuminarono i milleduecento metri quadrati che divideva con un gatto siamese misteriosamente rassomigliante alla sua padrona. Guardò l'orologio Piaget. Le dieci e un quarto. Almeno la serata era finita presto. Nel suo ufficio Kate ubbidiva all'ordine di Mead, concentrandosi come se sua madre fosse stata viva e la vita di una donna dipendesse dal suo impegno.
Slattery e Brown avevano scovato una mezza dozzina di cadaveri non identificati, uno solo dei quali collegabile all'opera di Kienholz: una ragazza buttata in una discarica in seguito a un aborto finito male. Nessuno degli altri presentava caratteristiche che potessero suggerire l'intervento dell'artista di morte. Kate aveva fatto ingrandire l'immagine duecento volte e ora vedeva chiaramente l'aggiunta dell'orologio e del calendario e i singoli capelli della ciocca. Sapere che si trattava dei capelli di Elena la faceva rabbrividire. Osservò attentamente l'immagine. Come leggerla? Non aveva fotografie della scena del crimine con cui confrontarla. Si era fatta portare in ufficio un grosso volume delle opere di Ed Kienholz e lo sfogliò per trovare quel pezzo. Il compleanno, 1964. Tableau. Centimetri 210x300x150. Manichino, lettino ginecologico, valigia, indumenti, carta, fibra di vetro, vernice, plexiglas, poliestere. Guardò la riproduzione del libro, poi l'ingrandimento. Le date cerchiate indicavano il compleanno di qualcuno? Forse, ma di chi? E la carta, il jolly, quasi nascosta nel disegno delle piastrelle? Kate non capiva. Lo aveva mandato Damien Trip per farla diventare matta? Se così era, ci stava riuscendo. Ma perché Trip le avrebbe inviato un rompicapo dopo essere stato interrogato e sapendo di essere sospettato? Kate fissò il jolly. Forse aveva ragione Brown: era il simbolo dell'assassino che si vedeva come un jolly impegnato in una partita con lei e la polizia. Che altro? Le piastrelle del pavimento? Kate rifletté. I quadri fiamminghi avevano quasi sempre pavimenti a scacchi. Che altro contenevano? Simboli. In un quadro fiammingo ogni dettaglio simboleggiava qualcosa. Cosa poteva indicare un jolly? Un buffone? Un comico? No, doveva esserci un riferimento con l'arte. "Un jolly? Una carta?" Nulla pareva avere senso. Che altro? "Un mazzo di carte? Cinquantadue. Numeri. Figure. Segni. Scommesse. Denaro."
Pensò alle vittime: Elena, Pruitt, Ethan Stein. Una performer. Il presidente di un museo. Un artista minimalista. Quell'uomo voleva distruggere il mondo dell'arte scegliendo delle persone che lo rappresentavano? "Pittore. Performer..." Kate guardò la riproduzione. "Una carta. Gioco d'azzardo. Denaro. Un mercante d'arte!" Ma certo! Doveva essere così. L'eccitazione si scontrò con la frustrazione. Che mercante? Come scoprirlo? Tornò all'ingrandimento. Era lì, da qualche parte. Kate ne era sicura. Lo sentiva. Quell'uomo non si limitava a giocare con lei, la metteva alla prova. L'orologio. Il calendario. Dovevano avere un significato. "Quale?" La sua mente lavorava febbrilmente ma non riusciva a fermarsi su nulla. Chiuse il volume delle opere di Kienholz. Non restava molto tempo... e qualcuno stava per ricevere un brutto regalo di compleanno. «La composizione si chiama Il compleanno» precisò Kate camminando avanti e indietro per la sala riunioni con gran ticchettio di tacchi. «Si riferisce al compleanno di qualcuno.» «Di chi?» Mead succhiò l'aria tra i denti. «Di un mercante d'arte. Il nostro uomo non si limita a creare omicidi artistici. Sceglie le sue vittime tra i rappresentanti del mondo dell'arte: Elena Solana si esibiva, Pruitt era il presidente di un museo, Stein era un pittore tradizionale.» «Li chiami tradizionali i suoi quadri?» commentò Slattery. «Oggi, se dipingi sei tradizionale» rispose Kate. Mead sospirò rumorosamente. «Come possiamo procurarci le date di nascita delle centinaia di mercanti d'arte di New York?» «Dalle loro biografie» precisò Kate. «Possiamo controllare il Who's Who in American Art. Naturalmente sono migliaia di voci e non tutte includono la data di nascita... specialmente le donne.» «Coraggio, gente.» Mead si tirò il cravattino. «Non voglio concedere un'altra vittima a questo degenerato.» «È tutto qui nell'immagine.» Kate batté il dito sulla riproduzione. «Ogni dettaglio è un indizio.» «Okay» sospirò Slattery. «Quindi cosa indicano le date cerchiate?» «Ci ho riflettuto a lungo. Se non sono la data del delitto, e non lo credo perché entrambe sono già passate, che altro possono essere?»
«Una statistica?» suggerì Brown. «Numerologia?» propose Slattery. «Non credo» affermò Kate. «Lui è più specifico. Quali numeri sono specifici?» «I numeri di telefono» disse Brown. «Troppo pochi per un numero di telefono.» Il piede di Kate pestava nervosamente il pavimento. «Il dieci e il tredici?» «Le dieci e tredici. L'ora del delitto.» indicò Slattery. «No, insisto sulle undici» ribatté Kate controllando l'orologio. «Aspettate un momento. E se fosse un indirizzo?» Il piede di Kate cessò di battere sul pavimento. «Decima Strada? Tredicesima Strada? No, aspettate. Tredicesima Strada e Decima Avenue. Il mercato della carne. Chelsea. Ma certo, gli serve una galleria se vuole far fuori un mercante d'arte.» Si voltò di scatto verso Mead. «Randy, mandi delle automobili alla Tredicesima e Decima Avenue, che controllino tutte le gallerie di quella zona», e a Slattery: «Maureen, l'hai ancora la guida ai musei?». Maureen l'aveva già in mano e seguiva col dito la cartina di Chelsea. «Ci sono quattro... no, cinque gallerie sulla Tredicesima.» «Niente all'angolo con la Decima Avenue?» «Ehm... solo un ristorante.» «Torna alla Tredicesima Strada. Il pezzo di Kienholz allude a una violenza su una donna. Dobbiamo trovare una gallerista.» Slattery lesse l'elenco. «Galleria 505, può essere un uomo o una donna; galleria Valerie Kennedy, eccone una; Art Resource International, chissà; galleria Amanda Lowe, eccone un'altra.» Mead stava già urlando istruzioni al cellulare. «Sei macchine già in strada» disse spegnendolo. «Anche un'ambulanza.» «Faccia immediatamente contattare quei mercanti» suggerì Kate. «A quest'ora le gallerie probabilmente sono chiuse, bisogna trovare gli indirizzi e i numeri di casa.» «Attaccati al computer» gridò Brown a un agente. «Controlla se c'è qualcuno che compie gli anni e chiamaci sulla macchina.» «Vengo con voi» disse Kate. «Okay» replicò Mead. «Vai con Slattery... e lascia guidare lei.» Amanda Lowe si è appena tolta la giacca Prada quando lui la afferra, mormora «buon compleanno», le stringe la gola con una mano e con l'altra le preme sul naso e sulla bocca uno straccio imbevuto di una sostanza puz-
zolente. La sirena dell'ambulanza taceva ma le luci delle auto della polizia ancora lampeggiavano nella Tredicesima Strada. Il giovane agente sembrava scosso, la faccia grigioverde, come se stesse per vomitare. «È là dentro. Primo piano, sopra la galleria.» «L'hai trovata tu?» domandò Brown. «Io e Diaz» rispose, indicando un agente seduto sui gradini davanti alla galleria Amanda Lowe. «Adesso su ci sono anche due detective.» Si morse il labbro e parve sul punto di piangere. Brown gli batté la mano sulla spalla ed entrò. La scena era così surreale che Kate rimase sbalordita. Amanda Lowe era legata sullo stretto tavolo da pranzo, con sei lunghi coltelli piantati nel ventre, i manici nell'esatta posizione dei cilindri di plexiglas della composizione di Kienholz. Dal tavolo il sangue gocciolava sul tappeto, viscido, come una cascata oleosa. La giacca Prada era appesa alla parete accanto al tavolo, come nella riproduzione. C'era anche la valigia sul pavimento. Un detective accovacciato davanti alla scena si voltò, salutò Mead con un cenno del capo e disse: «Guardi qui». Mead si avvicinò e Kate scrutò da dietro le sue spalle. Di fianco alla valigia, sul tappeto chiaro, si scorgevano alcuni caratteri incerti. Kate si chinò. Col sangue era scritto: ARTISTA DI MORTE. «Gesù!» esclamò Brown. «Gli piace l'appellativo.» «Sì» confermò Kate. «E adesso firma il suo lavoro.» 34 «Prima lo avete in mano, poi non lo avete più» imprecò Clare Tapell. «La stampa ci sguazza in questa situazione, Randy! Il sindaco riceve venti telefonate al giorno da tromboni del mondo dell'arte che strillano per la loro sicurezza e per l'inefficienza della polizia... e allora lui telefona a me.» Tapell riprese fiato. Sapeva di non essere simpatico al capo della polizia, ma essere fatto a pezzi davanti alla sua squadra e a una mezza dozzina di detective della Omicidi era troppo per Randy Mead. «Non è colpa mia se qualche cronista va in giro a blaterare...» Scosse il capo e succhiò l'aria tra i denti. «Se
McKinnon non avesse incasinato tutto...» Kate non batté ciglio e continuò a fissare il giornale che teneva in grembo; non le andava di uccidere un uomo morto. Girò rumorosamente una pagina. «McKinnon inseguiva un sospetto» riferì Brown. Tapell tornò all'attacco. «Avresti dovuto contattare la sezione operativa, Randy. Chiedere l'intervento di una squadra SWAT.» «Non c'è stato tempo» piagnucolò Mead. «C'è sempre tempo» dichiarò Tapell guardandolo disgustata. Intrecciò le mani sul tavolo e sospirò. «Okay. Primo: limitare i danni. Ho già tenuto una conferenza stampa, quindi nessuno, in questa stanza o in tutta la centrale di polizia, deve parlare con i giornalisti. Avete capito?» ordinò guardando i detective. «Secondo: se l'artista di morte fa un movimento, un colpo di tosse, voglio essere informata. D'accordo?» «Appena si mette in contatto con me» confermò Kate. «Ma Mead ha ragione; non c'è stato tempo.» Mead ruotò bruscamente il capo verso Kate, quasi strangolato dal cravattino, la bocca aperta per la sorpresa che fosse proprio lei a difenderlo. «L'autopsia ha stabilito che Amanda Lowe è morta meno di un'ora prima della scoperta del cadavere» riferì Brown. «Ci siamo andati dannatamente vicino.» «Vicino non basta, detective Brown» replicò Tapell controllando l'orologio. «Mitch Freeman dell'FBI sarà qui da un momento all'altro. È un esperto di psicologia criminale. Ha esaminato i rapporti e le foto dei delitti e ci dirà cosa ne pensa.» «Li conosciamo già i capricci del nostro uomo» borbottò Mead. «Beh, Randy, vorrà dire che dovrai ascoltarli ancora una volta.» «Il caso passa a loro?» domandò Slattery. «Dobbiamo mandare a Quantico tutte le prove, vecchie e nuove, tenerli informati quotidianamente e ascoltarli» informò Tapell. «Per il momento non so altro.» «Ho sentito parlare molto di lei» disse Freeman porgendo la mano a Kate. «Immagino» rispose Kate: Freeman era sui quarantacinque, biondo, con lineamenti decisi, diverso da come se lo aspettava; infatti non aveva i capelli a spazzola, era vestito informalmente e anche l'atteggiamento non era tipico.
Freeman si sedette tra Kate e Brown e allargò le carte sul tavolo. «Queste sono le sue caratteristiche, secondo me» iniziò infilando gli occhiali privi di montatura. «Organizzato, evidentemente. Intelligente. Anche questo è ovvio. Capace di controllarsi, almeno fino a ora. Ma potrebbe crollare tra un delitto e l'altro, o se ritiene che vi state avvicinando.» «Sembra che desideri essere avvicinato» aggiunse Brown. «Altrimenti perché sarebbe in contatto con McKinnon?» «In alcuni casi questi individui cercano il contatto, flirtano con la possibilità di essere catturati, perché sono esibizionisti e il rischio li eccita.» Freeman tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. «I criminali come il vostro uomo, oltre che perfezionisti ed estroversi, sono fortemente narcisisti. Amano attirare l'attenzione.» «Potrebbe avere una doppia vita?» domandò Kate. «Certamente. Direi che ha un rifugio sicuro dove elabora i suoi piani.» Freeman si grattò il mento. «Prima o poi cominciano a cedere. L'organizzazione diventa disorganizzazione. È allora che combinano qualche pasticcio e si fanno catturare.» «Quanto tempo ci vorrà?» domandò Tapell. «Impossibile prevederlo.» Freeman infilò gli occhiali e guardò le foto di Amanda Lowe. «Sfortunatamente da queste non risulta che stia succedendo, anzi, sembra che diventi sempre più elaborato.» «Mi scusi, dottor Freeman,» interloquì Kate posandogli una mano sul braccio, «ma credo che le sia sfuggito qualcosa.» «Lascialo parlare, McKinnon» la interruppe Mead che non aveva ancora aperto bocca da quando era arrivato lo psichiatra di Quantico. «No, la prego» disse Freeman. «Beh, credo che la complessità della messinscena dipenda dall'opera che l'assassino cerca di creare, o meglio di copiare. Il prossimo omicidio potrebbe essere semplicissimo. Tutto va riferito all'arte cui si ispira.» «Capisco. Certo.» Freeman annuì. Kate spinse i capelli dietro le orecchie. «Naturalmente concordo che sia organizzato e intelligente. Ma invece di considerarlo uno psicotico qualsiasi, perché non lo guardiamo come una personalità artistica?» «Continui» la esortò Freeman. «Gli artisti» proseguì Kate «sono vanitosi ma insicuri. Vogliono attirare l'attenzione, come ha detto, ma si nascondono dietro il loro lavoro. Amano stare soli però vogliono esibire le loro opere. Gli artisti sono il loro lavoro. Forse possiamo capire delle cose su quest'uomo da ciò che fa, dalla sua,
perdonate la parola, arte.» «E allora?» chiese Freeman studiandola attentamente. «Beh, direi che ha gusti piuttosto tradizionali. Marat assassinato e il quadro di Tiziano sono entrambi classici. Persino il Kienholz, che sembra bizzarro, è un pezzo classico, molto strutturato. Inoltre, sceglie arte autentica, non robaccia. Quindi, è serio e intelligente, anche se ciò non significa che debba avere un'istruzione di alto livello. Potrebbe trattarsi di un autodidatta. In questo caso ha accesso a una biblioteca o almeno a dei volumi d'arte. Non credo che possa ricordare tutti quei dettagli a mente.» Freeman incrociò le braccia sul petto e si appoggiò allo schienale. «Interessante.» «Prima lei ha parlato degli intervalli decrescenti tra i delitti. Si verifica sempre?» «Sì» confermò Freeman. «L'unica cosa che rallenta o ferma questi individui è la morte. La loro.» «Perché continua a contattare McKinnon?» domandò Tapell. «Ossessione» rispose Freeman. «Un'emozione molto potente» e rivolgendosi a Kate: «C'è una qualche ragione per cui quest'uomo si concentra su di lei?». «Ci ho riflettuto a lungo. Il mio libro? I miei spettacoli televisivi? Forse ai suoi occhi rappresento la grande esperta. Forse cerca la mia approvazione o...» «Farebbe meglio a stare attenta» le suggerì Freeman. «Questi individui cambiano facilmente idea su chi e cosa li interessa. Ovviamente è ossessionato da lei ma...» Scosse il capo. «Cosa?» «Non voglio spaventarla ma costoro di solito confondono amore e odio. Alla fine vogliono... uccidere il loro oggetto d'amore.» «E quello che dice la mia amica dell'FBI.» «Liz Jacobs?» «La conosce?» «No, ma so che è in città e che voi due lavoravate insieme.» «Non c'è molto che vi sfugge, vero?» osservò Kate con un sorriso. «Facciamo del nostro meglio» replicò Freeman, restituendole il sorriso che subito si spense. «Mi dispiace confermarle ciò che le ha detto la sua amica.» «Abbiamo messo un agente di guardia a casa di McKinnon» riferì Mead. «Buona idea» approvò Freeman. «Ma deve stare attenta. Intendo ogni
minuto.» «Io mi auguro che si diverta troppo a manipolarmi per desiderare di rovinare il gioco uccidendomi.» «Può darsi» disse Freeman. «Ma alla fine si stancherà di giocare.» «Ha cambiato le regole» proseguì Kate. «Ora ci comunica gli indizi prima di colpire. Quindi ha bisogno che io li interpreti.» «È consolante,» commentò Freeman, «ma non è una garanzia.» «Che ne dice di una guardia del corpo per Kate?» domandò Tapell. «Potrebbe spaventarlo» rispose Freeman. «E noi vogliamo che si avvicini» affermò Kate. «La terremo d'occhio» propose Mead. «Nel frattempo la Scientifica sta esaminando ogni centimetro dell'ultima scena del delitto.» Consegnò il rapporto a Freeman. «Questi risultati preliminari sono appena arrivati. Forse non li ha ancora visti.» «Hai chiesto l'appoggio della Mobile, Randy?» domandò Tapell. «Sì. E ho chiesto l'intervento di un'altra dozzina di detective.» Freeman si alzò. «Tapell, presenterò il mio rapporto al Bureau. Si metteranno in contatto.» Si voltò verso Kate. «Stia attenta. Parlo sul serio.» L'ultima volta ha rischiato grosso. Troppo. Se i poliziotti fossero arrivati mezz'ora prima lo avrebbero colto sul fatto rovinando tutto. Però ci sei riuscito. Quasi stenta a credere che nessuno l'abbia udita urlare. L'effetto del narcotico è durato meno del previsto. Pensava che una donna come lei, interessata all'arte, lo avrebbe lasciato lavorare in pace invece... alla prima pugnalata si è messa a strillare come un'aquila. Meno male che abitava sola e che lui aveva portato la boccia di plastica da incollarle sulla bocca. Così era stata zitta. «Comunque ce l'ho fatta» esclama ad alta voce. «È stato... magnifico.» Con gli spilli appende in fila disordinata le fotografie alla parete umida e porosa. «Guarda. Ho fatto un capolavoro. Guarda. Guarda.» Si strappa via gli auricolari. «Osserva gli occhi spalancati, gli indumenti, le scarpe. Esattamente come in quel fottuto Kienholz. Anzi, meglio. Il mio pezzo è più...» Cerca la parola giusta: «Vivo». Gli risponde il tubare dei colombi, lo sciacquio delle onde del fiume. Le ha fornito troppe informazioni? Diavolo, il divertimento è tutto lì. Naturalmente lo sapeva che avrebbe capito. Ma non così rapidamente.
Attento. «Non preoccuparti. Ti sento. La prossima volta aggiungerò qualcosa per rallentarla.» Cosa? «Per esempio, spostare il luogo.» Niente male. Gesù. Era un complimento? Non ci crede. Per un istante prova un delizioso senso di approvazione, possibile? Ha meditato molto sul prossimo pezzo, vuole che sia sagace e provocatorio, per entrambi. E stavolta tenterà qualcosa di fantastico. È stufo di assolo. Questo sarà un duetto. Il problema maggiore è aspettare. Deve sparire per un po', almeno per qualche giorno, affinché si chiedano che fine ha fatto. Ma come soddisfare il suo bisogno? Già sente quel desiderio, profondo, invincibile. Funzionerà in mancanza di pubblico? Nel passato funzionava; certo era molto tempo fa, quando era una persona completamente diversa. Ora ci si aspetta molto da lui. Dopo tutto è l'artista di morte. Non può, e non vuole deluderli. 35 «Sono trascorsi tre giorni, Liz. Non una parola, nulla» disse Kate. La saletta della Patisserie Payard era zeppa di donne magrissime che mangiucchiavano insalate, di cameriere che ritiravano le torte ordinate dalle padrone, di bambinaie che cercavano di controllare l'entusiasmo per i dolci dei loro pupilli. Kate e Liz sedevano a un tavolino di quella versione newyorkese della famosa pasticceria francese. «Credo che stia giocando con i miei nervi, sparendo in questo modo. Comunque continuo a stare in guardia; non dormo.» Allontanò il piatto dell'insalata. «E non mangio.» «Magari succedesse a me» commentò Liz, contemplando la sua pasta a tre strati mangiata a metà. «Scusa, non volevo metterla sul ridere. Secondo me, si è rifugiato da qualche parte per proteggersi.» Osservò gli altri tavoli e abbassò la voce. «I serial killer sono in gamba, Kate. Tu gli sei andata troppo vicino. Ma... si rifarà vivo.» «Lo so. Credimi, non abbasserò la guardia. Non potrei neppure se volessi.» «Bene. Ricorda che i delitti sono manifestazioni delle sue fantasie, che lui mette in pratica, e quelle fantasie non spariscono.»
«No, ma ora io posso immaginarle, da come mette in scena i delitti.» «I serial killer sono molto astuti, Kate. Credono davvero di essere normali e di fare cose accettabili. È per questo che sono così difficili da stanare. Una notevole percentuale sfugge alla cattura.» «Oh, questo sì che mi rassicura!» «Senti, tu sei brava» riprese Liz seria. «Ma a ogni delitto lui diventa più forte, più sicuro di sé, più convinto di essere migliore di te. E un combattimento mentale con un assassino è un gioco pericoloso.» «Lo so. Comunque è un po' tardi per tirarmi indietro.» Kate chiamò il cameriere. «Un caffè, per favore.» Sospirò. «Ehi, conosci per caso un tizio che si chiama Freeman?» Liz scosse il capo. «Beh, lui ti conosce e sa che siamo amiche.» «L'FBI non dorme mai.» «Mi è sembrato in gamba; inoltre è uno che ascolta. Mi è piaciuto. E non guasta che sia di bell'aspetto.» Kate sorrise. «Almeno questa piccola vacanza mi ha lasciato il tempo per farmi fare i capelli e le mani, anche se credevo di esplodere sulla sedia del parrucchiere. Il che mi ricorda la festa di domani sera. Hai ricevuto i vestiti che ti ho fatto mandare da Bergdorf's?» «Sì, ma ho deciso che sto più comoda nella mia tuta di poliestere.» Kate non batté ciglio. «Quale hai scelto, il nero o il rosso?» «Il rosso. Non ho mai avuto un Valentino, né Rodolfo né altri.» «Sarai uno schianto.» «Come hai fatto a indovinare la taglia?» «Ho chiesto la più grande che avevano» rispose ridendo Kate. «Carogna.» Liz la picchiò scherzosamente sulla mano. L'allegria durò poco. «Veramente, Liz, non so come farò domani sera. Non penso ad altro che a questo maniaco in libertà, in agguato, e noi non possiamo agire finché non si muove.» Sospirò sconsolata. «Non so come ho fatto a leggere i segnali nel modo sbagliato.» «Non sei l'unica. La squadra era d'accordo con te, no?» «Purtroppo.» Liz si asciugò le labbra con il tovagliolo. «Che altre vie seguite?» Kate bevve un sorso di caffè, rifletté e disse: «Beh... c'è il furto d'arte, la pala d'altare sparita dall'appartamento di Bill Pruitt e mai ritrovata». «Al tuo posto mediterei su tutto. È quello che avresti fatto ai vecchi tempi, no?»
Kate e Slattery esaminarono il dossier di Bill Pruitt per la centesima volta. «Di solito ci sono due portieri nel palazzo di Park Avenue dove abitava Pruitt» dichiarò Maureen Slattery staccando un pelo dalla felpa di cotone. «Ma quella sera, quando è morto, uno aveva l'influenza o qualcosa del genere. Vediamo...» Prese l'incartamento da un mucchio di fogli sparsi sulla scrivania. «Quello che era in servizio ha detto che nessuno era salito da Pruitt, a parte un uomo ben vestito sui quaranta. Però afferma che è stato molto prima dell'ora presunta della morte, e Pruitt aveva accettato di vederlo perché nessuno sale se non è annunciato.» «Il portiere lo ha visto uscire?» Slattery consultò le carte e alzò le spalle. «Non risulta.» «Vuoi dire che nessuno si è mai occupato di lui?» «Sono stata io a interrogare il portiere. Non ricordava il nome dell'uomo. Ha detto solo che era bianco, alto, sui quarant'anni, ben vestito. Nulla di sospetto.» «Damien Trip era alto e vestito con cura. Forse un po' più giovane della descrizione.» Kate si batté il dito sul labbro. «Al portiere è stata mostrata la fotografia di Trip?» «Ehm... no.» Slattery chinò il capo. «L'avrei fatto, avrei dovuto, ma le cose sono precipitate e...» Kate notò il suo sguardo colpevole. «Non importa, Maureen. Non sarebbe cambiato nulla.» Prese la foto di Trip dal dossier di Slattery. «Però credo che sia meglio far circolare questa foto, tanto per...» «Il portiere ha ammesso di essersi assentato un paio di volte quella sera. Tre minuti per andare al bagno e cinque per una tazza di caffè.» «Il che significa almeno dieci per vuotare la vescica e quindici o venti per riempirla di nuovo.» «Probabilmente.» «Quindi, qualcun altro si sarebbe potuto intrufolare facilmente.» Kate prese il rapporto tossicologico di Pruitt. «Marijuana. Cocaina. Nitrato d'amile. Punto due di livello di alcol. Gesù! Non basta per uccidere un uomo?» «Secondo il laboratorio, no. Pruitt era decisamente 'fatto' ma si tratta di tracce, non sufficienti per ucciderlo.» Kate guardò una fotografia della scena del delitto. «Il medico legale ha detto che il livido sul mento di Pruitt era fresco, risalente al momento
dell'aggressione o prima. Sulla scena sono state riscontrate impronte non controllate?» Slattery sfogliò le carte. «C'erano due serie di impronte non identificate. Temo che finché non prendiamo il nostro uomo non abbiamo nulla con cui confrontarle.» Urne greche in teche di vetro. Pavimenti di marmo bianco e nero. L'atrio di Park Avenue 870 sembrava una galleria d'arte, a parte i portieri in uniforme. Kate trovò quello che era in servizio la notte della morte di Pruitt. «Sono già stato interrogato dalla polizia» disse, guardando sospettoso Kate che assomigliava troppo alle donne eleganti che abitavano in quel palazzo per essere un poliziotto. «Ho fatto la mia deposizione... più di una volta.» Kate gli mostrò il distintivo e la fotografia di Damien Trip. Il cipiglio del portiere si sciolse. Prese la foto nella mano guantata di grigio e si appoggiò alla parete di marmo. «No.» Scosse il capo. «Non ho mai visto quest'uomo. Mi dispiace.» «È sicuro? Mai?» «Sono sicuro.» «Dalla sua deposizione risulta che Bill Pruitt ha avuto una visita quella sera.» «Sì, ma non era l'uomo della fotografia. Era più vecchio e non biondo.» «Può descrivermelo? Ricorda qualche segno particolare?» «Beh, era alto. Indossava un impermeabile.» Chiuse gli occhi e si succhiò il labbro inferiore. «Ma la faccia è confusa.» «Si ricorda cosa indossava ma non il volto?» Il portiere la guardò imbarazzato. «Passa tanta gente...» «Lo avrà annunciato al signor Pruitt. Il nome lo ricorda?» Il portiere abbassò gli occhi sulle scarpe perfettamente lucide e aggrottò la fronte. «Era una serata balorda. C'ero solo io in servizio. Patrick aveva l'influenza e non c'era nessun altro e...» «La ringrazio» disse Kate. Nell'appartamento di Pruitt poteva esserci qualcosa che lo collegava a Trip? Avevano trovato i video pornografici di sua produzione, poteva esserci altro? Non ricordava di aver visto l'agenda di Pruitt. Che fine aveva fatto quella dannata pala d'altare? Mentre era lì, perché non dare un'occhiata?
La biblioteca di Bill Pruitt sembrava un set teatrale, tutto legno e cuoio scuro. Kate osservò le opere d'arte: parecchi impressionisti francesi, alcuni acquerelli di paesaggi marini di John Marin, vecchie stampe americane, un paio di fotografie anni Trenta in bianco e nero di Steichen, ma neppure l'ombra di rari pezzi italiani, almeno non in vista. I mobili erano al loro posto, nonostante le porte scolpite di un enorme armadio fossero spalancate, e il contenuto, album di fotografie, libri rari, una coppia di vasi antichi, sistemato in qualche modo o ammucchiato sul pavimento. In biblioteca Kate si portò alla grande scrivania di quercia, ma i tecnici della Scientifica l'avevano evidentemente preceduta: i cassetti erano aperti e le carte in disordine. Restavano soltanto conti e assegni annullati. Anche l'assassino aveva esaminato quelle carte? Come nell'appartamento di Elena, Kate ebbe l'inquietante sensazione di percepire la presenza dell'assassino. Lo sentiva come un'ombra incombente. Ruotò su se stessa, non vide nulla, respirò di sollievo. Nel bagno di Pruitt non trovò niente di interessante: l'armadietto delle medicine era vuoto e non c'era nulla sul bordo della vasca. L'unica indicazione che quella stanza era appartenuta a un essere umano era la bilancia digitale. Kate immaginò Pruitt in calzini neri e boxer bianchi inamidati che si pesava, preoccupato per l'infarto, le arterie indurite, i problemi cardiaci. Povero Bill. Non di quello avrebbe dovuto preoccuparsi. Cos'era successo esattamente? Il killer era arrivato interrompendo il bagno? No, in quel caso Bill avrebbe indossato l'accappatoio per aprire la porta. E allora? Avevano lottato. L'uomo l'aveva trascinato nella vasca, gli aveva tenuto la testa nell'acqua fino alla morte? Oppure lo aveva stordito di botte e dopo aveva riempito la vasca mettendocelo dentro? Pruitt era pieno di droga e alcol. Non doveva aver resistito a lungo. Kate tentò di ricostruire quella notte. Pruitt morto, il suo corpo atteggiato come nel quadro Marat assassinato. Poi l'assassino aveva girato per l'appartamento cercando qualcosa da portare via. La pala d'altare era in vista? No, probabilmente nascosta da qualche parte. Dopotutto era rubata. Quindi l'uomo se l'era presa comoda frugando tra le cose di Pruitt. Kate provò a ripetere i suoi movimenti. Passò dal bagno alla camera da letto che era stata perquisita dalla polizia: materassi leggermente incavati verso il centro; spogliatoio spalancato, abiti e giacche sparsi, un paio di pantaloni grigi a terra con scarpe di vario tipo. I cassetti aperti sembravano piccole bare; il contenuto sparpagliato sul pavimento.
Nulla come la morte per mettere a nudo la vita, pensò Kate, i tuoi oggetti personali maneggiati con disprezzo da estranei. Aprì i cassetti dei comodini. Non vi era rimasto nulla di importante, solo un pacchetto di preservativi, delle pasticche di menta e un tagliaunghie. Kate tornò inutilmente in bagno e in biblioteca. Il salotto era l'unica stanza che i poliziotti avevano risparmiato. Kate si fermò ad ammirare un quadro: un paesaggio di Monet, il giardino di Giverny. Tirò le tende pesanti e la luce penetrò tra le pareti scure. Indugiò deliziata sull'impasto di colore di Monet e, quando si voltò per andarsene, notò che il sole metteva in evidenza il disegno a gigli della tappezzeria, la venatura dell'alto zoccolo di legno, i dettagli dei tappeti orientali e, seminascosto dal bordo di un tappeto, dietro la gamba di un tavolino, un minuscolo oggetto che sfavillava nel raggio di luce. Un gemello da polsino. Kate lo sollevò tenendolo tra il pollice e l'indice: un perfetto ovale d'oro bordato di onice nero, elegante e discreto. Kate si irrigidì. Doveva essere di Pruitt. Perché no? Era di tipo piuttosto consueto. Eppure, Kate trattenne il respiro mentre ruotava il gemello osservandolo da vicino. La dedica era chiara come nel giorno in cui era stata incisa: A R. CON AMORE K. "Oh mio Dio." Ecco chi era lo sconosciuto alto e ben vestito. 36 Impiegò venti minuti per raggiungere l'ufficio di Richard, venti minuti d'inferno. Il gemello di Richard in casa di Bill Pruitt. Come spiegarlo? Dal finestrino del taxi Kate vedeva confusamente edifici, gente, segnali, luci. La segretaria Anne-Marie sorrise e le porse la mano, ma Kate le passò davanti di corsa. «Kate!» esclamò Richard spalancando gli occhi azzurri. Kate si bloccò sulla porta. Stupito, Richard la presentò: «Il signor Krauser. Mia moglie». «Oh.» Kate inspirò bruscamente. «Scusate, io...» «Non importa» disse l'uomo, che era molto gentile oppure spaventato dall'espressione sul viso di Kate. «Suo marito e io avevamo finito.»
Richard la guardò sospettoso mentre lei chiudeva la porta alle spalle del cliente. «Sai chi era quello, Kate? Il banchiere tedesco che...» Kate buttò il gemello sulla scrivania. «Oh» esclamò Richard con voce da cui la rabbia era svanita. «È un pezzo che lo cerco.» «Non mi stupisce» replicò Kate trattenendo il respiro. «Dove l'hai trovato?» «Nell'appartamento di Bill Pruitt.» Per un istante nessuno dei due parlò. Poi Kate esplose: «Gesù Cristo, Richard! Che cosa significa? Spiegamelo. Per favore». Richard andò all'altra estremità dell'ufficio, raddrizzò una Marilyn di Warhol che non ne aveva bisogno, si voltò e la guardò serio. «Pruitt stava sottraendo denaro a "Offriamo loro un futuro". Avevo rilevato delle discrepanze nelle finanze della fondazione. Quella sera sono andato da lui e...» Richard parlava con calma, pur continuando a raddrizzare quadri, staccare fili invisibili dalla giacca, spostare carte sul tavolo, camminare per la stanza. «Non è come sembra, dannazione. Sono semplicemente andato da lui per chiedere spiegazioni sull'ammanco. Quel bastardo mi ha riso in faccia. Era ubriaco. Ho perso la calma e l'ho preso a pugni.» La lunga figura di Richard crollò sul sofà di pelle sotto una serie di stampe di David Hockney, piscine azzurre, palme, cieli californiani. Guardò Kate negli occhi. «Non crederai che l'abbia ucciso, vero?» Kate lo squadrò dall'alto. «Non so cosa credere.» Si sentiva venir meno. «Oh, andiamo, Kate. Sono io. Richard. Tuo marito.» Già. Il marito che le aveva mentito. L'aveva ingannata. Gli occhi nocciola di Kate lampeggiavano. «Perché non me l'hai detto?» «Volevo ma...» «Ma cosa?» Kate scosse ripetutamente il capo, cercando di capire, mentre le immagini si rincorrevano nella mente: Richard che colpiva Pruitt, il gemello sul pavimento, il livido sul mento di Pruitt. Si premette le tempie con le dita per interrompere quel film atroce. «Dopo dieci anni di matrimonio, come hai potuto non dirmelo?» «Elena era appena stata uccisa e non mi è sembrato importante.» Richard si strofinò le tempie. «Ho pensato che te l'avrei detto più tardi.» «Più tardi?» Kate intrecciò le dita e le nocche sbiancarono. Voleva ascoltarlo, sapere. «E cosa è successo più tardi?» «Pruitt è morto. Intendevo ancora parlartene, ma Arlen James non voleva si sapesse che Pruitt intascava delle somme. Avremmo dovuto affron-
tarlo insieme il giorno seguente. Però, quando è stato trovato morto, Arlen si è spaventato, temeva per il buon nome della fondazione, non voleva rendere pubblica la faccenda. Bastava già la morte di Elena a rovinare la reputazione di "Offriamo loro un futuro". Poi, la storia di Pruitt... Chi avrebbe più finanziato un'istituzione benefica che non sapeva amministrare correttamente il suo patrimonio?» Vero. Eppure Kate non riusciva a liberarsi dal dubbio che la tormentava. Si sentiva debole, confusa. «Ero scioccato. Cioè, Bill era morto e io ero stato nel suo appartamento, avevamo fatto a botte...» Improvvisamente Richard sembrava un ragazzino spaventato. Kate provò l'impulso di abbracciarlo, accarezzargli i riccioli, tranquillizzarlo. Tuttavia, allo stesso tempo, diffidava di tutto ciò che aveva detto. Lavorava davvero fino a tardi quando non tornava a casa? E i viaggi fuori città? Se aveva colpito Pruitt, perché non andare fino in fondo... ucciderlo? Pur opponendovisi con tutte le sue forze, non riusciva a scacciare l'immagine di Pruitt nella vasca e di Richard che gli teneva la testa nell'acqua. E i sentimenti di suo marito nei confronti di Elena, erano stati soltanto paterni? Non voleva pensarci, ma non riusciva a liberarsi da quei pensieri. «Credevo che fossimo una squadra» mormorò. «Lo siamo.» «Lo eravamo» precisò Kate. «Se avessi parlato con me, avrei potuto aiutarti.» «Come, Kate?» Richard scosse il capo. «Dopo la morte di Bill era meglio che tu non sapessi, altrimenti ti saresti trovata in una posizione ambigua: lavoravi a quei casi e tuo marito aveva fatto a botte con una delle vittime. Che impressione avrebbe fatto? Era troppo tardi.» Allargò le mani mostrando i palmi. «Meglio lasciar perdere, ho pensato. Dirglielo quando è finita.» Richard sollevò un fermacarte di vetro dalla scrivania e lo passò da una mano all'altra. «Bill Pruitt stava benissimo quando me ne sono andato. Per favore, Kate. Mi conosci. Sai che non potrei uccidere nessuno.» «Non credevo neppure che potessi picchiare qualcuno» ribatté Kate sedendosi sul sofà. «Supponiamo che Bill sia stato ucciso per aver fatto sparire il denaro.» «Impossibile» replicò Richard continuando a giocare col fermacarte. «Lo sapevamo soltanto Arlen e io.» «E pensavate davvero che io sarei andata in giro a raccontarlo a tutti?» Kate inspirò profondamente. «Credevo mi conoscessi meglio, Richard.»
«Se lo avessi saputo, probabilmente non avresti potuto fare a meno di divulgarlo, e non era il caso, dato che non aveva nulla a che fare con l'omicidio o con l'artista di morte.» Richard spalancò gli occhi. «Dio, ti rendi conto che ero là, da Pruitt, poco prima che quel maniaco l'uccidesse?» «Sì, me ne rendo conto» rispose lei sentendo un brivido nella schiena. «Gesù, hanno le tue impronte, Richard.» «E allora? Le mie impronte non sono schedate. Non sono un criminale.» Guardò la grande finestra che incorniciava una magnifica veduta del fiume Hudson, due palazzi appena costruiti, alcuni moli deserti. «Richard, se lo scoprono...» Kate premette le dita sugli occhi. Voleva cancellare tutto: la morte di Elena, Richard nell'appartamento di Pruitt, quella conversazione. Vedeva macchie nere sotto le palpebre chiuse. «Perché dovrebbero scoprirlo?» domandò Richard smettendo di giocare col fermacarte. «Sei l'unica a saperlo.» «Per ora.» Kate aprì gli occhi e impiegò un momento a mettere a fuoco il viso del marito. «Beh, non lo dirai a nessuno, no?» Richard si allontanò dalla scrivania. «Certamente no.» Kate si rigirò la fede attorno al dito, immaginò di ballare con lui, sentì il tocco della sua mano sulla schiena, la guancia contro la sua, il profumo del suo dopobarba. Era successo solo poche settimane innanzi? Richard le prese la mano. Il gesto la calmò, aiutandola a concentrarsi. «Quando eri in casa di Pruitt hai notato una piccola pala d'altare, una Madonna col Bambino?» «No. Perché?» «Perché Pruitt l'aveva e ora è scomparsa, ricordi?» Richard le lasciò la mano. «Stai accusandomi di averla rubata?» Kate si irrigidì. «Ti ho solo chiesto se l'hai vista! Non rigirare la frittata... facendo passare me dalla parte del torto.» «No, non l'ho vista. Se l'avessi vista, forse l'avrei presa... come risarcimento per il denaro sottratto.» Le prese di nuovo la mano. «Mi dispiace, davvero. Mi perdoni?» Kate desiderava perdonarlo, credergli, dimenticare tutto, ma le immagini non le davano tregua. «Non so.» «Oh, andiamo, Kate.» Le solleticò la mano con le dita facendole venire la pelle d'oca. Gli strinse la mano. «Ci proverò.» Richard tentò di baciarla ma lei lo respinse.
«Scusa, ma ho bisogno di tempo per digerire questa storia.» «Volevo proteggere la fondazione. Credevo che avresti condiviso la mia intenzione.» «Forse, se mi avessi concesso l'opportunità» replicò Kate, incapace di nascondere la delusione. «Ho sbagliato, Kate. Mi dispiace. Avrei dovuto dirtelo.» «Sì, avresti dovuto.» Kate deglutì e lottò con le lacrime che premevano sul ciglio. «Abbracciami.» Lei gli si abbandonò contro. «Per favore, Richard, non nascondermi più nulla, per brutto che sia.» Richard la circondò con le braccia. «Okay. Confesso. Gli strozzini mi minacciano di morte, ho scopato Elizabeth Hurley e ho sparato allo sceriffo.» «Molto divertente.» «Ehi, che fine ha fatto il tuo senso dell'umorismo?» Kate lo guardò negli occhi. «Si è volatilizzato quando ho trovato il tuo gemello sul luogo del delitto.» Seduta sul bordo del suo letto immacolato, Kate non se la sentiva di tornare alla centrale. E se Slattery o Brown le avessero domandato cosa aveva scoperto nell'appartamento di Pruitt? "Oh, solo il gemello di mio marito, null'altro." Era come se tutto le crollasse addosso. Suo marito le mentiva, la condizione finanziaria della fondazione era un disastro, gli omicidi a un punto morto, Willie quasi non le parlava più. Tutto si sbriciolava, lei stessa si stava disfacendo. Le pareva quasi di vedersi sciogliere, sparire. Chiuse gli occhi e vide il gemello di Richard luccicare sotto il bordo del tappeto. Continuava a mentirle? Cosa aveva detto qualche giorno prima, che tutti hanno dei segreti? Lui ne aveva? Maledizione, non voleva crederci. Richard non era un assassino, e lei non era una moglie ingenua che non si accorge dei maneggi del marito. Squillò il telefono ma Kate lasciò rispondere la segreteria: era la sua amica Blair che parlava della fondazione e accennava al fatto che la posizione sociale di Kate si stava appannando. Magnifico. Un altro fallimento da aggiungere alla lista. Ci vorranno settimane per trovare il bambino. Prima di buttarlo nel fiu-
me gli ha legato dei mattoni ai piedi. Però si sente... incompleto. Oh, è stato bello finché è durato, ma ora... Come trarne un profitto? Prova. Chiude gli occhi, immagina di vederlo fluttuare sott'acqua, e, per dare un tocco di colore, aggiunge un variopinto branco di pesci che nuotano accanto al cadavere. Poi qualche detrito del fiume Hudson: un vecchio pneumatico, una sbilenca sedia di metallo incrostata di alghe verdi, una bambola priva di testa, oggetti che servono a creare una natura morta surreale. Ecco! Un pezzo da acquario, come quelli dell'artista britannico Damien Hirst. Oh, chissà cosa darebbe Hirst per avere a disposizione un cadavere autentico. Tuttavia deve ammettere che non si è divertito senza il suo pubblico. Gli si deve avvicinare di nuovo. Cammina per la stanza. Forse è troppo presto, ma ora nulla può fermarlo. Trova l'aggeggio elettronico acquistato on-line. È leggero nella mano, freddo. Lo ha provato più volte. Funziona, altera la voce rendendola irriconoscibile. Lo avvicina alla bocca: «Prova, prova, prova». La parola echeggia nella stanza, riverberando all'infinito la sua voce strana, completamente diversa. «Pronto. Buonasera. Sorpresa di sentirmi?» La voce è così estranea che per un momento lo sconvolge, un'altra voce, un'altra personalità con cui vedersela. Tuttavia, continua a parlare, sa che è la sua voce, sebbene distorta dall'apparecchio di metallo. «Sono io» dice, porgendo l'orecchio all'eco. Io, io, io, io, io... Ride. Come sarà sorpresa! Ma deve procedere? Si. Fallo. «Non sono sicuro.» Fallo! Sei tu il più forte. Invisibile. Riflette. È vero. Basta pensare a come si muove senza che nessuno lo noti. Riesce davvero a essere invisibile, quando lo vuole. Ha il ricevitore in mano. Dopotutto lo fa per lei, per il suo bene. Sogna di correre in un prato. È nuda. Raggiunge il margine di un bosco. Gli alberi sono così fitti che fatica a passarci in mezzo; contorti rami spogli le feriscono la pelle.
C'è anche lui, l'uomo che la chiama per nome. Perché ha tanta paura? ha voce è familiare, non minacciosa. «Per favore, restituiscimelo.» Il bosco è meno fitto. Corre, lo sente alle sue spalle. Lo sente ansimare. Si volta per vederlo, inciampa in un sasso, lascia cadere il piccolo oggetto che stringeva in mano che rimbalza sul terreno e finisce contro un mucchio di foglie marce. Si china, allunga il braccio per prenderlo: è un piccolo gemello d'oro e onice. L'ombra dell'uomo la raggiunge. Ha un coltello. Lei urla e l'urlo riverbera come un'eco infinita. Un suono la strappò dal sogno. Era il telefono accanto al letto. Kate staccò il ricevitore col cuore che batteva forte. «Pronto.» «Pron... to» rispose qualcuno all'altro capo. Ancora smarrita nel sogno, lei domandò: «Chi parla?». «Lo... sai.» La voce era distorta, metallica, rimbombante, mortalmente lenta. D'un tratto Kate fu completamente sveglia. Ricordò che Mead le aveva messo il telefono sotto controllo. "Fallo parlare." «Dove sei stato?» «Vacanza.» «Perché?» «Ti sono... mancato?» Kate rifletté prima di rispondere. Cosa voleva sentirsi dire? «Sì» disse infine. «Mi sei mancato.» Le parve di vederlo sorridere. «Tor.. ne... rò.» «Quando?» «Cer... cami do... mani.» «Dove?» «Alla... festa.» «Come farò a...» Kate udì il segnale di linea libera. Rapidamente digitò il codice e le rispose una voce stanca. «Hai sentito?» «Sì.»
«Puoi rintracciarlo?» «Ci provo.» Nell'attesa Kate si rese conto che si era addormentata vestita. Guardò l'orologio: le cinque del mattino. Inutile tentare di riaddormentarsi. Il poliziotto la richiamò. «La telefonata non è durata abbastanza per rintracciarla, però l'ho registrata.» «Mettiti in contatto con Randy Mead. Subito. Digli che l'assassino mi ha chiamato e assicurati che venga riferito anche a Tapell.» Kate si alzò e rimpianse che Richard fosse su un aereo diretto a Chicago. Maledizione. Aveva proprio bisogno di un po' d'affetto. Poi ricordò il sogno, il gemello, e rabbrividì. Prese il telefono con la mano che tremava. Al diavolo l'ora! Voleva parlare personalmente con Mead e Tapell. 37 Kate rivolta ai membri della squadra seduti attorno al tavolo della sala riunioni: «Avete ascoltato la registrazione della telefonata. Ha detto che verrà alla festa per "Offriamo loro un futuro" al Plaza. Stasera.» Brown tamburellò con le dita sul tavolo. «Quante persone ci saranno esattamente?» Kate tirò un gran sospiro. «Circa cinquecento.» «Ci studio su da quando mi hai telefonato» confessò Mead succhiando l'aria tra i denti. «Abbiamo venti agenti all'interno del Plaza e due a ogni uscita. Naturalmente l'FBI manderà i suoi uomini.» Sospirò. «E sta arrivando Freeman, lo strizzacervelli dell'FBI.» «McKinnon dovrebbe avere addosso un microfono» suggerì Brown. «E io voglio essere presente.» «Hai bisogno di uno smoking» disse Kate, sforzandosi di mantenersi calma. «Te ne faccio mandare uno. Che taglia hai? Una cinquantadue lunga?» «Cinquanta» la corresse Brown tirando indietro lo stomaco. Entrò Mitch Freeman, leggermente ansimante. Si ravviò i capelli chiari e si sedette. «Che cosa è successo?» «Quel fottuto psicopatico ha chiamato McKinnon» disse Mead. «Afferma che stasera sarà alla festa di beneficenza» soggiunse Slattery. «Lo so. Tapell mi ha informato» ribatté Freeman con un cenno a Kate.
«Che altro?» «Beh, non mi ha dato indizi artistici da interpretare» commentò Kate. «Non ha rispettato il rituale.» «Questi individui non possono fare a meno del rituale» dichiarò Freeman. «Ma questo non significa che non verrà. Potrebbe riprendere il rituale dopo il fatto.» Sentendosi rabbrividire, Kate strinse le braccia attorno al corpo. «Non riesco a immaginare che voglia tentare qualche mossa davanti a cinquecento persone.» Dopo un attimo di riflessione Freeman la guardò negli occhi. «A meno che non abbia perso completamente la testa.» Nella stanza c'erano quattro uomini, tre dei quali fissavano le pareti. Quello che stava appiccicando il microfono al diaframma di Kate sembrava un adolescente - imberbe e con un po' di acne sulla fronte - e lavorava con estrema lentezza. Kate aveva la pelle d'oca sulle braccia e chissà dove altro. «Hai finito?» Sentiva i polpastrelli del ragazzo che premevano il nastro contro le costole. «Se me lo leghi così stretto, come faccio a respirare?» «Respiri piano» suggerì lui. Mitch Freeman era accanto a Floyd Brown che molleggiava avanti e indietro sui talloni. «Accertati che il microfono funzioni perfettamente» ordinò Brown rivolto al muro. «Dove sarà il furgone?» Dando la schiena al corpo seminudo di Kate, un altro detective rispose: «Dietro il Plaza. Non preoccuparti, quel microfono funziona a miglia di distanza». «Ascolti,» riprese Freeman, «ammesso che si faccia vivo davvero, lei deve mantenere la calma.» «Cosa dovrei fare? Invitarlo a ballare?» scherzò Kate, pur tremando da capo a piedi. «Veramente, non sarebbe una cattiva idea. Lui vuole starle vicino.» «Era una battuta» replicò Kate deglutendo nervosamente. «Lo so. Senta, non sappiamo cosa farà. Io ritengo che voglia semplicemente osservarla, e si servirà della folla come scudo. Tuttavia questi individui tendono a considerarsi superuomini, quindi non si sa mai.» «Cercherà di parlarmi?» domandò Kate lottando contro i brividi. «Può darsi.» Freeman si voltò, vide Kate in reggiseno di pizzo nero e tornò subito a guardare il muro. «Sto solo invitandola a diffidare di chiun-
que si comporti in modo strano o tenti di toccarla.» «Gesù, Freeman» sbottò Kate. «Ci saranno centinaia di persone che mi baceranno o mi stringeranno la mano.» «Noi ti saremo accanto» la rassicurò Brown. «Hai un posto dove mettere la pistola?» «Non la mia Glock.» Kate sentiva l'ansia salire allo stomaco. «Le procuro una calibro 38. È piccola e può legarla alla gamba, sotto la gonna.» «Lo dice per tranquillizzarmi?» scherzò Kate abbassando gli occhi sul ragazzo che fissava il microfono, le cui dita fredde la facevano tremare. «Hai finito?» «Un secondo. Ecco.» Parlò nel microfono e a lei parve che le sussurrasse nell'ombelico. «Prova, prova...» «Deve solo stare calma e tranquilla» suggerì Freeman. «Come no» replicò Kate cercando di abbottonare la camicetta con le dita tremanti. «Solo balli lenti.» Col microfono incollato al petto, il sottile e aderente Armani comprato per l'occasione non era adatto. Kate aveva l'impressione che le fosse spuntato un terzo seno. Esaminò l'armadio frugando tra gli abiti da sera finché trovò un John Galliano con il corpetto coperto di balze, colpo di testa parigino dell'anno prima e mai indossato. Perché mai l'aveva preso? Non era tipo da falpalà. Beh, stasera lo avrebbe indossato: si poteva occultare un mitra tra tutte quelle balze. Kate posò l'abito sul letto. Era troppo tardi per chiamare Richard. Il suo aereo stava per atterrare all'aeroporto LaGuardia. Se soltanto suo marito le avesse parlato prima dello scontro con Pruitt. Ma ora non voleva pensarci. In bagno cercò di truccarsi ma le tremavano le dita. Doveva calmarsi. Essere lucida e presente, come aveva raccomandato Freeman. Aveva tanti ospiti da accogliere... e sullo sfondo la minaccia di un maniaco. Quel pensiero non l'aiutava a rilassarsi. Si sedette sul bordo del letto, respirò a fondo, grata alle lezioni di yoga che da settimane non aveva il tempo di frequentare. Dopo dieci minuti Kate si sentì sufficientemente calma per applicare il mascara senza accecarsi.
Annodò i capelli in una crocchia approssimativa, infilò le calze nere e il vestito. Sotto le balze il petto era un mare di chiffon nero, e non si scorgevano protuberanze sospette. Si controllò nello specchio. Non male. Il nastro e il microfono le tiravano la pelle. Infilò la mano sotto il reggiseno cercando di staccare i bordi del nastro, ma senza esito. Si rassegnò a sopportare quel fastidio. Quel pensiero scatenò un ricordo: Ruby Pringle, il suo ultimo caso. Anche quel giorno aveva addosso un microfono, nell'eventualità si fosse trovata faccia a faccia con l'assassino invece che con il cadavere di quella povera bambina. "So dov'è perché ce l'ho messa io." Il biglietto. Il pennarello rosso che sembrava sangue coagulato. "Gesù!" Facendo ondeggiare l'abito da sera, Kate attraversò di corsa il corridoio ed entrò nel suo studio. Sul pannello di sughero c'era l'immagine inviatale dall'artista di morte: Kate con le ali e l'aureola sottolineate in rosso e la parola CIAO. La grafia era simile. Kate chiuse gli occhi: Ruby Pringle distesa su un mare ondeggiante di plastica, con la stagnola attorno al capo e i jeans abbassati. Un angelo. Un angelo nudo. Possibile? Ali di plastica. Aureola di stagnola. L'artista di morte? Tanti anni prima? Nella mente di Kate si sovrapposero nomi e facce di persone appartenenti al suo passato. Chi poteva averla seguita da allora... e perché? Fissò le altre fotografie sulla parete: tutti quei cadaveri in posa artistica. Ruby Pringle era stata un primo tentativo di omicidio artistico? Era possibile, sebbene la messinscena non fosse precisa come quelle che il maniaco aveva creato recentemente. Telefonò alla sua vecchia stazione di Astoria ma non riuscì a mettersi in contatto con nessuno che conosceva, nessuno con cui parlare del caso Ruby Pringle. Il poliziotto del centralino non sapeva neppure a cosa si riferisse. Kate infilò la piccola trentotto nella fondina, sollevò la gonna e la legò alla coscia. Per l'omicidio di Ruby Pringle doveva aspettare il giorno seguente. A meno che lui non colpisse quella sera.
Uomini in smoking e donne in abito da sera stavano entrando al Plaza per la cena da mille dollari a testa. In qualità di padroni di casa, Kate e Richard avevano prenotato due tavoli ai quali avevano fatto sedere gli amici strategicamente mescolati a potenziali sostenitori della fondazione. Questi avrebbero intrattenuto e affascinato i sostenitori dai quali, il giorno successivo, ci si aspettava che firmassero in favore di "Offriamo loro un futuro" assegni deducibili dalle tasse. Le regole erano note a tutti e chi non si adeguava non sarebbe stato invitato un'altra volta. Kate aveva chiamato Richard sul cellulare e sapeva che stava arrivando. Floyd Brown era già sulla porta della grande sala da ballo del Plaza, appoggiato al muro, elegante e a disagio nello smoking affittato. Vedendolo Kate non poté fare a meno di sorridere. «Hai il microfono?» sussurrò lui. «Pensi che mi sarei vestita come Bo Peep se non lo avessi?» «Dugan,» chiamò Brown chinandosi verso il petto di Kate «spero che tu senta queste stupidaggini.» «Floyd, vuoi smetterla di conversare con le mie tette?» Brown si raddrizzò imbarazzato e infilò le mani nelle tasche dello smoking. In quell'istante arrivò Blair, l'altra organizzatrice dell'evento, che li guardò incuriosita. Dopo una frettolosa presentazione, Kate infilò il braccio in quello di Brown e lo trascinò via. Per placare l'ansia si impose di respirare a fondo. Un mese innanzi quella serata era la cosa più importante della sua vita, ora sperava soltanto di arrivare viva alla fine. Dopo venti minuti di presentazioni, tra cui il sindaco, Henry Kissinger e una sfilza di personaggi ricchi e famosi, Brown era senza parole. Ognuna delle persone che si affollavano attorno a Kate, chiacchierando, baciandola e stringendole la mano, aveva l'opportunità di farle del male, sebbene entrambi scrutassero chiunque si avvicinava. La folla rendeva Brown estremamente nervoso. Kate invece pareva calma, ma era una finta. Brown vedeva che i suoi occhi vagavano per il salone controllando le mani degli invitati, cercando di identificare gli agenti in smoking, mentre continuava a sorridere apparentemente tranquilla. Un fotografo della squadra di Patrick McMullan li immortalava in ogni posizione, accecandoli con il flash. In ogni volto, in ogni mano che si infilava in tasca si nascondeva un pericolo potenziale. Kate tratteneva il respiro e sorrideva automaticamente,
ma dentro di lei cresceva il panico. «Voglio controllare le guardie alle porte» dichiarò Brown. «Vedere se hanno notato qualcosa di sospetto.» Si chinò su di lei e sussurrò: «Per esempio, quel tizio qui di fianco, a soli due passi, che porta lo smoking peggio di me». «Non preoccuparti» replicò lei battendo la mano sulla coscia per indicare la pistola. La mano tremava. Arrivò Willie con Charlie Kent al braccio. In quanto artista, era esentato dall'abito da sera e indossava una dolcevita di seta nera sotto la giacca di pelle. Kate lo baciò sulle guance ma lui non le restituì il bacio. All'ansia di Kate si unì un velo di tristezza. Osservò l'uomo alle spalle di Charlie che infilava la mano nella tasca interna della giacca. Non lo conosceva. Lanciò un'occhiata d'intesa al poliziotto più vicino che allontanò le persone e afferrò la mano dell'uomo: c'era un fazzoletto tra le dita. «Scusi?» esclamò l'uomo con uno sguardo misto tra incredulo e ironico. «Mi perdoni» rispose il poliziotto. «L'ho scambiata per un altro.» Kate respirò di sollievo e ricominciò a guardarsi attorno. Lui c'era? Per un istante quel pensiero le annebbiò la vista. Persino la musica sembrò lontana, ovattata. Era come se tutti fossero usciti di scena lasciando solo due attori sul palcoscenico. "È per questo che mi ha telefonato," pensò, "per farmi sentire la sua presenza." E ci era riuscito. Kate non poteva scrollarsi di dosso la sensazione che lui fosse lì, vicino, intento a osservare ogni suo movimento, a tirare i fili come un burattinaio. Poi tutto ritornò come prima, il frastuono e il movimento, la gente che le si accalcava attorno, baciandola o prendendole la mano. Kate si sforzava di sorridere ma i nervi stavano per cedere. "Se è qui, perché diavolo non si fa vedere?" Tuttavia, forse l'aveva già salutata, le aveva stretto la mano o baciato la guancia. Quel pensiero la agghiacciò. Era qualcuno che conosceva o un perfetto estraneo? Cosa avrebbe fatto, le avrebbe sparato? No, non c'era nulla di artistico in uno sparo. Inoltre, gli invitati dovevano passare attraverso il metal detector. Gesù, come avrebbero commentato quel dettaglio i giornalisti presenti? Osservando la gente Kate pensò ai balli dipinti da Renoir, ai caffè affollati di Manet, ai ritratti delle famiglie reali di Goya. L'artista di morte aveva un'ampia scelta a disposizione. Che ruolo avrebbe destinato a lei? E
perché lei? Perché? Alla sua destra un uomo le sfiorava la guancia con le labbra e alla sua sinistra una donna le sussurrava all'orecchio, subito sostituiti da altri due. I lineamenti delle persone si confondevano con quelli delle vittime dell'artista di morte: Stein, Pruitt, Amanda Lowe, Elena. Sempre Elena. Kate tremava. Era lei la donna che continuava a sorridere, a stringere mani? Udiva quella voce al telefono, acuta e metallica, che le echeggiava nell'orecchio. Vedeva se stessa con ali e aureola, e quella parola scritta in rosso: CIAO. Una mano sulla spalla. Kate ruotò così velocemente che quasi cadde. Richard la sostenne. «Ferma, tigre.» La baciò sulla guancia. Kate si appoggiò a lui. «Stai bene?» Gli occhi azzurri la scrutarono intenti, la fronte era aggrottata. «Dove sei stato?» domandò Kate riprendendo coscienza del luogo, della folla, del rumore. «Il traffico» disse Richard massaggiandole la nuca. «Che ti prende?» «Sto bene. Un po' nervosa» rispose Kate con un sorriso forzato. Attorno la gente chiacchierava, sbocconcellava canapé, beveva cocktail. «Vieni.» Richard le prese il braccio. «Hai bisogno di sederti.» Il fiorista non aveva deluso le aspettative. I centrotavola di rose, fresie e tulipani, enormi ma bassi, erano interamente bianchi, come le tovaglie e la porcellana. Kate riusciva in qualche modo a chiacchierare con gli ospiti, sebbene le parole sembrassero uscirle di bocca inconsapevolmente. «Sei bellissima» sussurrò a Liz che le era seduta accanto. «Sono felice che tu sia qui.» «Come va?» «Tengo duro.» Liz la guardò preoccupata; stava per dire qualcosa quando Arlen James salì sul podio e si imbarcò in un discorso sull'importanza dell'istruzione e i successi della fondazione, citando il numero di ragazzi mandati al college, spiegando come diventare sostenitori, il tutto col garbo e lo charme di un uomo nato in un castello, benché non lo fosse. Kate lo ammirò, soprattutto considerando che aveva appena firmato un assegno da due milioni di dollari per coprire l'ammanco causato dal defunto William Pruitt il cui nome
non venne mai menzionato. Tuttavia Kate non riusciva a rilassarsi e continuava a scrutare i tavoli, gli angoli e le ombre della stanza. Dove si trovava lui? Giocherellò col tovagliolo attorcigliandolo in grembo. Che l'artista di morte volesse soltanto tormentarla? Era possibile. Guardò Richard all'altro lato del tavolo. Quando lui le sorrise, le lampeggiò nella mente il gemello trovato in casa di Pruitt. Arlen James continuava a parlare ma Kate non poteva concentrarsi. Si alzò mormorando una scusa e uscì di corsa dal salone. I poliziotti e gli agenti dell'FBI la seguirono nell'atrio. «Vado alla toeletta» disse lei. Aveva bisogno di stare sola. Un poliziotto ispezionò la toeletta prima di permetterle di entrare. Kate si appoggiò al lavabo, inspirò profondamente più volte, bevve un sorso d'acqua e si bagnò la fronte. Era pallida e le tremavano le mani. Maledetto. Stava intenzionalmente giocando con i suoi nervi. E maledetto anche il microfono che prudeva fastidiosamente. Kate tentò di spostarlo senza successo. Entrò in un camerino e tirò giù la cerniera dell'abito. Improvvisamente udì dei passi. Abbassò lo sguardo e vide delle scarpe nere. Da uomo. Impugnò la pistola ma in quel momento irruppero gli agenti gridando: «Fermo! Mani in alto! Non muoverti!». Kate strinse la trentotto e aprì la porta con un calcio. A terra, bloccato dai poliziotti, c'era un uomo in smoking, sui sessanta o più, con l'aria terrorizzata, tre pistole puntate al capo e due al cuore mentre un altro poliziotto gli stringeva la gola. «Gesù!» esclamò Kate. «Lo ucciderete.» L'uomo era quasi in lacrime. «Non sapevo fosse la toeletta delle signore» borbottò con voce impastata. Era ubriaco. «Non ha fatto nulla» affermò Kate porgendogli la mano. Quell'uomo non poteva rappresentare una minaccia. «Sta bene?» domandò stringendogli la mano. L'uomo non riusciva a parlare. Era bianco come un cencio e le mani tremavano disperatamente. All'ingresso del Plaza Kate e Richard, seguiti da Floyd Brown, furono bersagliati dai flash. Un gruppo di cronisti della televisione e della stampa li circondarono, armati di telecamere e microfoni. Evidentemente la notizia dell'incursione della polizia nella toeletta del salone delle feste si era diffu-
sa in fretta. Con reazione automatica, Kate indietreggiò nell'atrio stringendo il braccio di Richard. Brown suggerì di uscire da un'altra parte e Kate stava per seguire il consiglio ma un pensiero la fermò: «Ora è il mio turno». Si consultò con Brown e lo mandò fuori ad affrontare i cronisti, poi controllò il suo aspetto nei grandi specchi dorati del Plaza. «Che succede?» domandò impaziente Richard. «Osserva lo spettacolo» disse Kate uscendo. «Uno per volta» gridò Brown alla folla radunata sui gradini del Plaza, e indicò a una graziosa reporter della televisione di cominciare. «Allora non è stato l'artista di morte ad aggredirla stasera?» domandò la donna. «No» rispose Kate. «Non sono stata aggredita da nessuno.» I cronisti parlarono tutti insieme ma Brown li fece tacere puntando il dito verso un noto giornalista di una TV locale che fece un passo avanti. «In quanto famosa esperta d'arte, che ci dice dell'artista di morte?» Le aveva fatto la domanda richiesta e Kate con un cenno d'intesa e fissando la cinepresa, esordì: «Dovete considerare che gran parte dell'arte contemporanea si fonda su un'idea, è così da quando è cominciata l'arte concettuale alla fine degli anni Sessanta». Alcuni reporter si scambiarono occhiate confuse, ma ora Kate parlava a lui, non ai cameramen o ai cronisti, soltanto a lui. «Nell'arte concettuale è l'idea che determina l'opera. L'opera d'arte è, o dovrebbe essere, l'illustrazione perfetta dell'idea e dell'intenzione dell'artista. Se considerate il lavoro dell'artista di morte sotto questo punto di vista, beh... è carente.» Fece una pausa e fissò la telecamera, immaginando che lui fosse là, intento a guardarla e ascoltarla. «Il fatto è che il suo lavoro non è affatto chiaro. Io non capisco dove vuole arrivare. Mi piacerebbe ma...», e sempre con gli occhi puntati sulla telecamera: «Non ci riesco». Un cronista gridò: «Che ci dice del caso? Può parlarci di come procede?». «No» rispose Kate. «Posso solo discutere di arte.» Ora tutti urlavano domande ma lei si allontanò: la sua missione era compiuta. 38
Kate indicò la sua fotografia con le ali e l'aureola appuntata sul pannello nella sala riunioni. «È stata la grafia a darmi l'idea» disse. «È molto simile a quella di un biglietto che ho ricevuto durante il mio ultimo caso ad Astoria.» «Risale a molto tempo fa» osservò Mead. «Non troppo. Ho telefonato ieri sera, e di nuovo stamani, per farmi mandare quello che hanno su quel caso mai risolto, soprattutto un'impronta che non è mai stata individuata.» «Pensi davvero che possa essere stato l'artista di morte?» domandò Slattery. «Su tutte le scene dei delitti abbiamo trovato impronte non attribuite a nessuno. Se una coincide con quella del crimine di dieci anni fa...» «Cosa dicono ad Astoria?» chiese Brown. «Che tutti i delitti non risolti da oltre otto anni sono stati messi su microfiche, trasferiti su disco e inviati a Quantico un anno fa.» «Lo facciamo anche noi» intervenne Mead. «Ora è automatico.» «Ho provato a ottenere l'informazione dal website dell'FBI ma mi è stato negato l'accesso» disse Kate. «Sono sicuro che quelli là non vedono l'ora di informarti» ironizzò Mead. «Sì, ma preferisco chiedere alla mia amica. Non c'è motivo di abusare del Bureau.» Mead fece una smorfia che sembrava quasi un sorriso e appoggiò i gomiti sul tavolo. «Ti dispiacerebbe spiegarmi il tuo spettacolino di tarda serata in TV?» «Ho dato soddisfazione al nostro omicida» spiegò Kate «visto che vuole essere trattato da artista. Ho fatto un discorso sull'arte molto serio e, che lo capisca o no, ne sarà incuriosito e gli farà venir voglia di rilanciarmi la palla.» «Questo non è un gioco» ammonì Mead. «È qui che si sbaglia, Randy. Questo è un gioco.» Gli occhi di Kate diventarono due fessure. «Credo gli farà piacere che mi sia rivolta a lui come a un artista. Ho misurato accuratamente le parole. Ho detto che non capivo bene il suo lavoro perché voglio che si esprima più chiaramente... per noi. Tutta quella tirata sull'arte concettuale mirava a fargli puntualizzare le sue idee, a renderle perfettamente chiare.» Incrociò le braccia. «Capito?» Slattery scosse il capo. «Non completamente.» «Se sono chiare le sue idee, lo saranno anche gli indizi. Noi potremo in-
terpretarli più rapidamente e iniziare prima la caccia, e catturarlo, se siamo fortunati. La prossima volta voglio capire bene.» Kate li guardò negli occhi. «Voi no?» «E se non ti mandasse altri indizi?» domandò Mead tirandosi il farfallino. «Scherza? Praticamente gli ho fatto una recensione alla TV. Ho detto che lavora bene ma non abbastanza. Secondo me non vede l'ora di dimostrare quanto può essere bravo... e chiaro.» L'ira monta, il pensiero di distruggerla gli occupa la mente, selvaggio, incontrollabile. Però capisce che sta giocando con lui. Naturalmente sa che è geniale. Come potrebbe evitarlo? Gli ha fatto una richiesta e lui dovrebbe darle retta. Raccogliere la sfida. Se è la chiarezza che vuole, la avrà. Ma come può rendersi più chiaro? Quella donna non sa quel che dice. Ha mai provato a lavorare con soggetti vivi? Che lottano, resistono, cercano continuamente di ostacolare la sua creatività. Cammina per la stanza. I topi si nascondono negli angoli, spariscono nelle fessure del pavimento. Deve inventare qualcosa di assolutamente speciale, di eccezionale, degno di entrambi. Deve farlo. Le voci. Oggi ha avuto paura che gli altri potessero udirle. Sono così dannatamente alte. Penetranti. Ma no... la sua segretaria e i collaboratori sorridevano. Guarda le fotografie di Amanda Lowe appese al muro: la sua mostra personale del momento. Com'è possibile che lei non riconosca il suo genio? Ma certo che lo riconosce. Non può farne a meno. Pensa alla telefonata, all'effetto che ha sortito. Tutti quei poliziotti che lo aspettavano. Così stupidi. Credevano veramente che fosse tanto sciocco da rischiare per uno scherzo? Che arte c'era in quel giochetto? Tamburella con le dita sul tavolo. Vite d'artisti. Il libro è sull'altro lato del tavolo. Lo prende e lo culla in grembo come un bambino, lo sfoglia, studia lentamente le illustrazioni, le fotografie di Willie, Elena e gli altri artisti. Perché lui non è citato? Di lui scriveranno; lo sa. Un giorno scriveranno un intero volume sulle
sue opere. Nell'ultima pagina, proprio sotto la foto dell'autrice, legge il suo curriculum, la laurea strepitosa, persino il titolo della tesi di dottorato: Espressionismo astratto. Dipingere con il corpo. E in quell'istante gli viene in mente l'idea perfetta. Ora non deve far altro che applicarla al 'duetto' che sta organizzando. Tira verso di sé la scatola colma di cartoline e riproduzioni. Stavolta le esaminerà con metodo, meticolosamente, una alla volta. Non impiega molto a trovare ciò che cerca. Le immagini perfette. L'idea perfetta. Le dita guantate tremano di eccitazione mentre dispone le immagini una accanto all'altra. Chiaro? Oh cielo, più chiaro di così... Floyd Brown non sorrideva, né nella fotografia né dal vivo. Eccolo lì, con McKinnon, lei in abito da sera, lui in smoking. E Henry Kissinger. L'immagine accuratamente ritagliata da una pagina del «New York Times» era appiccicata alla bacheca degli eventi della polizia. Katherine McKinnon Rothstein, Floyd Brown e Henry Kissinger al ballo di beneficenza di "Offriamo loro un futuro" al Plaza. Dal mattino lo tempestavano di battute e scherzi. «Come sta Henry?» «I miei rispetti al tuo amico Henry.» «Bello smoking.» «Tu e McKinnon, eh eh eh!» Il prossimo che avesse aperto bocca, lo avrebbe steso. Brown strappò via la foto e stava per accartocciarla ma si fermò. Dopotutto era ritratto accanto a quel fottuto di Henry Kissinger. Brown sorrise e infilò la foto in tasca. Vonette ne sarebbe andata fiera. «Brown!» lo chiamò un agente arrivando di corsa dal fondo del corridoio dove c'era l'ufficio di Mead. Se questo ragazzo dice una parola, pensò Brown, una fottuta parola sulla fotografia, è un uomo morto. «Brown» ansimò l'agente. «Mead ti vuole nella sala riunioni del terzo piano. Immediatamente.» La borsa di plastica contenente la posta di Kate era in mezzo al lungo tavolo della sala riunioni. Quando Brown entrò Slattery stava consegnando a
un poliziotto una grossa busta marrone. «Per il laboratorio» ordinò Slattery. «Di' a Hernandez che è urgentissimo. Controllo interno ed esterno.» Kate era china sull'immagine appena ricevuta e la scrutava con la fronte aggrottata. Mead le stava accanto con in mano la lente d'ingrandimento. «Che ne dici? Pensi che...» «Per favore» intervenne Kate levando una mano per farlo tacere. «Concedetemi un minuto.» Le immagini erano due. Una lunga, rettangolare; l'altra quasi quadrata. Su entrambe si vedevano figure vaghe ma dipinte con pennellate decise in rosa acceso e rosso sangue con tocchi cremisi. «Sembra un bagno di sangue» osservò Slattery. «Silenzio!» Kate spinse i capelli dietro le orecchie. «Okay. Sono due quadri incollati uno accanto all'altro. Entrambi di Willem de Kooning, il grande pittore americano dell'espressionismo astratto.» «Non mi sembrano un granché» disse Slattery. «Lo sono» ribatté Kate. «Te lo assicuro.» «Il nome non sembra americano» fece notare Brown. «È olandese» precisò Kate sforzandosi di non spazientirsi. «Ma ha vissuto e lavorato in questo paese.» Mead piagnucolò, ansioso: «Ma cosa significano?». «Se state zitti due minuti... e mi lasciate pensare» reagì Kate guardandoli con occhi feroci. Mead fece un passo indietro. «Scusa» balbettò Slattery. Si udivano passi, telefoni e sirene che suonavano, ma nella sala riunioni regnava il silenzio. Passò un minuto e Kate restò china sulle immagini. Sembrava che tutta la squadra trattenesse il respiro. «Forse può essermi utile un po' di associazione di idee» asserì infine Kate. «De Kooning. Espressionismo astratto. Due immagini. Due quadri.» Si interruppe, guardò le foto dei delitti sul muro. «Due quadri. Due vittime! Stavolta ucciderà due persone.» «Sei sicura?» domandò Mead stringendo nervosamente il cellulare. «No, ma direi che vale la pena scommetterci. L'ho sfidato a essere chiaro, ricordate? Questa è la prima volta che ci manda due immagini, una accanto all'altra. Entrambe figure, cioè due persone. Ritengo che ora tutto ciò che fa vada preso alla lettera.»
«Merda» borbottò Mead. «Mi servono i miei libri d'arte» disse Kate. «Voglio controllare i titoli di questi due e tutte le informazioni relative.» «Possiamo provare su Internet» suggerì Slattery. «Non sono sicura che troveremmo questi quadri. Non sono opere particolarmente note di de Kooning.» Mead chiamò un'auto di pattuglia. «Ho una macchina tra Central Park West e l'Ottantesima» annunciò passando il telefono a Kate. «Saranno a casa tua tra pochi minuti.» «Okay. Non spaventate i portieri o la mia governante. Quando sarete nell'appartamento vi dirò dove trovare i libri», e un attimo dopo Kate guidò gli agenti nella biblioteca specificando i due volumi che le servivano. «Saranno qui molto presto» affermò restituendo il telefono a Mead. «Dipende dal traffico.» Tornò a esaminare i quadri. «Deve essere tutto qui dentro. Chiaro. Ovvio. Ha accettato la mia sfida.» «E se così non fosse?» domandò Slattery. «Allora siamo fregati, ma scommetto la vita che mi ha preso in parola.» Kate passò con lo sguardo da un quadro all'altro e inspirò. «Dannazione. Sono bloccata. Cominciate pure a farmi domande... qualsiasi cosa che mi metta in moto il cervello.» «Beh, io più o meno scorgo due figure» osservò Slattery. «Però non chiaramente. Cioè, è un pasticcio. Cosa vuol dire?» «Okay. Vediamo se riesco a riassumere. L'artista vuole farti percepire il quadro mentre si sviluppa, come se te lo dipingesse sotto gli occhi.» «Oh. Sì, credo di capire» affermò Slattery. «Per questo il colore è confuso e sgocciolante, giusto?» «Giusto» approvò Kate. «Le figure emergono durante la pittura, escono dal subconscio dell'artista, in un certo senso. Assumono un'esistenza propria.» Kate camminava per la stanza. «Cos'altro? Cos'altro?» Si batté il dito sul labbro, si passò la mano tra i capelli. «De Kooning apparteneva all'espressionismo astratto. Come Jackson Pollock, Franz Kline. Sono artisti interessati al processo creativo, alla creazione nel momento del suo divenire. La pittura è un'estensione del loro corpo.» Si bloccò di colpo. «Aspettate un minuto. Un fottuto minuto! È l'argomento della mia tesi di dottorato: la pittura come estensione del corpo.» «Come fa a saperlo?» domandò Brown. «È scritto sulla quarta di copertina del mio libro... e potete essere certi che lui ne possiede una copia.» Le era venuta un'idea; un'espressione di
sconcerto si diffuse sul suo viso. «Vuole dimostrarmi che può essere dannatamente chiaro, che mi illustrerà la mia fottuta tesi.» «Cosa vuoi dire?» domandò Brown. «La pittura è un'estensione del corpo. Quindi userà un corpo, una vittima, per dipingere un quadro.» Ora il pensiero si manifestò così chiaramente da sconvolgerla. Preciso come la sensazione continua di avere quell'individuo dietro le spalle, che la guidava, le sussurrava all'orecchio. Le pareva addirittura di udirlo pensare. «In che modo agirà?» domandò Slattery. Kate scosse il capo. «Non lo so.» «A chi toccherà stavolta?» chiese Mead. Kate tornò a osservare le immagini. «Deve essere qui dentro.» Prese la lente e la spostò lentamente sulle riproduzioni. «Un momento. Guardate. Ha tracciato qualcosa sui dipinti, proprio come con il Kienholz. È molto indistinto ma...» Indicò le immagini e porse la lente a Mead. «Qui. Sul quadro di sinistra ha disegnato una minuscola farfalla e un francobollo. Vedi?» Mead guardò e annuì. «Cosa cazzo significa?» «Non lo so» rispose Kate. «Aiutatemi, gente.» «Insetti?» suggerì Slattery. «Postini?» propose Mead. «Ma cosa li collega?» Kate scosse il capo e si rivolse a Mead. «So che è vietato fumare in tutto l'edificio, Randy, ma se non accendo una sigaretta esplodo.» «Fuma» replicò lui. Kate accese e inspirò. «Cosa collega farfalle e francobolli?» «Sono entrambi piccoli» suggerì Mead. «Non è vero» obiettò Brown. «Ho uno zio che colleziona farfalle e ne ha un paio grandissime.» «Colleziona...» Kate soffiò il fumo verso il soffitto. «La gente colleziona farfalle e francobolli. Merda! Ecco! L'ultima volta era un mercante d'arte, stavolta è un collezionista! Due collezionisti. Sta completando il cerchio. Pittore, presidente di museo, mercante, e adesso tocca ai collezionisti. Merda.» «Ma chi?» domandò Mead succhiando l'aria tra i denti. «Chi?» Entrarono due poliziotti con i libri di Kate: due grandi volumi su Willem de Kooning. «C'era un ingorgo fottuto a Midtown» si giustificò uno. Kate prese un libro e spinse l'altro verso Brown. «Cerca i quadri che ci
ha mandato.» Cominciarono a sfogliare freneticamente le pagine. Mead urlava nel cellulare ordinando a una squadra di emergenza di tenersi pronta. «Ne ho trovato uno» esclamò Brown. «Anch'io» disse Kate. Posarono i libri aperti uno accanto all'altro. Kate sottolineò i titoli col dito. Sul volume di sinistra: La visita, 1966-67. Su quello di destra: Donna, Sag Harbour, 1964. Kate cercò nelle ultime pagine. «La visita è alla Tate Gallery di Londra. Non ci interessa.» Esaminò la pagina seguendo i titoli col dito. «Ecco. Qui. L'altro quadro: Donna, Sag Harbour. Collezione Nathan e Bea Sachs, New York.» «Prendi l'elenco telefonico» ordinò Mead a uno dei poliziotti. «Li conosco» dichiarò Kate. «Abitano a Park Avenue, verso la Sessantasettesima.» Mead stava già comunicando l'informazione al cellulare. «Un momento» disse Kate. «Hanno una casa negli Hamptons. A Sag Harbour, naturalmente.» Guardando alternativamente Slattery, Brown e Mead soggiunse: «Gli ho chiesto di essere chiaro, no?». Improvvisamente tutti si misero in movimento. Slattery contattò la squadra di emergenza. Mead inviò delle auto fino all'appartamento di Park Avenue, per sicurezza, quindi parlò con la polizia della contea del Suffolk spiegando che dovevano recarsi subito alla residenza di Sag Harbour. «Devo chiamare Tapell e lei avvertirà l'FBI.» Kate fissava i quadri di de Kooning. Cosa aveva detto Slattery? «Sembra un bagno di sangue». Pregò Dio che arrivassero in tempo per evitarlo. Bea Sachs era delusa. In primo luogo perché suo marito Nathan non l'aveva accompagnata nello studio dell'artista, poi perché l'artista, che stava srotolando un grande disegno astratto in un angolo del piccolo studio di East Hampton, era vecchia. Beh, non proprio vecchia, ma neppure giovane. Oltre i quaranta di sicuro, ancora sconosciuta, e per giunta una donna. Tre inconvenienti. Da dimenticare. Quell'artista di mezza età credeva forse che dei collezionisti del livello di Bea e Nathan Sachs potessero essere interessati al suo lavoro? Bea si sforzò di sorridere. Lisciò la gonnellina da tennis e incrociò le gambe che, come le avevano detto molti amici intimi, erano all'altezza di
una trentenne. Non male per una donna che ne confessava sessantacinque, soprattutto considerando che la settimana seguente ne avrebbe compiuti settantatré. L'artista stava parlando di forma e funzione, ma Bea non l'ascoltava. Pensava invece che avrebbe ucciso la sua amica Babs che le aveva combinato la visita a quel terribile studio. Dopotutto, lei e Nathan avevano impiegato anni a costruirsi la loro collezione d'arte, iniziando con impressionisti minori, subito venduti naturalmente, appena si erano resi conto con orrore che assolutamente nessuno si curava di opere di seconda qualità. Comunque avevano ricavato un ottimo profitto vendendo tutto all'asta. In seguito, alla fine degli anni Sessanta, con l'aiuto di un astuto mercante d'arte, avevano iniziato a comprare gli espressionisti astratti, Franz Kline, Willem de Kooning, Robert Motherwell, quando costavano poco, perché tutti si buttavano sulla nuova Pop Art. Ora i quadri degli espressionisti astratti ornavano le pareti della casa di Sag Harbour, accanto a qualche Warhol e Lichtenstein, perché naturalmente anche loro avevano dovuto acquistare le icone della Pop Art. Oh, sì, lei e Nathan erano collezionisti attenti alle mode. Bastava un'occhiata all'appartamento di Park Avenue per avere un catalogo degli artisti più notevoli degli ultimi cinque anni, e non un nome sconosciuto tra di loro. Bea stava cercando il modo per concludere rapidamente la visita e tornare da Nathan che si era buscato un'influenza. Tuttavia l'artista continuava a mostrarle un dipinto dopo l'altro. «Questo può essere considerato il progenitore di gran parte del mio lavoro» sentenziò. "Oh, cielo." Bea le rivolse una domanda di cortesia: «Espone a New York?». La donna scosse il capo. «Lo farei ma il mio astrologo ritiene che non sia ancora pronta.» Bea sorrise debolmente. «Ma non è difficile vendere se non si è noti a New York?» L'artista parve ferita dalla domanda. Bea era annoiata fino alle lacrime, ma la sconosciuta pittrice di mezza età sembrava non rendersene conto. Ogni volta che Bea faceva per alzarsi, lei tirava fuori un'altra noiosa astrazione. "Astrazione?" Scherziamo? Dov'era la novità, il tocco graffiante? La rivelazione che avrebbe alimentato la conversazione durante le cene settimanali di Bea.
La donna stava preparando il tè. Una maleodorante tisana ecologica. Bea sospirò. Non aveva scampo. E il povero Nathan l'aspettava a casa con le medicine e le gocce che gli aveva promesso di comprare in farmacia. 39 Non si aspettava che un vecchietto rinsecchito fosse tanto pesante. Gli ha infilato le mani sotto le ascelle e lo trascina su e giù lungo la parete. Per fortuna ha indossato una tuta di plastica, altrimenti si ridurrebbe in uno stato pietoso. Nathan Sachs geme, semicosciente. «Stai facendo la storia, caro Nathan. La storia!» La parete bianca è coperta di strisce, chiazze, spirali rosso sangue tra le quali emerge l'immagine di una figura umana. «Quasi finito, Nathan. Resisti.» Ansima sotto il peso dell'uomo. «Ancora qualche tocco. Non è perfetto.» Fatica a sollevare Nathan Sachs sempre più in alto, per far scorrere i moncherini del vecchio sulle parti ancora intonse della parete. «Ecco. Solo ancora qui. Dobbiamo concentrarci ora, vecchio mio. Dobbiamo renderlo perfettamente chiaro.» Il sangue che un attimo prima sgorgava dai polsi dell'uomo comincia a rallentare. Lo solleva avanti e indietro, avanti e indietro. C'è una pozza di sangue sul pavimento. Le scarpe di tela dell'uomo si impregnano, spostano il sangue creando bolle di schiuma rossa. «Bello» commenta lui, poi quasi inciampa in una mano di Nathan Sachs e scalcia via, disgustato, l'appendice amputata. «Questa non mi serve» dice. «Dipingo con il corpo. Il corpo!» Fa un passo indietro per ammirare il dipinto, il corpo del vecchio è pesante tra le braccia. Lascia cadere Nathan Sachs nel lago rosso ai suoi piedi. L'uomo si acciambella in posizione fetale, i moncherini insanguinati stretti contro il corpo. Trema, poi resta immobile. Lei dov'è? Guarda l'orologio. Non può attendere a lungo. Deve agire in fretta. Guarda l'altra parete bianca, il quadro di qualità inferiore che ha staccato per far posto al capolavoro che creerà con Bea Sachs. "Maledetta." Conta su una donna e rovinerai un piano perfetto, il suo "duetto". Solleva da terra l'altra mano di Nathan Sachs, immerge l'indice nel sangue, scrive le sue iniziali - una grande A, una D minuscola, poi una M - nell'angolo in basso a destra. Osserva un attimo, poi ci ripensa. Non va bene. Cancella la firma
col dorso della mano, intinge l'indice di Nathan nel sangue e la sostituisce con un D minuscola e una K maiuscola. Così va meglio. Guarda la mano amputata di Nathan che pare una prosecuzione della sua: un altro tipo di pittura come estensione del corpo. Avrebbe dovuto pensarci prima, si sarebbe risparmiato di trascinare sul muro il corpo del vecchio. Ma voleva essere chiaro. Letterale. Un corpo è un corpo, non si può barare. In questo modo è sicuro di non deludere Kate. La sente così vicina, come se fosse lì, in quella stanza, intenta a osservarlo, a esaminare con lui il dipinto completato, a fare commenti estetici. Cosa direbbe? Un po' troppo rosso? Forse. Si guarda attorno per trovare qualcosa da usare e vede nel caminetto dei resti di legno bruciato, del carboncino fatto in casa. Con alcuni tocchi decisi disegna il profilo piuttosto vago di una forma femminile, poi traccia grandi seni rotondi. Il legno penetra nel sangue ancora bagnato sulla parete. Fa un passo indietro e contempla l'opera, grattandosi distrattamente il naso con la mano di Nathan Sachs. Dio mio, il dipinto è anche meglio di quanto si aspettasse. Lei ne sarà veramente colpita. Infila la mano amputata nella tasca della tuta. Ha deciso di tenerla. Guarda l'orologio. Deve aspettare che arrivi la moglie? No, meglio di no. Se Kate ha capito, e non ne dubita, saranno qui fra poco. Non si preoccupa di raccogliere la sega elettrica che è sul pavimento accanto al corpo di Sachs. Non ce n'è bisogno. Non vi ha lasciato impronte. Esce, toglie i sacchetti di plastica che proteggono le scarpe, si sfila la tuta, mette il tutto nella borsa da ginnastica che ha lasciato presso la porta posteriore della casa dei Sachs. Costeggia di corsa la piscina, scavalca la siepe e sparisce tra gli alberi. In lontananza urlano le sirene ma lui ha raggiunto la sua macchina. Bea Sachs tremava. Kate le posò il suo maglione sulle spalle sottili. Mead confabulava con il capo della polizia di Sag Harbour e tre detective. Erano arrivati nel momento in cui Bea Sachs infilava la chiave nella toppa. I poliziotti avevano invaso la casa dei Sachs e frugavano in ogni angolo come maiali in cerca di tartufi.
Kate, Brown, Slattery e Mead avevano trascorso oltre due ore nella stessa automobile, con Mead alla guida e la sirena costantemente accesa. Kate aveva mal di testa e i nervi a fior di pelle. Con mani e labbra tremanti Bea Sachs aveva ripetuto gli eventi della giornata per cinque o sei volte: era uscita di casa verso mezzogiorno per andare a giocare a tennis al club; quindi aveva chiamato il marito per sapere come si sentiva; Nathan non stava bene e le aveva detto di andare allo studio mentre lui avrebbe fatto un sonnellino. Bea gli aveva promesso di portargli qualche farmaco per il raffreddore. Quella era stata l'ultima volta che gli aveva parlato. Dopodiché era andata in macchina a East Hampton a visitare lo studio di una pittrice, e infine alla farmacia di Sag Harbour. I detective del Suffolk fecero le domande consuete: suo marito aveva dei nemici, qualcuno che voleva vendicarsi? Kate e la squadra sapevano che erano domande inutili; l'artista di morte aveva scelto i coniugi Sachs per pura convenienza, come esempio di collezionisti d'arte. Possedevano tutti i requisiti e vivevano in una casa isolata. «Almeno abbiamo salvato la moglie» dichiarò Mead, dopo che Bea Sachs fu sedata e portata all'ospedale. Si rivolse a Kate e borbottò: «Ottimo lavoro». Kate replicò con un breve cenno del capo. «L'allarme era ancora inserito» disse uno dei detective della polizia del Suffolk. «Evidentemente la vittima ha fatto entrare l'assassino.» «Quindi Sachs lo conosceva» dedusse Brown. «Oppure non lo riteneva pericoloso.» Un agente della Scientifica del Suffolk fotografò ripetutamente la parete e le iniziali nell'angolo in basso a destra. «Non capisco il D K. Cosa significa?» domandò Brown. «Stavolta non ha firmato con le sue iniziali ma con quelle dell'artista di cui ha copiato l'opera, de Kooning» disse Kate. «Ha voluto essere chiaro come gli avevo chiesto.» Scosse il capo. "Dannazione, a cosa serve che capisca il suo intento se poi arrivo sempre troppo tardi?" Osservò la mano amputata dentro una busta di plastica. «Avete trovato l'altra?» gridò Brown a un poliziotto sull'altro lato della stanza. «Non la troveranno» intervenne Kate con voce piatta. «L'ha portata via.» Mead smise di parlare col capo della polizia del Suffolk. «Come fai a saperlo, McKinnon?» «Lo so e basta.» Kate chiuse gli occhi e le parve di vedere l'artista di
morte che aggiungeva le iniziali con la mano di Nathan Sachs e poi decideva di conservare quel macabro pennello. Gesù. Era talmente condizionata da quell'individuo da averne la nausea. «Peccato che non si sia trattenuto qualche minuto in più» osservò uno degli agenti del Suffolk. «Sapeva su quanto tempo poteva contare» chiarì Kate. L'uomo la guardò incuriosito. «Come?» «Non importa» rispose Brown al posto di Kate, che era già uscita dalla stanza e si stava accendendo una sigaretta sotto il portico. Il detective vide la luce del fiammifero, poi quella della sigaretta, e pregò Dio che Kate non crollasse. Sapeva benissimo che effetto faceva entrare nella mente di quegli psicopatici. Quando era successo a lui, non vedeva l'ora di uscirne. 40 «Ci siamo» disse Liz. Kate prese una sedia nel minuscolo ufficio di Liz all'FBI di Manhattan e osservò il nome RUBY PRINGLE apparire sullo schermo del computer. Gli occhi irritati dalla mancanza di sonno prudevano. La notte precedente avevano impiegato quasi tre ore a tornare da Sag Harbour. Durante il tragitto Kate, Brown, Slattery e Mead avevano discusso dell'omicidio di Nathan Sachs: se solo avessero capito prima gli indizi, se fossero arrivati un'ora prima... Poi l'FBI aveva voluto conoscere ogni dettaglio. L'unico motivo per cui non si erano ancora appropriati del caso era perché Mitch Freeman li aveva convinti che la squadra di Mead si stava avvicinando all'assassino. Kate non sapeva se quella fosse una benedizione o una maledizione. Arrivata finalmente a casa, era crollata sul letto, lieta che Richard fosse tornato a Chicago per lavoro. Sicuramente non sarebbe stata in grado di rispondere alle sue domande. «Vorrei tutte le fotografie del delitto e i rapporti del laboratorio» chiese Kate fissando lo schermo. «E dovrebbe esserci un riferimento a un'impronta che non siamo riusciti a identificare.» «Aspetta» Liz fece scorrere il documento. Sullo schermo apparvero numerose immagini in bianco e nero: la discarica, mucchi di rifiuti, la povera bambina morta. Tutto ancora così vivido nella mente di Kate che le parve persino di sentire il calore di quel giorno d'estate. Liz toccò un paio di tasti e le immagini si ingrandirono. Kate vide
lo smalto scrostato sulle unghie di Ruby Pringle e il rossetto sbavato sulla guancia. Gli occhi spalancati la fissavano, ora come allora. Sullo schermo sembravano scuri ma Kate ricordava che erano azzurri. Un attimo dopo Liz raccoglieva i fogli dalla stampante e glieli consegnava. «Gesù!» Kate inspirò profondamente. «Speravo di non vederla mai più.» Invece osservò i dettagli: il foglio di stagnola che formava un'aureola attorno al capo della bambina, le ondeggianti ali di plastica. «Sembra davvero un angelo. Potrebbe essere opera dell'artista di morte.» Kate guardò lo schermo riflettendo. «Guarda se c'è una nota nel file. Un biglietto che aveva mandato. Sono sicura che è stato registrato.» Liz fece nuovamente scorrere il documento. Eccolo: So dov'è perché ce l'ho messa io. «È questo» affermò Kate. Fissò le parole sullo schermo e rivide il biglietto originale sul sedile della macchina che, tanti anni prima, la conduceva in quel luogo orrendo. Con mani tremanti prese la fotografia di se stessa con ali e aureola e la parola CIAO tracciata in rosso. «Sicuramente l'FBI ha un dipartimento di grafologia.» «Certo, ma non qui» rispose Liz. «Posso mandare un fax a Quantico per farli analizzare.» «Quanto ci vorrà?» «Dipende. Se la mia amica Marie oggi è in servizio, avremo la risposta immediatamente.» Liz infilò i due scritti nel fax, poi tornò al file di Ruby Pringle. «Ecco il rapporto del laboratorio. E la tua impronta a grandezza naturale. Te la stampo così potrai farla confrontare con le impronte dei tuoi casi, per vedere se coincidono.» Kate osservò l'impronta emergere dalla stampante. L'avrebbe condotta a lui, o a un altro cadavere? Kate si esercitò a respirare come le avevano insegnato alle lezioni di yoga. «Sei diventata brava con questi aggeggi, Liz.» «Grazie. Ti farò sapere appena ricevo notizie da Quantico sulle grafie.» Tornando alla stazione di polizia Kate non riusciva a smettere di pensare a quel CIAO. Era un indizio per farle sapere che da anni quell'individuo era parte della sua vita oppure era stato un errore? No. L'artista di morte era troppo in gamba, troppo meticoloso. Voleva che lei sapesse.
Okay. La conduceva dove voleva, ma stavolta Kate sapeva dove stava andando. «Perfettamente identiche» dichiarò Hernandez. Kate fissava un altro computer in cui era stata inserita l'impronta fornita da Liz. Per alcuni secondi un'infinità di impronte si erano sovrapposte finché due avevano coinciso. «Identica a quale?» domandò Kate. «Quale caso?» «Il delitto Stein» rispose Hernandez controllando i suoi documenti. «Vediamo un po'. L'impronta è stata rilevata da un quadro, quello con l'immagine del piccolo violino incollata sopra.» Grazie a Dio Kate aveva mandato gli agenti a prenderlo, quando si era accorta che il violino era un'aggiunta per la messinscena dell'Apollo e Marsia di Tiziano. «Il tuo uomo deve essersi tolto i guanti per incollare il violino e ha sfiorato la tela. Poi ha pulito il violino ma non il quadro.» «Anche se lo avesse fatto, la pittura a olio è molto sensibile e l'avrebbe trattenuta, no?» chiese Kate. «Giusto.» «Quindi questa è l'unica impronta coincidente di tutte le scene dei delitti dell'artista di morte?» domandò Kate. «Almeno finora» rispose Hernandez. Le restituì l'impronta insieme con una serie di fax di Quantico. «Questi sono arrivati per te.» Poco dopo Kate dispose sotto gli occhi della squadra, sul tavolo della sala riunioni, le foto del delitto Ruby Pringle, i risultati della ricerca sull'impronta, l'analisi grafica di Quantico e due grossi volumi d'arte: Pittura del Rinascimento e Arte Cristiana Primitiva. I colleghi, compreso Mitch Freeman, avevano l'aria esausta, occhiaie profonde, rughe attorno alla bocca dovute al cipiglio costante. «Con il riscontro dell'impronta e il responso di Quantico che indica che le grafie corrispondono al settanta per cento, parrebbe proprio che si tratti dell'artista di morte» disse Kate. «Chi ha fornito le informazioni?» domandò Freeman guardando i documenti dell'FBI. «Il Bureau» replicò Kate con un'alzata di spalle come a dire, chi altro? Freeman non insistette. «Gesù!» esclamò il capo della polizia Tapell. «Questo tizio ti tallona dai
tempi di Astoria.» «Ma per anni è sparito dalla circolazione» osservò Mead. «È sparito per quanto riguarda McKinnon,» obiettò Freeman, «ma avrebbe potuto continuare a lavorare indisturbato.» «Poi ho scritto il libro, ho fatto la serie televisiva e sono riapparsa sul suo radar» disse Kate sfogliando le pagine dei volumi. «Ci sono angeli praticamente dappertutto. Si chiamano putti.» Ne mostrò alcuni al gruppo. «Non trovo nulla di specifico ma potete vedere che effetto voleva ottenere con Ruby Pringle. Quello è stato un primo tentativo. Non aveva ancora perfezionato il suo rituale.» «Una buona idea sarebbe controllare tra i casi irrisolti se qualcosa ricorda il lavoro dell'artista di morte» suggerì Tapell. «Senza offesa, esaminare vecchi casi non credo serva ad altro che a dimostrare che è stato attivo in questi anni. Il fatto è che negli ultimi dieci anni nessuno ha riconosciuto il rituale perché cambiava continuamente, appariva sempre diverso. Ma ora sappiamo che esso è basato sull'arte. Prima nessuno ne era informato. Ora il gioco è cambiato, e possiamo catturarlo. Non dobbiamo far altro che attendere che mi mandi un altro indizio.» «E se decide di non farlo?» domandò Tapell. «Oh, lo farà. Vuole mettermi alla prova. Lo so.» «Sono d'accordo» intervenne Freeman. «Ma stavolta dobbiamo agire in fretta, essere pronti.» «Lo saremo» confermò Tapell. Guardò Kate con la fronte aggrottata. «Ho sentito dire che pensi di lasciare la città. Di andare a Venezia?» Kate scosse il capo. «Ho cambiato idea.» Tremò sebbene facesse caldo nella stanza. È questo che voleva l'artista di morte: controllare la sua vita, manipolarla, tenerla qui, portarla là? «Non vado in nessun posto.» È vero. L'ultima volta c'è mancato poco. Ma se l'è cavata, no? Ha calcolato perfettamente i tempi. È stata colpa di quella stupida donna che non è arrivata. Gli sarebbe piaciuto completare il lavoro. Prova una fitta di rimpianto. Ma no, la respinge. Questa è storia. Il passato è passato. Non tutto può essere un capolavoro. Dopotutto, persino lui è umano. Gli è concessa un'imperfezione occasionale, no? E non è andata male, nulla di cui vergognarsi. D'accordo, il colore non era perfetto, il sangue del vecchio era un po' anemico, ma lo spirito del quadro c'era tutto e questo è quel che conta. Lei ha capito.
Ha capito troppo in fretta. «Ma no» dice fissando il muro di latta luccicante. «Comunque, ora me la prenderò comoda.» No. Continua. Fallo. La parete di latta gli distorce i lineamenti, riflette una persona assolutamente irriconoscibile. Si avvicina, passa la mano sul metallo come per accarezzare il suo viso storto. «Chi sei?» Tu sei me. Io sono te. Scuote il capo, osserva il viso contorcersi sulla parete. Fa un passo indietro. Il viso si dissolve. Spinge via la mano di Nathan Sachs, sembra un artiglio avvizzito, la carne violacea, le dita adunche, e fruga nella scatola di cartoline e riproduzioni. Ha bisogno di qualcosa di solido, che lo faccia sentire sicuro. Sì. Dovrebbe farlo ora che è al culmine del suo potere. Perché no? Ci ha meditato a lungo e sa esattamente che immagine vuole usare: qualcosa di straordinariamente grandioso e mitico, qualcosa di perfettamente adatto a lei. Si mette all'opera. Sostituisce la lama del coltello, controlla la colla. Neppure le voci riescono a distrarlo. Trascorre un'ora. Sul tavolo c'è una confusione di pezzi di carta, ma il prodotto finito è la semplicità in persona: chiaro, audace, statuario. Eppure, quando lo prende in mano viene colto dalla tristezza. Questo lavoro non è la solita fotografia o la ciocca di capelli. Questo è un capolavoro. È la rappresentazione dell'essenza. E l'essenza stessa. L'unica. Sono lacrime quelle che gli bagnano le guance? Non lo sorprende vedere che il guanto è umido quando si asciuga gli occhi. Fatti forza. Ricorda che sei un superuomo. Raddrizza le spalle. Sì, può farlo. E dopo, quando lei se ne sarà andata? Dio, quella donna gli mancherà. Ti troverai un'altra musa. Charlie Kent raccolse il passaporto, i biglietti aerei e il programma degli eventi della Biennale di Venezia e li infilò nella cartella Filofax di cuoio brunito. Aprì lo spogliatoio e provò il solito piacere contemplando quel capolavoro di sfruttamento dello spazio: l'unico vero lusso del suo modesto appartamento. Scaffali fino al soffitto. Otto paia di scarpe per scaffale: eleganti, casual, sportive, da sera. Fibbie, fiocchi, fermagli. Due scaffali più alti solo per gli stivali. Tutto sistemato in base al colore: dal bianco al beige, dal beige al
bruciato, dal bruciato al marrone, dal marrone al ruggine, dal ruggine all'arancione, dall'arancione al rosso. Tre scaffali dedicati interamente al nero. Charlie sospirò di pura soddisfazione. Per i due giorni e mezzo a Venezia scelse nove paia di calzature che infilò accuratamente nei sacchetti di pelle scamosciata e infine sistemò nella valigia tra gli indumenti. Ci buttò dentro anche una camicia da notte rosa molto sexy. Il consiglio di amministrazione del museo della diversità non si era opposto a pagare le spese di viaggio per Willie, non dopo che lei aveva acquisito quell'importante quadro firmato WLK Hand direttamente dall'autore. Charlie non si sarebbe stupita se Morty Bernstein, presidente del consiglio e accanito collezionista di opere di Willie, si fosse prostrato a baciarle il culo. Charlie sorrise guardando il disegno che Willie le aveva regalato e che, già incorniciato, stava appeso sul letto con altre opere d'arte ricevute nel corso degli anni da molti aspiranti artisti. Oh, sarebbe andato tutto benissimo. Aveva progetti più grandiosi del museo della diversità. Si era già incontrata con alcuni membri del museo di arte contemporanea informandoli che lei, e lei sola, sapeva come traghettare il loro museo nel ventunesimo secolo. Altro che quel laido Raphael Perez, che Charlie faceva del suo meglio per sputtanare a ogni occasione, o Schuyler Mills, figuriamoci. No, il lavoro sarebbe toccato a lei. Lanciò un'occhiata allo spogliatoio aperto. Magari ancora un paio di scarpe, per non correre rischi; per esempio, i sandali Chanel bianchi e blu che a New York non metteva mai ma erano perfetti per Venezia. Raphael Perez buttò quattro slip Perry Ellis nella piccola borsa di pelle posata sul sofà, sotto il poster della sua prima mostra per il museo di arte contemporanea: Il corpo bello. Disturbi alimentari come manifestazione artistica. Sorrise alle immagini di donne con le dita infilate in gola che vomitavano o si inserivano clisteri. Sapeva di dover lavorare molto a Venezia. Doveva partecipare alle feste importanti, coltivare le persone giuste, trattare con quella puttana di Charlie Kent, ignorare Schuyler Mills, ma sarebbe stato facile con tanti collezionisti e addetti ai lavori da blandire. Aprì il primo cassetto dell'armadio, scelse due fazzoletti, la sua cravatta preferita di seta azzurra e un'altra verde oliva a disegni cachemire, le infilò nella borsa accanto alle mutande.
Direttore del museo di arte contemporanea. Sì, quel titolo gli stava a pennello. E ora che Amy Schwartz andava in pensione e Bill Pruitt era morto, chi poteva fermarlo? Willie non aveva idea del clima che avrebbe trovato a Venezia. Doveva portarsi la giacca di pelle? Perché no? Se faceva caldo, poteva sempre toglierla. Piegò due camicie bianche, la cravatta nera che Elena gli aveva regalato per l'inaugurazione della sua prima mostra, il suo portafortuna, mise tutto nello zaino insieme con sei o sette CD, il lettore, biancheria e oggetti da toeletta. Meditò se aggiungere la raffinata colonia inglese regalatagli da Kate alcuni mesi prima, svitò il tappo di peltro, ne versò un po' sul palmo e si bagnò le guance. Un sottile profumo di limone con un tocco di arancia, rinfrescante, pulito. Buona. Kate era imbattibile nel trovare l'aroma perfetto. Willie guardò un quadro incompleto che Darton Washington aveva ammirato e persino pensato di comprare solo poche settimane prima. Aveva cercato di superare la morte di Darton e la rabbia che provava. Tuttavia non si trattava solo di rabbia; tutto sarebbe stato più semplice. Willie appallottolò un paio di calzini e li infilò nello zaino. Era anche un senso di colpa, per aver ingannato Kate. Per aver dato del denaro a suo fratello Henry, affinché sparisse dalla circolazione. Se si esaminava onestamente sapeva che era per quel motivo che aveva usato la morte di Darton Washington per rompere con Kate. Willie allungò la mano verso il telefono. Avrebbe dovuto chiamarla. Stava attraversando un momento schifoso, forse anche più di lui. Ma non ci riuscì. Si domandò se Kate soffrisse quanto lui della separazione. Grazie a Dio se ne andava da New York per qualche giorno. Infilò nello zaino una cintura di pelle nera. Una visione gli lampeggiò davanti agli occhi, così improvvisa che quasi cadde all'indietro. Era come l'ultima, quella che aveva avuto in macchina: "Kate che si dibatteva nell'acqua." Ma stavolta c'era anche lui. Ma lui non si dibatteva. Non si muoveva. Willie aprì gli occhi e non vide più nulla. Un attimo di buio assoluto. Poi, eccola di nuovo: "Acqua fangosa. Lui e Kate." Improvvisamente la visione svanì. Brown tamburellava con le unghie sul tavolo della sala riunioni. Mead
succhiava l'aria tra i denti. L'imperturbabile Mitch Freeman sospirava facendo schioccare le dita. Slattery masticava gomma facendo le bolle. Kate la guardò. «Maureen. Per favore. Smettila con quel rumore fastidioso.» «Io?» Slattery sputò la gomma nel cestino. «E loro?» replicò guardando i tre uomini. «Cos'ho fatto?» domandò Mead. «Calmiamoci tutti» propose Brown. Erano chini attorno all'ultima creazione dell'artista di morte. Li aveva tenuti in attesa, ma non a lungo. «Okay, occupiamoci di questa cosa, d'accordo?» Per l'ennesima volta Kate guardò ciò che aveva davanti: il dipinto di un uomo legato a un antico pilastro, il corpo trafitto da una dozzina di frecce, con il viso di Kate incollato su quello originale. «È il San Sebastiano di Andrea Mantegna, un pittore italiano del quindicesimo secolo.» «Con la tua faccia» intervenne Slattery. «È la foto del "New York Times"» osservò Brown. «Quella della festa di beneficenza.» Kate respirò come alle lezioni di yoga. Si aspettava che l'artista di morte arrivasse a lei. Era inevitabile. Sentiva che le si stava avvicinando sempre più. E ora era successo. Finalmente. Solo loro due. «Io sono la ciliegina sulla torta» disse. «Sono l'autore di libri d'arte.» «Oh, molto molto di più» precisò Freeman. «Lei è il suo trofeo.» "Il suo trofeo." Le parole riverberarono. Kate spostò la lente sull'immagine del santo, cercando di controllare il tremito della mano. «Nessun disegno nascosto, stavolta. Solo la mia foto sul viso del santo e la figura incollata su un altro quadro, Vista del Canal Grande di Canaletto.» Inspirò profondamente. «Il messaggio è chiarissimo. Ci comunica chi e dove: io, a Venezia.» L'artista di morte le aveva mandato un invito. Doveva permettergli ancora una volta di manovrarla come un burattino, di attirarla a Venezia? Poteva immaginarlo, intento a elaborare il suo piano, a pensare a lei. Sì, doveva farlo. «Ci vado» annunciò. «Devo.» «Aspetta» intervenne Mead. «È troppo pericoloso.» «Mead ha ragione» confermò Freeman. Kate infilò le mani tremanti in tasca. «Mi aspetta. Non posso deluderlo.» Le sembrava di avere lo stomaco annodato, ma non avrebbe mostrato di
aver paura. «Come faccio a proteggerti laggiù?» domandò Mead. «Mi fa piacere che si preoccupi per me, Randy.» Kate gli rivolse un sorriso sornione. «Però devo andare.» Mead aveva le labbra serrate, la fronte aggrottata. «Parlerò con Tapell per vedere se riesce a organizzare qualcosa con l'Interpol e la polizia italiana.» «Possono occuparsene i federali» suggerì Freeman. «Noi trattiamo direttamente con l'Interpol.» «Mi lasci andare con McKinnon» propose Slattery. Mead ci rifletté un attimo. «Forse. Non so. Devo pensarci.» «Non è una cattiva idea» intervenne Freeman. «Potrei andare anch'io» soggiunse Brown. «Impossibile» dichiarò Mead. «Non posso mandarvi tutti. Qualcuno deve restare qui nel caso si tratti solo di uno stratagemma per spedire McKinnon fuori città.» «No» soggiunse Kate. «Lui non lavora così.» «La telefonata che ti ha fatto prima della festa era uno scherzo.» Mead succhiò l'aria tra i denti. «Te ne sei dimenticata?» «La telefonata aveva lo scopo di mettermi sull'avviso, per tenermi sotto controllo» ribatté Kate. «L'arte non c'entrava. Non c'era un progetto da rispettare.» Batté il dito sull'immagine del santo martirizzato. «Ma questo è specifico. Chiaro. Lo porterà a termine, o almeno ci proverà.» Si passò le dita tra i capelli, poi le incrociò in grembo per fermare il tremito. Freeman si protese in avanti. «Credo che abbia ragione. Dovrebbe andare. Sono sicuro che il Bureau fornirà una squadra per proteggerla.» Kate scosse il capo. «Se sono attorniata da un gruppo di robot americani con i capelli a spazzola, capirà subito che sono agenti federali. Non agirà per paura.» «Non ha torto» ammise Freeman. «Tenterò di tenere a bada i robot ancora un po'.» «Grazie.» Kate osservò il collage dell'artista di morte, la sua faccia incollata su quella di San Sebastiano, e sospirò. «Domani apre la Biennale di Venezia. Dovrà colpire questo fine settimana, e noi dobbiamo essere pronti per lui.» Fece i bagagli senza la solita cura. Niente strati di carta velina tra le camicette, cosmetici e oggetti di toeletta nelle loro bustine di plastica. Sta-
volta Kate infilò alla rinfusa un abito da sera e il resto in una piccola borsa da viaggio. «Sarei venuto con te se non avessi annullato il viaggio» disse Richard. «Ora sono impegnatissimo con riunioni e deposizioni.» «Mi dispiace» replicò Kate. «Credevo di non poter andare, ma poi ho deciso che avevo proprio bisogno di una vacanza.» «Bene, sono contento che tu parta.» Richard era seduto sul bordo del letto e si tagliava le unghie. «Richard, per favore. Camminerò sulle scaglie delle tue unghie per giorni e giorni.» «No» ribatté lui guardandola. «Sarai a Venezia e Lucille passa l'aspirapolvere ogni giorno.» Aveva ragione. Che importanza poteva avere che si tagliasse le unghie? Kate era tesa, ecco tutto. E Richard era stato gentile a rientrare presto per salutarla. «Willie sarà lieto della tua presenza, anche se manco io» osservò e tornò a tagliarsi le unghie. Clip, clip. «Lo spero.» Kate prese il flacone più piccolo di Bal à Versailles e l'infilò nella borsa. L'assurdità del gesto la colpì. Profumo? Per un assassino? «Qualche giorno di pausa ti farà bene.» «Sì.» Non gli aveva detto perché andava a Venezia. Se Richard avesse saputo del collage di San Sebastiano, che la sua vita era in pericolo, non l'avrebbe mai lasciata andare. E probabilmente non aveva torto. Ma lei doveva partire. Era decisa a sconfiggere l'artista di morte al suo stesso gioco. Ora Richard si limava le unghie. Un'immagine attraversò la mente di Kate: la mano di Elena sul tavolo dell'obitorio, le unghie della ragazza tagliate corte. Kate scosse il capo per scacciare la visione ma non ci riuscì. «Richard. Ti prego. Smettila.» «Cosa?» «Le unghie. Mi... dai fastidio.» Richard lasciò cadere la lima sul letto e la guardò stupito. «Sono un po' tesa.» Appallottolò un paio di collant e li mise nella borsa. Richard le posò il braccio sulle spalle. «Devi rilassarti, tesoro.» «Ci sto provando.» Le massaggiò la nuca con le dita. «Sei sicura di non volere che annulli tutti i miei appuntamenti e parta con te?» Kate gli sfiorò la guancia. «No, meglio di no.» Voleva che partisse con lei? Moltissimo. Ma non da quando l'artista di morte l'aveva contattata. «Ti
porterò un mucchio di cataloghi su cui perdere la testa.» «Bene.» La baciò sulla guancia. «E sbrigati a tornare. Mi mancherai.» 41 Dall'inizio dei tempi Venezia affonda nella laguna dai sette ai dodici centimetri per secolo. Nel ventesimo secolo il ritmo è salito a venticinque centimetri e continua ad aumentare. Sono stati elevati i marciapiedi e le sponde dei canali, innalzati i cavi elettrici e telefonici, la gente si è trasferita dal pianoterra al primo piano delle case. Ben presto i veneziani vivranno ammucchiati nelle soffitte e i turisti ammireranno dall'elicottero la favolosa gemma dell'Adriatico. Eppure, per Maureen Slattery la gemma splendeva luminosa. Dal vaporetto che scivolava sul Canal Grande non si stancava di guardare il cielo ceruleo, le acque verde smeraldo, i palazzi dorati. L'unico inconveniente era la polizia italiana che non le mollava un minuto. Marcarmi e Passatta. Dopo molte discussioni tra le varie forze dell'ordine, era stato deciso di assegnare due agenti a difesa di Kate, ventiquattro ore al giorno, con controlli ogni due ore da parte della polizia italiana e dell'Interpol. Slattery li aveva soprannominati Macaroni e Pasta. Il primo era sui trenta, bruno, carino; il secondo poteva avere quarant'anni, attraente, serio, gran fumatore, nervoso. Entrambi parlavano inglese, talvolta con qualche esitazione. La giornata era calda, umida, con un vago odore di marcio nell'aria. «Di una bellezza fottuta» commentò Slattery. «Già» asserì Kate guardando i palazzi affacciati sul canale. «Sei preoccupata, McKinnon? Non hai detto più di due parole da quando siamo atterrate.» «Sì. Ho di che preoccuparmi, Maureen» replicò Kate. «Oh, hai ragione. Scusa. Sono sopraffatta da questa città.» «Perdonata.» Kate fissava le scure acque veneziane. Sentiva la presenza dell'artista di morte ovunque volgeva lo sguardo. Frutto della sua immaginazione? Temeva di no. Scesero dal vaporetto a San Marco. Slattery vide la basilica, il palazzo ducale, la piazza stupefacente. «Come riesce tutto questo a restare a galla?» «È così da secoli, signorina» rispose Passatta con una smorfia di rimprovero sulle labbra. «E credo che continuerà, almeno fino alla vostra parten-
za.» «Grazie, amico» sorrise Slattery. Marcarmi e Passatta le scortarono al Gritti Palace, uno degli hotel più famosi e lussuosi di Venezia dove Kate e Richard avevano trascorso la luna di miele, e si accamparono davanti alla porta della loro suite. Il fattorino posò le borse sugli appositi sostegni e Kate gli diede dieci euro di mancia. Slattery esaminò la stanza sontuosa, la vista perfetta dalla finestra aperta: il Canal Grande, le gondole, le chiese. «Oh mio Dio. Sono morta e mi trovo in paradiso. Sarebbe un sogno se non avessimo quei due alle costole, sebbene siano entrambi di bell'aspetto, specialmente Macaroni.» «Macaroni?» si meravigliò Kate, sorridendo per la prima volta. «Sì, e quello serio è Pasta.» Kate rise, felice della presenza di Slattery, di non essere sola. «Tutti i poliziotti italiani sono belli. È un requisito indispensabile per essere assunti.» Passò nelle altre stanze. «Vieni qui, Maureen.» «Gesù Cristo!» esclamò Slattery sulla soglia del bagno d'oro e di marmo. «È più grande del mio appartamento.» «Dobbiamo chiamare Mead.» Kate sollevò la cornetta del telefono. «Oh, tipico. La linea non funziona.» «In un posto raffinato come questo?» «In Italia i telefoni funzionano a mezzo tempo, e a Venezia anche meno.» Tentò con il cellulare. «Merda. Ho scordato di caricarlo.» «Lo chiamiamo più tardi» suggerì Slattery. «Ehi, a chi tocca il lettone?» «Tutto tuo» rispose Kate. La facciata del commissariato di polizia di Venezia era coperta di sculture dorate, sebbene l'oro fosse in gran parte consunto dalla muffa che saliva dalla base dell'edificio. Kate e Slattery dovettero affrontare una prova di pazienza chiamata «tempo italiano». Quasi un'ora di attesa, poi un'altra ora con un funzionario importante che non sapevano chi fosse o cosa dovesse fare e che si guardò bene dal precisarlo, limitandosi a intrattenerle con vari caffè espresso e il resoconto di una sua memorabile visita alla Grande Mela, alcuni anni innanzi. Seguì un giro di un'ora all'interno della centrale. Quando finalmente uscirono, Marcarmi e Passatta si appiccicarono loro addosso. Kate tentò di scaricare la tensione attraversando il ponte di Rialto e una serie di coloriti mercati e negozi. Tuttavia, ovunque guardasse, le
ombre oscuravano la luce, le calli incantevoli apparivano spaventose. Slattery pareva non accorgersi dello stato d'animo della compagna. Si riempiva gli occhi come un bambino a Disneyland. «Cos'è questa chiesa?» Kate alzò lo sguardo. «Oh, San Zaccaria. È una piccola chiesa rinascimentale. Dio. Sembrano trascorsi secoli da quando sono venuta a vedere il Bellini.» «Il chi?» «Giovanni Bellini. Uno dei maggiori pittori veneziani, e uno dei miei preferiti.» «Entriamo?» Kate sospirò. «Abbiamo poco tempo, Slattery. Dobbiamo andare alla Biennale e...» «Dai, McKinnon. Questo potrebbe essere il mio primo e unico viaggio a Venezia» implorò guardandola con occhi supplichevoli. «Va bene.» Dopotutto si trovavano in una delle più famose città d'arte del mondo. «La chiami piccola?» esclamò Slattery osservando l'alto soffitto a volta, i pilastri decorati, il pavimento di marmo, i banchi scolpiti e i numerosi quadri. «Piccola per l'Italia.» Kate rabbrividì. Seppur bellissima, la chiesa era buia e umida. Slattery si inginocchiò e fece il segno della croce. «Abitudine.» Marcarmi e Passatta restarono accanto al portone mentre Kate guidava Slattery lungo la navata, verso il secondo altare. «È questo il Bellini?» «Sì. Ma aspetta.» Kate fece cenno al sacrestano che si avvicinò lentamente disegnando lunghe ombre con la tonaca. Kate sentì un altro brivido. Era soltanto l'umidità? Infilò alcune monete da un euro nella mano del sacrestano e un istante dopo il capolavoro di Giovanni Bellini uscì dall'oscurità e brillò in tutto il suo splendore. «Wow. È stupefacente come ha dipinto dei pilastri accanto a quelli veri e la cupola sembra una versione in miniatura di quella grande, con le figure disposte all'interno.» «Ehi, hai la stoffa di un autentico storico dell'arte, Maureen.» «Parli sul serio?» Slattery si coprì rapidamente la bocca senza riuscire a fermare un rutto. «Scusa.» «Non preoccuparti. Dio non ascolta.» "Forse non ascolta mai" pensò Ka-
te. Maureen si avvicinò al quadro di Bellini. «Non so come facessero a dipingere così. Io non riesco neppure a tracciare una linea dritta.» «Beh, imparavano da piccoli, nelle botteghe, come apprendisti di grandi artisti, e per il loro maestro facevano di tutto, dal mescolare i colori al lavare i pennelli al dipingere parti dello sfondo.» «Schiavi dell'arte, eh?» «Esattamente. Ma nel caso di Giovanni Bellini, fu suo padre Jacopo a fare da maestro a lui e al fratello Gentile.» Passatta e Marcarmi, che tendevano l'orecchio, si erano inoltrati lungo la navata e le avevano raggiunte. «Lei insegna storia dell'arte, signora?» domandò Marcarini. «Più o meno» rispose Kate. «Non "più o meno"» precisò Slattery. «È famosa.» Passatta inarcò il sopracciglio. Slattery si appoggiò alla balaustra e guardò la Vergine. «Com'è bella, sembra tutto vero. Potresti quasi entrare nel quadro e sederti in grembo alla Madonna.» «In questo consiste la pittura del Rinascimento» spiegò Kate. «Forme tondeggianti e ben rilevate, spazi profondi che invitano chi guarda a entrare dalle finestre. La prospettiva era appena stata riscoperta.» «Chi l'aveva perduta?» «Molte cose andarono perdute nei secoli bui» riprese Kate scrutando le ombre e le pieghe del dipinto di Bellini. I secoli bui. Così le erano sembrate le ultime due settimane. Tornarono in piazza San Marco. Nella luce del pomeriggio il palazzo ducale luccicava d'oro. «Comincio a sentire il jet lag» dichiarò Slattery. «Ci sediamo un momento?» Si accomodarono in un bar con vista sulla piazza. Slattery ordinò un cappuccino, Kate un espresso doppio. Marcarmi si appoggiò a una colonna, a pochi passi di distanza. Passatta fumava sotto i portici. Nessuno dei due staccava gli occhi da Kate ma lei non riusciva a rilassarsi. Tanta gente si fermava a salutarla, in gran parte newyorkesi a Venezia per la Biennale. Ogni volta che qualcuno si avvicinava, Kate fremeva e i poliziotti si irrigidivano. «Accidenti, conosci davvero tutta la gente del mondo, McKinnon?»
«Solo a Venezia, e solo questa settimana. Sono collezionisti, artisti, critici d'arte.» Pagò il conto. «Andiamo, prima che il jet lag ti stenda. Devo vedere la mostra e i quadri di Willie.» Ma non era tutto. Kate sapeva che l'artista di morte l'aspettava... e non voleva deluderlo. La Biennale di Venezia era come un enorme luna-park, ma senza giostre, bambini e baracconi, che si teneva ad anni alterni ai Giardini, un grande parco lontano dalle attrazioni turistiche della città. Alcuni vecchi edifici, trasformati in padiglioni, ospitavano le opere degli artisti dei vari paesi. Orde sofisticate di europei e americani vagavano con borse gonfie di cataloghi, aggirandosi da un padiglione all'altro, timorosi di lasciarsi sfuggire qualcosa o qualcuno, preoccupati di farsi invitare alle feste più importanti. La rassegna restava aperta per mesi, ma solo i primi giorni contavano. Dopo, chiunque poteva vedere le opere esposte. Kate e Slattery si muovevano spinte dalla folla, con Marcarmi e Passatta incollati ai fianchi. Lo strano quartetto avanzava da un padiglione all'altro tentando di capire qualcosa nella quantità di opere esposte, in gran parte tetre e deprimenti: gigantesche fotografie di genitali e cadaveri, animali smembrati in formaldeide, composizioni dall'indecifrabile significato politico. La cupezza dello spettacolo accrebbe la tensione di Kate; tutti rappresentavano un potenziale pericolo; i visi cordiali sembravano minacciosi. Il padiglione americano, una ex banca italiana, era grande, anonimo e così zeppo di composizioni, ammassi di oggetti vari sparsi sui pavimenti e sui muri senza apparente coerenza, che era quasi impossibile capire dove finisse un'opera e iniziasse l'altra. In quella confusione spiccavano i pezzi di Willie, che erano belli e appesi al muro come quadri tradizionali. Parecchie persone li stavano ammirando e tra loro teneva banco Raphael Perez. «WLK Hand è uno dei nostri giovani artisti più dotati.» Kate notò che Willie era praticamente nascosto dietro a un pilastro, sebbene Perez non cessasse di indicarlo con la mano. Willie si inchinò timidamente e borbottò: «Grazie». «Quello è Willie Handley» disse Kate. «È carino» commentò Slattery. «Non lo conosci?» «No. Non sono stata io a interrogarlo in relazione all'omicidio Solana.» Per un istante Kate rivide tutto: Elena a terra, morta, il Picasso disegnato col sangue sulla guancia, la sensazione che l'artista di morte fosse presente,
vicino, in attesa. Guardò la gente che entrava e usciva dagli stand come belve in cerca di preda, immaginò che la afferrasse alle spalle tagliandole la gola. Respirò e le sfuggì un grido. «Cosa c'è?» Slattery si irrigidì e si scrutò attorno, subito imitata dai due poliziotti. Kate si sforzò di scacciare la visione. «Niente. Sto bene.» Prese Slattery per il braccio. «Vieni, ti presento Willie.» Lo raggiunsero mentre cercava di sfuggire a Perez. Kate lo baciò sulla guancia. «I tuoi quadri sono la cosa migliore della mostra.» «Lo prendo come un complimento, sebbene siano gli unici quadri della mostra.» Willie abbassò gli occhi a terra. «Non sapevo che fossi qui.» «Non ero sicura di venire, ma sono contenta di esserci. Sono fiera di te. I tuoi quadri sono davvero magnifici.» «Sì, molto interessanti» soggiunse Slattery. Willie la guardò stupito. Non era una delle solite amiche di Kate. Perez si avvicinò e Kate sobbalzò spaventata. «Fiera del nostro ragazzo?» domandò Perez. Kate lo guardò attentamente. Poteva essere lui? Slattery notò lo sguardo e il suo istinto di poliziotto la indusse a infilare la mano nella tasca dove teneva la pistola. Kate le lanciò una rapida occhiata d'intesa, con un cenno per indicare che non c'era da preoccuparsi, almeno sperava. Perez mise il braccio sulle spalle di Willie, che se ne liberò con un scrollata. «Non posso passare la giornata davanti ai miei quadri.» Si diresse verso un altro stand interamente foderato, soffitto compreso, di immagini ritagliate da riviste pornografiche sulle quali erano scarabocchiate frasi contraddittorie contro le donne e la pornografia. «Ehi, McKinnon» esclamò Slattery scrutando i muri. «Dov'è il tuo quadro?» Kate cominciò a ridere ma subito smise. Con la coda dell'occhio vide un'ombra e si irrigidì come se qualcuno le avesse posato la mano sulla spalla. Ruotò su se stessa e affrontò l'uomo che incespicò cadendo all'indietro. Slattery impugnò la pistola, imitata da Marcarmi e Passatta. «No...» li fermò Kate, porgendo la mano all'uomo a terra. «Gesù. Scusami, Judd» e aiutò lo stupefatto critico d'arte ad alzarsi. «Wow» fece lui. «Credevo di aver recensito il tuo libro piuttosto bene,
Kate» soggiunse con un sorriso nervoso. «Perdonami. Io...» «No, no» la interruppe spazzolandosi il vestito. «Non è niente.» Si era radunata una piccola folla; Marcarmi e Passatta controllavano tutti i presenti. «Va tutto bene» affermò Kate. «È stato un incidente.» «Sei a posto, McKinnon?» domandò Slattery quando tornò la calma. «Sono così fottutamente nervosa.» «Cosa ti ha fatto quel tizio?» «Non mi ha fatto nulla.» «Quindi stai bene?» «Sì.» Improvvisamente Kate abbracciò affettuosamente il critico. «Ci sarai stasera?» domandò Judd quando infine lo lasciò libero. «Non mancherei per nulla al mondo.» Bellissimo. Vecchi gradini che scendono nell'acqua scura. Porte in putrefazione. Rifiuti sparsi nei piccoli canali. Avrebbe dovuto pensarci, prima di scegliere il Canaletto come sfondo per il San Sebastiano. Forse è troppo grazioso. Non importa. Il lavoro è lavoro. E qui c'è molto da fare e poco tempo. L'ha vista una volta, l'ha osservata sorseggiare un cappuccino. Non gli è sembrata nervosa. Ma lei raramente si lascia andare. È una delle sue caratteristiche che ammira, quella sua aria fredda ed elegante anche nelle circostanze più spaventose. Riuscirà a conservarla quando le pianterà le frecce nella carne? Santa Kate. Sarà un'icona spettacolare. La immagina a colori su un volume di storia dell'arte, con il suo nome sotto, la data, i materiali: frecce, stoffa, corpo umano. Lei sentirà la sua presenza qui? Lo starà aspettando come un amante? Il pensiero lo eccita. Chiude gli occhi. Immagina il momento. "Abbi pazienza, Kate. Sto arrivando." Nella suite Kate infilò i pantaloni dello smoking bianco. L'ora era venuta e lei era pronta. Slattery sbadigliò, distesa sul grande letto.
«Stasera non devi venire, Maureen. Davvero.» «A dirti la verità» replicò Slattery soffocando un altro sbadiglio. «È tutto il giorno che sogno quella vasca.» «Fatti un bel bagno.» Kate infilò la giacca sul reggiseno di pizzo bianco. «Tornerò prima che ti accorga della mia assenza.» «No. Dovrei venire con te.» «Macaroni e Pasta non mi molleranno un secondo. Starò bene. Non preoccuparti.» «Mi hai convinto» disse Slattery sprofondando tra i cuscini. Kate abbottonò la giacca. «Ehi» gridò Slattery. «Non hai scordato qualcosa?» «No.» Kate batté la mano sul fianco. «Ho la mia trentotto nella fondina sotto la giacca.» «Intendevo una blusa» precisò Slattery. Nell'istante in cui Kate uscì dalla porta Marcarmi e Passatta le si incollarono ai fianchi. Marcarmi faticava a staccare gli occhi dal pizzo bianco che trapelava dalla scollatura della giacca. Il salone pareva fosse uscito da un quadro di Antoine Watteu, una delle sue fétes galantes settecentesche, eleganti e decadenti, zeppe di dame e cortigiani in continuo movimento. «Ti rendi conto che se buttassi una bomba qui dentro il mondo dell'arte sparirebbe» sussurrò Schuyler Mills all'orecchio di Willie. Erano alla Collezione Peggy Guggenheim, attorniati da personaggi, più o meno importanti, legati al mondo dell'arte, tutti in agitazione. Una babele di lingue si levava dalla folla come una nuvola di cavallette, mentre i camerieri vi scivolavano in mezzo offrendo il bellini, tipico drink veneziano a base di champagne e pesche. Massimo Santasiero, l'organizzatore della Biennale, salutò Schuyler Mills stringendo contemporaneamente la mano a un altro ospite. Santasiero indossava uno di quegli abiti che possono permettersi solo gli italiani: color erica grigio-blu e così stazzonato che pareva fosse rimasto schiacciato in un cassetto per settimane. Al confronto, l'inamidato Brooks Brothers di Mills aveva l'aria di essere ancora appeso all'attaccapanni. Willie portava una camicia bianca nuova, la cravatta portafortuna, i soliti jeans neri e la giacca di pelle. «Il padiglione americano è, come dite, così gritty quest'anno» commentò Massimo.
«Non è stato facile allestirlo» affermò Schuyler. «Ma credo ci siamo riusciti. E tu hai fatto miracoli, coordinando una mostra così complessa.» Willie osservava distaccato quello scambio di complimenti pelosi. «Ammiro il tuo lavoro» gli confessò Massimo. «È così... personale.» «Beh, è il mio lavoro.» L'italiano lo guardò perplesso, senza cogliere la battuta tagliente. «I giovani artisti» intervenne Schuyler con un'occhiataccia a Willie «amano darsi la zappa sui piedi. Non è vero?» Anche quella battuta non fu colta da Santasiero ma da Willie, che soggiunse: «Spero che verrà a vedere la mia mostra al museo di arte contemporanea nell'estate», ottenendo stavolta un cenno di approvazione da Schuyler. Charlie Kent, in aderente tuta nera che la avvolgeva dal seno alle cosce, si staccò da una coppia di collezionisti europei e trotterellò verso Willie arrancando sulle scarpette verdi. Guardò i due uomini che erano con lui e il suo radar le suggerì a chi rivolgersi. «Massimo!» esclamò tendendo la mano. L'italiano la squadrò. «Ah, la signora Kent. Stavo giusto combinando di visitare la mostra di WLK Hand al museo di arte contemporanea del signor Mills.» Charlie si morse la lingua, irritata che lo definisse il museo di Mills. «E deve vedere il suo nuovo pezzo esposto nel mio museo. Potremmo fare colazione insieme: lei, io e Willie» con una strizzata d'occhio al giovane pittore. Metà delle teste si volsero quando entrò Kate in smoking bianco e tacchi a spillo. A ogni passo il bavero di raso della giacca scintillava rivelando il reggiseno di pizzo bianco. Willie si liberò di Schuyler Mills e si unì a parecchi uomini e tre o quattro camerieri che immediatamente si diressero verso Kate. Marcarmi e Passatta non sapevano più da che parte guardare. «Signora Rothstein, che piacere vederla» la salutò Massimo, baciandola sulle guance e osservandola da capo a piedi. «La trovo bellissima.» «Grazie» rispose Kate prendendo un bellini da un vassoio e cercando di non versarselo addosso con la mano tremante. Attraverso il bicchiere scrutò l'italiano. Era stato a New York recentemente? Conosceva Pruitt? Aveva mai incontrato Elena? Bevve il bellini rendendosi conto che si lasciava trascinare dalla fantasia. Willie la salutò con un bacio. «Tieni duro?» sussurrò.
«Ci provo.» Massimo la prese per mano e cominciò a presentarla in giro, ma Kate era distratta e vedeva pericoli ovunque. L'uomo le parlava sorridendo e lei non lo ascoltava. "Lui è qui. A Venezia." A quel pensiero provò una scossa elettrica. Osservò attentamente la stanza. Poteva essere lì, alla festa? No, non era quello l'ambiente giusto. Doveva incontrarla da sola per trasformarla in una santa. Non sarebbe successo lì, ne era sicura. L'artista di morte era attento ai dettagli. Un'ora più tardi la sua tensione era al massimo. Quando il direttore di un noto museo di New York le sfiorò la spalla, Kate si girò afferrandogli il braccio con tanta forza che l'uomo gridò. Trascorse i dieci minuti successivi scusandosi. «Kate! Sei favolosa!» esclamò una donna con il viso tirato da troppi lifting. «Dov'è quel tuo meraviglioso marito?» «Richard non ce l'ha fatta a venire, purtroppo. Troppo lavoro.» «Scherzi, Kate? L'ho visto oggi pomeriggio.» «È impossibile.» La donna aggrottò la fronte, un'impresa con quella pelle tesa al massimo. «Beh, avrei giurato che fosse lui.» «No, non può essere.» "Richard a Venezia?" «È a casa, a lavorare.» Improvvisamente Kate era sconvolta. Che fosse venuto? Le balenò nella mente il gemello sul pavimento e Pruitt morto nella vasca da bagno. Si passò la mano sulla fronte; scottava. Non avrebbe dovuto bere il bellini. La sua immaginazione la ingannava. "Richard non può essere a Venezia. È assurdo." «Non è possibile» ribadì sforzandosi di mantenere calma la voce. La donna alzò le spalle. «Beh, era dall'altra parte della piazza e immagino che la mia vista non sia più quella di una volta.» Kate tentò di sorridere senza successo. Willie si avvicinò sussurrando: «Ne ho abbastanza. Ho bisogno di fare due passi. Vieni con me?». Kate fece per seguirlo ma Massimo la fermò posandole la mano sul polso. Glielo tenne stretto e le parlò nel suo inglese esitante di arte e dell'Italia... o di arte e cucina italiana? Kate non riusciva a concentrarsi. Willie era quasi arrivato alla porta e lei voleva raggiungerlo. Impiegò almeno cinque minuti a liberarsi; finalmente tornò in possesso del suo polso e mormorando «scusami» corse verso la
porta. Marcarmi e Passatta la seguirono. Maureen Slattery non riusciva a crederci: i sali da bagno dell'hotel avevano un profumo celestiale. Si distese nella vasca e rilassò il corpo stanco osservando gli eleganti dettagli della stanza: pareti e pavimento di marmo marezzato, rubinetterie di ottone, allegri cherubini dipinti sul soffitto. Se non fosse stato per la pistola posata sull'enorme lavabo di marmo, sarebbe stato un sogno. Quasi si scordava di essere un poliziotto. Rise, chiuse gli occhi, si immerse fino al mento nella schiuma. Nella sua prossima vita, pensò Slattery, sollevando una manciata di bolle di sapone, si sarebbe reincarnata in Kate McKinnon. Willie non si vedeva. Un altro motivo per intristirsi. Beh, almeno le aveva proposto di fare due passi insieme. Doveva averla perdonata. Kate controllò l'orologio. Era tardi. Ora di tornare da Slattery. «Torniamo all'hotel» disse alle sue due guardie del corpo. Marcarini annuì. Passatta accese una sigaretta e imboccarono la stradina davanti al museo Peggy Guggenheim, quindi attraversarono il ponte dell'Accademia sul Canal Grande. La notte era fresca, umida, un velo di foschia avvolgeva ogni cosa. Di tanto in tanto la luna sbucava tra le nuvole come una ragazza civettuola, illuminando per un istante il profilo di una chiesa, un tratto di architettura bizantina, poi si ritraeva timidamente prima di riapparire. Kate sentiva la testa pesante e aveva freddo; si strinse la giacca sul petto scoperto. Il riflesso lunare danzava un valzer d'argento lungo il canale. Attraversarono un ponticello. Kate ascoltò lo sciacquio delle onde contro le fondamenta delle case, sfiorò con la mano la muffa viscida su una vecchia cancellata di ferro. Rabbrividì. Si fermò. Fissò nella foschia. L'immagine di se stessa martirizzata come San Sebastiano le si insinuò nella mente. «Avete sentito qualcosa?» Il sussulto già avvertito alla festa le fece vibrare la spina dorsale. «Di che genere, signora?» domandò Marcarmi. Kate alzò le spalle. Forse se l'era immaginato. «Non importa.» Affrettò il passo, impresa non facile con i tacchi a spillo. Svoltarono in un campiello che Kate non conosceva; negozi e caffè
chiusi, nessun turista, silenzio perfetto. «Da che parte?» domandò. «Il vicolo» indicò Passatta. «Ci porterà alla calle del Campanile e di lì a San Marco.» Il vicolo era buio. Le antiche lampade sulle facciate degli edifici sprangati diffondevano una luce fioca, simile a una manciata di lucciole. Erano a metà della stradina quando udirono i passi. I poliziotti si fermarono e impugnarono le pistole. Kate prese la calibro 38, guardò indietro, vide null'altro che foschia. Non si udivano più i passi, soltanto il loro respiro affannoso e i colombi che battevano le ali. «Resti qui, signora» ordinò Passatta. I poliziotti si divisero: Marcarmi a destra, Passatta a sinistra. Kate vide le loro forme svanire nella nebbia. Tornò, più forte, la sensazione del disagio. Udì Passatta chiamare Marcarmi. La voce fendette la nebbia e suscitò una lieve eco. Kate non poteva star lì ad aspettare. Cosa? Un terrore improvviso si impossessò di lei. Corse in fondo al vicolo, si trovò sul bordo di un canale privo di protezione, sentì l'acqua scura infiltrarsi nelle scarpe. Non si capiva dove terminava la terra e iniziava l'acqua. Marcarmi la afferrò per il braccio. Kate ruotò su se stessa e gli puntò la pistola in faccia. «Oh, Gesù! Mi ha spaventata a morte.» «Scusi, scusi» disse lui. «Stia vicino a noi, signora.» Svoltarono in un'altra calle camminando velocemente ed entrarono in un altro vicolo scuro. Kate aveva i nervi a fior di pelle. A metà del vicolo si trovarono davanti l'ombra di un uomo, simile a una figura di un quadro di de Chirico. Una lampada illuminò un luccichio metallico nella sua mano. Marcarini e Passatta superarono Kate con le pistole puntate. Ma l'uomo li aveva visti e si schiacciò contro il muro offrendo il viso alla debole luce. I poliziotti scattarono. «No!» gridò Kate. «Fermi.» I poliziotti fecero un passo indietro e Willie respirò di sollievo. «Cazzo.» «Calmatevi, ragazzi» suggerì Kate ai poliziotti, sebbene fosse nervosa quanto loro. «Che cos'hai in mano, Willie?» «Oh, questo?» Mostrò una striscia di bronzo ossidato, con una filigrana barocca lungo il bordo. «È un pezzo di ringhiera, credo. L'ho trovato in strada. Bello, no?»
«Fammi il favore di non giocare con degli oggetti metallici, d'accordo?» lo apostrofò Kate. Svoltarono in piazza San Marco. «Ah, il Florian.» Kate infilò il braccio in quello di Willie. «Andiamo. Sono sicura che hai bisogno di bere qualcosa.» Si sedettero sui velluti del vecchio caffè. Marcarmi e Passatta si appostarono in piazza, appoggiati alle colonne, a fumare le loro sigarette senza filtro. «Guardie del corpo?» domandò Willie. «Appiccicosi come la colla» replicò Kate cercando di ridere. «Mi dispiace per quel che è successo.» «Ho bruciato vent'anni della mia vita, ma non importa.» Kate sorrise, ordinò brandy per tutti e mandò il cameriere dai poliziotti che la ringraziarono levando i bicchieri in un brindisi muto. «Sono proprio contenta di vederti» riprese Kate stringendo la mano di Willie. «Anch'io» replicò lui. La facciata dorata della basilica illuminava dolcemente la piazza. «Dio, che bel posto.» «Hai mai visto quel film... è ambientato a Venezia, con Julie Christie e Donald Sutherland? È vecchio. Probabilmente tu non eri ancora nato.» «A Venezia... un dicembre rosso shocking» rispose Willie. «Come fai a conoscerlo?» «Io? Esiste un film che io non conosca? Sono a Venezia, la loro bambina è morta e ovunque guardino vedono il suo fantasma.» «Esattamente» affermò Kate. «Beh, è quello che provo io stanotte a Venezia. Come se vedessi i fantasmi.» «Davvero? Per me Venezia è come un sogno.» Kate guardò la piazza, la nebbia che infittiva. Lui era là fuori? Rabbrividì. «Hai freddo?» «No.» Kate posò la mano su quella di Willie. «Mi dispiace per quello che è successo con Darton Washington e... per tutto.» «Non è colpa tua.» Per un istante Willie considerò se parlarle di Henry, ma non poteva. Kate guardò la piazza e il campanile, una guglia evanescente nella nebbia. Terminò il brandy e controllò l'orologio. «Devo tornare all'hotel.»
All'entrata del Gritti Palace, Kate augurò la buonanotte ai suoi angeli custodi ma loro non la mollarono. Marcarmi scosse la sua bella testa. Passatta aggrottò la fronte. «L'accompagniamo in camera, signora, e restiamo tutta la notte.» «Nella mia camera?» «Nella hall» precisò Marcarmi con un sorriso a fior di labbro. Il brandy dopo il bellini aveva fatto effetto. Kate era stordita e la chiave le tremava in mano. «Ha bisogno di aiuto?» domandò Marcarmi. «Credo di farcela» rispose Kate. «Ci vediamo domani mattina.» Letto, cuscini, coperte morbide: non pensava ad altro. Tuttavia i poliziotti vollero assolutamente controllare la stanza. Erano davanti a lei e Kate li vide irrigidirsi. La finestra era spalancata: sentì un brivido di freddo prima di riuscire a mettere a fuoco una scena tanto orrenda e surreale che il cervello faticava a comprenderla. I poliziotti gridavano ma Kate non li udiva, travolta dai brividi che l'avevano tormentata per tutta la sera. In un attimo la stanza fu piena di gente. Oppure erano trascorse ore? Carabinieri e polizia discutevano, agitavano le braccia; qualcuno scattava fotografie dell'orrore mentre l'alto funzionario del commissariato di Venezia interrogava Kate. Lei lo fissava senza vederlo. Un flash illuminò il panorama notturno di Venezia attraverso la finestra aperta... facendo da sfondo a Maureen Slattery che pareva ergersi dal nulla. Era nuda, legata con le tende, una delle quali era attorcigliata attorno al collo, l'altra infilata tra le cosce e avvolta come un perizoma. Il corpo era trafitto da una dozzina di frecce che sembravano gli aculei di un istrice. Il sangue colava a strisce, si raccoglieva in una pozza ai suoi piedi e penetrava nel tappeto. 42 Quante divise. Quanto blu. Il cielo invece era grigio, percorso da nuvole minacciose. Prima il sindaco. Poi il capo della polizia Tapell. Discorsi brevi, ufficiali ma sentiti. Il funerale di un poliziotto.
Il funerale di Maureen Slattery. Osservando le file di lapidi che si allungavano convergendo in un unico punto prospettico, Kate ripensò all'illusionistico quadro del Bellini e a quanto Maureen ne era stata colpita. Un altro pittore amato e un altro ricordo distrutti dall'artista di morte. Era successo soltanto due giorni fa? Il viaggio di ritorno era stato un incubo e il tentativo di Kate di darsi forza con lo scotch un fallimento totale. Come pensare che l'alcol potesse aiutarla? Con il cadavere di Slattery nella stiva dell'aereo. Guardò i genitori di Maureen accanto alla fossa, le lacrime sui loro volti, e strinse il braccio di Richard. Kate allontanò il panino. Non riusciva a mangiare. «Non posso ancora crederci.» Fissò i passanti e il traffico al di là della vetrina. Liz la guardò con simpatia ma le sue parole erano dure: «Ascolta, Kate. Slattery era un poliziotto in servizio. Conosceva il pericolo. Poteva succedere a te». «Doveva succedere a me.» «Meno male che così non è stato.» La guardò negli occhi. «Non devi sentirti in colpa. Ti distruggerà... e lo sai. Tu eri, anzi sei, un poliziotto. Conosci le regole, come le conosceva Slattery.» «Continuo a tormentarmi, Liz. Se soltanto i poliziotti italiani si fossero divisi, uno con me, l'altro con lei. Se solo...» «Potresti continuare in eterno col gioco del "se solo", Kate. Ma non serve a nulla. La morte di Maureen è una tragedia. Su questo non c'è dubbio, ma ora devi concentrarti sull'artista di morte. È ancora in circolazione.» Kate inspirò profondamente e annuì. Liz aveva ragione. C'era solo un modo per superare quel disastro. Doveva catturare quel maniaco. Doveva fargliela pagare. C'erano poliziotti seduti sulle sedie, appoggiati alle pareti, sulle porte. La stanza vibrava di rabbia. In prima fila, accanto a Brown, Kate fissava le crepe sul soffitto che le ricordavano la decadenza di Venezia e dei cadaveri, quello di Elena all'obitorio e quello di Slattery appeso davanti alla finestra aperta. Chiuse gli occhi e respirò. Tapell batté le dita sul microfono. Kate pensò che quel giorno il capo della polizia sembrava vecchia e an-
siosa, non imperturbabile come al solito. «Ci occuperemo di questo» disse Tapell. «Ma dobbiamo tenere la testa a posto.» «Quando?» gridò una voce dal fondo della stanza. Altre si unirono: «Sì, quando? Quanto ci vorrà?». Le voci formarono un unico grido rabbioso. «L'avevamo quasi preso» sospirò Tapell evidentemente consapevole dell'insufficienza delle parole. I poliziotti ricominciarono a gridare. «Questo non conduce da nessuna parte» esclamò Tapell. «Conosco la vostra frustrazione e la condivido.» Si interruppe e guardò i presenti con gli occhi scuri. «Ora ascoltate, Randy Mead vi aggiornerà sulla situazione.» Mead succhiò l'aria tra i denti e spiegò come avevano salvato Bea Sachs, mancando per un pelo l'artista di morte. Erano notizie vecchie ma bastarono per catturare l'attenzione dei poliziotti. Quindi illustrò i piani per attivare tutti i reparti. Anche questo già si sapeva ma era confortante. Le espressioni 'mobilitazione generale' e 'caccia all'uomo' parvero calmarli. «Lo prenderemo, questo figlio di puttana che ammazza i poliziotti» dichiarò. Detective e agenti applaudirono e gridarono, dandosi pacche sulle spalle. Kate lesse nei loro occhi lo spirito di corpo ravvivato dalla brama di sangue. Mitch Freeman sussurrava in disparte con due agenti FBI dai capelli a spazzola, imperturbabili, le facce prive di espressione, a parte un lieve disprezzo. Kate li guardò, erano i due robot che l'avevano interrogata sui fatti di Venezia. Ora si erano accampati al Sesto distretto e andavano in giro dandosi arie, spedendo continui fax a Quantico, consumando risme di carta e soprattutto sussurrando incessantemente tra loro. La signora Prawsinsky accarezzò la rigida permanente biondo platino. «Sono stata dal parrucchiere» confessò a Kate. «Mi è costato un occhio della testa, tesoro. E non si vede.» «Sta benissimo» replicò Kate con un sorriso, cercando di farla concentrare. Sul tavolo c'era l'identikit del ritrattista della polizia accanto a una dozzina di album contenenti le fotografie segnaletiche di criminali indagati per reati di ogni genere commessi negli ultimi cinque anni. Fino a quel momento non avevano trovato nulla.
La donna voltava lentamente le pagine. «Oh, che brutta faccia ha questo.» Kate quasi le strappò l'album di mano. «È lui?» «Oh, no. No.» Girò un'altra pagina. «Ma ha una faccia così cattiva.» Kate sospirò. Di quel passo ne avrebbe avuto per giorni interi. Tuttavia, stavano tentando ogni strada e quel controllo avrebbe già dovuto essere eseguito, se non si fossero buttati su un'altra traccia. La signora Prawsinsky si fermò. «Ooh» fece indicando col dito artritico. «Guardi.» «Cosa?» «Assomiglia a Merv Griffin, non le pare, tesoro?» Kate aveva bisogno di una pausa, di un caffè. «Torno subito» disse alla donna il cui naso era a un centimetro dalle pagine. «Ma lei continui a guardare.» La strada è piena di gente, orde di persone avanzano verso di lui, minacciose, terrificanti. Ma lui non ha paura. Li fa a pezzi a uno a uno. Strappa braccia e gambe. Stacca una testa, taglia una gola. La strada è costellata di corpi smembrati. Il sangue scorre rosso sui marciapiedi e negli scoli. È potentissimo. Un guerriero. Perché quello stupido gli sorride? Non vede che il guerriero, l'artista di morte, gli sta strappando il cuore dal petto, non capisce che sta morendo? Oh, ha capito. Si comporta con tanta naturalezza che gli altri non si accorgono che è lui a ucciderli. Quando raggiunge il suo rifugio sul fiume sa di essere invincibile oltre che invisibile. Ma la confusione sul tavolo, che gli ricorda le ore trascorse immaginando Kate come San Sebastiano, gli fa precipitare a terra l'umore. Tutto doveva finire a Venezia. Lei doveva cessare di vivere. Era ora. Quello era il momento giusto. E sarebbe andato tutto bene se non ci fosse stata di mezzo quella stupida poliziotta. Picchia il pugno sul tavolo. Forbici, colla, matite rimbalzano e scivolano sulla superficie in una specie di ridicola maratona. Come poteva sapere che c'era qualcun altro nella camera dell'hotel, nella vasca addirittura? Avrebbe potuto organizzare un'altra scena con vasca, ma così, senza preavviso? Impossibile. Non è una macchina, è un artista.
E ora non ha immagini, non ha documentazione. Di chi è la colpa? «Ho scordato la macchina fotografica. Avevo troppe cose da portare. Sono umano, dopotutto.» Credevo fossi un superuomo. «Vaffanculo!» Non l'hai scordata. Sei stato pigro. E ora non hai prove. Forse non l'hai neppure fatto. «Vuoi una prova?» Prende il giornale dal tavolo e lo solleva. «Leggi!» FUNERALE DELL'EROICA POLIZIOTTA Oh, l'eroina è lei, non tu. «Scherzi? Ha urlato come una bambina.» Appallottola il giornale e lo getta a terra. «Che spreco! Buttar via San Sebastiano con una come quella.» E ti definisci un artista? «Era un capolavoro! Lo hanno visto tutti!» Si abbandona sulla sedia. Ora c'è silenzio, le voci sono cessate portandosi via la rabbia e la forza. È così stanco, svuotato. Il pensiero di continuare a respirare lo terrorizza. Il tubare di colombi. Leva gli occhi al soffitto. Se potesse raggiungerli e volare con loro al di sopra del lordume marcio e fetido del mondo... della sua vita. Gli appaiono lampi di pelle scorticata, mani amputate, urla, lacrime, tanto dolore. Quante volte ha desiderato di potersi fermare? Si è ripromesso di smettere? Sarò buono, papà. Te lo prometto. Si gira sulla sedia. Chi parlava? È così confuso. Cerca rifugio nella pala d'altare di Bill Pruitt. Si è convinto che possieda poteri speciali. Col suo sorriso beato la Madonna lo guarda; l'innocente Cristo bambino è il suo simbolo. Vorrebbe acciambellarsi nella santità di quel grembo e godere di quella protezione. Oh, ma perché non ci ha pensato prima? È molto meglio di San Sebastiano. Lei è la Madonna e lui è il bambino. Loro due soli. Insieme. Ora si sente molto meglio. Venezia è stato un errore. Stavolta andrà tutto perfettamente. Deve portarla da lui. Come?
Allarga sul tavolo cartoline e riproduzioni, esamina le immagini, i colori, gli stili, ma nulla lo convince. Infine trova un autoritratto in bianco e nero e l'idea comincia a prendere forma. Mira a lui. Prendi lei. Naturalmente. Simmetria perfetta. Prima le ha preso una figlia, ora prenderà l'altro. Sarà in grado di farlo? Nonostante tutto, deve ammettere che vuol bene a quel ragazzo. Se lo ami, lo sacrificherai. «Non so... non sono sicuro.» Ricorda il figlio di Abramo. E ricorda che è soltanto una pedina, un modo per arrivare a lei. «Ma... devo ucciderlo?» Sì. Studia il quadro scelto per distrarsi dal pensiero di ciò che perderà, dell'investimento di tanti anni. Ma sa che può farlo. Col coltello ritaglia accuratamente la figura di un giovane nero con i riccioli rasta. Poi fruga nella scatola per cercare qualcosa con cui completare l'immagine. Prova vari sfondi. Colorati o no? Non importa. Importa che sia chiaro. Finalmente, ecco la scena giusta. Vi appoggia sopra il nero con i capelli rasta. Il risultato è impeccabile. Si concede un attimo per godersi il suo genio, quindi incolla la figura sul fondo. Poi, per mostrare il suo talento, immerge un pennellino nella vernice acrilica nera, vi aggiunge un tocco di bianco titanio, mescola ottenendo un grigio quasi identico a quello dell'originale e dipinge tre serbatoi d'acqua sul tetto della baracca del quadro. Soffia per asciugare la vernice. Basta un minuto ed è perfetto. Una costruzione presso il fiume con tre serbatoi, la sua piccola aggiunta, resi in modo così impeccabile che sembrano far parte dell'originale. Si appoggia allo schienale. Una figlia andata. Uno pronto ad andare. Sì. È disposto al sacrificio. Guarda la sua creazione. È perfettamente chiara. Lei capirà. E sarà terrorizzata. Quando Kate entrò nella stanza Floyd Brown la guardò con aria solenne, spinse verso di lei il libro con le foto segnaletiche e puntò il dito sotto un'immagine sfocata.
HENRY DARNELL HANDLEY 0090122-M Furto/Furto con scasso/Possesso di droga Ultimo indirizzo conosciuto: 508 Centoventinovesima Strada Est «La testimone Prawsinsky ha indicato questo. Ho mandato una macchina mezz'ora fa. L'indirizzo è un condominio distrutto da un incendio. Stiamo battendo Harlem. Ci sono anche i due robot dell'FBI. Lo troveranno. E poi ci occuperemo del tuo ragazzo, il fratello.» Kate tentò di digerire tutte quelle informazioni in un colpo solo. «Willie non è il tutore di suo fratello» dichiarò senza sapere cosa intendeva, tanto per dire qualcosa. L'artista di morte era il fratello di Willie? Kate l'aveva incontrato una volta sola, al diploma di Willie. Guardò la foto segnaletica. Il ragazzo non assomigliava a Willie ma era parecchio simile all'identikit. Squillò il cellulare di Brown. «Aspetta» disse lui rispondendo. Kate camminò per la stanza. "Il fratello di Willie? Possibile? Willie lo sapeva?" I pensieri si rincorrevano. Gli aveva dato l'identikit della polizia. Quindi Willie sapeva che cercavano suo fratello. E aveva continuato a proteggerlo? "Suo fratello." Ma certo. Kate finalmente comprese. Willie stava facendo esattamente come lei: proteggeva una persona amata. «Lo hanno trovato» esclamò Brown spegnendo il cellulare. «Henry Handley. Era nascosto da qualche parte presso l'East River. Lo stanno portando qui.» Willie attaccò il ricevitore con un gran sospiro. Non aveva alcuna voglia di visitare lo studio di un artista, guardare i suoi lavori e cercare qualcosa da dire... "Oh, bei colori, e mi piace come hai dipinto quel cazzo di..." Ma come rifiutare? Doveva farlo. Glielo doveva. Se lui desiderava che Willie facesse visita a un artista come 'favore personale', beh, Willie non poteva dire di no. Sapeva quando una cosa doveva essere fatta. Posò i pennelli. Forse una pausa gli avrebbe fatto bene. Willie guardò il cielo cobalto intenso e gli ultimi drammatici raggi di so-
le che indoravano di sfumature bronzee il profilo delle strutture in ghisa di SoHo. L'aria calda e leggermente umida annunciava l'estate imminente. Attraversò Hudson Street, controllò l'indirizzo di cui aveva preso nota; una vaga descrizione, più che un vero indirizzo: a ovest in Jane Street, attraversare la superstrada, poi girare a destra e continuare lungo il fiume in direzione nord. Non puoi sbagliare. Uno studio sul fiume. Beh, almeno suonava esotico. Willie affrettò il passo. 43 Non si vedeva un albero, solo gli scheletri di due grattacieli ai due lati di uno spiazzo colmo di pneumatici usati e bottiglie rotte che contendevano lo spazio ai rifiuti e alle erbacce. Il resto della strada era deserto, con un unico edificio ancora in piedi. «Non sembra abitabile.» Il giovane poliziotto giocherellò nervosamente con le punte dei baffi guardando la struttura a un piano con le finestre rotte e il nastro grigio-blu del fiume sullo sfondo. Il suo collega, giovane anch'esso, alzò le spalle annoiato o fingendosi tale. La costruzione pareva deserta ma la foto segnaletica di Henry e l'identikit della polizia erano stati riconosciuti da due negozianti poco lontano. Ai poliziotti era stato ordinato di aspettare i rinforzi. Non sapevano chi stavano cercando ma Mead e Brown avevano raccomandato a entrambi di «procedere con cautela». Poco dopo arrivò un'altra automobile del NYPD, senza luci o sirene, che si affiancò alla prima. Il finestrino fu abbassato e un agente in divisa si sporse fuori e disse: «Stanno arrivando i detective su un'auto senza contrassegni». Giunse una Ford blu vecchia di dieci anni. Le portiere si aprirono e due detective invitarono gli altri a scendere. I sei uomini si radunarono. Un agente della Omicidi, sui quaranta, in maniche di camicia e con un tic nervoso all'occhio, domandò: «Siete sicuri che sia dentro?». L'agente baffuto indicò con il capo la bottega e il negozio di liquori. «I proprietari dicono che è chiuso in quel magazzino da oltre una settimana. Va a fare la spesa tutti i giorni e ha soldi da spendere.»
«Okay» annuì il detective col tic. «Voi due guardate se c'è un'uscita sul retro. Noi aspettiamo il vostro segnale, poi entriamo dal davanti.» Fece un cenno al suo partner che aveva già estratto la pistola. Camminando curvi, nel modo reso popolare dai film polizieschi, i due agenti attraversarono la squallida strada e sparirono dietro il magazzino. «Sapete di chi si tratta?» domandò uno dei poliziotti in attesa. «No» rispose il detective col tic. Mentiva. Aveva parlato con Brown e immaginava chi fosse, anche se non aveva intenzione di riferirlo agli altri. Se era chi credeva, aveva il dovere di mantenersi calmo e di tenere all'oscuro i colleghi che, altrimenti, avrebbero ucciso quel figlio di puttana appena lo vedevano. L'atmosfera era pesante, la tensione palpabile. «La situazione si fa calda» affermò il suo compagno dondolando sui talloni. Il detective col tic annuì. «Non c'è uscita sul retro» sussurrò l'agente. «La porta è sbarrata e anche le finestre.» Il detective si strofinò l'occhio e segnalò agli altri due poliziotti di tenersi pronti. «Voi due andate avanti» ordinò alla radio portatile. «Noi vi seguiamo. E agite con calma. Molto lentamente. Non abbiamo bisogno di eroi.» Avanzarono verso l'ingresso del magazzino, incontrarono gli altri due e, a turno, ruotarono su loro stessi con le pistole puntate per oltrepassare la porta. Dalle finestre rotte e dal soffitto crepato entrava luce appena sufficiente per illuminare la scena: quattro o cinque uomini accoccolati attorno a un bidone della spazzatura che fumavano crack. I poliziotti gridarono all'unisono: «Mani in alto, figli di puttana! Non muovetevi! Non respirate!». I drogati si dispersero come topi. Tuttavia, gli agenti furono più veloci e li afferrarono uno dopo l'altro sbattendoli contro i muri, con le pistole puntate nella schiena. Quando li portarono fuori, ammanettati e ciondolanti, i drogati sembravano un gruppo di tristi bambini sperduti. I detective separarono Henry dagli altri e in quel momento arrivò il furgone della polizia. «Cosa volete?» domandò Henry cercando di fare il duro, ma gli tremavano le labbra.
I detective lo sbatterono contro il fianco del furgone, gli allargarono le gambe, lo perquisirono e trovarono un coltello in una tasca e alcune foto di una giovane ispanica nell'altra. L'uomo col tic le esaminò e riconobbe Elena. «Sei in arresto» intimò cercando di spingerlo nell'automobile ma Henry si voltò e lo urtò col petto, come un campione di lotta libera. Il detective gli sferrò due pugni nello stomaco. Henry si piegò e cadde in ginocchio. Gli agenti lo presero per le braccia e lo buttarono sul sedile posteriore. Due poliziotti gli si sedettero ai fianchi. Alla centrale Kate notò che i poliziotti si erano dati da fare con Henry: aveva un occhio semichiuso che stava diventando viola e il labbro spaccato. Era ancora ammanettato, le braccia tese dietro la spalliera della sedia di metallo, e sotto le luci fluorescenti della saletta degli interrogatori la pelle riluceva grigiastra. Mead conduceva l'interrogatorio. Da mezz'ora tempestava Henry di domande, senza grandi risultati. Accanto a lui, Mitch Freeman prendeva appunti. I due robot dell'FBI circondavano Henry pronti a scattare, come se potesse liberarsi delle manette e uccidere tutti i presenti. Kate e Brown assistevano da dietro lo specchio. Mead allargò sul tavolo le fotografie trovate addosso a Henry. «Vuoi dirmi dove hai preso queste foto di Elena Solana?» domandò, forse per la decima volta. Gli occhi di Henry erano vitrei; stava pensando: "Come le ho avute?". Non ricordava. Era passato tanto tempo. «La Solana ti piaceva, eh?» asserì Mead. «Questo l'ho capito.» Succhiò l'aria tra i denti. «Che è successo? Ti ha respinto? E tu non l'hai tollerato da una come lei. Chi credeva di essere, giusto? Le donne» soggiunse con un sorriso d'intesa «ti distruggono. Tutte quante.» Henry lo guardava con occhi vuoti. Kate si domandò quando avrebbero procurato un avvocato a quel povero bastardo. Un pensiero che non l'aveva turbata durante l'interrogatorio di Damien Trip. Possibile che credessero davvero che quel miserabile drogato fosse il loro uomo? «Non ci credo» dichiarò a Brown. «Stanno perdendo tempo.» «Non so» replicò Brown. «Ho visto cose più strane. Tizi con la faccia da
bibliotecario che hanno massacrato famiglie, bambini. Quando li catturi, crollano.» Mead sollevò un foglio dal tavolo. «Qui dice che hai lavorato per il Manhattan Messenger Service. Consegnare pacchi e buste è un ottimo sistema per entrare e uscire dalle case, no, Henry?» Freeman propose di togliergli le manette e gli offrì una sigaretta con un sorriso cordiale. Poi strizzò l'occhio a Mead che approvò con un cenno del capo. Henry si attaccò alla sigaretta come a una bombola a ossigeno. «Mi ha colpito il modo in cui hai sistemato quella ragazza, Elena Solana» intervenne Freeman. «Era molto bello, davvero.» Henry teneva le palpebre semichiuse e la sua mente ricostruiva la visione del corpo insanguinato di Elena. Era confuso. Non ricordava di averla uccisa. Era colpa della droga? Del crack? Forse. Ricordava solo le sue dita sporche di sangue e di aver preso le fotografie dal cassettone. Ecco come le aveva avute. «Le ho prese» affermò. «Ho preso le foto.» Il viso di Mead si illuminò. «Quindi sei stato tu a fare quel magnifico lavoro» incalzò Freeman. «Dio, come sei bravo.» Henry batté le palpebre, incerto. «Gli stanno facendo dire quello che vogliono loro» protestò Kate. «È assurdo.» «Hai preso le foto della Solana» si udì la voce di Mead uscire dal registratore posato sul tavolo tra loro due. «Eri là.» «Certo che c'era» confermò Freeman. «Come avrebbe potuto compiere quello splendido lavoro se non ci fosse stato.» Sorrise a Henry e gli diede di gomito come a un vecchio amico. «Non è così, Henry?» Henry quasi sorrise. «Dillo» insistette Freeman. «Dì che eri là.» «Ero là» ripeté Henry. Kate ne aveva abbastanza. Non ne poteva più di vederli tentare di incastrare Henry solo perché avevano bisogno di un capro espiatorio. «Torno subito» disse a Brown, ed entrò nella saletta degli interrogatori con delle fotografie in mano. «Non ora, McKinnon» la invitò Mead. «Henry, sono Kate McKinnon. Ci siamo conosciuti molto tempo fa.» Henry la guardò strizzando gli occhi. «McKinnon...» Mead succhiò l'aria tra i denti e le lanciò un'occhiata mi-
nacciosa. Anche i due robot mostrarono la loro disapprovazione. «Solo un minuto, Randy.» Posò sul tavolo le foto del delitto di Elena. «Dimmi, Henry, dove hai preso l'idea? È stata una tua... ispirazione?» Henry la guardò senza capire. «E questo?» continuò mettendogli sotto il naso le foto del delitto Stein. «Su cosa è basato?» Henry si ritrasse. «Cosa vuol dire... basato?» Mead sospirò rumorosamente. Kate chiese: «Vorrei un paio di nomi, Henry. Nomi di pittori.» Henry ripeté le parole come se fossero prive di significato: «Nomi di pittori?». «È drogato, McKinnon» asserì Mead. «Evidentemente» ribatté Kate. «E non ha la minima idea di cosa stia parlando.» Gli batté sulla spalla. «Non è così, Henry?» Henry le sorrise. «Scusate, amici.» Kate scosse il capo. «So che vi piacerebbe moltissimo che fosse lui, ma non lo è.» «Allora come spieghi che abbia le fotografie di Solana?» domandò Mead. Kate rifletté. «La signora Prawsinsky ha detto di aver visto un nero la sera del delitto, e io credo che avesse ragione. Probabilmente era Henry. Santo cielo, quella ragazza gli piaceva. Ma questo non fa di lui il nostro assassino.» Guardò negli occhi Freeman, incapace di nascondere la delusione. «Suvvia, lo sa anche lei che non è il nostro uomo.» Freeman sospirò. Kate era stanca e stava per andare a casa quando Brown le sbatté il collage sul tavolo. «Niente timbro postale. Niente di niente. Secondo l'agente di guardia è stato consegnato da un ragazzino, a cui lo aveva dato un altro ragazzino, che non siamo in grado di identificare.» «Gesù. Un altro!» esclamò Kate guardandolo attentamente. «Cosa significa?» «Significa che l'artista di morte è ancora libero.» Kate studiò il collage e dopo qualche istante disse: «Sono due immagini distinte. Un nero e un paesaggio. La figura è facile. È un Basquiat». «Un cosa?» «Jean-Michel Basquiat. Un artista degli anni Ottanta. Morto prima dei
trent'anni per overdose di eroina. Sono quasi sicura che sia un autoritratto.» «E il paesaggio?» «Facile anche questo. Frederic Church. Faceva parte della scuola dell'Hudson River, un gruppo di paesaggisti del diciannovesimo secolo. Direi che è una vista dell'Hudson.» «Aspetta un momento» esclamò Brown. «Abbiamo l'autoritratto di un nero e un fiume. Sembrerebbe proprio Henry Handley.» «Ma non lo è» replicò Kate. Ne era sicura. Willie cominciava a godersi la passeggiata. Allungò il passo, si fece strada tra i ciclisti e i pattinatori che occupavano il sentiero tra la strada e il fiume, approfittando della serata tiepida. Al molo di Christopher Street gli apparve una scena da Sagra della primavera: un'orgia di uomini che esibivano corpi muscolosi percorrendo le assi cigolanti del vecchio pontile. Willie li osservò pensando che forse avrebbe dovuto dedicare più tempo alla pratica sportiva. Al molo successivo, o ciò che ne restava, null'altro che assi marce e pali che sporgevano dall'acqua torbida, fisici ben modellati lasciavano il posto a barboni che si passavano una bottiglia, e il pensiero di attrezzi e macchine da palestra gli parve improvvisamente assurdo. Willie si appoggiò allo steccato e guardò i pali coperti di muffa che gli ricordarono Venezia, senza lo splendore decadente di quella città, e il periodo trascorso con Charlie Kent, che soltanto il giorno precedente non si era presentata a un appuntamento e non rispondeva alle chiamate. Evidentemente aveva ottenuto ciò che voleva da lui: il suo quadro. Guardò la costa del New Jersey, i grattacieli sulle Palisades, crudi monoliti contro il cielo del crepuscolo. Più avanti, sul fiume, oltre alcuni cantieri edili chiusi a quell'ora, si profilava una specie di darsena. Willie controllò le istruzioni. Aveva appena superato Jane Street. Doveva essere lì. Mead teneva la testa tra le mani, i gomiti posati sul tavolo della sala riunioni. «Henry Handley è in cella» disse con scarso entusiasmo. «Almeno finché non abbiamo notizie più sicure.» Mitch Freeman era seduto davanti a lui, affiancato dai due robot. Clare Tapell teneva le braccia strette incrociate sul petto. «Okay. Non è
Henry Handley. Chi è, allora?» Kate distribuì le copie dell'ultimo messaggio, la figura di un nero incollata su un paesaggio fluviale, e osservò l'originale con Brown. «Spiegamelo, per favore, Kate» chiese Tapell guardandola con una traccia di disperazione negli occhi scuri. «Arrivo dall'ufficio del sindaco.» Sospirò e scosse il capo. «Non fatemi parlare.» «Ho controllato i quadri per sicurezza» rispose Kate. «Il paesaggio è di Frederic Church. È una vista da Olana, la casa del pittore presso l'Hudson nello stato di New York, dipinta nel 1879, poco prima che l'artrite gli impedisse di continuare a dipingere.» «Questo ci dice qualcosa?» domandò Freeman. «Direi, il luogo» replicò Kate. «La chiave è l'Hudson. Forse c'è altro ma al momento mi sfugge.» Tamburellò sulla figura nera: grandi mani, capelli a istrice, ovali bianchi al posto degli occhi, bocca a scacchiera. L'artista di morte aveva aggiunto un grosso coltello rosso piantato nel petto. «Questo è un Basquiat del 1982. È un autoritratto ma non gli assomiglia. Ho visto molte fotografie di Jean-Michel Basquiat è non era affatto così.» Kate fece una pausa. «Credo che rappresenti semplicemente un giovane nero. Potrebbe essere un qualsiasi ragazzo con i capelli rasta.» Le parole impiegarono un momento a penetrare nella mente: "un qualsiasi ragazzo con i capelli rasta". «Oh, mio Dio» esclamò afferrando il cellulare. «Cosa c'è?» domandò Tapell. «Cosa?» «Un momento.» Kate alzò la mano per ottenere il silenzio e premette i tasti. «Maledizione. Maledizione.» Spense il cellulare. Mead, Tapell, Brown, Freeman, persino i robot, pendevano dalle sue labbra. «Willie» disse Kate. «Willie Handley.» Riprese il cellulare e stavolta lasciò un messaggio: «Willie, sono Kate. Appena ricevi il messaggio, chiamami immediatamente. Subito, hai capito? E non uscire di casa». Chiuse bruscamente il telefono e inspirò. «Credo che l'artista di morte abbia preso di mira Willie Handley.» «Perché?» Kate spinse i capelli dietro le orecchie. «Per arrivare a me» soggiunse. «Quest'individuo mi segue dall'inizio, avvicinandosi sempre più. Ora crede di aver trovato il modo per raggiungermi: tramite una persona che mi è cara.» Rabbrividì alle sue stesse parole. «Willie è solo un'esca. È me che vuo-
le» proseguì afferrando il collage. «È tutto qui. Semplice e chiaro. Come gli avevo chiesto. Il fiume Hudson e un giovane nero che sarà la sua prossima vittima.» Kate sospirò. «Toccava a me a Venezia, ricordate? C'era la mia faccia sul santo. Ma Slattery si è trovata in mezzo. Ora lui mi chiama, mi attira. Questo è un fottuto invito. Non può essere altro.» Guardò l'immagine ed ebbe l'impressione di vederlo preparare la scena, prevedere il terrore che lei avrebbe provato all'idea di perdere Willie. Sì, quell'uomo la conosceva bene. Ma anche lei lo conosceva. «Deve avere un posto vicino al fiume.» «Il suo rifugio sicuro» affermò Freeman. Kate provò nuovamente a chiamare Willie. Nessuna risposta. «Mandiamo una macchina a casa di Willie, nel caso rientri» propose a Mead e, osservando il collage: «Non c'è indicazione dell'ora nell'immagine. Dobbiamo sbrigarci». «Sei sicura?» domandò Tapell. «Mi riferisco al rifugio sul fiume.» «Non posso giurarlo, Clare, ma me lo sento fin nelle viscere. E là che lui si organizza.» Freeman approvò con un cenno del capo. «E mi sta aspettando» soggiunse Kate fissando il collage. Tapell la guardò seria. «Finora hai avuto ragione» riconobbe prendendo il telefono. «Supponiamo che Willie Handley non sia con lui...» suggerì Mead. «Beh, comunque è ora che io lo incontri.» Kate impugnò la Glock e controllò le munizioni. «È un'occasione per prenderlo, Randy. Che sia con Willie o...» «Ti voglio viva, McKinnon.» «Anch'io» replicò Kate infilando la Glock nella tasca della giacca. Prese anche la calibro 38, sollevò i pantaloni e la legò alla caviglia. «Devo informare il Bureau di ciò che sta succedendo» dichiarò Freeman. Tapell annuì e uscì dalla stanza con i due robot alle calcagna. La donna lavorava su due telefoni. Mead gridò ordini agli agenti. In dieci minuti si erano organizzati. «La squadra SWAT si sta radunando» annunciò Tapell. «Ma hanno bisogno di circa quarantacinque minuti per mobilitarsi.» «Ci hanno messo due dozzine di auto a disposizione» disse Mead. «Metà partiranno da Battery Park; le rimanenti da nord e confluiranno con le altre.» Freeman entrò annunciando che l'FBI voleva dei loro agenti in ogni au-
to. «Prendiamo un elicottero per illuminare il lungofiume» suggerì Brown. «E seguire il movimento delle auto.» Tapell si attaccò al telefono. «Non posso aspettare» esclamò Kate. «Vado.» «Non sai da che parte cominciare» osservò Mead. Kate controllò l'orologio. «È tardi.» Stava innervosendosi e non riusciva a stare ferma. «L'elicottero decollerà tra venti minuti dall'eliporto della Trentaquattresima Strada» annunciò il capo della polizia. Kate camminava su e giù per la stanza. Tapell tornò al telefono e mobilitò le truppe. «Ortega dice che c'è una mappa computerizzata di tutto il lungofiume» riportò Brown col ricevitore in mano. «Segnala gli edifici nuovi, quelli vecchi e quelli in costruzione.» Prese per un braccio un giovane agente che era appena entrato. «Sicuramente tu sai come far funzionare questo aggeggio» e lo spinse davanti al computer passandogli il telefono. «Parla con Ortega.» In pochi minuti l'agente stampò una mappa. «Non è un granché» osservò Kate. «È già qualcosa. Almeno sappiamo che questa» precisò Brown puntando il dito sulla mappa «è una discarica. Lui non può essere lì.» «Andiamo» concluse Kate. «Le auto di pattuglia stanno per partire» le gridò Mead. «Se scopri qualcosa... qualsiasi cosa, chiedi rinforzi. Mi hai sentito?» 44 Al di là del fiume il riflesso delle luci di Hoboken scivolava sulla superficie dell'Hudson come un branco di anguille d'argento. Willie si fermò per osservare un rimorchiatore che avanzava pigramente nell'acqua. Davanti a lui si profilava la grande darsena, un cubo nero stagliato contro il cielo grigio peltro. Guardò l'orologio: le otto. Era in perfetto orario. Possibile che fosse questo il posto? La spessa porta di legno bordata d'acciaio era accostata. Quando Willie vi appoggiò la spalla, si aprì cigolando. L'interno era umido e freddo, enorme come una palestra. Tra le fessure
dell'altissimo soffitto si scorgevano chiazze di cielo; quattro o cinque faretti appesi alle grosse travi di legno diffondevano una luce fioca. Sulla parete davanti alla porta erano appesi disegni e fotografie; al centro c'era un grande tavolo di metallo cosparso di ritagli di carta, forbici, coltelli, colla. «Che ne dici?» Le parole arrivarono da dietro ed echeggiarono in ogni direzione. Willie ruotò su se stesso. «Oh, sei qui. Bene. Cominciavo a chiedermi che posto era questo.» «Un grande studio, no? Durante il giorno la luce è oro puro.» Willie avanzò di qualche passo. «Ma ci fa un freddo del cazzo, amico. Non c'è il riscaldamento?» «Per secoli gli artisti hanno lavorato in condizioni ben peggiori. È solo recentemente che... la tua generazione è così viziata.» «Io? Credi forse che sia cresciuto tra piscine e campi da tennis?» rise Willie. «Vergogna. Tutti non fanno che lamentarsi della loro triste infanzia.» Sente che sta iniziando la scissione, quello stato di fuga che percepisce quando realizza il suo lavoro. Tuttavia, è molto eccitato: non ha mai avuto un artista vivo nel suo studio. In alto si udì un gran fragore. Willie alzò gli occhi. Uno stormo di colombi batté le ali. «Hanno fatto il nido lassù. Carino, no?» «Mi ricorda Venezia» disse Willie. Fece qualche passo. I disegni sul muro erano confusi, indistinti, ma quando si avvicinò, si bloccò all'improvviso. «Cosa...» mormorò Willie osservando le orrende fotografie di Ethan Stein, Amanda Lowe, Elena, sul muro pieno di buchi. E gli mancò il respiro. Brown guidava così lentamente da bloccare il traffico e scatenare i clacson. Avrebbero potuto mettere la sirena ma non volevano farsi notare finché non avessero trovato il posto. Kate teneva in grembo la mappa del lungofiume e il collage. Aveva tentato più volte di chiamare Willie, senza risultato. "Per favore, Dio, fai che sia da qualsiasi parte ma non qui." Ma sentiva una sensazione di nausea alla bocca dello stomaco, quella che annunciava un pericolo. La radio gracchiò. «Brown. McKinnon.» Kate afferrò il ricevitore. Era Mead. «Dove siete?»
«Abbiamo appena imboccato il lungofiume attorno al South Ferry. Ora non posso parlare, Randy. Dobbiamo guardarci attorno.» «Le auto stanno per cominciare il pattugliamento» annunciò lui. «E il Bureau ha deciso di aggiungerne altre.» «Bene» sospirò Kate. La frustrazione cresceva sebbene fossero appena all'inizio. «Gesù. Potremmo andare avanti così tutta la notte, Floyd. Cosa cerchiamo?» «Controlla la mappa» suggerì Brown. Kate respirò cercando di calmarsi e avvicinò la mappa agli occhi. «Pare che ci siano alcuni vecchi edifici presso l'Holland Tunnel che potrebbero essere abitabili. Poi dei magazzini e due vecchie darsene destinate alla demolizione nel tratto tra il West Village e il molo di Chelsea. Alcune altre più a ovest.» Mentre guardava dal finestrino il fiume sempre più scuro un pensiero cominciò a prendere forma. «Luci» esclamò. «Cerchiamo delle luci. Gli edifici abbandonati dovrebbero essere bui.» «Giusto» approvò Brown. Persino la statua della Libertà sembrava minacciosa, come se la vecchia signora celasse un segreto e il suo braccio levato fermasse i visitatori invece di augurare loro il benvenuto. Kate scrutò la venerabile icona, con la sua torcia ardente nel cielo fosco. Poi notò un edificio sul lato della superstrada che le parve sospetto. Ma avvicinandosi videro che era un cantiere, un guscio vuoto illuminato da una fila di lampadine. Brown spinse l'auto lungo la superstrada, tenendosi vicino al fiume. Lui era là. Da qualche parte. La aspettava. Kate lo sentiva. Controllò nuovamente la mappa, poi guardò il collage: l'uomo nero e il fiume Hudson sullo sfondo. Gli edifici successivi erano sbarrati da assi. Kate e Brown raggiunsero Greenwich Village in silenzio, senza vedere nulla di interessante, in un'atmosfera sempre più tesa. Davanti al Westbeth, il palazzo degli artisti, l'auto dovette fermarsi perché la strada era bloccata dalle autopompe con le sirene spiegate e i lampeggianti che disegnavano lame arancione sulla facciata del palazzo. I clacson facevano a gara con le sirene, creando una sinfonia insopportabile. Brown cercò di tornare indietro ma era chiuso nel traffico. Mentre anche lui si univa al coro dei clacson Kate scese dall'auto. «Probabilmente è un falso allarme ma dobbiamo controllare» spiegò un pompiere rubicondo. «Concedeteci dieci minuti.» «Neanche uno. Siamo del NYPD. È un'emergenza» rispose Kate.
Il pompiere si mise a dirigere il traffico liberando Brown che imboccò contromano un senso vietato, svoltò sgommando all'angolo e ritornò sulla superstrada. «Secondo la mappa, stiamo per arrivare a due vecchie darsene» disse Kate. «Eccole, là davanti» indicò Brown. «C'è della luce in una delle due?» domandò Kate. Brown parcheggiò e i due scesero di corsa. Era una grande costruzione in rovina. Kate esitò un istante, udì qualcosa, "Voci?", provenire dall'interno. Con la pistola in pugno aprì la porta con un calcio. Il legno cedette spezzandosi in mille schegge. Sei o sette barboni seduti attorno a un fuoco tostavano degli hot dog infilzati su stecche di legno. Li guardarono imperturbabili. C'erano rifiuti ammucchiati in ogni angolo. Un fetore intollerabile. Kate e Brown tornarono indietro disperdendo per ogni dove una miriade di topi. «La grande arte è sempre sconvolgente all'inizio. Finché non ti abitui.» Willie retrocedeva lentamente. Doveva scappare? Non sapeva che fare. "Com'è possibile? Schuyler Mills?" L'uomo che gli aveva insegnato tutto? Il sovrintendente che gli aveva letto nel pensiero fece un rapido passo avanti afferrandogli il braccio e puntandogli una piccola pistola alla tempia. «Vieni. Voglio mostrarti una cosa» lo invitò spingendolo dolcemente. Il cuore e la mente di Willie erano in subbuglio. Impossibile. Era Schuyler l'artista di morte? Non riusciva a crederci. Doveva aggredirlo? Rischiare di farsi sparare? «Qui dentro» Mills lo guidò in un'altra stanza. Questa era più piccola, lunga e stretta come una pista da bowling. Buia, tranne il riflesso delle insegne pubblicitarie sull'altra sponda del fiume che penetrava dai buchi nei muri. Willie vedeva poco ma sentiva l'acqua sulle assi marce del pavimento bagnargli le scarpe. «Aspetta.» Mills allentò la presa sul braccio di Willie per raggiungere un faretto su un pilastro. Willie pensò: "Ci siamo". È il momento di scappare, ma la canna fredda della pistola gli sfiorava l'orecchio. «Fermo» intimò Mills premendo l'interruttore. Un raggio di luce illuminò la scena. «Non giudicare con troppa severità. Il lavoro non è finito.» Willie impiegò un minuto a capire. Vide una figura appoggiata al muro,
o ciò che ne restava e... "Gesù Cristo!..." c'era una testa in un piatto sul pavimento? «Artemisia Gentileschi» suggerì Mills. «L'unica grande artista donna del Rinascimento italiano. Non dubitavo che la signora Kent sarebbe stata lieta di interpretarla.» Ora Willie vedeva, anche troppo chiaramente. La testa di Charlie. Sul piatto. Galleggiante su due dita di sangue rappreso, come gelatina. Il corpo decapitato era appoggiato al muro. Come nella visione che aveva avuto. Sentì che stava per vomitare ma ebbe un'altra visione: se stesso immerso nell'acqua fino alla vita, e con la visione giunse la realizzazione che stava per morire. «È Giuditta che decapita Oloferne. Ma il bello è che la signora Kent recita entrambi i ruoli: Giuditta e il generale assiro. È un pezzo molto concettuale. Forse non chiaro come vorrebbe la tua amica Kate ma...» Per un istante parve smarrirsi e Willie ne approfittò. Piroettò su se stesso e colpì duramente Mills alla gola. La pistola gli sfuggì di mano e rotolò a terra. Willie si buttò per prenderla ma mentre stava afferrando il calcio sentì la puntura di un ago nella coscia. Il liquido si diffuse nei muscoli entrando nel sangue con un bruciore insopportabile. Willie gemette. Aveva la pistola in mano ma gli mancava la forza di stringerla. "Merda." Quell'iniezione era riservata a Kate. Mills si massaggiò la gola dolente. «Non avresti dovuto colpirmi. Mi hai fatto male, sai?» Willie non sentiva più le braccia e le gambe. Cercò di trascinarsi, di mettersi in salvo... ma dove? Strisciando sul pavimento, si ferì la mano e si strappò i pantaloni con un chiodo arrugginito. Il sangue sgusciò dal palmo ma Willie non provò dolore. «Rilassati. Non ti ucciderò. È solo una paralisi temporanea.» Mills si chinò per guardarlo negli occhi. «Non ti avrei mai fatto del male intenzionalmente. Lo sai, no?» Gli accarezzò la fronte. «Tu sei come un figlio per me.» Willie tentò inutilmente di parlare. «Tutti i muscoli sono paralizzati, compresi quelli della gola.» Lo prese per le caviglie e lo trascinò in un angolo della stanza. La testa di Willie rimbalzò sul pavimento duro e umido, ma il dolore non era nulla paragonato al terrore che provava. «Non ho avuto molto tempo per questo lavoro. Devi perdonarmi.» Willie lo fissava, inerme, le braccia mortalmente pesanti, le gambe completamente intorpidite.
Disegnato sul muro c'era uno schizzo approssimativo: un paesaggio fluviale. «Scuola dell'Hudson River. Frederic Church» annunciò Mills spingendo Willie contro il disegno e sistemandogli il corpo. «Pensi di poterti reggere in piedi?» domandò. «No, evidentemente no.» Teneva in mano uno di quei grossi pastelli a olio che usano i pittori. «Sta' fermo» disse afferrando la mascella di Willie. «Devo farti assomigliare all'Autoritratto di Basquiat.» Gli contornò di bianco gli occhi e tracciò delle croci sulla bocca. Poi fece un passo indietro. «Niente male. Però devo metterti in piedi.» Andò a frugare sul tavolo da lavoro. «Devo avere un martello e dei chiodi da qualche parte.» Kate anche in questa situazione provava la stessa sensazione di essere in ritardo che aveva avuto quando cercava Ruby Pringle: «La mappa non ci serve, Floyd. Arriveremo troppo tardi!». «Aspetta, McKinnon.» Kate si chinò nuovamente sulla mappa. Sentiva il sudore bagnarle la fronte. Brown sollevò il ricevitore e chiamò la centrale. «Le auto hanno trovato qualcosa?» «No. Ancora nulla» gracchiò la voce di Mead. «E voi?» «Stiamo sempre cercando.» Brown sterzò per superare una macchina lenta e la mappa e il collage scivolarono a terra. Kate li raccolse e le dita sfiorarono la superficie del collage. «Cos'è questo?» Lo avvicinò agli occhi e passò le dita sull'immagine. «Ci ha dipinto sopra qualcosa che mi è sfuggito.» «Cosa?» «Non so. Non riesco a vedere.» Tenne il collage vicino al parabrezza, sentì con le dita un'irregolarità che i guanti di plastica avevano mascherato e finalmente vide i tre piccoli serbatoi dipinti sul tetto della baracca di Frederic Church. «Cisterne d'acqua» esclamò. «Cerchiamo tre cisterne d'acqua.» «Gesù.» «Cosa c'è?» «Credo che le abbiamo appena passate.» Brown aspettò un breccia nel traffico, fece un'inversione a U, urtò il divisorio e procedette in direzione sud. «È una vecchia darsena» affermò Kate consultando la mappa. Aveva la
bocca secca e il cuore in tumulto. «Eccola.» Apparve la costruzione scura, illuminata dalla luna. «Tre serbatoi» indicò Kate trattenendo il respiro. Brown fermò l'auto e scesero rapidamente, lasciando aperte le portiere per non annunciare il loro arrivo. «Mi pare di vedere delle luci dentro» sussurrò Kate. «Chiamiamo i rinforzi» rispose Brown. «Aspettiamo di esser sicuri. Non voglio che gli altri interrompano le ricerche se si tratta di un falso allarme» suggerì Kate impugnando la Glock. La grossa porta di legno era schiusa. Kate scrutò nell'oscurità. Le parve di udire un rumore, subito soffocato da quello del traffico sulla superstrada. Entrarono curvi, con le pistole puntate, e attesero che gli occhi si abituassero all'oscurità. Poi lentamente, quasi strisciando, avanzarono. Kate aveva i nervi a fior di pelle. Un topo tagliò loro la strada. Kate soffocò un grido. Un fruscio nel soffitto. Lei puntò la Glock verso l'alto. Colombi. Respirò di sollievo. Improvvisamente i suoi occhi misero a fuoco le immagini sul muro. "Dio mio. Lo abbiamo trovato." Diede di gomito a Brown e gli indicò le immagini. Restarono immobili, senza respirare, scrutando la stanza per cogliere segni di vita. Kate non vedeva nulla ma percepiva movimenti, vibrazioni, molto vicino. «Chiamo i rinforzi» sussurrò Brown estraendo la radio dalla tasca. Schuyler Mills teneva il chiodo posato sul polso di Willie e il martello sollevato ma gli tremavano le mani. «Non posso farlo» disse. «Non a te, figliolo.» In quel momento gli venne in mente Abramo. Cosa c'è? Si staccò da Willie come sentendo una presenza nella stanza. Gli occhi di Willie, l'unica parte del corpo non paralizzata, scrutarono nella penombra. Non c'era nessuno, nulla. Guardò la testa di Charlie Kent, il piccolo foro nero del proiettile sulla tempia incrostato di sangue secco. Gli occhi di Mills erano semichiusi. «Non posso. Non capisci? Gli voglio bene.» Fallo. «No.» C'erano lacrime negli occhi del sovrintendente? Willie non ne era sicuro ma gli sembrava di scorgerle. «Lasciami in pace!» gridò Mills colpendo col martello un fantasma invi-
sibile. Improvvisamente si calmò. «Scusa. Dove eravamo rimasti?» Guardò fisso Willie. «Oh, già. Voglio mostrarti una cosa.» Prese la piccola pala d'altare da terra e mormorò: «Deliziosa, vero?». Willie vide la Madonna col Bambino. «Guardala da vicino. È tutto nei dettagli, come si dice.» Lanciò un'occhiata verso l'altra stanza e tese l'orecchio. «Oh.» Sorrise. «Credo che siano arrivati i nostri ospiti.» Si mosse rapidamente, afferrò un grosso revolver dal tavolino dove aveva appoggiato altre due siringhe. Posandosi il dito sulle labbra fece cenno a Willie di non fare rumore. Poi gli consegnò la pala d'altare che cadde a terra con un tonfo. «Oh, non riesci a tenere niente in mano, eh?» Udendo il tonfo Kate e Brown ruotarono su se stessi, videro la porta e una flebile lama di luce. Si mossero con cautela, lentamente. A Kate parve che impiegassero un'eternità ad attraversare la stanza. Brown era un paio di passi davanti a lei. Teneva entrambe le mani sulla pistola. Oltrepassò la porta piroettando. Si udì un lieve sibilo seguito da un tonfo. Floyd Brown retrocedette, lasciò cadere l'arma e si strinse la spalla. Non c'era sangue. Non è ferito, pensò Kate, ma Brown ondeggiò, cadde a terra ai suoi piedi con bocca e occhi spalancati ed emise un gemito. Kate strinse la Glock e posò l'altra mano sul petto di Brown. Il cuore batteva, era vivo. "Grazie a Dio." Puntò la pistola in avanti, scrutò attraverso la porta aperta e vide Willie appoggiato al muro. Willie batté disperatamente gli occhi nel tentativo di avvertirla del pericolo ma Kate sapeva che l'artista di morte era là e l'aspettava. Le pareva quasi di sentirne l'odore. Avanzò cautamente con la Glock in pugno ma si accorse in ritardo dell'ombra e il braccio le colpì duramente il polso. La pistola schizzò via dalla mano e rimbalzò sul pavimento bagnato. E lui la prese. «Finalmente» esclamò puntando l'arma al petto di Kate. «È tanto che ti aspetto.» Vedendo Schuyler Mills Kate restò a bocca aperta. «Sapevo che non saresti venuta da sola. Non preoccuparti, il tuo amico vivrà» disse indicando Floyd Brown immobile a terra. «Per un po'. È solo paralizzato, ma temo che in seguito le sue condizioni peggioreranno.» Kate osservò la scena: il corpo decapitato di Charlie Kent e la testa nel
piatto. «Bello, vero?» domandò Mills. «Ah, ho un'idea. Un altro gioco», e con un sorriso: «In fretta, Kate. Autore e titolo». Puntò la Glock alla tempia di Willie. «Ti concedo tre possibilità, poi l'uccido. È corretto, no? Dopotutto tu sei la grande studiosa d'arte.» Un altro sorriso. «Lo so, lo so. Secondo il collage dovrei ucciderlo con un coltello, ma non cavilliamo. Siamo tutti professionisti qui.» Alzò il cane. «Okay. Puoi cominciare.» Kate aveva la testa vuota. Riusciva soltanto a pensare all'uomo che aveva di fronte, che credeva di conoscere da anni. Schuyler Mills, sovrintendente del museo di arte contemporanea. "Dio mio. Quest'uomo ha cenato in casa mia!" «Avanti» lui le fece premura. «Okay. Concedimi un minuto.» «Richiesta ragionevole.» Guardò l'orologio. «Un minuto. Via.» Il cervello di Kate cominciò a funzionare. «È un dipinto del Rinascimento, giusto?» «Ottimo, ma non è quello che ho chiesto. Voglio il nome del pittore e il titolo del quadro.» Guardò l'orologio. «Quaranta secondi.» «Caravaggio.» «Sbagliato. Trentatré secondi.» «Tiziano.» «Secondo sbaglio. Ventotto secondi.» «Aspetta, per favore.» «Un suggerimento, anche se non capisco perché debba aiutarti. È una donna.» «Artemisia Gentileschi!» «Accidenti, sei brava. Okay. Adesso il titolo.» «Davide e Golia.» «Oh, andiamo. La signora Kent non può impersonare quei due.» «Giustamente.» Kate sentiva il sangue rombarle nelle orecchie. «Giuditta che uccide Oloferne!» «Tombola!» Mills sorrise soddisfatto. «Lo sapevo che con te valeva la pena.» Spostò la Glock e gliela puntò al cuore. «Sei un'ottima giocatrice, Kate.» «Grazie» replicò lei cercando di mantenere calma la voce. «Anche tu, Schuyler.» «Peccato che il gioco debba finire.» «Non potremmo... continuare a giocare?»
«Smettila, Kate. Non sono stupido.» Kate si avvicinò di un passo. «Resta dove sei» le intimò lui mirando al cuore. «Di cosa stavamo parlando?» «Del nostro gioco.» «Giusto. Ne hai mancato uno.» «Davvero? Quale?» «Molto tempo fa. Una ragazzina. Un'autostoppista. A Queens.» «No» replicò Kate avvicinandosi lentamente. «Era un primo tentativo e non credevo volessi dargli importanza. Un angelo, vero? Una specie di putto.» L'uomo fece un gran sorriso. «Non riesco a crederci. Lo sapevi?» «Beh, se devo essere sincera...» Avanzò di un altro piccolo passo. «Me ne sono resa conto solo recentemente.» Lui annuì. «Era un lavoro promettente, non credi?» «Oh, sì. Molto.» Il suo viso diventò gelido. «Allora perché l'hai rovinato tirandole su i pantaloni?» Ruotò la pistola e la puntò nuovamente alla testa di Willie che batté le palpebre. «Io, beh, allora non sapevo che fosse opera tua. Come ho detto, solo da poco ho...» Kate si sforzava di restare calma, di ragionare, ma era impossibile. «È misterioso, non trovi Kate? Voglio dire, il modo in cui le nostre vite procedono parallelamente. Tu eri una giovane poliziotta, così bella e decisa, quando io sono nato come artista. Oh, naturalmente ce n'erano altri, ma non contavano. Poi gli anni passano e tu ricompari, con il libro e la serie televisiva. Infine arrivi al museo. Non ci potevo credere. Il mio museo. E nel consiglio di amministrazione, nientemeno. L'ho interpretato come un presagio.» Kate notò gli occhi vitrei dell'uomo, la sua mancanza di concentrazione. "Presto. Presto." «Poi quella sera, mentre guardavo quella ragazza, la tua protetta, mi è venuto in mente il modo per attirare la tua attenzione, per essere finalmente insieme noi due. Si trattava solo di un'idea, ancora rudimentale, da elaborare.» Le palpebre fremettero. Doveva fare un tentativo? "Non ancora. Fra poco." «Ma poi, quando ero nel suo appartamento, ho visto chiaro. Sai, erano passati anni. Credevo fosse finito. E lei... rise di me.» Aggrottò la fronte e
controllò l'orologio. «Gli altri stanno per arrivare, vero?» «Chi?» «Oh, per favore, Kate. Hai capito il messaggio e lo hai detto agli altri. Saranno qui fra poco. So che non ci resta molto tempo.» Dietro le sue spalle Kate vide il revolver a terra, a pochi centimetri dalla mano di Willie. «Immagino che fossimo destinati a incontrarci, Kate. Io, l'artista. Tu, la donna che avrebbe glorificato il mio lavoro.» «Come potrò farlo se muoio?» «Ho un progetto.» Mills abbassò gli occhi sulla pala d'altare di Bill Pruitt. «Tu e io, Kate. Madonna e Bambino. Che ne dici?» «Davvero? E come ci dividiamo i ruoli?» La risata acuta echeggiò nell'aria spaventando i colombi sul tetto. «Molto divertente. Posso sempre contare sulla tua ironia, Kate. Però temo di doverti uccidere» affermò l'uomo puntando la Glock. «Un momento.» "Fallo parlare." «Non ho capito bene. La Madonna col Bambino? Tu e io? Spiegami. Sii chiaro. Voglio capire fino in fondo.» «È molto semplice. Prima ti uccido e poi ti sistemo come la Madonna nel quadro. Infine mi spoglio e mi acciambello tra le tue braccia. Prenderò delle pillole.» Sospirò e parve sorridere al pensiero. «Quando ci troveranno, sarò morto anch'io.» «E Willie?» domandò Kate riflettendo rapidamente. «Lui non c'entra. Perché non lo lasci andare? Potrà raccontare al mondo l'ideazione del tuo progetto straordinario. Altrimenti, potrebbero non capire.» «Oh, Kate. Capiranno... con la pala d'altare accanto a noi. Comunque, Willie deve interpretare il ruolo da protagonista nel suo pezzo, il Basquiat» disse ruotando la pistola verso Willie. «Aspetta!» lo fermò Kate. «Devo chiederti una cosa.» «Sì?» «Ehm...» Kate cercò disperatamente di inventare qualcosa. «Parlami del tuo lavoro. Per esempio, perché hai scelto Bill Pruitt?» Lui sospirò. «Okay, ma poi dobbiamo metterci all'opera, d'accordo?» Kate annuì senza staccargli gli occhi di dosso, in attesa. «Beh, prima di tutto per questioni d'interesse: Pruitt non aveva intenzione di nominarmi direttore del museo. Non potevo accettarlo. Credimi, non mi divertiva lavorare con lui, toccare quel suo corpo flaccido e grasso. Tuttavia, l'ho reso molto più attraente da morto di quanto sia mai stato in vita.»
«È vero.» Kate strizzò l'occhio a Willie e indicò il revolver per terra. Willie batté le palpebre e le sue dita si mossero leggermente. «Lo stesso si può dire per quel noioso pittore Ethan Stein.» Kate fece un passo in avanti. Ora era abbastanza vicina al revolver per prenderlo. «Ferma!» gridò lui piantandole la Glock nello stomaco. Kate lo guardò negli occhi. Stava piangendo? «Come è strana la vita, non credi? Cioè, non avevo intenzione di ricominciare. Davvero, avevo tutto sotto controllo. Ma dovevo dare una dimostrazione a lui.» «A chi?» «Lui!» esclamò guardando a destra e a sinistra. Kate stava per afferrare la pistola ma Mills la premette più forte contro le sue costole. «Lo capisci, no?» Lei annuì, pur non avendo idea di cosa stesse parlando. Capiva che era pazzo, ma vedeva anche tanta sofferenza mescolata alla follia. Che strano, considerando che non aveva fatto che sognare di uccidere quell'uomo che aveva spento tante vite a lei care, lacerandole il cuore senza rimedio. «Lascia che ti aiuti» suggerì. «Posso consegnare il tuo messaggio, il tuo lavoro, al mondo.» Mills le sorrise teneramente. «Volevo smettere, davvero, lo giuro.» E le voci: No, non è vero! Menti! «Non mento!» Si batté la tempia con la mano libera. Le palpebre fremettero. Willie riuscì ad allungare le dita, a sfiorare la canna del revolver, ma non ottenne altro risultato che allontanarlo ulteriormente. Mills ruotò verso di lui. Ecco la sua occasione. Kate si protese in avanti e gli fece saltare la Glock di mano. Ma Mills fu rapido a chinarsi per raccoglierla, seguito da Kate, che perse l'equilibrio, inciampò, cadde all'indietro e da terra lo guardò, con la canna della Glock puntata alla fronte. Mills fece per premere il grilletto. Kate gli sferrò un calcio dal basso. Lui barcollò all'indietro. Kate fece una finta a sinistra, lui sparò e la mancò. Era sbilanciato, ma teneva ancora la Glock nella mano tremante. Kate rotolò verso destra e gli afferrò una gamba.
Un altro sparo. Stavolta il proiettile colpì il soffitto. I colombi si sparpagliarono battendo selvaggiamente le ali. Kate strappò la calibro 38 dalla caviglia e sparò tutti i sei colpi. Schuyler Mills si strinse il petto con le braccia. Sotto le dita la camicia bianca era una tela vergine per il rosso che la coprì a ventaglio. Con un'espressione di stupore sul viso, abbassò lo sguardo su tutto quel sangue, sui buchi che costellavano la camicia, poi lo levò al soffitto nero dove i colombi svolazzavano impazziti. Per un istante immaginò di volare con loro, oltre il dolore. Quindi si piegò in avanti e crollò a terra con uno schianto. La pistola ancora fumava nella mano di Kate. Si voltò verso Brown. «Stai bene?» Il detective riuscì a muovere la testa e borbottò: «Sì». Kate sentì il polso del sovrintendente. «È morto» affermò tornando a occuparsi di Brown. In lontananza si udivano le sirene. «Tieni» Kate infilò la 38 tra le mani inerti di Brown. «Prima che arrivino i nostri.» Con un sospiro rauco e spezzato Brown replicò: «Non ci... crederanno. Sono... paralizzato». «Ci crederanno» ribadì Kate piegandogli le dita attorno al calcio. «Ti ha sparato il tranquillante proprio mentre lo facevi secco. Okay?» Brown la guardò negli occhi. «Ma... perché?» «Perché io sono solo una privata cittadina, Floyd. Tu invece passerai alla storia come il poliziotto che ha ucciso l'artista di morte.» Le auto della polizia occupavano la strada. Le luci lampeggianti disegnavano strisce gialle sulla vecchia darsena. Le sirene elettrizzavano l'aria della notte. «È stato Brown a sparargli» dichiarò Kate a Mead e a Tapell. Brown riusciva appena a muovere le dita. Kate osservò due medici attaccarlo a una flebo. Mentre Willie veniva caricato sull'ambulanza Kate gli sfiorò la guancia e la fronte, lottando per non piangere. «Stai tranquillo, okay?» Un medico gli strappò la gamba dei pantaloni e lo disinfettò. Un altro gli stava bendando la mano ferita. «Andrà tutto bene» sussurrò Kate. «Certo» borbottò Willie. «È solo la... mano sinistra. Io dipingo... con la destra.»
45 La notizia dell'uccisione dell'artista di morte occupò le pagine dei quotidiani per molti giorni e quelle delle riviste per settimane. «Time» e «Newsweek» dedicarono le copertine al profilo psicologico di Schuyler Mills, citando generosamente Mitch Freeman, lo strizzacervelli dell'FBI. I colleghi di Mills, Amy Schwartz e Raphael Perez, diventarono divi dei media dalla sera alla mattina. Corse addirittura voce che l'attraente vicecuratore avrebbe interpretato se stesso nel film L'artista di morte che si iniziò a girare poco dopo che cadde il sipario sulla vicenda. Anche Mead godette delle luci della ribalta e lo si vide spesso pontificare, succhiando l'aria tra i denti, in vari spettacoli televisivi. Soltanto Floyd Brown, considerato l'eroe del giorno (il sindaco voleva dargli una medaglia che lui rifiutò) si tenne in disparte. L'artista di morte aveva ottenuto la fama. «Art News» pubblicò un articolo di sei pagine ricostruendo gli omicidi e proponendo un confronto tra le fotografie dei delitti e le opere d'arte a cui si riferivano. Al distretto di polizia nessuno si spiegò in che modo la rivista avesse potuto mettere le mani sulle fotografie. Come conseguenza, gli eredi di Ethan Stein fecero causa a «Art News» e al NYPD, oltre che alla galleria Wasserman dove la mostra commemorativa di Stein aveva venduto ogni singolo pezzo senza che la famiglia ricevesse un centesimo. Gli eredi di Amanda Lowe pretesero riconoscimenti finanziari per l'uso delle fotografie del delitto e del nome della defunta. Corse voce che la somma si aggirasse sul mezzo milione di dollari ma fossero insorte difficoltà per l'incasso. Le ferite di Willie miglioravano. Era tornato nel suo studio a lavorare. Per forza: ogni quadro era già venduto prima di essere completato e i collezionisti facevano la fila per i pezzi futuri. Scherzava con Kate sul fatto che se fosse morto la richiesta sarebbe stata ancora maggiore. Kate non rideva e ogni giorno ringraziava Dio di essere riuscita a salvarlo. Si sentiva svuotata e malinconica. Occupava il tempo con opere di carità, cercando le persone giuste cui fare adottare le sue classi di scolari per offrire loro un futuro, creando una borsa di studio dedicata a Maureen Slattery e donando una somma cospicua al NYPD nel nome della giovane poliziotta. Lei e Richard si stavano riavvicinando, sforzandosi di superare la rabbia, i sospetti e il risentimento delle ultime settimane. Si impegnavano seria-
mente a tener conto delle loro necessità e dei sentimenti reciproci. Kate regalò a Richard un nuovo paio di gemelli con incisa un'unica parola: SCUSA, e ogni mattina, prima di andare al lavoro, Richard le lasciava piccoli doni, un sottile braccialetto d'oro, un foulard dipinto a mano, sul cuscino, sempre con lo stesso biglietto: TI AMO. Tuttavia, Elena continuava a tormentarla. Perché si era messa con uno come Damien Trip? Kate non riusciva a capirlo e ormai non lo avrebbe mai saputo. Forse Richard aveva ragione, non si conosce mai completamente qualcuno. Era un pensiero che la faceva soffrire. Ma alla domanda più inquietante, perché Elena aveva fatto quei film, perché aveva bisogno di denaro, Kate doveva assolutamente trovare una risposta. Voleva davvero vedere la signora Solana? Kate era sicura che la donna non desiderava vedere lei; eppure andò a bussare alla sua porta. Appena la vide, il viso di Mendoza si indurì, ma solo per un istante. Pareva non avesse la forza di essere arrabbiato. «Posso entrare?» domandò Kate. Mendoza esitò prima di aprire. Era magro, sofferente, molto più vecchio di quanto Kate ricordasse. «Sono venuta a vedere la signora Solana.» Mendoza annuì, come se se lo aspettasse. Kate lo seguì nel corridoio stretto. L'appartamento puzzava di cesso e disinfettanti. Mendoza aprì la porta della camera. La donna a letto, a malapena riconoscibile, era Margarita Solana. Il viso un tempo bellissimo era devastato, i lucidi capelli neri si allargavano sul cuscino come una ragnatela. Le guance erano scavate, con rughe profonde agli angoli della bocca. Gli occhi scuri, così simili a quelli di Elena, erano infossati. «Ormai per lei non ci sono che le medicine» sussurrò Mendoza. «Un mucchio di medicine.» Sul comodino Kate vide una quantità di medicinali da riempire una farmacia. «È una donna orgogliosa» disse Mendoza. «Non voleva che nessuno lo sapesse.» Si toccò un rigonfiamento violaceo sul dorso della mano, chiuse gli occhi e tremò come di freddo, sebbene nella stanza facesse un caldo soffocante. «Luis!» gridò Margarita Solana. Mendoza le si avvicinò e le accarezzò la fronte. «Shh... querida, shh...» La baciò sulle labbra tremanti e sussurrò: «C'è qualcuno che è venuto a trovarti, querida».
Kate fece un passo avanti. Gli occhi della donna la misero a fuoco. Sollevò a fatica una mano ossuta. «Mi dispiace» mormorò dolcemente Kate. La donna scosse lentamente il capo e toccò il crocifisso d'argento appeso al collo con una grossa catena. «Ho domandato tante volte a Gesù perché sono successe tutte queste cose, ma non mi ha mai dato risposta» mormorò. «Anch'io ho fatto le stesse domande» aggiunse Kate. «Elena era una brava ragazza.» La signora Solana la guardò negli occhi. «Una brava ragazza.» «Sì» confermò Kate. «Lo era davvero.» Margarita Solana annuì. «Mia figlia la amava moltissimo e... io sono una donna gelosa.» Mollò il crocifisso e posò la mano su quella di Kate. «Gesù mi ha obbligato a guardare dentro il mio cuore. Voglio perdonare e chiedo anche a lei di fare altrettanto.» Kate sentiva le lacrime scorrere sulle guance. «Certamente.» Ora capiva tutto: la madre di Elena e Mendoza, entrambi tossicodipendenti, ormai malati terminali. Elena che comprava i farmaci di cui avevano disperatamente bisogno. «Paghiamo per il nostro passato» affermò Margarita con gli occhi pieni di lacrime. Guardò Kate e un sorriso le arricciò le labbra. «Ma ora va bene. È solo questione di tempo. Io sono pronta.» Il suo sguardo si posò su Mendoza appoggiato alla porta nella stanza fiocamente illuminata. «No» replicò Kate. «Ora ci sono medicine nuove, alcune delle quali molto efficaci, che possono...» «Non ho denaro per comprarle» la interruppe la donna sfuggendo al suo sguardo. «Non più. E la vergogna...» «La malattia non è una vergogna» disse Kate. «Per favore, mi permetta di aiutarla.» La donna scosse il capo. «La prego» insistette Kate. «Deve permettermelo.» Una settimana dopo Lo studio di registrazione era in fibrillazione. Sei persone svolazzavano nella grande stanza e altre due erano nella cabina insonorizzata: la squadra raccolta da Kate per completare il CD di Elena.
Un uomo manovrava la grande consolle con gesti da controllore del traffico aereo, muovendo leve e interruttori, premendo pulsanti, con la fronte aggrottata e le labbra serrate. Fece segno a un collega chino sul computer che portava occhiali così spessi da far sembrare gli occhi palle da golf. «Ehi, Danny, avvolgi questo nella sequenza 103.» «Okay.» Una giovane donna gridò: «Questo è l'ultimo per il nastro dat». Il tipo alla consolle disse: «Ottimo», si tolse la cuffia e fece cenno a Kate. «Stiamo mettendo insieme parecchie piste, secondo gli appunti di Elena che, grazie a Dio, sono molto dettagliati. Danny, quello laggiù, lavora a questo stupefacente nuovo programma che permette di inserire qualsiasi pezzo di musica in qualsiasi momento e in qualsiasi posto. Veramente straordinario.» «Cos'è un nastro dat?» domandò Kate. «Il master recording. E da questo ricaveremo i CD.» Si rimise la cuffia, mosse una leva e se la tolse nuovamente. «Vuole ascoltare?» Kate infilò la cuffia e udì la voce cristallina di Elena, sorprendentemente viva, che intonava scale ascendenti e discendenti. Sotto e sopra la voce si udivano parole recitate, come se Elena raccontasse una storia assolutamente astratta; le due forme si fondevano in quel genere particolare di musica visiva per cui la ragazza si era fatta conoscere nel mondo dello spettacolo. Era perfetto e mancava solo lei. Kate chiuse gli occhi e la immaginò su un palcoscenico interamente bianco. «È l'ultimo pezzo del CD» indicò il tecnico. «Come le sembra?» Kate stava ancora ascoltando Elena ma lesse la domanda sulle labbra dell'uomo. «Magnifico» rispose. «È veramente bellissimo.» Lui sorrise e levò le mani verso gli altri tecnici. Le parole e la musica di Elena echeggiavano nella testa di Kate. «Ha un titolo?» domandò. Il tecnico si avvicinò al collega al computer. «Danny, quest'ultimo pezzo ha un nome?» Kate sollevò un auricolare e attese, continuando ad ascoltare con l'altro la musica straordinaria di Elena. Danny consultò il foglio degli appunti di Elena. «Sì» confermò. «Si chiama La canzone di Kate.» Ringraziamenti
Per questo mio primo romanzo ho ricevuto aiuto e appoggio dalle seguenti persone: Mia figlia Doria, lettrice, scrittrice e splendida ascoltatrice. Mia sorella Roberta, che è stata la mia prima editor. Mia madre Edith, che mi ha insegnato, tra le altre cose, l'arte di raccontare. Mia cognata Kathy Rolland, per il suo spirito generoso. Jane O'Keefe, per l'ispirazione e la vera amicizia. Jan Heller Levi, per gli ottimi consigli. Janice Deaner, che mi ha aiutato a realizzare il libro. Ringrazio i seguenti amici che, oltre ad aiutarmi, hanno sopportato per anni le mie lamentele: Susan Crile, Ward Mintz e Floyd Lattin, Marcia Tucker, Graham Leader, Jane Kent e David Storey, Judd Tully, Lynn Freed, Elaina Richardson, Jon Giswold, Jane e Jack Rivkin, Caren e Dave Cross, Richard Shebairo, Jim Kempner, Valerie McKenzie, Elizabeth Frank, Reiner Leist e gli altri dello studio al decimo piano, David, Lisa, Sally, Regina. Ringraziamenti anche a: Suzanne Gluck, agente preziosa. Trish Grader e Sarah Durand, per l'eccellente e affettuoso editing. Richard Abate, per la sua utile guida. Alla Corporation of Yaddo, che ha coltivato la mia pittura, dato vita alla mia scrittura e salvato più di una volta la mia sanità mentale. E a mia moglie Joy per tutto il resto. FINE