JOHN AJVIDE LINDQVIST LASCIAMI ENTRARE (Låt Den Rätte Komma In, 2004) a Mia, la mia Mia Il luogo Blackeberg. Fa pensare ...
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JOHN AJVIDE LINDQVIST LASCIAMI ENTRARE (Låt Den Rätte Komma In, 2004) a Mia, la mia Mia Il luogo Blackeberg. Fa pensare a quei dolci rotondi di pasta di cocco, magari fa venire in mente la droga. Una vita decente. Si pensa alla metropolitana, ai sobborghi. Poi probabilmente non viene in mente nient'altro. Anche lì, come dappertutto, ci abita della gente. È per questo che il quartiere è stato costruito, perché le persone avessero un posto dove abitare. Non è un luogo cresciuto in modo naturale, no. Qui, tutto è stato predisposto sin dall'inizio. La gente ci è andata a vivere non appena tutto era pronto. Edifici di cemento, scagliati nel verde. Quando questa storia ha inizio, il quartiere di Blackeberg esisteva già da trent'anni. Si potrebbe pensare allo spirito dei pionieri. Al Mayflower, a una terra sconosciuta. Sì. Immaginare case vuote che aspettano la gente. Ed eccola che arriva! Passando sul ponte di Traneberg con il sole e le visioni davanti agli occhi. L'anno è il 1952. Le madri portano i loro piccoli in braccio e spingono le carrozzine o li tengono per mano. I padri non portano zappe e badili, ma elettrodomestici e mobili funzionali. Con tutta probabilità stanno cantando qualcosa. Forse l'Internazionale. Oppure un salmo, a seconda del credo religioso. Il quartiere è grande. È nuovo. È moderno. Ma non è andata così. Arrivavano con la metropolitana. O con le auto, o con i furgoni dei traslochi. Uno dopo l'altro. Entravano negli appartamenti vuoti con le loro cose. Le sistemavano sugli scaffali e negli armadietti su misura, disponevano i loro mobili sui pavimenti di linoleum. Ne compravano di nuovi per riempire i buchi. Quando finivano alzavano gli occhi e guardavano la terra che gli era stata data. Uscivano dai portoni e trovavano gli spazi già predisposti. Bisognava solo adattarsi a quello che c'era. C'era un centro. C'erano spaziosi parchi gioco per i bambini. C'erano
ampie aree verdi fra le case. C'erano molte stradine per i pedoni. Un bel posto. Questo si diceva la gente seduta al tavolo della cucina qualche mese dopo che si era trasferita. «Siamo arrivati in un bel posto.» Una sola cosa mancava. Una storia. A scuola, dato che non esisteva, i bambini non dovevano scrivere temi sul passato di Blackeberg. Sì. C'era la storia di un mulino. Un personaggio strano. Sorgevano strane case giù, vicino all'acqua. Ma era tanto tempo fa e non c'era alcuna relazione con il presente. Dove ora ci sono le case a tre piani, prima era tutta foresta. Erano lontani dai misteri del passato, non avevano neppure una chiesa. Un sobborgo di diecimila abitanti senza una chiesa. Fa capire molto sulla modernità e la razionalità del luogo. Un luogo dove si poteva essere liberi dalle calamità e dal terrore della storia. Tutto questo spiegava perfettamente quanto fossero impreparati. Nessuno li vide quando si trasferirono. A dicembre, quando alla fine la polizia riuscì a rintracciare il trasportatore che aveva effettuato il trasloco, questi non aveva molto da raccontare. Nella sua agenda del 1981, aveva soltanto scritto «18 ottobre: NorrköpingBlackeberg (Stoccolma)». Ricordava che si trattava di un uomo e di sua figlia, una ragazza carina. «Ah, sì, fra l'altro. Non avevano molte cose. Un divano, una poltrona, dei letti. Un lavoro facile. E ricordo che... sì, volevano andarci di notte. Ho detto all'uomo che sarebbe stato più costoso. Ma non ha fatto storie. Voleva che ci andassimo di notte. Sembrava importante. È successo qualcosa?» La polizia gli raccontò quello che era successo, chi aveva portato nel suo camion. Sbarrò gli occhi e fissò l'appunto sulla sua agenda. «Che mi venga un colpo...» L'uomo fece una smorfia come se la sua calligrafia lo disgustasse. 18 ottobre: Norrköping-Blackeberg (Stoccolma) Era stato lui a portarli lì. L'uomo e sua figlia. Non lo avrebbe detto a nessuno. Mai. PARTE PRIMA Fortunato colui che ha un amico così Le pene d'amore sono un orrore
un vero orrore ragazzi, SIW MALMKVIST, Pene d'amore I never wanted to kill, I am not naturally evil Such things I do just to make myself more attractive to you Have I failed? MORRISSEY (l'ultimo dei famosi playboy internazionali) Mercoledì 21 ottobre 1981 «Allora, cosa credete che sia questo?» Gunnar Holmberg, commissario della centrale di polizia di Vällingby, alzò un piccolo sacchetto di plastica con dentro della polvere bianca. Forse eroina, ma nessuno ebbe il coraggio di rispondere. Nessuno voleva essere sospettato di conoscere roba simile. Specialmente chi aveva un fratello o un amico del fratello che la usava. Che si iniettava borse. Persino le ragazze erano rimaste in silenzio. Il poliziotto scosse il sacchetto. «Credete che possa essere lievito per dolci? Farina?» Un mormorio negativo. Il poliziotto non doveva credere che quelli della classe 6B fossero degli idioti. In verità, era impossibile decidere cosa c'era all'interno del piccolo sacchetto, ma la lezione era sulla droga, quindi era possibile trarre delle conclusioni. Il poliziotto si rivolse all'insegnante. «Ma non imparano l'economia domestica?» L'insegnante sorrise e scrollò le spalle. La classe scoppiò in una risata, il piedipiatti era okay. Prima dell'inizio della lezione, aveva persino lasciato che alcuni ragazzi toccassero la sua pistola. Scarica naturalmente, però... Oskar era eccitato. Conosceva la risposta. Odiava stare zitto quando conosceva la risposta giusta. Sapeva che quello che stava per fare era stupido, ma alzò la mano ugualmente. «Sì?» «È eroina, non è vero?» «Proprio così» disse il poliziotto con uno sguardo gentile. «Come hai fatto a indovinarlo?» I compagni si girarono verso di lui, curiosi di sentire quello che rispondeva.
«Be', io... leggo molto.» Il poliziotto annuì. «Leggere è una bella abitudine» disse scuotendo il sacchetto. «Ma se uno usa questa roba non ha molto tempo per farlo. Quanto pensate che valga questo sacchetto?» Oskar non aveva bisogno di aggiungere altro. Aveva avuto il suo momento di attenzione. Aveva persino potuto dire che leggeva molto. Era molto più di quanto sperasse. Iniziò a sognare a occhi aperti. Dopo la lezione, il poliziotto si sarebbe avvicinato per chiedergli chi era, gli si sarebbe seduto di fianco. Allora lui avrebbe raccontato tutto. E il poliziotto avrebbe capito. Gli avrebbe passato una mano sui capelli dicendogli che era un bravo ragazzo, l'avrebbe abbracciato e gli avrebbe detto... «Maledetto spione.» Jonny Forsberg gli piantò un dito sulle costole. Il fratello di Jonny frequentava i drogati e Jonny conosceva un sacco di slang che i compagni di classe imparavano rapidamente. Con tutta probabilità, Jonny conosceva esattamente il valore di quel piccolo sacchetto, ma non era uno spione. Jonny non parlava con i poliziotti. La campanella dell'intervallo suonò e Oskar rimase indeciso vicino alla porta. Jonny voleva fargli male - qual era il modo migliore per evitarlo? rimanere nel corridoio, o uscire? Jonny e gli altri uscirono e andarono di corsa nel cortile della scuola. Giusto: il poliziotto aveva detto che sarebbe rimasto nel cortile con la sua auto e tutti quelli che erano interessati potevano andare a vederla. Jonny non avrebbe avuto il coraggio di attaccarlo mentre il poliziotto era lì. Oskar raggiunse la porta che dava sul cortile e guardò attraverso il vetro. Come previsto, tutti i suoi compagni di classe si erano ammucchiati intorno all'auto del poliziotto. Anche Oskar avrebbe voluto essere lì, ma non era una buona idea. Qualcuno avrebbe potuto dargli una ginocchiata o tirargli giù i pantaloni, poliziotto o non poliziotto. Ma almeno con quella pausa aveva avuto una proroga. Uscì nel cortile e poi svoltò l'angolo e raggiunse i bagni. Entrò e rimase in ascolto. Si schiarì la gola. Il suono echeggiò fra le pareti delle cabine. Infilò una mano nei pantaloni e tirò fuori rapidamente il salvapipì, un pezzo di gommapiuma grosso come un mandarino che aveva
ritagliato da un vecchio materasso, con al centro un buco dove infilava il pene. Annusò la palla. Proprio così, aveva urinato un po'. Aprì il rubinetto e sciacquò la palla di gommapiuma e poi la strizzò per far uscire del tutto l'acqua. Incontinenza. Ecco come la chiamavano. Lo aveva letto su una brochure che aveva preso di nascosto in farmacia. Aveva letto che era per lo più un problema delle donne anziane. E mio. Aveva letto che esistevano delle medicine, ma non intendeva spendere la sua paghetta per andare in farmacia a vergognarsi. E non aveva assolutamente intenzione di dirlo alla mamma, lo avrebbe compatito talmente da farlo ammalare. Aveva il suo salvapipì e funzionava bene, a meno che la cosa non peggiorasse. Udì dei passi all'esterno, voci. Con la palla stretta in mano, scivolò dentro una cabina e chiuse, in quello stesso momento udì la porta dell'entrata aprirsi. Salì silenziosamente sul water per evitare che qualcuno accucciandosi potesse vedere i suoi piedi sotto la porta. Cercò di trattenere il respiro. «Ma-ia-le?» Era Jonny naturalmente. «Maiale, sei qua?» E c'era anche Micke. I due peggiori. No, Tomas era più cattivo, ma non partecipava quasi mai a roba come botte e graffi. Troppo furbo per cose simili. Molto probabilmente adesso era fuori a farsi bello con il poliziotto. Se la palla salvapipì fosse stata scoperta, Tomas l'avrebbe usata per ferirlo e umiliarlo per settimane e settimane. Jonny e Micke si sarebbero accontentati di picchiarlo. Perciò, in qualche modo, poteva dirsi fortunato... «Maiale? Sappiamo che sei qua.» Girarono la maniglia della porta. La scrollarono. Iniziarono a batterle contro i pugni. Oskar mise le mani intorno alle ginocchia e strinse i denti per non urlare. Andatevene! Lasciatemi in pace! Perché non potete lasciarmi in pace? Jonny iniziò a parlare con voce suadente. «Piccolo maiale, se non esci adesso dovremo dartele dopo la scuola. È quello che vuoi?» Ci fu un attimo di silenzio. Oskar respirò cautamente. Presero la porta a calci e a pugni. I colpi echeggiavano nel locale e il gancio di chiusura iniziò a piegarsi. Avrebbe dovuto aprire e uscire prima
che si arrabbiassero troppo, ma non ci riusciva. «Ma-ia-le?» Aveva osato alzare la mano, aveva affermato di esistere, di sapere qualcosa. Era proibito. Per lui. Trovavano sempre un motivo per tormentarlo, perché era troppo grasso, troppo brutto, troppo ripugnante. Ma il vero problema era che lui non doveva esistere proprio, e ogni volta che ricordava la sua esistenza era considerato un crimine. Con tutta probabilità lo avrebbero soltanto "battezzato". Gli avrebbero cacciato la testa nel water per poi tirare l'acqua. Indipendentemente da quello che escogitavano, quando finiva era sempre un sollievo. Perciò, perché non alzare il gancio che poteva saltare da un momento all'altro e lasciare che si divertissero? Vide il gancio saltare con un rumore secco, la porta aprirsi violentemente e sbattere contro la parete e poi il sogghigno trionfante dipinto sul volto di Micke Siskov, e allora capì. Era così che funzionava il gioco. Non aveva alzato il gancio, non erano entrati in tre secondi nella cabina, perché quelle non erano le regole del gioco. L'ebbrezza dei cacciatori era per loro, il terrore della vittima era per lui. Una volta che lo avevano catturato, il divertimento finiva, e la punizione in sé non era più di un dovere da portare a termine. Se si arrendeva troppo presto, c'era il rischio che mettessero più energia nella punizione che nella caccia. Sarebbe stato peggio. Jonny Forsberg si affacciò. «Non sai che se vuoi cagare devi prima alzare il coperchio? Adesso grugnisci come un maiale.» Oskar urlò come un maiale. Anche questo era parte del gioco. A volte, se grugniva come un maiale, lasciavano perdere la punizione. Si sforzò al massimo, per paura che durante la punizione scoprissero il suo orribile segreto. Arricciò il naso per imitare il maiale e iniziò a grugnire e a urlare, grugnire e urlare. Jonny e Micke ridevano. «Merda, maiale. Ancora.» Oskar continuò. Chiuse gli occhi e continuò. Strinse le mani così forte che le unghie penetrarono nei palmi e continuò. Grugnì e urlò finché non sentì uno strano sapore in bocca. Allora smise. Aprì gli occhi. Se ne erano andati. Rimase dov'era, seduto sul coperchio del water, lo sguardo fisso a terra.
Su una piastrella c'era una macchia rossa. Mentre la osservava, una seconda goccia cadde dal suo naso sul pavimento. Prese un pezzo di carta igienica e lo portò al naso. Gli succedeva a volte quando aveva paura. Il naso iniziava a sanguinare in quel modo. In certi casi, quando stavano per picchiarlo gli era stato di aiuto, avevano lasciato perdere perché stava già sanguinando. Oskar Eriksson rimase seduto, chinato in avanti con il pezzo di carta igienica in una mano e il salvapipì nell'altra. Perdeva sangue dal naso, se la faceva addosso, parlava troppo. Aveva perdite da tutti i buchi. Presto avrebbe anche iniziato a cagarsi addosso. Il maiale. Si alzò e uscì senza curarsi delle macchie di sangue. Qualcuno le avrebbe viste, si sarebbe posto delle domande. Credendo che lì fosse stato ucciso qualcuno, perché lì era stato ucciso qualcuno. Per la centesima volta, nell'ordine. Håkan Bengtsson, un uomo di quarantacinque anni con un accenno di ventre prominente, una calvizie incipiente e un indirizzo sconosciuto alle autorità, era seduto in un vagone della metropolitana e guardava fuori dal finestrino, studiando quella che sarebbe stata la sua nuova casa. Non si poteva dire che il quartiere fosse un granché. Norrköping era più carino. Eppure quel sobborgo a ovest di Stoccolma non assomigliava agli altri sobborghi della capitale che aveva visto alla tv, Kista, Rinkeby, Hallonbergen. Questo era diverso. «PROSSIMA FERMATA RÅCKSTA.» Il paesaggio era più rotondo, più morbido. Anche se c'era un grattacielo. Chinò la testa per riuscire a vedere l'ultimo piano dove avevano sede gli uffici amministrativi della società dell'acqua. Non ricordava di avere visto un edificio simile a Norrköping. Ma d'altronde lì non era neanche mai stato in centro. Doveva scendere alla prossima stazione? Alzò gli occhi e guardò la cartina della rete della metropolitana sopra le porte di uscita. Sì. Alla prossima. «ATTENZIONE. LE PORTE STANNO PER CHIUDERSI. ATTENZIONE.» Qualcuno lo stava osservando? No, nel vagone c'erano soltanto poche persone, tutte occupate a leggere i loro giornali. L'indomani ci sarebbe stato un articolo su di lui. Il suo sguardo si fermò su un cartello pubblicitario di biancheria intima.
Era la fotografia di una donna in mutandine e reggiseno neri atteggiata in una posa provocante. Pazzesco. Dovunque pelle nuda. Perché era permesso? Che effetto poteva avere sulle persone, sul loro concetto di amore? Quando si rese conto che le sue mani tremavano, le mise sulle ginocchia. Era terribilmente nervoso. «Non c'è veramente nessun altro modo?» «Se ci fosse un altro modo, credi che ti metterei in questa situazione?» «No, ma...» «Non c'è nessun altro modo.» Nessun altro modo. Non gli rimaneva che farlo. Senza commettere errori. Aveva controllato la cartina nell'elenco telefonico e aveva scelto un angolo di foresta che poteva essere adatto, poi aveva preparato la borsa ed era partito. Aveva eliminato il marchio Adidas dalla borsa con un coltello. Era stato uno degli sbagli che aveva commesso a Norrköping. Qualcuno si era ricordato il marchio sulla borsa e dopo la polizia l'aveva ritrovata in un cassonetto dei rifiuti non molto lontano dal loro appartamento. Oggi avrebbe riportato la borsa a casa. Forse l'avrebbe tagliata in piccoli pezzi e gettata nel water. È così che hai fatto? Come funziona? «TERMINE CORSA. TUTTI I PASSEGGERI SONO PREGATI DI SCENDERE.» I vagoni si svuotarono. Håkan seguì gli altri passeggeri con la borsa in mano. Gli sembrava pesante, anche se l'unico oggetto pesante che conteneva era la bombola. Si sforzò di camminare in maniera naturale, e non come un uomo diretto al patibolo. Non doveva dare nell'occhio. Ma le sue gambe erano di piombo, sembravano saldate al marciapiede. E se fosse rimasto lì? Immobile, senza muovere un solo muscolo, aspettando la notte, finché qualcuno non lo avesse notato e poi avesse telefonato alla... e poi sarebbe venuto qualcuno a prenderlo per portarlo da qualche altra parte. Iniziò a camminare con passo normale. Gamba destra, gamba sinistra. Non poteva tradire. Se lo avesse fatto sarebbe andato incontro a cose terribili. Le peggiori immaginabili. Arrivato all'uscita si fermò e si guardò intorno. Aveva un pessimo senso dell'orientamento. Da che parte era la foresta? Ovviamente non poteva chiedere a qualcuno. Doveva affidarsi alla fortuna. Muoversi e portare a termine quello che doveva fare. Gamba destra, gamba sinistra.
Deve esserci un altro modo. Ma non riusciva a farsi venire in mente un'alternativa. C'erano determinate condizioni, criteri. Quello era l'unico modo per rispettarli. Lo aveva fatto due volte e per due volte aveva commesso degli errori. Non così gravi come a Växjö, ma abbastanza da costringerli a trasferirsi. Questa volta lo avrebbe fatto bene e avrebbe ricevuto elogi. Forse anche delle carezze. Due volte. Era già condannato. Che importanza poteva avere una terza? Assolutamente nessuna. La punizione della società sarebbe stata la stessa. L'ergastolo. E l'aspetto morale? Quanti giri di coda, re Minosse? Più avanti, la strada che aveva preso lungo il parco faceva una curva e finiva davanti alla foresta. Doveva essere quella che aveva scelto sulla cartina. La bombola e il coltello sbattevano nella borsa. Cambiò presa per evitare di scuoterla. Una ragazzina apparve sulla strada davanti a lui. Poteva avere sette, otto anni. Stava tornando a casa da scuola con la cartella a tracolla. No! Mai e poi mai! Quello era il limite. Non così piccola. Piuttosto sarebbe morto. La ragazzina stava cantando. Affrettò il passo per arrivarle vicino e sentire cosa stava cantando. Udì una canzone che gli ricordava la sua infanzia. Piccolo raggio di sole che ti fai strada Attraverso la finestra della mia casetta... I bambini la cantavano ancora? Forse aveva un'insegnante di una certa età. Gli faceva piacere che si cantasse ancora quella canzone. Avrebbe voluto avvicinarsi di più per sentirla meglio, avvicinarsi fino a sentire l'odore dei suoi capelli. Rallentò l'andatura. Doveva evitare di crearsi problemi. La ragazzina lasciò la strada e imboccò un sentiero all'inizio della foresta. Con tutta probabilità abitava in una delle case dall'altra parte. Strano che i suoi genitori la lasciassero attraversare la foresta da sola. Una bambina così piccola. Si fermò, per lasciare che si allontanasse e sparisse nella foresta. Continua a camminare, ragazza. Non fermarti a giocare. Aspettò un minuto ascoltando il canto di un fringuello su un albero vicino. Poi riprese a camminare, dietro di lei nella foresta. Oskar stava tornando a casa da scuola, la testa gli doleva. Quando riu-
sciva a evitare la punizione in quel modo, facendo la parte del maiale o di qualcos'altro, stava male. Era ancora peggio che venire punito. Sapeva che era così, eppure, quando si avvicinava il momento della punizione cercava sempre di evitarla. Piuttosto abbassarsi a fare qualsiasi cosa. Zero orgoglio. Robin Hood e l'Uomo Ragno erano coraggiosi. Se Sir John o il Dottor Octopus li mettevano alle corde, loro sputavano in faccia al pericolo anche quando non avevano nessuna via di scampo. Ma cosa ne sapeva l'Uomo Ragno? Lui riusciva sempre a cavarsela anche quando era impossibile. Era un eroe dei fumetti e doveva sopravvivere per la puntata successiva. Lui aveva i poteri del ragno, Oskar il suo grugnito da maiale. Qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Oskar aveva bisogno di conforto. Era stata una giornata terribile e ora ci voleva una compensazione. Anche se correva il rischio di incontrare Jonny e Micke, andò nel centro di Blackeberg. Invece di prendere la scalinata, salì a zigzag lungo il passaggio pedonale. Doveva salire lentamente e con calma, non doveva sudare. Una volta, un anno prima, era stato preso mentre rubava al supermercato. Il sorvegliante aveva telefonato a sua madre, ma non l'aveva trovata perché era al lavoro e Oskar non conosceva il numero di telefono. Aveva passato una settimana terrorizzato ogni volta che il telefono squillava, ma poi era arrivata una lettera indirizzata a sua madre. Che idioti. Sulla busta c'era persino scritto «Centrale di Polizia di Stoccolma». Naturalmente Oskar l'aveva aperta e aveva letto il rapporto sul suo reato, poi aveva falsificato la firma di sua madre e rispedito la lettera per confermare che era stata letta. Vigliacco sì, ma non stupido. Vigliacco? Era vigliacco uno che faceva quello che lui stava facendo? Stava riempiendo le tasche della giacca con Kinder, Bounty, Mars. E per finire due Kit-Kat. Arrivato alla cassa, prese una scatola di Tic-Tac e la pagò. Tornando verso casa camminava a tesa alta con passo svelto. Non era più il maiale da prendere a calci, era il Re dei Ladri che sfidava i pericoli e passava indenne. Poteva fregarli tutti. Una volta entrato nel grande cortile del complesso dove abitava era al sicuro. Nessuno dei suoi nemici abitava in quel gruppo di case che formava un grande cerchio irregolare all'interno di quello più grande di Ibsengatan. Una doppia fortezza. In quel cortile era al sicuro. Lì non gli era mai successo niente di terribile.
Era questo il posto in cui era cresciuto e dove aveva avuto degli amici prima di iniziare la scuola. Soltanto in quinta era diventato lo zimbello della classe, e la voce si era sparsa anche fra gli amici che non erano in classe con lui. E, gradualmente, aveva cominciato a ricevere sempre meno telefonate, nessuno più gli chiedeva di andare a giocare con lui. In quel periodo aveva anche iniziato il suo album di ritagli di giornali e fumetti. E adesso sarebbe andato a casa a goderselo. BRUUMMM! Udì il suono e qualcosa sbatté contro i suoi piedi. L'automobilina rossa telecomandata si spostò in retromarcia, fece un'inversione e partì ad alta velocità verso il portone della sua casa. Dietro i cespugli a destra della volta che introduceva nel grande cortile, Tommy stava ridacchiando con il telecomando in mano. «Sorpresa, sorpresa.» «Va veramente forte.» «Vuoi comprarla?» «... quanto?» «Trecento.» «Non li ho.» Tommy gli fece cenno con l'indice di avvicinarsi, poi alzò il telecomando e l'auto tornò a una velocità folle verso di lui, la fece fermare ai suoi piedi e si chinò a raccoglierla. «Nel negozio la vendono a novecento corone.» «Davvero?» Tommy accarezzò l'auto e fissò Oskar dall'alto in basso. «Duecento, allora? È nuova, sai.» «Sì, è veramente bella, ma...» «Ma?» «Be'...» Tommy annuì, rimise l'auto a terra e azionò dimostrativamente il telecomando. L'auto partì fra i cespugli e corse sul selciato del cortile, e di nuovo fino al portone. «Posso provare?» Tommy squadrò Oskar come se stesse chiedendosi se fosse o meno all'altezza, poi gli porse il telecomando portandosi un dito al naso. «Te le hanno date? Hai del sangue... lì.» Oskar si passò un dito sul labbro superiore e poi lo guardò. Sul polpastrello erano rimasti alcuni granelli marroni.
«No, ho soltanto...» Perché raccontare? Non serviva a niente. Tommy aveva tre anni più di lui. Era un duro. Gli avrebbe soltanto detto di rendere pan per focaccia e Oskar avrebbe risposto «certamente» e l'unico risultato sarebbe stato di perdere ulteriormente la stima di Tommy. Oskar guidò l'auto per un po', e poi rimase a osservare come lo faceva Tommy. Se solo avesse avuto duecento corone avrebbe potuto fare un vero affare. Avrebbero potuto giocarci insieme. Oskar mise le mani nelle tasche della giacca. «Vuoi un Mars?» «No, non mi piace.» «Un Kit-Kat, allora?» Tommy fermò l'auto e sorrise. «Li hai tutti e due?» «Sì.» «Fregati?» «... sì.» «Okay.» Tommy gli porse la mano aperta e Oskar vi posò un Kit-Kat che l'altro mise nella tasca posteriore dei jeans. «Grazie. Adesso vado, ciao.» «Ciao.» Arrivato a casa, Oskar svuotò le tasche e sparpagliò tutto sul letto della sua camera. Decise di iniziare con un Mars e di andare avanti per finire con il Bounty, che era il suo preferito. Dispose il suo tesoro in fila sul pavimento nell'ordine che aveva stabilito. Nel frigorifero trovò una bottiglia di Coca-Cola sulla quale la mamma aveva messo un pezzo di foglio di alluminio come tappo. Perfetto. A Oskar la Coca-Cola piaceva di più quando aveva perso parte delle bollicine, specialmente se mangiava cose dolci. Tornò nella sua camera, tolse l'alluminio dalla bottiglia e la posò sul pavimento accanto ai dolci, poi si distese a pancia in giù sul letto e lasciò scorrere lo sguardo sugli scaffali della sua libreria. C'era anche una collezione quasi completa delle edizioni speciali dell'Uomo Mascherato. Ma la parte più importante della libreria era costituita dalla serie delle avventure dell'Uomo Ragno. Qualche settimana prima, dopo avere letto un annuncio su un giornale, ne aveva comprato due grossi sacchetti di plastica per duecento corone. Aveva preso la metropolitana fino alla stazione di
Midsommarkransen, aveva seguito le indicazioni alla lettera per arrivare all'indirizzo giusto. L'uomo che aveva aperto la porta dell'appartamento era grasso, pallido, e parlava con una voce sibilante. Fortunatamente non lo aveva fatto entrare, aveva portato i due sacchetti sul pianerottolo, preso le due banconote da cento corone, e aveva detto annuendo: «Divertiti.» Poi aveva chiuso la porta. A quel punto Oskar era diventato inquieto. Erano mesi che cercava una serie completa dei vecchi numeri nei negozi specializzati in fumetti di Götgatan, a sud di Stoccolma. Al telefono, l'uomo aveva affermato che si trattava di una serie completa. Era stato tutto troppo facile. Arrivato nell'androne, Oskar aveva posato i sacchetti e aveva controllato il contenuto. Era stato truffato. C'erano quarantuno fumetti tra il numero 2 e il numero 46. Era impossibile trovare quelli che mancavano. Duecento corone! Non per niente aveva provato paura di quell'uomo. Lo aveva truffato senza ritegno e ora non poteva certo tornare da lui per lamentarsi. Ma niente batteva il suo album di ritagli. Lo prese dal nascondiglio che aveva ideato dietro i libri. Non era un album vero e proprio, ma un blocco di carta da disegno che aveva fregato nei grandi magazzini a Vällingby; se lo era messo sotto la giacca ed era uscito - chi poteva dire che era un vigliacco? - e poi i ritagli... Scartò il Kit-Kat, ne morse un pezzo, si gustò il crepitio sotto i denti e aprì l'album. Il primo ritaglio lo aveva preso da una rivista della mamma: la storia di una donna americana che negli anni Quaranta uccideva le sue vittime con il veleno. Prima di essere catturata era riuscita ad avvelenare quattordici uomini anziani, era stata condannata e giustiziata sulla sedia elettrica. Molto coerentemente, la donna aveva chiesto un'iniezione letale, ma lo stato dove aveva commesso i suoi crimini usava la sedia, e sedia fu. Era uno dei sogni di Oskar: assistere a un'esecuzione sulla sedia elettrica. Aveva letto che il sangue inizia a bollire, che il corpo si piega e contorce in modo incredibile. Si era anche immaginato che i capelli prendessero fuoco, ma di questo non aveva letto alcuna conferma. Ugualmente pazzesco, però. Andò avanti a sfogliare. Il ritaglio successivo lo aveva preso dal quotidiano Aftonbladet, parlava di uno svedese che aveva fatto a pezzi le sue vittime. La fotografia era ricavata dal passaporto, e non era un granché. Aveva l'aspetto di un uomo qualunque. Eppure nella sua sauna aveva assassinato due omosessuali che si prostituivano, e poi li aveva fatti a pezzi
con una sega elettrica e sepolti nel suo giardino. Oskar finì l'ultimo pezzo di Kit-Kat e fissò attentamente il volto dell'uomo. Un uomo qualunque. Potrei essere io fra vent'anni. Håkan aveva trovato il luogo adatto per l'agguato, da lì poteva controllare il sentiero nelle due direzioni. Più in là, tra gli alberi, aveva scoperto una radura nascosta da cespugli con un albero al centro e ci aveva lasciato la borsa con l'attrezzatura. La bombola con l'halotan e la mascherina con il grosso elastico da fissare intorno alla testa erano sotto la giacca. Ora doveva solo aspettare. Anch'io un giorno voglio diventare grande E saggio come papà e mamma. Non aveva sentito nessuno cantare quella canzone dai tempi della scuola. La cantava Alice Tegnér? Pensò a tutte le belle canzoni che nessuno cantava più. A tutto quello che un tempo era bello e che non c'era più. Nessun rispetto per le cose belle. Questa era la caratteristica della società moderna. Tutt'al più, le opere dei grandi maestri potevano essere usate per riferimenti ironici o nelle pubblicità. Come nella riproduzione di Michelangelo, dove Dio invece della scintilla della vita passa ad Adamo un paio di jeans. Il centro di quell'immagine, così come Håkan la vedeva, erano quei due magnifici corpi monumentali che sfociavano nelle punte di due indici che arrivavano quasi a toccarsi, ma non proprio. Fra loro soltanto il vuoto di un millimetro. E in quel millimetro: la vita. La dignità scultorea e la ricchezza di dettagli di quel dipinto erano solo la cornice, un contorno per far risaltare ancora di più il vuoto infinitesimale al suo centro. Un punto vuoto che conteneva tutto. E proprio lì avevano messo dei jeans. Qualcuno si stava avvicinando lungo il sentiero. Håkan si accucciò. Sentiva l'eco dei battiti del suo cuore. No. Un uomo anziano con un cane. Doppiamente sbagliato. Innanzitutto un cane da zittire, e poi qualità pessima. Tanto baccano per così poca lana, disse l'uomo che tosava un maiale. Guardò l'orologio. In meno di due ore sarebbe stato buio. Se entro un'ora non fosse passato nessuno di idoneo, avrebbe dovuto accontentarsi di una persona qualunque. Doveva essere a casa prima che calassero le tenebre. L'uomo con il cane disse qualcosa. Lo aveva visto? No, stava parlando con il suo cane.
«Sì, sì, l'avevo capito, avevi bisogno di fare pipì, tesoro. Quando torneremo a casa ti darò la pappa. Sì, tesoro, papà ti preparerà la pappa.» Quando si chinò in avanti, sospirando con la testa fra le mani, Håkan sentì la bombola premere contro il torace. Poveri esseri umani. Poveri esseri umani soli in un mondo senza bellezza. Rabbrividì. Alla fine del pomeriggio, il vento era diventato più freddo e Håkan si chiese se andare a prendere l'impermeabile dalla borsa per proteggersi dal vento. No. Lo avrebbe impacciato nei movimenti, e lui doveva muoversi rapidamente. Inoltre, avrebbe potuto destare inutili sospetti. Passarono due ragazze sulla ventina. No. Non ce l'avrebbe fatta con due. Captò frammenti della loro conversazione. «... e adesso ha deciso di tenerselo.» «... con lui che sembra una scimmia...» «... è colpa sua perché... non ha usato la pillola...» «Ma lui dovrebbe...» «... ma te lo immagini... come papà...» Un'amica rimasta incinta. Un ragazzo che non voleva prendersi le proprie responsabilità. Era sempre così. Di continuo. Tutti pensavano soltanto a se stessi. La mia felicità, il mio successo, erano le sole cose che si sentivano. Amore significa mettere la propria vita ai piedi di un altro essere umano, e al giorno d'oggi nessuno è in grado di farlo. Il gelo iniziò a penetrare nelle sue articolazioni, e ora non avrebbe più potuto essere molto agile, con o senza l'impermeabile. Mise la mano sotto la giacca, spinse leggermente la levetta della bombola. Udì un sibilo. Funzionava. Batté le mani intorno al corpo e saltellò per scaldarsi. Adesso qualcuno doveva passare. Da solo. Guardò l'orologio. Ancora mezz'ora. Adesso qualcuno doveva passare. Per la vita, per l'amore... Ma nel mio cuore voglio essere un bambino Perché i bambini appartengono al regno di Dio. Quando Oskar finì di sfogliare il suo album di ritagli, e tutti i dolci erano ormai finiti, era già il crepuscolo. Come sempre, quando esagerava con i dolci si sentiva gonfio e provava un senso di colpa. La mamma sarebbe arrivata fra due ore. Allora, avrebbero cenato. Poi avrebbe fatto i compiti di matematica e di inglese. Finiti i compiti, avrebbe letto un fumetto o guardato la tv con la mamma. Ma non c'era niente di speciale alla tv quella sera. Dopo, avrebbero bevuto una cioccolata calda e
mangiato biscotti. Poi sarebbe andato a letto e avrebbe fatto fatica ad addormentarsi pensando a quello che lo aspettava il giorno dopo. Se almeno avesse potuto telefonare a qualcuno. Ma sì, poteva telefonare a Johan, sperando che non avesse altro da fare. Johan era nella sua stessa classe e quando erano insieme si divertivano, ma se poteva scegliere, Oskar era sempre l'ultimo al quale pensava. Era Johan a telefonare quando non aveva di meglio da fare, non Oskar. Nell'appartamento regnava il silenzio. Non accadeva nulla. Le pareti di cemento lo tenevano isolato. Si mise a sedere sul bordo del letto con le mani sulle ginocchia, lo stomaco pesante. C'era qualcosa nell'aria. Qualcosa stava per accadere. Adesso. Trattenne il respiro. Un senso di paura appiccicoso lo invase. Qualcosa si stava avvicinando. Un gas incolore trapelava dalle pareti, minacciava di prendere forma, di inghiottirlo. Si irrigidì, trattenne il respiro e rimase in ascolto. In attesa. Il momento passò. Oskar riprese a respirare. Andò in cucina, bevve un bicchiere d'acqua e prese il coltello da cucina più grande dal listello magnetico. Passò l'unghia del pollice sul filo della lama come papà gli aveva insegnato. Era smussata. Prese un altro coltello, affilò la lama e provò nuovamente. Una microscopica scheggia rimase sulla sua unghia. Bene. Avvolse un giornale intorno al coltello come una guaina provvisoria, lo fissò con del nastro adesivo e lo infilò sotto i pantalIoni sul fianco sinistro. Solo il manico era visibile. Fece alcuni passi di prova. La lama bloccava la gamba sinistra. La spostò verso l'inguine. Era scomoda, ma poteva andare. Andò in ingresso e si infilò la giacca. In quel momento si ricordò degli involucri dei dolci che giacevano sparsi sul pavimento della sua camera. Tornò indietro, li raccolse e, dopo averli accartocciati, li mise in tasca in caso la mamma fosse tornata a casa prima di lui. Avrebbe potuto nasconderli sotto un pietra nella foresta. Si guardò intorno per controllare di non avere lasciato alcuna prova. Il gioco era iniziato. Era un temibile serial killer. Con il suo coltello affilato aveva già ucciso quattordici persone senza lasciare una sola traccia dietro di sé. Né un solo capello, né un involucro di Bounty. La polizia lo temeva. Adesso sarebbe andato nella foresta alla ricerca della sua prossima vittima.
Stranamente, conosceva già il nome e l'aspetto della vittima Jonny Forsberg con i suoi capelli lunghi e con i grandi occhi malvagi. Avrebbe pregato di avere salva la vita, grugnendo come un maiale, ma invano. Il coltello avrebbe avuto l'ultima parola e la terra avrebbe bevuto il suo sangue. Oskar aveva letto quelle frasi in un fumetto e gli erano piaciute. «La terra berrà il suo sangue.» Chiudendo il portone dietro di sé, la mano sinistra stretta sul manico del coltello, continuava a ripetere la frase come un mantra. La terra berrà il suo sangue. La terra berrà il suo sangue. La volta attraverso cui era entrato nel cortile era sulla destra, ma Oskar prese a sinistra, passò davanti a due portoni e uscì dall'ingresso riservato alle auto. Lasciò la fortezza interna. Attraversò Ibsengatan e continuò fino a lasciare la fortezza esterna. Si avviò in direzione della foresta. La terra berrà il suo sangue. Per la seconda volta quel giorno, Oskar si sentiva felice. Quando il ragazzo solo apparve sul sentiero, mancavano soltanto dieci minuti all'ora che Håkan si era imposto come limite. Da quello che poteva vedere, doveva avere tredici o quattordici anni. Perfetto. Aveva pensato di correre piegato in avanti e di raggiungere il sentiero dalla parte opposta per andare incontro al prescelto. Ma ora, le sue gambe erano diventate troppo rigide. Il ragazzo camminava tranquillo, però non c'era tempo da perdere. Ogni secondo che passava diminuivano le possibilità di un successo. Ma le sue gambe non volevano ubbidire. Rimase fermo, come paralizzato, mentre il perfetto prescelto continuava ad avanzare e presto sarebbe arrivato alla sua altezza, dritto davanti a lui. Ancora pochi secondi e sarebbe stato troppo tardi. Devo. Devo. Devo. Se non ce l'avesse fatta, avrebbe dovuto togliersi la vita. Non poteva tornare a casa a mani vuote. Non c'era altra scelta. O il ragazzo o lui. Bastava scegliere. Si mise in movimento, troppo tardi. Adesso correva fra gli alberi e sul sentiero ansimando, invece di arrivare con calma. Idiota. Idiota. Ora il ragazzo si sarebbe insospettito. «Ciao!» gli disse. «Scusa!» Il ragazzo si fermò. Non si mise a correre, grazie al cielo. Doveva dirgli qualcosa, fargli una domanda. Fece un passo avanti avvicinandosi al ra-
gazzo che era fermo in attesa sul sentiero. «Sì, scusa... sai che ore sono?» Il ragazzo fissò l'orologio sul polso di Håkan. «Il mio si è fermato.» Quando chinò la testa per guardare il suo orologio, notò che il ragazzo era teso. Non poteva farci niente. Håkan infilò la mano sotto la giacca e mise l'indice sulla levetta in attesa della risposta. Oskar aveva seguito la strada in discesa, passata la tipografia aveva girato e imboccato il sentiero. La pesantezza allo stomaco era stata sostituita da un senso di ebbrezza. Camminando verso la foresta, la fantasia aveva preso il sopravvento e ora era diventata realtà. Vedeva il mondo con gli occhi di un assassino, o il massimo degli occhi di un assassino che la fantasia di un tredicenne poteva creare. Un mondo magnifico. Un mondo sul quale aveva il controllo assoluto e che tremava di fronte alla sua determinazione. Camminava sul sentiero alla ricerca di Jonny Forsberg. La terra berrà il suo sangue. Iniziava a fare buio e gli alberi lo circondavano come una folla attonita, in attesa del minimo movimento dell'assassino, con il terrore di essere la vittima prescelta. Ma l'assassino continuava per la sua strada; aveva già intravisto la sua vittima. Jonny Forsberg era fermo sul sentiero a una cinquantina di metri di distanza, le mani lungo i fianchi e il suo sorriso sardonico sulle labbra. Credeva che tutto sarebbe stato come sempre. Credeva di poter gettare Oskar a terra e di sfregargli muschio e terriccio in bocca o qualcosa di simile. Ma Jonny si era sbagliato. Quello che gli si stava avvicinando non era Oskar, era l'Assassino, e la mano dell'Assassino era chiusa intorno al manico del coltello, pronta a estrarlo. L'Assassino si avvicinò lentamente a Jonny Forsberg e lo fissò. «Ciao, Jonny.» «Ciao piccolo maiale. Cosa fai fuori a quest'ora?» Con un movimento fulmineo, il coltello apparve nella mano dell'Assassino. Che iniziò a colpire. «Le cinque e un quarto, circa.» «Okay. Grazie.» Il ragazzo non si mosse, ma continuò a fissare Håkan che accennò a fare
un passo. Il ragazzo rimase fermo seguendo il suo movimento con lo sguardo. Sta andando al diavolo. Era chiaro che si era insospettito. D'improvviso un uomo era uscito di corsa dalla foresta per chiedergli l'ora e poi rimaneva fermo con una mano all'interno della giacca come se fosse Napoleone. «Che cos'hai lì?» chiese il ragazzo facendo un cenno con il capo verso la mano sotto la giacca. Håkan non riusciva a pensare, non sapeva cosa fare. Tolse la mano e gli fece vedere la bombola. «Che cos'è?» «Halotan.» «Perché te lo porti dietro?» «Per...» Håkan scosse leggermente la bombola cercando di trovare una risposta plausibile. Non sapeva mentire. Era la sua maledizione. «Sì, perché... la uso per il mio lavoro.» «Che tipo di lavoro?» Il ragazzo sembrava un po' più rilassato. In mano aveva una borsa sportiva simile a quella che Håkan aveva lasciato sotto l'albero nella radura. Tenendo la mano sulla levetta, Håkan la indicò. «Stai andando ad allenarti?» Quando il ragazzo abbassò lo sguardo sulla borsa, Håkan colse l'occasione. Allargò entrambe le braccia e con la mano libera gli afferrò la nuca, mentre con l'altra gli premeva la mascherina sulla bocca e sul naso, spingendo con tutte le sue forze la levetta dell'effusore. Si udì un sibilo come quello di un enorme serpente e il ragazzo cercò di liberare la testa, ma era bloccata fra la mano di Håkan e la morsa del panico. Cadde all'indietro e Håkan lo seguì. Quando furono a terra sul sentiero, il sibilo del serpente copriva tutti gli altri rumori. Mentre rotolavano insieme, Håkan continuava a tenergli la mano sulla nuca e la mascherina sul volto. Il ragazzo respirò profondamente un paio di volte e il suo corpo iniziò a rilassarsi. Håkan continuava a premere la mascherina guardandosi intorno. Nessun testimone. Il sibilo riempiva il suo cervello come un'emicrania maligna. Bloccò la levetta e con la mano libera passò l'elastico intorno alla testa del ragazzo. La bombola non si muoveva. Si rialzò e fissò la sua vittima. Le braccia gli tremavano per lo sforzo.
Il ragazzo giaceva con le braccia allargate lontane dal corpo, la mascherina gli copriva il naso e la bocca e la bombola di halotan era sul suo petto. Håkan si guardò intorno una seconda volta, prese la borsa del ragazzo e gliela appoggiò sul ventre. Poi lo sollevò e si avviò verso la radura. Il ragazzo era più pesante di quello che aveva immaginato. Non solo era un peso morto, ma era anche robusto. Il terreno della foresta era accidentato e lo sforzo lo faceva ansimare, il sibilo dalla bombola gli penetrava nelle orecchie come un coltello dalla lama dentata. Alla fine riuscì a raggiungere la radura. Le sue braccia erano intorpidite e il sudore gli colava lungo la schiena. Posò a terra il ragazzo e si distese di fianco. Liberò la levetta e gli tolse la mascherina dal volto. Finalmente il silenzio. Il ragazzo respirava regolarmente. Ancora otto minuti al massimo e si sarebbe svegliato. Ma non sarebbe successo. Disteso accanto al ragazzo, Håkan studiava il suo volto. Gli accarezzò una guancia, prese il suo corpo inerme fra le braccia e lo strinse a sé. Lo baciò delicatamente e sussurrò nel suo orecchio: «Scusa.» Poi si alzò. Osservando il corpo indifeso disteso al suolo, gli vennero le lacrime agli occhi. Poteva ancora lasciar perdere. Esisteva un mondo parallelo dove non faceva quello che ora stava per fare. Un mondo dove avrebbe potuto andarsene lasciando che il ragazzo si svegliasse chiedendosi cosa fosse successo. Ma non in questo mondo. In questo mondo, andò a prendere la sua borsa, la aprì. Doveva affrettarsi. Con gesti rapidi, si mise l'impermeabile e prese l'attrezzatura. Il coltello, una corda, un grande imbuto e una tanica di plastica da cinque litri. Posò tutto vicino al ragazzo, fissò il giovane corpo un'ultima volta. Poi, prese la corda e iniziò a lavorare. Continuava a colpire. Dopo il primo fendente, Jonny aveva capito che questa volta sarebbe stata diversa da tutte le altre. Con il sangue che colava da un taglio sulla guancia cercò di fuggire, ma l'Assassino fu più svelto. Con due movimenti rapidi gli recise i tendini dietro le ginocchia e Jonny si accasciò a terra, agitandosi convulsamente e implorando pietà. L'Assassino non si lasciò impietosire. Quando si scagliò su di lui, Jonny iniziò a urlare come un... maiale, e la terra bevve il suo sangue. Un colpo per quello che hai fatto nel gabinetto oggi. Uno per avere barato quando abbiamo giocato a carte. E ti taglierò le labbra per tutti gli
insulti che mi hai rivolto. Jonny perdeva sangue da tutti i tagli e ormai non poteva più né dire né fare del male. Jonny era morto. Oskar finì bucandogli i globi oculari, zac, zac, poi si alzò e ammirò la sua opera. Grosse schegge dell'albero caduto, che aveva rappresentato il corpo di Jonny disteso a terra, si erano staccate dal tronco, ora pieno di buchi e tagli. Altre schegge giacevano sparse ai piedi dell'albero sano che era stato Jonny in posizione eretta. La mano destra, quella che impugnava il coltello, sanguinava da un piccolo taglio fra il pollice e l'indice. Quando aveva colpito, la lama era scivolata sulla mano. Non era un coltello adatto allo scopo. Oskar passò la lingua sul taglio per ripulire la ferita. Quello che stava bevendo era il sangue di Jonny. Asciugò il sangue con il giornale che serviva da guaina, vi infilò il coltello e si avviò verso casa. La foresta, che un paio di anni prima trovava minacciosa, il covo dei suoi nemici, ora era diventata la sua casa e il suo rifugio. Al suo passaggio, gli alberi si scostavano riverenti. Anche se era ormai buio pesto, non provava alcuna paura. Nessuna inquietudine per l'indomani, poteva succedere qualsiasi cosa. Quella notte avrebbe dormito bene. Arrivato nel cortile, si mise a sedere sul bordo del box della sabbia per calmarsi prima di entrare in casa. Domani si sarebbe procurato un coltello migliore, uno con un guardamano, o come diavolo si chiamava... così non si sarebbe più tagliato. Perché avrebbe continuato. Era un gioco che gli piaceva. Giovedì 22 ottobre Quando gli prese la mano sopra il tavolo della cucina, la mamma di Oskar aveva le lacrime agli occhi. «Non devi andare mai più nella foresta, hai capito?» Il giorno prima, un ragazzo era stato assassinato a Vällingby. Sua madre lo aveva letto sul giornale, e quando Oskar era tornato a casa era fuori di sé. «Avresti potuto essere... non voglio neppure pensarci.» «Ma è successo a Vällingby.» «Non vorrai forse dire che queste cose succedono soltanto a Vällingby? Possono succedere dovunque, anche qui a Blackeberg. Un pazzo che si ac-
canisce sui bambini può farlo dovunque. Vai spesso nella foresta?» «Be'...» «Non devi più farlo. Devi restare qui finché... finché non lo prendono.» «Non devo più andare a scuola, allora?» «Certo che devi andarci. Ma appena finisce devi venire direttamente a casa e restarci, o al massimo puoi andare in cortile finché io non torno dal lavoro.» «Ma mamma...» Alla preoccupazione nei suoi occhi si aggiunse la collera. «Vuoi forse essere assassinato? Eh? Vuoi andare nella foresta per farti uccidere, e io dovrò stare seduta qui a morire di ansia e tu... e tu intanto sei stato fatto a pezzi in modo bestiale...» I suoi occhi si riempirono di lacrime. Oskar le strinse la mano. «Non andrò nella foresta. Te lo prometto.» La mamma gli accarezzò una guancia. «Amore mio. Tu sei tutto quello che ho. Non deve succederti niente. Altrimenti morirò anch'io.» «Com'è andata?» «Cosa?» «Sì... l'omicidio.» «Non lo so. So soltanto che il ragazzo è stato ucciso da un pazzo con un coltello. È morto. La vita dei suoi genitori è distrutta.» «Ma non c'è scritto sul giornale?» «Non me la sento di leggerlo.» Oskar prese il giornale e iniziò a sfogliarlo. Quattro pagine erano dedicate all'omicidio. «Non devi leggere articoli di quel genere.» «Voglio solo dare un'occhiata.» «Ti ho detto che non devi leggere cose così orrende. Non ti fa bene, e dovresti anche smetterla di leggere tutti quei fumetti dell'orrore...» «Vado a vedere se dicono qualcosa alla tv.» Si alzarono insieme. Oskar prese il giornale. Sua madre lo abbracciò e mise la guancia umida di lacrime sulla sua. «Amore mio. Capisci perché sono così preoccupata? Se ti succedesse qualcosa, io...» «Lo so, mamma, lo so. Farò attenzione.» Oskar ricambiò l'abbraccio goffamente e poi si staccò dalla madre e andò nella sua stanza.
Era una cosa assolutamente incredibile. Da quanto aveva potuto capire, quel ragazzo era stato assassinato mentre lui era nella foresta a giocare. Purtroppo non era Jonny Forsberg, ma un ragazzo di Vällingby che non conosceva. Quel pomeriggio a Vällingby regnava un'atmosfera funerea. Prima di arrivarci, Oskar aveva visto le locandine dei giornali. Forse era soltanto la sua immaginazione, ma aveva l'impressione che la gente nella piazza parlasse a voce più bassa e si muovesse più lentamente del solito. Nel negozio di ferramenta aveva fregato un magnifico coltello da caccia che costava trecento corone. Nel caso lo avessero colto sul fatto, aveva escogitato una scusa valida. «Io... io ho paura di quell'assassino.» Se necessario, sarebbe persino riuscito a produrre qualche lacrimuccia e lo avrebbero lasciato andare. Sicuramente. Ma non era successo e adesso il coltello era al sicuro nel nascondiglio insieme all'album di ritagli. Aveva bisogno di riflettere. Era possibile che, in qualche modo, il suo gioco avesse avuto qualcosa a che fare con l'omicidio di Vällingby. Non lo credeva, ma non poteva escluderlo. Aveva letto e riletto storie simili. Un pensiero in un luogo poteva provocare un avvenimento in un altro. Telecinesi, voodoo. Ma esattamente dove, quando e, soprattutto, come era avvenuto l'omicidio? Se si trattava di un gran numero di coltellate e di un corpo riverso a terra, allora doveva prendere seriamente in considerazione l'ipotesi di essere in possesso di un potere terribile. Un potere che doveva iniziare a capire e controllare. E se... l'intermediario fosse... l'ALBERO... Quell'albero marcio che aveva preso a coltellate. Aveva qualcosa di speciale che faceva sì che ciò che gli veniva fatto si... trasmettesse in un altro luogo. Dettagli. Oskar lesse tutti gli articoli sull'omicidio. C'era anche la fotografia del poliziotto che era venuto a parlare della droga a scuola. Non poteva rilasciare dichiarazioni. I tecnici della scientifica erano al lavoro alla ricerca di tracce. Bisognava aspettare. Oskar fissò la fotografia del ragazzo assassinato. Non lo aveva mai visto prima. In qualche modo, ricordava Jonny o Micke. Forse anche a Vällingby c'era un Oskar che ora si era liberato.
Il ragazzo stava andando a un allenamento con la sua squadra di pallamano nel centro sportivo di Vällingby, ma non ci era mai arrivato. L'allenamento iniziava alle cinque e mezza. Con tutta probabilità, era uscito di casa alle cinque. In quell'intervallo di tempo... Oskar rabbrividì. Coincideva perfettamente. E l'omicidio era avvenuto nella foresta. È così... Sono IO che... Una ragazza di sedici anni aveva scoperto il corpo alle otto di sera e aveva avvertito la polizia di Vällingby. Ora era in stato di shock e sotto cure mediche. Neppure una parola sullo stato del corpo. Ma il fatto che la ragazza fosse scioccata a tal punto da avere bisogno di cure mediche doveva significare che il corpo era stato in qualche modo mutilato. Cosa faceva quella ragazza nella foresta quando era già buio? Probabilmente niente di rilevante. Ma perché non c'era scritto come era stato assassinato il ragazzo? C'era soltanto una fotografia del luogo del delitto. Una radura come tante, con un albero al centro, delimitata dai nastri di plastica della polizia. Uno o due giorni, e sui giornali sarebbero apparse le fotografie di quello stesso luogo pieno di candele e cartelli con le scritte «PERCHÉ?» e «NON TI DIMENTICHEREMO MAI». Sempre la stessa musica, pensò Oskar che aveva diversi ritagli di fotografie simili nel suo album. Con tutta probabilità si trattava di una semplice coincidenza. Ma se. Andò alla porta e rimase in ascolto. La mamma stava lavando i piatti. Oskar si distese sul letto a pancia in giù e prese il coltello da caccia. L'impugnatura si adattava alla mano e il coltello era sicuramente tre volte più pesante di quello che aveva usato il giorno prima. Si alzò e si mise al centro della stanza con il coltello in mano. Era magnifico, e gli dava un senso di forza e di potere. Il rumore dei piatti dalla cucina continuava. Oskar fece vibrare il coltello nell'aria un paio di volte. L'Assassino. Non appena avesse imparato a controllare la sua forza, Jonny, Micke e Tomas non avrebbero più potuto infierire su di lui. Aveva alzato il coltello e stava per colpire, ma si fermò. Qualcuno poteva vederlo dalla finestra. Fuori era buio e la luce nella sua stanza era accesa. Andò alla finestra e gettò un'occhiata nel cortile, ma vide soltanto il riflesso della propria immagine. L'Assassino. Ripose il coltello nel nascondiglio. Quello era soltanto un gioco. Cose simili non succedevano nella vita reale. Ma aveva bisogno di conoscere i dettagli. Aveva bisogno di conoscerli subito.
Tommy era seduto sulla poltrona, intento a sfogliare una rivista specializzata di motociclette, e annuiva canticchiando. Di tanto in tanto alzava la rivista e faceva vedere a Lasse e Robban una fotografia particolarmente interessante, commentando cilindrata e velocità massima. La lampadina nuda appesa al soffitto si rifletteva sulla carta patinata e illuminava vagamente il pavimento di cemento e le assi delle pareti. Li teneva sulle spine. La madre di Tommy stava insieme a Staffan, che lavorava alla centrale di polizia di Vällingby. A Tommy, Staffan non piaceva granché, anzi per niente. Era un tipo che sventolava l'indice per redarguire e che alzava volentieri le mani. E, come se non bastasse, era anche religioso. Ma tramite sua madre, Tommy veniva a sapere delle cose che, a dire il vero, Staffan non avrebbe dovuto raccontare a sua madre, e che sua madre non avrebbe dovuto raccontare a Tommy, ma... Così, per esempio, Tommy era venuto a sapere a che punto erano le indagini relative al furto nel negozio di apparecchiature elettriche in Islandstorget. Un furto che aveva portato a segno insieme a Robban e Lasse. Nessuna traccia dei colpevoli. Esattamente le parole che aveva usato sua madre. Le parole di Staffan. La polizia non aveva neppure idea di quale auto fosse stata usata. Tommy e Robban avevano sedici anni e frequentavano il liceo. Lasse aveva diciannove anni, non era del tutto a posto con la testa e lavorava alla LM Eriksson a Ulvsunda. Ma aveva la patente. E una Saab 74 bianca alla quale, prima del furto, avevano cambiato il numero di targa con un pennarello. Inutilmente, dato che nessuno aveva notato l'auto. Avevano nascosto il bottino nel rifugio inutilizzato che si trovava di fronte alla cantina dove si incontravano. Avevano tagliato la catena con delle cesoie e messo un lucchetto nuovo. Non sapevano esattamente come disfarsi di tutta la refurtiva, ma il furto in sé era stato un successo. Lasse aveva venduto un mangiacassette a un collega di lavoro per duecento corone, ma niente altro. E poi si sentivano più al sicuro lasciando in pace la refurtiva per un po' di tempo. In particolar modo, dovevano evitare che fosse Lasse a occuparsi della vendita, dato che non era... del tutto a posto con la testa. Ma ora erano passate due settimane, e la polizia aveva altro a cui pensare. Tommy continuò a sfogliare la rivista canticchiando. Proprio così. La
polizia aveva ben altro a cui pensare. Robban tamburellò le dita sulla coscia. «Dai, sputa il rospo.» Tommy alzò la rivista. «Kawasaki. Trecento centimetri cubi. Iniezione diretta e...» «Non fare il furbo. Sputa il rospo.» «Ti stai forse riferendo a quell'omicidio?» «Sì!» Tommy si morse il labbro inferiore, come se dovesse riflettere. «Vediamo, allora, se ricordo bene...» Lasse allungò il suo lungo corpo in avanti. «Dai, forza.» Tommy posò la rivista e fissò Lasse. «Sei sicuro di voler sentire? È abbastanza orripilante.» «Ah, be', e allora?» Lasse si raddrizzò. Tommy vide un lampo di sconcerto nei suoi occhi. Bastava fare una brutta smorfia, parlare con un tono di voce strano e rifiutarsi di continuare il racconto perché Lasse se la facesse veramente sotto. Una volta, Tommy e Robban si erano mascherati da zombie con il trucco della madre di Tommy, avevano svitato la lampadina ed erano rimasti ad aspettarlo. Era finita con Lasse che si era veramente cagato addosso e Robban ci aveva guadagnato un occhio nero. Dopo di allora erano stati più cauti a spaventare Lasse. Ora Lasse si era irrigidito e aveva incrociato le braccia sul petto, come per far capire che era pronto a tutto. «Sì, dunque... non è stato un normale omicidio, se così si può dire. Hanno trovato il ragazzo... appeso a un albero.» «Cosa? Impiccato?» «Sì, impiccato. Ma la corda non era intorno al suo collo. Era intorno ai piedi. Penzolava al contrario... dall'albero.» «Cosa stai dicendo, così non si muore.» Tommy fissò Robban a lungo, come se avesse fatto un'osservazione interessante. «No. Così non si muore. Ma aveva anche la gola tagliata. E di quello si muore. Tutta la gola. Tagliata. Come un... melone» disse passandosi l'indice sulla gola per far capire meglio. Lasse si portò le mani alla gola come se volesse proteggerla. «Ma perché è stato appeso per i piedi?» chiese scuotendo lentamente la
testa. «Be', tu cosa credi?» «Non lo so.» Tommy si morse il labbro inferiore come per riflettere. «Adesso viene la parte più strana. Si taglia la gola a qualcuno per farlo morire. Allora esce molto sangue. Non è vero?» Lasse e Robban annuirono. Tommy si gustò per un attimo le loro espressioni di attesa e poi lasciò cadere la bomba. «Ma sul terreno sotto quel tipo... quel ragazzo impiccato... praticamente non c'era sangue. Soltanto qualche goccia. E deve essergliene uscito un bel po', appeso com'era.» Nella cantina calò il silenzio. Lasse e Robban rimasero con lo sguardo fisso nel vuoto finché Tommy non si schiarì la gola. «Mmm. Ma allora, perché l'assassino lo ha appeso in quel modo? Quando si ammazza qualcuno si cerca di sbarazzarsi del corpo.» «Forse l'assassino è... malato di testa.» «Forse. Ma io credo un'altra cosa. Avete mai visto un mattatoio? Avete mai visto come fanno con i maiali? Li appendono con la testa in giù. A un gancio di acciaio. E poi gli tagliano la gola.» «Così vuoi dire... che, quel tipo, l'assassino, voleva... macellarlo?» «Ehhh?» bisbigliò Lasse guardando incerto prima Tommy e poi Robban e poi nuovamente Tommy per capire se lo stessero prendendo in giro. Ma sembravano seri. «Fanno così? Con i maiali?» «Sì, cosa credevi?» «Che usassero una specie di... macchina.» «Sarebbe meglio secondo te?» «No, ma... sono vivi allora? Quando... li appendono?» «Sì. Vivi. E scalciano. Grugniscono, urlano.» Tommy imitò il grugnito straziante di un maiale, Lasse si afflosciò sul divano e tenne lo sguardo fisso sulle sue ginocchia. Robban si alzò, fece alcuni passi avanti e indietro e poi tornò a sedersi. «Ma non può essere. Se l'assassino voleva macellarlo avrebbe dovuto esserci del sangue.» «Sei stato tu a dire che voleva macellarlo. Io non lo credo.» «Ah, no. Tu cosa credi allora?» «Io credo che quello che voleva era il suo sangue. Ed è per questo che lo ha ammazzato. Per prendergli il sangue. Che poi si è portato via.»
Robban annuì lentamente, passandosi un dito sulla crosta lasciata da un grosso brufolo all'angolo della bocca. «Ma per quale motivo? Per berselo, o cosa?» «Sì. Ad esempio.» Tommy e Robban rimasero a riflettere cercando di immaginare l'omicidio e quello che era successo poi. Dopo qualche minuto, Lasse alzò la testa e li fissò incerto. Aveva le lacrime agli occhi. «I maiali muoiono in fretta?» Tommy lo fissò con un'espressione seria. «No.» «Esco un po'.» «No.» «Vado soltanto in cortile.» «E da nessun'altra parte.» «No.» «Ti chiamerò quando...» «No. Tornerò in tempo. Ho l'orologio. Non chiamarmi.» Oskar si mise la giacca e il berretto. Stava per infilare un piede in una scarpa, ma si fermò. Andò silenziosamente nella sua stanza, prese il coltello e lo nascose sotto la giacca. Stava mettendo le scarpe, quando sua madre lo chiamò dal soggiorno. «Fa freddo fuori.» «Ho preso il berretto.» «Te lo sei messo in testa?» «No. L'ho messo sul piede.» «Non c'è niente da scherzare. Sai che...» «Sì, sì. Ciao, a fra poco.» «... le tue orecchie sono...» Uscendo guardò l'orologio. Erano le sette e un quarto. Mancavano quarantacinque minuti all'inizio del telegiornale. Probabilmente Tommy e gli altri erano nella cantina, ma non aveva il coraggio di andarci. Tommy era okay, ma gli altri... A volte si facevano venire strane idee, soprattutto se avevano preso qualche polverina. Invece, andò al centro del cortile dove c'erano due grossi alberi che usavano come porta quando giocavano al pallone, un castello di tubi con uno scivolo, il box della sabbia e tre copertoni appesi a una catena. Si mise a sedere su uno dei copertoni e iniziò a dondolarsi lentamente.
Quel posto gli piaceva, specialmente di sera. Intorno a lui c'erano le case con centinaia di luci accese alle finestre, mentre lui era al buio. Solo e sicuro allo stesso tempo. Tolse il coltello dalla guaina. La lama era lucida e poteva vedere la luna che vi si specchiava. Una luna di sangue... Oskar scivolò giù dal copertone, si avvicinò a uno degli alberi e gli parlò. «Perché mi guardi così, stupido idiota? Vuoi forse morire?» L'albero non rispose e Oskar infilò cautamente il coltello nella corteccia. Non voleva rovinare il filo della lama. «Ecco cosa tocca a quelli che mi fissano.» Girò il coltello facendo staccare un pezzo di corteccia. Un brandello di carne. «Adesso grugnisci come un maiale.» Rimase immobile. Gli era sembrato di sentire un rumore. Si guardò intorno, il coltello pronto all'altezza dell'anca. Poi lo alzò e lo fissò. La punta della lama era lucida come prima. Usò la lama come uno specchio e la rivolse verso il castello di tubi. C'era qualcuno lì. Qualcuno che prima non c'era. Una silhouette incerta. Abbassò il coltello e si girò verso il castello. Sì. Ma non era l'assassino di Vällingby. Era una ragazzina. C'era abbastanza luce per stabilire che era una ragazzina che non aveva mai visto prima nel cortile. Oskar fece un passo avanti. Lei non si mosse. Rimase immobile continuando a fissarlo. Fece un altro passo avanti e improvvisamente ebbe paura. Per cosa? Per se stesso. Si stava avvicinando alla ragazzina con il coltello stretto in mano per colpirla. Non era così. Ma per un attimo era stato così. Ma lei non aveva paura? Oskar si fermò, infilò il coltello nella guaina e lo mise sotto la giacca. «Ciao.» La ragazzina non rispose. Adesso, Oskar era abbastanza vicino da vedere che aveva capelli scuri, un volto minuto e grandi occhi. Occhi spalancati ma calmi. Teneva le mani chiare sui tubi del castello. «Ho detto ciao.» «Ti ho sentito.» «Perché non hai risposto, allora?» Lei scrollò le spalle. La sua voce non era acuta come si era aspettato. Era la voce di qualcuno della sua stessa età. Aveva un aspetto strano. Capelli neri lunghi fino alle spalle. Un volto ro-
tondo e un piccolo naso. Come una di quelle bambole che vendevano nel reparto giocattoli del supermercato. Era molto... carina. Ma c'era qualcos'altro. Non portava né giacca né berretto. Soltanto una sottile felpa rosa, anche se faceva piuttosto freddo. La ragazza fece un cenno con il capo in direzione dell'albero nel quale Oskar aveva piantato il coltello. «Cosa stavi facendo?» Oskar arrossì, ma lei probabilmente non poteva notarlo al buio. «Mi sto allenando.» «Per cosa?» «Nel caso arrivi l'assassino.» «Quale assassino?» «Quello di Vällingby. Quello che ha fatto a pezzi quel ragazzo.» La ragazza sospirò, alzò gli occhi e guardò la luna. Poi si chinò in avanti. «Hai paura?» «No, ma c'è un assassino, e... è bene se uno può... difendersi. Abiti qui?» «Sì.» «Dove?» «Lì» indicò il portone accanto a quello di Oskar. «Nella casa di fianco alla tua.» «Come fai a sapere che abito lì?» «Ti ho visto dalla finestra.» Le guance di Oskar si infiammarono. Mentre cercava di pensare a cosa doveva dire, lei salì sul castello e, arrivata in cima, saltò giù, atterrando proprio davanti a lui. Un salto di due metri. Probabilmente fa ginnastica o qualcosa di simile. Era alta quasi quanto lui, ma più magra. Sotto la maglia rosa si intravedeva un accenno di seno. I suoi occhi erano scuri e il pallore del volto li faceva sembrare più grandi. Alzò una mano davanti a lui quasi a bloccare qualcosa che si stava avvicinando. Aveva dita lunghe e sottili come ramoscelli. «Non possiamo diventare amici. Volevo solo dirtelo.» Oskar incrociò le braccia e sentì il contorno del coltello sotto la giacca. «Perché?» Un angolo della bocca della ragazza si alzò in una specie di sorriso. «C'è bisogno di un motivo? Volevo che tu lo sapessi e basta.» «Sì. Ho capito.»
La ragazza si girò e si diresse verso il suo portone. «Credi veramente che voglia diventare tuo amico? Devi essere proprio stupida.» La ragazza si fermò. Rimase ferma un attimo. Poi si girò, tornò da Oskar e lo fissò incrociando le dita. «Cosa hai detto?» Oskar strinse ancora di più le braccia intorno al torace e mise la mano sul manico del coltello. «Ho detto che sei stupida... a dire quello che hai detto.» «Sono stupida?» «Sì.» «Mi dispiace. Ma è così.» Rimasero immobili a mezzo metro l'uno dall'altra. Oskar teneva lo sguardo fisso a terra. Dalla ragazza fluiva uno strano odore. Un anno prima, Bobby, il suo cane, aveva avuto un'infezione alle zampe ed erano stati costretti a portarlo dal veterinario per mettere fine alle sue sofferenze. Il giorno prima, Oskar non era andato a scuola ed era rimasto disteso per ore accanto al cane per dirgli addio. Quel giorno Bobby aveva lo stesso odore della ragazza. Oskar arricciò il naso. «Sei tu che hai questo odore strano?» «Se proprio vuoi saperlo, sì.» Oskar alzò lo sguardo da terra. Si era pentito di quello che aveva detto. Aveva un aspetto così... fragile, con quella sua maglia leggera. Oskar staccò le braccia dal torace e fece un gesto verso di lei. «Non hai freddo?» «No.» «Come mai?» La ragazza inarcò le sopracciglia, per un attimo sembrò molto più vecchia della sua età. Come una donna anziana che sta per scoppiare in lacrime. «Ho dimenticato come si fa ad avere freddo.» Si girò e si avviò a passo svelto verso casa. Oskar rimase fermo a osservarla. Quando la ragazza arrivò davanti al pesante portone, Oskar si aspettò che usasse tutte e due le mani per aprirlo. Ma al contrario, lei lo spinse con una sola mano, entrò, e se lo richiuse alle spalle. Oskar infilò le mani nelle tasche della giacca. Era triste. Pensava a Bobby. Alla bara di legno che il papà aveva costruito. Alla croce che aveva fatto durante l'ora di falegnameria a scuola e che si era spezzata quando
avevano cercato di piantarla nella terra gelata. Avrebbe dovuto farne un'altra. Venerdì 23 ottobre Håkan era nuovamente seduto sulla metropolitana che doveva portarlo in centro. In tasca aveva dieci banconote da mille corone arrotolate, tenute insieme da un elastico. Le avrebbe usate per fare qualcosa di magnifico. Avrebbe salvato una vita. Diecimila corone erano tanti soldi, e pensando a quanto sostenevano quelli di Save the Children, «mille corone possono dare da mangiare a una famiglia per un anno intero», diecimila corone dovevano bastare per salvare una vita perfino in Svezia. Ma la vita di chi? E dove? Certo non si potevano dare i soldi al primo drogato che passava per strada sperando che... no. E doveva essere una persona giovane. Sapeva che era ridicolo ma, idealmente, voleva che fosse uno di quei bambini con le guance striate di lacrime che ci sono in certi quadri. Un bambino con le lacrime agli occhi che riceveva il denaro e... e cosa? Scese alla fermata di Odenplan senza sapere perché e si diresse verso la biblioteca. Quando abitava ancora a Karlstad, dove insegnava svedese al liceo, quando aveva ancora una casa in cui abitare, era risaputo che la grande biblioteca pubblica di Stoccolma fosse un... buon posto. Solo quando vide l'imponente cupola della biblioteca, che aveva avuto modo di ammirare su libri e giornali, capì cosa lo aveva spinto a scendere a quella fermata. Perché era un buon posto. Uno del gruppo, forse Gert, gli aveva spiegato come si doveva fare per ottenere lì del sesso a pagamento. Håkan non lo aveva mai fatto. Sesso a pagamento. Una volta, Gert, Torgny e Ove avevano incontrato un ragazzo la cui madre era stata portata in Svezia dal Vietnam da un conoscente di Ove. Il ragazzo aveva dodici anni e sapeva quello che si aspettavano da lui, ed era stato pagato bene per farlo. Eppure, Håkan non ne era stato capace. Aveva sorseggiato il suo Bacardi e Coca, e si era goduto lo spettacolo del corpo nudo del ragazzo che si muoveva e contorceva nella stanza dove si erano radunati. Ma questo era il limite. Uno dopo l'altro, gli altri si erano fatti succhiare il pene, ma quando era arrivato il suo turno, Håkan si era bloccato. L'intera situazione era nause-
ante. La stanza era impregnata dell'odore di alcol, di eccitazione e sperma. Una goccia di quello di Ove brillava sulla guancia del ragazzo. Quando chinò la testa fra le sue gambe, Håkan lo allontanò. Gli altri si misero a inveire, arrivarono a minacciare. Era stato testimone, doveva diventare complice. Lo presero in giro per i suoi scrupoli, ma il problema non era quello. Il problema era che era tutto troppo disgustoso. Si trovavano nell'unica stanza dell'appartamento di Håkan, le quattro poltrone disposte in maniera speciale per l'occasione, la musica che si diffondeva dallo stereo. Pagò la sua parte e non li rivide mai più. Aveva le sue riviste, le sue fotografie, i suoi film. Gli bastavano. Con tutta probabilità, aveva veramente degli scrupoli che in quell'occasione si erano manifestati con un intenso senso di disgusto per tutta la situazione. Perché sto andando alla biblioteca, allora? Per prendere in prestito un libro. Tre anni prima, l'incendio aveva inghiottito tutta la sua vita, inclusi i suoi libri. Sì. Prima di compiere la sua buona azione avrebbe potuto prendere in prestito un volume di poesie di Almqvist. A quell'ora del mattino non c'erano molti visitatori in biblioteca. Per lo più anziani e studenti. Trovò il libro che cercava. Lesse la prima poesia e poi lo ripose sullo scaffale. Gli aveva fatto provare una sensazione negativa. Gli aveva fatto ricordare la sua vita passata. Aveva amato quel libro, lo aveva usato per insegnare. Leggendo quelle poche righe aveva provato una fitta di nostalgia per quella che chiamava la sua poltrona da lettura. Una poltrona che doveva essere in una casa, la sua casa piena di libri, e sarebbe tornato al lavoro, voleva tornarci. Ma aveva trovato l'amore, e ora era l'amore a stabilire le condizioni. Niente poltrona. Si fregò le mani come per cancellare la sensazione che aveva provato prendendo in mano il libro e andò in una delle sale di lettura. Un lungo tavolo con persone impegnate a leggere. Parole, parole, parole. In fondo alla sala un giovane con una giacca di pelle si stava dondolando sulla sedia sfogliando senza troppo interesse un volume illustrato. Håkan si avvicinò fingendo di guardare lo scaffale dei testi di geologia. Di tanto in tanto si girava e guardava il ragazzo. Alla fine gli occhi del ragazzo incontrarono i suoi, e le sopracciglia si alzarono in una domanda: Hai voglia? No, non ne aveva voglia. Il ragazzo era sui quindici anni, con un volto dai lineamenti tipici dell'Europa dell'Est, acne, e gli occhi piccoli e infossati. Håkan scrollò le spalle e uscì dalla sala.
Al di là dell'uscita, il ragazzo lo raggiunse, fece un gesto con il pollice e chiese: «Hai da accendere?» Håkan scosse il capo: «Non fumo» rispose in inglese. «Okay.» Il ragazzo mise la mano in tasca, prese un accendino e accese una sigaretta. «Cosa ti piace?» chiese in un inglese un po' stentato, fissandolo attraverso il fumo della sigaretta. «No, io...» «Giovane? Ti piace giovane?» Håkan si allontanò di alcuni passi dal ragazzo e dall'ingresso principale dove la gente entrava e usciva. Doveva riflettere. Non pensava che fosse così semplice. Era venuto più che altro per gioco, per controllare se quello che Gert aveva detto fosse vero. Il ragazzo lo seguì e si appoggiò al muro vicino a lui. «Che età vuoi? Otto, nove? Non è facile, ma...» «NO!» Aveva veramente un'aria così perversa? Domanda stupida. Né Ove, né Torgny avevano un... aspetto particolare. Uomini normali con occupazioni normali. Solo Gert, che viveva di rendita grazie a un'ingente eredità, poteva permettersi quello che voleva, e dopo diversi viaggi all'estero aveva assunto un aspetto veramente ripugnante. Una piega indolente della bocca, una patina sugli occhi. Quando Håkan aveva alzato la voce, il ragazzo era rimasto in silenzio continuando a fissarlo con quei suoi occhi socchiusi. Tirò una boccata dalla sigaretta, la gettò a terra e la calpestò. «Allora?» «No, solo...» Il ragazzo fece un mezzo passo in avanti. «Allora?» «Io... forse... dodici?» «Dodici? Ti piace di dodici anni?» «Io... sì.» «Maschio?» «Sì.» «Okay. Aspetta. Numero due.» «Prego?» «Numero due. Il gabinetto.»
«Oh, va bene.» «Dieci minuti.» Il ragazzo tirò su la cerniera della sua giacca di pelle e si avviò. Dodici anni. Toilette numero due. Dieci minuti. Era stupido, veramente stupido. E se fosse arrivata la polizia? Dopo tanti anni, dovevano essere al corrente di quell'attività. Allora sarebbe stata la fine. Lo avrebbero collegato al lavoro che aveva fatto due giorni prima e sarebbe stata la fine. Non poteva fare una cosa simile. Andare alle toilette soltanto per vedere come sono, tutto qui. Nelle toilette non c'era nessuno. Un orinatoio e tre cabine. Ovviamente la numero due era quella al centro. Mise una corona nella fenditura sopra la serratura, aprì ed entrò, chiuse la porta dietro di sé e si mise a sedere sul water. Le pareti erano coperte da scritte e disegni. Cose che non ci si sarebbe aspettati in una biblioteca. Qua e là qualche citazione letteraria, «HARRY ME, MARRY ME, BURY ME, BITE ME», ma per lo più disegni osceni e parolacce e un'incredibile quantità di numeri di telefono e offerte di servizi speciali. Due o tre davano l'impressione di essere autentici, non la solita presa in giro. Bene. Adesso aveva controllato. Adesso avrebbe dovuto andarsene. Chissà cosa avrebbe potuto inventarsi quel ragazzo con la giacca di pelle. Håkan si alzò, pisciò e tornò a sedersi. Perché lo aveva fatto? Non ne aveva veramente bisogno. Non sapeva perché avesse pisciato. Nel caso che... Udì la porta d'ingresso aprirsi. Trattenne il respiro. Qualcosa dentro di lui sperava che fosse un poliziotto. Un poliziotto grande e grosso che, dopo avere aperto la porta della cabina con un calcio, lo avrebbe malmenato con il manganello prima di portarlo via in manette. Bisbigli, passi felpati, un leggero colpo sulla porta. «Sì?» Un altro colpo discreto sulla porta. Håkan deglutì e aprì. Fuori, c'era un ragazzo sugli undici dodici anni. Capelli biondi, volto a forma di cipolla. Labbra sottili e grandi occhi blu senza espressione. Un giaccone imbottito rosso troppo grande per lui. Dietro di lui c'era il ragazzo più grande con la giacca di pelle. Alzò cinque dita nell'aria. «Cinquecento» disse con quella sua strana pronuncia. Håkan annuì e il ragazzo più grande spinse quello più giovane all'interno e chiuse la porta. Cinquecento corone non era troppo? Non che avesse
qualche importanza, ma... Guardò il ragazzo che aveva comprato. Affittato. Era drogato? Il suo sguardo era assente. Stava appoggiato alla porta a mezzo metro di distanza. Era talmente basso di statura che Håkan non aveva bisogno di alzare la testa per fissarlo negli occhi. «Ciao.» Il ragazzo non rispose, scosse il capo, puntò l'indice al centro delle gambe di Håkan e poi fece un gesto con la mano: Tira già la cerniera. Håkan ubbidì. Il ragazzo sospirò e fece un nuovo gesto con le dita: Tiralo fuori. Ubbidendo, Håkan sentì una vampata di calore sulle guance. Era proprio così. Ubbidiva. Non aveva alcuna volontà. Non era lui a farlo. Il suo piccolo pene non mostrava alcun segno di erezione, raggiungeva appena il bordo dell'asse. Provò una sensazione di solletico quando toccò il bordo freddo. Socchiuse gli occhi, cercando di intravedere fra i lineamenti del ragazzo quelli del suo amore. Il risultato era deludente. Il suo amore era bello. Non così il ragazzo che ora si era messo in ginocchio e stava piegando la testa fra le sue gambe. La bocca. C'era qualcosa che non andava nella bocca del ragazzo. Prima che raggiungesse l'obiettivo, Håkan gli mise una mano sulla fronte. «La tua bocca?» Il ragazzo scosse il capo e spinse la fronte contro la sua mano per continuare il suo lavoro. Ma non ci riuscì. Håkan ne aveva già sentito parlare. Mise il pollice sul labbro superiore del ragazzo e glielo sollevò. Nessun dente. Qualcuno glieli aveva rotti o estirpati per rendere il suo lavoro più soddisfacente. Il ragazzo si rialzò. Quando incrociò le braccia sulla giacca, si udì un suono che era un misto di fruscio e sibilo. Håkan ritirò il suo pene, chiuse la cerniera dei pantaloni e rimase con lo sguardo fisso al pavimento. Non così. Così mai. Qualcosa entrò nel suo campo visivo. Una mano aperta. Cinque dita. Cinquecento. Håkan prese il rotolo di banconote dalla tasca e lo porse al ragazzo. Quello tolse l'elastico, passò il dito sul bordo delle dieci banconote, rimise l'elastico e alzò il rotolo. «Perché?» «Perché... la tua bocca. Forse puoi... avere nuovi denti.»
Il ragazzo abbozzò un sorriso. Niente di eccezionale, ma gli angoli della sua bocca si alzarono leggermente. Forse stava soltanto sorridendo per la stupidità di Håkan. Rifletté un attimo, poi tolse una banconota da mille corone dal rotolo, la mise nella tasca esterna della giacca. Il rotolo in quella interna. Håkan annuì. Il ragazzo aprì la porta. Esitò. Poi si girò e accarezzò la guancia di Håkan. «Grassie.» Håkan mise una mano su quella del ragazzo, la tenne stretta contro la sua guancia e chiuse gli occhi. Se solo qualcuno avesse potuto... «Perdonami.» «Sì.» Il ragazzo ritirò la sua mano. Quando la porta d'ingresso si chiuse, Håkan sentiva ancora il calore della mano sulla guancia. Rimase seduto sul water fissando ciò che qualcuno aveva scritto sulla porta: «CHIUNQUE TU SIA, IO TI AMO». Poco sotto qualcun altro aveva scritto: «IL MIO CAZZO È PRONTO». Quando arrivò alla stazione della metropolitana, il calore sulla guancia era svanito. Comprò il giornale con le ultime corone. Quattro pagine intere erano dedicate all'omicidio. C'era anche la fotografia della radura dove lo aveva commesso. Intorno c'erano candele accese e mazzi di fiori. Se solo sapeste. Perdonatemi, se solo sapeste. Tornando a casa da scuola, Oskar si fermò sotto le due finestre dell'appartamento dove viveva la ragazza. Una era a soli due metri da quella della sua camera. Le persiane erano abbassate e il rettangolo grigio chiaro risaltava nettamente contro il grigio scuro del muro di cemento. C'era qualcosa di losco. Probabilmente si trattava di una specie di... strana famiglia. Drogati. Oskar si guardò intorno e poi entrò nel portone e guardò la bacheca con la lista dei nomi degli inquilini. Cinque cognomi, scritti con lettere di plastica amovibili. Uno spazio era vuoto. Il cognome Hellberg era rimasto affisso così a lungo che era ancora possibile leggere la traccia scura che aveva lasciato sulla superficie sbiadita della bacheca. Ma non c'era un nuovo cognome, neppure scritto su un pezzo di carta. Salì i due piani fino alla porta dell'appartamento. Stessa cosa. Niente. Nessuna targhetta. Era come se l'appartamento non fosse abitato. Forse la ragazza aveva mentito? Forse non abitava in quella casa. Ma era
entrata da quel portone. Sì. Ma avrebbe potuto farlo per trarlo in inganno. Ma se... Il portone d'ingresso si aprì. Oskar si girò e corse giù per le scale rapidamente. Speriamo che non sia lei, pensò. Altrimenti potrebbe credere che io... ma non era la ragazza. A metà dell'ultima rampa di scale, Oskar si imbatté in un uomo che non aveva mai visto prima. Un uomo di bassa statura, robusto e mezzo calvo, con un sorriso così grande da non sembrare normale. Quando si trovò davanti Oskar, l'uomo alzò la testa e fece un cenno con il capo, continuando a sorridere con quella sua bocca da pagliaccio da circo. Arrivato nell'androne, Oskar si fermò, rimase in ascolto. Sentì una chiave infilarsi nella serratura e una porta aprirsi. La porta della ragazza. Probabilmente l'uomo era suo padre. In verità, Oskar non aveva mai visto un drogato così vecchio, ma il suo volto non era quello di una persona normale. Ecco perché lei non è a posto con la testa. Oskar andò al centro del cortile e si mise a sedere sul bordo del box della sabbia, rimanendo a sorvegliare la finestra della ragazza in caso le persiane si alzassero. Persino la finestra del bagno sembrava oscurata all'interno; il vetro smerigliato era il più scuro di tutto il caseggiato. Prese il suo cubo di Rubik dalla tasca della giacca. Quando lo girava scricchiolava. Era una copia. L'originale scorreva senza far rumore, ma costava cinque volte di più e lo vendevano soltanto in un negozio di giocattoli ben sorvegliato a Vällingby. Aveva risolto due facce e nella terza mancava soltanto uno stupido quadratino. Ma non poteva piazzarlo senza rovinare le due già risolte. Aveva conservato un articolo apparso sull'Expressen che descriveva i diversi modi in cui far girare il cubo - era per questo che ce l'aveva fatta con le due facce, ma ora era molto più difficile. Fissò il gioco cercando di pensare a una soluzione invece di continuare a girare. Niente da fare. Il suo cervello non ce la faceva. Appoggiò il cubo contro la fronte, come per cercare di vedere al suo interno. Niente. Lo posò a terra e lo fissò. Gira. Gira. Gira. Si chiamava telecinesi. Negli Stati Uniti erano state effettuate ricerche. L'avevano definita Esp, Extra Sensory Perception. Esistevano persone che possedevano questa dote. Oskar avrebbe dato qualsiasi cosa per averla.
E forse... forse l'aveva. La giornata a scuola non era andata così male. Alla mensa, Tomas Ahlstedt aveva cercato di togliergli la sedia di sotto mentre stava per sedersi, ma Oskar se ne era accorto in tempo. Non era successo altro. Aveva deciso di andare nella foresta con il suo coltello per fare un tentativo serio con quell'albero. Voleva fare un esperimento più concreto, senza agitarsi come aveva fatto il giorno prima. Avrebbe colpito l'albero metodicamente, ne avrebbe tagliato dei pezzi continuando a pensare a Tomas Ahlstedt. Anche se... c'era quell'assassino. Il vero assassino che si aggirava da qualche parte. No. Doveva aspettare finché non fosse stato catturato. D'altro canto, se si trattava di un comune assassino l'esperimento non avrebbe avuto alcun valore. Fissò il cubo concentrandosi su un raggio che dai suoi occhi lo raggiungeva. Gira. Gira. Gira. Niente. Oskar mise il cubo in tasca e si alzò. Guardò verso la finestra della ragazza. Le persiane erano ancora abbassate. Decise di tornare a casa per ritagliare gli articoli sull'assassino di Vällingby e incollarli sul suo album. Con tutta probabilità, nel tempo gli articoli si sarebbero moltiplicati. Specialmente se l'assassino avesse colpito ancora. E, inconsciamente, Oskar sperava che lo facesse. Preferibilmente a Blackeberg. Così la polizia sarebbe venuta a scuola, gli insegnanti avrebbero iniziato a essere seriamente preoccupati e si sarebbe creata quella particolare atmosfera che gli piaceva tanto. «Mai più. Qualsiasi cosa tu dica.» «Håkan...» «No. No e basta.» «Io muoio.» «E allora muori.» «Dici sul serio?» «No. Non l'ho detto sul serio. Ma puoi farlo da te...» «Sono ancora troppo debole.» «Tu non sei debole.» «Troppo debole per farlo.» «Allora non so proprio cosa dire. Ma io non lo farò un'altra volta. È così... ripugnante, così...»
«Lo so.» «No, tu non lo sai. Per te è diverso, è...» «Che ne sai di cosa è per me?» «Niente. Ma tu almeno...» «Credi che... io provi piacere?» «Non lo so. Provi piacere?» «No.» «In ogni caso... io non lo farò un'altra volta. Forse hai già avuto un aiuto da altri, che erano... più bravi di me.» «...» «Hai avuto altri?» «Sì.» «Ah...» «Håkan? Hai...?» «Ti amo.» «Sì.» «E tu mi ami? Almeno un po'?» «Lo faresti un'altra volta, se ti dico che ti amo?» «No,» «Ti dovrei amare comunque. È questo che vuoi dire.» «Tu mi ami solo perché io ti aiuto a restare in vita.» «Sì. Non è questo l'amore?» «Se solo potessi credere che tu mi ameresti anche se non lo facessi.» «Sì?» «... allora forse lo farei.» «Ti amo.» «Non lo credo.» «Håkan. Me la caverò ancora per qualche giorno, ma poi...» «Allora vedi di cominciare ad amarmi.» Venerdì sera al ristorante cinese. Sono le otto meno un quarto e tutta la combriccola è riunita. A eccezione di Karlsson che è rimasto a casa a guardare un programma di quiz alla tv, e tanto meglio. Verrà più tardi, quando il programma sarà finito, e si vanterà di tutte le risposte giuste che è riuscito a dare. Lacke, Morgan, Larry e Jocke sono seduti al tavolo per sei più vicino alla porta. Jocke e Lacke discutono di quali pesci vivono in acqua dolce e quali in acqua salata. Larry legge il giornale e Morgan batte il tempo con
un piede ascoltando la musica di sottofondo che, per una volta, non è la solita lagna cinese. Sul tavolo davanti a loro ci sono quattro bicchieri di birra mezzi pieni. Sulla parete dietro al bancone del bar sono appesi i loro ritratti. Ai tempi della Rivoluzione culturale, il proprietario del ristorante era stato costretto a lasciare la Cina per via delle caricature che aveva fatto a chi era al potere. Ora, invece, usava il suo talento ritraendo i suoi clienti abituali. Sulla parete ci sono dodici caricature bonarie eseguite con un pennarello. Tutti uomini, eccetto Virginia. Tutti i ritratti sono dei primi piani, che mettono in risalto le irregolarità delle fisionomie. Il volto scavato e solcato da rughe di Larry e un paio di enormi orecchie a sventola lo fanno sembrare un elefante affamato. Le folte sopracciglia di Jocke sono state trasformate in piante di rose, sulle quali si è posato un uccello - forse un usignolo - che canta. Per Morgan invece, visto il suo stile, ha usato le sembianze del compianto Elvis. Basettoni e quello sguardo Love me tender negli occhi. La testa risalta su un piccolo corpo con una chitarra nelle mani e la classica posa alla Elvis. Morgan è più compiaciuto di quella caricatura di quanto voglia ammettere. Lacke è il più serio di tutti. I suoi occhi ingigantiti hanno un'espressione di sofferenza esagerata. Il fumo della sigaretta che ha fra le labbra forma una nuvola nera sopra la sua testa. Virginia è l'unica che è stata ritratta a figura intera. Indossa un vestito da sera, pieno di lustrini luccicanti a forma di stelle, le sue braccia sono aperte ed è circondata da un branco di maiali che la fissano con aria stolida. Su sua specifica richiesta, il proprietario del ristorante ne ha eseguito una copia, che Virginia ha appeso nel soggiorno a casa sua. E poi ci sono gli altri che non fanno parte della combriccola. Alcuni non sono più tornati. Alcuni sono morti. Una sera, tornando a casa dal ristorante, Charlie è inciampato su un gradino e si è fracassato il cranio. Gurkan aveva la cirrosi ed è morto per un'emorragia interna. Una sera, un paio di settimane prima di morire, aveva alzato la camicia e aveva fatto vedere una ragnatela di vene che si diramava dal suo ombelico. «Un tatuaggio costoso» aveva detto, e poco tempo dopo era morto. Avevano onorato la sua memoria mettendo il suo ritratto sul tavolo dove sedevano e avevano bevuto alla sua salute tutta la sera. Karlsson non era stato ritratto.
Questo venerdì sera sarà l'ultimo che passano insieme. Domani uno di loro se ne andrà per sempre. Un altro ritratto che rimarrà appeso alla parete soltanto come un ricordo. E niente sarà più come prima. Larry mise da parte il giornale, si tolse gli occhiali e li posò sul tavolo, prese il suo bicchiere e bevve un sorso di birra. «Vorrei proprio sapere cosa passa per la mente di uno come quello.» Indicò il titolo sulla pagina del giornale: «I BAMBINI SONO SOTTO SHOCK». Sotto il titolo c'erano una fotografia della scuola di Vällingby e una più piccola di un uomo di mezza età. Morgan si chinò in avanti. «È l'assassino?» «No, è il preside della scuola.» «Ha la tipica faccia di un assassino.» Jocke allungò una mano verso il giornale. «Fammi vedere...» Larry gli porse il giornale. Jocke lo prese, allungò le braccia e osservò la fotografia. «A me sembra uno del Partito dei conservatori.» Morgan annuì. «È esattamente quello che ho detto io.» Jocke alzò il giornale per fare in modo che anche Lacke potesse vedere la fotografia. «E tu cosa ne pensi?» Lacke guardò la fotografia svogliatamente. «Be', non saprei. Ma tutta questa storia mi disgusta.» Larry alitò sulle lenti dei suoi occhiali e li pulì con un lembo della camicia. «Lo prenderanno. Non riuscirà a cavarsela dopo quello che ha fatto.» Morgan tamburellò le dita sul ripiano del tavolo e allungò una mano per prendere il giornale. «Cosa ha fatto l'Arsenal?» Larry e Morgan iniziarono a discutere del calo di qualità del gioco delle squadre inglesi negli ultimi mesi. Jocke e Lacke rimasero in silenzio per un po' sorseggiando le loro birre e fumando. Poi, Jocke si mise a parlare del problema dei merluzzi minacciati di estinzione nel Mare del Nord. Continuò così per il resto della serata. Karlsson non si era fatto vivo, ma verso le dieci nel locale entrò un uomo che nessuno di loro aveva mai visto prima. A quel punto la conversa-
zione si era fatta più accesa, e nessuno aveva notato l'uomo finché non prese posto a un tavolo in fondo al locale. Jocke si chinò verso Larry. «Chi è quel tipo?» Larry volse lo sguardo verso l'uomo e scosse il capo. «Non so.» Il nuovo arrivato ordinò un doppio whisky, lo bevve tutto d'un fiato e ne ordinò un altro. Morgan fece una smorfia. «Non perde certo tempo.» Si sarebbe detto che l'uomo non fosse consapevole di essere osservato. Rimaneva seduto con lo sguardo fisso sulle mani e sembrava che tutte le miserie del mondo si fossero raccolte in uno zaino che portava sulle spalle. Trangugiò altrettanto rapidamente il secondo whisky e ne ordinò un terzo. Il cameriere si chinò in avanti e gli disse qualcosa. L'uomo mise una mano in tasca e tirò fuori alcune banconote. Il cameriere fece un gesto come per dire che non aveva voluto insinuare alcunché, anche se, naturalmente, era proprio quello che aveva voluto fare, e andò a prendere il terzo whisky. Non era affatto sorprendente che il cameriere avesse messo in dubbio la solvibilità dell'uomo. I suoi abiti erano sgualciti e macchiati come se avesse dormito all'aperto. La corona di capelli intorno al cranio calvo era arruffata. Un grande naso rossiccio e il mento prominente erano i tratti dominanti del suo volto. In mezzo, un paio di piccole labbra carnose si muovevano di tanto in tanto come se stesse parlando da solo. Quando il cameriere posò il bicchiere di whisky davanti a lui, l'uomo non alzò neppure il capo. La combriccola riprese la discussione: il nuovo segretario del Partito di centro sarebbe stato migliore del suo predecessore? Soltanto Lacke sbirciava di tanto in tanto l'uomo seduto da solo. Dopo un po', quando vide che aveva ordinato un altro whisky, disse: «Forse... dovremmo chiedergli se vuole venire a sedersi con noi.» Morgan diede un'occhiata da sopra la spalla all'uomo che sembrava essersi accasciato ancora di più sulla sedia. «Perché dovremmo? Sua moglie lo ha lasciato, gli è morto il gatto e la vita è uno schifo. Chiedete al sottoscritto.» «Forse ci offrirà da bere.» «In questo caso, tutto cambia. Forse sta anche morendo di cancro.» Morgan scrollò le spalle. «A me non dà fastidio.» Lacke si girò verso Larry e Jocke che fecero un cenno di approvazione.
Si alzò e andò al tavolo dell'uomo. «Salve.» L'uomo alzò lo sguardo. I suoi occhi erano viscosi. Nel bicchiere sul tavolo rimaneva soltanto un mezzo dito di whisky. Lacke mise le mani sullo schienale della sedia e si chinò leggermente in avanti. «Ci chiedevamo soltanto se vuoi... venire a sedere al nostro tavolo.» L'uomo scosse lentamente il capo e fece un vago gesto negativo con una mano. «No. Grazie. Ma puoi sederti se vuoi.» Lacke spostò la sedia e si mise a sedere. L'uomo finì il suo whisky e fece un cenno al cameriere. «Bevi qualcosa? Offro io.» «In questo caso, lo stesso che prendi tu.» Lacke non aveva usato la parola whisky, perché non voleva dare l'impressione di approfittarne per ordinare un drink costoso, ma l'uomo annuì e quando il cameriere si avvicinò alzò due dita facendo un cenno con il capo in direzione del suo ospite. Lacke si appoggiò allo schienale della sedia. Quanto tempo era passato da quando aveva bevuto un whisky? Tre anni. Forse più. L'uomo non dava l'impressione di voler avviare una conversazione, così Lacke si schiarì la gola e disse: «Oggi fa freddo.» «Sì.» «Presto inizierà a nevicare.» «Mmm.» Con l'arrivo dei due bicchieri di whisky, per un attimo il bisogno di conversazione venne meno. Lacke prese il bicchiere e sentì gli sguardi degli altri alle sue spalle. Dopo un paio di sorsi alzò il bicchiere. «Allora, alla salute. E grazie.» «Salute.» «Abiti da queste parti?» L'uomo alzò lo sguardo e rimase con gli occhi fissi nel vuoto, come se non si fosse mai posto prima quella domanda. Lacke non riuscì a capire se il suo vago cenno della testa fosse una risposta alla sua domanda o piuttosto parte di un monologo interiore. Lacke bevve un altro sorso di whisky e decise che, se non avesse risposto a una seconda domanda, evidentemente voleva essere lasciato in pace e non aveva voglia di parlare. In quel caso, avrebbe preso il suo bicchiere e sarebbe tornato a sedere insieme agli altri. Aveva usato la cortesia dovuta
quando si è invitati a bere un bicchiere. Dentro di sé sperava che l'uomo non rispondesse. «Sì. E che lavoro fai?» «Io...» L'uomo inarcò le sopracciglia e gli angoli della sua bocca si alzarono formando una smorfia spasmodica. «... aiuto qualcuno a...» «Ah sì. A fare cosa?» L'uomo fissò Lacke e una specie di consapevolezza brillò e sparì subito nei suoi occhi. Lacke sentì una leggera fitta alla base della colonna vertebrale, come se una formica lo avesse morso poco sopra il coccige. L'uomo si passò una mano sugli occhi, la mise in tasca e tirò fuori alcune banconote da cento corone, le posò sul tavolo e si alzò. «Scusa, ma devo...» «Okay. Grazie per il whisky.» Lacke alzò il bicchiere, ma l'uomo si era già avviato verso l'attaccapanni. Prese il soprabito e lasciò il locale. Lacke rimase seduto con la schiena rivolta alla combriccola e fissò le banconote. Cinque biglietti da cento. Un doppio whisky costava sessanta corone e ne aveva bevuti cinque, forse sei. Lacke si girò guardando con la coda dell'occhio. Il cameriere era occupato con una coppia di anziani, gli unici che avevano cenato. Alzandosi, afferrò una banconota da cento corone, la accartocciò, infilò la mano in tasca e si avviò verso la combriccola. A metà strada si fermò, tornò al tavolo e versò nel suo bicchiere il whisky che era rimasto in quello dell'uomo. Era stata una serata riuscita. «Ma questa sera c'è il programma di quiz.» «Sì, tornerò in tempo.» «Inizia fra mezz'ora.» «Lo so.» «Perché vuoi uscire proprio adesso?» «Vado solo a fare un giro.» «Sì, non è che devi guardare il programma. Se proprio devi uscire, posso guardarlo da sola.» «Sì... ma tornerò un po' più tardi.» «Va bene, va bene. Allora aspetterò per scaldare le crèpe.»
«No, tu puoi... be', tornerò presto.» Oskar riuscì a liberarsi. Il programma era uno dei loro favoriti. Ogni volta che andava in onda, sua madre preparava le crèpe con ripieno di gamberetti da mangiare davanti alla tv. Sapeva che uscendo l'avrebbe delusa, ma da quando aveva iniziato a fare buio era rimasto alla finestra a controllare il cortile e pochi minuti prima aveva visto la ragazza uscire dal portone e avviarsi verso l'area giochi riservata ai bambini. Oskar aveva fatto immediatamente un passo indietro. Non voleva che lei pensasse che... Quindi, aveva aspettato cinque minuti prima di vestirsi e uscire, e non si era messo il berretto. Arrivato nel cortile, Oskar non riusciva a vederla. Probabilmente era accovacciata dietro il castello di tubi come il giorno prima. Le persiane della sua finestra erano ancora abbassate, ma si capiva che nell'appartamento le luci erano accese. Quella del bagno però rimaneva al buio. Oskar si mise a sedere sul bordo del box della sabbia e rimase in attesa, come se aspettasse che un animale uscisse dalla sua tana. Aveva deciso di attendere solo qualche minuto. Se la ragazza non si fosse fatta vedere, sarebbe tornato a casa facendo finta di niente. Prese il cubo di Rubik e iniziò a girarlo, giusto per fare qualcosa. Si era stancato di quell'unico quadratino che gli rovinava le due facce risolte e ricominciò da capo. Il rumore secco del cubo che girava echeggiava nell'aria fredda. Con la coda dell'occhio, Oskar vide la ragazza uscire dal castello. Continuò ad armeggiare con il cubo come se non l'avesse vista. Lei rimaneva immobile. Oskar provò un leggero senso di inquietudine alla bocca dello stomaco. «Sei di nuovo qui?» Oskar alzò la testa fingendo di essere sorpreso, lasciò passare qualche secondo prima di rispondere. «Anche tu?» La ragazza non disse nulla e Oskar continuò a girare il cubo. Le sue dita erano intirizzite. Non era facile distinguere i colori, perciò si concentrò sulla faccia bianca. «Perché stai seduto lì?» «Perché stai ferma lì?» «Voglio starmene in pace.» «Anch'io.» «Perché non vai a casa allora?»
«Vacci tu. Io abito qui da più tempo di te.» Così impara. Aveva completato la faccia bianca e gli altri colori erano ormai solo una massa grigia difficile da distinguere. Oskar continuò a girare a caso. Quando rialzò la testa, la ragazza era in cima al castello, poi spiccò un balzo. Quando toccò terra, Oskar sentì un vuoto allo stomaco: se avesse tentato lo stesso salto, si sarebbe sicuramente fatto male. Ma lei atterrò agile come una gatta e gli si avvicinò. Oskar abbassò la testa fingendo di occuparsi del cubo. La ragazza gli si fermò davanti. «Che cos'è?» Oskar alzò lo sguardo e la fissò. «Questo?» «Sì.» «Non lo sai?» «No.» «È il cubo di Rubik.» «Cosa?» Oskar ripeté le parole in tono esageratamente ironico. «Il cu-bo di Ru-bik.» «Che cos'è?» Oskar scrollò le spalle. «Un gioco.» «Un puzzle?» «Sì.» Oskar le porse il cubo. «Vuoi provare?» La ragazza prese il cubo, lo rigirò fra le mani fissando tutte le facce. Oskar si mise a ridere. Sembrava una scimmia che guarda un frutto sconosciuto. Gli restituì il gioco e si sedette al suo fianco. Oskar iniziò a muoverlo spiegandole che lo scopo era fare in modo che tutte le sei facce avessero un colore uniforme. Lei riprese il cubo e si mise a girarlo. «Riesci a vedere i colori?» «Naturalmente.» La osservò mentre girava. Fu colto da un brivido di freddo e notò che la ragazza indossava la stessa maglia rosa del giorno prima. Non riusciva a capire come non patisse il freddo. Naturalmente.
Si esprimeva anche in modo strano. Come una persona adulta. Forse, anche se era così magra, era persino più vecchia di lui. Il colletto della maglia rosa faceva risaltare il suo lungo collo bianco e sottile. Sembrava un manichino. Una leggera folata di vento gli accarezzò il volto. Oskar deglutì e aprì la bocca per respirare. Il manichino puzzava. Ma non si lava mai? Non era soltanto l'odore di sudore vecchio. Era peggio. Era come l'odore che si sente quando si toglie la benda da una ferita infetta. E i suoi capelli... Vedendola occupata con il cubo, Oskar trovò il coraggio di osservarla più attentamente e notò che i suoi capelli erano una massa di ciocche imbrattate, come se li avesse cosparsi di fango. Mentre la osservava, riprese a respirare dal naso e provò immediatamente un senso di nausea. Si alzò e andò a sedersi su uno dei copertoni delle altalene. Non resisteva a rimanerle vicino. La ragazza sembrò non farci caso. Dopo qualche minuto, Oskar tornò da lei. Era ancora assorta nel cubo. «Adesso devo andare a casa.» «Mmm.» «Il cubo...» La ragazza si fermò. Esitò un istante e poi gli porse il cubo senza dire nulla. Oskar lo prese, la fissò e poi glielo restituì. «Puoi tenerlo. Fino a domani.» Lei non lo prese. «No.» «Perché no?» «Forse domani non sarò qui.» «Fino a dopodomani, allora. Ma non di più.» La ragazza ci pensò su un attimo e poi accettò il cubo. «Grazie. Domani sarò qui.» «Qui?» «Sì.» «Okay. Ciao.» «Ciao.» Quando si avviò verso casa, Oskar sentì il rumore del cubo che scattava. Aveva intenzione di restare lì con quella sua maglia leggera. Sua madre e suo padre dovevano essere... diversi, per lasciarla andare in giro in quel
modo. Chiunque si sarebbe preso un raffreddore. «Dove sei stato?» «In giro.» «Sei ubriaco.» «Sì.» «Avevi detto che avresti smesso.» «Tu l'hai detto. Che cos'è quella roba?» «Un puzzle. Non ti fa bene...» «Dove l'hai preso?» «Me l'hanno imprestato. Håkan, tu devi...» «Chi te lo ha imprestato?» «Håkan. Non fare così.» «Rendimi felice, allora.» «Cosa vuoi che faccia?» «Lascia che ti tocchi.» «Sì. Ma a una condizione.» «No. Lasciamo stare, allora.» «Domani. Devi...» «No. Non un'altra volta. Cosa significa "imprestato"? Tu non prendi mai niente in prestito. Che roba è?» «Un puzzle.» «Non ne hai abbastanza di puzzle? Ti curi più dei puzzle che di me. Puzzle, puzzle. Chi te lo ha dato? CHI TE LO HA DATO, ti ho chiesto!» «Håkan, smettila.» «Sono così maledettamente infelice.» «Aiutami, ancora una volta. Poi troverò la forza di cavarmela senza di te.» «Sì, e io devo crederci?» «Non vuoi che me la cavi senza di te?» «Che cosa ti serve?» «Io ti amo.» «Non è vero.» «Sì. In un certo modo...» «In un certo modo non significa nulla. O si ama o non si ama.» «È così?» «Sì.» «In questo caso ci devo pensare.»
Sabato 24 ottobre Il mistero dei sobborghi sta nella mancanza di mistero. JOHAN ERIKSSON Il sabato mattina, fuori dalla porta dell'appartamento di Oskar c'erano tre grossi pacchi di volantini pubblicitari. La mamma lo aiutò a piegarli. Tre volantini diversi l'uno dentro l'altro, quattrocentottanta plichi in tutto. In media veniva pagato quattordici öre per plico. Nel peggiore dei casi, poteva trattarsi di un solo foglio che gli fruttava soltanto sette öre. Nel migliore dei casi - il più duro, perché il lavoro di piegatura era lungo -, un plico di cinque volantini veniva pagato venticinque öre. Era fortunato, perché le case di quindici piani facevano parte del suo distretto. Lì riusciva a distribuire centocinquanta plichi in un'ora. Per il giro completo impiegava circa quattro ore, incluso un ritorno a casa per fare rifornimento. Quando si trattava di cinque volantini, era costretto a fare rifornimento due volte. I plichi dovevano essere distribuiti al più tardi entro il martedì sera, ma Oskar aveva l'abitudine di distribuirli tutti il sabato. Così non doveva più pensarci. Piegava i volantini seduto sul pavimento, la mamma era seduta al tavolo. Non era un lavoro divertente, ma il caos che creava in cucina gli piaceva. Quel grande disordine che plico dopo plico diventava ordine, suddiviso in due, tre, quattro sacchetti stracolmi di plichi ben piegati. Sua madre mise un pacco di volantini pronti in un sacchetto e scosse il capo. «A dire il vero questa cosa non mi piace.» «Cosa?» «Non devi... se qualcuno apre la porta o... non devi...» «Perché non dovrei farlo?» «Ci sono tante di quelle persone strane.» «Sì.» Quel tipo di discussione aveva luogo, in una forma o nell'altra, praticamente ogni sabato. Quel venerdì sera, sua madre gli aveva detto che avrebbe preferito che non andasse a distribuire la pubblicità il giorno dopo, per via dell'assassino. Ma Oskar le aveva promesso solennemente di met-
tersi a urlare a squarciagola se solo qualcuno gli avesse rivolto la parola e sua madre si era arresa. Non gli era mai successo che qualcuno lo invitasse a entrare in casa o qualcosa di simile. Una volta, un uomo anziano aveva aperto la porta e gli aveva urlato di «smetterla di mettere quella porcheria nella sua buca per le lettere». Da allora, Oskar aveva evitato accuratamente di farlo. Quella settimana, il vecchio sarebbe sopravvissuto senza sapere che avrebbe potuto farsi una permanente dalla parrucchiera a sole duecento corone. Alle undici e mezza i plichi erano pronti e Oskar uscì di casa. Non era possibile gettare tutti i volantini in un cassonetto della spazzatura, perché l'agenzia telefonava in giro per controllare. Glielo avevano spiegato chiaramente quando aveva fatto la domanda sei mesi prima. Forse era soltanto un bluff, ma non aveva il coraggio di tentare la sorte. Inoltre, quel lavoro non gli dispiaceva per niente. In ogni caso, non durante le prime due ore. Allora giocava, immaginando di essere un agente in missione segreta che andava in giro a distribuire fogli di propaganda contro il nemico che aveva occupato il paese. Correva da un portone all'altro, pronto a difendersi dai soldati nemici che potevano essersi travestiti da vecchie signore dall'aspetto bonario. Oppure, immaginava che in ogni edificio si nascondesse un animale feroce, un drago a sei teste che si nutriva solo di carne di giovani vergini mascherate da volantini pubblicitari, che Oskar gettava nelle bocche del drago, e allora i volantini urlavano terrorizzati. Le ultime due ore - proprio come quel sabato all'inizio del secondo giro cominciava a sentirsi stanco. Le gambe erano pesanti e le braccia si muovevano meccanicamente. Posare il sacchetto, prendere sei plichi sotto il braccio sinistro, aprire il portone, poi la prima porta, spingere il battente della buca delle lettere con la mano sinistra, prendere un plico con la mano destra, infilare il plico. Seconda porta... e così di seguito. Quando alla fine arrivò alle case del suo cortile e davanti alla porta dove abitava la ragazza, si fermò e rimase in ascolto. Udì il suono di una radio con il volume basso. Nient'altro. Infilò il plico nella buca delle lettere e rimase in attesa. Nessuno venne a prenderlo. Di solito finiva con la porta di casa sua, infilava il plico nella buca delle lettere, apriva la porta e gettava i volantini nel cestino della spazzatura. Finito per oggi. Sessantasette corone guadagnate.
Sua madre era andata a fare la spesa a Vällingby. Oskar aveva l'appartamento tutto per sé. Ma non sapeva cosa fare. Andò in cucina e aprì i cassetti sotto il lavandino. Posate, mestoli e un termometro per il forno. In un altro cassetto c'erano un block-notes e una penna, e una serie di schede di ricette che sua madre aveva cominciato a raccogliere, anche se aveva smesso presto perché gli ingredienti richiesti erano troppo cari. Si spostò nel soggiorno, e iniziò dalla credenza. Nel primo cassetto c'erano i ferri da maglia di sua madre. Una cartella con fatture e ricevute. Un album di fotografie che Oskar aveva sfogliato decine di volte. Vecchie riviste con i cruciverba finiti a metà. Un paio di occhiali da lettura in una custodia. Una piccola cassetta di legno con all'interno i loro passaporti e le piastrine di riconoscimento - Oskar aveva chiesto di poterla tenere al collo, ma sua madre gli aveva detto che sarebbe stato possibile soltanto in caso di guerra -, una fotografia e un anello. Continuò a controllare i cassetti e gli armadi alla ricerca di qualcosa, senza sapere cosa. Un segreto. Qualcosa che potesse provocare un cambiamento. Un pezzo di carne marcia sul fondo di un armadio. O un palloncino gonfiato. Qualsiasi cosa. Qualcosa di inconsueto. Prese la foto e la osservò. Era la fotografia del suo battesimo. Sua madre lo teneva in braccio e fissava il fotografo. Era magra allora. Oskar era avvolto nella tradizionale tunica bianca da battesimo. Suo padre, chiaramente a disagio con indosso un vestito, era di fianco a sua madre. Aveva le braccia lungo i fianchi, quasi sull'attenti come se non sapesse cosa farsene delle mani. Teneva lo sguardo fisso sul bambino. Il sole brillava dietro di loro. Oskar avvicinò la fotografia agli occhi e studiò l'espressione del volto di suo padre. Sembrava orgoglioso... di... Un uomo felice di essere diventato padre, ma che non sapeva come comportarsi. Anche se il battesimo era stato celebrato sei mesi dopo la sua nascita, si sarebbe detto che vedeva il bambino per la prima volta. Sua madre, invece, lo teneva in braccio sicura e rilassata. Più che di orgoglio, l'espressione del suo volto era di diffidenza. Non avvicinatevi di più, diceva lo sguardo. Altrimenti vi mordo il naso. Suo padre era leggermente chinato in avanti, come se volesse avvicinarsi senza però averne il coraggio. La fotografia non ritraeva una famiglia. Piuttosto un bambino e sua madre. Di fianco a loro un uomo, probabilmente il padre. Almeno a giudicare dall'espressione del suo volto.
Ma Oskar amava suo padre. E in qualche modo lo amava anche sua madre. A dispetto di... quello che era stato. Di quello che era successo. Oskar prese l'anello e lesse all'interno: Erik 22/4/1967. Si erano separati quando Oskar aveva due anni. Nessuno dei due aveva incontrato un nuovo partner. «Doveva andare così.» Entrambi usavano la stessa frase. Ripose l'anello, chiuse la cassetta e la rimise a posto. Si chiese se sua madre guardasse mai quell'anello e perché lo conservasse. Era pur sempre d'oro. Almeno dieci grammi. Valeva almeno quattrocento corone. Oskar indossò la giacca e andò in cortile. Iniziava già a fare buio, anche se erano soltanto le quattro. Andare nella foresta era da escludere. Tommy stava passando fuori dal portone, quando vide Oskar si fermò. «Ciao.» «Ciao.» «Cosa fai?» «Non so... ho appena finito di distribuire i volantini pubblicitari.» «Ti pagano bene?» «Così così. Settanta, ottanta corone. Ogni volta.» Tommy annuì. «Vuoi comprare un walkman?» «Non so. Che tipo?» «Sony. Cinquanta corone.» «Nuovo?» «Sì. Ancora nella sua scatola. Con gli auricolari. Cinquanta corone tutto compreso.» «Non ho i soldi. Adesso.» «Hai detto che hai guadagnato settanta, ottanta corone.» «Sì, ma mi pagano alla fine del mese. Cioè fra una settimana.» «Okay... posso dartelo subito. E mi darai i soldi quando li avrai.» «Sì...» «Okay. Aspettami laggiù, mentre io vado a prenderlo.» Tommy fece un cenno con il capo in direzione dell'area giochi e Oskar andò a sedersi su una panchina. Si rialzò quasi subito per andare al castello di tubi e guardò all'interno. La ragazza non c'era. Tornò rapidamente a sedersi sulla panchina, come se avesse fatto qualcosa di proibito. Qualche minuto dopo Tommy lo raggiunse e gli diede la scatola. «Cinquanta corone fra una settimana, d'accordo?» «D'accordo.»
«Cosa stai ascoltando?» «Kiss.» «Cos'hai?» «Alive.» «Non hai Destroyer? Posso imprestartelo se vuoi. Così potrai copiarlo.» «Sì, super.» Oskar aveva il doppio lp Alive dei Kiss, lo aveva comprato alcuni mesi prima, ma non lo ascoltava mai. Gli piaceva guardare le fotografie del concerto. Le facce truccate dei componenti del gruppo erano affascinanti. Mostri viventi. E Beth cantata da Peter Criss gli piaceva veramente, ma le altre canzoni non erano poi un granché... senza la minima melodia. Forse Destroyer era meglio. Tommy si alzò per andarsene. Oskar mise la scatola sotto il braccio. «Tommy?» «Sì?» «Quel ragazzo. Quello che è stato assassinato. Sai come... è stato ucciso?» «Sì. Lo ha appeso a un albero e gli ha tagliato la gola.» «Non è stato pugnalato? L'assassino non l'ha pugnalato? Nel corpo?» «No, gli ha soltanto tagliato la gola, zac.» «Okay.» «Volevi sapere altro?» «No.» «Ci vediamo.» «Sì.» Oskar rimase seduto sulla panchina a pensare. Il cielo aveva assunto un colore blu violetto, la prima stella - era Venere? - si vedeva già chiaramente. Si alzò per andare a nascondere il walkman prima che sua madre tornasse a casa. Quella sera doveva incontrare la ragazza e riprendersi il suo cubo. Le persiane erano ancora abbassate. Abitava veramente lì? Cosa faceva lì dentro tutto il giorno? Aveva degli amici? Probabilmente no. «Questa sera...» «Che cos'hai fatto?» «Ho fatto una doccia.»
«Non lo fai mai.» «Håkan, questa sera devi...» «No, te l'ho già detto.» ... «Per favore?» «Non si tratta di... Qualsiasi altra cosa. Chiedi e io lo farò. Qualsiasi altra cosa, per l'amor di Dio. Ecco. Eccoti il coltello. No? Okay, allora io...» «Lascia stare!» «Perché? Dovrei? Perché hai fatto la doccia? Puzzi di... sapone.» «Cosa vuoi che faccia?» «Non posso!» «No.» «Cosa pensi di fare?» «Lo farò io.» «E per questo avevi bisogno di lavarti?» «Håkan...» «Ti aiuterò con qualsiasi altra cosa. Cosa vuoi che...» «Sì, sì. Bravo.» «Scusami.» «Sì.» «Fai attenzione. Io... sono stato attento.» Kuala Lumpur, Phnom Penh, Mekong, Rangoon, Chungking... Oskar controllò il foglio prestampato con le domande alle quali aveva finito di rispondere. Era il compito del fine settimana. I nomi non gli dicevano niente, erano solo combinazioni di lettere. Ma provava una certa soddisfazione a sfogliare l'atlante e scoprire che esistevano veramente città e fiumi proprio nei luoghi indicati sul foglio. Sì, avrebbe imparato il compito a memoria e sua madre lo avrebbe interrogato. Avrebbe indicato i punti e avrebbe pronunciato quelle parole straniere. Chungking, Phnom Penh. Sua madre sarebbe rimasta sbalordita. Sì, era divertente conoscere tutti quei nomi strani di luoghi lontani, ma... Perché? L'anno prima aveva studiato la geografia della Svezia. L'aveva imparata alla perfezione. Era veramente bravo in geografia. Ma adesso? Cercò di ricordare il nome di uno dei fiumi svedesi. Askan, Väskan, Piskan... No, era un altro nome. Ätran, forse. Ma dove scorreva? Non ricordava. E
fra qualche anno, la stessa cosa sarebbe successa con Chungking e Rangoon. È tutto senza senso. Quei luoghi non esistevano per niente. E se fossero esistiti... non ci sarebbe mai andato. Chungking? Cosa avrebbe fatto a Chungking? Era solo un piccolo puntino sul foglio prestampato. Fissò le parole scritte con la sua calligrafia incerta. Questa era la scuola. Niente di più. Questa era la scuola. Ti dicono di fare un sacco di cose e tu le fai. Quei luoghi erano stati inventati per dare la possibilità agli insegnanti di assegnare i compiti. Non significavano niente. Avrebbe potuto benissimo scrivere Tjippiflax, Bubbellibäng e Spitt. Sarebbe stato altrettanto ragionevole. L'unica differenza sarebbe stata che l'insegnante avrebbe detto che era sbagliato. Che le città non si chiamavano così. Avrebbe indicato un punto sulla carta dicendogli: «Guarda, si chiama Chungking e non Tjippiflax.» Una prova vaga. Qualcuno aveva inventato tutti i nomi scritti sull'atlante. Nessuno poteva dire che fosse la verità. Forse la terra era veramente piatta, ma per qualche motivo doveva rimanere un segreto. Navi che cadono giù dal bordo. Draghi. Oskar si alzò dal tavolo. Il compito era finito, con tutti i nomi che l'insegnante avrebbe approvato. Nient'altro. Erano passate le sette. Forse la ragazza era in cortile? Si avvicinò alla finestra e mise le mani intorno al viso per riuscire a vedere nel buio. Qualcuno si stava muovendo nell'area giochi? Andò in ingresso. Sua madre era seduta nel soggiorno e stava lavorando a maglia. «Esco un attimo.» «Esci di nuovo. Non dovevo interrogarti?» «Sì. Ma possiamo farlo dopo.» «Il compito era sull'Asia?» «Cosa?» «Si tratta dell'Asia?» «Sì, credo di sì. Chungking.» «Dov'è? In Cina?» «Non lo so.» «Non lo sai? Ma...» «Tornerò fra poco.»
«Sì. Stai attento. Hai preso il berretto?» «Sì.» Oskar mise il berretto in tasca e uscì. A metà strada dall'area giochi i suoi occhi si erano abituati al buio e vide la ragazza seduta in cima al castello di tubi. Si avvicinò e si fermò sotto di lei con le mani in tasca. Oggi aveva un aspetto diverso. Indossava ancora la maglia rosa - non ne aveva altre? - ma i suoi capelli non erano così arruffati. Erano neri, lisci, e seguivano il contorno del suo viso. «Salve.» «Ciao.» «Ciao.» Non avrebbe mai più detto «salve» in vita sua. Suonava così incredibilmente ridicolo. La ragazza si alzò. «Vieni su.» «Okay.» Oskar salì, si mise a sedere di fianco a lei e annusò discretamente. Non puzzava più. «Non puzzo più?» Oskar arrossì. La ragazza sorrise, allungò la mano e gli porse qualcosa. Il suo cubo. «Grazie per avermelo imprestato.» Oskar prese il cubo e lo guardò. Lo guardò una seconda volta. Lo alzò rigirandolo per vedere meglio. Lo aveva risolto. Tutte le facce erano di un unico colore. «Lo hai smontato?» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che... lo hai smontato e rimesso a posto nel modo corretto.» «Si può fare?» Oskar agitò il gioco per controllare se i pezzi si muovevano dopo essere stati smontati. Lo aveva fatto una volta e, quando si era reso conto di quanti pochi movimenti fossero necessari per perdersi senza ottenere tutte le facce di un solo colore, era rimasto sorpreso. Era veramente possibile che lei fosse riuscita a risolverlo? «Ma devi averlo smontato.» «No.» «Hai detto che non lo avevi mai visto prima.» «È vero. Ma è stato divertente. Grazie.» Oskar alzò il cubo davanti a sé, come se potesse raccontargli come erano
andate le cose. In qualche modo, era praticamente certo che la ragazza non stesse mentendo. «Quanto tempo ti ci è voluto?» «Diverse ore. Adesso ci impiegherei molto meno.» «Incredibile.» «Non è poi così difficile.» La ragazza si girò verso di lui. Le sue pupille erano così grandi che riempivano quasi completamente i suoi occhi, la luce sopra i portoni si rifletteva sulla superficie nera delle sue pupille e sembrava che avesse una città lontana all'interno della testa. Il colletto della maglia faceva risaltare ancora di più i suoi lineamenti delicati che la rendevano simile a uno di quei... personaggi dei fumetti. La pelle, le linee del suo volto avevano la qualità della seta. Oskar si schiarì la gola. «Quanti anni hai?» «Quanti credi che ne abbia?» «Quattordici, quindici.» «Ne dimostro così tanti?» «Sì. O meglio, no, ma...» «Ho dodici anni.» «Dodici!» Magnifico, era più giovane di Oskar, che avrebbe compiuto tredici anni fra un mese. «Quando compi gli anni?» «Non lo so.» «Non lo sai? Ma... quando sei nata, allora?» «Non festeggio mai il mio compleanno.» «Ma tuo padre e tua madre devono sapere quando sei nata!» «No. Mia madre è morta.» «Oh. Di cosa è morta?» «Non lo so.» «Ma tuo padre deve saperlo.» «No.» «Allora non... ricevi regali e cose simili?» La ragazza si spostò e gli si mise accanto. Il vapore del suo alito si sparse sul volto di Oskar e le luci della città si spensero all'ombra di Oskar. Le pupille erano due buchi rotondi nel suo volto. È triste. Tanto, tanto triste.
«No. Non ricevo mai regali. Non ne ho mai ricevuti.» Oskar annuì appena. Il mondo intorno a lui non esisteva più. C'erano soltanto quei due buchi neri a distanza di un respiro. Il vapore dalle loro bocche si mischiava, saliva in alto e si scioglieva. «Vuoi farmi un regalo?» «Sì.» La voce della ragazza era un bisbiglio. Soltanto un'espirazione che si formava sulla sua bocca. Il suo volto era vicino. Oskar fissava affascinato la sua pelle vellutata. Per questo non notò il cambiamento degli occhi, le pupille si erano rimpicciolite, l'espressione era cambiata. E non vide il labbro superiore alzarsi scoprendo i due piccoli canini bianchi. Vedeva soltanto la sua guancia, e quando i canini della ragazza si avvicinarono alla sua gola, Oskar alzò una mano e le accarezzò la guancia. La ragazza si fermò, si irrigidì un attimo e poi si spostò. I suoi occhi erano tornati normali, le luci della città si riaccesero. «Cosa volevi fare?» «Scusa... io...» «Cosa... volevi fare?» «Io...» Oskar fissò la mano con la quale teneva il cubo e la aprì leggermente. Lo aveva stretto così forte che gli angoli avevano lasciato una traccia scura sul palmo. «Lo vuoi? Te lo regalo» disse porgendole il cubo. La ragazza scosse il capo. «No. È tuo.» «Come ti chiami?» «Eli.» «Io mi chiamo Oskar. Hai detto che ti chiami Eli?» «... sì.» D'improvviso, la ragazza sembrava irrequieta. Girava lo sguardo a destra e a sinistra, come se stesse cercando di ricordare qualcosa, qualcosa che non riusciva a trovare. «Io... adesso devo andare.» Oskar annuì. La ragazza lo fissò per un paio di secondi, in piedi in cima allo scivolo. Esitò un attimo e poi scivolò giù e riprese a camminare, non in direzione del suo portone, ma verso la volta che portava fuori dal cortile. E poi sparì.
Oskar fissò il cubo nella sua mano. Incredibile. Girò una sezione di uno scatto, l'uniformità dei colori cambiò. Poi, la riportò nella posizione originale. Decise di tenerlo così. Per un po'. Tornando a casa dal cinema, Jocke Bengtsson se la rideva da solo. Il film era stato divertente. I due comici all'altezza della loro fama. Erano da sempre i suoi favoriti. La storia, un gruppo di amici in vacanza alle Canarie, era un'ottima idea. Sarebbe stato simpatico fare un viaggio simile insieme agli amici. Ma con chi sarebbe potuto andare? Karlsson era talmente noioso che dopo due giorni non sarebbe più riuscito a sopportarlo. Morgan, dal canto suo, quando beveva troppo diventava terribile e si sarebbe sicuramente ubriacato, visti i prezzi così bassi degli alcolici in quei posti. Larry era okay, ma era troppo decrepito, sarebbe rimasto seduto su una sdraio tutto il giorno. Non rimaneva che Lacke. Con lui avrebbe potuto divertirsi una settimana in vacanza. Ma il problema di Lacke era che non aveva un centesimo, era povero come un topo di sacrestia e non avrebbe mai potuto permettersi il viaggio. Passava ogni santa sera scroccando birre e sigarette. Niente di male per Jocke, ma non avrebbe mai avuto i soldi per pagare il viaggio. Non restava che accettare la realtà: nessuno della combriccola del ristorante cinese sarebbe stato un buon compagno di viaggio. Avrebbe potuto andarci da solo? Sì, Stig-Helmer lo aveva fatto. Anche se era un tipo timido. Laggiù aveva incontrato Ole. E poi si erano trovati due donnine, con tutto quello che ne segue. Non sarebbe stato male. Erano passati otto anni da quando Maria lo aveva lasciato portandosi via anche il cane, e da allora non aveva conosciuto più nessuno nel senso biblico della parola. Ma c'era qualcuno che avrebbe voluto stare insieme a lui? Dopotutto, non aveva un aspetto così orribile come quello di Larry. Anche se doveva ammettere che, a dispetto dei suoi sforzi per tenerlo sotto controllo, l'alcol stava prendendo la sua rivincita sul suo viso e sul suo corpo. Oggi, per esempio, non aveva ancora bevuto un goccio, ed erano ormai le nove. Adesso però, prima di andare al ristorante cinese, aveva deciso di tornare a casa a bersi due gin & tonic. L'idea del viaggio non era comunque da scartare. Forse, come per tutto il resto che aveva immaginato di fare negli ultimi anni, non se ne sarebbe fat-
to nulla. Ma non era proibito sognare. Si avviò lungo la strada del parco che si snodava fra Holbergsgatan e la scuola di Blackeberg. Era buio, i lampioni a circa trenta metri di distanza l'uno dall'altro non illuminavano molto, ma le luci accese del ristorante cinese, più in là, sulla sinistra, brillavano allettanti come quelle di un faro. Forse quella sera non avrebbe badato a spese. Sarebbe andato direttamente al ristorante e poi... ma sarebbe costato un bel po' di soldi. Gli altri avrebbero potuto credere che avesse vinto al lotto o qualcosa di simile, e se non avesse invitato tutti a bere avrebbero potuto pensare che fosse uno spilorcio. Meglio andare prima a casa a mettere le basi liquide per la serata. Una notte, tornando a casa ubriaco fradicio, aveva avuto le allucinazioni, aveva visto i camini staccarsi dai tetti delle case e scivolare verso di lui con un baccano infernale. Si era rannicchiato sulla strada con le mani sulla testa, aspettando l'impatto. Dopo qualche minuto, aveva visto che i camini erano ancora saldi sui tetti. La lampadina del lampione poco prima del sottopassaggio di Björnsonsgatan era fulminata, e quel tratto di strada era al buio. Se in quel momento fosse stato ubriaco, avrebbe probabilmente cambiato strada, avrebbe preso la scala a lato del ponte e imboccato Björnsonsgatan, anche se così avrebbe allungato il tragitto. Quando aveva bevuto troppo, vedeva cose strane nel buio. Per questo dormiva sempre con una lampada accesa. Ma ora era completamente sobrio. Aveva comunque una voglia matta di prendere la scala. Le visioni da ubriaco avevano iniziato a infiltrarsi nel suo subconscio anche se era sobrio. Si fermò, cercando di fare mente locale. «Sto iniziando a dare di testa.» Ma adesso, Jocke, le cose stanno così. Se non ti dai una scrollata e percorri quel piccolo tratto di strada sotto il ponte, non potrai mai andare in vacanza alle Canarie. Perché? Perché ti arrendi sempre davanti al minimo problema. La più piccola difficoltà, qualsiasi essa sia. Credi di poter riuscire a telefonare a un'agenzia di viaggio, rinnovare il tuo passaporto, comprarti quello che ti servirà per il viaggio e, in generale, avere il coraggio di avventurarti verso l'ignoto, se non riesci neppure a percorrere questo piccolo tratto di strada? È questo il punto. Se attraverserò il sottopassaggio, allora ce la farò an-
che ad andare alle Canarie, è così? Vuol dire che domani telefonerò e prenoterò il biglietto: Tenerife, Jocke, Tenerife. Riprese a camminare, la testa piena di spiagge assolate e drink sotto l'ombrellone. Sarebbe partito. Quella sera non sarebbe andato al ristorante cinese, no. Sarebbe rimasto a casa a studiare gli annunci delle agenzie di viaggio. Otto anni. Era arrivato il momento di darsi una mossa. Aveva appena iniziato a pensare alle palme. C'erano palme alle Canarie, come aveva visto in alcuni film? Una voce. Si fermò e rimase in ascolto. Una voce, quasi un gemito, echeggiò sotto la volta del ponte. «Aiutatemi...» I suoi occhi stavano abituandosi al buio, ma riusciva a distinguere soltanto i contorni dei mucchi di foglie che si erano accumulati sotto il ponte. Si sarebbe detta la voce di un bambino. «Hello? C'è qualcuno?» «Aiutatemi...» Jocke si guardò intorno. Non c'era una sola persona nelle vicinanze. Udì un fruscio nel buio, e riuscì a vedere un movimento in un mucchio di foglie. «Per favore, aiutatemi.» Jocke provò un forte impulso ad andarsene da lì. Ma, ovviamente, era impossibile. Un bambino aveva bisogno di aiuto, forse era stato aggredito... L'assassino! L'assassino di Vällingby era arrivato a Blackeberg, ma questa volta la vittima era sopravvissuta. Ah, dannazione. Non voleva essere coinvolto in una storia simile. Doveva andare alle Canarie a divertirsi. Ma non poteva farci niente. Fece alcuni passi in avanti in direzione della voce. Le foglie crepitavano sotto i suoi piedi e adesso poteva vedere il corpo. Era a terra, rannicchiato fra le foglie secche. Dannazione, dannazione. «Cosa è successo?» «Aiutami...» Gli occhi di Jocke si erano abituati al buio e poteva vedere il braccio bianco del bambino che sporgeva dalle foglie. Il corpo era nudo, con tutta probabilità violentato. No. Quando si avvicinò, vide che il corpo non era nudo, portava una maglia rosa. Quanti anni? Dieci, dodici. Forse era stato
picchiato da "amici". O era una bambina? Se fosse stato così, era improbabile. Jocke si accovacciò e gli prese la mano. «Cosa ti è successo?» «Aiutami. Tirami su.» «Sei ferito?» «Sì.» «Cosa è successo?» «Tirami su.» «È la schiena?» Quando aveva fatto il militare, Jocke era stato assegnato al corpo medico e sapeva che prima di spostare chi aveva avuto danni alla schiena o al collo bisognava immobilizzare la testa con un collare. «Non è la schiena?» «No. Tirami su.» Cosa diavolo poteva fare? Se avesse portato quel bambino a casa sua, la polizia avrebbe potuto pensare che... L'avrebbe portato al ristorante cinese, e da lì avrebbe chiamato un'ambulanza. Sì, avrebbe fatto così. Da quello che poteva vedere, il corpo disteso fra le foglie era esile, con tutta probabilità era una ragazzina, e anche se non era nella forma migliore Jocke era sicuro di potercela fare fino al ristorante. La distanza non era poi grande. «Okay. Ti porterò in un posto da dove potrò chiamare un'ambulanza.» «Sì... grazie.» Quel «grazie» gli toccò il cuore. Come avrebbe potuto esitare? Dopotutto, non era un pezzo di merda. No, adesso avrebbe aiutato quella ragazzina. Si chinò e infilò il braccio sinistro sotto le sue ginocchia e il destro sotto la nuca. «Okay. Adesso ti sollevo.» «Mmm.» La ragazza pesava poco o niente. La sollevò senza alcun problema. Venticinque chili al massimo. Forse era denutrita. Condizioni di famiglia difficili, anoressia. Forse era stata maltrattata da un padre alcolizzato. Era terribile. La ragazza gli mise le braccia intorno al collo e appoggiò la guancia sulla sua spalla. Jocke si sarebbe preso cura di lei. «Come stai?» «Bene.»
Jocke sorrise. Una sensazione di calore attraversò il suo corpo. A dispetto di tutto, era un buon essere umano. Immaginava le espressioni sui volti degli altri una volta entrato nel ristorante con la ragazza in braccio. Dapprima si sarebbero chiesti cosa avesse combinato, e poi lo avrebbero elogiato. «Bravo Jocke» e così via. Stava per avviarsi verso il ristorante cinese, fantasticando sulla sua nuova vita, sul primo passo che stava compiendo per risalire dal fondo, quando sentì un dolore alla gola. Cosa diavolo...? Era come se una vespa l'avesse punto e, istintivamente, avrebbe voluto alzare una mano per scacciarla, per sentire dove lo aveva punto. Ma non poteva lasciar andare la ragazza. Stupidamente, cercò di chinare il capo per vedere cosa fosse, anche se, naturalmente, non poteva farlo da quell'angolazione. Non poteva piegare la testa, perché la mascella della ragazza premeva contro il suo mento. La presa sulla sua nuca era più forte e il dolore più acuto. In quel momento capì. «Cosa diavolo stai facendo?» Sentiva che le mascelle della ragazza si muovevano in continuazione e il dolore aumentò. Un rivolo caldo iniziò a colare sul suo collo. «Smettila, per Dio!» La lasciò andare. Non era neppure un movimento consapevole, solo un riflesso: devo staccarla dal collo. Ma lei non cadde a terra. La sua presa intorno al collo diventò ferrea che forza incredibile per un corpo così esile - e le sue gambe si incrociarono intorno alla sua vita. Era avvinghiata a lui, e le sue mascelle continuavano a lavorare. Jocke afferrò la testa della ragazza e cercò di staccarsela dalla gola, ma era come cercare di staccare un grosso poliporo dalla corteccia di una betulla a mani nude. La ragazza sembrava incollata al suo collo. Il suo abbraccio era così forte da impedirgli di respirare. Jocke fece alcuni passi indietro annaspando. Le mascelle della ragazza avevano smesso di muoversi e ora si udiva soltanto il suono della sua bocca che ingurgitava lentamente. Da quando aveva iniziato a succhiare, la sua presa non si era allentata minimamente, anzi era aumentata. Uno scricchiolio sordo e il torace di Jocke fu attraversato da una fitta di dolore. Due delle sue costole si erano rotte. La mancanza d'aria gli impediva di urlare. Cercò di colpire la testa della ragazza barcollando tra le foglie. Le luci distanti dei lampioni del parco danzavano davanti ai suoi occhi come lucciole.
Perse l'equilibrio e cadde all'indietro. L'ultimo suono che udì fu quello delle foglie secche schiacciate dalla sua testa. Un secondo dopo, la sua testa sbatté sul selciato e il mondo sparì. Oskar era disteso sul suo letto completamente sveglio e fissava il soffitto. Aveva guardato con sua madre una puntata del Muppet Show alla tv, ma non era riuscito a seguire l'azione. Miss Piggy era arrabbiata e Kermit stava cercando Gonzo. Uno dei personaggi era caduto dal balcone. Oskar non era riuscito a capire perché, né come lo avesse fatto. In quel momento stava pensando ad altro. Poi avevano bevuto cioccolata calda e mangiato biscotti. Oskar si ricordava che avevano parlato, ma non di cosa. Qualcosa che aveva a che fare con la fodera del divano da cambiare, forse. Volse lo sguardo verso il muro. L'intera parete contro la quale era sistemato il suo letto era tappezzata con carta da parati che riproduceva un bosco. Grossi tronchi d'albero e foglie verdi. Oskar aveva l'abitudine di rimanere disteso cercando di immaginare delle figure tra le foglie più vicine alla sua testa. Due le individuava non appena iniziava quel gioco. Per trovare la terza doveva fare un certo sforzo. Ora la parete aveva assunto un significato diverso. Al di là del muro, al di là della foresta cioè... c'era Eli. Oskar mise la mano contro la superficie verde e cercò di immaginare cosa ci fosse dall'altra parte del muro. C'era la sua camera da letto? Era lì distesa? Trasformò la parete nella guancia di Eli, accarezzò le foglie verdi, la sua pelle liscia. Udì delle voci al di là del muro. Smise di passare la mano sulla carta da parati e rimase in ascolto. Una voce chiara e una più profonda. Dai toni si sarebbe detto che stavano litigando. Oskar mise l'orecchio contro il muro per sentire meglio. Maledizione. Se solo avesse avuto un bicchiere. Ma non osava alzarsi per andarlo a prendere, per timore che potessero smettere di parlare. Cosa stanno dicendo? Dal suo tono di voce si capiva che il padre di Eli era arrabbiato. La voce della ragazza si udiva appena. Oskar udì un paio di imprecazioni e un «... è terribilmente CRUDELE», poi udì un tonfo, come se qualcuno fosse caduto a terra. La stava picchiando? Era possibile che li avesse visti quando Oskar le aveva accarezzato la guancia?
Ora si udiva soltanto la voce di Eli. Oskar non riusciva ad afferrare una sola parola di quello che stava dicendo, udiva soltanto il suo dolce tono di voce cantilenante. Avrebbe parlato in quel modo se suo padre l'avesse veramente picchiata? Non doveva picchiarla. Se lo avesse fatto, Oskar lo avrebbe ucciso. Avrebbe voluto essere in grado di attraversare il muro, come Superman. Penetrare nella parete, attraversare il bosco e arrivare dall'altra parte per vedere cosa stava accadendo, per aiutare Eli, per... Ora al di là del muro era calato il silenzio. Oskar udiva soltanto i battiti del suo cuore echeggiare nell'orecchio. Poi udì un tintinnio lontano, sicuramente proveniente da un'altra stanza. Cosa stavano facendo? Trattenne il respiro. Poi un rumore secco, intenso. Uno sparo! Il padre aveva preso una pistola e... no, era la porta d'ingresso sbattuta. Oskar saltò giù dal letto e andò alla finestra. Alcuni secondi dopo, un uomo uscì dal portone. Il padre di Eli. In mano aveva una borsa e, camminando rapidamente, con passi nervosi raggiunse la volta e sparì. Cosa faccio? Lo seguo? Perché dovrei? Tornò a stendersi sul letto. Si era lasciato trasportare dall'immaginazione. Eli e suo padre avevano litigato e basta, a volte capitava anche a Oskar e sua madre. E più di una volta, quando il litigio era stato particolarmente aspro, anche sua madre era uscita di casa sbattendo la porta. Ma mai in piena notte. A volte, quando Oskar le rispondeva male, sua madre minacciava di andarsene e di lasciarlo solo. Oskar sapeva che non lo avrebbe mai fatto e sua madre sapeva che lui ne era consapevole. Forse, il padre di Eli aveva usato lo stratagemma della minaccia in maniera più plateale. Era uscito nel pieno della notte con una borsa. Oskar rimaneva disteso sul letto con la fronte contro la parete. Eli, Eli. Sei lì? Ti ha fatto del male? Sei triste? Eli... Udì bussare alla sua porta e sussultò. Per un folle attimo pensò che il padre di Eli fosse venuto per dargli una lezione. Ma era sua madre. «Oskar, stai dormendo?» «Mmm.» «Volevo solo dirti... hai sentito? I vicini...?» «No.» «Ma devi aver sentito. Urlava come un pazzo e ha sbattuto la porta.
Buon Dio. A volte sono felice di non avere un uomo in casa. Povera donna. L'hai mai vista?» «No.» «Neppure io. Sì, neppure lui comunque. Tengono le persiane abbassate tutto il giorno. Molto probabilmente sono degli alcolizzati.» «Mamma.» «Sì?» «Adesso voglio dormire.» «Scusami, caro. È solo che... Buonanotte. Sogni d'oro.» «Mmm.» Sua madre uscì chiudendo dolcemente la porta. Alcolizzati? Sì, era più che probabile. Il padre di Oskar era un alcolizzato, era per questo che lui e la mamma non stavano più insieme. Quando era ubriaco, anche suo padre aveva quegli scatti d'ira. Non picchiava mai, ma poteva urlare fino a diventare rauco, sbattere le porte e cose simili. Oskar appoggiò nuovamente la fronte alla parete. Eli, Eli. Io so che tu sei lì. Io ti aiuterò. Io ti salverò. Eli... Gli occhi erano spalancati, fissi sulla volta del ponte. Håkan smosse alcune foglie morte e la maglia rosa di Eli apparve sul torace dell'uomo. Håkan la prese e stava per annusarla, ma quando sentì sulle dita che era appiccicosa si fermò. Lasciò cadere la maglia sul corpo dell'uomo, prese la sua bottiglietta dalla tasca e bevve tre lunghi sorsi. Il calore dell'acquavite si sparse nella gola e nello stomaco. Quando si mise a sedere sul selciato, le foglie crepitarono. Fissò il volto del morto. C'era qualcosa di strano nella testa di quell'uomo. Håkan cercò nella borsa e prese la torcia elettrica. Controllò che nessuno fosse nelle vicinanze, accese la torcia e la puntò sul corpo steso a terra. Il suo volto era giallastro, la bocca semiaperta, come se avesse cercato di dire qualcosa. Håkan deglutì. Il solo pensiero che quell'uomo aveva avuto la possibilità di essere vicino al suo amore più di quanto lo fosse mai stato lui stesso lo disgustava. Mise la mano in tasca e la strinse intorno alla bottiglietta per bere, per attenuare quell'improvviso senso di angoscia, ma qualcosa lo fermò.
La gola. Intorno al collo dell'uomo c'era una specie di collare rosso. Håkan si chinò in avanti e vide la ferita che Eli gli aveva fatto per arrivare al sangue... Le sue labbra sulla pelle dell'uomo. ... ma questo non spiegava il collare... Håkan spense la torcia elettrica, respirò profondamente e si appoggiò alla parete della volta. Provava un senso inarrestabile di vertigine. La pelle intorno alla gola dell'uomo si era lacerata perché la sua testa era stata girata. Un giro intero. L'osso del collo era spezzato. Håkan chiuse gli occhi, cercò di respirare lentamente per calmarsi e per frenare l'impulso di fuggire, di scappare da quel luogo. Sopra di lui la volta del ponte, sotto il selciato. A destra e a sinistra la strada dalla quale sarebbero arrivate le persone che avrebbero telefonato alla polizia. E davanti a lui... È solo il cadavere di un uomo. Sì. Ma... la testa. L'idea che la testa potesse staccarsi lo angosciava. Se avesse sollevato il corpo, la testa sarebbe caduta all'indietro e forse sarebbe rotolata via. Si chinò in avanti e appoggiò la fronte sulle ginocchia. Era stato il suo amore a farlo. Con le sue mani. Immaginando il rumore, provò un senso di malessere. Il rumore secco quando aveva girato la testa. Non voleva più toccare quel corpo. Sarebbe rimasto seduto lì. Come Belaqua ai piedi della montagna del Purgatorio, aspettando l'alba, aspettando... Una coppia arrivava camminando dalla stazione della metropolitana. Håkan si distese tra le foglie, di fianco al corpo dell'uomo, la fronte contro il selciato gelido. Perché? Perché fargli questo alla testa? L'infezione. Non doveva raggiungere il sistema nervoso. Il corpo doveva sparire. Era tutto quello che gli aveva detto. Allora non aveva capito. Adesso sì. I passi si avvicinavano, le voci erano più distinte. Poi si allontanarono gradualmente. Avevano preso la scala. Håkan si mise a sedere, fissò il contorno del corpo dell'uomo, la bocca aperta. Se non lo eliminava, quel corpo si sarebbe rialzato, togliendosi le foglie di dosso? Una risata isterica gli uscì dalle labbra ed echeggiò sotto la volta del ponte. Portò una mano alla bocca e schiacciò con forza fino a provare una
fitta di dolore. L'immagine. L'immagine dell'uomo che si alzava e che, con movimenti sonnolenti, si spazzava via le foglie morte dalla giacca. Cosa poteva fare con quel corpo? Forse doveva eliminare un'ottantina di chili di muscoli, grasso e ossa. Triturarli. Farli a pezzi. Seppellirli. Bruciarli. Il crematorio. Naturalmente. Portare il corpo al crematorio, entrare forzando la porta e bruciarlo di nascosto. O lasciarlo semplicemente davanti all'ingresso come un neonato abbandonato e sperare che la loro voglia di cremare fosse così forte da far sì che non si curassero di telefonare alla polizia. No. C'era un'unica alternativa. La strada continuava attraverso la foresta fino all'ospedale. All'acqua. Infilò la maglia insanguinata sotto la giacca del cadavere, mise la borsa a tracolla e passò le mani sotto le ginocchia e la schiena dell'uomo. Si alzò, barcollando per un attimo. Come si era aspettato, la testa del cadavere si piegò all'indietro e le mascelle si chiusero con un click. Quanto distava l'acqua? Forse alcune centinaia di metri. E se fosse arrivato qualcuno? Allora non ci sarebbe stato niente da fare. Allora sarebbe stata la fine. In un certo qual modo sarebbe stato un sollievo. Ma non arrivò nessuno e lui raggiunse il bordo dell'acqua fradicio di sudore, fermandosi tra due grossi salici piangenti i cui rami accarezzavano la superficie dell'acqua. Cercò due grosse pietre e le assicurò alle caviglie del cadavere con due pezzi di fune. Strisciò ansimando con il corpo sul tronco curvo di uno dei salici, prese un pezzo di fune più lungo e lo annodò intorno al torace dell'uomo facendo un nodo scorsoio. Poi, lo calò nell'acqua e liberò la fune. Rimase seduto un attimo sul tronco con i piedi penzolanti poco sopra la superficie dell'acqua fissando i piccoli cerchi delle bollicine che si formavano con sempre minore frequenza. C'era riuscito. A dispetto dell'aria gelida, le gocce di sudore continuavano a scendere dalla sua fronte e tutto il corpo pulsava di dolore per lo sforzo che aveva fatto, ma c'era riuscito. Sotto i suoi piedi, c'era un corpo nascosto al mondo. Non esisteva. Le bollicine avevano smesso di salire alla superficie... niente indicava che lì sotto c'era un cadavere. Alcune stelle si specchiavano sull'acqua.
PARTE SECONDA L'umiliazione ...e si avviarono verso luoghi dove Martin non era mai stato, lontano da Tyska Botten, da Blackeberg - e quello era il limite del mondo conosciuto. HJALMAR SÖDERBERG, La giovinezza di Martin Birck Ma colui a cui una ninfa dei boschi ruba il cuore non si rimetterà mai più. La sua anima agognerà per sogni al chiaro di luna e non potrà mai amare un suo pari... VIKTOR RYDBERG, La ninfa dei boschi La domenica, i giornali pubblicarono un resoconto più dettagliato dell'omicidio di Vällingby. Uno dei titoli diceva: «VITTIMA DI OMICIDIO RITUALE?» Seguiva una fotografia del ragazzo, della radura, dell'albero. Ma l'assassino di Vällingby ormai non era più il tema di conversazione sulle labbra di tutti. Nella radura, i mazzi di fiori erano appassiti e le candele consumate. I nastri di delimitazione della polizia erano stati tolti, tutte le tracce che si potevano trovare erano state trovate. Gli articoli dei giornali della domenica avevano fatto riprendere le discussioni. La definizione di «omicidio rituale» lasciava intendere che un atto simile era destinato a ripetersi. Non era forse così? Un rituale è qualcosa che viene ripetuto. Chiunque avesse percorso quel sentiero o fosse stato nelle vicinanze aveva qualcosa da raccontare. Quella parte della foresta era orribile. Oppure era tranquilla e gradevole e non si poteva certo immaginare che... Tutti quelli che avevano conosciuto il ragazzo, anche se superficialmente, affermavano che era un giovane gentile e educato, e l'assassino doveva essere un mostro. L'omicidio era diventato l'esempio del crimine da punire con la pena di morte, anche per chi è contrario alla pena capitale. Mancava una sola cosa. La fotografia dell'assassinò. La gente fissava la radura che non aveva niente di particolare, il volto sorridente del ragazzo. In mancanza della fotografia della persona che aveva commesso il delitto, era... semplicemente successo. Non era abbastanza.
Lunedì 26 ottobre, la polizia aveva comunicato alla radio di avere sequestrato la più grande partita di droga della storia in Svezia. Cinque libanesi erano stati arrestati. Libanesi. Questo era un avvenimento comprensibile. Cinque chili di eroina. E cinque libanesi. Un chilo per libanese. Oltretutto, mentre erano impegnati nel traffico di droga, i cinque libanesi avevano anche approfittato del sistema sociale svedese. A dire il vero sui giornali non era apparsa alcuna fotografia dei cinque, ma non ce n'era bisogno. Tutti sanno che aspetto hanno i libanesi. Sono arabi, no? Diverse persone avevano anche iniziato a pensare che l'assassino potesse essere uno straniero. Sembrava un'ipotesi credibile. Dopotutto, nei paesi arabi non si usano forse certi rituali di sangue? Islam. Mandavano avanti i loro bambini con qualcosa intorno al collo. Per sminare i campi. Lo avevano sentito dire. Gente crudele. Iran, Irak, Libano. Ma il lunedì la polizia rilasciò un identikit dell'assassino che fu pubblicato sui giornali. Una ragazza lo aveva visto. La polizia aveva avuto il modo di dargli un volto. Un comune svedese. Con un aspetto spettrale. Uno sguardo vuoto. Ma tutti erano d'accordo su un punto. Sì, aveva la faccia di un assassino. Non era difficile immaginare quel volto, quella maschera nascosta fra i cespugli della radura in attesa di... Tutti gli uomini con la ben che minima somiglianza con il ritratto pubblicato erano costretti a sopportare lunghi sguardi sospettosi. Tornati a casa, si guardavano allo specchio e non vedevano alcuna somiglianza. Alla sera, a letto si chiedevano se avrebbero dovuto cambiare il proprio aspetto in qualche modo, ma poi si dicevano che il cambiamento sarebbe apparso ancora più sospetto. Ma presto non avrebbero più dovuto preoccuparsi. La gente avrebbe avuto altro a cui pensare. Una nazione insultata. Era la parola che tutti usavano: oltraggiata. Mentre le persone che assomigliavano all'uomo dell'identikit rimanevano nei loro letti pensando a un taglio di capelli diverso, un sottomarino sovietico si era incagliato nelle acque non lontano da Karlskrona. Mentre cercava di liberarsi, il rombo dei suoi motori era echeggiato distintamente fra le isole dell'arcipelago. Ma nessuno si era preso la briga di andare a investigare. Sarebbe stato scoperto per caso il mercoledì mattina.
Mercoledì 28 ottobre A scuola la voce si propagò in un baleno. Un insegnante che aveva ascoltato la radio durante l'intervallo del mattino ne aveva parlato ai suoi allievi. Alla pausa pranzo, tutta la scuola ne era al corrente. Erano sbarcati i russi. Durante l'ultima settimana, il principale argomento di conversazione fra i ragazzi era stato l'assassino di Vällingby. Diversi di loro dicevano di averlo visto, qualcuno sosteneva persino di essere stato attaccato da quell'uomo. Qualsiasi individuo dall'aria sospetta che passava nei pressi della scuola diventava l'assassino. Quando un uomo anziano e trasandato era entrato nel cortile della scuola, i più giovani erano scappati urlando, rifugiandosi all'interno. Alcuni dei ragazzi più grandi si erano armati di mazze da hockey pronti a colpirlo. Fortunatamente qualcuno lo aveva riconosciuto, era uno degli alcolizzati che frequentavano il parco, e l'uomo se l'era cavata. Ma ora il tema erano i russi. Nessuno degli allievi sapeva molto dei russi. Vincevano sempre a hockey su ghiaccio. Si chiamava Unione Sovietica. Loro e gli americani mandavano uomini nello spazio. Gli americani avevano costruito la bomba a neutroni per difendersi dai russi. Durante la pausa pranzo, Oskar stava discutendone con Johan. «Credi che anche i russi abbiano la bomba a neutroni?» Johan scrollò le spalle. «Sicuramente. Forse è su quel sottomarino.» «Ma non ci vogliono i bombardieri per sganciare la bomba?» «No. Ci sono quei missili che possono arrivare da qualsiasi parte.» Oskar alzò lo sguardo al cielo. «Si può averne anche su un sottomarino?» «Certamente. I missili possono essere piazzati dovunque.» «Con quella bomba, la gente muore e le case rimangono intatte.» «Proprio così.» «Chissà cosa succede agli animali.» Johan rifletté un attimo. «Anche loro muoiono. I più grandi in ogni caso.» Erano seduti sul bordo del box della sabbia, in quel momento non c'erano bambini piccoli che giocavano. Johan prese un sasso e lo gettò nella sabbia.
«Bumm! Tutti morti.» Oskar prese un sasso più piccolo. «No! C'è un superstite! Pshiummm! Un missile nella schiena.» Continuarono a gettare sassi e terriccio, distruggendo tutte le città della terra, finché non udirono una voce dietro di loro. «Cosa diavolo state facendo?» Si girarono. Jonny e Micke. Era stato Jonny a parlare. Johan lasciò cadere il sasso che aveva in mano. «Stavamo soltanto...» «Ho forse chiesto a te, maiale? Cosa state facendo?» Johan aveva fatto un passo indietro e faceva finta di allacciarsi le scarpe. «Per... così per niente.» Jonny fissò il box della sabbia e poi batté le mani. Johan sussultò. «Qui ci giocano i bambini piccoli. Lo capisci? Gli hai rovinato la sabbia.» Micke scosse il capo con aria triste. «Possono inciampare e farsi male con i sassi.» «Adesso tu, maiale, li raccogli a uno a uno.» Johan continuava a far finta di essere occupato con le sue scarpe. «Hai sentito quello che ti ho detto? Raccogli quei sassi.» Oskar rimase immobile, senza sapere cosa fare. Naturalmente, Jonny se ne fregava del box della sabbia. Era la solita vecchia storia. Ci sarebbero voluti dieci minuti per raccogliere tutti i sassi e Johan non lo avrebbe aiutato. La campanella avrebbe suonato da un momento all'altro. No. La parola colpì Oskar come un'apparizione. Come quando qualcuno dice la parola "Dio" per la prima volta e ha voluto proprio dire "Dio". L'immagine di se stesso che raccoglieva i sassi dopo che gli altri se ne erano andati, soltanto perché Jonny glielo aveva ordinato, passò rapidamente davanti ai suoi occhi. Ma c'era qualcos'altro. Poco distante c'era un castello di tubi simile a quello del cortile di casa. Oskar scosse il capo. «Cosa hai detto?» «No.» «Come sarebbe no? Sei diventato duro d'orecchio? Io ti ho detto di raccogliere quei sassi e tu devi farlo.» «NO.» Suonò la campanella. Jonny rimase immobile fissando Oskar.
«Hai sentito Micke?» «Sì.» «Lo prenderemo dopo, finita la scuola.» «Ci vediamo, maiale» disse Micke Jonny e Micke se ne andarono. Johan si rialzò. «Sei stato maledettamente stupido.» «Lo so.» «Perché diavolo lo hai fatto?» «Perché...» Oskar guardò il castello di tubi. «Perché è così e basta.» «Idiota.» «Sì.» Quando la scuola finì, Oskar rimase nell'aula. Pose due fogli sul banco, andò a prendere l'enciclopedia dallo scaffale in fondo e iniziò a sfogliare. Mammut... Medici... Mongolia... Morfeo... Morse Ecco, trovato. Punti e trattini dell'alfabeto Morse occupavano un quarto di pagina. Cominciò a copiare il codice sul primo foglio scrivendo grandi lettere ben leggibili: A=.-B=-...C=-.-. e così via. Quando finì, ripeté l'operazione sul secondo foglio. Non era soddisfatto. Accartocciò il foglio. Ne prese un altro e ricominciò da capo. Si sforzò di scrivere le lettere in stampatello con la sua migliore calligrafia. In verità bastava che uno solo dei fogli fosse scritto bene: quello che avrebbe dato a Eli. Ma quel lavoro lo divertiva e gli dava un motivo per rimanere nell'aula. Quella settimana si era incontrato con Eli ogni sera. Il giorno prima, aveva provato a battere sulla parete ed Eli aveva risposto. Poi erano usciti contemporaneamente. Oskar aveva avuto l'idea di creare un metodo per comunicare, e dato che l'alfabeto Morse esisteva già... Controllò i fogli che aveva finito. Ottimo. A Eli sarebbe sicuramente piaciuto. Proprio come Oskar, anche Eli amava i puzzle, i sistemi. Piegò i fogli, li mise nello zainetto e rimase con le braccia appoggiate al ripiano del banco. Aveva fame. L'orologio sopra la cattedra segnava le tre e venti. Prese un libro di storia e lo lesse fino alle quattro. Non lo avrebbero certo aspettato per due ore, giusto? Se avesse raccolto i sassi dal box della sabbia, a quell'ora sarebbe stato a casa. Raccogliere dei piccoli sassi non era certamente la cosa peggiore che era stato costretto a fare. Si pentiva di non averlo fatto.
E se lo facessi adesso? Il giorno dopo, se avesse detto che si era fermato alla fine delle lezioni per ripulire il box, forse la punizione sarebbe stata meno dura... Raccolse le sue cose, lasciò l'aula e andò al box. Dieci minuti sarebbero stati sufficienti per rimetterlo a posto. Quando glielo avrebbe raccontato il giorno dopo, Jonny si sarebbe messo a ridere, gli avrebbe dato un colpetto sulla testa dicendogli «sei stato bravo piccolo maiale» o qualcosa di simile. Ma era meglio in qualsiasi caso. Gettò un'occhiata al castello di tubi, posò lo zainetto vicino alla sabbia e iniziò a raccogliere i sassi. Prima i più grandi. Londra, Parigi. Mentre li raccoglieva, giocava mentalmente a salvare il mondo. Lo ripuliva dalle terribili bombe ai neutroni. Quando alzava i sassi, i sopravvissuti correvano verso le rovine delle loro case come formiche verso un formicaio. Ma le bombe ai neutroni non distruggevano le case. Be', erano state lanciate anche diverse bombe atomiche. Quando si alzò per portare fuori dal box una manciata di sassi, se li vide davanti. Impegnato com'era nel suo gioco, non li aveva sentiti arrivare. Jonny, Micke. E Tomas. In mano avevano tre rami di betulla lunghi e sottili. Fruste. Jonny indicò un sasso con la sua frusta. «Lì ce n'è uno.» Oskar posò a terra i sassi che aveva in mano e raccolse quello che aveva indicato Jonny. «Bene. Ti aspettavamo, maiale. Ti abbiamo aspettato per un bel po'.» «Poi è arrivato Tomas e ci ha detto che eri qui.» Lo sguardo di Tomas era senza espressione. Alle elementari, Oskar e Tomas erano stati amici e avevano giocato spesso insieme. Poi Tomas era cambiato. Aveva iniziato a parlare in modo diverso, più adulto. Oskar sapeva che gli insegnanti lo consideravano il più intelligente della classe. Si capiva dal modo in cui gli parlavano. Aveva un computer. Voleva diventare insegnante. Oskar avrebbe voluto gettargli in faccia il sasso che aveva in mano. In quella sua bocca che ora si era aperta e parlava. «Perché non ti metti a correre? Dai, mettiti a correre.» Udì il sibilo della frusta che Jonny aveva alzato in aria. Oskar strinse la mano intorno al sasso. Perché non mi metto a correre? Immaginava già il dolore intenso sulle gambe quando la frusta lo avrebbe colpito. Se fosse riuscito a raggiungere il parco, sicuramente ci sarebbe-
ro stati degli adulti a passeggio e i tre non avrebbero osato frustarlo. Perché non mi metto a correre? Perché sapeva di non avere scampo. Prima che avesse potuto fare cinque passi, lo avrebbero raggiunto e gettato a terra. «Lasciatemi andare.» Jonny si girò come se non lo avesse sentito. «Cosa hai detto, maiale?» «Lasciatemi andare.» Jonny si rivolse a Micke. «Ha detto di lasciarlo andare.» Micke scosse il capo. «E noi che abbiamo fatto delle così belle...» disse agitando la sua frusta. «Tu cosa ne pensi, Tomas?» Tomas fissò Oskar come se fosse un topo ancora vivo che si dimenava per liberarsi dalla trappola. «Io penso che il maiale ha bisogno di un po' di frustate.» Erano in tre. Avevano le fruste. Era una situazione assolutamente ingiusta. Avrebbe dovuto gettare il sasso in faccia a Tomas. Oppure colpirlo con il sasso se si fosse avvicinato. Sarebbe stato chiamato dal preside e tutto il resto. Ma il preside avrebbe capito. Tre contro uno. E con le fruste. Io ero... disperato. Non era per niente disperato. Al contrario, ora che aveva deciso, oltre alla paura provava una specie di calma. Potevano frustarlo, e questo gli avrebbe dato motivo di scagliare il sasso in faccia a Tomas. Jonny e Micke fecero un passo in avanti. Jonny lo colpì alla coscia. Il dolore pungente lo fece piegare in due. Micke si portò alle sue spalle e gli bloccò le braccia lungo il corpo. No. Ora non avrebbe più potuto lanciare il sasso. Jonny lo colpì nuovamente alle gambe, si girò su se stesso come Robin Hood e lo colpì ancora. Il colpo ebbe l'effetto di un ferro incandescente sulla pelle della sua gamba. Oskar si dimenò, ma non riuscì a liberarsi dalla presa di Micke. Gli vennero le lacrime agli occhi. Urlò. Jonny gli diede un'ultima frustata che sfiorò la gamba di Micke. «Maledizione, stai attento!» disse senza lasciare la presa. Una lacrima scese lungo la guancia di Oskar. Non era giusto! Aveva raccolto i sassi, si era inchinato alla loro volontà, perché dovevano fargli male?
Lasciò cadere il sasso che aveva continuato a tenere stretto in mano e si mise a piangere senza ritegno. «Il maiale piange» disse Jonny con tono compassionevole. Sembrava soddisfatto. Per questa volta aveva finito. Fece un cenno a Micke di lasciare la presa. Il corpo di Oskar era scosso dal pianto, dal dolore alle gambe. Quando alzò il volto, i suoi occhi erano pieni di lacrime e udì la voce di Tomas. «E io, allora?» Micke bloccò nuovamente le braccia di Oskar, e attraverso la nebbia che gli copriva gli occhi Oskar vide Tomas avvicinarsi e lo implorò. «Non farlo. Per favore.» Tomas alzò la frusta e colpì. Una sola volta. Il volto di Oskar esplose, si divincolò con tale forza da liberarsi dalla presa di Micke. «Al diavolo Tomas. Quello non era...» «Adesso con sua madre ci parli tu» disse Jonny adirato. Oskar non udì la risposta di Tomas. Le loro voci si allontanarono, lo lasciarono disteso con una guancia sulla sabbia. La guancia sinistra gli bruciava. La sabbia era fredda e attenuava il bruciore alla gamba. Avrebbe voluto girarsi e mettere anche la guancia sinistra sulla sabbia, ma capì che non era una buona idea. Rimase disteso a lungo finché non iniziò a rabbrividire per il freddo. Allora si mise a sedere e posò la mano sulla guancia. Sulle sue dita c'era sangue. Andò in bagno e si guardò allo specchio. La guancia era gonfia e coperta da sangue raggrumato. Tomas aveva colpito con tutta la sua forza. Oskar si lavò la guancia e si guardò nuovamente allo specchio. La ferita aveva smesso di sanguinare, non era profonda. Ma si allungava su tutta la guancia. La mamma. Cosa le dirò... La verità. Aveva bisogno di conforto. Fra un'ora sua madre sarebbe tornata a casa. Allora le avrebbe raccontato quello che gli avevano fatto e la mamma avrebbe pianto e lo avrebbe abbracciato e tenuto stretto e sarebbe rimasto fra le sue braccia, e avrebbero pianto insieme. Poi, la mamma avrebbe telefonato alla mamma di Tomas. Poi, la mamma avrebbe telefonato alla mamma di Tomas e avrebbero litigato e dopo la mamma si sarebbe rimessa a piangere dicendo che la mamma di Tomas era stata cattiva... La lezione di falegnameria.
Aveva avuto un incidente durante la lezione. No. La mamma avrebbe telefonato all'insegnante. Oskar studiò la ferita allo specchio. Come ci si procurava una ferita simile? Era scivolato sul castello di tubi. Non avrebbe funzionato, ma comunque la mamma gli avrebbe creduto. Lo avrebbe comunque commiserato e confortato, ma avrebbe evitato tutto il resto. Il castello di tubi. Sentì freddo all'inforcatura dei pantaloni. Li sbottonò e li tirò giù. Le mutande erano fradicie. Prese il salvapipì e lo risciacquò. Stava per rimetterlo a posto, ma si fermò e si guardò allo specchio. Oskar. Quello lì è... Oskar. Prese il salvapipì risciacquato e se lo mise sul naso. Come il naso di un clown. La palla gialla e la ferita rossa sulla guancia. Oskar. Spalancò gli occhi, cercò di sembrare pazzo. Sì. Aveva un'aria orribile. Parlò al clown allo specchio. «Adesso basta. Adesso è finita. Mi senti? Adesso basta.» Il clown non rispose. «Non lo accetterò più. Non una sola volta, mi senti?» La sua voce echeggiava nel bagno deserto. «Cosa devo fare? Cosa devo fare, secondo te?» Contorse il suo volto in una smorfia facendo pulsare la ferita, falsando la sua voce per renderla più rauca e più bassa. Il clown parlò. «... devi ucciderli... ucciderli... ucciderli...» Oskar rabbrividì. Era veramente orribile. Era come se la voce, il volto allo specchio non fossero i suoi. Tolse il salvapipì dal naso e lo mise di nuovo nelle mutande. L'albero. Non perché ci credesse veramente, ma... avrebbe pugnalato l'albero. Forse. Forse. Se si fosse veramente concentrato, allora... Forse. Andò a prendere lo zainetto e si affrettò verso casa, la testa piena di immagini meravigliose. Quando sente il primo colpo, Tomas è seduto davanti al suo computer. Non capisce da dove venga. Barcolla fino alla cucina con il sangue che gli sgorga dal ventre: «Mamma, mamma, qualcuno mi sta pugnalando.» La madre di Tomas sarebbe rimasta immobile. La madre di Tomas che lo difendeva sempre qualsiasi cosa facesse. Sarebbe rimasta immobile. Terrorizzata. Mentre i fendenti avrebbero continuato a squarciare il corpo di Tomas.
Tomas cade sul pavimento in una pozza di sangue, «... mamma... mamma...» e il coltello invisibile gli squarcia il ventre e le sue viscere si spargono sul linoleum. Non che funzionasse così. Comunque. L'appartamento puzzava di urina di gatto. Giselle era sulle sue ginocchia e faceva le fusa. Bibi e Beatrice si stavano rotolando sul pavimento. Come sempre, Manfred era fermo con il naso contro il vetro della finestra mentre Gustaf cercava di attirare la sua attenzione spingendo la testa contro il suo fianco. Måns, Tufs e Cleopatra erano distesi pigramente sulla poltrona; Tufs si divertiva a tirare con la zampa alcuni fili della fodera allentati. Karl-Oskar spiccò un balzo per raggiungere il davanzale della finestra, ma aveva calcolato male la distanza e cadde all'indietro sul pavimento. Karl-Oskar era cieco da un occhio. Lurvis era disteso in ingresso con gli occhi fissi sulla buca delle lettere, pronto a fare un balzo per fare a pezzi gli eventuali opuscoli pubblicitari. Vendela era appollaiata sulla rastrelliera per i cappelli e osservava Lurvis, la sua zampa destra deformata pendeva dall'intelaiatura contraendosi di tanto in tanto. Alcuni gatti erano in cucina intenti a mangiare o a digerire distesi sul tavolo e sulle sedie. Altri cinque erano sdraiati nella camera da letto. Alcuni avevano invece scelto come posticino preferito l'armadio o cassetti che avevano imparato ad aprire da soli. Da quando Gösta aveva smesso di farli uscire, per via delle proteste dei vicini, non c'era stato un ricambio genetico. La maggior parte delle cucciolate venivano alla luce morte o gravemente deformi e morivano entro pochi giorni. Circa la metà dei ventotto gatti che vivevano nell'appartamento di Gösta aveva qualche malformazione. Erano ciechi o sordi, avevano perso denti o avevano problemi motori. Gösta li amava tutti. Accarezzò Giselle dietro l'orecchio. «Sì... piccola mia... cosa possiamo fare? Non lo sai? Be', neppure io lo so. Ma dobbiamo fare qualcosa, non è così? Non possiamo andare avanti così. Era Jocke. Io lo conoscevo. E adesso è morto. Ma nessuno lo sa. Perché loro non hanno visto quello che ho visto io. Tu lo hai visto?» Gösta chinò il capo e sussurrò.
«È stato un bambino. L'ho visto arrivare giù per la strada. Aspettava Jocke. Sotto il ponte. Jocke è arrivato lì... e non è più uscito. Poi, al mattino non c'era più. Ma è morto. Io lo so. Cosa? No. Non posso andare dalla polizia. Mi faranno domande. Ci saranno un sacco di persone e mi chiederanno perché non ho detto niente. Mi sbatteranno quella lampada davanti alla faccia. Sono passati tre giorni adesso. O quattro. Non lo so. Che giorno è oggi? Mi faranno domande. Non posso. Ma dobbiamo fare qualcosa. Cosa possiamo fare?» Giselle alzò la testa e lo sguardo. Poi iniziò a leccargli la mano. Quando Oskar tornò a casa dalla foresta, la lama del coltello era sporca di schegge di legno marcio. La lavò sotto il rubinetto in cucina. Dopo averla asciugata, ne inumidì un lato con l'acqua fredda e lo appoggiò sulla guancia. Sua madre sarebbe tornata a casa presto. Doveva uscire e rimanere fuori ancora un po', guadagnare tempo - aveva ancora le lacrime in gola, le gambe gli bruciavano. Prese la chiave dal cassetto della cucina, scrisse un biglietto: «Torno presto. Oskar». Poi ripose il coltello nel nascondiglio e scese in cantina. Aprì la pesante porta e scivolò all'interno. L'odore della cantina. Gli piaceva. Un odore rassicurante di legno, vecchie cose e chiuso. La poca luce che filtrava dalle strette finestre al livello della strada ne faceva intuire nella penombra i segreti, i tesori nascosti. Alla sua sinistra c'era una sezione oblunga con quattro cantine. Le pareti erano di legno, così come le porte chiuse da lucchetti di grandezze diverse. Una delle porte aveva una doppia serratura, probabilmente in seguito a un tentativo di furto. Sulla parete di legno in fondo alla sezione, qualcuno aveva scritto KISS con un pennarello. Le S erano state tracciate come Z rovesce. Ma il luogo più interessante si trovava dalla parte opposta. Il deposito dei rifiuti riciclabili e ingombranti. Lì, fra le altre cose, oltre a un buon numero di vecchi numeri di Hulk, Oskar aveva trovato un mappamondo con lampada funzionante che ora era nella sua camera. Ma oggi non c'era quasi niente. Dovevano averlo svuotato di recente. Un paio di pacchi di giornali, alcuni raccoglitori con le scritte «Inglese» e «Svedese» sul dorso. Oskar aveva raccoglitori a sufficienza. Un paio di anni prima ne aveva salvati un buon numero dal cassonetto di fianco alla tipografia. Camminò nel seminterrato, fino alla porta di quello del condominio a-
diacente, quello di Tommy. Aprì il lucchetto ed entrò. Questa cantina aveva un odore diverso, un vago odore di vernice e solvente. Lì c'era anche il rifugio antiaereo per l'intero complesso di case. C'era stato una sola volta, tre anni prima, quando uno dei ragazzi più grandi lo aveva usato come club di boxe. Un pomeriggio, Tommy lo aveva portato nel locale a guardare. I ragazzi stavano allenandosi con i guantoni da boxe e Oskar aveva avuto un po' di paura. I grugniti, il sudore, i corpi tesi e concentrati, il suono dei colpi attutito dalle spesse pareti di cemento. Poi qualcuno si era fatto male o qualcosa di simile, e il volantino della porta blindata era stato bloccato con una catena e un grosso lucchetto. Fine del club di boxe. Oscar accese la luce e passò accanto al rifugio. Se fossero arrivati i russi, sarebbe stato necessario aprire il lucchetto. A meno che non abbiano perso la chiave. Arrivato davanti alla porta massiccia, Oskar si era fermato colto da un pensiero. E se qualcuno... qualcuno fosse rimasto chiuso dentro? Rimase in ascolto. Rumori lontani provenivano dalla strada e da persone che stavano muovendosi nell'appartamento al piano di sopra. I locali della cantina gli piacevano veramente. Era come essere altrove, sapendo allo stesso tempo che, in caso di bisogno, al di fuori o al di sopra c'era un altro mondo. Ma laggiù c'era il silenzio e nessuno veniva a dirgli qualcosa, o a fargli del male. Nessuno poteva costringerlo a fare qualcosa. Sul lato opposto del rifugio c'era il locale del club. Territorio proibito. In verità, non c'era una serratura, ma questo non significava che potesse entrarci chiunque. Oskar respirò profondamente e aprì la porta. All'interno non c'era molto. Un divano mezzo sfondato e una poltrona nelle stesse condizioni. Sul pavimento un tappeto. Una scrivania con la vernice scrostata. Dalla lampada nel corridoio pendeva un filo elettrico che alimentava una lampadina nuda appesa al soffitto. Era spenta. Oskar era già stato laggiù un paio di volte e sapeva che bastava avvitarla per accenderla. Ma non osava. La luce che filtrava dalle fessure fra le assi era più che sufficiente. Il suo cuore batteva più rapidamente. Se lo avessero trovato lì, avrebbero... Cosa? Non lo sapeva. E questo era il peggio. Non lo avrebbero picchiato, ma... Si mise in ginocchio sul tappeto, sollevò un cuscino del divano. Sotto c'erano alcuni tubetti di colla, un rotolo di sacchetti di plastica, una ricarica di gas per accendini. Sotto il cuscino nell'angolo opposto c'erano delle riviste pornografiche chiaramente sfogliate dozzine di volte.
Oskar ne prese una e si spostò vicino alla porta per vedere meglio. Si mise in ginocchio e iniziò a sfogliarla. Aveva la bocca secca. La donna nella fotografia era seduta su una sedia a sdraio e indossava soltanto un paio di scarpe dai tacchi alti. Teneva le mani sotto i seni e le labbra chiuse sporte in avanti. Aveva le gambe aperte e nel mezzo del cespuglio di peli si vedeva una striscia di carne rosa con nel mezzo una scanalatura. Come si fa a entrare lì dentro? Ricordava le parole dalle conversazioni che aveva sentito e dalle scritte che aveva letto. Figa. Il buco. Le labbra. Ma non c'era nessun buco. Solo quella scanalatura. A scuola aveva seguito le lezioni di educazione sessuale e sapeva che doveva esserci un tunnel per entrare nella vagina. Ma in che direzione? Dritto in avanti o in su... non si capiva. Continuò a sfogliare. I racconti personali dei lettori. Una piscina. Lo spogliatoio delle ragazze. I capezzoli premevano sotto il costume da bagno. Sotto il costume, il mio cazzo pulsava come un martello pneumatico. Lei afferrò i ganci per gli abiti e agitò il suo sedere: «Infilamelo dentro, infilamelo dentro.» Lo facevano sempre? In luoghi dove non li potevano vedere? Aveva iniziato a leggere un altro racconto, parlava di una riunione di parenti che aveva preso una piega inaspettata, quando udì la porta della cantina. Chiuse la rivista, la mise sotto il cuscino incerto su cosa fare. Il suo cuore batteva all'impazzata, non osava respirare. Buon Dio, fa' che non vengano. Fa' che non vengano. Mise le mani sulle ginocchia, strinse i denti fino a provare dolore. La porta si aprì e Tommy entrò nel locale. «Cosa diavolo?» Oskar avrebbe voluto dire qualcosa, ma le sue mascelle erano bloccate. Rimase dov'era, inginocchiato sul tappeto illuminato dal triangolo di luce che filtrava dalla porta aperta, respirando dal naso. «Cosa diavolo ci fai qui? Cosa hai fatto, lì?» Quasi senza muovere le mascelle, Oskar riuscì a bisbigliare: «... niente.» Tommy fece un passo in avanti e si mise di fronte a Oskar. «Sulla guancia voglio dire? Cosa ti sei fatto?» «Io... niente.» Tommy scosse il capo, avvitò la lampada e la luce si accese, poi chiuse la porta. Oskar si alzò in piedi, si mise al centro del locale, le braccia tese lungo i fianchi, incerto su cosa fare. Fece un passo verso la porta. Tommy si mise a sedere sul divano con un sospiro e gli fece cenno di fare altrettan-
to. «Siediti.» Oskar si sedette sul cuscino al centro sotto il quale non c'era nulla. Tommy rimase in silenzio un istante, fissandolo, poi disse: «Allora? Racconta.» «Cosa?» «Cosa hai fatto alla guancia.» «... io... io ho solo...» «Qualcuno ti ha frustato, non è così? No?» «... sì...» «Perché?» «Non lo so» «Cosa stai dicendo. Ti picchiano senza motivo?» «Sì.» Tommy annuì, tirò alcuni fili che pendevano dal bracciolo del divano. Prese una scatoletta rotonda di tabacco da masticare, ne mise una porzione sotto il labbro superiore e poi offrì la scatola a Oskar. «Ne vuoi?» Oskar scosse il capo. Tommy rimise la scatoletta in tasca, si aggiustò il tabacco con la lingua, appoggiò la schiena sul divano e incrociò le mani sullo stomaco. «Bene. E cosa ci fai qui?» «Volevo soltanto...» «Dare un'occhiata alle fotografie delle ragazze? Non è così? Non hai mica iniziato a sniffare, eh? Vieni qui.» Oskar si alzò e si avvicinò. «Vieni più vicino. Voglio sentire il tuo alito.» Oskar ubbidì e Tommy annuì e gli fece segno di sedersi di nuovo. «Non devi toccare quella roba, hai capito?» «Io non ho...» «No, non lo hai fatto. Ma non devi toccare quella roba, ti ho detto. È solo merda. Se vuoi, usa il tabacco.» Tommy fece una pausa. «Be'? Hai intenzione di stare qui a fissarmi tutta la sera?» Indicò il cuscino sul quale Oskar era seduto. «O vuoi leggere ancora un po'?» Oskar scosse il capo. «Bene. Torna a casa, allora. Gli altri stanno per arrivare, non credo che sarebbero contenti di vederti. Vai a casa, adesso.» Oskar si alzò.
«E...» Tommy lo fissò, scosse il capo, sospirò. «No, non era niente. Vai a casa adesso. Ah, un'altra cosa. Non venire mai più qui.» Oskar annuì, aprì la porta e si fermò. «Scusami.» «Nessun problema. Ma non tornare mai più. Ah, e i soldi?» «Me li danno domani.» «Okay. Ti ho procurato una cassetta con Destroyer e Unmasked. Vieni a prenderla uno di questi giorni.» Oskar annuì. Sentì un nodo crescergli in gola. Rimase fermo un attimo sforzandosi di non piangere. Poi bisbigliò «grazie» e se ne andò. Tommy rimase seduto, succhiando il tabacco e fissando i batuffoli di polvere raccolti in un angolo del locale. Nessuna chance. Oskar le avrebbe prese fino alla fine del liceo. Ne era il tipo. Tommy avrebbe voluto fare qualcosa, ma una volta che le cose erano iniziate in quel modo era finita. Niente da fare. Prese l'accendino dalla tasca, lo avvicinò alla bocca e spinse la levetta del gas. Quando iniziò a sentire il freddo nel palato tolse l'accendino, lo accese e soffiò. Una bolla di fuoco si sprigionò davanti al suo volto. Non lo rese più felice. Era irrequieto; si alzò e fece alcuni passi sul tappeto. I batuffoli di polvere si mossero. Cosa diavolo devo fare? Iniziò a contare i passi sul tappeto, immaginando di essere in una cella. Non c'era via di scampo. Uno rimane bloccato dov'è, bla, bla, bla. Blackeberg. Doveva andarsene da lì, doveva diventare un marinaio o qualcos'altro. Qualsiasi cosa. Lava il ponte, salpiamo per Cuba, addio. Appoggiata a una parete, c'era una scopa che non veniva quasi mai usata. La prese e iniziò a pulire. La polvere si alzò e gli penetrò nelle narici. Dopo avere scopato per un po', si ricordò che non c'era una paletta. Spinse il mucchietto di polvere sotto il divano. Meglio un po' di merda in un angolo che dappertutto. Iniziò a sfogliare una rivista porno, la ripose. Tirò la sciarpa intorno al collo finché non sentì la testa pronta a scoppiare, e lasciò la presa. Si alzò, fece alcuni passi. Cadde in ginocchio e pregò Dio.
Alle cinque e mezza, arrivarono Robban e Lasse. Tommy, seduto sul divano, dava l'impressione di non avere un solo problema al mondo. Lasse al contrario sembrava preoccupato. Robban sogghignò e diede un colpetto sulla spalla di Lasse. «Lasse ha bisogno di un altro mangianastri.» Tommy inarcò le sopracciglia. «Perché?» «Diglielo, Lasse.» Lasse sospirò, non aveva il coraggio di guardare Tommy negli occhi. «Be'... è uno che lavora con me...» «Che vuole comprarlo?» «Mmm.» Tommy scrollò le spalle, si alzò dal divano e prese la chiave del rifugio nascosta nell'imbottitura di un bracciolo. Robban sembrava deluso, si era aspettato una strigliata divertente, ma Tommy non aveva reagito. Se voleva, Lasse poteva andare in giro con un altoparlante a urlare «MERCE RUBATA IN VENDITA!» Non aveva alcuna importanza. Tommy tolse la catena e la gettò a Robban. La catena scivolò dalle mani di Robban e cadde a terra sferragliando. «Cosa diavolo ti succede? Sei sbronzo?» Tommy scosse il capo, tirò la porta verso di sé. Il neon all'interno era guasto, ma la luce dal corridoio era sufficiente per vedere le pile di scatoloni disposte lungo una delle pareti. Tommy prese un mangianastri da uno scatolone e lo diede a Lasse. «Divertiti.» Lasse fissò Robban incerto, come se volesse chiedergli aiuto per capire il comportamento di Tommy. Robban fece una smorfia che poteva significare qualsiasi cosa e poi si rivolse a Tommy che stava richiudendo la porta. «Hai più sentito niente da Staffan?» «No» disse Tommy rimettendo il lucchetto. «Domani vado a cena da lui. Vedremo.» «A cena?» «Sì, perché?» «Be', credevo che i piedipiatti andassero avanti a... benzina o qualcosa di simile.» Lasse ridacchiò felice. L'atmosfera si era fatta meno pesante. «Benzina...»
Aveva mentito a sua madre e lei gli aveva creduto. Ora era disteso sul letto e stava male. Oskar. Lo specchio. Chi è? Gli stavano succedendo un sacco di cose. Cose negative. Cose positive. Ma chi sono io? Jonny lo fissa e vede il maiale che deve picchiare. Sua madre lo guarda e vede il figlio adorato al quale non deve succedere niente di negativo. Eli mi guarda e cosa vede? Oskar si girò verso la parete, verso Eli. Le due figure presero forma tra le foglie. La sua guancia era ancora gonfia, una crosta aveva iniziato a formarsi sulla ferita. Cosa avrebbe potuto dire a Eli? Sarebbe venuta quella sera? Le due cose andavano insieme. Quello che avrebbe dovuto dirle dipendeva da ciò che rappresentava per lei. Eli non lo conosceva, per questo aveva la possibilità di essere qualcun altro, di dirle qualcosa di diverso da quello che diceva agli altri. Come si fa veramente? Come si fa per piacere a qualcuno? L'orologio sulla scrivania segnava le sette e un quarto. Fissò le foglie, cercò di individuare nuove figure, trovò uno gnomo con un cappello a punta e quando udì i colpi sulla parete ne distinse un altro capovolto. Toc-toc-toc. Colpi cauti. Rispose. Toc-toc-toc. Rimase in attesa. Un paio di secondi dopo arrivò la risposta. Toc-toctoctoc-toc-toc. Aggiunse i due colpi che mancavano: toc-toc. Aspettò. Niente. Prese il foglio con l'alfabeto Morse, si infilò la giacca, salutò la mamma e scese nel cortile. Aveva appena fatto qualche passo, quando il portone si aprì ed Eli uscì. Indossava un paio di scarpe da ginnastica, bluejeans e una felpa nera con la scritta «Star Wars» in lettere d'argento. Dapprima, Oskar pensò che fosse la sua felpa; ne aveva una uguale che aveva messo il giorno prima e che ora era nel cestone del bucato. Era andata a comprarne una uguale perché gliel'aveva vista indosso? «Salve.» Oskar aprì la bocca per dire «ciao» come si era preparato a fare, e la richiuse. La riaprì per dire «salve», ma disse ugualmente «ciao». Eli aggrottò la fronte.
«Cosa hai fatto alla guancia?» «Ah, be', io sono... caduto.» Oskar si avviò verso l'area giochi: Eli lo seguì. Passò il castello e si mise a sedere su un copertone. Eli prese posto in quello accanto. Si dondolarono lentamente in silenzio. «È stato qualcuno a farti male, non è così?» Oskar smise di dondolarsi. «Sì.» «Chi?» «Alcuni compagni.» «Compagni?» «Della mia classe.» Oskar riprese a dondolare, e colse l'occasione per chiedere: «E tu in che scuola vai?» «Oskar.» «Sì?» «Fermati.» Oskar frenò con i piedi e rimase con lo sguardo fisso a terra. «Ascolta...» Eli tese la mano, prese la sua, Oskar alzò lo sguardo e la fissò. Con le luci accese dietro di lei, il suo volto era una semplice silhouette. Naturalmente era soltanto la sua immaginazione, ma Oskar vide che i suoi occhi risplendevano. In ogni caso, era la sola cosa che riusciva a vedere distintamente nel suo volto. Eli alzò l'altra mano e la passò sulla ferita, e in quel momento accadde qualcosa di strano. Un'altra persona, una persona molto più vecchia e dura emerse con forza sotto la pelle di Eli. Un brivido gelido scivolò lungo la schiena di Oskar, come se avesse addentato un ghiacciolo. «Oskar. Non devi permetterlo. Mi ascolti? Non devi permetterlo.» «... no.» «Devi difenderti. Non ti sei mai difeso, non è così?» «No.» «Fallo da adesso. Difenditi. Picchia duro.» «Ma loro sono in tre.» «Allora devi colpire ancora più forte. Usa un'arma.» «Sì.» «Pietre. Bastoni. Colpiscili più forte di quanto veramente osi. Vedrai che smetteranno.»
«E se reagiscono?» «Tu hai un coltello.» Oskar deglutì. In quell'attimo, con la mano in quella di Eli, con il volto davanti al suo, tutto sembrava ovvio. Ma se gli avessero fatto cose peggiori se avesse opposto resistenza, se loro... «Sì. Ma pensa se loro...» «Allora io ti aiuterò.» «Tu? Tu sei...» «Io posso, Oskar. Io posso...» Eli strinse la mano di Oskar che ricambiò la stretta annuendo. Ma la stretta di Eli era più forte. Così forte da fare quasi male. È veramente forte. Eli lasciò la presa e Oskar tirò fuori il foglio che aveva preparato a scuola e glielo porse. Eli inarcò le sopracciglia. «Che cos'è?» «Vieni, andiamo dove c'è luce.» «No, vedo ugualmente. Ma che cos'è?» «L'alfabeto Morse.» «Ah, davvero. Magnifico.» Oskar sorrise. Eli era così... così, come si diceva... naturale. O forse, meglio, spontanea. «Ho pensato che così... potevamo parlare di più attraverso la parete.» Eli annuì. Dava l'impressione di essere alla ricerca di qualcosa da dire. «È divertente.» «Super divertente?» «Sì. È super divertente. Super divertente.» «Tu sei un po' strana, lo sai?» «Davvero?» «Sì. Ma va bene lo stesso.» «Allora tu devi insegnarmi come si fa. A non essere un po' strana.» «Sì. Vuoi che ti faccia vedere una cosa?» Eli annuì. Oskar le fece vedere il suo pezzo forte. Si sedette sul copertone dove si trovava prima e iniziò a dondolarsi. A ogni spinta delle gambe, a ogni aumento dell'oscillazione una sensazione di libertà cresceva nel suo corpo. Le finestre illuminate degli appartamenti passavano davanti ai suoi occhi come strisce multicolori e dondolava sempre più in alto. Non sempre riusciva a concludere il suo pezzo forte con successo, ma ora lo avrebbe fatto,
si sentiva leggero come una piuma, poteva quasi volare. Quando il copertone arrivò così in alto che le catene iniziarono ad allentarsi e a strattonare, irrigidì tutto il corpo. Il copertone tornò indietro un'altra volta e, quando arrivò al punto massimo del successivo dondolio, Oskar lasciò le catene, spinse le gambe in avanti il più in alto possibile. Le gambe fecero un mezzo giro e Oskar atterrò sui piedi, piegandosi in avanti per evitare che il copertone lo colpisse alla testa, poi si rialzò di scatto e tese le braccia in avanti. Perfetto. Eli applaudì. «Bravo!» Oskar bloccò il copertone, lo mise in posizione verticale e si rimise a sedere. Ancora una volta era grato al buio che nascondeva il sorriso di trionfo che non era riuscito a evitare, anche se gli faceva pulsare la ferita. Eli smise di applaudire, ma Oskar continuò a sorridere. Da quel momento in poi, le cose sarebbero state diverse. Naturalmente non era possibile uccidere la gente pugnalando un albero. Questo lo sapeva. Giovedì 29 ottobre Håkan era seduto sul pavimento dello stretto corridoio e ascoltava lo sciacquio dell'acqua proveniente dal bagno. Teneva le gambe piegate, i calcagni toccavano le cosce, e il mento era appoggiato alle ginocchia. La gelosia era come un grasso serpente bianco nel suo petto. Si contorceva lentamente, puro come l'innocenza e infantilmente ovvio. Superfluo. Lui era superfluo. La sera prima era rimasto disteso a letto con la finestra socchiusa. Aveva sentito Eli salutare Oskar. Le loro voci chiare, le risate. Una leggerezza che non sarebbe mai riuscito a esprimere. La sua era una serietà plumbea, così come lo erano le sue pretese, il suo desiderio. Aveva creduto che il suo amore fosse come lui. Aveva guardato gli occhi di Eli e aveva visto la saggezza e l'indifferenza di una persona antica. All'inizio lo aveva spaventato, gli occhi di Samuel Beckett nel volto di Audrey Hepburn. Dopo, l'aveva fatto sentire al sicuro. Era la cosa migliore che si potesse immaginare. Quel corpo giovane e snello che conferiva bellezza alla sua vita e allo stesso tempo lo liberava dalle responsabilità. Non era lui a decidere. Non aveva bisogno di sentirsi colpevole per il suo desiderio, il suo amore era più vecchio di lui. Non era
più una bambina. O almeno così aveva creduto. Ma da quando aveva incontrato Oskar, era successo qualcosa. Una regressione. Eli si comportava sempre più come la bambina che il suo aspetto rivelava: aveva iniziato a muoversi con agilità infantile, a usare espressioni, parole infantili. Voleva giocare. Nascondere la chiave. La sera prima avevano giocato a nascondere la chiave. Quando Håkan non aveva dimostrato l'entusiasmo che il gioco richiedeva, Eli si era arrabbiata, poi aveva cercato di fargli il solletico per farlo ridere. Håkan aveva adorato il suo tocco. Naturalmente questo era attraente. Quella gioia, quella... vita. Ma allo stesso tempo lo spaventava, perché era così lontano da lui. Era più sessualmente eccitato e più spaventato di quanto fosse mai stato da quando si erano incontrati. La sera prima, il suo amore si era chiuso in camera, dove era rimasto per mezz'ora a battere sulla parete. Quando Håkan aveva ripreso possesso della stanza, aveva visto un foglio di carta fissato sul muro sopra il letto con il nastro adesivo. L'alfabeto Morse. Mentre era disteso in attesa di addormentarsi, era stato tentato di mandare un messaggio a Oskar. Per fargli capire chi fosse veramente Eli. Invece, aveva ricopiato l'alfabeto su un altro foglio, così in futuro avrebbe potuto capire quello che si dicevano. Håkan piegò la testa e la appoggiò contro le ginocchia. Dal bagno non si udiva più il rumore dell'acqua. Non poteva continuare così. Stava per esplodere. Per il desiderio, per la gelosia. La chiave girò nella serratura, la porta si aprì. Eli era davanti a lui, un corpo nudo. Pulito. «Sei qui?» «Sì. È bello guardarti.» «Grazie.» «Puoi girarti?» «Perché?» «Perché... lo voglio.» «Io no. Puoi spostarti un po'?» «Se lo fai, forse... posso dirti qualcosa.» Eli lo fissò con uno sguardo interrogativo. Poi, si girò lentamente e gli mostrò la schiena. La bocca di Håkan si riempì di saliva, deglutì. Guardò Eli. Provò la sensazione fisica dei suoi occhi che divoravano quello che era di fronte a lui. La più bella cosa al mondo. A distanza di un braccio. Ma infinitamente
lontana. «Hai... fame?» Eli si voltò. «Sì.» «Lo farò per te. Ma voglio qualcosa in cambio.» «Cosa.» «Una notte. Voglio una notte.» «Okay.» «Posso?» «Sì.» «Disteso accanto a te? E toccarti?» «Sì.» «Potrò...» «No. Niente di più. Solo questo.» «Allora lo farò. Questa sera.» Eli si distese accanto a lui. I palmi delle sue mani bruciavano. Voleva accarezzarla. Eli non lo lasciava. Questa notte. Eli rimase con lo sguardo fisso al soffitto. «Grazie. Ma pensa se qualcuno... quel ritratto sul giornale... c'è gente che sa che abiti qui.» «Ci ho pensato.» «Se qualcuno dovesse venire qui di giorno... mentre io riposo...» «Ti ho detto che ci ho pensato.» «Come?» Håkan le strinse la mano, si alzò, andò in cucina, aprì la credenza, prese un barattolo di vetro con il coperchio a vite e tornò nella stanza. Un liquido trasparente riempiva il barattolo. Håkan le spiegò quello che aveva pensato. Eli scosse energicamente il capo. «Non puoi.» «Posso. Non capisci quanto mi stai a cuore?» Håkan si preparò a uscire e mise il barattolo di vetro nella borsa insieme al resto dell'attrezzatura. Nel frattempo, Eli si era vestita e lo aspettava in ingresso. Quando Håkan arrivò, Eli si chinò in avanti e gli diede un lieve bacio sulla guancia. Håkan chiuse gli occhi, li riaprì e fissò Eli a lungo. Sono perduto. Poi andò ad assolvere il suo compito.
Morgan ingurgitò le sue quattro piccole portate una alla volta, senza però toccare il riso nel piatto di fianco. Lacke si chinò in avanti. «Dì, posso prendere il riso?» chiese a bassa voce. «Certamente. Vuoi anche della salsa?» «No. Prenderò soltanto un po' di soia.» Larry alzò lo sguardo sopra il giornale, guardò Lacke mentre prendeva il piatto di riso e ci versava sopra la soia per poi mangiare come se vedesse il cibo per la prima volta. Larry fece una smorfia. Poi, indicò il piatto di gamberetti fritti che Morgan stava per attaccare. «Potresti offrirne un po'.» «Sì, sì. Scusa. Vuoi un gamberetto?» «No, il mio stomaco non li sopporta. Ma Lacke...» «Vuoi un gamberetto, Lacke?» Lacke annuì e gli porse il piatto con il riso. Morgan vi mise due gamberetti con un gesto magnanimo. Lacke ringraziò. Morgan grugnì e scosse il capo. Da quando Jocke era scomparso, Lacke non era più lo stesso. Era a corto di quattrini già prima, ma adesso beveva a dismisura e non gli restava un soldo per mangiare. Certo che la scomparsa di Jocke era strana, ma non era un buon motivo per lasciarsi andare. Erano passati quattro giorni e cosa sapevano? Poteva avere incontrato una donna ed essere partito per Haiti, o qualsiasi altra cosa. Prima o poi sarebbe ricomparso. Larry posò il giornale, spostò gli occhiali sulla fronte e si fregò gli occhi. «Sapete dov'è il rifugio più vicino?» «Cosa? Stai pensando di andare in letargo?» disse Morgan sogghignando. «No, ma il sottomarino... Se, teoricamente parlando, ci fosse una vera invasione...» «Puoi venire giù nel nostro. Sono stato giù un paio di anni fa quando uno della difesa civile è venuto a fare l'inventario. Maschere a gas, barattoli di conserve, tavolo da ping-pong e tutto il resto.» «Un tavolo da ping-pong?» «Certamente. Quando i russi sbarcano diciamo: "Fermi ragazzi, calma, mettete giù i vostri kalashnikov e ce la giochiamo a ping-pong invece." Generale contro generale e che vinca il migliore.» «I russi giocano a ping-pong?» «No. Così li freghiamo e forse ci riprendiamo tutto il Baltico.» Lacke si asciugò la bocca con un tovagliolo esagerando i movimenti.
«Comunque è molto strano» disse. «Cosa?» «La scomparsa di Jocke. Quando andava da qualche parte, ce lo diceva sempre. Non è così? Per lui, andare a trovare suo fratello a Väddö era già un avvenimento. Iniziava a parlarne una settimana prima. Cosa doveva portare con sé, cosa avrebbero fatto.» Larry mise una mano sulla spalla di Lacke. «Parli di Jocke al passato.» «Cosa? Sì. Io credo che gli sia veramente successo qualcosa. Ne sono sicuro.» Morgan bevve un lungo sorso di birra, ruttò. «Tu credi che sia morto.» Lacke scrollò le spalle, fissò Larry come se volesse chiedergli aiuto. Larry faceva finta di studiare il disegno sul tovagliolo. Morgan scosse il capo. «Impossibile. Saremmo venuti a saperlo. I piedipiatti lo hanno detto dopo essere stati a casa sua. Hanno detto che avrebbero telefonato se avessero scoperto qualcosa. Non perché mi fidi dei piedipiatti, ma... avremmo dovuto già sapere qualcosa.» «Jocke avrebbe dovuto telefonare.» «Ma, buon Dio, siete sposati o cosa? Non preoccuparti. Presto si farà vivo. Con un mazzo di rose e una scatola di cioccolatini e ti prometterà di non farlo mai più.» Lacke annuì, sorseggiò la birra che Larry gli aveva offerto facendogli promettere che avrebbe ricambiato quando fossero arrivati tempi migliori. Ancora due giorni e poi avrebbe iniziato a cercarlo da sé. Avrebbe telefonato agli ospedali e agli obitori e tutto il testo. Non tradiva il suo migliore amico. Anche se Jocke fosse stato morto o gravemente malato. Non si tradisce un amico. Alle sette e mezza, Håkan cominciò a inquietarsi. Aveva camminato su e giù davanti al ginnasio e nel centro di Vällingby, dove i giovani avevano l'abitudine di radunarsi. Gli allenamenti sportivi erano in corso e la piscina coperta quella sera era aperta. Non si poteva certo dire che ci fosse carenza di potenziali vittime. Il problema era che si muovevano in gruppo. Aveva udito di sfuggita la frase di una ragazza che passava con due amiche: «... la mamma è ancora terrorizzata per via di quell'assassino...» Naturalmente, avrebbe potuto andare in un altro quartiere, dove il suo
delitto precedente sarebbe stato di minore attualità, ma c'era il rischio che il sangue potesse guastarsi prima di arrivare a casa. Se doveva comunque farlo, voleva che fosse il meglio per il suo amore. E più era fresco, più era vicino alla fonte, meglio era. Lo aveva imparato. La notte prima, la temperatura era calata notevolmente e aveva raggiunto diversi gradi sotto lo zero. Così il passamontagna che lasciava liberi soltanto gli occhi e la bocca non attirava troppo l'attenzione. Ma non poteva andare in giro troppo a lungo. Prima o poi, qualcuno avrebbe potuto insospettirsi. E se non avesse trovato nessuno? Come avrebbe potuto tornare a casa senza? Il suo amore non sarebbe morto, ne era sicuro. La prima volta era stato diverso. Ma ora c'era qualcosa d'altro. Qualcosa di magnifico. Una notte intera. Una notte intera stretto al corpo che amava. Le membra esili e morbide, il ventre piatto da accarezzare lentamente con la mano. Una candela accesa il cui bagliore danzava sulla pelle vellutata, sua per una notte. Si passò una mano sul sesso che reagì e urlò dal desiderio. Devo restare calmo, devo... Non sapeva cosa fare. Follia, ma doveva farlo. Doveva andare nella piscina e cercare lì la sua vittima. Con tutta probabilità non c'era molta gente a quell'ora, e adesso che aveva deciso sapeva esattamente quello che doveva fare. Pericoloso, certo. Ma assolutamente fattibile. Se le cose fossero andate storte avrebbe usato l'ultima via di scampo. Ma tutto sarebbe andato per il meglio. Mentre si avviava a passo rapido verso l'entrata, vedeva davanti a sé ogni dettaglio chiaramente. Provava un senso di ebbrezza. Il tessuto del passamontagna davanti al suo naso era umido quando inspirava ed espirava. Questo era qualcosa che quella notte avrebbe potuto raccontare al suo amore, raccontarglielo accarezzando con la mano tremante le linee rotonde del sedere, trattenendo il ricordo per sempre, per l'eternità. Arrivato all'entrata, sentì nelle narici il noto odore del cloro. Quante ore aveva trascorso in piscina? Con gli altri, o da solo. Vicino a giovani corpi che brillavano di acqua e sudore, ma così distanti. Erano soltanto immagini da conservare e da richiamare mentre stava sdraiato nel suo letto con la carta igienica in mano. L'odore del cloro gli faceva provare un senso di sicurezza, di nostalgia. Si fermò alla cassa. «Uno, per favore.» La cassiera alzò lo sguardo dal settimanale. I suoi occhi si spalancarono.
Håkan alzò la mano verso il suo passamontagna. «Fuori fa freddo.» La cassiera annuì incerta. Doveva togliersi il passamontagna? No. Sapeva quello che doveva fare per non insospettirla. «Armadietto?» «No. Cabina, per favore.» La cassiera gli diede una chiave e Håkan pagò. Mentre si allontanava dalla cassa si tolse il passamontagna. Ora, la cassiera aveva potuto notare che se lo era tolto, ma non l'aveva visto in faccia. Perfetto. Si diresse a passo rapido verso lo spogliatoio, lo sguardo puntato verso il basso nel caso avesse incontrato qualcuno. «Benvenuti nella mia umile tana.» Tommy oltrepassò Staffan nell'ingresso; dietro di lui sentì il suono dei tacchi di sua madre e quello di un bacio. «Hai...?» chiese Staffan. «No. Ho pensato che...» «Mmm. Dobbiamo...» Tommy si guardò intorno. Non era mai stato a casa di un piedipiatti e, anche se contro la propria volontà, era curioso. Di come viveva un tipo simile. Ma già nell'ingresso capì che Staffan non poteva essere un rappresentante qualsiasi del corpo di polizia. Tommy si era immaginato qualcosa... sì, come nelle serie poliziesche alla tv. Un luogo semplice e spartano. Un luogo dove uno andava a dormire quando non stava dando la caccia ai cattivi. Quelli come me. No. L'appartamento di Staffan era... borghese-borghesuccio. Già all'entrata si aveva l'impressione che fosse stato arredato con quei mobili e addobbi che si potevano ordinare nei cataloghi dei mobilifici dozzinali, distribuiti regolarmente nelle buche delle lettere. Su una parete c'era la riproduzione di un tramonto alpino, il telefono era su un minuscolo tavolino sopra un centrino di pizzo. Di fianco c'era la statuina in gesso di un bambino con un cane con la scritta «SE SOLO POTESSI PARLARE» sul piedistallo. Staffan sollevò la statuina. «Bella, non trovi? Cambia colore secondo il tempo.» Tommy annuì. O Staffan aveva chiesto alla sua vecchia mamma di prestargli il suo appartamento per occasioni simili, o era completamente fuori
di testa. Staffan posò la figurina con grande cura. «Faccio la collezione di queste statuine. Ma solo di quelle che indicano il cambiamento del tempo. Questa ad esempio...» Staffan indicò una vecchietta che era sulla porta di una baita alpina. La scosse e la vecchietta rientrò nella baita e al suo posto uscì un vecchietto. «Quando la donna esce significa che ci sarà cattivo tempo e quando esce l'uomo significa...» «Che il tempo peggiorerà.» Staffan si mise a ridere, forzatamente alle orecchie di Tommy. «Questa non funziona molto bene.» Tommy lanciò un'occhiata a sua madre, e quello che vide gli fece provare un senso di inquietudine. Era immobile con il cappotto ancora indosso, le mani strette l'una nell'altra e un sorriso imbarazzato sulle labbra. Aveva paura? Tommy decise di fare uno sforzo. «Funzionano come un barometro?» chiese. «Esattamente. È così che ho iniziato la collezione. Proprio con i barometri.» Tommy indicò una piccola croce di legno con un Cristo d'argento appesa alla parete. «Anche questo è un barometro?» Lo sguardo di Staffan passò da Tommy alla croce e nuovamente a Tommy. Di colpo, l'espressione del suo viso si fece seria. «No, non lo è. È Gesù Cristo.» «Quello della Bibbia?» «Sì. Proprio lui.» Tommy infilò le mani in tasca ed entrò nel soggiorno. Ecco la collezione di barometri. Una ventina di modelli diversi erano appesi alla parete dietro a un divano di pelle grigia, davanti al quale c'era un tavolino di vetro. La metà indicava previsioni differenti. In qualche modo, ricordavano un insieme di orologi appesi a un'unica parete, dove ogni orologio segna l'ora di una diversa parte del mondo. Tommy batté un dito sul vetro di un barometro, una delle due lancette si mosse. Non sapeva cosa significasse, ma per qualche motivo la gente batteva sempre sui barometri. In una libreria d'angolo con vetrinetta c'erano numerose coppe. Quattro coppe più grandi erano allineate su un pianoforte di fianco. Sulla parete, sopra il pianoforte, c'era un grande quadro raffigurante la Vergine Maria con il Bambin Gesù in braccio. Lo stava allattando, ma lo sguardo assente nei suoi occhi sembrava dire: «Cosa ho fatto per meritarmi questo?»
Entrando nella stanza, Staffan si schiarì la gola. «Be' Tommy. C'è qualcosa che non ti è chiaro?» Tommy non era così stupido da non capire quale fosse la risposta che Staffan si aspettava. «Per cosa sono tutte quelle coppe?» Staffan alzò una mano e indicò quelle sul pianoforte. «Quelle?» No, scemo che non sei altro. Le coppe che sono esposte nel club giù allo stadio di calcio. «Sì.» Staffan indicò una statuetta d'argento alta circa venti centimetri posta su un piedistallo di granito al centro fra le coppe sul pianoforte. Tommy aveva creduto che fosse una scultura, ma anche quella era un trofeo. La statuetta raffigurava un uomo con le gambe allargate, le braccia tese, le mani intorno a una pistola puntata. «Tiro con la pistola. Primo premio al concorso regionale. La coppa accanto è per il terzo posto alla gara di tiro con pistola calibro 45, campionati nazionali, e così via.» La madre di Tommy entrò nella stanza e si mise al suo fianco. «Staffan è uno dei migliori tiratori della Svezia.» «Ti serve a qualcosa?» «Cosa vuoi dire?» «Per sparare alla gente...» Staffan passò un dito sul piedistallo di una delle coppe e poi lo fissò. «L'obiettivo principale del lavoro di polizia è di non avere bisogno di sparare alla gente.» «Hai mai dovuto...?» «No.» «Ma vorresti, no?» Staffan respirò profondamente e poi lasciò uscire l'aria con un lungo sospiro. «Devo... dare un'occhiata alla cena.» Sì, vai a vedere se l'arrosto si è bruciato. Staffan andò in cucina. La madre di Tommy lo prese per un braccio. «Perché fai domande simili?» bisbigliò. «Per capire.» «Staffan è una persona a posto, Tommy.» «Sì. Dev'essere così. Pistole e la Vergine Maria. Cosa si può chiedere di
più?» Attraversando la piscina, Håkan non incontrò nessuno. Come aveva pensato, non c'era molta gente a quell'ora. Nello spogliatoio, due uomini della sua età stavano rivestendosi. Corpi obesi, deformi. Organi sessuali raggrinziti sotto ventri protuberanti. La personificazione della bruttezza. Trovò la sua cabina, entrò e chiuse la porta dietro di sé. Bene. Iniziò i preparativi. Per tutta sicurezza, si mise nuovamente il passamontagna. Sganciò la bombola di halotan, appese la giacca a un gancio. Aprì la borsa e dispose l'attrezzatura sulla panca. Coltello, fune, imbuto, bidone di plastica. Aveva dimenticato l'impermeabile. Dannazione. Ora era costretto a spogliarsi. Il rischio di essere macchiato da uno spruzzo era alto, in quel caso, una volta finito, poteva nascondere le macchie sotto i vestiti. Sì. Dopotutto era una piscina. Non c'era niente di strano a essere svestiti. Per controllare la capacità di portata dell'altro gancio, vi si appese con entrambe le mani e alzò i piedi dal pavimento. Teneva. Il problema era l'altezza. La testa doveva pendere senza toccare il pavimento. Doveva cercare di legare la fune intorno alle ginocchia, lo spazio fra il gancio e il bordo superiore della cabina era sufficiente per fare in modo che i piedi non sporgessero facendo insospettire qualcuno. I due uomini sembravano pronti ad andarsene. Udiva la loro conversazione. «E il lavoro come va?» «Come al solito. Nessuna apertura per uno che viene da Malmberget.» Håkan ridacchiò sentendo la barzelletta che si raccontavano; qualcosa stava succedendo nella sua testa. Era troppo eccitato, respirava troppo rapidamente. Era come se il suo corpo fosse pieno di farfalle che volevano volare via. Calma. Calma. Calma. Respirò profondamente finché la testa non iniziò a girare e poi si svestì. Piegò i vestiti e li mise nella borsa. I due uomini lasciarono lo spogliatoio. Silenzio. Provò a salire sulla panca per guardare fuori. Sì, i suoi occhi arrivavano esattamente sopra il bordo della cabina. Tre ragazzi fra i tredici e i quattordici anni entrarono nello spogliatoio. Uno colpì un altro sul sedere con l'asciugamano arrotolato. «Merda, piantala!» Håkan piegò il collo. Più in basso vide l'erezione del suo pene che spin-
geva nell'angolo come fra due dure cosce spalancate. Calma. Calma. Tornò a guardare da sopra il bordo. Due dei ragazzi si erano tolti il costume da bagno e si erano chinati in avanti per prendere i loro vestiti. Il suo diaframma si contrasse violentemente e lo spruzzo di sperma colpì l'angolo, cominciando a scivolare verso la panca. Calma. Calma. Sì. Adesso si sentiva meglio. Ma lo sperma era un problema. Prese un calzino dalla borsa, ripulì al meglio lungo l'angolo e sulla panca. Ripose il calzino, si aggiustò il passamontagna e rimase ad ascoltare la conversazione dei ragazzi. «... il nuovo Atari. Enduro. Vuoi venire a casa mia a provarlo?» «No, ho un bel po' di cose che devo...» «E tu?» «Okay. Hai due joystick?» «No, ma...» «Allora possiamo passare a prendere il mio prima.» «Okay. Ciao Matte.» «Ciao.» Due ragazzi stavano per andarsene. Il momento era perfetto. Il terzo sarebbe rimasto, senza che gli altri due lo aspettassero. Si alzò nuovamente per guardare da sopra il bordo della cabina. I due erano pronti e se ne andarono. Il terzo stava infilandosi i calzini. Håkan si abbassò, si ricordò di avere infilato il passamontagna. Nessuno lo aveva visto in faccia. Prese la bombola di halotan e mise un dito sulla leva. Doveva tenere il passamontagna in testa? Se il ragazzo fosse riuscito a scappare. Se qualcuno fosse entrato nello spogliatoio. Se... Maledizione. Spogliarsi era stato un errore. Se avesse avuto bisogno di fuggire rapidamente. Non c'era tempo per pensare. Sentì il ragazzo chiudere l'armadietto e avviarsi verso l'uscita. Fra cinque secondi sarebbe passato davanti alla porta della sua cabina. Troppo tardi per riflettere. Da una fessura fra la porta e lo stipite vide passare un'ombra. Bloccò tutti i pensieri, aprì la porta e si gettò all'esterno. Mattias si girò e vide un grande corpo bianco con un passamontagna sulla testa scagliarsi su di lui. Prima di gettarsi all'indietro, un unico pensiero composto da una sola parola passò per la sua mente. Morte. Indietreggiò per sfuggire alla Morte che voleva prenderlo. In una mano,
la Morte aveva un oggetto scuro. L'oggetto si alzò all'altezza del suo volto, Mattias aspirò aria nei suoi polmoni per lanciare un urlo. Ma prima che l'urlo uscisse dalla sua bocca, l'oggetto scuro era sul suo volto e gli copriva la bocca e il naso. Una mano gli afferrò la nuca, premendo l'oggetto scuro e soffice contro il suo viso. L'urlo si trasformò in un sordo mugolio, un guaito strozzato, e allora sentì un suono sibilante uscire dall'oggetto scuro. Cercò nuovamente di urlare, ma quando aspirò, qualcosa accadde. Una sensazione di intorpidimento si sparse in tutto il suo corpo e l'urlo non fu più di un pigolio. Aspirò nuovamente e le sue gambe si piegarono, veli variopinti iniziarono a volteggiare davanti ai suoi occhi. Voleva urlare ancora. Non ne aveva più la forza. Ora i veli coprivano tutto il suo campo visivo. Non aveva più un corpo. I colori fluttuavano. Mattias cadde all'indietro sprofondando in un arcobaleno. Con il foglio dell'alfabeto Morse in una mano, Oskar batteva con l'altra sulla parete. La nocca dell'indice per il punto, il palmo della mano per il trattino, così come avevano concordato. Nocca. Pausa. Nocca, palmo, nocca, nocca. Pausa. Nocca, nocca. E.L.I. I.O. E.S.C.O. Dopo alcuni secondi la risposta. I.O. A.R.R.I.V.O. Si incontrarono fuori dal portone di Eli. In un solo giorno era cambiata. Alcuni mesi prima, una donna ebrea era stata a scuola e aveva parlato dell'olocausto, facendo vedere diverse diapositive. Eli gli ricordava un po' le persone di quelle immagini. La cruda luce della lampada sopra il portone marcava le ombre sul suo volto, era come se le sue ossa cercassero di uscire dalla pelle, come se la pelle si fosse assottigliata. E... «Cosa hai fatto ai capelli?» Dapprima, aveva creduto che fosse dovuto alla luce, ma quando si avvicinò, vide che diverse mèche bianche striavano i suoi capelli neri. Come nelle persone anziane. Eli si passò una mano sulla testa e sorrise. «Spariranno. Cosa facciamo?» Oskar fece tintinnare alcune monete nella tasca. «Tjorren.» «Cosa?»
«Il chiosco, quello dei giornali.» «Mmm. L'ultimo che arriva è un'aringa puzzolente.» Un'immagine passò nella mente di Oskar. Bambini bianchi e neri. Poi Eli si avviò e Oskar la seguì. Anche se sembrava malaticcia, camminava molto più velocemente di lui, sembrava che non toccasse quasi terra e arrivata in strada la attraversò con poche falcate. Oskar faceva del suo meglio per starle dietro, distratto da quell'immagine. Bambini bianchi e neri? Proprio così. Continuò a correre, e passando davanti alla fabbrica di caramelle capì. Erano quei vecchi film in bianco e nero che facevano vedere alla tv la domenica mattina. Ce n'era uno in cui un bambino diceva: «L'ultimo che arriva è un'aringa puzzolente!» Eli lo stava aspettando per strada, a una ventina di metri dal chiosco. Oskar la raggiunse cercando di smetterla di ansimare. Non era mai stato al chiosco insieme a Eli. Avrebbe dovuto raccontarle la storia? «Lo sai perché lo chiamano "il chiosco dell'amore"?» «No. Perché?» «Be', perché... sì, l'ho sentito dire durante una riunione dei genitori a scuola... uno ha detto, non a me, ma... me lo hanno detto. Dicono che lui... il proprietario ha...» Si pentì di avere iniziato. Era ridicolo. Penoso. Eli scosse il capo. «Cosa?» «Be', che il proprietario si porta delle signore nel chiosco. Sì, sai, quando chiude il chiosco...» «È vero?» chiese Eli guardando il chiosco. «Come fanno a starci dentro?» «Disgustoso, no?» «Sì.» Oskar si avviò verso il chiosco. Eli lo seguì e si mise al suo fianco. «Devono essere molto magre!» Si misero a ridere. C'era luce anche all'interno del chiosco. Eli alzò gli occhi al cielo dimostrativamente e poi indicò il proprietario, seduto a guardare un piccolo televisore portatile. «È lui?» Oskar annuì. «Sembra una scimmia.» Oskar mise una mano a cupola intorno all'orecchio di Eli. «È scappato dallo zoo dello Skansen cinque anni fa. Stanno ancora cercandolo.»
Eli scoppiò a ridere e mise una mano intorno all'orecchio di Oskar ripetendo lo stesso gesto. Il suo alito caldo scese lungo la guancia di Oskar. «Non lo stanno cercando. Lo hanno chiuso lì dentro invece.» Entrambi volsero lo sguardo verso il proprietario del chiosco, ridendo a crepapelle; immaginavano l'uomo chiuso in una gabbia piena di leccornie. Al suono della loro risata, il proprietario si voltò e inarcò le enormi sopracciglia assomigliando sempre più a un gorilla. Eli e Oskar si piegarono in due dalle risate e poi misero le mani sulla bocca cercando di tornare seri. Il proprietario del chiosco si affacciò. «Volevate qualcosa?» Eli si fece immediatamente seria, tolse la mano dalla bocca e si avvicinò. «Vorrei una banana, per favore.» Oskar si piegò in due senza togliere la mano dalla bocca. Eli lo guardò portandosi il dito indice alle labbra e fingendo di rimproverarlo. «Non ho banane.» Eli si finse incredula. «Niente banaanee?» «No. Qualcos'altro?» Le mascelle di Oskar dolevano dallo sforzo che doveva fare per reprimere le risate. Si allontanò barcollando dal chiosco e quando raggiunse una cassetta per le lettere si appoggiò e diede sfogo alla risata tremando in tutto il corpo. Eli lo raggiunse, scuotendo il capo. «Niente banane.» Oskar riprese fiato, si fece serio, infilò la mano in tasca, prese quattro corone e tornò al chiosco. «Un misto.» Il proprietario del chiosco lo squadrò, poi prese un sacchetto di carta e iniziò a prendere le caramelle dai diversi contenitori di plastica. Oskar si girò per vedere se Eli poteva sentirlo e disse: «Non dimentichi le banane.» Il proprietario si interruppe. «Non ho banane.» Oskar indicò uno dei contenitori. «Quelle lì. Quelle caramelle a forma di banana, voglio dire.» Udì Eli ridacchiare, si girò e fece lo stesso suo gesto. Mise un dito sulla bocca e la fissò severo. Il proprietario del chiosco sbuffò e porse il sacchetto a Oskar. Tornarono verso casa. Oskar porse il sacchetto a Eli che scosse il capo. «No, grazie.»
«Non ti piacciono le caramelle?» «Non le sopporto.» «Nessun dolce?» «No.» «Che peccato.» «Sì. No. Ma non so che gusto abbiano.» «Non ne hai mai mangiate?» «No.» «Allora, come fai a sapere che...» «Lo so e basta.» Non era la prima volta. Iniziavano a parlare di qualcosa, Oskar faceva una domanda ed Eli rispondeva «lo so e basta» oppure «è così e basta». Nessuna spiegazione più precisa. Era uno dei suoi lati strani. Oskar era dispiaciuto di non poterle offrire delle caramelle. Lo aveva programmato. Voleva offrire a Eli un sacco di cose. Tutto quello che desiderava. E lei non poteva mangiare caramelle. Ne mise una in bocca e la guardò con la coda dell'occhio. Aveva un aspetto veramente malaticcio. E quelle mèche bianche nei suoi capelli... In un racconto Oskar aveva letto di una persona che era rimasta terrorizzata a morte da qualcosa e i suoi capelli erano diventati tutti bianchi. Era stato così per Eli? Con le braccia strette intorno al corpo, sembrava talmente piccola. Oskar avrebbe voluto metterle un braccio intorno alle spalle, ma non osava. Arrivati in cortile, Eli si fermò e alzò lo sguardo verso le finestre del suo appartamento. Le luci erano spente. Rimase immobile, le braccia sempre strette intorno al corpo, lo sguardo fisso a terra. «Oskar...» Oskar fece un passo in avanti. Sembrava che tutto il suo corpo glielo chiedesse, e in qualche modo Oskar trovò il coraggio. La abbracciò. Per un terribile momento pensò di avere commesso un errore, il corpo di Eli era rigido, duro. Stava per togliere le braccia, quando la sentì rilassarsi. Il nodo si sciolse ed Eli allungò le braccia, le mise sulla sua schiena e si strinse a lui tremando. Eli appoggiò la testa sulla sua spalla e rimase immobile così. Oskar sentì il suo alito sul collo. Rimasero stretti l'uno all'altra in silenzio. Oskar chiuse gli occhi e si disse che quella era la cosa più bella che gli fosse mai capitata. La luce della lampada sopra il portone filtrava sotto le sue palpebre chiuse coprendo gli occhi con una patina rossa. La più bella cosa...
Eli accostò la testa più vicino alla gola di Oskar. Il calore del suo alito si fece più intenso. I suoi muscoli, prima rilassati, si tesero nuovamente. Sfiorò con le labbra il collo di Oskar e un fremito le percorse il corpo. Improvvisamente, Eli si scosse, si liberò dall'abbraccio e fece un passo indietro. Oskar lasciò cadere le braccia. Eli scosse il capo come per liberarsi da un brutto sogno, mise la mano sulla maniglia del portone. Oskar rimase immobile. Quando Eli aprì il portone la chiamò. «Eli? Eli... dov'è tuo padre?» «È andato a prendere... da mangiare.» Non le dà da mangiare. Ecco perché. «Puoi venire a mangiare qualcosa da me.» Eli lasciò la maniglia e gli si avvicinò. Oskar pensò a come avrebbe potuto presentare la cosa a sua madre. Non voleva che incontrasse Eli. E non voleva neppure che Eli incontrasse sua madre. Avrebbe potuto andare su, preparare due panini e portarli in cortile. Sì, sarebbe stata la cosa migliore. Eli era ferma davanti a lui e lo fissava con uno sguardo serio negli occhi. «Oskar. Ti piaccio?» «Sì. Tantissimo.» «Se non fossi una ragazza... ti piacerei ugualmente?» «Come?» «Solo questo. Ti piacerei anche se non fossi una ragazza?» «Sì, certamente.» «Sicuro?» «Sì. Perché me lo chiedi?» Si udì il rumore di una finestra che veniva aperta con difficoltà. Sopra la testa di Eli, Oskar vide quella di sua madre che si affacciava dalla camera da letto. «Oooskar!» Eli fece un passo indietro e si addossò al muro. Oskar chiuse i pugni e corse verso la finestra. Come un bambino. «Cosa c'è?» «Ah, sei lì? Credevo che...» «Cosa vuoi?» «Sì, il programma sta per iniziare.» «Lo so.» Sua madre stava per dire qualcos'altro, ma si fermò e lo fissò. Oskar rimaneva immobile, teso, i pugni chiusi lungo i fianchi. «Cosa fai?»
«Io... vengo.» «Sì, perché...» Gli occhi di Oskar si velarono per la rabbia. «Torna dentro! Chiudi la finestra. Torna dentro!» sibilò. Sua madre restò a fissarlo ancora per alcuni secondi. Poi, qualcosa passò sul suo volto e chiuse la finestra sbattendola. Oskar avrebbe voluto richiamarla, farle capire, ma... Avrebbe voluto spiegarle con calma come stavano le cose. Dirle che non doveva fare così, dirle che lui... Tornò di corsa verso il portone. «Eli?» Eli non c'era più. Ma non era tornata a casa, altrimenti l'avrebbe vista entrare. Doveva essersi diretta alla stazione della metropolitana per andare da quella zia cui faceva visita dopo la scuola. Oskar tornò nella zona buia dove Eli si era ritirata quando sua madre lo aveva chiamato. Si girò verso il muro. Rimase li qualche secondo. Poi se ne andò. Håkan trascinò il ragazzo nella cabina e chiuse la porta. Mattias non aveva praticamente emesso un suono. L'unica cosa che poteva destare sospetti era il sibilo della bombola. Doveva lavorare con grande rapidità. Sarebbe stato molto più semplice colpire il ragazzo direttamente con il coltello, ma no. Il sangue doveva sgorgare da una persona viva. Questa era un'altra cosa che aveva dovuto imparare. Non solo il sangue di un morto non aveva alcun valore, ma era anche nocivo. Ma il ragazzo era vivo. Il suo torace si alzava e si abbassava, respirava il gas anestetico. Håkan legò la fune poco sopra le ginocchia, la passò sul gancio e iniziò a tirare. Le gambe si sollevarono dal pavimento. Una porta si aprì, si udirono delle voci. Håkan tenne ferma la fune con una mano e sbloccò la levetta della bombola con l'altra. L'effetto dell'anestetico sarebbe durato ancora qualche minuto, con o senza gente intorno, doveva lavorare il più silenziosamente possibile. C'erano diversi uomini nello spogliatoio. Due, tre, quattro? Parlavano della Svezia e della Danimarca. Di una partita della nazionale. Pallavolo. Mentre continuavano a parlare, Håkan issò il corpo del ragazzo. Il gancio cigolava, l'angolazione del carico era diversa da quella che aveva prodotto quando si era appeso. Gli uomini rimasero in silenzio. Avevano sentito il rumore? Håkan restò immobile, respirando appena. Tenne fermo il corpo,
la cui testa ora era sollevata dal pavimento. No. Era stata soltanto una pausa nella conversazione. Parlate. Parlate. «La battuta di Sjögren è stata...» «Quando uno non ha le braccia deve imparare a usare la testa.» «Comunque la sua schiacciata è micidiale.» «Non riesco a capire come faccia a dare quell'effetto alla palla...» La testa del ragazzo era a una decina di centimetri dal pavimento. Adesso... Dove avrebbe potuto fissare la fune? Le fessure fra le assi della panca erano troppo strette per potercela infilare. Non poteva certamente lavorare con una mano e tenere la fune con l'altra. Non ne avrebbe avuto la forza. Rimase immobile con le due estremità della fune strette nelle mani, sudando abbondantemente. Avrebbe dovuto togliersi il passamontagna. Dopo. Quando avrò finito. L'altro gancio. Prima doveva fare un nodo scorsoio. Abbassò il corpo del ragazzo per allentare la fune e fece il nodo. Il sudore gli colava sugli occhi. Issò nuovamente il corpo e cercò di passare il nodo intorno al gancio. La fune era troppo corta. Abbassò nuovamente il corpo del ragazzo. Gli uomini si interruppero. Andatevene. Andatevene. Nel silenzio fece un nuovo nodo più vicino all'estremità e rimase in attesa. Gli uomini ripresero a parlare. Bowling. Il successo della squadra femminile svedese a New York. Strike e punti, e il sudore gli bruciava gli occhi. Fa caldo. Troppo caldo. Il corpo del ragazzo era appeso nella posizione corretta, non gli rimaneva altro da fare che mettersi al lavoro rapidamente, prima che si svegliasse. Non potevano andarsene? Ma continuavano a parlare di bowling, di come agli inizi qualcuno era rimasto con il pollice incastrato nella palla ed era stato costretto ad andare all'ospedale per liberarlo. Non poteva più aspettare. Infilò l'imbuto nel bidone di plastica e lo avvicinò alla gola del ragazzo. Prese il coltello. Quando stava per incidere, gli uomini lì fuori avevano smesso di parlare. E gli occhi del ragazzo erano aperti. Spalancati. Le sue pupille si muovevano spasmodicamente in quella testa all'ingiù, cercando di capire, di trovare un punto fermo. Håkan rimase dov'era, nudo, con il coltello in mano. Per un attimo, si guardarono dritto negli occhi.
Poi, il ragazzo aprì la bocca e lanciò un urlo straziante. Håkan indietreggiò, sbattendo contro la parete della cabina con un suono molle. La sua schiena umida di sudore scivolò lungo la parete e perse quasi l'equilibrio. Il ragazzo continuava a urlare. Il suono si propagava nello spogliatoio, echeggiava fra le pareti, si amplificava, rintronava nelle orecchie di Håkan. Strinse il manico del coltello con tutta la sua forza, l'unica cosa a cui riusciva a pensare era di far tacere il ragazzo. Doveva tagliargli la testa per farlo smettere. Si accovacciò. Qualcuno bussò violentemente alla porta. «Ehi! Aprite!» Håkan lasciò cadere il coltello. Il tintinnio del metallo sul pavimento di cemento si udì appena fra il rumore dei colpi sulla porta e le urla del ragazzo. La porta vibrava per i colpi sempre più forti. «Apri! O buttiamo giù la porta!» Era finita. Adesso era finita. Adesso gli rimaneva una sola cosa da fare. Il rumore intorno a lui svanì, quando volse lo sguardo verso la borsa il suo campo visivo si ridusse a un tunnel. Attraverso quel tunnel vide la sua mano allungarsi verso la borsa e prendere il barattolo di vetro. Scivolò lungo la parete e si mise a sedere con il barattolo in mano, svitò il coperchio. Rimase in attesa. Quando fossero riusciti ad aprire la porta. Prima che fossero riusciti a togliergli la maschera. Il volto. Senza sentire i colpi e le urla, pensò al suo amore. Al tempo che avevano trascorso insieme. Davanti ai suoi occhi, si formò l'immagine del suo amore, come un angelo. Un angelo che scendeva dal cielo per venirlo a prendere, allargava le sue ali per portarlo con sé. Là, dove sarebbero stati insieme per sempre. La porta si aprì violentemente e sbatté contro la parete della cabina. Fuori c'erano tre uomini, più o meno vestiti. Fissavano increduli la scena davanti ai loro occhi. Håkan annuì lentamente, rassegnato. Poi urlò. «Eli! Eli!» E si gettò l'acido cloridrico concentrato sul viso. Gioite! Gioite! Gioite in Dio vostro Signore! Gioite! Gioite!
E onorate il vostro Dio e re! Staffan cantava con la madre di Tommy, suonando il piano. Di tanto in tanto i due si scambiavano uno sguardo, si sorridevano. Tommy era seduto sul divano di pelle e soffriva. Aveva trovato un piccolo buco sul bracciolo, e mentre Staffan e sua madre cantavano lavorava per allargarlo. La punta dell'indice arrivò a toccare l'imbottitura e Tommy si chiese se Staffan e sua madre avessero fatto l'amore su quel divano qualche volta. Sotto i barometri. La cena era stata okay, una specie di pollo marinato con riso di contorno. Dopo, Staffan aveva portato Tommy nella camera da letto per fargli vedere la cassaforte dove teneva le sue pistole. Era sotto il letto e Tommy si era chiesto la stessa cosa. Avevano fatto l'amore su quel letto? Chissà se la mamma pensava al papà quando Staffan la toccava. E Staffan si eccitava al pensiero delle sue pistole sotto il letto? E la mamma? Staffan finì di suonare. Tommy tolse il dito dal buco che ora era molto più grande. Sua madre fece un cenno con il capo a Staffan, gli prese la mano e si mise a sedere di fianco a lui sullo sgabello del piano. Da dove Tommy era seduto, il ritratto della Vergine Maria era proprio sopra le loro teste, come se fosse un effetto voluto, preparato in precedenza. Sua madre fissò Staffan, sorrise e poi si rivolse a Tommy. «Tommy. C'è una cosa che vogliamo dirti.» «Avete deciso di sposarvi?» Sua madre esitò. Se avevano fatto le prove in precedenza, con la scenografia e tutto il resto, non avevano preso in considerazione quella risposta. «Sì. Tu cosa ne dici?» Tommy scrollò le spalle. «È okay. Fatelo pure.» «Avevamo pensato a quest'estate, forse.» Sua madre lo fissò come per chiedergli se avesse una proposta migliore. «Sì, sì. Certo.» Tommy rimise l'indice nel buco e lo lasciò lì. Staffan si chinò in avanti. «So che non potrò sostituire tuo padre. In nessun modo. Ma spero che tu e io potremo... imparare a conoscerci e... sì. Che potremo diventare amici.» «Dove andrete ad abitare?» Improvvisamente il volto di sua madre si rattristò. «Noi, Tommy. Questo vale anche per te. Non sappiamo ancora. Ma avevamo pensato di cercare una casetta ad Ängby. Se possibile.» «Ängby?»
«Sì. Cosa ne pensi?» Tommy fissò il riflesso trasparente di sua madre e di Staffan sul ripiano di vetro del tavolino. Sembravano due fantasmi. «Costa un sacco di soldi.» «Cosa?» «Una casetta ad Ängby. Lì le case costano un sacco di soldi. Avete così tanti soldi?» Staffan stava per rispondere, quando il telefono squillò. Fece una carezza sulla guancia di lei, si alzò e andò a rispondere in ingresso. La madre di Tommy andò a sedersi sul divano. «L'idea di Ängby non ti piace?» «La adoro.» Dall'ingresso si udiva la voce di Staffan. Era eccitato. «Buon Dio... vengo immediatamente. Dobbiamo... no, in quel caso vado direttamente là. D'accordo. Okay.» Staffan tornò nel soggiorno. «L'assassino di Vällingby. Alla centrale sono a corto di uomini, così devo...» Andò rapidamente nella camera da letto e Tommy sentì la cassaforte aprirsi e chiudersi. Qualche minuto dopo, Staffan tornò con indosso l'uniforme. Dal suo sguardo si capiva che era teso. Baciò la madre di Tommy sulla bocca e diede un colpetto sul ginocchio di Tommy. «Devo andare immediatamente. Parleremo più tardi.» Si affrettò verso l'ingresso, Tommy e sua madre lo seguirono. Mentre tornava nel soggiorno, Tommy udì spezzoni di frasi: «stai attento» e «ti amo» e «rimani». Senza sapere perché, Tommy si avvicinò al piano, allungò un braccio e prese la statuetta del tiratore. Era pesante, almeno due chili. Mentre sua madre e Staffan si salutavano - tutto questo piace a entrambi, l'uomo che parte per la guerra, la donna che si strugge Tommy andò sul balcone. L'aria fredda della sera gli riempì i polmoni e gli sembrava di poter respirare per la prima volta da due ore. Si chinò in avanti sulla ringhiera e vide che sotto c'era una macchia di cespugli. Alzò la statuetta sopra la ringhiera e la lasciò cadere. Cadde fra i cespugli con un fruscio. Sua madre uscì sul balcone e si mise accanto a lui. Alcuni secondi dopo, il portone si aprì e Staffan uscì, mettendosi a correre verso il parcheggio. La madre di Tommy alzò una mano e fece un cenno di saluto. Ma Staffan non alzò la testa. Quando passò proprio sotto il balcone, Tommy ridacchiò.
«Cosa c'è?» chiese sua madre. «Niente.» Soltanto un piccolo uomo con una pistola nascosto fra i cespugli che sta prendendo di mira Staffan. Nient'altro. Tommy si sentiva bene, a dispetto di tutto. La combriccola era stata rinforzata con Karlsson, il solo che avesse «un vero lavoro», come aveva l'abitudine di dire. Larry era andato in pensione anticipata alcuni anni prima, Morgan lavorava di tanto in tanto da uno sfasciacarrozze, e nessuno sapeva esattamente di cosa vivesse Lacke. Non capitava spesso che avesse qualche soldo. Karlsson aveva un impiego fisso nel negozio di giocattoli a Vällingby. Un tempo ne era stato il proprietario, ma era stato costretto a venderlo a causa di «difficoltà finanziarie». Alla fine, il nuovo proprietario lo aveva assunto perché, a detta di Karlsson, non si poteva negare che «dopo trent'anni in quel settore aveva acquisito una certa esperienza.» Morgan si appoggiò allo schienale della sedia, divaricò le gambe, mise le mani dietro la testa e fissò Karlsson. Lacke e Larry si scambiarono un'occhiata. Adesso cominciava. «Allora Karlsson. Cosa c'è di nuovo nel settore dei giocattoli? Hai escogitato qualche nuovo metodo per fregare la paglietta ai ragazzini?» Karlsson sbuffò. «Non sai di cosa stai parlando. Se c'è qualcuno che è rimasto fregato, quello sono io. Non puoi immaginare la portata dei piccoli furti. I giovani...» «Sì, sì. È facile comprare giocattoli di plastica dalla Corea per due corone e rivenderli a cento.» «Noi non vendiamo roba simile.» «Ah no? Allora cosa ho visto nella vetrina l'altro giorno? I puffi. Cosa sono? Giocattoli fatti a mano qui in Svezia?» «Trovo molto strano che la predica venga da uno che vende auto che funzionano solo se si usa un cavallo per trainarle.» E così continuò. Larry e Lacke ascoltavano, a volte ridevano, facevano un commento. Se Virginia fosse stata presente, Morgan sarebbe stato ancora più insistente, e non si sarebbe arreso finché Karlsson non avesse veramente perso le staffe. Ma Virginia non c'era. E neppure Jocke. La giusta atmosfera stentava a crearsi, per questo la discussione aveva già iniziato a placarsi quando verso
le otto e mezza la porta di ingresso si aprì. Larry alzò lo sguardo e vide una persona che non avrebbe mai immaginato potesse mettere piede lì. Gösta. "Bomba puzzolente", come lo aveva soprannominato Morgan. Larry aveva parlato con Gösta un paio di volte mentre erano seduti su una panchina fra le case, ma non lo aveva mai incontrato lì. Gösta sembrava sconvolto. Si muoveva come se il suo corpo fosse composto da pezzi incollati insieme malamente, che avrebbero potuto staccarsi se si fosse agitato troppo. Aveva gli occhi socchiusi e faceva un mezzo passo avanti e poi uno indietro. Doveva essere ubriaco fradicio o malato. Larry gli fece un gesto. «Gösta! Vieni a sederti!» Morgan volse il capo, scorse Gösta e disse: «Oh, merda.» Gösta si avvicinò al loro tavolo camminando come se stesse attraversando un campo minato. Larry spostò una sedia e lo invitò a sedersi. «Benvenuto al club.» Gösta sembrò non averlo sentito, ma si trascinò fino alla sedia. Indossava un vestito liso con panciotto e farfalla, i capelli pettinati all'indietro. E puzzava. Piscio, piscio, piscio. Anche all'aperto la puzza era tangibile, ma tollerabile. Ma all'interno, nel caldo del locale, emanava un tale odore di urina stantia da costringere chi gli era vicino a respirare con la bocca per sopportarlo. Tutti, Morgan compreso, facevano uno sforzo per evitare che i loro volti rivelassero quello che il loro naso sentiva. Il cameriere si avvicinò al loro tavolo, ma quando percepì l'odore di Gösta si fermò. «Cosa... posso servire?» Gösta scosse il capo senza guardare il cameriere, che inarcò le sopracciglia, e Larry fece un gesto come per dire «nessun problema, me ne occupo io». Il cameriere si allontanò e Larry mise una mano sulla spalla di Gösta. «A cosa dobbiamo l'onore?» Gösta si schiarì la gola tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. «Jocke.» «Cosa è successo?» «È morto.» Larry sentì Lacke ansimare dietro di lui. Continuò a tenere la mano sulla spalla di Gösta per incoraggiarlo. Sentiva che ne aveva bisogno. «Come fai a saperlo?» «L'ho visto. Quando è successo. Quando è stato ucciso.»
«Quando?» «Sabato. Sera.» Larry tolse la mano dalla sua spalla. «Sabato? Ma... lo hai detto alla polizia?» Gösta scosse il capo. «Non ne ho avuto la forza. E poi io... non l'ho visto. Ma lo so.» Lacke si mise le mani sul volto. «Lo sapevo, lo sapevo» mormorò. Gösta iniziò a raccontare. Il ragazzo che aveva rotto la lampada più vicina al ponte scagliando una pietra, Jocke che era arrivato sotto il ponte e non ne era più uscito. La vaga traccia, il contorno di un corpo impresso sulle foglie morte il mattino dopo. Quando finì il suo racconto, erano diversi minuti che il cameriere continuava a fare gesti irati indicando alternativamente Gösta e la porta. Larry mise una mano sul braccio di Gösta. «Cosa stai dicendo? Andiamo a vedere?» Gösta annuì e si alzò. Morgan ingurgitò l'ultimo sorso di birra e osservò sogghignando Karlsson che, come sempre, da spilorcio quale era, aveva piegato il giornale e lo stava mettendo nella tasca del cappotto. Soltanto Lacke era rimasto seduto giocando con alcuni stuzzicadenti piegati davanti a lui sul tavolo. Larry si chinò in avanti. «Non vieni con noi?» «Certamente. Me lo sentivo.» «Sì. Allora non vieni con noi?» «Sì. Voi andate. Io arrivo.» Quando uscirono nell'aria fredda della sera, Gösta sembrò calmarsi. Iniziò a camminare a passo così svelto che Larry fu costretto a chiedergli di rallentare, il suo cuore non ce la faceva. Karlsson e Morgan camminavano l'uno di fianco all'altro dietro di loro, Morgan aspettava che Karlsson dicesse qualcosa di stupido per poterlo prendere in giro. Non aspettava che quello, ma persino Karlsson sembrava assorto nei suoi pensieri. La lampada rotta era stata sostituita e sotto il ponte c'era abbastanza luce. Rimasero in gruppo ascoltando il racconto di Gösta che indicava i mucchi di foglie morte battendo i piedi a terra per scaldarli. Cattiva circolazione. L'eco sotto il ponte faceva pensare a un plotone in marcia. Quando finì di parlare, Karlsson disse: «Ma non c'è una prova concreta.» Era la replica che Morgan aveva aspettato. «Maledizione, non hai sentito quello che ha detto Gösta? Credi che se ne
stia qua a mentire?» «No» disse Karlsson, come se stesse rivolgendosi a un bambino. «Quello che voglio dire è che forse la polizia non sarebbe altrettanto incline a credere al racconto di Gösta senza una prova.» «Ma lui è un testimone.» «Credi che basterà?» Larry tese il braccio e indicò i mucchi di foglie morte. «La domanda è dove può essere finito. Ammesso che le cose stiano così.» Lacke li raggiunse, si mise accanto a Gösta e indicò a terra. «Lì?» Gösta annuì. Lacke infilò le mani in tasca e rimase a fissare a lungo le forme irregolari delle foglie come se stesse cercando di risolvere un puzzle gigante. I muscoli delle sue mascelle si irrigidivano, si rilassavano, si irrigidivano nuovamente. «Sì? Allora cosa ne dite?» Larry fece un passo verso di lui. «Mi dispiace, Lacke.» Lacke alzò una mano come se volesse tenere Larry lontano da sé. «Cosa ne dite? Cerchiamo il bastardo che lo ha fatto oppure no?» Gli altri volsero lo sguardo in tutte le direzioni possibili salvo che verso Lacke. Larry stava per dire qualcosa su come sarebbe stato difficile, probabilmente impossibile, ma rinunciò. Alla fine, Morgan si schiarì la gola e si avvicinò a Lacke. Gli mise una mano sulla spalla. «Lo prenderemo, Lacke. Lo prenderemo.» Guardando in basso, al di là della ringhiera, Tommy ebbe l'impressione di intravedere un bagliore argenteo. Ricordava uno di quei trofei che Qui, Quo e Qua avevano l'abitudine di portare a casa dopo i concorsi. «A cosa stai pensando?» chiese sua madre. «A Paperino.» «Staffan non ti piace molto, non è così?» «È okay.» «Sei sicuro?» Tommy volse lo sguardo verso il centro del quartiere. Vide la grande V del neon che ruotava lentamente sopra di tutto. Vällingby. Vittoria. «Ti ha fatto vedere le sue pistole?» «Perché me lo chiedi?»
«Me lo stavo chiedendo. Lo ha fatto?» «Non capisco dove vuoi arrivare.» «È semplice. Ha aperto la cassaforte, e ti ha fatto vedere le sue pistole?» «Sì. E allora?» «Quando lo ha fatto?» Sua madre spazzò via qualcosa dalla camicetta e poi si passò le mani sulle braccia. «Incomincio ad avere freddo.» «Stai pensando a papà?» «Sì, penso a lui. Di continuo.» «Di continuo?» Sua madre sospirò, piegò il capo per poterlo vedere meglio negli occhi. «Dove vuoi arrivare?» «Dove vuoi arrivare tu?» Tommy teneva le mani intorno alla ringhiera, sua madre pose una mano sulla sua. «Vieni con me da papà domani?» «Domani?» «Sì. È il giorno dei morti.» «No, non è domani. Ma verrò.» «Tommy...» Sua madre gli prese i polsi, lo fece voltare verso di sé e lo abbracciò. Tommy rimase rigido per un secondo. Poi, si liberò dalla presa e rientrò. Mentre infilava la giacca si rese conto che, se voleva recuperare la statuetta, doveva far rientrare sua madre dal balcone. La chiamò e lei rientrò rapidamente, piena di speranza per una parola. «Sì... saluta Staffan.» Il volto di sua madre si illuminò. «Lo farò. Non vuoi rimanere ad aspettarlo?» «No, io... può volerci tutta la notte.» «Sì. Sono un po' preoccupata.» «Non ce n'è bisogno. Staffan sa sparare. Ciao.» «Ciao...» La porta si chiuse alle spalle di Tommy. «Figlio mio...» Quando la ruota destra della Volvo sbatté ad alta velocità contro il bordo del marciapiede, si udì un rumore secco. Le mascelle di Staffan si chiusero
automaticamente con un colpo che rintronò nel suo cervello, per un attimo non vide più nulla e per poco non investiva un uomo anziano che stava raggiungendo il capannello di curiosi che si era formato intorno all'auto della polizia davanti all'entrata principale della piscina. L'agente Larsson stava parlando alla radio. Chiedeva rinforzi, o forse un'ambulanza. Staffan fermò la sua macchina dietro a quella della polizia in modo da lasciare spazio a eventuali rinforzi, scese e chiuse l'auto a chiave. Chiudeva sempre a chiave, anche se doveva allontanarsi soltanto per un minuto. Non perché temesse che qualcuno potesse rubarla, ma non voleva perdere l'abitudine e magari dimenticare di chiudere a chiave l'auto di servizio. Si avviò verso l'entrata principale, cercando di assumere un'aria autoritaria visto il numero di spettatori; sapeva di avere un aspetto che ispirava fiducia nella maggior parte delle persone. Con tutta probabilità, molti dei passanti fermi a osservare avevano pensato: «Ah, ecco quello che metterà a posto tutto.» Nell'atrio c'erano quattro uomini in costume da bagno con gli asciugamani intorno al collo. Staffan li oltrepassò, ma uno di loro gli corse dietro a piedi nudi. «Scusi, ma... i nostri vestiti?» disse toccandogli un braccio. «Sì, e allora?» «Quando possiamo andare a prenderli?» «I vostri vestiti?» «Sì, sono nello spogliatoio e non ci lasciano entrare.» Staffan aprì la bocca per dire bruscamente che i loro vestiti erano una parte importante del caso, quando una donna che indossava una maglietta bianca arrivò portando una pila di accappatoi. Staffan le fece un cenno con il capo e continuò verso lo spogliatoio. Nel corridoio incontrò un'altra donna con una maglietta bianca che accompagnava un ragazzo sui dodici tredici anni verso l'uscita. L'accappatoio bianco che indossava faceva risaltare ancora di più il suo volto rosso. I suoi occhi erano privi di espressione. La donna fissò Staffan con uno sguardo che poteva sembrare di accusa. «Sua madre sta venendo a prenderlo.» Staffan annuì. Il ragazzo era... la vittima? Avrebbe voluto chiederlo alla donna, ma nella fretta non riuscì a trovare il modo adeguato per formulare la domanda. Il commissario Holmberg doveva aver annotato nome e particolari, e giudicato che la cosa migliore fosse lasciare che la madre se ne
prendesse cura, lo seguisse in ambulanza, e poi all'unità di crisi per la consueta terapia. Proteggi i più indifesi. Staffan arrivò alla fine del corridoio e salì le scale di corsa ringraziando mentalmente per la grazia ricevuta e pregando Dio di dargli la forza per la prova che lo stava aspettando. L'assassino era veramente ancora nell'edificio? Fuori dallo spogliatoio, sotto il cartello «Uomini», erano in tre a parlare con Holmberg. Solo uno era vestito. Il secondo era senza pantaloni, il terzo a torso nudo. «Grazie al cielo sei arrivato così in fretta» disse Holmberg. «È ancora lì?» Holmberg fece un gesto verso la porta dello spogliatoio. «Lì dentro.» Staffan indicò i tre uomini. «Sono...?» Prima che Holmberg riuscisse a rispondere, l'uomo senza pantaloni fece un passo in avanti e disse non senza un tono di orgoglio: «Noi siamo i testimoni.» Staffan annuì e si rivolse a Holmberg. «Non dovrebbero...» «Sì, ma ho voluto aspettare il tuo arrivo. Sembra che non sia violento.» Poi disse gentilmente ai tre uomini: «Ci faremo vivi. La cosa migliore che potete fare è tornare a casa. Ah, un'altra cosa. Capisco che non sarà facile, ma cercate di non discutere fra voi di quello che è accaduto.» L'uomo senza pantaloni sorrise furbescamente. «Vuole dire, per evitare che qualcuno ci senta?» «No, ma potreste immaginare di avere visto cose che in verità non avete visto, ma che credereste di avere visto solo perché qualcun altro le ha viste.» «Non il sottoscritto. Io ho visto quello che ho visto ed è stata la cosa più orribile...» «Credetemi. Capita ai migliori. E adesso, se volete scusarci... Grazie per l'aiuto.» I tre si avviarono verso il corridoio borbottando. Holmberg se la cavava bene in situazioni di quel genere. Sapeva parlare con la gente. Lo faceva spesso. Andava nelle scuole e parlava di droga e del lavoro della polizia. Ultimamente non si occupava spesso di indagini.
Dallo spogliatoio si udì un rumore metallico, come se una posata fosse caduta sul pavimento. Staffan sussultò, rimase in ascolto. «Non è pericoloso?» «Sembra che sia ferito gravemente. Si è gettato in faccia un qualche acido.» «Perché?» Holmberg non rispose, fece un cenno verso la porta. «Sarà meglio andare a chiederglielo.» «Armato?» «Probabilmente no.» Holmberg indicò il vano di una finestra; sul ripiano di marmo c'era un grosso coltello da cucina con il manico di legno. «Non avevo un sacchetto di plastica. E poi il tipo senza pantaloni ha avuto il tempo di toccarlo prima che arrivassi. Lo prenderemo dopo.» «Vuoi che lo lasciamo lì?» «Hai un'idea migliore?» Staffan scosse il capo e nel silenzio riuscì a distinguere due cose. Un debole, aritmico suono sibilante dall'interno dello spogliatoio. Come il vento quando soffia nella canna di un camino. Un flauto scheggiato. E poi l'odore. Quello che in un primo momento aveva creduto fosse l'odore del cloro che impregnava l'intero edificio. Ma era qualcos'altro. Un odore pungente e denso che solleticava le narici. Staffan arricciò il naso. «Dobbiamo...» Holmberg annuì, ma non si mosse. Veleno e bambini. Certo. Staffan prese la pistola dalla fondina e mise la mano sulla maniglia della porta. Era la terza volta nei suoi dodici anni di servizio che entrava in un locale con la pistola in pugno. Non sapeva se fosse corretto, ma nessuno avrebbe potuto biasimarlo. Un assassino di ragazzi. Chiuso all'interno di un locale, forse disperato, anche se ferito. Staffan fece un cenno, e Holmberg aprì la porta. L'odore li colpì al volto. Penetrava nelle narici e faceva venire le lacrime agli occhi. Staffan tossì. Prese un fazzoletto dalla tasca e si coprì la bocca e il naso. Talvolta aveva assistito i pompieri mentre spegnevano le fiamme divampate in una casa, l'odore era lo stesso. Ma non c'era fumo, soltanto una leggera nebbia volteggiava nel locale. Buon Dio, cosa può essere? Potevano ancora udire il suono del battito monotono dietro gli armadietti
davanti a loro. Staffan fece segno a Holmberg di andare dall'altro lato della fila, così sarebbero arrivati da due parti. Raggiunse l'angolo e si chinò in avanti con la pistola pronta. Vide un cestino di metallo per la carta riverso a terra e vicino il corpo nudo di un uomo. Holmberg apparve al lato opposto e gli fece segno che tutto era sotto controllo, non sembrava che ci fosse pericolo. Staffan provò una punta di irritazione notando che, ora che non c'era più pericolo, Holmberg sembrava voler prendere il comando. Respirò profondamente attraverso il fazzoletto, lo tolse e disse ad alta voce: «Siamo della polizia. Mi senti?» L'uomo disteso sul pavimento non diede segno di avere sentito, continuava semplicemente a emettere quel suono monotono con la faccia sul pavimento. Staffan fece un passo avanti. «Distendi le mani in modo che possa vederle.» L'uomo non si mosse. Ma ora che era più vicino, Staffan vide che il corpo dell'uomo si contraeva senza sosta. La sua intimazione era stata inutile. Un braccio dell'uomo era riverso sul cestino di metallo, l'altro disteso sul pavimento. I palmi delle mani erano gonfi e la pelle bruciata. Acido... il suo viso... Staffan si premette nuovamente il fazzoletto sulla bocca e sul naso e si avvicinò all'uomo rimettendo la pistola nella fondina, sicuro che se fosse successo qualcosa Holmberg lo avrebbe coperto. Il corpo si muoveva spasmodicamente e si udiva un suono leggero quando la pelle nuda si staccava dalle piastrelle e veniva risucchiata a terra. La mano sul pavimento saltava su e giù come una trota in un fiume di montagna. E quel continuo suono che usciva dalla sua bocca: «... eeiiieeiii...» Staffan fece cenno a Holmberg di tenersi a un paio di passi di distanza e si accovacciò di fianco al corpo. «Riesci a sentirmi?» L'uomo smise di emettere quel suono. Improvvisamente, il corpo si irrigidì, fece una giravolta spasmodica e rotolò sulla schiena. Il volto. Staffan si alzò di scatto, fece un passo all'indietro, perse l'equilibrio e cadde sul pavimento battendo il coccige. Quando una fitta insopportabile di dolore si propagò lungo la spina dorsale, strinse i denti per non urlare. Chiuse gli occhi. Li riaprì. Non ha più la faccia.
Staffan aveva visto drogati in preda ad allucinazioni che avevano ripetutamente sbattuto la faccia contro il muro. Aveva visto il viso di un uomo che aveva cercato di saldare un serbatoio di benzina senza prima svuotarlo. Il serbatoio gli era scoppiato in faccia. Ma non era niente in confronto a quello che vedeva ora. Il naso dell'uomo era completamente corroso, al suo posto c'erano soltanto due buchi. Le labbra si erano saldate insieme e non restava che uno spiraglio libero in un angolo della bocca. Un occhio era scivolato su quello che rimaneva di una guancia, l'altro era spalancato. Staffan fissò quell'occhio, era la sola cosa che ricordava qualcosa di umano in quella massa informe. Era striato di sangue, l'uomo non poteva chiuderlo, la palpebra era ridotta a un brandello di pelle. Il resto del viso era un mucchio di cartilagini e ossa che sporgevano fra i pezzi di carne e di pelle. I muscoli nudi e lucidi si contraevano e si rilassavano, contorcendosi come un'anguilla appena uccisa. Tutto il volto, quello che era stato un volto, aveva una vita propria. Staffan sentì un conato di nausea salirgli in gola e, se non fosse stato impegnato a controllare il dolore al fondoschiena, avrebbe sicuramente vomitato. Tirò lentamente le gambe sotto di sé, si alzò in piedi appoggiandosi a un armadietto. L'occhio spalancato continuava a fissarlo. «È la cosa più...» Holmberg si era avvicinato e stava fissando il corpo sul pavimento con le braccia penzolanti lungo i fianchi. Non era solo il volto. L'acido era scivolato sul torace dell'uomo. La pelle sopra una delle clavicole non c'era più e l'osso sporgeva bianco come il gesso da una massa di carne informe. Holmberg scosse il capo, alzò una mano e la abbassò e la rialzò nuovamente. Iniziò a tossire. «È la cosa più orribile che...» Erano le undici e Oskar era disteso sul suo letto. Iniziò a battere sulla parete. E.L.I. E.L.I. Nessuna risposta. Venerdì 30 ottobre
I ragazzi della 6B erano allineati fuori dalla scuola in attesa che il signor Ávila, l'insegnante di ginnastica, desse l'okay. Tutti avevano in mano le borse, perché Dio aiutasse chi aveva dimenticato qualcosa o non aveva un motivo valido per saltare la lezione. Erano disposti a un braccio di distanza l'uno dall'altro, così come l'insegnante gli aveva detto il primo giorno di lezione, in quarta, quando aveva rilevato la responsabilità della loro educazione fisica. «Mantenete una linea dritta. A un braccio di distanza.» Durante la guerra il signor Ávila era stato pilota di caccia. In un paio di occasioni aveva intrattenuto i ragazzi con storie di duelli aerei e atterraggi di fortuna in campi di grano. I ragazzi erano rimasti impressionati. Lo rispettavano. Ancor prima che il signor Ávila facesse la sua comparsa, persino le classi considerate difficili e indisciplinate si disponevano ubbidientemente a distanza di un braccio. Se la fila non era come lui voleva, li lasciava aspettare altri dieci minuti, oppure annullava la partita di pallavolo che aveva promesso e la sostituiva con flessioni sulle braccia e piegamenti. Come tutti gli altri, anche Oskar aveva paura di quell'insegnante. Con quei capelli brizzolati tagliati a spazzola, il naso aquilino, la perfetta forma fisica e la presa ferrea, non era certo il tipo che amava un ragazzo sovrappeso perseguitato dai compagni, né era pronto a simpatizzare con lui. Ma durante le sue lezioni regnava l'ordine. Né Jonny, né Micke e tantomeno Tomas osavano fare qualcosa quando il signor Ávila era nelle vicinanze. Johan fece un passo avanti, gettò uno sguardo verso la scuola. Alzò il braccio in un saluto nazista e disse imitando l'accento spagnolo: «In riga! Oggi esercitazione antincendio! Con funi!» Alcuni ragazzi risero nervosamente. Il signor Ávila aveva un debole per le esercitazioni antincendio. Una volta al trimestre, gli allievi dovevano esercitarsi a calarsi dalle finestre con le funi, mentre il signor Ávila cronometrava il tutto. Se riuscivano a battere il record precedente, avrebbero potuto giocare una partita a loro scelta. Ammesso che se la fossero meritata. Johan tornò rapidamente in riga. Per sua fortuna, perché pochi secondi dopo il signor Ávila apparve sul portone e si avviò con passo deciso verso la palestra. Guardava dritto davanti a sé senza degnare la classe di uno sguardo. Arrivato a metà strada fece un gesto - andiamo! - con la mano senza fermarsi e senza girare il capo. La fila di ragazzi si mise in movimento cercando di mantenere la distanza prescritta. Tomas, che camminava dietro Oskar, pestò il tallone della
scarpa di Oskar e la fece scivolare giù. Oskar continuò a camminare. Dall'incidente con le fruste di due giorni prima lo avevano lasciato in pace. Naturalmente non gli avevano chiesto scusa o qualcosa di simile, ma la ferita sulla guancia era ben visibile e si erano accontentati di quello. Per il momento. Eli. Oskar, costretto ad arcuare le dita dei piedi per non perdere la scarpa, continuò a marciare verso la palestra. Dov'era Eli? La sera prima era rimasto a lungo alla finestra per vedere se il padre tornava a casa. Invece aveva visto Eli uscire verso le dieci. Poi era arrivata l'ora della cioccolata calda e dei biscotti con la mamma, e forse si era perso il suo ritorno a casa. Ma quando aveva battuto un messaggio alla parete, Eli non aveva risposto. La fila si sciolse e la classe si affollò nello spogliatoio. Il signor Ávila li stava aspettando con le braccia incrociate sul petto. «Bene. Oggi allenamento. Alla barra, al cavallo con maniglie. E salto con la corda.» Un profondo sospiro. Un secco cenno del capo. «Se lavorate bene, la prossima lezione potrete giocare a spöckball. Ma oggi allenamento.» Nessuna possibilità di discussione. Dovevano accontentarsi della sua promessa, e tutti si cambiarono rapidamente. Come sempre, quando tirava giù i pantaloni, Oskar faceva in modo di volgere la schiena agli altri. La palla salvapipì dava uno strano aspetto alle sue mutande. Arrivati nella palestra, alcuni iniziarono a disporre gli attrezzi. Johan e Oskar si occuparono dei tappeti. Quando tutto fu pronto, il signor Ávila portò il fischietto alle labbra. C'erano cinque postazioni e la classe fu divisa in cinque gruppi di due ragazzi ciascuno. Oskar e Staffe erano insieme, un dato positivo, considerando che Staffe era l'unico della classe a essere peggiore di Oskar in ginnastica. Aveva una forza tremenda, ma era maldestro. Ed era anche più grasso di Oskar. Eppure nessuno lo prendeva in giro. C'era qualcosa nel suo portamento che faceva capire che chi avesse cercato di fare il furbo con lui sarebbe finito nei guai. Il signor Ávila soffiò nel fischietto e iniziarono. Afferrare la barra, tirarsi su con le braccia. Mento sulla barra, giù, nuovamente su. Oskar ci riuscì due volte. Staffe arrivò a cinque, poi si arrese. Il segnale del fischietto. Piegamenti. Staffe rimase immobile sul tappeto con lo sguardo fisso al soffitto. Oskar se la cavò fino al nuovo segnale.
Salto con la corda. Oskar lo faceva bene. Continuava a saltare, mentre il povero Staffe non la smetteva di inciampare. Poi i soliti piegamenti sulle braccia. Staffe poteva andare avanti all'infinito. E per finire il cavallo. Il maledetto cavallo. Era qui che era bello essere con Staffe. Oskar aveva osservato con la coda dell'occhio Micke, Jonny e Olof e aveva visto come volavano sul cavallo saltando sulla pedana. Staffe si mise in posizione, prese la rincorsa, la pedana scricchiolò, ma lui non riuscì a salire sul cavallo. Si girò per tornare indietro. Il signor Ávila gli si avvicinò. «Salta sul cavallo!» «Non ce la faccio.» «Devi, salta.» «Cosa?» «Salta. Saalta. Su e salta.» Staffe afferrò le maniglie e riuscì a passare dall'altra parte goffamente. Il signor Ávila fece un cenno a Oskar. Era il suo turno. A un certo punto della rincorsa Oskar decise. Doveva cercare di farcela. In un'occasione, il signor Ávila gli aveva detto che non doveva avere paura del cavallo, tutto dipendeva unicamente da quello. Di solito Oskar sbagliava la battuta sulla pedana, aveva paura di perdere l'equilibrio o di andare a sbattere contro il cavallo. Ma questa volta ce l'avrebbe messa tutta, fingendo di essere in grado di farlo. Il signor Ávila lo osservava, Oskar corse al massimo fino alla pedana. Non pensò per niente alla battuta, si concentrò completamente sul cavallo. Per la prima volta batté i piedi sulla pedana con forza, senza esitare, il suo corpo volò in alto da solo, le mani si allungarono per afferrare le maniglie e portare il corpo oltre. Volò sopra il cavallo a una tale velocità che, quando atterrò sul tappeto al lato opposto, perse l'equilibrio e cadde in avanti. Ma ci era riuscito! Si girò e guardò l'insegnante che, a dire il vero, non stava sorridendo, ma gli faceva dei cenni incoraggianti con il capo. «Bravo, Oskar. Soltanto un po' più di equilibrio.» Il signor Ávila fischiò e concesse un minuto di pausa prima di dare inizio a un nuovo esercizio. Questa volta, Oskar riuscì a superare il cavallo e a mantenere l'equilibrio toccando terra. Il signor Ávila soffiò nel fischietto la fine della lezione e andò nel suo ufficio mentre i ragazzi si cambiavano. Oskar abbassò le ruote del cavallo
e lo spinse fino al magazzino degli attrezzi. Gli diede un colpetto come se fosse un puledro che si era lasciato domare. Dopo si avviò verso lo spogliatoio per cambiarsi. Aveva deciso di andare a parlare con il signor Ávila di una cosa. A metà strada dall'uscita, qualcosa lo fermò. Un cappio gli passò sopra la testa e atterrò sul suo stomaco. Qualcuno lo aveva bloccato. Dietro di sé udì la voce di Jonny. «Opplà, maiale.» Si girò e, facendo così, il cappio si spostò dal suo stomaco alla schiena. Jonny era davanti a lui con le impugnature della corda nelle mani. Le faceva andare su e giù. «Opplà, opplà.» Oskar prese la corda con entrambe le mani, tirò con forza e le impugnature scivolarono via dalle mani di Jonny. La corda cadde sul pavimento dietro a Oskar. Jonny la indicò con un dito. «Adesso devi raccoglierla tu.» Oskar afferrò la corda al centro con una mano, la fece girare sopra la testa finché le impugnature non iniziarono a sbattere l'una contro l'altra e poi urlò «prendila!» e la scagliò. La corda volò via, e Jonny portò istintivamente le mani al viso per proteggersi. La corda passò sopra la sua testa e andò a sbattere contro il muro dietro di lui. Oskar uscì dalla palestra e corse giù per le scale. I battiti del suo cuore rintronavano nelle sue orecchie. Era iniziata. Fece gli scalini tre alla volta e atterrò sul pianerottolo a piedi uniti, attraversò lo spogliatoio e andò nell'ufficio del signor Ávila. Era seduto con indosso la sua tuta e stava parlando al telefono in una lingua straniera, spagnolo con tutta probabilità. L'unica parola che Oskar afferrò fu «perro», che sapeva che voleva dire «cane». Il signor Ávila gli fece cenno di sedersi sulla sedia davanti alla sua scrivania e poi continuò la conversazione. Oskar udì Jonny entrare nello spogliatoio e dire qualcosa ad alta voce. Quando il signor Ávila smise di parlare al telefono, lo spogliatoio si era ormai svuotato. «Sì, Oskar. Cosa vuoi?» chiese il signor Ávila. «Sì, mi stavo chiedendo... gli allenamenti del giovedì...» «Sì?» «Posso partecipare?» «Vuoi dire gli esercizi per la muscolatura nei locali della piscina?»
«Sì, proprio quelli. Posso iscrivermi, o...?» «Non hai bisogno di iscriverti. Basta venire. Giovedì alle sette. Vuoi venire?» «Sì. Io... sì.» «Molto bene. Ti allenerai e dopo potrai tirarti su alla barra... cinquanta volte.» Il signor Ávila alzò le braccia e le fletté un paio di volte. «Non è quello... ma verrò.» «Allora ci vediamo giovedì. Molto bene.» Oskar annuì, fece per alzarsi, e poi disse: «Come sta il cane?» «Il cane?» «Sì, l'ho sentita dire "perro". Non significa cane?» Il signor Ávila rifletté un attimo. «Ah, non "perro", "pero". In spagnolo significa "ma". Come "pero yo no". Capisci? Hai intenzione di metterti a studiare lo spagnolo?» Oskar sorrise e scosse il capo. Gli sarebbe bastato fare esercizi per i muscoli. Quando arrivò nello spogliatoio, era deserto. Si sedette su una panca e si tolse i calzoncini da ginnastica. Si guardò intorno. I suoi pantaloni erano spariti. Naturalmente. Controllò in tutto lo spogliatoio, nei bagni. Niente pantaloni. Mentre tornava a casa con indosso soltanto i calzoncini il freddo gli mordeva le gambe. Durante la lezione di ginnastica aveva iniziato a nevicare. I fiocchi di neve cadevano sulle sue gambe e si scioglievano. Arrivato nel cortile, si fermò e alzò lo sguardo verso le finestre dell'appartamento di Eli. I fiocchi di neve gli cadevano sul viso. Ne catturò qualcuno con la lingua. Avevano un buon sapore. «Guarda un po' chi c'è? Ragnar.» Holmberg indicò la piazza di Vällingby, dove la neve che cadeva aveva già formato un sottile strato sul lastricato. Un ubriaco era seduto immobile su una panchina, indossava un ampio cappotto e la neve lo stava trasformando in un pupazzo sgraziato. Holmberg sospirò. «Se non si muove fra qualche minuto, sarà meglio andare a dargli un'occhiata. Come stai?» «Così così.» Staffan aveva messo un cuscino sulla sedia per alleviare il dolore al fon-
doschiena. Avrebbe preferito andare a casa e stendersi sul letto, ma il rapporto sugli avvenimenti della sera prima doveva essere pronto e inviato ai colleghi della squadra omicidi prima del fine settimana. Holmberg fissò il suo block-notes e batté la penna sulla scrivania. «Quei tre che erano dentro lo spogliatoio. Hanno detto di avere visto l'assassino prima che si gettasse l'acido in faccia e hanno affermato che ha gridato "Eli! Eli!" Mi chiedo cosa...» Staffan sentì il cuore salirgli in gola, si chinò in avanti sulla scrivania. «Ha detto così?» «Sì? Sai cosa...» «Sì.» Staffan si appoggiò di scatto allo schienale della scrivania e una fitta di dolore gli attraversò la spina dorsale fino all'attaccatura dei capelli. Afferrò il bordo della scrivania, si raddrizzò e si passò una mano sul viso. Holmberg lo fissò. «Maledizione, sei andato a farti vedere dal medico?» «No, va bene... passerà. Eli, Eli.» «È un nome?» Staffan annuì lentamente. «Sì... significa... Dio.» «Sì, chiamava Dio. Credi che lo abbia sentito?» «Chi?» «Dio. Credi che abbia sentito? Tenendo conto delle circostanze, sembra abbastanza improbabile. In ogni caso, l'esperto sei tu. Sì, tu.» «Sono state le ultime parole che Cristo ha detto sulla croce. Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? Eli, Eli, lema sabachtani?» Holmberg sospirò e fissò i suoi appunti. «Sì, proprio così.» «Secondo Matteo e Marco.» Holmberg annuì, mise la penna fra le labbra. «Lo scriviamo nel rapporto?» Tornato a casa, Oskar si infilò un paio di pantaloni puliti, uscì nuovamente e andò al chiosco dell'amore per comprare un giornale. Correva voce che l'assassino fosse stato catturato e Oskar voleva sapere tutto. Ritagliare gli articoli e incollarli nel suo album. Avvertiva qualcosa di strano mentre camminava verso il chiosco, qualcosa di diverso dal solito, a parte la nevicata.
Tornando a casa con il giornale capì di cosa si trattava. Non si era guardato intorno. Aveva percorso tutta la strada fino al chiosco senza controllare se quelli che gli volevano male fossero da qualche parte intorno a lui. Si mise a correre. Continuò a correre fino a casa con il giornale in mano e con i fiocchi di neve che gli accarezzavano il volto. Si chiuse la porta alle spalle, entrò nella sua camera, si distese sulla pancia e iniziò a battere contro la parete. Nessuna risposta. Avrebbe voluto parlare con Eli, raccontarle. Aprì il giornale. Il complesso sportivo di Vällingby. Le auto della polizia. L'ambulanza. Il tentativo di omicidio. Le lesioni sul viso rendevano difficile l'identificazione. La fotografia dell'ospedale di Danderyd dove l'uomo era ricoverato. Il riepilogo dell'omicidio precedente. Nessun altro commento. E poi il sottomarino, il sottomarino, il sottomarino. Stato di allerta. Qualcuno suonò il campanello. Oskar saltò giù dal letto e raggiunse di corsa l'ingresso. Eli, Eli, Eli. Mise la mano sulla maniglia della porta ed esitò un attimo. E se era Jonny insieme agli altri? No, non sarebbero mai venuti a casa sua. Oskar aprì la porta e si trovò davanti Johan. «Ciao.» «Sì... ciao.» «Facciamo qualcosa?» «Sì... cosa?» «Non lo so. Qualcosa.» «Okay.» Oskar si infilò le scarpe e la giacca mentre Johan lo aspettava sul pianerottolo. «Jonny è stato veramente una merda. Giù alla palestra.» «Ha preso i miei pantaloni, non è così?» «Sì. Io so dove sono.» «Dove?» «Dietro la piscina. Ti faccio vedere dove.» Oskar pensò che in quel caso Johan avrebbe potuto prenderli e portarglieli, ma non lo disse. La generosità di Johan non arrivava a tanto. «Bene» disse soltanto, e annuì. Andarono dietro la piscina e Oskar prese i suoi pantaloni che erano appesi a un cespuglio. Poi andarono un po' in giro. Fecero palle di neve scegliendo un albero come bersaglio. In un container trovarono un rotolo di
filo elettrico che, una volta tagliato, avrebbe potuto essere usato per fare delle fionde. Parlarono dell'assassino, del sottomarino, di Jonny, Micke e Tomas che Johan considerava degli idioti. «Completamente fuori di testa.» «Ma a te non fanno mai niente.» «No. Ma lo sono ugualmente.» Arrivati al chiosco di fianco alla stazione della metropolitana, ordinarono due hot-dog ciascuno. Con una corona, avevano un panino con senape, ketchup e cipolla fresca. Il crepuscolo era iniziato. Johan parlava con la ragazza del chiosco e Oskar osservava i convogli della metropolitana che andavano e venivano, pensando ai cavi elettrici sopra i binari. Con le bocche piene del gusto di cipolla fresca si avviarono verso la scuola dove si sarebbero separati. «Credi che se uno si getta sui cavi della metropolitana crepa?» «Non lo so. Penso di sì. Mio fratello conosceva uno che è andato a pisciare sulla terza rotaia.» «Cosa gli è successo?» «È morto. La corrente ha raggiunto il suo corpo attraverso il piscio.» «Cosa? Dunque, voleva morire?» «No. Era ubriaco. Incredibile, ci pensi...» Johan mimò l'atto di tirare fuori il pene e urinare, e poi si mise a tremare con tutto il corpo. Oskar scoppiò in una risata. Arrivati alla scuola, si salutarono. Oskar si avviò verso casa con i pantaloni legati intorno alla vita fischiettando il leitmotiv di Dallas. Aveva smesso di nevicare, ma tutto era coperto da un manto bianco. Le grandi finestre smerigliate della piscina erano illuminate. Giovedì ci sarebbe andato. Per allenarsi. Per diventare più forte. Venerdì sera al ristorante cinese. L'orologio con una cornice di acciaio appeso a una parete, una nota stonata fra le lampade di carta di riso e i dragoni dorati, segna le nove meno cinque. I membri della combriccola sono seduti ai tavoli con le loro birre, lo sguardo fisso sui sottopiatti di carta. Fuori la neve ha ripreso a cadere. Virginia smuove il suo cocktail San Francisco e poi succhia l'estremità del bastoncino di plastica coronato dalla figura di Johnny Walker. Chi era Johnny Walker? Dove doveva andare? Virginia batté la cannuccia sul bicchiere e Morgan alzò lo sguardo. «Fai un discorso, o no?»
«Qualcuno deve pur farlo.» Le avevano raccontato tutto. Tutto quello che Gösta aveva detto di Jocke, del ponte, del bambino. Poi erano rimasti in silenzio. Virginia smosse il ghiaccio nel bicchiere, osservando i riflessi delle lampade su quello che rimaneva dei cubetti. «C'è una cosa che non capisco. Se a Jocke è successo quello che Gösta ha detto. Dov'è Jocke adesso?» Il volto di Karlsson si illuminò, come se quella fosse l'occasione che aveva aspettato. «È esattamente quello che ho cercato di dire. Dov'è il cadavere? Se dobbiamo...» Morgan alzò un dito e lo sventolò minacciosamente davanti a Karlsson. «Come ti permetti di chiamare Jocke "cadavere"?» «Come devo chiamarlo, allora? "Dipartito"?» «Non devi chiamarlo in alcun modo finché non sappiamo come stanno le cose.» «È esattamente quello che sto cercando di dire. Finché non sappiamo, finché loro non lo hanno trovato, non possiamo...» «Loro chi?» «Sì, cosa credi. La brigata aviotrasportata dell'esercito? La polizia, naturalmente.» Larry si strofinò gli occhi con un lungo sospiro. «Ecco dov'è il problema. Finché la polizia non lo trova non se ne interessa e, non essendo interessati, non si danno da fare a cercarlo.» «Sì, e allora cosa pensi che dovremmo dire?» chiese Morgan sogghignando. «Buongiorno, lasciate perdere tutte quelle stronzate sull'assassino di giovani ragazzi, sul sottomarino russo, lasciate perdere tutto, perché siamo tre allegri alcolisti, e uno dei nostri compagni è sparito, e adesso un altro compagno di bevute ci ha raccontato che una sera, quando era completamente sbronzo, ha visto...» «E Gösta allora? È stato lui che ha visto, è stato lui che...» «Sì, sì. Certamente. Ma Gösta è talmente nervoso che basta che un pezzo di uniforme gli sventoli sotto il naso per farlo crollare, pronto a essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Non ce la farebbe mai. Interrogatorio e tutto il resto.» Morgan scrollò le spalle. «È finita.» «Dunque, dobbiamo lasciar perdere?» «Sì, cosa diavolo possiamo fare?» Lacke, che aveva avuto il tempo di finire la sua birra mentre la conver-
sazione andava avanti, borbottò qualcosa a voce talmente bassa che era impossibile capire quello che diceva. Virginia si chinò verso di lui e mise la testa sulla sua spalla. «Cosa hai detto?» Lacke fissò con lo sguardo annebbiato il paesaggio sul suo sottopiatto. «Tu avevi detto... che dovevamo prenderlo.» Morgan batté il pugno sul tavolo facendo sobbalzare il bicchiere di birra e tese la mano davanti a sé, aperta come un artiglio. «E lo faremo. Ma prima dobbiamo avere una pista da seguire.» Lacke annuì con aria sonnolenta e fece per alzarsi. «Dobbiamo soltanto...» Le gambe si piegarono sotto di lui, si riversò in avanti sul tavolo con un fracasso di bicchieri che cadevano, e tutti gli otto clienti che stavano mangiando alzarono la testa. Virginia lo afferrò per le spalle e lo fece sedere. Lo sguardo di Lacke era perso nel vuoto. «Scusate...» Il cameriere si affrettò a raggiungere il loro tavolo passandosi freneticamente le mani sul grembiule. Si chinò in avanti fissando Lacke e Virginia e sussurrò irato: «Questo è un ristorante e non un porcile.» Virginia sfoderò il suo sorriso più smagliante e aiutò Lacke a rimettersi in piedi. «Vieni, Lacke. Andiamo a casa mia.» Fissando gli altri membri della combriccola con uno sguardo severo, il cameriere raggiunse rapidamente l'altro lato del tavolo e sostenne Lacke per un braccio, per far vedere agli altri clienti che voleva allontanare a tutti i costi l'elemento che disturbava il loro pasto. Virginia aiutò Lacke a infilarsi il pesante ed elegante cappotto fuori moda - ereditato dal padre morto un paio di anni prima - e lo spinse verso l'uscita. Dietro di sé, Virginia sentì un paio di fischi significativi da parte di Morgan e Karlsson. Con il braccio di Lacke sulla spalla, si girò e mostrò la lingua. Poi spinse la porta e uscirono. La neve cadeva lentamente in grandi fiocchi bianchi, creando uno spazio di freddo e silenzio per loro due. Mentre accompagnava Lacke verso Parkvägen, Virginia sentì che le sue guance erano rosse per il freddo. Era meglio così. «Ciao. Avrei dovuto incontrare mio padre, ma non è venuto... posso en-
trare? Dovrei fare una telefonata.» «Certamente. Il telefono è lì.» La donna indicò un piccolo tavolino sul quale c'era un telefono grigio. Di fianco alla porta d'ingresso c'era un porcospino di ghisa con gli aculei di fibra. Serviva a pulire le suole delle scarpe. Eli vi passò sopra le sue per mascherare la sua titubanza a entrare. «Allora, posso entrare?» «Sì, sì. Entra, entra.» La donna fece un gesto stanco: Eli poteva entrare. La donna sembrò perdere interesse e si avviò verso il soggiorno. Eli udì il sibilo statico del televisore. Un lungo nastro di seta, legato sui capelli grigi della donna, pendeva sulla sua schiena come un serpente mansueto. Eli si tolse le scarpe e la giacca, si avvicinò al tavolino e alzò il ricevitore del telefono. Compose un numero a casaccio, finse di parlare con qualcuno, riattaccò. Respirò dal naso. Odore di fritto, detersivo, terra, lucido per scarpe, mele, tessuto umido, elettricità, polvere, sudore, colla per carta da parati e... urina di gatto. Sì. Un gatto dal pelo grigio antracite era fermo sulla porta della cucina ed emetteva una specie di sibilo. Le orecchie tirate indietro, il pelo dritto, la schiena arcuata. Intorno al collo aveva un nastro rosso con un piccolo cilindro metallico, usato probabilmente per infilarvi un foglietto con il nome e l'indirizzo. Eli fece un passo avanti e il gatto mostrò i denti, sibilò. Il corpo teso, pronto a fare un balzo. Un altro passo. Il gatto indietreggiò continuando a sibilare e senza staccare gli occhi da Eli. L'astio che cresceva nel suo corpo faceva tremare il piccolo cilindro metallico. Si stavano studiando. Eli si mosse lentamente in avanti, costringendo il gatto a indietreggiare fino a farlo entrare in cucina, e poi chiuse la porta. Dentro, il gatto continuava a sibilare e miagolare infuriato. Eli entrò nel soggiorno. La donna era seduta su un divano di pelle talmente lucida da riflettere la luce del televisore. Teneva la schiena dritta e lo sguardo fisso sullo schermo. Su un lato della testa aveva un fiocco giallo. Sull'altro lato un secondo fiocco giallo che si era sciolto. Sul tavolino davanti a lei c'era un vassoio con un piatto di cracker e un altro con tre formaggi diversi, una bottiglia di vino da stappare e due bicchieri.
Assorta com'era nel seguire quello che accadeva sullo schermo, la donna non sembrava avere notato la presenza di Eli. Un programma sui pinguini al Polo Sud. «Il maschio tiene l'uovo sopra i suoi piedi per impedire che venga a contatto con il ghiaccio.» Una carovana di pinguini si muoveva dondolandosi sul deserto di ghiaccio. Eli si mise a sedere sul divano, di fianco alla donna che rimaneva seduta rigidamente come se il televisore fosse un insegnante severo che stava facendo lezione. «Quando la femmina torna dopo tre mesi, la riserva di grasso del maschio è praticamente esaurita.» Due pinguini si sfregarono il becco in segno di saluto. «Aspetti qualcuno?» La donna sussultò e fissò Eli dritta negli occhi con uno sguardo sorpreso per alcuni secondi. Il fiocco giallo faceva risaltare le rughe sul suo volto. La donna scosse il capo. «No. Serviti pure.» Eli non si mosse. Il paesaggio sullo schermo era cambiato. La Georgia del Sud con musica popolare. Nella cucina il miagolio del gatto si era trasformato in un appello. Nella stanza c'era un odore chimico, il sudore della donna emanava un effluvio di ospedale. «Verrà qualcuno? Qui da te?» La donna sussultò nuovamente come se fosse stata svegliata e si girò verso Eli. Questa volta però sembrava irritata, un ruga profonda si era formata fra le sue sopracciglia. «No. Non verrà nessuno. Puoi mangiare se vuoi.» Tese l'indice e indicò i formaggi a uno a uno. «Camembert, gorgonzola, roquefort. Mangia pure.» Fissò Eli con uno sguardo incoraggiante, Eli prese un cracker, lo mise in bocca e iniziò a masticare lentamente. La donna annuì e tornò a guardare il programma. Eli sputò la massa attaccaticcia in una mano e la lasciò cadere sul pavimento dietro il bracciolo del divano. «Vai pure se vuoi andare» disse la donna. «Andrò presto.» «Per me puoi rimanere quanto vuoi. Non mi dai fastidio.» Eli si accostò alla donna, come se volesse vedere meglio lo schermo, finché le loro braccia non si sfiorarono. Allora accadde qualcosa. La donna iniziò a tremare e ad afflosciarsi, come un pacchetto di caffè sottovuoto bucato. Ora, mentre fissava Eli, il suo sguardo era dolce e sognante.
«Chi sei?» Gli occhi di Eli erano a una decina di centimetri di distanza da quelli della donna. L'odore dell'ospedale fluiva dalla sua bocca. «Non lo so.» La donna annuì, prese il telecomando sul tavolino e tolse il suono. «In estate, il paesaggio della Georgia del Sud assume una bellezza...» Ora, il miagolio disperato del gatto si udiva chiaramente, ma la donna sembrava non curarsene. Indicò il grembo di Eli. «Posso?» chiese. Eli si scostò leggermente dalla donna, che tirò le gambe sotto di sé e appoggiò la testa sul grembo di Eli. Eli le accarezzò lentamente i capelli. Rimasero sedute così per un po'. I dorsi risplendenti delle balene emersero dalla superficie, spruzzarono una fontana d'acqua, si immersero. «Raccontami qualcosa.» «Cosa vuoi che ti racconti?» «Qualcosa di bello.» Eli spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio della donna. Adesso respirava lentamente e il suo corpo era completamente rilassato. Eli parlava a voce bassa. «C'era una volta, tanto tempo fa, un contadino povero e sua moglie. Avevano tre bambini. Un giovane e una fanciulla, che avevano già l'età per lavorare nei campi con gli adulti. E poi un ragazzo che aveva solo undici anni. Tutti quelli che lo incontravano dicevano che era il più bel ragazzo che avessero mai visto. Il padre era un servo, costretto a lavorare per lunghe giornate per il signorotto che possedeva la terra. Per questo, era la madre che accudiva la casa e l'orto insieme ai due figli più grandi. Il più giovane non era di grande aiuto. Un giorno, il signorotto indisse un concorso al quale dovevano partecipare tutte le famiglie che lavoravano per lui. Tutti quelli che avevano un bambino fra gli otto e i dodici anni. Non si parlava né di premio né di ricompensa. Eppure era stato indetto un concorso. Il giorno del concorso, la mamma portò il figlio più giovane al castello del signorotto. Non erano soli. Altri sette bambini, con uno o due genitori, erano già arrivati al castello. E altri tre arrivarono presto. Famiglie povere, i bambini indossavano i loro vestiti migliori. Rimasero in attesa tutto il giorno nella corte del castello. Al crepuscolo, uscì un uomo e disse che potevano entrare.» Eli ascoltò il respiro della donna, lento e regolare. Dormiva. Il suo fiato era caldo contro il suo ginocchio. Sotto il suo orecchio destro, poteva ve-
dere le pulsazioni, sotto la pelle molle e rugosa. Il gatto aveva smesso di miagolare. Sullo schermo del televisore scorrevano i titoli di coda. Eli le mise un dito sull'arteria del collo. Sotto il suo polpastrello, il battito sembrava quello di un uccellino. Si appoggiò al divano e spinse cautamente la testa della donna, finché non riposò sulle sue ginocchia. Il forte aroma del roquefort sovrastava tutti gli altri odori. Prese un plaid dallo schienale del divano, si chinò in avanti e coprì i formaggi. Un suono, un vago sibilo usciva dalla bocca della donna. Eli si chinò in avanti e avvicinò il naso alla sua arteria. Sapone, sudore, odore di pelle vecchia... quell'odore di ospedale, e qualcos'altro che non apparteneva a lei, al suo odore. E, sotto tutto questo: il sangue. Quando il naso di Eli sfiorò la sua pelle, la donna mugugnò qualcosa, iniziò a muovere la testa, ma Eli le mise un braccio intorno alle braccia e al torace e l'altro fermamente intorno alla testa. Spalancò la bocca, la posò sulla gola della donna, finché non sentì l'arteria sotto la lingua. Poi morse. Chiuse le mascelle. La donna sobbalzò, come se avesse ricevuto una scarica elettrica. Il suo corpo si stese e i suoi piedi colpirono il bracciolo con una forza tale da fare cadere Eli di schiena sulle sue ginocchia. Il sangue zampillava ritmicamente dall'arteria aperta e schizzava sulla pelle marrone del divano. La donna urlava, agitava le mani freneticamente, afferrò il plaid e lo fece cadere scoprendo i formaggi. Una zaffata di roquefort colpì le narici di Eli che si gettò sulla donna, le mise la bocca sulla gola e iniziò a succhiare avidamente. Le urla le trafiggevano le orecchie, Eli liberò un braccio e mise una mano sulla bocca della donna. Le urla furono soffocate, ma la mano libera della donna raggiunse il tavolino, afferrò il telecomando e lo sbatté contro la testa di Eli. Il crack della plastica fu immediatamente seguito dal suono del televisore che si era riattivato. La sigla musicale di Dallas si propagò nella stanza, ed Eli sollevò la testa dalla gola della donna. Il sangue aveva un sapore di medicinale. Morfina. La donna fissava Eli con gli occhi sbarrati. Adesso Eli percepiva un altro sapore. Un sapore di marcio che si confondeva con quello del roquefort. Cancro. La donna aveva il cancro. Lo stomaco di Eli si contorse per il disgusto e fu costretta a lasciare la
donna per non vomitare. La cinepresa volava sopra Southfork, la musica era in crescendo. La donna non urlava più, rimaneva distesa sulla schiena mentre il sangue veniva pompato fuori dal suo corpo con sempre minor forza, scendendo a rivoli sui cuscini del divano. Quando incrociarono quelli di Eli, i suoi occhi erano umidi e distanti e disse: «... per favore... per favore...» Eli frenò un conato di vomito e si chinò sulla donna. «Prego?» «Per favore...» «Sì. Cosa vuoi che faccia?» «... per favore... per favore...» Qualche secondo dopo, gli occhi della donna cambiarono, si irrigidirono. Non poteva più vedere. Eli le abbassò le palpebre. Gli occhi si riaprirono. Eli prese il plaid dal pavimento, glielo mise sul volto e si mise a sedere sul divano. Il sangue poteva andare bene anche se aveva un cattivo sapore, ma la morfina... Sullo schermo del televisore apparve un grattacielo di specchi. Un uomo con un vestito e un cappello da cowboy scese da una macchina e si avviò verso il grattacielo. Eli cercò di alzarsi ma non ci riuscì. Il grattacielo iniziò a inclinarsi, a girare. Gli specchi riflettevano le nuvole che scorrevano nel cielo al rallentatore e assumevano forme di animali, di piante. Quando l'uomo con il cappello da cowboy si mise a sedere dietro una scrivania e iniziò a parlare in inglese, Eli scoppiò a ridere. Capiva quello che diceva, ma non aveva alcun senso. Si guardò intorno. Tutta la stanza si piegava in modo tale che trovò strano che il televisore non cadesse. La voce del cowboy echeggiava nelle sue orecchie. Eli cercò il telecomando, ma i suoi pezzi erano sparsi sul tavolino e sul pavimento. Il cowboy deve smetterla di parlare. Scivolò sul pavimento, trascinandosi carponi verso il televisore, il rush della morfina invadeva tutto il suo corpo, rideva vedendo le figure dissolversi in macchie di colore. Era priva di forza. Si accasciò davanti al televisore con i colori che le danzavano negli occhi. Alcuni bambini stavano ancora scendendo con i loro slittini di plastica lungo il pendio fra Björnsonsgatan e il piccolo spiazzo vicino a Parkvägen. Per qualche strano motivo lo chiamavano "il pendio della morte". Tre ombre si mossero contemporaneamente dalla cima, e quando una sbagliò
strada e finì nella foresta si udì un'invettiva mista alle risate degli altri due che continuavano a scivolare lungo il pendio, volavano sopra le gobbe e atterravano con colpi sordi. Lacke si fermò, lo sguardo fisso a terra. Virginia cercò cautamente di tirarlo via con sé. «Adesso dobbiamo andare, Lacke.» «È così maledettamente difficile.» «Lo sai che non ho la forza per portarti.» Un sogghigno che avrebbe dovuto essere una risata si trasformò in tosse. Lacke tolse le mani dalle spalle di Virginia, rimase con le braccia lungo il corpo e si girò verso il pendio. «Maledizione, i ragazzi si stanno divertendo con le loro slitte di plastica, e lì...» Lacke fece un gesto verso il ponte alla fine del pendio, «... e lì Jocke è stato ammazzato.» «Non pensarci più adesso.» «Come posso smettere di pensarci? Forse è stato uno di quei ragazzi a farlo.» «Non credo.» Virginia gli prese un braccio e se lo rimise intorno al collo, ma Lacke se ne liberò. «No. Posso camminare.» Fece qualche passo in avanti. La neve scricchiolava sotto i suoi piedi. Virginia rimase immobile a osservarlo. Eccolo lì, l'uomo che amava ma con il quale non poteva vivere. Aveva tentato. Per un certo periodo, otto anni prima, dopo che la figlia di Virginia se ne era andata di casa, Lacke si era trasferito da lei. Allora come oggi, Virginia lavorava nel supermercato Ica in Arvid Mörnes Väg, poco lontano dal Chinaparken. Abitava in quella stessa strada in un appartamento di una stanza con cucina, a tre minuti dal posto di lavoro. Durante i quattro mesi di vita insieme, Virginia non era mai riuscita a scoprire cosa facesse Lacke veramente. Se la cavava con l'elettricità, le aveva montato un commutatore della luce nel soggiorno. Se la cavava anche in cucina, l'aveva sorpresa un paio di volte con fantastiche cene a base di pesce. Ma per il resto, cosa faceva? Rimaneva seduto in casa, faceva passeggiate, parlava con la gente, leggeva un buon numero di libri e riviste. Era tutto. Per Virginia, che lavorava da quando aveva finito la scuola, il suo era un modo di vivere incomprensibile. Gliene aveva parlato.
«Allora, Lacke, io non voglio dire che... ma cosa fai? Come ti procuri i soldi?» «Io non ho soldi.» «Sì, un po' di soldi li hai.» «Questa è la Svezia. Metti una sedia e un banchetto sul marciapiede. Siediti sulla sedia e aspetta. Se aspetti abbastanza a lungo, qualcuno arriva e ti dà dei soldi. Oppure arriva qualcun altro che si occuperà di te in qualche modo.» «È così che mi consideri?» «Virginia. Quando mi dirai: "Lacke, vattene", io me ne andrò.» Dovette passare un mese prima che Virginia glielo dicesse. Lacke aveva messo i suoi vestiti in una borsa e i suoi libri in un'altra e se ne era andato. Poi Virginia non lo aveva più visto per sei mesi. Era stato in quel periodo che aveva iniziato a bere sempre di più, da sola. Quando lo rivide, Lacke era cambiato. Era più malinconico. In quei sei mesi, suo padre era morto consumato dal cancro in una casa da qualche parte nella regione di Småland. Alla morte del padre, Lacke e sua sorella avevano ereditato la casa, l'avevano venduta e si erano spartiti i soldi. La parte di Lacke era stata sufficiente per comprare un appartamentino a Blackeberg, ed era tornato per rimanervi. Negli anni che seguirono si incontrarono sempre più spesso al ristorante cinese, dove Virginia andava a sere alterne. A volte tornavano a casa insieme, facevano l'amore e, secondo un tacito accordo, Lacke se ne andava prima che Virginia si svegliasse per andare al lavoro il mattino dopo. Erano una coppia nel senso più lasco del termine - talvolta passavano due tre mesi senza che dividessero il letto, e questo andava bene a entrambi. Passarono davanti al supermercato Ica, le vetrate coperte dalle grandi locandine delle offerte speciali e il motto «Mangia, bevi e sii felice». Lacke si fermò per aspettare Virginia. Quando arrivò alla sua altezza, le porse un braccio. Virginia lo mise sotto il suo. Lacke fece un cenno con il capo in direzione del supermercato. «Come va il lavoro?» «Come al solito. Quello l'ho scritto io» disse indicando un cartello. «POLPA DI POMODORO. TRE BARATTOLI: 5 CORONE» «Bello.» «Trovi?» «Sì. Ti fa venire voglia di polpa di pomodoro.» Virginia gli diede un colpetto cauto sul fianco. Sentì le costole contro il
gomito. «Ti ricordi ancora come si fa a mangiare?» «Non hai bisogno di essere...» «No, ma lo sono ugualmente.» «Eeeeli... Eeeeliii...» La voce che proveniva dal televisore era familiare. Eli cercò di allontanarsene, ma il suo corpo non ubbidiva. Soltanto le sue mani si muovevano, al rallentatore, cercando qualcosa a cui aggrapparsi. Trovarono un cavo. Lo afferrarono con forza come se fosse una fune di salvataggio per uscire dal tunnel in cui il televisore le stava parlando. «Eli... dove sei?» La sua testa era troppo pesante, non riusciva a sollevarla dal pavimento; l'unica cosa che riusciva a fare era alzare lo sguardo verso lo schermo e, naturalmente, era lì. Lui. Sul mantello di seta cadevano le ciocche bionde della parrucca di capelli umani che rendevano il volto effeminato ancora più esile. Le labbra sottili erano unite, gli angoli alzati in un sorriso smagliante di rossetto che le faceva risaltare sul volto coperto di fondotinta bianco, come una ferita da taglio. Eli riuscì a sollevare leggermente il capo e vide tutto il Suo viso. Grandi occhi blu da bambino, e al di sopra... l'aria le usciva dai polmoni a soffi, la testa le cadde pesantemente sul pavimento, il setto nasale scricchiolò. Divertente. Sulla testa portava un cappello da cowboy. «Eeeliiii.» Altre voci. Voci di bambini. Eli alzò nuovamente il capo, tremando come un neonato. Gocce del sangue malato le colavano dal naso nella bocca. L'uomo aveva allargato le braccia in un gesto di benvenuto, rivelando la fodera rossa del suo mantello. La fodera si gonfiò, si agitò, sembrava composta da labbra. Centinaia di labbra di bambini che facevano smorfie, che raccontavano la loro storia, la storia di Eli. «Eli, torna a casa...» Eli singhiozzò, chiuse gli occhi. Rimase in attesa della morsa gelida sulla nuca. Non successe nulla. Riaprì gli occhi. L'immagine era cambiata. Ora mostrava una lunga fila di bambini vestiti di stracci che attraversavano una distesa ghiacciata barcollando in direzione di un castello di ghiaccio che si stagliava all'orizzonte. Non può succedere.
Eli sputò il sangue dalla bocca contro il televisore. Macchie rosse spezzarono la distesa bianca, colando sul castello di ghiaccio. Non esiste. Eli tirò la fune di salvataggio per cercare di uscire dal tunnel. Quando la spina si staccò, si udì un click e il televisore si spense. Spesse strisce di sangue misto a saliva colavano sullo schermo nero per poi andare a cadere sul pavimento. Eli posò la testa sulle mani e precipitò dentro un vortice rosso scuro. Mentre Lacke faceva la doccia, Virginia preparò rapidamente uno stufato di carne, cipolla e polpa di pomodoro. Sembrava che Lacke non volesse uscire. Quando lo stufato fu pronto, Virginia andò in bagno. Era seduto nella vasca con la testa china, la bocchetta della doccia contro il collo sulla spalla. Sotto la pelle le costole risaltavano come palline da ping-pong. «Lacke? La cena è pronta.» «Bene. Bene. Sono stato qui troppo a lungo?» «No. Ma hanno appena telefonato dall'acquedotto dicendo che la falda idrica sta esaurendosi.» «Cosa?» «Vieni adesso» disse Virginia staccando il suo accappatoio dal gancio e porgendoglielo. Lacke si alzò dalla vasca puntando le mani contro i bordi. Quando vide il suo corpo emaciato, Virginia sussultò. Lacke notò la reazione. «E così si alzò dal bagno, bello come un dio, piacevole da vedere» disse. Poi mangiarono, accompagnando il cibo con una bottiglia di vino. Lacke non mangiò molto, ma era già qualcosa. Bevvero una seconda bottiglia nel soggiorno e poi andarono a letto. Rimasero distesi qualche minuto guardandosi negli occhi. «Ho smesso di prendere la pillola.» «Ah. Non dobbiamo...» «Ma non ne ho più bisogno. Niente più mestruazioni.» Lacke annuì. Rifletté. Le accarezzò una guancia. «Sei triste?» Virginia sorrise. «Tu sei l'unico uomo che conosco al quale verrebbe in mente di fare una domanda simile. Sì, un po' lo sono. Come se... sì, come se fossero state quelle a farmi sentire una donna. Come se adesso non fosse più così.» «Mmm. A me basti, in ogni caso.»
«Davvero?» «Sì.» «Vieni qui.» Lacke ubbidì. Gunnar Holmberg trascinava i piedi nella neve per non lasciare tracce che avrebbero potuto rendere più difficile il lavoro dei tecnici della scientifica. Si fermò e osservò le impronte che si allontanavano dalla casa. La luce dell'incendio dava alla neve un riflesso rosso dorato e il calore era sufficiente perché piccole perle di sudore gli si formassero all'attaccatura dei capelli. Spesso Holmberg era stato deriso per la sua forse un po' ingenua propensione a credere nella innata bontà dei giovani. Ed era proprio per smentire lo scetticismo dei colleghi che si ostinava ad andare nelle scuole e a parlare a lungo con i giovani che avevano preso la strada sbagliata, ed era esattamente per questo che quanto vedeva davanti a sé gli faceva provare un senso di malessere. Le impronte sulla neve erano state lasciate da scarpe piccole. Neanche di un ragazzo, no, erano le impronte di un bambino. Piccole, nette, distanti l'una dall'altra, come quelle di qualcuno che corre. Con la coda dell'occhio, vide Larsson avvicinarsi. «Trascina i piedi, dannazione.» «Oh, scusa.» Larsson lo raggiunse e si mise al suo fianco. Aveva grandi orecchie a sventola e un'espressione di perenne stupore dipinta sul volto, ancora più evidente ora che osservava le impronte. «Che mi prenda un colpo.» «Esattamente quello che ho pensato. È un bambino.» «Sì, ma si direbbe uno che...» il suo sguardo seguì le impronte, «... uno che ha voluto fare il salto triplo.» «Sì la distanza tra le impronte è lunga.» «Più che lunga, è... da non crederci. È incredibile.» «Cosa vuoi dire?» «Io corro e mi alleno spesso, ma non riuscirei mai a correre così. Tra l'una e l'altra ci sono più di due passi. Dall'inizio alla fine.» Staffan arrivò correndo, si fece strada nel crocchio di curiosi che si era formato davanti alla casa e raggiunse il gruppo che stava sorvegliando gli infermieri mentre portavano verso l'ambulanza il cadavere di una donna
coperto da un telo blu. «Com'è andata?» chiese Holmberg. «Be', le ho seguite fino a Bällstavägen, e poi non è più stato possibile... le auto... dobbiamo usare i cani.» Holmberg annuì, ascoltò una conversazione che si stava svolgendo poco lontano. Un vicino che era stato testimone di una parte dell'accaduto stava esponendo le proprie impressioni a un collega della omicidi. «Dapprima ho creduto che fossero fuochi d'artificio o qualcosa di simile. Poi ho visto le mani, erano le mani che si muovevano. È uscita dalla finestra, è uscita...» «Dunque, la finestra era aperta?» «Sì, era aperta. E lei è uscita da lì e... la casa era in fiamme. È stato allora che l'ho notato. Che dietro di lei c'erano le fiamme, e lei è uscita... è stato terribile. Era avvolta dalle fiamme, tutto il corpo, e poi si è messa a camminare...» «Come? Camminare? Non si è messa a correre?» «No. È stato proprio questo a rendere la cosa così terribile, si è messa a camminare. Muoveva le mani in questo modo come per... non so. E poi si è fermata. Capisce? Si è fermata. Tutto il suo corpo era avvolto dalle fiamme. Si è fermata... così. E si è guardata intorno. Come se, con tutta calma... e poi ha ripreso a camminare. E poi è stato come se fosse finita, capisce? Niente panico o qualcosa di simile, sì, e non urlava. Neanche un suono. Si è semplicemente accasciata a terra. Le ginocchia si sono piegate. E poi... boff. Giù nella neve. Ed è stato quello che, non so... sì, che rendeva il tutto così strano. Allora io... sono entrato di corsa a prendere una coperta, due coperte, e sono tornato fuori e ho spento... era terribile, lei era distesa nella neve, ed è stato orribile.» L'uomo si coprì il volto con le mani annerite, piegò la testa e iniziò a piangere. Il collega della omicidi gli mise una mano sulla spalla. «Possiamo aspettare fino a domani per una dichiarazione formale. Dunque, non ha visto nessun altro uscire dalla casa?» L'uomo scosse il capo e il collega della omicidi prese nota nel suo taccuino. «D'accordo, allora. Mi farò vivo domani. Vuole che chieda a un infermiere di darle un tranquillante prima che ce ne andiamo, qualcosa che l'aiuti a dormire?» L'uomo si sfregò gli occhi. Le mani gli avevano lasciato strisce di fuliggine sulle guance.
«No. A casa ne ho...» Gunnar Holmberg volse lo sguardo verso quello che restava della casa. I pompieri avevano lavorato alacremente e ora non si vedeva più una sola fiamma. Solo un'enorme nuvola nera che si alzava verso il cielo. Mentre Virginia metteva le sue braccia intorno alla schiena di Lacke, i tecnici della scientifica eseguivano i calchi delle impronte, Oskar era fermo alla finestra della sua camera e guardava nel cortile. La neve aveva coperto la fila di cespugli sotto il davanzale della finestra e formava uno strato così spesso e continuo che si sarebbe potuto credere che fosse possibile camminarci sopra. Quella sera, Eli non si era fatta vedere. Dalle sette e mezza alle nove, Oskar era rimasto nel cortile, camminando avanti e indietro, fermandosi, dondolandosi sull'altalena, tremando per il freddo. Niente Eli. Alle nove aveva visto sua madre che lo osservava dalla finestra ed era tornato a casa, in preda a cattivi presentimenti. Dallas, cioccolata calda e biscotti, sua madre gli aveva fatto domande ed era stato sul punto di svelarle il segreto, ma si era fermato in tempo. Ora mezzanotte era passata da poco e Oskar era ancora alla finestra con un crampo allo stomaco. La aprì e respirò l'aria fredda della notte. Era veramente stato soltanto per lei che aveva deciso di difendersi? Non lo aveva fatto per se stesso? Sì. Ma per amor suo. Purtroppo. Era proprio così. Se lunedì lo avessero attaccato non avrebbe avuto la volontà, la forza, la voglia di difendersi. Lo sapeva. Non sarebbe neppure andato ad allenarsi quel giovedì. Non ne aveva motivo. Lasciò la finestra socchiusa nella vaga speranza che Eli tornasse quella notte. Che lo chiamasse. Se poteva uscire in piena notte, poteva anche tornare in piena notte. Oskar si svestì e andò a letto. Batté sulla parete. Nessuna risposta. Tirò il piumone sulla testa e si mise in ginocchio sul letto. Congiunse le mani, vi appoggiò la fronte e sussurrò: «Buon Dio, fa' che torni. Ti darò tutto quello che vorrai. Tutti i miei fumetti, tutti i miei libri, tutte le mie cose. Tutto quello che vuoi. Ma fa' che Eli torni. Da me. Per favore, per favore, mio Dio.» Rimase in quella posizione sotto il piumone finché non iniziò a sudare per il caldo. Allora tirò fuori la testa e l'appoggiò al cuscino. In posizione fetale. Chiuse gli occhi. Immagini di Eli, Jonny e Micke, Tomas. Sua ma-
dre. Suo padre. Continuò a lungo a evocare le immagini che, quando scivolò nel sonno, iniziarono a vivere di vita propria. Era sull'altalena insieme a Eli e andavano sempre più in alto. Così in alto che il copertone si staccò dalle catene involandosi verso il cielo. Erano aggrappati ai bordi, stretti l'uno all'altra, ed Eli sussurrava: «Oskar, Oskar...» Aprì gli occhi, il mappamondo era spento e la luce della luna colorava tutto di blu. Gene Simmons lo fissava dalla parete opposta, tirando fuori la sua lunga lingua. Oskar si rannicchiò sotto il piumone e chiuse gli occhi. Udì nuovamente la voce. «Oskar...» Proveniva dalla finestra socchiusa. Aprì gli occhi e guardò in quella direzione. Al di là vide il contorno di una testa. Scostò il piumone, ma prima che riuscisse a scendere dal letto Eli sussurrò: «Aspetta. Rimani lì. Posso entrare?» «Sìiii...» bisbigliò Oskar. «Dimmi che posso entrare.» «Puoi entrare.» «Chiudi gli occhi.» Oskar chiuse gli occhi. La finestra si aprì, un soffio di aria gelida invase la stanza. La finestra si richiuse silenziosamente. Sentì Eli respirare. «Posso guardare adesso?» chiese. «Aspetta.» Il divano letto nell'altra stanza scricchiolò. Oskar udì sua madre alzarsi. Aveva ancora gli occhi chiusi quando sentì un corpo nudo, freddo, infilarsi dietro di lui, rannicchiarsi contro la sua schiena e coprire entrambi con il piumone. La porta della stanza si aprì. «Oskar?» «Mmm?» «Eri tu che parlavi?» «No.» Sua madre rimase ferma sulla porta socchiusa, in ascolto. Eli rimaneva immobile dietro la schiena di Oskar, la fronte appoggiata fra le sue costole. L'alito caldo di lei scorreva lungo la sua spina dorsale. La madre di Oskar scosse il capo. «Devono essere stati quei vicini.» Rimase ancora in ascolto per qualche secondo e poi disse «buonanotte, amor mio» e chiuse la porta.
Oskar era solo con Eli. «Quei vicini?» sussurrò Eli. «Ssss.» Il divano letto scricchiolò nuovamente quando sua madre tornò a distendersi. Oskar alzò lo sguardo verso la finestra. Era chiusa. Una mano fredda si posò sul suo ventre, poi si mosse in su fino a raggiungere il suo cuore. Oskar posò le mani su quella di Eli per scaldarla. L'altra mano passò sotto la sua ascella, scivolò sul torace e si infilò sotto le sue mani. Eli volse il capo e posò la guancia contro la schiena di Oskar. Un nuovo odore era entrato nella stanza. Un vago odore, come quando suo padre aveva fatto il pieno. Benzina. Oskar chinò la testa e annusò le mani di Eli. Si. Avevano quell'odore. Rimasero distesi così a lungo. Quando Oskar udì dal suo respiro che sua madre dormiva profondamente nella stanza accanto, quando le loro quattro mani furono ugualmente calde e iniziò a sentire sudore sul torace, chiese: «Dove sei stata?» «A cercare cibo.» Le sue labbra gli solleticavano una scapola. Eli liberò le mani da quelle di Oskar, si girò e si distese sulla schiena. Oskar rimase immobile per qualche minuto fissando Gene Simmons negli occhi. Poi, si girò e si distese sulla pancia. Dietro la testa di Eli gli sembrava di intravedere le piccole figure che la osservavano incuriosite. I suoi occhi neri erano spalancati, la luce della luna gli dava una vaga tonalità di blu. Oskar rabbrividì. «E tuo padre?» «Se n'è andato.» «Se n'è andato?» Oskar aveva alzato involontariamente la voce. «Ssss. Non ha nessuna importanza.» «Ma cosa... lui se n'è...» «Non ha alcuna importanza.» Quando vide Eli alzare la mano come per dire che non doveva più fare domande, Oskar annuì. Eli mise le mani sotto la testa e alzò gli occhi al soffitto. «Mi sentivo sola. Per questo sono venuta qui. Ti dispiace?» «No. Ma... sei nuda.» «Trovi che sia disgustoso?» «No. Ma non hai freddo?» «No. No.» Le mèche bianche nei suoi capelli erano scomparse. Sì, in generale sem-
brava stare meglio di quando si erano incontrati il giorno prima. Le sue guance erano più rotonde, quando rise a una domanda scherzosa di Oskar si notavano due fossette. «Non sarai mica passata dal chiosco dell'amore?» Eli continuò a ridere per qualche secondo, poi si fece seria e disse con una voce spettrale: «Sì. E sai cosa? Lui ha messo la testa fuori e ha detto: "Viiieeeni... viiieeeni... ho tanti dolci e... baaanaane..."» Oskar affondò il volto nel cuscino. Eli si girò verso di lui e sussurrò nel suo orecchio: «Viiieeeni... ho tante... baaaanaane...» «Basta, basta» bisbigliò Oskar con la testa nel cuscino. Eli continuò ancora per qualche secondo e poi fissò la libreria. Oskar le parlò del suo romanzo preferito, La nebbia di James Herbert. Distesi sulla pancia, intenti a fissare i libri, al buio, la schiena di Eli risaltava come un foglio bianco. Oskar posò la mano sulla schiena di Eli, ne sentì il calore, e poi aprì le dita e le fece scivolare su e giù lungo la colonna vertebrale. «Quante formiche stanno passeggiando su e giù?» chiese sussurrando. «Cinque.» «Hai detto cinque? Giusto!» Poi Eli fece la stessa cosa sulla sua schiena. Ma Oskar non riuscì a indovinare, tanto le dita di Eli si erano mosse rapidamente. Poi giocarono alla morra cinese, pietra, carta e forbice, un gioco in cui Oskar era nettamente superiore. Sette a tre. Giocarono una seconda volta. Oskar vinse nove a uno. Eli era irritata. «Sai cosa sceglierò adesso?» «Sì.» «Come lo sai?» «Lo so e basta. Riesco a immaginarlo nella mia testa.» «Ancora una volta.» «Prova.» Giocarono un'altra volta. Oskar vinse otto a due. Eli finse di essere arrabbiata e si girò verso la parete. «Non gioco più con te. Tu bari.» Oskar fissò la sua schiena bianca. Poteva osare? Sì, adesso che non lo fissava negli occhi. «Eli. Possiamo stare insieme? C'è una possibilità?» Eli si tirò il piumone fin sotto il mento. «Cosa significa?» Oskar scrollò le spalle.
«Voglio dire... possiamo stare insieme?» «Cosa vuol dire "insieme"?» La sua voce aveva assunto un tono sospettoso, duro. Oskar si affrettò a calmarla. «Forse tu hai già un amico a scuola?» «No, ma... Oskar, io non posso... Io non sono una ragazza.» Oskar sbuffò. «Cosa? Vuoi forse dire che sei un ragazzo?» «No. No.» «Allora cosa sei?» «Niente.» «Come niente?» «Io non sono niente. Non sono una bambina. Non sono una vecchia. Non sono un ragazzo. Non sono una ragazza. Non sono niente.» Oskar passò un dito sulla sua spina dorsale, strinse le labbra e scosse il capo. «Dunque, non ho nessuna possibilità?» «Oskar vorrei tanto, ma... non possiamo soltanto stare insieme così come lo siamo ora?» «... sì.» «Sei triste? Possiamo baciarci, se vuoi.» «No!» «Non vuoi?» «No, non voglio.» Eli aggrottò la fronte. «Si fa qualcosa di speciale quando si ha la possibilità?» «No.» «È solo... come sempre.» «Sì.» Il volto di Eli si illuminò, incrociò le mani sulla pancia e fissò Oskar. «Allora tu hai una possibilità con me. Allora siamo insieme.» «Davvero?» «Sì.» «Bene.» Oskar continuò a studiare i dorsi dei libri in preda a un calmo senso di felicità. Eli rimase immobile, in attesa. Dopo qualche minuto disse: «Non c'è altro?» «No.»
«Possiamo restare distesi come prima?» Oskar volse la schiena verso di lei. Eli gli mise le braccia intorno al corpo e prese le sue mani fra le sue. A Oskar venne sonno. Gli occhi erano appesantiti e non riusciva a tenerli aperti. Prima di addormentarsi disse: «Eli?» «Mmm?» «È stato bello che tu sia venuta.» «Sì.» «Perché... le tue mani odorano di benzina?» Eli strinse le mani sul suo cuore ancora più forte. La stanza intorno a Oskar era diventata più grande, le pareti e il soffitto erano più morbidi, il pavimento scivolò via, e quando sentì il letto librarsi nell'aria capì che stava dormendo. Sabato 31 ottobre Tutte le luci della notte si sono spente e il mattino sorride furtivo sulle cime dei monti nebbiosi. Bisogna che io parta per vivere, o resti per morire. WILLIAM SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta, III,5 Grigio. Tutto era avvolto da una nebbia grigia. Non riusciva a mettere a fuoco, era come se si trovasse all'interno di una nuvola carica di pioggia. Sì, era disteso. Pressione contro la schiena, il sedere, i talloni. Alla sua sinistra il rumore di un sibilo. Gas. Il gas era aperto. No. Adesso lo avevano chiuso. E riaperto. Qualcosa accadeva nel suo torace in sequenza con il sibilo. Si riempiva e si svuotava al ritmo del suono. Era ancora nella piscina? Qualcuno gli aveva applicato la bombola? Se era così, come poteva essere sveglio? Era sveglio? Håkan cercò di chiudere gli occhi. Non successe niente. Qualcosa si mosse davanti a un occhio, oscurandogli la vista ulteriormente. L'altro occhio non esisteva più. Cercò di aprire la bocca. La bocca non c'era. Richiamò alla mente l'immagine della sua bocca così come la vedeva allo specchio, nella sua mente cercò di... ma non c'era. Niente ubbidiva ai suoi comandi. Era come cercare di trasferire la consapevolezza a una pietra per riuscire a farla muovere. Nessun contatto. Provò una sensazione di intenso calore su tutto il volto. Una fitta di terrore lo colpì allo stomaco. La testa era coperta da qualcosa di caldo, solidi-
ficato. Stearina. Il suo volto ne era ricoperto ed era per questo che una macchina regolava la sua respirazione. Il pensiero si trasmise alla mano destra. Sì. Era lì. La aprì, la chiuse, sentì il palmo sotto i polpastrelli. La sensibilità. Sospirò di sollievo; immaginò un sospiro di sollievo, perché il suo torace si muoveva al ritmo della macchina, non al comando della sua volontà. Alzò la mano, lentamente. Tutto il suo torace, la spalla, vibrarono per lo sforzo. La mano arrivò nel suo campo visivo, una massa confusa. La portò davanti al volto, si fermò. Un sibilo forzato proveniva dal suo fianco destro. Mosse lentamente la testa a destra e sentì qualcosa di duro che sfregava sotto il mento. Vi portò la mano. Qualcosa di metallico. Intorno alla gola. Un collare dal quale usciva un tubo. Seguì il tubo finché ci riuscì, fino a una parte metallica scanalata dove finiva. Aveva capito. Se voleva morire, era lì che doveva tirare. Lo avevano messo in quel modo appositamente. Rimase con le dita sulla scanalatura. Eli. La piscina, il ragazzo. L'acido. I suoi ricordi si fermavano al momento in cui aveva svitato il coperchio del barattolo. Si era sicuramente versato il liquido in faccia come aveva programmato. Ma aveva commesso un errore: era ancora in vita. Aveva visto le fotografie. Quelle di donne alle quali compagni gelosi avevano gettato l'acido in faccia. Non voleva portare la mano al viso e ancora meno vederlo. Strinse la mano sul tubo. Non si staccava. Era avvitato. Cercò di girare la parte metallica ma, come aveva immaginato, si muoveva. Continuò a girarla. Cercò la sua mano sinistra, ma nel punto in cui avrebbe dovuto essere sentì soltanto una massa di dolore. Sui polpastrelli della mano destra sentì una leggera, piacevole pressione. L'aria aveva iniziato a fuoriuscire, il suono sibilante era cambiato, era più leggero. La luce grigia intorno a lui si tinse di rosso. Cercò di chiudere l'unico occhio. Pensò a Socrate e al suo calice di veleno. Per avere sedotto i giovani di Atene. Non dimenticarti di sacrificare un gallo a... come si chiamava? Archimandros? No... «Cosa sta facendo?» Esculapio. Sacrifica un gallo a Esculapio. «Lasci stare!» Un gallo. A Esculapio. Il dio della guarigione e della medicina. Qualcuno gli staccò le dita dal tubo e lo avvitò nuovamente, il sibilo tor-
nò normale. «Dobbiamo mettere qualcuno a sorvegliarla.» Non dimenticare di sacrificare un gallo a Esculapio. Quando Oskar si svegliò, Eli non c'era più. Era disteso con il volto rivolto verso la parete, un soffio di aria fredda accarezzò la sua schiena. Si alzò su un gomito e si guardò intorno. La finestra era socchiusa. Eli doveva essere uscita da lì. Nuda. Oskar si girò e appoggiò il viso sulla parte del letto dove Eli era rimasta distesa e annusò. Mosse il naso su e giù sul lenzuolo, cercando di captare un segno della sua presenza, ma non ci riuscì. Neppure quell'odore di benzina. Era veramente stata lì? Oskar si mise a pancia in giù. Ecco. Le dita di Eli sulla schiena. Il ricordo delle sue dita sulla schiena. Come faceva sua madre canticchiando una filastrocca quando era piccolo. Ma questo era adesso. Qualche ora fa. I peli sulle braccia e sulla nuca si alzarono. Scese dal letto, iniziò a vestirsi. Dopo essersi infilato i pantaloni andò alla finestra. Non nevicava. Quattro gradi sotto zero. Bene. Se la neve che era caduta avesse iniziato a sciogliersi, sarebbe stato praticamente impossibile mettere in terra davanti ai portoni i sacchetti di carta con i volantini pubblicitari. Oskar pensò a cosa si poteva provare a calarsi da una finestra nudi con quattro gradi sotto zero e finire sui cespugli coperti di neve... No. Si chinò in avanti, socchiuse gli occhi. La neve sui cespugli era intatta. La sera prima era rimasto a osservare la striscia continua costituita dal manto di neve che copriva i cespugli. Non sembrava essere stata smossa. Oskar aprì la finestra completamente e sporse la testa. I cespugli crescevano addossati al muro della casa e non c'era traccia di impronte di piedi. Si girò a destra e lasciò scorrere lo sguardo sulla superficie ruvida del muro. A tre metri di distanza, c'era la finestra di Eli. L'aria fredda gli accarezzò il torace nudo. Doveva aver nevicato durante la notte dopo che Eli se n'era andata. Era l'unica spiegazione. Fra l'altro, ora che ci pensava: come aveva fatto a raggiungere la sua finestra? senza smuovere la neve sui cespugli? Non era possibile che il manto di neve fosse rimasto intatto. Quando era
andato a letto, non nevicava. Quando era arrivata, né il corpo, né i capelli di Eli erano umidi o bagnati, quindi era certo che non aveva nevicato. Quando se n'era andata? Da quando se n'era andata doveva avere nevicato abbastanza da coprire tutte le tracce di... Oskar chiuse la finestra, finì di vestirsi. Era incomprensibile. Per la seconda volta, si disse che doveva avere sognato tutto. Poi vide il biglietto. Era piegato sotto l'orologio sulla sua scrivania. Lo prese e lo aprì. «ADESSO LASCIA ENTRARE IL GIORNO, FINESTRA, E LASCIA USCIRE LA MIA VITA» Un cuore e sotto un'altra scritta. «CI VEDIAMO QUESTA SERA. ELI» Oskar lesse il biglietto cinque volte. Poi pensò a Eli mentre scriveva quel biglietto chinata sulla scrivania. Il volto di Gene Simmons, la lingua in fuori, era sulla parete a mezzo metro davanti a lui. Oskar si chinò in avanti sulla scrivania, staccò il poster, lo accartocciò e lo gettò nel cestino della carta. Poi, lesse il biglietto altre tre volte, lo ripiegò e lo mise in tasca. Oggi avrebbe potuto avere cinque volantini per ogni plico. Sarebbe stato un giochetto. La stanza era pervasa dall'odore del fumo delle sigarette e i granelli di polvere danzavano ai raggi del sole che filtravano dalle persiane. Lacke si era appena svegliato e rimase disteso sulla schiena tossendo. I granelli di polvere si mossero convulsamente davanti ai suoi occhi. Tosse da sigarette. Lacke si girò sul letto, allungò la mano e afferrò il pacchetto e l'accendino che erano sul comodino di fianco a un posacenere stracolmo. Prese una sigaretta - Camel light, con gli anni Virginia aveva iniziato a essere più preoccupata per la salute -, la accese e rimase sdraiato a riflettere con un braccio sotto la testa. Un paio di ore prima, senza dubbio molto stanca, Virginia era uscita per andare al lavoro. Dopo avere fatto l'amore, erano rimasti svegli a parlare e a fumare. Soltanto alle due Virginia aveva spento l'ultima sigaretta e aveva detto che era ora di dormire. Dopo un po', Lacke si era alzato in silenzio, aveva bevuto quello che restava della bottiglia di vino e aveva fumato altre due sigarette. Poi era tornato a letto. Forse, più che altro perché gli piaceva scivolare vicino al corpo caldo di una donna che dormiva. Era un peccato che non avesse sempre qualcuno vicino a sé. Ma se do-
veva essere, non avrebbe potuto essere che Virginia. Inoltre... dannazione, aveva sentito dire indirettamente come Virginia tirava avanti negli ultimi tempi. A periodi. Periodi in cui beveva oltre il limite nei bar della città per poi portarsi a casa il primo che le capitava. Virginia rifiutava di parlarne, ma negli ultimi anni era invecchiata notevolmente. Se lui e Virginia avessero... avessero cosa? Sì, avessero venduto tutto, e comprato una casa in campagna e coltivato patate. Certamente, ma non avrebbe funzionato. Dopo un mese si sarebbero dati sui nervi, e poi in città lei aveva sua madre, il suo lavoro, e Lacke aveva... i suoi francobolli. Nessuno ne era al corrente, neppure sua sorella, e Lacke provava un senso di colpa. Come aveva scoperto dopo, la collezione di francobolli di suo padre, che non era stata inclusa nel suo testamento, valeva una piccola fortuna. Quando si era trovato a corto di contanti, si era disfatto di alcuni francobolli, un po' alla volta. Ultimamente, il mercato aveva toccato il fondo e non gli erano rimasti molti francobolli. Presto comunque sarebbe stato costretto a vendere ancora. I pezzi rari come il primo francobollo della Norvegia, e avrebbe potuto ricambiare le birre che aveva scroccato. Avrebbe dovuto farlo. Due case in campagna. L'una vicina all'altra. Le casette di campagna non costavano quasi niente. E la madre di Virginia? Tre casette. E la figlia, Lena? Quattro casette. Già che ci sono, tanto vale che compri un paese intero. Virginia era felice soltanto quando era insieme a Lacke, lo aveva detto lei stessa. Lacke non sapeva se personalmente fosse ancora in grado di essere felice, ma Virginia era la sola persona con la quale si sentiva veramente a proprio agio. Perché non avrebbero potuto fare qualcosa insieme, in un modo o nell'altro? Lacke appoggiò il posacenere sulla pancia, lasciò cadere la cenere, aspirò un'altra boccata. L'unica persona con la quale stava bene adesso come adesso. Dopo che Jocke... era scomparso. Jocke era in gamba. Il solo di quelli che frequentava che potesse chiamare un amico. La cosa più terribile era la scomparsa del suo corpo. Non era naturale. Doveva esserci un funerale. Doveva esserci un corpo da guardare, una conferma. Sì, sì, lì giace un mio amico. E ora è morto. Gli occhi di Lacke si riempirono di lacrime. Tutti avevano un sacco di amici, tutti se ne vantavano a destra e a man-
ca. Lui ne aveva avuto uno, uno solo, e ora un maledetto teppista glielo aveva portato via senza pietà. Per quale motivo quel ragazzo aveva dovuto uccidere Jocke? In qualche modo, sapeva che Gösta non aveva mentito né si era inventato la storia, e Jocke era sparito, ma era tutto insensato. L'unico motivo plausibile era che avesse a che fare con la droga. Jocke era stato coinvolto in qualche affare di droga e aveva fregato la persona sbagliata. Ma perché non aveva detto niente? Prima di uscire dall'appartamento, Lacke svuotò il posacenere e ripose la bottiglia di vino vuota nell'armadietto sotto il lavandino. Fu costretto a infilarla in posizione orizzontale per trovare posto. Sì, dannazione. Due casette in campagna. Un appezzamento di terra per le patate. Terra da lavorare e il canto delle allodole in primavera. E così di seguito. Prima o poi... Indossò la giacca e uscì. Quando arrivò davanti alla cassa del supermercato Ica, portò una mano alla bocca e lanciò un bacio a Virginia che sorrise e ricambiò schioccando le labbra. Tornando a casa a Ibsengatan, incrociò un ragazzo che portava due grossi sacchetti di carta. Era qualcuno che abitava in una delle case del cortile, ma Lacke non conosceva il suo nome. Gli fece un cenno con la testa. «Devono essere pesanti.» «Non c'è problema.» Lacke rimase fermo un attimo a fissare il ragazzo che si allontanava. Sembrava talmente allegro. Era così che bisognava essere. Accettare il proprio fardello e portarselo dietro senza tristezza. È così che si deve essere. Arrivato nel cortile si aspettava di incontrare l'uomo che gli aveva offerto un whisky nel ristorante cinese. A quell'ora, quel tipo aveva l'abitudine di andare a fare una passeggiata. A volte faceva soltanto dei giri nel cortile. Ma da un paio di giorni non si era fatto vedere. Lacke alzò lo sguardo verso la finestra dell'appartamento dove credeva che l'uomo abitasse. Ovviamente, è in casa e sta bevendo. Potrei andare su e suonare alla sua porta. Un altro giorno. Poco prima del crepuscolo, Tommy e sua madre andarono al cimitero. La tomba del padre era sul pendio verso lo stagno di Råcksta, così si avviarono attraverso la foresta. Sua madre camminò in silenzio finché non
raggiunsero Kanaanvägen, e Tommy aveva creduto che non parlasse perché era triste, ma quando presero il sentiero che costeggiava lo stagno, lei si schiarì la gola e disse: «Senti Tommy...» «Sì.» «Staffan ha detto che da casa sua è sparito qualcosa. Dopo che siamo stati lì.» «Ah, sì.» «Tu ne sai niente?» Tommy si chinò, raccolse della neve, la appallottolò e la lanciò contro un albero. Centro. «Sì. È giù, sotto il suo balcone.» «Per Staffan è un oggetto importante, dato che...» «Te l'ho detto, è giù fra i cespugli sotto il suo balcone.» «Come ha fatto a finire lì?» Il pendio coperto di neve era davanti a loro. Una debole luce rossa illuminava la cima degli alberi dal basso. La piccola lanterna con dentro il lumino che sua madre portava tintinnò. «Hai da accendere?» «Da accendere? Ah, sì. Ho un accendino. Com'è finita laggiù...?» «Mi è caduta di mano.» Tommy si fermò all'interno del cimitero a osservare la cartina. Le diverse sezioni erano contrassegnate con una lettera dell'alfabeto. Suo padre era nella sezione D. In verità, era tutto irragionevole. Il fatto che facessero le cose in quel modo. Prima bruciavano i corpi delle persone, poi raccoglievano le ceneri in un'urna e la seppellivano nella terra e chiamavano il posto «Tomba 104, Sezione D». Presto sarebbero stati tre anni. Tommy aveva ricordi confusi del funerale, o come si poteva definire. Quella bara e un sacco di gente che ora piangeva e ora cantava. Si ricordava che aveva delle scarpe troppo grandi, le scarpe di papà, nelle quali i piedi scivolavano avanti e indietro mentre tornavano a casa. La bara lo spaventava, era rimasto seduto a fissarla durante tutta la cerimonia, sicuro che suo padre si sarebbe alzato per tornare tra i vivi, ma... diverso. Per due settimane dopo il funerale era andato in giro con il terrore degli zombie. Specialmente quando iniziava a fare buio, aveva l'impressione di vedere quell'essere consumato sul letto dell'ospedale, che non era più suo padre, andargli incontro con le braccia aperte, come nei film.
La paura era scomparsa quando le ceneri di suo padre erano state messe nell'urna. C'erano soltanto Tommy, sua madre, un rappresentante delle pompe funebri e il prete. Il rappresentante delle pompe funebri aveva portato l'urna davanti a sé con passo solenne, mentre il prete consolava sua madre. Era stato assolutamente ridicolo. Quel piccolo contenitore, tenuto con le due mani da un uomo di mezza età che indossava un vestito nero, non aveva niente a che fare con suo padre. Era soltanto un grande bluff. Ma la paura era passata, e la relazione di Tommy con la tomba era cambiata con il tempo. Adesso, talvolta capitava che andasse al cimitero da solo, si sedeva sulla lapide e passava le dita sulle lettere scolpite che formavano il nome di suo padre. Era per quello che ci andava. L'urna sepolta nella terra non gli interessava, gli interessava soltanto il nome. Quella persona deformata sul letto d'ospedale, la cenere nell'urna, niente di tutto ciò era suo padre, ma il nome significava la persona che ricordava, ed era per questo che a volte rimaneva seduto passando un dito sulle lettere che formavano il nome MARTIN SAMUELSSON: «Ah, com'è bello.» Tommy si guardò intorno. I lumini erano accesi dovunque, sembrava una città vista da un aereo. Qua e là, forme scure si muovevano fra le lapidi. Sua madre si avviò verso la tomba con in mano la piccola lanterna che oscillava. Tommy fissò la sua schiena esile e provò un senso di tristezza. Non per se stesso, non per sua madre, no: per tutto. Per tutte le persone che si aggiravano fra quelle luci tremolanti nella neve. Soltanto ombre che rimanevano ferme davanti alle lapidi, che fissavano le lapidi, che toccavano le lapidi. Era tutto così... così stupido. La morte è la morte. Finita. Ma Tommy si avvicinò ugualmente a sua madre e si accovacciò vicino alla tomba, mentre lei accendeva il lumino dentro la lanterna. Non toccava mai le lettere quando lei era presente. Rimasero così per diversi minuti, osservando la fiamma che illuminava il marmo che sembrava muoversi alla sua luce. A parte un certo imbarazzo, Tommy non provava nulla. Accettava di seguire sua madre e basta. Dopo un po', lei si girò e iniziarono a camminare. Tommy si era avviato per primo, sua madre dietro di lui. Per quanto lo riguardava, poteva restare lì a piangere tutta la notte. Lo raggiunse e gli mise cautamente un braccio sotto il suo. Tommy la lasciò fare. Camminarono fianco a fianco, guardando lo stagno di Råcksta dove si stava già formando il ghiaccio. Se il freddo continuava ancora, presto sarebbe stato
possibile andarci a pattinare. Un pensiero continuava a mulinare nel suo cervello come un testardo riff di chitarra. Morto è morto. Morto è morto. Morto è morto. Sua madre rabbrividì e si strinse a lui. «È orribile.» «Trovi?» «Sì, Staffan mi ha raccontato una cosa orribile...» Staffan, non riusciva veramente a smetterla di parlare di... almeno adesso... «Cosa?» «Hai sentito dell'incendio di quella casa ad Ängby? La donna che...» «Sì.» «Staffan mi ha raccontato che le hanno fatto l'autopsia. Io trovo che è una cosa terribile. Fare un'autopsia...» «Sì, sì. Certo.» Un'anatra si muoveva sulla lastra sottile verso la parte del lago dove c'era il tubo di scarico che rimaneva libero dal ghiaccio. D'estate i ragazzi andavano a pescare i piccoli pesci che erano immangiabili per via dell'odore. «Da dove viene quello scarico?» chiese Tommy. «Arriva dal crematorio?» «Non lo so. Non vuoi che continui? Trovi che è troppo orribile?» «No, no.» E così, mentre tornavano a casa attraverso la foresta, sua madre proseguì il racconto. Tommy iniziò a interessarsi e a fare domande alle quali sua madre non poteva rispondere, sapeva soltanto quello che Staffan le aveva raccontato. Sì, Tommy faceva troppe domande, era così interessato che Yvonne si pentì di avere iniziato a parlargliene. Più tardi quella sera, Tommy era seduto su una cassa nel rifugio e girava e rigirava la statuetta del poliziotto che sparava. Poi, la posò su tre cartoni che contenevano mangianastri come un trofeo. La ciliegina sulla torta. Rubata a un poliziotto! Dopo avere chiuso accuratamente il rifugio con la catena e il lucchetto e avere nascosto la chiave, si sedette pensando a quello che sua madre gli aveva raccontato. Dopo un po', udì dei passi incerti nel corridoio della cantina che si stavano avvicinando. Una voce sussurrò: «Tommy...?» Tommy si alzò dalla poltrona, andò alla porta e l'aprì. Oskar era lì con
un'espressione nervosa sul volto e una banconota in mano. «Ti ho portato i soldi.» Tommy prese la banconota da cinquanta corone e la mise in tasca, sorridendogli. «Ti piace venire qui, non è vero? Entra.» «No, io devo...» «Entra, ti ho detto. Voglio chiederti una cosa.» Oskar si mise a sedere sul divano con le mani congiunte. Tommy riprese posto sulla poltrona e lo fissò. «Oskar. Tu sei un tipo sveglio.» Oskar scrollò le spalle timidamente. «Quella casa che è bruciata ad Ängby. La vecchia che è uscita in giardino avvolta dalle fiamme.» «Sì, l'ho letto sul giornale.» «Ne ero sicuro. Hanno scritto qualcosa sull'autopsia?» «Non che io sappia.» «No. Ma l'hanno fatta. L'autopsia della donna. E sai cosa? Nei suoi polmoni non hanno trovato tracce di fumo. Sai cosa significa?» Oskar rifletté. «Che non ha respirato.» «Sì. E quando si smette di respirare? Quando si è morti. Non è così?» «Sì» disse Oskar entusiasta. «L'ho letto da qualche parte. Proprio così. È per questo che fanno l'autopsia a chi muore bruciato. Per vedere se non è... se l'incendio non sia stato appiccato per nascondere un omicidio. Con il fuoco. L'ho letto, sì, su una rivista di mia madre ho letto di un tipo in Inghilterra che aveva ammazzato sua moglie, e le aveva infilato, prima di appiccare l'incendio, le aveva infilato un tubo in gola e...» «Okay, okay. Lo sai. Bravo. Ma in questo caso non c'era fumo nei suoi polmoni, eppure la vecchia è uscita nel giardino e si è messa a camminare per un po' prima di morire. Come è possibile?» «Ha trattenuto il respiro. No, non è possibile. Anche questo l'ho letto da qualche parte. È per questo che la gente...» «Okay, okay. Allora, come me lo spieghi?» Oskar si chinò e mise la testa fra le mani riflettendo. «O hanno commesso un errore, o lei camminava anche se era morta» disse dopo un po'. Tommy annuì. «Esatto. E sai cosa? Io non credo che i tipi che fanno le autopsie com-
mettano degli errori. Non credi?» «No, ma...» «Morto è morto.» «Sì.» Tommy tirò via un filo dal bracciolo della poltrona, lo arrotolò fra le dita e poi lo gettò via. «Sì. È una cosa alla quale dobbiamo credere.» PARTE TERZA Neve, che si scioglie sulla pelle E poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose. DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Inf. III,19-21 «Io non sono un lenzuolo. Sono un vero fantasma. Buh... Buh... Devi avere paura!» «Ma io non ho paura.» NATIONALTEATERN*, Kåldolmar och kalsipper * Rock band svedese [N.d.T.]. Giovedì 5 novembre Morgan aveva i piedi gelati. Il freddo, iniziato più o meno quando il sottomarino si era incagliato, era peggiorato durante la settimana che era trascorsa da allora. Morgan amava i suoi stivali da cowboy, ma non era possibile portarli con le calze di lana. E in una suola c'era un buco. Ovviamente, poteva comprarsi un paio di scarponi cinesi per un centinaio di corone, ma preferiva gelare. Erano le nove e mezza del mattino e Morgan stava tornando a casa dalla fermata della metropolitana. Era andato dallo sfasciacarrozze a Ulvsunda per vedere se avevano bisogno di una mano che avrebbe potuto fruttargli qualche centinaio di corone, ma gli affari non andavano bene. Nemmeno quest'anno stivali per l'inverno. Aveva bevuto un caffè con i ragazzi nell'ufficio pieno di cataloghi di pezzi di ricambio e calendari di pin-up, e poi aveva preso la metropolitana per tornare a casa.
Larry stava uscendo di casa e, come al solito, aveva l'espressione di un condannato a morte. «Ciao, vecchio pirata!» gridò Morgan. Larry annuì malvolentieri, come se da quando si era svegliato si fosse aspettato di trovarsi Morgan davanti appena uscito. «Come va?» chiese. «Le dita dei piedi sono gelate, la mia auto è in panne, niente lavoro, sto tornando a casa dove mi aspetta una minestra liofilizzata per pranzo. E tu?» Larry si avviò, prendendo la strada del parco in direzione di Björnsonsgatan. «Ho pensato di andare a far visita a Herbert all'ospedale. Vieni anche tu?» «È più lucido?» «No, non è migliorato.» «Rinuncio. Sentire tutte quelle chiacchiere mi deprime. L'ultima volta credeva che fossi sua madre e voleva che gli raccontassi una fiaba.» «Lo hai fatto?» «Naturalmente. Quella di Riccioli d'oro. No. Oggi non sono dell'umore.» Continuarono a camminare. Quando Morgan notò che Larry aveva un paio di guanti molto caldi, si rese conto di avere freddo alle mani e le infilò a fatica nelle tasche strette dei jeans. Davanti a loro c'era il ponte dove Jocke era sparito. Forse per evitare di parlare di quello, Larry disse: «Hai letto il giornale questa mattina? Adesso Fälldin dice che i russi hanno armi nucleari nel sottomarino.» «Cosa credeva che avessero, prima? Fionde?» «No, ma è lì da una settimana. Pensa se ci fosse stata una fusione nucleare.» «Non preoccuparti. I russi sanno quello che fanno.» «Be', io non sono comunista...» «Neppure io.» «No. Per chi hai votato alle ultime elezioni? Per i liberali?» «In ogni caso non per i rossi.» Avevano già affrontato quegli argomenti. Ora, mentre si avvicinavano alla volta del ponte, li avevano rispolverati per evitare di vedere, per evitare di pensare a quella cosa. Eppure quando arrivarono sotto la volta smisero di parlare e si fermarono. Entrambi pensarono che fosse stato l'altro a
fermarsi per primo. Fissarono i mucchi di foglie secche. Ora erano diventati mucchi di neve e avevano assunto forme che li turbavano. Larry scosse il capo. «Cosa diavolo dobbiamo fare?» Morgan affondò le mani ancora di più nelle tasche e pestò i piedi a terra per scaldarli. «Gösta è il solo che può fare qualcosa.» Alzarono lo sguardo verso le finestre dell'appartamento dove Gösta abitava. Niente tende, vetri sporchi. Larry prese una sigaretta dal pacchetto e poi lo porse a Morgan, che ne pescò una a sua volta. Rimasero fermi a fumare, lo sguardo fisso sui mucchi di neve. Dopo un po' i loro pensieri furono disturbati da voci di giovani. Un gruppo di ragazzi muniti di pattini da ghiaccio e caschi stava arrivando dalla scuola guidato da un uomo dall'aspetto marziale. I ragazzi stavano alla distanza di un metro l'uno dall'altro, quasi tenendo il tempo. Passarono davanti a Morgan e Larry sotto la volta del ponte. Morgan fece un cenno con la testa a uno dei ragazzi che aveva riconosciuto. «State andando in guerra?» Il ragazzo scosse il capo, stava per dire qualcosa, ma continuò a camminare per paura di perdere il passo. Il gruppo proseguì in direzione dell'ospedale; doveva essere la loro giornata dedicata allo sport. Morgan schiacciò il mozzicone della sigaretta con un piede, mise le mani intorno alla bocca e urlò: «Attacco aereo!!! Tutti al riparo!» Larry sogghignò e spense la sua sigaretta. «Buon Dio! Non credevo che quel tipo di insegnante esistesse ancora. Sono sicuro che esige che anche le giacche sugli attaccapanni stiano sull'attenti. Allora, vieni con me?» «No. Non ce la faccio. Ma vai tu, se ti affretti potrai metterti al passo con la truppa.» «Ci vediamo.» «Sicuramente.» Si separarono sotto il ponte. Larry si avviò a passo lento nella stessa direzione dei ragazzi e Morgan in quella opposta. Adesso aveva freddo in tutto il corpo. Con l'aggiunta di un po' di latte, la minestra liofilizzata non era poi così malvagia. Oskar camminava con la sua insegnante. Aveva bisogno di parlare con
qualcuno e lei era la sola che gli era venuta in mente. Eppure, se avesse potuto avrebbe cambiato gruppo. Di solito, Jonny e Micke non seguivano mai gli altri durante le giornate dedicate allo sport, ma oggi lo avevano fatto. Avevano bisbigliato qualcosa fra loro, lo avevano fissato. Così Oskar camminava di fianco all'insegnante. Non poteva dire se per essere protetto o per parlare con una persona adulta. Erano ormai cinque giorni che stava insieme a Eli. Si incontravano ogni sera. A sua madre diceva che andava in cortile insieme a Johan. Quella notte, Eli era tornata nella sua camera. Erano rimasti svegli a lungo, raccontandosi storie, dove uno iniziava quando l'altra finiva. Poi si erano addormentati stretti l'uno all'altra e al mattino Eli non c'era più. In una tasca dei pantaloni, insieme al biglietto che aveva letto e riletto, adesso ce n'era un altro che aveva trovato sulla sua scrivania quel mattino, quando si stava preparando per andare a scuola. «I must be gone and live, or stay and die. TUA ELI» Oskar sapeva che era una citazione da Romeo e Giulietta. Eli gli aveva confessato di avere preso le frasi del primo biglietto da quell'opera, e Oskar aveva preso in prestito il libro dalla biblioteca della scuola. Gli era piaciuta anche se non capiva bene molte parole. Her vestal livery is but sick and green. Eli capiva tutto? Jonny, Micke e le ragazze camminavano una ventina di metri dietro Oskar e l'insegnante. Passarono davanti a un parco dove alcuni bambini dell'asilo giocavano con le slitte, le loro urla fendevano l'aria. Oskar diede un calcio a un cumulo di neve e disse a bassa voce: «Marie-Louise?» «Sì?» «Come si fa a sapere quando si ama qualcuno?» «Ahi. Sì...» L'insegnante infilò le mani nelle tasche del giaccone e alzò lo sguardo verso il cielo. Oskar si chiese se stesse pensando a quell'uomo che era venuto ad aspettarla fuori dalla scuola un paio di volte. Non gli era piaciuto. Quel tipo aveva un aspetto losco. «Be', è diverso per ognuno, ma secondo me è una cosa che si sa, o comunque quando si è sicuri che si tratta di una persona con la quale si vuole stare sempre insieme.» «Vuole dire, quando senti che non puoi vivere senza quella persona.» «Sì. Due persone che non possono vivere l'una senza l'altra... questo è amore.» «Come Romeo e Giulietta.»
«Sì, e più grandi sono gli ostacoli, più si amano. L'hai visto?» «L'ho letto.» L'insegnante lo fissò sorridendo. Quel sorriso gli era sempre piaciuto, ma ora lo trovava sconcertante. «E quando si tratta di due ragazzi?» chiese. «Allora si tratta di amicizia. Anche quella è una forma di amore. Ma se intendi... sì, anche due ragazzi possono amarsi in quel modo.» «Come fanno...?» L'insegnante abbassò la voce. «Be', non c'è niente di male, ma se vuoi parlarne potremo farlo in un'altra occasione.» Camminarono per alcuni metri in silenzio, arrivarono alla collina che portava giù alla baia di Kvarnviken, "la collina degli spettri". L'insegnante respirò profondamente l'odore della foresta di pini. Poi disse: «Si forma un patto con qualcuno, un'unione. Indipendentemente dal fatto se si è ragazzi o ragazze, si forma una sorta di unione, cioè tu e quella persona. È qualcosa fra voi due.» Oskar annuì. Sentì le voci delle ragazze che stavano avvicinandosi. Come sempre, presto sarebbero arrivate per attirare l'attenzione dell'insegnante. Oskar le era così vicino che i loro giacconi si sfioravano. «È possibile essere... sia un ragazzo che una ragazza? Oppure né un ragazzo, né una ragazza?» «No. Non gli esseri umani. Esistono animali che...» Michelle corse verso di loro e urlò con voce piagnucolante: «Jonny mi ha messo della neve nel colletto.» Erano arrivati a metà della discesa della collina. Pochi secondi dopo, tutte le altre ragazze arrivarono dicendo all'insegnante quello che Jonny e Micke avevano fatto. Oskar rallentò l'andatura e rimase alcuni passi indietro. Si girò. Jonny e Micke erano in cima alla collina. Fecero dei segni con le mani. Oskar non rispose. Invece prese un grosso ramo a lato del sentiero e iniziò a staccarne i ramoscelli mentre camminava. Passò davanti alla casa dei fantasmi che aveva dato il nome alla collina. Era un enorme magazzino con le pareti di lamiera ondulata, completamente fuori posto fra la massa di piccoli alberi. Sulla parete verso la collina, qualcuno aveva scritto a grandi lettere: «PUOI DARCI IL TUO MOTORINO?» L'insegnante e le ragazze giocavano a rincorrersi sul sentiero che co-
steggiava l'acqua. Oskar non aveva intenzione di raggiungerle. Sapeva che Jonny e Micke erano dietro di lui. Strinse la mano intorno al ramo con più forza e continuò a camminare. Era una bella giornata. Il ghiaccio si era formato diversi giorni prima e ora era abbastanza spesso per permettere al gruppo di pattinatori guidati dal signor Ávila di esercitarsi. Quando Jonny e Micke avevano detto che volevano aggregarsi al gruppo della passeggiata, Oskar aveva preso in considerazione la possibilità di correre a casa a prendere i suoi pattini e cambiare gruppo. Ma i suoi pattini erano quelli che sua madre gli aveva comprato due anni prima e non sarebbe riuscito a infilarvi i piedi. Inoltre, aveva paura del ghiaccio. Una volta, quando era piccolo, era andato con suo padre a Södersvik, e suo padre era andato a controllare le nasse. Fermo sul pontile, Oskar lo aveva visto sprofondare e, per un terrificante secondo, aveva visto la sua testa sparire sotto la superficie del ghiaccio. Si era messo a urlare per chiedere aiuto. Fortunatamente, suo padre aveva con sé due punteruoli che aveva usato per tirarsi su dall'acqua, ma da allora Oskar non andava volentieri sul ghiaccio. Qualcuno gli afferrò le braccia. Si girò rapidamente e vide che l'insegnante e le ragazze erano sparite dietro una curva del sentiero sull'altro lato della collina. «Adesso il maiale farà il bagno.» Oskar mise le mani intorno al ramo e strinse con tutta la sua forza. Era la sua sola chance. Jonny e Micke iniziarono a trascinarlo verso il ghiaccio. «Il maiale puzza di merda e deve fare il bagno.» «Lasciatemi.» «Dopo. Stai calmo. Dopo ti lasceremo andare.» Raggiunsero il ghiaccio. Oskar non aveva alcuna possibilità di puntare i piedi. Lo trascinavano all'indietro, verso il buco creato per la sauna. I suoi talloni lasciavano una doppia traccia dietro di lui. In mezzo, il ramo lasciava una traccia più profonda. Vide delle persone muoversi in lontananza. Iniziò a urlare. A chiedere aiuto. «Grida, grida. Forse arriveranno in tempo per tirarti su dall'acqua.» L'acqua scura del buco si distingueva nettamente a pochi passi di distanza. Oskar fletté i muscoli con tutta la forza che aveva e si gettò a lato, con un movimento rapido. Micke perse la presa. Oskar pendeva dalle braccia di Jonny e roteò il ramo contro il suo stinco; quando il ramo toccò la gam-
ba gli sfuggì quasi di mano. «Ahi! Merda!» Jonny lasciò la presa e Oskar cadde sul ghiaccio. Si alzò a mezzo metro dall'orlo del buco, tenendo il ramo. Jonny teneva la mano sullo stinco. «Maledetto idiota. Adesso...» Jonny si avvicinò a Oskar lentamente, forse perché non osava correre per paura di cadere nel buco insieme a lui. Indicò il ramo. «Mettilo giù o ti ammazzo. Hai capito?» Oskar strinse i denti. Quando Jonny arrivò a poco meno della distanza di un braccio, alzò il ramo e lo abbassò mirando alla spalla, Jonny si chinò e Oskar sentì una vibrazione nelle mani quando il ramo colpì l'orecchio. Jonny cadde all'indietro come un birillo da bowling e atterrò sul ghiaccio urlando per il dolore. Micke, che era rimasto un paio di passi dietro a Jonny, arretrò tenendo le mani alzate davanti a sé. «Cosa diavolo... stavamo soltanto scherzando... non volevamo...» Oskar andò verso di lui facendo roteare il ramo nell'aria con un brusio sordo. Micke iniziò a correre e si allontanò. Oskar si fermò e abbassò il ramo. Jonny giaceva su un fianco, rannicchiato, tenendosi una mano sull'orecchio. Il sangue gli colava fra le dita. Oskar voleva chiedergli scusa. Non aveva avuto intenzione di fargli così male. Gli si accovacciò accanto sostenendosi con il ramo, stava per chiedergli scusa, ma prima che riuscisse a farlo vide Jonny. Era così piccolo in quella posizione, continuava a piagnucolare, mentre un sottile rivolo di sangue gli scendeva lungo il collo fin sotto il colletto della giacca. Muoveva la testa avanti e indietro lentamente. Oskar lo fissava sorpreso. Quel piccolo essere sanguinante disteso sul ghiaccio non avrebbe potuto fargli niente. Non poteva picchiarlo, prenderlo in giro. Non poteva neppure difendersi. Potrei colpirlo ancora un paio di volte e poi tutto finirà. Oskar si rialzò e si appoggiò al ramo. L'eccitazione stava svanendo, sostituita da un senso di nausea alla bocca dello stomaco. Cosa aveva fatto? Jonny doveva essere veramente ferito per sanguinare in quel modo. E se fosse morto dissanguato? Oskar si mise a sedere sul ghiaccio, si tolse una scarpa e si sfilò il calzino. Si avvicinò a Jonny strisciando sulle ginocchia, spostò la mano che teneva sull'orecchio e vi mise sotto il calzino.
«Ecco. Tienilo fermo.» Jonny spinse il calzino contro l'orecchio ferito. Oskar alzò lo sguardo. Una persona con i pattini si stava avvicinando. Un adulto. Urla eccitate si udivano in lontananza. Urla di bambini. Urla di panico. Un unico suono acuto al quale alcuni secondi dopo se ne aggiunsero altri. La persona che si stava avvicinando si fermò. Rimase immobile un attimo. Poi si girò e riprese a pattinare. Oskar era in ginocchio di fianco a Jonny e sentiva la neve sciogliersi e bagnargli le ginocchia. Jonny teneva gli occhi chiusi, lamentandosi a denti stretti. Oskar si chinò su di lui. «Puoi camminare?» Jonny aprì la bocca per dire qualcosa, un liquido giallastro sgorgò dalle sue labbra, macchiò la neve. Su una mano di Oskar ne cadde un po'. Oskar fissò le gocce viscide che tremavano sul dorso della sua mano ed ebbe paura. Lasciò cadere il ramo e corse per cercare aiuto. Le urla dei bambini erano aumentate di intensità. Oskar si mise a correre in quella direzione. Il signor Ávila, Fernando Cristóbal de Reyes y Ávila, amava pattinare. Sì. Una delle cose che apprezzava di più della Svezia erano i lunghi inverni. Aveva partecipato alla Vasaloppet, la gara di sci di fondo, per dieci anni di seguito, e quando le acque dell'arcipelago ghiacciavano seriamente, ogni fine settimana andava in macchina fino all'isola di Gräddö e pattinava finché lo spessore del ghiaccio glielo permetteva, anche fino a Söderhamn. Erano passati tre anni dall'ultima volta in cui il ghiaccio si era formato nell'arcipelago ma, visto l'inverno precoce di quest'anno, c'era speranza. Come sempre, Gräddö avrebbe brulicato di entusiasti del pattinaggio su ghiaccio, ma di giorno. Fernando Ávila preferiva pattinare di notte. Con tutto il rispetto per la Vasaloppet, aveva sempre l'impressione di essere una tra migliaia di formiche che avevano improvvisamente deciso di emigrare da un formicaio. Tutt'altra cosa era trovarsi da solo sul ghiaccio in una notte di luna piena. Fernando Ávila era un cattolico all'acqua di rose, ma in quei momenti persino lui si sentiva vicino a Dio. Il ritmico sfregamento delle lame dei pattini, il chiaro di luna che conferiva alla superficie del ghiaccio una tonalità blu, le stelle che proiettavano su di lui la loro immortalità, il vento freddo che gli accarezzava il volto, il senso di eternità, profondità e spazio tutt'intorno. La vita non poteva essere più grande.
Un ragazzino gli tirò i pantaloni. «Maestro, devo fare pipì.» Il signor Ávila si risvegliò dai suoi sogni di viaggi solitari, indicò gli alberi che si stagliavano lungo la spiaggia, una cortina verde che sembrava posta a protezione del ghiaccio. «Puoi andare a farla laggiù.» Il ragazzino volse lo sguardo verso gli alberi. «Sul ghiaccio?» «Sì. Cosa c'è di male? Formerà ghiaccio nuovo. Ghiaccio giallo.» Il ragazzino lo fissò come se fosse pazzo, ma si avviò comunque verso i pini. Il signor Ávila si guardò intorno per controllare che nessuno dei ragazzi più grandi si fosse avventurato troppo lontano. Con due rapidi colpi di pattino raggiunse una posizione da cui poteva avere una visuale totale. Contò i ragazzi. Bene. Nove. Più quello che stava facendo pipì. Dieci. Si girò su se stesso e guardò nella direzione opposta, verso Kvarnviken, e si fermò. Laggiù era successo qualcosa. Alcune figure si stavano muovendo verso quello che poteva essere un buco nel ghiaccio, alcuni alberi marcavano il luogo. Mentre rimaneva immobile, il trio si sciolse, e vide che uno di loro teneva in mano una specie di bastone. Il bastone si alzò e ricadde. Udì un grido provenire da quella direzione. Si girò, controllò il suo gruppo un'ultima volta, e poi iniziò a pattinare in direzione del trio. Uno di loro stava correndo. A quel punto udì l'urlo. Un urlo stridulo di un ragazzino del suo gruppo. Il signor Ávila frenò con i pattini sollevando spruzzi di neve. Era riuscito a intravedere che vicino al buco c'erano ragazzi più grandi. Forse Oskar. Se la sarebbero cavata. Nel suo gruppo c'erano soltanto ragazzini. L'urlo aumentò di intensità, e mentre si avviava in quella direzione udì altre urla unirsi al primo. Cojones! Naturalmente doveva capitare proprio quando non era lì. Che il buon Dio faccia sì che il ghiaccio non abbia ceduto. Si mise a pattinare il più rapidamente possibile in direzione dell'urlo, la neve turbinava al passaggio dei suoi pattini. Avvicinandosi, vide che altri ragazzi erano giunti sul posto e urlavano tutti insieme, altri stavano arrivando. Vide anche un adulto che si stava avvicinando al bordo del ghiaccio, correndo giù dall'ospedale.
Con un ultimo sforzo arrivò all'altezza del gruppo, frenò bruscamente spruzzando le giacche dei ragazzi di polvere di neve. Non riusciva a capire. Erano tutti raccolti intorno a una cortina di rami di salice, fissavano qualcosa sotto la superficie del ghiaccio continuando a urlare. Si avvicinò. «Cosa c'è?» Uno dei ragazzi indicò una massa scura imprigionata sotto il ghiaccio. Sembrava un fascio di erba marrone congelata con un bordo rosso a lato. O forse un porcospino investito da un'auto. Il signor Ávila si avvicinò, si chinò, e vide che era una testa. Nel ghiaccio. La testa di un essere umano, di cui si potevano vedere soltanto il cranio pelato e la fronte. Il ragazzo che aveva mandato a urinare era fermo a pochi metri di distanza, singhiozzava. «Ci... ci sono... passato... sopra.» Il signor Ávila si raddrizzò. «Via tutti! Tutti sulla riva, adesso.» I ragazzi sembravano prigionieri del ghiaccio, i più piccoli continuavano a urlare. Il signor Ávila prese il fischietto e soffiò due volte. Le urla cessarono. Il signor Ávila si mise in posizione dietro i ragazzi per spingerli in direzione della spiaggia. Iniziarono a muoversi. Soltanto un ragazzo più grande rimase fermo a guardare la testa sotto il ghiaccio. «Anche tu!» Il signor Ávila gli fece segno con la mano di avviarsi insieme agli altri. Arrivato al bordo della spiaggia vide la donna che era arrivata dall'ospedale. «Vada a telefonare alla polizia. Un'ambulanza. C'è un uomo sotto il ghiaccio.» La donna si mise a correre in direzione dell'ospedale. Il signor Ávila contò i ragazzi sulla spiaggia e si accorse che ne mancava uno. Il ragazzino che era passato sopra la testa era fermo, il volto coperto dalle mani. Il signor Ávila lo raggiunse, gli mise le mani sotto le ascelle e lo sollevò. Il ragazzino gli mise le braccia intorno al collo. Il signor Ávila si avviò verso la spiaggia tenendolo tra le braccia come se fosse un pacchetto fragile. «È possibile parlargli?» «Non può parlare.» «No, ma capisce quello che gli si dice?»
«Credo di sì, ma...» «Solo qualche minuto.» Attraverso la nebbia che gli copriva l'occhio, Håkan vide un uomo con un vestito scuro che stava prendendo una sedia e si sedeva di fianco al suo letto. Non riusciva a distinguere i tratti del suo volto, ma con tutta probabilità l'uomo cercava di mantenere un'espressione neutra. Negli ultimi giorni, Håkan aveva fluttuato in una nuvola rossa attraversata da linee sottili come capelli. Sapeva che lo avevano anestetizzato un paio di volte e operato. Quello era il primo giorno in cui era completamente cosciente, ma non sapeva quanti giorni fossero passati da quando lo avevano portato lì. Al mattino, aveva esplorato il suo viso con le dita della mano sensibile. Una sorta di benda di gomma lo copriva interamente, ma dai contorni sotto la benda, che aveva seguito con le dita a dispetto del dolore, aveva capito di non avere più un volto. Håkan Bengtsson non esisteva più. Rimaneva soltanto un corpo non identificato su un letto di ospedale. Naturalmente sarebbero riusciti a collegarlo agli altri omicidi, ma non alla sua vita passata o a quella presente. E non a Eli. «Come ti senti?» Magnificamente, agente, grazie. Non potrei sentirmi meglio. Ho uno strato di napalm sul volto che brucia senza sosta, ma per il resto non posso lamentarmi. «Sì, capisco che non sei in grado di parlare, ma se capisci quello che ti dico, puoi fare un cenno con il capo? Puoi annuire?» Posso. Ma non voglio. L'uomo seduto di fianco al suo letto sospirò. «Hai cercato di toglierti la vita, ma non sei completamente... andato. Hai difficoltà a muovere la testa? Puoi alzare la mano se senti quello che ti sto dicendo? Puoi alzare la mano?» Håkan escluse la presenza del poliziotto dalla sua mente e iniziò a pensare all'Inferno di Dante, al limbo, dove tutte le grandi anime senza la conoscenza di Dio venivano portate dopo la morte. Cercò di immaginare quel luogo nel dettaglio. «Vorremmo sapere chi sei, capisci?» In quale cerchio è andato Dante dopo la sua morte... Il poliziotto spostò la sedia ancora più vicino al letto. «Lo sai che scopriremo chi sei. Prima o poi. Se comunichi con noi ades-
so, potresti risparmiarci un bel po' di lavoro.» Nessuno denuncerà la mia scomparsa. Nessuno mi conosce. Provate pure. Un'infermiera entrò nella stanza. «C'è una telefonata per lei» disse. Il poliziotto si alzò e si avviò verso la porta. Prima di uscire disse: «Tornerò fra qualche minuto.» Håkan tornò con il pensiero all'essenziale. In quale cerchio sarebbe finito? Quello degli assassini? Il settimo cerchio. O forse nel secondo. Quello di chi ha peccato per amore. Però anche i sodomiti avevano un loro cerchio. La cosa più ragionevole sarebbe stata finire nel cerchio di quelli che hanno commesso il crimine peggiore. Dunque, se uno aveva commesso il peggiore dei crimini, dopo poteva continuare a commettere tutti i crimini che voleva e finiva comunque sempre nel cerchio più basso. Più o meno come quegli assassini che negli Stati Uniti sono condannati a trecento anni di prigione. I diversi cerchi danteschi roteavano in una spirale. L'imbuto dell'Inferno. Minosse con la sua coda. Håkan cercò di immaginare i violenti, le cortigiane, i bestemmiatori e i sodomiti che andavano in giro sotto la pioggia di fuoco alla ricerca del loro posto. Di una cosa era assolutamente sicuro. Non sarebbe mai finito nel cerchio più basso. Il cerchio dove Lucifero azzannava Giuda e Bruto, immobili in un mare di ghiaccio. Il cerchio dei traditori. La porta della stanza si aprì nuovamente con quello strano rumore di risucchio. Il poliziotto si mise a sedere. «Eccomi qua. Sembra che ne abbiano trovato uno giù a Blackeberg, nel lago. La stessa corda, in ogni caso.» No! Alla parola Blackeberg, il corpo di Håkan sussultò involontariamente. Il poliziotto annuì. «Vedo che puoi sentire quello che dico. Molto bene. Dunque, possiamo pensare che tu viva nei sobborghi a ovest. Dove? Råcksta? Vällingby? Blackeberg?» Il ricordo di come si era disfatto del corpo dell'uomo passò per la sua mente. Aveva agito in maniera approssimativa. Aveva commesso uno stupido errore. «Okay. Adesso ti lascio in pace per un po'. Prenditi il tempo che ti serve per riflettere e decidere se vuoi collaborare. Sarebbe molto più semplice,
non trovi?» Il poliziotto si alzò e uscì dalla stanza. Al suo posto, entrò un'infermiera che prese posto su un'altra sedia. Håkan iniziò a girare la testa a destra e a sinistra, in segno negativo. Allungò la mano e cercò di tirare il tubo del respiratore. L'infermiera si alzò di scatto e allontanò la mano. «Saremo costretti a legarti. Se ci provi un'altra volta, ti legheremo. Hai capito? Se non vuoi più vivere sono affari tuoi, ma finché resterai qui, è nostro compito tenerti in vita. Indipendentemente da quello che hai fatto o non hai fatto. Hai capito? E noi faremo quello che dobbiamo fare anche se dovremo legarti con le cinghie. Mi hai sentito? Se collabori, le cose saranno più facili.» Collaborare. Collaborare. Improvvisamente tutti vogliono collaborare. Io non sono più un essere umano. Io sono un progetto. Oh Dio. Eli, Eli, aiutami. Oskar udì la voce di sua madre appena iniziò a salire le scale. Stava parlando al telefono con qualcuno ed era arrabbiata. La madre di Jonny? Rimase fuori dalla porta ad ascoltare. «Mi telefoneranno per chiedermi dove ho sbagliato... sì, lo faranno, e io cosa potrò dire? Mi dispiace, ma dovete capire che mio figlio non ha un padre e così... sì, proprio così... no, non lo hai fatto... voglio che tu gli parli. Devi.» Oskar aprì la porta ed entrò nell'ingresso. «È arrivato» disse sua madre girandosi. «Hanno telefonato dalla scuola, e adesso devi parlare con lui di questa cosa, perché io... No, sono calma... è facile per te parlare standotene laggiù...» Oskar andò nella sua camera e si distese sul letto con le mani sulle orecchie. Aveva l'impressione che il cuore gli pulsasse nella testa. Dapprima, quando era arrivato all'ospedale, aveva creduto che tutte le persone che correvano di qua e di là avessero qualcosa a che fare con Jonny. Ma non era stato così. Oggi, Oskar aveva visto il cadavere di un essere umano per la prima volta nella sua vita. Sua madre aprì la porta della camera. Oskar si tolse le mani dalle orecchie. «Tuo padre vuole parlarti.» Oskar portò il ricevitore all'orecchio e udì una voce lontana che elencava i nomi dei fari e la forza e la direzione del vento. Aspettò che suo padre fi-
nisse di ascoltare senza dire una parola. Sua madre aggrottò la fronte e lo fissò incuriosita. Oskar mise la mano sul ricevitore e bisbigliò: «Le previsioni meteo della Marina.» Sua madre aprì la bocca per dire qualcosa, ma ne uscì solo un sospiro mentre lasciava cadere le mani lungo i fianchi. Tornò in cucina. Oskar si mise a sedere sulla sedia in ingresso e ascoltò le previsioni meteo insieme a suo padre. Sapeva che, se avesse parlato, suo padre sarebbe stato distratto dalla radio. Le previsioni meteo della Marina erano sacre. Quando andava a trovarlo, tutte le attività si interrompevano alle quattro e tre quarti, allora suo padre si sedeva accanto alla radio, lo sguardo fisso fuori dalla finestra come se volesse controllare che quello che la radio diceva fosse vero. Era passato molto tempo da quando suo padre si era imbarcato, ma l'abitudine era rimasta. Almgrundet nord-ovest otto, in serata verso ovest. Visibilità buona. Area dell'arcipelago e Mare di Åland, nord-ovest dieci, attenzione in serata venti di tempesta. Visibilità buona. Bene. La parte più importante era finita. «Ciao, papà.» «Ah, sei tu. Ciao. Questa notte avremo una tempesta.» «Sì, ho sentito.» «Mmm. Come stai?» «Bene.» «Sì, la mamma mi ha raccontato quella storia di Jonny. Non è una bella cosa.» «No. Non lo è per niente.» «La mamma mi ha detto che ha avuto una commozione cerebrale.» «Sì. Ha vomitato.» «Sì, capita spesso in questi casi. Harry... sì, lo hai incontrato, una volta aveva battuto la testa scivolando, e dopo si è messo a vomitare come un vitello.» «E poi... si è rimesso?» «Sì, era... sì, è morto questa primavera. Ma non perché era caduto. Sì. Quella volta si era rimesso presto.» «Bene.» «Speriamo che si rimetta anche lui, quel ragazzo...» «Sì.» La voce alla radio continuava a recitare i nomi di altre aree, Golfo di
Botnia e così via. Un paio di volte, quando era da suo padre, Oskar aveva seguito con un dito su un atlante tutti i nomi dei fari. Per un po' era riuscito a ricordarli tutti a memoria, ma con il tempo li aveva dimenticati. Suo padre si schiarì la gola. «Sì, la mamma e io abbiamo parlato e abbiamo pensato che potresti venire da me questo fine settimana.» «Mmm.» «Così potremo parlare con calma di... tutto.» «Questo fine settimana?» «Sì. Se ne hai voglia.» «Sì. Ma ho un po' da fare... potrei venire sabato?» «O venerdì sera.» «No, ma... sabato. Al mattino.» «Sì, va bene. Allora tirerò fuori un edredone dal congelatore.» Oskar avvicinò ancora di più la bocca al telefono e sussurrò: «Senza pallini.» Suo padre si mise a ridere. Un anno prima, in autunno, Oskar si era rotto un dente con un pallino che era rimasto nel corpo di un uccello acquatico. A sua madre aveva detto che era stato un sassolino in una patata. Quello era il suo piatto preferito, sua madre invece trovava che fosse "terribilmente crudele" sparare a uccelli indifesi. Se avesse saputo che si era rotto il dente con uno strumento di morte, gli avrebbe proibito di mangiarlo. «Controllerò accuratamente» disse suo padre. «Il motorino funziona?» «Sì. Perché?» «Be', stavo solo pensando...» «Ah. Sì, c'è abbastanza neve e potremo fare un giro.» «Bene.» «Okay, allora ci vediamo sabato. Prenderai l'autobus delle dieci?» «Sì.» «Verrò ad aspettarti alla fermata. Con il motorino. L'auto ha dei problemi.» «D'accordo. Vuoi parlare con la mamma?» «Sì... no... dille tu quello che abbiamo deciso.» «Mmm. A sabato allora. Ciao.» «A sabato. Ciao.» Oskar posò il ricevitore e rimase seduto un attimo pensando a quello che
avrebbero fatto. Un giro con il motorino. Era divertente. Oskar si metteva i minisci, suo padre legava una fune al portapacchi e all'estremità opposta della fune c'era un pezzo di legno che Oskar impugnava. Poi, andavano in giro intorno al paese. Sci acquatico su neve. Quello e l'edredone al forno con gelatina di sorba. E soltanto una sera lontano da Eli. Andò nella sua stanza, indossò la tuta da ginnastica e nella borsa mise anche il coltello, dato che non sarebbe tornato a casa prima di avere incontrato Eli. Aveva un piano. Mentre si stava infilando la giacca in ingresso, sua madre uscì dalla cucina, pulendosi le mani infarinate sul grembiule. «Allora? Cosa ha detto?» «Ha detto che sabato vado da lui.» «Sì. Ma cosa ha detto dell'altra cosa?» «Adesso devo andare ad allenarmi.» «Non ti ha detto niente?» «Sì... ma adesso devo andare.» «Dove?» «Alla piscina.» «Quale piscina?» «Quella vicino alla scuola. Quella piccola.» «Cosa ci vai a fare?» «Vado ad allenarmi. Tornerò alle otto e mezza. O alle nove. Devo incontrare Johan.» Sua madre aveva un'espressione triste e sembrava non sapesse cosa fare delle mani. Le mise nella grande tasca del grembiule. «Bene. Sì, fai attenzione. Sta' attento a non scivolare in piscina. Hai preso il berretto?» «Sì, sì.» «Allora, mettilo. Specialmente dopo che hai fatto il bagno, fuori fa freddo e con i capelli bagnati...» Oskar fece un passo avanti e le diede un leggero bacio sulla guancia, le disse «ciao» e se ne andò. Fuori dal portone, alzò lo sguardo verso la finestra e vide sua madre. Le fece un cenno di saluto. Sua madre alzò lentamente una mano e ricambiò il saluto. Camminando pianse per diversi minuti. La combriccola si era radunata sul pianerottolo davanti alla porta di Gösta. Lacke, Virginia, Morgan, Larry, Karlsson. Nessuno prendeva l'iniziativa di suonare il campanello, perché chi lo avesse fatto avrebbe dovuto
assumersi la responsabilità di spiegare il motivo della loro visita. Già nell'androne avevano sentito un accenno del tipico odore di Gösta. Urina. Morgan prese Karlsson in disparte e mormorò qualcosa di incomprensibile. Karlsson sollevò il paraorecchie che usava al posto del berretto e chiese: «Cosa?» «Ti ho detto che dovresti toglierti quell'affare. Sembri un idiota.» «Non ti riguarda.» Karlsson si tolse comunque il paraorecchie e lo infilò nella tasca del cappotto. «Devi farlo tu Larry. Dopotutto sei stato tu a vedere il corpo.» Larry sospirò e suonò il campanello. Dall'altro lato della porta, si udì una specie di miagolio irato seguito da un tonfo sordo come se fosse caduto qualcosa sul pavimento. Larry si schiarì la gola. La situazione non gli piaceva per niente. Si sentiva come un poliziotto con i colleghi alle spalle, mancavano soltanto le pistole. Dall'interno dell'appartamento si udirono dei passi strascicati, poi una voce. «Piccola cara, come stai?» La porta si aprì. Una zaffata di odore di urina colpì il volto di Larry togliendogli il respiro. Gösta era fermo sulla porta, indossava una camicia lisa, un panciotto e la solita farfalla. In braccio teneva un gatto dal pelo arancione con striature bianche. «Sì?» «Ciao Gösta, come stai?» Gli occhi di Gösta vagarono dall'uno all'altro componente del gruppo fermo sul pianerottolo. Era chiaramente ubriaco. «Sto bene...» «Sì, dunque, siamo venuti qui per... sai cosa è successo?» «No.» «Sì, hanno ritrovato Jocke. Oggi.» «Davvero? Ah...» «E volevamo dirti che...» Larry si girò, cercando supporto dagli altri membri della delegazione. L'unica cosa che ottenne fu un vago gesto di incoraggiamento da parte di Morgan. Larry non ce la faceva a restare lì come un rappresentante ufficiale che deve presentare un ultimatum. Ma per quanto l'idea non gli piacesse, c'era una sola alternativa. «Possiamo entrare?» chiese. Si era aspettato una certa resistenza, Gösta non era sicuramente abituato
a ricevere la visita di cinque persone. Ma annuì e fece un paio di passi indietro per farli passare. Larry esitò un attimo; la puzza dall'interno dell'appartamento era incredibile, era come una nuvola appiccicaticcia. Mentre esitava, Lacke era entrato seguito da Virginia. Lacke accarezzò la testa del gatto che Gösta teneva in braccio. «Bel gatto. Come si chiama?» «È una gatta. Thisbe.» «Bel nome. Hai anche un Pyramus?» «No.» Uno dopo l'altro entrarono nell'appartamento cercando di respirare con la bocca. Dopo qualche minuto, tutti abbandonarono ogni tentativo di evitare la puzza, si rilassarono e iniziarono a farci l'abitudine. Gösta fece scendere i gatti dal divano e dalla poltrona e andò a prendere delle sedie in cucina. Una bottiglia di vodka, succo di arancia e bicchieri apparvero sul tavolino, e dopo alcuni minuti di chiacchiere sui gatti e sul tempo Gösta disse: «Dunque, hanno trovato Jocke.» Larry finì il suo drink. Con il calore dell'alcol nello stomaco, il suo compito era diventato più facile. Si versò un'altro bicchiere e disse: «Sì. Giù, vicino all'ospedale. Il suo corpo era sotto il ghiaccio.» «Sotto il ghiaccio?» «Sì. C'era un bel casino laggiù. Ero andato all'ospedale per salutare Herbert, non so se lo conosci, comunque... quando sono uscito ho visto un sacco di poliziotti che andavano avanti e indietro, un'ambulanza e un minuto dopo anche i pompieri...» «C'era anche un incendio?» «No, ma sono stati costretti a usare delle asce per tirarlo fuori. Sì, allora non sapevo che era lui, ma quando lo hanno tirato su e portato sulla spiaggia ho riconosciuto i suoi vestiti, perché la faccia era coperta di ghiaccio, così non potevo... ma i vestiti...» Gösta mosse una mano come se stesse accarezzando un cane invisibile. «Aspetta un attimo, dunque Jocke è annegato, non capisco...» Larry bevve un sorso del suo drink e poi si passò una mano sulla bocca. «No. All'inizio anche la polizia aveva pensato la stessa cosa. Da quello che ho capito. Stavano lì con le braccia incrociate, e quelli dell'ambulanza erano occupati con un ragazzo che era arrivato e sanguinava dalla testa, così era...»
Gösta accarezzò il cane invisibile con più forza o forse voleva allontanarlo da sé. Qualche goccia del drink nell'altra mano cadde sul tappeto. «Ma adesso non riesco... sanguinava dalla testa...» Morgan appoggiò sul pavimento il gatto che aveva sulle ginocchia e si strofinò i pantaloni. «Non ha niente a che vedere con Jocke. Forza Larry, spiega bene.» «Sì, lo hanno tirato su e adagiato sulla riva. E io ho capito che era lui. A quel punto hanno visto anche la fune e delle grosse pietre attaccate alla fune. Allora i poliziotti hanno iniziato a darsi da fare sul serio. Parlavano alla radio, hanno fatto sloggiare la gente, e poi hanno messo quei nastri di delimitazione. Improvvisamente la cosa era diventata interessante. Sì, qualcuno deve aver cercato di far sparire il suo corpo, niente di più semplice.» Gösta si appoggiò allo schienale del divano e si coprì gli occhi. Virginia, che era seduta fra lui e Lacke, gli passò una mano sul ginocchio. Morgan gli riempì il bicchiere. «Almeno, hanno ritrovato Jocke, no? Vuoi anche un po' di succo? Tieni. Hanno ritrovato Jocke e adesso sanno che è stato assassinato. E questo cambia le cose, non trovi?» Karlsson si schiarì la gola e assunse un tono autoritario. «Nel sistema giuridico svedese, c'è qualcosa che si chiama...» «Adesso tu chiudi la bocca» lo interruppe Morgan. «Si può fumare?» Gösta annuì appena. Mentre Morgan accendeva la sigaretta, Lacke si chinò in avanti in modo da fissarlo negli occhi. «Gösta. Tu hai visto quello che è successo. Deve venire fuori.» «Venire fuori? Come?» «Sì, tu devi semplicemente andare dalla polizia e raccontare quello che hai visto.» «No... no.» Nella stanza calò il silenzio. Lacke sospirò, si versò un mezzo bicchiere di vodka e aggiunse un dito di succo di arancia, bevve un lungo sorso, e quando il liquido raggiunse il suo stomaco chiuse gli occhi. Non voleva costringere Gösta. Al ristorante cinese, Karlsson aveva bofonchiato qualcosa sul dovere del testimone e delle prove, ma per quanto Lacke desiderasse che prendessero l'assassino, non voleva mandare un amico dalla polizia come un informatore qualsiasi. Un gatto grigio strofinò la testa contro la sua gamba. Lo sollevò e gli accarezzò distrattamente la schiena. Che importanza può avere? Jocke era
morto, ora lo sapevano con certezza. Che importanza aveva tutto il resto? Morgan si alzò e andò alla finestra con il bicchiere in mano. «Dove eri esattamente quando hai visto? Qui?» «... sì.» Morgan annuì, bevve un sorso. «Sì, allora capisco. Da qui si vede tutto. Gran bell'appartamento. Bella vista. Sì, a parte... bella vista.» Una lacrima scese sulla guancia di Lacke. Virginia gli prese la mano e gliela strinse. Lacke mandò giù un lungo sorso per attenuare il dolore che provava. Larry, che era rimasto a osservare i gatti che giravano qua e là apparentemente senza motivo, tamburellò le dita sul bicchiere e disse: «Si potrebbe suggerire alla polizia di controllare il posto? Forse potrebbero trovare delle impronte digitali... o qualcos'altro.» Karlsson sorrise. «E loro ci chiederebbero perché devono guardare proprio lì. Stai sicuro che alla fine ci farebbero dire la verità.» «Potremmo fare una telefonata anonima. Così almeno la verità salterà fuori.» Gösta borbottò qualcosa dal divano. Virginia si chinò in avanti per sentire. «Cosa hai detto?» Gösta parlò con un filo di voce tenendo lo sguardo fisso sul bicchiere. «Scusatemi. Ma ho troppa paura. Non posso.» Morgan alzò un braccio. «Bene, così è. Non parliamone più» disse fissando Karlsson con uno sguardo truce. «Dovremo trovare un'alternativa. Un altro modo. Facendo un disegno, telefonando, qualsiasi cosa. Ci penseremo.» Si avvicinò a Gösta e gli sfiorò un piede con il suo. «Forza, Gösta, tirati su. Ce ne occuperemo noi. Rilassati. Gösta? Hai sentito cosa ti ho detto? Andrà tutto bene. Alla tua!» Allungò il suo bicchiere, toccò quello di Gösta e bevve un sorso. «Andrà tutto bene. Non è così?» Aveva lasciato gli altri all'uscita della piscina e si stava avviando verso casa, quando udì una voce che proveniva dalla scuola. «Psst. Oskar!» Poi udì dei passi sulle scale ed Eli uscì dall'ombra. Era rimasta seduta lì
ad aspettarlo. Lo aveva sentito salutare gli altri che avevano risposto come se fosse una persona normale. L'allenamento era andato bene. Non era così debole come aveva creduto, anzi aveva più resistenza di un paio di ragazzi che si allenavano da diverse settimane. La sua paura che il signor Ávila gli chiedesse cosa era successo si era rivelata infondata. Il signor Ávila gli aveva semplicemente chiesto: «Vuoi parlarne?», e quando Oskar aveva scosso il capo non aveva insistito. La palestra era un altro mondo, diverso da quello della scuola. Il signor Ávila era meno severo e gli altri ragazzi lo lasciavano in pace. A dire il vero, Micke non c'era. Aveva paura di lui adesso? Quel pensiero gli fece girare la testa. Andò incontro a Eli. «Ciao.» «Ciao.» Eli indossava una camicia a quadri troppo grande e sembrava nuovamente deperita. La sua pelle era secca e il suo volto più magro. Già la sera prima Oskar aveva notato alcuni capelli bianchi, e ora ne vide molti di più. Quando Eli stava bene, per Oskar era la ragazza più bella che avesse mai visto. Ma in quello stato, era completamente diversa. Nessuno aveva quell'aspetto. I nani. Ma i nani non sono così esili, così... non si poteva fare quel paragone. Oskar le era grato per non essersi fatta vedere dagli altri ragazzi. «Come stai?» chiese. «Così così.» «Facciamo qualcosa?» «Naturalmente.» Iniziarono a camminare fianco a fianco. Oskar aveva un piano. Avrebbero fatto un patto insieme. In questo modo, Eli si sarebbe ripresa. Un pensiero magico, ispirato ai libri che aveva letto. Ma la magia... naturalmente nel mondo c'era un po' di magia. Le persone che negavano l'esistenza della magia finivano male. Arrivarono nel cortile. Oskar le toccò una spalla. «Andiamo a controllare il locale dei rifiuti ingombranti?» «Okay.» Entrarono nel portone di Eli e Oskar aprì la porta della cantina. «Hai una chiave della cantina?» «Non credo.»
Dentro la cantina era buio pesto. La porta si chiuse alle loro spalle. Rimasero immobili, uno accanto all'altra. «Eli, volevo dirti una cosa» sussurrò Oskar. «Oggi... Jonny e Micke hanno cercato di buttarmi in acqua. In un buco nel ghiaccio.» «No! Tu...» «Aspetta. Sai cosa ho fatto? Avevo un ramo, un grosso ramo. Ho colpito Jonny alla testa e ha iniziato a sanguinare. Il colpo gli ha provocato una commozione cerebrale e hanno dovuto portarlo all'ospedale. Non è riuscito a buttarmi nell'acqua. Io... l'ho colpito.» Rimasero in silenzio per qualche secondo. Poi Eli disse: «Oskar.» «Sì?» «Hurrà!» Oskar cercò l'interruttore della luce, voleva vedere il suo volto. Accese. Eli lo fissò dritto negli occhi e Oskar vide le sue pupille. Per un attimo, prima che i suoi occhi si abituassero alla luce, gli ricordarono quei cristalli che avevano studiato durante la lezione di fisica, come si chiamavano... ellittici... Pupille come quelle delle lucertole. No. Dei gatti. Si, dei gatti. Eli batté le ciglia. Le pupille erano tornate normali. «Cosa c'è?» «Niente. Vieni...» Oskar si avvicinò al locale dei rifiuti e aprì la porta. Era evidente che non veniva svuotato da diversi giorni. Eli lo raggiunse e iniziarono a rovistare fra i rifiuti. Oskar trovò un sacchetto pieno di bottiglie, vuoti a rendere. Eli trovò una spada giocattolo di plastica. «Andiamo a controllare anche le altre stanze?» disse agitando la spada. «No. Potrebbero esserci Tommy e gli altri.» «Chi sono?» «Be', sono tre ragazzi più grandi che hanno una cantina dove si ritrovano di sera.» «Sono tanti?» «No, sono tre. Ma il più delle volte Tommy è da solo.» «E sono pericolosi.» Oskar scrollò le spalle. «Andiamo a controllare.» Attraversarono l'edificio dove abitava Oskar e passarono al corridoio di cantine di quello adiacente, fino ad arrivare dove Tommy aveva il suo club. Oskar stava per infilare la chiave nella serratura dell'ultima porta, ma
si fermò esitando. E se fossero stati lì? Come avrebbero reagito vedendo Eli? E se non fosse stato in grado di controllare la situazione? Eli alzò la spada di plastica. «Cosa c'è?» Oskar aprì la porta. Non appena entrarono nel corridoio, udirono la musica. «Sono lì» disse Oskar voltandosi. Eli si fermò, annusò. «Che cos'è questo odore?» Oskar controllò che in fondo al corridoio non ci fossero movimenti, annusò a sua volta. Sentiva soltanto i soliti odori della cantina. Eli disse: «Vernice. Colla.» Oskar annusò nuovamente. Non sentiva niente, ma sapeva di cosa si trattava. Quando si girò per dire a Eli che dovevano andarsene, vide che stava facendo qualcosa con la serratura. «Cosa stai facendo?» «Sto solo...» Mentre Oskar faceva marcia indietro, la porta si chiuse alle loro spalle. Ma non con un suono normale. Nessun click. Solo un tonfo metallico. Mentre tornavano verso la loro cantina, raccontò a Eli di quelli che inalavano la colla, e delle reazioni folli che questo provocava. Nella sua cantina Oskar si sentiva al sicuro. Si mise in ginocchio e iniziò a contare le bottiglie. Quattordici bottiglie di birra e una di vodka, che non era a rendere. Quando alzò lo sguardo per comunicare a Eli il risultato, vide che aveva alzato la spada come se fosse pronta a colpire. Abituato a prendere colpi improvvisi, sussultò. Ma Eli bisbigliò qualcosa e poi gli mise la spada sulla spalla, dicendo con un tono solenne: «Con questo io ti nomino Cavaliere di Blackeberg e di tutti i territori circostanti, Vällingby incluso, e ti conferisco il titolo di Vincitore di Jonny...» «E Råcksta?» «E Råcksta.» «Forse anche Ängby?» «Anche Ängby.» Per ogni nuovo territorio, Eli gli dava un leggero colpo sulla spalla con la spada. Oskar prese il suo coltello dalla borsa, lo alzò e confermò che era anche il Cavaliere di Ängby. E dichiarò che Eli era la bella principessa che lui avrebbe salvato dal drago. Ma Eli era un orribile mostro che mangiava giovani ragazze per colazione e lui l'avrebbe combattuta. Oskar infilò il coltello nella guaina e inizia-
rono a gridare e correre nel corridoio fingendo di battersi. D'un tratto, udirono una chiave girare nella serratura della porta della cantina. Corsero rapidamente in fondo al corridoio, lì era buio e si misero a sedere in un angolo. «Cosa state facendo quaggiù?» chiese la voce di un uomo. Oskar si strinse a Eli. Il suo cuore batteva all'impazzata. L'uomo fece alcuni passi in avanti. «Dove vi siete cacciati?» L'uomo si fermò e rimase in ascolto, Oskar ed Eli trattennero il respiro. «Maledetti ragazzini» disse l'uomo, e se ne andò. Oskar ed Eli rimasero seduti nell'angolo finché non furono sicuri che se ne fosse veramente andato, poi si alzarono ridacchiando e si appoggiarono alla porta di una cantina. Dopo un po', Eli si stese sul pavimento di cemento con lo sguardo fisso al soffitto. Oskar le toccò un piede. «Sei stanca?» «Sì. Sono stanca.» Oskar sfilò il coltello dalla guaina e lo fissò. Era pesante, bello. Spinse leggermente la punta contro l'indice, la tolse. Un puntino rosso. Lo fece nuovamente, più forte. Quando tolse la punta del coltello dal dito, apparve una perla di sangue. Ma non era così che si doveva fare. «Eli? Vuoi fare una cosa?» Eli continuava a tenere lo sguardo fisso sul soffitto. «Cosa?» «Vuoi... fare un patto con me? Un sodalizio?» «Sì.» Se gli avesse chiesto «come», forse le avrebbe detto quello che intendeva fare prima di farlo. Ma lei aveva detto soltanto «sì». Era d'accordo su qualsiasi cosa. Oskar deglutì, afferrò la lama del coltello con il filo sul palmo, chiuse gli occhi e ritirò la lama dalla mano. Un dolore pungente come una bruciatura. Ansimò. L'ho fatto? Aprì gli occhi, aprì la mano. Sì. Un sottile taglio attraversava il palmo della sua mano, il sangue iniziava a sgorgare lentamente, ma non come si era immaginato. Non una linea continua, ma un filo di perle che, mentre le osservava affascinato, si congiungevano formando una linea irregolare. Eli lo guardò. «Cosa stai facendo?» Oskar teneva ancora la mano rivolta verso di sé e continuava a fissarla.
«È stato facile. Eli, non è stato per niente...» Allungò la mano insanguinata verso di lei. Eli sbarrò gli occhi. Iniziò a scuotere il capo intensamente strisciando all'indietro, lontano dalla sua mano. «No, Oskar.» «Cosa c'è?» «Oskar, no.» «Non fa quasi male.» Eli smise di strisciare, continuava a tenere lo sguardo fisso sulla mano di Oskar scuotendo il capo. Oskar prese il coltello per la lama e glielo porse con l'impugnatura in avanti. «Devi solo bucarti un po' un dito. Poi mischieremo il sangue. E saremo uniti.» Eli non afferrò il coltello. Oskar lo posò sul pavimento fra loro, per poter prendere con la mano sana una goccia di sangue che gli stava scivolando dal palmo. «Dai. Non vuoi farlo?» «Oskar... non è possibile. Sarai contagiato, tu...» «Non fa per niente male, è...» Uno spettro si infilò nel volto di Eli e lo trasformò in qualcosa di così diverso dalla ragazza che Oskar conosceva che si dimenticò di cogliere il sangue che colava dalla sua mano. Ora, gli sembrava quel mostro che poco prima aveva finto di essere. Oskar fece un passo all'indietro. Adesso la mano gli doleva. «Eli, cosa...» Eli si mosse, si mise carponi e fissò la mano che sanguinava, fece un movimento in avanti. Si fermò, digrignò i denti e disse: «Vattene!» Lacrime di paura si formarono negli occhi di Oskar. «Eli, smettila. Smettila di giocare. Smettila.» Eli si mosse in avanti, si fermò nuovamente. Inarcò la schiena, la testa chinata in basso, e urlò: «Vattene! Altrimenti morirai!» Oskar fece alcuni passi indietro. I suoi piedi andarono a sbattere contro il sacchetto delle bottiglie che cadde rovesciandosi. Oskar si addossò al muro, mentre Eli si trascinava verso le piccole macchie di sangue che erano cadute sul pavimento dalla mano di Oskar. Un'altra bottiglia cadde e andò in pezzi sul pavimento di cemento, mentre Oskar rimaneva contro il muro fissando Eli che leccava con la lingua il cemento sporco dove erano cadute le gocce di sangue.
Una bottiglia rotolò tintinnando e si fermò contro il muro. Eli continuava a leccare il pavimento. Quando alzò la testa, Oskar vide una macchia grigia sulla punta del suo naso. «Vattene, per favore... vattene.» Poi lo spettro tornò sul suo volto, ma prima che riuscisse ad avere il sopravvento, Eli si alzò, corse verso la porta, la aprì e scomparve. Oskar rimase immobile con le mani chiuse che continuavano a tremare. Sentì il sangue colare dalla mano. Aprì il pugno e osservò la ferita. Era più profonda di quanto voleva, ma si disse che non era pericolosa. Il sangue aveva già iniziato a coagularsi. Fissò le macchie pallide sul pavimento. Poi, mise la bocca sul palmo della mano e succhiò un po' di sangue. Lo sputò subito. Illuminazione notturna. Domani avrebbero operato la bocca e la gola. Speravano di ottenere qualche risultato. La lingua era intatta, poteva muoverla dentro la bocca chiusa, poteva toccare il palato. Forse sarebbe stato in grado di parlare nuovamente, anche se non aveva più le labbra. Ma non aveva intenzione di parlare. Una donna, una poliziotta o forse un'infermiera, era seduta in un angolo a qualche metro di distanza e stava leggendo un libro. Era ovvio che era lì per tenerlo d'occhio. Usano tutte queste risorse quando uno-senza-nome non vuole più vivere? Aveva capito di essere importante e che si aspettavano molto da lui. Con tutta probabilità ora stavano controllando i rapporti di vecchi casi che speravano di risolvere addossandogli la colpa. Nel pomeriggio, un poliziotto era venuto a prendere le sue impronte digitali. Non aveva opposto resistenza. Non aveva alcuna importanza. Al massimo, le impronte digitali potevano collegarlo agli omicidi di Växjö e Norrköping. Aveva cercato di ricordare come si era mosso, se aveva lasciato impronte o altre tracce. Con tutta probabilità lo aveva fatto. L'unica cosa che lo preoccupava era che tramite quegli episodi riuscissero ad arrivare a Eli. La gente... Avevano messo dei fogli nella sua buca delle lettere, lo avevano minacciato.
Qualcuno che lavorava alle poste, e che viveva nello stesso quartiere, aveva informato i suoi vicini della posta e delle videocassette che riceveva. Passarono alcuni mesi prima che fosse licenziato dalla direzione della scuola dove insegnava. Non potevano tenere un tipo come lui a contatto con i bambini. Se ne era andato senza protestare, anche se avrebbe potuto rivolgersi ai sindacati. Non aveva mai fatto niente a scuola, non era così stupido. La campagna contro di lui si era intensificata, finché una notte qualcuno aveva scagliato una bomba incendiaria attraverso la finestra del suo soggiorno. Era uscito nel giardino di corsa con indosso soltanto le mutande ed era rimasto a guardare la sua vita che se ne andava in fumo. L'inchiesta sull'incendio doloso era andata per le lunghe e non aveva ricevuto i soldi dall'assicurazione. Con i suoi miseri risparmi aveva preso il treno e aveva affittato una camera a Växjö. Lì, aveva iniziato a preparare la propria morte. Era arrivato a ubriacarsi con tutto quello su cui poteva mettere le mani. In un negozio aveva rubato un preparato per fare il vino e del lievito, e lo aveva bevuto prima che fosse pronto. Stava fuori di casa il più spesso possibile, in qualche modo voleva che "la gente" lo vedesse morire giorno dopo giorno. In stato di ubriachezza divenne incauto, toccava i ragazzini, era stato picchiato, e la polizia lo aveva arrestato. Era rimasto rinchiuso per tre giorni in prigione vomitando l'anima. Era stato rilasciato. Aveva continuato a bere. Una sera, mentre con una bottiglia di vino era seduto su una panchina vicino a un parco giochi in un giardino pubblico, era arrivata Eli e si era seduta al suo fianco. Ubriaco, Håkan le aveva subito messo una mano su una coscia. Eli l'aveva lasciato fare, gli aveva preso la testa fra le mani, l'aveva girata verso di sé e gli aveva detto: «Tu starai con me.» Håkan aveva farfugliato che al momento non poteva permettersi di mantenere una tale bellezza. Ma quando la sua situazione economica lo avesse permesso... Eli aveva spostato la sua mano dalla coscia, si era chinata in avanti, aveva preso la bottiglia di vino e ne aveva versato il contenuto a terra dicendo: «Tu non capisci. Ascolta. Adesso devi smetterla di bere. Tu starai con me. Mi aiuterai. Ho bisogno di te. E io ti aiuterò.» Poi gli aveva teso la mano, Håkan l'aveva presa e se n'erano andati insieme. Håkan aveva smesso di bere ed era entrato al servizio di Eli.
Eli gli aveva dato i soldi perché si comprasse dei vestiti e per affittare un altro appartamento. Håkan aveva eseguito tutto quello che gli diceva di fare senza chiedersi se fosse un essere malvagio o buono o qualsiasi altra cosa. Eli era una bella creatura, Eli gli aveva restituito la sua dignità. E, anche se raramente, tenerezza. Udì la sorvegliante girare una pagina del libro che stava leggendo. Molto probabilmente un romanzo dozzinale. Nella Repubblica di Platone, i guardiani erano i più colti. Ma questa era la Svezia del 1981, e con tutta probabilità la donna stava leggendo un libro di Jan Guillou. L'uomo nell'acqua, l'uomo che aveva calato nel lago. Era stato maldestro. Avrebbe dovuto fare quello che Eli gli aveva suggerito, avrebbe dovuto seppellirlo. Ma niente in quell'uomo poteva essere collegato a Eli. I segni del morso alla gola sarebbero apparsi strani, ma avrebbero creduto che il suo sangue fosse fluito nell'acqua. I vestiti dell'uomo erano... La maglia. La maglia di Eli. Quando Håkan era andato sotto il ponte per occuparsi del cadavere, l'aveva trovata sul suo corpo. Avrebbe dovuto portarla a casa, bruciarla, qualsiasi cosa. Invece, l'aveva messa sotto la giacca dell'uomo. Cosa avrebbero pensato? La maglia di un bambino, sporca di sangue. C'era il rischio che qualcuno l'avesse vista indosso a Eli? Qualcuno che avrebbe potuto riconoscerla. E se l'avessero messa sui giornali? Qualcuno che Eli aveva incontrato prima di... qualcuno che... Oskar. Il ragazzo nel cortile. Håkan agitò il corpo nervosamente. La sorvegliante abbassò il libro e lo fissò. «Niente stupidaggini adesso.» Eli attraversò Björnsonsgatan, raggiunse il cortile fra le due case a nove piani, due fari monolitici che sovrastavano le case a tre piani tutt'intorno. Nel cortile non c'era nessuno, ma le finestre della palestra erano illuminate. Salì per la scala antincendio e guardò all'interno. Donne di mezza età si muovevano al ritmo della musica di un registratore portatile facendo vibrare il pavimento di legno. Si accovacciò sulla grata metallica della scala, appoggiò il mento sulle ginocchia e osservò la scena. Diverse donne erano sovrappeso e sotto le magliette i loro seni massicci ballonzolavano come bocce da bowling. Iniziarono a saltellare, i loro gras-
si deretani tremavano sotto i pantaloni delle tute troppo strette. Si muovevano in cerchio al ritmo della musica, battevano le mani, saltavano nuovamente. Sangue caldo, pieno di ossigeno, fluiva nei muscoli assetati. Ma erano troppe. Eli saltò giù dalla scala, atterrò leggera sul terreno gelato e si avviò verso la piscina. Le grandi finestre smerigliate riflettevano rettangoli di luce sul manto di neve. Sopra ogni grande finestra c'era una seconda finestra oblunga di vetro normale. Fece un balzo in alto, si attaccò al bordo del tetto e guardò dentro. La piscina era deserta. La superficie dell'acqua luccicava alla luce dei neon. Alcuni palloni galleggiavano qua e là. Nuotare. Sguazzare. Giocare. Eli ondeggiava avanti e indietro, un pendolo scuro. Fissò i palloni, li immaginò volteggiare in aria, ricadere nell'acqua, e immaginò gli spruzzi seguiti da risate. Lasciò la presa e cadde di proposito a corpo morto, per provare dolore, poi attraversò il cortile della scuola, entrò nel parco e si fermò sotto un albero alto accanto alla strada. Intorno non c'era nessuno. Si tolse le scarpe, e con la forza del pensiero modificò mani e piedi. Non faceva più male quando le dita delle mani e dei piedi si restringevano e cambiavano forma, sentiva soltanto una specie di brivido, una leggera scossa elettrica. Mentre si allungavano, passando attraverso la pelle dei polpastrelli formando lunghi artigli ricurvi, le ossa crepitavano. La stessa cosa accadeva alle dita dei piedi. Eli fece un balzo di diversi metri, affondò gli artigli delle mani in un grosso ramo sopra la strada. Piantò gli artigli dei piedi intorno al ramo e rimase lì immobile. Sempre con il pensiero rese aguzzi i suoi denti, provando un dolore lancinante alle radici. Le corone si curvarono, affilate da una lima invisibile, i denti divennero appuntiti. Eli si morse il labbro inferiore, un'impronta di puntini a mezzaluna si formò sulla pelle del labbro. Non rimaneva che aspettare. Alle dieci, la temperatura nella stanza stava diventando insopportabile. Avevano già bevuto due bottiglie di vodka, ne aprirono una terza e tutti erano d'accordo nell'affermare che Gösta era un tipo in gamba ed estremamente generoso. Solo Virginia si era limitata nel bere, dato che il giorno dopo doveva lavorare. Inoltre, sembrava la sola ad avere notato il cambiamento nella
stanza. All'odore stantio e umido di urina di gatto si erano aggiunti quelli del fumo, dell'alcol e del sudore di sei persone. Lacke e Gösta erano ancora seduti al suo fianco, ed erano piuttosto alticci. Gösta stava accarezzando un gatto seduto sulle sue ginocchia, un gatto strabico. Quando Morgan lo aveva notato, era stato colto da un tale attacco di risa che aveva sbattuto la testa contro il tavolino. Per alleviare il dolore aveva bevuto mezzo bicchiere di vodka pura. Lacke non parlava molto. Rimaneva per lo più seduto con lo sguardo fisso davanti a sé, mentre gli occhi si velavano, passando gradualmente da foschia a nebbia. Di tanto in tanto, le labbra si muovevano silenziose come se stesse conversando con un fantasma. Virginia si alzò, andò alla finestra. «Posso aprirla?» Gösta scosse il capo. «I gatti potrebbero... saltare giù.» «Rimarrò qui a controllare.» Gösta continuava a scuotere il capo meccanicamente, e Virginia aprì la finestra. Aria! Respirò profondamente l'aria fresca e si sentì subito meglio. Lacke, che aveva iniziato a scivolare in mancanza del supporto di Virginia, si raddrizzò di colpo e disse ad alta voce: «Un amico! Un vero... amico!» Le sue parole furono accolte da un mormorio di approvazione. Tutti capivano che si stava riferendo a Jocke. Lacke fissò il bicchiere vuoto che aveva in mano e continuò. «Un vero amico che non ti tradisce mai. Un vero amico è tutto. Mi sentite? Tutto. E dovete capire che Jocke e io eravamo... così.» Portò una mano davanti al viso e la chiuse fermamente. «E niente può rimpiazzare una cosa così. Niente! State lì seduti a bofonchiare "che persona magnifica" e tutto il resto, ma siete tutti... vuoti dentro. Siete soltanto un guscio vuoto! Adesso che Jocke non c'è più, io non sono... niente. Niente. Perciò non venite a parlarmi di perdita, non venite a parlarmi di...» Virginia, che era rimasta alla finestra ad ascoltare, gli si avvicinò per ricordargli la propria esistenza. Si accovacciò davanti a lui cercando di incrociare il suo sguardo. «Lacke...» «No. Non venire qui e "Lacke, Lacke"... è così e basta. Tu non capisci. Tu sei fredda. Quando le cose vanno male, tu te ne vai in città, carichi un dannato autista di tir o chiunque sia, te lo porti a casa e ti lasci scopare. È
così che fai. Un dannato camionista dopo l'altro. Ma un amico... un amico...» Virginia si rialzò con le lacrime agli occhi, diede uno schiaffo a Lacke e se ne andò. Lacke cadde sul fianco sbattendo la testa contro la spalla di Gösta. «La finestra, la finestra...» borbottò Gösta. Morgan la chiuse. «Bravo, Lacke. Bravo. Adesso non la rivedrai mai più.» Lacke si alzò e si avvicinò barcollando a Morgan che stava guardando dalla finestra. «Dannazione. Io non volevo...» disse Lacke. «Faresti meglio a dirlo a lei, invece.» Morgan fece un cenno verso la strada dove Virginia, che era appena uscita dal portone, camminava a passo svelto con lo sguardo fisso a terra. Nella mente di Lacke echeggiavano le ultime parole che le aveva rivolto. L'ho detto veramente? Si affrettò verso la porta. «Devo soltanto...» Morgan annuì. «Non tirarla per le lunghe. Salutamela.» Lacke corse giù per le scale con tutta la rapidità che le sue gambe malferme gli consentivano. I gradini della scala scorrevano davanti a lui indistintamente, il palmo della mano gli bruciava per l'effetto dell'attrito sulla ringhiera. Scivolò su un gradino, cadde battendo il gomito. Il suo braccio fu invaso dal calore e fu come paralizzato. Si rialzò e riprese a scendere le scale. Stava correndo per salvare una vita. La sua. Virginia si lasciò alle spalle il gruppo di case, entrò nel parco senza voltarsi indietro. Piangeva tenendo la testa bassa, e camminava rapidamente come se volesse fuggire dalle lacrime. Ma le lacrime continuavano a perseguitarla, uscivano dagli occhi e scorrevano giù per le guance. I tacchi delle scarpe bucavano lo strato di neve e ticchettavano sulla superficie asfaltata della strada del parco. Virginia incrociò le braccia sul petto in un autoabbraccio. Intorno non c'era anima viva, così diede libero sfogo alle lacrime continuando a camminare verso casa. Provava fitte di dolore al ventre, come se all'interno ci fosse stato un feto scalpitante. Lascia che una persona entri nella tua vita e ti farà soltanto del male. Non era senza ragione che faceva in modo che le sue relazioni fossero di breve durata. Non lasciar entrare nessuno nella tua vita. Da dentro hanno
possibilità del tutto diverse di ferirti. Consolati. È possibile vivere con l'angoscia, finché è soltanto la tua. Finché non c'è speranza. Ma Virginia aveva riposto le proprie speranze in Lacke. Aveva creduto che potesse crescere qualcosa. E alla fine. Un giorno. Cosa? Aveva preso il suo cibo, il suo calore, ma in verità lei non era niente per lui. Camminava attraverso il parco a testa bassa, piegata sul proprio dolore. La sua schiena era curva e c'era un demonio che sussurrava cose orribili nelle sue orecchie. Mai più. Niente. Proprio mentre immaginava l'aspetto del demonio, fu colpita. Un grosso peso atterrò sulla sua schiena e lei cadde rovinosamente su un fianco. La sua guancia incontrò la neve e la patina di lacrime si trasformò in ghiaccio. Aveva il peso sempre addosso. Per un attimo, pensò veramente che il demone del dolore avesse preso forma per scagliarsi su di lei. Poi, quando i denti aguzzi penetrarono attraverso la sua pelle, sentì un dolore lacerante alla gola. Riuscì a rimettersi in piedi e iniziò a roteare il corpo per liberarsi da quella cosa sulla sua schiena. Qualcosa stava morsicando la sua nuca, la sua gola, un rivolo di sangue le scivolò fra i seni. Iniziò a urlare a squarciagola cercando di scuotersi di dosso l'animale che aveva sulla schiena, cadde nuovamente nella neve continuando a urlare. Finché qualcosa di duro non le chiuse la bocca. Una mano. Sulla guancia sentì artigli che scavavano nella pelle morbida... fino a toccare l'osso dello zigomo. I denti smisero di muoversi e Virginia udì un suono, come quello che si sente quando si succhiano le ultime gocce di un drink dal fondo di un bicchiere. Del liquido iniziò a scorrerle su un occhio e non sapeva se fosse sangue o lacrime. Quando Lacke arrivò in strada, Virginia era soltanto una figura nera che si muoveva nel parco in direzione di Arvid Mörnes. Lacke ansimava per lo sforzo che aveva fatto correndo giù per le scale e il gomito gli mandava fitte regolari di dolore fino alla spalla. Ma continuava a correre. Il più rapidamente possibile. L'aria fresca gli schiariva il cervello e il terrore di perderla lo spingeva in avanti. Quando raggiunse la strada che portava a quello che aveva iniziato a chiamare "il ponte di Jocke" si fermò e aspirò profondamente per gridare il
suo nome. Lei camminava sotto gli alberi a una cinquantina di metri di distanza. Proprio mentre stava per chiamarla, vide un'ombra cadere da un albero sopra Virginia, atterrare sulla sua schiena e Virginia cadere sul fianco. Il suo grido si trasformò in un sibilo e iniziò a correre verso di lei. Avrebbe voluto gridare, ma l'aria non bastava per correre e urlare allo stesso tempo. Continuò a correre. Vide Virginia alzarsi con una grossa massa sulla schiena e iniziare a roteare come un gobbo impazzito e poi ricadere a terra. Non aveva alcun piano, nessun pensiero. Niente, a parte una cosa: raggiungere Virginia e toglierle quella cosa di dosso. Era distesa nella neve con quella massa nera che strisciava su di lei. Quando la raggiunse, alzò un piede e diede un calcio alla massa nera con tutta la forza che gli rimaneva. Il suo piede incontrò qualcosa di duro e lui udì un rumore secco come quello del ghiaccio che si rompe. La massa nera si staccò dalla schiena di Virginia e cadde nella neve al suo fianco. Virginia rimaneva distesa immobile, sulla neve c'erano macchie scure. La massa nera si mise a sedere. Una bambina. Lacke fissò il volto magnifico della bambina inquadrato dai capelli neri. Un paio di occhi enormi fissarono quelli di Lacke. La bambina si mise a quattro zampe come un gatto pronto a fare un balzo. Quando alzò il labbro superiore, il suo volto si trasformò, e Lacke vide le file di denti aguzzi risplendere nel buio. Passarono alcuni secondi immobili. La bambina rimaneva nella stessa posizione, e ora Lacke notò che le sue dita erano degli artigli neri evidenziati dalla neve. Una smorfia si dipinse sul volto della bambina che si rialzò sulle due gambe e si mise a correre in direzione della scuola con lunghi passi. Pochi secondi dopo, fu inghiottita dalle ombre. Lacke rimase immobile asciugandosi il sudore dalla fronte. Poi si mise in ginocchio accanto a Virginia. Vide la ferita sulla gola, rivoli scuri raggiungevano l'attaccatura dei capelli e scorrevano lungo la schiena. Lacke si tolse il giaccone, si sfilò il maglione, arrotolò una manica e cercò di tamponare la ferita. «Virginia! Virginia! Cara, amore mio...» Finalmente era riuscito a pronunciare quelle parole.
Sabato 7 novembre Era in viaggio per andare da suo padre. Conosceva bene ogni curva di quella strada. Quante volte l'aveva fatta? Da solo dieci, forse dodici volte, ma insieme a sua madre almeno altre trenta volte. I suoi genitori si erano separati quando aveva quattro anni, ma con la mamma avevano continuato ad andare a trovare suo padre durante i fine settimana e nei periodi di vacanza. Da tre anni, Oskar aveva avuto il permesso di prendere l'autobus da solo. Questa volta, sua madre non lo aveva neppure seguito fino alla Tekniska Högskolan, da dove partivano gli autobus. Era un ragazzo grande ormai; con il suo carnet di biglietti per la metropolitana nel portafogli. In verità, il portafogli gli serviva più che altro per conservarvi il carnet di biglietti, ma ora aveva anche venti corone per i dolci e cose simili, e anche i biglietti di Eli. Oskar passò un dito sul cerotto sul palmo della mano. Non voleva più incontrare Eli. Era stata orribile. Quello che era successo nella cantina era stato come se... ... Eli avesse mostrato il suo vero volto. C'era qualcosa in lei, qualcosa che era... Orribile. Tutto quello da cui uno deve guardarsi. Precipizi, pezzi di vetro nell'erba, serpenti. Tutto quello da cui sua madre si sforzava di proteggerlo. Forse era per questo che Oskar non aveva voluto che Eli e sua madre si incontrassero. Sua madre se ne sarebbe accorta immediatamente e gli avrebbe proibito di frequentarla. L'autobus lasciò l'autostrada e prese la statale per Spillersboda. Era l'unico autobus che portava all'isola di Rådmansö, era per questo che seguiva un percorso contorto, per servire il maggior numero possibile di paesi e paesini. Passò le montagne irregolari di assi impilate della segheria di Spillersboda, poi fece una curva a gomito e si avviò verso la discesa che portava al pontile. Venerdì sera non aveva aspettato Eli. Aveva preso lo slittino ed era andato a correre da solo sulla collina degli spettri. Sua madre aveva protestato, perché era rimasto a casa da scuola con il raffreddore, ma Oskar le aveva detto che si sentiva meglio. Aveva attraversato il Chinaparken con lo slittino sulle spalle. La collina iniziava a cento metri dall'ultimo lampione, cento metri di foresta buia. La neve crepitava sotto i suoi piedi. Il brusio dei rami degli alberi, mossi da
leggere folate di vento, si sarebbe detto il respiro di un gigante. La luce della luna filtrava a terra fra gli alberi e formava ombre dove figure senza volto rimanevano in attesa ondeggiando avanti e indietro. Raggiunto il punto dove la strada iniziava a scendere verso Kvarnviken, si era seduto sullo slittino. La casa degli spettri con le sue mura nere di fianco alla collina, un luogo proibito. Non puoi venire qui quando fa buio. Perché adesso è il nostro posto. Se vuoi giocare qui, devi giocare con noi. Qua e là, ai piedi della collina si intravedevano alcune luci del club nautico di Kvarnviken. Oskar aveva spinto con le mani, ma subito la discesa aveva preso il sopravvento e lo slittino aveva iniziato a scivolare. Teneva le mani strette intorno alla corda che usava per guidare; avrebbe voluto chiudere gli occhi ma non osava, in quel caso avrebbe potuto uscire di strada e prendere la ripida discesa che portava alla casa degli spettri. Scendeva lungo la collina, un proiettile di nervi e muscoli tesi. Sempre più velocemente. Braccia informi increspate di neve si allungavano dalla casa degli spettri cercando di afferrare il suo berretto, sfiorando le sue guance. Forse era stata soltanto un'improvvisa folata di vento, ma verso la fine della discesa aveva avuto l'impressione di avere sbattuto contro una barriera invisibile ed elastica che cercava di fermarlo. Ma la sua velocità era troppo elevata. Lo slittino aveva attraversato la barriera che gli si era incollata sul volto e sul corpo, ma la barriera si era piegata, tendendosi fino a rompersi, ed era passato. Le luci di Kvarnviken brillavano. Oskar era rimasto seduto sullo slittino fissando il punto in cui quel mattino aveva colpito Jonny con il ramo. Si era girato. La casa degli spettri era una costruzione sgraziata in lamiera. Era tornato in cima alla collina con lo slittino. Era sceso. Era risalito. Era sceso ancora. Non riusciva a smettere. E aveva continuato. Aveva continuato finché il suo viso non si era trasformato in una maschera di ghiaccio. Poi, era tornato a casa. Quella notte non aveva dormito più di quattro cinque ore, perché temeva che arrivasse Eli. Cosa avrebbe dovuto dirle se fosse venuta? Di andarsene? Così, si era addormentato sull'autobus per Norrtälje e si era svegliato poco prima di scendere. Sull'autobus per Rådmansö era rimasto sveglio, e si divertiva a cercare di ricordare la strada. Fra poco passeremo una casa gialla con un mulino a vento in miniatura nel giardino.
L'autobus passò davanti a una casa gialla con un mulino a vento in miniatura nel giardino coperto di neve. E così via. A Spillersboda, sull'autobus salì una ragazza. Oskar afferrò lo schienale del sedile davanti a lui. Assomigliava vagamente a Eli. Naturalmente non era lei. Si mise a sedere due sedili più avanti e Oskar fissò la sua nuca. Perché è così strana? Quel pensiero gli era venuto in mente già nella cantina, mentre raccoglieva le bottiglie e si asciugava il sangue sulla mano con uno straccio. Eli doveva essere un vampiro. Questo avrebbe spiegato un bel po' di cose. Il fatto che non si facesse mai vedere di giorno. Perché poteva vedere al buio, come Oskar aveva potuto constatare. E molto altro: il suo modo di parlare, il cubo, la sua agilità, cose che di per sé potevano avere una spiegazione naturale... ma poi c'era il modo in cui aveva leccato il suo sangue dal pavimento, e questo lo faceva rabbrividire più di ogni altra cosa: «Posso entrare? Dimmi che posso entrare.» Aveva avuto bisogno di un invito per entrare nella sua camera, nel suo letto. E lui l'aveva invitata. Un vampiro. Una creatura che viveva di sangue umano. Eli. Non c'era una sola persona alla quale avrebbe potuto raccontarlo. Nessuno gli avrebbe creduto. E se anche lo avessero fatto, cosa sarebbe successo dopo? Oskar vide davanti a sé una fila di uomini che entravano nel cortile a Blackeberg con grossi pali appuntiti, il cortile dove lui ed Eli si erano abbracciati. Anche se adesso aveva paura di Eli, anche se non voleva più incontrarla, non voleva che accadesse. Quarantacinque minuti dopo la partenza da Norrtälje, l'autobus arrivò a Södersvik. Oskar schiacciò il pulsante per prenotare la fermata. L'autobus si fermò proprio davanti al negozio, e Oskar dovette aspettare che prima scendesse una signora anziana che aveva riconosciuto, ma della quale non ricordava il nome. Suo padre lo aspettava a un paio di metri di distanza. Fece un cenno di saluto all'anziana signora. Oskar scese a sua volta e per un attimo rimase immobile davanti a lui. Quello che era successo nelle ultime settimane lo faceva sentire più grande. Non adulto. Ma in ogni caso, più grande. Ora però, davanti a suo padre, quella sensazione scivolò via. Sua madre sosteneva che suo padre era infantile. Immaturo, incapace di prendersi delle responsabilità. Diceva anche cose gentili, ma queste non potevano cancellare la sua immaturità.
Per Oskar, l'uomo che ora aveva allargato le sue grandi braccia era il simbolo dell'adulto. Si gettò fra quelle braccia. Suo padre era diverso da tutte le persone in città. Sul giaccone Helly Hansen, riparato con nastro adesivo, c'era sempre il solito miscuglio di macchie di vernice, metallo e soprattutto olio. Erano odori, ma per Oskar era semplicemente l'"odore di papà". E amava quell'odore, e quando abbracciò suo padre lo respirò profondamente. «Ciao, caro.» «Ciao, papà.» «Il viaggio è andato bene?» «No. Abbiamo investito un alce.» «Mio Dio. È terribile.» «No. Stavo scherzando.» «Sì. Sì. No, ricordo che una volta...» Mentre si avviavano verso il negozio, suo padre gli raccontò di quella volta in cui aveva investito un alce con un camion. Oskar, che aveva sentito quella storia diverse volte, si guardava intorno canticchiando di tanto in tanto. Come sempre, nel negozio a Södersvik regnava il caos. Con tutti quei cartelli e quelle banderuole immagazzinati in attesa dell'estate, sembrava un chiosco di gelati sovradimensionato. Dietro, il grande tendone con gli attrezzi per il giardinaggio, la terra per le piante, i mobili da giardino e simili era chiuso per la stagione. D'estate il numero di abitanti di Södersvik quadruplicava. Tutta l'area fino alla baia di Norrtälje, Lågarö, era un susseguirsi di villette e case di villeggiatura, e anche se le cassette postali lungo la strada erano disposte in doppia fila, trenta per parte, in quel periodo dell'anno il postino non passava quasi mai. Nessun abitante, niente posta. Suo padre finì la storia dell'incidente con l'alce proprio quando arrivarono al motorino. «... allora ho dovuto finirlo con il piede di porco che uso per aprire le casse. L'ho colpito in mezzo agli occhi. Ha fatto un salto così... sì. Non è stato piacevole.» «No. Ci credo.» Oskar saltò sul portapacchi tirando le gambe sotto di sé. Suo padre mise una mano in una tasca del giaccone e ne estrasse un berretto di lana. «Prendi. È meglio coprire le orecchie.» «No, ce l'ho anch'io.»
Oskar prese il suo berretto. Suo padre infilò il proprio di nuovo in tasca. «E tu allora? Non ti copri le orecchie?» Suo padre si mise a ridere. «No. Sono abituato.» Oskar lo sapeva benissimo. Voleva soltanto scherzare. Non ricordava di averlo mai visto con un berretto in testa. Quando la temperatura scendeva e c'era vento si metteva una specie di berretto di pelle di orso con il paraorecchie che chiamava "un pezzo ereditato", ma quello era tutto. Suo padre mise in moto il motorino. Faceva un rumore che ricordava quello di una motosega. Urlò qualcosa come «pronto?» e inserì la prima. Il motorino scattò in avanti e Oskar dovette fare uno sforzo per non cadere all'indietro. «Si parte!» urlò suo padre. Attraversarono il paese. Oskar era seduto sul portapacchi sferragliante con le gambe incrociate. Si sentiva come il re di tutti i paesi della terra e avrebbe potuto viaggiare così per sempre. Un medico glielo aveva spiegato. I fumi dell'acido che aveva respirato gli avevano corroso le corde vocali e, con tutta probabilità, non sarebbe mai più stato in grado di parlare in modo normale. Una nuova operazione avrebbe potuto ristabilire una rudimentale capacità di pronunciare le vocali, ma dato che anche la lingua e le labbra avevano subito gravi lesioni, sarebbero state necessarie altre operazioni perché potesse riuscire a pronunciare le consonanti. Come ex insegnante di svedese, Håkan non poteva fare a meno di essere affascinato da quel pensiero: la creazione chirurgica delle parole. Conosceva molto bene i fonemi e le particelle della lingua comuni a molte culture. Ma non aveva mai pensato agli strumenti - il palato, le labbra, la lingua, le corde vocali - in quel modo. Creare la lingua da una materia prima informe usando il bisturi, così come le sculture di Rodin prendevano forma da un blocco di marmo grezzo. Eppure, era del tutto inutile. Non aveva alcuna intenzione di parlare. Inoltre, sospettava che il medico si fosse espresso in quel modo con uno scopo preciso. Håkan era un uomo che si poteva definire "a rischio di suicidio". Per questo era importante imprimergli nella mente una sorta di consapevolezza del tempo lineare. Ridargli una sensazione della vita come progetto, un sogno di future conquiste. Håkan non la beveva. Se Eli avesse avuto bisogno di lui, allora avrebbe potuto pensare di con-
tinuare a vivere. In caso contrario, no. Ma niente sembrava indicare che Eli avesse bisogno di lui. E come avrebbe potuto mettersi in contatto con lui in un posto simile? Dalle cime degli alberi al di là della finestra, intuì di essere al piano più alto. Inoltre, era strettamente sorvegliato. Oltre al medico e alle infermiere, nelle vicinanze c'era sempre un poliziotto. Eli non poteva raggiungerlo e lui non poteva raggiungere Eli. Aveva pensato di fuggire, di vedere Eli un'ultima volta. Ma come avrebbe potuto farlo? Grazie all'operazione alla gola riusciva a respirare autonomamente e non aveva più bisogno di essere collegato a un respiratore. Ma non poteva nutrirsi in modo normale - anche questo aspetto sarebbe stato risolto, gli aveva assicurato il medico. Riusciva a intravedere la cannula della flebo. Se l'avesse staccata, era più che probabile che sarebbe scattato un allarme. E poi c'era il suo aspetto orribile. Fuggire era praticamente impensabile. Un chirurgo plastico aveva trapiantato un pezzo di pelle dalla sua schiena e creato una palpebra, così ora riusciva a chiudere l'occhio. Chiuse l'occhio. La porta della sua stanza si aprì. Era di nuovo ora. Riconobbe la voce. Lo stesso uomo di tutte le altre volte. «Salve» disse l'uomo. «Mi dicono che ci vorrà ancora del tempo prima che tu possa parlare. Peccato. Ma io continuo a ostinarmi a credere che io e te riusciremo a comunicare ugualmente. Basterebbe un piccolo sforzo da parte tua.» Håkan cercò di ricordare quello che Platone aveva scritto nella Repubblica sugli assassini e sui violenti, su come procedere con loro. «Vedo che puoi anche chiudere la palpebra. È una buona cosa. Adesso cercherò di essere un po' più terra terra. Perché mi è venuta in mente una cosa. Cioè che forse tu credi che noi non riusciremo a identificarti. Ma ce la faremo. Come sicuramente ricorderai, avevi un orologio al polso. Fortunatamente si tratta di un vecchio orologio con le iniziali del fabbricante, il numero di serie e tutto il resto. In un modo o nell'altro riusciremo a rintracciarlo. Un paio di giorni. Una settimana, forse. E ci sono altri dettagli. È fuori di dubbio che riusciremo a trovarti. Così... Max. Non so perché ho deciso di chiamarti Max, ma è soltanto provvisorio. Max? Forse vorrai aiutarci un po' con questa storia? Altrimenti dovremo farti una fotografia e lasciare che i giornali la pubblichino e... be', mi capisci, no? Sarebbe imbarazzante. Se tu parlassi, o volessi comunicare in qualche modo, sarebbe molto più semplice. In tasca avevi un foglio con l'alfabeto Morse. Lo co-
nosci? Perché in questo caso potremmo usarlo per comunicare.» Håkan aprì l'occhio, e fissò le due macchie nere nella forma ovale bianca e sfuocata che era il volto del suo interlocutore. Apparentemente, l'uomo lo aveva interpretato come un gesto affermativo, perché continuò. «Poi, abbiamo quell'uomo nel lago. Sei stato tu a ucciderlo, non è così? Secondo il patologo, con tutta probabilità i morsi sulla gola sono stati fatti da un bambino. E ora abbiamo ricevuto la denuncia di un fatto sul quale purtroppo non posso dilungarmi, ma... io credo che tu stia proteggendo qualcuno. È così? In questo caso alza una mano.» Håkan chiuse l'occhio. Il poliziotto sospirò. «Okay. Allora lasceremo che le cose seguano il loro corso. Hai qualcosa da dirmi prima che me ne vada?» Il poliziotto si era alzato a metà dalla sedia quando Håkan alzò una mano. Il poliziotto si rimise a sedere. Håkan alzò ulteriormente la mano. La mosse. Ciao. Il poliziotto emise una specie di grugnito, si alzò e se ne andò. Le ferite di Virginia non erano mortali. Il venerdì pomeriggio era stata dimessa dall'ospedale con quattordici punti di sutura e un grande cerotto sul collo, e uno più piccolo sulla guancia. Aveva rifiutato l'offerta di Lacke di rimanere da lei finché non si fosse ripresa. Venerdì sera era andata a dormire convinta che sarebbe stata in grado di andare al lavoro il sabato mattina. Non poteva permettersi di rimanere a casa. Aveva avuto problemi ad addormentarsi, il pensiero dell'aggressione continuava ad angustiarla e non riusciva a trovare pace. Aveva l'impressione che grosse masse nere si staccassero dall'ombra del soffitto della camera da letto per rovinarle addosso, lì dove era distesa con gli occhi sbarrati. I punti di sutura sotto il cerotto le davano fastidio. Verso le due di mattina aveva provato i morsi della fame, era andata in cucina e aveva aperto il frigorifero. Il suo stomaco era completamente vuoto, ma quando fissò il cibo dentro il frigorifero non c'era niente che la attirasse. Automaticamente, per abitudine, prese tuttavia pane, burro, formaggio e latte, e li mise sul tavolo della cucina. Preparò un panino al formaggio e si versò un bicchiere di latte. Poi si sedette e fissò il liquido bianco nel bicchiere, le fette di pane e formaggio.
Provò un forte senso di disgusto. Non li voleva. Gettò il panino e versò il latte nel lavandino. Nel frigorifero c'era una bottiglia di vino bianco piena a metà. La prese, si versò un bicchiere, lo portò alla bocca. Quando sentì l'odore del vino perse la voglia di berlo. Con un senso di frustrazione, aprì il rubinetto e riempì un bicchiere d'acqua. Quando lo alzò per avvicinarlo alle labbra esitò. Almeno l'acqua si può sempre bere...? Sì. Poteva berla. Ma aveva un sapore... di muffa. Come se tutto il buono dell'acqua fosse stato eliminato lasciando soltanto un fondo putrido. Tornò a letto, si girò e rigirò ancora per qualche ora e alla fine riuscì ad addormentarsi. Quando si svegliò, la sveglia segnava le dieci e mezza. Si alzò di scatto, si vestì nella penombra della camera da letto. Buon Dio! Avrebbe dovuto essere al lavoro alle otto. Perché non avevano telefonato? Un momento. Era stata svegliata dagli squilli del telefono. Li aveva sentiti nell'ultimo sogno prima di svegliarsi, poi avevano smesso. Se il telefono non avesse squillato sarebbe rimasta ancora addormentata. Si abbottonò la camicetta, si avvicinò alla finestra e tirò su la persiana. La luce la colpì in pieno volto. Barcollò all'indietro, lontano dalla finestra, e la corda le scappò di mano. La persiana scivolò nuovamente in basso. Virginia si mise a sedere sul letto. Una striscia di luce dalla finestra cadeva sul suo piede nudo. Mille aghi. Come se la sua pelle si fosse contorta in due direzioni opposte contemporaneamente, un dolore intenso pulsava sulla parte della pelle esposta alla luce. Cosa può essere? Spostò il piede, si mise le calze. Espose nuovamente il piede alla luce. Meglio. Soltanto cento aghi. Si alzò per andare al lavoro, si rimise a sedere. Una specie di... shock. La sensazione che aveva provato quando aveva alzato la persiana era stata orrenda. Era come se la luce fosse stata una sostanza pesante scagliata contro di lei e rimbalzata via. La sensazione peggiore l'aveva provata agli occhi. Era stato come se due dita forti li avessero premuti cercando di farli uscire dalle orbite. Le bruciavano ancora.
Se li strofinò con le dita, andò a prendere gli occhiali da sole nel soggiorno e li indossò. I morsi della fame erano insostenibili, ma bastava che pensasse al frigorifero, a quello che aveva nella dispensa perché ogni intenzione di fare colazione svanisse. E poi non c'era più tempo. Era già in ritardo di tre ore. Uscì dall'appartamento, chiuse la porta e iniziò a scendere le scale il più rapidamente possibile. Il suo corpo era debole. Forse, dopotutto, andare a lavorare non era una buona idea. Ma... Il supermercato sarebbe rimasto aperto ancora quattro ore, ed era quello il momento in cui arrivava il grosso dei clienti del sabato. Impegnata in quei pensieri, aprì il portone senza riflettere. Nuovamente la luce. Gli occhi le dolevano a dispetto degli occhiali da sole, acqua bollente scivolava sul suo volto e sulle sue mani. Lanciò un urlo. Infilò le mani nelle tasche del cappotto, chinò il viso verso terra e iniziò a correre in direzione del supermercato. La nuca, che non poteva proteggere, le sembrava in preda alle fiamme. Fortunatamente il supermercato non era lontano. Una volta dentro, il bruciore e il dolore cessarono rapidamente. Tutte le finestre del negozio erano coperte da poster pubblicitari e da una pellicola protettiva, per fare in modo che la luce del sole non deteriorasse i prodotti. Virginia si tolse gli occhiali. Gli occhi bruciavano ancora, ma il dolore era sopportabile. Mise gli occhiali in tasca e andò nell'ufficio. Quando la vide entrare, Lennart, direttore del supermercato e suo capo, intento a riempire dei formulari, alzò la testa. Virginia si era aspettata qualche rimprovero, ma Lennart disse soltanto: «Ciao, come stai?» «Sì... bene.» «Avresti dovuto rimanere a casa a riposare.» «No, ho pensato che...» «Non era necessario. Ho messo Lotten alla cassa. Ti ho telefonato, ma non hai risposto...» «C'è qualcosa che posso fare, allora?» «Chiedi a Berit al reparto salumi. Virginia...» «Sì?» «Quello che ti è successo è... terribile. Non so cosa dire, ma... mi dispiace. E capisco che hai bisogno di stare tranquilla per un po'.» Virginia non riusciva a capire. Lennart non aveva mai visto di buon occhio i congedi per malattia e non aveva mai dimostrato il minimo interesse per i problemi del personale. E ora si era espresso in modo completamente
diverso e inaspettato. Con tutta probabilità, con quel grosso cerotto sul collo e la guancia gonfia, gli aveva fatto pena. «Grazie. Adesso vado da Berit e poi vedrò» disse Virginia. Passò vicino alle casse per salutare Lotten. Cinque persone erano in coda da lei e Virginia pensò che, dopotutto, avrebbe dovuto aprire la seconda cassa. Ma probabilmente Lennart non voleva che lo facesse per via del suo aspetto. Quando entrò nella zona di luce che filtrava dalle porte d'ingresso non protette, il volto iniziò a bruciarle e gli occhi a pulsarle di dolore, anche se non era così terribile come la luce diretta del sole all'aperto. Non avrebbe mai potuto sedere alla cassa. Lotten la vide e le fece un cenno di saluto con la mano. «Ciao, ho letto... Come stai?» Virginia alzò una mano e la mosse su e giù: così così. Letto? Virginia prese lo Svenska Dagbladet e il Dagens Nyheter, i principali quotidiani del paese, scorse gli articoli in prima pagina. Niente. Sarebbe stato esagerato. Il reparto salumi era in fondo al supermercato, di fianco ai latticini, piazzato strategicamente per costringere i clienti ad attraversare tutto il negozio per raggiungerlo. Virginia si fermò davanti agli scaffali dello scatolame. La fame la faceva tremare. Guardò attentamente tutti i barattoli. Pomodori pelati, funghi sott'olio, tonno, olive, wurstel, minestre, zuppa di fagioli... niente. Provava soltanto disgusto. Berit la vide e le fece un cenno di saluto con la mano. Non appena Virginia raggiunse il bancone, la abbracciò e poi indicò il cerotto sulla gola. «Poverina...» «No, va...» Bene? Spinse la porta ed entrò nel magazzino dietro il bancone della carne. Se le avesse dato corda, Berit avrebbe iniziato una lunga arringa sulle sofferenze dell'essere umano in generale e sulla crudeltà della società moderna in particolare. Virginia si sedette su uno sgabello fra il muro e la porta della cella frigorifera. Il locale non era molto grande, ma era il posto migliore nel piccolo supermercato. Lì la luce del sole non arrivava. Iniziò a sfogliare il giornale, e nella parte riservata alle notizie di cronaca cittadina trovò l'articolo.
Donna aggredita a Blackeberg La notte di giovedì sera, una donna di cinquant'anni è stata aggredita a Blackeberg, sobborgo di Stoccolma. Un passante è intervenuto mettendo in fuga l'aggressore, una ragazza. Il motivo dell'aggressione è sconosciuto. La polizia sta indagando per scoprire eventuali legami con altri atti di violenza verificatisi nei sobborghi a ovest della capitale nelle ultime settimane. Le lesioni subite dalla cinquantenne non sono gravi. Virginia abbassò il giornale. Era strano leggere la propria descrizione in quel modo. «Una donna di cinquant'anni», «un passante», «lesioni non gravi». Quanto era nascosto dietro quelle parole. «Eventuali legami». Sì, Lacke era assolutamente certo che fosse stata aggredita dalla stessa bambina, o bambino, che aveva ucciso Jocke, e all'ospedale aveva dovuto mordersi la lingua per non dirlo alla poliziotta e al medico che aveva medicato le ferite di Virginia il venerdì mattina. Aveva intenzione di farlo, ma prima voleva informare Gösta. Era sicuro che dopo l'aggressione a Virginia, Gösta avrebbe visto le cose in tutt'altro modo. Virginia udì un fruscio e si guardò intorno. Le ci vollero alcuni secondi per rendersi conto che a provocare quel rumore era stato il giornale che tremava nelle sue mani. Lo posò su un ripiano sopra i camici bianchi e andò da Berit. «Cosa posso fare?» «Credi proprio che sia una buona idea, cara?» «Sì, se farò qualcosa starò meglio.» «Capisco. Fai delle porzioni di gamberetti. Sacchetti da cinquecento grammi. Ma non dovresti...» Virginia scosse il capo e tornò nel magazzino. Indossò un camice bianco e un cappello, andò nella cella frigorifera, prese una scatola di gamberetti e un sacchetto di plastica. Iniziò a fare le porzioni. Introdusse la mano protetta dal guanto nella scatola, riempi un sacchetto e lo pesò sulla bilancia. Era un lavoro monotono, meccanico, e al quarto sacchetto iniziò a sentire freddo alla mano. Ma non aveva importanza, quel lavoro le dava l'opportunità di pensare. Quella notte all'ospedale, Lacke aveva detto una cosa veramente strana: che la bambina che l'aveva aggredita non era un essere umano. Aveva zanne e artigli. Naturalmente, Virginia aveva attribuito quell'affermazione a un'allucina-
zione da ubriachezza. Non ricordava molto dell'aggressione. Ma di una cosa era certa: chi l'aveva aggredita era troppo leggero per essere un adulto, persino quasi troppo leggero per essere un bambino. Un bambino molto piccolo in quel caso. Cinque sei anni. Si rammentava di essersi rialzata con quel peso sulla schiena. Dopo, rammentava soltanto il buio, finché non si era svegliata nel suo appartamento con tutti gli altri intorno, a eccezione di Gösta. Chiuse un sacchetto pronto, iniziò con il successivo, vi mise dentro due manciate di gamberetti. Quattrocentotrenta grammi. Ancora sette gamberetti. Cinquecentodieci grammi. Dieci grammi in regalo. Guardò le sue mani che si muovevano indipendentemente dal suo cervello. Mani. Con unghie lunghe. Denti aguzzi. Cosa poteva essere? Lacke lo aveva detto chiaramente. Un vampiro. Virginia si era messa a ridere, cautamente, per evitare che i punti sulla guancia saltassero. Lacke non aveva neppure sorriso. «Tu non l'hai visto.» «Ma Lacke... i vampiri non esistono.» «Ah, no. E allora che cos'era?» «Una bambina. Con una fantasia distorta.» «Per questo si è fatto crescere le unghie? Aguzzare i denti? Vorrei vedere un dentista che...» «Lacke, era buio. Tu eri ubriaco, e...» «Sì, era buio e io ero ubriaco. Ma ho visto quello che ho visto.» La pelle sotto il cerotto sul collo era calda e le prudeva. Appoggiò il sacchetto e posò una mano sul cerotto. Il freddo le diede un po' di sollievo. Ma provava un senso di spossatezza, era come se le sue gambe non avessero più la forza di sostenerla. Avrebbe finito quella scatola e poi sarebbe andata a casa. Non ce la faceva. Se solo avesse potuto riposare durante il fine settimana, il lunedì si sarebbe sicuramente sentita meglio. Riprese il sacchetto e ricominciò a lavorare irritata. Odiava essere malata. Sentì un dolore acuto sull'indice. Maledizione. Ecco cosa succede a perdere la concentrazione. Quando sono surgelati, i gamberetti sono appuntiti in diverse parti, e si era punta il dito. Lo guardò. Un piccolo taglio dal quale stava uscendo del sangue. Mise automaticamente il dito in bocca per succhiare il sangue. Una deliziosa sensazione di calore e di benessere iniziò a irradiarsi nel
suo corpo da quel minuscolo punto in cui la lingua incontrava il dito. Succhiò con più forza. Un concentrato di tutti i buoni sapori del mondo le riempì la bocca. Un fremito di benessere le invase il corpo. Continuò a succhiare il dito, lasciandosi andare al piacere finché non si rese conto di quello che stava facendo. Tolse il dito dalla bocca e lo fissò. Era umido e quel poco sangue che fuoriusciva veniva immediatamente sciolto dalla saliva come una vernice troppo diluita. Guardò i gamberetti nella scatola. Centinaia di piccoli corpi rosa, coperti dalla brina. E occhi. Teste di spilli nere sparse fra il bianco e il rosa, un cielo stellato al contrario. Schemi, costellazioni iniziarono a danzare davanti ai suoi occhi. Il mondo si girò sul suo asse e qualcosa la colpì alla testa. Davanti ai suoi occhi, una superficie bianca con ragnatele ai quattro angoli. Capì di essere distesa sul pavimento, ma non aveva la forza di muoversi. In lontananza udì la voce di Berit. «Mio Dio... Virginia...» A Jonny piaceva stare insieme a suo fratello più grande. Almeno quando non c'erano in giro i suoi strani amici. Jimmy conosceva alcuni tipi di Råcksta dei quali Jonny aveva paura. Una sera, alcuni anni prima, erano arrivati per parlare con Jimmy, ma non avevano voluto andare su fino in casa. Quando Jonny gli aveva detto che suo fratello non c'era, gli avevano chiesto di lasciargli un messaggio. «Digli che se lunedì non arriva con i soldi, qualcuno gli infilerà la testa in una morsa... sai cos'è, no? Okay, e poi la stringeremo in modo che i soldi gli escano dalle orecchie. Puoi dirglielo? Okay, bravo. Ti chiami Jonny, non è così? Ciao Jonny.» Jonny aveva ripetuto il messaggio e Jimmy aveva soltanto annuito e aveva detto che sapeva. Poi, i soldi erano spariti dal portamonete della mamma e ne era seguita una brutta scenata. Negli ultimi tempi, Jimmy non restava spesso a casa. Da quando era nata l'ultima sorellina, non c'era più molto spazio per lui. Avevano già due sorelle più piccole e non ne erano previste altre. Ma la mamma aveva incontrato un altro uomo e... sì, le cose erano andate come erano andate. In ogni caso, Jonny e Jimmy avevano lo stesso papà. Adesso lavorava su una piattaforma di trivellazione al largo della costa norvegese, e non solo aveva iniziato a mandare i soldi degli alimenti, ma anche qualcosa in più per compensare. La mamma lo benediceva, e quando era ubriaca aveva
pianto un paio di volte dicendo che non avrebbe mai più incontrato un uomo così. Per la prima volta da quando Jonny riusciva a ricordare, la mancanza di soldi non era più il costante argomento di lamentele in casa. Ora erano seduti nella pizzeria della piazza di Blackeberg. Jimmy era passato da casa un attimo nel pomeriggio, aveva litigato un po' con la mamma, e poi era uscito insieme a Jonny. Jimmy cosparse la sua pizza di condimento, la arrotolò e iniziò a mangiare. Jonny mangiò la sua pizza normalmente, pensando che la prossima volta che avesse preso una pizza senza Jimmy, anche lui l'avrebbe mangiata in quel modo. Masticando, Jimmy fece un cenno verso la benda sull'orecchio di Jonny. «Bella sberla.» «Sì.» «Ti fa male?» «È okay.» «La mamma ha detto che è rovinato. Che non ci sentirai più da lì.» «Non lo sanno ancora. Forse andrà a posto.» «Mmm. Fammi capire bene. Quel tipo ha preso un grosso ramo e te lo ha sbattuto sulla testa?» «Mmm.» «Porca puttana, è un bello schifo. Cosa pensi di fare?» «Non so.» «Hai bisogno di una mano?» «... no...» «Cosa? Io e un paio dei miei amici possiamo dargli una lezione.» Jonny tagliò il pezzo di pizza con i gamberetti, la sua preferita, lo mise in bocca e iniziò a masticare. No. Non doveva lasciare che gli amici di Jimmy si intromettessero in quella faccenda, sarebbe successo un casino. Eppure Jonny sorrise all'idea di come Oskar se la sarebbe fatta sotto se fosse arrivato nel suo cortile insieme a Jimmy e a quei tipi di Råcksta. Jonny scosse il capo. Jimmy posò il suo rotolo di pizza, e fissò il fratello con uno sguardo serio. «Okay, ma lascia che ti dica una cosa. Se succede un'altra volta, allora...» Fece schioccare le dita e poi strinse il pugno. «Tu sei mio fratello, e nessun bastardo deve... Se succede un'altra volta, potrai dire quello che vorrai, ma io andrò a cercarlo. Okay?» Jimmy allungò il pugno chiuso sul tavolo. Jonny chiuse la sua mano e
toccò quella del fratello. Sapere che qualcuno si preoccupava per lui lo faceva sentire bene. Jimmy annuì. «Bene. Ho una cosa per te.» Si chinò sotto il tavolo e prese un sacchetto di plastica che aveva portato con sé tutto il pomeriggio. Aprì il sacchetto e ne tirò fuori un album di fotografie. «Papà è passato la settimana scorsa. Si è fatto crescere la barba e quasi non l'ho riconosciuto. Mi ha dato questo.» Posò l'album sul tavolo. Jonny si pulì le dita sul tovagliolo, lo prese e lo aprì. Fotografie di bambini. Della mamma. Forse dieci anni più giovane. E quella di un uomo che riconobbe come suo padre. Stava spingendo dei bambini seduti sull'altalena. In un'altra fotografia, aveva in testa un cappello da cowboy troppo piccolo. Jimmy, che poteva avere una decina d'anni, era al suo fianco con un fucile di plastica in mano e un'espressione truce. Un altro bambino, che doveva essere Jonny, era seduto per terra e li fissava con gli occhi spalancati. «Me lo ha imprestato fino alla prossima volta che ci rivedremo. Lo vuole indietro... sì, ha detto "è il mio bene più prezioso" o qualcosa di simile. Ho pensato che potesse interessarti vederlo.» Jonny annuì senza alzare gli occhi dall'album. Aveva incontrato suo padre soltanto due volte dopo che se n'era andato, quando lui aveva quattro anni. A casa c'era una sua fotografia mal riuscita in cui era con altre persone. L'album era una cosa del tutto diversa. Ora gli era possibile farsi un'idea corretta di lui. «Un'altra cosa. Non farlo vedere alla mamma. Credo che lo abbia fregato quando ha tagliato la corda, e se la mamma lo vede... sì, papà vuole tenerselo. Devi promettermi che non lo farai vedere alla mamma.» Continuando a guardare l'album, Jonny chiuse il pugno e lo allungò sul tavolo. Jimmy si mise a ridere e un attimo dopo Jonny sentì le nocche del fratello contro le sue. Promesso. «Senti, puoi guardartelo dopo. Prendi anche il sacchetto.» Jimmy gli porse il sacchetto, Jonny richiuse l'album di malavoglia e lo ripose nel sacchetto. Jimmy aveva finito la sua pizza. Si appoggiò alla sedia e incrociò le mani sulla pancia. «Allora, come ti va con le ragazze?» Il paese volò via. La neve che veniva sollevata dalle ruote del motorino
volava in aria e bombardava le guance di Oskar. Teneva l'impugnatura con entrambe le mani, accostò gli sci e alzò una nuvola di neve. Gli sci raschiarono contro un masso nascosto dalla neve. Oskar dovette fare uno sforzo per non cadere. La strada verso Lågarö e le case di villeggiatura non era stata spalata. Il motorino si lasciava dietro tre solchi profondi nel manto di neve e gli sci di Oskar, che seguiva a cinque metri, lasciavano altri due solchi. Andava a zigzag, usava un solo sci, si rannicchiava per acquistare velocità. Quando suo padre rallentò sulla discesa che portava al vecchio molo dei battelli a vapore, la velocità di Oskar era superiore a quella del motorino, e fu costretto a frenare per evitare che la fune si allentasse e lo strattonasse quando il motorino avesse di nuovo accelerato. Arrivarono al molo, suo padre scalò la marcia e frenò. Oskar aveva ancora velocità, e per un attimo pensò di lasciare la presa e continuare da solo... Giù fino al molo, fino all'acqua scura. Ma frenò con gli sci a pochi metri dal bordo. Rimase fermo a riprendere fiato, fissando la distesa d'acqua. Un leggero strato di ghiaccio si era formato sulla riva. Le onde leggere lo facevano ondeggiare ritmicamente. Forse quell'inverno ci sarebbe stato del vero ghiaccio. Così, avrebbero potuto fare una lunga passeggiata fino a Vätö, sull'altro lato. Per anni non era stato possibile. Quando Oskar andava a trovare suo padre d'estate, andavano spesso al molo a pescare. Se gli capitava un buon banco di pesci, con un po' di pazienza poteva pescarne un paio di chili, ma il più delle volte erano soltanto dieci o quindici pesci. Abbastanza per una cena per lui e suo padre, e i pesci troppo piccoli per essere fritti finivano al gatto. Suo padre si avvicinò e rimase davanti a lui. «È andata bene, direi.» «Mmm. Però affondavo troppo nella neve.» «Sì, la neve è molto farinosa. Dovremmo fare qualcosa per compattarla. Forse potremmo prendere una tavola e metterci un peso sopra. Sì, tu potresti sederti sopra e così...» «Lo facciamo?» «Non ora, domani forse. Sta facendo buio. È meglio tornare a casa e darci da fare con quell'uccello, se vogliamo avere qualcosa da mettere sotto i denti per cena.» «Okay.» Per un attimo, suo padre rimase a fissare il lago in silenzio.
«Sai, ho pensato a una cosa.» «Ah, sì?» Adesso era arrivato il momento. Sua madre gli aveva detto di avere praticamente imposto a suo padre di parlargli di quella storia con Jonny. A dire il vero, anche Oskar avrebbe voluto parlarne. In un certo qual modo, lui era a una distanza rassicurante da tutto e non sarebbe intervenuto in alcun modo. Suo padre si schiarì la gola, respirò profondamente rimanendo con lo sguardo fisso sul lago. «Sì, ho pensato... hai dei pattini da ghiaccio?» «Sì, ma sono troppo piccoli.» Suo padre sbuffò, poi sorrise. «No, ma... il figlio di Östen ne ha un paio che non gli vanno più bene. Trentanove. Che misura porti tu?» «Trentotto.» «Okay, ma con un paio di calze di lana spesse, possono... Sì, chiederò a Östen di passarmeli.» «Magnifico.» «Bene. Adesso torniamo a casa.» Oskar annuì. Forse ne avrebbero parlato più tardi. Era felice per quei pattini. Se glieli avessero dati l'indomani avrebbe potuto portarli a casa in città. Oskar riprese il bastone e arretrò finché la fune non fu tesa, fece cenno che era pronto. Suo padre mise in moto e partirono. La via del ritorno era in salita. Oskar aveva l'impressione di essere su uno skilift. Non pensava a niente, ma cercava di mantenere gli sci nei vecchi solchi per non fare fatica. Stava calando il crepuscolo. Lacke attraversò la piazza con la scatola di cioccolatini sotto il braccio. Non gli piaceva rubare, ma non aveva un soldo e voleva dare qualcosa a Virginia. Avrebbe voluto portarle anche delle rose, ma fregarle in un negozio di fiori era un'impresa impossibile. Era già buio, e quando arrivò ai piedi della collina verso la scuola esitò. Si guardò intorno, spostò la neve con un piede e scoprì una pietra grande come un pugno, la raccolse, la mise in tasca tenendola stretta in mano. Non perché fosse convinto che potesse essere di aiuto contro quello cui aveva assistito, ma il peso della pietra gelida lo faceva sentire un po' più sicuro. L'unico risultato che aveva ottenuto facendo domande in giro per i di-
versi cortili erano stati sguardi sospettosi da parte dei genitori che facevano pupazzi di neve con i loro bambini. Vecchio sudicione. Fu solo quando aveva aperto la bocca per parlare con una donna che stava sbattendo i tappeti che Lacke si era reso conto che il suo comportamento poteva sembrare sospetto. La donna si era fermata e si era girata verso di lui con il battitappeti alzato, pronta a difendersi. «Mi scusi» disse Lacke. «... non ha per caso... io sto cercando una bambina.» «Ah, sì?» Aveva sentito il tono della propria voce e si sentì ancora più insicuro. «Sì, lei è... sparita. Ho pensato che forse qualcuno può averla vista da queste parti.» «È sua figlia?» «No, ma...» A parte un paio di ragazzini, Lacke aveva smesso di parlare con persone che non conosceva. O che conosceva di vista. Incontrò due con cui aveva già scambiato qualche parola, ma non avevano visto niente. Chi cerca trova, certo. Ma in quel caso bisogna sapere esattamente cosa o chi si cerca. Arrivato al sentiero che portava alla scuola attraverso il parco, si girò e gettò uno sguardo verso il ponte di Jocke. Il giorno prima, i giornali avevano dato ampio spazio alla notizia, più che altro per i dettagli macabri legati alla scoperta del corpo. Di solito, l'omicidio di un vecchio alcolizzato non faceva notizia, ma i giornalisti si erano crogiolati descrivendo i bambini che avevano trovato il cadavere, i pompieri costretti a rompere il ghiaccio, e così via. A fianco del testo c'era la fotografia del passaporto di Jocke che sembrava, a dir poco, un serial killer. Lacke continuò passando davanti alla tetra facciata di mattoni della scuola di Blackeberg, l'ampia e lunga scalinata simile all'entrata di un'alta corte di giustizia, o dell'Inferno. Sul muro di fianco alla scalinata, qualcuno aveva scritto con una bombola spray «Iron Maiden», per qualche oscuro motivo. Forse il nome di un gruppo musicale. Oltrepassò il parcheggio e poi girò per Björnsonsgatan. Normalmente avrebbe preso la scorciatoia che passava dietro la scuola, ma quel tratto era... al buio. Poteva facilmente immaginare quella specie di creatura accovacciata nell'ombra. Alzò lo sguardo verso le cime degli abeti che costeggiavano la strada. Fra i rami si intravedevano masse più scure. Con tutta
probabilità nidi di gazze. Non era soltanto l'aspetto di quella creatura, ma anche la maniera con la quale attaccava. Se non fosse stato per il salto dall'albero, forse avrebbe potuto accettare che quei denti aguzzi e quegli artigli potessero avere una spiegazione naturale. Prima che portassero Virginia a casa, era andato a guardare quel ramo. Il ramo dal quale quella creatura era saltata era a più di cinque metri da terra. Cadere da cinque metri sulla schiena di qualcuno. Aggiungendo un "artista da circo" al resto per ottenere una "spiegazione naturale", allora forse sì. Ma considerando il tutto, era assurdo tanto quanto quello che aveva detto a Virginia, e ora si pentiva di averlo fatto. Maledizione... Prese la scatola di cioccolatini da sotto la giacca. Forse il calore del suo corpo li aveva fatti sciogliere? Provò a schiacciarla delicatamente. No, sembrava a posto. Continuò a camminare lungo Björnsonsgatan, passò il supermercato dove Virginia lavorava. «POLPA DI POMODORO. TRE BARATTOLI: 5 CORONE» Erano passati sei giorni. Lacke teneva ancora la mano sulla pietra nella tasca. Fissò il cartello e immaginò Virginia intenta a scriverlo. Era rimasta a casa a riposare oggi? Non si sarebbe stupito se si fosse trascinata al lavoro prima che la ferita si fosse rimarginata. Arrivato davanti al portone, alzò lo sguardo verso la sua finestra. La luce era spenta. Forse era andata da sua figlia? Decise comunque di salire per lasciare la scatola di cioccolatini sulla porta, se Virginia non fosse stata in casa. Nell'androne c'era buio pesto. Sentì i peli sulla nuca rizzarsi. La bambina è qui. Rimase immobile per alcuni secondi, poi si gettò sul punto rosso dell'interruttore della luce, lo spinse con il dorso della mano che teneva la scatola di cioccolatini. L'altra mano rimaneva stretta intorno alla pietra. Udì il leggero click del relè in cantina e la luce si accese. Niente. Pareti di cemento dipinte di giallo con chiazze più scure. Porte di legno. Lacke respirò profondamente un paio di volte e iniziò a salire le scale. Solo ora si rese conto di quanto fosse stanco. Virginia abitava all'ultimo piano, il terzo, e Lacke alzando una gamba dopo l'altra aveva l'impressione che fossero due tronchi d'albero attaccati ai suoi fianchi. Sperava che Virginia fosse in casa, che stesse bene, e di potersi stendere a riposare sulla sua poltrona, nel luogo che amava più di ogni altro. Lasciò la presa sulla
pietra e suonò il campanello. Aspettò qualche secondo. Suonò nuovamente. Stava per posare la scatola di cioccolatini davanti alla porta quando udì dei passi lenti all'interno dell'appartamento. «Chi è?» Mai una volta Virginia aveva fatto quella domanda. Lacke suonava alla porta, udiva i suoi passi e la porta si apriva. «Entra, entra.» Lacke si schiarì la gola. «Sono io.» Una pausa. Riusciva a udire il suo respiro o era soltanto la sua immaginazione? «Cosa vuoi?» «Volevo sapere se stai bene.» Un'altra pausa. «No. Non sto bene.» «Posso entrare?» Rimase in attesa. Teneva la scatola davanti a sé con entrambe le mani, sentendosi ridicolo. Udì il rumore metallico della chiave che girava nella serratura, poi il fruscio della catena di sicurezza che veniva sganciata. La maniglia si abbassò e la porta si aprì. Lacke fece un passo indietro involontariamente, e la sua schiena andò a sbattere contro la ringhiera della scala. Sembrava che Virginia stesse morendo. Oltre alla guancia gonfia, il suo volto era coperto da piccole bolle e dai suoi occhi si sarebbe detto che avesse bevuto per una settimana. Sul bianco dei suoi occhi c'era una fitta rete di linee rosse e le pupille erano talmente contratte da sembrare soltanto la metà di una pupilla normale. «Ho un aspetto orribile.» «No, no. Sono solo venuto per... credevo... posso entrare?» «No. Non me la sento.» «Sei andata dal medico?» «No. Ci andrò domani.» «Sì. Ecco, io...» Le porse la scatola di cioccolatini che aveva continuato a tenere davanti a sé come uno scudo. «Grazie» disse Virginia. «Posso fare qualcosa?» «No. Andrà tutto bene. Ho solo bisogno di riposare. Non ce la faccio a restare qui in piedi. Ci sentiamo.»
«Sì. Verrò...» Virginia chiuse la porta. «... domani.» Di nuovo il rumore della chiave nella serratura e della catena. Lacke rimase immobile davanti alla porta con le braccia lungo i fianchi. Poi, si avvicinò alla porta e appoggiò l'orecchio. Sentì un armadietto aprirsi e passi lenti. Cosa posso fare? Non poteva certo costringerla a fare qualcosa contro la sua volontà, ma avrebbe preferito accompagnarla in ospedale, subito. Ma... sarebbe tornato il giorno dopo al mattino. Se Virginia fosse stata nelle stesse condizioni, l'avrebbe portata in ospedale volente o nolente. Lacke scese le scale lentamente, un gradino alla volta. Era sfinito. Quando arrivò all'ultimo gradino, si mise a sedere con la testa fra le mani. Io sono... il responsabile. La luce nell'androne si spense. I tendini del suo collo si tesero, respirò profondamente. Il suono del relè. Rimase seduto al buio, mise la mano in tasca e prese la pietra, la tenne con le due mani, lo sguardo fisso nel buio. Vieni dunque, pensò. Vieni. Virginia chiuse la porta sul volto implorante di Lacke, girò la chiave e infilò la catena. Non voleva che qualcuno la vedesse. Non voleva vedere nessuno. Dire quelle poche parole e agire secondo una sorta di normalità le era costato uno sforzo enorme. Dopo essere tornata a casa dal supermercato, le sue condizioni erano peggiorate rapidamente. Lotten l'aveva accompagnata e, nel suo stato di stordimento, Virginia aveva semplicemente accettato il dolore sul volto provocato dalla luce del giorno. Una volta a casa, si era guardata allo specchio e aveva visto centinaia di piccole bolle sul viso e sui dorsi delle mani. Aveva dormito un paio d'ore, quando si era svegliata era buio. I morsi della fame si erano trasformati in un senso di inquietudine. Aveva l'impressione che un banco di minuscoli pesci irrequieti circolasse nel suo sangue. Non poteva rimanere distesa, sedersi o stare in piedi. Andava avanti e indietro per casa grattandosi il corpo. Fece una doccia fredda per calmare quella sensazione di fremito e prurito incessanti. Senza risultato. Era impossibile descriverla. Le ricordava quello che aveva provato quando, a vent'anni, le avevano detto che suo padre era caduto dal tetto della casa di villeggiatura e si era rotto l'osso del collo. Anche allora aveva
camminato avanti e indietro come se non ci fosse un solo posto al mondo dove poter stare, dove il suo corpo non sarebbe stato attanagliato dal dolore. Ora era la stessa cosa, ma molto peggio. L'inquietudine, l'ansia, non la lasciavano neppure per un attimo. La spingevano a vagare su e giù per l'appartamento finché non ebbe più la forza di farlo. Si mise a sedere in cucina e batté la testa sul tavolo. In preda alla disperazione, prese due pastiglie di sonnifero e le inghiottì bevendo due sorsi di vino che sapevano di fogna. Di solito bastava una pastiglia per farla addormentare come se avesse ricevuto un colpo in testa. Ma ora, l'unico effetto fu un senso di nausea terribile, e cinque minuti dopo vomitò un muco verdastro insieme alle due pastiglie sciolte a metà. Riprese ad andare avanti e indietro, fece a pezzettini un giornale, strisciò sul pavimento gemendo. Si trascinò in cucina, sbatté contro il tavolo e fece cadere la bottiglia di vino che andò in pezzi davanti ai suoi occhi. Prese un coccio appuntito. Senza pensare, lo appoggiò sul palmo della mano e spinse. Il dolore le fece provare un senso di piacere. Il banco di pesciolini si precipitò verso il centro del dolore e il sangue uscì. Portò la mano alla bocca e iniziò a leccare il sangue, a succhiarlo. L'irrequietezza svanì. Si mise a piangere per il sollievo, spinse la scheggia di vetro su un altro punto e continuò a succhiare. Il sapore del sangue si mescolava a quello delle lacrime. Rannicchiata sul pavimento della cucina con la mano premuta sulla bocca, succhiava avidamente come un neonato che trova per la prima volta il seno della madre, e per la seconda volta in quella orribile giornata provò un senso di calma. Circa mezz'ora dopo, si era alzata dal pavimento, aveva raccolto i cocci della bottiglia e si era messa un cerotto sulla mano. In quel momento l'irrequietezza era tornata. Era stato allora che Lacke aveva suonato il campanello. Dopo averlo mandato via, chiusa la porta, aveva riposto la scatola di cioccolatini in un armadietto. Si era messa a sedere cercando di capire. Ma l'irrequietezza glielo impediva. Presto avrebbe dovuto alzarsi nuovamente. L'unica cosa di cui era certa era che nessuno doveva starle vicino. Specialmente Lacke. Avrebbe potuto fargli del male. L'irrequietezza l'avrebbe costretta a farlo. Aveva contratto una malattia. Per tutte le malattie c'è una medicina.
Domani sarebbe andata da un medico, un medico che l'avrebbe visitata e le avrebbe detto: «Sì, si tratta di un attacco di questo o di quello. Deve prendere questo e quello per alcune settimane e poi sarà guarita.» Riprese a camminare. Ma proprio non ce la faceva. Si batté le braccia, le gambe, ma i pesciolini si erano risvegliati e niente sembrava fermarli. Sapeva quello che doveva fare. Singhiozzò per paura del dolore. Ma il dolore era così breve e il sollievo così grande. Andò in cucina, prese un coltello da frutta affilato e andò a sedersi sul divano nel soggiorno, mise la lama sull'avambraccio. Solo per riuscire a passare la notte. Domani sarebbe andata a cercare aiuto. Era ovvio che non poteva continuare il quel modo. Bevendo il proprio sangue. Naturalmente no. Qualcosa doveva cambiare. Ma per il momento... La saliva salì nella sua bocca, umida per l'aspettativa. Fece un'incisione. Profonda. Sabato 7 novembre (sera) Oskar sparecchiava e suo padre lavava i piatti. L'edredone era stato ottimo. Niente pallini. I piatti furono lavati in un baleno. Dopo aver finito di mangiare la carne e le patate, avevano ripulito i piatti con il pane. Era la parte del pasto che Oskar preferiva. Raccogliere il sugo con pezzi di pane che poi si scioglievano quasi in bocca. Suo padre non era un grande cuoco, ma se la cavava bene con tre piatti: aringhe fritte, edredone arrosto e un classico piatto svedese, la pytt-ipanna. Oskar aveva passato le ore prima di cena nella camera riservata a lui nella casa di suo padre. Non era un granché paragonata a quella in città, ma gli piaceva. L'unica cosa che gli mancava erano i suoi libri e i poster che cambiava in continuazione. Quella camera, al contrario, non cambiava mai, ed era proprio per questo che gli piaceva. Lì era tutto uguale da quando aveva sette anni. Quando entrava, sentiva sempre il consueto odore di umido che rimaneva nell'aria anche dopo che suo padre l'aveva riscaldata in previsione del suo arrivo. Era come se niente fosse cambiato da tempo immemore. Lì, c'erano ancora i fumetti di Topolino e Paperino, acquistati estate dopo estate. In città non li leggeva più, ma quando andava da suo padre lo fa-
ceva. Conosceva le storie a memoria, ma continuava a rileggerle. Mentre gli odori filtravano dalla cucina, si era disteso sul letto e aveva preso un vecchio numero di Paperino. Paperino, Qui, Quo, Qua e Paperone erano andati in una terra lontana dove non esistevano soldi, e Paperone aveva insegnato agli abitanti come sfruttare una miniera d'oro. Finì di leggere, prese un vecchio cestino da pesca che gli aveva regalato suo padre e controllò gli ami che avevano preparato insieme. Poi avevano cenato, e finito di lavare i piatti avevano giocato una partita a filetto. A Oskar piaceva rimanere seduto così con suo padre, il foglio di carta a quadretti sul tavolo stretto, le loro teste chine vicine l'una all'altra. Il crepitio del fuoco nel camino. Come sempre, Oskar aveva le croci e suo padre i cerchi. Suo padre non lo aveva mai lasciato vincere di proposito, e fino a qualche anno prima era stato nettamente superiore, anche se Oskar vinceva di tanto in tanto. Ma ora erano quasi allo stesso livello. Forse per via degli sforzi che aveva fatto con il cubo di Rubik. Quella sera, Oskar aveva vinto. «Bene, Oskar, si direbbe che ho trovato pane per i miei denti.» «Sembra proprio così.» «Questa volta ti farò vedere io...» «Sognare non è proibito. Tocca a te iniziare.» A un certo punto della nuova partita, qualcuno bussò alla porta. Qualche secondo dopo, la porta si aprì e udirono qualcuno che batteva i piedi per scuotere via la neve. «C'è qualcuno in casa?» Suo padre alzò la testa dal foglio, si appoggiò allo schienale della sedia e si girò verso l'ingresso. Oskar strinse le labbra. No. Suo padre fece un gesto con il capo al nuovo arrivato. «Accomodati.» «Grazie.» Udirono il rumore attutito dei passi che si avvicinavano, piedi avvolti da calze di lana. Janne apparve sulla porta della cucina. «Ah, vedo che state passando una piacevole serata.» Suo padre fece un cenno verso Oskar. «Sì. Ricordi mio figlio?»
«Certamente. Ciao Oskar, come va?» «Bene.» Finora. Adesso vattene. Janne si avvicinò al tavolo, le sue calze di lana erano scivolate sui talloni e svolazzavano sulle punte dei piedi come pinne deformate. Prese una sedia e si sedette. «Ah, vedo che state giocando a filetto.» «Sì, ma il ragazzo è diventato troppo bravo per me. Non riesco più a batterlo.» «Guarda, guarda. Hai fatto pratica giù in città? Te la senti di fare una partita con me?» Oskar scosse il capo. Non voleva neppure guardare Janne in faccia, sapeva quello che avrebbe visto. Occhi viscosi, le labbra dischiuse in un sorriso da caprone. Sì, Janne assomigliava a un vecchio caprone e i suoi capelli biondi ricci rafforzavano quell'impressione. Uno degli "amici" di suo padre, un nemico di Oskar. Janne si fregò le mani producendo un suono di carta vetrata e, in controluce, Oskar vide piccoli fiocchi di pelle cadere sul pavimento. Janne soffriva di una malattia della pelle che d'estate faceva sembrare il suo volto un'arancia marcia. «Bene, bene. Eccoci qua a goderci una piacevole serata al caldo.» Sempre la stessa frase. Perché non te ne vai, tu e la tua orribile faccia e le tue solite vecchie frasi? «Papà, finiamo la partita?» «Sì, ma quando abbiamo ospiti...» «Giocate.» Appoggiato alla sedia, Janne dava l'impressione di avere tutto il tempo del mondo. Ma Oskar sapeva di avere perso la battaglia. Adesso tutto sarebbe andato come sempre. Quando suo padre andò a prendere la bottiglia e due bicchierini da acquavite e li appoggiò sul tavolo, Oskar avrebbe voluto urlare, rompere qualcosa, specialmente Janne che si stava fregando nuovamente le mani facendo danzare i fiocchi di pelle. «Guarda, guarda. Che bella sorpresa...» Oskar fissò il foglio con la partita lasciata a metà. Ecco, lì avrebbe messo la sua prossima croce. Ma non ci sarebbero state più croci quella sera. Quando suo padre riempì i bicchierini, dalla bottiglia si udì un leggero
gorgoglio. Il bicchiere pieno di liquido trasparente sembrava così piccolo e fragile nella sua mano. Sembrava così insignificante. Eppure rovinava tutto. Tutto. Oskar appallottolò il foglio con la partita incompleta e lo gettò nel camino. Suo padre non protestò. Aveva iniziato a parlare con Janne di un comune conoscente che si era rotto una gamba. Continuarono a parlare di altre gambe fratturate e a riempire i bicchieri. Oskar era rimasto davanti al camino osservando il foglio che bruciava con una fiammata e poi diventava subito una massa nera. Afferrò gli altri fogli e li gettò nel fuoco. Suo padre e Janne presero la bottiglia e i bicchierini e andarono nel soggiorno. Suo padre disse a Oskar qualcosa come «vieni a parlare un po'» e Oskar rispose «più tardi, forse». Rimase davanti al camino. Il caldo delle fiamme gli accarezzava il volto. Tornò al tavolo, prese il block-notes e iniziò a strappare i fogli bianchi a uno a uno e a gettarli nel camino. Quando l'intero block-notes fu ridotto in cenere, andò a prendere le matite e gettò anche quelle nelle fiamme. A quell'ora della sera, nell'ospedale c'era un'atmosfera speciale. Maud Carlberg era seduta all'accettazione e fissava l'atrio deserto. La caffetteria e il chiosco erano chiusi; di tanto in tanto qualcuno passava sotto l'alto soffitto come un fantasma. A quell'ora della sera, le piaceva immaginare di essere la sola di guardia a quell'enorme edificio che era l'ospedale di Danderyd. Naturalmente non era vero. Se fosse successo qualcosa sarebbe bastato premere un pulsante, e in tre minuti al massimo sarebbe apparsa una guardia notturna. Per passare il tempo in quelle serate, aveva inventato un gioco. Sceglieva un mestiere, un domicilio e tracciava un rudimentale curriculum. Forse anche una malattia. Poi, applicava tutto questo mentalmente alla prima persona che si avvicinava al bancone. Spesso, il risultato era divertente. Immaginava per esempio un pilota di linea - maschio o femmina - che abitava a Götgatan, con due cani e un vicino che li accudiva mentre era in viaggio. Il vicino era segretamente innamorato del pilota, il cui grande problema era che, quando era ai comandi di un aereo, aveva l'impressione di vedere piccoli esseri verdi con berretti rossi che volteggiavano fra le nuvole. Okay. Adesso Maud doveva solo aspettare.
Forse dopo un po' poteva arrivare una donna anziana dall'aspetto devastato. Ex pilota. Di nascosto, aveva bevuto troppe di quelle bottigliette mignon di whisky che offrono sugli aerei, aveva visto i piccoli esseri verdi ed era stata licenziata. Ora rimaneva in casa tutto il giorno insieme ai suoi due cani. Il vicino, però, era sempre innamorato di lei. Maud continuava così per tutta la serata. A volte si rimproverava per quel gioco, le impediva di prendere le persone sul serio. Ma non riusciva a smettere. Proprio in quel momento stava aspettando un prete la cui passione erano le macchine sportive molto appariscenti, con le quali amava dare passaggi ad autostoppisti allo scopo di redimerli. Uomo o donna? Vecchio o giovane? Che aspetto può avere? Maud appoggiò il mento sulle mani e rimase con lo sguardo fisso sulla porta d'ingresso. L'orario delle visite era passato, e il sabato sera la maggior parte dei nuovi pazienti, per lo più con lesioni legate all'alcol o ad altro, venivano portati al pronto soccorso. Le porte girevoli iniziarono a ruotare. Forse era il prete delle auto sportive. No. Questo era uno dei casi in cui doveva abbandonare il gioco. Era una bambina. Una bambina esile di dieci dodici anni. Maud immaginò una serie di avvenimenti che avrebbero fatto sì che, alla fine, quella bambina sarebbe diventata un ministro di Dio, ma lasciò perdere rapidamente. La bambina aveva un'aria triste. Si avvicinò alla grande carta dell'ospedale con le linee colorate che indicavano le strade da seguire per raggiungere i diversi reparti. Molti adulti non capivano quella carta, e per una bambina doveva essere ancora più difficile. Maud si piegò in avanti e disse a bassa voce: «Posso esserti d'aiuto?» La bambina si girò, sorrise timidamente e si avvicinò al bancone. Aveva i capelli neri bagnati e alcuni fiocchi di neve che non si erano ancora sciolti luccicavano. Non teneva lo sguardo basso come fanno spesso i bambini quando si trovano in un ambiente sconosciuto, no, mentre si avvicinava al bancone i suoi occhi neri e tristi erano fissi su Maud. Un pensiero, rapido come un fulmine, passò nella sua mente. Posso darti qualcosa? Cosa posso darti? Stupidamente, iniziò a pensare a quello che aveva nei suoi cassetti. Una penna? Un palloncino? La bambina si fermò all'altezza del bancone. Sopra il bordo spuntavano
solo il suo collo e la testa. «Mi scusi... sto cercando mio padre.» «È ricoverato qui da noi?» «Sì, ma non so bene...» Maud guardò verso l'entrata, lasciò scorrere lo sguardo nell'atrio e tornò a fissare la bambina che non indossava neppure una giacca. Soltanto un maglione nero dal colletto alto, sul quale le gocce d'acqua e i fiocchi di neve luccicavano alla luce del bancone. «Sei venuta da sola, cara? A quest'ora?» «Sì, io... volevo soltanto sapere se è qui.» «Allora controllerò. Come si chiama?» «Non lo so.» «Non lo sai?» La bambina chinò il capo come se stesse cercando qualcosa sul pavimento. Quando rialzò la testa, i suoi grandi occhi neri erano umidi e il suo labbro inferiore tremava. «No, lui... Ma è qui.» «Ma mia cara...» Maud sentì che qualcosa stava rompendosi dentro di lei e cercò rifugio in un'azione; si chinò, aprì un cassetto, prese un pacchetto di fazzoletti di carta e ne diede uno alla bambina. Finalmente le aveva dato qualcosa, anche se era solo un fazzoletto di carta. La bambina si soffiò il naso e poi si asciugò gli occhi con un gesto molto... adulto. «Grazie.» «Allora non saprei proprio... di cosa soffre?» «È... è stato catturato dalla polizia.» «Ma allora è meglio che parli con loro.» «Sì, ma lo tengono qui. Perché è malato.» «Di che malattia si tratta?» «Lui... io so soltanto che la polizia lo tiene qui. Dove può essere?» «Probabilmente all'ultimo piano, ma nessuno può andarci senza avere chiesto prima il permesso della polizia.» «Volevo solo sapere dov'è la finestra della sua camera, così potrò... non so.» La bambina si mise di nuovo a piangere. Maud sentì un nodo alla gola così forte da provare dolore. La bambina voleva sapere, così avrebbe potuto guardare la finestra da fuori, nella neve... pensando a suo padre. Maud
deglutì. «Posso telefonare se vuoi. Sono sicura che potrai...» «No. Va bene così. Adesso so. Adesso posso... Grazie. Grazie.» Si avviò verso l'uscita. Dio mio, tutte queste famiglie distrutte. La bambina uscì e Maud rimase a fissare il pavimento fra il bancone e le porte. C'era qualcosa di sbagliato. Maud cercò di ricordare l'aspetto della bambina, i suoi movimenti. C'era qualcosa che non quadrava, qualcosa che... Ci volle mezzo minuto prima che riuscisse a capire. La bambina non portava scarpe ai piedi. Maud uscì da dietro il bancone e corse verso le porte. Era autorizzata a lasciare il suo posto soltanto in casi eccezionali. Per lei quello era un caso eccezionale. Spinse le porte girevoli impaziente, forza, forza, e corse verso il parcheggio. Non c'era traccia della bambina. Cosa doveva fare? Doveva informare i servizi sociali; nessuno si era preoccupato di controllare se c'era qualcuno che potesse prendersi cura di lei, non c'era altra spiegazione. Chi era suo padre? Maud continuò a guardarsi intorno senza risultato. Corse sulla strada che portava alla metropolitana. Niente. Tornando indietro, sapeva a chi doveva telefonare e quello che doveva fare. Oskar era disteso nel suo letto in attesa del licantropo. Dentro di sé provava un cocente senso di rabbia e disperazione. Dal soggiorno sentiva suo padre e Janne parlare ad alta voce e la musica dal registratore. I Bröderna Djup. Non riusciva a distinguere le parole, ma conosceva la canzone a memoria. Viviamo in campagna, e presto ci siamo resi conto Che avevamo bisogno di qualcosa nel porcile. Abbiamo venduto il bel servizio di piatti E abbiamo comprato il maiale... A questo punto, i membri del gruppo imitavano tutti gli animali della fattoria. Di solito, Oskar trovava la canzone divertente. Adesso la odiava. Perché faceva parte di quella serata. Cantavano le loro canzoni idiote per suo padre e per Janne che stavano ubriacandosi. Sapeva esattamente come sarebbero andate le cose. In meno di un'ora avrebbero svuotato la bottiglia e Janne se ne sarebbe tornato a casa. Poi, suo padre sarebbe andato avanti e indietro nella cucina
per un po' e avrebbe deciso che doveva parlare con Oskar. Sarebbe entrato nella sua stanza e non sarebbe più stato papà. Soltanto un uomo maldestro che puzzava di alcol, bisognoso di tenerezza e sentimento. Gli avrebbe chiesto di alzarsi. Dovevano parlare. Di quanto amasse ancora sua madre, di quanto amava Oskar, e Oskar gli voleva bene? Avrebbe parlato, inciampando nelle parole, di tutte le ingiustizie che aveva subito e, nel peggiore dei casi, si sarebbe agitato fino ad arrabbiarsi. Non diventava mai violento. Ma quello che Oskar vedeva nei suoi occhi in quei momenti era orribile. Allora, non c'era la ben che minima traccia di suo padre. Soltanto un mostro che in qualche modo strisciava fuori dal suo corpo e ne prendeva il controllo. La persona in cui suo padre si trasformava quando era ubriaco non aveva alcun legame con l'uomo sobrio. Per questo, Oskar provava un po' di conforto pensando che fosse un licantropo. Che in verità il suo corpo racchiudesse una creatura completamente diversa. Così come la luna faceva uscire il lupo mannaro, l'alcol faceva uscire quella creatura da suo padre. Oskar prese un fumetto, cercò di leggerlo, ma non riusciva a concentrarsi. Si sentiva abbandonato. Fra un'ora o forse meno sarebbe rimasto solo con il Mostro. E la sola cosa che poteva fare era aspettare. Scagliò il fumetto contro la parete, si alzò dal letto e andò a prendere il suo portafogli. Un blocchetto di biglietti della metropolitana e i due foglietti di Eli. Li dispose uno accanto all'altro sul letto. «ADESSO LASCIA ENTRARE IL GIORNO, FINESTRA, E LASCIA USCIRE LA MIA VITA» Il cuore. «CI VEDIAMO QUESTA SERA. ELI» E il secondo biglietto. «I must be gone and live, or stay and die. TUA ELI» I vampiri non esistono. Al di là della finestra, la notte era una cortina buia. Oskar chiuse gli occhi e pensò alla strada per Stoccolma, passò a velocità incredibile sopra le case e le fattorie, i campi. Volò nel cortile a Blackeberg, attraverso la sua finestra, e lei era lì. Aprì gli occhi e fissò il rettangolo nero della finestra. Là fuori. La musica era ripresa. Ora i Bröderna Djup cantavano la canzone su una bicicletta con una ruota forata. Suo padre e Janne ridevano. Qualcosa cadde sul pavimento. Quale mostro scegli?
Oskar ripose i biglietti di Eli nel portafogli e si vestì. Andò silenziosamente in ingresso, si mise le scarpe, la giacca e il berretto. Rimase immobile per qualche secondo ascoltando i rumori dal soggiorno. Stava per uscire, vide qualcosa, si fermò. Sulla scarpiera c'erano gli stivaletti di gomma che usava quando aveva quattro o cinque anni. Anche se non c'era nessuno che poteva usarli, erano lì da quando riusciva a ricordare. Di fianco c'erano quelli enormi di suo padre. Il tallone di uno dei due era stato riparato con uno di quegli adesivi di gomma marrone che si usano per riparare le ruote delle biciclette. Perché li ha conservati? Oskar capì. Due figure si alzarono dagli stivali volgendogli la schiena. Una larga e, accanto, quella esile di Oskar con il braccio alzato e la mano in quella di suo padre. Camminavano lungo un sentiero, forse per andare a raccogliere lamponi... Riuscì a sopprimere un singhiozzo, gli occhi pieni di lacrime. Allungò una mano per toccare gli stivaletti. Dal soggiorno si udirono due sonore risate. La voce di Janne, distorta. Con tutta probabilità stava imitando qualcuno, era la sua specialità. Le dita di Oskar si chiusero sugli stivaletti. Sì. Non sapeva perché, ma sentiva che era giusto. Aprì cautamente la porta e la richiuse dietro di sé. L'aria della notte era gelida, al chiaro di luna la neve sembrava un mare di diamanti. Con gli stivaletti stretti al petto, si avviò verso la strada principale. Il sorvegliante dormiva. Era un giovane poliziotto che sostituiva il personale dell'ospedale, che non voleva più stare a sorvegliare Håkan costantemente. La porta era chiusa e poteva essere aperta soltanto usando un codice. Per questo il poliziotto si era permesso di fare un pisolino. Era accesa solo la luce di cortesia, e Håkan rimaneva disteso a studiare le ombre confuse sul soffitto come una persona sana che, distesa nell'erba, osserva le nuvole. Nelle ombre vedeva forme e figure. Non era sicuro di essere in grado di leggere, ma avrebbe voluto farlo. Eli non c'era più e le cose che avevano caratterizzato la sua vecchia vita stavano tornando. Sarebbe stato condannato a una lunga pena detentiva, e durante quel periodo avrebbe potuto leggere tutto quello che non aveva letto e tutto quello che si era ripromesso di leggere. Stava elencando mentalmente tutti i titoli delle opere di Selma Lagerlöf, quando un rumore stridulo interruppe il filo dei suoi pensieri. Lo udì nuo-
vamente. Proveniva dalla finestra. Girò la testa il più possibile e guardò in quella direzione. Un ovale più chiaro, illuminato dalla luce di cortesia, si stagliava contro il cielo scuro. Una piccola macchia apparve accanto all'ovale muovendosi avanti e indietro. Una mano che salutava. La mano strisciò sul vetro della finestra e Håkan udì nuovamente quel rumore. Eli Quando il suo cuore iniziò a battere rapidamente, nevroticamente come un uccello prigioniero in una rete, Håkan provò un senso di gratitudine per non essere più collegato all'elettrocardiografo. Immaginò il cuore che gli balzava fuori dal petto per poi raggiungere la finestra strisciando sul pavimento. Entra, mio amore. Entra. Ma la finestra era chiusa, e anche se fosse stata aperta le sue labbra non avrebbero potuto formare le parole per dire a Eli di entrare nella stanza. Avrebbe potuto fare un gesto con lo stesso significato, ma non sapeva come. Posso? Con uno sforzo, mosse una gamba fuori del letto, poi l'altra. Mise i piedi a terra, cercò di alzarsi. Dopo essere rimasto immobile per dieci giorni, le gambe si rifiutavano di portare il suo peso. Cercò di sostenersi appoggiandosi al letto per non cadere di lato. La cannula della flebo era tesa e tirava la pelle dove era fissata. Collegato, c'era una sorta di allarme, un sottile filo elettrico correva per tutta la sua lunghezza. Se avesse staccato la cannula a una delle estremità, sarebbe scattato. Allungò il braccio verso il supporto della sacca, la cannula si allentò. La forma ovale chiara era sempre alla finestra, in attesa. Devo. Il supporto era su ruote, la batteria dell'allarme era fissata appena sotto la sacca del liquido. Allungò una mano e riuscì ad afferrare l'asta del supporto. Usandola come sostegno si alzò, lentamente, piano piano. Quando tentò di fare un passo in avanti la stanza iniziò a girare. Si fermò. Rimase in ascolto, il poliziotto continuava a respirare regolarmente. Con passi da formica si trascinò verso la finestra. Una delle ruote del supporto cigolò, Håkan si fermò e rimase in ascolto. Qualcosa gli diceva che quella sarebbe stata l'ultima volta che vedeva Eli e non intendeva... ... rovinare tutto. Quando raggiunse finalmente la finestra, il suo corpo era sfinito come se
avesse corso una maratona. Appoggiò il viso al vetro. Lo strato gelatinoso che copriva il suo corpo si sparse sul vetro della finestra e una parte del viso iniziò nuovamente a bruciare. Solo un paio di centimetri dei doppi vetri separavano il suo occhio da quelli del suo amore. Eli mise la mano sul vetro come per accarezzare il volto sfigurato. Håkan tenne il suo occhio il più vicino possibile agli occhi di Eli, ma la vista rimaneva distorta, gli occhi neri di Eli si dissolsero, divennero indistinti. Aveva immaginato che il canale lacrimale fosse stato bruciato come tutto il resto, ma non era così. Le lacrime scaturirono dall'occhio, accecandolo. La palpebra provvisoria non riusciva a eliminarle. Alzò la mano sana e la passò cautamente sull'occhio, il suo corpo scosso da singhiozzi silenziosi. Portò la mano sul meccanismo di chiusura della finestra. Lo girò. Quando aprì la finestra, gocce di muco scivolarono dal buco che era stato il suo naso e caddero sul davanzale. Una folata di aria fredda entrò nella stanza. Il poliziotto poteva svegliarsi da un momento all'altro. Håkan allungò la mano verso Eli che la prese e la baciò. «Ciao, amico caro» sussurrò. Håkan annuì lentamente per farle capire che aveva sentito. Liberò la mano e le accarezzò la guancia. La sua pelle era come seta gelata. Tutto divenne chiaro. Non sarebbe rimasto a marcire in una cella circondato da parole senza senso. Tormentato dagli altri carcerati per avere commesso ai loro occhi il più orribile dei crimini. Sarebbe rimasto con Eli. Avrebbe... Eli si chinò in avanti. «Cosa vuoi che faccia?» chiese. Håkan tolse la mano dalla guancia di Eli e la portò alla gola. Eli scosse il capo. «In questo caso dovrò... ucciderti. Dopo.» Håkan tolse la mano dalla gola, la avvicinò al volto di Eli e le mise l'indice sulle labbra per un attimo. Poi lo tolse. Indicò nuovamente la gola. Il suo respiro formava nuvole bianche, ma non aveva freddo. Dopo dieci minuti era arrivato al negozio. La luna lo aveva seguito giocando a nascondino dietro le cime degli alberi. Oskar guardò l'orologio. Le dieci e
mezza. Aveva visto sulla tabella degli orari che l'ultimo autobus partiva da Norrtälje all'una e mezza. Attraversò la piazzetta davanti al negozio, illuminata dalle lampade della pompa della benzina e si avviò verso Kapellskärsvägen. Non aveva mai fatto l'autostop prima, sua madre sarebbe andata su tutte le furie se fosse venuta a saperlo. Salire su macchine di sconosciuti... Aumentò l'andatura, passò davanti a due case con le luci accese. Dentro c'erano persone che stavano trascorrendo una piacevole serata. I bambini dormivano tranquilli senza temere che i loro genitori entrassero per svegliarli e dire un sacco di idiozie. La colpa è di papà e non mia. Fissò gli stivaletti che teneva ancora stretti in mano, li gettò nel fossato, si fermò e osservò le due forme scure nella neve. La mamma non mi lascerà più venire qui. Suo padre si sarebbe accorto della sua scomparsa forse fra un'ora. Allora sarebbe uscito a cercarlo, chiamandolo. Poi, avrebbe telefonato alla mamma. L'avrebbe fatto? Probabilmente sì. Le avrebbe chiesto se Oskar avesse telefonato. Dalla sua voce, la mamma avrebbe capito immediatamente che papà era ubriaco e allora... No. Farò così. Una volta arrivato a Norrtälje, avrebbe telefonato a suo padre da una cabina e gli avrebbe detto che stava andando a Stoccolma. Avrebbe dormito da un amico e sarebbe tornato a casa dalla mamma il giorno dopo, come se niente fosse successo. Così, papà avrebbe avuto la sua lezione senza che succedesse una catastrofe. Bene. E poi... Oskar scese nel fossato, raccolse gli stivaletti e riprese a camminare in direzione della statale. Adesso andava tutto bene. Ora era lui a decidere dove voleva andare, e la luna ammiccava benevola illuminando i suoi passi. Alzò una mano per salutarla e iniziò a cantare. Ecco che arriva Fritjof Andersson Con il cappello coperto di neve... Ma non ricordava il resto del testo, e continuò a canticchiare a bocca chiusa. Aveva percorso un centinaio di metri sulla statale quando udì un'auto avvicinarsi in lontananza. Si fermò sul ciglio della strada e alzò il pollice destro. L'auto lo sorpassò, si fermò e tornò indietro in retromarcia. La por-
tiera dal lato del passeggero si aprì; al volante c'era una donna un po' più giovane di sua madre, Nessun motivo di avere paura. «Ciao. Dove stai andando?» «A Stoccolma. Sì, Norrtälje.» «Io sto andando a Norrtälje...» Oskar si chinò in avanti per salire in macchina. «Aspetta. Tua madre e tuo padre sanno che sei qui a quest'ora?» «Sì. Ma l'auto di papà non parte e io...» La donna lo fissò, sembrava incerta. «Va bene, salta su allora.» «Sì. Grazie.» Oskar scivolò sul sedile e chiuse la portiera. «Ti lascio alla stazione degli autobus, allora?» «Sì. Grazie.» Oskar si mise comodo sul sedile gustando il calore che iniziava a invadergli il corpo. Il sedile era riscaldato. Non avrebbe potuto essere più facile. Villette con le luci accese scorrevano via. State pur lì, voi. Sta andando liscia come l'olio. «Abiti a Stoccolma?» «Sì. A Blackeberg.» «Blackeberg... si trova a ovest, no?» «Credo di sì. Si chiamano sobborghi occidentali o qualcosa di simile.» «Sì. Hai qualcosa di urgente da fare a casa?» «Sì.» «Deve proprio essere così per tornarci a quest'ora.» «Sì. È così.» Faceva freddo nella stanza. Le articolazioni erano rigide dopo avere dormito così a lungo in una posizione scomoda. Il poliziotto si stirò, gettò uno sguardo al letto e si svegliò completamente. Sparito... il freddo... merda. Si alzò barcollando, si guardò intorno. Dio mio. L'uomo era fuggito. Ma come diavolo aveva fatto a raggiungere la finestra? E... Cos'è quella cosa? L'assassino era piegato sul davanzale della finestra con una massa nera su una spalla. Il suo sedere nudo si intravedeva dal camice dell'ospedale sollevato. Il poliziotto fece un passo verso la finestra, si fermò ansimando. La massa era una testa. Un paio di occhi scuri incontrarono i suoi.
Il poliziotto mise una mano sul fianco per prendere la pistola di ordinanza, ma si ricordò di non averla. Per una questione di sicurezza. L'arma più vicina era chiusa in una cassaforte nel corridoio. Ora vide che si trattava soltanto di un bambino. «Fermo. Non muoverti.» Corse i tre passi che lo separavano dalla finestra e il bambino alzò la testa dal collo dell'uomo. Nell'istante in cui il poliziotto lo raggiunse, il bambino saltò giù dal davanzale e scomparve. Prima che lo facesse, per un attimo i suoi piedi erano rimasti sul davanzale. È a piedi nudi. Il poliziotto mise la testa fuori dalla finestra e riuscì a vedere un corpo che spariva dietro il bordo del tetto. Oh, mio Dio, oh, merda. Nella luce vaga della lampada, vide delle macchie scure all'altezza della spalla e della schiena del camice dell'uomo, e una ferita fresca sul suo collo. Dal tetto udì dei tonfi sordi di qualcuno che camminava. Rimase paralizzato. Priorità. Quali sono le priorità? Non ricordava. Per prima cosa doveva salvare una vita. Ma c'erano altri che potevano... corse alla porta, compose il codice, entrò nel corridoio e iniziò a urlare: «Infermiera! Infermiera! Venga! Qui, c'è un'emergenza!» Corse verso la scala antincendio mentre l'infermiera di turno lasciava il suo posto per raggiungere la stanza che il poliziotto aveva appena lasciato. Quando si incrociarono, l'infermiera chiese: «Cosa è successo?» «Emergenza. È un'emergenza. Chiami aiuto, c'è stato... un omicidio.» Una parola che non avrebbe mai voluto pronunciare. Non gli era mai capitato nulla di simile. Era stato messo di guardia proprio per via della sua inesperienza. Non era indispensabile, se così si può dire. Mentre correva verso la scala prese la radio, diede l'allarme alla centrale e chiese rinforzi. L'infermiera cercò di prepararsi al peggio. Un corpo disteso sul pavimento in una pozza di sangue. Impiccato con un lenzuolo legato a una tubatura dell'acqua calda. Non sarebbe stata la prima volta che vedeva cose simili. Quando entrò nella stanza, la prima cosa che vide fu il letto vuoto. E poi, qualcosa appoggiato al davanzale della finestra. Dapprima pensò che si trattasse di un mucchio di indumenti. Poi vide il movimento. Corse verso la finestra per impedire il peggio, ma l'uomo si era già mos-
so. Quando iniziò a correre, il corpo dell'uomo era già per metà al di là del davanzale. L'infermiera arrivò in tempo per afferrare un lembo del camice prima che l'uomo si gettasse in avanti, la cannula della flebo si staccò dal suo braccio. Un suono lacerante, e l'infermiera si ritrovò con un pezzo di tessuto in mano. Un paio di secondi dopo, udì il tonfo sordo del corpo che sbatteva sull'asfalto. Subito dopo il fischio dell'allarme. Il tassista si fermò davanti all'ingresso del pronto soccorso. L'uomo anziano che lo aveva intrattenuto per tutta la corsa da Jakobsberg parlandogli dei suoi problemi di cuore aprì la portiera e rimase in attesa. Okay, okay. Il tassista aprì la sua portiera, fece il giro della macchina e porse il suo braccio all'uomo. La neve cadeva sul suo collo piegato. L'uomo anziano stava per prendere il braccio, ma si fermò, lo sguardo fisso in alto verso il cielo. «Forza. L'aiuterò io.» L'uomo alzò una mano verso il cielo. Il tassista alzò lo sguardo. Una persona era sul tetto dell'ospedale. Una persona esile. A torso nudo, le braccia lungo i fianchi. L'allarme. Avrebbe dovuto dare l'allarme via radio. Ma rimase immobile, incapace di fare un qualsiasi movimento. Se si fosse mosso, avrebbe potuto rompere l'equilibrio e quell'essere così minuto sarebbe potuto cadere. Quando la mano dell'uomo anziano afferrò la sua come un artiglio, conficcandogli le unghie nel palmo, si morse il labbro inferiore per il dolore. Ma rimase immobile. I fiocchi di neve cadevano, costringendolo a socchiudere gli occhi. La persona sul tetto allargò le braccia e le portò sopra la testa. Qualcosa si formò fra le sue braccia e il corpo, una... membrana. Il vecchio gli tirò la mano, si alzò dal sedile e si mise al suo fianco. Quando la spalla dell'uomo toccò quella del tassista, la persona minuta, un bambino, spiccò il volo. L'uomo strinse la mano del tassista, e vi affondò nuovamente le unghie. Il bambino sembrava diretto verso di loro. Istintivamente, entrambi si chinarono con le mani sulla testa per proteggersi. Non accadde nulla. Quando rialzarono le teste il bambino non c'era più. Il tassista si guardò intorno, ma non vide altro a parte i fiocchi di neve che cadevano negli spa-
zi d'aria illuminati dai lampioni. Il vecchio rabbrividì. «L'angelo della morte. Era l'angelo della morte. Non uscirò mai vivo da qui.» Sabato 7 novembre (notte) «Habba-Habba soudd-soudd!» Il gruppo di ragazzi era salito alla fermata a Hötorget cantando. Avevano più o meno l'età di Tommy. Erano ubriachi. Di tanto in tanto, i maschi lanciavano delle urla e si gettavano sulle ragazze che scoppiavano a ridere e li respingevano. Poi riprendevano tutti a cantare. Sempre la stessa canzone. Oskar li osservava di nascosto. Non diventerò mai così. Purtroppo. Avrebbe voluto. Sembravano divertirsi. Ma Oskar non avrebbe mai potuto comportarsi così. Uno di loro si sistemò sul sedile e si mise a cantare a squarciagola. Un vecchio, seduto in un posto riservato agli handicappati, gridò dal fondo dell'autobus: «Potete abbassare il volume? Sto cercando di dormire.» Una delle ragazze alzò il dito medio in direzione del vecchio. «Non ti hanno insegnato che si dorme a casa e non sulla metropolitana?» Si misero tutti a ridere e ripresero a cantare. Alcuni sedili più in là, un uomo stava leggendo un libro. Oskar si chinò per vedere il titolo, ma riuscì soltanto a leggere il nome dell'autore: Göran Tunström. Non lo conosceva. Una donna anziana con una borsetta sulle ginocchia era seduta al centro del vagone. Parlava a bassa voce e gesticolava verso un interlocutore invisibile. Oskar non aveva mai viaggiato in metropolitana dopo le dieci di sera. Erano le stesse persone che di giorno viaggiavano in silenzio con lo sguardo fisso davanti a sé o leggendo il giornale? O si trattava di un gruppo speciale di persone che usciva soltanto di notte? L'uomo con il libro voltò pagina. Stranamente, Oskar non aveva portato con sé niente da leggere. Peccato. Avrebbe voluto essere come quell'uomo, seduto a leggere un libro, incurante di quello che c'era intorno. Ma aveva soltanto il suo walkman e il cubo. Sull'autobus, aveva cercato di ascoltare la cassetta dei Kiss che gli aveva dato Tommy, ma dopo due canzoni si era stancato. Prese il cubo dalla borsa. Tre facce erano risolte. Soltanto un insignifi-
cante quadratino mancava sulla quarta. Una sera aveva parlato del cubo con Eli, di come bisognava fare, e da allora era migliorato notevolmente. Guardò tutte le facce cercando di escogitare una strategia, ma davanti a sé riusciva soltanto a vedere il volto di Eli. Che aspetto avrà? Non aveva paura. Provava una strana sensazione come se... sì, come se non fosse veramente lì, in quel momento, a fare quello che stava facendo. Non esisteva. Non era lui. Io non esisto e nessuno può farmi qualcosa. Aveva telefonato a suo padre da Norrtälje e lui si era messo a piangere. Gli aveva detto che avrebbe telefonato a qualcuno che sarebbe andato a prenderlo. Era la seconda volta nella sua vita che aveva sentito suo padre piangere. Per un attimo, Oskar stava per intenerirsi. Ma quando aveva iniziato ad agitarsi e urlare che a casa sua aveva il diritto di fare quello che voleva, lui aveva riattaccato. Era stato allora che l'aveva provata: la sensazione di non esistere. Il gruppo di ragazzi scese alla stazione di Ängbyplan. Uno di loro si era girato urlando: «Adesso potete dormire cari... cari...» Non riuscì a trovare le parole, e una ragazza lo prese per un braccio. Ma prima che le porte si chiudessero, quello si liberò, bloccò una porta, infilò la testa nel vagone e urlò: «... co-passeggeri! Sogni d'oro!» Poi lasciò la porta e il convoglio ripartì. L'uomo che stava leggendo abbassò il suo libro e fissò il gruppo di giovani fermi sul marciapiede. Poi fissò Oskar dritto negli occhi e sorrise. Oskar ricambiò il sorriso e finse di occuparsi del cubo. Dentro di sé aveva la sensazione di essere stato approvato. L'uomo lo aveva guardato e gli aveva inviato un pensiero. Va bene. Tutto quello che fai è okay. Eppure, non aveva il coraggio di fissarlo nuovamente. Aveva la sensazione che l'uomo sapesse. Girò il cubo un paio di volte. Alla fermata di Blackeberg, dagli altri vagoni scesero altre due persone. Un ragazzo più grande che non conosceva, e un rocchettaro sulla trentina che sembrava molto ubriaco. L'ubriaco si avvicinò all'altro tipo e disse: «Ehi tu, mi puoi dare una sigaretta?» «Sorry, non fumo.» L'uomo sembrava non avere capito, perché tirò fuori una mano dalla tasca e sventolò una banconota.
«Dieci corone! Dieci corone per una sigaretta.» Il ragazzo scosse il capo e si avviò. L'altro rimase sul marciapiede, barcollando da destra a sinistra. Quando Oskar gli passò davanti, alzò il capo e disse: «Tu!» Ma quando i suoi occhi riuscirono a mettere a fuoco, scosse il capo. «No. Non era niente. Vai in pace.» Oskar si incamminò, salì le scale e raggiunse l'atrio della stazione. Si chiese se il rocchettaro avesse intenzione di urinare sulla terza rotaia. Il ragazzo era uscito. A parte il bigliettaio, Oskar era solo. Era tutto diverso di notte. Il negozio del fotografo, quello del fioraio e l'edicola erano chiusi. Il bigliettaio stava leggendo una rivista. C'era un silenzio totale. L'orologio sul muro segnava le due e qualche minuto. A quell'ora avrebbe dovuto essere a letto a dormire. Dormire. Ma non aveva sonno. Era talmente stanco che aveva la sensazione che il suo corpo fosse vuoto, ma era un vuoto pieno di elettricità. Udì una porta sbattere giù sul marciapiede, e subito dopo la voce del rocchettaro che aveva ripreso a cantare la stessa canzone che Oskar aveva cantato dopo avere lasciato la casa di suo padre. Oskar si mise a ridere e iniziò a correre. Uscì dalla stazione e continuò a correre verso la scuola. Stava cadendo la neve, i grossi fiocchi si scioglievano sul suo volto accaldato. Alzò lo sguardo verso il cielo. La luna era scomparsa fra le nuvole. Arrivato nel cortile di casa si fermò per riprendere fiato. Tutte le finestre erano al buio, ma gli sembrò di intravedere una vaga luce dietro le persiane dell'appartamento di Eli. Che aspetto avrà? Fece alcuni passi in avanti e guardò la finestra buia della sua camera. Lì dentro c'era il solito Oskar che dormiva. L'Oskar prima di Eli. Con il salvapipì nelle mutande. Lui aveva smesso di usarlo, non ne aveva più bisogno. Aprì il portone e attraversò il corridoio della cantina fino alla porta di Eli, non si fermò per vedere se ci fossero ancora tracce delle macchie sul pavimento. Passò oltre. Non esisteva più. Non aveva né una madre, né un padre, nessuna vita precedente, era soltanto lì. Aprì la porta e salì le scale. Si fermò sul pianerottolo e fissò la porta di legno, la targhetta senza nome. Dietro quella porta. Aveva immaginato di salire le scale di corsa e suonare il campanello. Invece, si mise a sedere sullo scalino di fianco alla porta. E se Eli non lo avesse voluto?
Dopotutto era stata lei a correre via. Forse gli avrebbe detto di andarsene, di lasciarla in pace, di... La tana di Tommy e dei suoi amici. Avrebbe potuto andare a dormire lì, sul divano. Non erano certamente lì a quell'ora della notte. Così avrebbe potuto incontrare Eli la sera dopo, come al solito. Non sarà come al solito. Fissò il campanello. Non sarebbe mai più stato come prima. Bisognava fare qualcosa di grande. Come scappare, fare l'autostop, tornare a casa in piena notte per far vedere che è stato... importante. Il fatto che potesse essere una creatura che si nutriva di sangue umano non gli faceva paura. Quello che temeva era che si rifiutasse di vederlo. Suonò il campanello. Il trillo stridulo echeggiò nell'appartamento e smise quando Oskar tolse il dito. Rimase immobile in attesa. Suonò nuovamente. Niente. Nessun altro rumore dall'interno. Eli non era in casa. Oskar tornò a sedersi sullo scalino, la delusione era pesante come un macigno. D'improvviso si sentì stanco, tremendamente stanco. Si rialzò lentamente e iniziò a scendere le scale. A metà strada gli venne un'idea. Stupida, ma... Tornò alla porta e con segnali corti e lunghi del campanello compose il suo nome. Corto. Pausa. Corto, lungo, corto, corto. Pausa. Corto, corto. E.L.I. Rimase in attesa. Nessun rumore dall'interno. Quando si girò per andarsene udì la sua voce. «Oskar? Sei tu?» E la sua gioia fu come un missile che partì da dentro di lui ed esplose attraverso la sua bocca: «Sì!» Per fare qualcosa, Maud Carlberg andò a prendere una tazza di caffè nella stanza sul retro e tornò a sedersi dietro il bancone. Il suo turno era finito da un'ora, ma la polizia le aveva chiesto di aspettare. Un paio di uomini con i camici stavano spargendo con dei pennelli una specie di polvere sul pavimento dove la bambina aveva camminato a piedi nudi. Un poliziotto le aveva chiesto di ripetere ciò che quella bambina aveva detto e fatto, che aspetto aveva e se fosse stata cortese. Maud aveva avuto l'impressione che nella sua voce ci fosse un tono di rimprovero, come se
avesse commesso uno sbaglio. Ma come avrebbe potuto sapere? Henrik, una delle guardie che spesso faceva il suo stesso turno di notte, si avvicinò e indicò la tazza di caffè. «È per me?» «Se vuoi.» Henrik prese la tazza, bevve un sorso e si guardò intorno nell'atrio. Oltre ai due uomini impegnati a pennellare il pavimento, c'era un poliziotto in uniforme che parlava con un tassista. «Questa sera c'è un bel po' di gente.» «Non capisco come abbia potuto arrivare fin lassù.» «Non saprei. Sembra che se ne stiano occupando. Può darsi che si sia arrampicata lungo la facciata.» «È impossibile.» «Ma...» Henrik prese dalla tasca un pacchetto di caramelle e glielo offrì. Maud scosse il capo. Henrik ne prese due, le mise in bocca e scrollò le spalle come per scusarsi. «Ho smesso di fumare. Sono aumentato di quattro chili in due settimane» disse con una smorfia. «Be', avresti dovuto vederlo.» «Chi... l'assassino?» «Sì. Ha lasciato macchie di sangue dappertutto. E la sua faccia... Se uno deve suicidarsi, è meglio farlo con i sonniferi. Pensa a quello che dovrà fargli l'autopsia. Deve essere...» «Henrik.» «Sì?» «Smettila.» Eli era sulla porta aperta. Oskar era immobile sul pianerottolo. Con una mano stringeva il manico della borsa, come se fosse pronto ad andarsene in qualsiasi momento. Eli spostò una ciocca di capelli dietro un orecchio. Aveva un bell'aspetto. Una ragazza esile, insicura. Abbassò lo sguardo sulle sue mani. «Come stai?» chiese. «Bene.» Eli fece un cenno quasi impercettibile con il capo. Oskar rimaneva immobile. «Posso... entrare?» «Sì.»
Ma Oskar non accennava a muoversi. «Dimmi che posso entrare.» Eli alzò la testa, aprì la bocca per dire qualcosa, si fermò. Stava per chiudere la porta, ma cambiò idea. Mosse i piedi all'indietro. «Puoi entrare» disse. Entrò nell'appartamento, Oskar la seguì e si chiuse la porta alle spalle. Posò la borsa in ingresso, si tolse la giacca e la appese all'attaccapanni vuoto. Eli era ferma sulla porta del soggiorno con le braccia lungo i fianchi. Indossava soltanto un paio di mutandine e una maglietta rossa con la scritta «Iron Maiden» sull'immagine di un mostro scheletrico ricavata da uno dei loro lp. Oskar l'aveva già vista, ma non ricordava dove. Forse nella cantina. Poteva essere la stessa? Eli abbassò lo sguardo sui piedi sporchi. «Perché mi hai detto quelle cose?» «Lo hai detto tu.» «Sì. Oskar...» Eli esitò. Oskar rimase dove era, con una mano sulla giacca che aveva appena appeso. Fissò la giacca e chiese: «Sei un vampiro?» Eli incrociò le braccia intorno al corpo, scosse il capo lentamente. «Io... vivo di sangue. Ma non sono... quello...» «Qual è la differenza?» Eli lo fissò e disse con più forza: «La differenza è enorme.» Oskar vide le dita dei suoi piedi tendersi, rilassarsi, tendersi. Le gambe nude erano sottili, sotto il bordo della maglietta si intravedevano le mutandine bianche. Oskar fece un gesto con la mano. «Sei... come posso dire... morta?» Per la prima volta da quando era arrivato, Eli sorrise. «No. Non lo vedi?» «Sì, ma... volevo dire... sei morta tanto tempo fa?» «No. Ma ho vissuto molto a lungo.» «Sei vecchia?» «No. Ho dodici anni. Ma li ho da tanto tempo.» «Allora sei vecchia. Dentro. Nella testa.» «No. Non è così. È la sola cosa che trovo veramente strana. Non riesco a capire perché, in qualche modo, non divento mai più vecchia di dodici anni.» Oskar rifletté, accarezzando la manica della giacca.
«Forse proprio perché è così.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che non capisci perché hai sempre dodici anni, perché hai soltanto dodici anni.» Eli inarcò le sopracciglia. «Vuoi dire che sono stupida?» «No. Soltanto un po' lenta a capire. Proprio come tutti i bambini.» «Sì. Come va con il cubo?» Oskar sbuffò, la fissò negli occhi e ricordò come potevano cambiare le sue pupille. Ora erano normali, ma quella volta erano cambiate in quello strano modo. Eppure... era troppo. Non era possibile crederci. «Eli, ti stai inventando tutto questo, non è così?» Eli passò una mano sul mostro della maglietta. «Vuoi ancora fare un patto con me?» Oskar fece mezzo passo all'indietro. «No.» Eli lo fissò. Triste, quasi offesa. «Non in quel modo. Certo capisci che...» Eli si interruppe. Oskar continuò la frase per lei. «... che se tu avessi voluto uccidermi, avresti potuto farlo da tempo.» Eli annuì. Oskar fece un altro passo indietro. Quanto ci avrebbe impiegato a uscire dall'ingresso? Avrebbe dovuto lasciare la borsa? Non sembrava che Eli si fosse accorta della sua inquietudine, del suo desiderio di fuggire. Oskar rimase dov'era, i muscoli tesi. «Posso essere... contagiato?» Senza muovere la mano dal mostro, Eli scosse il capo. «Io non voglio contagiare nessuno. Specialmente non te.» «Allora come potrà essere? Il patto?» Eli alzò la testa verso il punto dove pensava che fosse il viso di Oskar, ma scoprì che non era più lì. Esitò. Poi gli si avvicinò e gli prese la testa fra le mani. Oskar la lasciò fare. Eli aveva un'espressione... vuota, distante. Ma non quella che aveva visto in cantina. Le punte delle sue dita gli sfiorarono le orecchie. Un senso di calma invase il suo corpo. Lascia che... Lascia che succeda quello che deve succedere. Il volto di Eli era a venti centimetri dal suo, l'alito aveva un odore strano, come quello del ripostiglio dove suo padre conservava i pezzi di metallo. Sì, il suo alito aveva un odore di... ruggine. Gli passò un dito sull'orecchio.
«Sono sola. Nessuno lo sa. Vuoi?» «Sì.» Eli avvicinò rapidamente il suo volto, posò le sue labbra sul labbro superiore di Oskar e lo tenne stretto applicando una leggera pressione. Le sue labbra erano calde e secche. Oskar sentì la saliva salirgli in bocca, e quando pose le labbra su quello inferiore di Eli lo inumidì, e quello divenne morbido. Assaporarono cautamente le rispettive labbra e Oskar scivolò in un buio caldo che si illuminò gradualmente trasformandosi in una grande stanza, il salone di un castello al centro del quale c'era un lungo tavolo coperto di cibo. ... corre verso quelle leccornie, le afferra con le mani e inizia a mangiare. Intorno a lui ci sono altri bambini, grandi e piccoli. Tutti stanno mangiando. A capotavola è seduto un... uomo? Una donna... Una persona, forse con una parrucca. Un'enorme massa di capelli copre la sua testa. Ha in mano un bicchiere pieno di un liquido rosso scuro, è seduto comodamente appoggiata allo schienale della sedia, sorseggia il liquido e fa un gesto di incoraggiamento a Oskar. Continuano a mangiare. In fondo alla sala, vicino alla parete, Oskar vede delle persone con indosso miseri vestiti che seguono immobili quello che succede intorno al tavolo. Una donna con uno scialle marrone sulla testa tiene le mani incrociate sul ventre e Oskar pensa: «Mamma.» Poi il tintinnio di un bicchiere e tutti si voltano verso l'uomo seduto a capotavola. L'uomo si alza. Oskar ha paura. Ha una bocca piccola con labbra sottili di un rosso innaturale. Il suo volto è bianco come il gesso. Oskar sente la saliva scendere da un angolo della bocca, un piccolo pezzo di carne è in fondo alla sua bocca, lo sposta in avanti con la lingua. L'uomo alza un piccolo sacchetto di pelle. Con un movimento grazioso scioglie il nastro che chiude il sacchetto, lo rovescia, e due grandi dadi bianchi scivolano sul tavolo. Il rumore dei dadi che rotolano echeggia nella grande sala. Si fermano. L'uomo li raccoglie e li mostra a Oskar e agli altri bambini. L'uomo apre la bocca per dire qualcosa, ma in quello stesso istante il pezzetto di carne esce dalla bocca di Oskar... Le labbra di Eli lasciarono le sue, Eli tolse le mani dalla sua testa e fece un passo indietro. Anche se gli faceva paura, Oskar cercò di rivedere l'immagine di quella grande sala, ma era svanita. Eli lo fissò studiandolo. Oskar si strofinò gli occhi, annuì.
«Allora, è successo veramente.» «Sì.» Rimasero in silenzio per un attimo. Poi Eli disse: «Vuoi entrare?» Oskar non rispose. Eli si tirò la maglietta, alzò le mani, le lasciò ricadere. «Non voglio farti del male.» «Lo so.» «A cosa stai pensando?» «Alla tua maglietta. L'hai trovata in cantina?» «... sì.» «L'hai lavata?» Eli non rispose. «Non sei molto pulita, sai?» «Posso cambiarmi se vuoi.» «Sì. Fallo.» Aveva letto diversi articoli sull'uomo disteso sulla lettiga, ora coperto da un lenzuolo. L'assassino rituale. Benke Edwards aveva spinto di tutto in quei corridoi che portavano alle celle frigorifere. Uomini, donne, di tutte le età e grandezze. Bambini. Non c'era una lettiga speciale per i bambini, e poche cose lo disturbavano tanto quanto quegli spazi vuoti che rimanevano quando portava dei bambini; quelle piccole figure sotto un lenzuolo bianco che sembravano schiacciate contro la testata della lettiga. Il fondo rimaneva vuoto, il lenzuolo piatto. Quello spazio rappresentava la morte stessa. Ma quello che spingeva ora era un uomo adulto, e non solo; era anche una celebrità. Spinse la lettiga attraverso i corridoi deserti. L'unico rumore che si udiva era il cigolio delle ruote di gomma che scorrevano sui pavimenti di linoleum. Lì non c'erano linee colorate per indicare il cammino. I visitatori che venivano erano sempre accompagnati da un membro del personale. Mentre la polizia fotografava il cadavere, Benke aveva aspettato fuori dall'ospedale. Alcuni fotoreporter erano rimasti al di là dei nastri di delimitazione, a scattare fotografie dell'ospedale con i flash. Il giorno dopo, quelle fotografie sarebbero apparse sui giornali insieme a quella del contorno del corpo tracciato con il gesso per indicare dove era caduto quell'uomo. Una celebrità. La forma sotto il lenzuolo non indicava niente di simile. Una forma co-
me un'altra. Benke sapeva che l'uomo aveva l'aspetto di un mostro, che il suo corpo era scoppiato come un palloncino pieno d'acqua che cade sul terreno gelato, ed era grato che il lenzuolo lo coprisse. Sotto un lenzuolo siamo tutti uguali. Eppure, sicuramente, in molti avrebbero provato un senso di sollievo sapendo che quella forma sotto il lenzuolo non era più carne viva, e che Benke la stava portando alle celle frigorifere perché venisse cremata non appena il patologo avesse finito il suo lavoro. L'uomo aveva una ferita alla gola che era stata fotografata dalla polizia da tutte le angolazioni possibili. Ma che importanza poteva avere? Benke si considerava una specie di filosofo. Senza dubbio, era colpa della sua professione. Aveva avuto modo di vedere cosa è veramente un essere umano, e aveva sviluppato una teoria abbastanza semplice. «È tutto nel cervello.» La sua voce echeggiò nel corridoio. Fermò la lettiga davanti al locale delle celle frigorifere, compose il codice e aprì la porta. Sì. È tutto nel cervello. Sin dall'inizio. Il corpo non è altro che una specie di unità di servizio che il cervello è costretto a trascinarsi dietro per continuare a vivere. Ma sin dall'inizio, è tutto nel cervello. E l'unico modo di cambiare una persona come quella sotto il lenzuolo è operarla al cervello. O interrompere la sua attività. Il dispositivo che doveva tenere la porta aperta per dieci secondi dopo l'immissione del codice era guasto e non era ancora stato riparato, così Benke fu costretto a tenere aperta la porta con una mano e tirare la lettiga all'interno con l'altra. La lettiga andò a sbattere contro lo stipite e Benke inveì. Al reparto chirurgia lo avrebbero fatto riparare entro un'ora. Poi vide qualcosa di strano. Sul lenzuolo, a sinistra della forma che corrispondeva alla testa dell'uomo, c'era una macchia marrone. Quando Benke si chinò in avanti per vedere, la porta si chiuse alle sue spalle. La macchia cresceva lentamente. Sta sanguinando. Benke non era tipo da spaventarsi facilmente. Inoltre, una cosa simile era capitata altre volte. Con tutta probabilità, un accumulo di sangue nel cranio era stato liberato quando la lettiga era andata a sbattere contro la porta. La macchia sul lenzuolo continuava ad allargarsi.
Benke andò all'armadietto del pronto soccorso e prese un cerotto chirurgico e una benda di garza. Aveva sempre considerato la presenza di quell'armadietto in un posto come quello abbastanza comica, ma ovviamente era stato messo lì in caso una persona viva si fosse fatta male schiacciandosi un dito o qualcosa di simile. Mise una mano sul lenzuolo poco sopra la macchia. Naturalmente non aveva paura dei cadaveri, ma quello aveva un aspetto orribile. E Benke era costretto a bendarlo. Voleva evitare di essere rimproverato per avere lasciato che il sangue colasse sul pavimento. Deglutì e alzò il lenzuolo. Il volto dell'uomo era indescrivibile. Era impossibile capire come avesse potuto rimanere in vita per più di una settimana con un volto in quello stato. A parte un orecchio e un occhio, non c'era niente che ricordasse un essere umano. Avrebbero potuto mettergli una benda intorno al collo. L'occhio era aperto. Ovviamente. Non c'era abbastanza palpebra per chiuderlo. E si sarebbe detto che sul bianco dell'occhio si fossero formate delle sottili cicatrici. Benke staccò lo sguardo dall'occhio del cadavere e si concentrò su quello che doveva fare. La fonte della macchia sembrava essere la ferita sul collo. Si udì un suono molle, un plopp. Benke si girò rapidamente. Diavolo, era già abbastanza nervoso. Un altro plopp. Proveniva dai piedi. Abbassò lo sguardo. Una goccia di liquido cadde dalla lettiga e finì sulla sua scarpa. Plopp. Acqua? Controllò la ferita sul collo dell'uomo. Una pozza si era formata sotto il collo e scendeva lungo la sponda metallica della lettiga. Plopp. Benke spostò il piede. Un'altra goccia cadde sul pavimento di piastrelle. Plipp. Toccò la pozza con la punta dell'indice, lo strofinò contro il pollice. Non era acqua. Era un liquido viscoso, resistente, trasparente. Non aveva mai visto niente di simile. Quando abbassò nuovamente lo sguardo, vide che una piccola pozza si era formata anche sul pavimento. Il liquido non era trasparente, era di un rosa tenue. Assomigliava al sangue quando viene separato nelle sacche per le trasfusioni. Quello che rimane quando i globuli rossi scendono in fondo
alla sacca. Plasma. L'uomo sanguinava plasma. Capire come fosse possibile lo avrebbero scoperto gli esperti il giorno dopo, o meglio il giorno stesso. Il suo compito era di fermare il gocciolio per evitare che insozzasse tutto il pavimento. Adesso Benke avrebbe voluto essere a casa. Stendersi accanto a sua moglie che dormiva, leggere alcune pagine di un libro e poi addormentarsi. Piegò la garza diverse volte fino a ottenere una spessa compressa che posò sulla ferita. Come diavolo poteva fissarla con il cerotto? Anche i resti della gola dell'uomo erano così distrutti che era quasi impossibile trovare parti di pelle intatte per potervi fissare il cerotto. Al diavolo. Adesso voleva tornarsene a casa. Tagliò lunghi pezzi di cerotto e riuscì a piazzarli sulla compressa e sul collo. Domani gli avrebbero fatto un sacco di domande. Al diavolo. Sono un inserviente, non un chirurgo. Quando finì con la compressa, pulì la lettiga e il pavimento. Poi spinse la lettiga nella cella numero 4. Si strofinò le mani. Era fatta. Un lavoro ben fatto e una storia da raccontare per il futuro. Mentre controllava per l'ultima volta e spegneva la luce, iniziò a formularla. Ricordate quell'assassino che si è gettato dall'ultimo piano? Mi era stato affidato l'incarico di portarlo nelle celle frigorifere e così ho fatto, ma poi è successo qualcosa di strano... Prese l'ascensore fino alla sua stanza, si lavò le mani, si cambiò, e uscendo gettò il camice nel vagoncino della lavanderia. Andò al parcheggio, salì nella sua macchina e, prima di mettere in moto, fumò una sigaretta in santa pace. Quando finì, la spense nel posacenere che era già stracolmo e girò la chiave dell'accensione. Come sempre, quando faceva freddo e c'era umidità, il motore faceva i capricci. Ma alla fine si accendeva sempre. Bastava insistere un po'. Al terzo tentativo, quando il motore si mise in moto, fu colpito da un pensiero. Non si coagula. No. Il sangue che fuoriusciva dal collo dell'uomo non si sarebbe coagulato sotto la compressa. L'avrebbe bagnata completamente e poi avrebbe continuato a cadere sul pavimento e quando, alcune ore dopo, avrebbero aperto la porta... Merda!
Tolse la chiave dal blocchetto di accensione, la mise in tasca con un gesto di rabbia, scese dall'auto e si avviò verso l'ospedale. Il soggiorno non era vuoto quanto l'ingresso e la cucina. C'erano un divano, una poltrona e un grande tavolo con un gran numero di piccoli oggetti. Tre scatole di cartone per i traslochi erano impilate di fianco al divano. Una solitaria lampada a terra illuminava fiocamente il tavolo. Non c'era nient'altro. Niente tappeti, niente quadri, niente televisore. Spesse coperte erano appese alle finestre. Sembra la cella di una prigione. Una grande cella. Oskar fischiò per prova. Sì. Il fischio echeggiava, ma non troppo. Con tutta probabilità per via delle coperte. Posò la borsa vicino alla poltrona. Il rumore metallico dei piedini della borsa si udì distintamente. Oskar stava osservando gli oggetti sul tavolo, quando Eli entrò dalla stanza vicina. Adesso indossava una camicia a quadri troppo grande per lei. Oskar alzò la mano e la fece roteare per la stanza. «State per traslocare?» «No. Perché?» «Mi sembrava.» State? Aveva usato il verbo al plurale senza riflettere. Continuò a osservare gli oggetti sul tavolo. Si sarebbero detti giocattoli. Giocattoli antichi. «Quell'uomo che abitava qui prima. Era tuo padre?» «No.» «Anche lui era...?» «No.» Oskar annuì, si guardò nuovamente intorno. Era difficile credere che qualcuno potesse vivere in quel modo. A meno che... «Sei, come posso dire... povera?» Eli si avvicinò al tavolo, prese un oggetto che assomigliava a un uovo nero e lo diede a Oskar, che si chinò in avanti e lo mise sotto la lampada per vedere meglio. L'uovo era ruvido, e quando Oskar lo guardò più attentamente vide le centinaia di fili d'oro che lo ricoprivano. Era pesante, come tutti gli altri oggetti era di metallo. Lo girò e lo rigirò, vide che i fili d'oro si intrecciavano in vaghi intagli sulla sua superficie. Eli gli si mise a sedere accanto e Oskar sentì nuovamente quell'odore... l'odore di ruggine. «Quanto credi che possa valere?»
«Non saprei. Tanto?» «Ne esistono soltanto due. Se uno li avesse tutti e due, potrebbe venderli e comprarsi... una centrale nucleare, forse.» «No...?» «Non so. Quanto costa una centrale nucleare? Cinquanta milioni?» «Io credo che costi miliardi.» «Be', in questo caso non si potrebbe.» «Cosa te ne faresti di una centrale nucleare?» Eli si mise a ridere. «Mettilo fra le mani. Così. Chiudile. E adesso fallo girare.» Oskar fece quello che Eli gli aveva detto. Fece girare l'uovo lentamente fra le mani e sentì che si... schiudeva. Ansimando, tolse la mano. Adesso l'uovo non era altro che centinaia, migliaia di frammenti nella sua mano. «Scusa! Sono stato maldestro, io...» «Ssss. Deve essere così. Stai attento a non perdere i pezzi. Mettili qui.» Gli indicò un foglio bianco sul tavolo. Oskar trattenne il respiro e versò con la massima attenzione i frammenti sul foglio. I singoli pezzi non erano più grandi di gocce d'acqua e Oskar fu costretto a passare le dita della mano libera sull'altra per far cadere tutti i frammenti sul foglio. «Si è rotto.» Eli avvicinò la lampada in modo che la sua tenue luce illuminasse il mucchio di frammenti di metallo. Oskar si chinò in avanti. Un pezzo non più grande di una zecca era di fianco al mucchio, e quando guardò più attentamente, vide che aveva tacche e intagli su alcuni lati, sporgenze quasi microscopiche su un altro. Capì. «È un puzzle.» «Sì.» «Ma è possibile ricomporlo?» «Credo di sì.» «Ma ci vorrà un'eternità.» «Sì.» Oskar osservò alcuni frammenti sparsi nel mucchio. Sembravano identici al primo, ma quando osservò più da vicino, notò che avevano piccole variazioni. Le tacche non erano nello stesso posto, le sporgenze avevano un'altra angolazione. Vide anche un pezzo che aveva un lato liscio, fatta eccezione per un orlo dello spessore di un capello. Un pezzo esterno. Si appoggiò allo schienale della poltrona. «Credo che impazzirei.»
«Pensa a quello che lo ha fatto.» Eli alzò gli occhi al soffitto e tirò fuori la lingua con l'espressione di uno dei sette nani. Oskar scoppiò a ridere. Quando smise, il suono vibrava ancora sulle pareti. Desolato. Eli si mise a sedere sul divano incrociando le gambe, fissandolo incuriosita. Oskar volse lo sguardo e fissò il ripiano del tavolo, i giocattoli formavano un paesaggio di rovine. Desolato. All'improvviso si sentì nuovamente sfinito. Eli non era "la sua ragazza", non avrebbe potuto esserlo. Era... qualcos'altro. Fra loro c'era una grande distanza che non poteva... chiuse gli occhi. Si appoggiò allo schienale della sedia e il buio dietro le sue palpebre era la distanza che li divideva. Si appisolò, scivolando in un sogno momentaneo. Lo spazio fra loro si riempì di orribili insetti viscidi che volavano contro di lui e, quando furono più vicini, vide i loro denti. Alzò una mano per scacciarli e si svegliò. Eli era rimasta seduta sul divano e continuava a osservarlo. «Oskar, io sono una persona, proprio come te. Ma devi sapere che soffro di una... malattia insolita.» Oskar annuì. Un pensiero cercava di formarsi nella sua mente. Qualcosa. Un contesto. Non riuscì ad afferrarlo. Lo lasciò. Ma poi, l'altro pensiero si fece strada, quello orribile. Che Eli stesse soltanto fingendo. Dentro di lei c'era una persona vecchia che lo osservava, che sapeva tutto e lo derideva alle spalle. Non è possibile. Per fare qualcosa, prese il suo walkman dalla borsa, tolse la cassetta e lesse il titolo sul lato A: «Kiss - Unmasked». La girò, sul lato B: «Kiss Destroyer». Reinserì la cassetta nel walkman. Dovrei andare a casa. Eli si chinò in avanti. «Che cos'è?» «Questo? È un walkman.» «Serve ad ascoltare la musica?» «Sì.» Non sa niente, è super intelligente e non sa niente. Cosa fa durante il giorno? Dov'è la sua bara? Sì, proprio quella. Quando è stata nella mia camera non ha mai dormito. Rimaneva lì distesa nel mio letto aspettando che facesse giorno. Fuggire è vivere.
«Posso provare?» Oskar le porse il walkman. Eli lo prese e sembrava sapere quello che doveva fare, ma dopo avere messo gli auricolari lo guardò incerta. Oskar indicò i tasti. «Devi schiacciare quello dove c'è scritto play.» Eli fissò i tasti e poi spinse quello che lui le aveva indicato. Oskar provò una sensazione di calma. Questa era una cosa normale, far ascoltare la musica a un'amica. Si chiese cosa avrebbe pensato Eli dei Kiss. La musica partì; seduto sulla poltrona, Oskar sentì il suono della chitarra, della batteria, la voce che urlava. Eli era capitata nel mezzo di una delle canzoni più pesanti. Sbarrò gli occhi, urlò di dolore e Oskar, scioccato, si gettò all'indietro sulla poltrona. Riuscì a evitare di cadere e, in quel momento, vide che Eli si strappava gli auricolari dalle orecchie con una tale forza da staccare i fili, li gettava via e si portava le mani alle orecchie, singhiozzando. Oskar rimase a fissare gli auricolari sul pavimento con la bocca aperta. Si alzò e andò a raccoglierli. Erano rovinati. Li mise sul tavolo e tornò a sedersi sulla sedia. Eli tolse le mani dalle orecchie. «Scusami... Mi facevano così male.» «Non fa niente.» «Costano molto?» «No.» Eli si alzò, mise una mano nella scatola di cartone da trasloco più in alto, tirò fuori alcune banconote e le porse a Oskar. «Ecco.» Oskar prese le banconote e le contò. Tre da mille corone e due da cento. Provò un senso di paura indefinita, fissò la scatola da dove Eli aveva preso le banconote. «Io... l'ho pagato soltanto cinquanta corone.» «Prendile ugualmente.» «Ma... si sono rotti soltanto gli auricolari...» «Prendile. Per favore.» Oskar esitò, poi arrotolò le banconote e le mise in tasca traducendole in volantini pubblicitari. Circa un anno di sabati, forse venticinquemila volantini distribuiti. Centocinquanta ore. Una fortuna. Tenne la mano in tasca sulle banconote per qualche secondo. «Grazie.»
Eli annuì, prese dal tavolo quella che si sarebbe detta una massa aggrovigliata di fili, ma che probabilmente era una specie di puzzle. Oskar la osservò mentre era occupata a smuovere i nodi dei fili. La testa piegata, le dita sottili che si muovevano velocemente. Ripensò a tutto quello che gli aveva raccontato. Suo padre, la zia in città, la scuola che frequentava. Tutte menzogne. E dove ha preso tutti quei soldi? Li ha rubati? La sensazione era così insolita che in un primo momento non riuscì a capire cosa fosse. Era iniziata come una sorta di formicolio sulla pelle, poi era penetrata nella carne creando un arco freddo e pungente dallo stomaco alla testa. Era arrabbiato. Non disperato o timoroso. Arrabbiato. Perché gli aveva mentito, e poi: a chi aveva rubato il denaro? Da qualcuno che lei...? Oskar incrociò le mani sulla pancia e si appoggiò all'indietro. «Tu uccidi le persone.» «Oskar...» «Se questo è vero, tu devi uccidere delle persone. E rubare i loro soldi.» «Il denaro mi è stato dato.» «Tu menti. Sempre.» «È vero.» «Cos'è vero? Che menti?» Eli posò il groviglio di fili sul tavolo e lo fissò con un'espressione ferita. «Cosa vuoi che faccia?» chiese allargando le braccia. «Dammi una prova.» «Di cosa?» «Che tu sei... quello che dici di essere.» Eli lo fissò a lungo. Poi scosse il capo. «Non voglio.» «Perché no?» «Indovina.» Oskar abbassò la testa. Con la mano sentiva le banconote nella tasca. Davanti a sé vide i pacchi di volantini che sarebbero arrivati quel mattino. Che dovevano essere distribuiti prima di martedì. Una stanchezza profonda gli invase il corpo. La testa. Rabbia. «Indovina.» Un altro gioco. Altre menzogne. Voleva andarsene da lì. Voleva dormire. I soldi. Mi ha dato i soldi per farmi restare. Si alzò dalla poltrona, prese le banconote dalla tasca, le mise tutte sul tavolo eccetto una da cento corone.
«Adesso vado a casa» disse rimettendo le cento corone in tasca. Eli si chinò in avanti e gli afferrò il polso. «Rimani. Per favore.» «Perché? Non fai altro che mentire.» Cercò di liberarsi, ma Eli gli strinse ancora di più il polso. «Lasciami!» «Io non sono un mostro da circo!» Oskar strinse i denti e disse con calma: «Lasciami andare.» Eli non lasciò la presa. Il freddo arco di rabbia dentro di lui iniziò a vibrare, urlare, e si gettò su di lei. Oskar era su di lei e la fece cadere all'indietro sul divano. Pesava veramente poco e Oskar la immobilizzò contro il bracciolo del divano e si mise a sedere sul suo torace mentre l'arco si curvava, tremava, formando macchie nere davanti ai suoi occhi, e poi alzò il braccio e la colpì al volto con tutte le sue forze. Il suono dello schiaffo volò fra le pareti, la forza del colpo fece girare la testa di Eli di lato, gocce di saliva uscirono dalle sue labbra e nel momento stesso in cui Oskar percepì il bruciore sulla mano, l'arco si spezzò, andò in frantumi e la rabbia svanì. Rimase seduto su di lei, fissando confuso la testa minuta che ora era di profilo contro la fodera scura del divano, e poi una macchia rossa si formò sulla guancia dove l'aveva colpita. Eli rimaneva distesa immobile con gli occhi spalancati. Oskar le accarezzò il volto. «Scusa. Scusa. Io...» Improvvisamente, Eli si voltò di scatto, se lo scrollò di dosso e lo spinse contro il divano. Oskar cercò di afferrarle le spalle, ma mancò la presa e le sue mani finirono sui fianchi di Eli, che cadde con lo stomaco sul suo viso. Oskar la spinse via, si girò. Cercarono di afferrarsi. Continuarono a lottare rotolandosi sul divano. Seriamente, con tutte le loro forze. Ma entrambi attenti a non fare del male all'altro. Continuarono avvinghiati e andarono a sbattere contro il tavolo. Pezzi dell'uovo nero caddero sul pavimento con il suono di gocce di pioggia su un tetto di lamiera. Per un attimo pensò di andare a prendere il camice. Ma lasciò perdere. Il suo turno di lavoro era finito. Questo è il mio tempo libero e lo sto facendo per il piacere di farlo. Se necessario, avrebbe potuto prendere uno dei camici di riserva nel locale delle celle frigorifere. Salì sull'ascensore e spinse il pulsante. Cosa avrebbe potuto fare se quel liquido continuava a fuoriuscire? Chiedere a
qualcuno del pronto soccorso di venire? Non esistevano procedure precise per casi di quel genere. Probabilmente la perdita di sangue, o quello che era, era cessata, ma non poteva fare a meno di controllare. Se non lo avesse fatto, non sarebbe riuscito a dormire. Sarebbe rimasto disteso immaginando di sentire il rumore delle gocce che cadevano. Quando scese dall'ascensore sorrise fra sé. Quante persone normali sarebbero state pronte a occuparsi di una cosa simile senza tremare? Non molte. Provava una punta di orgoglio per quello che stava per fare. Era uno che conosceva il significato della parola dovere. Era uno che si prendeva le proprie responsabilità. Io non sono una persona comune. E non poteva negarlo: qualcosa dentro di lui sperava che... sì, che il sangue continuasse a colare costringendolo a telefonare al pronto soccorso, creando un po' di panico. Questo a dispetto della voglia di andare a casa a dormire. Così la storia che avrebbe potuto raccontare sarebbe stata più interessante, più completa. No, non era del tutto normale. Per lui, i cadaveri non erano un problema; macchine organiche con il cervello spento. Ma la cosa che lo disturbava leggermente erano tutti quei corridoi. Il solo pensiero della rete di tunnel che si snodava a dieci metri sotto il livello del suolo, le sale vuote, gli uffici amministrativi, gli faceva venire in mente l'Inferno. Era tutto così grande. Così tranquillo. Così deserto. In confronto i cadaveri sono l'immagine stessa della salute. Digitò il codice e, per abitudine, spinse il pulsante dell'apriporta guasto, ovviamente senza risultato. Aprì la porta manualmente ed entrò infilandosi un paio di guanti di gomma. Cosa diavolo...? L'uomo che aveva lasciato coperto dal lenzuolo ora era nudo, ben visibile. Il suo pene era eretto e puntava a sinistra. Il lenzuolo era sul pavimento. Quando aspirò profondamente, i suoi bronchi danneggiati dal fumo emisero un sibilo. L'uomo non era morto. No. Non era morto... perché si muoveva. Lentamente, quasi come in un sogno, l'uomo iniziò ad agitarsi. Le braccia si mossero, e quando quella che non sembrava neppure una mano gli sfiorò il volto, Benke fece istintivamente un passo indietro. L'uomo cercò di alzarsi, ma cadde subito all'indietro. Il suo unico occhio guardava fisso davanti a sé.
Un suono. L'uomo aveva emesso un suono. «Eeeeeeeeeee...» Benke si passò una mano sulla faccia. Alla sua pelle era successo qualcosa. La mano era... la alzò e la fissò. I guanti di gomma. Fra le dita della mano vide che l'uomo stava cercando nuovamente di sollevarsi. Cosa diavolo devo fare? L'uomo ricadde all'indietro con un tonfo bagnato. Alcune gocce di quel liquido colpirono il volto di Benke. Cercò di toglierle con il guanto di gomma, ma riuscì soltanto a spalmarle. Si passò la manica della camicia sul viso. Dieci piani. È caduto dal decimo piano. Okay. Okay. Si è venuta a creare una situazione d'emergenza. Occupatene. Se l'uomo non era morto, stava certamente morendo. Aveva bisogno di cure. «Eeee...» «Sono qui. Ti aiuterò. Ti porterò al pronto soccorso. Non muoverti, non gridare...» Benke si avvicinò e mise le mani sul corpo dell'uomo che continuava a dimenarsi. La mano non deformata si mosse e gli afferrò il polso. Diavolo, che forza. Fu costretto a usare entrambe le sue per liberarsi dalla sua presa. L'unica cosa che poteva usare per tenerlo al caldo erano delle lenzuola. Benke andò a prenderne tre e le distese sul corpo, mentre quello continuava a dimenarsi come un verme infilzato in un amo, emettendo incessantemente quel suono. Benke si chinò su di lui per coprirlo, e l'altro sembrò essersi un po' calmato. «Adesso ti porto al pronto soccorso il più rapidamente possibile, okay? Cerca di non muoverti.» Spinse la lettiga verso la porta e, a dispetto delle circostanze, si ricordò che l'apriporta non funzionava. Andò alla testata della lettiga, aprì la porta e fissò il volto dell'uomo. Si pentì immediatamente di averlo fatto. La bocca, che non era una bocca, si stava aprendo. Lo strato di pelle della ferita rimarginata in parte si staccò con lo stesso suono che si sente quando si toglie la pelle di un pesce, alcune strisce di pelle rifiutavano di staccarsi e si tendevano, mentre il buco nella parte inferiore del volto continuava ad aprirsi. «AAAAAA!»
L'urlo echeggiò nei corridoi deserti e il cuore di Benke iniziò a battere più rapidamente. Stai fermo! Non gridare! Se in quel momento avesse avuto un martello in mano, avrebbe quasi sicuramente colpito quella massa rivoltante con il suo occhio spalancato, con le sue strisce di pelle su quel buco che si tendevano come un guanto di gomma tirato all'inverosimile. Benke vide i denti bianchi luccicare su quella massa fluida rosso-brunastra che era stata un volto. Spinse la lettiga nel corridoio in direzione dell'ascensore. Andava quasi di corsa per paura che l'uomo potesse girarsi e cadere. Arrivato all'ascensore, spinse il pulsante di chiamata e visualizzò mentalmente il percorso fino al pronto soccorso. Sarebbe arrivato lì in cinque minuti. Già al pianterreno c'erano altre persone che avrebbero potuto aiutarlo. Due minuti ancora e sarebbe tornato alla realtà. Forza, maledetto ascensore! La mano sana dell'uomo fece un cenno. Benke la guardò, chiuse gli occhi, li riaprì. L'uomo stava cercando di dire qualcosa. Fece cenno a Benke di avvicinarsi. Dunque era conscio. Benke si avvicinò alla lettiga e si chinò sull'uomo. «Sì. Cosa c'è?» All'improvviso la mano lo afferrò alla nuca e gli portò la testa in basso. Benke perse l'equilibrio e cadde sull'uomo. La presa della mano era ferrea e continuava a spingergli la testa in basso... in basso verso il buco. Benke cercò di afferrare la barra di acciaio della testata della lettiga per liberarsi, ma l'uomo gli fece girare la testa di lato e gli occhi finirono a pochi centimetri dalla compressa fradicia sul suo collo. «Lasciami, per...» Un dito si infilò nel suo orecchio e Benke sentì il rumore dell'osso del canale uditivo che si spezzava, mentre il dito continuava a premere più in fondo. Iniziò a scalciare con i piedi, e quando il suo stinco colpì la barra di acciaio del telaio della lettiga riuscì finalmente a urlare. Poi i denti azzannarono la sua guancia e il dito nel suo orecchio aveva raggiunto un punto dove spense qualcosa, qualcosa si spense e... Benke smise di muoversi. L'ultima cosa che vide fu la compressa davanti ai suoi occhi che cambiava colore, diventando rosso chiaro mentre l'uomo continuava a mangiare il suo volto.
L'ultimo suono che udì fu un pling, e l'ascensore si fermò. Erano distesi sul divano l'uno accanto all'altra, sudando e ansimando. Oskar aveva male in tutto il corpo ed era sfinito. Fece uno sbadiglio talmente grande che le sue mascelle fecero crac. Eli sbadigliò a sua volta. Oskar si girò verso di lei. «Piantala.» «Prego?» «Tu non hai sonno, non è così?» «No.» Oskar doveva fare uno sforzo per tenere gli occhi aperti, parlava senza quasi muovere le labbra. Il volto di Eli iniziava a essere sfuocato, irreale. «Come fai? Per trovare sangue?» Eli lo fissò. A lungo. Poi prese una decisione, e Oskar vide che qualcosa si muoveva all'interno delle sue guance, delle labbra, come se stesse passandovi sopra la lingua. Poi schiuse le labbra, aprì la bocca. E Oskar vide i suoi denti. Eli richiuse la bocca. Oskar girò la testa e fissò il soffitto. Il filo polveroso di una ragnatela pendeva dalla lampada. Non aveva neppure la forza di essere sorpreso. Sì. Eli era un vampiro. Ma questo lo sapeva già. «Siete in tanti?» «Tanti chi?» «Lo sai.» «No, non lo so.» Oskar lasciò scorrere lo sguardo sul soffitto alla ricerca di altre ragnatele. Ne scoprì due. Gli sembrò di vedere un ragno muoversi. Chiuse gli occhi. Sbatté le palpebre. Gli occhi erano come pieni di sabbia. Niente ragno. «Come devo chiamarti adesso?» «Eli.» «È veramente il tuo nome?» «Quasi.» «Allora come ti chiami?» Una pausa. Eli si spostò leggermente verso lo schienale del divano e si mise su un fianco. «Elias.» «Ma è un nome... da ragazzo.» «Sì.» Oskar chiuse gli occhi. Non aveva più forza. Le palpebre si erano incol-
late ai globi oculari. Un buco nero iniziò a crescere, ad abbracciare tutto il suo corpo. La vaga impressione di dover dire qualcosa, fare qualcosa, era da qualche parte in fondo alla sua testa. Il buco nero esplose come al rallentatore. Oskar fu risucchiato in avanti, dentro, fece una lenta capriola nello spazio, e poi nel sonno. Senti che qualcuno gli accarezzava una guancia in un mondo lontano. Non riuscì a formulare il pensiero che, come sentiva, doveva essere suo. Ma da qualche parte, su un pianeta lontano, qualcuno gli stava accarezzando la guancia. Ed era bello. Poi rimasero soltanto le stelle. PARTE QUARTA Ecco la compagnia del folletto Ecco la compagnia del folletto che non lascia mai passare nessuno. Bamse nella foresta dei folletti* * Popolare fumetto svedese per bambini [N.d.T.]. Domenica 8 novembre Il ponte di Traneberg. Quando fu inaugurato, nel 1934, era l'orgoglio della nazione. Il più grande ponte di cemento a campata singola del mondo. Un unico arco gettato fra Kungsholmen e i sobborghi a ovest della capitale, che a quei tempi erano le piccole città giardino di Bromma e Äppelviken. E Ängby, dove era nato il Movimento delle villette prefabbricate monofamigliari. Ma la modernità era già in marcia. I primi veri sobborghi con case di tre piani erano già stati costruiti a Traneberg e ad Abrahamsberg, e lo stato aveva acquistato grandi appezzamenti di terreno più a ovest per iniziare a costruire, entro pochi anni, i quartieri che sarebbero stati conosciuti con il nome di Vällingby, Hässelby e Blackeberg. Per tutti, il ponte di Traneberg costituiva il raccordo. Quasi tutti quelli che dovevano andare o venire dai sobborghi della capitale, passavano su quel ponte. Già negli anni Sessanta, iniziarono ad arrivare i primi rapporti inquietan-
ti sulle condizioni del ponte che stava disintegrandosi lentamente per via dell'intenso traffico al quale era sottoposto. Fu dato il via a lavori di rinforzo e ammodernamento, ma le proposte di rinnovo e ricostruzione erano ancora lontane a venire. Così, quella mattina di domenica 8 novembre 1981, il ponte aveva un aspetto stanco. Un vecchio stanco della vita che pensava ai tempi in cui i cieli erano più luminosi e le nuvole meno pesanti, cioè quando era ancora il più grande ponte di cemento a campata singola del mondo. La neve aveva iniziato a sciogliersi il mattino presto, e la poltiglia cominciava a infiltrarsi fra le crepe del ponte. Le autorità della città avevano evitato di usare il sale per timore che potesse corrodere ulteriormente il vecchio cemento. Come sempre di domenica, a quell'ora non c'era molto traffico. I convogli della metropolitana non circolavano ancora e i pochi automobilisti che transitavano avevano nostalgia dei propri letti caldi. Benny Melin era un'eccezione. Okay, ovviamente pensava al suo letto a casa, ma era troppo felice per pensare a dormire. Era l'ottava volta che incontrava una donna tramite gli annunci sui giornali, ma Betty, con la quale era uscito sabato sera, era la prima... sì, la prima con la quale aveva provato quel qualcosa di diverso. Entrambi sapevano che sarebbe stato qualcosa di speciale. Erano morti dal ridere pensando a quanto fosse comico chiamarsi Benny e Betty. Come una coppia di comici da varietà, ma cosa potevano farci? E se avessero avuto dei bambini, come li avrebbero chiamati? Lenny e Netty? Sì, si erano veramente divertiti insieme. Erano rimasti nell'appartamento di Betty a Kungsholmen e si erano raccontati i rispettivi mondi, cercando di farli combaciare, con un discreto risultato. Alle prime luci dell'alba rimanevano soltanto due possibilità sul da farsi. E, anche se con un po' di rimpianto, Benny aveva scelto quella giusta. Le aveva detto arrivederci, dandole appuntamento per la domenica sera, poi era salito in macchina e si era avviato verso casa a Bromma, cantando I can't help falling in love with you ad alta voce. Perciò, quella domenica mattina, Benny non aveva niente di cui preoccuparsi, e ancora meno aveva ragione di pensare alle condizioni pietose del ponte di Traneberg. Dopotutto era il ponte che portava al Paradiso, all'amore. Era arrivato verso la fine del ponte, in direzione di Traneberg, e stava
per riprendere la canzone dall'inizio per la decima volta, quando i suoi fari illuminarono una figura blu al centro della carreggiata. Riuscì a pensare non frenare! prima di sollevare il piede dall'acceleratore e girare il volante a sinistra, quando rimanevano cinque metri fra lui e la figura. Prima che la macchina andasse a sbattere contro la barriera di cemento che divideva le due carreggiate, riuscì a intravedere una specie di cappotto blu e un paio di gambe bianche. Il rumore dell'auto che slittava sfregando schiacciata contro la barriera era assordante. Lo specchietto laterale si staccò e rotolò via, e la portiera arrivò quasi a toccare il suo fianco. Poi la macchina fu nuovamente proiettata al centro della carreggiata. Benny cercò di controllare lo slittamento, ma l'auto scivolò contro il guardrail lungo la pista ciclabile e pedonale. L'altro specchietto laterale si staccò e volò sopra il parapetto, riflettendo le luci del ponte verso il cielo. Benny toccò appena il pedale del freno e l'auto sbandò leggermente, sfiorando la barriera di cemento. Dopo circa cento metri, riuscì a fermare la macchina. Respirò profondamente e rimase immobile con le mani sul volante e la testa bassa. Il motore non si era spento. Sentì in bocca il sapore del sangue; si era morso il labbro inferiore. Quell'uomo deve essere completamente pazzo. Guardò nello specchietto retrovisore e, alla luce giallastra dei lampioni, lo vide mentre continuava a camminare al centro della carreggiata come se niente fosse successo. Benny andò su tutte le furie. Pazzo va bene, ma ci sono dei limiti. Cercò di aprire la portiera, ma non ci riuscì. La serratura era stata schiacciata. Si tolse la cintura di sicurezza e si trascinò sul sedile del passeggero. Prima di scendere, azionò le luci di emergenza. Scese e rimase in attesa accanto all'auto con le braccia incrociate. Vide che la persona che camminava al centro del ponte indossava una specie di camice da ospedale e nient'altro. I piedi e le gambe erano nudi. Benny voleva vedere se fosse possibile parlargli. Lui? La figura si avvicinava. La poltiglia di neve si sollevava a ogni suo passo, camminava come se avesse una fune intorno al petto che lo trascinava inesorabilmente in avanti. Benny fece un paio di passi verso la figura e si fermò. Ora era a una decina di metri di distanza e poteva vedere chiaramente il suo... volto.
Benny sussultò, si appoggiò alla macchina. Poi salì di corsa, raggiunse il posto di guida, inserì la prima e partì a tutta velocità. Gli spruzzi della neve sciolta sollevati dalle ruote posteriori raggiunsero la figura che continuava ad avanzare. Arrivato a casa, Benny si versò un grande bicchiere di whisky e ne bevve subito la metà. Poi telefonò alla polizia. Raccontò quello che aveva visto, quello che era successo. Quando, dopo avere bevuto l'ultimo sorso di whisky, aveva deciso di andare a letto a dispetto di tutto, la polizia si era già mossa in forze. Stavano setacciando la foresta di Judarn. Venti agenti e cinque cani poliziotto. Persino un elicottero, cosa insolita per quel tipo di ricerca. Un uomo ferito, confuso. Sarebbe bastato un solo poliziotto con un cane per scovarlo. Ma innanzitutto il caso aveva assunto un forte carattere mediatico - erano stati costretti a distaccare due agenti per occuparsi esclusivamente dei giornalisti che si affollavano intorno alle serre di Weibull, vicino alla stazione della metropolitana di Åkeshov -, e in secondo luogo la polizia voleva dimostrare di essere in grado di fare il massimo sforzo persino la domenica mattina. Inoltre, era stato ritrovato Bengt Edwards. Cioè: quello che si presumeva essere Bengt Edwards, dato che l'uomo ritrovato portava un anello nuziale con il nome «Gunilla» inciso all'interno. I suoi compagni di lavoro sapevano che Gunilla era il nome della moglie di Benke. Nessuno aveva il coraggio di telefonarle per dirle che Benke era morto ma che però non erano ancora sicuri che fosse lui. E, visto come stavano le cose, avrebbero dovuto chiederle di fornire una descrizione di eventuali segni particolari sulla parte inferiore del corpo. Il patologo, che era arrivato alle sette di mattina per occuparsi del cadavere dell'assassino degli omicidi rituali, dovette affrontare un nuovo compito. Se si fosse trovato davanti a quello che rimaneva di Bengt Edwards senza essere stato messo al corrente delle circostanze, avrebbe potuto dedurre che si trattava del corpo di un uomo rimasto all'aperto per diversi giorni con temperature polari. Durante quel periodo di tempo, il corpo avrebbe potuto essere stato mutilato da topi, volpi, forse anche da ghiottoni e orsi, ammesso che il verbo "mutilare" fosse corretto quando l'atto veniva commesso da animali. In ogni modo, gli animali da preda più grossi avrebbero potuto strappare pezzi
di carne in quel modo, mentre i piccoli roditori si sarebbero occupati delle parti sporgenti come il naso, le orecchie, le dita. Il rapporto preliminare che il patologo aveva consegnato piuttosto rapidamente era un altro motivo alla base della considerevole mobilitazione da parte della polizia. Nel linguaggio ufficiale, l'uomo che cercavano era descritto come estremamente violento. In parole povere, un maledetto pazzo furioso. Che fosse ancora in vita era considerato un miracolo. Non un miracolo del tipo caro al Vaticano, ma un miracolo in ogni caso. Prima della caduta dal decimo piano non era molto più di un vegetale, adesso era in piedi, camminava, e molto peggio. Ma non poteva essere in gran forma. Naturalmente, ora la temperatura era più mite, ma superava di poco i due gradi e lui indossava soltanto un camice da ospedale. Per quanto ne sapeva la polizia non aveva complici, ed era semplicemente impossibile che potesse rimanere nascosto nella foresta per più di qualche ora. La telefonata di Benny Melin era arrivata quasi un'ora dopo il suo incontro con l'uomo sul ponte di Traneberg. Ma soltanto alcuni secondi dopo la polizia aveva ricevuto una seconda telefonata da una donna anziana. Come ogni mattina, era uscita per portare il suo cane a fare una passeggiata, e aveva visto l'uomo con indosso il camice dell'ospedale nelle vicinanze delle stalle di Åkeshov, dove svernavano le pecore del re. La donna era tornata immediatamente a casa e aveva telefonato alla polizia. Dieci minuti dopo, una pattuglia era arrivata sul posto, e per prima cosa avevano controllato le stalle con le pistole in pugno. Prima che gli agenti riuscissero a controllare tutte le stalle, le pecore avevano avuto il tempo di innervosirsi, ed era tutto diventato una massa di corpi lanosi che belavano in coro con un tono quasi umano, attirando sul luogo altri poliziotti. Durante la perquisizione, un certo numero di pecore erano uscite dai recinti, e quando alla fine si era constatato che l'uomo non era nei paraggi, un montone sgambettò fuori dall'entrata principale. Un poliziotto anziano con sangue contadino nelle vene si gettò sul montone, lo afferrò per le corna e lo riportò all'ovile. Fu solo dopo avere chiuso la porta alle sue spalle che si rese conto che i lampi che aveva intravisto durante il suo intervento erano stati causati dai flash dei fotoreporter. Ma il fatto non lo aveva preoccupato più di tanto, pensando erroneamente che il caso era troppo serio perché la stampa deci-
desse di pubblicare una fotografia simile. Poco dopo però, i responsabili della polizia decisero di stabilire una sede per i giornalisti, al di fuori della zona delle ricerche. Ora erano le sette e mezza del mattino e l'alba arrivò strisciando sopra le cime degli alberi gocciolanti. La caccia al pazzo solitario era bene organizzata e in pieno svolgimento. La polizia era certa di poterlo catturare prima dell'ora di pranzo. Sì, dovevano passare ancora alcune ore di risultati negativi da parte della telecamera a raggi infrarossi dell'elicottero e dei nasi sensibili dei cani, prima che l'ipotesi che forse l'uomo non era più vivo iniziasse a farsi strada seriamente, e che si prendesse in considerazione che bisognava cercare un cadavere. Quando le prime pallide luci dell'alba filtrarono attraverso le fessure delle persiane e colpirono il palmo della sua mano bruciando come una lampadina accesa, Virginia voleva una sola cosa: morire. Eppure, ritirò la mano istintivamente e si trascinò in fondo alla stanza. Sulla pelle aveva più di trenta tagli. Nell'appartamento c'era sangue dappertutto. Durante la notte aveva continuato a tagliarsi le arterie per bere, ma non era riuscita a succhiare o leccare tutto il sangue che usciva. Qualcosa era caduto sul pavimento, sul tavolo, sulle sedie. Nel soggiorno, si sarebbe detto che qualcuno avesse macellato un cervo sul grande tappeto. La soddisfazione e il sollievo diminuivano a ogni nuovo taglio, e ogni volta che succhiava, il suo sangue diventava sempre più tenue. Verso il mattino, era ridotta a una massa gemente di astinenza e di angoscia. Angoscia perché sapeva cosa sarebbe stata costretta a fare per continuare a vivere. L'istinto si era fatto strada gradualmente, per diventare certezza. Il sangue di un'altra persona l'avrebbe... guarita. E sapeva che non sarebbe riuscita a togliersi la vita. Con tutta probabilità non era neppure possibile; i tagli che si infliggeva con il coltello da frutta si rimarginavano con insolita rapidità. Per quanto profondamente incidesse, il taglio smetteva di sanguinare entro un minuto. Un'ora dopo il tessuto delle cicatrici era già visibile. Inoltre... Aveva percepito qualcosa. Era stato verso il mattino, mentre era seduta su una sedia in cucina intenta a succhiare il sangue da una ferita nella piega del braccio - la seconda
volta in quel punto -, che era stata improvvisamente trascinata nel profondo del proprio corpo e aveva visto. L'infezione. Naturalmente non l'aveva vista, ma improvvisamente aveva avuto una percezione sempre più chiara di quello che era. Era come una donna incinta che vede sullo schermo dell'ecografo dentro il proprio ventre, riempito non da un feto nel suo caso, ma da un grande serpente che si contorceva. Ed era quel serpente che portava dentro di sé. Perché quello che aveva capito in quel momento era che l'infezione aveva una vita propria, una propria forza, completamente indipendente dal suo corpo. Che l'infezione avrebbe continuato a vivere anche se lei moriva. La madre sarebbe morta per lo shock di quello che aveva visto sullo schermo, ma il serpente avrebbe preso il controllo del suo corpo. Per questo il suicidio sarebbe stato inutile. L'unica cosa che l'infezione sembrava temere era la luce del sole. Il pallido raggio di luce sulla sua mano le aveva fatto più male della più profonda delle ferite che si era inferta. Rimase rannicchiata in un angolo del soggiorno a lungo, osservando come la luce che filtrava dalle fessure delle persiane aveva iniziato a formare una grata sul tappeto macchiato. Pensò a Ted, il suo nipotino. Alla sua abitudine di strisciare fino al punto illuminato dal sole del pomeriggio per poi addormentarsi in quella specie di pozza di luce con il pollice in bocca. Quella pelle nuda, soffice, quella pelle così sottile che sarebbe bastato... COSA STO PENSANDO! Virginia sussultò, lo sguardo fisso nel vuoto. Aveva visto Ted e si era immaginata come lei... NO! Si colpì alla testa. Continuò a farlo finché l'immagine non andò in frantumi. Ma non avrebbe mai più potuto incontrarlo. Non avrebbe mai più potuto incontrare le persone che amava. Non potrò mai più incontrare quelli che amo. Virginia costrinse il suo corpo ad alzarsi, si trascinò lentamente verso la grata di luce. L'infezione protestava e voleva fermarla, ma lei era più forte, aveva ancora il controllo del proprio corpo. La luce le faceva bruciare gli occhi, le barre della grata bruciavano le sue cornee come fili di acciaio incandescenti. Brucia! Brucia! Brucia!
Il suo braccio destro era coperto di cicatrici, di sangue coagulato. Lo alzò verso la luce. Non avrebbe mai potuto immaginare. Quello che la luce le aveva fatto il sabato era una carezza. Ora, una fiamma ossidrica si accese sotto la sua pelle. Dopo un secondo era diventata bianca come il gesso. Dopo due secondi aveva iniziato a fumare. Dopo tre secondi si era formata una bolla che si annerì immediatamente e scoppiò con un sibilo. Al quarto secondo ritirò il braccio e strisciò piangendo fino alla camera da letto. L'odore di carne bruciata impestava l'aria, si distese sul letto senza avere il coraggio di guardarsi il braccio. Riposare. Ma il letto... A dispetto delle persiane abbassate, c'era troppa luce nella stanza. Anche se si copriva il volto con il piumone, si sentiva troppo esposta. Le sue orecchie captavano ogni singolo rumore del mattino proveniente dalla casa, e ogni suono era una potenziale minaccia. Qualcuno stava camminando sul pavimento sopra di lei. Sussultò, girò la testa verso quei suoni, rimase in ascolto. Un cassetto si aprì, un tintinnio di metallo dall'appartamento al piano superiore. Cucchiaini da caffè. Dal rumore delicato riusciva a capire che si trattava di cucchiaini da caffè. Vide davanti a sé il cofanetto rivestito di velluto con i cucchiaini da caffè che sua nonna materna le aveva regalato quando si era ritirata in una casa di riposo. Virginia aveva aperto il cofanetto, aveva guardato i cucchiaini e si era resa conto che non erano mai stati usati. Pensava a questo mentre scivolava giù dal letto con il piumone sulle spalle e si trascinava verso il guardaroba a due ante e poi lo apriva. Sul fondo c'erano un piumone di riserva e due coperte. Quando aveva osservato quei cucchiaini aveva provato un senso di tristezza. Erano rimasti in quel cofanetto per sessant'anni senza che nessuno li avesse mai presi in mano e usati. Udì altri rumori, la casa si stava svegliando. I rumori svanirono quando spostò il piumone e le due coperte, si infilò nel guardaroba e chiuse le porte. All'interno era buio pesto. Mise il piumone e le due coperte sulla testa e si rannicchiò come una larva in un doppio bozzolo. Mai e poi mai. Fragili cucchiaini d'argento. Adagiati su un letto di velluto, in parata,
sull'attenti. Strinse il piumone sul volto. A chi andranno adesso? A sua figlia. Sì. Li avrebbe avuti Lena e li avrebbe usati per dare da mangiare a Ted. Allora i cucchiaini sarebbero stati felici. Da quei cucchiaini Ted avrebbe mangiato bocconi di purè. Così era giusto. Rimase immobile come un masso, un senso di calma le invase il corpo. Prima di sprofondare nel sonno, riuscì a formulare un ultimo pensiero: Perché non fa caldo? Con il piumone sulla testa e su tutto il corpo avrebbe dovuto sudare abbondantemente. La domanda aleggiò sonnolenta in un grande spazio vuoto, atterrando alla fine in una risposta molto semplice. Perché non sto respirando da diversi minuti. E neppure ora, consapevole di questo, aveva bisogno di farlo. Non provava alcun senso di soffocamento, nessuna mancanza di ossigeno. Non aveva più bisogno di respirare, ecco tutto. La messa iniziava alle undici, ma già alle dieci e un quarto Tommy e Yvonne erano sul marciapiede della stazione di Blackeberg in attesa della metropolitana. Staffan, che cantava nel coro della chiesa, aveva raccontato a Yvonne quale sarebbe stato il tema della predica odierna. Yvonne lo aveva detto a Tommy e gli aveva chiesto, cautamente, se voleva accompagnarla. Con sua grande sorpresa, Tommy aveva accettato. Il tema della predica era la gioventù moderna. Usando come punto di partenza il passaggio del Vecchio Testamento che descriveva l'esodo degli israeliti dall'Egitto, il prete, con l'aiuto di Staffan, aveva preparato una predica incentrata sull'idea delle stelle guida. In altre parole, cosa un giovane di oggi poteva vedere davanti a sé per farsi guidare attraverso il deserto, e così di seguito. Tommy aveva letto quel passaggio nella Bibbia e aveva detto a sua madre che l'avrebbe accompagnata volentieri. Così, quella domenica mattina, quando il convoglio uscì sferragliando dal tunnel, spingendo davanti a sé un cilindro di aria calda che smosse i loro capelli, Yvonne era raggiante di felicità. Fissò suo figlio che le era al fianco con le mani sprofondate nelle tasche della giacca. Andrà tutto bene. Sì. Il fatto che avesse accettato di andare con lei alla messa era più che sufficiente. Poteva significare che aveva iniziato ad accettare Staffan, non
era così? Salirono sul vagone, si misero a sedere uno di fronte all'altra accanto a un uomo anziano. Mentre aspettavano, avevano parlato di quello che avevano sentito alla radio quel mattino stesso, la caccia all'assassino rituale nella foresta di Judarn. Yvonne si chinò in avanti. «Credi che riusciranno a catturarlo?» Tommy scrollò le spalle. «È probabile. Ma è una grande foresta, e... devi chiedere a Staffan.» «Trovo che sia una cosa orribile. Pensa se venisse qui.» «Cosa verrebbe a fare qui? Però, sì. Cosa può essere andato a fare in quella foresta? Può benissimo venire anche qui.» «Uuh.» L'uomo anziano si raddrizzò sul sedile e fece un gesto come se volesse togliersi qualcosa dalla spalla. «Ci si può chiedere se un tipo così sia veramente un essere umano» disse. Tommy alzò lo sguardo. Yvonne si girò, disse «mmm» e sorrise. L'uomo lo interpretò come un segno di incoraggiamento a continuare. «Quello che voglio dire è... prima quegli atti terribili, e poi... nel suo stato... No, ripeto, non è un essere umano, e io spero che la polizia gli spari a vista.» Tommy annuì, fingendo di essere d'accordo. «O che lo impicchino all'albero più vicino.» L'uomo si stava eccitando. «Precisamente. È quello che ho detto sin dall'inizio. Avrebbero dovuto fargli un'iniezione letale quando era in ospedale, proprio come fanno con i cani pazzi. Così non saremmo costretti a vivere in questo stato di continuo terrore e ad assistere allo spettacolo della polizia che gli dà la caccia in preda al panico a spese dei contribuenti. Un elicottero. Sì, sono appena passato davanti ad Åkeshov e ho visto l'elicottero della polizia. Questo possono permetterselo. Ma dare ai pensionati una pensione che gli permetta di vivere decentemente dopo una vita al servizio della società, non è possibile. Però, mandare su un elicottero che va in giro a spaventare gli animali...» Il monologo continuò fino a Vällingby, dove Yvonne e Tommy scesero mentre il vecchio rimaneva sul vagone. Era il capolinea, e il convoglio sarebbe tornato indietro. Molto probabilmente, l'uomo aveva intenzione di ripercorrere il tragitto a ritroso per rivedere l'elicottero, continuando forse il suo monologo con un pubblico diverso.
Staffan li stava aspettando fuori dalla chiesa di St. Thomas, una costruzione moderna che ricordava un mucchio di mattoni impilati a casaccio. Indossava un vestito e una cravatta a strisce blu e gialle che richiamava un poster di propaganda della guerra che Tommy aveva visto su una rivista: «Un leone svedese». Quando li scorse, Staffan si illuminò e gli andò incontro. Abbracciò Yvonne e poi strinse la mano a Tommy. «Sono felice che siate venuti. E specialmente tu, Tommy. Cosa ti ha fatto...?» «Volevo vedere com'era.» «Mmm. Spero che ti piaccia. E di vederti qui ancora.» Yvonne mise una mano sulla spalla di Tommy. «Ha letto quel passaggio della Bibbia... quello di cui parlerete.» «Davvero? Be', mi fa piacere. Fra l'altro, Tommy, non sono riuscito a ritrovare il trofeo. Ma... direi di non pensarci più. Tu cosa ne dici?» «Mmm.» Staffan aspettò che Tommy continuasse, ma Tommy non disse nulla, e lui si rivolse a Yvonne. «Avrei dovuto essere ad Åkeshov in questo momento, ma non volevo perdere questa occasione. Ma appena finirà dovrò andarmene immediatamente, così voi dovrete...» Tommy entrò nella chiesa. Soltanto pochi anziani erano seduti sui banchi volgendogli le spalle. A giudicare dai cappellini dovevano essere prevalentemente donne. La chiesa era illuminata dalla luce gialla di lampade sospese sulle pareti. Al centro, un tappeto rosso con figure geometriche correva fra i banchi fino all'altare di marmo con composizioni floreali ai lati. Sopra l'altare c'era una grande croce di legno con una figura moderna di Gesù. L'espressione del suo volto poteva sembrare sardonica. Vicino all'entrata, dove si trovava Tommy, c'era un espositore con delle brochure, una cassetta per le elemosine e il fonte battesimale. Tommy vi si avvicinò e guardò all'interno. Perfetto. Esattamente quello che aveva sperato, quasi troppo perfetto per essere vero. Non c'era acqua. L'intero fonte era stato scolpito da un unico blocco di granito e arrivava alla vita di Tommy. La superficie della conca grigio scuro era ruvida e non c'era una sola goccia d'acqua. Okay. Adesso. Dall'interno della giacca prese un sacchetto di plastica da due litri pieno
di una polvere bianca e si guardò intorno. Nessuno guardava nella sua direzione. Fece un buco nel sacchetto con un dito e lasciò scorrere il contenuto nella conca. Poi, ripose il sacchetto vuoto in tasca e usci cercando di trovare una scusa adatta per non sedere vicino a sua madre, voleva rimanere nei pressi del fonte battesimale. Avrebbe potuto dire che voleva andarsene senza disturbare perché trovava tutto troppo noioso. Era una buona scusa. Era... perfetta. Oskar aprì gli occhi e fu colto dal panico. Non sapeva dove si trovava. La stanza era avvolta nella penombra e non riconosceva le pareti nude. Era disteso sul divano, coperto da un piumone maleodorante. Le pareti fluttuavano davanti ai suoi occhi, si libravano nell'aria mentre cercava di metterle nel posto giusto, organizzarle fino a che non avessero ricostituito una stanza che riconosceva. Non ci riuscì. Tirò su il piumone fino al naso, un odore di muffa gli riempì le narici, cercò di calmarsi, di smetterla di pensare alle pareti della stanza, e di ricordare. Sì. Adesso ricordava. Papà. Janne. L'autostop. Eli. Il divano. La ragnatela. Alzò gli occhi al soffitto. I fili polverosi della ragnatela erano lì, appena visibili nella penombra. Si era addormentato con Eli accanto. Quanto tempo era passato da allora? Era mattina. Le finestre erano oscurate da coperte, ma ai lati poteva intravedere vaghe strisce di luce grigia. Si liberò dal piumone e andò alla finestra del balcone. Scostò la coperta. Le persiane erano abbassate. Le sollevò leggermente. Sì, era mattina. La testa gli doleva e la luce gli irritava gli occhi. Sussultò e iniziò ad ansimare, lasciò cadere il lembo della coperta e si passò le mani sulla gola. No. Naturalmente no. Eli aveva detto che non avrebbe mai... Ma dov'era? Oskar si guardò intorno; i suoi occhi si fermarono sulla porta chiusa della stanza dove Eli era andata a cambiarsi. Fece alcuni passi in quella direzione, si fermò. La porta era nell'ombra. Strinse i pugni e portò quello destro alla bocca. E se avesse veramente dormito in una bara? Ridicolo. Perché avrebbe dovuto fare una cosa simile? Perché i vampiri lo fanno? Perché sono morti. Ed Eli aveva detto di non essere...
Ma se... Passò la lingua sulle nocche della mano. Il suo bacio. Il tavolo imbandito. Solo il fatto che potesse fare una cosa simile. E... i denti. I denti di un animale da preda. Se solo ci fosse stata un po' più di luce. Di fianco alla porta c'era l'interruttore della lampada al soffitto. Lo spinse sicuro che non sarebbe successo niente. Invece la lampadina si accese. Socchiuse gli occhi aspettando che si abituassero alla luce e poi raggiunse la porta e posò la mano sulla maniglia. La luce non migliorava per niente le cose. Al contrario, adesso che la porta non era altro che una porta, era tutto ancora più orribile. Era esattamente uguale a quella della sua camera. La maniglia gli procurava la stessa sensazione alla mano. E se Eli era distesa lì dentro? Con le braccia incrociate sul petto. Devo vedere. Spinse la maniglia in basso e sentì che faceva una leggera resistenza. Dunque, la porta non era chiusa a chiave. Altrimenti, la maniglia si sarebbe semplicemente abbassata. Spinse fino in fondo e la porta si schiuse, si aprì. Al di là, la camera era al buio. Aspetta! Se avesse aperto la porta completamente, forse la luce avrebbe potuto farle male. No. La sera prima era rimasta seduta di fianco alla lampada a terra senza che le desse apparentemente fastidio. Ma forse la luce di quella lampada era più forte e magari... la lampada a terra era speciale, una lampada che i vampiri possono sopportare. Troppo ridicolo. «Qui si vendono lampade speciali per vampiri». E se poteva danneggiarla, non avrebbe certamente lasciato al suo posto la lampada sul soffitto. Comunque, aprì la porta con cautela, facendo in modo che la luce filtrasse lentamente. La stanza era vuota come il soggiorno. Un letto e un mucchio di indumenti, nient'altro. Sul letto c'erano soltanto il lenzuolo e un cuscino. Il piumone che aveva usato Oskar probabilmente veniva da qui. Sulla parete poco sopra il letto c'era un foglio di carta fissato con il nastro adesivo. L'alfabeto Morse. Era lì che Eli rimaneva distesa quando inviava i messaggi. Respirò profondamente. Se ne era dimenticato.
Al di là di questo muro c'è la mia camera. Sì. Si trovava a due metri di distanza dal proprio letto, dalla propria vita normale. Si distese sul letto di Eli e fu colto dalla tentazione di inviare un messaggio. A Oskar. Al di là del muro. Cosa avrebbe potuto dire? D.O.V.E. S.E.I. Portò nuovamente le nocche della mano destra alla bocca. Lui era lì. Ma Eli no. La testa gli girava, era confuso. Appoggiò la testa al cuscino, lo sguardo rivolto verso la stanza. Il cuscino aveva un odore strano. Come quello del piumone, ma più intenso. Un odore grasso, stantio. Fissò il mucchio di indumenti sul pavimento a un paio di metri di distanza dal letto. È disgustoso. Non voleva più rimanere lì. L'appartamento era troppo silenzioso, vuoto e così... anormale. Il suo sguardo scivolò al di là del mucchio di indumenti e si fermò sul guardaroba che copriva la parete opposta fino alla porta. Due armadi doppi e uno semplice. Lì. Piegò le gambe contro lo stomaco, lo sguardo fisso sulle porte chiuse degli armadi. Non voleva. Aveva dolori allo stomaco. Provò una fitta nel basso ventre. Doveva urinare. Si alzò dal letto, si avvicinò alla porta senza distogliere lo sguardo dal guardaroba. Ce n'erano due simili nella sua stanza, e sapeva che lì dentro c'era spazio a sufficienza per Eli. Sì, lei era lì dentro e Oskar non voleva più vedere. Anche la lampada in ingresso funzionava. La accese e percorse il breve corridoio fino al bagno. La porta era chiusa. L'indicatore sopra la maniglia era sul rosso. Oskar bussò alla porta. «Eli?» Nessuna risposta. Bussò nuovamente. «Eli, sei lì?» Niente. Ma quando disse il suo nome ad alta voce, si ricordò che era sbagliato. Era stata l'ultima cosa che gli aveva detto quando erano rimasti distesi sul divano. Che il suo vero nome era... Elias. Elias. Un nome da ragazzo. Eli era un ragazzo? Si erano baciati ed erano rimasti distesi sullo stesso letto e... Oskar mise le mani sulla porta e poi vi appoggiò la fronte. Pensava. Si
sforzava. E non riusciva a capire. In qualche modo poteva accettare che lei fosse un vampiro, ma che fosse un ragazzo era... più difficile. Conosceva la parola. Frocio. Maledetto frocio. Così diceva Jonny. È peggio essere un frocio che essere... Bussò nuovamente alla porta. «Elias?» Quando pronunciò quella parola, provò un vuoto allo stomaco. No. Non sarebbe riuscito ad abituarsi. Lei... lui si chiamava Eli. Ma era troppo. A parte quello che Eli poteva essere, era troppo. Non poteva. Non c'era niente di normale in lei. Spostò le mani dalla fronte e le mise sul basso ventre. Udì dei passi sul pianerottolo e poi la buca delle lettere che veniva spinta, un tonfo. Lasciò la porta del bagno e andò a vedere cosa fosse. Volantini pubblicitari. «TRITATO DI MANZO 14.90/KG» Caratteri cubici rossi. Raccolse i volantini e capì; mise l'occhio sul buco della serratura e sentì il rumore dei passi all'esterno e le buche delle lettere che si aprivano e richiudevano. Mezzo minuto dopo, sua madre passò davanti al buco della serratura. Riuscì a intravedere soltanto una ciocca dei suoi capelli e il colletto del suo cappotto, ma sapeva che era lei. Chi altro avrebbe potuto essere? Chi altri poteva distribuire i suoi volantini quando lui non c'era? Con i volantini stretti nella mano, Oskar si accasciò sul pavimento davanti alla porta d'ingresso appoggiando la fronte sulle ginocchia. Non piangeva. In qualche modo, il dolore al basso ventre per il bisogno di urinare glielo impediva. Ma nella sua testa c'era un unico pensiero. Io non esisto. Io non esisto. Lacke aveva passato la notte in preda alla preoccupazione. Sin da quando aveva lasciato Virginia, un'inquietudine strisciante gli aveva roso lo stomaco. Il sabato sera era rimasto seduto insieme agli amici al ristorante cinese, cercando di condividere la propria inquietudine con gli altri, ma nessuno voleva saperne. Lacke aveva capito che avrebbe potuto perdere il controllo, così se n'era andato. Perché gli altri erano delle merde. D'accordo, non era una novità per lui, ma aveva creduto che... sì, cosa diavolo aveva creduto?
Che fossimo uniti in tutto questo. Che qualcun altro a parte lui avesse la sensazione che c'era qualcosa di orribile che bolliva in pentola. C'erano state tante chiacchiere, parole grosse, specialmente da parte di Morgan, ma quando avrebbero dovuto arrivare al sodo, nessuno aveva avuto il coraggio di alzare un dito per fare qualcosa. Non perché Lacke sapesse cosa fare, ma almeno si preoccupava. Se almeno fosse stato utile. Era rimasto sveglio gran parte della notte, leggendo di tanto in tanto I demoni di Dostojevskij, ma continuava a dimenticare quello che era accaduto nel passaggio, nella frase precedente, e aveva lasciato perdere. Ma la notte aveva avuto un risvolto positivo: Lacke aveva preso una decisione. La domenica mattina era stato a casa di Virginia e aveva bussato alla porta. Lei non aveva aperto e così se n'era andato... sperando che fosse andata all'ospedale. Tornando a casa, era passato davanti a due donne che stavano parlottando e colse alcune parole sull'assassino al quale la polizia stava dando la caccia nella foresta di Judarn. Mio Dio, un assassino dietro ogni cespuglio. Adesso i giornalisti staranno gongolando. Erano passati poco più di dieci giorni da quando l'assassino di Vällingby era stato catturato, e i giornalisti avevano iniziato a stancarsi di speculare sulla sua identità, sul motivo che lo aveva spinto a fare quello che aveva fatto. In quegli articoli c'era una forte componente di piacere perverso. Le condizioni dell'assassino erano state descritte con crudele precisione, non avrebbe potuto lasciare l'ospedale prima di sei mesi. In un riquadro speciale, la descrizione degli effetti dell'acido cloridrico sul corpo umano era stata talmente dettagliata da far venire i brividi soltanto pensando al dolore che poteva provocare. No, Lacke non aveva provato alcun piacere. Al contrario, trovava orripilante il modo in cui la gente si infervorava: «Ha avuto quello che si meritava» sostenevano. Lacke era semplicemente contro la pena di morte. Non che avesse una concezione moderna della giustizia, ma piuttosto una antica. Pensava che «se qualcuno uccide il mio bambino, allora io lo uccido». Dostojevskij parlava molto del perdono, della pietà. Certo. Da parte della società, assolutamente. Ma io come genitore di un bambino assassinato,
sono nel mio pieno diritto morale di uccidere la persona che lo ha fatto. Se poi la società mi condanna a otto anni di carcere, è un'altra questione. Non era quello che Dostojevskij intendeva, Lacke lo sapeva. Ma su quel punto, lui e Fjodor semplicemente non avevano la stessa opinione. Mentre tornava a casa a Ibsengatan, Lacke rimuginava quei pensieri. Una volta a casa, si rese conto di avere fame, fece bollire una porzione di penne e le mangiò direttamente dalla pentola aggiungendo del ketchup. Stava riempiendo la pentola d'acqua per poterla lavare più facilmente più tardi, quando sentì il rumore della buca delle lettere. Volantini pubblicitari. Inutile andare a vedere, tanto non aveva soldi. Come sempre. Pulì il ripiano del tavolo, andò a prendere uno dei classificatori della collezione di francobolli che aveva ereditato da suo padre e che non era stato facile portare a casa a Blackeberg. Lo posò cautamente sul tavolo e lo aprì. Eccoli. Quattro esemplari nuovi con gomma integra del primo francobollo emesso in Norvegia. Si chinò sull'album e osservò il leone rampante su uno sfondo blu. Incredibile. Quando erano stati emessi nel 1855 costavano quattro scellini ciascuno. Adesso valevano molto di più. Il fatto che fossero due coppie aumentava ulteriormente il loro valore. Quella era la decisione che aveva preso durante la notte mentre si girava e rigirava fra le lenzuola impregnate di fumo di sigaretta; era arrivato il momento. La visita a Virginia era stata l'ultima goccia. Sommata alla totale mancanza di comprensione da parte degli altri, che gli aveva fatto capire che erano persone che non doveva più frequentare. Doveva andarsene da Blackeberg, e lo stesso valeva per Virginia. Mercato filatelico depresso o no, i francobolli gli avrebbero fruttato trecentomila corone, più duecentomila per l'appartamento. Abbastanza per una casa in campagna. Sì, okay, due case. Una piccola fattoria. I soldi sarebbero bastati e avrebbe funzionato. Non appena Virginia si fosse rimessa gliene avrebbe parlato, ed era quasi certo che lei avrebbe accettato la proposta, anzi che ne sarebbe stata entusiasta. Così sarebbe stato. Ora Lacke si sentiva più tranquillo. Tutto gli era chiaro. Quello che doveva fare nell'immediato e nel futuro. Tutto sarebbe andato liscio. Con quei piacevoli pensieri in testa, andò nella camera da letto, si stese per riposare cinque minuti e si addormentò.
«Li vediamo per le strade e nelle piazze, li fissiamo impotenti e ci chiediamo: cosa possiamo fare?» Tommy non si era mai annoiato tanto in vita sua. La messa era durata poco più di mezz'ora e si era detto che, se fosse rimasto seduto a fissare un muro, si sarebbe divertito di più. «Il Signore sia lodato» e «Alleluia!» e tutte quelle belle parole, e allora perché tutti rimanevano seduti con lo sguardo fisso e con la faccia di chi è costretto a guardare una partita di qualificazione fra la Bulgaria e la Romania? Quello che leggevano e quello che cantavano non significava niente per loro. Non sembrava significare niente neppure per il prete. Era qualcosa che doveva portare a termine per guadagnarsi lo stipendio. Adesso la predica era finalmente iniziata. Se il prete avesse accennato a quel passaggio della Bibbia che Tommy aveva letto, allora lo avrebbe fatto. Altrimenti no. Sarà lui a decidere. Tommy mise la mano in tasca. Tutto era pronto e il fonte battesimale era soltanto a tre metri di distanza da dove era seduto all'estremità del banco. Sua madre si era seduta più avanti, probabilmente per poter ammirare Staffan mentre cantava quegli inni senza senso con le mani incrociate sul suo pene da poliziotto. Tommy si morse il labbro inferiore. Sperava che il prete dicesse quella frase. «Nei loro occhi vediamo lo smarrimento, l'espressione di coloro che si sono persi e che non riescono a trovare la strada per tornare a casa. Quando vedo un giovane con quell'espressione, non posso fare a meno di pensare all'esodo degli israeliti dall'Egitto.» Tommy si irrigidì. Forse il prete non avrebbe menzionato il luogo esatto. Forse avrebbe detto qualcosa sul Mar Rosso. In ogni caso, tirò fuori dalla tasca il necessario, un accendino e la tavoletta di Meta. Le sue mani tremavano. «Perché è così che dobbiamo vedere questi giovani che a volte ci lasciano perplessi. Vagano in un deserto di domande che non hanno avuto risposta e con prospettive nebulose per il futuro. Ma c'è una grande diversità fra il popolo di Israele e i giovani d'oggi...» Forza, dillo... «Il popolo d'Israele aveva qualcuno che lo guidava. Ricordate certamente quello che c'è scritto nelle Sacre Scritture. "Il Signore era davanti a loro,
di giorno avvolto in una nuvola, per guidarli sulla giusta via, e di notte in una colonna di fuoco per illuminarli". È questa nuvola, questo fuoco che oggi manca ai giovani...» Il prete abbassò lo sguardo sui suoi appunti. Tommy aveva già acceso la tavoletta e la teneva fra l'indice e il pollice. La fiamma blu appena visibile. Quando il prete abbassò lo sguardo sui suoi appunti, Tommy colse l'occasione. Si piegò, scivolò fuori dal banco, allungò il braccio al massimo, gettò la tavoletta nel fonte battesimale e tornò rapidamente al suo posto. Nessuno lo aveva notato. Il prete rialzò la testa. «... e la nostra responsabilità di adulti è di diventare la stella che guida i giovani. Altrimenti, dove possono trovarne un'altra? E noi possiamo trovare la forza per farlo nelle opere del Signore...» Un fumo bianco si sprigionò dal fonte battesimale. Tommy poteva già percepire quel noto odore dolciastro. Lo aveva già fatto decine di volte, di dare fuoco a una mistura di acido nitrico e zucchero. Ma mai in quella quantità e sempre all'aperto. Era curioso di vedere che effetto avrebbe fatto al chiuso, dove il vento non poteva disperdere il fumo. Incrociò le mani e le tenne strette. Fratello Ardelius, della parrocchia di Vällingby, fu il primo a scorgere il fumo. E lo prese per quello che era: fumo che scaturiva dal fonte battesimale. Per tutta la vita era rimasto in attesa di un segno del Signore, e ovviamente quando vide il fumo non poté fare altro che pensare: Oh Signore. Finalmente. Ma quel pensiero non durò a lungo. La rapidità con la quale la sensazione che si trattasse di un miracolo lo aveva abbandonato, diventò una prova che non si trattava di un miracolo, di un segno divino. Non era nient'altro che fumo che usciva dal fonte battesimale. Ma perché? Il problema era che, arrivato a metà della predica, non poteva perdere tempo per pensare a quelle domande. Così fece quello che la maggioranza delle persone fa in situazioni simili: continuò come se niente fosse, sperando che, se non gli dava importanza, i problemi si sarebbero risolti da soli. Si schiarì la gola e cercò di ricordare le ultime parole che aveva pronunciato. Le opere del Signore. Qualcosa su come trovare la forza di essere la guida. L'esempio.
Abbassò lo sguardo e fissò i suoi appunti. Aveva scritto: A piedi nudi. A piedi nudi? Cosa volevo dire? Che il popolo di Israele camminava a piedi nudi o che Cristo aveva vagato a lungo... Alzò lo sguardo e vide che ora il fumo era più denso e formava una colonna che si innalzava lentamente verso il soffitto. Qual era l'ultima frase che aveva pronunciato? Sì. Adesso ricordava. Le parole aleggiavano ancora nell'aria. «E noi possiamo trovare la forza per farlo nelle opere del Signore.» Era un finale accettabile. Non buono, non come aveva pensato, ma accettabile. Sorrise incerto ai suoi parrocchiani e fece un cenno a Birgit, che dirigeva il coro. Gli otto membri del coro si alzarono insieme e raggiunsero il podio. Quando si girarono verso i parrocchiani, capì dalle loro espressioni che anche loro avevano notato il fumo. Il Signore sia lodato, per un attimo aveva pensato che forse era il solo a vederlo. Birgit lo guardò, fratello Ardelius fece un gesto con la mano: iniziate, iniziate. Il coro iniziò a cantare. Guidami Signore, guidami verso la rettitudine Lascia che i miei occhi vedano la tua via... Una delle più belle composizioni del vecchio Wesley. Fratello Ardelius aveva sperato di potersi godere la bellezza delle parole, ma la colonna di fumo ora lo preoccupava. Il denso fumo bianco continuava a salire dal fonte battesimale dentro il quale si intravedeva la fiamma azzurra di un oggetto che bruciava crepitando. Un odore dolciastro raggiunse le sue narici, mentre la gente iniziava a guardarsi intorno per cercare di capire cosa causasse quel crepitio. Perché solo tu, mio Signore, Lai sì che la mia anima trovi pace e sicurezza... Una delle coriste si mise a tossire. I parrocchiani alzarono lo sguardo verso fratello Ardelius nella speranza che gli indicasse come dovevano comportarsi. Diverse altre persone si erano messe a tossire, alcuni avevano portato le mani o un fazzoletto alla bocca e al naso. Una sottile nebbia iniziò a invadere la chiesa, e fratello Ardelius vide un parrocchiano alzarsi dall'ultima fila di banchi e uscire correndo. Sì. È l'unica soluzione ragionevole. Si chinò verso il microfono.
«Sì, si è verificato un piccolo... incidente e credo che sia meglio se noi tutti... lasciamo la chiesa.» Già alla parola «incidente», Staffan aveva lasciato il podio e si era avviato verso l'uscita con passo rapido e autoritario. Aveva capito. Era stato quel piccolo delinquente del figlio di Yvonne a creare l'incidente. Camminando cercava di controllarsi, perché intuiva che se avesse trovato Tommy c'era il rischio che gli rifilasse un paio di sonori schiaffoni. Ovviamente era proprio quello che quel piccolo teppista si meritava, una bella lezione. Guidami Signore. Quello di cui quel ragazzo ha bisogno sono due sonori schiaffoni. Ma, da come le cose stavano al momento, Yvonne non lo avrebbe mai accettato. Una volta sposati, le cose sarebbero cambiate. Allora, niente avrebbe potuto impedirgli di prendersi cura dell'educazione di Tommy. Ma prima di ogni altra cosa, doveva scovarlo immediatamente. E dargli una bella lavata di testa. Come minimo. Ma Staffan non arrivò più in là. Le parole di fratello Ardelius dal pulpito avevano avuto l'effetto di un segnale di partenza sui parrocchiani, che non aspettavano altro per uscire dalla chiesa. Arrivato a metà della corsia centrale, Staffan si trovò la strada bloccata da una frotta di donnine anziane che si avviavano verso l'uscita con ferrea determinazione. Istintivamente portò la mano destra al fianco, ma si fermò a metà strada e strinse il pugno. Anche se avesse avuto il manganello non sarebbe stato il momento più adatto per usarlo. L'emissione di fumo dal fonte battesimale iniziò a diminuire, ma ora la chiesa era invasa da una foschia dall'odore di zucchero e prodotti chimici. Le porte dell'uscita erano completamente aperte e al di là della foschia si intravedeva la luce del giorno. I parrocchiani si diressero verso la luce, tossendo. Nella cucina c'era una sedia e nient'altro. Oskar la portò vicino al lavandino, vi salì sopra e, dopo avere aperto il rubinetto dell'acqua, urinò. Quando finì, rimise la sedia al suo posto. In ogni modo, la cucina deserta aveva un aspetto strano. Come un museo. A cosa le serve? Oskar si guardò intorno. Sopra il frigorifero c'era una fila di armadietti che potevano essere raggiunti unicamente usando la sedia. La portò lì e salì mettendo la mano sulla maniglia del frigorifero per sorreggersi. Il suo
stomaco brontolava. Aveva fame. Senza riflettere, spostò la sedia e aprì il frigorifero per vedere cosa c'era dentro. Non molto. Una bottiglia di latte aperta, una mezza confezione di pane. Burro e formaggio. Oskar allungò la mano verso la bottiglia di latte. Ma, Eli... Rimase con lo sguardo fisso sulla bottiglia. C'era qualcosa che non riusciva a capire. Si nutre anche di cibo normale? Sì, doveva essere così. Tirò fuori la bottiglia dal frigorifero e la mise sul ripiano del lavandino. Negli armadietti c'era poco o niente. Due piatti, due bicchieri. Prese un bicchiere e vi versò il latte. Stava portandolo alla bocca, quando il pensiero lo colpì con forza. Eli beve sangue. Durante la notte, nel groviglio di sonnolenza e distacco dal mondo, nel buio, in qualche modo tutto era sembrato possibile. Ma adesso, nella cucina, dove non c'era una coperta appesa alla finestra e la persiana lasciava filtrare la debole luce del mattino, con un bicchiere di latte in mano, tutto sembrava così... irreale. Se uno ha pane, formaggio e latte nel suo frigorifero deve essere un essere umano. Bevve un sorso di latte e lo sputò immediatamente nel lavandino. Era acido. Annusò quello che rimaneva nel bicchiere. Sì. Era andato a male. Versò il resto del latte nel lavandino, sciacquò il bicchiere e bevve due sorsi d'acqua per eliminarne il gusto. Poi, guardò la data impressa in nero sul collo della bottiglia. «DA CONSUMARSI ENTRO IL 28 OTTOBRE» Il latte era scaduto da dieci giorni. Oskar capì. È il latte del vecchio. Il frigorifero era ancora aperto. Il cibo del vecchio. Disgustoso. Disgustoso. Oskar sbatté la porta del frigorifero con violenza. Cosa ci faceva lì quel vecchio? Cosa c'era fra lui ed Eli? Oskar rabbrividì. Lo ha ucciso lei. Sì. Eli aveva fatto entrare l'uomo in casa con l'inganno per... nutrirsi di lui. Lo aveva usato come una banca del sangue vivente. Era così che faceva. Ma perché il vecchio aveva accettato? E se Eli lo aveva ucciso, dov'era il suo corpo? Oskar alzò lo sguardo verso gli armadietti. Improvvisamente, non voleva più restare in cucina. Non voleva più restare in quell'appartamento. Uscì
dalla cucina e passò davanti alla porta chiusa del bagno. Eli è lì dentro. Andò nel soggiorno e prese la sua borsa. Il walkman era sul tavolo. Doveva soltanto comprare degli auricolari nuovi. Quando si chinò per prenderlo, vide il biglietto. Era sul divano, nel punto in cui aveva appoggiato la testa. Ciao Oskar! Spero che tu abbia dormito bene. Adesso anch'io vado a dormire. Sono nel bagno. Per favore, non cercare di entrarci. Mi fido di te. Non so cosa scrivere. Spero che tu mi voglia bene anche se sai come stanno le cose. Io ti voglio bene. Tanto. Sei disteso sul divano e stai russando. Che tenero. Non avere paura di me. Per favore, non avere paura di me. Vuoi che ci incontriamo questa sera? Se sì, scrivilo in fondo a questo biglietto. Se scrivi NO, questa sera me ne andrò. Presto sarò costretta a farlo. Ma se scrivi SÌ, rimarrò ancora un po'. Non so cosa scrivere. Sono sola. Più sola di quanto tu possa immaginare. O forse tu puoi. Mi dispiace di avere rotto il tuo apparecchio per la musica. Prendi il denaro se vuoi. Io ne ho tanto. Non avere paura di me. Non ce n'è bisogno. Forse tu lo sai. Spero che tu lo sappia. Ti voglio tanto bene. Tua Eli. PS: Puoi rimanere se vuoi. Ma se esci, controlla che la porta sia ben chiusa. Oskar lesse il biglietto due volte. Poi prese la penna sul tavolo. Si guardò intorno in quella stanza vuota. La vita di Eli. Sul tavolo c'erano ancora le banconote. Ne prese una da mille corone e la mise in tasca. Fissò a lungo il fondo bianco del foglio. Poi, abbassò la penna e scrisse due grandi lettere in stampatello. SÌ Lasciò la penna sul foglio, si rialzò e mise il walkman nella borsa. Si girò un'ultima volta e fissò le lettere che ora erano capovolte. SÌ Poi scosse il capo, mise la mano in tasca, prese la banconota da mille corone e la posò sul tavolo insieme alle altre. Quando arrivò sul pianerottolo, controllò accuratamente che la porta fosse chiusa.
Edizione speciale del telegiornale, domenica 8 novembre 1981, ore 16.45 La ricerca dell'uomo che all'alba di questa mattina è fuggito dall'ospedale di Danderyd dopo avere ucciso un inserviente non ha dato alcun risultato. Oggi, la polizia ha dato la caccia al cosiddetto "assassino rituale" nella foresta di Judarn a ovest di Stoccolma. Al momento della fuga, l'uomo era ferito gravemente e la polizia sospetta che qualcuno possa averlo aiutato. Arnold Lehrman, polizia di Stoccolma. «Sì, è un'ipotesi ragionevole. Non c'è alcuna possibilità fisica che sia riuscito a fuggire in quello stato. Trenta uomini, con i cani, e persino un elicottero hanno partecipato alle ricerche. Purtroppo senza risultato.» «Continuerete a cercarlo nella foresta di Judarn?» «Sì. In ogni caso, non possiamo escludere la possibilità che sia ancora in quell'area. Ma lo faremo con un minor numero di uomini, perché vogliamo concentrare i nostri sforzi per capire come l'assassino possa essere riuscito a fuggire dall'ospedale.» Il volto dell'uomo è sfigurato e al momento della fuga indossava un camice da ospedale blu. La polizia invita chiunque abbia visto l'uomo in questione a telefonare al numero... Domenica 8 novembre (sera) L'interesse del pubblico per le ricerche nella foresta di Judarn era al massimo. I giornali non erano in grado di pubblicare l'identikit dell'assassino. Avevano sperato fino all'ultimo in una fotografia dell'arresto e, in mancanza di meglio, avevano pubblicato la fotografia della cattura del montone. L'Expressen l'aveva persino messa in prima pagina. Si poteva pensare quello che si voleva, ma c'era comunque un tocco di dramma in quella fotografia. Il volto del poliziotto contorto per lo sforzo, le zampe in aria del montone e la sua bocca aperta. Era quasi possibile udire il poliziotto che ansimava e il montone che belava. Un reporter aveva contattato la Casa reale per un commento. Dopotutto, il proprietario del montone che il poliziotto aveva così maltrattato era il re. Ma due giorni prima il re e la regina avevano annunciato che aspettavano un terzo bambino, e questo doveva bastare. La Casa reale si era rifiutata di
commentare l'incidente del montone reale. Naturalmente, i giornali avevano dedicato diverse pagine a dettagliate cartine della foresta di Judarn e dei sobborghi circostanti, con frecce che indicavano dove l'uomo era stato avvistato e come la polizia stava conducendo le ricerche. Tutto questo si era già visto in altre occasioni. Ma la fotografia della cattura del montone era qualcosa di nuovo, e fu quella che rimase impressa nelle retine del pubblico. L'Expressen aveva persino osato buttarla sul comico. La didascalia diceva «Un lupo in veste di agnello?» La gente aveva sorriso, ne aveva bisogno. La gente aveva paura. Quell'uomo che aveva ucciso almeno due persone, quasi tre, era nuovamente in libertà, e i genitori avevano proibito ai loro bambini di uscire da soli e una gita scolastica nella foresta di Judarn era stata annullata. E oltre a tutto questo, nella gente crescevano rabbia e odio verso colui che, da solo, aveva il potere di dominare la vita di una comunità intera soltanto per via della propria efferatezza, e capacità di sfuggire alla morte. Sì, gli esperti e i professori che erano stati intervistati da tv e giornali per un commento, avevano detto tutti la stessa cosa: era impossibile che l'uomo fosse ancora in vita. E alla domanda diretta che seguiva erano tutti concordi nell'affermare che la sua fuga era altrettanto impossibile. Nel corso di un'intervista televisiva, un docente di medicina di Danderyd aveva dichiarato con tono aggressivo: «Fino a pochi giorni fa, quell'uomo era collegato a un respiratore. Sapete cosa significa? Significa che non era in grado di respirare da solo. Aggiungete a questo una caduta da trenta metri...» Dal suo tono di voce, era chiaro che considerava il reporter un idiota, e che riteneva la storia nient'altro che un'invenzione dei media. Era tutto un minestrone di supposizioni, assurdità, voci e -ovviamente paura. Perciò, non c'era da stupirsi che fosse stata pubblicata la fotografia della cattura del montone. Almeno quella era concreta. E fece il giro della nazione. Lacke la vide quando, con i suoi ultimi spiccioli, comprò un pacchetto di sigarette al chiosco dell'amore, prima di andare a casa di Gösta. Aveva dormito tutto il pomeriggio e si sentiva come Raskolnikov, in un mondo irreale avvolto dalla nebbia. Fissò il montone e annuì a se stesso. Nel suo stato attuale, non trovava affatto strano che la polizia andasse in giro ad arrestare montoni. L'impatto della fotografia lo colpì soltanto a metà strada dalla casa di Gösta e pensò: «Cosa diavolo era?» Ma non aveva l'energia di andare ol-
tre. Accese una sigaretta e continuò a camminare. Oskar la vide tornando a casa dopo avere passato il pomeriggio in giro per Vällingby. Proprio mentre scendeva dal vagone della metropolitana, Tommy vi stava salendo. Sembrava nervoso ed eccitato, e prima che le porte si chiudessero, riuscì a dire: «Ho fatto una cosa maledettamente divertente.» Arrivato a casa, Oskar trovò un biglietto sul tavolo della cucina; sua madre era andata a cena fuori. Gli aveva lasciato del cibo pronto nel frigorifero, aveva distribuito i volantini pubblicitari, un bacio. Sul tavolino nel soggiorno c'era il giornale. Oskar guardò la fotografia del montone e lesse l'articolo sulla caccia all'assassino. Poi decise di fare qualcosa che aveva tralasciato troppo a lungo: ritagliare e conservare gli articoli sull'assassino rituale che erano usciti negli ultimi giorni. Andò a prendere i giornali nello sgabuzzino, li posò sul tavolo insieme al suo album di ritagli, alla forbice e alla colla, e iniziò. Staffan vide la fotografia a duecento metri di distanza da dove era stata scattata. Non era riuscito a trovare Tommy, e dopo avere scambiato poche parole con una Yvonne desolata era andato ad Åkeshov. Qualcuno aveva descritto il collega come «l'uomo del montone», ma Staffan non aveva capito finché non aveva letto i giornali alcune ore dopo. I grandi capi della polizia erano infuriati per la mancanza di tatto da parte della stampa, ma la maggioranza dei poliziotti in azione aveva trovato la fotografia divertente. A eccezione dell'uomo del montone, naturalmente. Per diverse settimane sarebbe stato costretto a sopportare occasionali «bee, bee» e «che bel maglione, è di lana di montone?» Jonny vide la fotografia quando il suo fratellino di quattro anni, il fratellastro Kalle, andò da lui con un regalo. Un cubetto di legno che aveva avvolto nella prima pagina del giornale. Jonny gli disse che non voleva essere disturbato, lo fece uscire dalla sua camera e chiuse la porta a chiave. Riprese l'album di fotografie e guardò quelle di suo padre, il suo vero padre, non il padre di Kalle. Qualche minuto dopo, sentì che il suo patrigno stava sgridando Kalle per avere rovinato il giornale. Allora, Jonny prese il regalo, lo scartò, e fissò l'immagine della cattura del montone. Scoppiò a ridere e provò una fitta all'orecchio. Mise l'album nella borsa da ginnastica, era il posto più sicuro, e poi cercò di pensare a cosa diavolo avrebbe potuto fare a Oskar.
La fotografia del montone aveva dato inizio a una sorta di dibattito sull'etica giornalistica, ma questo non aveva impedito che alla fine dell'anno fosse giudicata dai lettori fra le migliori fotografie pubblicate. Il montone, dal canto suo, aveva continuato a pascolare beatamente, per sempre inconsapevole della fama acquisita. Virginia riposa sotto il piumone, sotto le coperte. I suoi occhi sono chiusi, il suo corpo è immobile. A breve si sveglierà. È rimasta in quella posizione per undici ore. La temperatura del suo corpo è di ventisette gradi, esattamente come quella dell'aria all'interno del guardaroba. Il suo cuore ha quattro battiti al minuto. Durante queste undici ore, il suo corpo si è trasformato irrimediabilmente. Lo stomaco e i polmoni si sono adattati a una nuova vita. La cosa più interessante, da un punto di vista medico, è lo sviluppo di una ciste nel nodo sinoatriale del cuore, la massa di cellule che controlla le contrazioni del cuore. Ora, la grandezza della ciste è raddoppiata. Una crescita di cellule simil-cancerogene che si sviluppano senza ostacoli. Esaminato al microscopio, un campione di quelle cellule sarebbe stato scartato da uno specialista delle malattie cardiache, sicuro che i campioni fossero stati scambiati. Uno scherzo di cattivo gusto. Infatti, un tumore del nodo sinoatriale è formato da cellule del cervello. Sì. All'interno del cuore di Virginia si stava formando un piccolo cervello separato. Mentre si formava, questo nuovo cervello dipendeva dal cervello più grande. Ora è finalmente diventato indipendente, e ciò che Virginia ha provato per un terribile istante è corretto: avrebbe continuato a vivere anche se il corpo fosse morto. Virginia aprì gli occhi e sapeva di essere viva. Lo sapeva anche se aprire gli occhi non faceva alcuna differenza. Il buio era intenso come prima. Ma ora, lei era completamente consapevole. Sì. La sua consapevolezza si era risvegliata e, contemporaneamente, qualcos'altro si era ritirato. Come se... Come se fosse entrata in una casa di campagna rimasta disabitata durante l'inverno. Si apre la porta, si allunga la mano verso l'interruttore, e nello stesso momento in cui si accende la luce si sente il rapido raschiare di piccole unghie, e si intravede un topo che sgambetta sotto il lavandino. Si prova una sensazione inquietante. Pur sapendo che il topo era lì durante la nostra assenza. E che la considera la sua casa. E che tornerà fuori
di soppiatto non appena la luce verrà spenta. Non sono sola. La sua bocca sembrava di carta. La sua lingua non aveva alcuna sensibilità. Rimase distesa pensando alla casa che lei e Per, il papà di Lena, avevano affittato per alcune estati quando Lena era piccola. Avevano trovato la tana del topo proprio sotto il lavandino. Aveva rosicchiato e fatto a pezzetti alcune scatole di cartone vuote e una di cornflakes, costruendo una piccola casa, una fantastica costruzione di pezzi di diversi colori. Quando facendo pulizia aveva spazzato via la casetta, Virginia aveva provato un senso di colpa. No, era qualcosa di più. Era stata una sensazione superstiziosa di violazione. Infilando la fredda proboscide meccanica dell'aspirapolvere in quella fragile costruzione che il topo aveva passato l'inverno a costruire, aveva avuto l'impressione di scacciare uno spirito benigno. E fu proprio così. Il topo aveva evitato le trappole che avevano piazzato per la casa, continuando a rosicchiare scatole e altro anche se era estate, così Per aveva deciso di usare il veleno. Si erano messi a litigare. Avevano litigato per altre cose. Per qualsiasi cosa. A luglio, il topo era morto, da qualche parte dentro un muro. Mentre il tanfo del cadavere in decomposizione si diffondeva per tutta la casa, quell'estate il loro matrimonio andò in pezzi. E, dato che non riuscivano più a sopportare né il tanfo né loro stessi, erano tornati a casa una settimana prima del previsto. Lo spirito benigno non era più con loro. Cosa sarà successo a quella casa? Chi ci abiterà ora? Udì un sibilo, uno squittio. C'è un topo! Sotto le coperte. Fu colta dal panico. Ancora avvolta nel piumone si gettò di lato, sbatté contro le porte del guardaroba che si aprirono e cadde sul pavimento. Scalciò con le gambe e roteò le braccia finché non riuscì a liberarsi. Disgustata, strisciò sul letto, si rannicchiò in un angolo, piegò le gambe fin sotto il mento e rimase con lo sguardo fisso sul mucchio di coperte, in attesa di vedere un movimento. Allora si sarebbe messa a urlare, così tutti i vicini sarebbero accorsi con martelli e asce, e avrebbero colpito il mucchio di coperte finché il topo non fosse morto. La coperta in cima al mucchio era color mattone con dei puntini verdi. Qualcosa si stava muovendo lì sotto? Inspirò, pronta a urlare, e udì di nuo-
vo il sibilo dell'aria. Sto... respirando. Sì. Quella era stata l'ultima cosa che aveva potuto constatare prima di addormentarsi: non respirava. Adesso aveva ripreso. Inspirò ancora, e udì il sibilo. Proveniva dai suoi bronchi. Si erano essiccati mentre riposava, e ora emettevano quel suono. Si schiarì la gola e la sua bocca fu invasa da un sapore di marcio. Ora ricordava. Tutto. Si fissò le braccia. Erano coperte da strisce di sangue coagulato. Guardò l'incavo del braccio dove ricordava di avere fatto almeno due incisioni. Niente più di due vaghi segni rosa sulla pelle. Tutte le altre ferite erano scomparse. Si strofinò gli occhi e guardò l'orologio. Le sei e un quarto. Era sera. Buio. Guardò nuovamente il mucchio di coperte. Da dove viene la luce? La lampada al soffitto era spenta, fuori era sera, le persiane erano abbassate. Come era possibile che potesse vedere i contorni e i diversi colori così distintamente? Nell'armadio era buio pesto e non era riuscita a distinguere nulla. Ma adesso... era come se fosse pieno giorno. Un po' di luce filtra sempre nelle stanze. Stava respirando? Non poteva verificare. Non pensava al respiro, riusciva a controllarlo. Forse respirava soltanto quando ci pensava. Ma al primo respiro, quello che aveva creduto essere lo squittio di un topo... non ci aveva pensato. Però, forse era stato come una... Chiuse gli occhi. Ted. Aveva assistito al parto. Da quell'unica notte in cui era stato concepito, Lena non aveva più incontrato il padre di Ted. Un uomo d'affari finlandese che era a Stoccolma per partecipare a un congresso, e così via. Per questo Virginia aveva assistito al parto. Aveva insistito talmente, che alla fine Lena si era arresa e aveva accettato. E adesso le era tornato in mente. Il primo respiro di Ted. Come era venuto alla luce. Quel piccolo corpo, viscoso, rosa-viola, appena umano. L'esplosione di gioia di Virginia, che si era trasformata in una nuvola di ansia quando aveva visto che non respirava. L'ostetrica che con tutta calma aveva sollevato quel piccolo essere. Virginia si era aspettata che lo sollevasse per i piedi a testa in giù per poi sculacciarlo, ma non ap-
pena lo aveva preso, sulla sua bocca si era formata una bolla di saliva. Una bolla che cresceva, cresceva... per poi rompersi. E poi arrivò il grido, il suo primo grido. E finalmente respirava. Era stato così? Era stato così anche il primo respiro di Virginia? Un grido alla nascita? Si raddrizzò e si distese sulla schiena. Continuò a rivedere mentalmente le immagini della nascita. Come aveva dovuto lavare Ted, dato che Lena era completamente priva di forze. Aveva perso molto sangue e continuava a perderne, e le infermiere si erano precipitate con gli assorbenti, ma alla fine l'emorragia si era fermata da sola. La pila di assorbenti, le mani dell'ostetrica rosse di sangue. L'efficienza, la calma, a dispetto di tutto quel sangue. Tutto quel sangue. Ho sete. La sua bocca era impastata e continuava a rivedere il film avanti e indietro, focalizzando tutto quello che era stato coperto dal sangue: le mani dell'ostetrica... passare la lingua su quelle mani, raccogliere dal pavimento gli assorbenti impregnati di sangue, metterli in bocca e succhiarli. Il rivolo di sangue che usciva dal grembo di Lena... Si mise a sedere di scatto, corse piegata in avanti verso il bagno, alzò il coperchio del water e chinò la testa. Niente. Soltanto convulsioni secche, conati dolorosi. Appoggiò la fronte sul bordo del water. Le immagini del parto tornarono con forza. Nonvoglio... nonvoglio... nonvoglio. Batté la fronte contro il bordo e un dolore gelido le trafisse la testa. Tutto davanti ai suoi occhi si tinse di azzurro. Sorrise e cadde su un fianco sul tappetino di plastica. Costava quattordici corone e novanta, ma l'ho pagato soltanto dieci corone, perché c'era una sbavatura di colore in un angolo, e quando sono uscita dai grandi magazzini, nella piazza c'era un piccione che becchettava un contenitore di cartone nel quale erano rimaste alcune patatine fritte e il piccione era grigio... e blu... ed era controluce... Non ricordava per quanto tempo avesse perso conoscenza. Un minuto, un'ora? Forse soltanto alcuni secondi. Ma qualcosa era cambiato. Era calma. Il tappetino era piacevolmente fresco contro la sua guancia, rimase con lo sguardo fisso sulla sottile striscia di ruggine del tubo ricurvo che dal lavandino andava fino al pavimento. Si disse che il tubo aveva una bella forma.
Un pungente odore di urina. Non era la sua urina, no... era quella di Lacke, ne riconosceva l'odore. Si girò, avvicinò il naso al pavimento sotto il water, annusò. Lacke... e Morgan. Non capiva come potesse esserne così sicura, ma lo era. Morgan aveva urinato fuori dal water. Ma Morgan non è stato qui. Sì, invece. Quella sera, quella notte quando l'avevano portata a casa. La sera in cui era stata morsa. Morsa. Sì. Naturalmente. Tutto collimava. Morgan era stato lì. Morgan aveva urinato e Virginia era rimasta distesa sul divano dopo essere stata morsa, e ora poteva vedere al buio e non sopportava la luce e aveva bisogno di sangue e... Un vampiro. Era così. Non aveva contratto una malattia rara e rivoltante che avrebbe potuto essere curata all'ospedale, o in una clinica psichiatrica, o con... La fototerapia! Si mise a ridere, tossì, si girò sulla schiena, fissò il soffitto, pensò a ogni singolo momento. Le ferite che si rimarginavano rapidamente, l'effetto del sole sulla sua pelle, il sangue. Lo disse ad alta voce. «Io sono un vampiro.» Non era possibile. Non esistevano. Eppure, provò un senso di sollievo. Come se una pressione nella sua testa fosse svanita. Come se il peso della colpa le fosse scivolato via dalle spalle. Non era colpa sua. Le fantasticherie rivoltanti, quelle cose terribili che si era inflitta per tutta la notte. Erano qualcosa di cui non era responsabile. Era del tutto... naturale. Si alzò, aprì i rubinetti della vasca da bagno, si mise a sedere sul water fissando l'acqua che scorreva, la vasca che si riempiva gradualmente. Il telefono squillò. Le sue orecchie registrarono soltanto un suono indifferente, meccanico. Non aveva alcun significato. In ogni caso, non poteva parlare con nessuno. Nessuno poteva parlare con lei. Oskar non aveva letto il giornale del sabato. Ora, era davanti a lui sul tavolo della cucina. Lo aveva lasciato aperto alla stessa pagina per un bel po' di tempo e continuava a rileggere il testo sotto la fotografia. Non riusciva a staccare gli occhi da quella fotografia. Il testo parlava di un corpo congelato recuperato dal ghiaccio giù, vicino all'ospedale di Blackeberg. Come era stato trovato e il lavoro necessario per liberarlo. C'era anche una seconda fotografia, più piccola, del signor Ávila che indicava un buco nel ghiaccio. Il giornalista aveva corretto le
peculiarità linguistiche della dichiarazione del signor Ávila. Il tutto era sufficientemente interessante per essere ritagliato e conservato, eppure non era quello che Oskar continuava a fissare, da cui non riusciva a staccare gli occhi. La fotografia della maglia. Infilata sotto la giacca dell'uomo era stata trovata una maglia macchiata di sangue della taglia di un bambino, ed era stata fotografata su uno sfondo neutro. Oskar riconosceva quella maglia. Non hai freddo? Nel testo si affermava che l'uomo, Joakim Bengtsson, era stato visto in vita per l'ultima volta sabato 24 ottobre. Due settimane prima. Oskar ricordava quella sera. Quando Eli aveva risolto il cubo. L'aveva accarezzata sulla guancia ed Eli era andata via. Più tardi, aveva litigato con suo... con quell'uomo, e lui se ne era andato. Era quella sera? Era stata Eli? Sì. Probabilmente, sì. Il giorno dopo aveva un aspetto più florido, più sano. Oskar continuò a fissare la fotografia. Era in bianco e nero, ma nel testo c'era scritto che la maglia era rosa. L'autore dell'articolo si chiedeva se l'assassino avesse sulla coscienza anche una giovane vittima. Aspetta un attimo. L'assassino di Vällingby. Il giornalista scriveva che la polizia sospettava che l'uomo nel ghiaccio potesse essere stato ucciso dal cosiddetto assassino rituale, che era stato catturato nella piscina di Vällingby una settimana prima e che ora era in fuga. Era... quell'uomo? Ma... il ragazzo nella foresta... perché? Nella sua mente, Oskar poteva vedere Tommy seduto sulla panchina nel cortile e il movimento della sua mano. Appeso a un albero... la gola tagliata... zac... Adesso capiva. Adesso capiva tutto. Tutti quegli articoli che aveva ritagliato e conservato, la radio, la tv, tutte le chiacchiere, tutta la paura... Eli. Oskar non sapeva cosa fare. Cosa avrebbe dovuto fare. Così, aprì il frigorifero e prese il piatto con la porzione di lasagne che sua madre gli aveva preparato. Le mangiò fredde continuando a leggere gli articoli. Quando finì di mangiare, sentì i colpi sulla parete nella sua camera da letto. Chiuse gli occhi per sentire meglio. A questo punto conosceva l'alfabeto Morse a memoria.
I.O E.S.C.O. Si alzò di scatto e andò nella sua camera, si distese sul letto e rispose. V.I.E.N.I. Q.U.I. D.A. M.E. Una pausa. E poi: E. T.U.A. M.A.D.R.E. Oskar rispose. È. F.U.OR.I. Sua madre non sarebbe rientrata prima delle dieci. Avevano almeno tre ore di tempo. Finito il messaggio, Oskar posò la testa sul cuscino. Concentrato per formulare le parole in codice, per un attimo non ci aveva più pensato. La maglia... il giornale... Alzò la testa di scatto, doveva raccogliere e mettere via i giornali che erano sul tavolo. Eli li avrebbe visti e avrebbe capito che lui... Posò nuovamente la testa sul cuscino, aveva deciso di lasciar perdere. Udì un leggero fischio fuori dalla finestra. Si alzò dal letto, la aprì e si sporse sul davanzale. Eli era lì sotto, il volto sollevato verso di lui. Indossava una camicia a quadri troppo grande per lei. Oskar fece un gesto con la mano: vieni alla porta. «Non dirgli che sono stato io. Okay?» Yvonne fece una smorfia, soffiò il fumo della sigaretta verso la finestra semiaperta e non disse nulla. Tommy sbuffò. «Lasci la finestra aperta per far uscire il fumo?» La cenere era così lunga che iniziò a inclinarsi. Tommy alzò l'indice e lo mosse su e giù in direzione della cenere per avvisarla. Yvonne lo ignorò. «Perché a Staffan non piace, no?, il fumo delle sigarette?» Tommy si appoggiò alla sedia e fissò la cenere, chiedendosi come potesse arrivare a una tale lunghezza senza cadere. Poi si portò due dita al naso. «Anche a me non piace l'odore del fumo. Mi piaceva ancora meno quando ero piccolo. Ma a quei tempi, tu non tenevi la finestra aperta. Attenta...» La cenere cadde e atterrò su una gamba di Yvonne. Lei la spazzò via, ma una leggera striscia grigia le rimase sui pantaloni. «Non è vero, tenevo la finestra aperta. Spesso. Specialmente quando avevamo ospiti che forse... e se si tratta di fumo, non credo che tu sia la persona giusta per parlarne.» «Ma è stato divertente» disse Tommy sogghignando.
«No, non è stato divertente. Pensa se la gente si fosse lasciata prendere dal panico. Se la gente... e quel catino...» «Fonte battesimale.» «Sì, fonte battesimale. Il prete era disperato, e dopo c'era una specie di crosta nera sul fondo, e Staffan...» «Staffan, Staffan...» «Sì, Staffan. Non ha detto che sei stato tu. Lo ha detto a me. E ha detto che, per via della sua fede, non è stato facile mentire al prete per proteggerti.» «Allora non capisci.» «Cos'è che non capisco?» «Che ha voluto proteggere soltanto se stesso.» «Non è vero.» «Pensaci bene.» Yvonne tirò un'ultima boccata dalla sigaretta, la spense nel posacenere e ne accese immediatamente un'altra. «Era antico. E adesso devono farlo restaurare.» «Ed è stato il figliastro di Staffan a farlo. Cosa pensi che direbbe la gente?» «Tu non sei il suo figliastro.» «No, ma sai com'è. Se dicessi a Staffan che ho intenzione di andare dal prete per dirgli che sono stato io, che mi chiamo Tommy e che Staffan è il... fidanzato di mia madre. Credi che gli piacerebbe?» «Chiedilo a lui.» «No. Non oggi in ogni caso.» «Non hai il coraggio di farlo.» «Parli come una ragazzina.» «E tu ti comporti come un ragazzino.» «Ma è stato un po' divertente, no?» «No, Tommy. Non lo è stato affatto.» Tommy sospirò. Non era così stupido da non capire che anche sua madre poteva arrabbiarsi, eppure aveva creduto che avrebbe trovato l'incidente un po' comico. Ma adesso era completamente dalla parte di Staffan. Non poteva fare altro che constatarlo. Così il problema di Tommy era trovare un posto dove andare ad abitare. Dopo, quando si sarebbero sposati. Per il momento, le sere in cui Staffan veniva a trovarli poteva filarsela in cantina. Il turno di Staffan ad Åkeshov finiva alle otto e sarebbe venuto lì direttamente. E Tommy non aveva nes-
suna intenzione di rimanere lì seduto a farsi fare la morale da quel bullo. Per niente. Così, mentre Yvonne rimaneva seduta in cucina a guardare fuori dalla finestra, Tommy andò in camera sua a prendere il piumone e il cuscino dal suo letto. Poi, si affacciò alla porta della cucina con il cuscino sotto un braccio e il piumone arrotolato sotto l'altro. «Okay. Adesso vado. Per favore, non dirgli dove sono.» Yvonne si girò. Aveva le lacrime agli occhi. Poi abbozzò un sorriso. «Mi ricordi quando... quando venivi nella mia camera da letto e chiedevi...» Non riuscì a finire la frase. Tommy rimase immobile. Yvonne deglutì, si schiarì la gola, alzò lo sguardo e lo fissò. «Tommy, cosa devo fare?» «Non lo so.» «Devo...?» «No. Non per me. Le cose sono come sono.» Yvonne annuì. Tommy sentì un nodo in gola. Anche lui stava diventando triste e si disse che doveva andarsene prima che le cose peggiorassero. «Senti. Non gli dirai che...» «No. Non lo dirò.» «Bene. Grazie.» Yvonne si alzò, gli si avvicinò e lo abbracciò. L'odore del tabacco dominava. Se Tommy avesse avuto le mani libere, avrebbe ricambiato l'abbraccio. Ma non poteva, allora mise la testa sulla spalla di sua madre e rimasero così per diversi secondi. Poi, Tommy se ne andò. Non fidarti di lei. Staffan può convincerla a fare quello che vuole lui. Arrivato in cantina, gettò il piumone e il cuscino sul divano. Mise una porzione di tabacco sotto il labbro e si distese. La cosa migliore sarebbe che qualcuno gli sparasse. Ma Staffan non era il tipo che... no, no. Era piuttosto il tipo che avrebbe messo una pallottola dritta in mezzo alla fronte dell'assassino. I colleghi gli avrebbero regalato una scatola di cioccolatini. L'eroe. Poi sarebbe venuto a cercare Tommy. Forse. Prese la chiave, andò nel corridoio, aprì il rifugio ed entrò portando dentro con sé la catena. Con l'aiuto dell'accendino percorse il breve corridoio, su cui si affacciavano due locali per ogni lato. In uno c'erano scatolette di cibo, pacchi di alimenti liofilizzati, vecchi giochi di società, un fornello
con una bombola di gas e altri generi utili a sopravvivere a un assedio. Aprì una porta e gettò dentro la catena. Okay. Aveva un'uscita di sicurezza. Prima di lasciare il rifugio, prese il trofeo di Staffan e lo soppesò. Pesava almeno due chili. Forse poteva venderlo? Il metallo doveva valere qualcosa. Poi lo avrebbero fuso. Studiò il volto del tiratore. Sì, in qualche modo assomigliava a Staffan. Allora bisognava fonderlo. Cremato. Certamente. Si mise a ridere. La cosa migliore sarebbe stata fonderlo, lasciando però intatta la testa, per poi restituirlo a Staffan. Una pozza solida di metallo con la piccola testa al centro. Probabilmente non sarebbe stato facile. Purtroppo. Ripose la statuetta, uscì e chiuse la porta senza far scattare il lucchetto. Adesso poteva scivolare all'interno, in caso di necessità. Anche se non credeva che ce ne sarebbe stato bisogno. Ma, in caso... Lacke lasciò squillare dieci segnali prima di posare il ricevitore. Gösta, seduto sul divano ad accarezzare un gatto, alzò la testa. «Nessuno in casa?» chiese. Lacke si passò una mano sul volto. «Sì. Dannazione. Mi hai forse sentito parlare?» «Ne vuoi un altro?» Lacke si pentì e abbozzò un sorriso. «Scusa, non volevo... sì, dammene un altro. Grazie.» Gösta si chinò in avanti senza riflettere e schiacciò il gatto sulle sue ginocchia. Il gatto miagolò e saltò sul pavimento, restando a fissarlo mentre versava una buona dose di gin e un po' di acqua tonica nel bicchiere di Lacke. «Prendi. Non preoccuparti, sta sicuramente bene.» «Grazie. L'hanno ricoverata. È andata all'ospedale e l'hanno ricoverata.» «Sì... deve essere così.» «E dillo allora.» «Cosa?» «Niente. Alla salute.» «Alla salute.» Bevvero. Poco dopo, Gösta s'infilò un dito in una narice. Lacke lo fissò,
Gösta tolse il dito con un sorriso imbarazzato. Non era abituato ad avere gente intorno. Una grassa gatta grigia era stesa sul pavimento e sembrava non avere neppure la forza di alzare la testa. Gösta fece un cenno con il capo. «Presto Miriam darà alla luce dei gattini.» Lacke bevve un lungo sorso. Più beveva, meno percepiva l'odore di urina nell'appartamento. «Cosa ne farai?» «Cosa vuoi dire?» «Dei gattini. Cosa ne farai? Li lascerai vivere?» «Sì. Comunque, nascono quasi tutti morti ultimamente.» «Vuoi dire che... hai detto che si chiama Miriam? Vuoi dire che nel suo ventre ci sono soltanto dei gattini morti?» «Sì.» Lacke bevve l'ultimo sorso e posò il bicchiere sul tavolo. Gösta fece un cenno con il capo in direzione della bottiglia di gin. Lacke scosse la testa. «No. Faccio una pausa.» Abbassò lo sguardo. Sul tappeto arancione c'era una tale quantità di peli di gatto che si sarebbe detto che il tappeto fosse fatto di peli. Gatti e gatti dappertutto. Quanti erano? Iniziò a contarli. Arrivò fino a diciotto. Soltanto nel soggiorno. «Hai mai pensato di... sì, di farli castrare, o come si dice... sterilizzare? Un solo sesso dovrebbe bastare.» Gösta lo guardò senza capire. «Come potrei fare una cosa simile?» «No, non puoi. Capisco.» Lacke immaginò Gösta seduto sulla metropolitana con venti, venticinque gatti. In uno scatolone. No. In sacchetti di plastica. Entrare dal veterinario e far uscire un gatto dopo l'altro. «Castrazione, per favore.» Lacke sogghignò. Gösta inclinò il capo di lato. «Cosa c'è?» «Niente, stavo solo pensando che forse potresti avere uno sconto comitive.» Gösta non aveva apprezzato la battuta e Lacke alzò le mani in aria. «Scusa. È solo che sono completamente... per la storia di Virginia, sai.» Si raddrizzò di scatto e batté la mano sul tavolino. «Non voglio più stare qui.» Gösta sobbalzò. Il gatto ai piedi di Lacke corse a nascondersi sotto il di-
vano. Dalla cucina si udì un gatto miagolare. Gösta si raddrizzò a sua volta. «Non devi restare per me.» «No. Non è questo che volevo dire. Qui. Qui. In questo posto di merda. Blackeberg. E tutto il resto. Queste case, queste strade, le piazze, le persone, tutto è soltanto come un'enorme malattia, capisci? C'è qualcosa di sbagliato. Hanno pianificato questo posto e tutto il resto perché fosse perfetto, no? E in qualche maledetto modo tutto è venuto fuori sbagliato. Solo merda. È come se... non riesco a spiegarlo, come se avessero pensato alle angolazioni, o quello che è, le angolazioni fra le case, in relazione l'una all'altra. Per ottenere un'armonia, o qualcosa di simile. Ma hanno commesso uno sbaglio nelle misurazioni, triangolazioni, o come diavolo si chiamano, così quel piccolo errore iniziale si è moltiplicato esponenzialmente a mano a mano che procedevano. E quando si passa fra queste case, si ha l'impressione che siano maledettamente fuori posto. No, no, no. Qui non si può rimanere. È tutto sbagliato, capisci? Ma non sono le angolazioni, c'è qualcos'altro, qualcosa come una malattia che è nei muri, nelle pareti, e io non voglio più restare qui.» Si udì un tintinnio quando Gösta versò spontaneamente un nuovo drink nel bicchiere di Lacke, che lo prese facendo un cenno di ringraziamento con la testa. La sfuriata gli aveva fatto provare un piacevole senso di calma in tutto il corpo, una calma che ora l'alcol riempiva di calore. Si appoggiò allo schienale della poltrona respirando profondamente. Rimasero seduti in silenzio finché il campanello della porta suonò. «Aspetti una visita?» chiese Lacke. «No. Ma questa sera mi sembra di essere in una maledetta stazione.» Lacke sogghignò e alzò il bicchiere come per brindare. Ora si sentiva meglio. Si sentiva in perfetta forma. Udì Gösta aprire la porta. Qualcuno fuori disse qualcosa. «Entra, entra» disse Gösta. Distesa nella vasca da bagno con l'acqua calda che si colorava gradualmente di rosa mentre il sangue coagulato sulle sue braccia si scioglieva, Virginia aveva preso una decisione. Gösta. La sua nuova consapevolezza le diceva che doveva essere qualcuno che l'avrebbe fatta entrare in casa. La sua consapevolezza di un tempo le diceva che non doveva essere qualcuno che amava. O soltanto che le piaceva.
Gösta era la scelta ideale. Uscì dalla vasca, si asciugò e si infilò i pantaloni e una camicetta. Solo quando arrivò in strada si rese conto di non avere preso il cappotto. Eppure non aveva freddo. Le nuove scoperte non finiscono più. Si fermò davanti al condominio e alzò lo sguardo verso la finestra dell'appartamento di Gösta. Era in casa. Era sempre in casa. E se fa resistenza? Non ci aveva pensato. Si era semplicemente immaginata di prendere quello di cui aveva bisogno. Ma forse Gösta voleva continuare a vivere. Naturalmente vuole continuare a vivere. È un essere umano, ha i suoi piccoli piaceri, e deve prendersi cura dei suoi gatti. Scacciò quel pensiero che sparì. Mise una mano sul cuore. Cinque battiti al minuto, e sapeva che doveva proteggere il suo cuore. Sapeva che c'era un fondo di vero nella storia dei pali appuntiti. Prese l'ascensore fino al penultimo piano, suonò il campanello. Quando Gösta aprì la porta e vide Virginia, i suoi occhi si spalancarono con un'espressione che poteva dirsi di terrore. Lo sa? Si vede? «Ma... sei tu?» disse Gösta. «Sì. Posso...» Virginia fece un gesto verso l'interno dell'appartamento. Non capiva. Ma intuitivamente sapeva che un invito era necessario, altrimenti... Gösta annuì e fece un passo indietro. «Entra, entra.» Virginia entrò nell'ingresso, Gösta chiuse la porta e la fissò con occhi appannati. Non si faceva la barba da tre giorni; la pelle sporca e flaccida del collo era coperta di peli grigi. Il tanfo nell'appartamento era peggio di quello che ricordava, più intenso. Non voglio. Il vecchio cervello si bloccò. La fame prese il sopravvento. Mise le mani sulle spalle di Gösta, vide le proprie mani sulle spalle di Gösta. Lascia che succeda. La vecchia Virginia era lontana, nel fondo della sua testa, senza controllo. «Vuoi aiutarmi a fare una cosa? Stai fermo.» Udì qualcosa. Una voce. «Virginia! Ciao! Sono così contento di vederti.»
Quando Virginia si girò verso di lui, Lacke fece un passo indietro. I suoi occhi erano vuoti. Come se qualcuno li avesse punti con degli aghi e l'avesse succhiata fuori, lasciando uno sguardo privo di qualsiasi espressione, simile a un modello anatomico. Foto 8: Gli occhi. Virginia lo fissò per un secondo, poi tolse le mani dalle spalle di Gösta, si girò verso la porta, spinse la maniglia in basso, ma la porta era chiusa. Cercò di aprire il blocco, ma Lacke l'afferrò per un braccio e la fece allontanare dalla porta. «Tu non esci prima di avere...» Virginia si divincolò per liberarsi dalla presa, e così facendo il suo gomito colpì la bocca di Lacke e il suo labbro inferiore si spaccò contro i denti. Ma Lacke non lasciò la presa. «Maledizione, Ginja. Devo parlarti. Mi sono preoccupato a morte. Cerca di calmarti, che cos'hai?» Virginia continuava a dimenarsi, ma Lacke la teneva stretta e tentava di spingerla verso il soggiorno. Mentre continuava a spingerla davanti a sé, cercava di parlarle con voce calma, come se fosse un animale spaurito. «Adesso Gösta ci versa un drink e noi ci sediamo e parliamo di tutto con calma, io voglio soltanto aiutarti. Di qualsiasi cosa si tratti, io ti aiuterò, okay?» «No, Lacke. No.» «Sì, Ginja. Sì.» Gösta passò accanto a loro, raggiunse il soggiorno e versò un drink nel bicchiere di Lacke, che era riuscito a spingere Virginia all'interno. Lacke si mise sulla porta con le mani sui due stipiti, come un guardiano, leccandosi il sangue dal labbro inferiore. Virginia era al centro della stanza, tesa. Si guardava intorno come per cercare una via di fuga. I suoi occhi si fermarono sulla finestra. «No, Ginja.» Lacke si preparò a fare un balzo in avanti per afferrarla in caso le fosse venuto in mente di fare una sciocchezza. Cos'ha? Dalla sua espressione si potrebbe credere che abbia visto uno spettro. Udì un rumore simile allo sfrigolio di un uovo in una padella troppo calda. Un altro, uguale. E ancora. La stanza si riempì di una crescente cacofonia di sibili.
Tutti i gatti nella stanza si erano alzati, i dorsi arcuati, le code dritte. Stavano fissando Virginia. Persino Miriam si era alzata con il ventre che toccava quasi il pavimento, e con le orecchie piegate all'indietro mostrava i denti. Dalla camera da letto e dalla cucina arrivarono altri gatti. Gösta, che era rimasto con la bottiglia alzata a metà, fissava i suoi gatti con gli occhi spalancati. Il volume dei sibili, come una nuvola carica di elettricità, continuava a crescere. «Gösta, cosa stanno facendo?» Gösta scosse il capo, allargò le braccia e alcune gocce di gin caddero dalla bottiglia sul pavimento. «Non lo so... non ho mai...» Una piccola gatta nera saltò su una coscia di Virginia, affondò le unghie e morse. Gösta sbatté la bottiglia sul tavolino. «Cattiva, Titania. Cattiva.» Virginia si chinò in avanti, afferrò il collo della gatta e cercò di staccarla. Altri due gatti approfittarono dell'occasione e le saltarono sulla schiena e sul collo. Virginia iniziò a urlare, staccò la gatta dalla gamba e la scagliò via. La gatta attraversò la stanza, andò a urtare contro uno spigolo del tavolino e atterrò ai piedi di Gösta. Il gatto sulla schiena di Virginia balzò sulla sua testa, affondò le unghie e iniziò a morderle la fronte. Prima che Lacke riuscisse ad avvicinarsi, altri tre gatti le erano saltati addosso. Virginia li colpiva con i pugni per staccarli, ma senza riuscirci. I gatti non lasciavano la presa e continuavano a morderla con i loro piccoli denti. Lacke infilò una mano nella massa brulicante e infuriata sul petto di Virginia, afferrò pellicce che scivolavano su muscoli tesi, tirò via piccoli corpi e la camicetta di Virginia si strappò, mentre lei continuava a urlare. Piange. No: quello che scorreva sulla sua guancia era sangue. Lacke afferrò una gatta che aveva sulla testa, ma non riuscì a staccarla, era come se fosse incollata. Le afferrò la testa e iniziò a tirarla da destra a sinistra, finché - fra tutto il frastuono - non sentì un crack e quando lasciò la presa, la gatta si accasciò senza vita sulla testa di Virginia. Una goccia di sangue le usciva dal naso. «Ahi, povera cara...» Gösta si avvicinò con le lacrime agli occhi e iniziò ad accarezzare la gat-
ta, che anche da morta rimaneva attaccata alla testa di Virginia. «Povera cara, amore...» Lacke abbassò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono quelli di Virginia. Era nuovamente lei. Virginia. Lasciami andare. Attraverso il doppio tunnel dei suoi occhi, Virginia osservava tutto quello che stava succedendo sul suo corpo. I tentativi di Lacke di salvarla. Lascia stare. Non era lei quella che cercava di staccare i gatti dal proprio corpo colpendoli. Era quell'altra cosa che voleva vivere, che voleva che il corpo che la ospitava continuasse a vivere. La vera Virginia si era arresa quando aveva visto la gola di Gösta, quando aveva sentito il tanfo nell'appartamento. Era così che doveva andare. E lei non voleva esserne parte. Il dolore. Sentì il dolore provocato dai graffi. Ma presto sarebbe finita. Perciò, lascia stare. Lacke vide, capì. Ma non poteva accettarlo. La casa in campagna... le due case... il giardino... In preda al panico, cercò di staccare i gatti da Virginia. Ma rimanevano attaccati, fasci di muscoli coperti da pellicce. Quei pochi che riusciva a staccare portavano con sé strisce dei vestiti di Virginia, lasciandole profondi graffi sulla pelle, ma altri, tanti, rimanevano aggrappati al suo corpo come sanguisughe. Lacke iniziò a colpirli, udì il suono di ossa che si spezzavano, ma appena uno cadeva, un altro prendeva il suo posto, arrampicandosi freneticamente sugli altri. Buio. Qualcosa lo colpì al volto facendolo indietreggiare di un metro, e andò a sbattere contro la parete. Gösta era vicino a Virginia con i pugni chiusi pronti e lo fissava con uno sguardo pieno di lacrime e rabbia. «Stai facendo male ai miei gatti!» Vicino a Gösta, Virginia era una massa ribollente di pellicce miagolanti e sibilanti. Miriam si trascinò sul pavimento, si alzò sulle zampe posteriori e le azzannò il polpaccio. Gösta la vide, si chinò e scosse l'indice. «Non si fa così, vecchia mia. Fa male.» Lacke perse il controllo. Fece un passo in avanti, prese la mira e diede un calcio a Miriam. Il suo piede affondò nello stomaco gonfio, ma non
provò alcun senso di ripugnanza, soltanto piacere, quando quella massa rigonfia si staccò dalla gamba di Virginia e andò a sbattere contro il radiatore. Poi prese Virginia per un braccio. Dobbiamo uscire da qui. E la tirò verso la porta d'ingresso. Virginia cercò di fare resistenza. Ma Lacke e l'infezione erano più forti di lei. Attraverso i tunnel nella sua testa vide Gösta cadere in ginocchio sul pavimento e udì l'urlo di dolore quando prese Miriam fra le braccia e la accarezzò sulla schiena. Poi Lacke la trascinò con sé, e la sua vista sparì quando un gatto le saltò sul viso, la morse, e tutto si trasformò in dolore, spilli vivi bucavano la sua pelle, e quando perse l'equilibrio si ritrovò in una vergine di Norimberga viva, cadde e sentì che Lacke stava trascinandola sul pavimento. Lasciami andare. Ma il gatto sul suo viso cambiò posizione, e Virginia vide la porta dell'appartamento che si apriva davanti a lei, la mano rosso scuro di Lacke che la trascinava, vide il pianerottolo, le scale, riuscì a rimettersi in piedi, lottando nella propria consapevolezza, prendendo il controllo e... Virginia riuscì a liberare il suo braccio dalla mano di Lacke. Lacke si girò verso la massa brulicante di pellicce che era sul corpo di Virginia per afferrarla, per... Cosa? Cosa? Fuori. Per andare fuori. Ma Virginia riuscì a passare fra Lacke e il muro, e per un secondo Lacke sentì la schiena vibrante di un gatto contro la faccia. Poi, Virginia raggiunse il pianerottolo dove, mentre correva verso le scale, i sibili degli animali echeggiarono come bisbigli eccitati e... Nononono. Lacke cercò di raggiungerla per bloccarla, ma come qualcuno che è convinto di atterrare dolcemente o che non si cura di una caduta rovinosa, Virginia si gettò in avanti a corpo morto sulle scale. Quando rotolò giù per le scale, rimbalzando sugli scalini di cemento, i gatti che rimasero schiacciati urlarono. Scricchiolii umidi di ossa sottili che si spezzano e suoni più pesanti fecero sussultare Lacke quando la testa di Virginia... Qualcosa passò sul piede di Lacke.
Un gattino grigio con un difetto alle gambe posteriori raggiunse il pianerottolo strisciando, si mise a sedere sul primo scalino ed emise un gemito quasi umano. Virginia era immobile in fondo alle scale. I gatti sopravvissuti alla caduta tornavano indietro lungo la scala. Entrarono nell'ingresso e iniziarono a ripulirsi leccandosi. Soltanto il gattino grigio rimase sul pianerottolo, infelice per non aver potuto partecipare. Quella domenica sera la polizia aveva convocato i mass media. Era stata scelta una sala conferenze che poteva ospitare quaranta persone, ma si dimostrò troppo piccola. Erano presenti numerosi inviati e reporter di giornali e tv europee. Il fatto che l'uomo non fosse stato catturato nel corso della giornata aveva ulteriormente amplificato la notizia, e un giornalista inglese fece forse l'analisi migliore del perché quella storia destava tanto interesse: «Si tratta della caccia a un mostro. Il suo aspetto, quello che ha fatto. È il mostro maligno al centro di tutte le saghe. E ogni volta che ne catturiamo uno, vogliamo che sia per sempre.» Già un quarto d'ora prima che la conferenza stampa iniziasse, l'aria nella sala mal ventilata era diventata calda e umida, e gli unici che non si lamentavano erano gli inviati della tv italiana che dichiaravano di essere abituati a condizioni peggiori. Furono fatti tutti accomodare in una sala più grande, e alle otto in punto apparve il capo del distretto di polizia di Stoccolma, affiancato dal commissario che dirigeva l'indagine, quello che aveva parlato con l'assassino mentre era ricoverato in ospedale, e dal responsabile della squadra che aveva operato nella foresta di Judarn durante il giorno. Nessuno dei tre temeva di essere fatto a pezzi dalla muta di giornalisti, dato che era stato deciso di dargli qualcosa da masticare. La polizia era entrata in possesso di una fotografia dell'uomo. Le indagini condotte fino a quel punto avevano dato un risultato. Il sabato, un orologiaio di Karlskrona si era preso la briga di cercare nell'archivio dei certificati di garanzia scaduti e aveva trovato il numero che la polizia aveva chiesto a lui, come ad altri orologiai, di controllare. Aveva telefonato alla polizia e aveva comunicato nome, indirizzo e numero di telefono dell'acquirente che aveva registrato. La polizia di Stoccolma aveva controllato il nome nei registri nazionali e aveva chiesto ai
colleghi della polizia di Karlskrona di andare all'indirizzo in questione. Quando venne alla luce che sette anni prima l'uomo era stato condannato per il tentato stupro di un bambino di nove anni, alla centrale di polizia si sparse una certa eccitazione. L'uomo era stato dichiarato malato di mente ed era rimasto rinchiuso per tre anni in un istituto. Poi lo avevano giudicato guarito ed era stato rilasciato. Ma i colleghi della polizia di Karlskrona lo avevano trovato all'indirizzo indicato e in ottima salute. Sì, l'uomo aveva acquistato un orologio di quella marca. No, non ricordava che fine avesse fatto. Dopo un paio di ore d'interrogatorio alla centrale di Stoccolma, dove gli era stato fatto presente che un certificato di buona salute poteva sempre essere rimesso in discussione, l'uomo si ricordò finalmente a chi aveva venduto l'orologio. Håkan Bengtsson, Karlstad. Si erano incontrati e avevano fatto qualcosa insieme, ma non riusciva a ricordare cosa. In ogni caso, gli aveva venduto l'orologio, ma non conosceva il suo indirizzo ed era in grado di farne soltanto una descrizione approssimativa, e adesso poteva tornarsene a casa? Il nome Håkan Bengtsson non compariva nei registri. La polizia individuò ventiquattro Håkan Bengtsson nella provincia di Karlstad. La metà furono scartati immediatamente per via dell'età. Iniziarono a telefonare ai rimanenti. La ricerca fu enormemente facilitata dal fatto che gli interpellati in grado di parlare potevano essere scartati senza esitazione. Verso le nove di sera, la polizia era riuscita a ridurre la lista a una sola persona. Un Håkan Bengtsson che aveva lavorato come insegnante di svedese in un liceo della città e che si era trasferito quando la sua casa era stata distrutta da un incendio in circostanze poco chiare. Avevano telefonato al preside del liceo che aveva affermato che sì, correvano voci che a Håkan Bengtsson piacessero i bambini in un modo non del tutto normale. Il preside acconsentì anche di recarsi alla scuola quel sabato sera, per consegnare alla polizia una fotografia di Håkan Bengtsson presa dall'archivio dell'anno 1976. Un commissario della polizia di Karlstad, che aveva comunque degli impegni a Stoccolma la domenica successiva, mandò alla polizia di Stoccolma una copia della fotografia per fax e poi partì per la capitale durante la notte con l'originale. La fotografia fu consegnata alla polizia di Stoccolma all'una di notte di domenica, cioè poco più di mezz'ora dopo che l'uomo in questione era saltato dalla finestra dell'ospedale ed era stato dichiarato morto.
La mattina di domenica fu dedicata a verificare, tramite le cartelle cliniche di dentisti e medici, se l'uomo della fotografia fosse lo stesso che la notte prima era rimasto disteso sul letto dell'ospedale e sì: era lui. La domenica pomeriggio si tenne una riunione alla centrale di polizia. L'intenzione era di riuscire a scoprire quello che l'uomo aveva fatto da quando aveva lasciato Karlstad, per capire se i suoi reati fossero parte di una sequenza più vasta e se ci fossero altre vittime lungo la sua strada. Ma ora la situazione era diversa. L'uomo era ancora vivo, in libertà, e la cosa più importante era sapere dove aveva abitato, dato che c'era una buona possibilità che cercasse di tornarvi. I suoi movimenti verso ovest lo facevano pensare. Quindi, fu deciso che, se l'uomo non fosse stato catturato prima dell'inizio della conferenza stampa, si sarebbe fatto ricorso alla in qualche modo inaffidabile ma copiosa schiera di segugi costituita dalla cittadinanza. C'era la possibilità che qualcuno l'avesse visto o avesse un'idea di dove aveva abitato quando il suo volto era ancora quello della fotografia. Inoltre, e questa era soltanto una preoccupazione secondaria, la polizia aveva bisogno di qualcosa da dare in pasto ai mass media. Così, adesso, i tre rappresentanti del corpo di polizia erano seduti al lungo tavolo sul podio, e quando il capo della polizia alzò con un gesto semplice - che era il più efficace in senso teatrale - un ingrandimento della fotografia di Håkan Bengtsson, un mormorio di sorpresa si alzò dalla massa di giornalisti riuniti. «L'uomo che stiamo cercando si chiama Håkan Bengtsson, e prima che il suo volto rimanesse sfigurato, questo era il suo aspetto.» Il capo della polizia fece una pausa per lasciare che le macchine fotografiche e i flash scattassero e per alcuni secondi la sala si trasformò in uno stroboscopio. Naturalmente c'erano copie dell'ingrandimento pronte per essere distribuite, ma con tutta probabilità i giornalisti stranieri avrebbero sicuramente preferito la più accattivante fotografia del capo della polizia con l'assassino nelle sue mani, per così dire. Quando la distribuzione delle fotografie terminò e il responsabile della caccia ebbe finito la sua relazione, arrivò il momento delle domande. Il primo ad avere la parola fu un giornalista del Dagens Nyheter. «Quando contate di catturarlo?» Il capo della polizia respirò profondamente, decise di mettere in gioco la
propria reputazione, si chinò sul microfono e disse: «Domani, al più tardi.» «Ciao.» «Ciao.» Oskar andò nel soggiorno per prendere il disco che aveva scelto. Cercò fra la magra collezione di dischi di sua madre e lo trovò. I Vikingarna. I membri del gruppo erano riuniti sopra la carcassa di una nave vichinga, o almeno era quello che sembrava, che non c'entrava niente con i loro costumi sgargianti. Eli non lo aveva seguito. Oskar tornò in ingresso con il disco in mano. Eli era ancora sul pianerottolo fuori della porta. «Oskar. Devi invitarmi a entrare.» «Ma... la finestra. Sei già stata qui.» «Sì, ma questa è una nuova entrata.» «Ah. Allora puoi...» Oskar si interruppe, si leccò le labbra. Guardò il disco. La fotografia era stata scattata al buio con un flash, i vichinghi risplendevano come un gruppo di santi pronti a scendere sulla terra. Oskar fece un passo avanti e le mostrò il disco. «Guarda. Si direbbe che siano dentro il ventre di una balena.» «Oskar...» «Sì?» Eli rimaneva con le braccia lungo i fianchi fissandolo. Oskar sogghignò. Si avvicinò alla porta e passò una mano fra lo stipite e la soglia. «Cosa? C'è qualcosa?» «Lascia perdere.» «Seriamente. Cosa succede se non ti invito a entrare?» «Lascia perdere» disse Eli con un sorriso forzato. «Vuoi vedere? Cosa succede? È così? Vuoi vedere?» Il suo tono di voce invitava Oskar a dire di no; racchiudeva la promessa di qualcosa di terribile. Ma Oskar deglutì e disse: «Sì. Lo voglio! Fammi vedere!» «Tu, hai scritto sul biglietto...» «Sì, l'ho fatto. Ma adesso fammi vedere! Cosa succede?» Eli strinse le labbra, esitò un secondo e poi fece un passo in avanti e varcò la soglia. Oskar si irrigidì, aspettandosi una specie di fulmine blu, che la porta si muovesse passando attraverso Eli per poi richiudersi o qualcosa di simile. Ma non successe nulla. Eli entrò nell'ingresso e si richiuse la porta
alle spalle. Oskar scrollò il capo. «È tutto?» «Non proprio.» Eli riprese la stessa posizione che aveva assunto sul pianerottolo. Immobile, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo fisso su Oskar. «E allora? Non è...» iniziò Oskar scuotendo il capo. Si interruppe quando vide le lacrime agli angoli degli occhi di Eli. Però non erano lacrime, erano più scure. La pelle sul volto di Eli iniziò a cambiare colore, da rosa diventò rosso chiaro, rosso rubino, e poi i pori del volto si schiusero e dovunque apparvero piccole perle di sangue. Persino sulla gola. Le labbra di Eli si contorsero per il dolore, una goccia di sangue scivolò da un angolo della sua bocca, si riunì alle altre diventando sempre più grande sul mento, finché andò a raggiungere le gocce di sangue sul collo. Le braccia di Oskar persero ogni forza; le lasciò cadere e il disco gli scivolò di mano, cadde con lo spigolo sul pavimento, rimbalzò una volta e poi atterrò sul tappetino dell'ingresso. Il suo sguardo si posò sulle mani di Eli. I dorsi erano coperti da un sottile strato di sangue e dell'altro ne stava uscendo. Rialzò lo sguardo verso gli occhi di Eli. Sembrava che fossero rientrati nelle loro orbite piene di sangue, e il sangue continuava a fuoriuscire e a scorrere ai lati del naso, sopra le labbra e dentro la bocca, dalla quale ne usciva dell'altro, due rivoli colavano dagli angoli della bocca sul collo e sparivano sotto il colletto della sua camicia, dove stava formandosi una macchia più scura. Il sangue usciva da tutti i pori del suo corpo. Oskar trattenne il respiro e poi urlò: «Puoi entrare! Sei la benvenuta, entra pure. Puoi stare qui!» Eli si rilassò. I pugni chiusi si aprirono. La smorfia di dolore sulla sua bocca svanì. Per un attimo, Oskar pensò che anche il sangue sarebbe sparito, che non appena avesse formulato l'invito, tutto sarebbe stato come se niente fosse successo. No. Il sangue non usciva più dai pori, ma il volto e le mani di Eli ne erano ancora ricoperti e, mentre rimanevano immobili l'uno di fronte all'altra senza dire una parola, iniziò lentamente a coagularsi formando strisce e chiazze più scure nei punti dove era colato, e Oskar percepì un vago odore di ospedale.
Raccolse il disco da terra e disse senza guardarla: «Scusami... non credevo che...» «Va bene. Sono stata io a volerlo fare. Ma adesso credo di avere bisogno di una doccia. Hai un sacchetto di plastica?» «Un sacchetto di plastica?» «Sì. Per i vestiti.» Oskar annuì, andò in cucina, aprì le porte dell'armadietto sotto il lavandino e prese un sacchetto di plastica sul quale era scritto: «Ica - Mangiate, bevete e siate felici». Andò nel soggiorno, mise il disco sul tavolino e si fermò di colpo. E se non avessi detto niente? Eli sarebbe morta dissanguata. Fece una palla del sacchetto di plastica, aprì la mano e il sacchetto cadde sul pavimento. Lo raccolse, lo gettò in aria, lo catturò. Dal bagno udì lo scrosciare della doccia. È tutto vero. Lei è... lui è... Andando verso il bagno spiegò il sacchetto. Mangiate, bevete e siate felici. Al di là della porta chiusa si udiva il rumore dell'acqua. L'indicatore sopra la serratura era sul bianco. Oskar bussò discretamente. «Eli?» «Sì. Entra.» «No, volevo solo darti il sacchetto.» «Non ho sentito cosa hai detto. Entra.» «No.» «Oskar, io...» «Lascio il sacchetto davanti alla porta!» Lo posò e scappò nel soggiorno. Tolse il disco dalla custodia, lo posò sul piatto del giradischi, accese e cercò con la puntina la terza canzone, la sua preferita. Un preludio piuttosto lungo, e poi la voce morbida del cantante iniziò a diffondersi dagli altoparlanti. La ragazza mette dei fiori tra i suoi capelli E cammina lentamente attraverso il prato. Quest'anno compirà diciannove anni E camminando sorride fra sé felice. Eli entrò nel soggiorno. Aveva legato un asciugamano intorno alla vita e in mano aveva il sacchetto di plastica con i suoi vestiti. Adesso il suo viso era pulito, incorniciato dai capelli bagnati. Fermo davanti al giradischi, Oskar incrociò le braccia e le fece un cenno con il capo.
Perché sorridi, le chiede il ragazzo Quando si incontrano per caso al cancello Sì, perché penso a quello che avrò, Risponde la ragazza dagli occhi blu. Quello che io amo con tutto il cuore. «Oskar?» «Sì?» abbassò il volume e inclinò la testa verso il giradischi. «Ridicola, no?» Eli scosse il capo. «No, è carina. Mi piace.» «Davvero?» «Sì. Ma tu...» Eli si interruppe, diede l'impressione di voler dire qualcos'altro, ma invece slegò l'asciugamano che aveva intorno alla vita che cadde ai suoi piedi. Ora, era nuda a pochi passi da Oskar. Eli passò le mani lungo i fianchi del suo esile corpo. «Così adesso saprai.» ... giù fino alla spiaggia, dove disegnano sulla sabbia. Poi si dicono a vicenda: Tu sei il mio amore, e sei tu quello che voglio, La-la-lalala... Un breve passaggio strumentale e poi la canzone finì. Quando la puntina passò alla canzone successiva, dagli altoparlanti si udì un leggero fruscio. Oskar fissava il corpo di Eli. Contro la sua pelle pallida, i piccoli capezzoli sembravano quasi neri. La parte superiore del suo corpo era esile, dritta e quasi priva di contorni. Soltanto le costole risaltavano chiaramente alla luce della lampada al soffitto. Le sue braccia e gambe così magre sembravano lunghe in modo quasi innaturale, come un giovane albero coperto da pelle umana. Fra le gambe non aveva... nulla. Niente pene, niente vagina. Soltanto una superficie di pelle liscia. Oskar si passò una mano fra i capelli e la lasciò sulla nuca. Non voleva dire quella ridicola parola che sua madre usava, ma gli uscì ugualmente di bocca. «Non hai... un pisello.» Eli chinò la testa e si guardò in mezzo alle gambe come se stesse scoprendo qualcosa di completamente nuovo. Partì la nuova canzone e Oskar non udì la risposta di Eli. Spostò la leva che faceva sollevare la puntina dal disco.
«Cosa hai detto?» «Ho detto che ne avevo uno.» «E cosa gli è successo?» Eli si mise a ridere e Oskar arrossì leggermente, consapevole di avere fatto una domanda ridicola. Eli alzò un braccio e portò il labbro inferiore su quello superiore. «L'ho dimenticato sulla metropolitana.» «Ah, ah, ah. Non farmi ridere.» Senza guardarla, Oskar le passò davanti e andò in bagno per controllare che non avesse lasciato tracce. Il vapore caldo era rimasto nell'aria, lo specchio era appannato. La vasca era bianca come prima, con la stessa vaga linea giallognola che non andava mai via. Il lavandino era pulito. Tutto questo non è successo. Eli era andata in bagno soltanto per salvare le apparenze, abbandonando l'illusione. Ma, no: il sapone. Oskar lo prese. Si vedevano chiaramente vaghe tracce rosa, e nella piccola conca in alto a destra del lavandino, nell'acqua che vi si era raccolta, c'era qualcosa che ricordava un girino, sì: era vivo, e quando iniziò a muoversi Oskar fece un passo indietro sussultando. Muoveva la coda, nuotava e, raggiunto il bordo della conca, scivolò verso il lavandino, ma rimase bloccato lì. Immobile, senza vita ora. Oskar aprì il rubinetto e lo spruzzò d'acqua facendolo scivolare dentro il buco di scarico. Poi risciacquò il sapone e pulì la conca. Prese il suo accappatoio dal gancio, tornò nel soggiorno e lo porse a Eli che era rimasta al centro della stanza guardandosi intorno. «Grazie. Quando torna tua madre?» «Fra un paio d'ore» disse Oskar alzando il sacchetto con i suoi vestiti. «Li butto via?» Eli infilò l'accappatoio e strinse la cintura. «No. Lo prenderò quando me ne vado.» Toccò la spalla di Oskar. «Senti. Adesso capisci che non sono una ragazza e che non sono...» Oskar fece un passo indietro. «Dio mio, sei proprio una lagna! Lo so benissimo. Me lo hai già detto.» «Io non te l'ho detto.» «Sì, che me lo hai detto.» «Quando?» Oskar rifletté un attimo.
«Non ricordo, ma in ogni caso lo sapevo. Da tanto tempo.» «Ti dispiace?» «Perché dovrebbe dispiacermi?» «Perché... non so. Perché forse pensi che sarà difficile per via dei tuoi amici.» «Smettila! Smettila! Tu non sei a posto con la testa. Smettila.» «Okay.» Eli passò le mani sulla cintura dell'accappatoio e poi si avvicinò al giradischi e fissò il piatto che girava. Si guardò intorno. «Sai, è passato tanto tempo da quando sono stata in una casa come questa, da qualcuno. Non sono sicura... Cosa devo fare?» «Non lo so.» Eli abbassò le spalle e infilò le mani nelle tasche dell'accappatoio. Aprì la bocca per dire qualcosa, la richiuse. Sfilò la mano destra dalla tasca, la allungò verso il giradischi e pose l'indice sul disco facendolo fermare. «Attenta. Puoi rovinarlo.» «Scusa.» Eli tolse immediatamente il dito dal disco che riprese a girare. Oskar vide che il dito aveva lasciato una macchia umida che diventava visibile ogni volta che quel punto passava sotto la luce della lampada. Eli reinfilò la mano in tasca e rimase con lo sguardo fisso sul disco come se stesse cercando di sentire la musica guardando i solchi. «Forse ti sembrerà strano, ma...» gli angoli della sua bocca tremarono. «... sono duecento anni che non ho un amico normale.» Fissò Oskar con un sorriso imbarazzato di scusa-se-dico-cose-cosìridicole. Oskar spalancò gli occhi. «Sei così vecchia?» «Sì. No. Sono nata circa duecentoventi anni fa, ma per metà di quel tempo ho dormito.» «Questo lo faccio anch'io. Be', in ogni caso, otto ore che farebbero... un terzo.» «Sì. Ma quando io parlo del sonno, voglio dire che possono passare diversi mesi senza che mi svegli. E poi per diversi mesi... vivo. Anche se di giorno riposo.» «È così che funziona?» «Non lo so. Ma è così per me. E quando mi risveglio, sono ancora piccola. E debole. Ed è allora che ho bisogno di aiuto. Forse è per questo che sono sopravvissuta. Perché sono piccola. E le persone vogliono aiutarmi.
Anche se i motivi possono essere molto diversi.» Quando Eli strinse i denti, un'ombra passò sul suo volto. Affondò le mani ancora di più nelle tasche, trovò qualcosa, lo tirò fuori. Una striscia di carta rilucente. Qualcosa che la madre di Oskar aveva dimenticato; a volte usava l'accappatoio del figlio. Eli ripose il pezzo di carta nella tasca cautamente, come se fosse qualcosa di prezioso. «Dormi in una bara?» Eli si mise a ridere e scrollò il capo. «No. No. Io...» Oskar non poteva più tenerla dentro di sé. Quando formulò la domanda, non era sua intenzione che suonasse come un'accusa. «Ma tu uccidi la gente!» Eli lo fissò negli occhi con un'espressione di sorpresa, come se Oskar avesse voluto affermare con forza che aveva cinque dita in ogni mano o un dettaglio altrettanto ovvio. «Sì. Io uccido le persone. Sfortunatamente.» «Perché lo fai?» Un flash di ira gelida passò sugli occhi di Eli. «Se hai un'idea migliore, puoi benissimo dirmela.» «Sì, perché... per il sangue... deve esserci un modo per... qualche modo per...» «Non c'è.» «Perché non c'è?» Eli sbuffò, i suoi occhi si rimpicciolirono. «Perché io sono come te.» «Come sarebbe a dire come me?» Eli agitò la mano nell'aria come se avesse un coltello in mano. «Perché mi guardi così, stupido idiota? Vuoi forse morire?» Abbassò la mano vuota e colpì. «Ecco cosa capita a quelli che mi fissano.» Oskar si inumidì le labbra. «Cosa stai dicendo?» «Lo sai benissimo. Sono le tue parole. Sono state le prime parole che ti ho sentito dire. Giù in cortile.» Oskar si ricordò. L'albero. Il coltello. Aveva tenuto la lama come uno specchio e aveva visto Eli per la prima volta. Sei visibile negli specchi? La prima volta che ti ho vista è stato in uno specchio. «Io... non uccido le persone.»
«No. Ma vorresti farlo. Se potessi. E lo faresti sicuramente in caso di necessità.» «Perché li odio. C'è una bella...» «Differenza? È questo che vuoi dire?» «Sì...» «Se potessi cavartela. Se succedesse e basta. Se tu potessi augurare a qualcuno di morire e quello morisse. Lo faresti allora?» «Sì.» «Sì. E lo faresti soltanto per il tuo piacere. Per vendetta. Io lo faccio perché devo. Non esiste un altro modo.» «Ma è perché loro mi fanno male, mi prendono in giro, perché io voglio...» «Perché tu vuoi vivere. Proprio come me.» Eli tese le braccia, mise le mani sulle guance di Oskar, avvicinò il viso al suo. «Sii me, per un po'.» E lo baciò. Le dita dell'uomo sono arcuate intorno ai dadi e Oskar nota che le sue unghie sono dipinte di nero. Il silenzio avvolge la sala come una nebbia soffocante. La mano sottile si apre... lentamente... e i dadi cadono sul tavolo... pa-bang. Sbattono l'uno contro l'altro, rotolano, si fermano. Un due. E un quattro. Quando l'uomo si muove lungo il tavolo e si ferma davanti a file di ragazzi come un generale davanti alle sue truppe, Oskar prova una sensazione di sollievo, senza però sapere da cosa sia causata. La voce dell'uomo è atona, né profonda né alta, quando alza un lungo dito indice e inizia a contare i ragazzi. «Uno... due... tre... quattro...» Oskar guarda a sinistra, da dove l'uomo ha iniziato a contare. I ragazzi sono rilassati, sollevati. Un singhiozzo. Il ragazzo vicino a Oskar si piega in avanti, il suo labbro inferiore trema. Ah. È lui il... numero sei. Adesso Oskar capisce il motivo della sua sensazione di sollievo. «Cinque... sei... sette.» L'indice è puntato dritto su Oskar. L'uomo lo guarda negli occhi. E sorride. NO!
Non era... Oskar distoglie lo sguardo, fissa i dadi. Un tre e un quattro. Il ragazzo vicino a Oskar si guarda intorno confuso, come se si fosse appena svegliato da un incubo. I loro sguardi si incontrano. Vuoti. Senza capire. Poi si ode un urlo da oltre il muro. ... madre... La donna con lo scialle marrone corre verso di lui, ma due uomini le si parano davanti e la spingono verso il muro di pietra. Le braccia di Oskar si alzano come se volesse afferrarla mentre sta cadendo, e le sue labbra formano la parola ... mamma! ma in quel momento, mani forti come nodi si posano sulle sue spalle e lo trascinano via dalla fila verso una piccola porta. L'uomo con la parrucca, che continua a tenere l'indice alzato, lo segue mentre viene spinto fuori dalla sala, dentro a una stanza buia che puzza di ... alcol... ... poi uno scintillio, immagini sfuocate: luce, buio, pietra, pelle nuda... finché l'immagine non si stabilizza e Oskar sente una forte pressione sul suo torace. Non può muovere le braccia. Il suo orecchio destro, premuto contro un'asse di legno, sembra sul punto di scoppiare. C'è qualcosa nella sua bocca. Un pezzo di fune. Oskar succhia la fune, apre gli occhi. È disteso su un tavolo, prono. Le braccia legate alle gambe del tavolo. È nudo. Davanti ai suoi occhi ci sono due figure: l'uomo con la parrucca e un altro. Un piccolo uomo grasso dall'aspetto... divertente. No. Sembra uno che crede di essere divertente. Racconta sempre storie che non fanno ridere nessuno. In una mano l'uomo divertente ha un coltello, nell'altra tiene una coppa. C'è qualcosa che non torna. La pressione sul suo torace, sul suo orecchio. Contro le ginocchia. Dovrebbe esserci una pressione anche contro il pisello. Ma è come se proprio in quel punto ci fosse un buco nel tavolo. Oskar cerca di girarsi per vedere, ma è legato troppo stretto. L'uomo con la parrucca dice qualcosa all'uomo divertente che si mette a ridere annuendo. Poi, si chinano insieme. L'uomo con la parrucca fissa Oskar. I suoi occhi sono blu chiaro, come il cielo in una giornata d'autunno. Si direbbe gentilmente interessato. L'uomo guarda negli occhi di Oskar come se vi stesse cercando qualcosa di bello dentro, qualcosa che ama.
L'uomo divertente striscia sotto il tavolo con il coltello e con la coppa in mano. E Oskar capisce. Sa anche che se solo riuscisse a... far uscire quel pezzo di fune dalla bocca, non avrebbe bisogno di essere lì. Poi, sparisce. Oskar cercò di tirare indietro la testa, per interrompere il bacio. Ma Eli, che si aspettava quella reazione, gli aveva messo le mani dietro la nuca, le labbra strette contro le sue, costringendolo a rimanere nei suoi ricordi. Il pezzo di fune viene premuto nella sua bocca, e un suono sibilante e umido si ode quando Oskar scoreggia dalla paura. L'uomo con la parrucca arriccia il naso e schiocca le labbra in segno di disapprovazione. I suoi occhi non cambiano. Hanno la stessa espressione di quelli di un bambino che sa che la scatola di cartone che sta aprendo contiene un cucciolo di cane. Dita gelide afferrano il pene di Oskar e lo tirano. Oskar apre la bocca per urlare «nooo!», ma il pezzo di fune gli impedisce di formulare la parola e tutto quello che esce dalla sua bocca è un «aaaaaah!» L'uomo sotto il tavolo chiede qualcosa e l'uomo con la parrucca annuisce, senza distogliere lo sguardo da Oskar. Poi, il dolore. Una barra incandescente viene infilata nel suo inguine, scivola su nel suo stomaco, un tubo di fuoco gli attraversa tutto il corpo, e lui inizia a urlare, e mentre urla i suoi occhi si riempiono di lacrime e il suo corpo brucia. Il suo cuore batte contro il tavolo come un pugno contro una porta, chiude gli occhi, morde la fune e sente un gorgoglio, e vede... ... sua madre che sta sciacquando dei vestiti inginocchiata sulla riva di un ruscello. Mamma. Mamma. Perde qualcosa, un pezzo di stoffa e Oskar si alza, è rimasto disteso e il suo corpo brucia, si alza, corre verso il ruscello, verso il pezzo di stoffa che sta scorrendo via rapidamente, si getta nel ruscello per spegnere il fuoco nel suo corpo, per salvare il pezzo di stoffa, e riesce ad afferrarlo. È la camicia di sua sorella. La alza verso la luce, verso la silhouette di sua madre sulla riva, e gocce d'acqua scivolano giù dalla camicia, luccicando ai raggi del sole, e cadono nel ruscello, nei suoi occhi, e non riesce a vedere chiaramente per l'acqua che gli scorre sugli occhi, sulle guance, quando... ... apre gli occhi e vede confusamente i capelli biondi, gli occhi blu come stelle lontane. Vede la coppa che l'uomo ha nella mano, la coppa che porta alle labbra, e come beve. Come l'uomo chiude gli occhi, finalmente
chiude gli occhi e beve... Più tempo... Tempo senza fine. Imprigionato. L'uomo morde. E beve. Morde. E beve. Poi, quando la barra incandescente raggiunge la sua testa e tutto diventa rosso chiaro, quando getta la testa dietro la fune e cade... Quando si staccò dalle sue labbra, Eli lo abbracciò. Lo tenne stretto a sé. Oskar cercò di afferrare quello che riusciva ad afferrare, il corpo davanti a sé, e gli si aggrappò con forza, guardandosi intorno senza vedere. Calmo, così. Dopo un po', i suoi occhi ripresero a focalizzare. Tappezzeria. Beige con rose bianche appena visibili. La riconosceva. Era la carta da parati del soggiorno. Era nel soggiorno dell'appartamento dove abitava con sua madre. E fra le sue braccia c'era... Eli. Un ragazzo. Il mio amico. Sì. Oskar provò un senso di malessere, vertigini. Si liberò dall'abbraccio e si mise a sedere sul divano, si guardò intorno per assicurarsi di essere tornato, di non essere rimasto... lì. Deglutì, si rese conto di essere in grado di ricordare ogni dettaglio del luogo che aveva appena visitato. Era come un vero ricordo. Qualcosa che gli era accaduto di recente. L'uomo divertente, la coppa, il dolore... Eli era inginocchiata sul pavimento davanti a lui, le mani contro lo stomaco. «Scusa.» Proprio come... «Che cos'è successo alla mamma?» Eli lo fissò sorpresa. «Vuoi dire... mia madre?» «No...» Oskar vedeva davanti a sé l'immagine della mamma che stava sciacquando i panni nel ruscello. Però non era sua madre. Non si assomigliavano. Si strofinò gli occhi. «Sì. Proprio così. Tua madre.» «Non lo so.» «Non saranno quelli che...» «Non lo so!» Eli strinse le mani sullo stomaco finché le nocche non diventarono bianche e inarcò le spalle. Poi sembrò rilassarsi e disse: «Non lo so. Scusa. Scusa per tutto. Volevo che tu potessi... non so. Scusami. Sono stata stupida.»
Eli era una copia di sua madre. Più piccola, più esile, ma una copia. Con tutta probabilità, fra vent'anni Eli sarebbe stata uguale alla donna al ruscello. A parte il fatto che non è possibile. Fra vent'anni sarà esattamente com'è adesso. Oskar sospirò esausto e si appoggiò allo schienale del divano. Troppo. Una leggera emicrania passava da una tempia all'altra. Troppo. Eli si alzò. «Adesso vado.» Oskar si portò una mano alla fronte. Non aveva la forza di protestare, di pensare a quello che avrebbe dovuto fare. Eli si tolse l'accappatoio e questa volta, sulla sua pelle pallida, Oskar scorse una leggera macchia rosa, una cicatrice. Come fa quando deve... fare pipì? Forse non... Non aveva la forza di formulare la domanda. Eli si accovacciò davanti al sacchetto di plastica, lo aprì e prese i suoi vestiti. «Posso dartene qualcuno dei miei» disse Oskar. «Va bene così.» Eli prese la camicia a quadri. Le macchie scure erano evidenti. Oskar si chinò in avanti. Il mal di testa continuava a passare da una tempia all'altra. «Non essere stupida, puoi...» «Va bene così.» Eli s'infilò la camicia macchiata di sangue. «Sei disgustosa, lo vuoi capire. Sei disgustosa.» «Lo pensi davvero?» chiese Eli sfilandosi la camicia. «Sì.» Eli si tolse la camicia e la rimise nel sacchetto di plastica. «Cosa devo mettermi allora?» «Scegli quello che vuoi nel guardaroba.» Eli annuì, uscì dal soggiorno, mentre Oskar si stendeva sul divano su un fianco, con le mani sulle tempie come per timore che esplodessero. La mamma, la mamma di Eli, mia madre, Eli, io. Duecento anni. Il papà di Eli. Il papà di Eli? Quell'uomo... Vecchio. Eli tornò nel soggiorno. Oskar aprì la bocca per dire quello che aveva intenzione di dire, ma si fermò quando vide che indossava un vestito. Un vestito estivo giallo pallido con piccoli pois bianchi. Uno dei vestiti di sua madre. Eli si passò le mani sui fianchi. «Va bene? Ho preso quello più usato.» «Ma è il vestito di mia madre.»
«Te lo riporterò.» «Sì. Sì. Sì.» Eli si avvicinò, gli si accovacciò davanti, prese la sua mano. «Oskar? Mi dispiace di... non so cosa devo fare.» Oskar alzò una mano per farla smettere. «Sai che quel vecchio è scappato?» «Quale vecchio?» «Il vecchio che... hai detto che era tuo padre. Quello che abitava con te.» «Cosa ha fatto?» Oskar chiuse gli occhi. Fulmini blu passavano sotto le sue palpebre. La sequenza degli eventi che aveva ricostruito con i ritagli di giornale gli attraversava la mente a grande velocità, fu colto dalla rabbia e tolse la mano da quella di Eli, la chiuse e la batté contro la fronte. «Smettila. Devi smetterla. Io so tutto, okay. Smettila di fingere. Smettila di mentire, sono così maledettamente stanco di tutta questa storia.» Eli non disse nulla. Oskar appoggiò le mani sugli occhi chiusi, respirando profondamente. «Il vecchio è scappato. Gli hanno dato la caccia tutto il giorno senza trovarlo. Adesso lo sai.» Una pausa. Poi, la voce di Eli, sopra la testa di Oskar. «Dove lo hanno cercato?» «Qui. Nella foresta di Judarn. Ad Åkeshov.» Oskar aprì gli occhi. Eli si era alzata, la mano sulla bocca, gli occhi sbarrati pieni di terrore. Il vestito era troppo grande, pendeva come un sacco sulle sue spalle esili: assomigliava a una bambina che aveva preso il vestito di sua madre di nascosto, e ora si aspettava una punizione severa. «Oskar» disse Eli. «Non uscire. Quando è buio. Promettimelo.» Il vestito. Le parole. Oskar sbuffò, non poté fare a meno di dirglielo. «Parli come mia madre.» Lo scoiattolo sta scendendo dal tronco della quercia, si ferma, rimane in ascolto. Il suono di una sirena echeggia in lontananza. Un'ambulanza, con la luce blu, a sirene spiegate, passa in Bergslagsvägen. Dentro l'ambulanza ci sono tre persone. Lacke Sörensson è seduto su un sedile pieghevole e tiene la mano lacerata e pallida di Virginia Lindblad. Un infermiere tiene una mano sulla sacca di soluzione salina che aiuta il
cuore di Virginia a pompare, considerando il sangue che ha perso. Lo scoiattolo giudica che il suono della sirena non è pericoloso. Continua la sua corsa verso il basso. Per tutto il giorno, nella foresta è stato un brulicare di persone e di cani. Neppure un attimo di tranquillità, ma adesso che fa buio lo scoiattolo osa scendere dalla quercia dove è stato costretto a rimanere per tanto tempo. Ora i cani hanno smesso di abbaiare e le persone di parlare. Anche l'uccello che saltellava avanti e indietro da un ramo all'altro sembra essere tornato al suo nido. Lo scoiattolo arriva ai piedi dell'albero e corre su una lunga radice. Non gli piace correre sul terreno quando è buio, ma la fame lo costringe a farlo. Si muove con cautela, si ferma e rimane in ascolto, si guarda intorno. Passa lontano dalla tana di una famiglia di tassi che abitavano lì durante l'estate. Non li ha più visti da mesi, ma è meglio essere prudenti. Alla fine raggiunge la sua meta, il più vicino dei tanti depositi per l'inverno che ha preparato durante l'autunno. Con il calare della sera, la temperatura è tornata sotto lo zero, e sulla neve che si è sciolta durante il giorno si è formata una sottile crosta dura. Lo scoiattolo gratta la superficie della crosta con le zampe, fa un buco e vi si infila. Si ferma, rimane in ascolto, riprende a scavare. Fra la neve, le foglie morte, la terra. Proprio mentre sta prendendo una ghianda con le zampe, sente un rumore. Pericolo. Prende la ghianda fra i denti e si arrampica sul tronco di un pino senza avere il tempo di ricoprire il suo deposito. Una volta al sicuro su un ramo alto, prende la ghianda fra le zampe cercando di localizzare il rumore. La fame è grandissima e il cibo è a pochi centimetri dalla bocca, ma prima di mangiare deve localizzare la fonte del pericolo. La testa dello scoiattolo si muove rapidamente da destra a sinistra, il suo naso trema, mentre guarda in basso verso il paesaggio di ombre sotto le sue zampe e individua la fonte del rumore. Sì. Avere allungato la strada per evitare la tana dei tassi si è rivelato corretto. Il rumore proviene dalla tana dei tassi. I tassi non sono in grado di arrampicarsi sugli alberi. Lo scoiattolo abbassa leggermente la guardia, morsica un pezzo di ghianda mentre continua a studiare il terreno, adesso più come lo spettatore di uno spettacolo teatrale. Vuole vedere quanti tassi ci sono.
Ma quello che esce dalla tana non è un tasso. Lo scoiattolo toglie la ghianda dalla bocca, osserva. Cerca di capire. Cerca di collegare quello che vede a quello che conosce. Ma non ci riesce. Forse una cosa così riesce ad arrampicarsi sugli alberi. Non si può mai essere abbastanza prudenti. Domenica 8 novembre (sera/notte) Sono le otto e mezza di domenica sera. Mentre l'ambulanza con Virginia e Lacke passa sul ponte di Traneberg, mentre il capo del distretto di polizia di Stoccolma solleva la fotografia davanti ai giornalisti, mentre Eli sceglie un vestito dal guardaroba della madre di Oskar, mentre Tommy versa della colla in un sacchetto di plastica e respira i vapori squisiti che intontiscono e fanno dimenticare, mentre uno scoiattolo, la prima creatura vivente a farlo da quattordici ore, vede Håkan Bengtsson, Staffan, uno di quelli che gli hanno dato la caccia, si sta versando del tè. Non si è reso conto che il beccuccio della teiera è sbrecciato, così un rivolo di tè cola lungo la teiera fino al ripiano del lavandino. Staffan borbotta qualcosa e inclina la teiera ancora di più, il tè esce di getto e fa cadere il coperchio dentro la tazza. Del tè bollente si versa sulla sua mano, e lui è costretto a posare la teiera di scatto, poi distende le braccia lungo i fianchi e ripassa mentalmente le lettere dell'alfabeto ebraico per controllare l'impulso di gettare la teiera contro il muro. Alep, bet, gimel, dalet... Yvonne entrò in cucina e vide Staffan con il capo chino sul lavandino e gli occhi chiusi. «Cosa c'è?» Staffan si scosse. «Niente.» Lamed, mem, nun, samek... «Sei triste?» «No.» Qop, res, sin, taw. Bene. Adesso va meglio. Riaprì gli occhi e fece un gesto verso la teiera. «Quella teiera non vale niente.» «Perché?»
«Perché quando cerchi di versare il tè, esce tutto fuori.» «Non l'avevo mai notato.» «In ogni caso, è così.» «Io non ho mai avuto problemi con quella teiera.» Staffan strinse le labbra, allungò la mano scottata dal tè verso Yvonne e fece un gesto: Pace. Shalom. Sta' zitta. «Yvonne, in questo momento sento un'irresistibile voglia di darti uno schiaffo. Perciò, per favore, chiudi il becco.» Yvonne fece un mezzo passo indietro. Qualcosa dentro di lei si era preparato a una reazione simile. Non aveva lasciato che quell'intuizione arrivasse alla superficie, ma si era resa conto che Staffan, dietro la sua facciata di uomo pio, nascondeva un essere collerico. Incrociò le braccia, respirò profondamente un paio di volte. Staffan rimaneva immobile, lo sguardo fisso sul coperchio della teiera sul fondo della sua tazza. «Hai l'abitudine di farlo?» chiese Yvonne. «Cosa?» «Picchiare.» «Ti ho mai picchiata?» «No, ma hai detto che...» «L'ho detto. E tu mi hai ascoltato. Adesso è tutto a posto.» «E se non ti avessi ascoltato?» Staffan sembrava completamente calmo, Yvonne si tranquillizzò e abbassò le braccia. Staffan le prese le mani e le baciò leggermente. «Yvonne. Dobbiamo prestare ascolto l'uno all'altra.» Yvonne versò il tè e portarono le tazze nel soggiorno. Staffan si disse che doveva ricordarsi di comprarle una teiera nuova. Yvonne gli chiese come andavano le ricerche nella foresta di Judarn e Staffan le raccontò. Yvonne stava facendo del suo meglio per mantenere la conversazione su altri temi, ma alla fine Staffan fece l'inevitabile domanda. «Dov'è Tommy?» «Non lo so.» «Non lo sai? Yvonne...» «Sì, è andato da un amico.» «Mmm. Quando torna a casa?» «Ma... credo che resterà da lui per la notte. Là.» «Là?» «Sì, da...»
Yvonne cercò di ricordare i nomi degli amici di Tommy che conosceva. Non voleva dire a Staffan che Tommy stava fuori la notte senza che lei sapesse dov'era. Staffan era fissato con le responsabilità dei genitori. «Da Robban.» «Robban. È il suo migliore amico?» «Sì, lo è.» «Come si chiama di cognome?» «Ahlgren, perché? È qualcuno che tu hai...» «No, stavo soltanto pensando.» Staffan prese il cucchiaino e lo batté leggermente contro la tazza. Si udì un leggero tintinnio. Staffan annuì. «Bene. Senti, credo che dovremmo telefonare a quel Robban e dire a Tommy di tornare a casa per un po'. Così potrò parlargli.» «Non ho il numero.» «No? Ma... Ahlgren. Saprai dove abita? In ogni caso basta guardare nell'elenco telefonico.» Staffan si alzò dal divano e Yvonne si morse il labbro inferiore. Aveva capito che stava creando un labirinto dal quale sarebbe stato sempre più difficile uscire. Staffan tornò con l'elenco telefonico, si mise al centro della stanza e iniziò a sfogliare. «Ahlgren, Ahlgren... Mmm. In che via abita?» «Io... Björnsonsgatan.» «Björnsonsgatan... no. Non c'è nessun Ahlgren a Björnsonsgatan. Ma ce n'è uno a Ibsengatan. Può essere quello?» Yvonne non rispose, Staffan tenne il dito sulla pagina dell'elenco e disse: «Credo che proverò con questo numero, in ogni caso. Robert, deve essere lui.» «Staffan...» «Sì?» «Gli ho promesso di non dirti dov'è.» «Adesso non capisco più niente.» «Tommy. Gli ho promesso che non ti avrei detto dov'è.» «Così non è da Robban?» «No.» «Allora, dov'è?» «Io... io ho promesso.» Staffan posò l'elenco sul tavolino e andò a sedersi sul divano accanto a
Yvonne che, dopo avere bevuto un sorso di tè, teneva la tazza davanti al viso come se cercasse di nascondersi. Staffan le mise una mano sul ginocchio. «Yvonne. Tu devi capire che...» «Ho fatto una promessa.» «Voglio soltanto parlargli. Scusami, Yvonne, ma io credo che sia precisamente questa incapacità di affrontare i problemi quando si presentano che fa sì che si verifichino. La mia esperienza con i giovani mi ha insegnato che più rapidamente devono rendere conto di ciò che hanno fatto, maggiori sono le possibilità... Prendi un eroinomane. Se qualcuno fosse intervenuto quando il ragazzo si limitava a prendere soltanto, diciamo hashish...» «Tommy non usa quella roba.» «Ne sei veramente sicura?» Rimasero in silenzio. Yvonne sapeva che, per ogni secondo che passava, un "sì" come risposta alla domanda di Staffan non avrebbe avuto alcun valore. A quel punto aveva già risposto "no" pur senza pronunciarlo. E talvolta Tommy era strano. Quando tornava a casa. Qualcosa nei suoi occhi. E se... Staffan si appoggiò al divano, sapeva di avere vinto la battaglia. Adesso aspettava soltanto di ascoltare le condizioni di Yvonne. Yvonne abbassò lo sguardo sul tavolino come se stesse cercando qualcosa. «Cosa c'è?» «Le mie sigarette, le hai...» «Sono in cucina. Yvonne...» «Sì. Sì. Non devi andare da lui adesso.» «No. Sei tu quella che decide. Se tu pensi che...» «Domani mattina. Prima che vada a scuola. Prometti. Di non andare adesso.» «Promesso. Sì. In che posto misterioso si nasconde?» Yvonne glielo disse. Poi, andò in cucina e fumò una sigaretta, soffiando il fumo fuori dalla finestra. Ne fumò un'altra curandosi meno di dove il fumo andava a finire. Quando Staffan entrò in cucina, scacciò dimostrativamente il fumo con una mano e le chiese dove fosse la chiave della cantina. Yvonne disse che non ricordava, ma che probabilmente se ne sarebbe ricordata al mattino presto.
Se fosse stato gentile. Quando Eli se ne fu andata, Oskar andò a sedersi al tavolo della cucina a osservare gli articoli che aveva ritagliato. Il dolore alle tempie diminuiva a mano a mano che le impressioni cominciavano ad assumere una forma. Eli gli aveva spiegato che l'uomo era... contagiato. Ma c'era di peggio. L'infezione era la sola cosa che lo teneva in vita. Il suo cervello era morto, ma l'infezione faceva sì che continuasse ad agire. Contro Eli. Eli gli aveva detto, lo aveva pregato, di non fare niente. Se ne sarebbe andata il giorno dopo, non appena avesse fatto buio, e allora Oskar le aveva chiesto perché non se ne andava adesso, subito. Perché... non è possibile. Perché no? Io posso aiutarti. Oskar, non è possibile. Sono troppo debole. Perché dovresti essere debole? Tu hai... Sono debole, e basta. E Oskar aveva capito che a Eli mancavano le forze per colpa sua. Tutto il sangue che aveva perso in ingresso. Se il vecchio riusciva a prenderla, la colpa era sua. I vestiti! Si alzò di scatto, facendo cadere all'indietro la sedia, che andò a sbattere sul pavimento. Il sacchetto di plastica con i vestiti era ancora sul pavimento davanti al divano, la camicia spuntava fuori per metà. La ricacciò dentro e, schiacciando il sacchetto, gli sembrò di stringere una spugna bagnata. Si bloccò e guardò la mano con la quale aveva toccato la camicia. La crosta che si era formata sul taglio che si era inferto si era leggermente spezzata e lasciava intravedere la ferita sottostante. ... il sangue... non voleva mischiarlo... sono... contagiato? Muovendo le gambe come un automa andò verso la porta, la aprì e uscì sul pianerottolo. Rimase in ascolto. Non c'era nessuno sulle scale, neppure giù nell'androne. Corse verso lo scarico dei rifiuti e aprì la botola. Mise dentro il sacchetto e lo lasciò dondolare nel buio. Un getto di aria fresca salì dal basso, gelando la sua mano che stringeva il nodo di plastica. Il sacchetto sembrava più bianco sullo sfondo delle pareti ruvide e scure del condotto. Se lo avesse lasciato andare, non sarebbe stato risucchiato verso l'alto. Sarebbe caduto in basso. La forza di gravità lo avrebbe tirato in basso. Verso il grande sacco dei rifiuti.
Fra alcuni giorni, sarebbe arrivato il camion della nettezza urbana a raccoglierlo. Passavano al mattino presto. La luce arancione intermittente si rifletteva sul soffitto della sua camera più o meno quando si svegliava, e lui rimaneva disteso sul letto ad ascoltare il frastuono dei rifiuti che venivano compattati. A volte, si alzava per andare alla finestra a osservare i netturbini con le loro tute che, con un gesto reso semplice dall'abitudine, gettavano il sacco dentro al camion e spingevano il pulsante. Le ganasce del camion si aprivano e si chiudevano, i netturbini saltavano sul predellino e il camion si muoveva in direzione del portone successivo. Ogni volta che li osservava, Oskar provava una sensazione di calore. Si sentiva al sicuro nella sua camera. Perché le cose funzionavano. E forse provava anche una specie di desiderio. Di essere con quegli uomini. Seduto nella cabina fiocamente illuminata, andarsene. Devo lasciarlo. Devo lasciarlo cadere. La mano rimaneva chiusa intorno al sacchetto, come se fosse in preda a un crampo. Il braccio gli doleva per averlo tenuto così a lungo. La mano era gelata dalla corrente d'aria. Lasciò la presa. Udì il rumore del sacchetto che strisciava lungo la parete del condotto, mezzo secondo di silenzio mentre cadeva liberamente, e poi il tonfo quando atterrò nel sacco. Ti aiuterò. Fissò la sua mano. La mano che aiuta. La mano che... Ucciderò qualcuno. Prenderò il mio coltello e andrò a uccidere qualcuno. Jonny. Gli taglierò la gola e raccoglierò il sangue e poi lo porterò a Eli, perché adesso che sono stato contagiato non ha più alcuna importanza e presto anch'io diventerò... Le gambe si piegarono sotto di lui e fu costretto a sostenersi al bordo della botola per non accasciarsi a terra. Lo aveva pensato. Per davvero. Non era come il gioco con l'albero. Per un attimo, aveva veramente pensato di farlo. Caldo. Era caldo come se avesse avuto la febbre. Aveva male in tutto il corpo e avrebbe voluto sdraiarsi. Adesso. Sono stato contagiato. Diventerò un... vampiro. Con uno sforzo fece un passo avanti, poi un altro sostenendosi con una mano... la mano che non era stata contagiata alla ringhiera. Riuscì a trascinarsi fino all'appartamento, alla sua camera, si distese sul letto, lo sguardo fisso sulla carta da parati. La foresta. Le fi-
gure apparvero rapidamente, lo fissarono negli occhi. Il piccolo gnomo. Ci passò un dito sopra e fu colto da un pensiero ridicolo: Domani devo andare a scuola. E non aveva ancora finito di riempire la scheda del compito. Sull'Africa. Avrebbe dovuto alzarsi, sedersi alla scrivania, accendere la luce e sfogliare l'atlante. Cercare quei nomi senza senso e scriverli sulle linee tratteggiate. Avrebbe dovuto farlo. Passò un dito sul cappello dello gnomo. Poi iniziò a battere contro la parete. E.L.I. Nessuna risposta. Era fuori e... sta facendo quello che fanno quelli come noi. Tirò il piumone sulla testa. Brividi di febbre gli attraversavano tutto il corpo. Cercò di immaginare. Come sarebbe stato. Vivere per sempre. Temuto, odiato. No. Eli non lo avrebbe odiato. Se loro due... insieme... Cercò di immaginare, iniziò a fantasticare. Poco dopo, la porta d'ingresso si aprì e sua madre entrò in casa. Cuscini di grasso. Tommy fissò l'immagine davanti a sé. La ragazza, con le labbra protese in quello che avrebbe potuto essere un bacio, premeva i suoi seni con le mani facendoli sembrare due palloni. Ma era disgustosa. Aveva pensato di masturbarsi, ma qualcosa nel suo cervello glielo impediva, forse perché trovava che la ragazza avesse l'aspetto di un mostro. Con lentezza innaturale, chiuse la rivista e la posò sotto il divano. Ogni piccolo gesto richiedeva uno sforzo mentale. Era stordito. Completamente stordito dai fumi della colla. Ed era una sensazione magnifica. Nessun mondo. Solo la stanza dove si trovava e fuori... un deserto ondeggiante. Staffan. Cercò di pensare a Staffan. Non ci riusciva. Non riusciva ad afferrarlo con il pensiero. Vedeva solo la figura di cartone di quel poliziotto su all'ufficio postale. Grandezza naturale. Un poliziotto di cartone per spaventare i ladri. Facciamo una rapina all'ufficio postale? Ma sei matto! Non vedi che c'è un poliziotto di cartone di guardia? Quando il poliziotto di cartone assunse il volto di Staffan, Tommy scoppiò a ridere. Assegnato a sorvegliare l'ufficio postale per punizione. C'era anche una scritta su quel poliziotto di cartone, che cos'era? Il crimine non paga. No. La polizia ti vede. No. Cosa diavolo c'era scrit-
to? Attenti. Io sono un tiratore scelto! Tommy si mise a ridere. Continuò a ridere. Le risate scuotevano tutto il suo corpo ed ebbe l'impressione che la lampadina nuda appesa al soffitto dondolasse al ritmo delle sue risate. Attenzione! Il poliziotto di cartone! Con la sua pistola di cartone! E la testa di cartone! Sentì bussare nella sua testa. Qualcuno voleva entrare nell'ufficio postale. Il poliziotto di cartone aguzza le orecchie. Ci sono due milioni di corone nell'ufficio postale. Toglie la sicura. Pang-pang. Toc. Toc. Toc. Pang. ... Staffan... mia madre, maledizione... Tommy si irrigidì. Cercò di pensare. Non ci riuscì. Nella sua testa c'era soltanto una nuvola sbrindellata. Poi si calmò. Forse era Robban, o Lasse. O forse era Staffan. Ed era di cartone. Con il pene di cartone. Tommy si schiarì la gola e disse con voce impastata: «Chi è?» «Sono io.» Riconosceva la voce, ma non riusciva a identificarla. In ogni caso, non era quella di Staffan. Non quella del patrigno-di-cartone. Barbapapà. Finiscila. «Chi sei?» «Puoi aprire?» «L'ufficio postale è chiuso per oggi. Torna fra qualche anno.» «Ho dei soldi.» «Banconote?» «Sì.» «Allora va bene.» Tommy si alzò dal divano. Lentamente, lentamente. I contorni delle cose non volevano saperne di restare fermi. La sua testa era piena di piombo. Un berretto di cemento. Rimase immobile alcuni secondi, oscillando. Il pavimento di cemento si muoveva a destra e a sinistra come in un sogno, come se si trovasse in un labirinto di specchi deformanti. Avanzò, un passo alla volta, alzò il gancio, aprì la porta. Fuori c'era quella ragazza. L'amica di Oskar. Tommy la fissò senza capire cosa vedeva. Sole e surf. La ragazza indossava soltanto un vestito leggero. Giallo a pois bianchi,
sui quali Tommy cercò di concentrarsi, ma iniziarono a svolazzare provocandogli un senso di nausea. La ragazza era almeno venti centimetri più bassa di lui. Dolce come... l'estate. «È già arrivata... l'estate?» chiese. La ragazza inclinò la testa. «Cosa?» «Be', indossi un... come si chiama... un vestito estivo.» «Sì.» Tommy annuì, felice di avere trovato la definizione corretta. Cosa aveva detto? Soldi? Sì. Oskar le aveva detto che... «Vuoi comprare qualcosa?» «Sì.» «Cosa?» «Posso entrare?» «Sì, sì.» «Dimmi che posso entrare.» Tommy fece un gesto d'invito esagerato con un braccio. Vide la propria mano muoversi al rallentatore, un pesce drogato che nuotava nell'aria sopra il pavimento. «Entra. Benvenuta nella... filiale» disse Tommy. Non aveva più la forza di reggersi in piedi. Il pavimento lo voleva. Riuscì a raggiungere il divano cadendoci sopra a peso morto. La ragazza entrò, chiuse la porta dietro di sé e fissò il gancio. Agli occhi di Tommy era diventata un grosso pulcino e quella vista lo fece sghignazzare. Il grosso pulcino si mise a sedere sul divano. «Cosa c'è?» chiese il pulcino. «Niente... soltanto che è così... giallo.» «Sì.» La ragazza teneva le mani incrociate su una piccola borsetta. Tommy non l'aveva notata prima. No. Non era una borsetta. Piuttosto un nécessaire. Tommy lo fissò. D'accordo, borsetta o meno, cosa poteva esserci dentro? «Cos'hai lì dentro?» «Soldi.» «Ovviamente.» No. C'è qualcosa che non va. C'è qualcosa di strano. «Allora, cosa volevi comprare?»
La ragazza aprì la cerniera del nécessaire e prese una banconota da mille corone. Un'altra. Un'altra ancora. Tremila corone. Quando si chinò per posarle sul pavimento, le banconote sembravano ridicolmente grandi nelle sue piccole mani. «Cosa sono?» chiese Tommy sbuffando. «Tremila corone.» «Sì. E allora?» «Sono per te.» «No.» «Sì.» «Cosa diavolo sono, soldi per giocare a Monopoli?» «No.» «Davvero?» «Davvero.» «Perché vuoi darmeli?» «Perché voglio comprare qualcosa da te.» «Vuoi comprare qualcosa per tremila corone?» Tommy si chinò in avanti, prese una banconota. La passò fra le dita, la strofinò, la alzò verso la luce e vide la filigrana. Lo stesso re o chi diavolo era stampato sull'altro lato. Era autentica. «Mi stai prendendo in giro?» «No.» Tremila corone. Potrei... andarmene. Prendere un aereo. Così Staffan e sua madre potevano andare al... D'improvviso la nebbia nel cervello di Tommy iniziò a diradarsi. Era tutto molto strano ma okay: erano tremila corone. Quelle erano vere, concrete. Adesso bisognava vedere cosa voleva. «Cosa vuoi comprare? Per tremila corone posso darti...» «Del sangue.» «Del sangue?» «Sì.» Tommy sbuffò e scosse il capo. «Be', spiacente, ma ho finito le scorte di sangue.» La ragazza rimase immobile fissandolo con un'espressione seria. «Non sono sicuro di capire bene» disse Tommy. «Io ti darò questi soldi... in cambio di un po' di sangue.» «Ma non ne ho.» «Sì, invece.»
Tommy capì. Cosa diavolo... «Stai parlando sul serio?» La ragazza indicò le banconote. «Non è pericoloso.» «Come? Cosa vuoi dire?» La ragazza infilò la mano nel nécessaire e ne tirò fuori qualcosa. Una piccola scatola rettangolare di plastica. La scosse. Si udì un leggero suono metallico. Tommy si chinò leggermente in avanti e vide che era una confezione di lamette da barba. Lei la posò sul ginocchio e prese un altro oggetto dal nécessaire. Un rettangolo del colore della pelle. Un grande cerotto. Ma è ridicolo. «Smettila. Non capisci che, se voglio, posso fregarti questi soldi. Li prendo, li metto in tasca e poi ti dico: cosa? tremila corone? mai viste. Ti rendi conto che sono un sacco di soldi? Dove li hai presi?» La ragazza chiuse gli occhi e sospirò. Quando li riaprì, Tommy vide che la sua espressione non era più tanto gentile. «Vuoi o non vuoi?» Che mi venga un colpo. Sta parlando seriamente. «Vuoi dire che farai... shvitt, e poi...» La ragazza annuì con forza. Shvitt? Aspetta un attimo. Aspetta un attimo... come con i maiali... Tommy aggrottò la fronte. Il pensiero rimbalzava nella sua mente come una pallina di gomma in una stanza. Inevitabilmente, alla fine si fermò. Adesso ricordava. Fissò la ragazza con la bocca aperta. «... no...» «Sì.» «Che cos'è? Uno scherzo? Adesso basta. Vattene. Vai via.» «Io soffro di una strana malattia. Ho bisogno di sangue. Posso darti più soldi se vuoi.» Frugò nel nécessaire, tirò fuori altre due banconote da mille corone e le depose sul pavimento insieme alle altre. Cinquemila corone. «Per favore.» L'assassino. Vällingby. La gola tagliata. Ma questa è solo una ragazza. «Cosa te ne fai del sangue... e poi sei soltanto una ragazzina.» «Hai paura?» «No. Io posso... e tu non hai paura?» «Sì.»
«Di cosa?» «Che tu dica di no.» «È chiaro che dico di no. Tu sei fuori di testa. Vai a casa adesso.» La ragazza rimase seduta, pensava. Poi annuì, raccolse le banconote dal pavimento e le mise nel nécessaire. Tommy fissò il punto in cui le aveva posate. Cinque. Cinquemila. Udì il rumore metallico del gancio che si alzava. Si girò di scatto. «Ma... cosa... avevi pensato di tagliarmi la gola?» «No. Solo un piccolo taglio nell'incavo del braccio.» «Ma cosa vuoi farne del sangue?» «Voglio berlo.» «Adesso?» «Sì.» La mente di Tommy si immerse dentro il suo corpo, e vide il grafico del sistema circolatorio proiettato sulla sua pelle come su un lucido da proiezione. Per la prima volta in vita sua, si rendeva conto di avere un sistema circolatorio. Non solo in punti isolati, ferite dalle quali gocce di sangue escono, ma un albero di vene nelle quali il sangue scorre... Sangue? Quattro cinque litri. «Che tipo di malattia è?» La ragazza non rispose, era ferma davanti alla porta con la mano sul gancio e lo sguardo fisso su Tommy. E improvvisamente, le linee delle vene e delle arterie, il grafico, si trasformarono in uno schema da macellaio. Scacciò quel pensiero. Diventa donatore di sangue. Venticinque corone e un panino al formaggio. «Va bene, dammi i soldi allora.» La ragazza aprì il nécessaire e prese nuovamente le banconote. «Te ne darò tremila adesso, e le altre due dopo.» «Sì, sì. Ma ti rendi conto che potrei benissimo saltarti addosso e fregarti i soldi?» «No. Non potresti farlo.» Gli porse le tre banconote da mille corone tenendole fra l'indice e il medio. Tommy le alzò l'una dopo l'altra verso la lampadina per controllare se erano tutte autentiche. Poi ne fece un cilindro che tenne con la mano sinistra. «Sì. E adesso?» La ragazza mise le altre due banconote sulla poltrona, si accovacciò da-
vanti al divano, prese la confezione di lamette e ne scelse una. Lo ha già fatto altre volte. La ragazza prese la lametta fra le dita e la rigirò per vedere quale fosse il lato più affilato. Poi la sollevò, avvicinandola al suo viso. Un breve messaggio, di un'unica parola: shvitt. Disse: «Non devi parlare di questa cosa con nessuno.» «Cosa succede se lo faccio?» «Non devi dirlo a nessuno. A nessuno.» «No.» Tommy fissò il braccio che aveva allungato e le due banconote da mille corone sulla poltrona. «Quanto sangue prenderai?» «Un litro.» «È... tanto?» «Sì.» «È così tanto che io...» «No. Te la caverai.» «Si riforma, non è così?» «Sì.» Tommy annuì. Poi guardò affascinato la lametta lucida come uno specchio che affondava nella sua pelle. Come se tutto stesse succedendo a qualcun altro, in un altro luogo. Vide soltanto un insieme di linee. Quella della mascella della ragazza, i suoi capelli neri, il rettangolo della lametta che si avvicinava al suo obiettivo e si fermava per una frazione di secondo sulla sua vena, più scura della pelle circostante. Poi vide l'angolo della lametta affondare senza tagliare e poi... shvitt. Tommy ebbe la reazione involontaria di tirarsi indietro, ansimò e strinse la mano con più forza intorno al rotolo di banconote. Udì una specie di crack quando strinse i denti e li digrignò. Il sangue usciva, a zampilli. La lametta cadde a terra con un tintinnio, la ragazza prese il suo braccio con le mani e pose le labbra sull'incavo. Tommy girò la testa, sentiva soltanto le labbra calde, la lingua contro la sua pelle, e nella sua mente vide nuovamente il grafico, i canali attraverso i quali il sangue scorreva verso quell'apertura. Sta uscendo dal mio corpo. Sì. Il dolore aumentava di intensità. Il braccio iniziava a paralizzarsi, non sentiva più le labbra, sentiva soltanto come il sangue veniva succhiato dal suo corpo, come...
Fuoriusciva. Fu preso dal panico. Voleva che finisse. Il dolore era insopportabile. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, aprì la bocca per dire qualcosa... non ci riuscì. Non c'erano parole che avrebbero potuto... Piegò il braccio libero e portò il pugno alla bocca. Il cilindro delle tre banconote usciva dal pugno. Lo morse. 21.17, domenica sera, Ängbyplan Un uomo viene avvistato davanti a un negozio di parrucchiere per signora. Tiene le mani e il viso appoggiati alla vetrina. Sembra estremamente ubriaco. La polizia arriva sul posto quindici minuti dopo. L'uomo se ne è andato. La vetrina non è stata danneggiata, ma si notano tracce di terra o fango. All'interno della vetrina illuminata, sono esposte le fotografie di alcune giovani donne, modelle. «Dormi?» «No.» Quando sua madre entrò nella camera e si sedette sul bordo del letto, Oskar sentì un effluvio di profumo e di freddo. «Va tutto bene?» chiese. «Sì.» «Cosa hai fatto?» «Niente di particolare.» «Ho visto i giornali. Sul tavolo della cucina.» «Mmm.» Oskar tirò il piumone fin sotto il mento e finse di sbadigliare. «Hai sonno?» «Mmm.» Vero e no. Era stanco, tanto stanco che la testa gli ronzava. Voleva soltanto rannicchiarsi sotto il piumone, chiudersi dentro e non emergere finché... finché... ma non aveva sonno. E... poteva dormire dopo essere stato contagiato? Sentì che sua madre gli chiedeva qualcosa su suo padre, e rispose «bene» senza sapere quale fosse stata la domanda. Seguì un attimo di silenzio. Poi sua madre sospirò profondamente. «Piccolo caro, come stai? Posso fare qualcosa per te?» «No.» «Cosa c'è?»
Oskar affondò il viso nel cuscino respirando dal naso, la bocca e le labbra erano calde e umide. Non ce la faceva più. Era troppo dura. Doveva dirlo a qualcuno. «... contagia...» disse senza muovere la testa dal cuscino. «Cosa hai detto?» «Sono stato contagiato.» Sua madre gli passò una mano sulla testa, gli accarezzò la nuca e continuò più in basso, e scostò leggermente il piumone. «Ma, non ti sei spogliato!» «Sì, io...» «Fammi sentire. Sei caldo?» Gli mise una mano sulla fronte. «Hai la febbre. Dai, adesso spogliati e distenditi sulla schiena.» Si alzò dal letto e gli scosse amorevolmente una spalla. Preoccupata, aveva iniziato a respirare più rapidamente. «Eri vestito come si deve quando eri da papà? Hai preso freddo?» «Sì. Ma non è quello.» «Sei andato in giro senza berretto?» «No. Ma è un'altra cosa.» «Che cos'è allora?» Oskar affondò nuovamente la testa nel cuscino e lo circondò con le mani. «... venteròunvamp...» «Oskar, cosa stai dicendo?» «Diventerò un vampiro.» Pausa. Udì un leggero fruscio del cappotto, sua madre aveva incrociato le braccia. «Oskar. Adesso ti alzi. Ti spogli, torni a letto e ti stendi come si deve.» «Io diventerò un vampiro.» Dal modo in cui respirava, si capiva che era arrabbiata. «Domani prenderò tutti quei libri che leggi e li butterò via.» Poi afferrò il piumone e lo tirò via. Oskar si alzò, iniziò a spogliarsi lentamente evitando di guardare sua madre negli occhi. Tornò a stendersi sul letto e sua madre lo coprì. «Vuoi qualcosa?» Oskar scosse il capo. «Forse dovrei misurarti la febbre?» Oskar scosse il capo con forza. Volse lo sguardo e la fissò. Era chinata su di lui con le mani sulle ginocchia. I suoi occhi si muovevano inquieti, l'espressione preoccupata.
«Posso fare qualcosa?» «No. Sì.» «Cosa?» «No, non era niente.» «Per favore, dimmelo.» «Puoi... raccontarmi una storia?» Una serie di sensazioni diverse passò sul volto di sua madre: dolore, gioia, preoccupazione, un vago sorriso, una ruga di inquietudine. Tutto in pochi secondi. Poi disse: «Io... non conosco le storie. Ma posso leggertene una. Se c'è un libro...» Alzò lo sguardo verso la libreria. «No, lascia stare.» «Ma lo faccio volentieri.» «No. Non voglio.» «Perché no. Me lo hai chiesto pochi secondi fa.» «Sì. Ma adesso non voglio più.» «Vuoi che ti canti qualcosa?» «No.» Sua madre strinse le labbra, offesa. Poi decise di non esserlo, dopotutto Oskar non stava bene. «Posso trovare qualcosa, se...» «No, non ce n'è bisogno. Adesso voglio dormire.» Dopo qualche secondo, sua madre disse «buonanotte» e uscì dalla stanza. Oskar rimase disteso con gli occhi spalancati, lo sguardo fisso sulla finestra. Cercò di sentire se stava trasformandosi in un... Ma non sapeva cosa avrebbe dovuto sentire. Eli. Come era stato quando lei era diventata...? Essere separato da tutto. Andarsene. Sua madre, suo padre, la scuola... Jonny, Tomas... Udì la televisione accesa nel soggiorno, il volume che veniva subito abbassato. Poi il tintinnio di una tazza e un piattino. Un armadietto che si apriva in cucina. I normali rumori di sempre. Li aveva sentiti centinaia di volte. E fu invaso da un senso di tristezza. Grande tristezza. Le ferite erano guarite. Le sole tracce di graffi e lacerazioni che rimanevano sul corpo di Virginia erano delle linee bianche e, qua e là, resti di croste che non si erano ancora staccate. Lacke le accarezzò una mano tenuta stretta contro il corpo da una cinghia, e un'altra crosta si sbriciolò fra le
sue dita. Quando aveva ripreso conoscenza e aveva capito cosa stava succedendo, Virginia aveva opposto resistenza. Una resistenza violenta. Aveva strappato via la cannula della trasfusione, aveva urlato e scalciato. Lacke non aveva avuto la forza di restare a guardare mentre cercavano di calmarla, sembrava un'altra persona. Era andato al bar dell'ospedale e aveva bevuto un caffè. Poi un altro, e un altro ancora. Quando la cassiera gli aveva chiesto di pagare, Lacke aveva detto che era al verde, che era a pezzi, che sentiva che la morte era vicina, e si era scusato. La cassiera si era intenerita. Gli aveva detto di non preoccuparsi e gli aveva offerto una brioche: «Purtroppo non è fresca, è di ieri.» Mentre la mangiava, Lacke pensò con un nodo in gola alla relativa bontà delle persone e anche alla loro relativa malvagità. Poi, prima di tornare da Virginia, uscì sulla terrazza e fumò la penultima sigaretta che rimaneva nel pacchetto. L'avevano legata al letto con delle cinghie. Un'infermiera gli disse che Virginia l'aveva colpita con un pugno. Gli aveva fatto vedere gli occhiali rotti e il graffio sopra un sopracciglio. Era stato impossibile calmarla. Considerando il suo stato generale, non aveva osato farle un'iniezione ed erano stati costretti a legarla al letto, più che altro «per impedirle di procurarsi altre lesioni». Lacke sfregò la crosta fra le dita, una polvere fine come pigmento colorò di rosso i suoi polpastrelli. Captò un movimento con la coda dell'occhio; dalla sacca che pendeva da un sostegno a tre piedi di fianco al letto il sangue scendeva goccia dopo goccia attraverso la cannula nel braccio di Virginia. Dopo avere individuato il suo gruppo sanguigno, le avevano fatto una trasfusione, pompandole nelle vene una certa quantità di sangue, ma ora che le sue condizioni si erano stabilizzate erano passati alla trasfusione a goccia. Sulla sacca mezza piena c'era un'etichetta con una quantità di sigle incomprensibili, dominata da una grande A. Il gruppo sanguigno di Virginia, naturalmente. Ma... un attimo... Il gruppo sanguigno di Lacke era il B. Ricordava di averne parlato con Virginia, e lei gli aveva detto che avevano lo stesso gruppo sanguigno, e per questo avrebbero potuto... sì. Sì, proprio così, aveva detto che avrebbero potuto donarsi il sangue a vicenda in caso di emergenza. E Lacke era si-
curo al cento per cento di avere il gruppo B. Si alzò e andò nel corridoio. È possibile che possano fare un errore simile? Fermò un'infermiera. «Mi scusi, ma...» L'infermiera fissò i suoi vestiti lisi con un'espressione leggermente guardinga. «Sì?» «Mi stavo chiedendo... Virginia, Virginia Lindblad che è stata ricoverata da poco...» L'infermiera annuì, sospirando interiormente. Forse era stata presente quando Virginia... «Sì, mi stavo chiedendo... il gruppo sanguigno.» «Cos'ha il gruppo sanguigno?» «Be', ho visto una grande A sulla sacca, ma quello non è il suo gruppo sanguigno.» «Non credo di capire bene.» «Sì, se ha un minuto di tempo...» L'infermiera si guardò intorno nel corridoio. Forse per controllare se ci fosse qualcuno che potesse aiutarla in caso di pericolo, forse per fargli capire che aveva cose più importanti da fare, ma seguì ugualmente Lacke nella stanza dove Virginia rimaneva distesa con gli occhi chiusi, mentre il sangue scendeva goccia a goccia. «Ecco. Questa A significa che...» «Sì, si riferisce al gruppo sanguigno. Ci sono sempre meno donatori. Se la gente sapesse...» «Sì. Mi scusi. Ma il gruppo sanguigno di Virginia è B. Non è pericoloso usare un sangue diverso?» «Sì, lo è.» L'infermiera non aveva usato un tono di voce direttamente scortese, ma il linguaggio del suo corpo faceva capire che nessuno, e tantomeno Lacke, aveva il diritto di mettere in dubbio l'operato e la competenza del personale dell'ospedale. Scrollò leggermente le spalle e disse: «Sarebbe pericoloso se avesse il gruppo B. Ma non è il caso di questa paziente. Lei ha il gruppo AB.» «Ma sulla sacca c'è una A?» L'infermiera sospirò e disse, con un tono di voce come se stesse spiegando a un bambino che sulla luna non ci sono esseri viventi: «Le persone
con il gruppo sanguigno AB possono ricevere trasfusioni da tutti gli altri gruppi sanguigni.» «Ma... sì. Allora il gruppo sanguigno di Virginia è cambiato.» L'infermiera inarcò le sopracciglia. Il bambino aveva appena sostenuto di essere stato sulla luna e di avere visto degli esseri viventi lassù. Con un gesto come se stesse tagliando un nastro disse: «Una cosa simile non può succedere.» «È così? Allora Virginia deve essersi sbagliata.» «Proprio così. Adesso, se vuole scusarmi, ho altro da fare.» L'infermiera controllò la cannula, aggiustò leggermente la levetta, diede un ultimo sguardo a Lacke per fargli capire che aveva altro da fare e guai a lui se toccava qualcosa, e uscì dalla stanza con passo energico. Cosa succede se il gruppo sanguigno è sbagliato? Il sangue... si coagula. No. Virginia doveva essersi confusa. Andò in un angolo della stanza dove c'erano una poltrona e un tavolino con tre fiori di plastica in un vaso. Si mise a sedere sulla poltrona, si guardò intorno. Pareti fredde, pavimento lucido. Neon al soffitto. Il letto di Virginia di tubi di acciaio, sopra di lei una coperta giallo canarino con il nome dell'ospedale. Così vanno le cose. Nei romanzi di Dostojevskij, malattia e morte erano quasi sempre affari sordidi, squallidi. Ruote di un carro che schiacciavano, fango, tifo, fazzoletti macchiati di sangue. E così via. Ma lo sa soltanto il diavolo se non sono preferibili a tutto questo. Disintegrarsi lentamente in una specie di macchina tirata a lucido. Lacke si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. Lo schienale era troppo basso e la sua testa cadde all'indietro. Si raddrizzò, appoggiò il gomito sul bracciolo e la testa alla mano. Fissò i fiori di plastica. Era come se fossero stati messi lì allo scopo di sottolineare che non era permesso che ci fosse vita; in quella stanza regnava l'ordine. Quando richiuse gli occhi, l'immagine dei fiori era ancora sulle sue retine. Si trasformarono in fiori veri che crescevano e diventavano un giardino. Il giardino della casa che doveva comprare. Lacke era al centro del giardino, osservava un cespuglio di rose con splendidi fiori rossi. Dalla casa emerse la lunga ombra di una persona. Il sole tramontava rapidamente e l'ombra cresceva, si allungava, estendendosi sull'intero giardino.
Si svegliò all'improvviso, la mano bagnata dalla saliva che gli era uscita da un angolo della bocca mentre dormiva. Si asciugò la bocca con il dorso della mano, schioccò le labbra e cercò di alzare la testa. Non ci riuscì. Il collo era bloccato. Si raddrizzò con uno sforzo, i legamenti scricchiolarono, si fermò. Occhi spalancati lo stavano fissando. «Ciao! Come ti senti?» Lacke serrò le labbra. Virginia era distesa sulla schiena, legata dalle cinghie, rivolta verso di lui. Ma il viso era immobile. Nessun segno di riconoscimento, di gioia, niente. Gli occhi rimanevano spalancati. Morta! È morta. Lacke si alzò di scatto dalla poltrona e sentì un crack alla nuca. Si gettò in ginocchio davanti al letto, afferrò il tubo di acciaio e avvicinò il suo volto a quello di Virginia come se la sua presenza potesse farle riemergere l'anima dal profondo. «Ginja! Mi senti?» Niente, eppure avrebbe potuto giurare che gli occhi che fissavano i suoi in qualche modo non erano morti. La cercò dentro quegli occhi, gettò ami dal profondo di se stesso nei due buchi che erano le sue pupille per cercare di arrivare al di là del buio, per... Le sue pupille. È così che diventano quando uno... Le pupille non erano rotonde. Erano lunghe, appuntite alle estremità. Una smorfia si dipinse sul suo volto quando una fitta gelida di dolore gli attraversò la nuca, mise una mano su quel punto e massaggiò. Virginia chiuse gli occhi. Li riaprì. Era viva. Lacke rimase a bocca aperta continuando a massaggiarsi la nuca, sentendosi ridicolo. Udì un click secco quando Virginia aprì la bocca. «Hai male?» chiese. Lacke tolse la mano dalla nuca come se fosse stato scoperto a fare qualcosa di inopportuno. «No. Credevo che fossi...» «Sono legata.» «Sì. Sei stata un po' violenta prima. Aspetta ti...» Lacke allungò la mano e iniziò a smuovere le cinghie. «No.» «Cosa?» «Lascia stare.» Lacke esitò, le dita sulle cinghie.
«Hai intenzione di rimetterti a lottare?» Virginia socchiuse gli occhi. «Lascia stare.» Lacke tirò via le mani, e le fissò come se non sapesse cosa farne adesso che erano state private del loro compito. Senza alzarsi, si girò sulle ginocchia, afferrò i braccioli della poltrona e, con una nuova fitta di dolore come conseguenza, tirò la poltrona vicino al letto, sedendosi con un movimento impacciato. Virginia mosse impercettibilmente il capo. «Hai telefonato a Lena?» «No. Posso...» «Bene.» «Vuoi che...?» «No.» Il silenzio calò fra loro. Quel silenzio tipico degli ospedali, che viene a crearsi per via della situazione stessa - una persona distesa sul letto, malata o ferita, e una persona sana -, e una specie di imbarazzo. Le parole diventano piccole, superflue. Solo quelle più importanti possono essere pronunciate. Si guardarono a lungo. Dicendo quello che poteva essere detto senza parole. Poi, Virginia girò la testa, allineandola con il corpo, e alzò lo sguardo al soffitto. «Devi aiutarmi.» «Farò qualsiasi cosa.» Virginia si leccò le labbra, inspirò e poi lasciò uscire l'aria in un sospiro così profondo che sembrava avere consumato tutte le riserve d'aria nascoste nel suo corpo. Poi lasciò scorrere lo sguardo su Lacke. Come se volesse dare un ultimo addio al cadavere di una persona amata cercando di imprimersene l'immagine nella memoria. Sfregò le labbra l'una contro l'altra e finalmente le parole uscirono dalla sua bocca. «Io sono un vampiro.» Gli angoli della bocca di Lacke stavano per produrre un sorriso idiota, la bocca si mosse per dire una parola di conforto, forse anche divertente. Ma gli angoli della bocca non si mossero e il commento si perse da qualche parte, senza mai raggiungere la bocca. Invece disse soltanto: «No.» Si passò una mano sulla nuca per rompere quell'atmosfera di paralisi che trasformava tutte le parole in verità. Virginia riprese a parlare con un tono di voce calmo e controllato. «Sono andata da Gösta per un solo motivo. Per ucciderlo. Se quello che
è successo non fosse successo, lo avrei ucciso. E poi... avrei bevuto il suo sangue. Lo avrei fatto. Era la mia intenzione. Capisci?» Lo sguardo di Lacke vagò da una parete all'altra, come se stesse cercando la zanzara che aveva creato quell'insopportabile ronzio prolungato che nel silenzio echeggiava nel suo cervello, impedendogli di pensare. Alla fine, i suoi occhi si fermarono sul neon al soffitto. «Quel dannato neon continua a ronzare.» Virginia fissò il neon. «Non sopporto la luce. Non posso mangiare. Ho pensieri orribili. Farò del male alle persone. A te. Non voglio più vivere.» Finalmente qualcosa di concreto, qualcosa a cui si poteva rispondere. «Non devi dire cose del genere» disse Lacke. «Non dirlo. Mi ascolti?» «Tu non capisci.» «No, non capisco. Ma tu non devi morire. Lo capisci? Adesso sei stesa qui, parli, tu sei... tu sei okay.» Lacke si alzò dalla poltrona, fece alcuni passi, agitò una mano. «Non devi parlare così.» «Lacke, Lacke?» «Sì!» «Tu sai che è vero. Non è così?» «Cosa è vero?» «Quello che ti ho detto.» Lacke sospirò, scosse il capo, mosse le mani, le mise in tasca. «Ho bisogno di una sigaretta.» Trovò il pacchetto accartocciato, l'accendino. Riuscì a tirare fuori l'ultima sigaretta senza romperla e la mise in bocca. Poi, si ricordò dove si trovava. Tolse la sigaretta di bocca. «Maledizione, se la accendo mi buttano fuori a calci.» «Apri la finestra.» «Vuoi che salti giù?» Virginia sorrise. Lacke andò alla finestra, la aprì abbastanza per far passare il suo corpo e si chinò in avanti. L'infermiera aveva detto che riusciva a sentire l'odore del fumo a un miglio di distanza. Lacke accese la sigaretta e aspirò profondamente, fece il possibile per soffiare via il fumo in modo che non entrasse nella stanza. Alzò gli occhi e guardò le stelle. Dietro di lui, Virginia aveva ripreso a parlare. «È stato quel bambino. Sono stata contagiata. E poi... ha continuato a
crescere dentro di me. So dov'è. Nel cuore. In tutto il cuore. Come un tumore. Non posso controllarlo.» Lacke tolse la sigaretta di bocca. La sua voce echeggiò fra le alte mura di cemento intorno. «Ma adesso tu stai parlando. Normalmente.» «Sto facendo uno sforzo. E mi hanno dato del sangue. Ma posso perdere il controllo. In qualsiasi momento. E lo riprenderà quella cosa. Lo so. Lo sento.» Prima di continuare, Virginia respirò profondamente. «Tu sei lì alla finestra. Ti vedo. E io voglio... mangiarti.» Lacke non capì se il brivido che sentì lungo la schiena fosse causato dal torcicollo o da qualcos'altro. Improvvisamente si sentiva vulnerabile. Spense la sigaretta contro il muro e la scagliò nel vuoto. «Maledizione, tutto questo è completamente folle.» «Sì. Ma è così.» Lacke incrociò le braccia sul petto. Con un sorriso forzato le chiese: «Cosa vuoi che faccia, allora?» «Voglio che tu... distrugga il mio cuore.» «Cosa? Come potrei farlo?» «In qualsiasi modo.» Lacke alzò gli occhi al soffitto. «Senti quello che dici? Te ne rendi conto? È pura follia. Cosa vuoi che faccia... che ti trafigga il cuore con un palo?» «Sì.» «No, no, no. Scordatelo. Devi cercare qualcosa di meglio.» Lacke si mise a ridere, scosse il capo. Virginia lo osservò mentre andava avanti e indietro nella stanza con le braccia incrociate sul petto. Poi annuì leggermente. «Okay.» Lacke si avvicinò al letto, prese la sua mano. Sentirla legata gli faceva uno strano effetto. Non riusciva neppure a stringerla completamente. Ma la mano era calda e ricambiava la stretta. Con quella libera le accarezzò una guancia. «Sei sicura che non vuoi che ti liberi?» «Sì, sono sicura. Può tornare.» «Vedrai che guarirai. Troverò una soluzione. Ho solo te. Vuoi che ti racconti un segreto?» Senza lasciarle la mano, si mise a sedere sulla poltrona e iniziò a raccontare. Le raccontò tutto. I francobolli, il leone rampante, la Norvegia, il de-
naro. La casa in campagna. Rosso mattone. Le parlò del giardino, di come lo avrebbero curato, dei fiori che avrebbero piantato, del patio che si poteva costruire, all'ombra, per metterci un tavolino e delle sedie dove pranzare... A un certo punto del monologo di Lacke, le lacrime iniziarono a scorrere dagli occhi di Virginia. Perle trasparenti e silenziose che scorrevano sulle sue guance e bagnavano il cuscino. Nessun singhiozzo, soltanto lacrime che scorrevano, gioielli di dolore o forse di gioia. Lacke smise di parlare. Virginia gli strinse la mano con forza. Poi, Lacke andò nel corridoio e riuscì, con una buona dose di preghiere e insistenza, a convincere il personale a mettere un letto extra nella stanza. Lo spostò accostandolo a quello di Virginia. Spense la luce, si spogliò, si infilò sotto le lenzuola fresche e cercò la sua mano. Rimase così, in silenzio, a lungo. Poi Virginia disse: «Lacke. Ti amo.» Lacke non rispose. Lasciò che le parole rimanessero ad aleggiare nell'aria. Si incapsularono e diventarono una grande coperta rossa che fluttuava nell'aria per poi adagiarsi su di lui tenendolo caldo tutta la notte. 4.23, lunedì mattina, Islandstorget Diverse persone residenti in Björnsonsgatan e dintorni vengono svegliate da urla strazianti. Un uomo telefona alla polizia e sostiene che si tratta di urla di un neonato. Quando la polizia arriva sul luogo dieci minuti dopo, le urla sono cessate. La polizia perlustra il quartiere e trova diversi corpi di gatti morti. Ad alcuni sono state strappate le zampe. Diversi gatti portano un collare. La polizia prende nota di nomi e numeri di telefono per informare i proprietari. Viene richiesto l'intervento del servizio veterinario municipale per occuparsi dei cadaveri. Mezz'ora al levare del sole. Eli è seduto sulla poltrona nel soggiorno. È rimasto in casa tutta la notte. Ha preparato tutto quello che c'era da preparare. Domani sera, non appena farà buio, Eli andrà in una cabina telefonica e chiamerà un taxi. Non conosce il numero, ma probabilmente è un numero che tutti conoscono. Basterà chiedere. Quando il taxi arriverà, metterà le sue tre scatole di cartone nel bagagliaio e chiederà al tassista di portarlo... Dove? Eli chiude gli occhi, cerca di immaginare un luogo dove vorrebbe essere. Come sempre, la prima immagine è quella della casetta dove viveva con
i genitori, con le sorelle più grandi. Ma ora non c'è più. Dove un tempo c'era la casetta, non lontano da Norrköping, ora c'è una rotonda. Il ruscello dove sua madre sciacquava i panni si è seccato, la vegetazione è cresciuta e il ruscello non è molto più di una depressione lungo il margine della strada. Eli ha molto denaro. Potrebbe chiedere al tassista di portarlo in qualsiasi luogo, almeno finché il buio continua. A nord. A sud. Potrebbe sedersi sul sedile posteriore e dire al tassista di viaggiare verso nord per duemila corone. Poi scendere. Ricominciare. Trovare qualcuno che... Eli getta la testa indietro e urla al soffitto: «Non voglio!» L'aria della sua espirazione fa dondolare leggermente le ragnatele polverose. Il suono svanisce nella stanza chiusa. Eli porta le mani al volto, preme i polpastrelli contro le palpebre. L'imminente levare del sole serpeggia nel suo corpo con inquietudine. Sussurra: «Dio. Dio. Perché non posso avere niente? Perché non posso...» Da anni ormai pone questa domanda. Perché non posso vivere? Perché dovresti essere morto. Una sola volta, dopo essere stato contagiato, Eli incontrò un altro portatore dell'infezione. Una donna adulta. Cinica e falsa come l'uomo con la parrucca. Da lei Eli ebbe la risposta a una domanda che lo assillava da tempo. «Siamo in tanti?» La donna aveva scosso il capo e aveva detto con un'espressione teatralmente triste: «No. Siamo pochi, così pochi.» «Perché?» «Perché? Perché, ovviamente, la stragrande maggioranza di noi si toglie la vita. Devi capirlo. Sì, è un enooorme fardello.» Poi, la donna aveva alzato le mani al cielo e aveva detto con voce stridula: «Ooooh, non sopporto più di avere tanti morti sulla coscienza.» «Possiamo morire?» «Certamente. Dandoci fuoco. O lasciando che lo facciano gli altri; sarebbero felici di farlo, lo hanno fatto per secoli.» La donna alzò l'indice e lo puntò sul petto di Eli, poco sopra il cuore. «Lì. È lì che si annida, non è così? Ma adesso, caro amico, ho una magnifica idea...» Ed Eli era fuggito da quella magnifica idea. Come aveva fatto in precedenza. Come avrebbe fatto in seguito. Mise la mano sul cuore, sentì i battiti lenti. Forse perché era un bambino.
Forse era per questo che non l'aveva fatta finita. I rimorsi di coscienza erano più deboli del desiderio di vivere. Si alzò dalla poltrona. Håkan non sarebbe arrivato quella notte. Ma prima di andare a riposare, doveva vedere Tommy. Vedere se si era ripreso. Non era stato contagiato. Ma per il bene di Oskar, voleva controllare che Tommy se la fosse cavata. Spense tutte le luci e uscì di casa. Arrivato davanti alla porta della cantina, la aprì senza problemi; tempo fa, quando era stato laggiù con Oskar, aveva infilato un pezzo di cartone nella serratura in modo che non scattasse quando la porta veniva chiusa. Entrò nel corridoio e la porta si richiuse con un colpo sordo. Si fermò e rimase in ascolto. Silenzio totale. Soltanto il persistente odore di colla, di solvente. Raggiunse la porta della cantina, la aprì. Vuota. Mancavano venti minuti al levare del sole. Durante la notte, Tommy era scivolato dentro e fuori da un sonno irrequieto, da attimi di lucidità, da incubi. Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando aveva iniziato a svegliarsi completamente. La luce della lampadina nuda nella cantina era sempre la stessa. Forse era l'alba, il mattino, giorno. Forse la scuola era già iniziata. Non gliene importava niente. Nella sua bocca c'era un sapore di colla. Si guardò intorno ancora intontito dal sonno. Sul suo petto c'erano due banconote da mille corone. Piegò il braccio per prenderle e sentì la pelle tirare. Sull'incavo del braccio c'era un grande cerotto rettangolare al cui centro si era formata una piccola macchia di sangue. Ma c'era stato qualcos'altro. Si girò su un fianco, passò una mano fra i cuscini e lo schienale e trovò il rotolo che gli era caduto durante la notte. Altre tre banconote. Le spiegò e le mise insieme a quelle sul petto, ne sentì la consistenza, le accarezzò. Cinquemila corone. Quante cose avrebbe potuto fare. Fissò il cerotto e si mise a ridere. Maledettamente ben pagato per rimanere soltanto disteso con gli occhi chiusi. Maledettamente ben pagato per rimanere soltanto disteso con gli occhi chiusi. Perché gli era venuta in mente quella frase? L'aveva detta qualcuno... Proprio così. La sorella di Tobbe, come si chiamava... Ingela? Tobbe gli
aveva detto che sua sorella si prostituiva. E veniva pagata cinquecento corone per ogni marchetta, e Tobbe aveva commentato: «Maledettamente ben pagata per...» ... rimanere soltanto distesa con gli occhi chiusi. Tommy strinse le banconote nella mano, le appallottolò. Lo aveva pagato e aveva bevuto il suo sangue. Aveva parlato di una malattia. Ma che diavolo di malattia era? Non aveva mai sentito parlare di una malattia simile. E se uno aveva una malattia di quel genere, andava all'ospedale, e non... non scendeva in una cantina con cinquemila corone e... Shvitt. No? Tommy si mise a sedere e scostò il piumone. Non esistono. No, no. I vampiri non esistono. In qualche modo, la ragazza con il vestito giallo deve credere che lei... ma aspetta un attimo, aspetta. C'era quell'assassino... quello al quale stavano dando la caccia. Tommy appoggiò la testa fra le mani, sentì il fruscio delle banconote nell'orecchio. Non riusciva a capire. In ogni caso, adesso aveva una paura matta della ragazza. Proprio mentre stava pensando di tornare a casa, anche se era notte, qualsiasi cosa succedesse, udì la porta principale della cantina che si apriva. Il suo cuore batteva come un uccello terrorizzato. Si guardò intorno. Un'arma. L'unica arma poteva essere il manico della scopa. Sulla bocca di Tommy si formò un sorriso che durò un secondo. È un'ottima arma contro i vampiri. Poi si ricordò, si alzò, uscì dalla cantina infilando le banconote nella tasca posteriore. Passò nel corridoio e scivolò dentro il rifugio proprio mentre la porta della cantina si apriva. Non chiuse per paura che potesse cigolare. Si accovacciò al buio, cercando di respirare senza fare il minimo rumore. La lametta brillava sul pavimento. Su un angolo c'era una macchia marrone, come di ruggine. Eli strappò un pezzo della copertina di una rivista di moto, lo avvolse intorno alla lametta e la mise in tasca. Tommy non c'era, questo significava che era vivo. Se ne era andato con le sue gambe, era andato a casa a dormire, e anche se faceva due più due non sapeva dove Eli abitava. Tutto va come deve andare. È tutto perfetto.
Appoggiata alla parete c'era una scopa con un lungo manico di legno. Eli la prese, spaccò il manico sul ginocchio all'altezza della testa della scopa. Il punto di rottura era irregolare e appuntito. Lungo quanto un braccio, un palo sottile. Mise la parte appuntita sul torace fra due costole. Esattamente nel punto dove la donna aveva puntato il suo indice. Respirò profondamente, strinse la mano intorno al bastone e provò il pensiero. Dentro! Dentro! Espirò, allentò la presa. Strinse nuovamente. Spinse. In due minuti, la punta era a un centimetro dal suo cuore, la mano stretta sul bastone, quando all'improvviso la maniglia della porta principale si abbassò violentemente e la porta si aprì. Eli allontanò il bastone dal torace, rimase in ascolto. Fuori nel corridoio si udivano passi lenti, incerti come quelli di un bambino che ha appena imparato a camminare. Un bambino molto grande che aveva appena imparato a camminare. Tommy udì i passi e pensò: Chi? Non Staffan, non Lasse, non Robban. Qualcuno che in qualche modo doveva essere malato, qualcuno che portava qualcosa di pesante... Babbo Natale! Quando vide davanti a sé l'immagine di Babbo Natale, versione Disney, Tommy portò la mano alla bocca per non mettersi a sghignazzare. Hohoho! Eccomi qua. E stava passando per il corridoio con il suo gigantesco sacco sulla schiena. Le labbra gli tremavano sotto la mano e strinse i denti per impedire che battessero. Rimase accovacciato, strisciò lontano dalla porta un passo alla volta. Sentì l'angolo della stanza contro la schiena e in quello stesso momento la striscia di luce che entrava dalla fessura della porta fu oscurata. Babbo Natale si era fermato davanti alla porta del rifugio. Tommy mise la mano libera sull'altra per non urlare, aspettò che la porta si aprisse. Impossibile fuggire. Attraverso le fessure fra le assi di legno della porta, poteva vedere la silhouette frammentata del corpo di Håkan. Eli allungò il braccio al massimo e spinse la porta con il bastone. La porta si aprì di una decina di centimetri, poi il corpo all'esterno la fermò. Una mano ne afferrò lo spigolo, la spalancò facendola sbattere contro il muro, una delle cerniere si staccò. La porta si rovesciò su un lato, tornò in-
dietro sull'unica cerniera e colpì la spalla della figura che ora ne riempiva l'apertura. Cosa vuoi da me? Sul camice che rivestiva il corpo fino alle ginocchia c'erano delle macchie blu. Il resto era coperto da terra, fango, altre macchie che il naso di Eli identificò in parte come sangue di animale, in parte come sangue umano. Il camice era strappato in diversi punti, rivelando pelle bianca incisa da graffi che non si sarebbero mai rimarginati. Il volto non era cambiato. Era ancora una massa di carne informe con un solo occhio, messo lì per scherzo, una ciliegia matura in cima a una torta marcia. Ma adesso la bocca era aperta. Un buco nero nella parte inferiore di quel volto. Nessun labbro che potesse coprire i denti che rimanevano visibili; un semicerchio bianco e irregolare che faceva sembrare la cavità orale ancora più scura. Il buco si restrinse e si allargò con un movimento simile alla masticazione. Uscì un suono: «Eeeeiiii.» Non era possibile capire se il suono doveva significare «ehi» oppure «Eli» dato che non è possibile formare la L senza l'aiuto delle labbra o della lingua. Eli alzò la punta del bastone in direzione del cuore di Håkan, e disse: «Ehi.» Cosa vuoi? I non-morti. Eli non sapeva niente di loro. Non sapeva se la creatura che aveva davanti fosse limitata dalle sue stesse restrizioni. Non sapeva se bastasse distruggerle il cuore. Però, il fatto che Håkan rimanesse fermo sulla porta poteva significare una cosa: che aveva bisogno di un invito per entrare. La pupilla di Håkan si mosse su e giù lungo il corpo di Eli, che si sentiva indifeso con indosso soltanto quel vestito leggero. Avrebbe voluto essere avvolto da un tessuto più pesante, avere una barriera maggiore fra il suo corpo e Håkan. Provò ad avvicinare il bastone ancora di più al torace di Håkan. Può sentire qualcosa? Può persino avere paura, adesso? Eli provò una sensazione che aveva quasi dimenticato: la paura del dolore. Tutto si rimarginava, naturalmente, ma da Håkan emanava un prepotente senso di minaccia... «Cosa vuoi?» Si udì un suono vuoto, rauco, quando la creatura espirò aria dal buco e una goccia di un liquido giallastro viscoso scivolò giù dai due buchi dove
c'era stato il naso. Un sospiro? Poi un bisbiglio lacerato, «aaaaiii...», e un braccio si mosse rapidamente, come in preda a un crampo. I movimenti di un bambino. Afferrò il bordo del camice e lo tirò su. Il pene di Håkan sporgeva dal corpo, come se chiedesse attenzione, ed Eli fissò quell'asta rigonfia intersecata da una rete di vene e... come può... deve averlo avuto per tutto il tempo. «Aaaeeiii...» La mano di Håkan tirava aggressivamente il prepuzio avanti e indietro, e la testa del pene appariva e spariva come un pupazzo a molla, mentre Håkan emetteva un suono di piacere o di sofferenza. «Aaaeee...» Ed Eli si mise a ridere sollevato. Tutto qua. Per potersi masturbare. Poteva restare lì, incapace di muoversi finché... finché... Può venire? O starà lì per sempre... Vide davanti a sé l'immagine di uno di quei pupazzi osceni che si caricano con una chiave; un monaco la cui tunica si alza, e lui inizia a masturbarsi finché il meccanismo glielo permette. Clickety-click, clickety, click... Eli continuava a ridere, talmente occupato a pensare a quell'immagine ridicola da non accorgersi che Håkan entrava nella stanza senza essere stato invitato. Non notò nulla, finché il pugno che era appena stato chiuso intorno a un piacere impossibile non si alzò sopra la sua testa. Con uno spasmo fulmineo, il braccio si abbassò e il pugno colpì l'orecchio di Eli con una violenza che avrebbe potuto ammazzare un cavallo. Il colpo arrivò di lato, l'orecchio di Eli fu piegato con una tale forza che la pelle si staccò e metà dell'orecchio si separò dalla testa, spinta brutalmente in basso, dove incontrò il pavimento con un crack sordo. Quando Tommy capì che la persona nel corridoio non voleva entrare nel rifugio, tolse le mani dalla bocca. Rimase seduto contro l'angolo della parete in ascolto, cercando di capire. La voce della ragazza. Ehi. Cosa vuoi? Poi la risata. E l'altra voce, che non sembrava la voce di un essere umano. Poi rumore di colpi, di corpi che si muovevano. Adesso lì dentro stavano... risistemando le cose. Qualcuno trascinava
qualcosa sul pavimento, e Tommy non aveva alcuna intenzione di vedere cosa fosse. Ma i suoni coprivano quelli che lui aveva provocato, quando si era alzato e aveva cercato di raggiungere le scatole impilate, strisciando la mano lungo il muro. Il suo cuore batteva come un tamburo giocattolo, e le sue mani tremavano. Non osava usare l'accendino, così, per concentrarsi, chiuse gli occhi e passò la mano sopra le scatole. Quando la trovò, le sue dita la strinsero. Era la statuetta, il trofeo del tiro con la pistola di Staffan. La sollevò cautamente, la soppesò nella mano. Se afferrava la statuetta per il torace, avrebbe potuto usare il piedistallo di marmo come una clava. Riaprì gli occhi, riusciva a vedere il contorno dell'uomo con la pistola. Amico mio. Amico mio. Con il trofeo stretto al petto tornò a sedersi nell'angolo, in attesa che tutto avesse finalmente fine. Eli sentì che il suo corpo veniva spostato. Mentre nuotava verso la superficie delle tenebre nelle quali era sprofondato, sentiva come veniva mosso il suo corpo, lontano, in un'altra parte del mare. Un'intensa pressione sulla schiena, le gambe sollevate in alto, all'indietro, anelli di ferro chiusi fermamente intorno alle sue caviglie. Ora, le caviglie con gli anelli di ferro erano ognuna a un lato della sua testa, e la spina dorsale era talmente tesa che dava l'impressione di potersi spezzare. Sto per rompermi. Quando il suo corpo fu piegato violentemente come una balla di stoffa, la testa diventò un contenitore di dolore, ed Eli ebbe l'impressione di essere vittima di un'allucinazione, perché quando i suoi occhi ripresero a vedere, c'era solo giallo intorno. E al di là di tutto quel giallo, una massiccia ombra ondeggiante. Poi arrivò il gelo. Sulla pelle sottile fra le natiche. Lì veniva strofinata una palla di ghiaccio. Qualcuno cercava, dapprima con colpi, e poi con forza, di penetrare dentro di lui. Eli ansimò. Il tessuto del vestito sopra la sua testa si sollevò, e vide. Håkan era sopra di lui. L'unico occhio fisso sulle natiche aperte di Eli. Le mani intorno alle sue caviglie. Le gambe erano state brutalmente piegate all'indietro, con le ginocchia spinte a terra a ciascun lato delle sue spalle. Quando Håkan fece più forza, Eli sentì che i tendini dietro le cosce si rom-
pevano come due corde di chitarra tirate troppo. «Nooooo!» Eli urlò nella faccia senza forma di Håkan sulla quale non era possibile distinguere alcuna emozione. Una striscia di bava usciva dal buco dove avrebbe dovuto esserci la bocca e scivolò sulle labbra di Eli. Il sapore di cadavere gli riempì la bocca. Le sue braccia caddero lungo il corpo senza vita, come quelle di una bambola di pezza. Sentì qualcosa fra le dita. Rotondo. Duro. Cercò di pensare, si sforzò di creare una sfera di luce dentro quella follia tenebrosa e roteante. Si vide all'interno della sfera. Con un bastone in mano. Sì. Eli strinse una mano intorno al bastone, intorno a quell'oggetto di salvezza liscio, mentre Håkan continuava a spingere, a muoversi a scatti per cercare di penetrare dentro di lui. La punta. La punta deve essere all'estremità giusta. Girò la testa e vide che la punta era nella direzione giusta. Un'opportunità. Quando visualizzò quello che doveva fare, il silenzio invase la sua testa. Poi lo fece. Con un singolo movimento alzò il bastone da terra e lo spinse con tutta la sua forza verso il volto di Håkan. Il suo avambraccio sfiorò la coscia e il bastone seguì una linea retta che si fermò a pochi centimetri dal viso di Håkan. Data la posizione, non riusciva a portarlo più in là. Aveva fallito. Per un secondo, Eli ebbe il tempo di pensare che forse aveva la capacità di ordinare al suo corpo di morire. Se riusciva a chiudere tutto... Poi Håkan si gettò su di lui, e così la sua testa cadde in avanti. Con il suono molle di un cucchiaio di legno che affonda in un piatto di budino denso, la punta del bastone gli trafisse l'occhio. Håkan non urlò. Forse non lo aveva neppure sentito. Forse era stata la sorpresa di non riuscire più a vedere che gli fece allentare la presa sulle caviglie di Eli. Senza sentire il dolore delle gambe lesionate, Eli liberò i piedi e scalciò contro il torace di Håkan. Quando le suole colpirono, si udì uno schiocco e Håkan cadde all'indietro. Con uno sforzo che gli provocò una fitta di dolore freddo alla schiena, Eli gli tirò via le gambe da sotto e si mise in ginocchio. Håkan non era caduto supino, si era piegato in due sulle ginocchia come una bambola in una
casa di fantasmi, e ora stava raddrizzandosi. Rimasero in ginocchio, l'uno di fronte all'altro. Il bastone nell'occhio di Håkan iniziò a scivolare in basso, un centimetro alla volta, con la regolarità delle lancette dei secondi, e poi cadde a terra, rimbalzò un paio di volte e si fermò. Un fluido translucido iniziò a fuoriuscire dal buco provocato dal bastone, una cascata di lacrime. Nessuno dei due si mosse. Dall'occhio, le gocce di fluido cadevano sulle sue cosce nude. Eli concentrò tutta la sua forza nel braccio destro e chiuse il pugno. Quando Håkan alzò le spalle, facendo uno sforzo per raggiungerlo e continuare da dove era stato interrotto, Eli lo colpì con il pugno destro sul lato sinistro del torace. Le costole si spezzarono e la pelle fu tirata al limite, poi si ruppe. Quando la mano di Eli si mosse dentro la cavità del torace e trovò il cuore, Håkan chinò la testa verso il basso per vedere quello che non poteva comunque vedere. Non è vivo. Ma deve... Eli strinse il cuore finché non andò in pezzi. Era stato come schiacciare una medusa morta. Håkan sembrava semplicemente infastidito da una mosca testarda che si agitava sulla sua pelle, mosse un braccio per eliminare l'elemento irritante, ma prima che riuscisse ad afferrargli il polso, Eli estrasse la mano dalla cavità toracica con i resti vibranti del cuore stretti nel pugno chiuso. Devo andarmene da qui. Cercò di alzarsi, ma le gambe non ubbidivano. Håkan brancolava cieco con le braccia tese in avanti. Eli si mise prono e iniziò a strisciare per uscire dalla stanza, le sue ginocchia strisciavano sul pavimento di cemento. Håkan sentì il rumore e girò la testa in quella direzione, allungò le mani e gli afferrò il vestito, strappandone una manica prima che Eli riuscisse a raggiungere la porta e a rimettersi in ginocchio. Håkan si rialzò. Eli aveva pochi secondi di tempo prima che Håkan arrivasse alla porta. Cercò di ordinare alle sue membra spezzate di rimettersi abbastanza da permettergli di stare in piedi, ma quando Håkan raggiunse il vano della porta le sue gambe non erano ancora abbastanza forti, e poté alzarsi soltanto appoggiandosi al muro. Strisciando le mani sulle porte lungo il corridoio per non cadere, schegge delle assi grezze gli si infilarono nei polpastrelli. E adesso sapeva. Sa-
peva che Håkan, senza cuore, cieco, lo avrebbe perseguitato finché... finché... Devo distruggerlo... devo distruggerlo... Una linea nera. Una linea nera verticale apparve davanti ai suoi occhi. Prima non c'era. Eli sapeva quello che doveva fare. «Aaaaa...» Intorno al telaio della porta apparve la mano di Håkan, e poi il suo corpo barcollante uscì nel corridoio, le mani tese che si muovevano a tentoni nell'aria davanti a lui. Eli si addossò al muro, aspettando il momento opportuno. Håkan fece un passo e si fermò esattamente di fronte a Eli, rimanendo in ascolto, annusando. Eli si chinò con le mani all'altezza delle spalle di Håkan. Poi spinse la schiena contro il muro e si gettò in avanti con tutte le sue forze per fargli perdere l'equilibrio. Ci riuscì. Håkan fece un passo di lato, inciampò e cadde contro la porta del rifugio. La fessura nella porta che Eli aveva visto come una linea nera si allargò e la porta si aprì verso l'interno. Håkan cadde nel buio agitando le braccia come per cercare aiuto. Eli cadde in avanti sul pavimento del corridoio e riuscì a fermarsi prima di sbattere la faccia a terra, strisciò fino alla porta e riuscì ad afferrare il volantino della porta del rifugio. Quando Eli tirò la porta e fece scattare il lucchetto, Håkan era disteso immobile sul pavimento. Eli tornò strisciando in cantina, prese il bastone e lo infilò nel volantino, in modo che non fosse possibile aprirlo dall'interno. Continuò a concentrare le proprie energie sulle lesioni del suo corpo, e strisciando si diresse fuori. Un rivolo di sangue che usciva dall'orecchio lo seguiva. Arrivato all'uscita si era sufficientemente rimesso da poter stare in piedi. Aprì la porta e uscì con passo incerto. Riposare. Riposare. Riposare. Uscì all'aperto. Era stato picchiato, umiliato, e l'alba incombeva all'orizzonte. Riposare. Riposare. Riposare. Ma doveva distruggerlo. E sapeva che c'era un solo modo per farlo. Il fuoco. Attraversò il cortile barcollando, in direzione dell'unico luogo dove sapeva di poterlo fare.
7.34, lunedì, Blackeberg L'allarme antifurto scatta nel supermercato Ica ad Arvid Mörnes Väg. La polizia arriva sul posto undici minuti dopo e trova una vetrina in frantumi. Il gerente del supermercato, che abita nelle vicinanze, è già sul posto. Afferma di avere visto, dalla finestra del suo appartamento, una persona giovane dai capelli neri allontanarsi dal luogo correndo. Dopo un controllo, dichiara che dal supermercato non è stato rubato niente. 7.36, il levare del sole Le persiane nella stanza dell'ospedale andavano meglio, erano più scure delle sue. Le lamelle erano danneggiate soltanto in un punto e lasciavano filtrare un sottile raggio della luce del mattino che si estendeva come una striscia grigia sul soffitto. Virginia era distesa sul letto, rigida, e fissava la striscia di luce che tremava quando le folate di vento facevano vibrare i vetri della finestra. La luce le provocava soltanto una leggera irritazione agli occhi, come un granello di polvere. Lacke russava e respirava sibilando nel letto accanto. Erano rimasti svegli a lungo a parlare. Più che altro ricordi. Verso le quattro di mattina si era finalmente addormentato, tenendo sempre la mano sulla sua. Un'ora dopo, quando un'infermiera era entrata per misurarle la pressione, Virginia era stata costretta a lasciare la sua mano. L'infermiera le aveva detto che la pressione era a posto ed era uscita lanciando a Lacke uno sguardo pieno di tenerezza. Virginia lo aveva sentito chiedere, pregare di restare, e aveva sentito le ragioni che aveva addotto. Molto probabilmente, era quello il motivo dello sguardo. Ora, Virginia rimaneva distesa con le mani incrociate sul petto, cercando di combattere il desiderio del corpo di... spegnersi. Addormentarsi non era la parola corretta. Non appena smetteva di concentrarsi sulla respirazione, la respirazione si interrompeva. Ma doveva restare sveglia. Aveva sperato che l'infermiera tornasse prima che Lacke si svegliasse. Sì. La cosa migliore era che potesse dormire finché non fosse finita. Ma era sperare troppo. Il sole raggiunse Eli sul portone. Una pinza incandescente che si stringeva intorno al suo orecchio ferito. Istintivamente, fece un passo indietro nell'ombra dell'androne, tenendo strette al petto le tre bottiglie di plastica di alcol denaturato, come per proteggere anche loro dal sole.
Dieci passi fino al suo portone. Venti passi da quello di Oskar. E trenta da quello di Tommy. Non è possibile. No, se fosse stato in condizioni normali, forse avrebbe osato raggiungere il portone di Oskar, attraversando la cascata di luce che aumentava di intensità a ogni secondo che passava. Ma non il portone di Tommy. Non in quel momento. Dieci passi. Poi su per le scale. La grande finestra che illuminava la tromba delle scale. E se inciampo. E se il sole... Eli si mise a correre. Il sole si gettò su di lui come un leone affamato, azzannandogli la schiena. Spinto in avanti dalla sua forza ringhiante, Eli stava per perdere l'equilibrio. La natura vomitava disgusto per la sua trasgressione: farsi vedere anche per un attimo alla luce del giorno. Quando raggiunse il portone e lo aprì, la sua schiena sfrigolava e ribolliva come cosparsa di olio bollente. Mentre si muoveva sulle scale alla cieca, quasi fosse drogato, stava per svenire dal dolore. Non osava aprire gli occhi per timore che potessero fondersi. Perse una delle bottiglie e la sentì rotolare via. Niente da fare. A testa china, con un braccio stretto intorno alle bottiglie rimaste e la mano libera appoggiata alla ringhiera, zoppicando sulle scale riuscì a raggiungere il pianerottolo. Ancora una rampa di scale. Attraverso la finestra, il sole gli diede un'ultima zampata sulla nuca, lo azzannò, poi morse le sue cosce, i polpacci, i talloni mentre continuava a trascinarsi lungo la scala. Bruciava. Mancavano soltanto le fiamme. Riuscì ad aprire la porta dell'appartamento e cadde nella magnifica, fresca oscurità dell'ingresso. Si chiuse la porta alle spalle. Ma il buio non era totale. La porta della cucina era aperta e non c'erano coperte sulla finestra. Però quella luce era più debole, più grigia di quella che aveva dovuto sopportare un attimo prima. Senza esitare, Eli lasciò le bottiglie sul pavimento e avanzò lasciando che la luce gli accarezzasse la schiena. Si diresse strisciando verso il bagno, circondato dal tanfo della sua pelle bruciata. Non mi rimetterò mai più. Alzò il braccio, apri la porta del bagno e si trascinò nel buio compatto. Spostò alcuni contenitori di plastica, chiuse la porta. Prima di scivolare nella vasca da bagno riuscì a pensare: Non ho chiuso a chiave la porta d'ingresso. Ma era troppo tardi. Il sonno lo avvolse non appena chiuse gli occhi. In
ogni caso, non avrebbe avuto l'energia sufficiente. Tommy rimaneva seduto nell'angolo. Trattenne il respiro finché le sue orecchie non si misero a ronzare e una caduta di stelle non gli passò davanti agli occhi. Quando udì la porta della cantina richiudersi sbattendo, ebbe il coraggio di espirare e un lungo sospiro rotolò lungo le pareti di cemento, morì. Il silenzio era assoluto. Il buio era così compatto che si sarebbe detto che avesse una massa, un peso. Si passò una mano davanti al volto. Niente. Nessuna differenza. Si toccò il viso come per assicurarsi di esistere ancora. Sì. Le punte delle sue dita passarono sul suo naso, sulle labbra. Irreali. Scomparvero tra le sue mani. La figurina nell'altra mano sembrava più viva, più reale di lui stesso. La strinse con forza, come se volesse aggrapparvisi. Tommy era rimasto seduto con la testa piegata sulle ginocchia, gli occhi chiusi, le mani sulle orecchie per evitare di sapere, di udire quello che stava accadendo nel locale accanto. Dai suoni si sarebbe detto che qualcuno stava tentando di uccidere la ragazza. Non avrebbe potuto o osato fare qualcosa, per questo aveva cercato di negare l'intera situazione scomparendo. Era stato con suo padre. Sul campo da calcio, nella foresta, in piscina. Alla fine, i ricordi si erano fermati al campo di Råcksta dove avevano provato l'aeroplano radiocomandato che suo padre si era fatto prestare da un collega. Sua madre era rimasta con loro per un po', ma alla fine si era stancata di guardare l'aereo che volteggiava nell'aria ed era tornata a casa. Tommy e suo padre avevano continuato fino all'arrivo del buio, quando l'aereo era ormai soltanto una silhouette contro il cielo scuro. Poi si erano avviati verso casa attraverso la foresta, tenendosi per mano. Tommy era rimasto aggrappato a quel giorno, lontano dalle urla, dalla follia che si era scatenata a pochi metri da lui. Tutto quello che c'era, era il ronzio penetrante del motore, il calore della mano di suo padre sulla sua schiena mentre manovrava nervosamente l'aereo in grandi cerchi sopra il campo, il cimitero. Fino ad allora, Tommy non era mai stato dentro il cimitero; si immaginava persone che si aggiravano senza meta fra le tombe, piangendo, mentre le loro lacrime, grandi come quelle dei personaggi dei cartoni animati,
cadendo schizzavano sulle lapidi. Poi suo padre era morto e Tommy aveva constatato che al cimitero raramente il dolore veniva espresso in quel modo. Le mani sempre sulle orecchie, scacciò il pensiero del cimitero. Pensò invece al sentiero che attraversava la foresta, all'odore della benzina speciale per l'aereo nel piccolo contenitore, pensò... Soltanto quando, attraverso le sue cuffie protettive, aveva udito lo scatto del lucchetto, aveva tolto le mani dalle orecchie e aperto gli occhi. Inutilmente, il buio intorno a lui era compatto. Trattenne il respiro finché chiunque-fosse rimaneva nella cantina. Poi aveva udito la porta della cantina richiudersi sbattendo, una vibrazione lungo le pareti, ed era lì. Ancora vivo. Non mi ha scoperto. Non sapeva esattamente "chi" potesse essere, ma chiunque fosse non lo aveva scoperto. Tommy si rialzò. Mentre si muoveva a tentoni lungo la parete per raggiungere la porta, una scia brulicante di formiche si sparse lungo i muscoli intorpiditi delle sue gambe. Le sue mani, rimaste così a lungo premute contro le sue orecchie, erano sudate per la paura, la statuetta stava per scivolargli di mano. La sua mano trovò il volantino per aprire la porta blindata e iniziò a girare. Si muoveva di dieci centimetri, poi si bloccava. Cosa diavolo... Girò con più forza, ma il volantino si rifiutava di scattare. Lasciò la presa sulla statuetta per poter usare entrambe le mani, la statuetta cadde sul pavimento con un tonfo sordo Tommy si irrigidì. Che strano rumore. Come se fosse caduta su qualcosa di morbido. Afferrò il volantino con entrambe le mani e lo girò con tutte le sue forze. Stesso risultato. Dieci centimetri e poi stop. Si mise a sedere sul pavimento. Cercò di pensare concretamente. Maledizione, sono bloccato qui dentro. Più o meno così. Stava tornando di soppiatto... quel terrore che aveva provato per alcuni mesi dopo la morte di suo padre. Era da tempo che non lo provava, ma a-
desso, rinchiuso in quel buio compatto, stava facendosi nuovamente vivo. L'amore per suo padre che, con la sua morte, si era trasformato in paura. Del suo corpo. Sentì un nodo in gola, le sue dita si irrigidirono. Adesso pensa, pensa! Insieme ai barattoli e a tutto il resto, nel locale c'era una scatola di candele su uno scaffale sul lato opposto. Il problema era come arrivarci al buio. Idiota! Batté la mano sulla fronte, si mise a ridere. Aveva l'accendino! Oltretutto, a cosa diavolo sarebbe servito andare a cercare le candele se non avesse avuto qualcosa per accenderle? Come quel tipo con migliaia di scatolette e nessun apriscatole. Ed era morto di fame circondato da una montagna di cibo. Mentre metteva la mano in tasca, pensò che la sua situazione non era poi così disperata. Prima o poi qualcuno sarebbe sceso in cantina, sua madre, se non altri, e se avesse potuto avere un po' di luce si sarebbe sentito meglio. Prese l'accendino dalla tasca e lo accese. Per un attimo, i suoi occhi che si erano adattati al buio rimasero accecati dalla luce, ma quando si abituarono vide che non era solo. Disteso sul pavimento, proprio davanti ai suoi piedi, c'era... ... papà... Quando, alla luce della fiamma tremante dell'accendino, vide il volto del cadavere che corrispondeva all'aspetto di una persona sepolta da anni, non gli passò per la mente che suo padre era stato cremato. ... Papà... Lanciò un urlo direttamente sulla fiamma dell'accendino che si spense, ma un attimo prima aveva visto la testa muoversi e... ... è vivo... Il suo intestino si svuotò in un'esplosione umida che sparse calore sulle sue natiche. Poi le sue gambe si piegarono, il suo scheletro si dissolse e Tommy rovinò a terra lasciando cadere l'accendino che scivolò sul pavimento. La sua mano cadde sulle dita gelate dei piedi del cadavere, unghie aguzze la graffiarono, e continuò a urlare ma papà! non ti sei tagliato le unghie dei piedi! e iniziò ad accarezzare il piede gelato come se fosse un cucciolo infreddolito che aveva bisogno di essere confortato. Continuò passando la mano
sullo stinco, sulla coscia, sentì i muscoli tendersi, muoversi mentre continuava a urlare a scatti, come un animale. Sotto le punte delle dita sentì del metallo. La statuetta. Era incastrata fra le cosce del cadavere. Tommy afferrò la statuetta, smise di urlare e tornò per un attimo a pensare in maniera concreta. La mazza. Nel silenzio che seguì alle sue urla, quando il cadavere alzò il busto, udì un suono gocciolante, appiccicaticcio, e quando un arto gelido gli sfiorò il dorso della mano la tirò via e strinse l'altra intorno alla statuetta. Non è papà. No. Tommy fece un passo indietro, lontano dal cadavere, gli escrementi impiastricciati sulle natiche, e per un attimo pensò di essere in grado di vedere al buio, quando le impressioni dei suoni si trasformarono in una visione e vide il cadavere alzarsi, un contorno giallognolo, una costellazione. Mentre continuava ad arretrare verso la parete, il cadavere emise una breve esalazione: «... aa...» E Tommy vide... Un piccolo elefante, un elefante dei cartoni animati, ed ecco che arriva (tuuuut) il GRANDE elefante, e così... su!... con le proboscidi, e strombazzano «A», e poi arrivano Magnus, Brasse ed Eva e cantano «Là! È là! Dove non si può...» No, come continuava... Il cadavere doveva avere battuto contro la pila di scatoloni perché udì i tonfi e i rumori metallici delle attrezzature stereo che cadevano sul pavimento, e arretrò andando a sbattere contro il muro, e la sua testa si riempì di un brusio bianco. Attraverso il brusio udì rumore di piedi nudi che si muovevano sul pavimento, cercando. Qui. È là. Dove non esiste. No. Sì. Proprio così. Non c'era. Non vedeva se stesso, non vedeva quello che provocava il rumore. Quindi, c'era soltanto il suono. Era soltanto qualcuno che lui stava ascoltando mentre fissava la rete nera di un altoparlante. Il tutto era qualcosa che non esisteva. Qui. È là. Dove non esiste. Per un attimo fu tentato di mettersi a cantare, ma un resto ragionevole della sua consapevolezza gli disse di non farlo. Il brusio bianco iniziò a svanire lasciando dietro di sé uno spazio vuoto, dove iniziò a formare pazientemente nuovi pensieri.
Il volto. Il volto. Non voleva pensare al volto, non voleva pensare a... Quel volto che era apparso alla luce della fiamma del suo accendino. Il corpo si avvicinò. Non c'era soltanto il rumore dei passi che stavano avvicinandosi, ora udiva anche un sibilo lungo il pavimento. No, poteva sentire la sua presenza come un'ombra più scura delle tenebre. Si morse il labbro inferiore fino a sentire in bocca il sapore del sangue, chiuse gli occhi. Vide i propri occhi sparire come due... Occhi. Non ha gli occhi. Sentì una debole brezza provocata da una mano che si era mossa. Cieco. È cieco. Non ne era sicuro, ma la massa sopra le spalle della creatura non aveva occhi. Quando la mano si agitò nuovamente nell'aria, Tommy sentì una carezza d'aria su una guancia, e un decimo di secondo prima che la mano lo raggiungesse ebbe il tempo di abbassare la testa e la mano gli sfiorò i capelli. Con un movimento rapido, si gettò sul pavimento e iniziò a strisciare allargando le mani davanti a sé, come se stesse nuotando. L'accendino, l'accendino... Qualcosa toccò la sua guancia. Quando si rese conto che aveva battuto contro l'unghia di un piede della creatura fu colto da un conato di nausea, ma rotolò su un fianco per non trovarsi nella stessa posizione quando le mani avrebbero cercato di raggiungerlo. Qui. È là. Dove non esisto. Una specie di singhiozzo gli uscì dalla bocca. Cercò di fermarlo, ma non ci riuscì. La saliva sgorgò, e dalla gola rauca per le urla uscì un misto di singhiozzi o risa o gemiti, mentre le sue mani, due onde radar, continuavano a cercare sul pavimento l'unico vantaggio che forse aveva su quella tenebra che voleva afferrarlo. Dio aiutami. Fa' che la luce del tuo volto... Dio... perdonami per quella cosa della chiesa, scusami per... tutto... Dio. Crederò sempre in te, se solo vorrai... lasciare che trovi l'accendino... sii mio amico, Dio. Successe qualcosa. Nello stesso momento in cui Tommy sentì la mano della creatura sopra il suo piede, per una frazione di secondo, la stanza fu invasa da una luce bianca e blu, come quella del flash di una macchina fotografica. E durante quella frazione di secondo, Tommy vide le scatole gettate a terra, la strut-
tura irregolare del muro, il passaggio fino al corridoio della cantina. E vide l'accendino. Era soltanto a un metro dalla sua mano, e quando le tenebre si richiusero nuovamente intorno a lui la posizione dell'accendino gli era rimasta impressa nelle retine. Si liberò dalla presa della creatura, allungò il braccio, afferrò l'accendino, lo strinse in mano, e si alzò in piedi di scatto. Senza domandarsi se fosse troppo, iniziò a formulare una nuova preghiera nella sua mente. Dio, fa' che continui a essere cieco. Fa' che continui a essere cieco... Accese l'accendino. Un flash, simile a quello che aveva appena visto, poi la fiamma gialla con il suo centro blu. La creatura rimase immobile, la testa rivolta verso il rumore. Avanzò in quella direzione. La fiamma tremò quando Tommy scivolò in là di due passi e arrivò alla porta. La creatura si fermò dove Tommy era tre secondi prima. Se avesse potuto provare un senso di gioia lo avrebbe fatto. Ma nella luce incerta dell'accendino tutto era diventato crudelmente reale. Non c'era più la possibilità di fuggire in una fantasia nella quale non si trovava, pensare che non stesse accadendo a lui. Era rinchiuso in un locale isolato acusticamente insieme a ciò che più temeva. Il suo stomaco brontolò, ma dentro non c'era più niente. Uscì soltanto una lieve scoreggia e la creatura si girò nuovamente nella sua direzione. Tommy tirò il volantino con la mano libera, facendo tremare quella che teneva l'accendino, che si spense. Il volantino non si mosse più di dieci centimetri, ma con la coda dell'occhio Tommy ebbe il tempo di vedere la creatura che si dirigeva verso di lui e si gettò lontano dalla porta, là dove era rimasto seduto prima. Singhiozzò, tirò su con il naso. Fa' che FINISCA. Dio, fa' che finisca. Ancora il grande elefante che alzava il suo cappello e diceva con la sua voce nasale: Adesso è fiiiiniita! Suonate le trombe, le proboscidi, tuuuut! Adesso è finita! Sto impazzendo. Io... Scosse il capo e riaccese l'accendino. Lì, ai suoi piedi, vide la statuetta. Si chinò, l'afferrò e fece alcuni passi lateralmente sempre in direzione della parete opposta. Vide la creatura cercare a tentoni nello spazio che aveva
appena lasciato. Mosca cieca. L'accendino in una mano, la statuetta nell'altra. Tommy aprì la bocca per dirlo, ma ne uscì soltanto un bisbiglio. «Forza, vieni...» La creatura si fermò, si girò e andò verso di lui. Tommy alzò il trofeo di Staffan come una clava, e quando la creatura arrivò a mezzo metro di distanza lo calò con tutte le forze sulla sua faccia. Come un perfetto calcio di rigore, quando il calciatore nello stesso istante in cui il suo piede colpisce il pallone sente che... che arriverà all'incrocio dei pali: Tommy avvertì la stessa cosa prima che la statuetta colpisse sì! e quando l'angolo aguzzo del piedistallo centrò la tempia della creatura con una forza che gli mandò una vibrazione elettrica lungo tutto il braccio, aveva già provato il senso del trionfo. Confermato dal suono del cranio che si spezzava come una crosta di ghiaccio, mentre un liquido gelido toccò il volto di Tommy e la creatura cadde sul pavimento. Tommy rimase immobile, ansimando. Fissò il corpo disteso sul pavimento. Ha un'erezione. Sì. Il suo pene si ergeva sopra il corpo, come una minilapide mezzo rovesciata, e Tommy rimase immobile a fissarlo, in attesa che si afflosciasse. Ma non lo fece. Tommy avrebbe voluto ridere, ma la sua gola riarsa non glielo permetteva. Provò un dolore acuto al pollice. Abbassò lo sguardo. La fiamma dell'accendino stava bruciando la pelle del dito che teneva abbassata la leva del gas. Istintivamente cercò di lasciarla. Ma il pollice bloccato da un crampo non si mosse. Girò l'accendino dall'altra parte. Non voleva che si spegnesse. Non voleva rimanere al buio con quella cosa... Un movimento. E Tommy sentì che qualcosa di importante, qualcosa di cui aveva bisogno per essere Tommy, lo lasciava mentre la creatura risollevava il capo e cominciava a rialzarsi. Un elefante si dondolava, sopra un sottile, sottile filo di una ragnatela... Il filo si spezzò e l'elefante cadde nel vuoto. E Tommy colpì ancora. E ancora. Dopo un po', iniziò a provare piacere.
Lunedì 9 novembre Morgan passò davanti al controllore, agitando un abbonamento mensile scaduto da sei mesi, mentre Larry, ligio al dovere, si fermò, porse una striscia di biglietti e disse: «Ängbyplan.» Il controllore alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e timbrò due spazi. Quando Larry lo raggiunse, Morgan si mise a ridere e iniziarono a scendere le scale insieme. «Perché diavolo fai così?» «Cosa? Timbrare i biglietti?» «Sì. Cos'è, vuoi far vedere che sei un cittadino modello?» «Non è questo.» «Che cos'è allora?» «Io non sono come te, okay?» «Ma dai, era seduto e stava leggendo, non avrebbe reagito neanche se gli avessi sventolato sotto il naso la fotografia del re.» «Sì, sì. Ma cerca di abbassare la voce.» «Cosa credi, che mi corra dietro?» Prima di aprire le porte per raggiungere il marciapiede della metropolitana, Morgan portò le mani a imbuto intorno alla bocca e urlò verso l'atrio della stazione: «Allarme! Allarme! C'è un passeggero senza biglietto!» Larry si allontanò rapidamente. Quando Morgan lo raggiunse, gli disse: «Ti comporti proprio come un bambino. Lo sai?» «Assolutamente. Adesso, racconta di nuovo dall'inizio.» Quella notte, Larry aveva già telefonato a Morgan facendogli un breve riepilogo di quello che Gösta gli aveva raccontato al telefono dieci minuti prima. Larry e Morgan avevano deciso di incontrarsi alla stazione della metropolitana il mattino presto per andare insieme all'ospedale. Ora, Larry ripeté la storia dall'inizio. Virginia, Lacke, Gösta. I gatti. L'ambulanza, e Lacke che ci era salito. Aggiunse alcuni dettagli e prima che finisse, il convoglio entrò in stazione. Salirono e si misero a sedere l'uno di fronte all'altro. «... e così l'ambulanza è partita a sirene spiegate» concluse Larry. Morgan annuì, si morse un'unghia, guardò fuori dal finestrino mentre il convoglio usciva dal tunnel e si fermava a Islandstorget. «Perché diavolo è successo?» «Stai parlando dei gatti? Non lo so. Per qualche motivo sono impazziti.»
«Tutti? Nello stesso istante?» «Sì. Hai una spiegazione migliore?» «No. Dannati gatti. Lacke deve essere a pezzi in questo momento.» «Mmm. Non era in gran forma neppure prima.» «È vero» disse Morgan sospirando. «Fa veramente pena. Dovremmo, non so come dire, fare qualcosa.» «E Virginia?» «Sì, sì. Ma essere feriti, malati, è diverso. Cosa si può fare? Resti lì, disteso. È più dura stare seduti accanto al letto e... no, non saprei, ma aveva ragione... l'ultima volta, quando... cosa andava dicendo? licantropi?» «Vampiri.» «Sì. È un segno che non è affatto in forma, non trovi?» Il convoglio si fermò ad Ängbyplan. Quando le porte si chiusero, Morgan disse: «Bene, adesso siamo sulla stessa barca.» «Speriamo che non ci sia un controllo.» «A chi lo dici.» «Hai visto i risultati dei sondaggi? Il Partito comunista non se la cava tanto bene, no?» «Sì, sì. Aspettiamo le elezioni per vedere. C'è un sacco di gente con il cuore che batte per il partito e lo dimostreranno votando.» «Ci credi veramente?» «No. Ne sono sicuro. Il giorno che il Partito comunista non avrà deputati in parlamento, inizierò a credere ai vampiri. Però è chiaro, bisogna sempre tenere presenti i moderati. Sono delle vere e proprie sanguisughe...» Morgan iniziò uno dei suoi soliti monologhi sulla politica. Larry smise di ascoltarlo ad Åkeshov. Un poliziotto era fermo davanti alle serre. Larry ebbe l'impressione che stesse fissando proprio lui, e provò un vago senso di inquietudine pensando al suo biglietto obliterato a metà, ma poi si ricordò il motivo per il quale il poliziotto era fermo lì. Aveva un'aria tremendamente annoiata. Il convoglio ripartì verso Sabbatsberg e Morgan continuò imperterrito la sua tirata sulla situazione politica del paese. Larry fingeva di ascoltarlo, annuendo di tanto in tanto. Le otto meno un quarto, e nessuna infermiera si era fatta viva. La striscia di luce grigia sul soffitto era molto più chiara e le persiane lasciavano passare più luce. Virginia aveva l'impressione di essere distesa in un solarium. Provava una sensazione di calore e un leggero fremito in tutto
il corpo, ma per fortuna non molto di più. Lacke era disteso nel letto di fianco al suo e dormiva beatamente. Virginia era pronta. Se avesse potuto, avrebbe spinto il pulsante per chiedere l'intervento di un'infermiera. Ma le sue mani erano bloccate dalle cinghie. Così, non poteva fare altro che rimanere in attesa. Il calore sulla pelle era fastidioso, ma sopportabile. La cosa peggiore era lo sforzo che doveva fare per rimanere sveglia. Bastava un attimo di disattenzione e smetteva di respirare, il suo cervello si offuscava rapidamente ed era costretta a sbarrare gli occhi e a scuotere la testa per non lasciarsi andare. Allo stesso tempo, quello stato di allerta era una benedizione, le impediva di pensare. Tutta la sua energia mentale era concentrata nello sforzo che doveva fare per restare sveglia. Non c'era nessuno spazio per esitare o rimpiangere qualcosa. Alle otto in punto, l'infermiera entrò. Quando aprì la bocca per dire «buongiorno, buongiorno!» o quello che le infermiere hanno l'abitudine di dire, Virginia disse «sscchh!» L'infermiera chiuse la bocca sorpresa e aggrottò la fronte, si avvicinò al letto, si chinò e le disse a bassa voce: «Come andiamo...» «Mi scusi, ma non voglio svegliarlo» sussurrò Virginia facendo un cenno con la testa in direzione di Lacke. L'infermiera annuì. «D'accordo, ma devo misurarle la temperatura e farle un prelievo di sangue.» «Va bene, ma non è possibile portarlo fuori prima?» «Portarlo fuori... devo svegliarlo?» «No. Non è possibile portarlo fuori mentre dorme?» L'infermiera volse lo sguardo verso Lacke come se stesse valutando se la richiesta di Virginia fosse fisicamente fattibile. Poi sorrise, scosse il capo e disse: «Capisco. Possiamo misurare la febbre oralmente così non dovrà...» «Non è questo» disse Virginia. «Non può fare quello che le ho chiesto?» L'infermiera guardò l'orologio. «Deve scusarmi, ma ho altri pazienti da...» «Sia gentile, per favore!» disse Virginia con tono impaziente. L'infermiera fece mezzo passo indietro. Ovviamente sapeva cosa era successo durante la notte. Fissò le cinghie intorno alle braccia di Virginia e sembrò tranquillizzarsi, poi si avvicinò nuovamente al letto. Si rivolse a Virginia come a una bambina. «Cerchi di capire, se vuole che io... noi la aiutiamo a guarire presto, ab-
biamo bisogno di prendere un campione di sangue e...» Virginia chiuse gli occhi, sospirò, si arrese. «Va bene, ma prima può aprire le persiane, per favore?» L'infermiera annuì e andò alla finestra. Virginia colse l'occasione per scalciare via la coperta, esponendo il suo corpo. Trattenne il fiato tenendo gli occhi chiusi. Era finita. Adesso voleva farla finita. Adesso, voleva consapevolmente lasciar andare quella stessa funzione che aveva trattenuto per tutta la mattina. Ma non ci riuscì. Invece, provò quella sensazione di cui aveva sentito parlare; vide la propria vita scorrere rapidamente come un film. L'uccello che portavo in una scatola di cartone con i buchi perché potesse respirare... il profumo delle lenzuola fresche di bucato... mia madre che prepara una torta... mio padre... l'odore del fumo della sua pipa... Per... la casa in campagna... Lena e il grande fungo porcino che abbiamo trovato quell'estate... Ted con una chiazza di marmellata sulla guancia... Lacke, la sua schiena... Lacke. Il rumore delle persiane che venivano alzate e Virginia fu risucchiata in un mare di fiamme. Come sempre, Oskar era stato svegliato da sua madre alle sette e dieci. Si era alzato e aveva fatto colazione normalmente. Vestito, alle sette e mezza aveva detto arrivederci a sua madre con un abbraccio. Si sentiva come ogni mattina quando stava per andare a scuola. Pieno di inquietudine e di brutti presagi. Ma anche questo non era particolarmente insolito quando tornava a scuola dopo il fine settimana. Cinque minuti prima, aveva messo il libro di geografia, l'atlante e il foglio del compito che non aveva fatto nello zainetto. Avrebbe potuto cercare di fare il compito, ma non ne aveva avuto la forza. Era rimasto seduto alla scrivania con lo sguardo fisso sulla parete. Dunque, non era stato contagiato? Oppure c'era un periodo di incubazione? No. Quel vecchio... erano passate soltanto poche ore. Non sono stato contagiato. Avrebbe dovuto essere felice, provare un senso di sollievo. Ma non era così. Il telefono squillò. Eli! Era successo qualcosa... Si alzò dal tavolo, corse in ingresso e sollevò il ricevitore. «Oskar!» «Sì... ciao.»
Suo padre. Soltanto suo padre. «Ciao.» «Bene... allora sei a casa.» «Sto andando a scuola.» «Be', allora non ti... la mamma è in casa?» «No. È andata al lavoro.» «Sì, lo avevo immaginato.» Oskar capì. Era per quello che telefonava a quell'ora insolita, perché sapeva che la mamma non era in casa. Suo padre si schiarì la gola. «Sì, avevo pensato di... sabato non è andata molto bene.» «Sì.» «Hai raccontato alla mamma... com'è andata?» «Cosa credi?» Nessuna risposta. Soltanto il brusio statico delle linee telefoniche a cento chilometri di distanza. I corvi appollaiati sui fili mentre le conversazioni degli esseri umani andavano avanti e indietro sotto le loro zampe. Suo padre si schiarì la gola una seconda volta. «Sì, a proposito di quei pattini, ho chiesto, ed è okay. Te li farò avere.» «Bene, ma adesso devo andare a scuola.» «Certamente. Saluta la mamma.» «Okay. Ciao.» Oskar posò il ricevitore, prese lo zainetto e uscì di casa. Si sentiva bene. Mancavano cinque minuti all'inizio della lezione e diversi ragazzi erano fermi nel corridoio davanti alla porta dell'aula. Oskar esitò un attimo, poi mise lo zainetto sulla spalla ed entrò in aula. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Adesso mi saltano tutti addosso. Aveva immaginato il peggio. Naturalmente, tutti sapevano quello che era successo a Jonny il giovedì, e anche se non aveva avuto modo di scorgere il suo volto fra gli altri, il venerdì, era la versione di Micke che tutti avevano sentito. E lui era lì, con il suo solito sorriso da idiota sulle labbra. Invece di passare a testa bassa, pronto a scappare in qualche modo, Oskar era entrato in aula con passo sicuro. Si sentiva vuoto dentro. Quello che poteva succedere non gli interessava più. Non aveva alcuna importanza. E accadde: il miracolo ci fu. Il mare si aprì.
Il gruppo di ragazzi si era spostato, aveva creato un passaggio per Oskar fino alla porta. In verità, non si era aspettato niente di diverso. Che fosse per il senso di forza che gli aleggiava intorno, o perché lo consideravano una specie di paria maleodorante, non aveva alcuna importanza. Adesso apparteneva a un'altra specie. Lo avevano capito e si erano scostati. Oskar entrò nell'aula con lo sguardo dritto davanti a sé e andò a sedersi al suo banco. Sentiva gli altri parlottare nel corridoio e dopo un paio di minuti entrarono anche loro. Passando davanti al suo banco, Johan alzò il pollice. Oskar scrollò le spalle. Poi entrò l'insegnante e cinque minuti dopo l'inizio della lezione arrivò anche Jonny. Oskar si era aspettato che avesse l'orecchio bendato, ma non era così. In ogni caso, l'orecchio era rosso scuro, gonfio e sembrava non appartenere al suo corpo. Jonny prese posto. Non aveva guardato né Oskar, né nessun altro. Si vergogna. Sì, era così. Oskar si girò a guardarlo e vide che stava prendendo un album di fotografie dalla borsa per riporlo sotto il ripiano del suo banco. Quando notò lo sguardo di Oskar, arrossì. Oskar avrebbe voluto tirare fuori la lingua, ma lasciò perdere. Sarebbe stato troppo puerile. Il lunedì, la prima lezione di Tommy iniziava alle nove meno un quarto, perciò Staffan si alzò alle otto, e prima di andare in cantina a parlare seriamente con Tommy bevve una tazza di Nescafé. Yvonne era già andata al lavoro, Staffan doveva raggiungere la foresta di Judarn alle nove per riprendere insieme ai colleghi le ricerche che non avevano ancora dato alcun risultato. In ogni caso, gli piaceva stare all'aperto e, apparentemente, c'era bel tempo. Sciacquò la tazza, rifletté e poi si infilò l'uniforme. In un primo momento, aveva pensato di andare a parlare con Tommy in abiti civili, come una persona normale per così dire. Ma, di fatto, quello era un caso che riguardava la polizia, vandalismo. Inoltre, l'uniforme era un simbolo di autorità, non che gli mancasse quando non era in servizio, però... E poi, tanto valeva indossarla dato che dopo avrebbe iniziato il suo turno di lavoro. Quando finì di vestirsi, si guardò allo specchio per controllare l'impressione che faceva e la trovò buona. Prese la chiave della cantina che Yvonne gli aveva lasciato sul tavolo della cucina, uscì, chiuse la porta e
controllò la serratura - una deformazione professionale -, scese le scale e aprì la porta della cantina. E parlando di deformazione professionale... Qui c'era qualcosa che non quadrava con la serratura. Nessuna resistenza quando girò la chiave, la porta si apriva da sola. Si chinò per controllare. Sì. Qualcuno aveva infilato un pezzo di cartone nella serratura. Il classico trucco dei ladri di appartamento, trovare una scusa per visitare il luogo che volevano derubare, manomettere la serratura e poi sperare che il proprietario non se ne accorgesse quando se ne andava. Staffan prese il suo temperino e tolse il pezzo di cartone. Tommy, naturalmente. Non gli venne in mente di chiedersi perché Tommy avrebbe fatto una cosa simile quando aveva a disposizione la chiave per aprire la porta. Tommy era un ladruncolo e quello era il suo covo, e quello era un trucco tipico dei ladri. Dunque, era stato Tommy. Yvonne gli aveva descritto la cantina che Tommy usava, e mentre vi si dirigeva Staffan preparò mentalmente quello che gli avrebbe detto. In un primo momento aveva pensato di usare l'approccio dell'amicizia, ma la faccenda della serratura lo aveva fatto arrabbiare. Avrebbe spiegato a Tommy - spiegato, senza minacciare - le conseguenze che potevano avere alcuni atti, carcere minorile, assistenti sociali, l'età minima per essere condannato, e così di seguito. Così avrebbe capito che stava prendendo la strada sbagliata. La porta della cantina era aperta. Staffan sbirciò dentro. Guarda, guarda. La volpe è scappata dalla sua tana. Poi vide le macchie. Si accovacciò e ci passò un dito sopra. Sangue. Il piumone di Tommy era sul divano, anche su quello c'erano macchie di sangue. E quando gli occhi si abituarono alla scarsa luce, Staffan vide che il pavimento era coperto di sangue. Sconcertato, fece alcuni passi indietro e uscì dal locale. Davanti a lui c'era la scena di un crimine. Invece del discorso che aveva preparato, iniziò a sfogliare mentalmente le pagine del regolamento relative alle azioni da intraprendere sulla scena di un crimine. Le conosceva a memoria recupero immediato di tutto il materiale che può andare perso... annotare l'ora esatta... evitare di inquinare i luoghi dove possono esserci tracce di fibre potenzialmente recuperabili
in quel momento, udì un debole mormorio dietro di sé. Un mormorio intercalato da colpi sordi. Un bastone bloccava il volantino della porta del rifugio. Staffan si avvicinò e rimase in ascolto. Sì. Il mormorio proveniva da lì. Si sarebbe detta una specie di... litania incomprensibile. Una setta satanica. Pensiero ridicolo, ma quando fissò il bastone infilato nel volantino, quello che vide gli fece rizzare i capelli dalla paura. Sulla punta del bastone c'erano strisce rosso scuro per la lunghezza di dieci centimetri. Esattamente come il sangue sulla lama di un coltello usato da un assassino che avesse avuto il tempo di coagularsi parzialmente. Il mormorio all'interno del rifugio continuava. Devo chiamare rinforzi? No. Era possibile che lì dentro qualcuno stesse compiendo un atto criminale che avrebbe potuto essere portato a termine mentre correva per tornare in casa a telefonare. Doveva cavarsela da solo. Aprì la fondina per poter impugnare la pistola facilmente. Prese un fazzoletto dalla tasca, lo avvolse intorno al bastone e iniziò a sfilarlo dal volantino, rimanendo in ascolto per sentire se lo sfregamento del bastone potesse essere udito dall'interno del rifugio. No. La litania e i colpi continuavano. Il volantino era libero. Appoggiò il bastone alla parete per non distruggere le eventuali impronte digitali. Sapeva che il fazzoletto non era una garanzia per evitare che le impronte venissero cancellate, così, invece di afferrare il volantino con le mani, ci appoggiò due dita e lo fece girare. Sentì lo scatto dei cilindri. Si passò la lingua sulle labbra. Aveva la gola secca. La porta si aprì di un centimetro. Adesso riusciva a sentire le parole. La litania era una canzone, cantata da una voce stridula. Duecentosettantaquattro elefanti Si dondolavano, sopra il filo di una ragnatela (tonfo sordo) -aaaa! E ritenendo la cosa interessante, Andarono a chiamare un altro elefante! Duecentosettantacinque elefanti Si dondolavano, sopra il filo di una ragnatela -
(tonfo sordo) -aaaa! E ritenendo la cosa interessante, Andarono a chiamare un altro elefante! Staffan afferrò il manganello e lo usò per spingere la porta. E vide. Se non fosse stato per un braccio staccato a metà, la massa dietro la quale Tommy era inginocchiato poteva difficilmente essere riconosciuta come il corpo di un essere umano. Una parte del torace, lo stomaco, il volto erano soltanto un mucchio di carne, intestini, ossa frantumate. Tommy teneva fra le mani quella che sembrava una pietra quadrata che, a un certo punto della canzone, abbassava per colpire i resti maciullati che non offrivano più alcuna resistenza, cosicché la pietra passava attraverso il corpo e finiva per colpire il pavimento con un rumore sordo, e poi Tommy la rialzava e un altro elefante saliva sul filo della ragnatela. Staffan non era del tutto sicuro che fosse Tommy. La figura che alzava e abbassava la pietra era talmente coperta di sangue e brandelli di carne che era difficile... Staffan provò un acuto senso di malessere. Deglutì diverse volte per respingere i conati di vomito, abbassò gli occhi per non vedere e il suo sguardo si fermò su un soldato di piombo sul pavimento. No. Non era un soldato di piombo, era un tiratore. Lo riconobbe. La pistola del tiratore era puntata verso il soffitto. Dov'è il piedistallo? Poi capì. La testa gli girava, e senza curarsi delle impronte digitali mise una mano sullo stipite della porta per non cadere all'indietro. Il ritornello della canzone continuava: Duecentosettantasei elefanti Si dondolavano, sopra il filo di una ragnatela... Staffan si disse che doveva essere in pessime condizioni, perché aveva delle allucinazioni. Gli sembrava che... no... era sicuro che i resti umani sul pavimento si muovessero fra un colpo e l'altro. Come se stessero cercando di alzarsi. Morgan era un fumatore accanito; quando schiacciò il mozzicone prima di entrare nell'ospedale, Larry era soltanto a metà della sua sigaretta. Morgan infilò le mani in tasca, camminando su e giù per lo spiazzo. Mise un piede in una pozzanghera, l'acqua passò attraverso il buco nella scarpa ba-
gnandogli il calzino. Inveì. «Larry, hai dei soldi?» «Sai bene che tiro avanti con la pensione di invalidità.» «Sì, sì. Ma hai dei soldi con te?» «Perché me lo chiedi. Lo sai che non faccio prestiti, se è questo che vuoi.» «No, no. Ma ho pensato a Lacke. Potremmo invitarlo a una bella bevuta.» Larry si mise a tossire e fissò la sua sigaretta come se volesse rimproverarla. «No... non so.» «Cosa? È perché pensi che Lacke non lo apprezzerebbe, perché non hai i soldi, o perché sei troppo tirchio per tirarli fuori?» Larry sospirò, tirò un'altra boccata dalla sigaretta, tossì nuovamente, fece una smorfia, gettò il mozzicone a terra e lo calpestò. Lo raccolse, e quando arrivarono davanti all'entrata dell'ospedale lo gettò nell'apposito vaso pieno di sabbia. «Morgan, sono le otto e mezza del mattino.» «Lo so, lo so. Ma fra un paio d'ore, quando aprono.» «Be', vedremo.» «Allora hai i soldi.» «Vogliamo entrare, oppure no?» Entrarono, Morgan si passò le mani sui capelli e si avvicinò all'accettazione per chiedere in quale reparto fosse ricoverata Virginia. Larry rimase a osservare i pesci che si muovevano pigramente nell'acquario di fianco al bancone. Un minuto dopo Morgan lo raggiunse, passandosi la mano sulla giacca di pelle come se fosse stata sporcata da qualcosa. «Maledetta strega. Non ha voluto dirmelo.» «Be', è sicuramente ricoverata in rianimazione.» «È possibile andarci?» «A volte, sì.» «Si direbbe che te ne intendi.» «Proprio così.» Si avviarono verso il reparto rianimazione, Larry sapeva dove si trovava. In quell'ospedale erano stati ricoverati molti suoi "conoscenti". Al momento ce n'erano due, Virginia esclusa. Morgan sospettava che le persone che Larry incontrava di sfuggita diventassero suoi "conoscenti", o persino
amici, solo quando finivano in ospedale. Allora andava immancabilmente a trovarli. Morgan stava per chiedergli perché lo facesse, quando arrivarono davanti all'ingresso del reparto rianimazione. Larry spinse le porte e videro Lacke in fondo al corridoio. Era seduto su una sedia con indosso soltanto le mutande. Teneva le mani sui braccioli con lo sguardo fisso verso la stanza davanti a sé, dove il personale dell'ospedale si affrettava dentro e fuori. Morgan annusò l'aria. «Che mi prenda un colpo, hanno cremato qualcuno, o cosa?» Si mise a ridere. «Dannati moderati. E i loro dannati tagli alle spese della sanità. E lasciare che gli ospedali...» A pochi passi da Lacke, si interruppe. Il suo volto era grigio, gli occhi arrossati, lo sguardo perso nel nulla. Morgan intuì quello che era successo e lasciò che Larry prendesse l'iniziativa. Quel tipo di cose non era il suo forte. Larry si avvicinò a Lacke e gli mise una mano sul braccio. «Ciao Lacke, come va?» Nella stanza regnava il caos. La finestra che si intravedeva dalla porta era completamente spalancata, ma un odore acido di cenere aleggiava comunque nel corridoio. Una spessa nuvola di qualcosa che forse era polvere stagnava nell'aria all'interno della stanza, diverse persone gesticolavano e parlavano ad alta voce. Morgan captò alcune parole: «responsabilità dell'ospedale» e «dobbiamo cercare di». Non sentì quello che volevano fare, perché Lacke aveva alzato lo sguardo e li fissava come se non li avesse mai visti. «Avrei dovuto capire...» Larry si chinò verso di lui. «Cosa avresti dovuto capire?» «Che sarebbe successo.» «Cosa è successo?» Lacke spalancò gli occhi e volse lo sguardo verso l'interno irreale della stanza. «È bruciata» disse. «Virginia?» «Sì. Avvolta dalle fiamme.» Morgan si avvicinò alla porta aperta e guardò dentro. Un uomo anziano dall'aria autoritaria gli si parò davanti. «Mi scusi, ma questo non è uno spettacolo pubblico.»
«No, no. Io volevo soltanto...» Morgan stava per fare una battuta dicendo che stava soltanto cercando il suo boa, ma lasciò perdere. In ogni caso, aveva avuto il tempo di vedere. Due letti. Uno con un lenzuolo spiegazzato e una coperta gettata a lato, come se qualcuno si fosse alzato di scatto. Sull'altro c'era una spessa coperta grigia. Sulla testata di legno, una coltre di fuliggine. Sotto la coperta si notava il contorno di un corpo incredibilmente esile. La testa, il torace e il bacino erano i soli dettagli riconoscibili. Il resto potevano essere pieghe, irregolarità del tessuto. Morgan si strofinò gli occhi con forza. Allora è vero. Merda, è vero. Si guardò intorno nel corridoio per cercare qualcuno con cui condividere il senso di sgomento che provava. Vide un paziente anziano che trascinando il supporto della flebo si era avvicinato alla soglia della stanza cercando di guardare dentro. «Cosa stai cercando di vedere, vecchio pazzo? Vattene via immediatamente.» L'uomo arretrò lentamente. Morgan strinse i pugni per cercare di calmarsi. Ricordò qualcosa che aveva visto nella stanza, si girò di scatto e si avvicinò. L'uomo autoritario che lo aveva bloccato gli venne incontro. «Mi scusi, ma cosa pensa di fare?» «Sì, sì, sì» Morgan lo spinse a lato. «Voglio soltanto prendere i vestiti del mio amico, se non le dispiace. O pensa che debba rimanere seduto lì in mutande?» L'uomo incrociò le braccia e lo lasciò passare. Morgan raccolse i vestiti di Lacke da una sedia a fianco del letto disfatto e gettò un'occhiata all'altro letto. Una mano carbonizzata con le dita tese spuntava da sotto la coperta. Era irriconoscibile, ma non l'anello al dito medio. Era un anello d'oro con una pietra blu, l'anello di Virginia. Morgan riuscì anche a notare una parte della cinghia intorno a ciò che restava del polso. L'uomo era rimasto sulla porta con le braccia incrociate. «Soddisfatto?» «No. Perché era legata?» L'uomo scosse il capo. «Può dire al suo amico che la polizia arriverà da un momento all'altro e che molto probabilmente vorranno parlare con lui.» «Per quale motivo?»
«Non lo so. Io non sono un poliziotto.» «No, certo. Anche se era facile sbagliarsi.» Nel corridoio, aiutarono Lacke a vestirsi. Avevano appena finito, quando arrivarono due poliziotti. Lacke era completamente assente, ma l'infermiera che aveva alzato le persiane ebbe sufficiente presenza di spirito per testimoniare che lui non aveva avuto niente a che fare con l'accaduto. Quando tutto era iniziato, stava ancora dormendo. Un collega la stava consolando. Larry e Morgan guidarono Lacke fuori dall'ospedale. Uscirono, Morgan respirò profondamente l'aria fredda e disse: «Scusate, ma temo di dover vomitare.» Si chinò verso un cespuglio e depositò i resti della cena della sera prima insieme a muco verde sui rami. Quando finì, si passò il dorso della mano sulla bocca e poi l'asciugò sui pantaloni. Alzò la mano e disse a Larry: «Adesso cerca di mettere mano al portafogli.» Arrivati a Blackeberg, Larry diede centocinquanta corone a Morgan perché andasse a comprare il necessario, mentre lui portava Lacke a casa sua. Lacke si lasciava guidare. Durante il tragitto in metropolitana non aveva detto una sola parola. Nell'ascensore che li portava al settimo piano, Lacke si mise a piangere. Non silenziosamente, singhiozzava peggio di un bambino. Quando Larry aprì la porta dell'ascensore e spinse Lacke sul pianerottolo, il singhiozzo aumentò riecheggiando contro le pareti di cemento. Ora, era un urlo di dolore primordiale, smisurato, che riempiva tutti gli appartamenti, scivolando attraverso le buche delle lettere, i buchi delle serrature, trasformando l'intero palazzo in un grande monumento eretto in memoria di un amore. Larry rabbrividì, non aveva mai sentito niente di simile prima. Non si piangeva così. Non si doveva piangere così. Se si piangeva così si moriva. I vicini. Crederanno che lo sto uccidendo. Cercò freneticamente le chiavi di casa mentre mille anni di sofferenza umana, di impotenza e delusioni avevano temporaneamente trovato un canale di sfogo nel corpo fragile di Lacke, continuando a sgorgare fuori. La chiave entrò nella serratura, con una forza di cui non si credeva capace Larry portò l'amico di peso dentro casa e chiuse la porta. Lacke continuava a urlare, l'aria nei suoi polmoni sembrava non esaurirsi mai. Perle di sudore si formarono all'attaccatura dei capelli di Larry. Cosa diavolo posso fare?
In preda al panico, fece quello che aveva visto fare in un film. Aprì la mano e colpì Lacke su una guancia, rimase sorpreso dal suono dello schiaffo e si pentì immediatamente di averglielo dato. Ma funzionò. Lacke smise di urlare, lo fissò con uno sguardo folle e lui si aspettò che lo schiaffeggiasse a sua volta. Poi lo sguardo cambiò, Lacke aprì e chiuse la bocca come se stesse cercando di far entrare aria nei polmoni, e poi disse: «Larry, io...» Larry lo abbracciò e Lacke appoggiò la guancia sulla sua spalla, piangendo e tremando in tutto il corpo. Dopo un po' Larry sentì che le gambe non lo reggevano più. Cercò di liberarsi dall'abbraccio per tentare di sedersi sulla sedia in ingresso, ma Lacke continuava a tenerlo stretto e lo seguì nella caduta. Larry finì sulla sedia, le gambe di Lacke si piegarono e la sua testa scivolò sulle ginocchia di Larry. Larry iniziò ad accarezzargli i capelli, senza sapere cosa dire. «Così va meglio, così va meglio» sussurrò. Le gambe di Larry erano intorpidite, quando si verificò un cambiamento. Il pianto si era esaurito, seguito da un mugolio prolungato. Le mascelle di Lacke si irrigidirono contro le gambe di Larry. Alzò la testa, si asciugò il naso che colava con la manica della camicia e disse: «Lo ucciderò.» «Chi?» Lacke alzò gli occhi, fissò qualcosa al di là di Larry e annuì. «Lo ucciderò. Non deve più vivere.» Durante la lunga pausa delle nove e mezza, Staffe e Johan si avvicinarono a Oskar dicendogli: «Hai fatto bene», «Bravo!» Staffe gli offrì un KitKat e Johan gli chiese se un giorno voleva andare insieme a lui a raccogliere bottiglie vuote. Nessuno lo spinse né si turò il naso quando passava. Persino Micke Siskov, quando si incrociarono nel corridoio fuori dalla mensa, accennò un sorriso e gli fece un cenno di approvazione con il capo, come se Oskar avesse raccontato una barzelletta divertente. Era come se tutti si fossero sempre aspettati che facesse quello che aveva fatto, e adesso che lo aveva fatto era diventato uno di loro. Il problema era che non riusciva a godersi quel momento. Ne prendeva atto, ma non lo sentiva. Sì, faceva piacere non essere attaccato. Ma se qualcuno avesse cercato di farlo avrebbe reagito. Non apparteneva più a quel posto.
Durante la lezione di matematica alzò gli occhi dal testo e si guardò intorno. Era stato in quella classe per sei anni. Tutti erano chini sui fogli intenti a fare il compito, passandosi bigliettini e sogghignando. Sono soltanto dei bambini. Avrebbe voluto esserlo anche lui, ma... Segnò una croce nel suo quaderno, poi uno scarabocchio. Io sono un bambino, ma... Disegnò un treno. Un'auto. Una barca. Una casa con le porte aperte. L'inquietudine cresceva dentro di lui. Verso la fine della lezione, aveva difficoltà a restare seduto fermo; muoveva i piedi, tamburellava le dita sul ripiano del banco. L'insegnante, con uno scatto improvviso e irritato, gli chiese di smetterla. Per un attimo Oskar si fermò. Ma in pochi secondi l'inquietudine era tornata, tirando i suoi fili di marionetta, e le gambe di Oskar avevano ripreso a muoversi da sole. Quando arrivò l'ultima lezione, quella di ginnastica, non riusciva più a resistere. Nel corridoio fermò Johan e gli disse: «Dì al signor Ávila che non mi sento bene, okay?» «Te ne vai?» «Ho dimenticato la tuta da ginnastica.» A dire il vero era proprio così, si era dimenticato di prenderla, ma non era per quello che voleva saltare la lezione. Allontanandosi dalla scuola, vide i compagni che stavano radunandosi nel cortile. Tomas gli urlò: «Buuu!» Molto probabilmente avrebbe fatto la spia. Ma non aveva importanza. Per niente. Al suo passaggio, i piccioni si alzarono in volo in gruppi grigi sopra la piazza di Vällingby. Una donna che spingeva un passeggino lo fissò con uno sguardo severo. Ecco un giovane che non amava gli animali. Ma Oskar aveva fretta, e tutto quello che si metteva fra lui e la sua meta non lo interessava, gli faceva soltanto perdere tempo. Si fermò davanti alla vetrina del negozio di giocattoli. I puffi erano disposti in un simpatico paesaggio irreale. Troppo vecchio per quel tipo di cose. Nella sua camera, in una scatola da scarpe, aveva un paio di Big Jim con i quali aveva giocato spesso quando era piccolo. Più o meno un anno fa. Quando spinse la porta d'ingresso, udì il suono del campanello. Passò fra
gli scaffali stracolmi di bambole di plastica e giocattoli di ogni tipo. Davanti alla cassa c'era un espositore con le scatole vuote dei soldatini di piombo. Il contenuto veniva consegnato al pagamento. Quello che stava cercando era sul bancone. Sì, le imitazioni erano impilate sotto le bambole di plastica, ma agli originali, con la firma di Rubik sulla confezione, stavano più attenti. Costavano novantotto corone ciascuno. Da dietro il bancone un uomo grassoccio di bassa statura gli rivolse un sorriso, che Oskar avrebbe potuto definire "servizievole" se avesse conosciuto la parola. «Stavi cercando qualcosa di speciale?» Oskar sapeva esattamente che i cubi originali si trovavano sul bancone, e aveva un piano. «Sì, vorrei della vernice. Per i soldatini di piombo.» «Sì?» L'uomo fece un gesto verso i minibarattolini di vernice esposti dietro di lui. Oskar si sporse in avanti accanto alle confezioni di cubi, posando una mano sul bancone e tenendo con l'altra lo zainetto aperto sotto. Fece finta di cercare fra i colori. «Oro. Ce l'avete?» «Oro, certamente.» Quando l'uomo si girò, Oskar prese un cubo e con un movimento rapido lo infilò nello zainetto, riuscendo a rimettere la mano nella stessa posizione prima che l'uomo poggiasse due barattolini sul ripiano del bancone. «Opaco o metallizzato?» L'uomo lo fissò, come se sul volto di Oskar fosse apparso un segnale di allarme lampeggiante sul quale c'era scritto: «Ecco un ladro». Per nascondere il rossore sulle guance, Oskar si chinò sui barattolini. «Metallizzato, andrà bene» disse. Aveva venti corone. La vernice costava diciannove. L'uomo mise il barattolino in un piccolo sacchetto che Oskar infilò in tasca per evitare di aprire lo zainetto. Come sempre, una volta uscito dal negozio fu invaso da un senso di euforia, ma questa volta più grande del solito, come uno schiavo che è appena stato liberato dalle catene. Non riuscì a fare a meno di correre nel parcheggio e, al sicuro fra due macchine, aprì cautamente la confezione e tirò fuori il cubo. Era molto più pesante della sua imitazione. Le sezioni giravano come se
fossero su un cuscinetto a sfera. Forse era proprio un cuscinetto a sfera? No, non lo avrebbe aperto per vedere cosa c'era dentro con il rischio di rovinarlo. La confezione era trasparente e poco attraente, lasciando il parcheggio la gettò in un cassonetto dei rifiuti. Mise il cubo in una tasca della giacca per poterlo tenere in mano e sentirne il peso. Era un bel regalo, un ottimo regalo di addio... Arrivato nell'atrio della stazione della metropolitana, si fermò di colpo. E se Eli pensa che... Sì. Che con quel regalo Oskar accettasse la sua partenza. Un regalo di addio e basta. Ciao, ciao. Ma non era affatto così. Non voleva assolutamente che Eli pensasse che... Si guardò intorno e i suoi occhi si fermarono sull'edicola. Sull'Expressen. Sulla prima pagina campeggiava la fotografia dell'uomo che aveva abitato insieme a Eli. Oskar si avvicinò, prese una copia del giornale e iniziò a sfogliarlo. Cinque pagine erano dedicate alla caccia nella foresta di Judarn... all'assassino rituale... ai suoi trascorsi, e poi: un'altra pagina con la fotografia. Håkan Bengtsson... Karlstad... nessuna traccia di lui per otto mesi... la polizia pregava la cittadinanza di... stare all'erta. L'angoscia affondò i suoi artigli nel petto di Oskar. Qualcuno deve averlo visto, qualcuno sa dove abitava. La donna dell'edicola si chinò verso di lui. «Allora, vuoi comprarlo o no?» Oskar scosse il capo, rimise il giornale al suo posto. Poi cominciò a correre. Solo quando raggiunse il marciapiede, si rese conto di non avere obliterato il biglietto. Iniziò a battere i piedi per terra, a succhiarsi le nocche della mano, gli occhi sbarrati. Forza metrò, forza arriva. Lacke era disteso sul divano, lo sguardo rivolto al balcone dove Morgan cercava invano di far avvicinare un uccellino appollaiato sulla ringhiera. Il sole stava tramontando proprio dietro la sua testa, creando una specie di aureola intorno ai suoi capelli. «Vieni, vieni, non c'è pericolo.» Larry era seduto sulla poltrona a seguire pigramente un corso di spagnolo alla tv. Due persone si muovevano con movimenti artefatti scandendo le frasi: «Yo tengo un bolso.» «Que hay en el bolso?»
Morgan chinò la testa e i raggi del sole raggiunsero gli occhi di Lacke, che li chiuse, mentre Larry ripeteva: «Ke haj en el bålso?» L'appartamento era pervaso dall'odore di sigarette e polvere. La bottiglia vuota era sul tavolino di fianco a un posacenere stracolmo. Lacke ne fissò i bordi con i segni delle bruciature delle sigarette dimenticate accese; si muovevano davanti ai suoi occhi come scarafaggi irrequieti. «Una camisa y pantalones.» Larry si mise a sghignazzare da solo. «... pantalånes...» Non gli avevano creduto. Oppure sì, gli avevano creduto, ma avevano rifiutato di interpretare gli avvenimenti alla sua stessa maniera. «Combustione spontanea» aveva detto Larry, e Morgan lo aveva pregato di sillabare le parole. A parte il fatto che una combustione spontanea è documentata e scientificamente provata esattamente come l'esistenza dei vampiri. Cioè, per niente. Ma si preferisce credere all'improbabilità che richiede lo sforzo meno impegnativo. Non avevano intenzione di aiutarlo. Morgan aveva ascoltato seriamente il resoconto di Lacke su quanto era successo all'ospedale, ma quando arrivò a dire che dovevano distruggere la causa di tutto, aveva detto: «Dunque, secondo te dovremmo diventare cacciatori di vampiri. Tu, io e Larry. Dovremmo andare in giro con pali e croci... No, scusa Lacke, ma ho un po' di difficoltà a vederci fare una cosa simile.» Il primo pensiero di Lacke quando notò le espressioni diffidenti, quasi di disapprovazione sui loro volti, fu: Virginia mi avrebbe creduto. E il dolore affondò nuovamente gli artigli nel suo cuore. Era stato lui a non credere a Virginia, e per questo lei si era... avrebbe preferito rimanere in prigione alcuni anni per omicidio misericordioso che essere costretto a vivere con quell'immagine impressa nelle retine: Il suo corpo che si contorce sul letto mentre la pelle annerisce, inizia a fumare. Il camice dell'ospedale tirato su fino allo stomaco che mette a nudo il suo sesso. Lo sferragliare del telaio di acciaio del letto provocato dai suoi fianchi che vanno su e giù come in un coito infernale con un essere invisibile, e le fiamme che appaiono sulle cosce e Virginia urla, urla, e l'odore dei peli bruciati riempie la stanza, i suoi occhi sbarrati dal terrore fissi sui miei e un secondo dopo sbiancano e iniziano a bollire e poi scop-
piano... Lacke aveva bevuto più di metà della bottiglia. Morgan e Larry lo avevano lasciato fare. «... pantalånes.» Lacke cercò di alzarsi dal divano. La sua nuca pesava quanto il resto del corpo. Afferrò il bordo del tavolino e cercò di tirarsi su. Larry si alzò per dargli una mano. «Maledizione, Lacke. Cerca di dormire un po'.» «No, devo andare a casa.» «Cosa devi andare a fare a casa?» «Devo fare un paio di cose.» «Non avranno a che fare con quello di cui hai parlato?» «No. No.» Dal balcone Morgan rientrò nel soggiorno, mentre Lacke si avviava verso l'ingresso. «Lacke, dove diavolo stai andando?» «A casa.» «Ti accompagno.» Lacke fece uno sforzo per tenersi dritto, sembrare il più sobrio possibile. Morgan gli si avvicinò, le mani pronte a sostenerlo se fosse caduto. Lacke scosse il capo, e gli mise una mano sulla spalla. «Voglio rimanere da solo, okay. Voglio starmene da solo. Niente altro.» «Sei sicuro di farcela?» «Sì.» Lacke annuì diverse volte, come un pupazzo meccanico, interruppe con fatica quel movimento e poi si avviò verso l'ingresso. Si mise le scarpe e il giaccone. Sapeva di essere ubriaco, ma lo era stato talmente tante volte, e con il tempo aveva imparato a separare i suoi movimenti dal cervello, a farli automaticamente. Avrebbe potuto alzare i bastoncini del Mikado senza che la sua mano tremasse, almeno per un po'. Udì le voci degli altri dal soggiorno. «Non potremmo...» «No. Se è quello che vuole, dobbiamo rispettarlo.» Andarono comunque in ingresso a salutarlo. Lo abbracciarono impacciati. Morgan lo prese per le braccia e lo guardò dritto negli occhi. «Non avrai intenzione di fare qualche stupidaggine? Ci siamo noi, lo sai!»
«Sì, lo so. Non farò niente.» Una volta in strada, per un attimo rimase fermo a fissare il sole che riposava sopra le cime degli alberi. Non potrò mai più... il sole... La morte di Virginia, il modo in cui era morta, era come un peso di piombo che pendeva dove un tempo c'era stato il suo cuore, e lo faceva camminare piegato in avanti, con passo pesante. La luce del pomeriggio per le strade era una beffa. Anche le poche persone che incrociava erano una beffa. Voci. Che parlavano di cose di tutti i giorni, come se non capissero che... dovunque, in qualsiasi momento... Poteva accadere anche a loro. Un uomo stava parlando con il proprietario di un chiosco. Lacke vide una massa nera che cadeva dal cielo e si aggrappava alla schiena dell'uomo... Cosa diavolo... Si fermò davanti alle locandine, sbatté le palpebre, cercò di mettere a fuoco la fotografia che occupava un'intera locandina. L'assassino rituale. Lacke fece una smorfia. Lui sapeva. Sapeva come stavano veramente le cose. Ma... Riconosceva quel volto. Lo aveva visto... Al ristorante cinese. È quello che mi ha offerto un whisky. No... Fece un passo in avanti, guardò la fotografia. Sì. Era proprio lui. Gli stessi occhi troppo vicini, la stessa... Lacke si mise una mano sulla bocca. Le immagini si accavallarono nella sua mente. Era rimasto seduto allo stesso tavolo, aveva bevuto insieme all'uomo che aveva ucciso Jocke. L'assassino di Jocke abitava nello stesso complesso di case, soltanto a qualche portone di distanza. Lo aveva salutato un paio di volte, aveva... Ma non è stato lui. Deve essere stato... Una voce. Diceva qualcosa. «Ciao Lacke! È un tuo conoscente?» Il proprietario del chiosco e l'uomo con cui stava parlando lo fissavano. «Yes...» disse Lacke e si avviò verso casa. Il mondo era scomparso. Con gli occhi della mente vide il portone da dove aveva visto uscire l'uomo. Le finestre sempre buie. Doveva arrivare in fondo a quella storia. Sì, doveva. Affrettò il passo, la sua spina dorsale si raddrizzò; il blocco di piombo che batteva nel suo petto come il battaglio di una campana lo faceva trema-
re, lo sospingeva. Sto arrivando. Adesso... per Dio... Il convoglio della metropolitana si fermò nella stazione di Råcksta e Oskar si morse le labbra impaziente, con un tocco di panico; gli sembrava che le porte rimanessero aperte più a lungo del solito. Quando udì il click dell'altoparlante pensò che il conducente li informasse che sarebbero rimasti fermi per un po', ma «ATTENZIONE. LE PORTE STANNO PER CHIUDERSI.» e il treno lasciò la stazione. Non aveva alcun piano, a parte avvisare Eli, informarlo che chiunque, in qualsiasi momento, poteva telefonare alla polizia e dire di avere visto quell'uomo. A Blackeberg. In quella casa. In quell'androne. In quell'appartamento. Cosa succede se la polizia butta giù la porta, se vanno in bagno... Il treno attraversò il ponte sferragliando e Oskar guardò dal finestrino. Due uomini erano fermi davanti al chiosco dell'amore, coperto in parte da uno di loro, Oskar intravide una fila di locandine gialle. Un terzo uomo si allontanò con passo deciso dal chiosco. Chiunque. Chiunque può sapere. Quando il treno iniziò a rallentare, Oskar era già davanti alle porte, le dita infilate fra i battenti di gomma, come per far sì che si aprissero più rapidamente. Appoggiò la fronte al vetro, fresco contro la sua pelle bollente. I freni cigolavano, il conducente doveva essersi dimenticato di fare l'annuncio, perché solo in quel momento si udì «PROSSIMA FERMATA BLACKEBERG.» Jonny era fermo sul marciapiede insieme a Tomas. No. Nononono. Non loro. Quando il treno si fermò traballando i suoi occhi incontrarono quelli di Jonny. Gli occhi di Jonny si spalancarono e, mentre le porte si aprivano, Oskar vide che stava dicendo qualcosa a Tomas. Oskar si irrigidì, si scagliò fuori dal vagone e iniziò a correre. Tomas distese una delle sue lunghe gambe e Oskar cadde in avanti sul marciapiede, graffiandosi le mani per cercare di frenare la caduta. Jonny si sedette sulla sua schiena. «Si direbbe che hai fretta, o no?» «Lasciami andare! Lasciami andare!» Oskar chiuse gli occhi, strinse i denti. Respirò profondamente, almeno
quanto glielo permetteva il peso di Jonny sulla schiena. «Fate quello che volete. Ma lasciatemi andare!» «Okay.» Lo afferrarono per le braccia e lo fecero alzare in piedi. Con la coda dell'occhio, Oskar intravide l'orologio della stazione. Erano le due e dieci. La lancetta dei secondi si muoveva inesorabilmente. Tese i muscoli dello stomaco, del viso, cercando di trasformarsi in una roccia, insensibile ai colpi. Basta che facciano in fretta. Soltanto quando capì quello che avevano intenzione di fare iniziò a divincolarsi. Ma entrambi, come per un tacito accordo, gli tenevano le braccia in modo che, a ogni movimento, gli sembrava che potessero spezzarsi. Lo trascinarono fino all'estremità opposta del marciapiede. Non ne avranno il coraggio. Non possono! Ma Tomas era matto e Jonny... Oskar cercò di puntare i piedi. Si muovevano freneticamente, ma Tomas e Jonny continuavano a trascinarlo, fino alla linea bianca di sicurezza, al limite, dopo c'erano i binari. I capelli sulla tempia sinistra gli solleticavano l'orecchio, mossi dalle folate di vento che il treno in arrivo spingeva attraverso il tunnel. I binari iniziarono a vibrare e Jonny sussurrò: «Adesso morirai, hai capito?» Tomas sogghignò e strinse la presa intorno al suo braccio. Il buio calò nella testa di Oskar: hanno intenzione di farlo sul serio. Lo costrinsero a piegarsi in avanti con il busto al di là del bordo del marciapiede. I fanali del convoglio che si avvicinava gettavano due frecce di luce fredda sui binari. Oskar girò la testa a sinistra e vide il treno sfrecciare fuori dal tunnel BAAAAAAAAAAAH! La sirena del convoglio ruggì, il cuore di Oskar fece un balzo nel petto e in quello stesso istante si urinò addosso, e il suo ultimo pensiero fu Eli! prima di essere tirato all'indietro. Il suo campo visivo si riempì di verde quando il convoglio passò sferragliando a pochi centimetri dai suoi occhi. Era disteso supino sopra il marciapiede, nuvole di vapore gli uscivano dalla bocca. Il centro bagnato dei suoi pantaloni diventava sempre più freddo. Jonny gli si accovacciò davanti. «Solo per farti capire come stanno le cose da queste parti. Hai capito?»
Oskar annuì istintivamente. Per farli finire. I vecchi impulsi. Jonny si mise una mano sull'orecchio ferito e sorrise. Poi, gli appoggiò la mano sulla bocca e schiacciò. «Sei hai capito, grugnisci come un maiale.» Oskar grugnì. Come un maiale. Tomas e Jonny si misero a ridere. «Lo faceva meglio prima» disse Tomas. «Dovremo riprendere gli allenamenti» disse Jonny sogghignando. Un convoglio arrivò sul binario opposto. I due se ne andarono. Oskar rimase disteso per un po'. Poi vide un volto che si muoveva sopra di lui. Una donna anziana. Gli tese la mano. «Poverino, ho visto tutto. Devi andare alla polizia a denunciarli, è stato...» la polizia «... un tentativo di omicidio. Lascia che ti aiuti.» Senza curarsi della mano della donna, Oskar si alzò. Mentre zoppicava verso l'uscita, sentiva ancora la voce della donna dietro di sé: «Come ti senti...» La polizia. Lacke sussultò quando entrò nel cortile e vide l'auto della polizia. Due poliziotti erano fermi accanto all'auto, uno di loro stava scrivendo qualcosa sul suo taccuino. Lacke era convinto che stessero cercando la stessa cosa, ma era sicuro che non avessero informazioni sufficienti. I poliziotti non notarono il suo attimo di esitazione, così Lacke raggiunse il primo portone ed entrò. I nomi nella bacheca non avevano alcuna importanza, Lacke sapeva. Al primo piano, a destra. Accanto alla porta della cantina c'era una bottiglia di plastica di alcol denaturato. Lacke si fermò, la fissò come se potesse dargli un'idea di quello che avrebbe dovuto fare. L'alcol denaturato brucia. Virginia è bruciata. Ma il pensiero non andò oltre, dentro di sé sentiva soltanto una collera fredda e urlante, iniziò a salire le scale. Si verificò un cambiamento. Ora la sua mente era lucida, ma il suo corpo era impacciato. Trascinava i piedi sugli scalini e doveva aiutarsi a salire con la mano sulla ringhiera, mentre la sua mente ragionava concretamente. Entro. Lo trovo. Gli trafiggo il cuore con qualcosa. Poi aspetto la polizia. Si fermò davanti alla porta senza targhetta. E come diavolo faccio a entrare.
Senza pensarci un secondo, allungò un braccio e spinse la maniglia. La porta si aprì, rivelando un appartamento vuoto. Nessun mobile, nessun tappeto, nessun quadro. Lacke si inumidì le labbra. Se ne è andato. Non ho niente per... Sul pavimento dell'ingresso c'erano due bottiglie di alcol denaturato. Lacke cercò di capire cosa potessero significare. Che quella creatura beveva... no. Che... Significa soltanto che qualcuno è stato qui recentemente. Altrimenti, la bottiglia vicino alla porta della cantina non sarebbe rimasta lì. Sì. Entrò nell'ingresso e rimase in ascolto. Nessun suono. Andò di stanza in stanza, vide le coperte sulle finestre, e capì perché. Era entrato nel posto giusto. Alla fine si fermò davanti alla porta del bagno. Spinse la maniglia. La porta era chiusa. Ma quel tipo di serratura non costituiva un problema, sarebbe bastato un cacciavite o qualcosa di simile. Cercò nuovamente di concentrarsi sui movimenti. Per eseguirli. Avrebbe smesso di pensare. Non aveva più bisogno di pensare. Se iniziava a pensare avrebbe esitato, e non voleva esitare. Quindi: i movimenti. Andò in cucina e aprì i cassetti. Trovò un coltello da cucina. Tornò alla porta del bagno. Infilò la punta del coltello nella testa della vite al centro della serratura e girò in senso antiorario. La serratura scattò. Lacke aprì la porta. All'interno era buio pesto. Cercò l'interruttore della luce, lo trovò. Accese. Che Dio mi aiuti. È... Il coltello gli cadde di mano. La vasca da bagno davanti a lui era piena di sangue. Sul pavimento c'erano diversi contenitori di plastica le cui superfici trasparenti erano rigate di rosso. Il coltello cadde sulle piastrelle tintinnando. Quando si chinò in avanti per... per cosa?, la sua lingua era rimasta incollata al palato. Per controllare... o qualcos'altro, qualcosa di più primordiale, il fascino di una tale quantità di sangue... per immergere la mano, nel sangue... Abbassò la mano verso la superficie scura, liscia e... immerse le dita. Sembravano mozzate, sparirono, e con la bocca aperta abbassò la mano finché non sentì... Si mise a urlare, tirò su la mano di scatto e fece un passo indietro. Le gocce di sangue volarono in un arco dalla sua mano sulle pareti, sul
soffitto. Istintivamente portò la mano alla bocca. Se ne rese conto quando le sue labbra, la sua lingua registrarono il sapore dolciastro e appiccicaticcio. Sputò, si asciugò la mano sui pantaloni. Pulì la bocca con l'altra mano. Li sotto c'è qualcuno. Sì. Quello che aveva sentito sotto la punta delle dita era uno stomaco. Che si era abbassato sotto la pressione della sua mano prima che la allontanasse. Per scacciare il senso di disgusto, lasciò scorrere lo sguardo sul pavimento, vide il coltello, lo prese e strinse la mano intorno al manico. Cosa diavolo devo fare? Se fosse stato sobrio, forse se ne sarebbe andato in quel momento. Avrebbe lasciato quello stagno scuro che, sotto la superficie che era tornata liscia, poteva nascondere qualsiasi cosa. Un corpo fatto a pezzi, per esempio. Uno stomaco. Forse è solo uno stomaco. Ma l'intossicazione dell'alcol lo rendeva spietato persino con la propria paura, così, quando vide la sottile catena che pendeva dal bordo della vasca e finiva nel liquido scuro, allungò la mano e la tirò. Il tappo saltò via e udì un gorgoglio nel tubo di scarico, un leggero vortice si formò sulla superficie. Lacke si mise in ginocchio davanti alla vasca, leccandosi le labbra. Sentì il gusto metallico del sangue, sputò sul pavimento. La superficie rossa si abbassava lentamente. Una linea si era delineata chiaramente sul bordo della vasca. Il sangue deve essere qui da tanto tempo. Un minuto dopo, a un'estremità della vasca apparve il contorno di un naso. A quella opposta vide invece delle dita che si trasformarono gradualmente nelle parti superiori di due piedi. Il vortice sulla superficie, esattamente nel mezzo dei due piedi, si era rimpicciolito e il risucchio era più rapido. Lacke lasciò scorrere lo sguardo sul corpo di un bambino che veniva gradualmente alla luce sul fondo della vasca. Un paio di mani, incrociate sul petto. Le rotule delle ginocchia. Un volto. Mentre il sangue finiva di scendere nel tubo di scarico, si udì un sordo ribollio. Il corpo davanti agli occhi di Lacke era rosso scuro, marezzato, appiccicoso come quello di un neonato. Aveva l'ombelico. Ma non gli organi genitali. Bambino o bambina? Non aveva alcuna importanza. Quando Lacke studiò quel volto con gli occhi chiusi, lo riconobbe fin troppo bene.
Quando Oskar cercò di correre, le gambe si bloccarono. Si rifiutarono. Per cinque disperati secondi aveva veramente creduto che sarebbe morto. Che lo avrebbero gettato sotto il treno. Adesso, i muscoli facevano fatica a scacciare quel pensiero. Si bloccarono, nel passaggio fra la scuola e la palestra. Oskar voleva stendersi a terra. Lasciarsi cadere all'indietro su quei cespugli, per esempio. La giacca e i pantaloni imbottiti avrebbero impedito ai rami di pungerlo e si sarebbero piegati sotto il suo corpo. Ma non c'era tempo. La lancetta dei secondi; quel suo movimento staccato sul quadrante. La scuola. La facciata di mattoni rossastri posati l'uno sull'altro. Nel pensiero volò come un uccello attraverso i corridoi, nelle aule. Jonny era lì. Tomas. Erano seduti ai rispettivi banchi e sogghignavano, gli facevano versacci. Chinò il capo e fissò i suoi stivaletti. I lacci erano sporchi, uno era allentato. Un gancio di metallo all'altezza della caviglia si era piegato. Camminava con i talloni leggermente verso l'interno, e lì le suole dei tacchi erano consumate. Eppure, presumibilmente avrebbero dovuto durargli per tutto l'inverno. Freddo, i pantaloni bagnati. Alzò la testa. Non devono vincere. Non. Devono. Vincere. Una vampata di calore invase le sue gambe. Iniziò a correre e le linee rette della facciata di mattoni svanirono, cancellate. Le sue gambe si distendevano ritmicamente, il fango e l'acqua schizzavano intorno ai suoi piedi. Sotto, il terreno scorreva, e ora aveva la sensazione che la terra girasse troppo rapidamente e di non riuscire a seguire il suo movimento. Le gambe continuarono al loro ritmo, la combinazione di velocità e abitudine gli fece attraversare il cortile, passare il portone di Eli, dritto verso il suo. Stava per entrare, la testa bassa, ma per poco non andò a sbattere contro un poliziotto, che allargò le braccia e lo bloccò. «Ehi! Che cos'è tutta questa fretta?» La sua lingua si inceppò. Il poliziotto abbassò le braccia, lo fissò con uno sguardo sospettoso. «Abiti qui?» Oskar annuì. Non aveva mai visto quel poliziotto prima. Aveva un'espressione gentile. No. Aveva un volto che normalmente Oskar avrebbe giudicato gentile. Il poliziotto si passò una mano sul mento.
«Okay. Ma vedi, qui è successo qualcosa. Nel portone qui accanto. Per questo stiamo andando in giro a fare domande per vedere se qualcuno ha sentito o visto qualcosa.» «Quale... quale portone?» Il poliziotto fece un cenno con il capo in direzione del portone di Tommy e la sensazione di panico immediata che Oskar aveva provato svanì. «Quello. Sì, non nell'androne, ma in cantina. Non hai per caso sentito o visto qualcosa di strano lì? Negli ultimi giorni, voglio dire?» Oskar scosse il capo. I pensieri si accavallavano nella sua mente in modo talmente caotico che non riusciva a pensare, ma temeva che la sua angoscia potesse uscirgli dagli occhi e diventare visibile. E quasi fosse stato realmente così, il poliziotto inclinò la testa e lo fissò. «Non stai bene?» «Sì. Sto bene.» «Non c'è niente di cui avere paura. Adesso è tutto sotto controllo. Non devi preoccuparti di niente. I tuoi genitori sono in casa?» «No. Mia madre... No.» «Okay. Ma io starò qui ancora per un po', e se ti viene in mente qualcosa che hai visto o sentito, vieni a dirmelo.» Il poliziotto aprì il portone. «Dopo di te» disse. «No, stavo andando da un amico...» Oskar si avviò cercando di camminare nel modo più naturale possibile. Dopo una decina di metri si girò e vide il poliziotto entrare nel suo portone. Hanno preso Eli. Le sue mascelle iniziarono ad aprirsi e chiudersi, e i suoi denti a battere un messaggio senza senso in alfabeto Morse. Tornò di corsa verso il portone di Eli, lo aprì e salì le scale. Davanti alla porta non c'era nessun poliziotto, neppure i nastri di delimitazione. Dimmi che posso entrare. La porta era socchiusa. Se la polizia era stata lì, perché non avevano chiuso la porta? Non avrebbero mai fatto un simile errore. Oskar mise la mano sulla maniglia, aprì la porta lentamente ed entrò nell'ingresso. I suoi occhi dovevano abituarsi al buio dell'appartamento. Il suo piede toccò qualcosa. Una bottiglia di plastica. Dapprima pensò che contenesse sangue, ma quando si chinò
vide che era un liquido più chiaro. Udì un respiro. Qualcuno respirava. Si muoveva. Il suono arrivava dal bagno attraverso il corridoio. Oskar avanzò un passo alla volta, piegò le labbra verso l'interno della bocca per impedire ai suoi denti di battere. Un brivido gli passò in tutto il corpo. Arrivò all'altezza del bagno. La porta era aperta. Non ci sono poliziotti. Un uomo con indumenti trasandati era in ginocchio davanti alla vasca, con il busto chino sopra il bordo, fuori dal campo visivo di Oskar. Vedeva soltanto un paio di pantaloni grigi sporchi, scarpe malandate puntate sulle piastrelle del pavimento. Il bordo inferiore di una giacca. Il vecchio. Ma respira. Sì. Il sibilo delle inalazioni e delle esalazioni, quasi simili a sospiri, si udiva dall'interno del bagno e Oskar, senza riflettere, avanzò. A poco a poco riusciva a scorgere sempre più dettagli, e quando fu quasi arrivato capì cosa stava succedendo. Lacke non ci riusciva. Il corpo sul fondo della vasca sembrava completamente privo di forze. Non respirava. Lacke aveva messo una mano sul suo petto e aveva constatato che il cuore batteva, ma soltanto pochi battiti al minuto. Si era aspettato qualcosa di terrificante. Qualcosa di corrispondente all'orrore cui aveva assistito all'ospedale. Ma quel piccolo straccio di essere umano dava l'impressione di non avere la forza di rialzarsi e, ancora meno, di essere in grado di fare del male a qualcuno. Era soltanto un bambino. Un bambino ferito. Era come vedere qualcuno che si ama morire di cancro fra atroci sofferenze e poi esaminare una cellula di cancro al microscopio. Niente. Quella? Era stata quella a provocare tutto? Quella piccola cosa? Distruggi il mio cuore. Un singhiozzo gli uscì dalla bocca, lasciò cadere in avanti la testa che andò a sbattere contro il bordo della vasca con un colpo sordo. Non poteva. No. Non poteva uccidere un bambino. Un bambino addormentato. Semplicemente non era possibile farlo. Anche se... È così che è sopravvissuto.
Quello. Quello. Non è un bambino. Quello. Quello che si era gettato su Virginia... quello che aveva ucciso Jocke. Quello. La creatura davanti ai suoi occhi. Quella creatura che lo avrebbe fatto nuovamente. E quella creatura non era un essere umano. Non respirava neppure, eppure il suo cuore continuava a battere... come quello di un animale in letargo. Pensa agli altri. Un serpente velenoso che viveva fra gli esseri umani. Pensi di non doverlo uccidere soltanto perché al momento sembra indifeso? Ma alla fine non fu questa riflessione a fargli prendere la decisione. Fu quando fissò nuovamente quel volto; era coperto da un sottile strato di sangue ed ebbe l'impressione che stesse... sì, che stesse sorridendo. Sorrideva dopo tutto il male che aveva fatto? Basta. Alzò il coltello sopra il petto della creatura. Spinse le gambe leggermente all'indietro per poter mettere tutto il suo peso nel fendente e «AAAAHHHH!» Oskar urlò. L'uomo non sussultò, rimase paralizzato, poi girò la testa verso Oskar e disse lentamente: «Devo farlo. Capisci?» Oskar lo riconobbe. Era uno degli alcolizzati che abitavano in quelle case, di tanto in tanto lo salutava quando lo incrociava. Perché vuole fare una cosa simile? Ma non aveva alcuna importanza. La cosa importante era che l'uomo aveva un coltello in mano e che lo teneva puntato dritto al petto di Eli, che giaceva nudo, indifeso, nella vasca da bagno. «Non farlo.» La testa dell'uomo si girò a destra, a sinistra, sembrava più cercare qualcosa sul pavimento, che segnalare il suo rifiuto alla richiesta. «No...» L'uomo si voltò di nuovo verso la vasca, e il coltello. Oskar avrebbe voluto spiegargli. Dirgli che quella creatura nella vasca era un suo amico... e che gli aveva portato un regalo, e che era... Eli. «Aspetta.» La punta della lama del coltello era ancora sul petto di Eli, premuta così forte che quasi gli bucava la pelle. In verità, Oskar non era consapevole di quello che faceva quando mise la mano nella tasca della giacca e ne tirò
fuori il cubo mostrandolo all'uomo. «Guarda!» Lacke lo vide soltanto con la coda dell'occhio, un'improvvisa intromissione di colori nel mezzo di tutto il grigiore che lo circondava. A dispetto dell'involucro di determinazione che lo avvolgeva, non riuscì a evitare di volgere la testa in quella direzione per vedere di cosa si trattasse. Nella mano del ragazzo c'era uno di quei cubi. Dai tanti colori diversi. Era completamente fuori posto in quel contesto. Un pappagallo fra i corvi. Per un attimo Lacke rimase ipnotizzato da quel giocattolo variopinto, poi ritornò con lo sguardo alla vasca, al coltello puntato fra quelle costole. Basta che spinga... Un riverbero. Gli occhi della creatura erano aperti. Lacke tese il braccio per spingere il coltello fino in fondo e la sua tempia esplose. Il cubo scricchiolò quando uno dei suoi angoli colpì l'uomo alla testa e poi scivolò dalla mano di Oskar. L'uomo cadde su un fianco, rovesciando uno dei contenitori di plastica che andò a sbattere contro la base del lavandino con il frastuono di un tamburo. Eli si mise a sedere. Dalla soglia della porta dove era arretrato, Oskar vedeva soltanto la sua schiena. I capelli erano appiccicati alla nuca, e tutta la schiena era una ferita aperta. L'uomo cercò di mettersi in piedi, ma Eli scivolò fuori dalla vasca e finì nel suo grembo come un bambino che cerca il padre per farsi confortare. Gli mise le braccia intorno al collo e avvicinò la testa, come se volesse sussurrargli qualcosa nell'orecchio. Quando gli affondò i denti nella gola, Oskar fece un passo indietro. Eli non lo aveva visto. Ma l'uomo sì, il suo sguardo incontrò quello di Oskar e non lo lasciò mentre indietreggiava. «Perdonami.» Oskar non riuscì a produrre il suono, ma prima di sparire dalla vista dell'uomo le sue labbra formarono la parola. Quando l'uomo urlò, Oskar era fermo con la mano sulla maniglia. Poi l'urlo cessò di colpo, come se qualcuno gli avesse coperto la bocca con la
mano. Oskar esitò un attimo, poi chiuse la porta. Con lo sguardo fisso in avanti attraversò il corridoio ed entrò nel soggiorno. Si mise a sedere sulla poltrona. Iniziò a canticchiare per coprire i suoni che provenivano dal bagno. PARTE QUINTA Lasciami entrare These days this is my only chance to say my piece. BOB HUND, Struggling against the current Let the right one in Let the old dreams die Let the wrong ones go They cannot do What you want them to do. MORRISSEY, Let the right one slip in Dal telegiornale delle 16.45, lunedì 9 novembre 1981 Il cosiddetto assassino rituale è stato arrestato dalla polizia questa mattina. L'uomo si trovava in una cantina a Blackeberg, una zona a ovest di Stoccolma. Bengt Lärn, portavoce della polizia: «Sì, la polizia ha arrestato un uomo, è corretto.» «Siete sicuri che si tratti dell'uomo che cercavate?» «Ne siamo abbastanza sicuri. Alcuni fattori, però, rendono al momento più difficile un'identificazione positiva.» «Quali fattori?» «Purtroppo, non possiamo rivelarli.» Dopo l'arresto, l'uomo è stato portato all'ospedale. Le sue condizioni sono giudicate critiche. Insieme all'uomo c'era un ragazzo di sedici anni. Il ragazzo non ha subito danni fisici, ma è in stato di shock ed è stato ricoverato all'ospedale per le cure del caso. In questo momento, la polizia sta controllando l'area interessata per raccogliere informazioni sulla dinamica degli eventi.
Oggi, il re, Carl Gustaf, ha inaugurato il nuovo ponte sull'Almösundet nella regione di Bohuslän. Nel suo discorso, il re... Dalle note diagnostiche del professor T. Hallberg, eseguite per conto della polizia ... la visita preliminare è stata ostacolata da... azioni spasmodiche dei muscoli... stimoli non localizzati del sistema nervoso... arresto della funzione del cuore... Il movimento dei muscoli è cessato alle 14.25... al momento, l'autopsia ha individuato un... organo fortemente deformato... di un tipo sconosciuto fino a oggi... Come le anguille che, anche se morte e fatte a pezzi, saltano ancora nella padella... tessuto umano mai osservato in precedenza... richiedo il permesso che il corpo in questione... distinti saluti. Dal settimanale Västerort, numero 46 CHI HA UCCISO I NOSTRI GATTI? «L'unica cosa che mi rimane è il suo collare» afferma Svea Nordström indicando il luogo dove è stato ritrovato il suo gatto, insieme ad altri otto gatti di proprietà degli abitanti del quartiere residenziale... Dal telegiornale Aktuellt, lunedì 9 novembre, ore 21.00 Qualche ora fa, la polizia è entrata nell'appartamento dove si presume che abbia vissuto l'assassino rituale, catturato questa mattina. Grazie alle informazioni raccolte, la polizia è riuscita a localizzare l'appartamento a Blackeberg, a una cinquantina di metri di distanza dal luogo dove l'uomo è stato arrestato. Il nostro inviato, Folke Ahlmarker, è sul posto: «Il cadavere di un uomo trovato nell'appartamento è stato appena portato via con un'ambulanza. L'identità dell'uomo non è ancora nota. Per il resto, sembra che l'abitazione sia praticamente vuota. A quanto pare, diversi indizi fanno presumere che nell'appartamento ci siano state altre persone di recente.» «Cosa sta facendo la polizia al momento?» «Sin da questa mattina, la polizia sta raccogliendo informazioni bussando di porta in porta per tutto il quartiere.» «Grazie, Folke.» Oggi, il ponte di Tjörn, che è stato completato sei settimane prima del
previsto, è stato inaugurato dal re Carl Gustaf... Lunedì 9 novembre Pulsazioni di luce blu sul soffitto. Oskar è disteso sul letto con le mani incrociate dietro la testa. Sotto il letto ci sono due scatoloni di cartone. In uno c'è del denaro, una grande quantità di banconote e due bottiglie di alcol denaturato, l'altro scatolone è pieno di puzzle. Lo scatolone con gli indumenti è rimasto nell'appartamento. Per nasconderli in qualche modo, Oskar ci ha messo davanti la sua mazza da hockey. Domani, se ne avrà la forza, li porterà in cantina. Sua madre, che sta guardando un programma alla tv, gli urla che ha visto la loro casa. Ma gli basta andare alla finestra per vedere la stessa cosa da un'angolazione diversa. Mentre Eli si lavava, dal suo balcone Oskar aveva gettato gli scatoloni nel proprio. Quando era tornato in bagno, le ferite sulla schiena di Eli si erano rimarginate, ed Eli era leggermente ubriaco a causa dell'alcol presente nel sangue di Lacke. Poi si erano distesi insieme sul letto tenendosi stretti. Oskar gli aveva raccontato quello che era successo alla stazione della metropolitana. «Scusami. È tutta colpa mia.» «No. Va tutto bene.» Silenzio. A lungo. Poi Eli chiese cautamente: «Vorresti essere... come me?» «... no. Vorrei essere con te, ma...» «No. È chiaro che non vuoi essere come me. Lo capisco.» Appena scese il crepuscolo, si alzarono e si vestirono. Erano nel soggiorno quando udirono il rumore della sega. La polizia stava rimuovendo la serratura. Corsero sul balcone, scavalcarono la ringhiera e si lasciarono cadere sui cespugli di sotto, senza alcuna conseguenza. Dall'appartamento udirono qualcuno dire: «Cosa diavolo...» Rimasero accovacciati fra i cespugli sotto il balcone. Ma non avevano tempo. Eli si girò verso Oskar e disse: «Io...» Chiuse la bocca e gli diede un bacio sulle labbra. Per alcuni secondi, Oskar vide attraverso gli occhi di Eli. E quello che vide era... se stesso. Ma migliore, più attraente, più forte di
quello che pensava di essere. Visto con gli occhi dell'amore. Per pochi secondi. Voci dall'appartamento accanto. Prima di andarsene, come ultima cosa, Eli aveva strappato dalla parete il foglio con l'alfabeto Morse. Ora, piedi estranei stavano andando avanti e indietro nella stanza dove Eli stava disteso inviandogli messaggi. Oskar posò il palmo della mano sulla parete. «Senti...» Martedì 10 novembre Martedì, Oskar non era andato a scuola. Era rimasto disteso sul letto ad ascoltare i rumori al di là del muro della sua camera da letto, chiedendosi se la polizia avrebbe potuto trovare qualcosa che conducesse a lui. Verso il pomeriggio, i rumori dall'appartamento accanto cessarono e la polizia non era ancora venuta a cercarlo. Oskar si alzò, si vestì e andò alla porta di Eli. Era sigillata. Vietato entrare. Mentre era fermo lì davanti, arrivò un poliziotto. Ma lui era solo uno dei tanti ragazzini curiosi del quartiere. Quando fece buio, portò gli scatoloni in cantina e li coprì con un vecchio tappeto. Avrebbe deciso più tardi cosa farne. Se un ladro avesse tentato un furto in quella cantina, sarebbe sicuramente rimasto piacevolmente sorpreso. Oskar rimase seduto a lungo al buio pensando a Eli, a Tommy, al vecchio. Eli gli aveva raccontato tutto, e aveva detto che non era stata sua intenzione che le cose andassero così. Ma Tommy era vivo. E si sarebbe ripreso. Sua madre lo aveva detto alla madre di Oskar. Domani. Domani Oskar sarebbe tornato a scuola. Da Tomas, Jonny... Dovremo riprendere gli allenamenti. Le dita fredde di Jonny sulle sue guance. Premono la carne morbida contro le mascelle finché la sua bocca non sporge in avanti. Grugnisci come un maiale. Oskar incrociò le mani, si chinò in avanti e fissò il contorno degli scatoloni sotto il tappeto. Si alzò, tirò via il tappeto e aprì lo scatolone con il de-
naro. Banconote da mille corone, da cento corone, alla rinfusa insieme ad alcune mazzette. Infilò la mano nello scatolone spostandola finché non trovò una bottiglia di plastica. Poi tornò in casa e prese i fiammiferi. Un solitario riflettore spargeva una luce fredda e biancastra sul cortile della scuola. Al di là del cerchio di luce si distinguevano i contorni delle strutture dell'area della ricreazione. I tavoli da ping-pong coperti di neve sciolta, con le superfici talmente rovinate che si poteva giocare soltanto con palle da tennis. C'era una fila di finestre illuminate. Corsi serali. Per questo una delle porte secondarie veniva lasciata aperta. Percorrendo i corridoi al buio, raggiunse la sua aula. Rimase un attimo a osservare i banchi. A quell'ora della sera l'aula appariva irreale; era come se fantasmi che bisbigliavano silenziosamente la usassero per le loro lezioni. Oskar andò al banco di Jonny. Alzò il ripiano e ci versò dentro un bel po' di alcol denaturato. Il banco di Tomas: stessa cosa. Rimase fermo un attimo davanti al banco di Micke. Decise di non farlo. Poi andò a sedersi al suo banco. Aspettò, per lasciare che il legno assorbisse bene l'alcol. Come aveva visto fare con la carbonella per i barbecue. Io sono un fantasma. Buuu... buuu... Sollevò il ripiano, prese il libro di testo di svedese e lo mise nello zainetto. La stessa cosa fece con il libro di geografia. Poi si alzò e fece un giro dell'aula, felice di essere lì. Da solo. In pace. Tornò al banco di Jonny e quando aprì il cassetto l'odore dell'alcol colpì le sue narici. Prese i fiammiferi. No, aspetta... Andò in fondo all'aula e prese due grossi righelli dallo scaffale. Alzò il ripiano del banco di Jonny e lo bloccò con il righello. Fece la stessa cosa con quello di Tomas. In quel modo le fiamme avrebbero avuto l'ossigeno necessario per continuare a bruciare. I due banchi sembravano le bocche spalancate di due animali preistorici. Draghi. Accese un fiammifero. Aspettò che la fiamma fosse grande e chiara. Poi lo lasciò cadere. WHOOOUUUM Diavolo... La piccola cometa gialla che si alzò in una frazione di secondo dal banco
verso il soffitto gli sfiorò una guancia e lo accecò per un attimo. Fece un passo indietro; aveva creduto che il banco avrebbe iniziato a bruciare come la carbonella dei barbecue, ma le fiamme si alzarono immediatamente verso il soffitto. Bruciava troppo. La luce delle fiamme danzava sulle pareti dell'aula, e una ghirlanda di grosse lettere di carta appesa davanti al banco di Jonny prese fuoco. Alcune lettere si staccarono svolazzando tra le fiamme e caddero sul banco di Tomas, che prese fuoco immediatamente. WHOOOUUUM Oskar uscì di corsa dall'aula con lo zainetto sulle spalle. E se tutta la scuola va in fiamme? Quando arrivò alla fine del corridoio, iniziò a suonare un segnale di allarme. Un fragore metallico echeggiò in tutto l'edificio, e soltanto quando arrivò a metà delle scale Oskar si rese conto che era l'allarme antincendio. Nel cortile la campanella suonava per richiamare allievi che non c'erano. O fantasmi di vecchi allievi che c'erano stati. Quando arrivò all'altezza del vecchio supermercato, il suono della campanella non si sentiva più, e Oskar smise di correre. Ora camminava con calma verso casa. Appena entrato, andò subito in bagno e si guardò allo specchio. Le punte delle sue ciglia erano rivolte all'insù, bruciacchiate. Ma quando ci passò sopra le dita, le tracce sparirono. Mercoledì 11 novembre A casa da scuola. Mal di testa. Il telefono squillò. Oskar non rispose. A un certo punto della giornata, vide Tommy e sua madre passare sotto la finestra della sua camera. Tommy camminava piegato in avanti, lentamente. Come un vecchio. Oskar fece un passo indietro per non farsi vedere. Il telefono continuò a squillare a intervalli di un'ora. Alla fine, verso mezzogiorno, Oskar rispose. «Pronto, sono Oskar.» «Ciao, mi chiamo Bertil Svanberg e, come forse sai, sono il preside della scuola che tu...» Oskar riattaccò. Il telefono squillò nuovamente. Rimase un attimo con lo sguardo fisso sul telefono immaginando il preside con la sua giacca di tweed che tamburellava le dita sul ripiano della scrivania facendo smorfie.
Poi si vestì e scese in cantina. Aprì una piccola scatola di legno e prese un puzzle, osservando le centinaia di parti dell'uovo di vetro. Eli aveva preso con sé soltanto alcune banconote da mille corone e il cubo. Richiuse lo scatolone dei puzzle e aprì quello del denaro. Ci infilò la mano. Prese una manciata di banconote, le gettò a terra. Ne prese un'altra manciata e iniziò a contarle. Lasciò correre la sua fantasia fino a stancarsi di sognare. Contò dodici banconote da mille e sette da cento. Rimise quelle da cento nello scatolone, piegò quelle da mille e le mise in tasca. Tornato in casa, cercò una busta bianca e ve le infilò. Rimase con lo sguardo fisso sulla busta, indeciso. Non voleva scrivere, qualcuno avrebbe potuto riconoscere la sua calligrafia. Il telefono squillò. Smettetela una buona volta. Dovete capire che io non ci sono più. Qualcuno voleva parlare seriamente con lui. Qualcuno voleva chiedergli se si rendeva conto di quello che aveva fatto. Lo capiva più che bene. Sicuramente, anche Jonny e Tomas lo capivano. Più di chiunque altro. Oskar non aveva niente da dire. Andò alla scrivania e prese le lettere da decalcare e l'inchiostro. Al centro della busta tracciò una T, poi una O. La prima M era storta e la seconda dritta, così come la Y. Quando aprì il portone di Tommy con la busta nella tasca della giacca, aveva più paura di quanta ne avesse avuta a scuola la sera prima. Lentamente e con il cuore che gli batteva all'impazzata, infilò la busta nella buca delle lettere. Non voleva fare rumore per evitare che qualcuno venisse a controllare alla porta. Ma non venne nessuno, e quando tornò a casa Oskar si sentiva meglio. Ma poco dopo quella sensazione lo assalì nuovamente. Non devo restare qui. Sua madre tornò a casa alle tre. Diverse ore prima del solito. Oskar era in soggiorno e stava ascoltando il disco dei Vikingarna. Sua madre entrò nella stanza, andò al giradischi, alzò la puntina e lo spense. Dall'espressione sul suo volto, Oskar intuì che sapeva. «Come stai?» «Non molto bene.» «Ah, sì.» Sua madre sospirò e si mise a sedere sul divano. «Il tuo preside mi ha telefonato. Al lavoro. Mi ha detto che ieri sera c'è
stato un incendio a scuola.» «Ah, è bruciata tutta?» «No, ma...» Sembrava non avesse la forza di continuare. Rimase con lo sguardo fisso sul tappeto per alcuni secondi. Poi alzò gli occhi e lo fissò. «Oskar. Sei stato tu?» «No» rispose senza abbassare lo sguardo. Pausa. «No? Ma l'incendio ha fatto molti danni proprio nella tua aula, e più che altro ai banchi di Jonny e di Tomas, perché dicono che è da lì che si sono sviluppate le fiamme.» «Ah, sì?» «E sono abbastanza sicuri che sei stato tu.» «Ma non è così.» Sua madre rimase sul divano respirando a fondo. Erano seduti a un metro l'uno dall'altra. Una distanza infinita. «Vogliono parlarti.» «Io non voglio parlare con loro.» Sarebbe stata una serata lunga. Non c'era niente di interessante alla tv. Quella notte, Oskar non riusciva a dormire. Si alzò, si avvicinò alla finestra; gli sembrò di vedere qualcuno giù, vicino al castello di tubi. Ma, naturalmente non era niente più di un'illusione. Eppure, continuò a fissare quel punto finché le palpebre non si fecero pesanti. Tornò a letto, ma non riuscì a prendere sonno. Batté leggermente contro la parete. Nessuna risposta. Soltanto il suono secco delle sue nocche che battevano contro una porta chiusa per sempre. Giovedì 12 novembre Al mattino Oskar aveva vomitato e non era andato a scuola. Anche se quella notte aveva dormito soltanto poche ore, non riusciva a riposare. In preda a un'inquietudine incalzante, continuava ad andare da una stanza all'altra. Prendeva qualcosa, la guardava, la rimetteva al suo posto. Era un impulso che doveva seguire. Qualcosa di assolutamente necessario. Ma non riusciva a capire perché. A un certo momento, aveva creduto che quell'inquietudine fosse causata da quanto aveva fatto a scuola. Poi aveva pensato che forse c'entrava con il denaro che aveva messo nella buca delle lettere di Tommy. Ma non era
neppure quello. Era qualcos'altro. Era come se un grandioso spettacolo teatrale fosse arrivato alla fine. E Oskar andava in giro sul palcoscenico senza luce raccogliendo tutto quello che era stato dimenticato. Ma non bastava. L'inquietudine continuava a roderlo. Quando il postino passò verso le undici, gettò una sola lettera nella buca. Oskar la prese e, quando lesse il nome del mittente, il suo cuore fece una giravolta. La lettera era indirizzata a sua madre. Sull'angolo a sinistra c'era il timbro. «Distretto scolastico di Ängby-sud». Senza nemmeno aprirla, Oskar la strappò in piccoli pezzetti, la gettò nel water e tirò l'acqua. Si pentì. Troppo tardi. Non gli interessava quello che poteva esserci scritto, ma il suo gesto comportava un ulteriore problema, sarebbe stato meglio non farlo. Non aveva importanza. Si spogliò, infilò l'accappatoio. Si mise davanti allo specchio e si osservò. Finse di essere un altro. Si chinò in avanti per baciare lo specchio. Proprio quando le sue labbra toccarono la superficie fredda, il telefono squillò. Oskar andò al telefono e rispose senza riflettere. «Pronto?» «Ciao, sono Fernando.» «Come?» «Sì, Fernando Ávila. Il tuo insegnante.» «Ah. Buongiorno.» «Volevo soltanto sapere se... questa sera vieni ad allenarti?» «Non sto molto... bene...» Oskar udì il respiro regolare del signor Ávila, che riprese a parlare dopo diversi secondi. «Oskar. Se lo hai fatto o meno, a me non interessa. Se vuoi parlare, parliamo. Se non vuoi parlare, non parliamo. Ma io voglio che tu venga ad allenarti questa sera.» «Perché?» «Perché, Oskar, tu non puoi rimanere, come si dice... nascosto nel tuo guscio. Si dice così? Se non sei malato, ti ammalerai. Sei malato?» «Sì.» «Tu hai bisogno di allenamento. Questa sera devi venire.» «E gli altri?» «Gli altri? Chi sono gli altri? Se fanno gli stupidi, io dico "buuu", e loro smettono. Ma non faranno gli stupidi. Si tratta dell'allenamento.»
Oskar non rispose. «Okay? Allora vieni?» «Sì...» «Bene. Ci vediamo.» Oskar posò il ricevitore e rimase immobile. Non voleva andare ad allenarsi. Ma voleva incontrare il signor Ávila. Forse avrebbe potuto andare alla palestra un po' prima per vedere se era già lì. Avrebbe potuto andarsene prima che iniziasse la lezione. Anche se il signor Ávila non lo avrebbe accettato. Andò nella sua camera e preparò la borsa per la ginnastica, più che altro per avere qualcosa da fare. Era stata una fortuna non aver appiccato il fuoco al banco di Micke, perché lui sarebbe sicuramente andato ad allenarsi quella sera. Ma forse, visto che era di fianco a quello di Jonny, anche il suo banco era stato distrutto. Quanti danni poteva avere provocato l'incendio? A chi poteva chiedere? Alle tre, il telefono squillò nuovamente. Oskar esitò prima di rispondere, ma dopo la speranza che aveva provato per un attimo alla vista della busta, non riuscì a farne a meno. «Sì, pronto?» «Ciao, sono Johan.» «Ciao.» «Come ti vanno le cose?» «Così così.» «Facciamo qualcosa questa sera?» «Quando?» «Verso le sette.» «No, devo andare ad allenarmi.» «Peccato. Ciao.» «Johan?» «Sì.» «Ho sentito... che c'è stato un incendio. In un'aula della scuola. Ci sono stati molti danni?» «No. Soltanto alcuni banchi.» «Nient'altro?» «No, non molto altro.» «Bene.» «Il tuo banco se l'è cavata.» «Ah sì.»
«Ciao allora.» «Ciao.» Oskar posò il ricevitore e provò una strana sensazione allo stomaco. Aveva creduto che tutti sapessero che era stato lui ad appiccare il fuoco. Ma non gli era sembrato così per Johan. E sua madre gli aveva detto che c'erano stati molti danni. Aveva esagerato di proposito? Oskar scelse di credere a Johan. Dopotutto aveva avuto modo di vedere. Johan posò il ricevitore sbuffando. Si guardò intorno indeciso. Jimmy scosse il capo, e soffiò il fumo della sigaretta in alto, verso il soffitto della camera da letto di suo fratello Jonny. «Non sei stato un granché» disse Jonny. «Non è stato facile» ribatté Johan timidamente. Jimmy si girò verso il fratello che era seduto sul bordo del letto. «Hai detto che metà dell'aula è andata in fumo?» Jonny annuì. «Tutta la classe lo odia.» «E tu gli hai detto che non ci sono stati molti danni... credi che ci sia cascato?» «Penso di sì. Non ho voluto dire molto per non insospettirlo.» «Okay. Adesso dobbiamo soltanto aspettare per vedere se viene.» Johan lasciò scorrere lo sguardo da Jimmy a Jonny. Entrambi avevano lo sguardo vuoto, perso nell'immaginare ciò che sarebbe successo quella sera. «Cosa avete intenzione di fare?» Jimmy si chinò in avanti e spazzò via un po' di cenere che gli era caduta sulla manica. Disse lentamente: «Ha bruciato tutto quello che avevamo di nostro padre. Così, quello che pensiamo di fare non ti riguarda. Non credi?» Sua madre tornò alle cinque e mezza. La menzogna, la diffidenza della sera prima aleggiavano ancora come una nebbia gelida fra loro, e lei andò direttamente in cucina e iniziò a sbattere piatti e posate senza un reale motivo. Oskar chiuse la porta della sua camera. Si stese sul letto con lo sguardo fisso al soffitto. Sarebbe potuto uscire. In giardino. In cantina. Andare fino alla piazza centrale di Vällingby. Ma non c'era nessun luogo... nessun luogo dove poteva... avrebbe potuto fare qualcosa. Sentì sua madre andare al telefono, comporre un numero con tante cifre.
Con tutta probabilità, quello di suo padre. Oskar rabbrividì leggermente. Portò il piumone fin sotto il mento e si distese con la nuca verso la parete, e rimase in ascolto, cercando di captare alcuni brani delle frasi di sua madre. Se solo avesse potuto parlare con suo padre. Ma non avrebbe ottenuto alcun risultato. Come sempre. Oskar si mise a sedere sul letto, con il piumone sulla testa, immaginando di essere un grande capo indiano, impassibile. La voce di sua madre aumentò di tono e poco dopo si mise a urlare, e il capo indiano si lasciò cadere sul letto coprendosi le orecchie con le mani. Dentro la testa c'è soltanto silenzio. Lo spazio, lo spazio. Mentalmente, disegnò i punti delle diverse costellazioni e poi tirò le righe necessarie a completarle. Sistemi solari sconosciuti fecero la loro apparizione. Comete solcavano lo spazio, finché il piumone non fu smosso. Sua madre era in piedi davanti a lui. Un'espressione di rabbia sul volto. Quando iniziò a parlare, scandiva le parole. «Bene. Papà mi ha raccontato che sabato... lui... tu... dove ti sei cacciato? Eh? Dove sei stato? Vuoi rispondermi?» Gli strappò il piumone dal viso. La sua gola tesa sembrava ridicolmente muscolosa. «Non ti lascerò mai più andare da lui. Mai più. Perché non mi hai detto niente? Ah, quel bastardo. Gente come lui non dovrebbe mai avere figli. Non permetterò mai più che ti veda. Ubriacarsi così davanti a suo figlio. Mi senti? Non abbiamo bisogno di lui. Sono così...» Sua madre si girò di scatto, uscì dalla stanza sbattendo la porta con tale forza da far vibrare i muri. Oskar la udì comporre nuovamente il lungo numero di telefono, inveire per avere sbagliato e iniziare da capo. Alcuni secondi dopo avere composto l'ultimo numero, iniziò a urlare. Oskar spinse via il piumone, prese la sua borsa da ginnastica, andò in ingresso. Sua madre era talmente occupata a gridare che non lo notò mentre infilava gli stivaletti senza annodarli e usciva di casa. Lo vide soltanto quando stava per chiudere la porta. «Ehi! Dove stai andando?» Oskar sbatté la porta e corse giù per le scale, uscì dal portone e continuò a correre in direzione della palestra. «Roger, Prebbe...» Jimmy alzò la forchetta di plastica verso i due che erano scesi dalla me-
tropolitana. Il boccone di wurstel che Jonny stava ingurgitando gli rimase bloccato e fu costretto a deglutire tre volte per farlo scendere. Fissò suo fratello sorpreso, ma l'attenzione di Jimmy era esclusivamente rivolta ai due che si stavano avvicinando. Roger era magro con capelli a spazzola e indossava una giacca di pelle. Il volto era butterato e la pelle tirata sugli zigomi, i suoi occhi sembravano enormi. Prebbe indossava una giacca di jeans con le maniche tagliate e sotto soltanto una t-shirt, anche se la temperatura era di un paio di gradi. Era grande e grosso, quasi obeso. Un sollevatore di pesi che aveva smesso di allenarsi. Jimmy gli disse qualcosa, fece un cenno in una direzione e si mise in testa al gruppetto. Si avviarono verso la centrale dei trasformatori sopra la stazione della metropolitana. «Perché li hai fatti venire?» chiese Jonny bisbigliando. «Per darci una mano, ovviamente.» «Ma era necessario?» Jimmy sbuffò e scosse il capo come se Jonny non capisse come funzionavano certe cose. «Cosa pensi di fare con il signor Ávila?» «Quello?» «Sì. Credi che ci lascerà entrare e...» Jimmy non rispose, così Jonny seguì suo fratello fin dietro il piccolo edificio di mattoni. Roger e Prebbe si fermarono nell'ombra battendo i piedi per terra. Jimmy mise una mano in tasca e prese un portasigarette in similargento, lo aprì e lo porse ai due. Roger fissò le sei sigarette fatte a mano. «Pronte per l'uso, niente male» disse prendendo la più grossa. Prebbe fece una smorfia, sembrava uno dei personaggi del Muppet Show. «Se rimangono lì troppo a lungo, perdono metà dell'effetto» disse. Jimmy scosse il capo. «La solita donnina. Sono state fatte un'ora fa. E non con quella merda marocchina che hai l'abitudine di fumare tu. Questa è roba extra.» Prebbe sbuffò e prese una sigaretta. Roger gliela accese. Jonny fissò suo fratello. Il profilo di Jimmy si stagliava nettamente in controluce sul marciapiede. Jonny lo ammirava. Si chiese se sarebbe mai diventato come lui, uno che aveva il coraggio di dire «la solita donnina» a
un tipo come Prebbe. Jimmy prese una sigaretta e la accese. L'estremità arrotolata bruciò in un attimo. Aspirò profondamente e Jonny avvertì l'odore dolciastro che impregnava sempre i vestiti di suo fratello. I tre fumarono in silenzio per alcuni minuti. Poi Roger porse la sua sigaretta a Jonny. «Vuoi fare una tirata?» Jonny aveva alzato la mano, ma Jimmy diede una manata alla spalla di Roger. «Idiota. Vuoi che faccia la tua fine?» «Gli farebbe bene.» «Piantala.» Roger scosse le spalle e ritirò la mano. Alle cinque e mezza i tre avevano finito di fumare, e quando Jimmy iniziò a parlare lo fece scandendo esageratamente le parole. «Okay. Questo è Jonny. Mio fratello.» Roger e Prebbe annuirono docilmente. Jimmy mise una mano sotto il mento di Jonny e gli girò la testa di profilo verso i suoi due compari. «Date un'occhiata al suo orecchio. È stato quel bastardo. Quel bastardo al quale dobbiamo dare una lezione.» Roger fece un passo in avanti e fissò l'orecchio di Jonny. «Porca puttana! Che sberla!» «Non c'è bisogno dell'opinione di un esperto, no?» I cancelli del corridoio erano aperti. I passi di Oskar echeggiavano mentre raggiungeva la porta della piscina e la spingeva. Il calore umido colpì il suo viso e una nuvola di vapore scivolò lungo il corridoio freddo. Oskar si affrettò a chiudere la porta. Raggiunse lo spogliatoio. Era deserto. Dalle docce si udiva lo scroscio dell'acqua e una voce che cantava. Besame, besame mucho Como se fuera esta noche la ultima vez... Il signor Ávila. Senza togliersi la giacca, Oskar si mise a sedere su una panca e rimase in attesa. Diversi minuti dopo, lo scroscio dell'acqua e la canzone cessarono, e il signor Ávila uscì dalla doccia con un asciugamano intorno ai fianchi. Il suo torace era coperto da uno strato di peli neri e ricci. Oskar si disse che sembrava un essere appena arrivato da un altro pianeta. Quando il signor Ávila lo vide, un grande sorriso si aprì sul suo viso.
«Oskar! Allora sei uscito dal guscio.» Oskar annuì. «Mi stava troppo stretto.» Il signor Ávila si mise a ridere, si passò una mano sul petto e le dita sparirono. «Sei in anticipo.» «Sì, ho pensato di...» Oskar scrollò le spalle. Il signor Ávila tolse la mano dal petto. «Avevi pensato di?» «Non so.» «Parlare?» «No, volevo solo...» «Lascia che ti dia un'occhiata.» Il signor Ávila fece un passo avanti e studiò il volto di Oskar. «Ah, vedo.» «Cosa?» «Sei stato tu» disse il signor Ávila indicando gli occhi di Oskar. «Lo vedo. Le tue sopracciglia, sono bruciate. No, come si dice... sopra gli occhi?» «Le ciglia.» «Sì. Le ciglia. Un po' anche i capelli. Se non vuoi che qualcuno pensi che sei stato tu, è meglio tagliare un po' i capelli. Le sopra... le ciglia crescono rapidamente. Lunedì come nuove. Benzina?» «Alcol denaturato.» Il signor Ávila emise un leggero fischio e scosse il capo. «Molto pericoloso. Tu sei un po' matto, no?» disse il signor Ávila puntando un indice sulla tempia di Oskar. «Non molto matto, solo un pochino. Perché alcol denaturato?» «L'ho trovato.» «Trovato? Dove?» Oskar fissò il volto del signor Ávila: un volto benevolo e ben disposto. E avrebbe voluto raccontargli tutto. Ma non sapeva da dove cominciare. Il signor Ávila rimase in attesa. Poi disse: «Giocare con il fuoco è molto pericoloso. Può diventare un'abitudine. Non è un buon metodo. L'allenamento fisico è molto meglio.» Oskar annuì, ora la sensazione era svanita. Il signor Ávila era bravo, ma non avrebbe capito. «Quando avrai finito, faremo un po' di pesi. Okay?» disse il signor Ávila. Poi si avviò verso il suo ufficio. Arrivato sulla porta, si girò.
«E Oskar. Stai tranquillo. Se tu non vuoi, io non dirò niente a nessuno. Okay? Possiamo parlare dopo l'allenamento.» Oskar si cambiò. Aveva già finito quando entrarono Patrik e Hasse, due ragazzi di un'altra classe che conosceva. Lo salutarono ma Oskar ebbe l'impressione che lo fissassero troppo a lungo, e quando uscì dallo spogliatoio sentì che si erano messi a bisbigliare. Provò una sensazione di disagio. Si pentì di essere andato. Ma poco dopo arrivò il signor Ávila, si era cambiato, ora indossava pantaloncini e maglietta, e gli insegnò un po' di tecnica per sollevare pesi con più efficacia. Oskar riuscì a sollevare ventotto chili, due in più rispetto alla volta precedente. Il signor Ávila annotò il nuovo record. Arrivarono altri ragazzi, tra loro c'era anche Micke. Come sempre, aveva sulle labbra il suo solito sorriso indecifrabile, che poteva promettere qualsiasi cosa, un bel regalo come qualcosa di terribile. Questa volta si trattava della seconda alternativa, anche se Micke non ne conosceva la reale portata. Jonny lo aveva aspettato fuori dalla palestra per chiedergli di fare una cosa per lui, dato che voleva giocare uno scherzo a Oskar. A Micke l'idea non dispiaceva. Specialmente se era ai danni di Oskar, visto che la sua collezione di campioni di hockey su ghiaccio era andata in fumo il martedì sera. Ma per il momento, sorrideva soltanto. L'allenamento continuava; a Oskar sembrava che gli altri lo guardassero sempre in modo strano, e non appena alzava gli occhi, distoglievano subito lo sguardo. Avrebbe preferito tornare a casa. ... no... andare via... Andare via e basta. Ma il signor Ávila gli stava continuamente vicino, incitandolo, consigliandolo. Non aveva alcuna possibilità di andarsene. In ogni caso, era meglio essere lì che rimanere a casa. Finito l'allenamento, Oskar era talmente stanco da non avere neppure la forza di stare male. Andò alle docce, rimanendo un po' indietro rispetto agli altri, e si lavò con le spalle rivolte verso il locale. Non che avesse importanza. Si lavavano nudi. Quando finì, per un attimo si fermò davanti alla parete di vetro che separava il locale delle docce dalla piscina, osservava gli altri che nuotavano o
si gettavano la palla. E allora tornò. Non come un pensiero ben formulato, ma come una sensazione di profonda tristezza. Sono solo. Io sono completamente solo. Il signor Ávila lo vide e gli fece segno di entrare in acqua. Oskar si avviò e raggiunse il bordo della piscina, fissò l'acqua blu. Senza il minimo entusiasmo, scese lungo la scaletta nell'acqua piuttosto fredda. Micke era seduto sul bordo della piscina, gli sorrise e annuì con il capo. Oskar iniziò a nuotare in direzione del signor Ávila. «Oskar!» Vide la palla arrivare con la coda dell'occhio. Troppo tardi. Cadde proprio davanti a lui e gli spruzzò l'acqua piena di cloro negli occhi. Si strofinò gli occhi che bruciavano intensamente e quando li riaprì vide che il signor Ávila lo stava fissando con uno sguardo pieno di compassione. O disprezzo. Forse era soltanto la sua immaginazione, ma allontanò la palla che era proprio davanti al suo naso. Scivolò sul dorso e sentì i capelli accarezzargli le orecchie. Allargò le braccia e lasciò che l'acqua facesse dondolare il suo corpo. Fingeva di essere morto. Avrebbe galleggiato così per l'eternità. Non sarebbe mai più uscito dall'acqua per incrociare gli sguardi di quelli che gli volevano male. Oppure, quando si fosse alzato, il mondo non ci sarebbe più stato. Sarebbe rimasto solo, in un enorme spazio blu. Immerse la testa sott'acqua, ma anche così sentiva ancora suoni lontani, rumori dal mondo esterno, e quando tirò fuori la testa dall'acqua, ovviamente il mondo era ancora lì con la sua eco. Micke aveva lasciato il suo posto, e gli altri stavano giocando a una specie di pallavolo. La palla bianca volava in aria e i ragazzi urlavano eccitati. Oskar nuotò fino a un angolo dove l'acqua della piscina era più profonda, e rimase a guardare. Micke comparve sulla porta dello spogliatoio. «Signor Ávila, il telefono sta suonando nel suo ufficio.» Il signor Ávila borbottò qualcosa e si avviò lungo il bordo della piscina. Passando davanti a Micke, fece un cenno con il capo e poi scomparve dalla vista di Oskar. L'ultima cosa che Oskar vide fu un'ombra al di là del vetro appannato delle docce. Poi, se n'era andato. Non appena Micke uscì dallo spogliatoio, si appostarono.
Jonny e Jimmy scivolarono nella palestra pesi; Roger e Prebbe rimasero addossati al muro ai due lati della porta. Quando udirono la voce di Micke, si prepararono. Udirono il passo felpato dei piedi nudi del signor Ávila e qualche secondo dopo lo videro entrare e dirigersi verso il suo ufficio. Prebbe aveva arrotolato intorno alla mano due calzini tubolari infilati l'uno dentro l'altro riempiti a metà di monetine. Non appena il signor Ávila arrivò alla sua altezza volgendogli le spalle, fece mezzo passo in avanti, alzò la mano con il doppio calzino e mirò alla nuca del signor Ávila. Prebbe non era particolarmente agile e Ávila doveva avere sentito qualcosa, perché si girò di scatto e il calzino lo colpì sopra l'orecchio invece che alla nuca. Ma l'effetto fu comunque quello desiderato. Il signor Ávila scivolò in avanti, sbatté la testa contro lo stipite della porta e cadde a terra. Prebbe si mise a sedere sul suo petto pronto a colpire in caso di necessità. Ma non sembrava necessario. Le braccia del signor Ávila tremavano leggermente, ma non accennava a fare resistenza. Prebbe non credeva che fosse morto. Semplicemente, non sembrava morto. Roger si avvicinò, si chinò sul corpo come se non avesse mai visto niente di simile prima. «Che cos'è, un turco?» «Lo sa solo il diavolo. Prendi le chiavi.» Mentre Roger cercava le chiavi nelle tasche dei calzoncini del signor Ávila, vide Jimmy e Jonny uscire dalla palestra pesi e avviarsi verso la piscina. Trovate le chiavi, iniziò a provarle alla porta dell'ufficio continuando a fissare il signor Ávila affascinato. «Peloso come una scimmia. È sicuramente un turco.» «Forza, datti da fare.» Roger sospirò continuando a provare le chiavi. Trovò quella giusta e aprì la porta. Prima di entrare disse: «Forse non dovresti stare seduto così. Non può respirare.» Prebbe scivolò giù dal petto e si sedette sul pavimento con il calzino pronto per ogni evenienza. Roger cercò nelle tasche della giacca del signor Ávila appesa all'attaccapanni, trovò un portafogli con trecento corone. In un cassetto della scrivania trovò un blocchetto di biglietti della metropolitana nuovo e prese anche quello. Nessun altro bottino. Ma non erano lì per quello.
Quando Jimmy e Jonny entrarono, Oskar era ancora in acqua nell'angolo della piscina. La sua prima reazione non fu di paura, ma di irritazione. Erano vestiti. Non si erano neppure tolti le scarpe come da regolamento della piscina. La paura arrivò quando Jimmy fu al bordo della piscina e iniziò a guardarsi intorno. Oskar aveva incontrato Jimmy un paio di volte di sfuggita e non gli era piaciuto. Ma ora c'era qualcos'altro nel suo sguardo, come muoveva la testa... Come Tommy e i suoi amici quando... Lo sguardo di Jimmy incrociò quello di Oskar, che provò un brivido di terrore al pensiero di essere nudo. Jimmy era vestito. Oskar era nell'acqua fredda e ogni centimetro della sua pelle era nudo, indifeso. Jimmy fece un cenno con il capo a Jonny, alzò una mano e descrisse un semicerchio. Iniziarono a muoversi, ognuno a un lato lungo della piscina. «Uscite tutti dall'acqua. Fuori. Fuori dalle balle» urlò Jimmy. I ragazzi rimasero nell'acqua indecisi. Jimmy si accovacciò vicino al bordo della piscina, prese un coltello a serramanico dalla tasca, fece scattare la lama e la puntò in direzione del gruppo di ragazzi, poi lo batté sul bordo. Oskar rimaneva addossato all'angolo, fissando paralizzato gli altri ragazzi che nuotavano verso la scaletta e uscivano lasciandolo solo nella piscina. Avila ... dov'è Avila... Oskar sentì una mano afferrargli i capelli e tirare. Era come se qualcuno gli avesse piantato centinaia di spilli nel cuoio capelluto. «Quello è mio fratello, bastardo.» Jonny gli fece sbattere la testa un paio di volte contro la parete della piscina, mentre Jimmy arrivò alla loro altezza e si accovacciò con il coltello in mano. «Ciao Oskar.» Oskar aprì la bocca per dire qualcosa e in quel momento Jonny gli abbassò la testa e Oskar bevve. Iniziò a tossire, a ogni colpo di tosse provava una fitta al cuoio capelluto e Jonny aumentava la presa sui suoi capelli. Quando l'attacco di tosse cessò, Jimmy batté il coltello contro il bordo della piscina. «Senti, io l'ho pensata così. Perché non facciamo una piccola gara. Stai fermo...» Jimmy passò il coltello a Jonny e afferrò i capelli di Oskar al posto del
fratello. Oskar non osava fare nulla. Aveva fissato gli occhi di Jimmy per alcuni secondi ed era rimasto terrorizzato. Erano talmente pieni di odio che non era possibile fissarli. A lungo. La sua testa era schiacciata contro l'angolo della piscina. Le sue braccia si muovevano senza forza sotto l'acqua. Cercò gli altri ragazzi con lo sguardo. Erano fermi sul lato opposto. Micke era all'estremità del gruppetto, con il suo solito sorriso. Gli altri sembravano più che altro impauriti. «Be', è molto semplice. Regole semplici. Tu stai sott'acqua per cinque minuti. Se ce la fai, quando torni su ti faccio un piccolo graffio sulla guancia. Come ricordo, diciamo. Se non ce la fai, e torni su prima, allora ti tolgo un occhio. Okay? Hai capito bene le regole?» «Cinque minuti... non è possibile...» Jimmy scosse il capo. «Questo è un problema tuo. Vedi l'orologio lassù? Fra venti secondi iniziamo. Cinque minuti. Oppure l'occhio. Riempiti i polmoni d'aria, finché puoi. Dieci... nove... otto... sette...» Oskar cercò di muoversi, ma la presa di Jimmy sui suoi capelli era ferrea. Se riuscissi a farcela anche perdendo tutti i capelli... cinque minuti... Quando aveva provato da solo, era riuscito a raggiungere i tre minuti. Quasi. Per favore signor Ávila... per favore arriva... «Sei... cinque... quattro... tre...» Oskar guardò verso lo spogliatoio. «Due... uno... zero.» Riuscì a malapena ad aspirare una mezza boccata e la sua testa fu spinta sott'acqua. Quando l'acqua al cloro toccò i graffi e le lacerazioni, la sua testa gli sembrava in fiamme. Il panico arrivò dopo un minuto. Sbarrò gli occhi e il suo mondo si colorò di blu... striato a tratti di rosa. Scalciò con le gambe sulla superficie dell'acqua, il panico sempre più violento arrivava a ondate. I secondi sembravano interminabili, senza fine. Bolle d'aria gli uscirono dalla bocca, sbatté le braccia, sopra di lui intravide i grandi tubi al neon, da qualche parte sul soffitto. Il suo cuore batteva come se fosse dentro a una campana di vetro, e quando iniziò a respirare acqua attraverso il naso, una sensazione di pace si sparse in tutto il suo corpo. Ma il suo cuore batteva più rapidamente, insistentemente, voleva vivere, e Oskar scalciò nuovamente disperato, cercando un appiglio là do-
ve non c'era niente. E la sua testa fu spinta più in basso. Piuttosto questo che l'occhio. Dopo due minuti, Micke iniziò a provare un profondo senso di disagio. Sembrava che volessero veramente... che pensassero veramente... Si guardò intorno, ma nessuno degli altri ragazzi aveva intenzione di fare qualcosa e Micke stesso disse fiocamente: «Jonny... cosa diavolo...» Ma Jonny non sembrava sentire. Era immobile sul bordo della piscina con il coltello puntato verso la forma bianca e marrone sotto la superficie dell'acqua. Micke guardò in direzione dello spogliatoio. Perché diavolo il signor Ávila non tornava? Patrik era corso a cercarlo, e dove diavolo si era cacciato anche lui? Micke si spostò nell'angolo, vicino alla porta a vetri che guardava nella notte nera, e incrociò le braccia spazientito. Con la coda dell'occhio vide qualcosa staccarsi dal tetto all'esterno. Qualcuno stava battendo alla porta a vetri con una forza tale da farla tremare tutta. Micke si voltò in quella direzione e vide una ragazza. La ragazza alzò lo sguardo. «Dimmi che posso entrare!» «Cosa?» Micke volse lo sguardo verso la piscina. Il corpo di Oskar aveva smesso di muoversi, Jimmy continuava a tenergli la testa sott'acqua. Micke deglutì e chiuse gli occhi. Qualsiasi cosa, basta che la smettano. Un colpo sulla porta a vetri, questa volta più forte. Cercò di guardare attraverso il buio. Quando la ragazza aprì la bocca e gli urlò qualcosa, vide che... che i suoi denti... che qualcosa pendeva dalle sue braccia. «Dimmi che posso entrare!» Che succeda quel che deve succedere. Micke si girò verso la ragazza e sussurrò: «Puoi entrare.» La ragazza si allontanò dalla porta e sparì nel buio. La cosa che pendeva dalle sue braccia luccicò per un istante, e poi era sparita. Micke tornò alla piscina. Jimmy aveva tirato la testa di Oskar fuori dall'acqua, riprese il coltello da Jonny e lo puntò contro la faccia di Oskar, minacciandolo. Una macchia di luce si intravide nella finestra centrale scura, e in una frazione di secondo il vetro andò in frantumi.
Il vetro di sicurezza non va in frantumi come il vetro normale. Era esploso in migliaia di frammenti, che caddero sulla piscina come una miriade di stelle lucenti. Epilogo Venerdì 13 novembre Venerdì 13... Gunnar Holmberg era seduto nell'ufficio vuoto del preside e stava cercando di mettere in ordine i suoi appunti. Aveva passato tutta la giornata nella scuola di Blackeberg; aveva ispezionato la scena del crimine, parlato con gli allievi. Due tecnici della scientifica stavano ancora rilevando le impronte giù nella piscina. La sera prima, due ragazzi erano stati trovati morti e un terzo era scomparso. Holmberg aveva parlato anche con l'insegnante, Marie-Louise, che aveva confermato che il ragazzo scomparso si chiamava Oskar Eriksson, era quello che aveva alzato la mano e aveva risposto alla sua domanda tre settimane prima. Holmberg lo ricordava benissimo. Leggo molto... Si ricordava di avere pensato che sarebbe stato lui il primo a farsi vedere alla sua macchina. In quel caso aveva pensato di fargli fare un giro. Ma il ragazzo non era venuto. E adesso era scomparso. Gunnar diede un'occhiata agli appunti che aveva preso durante gli interrogatori ai ragazzi che si trovavano nella piscina la sera prima. Le loro testimonianze erano praticamente concordi: era stato un angelo. Oskar Eriksson era stato salvato da un angelo. Lo stesso angelo che, sempre secondo le testimonianze, aveva staccato la testa a Jimmy e Jonny Forsberg, gettandole sul fondo della piscina. Quando Holmberg parlò dell'angelo al tecnico che con la sua macchina subacquea aveva immortalato l'immagine delle due teste, nel luogo in cui erano state ritrovate, aveva detto: «Non proprio un angelo del Paradiso direi...» No... Holmberg guardò fuori dalla finestra cercando di trovare una spiegazione accettabile.
Nel cortile della scuola, la bandiera sventolava a mezz'asta. Agli interrogatori dei ragazzi erano presenti due psicologi, soprattutto perché molti di loro sembravano non dare una grande importanza a quanto era successo, come se avessero assistito a un film e non a un fatto reale. E sarebbe stato bello poterci credere. Il problema era che le tracce di sangue sembravano confermare quanto dicevano i ragazzi. Il sangue aveva seguito percorsi particolari, lasciando tracce sul tetto, sulle travi, che davano la netta impressione di essere di qualcuno che... aveva volato. Ed era a questo che Holmberg cercava di dare una spiegazione, senza successo. Il signor Ávila era ricoverato al reparto rianimazione dell'ospedale e avrebbe potuto essere interrogato soltanto il giorno dopo. Holmberg non si aspettava molto dalla sua testimonianza. Si passò le mani sulle tempie, socchiuse gli occhi e lesse i suoi appunti. ... angelo... ali... teste staccate... il coltello a serramanico... cercavano di affogarlo... Oskar era blu... denti come quelli dei leoni... ha preso Oskar... E la sola cosa che riusciva a pensare fu Dovrei andarmene a casa. «È roba tua?» Stefan Larsson, controllore di treno sulla linea Stoccolma-Karlstad, indicò la valigia sulla rastrelliera. Non se ne vedevano più molte di quel tipo. Un vero... baule. Il ragazzo nello scompartimento annuì e porse il suo biglietto. Stefan lo obliterò. «C'è qualcuno ad aspettarti alla stazione?» Il ragazzo scosse il capo. «Non è così pesante come può sembrare.» «No, certo. Cosa c'è lì dentro, se posso chiedere?» «Un po' di tutto.» Stefan controllò l'ora, agitò le braccia. «Sarà sera quando arriviamo, lo sai, vero?» «Mmm.» «Anche gli scatoloni sono tuoi?» «Sì.» «Non voglio intromettermi, ma come pensi di fare?» «Ce la farò benissimo, più tardi ci sarà qualcuno ad aiutarmi.»
«Bene, buon viaggio allora.» «Grazie.» Stefan chiuse la porta dello scompartimento e proseguì. Il ragazzo sembrava a posto, sembrava che sapesse quello che faceva. Se avesse dovuto portarsi dietro tutta quella roba, Stefan non avrebbe certamente avuto un'aria così felice. Ma quando si è giovani, è diverso. Se qualcuno volesse prendersi la briga di controllare com'è stato il clima durante il mese di novembre del 1981, scoprirà che fu un inverno insolitamente mite. Mi sono preso la libertà di abbassare la temperatura di diversi gradi. Per il resto, tutto quello che ho scritto in questo romanzo è vero, anche se è successo in maniera diversa. Vorrei anche ringraziare alcune persone. Eva Månsson, Michael Rübsahmen, Kristoffer Sjögren ed Emma Berntsson, che hanno letto la prima versione e mi hanno espresso i loro punti di vista preziosi. Anche Jan-Olof Wesström ha letto la prima versione, senza esprimermi il suo punto di vista. Ma è il mio migliore amico. Aron Haglund ha letto il romanzo e ne è rimasto talmente entusiasta da convincermi a mandare il manoscritto all'editore. Lo ringrazio per questo. Grazie anche al personale della biblioteca di Vingåker, che con pazienza e gentilezza ha cercato e mi ha procurato gli strani romanzi che mi sono serviti nel corso della stesura. Una piccola biblioteca con un cuore enorme. E naturalmente: un grazie a mia moglie Mia, che ha avuto la pazienza di ascoltarmi mentre le leggevo gradualmente il romanzo ad alta voce, facendomi cambiare ciò che non andava e sviluppare quanto funzionava. Non oso dire come sarebbero state alcune scene, se lei non mi avesse convinto a eliminarle. Grazie a tutti. FINE