John Stephens
L'Atlante di Smeraldo Traduzione di Silvia Piraccini
Titolo originale The Emerald Atlas 2011 ISBN 97888...
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John Stephens
L'Atlante di Smeraldo Traduzione di Silvia Piraccini
Titolo originale The Emerald Atlas 2011 ISBN 9788830431706
Prologo † Due mani la scuotevano, e la bambina si svegliò. Sua madre era china sopra di lei. «Kate.» La voce era sommessa e pressante. «Ascoltami bene. Bisogna che tu faccia una cosa per me. Bisogna che tu protegga tuo fratello e tua sorella. Hai capito? Devi proteggere Michael ed Emma.» «Cosa...» «Non c’è tempo per spiegare. Promettimi che li proteggerai.» «Ma...» «Oh, Kate, per favore! Promettilo e basta!» «Lo... lo prometto.» Era la Vigilia di Natale. Aveva nevicato tutto il giorno. Kate, la più grande, aveva avuto il permesso di andare a letto più tardi del fratello e della sorella. Così, quando i canti di Natale si erano ormai spenti da un pezzo, era rimasta alzata a sorseggiare cioccolata calda accanto al fuoco mentre i genitori si scambiavano i regali, i bambini avrebbero ricevuto i loro l’indomani mattina, e a sentirsi molto grande per i suoi quattro anni. Il papà aveva ricevuto un vecchio libro sciupato, piccolo ma voluminoso, del quale era sembrato molto contento; la mamma una catenella d’oro con un medaglione, dentro il quale c’era una minuscola fotografia dei bambini: Kate, Michael, di due anni, e la piccola Emma. Poi, quando alla fine era andata a letto, Kate se n’era stata tutta felice al buio, al calduccio sotto le coperte, a chiedersi come avrebbe fatto a addormentarsi, e un attimo dopo, o così le era sembrato, era stata svegliata. La porta della camera era aperta e Kate, alla luce del corridoio, guardò la mamma sollevare le mani dietro la nuca per slacciare la catenella con il medaglione e poi chinarsi per fermargliela al collo, facendo scivolare le mani sotto di lei. La bambina si sentì sfiorare appena dai capelli della mamma e avvertì l’odore del pan di zenzero che aveva preparato quel pomeriggio; poi qualcosa di umido le arrivò sulla guancia e capì che la mamma piangeva. «Ricorda che io e tuo padre ti vogliamo tanto bene. E che un giorno saremo di nuovo tutti insieme. Lo prometto.» Alla bambina batteva forte il cuore. Fece per chiedere che cosa succedeva quando sulla porta comparve un uomo.
La luce era alle sue spalle, così Kate non riuscì a vederlo in faccia, ma era alto e magro e portava un lungo cappotto e qualcosa che sembrava un cappello spiegazzato. «È ora» disse. La sua voce e quell’immagine, l’alta sagoma di un uomo sulla porta, avrebbero perseguitato Kate per anni, perché quella fu l’ultima volta che vide sua madre, l’ultima volta che la sua famiglia fu unita. Poi l’uomo disse parole che Kate non distinse e fu come se attorno alla sua mente calasse una coltre pesante, cancellando l’uomo sulla porta, la luce, sua madre, tutto. La donna prese in braccio la bambina addormentata, l’avvolse nelle coperte e seguì l’uomo giù per le scale, oltrepassò il soggiorno dove il focolare era ancora acceso e uscì nel freddo e nel buio. Se fosse stata sveglia, la bambina avrebbe visto il padre in piedi sotto la neve accanto alla vecchia auto nera, con in braccio il fratello e la sorellina avvolti nelle coperte e addormentati. L’uomo alto aprì la portiera nera e il padre dei bambini adagiò il carico sul sedile; poi si girò, prese Kate dalle braccia della donna e la coricò accanto al fratello e alla sorella. L’uomo alto richiuse la portiera con un colpetto delicato. «Sicuro?» chiese la donna. «Sicuro che sia l’unico modo?» L’uomo alto si era spostato sotto il chiarore di un lampione e per la prima volta era nettamente visibile. A chi fosse passato di lì, il suo aspetto non avrebbe ispirato molta fiducia. Il cappotto era rattoppato e aveva i polsini logori, al vecchio completo di tweed mancava un bottone, la camicia bianca era macchiata di inchiostro e tabacco, la cravatta, questa era forse la cosa più strana, era annodata non una ma due volte, come se l’uomo, non ricordando se avesse già fatto il nodo, invece di guardar giù ne avesse fatto un altro per sicurezza. Da sotto il cappello spuntavano i capelli bianchi e le sopracciglia si ergevano dalla fronte come grandi corna innevate, arricciate sopra un paio di occhiali di tartaruga sbilenchi e rappezzati. Insomma, era come se si fosse vestito nel bel mezzo di un tornado e, pensando di essere ancora troppo presentabile, si fosse gettato giù per una rampa di scale. Solo quando lo si guardava negli occhi tutto cambiava. Nella notte ovattata dalla neve i suoi occhi non riflettevano luce, brillavano della propria; e l’energia, la gentilezza e la comprensione che trasmettevano erano tanto straordinarie da far dimenticare completamente le macchie di tabacco e di inchiostro sulla camicia, i rattoppi degli occhiali, il doppio nodo alla cravatta. Bastava guardarli per capire di trovarsi di fronte alla saggezza più autentica.
«Miei cari amici, abbiamo sempre saputo che questo giorno sarebbe arrivato.» «Ma cos’è cambiato?» chiese il padre dei bambini. «Dai tempi di Cambridge Falls non c’è più stato niente! E parliamo di cinque anni fa! Sarà pur successo qualcosa!» Il vecchio sospirò. «Stasera sono stato da Devon McClay.» «Non sarà... non può essere...» «Purtroppo sì. E, anche se è impossibile sapere cos’ha rivelato prima di morire, dobbiamo supporre il peggio. Dobbiamo supporre che abbia raccontato tutto dei bambini.» Per un lungo momento nessuno parlò. La donna aveva dato libero sfogo alle lacrime. «Ho promesso a Kate che un giorno saremmo stati di nuovo tutti insieme. Le ho mentito.» «Tesoro...» «Finché non li avrà trovati, non si fermerà! Non saranno mai al sicuro!» «Hai ragione» disse il vecchio, sottovoce. «Non si fermerà mai.» Chi fosse la persona di cui parlavano, evidentemente era superfluo chiarirlo. «Ma un sistema c’è. L’abbiamo sempre saputo. Bisogna fare in modo che i bambini crescano. Che il loro destino si compia...» Si interruppe. L’uomo e la donna si girarono. In fondo all’isolato, tre sagome scure in piedi, in cappotto lungo, li guardavano. La via si fece più silenziosa che mai; perfino i fiocchi di neve parvero rimanere sospesi a mezz’aria. «Eccoli» disse il vecchio. «Seguiranno i bambini. Approfittatene per sparire. Vi troverò io.» Senza dare alla coppia il tempo di ribattere, il vecchio aprì la portiera e si infilò al posto di guida. Le tre sagome si stavano avvicinando. L’uomo e la donna indietreggiarono verso la casa mentre il motore, con un raschio di tosse, si accendeva. Per un attimo le ruote girarono a vuoto sulla neve, poi fecero presa e la macchina, slittando, partì. Ora le sagome correvano e passarono davanti all’uomo e alla donna senza nemmeno girarsi a guardarli, concentrate soltanto sull’auto che sbandava a destra e sinistra sulla strada innevata. L’uomo dai capelli bianchi stringeva forte il volante. Per fortuna era tardi e, un po’ per la neve, un po’ perché era la Vigilia, non
c’era traffico a rallentarlo. Ma, per quanto l’uomo premesse sull’acceleratore, le sagome scure guadagnavano terreno. Correvano con grazia silenziosa, quasi soprannaturale, percorrendo una decina di metri a ogni falcata, con le ali nere del cappotto che si gonfiavano dietro le spalle. L’auto, dopo una svolta, urtò un furgone parcheggiato e due delle tre sagome spiccarono un salto in aria, appigliandosi alle case a schiera allineate lungo la via. L’uomo, guardando nello specchietto, vide gli inseguitori arrampicarsi sulle facciate come gargolle finalmente libere. Nei suoi occhi non trapelò stupore, ma premette l’acceleratore a tavoletta. Attraversò a gran velocità una piazza, sfrecciando davanti a un gruppo uscito dalla chiesa dopo la messa di mezzanotte. Era entrato nella città vecchia e l’auto sobbalzava sulle strade di ciottolato. Sul sedile posteriore, i bambini continuavano a dormire. Una delle sagome si lanciò dalla pietra bruna di una facciata e con uno schianto pauroso atterrò sul tettuccio della macchina. Un attimo dopo, con un pugno, una mano pallida sprofondò nel tettuccio e cominciò a staccare il rivestimento di metallo. Un secondo aggressore afferrò la parte posteriore dell’auto e ne affondò l’estremità nella strada, incidendo solchi in pietre secolari. «Manca poco» mormorò l’uomo, «ancora poco.» Entrarono in un parco, bianco di neve e assolutamente deserto, con la macchina che slittava sul fondo ghiacciato. Proprio di fronte a sé l’uomo vide la buia distesa del fiume. Poi sembrò succedere tutto insieme: il vecchio che dava gas, l’ultima sagoma che si attaccava alla portiera, il tetto che si apriva facendo riversare dentro l’aria della notte; nulla però scosse i bambini, che continuarono a dormire ignari. Poi l’auto si staccò da un piccolo pendio e volò sopra il fiume. Non toccò mai l’acqua. All’ultimo momento si dileguò lasciandosi alle spalle le tre sagome scure, che finirono a dimenarsi nel fiume. Un istante dopo, e a centinaia di chilometri a nord, l’automobile, senza un graffio, accostò davanti a un grande edificio di pietra grigia. L’arrivo, evidentemente, era atteso, perché una donna bassetta e vestita di scuro scese i gradini in fretta e furia per andargli incontro. Insieme, lei e il vecchio presero i bambini e li portarono dentro. Salirono all’ultimo piano e poi procedettero per un lungo corridoio decorato di ghirlande e altri fronzoli. Passarono davanti a camere e camere di bambini addormentati. All’ultima
porta, entrarono. Nella stanza c’erano due letti e una culla, nient’altro. La suora, la bassetta si chiamava suor Agatha, portava in braccio il bambino e la piccola. Adagiò il maschio in un letto e la sorellina nella culla. Nessuno dei due si mosse. Il vecchio sistemò Kate nell’ultimo letto. Le rimboccò la trapunta sotto il mento. «Poveri cari» disse suor Agatha. «Già. E che responsabilità sulle loro spalle.» «Crede che qui saranno al sicuro?» «Per quanto lo possano essere. Lui gli darà la caccia. Questo è certo. Ma le uniche persone vive a sapere che loro sono qui siamo noi due.» «Come dovrò chiamarli? Avranno bisogno di un cognome nuovo.» «Che ne dice di...» Il vecchio ci pensò un momento. «P?» «P e basta?» «P e basta.» «E la più grande? Lei ricorderà il vero nome.» «Farò in modo di no.» «Ha dell’incredibile che stia succedendo davvero, ha proprio dell’incredibile...» Guardò in su verso il compagno. «Si fermerà un po’? Giù ho acceso il fuoco e ho ancora un po’ di birra dei monaci. Dopo tutto è Natale.» «Molto allettante. Ma purtroppo devo occuparmi dei genitori dei bambini.» Mormorando: «Santo cielo, così è cominciato tutto davvero...» la donna uscì nel corridoio. Il vecchio la seguì fino alla porta, poi si fermò e si girò a guardare i bambini addormentati. Sollevando la mano come per benedirli, sussurrò: «Al nostro prossimo incontro» e uscì. I tre bambini continuarono a dormire, ignari del nuovo mondo che li aspettava al risveglio.
Capitolo 1 Il cappello della signora Lovestock † Il cappello in questione era quello della signora Constance Lovestock. La signora Lovestock era una donna che aveva una certa età, disponibilità economiche ancora maggiori e nessun figlio. Ed era una donna che non conosceva le mezze misure. Si pensi alle sue opinioni sui cigni. Secondo lei erano le creature più belle e aggraziate del mondo. «Quanta grazia» diceva, «quanta eleganza.» Chi entrava nella sua grande casa sontuosa, vedeva arbusti tagliati a forma di cigno. Statue di cigni che si levavano in volo. Fontane in cui una mamma cigno spruzzava d’acqua i suoi cignetti. Una piccola vasca a forma di cigno in cui uccelli più minuti potevano aver l’onore di bagnarsi. E, ovviamente, cigni veri che scivolavano sugli stagni attorno alla casa e che qualche volta, meno aggraziatamente di quanto si sarebbe sperato, passavano tutti dondolanti per le portefinestre del pianterreno. «Io non conosco le mezze misure» era orgogliosa di dire la signora Lovestock. E fu così che una sera, verso i primi di dicembre, seduta davanti al fuoco in compagnia del signor Lovestock, il quale tutte le estati si concedeva una vacanza solitaria allo scopo dichiarato di collezionare scarabei, ma in realtà per andare a caccia di cigni in una riserva privata in Florida, dove li colpiva quasi a bruciapelo con un folle ghigno, fu così che la signora Lovestock drizzò la schiena sul divano a forma di cigno sul quale stava sferruzzando e annunciò: «Gerald, ho intenzione di adottare dei bambini». Il signor Lovestock si tolse di bocca la pipa ed emise un verso meditabondo. Aveva udito abbastanza chiaramente le sue parole. Non «un bambino». Bensì «dei bambini». Ma i lunghi anni gli avevano insegnato l’inefficacia dello scontro diretto con la moglie. Stabilì che la cosa più saggia da fare era cederle terreno fingendo di non aver capito e, insieme, cercando di blandirla. «Mia cara, che splendida idea. Saresti una madre meravigliosa. Sì, adottiamo un bambino.»
La signora Lovestock gli manifestò tutta la sua contrarietà. «Non prendermi in giro, Gerald. Non ho alcuna intenzione di adottare un bambino solo. Non ne varrebbe la pena. Comincerò con tre.» Poi si alzò in piedi, comunicandogli così che la discussione era finita, e a grandi passi uscì dalla stanza. Il signor Lovestock emise un sospiro e riposizionò la pipa nell’angolo della bocca, chiedendosi se ci fosse un posto in cui andare a caccia di bambini la prossima estate. Probabilmente no, pensò, e tornò al suo giornale. ______________________ «È la vostra ultima possibilità.» Kate era seduta di fronte alla signorina Crumley. Erano alla scrivania del suo ufficio, nella torretta settentrionale dell’Istituto per Orfani Irrecuperabili e Senza Speranza Edgar Allan Poe. Nei secoli passati l’edificio era stato un’armeria e d’inverno il vento soffiava fin dentro i muri, facendo sbattere le finestre e gelare l’acqua nei bagni. L’ufficio della signorina Crumley era l’unica stanza riscaldata. Kate sperava che ci mettesse un bel po’ a dirle quel che doveva, di qualunque cosa si trattasse. «Dico sul serio, signorinella.» La signorina Crumley, bassa, tracagnotta e con un cumulo di capelli violacei, parlando scartocciò una caramella presa da una ciotola sulla scrivania. Ai ragazzi le caramelle erano proibite. Al loro arrivo all’Istituto, mentre la signorina Crumley enumerava permessi e divieti (soprattutto divieti), Michael si era impadronito di una mentina. Aveva dovuto farsi docce fredde per una settimana intera. «Non aveva mica detto di non mangiarle» si era difeso lui. «Come facevo a saperlo?» La signorina Crumley si cacciò in bocca una caramella. «Sfumata questa, sono finita. Spacciata. Se tu, tuo fratello e tua sorella non vi sforzerete di essere abbastanza simpatici perché questa signora vi adotti, be’...» Succhiò forte la caramella cercando una minaccia sufficientemente terribile. «Be’, non mi riterrò responsabile per quel che succederà.» «Chi è la signora?» chiese Kate. «Chi è la signora?» ripeté la signorina Crumley, con gli occhi che si sgranavano per l’incredulità. «Volevo dire, com’è?» «Chi è? Com’è?» La signorina Crumley succhiò a più non posso, con l’indignazione che
montava. «Questa signora...» Si interruppe. Kate aspettò. Ma non arrivarono altre parole. Arrivò invece, sulla faccia della signorina Crumley, un acceso rossore. La donna emise un versaccio strozzato. Per un solo secondo, be’, forse furono tre, Kate prese in considerazione la possibilità di rimanere a guardare la signorina Crumley che soffocava. Dopodiché scattò in piedi, fece il giro della scrivania e le batté sulla schiena. Un grumo verdognolo e appiccicoso volò fuori dalla bocca della signorina Crumley e atterrò sulla scrivania. La donna si girò verso Kate, respirando quanta più aria poteva, con la faccia ancora paonazza. Kate non era tanto sprovveduta da aspettarsi un grazie. «È una signora...» ansimò la signorina Crumley «una signora che vorrebbe adottare tre bambini. Preferibilmente fratelli. E questo ti basti. Chi è la signora! Che faccia tosta! Va’ a cercare tuo fratello e tua sorella. Fa’ in modo che si lavino e si mettano i vestiti migliori. La signora sarà qui fra un’ora. E se quei due ne combineranno una delle loro, che Dio mi aiuti...» Raccattò la caramella e se la ricacciò in bocca. «Be’, io non sarò responsabile.» ______________________
Man mano che Kate scendeva la stretta scala a chiocciola dopo essere uscita dall’ufficio della signorina Crumley, l’aria si faceva più fredda e lei si avvolgeva più stretto attorno al corpo il maglioncino leggero che portava. Gli adulti che vedevano Kate per la prima volta notavano sempre quant’era carina, con quei capelli biondo scuro e i grandi occhi color nocciola. Ma guardando meglio si accorgevano della profonda ruga di concentrazione che le solcava ormai stabilmente la fronte, delle unghie mangiate fino alla carne viva e della tensione alle gambe e alle braccia, così, invece di dire: «Che bella ragazzina», schioccavano la lingua e mormoravano: «Poveretta». Perché guardare Kate, per quanto fosse carina, era come vedere qualcuno che vive nella costante attesa di ricevere dalla vita il prossimo colpo. Uscendo dalla porta laterale dell’orfanotrofio, Kate vide un gruppo di bambini attorno a un albero scheletrico sul bordo del cortile. Una bimbetta dai capelli castani, bassa e con le gambine sottili lanciava sassi contro un bambino fra i rami, strillandogli di scendere a battersi. Kate si fece largo tra la folla dei ragazzini che ridevano e schiamazzavano mentre Emma raccoglieva un altro sasso.
«Che cosa fai?» Emma si girò. Sulle guance c’erano dei cerchi rossi e gli occhi, scuri, erano lucidi. «Mi ha strappato il libro! Ero lì a leggere e lui me l’ha preso di mano e l’ha strappato! Non avevo fatto niente, giuro! E adesso non vuole nemmeno scendere a battersi!» «Non è vero» gridò il bambino sull’albero. «Quella è svitata!» «Sta’ zitto» strillò Emma, e lanciò il sasso. Il bambino sparì dietro l’albero mentre il sasso rimbalzava sul tronco. Emma era piccola per i suoi undici anni. Tutta gomiti e ginocchia. Ma i ragazzini dell’orfanotrofio, dal primo all’ultimo, la rispettavano e temevano le sue sfuriate. Quando la mettevano alle strette o la provocavano, combatteva come un diavolo. Calci, graffi e pugni. Certe volte Kate pensava che forse sua sorella non sarebbe stata tanto feroce, se loro tre non fossero stati separati dai genitori. Emma era l’unica a non avere ricordi del padre e della madre. Perfino Michael rammentava vagamente di essere stato amato e accudito. Per Emma, invece, quella era l’unica vita che avesse mai conosciuto ed era una vita con un’unica regola: quando smetti di combattere, è finita. Purtroppo c’era sempre qualcuno dei più grandicelli che, godendosela un mondo a vedere Emma diventare una furia, ce la metteva tutta per infastidirla. E non stupiva che il bersaglio preferito fosse il brevissimo cognome dei tre ragazzi. Kate, coi suoi quattordici anni, era la maggiore, così di solito toccava a lei calmare Emma. «Dobbiamo cercare Michael» disse Kate. «Fra poco una signora verrà a conoscerci.» Fra i ragazzini calò il silenzio. Erano mesi che all’Istituto per Orfani Irrecuperabili e Senza Speranza Edgar Allan Poe non arrivava un aspirante genitore. «Non me ne importa niente» ribatté Emma. «Io non ci vado.» «Dovrebbe essere pazza a volerti» gridò il ragazzino sull’albero. Emma prese un sasso e lo lanciò. Il ragazzino non fu abbastanza pronto e fu colpito sul gomito. «Ahia!» «Emma.»
Kate prese la sorella per il braccio. «La signorina Crumley dice che questa è la nostra ultima possibilità.» Emma si liberò con uno strattone. Si chinò a raccogliere un altro sasso. Ma era chiaro che lo spirito combattivo se n’era andato e Kate aspettò in silenzio che Emma si passasse il sasso da una mano all’altra e poi lo tirasse fiaccamente contro l’albero. «Va bene.» «Sai dov’è Michael?» Emma annuì. Kate la prese per mano e i ragazzini si spostarono per farle passare. ______________________
Le sorelle trovarono Michael nel bosco dietro l’orfanotrofio, a esplorare una grotta che aveva scoperto la settimana prima. Fingeva che fosse l’imbocco di un vecchio cunicolo dei nani. Da sempre Michael era ossessionato da storie di creature magiche. Stregoni che combattevano contro draghi. Cavalieri che respingevano goblin affamati di fanciulle. Astuti braccianti che la facevano in barba ai troll. Leggeva qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano. Ma era appassionato soprattutto di storie di nani. «Hanno una storia lunga e nobile. E si danno molto da fare. Non se ne stanno sempre lì a pettinarsi e gingillarsi davanti allo specchio come fanno gli elfi. I nani sgobbano.» Michael aveva una bassissima opinione degli elfi. La fonte di questa passione era un libro intitolato “Il grande libro dei nani”, scritto da un certo G.G. Greenleaf. Quella prima mattina della loro vita nuova, senza genitori, Kate, salita in una camera sconosciuta, aveva scoperto il libro sotto le coperte di Michael. Aveva capito subito che era il regalo di Natale fatto dalla mamma a papà. Nel corso degli anni, Michael aveva letto e riletto il libro decine di volte. Per lui, Kate lo sapeva, era un modo di conservare un legame con un padre che ricordava appena. Così aveva cercato tante volte di convincere Emma a essere comprensiva quando Michael si lanciava in una delle sue lezioni improvvisate. Ma non era stato sempre facile. L’aria, nella grotta, era umida e sapeva di muschio, ma il soffitto era abbastanza alto perché Kate ed Emma potessero camminare con la schiena diritta.
Michael si trovava a tre o quattro metri di distanza dall’ingresso, inginocchiato accanto a una torcia. Era poco più che pelle e ossa e aveva gli stessi capelli castani e gli stessi occhi scuri della sorellina, anche se nel suo caso gli occhi erano nascosti dietro un paio di occhiali dalla montatura di metallo. La gente li prendeva spesso per gemelli, cosa che irritava Michael a non finire. «Io ho un anno di più» protestava. «Mi sembra abbastanza evidente.» Ci fu un lampo seguito da un ronzio, dopodiché la malconcia Polaroid di Michael sputò fuori una foto. Aveva trovato la macchina qualche settimana prima in un banco dei pegni di Baltimora, insieme a una decina di confezioni di pellicole che il negoziante gli aveva più o meno regalato, e da allora la usava per giocare all’esploratore, rammentando costantemente a Kate ed Emma quanto era importante documentare le scoperte. «Guardate.» Michael mostrò alle sorelle un sasso che aveva appena fotografato. «Secondo voi che cos’è?» Emma sbuffò. «Un sasso.» «La testa della vecchia ascia di un nano» disse Michael. «Ovviamente l’acqua l’ha rovinata. Queste non sono certo le condizioni ideali per la conservazione.» «Strano» commentò Emma. «Perché sembra proprio un sasso.» «Bene, basta così» disse Kate, vedendo che Michael cominciava ad alterarsi. Lo informò della signora che sarebbe venuta a conoscerli. «Andateci voi» replicò lui. «Io qui ho da fare.» Di solito gli orfani non vedevano l’ora di essere adottati. Sognavano che una coppia ricca e gentile li portasse con sé in una vita di agi e amore. Per Kate, suo fratello e sua sorella non era così. Anzi, non volevano nemmeno che li si chiamasse «orfani». «I nostri genitori sono vivi» dicevano Kate o Emma o Michael. «E un giorno torneranno a prenderci.» Ovviamente non avevano nulla a sostegno di questa convinzione. Erano stati lasciati all’Orfanotrofio Saint Mary sulle rive del fiume Charles, a Boston, una nevosa Vigilia di Natale di dieci anni prima e da allora i genitori non si erano più fatti vivi, né loro né qualsiasi altro parente. Non sapevano nemmeno che cosa significava la P del loro cognome. Eppure, in fondo al cuore, continuavano a credere che un giorno il padre e la madre
sarebbero ricomparsi. Questo unicamente perché Kate non aveva mai smesso di ricordare a Michael ed Emma la promessa, fatta dalla mamma quell’ultima notte, che un giorno sarebbero stati di nuovo una famiglia. Era una promessa che rendeva assolutamente inaccettabile l’idea di essere reclamati da un estraneo. Ma stavolta, purtroppo, c’erano altre considerazioni da fare. «La Crumley dice che questa è la nostra ultima possibilità.» Michael sospirò e lasciò cadere a terra il sasso. Poi raccolse la torcia e seguì le sorelle fuori dalla grotta. Negli ultimi dieci anni, i ragazzi erano stati in ben dodici orfanotrofi diversi. La permanenza più breve era durata due settimane. La più lunga era stata decisamente quella nel primo istituto, il Saint Mary. Quasi tre anni. Ma poi un incendio lo aveva distrutto, e aveva ucciso la Madre superiora, una donna gentile di nome suor Agatha che si era presa particolarmente a cuore i bambini, ma che aveva la brutta abitudine di fumare a letto. La partenza dal Saint Mary era stato l’inizio di un lungo percorso che li avrebbe portati da orfanotrofio a orfanotrofio. I bambini non facevano in tempo a sistemarsi in un posto che era già arrivato il momento di ripartire. Alla fine avevano smesso di sperare di fermarsi in un istituto per più di qualche mese, e a quel punto nemmeno cercavano di farsi degli amici. Avevano imparato a contare soltanto su loro tre. La ragione di tanti trasferimenti era che quei ragazzini, per dirla in gergo, erano «difficilmente piazzabili». Per adottarne uno, una famiglia doveva adottarli tutti e tre. Ma una disposta a adottarne tre in un colpo solo era una rarità e le varie signorine Crumley avevano poca pazienza. Kate sapeva che, se questa signora non li avesse presi, la signorina Crumley avrebbe citato l’episodio per dimostrare che, nonostante tutta la sua buona volontà, i tre erano un caso disperato, così sarebbero stati scaricati per l’ennesima volta in un altro orfanotrofio. La speranza di Kate era che, se tutti e tre si fossero comportati bene, anche nel caso in cui il colloquio fosse stato un fallimento, la Crumley ci avrebbe pensato due volte prima di mandarli via. Non che a loro l’Istituto Edgar Allan Poe piacesse granché. L’acqua era marrone. I letti erano duri. Se si mangiava troppo veniva il mal di stomaco, ma se si mangiava troppo poco il mal di stomaco arrivava lo stesso. No, il fatto era che col passar degli anni ogni nuovo orfanotrofio era stato
peggiore dell’altro. E sei mesi prima, quand’erano approdati lì, Kate aveva pensato: ecco, abbiamo toccato il fondo. Ma adesso le veniva un dubbio: e se fossero esistiti posti ancora peggiori? Non voleva scoprirlo. ______________________
Mezz’ora dopo, lavati e vestiti con gli abiti migliori (e «migliori» non significava granché), i ragazzini bussarono alla porta dell’ufficio della signorina Crumley. «Avanti.» Kate aveva Emma per mano e Michael alle calcagna. Li aveva istruiti dicendo: «Sorridete e parlate poco. Chissà, magari è una signora meravigliosa. E potremo stare con lei finché mamma e papà non torneranno». Ma quando vide quel donnone avvolto in un paltò fatto tutto di piume bianche, con in mano una borsetta a forma di cigno e in testa un cappello dal quale una testa di cigno si curvava all’insù come un punto di domanda, capì che non c’era niente da fare. «Immagino che siano trovatelli» disse la signora Lovestock, che, fatto un passo avanti, giganteggiava sopra di loro. «Ha detto che il cognome è P, vero?» «Sì, signora Lovestock» ridacchiò la signorina Crumley. Arrivava appena alla cintola di quella donna gigantesca. «Sono tre dei nostri migliori. Oh, gli sono tanto affezionata. Ma, per quanto possa essere doloroso separarmi da loro, sarei disposta a fare questo sforzo. Sapendo che andrebbero a stare in una famiglia così meravigliosa.» «Mmm.» La signora Lovestock si chinò a esaminarli e la testa di cigno si curvò all’ingiù con aria di curiosità. Kate, dando una rapida occhiata a Emma e Michael, vide i loro occhi fissi su quel pennuto. «Vi avverto» disse la signora Lovestock, «non mi piace per niente la baraonda che fanno i bambini. Non permetterò corse, urla, schiamazzi, il riso smodato, le mani e i piedi sporchi...» A ogni punto dell’elenco delle cose che non tollerava, la testa di cigno annuiva come per mostrarsi d’accordo. «... E non mi piace nemmeno che si parli troppo, né che ci si strofini le mani, né mi piacciono le tasche piene. Io li disprezzo, i bambini con le tasche piene.» «Oh, questi non hanno mai avuto niente in tasca. Posso assicurarglielo,
signora Lovestock» disse la signorina Crumley. «Niente di niente.» «Inoltre mi aspetto che...» «Che cos’è che ha sulla testa?» la interruppe Emma. «Prego?» La donna rimase interdetta. «Quella cosa che ha sulla testa. Cosa sarebbe?» «Emma...» l’ammonì Kate. «Io so che cos’è» intervenne Michael. «Non farlo.» «Sì che lo faccio.» «E allora che cos’è?» chiese Emma. La signora Lovestock si rivolse alla tremebonda direttrice dell’orfanotrofio. «Signorina Crumley, le dispiacerebbe spiegarmi cosa sta succedendo?» «Niente, signora Lovestock, assolutamente niente, le assicuro...» «È un serpente» disse Michael. Fu come se la signora Lovestock avesse ricevuto uno schiaffo. «Non è un serpente» disse Emma. «Sì, invece.» Michael stava esaminando il cappello della donna. «È un cobra.» «Ma se è tutto bianco.» «Probabilmente l’ha pitturato.» Si rivolse alla signora Lovestock. «È così? L’ha pitturato?» «Michael! Emma!» sibilò Kate. «State zitti!» «Chiedevo solo se l’aveva pitturato...» «Sst!» Per un lungo momento, o così sembrò, si udirono soltanto il ronzio del termosifone e il rumore che la signorina Crumley faceva giungendo e disgiungendo nervosamente le mani. «Mai, mai in vita mia...» disse infine la signora Lovestock. «Mia cara signora Lovestock...» tremolò la signorina Crumley. Kate sapeva di dover dire qualcosa. Se volevano avere qualche speranza di non farsi cacciare via, bisognava sistemare un po’ le cose. Ma proprio allora la donna pronunciò quella parola. «Capisco che ci si possa aspettare solo questo dagli orfani...» «Noi non siamo orfani» la interruppe Kate. «Prego?» «Gli orfani sono bambini con i genitori morti» spiegò Michael. «I nostri non sono morti.» «Verranno a riprenderci» aggiunse Emma. «Non ci badi, signora Lovestock. Non gli dia retta. Sono soltanto stupidaggini da orfani.»
La signorina prese la ciotola delle caramelle. «Vuole favorire?» La signora Lovestock la ignorò. «È così» insistette Emma. «Verranno a prenderci. Davvero.» «Ascoltatemi bene.» La signora Lovestock si chinò. «Io sono una donna comprensiva. Potete chiederlo a chi volete. Ma c’è una cosa che non tollero: le fantasie. Questo è un orfanotrofio. E voi siete orfani. Se i vostri genitori vi avessero voluti, non vi avrebbero abbandonati su una strada come foste spazzatura senza nemmeno lasciarvi un nome civile! P, ma tu dimmi! Dovreste essere grati che una persona come me sia disposta a perdonare la vostra disastrosa villania, e la vostra assoluta ignoranza sull’uccello acquatico più meraviglioso del mondo, e accettarvi in casa sua. Allora, cos’avete da dire a vostra discolpa?» Dall’altezza della cintola della signora Lovestock, arrivò a Kate l’occhiata di fuoco della signorina Crumley. Kate sapeva che, se non avesse chiesto scusa alla Signora dei Cigni, quasi sicuramente la Crumley li avrebbe spediti in un posto al cui confronto l’Istituto per Orfani Irrecuperabili e Senza Speranza Edgar Allan Poe sarebbe sembrata una località turistica di gran lusso. Ma qual era l’alternativa? Andare a vivere con una che si ostinava a dire che i loro genitori li avevano buttati via come spazzatura e non avevano alcuna intenzione di tornare? Strinse la mano della sorella. «Sa» disse, «in effetti sembra proprio un serpente.»
Capitolo 2 La vendetta della signorina Crumley † Il treno sobbalzò, svegliando Kate. Si era addormentata appoggiata al finestrino e aveva la fronte fredda. Dopo la fermata a New York a metà mattina, il treno aveva proseguito a nord lungo lo Hudson, oltrepassando Hyde Park, Albany e una decina di cittadine più piccole avvinghiate alla riva e Kate, ora che guardò fuori, vide che il ghiaccio si era insinuato fin sui margini del fiume e che il paesaggio in cui viaggiavano era ondulato di colline coperte di neve e punteggiate qua e là di cascine. Erano partiti da Baltimora la mattina presto. La signorina Crumley li aveva accompagnati personalmente alla stazione. «Bene, spero che nel prossimo istituto vi comportiate meglio.» I bambini erano in piedi sulla banchina, ciascuno con in mano una borsa con dentro i vestiti e qualche effetto personale. Kate aveva previsto che la signorina Crumley non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di un’ultima ramanzina. «Ho detto al direttore del vostro nuovo orfanotrofio, il dottor Pym, credo che si chiami così, sì, dottor Stanislaus Pym, che da grandi probabilmente diventerete criminali e assassini e lui ha risposto che era proprio in cerca di ragazzini del genere. Ah-ah! Posso immaginare cosa vi aspetta.» Erano passate due settimane dal disastroso colloquio con la signora Lovestock. La signorina Crumley si era messa subito in contatto con tutti gli orfanotrofi che conosceva cercando un posto qualsiasi che accettasse i tre. Solo qualche giorno prima, Kate, davanti al suo ufficio, l’aveva sentita implorare al telefono: «Lo so che il vostro è un rifugio per animali. Ma vi assicuro che questi bambini non hanno bisogno di molto». Poi era arrivata la telefonata da un orfanotrofio disposto ad accettarli. «Dov’è che andiamo?» chiese Kate. «Cambridge Falls. So solo che è su, vicino al confine. Non ci sono mai stata.» «Sarà bello?» «Se sarà bello?» La signorina Crumley soffocò una risata come se da un pezzo non sentisse una battuta tanto divertente. «Oh, direi di no. No, no, neanche un po’. Bene, qui ci sono i biglietti del treno. Prenderete quello per Westport. Dovrete andare al primo molo subito
dopo la banchina principale. Da lì attraverserete il lago in traghetto. Il dottor Pym ha detto che una persona verrà a prendervi sull’altra sponda. Su, andate. Me ne lavo le mani, di voi.» I bambini montarono a bordo, trovarono uno scompartimento vuoto e si sistemarono. Vedevano la signorina Crumley che, dalla banchina, li teneva d’occhio. «Guardala» disse Emma. «Non se ne va perché vuole esser sicura che partiamo davvero. Quanto mi piacerebbe darle un cazzotto, solo per una volta.» Chiuse le mani a pugno. «Qualcuno vuole una caramella?» Le sorelle fecero tanto d’occhi. Michael aveva in mano un sacchetto di plastica che scoppiava di caramelle. Alzò le spalle. «Ieri sera sono entrato di nascosto nel suo ufficio.» Sulla banchina, la signorina Crumley guardò con soddisfazione il treno che cominciava a muoversi. Ma tornando all’orfanotrofio fu turbata dal ricordo della teppistella più piccola, Emma, che faceva la linguaccia mentre il treno partiva. Era pronta a giurare che la ragazzina avesse appena mangiato una liquirizia. Ma era assurdo. Dove poteva averla presa, lei, una liquirizia? ______________________
Quando si erano fermati ad Albany, Kate era saltata giù e con i pochi soldi che aveva in tasca si era procurata dei panini al formaggio, che i bambini mangiarono mentre il treno li portava a nord e il paesaggio si faceva sempre più ondulato. Consumato il pasto, Michael ed Emma andarono a esplorare il treno, mentre Kate si mise comoda lasciando chiudere le palpebre. Si addormentò quasi subito. Sognò di essere davanti a una grande casa di pietra. Era imponente, buia e minacciosa, e lei non voleva proprio entrarci. Ma poi, improvvisamente, ci si ritrovava dentro, a scendere una scala poco illuminata. Arrivata in fondo, spingeva una porta che immetteva in uno studio. Apparentemente era uno studio normalissimo: scrivania, sedie, caminetto, librerie. Ma ogni volta che lei si girava, l’ambiente si trasformava. Le pareti arretravano.
I libri si rimescolavano. Le sedie cambiavano posto. E Kate fu colta da una paura terribile, angosciosa. Era un posto pericoloso. Pericolosissimo, per lei e per suo fratello e sua sorella. Fu allora che il treno mandò uno scossone e lei si svegliò, con la testa contro il vetro freddo del finestrino. Sentì il bisogno irrefrenabile di vedere Michael ed Emma, così si alzò dal sedile e corse a cercarli. Kate era l’unica dei tre ad avere veri e propri ricordi della madre e del padre; quelli di Michael, sui quali lui ogni tanto ricamava, erano solo vaghe reminiscenze. Kate ricordava nettamente una bella donna dalla voce delicata e un uomo alto con i capelli castani. E ricordava anche la casa in cui erano vissuti, la sua camera da letto, un Natale... Rivedeva ancora il padre seduto sul suo lettino, a leggerle una storia, anche se non ricordava quale. Nel corso degli anni aveva cercato per ore e ore di recuperare pezzi di quell’altra vita, ma quando finalmente era riaffiorato un ricordo era sempre successo per caso. Un modo di dire, un odore, il colore del cielo facevano scattare qualcosa e Kate ricordava di colpo la mamma che preparava la cena, che camminava per strada con papà, mano nella mano: frammenti dei tempi in cui erano tutti una famiglia. Ma il ricordo più netto, che non l’abbandonava mai, era quello della notte in cui lei, Michael ed Emma erano stati mandati via. Sentiva ancora sulla guancia i capelli della mamma, le sue mani che le mettevano al collo il medaglione, e udiva la sua voce sussurrare che le voleva bene quando le aveva fatto promettere di proteggere il fratello e la sorella. E Kate aveva mantenuto la promessa. Aveva protetto il fratello e la sorella, anno dopo anno, orfanotrofio dopo orfanotrofio, per poter dire un giorno, quando i genitori sarebbero tornati: «Visto? Ce l’ho fatta. Sono sani e salvi». Trovò Michael ed Emma nella carrozza ristorante, seduti al banco a trangugiare doughnut e cioccolata calda, che la cameriera gli aveva offerto gratis. «Me n’è venuto in mente un altro» disse Michael, con un sorriso glassato da clown dipinto in faccia. «Pugwillow.» «Pugwillow» ripeté Kate. «È un nome?» «No» disse Emma.
«Se l’è inventato.» «E allora?» ribatté Michael. «Può sempre essere un nome.» Una delle principali attività dei bambini, negli ultimi dieci anni, era stata quella di fare ipotesi sul significato della P del loro cognome. Avevano escogitato migliaia di possibilità: Peters, Paulson, Plainview, Puget, Pickett, Plukowsky, Paine, Pone, Platte, Pike, Pabst, Packard, Padamadan, Paddison, Paez, Paganelli, Page, Penguin (da lungo tempo il preferito di Emma), Pasquale, Pullman, Pershing, Peet, Pickford, Pickles e tanti, tantissimi altri. La speranza era che il nome giusto potesse rinfrescare la memoria a Kate, che lei, udendolo, esclamasse di colpo: «Sì, è questo! Ci chiamiamo così!» e potessero usarlo come indizio per trovare i genitori. Ma non era mai successo. Kate scosse la testa. «Mi dispiace, Michael.» «Non importa. Probabilmente non è nemmeno un nome vero.» Arrivò la cameriera a rabboccare di cioccolata calda le tazze e Kate le chiese cosa sapeva di Cambridge Falls. La donna rispose che quel posto non lo aveva mai sentito nominare. «Probabilmente non esiste neanche» disse Emma dopo che la cameriera si fu allontanata. «Scommetto che la Crumley ha cercato solamente di farci fuori. Spera che ci derubino, o che ci ammazzino.» «È molto improbabile che ci ammazzino tutti e tre» osservò Michael, bevendo rumorosamente la sua cioccolata. «Uno, però, potrebbero ammazzarlo.» «D’accordo, puoi farti ammazzare tu» disse Emma. «No, puoi farti ammazzare tu.» «No, tu.» «No, tu.» Si misero a ridacchiare, Emma dicendo che un assassino, vedendo Michael, non avrebbe resistito, avrebbe dovuto ammazzarlo per forza, anzi, avrebbe potuto ammazzarlo due volte, e Michael ribattendo che probabilmente c’erano schiere di assassini ad aspettare Emma alla fermata e che forse stavano tirando a sorte chi avrebbe dovuto svolgere il compito... Kate li lasciò fare. Il medaglione che sua madre le aveva dato portava incisa sull’esterno l’immagine di una rosa. Kate aveva preso il vizio di strofinare la custodia di metallo fra il pollice e l’indice quando era inquieta e con gli anni la rosa si era quasi cancellata. Aveva cercato di smettere, ma non c’era riuscita, e anche in quel momento
strofinò il medaglione chiedendosi che razza di posto era quello in cui la Crumley li stava mandando. ______________________
Westport era una cittadina appollaiata sulle sponde del lago Champlain. In vista del Natale, sui lampioni serpeggiavano ghirlande e sopra le vie erano appese file di lucine. I ragazzi trovarono senza difficoltà la banchina principale e poi il molo. Quanto a trovare qualcuno che avesse sentito nominare Cambridge Falls, be’, era tutt’altra storia. «Cambridge che?» sbraitò un uomo strabico e dalla faccia grigia, di un’età compresa fra i cinquanta e i centodieci anni. «Cambridge Falls» ripeté Kate. «È sull’altra sponda del lago.» «Non di questo lago. Lo saprei. È una vita che ci navigo.» «Ve l’avevo detto» borbottò Emma. «Quella cretina della Crumley sta cercando di farci fuori.» «Andiamo» disse Kate. «È quasi ora di imbarcarsi.» «Sì. Di imbarcarsi per il nulla.» Il molo, lungo e stretto, aveva molte assi rotte o marce e scavalcava lo strato di ghiaccio arrivando nel lago aperto; i ragazzi lo percorsero fino in fondo e poi si accovacciarono lì, avvolgendosi ben bene nel cappotto, e si strinsero l’uno addosso all’altro come pinguini per difendersi dal vento gelido che soffiava dal lago. Kate stava osservando il sole. Era tutto il giorno che viaggiavano e di lì a poco sarebbe scesa la sera e aumentato il freddo. Nonostante le parole di Emma sulla signorina Crumley e sul viaggio presumibilmente a vuoto che li aveva costretti a fare, e nonostante il fatto che nessuno avesse mai sentito parlare di Cambridge Falls, Kate era ancora convinta che il traghetto sarebbe arrivato. La cattiveria della signorina Crumley era fatta di pizzicotti, tirate di capelli e rievocazioni quotidiane della loro spregevolezza. Mandare via tre ragazzini nel cuore dell’inverno perché si perdessero nel nulla esulava dalle intenzioni di quella donna meschina. O, almeno, così si ripeteva Kate. «Guardate» disse Michael. Uno spesso banco di nebbia rotolava sulla superficie del lago verso riva. «Come fila.»
Non fece in tempo a dirlo che era già arrivato. I ragazzi, che erano seduti sulle loro borse, si alzarono in piedi a fissare quella massa grigia. Perle di condensa si raccolsero sui cappotti. Regnavano calma e silenzio. «Che strano» disse Emma. «Sst» sibilò Michael. «Non farmi sst! Razza di...» «No, ascoltate.» Era il ronzio di un motore. Sbucando dalla nebbia, si materializzò il traghetto, che puntò dritto verso di loro. Mentre si avvicinava, il timoniere, chiunque fosse, fece macchina indietro e poi spense il motore: il traghetto proseguì senza far rumore. Era un’imbarcazione piccola e larga, e sullo scafo di legno la vernice nera era tutta scrostata. A bordo c’era soltanto un uomo. Con la cima fece abilmente un nodo attorno a un pilone. «Voi tre dovete andare a Cambridge Falls?» L’uomo aveva una folta barba nera e gli occhi tanto incassati da essere quasi invisibili. «Vi ho chiesto se dovete andare a Cambridge Falls.» «Sì» disse Kate. «Cioè... sì.» «Salite a bordo, allora. Dobbiamo far presto.» Dopo, fra i tre ci furono discussioni su quanto era durato il viaggio. Secondo Michael mezz’ora, Emma era certa che fosse durato solo cinque minuti e a Kate era sembrata almeno un’ora. Forse due. Era come se la nebbia avesse tirato brutti scherzi non soltanto alla vista ma anche al senso del tempo. Di una sola cosa erano sicuri: a un certo punto era sbucata dalla nebbia una scura striscia di costa e, quando si erano avvicinati, erano riusciti a distinguere un molo e una figura d’uomo in attesa. Il capitano lanciò all’uomo una cima. Kate vide che era vecchio e aveva la barba bianca e ben curata, un completo marrone vecchio ma anch’esso ben curato e mani piccole e altrettanto ben curate; perfino il piccolo cranio pelato sembrava aver perso i capelli per favorire l’impressione di lindura. Non perse tempo a dare il benvenuto ai bambini. Prendendo le borse di Michael ed Emma, disse: «Da questa parte» e percorse il molo da zoppo esperto. Michael ed Emma, aiutandosi con le mani, misero i piedi a terra; Kate stava
per seguirli quando sentì un tocco sulla spalla. Era il capitano. «State attenti, in quel posto là. Tieni d’occhio tuo fratello e tua sorella.» Prima che lei avesse il tempo di chiedergli spiegazioni, il capitano aveva mollato gli ormeggi e stava già scostandosi dalla riva, costringendola a fare un salto per arrivare sul molo. «Sbrigati!» disse la voce che arrivava dalla nebbia. «Dai!» gridò Emma. «Devi venire a vedere cosa c’è qui!» Kate non si mosse. Se ne stette lì, a guardare la barca svanire nel grigiore, resistendo all’impulso di richiamarla indietro, prendere il fratello e la sorella, tornare a Baltimora e dire alla Crumley che sarebbero andati a vivere con la Signora dei Cigni. Fu afferrata per un braccio. «Dobbiamo sbrigarci» disse il vecchio. «Non c’è molto tempo.» Le prese di mano il bagaglio e la trascinò sul molo fino al calesse sul quale Michael ed Emma erano già seduti, entrambi con un sorrisone in faccia. «Guarda» disse Emma puntando il dito. «Un cavallo.» Il vecchio aiutò Kate a montare accanto al fratello e alla sorella, poi saltò agilmente al posto di guida, schioccò le briglie e, con uno scossone che indusse i bambini ad aggrapparsi ai fianchi del calesse, partirono. Quasi subito la strada cominciò a salire e, man mano che si inerpicavano nella nebbia via via più rada, l’aria tornava fredda e frizzante. Viaggiavano da pochi minuti quando Michael lanciò un grido di sorpresa. Kate si girò e, se Michael ed Emma non fossero stati lì a vedere la stessa cosa, non avrebbe creduto ai suoi occhi. Davanti a loro si ergevano le cime scoscese di una grande catena montuosa. Ma non era possibile! Da Westport avevano visto, in lontananza, soltanto delle colline tondeggianti; queste invece erano vere e proprie montagne dai denti di roccia, imponenti e minacciose. Kate si sporse in avanti, non senza difficoltà, dal momento che la strada era ripida e il calesse sobbalzava sulle asperità dello sterrato. «Signore...» «Mi chiamo Abraham, ragazzina. Lascia perdere il ’signore’.» «Be’...» «Vuoi sapere perché non hai visto le montagne da Westport.» «Sì, sign... Abraham.» «La luce riflessa dal lago può tirare brutti scherzi, di pomeriggio. Inganna la vista. Adesso rimettiti giù bene seduta. Manca ancora un’ora e dovremo
sbrigarci, se vogliamo arrivare prima che faccia buio.» «Cosa succede quando fa buio?» chiese Michael. «Lupi.» «Lupi?» «Arriva il buio ed escono i lupi. Adesso mettetevi bene seduti.» Emma bisbigliò: «La odio, la signorina Crumley». Man mano che si saliva, il paesaggio si faceva brullo e spoglio. A differenza della campagna attorno a Westport, lì c’erano pochi alberi. La terra era sassosa, arida, desolata. Alla fine, quando il sole era ormai scivolato dietro le montagne striando di rosso il cielo e Kate era certa di vedere in tutte le ombre lupi in agguato, la strada curvò su un valico fra due cime, il vecchio gridò: «Stiamo arrivando a Cambridge Falls» e là, davanti a loro, comparve una valle tortuosa, digradante, con in mezzo un fiume che scorreva come una vena dalle montagne soprastanti. La cittadina era annidata sulla sponda più vicina del fiume e la strada li condusse giù in una via di case e negozi. Altre case, separate da muri di pietra serpeggianti e semi diroccati, costellavano il pendio. Eppure quasi tutte le finestre erano buie, appena una decina di comignoli mandavano fumo e le poche persone che incrociarono andavano di fretta, a testa china. «Che succede, qui?» mormorò Emma. Abraham schioccò forte le briglie, costringendo il cavallo al trotto. Al fiume, ampio e grigioverde, sia la strada sia la cittadina finivano e il vecchio guidò il calesse lungo la riva, seguendo dei solchi di ruota lasciati di fresco nella neve. «Dov’è l’orfanotrofio?» chiese Michael. «Sull’altra riva del fiume.» «E com’è il dottor Pym?» Abraham non rispose subito. Poi disse: «Diverso». «Diverso come?» «Diverso e basta. Ma tanto lo si vede poco. Facciamo quasi tutto io e la signorina Sallow.» «Quanti bambini ci abitano?» chiese Emma. «Compresi voi tre?» «Sì.» «Tre.» «Tre? Che razza di orfanotrofio è, se ha solo tre bambini?» Era una domanda più che legittima, che si meritava una risposta, ma in quel momento stavano passando sull’orlo di una forra, a più di cento metri sopra
il fiume, le sponde si erano fatte sempre più ripide, da quando erano usciti dalla città, e proprio nel momento in cui Emma pose la domanda, il calesse sbandò sul sentiero ghiacciato, arrivando in scivolata fino all’orlo del precipizio. «Dobbiamo proprio correre così?» chiese Kate, mentre i bambini si aggrappavano più forte ai fianchi del calesse. «Guardate in alto» disse Abraham. Nel cielo, il rosso era sbiadito lasciando del nero livido, bluastro. Mancava appena qualche istante al buio. Il vecchio imboccò un ponticello. Mentre gli zoccoli battevano sui sassi ghiacciati, i ragazzi guardarono il fiume che scorreva impetuoso giù nella forra. Poi arrivarono sull’altra sponda, dove Abraham spronò il cavallo su per un sentiero serpeggiante. «Ci siamo quasi!» Kate provava un’orribile sensazione. Quel posto aveva qualcosa che non andava. Qualcosa al di là dell’assenza di persone, di alberi, di vita. «È questo il posto?» disse Emma. Avevano girato attorno a una collina e adesso erano davanti alla casa più grande che i bambini avessero mai visto. Era fatta di pietra grigia ed era tutta storta e pendente, con la superficie del tetto irregolare e irta di comignoli. Aveva torrette agli angoli e finestre alte e buie. Poche erano le luci accese al pianterreno. Agli occhi di Kate, la casa era acquattata sul pendio come una grande belva scura. Abraham schioccò di nuovo le briglie e incitò il cavallo. Proprio in quel momento si udì l’ululato di un lupo. Poi se ne unirono altri. Ma arrivavano da lontano e il calesse stava ormai accostando davanti alla casa, la stessa casa che Kate, ne era certa, aveva visto in sogno.
Capitolo 3 Il re e le regine di Francia † «Dormiamo ancora, eh? Il re e le regine di Francia hanno bisogno di un buon sonno per mantenersi belli, vero? Devono poltrire tutto il giorno mentre gli altri sgobbano. È così che si fa nella scintillante Parìs?» Kate aprì gli occhi. La signorina Sallow, la vecchia cuoca governante dalla schiena di granchio, con uno strattone stava scostando le tende per far entrare il mattino. Emma emise un lamento a fior di labbra. Michael rintanò la testa sotto le coperte. Erano stati alloggiati in una camera da letto al quarto piano. Dalle finestre, Kate vedeva la cittadina di Cambridge Falls sull’altra sponda del fiume. La vecchia, prima di uscire, tirò giù le coperte a Michael. «A colazione fra cinque minuti, vostre maestà.» Dalla sera prima, quand’erano arrivati, la signorina Sallow li aveva accusati almeno una ventina di volte di comportarsi come se fossero «il re e le regine di Francia». Come le fosse venuto in mente che avessero un’opinione tanto alta di sé era un mistero. Non avevano fatto in tempo a entrare in casa che lei li aveva già rimproverati di essere in ritardo. «Ce la siamo presa comoda, eh? Forse le damigelle e il gentiluomo si aspettavano una carrozza con quattro bei cavalli rampanti? Torta e cioccolatini per il viaggio?» Indossava un vecchio maglioncino rosso bucato sui gomiti e un paio di scarponi da uomo senza calze. I capelli, grigi, erano coperti da un berretto di maglia. Senza aspettare risposta, aveva afferrato le borse di Kate ed Emma. «Ho preparato la cena. Dubito che possa essere all’altezza del palato sopraffino del re e delle regine di Francia, ma toccherà accontentarsi. Tagliatemi pure la testa, se non vi piace, non me ne importa niente. Per di qua, vostre maestà.» Mangiarono in cucina, a un tavolo di legno. La signorina Sallow intanto strascicava i piedi da una parte all’altra, sbatacchiando padelle e lamentandosi dei vari difetti di carattere che i ragazzi condividevano con la famiglia reale francese. Ciò nonostante, la signorina Sallow servì le pietanze più gustose che i ragazzi avessero mangiato negli ultimi anni.
Pollo arrosto, patate, una piccolissima razione di fagiolini, dolce di riso caldo. Se il prezzo di una cena così era farsi dare del re e delle regine di Francia, Kate, Michael ed Emma erano ben contenti di pagarlo. Quand’ebbero mangiato tutto il possibile, la signorina Sallow sbraitò: «Abraham!» E dopo qualche istante il vecchio entrò zoppicando in cucina. «Bene, hanno cenato» disse Abraham, guardando i piatti ripuliti e l’espressione un po’ appannata di sazietà sulla faccia dei ragazzi. «Uh, lei è proprio perspicace, Abraham» commentò la vecchia. «Non le sfugge mai niente, eh?» «Stavo solo facendo un’osservazione, signorina Sallow.» «E ringraziamo il cielo, perché come faremmo senza le sue acutissime analisi? Bene, adesso crede di poter condurre le loro maestà ai loro appartamenti o ci sono altre osservazioni illuminanti che sente il bisogno di comunicare?» «Da questa parte, ragazzi» disse Abraham. Li accompagnò su per quattro scale diverse e lungo corridoi bui e tortuosi. La lampada a gas che aveva in mano zoppicava al ritmo della sua andatura. Emma era pesantemente appoggiata a Kate, e Michael, già mezzo addormentato, inciampò in ben due tavoli, una lampada e un orso imbalsamato. Quando furono nella camera da letto, Abraham attizzò un fuoco abbastanza grande perché durasse tutta la notte. «Adesso state bene a sentire» li avvertì, «non andate a gironzolare per queste stanze, di notte. Altrimenti vi faran perdere la strada e non saprete più tornare, così poi dovrete chiamare la signorina Sallow per farvi venire a prendere. E a quel punto, ragazzi, rimpiangerete di essere tornati.» Fece per uscire, ma poi si fermò e tornò indietro. «Quasi dimenticavo. Vi ho portato questa.» Tirò fuori dalla tasca una vecchia fotografia in bianco e nero e la porse a Kate. Raffigurava un grande lago e, in lontananza, case con tetti pieni di comignoli che svettavano sopra gli alberi. Lei la passò a Michael, che senza aprire gli occhi la infilò nelle pagine del suo quaderno. «L’ho scattata quasi quindici anni fa. Ricordate la forra che abbiamo costeggiato? Lì una volta c’era una diga; chiudeva il fiume e formava un lago che andava da questa casona qui alla città.» «Una diga?» chiese Michael con uno sbadiglio. «Perché la città aveva bisogno di una diga?» «Che noia» borbottò Emma, e si avvicinò alla finestra.
Abraham, per nulla scoraggiato, spiegò: «Be’, per costruire un canale che arrivasse al fondovalle. Cambridge Falls campava di industria mineraria, si estraevano minerali da quelle montagne là. Ormai non c’è più niente; ma una volta questo posto era diverso, non era male. Gli uomini lavoravano. La gente era socievole. Le colline erano coperte d’alberi. I bambini...» Si interruppe. «I bambini...?» chiese Kate. E improvvisamente, nonostante la stanchezza, le venne in mente che attraversando la città non avevano visto nemmeno un bambino. Abraham sventolò la mano come per lasciar cadere l’argomento. «Niente. È tardi e il mio vecchio cervello fa confusione. Quella foto vi serve solo per sapere che la vostra nuova casa non è sempre stata un posto così tetro e sinistro. E adesso buonanotte, e non andate a curiosare in giro.» Prima che Kate avesse il tempo di strappargli altro, si era già trascinato fuori dalla porta. Lasciati soli, Michael ed Emma si addormentarono immediatamente, mentre Kate rimase a lungo sveglia, a guardare sul soffitto la luce del fuoco e a farsi domande sul segreto che Abraham custodiva. La paura provata la prima volta che aveva visto la casa le si era stretta attorno al cuore come freddo metallo. Alla fine il viaggio, la cena abbondante, il calore del fuoco, tutto la sopraffece, e sprofondò in un sonno inquieto. ______________________
Cercando la cucina, i ragazzi si persero. Finirono in una stanza del secondo piano che un tempo doveva essere stata una pinacoteca o un campo da tennis coperto. Erano affamati e avviliti. «I nani hanno un senso dell’orientamento eccezionale» disse Michael. «Non si perdono mai.» «Magari tu fossi un nano» disse Emma. Michael convenne che sarebbe stato bello. «Sentite odore di bacon?» chiese Kate. Seguendo l’odore, dieci minuti dopo i ragazzi trovarono la cucina, dove la signorina Sallow si dichiarò onorata che l’imperatore e le imperatrici (per una ragione o per l’altra, avevano ottenuto una promozione) avessero creduto opportuno omaggiarla della loro presenza e disse che, la prossima volta che avessero tardato, gli avrebbe servito cibo per cani. «Dobbiamo imparare a orientarci» disse Michael, addentando una pila
intera di pancake. Kate ed Emma si mostrarono d’accordo e, dopo colazione, tutti e tre tornarono in camera, dove Michael rovistò nella borsa finché trovò due torce, la macchina fotografica, carta e matite per disegnare le mappe, un coltellino, un compasso e una gomma. «Bene, mi sembra chiaro che dovrò guidare io la spedizione.» «A me non sembra chiaro. Dovrebbe guidarla Kate. È lei la più grande.» «Ma io ho più esperienza di tutti, nelle esplorazioni.» Emma sbuffò. «Esplorazioni! Cioè quando vai a frugare nella terra e dici: “Guarda che sasso! Facciamo finta che sia di un nano! Mi piace da morire!”» Kate disse che Michael poteva benissimo guidare la spedizione e lui disse che Emma poteva portare la bussola, in fondo l’unica cosa che le interessava. Nelle molte ore che seguirono, scoprirono una sala della musica con un vecchissimo pianoforte scordato; una sala da ballo con i lampadari crollati a terra e ormai ricoperti di ragnatele; una piscina interna senz’acqua; una biblioteca su due livelli, con una scala scorrevole che crollò con uno schianto quando Emma cercò di salirci sopra; una stanza da gioco con un tavolo da biliardo nelle cui buche alloggiavano famiglie di topi; e infine camere da letto, camere da letto e ancora camere da letto. Intanto Michael annotava diligentemente sul quaderno tutte le nuove scoperte. Arrivarono in cucina in tempo per il pranzo e la signorina Sallow servì tramezzini al tacchino con chutney di mango e, evidentemente in onore della loro visita, patatine fritte alla francese. Dopo pranzo, i ragazzi decisero di andare a vedere le cascate, dal momento che dopo tutto erano loro a dare il nome a Cambridge Falls. Così, con la pancia piena, uscirono, attraversarono il ponticello e, camminando nella neve, costeggiarono la forra. Di lì a poco udirono un gran frastuono e, quando arrivarono su una piccola altura, il terreno terminò bruscamente in un dirupo. I ragazzi si ritrovarono davanti un ampio bacino. In lontananza videro la distesa grigiazzurra del lago Champlain, con il nodo scuro di Westport che ne abbracciava le sponde. E là, ai loro piedi, il fiume si riversava giù per la forra con un tuffo di centinaia di metri. Stordiva starsene lì, in mezzo al rimbombar dell’acqua, con gli spruzzi che arrivavano freddi sulla faccia. Emma tenne Michael per il didietro del cappotto mentre lui si chinava a fare una foto all’acqua nel burrone. I ragazzi restarono a lungo sdraiati a pancia in giù nella neve, a guardare il fiume ruzzolare giù dal precipizio.
Kate sentiva la neve sciogliersi nel cappotto, ma non voleva muoversi. La vaga sensazione di pericolo provata all’arrivo non le era passata. E si faceva tante domande. Che cos’era successo a quella città? Che cosa aveva ucciso gli alberi? E reso così poco socievoli gli abitanti? Perché da Westport non avevano visto le montagne? Dov’era il misterioso dottor Pym? E perché, questo, soprattutto, la turbava, non si vedeva neanche un bambino? «Bene, squadra.» Michael si alzò in piedi e si ripulì il cappotto dalla neve. «Meglio tornare.» Da quando si era messo a capo della spedizione, chiamava Kate ed Emma «squadra». «Prima di cena voglio vedere ancora delle stanze. E ho sentito la signorina Sallow parlare di tortino di manzo.» Rientrati in casa, scoprirono una stanza piena soltanto di orologi, un’altra cui mancava il soffitto e un’altra ancora senza pavimento. Poi scoprirono la stanza con i letti. Era al pianterreno dell’ala sudoccidentale. C’erano almeno sessanta vecchi telai di letto in metallo, tutti in file ordinate. «È un dormitorio» disse Michael. «Come un vero orfanotrofio.» Ma quando aprirono le tende, videro che alle finestre c’erano delle sbarre di ferro. Non si fermarono a lungo lì dentro. Era quasi l’ora di cena quando scesero una rampa di scale e, attraverso una porta mezzo marcia, entrarono nella cantina. L’aria era fredda e puzzava di muffa. I raggi delle torce attraversarono file e file di rastrelliere vuote. Michael trovò in fondo alla cantina uno stretto corridoio, che seguì fino a un muro di mattoni, dove si interrompeva. Aveva appena fatto dietro front quando Emma e Kate sbucarono da dietro l’angolo. «Cos’hai trovato?» chiese Emma. «Niente.» «E quella lì dove porta?» «Quella lì cosa?» «Sei cieco? Quella.» Michael si girò. Là dove qualche istante prima aveva visto un solido muro di mattoni, adesso c’era una porta. Si sentì mancare il fiato e il cuore cominciò a martellargli nel petto. «Che cos’hai?» chiese Kate. «Niente, solo che...» Michael si sforzò di dominare la voce.
«Un secondo fa quella porta non c’era.» «Eh?» «Scherza» disse Emma. «Sta giocando all’esploratore, quel gioco barbosissimo dei nani che diventano reali, ti ricordi?» «È così?» chiese Kate. «È solo un gioco?» Michael stava già per risponderle che no, era la verità; poi le vide negli occhi quell’espressione e capì che, se le avesse detto così, lei li avrebbe fatti tornare indietro. E del resto cosa poteva dire? Che quella porta si era materializzata dal nulla? Era impossibile. Evidentemente, chissà come, gli era sfuggita. Solo che non gli era sfuggita. Lo sapeva... «Michael?» «Sì. Stavo giocando.» E sorrise per farle capire che era tutto a posto. «Te l’avevo detto che si comportava in modo strano» fece Emma. «Guarda come sorride.» La porta cedette facilmente, aprendosi su una stretta rampa di scale che scendeva. Michael fece strada, contando ogni gradino a voce alta. Venti, ventuno, ventidue... quarantatré, quarantaquattro, quarantacinque... cinquanta... sessanta... settanta. All’ottantaduesimo gradino arrivarono a un’altra porta. Michael si fermò e si rivolse alle sorelle. «Devo confessarvi una cosa. Prima ho detto una bugia. La porta non c’era.» «Ma cosa...» «Mi dispiace. I capi non dovrebbero mai mentire alla loro squadra. Ma volevo assolutamente venire a vedere cosa c’era qua sotto.» Kate scosse la testa con rabbia. «Dobbiamo andarcene. E subito.» Emma sbuffò. «Ma si è solo rimesso a giocare. Diglielo.» «Piantatela, tutti e due!» «Kate...» Michael salì un gradino per avvicinarsi a lei. «Per favore.» Tempo dopo, ogni tanto Kate avrebbe ripensato proprio a quel momento, di tutti i momenti che c’erano stati, chiedendosi che cosa sarebbe potuto succedere se non si fosse arresa, se guardando Michael non avesse visto nei suoi occhi il desiderio, l’entusiasmo, la supplica... «D’accordo» sospirò, dicendosi che, alla luce fioca della cantina, Michael semplicemente non aveva visto la porta e non c’era bisogno di allarmarsi. «Cinque minuti.» Michael posò subito la mano sulla maniglia.
La porta si aprì sul buio. Avanzarono divisi, Kate ed Emma da una parte e Michael dall’altra, con le torce che rivelavano un laboratorio o una specie di studio. Il soffitto curvo dava la sensazione di essere in una grotta e lo spazio era enorme o piccolissimo o di dimensioni normali. Ogni volta che si giravano, sembrava che le pareti si fossero spostate. C’erano libri e fogli dappertutto, ammucchiati per terra, sui tavoli, accatastati su scaffali. C’erano armadietti stipati di bottiglie e lunghi strumenti d’ottone con viti e quadranti. Kate trovò un mappamondo ma, quando lo ruotò, i paesi sembrarono cambiare, assumendo forme che non riconobbe. Se le lampade o il fuoco fossero stati accesi, Kate avrebbe potuto capire prima che stanza era. Invece si aggirò incerta al buio, contando i secondi che mancavano al momento di uscire. «Guardate qua» disse Emma. Era davanti a una fila di vasi di vetro e ne indicava uno. Kate si chinò. Una minuscola lucertola dai lunghi artigli era sospesa in un liquido ambrato. Ripiegate sul dorso c’erano un paio di sottilissime ali. Dall’altra parte della stanza, Michael sollevò la macchina fotografica. Proprio mentre scattava la foto, udì Kate alle sue spalle dire qualcosa che assomigliava a: «Oh, no». La macchina sputò fuori la fotografia e Michael la sventolò per asciugarla, battendo le palpebre nel tentativo di cancellare le macchie nere che gli impedivano la vista. Aveva fotografato un vecchio libro trovato sulla scrivania. Era rilegato in pelle verde e le pagine erano tutte bianche. Kate cominciò ad aver fretta e trascinò via Emma fra le sue proteste. «Dobbiamo uscire di qui.» «Guardate.» Michael usò la mano libera per sfogliare il libro. «Le pagine sono tutte bianche. Come se le avessero pulite.» «Michael, non dovremmo essere qui. Non sto scherzando.» La foto era asciutta, e Michael la infilò nel quaderno. Così facendo trovò quella che Abraham gli aveva dato la sera prima, quella del lago con la cittadina in lontananza. «Hai sentito o no?» disse Kate. «Non dovremmo essere qui.» «Mollami!» Emma stava cercando di liberarsi dalla stretta di Kate.
«Avevi detto cinque minuti. E poi è solo uno studio. Questo probabilmente è un vecchio album di fotografie. Vedi?» Mentre Michael abbassava la mano che teneva la foto di Abraham, Kate gli afferrò il braccio. Stava per dire qualcosa di un sogno che aveva fatto. Ma nel momento preciso in cui la foto di Abraham toccò la pagina bianca, il pavimento scomparve sotto i loro piedi.
Capitolo 4 La contessa di Cambridge Falls † Ma è... porca miseria... be’, evidentemente...» «Michael, stai bene?» «... non c’è altra... insomma, è successo, siamo...» «Michael...» «... porca miseria...» «Michael!» «Che c’è?» «Stai bene?» «Sto...? Ah, sì, sto bene.» «Emma?» «Sto bene. Credo.» Erano sulle sponde di un grande lago calmo. In lontananza, sopra i pini, svettavano comignoli e tetti a punta. Era una limpida giornata estiva. Kate sentiva il profumo dei fiori sbocciati. «Che cosa... è successo?» chiese Emma. «Dove siamo?» «Io conosco la risposta.» Michael aveva il viso acceso di entusiasmo e le parole si accavallavano tutte. «Siamo nella foto di Abraham! Be’, non proprio nella foto, sarebbe assurdo...» Si concesse un piccolo schiocco della lingua. «Siamo stati trasportati nel tempo e nel luogo in cui è stata scattata la foto.» Emma lo guardò. «Eh?» «Non capisci? È una magia! Per forza!» «La magia non esiste!» «Ah, no? E allora come facciamo a essere qui?» Emma si guardò attorno e, non sapendo bene come controbattere, saggiamente cambiò argomento. «Quindi dove siamo?» «Ma a Cambridge Falls, è evidente!» «Ah-ah! Ma se là c’è un lago gigantesco! E alberi e tutto quanto! Cambridge Falls assomiglia alla luna!» Era contenta di smentirlo su qualcosa. «Ma è Cambridge Falls prima! Cambridge Falls com’era una volta! Non hai visto la fotografia? Era esattamente così! L’ho messa nel libro e adesso siamo qui! Ehi, un attimo... il libro! Dove...» Il libro, che adesso, al sole, aveva la copertina di un intenso verde smeraldo,
era per terra a qualche metro di distanza. Michael si chinò subito a raccoglierlo e lo sfogliò velocemente. «La foto non c’è più! Ma è stata lei a portarci qua!» Con un sorrisone da orecchio a orecchio, Michael infilò il libro nella borsa e ci batté sopra la mano. «È reale. Tutto reale.» Kate si era staccata da loro e guardava mezzo imbambolata un’imbarcazione enorme che fluttuava in lontananza in mezzo al lago. Dovendo farsi carico del fratello e della sorella, era sempre stata una ragazzina con un forte senso della realtà. Non si era mai abbandonata ai giochi di fantasia che faceva Michael. Però il fratello aveva ragione: aveva messo la foto nel libro e adesso erano lì. Ma questo cosa significava, in realtà? Che il libro era magico? Che avevano viaggiato nel tempo? Com’era possibile? «Oddio...» disse una voce d’uomo. Kate si girò di scatto. Qualche passo più in là c’era un omino con in mano una macchina fotografica. Indossava un completo marrone, era completamente calvo e aveva una barbetta bianca e ben curata. Era a bocca aperta per lo stupore. «È Abraham» disse Michael. «Tutto quadra. Per forza doveva essere qui: per scattare la foto. È lui, ma più giovane.» «Sempre pelato» aggiunse Emma. Kate tirò un respiro profondo. Doveva riprendersi un po’. Ma proprio in quel momento nel bosco echeggiò un grido, un grido diverso da tutti quelli che loro tre avessero mai udito. Passò fra loro come un vento gelido, increspando l’acqua del lago. Abraham gemette: «Oh, no...» Dagli alberi sbucò una figura, che corse verso di loro nell’erba alta. Era vestita di stracci scuri e in faccia portava una maschera. Quando fu più vicino, Kate si accorse che la creatura correva in un modo strano, a singhiozzo, come se a ogni falcata dovesse buttare avanti le gambe. «Scappate» sibilò Abraham. «Dovete scappare!» «Che succede?» chiese Kate. «Scappate e basta! Correte!» Ma Michael stava armeggiando con la macchina fotografica ed Emma aveva già raccattato da terra un sasso: Kate sapeva che era troppo tardi. La creatura tirò fuori una lunga spada curva e gridò di nuovo. Stavolta fu
molto peggio; Kate sentì le gambe tremare e il cuore contrarsi come per spremerle fuori tutto il sangue, tutta la vita. La creatura buttò a terra Abraham. Kate, tremando, avanzò per mettersi fra quella cosa e suo fratello e sua sorella. «Fermati!» E, incredibilmente, la creatura si fermò. Si fermò proprio davanti a lei. Non aveva il respiro affannato, nonostante la lunga corsa. Anzi, a Kate sembrò quasi che non respirasse proprio. Da vicino capì che i vestiti della creatura erano i resti sbrindellati di un’antica divisa. Sul petto c’era uno stemma sbiadito. Il metallo della spada era annerito e scheggiato. Ma la cosa che più di tutte attirò l’attenzione di Kate fu la pelle. Era di un verdastro sporco, cosparso qua e là di grumi di terra, legnetti e perfino pezzi di muschio. Sotto gli occhi di Kate, un vermone rosa sbucò dalle costole della creatura. Lei si sforzò di guardarla in faccia. Non portava una maschera, ma strisce di stoffa nera le avvolgevano la testa scoprendo soltanto gli occhi. Occhi gialli, con una sottile pupilla verticale come quella dei gatti. E quell’essere puzzava come se fosse rimasto sepolto per secoli nel pantano e poi dissotterrato. La creatura brandì la spada e la puntò nella direzione da cui era venuta. «Fareste meglio ad andare» disse Abraham. «Tanto obbedirete comunque.» La creatura girò attorno a Kate, afferrò Michael e praticamente lo scaraventò verso gli alberi. Poi fece per avvicinarsi a Emma, ma Kate gli sbarrò di nuovo il passo. «Fermati, fermati, d’accordo. Veniamo.» «Prendi la macchina fotografica!» gridò Michael. Kate si chinò a raccoglierla e se la mise al collo. Emma stringeva ancora il sasso che non aveva tirato, così Kate la prese per la mano libera, insieme raggiunsero Michael e tutti e tre si incamminarono verso la striscia di sempreverdi con quella cosa, quale che fosse, alle calcagna. ______________________
La foresta in cui furono spinti aveva ben poco della Cambridge Falls che conoscevano. Gli alberi erano grandi e alti, il terreno era ricoperto di felci e l’aria era piena di canti d’uccello. Attorno a loro, ogni cosa vibrava di vita.
«... E scommetto che il dottor Pym è uno stregone» bisbigliò Michael, tutto emozionato. «Quella là doveva essere la sua stanza, vi pare? Chissà cos’altro c’era, là dentro.» Kate aveva ormai ammesso che i fatti accaduti erano magici. In effetti la magia spiegava molte cose, non soltanto il libro trovato da Michael, ma, per esempio, il fatto che prima un’intera catena montuosa potesse essere stata invisibile. Quindi benissimo, la magia esisteva. In quel momento, la cosa che più la preoccupava era trovare il modo di scappare di lì. «Secondo voi dove ci sta portando?» chiese Emma. «Probabilmente a giustiziarti» disse Michael, tirandosi su gli occhiali. Era una giornata calda e umida e tutti e tre cominciavano a sudare. «Basta che giustizi prima te, caro il mio Signor È-Solo-Un-Album-DiFotografie. Perché io la tua esecuzione non me la voglio perdere.» Si girò verso il loro aguzzino. «Dove ci stai portando, puzzone?» «Non parlare con lui» disse Kate. «Mica ho paura.» «Lo so che non hai paura» replicò Kate, pur sapendo che era vero il contrario. «Ma non parlarci lo stesso.» Dopo dieci minuti di marcia forzata, fra lamenti e spintoni, i ragazzi arrivarono in cima a un breve pendio, la boscaglia si diradò e Michael si fermò bruscamente. «Guardate!» Stava indicando il fiume. Sulle prime Kate non capì cosa vedeva. Era come se l’acqua arrivasse a metà della forra, si infilasse sotto il ponticello di pietra e improvvisamente, quando mancava all’incirca mezzo chilometro alla cascata, si fermasse. E la cascata non c’era! Il fiume non precipitava giù per il dirupo! Kate gettò un’occhiata alle sue spalle, lungo la voragine asciutta prima della quale la striscia azzurra d’acqua si interrompeva. Si accorse che c’era una specie di grande muro di legno costruito nella gola e capì: la diga di Abraham! Guardò verso la cittadina, verso il lago che luccicava in lontananza, e vide la stessa grande imbarcazione di prima galleggiare sulla superficie liscia. Nell’altra Cambridge Falls, quella da cui se n’erano andati, non c’erano dighe né laghi, e praticamente non c’erano alberi. Che cosa aveva fatto cambiare tutto? Il responsabile era forse il loro aguzzino straccione?
«Nel Grande libro dei nani» stava dicendo Michael, «G.G. Greenleaf parla di nani provetti costruttori di dighe. Mica come gli elfi, che pensano soltanto a costruire saloni di bellezza.» Emma sbuffò e disse che lei e Kate non avevano proprio voglia di sentir parlare di nani. «Già moriremo presto; non torturarci.» La creatura sbucò dagli alberi alle loro spalle e cominciò ad agitare la spada. «Andiamo» disse Kate. Mentre, cautamente, si facevano strada giù per la collina, la mano di Kate andò al medaglione della madre. Toccava a lei portarli fuori di lì, toccava a lei proteggerli. Dopo tutto glielo aveva promesso. ______________________
«Quelli sono...» disse Emma. «Sì» rispose Kate. «E...» «Sì.» «Che cosa gli fanno?» «Non lo so.» La creatura li aveva fatti scendere e uscire dal bosco, portandoli in una radura accanto alla diga. Da vicino sembrava proprio un enorme muro di legno, spesso sette, otto metri, , era tutto curvo e formava una graziosa C che andava da una parte all’altra della voragine. La parte anteriore dava su una lunga distesa d’acqua stagnante. Dietro... niente, il vuoto. Ma nessuno di loro, né Kate, né Emma e nemmeno Michael, stava guardando la diga. La ragione era semplice. Avevano trovato i bambini di Cambridge Falls. In mezzo alla radura erano ammassati stretti stretti quaranta o cinquanta bambini, maschi e femmine. Kate ipotizzò che il più piccolo avesse all’incirca sei anni, mentre il più grande sembrava più o meno dell’età di Michael. Non c’erano grida né spintoni né corse: nessuno dei comportamenti che Kate considerava normali per un gruppo di ragazzini. Se ne stavano tutti lì in piedi, assolutamente zitti e immobili. E attorno a loro camminavano avanti e indietro nove di quelle putrescenti creature nerovestite.
Arrivò un ordine secco e l’aguzzino li fece avanzare. «Emma» sussurrò Kate, «dobbiamo fare qualche domanda a questi bambini. Quindi tu stai buona, intesi?» «Ma cosa dici?» «Dice che non devi attaccar briga» chiarì Michael. «Va bene» brontolò Emma. La creatura li fece unire al gruppo. Per Kate fu un sollievo che quasi tutti i bambini guardassero il bosco al di là della forra e non si fossero accorti del loro arrivo. Uno, tuttavia, li stava fissando. Aveva la faccia tonda, una massa di riccioli rossi tutti arruffati e i denti davanti enormi. «Cosa guardi, razza di...» cominciò Emma. «Emma.» Emma richiuse la bocca. «Voi non siete di qui» disse il bambino. Parlava a voce bassa e Kate conosceva bene l’espressione che aveva in faccia. L’aveva vista in bambini che dopo anni di orfanotrofio avevano capito che nessuno li avrebbe mai adottati. Quel poveretto era senza speranza. «Io mi chiamo Kate» disse, quasi sussurrando come aveva fatto il bambino. «Loro sono mio fratello e mia sorella, Michael ed Emma. Tu come ti chiami?» «Stephen McClattery. Di dove siete?» «Veniamo dal futuro» rispose Michael. «Una quindicina d’anni, direi. Più o meno.» «Michael è il capo» aggiunse Emma allegramente. «Così, se moriremo tutti la colpa sarà sua.» Il bambino sembrò confuso. «Quel coso là ci ha trovati nel bosco e ci ha fatti venire qui» disse Kate. «Chi sono quelli?» «Parli degli Strillatori?» chiese Stephen McClattery. Una bimbetta gli si era avvicinata. «Li chiamiamo così perché gridano fortissimo. Li avete sentiti?» «Io li sento quando dormo» aggiunse la bimbetta. Kate la guardò. Più piccola di Emma, aveva i codini e un paio di occhiali che le ingigantivano gli occhi. Stringeva al petto una bambola sbrindellata a cui mancava la metà dei capelli. «È tua sorella?» Stephen McClattery scosse la testa. «Lei è Annie. Prima abitava in una casa giù in città.»
La bimba annuì energicamente per far capire che era la verità. «E adesso dove abiti?» chiese Kate, anche se conosceva già la risposta. «Nella casa grande» disse Stephen. Kate lanciò un’occhiata al fratello e alla sorella. Era chiaro che tutti e tre stavano pensando all’ampia stanza con le sbarre alle finestre e file e file di letti. «Siete orfani?» volle sapere Emma. «Siete tutti orfani?» «No» rispose Stephen. «I genitori ce li abbiamo.» «E allora perché non vivete con loro?» chiese Michael. Stephen McClattery scrollò le spalle. «È lei che non ce lo lascia fare.» Kate sentì un brivido di paura: in quelle parole doveva esserci la ragione dell’assenza di bambini. Ma non fece in tempo a chiedere chi era «lei», perché un bambino cacciò un urlo e la massa si spinse in avanti. I bambini saltavano, gridavano, si arrampicavano l’uno sull’altro, come se di colpo non avessero più paura delle creature. Stephen McClattery e la bimba erano scomparsi nella calca. «Cosa succede?» chiese Emma. «Cosa c’è là?» Kate allungò il collo per guardare da sopra le teste. Dall’altra parte della forra, delle figure si riversavano fuori dal bosco. Capì perché i bambini urlavano. «Sono le mamme.» Le figure al di là della forra erano tutte donne. Agitavano la mano, gridavano nomi. Kate si girò dall’altra parte. Gli Strillatori, così il ragazzino li aveva chiamati, erano davanti alla massa di bambini, a ricacciarli indietro. Era la loro possibilità di fuga. Ma dove sarebbero fuggiti? Erano sempre intrappolati nel passato. Poi le venne in mente. «Michael! Hai ancora la foto?» «No, è scomparsa quando l’ho messa nel...» «Non quella che ci ha dato Abraham. L’altra! Quella che hai fatto tu! Quando eravamo nella stanza! Dimmi che ce l’hai!» Michael, capendo che cos’aveva in mente la sorella, sgranò gli occhi. Mettere nel libro la foto di Abraham li aveva portati lì. Forse, allora, la foto che aveva scattato nello studio sotterraneo li avrebbe riportati indietro.
«Sì! Sì, ce l’ho qui!» Ma proprio quando Michael infilò la mano in borsa, si udì un nuovo rumore. Arruuuggga, arruuuggga! Proveniva dagli alberi alle loro spalle e Kate vide i bambini e le madri tacere e girarsi verso la fonte del rumore. Per qualche secondo non successe nulla. Poi sentì l’inconfondibile scoppiettio di un motore e dal bosco sbucò una moto nero lucente, con le gomme spesse e bitorzolute che mordevano la terra. Il motociclista era un omino piccolissimo e decisamente singolare. Aveva il mento lungo e sottile e la testa che si restringeva finendo quasi a punta, ma la faccia, in mezzo, era grande e piatta. Era come se qualcuno lo avesse preso per il mento e il cocuzzolo e avesse tirato. Aveva i capelli sbiaditi, lunghi e stopposi, portava un gessato scuro con un antiquato papillon e un paio di occhialoni sporgenti. Suonò il clacson. Arruuuggga! La moto era provvista di sidecar, ma Kate non riusciva a vedere in faccia il passeggero. Chiunque fosse, indossava un vecchio spolverino, un caschetto di cuoio e un paio di occhialoni sporgenti uguali a quelli del guidatore. Arruuuggga! La moto, sobbalzando e scoppiettando, descrisse un cerchio attorno ai bambini e si fermò sull’orlo della diga. Kate notò che gli Strillatori non si erano mossi. Sembravano in attesa. Il motociclista spense il motore e corse dall’altra parte del sidecar, dal quale il passeggero si era già allontanato. La figura si tolse lo spolverino, gli occhialoni e il caschetto lasciandoli cadere sull’omino. Di fronte a loro c’era una ragazza di sedici o diciassette anni. Aveva la pelle impeccabilmente candida e i capelli dorati che le ricadevano sulle spalle in riccioli perfetti. Indossava un abitino bianco fru fru, che a Kate sembrò antiquato, e le braccia erano nude e affusolate. Non portava gioielli. Non ne aveva bisogno. Era la creatura più bella e radiosa che Kate avesse mai visto. Sembrava sprigionare vita. Scorgendo un fiore giallo ai suoi piedi, lanciò un gridolino di piacere, lo colse e poi si girò e salterellò verso la diga. «Chi è?» chiese Michael. «È lei» rispose Stephen McClattery a bassa voce. «La Contessa.»
«Non mi piace» disse Emma. «Mi sembra un po’ montata.» La ragazza, o giovane donna che fosse (a seconda di come si voglia classificare una sedicenne o diciassettenne), arrivò alla diga e cominciò a salire dei gradini. Fino a quel momento Kate si era concentrata troppo sui bambini per capire fino in fondo quant’era imponente la diga. Ergendosi di un paio di metri sopra l’orlo della forra, formava una specie di grande ponte curvo che arrivava dall’altra parte. Kate rimase a guardare la Contessa che, giunta in cima, l’attraversò a passo di danza fino ad arrivare al centro; là si fermò, in equilibrio sopra la forra, protetta soltanto dal cielo e dai fianchi alberati della valle. Trasferì lo sguardo dalle madri in scialle ai bambini e fece un saltello tutta emozionata. «Oh, guarda! Siete venuti tutti! Come sono contenta di vedervi!» «Non sembra poi tanto male» bisbigliò Michael. «Ma sta’ zitto» sibilò Emma. La Contessa aveva una voce allegra e, notò Kate, non priva di accento. «Bene, sicuramente vi starete chiedendo perché vi ho invitati qui. Be’, potete ringraziare il mio segretario, il signor Cavendish.» Indicò l’omino che stava cercando di appiattirsi sulla testa i capelli unti. «Oh, non è la persona più incantevole del mondo? Be’, è stato lui a ricordarmi che oggi cade il secondo anniversario del mio arrivo a Cambridge Falls. C’est incroyable, n’est-ce pas? Siamo insieme da ben due anni! Che cosa meravigliosa!» Gli altri, se la consideravano una cosa tanto meravigliosa, se lo tennero per sé. «D’altra parte, il signor Cavendish mi ha ricordato anche che, rispetto al giorno in cui sono arrivata, i vostri uomini non hanno fatto alcun passo avanti nel ritrovamento di quanto avevo chiesto di cercare. Buuu.» E sporse in fuori il labbro inferiore in un broncio. «Ha un modo di fare simpatico, no?» disse Michael. Stavolta fu Kate a dirgli di star zitto. La Contessa proseguì: «Ma non disperate, mes amis! La vostra contessina ha riflettuto e riflettuto fino a farsi venire il mal di testa e ha capito dove ha sbagliato! Ebbene sì, la colpa è soltanto mia! Perché vedete, ai vostri uomini ho detto: ’Trovatemi quel che voglio e me ne andrò. E voi vi riunirete alle vostre famiglie. Tutto tornerà come prima’. Quelle imbécile! Come ho fatto a essere così stupida? Vi ho chiesto di trovarmi una cosa dicendo che per ricompensa sareste stati privati della mia compagnia! Perché stupirsi se non sono stati fatti passi avanti? Voi non volete che me ne vada! Mi volete troppo bene! E non vi
biasimo, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro che così non funziona. Perciò, per quanto sia difficile, dobbiamo fare in modo che cerchiate di volermi meno bene». Agitò la mano e, subito, una delle nerovestite creature in decomposizione si avvicinò spedita ai bambini. Si infilò nella massa di corpicini e un attimo dopo stava già puntando verso la diga con la piccola Annie bloccata sotto il braccio. Un grido si levò dai bambini e dalle madri. La creatura passò accanto alla Contessa e, tenendo la bimbetta per la collottola della giacca, la fece penzolare sopra l’orlo della diga. L’urlo di Annie assordò Kate. Le gambe scalciavano nel vuoto. Dall’altra parte della forra, una donna si mise in ginocchio. «Ma cosa fa, quello?» gridò Emma, avvinghiandosi al braccio di Kate tanto forte da farle male. «Non può... non può...» La Contessa si coprì le orecchie con le mani e si mise a danzare in cerchio, gridando comicamente: «Che rumore! Non sento i miei pensieri!» Alla fine le urla si spensero, finché l’unico rumore udibile fu quello del pianto di Annie. La Contessa sorrise benevolmente. «Lo so! È terribile! Ma cosa dovrei fare? Sono passati due anni, vero, signor Cavendish? Sono passati due anni?» Il Segretario fece segno di sì con quella testa dalla forma strana. «E credetemi, mes anges, mica mi piace fare l’antipatica! Ma devo guarirvi dall’eccessivo amore che nutrite per me!» La Contessa raccolse la bambola caduta dalle mani di Annie e le lisciò le chiazze di capelli. «Dunque, i vostri uomini sono già al corrente. O troveranno quel che cerco, o a partire da questa domenica, odio la domenica: è un giorno così noioso, a partire da questa domenica, la vostra città perderà un bambino alla settimana per tutte le settimane che dovrò aspettare.» Con un risolino, gettò la bambola nella diga. Mentre quella ruzzolava giù nel vuoto, si sollevarono grida da entrambi i lati della forra. Kate percepì l’orrore serpeggiare fra i bambini. Poi qualcosa le passò accanto sfiorandole la spalla. Alzò gli occhi e, vedendo una divisa strappata e sbiadita, sulle prime la prese per quella degli Strillatori. Ma c’era qualcosa di diverso. La figura si spostava con un’andatura regolare, senza gli scatti caratteristici delle creature. Ed era enorme. Più alta di
qualsiasi Strillatore e due o tre volte più larga. Se era un uomo, era l’uomo più grande che avesse mai visto. Passando guardò giù. Gli occhi erano di un grigio profondo, un grigio granito. Poi si allontanò e fendette la folla di bambini puntando dritto verso la bella creatura sulla diga. «E quello chi è?» chiese Emma. «Non è uno Strillatore. Gli avete visto gli occhi?» In cima alla diga, la Contessa fece un cenno con la sua testolina dorata e lo Strillatore scostò Annie dall’orlo per gettarla verso i gradini. La bambina, singhiozzando, si rimise in piedi e corse dagli altri. «Bene, è stata una visita molto piacevole. Avete tutti una bellissima cera! Mi piace vedere che vi prendete cura di voi. Tuttavia devo...» «L’ha visto!» disse Emma. «Visto cosa?» Quando era passato il gigante, Michael stava pulendosi gli occhiali, strofinando le lenti come per cancellare la scena cui aveva appena assistito. «Di cosa parli?» La Contessa aveva gli occhi fissi sull’omone che era appena sbucato dalla massa di bambini. Kate la vide sussurrare qualcosa allo Strillatore accanto a lei, la cosa aprì la bocca e, di nuovo, si udì il grido. Michael ed Emma si tapparono le orecchie, ma non servì. Gli altri bambini reagirono come se fossero stati feriti e molti caddero in ginocchio. Kate, senza fiato, guardò tre creature brandire ciascuna la propria spada scheggiata e arrugginita e accerchiare il gigante. Un istante dopo, l’uomo impugnava la sua, di spada. La massa di bambini arretrò. Emma fu buttata a terra. Kate e Michael la rimisero in piedi e, barcollando, indietreggiarono per non farsi calpestare. Le urla dei bambini erano sovrastate dai versi dei combattenti e dal clangore delle spade; poi, l’uno dopo l’altro, le orribili grida si spensero. Quando riuscirono ad allontanarsi dalla calca, Kate vide i tre Strillatori a terra. Con un sibilo terrificante, sembravano disfarsi nella polvere. Il gigante aveva il fiato corto. Il copricapo gli era stato strappato via. Aveva lunghi capelli scuri e una cicatrice che gli solcava verticalmente un lato della faccia. «Li ha ammazzati!» disse McClattery, con un filo di fiato. «Ha ammazzato quegli Strillatori! Nessuno lo aveva mai fatto!» Altri sei Strillatori partirono all’attacco.
Sulla diga, la Contessa teneva sollevato il fiore che aveva raccolto, guardando la scena come una ragazza guarderebbe il suo compagno di danze da un angolo della sala. Kate vide che Cavendish, lo chauffeur con la testa a forma di palla da football, cercava in tutti i modi di nascondersi dietro la moto. «Non può sconfiggerne sei» disse Michael. «Sono troppi.» Evidentemente anche il gigante era giunto alla stessa conclusione. Quando le creature mossero all’attacco, si girò verso la diga e si preparò a lanciare la spada. «Muori, strega!» Ma, prima che avesse il tempo di colpirla, la Contessa soffiò sul fiore. Kate vide una spirale dorata volare verso di lui e avvolgerlo. Uno Strillatore gli tirò un calcio nel petto e il gigante cadde a terra nella posizione in cui era, sollevando una nuvola di polvere. La Contessa emise una risatina e fece un saltello sul posto. «Avete visto?» disse Michael. «Avete visto che cos’ha fatto?» «È una strega» disse Emma. «Qualcuno dovrebbe buttarla giù in quella diga. O bruciarla. Le streghe le bruciano.» Kate sapeva che dovevano andarsene di lì. Non importava se qualcuno li vedeva. Stava per dire a Michael di prendere il libro quando la bella giovane si girò a guardarli dritto in faccia. Kate si sentì pugnalata. La Contessa distese il braccio, con il dito puntato verso il cuore di Kate. La sua voce fu uno strillo. «Fermateli!» «Michael» sibilò Kate, «il libro! Subito!» «Qualcuno vedrà che...» «Non importa!» Mise la mano nella borsa e lo tirò fuori lei, il libro. Le sagome scure correvano verso di loro. Una lanciò un grido. Poi un’altra. E un’altra ancora. Kate ebbe la sensazione di essere tenuta a forza sott’acqua, senz’aria. Non riusciva a respirare. «Dov’è... dov’è la foto?» Michael non si mosse. Kate capì che le grida delle creature lo avevano paralizzato. Poi Emma gli tirò un ceffone. «Perché... perché l’hai fatto?» «La foto!» Michael guardò le sagome scure che si avvicinavano spingendo via i bambini
che ostruivano il passaggio. La Contessa urlò di nuovo: «Fermate quei bambini!» Lui si frugò le tasche, tirò fuori la foto e subito gli cadde di mano. Kate si chinò a raccoglierla e si aprì il libro sulle ginocchia. «Emma... attaccati a me!» Con le mani tremanti, Kate allungò la mano per prendere la foto, ma Michael ci aveva messo sopra il piede. «Dov’è?» disse lui. «Non la vedo!» «È sotto il tuo piede. Spostati!» Gli Strillatori intanto si avvicinavano. Le grida erano più forti che mai. Doveva concentrarsi, concentrarsi... Poi, per un attimo, silenzio. Evidentemente anche le creature dovevano respirare. Kate sentì l’aria tornarle nei polmoni e il cuore pomparle sangue nel corpo. Spostò Michael con una spinta e afferrò la fotografia. Era coperta di terra e la scarpa l’aveva spiegazzata. Con la coda dell’occhio vide Stephen McClattery spinto da una parte. «Sbrigati!» gridò Emma. «Aggrappati a me!» disse Kate. Quando le due sagome scure erano ormai vicine, Kate posò la foto sulla pagina bianca. Sentì uno strappo allo stomaco e la terra sotto di loro scomparve. Batté le palpebre. Erano immersi nel buio. L’aria era fredda. Batté ancora qualche volta le palpebre e poi, quando gli occhi si abituarono al buio, tirò un sospiro di sollievo. Erano nella stanza sotterranea della grande casa. Lei era inginocchiata per terra con il libro in grembo. Vide in fondo alla stanza loro tre, Michael, Emma e se stessa, i contorni dei corpi disegnati dalla luce delle torce. Poi, di colpo, quelle immagini sparirono. Kate si sentì finalmente libera. Come se prima una forza ignota la frenasse. «Kate.» La voce di Emma era lì accanto. Kate si rese conto della forza con cui la sorella le stringeva il braccio. «Kate, dov’è Michael?» Kate guardò il punto in cui prima c’era Michael. Dove avrebbe dovuto essere. Ma lì Michael non c’era.
Capitolo 5 Il dottor Stanislaus Pym † A cena, dissero alla signorina Sallow che Michael non stava bene ed era andato a letto. Quanto a loro due, quasi non toccarono cibo e a malapena udirono la vecchia borbottare che la sua cucina non era all’altezza di Versailles e che senza dubbio l’indomani mattina, per prima cosa, l’avrebbero mandata al patibolo. Quando arrivarono in camera, Abraham aveva già acceso il fuoco e le sorelle si infilarono nel letto che condividevano e si abbracciarono. «Vedrai che tutto si aggiusterà» disse Kate. «Lo riporteremo indietro.» A un certo punto della notte, Kate capì che Emma si era addormentata. Lei invece rimase sveglia, a rimuginare l’accaduto. Uno Strillatore aveva forse portato via Michael all’ultimo momento? O, peggio ancora, lei aveva messo la foto nel libro senza dare a Michael il tempo di attaccarsi al suo braccio? E, quando lui aveva allungato la mano, lei gli era svanita sotto gli occhi? Continuava a immaginarsi Michael che afferrava l’aria nel punto in cui appena un secondo prima aveva visto lei ed Emma e il terrore che doveva aver provato sentendo su di sé la gelida presa degli Strillatori. Coricata al buio, mentre Emma, lì accanto, respirava profondamente, Kate continuava a sussurrare: «È colpa mia, è colpa mia». Sua madre le aveva chiesto di fare una sola cosa. Di vegliare su suo fratello e sua sorella. E lei non lo aveva fatto. Che cosa le avrebbe detto? Che spiegazioni le avrebbe dato? La sola speranza era il libro nascosto sotto il materasso. L’avrebbero usato. Avrebbero preso un’altra vecchia foto e sarebbero tornate nel passato per riportare indietro Michael. Fuori dalla finestra il cielo cominciava a schiarire quando Kate scosse Emma dal sonno. «Vestiti» disse. «Dobbiamo andare da Abraham.» Abraham alloggiava in un appartamento in cima alla torretta settentrionale e loro bussarono alla sua porta per più di un minuto, ma nessuno venne ad aprire. In cucina trovarono la signorina Sallow armeggiare con le padelle sul fuoco. «Abraham è andato a Westport» le informò la signorina Sallow, schiaffando
una salsiccia sul piatto di Kate. «A prendere il dottor Pym.» «Cosa?» «Mi perdoni se non parlo il francese, maestà, ma, se comprende il mio inglese alla buona, glielo ripeterò: è andato a Westport a prendere il dottor Pym. È uscito presto. Dovrebbe essere qui a momenti.» «Kate» bisbigliò Emma, «ti ricordi cos’ha detto Michael? Il libro probabilmente è di quel dottore. Secondo te è davvero uno stregone o...» «Dov’è vostro fratello?» volle sapere la signorina Sallow. «A letto» rispose Kate. «Non sta ancora bene.» «Mmm. Immagino che faccia lo sciopero della fame, vista la sbobba che vi propino. Vabbè, comunque potete portargli su qualcosa da mangiare. Che lo butti pure giù dalle scale, se non gli piace.» Andò alla dispensa a prendere un vassoio. Non appena si fu allontanata, Emma si sporse sopra il tavolo e sibilò: «Quel dottore, come si chiama, scoprirà che gli abbiamo preso il libro! Ci trasformerà in... non so... rospi! Dobbiamo...» Si interruppe udendo dei passi da zoppo che si avvicinavano dall’ingresso. Un attimo dopo Abraham entrò in cucina, ancora tutto intabarrato. «Buongiorno, ragazze, buongiorno.» Andò al bollitore e si sfregò le mani. «Fuori si muore di freddo, oggi. Gliel’ho detto, al dottore, mentre attraversavamo il lago. E lui ha risposto: ’Hai proprio ragione, Abraham. Un freddo mortale’. Ah, che bella chiacchierata ci siamo fatti, io e il dottore.» «Abraham.» «Dimmi, ragazzina.» Si era versato il tè e stava mettendo nella tazza un cucchiaino di zucchero dopo l’altro. «Dovremmo chiederti un favore. Ci serve un’altra...» «Non avete ancora finito? Che peccato!» La signorina Sallow, rientrata in cucina, levò i piatti a Kate ed Emma e li trasferì nel lavello. «In biblioteca, vostre maestà. All’ingresso ho visto il dottore. Vi vuole subito da lui.» «Noi?» chiese Kate. «Ma... perché?» «E io come faccio a saperlo? Vorrà il vostro autografo. Allora, cosa aspettate? Araldi e squilli di tromba? Filate! E tu...» Tirò una cipolla contro Abraham. «Smettila di rubarmi lo zucchero!»
«Ne ho messe solo due cucchiaiate, signorina Sallow.» «Due? Te le do io, due cucchiaiate! E altre due! E altre due!» La signorina Sallow inseguiva Abraham attorno al tavolo, colpendolo con un cucchiaio di legno. Kate sospirò. «Dai, andiamo.» ______________________
Kate ed Emma si fermarono davanti alla porta della biblioteca. «Ricordati» sussurrò Kate «che noi non sappiamo niente di lui. Potrebbe tranquillamente essere un uomo normalissimo che gestisce un orfanotrofio.» «Sì, certo. Un orfanotrofio che ha solo tre bambini, in una casa piena di roba magica.» Kate dovette riconoscere che la sorella non aveva tutti i torti, ma in quel momento una voce le chiamò: «Avanti, entrate. Non statevene lì a confabulare». Capendo di non avere molta scelta, Kate prese Emma per mano e aprì la porta. Erano state in biblioteca il giorno prima, quando Emma aveva rotto la scala scorrevole, quindi era un posto che conoscevano. C’erano ben due piani di libri e, di fronte alla porta, una parete di finestrelle di ferro che davano sulle stalle in rovina. A sinistra c’era un piccolo caminetto con quattro poltrone di pelle decisamente malridotte. Un uomo canuto in completo di tweed era inginocchiato di spalle a cercare di accendere il fuoco. Su una delle due poltrone erano stati gettati un pastrano da viaggio, un bastone da passeggio e una borsa a tracolla vecchia e logora. «Accomodatevi, accomodatevi.» La sua voce rimbombò nella canna fumaria. «Un minuto e sono da voi.» Kate ed Emma occuparono ciascuna una poltrona. A Kate venne il dubbio che quell’uomo non avesse la minima idea di cosa stava facendo. Nel caminetto, legnetti e carta di giornale erano ammucchiati alla rinfusa insieme a qualche sasso, una vecchia lattina e bustine di tè usate. Accendeva fiammifero dopo fiammifero senza concludere niente. «Al diavolo» disse l’uomo. Kate lo udì borbottare qualcosa sottovoce e di colpo nel caminetto si sprigionò un bel fuoco vivace. «Così!»
Emma diede un colpetto di gomito a Kate e puntò il dito come per dire: «Visto?» L’uomo si alzò in piedi e si girò verso di loro pulendosi le mani. Era evidentemente molto vecchio, ma dai movimenti agili, privi della rigidità tipica degli anziani. Aveva folte sopracciglia simili a corna che ben si sposavano con i capelli bianco neve e gli occhiali curvi e un po’ storti, come se gli fosse appena capitato un incidente. Il completo sembrava aver subito lo stesso incidente, e forse anche altri. «L’arte di accendere il fuoco ormai si è persa. Non tutti lo sanno fare. Bene, mi presento. Sono il dottor Stanislaus Pym.» Fece un profondo inchino. Kate ed Emma lo fissarono. Quell’uomo sembrava un vecchio zio innocuo e un po’ tocco. Eppure, pensò Kate, c’era in lui qualcosa di stranamente familiare. Come se lo avesse già visto da qualche parte. Ma era impossibile... Il dottor Pym le guardava con un sopracciglio sollevato, in attesa. «Ah...» balbettò Kate. «Io sono... mmm... Kate. Lei è mia sorella Emma.» «E avete un cognome?» «No. Cioè... sì. Una specie. P. La lettera P. Non sappiamo altro.» «Ah, sì, ora ricordo. L’ho letto nel vostro fascicolo. E avete un fratello, mi pare. Dov’è?» «Michael non sta bene» disse Kate. Il dottor Pym la guardò e l’immagine che Kate si era fatta di lui, quella di un uomo gentile e un po’ impacciato, svanì. Era come se i suoi occhi la scavassero. Poi, altrettanto bruscamente, gli tornò il sorriso. «Che peccato. Be’, ditemi pure se posso fare qualcosa. Qualche dote ce l’ho, oltre a quella di saper accendere il fuoco. Bene...» Si sedette di fronte a loro. «Allora sentiamo. La storia della vostra vita. Raccontate con comodo. Se c’è una cosa che detesto, è che si racconti una storia in fretta e furia. Abbiamo qui un bel focherello e la signorina Sallow può portarci del tè. Possiamo prenderci tutto il tempo che vogliamo.» Estrasse una pipa dalla tasca, sollevò un fiammifero sopra il fornello, tirò qualche boccata e poi esalò un nuvolone di fumo verde azzurrognolo. Più che sollevarsi, il fumo si espanse, cingendo e imprigionando Kate ed Emma. «Cominciate pure quando volete» disse l’uomo, amabilmente. Per qualche istante Kate tacque. Stava ripensando alla telefonata che le era capitato di udire dopo il loro colloquio con la Signora dei Cigni, quando la signorina Crumley aveva minacciato, implorato e offerto bustarelle pur di trovare qualcuno, chiunque, che si prendesse loro tre. Di punto in bianco si era fatto avanti
quest’uomo. Perché? Che cosa voleva? Che li avesse portati lì per una ragione era fuori di dubbio. Ma quale? «Qualche problema, mia cara?» Kate si rammentò che l’importante, adesso, era salvare Michael. Tirò un bel respiro; il tabacco della pipa aveva un vago aroma di mandorla. «Siamo stati lasciati all’Orfanotrofio Saint Mary dieci anni fa, alla Vigilia di Natale...» Pensava di toccare alcuni dei punti essenziali per poi scusarsi dicendo che dovevano andare a dare un’occhiata al fratello. Ma successe un fatto strano. Senza nemmeno accorgersene, si ritrovò a raccontare al dottore, con Emma che di tanto in tanto interveniva, tutti i particolari della loro vita: raccontò di suor Agatha, che era stata tanto buona con loro ma aveva il vizio di fumare a letto e una notte aveva mandato in fiamme tutto il Saint Mary con lei dentro, raccontò dell’orfanotrofio seguente, gestito da un ciccione che rubava le pietanze migliori per la sua grassa famiglia lasciandoli più di una sera a cenare a pane e acqua, e insomma raccontò, insieme a Emma, di tutti gli altri orfanotrofi in cui erano stati, dei bambini che avevano conosciuto, del rifiuto di essere considerati orfani perché un giorno i loro genitori sarebbero tornati. Quasi non si accorse di quando la signorina Sallow entrò a servire il tè con pane tostato e marmellata e poi, qualche tempo dopo, venne a portar via le tazze vuote. Lei ed Emma continuarono a parlare, raccontando cose che non avevano mai rivelato a nessuno: i ricordi che Kate aveva dei genitori, la casa in cui sognavano di vivere un giorno, quando la famiglia si sarebbe riunita. Emma parlò a lungo del cane che avrebbe avuto, un cane nero a macchie bianche, che avrebbe chiamato Signor Smith e non avrebbe ammaestrato perché per lui sarebbe stato umiliante, tutte novità per Kate. A un certo punto la signorina Sallow entrò di nuovo, stavolta con un vassoio di tramezzini, e loro stavano raccontando della signorina Crumley e del disastro combinato con la signora dal cappello a forma di cigno, del viaggio a nord in treno, della nebbia fitta sul lago e di Abraham che era andato a prenderli con un calesse, il primo sul quale fossero mai stati, e all’improvviso Kate si accorse che il dottor Pym stava parlando. «Santo cielo, che viaggio avete fatto! E qui è volata via mezza giornata, tsk tsk. Be’, per quanto piacevole sia stato, non vi tratterrò oltre. Avrete di sicuro cose più importanti da fare che intrattenere un vecchio.» Kate ebbe la sensazione di risvegliarsi da un sogno. Guardò il piatto vuoto dove c’erano stati i tramezzini. Li avevano mangiati tutti? Non lo ricordava. Il fuoco scoppiettava ancora nel caminetto, ma fuori dalle finestre il sole non c’era più.
Quanto tempo erano state lì? «Riprenderemo il discorso. Ma vorrei avvertirvi di una cosa.» Si sporse in avanti sulla poltrona. «In questo mondo ci sono posti diversi da tutti gli altri. Quasi dei paesi a sé. Un bosco qua, un’isola là, un quartiere di una città...» «Una catena montuosa» aggiunse Kate. «Già» disse il dottor Pym. «Certe volte una catena montuosa. Cambridge Falls e tutto quel che c’è attorno è un posto di quelli. Adesso la città è un luogo abbastanza sicuro. Ma non inoltratevi in montagna. Là ci sono pericoli che non immaginate neanche. Un giorno vi spiegherò bene la faccenda, ma per ora statene alla larga, siamo intesi?» Guardò Kate e lei, di nuovo, ebbe la sensazione che l’uomo riuscisse a penetrarla con lo sguardo. Annuì e lui si appoggiò allo schienale, col suo sorriso da nonno. «Benissimo. A proposito, ho chiesto alla signorina Sallow di preparare una cena speciale, domani. Oca, magari. Dopo tutto è la Vigilia di Natale.» «Cosa?» fecero in coro Kate ed Emma. «Be’, sì. Non ve n’eravate accorte?» Poi, come se gli fosse venuta in mente una cosa, mormorò: «Ah, già. Quando siete stati lasciati al primo orfanotrofio era la Vigilia di Natale, vero? Quindi domani sarà...» Sembrò fare il calcolo mentalmente. «Il decimo anniversario della scomparsa dei vostri genitori.» Kate era sbalordita. L’indomani era davvero la Vigilia di Natale? Come faceva a non saperlo? Era come se, mentre avevano parlato con il dottore, non fossero passate ore, ma giorni. Il dottor Pym si alzò in piedi. «Magari domani vostro fratello si sarà rimesso completamente e avrò il piacere di conoscerlo.» Accompagnò le ragazze, entrambe ancora confuse, alla porta. «Sentite, per caso state andando da Abraham?» Kate non gli chiese come faceva a saperlo. Si limitò a qualche piccolo cenno affermativo della testa. «Chiedetegli di mostrarvi l’ultima fotografia che ha fatto. Secondo me la troverete interessante.» E con questo le fece uscire e richiuse la porta. ______________________
Non appena furono fuori dalla biblioteca, Kate ed Emma tornarono lucide. «Che cosa è successo?» chiese Emma. «Era come se mi fosse andato in pappa il cervello.» «Anche a me.» «Ci avrà fatto un incantesimo? Ho raccontato cose che non avevo mai detto a nessuno. Ho fatto male, secondo te?» Kate sentì la voce di Emma vibrare di preoccupazione. Sondò i propri sentimenti. Sapeva come ci si sentiva di solito quando si confidavano troppe cose che erano custodite nel cuore. Arrivava subito la vergogna e ci si pentiva di averlo fatto, veniva voglia di rimangiarsi tutto. In questo caso, però, le sembrava finalmente di aver scaricato un peso che era diventato parte di lei, tanto a lungo se l’era portato addosso. E, salendo la scala a chiocciola che portava alla torretta di Abraham, si sentì insolitamente leggera. Si accorse degli spifferi d’aria fredda che arrivavano dalle pareti. Del canto lontano di un uccello. Degli scricchiolii dei gradini sotto i piedi suoi e di Emma. E, anche se bisognava rimboccarsi le maniche, perché non sapeva proprio come avrebbero fatto, lei e la sorella undicenne, a salvare Michael da quella strega e da quei demoni al suo servizio, in confronto alla mattina si sentiva mille volte meglio. «No» rispose. «Secondo me non hai fatto male.» «Anche secondo me» disse Emma. E Kate vide che sorrideva. Batterono alla porta di Abraham per due minuti buoni, ma lui non venne ad aprire nemmeno stavolta. «Adesso comincia proprio a farmi arrabbiare» disse Emma. Al piano di sotto trovarono la signorina Sallow che passava lo straccio sul pavimento dell’atrio principale. «Ho mandato il vecchio scemo a prendere l’oca di Natale per il dottore. Sarà dovuto andare di nuovo a Westport. Tornerà stasera.» «Ma noi dobbiamo parlargli subito» disse Emma. «Ah sì, maestà? Be’, magari in futuro dovremo concordare i nostri impegni con la sua segretaria personale. Ma in attesa di quel giorno benedetto», cacciò uno straccio in mano a Emma e un secchio con uno scopino in mano a Kate, «potreste rendervi utili.» Le spinse entrambe nella grande, solenne sala da pranzo nella quale, disse, il dottor Pym voleva che fosse servita la cena della Vigilia. Era uno stanzone enorme, rivestito di pannelli di legno e con un lungo tavolo di rovere al centro. Sopra il tavolo erano appesi due lampadari di ferro battuto tra i quali erano tese ragnatele che parevano decorazioni. E c’era un caminetto di pietra tanto grande che Kate ed Emma avrebbero
potuto farci stare il loro letto. Al momento ci abitava una famiglia di volpi. Due draghi di pietra sorreggevano la mensola ed erano coperti, come tutto il resto, da un bel dito di polvere e sudiciume. «Il dottor Pym dice di non dar fastidio alle volpi, ma a parte quelle voglio tutto lustro come uno specchio del vostro Louvre a Parìs.» «Che stupidata» disse Emma dopo che la signorina Sallow fu uscita. «Dobbiamo aiutare Michael.» «Lo so» replicò Kate. «Ma finché non ci faremo dare una foto da Abraham non potremo far niente.» Emma bofonchiò qualche parola incomprensibile, ma si chinò e cominciò a passare lo straccio sul pavimento. Kate inumidì lo scopino e anche lei si mise all’opera, strofinando un drago. Mentre loro lavoravano, due piccole volpi le seguivano con lo sguardo dalle viscere del caminetto. Quando ormai si avvicinava l’ora di cena, Abraham non era ancora tornato, e Kate ed Emma mangiarono da sole in cucina. Dissero alla signorina Sallow che avrebbero portato qualcosa da mangiare a Michael. Mentre salivano le scale, non sentivano più nemmeno un briciolo del senso di leggerezza provato dopo il colloquio con il dottor Pym. Erano stanche morte e preoccupatissime. Da due notti ormai cercavano di addormentarsi con lo sguardo fisso sul letto vuoto di Michael. Domani, si disse Kate, domani lo riportiamo indietro. Poi si svegliò tutta affannata. Non aveva controllato se il libro c’era ancora. Scese dal letto e infilò la mano sotto il materasso. Tastò a destra e a sinistra, con il cuore in gola. Poi la mano toccò la copertina di pelle. Lentamente, tirò fuori il libro. Era una notte di luna e un chiarore argenteo attraversava il letto, conferendo alla copertina verde smeraldo del libro un luccicore ultraterreno. Lo aprì a metà. Le pagine erano bianche. Passò le dita sulla pergamena, secca e increspata dal tempo. Voltò una pagina, rigida, scricchiolante. Bianca anche quella. E un’altra: sempre bianca. E un’altra. Un’altra ancora. Tutte bianche. Poi, quando stava ormai per chiudere il libro, successe una cosa. Aveva le dita posate sulla pagina cui era arrivata e fu come se un’immagine le si proiettasse nella mente. Vide una cittadina sulle rive di un fiume.
C’era una torre. E c’erano donne che facevano il bucato. L’immagine non era statica. Vedeva l’acqua muoversi, i rami di un albero stormire al vento. Le parve di udire delle campane in lontananza. «Cosa fai?» brontolò Emma. Kate chiuse il libro. Lo infilò di nuovo sotto il materasso. «Niente» rispose, rimettendosi sotto le coperte. «Dormi.»
Capitolo 6 La pagina nera † L’indomani mattina la signorina Sallow, per prima cosa, le mise all’opera; così, tra il lavoro da finire per la governante e i tentativi di evitare il dottor Pym, soltanto a mezzogiorno Kate ed Emma poterono sedersi con Abraham davanti al fuoco, a bere succo di mele e ascoltare lui che brontolava per aver fatto tanta strada alla ricerca di un’oca. «Non è che mi lamento. A tutti piace mangiare l’oca, ma con che coraggio si manda un vecchio come me in giro per mezza città, col freddo che faceva ieri? Un freddo da morire. Da morire due volte! Ancora un po’ di succo?» La camera di Abraham nella torretta era rotonda, con le finestre che guardavano in tutte le direzioni. Ma la caratteristica più notevole, oltre alla perfetta forma circolare, era che il minimo quadratino disponibile di parete era occupato da una fotografia. E le fotografie non finivano lì. Ce n’erano cataste per terra, cataste sotto le sedie, cataste pericolanti in bilico sui tavoli. C’erano centinaia, migliaia di fotografie, tutte ingiallite e sbiadite dal tempo. «Una volta» aveva spiegato Abraham quando loro, entrate nella stanza, si erano guardate attorno sbalordite, «avevo una grande passione per la fotografia. Forse perché ero nato con questo difetto alla gamba e non potevo andare a lavorare in miniera. Ma i tempi cambiano. Non faccio più foto da anni.» Si chinò a rabboccare di succo le tazze. «Sicure che è tutto a posto? Non avete una bella cera. Mica avete preso la malattia di vostro fratello, spero.» «Stiamo bene.» Kate ed Emma erano accomunate dalla tacita consapevolezza che quel giorno, essendo la Vigilia di Natale, cadeva il decimo anniversario della scomparsa dei loro genitori. Quella mattina, mentre si vestivano, di colpo e senza spiegazioni Emma aveva abbracciato Kate. Erano rimaste così, in mezzo alla stanza, per quasi un minuto, senza dire una parola. «Allora avete conosciuto il dottore. Lui non è di Cambridge Falls, sapete? Un giorno arrivò qui e comprò questa vecchia casa. Oh, parlo di più di dieci anni fa. E assunse me e la Sallow.» «Abraham...» Kate ed Emma avevano deciso di non usare giri di parole, con lui; volevano
risposte e il vecchio custode era la loro speranza migliore, e più sicura, di ottenerle. «Ti sembra di... mmm... di ricordarti di noi? Di averci già visti prima? Un giorno al lago. Hai visto noi tre... comparire di punto in bianco?» Kate sapeva che Abraham non avrebbe nemmeno capito la domanda, se gliel’avessero fatta due giorni prima. Ma poi lei, Emma e Michael erano tornati indietro nel tempo. Adesso il passato era cambiato. E questo significava che anche i ricordi di Abraham non erano più gli stessi. Ancora prima che avesse finito di formulare la domanda, infatti, il vecchio stava già sorridendo. «Se mi ricordo di voi? Voi tre ragazzi che, tac, comparite dal nulla? Mica si dimentica, una cosa del genere. L’altro giorno, quando vi ho visti scendere dalla barca, mi sono detto: Abraham, vecchio mio, quelli lì sono gli stessi che quasi quindici anni fa sbucarono dal nulla. E guardali: non hanno un giorno di più. Ma per fortuna avete confessato; credevo di essere rimbecillito.» Si chinò verso di loro. «Così l’avete ricostruita, eh, la verità su Cambridge Falls?» Kate scosse la testa. «È per questo che siamo venute da te.» «Ma dai, non prendetemi in giro! Due ragazzine vanno a farsi dei giretti nel tempo e dovrei credere che non abbiano ancora capito che posto è quello in cui abitano?» «Abbiamo pensato che... insomma, ci è sembrato che ci fosse qualcosa di strano...» «Qualcosa di strano, eh? Strano è dir poco.» «E il dottor Pym... lui è...?» «Lui è che cosa, ragazzina?» «È...?» Kate non riusciva a pronunciarla, quella parola. Per fortuna Emma aveva esaurito la pazienza. «È uno stregone?» «Sssssst!» Abraham trascinò la sua sedia ancora più vicino, facendo dei gesti perché abbassassero la voce. «Cerchiamo di non fare annunci alla cittadinanza di Westport!» Poi strizzò l’occhio, ridacchiando. «Però ci avete azzeccato. Quell’uomo è uno stregone, poco ma sicuro.» Kate posò a terra il bicchiere. Non si fidava più delle proprie mani. «E come avete fatto a scoprirlo? Ha forse fatto un incantesimo?» «Ha fatto più o meno comparire un fuoco» disse Emma. Abraham annuì con l’aria di chi la sa lunga. «Già, un uomo in gamba, il dottore, ma non riuscirebbe ad accendere un
fuoco nemmeno sotto minaccia di morte. Ma allora ditemi un po’, voi siete streghe?» Un’ombra di preoccupazione gli attraversò il viso. «Perché se siete streghe vi dirò solo che con voi mi sono sempre comportato da amico e non credo che trasformarmi in capra o farmi crescere un secondo fondoschiena...» «Non siamo streghe» lo rassicurò Kate. «Anzi» intervenne Emma, «abbiamo sempre pensato che la magia fosse solo una delle stupidaggini di cui parlava Michael.» «Ah sì?» Abraham si lisciò la barba. «Non lo sapevate che la magia esiste davvero?» «Cosa c’è di strano?» disse Kate. «Quasi nessuno crede che la magia esista davvero.» «Nemmeno Michael» aggiunse Emma. «E lui è bello strano.» «E allora com’è che...» «Ti spiegheremo tutto» disse Kate. «Ma tu devi raccontarci di Cambridge Falls. La verità.» Lui rimase a guardarle un lungo istante, poi sospirò. «D’accordo. Tanto ormai non è più un segreto. Ma ho bisogno di farmi una pipata.» Tirò fuori la pipa, premette il pollice sul fornello e accese con un legnetto preso dal focolare. «Dunque, la prima cosa che dovete sapere è che un tempo il mondo magico era unito al nostro. Così.» E intrecciò le dita nodose. «E così rimase per migliaia d’anni. Finché la gente, parlo della gente comune, cominciò a sparpagliarsi e moltiplicarsi, costruendo paesi e città. E la popolazione magica capì che il genere umano era inarrestabile. Così iniziò a ritagliarsi dei territori tutti per sé, rendendoli invisibili agli occhi umani e impenetrabili a chi non conosceva la via per arrivarci. Parti di mondo scomparvero dalle mappe. La cosa andò avanti per almeno un secolo. Poi, l’ultimo giorno di dicembre del 1899, quel che restava del mondo magico... Puf! Sparì.» «Ma non stai parlando della preistoria» lo interruppe Kate. «La gente dovrebbe ricordarsene!» «Qui si parla di magia seria, ragazzina. Alla gente furono tolti i ricordi. I ricordi delle isole e dei boschi che non c’erano più. Il ricordo dell’esistenza stessa della magia. Tutta la storia del mondo fu riscritta. Solo che loro ogni tanto si prendevano una città umana. A Cambridge Falls successe così. Io, la signorina Sallow e tutti qui in città viviamo da sempre fianco a fianco con la popolazione magica. In tempi migliori avevamo perfino rapporti con loro. Ma noi siamo umani esattamente come voi. Non come quelli che ci sono
là.» Fece un cenno con la pipa in direzione della finestra. «Su queste montagne succedono cose da non credere.» Il vecchio si chinò in avanti. «E adesso tocca a voi, care ragazze. Se non siete streghe, com’è che siete sbucate dal nulla quel giorno di quindici anni fa?» Le ragazze si scambiarono un’occhiata. Il loro timore era che, se gli avessero raccontato del libro, lui dicesse che era del dottor Pym e glielo facesse restituire. E a quel punto come avrebbero fatto a salvare Michael? «Abbiamo detto una bugia» disse Emma. «Noi siamo streghe. Volevamo solo vedere che cosa sapevi. Complimenti. Hai superato l’esame.» A Kate sembrò una pessima bugia, ma Abraham annuiva come se avesse sempre sospettato qualcosa del genere. Tanto meglio, pensò. «Abraham» disse, «ci servono delle vecchie fotografie. Di quando... di quando c’era lei.» Nonostante l’allegro focherello, nella stanza calò il gelo. Abraham abbassò la voce. «Parli della Contessa? E che cosa vuoi da lei? Erano tempi bui, quelli. Meglio dimenticarli.» «Per favore. Ci servono proprio.» «E se non ce le darai, ti trasformeremo in un rospo.» Emma lo guardò di traverso e agitò un dito. Il vecchio scattò subito in piedi e si precipitò a una cassapanca addossata alla parete, l’aprì e si mise a frugarci dentro. Kate lanciò alla sorella un’occhiata di rimprovero. Emma scrollò le spalle. «Però ha funzionato.» Abraham tornò con una spessa cartellina di pelle zeppa di fotografie. «Mi aveva nominato suo fotografo ufficiale, sapete? Che creatura vanitosa. Ripeteva sempre che era mio dovere lasciare ai posteri testimonianze della sua bellezza.» Sbuffò e consegnò la cartellina a Kate. «Potete tenerle. Sono ben contento di liberarmene.» Kate diede un’occhiata all’interno. C’erano centinaia di foto. Di sicuro ne avrebbero trovata una capace di riportarle al tempo e al luogo in cui si trovava Michael. «Abraham, chi era la Contessa? È per causa sua che Cambridge Falls è ridotta così?» Abraham sembrava intenzionato a non rispondere, ma Emma assottigliò gli occhi e lui alzò le mani in segno di resa. «D’accordo, vi dirò quel che so. Ma
chi sia la Contessa e da dove venga, davvero non ne ho idea. So solo che un giorno arrivò a Cambridge Falls con una cinquantina di quelle creature malefiche. Strillatori, li chiamavano i bambini. Ricordo che uno di loro prese voi tre al lago, quindi sapete bene che creature terribili e maledette sono quelle.» Un ceppo sibilò e si spaccò, e Abraham si interruppe per ravvivare il fuoco con l’attizzatoio. Quando riprese il racconto, la voce era più bassa. «Era estate. Una bellissima giornata. Nemmeno una nuvola. Gli uomini erano quasi tutti nelle miniere. Cioè a due ore di cammino dalle montagne. Così in città c’erano solo le donne e i bambini. E io, grazie alla gamba.» Con la mano si massaggiò distrattamente la gamba malata. «Ero a casa di mio cugino quando sentii un grido. Un verso come non ne avevo mai sentiti. Che mi lasciò senza fiato. Corsi fuori e vidi uno di quei mostri che inseguiva un bambino per strada. Non feci neanche in tempo ad aprir bocca che lo aveva già preso e portato via. Li seguii fino alla piazza. Non credevo ai miei occhi. Bambini dappertutto. E quegli Strillatori. Con le spade sguainate stavano respingendo le madri, le separavano dai loro piccoli. Fu allora che vidi la testa di riccioli biondi brillare in mezzo a quelle figure nere. Lei disse qualcosa e quei mostri radunarono i bambini come fossero un gregge e se li portarono via, giù verso la forra e sul ponte. Li seguii insieme alle madri, che piangevano e gridavano, e...» Abraham tacque. Stava guardando Kate. «Tutto bene, ragazzina?» «Hai la faccia tutta bianca» le disse Emma. «Sto... sto bene» farfugliò Kate. «Continua, per favore.» Ma non stava bene. Pensava ai bambini, alla paura che dovevano aver provato, al fatto di aver lasciato Michael con quei mostri... «Continua, per favore. Sto bene.» Abraham annuì e bevve un sorso di succo. «A quei tempi, nella grande casa abitava il vecchio signor Langford. Un tipetto alto una spanna. E con un bel po’ di quattrini. La sua famiglia gestiva le miniere da sempre. Be’, questo Langford è davanti alla porta di casa quando lei arriva con i suoi mostri e tutti quei bambini urlanti. Lui fa per chiederle cosa crede di fare, visto che quella è proprietà privata e chi si crede di essere eccetera eccetera, ma lei fa una risatina e, Dio santo, una di quelle creature non lo taglia mica a metà? Che scena. Un minuto prima quell’uomo era lì a dirle di sloggiare e adesso si ritrovava tranciato in due. A dir la verità, a nessuno piaceva molto quel tappetto, arrogante com’era, però che brutto modo di andarsene. Quando la metà di sopra si staccò da quella di sotto, la bocca si stava ancora muovendo.» Kate ed Emma stavano assolutamente immobili, senza quasi azzardarsi a
respirare. Abraham ravvivò di nuovo il fuoco; era immerso nel passato. «Mandammo qualcuno ad avvertire i minatori. Ma quando tornarono era già buio. Prendemmo delle torce e tutte le armi che riuscimmo a trovare, e attraversammo il ponte.» Abraham rise senza allegria. «Chissà cosa credevamo di fare. Mica eravamo gente abituata a combattere. E lì c’era una strega cattiva con un’orda di demoni guerrieri. Che speranze avevamo?» Scosse la testa. «Lei scese i gradini di casa e ci venne incontro. L’accompagnavano tre Strillatori. Ma le bastò alzare la manina così», Abraham sollevò il palmo, «e tutti noi ci fermammo. Con la sua voce alta e dolce disse: ’Qui dentro ci sono i vostri figli, ciascuno con una lama alla gola. Fate un solo passo verso la porta e sono morti’. Oh, che silenzio tremendo. Non volava una mosca. Ricordo le due metà del corpo di Langford ancora sui gradini e lei che ci guardava, bellissima e terribile alla luce delle torce. Poi ci disse che sulle montagne c’era una cosa che voleva. Disse che, se gliela portavamo, ci restituiva i nostri bambini.» «E voi?» chiese Emma, col fiato sospeso. «Secondo te, ragazzina? Gli uomini andarono sulle montagne con una banda di mostri alle calcagna. Le donne tornarono in città e lei rimase in casa con i bambini.» Per un minuto buono, nessuno parlò. L’unico rumore era il sibilare e lo scoppiettare del fuoco. Kate si rese conto di aver stretto la cartellina così forte che le mani si erano bloccate. Le aprì lentamente, allargando le dita. «E nessuno provò mai a combattere?» chiese Emma alla fine. «Qualcuno sì. Quelli che non ne potevano più di vivere senza la moglie o i figli e impazzivano.» «E a loro cosa successe?» «Lei aveva una nave. La usava come prigione galleggiante per chi disubbidiva. Di notte si sentivano le grida arrivare dal lago.» Abraham rabbrividì. «Si diceva che là facesse cose brutte. Cose orribili.» «Che cosa cercava?» «Non l’ha mai spiegato di preciso. Ma giravano voci.» «Che voci?» Abraham ormai sussurrava. «Si diceva che fosse un certo libro. Un grande libro di magia che tanto tempo prima era stato sepolto in montagna. Immaginate», qui la voce si
abbassò ancora di più, e Kate ed Emma dovettero sforzarsi per capire, «immaginate una cosa tanto terribile, tanto spaventosa da dover essere sepolta lontano dagli occhi degli uomini.» Kate guardò Emma. Gli occhi scuri della sorella si erano fatti enormi. Tutt’e due stavano pensando alla stessa cosa. Il libro che la Contessa cercava era il loro libro? Ma l’avevano trovato nella casa, il loro. Non poteva essere quello. «E alla fine come andò?» chiese Emma. Abraham scosse la testa. «No, non dirò altro. Trasformatemi pure in un tritone. Certe cose non bisogna rivangarle.» «Per favore» disse Kate, «dobbiamo sapere cos’è successo ai bambini.» E disse le parole che da tempo le tremavano dentro. «Lei ha preso nostro fratello.» «Cosa?» «Non è ammalato. Lo abbiamo lasciato là. Nel passato... l’ho lasciato là.» «Oddio...» Abraham si passò la vecchia mano sul viso. «Sì, adesso mi ricordo. Nel tempo ho cercato di dimenticare tante cose, ma di vostro fratello mi ricordo.» Scosse la testa. «No, non posso dirvelo. Non chiedetemi di farlo. Mi dispiace. Dovete andare dal dottor Pym. Solo lui può aiutarvi. Mi dispiace...» Fece per alzarsi in piedi, ma Kate lo afferrò per la manica. «Puoi almeno mostrarci l’ultima fotografia che hai fatto? Per favore!» Il vecchio batté più volte le palpebre, evidentemente sorpreso di quella richiesta. Poi, zoppicando, andò alla scrivania, aprì la serratura di un cassetto e tirò fuori un’unica vecchia fotografia. Con le mani tremanti, la consegnò alle sorelle. Era una foto buia e sfocata. Sembrava raffigurare un gruppo di donne che correvano lungo l’orlo della forra. Molte figure reggevano una torcia. Ma, per quanto scadente fosse l’immagine, sia Kate sia Emma avvertirono la paura e la preoccupazione delle donne. Una porta sbatté. Sollevarono gli occhi e videro Abraham salire la scala a chiocciola per entrare in camera da letto e poi chiudere la porta. «Andiamo» disse Kate, mettendosi in tasca la foto, e scesero dalla torre. Entrarono in cucina: era quasi sera e dopo la colazione non avevano più toccato cibo. La signorina Sallow, che aveva messo l’oca ad arrostire in forno, era troppo
presa con la cena per rimproverare le ragazze di aver saltato il pranzo. Presero pane, formaggio e salame e scapparono di sopra. Su una cosa Abraham aveva ragione: la Contessa era vanitosa. Le fotografie della Contessa in abito da sera non finivano più. La Contessa ingioiellata. La Contessa in barca. La Contessa che giocava a badminton con il suo strambo segretario. Di solito guardava con ritrosia verso la macchina fotografica, come se fosse stata colta di sorpresa. Eppure, com’è, come non è, era sempre riuscita a farsi riprendere il profilo sinistro. «Guarda questa.» Emma era per terra, circondata di foto, e ne aveva in mano una in cui la Contessa compariva civettuola sotto un parasole di pizzo. «Te l’avevo detto che era un po’ montata.» La buttò su una catasta che cresceva in un angolo. Kate, sul letto, ne stava passando in rassegna altre e, tutte le volte che gliene capitava in mano una di uno Strillatore, la infilava subito sotto quelle già accatastate. Negli ultimi due giorni aveva cercato di non pensare troppo alla sorte di Michael. Era stato necessario, per poter andare avanti. Ma adesso che aveva ascoltato la storia di Abraham e visto le foto di quelle creature, con i loro stracci neri e le lunghe spade scheggiate, la paura per il fratello le riempiva il cuore. Quando arrivò alla foto di uno Strillatore particolarmente spaventoso, sopraffatta dalla preoccupazione spinse da parte tutta la catasta. Emma fece un verso e buttò un’altra foto in un angolo. Kate aveva il libro posato accanto al ginocchio e per un attimo passò il dito sulla copertina verde smeraldo. Pensò alla visione della notte prima. Aveva soltanto sognato? Aprì il libro e premette le dita su una pagina bianca. L’effetto fu immediato. Nitidamente come se fosse stata là, vide la cittadina sulle rive del fiume. Ma adesso era più grande. C’erano strade di pietra, un muro. Un mercato. Vedeva un brulichio di uomini e donne. Sentiva l’insistenza delle voci. Voltò pagina e posò le dita. Vide un vasto esercito marciare su una strada, con la polvere che si sollevava dai sandali. Udì le lance tintinnare contro gli scudi, il battere ritmico di un tamburo. Dietro l’esercito, in lontananza, scorse la cittadina sul fiume: era in fiamme. Trattenne il respiro e sfogliò ancora. L’esercito scomparve. Vide una flotta in
mare. Navi scosse dalle onde, vele che sbattevano al vento. Udiva le grida dei marinai, gli schiocchi delle cime, sapeva che le stive di legno erano zeppe di tesori di terre lontane. Voltò ancora qualche pagina. Vide persone in fuga mentre un drago nero e un drago rosso combattevano in volo sopra la città, vomitando fiammate. Si avvilupparono e caddero, distruggendo case, spandendo fuoco. Un’altra pagina. Un cavaliere in armi si inoltrava in una grotta mentre un mostro dalle lunghe braccia squamose guizzava fuori dal buio con un sibilo. Qualche altra pagina dopo, una mongolfiera si sollevava in cielo mentre donne in abito lungo e uomini in paglietta bianca applaudivano. Un’altra pagina e vide una città piena di automobili antiquate. Sfogliò fino a una delle ultime pagine. Aspettò. Non successe niente. Rimase a guardare la carta bianca. Proprio in centro, comparve una macchiolina nera. Sotto gli occhi di Kate cominciò ad allargarsi, come una macchia d’inchiostro. All’improvviso tutta la pagina era nera. Dopodiché, Kate si avvide con orrore che quel nero le era arrivato sulle dita. «Kate!» Emma, dall’alto, la guardava. Kate si rese conto di essere sdraiata a pancia in su. «Che c’è?» «Hai gridato.» «Ma cosa dici? Non è vero.» «Oh, sì, invece» disse Emma. «E sei quasi svenuta.» L’aiutò a tirarsi su. Kate lanciò un’occhiata al libro. La pagina era tornata bianca. «Cos’è successo?» chiese Emma. «Niente.» Kate allungò la mano e chiuse il libro. «Vabbè. Guarda cos’ho trovato.» Emma le passò una fotografia. Un grido le si fermò in gola. In uno sbiadito bianco e nero, a guardare Kate dal passato, c’era Michael. Era da solo, con un angolo di casa visibile nello sfondo. E reggeva un cartello scritto a mano che diceva: «AIUTATEMI». Qualcuno cercò di aprire la porta. «Che succede? Chi è che ha chiuso a chiave?!» Era la signorina Sallow. «Sbrighiamoci» sibilò Kate. Sgombrarono in fretta e furia una parte del letto e Kate tirò il libro verso di sé. «Mi raccomando, devi tenerti a me.»
«Cos’è, avete paura che qualcuno venga a rubarvi i gioielli della corona di Francia? Aprite questa porta!» Kate prese la foto di Michael e aprì il libro. Di nuovo, le pagine erano bianche. Il cuore le batteva forte. Sapeva che doveva farlo subito, adesso, prima di perdere coraggio. Fece per posare la foto sul libro. «Aspetta!» Emma le strinse il braccio. «Ma cosa fai? Dobbiamo...» «Ci serve una foto per tornare indietro.» Kate ebbe un tuffo al cuore. Per poco non aveva spedito se stessa e la sorella nel passato senza prepararsi la via del ritorno. Emma afferrò la macchina fotografica di Michael, inquadrò Kate e scattò. Dopo un istante la macchina sputò fuori la foto. «Le orecchie reali non ci sentono? L’oca è pronta e il dottor Pym mi ha mandata a chiamarvi, vostre maestà. Compreso il Delfino, guarito o non guarito che sia. Quindi ouvrez la porte o l’aprirò io!» «Un secondo!» gridò Kate, cercando di assumere un tono rilassato. «Un secondo e usciamo!» Emma soffiò sulla foto e se la mise in tasca. «Pronta» disse, attaccandosi al braccio di Kate. Intanto la signorina Sallow continuava a borbottare fuori dalla porta, passando in rassegna le chiavi che portava alla cintola. Kate si fermò, tenendo sospesa la foto sopra la pagina bianca. Sentiva di nuovo quel buio uscire dal libro, minacciando di inghiottirla. «Cosa c’è che non va?» chiese Emma. Kate prese fiato, si concentrò su Michael e posò la foto sulla pagina.
Capitolo 7 Ospiti della Contessa † Mi dispiace tanto» disse Kate, per la sesta o settima volta. «Mi dispiace tanto...» Nel momento in cui erano apparse, Kate ed Emma si erano precipitate verso Michael e lo avevano abbracciato con tanta foga da farlo quasi cadere. Gli chiesero se stava bene, per quanto tempo lo avevano tenuto prigioniero, se la Contessa gli aveva fatto del male. Emma gli disse che bastava una sua parola e sarebbe andata subito ad ammazzarla, quella strega. Era appena scesa la sera. Si trovavano a una ventina di metri di distanza dalla casa, sul margine di una fitta pineta, con i rami che, intrecciandosi, si innalzavano nel cielo all’imbrunire. «Sto bene» stava dicendo Michael, «sono qui da appena qualche giorno. Ragazze, così non respiro.» Riuscì a liberarsi, ma Kate continuava a tenerlo per le braccia con un fervore con cui sembrava promettergli di non lasciarlo mai più. Aveva gli occhi lucidi di lacrime. «Non l’abbiamo fatto apposta. Credevo che fossi attaccato a me. Non avrei mai...» «State a sentire» disse Michael, raddrizzandosi gli occhiali, «adesso non c’è tempo per queste cose. Insomma, è chiaro che vi perdono e tutto quanto. Ma dobbiamo andarcene di qui. Probabilmente mi stanno già cercando. Dammi il libro.» Kate esitò un istante, senza sapere bene perché, poi glielo consegnò. «Scusate.» Kate si girò. Alle loro spalle c’era Abraham, che giocherellava nervosamente con la sua macchina fotografica. Finora lei non si era nemmeno accorta della sua presenza. «Be’, niente da dire se comparite dal nulla eccetera eccetera, voi altri fate così, si sa, ma se non vi dispiace io tolgo il disturbo, d’accordo? Ecco, allora...» E senza dare a nessuno il tempo di replicare, se n’era già andato zoppicando fra gli alberi. Kate si girò di nuovo verso Michael e vide che lui non aveva nemmeno sollevato lo sguardo. Era tutto preso a sfogliare il libro. Le venne spontanea una domanda.
«Come hai fatto a scappare dagli Strillatori? Non ti tenevano prigioniero insieme agli altri bambini?» «E come hai fatto a ritrovare Abraham?» chiese Emma. «Era qui nei paraggi?» Michael richiuse il libro. «Dovete fidarvi di me. Qualsiasi cosa succeda, tutto si aggiusterà.» «Ma cosa dici?» fece Kate. «Dobbiamo andarcene.» E stava per dire a Emma di prendere la foto che aveva scattato in camera quando qualcuno ridacchiò. Fu come sentire dell’acqua fredda colarle giù per la spina dorsale. Il Segretario della Contessa sbucò da dietro un albero. Indossava la stessa giacca gessata di quel giorno alla diga; solo che adesso, da vicino, Kate vide le macchie di unto. L’uomo sorrideva, con quei suoi radi denti grigi. Un piccolissimo uccellino giallo era posato sulla sua spalla. «Oh, bene, bene, bene.» Aveva la voce squillante, quasi isterica. Si sfregò le mani tutto contento. «Alla Contessa farà molto, molto piacere.» «Ve l’avevo detto che sarebbero tornati a cercarmi» disse Michael. Kate non riusciva a crederci. Non era possibile. Michael non le avrebbe mai tradite. E continuava ancora a ripeterselo quando due Strillatori nerovestiti sbucarono dalle ombre. ______________________
Il Segretario, avvicinandosi all’ingresso della casa, urlò allo Strillatore di guardia di aprire la porta. Ma la scura figura non gli diede retta e l’uomo dovette aprirsela da solo, lamentandosi per la mancanza di rispetto e borbottando che avrebbe riferito alla Contessa. Li condusse in una serie di corridoi tortuosi. Michael tentò a più riprese di parlare con le sorelle, ma ogni volta Emma lo fulminava con occhiate di fuoco che lo facevano desistere. Il ragazzo aveva gli occhiali piegati e un segno rosso sulla guancia. Un istante dopo l’arrivo degli Strillatori, Emma gli si era avventata contro, buttandolo a terra. Lo aveva tempestato di pugni, dandogli del traditore, del rinnegato, urlando che non era più suo fratello. Durante la zuffa, il libro gli era caduto di mano e Kate e il Segretario ci si erano buttati sopra contemporaneamente. Dopo
un po’ di tira e molla, uno Strillatore aveva colpito Kate con un forte manrovescio. Lei era rimasta a terra, con le orecchie che tintinnavano, a guardare l’altro Strillatore che, tra i calci e le urla di Emma, la divideva da Michael. A Kate pulsava ancora la testa. Tuttavia non poté fare a meno di notare quant’era diversa la casa. Le finestre e gli specchi erano puliti. La luce delle candele scintillava su lustri pavimenti di legno. Non c’erano tappezzerie strappate né mobili rotti o adibiti a case per famiglie di animali. La Contessa poteva anche essere cattiva, ma sulle faccende domestiche avrebbe avuto tanto da insegnare alla signorina Sallow. Kate prese sua sorella per mano. La faccia di Emma era immobile, una maschera macchiata di lacrime. «Non è colpa di Michael» le sussurrò. «È stata quella strega. Gli avrà fatto un incantesimo. Non è colpa di Michael. Ricordatelo, non è colpa sua.» Emma annuì, ma le lacrime continuarono a scenderle sulle guance. Il Segretario si fermò a una doppia porta in un’anticamera poco illuminata. Kate sapeva che erano davanti alla sala da ballo. Immaginava i lampadari abbandonati per terra e coperti di ragnatele, il balcone mezzo crollato, le finestre rotte. «Voi rimanete qua» ordinò il Segretario agli Strillatori, i cui occhi gialli luccicavano nella penombra. Cavendish avvicinò la faccia a Kate. Non era molto più alto di lei e l’alito gli puzzava di cipolla. Era di gran lunga la persona più disgustosa che avesse mai conosciuto. «Datemi retta, pulcini, non fate arrabbiare la Contessa. Non volete finire sulla nave, vero? Ai pulcini non piace la nave.» Sfoderò il suo sorriso a denti grigi. «Dovresti lavarti i denti» gli disse Emma. «Almeno per un anno di fila.» Cavendish richiuse le labbra e la guardò storto. Con la testa fece segno di seguirlo e spinse la doppia porta. Fu come entrare in un sogno. Kate ed Emma, accecate dalla luce, batterono qualche volta le palpebre e poi, non credendo ai loro occhi, le batterono ancora. Un centinaio di coppie volteggiavano e piroettavano sul pavimento al ritmo di un valzer suonato da un’orchestra di trenta elementi. Kate vide il direttore che, sventolando le braccia, si girava a guardare i ballerini come un padre orgoglioso. Alcuni uomini indossavano il frac, con le lunghe code che volavano in fuori quando ruotavano con la compagna. Altri erano in divisa, con la fusciacca rossa o blu e il petto che luccicava di medaglie d’oro. Le donne portavano gonne tempestate di rubini, perle e smeraldi.
E dappertutto Kate vide diamanti su colli nudi, a rifrangere la luce di migliaia di candele che ardevano nei lampadari a corona. Un cameriere in livrea verde e lunghe calze bianche le passò davanti per portare un vassoio di champagne agli uomini e alle donne più in là con gli anni, in piedi lungo le pareti. «Aspettate qui, pulcini» sibilò Cavendish. «La Contessa arriverà quando ne avrà voglia.» Fu allora che Kate la vide, con la sua testolina dorata che splendeva nel centro esatto della folla danzante. La pelle era di un bianco immacolato, l’abito del color del sangue e i diamanti che le ricoprivano la gola e il petto brillavano come se soltanto loro illuminassero la sala. Il suo compagno era un atletico giovanotto in divisa, con i baffi castani più impressionanti che Kate avesse mai visto. La Contessa disse qualcosa e il giovanotto arretrò con un inchino. Lei rispose con una piccola riverenza e, sollevandosi l’orlo del vestito, saltellò fra le coppie fino a raggiungere i tre ragazzi accanto a Cavendish, che si dimenava impaziente. La Contessa aveva il viso acceso per il caldo e la danza, e gli occhi che scintillavano di vita. Erano di un azzurro carico, quasi viola, e Kate, nell’istante in cui si posarono su di lei, si sentì la persona più fortunata del mondo. «Sei venuta! La mia bella Katrina!» La Contessa le prese la mano e, senza darle il tempo di reagire, la baciò sulle guance. Alle sue spalle c’erano coppie che turbinavano in perfetta armonia, creando uno sfondo da vertigine. «E che fortuna che tu sia arrivata in tempo per il ballo. Qui c’è la crème di Pietroburgo. Pensa che dovrebbe arrivare perfino lo zar, anche se alla fine non verrà, quello stupido. Ma adesso dimmi, mia cara.» Si avvicinò a Kate e sussurrò: «Che te ne pare del giovane signore con cui stavo ballando?» Il giovanotto in questione era uscito dalla pista da ballo per unirsi ad altri due uomini in divisa. Se ne stava diritto come un fuso, una mano infilata nella cintura e l’altra che lisciava i baffi. «È il capitano Alexej Markov, terzo reggimento degli ussari» disse la Contessa, abbassando la voce in tono cospirativo. «È un po’ troppo orgoglioso dei suoi baffi, ma rimane pur sempre un gran bell’animale. Fra poco avremo una storia, anche se non finirà bene.» Aggrottò la fronte con fare teatrale. «Alexej continuerà a vantarsene al club e io non avrò scelta: dovrò uccidere
lui e tutta la sua famiglia.» Kate sorrise e intanto vide Emma fissarla con orrore. Fu come risvegliarsi con uno schiaffo. Con il cuore che martellava, ritrasse la mano da quella della Contessa. Se la Contessa se n’era accorta, non commentò. Stava indicando con il ventaglio un vecchissimo signore con gli scopettoni bianchi che dormiva in una poltrona. La collezione di medaglie che esibiva era tanto grande da sbilanciarlo da una parte. Kate si aspettò quasi di vederlo cadere dalla sedia trascinato dal peso. «Guarda il mio adorato marito» disse la Contessa, sovrastando la musica. «Non è indicibilmente disgustoso? E pensare che quando lo sposai, a sedici anni, ero considerata la donna più bella di Russia! Facciamo un giro nella sala?» Si avviò, e Cavendish, sempre stringendo il libro al petto, diede una spinta a Kate ed Emma perché la seguissero. «Devo riconoscere» disse la Contessa, avanzando tra la folla e annuendo a destra e a sinistra, «che c’era chi si ostinava a lodare Nata ša Petrovskij, con il suo incarnato color latte cagliato e i suoi occhi bovini. Ovviamente prima che le capitasse quel brutto incidente con la brocca di acido. Poverina, ho saputo che è morta in un manicomio ungherese. Matta come un cavallo. Farneticava continuamente di una strega.» La Contessa ridacchiò, coprendosi la bocca con il ventaglio e lanciando a Kate un’occhiata come per dire: «Che cattivona sono, eh?» «Ma dov’ero rimasta?» riprese. «Ah, sì, mio marito. Quando sposai il conte, tutti dicevano che non gli restavano più di sei mesi di vita. Va da sé che io non ero disposta a concedergli nemmeno quelli. E invece quel testone non mi tira avanti quasi un anno? Devo ammettere che è sopravvissuto ad almeno cinque miei tentativi di avvelenamento. Mai sposare uno che fa lo schizzinoso a tavola, ragazze mie. Sono solo rogne.» Nessun ospite sembrava accorgersi dei tre ragazzi. Quando Kate, Emma o Michael si avvicinavano, ma a dire il vero anche quando si avvicinava il Segretario, quelle persone impeccabilmente vestite si facevano da parte senza guardarli in faccia. La Contessa emise una risatina sonora. «Alla fine sono andata da una megera a comprare una pozione di zampe d’api, pasta d’ambra e fiato di salice. Non c’è stato bisogno che la mandasse giù. L’ha inalata dormendo e l’indomani mattina era morto come un contadino d’inverno, lasciandomi unica padrona del più vasto patrimonio del regno dello zar.» Si rivolse a loro, con il viso acceso al ricordo, e fece un profondo inchino. «Contessa Tatiana Serena Aleksandra Ruskin, per servirvi.»
Kate ed Emma rimasero a guardare la bionda testa china. Michael si sporse verso di loro e sussurrò: «Cortesia vorrebbe che...» Ma Emma gli mollò una gomitata nelle costole. Kate ripensava alla prima volta che avevano visto la Contessa, alla diga, e di come le fosse parsa fin troppo raggiante, fin troppo bella, fin troppo piena di vita. Adesso Kate capì: quella non era la realtà. La Contessa non aveva sedici o diciassette anni. Anzi, se era chi diceva di essere, se era viva quando in Russia c’erano ancora gli zar, poteva avere cent’anni. O forse di più. Si teneva giovane con la magia. Non c’era da meravigliarsi che certe volte sembrasse recitare la parte dell’adolescente. Con un morbido fruscio di seta, la Contessa sollevò la testa e guardò verso i ballerini. «Già» disse, con filosofica estenuazione, «questo era il mio mondo. Avevo la ricchezza, una posizione sociale, la bellezza. Ingenua com’ero, ero convinta di aver ottenuto qualcosa. Ma dovevo ancora imparare il vero significato del potere.» Batté le mani guantate di pizzo e tutto scomparve, gli uomini in divisa e in frac, le donne in abito lungo, l’orchestra, i camerieri in livrea verde, la luce dei lampadari: tutto sparito. I ragazzi si ritrovarono di colpo soli con la Contessa e il suo Segretario dai denti di topo nella grande sala immersa nel silenzio. Solo qualche candela tremolava lungo le pareti. «Bene» disse la Contessa con un sorriso, «usciamo in veranda? Vorrei prendere una boccata d’aria. E credo che voi abbiate qualcosa per me.» ______________________
La Contessa fece aspettare Kate ed Emma con il Segretario mentre Michael l’aiutava a coprirsi le spalle con uno scialle di seta nera. Kate intanto scrutava il Segretario per cogliere eventuali segni di distrazione, qualsiasi cosa potesse darle l’opportunità di riprendersi il libro. Aveva già bisbigliato a Emma di tenersi pronta con la fotografia. Ma soprattutto avrebbe voluto che le mani smettessero di tremarle. Le aveva chiuse a pugno e, siccome non aveva funzionato, le aveva cacciate in tasca perché Emma non le vedesse. Non voleva far sapere alla sorella quanto era spaventata e disperata. Il Segretario mormorò qualcosa all’uccellino sulla sua spalla e strinse ancora
di più il libro al petto. All’improvviso, Kate sentì in tasca la mano di Emma, che cercava di aprirle le dita infilando la mano nella sua. Alzò lo sguardo e vide la faccina della sorella sollevata verso di lei, con quegli occhi scuri pieni di fiducia e di amore. A voce tanto bassa che soltanto Kate poté udirla, Emma disse: «Andrà tutto bene». Kate si sentì quasi scoppiare il cuore. Aveva sempre saputo che sua sorella era forte, ma aveva pur sempre tre anni di meno, e in un momento cupo come quello, che fosse proprio Emma a cercare di infonderle forza... «Venite» disse la Contessa, passando rapida accanto a loro. Li condusse su un patio di pietra cui si accedeva dal retro. Era una serata tiepida, con l’aria che pesava del dolce profumo dei fiori. In alto erano appesi draghi di vetro di ogni colore, con le fiamme delle candele che si agitavano nelle fauci aperte. Su un tavolo al centro del patio c’era un vaso di porcellana con accanto una caraffa di cristallo piena di liquido scuro. «Prego» disse la Contessa, indicando le sedie. «Mi piace da morire, d’estate, starmene seduta fuori la sera. Forse è il mio sangue russo a ricordarmi che l’inverno non è mai lontano. Gradite un’aranciata? Giuro che non ci ho messo il veleno.» Senza aspettare risposta, il Segretario cominciò a mescere la bevanda, versandone un bel po’ sul tavolo. Kate, per quanto fosse spaventata e preoccupata, non poté fare a meno di pensare come tutto avesse un’aria familiare. La casa, le stalle. Quello era il posto in cui vivevano. Eppure erano così lontani da casa! Lanciò un’altra occhiata furtiva al libro che il Segretario teneva sotto il braccio. In un modo o nell’altro, dovevano riprenderselo. All’improvviso la notte fu lacerata da un grido. Kate sentì la mano di Emma stringere la sua ancora di più. Il grido arrivava da lontano, dal folto del bosco. Ma era impossibile non riconoscerne la fonte. La Contessa stava versandosi nel bicchiere il liquido della caraffa, quale che fosse. Era di un color rubino carico e stranamente denso. «Ogni tanto le donne del paese cercano di avvicinarsi alla casa. Senza dubbio perché vogliono vedere i figli. Ormai dovrebbero aver capito. Non hanno alcuna speranza di superare le mie guardie.» Fece mulinare il liquido nel bicchierino. «Che creature straordinarie, i morum cadi. Sono infaticabili. Non conoscono il dolore né la paura né la compassione. Sono posseduti unicamente dall’odio per qualsiasi essere vivente.»
Sollevò il bicchiere alle labbra e lo vuotò. «Come li hai chiamati?» chiese Kate, maledicendo il tremore che sentiva nella propria voce. «Morum cadi, i guerrieri immortali» rispose la Contessa. «Anche se devo riconoscere che Strillatori è un nome azzeccato. Un tempo, secoli fa, erano uomini. Ma barattarono l’anima in cambio del potere e della vita eterna. E li ottennero, in un certo senso.» «Non sono poi tanto male» disse Emma. «Più che altro puzzano.» La Contessa sorrise indulgente. «Che bugiarda coraggiosa.» Si riempì di nuovo il bicchiere. «Dicono che il grido di un morum cadi sia quello di un’anima fatta a pezzi, in continuazione, per l’eternità. Ne basta uno per far venire i brividi, ma mille insieme in un campo di battaglia... Ho visto eserciti interi battere in ritirata.» Sollevò alle labbra il liquido rosso. «Che scena!» Kate immaginò una mamma attraversare di corsa il bosco, con le gambe che si facevano pesanti, mentre quelle grida si avvicinavano. «Ahi» fece Emma. Kate le stava stritolando la mano. Allentò la presa e sussurrò: «Scusami». «Quanta devozione» tubò la Contessa, «ma io so qual è la verità.» Si sporse sopra il tavolo e mise un dito sotto la base del collo di Kate. «Sei stata abbandonata dalle persone più care. La ferita ti segue come un’ombra. Ma io potrei scacciarla. Sarebbe tanto semplice...» Ritirò la mano; una sottile spira grigia era attaccata alla punta del dito. Come se l’avesse tirata fuori dal petto di Kate. Quando la tolse, Kate tirò un respiro a pieni polmoni. «Che cosa...?» «Che cos’ho fatto? Mia piccola, dolce Kat, ti ho liberata! Oh, che peso hai dovuto portare! Non senti come ti ha consumata, poco a poco, ogni giorno della tua vita? Ma adesso se n’è andato, se ne sono andati dolore e sofferenza, se n’è andata la paura; te li ho tolti. Pensa come sarebbe vivere per sempre così.» Aveva ragione, pensò Kate. Le sembrava di respirare per la prima volta dopo anni. «Basta una tua parola e non sentirai mai più nulla.» La spira ondeggiava nell’aria, sempre attaccata alla punta del dito. Kate ripensò alla mamma che, chinata sopra di lei, le diceva di proteggere il fratello e la sorella e, benché ne avesse il ricordo, la percezione dell’amore di
sua madre e l’emozione di quell’ultimo bacio non c’erano più. «Ridammela.» «Ne sei certa, mon ange? Qui dentro c’è molto dolore.» «Ridammela.» Se conservare quel momento significava vivere per sempre nel dolore, Kate lo avrebbe accettato. La Contessa scrollò le spalle e le toccò il petto. Kate sentì il peso calare sopra di lei come un sudario. «Bene, vediamo che cosa mi avete portato.» Il Segretario era rimasto fino ad allora a qualche metro di distanza, con tutt’e due le braccia strette avidamente attorno al libro. Ora si fece avanti e lo posò con zelo sulle mani tese della Contessa. Lei, quando le dita toccarono la copertina verde smeraldo, emise un gridolino soffocato. Era chiaro che cercava di contenersi, ma quando aprì il libro e lo sfogliò, le mani tremavano. Dopo un minuto, e con evidente sforzo, lo mise giù. Kate la udì mormorare: «Finalmente». La Contessa guardò i tre ragazzi con gli occhi che brillavano più che mai. «Alors, mes enfants, volete sapere che cosa avete trovato?» ______________________
La Contessa cominciò dicendo che, per capire l’origine del libro, i ragazzi dovevano prima immaginare un’età remota in cui il mondo della magia e quello degli uomini erano tutt’uno, prima che il mondo magico cominciasse a separarsi dall’altro e al genere umano fosse fatto dimenticare... «Sì, sì» la interruppe Emma sgarbatamente. «Lo sappiamo già.» «Ebbene» riprese la Contessa, sempre con voce dolce e carezzevole, «il centro del mondo magico, sede della più grande conoscenza e del più alto potere, era Alessandria. O Rhakotis, com’era conosciuta, dove il grande deserto incontrava il mare. La città era governata da un consiglio di stregoni che faceva risalire le proprie origini alla notte dei tempi. La loro conoscenza era antica, primordiale. Tramandata da maestro ad allievo per migliaia di anni. Ma, per quanto potenti, gli stregoni capirono che per loro il tempo era agli sgoccioli, che l’era degli umani si avvicinava, e temevano il giorno in cui sarebbero stati dimenticati.» «Perché vedete», e qui la Contessa sorrise a Kate ed Emma, «benché fossero stregoni, erano anche uomini. E come gli uomini di tutti i tempi, non potevano concepire un mondo in cui avrebbero cessato di avere importanza.
Perciò cosa fecero, quegli sciocchi saggi? Misero per iscritto i loro segreti, le formule recitate al momento della nascita dell’universo, le parole pronunciate miliardi di anni fa, nel buio e nel silenzio, per dare vita a ogni cosa; e, così facendo, pensavano di durare nel tempo attraverso la trasmissione del sapere.» La Contessa rise, ma non era l’allegra risata argentina di prima. Era dura, sprezzante. «I loro avi invece lo avevano capito da subito. Certe cose sono troppo potenti e non devono finire in mano a una sola persona. Perciò il sapere era sempre stato diviso fra i membri del consiglio, di modo che nessuno sapesse con precisione quali conoscenze fossero in possesso degli altri. Questo sistema aveva garantito la sicurezza. E quando qualcuno propose di raccogliere tutti i segreti in un unico scritto, si sollevarono voci sfavorevoli. Dicevano che condensare tanto potere era troppo pericoloso e che tutto poteva andare perduto. Ma a vincere furono altre voci e così le grandi magie furono affidate alla semplice carta.» «Ovviamente non erano completamente sprovveduti. Idearono sistemi di protezione. Avete visto anche voi che le pagine sono bianche. Ci vorrebbe una vita intera di studi di magia per leggere e capire anche una sola pagina. Inoltre fondarono un ordine di guardiani la cui unica missione era di proteggere i Libri.» «Intendi dire» chiese Kate «che ce ne sono più di uno?» «Sì. Gli stregoni crearono tre grandi libri, che chiamarono i Libri dell’Inizio. E li seppellirono in una cripta segreta nelle viscere della città.» «E poi?» chiese Emma, ancora sgarbatamente come se non le interessasse, anche se Kate capiva che si beveva ogni parola. La Contessa scrollò le spalle. «Poi successe quel che succede a tutte le grandi civiltà. Convinti di appartenere alla società più illuminata della terra, degenerarono e si infiacchirono. Il consiglio si divise e cadde. Ci avevano visto giusto: l’era della magia era al tramonto. Alla fine la città fu conquistata da Alessandro, il primo grande signore umano della guerra. La distrusse col fuoco. E una volta setacciata tutta la cenere, dei Libri non c’era più traccia.» «Da qui in poi si possono fare solo ipotesi. C’è chi crede che i Libri se li sia portati via Alessandro e siano rimasti in suo possesso fino alla sua morte, quando sarebbero stati rubati dal suo sommo mago. Secondo altri, sarebbero stati trafugati prima dell’assedio dall’ordine dei guardiani creato dagli stregoni e poi divisi e nascosti negli angoli più disparati della terra. Altri ancora pensano che, nel caos della caduta della città, i Libri siano stati rubati da gente che non aveva idea della loro importanza e nel corso del tempo siano passati di mano in mano. Se qualcuno scopriva per caso la loro natura, utilizzava il potere del libro nel modo più rozzo e semplice, come
avete fatto voi tre viaggiando nel tempo. Ovviamente erano sempre circolate voci che questo o quel libro fosse tornato alla luce, ma si trattava di dicerie. A quanto ne so, nessuno può dire in tutta onestà di aver visto uno dei Libri dell’Inizio da quando Alessandro, tremila anni fa, marciò su Rhakotis. O meglio, nessuno poteva dirlo finora.» Posò delicatamente la mano sulla copertina. Per qualche istante nessuno parlò. Kate avrebbe tanto voluto dire: «E allora?» A lei non importava niente che quel libro fosse stato scritto da un manipolo di stregoni chissà quanto tempo prima. A lei quel libro serviva soltanto per riportare a casa il fratello e la sorella. Poi Michael chiese: «Così adesso lo farai?» Kate lo guardò. Da quando erano seduti lì, si era fatto via via più pallido e sudava visibilmente. Gli occhiali continuavano a scivolargli giù sul naso. «Adesso ce l’hai, no? Quindi manterrai la promessa?» La voce era implorante. «Di cosa parla?» volle sapere Emma. «È molto semplice, mia cara» rispose la Contessa. «Volevo che tu e tua sorella tornaste con il libro. Così ho fatto un’offerta a tuo fratello. In cambio, ha acconsentito ad attirarvi qui e consegnarvi a me.» Emma sbuffò. «E secondo te dovremmo crederci? Gli hai fatto un incantesimo e basta.» «Mi dispiace, ma tuo fratello mi ha aiutata di sua spontanea volontà.» La Contessa lo disse come se stesse semplicemente esponendo i fatti. Per Kate fu una pugnalata di gelo nel cuore. Evidentemente anche per Emma fu così, perché protestò con più forza che mai. «No, non è vero! Michael non lo farebbe mai! A noi no! Vero, Michael?» Lo guardò implorante. Ma Michael non scollava gli occhi dal tavolo. «Diglielo, Michael» intervenne la Contessa, con voce bassa ma ferma. «Dillo alle tue sorelle.» Kate trattenne il fiato. No, pensò, per favore. Fa’ che sia sotto incantesimo. A fior di labbra, Michael disse: «È vero». «No!» Emma lo afferrò per le spalle e cominciò a scuoterlo forte. «No! È un incantesimo! Lo so! È così per forza! A noi non lo faresti mai!» «Non essere troppo dura con lui, mia cara» disse la Contessa. «Ho guardato nel suo cuore e ho visto qual era la cosa che desiderava di più. Non ha potuto resistere.» Emma piangeva. Grosse lacrime le rotolavano giù sulle guance. «Smettila! È una bugia! Nessuna promessa lo convincerebbe a tradirci! È nostro fratello! Tu non sai niente! Sei una stregaccia cattiva e basta! Sei...» «Emma...» disse Kate.
«No» gridò Emma. «Lui non... non potrebbe mai...» La voce si spezzò e lei affondò la testa nella spalla di Kate, singhiozzando. «È nostro fratello. Non potrebbe mai... non potrebbe mai...» «Poverina» trillò la Contessa. «È proprio fragile, vero?» Kate le lanciò un’occhiata di fuoco. La paura era svanita. Tutto il corpo era improvvisamente consumato da una rabbia cocente. Avrebbe voluto saltare sul tavolo e dire, strillare, alla Contessa che anno dopo anno, orfanotrofio dopo orfanotrofio, senza mai niente di suo, nemmeno un letto, Emma non si era mai arresa. Aveva sempre combattuto. Perché sapeva, ovunque andassero, che ci sarebbero stati suo fratello e sua sorella. Loro erano una famiglia, unica certezza nella sua vita. E adesso la Contessa gliel’aveva portata via. Kate sentì il sapore del sale e capì che anche lei stava piangendo. Si asciugò le lacrime e guardò la bella creatura dagli occhi viola dall’altra parte del tavolo e si ripromise di ucciderla, se ne avesse mai avuta l’occasione, per quel che aveva fatto. «Di’ alle tue sorelle che cosa ti ho offerto» disse la Contessa. Anche Michael piangeva e, quando parlò, la voce era rotta dai singhiozzi. «Mi ha detto che... che li avrebbe trovati.» «Di cosa parli?» Emma si girò di scatto verso di lui; piangeva, ma adesso era infuriata. «Eh?» Cominciò a picchiarlo. Michael non contrattaccò né si difese. «Ti avrebbe trovato degli stupidi nani? Ti odio!» Ma Kate all’improvviso capì. «Gli ha promesso di trovare mamma e papà.» Emma si fermò, con una mano ancora chiusa a pugno. Rimase inebetita, con gli occhi sbarrati. «Perché» chiese Kate, implorante, «perché hai...?» «Perché...», Michael sollevò la testa; aveva la faccia sporca di lacrime e il naso che colava, «... se non tornassero?» Ecco. La cosa che nessuno di loro aveva mai detto. Perfino l’aria sembrò accorgersene e si fermò. Poi Kate immaginò se stessa urlargli che sbagliava, che la mamma lo aveva promesso a lei, non a lui, e che lei sapeva. Vide Emma che, con gli occhi più grandi che mai fissi su di lei, la supplicava di dire qualcosa. Ma Michael, che per un momento era sembrato sbigottito come le sorelle, si stava già riprendendo.
«Tu dici che torneranno, ma se non tornassero? Sono passati anni! Lei può trovarli! Me lo ha promesso!» Si rivolse alla Contessa, con la faccia ancora rigata di lacrime. «Trovali. Adesso hai il libro. Hai detto che quando avevi il libro lo facevi. Trova i nostri genitori. Per favore. Trovali.» La Contessa allungò la mano per accarezzargli i capelli. «Mio dolce bambino, mi piacerebbe tanto. Ma vedi, io non ce l’ho, il libro.» Con la testa indicò il libro sul tavolo. «Che cosa... cosa gli sta succedendo?» chiese Kate. I bordi cominciavano ad arricciarsi e sbiadire. Era come se il libro fosse un po’ sfocato. «L’universo ha una strana caratteristica, cara Kate: rispetta l’individualità. Ciascuna persona e ciascun oggetto possono esistere davvero soltanto in un dato momento. Le versioni multiple sono proibite. Il giorno in cui avete lasciato Michael alla diga e siete tornate al vostro tempo, c’è stato qualche secondo in cui avete visto voi stesse. Ricordi che sensazione hai avuto?» Kate la ricordava. Nella stanza sotterranea, quando aveva visto se stessa, Emma e Michael, aveva sentito una forza enorme premerle addosso. Poi, nell’istante in cui i loro doppi erano scomparsi, la pressione era cessata. «Ora, la magia può piegare le regole» disse la Contessa, «soprattutto una magia potente come quella contenuta nel libro. Per un breve lasso di tempo, si possono far coesistere due copie di una cosa. Ma prima o poi l’universo si fa valere. Da quando siete arrivati qui, l’altra copia del libro, quella che esiste già in questo tempo, esercita il proprio dominio.» Il libro sbiadiva sempre di più. Kate sentì montare il panico. «Fa’ qualcosa!» «Mi piacerebbe. Ma purtroppo nemmeno io posso cambiare le leggi della natura. Comunque sono contenta. Stavo quasi per arrendermi. Ero arenata da due anni, mi sembrava di non fare passi avanti. Ma il fatto che abbiate trovato il libro in questa casa mi dice che sono vicina. Adesso guardate bene.» Poi, sotto i loro occhi, il libro sbiadì completamente e svanì. Si udì uno schianto in cielo e un vento freddo soffiò nel patio. Stava arrivando un temporale. «Ma», Kate non riuscì a trattenersi, «come faremo a tornare a casa?» «Mia cara» disse la Contessa, con gli occhi che brillavano alla luce delle candele, «siete già a casa.»
Capitolo 8 Lupi † Arrivarono due Strillatori, che presero Kate, Emma e Michael dalle sedie mentre un muro di pioggia avanzava verso la casa. Kate sentì Michael protestare, gridare preghiere alla Contessa. Furono trascinati lungo corridoi illuminati da candele, con il Segretario che faticava per stargli dietro. Emma graffiò la mano che la teneva per il braccio e urlò alla creatura di lasciarla andare. Lo Strillatore rispose caricandosela sulle spalle, ma Emma continuò a tirargli pugni, anche se inutilmente, sulla schiena. Kate sapeva che il posto verso cui erano diretti poteva essere uno solo. Si fermarono a una doppia porta e il Segretario tirò fuori un portachiavi. «Aspetti...» cercò di dire Kate, ma le porte si aprirono e loro furono gettati dentro. La serratura scattò alle loro spalle e Kate udì la risatina acuta del Segretario spegnersi poco a poco nel corridoio. La stanza era immersa nel silenzio e nel buio assoluto. Fuori, la pioggia batteva sul tetto. All’improvviso arrivarono degli scalpiccii confusi, dei gemiti di dolore. Emma aveva trovato Michael e gli si era avventata contro. «Emma, piantala!» Con difficoltà, prendendosi una gomitata nella guancia, Kate allontanò Emma dal fratello. «Ti odio!» strillò Emma. «Ti vorrei morto! Non sei mio fratello!» «No!» Kate appoggiò la faccia a quella della sorella. Emma aveva la guancia bagnata di lacrime. «Non dire mai così! Hai capito? Non dirlo mai!» Emma si afflosciò tutta e, mentre piangeva, Kate la tenne abbracciata. Michael, per terra, tirava su col naso. Kate sapeva di dover andare a confortarlo, dirgli che capiva perché lo aveva fatto, ma non ci riusciva, non ancora. Da qualche metro di distanza arrivò un tonfo sordo. Emma smise di piangere. Nessuno dei tre si mosse. Rimasero in ascolto, fissando il buio. «Dove siamo?» sussurrò Emma. Per tutta risposta, il cielo notturno si accese e per una frazione di secondo una luce bianca lampeggiò nella stanza. Kate soffocò un grido. Cinquanta bambini erano lì, in piedi, a guardarli. Kate vide le file di letti, le ombre proiettate dalle sbarre alle finestre che si allungavano sul pavimento. Un tuono scosse la casa e poi tornò il buio.
Una voce disse: «Chi ha la luce?» Qualcosa che sfregava, poi il bagliore di un fiammifero e infine il chiarore di una lampada in fondo alla stanza. «Da’ qua» disse la voce, e il piccolo globo di luce passò di mano in mano, illuminando un pallido viso dopo l’altro, finché, giunto da chi aveva parlato, si fermò. «Tu» disse Emma. Stephen McClattery si avvicinò e accostò la lampada alla loro faccia. Li scrutò per un lungo momento e poi disse: «Prendeteli». Una massa di bambini in movimento sciamò attorno a loro. «Aspettate!» gridò Kate, piantando le mani sui fianchi. «Che cosa fate?» «Lui è dalla parte della Contessa.» Stephen puntò il dito verso Michael. «Lo abbiamo visto!» «E allora?» disse Emma, tirando calci ai bambini che la tenevano. «Noi no!» «Lui è vostro fratello, no? Sarete tutti dalla stessa parte.» Kate vide che i bambini erano quasi tutti abbastanza piccoli, molti non avevano più di sei o sette anni, e avevano la faccia mezzo sconvolta dalla paura e dalla sovreccitazione. «È un traditore» disse Stephen. «La sta aiutando.» «No!» lo difese Kate. «Ha sbagliato! Ha solo sbagliato!» «Rimane pur sempre un traditore. Zitta, adesso. Dobbiamo parlare.» Distolto lo sguardo da Kate, si mise a bisbigliare con altri quattro o cinque, maschi e femmine, tutti più o meno della sua età. Kate aveva girato abbastanza orfanotrofi per aver già visto bambini come lui. Lasciati a se stessi, si creavano le loro leggi. Le loro società. Il segreto, sapeva, era non mostrare paura. Bastava farsi vedere impauriti per essere distrutti. Stephen McClattery si rivolse di nuovo a lei. «Abbiamo deciso. Lo impicchiamo.» «Cosa?» Stephen annuì, serio. «Con i traditori si fa così. L’ho letto su un libro.» A quanto pareva gli altri erano d’accordo. Cominciarono a scandire: «Impiccalo! Impiccalo!» «Qualcuno porti una corda!» disse Stephen McClattery. «Non ce l’abbiamo!» gridò una voce. «Potete strappare delle lenzuola» disse Emma. «E legarle insieme!» «Emma!» Emma guardò Kate e alzò le spalle, indifferente. «Grazie» disse Stephen McClattery. «Voi tre, strappate quelle lenzuola.»
I tre bambini presero le lenzuola da due letti e cercarono di farne delle strisce. «Non potete impiccarlo!» Kate era ancora tenuta ferma da sei mani e per parlare con Stephen doveva urlare da un capo all’altro della stanza. Stava cercando di non farsi prendere dal panico. Sapeva che il panico avrebbe soltanto alimentato la loro rabbia. I tre ragazzi erano in mano alla folla. «Il suo è stato uno sbaglio! Tutti possono sbagliare!» «Che ne dici di questa?» Una bambina era corsa lì con una corda di velluto staccata da una tenda. «Sì, andrà bene» rispose Stephen e, con una destrezza sorprendente, ne fece velocemente un cappio. «Portatelo qua! E voi tre piantatela con quelle lenzuola!» Michael fu trascinato avanti finché lui e Stephen furono in mezzo alla folla di bambini. «Ehi, aspetta...» Emma cominciava a dare segni di nervosismo. «In piena legittimità sei stato dichiarato colpevole di tradimento» disse Stephen. «Le tue ultime parole?» Michael stava piangendo. Balbettò qualcosa sottovoce. «Cos’hai detto?» Michael alzò la testa e guardò Kate ed Emma. «Ho detto... mi dispiace.» Le lacrime, negli occhi di Michael, brillavano alla luce della lampada e Kate pensò che suo fratello forse non era nemmeno pienamente consapevole della presenza di quei bambini e di quanto stava per succedergli, o, se ne era consapevole, non gliene importava. Gli importava soltanto che le sue sorelle capissero. «D’accordo» disse Stephen McClattery, «ma le regole sono regole.» Quando c’era di mezzo un’esecuzione, il ragazzino era chiaramente molto professionale. «Tu sei un traditore e dobbiamo impiccarti.» Mise il cappio attorno al collo di Michael e, di nuovo, si levò il grido: «Impiccalo! Impiccalo!» La folla cominciò a trascinare via Michael. Kate capì di dover combattere. Doveva combattere con Stephen McClattery e sconfiggerlo. Se ci fosse riuscita, gli altri bambini si sarebbero adeguati. Stava già per scagliarsi contro di lui quando si udì una voce, una voce che conosceva. «Per l’amor del cielo, qui nessuno sarà impiccato.» Stephen girò di scatto la lampada e nel cono di luce, zoppicando, entrò Abraham. Alle sue spalle, Kate vide una specie di porta in un punto del muro in cui
prima non c’era. «Levatevi, teppistelli» disse, facendosi strada fra i bambini finché riuscì a togliere il cappio dal collo di Michael. «Impiccare la gente. È questo che vi siete messi a fare, eh?» Mollò uno scappellotto a Stephen. «Dove sta il tuo buonsenso, ragazzino?» «È un traditore» disse Stephen. «Probabilmente sono tutti traditori.» «Queste due no. Ti do la mia parola.» Indicò Kate ed Emma. «Ho visto gli Strillatori che le catturavano.» «D’accordo, ma lui sì. Mica possiamo lasciarlo andare così.» Abraham prese la lampada e la sollevò davanti a Michael, che aveva la faccia rigata di lacrime. «Lui sì. Ma statemi a sentire, tutti quanti.» Nonostante il rumore della pioggia, Abraham continuò a parlare a voce bassa. «Sono brutti tempi, questi. Tutti hanno fatto cose che avrebbero bisogno di perdono. Ma se cominciamo a litigare fra noi, lei vince. L’importante è rimanere uniti. In fondo abbiamo una sola cosa: noi. Non dimenticatelo.» Per qualche istante nessuno parlò. Kate ed Emma si chinarono a raccogliere qualcosa da terra. Gli occhiali di Michael. Gli erano caduti nella baruffa. Emma se li rigirò in mano e poi, senza dire una parola, glieli porse. «Grazie» disse Michael, con voce un po’ strozzata. Gli altri bambini sembravano aver già dimenticato Kate, Emma e Michael. Facevano ressa attorno ad Abraham. «Cosa ci hai portato?» «Cos’hai per noi, Abraham?» Kate si stupì di vedere con che rapidità fosse sparita, nei bambini, quella foga isterica. Le era già capitato di notare comportamenti simili in altri gruppi di bambini, ma un cambiamento così brusco era una novità. «Calma» disse Abraham. «Prima voglio vedere Annie.» Un mormorio percorse la folla e la bimbetta con i codini, quella che era rimasta sospesa sull’orlo della diga, si fece avanti. Abraham si inginocchiò. Tirò fuori dalla giacca una bambola fatta in casa. «Questa l’ho fatta io. Sarei felice se la prendessi.» La bimba accettò la bambola e se la strinse al petto, senza dire una parola. Abraham tirò fuori un pacchetto di lettere. «Adesso fate i bravi e io vi consegnerò queste. Stephen e gli altri aiuteranno i più piccoli a leggerle.» Nella stanza calò un religioso silenzio. Ogni volta che Abraham sussurrava un nome scritto su una lettera, un bambino si faceva avanti, prendeva la busta e se la portava al suo letto. Quand’ebbe finito, Abraham andò da Kate, che era accanto a Emma e
Michael. «La strega non sa dei passaggi segreti della casa, così cerco di fare un salto qui almeno una volta alla settimana. Per portare qualcosa da mangiare. E le lettere dei genitori. Mi dispiace per prima, quando hanno preso voi ragazze eccetera eccetera. Mi era stato detto soltanto di fare una foto al ragazzino con in mano il cartello che diceva ’Aiutatemi’. Non avevo capito che era una specie di trappola. Comunque, ho visto quei mostri trascinarvi via e ho pensato che sareste finiti qui dentro. Sono arrivato appena in tempo, mi sa.» «Grazie» disse Kate. «Chissà cosa sarebbe successo.» Lui liquidò l’argomento con un cenno della mano. «Sono bravi ragazzi. Il fatto è che hanno paura da troppo tempo. Non lo avrebbero impiccato davvero, vostro fratello... probabilmente. Ma adesso è meglio se venite con me. La Contessa ha qualcosa in mente, per voi tre, e tremo al pensiero di cosa può essere.» «Ma se tu puoi entrare e uscire così» chiese Emma, «perché loro non scappano?» Abraham fece una risata sarcastica. «In questo è proprio brava, la strega. Tiene tutti separati, bambini, madri, padri. Li fa sorvegliare tutti da quei suoi mostri. Questi bambini sanno che, se cercheranno di scappare, i loro genitori verranno rinchiusi nella nave. Torturati. O forse peggio.» Stephen venne a bisbigliare qualcosa all’orecchio di Abraham, che annuì. «Devo dare un’occhiata a un bambino malato. Poi andiamo.» Seguì Stephen fino a un letto qualche metro più in là. Kate sentì uno strattone alla mano. Accanto a lei c’era Annie, che stringeva a sé la sua nuova bambola. La bimbetta sollevò le braccia. Kate capì subito. Quasi tutti quei bambini erano più piccoli di Emma. E poi, quel giorno alla diga, probabilmente avevano visto la mamma per la prima volta dopo anni. E lei era la persona più simile a una mamma che Annie avesse a disposizione. Tirò su la bimba, che le cinse il collo con le braccine sottili. «Kate» disse Emma. Lei si girò. Venti bimbetti le si erano raccolti attorno. Guardavano lei e Annie con gli occhi pieni di desiderio. Kate provò una fitta al cuore; avrebbe tanto voluto confortarli tutti. Abraham si avvicinò con Stephen. «Bene. È ora di andare. Lei potrebbe mandare da un momento all’altro uno di quei demoni a controllarvi.» Kate calò Annie a terra. «Te ne vai?» chiese Annie. Kate, senza riflettere, rispose: «Tornerò; te lo prometto». «Lo dice per dire» intervenne Stephen McClattery.
«Non è vero!» Michael si accalorò e tutti lo guardarono sorpresi. «Quando mia sorella dice una cosa, ci crede. Infatti è tornata a prendermi, no?» Guardò Kate ed Emma. «Se dice che torna, tornerà.» «Giusto» disse Emma. «E se provate di nuovo a impiccare mio fratello, prima dovrete impiccare me!» Annuì fiera a Michael e Kate capì che tutto era perdonato. «Sbrighiamoci, adesso» disse Abraham, ed entrò nel passaggio segreto. Kate si mise in coda a Emma e Michael. Si girò a guardare le facce spettrali di Annie, Stephen e gli altri. Poi, con uno scatto morbido, Abraham chiuse la porta e calò il buio. «Aspettate qui un momento» sussurrò Abraham. E lo udirono allontanarsi nel cunicolo. L’aria era viziata e sapeva di muffa e, in quello spazio angusto, le spalle dei tre ragazzi si toccavano. Kate sentiva quelle di Michael sussultare, e quando lui parlò, gli uscì una voce roca. «Credevo... di poter fare qualcosa anch’io. Tu ti sei sempre presa cura di noi, Kate. Pensavo di poter... per una volta...» «Non importa.» «E lo so che mamma e papà torneranno. Non avrei dovuto...» «Non importa. Davvero.» «No, non importa» disse Emma. «Però non fare più stupidaggini.» E lì, al buio, le loro mani si cercarono. Abraham tornò, portando sui vestiti l’odore della pioggia e del fango. «Via libera. Tenere accesa la luce sarebbe un rischio, quindi si procederà lentamente. La pioggia è dalla nostra, ma cercate di non far rumore. Ne va della vita.» E si incamminò, Emma alle sue spalle, Michael a seguire e Kate a chiudere la fila. Il cunicolo era largo appena mezzo metro e Abraham continuava a girarsi per bisbigliare di abbassare la testa, passare su un’asse o evitare una buca. Ogni tanto qualche scheggia di luce penetrava i muri. Ma, per lo più, Kate distingueva soltanto la sagoma incerta della testa di Michael. Abraham li guidava, a destra, a sinistra, su per qualche gradino, giù per altri gradini. Dopo dieci minuti di corridoi tortuosi, labirintici, si fermò. Adesso arrivava più luce e riuscivano a guardarsi in faccia. Abraham accostò il dito alle labbra per esortarli a fare ancora più piano. E fu un bene, perché quando svoltarono l’angolo, la Contessa era lì ad aspettarli. Non era esattamente nel cunicolo. Era al di là del muro, in uno dei molti salotti della grande casa, a guardare in una finestra ovale che dava sul cunicolo. Emma soffocò a malapena un grido e Abraham le tappò subito la bocca con
la mano. Ma era troppo tardi: la strega si era accorta di loro. O forse no? I secondi passavano e la Contessa rimaneva lì, a girare tranquillamente la testa da una parte e dall’altra. Poi Kate ricordò: era stata in quella stanza. Alla parete c’era uno specchio. Nel punto preciso in cui si trovava la Contessa. Kate la vide toccarsi i capelli e, sempre senza dar segno di essersi accorta di loro, girarsi e andarsene. Abraham fece cenno ai ragazzi di seguirlo e loro stavano per farlo quando nella stanza della Contessa qualcuno si mise a parlare. «E adesso cosa farà milady, se il suo povero servitore ha facoltà di domandare?» Il Segretario dai denti grigi era chino sopra un carrello-bar a versare vodka ghiacciata in un bicchiere, con l’uccellino giallo appollaiato sulla spalla. Dall’altra parte della stanza, la Contessa era adagiata in una comoda poltrona, con i graziosi piedini posati su uno sgabello. «Farò un resoconto completo. Avrei dovuto farlo la prima volta che i ragazzi sono arrivati.» «Sì, sì, certo, una mossa indubitabilmente abile.» Inchinandosi fin quasi a terra, l’uomo le porse il bicchiere. Lo specchio spia era alla parete di fronte alla Contessa in poltrona, così i ragazzi, stretti nel cunicolo, avevano una chiara visione di quanto succedeva. Era emozionante starle così vicino, tanto più che Kate non riusciva a credere fino in fondo che fossero invisibili. Tutte le volte che lo sguardo della Contessa vagava al di là del muro, Kate doveva reprimere l’impulso di correre via. Era grata dell’avvolgente tamburellare della pioggia, perché era convinta che senza quello la Contessa e il suo segretario avrebbero udito il cuore martellarle nel petto. «Che c’è, topo lagnoso?» scattò la Contessa. «Lo so che stai pensando qualcosa.» Torcendosi le mani, Cavendish si inchinò rapidamente tre o quattro volte. «Pensavo solo che... No, impossibile, non è compito mio azzardare, no...» «Il tuo compito è fare quello che ti dico io, razza di moscerino. Allora, cos’è che bolle in quel cervello putrido?» Sola con il suo segretario, la Contessa evidentemente non sentiva il bisogno di mostrarsi attraente né di recitare la parte dell’eterea ragazzina luccicante d’oro. Era sempre lei, certo, ma il modo di fare, la voce, tutto parlava ora di potere, di malvagità e di una fame vorace, da sciacallo. Cavendish incassò la testa nelle spalle come una tartaruga. Con piccole emissioni di fiato umido disse: «Sì, milady, e perdoni la mia imbecillità, cercavo solo di capire quale sarebbe stata, di preciso, la sostanza del resoconto. Che milady aveva uno dei Libri dell’Inizio e l’ha perso?»
«Questo è un fatto sul quale non avevo alcun potere. Lo sai anche tu.» «È innegabile, sì, certamente innegabile, la Contessa è innocente. Ed è una fortuna che...» Aprì piano due dita e fece un orribile sorriso falso. «È una fortuna che il nostro padrone sia famoso per la sua natura comprensiva.» Il loro padrone? Kate rimase di stucco. C’era qualcun altro? Qualcuno forse ancora peggiore della Contessa? Com’era possibile? Guardò Emma e la vide scuotere la testa e formare con le labbra la parola: «Forte!» «Secondo te non dovrei dirglielo» replicò la Contessa, parlando lentamente. Cavendish, infervorato, fece un passo avanti. «Milady, il libro perduto non può essere lontano. L’ha appena detto lei stessa, e splendidamente, aggiungerei. E nessuno, neanche uno stupido come me, può fare a meno di pensare che sarebbe molto più bello dire: ’Padrone, ho il suo tesoro’ invece di: ’L’avevo preso, ma l’ho perso. Peccato’.» Sorseggiando la vodka, la Contessa appoggiò la testa allo schienale di pelle della poltrona. «Non hai tutti i torti, vermiciattolo. D’accordo. Aspetterò.» L’uomo fece un inchino ancora più profondo, come se «vermiciattolo» fosse il complimento più grande del mondo. «Come mai dopo migliaia di anni» disse lei, sommessamente, «a tre ragazzini normalissimi capita di trovare uno dei Libri dell’Inizio?» «Il caso, forse? Una semplice fatalità?» La Contessa rise sprezzante. «Il caso non esiste, quando c’è di mezzo la magia. Quei bambini sono importanti. Anche se non capisco bene in che modo.» Nel cunicolo, Abraham tirò Kate per la manica, facendole capire che dovevano andare. Ma Kate scosse la testa. Si stava parlando di loro tre. Voleva sentire che cosa dicevano. La Contessa finì la vodka e porse il bicchiere a Cavendish per farselo rabboccare. «E hai cercato bene in tutto lo scantinato? Quella stanza di cui parlava il ragazzino, lo studio sotterraneo in cui hanno trovato il libro. Niente?» «Niente, milady. E non sembra proprio che esista un posto del genere nascosto da un incantesimo. Evidentemente quella stanza, se il ragazzino ha detto la verità, è stata costruita nel futuro. Milady crede che dietro questa faccenda ci sia il vecchio?» «Ma certo» lo schernì la Contessa, «chi ci dovrebbe essere?» Tamburellò le unghie contro il bicchiere, improvvisamente allegra. «Pensa a quando avrò portato il libro al padrone: sarò innalzata al di sopra di chiunque altro. Regnerò al suo fianco.» Cavendish, posando la caraffa, la fece sbattere sul carrello. La Contessa gli
lanciò un’occhiataccia. «Sta’ attento, rospaccio!» «Sì, sì, Contessa. Le chiedo umilmente scusa.» Armeggiò insulsamente con le bottiglie, facendole cozzare l’una contro l’altra. «Ma sai che sei proprio un fesso? Quando vuoi dire una cosa, dilla. Invece di sbattere a destra e a manca come una cameriera ubriaca.» L’uomo si girò. Si tirava le dita tanto forte da indurre Kate a pensare che se le sarebbe staccate dalle mani. «Il fatto è, milady, che sono preoccupato per lei. Sì, sono proprio preoccupato per lei.» La Contessa rise. «Per me? E perché dovresti preoccuparti per me, ammasso ambulante di spazzatura?» Lui strascicò i piedi fino alla sua poltrona, sempre torcendosi e tirandosi le dita, evidentemente incapace di guardarla in faccia. «La Contessa è tanto bella, tanto forte, e il nostro padrone, per quanto sia terribile e capace di mettere in soggezione, è famoso per la sua... imprevedibilità.» Nella stanza calò il silenzio. La Contessa guardava l’uomo, sudato e irrequieto. «Secondo te mi negherà la ricompensa?» «No, no» rispose lui, sollevando per un attimo lo sguardo. «Questo non lo direi mai. Mai. Però...» Si infilò le dita in bocca e le morse ferocemente. «Secondo te cosa dovrei fare? Parla.» «Sa...» Si avvicinò di qualche centimetro. La sua voce era come il sibilo del serpente. «La Contessa è già tanto potente che pensavo: se avesse il libro, chi potrebbe essere più potente di lei? La Contessa o...» La Contessa sparò in fuori la mano e afferrò l’uomo per i lunghi capelli stopposi. L’uccellino, spaventato, volò via dalla sua spalla. «Stai insinuando, miserabile creatura, che una volta entrata in possesso del libro potrei usarne il potere per i miei scopi e tradire il padrone al quale abbiamo giurato fedeltà?» «No, milady! Mai! Lei ha frainteso...» «Ah, sì?» E diede ai capelli uno strattone tremendo. «Per favore, mia signora! La prego! Mai e poi mai...» Allora lei sorrise, bella e letale. «Calmati, Cavendish. So che vuoi solo proteggermi. E in ogni modo...» Gli accarezzò i capelli unti. «Il libro non è in mio possesso, giusto?» Nell’umidità e nel buio del cunicolo, Kate sentì un brivido quando vide l’uomo e la donna guardarsi: fra loro c’era qualcosa. Abraham la tirò di nuovo per la manica. Con insistenza. Lei annuì. A ogni istante in più che passava, i rischi aumentavano. Stava già per distogliere lo sguardo quando la Contessa disse: «Hai visto la più grande, la ragazza? Il
libro le ha lasciato il marchio». Kate si bloccò. «Chissà se...» mormorò la Contessa. «No, impossibile che...» Il Segretario ridacchiò orribilmente. «So cosa sta pensando, milady. È impossibile. E tuttavia, se fosse vero... Forse la Contessa desidera esaminare di nuovo la ragazza? Prima di entrare, mi sono preso la libertà di mandare un morum cadi a prenderla. Dovrebbe essere qui a momenti.» Emma e Michael guardarono Kate, con gli occhi pieni di panico. Dovevano andarsene, subito. Ma nessuno dei quattro fece in tempo a muoversi che un urlo scosse i muri della casa. ______________________
Si misero a correre, senza più cercare di non far rumore. Udirono l’alta voce stridula del Segretario, il tumulto lontano nella stanza dei bambini, gli urli degli Strillatori. Molto presto si ritrovarono in un vicolo cieco. Fuori, sentirono arrivare altri Strillatori a circondare la casa. Abraham respirava forte. «Prima vado io. Voi aspettate qui finché non sentirete che li avrò bloccati. A quel punto correte verso gli alberi. Andate più lontano che potete. Cercate un posto in cui nascondervi stanotte. Appena farà mattina, seguite il fiume in direzione sud. Tenete d’occhio il cielo. Si dice che la strega usi gli uccelli come spie. In un giorno di cammino arriverete a Westport, dove sarete al sicuro. Mi dispiace di non potervi aiutare di più.» «Hai già fatto molto» disse Kate. «Grazie.» «Dimmi una cosa» aggiunse Abraham. «È vero che venite dal futuro?» «Sì.» «E siete venute per riaggiustare le cose?» «Cosa? No, siamo... siamo venute soltanto a prendere Michael.» «Ma hai promesso a quei bambini di tornare.» «E tornerò. Ma non saprei come aiutarli.» Per un attimo Abraham rimase lì a guardarla. «Forse no» disse alla fine. «Ma hai sentito cos’ha detto la Contessa. Niente è per caso. Nemmeno la vostra presenza qua. Ma adesso basta parlare.» Sia Kate sia Emma lo abbracciarono. Michael esitava, provando ancora troppa vergogna, ma Abraham gli mise una mano sulla spalla. «Hai fatto uno sbaglio, ma sei un bravo ragazzo e le tue sorelle ti vogliono
bene.» Michael annuì, deglutendo rumorosamente. Abraham strinse una maniglia che spuntava dal muro. Kate distinse a malapena il contorno della porta. «Ricordate, correte e non guardatevi indietro.» Aprì la porta, facendo entrare uno sbuffo d’aria mista a pioggia, e sparì. Di nuovo il buio. Aspettarono, ascoltando le grida che arrivavano da fuori. Emma era irrequieta. «Allora, secondo voi chi è questo padrone?» «Io qualche teoria ce l’avrei» disse Michael. «Per esempio?» Per un attimo Michael tacque; si raddrizzò gli occhiali sul naso. «Non so se sono pronto per parlarne.» Emma sbuffò come se fosse seccata, ma si capiva che non era seccata sul serio e anzi era contenta che tutto fosse tornato come prima, con Michael che la faceva ammattire. «Però scommetto che quel vecchio di cui parlava la Contessa è il dottor Pym. Tu non l’hai visto, Michael. È un vero stregone.» «Davvero? Ha fatto qualche magia?» «Be’, io e Kate siamo andate da lui e lui ha fatto, diciamo, comparire un fuoco dal nulla, vero, Kate? E poi credo che abbia una pipa magica.» «Che pipa è?» «Come faccio a saperlo? Una pipa magica, tonto.» «Volevo sapere se è una pipa fatta come tutte le altre.» «Uff, sì, è come tutte le altre. Ma cos’è? Andare nel passato fa rimbecillire tutti?» Kate teneva l’orecchio accostato alla porta per sentire cosa succedeva fuori. Ma faceva fatica a concentrarsi. Continuava a pensare alle parole della Contessa. Hai visto la più grande, la ragazza? Il libro le ha lasciato il marchio. E pensava a quel che era successo in camera da letto, quando aveva guardato le foto con Emma e, dopo aver posato la mano sulla pagina, aveva visto quel nero spandersi sulla carta e salirle sulle dita. Che cosa le aveva fatto? «Kate...» Michael la toccò sul braccio. «Credo che Abraham li abbia allontanati.» Dall’altra parte della casa arrivavano grida e trambusto. Kate impugnò la maniglia. «Prima vado io. Correte senza mai fermarvi. Qualsiasi cosa succeda.» ______________________
Dopo che lo Strillatore mandato dal Segretario non aveva trovato Kate e i
suoi fratelli, nel dormitorio era scoppiato il finimondo. I bambini correvano qua e là e gridavano, saltavano sui letti, alcuni dei più piccoli si erano messi a piangere. Per molti minuti regnò il caos. Poi la porta si aprì ed entrò la Contessa. Tutto tacque. Fece un cenno con la mano. Subito, si accesero le candele lungo le pareti. Sorrise e i bambini si sentirono tirare verso di lei. «Dove sono?» La voce era carezzevole, dolce. Nessuno rispose. «Non gli farò del male. Santo cielo! Voglio aiutarli! Sono in grave pericolo. Per favore, ditemi dove sono andati.» Parlava con tanta delicatezza! I bambini le avrebbero detto tutto: di Abraham, dei passaggi segreti, di Kate, Michael ed Emma. Era la loro amica. «Dove sono chi?» La Contessa guardò il bambino che aveva parlato. Stephen stringeva forte le mascelle e aveva le braccia incrociate. Lei si chinò, spandendo il suo profumo sopra di lui. «I tre che erano stati portati qua. Due femmine e un maschio. Oh, ma stai solo facendo lo stupidino!» Si lisciò all’indietro i capelli con fare giocoso. «So che sai di chi parlo.» «Loro non sono... non sono qui.» «Certo, tesoro mio, questo lo avevo capito anche da sola. Allora, dove sono andati?» Stephen guardò dentro quegli occhi bellissimi. Si strinse le braccia fra le mani. Cercava in tutti i modi di resistere. Lei era il nemico. Come aveva detto Abraham. Doveva mostrare agli altri come resisterle. Si sforzò di scrollare le spalle. «Boh. Sono scomparsi.» Un bambino soffocò una risata. La Contessa sollevò lo sguardo, con gli occhi che lampeggiavano. «Sono scomparsi?» «Già. Come per magia.» «Sì» disse un altro. «E c’è stata un’esplosione!» «E fumo» disse un terzo. «Con un lampo!» «Sì, abbiamo dovuto spostarci!» «Ho capito.» Li aveva persi. In un modo o nell’altro, trovavano la loro forza in quel bambino. Il Segretario entrò di corsa, col fiato corto e i capelli umidi appiccicati a ragnatela sul cranio.
«Li hai trovati?» sbraitò la Contessa. Lui scosse la testa. «Solo quello scemo storpio del fotografo. Quello zotico era di nuovo ubriaco.» La Contessa ordinò: «Libera i lupi». I bambini sussultarono. Perfino il Segretario rimase di stucco. «Ma milady» ridacchiò senza fiato, «mi perdoni, quelle bestie non sono facili da controllare. Sono state lasciate senza cibo. E saggiamente, per carità. Saranno predatori ancora più determinati. Ma chi riuscirà a non fargli sbranare i bambini?» «Dovremo correre il rischio, direi.» Sulla porta si fermò e con un cenno della mano indicò Stephen. «Ah, e quello portalo sulla nave.» ______________________
«Che odio!» gridò Emma quando cadde a faccia in giù in un’altra pozzanghera. «Che odio, questa pioggia schifosa!» Usciti dalla casa, avevano fatto di corsa il breve tratto fino agli alberi senza vedere nemmeno uno Strillatore, ma da allora avevano rallentato il passo. Il temporale aveva trasformato il bosco in un acquitrino e loro continuavano a cascare nelle pozzanghere o a scivolare sulle foglie viscide di pioggia. Michael era caduto una volta e avevano perso minuti preziosi nella ricerca dei suoi occhiali. Emma si era indispettita soprattutto quando, dopo aver messo la mano in una pozzanghera melmosa, viscida, schifosissima, aveva visto penzolare gli occhiali dall’orecchio di Michael. Tutti e tre erano fradici, infangati da capo a piedi e stanchi. Kate, mentre insieme a Michael aiutava Emma a rialzarsi, si chiedeva fin dove sarebbero dovuti arrivare quella notte per essere al sicuro. Le cose si mettevano decisamente male. Poi udirono l’ululato. Non era uno Strillatore. Ma arrivava dalla casa. Dopo pochi secondi si udì un coro di urla selvagge. Che si spense altrettanto velocemente. «Arrivano» disse Kate. Si misero a correre come non avevano mai fatto, senza badare al senso di pesantezza alle gambe, al dolore ai fianchi. Di lì a poco Emma si era staccata dal gruppo. Era scomparsa in un groviglio di arbusti. Kate, chinandosi per evitare un ramo, udì la sorella gridare. Un attimo dopo lei e Michael si erano fatti strada nell’intrico di arbusti e Kate vide la scena con i suoi occhi.
«No!» Erano sull’orlo di un precipizio, affacciati su una valle buia rischiarata dai lampi. Era profonda decine di metri e in una direzione e nell’altra c’erano soltanto pareti rocciose. Kate si maledisse al ricordo del loro arrivo all’orfanotrofio, quando erano andati alla cascata e avevano provato l’emozione frastornante di vedere il fiume tuffarsi nel precipizio. Avrebbe dovuto capire subito dove stavano andando. Un’altra serie di ululati dalla foresta. Qualunque cosa fosse a fare quei versi, si stava avvicinando. «Che cosa facciamo?» gridò Emma. «Guardate!» A una ventina di metri di distanza, uno stretto sentiero si snodava sul fianco del dirupo. Kate non capiva se arrivava fin giù al fondovalle, ma era la loro unica speranza. «Andiamo!» Il sentiero era ripido e scivoloso, mai più largo di mezzo metro e di solito molto meno. Zigzagava avanti e indietro e i ragazzi si aggrappavano l’uno all’altro quando le scarpe slittavano nel fango e le raffiche di vento cercavano di sospingerli nel vuoto. Scesero per dieci metri, cinquanta, settanta, con la pioggia che gli sferzava la faccia. Kate, in coda, continuava a lanciare occhiate di sotto, sperando che comparisse il fondovalle. Se lo avessero raggiunto, avrebbero avuto qualche probabilità di riuscita. Avrebbero potuto trovare una grotta in cui nascondersi o... «Kate!» Emma si era fermata e puntava il dito verso la parte alta della rupe. Kate guardò in su mentre un lampo si biforcava nel cielo, illuminando il profilo di un lupo enorme appostato in cima. La bestia lanciò un ululato che echeggiò nella valle. «Corriamo!» gridò lei. Ogni cautela fu abbandonata. Sfrecciarono sul sentiero, con i piedi che miracolosamente trovavano pezzetti di terra ferma in mezzo al fango. Altri dieci metri, altri venti. Kate riuscì a gettare un’occhiata verso il cielo. Cinque o sei di quelle bestie correvano giù per il sentiero a rotta di collo, a capofitto, sprezzanti del pericolo. Sotto gli occhi di Kate, a una curva ci fu uno scontro nel branco: si levò un guaito e una sagoma scura si staccò dalle altre. «Sta’ indietro!» gridò Kate. Afferrò Emma e tutti e tre si premettero contro la roccia, mentre la bestia urlante, cadendo, passava davanti a loro, a pochi centimetri di distanza. «Bene» disse, con il fiatone e il cuore che le martellava in gola, «scampato pericolo.»
«No» fece Michael. «Ma sì, dobbiamo solo sbrigarci.» «No. Guarda!» Kate guardò verso il punto che lui indicava, alle spalle di Emma, e le gambe quasi le cedettero. Il sentiero proseguiva per qualche metro e poi spariva nel vuoto. Terminava, letteralmente. Le venne voglia di arrendersi. Di fermarsi e aspettare che tutto fosse finito. Ma un’altra voce interiore, più forte, le diceva che non sarebbe finita così. Non poteva permetterlo. Strizzando le palpebre per vedere nella pioggia e nel buio, si rese conto che in realtà il sentiero riprendeva, ma dopo tre o quattro metri. Valutò velocemente le possibilità. Il fondovalle era finalmente visibile, ma era pur sempre un centinaio di metri più giù. La ritirata era fuori discussione. I lupi erano sul sentiero e si avvicinavano di secondo in secondo. Non c’era scelta. «Dobbiamo saltare!» «Sei matta?» strillò Michael. «È l’unico modo!» Proprio in quel momento un lupo lanciò un ululato agghiacciante. «D’accordo» disse Michael, poi si girò, fece tre passi e si tuffò nel buio. Fintanto che fu in aria, Kate ed Emma trattennero il fiato. Per fortuna l’altra parte del sentiero era più bassa e lui atterrò con qualche decina di centimetri di margine, cadendo sulle mani e le ginocchia. Poi il ciglio del sentiero cedette. Kate fece per urlare, ma Michael stava già mettendosi in salvo. Senza perdere altro tempo, si rivolse a Emma. «Dovrai saltare più in là. Puoi farcela.» «Lo so.» Emma aveva negli occhi un feroce luccichio di determinazione. Si raccolse per lo scatto e partì di corsa; si lanciò nell’aria sollevando scaglie di fango. Michael si mise sul bordo del sentiero, pronto a prenderla se il salto fosse stato troppo corto. Emma gli atterrò addosso. Kate udì il tonfo all’impatto e l’umpf di Michael quando caddero aggrovigliati. Non poté che rimanere ammirata. Purtroppo l’urto fece sbriciolare nel vuoto un altro mezzo metro di sentiero. Dall’alto del suo punto di osservazione, Kate avvertì del movimento e, senza girarsi a guardare, si buttò a terra. Un corpo le passò sopra, con le mandibole che battevano a vuoto là dove un attimo prima c’era stata lei. Ci fu un guaito convulso quando il lupo, non riuscendo a fermarsi, precipitò giù. Kate si rimise in piedi in tempo per vederlo scomparire nel buio. Sollevando lo sguardo, vide che il resto del branco non era lontano. Non c’era tempo da perdere.
Fece quei pochi passi da fare e saltò giù. Ma al momento del distacco da terra le scivolò il piede sul fango e, quando fu in aria, capì che non ce l’avrebbe fatta. Tese le braccia, ma vide Emma e Michael passarle davanti, urlando il suo nome e cercando di afferrarla. Troppo lontano. Ma poi, miracolosamente, la parete della rupe fu spazzata da una fortissima raffica di vento che la spinse avanti. Sbatté col petto sul sentiero. Il colpo le tolse il fiato. Tastò nel fango in cerca di un appiglio, ma scivolava all’indietro, stava per cadere giù. Finché si sentì tirare in salvo da due paia di mani. Un momento dopo, tutti e tre erano in ginocchio nel fango, abbracciati, a tremare di sollievo. Nonostante il vento e la pioggia, Kate sarebbe stata ben contenta di rimanere così tutta la notte. Ma sapeva che non erano ancora fuori pericolo. Per un lupo, il salto che l’aveva quasi uccisa sarebbe stato uno scherzo. Si staccò e guardò in su verso la rupe. Il branco stava girando l’ultimo angolo ed era abbastanza vicino perché ai ragazzi arrivasse l’aspro ansimare animale. «Come vorrei avere una spada!» disse Michael. Kate dubitava molto che così avrebbe migliorato le cose, ma non era il momento di discutere. Il terreno era soffice, franoso, e la pioggia lo aveva indebolito ancora di più. Kate scivolò due volte sulla terra che si staccava, ma entrambe le volte il fratello e la sorella la tennero su. In pochi istanti, i ragazzi aumentarono la distanza da cinque a sei a sette metri, finché, quando il primo lupo si lanciò in aria, i metri erano quasi dieci. E, sarà stata la paura, o la stanchezza, o forse la consapevolezza che, se il lupo li avesse raggiunti, fuggire di nuovo avrebbe avuto poco senso, fatto sta che i ragazzi non si misero a correre. Se ne stettero lì, in piedi, fradici di pioggia e tutti infangati, a guardare la belva volare verso di loro. Troppo vicino, pensò Kate. Ce la farà. Il lupo si schiantò in fondo al sentiero. I ragazzi d’impulso indietreggiarono, ma l’animale non attaccò. Kate constatò che in realtà il salto non gli era riuscito completamente. La parte inferiore del corpo si dimenava nel vuoto mentre gli artigli ghermivano sassi e fango staccati e le enormi fauci battevano paurosamente. Poi, trovando un punto d’appoggio per le zampe posteriori, la belva scattò in avanti e cominciò a tirarsi su. E quando a Kate si era già formata in gola l’esortazione a scappare, un metro di terra franò, portando il lupo giù con sé. Kate espirò, inconsapevole fino a quel momento di aver trattenuto il fiato. Cercò di scorgere nella pioggia i tre lupi rimasti. Erano raggruppati in fondo al sentiero, in una massa ringhiosa e fremente. Kate ne avvertiva la fame, ma
sapeva che non avrebbero corso il rischio di saltare. «Che cos’avete, razza di conigli!» urlò Emma. «Venite a prenderci!» I lupi invertirono direzione e risalirono il sentiero, dileguandosi nel buio. «Ma pensa un po’!» disse Emma, girandosi trionfante verso Michael e Kate. «Si arrendono.» «Improbabile» replicò Michael. «Saranno andati a cercare un’altra strada per scendere.» «Andiamo» disse Kate. Al fondovalle mancava soltanto una ventina di metri e ci arrivarono in breve tempo. I corpi dei lupi precipitati giacevano straziati sui sassi. Kate guardò in su, ma non vide il resto del branco sulla rupe. Udì Emma dire che, ci metteva la mano sul fuoco, era stata la signorina Crumley a organizzare tutto, Michael ribattere che ne dubitava molto ed Emma paragonare la testa di Michael a una rapa. Cercò di ignorarli e riflettere. Pioveva più forte che mai. Erano tutti e tre stremati. Non aveva idea di quanto ci avrebbero messo i lupi a trovare un’altra strada per scendere; il punto era: dovevano riprendere la fuga o mettersi subito a cercare un nascondiglio? «Kate...» «Lasciami pensare.» «Kate.» Emma la tirò per il braccio. Kate si girò. Una trentina di metri più in là, una sagoma scura si aggirava in cima ai massi. «Scappiamo!» Puntarono verso gli alberi. Alle loro spalle si levò un ringhio. Si inerpicarono su per una piccola altura. Kate si aspettava di sentire da un momento all’altro il peso della bestia sulla schiena. Continuiamo a correre, si diceva, continuiamo a correre. Gettandosi occhiate alle spalle, uscì dal folto degli alberi e, arrivata in una radura in cima alla collina, andò a sbattere contro Michael ed Emma, facendoli quasi cadere. «Non fermatevi! Dobbiamo...» Le parole le morirono in gola. Davanti a loro c’era un lupo acquattato. Per un lungo momento nessuno si mosse. Il pelo grigio dell’animale era arruffato per la pioggia; la bocca era aperta, con i denti scoperti in un ghigno orrendo, e dalle viscere saliva un ringhio sommesso. Emma e Michael erano impietriti. Toccava a lei fare qualcosa. Se gli si fosse avventata contro? Il lupo non se lo sarebbe aspettato. Così il fratello e la sorella avrebbero avuto il tempo di scappare. Il fatto che lei non sarebbe sopravvissuta non la turbò minimamente. Preparandosi, vide un
altro lupo sbucare dalla pioggia, con la testa bassa e gli occhi assassini che guardavano fisso. Poi un rumore alle sue spalle le fece capire che il primo lupo aveva chiuso il cerchio. E alla fine si rese conto di non poter fare niente. Sarebbero morti lì. «Kate...» la chiamò Emma, con voce tremante. «Prendiamoci per mano» disse Kate. Così fecero, disposti a cerchio dandosi le spalle. «Adesso chiudete gli occhi» ordinò Kate. «Chiudeteli!» Michael ed Emma ubbidirono, ma Kate tenne i suoi bene aperti e guardò il cerchio di lupi. La responsabilità era sua. Il fallimento era suo. Non si sarebbe risparmiata niente: avrebbe visto tutto, fino in fondo. Intrecciò lo sguardo con il lupo più grosso, per fargli capire che non aveva paura. Non sentiva più la pioggia che le frustava il viso, né la stanchezza fisica. L’immagine di sua madre le attraversava la mente. Mi dispiace, pensava Kate, ho fatto tutto il possibile. L’animale si preparava all’attacco. Kate strinse forte la mano a Emma e a Michael e, quando il lupo spiccò il balzo, mormorò: «Vi voglio bene». I denti dell’animale non la toccarono mai. Arrivò un rumore di passi veloci e pesanti, di qualcosa che avanzava sotto la pioggia. Il lupo vide quella cosa arrivare e cercò di cambiare direzione, ma ormai era partito. L’oggetto, una macchia grigia allungata, rimase per un istante nel campo visivo di Kate, dopodiché colpì il lupo sulla testa, tanto forte che Kate sentì lo schianto del cranio. Poi, accanto a loro, c’era un uomo. Enorme, un gigante. I lunghi capelli scuri gli oscuravano la faccia e spesse catene gli pendevano ai polsi. Con dei ringhi feroci, i due lupi rimasti gli si avventarono contro. Lui ne agguantò uno in aria e gli spezzò il collo con uno schiocco sordo. Il secondo gli si attaccò al braccio, azzannandogli la carne. L’uomo si staccò di dosso la belva e la lanciò lontano come una persona normale avrebbe potuto liberarsi di un gatto. Il lupo urtò contro un masso e cadde a terra stordito. L’uomo fece due lunghi passi, posò lo scarpone sul collo dell’animale e lo schiacciò. Si udì un forte scricchiolio. Il lupo non si mosse più. Poi l’uomo tornò dai ragazzi. Michael ed Emma avevano riaperto gli occhi e lo guardavano sbalorditi. Giganteggiava sopra di loro, con la faccia nascosta nell’ombra, ma Kate lo riconobbe lo stesso. Era l’uomo che aveva aggredito la Contessa quel giorno alla diga. Disse: «Venite con me».
Capitolo 9 Gabriel † Kate procedeva così: sceglieva un albero o un masso e si diceva: fin là, arriverò fin là e poi basta, e camminando si sforzava di non pensare ai vestiti fradici e pesanti che le irritavano la pelle a ogni passo e alle sue gambe, che al posto dei muscoli avevano il fango, tanto fango inerte; pensava soltanto: fin là, arriverò fin là. Poi, arrivata al masso o all’albero scelto, guardava avanti, al di là del gigante, penetrando la pioggia e il buio, per individuare un altro albero o un altro masso e rifare tutto daccapo. Diede un’occhiata a Michael. Ormai procedeva intontito, assente. Il mento gli era ricaduto sul petto e, mentre metteva un piede davanti all’altro, l’acqua gli colava giù dal naso. Tuttavia se la cavava meglio di Emma. Lei, camminando, si era letteralmente addormentata. La terza volta che era successo, dopo che era inciampata e si era risvegliata dicendo: «Eh? Chi è stato?», il gigante si era girato e se l’era presa in braccio. Kate si era aspettata di sentirla protestare. Emma non si lasciava mai coccolare dai grandi. Invece la sorella si era rannicchiata tutta ed era sprofondata nel sonno. Dunque toccava a Kate, per quanto sfinita, cercare di capire dove quell’uomo li stava portando. Glielo aveva chiesto, ovviamente, ma il gigante l’aveva zittita con un grugnito e lei aveva dovuto accontentarsi delle impressioni raccolte guardando l’ambiente circostante: poca cosa, considerato che pioveva, era buio e gli alberi e i massi si assomigliavano un po’ tutti. Così il viaggio proseguiva: camminarono su sentieri serpeggianti, fangosi, stipati di alberi, scavalcarono massi e inaspettati ruscelletti, salirono, salirono... finché Kate stabilì che acqua e stanchezza erano soltanto due parole diverse per definire il dolore e, lasciando perdere alberi e massi per scandire il cammino, chinò la testa e si lasciò guidare dal tonfo dei passi dell’uomo e dal tintinnio delle catene appese ai suoi polsi. Poi, di colpo, si fermarono. Kate tirò su gli occhi. Vide il profilo di una casupola nascosta nel fianco della collina. L’uomo spinse la porta, entrò e Kate e Michael, traballanti, lo seguirono. L’aria, nella casupola, era fredda e sapeva di muschio. Nessuno evidentemente ci metteva piede da un pezzo. Ma per la prima volta da un
tempo che sembrava immemorabile, i ragazzi non erano sotto la pioggia. Si udì il raschio di un fiammifero e l’uomo accese una lanterna appesa al centro del soffitto. Senza dire una parola, si girò e armeggiò al focolare, dando a Kate e Michael la possibilità di guardarsi un po’ attorno. C’erano un ampio letto con sopra una pelle d’orso, su cui Emma dormiva già come un sasso, il caminetto di pietra dove l’uomo stava accendendo il fuoco, un vecchio tavolo di legno con sgabelli e panche; le pareti erano coperte di scarponi da neve, canne da pesca, piccozze, archi e frecce, coltelli, una lunga lancia; al soffitto era appeso un assortimento di trappole, insieme a casseruole e padelle di varie fogge e dimensioni. Era solo una casetta, certo, ma molto ben tenuta e ogni cosa di cui si potesse aver bisogno era a portata di mano. Di lì a poco, un caldo chiarore aveva già riempito la stanza e, quando Kate guardò Michael, vide che era salito sul letto accanto a Emma e già russava dolcemente. L’uomo si avvicinò. «Appendete i vestiti davanti al fuoco. E tenete chiuse le tende. Il letto è vostro.» E se ne andò. A fatica, Kate fece mettere in piedi il fratello e la sorella e gli tolse i vestiti e le scarpe fradici. Senza nemmeno aprire gli occhi, Emma e Michael lasciarono cadere tutto a terra, in un mucchietto, si infilarono le camicie, lunghissime per loro, che l’uomo aveva tirato fuori, poi tornarono dondolanti a letto e si misero sotto le coperte. Kate posò le loro scarpe accanto al focolare; i vestiti, li strizzò in un catino e poi li appese davanti al fuoco a una corda che aveva trovato. Lei la stanchezza se l’era già lasciata alle spalle ed era come se non dovesse dormire mai più, ma dopo essersi infilata l’ultima camicia asciutta, andò lo stesso a letto, tanto per stare vicino al fratello e alla sorella. Dov’era andato l’uomo? E chi era? Di sicuro non era un amico della Contessa, ma potevano fidarsi di lui? Che fosse un tipo molto pericoloso era sicuro. Se ne stette lì, a letto, a descrivere preoccupata con il pollice e l’indice dei cerchiolini sul medaglione della madre e a sentire il peso della coperta di pelle d’orso e l’asciutto tepore delle lenzuola contro la pelle. Il rumore della pioggia, sopra, sembrava lontanissimo. Decise di rimanere sveglia fino al ritorno dell’uomo. Aprì gli occhi di scatto. Quanto aveva dormito? Era ancora notte, pioveva ancora. Ma l’uomo era tornato. Era seduto sul gradino di pietra del focolare, a segare le manette di metallo che gli legavano i polsi, e intanto la luce del fuoco si agitava sulla cicatrice che gli attraversava per il lungo la faccia.
Era il momento di chiedergli chi era. E perché aveva cercato di uccidere la Contessa. Ma Kate rimaneva lì, ad ascoltare il respiro del fratello e della sorella, ad ascoltare la pioggia sul tetto, i sommessi scoppiettii del fuoco, il regolare avanti e indietro della sega che tagliava il metallo. Era stanca. Avrebbe chiuso gli occhi un minuto. Poi avrebbe parlato con lui. Sprofondò in sogni agitati. Nell’ultimo vide una città sotterranea. Sorgeva nel cuore cavo di una grande montagna e gli edifici erano diversi da qualsiasi edificio che Kate avesse mai visto. Sembravano scolpiti direttamente nella roccia, come se la città fosse stata scavata, invece che costruita. L’effetto era imponente, aspro e stranamente bello. A un certo punto la terra si mise a tremare e a spaccarsi. Le case si sbriciolarono. Scoppiarono incendi. Poi la terra parve inghiottire la città tutta intera. Kate si svegliò, col fiatone, coperta di sudore. Il fuoco si era spento. Dalle tende filtrava la luce del giorno. Le catene che prima erano ai polsi dell’uomo erano raccolte in un mucchietto accanto al focolare. Era sola. I vestiti di Michael ed Emma non erano più appesi alla corda. Tastò i suoi. Erano asciutti. Si rivestì in fretta e uscì. Fuori, accecata dalla luce del sole, ammiccò più volte, proteggendosi gli occhi. La casupola era sul fianco di una montagna e si affacciava sulla valle. Era una bella mattina di cielo sereno. L’aria era fresca e pulita. Anzi, non fosse stato per i segni inconfondibili che la circondavano, il fango per terra, lo scintillio delle gocce di pioggia sulle cime degli alberi nella valle, i suoi vestiti sporchi e strappati, il sangue seccato sulle mani, avrebbe quasi potuto credere che tutto l’accaduto di quella notte, il temporale, i lupi, la comparsa improvvisa di quell’uomo, fosse stato solo un sogno. «’Ngiorno!» Michael era seduto su un masso qualche metro più in là, con il quaderno in equilibrio sul ginocchio. «Sto aggiornando il diario. Faccio in un attimo.» Kate si guardò attorno e non vide né Emma né l’uomo. «Michael...» «Solo un secondo.» Kate chiuse gli occhi e premette la punta delle dita sulle tempie. Doveva pensare. Stavano ancora andando a Westport? Se sì, adesso dov’erano? Quanta strada avevano fatto la notte prima? L’uomo avrebbe saputo dirglielo. Ma dov’era? E dov’era Emma? Kate stava per dire a Michael di finirlo dopo l’aggiornamento del diario quando il suo sogno, che al risveglio si era dissolto, di colpo tornò: non nel solito modo in cui tornano i sogni, vagamente, a sprazzi, ma con vivida precisione; rivide tutto quanto, la città
sotterranea, la terra che si apriva... «Kate!» Michael la stava scuotendo. Lei batté le palpebre e si rese conto di essere sdraiata per terra. Era svenuta di nuovo? «Che ti è successo?! Sei...» «Sto bene.» Le risuonavano nelle orecchie le parole della Contessa: Hai visto la più grande... il libro le ha lasciato il marchio. Era chiaro che non stava bene. Ma, vedendo come la guardava Michael, riuscì a sorridere. «Mi ero solo tirata su troppo in fretta. Dov’è Emma?» «Non lo so» rispose lui, sempre osservandola. «Quando mi sono alzato non c’era più.» ______________________
Quando Emma si era svegliata, aveva appena cominciato ad albeggiare. Una fioca luce grigia si era insinuata nella casupola. Kate e Michael dormivano ancora. L’uomo stava spegnendo il fuoco; neri ceppi carbonizzati si sbriciolavano mentre una nube di cenere gli si gonfiava attorno ai piedi. Il braccio era bendato nel punto in cui il lupo lo aveva morso. Emma lo vide infilarsi una camicia, prendere dal muro un coltello e l’arco con la sua piccola faretra e, gettandole un’occhiata, andarsene senza una parola. Subito, Emma si alzò, si vestì e corse fuori. Sulla valle gravava una fitta foschia mattutina e fece appena in tempo a vedere la grossa sagoma dell’uomo scomparire nel grigiore. Senza far rumore, gli si mise alle calcagna. Non avrebbe saputo dire perché lo seguiva. Di solito gli adulti non le interessavano granché. L’esperienza le aveva insegnato che i grandi bisognava sopportarli o disubbidirgli apertamente. Abraham non era male, pensava, e il dottor Pym era stato interessante, visto che era uno stregone. Ma questa era la prima volta che si sentiva veramente attratta da un adulto. Quando l’uomo si fermò, Emma si nascose dietro un masso. Le sembrava che stesse ascoltando qualcosa nella nebbia. Le stava tornando un ricordo. Un ricordo di qualche anno prima. Un vecchio riccone aveva offerto a tutti i bambini dell’orfanotrofio una gita allo zoo. Emma aveva pensato che quel tipo stesse per morire e così cercasse di fare un’opera buona per andare in paradiso. In ogni modo, quella gita allo zoo era stato decisamente il giorno più bello della sua vita.
C’erano panda, giaguari, giraffe, con il loro collo lungo, scimmie chiazzate che gridavano e chiacchieravano lanciandosi da un albero all’altro, coccodrilli del Nilo un tempo venerati, leopardi delle nevi che arrivavano dall’Himalaya, serpenti verde smeraldo che riuscivano a ingoiare un uomo tutto intero. Ovunque ci si girasse, c’era qualcosa da vedere. Ma l’animale che aveva attirato la sua attenzione, quello che l’aveva rapita, gettandola in un muto stupore, era stato un leone. Era enorme, grande il doppio di tutti gli altri. Aveva la pelliccia folta, di un bruno dorato, portava sul muso le cicatrici di molte battaglie e gli occhi erano del nero più nero che Emma avesse mai visto. Aggrappata alle sbarre più esterne della gabbia, aveva visto in lui forza e intelligenza e, celata dietro l’immobilità, la pura violenza animale pronta a esplodere. In quell’uomo c’era qualcosa che le ricordava il leone. Lo guardò abbandonare il sentiero e dissolversi nella foschia. Aspettò un momento e poi riprese a seguirlo. La terra era bagnata e scivolosa e, quando si appoggiava agli alberi, cascatelle d’acqua piovana le spruzzavano la testa e le spalle. Arrivata in una radura, si fermò. L’uomo era scomparso. Mentre rifletteva su quale direzione prendere, ci fu un tramestio e dagli alberi sbucò un grosso cervo. Era alto e forte, con due imponenti corna voltate all’insù. Lei, nascosta dietro i rami, trattenne il fiato, impressionata dalla bellezza dell’animale. Il cervo allungò il collo per brucare un cespuglio. Emma avrebbe tanto voluto che ci fossero anche Kate e Michael. Soprattutto Kate. Probabilmente Michael avrebbe rovinato tutto con una delle sue stupide osservazioni sui nani. All’improvviso il cervo si sollevò sulle zampe posteriori, con il corpo tutto in tensione. Si girò e fece per spiccare un balzo, ma proprio in quel momento l’uomo si tuffò fuori dalla foschia e atterrò sul dorso del cervo, buttandolo a terra. Il coltello lampeggiò e un attimo dopo l’animale aveva la gola tagliata. Emma soffocò un grido, sbalordita dalla rapidità e dalla ferocia del gesto. Guardò l’uomo inginocchiarsi accanto al cervo, posargli una mano sulla testa. Lo vide muovere le labbra, sussurrare qualcosa. Poi l’uomo sollevò lo sguardo; i loro occhi si incontrarono. Emma capì che le chiedeva di avvicinarsi. Con le gambe tremanti, andò da lui. Dalla ferita al collo saliva del vapore e nell’aria c’era un forte odore di sangue. Emma non aveva paura. Negli ultimi giorni erano successe troppe cose perché potesse aver paura adesso. Ma in quella scena, nell’uomo, nel cervo e in quell’uccisione nel bosco silenzioso, c’era una nudità che le faceva tremare il cuore. Si fermò accanto al cadavere. Gli occhi dell’uomo non l’avevano lasciata un
secondo. «Non aver paura.» Emma avrebbe voluto dirgli che non ne aveva. Ma si rese conto di non riuscire a parlare. La manona dell’uomo era ancora posata sulla testa dell’animale. «I lupi, l’altra notte, erano cattivi. Non mi pento di averli uccisi.» La voce era sommessa e potente. «Ma uccidere una creatura come questa è un sacrilegio. Bisogna farlo solo quando è proprio indispensabile. E bisogna chiedere perdono allo spirito.» La guardò per ricevere la sua comprensione ed Emma annuì, ricordando di nuovo gli occhi più neri del nero del leone. L’uomo incise l’addome del cervo e cominciò a svuotarlo. Era esperto e portò a termine il compito velocemente e senza scarti. A Emma venne la nausea guardandolo togliere gli organi e metterli in una borsa di pelle foderata, ma non distolse lo sguardo. Si disse che Michael, se fosse stato lì, avrebbe vomitato dall’inizio alla fine e questo la fece star meglio. «Ieri notte, con i lupi, hai avuto paura?» Lei prese in considerazione la possibilità di mentire, ma poi rispose di sì. «Non si vedeva.» A Emma parve di udire la sua approvazione, che le riscaldò il petto. L’uomo disse: «Non siete di Cambridge Falls». Non era una domanda, ma lui si aspettava una risposta. «No. Siamo di... be’, siamo... diciamo che veniamo dal futuro.» Adesso si sentiva più a suo agio. «Abbiamo trovato un libro magico, un libro che, se ci metti dentro una foto, ti porta dove e quando è stata scattata la foto. E così abbiamo fatto: ci abbiamo messo dentro una foto e siamo arrivati qui.» L’uomo aveva smesso di fare quel che stava facendo e la guardava. In un attimo, Emma capì due cose. Anzitutto la ragione per cui lo aveva seguito: lo aveva seguito perché la notte prima, quando l’aveva presa in braccio sotto la pioggia, si era sentita più al sicuro di quanto le fosse mai capitato in vita sua. La seconda cosa che capì era che di colpo, per come lui la guardava, per il sangue che aveva sulle mani, per il coltello, per il fatto che erano soli nel bosco, di colpo non si sentiva affatto al sicuro. «Scusami» disse, piano. «Potevo spiegartelo meglio.» Represse il desiderio di scappar via. Si impose di restare e lo guardò fisso negli occhi dall’altra parte del corpo ancora caldo del cervo. Poi il momento passò. Annuendo lentamente, l’uomo pulì la lama sulla pelle dell’animale e rinfoderò il coltello. «Mi chiamo Gabriel.»
«Io Emma.» Lui si rialzò, caricandosi sulle spalle il cervo morto. «Torniamo. Tuo fratello e tua sorella si saranno svegliati. Dobbiamo parlare di molte cose.» ______________________
La prima cosa che Kate vide fu l’uomo che spuntava dalla curva del sentiero con un piccolo corpo sulle spalle. Oh, no, pensò. Poi, trotterellando accanto a lui, comparve Emma. Sorrise e salutò con la mano. Mentre l’uomo andava ad appendere il cervo in un capanno annesso alla casupola, Emma raccontò con entusiasmo a Kate e Michael tutte le cose successe: che l’uomo si chiamava Gabriel, che Gabriel aveva ucciso il cervo, che Michael, se fosse stato lì, avrebbe vomitato... «Ehi!» «Scusami» disse Emma. «Ma è vero.» «Non saresti dovuta andar via» disse Kate. «È pericoloso.» Emma annuì e ce la mise tutta per sembrare pentita. «Che cosa gli hai raccontato di noi?» «Mah, niente... che venivamo dal futuro e... del libro.» Kate si accorse che Emma era inquieta. «Cosa c’è?» «Niente. Solo che, quando gli ho parlato del libro, si è comportato in un modo strano.» «Strano come?» «Mah» rispose Emma, dando un calcio al fango e scrollando le spalle, «come se volesse... non so... uccidermi.» «Eh?» In quello stesso istante l’uomo tornò e annunciò che la colazione era pronta. Mangiarono al tavolo di legno della casupola. L’uomo, o Gabriel, visto che Emma, almeno, aveva cominciato a pensarlo con quel nome, si era cambiato la camicia e si era lavato via il sangue dalle mani nel ruscello che c’era dietro la casupola. Disse che accendere il fuoco di giorno sarebbe stato rischioso. Gli Strillatori erano di sicuro in giro per la valle a cercarli e avrebbero visto il fumo. Per colazione, dovevano accontentarsi di pane e miele e delle bacche che lui ed Emma avevano colto sulla via del ritorno. Kate ed Emma non facevano un pasto vero e proprio dalla mattina in cui
erano andate nel passato; e i pasti di Michael con la Contessa, per quanto lauti, erano state pozioni magiche di cui ci si rimpinzava per ritrovarsi di nuovo affamati dopo dieci minuti. Tuttavia, soltanto quando l’uomo ebbe portato le vivande in tavola i ragazzi si resero conto di quanta fame avevano. Un istante dopo erano lì a ingozzarsi di fettone di pane grondanti di miele e poi di manciate di bacche che esplodevano sotto i denti. A un certo punto Gabriel mise in tavola una caraffa di latte, che versò in quattro tazze. Michael prese la sua, se ne vuotò metà in bocca in un unico sorso, poi si girò e sputò latte in tutta la stanza. L’uomo rimase imperturbato. «Latte di capra» disse. «Un po’ forte, per chi non c’è abituato. Bevilo, fa bene.» E, con sgomento di Michael, gli rabboccò la tazza. Emma ne bevve una bella sorsata e fece di tutto per trattenere una smorfia. «È buonissimo» disse, con un sorriso forzato. «Mi piace da morire.» Kate, pur mangiando con la stessa avidità di Michael ed Emma, intanto teneva d’occhio il padrone di casa. Di fronte a loro, occupava un lato intero del tavolo e sembrava tutto concentrato sulla colazione. Alla fine si leccò via dalle dita le ultime gocce di miele, finì la sua tazza di latte e, passandosi il dorso della mano sulla bocca, sospirò. «E adesso» disse, «raccontatemi tutto.» Normalmente Kate avrebbe opposto resistenza a un ordine come quello: il suo impulso naturale era di rivelare quanto meno poteva sia di se stessa sia del fratello e della sorella. Ma quando l’uomo spostò lo sguardo su di lei, Kate provò la stessa sensazione provata prima da Emma: che qualcosa in lui le imponesse di dire la verità. Così, raccontò di nuovo la loro storia: la scomparsa dei loro genitori, i trasferimenti da un orfanotrofio all’altro e infine il loro arrivo lì, a Cambridge Falls. «E la Cambridge Falls dei vostri tempi» chiese l’uomo «com’è?» Kate gli descrisse una terra desolata in cui gli alberi erano scomparsi e la gente era spaventata e poco socievole. Disse che non c’era una diga a fermare il fiume e l’acqua correva giù per la forra e si tuffava nel dirupo. E gli unici animali erano i lupi, che uscivano di notte. Di bambini, non ce n’erano. «E la strega?» L’uomo aveva la voce calma, ma nei suoi occhi videro l’odio. «C’è ancora?» Kate scosse la testa. Avevano scoperto l’esistenza della Contessa e dei suoi Strillatori solo quando avevano trovato il libro ed erano andati nel passato. «Ditemi di questo libro.» Con Emma e Michael che ora cominciarono a intervenire, Kate raccontò di
quando avevano esplorato la casa, della cantina che portava nella stanza sotterranea e di quando Michael aveva trovato per caso il libro. «Abbiamo pensato che forse era lo studio del dottor Pym, o qualcosa del genere» aggiunse Emma. «Del dottor Pym?» «Sì. Dirige l’orfanotrofio. Dicono che sia uno stregone. Anche se noi lo abbiamo visto soltanto accendere il fuoco.» «Questo vostro dottor Pym» chiese Gabriel «è un vecchio con delle grandi sopracciglia bianche?» «Sì!» esclamò Emma. «Perché? Lo conosci?» L’uomo ignorò la domanda. «Finite la storia.» Così Kate gli raccontò che erano andati nel passato, che lo avevano visto cercare di uccidere la Contessa, che Michael era rimasto nel passato e così lei ed Emma si erano fatte dare un’altra foto da Abraham per tornare a prenderlo. «Così siamo tornate nel passato...» «Hai tralasciato qualcosa.» «No.» «È una bugia.» «Non è una bugia» intervenne Emma. «Anch’io c’ero. Ed è andata così.» «Allora c’è qualcosa che lei non vi ha detto.» Kate vide Emma guardarla con aria confusa, interrogativa. Non aveva voluto raccontare quell’episodio; la spaventava pensarci e non voleva trasmettere la sua paura a Michael ed Emma. Così, con il cuore che batteva forte, Kate raccontò di quando aveva posato la mano sulla pagina bianca del libro, delle visioni che aveva avuto e del nero che le era salito sulle dita. Quand’ebbe finito, Emma e Michael rimasero a fissarla, letteralmente a bocca aperta. «Hai visto dei draghi?» disse Michael con un filo di voce. «Che combattevano?» «Secondo te che cos’era quella roba nera?» chiese Emma. «Inchiostro, magari? Non so... inchiostro magico? E perché non ci hai detto niente?» Kate cercò di dare qualche spiegazione. Non sapeva che cosa significava. E non voleva preoccuparli... Ma l’uomo la interruppe e le disse di continuare la storia. La scrutava più intensamente che mai. Kate vide il fratello irrigidirsi quando arrivò all’episodio della loro cattura da parte del Segretario e del tradimento di Michael; e anche se per il bene di quest’ultimo cercò per quanto possibile di non entrare nei dettagli, di nuovo l’uomo non mollò. «Hai aiutato la strega ad attirare e intrappolare le tue sorelle?» Kate vide Michael aprire la bocca. Vide formarsi sulle labbra le sue ragioni, il
motivo per cui in quel momento consegnare le sorelle era stata una linea di condotta sensata. Poi sospirò e abbassò gli occhi. «... sì.» L’uomo emise un verso, una specie di ringhio. «Lo abbiamo perdonato» si affrettò a dire Kate. E riprese a raccontare: di quando la Contessa aveva preso il libro per poi vederselo scomparire sotto gli occhi, di quando li aveva rinchiusi con gli altri bambini, di quando Abraham li aveva fatti scappare conducendoli per un passaggio segreto. E gli raccontò di quando, attraversando di corsa il bosco, avevano sentito il primo ululato. E qui si fermò. Il resto lo conosceva. L’uomo prese una crosta di pane e la tuffò nel vasetto del miele. Kate si sentì svuotata. Raccontare la storia era stato difficile. Guardò l’uomo: masticava, rimuginando quanto aveva ascoltato. Posò lo sguardo sulla cicatrice. Partiva a un centimetro di distanza dall’occhio e scendeva curvando fino alla mandibola. Conferiva alla faccia un’espressione terrificante. Eppure Kate si rese conto di vedere in lui una tenebrosa bellezza. Arrossì e abbassò gli occhi. Che le succedeva? Erano lì, intrappolati nel passato, inseguiti da chissà quanti di quegli orribili Strillatori e lei si metteva a pensare a quant’era bello quell’uomo? «Adesso ce la racconti, la tua storia?» chiese Emma. «Per favore.» Kate e Michael rimasero a bocca aperta. «Cosa c’è?» chiese Emma. «Hai detto ’per favore’» rispose Michael. «E allora?» «Non lo dici mai.» «Sì, invece.» «No» disse Kate. «Mai.» «Credevo che non sapesse neanche cosa vuol dire» rincarò Michael. «Ma piantatela» borbottò Emma. «Benissimo» disse l’uomo, e il rombo della sua voce li zittì. «Voi mi avete raccontato la verità. Vi meritate la stessa cosa in cambio. Cos’è che volete sapere?» Kate pensò che la cosa più importante, per loro, era sapere chi era veramente quell’uomo. «Come ti chiami?» «Gabriel Kitigna Tessouat.» Michael fece una risatina. «Davvero?» Gabriel lo guardò. «Perché è un bellissimo nome» aggiunse subito Michael. Kate chiese all’uomo se era di Cambridge Falls.
Lui scosse la testa. «Per secoli, su queste montagne vissero due comunità umane. Cambridge Falls. E la mia gente. Gli Anishinaabe. Un giorno, così si narra, nel nostro paese arrivò un mago. Ci disse che il mondo magico perdeva terreno dappertutto. E che il resto del mondo non sarebbe più stato in grado di vederci. Non avrebbe più avuto nemmeno il ricordo della nostra esistenza. Noi e gli abitanti di Cambridge Falls avevamo una possibilità di scelta. Potevamo reinsediarci da qualche altra parte, nel mondo normale, oppure continuare a vivere sulle nostre montagne e rimanere nascosti per sempre. Entrambi scegliemmo questa seconda possibilità.» Si interruppe per riempirsi di nuovo la tazza ed Emma si sporse verso Kate e Michael per sussurrare: «Scommetto che il mago era il dottor Pym, eh? Ecco come faceva a sapere delle sopracciglia bianche e tutto il resto». Kate la fece tacere. Stava pensando che in effetti le era sembrato di vedere in quell’uomo qualcosa di un altro mondo, un mondo del passato. E adesso capiva perché. Gli chiese come mai, quel giorno alla diga, si trovava là. Gabriel rispose che periodicamente andava a Cambridge Falls a spiare la Contessa. Aveva visto lei e il Segretario uscire dalla casa e, curioso, aveva ucciso uno Strillatore, ne aveva indossato i vestiti e li aveva seguiti alla diga. Arrivato là, aveva visto la Contessa tenere una bambina sospesa sopra il precipizio. E prima ancora di capire cosa succedeva, si era avvicinato a lei con la spada pronta a colpire. «E lei ti ha fatto quell’incantesimo» concluse Emma. «Se no, di sicuro l’avresti ammazzata. Lo so.» «Quando mi sono risvegliato, ero in una cella» riprese l’uomo. A quel ricordo, la faccia si incupì. «Non c’era luce e sulle prime non ho capito dov’ero; poi mi sono accorto che ci si muoveva e ho sentito lo sciabordio dell’acqua.» «La nave!» gridò Emma. «Abraham ce l’aveva detto! Aveva detto che c’era una prigione dove torturavano la gente. E facevano esperimenti e roba del genere!» «Non è una prigione» disse Gabriel. «È una gabbia. Per un mostro.» Nella casetta calò un gran silenzio. «Per prima cosa ho gridato se c’era qualcuno. Nessuno ha risposto. Ma mi è sembrato di sentire un rumore arrivare da sotto. Che puzza, là dentro; un puzzo di morte.» Chiuse gli occhi, come in attesa che l’odore se ne andasse. Dopo qualche secondo riprese il racconto. «Il pavimento era una griglia di ferro e sotto, in corrispondenza delle celle del mio livello, c’era un’unica grande gabbia. Ho gridato di nuovo. Di nuovo nessuna risposta. Allora sono rimasto fermo e zitto. Finché l’ho sentito, nel
buio fitto: un respiro raschiante, un tacchettare di artigli e una voce fioca che si faceva una promessa: ’Fra poco... fra poco...’ E allora ho capito che cos’ero io per quella creatura là sotto. Io non ero un prigioniero. Ero cibo.» Se prima c’era silenzio, non era niente in confronto a quello che calò quando l’uomo tacque. Alla fine Emma, quasi speranzosa, disse: «Forse era uno Strillatore». «No. Era un’altra cosa.» «Ma, qualunque cosa fosse, perché la Contessa lo tiene sulla nave? Perché non tenerlo sotto la casa?» chiese Kate. L’uomo scrollò le spalle. «Scommetto che era idrofobo» disse Michael. Kate gli chiese di spiegarsi. Michael diede un colpetto di tosse e si tirò su gli occhiali. Emma sbuffò. Era segno che stava per raccontare una cosa molto noiosa letta su un libro. «Nelle storie, non è raro che streghe e stregoni si tengano dei mostri. Una specie di arma estrema. Ovviamente i nani non hanno mai fatto queste cose. Erano troppo corretti per...» «Michael...» «Vabbè, comunque il fatto è che, quando si ha un mostro, che sia un lupo mannaro, un drago, un troll di fango o quel che è, spesso, alla fine, il mostro aggredisce il suo padrone. Perciò si costruiscono tutte queste difese e protezioni. Stavo pensando che se quel mostro ha paura dell’acqua, perché è questo il significato di ’idrofobo’...» «È questo il significato di ’idrofobo’» lo scimmiottò Emma sottovoce. Michael non ci badò. «Forse la Contessa lo tiene sulla nave per controllarlo. Poi, se le serve, basta che lo porti a riva.» Gabriel annuì. «Probabilmente hai ragione.» «Davvero?» disse Emma, incapace di celare il fastidio. «Sei sicuro?» «Ma come hai fatto a scappare?» chiese Kate. «Non è ancora stata costruita una gabbia capace di imprigionarmi.» Lo disse come se non fossero necessarie altre spiegazioni. E Kate, guardandolo, concordò con lui. «Allora cosa farai? Cercherai di nuovo di uccidere la Contessa?» chiese Emma. «Noi possiamo aiutarti. Ci piacerebbe molto ucciderla!» «No» rispose lui. «Tornerò al mio paese. Devo riferire agli altri quel che mi avete detto. Quel che succederà ai nostri boschi. E bisognerà consultare la nostra savia sul libro che la strega desidera tanto.» «Chi è una savia?» chiese Emma. «È una donna che pratica la magia» disse Michael. «Non l’avevo chiesto a te» brontolò Emma. «Ha ragione» disse Gabriel. Emma guardò Michael di traverso.
Kate taceva. Le era venuta un’idea. La memorizzò bene, temendo che potesse sfuggirle di mente. Poi parlò. «Portaci con te.» L’uomo scosse la testa. «Dovrò muovermi velocemente e il sentiero che prenderò sarà pericoloso. Qui sarete più al sicuro. Con il cervo che ho ucciso, avrete abbastanza da mangiare. E potrete bere tranquillamente l’acqua del ruscello qui dietro. Aspettate che faccia buio, prima di accendere il fuoco. Appena potrò manderò qualcuno a occuparsi di voi.» «Ma...» fece per dire Kate. «Potremmo...» cominciò Emma. «No!» E batté l’enorme palmo sul tavolo, provocando un acciottolio di piatti e tazze e mettendo fine alla discussione. Si alzò e prese dal muro un cannocchiale di ottone, dicendo che sopra la casupola c’era un crinale da cui si vedeva tutta la valle. Voleva controllare che non ci fossero Strillatori nei paraggi. Poi doveva partire. Nell’istante stesso in cui la porta si chiuse, Emma si rivolse a Michael. «È colpa tua se non ci porta.» «Eh?» «Lui detesta i saputelli. Me l’ha detto stamattina dopo aver ucciso il cervo. Ha detto: ’Detesto i saputelli’.» «Sì, certo, l’ha detto di sicuro.» «Basta!» sibilò Kate. «Dobbiamo convincerlo a portarci con lui. Ha detto che la savia sa tutto del libro. Forse sa anche dov’è. Dobbiamo trovarlo prima che lo trovi la Contessa. Solo così potremo tornare a casa.» Si interruppe. Le era venuta in mente una cosa terribile. «Emma, ce l’hai ancora, la foto, vero? Quella per tornare indietro.» Per un lungo momento, con lo stomaco contratto, guardarono Emma frugare nelle tasche. Finalmente tirò fuori la fotografia. Aveva una grinza in mezzo, un angolo piegato e, appiccicato sul retro, un pezzetto di gomma da masticare rosa, ma si vedeva Kate seduta in camera da letto, che li guardava dal futuro. I ragazzi emisero in coro un muto sospiro di sollievo. «Emma» disse Kate, dolcemente, «forse dovrei tenerla io.» «Sì, per favore» mormorò Michael. «D’accordo.» Emma staccò il pezzetto di gomma da masticare e consegnò la foto alla sorella. Kate, dopo averla lisciata il più possibile, se la infilò nella tasca interna della giacca. «Tornando all’argomento in questione» disse Michael, «come facciamo a convincerlo a portarci?» In realtà il problema si risolse da sé: proprio in quel momento udirono dei passi, la porta si spalancò e Gabriel entrò dicendo: «Andiamo. Subito». I ragazzi non fecero in tempo a chiedersi che cosa gli avesse fatto cambiare
idea che nella valle echeggiò il grido di uno Strillatore. «Sono in venti» disse Gabriel, prendendo un lungo oggetto avvolto nella tela che era appeso fra le travi. «Saranno qui fra tre minuti.» «Cosa facciamo?» chiese Michael. «Com’è che usciamo di qui?» «Combattendo» disse Emma, con la voce fremente di rabbia. «Vero, Gabriel?» Ma lui era andato al caminetto, dove appoggiò la mano contro un sasso e spinse. Molto lentamente, con uno stridio di sassi che sfregavano, tutto il caminetto ruotò, scoprendo un cunicolo buio che portava nel cuore della montagna. «Da questa parte» disse Gabriel.
Capitolo 10 Il labirinto † Quando furono nel cunicolo, l’uomo ordinò a Kate, Michael ed Emma di rimanere esattamente dov’erano. Poi spinse di nuovo il caminetto, che con un tonfo sordo tornò nella posizione iniziale. I ragazzi se ne stettero lì, al buio, a respirare l’aria viziata ascoltando Gabriel muoversi. Lui strofinò un fiammifero e lo usò per accendere due malconce lanterne a gas appese al muro. Ne diede una a Kate. «Dove siamo?» chiese lei. Con le ombre proiettate dalla lanterna che si agitavano sulla cicatrice, Gabriel era più terribile che mai. «Qui dentro dovrete stare zitti e fare come vi dico. Venite.» Si girò dall’altra parte e si incamminò nel cunicolo. Arrivarono a una serie di gradini scheggiati, in fondo ai quali c’era una porta di ferro con vari chiavistelli e catenacci. Gabriel l’aprì, la varcò, fece entrare i ragazzi, la richiuse alle loro spalle e serrò tutto. Adesso erano in un altro tunnel. Era più largo e aveva i muri scabri. Per terra, al centro, correvano due rotaie di ferro. Quando ormai camminavano da una quindicina di minuti, Kate azzardò di nuovo: «Ma dove siamo?» Per un attimo pensò che l’uomo non avrebbe risposto. Invece poi disse: «Un vecchio tunnel di miniera utilizzato dalla città. Attraverseremo la montagna e arriveremo nella valle dove si trova il mio paese». Continuarono a camminare, Gabriel ed Emma davanti (il tunnel era abbastanza largo perché ci si potesse stare affiancati) e Kate e Michael dietro. Kate, quando nella casupola aveva illustrato al fratello e alla sorella il suo piano per riportarli a casa, aveva cercato di usare toni fiduciosi. Ma, anche se la savia di Gabriel avesse fornito informazioni utili, in fondo al cuore aveva la sensazione che le probabilità di trovare il libro prima della Contessa e di tutti i suoi Strillatori fossero molto scarse. Mentre camminavano, Gabriel sorprese Kate mettendosi a parlare. Raccontò delle montagne, dell’antica, profonda magia che le pervadeva e del rispetto che per questa ragione si meritavano. Disse che gli uomini di Cambridge Falls avevano sempre saputo che c’erano posti in cui non si doveva scavare, cose che non si sarebbe mai osato toccare. Gli hannudin, per esempio, gli Ammazzasperanza, com’erano chiamati, ghoul
semivivi che nel buio ti arrivavano alle spalle per sussurrarti che tutti i tuoi pensieri peggiori corrispondevano a verità, gli amici ti tradivano, tua moglie non ti amava, i tuoi figli avrebbero imparato a odiare il tuo nome. Gli uomini spegnevano la lanterna e si sedevano al buio, per essere ritrovati lì mesi o anni dopo, morti di fame. E c’erano i salmac-tar, una razza antica, poco più che bestie, da cui si diceva avessero avuto origine i goblin tanto tempo fa e che vivevano sotto le radici delle montagne. Erano ciechi e avevano enormi orecchie simili a quelle dei pipistrelli; volando emettevano dei piccoli schiocchi e li ascoltavano rimbalzare contro gli ostacoli; con i denti e gli artigli, affilatissimi, riuscivano a tagliare ferro e ossa. «Ma anche le creature come loro» spiegò Gabriel «erano parte di un equilibrio. Quando arrivò la strega, tutto cambiò.» Tacque e per un po’ udirono soltanto lo scricchiolio della ghiaia sotto i piedi. A Kate vennero in mente i venti morum cadi che l’uomo aveva visto nella valle. Se li immaginò distruggere la casupola, trovare la porta segreta dietro il caminetto e poi lanciarsi nel tunnel l’uno dopo l’altro, con quegli occhi gialli che scavavano nel buio... Sapeva che questi pensieri non le facevano bene, ma non riusciva a reprimerli. Alla fine, a riportarla alla realtà fu Gabriel: aveva ripreso a parlare e stava paragonando qualcosa a un paio di mani invisibili che ti entravano nel petto per stritolarti il cuore e i polmoni. Stava descrivendo, si rese conto Kate, il grido di uno Strillatore. «Ma è tutto illusorio» disse Gabriel. «Il dolore ha un’origine tutta mentale.» «Cosa?» La subitaneità della propria rabbia la sorprese. «Stai dicendo che ci siamo immaginati tutto? Che quei bambini alla diga si sono immaginati tutto?» «Non ho detto questo» la corresse lui. «Il grido crea nella mente panico e paura. E la paura è tanto grande che il corpo comincia a contrarsi. È questo il dolore che si sente. È reale, ma deriva dalla mente.» «E allora come si fa a farlo passare?» chiese Michael. «Uccidendo gli Strillatori» disse Emma. «È chiaro.» «Accettando il fatto che il grido non ha alcun potere fisico di fare del male» spiegò Gabriel. «E poi imparando a gestire la paura. È l’unico modo.» E aggiunse: «Oltre che uccidendoli». Kate pensò di dirgli che, per un gigante armato di spada e capace di uccidere un lupo, «gestire la paura» era probabilmente molto più facile, ma Michael stava già scrivendo il suo diario, mormorando: «gestire... paura», così lasciò stare. Gli fece invece la domanda che la tormentava dalla notte prima. «Sai se c’è qualcun altro? Oltre alla Contessa. L’abbiamo sentita parlare di un padrone.»
«È vero» disse Michael. «Lei e il Segretario: tutti e due ne hanno parlato. L’ho scritto qui.» Gabriel scosse la testa. «Non so niente di un padrone. Chiederemo alla savia. Può darsi che lei...» Si fermò e si girò a guardare il cunicolo alle loro spalle. Era un fascio di nervi pronto a scattare. Kate scrutò nel buio, ma nel tunnel c’era un silenzio di tomba. «Forse è uno di quei pipistrelli-goblin» sussurrò Michael. «Sst.» Gabriel passò la lanterna a Emma e aprì il telo. Al contrario di quanto aveva pensato Kate, non era una spada. Sembrava piuttosto un machete gigantesco. La lama era stretta vicino al manico e poi si allargava fino a diventare enorme. Era fatta di un metallo nero e il filo luccicava alla luce della lanterna. Gabriel fece un passo avanti. Niente si mosse. Kate fece per chiedergli cosa gli sembrava di aver sentito. Ma in quell’istante lo Strillatore si materializzò nel buio. Non faceva alcun rumore, ma puntava verso di loro, con la spada sollevata e gli occhi gialli che luccicavano. In seguito Kate avrebbe capito che la cosa più spaventosa era stata questa, perché, per quanto terribili fossero le loro grida, almeno ti davano il tempo di scappare. Adesso, invece, era troppo tardi. Poté soltanto starsene lì ad aspettare il colpo. Risuonò un gran fragore: la lama di Gabriel cozzò contro l’altra e la spada della creatura si spezzò. Un attimo dopo, le due metà del suo corpo giacevano a terra, sfrigolando, mentre del fumo puzzolente si levava dal cadavere. Kate guardò Gabriel. Anche la sua arma fumava. Aveva tagliato di netto lo Strillatore, spada, corpo, tutto. Gabriel disse: «Scappate». Loro ubbidirono, mettendosi a correre a più non posso. Per corridoi tortuosi, su e giù per scale, svoltando angoli ciechi, mentre Gabriel li incitava a correre più forte. Il tunnel si biforcava in continuazione, ma lui evidentemente sapeva dove andare: «Sinistra... destra... quel passaggio, presto!» Di lì a non molto udirono il primo grido. E di lì ad ancor meno altri se ne unirono, grida disumane che si accavallarono nei cunicoli. Kate sentì cederle le ginocchia e per poco non cadde. Guardando Michael ed Emma, capì che anche loro faticavano ad andare avanti. Continuava a dirsi che il dolore era soltanto mentale, che quegli strilli non potevano ferirla, ma non serviva a niente. Aveva sempre la sensazione di correre in salita con un macigno sulla schiena. E intanto gli strilli si avvicinavano. Di colpo sbucarono fuori da un tunnel e si ritrovarono sull’orlo di un
crepaccio sotterraneo gigantesco. Non se ne vedeva il fondo né il colmo né l’altra sponda. Un ponte sospeso si inoltrava nel buio e scompariva. Le grida nei tunnel erano più forti che mai. L’orda li avrebbe raggiunti da un momento all’altro. «Voi andate» ordinò Gabriel. «Li tratterrò il più possibile. Attraversato il ponte, seguite il tunnel. Arriverete in una sala. Prendete il secondo cunicolo a sinistra. Continuate ad andare. Sempre scegliendo la seconda a sinistra. Fuori troverete un sentiero che porta al mio paese. Se devierete di un passo sarete perduti per sempre. Adesso andate. Vi raggiungerò.» «Ma...» cercò di protestare Emma. «Andate! Non c’è tempo!» «Sbrighiamoci!» Kate prese Emma per mano e la spinse sul ponte. Michael si era già messo a correre. Quando appoggiarono i piedi sulle assi di legno, il ponte ondeggiò. A metà strada, Kate sentì una corrente gelida sollevarsi dal buio. Nell’aria c’era un’umidità fredda e stantia che le faceva accapponare la pelle. «Guardate» gridò Emma. Kate si girò. Due Strillatori erano sbucati fuori dal tunnel alle loro spalle. Mentre attaccavano, Gabriel gli andò incontro. Le lame scintillarono e risuonarono. Gabriel schivò un colpo, afferrò una creatura e la scaraventò nell’abisso. Il grido fu risucchiato nel buio. «Andiamo!» gridò Kate, tirando la sorella per la mano. Fecero di corsa gli ultimi venti metri che le separavano dal punto in cui Michael le aspettava. Ormai il buio era troppo fitto per vedere Gabriel sull’altra sponda. Ma evidentemente altri Strillatori si riversavano fuori dal tunnel, perché si levavano altre grida e il cozzare del metallo era continuo e furioso. Nel buio più nero si combatteva una battaglia mortale. «Non possiamo abbandonarlo!» gridò Emma, con gli occhi stravolti dalla disperazione. «Dobbiamo fare qualcosa!» «Non possiamo far niente!» replicò Kate. «E ci ha detto di proseguire, ti ricordi?» «L’ingresso è qui!» annunciò Michael. Kate, quasi trascinando Emma, li condusse nel cunicolo. Di lì a breve il rumoreggiare della battaglia si era spento e dopo un minuto di corsa disperata arrivarono nella sala di cui aveva parlato Gabriel. Era grande, circolare, con il soffitto alto e sei porte identiche. «Non avremmo dovuto abbandonarlo.» Emma era riuscita a staccarsi da Kate e aveva negli occhi lacrime di frustrazione e vergogna. «Lui ci ha aiutati e noi siamo scappati come tre vigliacchi.» «Non avevamo scelta!» «L’uscita che dobbiamo prendere è questa» disse Michael, puntando il dito. «La seconda a sinistra.»
«Possiamo almeno aspettare?» implorò Emma. «Solo un attimo, per vedere se arriva. Per favore, Kate. Solo un attimo.» Kate guardò le lacrime che scendevano sulle guance della sorella. Sapeva che la cosa giusta da fare era dire di no. Dovevano aumentare quanto possibile il distacco fra loro e gli Strillatori. Sospirò. «Solo un attimo.» Vide Emma girarsi a guardare nel cunicolo buio e la invidiò. Emma viveva le sue emozioni al massimo dell’intensità. Amava e odiava senza interrogarsi continuamente sulle mille possibili conseguenze di ciascuna azione. Kate sapeva che, se glielo avesse lasciato fare, sarebbe tornata subito ad aiutare Gabriel, anche se questo significava andare incontro a morte certa. Michael si avvicinò e, discretamente, diede un colpetto di tosse. «Dovresti imparare a dire più spesso di no.» «Michael.» «Lo dicevo solo perché...» Kate gli lanciò un’occhiata e lui evidentemente recepì il messaggio, perché si allontanò, mormorando che la costruzione della sala era di qualità superiore rispetto al resto della miniera e che voleva esaminare uno spigolo che c’era là... Kate decise di aspettare altri trenta secondi. Dopodiché avrebbe portato via Emma, anche a costo di trascinarla di peso. Le cadde lo sguardo su un cunicolo buio a destra. La visione arrivò inaspettata. Vide una stanza rischiarata da candele. Due figure sedevano a un tavolo di legno. Una era un uomo dai lunghi capelli rossi che indossava un cappotto scuro. L’altra era in ombra. Un pacchetto avvolto in un telo era posato fra loro sul tavolo. Kate capì che era il libro. Udì da un punto lontano Michael dire a Emma che bisognava proprio andare. Si avvicinò di un passo all’ingresso e la visione si fece più chiara. Capì che si stava concludendo un accordo. La figura in ombra acconsentiva, per sé e la sua gente, a nascondere e proteggere il libro. Con voce granitica diceva: «Costruiremo una cripta». Senza riflettere su cosa stava facendo, Kate gridò: «Seguitemi!» e si precipitò nel cunicolo. Una voce dentro di lei protestò. Stava contravvenendo al monito di Gabriel! Si sarebbero perduti per sempre! Doveva fermarsi, tornare indietro... Ma un’altra voce, più forte, le diceva che là c’era il libro, che il libro la chiamava. E se avesse esitato, se si fosse messa a descrivere la visione a Michael ed Emma, avrebbe perso quel legame, avrebbe perso il libro... Così cominciò a correre e alle sue spalle udì grida che le dicevano di fermarsi, di aspettare, e poi il rumore di passi in corsa. Arrivò a un’altra stanza, identica alla prima e con altre sei porte. Aspettò che
i passi e le grida «Kate! Fermati!» l’avessero quasi raggiunta e si tuffò in un altro cunicolo. Chissà come, sapeva esattamente dove andare. Corse per cinque, dieci, quindici minuti, passando per dodici stanze identiche con identiche porte, e ogni volta si fermò abbastanza a lungo perché i passi alle sue spalle l’avessero quasi raggiunta prima di varcare un’altra porta, confidando nel fatto che suo fratello e sua sorella avrebbero seguito il chiarore della lanterna. Mentre correva, le visioni proseguivano. Vide la cripta prendere forma sotto la montagna; vide l’uomo dai capelli rossi che, con il libro aperto davanti a sé, muoveva le dita sulle pagine bianche facendo comparire e scomparire parole e immagini; lo vide, infine, entrare nella cripta e mettere il libro sul piedistallo al centro... Kate si fermò. Il petto andava su e giù. Il cunicolo era terminato bruscamente in un muro di roccia. C’era qualcosa che non andava. Da qualche parte doveva aver preso la svolta sbagliata. Ma com’era possibile? Una mano l’afferrò per il braccio. Michael era piegato in due, senza fiato. «Michael! Ci siamo! Ho...» Michael scosse la testa. «... Emma...» «Emma? Cosa...?» «Credevo che mi seguisse, ma... dovevo... o tornavo indietro o... ma tu non ti fermavi...» Chinò la testa, cercando di riprendere fiato. Nel tunnel non arrivava altra luce. Non si udivano passi. «Dev’essere andata» continuò Michael, faticosamente «a... ad aiutare Gabriel.» Il libro fu spazzato via dai pensieri di Kate. «Dobbiamo tornare indietro.» «E come? È... è un labirinto! Non hai visto? Le stanze sono tutte uguali! Perciò Gabriel ci aveva avvertiti! Non troveremo mai la strada per tornare!» «Invece dobbiamo trovarla! Dobbiamo...» «Kate!» Lei si girò. In mezzo al muro era comparsa una riga nera. La roccia si stava aprendo. Arrivò una folata di vento e la fiamma della lanterna tremolò e si spense. Una voce risuonò come ferro nel buio. «Prendeteli.»
Capitolo 11 Il prigioniero della cella 47 † Gabriel era di spalle al ponte dondolante, con il petto che andava su e giù e l’impugnatura della scimitarra viscida di sudore. Aveva sei tagli sul braccio e una sciabolata profonda nel fianco. Le spade dei morum cadi erano avvelenate. Anche una sola di quelle ferite aveva il potere di ucciderlo. Ma lui non ci pensava. Aveva già annientato sei di quei mostri: quattro li aveva fatti a pezzi e due li aveva scaraventati nell’abisso alle sue spalle. Ma ce n’erano ancora più del doppio, raggruppati a semicerchio attorno a lui, con la spada levata, gli occhi gialli, il respiro, o quel che avevano al posto del respiro, a raspare da sotto la stoffa che gli copriva quel cranio marcio. Bastava che facessero qualche passo avanti e lo avrebbero annientato. Ma allora perché avevano smesso di attaccare? La risposta fu chiara quando una torcia sbucò dal tunnel e, muovendosi su e giù, si spostò verso la coda del drappello. Gli Strillatori si fecero da parte per far passare il Segretario. L’omino aveva il fiato grosso e si asciugava la fronte con un fazzoletto merlettato color lavanda. «Santo cielo» disse, affannato, «quante corse. Ci sarà pur un modo migliore.» Rivolto agli Strillatori, sventolò il fazzoletto. «I miei compagni la tengono impegnato, eh? Be’, anzitutto le presentazioni, giusto? Griddley Cavendish, per servirla.» Si inchinò e sfoderò il suo orrendo sorriso. «E lei, mio caro signore?» Gabriel valutò le probabilità che aveva di colpirlo con un affondo. Pensò che ce l’avrebbe fatta, ma così si sarebbe esposto a un attacco degli Strillatori. «Su, su» disse Cavendish, con voce untuosa, adulatoria, «lei è chiaramente un uomo dalle mille risorse. Uno che è fuggito dalla nave. Che è riuscito a uccidere Strillatori e lupi a suo piacimento. Per non dire della furbizia di quel passaggio segreto dietro il caminetto. Confesso che mi era quasi sfuggito. Quasi, ma... la Contessa, che è tanto intelligente, per fortuna qualche tempo fa acconsentì a fugare la mia ignoranza con qualche semplice incantesimo, per esempio quelli che rivelano porte e pannelli segreti. Che acume, che lungimiranza! Non c’è da stupirsi se i bambini le vogliono bene. Dunque, signore, il suo nome?» «Avvicinati e te lo dico» rispose Gabriel. Il Segretario ridacchiò e si diede due pacche sulla gamba come se si
divertisse un mondo, sempre scuotendo la testa energicamente. «Gran senso dell’umorismo! Be’, be’, grazie dell’invito, ma sappiamo tutti e due a cosa sta pensando, no? Quell’aggeggio lungo e affilato che ha in mano, eh? Vero?» Con il dito ricurvo diede qualche colpetto alla lama di Gabriel e poi, chissà perché, si toccò il lato del naso. Gabriel cominciava a pensare che quell’uomo fosse malato di mente. «D’accordo, niente nomi. Magari però potrebbe dirmi almeno dove sono i ragazzi? Se no dovrò chiedere a questi miei amici putrescenti di ridurla in pezzi più maneggevoli.» Sulla faccia di Gabriel non trasparì nulla. Ma intanto la mente lavorava. La Contessa aveva bisogno di trovare quei ragazzi, ne aveva tanto bisogno da inviare il suo segretario e venti Strillatori. Praticamente l’intero corpo di guardia della città. Ne aveva tanto bisogno soltanto per via del loro nesso con il libro o c’era di più? Quei ragazzi, per una ragione o per l’altra, erano importanti? Cominciava a pensare di aver fatto un grosso sbaglio abbandonandoli. «Gli avrà fatto attraversare il ponte, immagino. Eh? Li ha mandati nel labirinto? Pericoloso, non crede? È così facile perdersi.» Il Segretario, cautamente, fece un passo avanti. «Potremmo metterci d’accordo. Quei ragazzi non significano niente per lei. Li ha trovati nel bosco. Li ha aiutati. È comprensibile, visto che erano inseguiti da quei lupi tremendi. Chiunque lo avrebbe fatto. Ci aiuti a trovarli. Se ci aiuterà» ansimò, sforzandosi di tenere sulle labbra quell’orribile sorriso, «avrà dalla Contessa tutto quel che vorrà. Ricchezza. Potere. Lei sa essere molto generosa.» Il Segretario aveva fatto avventatamente un altro passo avanti. Sarebbe bastato un colpo per fargli volar via la testa dalle spalle. Ma Gabriel sapeva che avrebbe avuto il tempo soltanto per quel colpo, dopodiché gli Strillatori gli sarebbero stati addosso. E poi cosa sarebbe successo ai ragazzi? «Dica alla strega...» «Sì?» L’altro, impaziente, si protese verso di lui. «Che sto arrivando.» Ruotò e con un colpo di spada recise le corde che reggevano il ponte. Il ponte cadde immediatamente nel vuoto e Gabriel spiccò un balzo, lasciandosi alle spalle le grida furiose del Segretario. Allungò la mano libera, cercando un appiglio nel buio. Ma non c’era niente. Soltanto aria fredda e nera. Stava cadendo. Aveva abbandonato tutti. I ragazzi dovevano ormai contare solo su se stessi. La sua gente... La mano sbatté contro un’asse. La prima gli sfuggì, ma ne afferrò un’altra mentre il ponte si apriva in verticale, dopodiché fu spinto avanti.
L’impatto contro la roccia fu tremendo. Se ne stette lì appeso per un secondo, a riprendere fiato. In alto, dall’altra parte del precipizio, vide il bagliore tremolante della torcia. La voce cavernosa del Segretario gli lanciava improperi. All’improvviso, per puro istinto, sollevò le ginocchia proprio mentre una spada si conficcava nelle assi su cui un attimo prima erano posati i suoi piedi. Nel buio sotto di sé, vide gli occhi gialli di uno Strillatore. Doveva averlo seguito nel vuoto ed essersi aggrappato a una corda del ponte. Sfoderata l’arma, Gabriel cominciò ad arrampicarsi. Non poteva sperare di combattere appeso al ponte. Doveva arrivare in cima. «Gabriel!» Guardò in su. Una quarantina di metri più in alto, illuminata dal chiarore di una lanterna, la faccina pallida della ragazzina più piccola, Emma, guardava giù dall’orlo del precipizio. Al rimorso di aver mandato avanti i ragazzi si sostituì subito l’irritazione. Fece per sgridarla, ma in quell’istante la spada dello Strillatore colpì di nuovo, graffiandogli il tacco dello stivale con la punta. Accelerò la risalita. Non si accorse che la faccina di Emma era scomparsa dietro l’orlo del precipizio. Aveva i piedi troppo grossi per gli stretti interstizi fra un’asse e l’altra, così doveva tirarsi su a forza di braccia. Ogni volta che superava un’asse, la staccava per complicare le cose allo Strillatore. Ma lo udiva lo stesso arrampicarsi. «Gabriel!» Lui non guardò in su. «Gabriel!» La voce della bambina era tesa, insistente. «Gabriel!» Volle correre il rischio di guardare, intenzionato a dirle chiaro e tondo che dovevano rimandare qualsiasi discorso. Lei, in piedi sull’orlo del precipizio, cercava di reggere un macigno molto più grande della sua testa. Vedendo Gabriel guardare in su, lasciò cadere il masso. Lui, con un colpo di reni, si spostò a sinistra. Il masso passò a pochi centimetri da lui e colpì in piena faccia lo Strillatore, facendo levare uno scricchiolio d’ossa e buttando giù dal ponte la creatura. Gabriel rimase a guardare il corpo scomparire nel vuoto e poi tornò a guardare Emma. Lei sventolò la mano sorridendo. «Tutto bene! L’ho beccato!» I ragazzi, pensò lui. Si arrampicò fino in cima e si tirò su sull’orlo. La ragazzina reggeva la lanterna e gli occhi le luccicavano per l’emozione. Gabriel si guardò attorno,
ancora con il fiatone. «Tuo fratello e tua sorella dove sono?» «Ci siamo divisi.» «Avevo detto di andare avanti. Non saresti dovuta tornare indietro.» Il sorriso le svanì dalle labbra: sembrava offesa. «Fermatevi!» La voce sottile del Segretario arrivava dall’altra parte del precipizio. «Nel nome della Contessa!» «Vieni» disse Gabriel, «dobbiamo andare.» Fece per mettersi in marcia, ma la ragazzina gli voltò le spalle e incrociò le braccia. «Ti ho salvato la vita. Potresti almeno dirmi grazie.» Gabriel ebbe la tentazione di prenderla in braccio e portarla via di lì. Da un momento all’altro il Segretario e i suoi morum cadi avrebbero cercato un altro modo di attraversare il burrone. Invece, suo malgrado, si ritrovò a sorridere. «Hai ragione» disse. «Grazie, ti sono debitore.» Emma gli lanciò un’occhiata come per controllare che dicesse sul serio. Poi annuì. «Prego. Però non devi sentirti in debito. Così siamo pari. E adesso mi sa che dobbiamo andare.» «Buona idea» disse Gabriel, come se non fosse stato lui a suggerirlo un attimo prima. «Perché sorridi?» chiese Emma. «Niente.» «Mmm. Be’, allora...» Si udì un fruscio nell’aria e poi un tonfo sommesso: Emma trattenne il fiato e barcollò all’indietro. Gabriel la prese prima che cadesse. Trenta centimetri di freccia le spuntavano dalla schiena. Altri sessanta le uscivano dalla pancia. «Gabriel...» Aveva gli occhi enormi, pieni di terrore. Gabriel, toltale di mano la lanterna, prese in braccio la ragazzina quanto più velocemente e delicatamente poté. Il Segretario urlava dall’altra parte della voragine. Sembrava sgridare le creature. «Sst» disse Gabriel dolcemente quando Emma cominciò a piangere per il dolore. «Adesso sei con me» e la portò nel cunicolo. ______________________
A entrambi erano stati legati mani e piedi. Gli avevano messo in testa un cappuccio e lo avevano annodato. Tutto era stato fatto al buio pesto, così Kate non aveva idea di chi li avesse catturati. Ma adesso delle torce si accesero.
Non riusciva a vederle (il cappuccio era particolarmente spesso), ma sentiva il calore delle fiamme e ne udiva le scoppiettio. Poi fu sollevata e caricata su una spalla e si misero in marcia. «Michael» lo chiamò. «Ci sei?» «Sì, sono qui!» Sembrava qualche metro più indietro. «Sto bene.» «Zitti!» abbaiò una voce burbera. Trascorse un’ora. Forse di più. Era impossibile dirlo, con quel buio. Le costole le sfregavano dolorosamente contro la spalla del rapitore e lei si spostava da una parte e dall’altra per ridurre la pressione. Aveva rinunciato presto a cercare di capire dove li stavano portando. Sapeva soltanto che ogni passo li allontanava un po’ di più da Emma e dalla speranza di essere di nuovo tutti e tre insieme. Doveva mordersi il labbro per non piangere. Non voleva che Michael, sentendola, piombasse nella disperazione. Finalmente la voce burbera ordinò di fermarsi. Kate fu messa giù su un pavimento di pietra. Il cappuccio fu slacciato e tolto. Lei batté le palpebre, incapace di mettere a fuoco all’improvviso bagliore delle torce. Michael era accanto a lei: anche a lui stavano togliendo il cappuccio. «Michael» sussurrò Kate, «stai bene?» «Sì. Mi fanno male le costole, ma...» Rimase a bocca aperta. Kate vide i suoi occhi allargarsi fino ad assumere dimensioni innaturali, inquietanti. «N...» gorgogliò. «N...» «Michael? Cosa c’è? Che succede?» «Na...» Kate si girò e, adesso che gli occhi si erano abituati alla luce, vide una decina di uomini bassi, tarchiati e barbuti raccolti attorno a loro nel tunnel. Gli uomini barbuti perlopiù non badavano ai ragazzi. Alcuni avevano tirato fuori qualcosa da mangiare. Altri parlavano fra loro o affilavano le armi. Molti avevano in mano una pipa lunga e sottile e la stavano accendendo. Tutti, notò Kate, avevano una spada corta e un’ascia minacciosa nella cintura di metallo. «Sono... nani» disse Michael, senza fiato, quando finalmente riuscì ad articolare le parole. Erano proprio nani, con tanto di barba, ascia e armatura, esattamente come Michael li aveva sempre descritti. Kate non capiva perché la sorprendesse tanto scoprire che esistevano davvero. Da quando avevano scoperto che esisteva la magia, sarebbe stato logico accettare anche l’esistenza dei nani. A sua discolpa poteva solo dire che erano stati due giorni un po’ impegnativi. «L’ho sempre saputo» mormorò Michael. «Cioè no, non lo sapevo, però... lo
speravo.» Se ne stava lì con lo sguardo trasognato a ripetere: «... i nani...» Uno del drappello si staccò dagli altri. Era un tipo tracagnotto (anche se tutti, chi più chi meno, erano tracagnotti), con la faccia segnata e una barba rossiccia divisa in ordinate treccine. Si inginocchiò davanti ai ragazzi, posò a terra l’elmo con un rumore metallico e si schiarì la voce. «Bene.» A dare gli ordini era stata la sua voce. «Allora sentiamo.» Kate era confusa. «Che cosa, signore?» «La vostra storia» rispose lui, sfilandosi i guanti d’armi. «Come mai siete qui a gironzolare nel nostro territorio. Perché questa violazione.» Alla parola «violazione», dai nani si levò un borbottio generale. «Non era una violazione» disse Kate. «Stavamo...» «Lei è un nano!» se ne uscì Michael. Il nano dalla barba rossa gli lanciò un’occhiata. Guardò il suo largo sorriso da ebete e la sua espressione annebbiata ed evidentemente decise di ignorare l’osservazione alquanto scontata. Si rivolse di nuovo a Kate. «Ah no, eh? Quindi avevate un permesso? Vediamolo, allora. Immagino che abbiate un salvacondotto.» «Veramente no... non...» «Niente salvacondotto.» «No.» «Nessun visto? Nessun permesso di transito? Nessun anello d’oro magico regalato a un vostro antenato secoli fa da un re nano che vi dia diritto d’accesso a tutti i territori dei nani?» «Mmm... no.» «In tal caso, cara ragazza, si tratta di violazione.» La seconda volta che fu ripetuta, più energicamente, la parola «violazione» si levarono altri e più decisi borbottii. «Bene» disse il nano con aria soddisfatta, «stabilito che siete due vili clandestini...» «Voi siete nani!» esclamò Michael. «Tutti quanti!» Il nano dalla barba rossa sollevò un sopracciglio e con un cenno della testa indicò Michael. «Cos’è, scemo?» «No» disse Kate. «È normalissimo. Solo che...» Esitava a dire che Michael era solo un appassionato di nani. Aveva la sensazione che quel nano barbuto potesse prendere quelle parole per compiacenza. Le sembrava un po’ permaloso. «Non aveva mai visto un nano.» «Be’» disse il nano, lisciandosi la barba, «allora per lui è un gran giorno, eh? Dunque sentiamo, perché avete violato i nostri confini?» Riecheggiarono i «Sì, avanti, clandestini, sentiamo, sentiamo!» «Non volevamo violare i vostri confini» protestò Kate. «Ci siamo persi!»
«Sentito, ragazzi?» gridò il nano da sopra la spalla. «’Ci siamo persi.’ La solita storia. Abbiamo qui due pecorelle smarrite.» I nani scoppiarono in una fragorosa risata. Il nano dalla barba rossa scosse la testa. «Oh, ragazza mia, dovrai trovare di meglio. Altroché se dovrai trovare di meglio. L’ultimo che si è dichiarato ’perso’ l’ha poi trovata, la strada. Altroché se l’ha trovata! L’ha trovata sulla lama della mia ascia!» A queste parole, il nano spiccò un balzo prendendo svelto l’ascia dalla cintura e la usò per descrivere un arco appena sopra i due ragazzi, tanto vicino che Kate e Michael sentirono muoversi l’aria quando la lama gli passò sopra la testa. Kate non aveva idea della faccia che fecero lei e Michael, ma la loro espressione bastò per far scoppiare un altro scroscio di risa tra i nani. Kate pensò che non era questo il comportamento che si sarebbe aspettata dai nani. «Smettetela di ridere!» disse. «Non fa ridere.» E questo ovviamente non fece che divertirli di più. «Eravamo inseguiti dagli Strillatori!» Silenzio. Il nano dalla barba rossa, serio in volto, avvicinò la testa. «Strillatori, hai detto? Nella terra dei nani?» Kate annuì. «Bene, sentiamola, questa storiella. Ma falla breve e non cercare di infilarci troppe frottole.» «Non sono frottole» disse Kate, pur avendo già in programma qualche omissione strategica. Gli raccontò che erano stati prigionieri della Contessa ed erano riusciti a scappare. E che durante la fuga erano arrivati per caso nel tunnel di una vecchia miniera. Avevano alle calcagna una banda di Strillatori, che li avevano seguiti sul ponte sospeso e poi nel labirinto (era il termine usato da Michael e le sembrò appropriato). Nel labirinto si erano separati dalla sorellina. Kate non nominò Gabriel né il libro, né gli disse che venivano dal futuro. «Una sorella» disse il nano. «Quindi siete in tre.» «Sì. Lei è la più piccola. Deve lasciarci andare a cercarla!» «Be’, la tua storia è piena di bugie e omissioni, è evidente. Ma non posso negare che una bambina non dovrebbe girare da quelle parti sola soletta, nemmeno una vile criminale violatrice di confini come lei. Ormai i salmactar l’avranno catturata.» «I salmac-tar» ripeté Kate, ricordando le creature di cui Gabriel aveva raccontato, quelle senza occhi e con grandi orecchie da pipistrello, quelle con artigli capaci di tagliare le ossa. «Credevo che... che vivessero più giù.» «Negli ultimi tempi sono diventati sfacciati. Premono verso il nostro territorio. È per questo che stavamo pattugliando la zona.» Il nano si rannuvolò.
«È colpa sua. Della strega. È una vergogna, tutta questa...» Abbassò la voce, mormorando parole incomprensibili, di cui Kate riuscì a cogliere soltanto «re», «strega» e «spregevole». «Mio signore.» All’improvviso, Michael stava cercando faticosamente di inginocchiarsi. «Temo che le presentazioni non siano state adeguate. Io mi chiamo Michael P. E questa è mia sorella, Katherine. Siamo soli e in grande pericolo e, nel nome di re Ingmar il Buono, ci rimettiamo umilmente alla sua pietà e la preghiamo di aiutarci in questo momento di bisogno.» I nani rimasero tutti a guardarlo. Kate era altrettanto stupefatta. Poi tutti, come un sol uomo, scoppiarono di nuovo a ridere. «Ma lo sentite?» gridò il nano dalla barba rossa agli altri, che in realtà erano troppo occupati a ridere per sentire qualsiasi altra cosa. «Nel nome di re Ingmar il Buono» lo scimmiottò, scuotendo la testa e fingendo di asciugarsi una lacrima. «Ah, questa è bella. È proprio bella!» Michael aveva l’aria confusa e un po’ ferita. «Su, dai» disse poi il nano dalla barba rossa, mettendogli la tozza mano sulla spalla. «Ci stiamo solo divertendo un po’. Quel che hai detto lo hai espresso molto bene e con le forme di cortesia corrette, anche se un po’ antiquate, forse. Solo che non ce l’aspettavamo, da un piccolo umano come te. Così, tu sai qualcosa della nostra storia?» «S... sì» balbettò Michael. «La vostra storia. Le vostre tradizioni. So cosa bisogna portare in dono a un nano quando si è invitati a cena a casa sua. Saprei dirvi come funziona il diritto ereditario dei nani. Ho imparato a memoria le parole di diciassette canti di libagione dei nani. Dei nani so tutto quel che bisogna sapere.» «Ah sì, eh?» Il nano avvicinò la faccia a quella di Michael. «E allora, ragazzo, dimmi qual è la cosa che consideriamo più preziosa di tutte.» Kate si aspettava che Michael rispondesse la dedizione al lavoro, o l’abilità nell’artigianato, o il senso del dovere, o una qualsiasi delle altre buone qualità di cui parlava sempre. Invece disse una cosa che non gli aveva mai sentito nominare. E quando parlò, lo fece a voce bassissima. «Conosco la risposta. È la cosa che mi piace di più dei nani. Per voi, la cosa più importante è... la famiglia.» Kate si sentì mancare la terra sotto i piedi. «Il clan» proseguì Michael, «la famiglia, è il fondamento della società nanesca. Voi vi proteggete l’un l’altro. Quando qualcuno diventa parte del clan, lo diventa a vita. Non sarà mai... non sarà mai abbandonato. Mai.» Kate sentì salirle le lacrime agli occhi. Tanti anni, tanti discorsi di Michael sui nani e finalmente adesso capiva. Una famiglia che non ti abbandona mai. Se non avesse avuto le mani legate, lo avrebbe abbracciato dicendogli che lei
ed Emma erano per lui quella famiglia e lo sarebbero sempre state. «Hai detto bene» commentò il nano. Kate vide gli altri nani annuire nello sfondo. «Ma come fai a sapere tante cose di noi? Sei un po’ bassino, d’accordo, ma non vedo niente di particolarmente nanesco in te.» «Be’... se guarda nella mia borsa...» Michael si dimenò per spostare in avanti la borsa e il nano, infilata dentro la mano, tirò fuori un libro piccolo e spesso che Kate riconobbe subito. «Il grande libro dei nani di G.G. Greenleaf!» esclamò il loro aguzzino dalla barba rossa. «Me lo ricordo bene. Il vecchio G.G. era proprio un bravo nano.» «Un attimo. Sta dicendo che...», Michael era stupefatto, «... che G.G. Greenleaf era un nano? A scrivere questo libro è stato un vero nano?» «Se G.G. Greenleaf era un nano? Ma sentitelo! Certo che era un nano! Cosa credi, questo è il libro che tutti i bambini nani devono leggere! Ma come ha fatto a trovarlo un umano come te?» «Era di mio papà. Me l’ha lasciato. L’unica cosa che mi ha lasciato.» Nel tunnel c’era di colpo un gran silenzio. «Per la verità non me lo ricordo, mio papà. Quasi per niente. Quel libro è l’unica cosa che so di lui.» Solo dopo un lungo momento il nano dalla barba rossa parlò, e lo fece con voce delicata. «Dev’essere stato un tipo interessante, tuo padre. Comincio a credere che in fondo non sei scemo. Un’ultima domanda: che ne pensi degli elfi?» Kate vide tutti i nani protendersi un po’ per guardare Michael. «Be’, per essere sincero» rispose Michael, «credo che siano un po’... sciocchi.» Dai nani si levò alto un grido e quello con la barba rossa, seguito da altri sei o sette, fece un passo avanti per dargli una bella pacca sulla spalla. «’Sciocchi’ è azzeccatissimo!» gridò il nano dalla barba rossa. «Tutto il giorno a far la ruota!» Qualche nano adesso imitava gli elfi, fingendo di pettinarsi o lisciandosi le sopracciglia o battendo le ciglia e camminando impettito. Kate cominciava a pensare che, per quanto sciocchi potessero essere gli elfi, i nani dovevano esserlo ancora di più. «Sei un bravo ragazzo» concluse il barba rossa. «Mi chiamo Robbie McLaur e ti porgo la mano in amicizia. Ah già, tu hai le mani legate. Be’...» E gli diede un’altra pacca sulla spalla. «Allora» disse Kate «ci lascia andare?» «Eh, no, signorina. Purtroppo non posso. Vedi, il re ha emesso un decreto. Chiunque entri abusivamente nel territorio deve essere catturato e gettato in prigione, dove rimarrà finché lui in persona potrà interrogare il prigioniero.» «Ma» obiettò Michael «noi non siamo pericolosi. Siamo entrati nel vostro
territorio perché ci siamo persi.» «È vero» disse il nano Robbie McLaur. «O forse no. Dunque, voi dite di essere partiti dal ponte sospeso e di essere poi entrati nel labirinto. Ecco, quello da cui siete usciti è proprio un labirinto. Costruito dai migliori architetti nani secoli fa. Ci si può camminare per tutta la vita, per dieci vite, là dentro, senza mai trovare la via d’uscita! E invece voi due sareste entrati da una parte e come se niente fosse avreste trovato la nostra porta segreta. Sapete quante probabilità ci sono che succeda? Io non mi giocherei nemmeno un galeone di legno. Eppure, in un modo o nell’altro, voi ci siete riusciti. Come avete fatto?» Kate scrollò le spalle. «Pura fortuna.» Il nano agitò il tozzo dito. «No, ragazzina. Voi ci nascondete qualcosa.» Kate fece per protestare, ma lui sollevò la mano. «Ora, io non nutro alcuna simpatia per la strega e i suoi Strillatori, e credo che qualsiasi alleanza con creature del genere sia un tradimento della grande tradizione nanesca...» «Aspetti!» lo interruppe Kate. «Alleanza? Lei lavora per la strega? Come...» Il nano dalla barba rossa sollevò l’ascia e sbatté a terra il manico tanto forte che la pietra del pavimento si incrinò. I ragazzi sentirono nelle gambe la vibrazione dell’impatto e i nani che stavano parlando tacquero, mentre l’eco si propagava nel tunnel. «Lo dirò una sola volta» ruggì Robbie McLaur. «IO. NON. LAVORO. PER. LA. STREGA.» Aveva gli occhi cupi di rabbia e per un attimo Kate ebbe una gran paura. Ma poi, altrettanto bruscamente, l’ira sembrò abbandonarlo e lui, con un sospiro, distolse lo sguardo. «Tuttavia... lei e il re hanno... una specie di accordo.» «Lui la lascia scavare, vero?» intervenne Michael. «Per cercare... la cosa che lei cerca. La lascia scavare nella vostra terra.» Il nano annuì. «Già.» «Allora deve lasciarci andare!» disse Kate. «Lo sa che è sbagliato!» Il nano scosse la testa e abbassò la voce per farsi sentire solo da Kate e Michael. «No, ragazzina. Perché, per quanto, personalmente, possa non essere d’accordo sulla linea politica del re e anzi lo consideri un ubriacone, un disastro, la più grande tragedia mai capitata in mille anni alla nazione nanesca, i suoi ordini sono ordini e non sarò certo io il nano che disubbidirà al suo re, nossignore.» «Ma...» Kate adesso lo stava implorando. «Non potrebbe almeno mandare qualcuno a cercare nostra sorella? Se là ci sono davvero quei salmacvattelapesca, non dovrebbe essere lasciata sola!» «Su questo hai ragione. Ma non posso mandare i miei soldati in una missione di salvataggio a beneficio di un clandestino. Che succederebbe se
due o tre di loro incappassero in un salmac-tar? Finirebbero in kebab di nano in bocca a quei mostri. Non sarebbe difendibile, di fronte a una commissione. Mi dispiace, ma vostra sorella dovrà cavarsela da sola.» Kate era imbestialita. Sentiva le lacrime calde scenderle sulle guance. «Come fa a dire che la famiglia vi sta a cuore? A lei non importa niente della famiglia!» «Sì, invece, ragazzina. La mia mi sta a cuore.» Poi mise Il grande libro nella borsa di Michael e, infilatosi i guanti d’armi, fece un cenno della testa ai due nani, che si caricarono i ragazzi in spalla. Il drappello marciò nel tunnel e, svoltato l’angolo, entrò in un’ampia sala, in fondo alla quale c’era un portone di ferro a due battenti e due nani di guardia. Allungando il collo per guardare oltre il nano che la portava in spalla, Kate vide che il portone era decorato con un elaborato intarsio di un bellissimo nano dalla barba fluente e luccicante al chiarore delle torce. Quando furono più vicini, Kate si rese conto che il luccichio proveniva da centinaia di diamanti perfetti. Senza fermarsi, il nano dalla barba rossa annunciò: «Il capitano Robbie McLaur di ritorno con due prigionieri per re Hamish». Le sentinelle batterono per terra la base della lancia, il portone si spalancò e Kate vide un’altra sala, in fondo alla quale si aprì un altro portone di ferro, e poi un’altra stanza con il portone di ferro che si apriva, e poi un’altra e un’altra ancora; tutti i portoni si aprivano (e in tutti c’era l’intarsio dello stesso bel nano dalla barba di diamanti). Lei e Michael furono portati di stanza in stanza, passando davanti a sentinelle che, accanto a lance alte il doppio di loro, stavano sull’attenti e facevano il saluto al capitano Robbie McLaur. Ogni volta i battenti venivano riaccostati e sbarrati alle loro spalle, e quando il drappello varcò l’ultimo portone, Kate vide che erano arrivati a un grande ponte di pietra fronteggiato da statue alte una sessantina di centimetri che raffiguravano feroci nani armati d’ascia. Il ponte sovrastava un precipizio profondissimo e da sotto arrivava una forte luce bianca che illuminava ogni cosa attorno a loro. «Capitano» lo chiamò Michael, che, sobbalzando, faceva uscire la voce a sbuffi, «da dove arriva quella luce?» «Dal palazzo di re Hamish» rispose il nano. «Tutto il tetto è incastonato di diamanti. Un’aggiunta e un progetto suoi, tengo a precisare.» Lo disse come se non approvasse fino in fondo i tetti incastonati di diamanti. «Lo vedrai meglio quando ti interrogherà. Immagino che riuscirà a finirlo fra una cinquantina d’anni.» «Eh?» esclamò Kate. «I nani vivono centinaia d’anni» le spiegò Michael. «Hanno una concezione
del tempo diversa dalla nostra.» «Stupendo» disse Kate. «Stupendo.» Attraversato il ponte, imboccarono un altro tunnel e furono portati giù per una scala che sembrava non finire mai. Kate sentì a ogni gradino il sobbalzo delle spalle, rivestite di maglia metallica, del nano che la portava finché arrivarono in un corridoio di pietra illuminato da torce fissate alle pareti. I nani che passavano di lì non assomigliavano a quelli allegri del drappello di Robbie McLaur. Portavano una mantella che gli copriva la faccia e avevano lo sguardo fisso a terra. Perfino i nani di Robbie McLaur sembravano evitare il contatto con loro. «Carceriere» Kate sentì dire da Robbie McLaur, «ho qui due clandestini per il re.» «La cella 198 è libera» replicò il carceriere. «L’ex occupante è morto stamattina. O forse la settimana scorsa. Ce ne siamo accorti solo dall’odore.» «Mmm, il cadavere è ancora nella cella, immagino.» «Sì. Ma posso farlo portar via nei prossimi giorni. Nel frattempo, non credo che darà molto fastidio ai tuoi prigionieri» disse il carceriere, ridacchiando divertito. Kate lanciò un’occhiata a Michael. Quando fossero stati soli, gli avrebbe detto senza mezzi termini che cosa pensava dei nani. «Perché invece non metterli nella cella 47?» suggerì Robbie McLaur. «La cella 47 è già occupata. Un prigioniero estremamente pericoloso. I tuoi mi sembrano un po’ delicatini.» «No, voglio la cella 47, Carceriere. Sì, sì, è quella giusta per loro. Se quel tipo lì me li frolla un po’, tanto meglio. Quando ci sarà l’interrogatorio sarà tutto più semplice.» «Certo, Capitano. Da questa parte.» Kate udì una chiave girare nella serratura, dopodiché lei e Michael furono portati al di là di una porticina e fatti passare davanti a Robbie McLaur, chino sopra un tavolo a firmare un foglio che aveva tutta l’aria di un documento ufficiale. «Capitano, per favore!» gridò Kate. «Ci faccia mettere nella cella 198! Per favore!» Ma Robbie McLaur non alzò lo sguardo e loro furono portati al di là della porta, che fu sbarrata alle loro spalle. Il carceriere li condusse lungo un corridoio freddo e umido, illuminato dalle torce. Kate e Michael videro porte di ferro a entrambi i lati e udirono lamenti e tramestii che arrivavano da dentro le celle. Scesero una rampa di scale, svoltarono un angolo, scesero altri gradini, percorsero un corridoio ancora più stretto e poi si fermarono. «Eccoci qua» disse il carceriere. «Cella 47.»
I due nani misero a terra Kate e Michael e tagliarono le corde che gli legavano le mani e i piedi. Il carceriere batté per terra una mazza. «Ehi, lì dentro! Sta’ indietro e non fare scherzi! Ne stanno entrando altri due!» Il carceriere aspettò, ma non arrivò alcun rumore. Infilò la chiave nella serratura e poi, in rapida sequenza, la girò, spalancò la porta e sibilò: «Adesso!» I due nani spinsero Kate e Michael nella cella e richiusero la porta alle loro spalle. Kate udì la chiave girare e la serratura scattare. Regnava il silenzio, il buio era assoluto. Erano atterrati su un pavimento di pietra cosparso sommariamente di paglia. Kate allungò la mano e trovò il braccio di Michael. «Michael» sussurrò, «stai bene?» «Mah, credo di sì.» Con il minimo rumore possibile, si alzarono in piedi. Kate scrutò nel buio. Lì con loro c’era qualcosa. Qualcosa di pericoloso, aveva detto il carceriere. Ma cosa? E li vedeva? «E adesso cosa facciamo?» mormorò Michael, e Kate avvertì il panico nella sua voce. Dal fondo della cella arrivò un rumore. Come se qualcuno, o qualcosa, si tirasse su. «Non avvicinarti!» gridò Kate. «Ti avverto! Rimani dove sei!» Invece si avvicinò, qualunque cosa fosse. Udivano i passi lenti sulla paglia. Kate e Michael indietreggiarono finché con le spalle toccarono il freddo metallo della porta. «Ho detto di fermarti! Altrimenti ti... ti...» Prima che Kate riuscisse a farsi venire in mente una minaccia plausibile, la cosa parlò. «Magari vediamo prima di cosa si tratta.» Kate si bloccò. Quella voce... dove l’aveva già sentita? Una fiamma comparve nel buio e una sagoma umana si staccò dalle ombre. Sulle prime, Kate pensò che avesse una lanterna. Poi, quando lui si avvicinò, si rese conto che teneva la fiamma nuda nel palmo aperto. «Bene bene bene» disse il dottor Stanislaus Pym, «cos’abbiamo qua?»
Capitolo 12 Colazione per cena † La piccola non pesava nulla. Gabriel l’adagiò delicatamente sul pavimento della prima sala, coricata sul fianco. La maglietta, davanti e dietro, era intrisa di sangue. «Gabriel...» «Chiudi gli occhi.» Così fece, e Gabriel impugnò l’impennatura all’estremità della freccia. Forse per la prima volta in vita sua, gli tremavano le mani. Con un forte schiocco spezzò la freccia. Emma emise un lamento, ma tenne chiusi gli occhi. Gabriel ripeté l’operazione con l’estremità che le spuntava dalla schiena. Dalle labbra di Emma stavolta sfuggì un gridolino tremante. La bambina aveva le mani giunte come in preghiera e negli angoli degli occhi erano spuntate le lacrime. Adesso la freccia sporgeva da entrambe le parti di appena qualche centimetro. Aveva deciso di lasciarle il frammento nel corpo. Il veleno l’aveva già contaminata e la freccia avrebbe quanto meno tamponato l’emorragia. La prese in braccio e imboccò la seconda porta a sinistra, andando quanto più spedito poteva date le circostanze. «Michael e Kate non sono tornati» disse Emma con una vocina fioca e incerta, mezzo attutita dal petto di Gabriel. «Credevo che... credevo che sarebbero tornati a prendermi.» «Non parlare. Risparmia le forze: ti serviranno.» Il tempo, lo sapeva, era il loro nemico più grande. Doveva portarla al più presto fuori dalla montagna, doveva portarla in paese. Là, nonna Peet, la savia della tribù, avrebbe potuto curarla. Ma Emma sarebbe sopravvissuta abbastanza a lungo? E lui? Sulle spade degli Strillatori c’era lo stesso veleno di cui era intrisa la freccia. E Gabriel aveva sei ferite sulle braccia e uno squarcio sul fianco; sentiva il veleno che aveva nel sangue avvicinarsi come ghiaccio al cuore. E gli altri due? Il fratello e la sorella? Avevano continuato a camminare nel labirinto credendo che Emma fosse con loro? Prima o poi avrebbero capito come stavano le cose e sarebbero tornati. Ma Gabriel sapeva che a ogni stanza deserta, a ogni tunnel buio e vuoto, le probabilità di incontrarli si assottigliavano. Si erano persi? O qualcosa li aveva trovati? Quei tunnel non erano privi di vita. Guardò Emma. Aveva gli occhi chiusi e il respiro era rapido e debole. Sul viso sporgevano goccioline di sudore. Non ce l’avrebbe fatta ad arrivare al paese.
Gabriel si fermò in una stanza e l’adagiò a terra. L’idea di fermarsi lì non gli piaceva, ma non aveva scelta. Le sollevò la maglietta per scoprire la ferita. Il veleno si spandeva. Era visibile attorno al mozzicone di freccia, un grande ragno nero sotto la pelle pallida, con le zampe scure che si allargavano. Prese un borsello di cuoio e lo svuotò: foglie varie, una radice nodosa, una fiala di liquido giallastro. Appiattì il borsello per terra e sistemò le foglie in un mucchietto. Erano secche e si trasformarono presto in polvere. «Cosa fai?» Emma, coricata a terra, aveva aperto gli occhi. «Devo medicarti le ferite. La freccia era avvelenata.» Gabriel prese il coltello e tagliò due fettine di radice. Le triturò e ci aggiunse la polvere di foglie. Poi tolse il tappo dalla fiala e cautamente lasciò cadere tre gocce gialle. Il composto cominciò a sibilare e fumare. Infine Gabriel, con il manico del coltello, impastò tutto fino a ottenere una poltiglia marroncina. «Si sono persi per colpa mia, vero, Gabriel?» La voce era appena un sussurro. «Non avrei dovuto staccarmi da loro. Si saranno accorti che non c’ero e saranno tornati indietro a cercarmi, così si sono persi. È così che è andata, vero? È tutta colpa mia. Devi trovarli, Gabriel. Devi lasciarmi qua e andare a cercarli.» «Li troverò. Dovessi tornare con tutti gli abitanti del paese, dal primo all’ultimo.» Intinse il dito nella poltiglia marrone-giallognola. Emanava un caldo odore di torba e gli si appiccicava alle dita. «Ma prima devo occuparmi di te.» «No...» «Non discutere.» Gabriel cominciò ad applicare l’unguento ed Emma trattenne il fiato per non urlare. Sui bordi della ferita l’intruglio di Gabriel schiumò e sfrigolò. Emma pensò che la pelle stesse bruciando. Qualche momento dopo, quando capì di poter dominare la voce, disse: «Sto morendo, vero?» «Questa medicina rallenterà il veleno» rispose lui, continuando a spalmare l’unguento. «Non importa.» Ora Gabriel stava applicando la medicina sulla schiena. Bruciava ancora, ma era una sensazione lontana, come se lei fosse uscita dal proprio corpo. «Non ho paura. Però quando troverai Michael e Kate, digli che mi dispiace, va bene? Di essere andata via. E di’ a Michael che quel che ha fatto non importa. Probabilmente lo avrei fatto anch’io. E di’ che voglio bene a tutti e due. Soprattutto questo, mi raccomando.» Gabriel spalmò quel che restava dell’unguento attorno al mozzicone di freccia che spuntava dalla schiena. Aveva fatto tutto quello che poteva. Adesso la sopravvivenza di Emma
dipendeva dalle sue forze e dalla velocità con cui lui l’avrebbe portata al paese. Si concesse un momento per guardarla, coricata lì alla luce della lanterna. Era sempre stato solitario. Anche nella sua tribù. Ma a quella bambina si sentiva legato come non gli era mai capitato con nessun altro. Le posò delicatamente la manona sulla testa. Lei aveva gli occhi chiusi. Nonostante la medicina, se ne stava andando. «Hai un grande cuore.» Le scostò i capelli dalla fronte sudata. «Non morirai oggi.» Poi lo udì. Clic-clic. Guardò verso un’uscita. Vide soltanto buio, ma riconobbe quel rumore. Erano artigli che battevano sulla pietra. Guardò Emma: era svenuta. Una piccola benedizione. Le gambe gli tremavano per il veleno che gli circolava in corpo. Prese la scimitarra dalla schiena. Non c’era speranza di fuga. La creatura era troppo vicina. Se ne stette lì, di fronte all’uscita, ad aspettare che sbucasse dalle tenebre. ______________________
«Così dirigo un orfanotrofio! Incredibile! I casi della vita!» Kate e Michael erano seduti su mucchi di paglia di fronte al dottor Pym. La fiamma, che il dottor Pym aveva messo sul pavimento di pietra della cella e fatto diventare un bel focherello, scoppiettava fra loro. «Be’, per la verità» disse Michael, «non è granché, come orfanotrofio.» «Michael!» «Sto solo dicendo: che orfanotrofio è, se ha solo tre bambini?» «Ha assolutamente ragione» commentò il dottor Pym. «Mi sa che lì non ho combinato niente di buono. O non combinerò niente di buono. Tra quindici anni o quel che è.» Quando il vecchio stregone era sbucato dal buio, la prima reazione di Kate era stata di sconcerto. Che fosse il dottor Pym, ne era sicura. Non aveva pensato che fosse un’altra visione. Ma che cosa ci faceva il direttore del loro orfanotrofio in una prigione dei nani? Era rimasta dov’era, con le spalle contro la porta. «Dottor Pym?! Cosa... cosa ci fa qui?» Michael era rimasto senza fiato. «È il dottor Pym? Quel dottor Pym?»
«Ciao» aveva detto lo stregone, sorridendo ai ragazzi da sopra la fiamma che gli danzava nel palmo. Kate aveva appoggiato la mano alla parete per non perdere l’equilibrio. Aveva avuto la stessa sensazione provata quel giorno nella biblioteca: di aver già visto quell’uomo da qualche parte. L’immagine di lui in piedi nell’ombra aveva rimestato tra i suoi lontani ricordi. «Lei è veramente il dottor Pym?» aveva chiesto Michael. «Sì. E tu chi sei?» «Michael» aveva risposto Kate. «Nostro fratello. Lui non c’era quel giorno che ha conosciuto me ed Emma.» Kate si sforzava di restare calma. Doveva essere lucida. Emma era in pericolo. Avevano bisogno di aiuto, se volevano trovarla. Ma potevano fidarsi del dottor Pym? Quando il turbamento di vederlo lì era passato, il dubbio l’aveva assalita. Lui la guardò. «E tu invece chi sei, cara?» Kate riuscì a dire soltanto: «... Cosa?» «Ti ho chiesto chi sei. Mi fa sempre piacere conoscere persone nuove. Ma ho l’impressione che tu mi conosca già.» «Sì! Non se lo ricorda? Ci siamo conosciuti...» Le parole le morirono sulle labbra quando capì l’errore. Lei ed Emma avrebbero conosciuto lo stregone nella casa di Cambridge Falls soltanto quindici anni dopo. L’uomo che sorrideva loro, e che indossava, ne era certa, lo stesso completo di tweed che avrebbe indossato di lì a quindici anni, non aveva la benché minima idea di chi fosse lei. Si sentì stupida e abbattuta. «... cioè... ci conosceremo... È complicato.» «La ragione per cui noi due non ci siamo conosciuti» la soccorse Michael «è che io ero già intrappolato nel passato.» «Capisco» disse il dottor Pym. Poi scosse la testa. «No, in realtà non ci capisco niente. Forza, venite qui e spiegatemi tutto.» Li condusse in un punto più appartato della cella, che aveva più o meno le dimensioni di un confortevole soggiorno, un confortevole soggiorno, bisogna aggiungere, tutto fatto di pietra e ferro, senza finestre e con della vecchia paglia al posto dei mobili. Raccolse la paglia in due mucchi e disse a Kate e Michael di sedercisi sopra. Poi fece scivolare giù dal palmo la fiamma, ci soffiò sopra e il fuoco si accese. Infine si sistemò su un terzo mucchio di paglia, accavallò le lunghe gambe e prese la pipa dal taschino interno della giacca. «Bene» disse, mettendosi a riempire il fornello, «cominciamo dall’inizio.» «Un attimo...» Kate decise di chiedergli aiuto. Che alternative avevano? Emma si era persa. «Le diremo tutto, d’accordo? Ma prima...» «Ah già, le presentazioni. Giustissimo. Io sono Stanislaus Pym. Ma lo sapevi già. E tu sei Kate, se ho sentito bene? È l’abbreviazione di Katherine?»
«Sì, ma...» «Katherine e poi?» «P! Katherine P. E, come dicevo, lui è Michael. Ma...» «P? Come la lettera dell’alfabeto? Insolito.» «Non sappiamo qual è il nostro vero cognome. Senta, gliel’ho detto, le racconteremo tutto. Ma prima lei deve trovare nostra sorella Emma! È in grave pericolo, probabilmente.» «È andata ad aiutare Gabriel!» aggiunse Michael. «Anche se Kate le aveva detto di non farlo. Lei fa sempre queste cose.» «Michael, non adesso.» «Scusami» borbottò lui «... però è vero.» «Quindi vostra sorella adesso è con Gabriel?» «Perché, lo conosce?!» Kate non se l’aspettava. «Oh, sì» rispose il dottor Pym. «E se le cose stanno così, non avete nulla di cui preoccuparvi. Gabriel è il tipo più in gamba che abbia mai conosciuto.» «Ma non siamo sicuri che sia con Gabriel! Non può fare un incantesimo...?» «Katherine, in primo luogo la magia non funziona così. Non è che dicendo ’abracadabra’ si possa far materializzare qualcuno dal nulla. Be’, certe volte sì, ma non è questo il caso. In secondo luogo, puoi star sicura che, anche in questo momento, mentre sono qui a parlare con voi, mi sto dando da fare per localizzare vostra sorella.» «Ah, sì?» Non riuscì a trattenere una nota di scetticismo. «Assolutamente.» «Ma se è lì... seduto» disse Michael. «Con la pipa in bocca.» «Già.» Il dottor Pym sorrise. «Abbastanza incredibile, eh? Ma vorrei proprio ascoltare la vostra storia. Fidatevi, qualsiasi cosa mi diciate che possa darmi un’idea più precisa di vostra sorella mi aiuterà a trovarla.» Kate cedette (anche qui, che alternative aveva?) e cominciarono a raccontare la loro storia, anche se in forma un po’ abbreviata (Kate pensò che tanto l’aveva già ascoltata quindici anni dopo), ma toccando tutti i punti salienti: la scomparsa dei genitori, i trasferimenti da un orfanotrofio all’altro, l’arrivo a Cambridge Falls e la notizia, fornita da Abraham, che il direttore dell’orfanotrofio era uno stregone... «Santo cielo, questo Abraham è un po’ pettegolo, eh?» commentò il dottor Pym. ... il ritrovamento del libro nella stanza sotterranea... «Era il suo studio?» chiese Michael. Il dottor Pym scrollò le spalle. «Non ne ho idea. La casa non è ancora mia. Era bella?» «Un po’ sinistra» rispose Michael.
«Ah» disse il dottor Pym, deluso. Ma poi fece un cenno con la pipa perché riprendessero il racconto. ... e narrarono di quando avevano usato il libro per andare nel passato, di quando avevano visto la Contessa, di Michael rimasto intrappolato, di Kate ed Emma che erano tornate a riportarlo indietro... «Gesto coraggioso» disse il dottor Pym con approvazione. «Molto nobile.» ... di quando il libro gli era scomparso sotto gli occhi, dei bambini nel dormitorio e della promessa di Kate di aiutarli, della fuga, dei lupi, di Gabriel, dell’inseguimento nei tunnel, di quando Emma si era separata da loro e di quando il capitano McLaur e i suoi nani li avevano catturati. «Orpo» disse il dottor Pym. «Ne avete passate! C’è poco da stupirsi se avete l’aria così stanca.» «Senta.» L’impazienza, in Kate, stava prendendo il sopravvento. «Capisco che lei è uno stregone e probabilmente sa il fatto suo, ma forse dovrebbe provare, non so, con un altro incantesimo, perché come vede Emma non c’è ancora...» «Cara, sto facendo tutto il possibile» replicò il dottor Pym, guardandola da sotto le sopracciglia imbiancate. «Ma la verità è che i miei poteri sono momentaneamente un po’ in défaillance.» «Cosa sta dicendo? Lei è uno che le sa fare, le magie!» «Ti correggo: alcune magie. Questa cella...» «È il ferro, vero?» esclamò Michael. «Il ferro nanesco che c’è nei muri!» «Ah» disse il dottor Pym con ammirazione, «vedo che tu qualcosa ne sai, di nani.» «Secondo me i nani sono i più nobili...» «Sì, sì, Michael, lo sappiamo. Dottor Pym, che succede se c’è il ferro nei muri?» «I nani, pur non essendo maghi, sono creature magiche. Tutte le cose che costruiscono sono intrise di magia. Maggiore è la maestria, maggiori sono le proprietà magiche dell’oggetto. E i nani eccellono nella lavorazione del ferro. Così, quando costruiscono una cella come questa, il ferro è lavorato in modo da indebolire i poteri di uno come me.» Kate stava per dire una cosa di cui probabilmente si sarebbe pentita, qualcosa come «allora lei non serve a niente», ma in quel momento preciso la porta si aprì e quattro nani entrarono nella cella. Uno portò dentro un tavolino quadrato. Gli altri tre reggevano in precario equilibrio dei vassoi zeppi di piatti fumanti. «Ah» disse il dottor Pym, «la cena.»
Solo che non era una cena. I nani stavano mettendo in tavola pile di pancake imburrati, cataste di bacon grondante di grasso, tortini rigonfi di carne e spalmati di formaggio, vasetti di marmellata e di miele, schiere di fette di pane dorato, ciotole di porridge fumante, pezzi di formaggio cremoso, piramidi di morbidi doughnut ricoperti di gelatina e infine una brocca di qualcosa che doveva essere succo di mele caldo. «I nani» spiegò il dottor Pym «sono grandi fautori della colazione per cena e devo ammettere che questa usanza comincia a piacermi. Grazie, amici.» Indietreggiando, i nani camerieri fecero un profondo inchino, con la barba che strusciava sul pavimento, per poi chiudere la porta di ferro. «Su, ragazzi. Lo so che siete preoccupati per vostra sorella, ma dovete mantenervi in forze. Se vi lascerete deperire, non sarete d’aiuto a nessuno. E devo dirvi cose che secondo me troverete molto interessanti. Forza, allora, diamoci dentro, prima che si raffreddi tutto.» E si protese in avanti per tagliarsi una spessa fetta di tortino prosciutto uova formaggio. Michael lanciò un’occhiata a Kate. Lei annuì e tutti e due presero posto a tavola e si misero all’opera. ______________________
«Bene, vorrei cominciare con una domanda.» Il dottor Pym stava mangiando un doughnut alla gelatina cercando, senza grandi risultati, di non farla gocciolare sui vestiti. «Faccio bene a credere che anche voi stiate cercando il libro?» «Sì» disse Kate. Stava affondando il coltello in una pila di pancake ai mirtilli. «Solo con quel libro riusciremo a tornare a casa. Ma non sappiamo proprio dov’è.» «Be’...» Il vecchio stregone si mise in bocca l’ultimo pezzo di doughnut e, senza che se ne accorgesse, una grossa goccia di gelatina si spiaccicò sulla cravatta. «Allora è un bene che io lo sappia.» Kate e Michael si bloccarono. Poi Kate disse: «Cosa?» «È un bene che io sappia dov’è.» Si era messo a rovistare in una pila di doughnut alla cannella, cercando il più grosso e zuccherato. «Ah, ecco qua.» Tirò fuori una soffice spirale dorata e la sollevò ammirato. Disse che il libro era nascosto sotto la Città Morta. E che cos’era la Città Morta? La Città Morta, come spiegò il dottor Pym, masticando sistematicamente come un panda che mangia un ramoscello, era l’antica capitale dei nani. Era
stata abbandonata suppergiù cinque secoli prima, dopo essere stata devastata da un terremoto. «Stai bene, mia cara? I pancake ti fanno male?» «Sto bene.» Kate aveva la voce affaticata. Stava ripensando al sogno della notte prima, quello della città dentro la montagna e della terra che si apriva per ingoiarla. Era la stessa città? Per forza. «Comunque», il dottor Pym si pulì le dita con una leccatina, «il libro è chiuso in una cripta sotto le rovine.» Kate si sentì gelare. Perché aveva quelle visioni? Di nuovo, ripensò a quando la Contessa le aveva detto che il libro le aveva lasciato il marchio. «La... la Contessa lo sa?» «Be’, evidentemente qualcosa sa. Da due anni i suoi uomini di Cambridge Falls scavano lì dietro suo ordine.» «Baleicobebaabapello?» chiese Michael (si era ficcato in bocca un pancake alla banana quasi intero). «Hai ragione» disse il dottor Pym. «Forse dovrei tornare un po’ indietro.» Si spolverò dalla giacca una pioggia di briciole dorate, allungò la mano per prendere un doughnut e cominciò... Come i ragazzi sapevano già, un tempo c’erano tre grandi libri di magia. I cosiddetti Libri dell’Inizio. Il dottor Pym non ritenne opportuno, in quel momento, esporre i vari poteri e proprietà dei tre Libri. Bastava sapere che, duemilacinquecento anni prima, dopo che la città di Rhakotis era stata saccheggiata dagli eserciti di Alessandro Magno, due Libri dell’Inizio erano scomparsi. Tuttavia, il terzo era stato portato di nascosto fuori dalla città da un giovane stregone molto in gamba e molto avvenente. (Dell’avvenenza del giovane stregone parlò più volte. Sembrava un punto chiave della storia.) Per anni, questo giovane stregone si diede da fare per nascondere il libro da un posto all’altro. Sapeva che molte forze oscure desideravano appropriarsi del potere del libro, di cui avrebbero fatto un uso malvagio e distruttivo. Finché, dopo forse un migliaio d’anni, il non più giovanissimo stregone portò il libro oltreoceano, salì su quelle montagne e strinse un patto con il re dei nani perché lo nascondesse. Di nuovo, Kate, al ricordo, fu attraversata da un brivido. Era la visione che l’aveva condotta nel labirinto. Il libro le stava forse lanciando degli indizi? Voleva farsi trovare da lei? «La mangi, questa cialda?» sussurrò Michael. «Perché ci sono le gocce di cioccolato...» Kate spinse la cialda verso di lui. Il re dei nani si fece costruire una cripta sotto la città dai suoi più grandi
muratori e lì fu messo il libro. Per altri mille anni, tutto fu tranquillo. Poi arrivò il terremoto, che non soltanto distrusse la città ma uccise gran parte della popolazione, compresi tutti quelli che sapevano dell’esistenza del libro. Così, quando i nani si trasferirono a sud per ricostruire la capitale, il libro fu lasciato dov’era, dimenticato sotto le rovine. «Ora, sapere come ho scoperto l’esistenza e la collocazione del libro non è importante...» «Come ha fatto?» chiese Michael. Era uno di quei particolari cui Michael non sapeva resistere. «Mio caro, ho detto che non è importante.» «Scommetto che ha trovato un vecchio manoscritto in una biblioteca. Ma era finito sepolto in un angolo insieme a tutti gli altri manoscritti e per anni e anni nessuno ci aveva mai fatto caso. Poi lei l’ha visto e ha capito che era il diario del giovane stregone e...» «No, non è andata così.» «Ah, allora scommetto che gliel’hanno detto gli alberi, vero? Le vecchie querce. A quei tempi erano alberelli appena nati, ma avevano visto il giovane stregone portare il libro sulle montagne e lei ha fatto un incantesimo per farle parlare...» «Non dire sciocchezze, nessuno riesce a far parlare gli alberi. Non le querce, almeno. Sono pigrissime, quelle.» «Allora scommetto che...» «Lo stregone era lei!» esclamò Kate. «Che scemenza» disse Michael. «Dovrebbe avere migliaia...» Ma qui si interruppe, perché il dottor Pym stava sorridendo a Kate. «Mia cara, come facevi a saperlo?» Kate pensò di dirgli la verità, cioè che di colpo aveva capito che l’uomo dalla barba rossiccia comparso nella sua visione, quello che aveva consegnato il libro al nano perché lo mettesse al sicuro, era il dottor Pym, anche se molto, molto più giovane. Ma se gliel’avesse detto, il dottor Pym avrebbe cominciato a far domande; avrebbe voluto sapere tutto delle sue visioni. Alzò le spalle. «Ho tirato a indovinare.» Il dottor Pym le lanciò un’occhiata, ma riprese la storia. Raccontò che nei primi tempi aveva preso l’abitudine di tornare là ogni due o tre anni. Ma poi, visto che il libro restava indisturbato, le visite si erano diradate. L’ultimo viaggio risaliva a cinque o sei anni prima. Gabriel, lo aveva conosciuto in quell’occasione. E aveva scoperto, con preoccupazione, che avevano preso a circolare voci di un oggetto dotato di grande potere sepolto sotto le montagne. Era come se gli abitanti avessero
cominciato a intuire la presenza del libro. Il dottor Pym sapeva che prima o poi quelle voci sarebbero arrivate alle orecchie sbagliate. E si era messo a cercare un nuovo nascondiglio. Aveva perlustrato tutto il globo, scartando una grotta sottomarina qua e una fortezza in montagna là. Mentre si trovava in Amazzonia, a esaminare un sistema di grotte, gli era arrivata la notizia dell’arrivo della Contessa. Era tornato immediatamente. La Contessa si dava da fare ormai da quasi due anni. Gli uomini di Cambridge Falls, sotto i colpi e la sferza delle guardie, avevano scavato un dedalo di cunicoli sotto la Città Morta. Anche se non avevano ancora scoperto la cripta, il dottor Pym sentiva che quel giorno non era lontano. Bisognava portare via subito il libro. «E gli uomini?» gridò Kate. «E i bambini? Perché prima non liberare loro?» «Katherine, i tuoi sentimenti ti fanno onore. Ma il libro doveva avere la precedenza. Se fosse finito nelle mani della Contessa, molte più vite sarebbero state in pericolo.» Kate rimise sul tavolo il pancake che stava mangiando. Le tremavano le mani per la rabbia. Si disse che, potendo scegliere, anche al prezzo di rimanere intrappolata nel passato con Michael ed Emma e anche se avesse significato salvare la vita a un solo bambino e riunire una sola famiglia, avrebbe lasciato il libro alla Contessa. Il problema, proseguì il dottor Pym, era come riprenderselo, il libro. I soldati della Contessa avevano allestito un campo di prigionia nella Città Morta. Evitare le sentinelle non sarebbe stato facile. Ma arrivare alla cripta era ancora più difficile. Il terremoto, tanti anni prima, aveva ostruito completamente il passaggio. «Ma ci sarà un passaggio segreto, no?» disse Michael. «Che ragazzino perspicace» commentò il dottor Pym con un sorriso raggiante. «Meno male che non lavori per la Contessa, se no saremmo fritti.» «Oh, non lavorerei mai per lei» replicò Michael con fermezza; poi guardò Kate e balbettò: «Cioè... mai più». Il dottor Pym spiegò che, quando era stata costruita la cripta, il re dei nani aveva fatto aggiungere una porta segreta. Era stata concepita proprio per una sventura come quella. «E bravi nani» ridacchiò Michael. «Sempre previdenti.» Alla porta segreta si accedeva mediante una grotta molto al di sotto della sala del trono. Le pareti della grotta erano ricoperte di una rara varietà di lichene che al buio mandava un luccichio dorato. Se si arrivava in quella grotta, si arrivava alla cripta. «E come ci si arriva, alla grotta?» chiese Kate.
«Il problema è proprio questo. Il terremoto ha scombussolato tutto. I tunnel. I passaggi. Anche se riuscissi a introdurmi nella Città Morta, non troverei l’ingresso giusto. Santo cielo! Questi li avete assaggiati?» Mostrò un doughnut che scoppiava di crema, dal quale aveva appena staccato un bel boccone. «L’ultimo l’ha preso lei» disse Michael, imbronciato; guardava quel doughnut da un pezzo. «Oh, scusami.» Il dottor Pym lo divise in due e gliene passò una metà; un’operazione che comportò qualche pasticcio, ma Michael sembrò apprezzare il gesto. «Allora cos’ha fatto?» chiese Kate, impaziente. «Be’, rendendomi conto di aver bisogno di una guida, qualcuno che avesse dimestichezza con i tunnel sotto la Città Morta e potesse riconoscere la grotta da me descritta, sono andato nell’unico posto in cui trovare una persona così: la corte nanesca. Abbiamo mangiato tutti abbastanza? Ottimo. Credo che sia il momento del tè.» Il dottor Pym sollevò la piccola teiera di ferro e versò il liquido ambrato in tre tazze, raccomandando ai ragazzi di non scottarsi la lingua. Osservò che il ferro dei nani, per certi versi insoddisfacente, era tuttavia perfetto per farci delle teiere di prim’ordine. Poi si rilassò, caricò la pipa, accese un fiammifero, tirò finché il tabacco cominciò a prendere ed esalò una lunga striscia di fumo dall’aroma di mandorla. «Così arriviamo alla seconda parte del mio racconto. La storia di Hamish.» Il dottor Pym bevve un piccolo sorso di tè. «Fino a non molto tempo fa, i nani di questa regione erano governati da una regina, un’anziana signora saggia e giusta, oltre che mia carissima amica. Durante la mia ultima visita, all’incirca cinque anni fa, come dicevo, mi assicurò che alla sua morte il trono sarebbe passato al minore dei suoi due figli. Il secondogenito era esattamente come doveva essere un futuro re: buono, leale e provvisto di tutte le altre noiose qualità necessarie. L’altro figlio, invece, il maggiore, era un poco di buono. Un ragazzo dalle passioni sfrenate e dalla scarsissima igiene personale. Era chiaro a tutti che come re sarebbe stato un disastro. Ma purtroppo poco dopo la mia visita la regina morì senza lasciare testamento. O almeno...», il dottor Pym lanciò ai ragazzi un’occhiata allusiva, «il testamento non fu mai trovato; così, invece di Robbie, a diventare re è stato Hamish.» «Un attimo... sta parlando del capitano Robbie?» chiese Kate. «Ah già, avete detto che l’avete conosciuto, il buon capitano Robbie. Lui e Hamish sono fratelli. Anche se si assomigliano come il giorno e la notte, come...» Si interruppe per cercare un’altra similitudine, poi scrollò le spalle. «Be’, come il giorno e la notte può bastare. «Ora, Hamish era da poco diventato re quando la Contessa e i suoi morum
cadi arrivarono alla sua corte. Lei lo lusingò con doni e promesse e chiese l’autorizzazione di scavare nella Città Morta. Non gli disse che cosa cercava. Anzi, dichiarò di non saperlo nemmeno lei. Disse che seguiva una leggenda, una voce che circolava. Una storia che parlava di un non meglio identificato manufatto magico. Ma promise che questo oggetto misterioso, quando lo avesse trovato, sarebbe stato di tutti e due. Alla fine ottenne l’autorizzazione.» «Ma lui cos’è, idiota?» sbottò Kate. «Oh, quasi certamente» disse il dottor Pym. «Tuttavia non ci mise molto a capire di essere stato imbrogliato e che la Contessa sapeva benissimo cosa cercava e non aveva alcuna intenzione di spartire quell’oggetto con lui. Ma allora, vi chiederete, perché Hamish non si è ripreso la Città Morta con la forza? Dopo tutto il suo esercito è molto più numeroso di quello della Contessa. Per ora vi dirò solo che aveva le sue buone ragioni per temere lo scontro diretto. Così è rimasto lì a cuocere nel suo brodo, letteralmente, visto che quel beota non vuol lavarsi, e queste sono le circostanze in cui l’ho trovato.» «Stava partecipando a una delle sue interminabili feste. Immagino che quel buffone credesse che fossi andato a congratularmi con lui per l’ascensione al trono. Le sue prime parole sono state: ’Che cosa mi porti, Mago?’ Ho risposto che non gli avevo portato doni e che anzi ero venuto a chiedergliene uno.» «’Ah sì, eh?’ ha sbuffato lui. ’Cos’è, il Natale dei maghi? Perché nessuno me lo ha ricordato?’» «Gli ho detto che mi serviva una guida. Che volevo arrivare prima della Contessa per sottrarle l’oggetto dei suoi sforzi. Avevo preso in considerazione la possibilità di elaborare una bella trama per mascherare i miei piani, ma avevo la sensazione che i sospetti di Hamish, troppo forti, gli avrebbero fatto fiutare subito l’inganno. In ogni modo, le mie parole hanno avuto un effetto immediato. Hamish ci è balzato sopra come una tigre, una tigre sporca, puzzolente e mezzo analfabeta.» «’Allora tu sai cosa cerca?’ ha urlato.» «’Sì’ ho risposto.» «Così mi ha ordinato di raccontargli tutto quel che sapevo. Io mi sono rifiutato di farlo e lui mi ha minacciato. Mi sono rifiutato di nuovo. Così è andato su tutte le furie. Si è messo a sputare. A spaccare piatti. A rovesciare tavoli. Ha preso a botte il ministro della Cultura. Ha fatto un macello mai visto, e intanto strillava che quell’oggetto era sepolto nel territorio nanesco e dunque apparteneva ai nani, vale a dire a lui e nessun altro.» «Non aveva tutti i torti» mormorò Michael.
«Ho detto a Hamish» proseguì il dottor Pym «che di quell’oggetto i nani erano stati soltanto i custodi. Non apparteneva a loro.» «’Quindi ti rifiuti di aiutarmi?’ ha urlato. ’Credi che io non possa colpirti, Mago? È questo che credi, disgraziato?! Razza di scemo barbabianca!’» «Ho ribattuto che sapevo benissimo di poter essere colpito da lui. Ma non gli avrei mai detto che cosa c’era sotto la Città Morta. Ed è così» concluse, allargando le braccia per indicare le pareti della sua cella «che sono finito qui dentro. Tutto questo è successo quattro giorni fa.» I ragazzi tacevano, con in mano la tazza di tè ancora fumante, e riflettevano su quanto il dottor Pym aveva appena raccontato. Michael gli chiese se aveva una chiave con cui entrare nella cripta. Il vecchio stregone sorrise. «Più o meno. Sì. Ma ho parlato troppo per stasera. Voi siete stanchi e avete bisogno di dormire. Qualcosa mi dice che la giornata di domani vi richiederà tutte le vostre forze.» «Ma Emma?» Kate aveva ascoltato tutto quel che aveva detto il dottor Pym: del viaggio compiuto dal libro, della cripta, di Hamish... Era stata paziente. Ma quel che è troppo è troppo. «Aveva detto che la stava cercando! Dov’è, allora? È salva? È viva? Questo ce lo sa dire?» «Ha corso un grave pericolo» rispose il dottor Pym, calmo. «Ma il pericolo è passato. Adesso è nel paese di Gabriel, a farsi curare dalla loro savia. Ti assicuro, cara, che vostra sorella è salva.» Per un attimo Kate e Michael furono troppo sbalorditi per parlare. «Davvero?» chiese poi Kate. «Sì. Vuoi vederlo con i tuoi occhi?» Kate annuì. Il dottor Pym sorrise. «D’accordo.» E di colpo Kate ebbe la sensazione di riempirsi tutta di sabbia. Le braccia e le gambe si fecero pesantissime. Le palpebre si chiusero. Istintivamente, si sforzò di rimanere sveglia. Sentì Michael afflosciarsi contro di lei. «Ma...» balbettò «... noi...» Quando atterrò sulla paglia, era già sprofondata nel sonno. Dormendo, sognò di essere di nuovo nel labirinto, a correre in uno di quei corridoi bui. Più avanti c’era una luce che arrivava da una stanza. Si mosse in quella direzione, uscì dal tunnel e la scena che le si aprì davanti fu peggiore di qualsiasi incubo. Emma era a terra, immobile. La metà inferiore della maglietta era nera di sangue. Kate vedeva lo scuro mozzicone di freccia che le spuntava dalla schiena.
Gabriel era chino sopra di lei e impugnava in tutt’e due le mani quella specie di terribile machete, con il filo della lama che luccicava alla luce della lanterna. Intanto, sul pavimento della stanza, si avvicinava a lui la creatura più orribile che Kate avesse mai potuto immaginare. La pelle era traslucida, biancastra e cosparsa di foruncoli verdognoli. Le braccia e le gambe erano orrendamente lunghe e magre, la schiena curva dopo generazioni vissute in bassi cunicoli. Avanzava, con gli artigli che ticchettavano per terra, e Kate vide i lattiginosi occhi ciechi e le enormi orecchie da pipistrello. Il salmac-tar, con un sibilo che gli gorgogliava in fondo alla gola e gli artigli protesi in avanti, si lanciò contro Gabriel. Kate cercò di gridare, ma non uscì niente. Gabriel fece un passo avanti e con l’arma descrisse sopra di sé un arco lucente. Uomo e mostro si incontrarono in mezzo alla stanza e Kate sentì il petto irrigidirsi per la paura, ma poi la testa del mostro volò via dal corpo, andò a rimbalzare contro la parete in fondo e rotolò una, due, tre volte per poi fermarsi, a faccia in giù. Per un lungo momento niente si mosse. Anche il corpo decapitato rimase in piedi dov’era, come se non avesse capito che cosa succedeva. Poi, lentamente, si piegò sulle ginocchia, ricadde in avanti e lì restò. Gabriel pulì la lama dal sangue e fece per girarsi verso Emma, ma poi si fermò e rimase in ascolto. Anche Kate lo aveva sentito. Clic-clic... clic-clic. Il rumore arrivava dal buio di un ingresso. Poi se ne unì un altro. E un altro ancora. Il clic-clic aumentò; come un ronzio di insetti, si fece più forte e più intenso. Gabriel rinfoderò l’arma, prese Emma e la lanterna e si mise a correre. Kate si sentì muovere con lui che filava nei corridoi bui. Ne udiva il respiro e ne sentiva il sudore. Dietro di lui il clic-clic si faceva sempre più forte. Emma non aprì mai gli occhi. Gabriel si tuffava di stanza in stanza, di tunnel in tunnel. Guardandosi alle spalle, Kate vide nel buio figure spettrali che si precipitavano verso di loro, arrampicandosi sui muri, correndo sempre più forte. Poi, di colpo non erano più nel labirinto. Stavano attraversando di corsa un’immensa grotta vuota di roccia naturale quando Kate vide le figure bianche riversarsi fuori dall’imbocco del tunnel alle loro spalle. Gabriel inciampò, rischiando di cadere: un attimo di più e lo avrebbero ghermito con gli artigli e i denti, ma lui recuperò l’equilibro, attraversò un corso d’acqua e riuscì ad arrivare in fondo a un altro breve tunnel, dopodiché sbucarono all’aria aperta, fuori dal tunnel, fuori dalla montagna, e lei sentì sul viso il fresco della notte, e la luna illuminava il
buio, e anche se era un sogno si riempì i polmoni d’aria buona. Gabriel si fermò per girarsi a guardare. Kate udiva l’ira delle creature dentro la montagna, anche se non le vedeva. Per una ragione o per l’altra, non riuscivano a uscire. Gabriel si incamminò su un sentiero lungo il crinale. Kate vide nella valle ai suoi piedi un insieme di fuochi palpitanti che, come capì, era il paese di Gabriel: Emma era salva. Kate si risvegliò, con l’odore di tabacco del dottor Pym nelle narici. «Buongiorno» disse lo stregone. «Avete dormito quasi nove ore. Dovevate essere proprio stanchi.» Kate si strofinò gli occhi. Il fuoco scoppiettava. Michael, sulla paglia, dormiva ancora. «Ho fatto il sogno più strano del mondo.» «Ah sì? Non vedo l’ora che me lo racconti.» Il dottor Pym aveva sulle labbra il suo solito sorriso gentile e la faccia era avvolta nel fumo. «Vi ho guardati bene, te e tuo fratello. Avete detto che i vostri genitori non li conoscete per niente?» «Io qualche ricordo ce l’ho. Ma non so nemmeno come si chiamano. Perché?» Il dottor Pym batté la pipa sul pavimento per vuotare la cenere e se la rimise in tasca. «Oh, possiamo parlarne dopo. Adesso è meglio che svegli Michael. Saranno qui a momenti.» «Chi?» Kate era un po’ intontita, come se fosse ancora per metà nel sogno. Ma era stato davvero un sogno? Le era sembrato tanto reale. E perché il dottor Pym le chiedeva dei suoi genitori? Udirono lo scatto di una serratura che si apriva, la porta si spalancò ed entrò il capitano Robbie McLaur. «Forza, si va. Il re vuole vedervi tutti e tre.»
Capitolo 13 Hamish † Quattro nani di guardia, preceduti dal capitano Robbie McLaur, condussero il dottor Pym e i ragazzi in una serie di corridoi e su per varie scale fino alla sala del trono di re Hamish. «Non sono fatti miei, Stregone» disse Robbie McLaur mentre percorrevano il corridoio illuminato dalle torce, «ma per il bene di questi ragazzi l’avverto che mio fratello non è un nano da prendere alla leggera.» «Apprezziamo il suo interessamento, Capitano» replicò il dottor Pym. «Ma sappiamo come comportarci.» «Benissimo, la pelle è la vostra. È solo che non mi va di vedere dei ragazzini fatti a pezzi, se appena lo si può evitare. Sarò all’antica.» Poco dopo cominciarono a incrociare nani che andavano nella direzione opposta portando vassoi su cui erano accatastati gli unti avanzi di un lauto banchetto. Uno passò con una dozzina di boccali vuoti che tintinnavano infilati in un bastone; poi, a un incrocio, dovettero farsi da parte perché due nani stavano facendo rotolare nel corridoio una botte urlando: «Il re vuole altra birra! Altra birra per il re!» «Oddio» disse il dottor Pym, «spero proprio che non sia troppo ubriaco.» «Non ci scommetterei dei soldi» borbottò Robbie McLaur. Mentre si avvicinavano a una serie di gigantesche porte dorate, il capitano tuonò: «Il capitano Robbie McLaur con i prigionieri, come richiesto da re Hamish!» e i due nani che stavano di sentinella spinsero le porte per farli entrare. Kate prese Michael per mano. «Sta’ vicino a me.» Michael annuì, ma non disse nulla. Aveva paura che, se avesse parlato, la sorella potesse sentire nella sua voce l’emozione che provava entrando nella sala del trono di un re dei nani in carne e ossa. «E magari non sorridere tanto» gli suggerì Kate. «Zitti!» sbraitò Robbie McLaur, perché proprio in quel momento stavano varcando la soglia. Ma fu superfluo: la sala li zittì comunque. Era la stanza più grande che i ragazzi avessero mai visto. Non finiva più. Il soffitto era tanto alto che le imponenti colonne di pietra che lo sorreggevano sfumavano in alto nel buio. Ma a colpire non erano soltanto le dimensioni, le proporzioni, bensì l’opulenza ostentata. Il soffitto era tempestato di diamanti che luccicavano come stelle nella notte. Il pavimento era come lastricato di pietre preziose. Le pareti erano ricoperte
di pitture murali in oro e argento che raffiguravano le vittorie dei nani sui troll, sui goblin, sui draghi, su orde di salmac-tar. Tutto, in quella sala, aveva lo scopo di colpire il visitatore con la maestà del trono nanesco. Kate e Michael rimasero sulla soglia a guardare. Poi Kate disse: «Che porcile». Tutt’intorno a loro c’erano pile di piatti sporchi, fetidi avanzi di cibo, boccali di birra mezzo vuoti e nani sudici e tramortiti. Servitori affaticati correvano avanti e indietro lungo il perimetro della grande sala, scambiando boccali e piatti vuoti con boccali e piatti pieni. Robbie McLaur emise un lungo gemito di disapprovazione. «Re Hamish è famoso per i suoi appetiti» sussurrò il dottor Pym. «Un banchetto può andare avanti anche giorni o settimane di fila.» «Non è giusto» disse Michael. «I nani non dovrebbero comportarsi così.» «Hai ragione, ragazzo» gemette Robbie McLaur, «mai furono pronunciate parole più vere.» «Ehi, guardate chi c’è!» gridò una voce in fondo alla sala. «Non è il fattucchiere, quello là? E ci sono anche quelle piccole pesti! Portateli qua! Portateli qua!» Le guardie fecero avanzare il gruppetto. I ragazzi cercarono di evitare i nani che russavano per terra e le pozzanghere di birra puzzolente. «È un piacere che ti sia degnato di farci visita, Mago! Ah-ah! Lo scemo!» Hamish sedeva al centro di una lunga tavolata di nani dalla faccia unta. Alcuni, svogliatamente, stavano ancora mangiando e bevendo, ma per la maggior parte erano mezzo svenuti, riversi sul tavolo o appoggiati di lato contro il vicino. Hamish era l’unico ancora in forze. Era decisamente il nano più grosso che i ragazzi avessero visto fino a quel momento. Pur essendo basso come tutti i nani, aveva una stazza eccezionale. Kate pensò che sembrava un gigantesco facocero con la barba. «Spero che siate comodi, giù in prigione. Noi vogliamo farli contenti, i nostri ospiti. Mica che poi parlano male di noi.» Rise sgradevolmente e prese un lungo sorso di birra, che gli finì quasi tutto sulla barba. Kate pensò che la sua barba, che gli ricadeva a ventaglio sul petto, non assomigliava ad altro che a un biondo bavagliolo peloso. Ci vide anche delle cose appiccicate: pezzetti di tortino al formaggio, una crosta di pane, una coscia di pollo, una forchetta. Contrastava molto con il capitano Robbie McLaur, ritto sull’attenti accanto a loro con la sua bella barba curata e la divisa immacolata. Quando Hamish ebbe bevuto l’ultimo sorso di birra, un nano servitore gli tolse un piatto vuoto e fece per andarsene. «Uhei!» strillò Hamish, lanciando il calice, che rimbalzò sulla testa del nano. «Mica avevo finito!» Facendo mille inchini e balbettando parole di scuse, il nano gli restituì il
piatto; Hamish tirò su le ultime briciole che c’erano dentro e se le ficcò in bocca. «Fatto» bofonchiò, lanciandosi il piatto dietro le spalle e mandandolo fragorosamente a terra, «adesso puoi portarlo via.» Poi si pulì le dita nella barba, staccando così numerose salsicce in miniatura, e ruttò. Il versaccio echeggiò per tutta la sala ed evidentemente svegliò i nani seduti a tavola, perché drizzarono di colpo la schiena e si misero a ruttare all’unisono, come se cercassero di mascherare la maleducazione del loro sovrano. Poco dopo, la grande sala risuonava tutta di un’echeggiante sinfonia di rutti naneschi. Brrrraaappt... Errrapptt... Grrapppaaat... Bllluuupppggg... Ugggrrraaappp... «BA-STA!» urlò Hamish, battendo il pugno sul tavolo. I nani tacquero immediatamente e qualche istante dopo anche l’ultimo eeerrrpppt si spense. «Devo dire» commentò il dottor Pym «che dà proprio un pessimo esempio.» «Dottor Pym.» Kate lo tirò per la manica. «Adesso cosa facciamo?» Ma lo stregone si limitò a zittirla e continuò a guardare il re. All’improvviso Hamish batté le mani. Sulle prime non successe niente; poi i ragazzi udirono un rimbombo ritmico in lontananza, che crebbe finché le grandi porte si spalancarono e due schiere di nani in armi entrarono marciando. Si separarono e, battendo i piedi calzati in maglia metallica, sfilarono lungo le colonne; in pochi istanti, o così sembrò, la sala si riempì di centinaia di nani, con gli elmi luccicanti e la lama affilatissima delle asce che brillava alla luce delle torce. «Bene, Mago.» Hamish caricò la parola di tutto il disprezzo che poté. «Credo di essere pronto a riceverti come si conviene. Ma prima di cominciare tutto l’ambaradan, come si chiamano questi tuoi due marmocchi che credono di poter entrare nella mia terra come gli pare e piace? Eh? Dimmi, sentiamo.» «Non l’abbiamo fatto apposta» cominciò a dire Kate. «Stavamo...» «Uhei!» Hamish batté la mano sul tavolo. «Ti ho chiesto di parlare? Eh? Ho forse detto: ’Sentiamo cos’ha da dire uno
di questi due marmocchi’? Ho forse detto: ’Vorrei proprio sapere cos’ha da raccontarmi uno di questi due’?» I nani che lo circondavano scossero vigorosamente la testa. «No! Ho detto: ’Mago’. E il mago è lui!» Puntò un’ala di pollo verso il dottor Pym. «Quindi, ragazzina, tieni chiusa quella boccaccia. Ma guarda questa che maniere!» «Mi permetta di presentarle» disse il dottor Pym, calmo «Katherine e Michael. Di cognome, P.» Kate riuscì a fare una specie di mezzo inchino; Michael invece continuò a fissare Hamish con gli occhi vitrei. Sembrava quasi in stato di shock. «E, come credo che Katherine stesse per dirle, la loro presenza nel suo territorio è dovuta esclusivamente al caso. Vede, stavano scappando dalla Contessa...» Alla parola «Contessa» ci fu un gran vociare incattivito. «E scappando sono finiti nelle sue terre.» «Una storia verosimile» disse Hamish. «Molto chiara e carina.» «Devo aggiungere che, nel suo labirinto, hanno perso di vista la sorellina, più piccola di loro. Se sua maestà me lo consente, terrebbero molto a riunirsi a lei.» «Sorellina più piccola, hai detto? Quanti anni ha?» «Undici» rispose Kate. «Si chiama Emma.» «La piccola Emma sola soletta là fuori. Che cosa spaventosa. Mi fa venire le lacrime agli occhi. A te no?» Hamish diede una pacca al nano a destra, il quale annuì e si asciugò del sugo che gli colava sulla guancia. «Bene» disse il re, «visto che mi avete raccontato con tanta sincerità come siete capitati qui e tutti gli affari vostri, immagino di non poter far altro che lasciarvi andare, e magari mandare una squadra a scortare voi e vostra sorella. Eh? Che ne dite?» Il dottor Pym sorrise affabilmente. «Sarebbe gentilissimo da parte sua, maestà.» «Considerato soprattutto», Hamish conficcò la zampa in un tortino e ne tirò fuori un bel pezzo di carne e formaggio, «che questi ragazzi sono due agnellini innocenti e non stanno cercando quel cacchio di libro magico che cercate tu e quella strega, il libro sepolto in chissà quale cripta segreta sotto la Città Morta e che appartiene di diritto ai nani! Dico bene?» Hamish si ficcò in bocca l’agglomerato e, senza inghiottire, rivolse un sorriso al dottor Pym. Kate si sentì di colpo cedere le ginocchia. Erano nei guai fino al collo. «Sua maestà...» cercò di dire il dottor Pym.
«E sta’ zitto!» Hamish balzò in piedi e con il braccio travolse piatti e calici mandandoli a schiantarsi a terra. Aveva la faccia paonazza e, quando puntò il tozzo dito contro il dottor Pym, dei pezzi di cibo gli schizzarono fuori dalla bocca. «Piantatela di raccontarmi balle! Con chi cacchio credete di parlare, eh? Secondo voi Hamish sarebbe un povero sempliciotto, eh? Secondo voi, siccome sono un nano e ho il corpo più piccolo, anche il mio cervello dovrebbe essere più piccolo, vero? E basta niente per fregarmi, giusto? Credete che non sappia che cosa si dice nelle mie cacchio di prigioni, parola per parola? Credete che non ci fossero dei cacchio di nani stenografi a trascrivere ogni vostro bisbiglio? Che non mi venga fornita ogni mattina una cacchio di trascrizione completa e ortograficamente corretta di tutte le biascicature notturne dei prigionieri?» Infilò la mano dietro la barba, presumibilmente dentro la camicia, e tirò fuori un fascio di carte che gettò sul tavolo. «E voi venite qui a raccontar balle! A me! Per mettere le mani su un tesoro che appartiene ai nani! Un cacchio di Libro di un cacchio d’Inizio. Non credo! Non credo proprio!» Il dottor Pym dominò la propria voce. «No, maestà, il libro non appartiene ai nani. Loro lo custodiscono e basta.» «È sepolto sotto una città nanesca! In una cripta costruita dai nani! Appartiene ai nani. Punto e basta. Fine della storia.» Il dottor Pym guardò i ragazzi e sorrise. «Non preoccupatevi.» «No?» sibilò Kate. «E perché mai non dovremmo preoccuparci?» «Be’» rispose il dottor Pym, «magari preoccupatevi solo un pochino.» Hamish stava ancora sbraitando. «Ti faccio vedere io cosa vuol dire scherzare con un nano, caro il mio fattucchiere.» «Mio signore...» Hamish agitò la mano. «Na-na-na, niente ’mio signore’, adesso, troppo tardi per queste cose.» Hamish si mise a camminare avanti e indietro, passandosi la mano sulla barba e parlando da solo. «Adesso ti dico cosa faremo. Ci introdurremo zitti zitti per ’sta porta segreta, troveremo il bel Libro Magico solo soletto e... Dov’ero rimasto? Ah, sì: e ci serviremo. Infileremo il libro in saccoccia e poi, piano piano, usciremo, e la strega non saprà mai che a prendere il libro siamo stati noi. Troverà la cripta e penserà: ’Ma guarda, la cripta è vuota!’» «Sì ma, come sicuramente avrà letto nella trascrizione, io non ricordo come...» «Quella cacchio di grotta dorata, lo so, lo so» e Hamish, giratosi, urlò: «FERGUS!!» Un nano vecchissimo, piegato quasi a metà dagli anni e con una lunga barba bianca che toccava terra, si staccò dalle ombre lungo la parete e trotterellò... lentamente verso di loro.
Hamish brontolò: «Per l’amor di... ti vuoi sbrigare, Fergus? Ancora un po’ e mi muori prima di arrivare a ’sto cacchio di tavolo!» E in effetti Kate vide dei nani scambiarsi dei soldi, presumibilmente scommettendo sulle probabilità che Fergus morisse prima di arrivare. Ma poi il capitano Robbie si avvicinò a lui e lo aiutò per il resto del tragitto. «Allora, Fergus» disse Hamish, «tu sai di questa», schioccò le dita e un servitore, con un inchino ossequioso, portò la trascrizione. Hamish la spianò sul tavolo e lesse, «’grotta dorata’ sotto la Città Morta di cui parlava il nostro Stregone Brillantone?» La voce del vecchio nano uscì in un raschio sommesso e tremolante. «Sì, sì... la grotta dorata. La Città Morta... Il passaggio segreto sotto la... la... la...» Kate pensò che sarebbe rimasto bloccato così per sempre, ma poi il nano riuscì a pronunciare le parole: «... sala del trono». «Giusto, Fergus, giusto. Nella Città Morta. Un passaggio segreto sotto la sala del trono. Hai detto che sapevi come arrivare in quella grotta, vero?» Fergus non rispose. «Fergus?» Per un attimo Kate pensò che forse era morto davvero. Evidentemente non pochi nani ebbero la stessa impressione, perché ci fu un altro scambio di soldi. «FERGUS!!» «Mmm? Cosa...?» Il vecchio nano si era addormentato. «Mi hai detto che conoscevi una strada per arrivare in questa grotta dorata, sì o no?» «Ah, sì, una strada c’è. Però è pericolosa... Un passaggio buio...» «Bene» disse Hamish, con l’aria soddisfatta. «Dunque, tu», guardò il dottor Pym, «mi consegnerai la chiave di ’sta cripta e io forse, e sottolineo ’forse’, quando tornerò con il libro non vi taglierò la testa. Che te ne pare?» «Temo che non sia possibile, maestà» rispose il dottor Pym, dolcemente. «Vede, la chiave sono io.» «Eh?» «Né l’ingresso principale né la porta segreta della cripta hanno una serratura nel senso tradizionale del termine. La porta è stata sigillata con un incantesimo. Può essere aperta soltanto da pochi designati.» Sotto gli occhi di Kate e Michael, la faccia di Hamish virò dal consueto pallore malaticcio al rosso, al rosso cupo, al viola e infine quasi all’indaco, come un brutto livido. Dopodiché il re attaccò a urlare: «Cos’è, mi prendi per scemo? Speri così di farti portare con me, in modo da poter fare una delle tue stupide magie e scappare con il mio libro? Credi...» Hamish si interruppe. «Aspetta un attimo... hai detto ’pochi’... può essere aperta da pochi. Chi sono gli altri che possono aprirla?»
Il dottor Pym fece per parlare, ma poi richiuse la bocca. «Aha! Ti ho beccato, eh? Chi è che può aprirla?» «Preferirei non dirlo» rispose il dottor Pym. «Preferiresti non dirlo, preferiresti non dirlo!» Hamish indicò Michael. «Tagliate la testa a quello lì!» «Aspetti!» disse il dottor Pym, con un sospiro. «D’accordo. La cripta può essere aperta dalla mia mano o... dalla mano di questi ragazzi.» Tutti e due i ragazzi si girarono di scatto a guardare in su verso il dottor Pym. Lui, però, continuò a fissare Hamish. Michael sussurrò: «Cosa dice?» «Non ne ho idea.» Kate non sapeva se il dottor Pym mentisse, se si trattasse di un piano di cui non le aveva parlato, oppure fosse la verità. E se era la verità, in che senso sapevano aprire la cripta? Che cosa significava? Hamish sembrò invece accettare l’affermazione del dottor Pym come se fosse perfettamente ragionevole. Si grattò il mento (o almeno, si grattò la barba: il mento era in un punto imprecisato lì sotto) e corrugò la fronte pensosamente. «Già, avevo intuito che quei marmocchi c’entravano qualcosa. Se ne vanno in giro per il labirinto e arrivano proprio davanti alla porta segreta. Mi puzzava un po’. Bene! Qualcuno metta sotto chiave lo stregone e prenda quei due tappetti! Si va in gita!» Kate udì le parole prima di rendersi conto di averle pronunciate: «Io non l’aiuterò». Nella sala calò il silenzio. Hamish appoggiò le nocche sul tavolo come un gorilla. La voce era lenta e minacciosa. «Che cosa hai detto?» «Io non l’aiuterò ad aprire la cripta.» Kate non sapeva bene perché stesse tenendo testa a Hamish. Ovviamente non voleva che mettesse le mani sul libro. Ma soprattutto, rifletté, lo trovava volgare. Lasciò andare la mano di Michael per poter incrociare le braccia, pensando così di sembrargli più decisa. «Noncipossocredere.» Hamish guardò i nani a destra e a sinistra. «Avete visto che sfacciataggine, questa qui? E poi di chi cacchio è il trono, in questa cacchio di sala? Chi cacchio è il re dei nani? Sta’ tranquilla ché mi aiuterai, cara la mia ragazza! Fidati, mi aiuterai. Che cos’è, la festa della resistenza al re? Non credo proprio. Perché se lo fosse...» Si interruppe, incerto su come proseguire, e poi disse: «Be’, non esiste, quella festa!» «In ogni caso» disse Kate, girando imperiosamente la testa da una parte, «io non l’aiuterò.»
Hamish se ne stette lì, a fumare di rabbia e a guardarla in cagnesco. «Devo ammettere che hai temperamento, ragazzina. Comunque, purtroppo per te, il tuo aiuto non mi serve, visto che, come dice questo scemo di fattucchiere, mi serve soltanto la tua bella manina.» Lanciò una forchetta contro un soldato per ottenere la sua attenzione. «Ehi, tu! Portami la mano di quella sgualdrinella. Ma il resto lasciaglielo. Le faccio vedere io chi è il re, qua.» «Tu non sei un nano!» Tutta la sala, compreso Hamish, si girò a guardare Michael. Il re sollevò la mano per fermare il nano che aveva già fatto un passo verso Kate. «Che cos’hai detto, ragazzino?» Michael, furibondo, era paonazzo e aveva le mani strette a pugno lungo i fianchi. «Ho detto che tu non sei un nano! Ed è la verità!» Kate capì subito cosa intendeva dire Michael; sapeva che delusione doveva essere per lui quel re dei nani reale, in carne e ossa. «Io, di nani, ne so più di quasi tutti» proseguì Michael, rabbioso. «Ho passato la vita a leggere tutto quel che trovavo sull’argomento. Erano i soldati più coraggiosi, gli amici più fedeli. Gli altri li sottovalutavano, ma loro vincevano perché erano i più bravi e lavoravano più di tutti.» Intanto i nani stravaccati a tavola avevano cominciato a tirarsi su. Kate vide che il capitano Robbie guardava fisso il fratello: un’espressione attonita gli aveva trapassato la maschera di soldato. «Tu, invece» continuò Michael, «tu sei una vergogna.» «Ah sì, eh?» disse Hamish, freddo. «Michael» sussurrò Kate, afferrandogli la manica per tirarlo indietro. Ma Michael era tutto concentrato sul re dei nani e con un passo avanti si sottrasse a lei. «Sì. E se tu sapessi anche solo metà delle cose che ha fatto mia sorella, saresti tu a inginocchiarti davanti a lei, e non viceversa. Lei è due volte più coraggiosa di quanto tu lo possa mai essere. Noi volevamo il libro solo per tornare a casa. Tu invece lo vuoi perché sei avido. Vuoi mozzare la mano a qualcuno? Mozza la mia.» Così dicendo si avvicinò a lui e posò il sottile polso sul tavolo. Per un lungo momento nessuno si mosse né parlò. Le centinaia di nani che affollavano la sala, sia quelli seduti a tavola sia quelli in piedi sull’attenti, erano immobili come statue. Kate era spaventata per il fratello e, insieme, orgogliosissima di lui. Michael, il ragazzino che tutti, orfanotrofio dopo orfanotrofio, avevano preso di mira, quello che spesso la sorellina aveva dovuto salvare dalle botte, quello a cui rubavano in continuazione gli occhiali per gettarglieli nel water, adesso era lì, a tener testa a un re dei nani armato d’ascia (e chiaramente psicolabile). Sembrava così piccolo, così magro.
Eppure la mano era assolutamente ferma sul tavolo e gli occhi erano piantati baldanzosamente su Hamish. Kate aveva sempre saputo che Emma era coraggiosa, ma di lui non lo aveva mai pensato. Si ripromise di non fargli mai più quel torto. Hamish scrollò le spalle e agitò la mano in segno di indifferenza. «Benissimo. Mozzategli la mano... prima a lui e poi alla ragazza.» Kate guardò disperata lo stregone. «Dottor Pym, faccia qualcosa!» «Allora!» sbraitò Hamish, battendo il pugno sul tavolo. «Procediamo con questo mozzamento!» Si fece avanti un soldato, che si tolse l’ascia dalla cintola. Fece soltanto due passi, poi stramazzò a terra e l’ascia andò a sbattere sul pavimento, lontano. Il capitano Robbie lo aveva colpito al petto. «Cosa...?» cominciò a dire Hamish. Ma il capitano Robbie si girò verso di lui e la legittima ira che c’era nella sua voce sovrastò quella del re. «No, fratello. Non te lo permetterò.» Nella sala, la tensione, se possibile, si fece ancora più grande. Hamish si erse in tutta la sua statura, che per un nano non era poi eccezionale. I suoi occhietti ardevano di rabbia, ma la voce rimase bassa. «Forse hai dimenticato chi è il re, qui, eh, fratello?» «Io non sono un traditore» replicò il capitano Robbie. «E forse faremmo bene a recuperare quel libro anche solo per non lasciarlo alla strega. Ma questi due ragazzi, dovremmo aiutarli. E non per guadagnarci qualcosa. «Questo ragazzo ha ragione. Tu disonori il nostro popolo e fermandoti ti faccio un favore. Ti sei smarrito, fratello. Questa depravazione, questo lassismo, va avanti da troppo tempo. Bisogna arginarlo. Pensa a cosa direbbe nostra madre se potesse vedere che cosa sei diventato.» Con un gesto indicò tutta la sala, le botti rovesciate, i nani ubriachi... Per un attimo Hamish sembrò esitare e Kate pensò di poter sperare. Poi sollevò la mano e puntò il dito verso il capitano Robbie. «Prendete quel traditore.» Tre nani gli si avventarono addosso. Il capitano Robbie non cercò di difendersi. «Maestà» disse il dottor Pym, «se mi è concesso parlare. È vero, il controllo del libro vorrei averlo io, ma, costretto a scegliere fra sua maestà e la Contessa, preferisco che ce l’abbia sua maestà. Però l’avverto, una mano mozzata non aprirà la cripta. A compiere il gesto dev’essere un ragazzo vivo. Mi garantisca la loro incolumità e io le prometto che i ragazzi l’aiuteranno.» Per un momento Hamish sembrò voler ribattere, poi sbuffò e, presa in mano una fetta di torta al cioccolato, la sventolò verso lo stregone e il capitano Robbie. «Benissimo. Metteteli tutti e due sotto chiave. Quando torno mi
occupo di loro. E poi partiamo.» Le due schiere di nani in armi si girarono e sfilarono fuori dalla sala. Il dottor Pym si accovacciò accanto a Kate e Michael. «Mi dispiace. Dovrete cavarvela da soli.» «Aspetti!» disse Kate. «Quel che ha detto era la verità? Sulla cripta?» «Oh, sì, a te si aprirà.» «Ma come fa a...» «Mia cara, nell’istante stesso in cui hai messo piede nella cella ho capito che il libro ti aveva toccata. Poteva succedere soltanto se tu, tuo fratello e tua sorella eravate i ragazzi che aspettavo.» Poi sorrise e la guardò come se lei avesse scritta in faccia la conferma di un sospetto che aveva da tempo. «E, di tutti i ragazzi, dovevi essere tu. Non mi sbagliavo sui segni...» «Cosa dice? Non...» «Non c’è tempo per le spiegazioni. Però», e abbassò la voce fino a un sussurro, «dovrai essere tu a prendere in mano il libro. Non Hamish. Hai capito? Non posso dirti come, ma mi raccomando, dovrai prenderlo tu. È fondamentale.» Poi le posò la mano sulla testa e biascicò qualche parola. Lei sentì uno strano formicolio. «Che cos’ha fatto?» «Il libro ha scelto te, Katherine. Soltanto tu puoi accedere ai suoi pieni poteri. Ma non eseguirà i tuoi ordini finché il tuo cuore non sarà guarito. Spero di averti dato gli strumenti.» Kate non fece in tempo a chiedergli altro perché le guardie stavano già trascinandola via. «Qualcuno prenda i marmocchi» ringhiò Hamish. «E svegli Fergus.»
Capitolo 14 Nonna Peet † «Su, sveglia, sveglia! È inutile fingere di dormire...» Emma emise un lamento e si rifugiò sotto le coperte, rigide e pesanti. Se ne stette lì, in uno stato di dormiveglia, mentre la voce di quella donna continuava a gridarle di alzarsi. Il primo pensiero fu che la voce fosse quella della signorina Sallow, la stizzosa governante dell’orfanotrofio che ce l’aveva tanto con i Borbone di Francia. Ma allora tutto l’accaduto, il libro trovato, il viaggio nel tempo, la Contessa, Gabriel, era stato un sogno. Eppure le era sembrato tanto reale! Tutto era stato così... Cos’era quell’odore? Aprì gli occhi e scoprì di essere nel letto di una casetta di legno poco illuminata. L’aria era fumosa e viziata, il fondo di terra battuta e quelle che aveva preso per coperte erano in realtà vecchie pelli d’animale. Girò la testa. In mezzo alla stanza, le dava le spalle un ragazzo magrolino, accovacciato davanti al fuoco a mescolare qualcosa in una pentola di ferro, riempiendo la casetta di un odore di stufato di carne e verdure. D’accordo, pensò Emma, allora non è stato un sogno. «Oh, bene. Adesso tirati su. Non sei morta. Non ancora, almeno.» La persona che aveva parlato era sbucata da dietro il letto, camminando tutta dinoccolata. Era una signora grassissima e vecchissima, con un enorme groviglio di capelli grigi e la faccia più rugosa che Emma avesse mai visto. Le mani erano deformate dall’artrite e sotto le unghie, che parevano artigli ingialliti, c’era uno strato di sporco. Indossava un vecchio vestito e uno scialle, entrambi neri, e dal collo pendevano lunghe collane adorne di vari amuleti, piume, perline, barattolini e boccette, pezzi di radice e corteccia, petali di fiore essiccati, il dente di un animale enorme e diverse, piccolissime scatole di legno meravigliosamente intagliate. Trascinava i piedi calzati in un paio di mocassini di daino consumatissimi, con le collane che tintinnavano dolcemente. Emma, se l’avesse vista per strada, avrebbe pensato che fosse una matta. E pensò più o meno la stessa cosa adesso. Mentre la donna avanzava, lei si ritrasse. «Lei chi è? Dove sono? Dov’è Gabriel? Non si avvicini!» «Scontrosetta, eh?» «Meglio che non si avvicini, se no Gabriel, quando arriva, la uccide!»
«Gabriel, Gabriel. Eh già, eh già, mi aveva avvertita che eri un peperino.» La vecchia aveva una parlata biascicata e cantilenante. «È stato Gabriel a portarmi qui?» chiese Emma, abbassando un po’ la guardia. «Se non ti avesse portata qui, credi che adesso staresti parlando con me, viva? La risposta è no. Ah, ma non te lo ricordi? Pensaci.» E di colpo le tornò in mente.... lei sull’orlo del precipizio, l’improvvisa scossa di calore... lei che guarda giù e vede l’estremità piumata di una freccia che le spunta sul davanti... la febbre quando Gabriel la porta in braccio nel labirinto. D’impulso si mise la mano sulla pancia. «Aspetta, aspetta» disse la vecchia, «lascia fare alla nonna.» Le sollevò la maglietta (Emma si accorse solo in quel momento di indossare sconosciuti vestiti puliti). Di fianco all’ombelico, a qualche centimetro di distanza, c’era una macchia di fanghiglia indurita. Le unghie gialle della vecchia ne picchiettarono il bordo e la fanghiglia cominciò a sfaldarsi. Emma rimase a guardare fra l’orripilato e l’affascinato, aspettandosi di vedere un grosso buco. Ma quando caddero le ultime scaglie, c’era solo una piccola cicatrice rosa. «Mmm» disse la vecchia, «non male.» Emma era allibita. «Ma come...» «Eh, io la so lunga. Sì sì, la vecchia nonna Peet la sa lunga.» E si allontanò, strascicando i piedi e parlottando tra sé. «Vorrei... oh.» Emma ebbe un capogiro improvviso e dovette sdraiarsi di nuovo. «Mangiare, di questo hai bisogno. Lo stufato della nonna. Ti rimetterà in forze.» «Devo parlare con Gabriel. Mio fratello e mia sorella si sono persi.» «Non persi, no, non si sono persi.» La vecchia mescolava e pestava qualcosa in una ciotola, muovendosi con fare sicuro ed esperto, aggiungendo una presa di questo e un pizzico di quest’altro, aprendo vari barattolini e boccette appesi alle collane per aggiungere un po’ di questa polvere argentea o versare qualche goccia di quel liquido verde, sempre mescolando e pestando. «Ecco, tutto a posto.» «Cosa sta dicendo? Che loro sono qui? Dove?» «Non qui, no. Ancora sotto la montagna. Hanno trovato un amico. Sempre quando meno te l’aspetti.» Guardò il ragazzo davanti al fuoco. «Sbrigati con quello stufato.» «Di cosa parla? Che amico? Dove?» La vecchia trasferì la poltiglia in una tazza di legno, aggiunse dell’acqua,
mescolò e poi la porse a Emma. «Bevi.» Sulle prime Emma sentì soltanto sapore di terra, ma quando questo scemò individuò menta, rosmarino, miele e una cosa che riuscì solo a definire luce del sole e, se mai fosse stato possibile, canto d’uccelli. Abbassò la tazza. Sentì scorrerle nel sangue una morbida onda dorata, che arrivò alla punta delle mani e dei piedi e alle radici dei capelli, scaldandola da dentro. «Urca!» La vecchia sorrise, moltiplicando le rughe che aveva in faccia. «Allora, questa nonna la sa lunga o no?» «Chi è che hanno trovato, Kate e Michael?» «Lo stregone.» «Quale stregone? Parla del dottor Pym? Hanno trovato il dottor Pym? E come fa a saperlo?» «L’ho visto! E come, se no? Che domanda stupida.» «Ma allora dobbiamo andare a cercarli! Il dottor Pym deve uccidere quella scema di strega! È una persona orribile! Dove sono? Dobbiamo andare subito da loro!» La vecchia scosse la testa e raccolse un cesto da terra. Da dentro arrivò un tintinnio di vasetti. «Il tuo è un percorso diverso.» Scostò la tenda di cuoio che chiudeva l’ingresso, facendo entrare per un attimo la piena luce del mattino. Rivolta al ragazzo davanti al fuoco disse: «Falla mangiare. Io vado da Gabriel». «Aspetti!» gridò Emma. «Voglio...» Ma quando mise i piedi giù dal letto, le forze vennero meno e si accasciò a terra. Il ragazzo lasciò il fuoco per aiutarla a tornare a letto. Solo allora Emma si accorse che non era un maschio bensì una femmina, forse di un anno più giovane di Kate, ma snella e nerboruta, e con i capelli rasati. La rimise a letto con fare brusco, quasi a forza di spinte; poi tornò al fuoco, con un mestolo versò dello stufato in una scodella di legno e gliela portò, pulendosi un cucchiaio sulla maglietta. «Sai mangiare da sola, vero? Non sei una neonata.» «Certo che so mangiare da sola» rispose Emma, decisa, anche se la verità era che, dopo aver bevuto l’intruglio della vecchia, era più debole di quanto si fosse mai sentita in vita sua. Prese la scodella e il cucchiaio dalle mani della ragazza. Lo stufato era un brodo giallognolo con dentro pezzi di carne, verdura e patate. Aveva un profumo paradisiaco. La ragazza si sedette su uno sgabello, incrociò le braccia e restò a guardare Emma come per controllare che mangiasse tutto. Emma avrebbe voluto ricambiare lo sguardo, ma aveva anche una fame tremenda, così alternava occhiate alla ragazza e avide cucchiaiate di stufato. «Ieri sera, quando Gabriel ti ha portata qui, ti avrei data per morta. Altri cinque minuti, ha detto la nonna, e sarebbe stato troppo tardi.»
«È tua nonna?» «Ma va’. Tutti la chiamano nonna. Nonna Peet. È una savia. Fa magie. È così che ti ha curata. Certo, adesso la tua anima appartiene a lei.» Emma smise di mangiare. La ragazza fece un sorriso un po’ storto. «Scherzavo. Lei non è fatta così. Però ci hai creduto.» «No.» «Sì, invece. Hai pensato che nonna Peet avesse messo la tua anima in un vasetto o qualcosa del genere.» Emma stabilì che quella ragazza non le piaceva e che non le avrebbe dato retta. «Gabriel ha detto che la strega vi ha catturati ma voi siete scappati. È vero?» Emma alzò le spalle come se non ci fosse niente di eccezionale. «I suoi uomini stanno scavando nella Città Morta, sotto la montagna. Sono andata là di nascosto. Li ho visti.» Emma, incuriosita, smise di nuovo di mangiare. «Che cos’è la Città Morta?» «Un posto dove una volta vivevano i nani. Sai, tanto tempo fa avevano una città sotto la montagna. Poi, un giorno, arrivò un grande terremoto.» La ragazza, raccontando la storia, cominciava ad accalorarsi. «Inghiottì mezza città. E uccise moltissimi nani. Fu allora che abbandonarono la città e ne costruirono un’altra. Oggi tutti credono che sia stregata. Nessuno ci mette piede. Io invece non ho paura.» Guardò Emma. «Tu lo sai cos’è che sta cercando, la strega?» Emma guardò la scodella. «No.» «Non lo dirò a nessuno.» «Ho detto che non lo so. Come mai la Contessa non vi mette in prigione?» La ragazza scoppiò a ridere. «Noi, ci lascia stare. Se la prende solo con quelli della città. E se lo meritano, se vuoi saperlo. Farsi trattare così. Io avrei combattuto. E chi se ne importa se mi uccideva. Quella gente è un branco di vigliacchi.» Emma tirò su l’ultima carota, poi sollevò la scodella e bevve il brodo. Stava pensando ai bambini imprigionati nella casa e a cosa sarebbe successo se avessero cercato di scappare: la Contessa avrebbe fatto del male ai loro genitori. «Come ti chiami?» «Dena.» «Vedi, Dena, tu non sai proprio niente. Quindi tieni chiusa quella boccaccia.» La ragazza scattò in piedi con le mani chiuse a pugno. «Se tu non fossi malata e più piccola di me, ti farei rimangiare quel che hai detto.» Emma buttò la scodella da una parte e balzò fuori dal letto. Lo stufato della
vecchia doveva aver dentro qualcos’altro, oltre alla carne e alla verdura, perché si sentiva di colpo più forte che mai. «Provaci, dai!» Ancora un secondo e le due si sarebbero ritrovate per terra a darsele di santa ragione, ma proprio in quell’istante la tenda si aprì ed entrò un uomo. Aveva i capelli lunghi e scuri come Gabriel, ma era più piccolo e più magro, e aveva la faccia giovane e senza cicatrici. Impossibile dire se capì cosa stava per succedere e se gliene importava qualcosa, perché la sua espressione non cambiò. Lanciando un’occhiata a Emma, disse all’altra: «Ha bisogno di un paio di scarpe». Dena esitò un momento; poi, sbuffando infastidita, si chinò per prendere da sotto il letto un paio di mocassini consumati e li cacciò in mano a Emma. «Vieni con me» disse l’uomo, scostando la tenda di pelle. «Voglio vedere Gabriel.» L’uomo si girò a guardarla. «È stato lui a mandarmi.» E uscì. Emma si infilò i mocassini e gli corse dietro, gettando a Dena un’ultima occhiata sprezzante. Il paese era nascosto nella spalla del monte fra due crinali irti di pini. Emma, uscita dal caldo della casetta, si fermò a tirare un respiro. L’aria era fresca e pulita, piena dei profumi di una mattina d’estate. Emma vide che c’erano più di venti casette di legno, alcune in posizione arretrata, fra gli alberi dal grosso tronco, altre schierate a formare i lati di una strada che saliva (se si poteva definire strada una striscia di terra larga cinque o sei metri). Seguì il giovane, chiedendosi dove fosse la gente; poi, dopo una curva, la vide. Vide l’intera cittadinanza, o così le sembrò, raccolta davanti a un’unica casetta. La gente ascoltava un gruppo di sei o sette vecchi. Emma era troppo lontano per udire, ma le sembrò una specie di riunione. Quando, insieme al giovane, si avvicinò, i vecchi tacquero e puntarono gli occhi su di lei. La sua guida fece rispettosamente un cenno della testa e scostò la tenda dell’ingresso per farla entrare nella casetta. La stanza era buia e, quando la tenda ricadde, si fece ancora più buia. Il giovane non l’aveva seguita dentro. Emma se ne stette lì, in piedi, per abituare gli occhi al buio. Nell’aria c’era un odoraccio nauseabondo. Una grossa figura scura si avvicinò. Emma batté le palpebre e riconobbe nonna Peet. La savia la prese per il braccio e la tirò dentro la casetta. «Dov’è Ga...» La domanda le morì in gola. La vecchia l’aveva portata in fondo alla stanza, a un letto in cui Gabriel era coricato con gli occhi chiusi e nudo fino alla cintola. Aveva sei tagli profondi che si intersecavano sulle braccia e un brutto squarcio sul fianco. Ma se Emma rimase lì, senza fiato, a mordersi il
labbro, non fu per le ferite. Da ciascun taglio si allargavano, visibili sotto la superficie della pelle, spire nere e spesse. «Veleno» disse nonna Peet. «Se gli arriva al cuore, è spacciato.» «E allora faccia qualcosa!» la implorò Emma. «Lo salvi! Faccia qualcosa! Deve fare qualcosa!» «Non è così facile, piccola mia. Gli ingredienti dell’antidoto sono difficili da trovare. Quelli che avevo li ho usati per salvare te. È stato Gabriel a insistere.» Prese una ciotola mezzo piena di una pastella densa e giallognola e si mise a mescolarla. «Non so, non so...» Emma guardò in giù verso il gigante. Lui l’aveva salvata e adesso stava morendo. Non era giusto. Doveva esserci qualcosa... Emma tirò indietro la testa di scatto. All’improvviso nonna Peet le aveva messo una mano sulla faccia. «Che cosa...» Ma la vecchia non guardava Emma. Aveva gli occhi fissi sulla punta della spessa unghia gialla dalla quale pendeva un’unica lacrima di Emma. Nonna Peet, assorta, mormorò qualcosa e poi scosse il dito per far cadere la lacrima nella ciotola, disse a Emma di non muoversi e raccolse altre cinque o sei lacrime, che aggiunse alla pastella giallastra. «Mmm» mormorò, trascinandosi attorno al letto e mescolando, «forse...» «Tu...» Gabriel aveva aperto gli occhi. «Volevo vederti...» Emma si sforzò di sorridere e caricò la voce di tutta l’allegria, di tutta la sicurezza che riuscì a trovare. «Sto bene. Solo grazie a te. E anche tu starai bene. La nonna ti guarirà come ha guarito me. Dice che ci riuscirà sicuramente. Tornerai come nuovo.» Dall’altra parte del letto, la vecchia cominciò a spalmare l’intruglio sulle ferite. Emma sentì che iniziava a schiumare e sibilare. «Sono... contento che tu stia bene» disse Gabriel, e chiuse gli occhi. Per favore, pensò Emma, per favore, fallo guarire... Mise le manine in quella grande di Gabriel. La medicina doveva bruciare molto, perché lui chiuse il pugno, stritolandole le dita. Ma lei non lo lasciò. Non lo avrebbe mai lasciato.
Capitolo 15 Verso la Città Morta † Kate e Michael camminavano in mezzo alla fila, subito dietro al nano incaricato di portarsi in spalla il decrepito Fergus dalla barba bianca, che russava sonoramente. Hamish era in testa. In tutto erano in sette. Quand’erano partiti dalla città nanesca non c’erano state fanfare. Hamish aveva detto che il suo popolo, se avesse saputo che stavano partendo, avrebbe insistito per organizzare una parata e lui avrebbe distribuito baci ai neonati per giorni e giorni. Kate aveva sorpreso gli altri nani a scambiarsi occhiate e Fergus aveva perfino emesso un grugnito, che aveva cercato di far passare per un colpo di tosse, e aveva finito col tossire davvero, e spaventosamente, per quasi un minuto. Se n’erano andati passando per una piccola porta fuori mano per poi procedere lungo una serie di tunnel in buono stato di manutenzione e provvisti di torce. Hamish blaterò in continuazione della storica Città Morta, delle varie leggende collegate, del numero di flessioni che faceva tutte le mattine... Kate si avvicinò a Michael e lo prese per mano. «Non avresti dovuto parlare così a Hamish» gli sussurrò, poi gli strizzò la mano. «Ma sei stato molto, molto coraggioso.» Michael era imbarazzato. «Non ho fatto niente di speciale.» «Sì, invece. Anche Emma lo avrebbe pensato.» Le loro parole erano smorzate dallo sferragliare delle armature dei nani, dal risuonare dei tacchi di ferro sulla pietra, dal russare di Fergus, dal monotono parlottio di Hamish, così, quando Michael parlò di nuovo, Kate dovette chiedergli di ripetere. «Secondo te sta bene?» «Sì» rispose Kate, con più sicurezza di quanta ne sentiva. «E poi, come ha detto il dottor Pym, con lei c’è Gabriel. Lui non lascerà che le succeda niente di male.» «Mi domando se la rivedremo mai.» «Ma certo. Non devi nemmeno pensarci.» Michael annuì e poi, cambiando subito argomento, disse che non capiva perché Hamish non mobilitasse altri nani. La Contessa non poteva avere tanti Strillatori. Perché lui non ordinava al suo esercito di cacciarli?»
«Ci sono i salmac-tar.» Il nano che aveva parlato camminava alle loro spalle. Aveva i capelli e la barba neri e le sopracciglia folte, pesanti. Sembrava più giovane degli altri. Si faceva un dovere, notò Kate, di parlare a bassa voce. «Tipo un anno fa, sì, giusto, il re scoprì che la strega, da quando era arrivata qui, confabulava con quei viscidi demoni ammazzanani. Ne avete sentito parlare, vero?» Kate annuì, ripensando al sogno fatto in prigione... la creatura pallida e cieca che aggrediva Gabriel, con gli artigli che battevano per terra nel labirinto... «Be’, gli ha fatto delle promesse, a quelli lì. Anche se secondo me avrebbero solo bisogno di un bagno. Comunque, lei cerca di proteggersi. Si sta costruendo delle alleanze. Così, se Hamish, volevo dire il re, se il re adesso attaccasse gli Strillatori, lei scatenerebbe orde di salmac-tar per difendersi. Sarebbe guerra aperta. E il re non la vuole.» «Come ti chiami?» chiese Kate. «Wallace» rispose lui, e poi aggiunse, senza una chiara ragione: «il nano». Il gruppo, dopo aver camminato per quasi un’ora, uscì dal tunnel e arrivò sull’orlo di un profondo crepaccio. Kate e Michael udivano, ma non vedevano, dell’acqua scorrere nel buio in fondo al precipizio. «Il fiume Cambridge» annunciò Hamish, buttando un sasso giù nel crepaccio. «Scende dalle montagne, attraversa il paese e arriva alla diga. Un tempo era così che commerciavamo con quegli idioti della città. Finché arrivò la strega. Quella non ha nessun rispetto per il commercio. Su, andiamo. Siamo quasi arrivati al ponte. Possiamo attraversarlo ed entrare nel vecchio regno.» «Hamish sarebbe una brava guida turistica» osservò Michael mentre camminavano sull’orlo del crepaccio. «È molto informato.» «Prima lo faceva» disse Wallace. «Prima che la regina morisse, quando i dignitari venivano in visita, li portava in giro. Gli riusciva sempre bene. Quand’era sobrio.» Mentre si avvicinavano alla meta, Kate si ritrovò a pensare alle cose che aveva detto il dottor Pym. Perché mai una cripta sigillata più di mille anni prima, una cripta magica che pochi prescelti potevano aprire, si sarebbe dovuta aprire a lei, a Michael e probabilmente a Emma? Com’era possibile? E quella frase dello stregone, «... di tutti i ragazzi, dovevi essere tu...», cosa significava? Lei di tutti i ragazzi che cosa? E quando aveva detto che il libro l’aveva scelta, ma che per accedere ai suoi pieni poteri bisognava che il suo cuore fosse guarito? Più pensava a tutte queste cose, più si sentiva confusa e inquieta. Arrivarono a un ponte ad arco in pietra al quale faceva la guardia un solo nano. Vedendo il re, piegò un ginocchio a terra. Hamish chiese notizie della Città Morta.
«Nessuna notizia, maestà. Anche se quella strega farebbe meglio a trovare in fretta quel che cerca. Gli uomini non dureranno ancora molto, con quegli Strillatori che li frustano, li fan morir di fame e li costringono a lavorare giorno e notte. Se mi permette, bisognerebbe cacciarli dalle nostre montagne e...» «Già, ma te l’ho permesso? Eh? Stattene zitto lì con la tua cacchio di lancia, verme che non sei altro!» Hamish scosse la testa e si incamminò sul ponte bofonchiando: «C’hanno tutti la loro da dire». All’altro capo del ponte, Hamish ordinò ai suoi nani di togliersi l’armatura. Non voleva che facessero più rumore del dovuto. Poi, con una gomitata, svegliò Fergus. «Forza, vecchio bacucco, è il momento di guadagnarsi il pane.» Fergus aprì gli occhi. Erano cisposi e vacui. «Mmm?» «Abbiamo attraversato il ponte. Allora, com’è che si arriva a ’sta grotta dorata?» «La grotta dorata...» Sembrava che non capisse di cosa parlava Hamish. «Sì, la grotta dorata, la grotta dorata! Se hai raccontato balle e non lo sai...» Afferrò il vecchio nano per la barba. «Si varca il portone» mormorò Fergus. «Poi si va a ovest, lungo il crinale. C’è un ingresso contrassegnato con dei martelli incrociati e poi delle scale, molte scale...» «Bene» disse Hamish, «farete meglio a muovervi come topi.» Si infilarono in un tunnel buio e mezzo diroccato, che si interrompeva bruscamente a un portone di ferro. Hamish si frugò sotto la barba e tirò fuori una chiave pesante. La infilò nella serratura, fece un respiro e girò. Il chiavistello scattò fragorosamente e il rumore rimbombò nel corridoio. Kate vide i nani trasalire. Hamish si girò impacciato per dire: «Scusate». Il tunnel terminava una ventina di metri dopo il portone per sbucare in una specie di enorme grotta illuminata a giorno. Hamish, sottovoce, ordinò a tutti di mettersi pancia a terra e i cinque nani e i due ragazzi avanzarono strisciando. Kate udì un fracasso di colpi e martellate, voci che urlavano ordini e rumore di frustate. Poco dopo, con Michael, stava guardando nella bocca della grotta. Erano a decine di metri sopra il livello della città, che, a quanto Kate e Michael capirono guardando verso i confini che si perdevano nel buio, riempiva completamente il cuore cavo della montagna. Kate pensò che assomigliava più che altro a una vasta metropoli in una palla di vetro, scossa tante di quelle volte che alla fine le torri erano crollate, le case si erano sbriciolate e nelle strade si erano aperti dei crepacci. Era il cadavere di una città, lasciato marcire per secoli. Fino ad allora.
Proprio sotto di loro, decine di sibilanti lampade a gas riversavano luce sulle rovine. Gli scavi erano quasi tutti concentrati in un gigantesco edificio scoperchiato. Kate riusciva a scorgere soltanto delle figure dalle fattezze umane che si muovevano, ma erano troppo lontane e nell’aria c’era troppa polvere per vedere chiaramente che cosa succedeva. Non che fosse importante. Sapeva che quell’edificio doveva essere la vecchia sala del trono e le urla e gli schiocchi di frusta raccontavano tutto il resto. «Calmartia» disse Hamish, a bassa voce. «La Città Morta.» «Incredibile» sussurrò Michael, tirandosi su gli occhiali che minacciavano di scivolargli dal naso, «un’antica città nanesca. Che bello se avessi la macchina fotografica.» Kate non disse che quella città l’aveva già vista. Due notti prima, in sogno, l’aveva vista nel momento della distruzione. Hamish fece cenno di allontanarsi dall’orlo. «State giù e non parlate» sibilò, «altrimenti siamo tutti morti.» ______________________
Alla fine nonna Peet cacciò Emma fuori dalla casetta. «Ma... ma... ma...» balbettò lei quando la vecchia la spinse verso la porta. Le nere spire di veleno sotto la pelle di Gabriel erano sbiadite, ma lui doveva ancora riaprire gli occhi. E quando lo avrebbe fatto, Emma voleva esserci. «Voglio che stia solo» disse la savia. «Ti chiamerò presto.» Fuori, la mattina era quasi passata e la folla davanti alla casetta era scomparsa. Emma rimase lì, a guardare su e giù per la strada di terra battuta. Gli unici segni di vita erano dei cani che fiutavano gli avanzi della colazione. «Morirà?» Si girò. Dena era di fianco alla casetta. Emma pensò che probabilmente stava cercando di spiare dentro dalle finestre. «Ma figurati» la schernì Emma. «Ci vuol altro che tre o quattro Strillatori, per uccidere Gabriel.» Dena non replicò. Rimase lì a guardarla. «Ma cos’hai?» chiese Emma. «Guarirà!» Dena non parlava né si muoveva. Emma si girò dall’altra parte e si sedette su un tronco. Raccolse una manciata di sassi e cominciò a lanciarli l’uno dopo l’altro contro un vaso di ferro. Dopo un po’ Dena andò a sedersi accanto a lei. Anche lei raccolse una manciata di sassi, ma, invece di lanciarli, se li passò da una mano all’altra, separandoli dalla terra.
«I miei genitori sono stati uccisi l’anno scorso.» Emma la guardò, ma Dena aveva lo sguardo focalizzato sui sassi che passavano da una mano all’altra. «Erano vicino a Cambridge Falls. Degli Strillatori della strega li catturarono. Probabilmente credevano che fossero della città. Che cercassero di scappare, forse.» «Davvero?» La ragazza annuì. Poi Emma disse: «I miei genitori sono scomparsi. Dieci anni fa». «Sono morti?» «No. Cioè... non lo so.» Per un momento tutt’e due tacquero. «Mi dispiace» disse Emma «per quello che è successo ai tuoi.» «Gabriel cercò di convincere tutti quanti a far guerra alla strega, ma nessuno accettò. Non lo faranno nemmeno adesso. Che branco di vigliacchi.» E la ragazza lanciò tutta la manciata di sassi, che rimbalzarono sul vaso con un rumore sordo. «Che vuoi dire?» chiese Emma. «È di questo che stanno discutendo là dentro» disse Dena, indicando con la testa una casetta rettangolare a due piani sul fianco della collina. «Stanotte Gabriel ha svegliato tutto il paese urlando che tutti dovevano andare a combattere. Non si reggeva in piedi, con quel veleno in corpo. Adesso parleranno, parleranno... e non faranno niente. Sono tutti dei... Ehi, dove vai?» Emma stava camminando a grandi passi sulla stradina di terra battuta. Sentiva il sangue nelle guance e i margini del campo visivo erano oscurati dalla rabbia. Gabriel aveva detto agli abitanti di lottare. E lei voleva assicurarsi che lo facessero. Aprì la tenda ed entrò nell’aria calda e fumosa. C’era un’unica, grande stanza. I vecchi che Emma aveva visto prima erano raggruppati in mezzo, attorno a un fuoco, mentre il resto della cittadinanza era disposto ad anello attorno a loro, su panche o in piedi contro le pareti, oppure guardava giù dall’alto di balconate a gradini. Un vecchio disse: «Non possiamo sapere quanto è potente la strega! È vero, abbiamo delle responsabilità. Ma non nei confronti degli abitanti di Cambridge Falls! Noi abbiamo delle responsabilità nei confronti del nostro sangue! Della nostra storia!» Intanto batteva il bastone per terra, sollevando nuvolette di polvere. «Che succederebbe se combattessimo e perdessimo? E lei poi come si vendicherebbe? Non lo sappiamo! Non sappiamo di cos’è capace! Non
possiamo rischiare!» Si sedette nel mormorio generale. In un lampo, Emma era saltata su una panca... «Morirete tutti!» L’intera sala del consiglio, gli anziani al centro, la gente sulle panche e appoggiata al muro, quella sulle balconate in alto, tutti distolsero lo sguardo dal vecchio che aveva parlato per posarlo su di lei. «Credete che, se non farete niente, lei vi lascerà in pace? Siete così stupidi?» Una vocina interiore le diceva che probabilmente non doveva dare degli stupidi a quella gente, ma lei non le diede retta. «Perché questa è la cosa più stupida che ho mai sentito in vita mia!» Il vecchio che aveva tenuto il discorso si avvicinò. Quanto avrebbe voluto che ci fosse Kate! La gente stava a sentirla, Kate. «È così! L’ho visto! È tutto morto! Gli alberi! Gli animali! Sono tutti morti! L’ho visto coi miei occhi! Questo posto sarà maledetto!» «Portatela via!» gracchiò il vecchio, battendo il bastone per terra. «No.» Tutti tacquero e si girarono, anche Emma. La sagoma di nonna Peet, grossa e un po’ trasandata, si stagliò sulla porta. Lasciò ricadere la tenda e, strascicando i piedi, si avvicinò a Emma. «Lei viene dal futuro. E se dice che queste montagne diventeranno un deserto, io le credo.» «Ma nonna» disse il vecchio, con una nuova nota di rispetto nella voce, «se quel che dice questa bambina è vero...» «È vero! Sei sordo o...» cominciò a dire Emma, ma poi un’occhiata della savia la zittì. «Come facciamo a sapere che cosa ha causato quella devastazione?» riprese il vecchio. «Chissà, magari nel futuro da cui viene questa bambina, abbiamo combattuto contro la strega. E abbiamo perso. Forse quel che la bambina ci sta descrivendo è la sua vendetta.» «Gli dica che è un vecchio rimbambito» sibilò Emma. Nonna Peet non le diede retta. «Allora dobbiamo essere certi di non perdere.» Prese Emma per mano e la portò con sé accanto al fuoco, in mezzo ai vecchi. «Sono stata la savia di questo paese più a lungo di quanto voi avete vissuto e sì, se affrontiamo la strega e perdiamo, siamo finiti. Tutti noi, con la nostra storia e le nostre storie, saremo spazzati via dalla memoria del mondo. E tuttavia», si girò lentamente, passando lo sguardo su tutta l’adunanza, «non abbiamo scelta: dobbiamo combattere.» Emma capì che cominciava a succedere una cosa strana. Sulla faccia della
donna, le rughe sembravano spianarsi, gli occhi si facevano più luminosi, la schiena si raddrizzava. La vecchia nonna Peet, grinzosa e gobba, era sempre lì, ma mentre parlava apparve un’altra donna, alta e orgogliosa e bella. Era come se l’una si sovrapponesse all’altra. «Tutti conosciamo le storie che parlano di un oggetto dai grandi poteri sepolto sotto queste montagne. E siamo in molti a credere che siano state queste storie ad attirare la strega. Ma che oggetto è quello che cerca? E di che cosa è capace quest’oggetto? Questo, le storie non lo dicono.» Nonna Peet si interruppe. Emma vedeva uomini e donne ascoltare attenti. Sopra, le balconate scricchiolavano al movimento di chi cercava di sentire meglio. «È un libro. «Un tempo c’erano tre grandi libri di magia, i libri di magia più potenti mai scritti. Ma andarono perduti, migliaia di anni fa. Eppure tutti gli stregoni e tutti i savi sanno della loro esistenza, sanno del loro potere. Ciascuno di quei libri è in grado di rimodellare il nostro mondo. «Tanto tempo fa, cominciai a credere che uno di quei libri fosse sepolto qui. Ma quale, non lo sapevo. Adesso, grazie a questa bambina, lo so.» Le posò la mano dietro il collo. Emma sentì sia quella distorta e callosa della vecchia sia quella liscia e forte della giovane. «Il libro nascosto in queste montagne, quello che la strega cerca con tutte le sue forze, è il libro che contiene i segreti del Tempo e dello Spazio. È chiamato ’l’Atlante’.» Nella sala si diffuse un mormorio ed Emma, pur essendo accanto al fuoco, si sentì attraversare da un brivido di freddo. Nonna Peet sollevò la mano. Il mormorio si spense. «L’Atlante consente a chi lo utilizza di viaggiare nel tempo. Di spostarsi nella mappa della storia. E tanto basterebbe per seminare la paura nel nostro cuore. Ma c’è dell’altro.» Emma vide la folla in ascolto protendersi ancora di più; tutti pendevano dalle labbra della vecchia. «Chi sarà capace di sfruttare appieno il potere del libro riuscirà non soltanto a spostarsi nel tempo e nello spazio, ma a dominarli. La sostanza stessa del nostro mondo sarà soggetta al suo capriccio. Quel giorno, la vita di tutti noi, la vita dei nostri cari, la vita di ciascun abitante di questo pianeta, sarà alla mercé sua. Bisogna impedire che l’Atlante finisca in mano alla strega.» E tacque. Emma, con la coda dell’occhio, vide la bella donna fantasma sgretolarsi e sbiadire finché lì accanto ci fu di nuovo soltanto la decrepita e rugosissima nonna Peet. Per un lungo momento regnò il silenzio.
Poi un uomo alto e muscoloso si alzò in piedi in fondo alla sala. «Io combatterò.» E, uno a uno, altri si alzarono dalla panca o si fecero avanti dal muro, finché tutti gli uomini tra i sedici e i sessant’anni furono in piedi, a dichiararsi pronti a combattere. Il vecchio sospirò. «D’accordo, se bisogna, bisogna. Ma chi ci guiderà?» «Io.» Gabriel era sulla porta, con una coperta sulle spalle. Un istante dopo, Emma lo stava abbracciando, con la faccia nascosta nel suo fianco per coprire le lacrime.
Capitolo 16 Il lago nero † Camminando rasente il muro di pietra e facendo il minimo rumore possibile, Kate, Michael e il gruppetto di nani percorsero il crinale che sovrastava l’antica città finché arrivarono a un’arcata con sopra incisi due martelli incrociati. La varcarono e si ritrovarono in una sala buia. Hamish frugò sotto la barba e tirò fuori un cristallo grande come un pugno che batté piano contro il muro. Subito, una luce bianca riempì lo spazio, rivelando una scala quasi verticale che si avvitava nel buio. Hamish, con un colpo di gomito, svegliò Fergus. «Ehi! Potrai dormire a volontà quando sarai morto, cioè abbastanza presto, fidati. È questa qua la strada giusta, vero?» Fergus aprì a mezz’asta gli occhi cisposi e sbirciò giù per le scale. «Sì, è questa. Giù fino in fondo. Sinistra, destra, di nuovo destra, terza a sinistra, sesta a destra, ottava a sinistra e ancora giù, basta seguire il proprio naso...» E si riaddormentò. «Uhei, tenetelo sveglio, ci servirà. Porca miseria.» La scala era stretta e ripida e piena di svolte brusche, inaspettate («Come se chi le ha costruite volesse farti rompere l’osso del collo» sussurrò Michael; poi aggiunse: «Scommetto che non è stato un nano; probabilmente hanno usato un’impresa esterna».) Fortunatamente gli altri nani avevano tirato fuori dei cristalli simili a quelli di Hamish, così Kate e Michael riuscivano a vedere almeno dove mettere i piedi. La cosa che più di tutte infastidiva Kate era che, ogniqualvolta la scala si divideva, Fergus veniva svegliato con una gomitata e costretto a dire che strada prendere. Così, Kate pregò Hamish di scrivere le indicazioni del vecchio nano perché non fosse svegliato ogni volta, ma lui liquidò l’idea con una risata. «Ti piacerebbe, eh? Scrivere! Finché ci sarò io, non si scriverà un bel niente! Poco ma sicuro! Ah-ah!» Più scendevano, più faceva freddo; di lì a poco, dal soffitto cominciarono a pendere dei ghiaccioli e Kate e Michael videro il proprio fiato condensarsi davanti alla bocca. Kate si accorse che i nani avevano iniziato a manifestare un certo nervosismo. «Pare che questo posto sia stregato» mormorò Wallace. Nella mano destra teneva il cristallo luminoso, nella sinistra stringeva l’impugnatura dell’ascia.
«È per questo che i nani non vengono quasi mai qui. In troppi ci hanno trovato una morte orrenda. Si parla di nani che si sono persi nel buio e hanno sentito mani ghiacciate...» «Ce lo racconti dopo, magari?» disse Kate. Wallace gettò uno sguardo verso Michael, che aveva gli occhi grandi quanto le lenti degli occhiali. «Sì» grugnì. «D’accordo.» «Fermi tutti!» Il grido era arrivato da Fergus, che Kate aveva creduto ancora addormentato sulla schiena di chi lo trasportava. Udendolo, i ragazzi alzarono lo sguardo (si guardavano i piedi nel timore di mancare un gradino e cadere) e in quel momento si accorsero che la scala stava per finire e che erano arrivati in una grotta. Cinque metri più in là c’era un altro ingresso e le scale riprendevano ad avvitarsi verso il basso. «Ci siamo» disse il vecchio nano. «Siamo arrivati?» fece Hamish. «Non può essere qui.» Kate dovette dargli ragione. La grotta era una stanza appena sgrossata di terra e roccia. Le uniche caratteristiche degne di nota erano i due ingressi e, in fondo, un laghetto scuro. «Sì, invece» insistette Fergus, che scese a terra e si appoggiò al muro. «Ci siamo.» «Ah sì, eh?» lo schernì Hamish. «Questa sarebbe la grotta dorata che eri certiiiiiissimo di trovare, eh?» Prese Fergus per la barba e diede un forte strattone. «Se ci hai portati nel posto sbagliato, vecchio ammasso d’ossa, ti farò mangiare la tua barba!» Fergus soffocò una risata. «Chiaro che non è questa, la grotta dorata. È per di là.» Indicò il lago nero. «Là sotto, sul fondo, c’è un tunnel: si nuota, si nuota, si nuota, si risale e ci si ritrova tranquilli e beati proprio davanti alla grotta. Attenzione, però.» Fergus tirò fuori una lunga pipa di terracotta e cominciò a riempire il fornello. «C’è una cosa che vive là sotto. Scura e sinuosa.» Accese il fiammifero e fece tre brevi tiri, con le guance che si scavavano. Poi si riappoggiò al muro e soffiò fuori un grande, pigro anello di fumo. Nessuno degli altri nani aveva parlato né si era mosso. «Questa storia non mi piace» sussurrò Wallace, avvicinando la testa a Kate e Michael. «In che senso c’è una cosa che vive là sotto?» volle sapere Hamish. «Che cosa vive là sotto?» Il vecchio nano alzò le spalle. «Non lo so. Io non ci sono mai stato. Mica sono scemo, eh?» «E ALLORA COME CACCHIO FAI A SAPERE CHE DA LÌ SI ARRIVA A QUELLA
CACCHIO DI GROTTA DORATA!?!» Per quanto la città fosse distante sopra di loro, a Kate sembrava impossibile che gli Strillatori della Contessa non sentissero le sfuriate di Hamish. Fergus emise pacifico un altro anello di fumo. «Mio fratello ci è stato. Mi ha raccontato tutto.» «E allora perché non sto parlando con tuo fratello, invece che con un vecchiaccio buono a nulla come te?!» «Forse perché è morto? Me lo ricordo come se fosse ieri. Ero qui, esattamente dove sono adesso, a godermi la mia pipa. Mi piace sempre farmi una bella pipata. Dennis, mio fratello, scompare in quel laghetto lì e io aspetto, aspetto, aspetto per un pezzo, finché lui rispunta fuori, con la testa che ballonzola laggiù, e mi dice: ’Fergus, qui c’è un tunnel che porta a una grotta dorata bellissima!’ ’Una grotta dorata?’ gli faccio io. ’Sì’ risponde. ’Ed è oro vero?”No, non è oro vero’ fa lui, ’è... urp!’» «Urp?» borbottò Hamish. «E che cacchio di roba è l’urp?» «Niente. È il rumore che ha fatto quando il mostro l’ha mangiato. L’ha afferrato per il collo e se l’è portato giù. Urp.» Per un lungo momento, nessuno fiatò. Poi Hamish esplose. Si mise a zompare, urlare, sputare, a spaccare con l’ascia tutto quello che poteva. Per un attimo Kate pensò che sarebbe saltato addosso a Fergus, seduto a fumare la pipa senza preoccuparsi di nascondere il sorrisino divertito che aveva in faccia. «Tradizionalmente» sussurrò Michael, «i nani non sono grandi nuotatori.» «Credo che il problema non sia nuotare» replicò Kate. Sbuffando rumorosamente da sotto la barba, Hamish appoggiò la fronte a quella del vecchio. «Quindi sarebbe questo il tuo cacchio di passaggio segreto? Vorresti mandarci nel salotto di un mostro degli abissi?» Fergus alzò le spalle. «Non è il mio passaggio segreto. È il passaggio segreto. L’unico.» Hamish lo guardò in cagnesco e Kate vide le sue nocche stringersi attorno all’ascia come se stesse valutando la possibilità di mozzare la testa al vecchio nano, ma poi si girò. «Forza! Tutti nella broda!» Guardò Kate e Michael con un ghigno. «Sì, tutti vuol dire anche voi marmocchi.» Fergus buttò fuori un altro anello di fumo e ridacchiò tranquillo. «Urp.» Il gruppo si raccolse attorno al laghetto nero. I nani dovettero togliersi i pesanti stivali e lasciar giù tutto tranne i coltelli più leggeri. Kate e Michael si sfilarono la giacca e le scarpe. Kate trasferì nella tasca dei pantaloni le due fotografie che portava con sé, quella di lei nella camera da letto e la foto che le aveva dato Abraham,
l’ultima che le aveva detto di aver scattato. E questa le fece ricordare la mattina trascorsa nella stanza di Abraham con Emma. Anche se erano passati pochi giorni, le sembrava il ricordo di un’altra vita. «Ce la farai?» le chiese Michael. «Certo. Me la caverò benissimo.» Dei tre fratelli, Kate era decisamente la peggior nuotatrice. Nei primi orfanotrofi in cui avevano vissuto, nessuno si era mai occupato di insegnare a nuotare ai bambini. Kate, quando finalmente aveva imparato, aveva già quasi nove anni e non aveva mai superato la paura e il disagio di stare nell’acqua, la sensazione di essere sempre lì lì per affogare. E adesso, quando appallottolò le calze nelle scarpe, le tremavano le mani. Due nani immersero cautamente l’alluce nell’acqua e lo tirarono subito fuori. «Magari quella cosa è morta» Kate sentì dire da uno dei due. Fergus stava ancora ridacchiando e fumando in fondo alla grotta. Il nerobarbuto Wallace si avvicinò con due cristalli luminosi. «Vi serviranno. Là sotto c’è un buio pesto, mi sa.» «Grazie» disse Kate. Il cristallo, nonostante la luce che emetteva, in mano era freddo. «Bene.» Hamish si avvicinò alla sponda del laghetto. «Chi ha tempo non aspetti tempo.» E, afferrato un nano, lo buttò in acqua. Si udì un gran tonfo, dopodiché la testa rispuntò, mentre il nano batteva le braccia per cercare di tenersi a galla. «Giù, sottacqua!» sbraitò Hamish, prendendo da terra un grosso sasso. Capendo di non avere scelta, il nano tirò un bel respiro e scomparve. Si udì un altro tonfo quando Hamish spinse nel lago un secondo nano. Una delle guardie cominciò a indietreggiare. «Maestà, io non so nuotare.» «E allora è il momento di imparare!» Un altro tonfo e anche lui scomparve. Hamish si rivolse a Kate e Michael. «Voi vi tuffate da soli o preferite che vi butti dentro io? Tanto, per bagnarvi vi bagnate comunque!» «Andiamo» disse Kate. E si immerse con Michael nell’acqua scura. Era tanto fredda che i piedi e le caviglie cominciarono quasi subito a farle male. Raggiunsero uno scoglio; l’acqua le arrivava appena alle ginocchia. Il prossimo passo li avrebbe portati nell’abisso. «Michael, gli occhiali.» «Ah, grazie.» Li infilò alla cieca in tasca, cercando di non far cadere il cristallo luminoso. «Meglio che vada prima tu. Tu sei più bravo a nuotare. Non voglio rallentarti.»
«Kate...» «Non preoccuparti.» Benché lui annuisse, Kate dubitava di essere stata molto convincente. E per un breve istante si rese conto dell’assurdità della situazione. Erano dentro una montagna, sotto le rovine di un’antica città nanesca, sul punto di inabissarsi in un lago nero dove forse viveva ancora un mostro o forse no, e tutto per recuperare un libro magico perduto. Ma dove aveva la testa? Stava per prendere Michael e fare un passo indietro quando una mano la spinse bruscamente da dietro. «Dentro!» L’acqua gelida e nera li ingoiò. Quasi subito, Kate vide che il cristallo di Michael cominciava ad allontanarsi. Lo seguì, spaventata al pensiero di perdere il fratello. Dopo qualche bracciata, l’andatura di Michael si fece costante. Fu allora che Kate vide un’altra luce in lontananza, nel buio, e oltre quella un’altra ancora, fioca e sfocata. Capì così quanta strada dovevano fare. Calma, si disse, non farti prendere dal panico. Erano entrati in una specie di trincea, stretta, muri da una parte e dall’altra, appena sopra di loro il soffitto roccioso e sotto... be’, Kate non guardò giù. Era tutta concentrata sulla luce del cristallo di Michael e sulle proprie bracciate, fiacche e incerte. Impossibile dire quanto tempo era passato. Le braccia si erano fatte pesanti. Il cuore le martellava nel petto. La cosa peggiore era la pressione che sentiva nei polmoni; era come se collassassero ogni volta che si svuotavano. Cercò di dirsi che non stava rallentando, anche se la luce del cristallo di Michael si faceva sempre più fioca. Finché sentì qualcosa contro il piede. Col cuore in gola ruotò di scatto. Vide una massa di arti che si agitavano e per un attimo pensò che fosse il mostro. Poi riconobbe un nano di Hamish. Stava gesticolando come un matto, chiedendole di spostarsi. Lei si fece da parte e lui la superò, con bracciate ancora più inesperte e disperate delle sue. Quando il nano fu a un paio di metri di distanza, tre lunghe dita sbucarono dal buio e lo afferrarono per la gamba. Erano dita di un orribile colore gialloverdognolo, ciascuna lunga quasi un metro e spessa quanto un braccio umano. Il nano sferrava colpi di coltello, facendo schiumare l’acqua, ma ormai era trascinato giù. Kate cercò di gridare e i polmoni le si riempirono d’acqua. Quasi soffocando, nuotò fino alla sommità della trincea e si aggrappò alla roccia cercando aria, cercando una via di fuga. Il cristallo le scivolò di mano. Cercò di riafferrarlo, alla cieca, ma il cristallo cadde nel buio e allora ci fu solo buio: buio tutt’attorno, buio che l’avvolgeva... «Kate! Kate!» Gli occhi le si aprirono. Un secondo dopo tossiva a ripetizione, buttando
fuori dal naso e dalla bocca quell’acquaccia schifosa. Michael le batteva sulla schiena. «Dai! Dai!» «Michael... sto bene...» «Credevo... credevo...» L’abbracciò forte. «Basta, adesso, lasciala respirare.» Kate sentì che Michael veniva trascinato via. Sopra di loro c’era Wallace. La lunga barba nera gocciolava e i capelli arruffati erano incollati alla faccia. Intorno a loro c’erano nani che si strizzavano la barba e scuotevano l’acqua dai vestiti, e intanto tutto era soffuso di una morbida luce dorata che arrivava da migliaia di punti nei muri e nel soffitto. «Cos’è successo?» «Wallace ti ha vista galleggiare nel tunnel. Ti ha portata fuori. Ci ha raccontato...» Michael abbassò la voce. «Ci ha raccontato cos’è successo.» Il nano la stava aiutando a tirarsi su a sedere. «Grazie» disse Kate. «Mi hai salvato la vita.» Wallace arrossì e poi, guardatosi attorno, disse calmo: «Il capitano Robbie mi aveva detto di badare a voi due. Ma che rimanga tra noi, intesi?» E, tutt’altro che discretamente, strizzò l’occhio. «Ma stai bene davvero?» chiese Michael. «Sì» rispose Kate, anche se, proprio mentre diceva così, si accorse di tremare tutta e di avere la punta delle dita blu. «Forza!» Hamish era a qualche metro di distanza, ad attorcigliarsi la barba per asciugarla. «Sparpagliatevi, ragazzi! Qui da qualche parte c’è una porta nascosta.» Guardò Kate e Michael. «Voi marmocchi potete contribuire.» «No!» disse Michael con impeto. «Mia sorella è tutta infreddolita e bagnata. Ha bisogno di caldo.» Hamish sembrò sul punto di reagire, ma poi vide quanto Kate tremava e fece un cenno con la mano. Wallace tirò fuori una pietra focaia e un pezzo di legno nero e, chissà come, qualche istante dopo aveva acceso un fuoco. Michael e Kate si avvicinarono alle fiamme. «Bevi.» Wallace le porse una fiaschetta di cuoio. Kate bevve un sorso e per poco non vomitò, ma si sentì subito pervasa dal calore. Il tremito cessò. Le dita tornarono del loro colore normale. «Anche tu» disse Wallace a Michael. «Che cos’è?» «Whisky. Ricetta speciale di mia mamma. Diceva sempre che riusciva a resuscitare i morti.» I nani di Hamish non ci misero molto a trovare la porta nascosta. Ci fu un grido e Kate vide i nani ammassati in un punto lungo il muro dorato, a guardare in un tunnel che un istante prima non c’era. «Adesso sì che si ragiona.» Il re dei nani era raggiante. Schioccò le dita per
chiamare Kate e Michael, che erano ancora rincantucciati davanti al piccolo fuoco. «Allora? Mica è una scampagnata, questa. Andiamo a prendere il libro.» Dopo una cinquantina di metri di tunnel, il gruppo arrivò a una porta. Il primo pensiero di Kate fu che si erano sbagliati. Quella non era la porta di una cripta segreta. Sembrava semmai la porta di una camera da letto. Legno verniciato di bianco con una maniglia di ottone. In mezzo c’era perfino una piccola targa che diceva: PRIVATO. Un bontempone, pensò Kate, doveva aver creduto che fosse una battuta. Hamish impugnò la maniglia e tirò. La porta non si mosse. Puntando il piede contro il muro di roccia, tirò di nuovo. Niente. «Il dottor Pym diceva che si sarebbe aperta...» cominciò Michael. «Zitto, tu!» scattò Hamish. Ordinò a due guardie di aggrapparsi a lui e tutti e tre fecero forza finché a Hamish scivolò la presa sulla maniglia e con un lamento caddero per terra l’uno sull’altro. Hamish saltò subito in piedi e controllò se qualcuno rideva. I nani erano assolutamente impassibili. «Tu!» Hamish puntò il dito verso quello che gli aveva portato l’ascia nel tunnel. «Sfondala.» «Dubito che sia davvero di legno» disse Michael. «Un’ascia non...» «Uhei, che cacchio vuoi? Un cazzotto in bocca? Tieni chiusa quella boccaccia schifosa! Dai, tu, sfonda!» Kate e Michael indietreggiarono e il nano, presa la rincorsa, sollevò l’ascia e la calò con tutta la sua forza. Si udì un fragore, un rumore di metallo fracassato, e qualcosa volò all’indietro. Quel qualcosa era il nano: giaceva intontito a terra e accanto c’era l’ascia in frantumi. Sulla porta, neanche un graffio. «Vabbè» disse Hamish, «un tentativo bisognava farlo. Vorrà dire che adesso vedremo se è stato utile portare voi marmocchi. Forza, mica siamo qui a perdere tempo.» «Lo faccio io» disse Kate. Stava pensando che forse la porta era una trappola esplosiva e non voleva che Michael si facesse male. Ma, avanzando, si ritrovò a sperare più di ogni altra cosa che la porta non si aprisse. Se non si apriva, significava che lei, Michael ed Emma non erano speciali. Erano tre ragazzi normalissimi: tutti lo avrebbero capito e li avrebbero lasciati andare. Allungò la mano e impugnò il pomello d’ottone. Per favore, pensò.
Si udì un lieve clic e la porta si spalancò.
Capitolo 17 Dentro la cripta † La prima sensazione di Kate, quando la porta si aprì mostrando un’alta stanza illuminata da cristalli alle pareti e, su un piedistallo di pietra posto al centro, come se fosse lì ad aspettarla, il libro, il loro libro, la prima sensazione in assoluto fu che, dopo tutti i fatti degli ultimi giorni, quello, la porta della cripta che si era aperta a lei e a nessun altro, fosse fino ad allora il peggiore. Siamo proprio nei guai, pensò. Hamish, precipitandosi dentro, la travolse. «No!» Hamish fermò le dita ad appena qualche centimetro di distanza dalla copertina in pelle. Si girò verso Kate, che Michael e il nerobarbuto Wallace stavano aiutando a rialzarsi da terra. «No?» «Non può toccarlo.» «Ah no, eh? Be’, sta’ a guardare, signorinella...» «Morirà.» Kate vide Michael lanciarle un’occhiata. Non sapeva perché aveva detto così. Sapeva soltanto che Hamish non doveva essere il primo a toccare il libro. Lo aveva detto il dottor Pym. «È una balla» la schernì il re dei nani. «Soltanto io e Michael possiamo toccarlo. Me l’ha detto il dottor Pym. Ma faccia pure, se non mi crede. Vediamo cosa succede. Anche se lei non vedrà proprio niente perché sarà morto. Ma prego, faccia pure.» Incrociò le braccia e cercò di fare l’indifferente. Hamish guardò Kate e poi il libro, poi di nuovo Kate e di nuovo il libro. Si capiva chiaramente che desiderava tanto prenderlo. Ma alla fine borbottò qualcosa fra sé, sputò e poi schioccò rabbiosamente le dita. Un nano afferrò Kate per il braccio e la trascinò avanti. Hamish si protese tutto, mandandole in faccia il suo fiato caldo e puzzolente. «Guarda, ragazzina, che se solo cerchi di fregarmi, tu e tuo fratello siete morti, hai capito? Vi taglierò la gola e vi getterò in pasto a quel mostro del lago. E adesso... fila a prendermi quel libro!» Hamish la spinse avanti e lei, traballando, si fermò a una trentina di centimetri dal piedistallo. Il libro sembrava brillare di luce propria: il chiarore della cripta ne accentuava la naturale tinta smeraldo. Fu allora, quando si ritrovò a un palmo dal libro senza niente e nessuno a frapporsi
tra loro, che finalmente lo udì. Il libro le stava parlando. Le disse che l’aspettava da mille anni. Le disse di rivendicarne il possesso. Lei allungò la mano e lo sollevò dal piedistallo. Ma che succede? pensò. Sentì uno strappo allo stomaco e il pavimento le scomparve sotto i piedi. ______________________
«Ciao.» Kate batté le palpebre. Era in uno studio, con libri e manoscritti accatastati dappertutto e un focherello che scoppiettava nel caminetto. Fuori dalla finestra, vedeva tettucci d’auto passare nella via di sotto. Cadeva la neve, attutendo tutti i rumori della città. Ma la cosa che più di ogni altra attirò la sua attenzione fu l’uomo seduto in poltrona a qualche metro di distanza; era rivolto verso di lei, con le spalle a una scrivania cosparsa di libri e fogli, indossava il suo solito completo di tweed, spiegazzato come sempre, aveva in una mano la pipa e nell’altra una tazza di tè ferma a mezz’aria, come se il gesto di portarla alla bocca fosse stato interrotto dalla comparsa improvvisa di Kate. Naturalmente sorrideva. «Hai bisogno?» chiese il dottor Pym. Per un attimo Kate riuscì solo a guardarlo con tanto d’occhi, cercando inutilmente di capire che cos’era successo. «Dottor Pym...» cominciò a dire, ma poi ricordò l’errore commesso in prigione la notte prima, quando aveva capito di non essere stata minimamente riconosciuta da lui. «Lei sa... sa chi sono?» «Certo» rispose lui, affabile. «Sei la signorina che è appena apparsa nel mio studio.» Lei ebbe un tuffo al cuore. Era finita in un passato ancora più lontano, in un tempo anteriore al loro incontro in prigione. E non aveva viaggiato soltanto nel tempo, ma nello spazio. Guardando fuori dalla finestra, le automobili, un lampione, tutto quanto faceva pensare che quella fosse una città di umani: era chiaro che si trovava molto lontano da Cambridge Falls. Com’era possibile? Non aveva messo una fotografia nel libro. Non lo aveva nemmeno aperto! «Mia cara» disse il vecchio, interrompendo i suoi pensieri e indicando il libro con il bocchino della pipa, «è quel che mi sembra?» «Sì... ma come mai mi ha portata qui? L’avevo solo toccato!» «Davvero? Affascinante.»
«L’ho preso prima che potesse prenderlo Hamish! Come mi aveva detto lei!» Sapeva che non avrebbe capito, ma non aveva potuto trattenersi. Le parole erano uscite da sole. «Hamish? Quel tonto c’entra qualcosa?» «Aspetti! Evidentemente lei sapeva cosa sarebbe successo! Ecco perché mi ha detto di toccare il libro per prima!» «Ti ho detto così? Confesso di non ricordare...» «No, non adesso! Nel futuro! Ma come faceva a sapere che il libro mi avrebbe portata qui? A meno che...» Kate sentiva che la risposta premeva per uscire, che sarebbe bastato continuare a parlare. «Lei deve aver fatto qualcosa, nella stanza del trono dei nani! Quando mi ha raccomandato di essere la prima a toccare il libro. Mi ha messo la mano sulla testa e ho sentito un formicolio. Deve aver fatto un incantesimo perché il libro mi portasse qui!» Il dottor Pym si appoggiò allo schienale, posò la tazza su una pila disordinata di fogli, si cacciò la pipa in bocca e cominciò a tastarsi alla ricerca dei fiammiferi. «Sarà meglio che mi racconti tutto. Ma prima», accese la pipa, spense il fiammifero e poi si chinò verso di lei, «perché quello non lo dai a me? La magia che ti ha portata qui potrebbe essere un po’ instabile e non voglio che tu scompaia.» «Ma se il libro sparisce e non riesco a tornare indietro? In questo tempo esiste già, vero?» «Ah. Quindi è già successo che il libro sparisse?» «Sì.» «E in quel caso, quanto tempo era passato prima della scomparsa?» Kate ci pensò. Lei ed Emma erano andate nel passato, avevano trovato Michael, erano stati catturati dal Segretario e trascinati in quello strano ballo surreale, dopodiché erano stati costretti a parlare con la Contessa nel patio... «Mezz’ora. Più o meno.» «Quindi abbiamo un po’ di margine. Da’ qua.» Protese le mani e Kate gli consegnò il libro. Il dottor Pym lo posò sulla scrivania alle sue spalle. «E adesso» disse, «cominciamo dall’inizio.» Kate batté i piedi per la rabbia. «No! Gliel’ho già raccontato due volte, solo che non se lo ricorda perché non è ancora successo!» «Be’, non mi pare che sia colpa mia!» «Ma non c’è tempo! Hamish ci farà uccidere dai suoi nani, se...» «Mia cara, perché continui a nominare Hamish? Quel furfante non è autorizzato a uccidere nessuno.» «Ma è il re dei nani!»
Il dottor Pym schioccò la lingua. «No, no. Scusami, ma questo è impossibile. Io sono molto amico dell’attuale regina. Esmeralda, donna deliziosa. E lei conviene con me che Hamish sarebbe un pessimo re. Sarà Robbie a salire al trono.» «Ma no, è morta senza lasciare testamento!» Kate si accorse che stava gridando. «E al trono è salito Hamish perché era il primogenito! E lui vuole il libro! Adesso è nella cripta con Michael! Be’, non dico l’adesso di adesso. L’adesso del futuro!» Sapeva che le sue parole avevano poco senso. Avrebbe voluto afferrare qualcosa e scagliarlo contro lo stregone, per fargli capire. «E lei non può far niente perché è ancora chiuso in cella nella città nanesca!» «Ah, brutto affare» disse il dottor Pym, esalando una nuvola di fumo. «Bruttissimo affare. Ma, scusami, non ho ancora capito una cosa. Come ha fatto Hamish a entrare nella cripta? È impossibile senza...» Si interruppe e guardò Kate. La voce si fece un sussurro. «Tu. Sei stata tu ad aprire la cripta.» Lei annuì. Il dottor Pym si sporse verso di lei. «Mi pare di aver capito che hai un fratello?» «E una sorella! Michael ed Emma! E tutti e due sono in pericolo! Deve fare qualcosa!» Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. «Santo cielo» disse il dottor Pym, a bassa voce. «Purtroppo devo insistere, bisogna che mi racconti tutto. Dal principio.» «Stanislaus?» Era una voce di donna. Kate si girò ad ascoltare i passi che si avvicinavano nel corridoio e la voce che aumentava di intensità. «Richard è bloccato al college. Secondo me dovremmo cominciare a mangiare senza di lui, che ne dici? Ma con chi stai parlando?» La porta si aprì ed entrò una giovane donna. Indossava un paio di jeans e un maglione grigio. Aveva i capelli biondo scuro, gli occhi color nocciola e un viso gentile. Era bella di una bellezza semplice. Nell’istante in cui Kate la vide, successero due cose. La prima, capì che la donna di fronte a lei era sua madre. La seconda, il pavimento le sparì sotto i piedi. ______________________
«DOV’È?!» Kate era davanti al piedistallo, in un bagno di luce verdognola, senza fiato, con il cuore che batteva forte. Prima ancora di riuscire a elaborare l’accaduto fu presa per un braccio e strattonata da una parte e dall’altra.
«Dov’è?» Aveva la faccia cosparsa di saliva. E la vaga sensazione di essere scossa con violenza. Il libro. Era di questo che parlava lui. Il libro non c’era più. Ma che importanza aveva? Aveva visto sua madre. «Mi avete fregato! Tu e quello stregone!» ... sua madre. Aveva visto sua madre. «Io ti uccido!» Vide un luccichio nella mano di Hamish, ma poi udì dei passi alle proprie spalle e fu strappata via dalle sue grinfie e buttata a terra. Udì Wallace cercare di convincere il re che Kate poteva essere utile per recuperare il libro e che dovevano portarla dallo stregone. Lei capì che le stava salvando la vita. «Stai bene?» Michael era in ginocchio accanto a lei. «Sei scomparsa; poi sei tornata, ma il libro non c’era più. Cos’è successo?» Kate gli prese la mano. «Ho visto...» Si udì un colpo e Wallace barcollò all’indietro. Hamish respirava rumorosamente da dietro la barba, una mano che teneva il coltello, l’altra stretta in un pugno grassoccio. Per un attimo il re lanciò a Kate uno sguardo di fuoco, poi rinfoderò il coltello e sbraitò: «Allora portateglieli! Ma se quello stregone non mi farà riavere il mio libro, moriranno tutti! Il vecchio e i mocciosi!» Poi si girò e uscì dalla stanza a grandi passi. Un nano prese Michael per il colletto e lo trascinò nel tunnel. Non era riuscita a dirglielo. Un altro nano si avvicinò a lei, ma Wallace gli fece cenno di andar via. Le posò delicatamente la mano sulla spalla e la guidò verso la porta. «Allora stai bene?» chiese sottovoce. «Sì» rispose Kate, con la bocca asciutta e impastata. «Grazie.» Percorrendo il tunnel buio, Kate rivide mentalmente l’ingresso di sua madre nella stanza. Voleva fissare nella memoria i particolari prima che potessero svanire. Vide i suoi capelli biondi e gli occhi color nocciola, il viso intelligente, gentile, sorpreso di vedere lì la figlia. Richard! Era questo il nome che sua madre aveva pronunciato. Doveva essere il loro padre. Si stupì che apparentemente così poco, una voce nel corridoio, un nome, una donna che varcava una soglia, potesse significare tanto. Ma (e a questo punto cominciò a montare la rabbia) perché il dottor Pym non aveva detto che conosceva i loro genitori? Perché tacerne? Sapeva dov’erano? E come mai era andata nel passato semplicemente toccando il libro? E inoltre, quand’era tornata, il libro non c’era più? Tutti questi interrogativi le facevano girare la testa. Si impose di stare calma. Aveva visto sua madre. Per il momento bastava. Il gruppo arrivò nella grotta dorata e si dispose attorno al laghetto. I nani
guardavano agitati l’acqua nera. Kate capiva che Michael bruciava dalla voglia di parlare con lei, ma la guardia gli impediva di avvicinarsi. Intanto Hamish si sbizzarriva a illustrare le torture che avrebbe inferto al dottor Pym. «Gli strapperò la spina dorsale! Gli farò mangiare i suoi piedi!» E, sempre inveendo, spinse il primo nano nel lago. Stavolta il mostro non si fece vivo e il viaggio di ritorno nella trincea fu tranquillo. Kate, nuotando, vedeva le luci gemelle di Michael e della sua guardia e, le poche volte che si guardò alle spalle, Wallace era lì, con il coltello stretto in mano, a guardare il buio sottostante, pronto a proteggerla in caso di attacco. Ma non successe niente. Poi bucò con la testa la superficie del lago, inalò l’aria stantia della grotta e una voce le gelò il cuore. «Ah, eccola.» Fredde mani la sollevarono. Quando l’acqua le pulì gli occhi, vide che tutti i nani, compreso il biancobarbuto Fergus, erano in ginocchio, con le mani legate dietro la schiena. Una decina di figure nerovestite, brandendo spade e balestre, facevano la guardia. Uno degli Strillatori teneva per le spalle Michael, che sembrava spaventato ma illeso. Gli occhi di Kate si posarono su chi aveva parlato, che si avvicinava ridacchiando e strofinandosi le mani. «Mia cara, mia cara» tubò il Segretario, sfoderando il suo sorriso a denti grigi, «che piacere rivederti.»
Capitolo 18 Il corvo † Emma e Gabriel, insieme a Dena e al resto del gruppo, salivano sulla montagna lungo un sentiero che Emma non vedeva, ma che Gabriel e gli altri sembravano conoscere a memoria. Gabriel spiegò che avrebbero girato intorno alla cima e sarebbero arrivati a un tunnel segreto utilizzato dai ricognitori del paese per spiare la Città Morta. La strada era ripida e rocciosa e, dopo meno di mezz’ora di cammino, Gabriel, di punto in bianco, prese Emma e se la caricò sulle spalle. «Dobbiamo accelerare il passo.» Gabriel non avrebbe voluto portare Emma con loro. Ma nonna Peet aveva insistito. «Lei è legata all’Atlante. Se lo troverai, lei ti servirà.» «Giusto» aveva detto Emma. «E devi portare anche Dena. Altrimenti non ci vengo.» Così a Emma erano stati consegnati vestiti e stivali nuovi e un coltello e, un’ora dopo l’assemblea, lei, Dena e il gruppetto di uomini avevano ricevuto la benedizione di nonna Peet ed erano partiti per la montagna. Gabriel ordinò al gruppo di fermarsi in una pineta appena sotto la cima e mandò un ricognitore all’ingresso del tunnel. Gli uomini si accovacciarono a terra a controllare le loro armi in silenzio. Gabriel si stava consultando a bassa voce con due di loro, così Emma andò a fare un giro tra gli alberi. Dopo una decina di metri, il monte terminava in un brusco precipizio. Emma trovò un masso che sporgeva al di là degli alberi e ci si arrampicò sopra. Sdraiata a pancia a terra, riusciva ad abbracciare con lo sguardo tutta la valle e, per la prima volta dopo due giorni, vide Cambridge Falls. Il tratto azzurro di lago brillava come un gioiello al sole di mezzogiorno e, sulla sponda più lontana, Emma scorse un addensamento scuro in cui pensò di riconoscere le case della cittadina. Rivedendo Cambridge Falls, il posto in cui tutto era cominciato, pensò al fratello e alla sorella. Nonna Peet aveva detto che il dottor Pym era con loro. E questo le infondeva speranza. Al suo ritorno in paese con Gabriel, chissà, forse avrebbe trovato Kate e Michael lì ad aspettarli. Sarebbe stato bello, no? Riportare in paese tutti quei pover’uomini grati dopo aver battuto gli Strillatori della Contessa. Di sicuro Micheal avrebbe voluto sapere tutto della
battaglia, ma lei avrebbe liquidato l’argomento con un cenno della mano dicendo: «Mah, lo sai anche tu come sono le battaglie. Vista una, viste tutte». E se Kate l’avesse sgridata per essersi allontanata da loro nei tunnel, si sarebbe scusata e le avrebbe detto che aveva perfettamente ragione. «Anche se» avrebbe aggiunto dopo una breve pausa, «se non fossi tornata indietro non avrei salvato la vita a Gabriel, ma tu, cara Kate, ne sai più di me.» Sorrise e per un attimo riuscì davvero a rilassarsi, concedendosi di assaporare il calore della roccia sotto di sé, la frescura del vento sul viso e quella che, per molti aspetti, poteva essere considerata una bella giornata estiva. «Dovresti scendere di lì.» Emma si tirò su e si girò a guardare. Lì vicino, tra gli alberi, c’era Dena. «Potrebbero vederti.» Emma rise. «Chi è che può vedermi, quassù?» «Tu non sai. La strega ha i suoi sistemi. Meglio non rischiare.» Emma intuì che la ragazza aveva ragione; purtroppo, quando qualcuno le diceva cosa fare e cosa non fare, era da sempre sua abitudine fare immediatamente l’esatto opposto. «Che mi veda pure. Io non ho paura di lei.» Proprio in quel momento, echeggiò nella valle un craaa. Emma guardò in su e vide un grande corvo nero volare alto sopra di loro. Sentì nello stomaco un improvviso senso di nausea ricordando cos’aveva detto Abraham la sera che erano scappati dalla casa: che la Contessa usava gli uccelli come spie. Stava cercando di decidere cosa fare quando udì dei passi pesanti fra gli alberi: era Gabriel, che le disse svelto in un sibilo rabbioso: «Scendi subito di lì!» Lei scese in fretta dal masso, sbucciandosi i palmi. Gabriel si tolse di spalla il fucile e lo puntò. L’uccello si stava allontanando e, anche se rimpiccioliva a ogni battito d’ali, Gabriel non sparò. Lo seguì e basta, come se ci fosse un filo invisibile fra il corvo e la bocca del fucile. A ogni secondo che passava, Emma sprofondava sempre più nel panico, e pregò il cielo che lui sparasse, come se uccidendo l’uccello potesse cancellare la sua colpa. Alla fine Gabriel sparò, quando il corvo era poco più che una macchiolina nera nell’azzurro del cielo. Per un attimo non successe niente ed Emma fu certa che l’avesse mancato. Poi l’uccello si torse su un fianco e, disegnando una spirale, precipitò fra gli alberi. Adesso gli altri uomini erano accanto a Gabriel, raggruppati sull’orlo del precipizio. «Un suo messaggero. Sa tutto.» «Può darsi.» Gabriel si rimise in spalla il fucile. «Dobbiamo sbrigarci. È la nostra unica
speranza. Si parte subito.» Tutti, come un sol uomo, scomparvero fra gli alberi che ricoprivano la collina. Emma prese Gabriel per mano. Era sul punto di piangere. «Gabriel, è... è tutta colpa mia. Dena me l’aveva detto di scendere, ma io sono stata stupida e...» Gabriel si inginocchiò. Lei si aspettava una sfuriata. Era già una missione pericolosa, e adesso lo era ancora di più. Ma lui, quando la guardò, le sembrò soltanto deluso. E questo, chissà perché, la fece sentire ancora più in colpa. «Se il corvo ci seguiva, ci seguiva fin dalla partenza. Il fatto che ti abbia vista non cambia niente. Vieni.» Si girò per farla montare sulle sue spalle. Quando si rialzò e si incamminò su per la montagna, lei gli si aggrappò al collo e seppellì la testa nelle sue spalle. Lacrime calde e silenziose le rigarono la faccia al penoso ricordo della fantasticheria di un momento prima: di lei che, vedendo Kate e Michael, faceva la sbruffona. Si ripromise di stare più attenta. Di fare tutto quel che Gabriel le avrebbe detto, se questo era il modo di rivedere il fratello e la sorella. Si sarebbe comportata meglio. Chiuse gli occhi e si lasciò portare, senza sforzo, su per la montagna.
Capitolo 19 La battaglia della Città Morta † Hamish si era rifiutato di uscire dal lago. Se ne stava lì, nell’acqua nera fino alla cintola, con il coltello in mano, a sbraitare al Segretario e ai suoi Strillatori di entrare a prenderlo. Ma evidentemente qualcosa gli aveva sfiorato la gamba, perché cacciò un urlo e, con un solo, agilissimo balzo, uscì di volata dal lago. Subito gli furono addosso e lo presero. Ma lui, pur avendo sul collo lo stivale di uno Strillatore, riuscì a lanciare un’altra serie di imprecazioni. Il Segretario lo ignorò. Sorridendo vittoriosamente a Kate, con quella palla da football che si ritrovava al posto della testa indicò le scale: i morum cadi rimisero in piedi i nani e li fecero salire verso la Città Morta. A Kate e Michael, gli unici a non avere le mani legate, fu concesso di camminare insieme, in mezzo al gruppo. Wallace e il biancobarbuto Fergus erano in testa e Hamish, che evidentemente veniva trascinato, visto che protestava a ogni passo, in coda. «Kate...» «Lo so. Vedrai, si aggiusterà tutto.» «Dici sempre così. Come farà ad aggiustarsi tutto?» Kate dovette riconoscere che Michael non aveva tutti i torti. «Non lo so. Ma si aggiusterà tutto. Escogiterò qualcosa.» Lo prese per mano e per un momento camminarono in silenzio, ascoltando le imprecazioni di Hamish contro gli Strillatori alle loro spalle. «Allora, cos’hai visto?» chiese Michael, a voce ancora più bassa di prima. «Cosa volevi dirmi?» Kate fece per dirgli della mamma, ma le parole che le uscirono furono: «Ho visto... il dottor Pym». «Hai visto il dottor Pym? Nel passato?» Kate dovette dirgli di tacere, ma lui riprese in un sibilo concitato: «Oh, Kate, non è una coincidenza! Non può essere! Le probabilità erano... be’, mi servirebbe una calcolatrice, ma era altamente, molto altamente improbabile che il libro ti portasse dal dottor Pym. Meglio che mi racconti tutto». Così, mentre salivano la ripida spirale di scale, Kate gli raccontò del dottor Pym, dello studio, della città innevata fuori dalla finestra. Ma, pur cercando di imporselo, Digli chi hai visto, è giusto che lui sappia, ogni volta che provava a parlarne era colta da un’inspiegabile paura. Alla fine non disse nulla e il ricordo di aver visto la mamma rimase chiuso in lei. «Incredibile» disse Michael. «Sta macchinando qualcosa. Una trama
stregonesca, lo sento. Ma come hai fatto a tornare indietro senza il libro? Bisogna averlo, per spostarsi nel tempo. In più, il libro ti ha portata dal dottor Pym senza bisogno di una foto. È tutto molto strano.» «Lo s...» Kate udì improvvisamente un rumore e si girò a guardare. Il Segretario, col fiato grosso per la salita, era alle loro spalle. «Di che cosa parlate, pulcini?» «Niente.» «Ah, certo, certo. È che mi fa tanto piacere rivedervi. È stato bruttissimo perdervi nei tunnel. Non sono riuscito a dirlo alla Contessa. Pensavo: ’Dove andranno? Dei pulcini tanto in gamba come loro. Al libro, è chiaro’. Così sono corso alla Città Morta. E puntualmente siete arrivati. Ho visto voi e i nanetti camminare pianin pianino.» Preda di un violento attacco di tosse, sputò contro il muro qualcosa di grigio. «Ma la sorellina dov’è? Si è separata da voi? Si è persa? È morta, forse? Oh, che peccato.» Schioccò la lingua per ostentare dispiacere e Kate dovette sforzarsi di reprimere l’impulso di buttarlo giù dalle scale. Strinse fortissimo la mano a Michael. «Non dargli retta.» Continuarono a salire in silenzio e, dopo mezz’ora, entrarono nella Città Morta. Gli Strillatori condussero Michael, Kate e i nani per strade piene di solchi e di calcinacci tra antichi edifici sventrati. Sopra, decine di lampade emettevano il sibilo del gas gettando su ogni cosa una tinta gialloverde. Dappertutto incrociavano Strillatori. Quei demoni nerovestiti sembravano non finire mai. Il gruppo si fermò sul bordo di quella che un tempo, pensò Kate, doveva essere stata la piazza principale. Lì erano state erette quattro enormi gabbie a cielo aperto, in una delle quali, sotto gli occhi dei ragazzi, un drappello di Strillatori fece entrare una fila di uomini magri e dagli occhi infossati. Nelle altre ce n’erano già circa cinquanta. Se ne stavano seduti o in piedi, apatici, come fantasmi; man mano però che si rendevano conto della presenza dei nani e, ancor di più, o così parve a Kate, della presenza sua e di Michael, gli uomini, sgranando gli occhi incavati, andavano alle sbarre a guardare i ragazzi. Il Segretario sibilò un ordine e lei e Michael furono separati: Michael e i nani furono condotti alle gabbie, mentre il Segretario, con la mano appiccicaticcia attorno al polso di Kate, la trascinò verso uno degli edifici in rovina che circondavano la piazza. La portò in una stanza del secondo piano e chiuse la porta. «Siediti, cara.» Nella stanza c’erano soltanto due sedie, una scrivania e una lampada a gas appesa con una catena al soffitto. L’arredamento, come pure l’atmosfera di inappagata smania di potere che si respirava, ricordò a Kate l’ufficio della
signorina Crumley all’orfanotrofio. Quanto tempo era passato? Un mese? Un anno? O forse doveva ancora succedere? Di sicuro nell’ufficio della Crumley non mancava una parete come in quello. Kate si avvicinò al margine della stanza sperando di vedere Michael nella piazza sottostante. Il Segretario batté la mano sulla scrivania, facendola trasalire. «I pulcini dovrebbero ubbidire. Vuoi sederti, per favooore?» Kate, controvoglia, andò a sedersi di fronte a lui. L’uomo intrecciò le mani e tentò una specie di sorriso. Fu allora che Kate vide il piccolissimo uccellino giallo spuntare dalla giacca. La testa e il becco furono visibili per un solo istante, poi scomparvero. L’uomo non parve accorgersene. Guardava fisso Kate con un’espressione avida. «Allora, cara, hai aperto la cripta?» Lei alzò le spalle. «Non sai di cosa parlo, eh? Ma io sì. Credevi che non lo sapessi? Certo che l’ho saputo, nel momento stesso in cui siete arrivati. Prima ancora della Contessa.» Mentre parlava, le dita si torcevano, si annodavano. «Il primo nanetto che abbiamo catturato mi ha detto che la cripta l’avevi aperta tu; nessun altro ci era riuscito. E che hai toccato il libro e, puf, sei scomparsa. Poi sei tornata, ma senza libro. Solo tu. Quello scemo di Hamish non sarà stato molto contento, eh?» Schioccò la lingua. «Eh, no. Ma...», rivolse a Kate un altro dei suoi orribili sorrisi, «torniamo al punto. Quando hai toccato il libro, cos’è successo esattamente? E, per favore, sii il più possibile precisa.» Kate taceva. «Non vuoi parlare? Ma certo, sei tanto coraggiosa! Che fegato! Ma...» Girò la testa e fischiò. Qualche istante dopo, la porta si aprì ed entrò uno Strillatore con una balestra dall’aria minacciosa. Si appostò alle spalle di Kate, sul lato senza parete che dava sulla piazza. Kate lo guardò con orrore inserire un dardo nell’arma e tirare indietro la corda. «Che cosa fa?» «Be’, sta per uccidere qualcuno. Ora, non ti farò credere di voler fare del male a tuo fratello. Voi due siete troppo preziosi. Ma per ogni domanda alla quale non risponderai, lui ucciderà un uomo di Cambridge Falls, di sicuro l’amato padre di uno dei cari bambini che hai incontrato quel giorno con la Contessa. Siamo intesi?» Kate, come stordita, annuì. «Benissimo. Allora, hai toccato il libro e...?» «Sono... sono andata nel passato.» «Vedi che non era difficile? Quando, nel passato?» «Non lo so bene. Qualche anno fa, credo.» «E poi?» «Poi sono tornata indietro.»
Il Segretario, impressionando Kate con il brusco inasprirsi della voce, sbraitò allo Strillatore: «Uccidine uno!» «Aspetti, aspetti! D’accordo... c’era il dottor Pym.» «Ah! Così il vecchio stregone c’entra qualcosa, in questa storia. Lo sospettavo. Un avversario potente. Molto potente. E magari non era la prima volta che questo pulcino vedeva il bravo dottore, mmm? Vi eravate già conosciuti?» «Sì» rispose Kate a bassa voce. «Il quadro comincia a chiarirsi. E a questa bella rimpatriata era presente qualcun altro?» Kate esitò. Il Segretario sollevò la mano. «Sì! C’era... una donna.» «Una donna. Hai idea di chi fosse?» Kate scosse la testa. «Quindi una donna come tante. Di nessuna importanza. Mmm.» Si grattò il lato della testa con un’unghia scheggiata e poi guardò lo Strillatore. «Ho cambiato idea. Uccidi il fratello.» Subito, lo Strillatore si portò la balestra contro la spalla. «No! Glielo dico! Per favore!» Il Segretario sollevò il dito. La creatura nerovestita si fermò. «Era... mia madre.» «Tua madre? Singolare. Molto singolare...» Sotto gli occhi di Kate, tirò fuori dalla giacca l’uccellino giallo e cominciò ad accarezzargli la testa, tubando: «Che cosa sta combinando, tesoro mio? Perché la madre della ragazza? Come ha fatto...» Il Segretario ridacchiò. «Eh già, certo, ingegnoso. Ed elegante. In gamba, il vecchio.» Rimise l’uccellino dentro la giacca e rivolse a Kate il sorriso più folle e disgustoso che le avesse rivolto fino ad allora. «Be’, se il libro è nel passato, basterà che torni a prenderlo, ti pare, cara?» «Ma cosa dice? È impossibile! Non posso!» «Eh già: come fai a tornare nel passato a recuperare il libro se per andare nel passato ti serve il libro? Non ha molto senso, eh? Un bel problema. Un rompicapo. Già già. Te lo dico io?» Scattò in piedi e girò attorno alla scrivania finché fu davanti a Kate; le premette le spalle contro lo schienale e la guardò dritto negli occhi. «Tu hai avuto delle visioni, vero? Cose che non sapresti spiegare. È successo perché parte del libro si è introdotta in te. Tu, il tuo fratellino e la tua sorellina siete i prescelti. E l’Atlante ti ha già lasciato il marchio: sei sua!» Kate cercava di riordinare le idee. L’Atlante. Era la prima volta che sentiva quel nome. «Che cosa... cosa vuol dire ’mi ha lasciato il marchio’?» Le tremava la voce: era più forte di lei.
«L’Atlante è un mare di potenza. E adesso te ne scorre qualche goccia nel sangue. Non la senti, pulcino?» Kate avrebbe tanto voluto rispondere a quell’uomo dai capelli stopposi che non gli credeva, ma non era così. Fin da quella notte all’orfanotrofio di Cambridge Falls, quando il nero era uscito dalla pagina e le era penetrato nelle dita, aveva capito che in lei qualcosa era cambiato. «Il libro ha scelto te.» «Sta dicendo che sono in grado di viaggiare nel tempo?» Il Segretario fece una risataccia e smise di premere. Kate sentì tornarle il sangue nelle spalle. L’uomo cominciò a camminare avanti e indietro, tirandosi le dita. «No no no no no! Da sola è impossibile, impossibile! Ma con l’aiuto di una strega o uno stregone potente? Oh, allora sì. Hai capito cos’ha fatto quel vecchio? Voleva nascondere l’Atlante alla Contessa e al suo padrone. E c’è forse un nascondiglio più sicuro del passato? Così, caro pulcino, con un incantesimo ti fa viaggiare indietro nel tempo. Poi si fa lasciare il libro dal caro pulcino, pensando che tanto potranno recuperarlo quando vorranno.» «Ma scomparirà!» gridò Kate. «È già scomparso!» «È vero» disse il Segretario, fingendosi perplesso. «Il libro non c’è più. E-vapo-ra-to anni fa.» Le sorrise e poi fece una cosa proprio disgustosa: strizzò l’occhio. «Ma se il vecchio mandasse il caro pulcino al secondo immediatamente successivo al momento in cui lei gli ha portato il libro? Mmm? Che mi dici?» Finalmente Kate capì. Sì, il libro non c’era più. Era scomparso mezz’ora dopo che l’aveva lasciato nel passato. Ma in quella mezz’ora, anche se di tanti anni prima, il libro era esistito. Bastava che il dottor Pym tornasse in quella finestra temporale. «Ma come fa a mandarmi nel passato? Io non...» Il Segretario cominciava a perdere la pazienza. «Cos’ha questo pulcino, è sordo? Ormai il potere è dentro di te! Lo stregone può invocarlo!» Avvicinatosi a Kate, le passò un dito tutto sporco sulla guancia. «Ti terrà ancorata qui con lo stesso incantesimo con cui ti ha istillato quel ricordo, mmm? Per poterti richiamare a sé più facilmente. Ti ha legata stretta, eh?» Kate si sforzava di mettere insieme i tasselli. Nella sala del trono, il dottor Pym le aveva fatto qualcosa, un incantesimo grazie al quale il libro (l’Atlante, come lo chiamava il Segretario) l’aveva poi trasportata in un certo momento del passato. E quello stesso incantesimo, evidentemente, l’aveva tenuta legata al momento dal quale era partita; così, dopo aver consegnato il libro al dottor
Pym, era stata trasportata indietro rispetto a quel momento. Il Segretario riprese a camminare per la stanza strofinandosi le mani. «Ingegnoso, ingegnoso! Nasconderlo nel passato! Penserà di aver sconfitto la Contessa. Anche guardando dappertutto, lei non lo troverà! Niente più Atlante, mmm? Non esiste! Sparito, dileguato! Peccato però che anche la Contessa ha il potere di mandare il pulcino indietro nel tempo. E lo farà, mia cara. Oh, lo farà eccome.» «Ma», Kate non avrebbe mai voluto fare domande a quell’uomo odioso, men che meno questa, ma non riuscì a trattenersi, «perché là c’era mia madre?» «Perché, perché! Ma è proprio questo il punto!» strillò tutto contento. «Sì, un particolare notevole, il vecchio volpone. Vedi, aveva programmato tutto. Sapeva che un giorno ti avrebbe fatto recuperare il prezioso oggetto e, anche quando si hanno dei poteri, non è mica semplice far viaggiare qualcuno nel tempo. Prima, il suo incantesimo poteva appoggiarsi al potere dell’Atlante. Adesso ci sei solo tu, caro pulcino. Ed è tutto più difficile. Ci vuole un legame forte con il momento che si vuole raggiungere. Un vincolo, no? Così il saggio dottore cos’ha fatto? Ti ha istillato un ricordo capace di oscurare tutti gli altri. Un ricordo capace di bruciarti nel cuore come fuoco. Ti ha dato tua madre.» Kate non osava muoversi. Finora aveva retto con la forza di volontà, ma in quel momento, di colpo, ebbe la sensazione di essere lì lì per crollare. Proprio in quell’istante si udì un gracchio: qualcosa di grosso e nero cadde dentro dal lato senza muro e si schiantò a terra. Lo Strillatore puntò la balestra, ma il Segretario gridò: «No!» Era un enorme uccello nero. Ferito, zampettò sgangheratamente in tondo levando gracchi disperati. «C’è qualcosa che non va» disse il Segretario. «Raduna tutti quanti. Rinforzate gli ingressi...» L’ordine fu interrotto da un forte tonfo: la scura estremità di una freccia spuntò di colpo dal petto dello Strillatore. La creatura cadde sulle ginocchia; dalla ferita si levò con un sibilo del fumo puzzolente. «CI ATTACCANO!» urlò il Segretario. «Siamo sotto attacco!» ______________________
Il drappello di Gabriel era entrato dai bui margini settentrionali della città. Due Strillatori di sentinella erano stati abbattuti con le frecce e un terzo dalla scimitarra di Gabriel. Emma si era stupita di come riuscissero a muoversi senza far rumore uomini tanto grossi e con armi tanto pesanti. Si insinuavano tra le case in
rovina come ombre letali ed era emozionante essere con loro. Gabriel fermò tutti lungo un muro mezzo diroccato, a un isolato di distanza dal centro della città. Erano abbastanza vicini alle lampade a gas per vedere chiaramente nella piazza ed Emma udì grida e rumori di battaglia. Guardando giù dal muro, vide gli uomini sparpagliarsi e scomparire nelle viuzze e negli edifici per appostarsi più vicino alla piazza. Dena era accanto a lei. Gabriel le aveva affidate a un giovane guerriero, uno che aveva appena qualche anno più di loro, al quale aveva dato l’ordine tassativo di tenere le ragazze alla larga dalla battaglia quando fosse cominciata. Dena diede una gomitata a Emma e tutt’e due, con il ragazzo, Gabriel e sei uomini, passando per una breccia nel muro arrivarono al pianterreno di un edificio che fiancheggiava la piazza. In Emma riaffiorò un ricordo, quello di una sera di qualche mese prima. Lei, Kate, Michael e gli altri orfani dell’Edgar Allan Poe erano stati portati a Baltimora a vedere una partita di baseball. Emma non ricordava niente della partita, ma ricordava il buio, il lungo tunnel che avevano percorso, i rumori attutiti della folla e poi l’improvvisa esplosione di luce quand’erano entrati nello stadio. Adesso, la situazione era simile: lei seduta per terra con Dena davanti alla finestra sfondata, a guardare la cruda scena illuminata. Nella piazza c’erano più di trenta morum cadi, in gran parte raggruppati vicino a quattro grandi gabbie. Dentro le gabbie, Emma riuscì a distinguere una cinquantina di uomini dall’aria malaticcia accucciati qua e là. Il cuore le si riempì subito di compassione. Pensò alla Contessa, tutta pizzi e trine, che partecipava a finti balli nella grande casa di Cambridge Falls. Chissà come sarebbe stata felice lei, chiusa in una gabbia! Emma si spinse oltre e ci mise anche la signorina Crumley, nella gabbia. Sapeva che la direttrice dell’orfanotrofio non aveva lo stesso genere di cattiveria della Contessa, ma, già che c’era, Emma pensò di mettere in galera anche lei. Il suo sguardo si fermò su un gruppo di figure dentro la gabbia più lontana. Erano alte la metà degli uomini e, per un breve momento, le sembrarono ragazzi. Poi si accorse della barba e delle proporzioni delle braccia e delle gambe, e si rese conto che quello era un gruppo di nani. Pensò che a Michael, se fosse stato lì, sarebbero venuti qualcosa come diciannove infarti. Lei, dal canto suo, non capiva che cosa avessero di tanto straordinario. Erano bassi, d’accordo, e la barba era abbastanza buffa, ma mica sarebbe andata a fondare un fan club. Mentre pensava a queste cose, il nano più grosso, quello con la barba bionda tutta sporca che stava urlando parolacce agli Strillatori, si mosse ed Emma rimase col fiato sospeso. Senza dar retta al richiamo del giovane guerriero, si mise a correre e,
passando davanti a Dena, arrivò alla breccia nel muro in cui era inginocchiato Gabriel, che stava assicurando una freccia alla corda dell’arco. Emma lo afferrò per il braccio e puntò il dito. Fu quanto riuscì a fare per non gridare. Nella gabbia più grande, in piedi fra i nani, vestito come lo aveva visto un migliaio di volte e con un’espressione che anche da lontano parlava di smarrimento e paura, c’era suo fratello, Michael. Accanto a lui c’era un nano con la barba nera, che gli teneva la mano sulla spalla. Gabriel annuì, facendole capire così di essersi già accorto di Michael, e indicò un edificio dall’altra parte della piazza. Poiché all’edificio mancava l’intera facciata, Emma poteva vedere direttamente dentro le stanze. Lì, al secondo piano, seduta fra uno Strillatore e una figura bassa in completo nella quale riconobbe subito il segretario della Contessa, c’era Kate. A Emma frullarono in testa molte domande. Come avevano fatto suo fratello e sua sorella ad arrivare lì? Stavano bene? Come aveva fatto il Segretario a trovarli? Un gracchio di dolore trafisse l’aria e nella stanza in cui era imprigionata Kate comparve una sagoma scura sbucata dal buio. Vicino a lei si produsse un rumore metallico: Gabriel aveva scoccato la freccia. Lo Strillatore accanto a Kate barcollò e cadde. Poi, adesso tutto succedeva velocemente, il Segretario emise un grido strozzato, ci fu una raffica di colpi di fucile, poi il pesante fruscio di una decina di frecce che si alzavano in volo, il rumore rotto dei bersagli colpiti e tutto fu caos e urla. Gabriel, lasciato cadere l’arco, si tolse la scimitarra dalla schiena, cacciò un grido a squarciagola e attraversò in un balzo la breccia nel muro. La battaglia era cominciata. ______________________
Kate era a terra a pancia in giù, accanto al corpo immobile dello Strillatore. Dalla ferita colava del liquame scuro e puzzolente. «Pulcino!» Il Segretario era dietro la scrivania. Si era rifugiato lì non appena era cominciato l’attacco. «Vieni qui!» Lei non gli diede retta. Sostenendosi sui gomiti, avanzò piano piano finché riuscì a vedere la piazza. Era una massa di figure scure in lotta; arrivavano urla e strepiti, scricchiolii sinistri, il fragore del metallo contro il metallo e, a sovrastare tutto, le grida inumane degli Strillatori.
Kate sentì la familiare, schiacciante debolezza, l’incapacità di respirare; e con sua sorpresa capì di essere furiosa. No, si disse, non è reale! Evidentemente la rabbia dava forza ai pensieri, perché, anche se le grida erano ancora terribili, le mani invisibili che le stritolavano i polmoni scomparvero quasi subito. Tirando dei respiri profondi, Kate mandò a Gabriel un tacito ringraziamento. Percorse la piazza con lo sguardo, cercando di dare un senso alla scena che vedeva. Chi stava combattendo e contro chi? Come facevano, tutti, a non colpirsi accidentalmente? Poi, mentre osservava che gli aggressori erano a capo scoperto, sollevata al pensiero che fossero uomini e non una strana razza di uomini-talpa del sottosuolo, in realtà non sapeva se esisteva una razza del genere: lo avrebbe chiesto a Michael, vide Gabriel. Era proprio nel folto della mischia e con ampi e violenti colpi di scimitarra cercava di aprirsi un varco fra gli Strillatori. Sembrava inarrestabile e lei, vedendolo, si rincuorò. Ma solo per un momento. Perché, mentre Gabriel si faceva largo fra gli Strillatori a forza di scimitarra, Kate si accorse che un’altra orda di creature nerovestite si riversava nella piazza. All’inizio della battaglia, gli uomini di Gabriel e i morum cadi erano abbastanza ben bilanciati, ma a ogni secondo che passava gli equilibri si spostavano a vantaggio degli Strillatori. Di lì a poco gli uomini di Gabriel sarebbero stati completamente accerchiati e allora sarebbe stata la fine. «Kate!» La voce di Michael penetrò il frastuono e lei guardò a sinistra, verso le gabbie. Michael e Wallace erano discosti dal gruppo di nani e uomini ammassati alle sbarre. Michael fece un salto, puntò il dito verso la mischia e gridò qualcosa. Le parole si persero nel clamore, ma Kate capì. Michael aveva visto Gabriel: pensava che li avrebbe liberati. Non vedeva che Gabriel e i suoi erano spacciati. Avevano bisogno di aiuto. Avevano bisogno del doppio, del triplo di uomini. Sentendosela quasi esplodere in mente, Kate ebbe un’idea. Si girò verso lo Strillatore morto e mise la mano sotto di lui. Il cadavere aveva una fredda rigidità innaturale; non appena lo toccò si sentì nauseata, ma si sforzò di infilare la mano fra la tunica e il pavimento e tastò la cintura per tutta la sua lunghezza. Prima, quando la creatura era entrata nella stanza, aveva udito un sommesso tintinnio. Dai, pensò, forza... La mano si chiuse attorno a un mazzo di chiavi. Si sentì schiacciare da un peso. «Eh no, pulcino cattivo! Male male male!» Il Segretario le si era buttato addosso. Mani appiccicaticce le cercarono i polsi alla cieca. L’uomo ansimava e il suo fiato caldo e aspro le arrivava sulla
guancia. Kate cercò di liberarsi, ma lui era più forte. «Qui ci vuole una punizione. Che disubbidiente. La Contessa ha i suoi sistemi. Sistemi per farsi ubbidire. I pulcini cattivi devono imparare...» Stava ancora sibilando minacce quando Kate ruotò la testa e gli morse l’orecchio. Aveva un saporaccio di sudore e l’uomo lanciò un urlo, ma lei continuò a mordere, sempre più forte, finché sentì il sapore del sangue e lui le mollò i polsi. Poi, con tutta la forza che aveva, Kate gli diede uno spintone. Sperava soltanto di toglierselo di dosso; invece udì il suo grido cambiare tonalità e fece in tempo a vederlo sparire giù per il lato aperto della stanza. Avanzò carponi verso l’orlo del pavimento. Giù, a terra, il Segretario giaceva immobile. Be’, pensò Kate, ti sta bene, e sputò per pulirsi la bocca. Tornò indietro e infilò di nuovo la mano sotto lo Strillatore, strinse il mazzo di chiavi e tirò. Dopodiché si precipitò giù per le scale, uscì di corsa dall’edificio e attraversò la piazza. Michael si era insinuato nella calca di nani e uomini e adesso, da una parte e dall’altra delle sbarre, si abbracciarono goffamente. Kate avrebbe voluto chiedergli se stava bene, ma non ce n’era il tempo. «Gabriel è qui!» cominciò a dire Michael. «Ha...» «Lo so. Ha bisogno di aiuto.» Kate stava guardando il mazzo di chiavi. Ce n’erano sei. Bisognava provarle tutte. «La chiave d’argento! Con il buco in mezzo! Sbrigati!» A parlare era stato un uomo. Era magro e sporco come gli altri, ma nei suoi occhi incavati c’era ancora fuoco. Kate vide in lui qualcosa di familiare. «Svelta, ragazzina!» Con dita nervose, Kate fece per infilare nella serratura la chiave d’argento. «Uhei! Non si fa così!» Una mano dalle nocche pelose sbucò dalle sbarre e afferrò le chiavi. «Sono o non sono il re? Devo essere io ad aprire la porta! C’è un protocollo!» «Smettila!» urlò Kate. «Non c’è tempo!» «Smettila?» sbraitò Hamish, sempre strattonando le chiavi. «Chi sei tu per dirmi di smettere di fare qualcosa, eh? Chi cacchio è il re, qui?» «Attenzione!» gridò Michael. Kate si girò a guardare da sopra la spalla. Uno Strillatore stava correndo verso di lei, con la spada levata pronta a colpire. Kate era come paralizzata. Poi, di colpo, la creatura fu scossa da un sussulto e cadde a terra. Aveva due frecce conficcate nella schiena. «Visto? Adesso piantala di fare la bambina idiota e molla le chiavi, se no... uof!» Il re lasciò andare le chiavi. Wallace si era avvicinato e bello tranquillo gli
aveva tirato un pugno nello stomaco. «Su» disse Wallace, «apri la porta.» Kate infilò la chiave nella serratura, la girò e un fiume di uomini si riversò fuori. L’uomo che le aveva detto qual era la chiave giusta era fra i primi. «Libera gli altri» le ordinò. «Svelta!» Poi, raccolta la spada dello Strillatore caduto, gridò: «Seguitemi!» e si gettò nella mischia. Gli uomini, per quanto deboli e malati fossero sembrati fino a qualche minuto prima, corsero dietro di lui e intanto afferravano le armi che trovavano: spade, pale, asce. Hamish uscì reggendosi a fatica, ancora senza fiato, e puntò il dito grassoccio contro Wallace. «Tu un giorno la pagherai, ragazzo. Non preoccuparti.» Poi prese un’ascia, schierò gli altri nani e anche lui si gettò nella mischia. Kate dovette riconoscerlo: di Hamish si poteva dire tutto, ma non che fosse un codardo. Michael, abbracciandola, per poco non la buttò a terra. «Lo so» sussurrò Kate, restituendo l’abbraccio. «Lo so, non preoccuparti.» Wallace era a un paio di metri di distanza. Aveva raccattato un piccone. Kate capì che non li avrebbe lasciati soli. Baciò Michael sulla testa. I capelli erano sporchi e unti, ma non gliene importava niente. «Vieni. Bisogna liberare gli altri.» ______________________
«Lasciami andare!» «Gabriel ha detto...» «Mia sorella e mio fratello hanno bisogno di me!» Nello stesso momento in cui Gabriel e gli altri uomini erano andati all’assalto in piazza, Emma era entrata in azione. Kate e Michael erano a due passi da lei, e nei guai. Non se ne sarebbe stata lì con le mani in mano. Avrebbe tirato fuori Michael dalla gabbia (non sapeva ancora bene come), insieme avrebbero liberato Kate dalle grinfie del Segretario (anche qui, non sapeva bene come, ma probabilmente usando il proprio straordinario coraggio, mentre Michael avrebbe scribacchiato qualche scemenza sul suo quaderno) e finalmente sarebbero stati di nuovo uniti (di questo era assolutamente certa). C’era un solo problema. Quando Emma aveva cercato di fuggire, il giovane guerriero, quello incaricato di vegliare su di lei e Dena, l’aveva colta sul fatto e adesso la teneva sollevata a un palmo da terra, mentre lei si divincolava. «Devi lasciarmi andare!»
«Gabriel vuole che... Fermati!» Afferrò Dena per la caviglia proprio mentre stava per uscire dalla finestra con il coltello in mano, chiaramente intenzionata a buttarsi anche lei nella mischia. «Mollami! Voglio ammazzare uno Strillatore!» «E io devo aiutare mio fratello e mia sorella!» Continuarono così per un po’, con le ragazzine che si divincolavano, imploravano, minacciavano, Emma dicendo al ragazzo (perché in effetti era solo un ragazzo) che avrebbe contato fino a cinque e, se lui nel frattempo non l’avesse lasciata andare, se ne sarebbe pentito amaramente, poi, dopo aver contato fino a cinque, annunciandogli che gli avrebbe lasciato tempo fino al dieci, ma non di più (Emma sapeva che il ragazzo stava solo eseguendo gli ordini di Gabriel, quindi non le sembrava del tutto giusto morderlo e prenderlo a calci per liberarsi, e questo, in qualche modo, rendeva vuote le sue minacce); Dena, all’altro fianco del guerriero, faceva la sua parte: cercava di aprirgli le dita, gli conficcava le unghie nella mano; e il ragazzo intanto si chiedeva cos’aveva fatto di male per meritarsi da Gabriel una punizione come quella... quando udirono un raschio sommesso. Tutti e tre si girarono contemporaneamente. Lo Strillatore era lì, con la spada sguainata, a guardarli. Il giovane guerriero mollò subito Dena ed Emma per impugnare la scimitarra. Ma lasciando andare le ragazze si sbilanciò all’indietro e inciampò sopra un cumulo di macerie, cadendo a terra proprio nel momento in cui la spada dello Strillatore fendeva l’aria davanti a lui. Emma, senza pensare, prese un sasso. Lo Strillatore stava per infliggere la stoccata finale quando il sasso gli rimbalzò sulla testa, distogliendolo dal gesto. In quello stesso istante, Dena lo aggredì piantandogli un coltello nella gamba. La creatura levò uno dei suoi terribili, raggelanti strilli e con un manrovescio fece ruotare Dena su se stessa. Il coltello volò in aria e... Si udì un forte scricchiolio. Tutto si fermò. La creatura guardò giù. Il giovane guerriero le aveva conficcato mezza scimitarra in corpo. Il ragazzo si rimise in piedi, con uno strattone liberò la lama e poi l’abbassò, buttando a terra il mostro. Il cadavere rimase lì fumante. Tutto era successo in una manciata di secondi. Il giovane guerriero pulì la scimitarra sulla schiena dello Strillatore e poi si occupò di Emma e Dena. «D’accordo, andiamo a cercare tuo fratello e tua sorella.» Guardò Dena. «E tu potrai aiutarmi a uccidere gli Strillatori che incroceremo.» Tutti e tre uscirono dalla casa e percorsero il perimetro della piazza. Gruppi di morum cadi continuavano a sbucare dalle ombre della città e, quando le creature sfrecciavano lì accanto, il giovane guerriero doveva
costringere Emma e Dena a ripararsi. A un certo punto si udì un’esplosione: una lampada a gas aveva preso fuoco. Cadde in un edificio e poco dopo, in fondo alla piazza, divampò un incendio. La scena della battaglia era frammentaria e confusa, ma questo non impedì ai tre di capire, di lì a poco, che gli uomini di Gabriel erano in grave minoranza. Dopodiché successe una cosa inaspettata. Emma, Dena e il ragazzo si erano fermati in un vicolo fra due edifici diroccati e, mentre guardavano sconsolati la battaglia, dalla direzione in cui si trovavano le gabbie arrivò di corsa un gruppo di uomini. Ci volle un momento perché Emma si rendesse conto che erano prigionieri fuggiti. Il pensiero seguente andò a Michael. Era stato liberato anche lui? Era sano e salvo? Dal vicolo in cui lei e i suoi compagni erano accucciati a terra non riuscivano a vedere fino alle gabbie, ma continuavano ad arrivare uomini. Che spettacolo impressionante: magri, vestiti di stracci e armati alla bell’e meglio, combattevano con una ferocia che nemmeno gli uomini di Gabriel sapevano eguagliare. Erano stati in prigione per quasi due anni. Quello era il loro momento. E non erano soli. Emma vide passare il nano biondo e tracagnotto, fiancheggiato da molti altri nani più piccoli, che ansimava da dietro la folta barba. Passò letteralmente sopra un drappello di Strillatori, come un bulldozer, buttandoli a terra, e poi, senza fermarsi, a colpi d’ascia cominciò ad aprirsi un varco nell’esercito della Contessa. Così adesso i morum cadi, invece di accerchiare il drappello di Gabriel, erano costretti a combattere il nemico su due fronti. Le sorti della battaglia cominciavano a mutare. ______________________
Dopo che ebbero aperto la terza gabbia e gli ultimi uomini, un po’ inciampando e un po’ correndo, erano andati al campo di battaglia, Wallace fece salire Kate e Michael al terzo piano di una casa che dava sulla piazza. «Guardate!» gridò Kate, quando, tutti e tre a un bovindo, riuscirono ad abbracciare con lo sguardo l’intera scena. «Stanno vincendo!» I due gruppi di uomini, il drappello di Gabriel e i prigionieri da poco liberati, avevano accerchiato l’ameba di scure figure e sistematicamente la stavano facendo a pezzetti sempre più piccoli. Sopra il campo di battaglia aleggiava una foschia gialla che Kate non riuscì a spiegarsi finché non le tornò in mente il vapore rancido sprigionato dai cadaveri degli Strillatori.
«Non stanno urlando molto» disse Michael. Era vero. Le grida inumane che squarciavano l’aria erano meno frequenti, soprattutto perché, e il fatto incoraggiante era questo, il numero delle creature era diminuito. In quello stesso istante, un loro grido fu stroncato. Il verso echeggiò nella grotta per poi finalmente spegnersi nel buio. Kate tratteneva il fiato. Un altro grido si levò qualche secondo dopo. E fu seguito da un altro e un altro ancora, ma quelli non erano i versi dei morum cadi: le urla arrivavano dagli uomini, che gridavano perché la battaglia era finita e avevano vinto. «Ce l’hanno fatta» si stupì Kate. «Ce l’hanno fatta davvero.» «Anche tu hai i tuoi meriti, ragazzina.» Gli occhi di Wallace brillavano calorosamente sotto le sopracciglia scure. «Non fossi stata così sveglia, questa storia non sarebbe finita così. No no, poco ma sicuro.» Michael schioccò la lingua. «Che peccato.» Vide gli altri due guardarlo come se fosse impazzito. «Non avere la macchina fotografica. È un momento storico.» Risuonarono dei passi in avvicinamento. Wallace si girò di scatto, sollevando il piccone. Kate ebbe appena il tempo di scorgere la figura che le correva incontro e pensare: «No, non può essere»: un attimo dopo aveva Emma fra le braccia. Ed era lei! Era veramente, realmente lei! Kate ed Emma si abbracciarono, piansero, si staccarono l’una dall’altra per guardarsi e poi si riabbracciarono e piansero ancora un po’. Perfino Michael, la cui dignità di unico maschio di famiglia gli impediva solitamente di mostrarsi molto espansivo, dovette togliersi gli occhiali e strofinarsi gli occhi perché gli era «entrato qualcosa». «Emma, sei tu, sei proprio tu, oh, Emma...» Kate ripeteva in continuazione il nome della sorella, stringendosela al petto come se non volesse lasciarla andare mai più. «Mi dispiace tanto.» Emma aveva la faccia inondata di lacrime. «Lo so che non avrei dovuto disubbidirti. Mi avevi detto di non tornare indietro e invece...» «Ssst. Non importa. Adesso sei qui.» «Sì, però in effetti ti ha disubbidito» osservò Michael. «Michael...» lo ammonì Kate con un’occhiata. «Ma sì, chi se ne importa» disse lui, generosamente. «Tutto è bene ciò che finisce bene, giusto?» E diede a Emma una virile pacca sulla spalla. «Sei sicura di star bene?» le chiese Kate. «Bene bene?» «Sì, sto benissimo. Ero con Gabriel. Vi avevo già visti tutti e due prima della battaglia, poi vi ho visti a questa finestra. Ah, vi presento Dena e... lui non so come si chiama.»
Emma gesticolò in direzione delle due figure che l’avevano seguita su per le scale e della cui presenza Kate si accorse soltanto in quel momento. Una era una ragazzina dai capelli scuri e la faccia seria, non molto più grande di Emma; l’altra era un ragazzo che stringeva un’arma sinistra simile a quella di Gabriel. «Gabriel gli ha detto di badare a noi, anche se possiamo dire di averlo salvato...» «Ehi!» «Questo è Wallace!» si affrettò a dire Michael, indicando il loro compagno. «Ciao» disse Emma. Poi, rivolta a Kate: «Sono successe cose da non credere...» «Wallace è un nano!» Michael sorrideva da orecchio a orecchio. «Sì» disse Emma, un po’ infastidita dall’interruzione. «Lo avevo capito da sola.» «I nani esistono davvero!» Emma alzò gli occhi al cielo ed emise un lamento. «Lo sapevo che avrebbe fatto così.» «Ma raccontaci la tua storia» disse Kate. «Voglio sapere tutto. Cos’è successo dopo che ti sei allontanata?» «Giusto! Dunque, sono salita sul ponte, quello sospeso, ti ricordi, e Gabriel stava combattendo con gli Strillatori e gli ho salvato la vita! Ma poi mi hanno colpita allo stomaco!» «Oh, Emma! Ho fatto un sogno, ti ho vista ferita...» «Adesso sto bene. Gabriel mi ha portata nel suo paese, durante il viaggio ha dovuto uccidere un mostro; io ho quasi sempre dormito e quindi non ho potuto aiutarlo, e là c’era la savia, che si chiama nonna Peet, e lei mi ha guarita! Mi ha detto che avevi trovato il dottor Pym! È vero? Mi piacerebbe tanto farti conoscere nonna Peet: è una persona buona e...» Kate voleva dirle di rallentare. Ma non fece in tempo perché dalla piazza si levò uno strillo. «IMBECILLI!» Si girarono. Il Segretario si era arrampicato su un ammasso enorme di macerie. Per Kate fu un colpo che fosse ancora vivo, che addirittura se ne andasse in giro, e vide gli uomini, finita la battaglia, avevano cominciato a occuparsi dei loro feriti, fermarsi a guardarlo. Aveva la testa che sanguinava, il completo strappato e il braccio destro ferito, piegato contro il corpo. Tremava tutto di odio e rabbia; Kate vide schizzi di saliva uscirgli dalla bocca. «Siete degli imbecilli! Credete di poter combattere la Contessa? Di poter sconfiggere la Contessa? Voi non avete idea dei suoi poteri! Morirete! Morirete tutti!» «Ma è matto?» disse Emma. «Ha perso. Perché nessuno gli dà una botta in
testa?» «Cos’è questo rumore?» chiese Michael. Kate si mise in ascolto e sulle prime non sentì niente. Ma cosa diceva Michael... Si interruppe: dalle buie, lontane distese della città arrivava un trepestio. Si faceva sempre più forte e Kate si rese conto che si stava avvicinando. Guardando giù, capì che anche gli uomini nella piazza lo avevano udito. «Morirete tutti! Tutti quanti!» Il rumore si trasformò presto in un fragore ritmico, un martellar di passi. Lo sentiva sotto i piedi. E sotto le mani il davanzale vibrava. Poi Kate vide il nero oltre le luci liquefarsi e montare verso di loro. «No» mormorò Wallace. «Non può...» «Cosa c’è?» Kate lo afferrò per le braccia. «Che succede?» «Guardate!» gridò Michael. L’onda scura aveva raggiunto il perimetro delle lampade a gas. Kate rimase a guardarla; e in lei ogni speranza svanì. Il Segretario rideva isterico, saltellando su e giù. «Sì! Sì! Sì!» Erano centinaia, una massa grigioverde di figure ingobbite che invadevano le strade scavalcando cumuli di macerie, abbastanza vicino ormai perché i ragazzi ne sentissero i versi ringhiosi, il grattare degli artigli sulla pietra e ancora, sotto e a sovrastare tutto, il tuonar di passi, come l’arrivo di un temporale. «Cosa sono?» gridò Emma. «I salmac-tar» rispose Wallace. «La strega li ha chiamati a raccolta.» Kate li aveva già visti. Nel suo sogno, Gabriel aveva lottato con una di quelle creature mentre Emma, nel labirinto, giaceva a terra priva di conoscenza. Erano i ciechi mostri dagli artigli affilati che vivevano nelle viscere delle montagne. Wallace aveva raccontato, ricordò Kate, che la Contessa aveva stretto alleanze con le creature. Questa era opera sua. La Contessa aveva chiamato queste creature malvagie per distruggerli. «DA ME!» ruggì Gabriel. «DA ME!» No! pensò Kate. No! Dovevano scappare. Erano troppo pochi. Ed erano stanchi. Feriti. Il Segretario aveva ragione. Sarebbero morti tutti. Ma si stava già formando una schiera, con Gabriel in mezzo, e Kate guardò gli uomini e i nani, tutti quanti insieme, sollevare le armi; poi Gabriel, alto, terribile, pieno di ferite sanguinanti, avanzò per essere in prima linea, solo, ad aspettare il frangersi dell’onda. «Ma cosa fa?» disse Michael. «È pazzo!» «Sta’ zitto!» gridò Emma; la voce, rotta, disperata, tradiva tutta la sua paura. «Sta mostrando agli altri cosa vuol dire essere coraggiosi! È... è...» Andò a rifugiarsi da Kate: nascose la testa contro il petto della sorella e si
mise a singhiozzare. Le creature, di sotto, si riversarono nella piazza ringhiando, sibilando, Gabriel sollevò la scimitarra, Kate si strinse ancora più forte Emma al petto... Brrruuuooo! D’impulso, Kate girò subito la testa in direzione del rumore. Era arrivato da un punto imprecisato del buio. Un clacson, pensò. Quello era un clacson. «Si sono fermati!» gridò Emma. Kate tornò a guardarli. I salmac-tar erano a pochi metri da Gabriel, una moltitudine che riempiva la piazza. Ma in effetti la massa affannata e sbavante si era fermata, rivolta verso la direzione da cui era arrivato il rumore. «Le campane dell’inferno» disse Wallace, e Kate vide che il nano ridacchiava. «Era ora.» BRRRUUUOOO! Michael emise un grido (qualcosa come «Uha-ah-uh!»), fece un salto e tutto concitato puntò il dito. «Guardate guardate guardate! Guardate chi è!» In una via poco illuminata, una figura bassa filava a tutta velocità verso la piazza. Era ricoperta da capo a piedi di una corazza scura: si vedevano soltanto la faccia e la barba (correndo faceva sbattere sul pettorale le treccine di barba); in una mano stringeva una grande ascia luccicante e nell’altra un corno del colore dell’osso. Nonostante il buio e la distanza, Kate capì subito chi era. «È il capitano Robbie!» «Chi?» chiese Emma. «È un nostro amico!» disse Michael. «Be’, veramente ci aveva messi in prigione, ma solo per seguire le procedure. Mica lo si può incolpare di aver seguito...» «Perché è venuto solo?» lo interruppe Emma. «Si farà ammazzare. Che stupidi sono i nani.» Michael non ebbe il tempo di ribattere, perché il capitano Robbie arrivò al bordo della piazza, piantò i piedi per terra e soffiò di nuovo nel corno. BRRRUUUOOO! Il suono echeggiò nella grotta e piano piano scemò fino a spegnersi. Nessuno si mosse. Non i salmac-tar, né Gabriel e i suoi uomini, né Wallace, Dena e il giovane guerriero, né i tre ragazzi. Poi si udì il rumore, uno sferragliare ritmico, sempre più forte, finché intere legioni di nani uscirono di corsa dal buio e riempirono le strade, con le asce che riflettevano il chiarore delle lampade, le armature che tintinnavano e sferragliavano, il respiro collettivo che formava un regolare, rassicurante unf... unf... unf.
Quando arrivarono alla piazza, il capitano Robbie fece qualche passo avanti e abbaiò un comando. L’esercito si fermò. «Ma cosa fa?» disse Emma. «Deve attaccare. Deve ucciderle, quelle creature! Come sono stupidi i n... aaaah!» Kate tese le mani verso la sorella. Tutto l’edificio aveva cominciato a ondeggiare e scuotersi. Dena cadde addosso al giovane guerriero, buttandolo a terra. Kate, guardando dalla finestra, vide che tutto, l’intera città in rovina, si muoveva. «Che succede?» strillò Emma sovrastando il tumulto. «Cos’è?» «Che sia dannato!» gridò Wallace. «Porca miseria, è un terremoto! Tenetevi forte! Tenetevi forte!» «No!» Michael era aggrappato al davanzale come ci si aggrapperebbe al parapetto di una nave col mare in burrasca. «È il dottor Pym!» Puntò il dito, e Kate ed Emma videro lo stregone, con la barba bianca, in cima a un edificio, con le braccia sollevate sopra la città. «È lui a farlo!» «Ma perché cavolo lo fa?» gridò Wallace. «Ci ucciderà tutti!» «Kate!» Emma le diede un colpetto sul braccio e Kate guardò di nuovo verso la piazza. Sulle prime non capì: la maggior parte dei mostri stava sprofondando. Poi si accorse che la terra, sotto di loro, si stava aprendo. Fece appena in tempo a rendersene conto, poi metà dell’orda, ruzzolando e strepitando, fu ingoiata e scomparve. Altrettanto rapidamente, il crepaccio si richiuse, le scosse cessarono e l’edificio in cui erano i ragazzi smise di tremare. Kate guardò di nuovo il dottor Pym. Il vecchio aveva abbassato le braccia e stava tirando fuori tranquillamente la pipa. Si ripromise di non dubitare mai più dei poteri dello stregone. «Nani...» Il capitano Robbie levò l’ascia. «ALL’ATTAAACCOOO!» I salmac-tar che erano rimasti fecero dietro front e se la diedero a gambe. «No! No!» Il Segretario saltava su e giù, tirandosi le rade ciocche di capelli. «Combattete! Dovete combattere!» Ma le sue grida furono inutili. I salmac-tar, in preda al panico, si scavalcavano a vicenda nella foga di scappare. Gabriel e gli uomini erano indietreggiati per far passare i nani e, a sovrastare tutto, a sovrastare il rumore delle corazze, il boato degli stivali che battevano a terra, la frenetica paura dei mostri, Kate udì la voce del capitano dei nani riempire la grotta:
«Respingeteli, fratelli! Buttateli nelle fosse! Respingeteli! Respingeteli!» E allora capì, finalmente, che la battaglia era finita.
Capitolo 20 La visione di Kate † «Vedete, quando Katherine ha toccato il libro ed è andata nel passato, quattro anni fa rispetto a ora, anche se questo per voi non è affatto il presente ma ben quindici anni prima del vostro presente, mi ha raccontato tutto quello che sarebbe successo: la mancanza di un testamento, Hamish che sarebbe diventato re eccetera eccetera... Armato di questa terribile conoscenza, sono andato subito dalla regina Esmeralda (la madre di Robbie e Hamish, nonché mia carissima amica). Lei ha scritto su due piedi un testamento in cui proclamava Robbie suo successore e lo ha fatto autenticare e sigillare, e insieme lo abbiamo nascosto...» Il dottor Pym stava spiegando ai ragazzi come avevano fatto, lui e Robbie, a evadere dalla prigione di Hamish e arrivare nella Città Morta con una brigata di nani armati. Erano tutti assiepati, i ragazzi, il dottor Pym, Robbie e Gabriel, nella stanza in cui, prima della battaglia, il Segretario aveva interrogato Kate. Era diventata una specie di quartier generale informale, con messaggeri che entravano e uscivano l’uno dopo l’altro e Robbie e Gabriel stretti attorno alla scrivania con un gruppo di uomini e nani impegnati in animate discussioni. I ragazzi erano stati convocati lì senza ricevere spiegazioni, dopo la battaglia, nell’edificio dall’altra parte della piazza, si erano aggiornati a vicenda sulle rispettive esperienze. Emma, entrata nella stanza, si era letteralmente buttata fra le braccia di Gabriel gridando: «Ce l’avete fatta!» Kate, da parte sua, avrebbe preferito che il responsabile, chiunque fosse, avesse scelto un altro posto per la riunione. Il ricordo di quando aveva morso il Segretario all’orecchio e del gusto acre di sudore e sangue che aveva sentito era riaffiorato nell’istante stesso in cui aveva varcato la soglia. Chissà quando sarebbe riuscita a lavarsi i denti, pensò. «Vi chiederete forse» riprese il dottor Pym (aveva condotto i ragazzi un po’ più in là) «perché io abbia aspettato tanto a esibire il testamento della regina. Ma qui veniamo al punto cruciale: mi serviva che Kate entrasse nella grotta, toccasse il libro e me lo portasse nel passato. Soltanto nascondendo il libro nel passato avrei potuto proteggerlo dalla Contessa. E sapevo che mi sarebbe bastato aspettare il momento opportuno perché succedesse esattamente questo. Così, ho aspettato. Quando ho finalmente capito che era il momento giusto, ho chiesto a Robbie di convocare il suo avvocato...»
Il dottor Pym aveva poi rivelato il nascondiglio del testamento, che era stato recuperato ed esaminato da una commissione di giudici, come pure da esperti di grafologia e impronte digitali, dal momento che i nani erano un po’ pedanti in materia di protocollo (a questo punto Michael annuì per mostrarsi d’accordo), e, verificato che il testamento era autentico, il capitano (ora re) Robbie aveva radunato il suo esercito per marciare verso la Città Morta. «Quindi, vedete» concluse il dottor Pym, «è tutto chiaro come il sole.» «Io non ho capito» disse Emma. «Quale punto, mia cara?» «Tutti.» «Era un piano del dottor Pym» le spiegò Kate. «Lui sapeva che Hamish avrebbe ascoltato i nostri discorsi in cella. Con un inganno gli ha fatto portare me e Michael nella grotta. E ha fatto in modo che fossi io la prima a toccare il libro. Aveva organizzato tutto.» «Ma...» Michael stava prendendo appunti; ora si interruppe per rivolgersi allo stregone. «Sapeva di dover fare tutto questo solo perché Kate era andata nel passato e le aveva detto cosa sarebbe successo? Nella cella ha fatto solo finta di non riconoscerci?» «Questa domanda richiede una risposta un po’ complicata» disse il dottor Pym, grattandosi assorto il mento, «perché adesso il passato esiste in due versioni. Nel passato originario, io non sapevo niente dei fatti futuri e senza dubbio basavo le mie azioni sul legame che vedevo fra tua sorella e il libro. Nel passato riscritto, invece, accaduto dopo che tua sorella aveva recuperato il libro ed era tornata indietro nel tempo...» Kate stava guardando lo stregone. I sentimenti nei suoi confronti erano cambiati. Lui era stato più scaltro di Hamish e del Segretario, aveva messo Robbie sul trono e salvato Gabriel e i suoi uomini; Kate aveva ormai la certezza che fosse dalla loro parte. Eppure il dottor Pym non gli stava raccontando tutto quel che sapeva: aveva taciuto non solo dei loro genitori, ma del ruolo che lei, suo fratello e sua sorella avevano in tutta la storia. Nella sala del trono aveva detto che loro erano i ragazzi che stava aspettando. E il Segretario aveva detto quasi la stessa cosa, cioè che Michael ed Emma erano i prescelti. Che cosa significava? Che cosa nascondeva, lo stregone? «... Conoscevo gli sviluppi dei fatti nell’altro futuro, quello che adesso è il futuro alternativo» disse il dottor Pym «e, desiderando che le cose procedessero esattamente nello stesso modo, ho cercato di comportarmi come mi sarei comportato se fossi stato ignaro del futuro. Questa, Michael, è la versione del passato che io e te ricordiamo. Katherine, invece, avendo viaggiato nel passato, è l’unica a ricordare il passato originario. Così, per
rispondere alla tua domanda, dal punto di vista dei tuoi ricordi, sì, in effetti in cella ho finto di non riconoscervi; dal punto di vista dei ricordi di tua sorella, invece, no, non avevo assolutamente idea di chi fosse.» Michael lo guardò. «Adesso non capisco.» «Allora cerca di capire questo» sospirò il dottor Pym. «Se Katherine non avesse dato prova di essere la ragazza piena di risorse che è, re Robbie e io saremmo ancora in galera e tutti gli uomini di Gabriel, tutti gli uomini di Cambridge Falls, sarebbero morti.» «Ha ragione.» Robbie si era staccato dal gruppo che discuteva alla scrivania. «E se mai tu dovessi aver bisogno della mia forza o della forza del mio popolo, ti basterà chiedere.» Con queste parole, il nuovo re dei nani si inchinò davanti a Kate tanto profondamente da sfiorare il pavimento con la punta delle treccine di barba. «Oh, per favore» disse Kate, arrossendo vistosamente. «Non dica così. È troppo imbarazzante. E poi, Michael non è stato da meno.» Robbie tirò su la schiena. «Già, è vero.» Tossì nel pugno e assunse un tono formale. «Michael Non-So-Come-Ti-Chiami-Di-Cognome, sei stato tu, rimproverando Hamish di essere il cretino che è, a ricordarmi che cosa significa essere un nano. In riconoscimento di ciò, ti nomino ufficialmente Guardia Reale della Storia e di Tutte le Tradizioni Nanesche.» Schioccò le dita e un nano si fece avanti per consegnare al re un piccolo distintivo, che lui appuntò sul maglione di Michael. «Maestà...» balbettò Michael «... mi... mi dispiace di non aver potuto preparare un piccolo discorso.» Robbie gli batté la mano sulla spalla. «Ah, ragazzo, che grande nano saresti stato, che grande nano.» Emma sembrava meno entusiasta di vedere Michael ricevere tante attenzioni e, quando Robbie, con uno strofinio di barba, lo baciò su entrambe le guance, Kate la sentì borbottare: «Però sono stata io a beccarmi la freccia». Ovviamente Emma era stata colpita dal fatto che Michael avesse tenuto testa a Hamish e messo la mano sul ceppo, o forse, rifletté Kate, più che esserne colpita era rimasta sbalordita, visto che aveva continuato a ripetere: «Veramente? Michael ha fatto così? Davvero? Michael?» In ogni modo, Kate stava per dirle di smettere di borbottare e lasciar godere a Michael quel momento quando lui, gonfiando il petto, si girò verso di loro con un sorriso da orecchio a orecchio, vero e proprio ritratto della felicità, e un istante dopo, prima che Kate potesse accorgersene, lei ed Emma erano lì ad abbracciarlo e a dirgli quanto erano orgogliose di lui, mentre la sorella gli
dava sul braccio dei pugni appena un po’ troppo forti. «Sì» disse Emma, che parve immensamente sollevata, «ci è sempre piaciuto molto sentirti raccontare di nani e roba del genere, ma adesso bisogna parlare di altre cose. L’Atlante, per esempio! Dovremmo parlare di quello!» «Mia cara» disse il dottor Pym, «come hai fatto a sapere di quel nome? Sono molto ammirato.» Kate vide Emma lanciare un’occhiata a Michael e scrollare beata le spalle. «Oh, io so molte cose. Michael, tu lo sapevi che si chiamava così?» Lui scosse la testa. «Be’, si chiama proprio così. L’Atlante. Dovresti scrivertelo, così non te lo dimentichi.» Kate si tenne per sé di aver sentito pronunciare quel nome dal Segretario. «Vostra sorella ha ragione» disse il dottor Pym. «Ciascuno dei Libri dell’Inizio ha un nome specifico. Tecnicamente, il libro che stiamo cercando è l’Atlante del Tempo...» «Giusto» lo interruppe Emma, annuendo tutta seria. «Tecnicamente.» «... ma di solito è chiamato semplicemente ’Atlante’, un nome appropriato, dal momento che contiene le mappe di tutti i passati, i presenti e i futuri possibili, e consente di spostarsi sia nel tempo sia nello spazio. Ma adesso non è il momento di spiegare il perché e il percome.» «Certo» disse Emma, «possiamo parlarne dopo. Del perché eccetera.» Ascoltando il dottor Pym, Kate si rese conto di aver cominciato a chiamare mentalmente quel libro «Atlante» fin dalla prima volta che aveva sentito il vero nome. Gli si attagliava perfettamente. «E Hamish?» chiese Michael. «È vero che non è più il re?» «È vero» rispose Robbie. «L’ho mandato al palazzo, gli ho detto di pulirlo personalmente da cima a fondo. E di tagliarsi quella barbaccia. Era disgustosa.» «Prima il re era Hamish» Emma informò Gabriel; anche lui si era staccato dal gruppo raccolto alla scrivania e si era unito a loro. «Ha cercato di mozzare la mano a Kate. Ma Michael l’ha fermato. O almeno, questa è la storia...» «Ehi!» «D’accordo, sei un eroe.» Emma alzò gli occhi al cielo. «Va’ a lustrarti la medaglia.» Robbie disse che Hamish, quando aveva saputo di non essere più re, aveva tentato il suicidio per autodecapitazione. Ma era riuscito soltanto a perdere conoscenza e ci erano volute un bel po’ di secchiate d’acqua per farlo rinvenire. Era stata la cosa più simile a un bagno,
aggiunse Robbie, che Hamish non facesse da mesi. Mentre tutti parlavano, Kate andò sul lato senza muro della stanza a guardare giù in piazza. Vinta la battaglia, i nani avevano allestito una cucina da campo, con forni alimentati a legna, e si erano messi a bollire in enormi tinozze carote, cipolle, pomodori e manzo, il cui odore aveva presto coperto il tanfo rancido degli Strillatori morti. Uomini che non facevano un pasto decente da due anni ingurgitavano scodelle di stufato che i servitori nani quasi non facevano in tempo a portare in tavola. Kate si girò a guardare le gabbie. C’era un solo prigioniero: il Segretario. Era nella gabbia più vicina e si teneva il braccio ferito dondolandosi avanti e indietro. Quello che aveva detto era vero? Il dottor Pym voleva rimandarla indietro nel tempo a recuperare l’Atlante? Il cuore accelerò al pensiero che forse avrebbe rivisto sua madre. E nello stesso tempo arrivò una fitta di senso di colpa. Aveva già raccontato due volte, alla presenza prima di Michael e poi, dopo la battaglia, di Emma, di aver toccato il libro ed essere andata nel passato. E nessuna delle due volte aveva detto di aver visto la mamma. Che ragione aveva di nasconderlo? Si accorse che il Segretario la guardava dritto in faccia. «Basta! Dobbiamo agire!» Sottraendosi allo sguardo del Segretario, si girò a guardare nella stanza. A parlare era stato l’uomo magro e dagli occhi feroci che le aveva detto quale chiave apriva le gabbie. Era chino sopra la scrivania e Kate, notando all’improvviso la massa arruffata di capelli rossicci, capì perché le era sembrato tanto familiare. «Noi conosciamo tuo figlio! Stephen McClattery! Lo abbiamo incontrato!» E si affrettò ad aggiungere: «Sta bene! Lo abbiamo visto un paio di giorni fa e stava benissimo». L’effetto delle parole di Kate fu immediato e straordinario. Fu come se l’uomo stesse tirando una fune e la fune di colpo si rompesse. La testa ricadde e tutto il corpo crollò in avanti. Kate capì che probabilmente riceveva notizie di suo figlio per la prima volta dopo due anni. Forse non sapeva nemmeno se il bambino era vivo o morto. Finalmente l’uomo si passò la mano sulla faccia e sollevò gli occhi. Le guance sporche erano rigate di lacrime. «Grazie» disse, con voce roca. «Ma a ogni istante che passiamo a parlare, la strega ha più tempo per vendicarsi sui nostri figli.» «Giusto» intervenne Robbie. «Dottore, vuole dire ai ragazzi cosa devono fare?» «Allora, la situazione è questa.» Il dottor Pym si sistemò gli occhiali di
tartaruga, senza che per questo risultassero meno storti. «Il nostro prossimo compito è spostarci a Cambridge Falls e liberare i bambini imprigionati, compreso il vostro amico Stephen McClattery.» «Non è mio amico» borbottò Emma. «Anzi, è abbastanza antipa... ahia!» Lanciò un’occhiataccia a Kate. «Perché mi hai dato una gomitata?» «Il punto è» riprese il dottor Pym «che, finché la Contessa tiene in ostaggio i bambini, per noi sarebbe un rischio attaccare la sua casa.» «Ma lei è uno stregone» disse Michael. «Ha creato un terremoto. Non può fare qualcosa?» «Purtroppo la Contessa ha circondato la casa e la città di speciali barriere che limitano le mie capacità. Dobbiamo ripiegare su metodi più convenzionali. Ed è qui che entrate in gioco voi tre. Voi siete riusciti a evadere dalla casa. Mi chiedo...» «Oh! Oh!» La mano di Emma scattò in alto. «Sì, mia cara.» «C’è il passaggio segreto! Parte dalla stanza in cui sono chiusi i bambini e sbuca fuori dalla facciata laterale della casa. È stato Abraham a farci passare di lì. Ma sapremmo ritrovarlo! Facilissimo!» «Gliene avevamo già parlato» intervenne Michael. «Quand’eravamo in prigione.» «È vero» disse il dottor Pym. «Ma stavo per chiedervi di raccontarlo a tutti. Grazie, mia cara, mi hai preceduto splendidamente.» «Non c’è di che» replicò Emma, e sorrise trionfante a Michael. «Bene!» Re Robbie batté le mani. «Sentite qua cosa faremo. Alcuni di noi arriveranno alla casa e zitti zitti faranno uscire i ragazzini per il passaggio segreto; dopodiché, cucù, gli altri attaccheranno. Un piano geniale, eh?» Mormorio generale, teste che annuivano. Michael giocherellava nervosamente con il suo nuovo distintivo. «E se la Contessa ha già saputo di aver perso la battaglia? Ci starà aspettando, no?» «Può darsi» disse il dottor Pym, «ma non abbiamo scelta: dobbiamo procedere e sperare che funzioni. Come ha osservato il signor McClattery, ne va di molte giovani vite. Dunque, io, Gabriel e i ragazzi...» Proprio in quel momento si udì un forte tonfo e tutti si girarono: Kate giaceva svenuta a terra. ______________________
«Stai meglio, mia cara?» Kate batté le palpebre. Un trio di facce preoccupate la guardava dall’alto. Lei cercò di tirarsi su a sedere. Era stata trasferita su un divano durissimo e
tutto bitorzoluto in una stanza che non riconosceva. Emma, Michael e il dottor Pym si ritrassero per farle attorno un po’ di spazio. «Cos’è successo?» chiese Emma. «Eri lì, in piedi, e a un certo punto sei... caduta.» Kate si premette le dita sulle tempie. Dopo essersi messa seduta le girava la testa. Sentiva un trapestio di piedi che passavano velocemente al di là della porta. «Sono solo stanca, credo. E ho fame.» «Bene» disse il dottor Pym, «è stata per tutti una giornata molto pesante. Vi portiamo qualcosa da mangiare.» «E da bere» aggiunse Michael. «Scommetto che siamo disidratati e non ce ne rendiamo nemmeno conto.» «È il tuo cervello a essere disidratato» disse Emma. «Molto probabile» replicò Michael. «Il cervello è l’organo più sensibile del nostro corpo.» Emma borbottò qualcosa di incomprensibile. Kate si guardò attorno. Sul pavimento c’era una lampada a gas e, addossati a una parete, c’erano cesti di rape, cipolle, carote e sacchi di patate. Evidentemente i cuochi usavano quella stanza come dispensa. «Sei sicura che sia solo questo, mia cara? Fame?» Lo stregone la guardava intensamente. Kate chiuse gli occhi. Vedeva che succedeva ancora... «Katherine?» Avrebbe voluto che smettesse di farle pressione. Sapeva perché era svenuta e non aveva alcuna intenzione di parlarne. «Forse potrei aiutarti, se...» «Perché non mi ha detto che conosceva i nostri genitori?» Katherine capì subito che cos’aveva combinato. Avrebbe voluto soltanto distrarre tutti dal proprio svenimento, farli parlare d’altro. Ma era stata precipitosa e adesso... Diede un’occhiata a Michael ed Emma e vide che erano confusi. Quanto tempo ci avrebbero messo a fare due più due? «Quando avrei dovuto dirtelo, Katherine?» Il dottor Pym si era tolto gli occhiali e li stava pulendo sulla cravatta. «In cella? Ti ho già spiegato perché era importante fingere di non conoscerti. E nel passato originario, be’, lì era vero che non ti conoscevo.» «Ma lei mi ha dato quel ricordo!» Adesso che lo aveva detto, Kate voleva una risposta. «Mi ha mandata in quel momento del passato! Evidentemente sapeva!» «Be’, l’avevo intuito, è vero. In parte dalla tua storia. Ma anche perché è impossibile guardarti senza vedere tua madre.» Queste parole la zittirono. Assomigliava a sua madre? Senza volere, provò un
brivido di gioia. «Aspettate un attimo!» gridò Emma, ritrovando la voce. «Cosa state dicendo? Come fa il dottor Pym a conoscere i nostri genitori?» «I vostri genitori», il dottor Pym inforcò di nuovo gli occhiali, «sono miei carissimi amici. Richard e Clare. Si chiamano così.» «Ma... no! Non è... Ce l’avrebbe detto! Ci... Perché non ce l’ha detto?» «Ma mia cara, ve l’ho già spiegato. Quando avrei dovuto...» «Quando ci siamo conosciuti!» Emma ormai urlava. «Quando siamo arrivati in quel cavolo di orfanotrofio, tanto per cominciare!» «Mia cara Emma, stai parlando del futuro: mancano ancora quindici anni a quel giorno. Mi è un po’ difficile giustificarmi per una cosa che non ho ancora fatto.» «Ma tu come...» Michael stava guardando Kate. Ci siamo, pensò lei. «... come hai fatto a scoprire che il dottor Pym conosceva i nostri genitori?» Kate deglutì. Le sembrava di avere la gola di carta. «Là c’era... la mamma. Nel passato. Quando ho visto il dottor Pym. Non... non ve l’avevo detto.» Per un lungo momento, Michael ed Emma rimasero impalati a guardarla. Avevano in faccia un’espressione di assoluta incredulità. Si rifiutavano di credere non tanto che lei avesse visto la mamma, ma che non avesse detto niente. Emma cominciò a piangere e Kate, vedendola, si sentì spezzare il cuore. «Emma...» «Dove sono?» Emma si girò di scatto verso il dottor Pym. «Ci porti da loro! Ci porti subito da loro!» «Emma...» «Subito! Voglio vederli subito!» «Mia cara» disse il dottor Pym, «non capisci che sarebbe il mio desiderio più grande? Ma purtroppo non è così semplice.» «Perché?» Sul visino di Emma scorrevano le lacrime. «Non può portarci adesso» disse Michael, calmo. «Prima deve fermare la Contessa.» «Zitto, tu!» Emma gli strappò via il distintivo che Robbie gli aveva consegnato e lo buttò nell’angolo. «E questo è quel che penso della tua stupida medaglia!» «Emma, smettila!» Emma, con uno strattone, si liberò dalla mano di Kate. «Non toccarmi! Ci hai mentito! Avresti dovuto dircelo e invece ci hai mentito!» «Lo so, mi dispiace.» Kate allungò di nuovo la mano verso la sorella ed
Emma la spinse via. «Ti ho detto di non toccarmi!» Kate dovette alzarsi da terra perché Emma era in piedi, e stavolta, quando allungò le braccia verso di lei, Emma, invece di respingerla, si lasciò abbracciare. Kate, pur sentendo quant’era arrabbiata e irrigidita, continuò a tenerla abbracciata e a sussurrarle parole, e piano piano i singhiozzi si calmarono e il corpo si rilassò. Alla fine Kate le chiese: «Stai bene?» Emma annuì, tirando su col naso, e si passò la manica sulla faccia. Andò nell’angolo a raccogliere il distintivo di Michael. «Scusami. Spero di non averlo rovinato.» Michael buttò lì una risata. «Come si fa a rovinare un manufatto nanesco? Impossibile.» Ma poi la guardò in faccia e le rivolse un sorriso sincero. «Non importa.» «Ora» riprese il dottor Pym quando si furono calmati e Michael ebbe di nuovo il suo distintivo sul petto, «credetemi, capisco bene quanto siate confusi e quanto sia forte il desiderio di vedere i vostri genitori. E prometto che, quando la Contessa sarà sconfitta e i bambini in salvo, risponderò a tutte le vostre domande. Ma oggi ci aspetta un compito importantissimo, dalla cui buona riuscita dipende la vita di molti. È su questo che dobbiamo concentrare i nostri sforzi.» «Ma non può dirci niente?» chiese Kate. «Dove vivono, che lavoro fanno... Niente?» Il dottor Pym sospirò. «D’accordo. I vostri genitori sono accademici. Professori.» «I nostri genitori facevano i professori?» Il tono di Emma era decisamente poco entusiasta. «Di che materie?» chiese Michael. Emma sbuffò. «È il grande giorno della tua vita, eh?» «Sono storici della magia. Bisogna riconoscere che non è una disciplina presa molto sul serio, nel mondo accademico. Ma i vostri genitori credono nell’importanza di quel che fanno. In effetti fu proprio così che si conobbero. A una conferenza a Edimburgo. Vostra madre, nel suo intervento, aveva demolito una teoria secondo cui uno shogun del nono secolo di nome Rosho-Guzi, il Mangiatore di Vite, sarebbe stato in possesso di uno dei tre Libri. Terminato il discorso, vostro padre era andato a parlare con lei e sei mesi dopo erano sposati. Vedete, ragazzi? Quei Libri ce li avete nel sangue.» «E lei come li ha conosciuti?» chiese Kate. «Durante la mia ricerca dei due Libri perduti, tutta personale, era mia abitudine seguire le ricerche accademiche in corso. Leggendo gli articoli dei vostri genitori, capii di potermi fidare di loro. Cominciammo a lavorare
insieme. Ovviamente non potevo immaginare chi sarebbero stati i loro figli. Col senno di poi, sì, qualche segno c’era...» Scrollò le spalle e lasciò ricadere le mani. «Ma poi, quattro anni fa, subito dopo Natale, Katherine comparve nel mio studio e fine della storia.» Alla parola «Natale», in Kate riemerse un ricordo: un uomo alto e magro sulla soglia della sua cameretta. Era un ricordo dell’ultima notte con i genitori. All’improvviso i tasselli si ricomponevano, la sensazione di aver già visto, nella biblioteca di Cambridge Falls, nella cella nanesca, di aver già visto il dottor Pym... «Era lei! È stato lei a portarci via dai nostri genitori!» «Forse. Ma anche qui si sta parlando di fatti di là da venire.» «D’accordo» disse Kate. «Cosa intendeva dire con ’chi sarebbero stati i loro figli’? Chi siamo noi?» «Voi siete speciali. E un giorno, quando ne avremo il tempo, vi spiegherò tutto.» Kate fece per protestare. Era giusto che sapessero... «E lo saprete. Quando sarà il momento. Katherine, devi imparare a fidarti di me.» Si alzò in piedi. «Adesso voglio andare a vedere come se la stanno cavando Robbie e Gabriel.» «Aspetti» disse Michael. «Come ci chiamiamo di cognome?» «Il cognome. Ma sì, questo posso dirvelo. Il vostro vero cognome è... Wibberly.» I ragazzi si scambiarono un’occhiata. «Wibberly?» disse Kate. «È sicuro?» «Certo. È Wibberly, assolutamente.» «All’orfanotrofio dicevano che il nostro cognome iniziava per P!» «Ah, sì? Strano.» «Ma sarà stato lei a dirgli di chiamarci così!» protestò Kate. «È stato lei a portarci là. Perché dire che ci chiamavamo P se il nostro cognome era Wibberly?» «Per proteggervi, immagino. Chiamarvi ’i tre W’ avrebbe facilitato troppo le cose.» «Ma allora perché non darci un nome completamente diverso?» disse Michael. «Smith! O Jones! Uno qualsiasi! Sa quanto siamo stati presi in giro per avere una lettera dell’alfabeto come cognome?!» «Mmm, probabilmente non ci avevo pensato. Vi faccio le mie scuse. Ma adesso devo andare. Torneremo dopo sull’argomento.» Uscito lo stregone, per un lungo momento nessuno dei tre parlò. Sentivano l’esercito che, fuori dalla porta, cominciava a muoversi. «Wibberly» ripeté Kate. «Mi... mi suona, sì.» «Già» concordò Michael. «Sembra quello giusto.»
«A me continua a piacere Penguin» commentò Emma. «Ma vabbè, Wibberly può andare.» «Mi dispiace» disse Kate. «Avrei dovuto dirvelo subito, che avevo visto la mamma. Solo che... avevo paura, parlandone, di perdere il ricordo. Di perdere lei. Di nuovo.» «Lo capisco» disse Michael. «È per questo che io prendo appunti. È troppo facile dimenticare. Se ti scrivi le cose, sai che sono lì.» Passò la mano sul quaderno e Kate all’improvviso capì di avere davanti agli occhi un ragazzino al quale era stata rubata tutta la vita e che si aggrappava a quel che poteva. «Adesso ce lo racconti?» chiese Emma. «Per favore.» Kate li guardò: vide la fiducia che ancora riponevano in lei, che avrebbero sempre riposto in lei, e si chiese come aveva fatto a tenersi per sé una cosa come quella. Apparteneva a tutti o a nessuno dei tre. Frugando nella memoria in cerca del ricordo, si accorse che qualche particolare era già lontano, già confuso. Non si lasciò prendere dal panico. Si sforzò di concentrarsi su quanto sapeva, i vestiti che la mamma indossava, il colore dei capelli, le parole che aveva pronunciato, e scoprì che, più parlava, più ricordava; descrisse il calore della voce, un piccolo neo sulla guancia, la mano posata sulla maniglia; parlò della stanza, descrivendo il fuoco nel caminetto, i rossi e i bruni a spirale del tappeto, la scrivania stracarica del dottor Pym, fuori la neve che cadeva delicatamente, e poco dopo fu come ritrovarsi di nuovo là, davanti a sua madre, solo che stavolta c’erano anche Michael ed Emma ed era anche il loro ricordo. Kate sapeva che con l’andar del tempo Emma e Michael avrebbero modificato i particolari a loro piacere: l’abbigliamento della madre, le cose che aveva detto, la neve trasformata in temporale, ma la faceva star meglio sapere che ora il ricordo apparteneva a tutti e tre e che al ricordo, e alla madre, si sarebbero aggrappati insieme, più forte di quanto lei avrebbe mai potuto fare da sola. Dopo, tutti e tre tacquero. L’aria sembrava più fresca e dai muri filtravano, rassicuranti, le grida degli ordini e il rumore degli uomini e dei nani al lavoro. Poi Kate disse: «Ho avuto una visione. È per questo che sono svenuta. Non perché avevo fame o cose del genere». Raccontò di aver visto la battaglia nella Città Morta. Solo che nel sogno era diversa. C’erano meno Strillatori. E non c’erano nani né orde di mostri che uscivano a fiotti. Solo il piccolo drappello di uomini di Gabriel. Che aveva vinto. Aveva battuto gli Strillatori. Poi gli uomini di Gabriel e i prigionieri liberati si erano uniti all’esercito e avevano marciato sulla città.
«Ma non è andata così» disse Emma. «Devi aver visto sbagliato.» Kate scrollò le spalle. «È quel che ho visto.» «E hai visto solo questo?» chiese Michael. «No.» Kate disse che nella visione la Contessa sapeva che Gabriel e gli altri stavano arrivando e si era trasferita con tutti i bambini sulla nave in mezzo al lago. «Ma perché dovresti aver visto cose che non sono successe?» insistette Emma. «È assurdo.» «Forse è successo, invece» rispose Kate. «Forse sta succedendo ancora. Appena prima della visione, Robbie e il dottor Pym stavano parlando della marcia sulla città. Credo che la mia visione fosse un avvertimento.» «Quale avvertimento?» disse Emma. «Gabriel li ha salvati, quei bambini, giusto? Avrai visto anche questo, no?» Kate infilò la mano in tasca e tirò fuori le due fotografie. Erano ancora umide, dopo la nuotata nel lago sotterraneo. C’era quella che la ritraeva nella camera da letto della casa di Cambridge Falls, il loro biglietto di ritorno, aveva pensato Kate, e c’era l’ultima foto scattata da Abraham. Osservò bene quest’ultima: le figure scure che uscivano dal bosco, il bagliore delle torce. La voltò. «No. La diga ha ceduto, la nave è andata giù per la cascata e i bambini sono morti. La Contessa, con il suo ultimo respiro, ha maledetto la terra.» Passò la foto a Michael. «Abraham l’ha scattata quando è successo. Guarda dietro.» Scribacchiate in caratteri piccolissimi, c’erano decine di nomi. Kate ne indicò uno. Michael lesse: «Stephen McClattery». «Moriranno tutti.» «No!» Emma scattò in piedi. «Non andrà a finire così! Quello era l’altro passato! Quello che hai visto tu! Prima che arrivassimo qui! L’hai detto tu che il dottor Pym non c’era! E i nani! Serviranno pur a qualcosa! La fermeranno! Salveremo i bambini e poi il dottor Pym ci porterà dai nostri genitori! Hai sentito anche tu! Lo ha promesso! Hai sentito cos’ha detto, Kate!» La porta si aprì rumorosamente: era Wallace. «Forza, ragazzi! Si mangia! Op-op-op! Sinistr! Destr! Forza, tra poco l’esercito si mette in marcia!» «Voi cominciate pure» disse Kate. «Io arrivo subito.» Michael infilò la foto di Abraham nel quaderno; poi lui ed Emma uscirono con il nano. All’ultimo momento, Kate chiamò la sorella. Le tese l’altra foto, quella di lei nella camera da letto. «Meglio che la tenga tu.» «Sì? Perché?»
Perché voglio che tu abbia una mia foto, quasi le sfuggì detto. «Perché... perché è meglio così. Vai, adesso.» Dopodiché fu sola. Kate sapeva con assoluta certezza che, se non avesse fatto niente, se avesse lasciato semplicemente che Gabriel e il dottor Pym perseguissero il loro piano, niente sarebbe cambiato. Il tempo, aveva cominciato a capire, era come un fiume. Si potevano erigere ostacoli, magari deviarne momentaneamente il corso, ma alla fine il fiume faceva di testa sua. Voleva scorrere in un certo modo. Per fargli cambiare corso bisognava forzarlo. Bisognava essere disposti al sacrificio. Kate ripensò alla promessa, fatta a Annie e agli altri bambini, di tornare a prenderli. Si mise la mano in tasca e tirò fuori la chiave che aveva usato per aprire la gabbia. Le sarebbe piaciuto aver visto i suoi genitori. Dieci minuti dopo, un uomo che passava davanti alla gabbia del Segretario vide che la porta era aperta e il prigioniero non c’era più. In quello stesso momento, Emma, corsa a chiamare la sorella, scopriva che nemmeno lei c’era più.
Capitolo 21 Il patto col diavolo † L’aria diceva a Kate che erano ormai vicino. Non era più l’aria umida e stantia che respirava dalla mattina precedente; questa era aria fresca, pulita. Anche il Segretario doveva essersene accorto. «Ci siamo quasi» disse affannato, stringendo più forte il braccio a Kate, che teneva più per sorreggersi che per averla sotto controllo, «ci siamo quasi...» Non c’erano guardie appostate davanti alla gabbia e Kate era riuscita ad avvicinarsi inosservata e a sussurrare la sua proposta fra le sbarre. Se la Contessa avesse liberato i bambini e se ne fosse andata senza più far male a nessuno, Kate le avrebbe consegnato l’Atlante. Ma il Segretario doveva portarla a Cambridge Falls prima dell’arrivo dell’esercito di Robbie e Gabriel. Poteva farlo? Sì, aveva sogghignato l’uomo, un modo c’era. Adesso, mentre i due avanzavano con passo incerto nel tunnel, Kate, tenendo alta la lanterna che avevano trovato, pensava a Emma e Michael. Se ne avesse avuto il modo, gli avrebbe detto che le sue visioni non erano come i film. Le cose che succedevano, non le guardava: le viveva. Quando la nave era andata giù per la cascata, lei era a bordo. Mentre precipitava verso gli scogli, lei aveva provato le stesse emozioni che avevano provato i bambini. Il loro sgomento era stato anche il suo, e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di risparmiargli quel dolore. Insieme al segretario, Kate sbucò da una curva e, per la prima volta in due giorni, si ritrovò all’aria aperta. Erano sopra la valle, su un sentiero che tagliava il fianco della montagna. La luna era quasi piena e inondava tutto di un riposante chiarore argenteo. A Kate sembrò lo spettacolo più bello che avesse mai visto. Sull’orlo del burrone, il Segretario si lasciò cadere sulle ginocchia e si mise a disegnare con il dito nella terra. «Cosa fa? Gli altri mi staranno cercando! Dobbiamo...» «Sst! Devo concentrarmi.» Kate guardò verso il tunnel alle sue spalle. Si aspettava di sentir gridare il suo nome da un momento all’altro, di veder avvicinarsi la luce delle torce. «Ecco.» Il Segretario si tirò su pulendosi le mani sulla giacca. «Fatto.» «Fatto cosa? Ha solo tirato una riga nella terra.» «Ah, ma è una riga speciale.»
«Il dottor Pym e Gabriel saranno qui da un momento all’altro! Aveva detto che sapeva arrivare alla città!» «Infatti lo so. Da questa parte. Scavalca la riga.» Kate guardò la riga, lunga un metro e non proprio diritta, incisa nella terra. «Sta scherzando.» «Ti porterà dalla Contessa. È una magia, me l’ha garantito lei.» «Mmm. Be’, ci sarà pur un altro modo. Se corriamo...» Con un balzo, il Segretario le piantò addosso la sua faccia sudata. «Non c’è un altro modo! Fra poco i tuoi amici saranno qui! Questo pulcino li vuole salvare o no, i bambini? E allora deve volare! Vola, vola, vola....» Indietreggiò e fece un gesto in direzione della riga come un orrendo maître. Kate si accorse che stringeva qualcosa in mano. Era l’uccellino piccolissimo che aveva già visto, ma il corpo era immobile e floscio. «E lei?» «Apprezzo molto l’interessamento. Ma c’è posto solo per un pulcino. Griddley Cavendish troverà un’altra strada.» «Come faccio a sapere che non sta cercando di uccidermi?» Lui sfoderò il suo lurido sorriso a denti rotti. «Non puoi. E adesso... vola!» Kate si sentì raggelare il sangue. Fece un passo tremolante verso la riga. Dalla valle soffiò una brezza che le spinse indietro i capelli. Guardò giù. Ai suoi piedi, in lontananza, riusciva a scorgere la base rocciosa del monte. Poi udì la flebile eco di un grido. E poi un’altra. Arrivava dal tunnel: qualcuno la chiamava. Chiuse gli occhi e fece un passo nel vuoto. Col piede urtò qualcosa di duro. Udì un rumore come dell’acqua che sbatte contro il metallo, il rombo sommesso di un motore. Aprì gli occhi. Era sul ponte di una nave; la luna si rifletteva sulla superficie del lago. La magia del Segretario aveva funzionato. «Katrina...» Kate si girò di scatto. Lì c’era la Contessa, fiancheggiata da due morum cadi. Batté le mani tutta contenta. «Sei qui! Come sono felice!» ______________________
Non avendo trovato la sorella, Emma era corsa a dirlo a Michael e aveva trovato tutti in subbuglio perché il Segretario era scomparso dalla gabbia. Prese da parte il fratello. «Devi aiutarmi a cercare Kate. Nella stanza non c’era.»
Il dottor Pym, sentite di sfuggita queste parole, si precipitò da loro e prese Emma per il braccio. «Che cos’hai detto?» Emma glielo ripeté e il dottor Pym emise un lungo sospiro. «Ah, bruttissima faccenda.» Proprio in quel momento, un uomo fu portato da lui. Aveva visto due figure correre verso i confini orientali della città. Il dottor Pym disse a Gabriel: «Tu vai. Noi arriviamo subito». Il gigante si girò e in un attimo scomparve. Il dottor Pym diede istruzioni a Robbie di raccogliere un gruppo più consistente e di raggiungerli al più presto. «Andiamo, ragazzi. Ho paura che vostra sorella stia per fare un grave sbaglio.» E tutti e tre si misero in marcia dietro Gabriel. Mentre percorrevano spediti il tunnel, il dottor Pym insistette per farsi raccontare da Michael ed Emma quanto sapevano. Era impossibile non capire che faceva sul serio, e loro non gli tacquero nulla. Gli raccontarono della visione di Kate, dei bambini raccolti sulla nave dalla Contessa, della distruzione della diga, della morte di tutti i bambini. E gli dissero che secondo Kate quella visione era un avvertimento. «Dovevo stare più attento» mormorò il dottor Pym, allungando il passo. «Prego solo che non sia troppo tardi.» Quando sbucarono dal tunnel sul fianco della montagna, Gabriel era in ginocchio, a esaminare il terreno al chiaro di luna. «Non capisco. Le orme mostrano che l’uomo se n’è andato via da solo sul sentiero. La ragazza invece...» Si interruppe, lanciando un’occhiata a Emma e Michael. «... Dalle sue orme si direbbe che sia andata giù nel burrone. Non credo che sia stata spinta. Ma giù sulle rocce il corpo non c’è.» «Cosa?» La voce di Emma sapeva di panico. «No! Ti sbagli per forza! Scusami, Gabriel, ma col buio che c’è non avrai visto bene! Guarda meglio quelle orme!» Il dottor Pym stava osservando la riga che il Segretario aveva disegnato nella terra. «Non c’è nessun corpo» disse «perché Katherine è con la Contessa.» E spiegò che quella riga era una porta magica. «Quindi anche noi possiamo usarla?» chiese Michael. «No. È stata concepita per trasportare una sola persona. Varcarla adesso significherebbe andare a morire.» La cancellò con la punta della scarpa. Arrivò un rumore di passi e dal tunnel uscirono di corsa Robbie e diversi altri nani e uomini. «Siamo arrivati troppo tardi» disse il dottor Pym. «È con la Contessa. Io, Gabriel e i ragazzi andremo subito a Cambridge Falls. Quando l’esercito sarà radunato, seguite questo sentiero. Vi condurrà alla
città.» «Lei è matto» trasalì il nano. «Se la ragazza è con la strega, non c’è più niente da fare. E poi ci vogliono ore per arrivare in città a piedi.» «Allora non perdiamo tempo. Forza, seguite il sentiero.» Rivolse un cenno della testa a Gabriel e ai ragazzi e si incamminò, col suo passo lungo e spedito. «Dottor Pym!» Michael e la sorella gli si misero subito alle calcagna, cercando di non inciampare sul sentiero roccioso che serpeggiava giù per il monte, mentre Gabriel li seguiva a pochi passi di distanza. «Re Robbie ha ragione. Così ci metteremo ore ad arrivare.» «Già» disse Emma, «perché non fa una di quelle porte?» «Non serve. Conosco una scorciatoia. Adesso statemi vicino.» Mentre diceva così, i ragazzi videro che stavano entrando in una specie di nebbiolina, o forse una nube: strano, perché fino a qualche istante prima il cielo era stato assolutamente sereno. Di lì a poco la nebbia si fece tanto fitta che il dottor Pym ordinò a Michael ed Emma di tenersi per mano perché non finissero nel precipizio. Loro seguirono lo stregone guardando il contorno sfocato della sua schiena e poi, quando anche questo fu inghiottito, ascoltando la sua voce che gridava nella nebbia: «Adesso state attenti, c’è un tratto difficile. Attenti...» Poi, come se non vederci non complicasse abbastanza le cose, anche gli altri sensi cominciarono a tirare brutti scherzi. Sentivano odore d’alberi pur sapendo che non ce n’erano, udivano acqua inesistente sciabordare contro una riva, addirittura il pendio roccioso pareva appiattirsi e ammorbidirsi. Michael si stava ripromettendo di fare ulteriori ricerche sul disorientamento causato dalla nebbia quando il dottor Pym annunciò: «Ed eccoci arrivati». Michael rimase senza fiato. «Ma come...?» cominciò a chiedere Emma. «Ve l’avevo detto che conoscevo una scorciatoia» rispose il dottor Pym. Usciti dal banco di nebbia si ritrovarono a Cambridge Falls, sulla riva del lago, a guardare l’acqua illuminata dalla luna. Michael si girò e vide Gabriel sbucare da un tunnel di bruma fra gli alberi. Quando li ebbe raggiunti, il dottor Pym disse: «Amici, siamo giunti alla parte più difficile del nostro compito. Inutile ricordarvi che ci sono delle vite in gioco. Katherine e i bambini sono sulla nave con la Contessa. Io mi occuperò di loro. Gabriel, sarà meglio che tu vada subito alla diga. La Contessa potrebbe averla sabotata. Fa’ quel che puoi». «Io vado con Gabriel» disse Emma. «Potrebbe aver bisogno di me.» Guardò in su verso il gigante. «Non si sa mai.» «Benissimo» approvò il dottor Pym.
«Michael, ragazzo mio, tu verrai con me. Svelti, adesso, e buona fortuna a tutti noi.» ______________________
Kate chiuse gli occhi e richiamò alla mente l’immagine della stanza foderata di libri; visualizzò il fuoco nel caminetto, fuori la neve che scendeva, il dottor Pym alla scrivania, con la sua pipa e la tazza di tè, e vide entrare la madre, la sentì dire che Richard era ancora al college; tutti i particolari erano vividi e chiari... Aprì gli occhi e vide le tende di raso rosso, le poltrone foderate di velluto spesso, il tavolo mogano e oro; da un Victrola in un angolo arrivava sempre la stessa alta, ossessiva melodia, mentre, alle pareti, delle lampade a gas mandavano una luce tremolante che si rifrangeva sui cristalli di un lampadario riccamente decorato. Kate sospirò. Era ancora sulla nave. Ancora nella cabina della Contessa. «Katrina, cominci a farmi perdere la pazienza.» La Contessa indossava una gonna nera che rendeva quasi luminescente la sua pelle chiara e, alla luce incerta, gli occhi viravano dal violetto all’indaco al lavanda nell’arco di pochi istanti. Si versò un bicchiere di vino e guardò Kate con un’espressione annoiata. Fin dall’arrivo sulla nave, niente era andato come Kate aveva programmato. A cominciare dalla sua richiesta di vedere i bambini... «Mia cara, non è proprio possibile. Ma ti ammiro perché pensi sempre agli altri. In questo ci assomigliamo molto.» «Se hai fatto del male a qualcuno di loro, non ti aiuterò a prendere l’Atlante.» «Oh-oh-oh, ma senti un po’ chi ha imparato il nome del libro magico! Brava, ma chérie!» «Guarda che faccio sul serio!» aveva gridato Kate, cercando, senza riuscirci, di non far tremare la voce. «Dovrai passare sul mio cadavere. Lo so che tieni qui un mostro.» «Ma che brava! Per combinazione, ho liberato quel cattivone proprio prima di salire a bordo. Ho pensato che poteva accogliere gli uomini della città al loro arrivo.» «Cosa? Ma non puoi! Hai...» «Oh, insomma, sei venuta a salvare i bambini o una banda di zoticoni? Mi dispiace, ma non puoi avere tutt’e due le cose.» «Benissimo» aveva ribattuto Kate, pensando che il dottor Pym e Gabriel avrebbero dato del filo da torcere alle creature della strega. «Libera i bambini e io ti porterò il libro.»
La Contessa aveva schioccato la lingua. «Mi sembri un po’ confusa sull’ordine delle cose. Prima tu mi porti l’Atlante e poi io libero i prigionieri.» «Non è...» «Tesoro, sii ragionevole. Lo sai che i bambini sono la mia unica protezione! Non che io abbia bisogno di proteggermi da te, che sei un angelo! Ma ho il sospetto che frequenti gente poco raccomandabile, come nani e stregoni, o sbaglio? Ovviamente ti perdono. Tutti sbagliamo, da giovani. Potrei raccontarti di un certo maestro di ballo italiano... No, no, prima il libro e poi i bambini.» «Ma...» «Non appena lo avrò, li libererò. Ti do la mia parola.» La Contessa l’aveva guardata con un’espressione beffarda e in quel momento Kate aveva capito davvero che la Contessa la teneva in pugno. Afferrati i braccioli, aveva pensato ai bambini chiusi chissà dove nel ventre della nave e aveva chiesto cosa doveva fare. «Tesoro mio, è la cosa più facile del mondo!» A detta della Contessa, bastava che Kate immaginasse il momento desiderato; dopodiché, tenendo ben saldo in mente quel pensiero, con l’aiuto della Contessa sarebbe stata trasportata in quel momento e in quel luogo. Ricordava la prima volta che era andata nel passato con il fratello e la sorella? Quando avevano messo la fotografia sulla pagina bianca? «Questo cosa c’entra?» «Be’, non penserai che l’Atlante, migliaia di anni fa, sia stato concepito per essere usato con le fotografie! Le foto semplicemente forniscono un’immagine chiara. Data una certa destinazione, con una foto, un disegno, un’immagine mentale o anche, basterebbe avere il controllo necessario, cosa che tu purtroppo non hai, la frase ’portami là’, l’Atlante ubbidirebbe. Noi l’Atlante non ce l’abbiamo. Però parte del suo potere risiede in te e si può applicare lo stesso principio.» Così, più e più volte, Kate aveva chiuso gli occhi e si era visualizzata nello studio del dottor Pym, ma per poi ritrovarsi puntualmente nella cabina. Alla fine non resse alla frustrazione. «Non funziona! Avevi detto che mi avresti aiutata!» «Ti sto aiutando» sospirò la Contessa. «In modi che non capisci. Ma ti stai immaginando nel passato? Ti stai visualizzando nel momento preciso del passato nel quale hai lasciato il nostro libro prezioso?» «Sì! Sto facendo tutto! Forse non riesco a...» «Ssst.» La Contessa andò a posarle una mano dietro il collo. Nella cabina faceva troppo caldo e la mano della giovane donna era fresca. «Devi rilassarti, se no la magia non verrà. Di quanti anni fa stiamo parlando?» Kate espirò, da una parte con la voglia di togliersi di dosso la mano della
Contessa e dall’altra godendosi quel benefico effetto. «... quattro.» «Quattro anni. E tu dove sei? Descrivi il posto.» «È una stanza. Una specie di studio. C’è il fuoco acceso. Fuori nevica. Nella stanza c’è il dottor Pym.» «Nessun altro?» Kate pensò di mentire, ma a che scopo? Le serviva l’aiuto della Contessa. «Mia... madre. Entra.» La Contessa emise un piccolo «Ah», come se Kate le avesse mostrato una cosa bella. «E che sentimenti provi per tua madre?» «Le voglio bene.» «Certo che le vuoi bene. Ma non c’è altro? Ha abbandonato te e i tuoi fratelli.» «Ha dovuto. Per proteggerci.» «Davvero? Come fai a saperlo?» Kate non aveva risposte. «Capisco.» La Contessa le stava accarezzando i capelli. «E quando se n’è andata, chi ha lasciato a prendersi cura dei tuoi fratelli?» «Ha detto a me di farlo.» «Ma eri appena una bambina!» Kate sapeva che quel rancore era solo una messinscena, ma una parte di lei non riusciva a sottrarvisi, la stessa parte che non sopportava più la fatica di prendersi cura di Michael ed Emma, la stessa parte che per tanto tempo aveva pregato il cielo che arrivasse qualcuno a dirle: «Basta, adesso puoi riposarti. Ci sono io. Mi prenderò io cura di voi». «Forse senza questo andrà meglio.» Kate vide passarle davanti la mano della Contessa: ci fu un lampo d’oro e quando sollevò gli occhi dovette soffocare un grido. La Contessa, chissà come, le aveva tolto il medaglione della madre. «Un regalo che ti ha fatto lei, immagino. Mentre parlavamo lo toccavi.» «È mio...» «Sst. Questo è un ricordo di tua madre. Ecco perché lo stregone l’ha scelto. La porta che cerchiamo sono i tuoi sentimenti. Tu provi amore, certo, e un senso di abbandono. Ma c’è dell’altro.» Chiuse il medaglione nel pugno. «Perché si compia una magia come questa bisogna che ti scopra completamente. I tuoi genitori ti hanno abbandonata. Non dirmi che non provi rabbia, frustrazione, magari anche indignazione. Se vuoi salvare i bambini non devi reprimere niente.» «Ma io non reprimo niente!» Kate si sottrasse allo sguardo della donna. Si accorse di tremare. «So che hai paura. Ma è l’unico modo.»
Kate vedeva penzolare l’estremità della catenella: sarebbe bastato allungare la mano e afferrarla. «Katrina.» Trascorse un lungo momento. Kate ascoltava l’inquietante melodia che arrivava dal Victrola e guardava la luce a gas tremolare contro le pareti. Annuì. «Bene. Adesso chiudi gli occhi.» Kate ubbidì. Di nuovo, si immaginò nello studio, con la neve, fuori, che cadeva, l’odore di tabacco del dottor Pym, il fuoco. Visualizzò la madre che entrava. E poi, siccome non succedeva nulla, finalmente si lasciò andare e tutta la rabbia, tutta la paura, tutti i dubbi che per tanto tempo aveva tenuto a bada le inondarono il cuore. Perché i loro genitori li avevano abbandonati? Che ragione potevano aver avuto per lasciarli soli? Per dieci anni, Kate aveva tenuto unita la famiglia tutta da sola e la fatica l’aveva quasi spezzata. Chissà, si chiese, se i loro genitori li avevano mai cercati. Forse se n’erano andati e basta. A ricominciare una vita nuova con... Sentì uno strappo nelle viscere e capì che era successo. Aprì gli occhi e lì c’era sua madre, esattamente come l’aveva lasciata, la mano sulla maniglia, la bocca ancora aperta per la sorpresa. Kate lanciò uno sguardo al dottor Pym. Era seduto alla scrivania e sorrideva. «Oddio.» Sua madre fece un passo indietro. «Un attimo fa eri qui e poi... Oddio...» ______________________
Emma e Gabriel erano sul limitare del bosco, accucciati a terra dietro un albero caduto, a una cinquantina di metri di distanza dalla diga. Tre morum cadi, provvisti di torce, facevano la guardia. Gabriel si era tolto l’arco dalle spalle e aveva assicurato una freccia alla corda. Altre due frecce erano piantate per terra. Stava aspettando che una nube coprisse la luna. Emma guardò al di là della forra, verso la vasta distesa nera del lago. Cercò di immaginare la diga che si rompeva e tutta quell’acqua nera che si riversava giù nella cascata, portando con sé la nave, i bambini, sua sorella, tutto. Non dovevano lasciare che succedesse. «Gabriel...» «Ssst.» Lui si era girato a guardare fra gli alberi alle loro spalle. «Cosa c’è?» «Non lo so. C’è qualcosa che...»
Furono sorvolati da un’ombra ed Emma, guardando in su, vide scomparire l’ultimo spicchio luminoso di luna. Accanto a lei si levò un sibilo, poi un altro, e due torce caddero a terra accese mentre Gabriel preparava una terza freccia; quando anche questa fu scoccata, Emma rimase a guardare l’ultima torcia vacillare e poi svanire giù nella forra. «Facciamo piano, adesso» sussurrò Gabriel. «Dentro potrebbero essercene altri.» Attraversarono di corsa il terreno aperto ed Emma aggirò i corpi fumanti degli Strillatori quando Gabriel si fermò a raccogliere una torcia. Sopra di loro giganteggiava la sommità della diga, che sporgeva di due o tre metri sopra l’orlo della forra. Da vicino, la struttura era imponente ed Emma si rese conto di aver sempre pensato che la diga fosse un unico blocco compatto di legno. Invece no: c’era una porta, e Gabriel l’aprì su una rampa di scale che scendevano. Andò avanti lui e, dopo aver controllato che la via fosse libera, fece cenno a Emma di seguirlo; poi scesero due rampe nell’aria fredda e umida, con la torcia di Gabriel che illuminava i gradini, e infine sbucarono su una specie di balcone. «Urca!» Emma si fermò di colpo e rimase a guardare. Una fila di fioche luci di un vago arancione erano appese in tutta la diga, delineando un sistema di travi di legno che andavano da muro a muro come le costole di una bestia enorme. Faceva uno strano effetto starsene lì, con una decina di altre rampe di scale che scendevano e il corpo principale della diga che si incurvava; si aveva l’impressione di essere in uno spazio enorme. Nello stesso tempo, poiché il muro frontale e quello posteriore distavano fra loro soltanto cinque o sei metri, tutto appariva stretto e compresso. Emma si sostenne alla balaustra per non perdere l’equilibrio. «Incredibile che sia tutto vuoto, eh?» Gabriel non rispose. «Cos’è questo rumore?» chiese Emma. Tutt’intorno montava e calava un cigolio inquietante, come di qualcosa che si sgancia. «La pressione dell’acqua fa strofinare il legno contro il legno.» Emma cercò di immaginare la massa d’acqua premere contro il fronte curvo della diga. Le sembrava di essere nella pancia di una gigantesca balena di legno. «Guarda là.» Si girò in direzione del punto che Gabriel indicava. Molto al di sotto di loro, al di là della foschia arancione, riuscì a scorgere cinque o sei luci verdi, disposte a intervalli regolari lungo il fronte della diga. «Mine a gas. Abbiamo poco tempo. Quando la luce diventerà rossa,
esploderanno.» Varie domande agitavano la mente di Emma. Quanto tempo avevano esattamente? Come si faceva a spegnere una mina? E che cos’era una mina? Non riuscì a formularne neanche una, perché Gabriel la spinse a terra e qualcosa volò sopra di loro con un grido terrificante. Gabriel si rialzò subito e impugnò l’arco. Emma, ancora distesa a pancia in giù, allungò il collo. Una sagoma scura zigzagava fra le travi, invertendo direzione per tornare verso di loro. Lei guardò la freccia di Gabriel rimbalzare sul fianco della creatura senza nemmeno scalfirla. Altre due frecce non sortirono risultati migliori e la creatura atterrò come un avvoltoio su una trave a qualche metro di distanza. Niente di quanto Emma avesse visto finora, non gli Strillatori della Contessa, né i ciechi salmac-tar abitatori delle tenebre, l’aveva preparata a questo. La creatura aveva corpo d’uomo, braccia, gambe, spalle, , ma la prima impressione di Emma era stata di vedere un pipistrello enorme. Aveva ali coriacee, lunghi artigli che avvinghiavano il legno e la pelle grigionera irta di pelo scuro. Nel cranio stranamente stretto gli occhi erano poco più che nere fessure e la mandibola sporgeva orribilmente mostrando schiere di denti spilliformi. Le sembrava quasi di sentirseli affondare nella carne. Gabriel mise giù l’arco e risollevò in piedi Emma. «Che... che cos’è?» Lui sguainò la scimitarra. La creatura li osservava, sibilando. «È il mostro che la strega teneva sulla nave. Mi era sembrato di sentirne la presenza, nel bosco.» Si girò verso Emma per guardarla negli occhi. «Devi disinnescare le mine. Tutto dipende da te. Hai capito?» «Ma...» «Non preoccuparti per me. E qualsiasi cosa succeda, non guardare in su. Vai!» La spinse verso le scale. Lei si fermò a guardare alle sue spalle e vide la creatura sollevarsi, con le ali che si spalancavano, le mascelle aperte, tutti quei denti che luccicavano orribilmente nel buio. E vide Gabriel levare la scimitarra. Poi si mise a correre, con il grido della creatura che la seguiva giù per le scale. ______________________
Michael e il vecchio stregone planavano sul lago diretti verso la nave della Contessa.
Erano su una barca («dinghy» era la parola venuta in mente a Michael) che avevano trovato abbandonata a riva. «Ah, la provvidenza!» aveva esclamato il dottor Pym. I remi si erano rivelati superflui: erano bastate poche parole del dottor Pym perché l’imbarcazione partisse a razzo, per poi procedere a balzi sul pelo dell’acqua. «Ma non ci vedranno arrivare?» Michael era aggrappato al fianco della barca. «Non c’è da preoccuparsi» gridò lo stregone, con il vento che si portava via le parole. «Agli occhi nemici sembreremo solo nebbiolina. Zitti, adesso. Ci siamo quasi.» La barca cominciò a rallentare e Michael riuscì a distinguere due figure nere sul ponte della nave della Contessa. Il dottor Pym disse qualcosa sottovoce e, con sorpresa di Michael, le due forme nerovestite si afferrarono alla balaustra e saltarono in acqua. Aspettò che riemergessero, ma qualche momento dopo l’acqua tornò calma e lui capì che se n’erano andate. Legò la barca a una scaletta fissata al fianco della nave. «Svelto, ragazzo. Il rumore potrebbe richiamarne altri.» Avevano appena messo piede sul ponte quando Michael udì risuonare dei tacchi di stivale e dal buio sbucarono quattro morum cadi, due da una parte e due dall’altra. Il dottor Pym prese Michael per il braccio e sussurrò: «Non muoverti». Le creature, ormai abbastanza vicine perché Michael ne scorgesse il sinistro pallore, stavano levando la spada e lui si preparò al peggio, con le lame che luccicavano tutt’intorno e il fragore del metallo che lo assordava; quando aveva ormai capito che gli Strillatori stavano combattendo fra loro senza badare minimamente a lui e al dottor Pym, le quattro creature caddero sul ponte, fumanti e senza vita. Michael guardò stupito lo stregone. «Come ha fatto?» «Confondere e sviare. Due pilastri per qualsiasi illusionista. Vieni.» E scese dal ponte. Trovarono altre due guardie della Contessa: con la prima quasi si scontrarono svoltato un angolo. Senza darle il tempo di attaccare, il dottor Pym fece un gesto e la creatura lasciò cadere la spada, si sedette e rimase lì a fissare il vuoto. «Molto meglio» disse il dottor Pym. «Da questa parte, credo.» Condusse Michael al di là di un ingresso e poi giù per due rampe di strette scale metalliche, fino a un corridoio nelle viscere della nave, dove un unico morum cadi era di sentinella a sei porte. Il dottor Pym mormorò qualche
parola incomprensibile e lo Strillatore abbassò la spada e la faccia gli si contrasse in un ghigno che Michael trovò decisamente macabro. Il dottor Pym allungò la mano per toccargli le labbra. Quella cosa che un tempo era un uomo deglutì due volte, mosse la mascella e parlò. «In cosa posso esserle utile, signore?» La voce era rigida e gracchiante, come se non la usasse da cent’anni. «In quanti siete sulla nave?» «In dieci.» «Quindi ce n’è un altro. Di sicuro sul ponte. E la Contessa è in cabina con la signorina?» «Sì, signore.» «Molto bene. Immagino che tu abbia la chiave delle celle dei bambini, vero?» Solo allora Michael udì, smorzate, le voci spaurite dei bambini. Echeggiavano da un lato e dall’altro del corridoio. I piccoli gridavano, piangevano, battevano i pugni contro le pareti. Era un rumore tanto regolare e costante che lo aveva preso per il rombo del motore. La creatura estrasse una chiave dalla tunica lacera. «Voglio che tu apra le porte, conduca fuori i bambini ordinatamente e li aiuti a salire a bordo della barca di questo giovane. È chiaro?» «Sì, signore.» Il dottor Pym si rivolse poi a Michael. «Vado a occuparmi dell’ultimo morum cadi. Poi andrò a cercare tua sorella. Porta a riva tutti i bambini che puoi. Dovrai fare qualche viaggio.» «D’accordo.» «Sono molto orgoglioso di te, ragazzo mio.» Gli diede una strizzatina sulla spalla. Poi disse alla guardia: «Il comando lo prende questo giovane. Fa’ tutto quel che dice» e se ne andò, scomparendo su per la scaletta di metallo. Michael sollevò lo sguardo verso la faccia mutata dello Strillatore. Tirò un bel respiro, raddrizzò il distintivo che gli aveva dato Robbie e cercò di assumere un tono autorevole. «Bene, andiamo a tirarli fuori. Ma togliti dalla faccia quel sorriso. Fa accapponare la pelle.» ______________________
«Clare, vorrei presentarti Katherine...» Pronunciando i loro nomi, lo stregone posava lo sguardo ora sul viso di Kate ora su quello della madre. Kate vide che cominciava a collegare, a capire chi
era. «... Katherine, ti presento Clare...» A Kate sembrava che il tempo fosse rallentato. Non per magia, ma perché era lì a farsi presentare a sua madre dallo stregone. Sua madre ora sorrideva, stava dicendo qualcosa, ma Kate non riusciva a cogliere le parole. Poi tese in fuori la mano. Kate guardò giù. La propria mano era macchiata di terra e sporcizia e nei punti in cui si era tagliata su una roccia c’era del sangue rappreso. Di colpo si rese conto dello stato penoso in cui si trovava; dopo tutto non si cambiava i vestiti da giorni, aveva corso sotto la pioggia battente, dormito in una prigione, percorso a nuoto un canale sotterraneo, lottato col Segretario, con tanto di ruzzoloni a terra e morsi all’orecchio; sentiva la sporcizia e l’unto sui capelli, gli strappi nei vestiti, la fatica che senza dubbio le trapelava negli occhi; capì che il sorriso di sua madre era di pietà per la povera creatura che aveva davanti. «Ho la mano sporca.» «Che vuoi che sia.» Prese la mano sporca di Kate nelle sue. «Mi fa tanto piacere vederti, Katherine. A quanto capisco hai fatto un viaggio lunghissimo. Ti porto qualcosa? Acqua? Tè? Potrei scaldarti della cioccolata. E ’Katherine’ è così formale. Posso chiamarti Kate?» Kate sentì un singhiozzo enorme salirle in gola. Aveva aspettato quel momento per anni; perché, allora, voleva soltanto prendere il libro e andarsene? Tolse la mano da quelle della madre e scosse rigidamente la testa. «No, sto bene così.» Il dottor Pym tossì. «Credo che la signorina sia venuta a prendere questo.» Allungò la mano sulla scrivania e sollevò l’Atlante. «Che cosa...» La madre si interruppe, fissando gli occhi sul volume verde smeraldo. «Quello è... Non può essere.» «Sì, invece.» «Ma Stanislaus, ci avevi detto che era sotto chiave! Avevi detto che era al sicuro!» «Per il momento è ancora la verità. Ma a quanto pare le cose cambieranno. Vedi, questa copia arriva dal futuro. E Katherine, a caro prezzo, me l’ha portata perché la custodissi. E immagino che adesso sia tornata a riprendersela.» Aggiunse: «Prima che svanisca nel nulla». «Sì, ma... è solo una ragazzina...» «Clare...» «Dimmi che non hai immischiato questa povera bambina!» «Sono tempi disperati. E poi non sono stato io in senso stretto. Sono stato io
nel futuro...» «Ma Stanislaus, è una ragazzina! Guardala! Riesce a malapena a reggersi in piedi! Chissà quante ne ha passate!» «Non importa» intervenne Kate. «Me la cavo. Non importa. Davvero.» «Mia cara» disse il dottor Pym, sporgendosi dalla sedia, «devo chiedertelo: è al sicuro?» Era una domanda logica; era naturale che il dottor Pym, prima di restituirle il libro, volesse sapere se il pericolo era passato. Ma Kate fu colta alla sprovvista e in quel momento sentì lo sguardo del dottor Pym farsi penetrante. Ma per fortuna si riebbe presto: sospirò e la tensione alle spalle si sciolse. «È tutto a posto. Finalmente.» Riuscì perfino a rivolgergli un piccolo sorriso. «Molto bene» disse lo stregone, e le consegnò l’Atlante. Si era aspettata di sentire lo strappo allo stomaco, di battere le palpebre e ritrovarsi nella cabina della Contessa; invece era ancora lì, con quel libro pesante e familiare in mano, e non succedeva niente. «Adesso» riprese lo stregone, alzandosi in piedi, «vi lascio sole.» E senza dare a Kate alcuna istruzione, se dire o non dire a sua madre chi era, se ne andò. «Mi dispiace» si scusò la madre non appena la porta fu richiusa, «ma sono molto, molto arrabbiata. Non con te, ovviamente. Sono arrabbiata con chi ti ha messa in questa situazione, chiunque sia. Sei troppo piccola.» Kate non disse nulla. Se ne stava lì, con il libro stretto al petto. «So che non dovrei dubitare di quel che dice Stanislaus. Se secondo lui sei all’altezza del compito, devo credergli. È un gran brav’uomo, sai? Oltre a essere uno stregone eccetera eccetera. Io e Richard, Richard è mio marito, gli affideremmo la nostra vita.» Con il fuoco lì accanto e la neve fuori che cadeva dolcemente, c’era tanta pace nella stanza che Kate avrebbe potuto coricarsi sul tappeto e dormire per anni. «Sicura di non voler niente?» Kate scosse la testa. «Dov’è andato Stanislaus? Non dovrebbe rimandarti nel posto... o nel tempo da cui sei venuta?» «L’altra volta è successo e basta. Non so perché stavolta non succede.» «È un bel pezzo, sai, che io e Richard cerchiamo i Libri dell’Inizio. Con Stanislaus, ovviamente. Dimmi, quello è davvero l’Atlante?» Si chinò e Kate sentì il suo profumo. Lo riconobbe subito.
Gli anni le sembrarono scivolare via e sentì la voce della mamma che le chiedeva di proteggere il fratello e la sorella e le prometteva che un giorno si sarebbero rivisti. Kate sentì qualcosa cederle dentro. «Lo abbiamo trovato io... mia sorella e mio fratello.» «Hai un fratello e una sorella? Come si chiamano?» Kate abbassò gli occhi, incapace di sostenere lo sguardo di sua madre. «Sei nei guai, vero? Il dottor Pym ti sta aiutando? Nel futuro, dico. Oddio, chissà se quel che sto dicendo ha un senso. E i tuoi genitori? Sei così piccola.» Kate sentì gli occhi riempirsi di lacrime e si morse il labbro per non piangere. «Oh, poverina...» E, prima che Kate se ne rendesse conto, sua madre si era avvicinata e la stava abbracciando. I singhiozzi furono incontenibili. Le scuotevano il corpo come se tutte le lacrime tenute a freno per dieci anni avessero improvvisamente trovato uno sfogo. Kate pianse per le volte che aveva abbracciato Emma o Michael in lacrime promettendo che sì, i loro genitori sarebbero tornati, pianse per i Natali e i compleanni perduti, per l’infanzia che non aveva mai avuto; crollando fra le braccia della madre e lasciandosi stringere da lei pianse, infine, perché la persona che l’accarezzava sui capelli e mormorava: «Non preoccuparti, tutto si aggiusterà...» era sua madre. Poi, bruscamente, la mano di sua madre si bloccò. Kate non si mosse; capì che era successo qualcosa. La madre fece un passo indietro, tenendo Kate per le braccia e guardandola nel profondo degli occhi. «Oddio... tu sei... sei...» Kate sentì lo strappo allo stomaco e la scena svanì. Non avrebbe mai udito il seguito. E tuttavia Kate capì che in quell’ultimo istante sua madre aveva riconosciuto in lei la figlia. «Visto, mia cara?» disse la Contessa, prendendole il libro dalle mani. «Lo sapevo che ce l’avresti fatta.»
Capitolo 22 Il Ferale Magnus † Hai pianto? Devo dire che hai un aspetto orrendo. C’è uno specchio, se vuoi darti un ritocchino. Ah, e questo è tuo.» Kate sentì caderle in mano il medaglione. Intontita, se lo allacciò al collo. Aveva la vista sfocata e sentiva ancora il sale delle lacrime. Con uno sforzo scacciò di mente il pensiero di sua madre, il ricordo di quando l’aveva abbracciata. Era di nuovo sulla nave e i bambini avevano bisogno di lei. «Lasciali... lasciali andare.» «Mmm?» «Lasciali andare.» «Lasciar andare chi?» La Contessa aveva portato il libro su un tavolo dall’altra parte della cabina e lo stava sfogliando con un’espressione avida, che quasi la imbruttiva. «I bambini! Avevi promesso! Avevi...» La Contessa mosse la mano e Kate si irrigidì tutta. Cercò di aprire la bocca, ma era bloccata. «Se penso che adesso ho l’Atlante del Tempo! E che è arrivato quando avevo perso ogni speranza, quando ormai credevo di dover andare verso l’oblio con questi mocciosi disgraziati! Il mio padrone non è uno che tollera tanto gli insuccessi. Mai sarei tornata da lui dicendogli che gli uomini della città si erano ribellati! Ma adesso ho il libro e tutto è cambiato.» Accarezzò la pagina bianca e la voce si abbassò in un sussurro: «Né rinuncerò ai suoi poteri. Nemmeno per lui. L’ho capito adesso. L’Atlante è destinato a me sola. Mi ha trovata». Sorrise a Kate. «Ovviamente la diga sarà comunque distrutta e i bambini moriranno. Ma si meriterebbero anche di peggio. Che posto noioso, Cambridge Falls.» Ha mentito, pensò Kate. Ha sempre pensato di uccidere i bambini e adesso ha anche il libro. Con la morte nel cuore, Kate si maledisse. Perché non aveva raccontato al dottor Pym della sua visione? Perché pensava di doversi sempre assumere delle responsabilità? Per favore, pensò, per favore... Poi, come se il suo desiderio lo avesse chiamato: «Certo che la lealtà non è più quella di una volta». Sulla porta c’era il vecchio stregone, abito di tweed, occhiali sghembi, la
faccia una maschera di rabbia quieta. Le gettò un’occhiata e per un attimo gli sguardi si incrociarono. Kate vide che capiva perché lei aveva fatto quel che aveva fatto e che le perdonava tutto. Provò un sollievo tanto profondo che, potendo, sarebbe scoppiata a piangere. La Contessa rise. Era un suono duro, squillante e mesto. «Non sapevo che aspettassimo visite. Lei dev’essere il grande dottor Pym. Ho indovinato?» «Sono Stanislaus Pym.» «Mi consenta di dirle, signore, che è un onore conoscerla.» Fece la riverenza, con un sorrisino beffardo sulle labbra. «A che cosa dobbiamo il piacere?» «Sono qui per liberare i bambini e reclamare il libro che ha rubato.» «Oh. Oh-oh-oh. Sarà difficile, temo. Vede, fra qualche minuto i bambini saranno tutti morti, anche se dopo potrà certamente rendere omaggio ai corpi: questo non glielo impedirò. Quanto all’Atlante... no, purtroppo è decisamente impossibile. In compenso posso offrirle un bicchiere di vino?» «Non sono venuto a giocare. Le darò un’ultima possibilità.» La Contessa ridacchiò e fece un saltello. «Se no? Se no? Mi dica! Che cosa farà?» «Sarò costretto a distruggerla.» La Contessa disegnò con la bocca un indignatissimo ooooooooohhh e lo coprì con le mani. «Katrina, hai sentito? Hai sentito cos’ha detto quest’uomo orribile? Be’, le condizioni che mi impone sono durissime, dottore. Immagino di non avere scelta.» La Contessa prese il libro e glielo porse con quelle sue manine bianche. «Tenga. Lo prenda, bestiaccia.» Il dottor Pym sollevò la mano e il libro, piano piano, si spostò verso di lui. Proprio in quel momento, dei tenebrosi artigli balzarono fuori dagli angoli bui della stanza e gli si avvinghiarono sulle braccia e sulle gambe, inchiodandolo al muro. D’impulso, Kate fece per correre da lui, ma la forza invisibile la trattenne nel punto in cui era. Rimase a guardare il dottor Pym che cercava inutilmente di liberarsi. «Puh! Tutto qui? Dopo aver sentito tante storie sul grande stregone, sui poteri misteriosi e trallallero trallallà, confesso di sentirmi tradita. D’altra parte, la vita è sempre un po’ deludente, vero?» Kate guardava incredula. Era finita? Il dottor Pym aveva perso davvero? La Contessa tornò al tavolo a posare il libro e versarsi un bicchiere di vino. Canticchiava. Era chiaro che voleva gustarsi il trionfo. «So a cosa sta pensando, caro dottore: come reagirà il mio padrone quando verrà a sapere che voglio rubargli il libro? Be’, non sarà contento, questo è certo. Ma non si preoccupi; quando sarò riuscita a tirare fuori i segreti
contenuti in queste pagine, sarò potente quanto lui.» «Stregaccia, sei una stupida.» Lei mise il broncio. «Questo non è carino.» «Tu non hai idea di quanto è grande il suo potere. E il mio, aggiungerei.» «Nonnino, se stai cercando di farmi arrabbiare perché ti ammazzi prima, ti garantisco che funzionerà.» Con stupore di Kate, il dottor Pym sorrise. «Credi davvero possibile che lui non sappia cosa stai architettando? Che lui non sappia prevedere ogni tuo pensiero? Il tuo destino è segnato fin dal primo momento.» Il viso della Contessa fu attraversato da un’ombra che somigliava alla paura. Ma lei la scacciò. «Sei proprio spiritoso, sai? Dimentichi però, caro il mio Mr Burlone con tanto di sopracciglia da pagliaccio, e ti suggerisco caldamente di accorciarle, quelle horreur, che io non ho soltanto l’Atlante; ho la ragazza. E fra poco avrò il fratello e la sorella. E con loro arriveranno gli altri Libri, e allora perfino il mio padrone si inchinerà davanti a me. La profezia si sta avverando, mon oncle, e né tu né lui potrete fermarla.» Sollevò il bicchiere in un brindisi e lo vuotò. Nella mente di Kate mulinavano mille pensieri. Una profezia? Che profezia? E cos’aveva voluto dire la Contessa con «fra poco avrò il fratello e la sorella. E con loro arriveranno gli altri Libri»? Le girava la testa come se, malgrado l’incantesimo della Contessa, potesse crollare di colpo a terra. «Oh, passerottino, vedo una certa confusione nei tuoi giovani occhi. Questo vecchio stregone cattivo non ti ha spiegato che cos’ha in serbo per te il destino?» E, rivolta al dottor Pym, agitò il dito. «Vergogna. Tenere questa povera ragazza all’oscuro di tutto.» «Strega, ti proibisco...» «Tu mi proibisci? Ma non farmi ridere! No no, è ora che Katrina sappia perché lei e i suoi fratelli sono figli del destino. Scommetto che non le hai detto di che cosa sono capaci i Libri! Ebbene, colombella mia», attraversò la stanza saltellando e avvicinò la testa a quella di Kate, come se fossero due scolarette che si scambiano segreti, «ti ricordi la sera in cui siete arrivati, quando vi ho spiegato la storia dei Libri dell’Inizio? Quando vi ho detto dei tre Libri in cui un antico consiglio di stregoni aveva scritto le magie segrete che avevano creato questo nostro mondo? Inutile annuire, e tanto non potresti. Vedo che te lo ricordi. «Bene, mon ange, riflettiamo un momento: se questa magia è già stata utilizzata una volta per creare il mondo, ci si potrebbe chiedere ragionevolmente se non la si possa utilizzare di nuovo. E la risposta è: certo che si può! È questa la cosa tanto allettante! Con il potere dei Libri
dell’Inizio, uno dei quali, l’Atlante del Tempo, tanto cortesemente mi hai portato, cosa di cui ti ringrazio, mentre gli altri due sono ancora da qualche parte ad aspettare, con il potere dei Libri si potrebbe dare un bel colpo di spugna all’intera esistenza come se fosse un abbozzo mal riuscito e ripartire da zero!» «E soltanto un matto potrebbe anche solo immaginare di fare una cosa del genere» commentò il dottor Pym. La Contessa sbuffò. «È sempre così noioso? Ovvio che non si distruggerebbe il mondo solo per un capriccio! Anche se lo si potrebbe fare. Per esempio, non so, vorresti un mondo in cui si indossassero solo cappelli rossi? Utilizzando il potere dei Libri, basterebbe sbarazzarsi di questo mondo e crearne uno in cui fosse de rigueur il cappello rosso. O il cappello verde, o blu, o di qualsiasi colore si voglia!» «Follia pura» disse il dottor Pym. «Oppure potresti creare un mondo in cui ogni creatura viva e respiri unicamente per servire te. Adesso comincerai a capire, mia dolce Kat, come mai la ricerca dei Libri dell’Inizio abbia consumato tante vite. È la promessa del potere supremo. E questo ci porta», avvicinò la faccia ancora di più, «alla ragione per cui tu, il tuo fratellino e la tua sorellina siete tanto spaventosamente importanti.» Con la coda dell’occhio, Kate vide che le palpebre del dottor Pym erano mezzo chiuse e le labbra si muovevano. «Molto tempo fa» sussurrò la Contessa, «in un’epoca in cui i Libri erano scomparsi da mille anni, fu predetto che un giorno tre ragazzi li avrebbero ritrovati e riuniti. Sì, tre ragazzi! Uno per ciascun volume! Vedi, mia cara, tu, Michael e la piccola Emma siete la chiave.» E posò la morbida mano sulla guancia di Kate. «Temo che il vostro viaggio non sia affatto finito.» Per Kate non ci fu bisogno di guardare il dottor Pym per avere una conferma. Capì, istintivamente, visceralmente, che la Contessa diceva la verità. Le sue parole spiegavano tante cose. Spiegava per esempio come mai era riuscita ad aprire la cripta sotto la Città Morta. Nonostante la porta di fattura nanesca e bloccata con un incantesimo, lei, una normalissima ragazza umana, era riuscita ad aprirla senza difficoltà. Com’era stato possibile, se non grazie al fatto che chi aveva sigillato la porta, cioè il dottor Pym, sapeva che lei sarebbe arrivata? E lui come avrebbe fatto a saperlo, se non grazie alla profezia? Una profezia che spiegava anche come mai loro tre erano stati allontanati dai genitori. Qualcuno alla ricerca dei Libri, forse proprio il padrone della Contessa, doveva aver capito chi erano lei, Michael ed Emma! Kate immaginava
benissimo che paura dovevano aver provato i genitori. Era naturale che avessero acconsentito a far portar via i bambini dal dottor Pym. Le sembrava quasi di sentire la promessa dello stregone: «Li nasconderò. Saranno al sicuro». Di colpo tutto quadrava. «Ma adesso basta» disse la Contessa, «è ora di uccidere questo vecchio stregone scemo...» Si girò e sollevò la mano. In quell’istante, nella cabina soffiò un vento gelido. Fece sbattere il vasellame e ondeggiare il lampadario. Kate se lo sentì entrare nelle ossa. «Che cosa fai?» La Contessa mosse contro il dottor Pym. «Smettila! Te lo ordino!» «Mia cara, non sono io.» E quando parlò, le luci tremolarono di nuovo e si spensero. Per un attimo tutto si fermò. Silenzio. Poi, al buio, Kate udì il lontano suono di un violino. Una musica bellissima, antica, spaventosa, che si faceva sempre più forte. «Sta arrivando» disse lo stregone. «Il Ferale Magnus sta arrivando.» ______________________
Emma non guardava in su. Gabriel le aveva dato un compito e nient’altro importava. A tutto il resto, le grida, i respiri affannati, il rumore dei colpi, quello dei corpi che andavano a sbattere contro il legno, lei non ci pensava, come non pensava a quanto Gabriel aveva già combattuto quel giorno e a quanto doveva essere stanco. Gabriel le aveva dato un compito e lei non avrebbe fallito. La scala era scavata direttamente nel fianco della forra e lei scese di corsa, rampa dopo rampa, finché fu sullo stesso livello dei sei globi verdi che formavano una punteggiata striscia luminosa lungo il fronte della diga. Nel muro di legno c’erano delle strette passerelle disposte su vari piani ed Emma saltò su una di quelle e l’attraversò di corsa, sentendo tutt’intorno il vuoto, le montagne d’acqua che premevano, e cercando disperatamente di ignorare i rumori della battaglia che infuriava sopra di lei. Esattamente in mezzo alla diga si fermò. Lì sopra vide che le mine erano composte di due parti. C’era un uovo di vetro delle dimensioni di un pompelmo nel quale il gas gialloverde turbinava e si allargava minacciosamente, e l’uovo era alloggiato su una base metallica circolare fissata al muro della diga con dello stucco grigiastro.
Rimase a guardare la prima mina chiedendosi cosa bisognava fare. Perché Gabriel non le aveva dato nemmeno una dritta? Come faceva, lei, a sapere in che modo si disinnescava una mina a gas? A scuola nessuno glielo aveva insegnato. Aveva studiato solo materie inutili come matematica e geografia. Intanto il gas le sembrava cambiar colore, assumendo una tonalità arancione scuro. Pensò che probabilmente non era buon segno. Prese brevemente in considerazione la possibilità di rompere l’uovo, ma, considerato il fatto che quella cosa, quale che fosse, era fatta per esplodere, concluse che non sarebbe stata una mossa geniale. Per un attimo pensò a Michael: lui sì che avrebbe saputo cosa fare. Probabilmente aveva letto tutto su come disinnescare le mine e avrebbe saputo farti un disegnino su quel suo stupido quaderno. Sprecò qualche momento ad arrabbiarsi immaginando Michael che esibiva un’altra medaglia consegnatagli da quel re nanesco rompiscatole, finché, siccome non le era venuta nessuna idea, allungò le braccia e posò le mani sull’uovo. Al tatto era caldo e il vetro sembrava sottile. Una pressione eccessiva e di sicuro si sarebbe rotto. Emma chiuse gli occhi e tirò appena appena. L’uovo non si mosse di un millimetro. Tirò più forte. L’uovo rimase saldamente attaccato alla base metallica e la base al muro. Allora Emma fece un bel respiro e si preparò a tirare con tutte le sue forze. E in quel momento successe qualcosa. Per cercare una presa migliore, abbassò la mano sinistra di un paio di centimetri: e l’uovo si mosse. Cautamente, Emma ruotò tutto l’uovo in senso antiorario. Il vetro, sfregando contro il metallo, mandava un raschio sordo, ma poi Emma vide che nella parte inferiore c’erano delle scanalature e lo ruotò più velocemente. Qualche momento dopo aveva in mano l’uovo intero. Staccato dalla base metallica, il vetro cominciò a raffreddarsi e il vapore a perdere quel suo colore minaccioso, passando dall’arancione al giallo e al verde, per poi finalmente farsi trasparente e scomparire. È la parte metallica a scaldarlo, pensò Emma. Guardò le altre mine, che adesso pulsavano rossoarancioni. Gabriel aveva detto che, quando fossero diventate completamente rosse, sarebbero esplose. C’era poco tempo. Posò l’uovo di vetro sulla passerella e corse alla mina accanto. Intanto, molto al di sopra di lei, Gabriel stava combattendo la battaglia della sua vita. Dopo aver fatto allontanare Emma era saltato su una trave, larga meno di
venti centimetri, che formava un arco tra i muri della diga e, impugnando la scimitarra con tutt’e due le mani, aveva colpito la creatura sul fianco. Un colpo che avrebbe tagliato in due un uomo. Invece sulla pelle della creatura rimbalzò e un attimo dopo Gabriel volò all’indietro, percosso da una forza che lo stordì. Sbatté contro una trave, cadde nel vuoto per tre metri, sbatté contro un’altra trave e finalmente si appigliò a una terza. Guardando in su vide che la creatura non aveva proseguito l’attacco. Era appollaiata lassù, a guardarlo ghignante. Gabriel capì: gli stava dicendo che avrebbe potuto ucciderlo quando voleva. In quel momento si rese conto che quella sarebbe stata l’ultima battaglia della sua vita. E allora sia, pensò. Bastava che sopravvivesse abbastanza a lungo perché Emma avesse il tempo di disinnescare le mine. La creatura si avventò su di lui, che cercò di schivarla rotolando su di sé, ma gli artigli gli aprirono dei profondi tagli sul fianco. Il mostro, con terribile agilità, si girò e gli piombò di nuovo addosso, buttandolo giù dalla trave. Gabriel lo colpì sul dorso e sulla testa con la punta della scimitarra e poi si sentì sollevare in alto. Cercò disperatamente un appiglio, ma la bestia lo scaraventò giù. Con il peso del corpo spezzò le travi come fossero fiammiferi e stava già pensando che sarebbe precipitato fino in fondo quando, con un tonfo da schiantar le ossa, urtò contro una trave e si fermò. Si rimise in piedi. Sentì le costole rotte stridere l’una contro l’altra. La scimitarra non c’era più. Guardando di sotto vide Emma. Aveva disinnescato tre mine. Ancora poco. Ci fu un battito d’ali e, quando lui si mosse, la creatura gli passò accanto, incidendo con gli artigli il legno della trave. Mentre, di sotto, lei roteava nell’aria, Gabriel spiccò un salto e le atterrò in pieno dorso. La creatura mandò un grido e cercò di ghermirlo, ma Gabriel estrasse il coltello e cominciò a incidere il morbido tessuto delle ali. Per la prima volta, il grido della creatura fu un grido di dolore. Gabriel batté la testa contro una trave e si sforzò di rimanere cosciente, continuando a incidere il muscolo dell’ala. La creatura, sbilanciata, sbandava e Gabriel la colpì di nuovo sulla testa; stavolta tutto diventò nero. Sulla passerella, Emma stava andando a disinnescare l’ultima mina quando udì qualcosa schiantarsi contro le travi e dovette sollevare lo sguardo. Vide una figura scura precipitare verso di lei. Un attimo dopo, un corpo si schiantò sulla passerella. «Gabriel!» Era ricoperto di sangue, il braccio sinistro era piegato formando un angolo strano e sulla fronte c’era una larga ferita. Ma era vivo: il petto si sollevava e
abbassava. Udì un grido e guardò in su: vide la creatura puntare verso di loro, saltando di trave in trave. «Gabriel! Devi svegliarti! Gabriel!» Il gigante non si mosse. Scorta un’altra passerella cinque o sei metri sotto di loro, Emma puntò le spalle contro il fianco di Gabriel e spinse. Sembrava fatto di pietra. Ma continuò a spingere con tutte le sue forze, cercando di non ascoltare il rumore della creatura che si avvicinava. Molto lentamente, Gabriel cominciò a muoversi. Rotolò giù e andò a schiantarsi cinque o sei metri sotto. Un tonfo scosse la passerella ed Emma, girandosi di scatto, vide lì davanti il mostro, con le fauci aperte in un sorriso grottesco, l’ala ferita che penzolava da una striscia di tendini e muscolo. Emma sapeva che avrebbe dovuto provare una gran paura: sarebbe stata la reazione più naturale del mondo. Invece provava soltanto una rabbia cocente. «Ma guardati! Hai un’aria così stupida! Non avresti dovuto dar fastidio a Gabriel! Ringrazia il cielo che non ti abbia ucciso! Adesso come farai con quell’ala, eh?» Come per risponderle, la creatura tirò indietro la zampa, si staccò l’ala ferita e la gettò nel vuoto. Poi, senza soluzione di continuità, si afferrò l’ala sana, l’attorcigliò più volte e, con uno strattone e un urlo tremendi, strappò via anche quella. Tenendo l’ala insanguinata nel pugno di artigli, la bestia fece un passo verso Emma e gridò. Emma rimase a bocca aperta per l’orrore e, finalmente, la paura arrivò. Quella creatura li avrebbe uccisi. Si ordinò di essere, o almeno fingersi, coraggiosa. Gabriel non si meritava di meno. «Sei... sei...» Ma, per quanto si sforzasse, le parole non uscivano. La creatura fece un altro passo e si avvicinò abbastanza perché lei sentisse in faccia il suo fiato. Non piangere, si intimò, non azzardarti a piangere. Poi, alla sinistra della creatura, vide la mina diventare rosso sangue e, senza pensare, si buttò giù dalla passerella. Il salto nel vuoto sembrava non finire mai. Quando atterrò accanto a Gabriel, dalla caviglia si irradiò una fitta di dolore, ma l’urlo che levò fu cancellato dall’esplosione della mina. ______________________
L’acqua arrivava ad appena qualche centimetro sotto la falchetta. Michael aveva ammassato a bordo il massimo numero di bambini possibile, soprattutto i più piccoli, ma anche tre della sua età per farsi aiutare a
remare. Sulla nave della Contessa ne aveva lasciati almeno trenta, ai quali aveva promesso di tornare. Non c’era traccia né del dottor Pym né di Kate, e Michael aveva avuto la tentazione di far partire la barca senza di sé e andare a cercare la sorella. Ma non poteva abbandonare i bambini. Mentre la barca sovraccarica attraversava il lago buio, ripensò a quando lo Strillatore aveva aperto le gabbie e cinquanta bambini spaventati a morte si erano riversati nel corridoio. Per qualche istante si era rasentato un tumulto; intanto Michael si era sforzato di sovrastare il baccano per farsi sentire. «Per favore, dovete far silenzio, per favore...» Se non fosse stato per lo Strillatore, forse avrebbe perso completamente le staffe. Ma la creatura aveva gridato di far silenzio e i bambini, sbalorditi di sentirgli articolare vere e proprie parole, avevano ubbidito immediatamente. «Bene» aveva detto Michael, «adesso...» «Tu!» Una mano lo aveva girato: davanti a lui c’era Stephen McClattery. «Che ci fai qui? E com’è che quel coso si mette di colpo a parlare?» Per un attimo Michael era rimasto a guardarlo in silenzio. Non molto tempo prima, quel ragazzo aveva cercato di impiccarlo. Gli sembrava quasi di sentire la corda attorno al collo. «Allora?!» Scacciando il ricordo, Michael gli aveva raccontato tutto più in fretta che aveva potuto: che lui e il dottor Pym erano venuti a liberarli, che il dottor Pym era uno stregone e aveva fatto un incantesimo allo Strillatore, che Kate era prigioniera della Contessa, che bisognava portar via i bambini dalla nave al più presto... «Devi credermi. Non c’è tempo per...» «Va bene» aveva detto Stephen McClattery, «allora muoviamoci.» Il ragazzino dai capelli rossi aveva condotto la massa silenziosa e ancora spaventata sul ponte e lì aveva aiutato Michael a raccogliere i venti più piccoli. Dopodiché, insieme allo Strillatore aveva calato i bambini giù per la scaletta e li aveva aiutati a trasbordare. Michael aveva continuato a sperare di veder comparire al parapetto Kate e il dottor Pym, Kate sana e salva e sorridente, il dottor Pym con l’annuncio che la Contessa era stata sconfitta e che era tutto a posto; ma presto la barca era stata riempita ed era arrivato il momento di andare, e di sua sorella non c’era ancora traccia. Stephen aveva detto che sarebbe rimasto sulla nave a organizzare gli altri in attesa che Michael tornasse per il prossimo carico. «So che tornerai. Avrei dovuto crederti prima. Tu e le tue sorelle siete
persone a posto.» «C’è un’altra cosa» aveva detto Michael. «Tuo papà sta arrivando.» Stephen McClattery era appollaiato sulla scala, con un piede sulla prua della barca di Michael. Aveva aperto la bocca e l’aveva richiusa. «Io e le mie sorelle lo abbiamo incontrato nella Città Morta» aveva proseguito Michael. «Gli abbiamo detto che sei vivo. Sta venendo qui con gli altri uomini.» Era trascorso un lungo momento. La barca dondolava dolcemente sull’acqua. «Mi dispiace» aveva detto Michael alla fine. «Dobbiamo andare.» Il ragazzo aveva deglutito e, sempre senza aprir bocca, aveva fatto un cenno di assenso. Ma quell’espressione che aveva negli occhi, Michael non l’avrebbe mai dimenticata. Stephen McClattery aveva dato una spinta alla barca e, quand’erano partiti, Michael lo aveva visto passarsi la mano sul viso, per poi girarsi e salire la scaletta. Annie, la bambina che quel primo giorno la Contessa aveva tenuto sospesa nel vuoto sopra la diga, era a bordo accanto a Michael. «Non preoccuparti» le disse. «Porteremo via tutti.» Lei, guardandolo dal fondo della barca, annuì, con la bambola stretta in mano. Ci volle qualche minuto per coordinare i remi. All’inizio sbattevano sull’acqua un po’ a caso, così la barca non procedeva e a un certo punto si mise perfino a girare in tondo. Ma poi Michael riuscì a dare un ritmo ai rematori gridando: «Remate... remate... remate» e di lì a poco stavano attraversando il lago con un movimento uniforme. Poi, a metà strada, quando Michael aveva ormai il mal di schiena e si chiedeva che ragione potesse mai aver avuto il dottor Pym per non prolungare l’incantesimo che prima aveva fatto alla barca, si udì un enorme FIUM e un gigantesco pennacchio d’acqua guizzò nell’aria accanto alla diga. Lui afferrò Annie e gridò a tutti di reggersi forte; un momento dopo, l’onda d’urto per poco non li sommerse. Poco dopo Michael aveva i remi in pugno e stava urlando: «Remate! Remate! Remate!» ______________________
«Sta arrivando, verrà qui... Com’è successo? Cosa faccio?» «Credevo che, prima di tradire il tuo padrone, ti fossi preparata a questa eventualità.» «Silenzio!» Le lampade si erano riaccese, ma la musica si faceva più forte di secondo in
secondo. La Contessa camminava avanti e indietro per la cabina, con il libro stretto al petto. Kate, vedendola spaventata, si spaventò ancora di più. Quanto doveva essere terribile quel Ferale Magnus, se la Contessa, che aveva ai suoi ordini un esercito di morti viventi e, per quanto sconvolta, riusciva ancora a tenere paralizzata Kate e inchiodato al muro il dottor Pym, tremava al solo pensiero di lui? «Mi sembra soltanto» disse il dottor Pym, mite «che avresti potuto rifletterci un po’ meglio.» «Ti ho detto di far silenzio, stupido!» La Contessa era una belva intrappolata, pericolosa e spaventata a morte. «Be’, non vedo proprio come possa essere io lo stupido. Non sono stato io a tradire un essere dieci volte più potente di me aspettandomi di farla franca.» La Contessa si girò di scatto verso di lui. «Sei stato tu, vero? Glielo hai detto tu! Hai trovato il modo di mandargli un messaggio!» Nella mano della Contessa, dove fino a un attimo prima non c’era niente, ora brillava un coltello. Kate si sforzò di muoversi, ma fu inutile. La musica era ancora più forte, i toni crescevano e il ritmo accelerava. La Contessa avanzò verso il dottor Pym. «Se devo morire» sibilò, «non morirò sola.» Kate avrebbe voluto gridare al dottor Pym di fare qualcosa, un incantesimo, sputarle in faccia, se necessario. Poi, molto bruscamente, la musica si interruppe. La Contessa si fermò, con il coltello sollevato a colpire lo stregone, la faccia una maschera di rabbia e paura. «Mia cara» disse il dottor Pym, «temo che la tua ora sia arrivata.» E la Contessa crollò di colpo a terra. Kate sentì allentarsi la presa che la bloccava; per poco non crollò pure lei, tanto fu grande e immediato il senso di liberazione. Anche il dottor Pym era libero, ma fece segno a Kate di restare dov’era. Guardava il corpo immobile della Contessa. L’Atlante era per terra accanto a lei. Che cosa aspettava? Dovevano cogliere l’occasione: prendere il libro e scappare. Scappare prima che... Per terra, il corpo si mosse. Lentamente, la Contessa si rialzò in piedi. Ma c’era in lei qualcosa di diverso. I capelli erano passati dal biondo al verde scuro e gli occhi luccicavano come se ci fossero dei diamanti incastonati dentro. Se possibile era ancora più
bella e magica di prima. Per un breve istante posò gli occhi luminosi su Kate, poi si rivolse al dottor Pym e sorrise. «Stanislaus, quanto tempo!» E Kate capì che quella davanti a lei non era la Contessa. «Così la mia dolce Contessa voleva tradirmi e tenersi l’Atlante. Ahi-ahi-ahi, da quando la lealtà è diventata merce tanto rara?» La creatura allargò le braccia della Contessa come per ammirare quant’erano lunghe e affusolate. Era strano vedere qualcuno apprezzare la bellezza del proprio corpo. «Forse il problema» disse il dottor Pym «non sta nel sottoposto bensì nell’incapacità del capo di ispirarlo.» La creatura dai capelli verdi scoppiò a ridere; Kate ne fu sorpresa, perché era una risata autentica: spontanea, allegra, completamente diversa dalla risata squillante e vuota della Contessa. «Touché, Stanislaus! Indubbiamente hai ragione. Come sempre, mio caro amico. E scommetto che a te questa giovane è immancabilmente fedele.» Quando lei (lui?) si accostò, Kate si irrigidì. Da vicino, Kate vide che il verde dei capelli non aveva la tonalità smeraldo di un campo d’erba, ma quella nerastra della giungla: pareva muoversi e mutare come se fosse vivo; e in quegli occhi luccicanti c’era una smania che la spaventava. Di nuovo, udì il violino. Dapprima lontano, la chiamava, la invitava a ballare, le diceva che il giorno finiva, il mondo era in fiamme, le diceva di ballare finché ce n’era il tempo, le raccontava di città in fiamme, di gente che scappava spaventata, di buio, distruzione, caos e rovina, vieni, diceva la musica, unisciti alle danze, unisciti alle danze. Poi penetrò in lei, profondamente, e Kate, con suo orrore, sentì che una parte di sé rispondeva, voleva andare, vivere anche per un solo momento prima che tutto finisse, senza pensieri, senza preoccupazioni, dopodiché si ritrovò a guardare uno scheletro dagli occhi luccicanti e di colpo si tirò indietro come se fosse stata sull’orlo di un precipizio. La musica cessò. Davanti a lei c’era la Contessa, capelli verdi, occhi di diamante, non la Contessa ma nemmeno uno scheletro. «Stanislaus, a quanto pare la tua protetta non vuole unirsi alle mie danze. È solo questione di tempo, mia cara. Tutti balleremo, alla fine.» Gonfiando il petto, Kate fece del suo meglio per assumere un piglio impavido e sprezzante. «Quanto coraggio. Brava. Ti servirà tutto fino all’ultima goccia. Tu sei una di loro, vero? I ragazzi della profezia. Te lo leggo negli occhi.» La creatura allungò la mano per accarezzarle i capelli. Kate colse nella sua voce il desiderio e sentì quanto gli tremava la mano per l’emozione. «Sai quanto ho aspettato questo momento? Ho visto montagne affiorare dagli oceani. Ho
visto imperi nascere e cadere. Popoli interi sono morti e dimenticati, e io intanto ho aspettato. Il tuo dottor Pym parlava di lealtà: io non ho mai smesso di essere leale, mia cara, una lealtà così non si è mai vista, perché ho sempre saputo che un giorno ci saremmo trovati.» Kate guardò in quei vecchissimi occhi scintillanti e vide tutto. Vide i secoli che aveva aspettato. Vide com’era cambiato il mondo attorno a lui, senza che per questo avesse mai perso la determinazione. Come poteva, lei, combattere con altrettanta fermezza d’animo? Quello era il suo destino. Non c’era via di fuga. Dall’altra parte della stanza, il dottor Pym disse: «Non puoi stare qui». «Mmm?» «Guardati la mano.» La creatura chiamata Ferale Magnus sollevò la mano della Contessa: con orrore di Kate, le nocche si stavano facendo spesse e nodose, le vene cominciavano a premere contro la pelle biancoperlacea. Il Ferale Magnus non sembrò sorpreso né molto preoccupato. «E bravo Stanislaus. Mi hai invitato qui a sconfiggere la mia serva sapendo bene che non potevo restare. Non hai perso un briciolo del tuo ingegno, amico mio. Non importa», guardò Kate, «quel che volevo vedere l’ho visto.» Poi si girò e prese il libro. Ormai invecchiava velocemente, mezza età, vecchiaia, e a trascinarsi nella cabina per offrire l’Atlante a Kate fu una vecchiaccia ingobbita. Il bel viso di un tempo era perso fra le rughe, i capelli verdi erano secchi e radi; sorridendo a Kate, mostrò due file di denti gialli e spezzati. Le parole erano un gracidare cavernoso. «La fine è vicina, piccola. Verrò a prenderti. Siamo uniti in un solo destino. Verrò e, quando ti troverò, tutto il mondo ballerà...» Con queste parole la creatura li lasciò; Kate sentì che se ne andava dalla stanza e il corpo della Contessa cadde a terra, immobile. Il dottor Pym barcollò. «Dottor Pym!» «Sto bene, mia cara. Solo che lo sforzo di... Lui spingeva tanto...» «Cosa gli è successo?» «Il Ferale Magnus non può prendere forma qui. Deve entrare in possesso di un altro corpo e la Contessa... era un ospite troppo fragile... Te lo spiegherò dopo... Dobbiamo sbrigarci... C’è poco tempo... Dobbiamo...» Crollò a terra. Kate si precipitò da lui e, mentre ancora lo scuoteva e lo chiamava, udì l’esplosione.
Capitolo 23 I bambini di Cambridge Falls † A Emma ronzavano le orecchie. Le pulsava la caviglia ed era bagnata da capo a piedi. Tutt’intorno, getti d’acqua uscivano da squarci nel fronte della diga. Un frastuono assordante. Lei guardò, ma non vide il mostro. Possibile che l’esplosione lo avesse ucciso? La diga rumoreggiò: altre assi si spezzarono e si sbriciolarono. «Gabriel! Devi svegliarti! Gabriel!» Gabriel aprì gli occhi: non era morto. Grazie, pensò Emma, anche se non sapeva bene a chi si rivolgeva, grazie grazie grazie. Gabriel si alzò a sedere, tenendosi il braccio ferito. «Come sono finito qui?» «Stavi combattendo con quel mostro; solo che lui deve averne fatta una sporca, perché sei caduto là.» Indicò la passerella più su. Rifletté un momento e aggiunse: «Ma il rimbalzo è stato fortissimo e sei finito qui.» Se Gabriel non ricordava che lei lo aveva spinto giù dalla passerella, non vedeva la necessità di informarlo. «Le mine...» «Sì, una è esplosa! Quel mostro era proprio lì accanto. Dobbiamo andar via di qui! Forza!» Zoppicando, si incamminarono sulla passerella. Il fiume si riversava dentro a fiotti, stava riempiendo il centro cavo della diga. Quando arrivarono alle scale, avevano già l’acqua alle caviglie. Emma sapeva che, quando la diga si fosse riempita completamente, la pressione sarebbe stata troppo forte: l’intera costruzione avrebbe ceduto e sarebbe stata spazzata via. E chiunque fosse stato ancora sulla nave della Contessa sarebbe morto. Ma ormai il dottor Pym doveva aver già liberato Kate e gli altri! Che razza di stregone era, se non sapeva neanche portar via da una nave un pugno di ragazzini? Lasciò che l’irritazione nei confronti del dottor Pym la distraesse dal dolore alla caviglia. L’aiutò mentre saliva le scale. Erano a metà tragitto quando Gabriel si bloccò di colpo. «Gabriel, che cosa fai? Dobbiamo...»
Poi la vide. La creatura si stava arrampicando sulle costole della diga, saltando da un moncone di trave all’altro. Ebbe un tuffo al cuore. Che cosa bisognava fare per ammazzare quella bestiaccia? «Tuo fratello aveva ragione. Ha paura dell’acqua.» Emma ci mise un po’ a capire le sue parole e a ricordare che, nella casetta di Gabriel, due giorni prima, anche se le sembrava passata una vita, Michael aveva avanzato l’ipotesi che la Contessa tenesse quel mostro sulla nave perché aveva paura dell’acqua. E adesso che si aprì una nuova falla nel muro frontale e sgorgò un nuovo getto, Emma vide la creatura che, gridando, faceva un balzo per evitare l’acqua. E tuttavia continuava a salire. «Dobbiamo sbrigarci!» urlò Emma. «Se no arriverà alla porta prima di noi!» Gabriel annuì e, con il braccio buono, si caricò Emma sulle spalle. Fece le scale tre gradini alla volta. Più salivano, più la diga ondeggiava e tremava. Si spingevano in alto, fra i cigolii e gli scricchiolii, il fragoroso tambureggiare dell’acqua, gli schianti delle assi che cedevano, e, per quanto Gabriel andasse veloce, il mostro gli teneva dietro. Ripetutamente guadagnò terreno, ma ogni volta la diga perdeva un pezzo e un nuovo getto d’acqua lo ricacciava indietro. Emma incitava tacitamente Gabriel ad accelerare. Alla fine arrivarono in cima alla scala ed Emma vide la porta. Gabriel la calò a terra. Aveva il respiro affannato e i vestiti intrisi di sangue fresco. «Andiamo!» gridò Emma. «Dobbiamo sbrigarci!» «Io non vengo.» «Ma cosa dici? Qui crolla tutto!» «Non si può lasciar scappare la creatura. Quando la diga crollerà, lei dovrà essere dentro. È l’unico modo per ucciderla.» «Allora blocchiamo la porta! Così non potrà uscire!» Gabriel scosse la testa. «Devo assicurarmi che muoia.» Emma cominciava a disperarsi, tremava, era sull’orlo delle lacrime. Ci fu un altro grande schianto. Il ballatoio su cui si trovavano cadde giù di mezzo metro. «No! Tu... È una pazzia! Non te lo lascerò fare!» Gabriel si inginocchiò per guardarla bene in faccia. «Devo farlo. Se no, per ogni persona che quella creatura ucciderà la colpa sarà mia. La vita affida a ciascuno dei compiti. Questo tocca a me.» «Ma non... non...» Ormai dava libero sfogo alle lacrime, ma non gliene importava niente. Doveva fargli capire che le sue erano tutte sciocchezze e che doveva andare con lei; invece, chissà perché, riusciva soltanto a
balbettare: «Non puoi... non puoi...» Gabriel le posò la mano sulla spalla e la guardò negli occhi. «Non so cos’è successo ai tuoi genitori, né perché abbiano fatto quel che hanno fatto. Ma, di tutte le bambine del mondo, io avrei voluto te come figlia.» Emma, piangendo, gli buttò le braccia al collo. Gli disse che gli voleva bene, che non lo avrebbe mai abbandonato, non le importava cosa diceva, lei gli voleva bene. «Anch’io ti voglio bene. Ma devi andare.» Se la staccò dal collo e la spinse verso la scala. «Vai! Subito!» Tremando, odiandosi per ogni passo che faceva, Emma ubbidì. Arrivata alla porta, si voltò a guardarlo. Gabriel si era girato per affrontare il mostro. Non aveva coltello né altre armi; e, quando il mostro gli si avventò contro, lui con un salto gli fu addosso per affrontarlo in un corpo a corpo. Insieme, precipitarono nel buio. Poco dopo, Emma avanzava faticosamente sull’orlo della forra, con le lacrime che le rigavano le guance, ripetendosi all’infinito: è Gabriel, se la caverà, è Gabriel, è Gabriel... ______________________
Quando Michael e i bambini furono a riva, li aspettava un gruppo di uomini e nani giunti attraverso il passaggio creato dal dottor Pym. «Tirate su la barca!» gridò una voce familiare. «Occhio, occhio! Oh, porca miseria, ci penso io.» Re Robbie prese la barca per la poppa e, con sei uomini e nani che si precipitarono ad aiutarlo, la tirò in secca. Quando cominciarono a far scendere i bambini, Michael finalmente mollò i remi. Non era mai stato così stanco; aveva le spalle e la schiena a pezzi e quasi non riusciva a sollevare le braccia. Fece per scendere dalla barca e subito cadde a faccia in giù sulla spiaggia di ghiaia. «Ehi, ragazzo, sei distrutto!» Era Wallace. Rimise Michael in piedi, ma poi continuò a reggerlo, chiaramente temendo che cadesse un’altra volta. Robbie e il padre di Stephen McClattery si avvicinarono subito. «Ci sono... altri bambini.» «Quanti, ragazzo?» chiese Robbie. «Svelto.» «Trenta... almeno. E il dottor Pym e Kate. Il dottor Pym si è occupato degli Strillatori. La Contessa, non so.» Intanto si erano raccolti attorno a loro altri uomini e nani. «Dobbiamo tornare a prenderli!»
«Rimettete in acqua la barca!» «Aspettate!» gridò Robbie. «Tutti abbiamo sentito quell’esplosione. E gli scricchiolii della diga arrivano fin qui. Non arriverete neanche a metà strada che sarà già crollata!» «E allora cosa facciamo? Lasciamo morire i bambini?» «Ma no, è chiaro. Però dobbiamo usare la testa! Come facciamo ad arrivare là senza farci trascinare nel precipizio quando la diga crollerà? È questo il problema, porca miseria!» Molti uomini e alcuni nani si misero a vociare tutti insieme, chi suggerendo idee, chi insultando la Contessa, chi dicendo che non gliene importava niente di finire nella forra: là su quella nave c’erano i loro figli. La discussione sembrava non finir mai, nonostante i ripetuti richiami all’ordine di Robbie e del padre di Stephen McClattery. Michael guardò la nave della Contessa, così immobile e silenziosa sul lago scuro. La diga emise un altro lugubre gemito, come una belva gigantesca in preda al dolore. E allora gli venne in mente. Capì come sarebbe andata a finire e capì anche di essere l’unico in grado di salvare i bambini. Si mise a correre sulla spiaggia. «Ehi, ragazzo!» urlò Wallace. «Dove vai?» Ma Michael continuò a correre. ______________________
Fuori dalla cabina della Contessa c’erano dei bambini che strillavano. Dentro, il dottor Pym non voleva saperne di svegliarsi. Per quanto Kate l’avesse scrollato e chiamato, lui restava lì, a terra. Alla fine, dopo un’ultima occhiata al corpo immobile della Contessa, mise il libro sul petto del dottor Pym, lo afferrò per le ascelle e lo trascinò fuori dalla cabina, poi lungo un corridoio e infine sul ponte, scusandosi ogni volta che la testa andava a sbattere contro qualcosa. Sul ponte stava succedendo il finimondo. Bambini spaventati a morte urlavano e correvano dappertutto. Due volte, Kate fu buttata a terra e il bambino che si era scontrato con lei si alzò, urlò e corse via nella direzione da cui era venuto. Si vedevano torce su tutt’e due le sponde del lago e molti bambini erano in piedi alle balaustre a chiamare nel buio la mamma e il papà. Kate si guardò attorno confusa. Come avevano fatto i bambini a liberarsi? Dov’erano gli Strillatori della Contessa? Era stato il dottor Pym? Ma si rese conto subito che non erano domande importanti. La sola cosa importante era come fare a portar giù dalla nave tutti quei bambini.
«Ehi!» Stephen McClattery si stava avvicinando. «Quello lì è lo stregone?» La domanda la sorprese. «Ma come fai a sapere che...» «Me l’ha detto tuo fratello.» «Michael? Michael è qui?» Sentì montare il panico. Credeva che fosse al sicuro. Se era venuto a liberarla e adesso era in pericolo... «No, ha già portato a riva un carico di bambini. Ha detto che sarebbe tornato. Hai sentito quell’esplosione? Meglio se ce ne andiamo.» «Sì.» Con un senso di colpa Kate pregò il cielo che Michael non tornasse. «Si sono sentiti anche un bel po’ di scricchiolii. I bambini erano spaventatissimi.» Indicò con la testa il dottor Pym. «Cos’è, morto?» «No. Solo che non si sveglia.» «E la strega?» «È là dentro. Morta, credo.» Il ragazzo fece un sorrisone. «Davvero? Quindi siamo a posto, no?» Kate esitò. Doveva dirgli la verità, sull’esplosione? Dirgli che cosa significavano in realtà tutti quegli scricchiolii? Poteva fidarsi di lui o avrebbe soltanto fatto montare ulteriormente il panico? Non ebbe la possibilità di stabilirlo. ______________________
Emma aveva un piano: in sostanza, trovare il dottor Pym e chiedergli di sistemare tutto. Con questo in mente, in una specie di corsa malferma e zoppicante, la caviglia le faceva molto male, aveva costeggiato la forra, sforzandosi di non badare agli scricchiolii della diga e di non pensare a Gabriel che, ferito e debole, combatteva con il mostro della Contessa. In cuor suo sapeva che era ancora vivo. E le bastava arrivare dal dottor Pym perché tutto si sistemasse. C’era un solo problema. Avvicinandosi alla bocca della forra, si accorse che dal centro del lago si levava un groviglio di urla spaventate. E capì con orrore che i bambini erano ancora sulla nave. Significava che Kate era ancora là. Forse anche Michael. E sicuramente il dottor Pym. Così, doveva andare sulla nave. Sapendo che in città dovevano esserci delle barche, imboccò lo stretto ponte che sormontava la forra e, chinata la testa, si mise a correre a più non posso, senza nemmeno guardare dove andava. Di punto in bianco, bum!, si ritrovò con la schiena a terra e la testa che
ronzava. Fece subito per rimettersi in piedi, pensando di essersi scontrata con uno Strillatore, ma poi si sentì una voce: «Stai bene? Non ti avevo vista arrivare». Una mano l’aiutò a rialzarsi. «Ho sentito l’esplosione e così sono corso giù a fare qualche foto. Mi sa che stavo guardando dall’altra parte.» Era Abraham, e aveva una macchina fotografica al collo. Stava guardando Emma. «Tu sei una dei tre ragazzini che ho aiutato a scappare. Che ci fai qui?» Le uscì di bocca un fiume di parole. «Gabriel è nella diga a combattere con un mostro! Quell’affare là può crollare da un momento all’altro! Devo andare dal dottor Pym! I bambini sono ancora sulla nave...» «Calma, calma. Chi è Gabriel? Chi è il dottor Pym? Quale mostro?» «No, senti, quei bambini sono ancora sulla nave! Dobbiamo...» «Aspetta, i bambini sono ancora sulla nave?» «Sì! Cosa ti ho detto finora? Sei sordo?» «Dobbiamo portarli via di lì! Se la diga...» «Uh, che volpe! È quel che stavo facendo quando mi sei venuta addosso! È per questo che devo andare dal dottor Pym!» «Be’, questo dottor Pym non lo conosco, ma dobbiamo organizzarci con delle barche di salvataggio. Dobbiamo portare al sicuro quei bambini!» Benissimo, pensò Emma, che si organizzasse pure, ma a lei una barca serviva subito! E stava per dirglielo quando si levarono dei raschi e degli schianti che fino ad allora non si erano mai uditi. Emma si girò. Abraham rimase senza fiato. «Oh, Signore Iddio.» La diga, spaccata in due, stava piegandosi in fuori e, con l’acqua scura che la trapassava, tutta una metà si staccò e fu trascinata via. Emma si precipitò alla balaustra a gridare il nome del suo amico. Ad Abraham, che non aveva capito bene cos’aveva detto di Gabriel, del dottor Pym, del mostro sulla diga, ma che conosceva bene la sofferenza, sembrò che alla ragazzina si stesse spezzando il cuore. ______________________
Si muovevano. Era passato un minuto scarso da quando Kate e Stephen McClattery avevano sentito l’inconfondibile rumore della diga che si staccava; e ormai la nave guadagnava velocità di secondo in secondo. Agli occhi di Kate, la forra era una bocca gigantesca che voleva inghiottire il lago e tutto quel che c’era dentro, compresi loro. Continuava a scuotere e chiamare il dottor Pym, ma era inutile. E guardando
Stephen McClattery correre qua e là per gridare ai bambini di aggrapparsi a quel che trovavano, si meravigliò di essere andata lì per impedire che succedesse esattamente quel che stava per succedere. Come aveva fatto a fallire così miseramente? Eppure, per strano che fosse, era calma. Dopo tutto era già stata lì. Nella sua visione, quando la nave si era lanciata verso la cascata, lei era sul ponte. E aveva vissuto tutto come se fosse la realtà. Adesso, invece, le sembrava di essere in un sogno. «Tenetevi forte!» urlò Stephen McClattery. Kate, sollevando lo sguardo, vide avvicinarsi a gran velocità la bocca della forra. L’impatto la colse impreparata e la scaraventò in aria, mandandola a sbattere contro una cassa di legno. Il colpo la risvegliò da quella specie di sogno. Vide il corpo del dottor Pym scivolare verso l’orlo del ponte, con le braccia inerti ancora sopra il libro. Si tuffò a fermarlo mentre la nave ruotava in senso orario. Quando la parete di fronte cominciò a volare verso di loro, raccolse tutte le sue forze. Erano nella forra. Ormai non c’era via di scampo. ______________________
Non poteva pensare a Gabriel. Kate e Michael. Kate e Michael. Pensa a loro. Loro sono ancora vivi. Ma per quanto ancora? Lì dov’erano, sul ponte, avevano visto la nave precipitare nella bocca della forra, venire risucchiata nel gorgo e rimbalzare da una parte all’altra, sempre guadagnando velocità. Come se non bastasse, alla fine anche l’altra metà della diga si era staccata: niente ormai poteva fermare la nave che sfrecciava verso la cascata. Ed Emma poteva solo rimanere a guardare. Non si era mai sentita tanto impotente, tanto disperata. «Emma!» Michael, sul ponte, le correva incontro col fiato grosso. Lei gli gettò le braccia al collo, piangendo. «Michael, sei vivo! Credevo che fossi sulla nave!» Poiché Michael ansimava tanto da non riuscire a parlare, Emma riuscì a ripetere: «Sei vivo! Sei vivo!» «Kate e... il dottor Pym. Sono sulla barca. Con i bambini.» «Lo so! Cosa facciamo? Oh, Michael, Gabriel... Gabriel è...» Ma si accorse di non riuscire a pronunciare le parole che lo avrebbero dichiarato morto. Non
ancora. «Ma quello è Abraham!» Michael stava guardando l’uomo accanto a lei. «Bene!» «Lo so che è Abraham! E allora? Kate è sulla nave! Perché il dottor Pym non fa qualcosa? Dovrebbe...» Uno scricchiolio terribile li fece girare. La nave aveva sbattuto contro la parete della forra ad appena una cinquantina di metri da loro, sufficientemente vicino perché vedessero i bambini in preda al panico sciamare in coperta. Di lì a un attimo la nave sarebbe passata sotto il ponte. «Controlla che faccia la foto!» Michael si stava arrampicando sulla balaustra. «Eh? Ma cosa fai? Michael!» «Mi raccomando, fai la foto!» Michael strillò ad Abraham. «Ragazzo, senti...» «Michael, vieni giù di lì!» In piedi sul parapetto del ponte, Michael gettò un’occhiata nel precipizio, poi si girò a guardare la sorella. Qualcosa nel suo modo di fare indusse Emma a fermarsi. Non avrebbe saputo dire perché, ma all’improvviso le venne in mente che Michael era suo fratello maggiore e che non lo aveva mai considerato in questi termini. «Ti voglio bene» disse Michael, e saltò. «MICHAEL!» Emma arrivò al parapetto in tempo per vedere suo fratello cadere nel buio mentre la nave compariva sotto di loro, una trottola enorme che andava incontro al suo destino; lo vide atterrare sulla coperta e rotolare, dopodiché scomparve: la nave, sempre ruotando, proseguì la corsa verso la cascata e niente e nessuno l’avrebbe fermata. «MICHAEL! MICHAEL!» Strillava tanto forte che le si spezzò la voce, e avrebbe continuato a gridare, sennonché udì altre grida: dagli alberi allineati sul crinale arrivavano le donne della città, vestite di scuro e con i capelli sciolti, con gli scialli che strascicavano; correvano con torce e lanterne e chiamavano i bambini sulla nave, ed era una scena tanto familiare e irresistibile che Emma non riusciva a staccare gli occhi; poi dalla macchina fotografica di Abraham partì il flash, portava la macchina al collo, contro il petto, e sembrò stupito che fosse partito lo scatto, e allora Emma capì le parole di Michael. ... Controlla che faccia la foto... La foto che Abraham aveva dato a lei e a Kate quel giorno nella sua camera, l’ultima che aveva scattato, aveva detto, quella con i nomi dei bambini scritti sul retro. Ma perché Michael voleva che la scattasse? Dal crinale si levò un lamento ed Emma, giratasi, vide la nave ruotare e restare in bilico, di poppa, sul margine della cascata; per un momento
interminabile rimase lì ed Emma, aggrappata al parapetto, pronunciò di nuovo il nome del fratello, quasi un sussurro, Michael; poi la prua si sollevò, la poppa andò giù e tutta la nave, con tutti i passeggeri, scomparve nella cascata. ______________________
Michael era atterrato su una catasta di tela incerata. Gli ci volle qualche secondo per orientarsi, perché la nave stava scendendo per la forra ruotando sempre più velocemente, sbattendo prima contro una parete e poi contro l’altra. Intorno a lui, i bambini si aggrappavano alle balaustre, alle cime, l’uno all’altro, urlando e piangendo. Gettato uno sguardo alle sue spalle vide la sagoma arcuata del ponte. Pregò il cielo che Abraham avesse scattato la foto, che Emma avesse capito. Poi non ci pensò più. Inciampando come un ubriaco, correva lungo un lato della nave chiamando Kate quando qualcuno lo prese per il braccio. Era Stephen McClattery. Aveva in braccio un bambino piccolo e un’espressione di stupore in faccia. «Sei tornato! Di nuovo! Ma come...» «Dov’è mia sorella?» Stephen McClattery indicò la prua. Michael gridò: «Dobbiamo radunare tutti i bambini!» «Sei matto? Non possono muoversi!» «Dovranno farlo! È l’unica possibilità che abbiamo!» «Ma...» «Fallo e basta! Portali da mia sorella! Vai! Non abbiamo molto tempo!» Per un breve istante i ragazzi rimasero a guardarsi; Michael era più giovane di Stephen McClattery, più magrolino, ma non c’erano dubbi su chi fosse il capo. Stephen McClattery annuì, si girò verso due bambini lì accanto e cominciò a sbraitare ordini. Michael se ne andò di corsa. Arrivato al ponte di prua, trovò una ventina di bambini che piangevano spaventati e Kate premuta contro una parete, a stringere a sé il dottor Pym e il libro in una specie di abbraccio. Il dottor Pym era privo di conoscenza. «Michael! Che cosa...» Michael si inginocchiò accanto a lei. «Kate, senti...» «No! Non dovevi tornare!» E cominciò a piangere e a picchiarlo. «Chi è che si occuperà di Emma? Non dovevi tornare!» Poi, senza più picchiarlo, rimase lì, appoggiata a lui, a ripetere tra i singhiozzi: «Non dovevi tornare...» «No, guarda! Ho portato questa!» Infilò la mano in tasca e tirò fuori il quaderno. Lo aprì cautamente per
proteggerlo dalle sferzate del vento e le mostrò la foto. Kate riconobbe subito le figure scure che sbucavano di corsa da un bosco, con torce e lanterne. Era la foto che Abraham aveva dato a lei ed Emma. «Possiamo usare questa! Possiamo metterla nel libro!» Ma Kate stava già scuotendo la testa. «E gli altri?» «Li ho raccolti!» Era Stephen McClattery, con cinque o sei bambini alle calcagna. «Alcuni, almeno! Loro hanno gli altri!» Indicò un punto lontano del ponte, dov’erano appena spuntati due dei ragazzini più grandi alle spalle di un gruppo di bambini. Secondo i calcoli di Michael, dovevano essercene più di trenta raggruppati sul ponte di prua. «Digli di prendersi tutti per mano!» gridò Michael. «Prendetevi per mano!» Stephen McClattery e i suoi tenenti, raccolto l’ordine, andarono di corsa ad avvicinare i bambini fra loro, a urlargli nelle orecchie, ma, sia che i bambini non capissero, sia che fossero troppo spaventati per ubbidire, non ci fu niente da fare. «Ci serve il dottor Pym!» Kate stava scuotendo furiosamente il vecchio stregone. Michael rifletté un momento, poi le disse di smettere e di cercare del tabacco nelle tasche del dottor Pym. Gliene mise un mucchietto sotto il naso e quasi subito il dottor Pym si mise a far versi col naso e piano piano aprì gli occhi. «Mmm» disse, insonnolito. «Che succede?» «Dottor Pym» gridò Kate, «siamo sulla nave! Stiamo per precipitare nella cascata! Abbiamo una foto, ma bisogna che i bambini si tengano per mano!» Il dottor Pym annuì, poi sembrò riflettere e infine disse: «Che succede?» di nuovo, come se non avesse capito nemmeno una parola. Mentre Kate gli ripeteva quel che aveva detto, Michael sollevò lo sguardo e vide che non c’era più acqua. Davanti a loro c’era solo il vuoto. «Kate...» Riuscì a dire solo questo. In quell’istante cozzarono tanto forte contro una roccia che la nave fece mezzo giro su se stessa, così ora la poppa era davanti e la prua di dietro. Ma continuavano a sfrecciare verso la cascata. «È troppo tardi!» gridò Stephen McClattery. «Stiamo andando giù!» Il ponte della nave cominciò a sollevarsi e, per la prima volta, Michael udì il rombo della cascata. «Kate» disse, «mi dispiace, credevo...» «Non importa» rispose lei, e gli strinse forte la mano. «Non importa. Siamo insieme.» «Prendi la foto, Katherine. Tieniti pronta.» Era il dottor Pym. La voce era chiara; li riportò alla realtà. Kate prese la foto dalle mani di Michael e aprì il libro; il dottor Pym stava
mormorando qualcosa e Michael si accorse che Stephen McClattery lo aveva preso per mano; lui a sua volta si attaccò al braccio della sorella; poi, mentre la poppa si abbassava e il ponte continuava a sollevarsi, sui bambini calò una strana calma e ciascuno, allungato il braccio, trovò nel buio una mano da afferrare, formando così una lunga catena che serpeggiava sul ponte, e mentre il dottor Pym ancora mormorava, la catena si allungava sempre più, finché anche l’ultimo bambino si unì e il ponte era tanto inclinato che Michael dovette puntare le gambe con tutte le sue forze per non scivolare; poi, guardando giù, vide il nulla oltre la nave, e tutti stavano cadendo, tutti quanti. Fu allora che il dottor Pym gridò: «Adesso!» E la nave precipitò. ______________________
«Andrà tutto bene» si ripeté Emma, per la quarta, o quinta, o nona volta. «Andrà tutto bene.» Per qualche secondo dopo che la nave era precipitata, c’era stato un terribile, prolungato silenzio. Poi udirono lo schianto, giù in fondo, e le donne sul crinale caddero in ginocchio gemendo. Tra le grida, Emma sentì altre voci, voci maschili, arrivare dalla forra alle sue spalle. Ma non si girò. Né corse a guardar giù dal precipizio, né guardò il punto della cascata in cui la nave era scomparsa. Continuò a tenere gli occhi fissi sul bosco dietro le donne. E aspettò. Per favore, pensava, con le mani che stringevano il parapetto del ponte, per favore... Fu allora che si udì un grido diverso. Un grido al quale le donne sulla rupe si bloccarono e poi si girarono. Era una voce di bambina. Chiamava sua madre. La bambina non aveva più di sette, otto anni e, quando uscì di corsa dal folto degli alberi, una donna lanciò un urlo, le si precipitò incontro e la strinse fra le braccia; poi arrivarono altre grida: due per volta, tre per volta, altri bambini uscivano dal bosco e, fra lacrime e pianti, su tutto il crinale cominciarono i ricongiungimenti; ed Emma, sentito allentarsi il nodo di paura che la paralizzava, si precipitò sul ponte e, dimenticato il dolore alla caviglia, correva già verso gli alberi, sapendo che li avrebbe trovati lì, sapendo che non l’avrebbero mai abbandonata, correva incontro al fratello e
alla sorella che l’aspettavano a braccia aperte.
Capitolo 24 Rhakotis † «Ricordate» disse il dottor Pym «che voi tre, andando nel passato, avete modificato la storia. Dobbiamo dunque immaginare che cosa sarebbe successo se non aveste viaggiato nel tempo.» Kate, Michael e il dottor Pym erano seduti sul tronco di un albero caduto. Erano trascorsi dieci minuti da quando la nave era finita giù per la cascata e loro erano apparsi nel bosco, e ancora, tutt’intorno, famiglie che si riunivano per la prima volta dopo anni, madri e padri che fino a pochi minuti prima avevano considerato persi per sempre i loro figli, si abbracciavano increduli. Il dottor Pym stava rispondendo a una delle domande di Michael. Michael voleva sapere come aveva fatto l’Atlante a passare dalla cripta della Città Morta allo studio sotterraneo della casa. Era una di quelle domande accademiche ed essenzialmente inutili che lo affascinavano. Kate ascoltava solo a metà. Stava osservando Emma, che si era allontanata fin sull’orlo della forra. Per il momento, a Kate sembrò giusto lasciare alla sorella il suo spazio. «Così» continuò lo stregone, «in quello che chiamerò passato originario, quello che precede i vostri salti nel passato, la Contessa avrebbe cercato l’Atlante, senza trovarlo, nella Città Morta. Guidati da Gabriel, gli uomini di Cambridge Falls si sarebbero liberati dai loro aguzzini e ribellati. La Contessa, sapendo che il suo padrone non avrebbe accettato un fallimento, avrebbe distrutto se stessa e i bambini e, così facendo, avrebbe gettato una maledizione sulla città. «Ora, quale che sia la versione dei fatti, io sono stato nella prigione di Hamish. Poniamo il caso che alla fine mi sia liberato, anche se non in tempo per contrastare la Contessa. Temendo che il Padrone della strega mandasse un altro emissario a riprendere da dove la Contessa aveva lasciato, avrei portato via l’Atlante dalla cripta. Dopodiché, è facile immaginare che mi sia impossessato della casa della Contessa e abbia fatto costruire una stanza sotterranea in cui custodirlo. Avrei così soddisfatto il mio senso dell’ironia, dal momento che era come metterle il libro sotto il naso. Poi avrei ordito un nuovo incantesimo perché la porta si rivelasse a chi fosse arrivato di voi tre. È questo, più o meno, che è successo?» Michael rispose di sì. «Ecco, così ti ho risposto.» Tutti tacquero. Michael sembrava aver esaurito le domande. Fu Kate, alla
fine, a parlare: «È il momento, vero?» «Sì» rispose il dottor Pym. «Avete fatto quel che dovevate. È il momento.» Kate si alzò per andare da Emma. Le sferzate del vento, salendo sul margine della forra, portavano spruzzi dalla cascata. «Hai freddo?» chiese Kate. «No.» «Emma, abbiamo fatto una cosa molto bella.» Emma non disse niente. «Mi dispiace molto per Gabriel.» «È là sotto, da qualche parte.» Kate non replicò, ma cinse la sorella con il braccio e insieme rimasero a guardare l’acqua scura che correva verso la cascata. «Il dottor Pym vuole che andiamo, vero?» «Sì.» «Va bene.» Si avvicinarono a Michael e al dottor Pym. Dalla tasca della giacca, Emma prese la foto che aveva fatto a Kate nella loro camera, quella scattata appena prima che tornassero indietro nel tempo per salvare Michael. La consegnò alla sorella. Attorno a loro, le famiglie cominciavano a spostarsi verso la città. «Quando torneremo» chiese Kate, «la ritroveremo là?» «Credimi, è mia ferma intenzione esserci.» «Dottor Pym...» cominciò a dire Emma. «Mia cara, Robbie e i suoi nani stanno già cercando Gabriel. Sarà in buone mani.» «I nani sono bravissimi a seguire le tracce» intervenne Michael. «G.G. Greenleaf...» «Michael» disse Kate. «Sì?» «Sta’ zitto.» «D’accordo.» Emma e Michael si presero per mano e Michael si attaccò al braccio di Kate. Kate aprì il libro. Poi si bloccò. «Dottor Pym...» Kate prese qualcosa dalle pagine. Era la foto scattata da Abraham alle donne che correvano in cima alla forra, quella che Michael le aveva dato mentre la nave sfrecciava verso la cascata. Kate non capiva. Quella foto l’aveva usata per viaggiare nel tempo. Sarebbe dovuta scomparire! «Ah» disse il dottor Pym, calmo. «Allora è successo.» «Cosa dice?» chiese Kate. «Di cosa parla? Perché la foto è ancora qui?» «Katherine, ricordi cosa ti ho detto nella sala del trono di Hamish?» «No, ma...»
«Cerca di ricordare. Ti chiarirà le cose. In ogni modo, vi spiegherò tutto nel futuro. Per ora, metti la foto nel libro. Poi vedete se scompare. Secondo me non scomparirà. «Per favore» aggiunse, vedendo che lei esitava, «fidati di me.» «Mi fido» replicò Kate. Ed era sincera. Kate passò la foto di Abraham a Michael, che la infilò nel quaderno, e poi controllò un’ultima volta che tutti e tre fossero attaccati l’uno all’altra. Si accorse che lungo le ombre degli alberi si muoveva qualcosa. Guardò meglio, ma quel qualcosa era già sparito nel buio. Avanti, procediamo, si disse, e posò sulla pagina bianca la foto che la ritraeva. Provò l’ormai familiare strappo allo stomaco e, scomparsa la scena che avevano davanti agli occhi, si ritrovarono nella camera da letto della grande casa; di nuovo, ebbe la sensazione di non poter muoversi e intanto di vedere l’altra Kate e l’altra Emma prepararsi a tornare nel passato a salvare Michael, dopodiché vide il suo doppio mettere la foto nell’Atlante e svanire, e tutti e tre furono liberi di muoversi. «Ragazzi» borbottò Emma, «ne vedranno di tutti i colori.» «La foto è scomparsa?» chiese Michael. «No» rispose Kate, mostrandola. «È ancora qui.» In quell’istante udirono aprirsi la porta alle loro spalle. «Ma allora ci sono, le loro maestà!» I ragazzi si girarono; sulla porta c’era la vecchia governante. «Signorina Sallow» disse Kate, «non l’avevamo...» «Sentita bussare negli ultimi dieci minuti? Credevate di farla alla vecchia Sallow? Chissà che risate, eh? Non sapevo di essere stata ingaggiata alla Comédie-Française.» «Signorina Sallow...» «Il dottor Pym è di sotto e gradirebbe la vostra compagnia. Credete di accondiscendere o devo riferire che le loro maestà preferiscono restare nei propri appartamenti a fare bon mots e prendere in giro una povera vecchia?» Kate sussurrò a Michael ed Emma: «Voi andate. Io vi raggiungo. Voglio nascondere il libro». Non appena il fratello e la sorella se ne furono andati con la vecchia, Kate si girò e ficcò il libro sotto il materasso. Le tremavano le mani. Sapeva che la mancata scomparsa della foto era un fatto importante. Ma in che modo? Che cosa le aveva detto il dottor Pym nella sala del trono di Hamish? Magari fosse riuscita a concentrarsi! Magari fosse riuscita ad avere per un momento un po’ di lucidità! Ma c’erano tante altre cose cui pensare: la profezia, con tutte le sue implicazioni, gli altri due Libri dell’Inizio, il Ferale Magnus, che era ancora là, sua madre... Sua madre aveva capito chi era, l’aveva riconosciuta. Kate stava ancora pensando a questo, o meglio, stava ancora
beandosi al calore di questo ricordo, quando tirò giù la coperta e si alzò. Fu allora che le venne in mente. Il dottor Pym le aveva detto che soltanto lei poteva accedere ai pieni poteri del libro. Intendeva dire che posso muovermi liberamente nel tempo, pensò Kate, che non mi serve una fotografia. Ma aveva detto anche qualcos’altro. Che cosa? Doveva trovare lo stregone. «Katrina...» Kate si girò di scatto. Una donna decrepita, una vecchiaccia curva, avvolta in uno scialle lurido e sbrindellato, si trascinava verso di lei da un pannello che si era aperto accanto al caminetto. Le braccia erano poco più che ossa; la pelle che c’era attaccata era floscia e macchiata di lividi. Dal cranio ricadevano lunghe ciocche di capelli sfibrati. I piedi, gonfi e anneriti, spuntavano dalle scarpe sfondate. Sorrise, scoprendo le file di denti marroni. Lo sguardo di Kate guizzò verso la porta: Emma, Michael e la signorina Sallow erano usciti da tempo. «Quindici anni» gracchiò la Contessa. «Quindici anni, ho aspettato. Per te sono stati un attimo. Tu li hai scavalcati come se fossero una crepa nel pavimento. Io invece ho aspettato, mon ange, ho aspettato quindici anni, giorno dopo giorno, ora dopo ora; aspettavo di rivederti.» Si mise fra Kate e la porta, impedendole di scappare. Non che questo cambiasse le cose: Kate non riusciva a muoversi. La paura la bloccava. La Contessa era viva. Ma com’era possibile? Era superfluo, invece, chiedere a quella donna che cosa voleva. Era venuta per l’Atlante. «Ti sembra incredibile, eh, che la tua vecchia amica Contessa sia ancora in piedi? Credevi che il mio vecchio padrone mi avesse uccisa, vero? E invece no. Si limitò a riprendersi i suoi poteri. Lasciandomi vuota e debole. Un povero mucchietto di pelle e ossa. Tu non sai che mi risvegliai sul pavimento di quella nave maledetta e che, distrutta, mi trascinai fino in coperta, e che là vidi te, quello stregone e i bambini. Capii cosa stavate facendo. Lo capii benissimo, e all’ultimo momento mi unii alla vostra catena. Salvando i bambini, mia dolce Kat, hai salvato anche me.» Scoppiò in una risata che si trasformò in un attacco di tosse e chiuse nel pugno qualcosa che strofinò nell’orlo dello scialle. «Poi rimasi nascosta fra gli alberi a guardare i bambini che si ricongiungevano con quei genitori patetici. Non potevo rischiare di trovarmi faccia a faccia con il tuo stregone. Ma vidi te e i tuoi fratelli con il libro e allora capii che avrei aspettato. Tutti mi credevano morta. Perfino il mio padrone pensava che fossi morta quando la nave era andata giù nella
cascata. E capii che l’Atlante poteva ancora essere mio!» Afferrò Kate per il braccio. Le unghie erano nere e scheggiate. «Anno dopo anno, ho aspettato. Gli abitanti della città non mi riconoscevano. Quegli stessi bambini che avevo tenuto prigionieri mi portavano cibo e acqua. Sono stata paziente. Poi, un giorno, mi è arrivata notizia dei tre ragazzi che erano venuti a stare nella casa al di là del fiume. Da tempo sapevo che c’erano quei passaggi segreti nei muri; così mi sono infilata lì dentro di nascosto e ho camminato, ho cercato e finalmente ti ho vista, mia bella Katrina: non eri invecchiata nemmeno di un giorno, nemmeno di un istante...» Adesso era vicina a Kate, a inondarle il viso col suo fiato acre. «Dammi l’Atlante.» Kate esitava. Doveva gridare? Qualcuno l’avrebbe sentita? «So cosa stai pensando, colombella mia. Ma il tuo dottor Pym non ti sentirà. È troppo lontano. Sai chi ti sentirà? I piccoli Michael ed Emma. Correranno qui. E quando li ucciderò ti costringerò a guardare! Ho aspettato troppo. Dammi l’Atlante!» Dalle pieghe dello scialle, la vecchiaccia tirò fuori un lungo coltello dai denti arrugginiti. Kate posò lo sguardo sulla lama e poi di nuovo sugli occhi della vecchia. «Prometti che non farai del male a Michael ed Emma.» «Per favore», fece un sorriso orribile, «non sono un mostro.» «E che subito dopo te ne andrai.» «Come se non fossi mai stata qui.» «Allora d’accordo.» Kate si girò e mise la mano sotto il materasso. Non aveva alcuna intenzione di consegnarle il libro. Voleva soltanto che la strega, credendo di aver vinto, abbassasse la guardia. Preso il libro per la copertina, Kate si tirò su di colpo e, fatto mezzo giro su se stessa, con tutte le sue forze scaraventò il volume rilegato in pelle contro la testa della Contessa... La mano della vecchia scattò in su ad afferrare il libro. E rimasero così, Kate con in pugno un’estremità e la Contessa con l’altra, le unghie conficcate nella copertina verde smeraldo. La strega cominciò a starnazzare: «Scaltra, la ragazzina. Adesso non ci fideremo più molto, eh? Fortunatamente la Contessa è più forte di quanto non sembri. MOLLA! DAMMELO!» La Contessa diede uno strattone tremendo e Kate perse la presa. Ma lo strappo, troppo forte, sbilanciò la vecchia: il libro cadde e atterrò aperto sul pavimento. Tutt’e due si tuffarono a prenderlo. Un attimo dopo la Contessa ghermiva il libro, sibilando, con il coltello
sollevato per colpire Kate in faccia, mentre Kate allontanava la testa e teneva ben salde le dita su una pagina aperta, decisa a non dargliela vinta, e quando vide avvicinarsi la lama fece l’unica cosa che le venne in mente. Chiuse gli occhi e con tutta se stessa cercò di attingere alla magia del libro, pregando il cielo che il dottor Pym avesse ragione. Subito sentì lo strappo allo stomaco. Per strano che fosse, Kate ebbe la sensazione che l’Atlante, e il potere che conteneva, l’aspettasse da sempre. Ma l’entusiasmo durò un solo secondo, dopodiché si ritrovò come in mezzo a un grande oceano, senza terra in vista. La Contessa era ancora con lei, ma come pura presenza. Si sentì affondare e capì che sarebbe potuta scomparire, svanire nel tempo. Forse era giusto così, forse era destino che succedesse. Ma poi, come le era capitato in camera, le tornò il ricordo di sua madre, di sua madre che la riconosceva, e le si accese in petto una scintilla d’amore puro. Fu allora che rammentò le altre parole del dottor Pym. Perché lei potesse accedere ai pieni poteri del libro, il suo cuore doveva guarire. D’accordo, pensò, immagina di avere una fotografia. Di’ al libro dove andare. Un attimo dopo, quasi accecata dalla luce, era su un tetto di una città bruna riarsa dal sole. Nell’aria era sospesa della polvere rossa e dalle vie di sotto si levavano grida. La Contessa si era buttata in ginocchio, boccheggiando. Il coltello era a terra e Kate lo allontanò con un calcio. «Come... come hai fatto?» «Non ho più bisogno di fotografie. L’Atlante risponde ai miei ordini.» «No, non è possibile.» «Ah, no? Dai un’occhiata in giro. A me sembra possibilissimo.» «Ma non puoi...» «In realtà credo di aver sempre potuto. Solo che prima non ero pronta. Il dottor Pym lo sapeva. Mi aveva detto che il libro non mi avrebbe ascoltata finché il mio cuore non fosse guarito.» Parlava più per sé che per la Contessa. Aveva bisogno di dire a voce alta quel che adesso aveva capito. «Immagina di avere una domanda al centro della tua vita e che, finché non avrai la risposta, tu sia destinata a sentirti perduta. Per me si trattava di sapere se i nostri genitori ci avessero mai amati. Come potevano amarci, se ci avevano abbandonati? Ma quando mi hai aiutata a tornare indietro nel tempo, mia madre mi ha riconosciuta. Ha riconosciuto in me sua figlia. Non metterò mai più in dubbio il suo amore. È come sapere dov’è il nord. Qualsiasi cosa succeda, quello mi guiderà.» La Contessa, a fatica, si rialzò in piedi. I suoi occhi, un tempo violetti, erano neri di odio. Kate non aveva più paura. Anzi, provava uno straordinario senso di pace. «È strano. Se tu non mi avessi mandata indietro nel tempo, non lo avrei mai
capito. Anche se, in effetti, sono abbastanza sicura che il dottor Pym avesse pianificato tutto fin dal momento in cui mi aveva instillato il ricordo di mia madre. Quando lo vedrò dovrò chiederglielo.» «Ragazzina, ti strapperò...» La minaccia fu interrotta da un’esplosione in una via vicina. La Contessa si girò di scatto. «Dove siamo? Dove mi hai portata?» Kate scosse le spalle. «Non mi ricordo come si chiama la città. Me ne avevi parlato tu, quella in cui il consiglio dei maghi scrisse i Libri. Dicevi che fu distrutta da Alessandro Magno. Ho detto all’Atlante di portarci là.» «Siamo a Rhakotis?» «Immagino di sì.» «Pazza! Guarda!» La Contessa puntò il lungo dito storto e Kate si girò. Alle sue spalle si estendeva un infinito mare azzurro che brillava al sole, con sopra migliaia e migliaia di navi. Kate sentì il suono dei tamburi arrivare dall’acqua e vide palle di fuoco levarsi in alto dai ponti delle navi più vicine. I proiettili piovvero in tutta la città; di lì a qualche secondo, intorno a loro infuriavano una decina di incendi. Kate udiva la gente che urlava e correva per mettersi in salvo. «Dobbiamo andarcene! Aiutami e io aiuterò te! Tu hai il potere. Adesso l’ho capito. L’Atlante ha scelto te! Ma non hai idea di cosa ci aspetta! Aiutami e io aiuterò te!» «Perché dovrei aver bisogno del tuo aiuto?» «Perché io conosco il mio padrone. Lui continua a cercare. A cercare te e i tuoi fratelli! E i Libri! Il Ferale Magnus vi troverà!» Udendo quel nome, a Kate sembrò quasi di sentire il violino. Sapeva che era solo la sua immaginazione, ma il ricordo di quella musica la raggelò. La Contessa con un balzo si avvicinò. «L’hai visto! Lo sai che spezzerà il tuo mago come un ramoscello e che diventerete suoi schiavi. Io posso aiutarvi! Posso aiutarvi a prendere gli altri due Libri! Non capisci che la vostra unica speranza è questa? Lui non smetterà mai di cercare! Dovete arrivare ai Libri prima di lui!» «Ci nasconderemo...» La vecchia emise un sibilo e sventolò la mano in segno di spregio. «Nascondervi! E per quanto tempo? Tutta la vita? Vi troverà! Vi troverà e attraverso di voi troverà i Libri, dopodiché distruggerà questo mondo! Ti ho già detto cosa possono fare i Libri! E...» Si interruppe per lanciarle un’occhiata allusiva. «... Credevo che tenessi di più ai tuoi genitori.» Kate sentì tremarle il cuore; all’improvviso faticava a respirare. «Cosa... cosa vorresti dire?» La Contessa, intuendo di aver colpito nel segno, sorrise. «Così lo stregone
non te l’ha ancora detto? Male, malissimo. Ma per fortuna questa vecchietta si tiene sempre informata. Soprattutto quando si tratta di mon petit oiseau. Dieci anni fa, il Ferale Magnus alla fine riuscì a scovare te e i piccoli Michael ed Emma.» «Ma come...» «Be’, c’era la profezia! E c’erano dei segni. Ma lo stregone fu più svelto. Vi fece sparire. I vostri dolci genitori non furono altrettanto fortunati. No no, non furono affatto fortunati.» Si avvicinò. «Dieci anni, ormai: da dieci anni i vostri amorevoli genitori sono prigionieri del Ferale Magnus!» «Non è vero.» «Oh, sarebbe bello, eh? Invece sai che è vero! Il Ferale Magnus tiene prigionieri i vostri genitori e l’unico modo per liberarli è trovare gli altri due Libri. E per trovarli vi serve l’aiuto della Contessa.» I suoi genitori erano prigionieri. Ecco perché non erano mai venuti a prenderli. Per quanto terribile fosse, Kate provò uno strano sollievo: la sua storia aveva finalmente un senso. Un boato fendette l’aria: Kate e la Contessa si girarono e videro un’altra tremenda scarica di proiettili, ancora più massiccia della prima, sollevarsi dalle navi. Il destino della città era segnato. La Contessa prese Kate per il braccio. «Riportami indietro! Subito! Sono la tua unica speranza!» Ma Kate scosse la testa e disse, semplicemente: «No. Tu rimani». Si liberò il braccio con uno strattone e intanto cercò di richiamare a sé la magia. L’ultima cosa che vide fu la Contessa che stava per piombarle addosso mentre il cielo attorno a loro si riempiva di fuoco. Un secondo dopo, Kate era in piedi nella camera da letto, sola, con in mano il libro verde smeraldo. «Ehi! Ma cosa fai? Non dovevi nasconderlo, quello?» Emma era sulla porta. «Stai bene?» Kate si accorse di trattenere il fiato. Espirò. «Sto bene. Solo che... Emma, cos’hai? Cos’è successo?» Sua sorella aveva le lacrime agli occhi. «Devi venire, Kate! Vieni a vedere!»
Capitolo 25 Fantasmi del Natale passato † Camminando in fretta con Emma per i bui corridoi della casa, Kate non poté fare a meno di notare come tutto andasse in sfacelo: specchi incrostati di sporco, ragnatele negli angoli, tappeti rosicchiati dai topi su pavimenti scricchiolanti e coperti di polvere. Insomma, la casa era in tutto e per tutto com’era stata prima del loro viaggio nel passato. Emma non voleva dirle che cos’era successo, ma tanto Kate stava ancora pensando alle parole della Contessa: i genitori prigionieri del Ferale Magnus, gli altri due Libri come unica speranza di salvarli. Sapeva di doverlo dire a Michael ed Emma. Ma prima voleva parlare con il dottor Pym. Davanti alla porta della sala da ballo si fermarono. Emma la guardò in faccia. «Sei pronta?» Senza aspettare risposta, Emma ruotò i pomelli. Quando le porte si spalancarono, Kate fu assalita da un’esplosione di luce e musica. La sala era piena di gente che mangiava, beveva, parlava, e per un attimo Kate pensò di essere capitata allo spettrale galà pietroburghese della Contessa. Solo che non era il galà della Contessa. La musica era festosa. In mezzo alla sala c’era un albero enorme. Le pareti erano adorne di ghirlande e agrifoglio. Gli ospiti, benché agghindati come meglio potevano data la stagione, decisamente non erano la crème della società pietroburghese. E poi c’erano i bambini. Correvano in tutta la sala, zigzagando fra gli adulti, rincorrendosi e lanciando grida allegre. «Che succede?» chiese Kate. Emma non rispose e Kate capì che la gente cominciava ad accorgersi di lei. Un ospite la guardò, sussurrò qualcosa a un altro ospite, che sussurrò qualcosa a un altro ospite, che sussurrò qualcosa a un altro ospite ancora: pochi secondi dopo, nella sala era calato il silenzio e tutti la guardavano. «Emma, che cosa...» Dovette interrompersi, perché da tutti quanti si levarono acclamazioni e applausi. «Be’» disse Kate, «mi fa un po’ impressione.» «Eccoti qua! Benvenuta! Benvenuta!» Il dottor Pym, vestito con il solito completo di tweed che gli aveva visto non cinque minuti bensì quindici anni prima, si staccò dalla folla che applaudiva.
Era raggiante. «Buon Natale, mia cara! Tanti, tantissimi auguri di buon Natale!» Fece un inchino, piegandosi quasi in due. «Dottor Pym» disse Kate «... chi sono... che cosa succede?» «Be’, è una festa!» Poi abbassò la voce per farsi sentire soltanto da lei. «Non aver paura. Stasera il Ferale Magnus non potrà farti del male. Ci ho pensato io.» Kate, rimasta senza parole, annuì. Stava guardando la ressa di ospiti che li stringeva da ogni lato. «Sì, ma...» Da dietro lo stregone spuntò Michael. «Tranquilla, Kate. È tutto a posto.» E in effetti quella gente non sembrava volere altro che stringerle la mano, ringraziarla e augurarle buon Natale. C’erano uomini e donne di tutte le età e Kate vide che molti avevano le lacrime agli occhi e le stringevano la mano come se, dopo aver aspettato quel momento per molti anni, non fossero disposti a lasciarlo passare troppo in fretta. «Dottor Pym» disse Kate, quando emerse dall’abbraccio di una signora grassoccia che le aveva inondato di lacrime la spalla, «chi sono queste persone?» «Sono i bravi abitanti di Cambridge Falls. In questa casa organizziamo tutti gli anni una festa di Natale. Mi sembra un buon modo di scacciare gli spiriti maligni. Anche se non riesco a convincere la signorina Sallow a pulire la casa come si deve. Come governante è proprio pessima.» «Ma non vedi?» gridò Emma. «Sono i bambini! Quelli che abbiamo salvato! Tutti cresciuti!» In quel momento si avvicinò una giovane coppia con un bambino. Sia il padre sia il piccolo avevano i capelli rossi. «Sei proprio tu» disse l’uomo. «Quando il dottor Pym ci ha detto che stasera saresti venuta qui, non riuscivamo a crederci. Non sei cambiata neanche un po’. Un filino dimagrita, forse, ma era prevedibile.» Kate aveva la sensazione di aver già visto quell’uomo, ma non avrebbe saputo dire dove e come lo aveva conosciuto. La donna sorrise. «Non ti ha riconosciuto, caro.» «Ah, certo. Sono Stephen McClattery. Un po’ cresciuto. E lei è Annie, mia moglie. Ti ricordi di lei?» «... oh...» fece Kate «... OH!» «Portavo gli occhiali» disse Annie. «Mi ricordo.» Kate stava pensando che una volta aveva tenuto in braccio quella bambina, ora donna. «Vorremmo presentarti nostra figlia» riprese Annie. «L’abbiamo chiamata Katherine. Noi ti dobbiamo tutto. Tutti quanti. Tutte le
persone che ci sono qui.» Kate guardò la piccola e gli occhi le si riempirono di lacrime. Con voce rotta, riuscì a mormorare: «È bellissima». «Allora!» gridò una voce gioviale. «Fatemi passare! Voglio dare un’occhiata!» Il re dei nani, Robbie McLaur, stava garbatamente facendosi largo tra la folla. Indossava un panciotto a scacchi rossi e verdi e la barba era raccolta ordinatamente in quattro treccine, ciascuna legata con un nastro verde smeraldo. Con il panciotto, la barba intrecciata e guarnita di nastri e, in generale, quell’aria elegante, a Kate sembrò nientemeno che il più impennato dei puledri impennati; in altre parole, lo trovò meraviglioso. Michael esclamò: «Maestà! Nessuno mi aveva detto che c’era anche lei!» E subito si piegò su un ginocchio. Emma sbuffò. «Come sei imbarazzante.» «Su, su, lascia stare!» Robbie rimise in piedi Michael e lo abbracciò fortissimo. «Che spettacolo rivederti, ragazzo! Che spettacolo rivedervi tutti e tre! Che spettacolo!» Poi Kate vide l’altro nano qualche passo più indietro. Indossava un panciotto rosso e oro e dalla barba nera gli spuntava un sorrisone da orecchio a orecchio. «Wallace!» gridò lei, correndogli incontro. Lui, ridendo, la avvolse nelle bracciotte corte e muscolose e poi fece un passo indietro per rimirarla meglio. «L’ultima volta che ti ho vista eravamo nella Città Morta quasi quindici anni fa. In effetti, forse portavi proprio questi vestiti.» «Wallace, mi dispiace tanto per quello che ho fatto...» «Su, su, non scusarti. Alla fine tutto si è sistemato.» «Già» intervenne Robbie. «E, cosa non da poco, abbiamo ristabilito dei legami con gli abitanti di Cambridge Falls. Fra loro non c’è nemmeno una mela marcia! Ah, prima che mi dimentichi: Hamish si scusa di non essere riuscito a venire.» «Davvero?» fece Kate. «Davvero?» fece Michael. Robbie scoppiò in una risata fragorosa e diede a Michael una pacca sulla spalla tanto forte da buttarlo quasi a terra. «Ma no! Ho costretto quel degenerato a rimanere al palazzo a distribuire regali. Tutti gli anni lo costringo a vestirsi da Babbo Natale. E a farsi saltare sulle ginocchia i nanetti. Dio, è una cosa che detesta!» Kate vide che sua sorella si era sollevata sulla punta dei piedi e allungava il collo per guardare tra la folla.
Le si strinse il cuore quando capì che cosa, o meglio chi, cercava. E si rese conto che era arrivato il momento di andare da lei. Ma proprio in quell’istante fu abbordata da un’altra coppia di bambini cresciuti che voleva vederla, ringraziarla, farle dare un bacio al figlioletto. E quando si girò, Emma non c’era più. La trovò fuori, sul patio del retro, lo stesso in cui, quindici anni prima, tutti e tre avevano ascoltato la Contessa raccontare la storia dei Libri dell’Inizio. Allora era una tiepida serata di fine estate. Adesso invece era inverno: una dura crosta di neve ricopriva il selciato del patio e Kate vedeva il fiato di Emma. Si chiuse le porte alle spalle, attutendo i rumori della festa, e attraversò il patio per andare dalla sorella. Emma aveva lo sguardo fisso sui contorni scuri degli alberi e le braccia avvolte strette attorno al corpo. Kate pensò che forse non lo sentiva neanche, il freddo. «Credevo di trovarlo qui» disse Emma. «Credevo... insomma, ci sono tutti. Quei nani e... Credevo di trovare anche lui. Che stupida.» Kate le posò la mano sulla schiena. «Mi dispiace.» Rimasero così forse mezzo minuto, senza muoversi né parlare. Kate si chiedeva se non fosse il caso di farla rientrare. Faceva troppo freddo, fuori, senza cappotto, e poi voleva raccontare a lei e Michael cos’aveva saputo dei genitori. Fece per parlare quando Emma trattenne improvvisamente il fiato e si precipitò giù per i gradini di pietra e poi nella neve. «Emma! Aspetta! Cosa...» In quel momento vide la figura scura che, staccatasi dagli alberi, avanzava verso di loro. No, pensò Kate. Impossibile che... Emma correva nella neve alta fino al ginocchio urlando il suo nome e, quando raggiunse la figura, si buttò nelle braccia aperte. Kate udì la sua voce smorzata: «Lo sapevo! Lo sapevo...» Qualche momento dopo, l’uomo, ancora con Emma in braccio, salì sul patio. Indossava un lungo cappotto di pelle d’orso e aveva la testa e le spalle coperte di neve. Il viso era più rugoso di quanto Kate ricordasse e c’erano delle ciocche grigie alle tempie. Emma gli aveva seppellito la faccia nel bavero. «Ciao» disse Gabriel. Kate, ancora sbalordita, fece un cenno con la testa. «Fa freddo. Meglio entrare.» Fece un passo avanti e aprì la porta. «Ah» disse il dottor Pym, quando Gabriel si avvicinò con le due ragazze, Emma che camminava accanto a lui tenendolo per mano, «ce l’hai fatta. Ho saputo che è nevicato un bel po’ sul vostro versante della montagna.» Michael rimase lì a guardarlo con un’espressione, pensò Kate, probabilmente
non molto diversa da quella con cui lei lo aveva guardato qualche istante prima. «Ma credevo che... Aspetta... Come...» Lo stregone sorrideva; si godette quello stupore senza dir niente. «Che bello vedervi» disse Gabriel, con la sua voce profonda e seria. «Scusa» intervenne Kate, «ma Michael ha ragione. Come...» «Come mai non sono morto?» «Be’... sì.» Emma non si trattenne: «Perché Gabriel è troppo forte per uno stupido mostro! Giusto?» Si passò la mano sulla faccia e Kate vide che piangeva di gioia. «Devo ringraziare te» disse Gabriel a Michael. «Me?» «Lui?» fece Emma. «Lui non ha fatto niente! Sono stata io a... cosare le mine! Sono stata io a spingerti giù dalla passerella!» Gabriel la guardò. «Volevo dire» aggiunse subito Emma, «a trovarti sulla passerella. Quando sei caduto lì, quando sei caduto dalla prima passerella.» «Se non fosse stato per tuo fratello» riprese Gabriel, «forse non mi sarebbe mai venuto in mente che quel mostro aveva paura dell’acqua. Ed è così che alla fine l’ho sconfitto. Quando l’acqua si è alzata, sono riuscito a farla annegare, quella bestiaccia infernale.» «E come sei uscito di lì?» chiese Kate, meravigliata. «L’ultima cosa che ricordo è di aver fatto di corsa le scale mentre la diga mi crollava attorno. Re Robbie e i suoi nani mi hanno trovato svenuto in cima alla forra.» «Vero.» Il re dei nani si ficcò i pollici nei taschini del panciotto e cominciò a dondolare avanti e indietro. «Ci abbiamo messo un’enormità di tempo a spostarlo di lì. ’Sto ragazzo pesa più di un cavallo da tiro.» «Uh, allora è vero che i nani sanno fare le cose» disse Emma generosamente. Poi fece chinare Gabriel: Kate la vide sussurrargli qualcosa all’orecchio e udì la risposta di Gabriel: «Lo so, anch’io...» Kate guardò il dottor Pym. «Bene, allora è tutto sistemato. Ce la siamo cavata tutti?» «Cavata è dir poco. Guardati intorno: tutto questo è merito vostro.» Kate guardò le famiglie schierate davanti a loro e pensò: questo lo abbiamo fatto noi, qualsiasi altra cosa succeda, questo lo abbiamo fatto noi. «E adesso» disse il dottor Pym, «se volete scusarmi, è da un po’ che sto guardando quel sidro...» «No! Devo dirle una cosa...»
«Sì, mia cara?» «Io...» Il vecchio stregone aspettava. Anche Michael ed Emma aspettavano, Emma tenendo Gabriel per mano e Michael che se ne stava accanto a re Robbie e Wallace. Kate vide che tutti e due avevano l’aria più felice che mai. «Sì, Katherine?» Lei capì che, nell’attimo stesso in cui avesse riferito le parole della Contessa, cioè che toccava a loro salvare i propri genitori dal Ferale Magnus, la festa sarebbe finita. E pensò al lungo viaggio che avevano dovuto fare per arrivare dov’erano e al viaggio che ancora li aspettava. Michael ed Emma avevano bisogno di quella serata. «Io... volevo solo augurare buon Natale a tutti.» Così la festa proseguì, fra musica e balli e canti di Natale attorno al fuoco; Stephen McClattery si scusò con i ragazzi per aver cercato di impiccare Michael e loro gli dissero di non pensarci più; i ragazzi videro Abraham andarsene in giro zoppicando con una macchina fotografica al collo e lo abbracciarono e ringraziarono di tutto; Wallace e re Robbie insegnarono ai ragazzi dei canti di Natale naneschi che soltanto di sfuggita parlavano del Natale e molto di più parlavano dei vantaggi e degli svantaggi di varie tecniche minerarie (Michael prendeva appunti); su un lungo tavolo c’erano le pietanze migliori che si potessero immaginare: arrosto di maiale con glassa di sciroppo d’acero, agnello con gelatina di menta, croccanti patate dorate, purè di patate all’aglio e formaggio, scodelle fumanti di zuppa di pesce; i soli dolci occupavano due tavoli, uno dei quali era dedicato interamente a diverse varietà di doughnut: al cioccolato, alla cannella, con cioccolato e cannella, spolverati di zucchero a velo e ripieni di lamponi, di more, di fragole, di mirtilli; Michael insistette perché Emma assaggiasse un delizioso, come promise, doughnut ai funghi, ma lei gli disse di non essere disgustoso; c’erano succhi di mele, di pere, di miele, tini fumanti di vin brulé, tazzone di cioccolata schiumosa, un fusto di birra nanesca, portato da re Robbie, che a quanto pareva riscuoteva un gran successo; e gli adulti che erano già andati a ringraziare i ragazzi tornarono una seconda volta e poi una terza, trascinandosi dietro Abraham perché scattasse le foto; e conobbero bambine di nome Kate, altre di nome Emma e maschietti di nome Michael, così tanti che Kate si chiese come facesse una mamma, quando la sera richiamava a casa il figlio o la figlia, a evitare che arrivassero i bambini di mezza città; e i ragazzi mangiarono e bevvero troppo, e l’unica persona un filino scontrosa fu la signorina Sallow, ma solo perché lei era fatta così. Kate si sforzava di partecipare, ma il pensiero dell’accaduto e di quel che
aveva detto la Contessa non voleva andarsene. Chi era il Ferale Magnus? Il fatto che lei riuscisse a usare l’Atlante senza le fotografie che cosa significava? Nella profezia c’era qualcos’altro, oltre a quel che aveva detto la Contessa? E gli altri due Libri? Che poteri e segreti contenevano? Quante cose non capiva! E poi c’erano gli interrogativi sui loro genitori. Al pensiero di quante sofferenze avevano subito e di quante di sicuro ne stavano ancora subendo, la paura e la tristezza le facevano girare la testa. Ma, nonostante tutto, di una cosa era certa. Se i loro genitori erano vivi, lei, Michael ed Emma li avrebbero trovati. Non le importava quant’era potente il Ferale Magnus, o che per liberare i loro genitori si dovessero trovare due libri magici perduti da migliaia d’anni: lei, Michael ed Emma avrebbero riunito la loro famiglia e niente li avrebbe fermati. «Kate!» Emma corse da lei, con Michael alle calcagna; avevano la faccia radiosa. «Re Robbie fischierà Deck the Halls con il naso! I nani, eh? Ci sarà da ridere!» «Il fischio col naso è un’antica tradizione nanesca!» protestò Michael, per poi aggiungere: «Comunque sarà abbastanza divertente». «Dai, Kate! Devi venire!» «Non puoi proprio perdertela.» «Robbie che fischia canti di Natale col naso?» Kate rise. «E cosa aspettiamo?» Così, sorridendo, si lasciò portar via dal fratello e dalla sorella.
Fine