JAMES PATTERSON & MAXINE PAETRO LE DONNE DEL CLUB OMICIDI (4th Of July, 2005) PARTE PRIMA DISINTERESSE TOTALE 1 Mancavan...
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JAMES PATTERSON & MAXINE PAETRO LE DONNE DEL CLUB OMICIDI (4th Of July, 2005) PARTE PRIMA DISINTERESSE TOTALE 1 Mancavano pochi minuti alle quattro del mattino di un giorno feriale e avevo mille pensieri per la testa, quando Jacobi fermò la macchina davanti al Lorenzo Hotel, una sorta di residence nel Tenderloin District di San Francisco, un quartiere talmente malfamato che persino il sole ci entra contro voglia. Sul marciapiede c'erano tre auto della polizia e Conklin, il primo agente intervenuto sul posto, stava chiudendo al traffico la zona. Era insieme a un altro agente, Les Arou. «Che cosa abbiamo?» gli chiesi. «Maschio, bianco, adolescente, con gli occhi fuori della testa. Fulminato pure questo», rispose Conklin. «Stanza ventuno. Nessun segno di effrazione. Nella vasca da bagno, esattamente come quell'altro.» Appena entrati nell'albergo, Jacobi e io fummo investiti da una zaffata di odore di urina e di vomito. Non c'erano facchini, né ascensore, né servizio in camera. Le poche persone ancora in piedi a quell'ora si nascondevano appena ci vedevano, a parte una giovane prostituta dal colorito malsano, che prese Jacobi da parte. «Se mi dai venti dollari, ti do un numero di targa», sentii che gli diceva. Jacobi le diede una banconota da dieci dollari in cambio di un foglio di carta, quindi si rivolse al portiere di notte e gli chiese della vittima. Era con qualcuno? Aveva pagato con la carta di credito? Era un tossicodipendente? Aggirai un drogato seduto sulle scale e salii al primo piano. La porta della stanza ventuno era spalancata. Un giovane poliziotto era di guardia nel corridoio. «Buonasera, tenente Boxer.» «È mattina, Keresty.» «Scusi, tenente», mi disse. E mi diede un foglio da firmare. La stanza, tre metri e mezzo per tre metri e mezzo, era più buia del corridoio. La lampadina era bruciata e le tende alla finestra impedivano alla
luce dei lampioni di filtrare all'interno. Mi guardai in giro alla ricerca di indizi, cercando di non calpestare niente, ma c'era troppa roba e troppa poca luce. Puntai la torcia sulle fiale di crack per terra, controllai il materasso pieno di vecchie macchie di sangue, le pile di rifiuti e di vestiti. C'era un angolo cottura con la piastra elettrica ancora calda e il solito armamentario dei tossici nel lavandino. Nel bagno l'aria era spessa, umida. Percorsi con il fascio della torcia il filo elettrico che partiva dalla presa vicino al lavabo e, passando davanti al water intasato, arrivava alla vasca. Guardando il cadavere immerso nell'acqua mi venne la pelle d'oca. Era nudo, molto magro, biondo, pochi peli sul petto, mezzo seduto dentro la vasca con gli occhi fuori delle orbite e la schiuma alla bocca e alle narici. Sott'acqua, con la spina ancora infilata nella presa, c'era un vecchio tostapane. In quel momento entrò Jacobi. «Merda!» imprecai. «Ci risiamo.» «Fulminato pure questo», commentò lui. Essendo a capo della squadra Omicidi, avrei dovuto coordinare le indagini, non occuparmene in prima persona. Ma c'erano casi che non potevo fare a meno di seguire. Era stato ammazzato un altro ragazzo, fulminato nella vasca da bagno. Perché? Era vittima di un atto di violenza casuale, oppure era stato ucciso da qualcuno che lo conosceva? Mi sembrava di vederlo negli istanti prima che la corrente elettrica lo stroncasse. Il pavimento di mattonelle piene di crepe era bagnato. Avevo l'orlo dei pantaloni fradicio. Alzai un piede e chiusi piano la porta con la punta della scarpa, sapendo già che cosa avrei visto. La porta cigolò con il classico rumore di cardini da oliare. Sull'interno della porta qualcuno aveva scritto con una bomboletta di vernice due parole. Per la seconda volta in poche settimane, mi chiesi che cosa volessero dire. DISINTERESSE TOTALE. 2 Sarebbe potuto sembrare un suicidio particolarmente macabro, ma la bomboletta di vernice non si trovava da nessuna parte. Arrivarono Charlie Clapper e i suoi tecnici, che approntarono le attrezzature per la raccolta
delle prove nell'anticamera. Mi feci da parte per lasciare che il fotografo della Scientifica scattasse le sue foto, quindi staccai la spina dalla presa. Charlie cambiò il fusibile. «Gesù, ti ringrazio», disse, quando la luce illuminò quel posto infernale. Stavo frugando fra i vestiti della vittima alla vana ricerca dei documenti, quando nella stanza entrò Claire Washbum, una delle mie migliori amiche nonché direttrice dell'Istituto di medicina legale di San Francisco. «Brutta roba», le annunciai, mentre lei si dirigeva verso il bagno. Voglio molto bene a Claire, che è più di una sorella per me. «Mi sono dovuta trattenere.» «Dal fare cosa?» mi domandò pacata Claire. Deglutii, ma il groppo che mi sentivo alla gola non voleva andarsene. Mi ero abituata a molte cose, ma non alla morte di ragazzi così giovani. «Dal togliere il tappo per svuotare la vasca.» La vittima sembrava ancor più terrorizzata, alla luce. Claire si inginocchiò vicino alla vasca, riuscendo a infilarsi in uno spazio molto ristretto nonostante la mole. «Edema polmonare», decretò osservando la schiuma rossastra sulla bocca e sul naso del cadavere. Sfiorò con il dito le zone violette vicino alla bocca e intorno agli occhi. «Prima di morire, l'hanno picchiato.» Indicai un taglio verticale sullo zigomo. «E questo, secondo te, come se l'è fatto?» «Tiro a indovinare: con la levetta del tostapane. Probabilmente prima di buttarlo nella vasca glielo hanno dato sulla testa.» La mano del ragazzo poggiava sul bordo della vasca. Claire gliela sollevò con delicatezza e la girò. «Niente rigor mortis. È ancora caldo, il livor mortis sta sbiadendo. È morto da meno di dodici ore, più probabilmente da meno di sei. Non ha buchi nelle braccia.» Gli passò la mano fra i capelli arruffati e sollevò il labbro superiore, livido, con le dita protette dai guanti. «Non vedeva un dentista da parecchio. Probabilmente era scappato di casa.» «Ah.» Rimasi un po' in silenzio. «Che cosa pensi, Lindsay?» «Che mi ritrovo con un altro cadavere non identificato fra le mani.» Pensavo all'altro, anche lui adolescente, scappato di casa, morto in un postaccio come quello, sul cui assassinio avevo indagato appena arrivata alla Omicidi. Era stato uno dei peggiori casi della mia carriera e, a distanza di dieci anni, continuava a tormentarmi.
«Dopo l'esame autoptico, ne sapremo di più», mi disse Claire. In quel momento, entrò Jacobi. «La nostra informatrice dice che il numero di targa incompleto appartiene a una Mercedes», mi disse. «Nera.» Anche sul luogo dell'altro delitto era stata vista una Mercedes nera. Sorrisi, speranzosa. Ormai era una questione personale: volevo trovare il bastardo che ammazzava ragazzini fulminandoli nella vasca da bagno. Volevo fermarlo, prima che ci riprovasse. 3 Era passata una settimana dalla scena da incubo del Lorenzo Hotel. I laboratori forensi stavano esaminando le numerose prove raccolte nella stanza numero ventuno e il parziale numero di targa fornitoci dalla nostra informatrice era risultato inventato, oppure sbagliato. Mi svegliavo tutte le mattine di pessimo umore, perché le indagini non ci stavano portando da nessuna parte. Pensai a quei ragazzini morti anche andando da Susie's, quella sera, dove avevo appuntamento con le mie amiche. Susie's è un ristorante luminoso e pieno di colori, specializzato in cucina caraibica. Jill, Claire, Cindy e io lo avevamo eletto a sede dei nostri incontri. Era li che ci parlavamo a cuore aperto, senza peli sulla lingua e senza nessuno dei vincoli che i nostri rispettivi lavori ci imponevano. Insieme, in quel ristorante, avevamo trovato la soluzione di complicati delitti. Vidi che Claire e Cindy avevano già occupato il «nostro» séparé in fondo al locale. Claire stava ridendo, probabilmente di qualche battuta di Cindy. Succedeva spesso, perché Claire è molto ridanciana e Cindy è spiritosa, oltre che brava nel suo lavoro di giornalista al Chronicle. Jill, purtroppo, non era più fra noi. «Lo prendo anch'io, qualsiasi cosa sia», dissi sedendomi vicino a Claire. Sul tavolo c'erano una caraffa di margarita e quattro bicchieri, due dei quali vuoti. Ne riempii uno e guardai le mie amiche, sentendo il forte legame che ci univa, e che avevamo costruito vivendo assieme tante avventure. «Non avrai bisogno di una trasfusione?» scherzò Claire guardandomi. «Hai ragione. Fammela subito.» Bevvi un sorso, presi il giornale che Cindy aveva posato sul tavolo e lo sfogliai in cerca dell'articolo a pagina 17 della cronaca locale. SCARSEGGIANO LE INFORMAZIONI SUI MISTERIOSI OMICIDI DEL TENDERLOIN.
«Evidentemente sono l'unica a dargli importanza», borbottai. «La morte di certa gente non finisce in prima pagina», disse comprensiva Cindy. «È strano. Le informazioni non scarseggiano affatto. Anzi, ne abbiamo fin troppe. Settemila impronte digitali, formazioni pilifere, fibre, DNA di tutti i tipi: la moquette di quella pensione non veniva pulita da almeno mezzo secolo.» Mi interruppi e mi sciolsi i capelli. «D'altra parte, però, nonostante in quel quartiere i potenziali informatori abbondino, abbiamo solo una pista. Che peraltro fa schifo.» «È una brutta faccenda», concordò Cindy. «Il capo ti sta con il fiato sul collo?» «No.» Indicai il breve articolo sul giornale. «Come dice l'assassino: DISINTERESSE TOTALE.» «Non te la prendere», disse Claire. «Vedrai che prima o poi scoprirai il colpevole. Succede sempre così.» «Sì, devo smetterla di lamentarmi. Jill mi sgriderebbe, se fosse qui.» «Jill ti conosceva bene», mi consolò Cindy, indicando la sedia vuota. Facemmo un brindisi. «A Jill.» Riempimmo anche il quarto bicchiere e brindammo alla memoria di Jill Bernhardt, straordinario sostituto procuratore nonché amica carissima, che era stata uccisa qualche mese prima. Sentivamo tantissimo la sua mancanza. Parlammo un po' di lei, poi ordinammo un'altra caraffa di margarita. «Ti vedo in forma», dissi a Cindy, che ci raccontò le ultime novità. Aveva conosciuto uno, un giocatore di hockey che militava negli Sharks a San Jose, ed era abbastanza contenta. Claire e io le facemmo un sacco di domande, ma poi arrivarono i musicisti e ci interrompemmo per cantare con loro una canzone di Jimmy Cliff, battendo il ritmo con il cucchiaino sul bicchiere. Mi stavo finalmente rilassando, grazie ai margarita, quando mi suonò il cellulare. Era Jacobi. «Ti aspetto fuori del ristorante, okay? Sono qui vicino. Abbiamo ricevuto una segnalazione sulla Mercedes nera.» Avrei dovuto dirgli di andare da solo, che ero fuori servizio. Ma quel caso mi stava a cuore e dovevo essere presente. Lasciai alcune banconote sul tavolo, diedi un bacio alle mie amiche e mi precipitai fuori. Il killer aveva torto: il disinteresse non era totale.
4 Salii sulla Crown Vic grigia senza contrassegni. «Dove andiamo?» domandai a Jacobi. «Nel Tenderloin District», rispose. «Hanno avvistato una Mercedes nera che si aggirava per il quartiere. Lì una Mercedes salta all'occhio, come puoi immaginare.» Avevo lavorato parecchio tempo in coppia con l'ispettore Warren Jacobi e, quando ero stata promossa, lui l'aveva presa piuttosto bene, considerato che aveva dieci anni di anzianità più di me. Lavoravamo ancora assieme ai casi più importanti. Sebbene io fossi il suo diretto superiore, quella sera sentii di dovermi giustificare: «Ho bevuto, da Susie's». «Birra?» «No, margarita.» «Quanti?» mi chiese, voltandosi dalla mia parte. «Uno e mezzo», risposi, evitando di dirgli del terzo di cocktail che avevo bevuto dal bicchiere di Jill. «Ti senti di venire?» «Sì, certo. Sto benissimo.» «Basta che non guidi.» «Ti ho chiesto di guidare?» «Sul sedile dietro c'è un termos.» «Di caffè?» «No. Dicevo nel caso ti scappasse la pipì, perché non c'è tempo di fermarsi a cercare un gabinetto.» Scoppiai a ridere e presi il termos di caffè. Jacobi aveva un suo humour. Attraversammo Sixth Street nei pressi di Mission e vidi una Mercedes nera ferma in un parcheggio con sosta massima di un'ora. «Eccola, Warren.» «Brava, Boxer.» Avevo l'adrenalina alle stelle, anche se Sixth Street sembrava assolutamente tranquilla. I palazzi erano cadenti, molte case avevano le finestre chiuse con assi di legno. C'erano dei ragazzi in mezzo alla strada e alcuni barboni che dormivano per terra. Ogni tanto qualcuno, passando vicino alla Mercedes, la guardava con interesse. «Spero che non gliela rubino», dissi. «Di certo non passa inosservata.» Comunicai la nostra posizione e ci appostammo. Io digitai il numero di targa della Mercedes sul computer e scoprii che l'automobile era intestata
al dottor Andrew Cabot di Telegraph Hill. Chiamai in sede e chiesi a Cappy di controllare Cabot sul database dell'FBI e richiamarmi appena avesse trovato qualcosa. Poi mi preparai a una lunga attesa con Jacobi. Andrew Cabot abitava in un quartiere molto più elegante di quello: cos'era andato a fare lì? In genere gli appostamenti sono eccitanti quanto la minestra riscaldata, ma io tamburellavo con le dita sul cruscotto. Chi era il dottor Andrew Cabot? Perché frequentava nottetempo il Tenderloin District? Venti minuti dopo passò una di quelle spazzatrici meccaniche che sembrano armadilli gialli pieni di luci lampeggianti. I barboni si alzarono e si fecero da parte. Alla luce dei lampioni si levarono piccoli vortici di cartacce. Il veicolo ci bloccò la visuale per un momento e, quando ci ebbe superato, io e Jacobi ci rendemmo conto contemporaneamente che le portiere anteriori della Mercedes si stavano chiudendo. L'auto stava per ripartire. «Diamo inizio alle danze», disse Jacobi. Aspettammo un paio di secondi, mentre fra la Mercedes e noi si immetteva una Camry bordò. Chiamai la centrale: «Stiamo partendo all'inseguimento di una Mercedes nera, Quadro Zebra Whisky Due Sei Casa, in Sixth Street direzione Mission. Chiediamo rinforzi in zona. Oh, merda!» Prevedevo un inseguimento breve, invece improvvisamente la Mercedes partì a tavoletta, lasciandoci lì come due imbecilli. 5 Mentre la Camry faceva manovra per entrare nel posteggio, sbarrandoci la strada, guardai incredula i fanalini di coda della Mercedes farsi sempre più piccoli. Presi l'altoparlante e urlai a quello della Camry di togliersi dai piedi. «E che cazzo!» esclamò Jacobi. Accese sirena e lampeggianti e partimmo a razzo, sfiorando l'auto bordò. «Bravo, Warren.» Attraversammo l'incrocio con Howard Street a tutta velocità e io chiesi il codice 33 per tenere le frequenze radio libere per l'inseguimento. «Stiamo percorrendo Sixth Street in direzione nord, all'altezza di Market, all'inseguimento di una Mercedes nera. A tutte le unità in zona, convergete verso di noi.»
«Motivo dell'inseguimento, tenente?» «L'auto sembra legata a una serie di omicidi sui quali stiamo indagando.» Avevo l'adrenalina alle stelle. Stavamo per prendere l'assassino dei due ragazzi folgorati nella vasca da bagno! Speravo solo di non investire nessuno nel frattempo. Mentre bruciavamo il rosso all'incrocio con Mission a oltre cento chilometri orari, sentii le varie volanti che segnalavano la loro posizione. Premetti il piede su un immaginario pedale del freno, mentre Jacobi sfrecciava oltre Market Street, la via più grande e trafficata della città, che era piena di autobus, automobili e tram. «A destra!» gridai a Jacobi. La Mercedes imboccò Taylor Street appena trovò un piccolo varco. Avevamo due macchine davanti e, con il buio, non riuscivamo a vedere chi ci fosse a bordo. La seguimmo in Ellis Street, oltre il Coronado Hotel, dove era stato ritrovato il primo morto fulminato nella vasca da bagno. L'assassino era nel suo territorio, doveva orientarsi alla perfezione in quelle strade. Ma io non ero da meno. Le auto accostavano per lasciarci passare a tutta velocità, con le sirene spiegate; arrivati in cima alla via, proprio dove cominciava la discesa, per un attimo la nostra macchina si sollevò addirittura da terra. Ciononostante, perdemmo di vista la Mercedes all'incrocio con Leavenworth Street, pieno di pedoni e di macchine. Urlai di nuovo nel microfono e ringraziai Iddio quando una volante mi annunciò per radio di aver avvistato la Mercedes nera. Stava viaggiando verso Turk Street a centoventi chilometri orari. All'inseguimento si unì poco dopo anche un'altra volante. «Secondo me, va verso Polk Street», dissi a Jacobi. «Anche secondo me.» Lasciammo la via principale alle altre unità, passammo a tutta birra davanti al Krim's & Kram's Palace of Fine Junk sull'angolo di Turk Street e ci immettemmo in Polk Street, in direzione nord. Polk Street aveva una decina di traverse a senso unico: le controllai tutte con occhio di lince. «Eccola!» gridai a un certo punto a Jacobi. La Mercedes aveva forato una delle gomme posteriori e svoltava sobbalzando in Larkin Street, oltre il Mitchell Brothers' Theater. Mi aggrappai al cruscotto con tutte e due le mani, mentre Jacobi prende-
va la curva a tutta velocità. La Mercedes sbandò, urtò contro un minivan parcheggiato, finì sul marciapiede e andò a sbattere contro una cassetta della posta. Con uno stridore da brividi, l'abbatté completamente passandoci sopra e si fermò, inclinata di quarantacinque gradi dalla parte del guidatore. Il cofano si aprì e dal radiatore uscì uno sbuffo di vapore. Sentii odore di gomma bruciata e di antigelo. Jacobi inchiodò, scendemmo dalla macchina e corremmo verso la Mercedes, con la pistola in pugno. «Mani in alto!» gridai. Vidi che i due individui a bordo della Mercedes erano imprigionati dagli air bag. A mano a mano che questi si sgonfiavano, cominciai a vederli in faccia. Erano giovanissimi, fra i tredici e i quindici anni, bianchi, e terrorizzati. Mentre Jacobi e io impugnavamo le pistole con tutte e due le mani e ci avvicinavamo alla Mercedes, si misero a piangere e a gridare. 6 Avevo il cuore che mi batteva all'impazzata ed ero furibonda. A meno che non si fosse laureato a quindici anni, il dottor Cabot su quell'auto non c'era. Quei due erano ragazzini: dovevano avergli rubato la macchina, per farci un giro o per rivendersela, oppure erano due perfetti imbecilli. O forse tutte e tre le cose. Puntavo la pistola contro quello al volante. «Mani in alto! Ecco, così. Bravo, tocca il tettuccio della macchina. Anche tu, forza!» Il ragazzino alla guida piangeva. Guardandolo meglio, mi resi conto che non era un ragazzino, ma una ragazzina. Non aveva né trucco né piercing, ma aveva i capelli corti con le punte tinte di rosa: sembrava una bambina che cerca di tirarsela da punk. Quando alzò le mani, vidi che aveva frammenti di vetro sulla maglietta nera e una catenina al collo con un ciondolo con il suo nome. Ammetto di aver alzato la voce. Eravamo reduci da un inseguimento che sarebbe potuto costarci la vita. «Cosa credevi di fare, Sara?» «Mi dispiace», piagnucolò lei. «È che... cioè, ho solo il foglio rosa. Che cosa mi succederà adesso?»
Ero strabiliata. «La polizia ti fa segno di fermarti e tu scappi perché sei senza patente? Ma sei fuori di testa?» «Papà ci ammazza, papà ci ammazza», disse il ragazzino, che era alto e magro e rischiava di scivolare giù dal sedile da un momento all'altro. Lo tratteneva soltanto la cintura. Aveva i capelli biondi che gli scendevano sugli occhi, grandi e castani. Gli usciva sangue dal naso, che probabilmente si era fratturato nell'impatto contro l'air bag. Piangeva anche lui. «Per piacere, non lo dica a nessuno. Non possiamo far finta che la macchina sia stata rubata? Ci lasci tornare a casa, per favore... Nostro padre ci ammazza.» «Perché?» intervenne Jacobi sarcastico. «Dici che non gradirà sapere che la sua auto da sessantamila dollari è da rottamare? Forza, scendete con le mani in alto.» «Non riesco a muovermi», si lamentò il ragazzino asciugandosi il naso con il dorso della mano. Aveva tutta la faccia sporca di sangue. A un certo punto si mise a vomitare. Jacobi borbottò: «Oh, merda!» Ma l'istinto di aiutarlo fu più. forte. Riponemmo la pistola nella fondina e a fatica riuscimmo ad aprire la portiera dalla parte del guidatore, che era tutta storta. Allungai una mano per spegnere il motore e poi aiutammo i due ragazzini a scendere. «Mi fai vedere il foglio rosa, Sara?» dissi. Mi chiedevo se fosse la figlia del dottor Cabot e se i due ragazzini avessero motivo di avere paura di lui. «È qui nel portafogli», mi rispose Sara. Jacobi stava chiamando l'ambulanza, quando la ragazzina si infilò la mano in tasca ed estrasse un oggetto che mi fece raggelare. «Sono armati!» urlai, una frazione di secondo prima dello sparo. 7 Il tempo sembrava scorrere lentissimo e ogni secondo sembrava interminabile, ma in realtà tutto durò meno di un minuto. Trasalii, mi voltai di fianco e sentii il proiettile che mi colpiva sulla spalla sinistra. Poi ne sentii un altro sulla coscia. Mentre cercavo di capire che cosa stava succedendo, mi cedettero le gambe. Caddi a terra, allungai la mano verso Jacobi e notai la sua espressione scioccata. Non persi conoscenza. Vidi il ragazzo sparare a Jacobi un colpo, due, tre, poi avvicinarsi a lui e dargli un calcio in testa. Sentii la ragazza che di-
ceva: «Dai, Sammy, andiamo via». Non provavo dolore, ma rabbia. Ero lucidissima. Si erano dimenticati di me. Cercai a tastoni la mia Glock 9mm, sul fianco, l'afferrai e mi tirai su a sedere. «Butta quella pistola», urlai, puntando la Glock su Sara. «Ma va' a cagare!» urlò lei. Con la faccia spaventata, alzò la sua calibro 22 e fece fuoco tre volte. Sentii il tintinnio dei proiettili sul marciapiede. Si sa che colpire il bersaglio con una pistola è difficilissimo, ma io avevo fatto scuola di tiro. Mirai al torace e sparai due colpi. Sara fece una smorfia di dolore e crollò a terra. Io cercai di rialzarmi in piedi, ma riuscii solo a tirarmi su in ginocchio. Il ragazzo aveva ancora la pistola in mano e la faccia insanguinata. «Molla la pistola!» intimai. «Hai ammazzato mia sorella!» Presi la mira e sparai altri due colpi. Il ragazzo mollò la pistola e si accasciò con un grido. 8 In Larkin Street scese un silenzio di tomba. Poi colsi dei suoni: musica rap trasmessa da una radio a media distanza, i gemiti sommessi del ragazzo, sirene sempre più vicine. Jacobi era immobile. Lo chiamai e non mi rispose. Sganciai il cellulare dal cinturone e chiamai la centrale. «Due agenti feriti e due civili feriti. Mandate due ambulanze con la massima urgenza!» L'operatrice mi fece un sacco di domande: dove eravamo, numero di tesserino, di nuovo dove eravamo esattamente. «Tenente, ma lei sta bene? Lindsay, è ferita?» I rumori andavano e venivano. Lasciai cadere il telefono e posai la testa sul marciapiede, che mi parve morbidissimo. Avevo ammazzato due persone. Due adolescenti! Avevo visto le loro facce scioccate prima di cadere a terra. Oddio, che cosa avevo fatto? Sentivo che mi si stava formando una pozza di sangue dietro la testa e un'altra dietro la coscia. Ripensai a quello che era successo e nella mia mente sbattei i due ragazzini contro la macchina, li ammanettai e li portai in centrale come avrei dovuto fare. Purtroppo, non era andata così. Avevamo commesso una stupidaggine imperdonabile, e adesso saremmo
morti. Per fortuna, mi si annebbiò la vista e chiusi gli occhi. PARTE SECONDA FERIE NON PROGRAMMATE 9 C'era un uomo seduto in silenzio su un'anonima macchina grigia in Ocean Colony Road, nella parte più bella di Half Moon Bay, in California. Non era un tipo che dava nell'occhio, neppure fuori posto com'era in quel momento. Neppure se sorvegliava, senza averne alcun diritto, gli abitanti della villa in stile coloniale bianca con automobili lussuose parcheggiate nel viale. Il Guardone aveva una macchina fotografica grande come una bustina di fiammiferi davanti a un occhio. Era un aggeggio meraviglioso, con un giga di memoria e uno zoom 10x. Ingrandì l'immagine e scattò, cogliendo la famiglia dietro la finestra della cucina. Erano intenti a mangiare il loro muesli biologico, chiacchierando intorno al tavolo della prima colazione. Alle 8.06 Caitlin O'Malley aprì la porta di ingresso. Aveva la divisa della scuola, uno zainetto viola e due orologi, uno per polso. I suoi lunghi capelli scuri erano lucidissimi. Il Guardone la fotografò mentre saliva sul fuoristrada Lexus nero posteggiato lì davanti e sentì le note di una stazione che trasmetteva rock. Posò la macchina fotografica sul cruscotto, estrasse il taccuino azzurro e la penna a punta fine dallo scomparto centrale e prese appunti con grafia chiara e ordinata. Era essenziale scrivere tutto. La Verità voleva così. Alle 8.09 la porta di casa si riaprì e comparve il dottor Ben O'Malley, in completo grigio di fresco di lana, papillon rosso e camicia bianca. Diede un bacio alla moglie Lorelei e si incamminò lungo il viale. Tutti in perfetto orario. La macchina fotografica scattò un'altra serie di immagini. Il dottor O'Malley depositò il sacco della spazzatura nel bidone azzurro lungo la strada e si guardò in giro respirando l'aria fresca. Guardò anche la macchina grigia e l'uomo che vi era seduto a bordo, senza prestarvi la minima attenzione, quindi salì sul fuoristrada su cui era montata poco prima la figlia. Fece inversione in Ocean Colony Road e si diresse verso nord per
prendere la Cabrillo Highway. Il Guardone prese altri appunti, quindi posò penna, taccuino e macchina fotografica. Li aveva visti: la ragazza con la divisa della scuola e i calzettoni al ginocchio, graziosa e piena di vita. Era commosso, tanto che gli vennero gli occhi lucidi. Quella ragazza era così vera, così diversa da suo padre, il dottore, con la sua finta aria da persona perbene. Ma il dottor O'Malley almeno una cosa di buono l'aveva: era un uomo molto abitudinario. Il Guardone su questo contava. Non gradiva le sorprese. 10 Una voce nella mia testa gridava: «Ehi, Sara!» Mi svegliai di soprassalto e feci per prendere la pistola, ma mi resi conto che non riuscivo a muovermi. Avevo una faccia scura davanti agli occhi, controluce, con una specie di aureola bianca intorno alla testa. «Sei la fatina buona?» sussurrai. «In un certo senso.» Sentii una risata. La risata di Claire. Ero sdraiata sul lettino in cui Claire esaminava i suoi pazienti e questo non era affatto buon segno. «Claire? Mi senti?» «Forte e chiaro», mi rispose. E mi abbracciò. «Bentornata.» «Dove sono?» «Al pronto soccorso del San Francisco General Hospital.» Cominciai a snebbiarmi. Mi tornò in mente il buio freddo di Larkin Street. I due ragazzini. E Jacobi! «Jacobi?» chiesi a Claire. «Non ce l'ha fatta, vero?» «È in terapia intensiva. Sta lottando.» Mi sorrise. «Guarda chi c'è. Voltati, Lindsay.» Dovetti fare uno sforzo tremendo per voltare la mia testa pesantissima dall'altra parte. Poi lo vidi... Joe Molinari non si era rasato e aveva la faccia stanca e preoccupata, ma il solo vederlo mi riscaldò il cuore. «Joe! Non eri a Washington?» «Sì, ma sono venuto subito, appena ho saputo.» Quando mi baciò mi vennero le lacrime agli occhi. Cercai di spiegargli che ero psicologicamente distrutta. «Joe, quella ragazzina è morta. Oddio, che cosa ho fatto?»
«Amore mio, da quello che ho sentito non avevi alternative.» La sua guancia ruvida grattava sulla mia. «Il numero del mio cercapersone è lì, vicino al telefono. Lindsay, mi senti? Torno domani mattina», mi disse. «Che cosa? Cos'hai detto, Joe?» «Cerca di dormire, ora.» «Sì, Joe. Adesso dormo...» 11 Un'infermiera che si chiamava Heather Grace, talmente buona che avrebbero dovuto farla santa, mi procurò una sedia a rotelle con cui andai a trovare Jacobi. Ero seduta vicino a lui, nel reparto di terapia intensiva, con la luce del tardo pomeriggio che filtrava dai vetri e illuminava il pavimento di linoleum azzurro. Jacobi era stato colpito in due punti al torace. Un proiettile gli aveva perforato un polmone, l'altro gli aveva leso un rene. Il calcio sferratogli dal ragazzino gli aveva fratturato il naso e procurato un livido che gli copriva tutta la faccia. Era la terza volta in tre giorni che andavo a trovarlo ma, nonostante avessi cercato in tutti i modi di sollevargli il morale, restava cupo e depresso. Lo guardavo dormire e a un certo punto lo vidi sbattere le palpebre gonfie. «Ciao, Warren.» «Ciao, bella.» «Come ti senti?» «Un rottame.» Tossì faticosamente e io gli sorrisi piena di comprensione. «Non dire così, dai!» «È un casino, Boxer.» «Lo so.» «Non riesco a smettere di pensarci. Me lo sogno di notte.» Si interruppe e si toccò la benda sul naso. «Quel ragazzo mi ha sparato mentre io ero lì con il cazzo in mano.» «Era il cellulare, Jacobi.» Non rise. E questo era un brutto segno. «Comunque sia, non c'era motivo.» «Ci hanno fatto pena: abbiamo agito con il cuore.» «E abbiamo fatto una cazzata. La prossima volta usiamo il cervello, in-
vece che il cuore.» Aveva ragione, naturalmente. Annuii, riflettendo che forse non mi sarei mai più sentita a mio agio con una pistola in mano, forse avrei esitato nel momento più sbagliato... Avrei mai più agito d'istinto? Riempii d'acqua un bicchiere e avvicinai a Jacobi la cannuccia. «Ho sbagliato. Avrei dovuto ammanettarla, non...» «Per favore, Boxer, usa il noi. C'eravamo tutti e due. E comunque probabilmente mi hai salvato la vita.» Intravidi un'ombra che si affacciava sulla porta. Anthony Tracchio, il capo del dipartimento di polizia di San Francisco, aveva i capelli pettinati all'indietro, era in borghese e teneva in mano una scatola di cioccolatini. Sembrava un adolescente al suo primo appuntamento. Be', non proprio adolescente... «Jacobi, Boxer. Sono contento di beccarvi tutti e due insieme. Come va, eh?» Tracchio era una brava persona, e mi trattava bene. Ma i nostri rapporti non erano mai stati idilliaci. Molleggiò sulle gambe e si avvicinò al letto di Jacobi. «Volete sapere gli ultimi sviluppi?» Ci incuriosì subito. «Al Lorenzo Hotel c'erano le impronte dei fratelli Cabot.» Gli brillavano gli occhi. «E il ragazzo ha confessato.» «Cazzarola! Veramente?» Jacobi era senza fiato. «Ve lo giuro sulla testa di mia madre. Ha detto a un'infermiera che lui e la sorella amavano fare un certo giochetto. Sembra si chiamasse: Fai il bagno o ti sparo.» «E l'infermiera è disposta a testimoniare?» chiesi. «Sì, me l'ha promesso.» «Fai il bagno o ti sparo... Bel giochetto!» disse Jacobi disgustato. «Sì, be', ma adesso hanno finito di giocare. Abbiamo trovato raccolte di noir e di articoli di giornale nella stanza di Sara. Pare che avesse la mania degli omicidi. Sentite, voi due adesso pensate a riprendervi e basta. Okay? «Ah, questa ve la manda la squadra», disse porgendomi una scatola di cioccolatini di Ghirardelli e un biglietto con un sacco di firme sotto la frase: «Fieri di voi». Chiacchierammo ancora qualche minuto, raccomandammo a Tracchio di ringraziare tutti e lo salutammo. Appena se ne fu andato, presi la mano a Jacobi. Aver rischiato di morire assieme ci aveva legato ancora di più. «Quei ragazzini erano due bastardi», dissi.
«Sì. Stappa lo champagne.» Aveva ragione a fare il sarcastico: i fratelli Cabot saranno pure stati due assassini, ma questo non rendeva meno gravi le conseguenze della sparatoria, né meno neri i pensieri che mi tormentavano in quei giorni. «Devo dirti una cosa, Jacobi. Sto pensando di mollare tutto. Di licenziarmi.» «Non dire scemenze.» «Sul serio.» «Non puoi andartene, Boxer.» Sistemò una piega nel lenzuolo e chiamò l'infermiera perché mi riaccompagnasse nella mia stanza. «Sogni d'oro.» «Voi due adesso pensate a riprendervi e basta...» Gli diedi un bacio sulla guancia. Il primo, da che lo conoscevo. Jacobi sorrise, benché gli facesse male tutta la faccia. 12 Era una giornata talmente bella che sembrava disegnata da un bambino: sole giallo e brillante, uccellini che cinguettavano, fiori profumati d'estate. Persino gli alberi capitozzati dell'ospedale si erano ricoperti di foglie dall'ultima volta che ero stata fuori, tre settimane prima. Giornata bellissima, d'accordo, ma in qualche modo non riuscivo a conciliare la vita con la costante sensazione di malessere che provavo. Forse stavo diventando paranoica, ma avevo la sensazione che stesse per cadermi sulla testa una seconda tegola. La Forester Subaru verde di mia sorella Cat percorse la rotatoria all'ingresso dell'ospedale e io vidi le mie nipotine che saltellavano sul sedile dietro facendomi ciao con la mano. Una volta che ebbi allacciato la cintura, mi sentii meglio. Mi misi persino a cantare: «What a day for a daydream...» «Zia Lindsay, non sapevo che eri una cantante», mi disse Brigid, sei anni. «E suono anche la chitarra. E grazie alle mie doti canore che sono riuscita a laurearmi. Non è vero, Cat?» «La chiamavamo Hit Parade», disse mia sorella. «Era una specie di jukebox ambulante.» «Cos'è un giuboc?» chiese Meredith, due anni e mezzo.
Scoppiammo a ridere, poi spiegai: «Una specie di stereo gigante pieno di dischi». Abbassai il finestrino e mi lasciai scompigliare i capelli chiari dal vento. Eravamo in Twenty-second Street e stavamo passando davanti alle belle case vittoriane con le facciate color pastello di Potrero Hill. Cat mi chiese che progetti avessi e io allargai le braccia e le dissi che era stata aperta un'inchiesta sulla sparatoria e che non sarei andata a lavorare per un bel po'. La mia intenzione era di fare le pulizie di primavera e mettere ordine nei miei scatoloni pieni di foto e di vecchi ricordi. «Ti faccio una proposta migliore: perché non vieni a farti un po' di convalescenza a casa nostra?» disse Cat. «La settimana prossima andiamo ad Aspen. Trasferisciti da noi: Penelope sarà felice di avere un po' di compagnia.» «Chi è Penelope?» Le bambine ridacchiarono. «Chi è Penelope?» «Una nostra amica.» «Ci penserò, grazie» dissi a mia sorella mentre svoltavamo in Mississippi Street e ci fermavamo davanti all'edificio vittoriano in cui era situato l'appartamento che chiamavo «casa». Cat mi aiutò a scendere. Cindy era sulla soglia con Martha, il mio adorato cane, che mi corse incontro e mi fece un sacco di feste, abbaiando così forte che non fui sicura che Cindy avesse sentito, quando la ringraziai di essersi presa cura di lei. Salutai tutti e mi apprestai a salire di sopra per farmi una bella doccia calda e una lunga dormita nel mio letto. Suonò il campanello. «Arrivo!» borbottai. Immaginai che fosse un fattorino con un mazzo di fiori. Aprii la porta e vidi un ragazzo, sconosciuto, con un paio di pantaloni cachi e una felpa Santa Clara. Aveva in mano una busta. Non credetti al suo sorriso a trentadue denti neppure per un secondo. «Lindsay Boxer?» «No, mi scusi. Ha sbagliato indirizzo», risposi, provocatoria. «Sta nel Kansas, credo.» Il ragazzo continuò a sorridere, e io mi sentii cadere sulla testa la seconda tegola. 13
«Uccidi!» urlai a Martha. Lei mi guardò scodinzolando. I collie, opportunamente addestrati, riconoscono diversi comandi, ma purtroppo «Uccidi» non è fra questi. Presi la busta al ragazzo, che indietreggiò con le mani alzate, e chiusi la porta spingendola con la stampella. Salii di sopra e mi portai in terrazza quella che aveva tutta l'aria di essere una querela. Mi sedetti al tavolo di vetro e acciaio e guardai la baia. Martha venne a posarmi il muso sulla coscia sana e io l'accarezzai meccanicamente, osservando il ritmo ipnotico delle onde. Passarono alcuni minuti e poi, non riuscendo a trattenermi oltre, aprii la busta e sfogliai il documento. Era scritto in un incomprensibile gergo tecnico, ma non faticai troppo a capire che il dottor Andrew Cabot mi aveva denunciata per omicidio colposo, ricorso eccessivo all'uso della forza e violazione delle norme di polizia. Chiedeva un'udienza e il sequestro della mia casa, del mio conto in banca e di tutto quello che possedevo per paura che occultassi i miei beni prima del processo. Cabot mi aveva denunciata! Sudavo e tremavo contemporaneamente e mi sentivo vittima di una profonda ingiustizia. Ripensai a come si erano svolti i fatti. Sì, avevo commesso l'errore di fidarmi di quei due ragazzini, ma la mia era stata legittima difesa: erano armati! Avevano sparato quando io e Jacobi avevamo le armi nella fondina. E io avevo intimato loro di abbassare le armi, prima di premere il grilletto! Jacobi mi era testimone: non avevamo commesso alcuna violazione. Su questo non c'era il minimo dubbio! Nonostante ciò, avevo paura. Anzi, ero terrorizzata. Mi pareva già di vedere i titoli dei giornali. L'opinione pubblica si sarebbe scatenata: La polizia spara a due bravi ragazzi. I giornali ci avrebbero sguazzato. I media mi avrebbero messo alla gogna. Dovevo chiamare Tracchio, cercarmi un avvocato, fare appello a tutte le mie forze. Invece, mi sentivo paralizzata. Avevo la sensazione di aver dimenticato un dettaglio importante. Un dettaglio che poteva essere la mia rovina. 14 Mi svegliai tutta sudata, con le lenzuola aggrovigliate. Presi due Tylenol contro i dolori e un Valium, che mi aveva prescritto lo strizzacervelli, poi
mi sdraiai a guardare i giochi di luce sul soffitto. Mi voltai lentamente sul fianco che non mi faceva male e guardai la sveglia. Segnava le 00.15. Avevo dormito solo un'ora. La notte si annunciava molto lunga. «Martha? Vieni qui, bella.» La mia cagnolina saltò sul letto e si accoccolò vicino a me. Dopo un attimo, agitava già le zampe guidando le pecore nei suoi sogni, mentre io continuavo a pensare a Tracchio e alle sue raccomandazioni: «Pensate a riprendervi e basta. Okay?» «Ti ci vogliono due avvocati, Boxer. Mickey Sherman ti rappresenterà per conto del dipartimento di polizia, ma ti occorre anche un tuo legale personale. Nel caso tu abbia fatto qualcosa che esulava dal tuo ruolo di rappresentante delle forze dell'ordine, capisci?» «Che cosa? Mi abbandonate a me stessa?» Speravo che le pastiglie che avevo preso mi intontissero, permettendomi di prendere sonno, ma non fu così. Continuavo a ripensare alla giornata trascorsa, agli incontri con Sherman e con il mio avvocato, una giovane donna che si chiamava Yuki Castellano. Me l'aveva raccomandata caldamente Molinari. E le raccomandazioni del vicedirettore del dipartimento della Sicurezza Nazionale qualcosa vorranno pur dire, no? Conclusi che stavo facendo il massimo, date le circostanze. Ma mi aspettava una settimana terribile. Dovevo trovare qualcosa di piacevole, se non volevo perdere il senno. Pensai a Cat, a casa sua: non ci andavo da quando vi si era trasferita dopo il divorzio, due anni prima, ma l'avevo ben chiara nella mente. Half Moon Bay, a circa quaranta minuti di macchina da San Francisco, è un piccolo paradiso. Ci sono una spiaggia stupenda, boschi e scorci mozzafiato. A giugno è abbastanza caldo per poter prendere il sole sulla terrazza. Forse lì sarei riuscita a togliermi dalla testa un po' dei miei brutti pensieri. Non riuscii ad aspettare l'arrivo della mattina. Chiamai mia sorella all'una meno un quarto. Mi rispose con voce assonnata. «Certo che dicevo sul serio, Lindsay! Vieni pure quando vuoi. Sai dove sono le chiavi.» Cercai di concentrarmi su Half Moon Bay, ma ogni volta che mi assopivo confortata dalla prospettiva di quel paradiso mi risvegliavo di soprassalto, con il batticuore. Non riuscivo a togliermi dalla testa che mi sarei dovuta presentare in tribunale. Non c'era verso di pensare ad altro.
15 Quella mattina grossi nuvoloni grigi sfioravano il tetto del tribunale al 400 di McAllister Street e l'asfalto era bagnato di pioggia. Non essendomi portata la stampella, mi appoggiai a Mickey Sherman, l'avvocato del dipartimento di polizia, per salire la scala scivolosa che portava all'ingresso. Ma l'appoggio che cercavo era più che altro morale. Passammo davanti al dottor Cabot e al suo avvocato, Mason Broyles, che stavano rispondendo alle domande dei giornalisti sotto un gruppo di ombrelli neri. Ringraziai il cielo che non ci fossero telecamere puntate su di me. Passando, lanciai un'occhiata a Broyles. Aveva gli occhi infossati, i capelli abbastanza lunghi, scuri, e la bocca da cattivo. Sentii che diceva: «La reazione del tenente Boxer è stata decisamente eccessiva...» Mi avrebbe massacrato, se non mi fossi difesa bene. Il dottor Cabot era impassibile. Mickey aprì la pesante porta di vetro e acciaio ed entrammo nell'atrio del tribunale. Aveva fama di essere un avvocato molto determinato e capace e possedeva un fascino considerevole. Era uno che detestava perdere, e che perdeva di rado. «Non preoccuparti, Lindsay», mi disse, chiudendo l'ombrello. «Fa il gradasso perché ha poche carte in mano. Non lasciarti intimorire: sappi che molti, qui dentro, sono dalla nostra parte.» Annuii, ma intanto pensavo che avevo mandato Sammy Cabot su una sedia a rotelle e sua sorella all'altro mondo. Il dottor Cabot non voleva il mio appartamento o il mio patetico conto in banca, non ne aveva bisogno: voleva distruggermi. E si era cercato un avvocato in grado di farlo. Mickey e io prendemmo le scale di servizio ed entrammo nell'aula C al primo piano. In quella stanza squallida, con le pareti grigie e una finestra che dava sul cortile, si sarebbero decise le mie sorti. Mi ero messa lo spillino del dipartimento sul bavero del tailleur blu per avere un'aria ufficiale anche senza la divisa. Sedendomi accanto a Mickey, ripensai alle istruzioni che mi aveva dato: «Durante l'interrogatorio di Broyles, non dilungarti in spiegazioni e limitati per quanto possibile a rispondere sì o no. Lui cercherà di provocarti per dimostrare che sei impulsiva e perdi facilmente il controllo e che è per questo che hai sparato ai due fratelli». Non mi consideravo una persona irascibile, ma in quel momento provavo una grandissima collera. Era stata legittima difesa! Non avrei potuto fa-
re diversamente! C'era già stata un'inchiesta e il sostituto procuratore mi aveva dichiarato non perseguibile per legge. E adesso... di nuovo? La zona riservata al pubblico si stava riempiendo e il brusio cresceva. Mi sembrava che tutti dicessero: «Eccola, è lei! È quella che ha sparato ai due ragazzini!» Mi sentii toccare una spalla, mi voltai e vidi Joe. Mi vennero le lacrime agli occhi. Gli accarezzai la mano e vidi l'altro mio avvocato, Yuki Castellano, che era un'americana di origine giapponese. Mi salutò e si sedette vicino a Mickey. Entrò l'usciere, che ci fece alzare in piedi prima dell'ingresso del giudice. Nell'aula tornò il silenzio. Rosa Algerri prese posto allo scranno. Quella donna aveva il potere di liberarmi da ogni accusa, guarirmi nel corpo e nello spirito, restituirmi la mia vita. Oppure di rinviarmi a giudizio e sottopormi a un processo che avrebbe messo a repentaglio tutto ciò che avevo di più caro. «Tutto bene, Lindsay?» «Mai stata meglio», risposi a Mickey. Lui colse il sarcasmo e mi prese la mano. Avevo il batticuore. Mason Broyles si alzò per esporre la propria tesi. 16 L'avvocato di Sam Cabot si aggiustò i polsini della camicia e rimase in piedi, in silenzio, aumentando la tensione nell'aula. Qualcuno tossicchiò nervoso. «Chiamiamo a deporre la dottoressa Claire Washburn, direttrice dell'Istituto di medicina legale», disse Broyles alla fine del suo discorso, e la mia amica prese posto al banco dei testimoni. Avrei voluto farle ciao con la mano, strizzarle l'occhio, ma dovevo limitarmi a guardare. Broyles partì con una raffica di domande, ma si trovò ben presto in difficoltà. «Lei effettuò l'esame autoptico su Sara Cabot la sera del 10 maggio?» chiese Broyles. «Sì.» «Che tipo di lesioni riscontrò?» Con gli occhi di tutti addosso, Claire cominciò a sfogliare un quaderno con la copertina di pelle. «Due ferite d'arma da fuoco al torace, abbastanza ravvicinate. La ferita
A era profonda, nel quadrante esterno superiore sinistro del petto, una quindicina di centimetri sotto la spalla sinistra e circa cinque a sinistra della linea mediana anteriore.» La testimonianza di Claire era di fondamentale importanza, ma io mi ritrovai a pensare al passato. Mi rividi in piedi in Larkin Street, vicino a un lampione. Vedevo Sara estrarre la pistola da sotto la giacca, puntarmela contro e premere il grilletto. Mi rivedevo cadere, rotolare in posizione prona. «Butta quella pistola!» «Ma va' a cagare!» Sparavo due colpi e Sara stramazzava a pochi metri da me. L'avevo uccisa e, benché mi ritenessi innocente dalle accuse che mi erano state rivolte, mi sentivo terribilmente in colpa. Ascoltai Claire che descriveva la seconda ferita di Sara, che le aveva spezzato lo sterno. «Il proiettile ha perforato il sacco pericardico e il cuore e si è fermato nella vertebra toracica numero quattro, dove l'ho ricuperato. Si tratta di un proiettile color rame, di dimensioni medie, semirivestito, parzialmente deformato.» «Compatibile con una nove millimetri?» «Sì.» «La ringrazio, dottoressa Washburn. Ho concluso, vostro onore.» Mickey posò la mano sul tavolo e si alzò in piedi. «Dottoressa Washburn, la morte di Sara Cabot è stata istantanea?» «Direi di sì. Il cuore avrà battuto ancora una volta o due. È stato perforato da entrambi i proiettili.» «Capisco. La vittima aveva usato un'arma di recente?» «Sì. Ho rilevato un annerimento alla base del dito indice, coerente con l'uso di un'arma da fuoco.» «Come si fa a sapere per certo che si trattava di residui di polvere da sparo?» «Be', io l'ho visto lontano un miglio. Ho una certa esperienza in queste cose», rispose Claire con una luce maliziosa negli occhi. Il pubblico rise. Claire aspettò che avessero finito, prima di riprendere la sua spiegazione. «In ogni caso, ho fotografato e ho documentato la macchia scura e l'ho fatta analizzare in laboratorio, ottenendo conferma del fatto che si trattava proprio di residui di polvere da sparo.» «È possibile che Sara Cabot abbia sparato al tenente Boxer dopo che
quest'ultima l'aveva colpita?» «I morti non sparano, avvocato.» Mickey annuì. «Ha analizzato le traiettorie dei proiettili, dottoressa Washburn?» «Sì. Sono stati sparati dal basso, rispettivamente con quarantasette e quarantanove gradi di angolazione.» «Dunque è certo che Sara Cabot ha sparato al tenente Boxer per prima e che il tenente ha risposto al fuoco quando era ormai a terra ferita?» «Sì. Secondo me, è certissimo.» «Su queste basi, ritiene fondata l'accusa di omicidio colposo o di ricorso eccessivo all'uso della forza?» Il giudice accolse l'obiezione di Broyles. Mickey ringraziò Claire e la congedò. Poi tornò verso di me sorridendo. Io mi rilassai, tanto che riuscii persino a rispondere al suo sorriso. Ma l'udienza era appena cominciata. Provai un brivido di paura quando vidi lo sguardo di Mason Broyles. Sembrava che non vedesse l'ora di chiamare il teste successivo. 17 «Per piacere, declini le sue generalità», esordì Broyles, rivolgendosi a una brunetta minuta sui trent'anni. «Betty D'Angelo.» I suoi occhi, dietro i grossi occhiali, per un attimo si posarono su di me e poi tornarono a Broyles. Io guardai Sherman con aria interrogativa. Non mi sembrava di aver mai visto prima quella donna. «Occupazione?» «Faccio l'infermiera. Al San Francisco General Hospital.» «Era di turno al pronto soccorso la sera del 10 maggio?» «Sì.» «Ha effettuato un prelievo di sangue al convenuto, tenente Lindsay Boxer?» «Sì.» «Per quale motivo?» «Doveva essere sottoposta a un intervento per rimuovere i proiettili dalle ferite. Era in pericolo di vita, aveva perso molto sangue.» «Questo lo sappiamo», la interruppe Broyles annoiato. «Ci parli degli esami del sangue.» «In quella situazione, è normale effettuare un prelievo. Se non altro, per
avere il gruppo in caso di trasfusioni.» «Signora D'Angelo, ho qui la cartella clinica del tenente Boxer. Un fascicolo alquanto voluminoso.» Broyles posò un fascio di fogli sul banco dei testimoni e vi posò il dito indice. «Questa è la sua firma, signora?» «Sì.» «Vorrei che leggesse la parte evidenziata, per favore.» La teste scrollò il capo, come in preda a un brutto presentimento. In genere il personale dei reparti di pronto soccorso sta dalla parte delle forze dell'ordine e cerca di proteggerci. Non capivo perché, ma mi sembrava proprio che quell'infermiera cercasse disperatamente di evitare le domande di Broyles. «Può spiegarmi cos'è questo?» chiese l'avvocato di Cabot. «Questo? L'ETOH?» «È la prova per misurare il livello di alcol etilico nel sangue, giusto?» «Giusto.» «Che cosa significa 0,067?» «Be', che il livello di alcol nel sangue era di sessantasette milligrammi per decilitro.» Boyles sorrise e abbassò la voce. «Quindi 0,067 era il livello di alcol etilico nel sangue del tenente Boxer, dico bene?» «Sì.» «Signora D'Angelo, è vero che questo valore indica uno stato di ubriachezza?» «Non propriamente. È un livello al quale si incominciano a sentire gli effetti dell'alcol, ma...» «Ma...? È uno stato di alterazione: sì o no?» «Sì.» «Non ho altro da aggiungere», concluse Broyles. Mi sentivo come se mi avessero appena dato una mazzata sulla testa. Mi ero dimenticata i margarita che avevo bevuto da Susie's! Impallidii e temetti di svenire. Mickey si voltò verso di me e dalla sua faccia capii che era stupefatto che non gli avessi mai detto niente. Lo guardai a bocca aperta, mortificata. L'espressione incredula con cui si alzò per andare a interrogare la teste del tutto impreparato mi andò dritta al cuore. 18
C'erano soltanto dodici file di sedili, nell'aula C del tribunale di San Francisco, e nessun banco per la giuria. Sarebbe stato difficile trovare un'aula più piccola di così. Avevo l'impressione che tutti trattenessero il respiro, mentre Mickey si avvicinava alla signora D'Angelo. La salutò. La donna sembrava sollevata di non dover più rispondere alle domande di Mason Broyles. «Solo un paio di domande», esordì Mickey. «In genere per pulire le ferite si usa alcol etilico, giusto? Questo non può aver alterato i risultati del test?» Betty D'Angelo sembrava sul punto di mettersi a piangere. «Noi usiamo Betadine, non alcol.» Mickey incassò il colpo e si voltò verso il giudice. Chiese una pausa e la ottenne. I reporter corsero fuori dell'aula e io, approfittando dell'attimo di relativa calma, mi scusai. «Mi sento un cretino!» disse Mickey, senza scortesia. «Ho letto la cartella clinica e non ho fatto caso al risultato dell'ETOH.» «Me ne ero completamente dimenticata», mi scusai. «Devo averlo rimosso.» Gli spiegai che quando Jacobi mi aveva telefonato ero fuori servizio, a cena con le mie amiche. Gli dissi che avevamo bevuto alcuni margarita e che quando ero salita in macchina mi sentivo un po' brilla, ma poi l'adrenalina mi aveva reso lucidissima. «Sei abituata a bere a cena?» mi chiese lui. «Sì. Non tutte le sere, ma un paio di volte la settimana sì.» «Okay, quindi sei abituata a bere, la sera. Per te era una cosa normale. Il valore però è borderline. E poi bisogna tenere conto del trauma che hai subito. Le ferite, il fatto che hai rischiato di morire. Hai ammazzato una persona, la cosa ti turba. Metà delle persone a cui succede una cosa simile dimentica tutto. Tu te la sei cavata egregiamente, tutto considerato.» Sospirai. «E adesso?» «Be', almeno sappiamo che cosa hanno in mano. Non è escluso che il dottor Cabot vada a testimoniare: in quel caso, lo metto a posto io.» L'aula si riempì di nuovo e Mickey ripartì all'attacco. Un esperto di balistica testimoniò che i proiettili estratti dalle mie ferite erano compatibili con l'arma di Sara Cabot. Poi fu la volta di Jacobi, in teleconferenza dall'ospedale. Era il mio testimone chiave. Visibilmente provato, Jacobi ripercorse gli eventi della sera del 10 mag-
gio. Prima di tutto, descrisse la dinamica dell'incidente. «Stavo chiamando l'ambulanza, quando ho sentito gli spari», disse. «Mi sono voltato e ho visto cadere il tenente Boxer. Sara Cabot le aveva sparato due colpi, mentre il tenente aveva la pistola nella fondina. Poi il ragazzo ha sparato a me. Con un revolver.» Si passò la mano sul torace bendato. «È l'ultima cosa che ricordo. Poi ho perso i sensi.» Il racconto di Jacobi mi dava ragione, ma non sarebbe bastato a vanificare il peso dei margarita. C'era soltanto una persona che poteva aiutarmi, a quel punto. Portava i miei vestiti, era seduta sulla mia sedia. Mi sentivo debolissima, le ferite mi pulsavano e non sapevo, in tutta onestà, se mi sarei salvata o distrutta con le mie stesse mani. Mickey mi guardò con espressione incoraggiante. «Fatti forza, Lindsay.» Mi alzai in piedi, sentendo il mio nome riecheggiare per l'aula. Il mio avvocato mi aveva appena chiamato a deporre. 19 Avevo testimoniato in tribunale decine di volte, nella mia carriera, ma quella era la prima in cui dovevo difendermi. Avevo dedicato anni della mia vita a proteggere i cittadini e adesso mi ritrovavo con un bersaglio disegnato sulla schiena. Ero piena di rabbia, ma non dovevo darlo a vedere. Mi alzai in piedi, prestai giuramento su una vecchia Bibbia consunta e misi il mio destino nelle mani del mio avvocato. Mickey andò dritto al punto. «Lindsay, era ubriaca la sera del 10 maggio?» Il giudice si intromise: «La prego di non chiamare la sua cliente per nome, avvocato Sherman». «Mi scusi. Tenente, era ubriaca la sera del 10 maggio?» «No.» «Okay, cominciamo dal principio. Lei era di servizio quella sera?» «No. Ho finito il turno alle diciassette.» Mickey mi fece riferire i fatti in maniera dolorosamente dettagliata. Dissi che cosa avevo bevuto da Susie's, raccontai della chiamata di Jacobi e sottolineai che gli avevo detto la verità, quando avevo dichiarato di sentirmi di accompagnarlo. Mickey mi chiese come mai avevo risposto alla chiamata pur essendo
fuori servizio. «Non smetto di fare il poliziotto quando finisco il turno. Se l'investigatore che lavora con me ha bisogno, io sono disponibile ventiquattr'ore su ventiquattro.» «Avete localizzato l'automobile in questione?» mi chiese Mickey. «Sì.» «E poi? Che cosa è successo?» «L'auto è partita a tutta velocità e noi l'abbiamo inseguita. Otto minuti dopo, il guidatore ha perso il controllo e si è schiantato.» «Dopo lo schianto, quando ha visto che Sara e Sam Cabot erano feriti, ha avuto paura di loro?» «No, erano giovanissimi. Ho pensato che avessero rubato la macchina o fatto qualche altra stupidaggine. Succede quotidianamente.» «E quindi che cosa ha fatto?» «Io e l'ispettore Jacobi abbiamo rimesso la pistola nella fondina e abbiamo cercato di soccorrerli.» «Quando ha sfoderato di nuovo l'arma, tenente?» «Dopo che sia io sia Jacobi eravamo stati feriti e non prima di aver intimato ai ragazzi di gettare le armi.» «Grazie, tenente. Non ho altre domande.» Ripensai al mio interrogatorio e mi diedi la sufficienza. Mentre Mickey si allontanava, alzai gli occhi e vidi Joe che sorrideva e faceva di sì con la testa. «La parola all'avvocato Broyles.» 20 C'era un muro di silenzio fra me e Broyles, che mi fissò senza dire niente talmente a lungo che mi venne voglia di mettermi a gridare. Era un vecchio trucco, ma funzionava. Nell'aula si alzò un brusio, che il giudice dovette tacitare battendo il martelletto. A quel punto, Broyles si risolse a parlare. Lo guardai negli occhi, mentre mi si avvicinava. «Tenente Boxer, quale procedura segue la polizia normalmente, quando blocca un veicolo che non si è fermato alla prima segnalazione?» «Ci si avvicina con la pistola puntata, si fa scendere l'individuo sospetto, lo si disarma, gli si mettono le manette e si tiene la situazione sotto controllo.» «È questa la procedura che ha seguito, tenente?»
«Io e l'ispettore Jacobi ci siamo avvicinati con la pistola in mano, ma i ragazzi a bordo dell'auto non erano in grado di uscire senza aiuto. Perciò abbiamo rimesso le armi nella fondina e li abbiamo aiutati.» «Dunque non ha seguito la procedura.» «Dovevo soccorrere i feriti.» «Capisco. Tanto più che erano molto giovani. Quindi ammette di non aver seguito la procedura, tenente?» «Ho sbagliato», replicai. «Ma i due ragazzi perdevano sangue, uno vomitava. E l'auto incidentata poteva prendere fuoco da un momento all'altro...» «Vostro onore?» «La prego di limitarsi a rispondere alle domande, tenente Boxer.» Mi appoggiai allo schienale. Avevo già visto Broyles in tribunale e sapevo che era bravissimo a trovare i punti deboli del suo avversario. Aveva appena trovato i miei. Mi rimproveravo di non aver ammanettato i due ragazzi. Anche Jacobi, che era nella polizia da vent'anni, si era lasciato trarre in inganno da quei due. Cristo, sbagliare è umano... «Riformulo la domanda», disse Broyles. «Lei cerca di seguire sempre la procedura, tenente?» «Sì.» «Come mai allora esercita le sue funzioni in stato di ubriachezza?» «Obiezione!» saltò su Mickey. «Il livello alcolemico del tenente Boxer era mediamente elevato, ma nulla indica che fosse in stato di ubriachezza.» Broyles fece una smorfia e si rivolse di nuovo a me. «Non ho altro da aggiungere, vostro onore.» Mi sentivo le ascelle sudate. Scesi dal banco dei testimoni dimenticandomi per un attimo della mia gamba ferita e tornai al mio posto zoppicando. Mi voltai verso Mickey, che mi sorrise incoraggiante, ma intuii che quel sorriso era falso. La sua fronte era aggrottata per la preoccupazione. 21 Ero scioccata per il modo in cui Mason Broyles aveva rigirato la frittata facendo ricadere su di me la responsabilità di tutto quello che era successo il 10 maggio. Era un avvocato esperto e dovetti fare uno sforzo titanico per
rimanere impassibile e non perdere la calma, mentre ascoltavo la sua arringa. «Vostro onore, Sara Cabot è stata colpita a morte dai proiettili del tenente Lindsay Boxer. E, colpito dalla stessa Boxer, suo fratello Sam, a tredici anni, è costretto su una sedia a rotelle. La convenuta riconosce di non aver seguito la procedura. Ammesso che i miei assistiti abbiano sbagliato, non possiamo aspettarci molto giudizio da ragazzi così giovani. Chi lavora in polizia, d'altra parte, dovrebbe essere addestrato a gestire ogni tipo di crisi. Purtroppo la convenuta non ci è riuscita, perché era ubriaca. Insomma, se il tenente Boxer avesse correttamente svolto le sue funzioni, questa tragedia non sarebbe mai accaduta e oggi non saremmo qui.» Il discorso di Broyles mi riempiva di indignazione, ma dovevo ammettere che era convincente e che, se fossi stata fra il pubblico, forse mi sarei lasciata persuadere dalla sua versione dei fatti. Quando Mickey si alzò per la sua arringa, il cuore mi batteva talmente che mi pareva di avere una rock band nel petto. «Vostro onore, il tenente Lindsay Boxer non ha messo due pistole cariche in mano a Sara e Sam Cabot», esordì in tono indignato. «Si sono armati da soli. E hanno sparato a due pubblici ufficiali senza essere provocati. La mia cliente, pertanto, ha sparato per legittima difesa. Ha colpa soltanto di una cosa: di essere stata troppo gentile con persone che ne hanno biecamente approfittato. In tutta sincerità, vostro onore, non credo vi siano le basi per un rinvio a giudizio. Credo invece che il tenente Boxer debba poter tornare al proprio lavoro senza macchie né ombre sulle sue capacità umane e professionali.» Mickey finì prima di quanto mi aspettassi. Dopo le sue ultime parole, ci fu un lungo silenzio e io mi sentii invadere dalla paura. Quando tornò a sedersi vicino a me, il pubblico si mosse nervoso e io sentii il frusciare di fogli, il tintinnio di chiavi e rumori di gente che si spostava sulla sedia. Strinsi la mano di Mickey sotto il tavolo e mi misi persino a pregare: «O Dio, fa' che non mi rinviino a giudizio, ti prego». Il giudice si aggiustò gli occhiali sul naso, con espressione impenetrabile. Quando parlò, lo fece concisamente e in tono sommesso. «È mia convinzione che la convenuta abbia fatto il possibile per salvare una situazione estremamente difficile», esordì. «Ma il suo livello alcolemico mi preoccupa. Sara Cabot è morta. Credo che ci siano le basi per celebrare un processo.»
22 Mi irrigidii nel sentire la data del processo, fissata a poche settimane di distanza. Tutti si alzarono in piedi e il giudice uscì dall'aula. Quindi mi ritrovai i giornalisti addosso. Vidi alcune divise blu oltre la ressa, occhi che evitavano i miei, microfoni dappertutto. Tenevo stretta la mano di Mickey. Avremmo dovuto vincere. Avrebbero dovuto discolparmi subito. Mickey mi aiutò ad alzarmi. Joe mi cingeva la vita con un braccio e Yuki Castellano mi precedeva, aprendo un varco nella ressa. Arrivammo al pianterreno, in fondo alla scala. «Esci a testa alta», mi raccomandò Mickey. «Se ti urlano cose tipo: 'Perché hai fatto fuori quella bambina?', tu non reagire: non sorridere, non fare smorfie. Tira dritto verso la macchina e non dare corda ai media. Non hai fatto niente di sbagliato. Vai a casa e non rispondere al telefono. Faccio un salto da te più tardi.» Quando uscimmo dal tribunale, era tardo pomeriggio e aveva smesso di piovere. Non mi sarei dovuta sorprendere che assiepate fuori ci fossero centinaia di persone curiose di vedere la poliziotta che aveva ammazzato una ragazzina. Mickey e Yuki andarono a parlare con i giornalisti, lasciandomi sola con Joe. Sapevo che Mickey stava già pensando a come difendere il dipartimento di polizia. Joe e io andammo verso la macchina tra la folla urlante. Scandivano una specie di slogan - «As-sas-sina, as-sas-sina!» - e mi tempestavano di domande impietose. «Che cosa avevi nella testa, tenente Boxer?» «Come ci si sente dopo aver sparato a due adolescenti?» Riconobbi alcuni giornalisti, fra cui Carlos Vega, Sandra Dunne e Kate Morley, che mi avevano intervistato in occasione di diversi processi in cui avevo deposto in qualità di teste per conto dell'accusa. Feci di tutto per ignorarli e passai davanti a telecamere, macchine fotografiche e striscioni con slogan contro la brutalità delle forze dell'ordine. Guardai dritto davanti a me, tenendo il passo con Joe, finché non raggiungemmo la macchina nera. Non appena chiudemmo le portiere, l'autista fece retromarcia e uscì in Polk Street. Poi fece inversione e si diresse verso Potrero Hill.
«Mi ha rinviata a giudizio...» dissi incredula a Joe. «Il giudice ha capito benissimo che tipo di persona sei. Purtroppo, però, si è sentita in dovere di agire in questo modo.» «Una nella mia posizione deve dare il buon esempio, Joe. Come farò a non perdere il rispetto dei poliziotti che lavorano con me? Li ho delusi...» «Lindsay, chi possiede anche solo un briciolo di buon senso sa che hai fatto unicamente il tuo dovere. Sei una brava persona, sai fare il tuo lavoro...» Le sue parole mi colpirono più dei commenti pungenti di Mason Broyles. Gli posai la testa sulla spalla e diedi finalmente sfogo a tutte le lacrime che avevo trattenuto fino a quel momento. «Va tutto bene», dissi alla fine, soffiandomi il naso nel fazzoletto che mi stava porgendo. «È solo un po' di allergia. Quando ci sono certi pollini nell'aria, mi lacrimano gli occhi.» Molinari scoppiò a ridere e mi abbracciò. Superammo Twentieth Street e la fila di villette a schiera dai colori pastello. «Mi licenzierei adesso», dissi. «Non lo faccio solo perché farei la figura della colpevole.» «Quei ragazzi erano due delinquenti, Lindsay. Nessuna giuria prenderà mai le loro parti. Non esiste.» «Dici davvero? Me lo prometti?» Joe non rispose e si limitò ad abbracciarmi. Non poteva promettermi cose che non dipendevano da lui. «Riparti subito?» gli domandai dopo un po'. «Preferirei restare, ma devo proprio.» Il lavoro di Joe non gli consentiva spesso di passare un po' di tempo con me. «Prima o poi mollo tutto e cambio vita», mi disse con dolcezza. «Sì, anch'io.» Lo dicevamo sul serio o ci illudevamo soltanto? Gli posai di nuovo la testa sulla spalla. Ci tenemmo per mano, godendoci gli ultimi momenti insieme, in silenzio. Quando arrivammo a casa mia, ci salutammo con un bacio. Nel silenzio del mio appartamento mi resi conto di sentire un grande vuoto dentro. Mi facevano persino male tutti i muscoli per la tensione e non riuscivo a vedere la luce alla fine del tunnel. L'udienza di quel giorno, lungi dal liberarmi da critiche e sospetti, era stata soltanto una prova generale in vista del processo.
Mi sentivo come un nuotatore che si è spinto troppo al largo e incomincia a essere stanco. Mi coricai sul letto assieme a Martha, mi tirai il lenzuolo fino al mento e lasciai che il sonno mi avvolgesse come una fitta nebbia. 23 Fra le nuvole cominciavano a filtrare i primi raggi di sole quando sistemai nel bagagliaio l'ultima valigia, mi misi al volante e uscii in retromarcia dal vialetto davanti a casa. Avevo una gran voglia di andare via da San Francisco e anche Martha scodinzolava, con il muso fuori del finestrino. C'era il tipico traffico delle mattine dei giorni feriali e decisi di approfittarne per ripensare al colloquio che avevo avuto con Tracchio. «Fossi in te, lascerei la città per qualche tempo», mi aveva detto. «Prendi questo periodo di sospensione dal servizio come un'occasione per farti un po' di vacanza e riposarti.» Sapevo che stava omettendo un particolare importante: finché non fossi stata completamente scagionata, avrei costituito motivo di imbarazzo per il dipartimento. «Devo togliermi dai piedi, capo? Nessun problema, lo farò.» Quando pensavo all'udienza preliminare e al processo che mi aspettava, mi sentivo cogliere dall'ansia e da mille paure. Poi pensai che mia sorella Cat mi stava dando una mano, che ero fortunata a potermi trasferire a casa sua. Nel giro di venti minuti mi ritrovai sulla Highway 1, che costeggia il mare. Alla mia destra le onde del Pacifico si frangevano contro gli scogli, alla mia sinistra si ergevano montagne verdi. «Ehi, Martha», dissi. «Stiamo andando in vacanza! Capisci cosa vuol dire? Va-can-za!» Martha mi lanciò uno sguardo adorante e rimise il muso fuori del finestrino, godendosi il panorama e l'aria. Sembrava soddisfatta. Lo ero anch'io. Mi ero portata cinque o sei libri che da tempo volevo leggere, alcune videocassette di vecchie commedie hollywoodiane e persino la mia Seagull, la chitarra acustica che da vent'anni strimpellavo molto sporadicamente. Il sole brillava e il mio umore stava piano piano migliorando. Volevo godermi appieno la bella giornata. Accesi la radio e cercai un canale che trasmettesse vecchi pezzi di rock and roll.
Sembrava che il dj mi leggesse nel pensiero: sceglieva brani anni '70 e '80 che mi riportavano ai giorni della scuola, facendomi ricordare le serate nei locali a suonare con la mia all girl band. Era di nuovo giugno, la scuola era finita. Alzai il volume. Mi lasciai trasportare dalla musica e cantai a squarciagola Hotel California e You Make Loving Fun e, quando Springsteen intonò Born to Run, mi misi anche a battere il tempo sul volante, completamente presa dal ritmo e dalle parole. Cercai di coinvolgere nel canto anche Martha, quando Jackson Browne attaccò Runningon Empty. Fu allora che me ne resi conto. Ero in riserva. Non solo metaforicamente, anche letteralmente: la spia del serbatoio era fissa da un pezzo. 24 Mi fermai a una stazione di servizio nei pressi di Half Moon Bay che, chissà come, era riuscita a evitare di essere assorbita dalle multinazionali del petrolio e consisteva in due pompe per la benzina sotto una tettoia di alluminio e un'insegna scritta a mano: MAN IN THE MOON. Mi venne incontro un ragazzo biondo che si puliva le mani in uno straccio. Scesi per sgranchirmi le gambe. Scambiammo due parole, poi andai verso il distributore di bevande nello spiazzo adiacente, che era invaso da erbacce, pile di pneumatici e alcune vecchie auto fuori uso. Mentre aprivo la mia lattina di Coca-Cola Light, notai una macchina nella rimessa che mi causò un improvviso attacco di nostalgia. Era una Pontiac Bonneville dell'81, color bronzo, identica a quella che aveva mio zio Dougie quando io andavo al liceo. Mi avvicinai e guardai dal finestrino e dentro il cofano, che era aperto. La batteria era incrostata e i fili rosicchiati dai topi, ma per il resto mi parve abbastanza in ordine. Mi venne un'idea. Porsi la carta di credito al ragazzo, indicai la rimessa e chiesi: «La vecchia Bonneville è in vendita?» «Bella macchina, vero?» Mi sorrise, si appoggiò sulla coscia la macchinetta delle carte di credito, vi passò la mia carta e mi porse la ricevuta da
firmare. «Mio zio ne comprò una l'anno in cui uscì.» «Davvero? È una meraviglia, sì.» «Ma quella che ha lei va?» «La sto riparando. La trasmissione è a posto, ma bisogna cambiare starter, alternatore, un pezzo qui e un pezzo là...» «Mi piacerebbe aggiustarmela da sola, per la verità. Mi intendo abbastanza di motori.» Il ragazzo sorrise di nuovo, favorevolmente impressionato. Mi disse di fare un'offerta e io tirai su quattro dita. Mi rispose: «Figurarsi! Quella è una macchina che vale mille dollari o niente». Alzai il quinto dito. «Cinquecento dollari sono il massimo che posso dare per un'automobile che non va.» Il ragazzo ci rifletté alcuni minuti, nei quali mi resi conto che volevo davvero quella macchina. Stavo quasi per offrirgli di più, quando mi rispose: «Okay, ci sto. Ma gliela do così, senza garanzie». «Il manuale c'è?» «Sì, è nel vano portaoggetti. Le do anche una brugola e un paio di cacciaviti.» «Affare fatto.» Ci scambiammo una stretta di mano. «A proposito, mi chiamo Keith Howard.» «E io sono Lindsay Boxer. Diamoci del tu.» «Dove vuoi che ti scarichi la bagnarola, Lindsay?» Questa volta fui io a sorridere. Caveat emptor, dicevano i romani. Diedi a Keith l'indirizzo di mia sorella e gli spiegai come ci si arrivava. «Fai la salita, giri in Miramontes Street e poi prendi Sea View. È la seconda casa dal fondo, azzurra, sulla destra.» Keith fece di sì con la testa. «Te la porto dopodomani, okay?» «Perfetto», replicai, risalendo sulla mia Explorer. Keith piegò la testa da una parte e mi fece un sorriso da grande seduttore. «Ti ho già vista da qualche parte, Lindsay?» «Non mi pare», risposi. «Dicono tutti così.» Possibile che quel ragazzo ci stesse provando con me? Avrei potuto essere... be', sua sorella maggiore. Il ragazzo scoppiò a ridere con me. «Okay, okay. Senti, se hai bisogno che ti porti un argano o qualcos'altro, chiamami pure.»
«Senz'altro», dissi. Ero certa che non l'avrei chiamato, ma me ne andai sorridente. 25 Sea View Avenue è in mezzo a una serie di stradine residenziali senza sbocco, separata dal mare da meno di cinquecento metri di dune. Aprii la portiera e lasciai scendere Martha. Il profumo del mare e dei fiori era inebriante. Rimasi un attimo lì a guardare la bella casa di Cat, con la terrazza e i girasoli nel giardino, poi andai a prendere la chiave dalla nicchia in cui mia sorella aveva l'abitudine di nasconderla e aprii la porta del suo regno. La casa di Cat era piena di libri e di oggetti, con una vista meravigliosa sulla baia da ogni stanza. Mi sentii subito più rilassata e per l'ennesima volta presi in considerazione l'ipotesi di licenziarmi. E di trasferirmi in un posto così. Svegliarmi la mattina pensando alla vita, anziché alla morte. Sarebbe stato possibile? Aprii la portafinestra che dava sulla terrazza e vidi una casetta dello stesso azzurro della casa, circondata da una graziosa staccionata bianca. Scesi i gradini, preceduta da Martha. Avevo la sensazione che stessimo per incontrare Penelope. 26 Penelope era un maialino da compagnia. Maialino per modo di dire, visto che era grossa, nera e baffuta. Mi venne incontro e mi annusò. Allungai una mano oltre la staccionata e l'accarezzai. «Ciao, bellissima», le dissi. Ciao, Lindsay. Attaccato alla sua casetta c'era un foglio con le REGOLE DELLA CASA DEL PORCO, scritte come se fosse stata Penelope a dettarle. Cara Lindsay, voglio parlarti un po' di me. 1) Mi piace avere una ciotola d'acqua fresca e una di mangime due volte al giorno. 2) Adoro i pomodori Ciliegini, i cracker con il burro di arachidi
e le pesche. 3) Vorrei che mi tenessi un po' di compagnia, durante la giornata, mi recitassi le filastrocche e mi cantassi le canzoni di Sponge Bob, se non è chiedere troppo. 4) In caso di necessità, il mio veterinario si chiama dottor Monghil e le mie baby sitter sono Carolee e Allison Brown. Allison è una delle mie migliori amiche. Troverai i loro numeri nella rubrica in cucina. 5) Non lasciarmi entrare in casa, per favore. Si arrabbiano molto, quando lo faccio. 6) Se mi gratti sotto il muso, vedrai esauditi tre desideri. Quelli che vuoi. Il tutto era firmato con una X e una piccola impronta suina. «Le regole della casa del porco...» Cat era davvero spiritosa. Risposi ai bisogni più immediati di Penelope, mi cambiai e portai Martha e la chitarra sulla veranda. Cominciai ad accarezzare le corde, ma il profumo delle rose e di salmastro nell'aria mi fecero tornare in mente la prima volta che ero stata a Half Moon Bay. Era più o meno la stessa stagione e l'aria aveva il medesimo profumo. All'epoca stavo seguendo la mia prima indagine per omicidio. Un ragazzo era stato barbaramente ucciso nella stanza di una pensione malfamata nel Tenderloin District. Indossava solo una T-shirt e un calzino. Aveva i capelli rossi ben pettinati, gli occhi sbarrati e la gola tagliata da parte a parte. Era stato praticamente decapitato, poveretto. Quando l'avevamo voltato, avevamo visto segni di frustate sulle natiche. L'avevamo chiamato CNI24, cadavere non identificato numero 24, ma all'epoca io ero convintissima che avremmo scoperto chi fosse e trovato il suo assassino. La T-shirt che indossava era del Distillery, un ristorante per turisti di Moss Beach, a nord di Half Moon Bay. Era l'unico indizio che avevamo in mano. Avevo setacciato tutta la zona, ma non ero riuscita a cavare un ragno dal buco. Erano passati dieci anni e CNI24 continuava a non avere un nome. Nessuno l'aveva cercato, giustizia non era stata fatta. Ma io non l'avevo dimenticato. Era una ferita ancora aperta, per me. 27
Stavo per andare in centro a cercare un ristorante, quando sentii l'inconfondibile rumore di un giornale che atterra sullo zerbino. Raccolsi il quotidiano locale, lo aprii e nel leggere il titolo in prima pagina mi sentii male: RILASCIATO L'UOMO INDAGATO PER I DELITTI DI CRESCENT HEIGHTS. Lessi l'articolo da cima a fondo. Dopo che Jake e Alice Daltry erano stati trovati morti nella loro casa di Crescent Heights il 5 maggio scorso, Antonio Ruiz aveva confessato l'omicidio. Oggi, tuttavia, il capo della polizia Peter Stark ha dichiarato che la sua confessione non sarebbe coerente con i fatti e che l'uomo risulterebbe estraneo agli omicidi. Alcuni testimoni sostengono infatti che Ruiz, dipendente della California Electric & Gas, il giorno dell'assassinio era al lavoro, dove è stato visto da numerosi colleghi. Pertanto l'uomo non poteva essere a casa dei Daltry quando questi sono stati uccisi. La polizia non ha smentito che i due coniugi siano stati torturati prima di essere sgozzati. L'articolo continuava con una serie di illazioni sulla possibilità che la confessione fosse stata estorta con la violenza a Ruiz, che aveva fatto alcuni lavori a casa dei coniugi. Si concludeva infine dicendo che le indagini proseguivano. Lessi fra le righe che la polizia stava brancolando nel buio e provai l'impulso irresistibile di saperne di più. Volevo approfondire il come, il perché e soprattutto il chi. Il dove lo conoscevo già. Crescent Heights è un paesino lungo la Highway 1, appena fuori Half Moon Bay. A una decina di chilometri da dove mi trovavo in quel preciso momento. 28 Entra ed esci nel giro di cinque minuti. Anche meno. Sicuramente non di più. Il Guardone annotò l'ora esatta e scese dal furgone grigio fermo in Ocean Colony Road. Quella mattina si era vestito da operaio del gas, con tanto di tuta e distintivo rosso e bianco. Si abbassò il berretto sulla fronte e si ta-
stò le tasche. In una aveva il coltello a serramanico, nell'altra la macchina fotografica. Prese la cartellina e una cartuccia di sigillante. Gli batteva il cuore, quando imboccò il passaggio vicino alla casa degli O'Malley. Guardò dentro da una delle finestre dello scantinato, si infilò un paio di guanti di lattice, con un tagliavetro incise un rettangolo di 50x60 centimetri in una finestra e lo rimosse aiutandosi con una ventosa. Si fermò, aspettò che il cane dei vicini smettesse di abbaiare e si infilò nel buco. Ecco, era entrato. Senza problemi. C'era una scala che dal seminterrato saliva nella cucina attraverso una porta che non era chiusa a chiave. La cucina era moderna e attrezzatissima, ridicolmente piena di gadget. Il Guardone notò il codice dell'allarme scritto su un foglio vicino al telefono e lo memorizzò. Grazie, dottore. Molto gentile da parte tua, imbecille. Regolò la sua fida macchina fotografica per tre scatti uno dietro l'altro e fotografò la cucina su tre lati. Poi sali di sopra e vide la porta di una camera da letto spalancata. Rimase un attimo sulla soglia a osservare il grande letto a baldacchino con il copriletto lilla e rosa, i poster dei Creed e del WWF alle pareti. Caitlin, Caitlin, quanto sei dolce... Puntò la macchina fotografica verso il comò, fotografò rossetti e boccette di profumo, una scatola aperta di assorbenti. Annusò quel profumo di ragazzina, passò il dito sulla spazzola e si infilò in tasca un lungo capello biondo. Poi entrò nella camera da letto dei genitori, che profumava di pot-pourri ed era arredata a colori vivaci. Ai piedi del letto c'era un televisore al plasma. Il Guardone aprì il cassetto del comodino e vi trovò alcuni mazzetti di foto tenute insieme con elastici. Ne aprì uno, spargendo le foto sul letto come fossero carte da gioco, poi le rimise a posto. E scattò una panoramica anche di quella stanza. Fu allora che vide il piccolo occhio di vetro, grosso come il bottone di una camicia, brillare sull'anta dell'armadio. Ebbe un brivido di paura. Lo stavano riprendendo? Aprì la porta dell'armadio e vide la videocamera posata su uno scaffale. Il pulsante ON-OFF era su OFF. Spenta. La paura svanì subito, sostituita dall'euforia. Scattò un'altra serie di foto
in ogni stanza del primo piano e tornò nel seminterrato. Era rimasto dentro quattro minuti e una manciata di secondi in tutto. Uscito di nuovo all'esterno, rimise a posto il vetro con una striscia di sigillante. Avrebbe tenuto finché lui non fosse stato pronto a rientrare in quella casa. Per torturare e uccidere i suoi occupanti. 29 Aprii la porta di casa di Cat e Martha corse fuori, tirandomi verso la luce abbagliante. Ci incamminammo in direzione della vicina spiaggia e vidi con la coda dell'occhio un cane nero che balzava verso Martha. Il mio border collie si liberò del guinzaglio e corse via come un razzo. Lanciai un urlo, subito dopo mi sentii colpire alle spalle e caddi. Mi era arrivato addosso qualcosa. O qualcuno... Mi rimisi in piedi, pronta a difendermi. Maledizione, era soltanto un deficiente in bicicletta, che non mi aveva visto e mi era venuto addosso. Era caduto e si stava rialzando a fatica. Doveva avere poco più di vent'anni, aveva pochi capelli e un paio di occhiali con la montatura rosa. «Sophie!» gridò, in direzione dei due cani che correvano verso la riva. «No, Sophie!» Il cane nero si fermò e si voltò verso il ciclista, che si sistemò gli occhiali e mi lanciò un'occhiata preoccupata. «M-mi s-scusi. Tutto b-bene?» Era balbuziente. «Aspetti un attimo che glielo dico», risposi, furibonda. Andai zoppicando verso Martha, che per fortuna stava tornando da me con le orecchie basse e l'espressione sconsolata. La accarezzai, controllando che non fosse ferita e ascoltando solo a metà il ciclista che mi spiegava che Sophie era ancora una cucciola e non faceva del male a nessuno. «S-senta, adesso p-prendo la macchina e l'accompagno in osp-pedale.» «Ma no, non è il caso.» Neanche Martha si era fatta male. Io però ero veramente arrabbiata. Avrei preso volentieri a sberle quel deficiente, ma sapevo che in fondo erano cose che succedevano. «Zoppica», disse. «Non si preoccupi.» «È sicura di non...?» Mise il guinzaglio a Sophie e si presentò. «Bob Hinton. Le lascio il mio
biglietto da visita, dovesse mai aver bisogno di un bravo avvocato. Mi sscusi tanto.» «Lindsay Boxer», risposi, prendendo il biglietto. «E, sì, ho bisogno di un bravo avvocato. Perché un deficiente mi ha appena investito con una bicicletta.» Hinton sorrise nervosamente. «Non l'ho mai vista da queste parti.» «Sono ospite di mia sorella Catherine.» Indicai la casa. Poi, visto che stavamo andando dalla stessa parte, facemmo un pezzo di strada assieme. Raccontai a Hinton che avevo in programma di stare un po' da mia sorella, avendo qualche settimana di vacanza dal mio lavoro al dipartimento di polizia di San Francisco. «Ah, fa la poliziotta? È nel posto giusto. Con tutta la gente che ammazzano in questa zona, negli ultimi tempi...» Mi vennero i sudori freddi e diventai paonazza. Non volevo pensare a nessun omicidio, ero andata lì per distrarmi... Avevo bisogno di riposo, di relax. E non avevo voglia di parlare con uno stupido avvocato! Dovevo ammettere, però, che Bob Hinton non era antipatico. «Senta, io adesso devo andare», gli dissi. Accorciai il guinzaglio perché Martha mi camminasse a fianco. «Arrivederci. E, mi raccomando: guardi dove va!» Scesi verso la spiaggia, prendendo il più possibile le distanze da lui. E dagli omicidi di cui mi aveva parlato. 30 L'acqua era troppo fredda per fare il bagno, ma mi sedetti sulla riva a guardare l'orizzonte, dove l'azzurro della baia si mescola a quello più. scuro del grande Pacifico. Martha correva sulla battigia, sollevando grandi schizzi. Mi stavo godendo il tepore del sole sulla faccia, quando sentii un dolore alla nuca. Rimasi sbigottita. Senza fiato. «Hai ammazzato una ragazzina!» disse una voce. «Come hai potuto?» Lì per li non capii chi era. La mia mente cercava affannosamente un nome, una spiegazione, qualcosa da dire. Poi mi voltai appena per afferrare la pistola e lo vidi. Vidi l'odio nei suoi occhi. Vidi la sua paura. «Non ti muovere!» mi gridò, spingendomi la canna del revolver contro
la spina dorsale. Stavo sudando. «Hai ammazzato mia sorella! È morta per niente!» Mi tornò in mente l'espressione vacua di Sara Cabot quando era crollata a terra. «Mi dispiace», mormorai. «No, non ti dispiace affatto. Ma te ne pentirai. Tanto, guarda: il disinteresse è totale.» Dicono che non si sente il rumore del proiettile che ti colpisce, ma non è vero. Quando il ragazzo fece fuoco, udii chiaramente lo sparo. Caddi in avanti, paralizzata. Non riuscivo a parlare, non riuscivo a fermare l'emorragia, vedevo il mio sangue mescolarsi con l'acqua del mare. Come era potuto succedere? Doveva esserci una spiegazione, anche se mi sfuggiva. Avrei dovuto fare qualcosa... Ammanettarli, ecco che cosa avrei dovuto fare. Con questo pensiero, riaprii gli occhi. Ero sdraiata su un fianco, avevo le mani piene di sabbia. Martha mi stava alitando sulla faccia. No, il disinteresse non era totale... Mi tirai su a sedere, l'abbracciai e le posai una guancia sul pelo. Ero ancora scossa per il brutto sogno e non avevo bisogno di uno psichiatra per capirne il significato. Stavo elaborando il trauma. «Va tutto bene», dissi a Martha. Ma era una bugia. 31 Mentre Martha giocava con i gabbiani, io guardavo in alto cercando di liberare la mente e di spaziare nell'aria come gli uccelli. Pensavo sia al mio recente passato sia al mio incerto futuro, quando abbassai lo sguardo e lo vidi. Mi balzò il cuore in gola. Sorrideva ma, controluce, non vedevo il suo sguardo. «Ciao, bellissima», disse. «Santo cielo, guarda che cosa ha portato la marea.» Mi aiutò a tirarmi in piedi. Ci baciammo e io mi sentii invadere da un piacevolissimo calore. «Come hai fatto a liberarti?» gli chiesi, stringendolo forte. «Non capisci? Sono qui per lavoro. Sto perlustrando la costa in cerca di
eventuali terroristi», scherzò lui. «Sono responsabile della sicurezza di porti e zone costiere.» «E io che credevo che il tuo lavoro consistesse nel piantare bandierine su enormi carte geografiche...» «Sì, faccio anche questo.» Sventolò la cravatta. «Bandiera gialla.» Ero contenta che Joe scherzasse sul suo lavoro, perché la situazione era deprimente: non ci vedevamo quasi mai. «Non mi prendere in giro», mi disse, dopo avermi baciata di nuovo. «Faccio un lavoro duro.» Scoppiai a ridere. «Stacanovista. Non ti concedi mai un attimo di relax?» «Vieni, ho una cosa per te», mi disse, avviandosi verso il pontile. Tirò fuori un pacchetto di carta velina e me lo porse. «L'ho fatto io. Si vede?» Era tenuto insieme con lo scotch e al posto del nastro c'erano una serie di X e di O scritti a penna. Strappai la carta e mi ritrovai in mano un ciondolo appeso a una catenina d'argento. «Sperando che ti protegga», disse lui. «Kokopelli, l'antica figura mitologica degli indiani Pueblo! Come hai fatto a indovinare?» Alzai il ciondolo all'altezza degli occhi. «L'ho capito dalle ceramiche Hopi che hai in casa.» «È bellissimo! Lo desideravo da un sacco di tempo...» Mi voltai perché mi allacciasse la catenina intorno al collo. Joe mi spostò i capelli e mi diede un bacio sul collo. Le sue labbra e la ruvidezza della sua guancia non rasata mi fecero venire i brividi. Gemetti e mi voltai per abbracciarlo. Stavo proprio bene fra le sue braccia. Lo baciai. Prima piano, poi sempre più a lungo e in profondità. A un certo punto, mi scostai. «Perché non ti spogli?» gli domandai. 32 La camera degli ospiti di Cat era color pesca, con tende di garza e un letto matrimoniale vicino alla finestra. La giacca di Joe finì sulla sedia, seguita dalla camicia di jeans e dalla cravatta gialla. Sollevai le braccia perché mi sfilasse il top, poi gli presi le mani e me le posai sul seno. Il calore del suo tocco sembrava rendermi leggera come una piuma. Quando i miei slip scivolarono per terra, avevo già il respiro affannoso.
Mi stesi sul letto e guardai Joe che finiva di spogliarsi e si sdraiava vicino a me. Era veramente un bell'uomo. Lo abbracciai. «Ho un'altra cosa per te, Lindsay», mi disse. Capii a che cosa si riferiva e risi con la bocca sul suo collo. «Non solo quello», precisò lui. «Anche questo.» Aprii gli occhi e vidi che si indicava una scritta a penna sul torso: il mio nome. Sul cuore. Lindsay. «Come sei buffo!» dissi con un sorriso. «Non sono buffo, sono romantico.» 33 Quella con Joe non era soltanto una storia di sesso. Era un uomo troppo sincero e profondo perché potessi considerarlo una semplice avventura. Ma avere una relazione con lui era estremamente impegnativo. In momenti come quello, quando i nostri rispettivi impegni di lavoro ce lo permettevano, riuscivamo a raggiungere una grande intimità. Poi arrivava il mattino e Joe tornava di corsa a Washington. Non sapevamo mai quando ci saremmo rivisti. O se saremmo mai più stati così bene. Si dice che l'amore arriva quando sei pronto per riceverlo. Ero pronta? L'ultima volta che avevo amato così un uomo, l'avevo perso. Aveva fatto una morte orribile. E Joe? Diceva di aver sofferto molto per il divorzio. Si sarebbe fidato di nuovo di una donna? In quel momento, fra le sue braccia, ero lacerata fra il desiderio di abbassare tutte le mie difese e il bisogno di proteggermi dall'ansia della separazione. «Dove sei, Lindsay?» «Qui. Sono qui con te.» Lo strinsi forte, determinata a tornare nel presente. Ci baciammo e ci accarezzammo finché non riuscimmo più a stare separati e ci unimmo di nuovo, in perfetta armonia. Gemendo, gli sussurrai che era un uomo stupendo. «Ti amo, Lindsay», mormorò lui. Replicai che anch'io lo amavo, ma poi il piacere mi travolse e per un
momento tutti i pensieri negativi e distruttivi si dissolsero. Rimanemmo vicini a lungo, finito di fare l'amore, per riprendere fiato prima di tornare alle nostre vorticose esistenze. Poi suonò il campanello. «Merda», imprecai. «Facciamo finta di niente.» «No, Lindsay», mi disse lui. «Potrebbe essere per me.» 34 Gli passai sopra, mi infilai la sua camicia e i miei short e andai ad aprire. Era una bella signora sorridente, sulla cinquantina. Era troppo trendy completo da tennis e felpa Lilly Pulitzer - per essere una testimone di Geova e troppo allegra per essere un agente federale. Si presentò come Carolee Brown. «Abito in Cabrillo Highway, a un chilometro e mezzo da qui. Ha presente la villetta vittoriana azzurra con una recinzione di rete metallica?» «Sì, certo. Credevo fosse una scuola...» «Sì, è una scuola.» Non volevo essere scortese, ma non mi andava nemmeno di stare lì a fare conversazione con le guance rosse per lo sfregamento contro la barba di Joe e i capelli arruffati. «Cosa posso fare per lei, signora Brown?» «Dottoressa Brown, per la precisione. Ma diamoci del tu, cara. Chiamami Carolee. Tu sei Lindsay, vero? Mia figlia e io diamo una mano a tua sorella. Per Penelope, sai? Ti abbiamo portato questo.» E mi porse un piatto coperto di stagnola. «Sì, grazie. Cat mi ha parlato di te. Scusa, ti farei accomodare in casa, ma purtroppo...» «Non ti preoccupare: non volevo disturbare. Solo darti il benvenuto qui a Half Moon Bay. Sai, mi chiamano la maga dei biscotti...» La ringraziai, scambiammo ancora due parole e poi ci salutammo. La signora Brown salì in macchina e io mi chinai a raccogliere il giornale. Tornando in camera, lessi i titoli. Tempo sereno, NASDAQ dieci punti in meno, ancora niente di nuovo sugli omicidi di Crescent Heights. Sembrava impossibile che in quel posto così meraviglioso la gente potesse morire ammazzata. Parlai a Joe dell'omicidio dei due coniugi e tolsi la stagnola dal piatto che mi aveva portato la signora Brown. «Biscotti al cioccolato», annunciai a Joe. «Fatti in casa dalla maga dei
biscotti.» «La maga dei biscotti? È una specie di fata dai capelli turchini?» «Più o meno.» Joe mi guardava con aria sognante. «Sai che la mia camicia ti sta benissimo?» «Grazie.» «Stai meglio senza, però.» Sorrisi e posai il piatto. Poi mi slacciai la camicia un bottone alla volta e la lasciai cadere a terra. 35 «Anch'io ho avuto un maialino da compagnia», disse Joe quando uscimmo in giardino quella sera. «Ma va'! Non stavi nel Queens?» «Esistono i cortili anche nel Queens, Lindsay. Si chiamava Alphonse Pignole, mangiava pasta con la scarola e non disdegnava un sorso di Cinzano ogni tanto. Gli piaceva da matti.» «Mi prendi in giro!» «No.» «E poi? Che fine ha fatto?» «Ce lo siamo mangiati a uno dei grandi pranzi di famiglia. Con la salsa di mele.» Joe vide che facevo una faccia incredula. «Scherzo, non ce lo siamo mangiati. Quando sono andato al college, l'abbiamo regalato ad alcuni amici che abitavano in campagna. Vieni, ti faccio vedere una cosa.» Prese un rastrello che era appoggiato alla casetta. Appena Penelope lo vide, cominciò ad agitarsi e a grugnire. Anche Joe si mise a grugnire. «Vedi? Ci capiamo», mi disse. Con il rastrello, cominciò a grattare la schiena a Penelope, che si accucciò e poi, felicissima, si rotolò sulla schiena con le zampe per aria. «Sei un uomo pieno di sorprese», dissi a Joe. «A proposito, hai diritto a tre desideri.» 36
Il sole stava tramontando quando Joe, Martha e io ci mettemmo a mangiare sulla terrazza che dava sulla baia. Avevo preparato la salsa di mia madre da mettere sul pollo alla griglia e, per dessert, avevamo i nostri gelati preferiti: Cherry Garcia e Chunky Monkey. Dopo cena rimanemmo abbracciati per ore, ad ascoltare i grilli e la radio, con le fiammelle delle candele che danzavano nella brezza. Dormimmo poco, svegliandoci di tanto in tanto per abbracciarci, ridere e fare l'amore. Mangiammo biscotti al cioccolato, ci raccontammo i sogni che avevamo fatto e tornammo a letto. All'alba, il cellulare di Joe ci riportò bruscamente alla realtà. «Sì, certamente. Subito», disse Joe al telefono. Poi lo chiuse con uno scatto, allargò le braccia e mi strinse forte a sé. Lo baciai sul collo. «Quando parti, allora? Ti stanno venendo a prendere?» «Sì. Ho appuntamento fra pochi minuti.» Non stava esagerando. Nel giro di due minuti esatti, non un secondo di più, si rivestì nella stanza illuminata solo dai primi raggi che filtravano dalla finestra e mi salutò. «Non ti alzare», mi disse con la faccia triste, e mi rimboccò le coperte. Poi mi baciò sulle labbra, sulle guance, sugli occhi. «Ah, dimenticavo: i miei tre desideri sono stati esauditi.» «Quali erano?» «Non te lo dico. Però, uno era il gelato.» Scoppiai a ridere e lo baciai. «Ti amo, Lindsay.» «Anch'io ti amo, Joe.» «Ti chiamo.» Non gli chiesi quando. 37 I tre avevano appuntamento al Coffee Bean, quella mattina. Si sedettero in terrazza, a guardare la baia coperta di nebbia. Erano soli, e parlavano animatamente. Di morti e omicidi. La Verità aveva una giacca di pelle nera e blue jeans. Si voltò verso gli altri due e disse: «Okay, spiegatemelo ancora una volta». Il Guardone lesse dai propri appunti orari e abitudini della famiglia O'Malley e concluse con una serie di considerazioni.
Il Cercatore non aveva bisogno di essere convinto. Era stato lui a individuare la famiglia ed era contento che i sopralluoghi svolti dal Guardone avessero confermato le sue intuizioni. Si mise a fischiettare Crossroads, ma la Verità lo fulminò con un'occhiata. La Verità era di corporatura snella, ma era autorevole. «Le tue considerazioni sono convincenti, ma non sino in fondo», disse. Il Guardone cominciò ad agitarsi. Si sistemò il collo della felpa e sfogliò le fotografie, posando l'indice su alcuni primi piani. Su altre, disegnò dei cerchi a penna per sottolineare alcuni dettagli. «È un ottimo inizio», disse il Cercatore, difendendo il Guardone. La Verità lo liquidò con un gesto. «Non fatemi perdere tempo. Portatemi la merce.» Poi aggiunse: «Ordiniamo». Arrivò Maddie, la cameriera, che indossava un paio di pantaloni a vita bassa e una maglietta corta che le lasciava scoperta la pancia. «Ma che bel pancino», commentò il Cercatore in tono lascivo. Maddie gli fece un sorrisetto tirato e versò il caffè nelle tazze, poi tirò fuori il taccuino e scrisse l'ordinazione della Verità: uova strapazzate, bacon e un panino alla cannella. Anche il Cercatore e il Guardone ordinarono ma poi, al contrario della Verità, lasciarono quasi tutto nel piatto. Parlavano a bassa voce. Valutando diversi punti di vista. Pianificando l'eventuale operazione. La Verità guardava la baia avvolta dalla nebbia, ascoltando e riflettendo. A poco a poco, il piano prese forma. 38 Era una giornata bellissima e mi dispiaceva che Joe non fosse lì con me a godersela. Feci salire Martha in macchina e andai a fare la spesa. Mentre percorrevamo Cabrillo Highway, vidi una targa che indicava la Bayside School. La casa vittoriana con la facciata azzurra era proprio lì, sulla mia destra. Decisi di entrare nel parcheggio. Rimasi lì per un po' a guardare la casa, il giardino, la recinzione tutto intorno. Poi scesi dalla macchina e percorsi il vialetto di ghiaia che portava al portone di rovere. Mi venne ad aprire una nera molto grassa, che doveva avere poco più di trent'anni.
«Buongiorno», dissi. «Cerco la dottoressa Brown.» «Prego, si accomodi. È in sala prof. Piacere, sono Maya Abboud. Sono una degli insegnanti.» «Che tipo di scuola è la vostra?» domandai, seguendola lungo una serie di corridoi bui e su per le scale. «È una struttura residenziale per ragazzi con famiglie problematiche, in difficoltà. Quelli che arrivano qui, in realtà, sono i più fortunati.» Passammo davanti a diverse aule, a un salotto con un televisore e a decine di bambini e ragazzi. Non erano proprio come Oliver Twist, ma l'idea che fossero stati abbandonati dalle famiglie mi riempiva comunque di tristezza. La Abboud mi fece entrare in una sala luminosa, con tante finestre. Vidi Carolee Brown alzarsi in piedi e venirmi incontro. «Lindsay! Che piacere vederti.» «Passavo di qui e ho pensato di venire a scusarmi per ieri. Sono stata scortese.» «Ma figurati! Ti sono piombata in casa senza preavviso... Sono contenta che tu sia venuta, però. Voglio presentarti una persona.» Le dissi che non potevo trattenermi a lungo, ma lei mi assicurò che avremmo fatto prestissimo. La seguii nel giardino e vidi che Carolee si dirigeva verso una bambina di circa otto anni, molto graziosa, con i capelli scuri. Era seduta a un tavolino sotto un albero e giocava con i Power Ranger. «Mia figlia Allison», disse Carolee. «Ali, questa signora è la zia di Brigid e Meredith. Si chiama Lindsay. È tenente di polizia.» La bambina mi guardò interessata. «So chi è, mamma. È quella che è venuta a tenere compagnia a Penelope.» «Sì. Starò qui qualche settimana», le risposi. «Penelope è simpaticissima, vero? Sai che legge nel pensiero?» Mi parlò del maialino per tutta la strada fino al parcheggio. «Che bello, che fai la poliziotta», mi disse poi, prendendomi per mano. «Dici?» «Sì. Perché, se ci sono dei guai, i poliziotti li risolvono.» Stavo per chiederle che cosa intendesse dire, quando mi mollò la mano e corse verso la mia macchina. Martha si mise a scodinzolare e ad abbaiare e dovetti aprirle la portiera e farla scendere. A quel punto, fece un sacco di feste alla piccola Allison.
Alla fine ci salutammo, e io e Carolee prendemmo accordi per rivederci presto. La salutai con la mano dal finestrino e pensai che avevo una nuova amica. 39 Il Guardone accarezzava nervosamente il volante, aspettando che Lorelei O'Malley uscisse di casa. Purtroppo, doveva fare un nuovo sopralluogo. Finalmente, la stupida donna uscì a fare il suo shopping, chiuse a chiave la porta di casa e si immise in Ocean Colony Road a bordo della sua Mercedes rossa senza guardare. Il Guardone scese dalla sua auto. Indossava una giacca blu, calzoni blu e occhiali scuri e sembrava un impiegato di qualche compagnia telefonica. Si avviò a passo svelto verso la casa. Come la prima volta, si fermò vicino alla finestra del seminterrato e si infilò un paio di guanti. Poi staccò il sigillante con la lama del coltello a serramanico, tolse il pezzo di vetro che aveva staccato precedentemente e si introdusse nella casa. Dal seminterrato, salì al primo piano senza fare rumore e andò nella camera da letto dei signori O'Malley. Aprì l'armadio, spostò alcuni abiti e controllò la videocamera sullo scaffale. Tolse la cassetta e se la infilò in tasca, quindi ne prese un'altra a caso dal mucchio sullo scaffale, trattenendosi dal metterle tutte in ordine. Infine, prese un fascio di foto dal cassetto del comodino. Era in casa da due minuti e venti secondi, quando sentì sbattere la porta di ingresso. Con la bocca improvvisamente asciutta, rifletté che, in tutti i giorni in cui aveva tenuto sotto sorveglianza la casa, quella era la prima volta che qualcuno rientrava a quell'ora. Entrò nell'armadio e si nascose dietro a una cortina di camicie. Poi allungò la mano e chiuse le ante. La moquette attutiva il rumore dei passi e al Guardone balzò il cuore in gola, quando sentì aprirsi le ante. Non ebbe il tempo di pensare: un attimo dopo la signora O'Malley spostò alcuni abiti e lo scoprì, accucciato come un ladro, dentro l'armadio. Sbigottita, emise un gridolino e si portò una mano al petto. Quindi si rabbuiò. «Io ti conosco!» esclamò. «Che cosa ci fai qui?» Nella mano del Guardone si materializzò un coltello. Lorelei lo vide e
lanciò un urlo. Il Guardone pensò di non avere alternative e si avventò contro di lei, piantandole la lama nel ventre. Lorelei cercò di scansarsi, ma il Guardone la strinse in quello che, in altre circostanze, sarebbe potuto sembrare un abbraccio. «Oh, mio Dio! Perché mi fai questo?» gemette Lorelei. Poi girò gli occhi all'indietro e sospirò. Premendole la mano sulla schiena, il Guardone spostò la lama fino a reciderle l'aorta. Il sangue schizzava a fiotti dalla ferita, come da un secchio. Poco dopo, a Lorelei cedettero le gambe e si accasciò sul fondo dell'armadio. Il Guardone si chinò a tastarle la carotide. Lorelei sbatté lievemente le palpebre: sarebbe morta nel giro di pochi secondi. Gli restava giusto il tempo di fare quello che doveva. Le sollevò la gonna blu, si tolse la cintura e la frustò sulle natiche finché non fu morta. 40 La situazione poteva solo peggiorare. E infatti peggiorò. Il Guardone era a bordo del suo camioncino posteggiato in Kelly Street, di fronte alla villetta in cui si trovava lo studio del dottore. Lanciò un'occhiata al Cercatore, che era seduto vicino a lui con l'aria confusa e stravolta, poi controllò di nuovo il parcheggio, osservando la gente con le borse della spesa e le auto che andavano e venivano. Quando il dottor O'Malley uscì, il Guardone diede una gomitata al Cercatore e i due si guardarono negli occhi. «Pronto?» Il Guardone scese dalla macchina e si diresse a passo svelto verso il dottore, raggiungendolo prima che salisse sul suo fuoristrada. «Dottore, dottore! Ho bisogno di aiuto!» «Che cosa è successo?» chiese O'Malley, con un'espressione fra lo stupito e il seccato. «Il mio amico sta male! Non so se gli è venuto un ictus, un infarto o cosa.» «Dov'è?» «Lì!» rispose il Guardone. «La prego, venga!» Corse verso il furgone, voltandosi per controllare che il dottore lo seguisse. Aprì la portiera dalla parte del passeggero e si fece da parte per lasciare che O'Malley vedesse il Cercatore, accasciato sul sedile davanti. Il dottore infilò la testa nella macchina e gli sollevò una palpebra. Poi
sussultò, nel sentirsi puntare un coltello sul collo. «Salga», gli intimò il Guardone. «Non dica una parola», disse il Cercatore impassibile, con il suo sorriso di un fascino disarmante. «Altrimenti ammazzeremo tutta la sua famiglia.» 41 Lungo la ripida salita, il Guardone sentì che O'Malley si agitava e rotolava nel retro del furgone, legato e imbavagliato. «Qui va bene?» chiese al Cercatore. Controllò nello specchietto, si infilò in un varco fra gli alberi lungo la strada e fermò il furgone. Il Cercatore balzò giù, aprì il portellone e mise il dottore a sedere. «Okay, dottore, ci siamo», disse, strappandogli il nastro adesivo dalla bocca. «Vuoi dire qualcosa o portarti tutti i tuoi segreti nell'aldilà?» «Cosa volete che vi dica?» chiese ansimando O'Malley. «Volete dei soldi? Qualcosa posso darvi. Volete dei farmaci? Ditemi che cosa volete.» «Non mi aspettavo che fossi così stupido, dottore», disse il Cercatore. «Vi prego, non fatemi niente. Aiutatemi.» «Aiutatemi!» gli fece il verso il Cercatore. «Che cosa vi ho fatto?» singhiozzò O'Malley. A spintoni lo fecero scendere dal furgone. «È più facile di quanto pensi», disse gentile il Cercatore, chinandosi per parlargli nell'orecchio. «Basta che pensi a qualcosa di bello... e dici addio ai tuoi cari.» Il dottore non vide la pietra con cui gli sfondarono il cranio. Poi il Cercatore aprì il coltello, sollevò la testa del dottore per i capelli e gli tagliò la gola con gesto secco e preciso. Il Guardone si tolse la cintura e frustò il dottore sulle natiche, lasciandogli grossi segni scuri. «Mi senti?» chiese ansimando al moribondo. Il Cercatore pulì il coltello dalle impronte con un lembo della camicia del dottore e lo lanciò giù per la scarpata, fra gli alberi, i cespugli e l'erba alta. Poi i due uomini presero il morto per gambe e braccia e lo portarono sul ciglio della strada. Al tre, lo buttarono di sotto e rimasero a sentire il corpo che si schiantava a terra e rotolava nella boscaglia. Speravano che andasse a finire in qualche punto inaccessibile, dove solo i coyote avrebbero potuto trovarlo.
42 Ero in terrazza, concentrata a suonare la chitarra, quando un clangore metallico mi fece trasalire. Era un carro attrezzi. Un carro attrezzi nella pacifica Sea View Avenue? Mi chiesi, imbronciata, chi potesse essere, finché vidi che l'auto che stava rimorchiando era una Bonneville del 1981. La mia Bonneville del 1981. L'uomo alla guida mi fece ciao con la mano. «Ciao, bella, ti ho portato la macchina.» Sorrisi a Keith, il ragazzo della stazione di servizio, che stava scaricando la macchina. Appena ebbe finito, scese e mi venne incontro. «Dunque pensi di riuscire ad aggiustarla?» mi chiese, sedendosi sul gradino. «Mi piace trafficare con i motori», risposi. «Ho già riparato alcune auto della polizia.» «Ah, ma allora fai il meccanico di mestiere!» esclamò lui. «Cazzo, l'ho visto subito che eri una in gamba.» «No, faccio la poliziotta, non il meccanico.» «Mi prendi in giro?» «No», risposi, ridendo. Keith sbarrò gli occhi. Poi si riprese e allungò un braccio muscoloso per farsi dare la chitarra. «Ti spiace?» Figurati... Gliela passai e lui suonò un paio di accordi. Quindi attaccò una malinconica canzone country. La cantò con tanto sentimento che scoppiai a ridere. Keith fece un piccolo inchino, per scherzo, e mi restituì la Seagull. «E tu? Cosa suoni?» mi chiese. «Acoustic rock. Blues. Stavo imparando una canzone proprio adesso. Provavo a strimpellarla.» «Senti, perché non ne parliamo a cena? Conosco un posto dove fanno del pesce buonissimo. A Moss Beach», mi disse. «Grazie, Keith, mi farebbe molto piacere, se non fossi già impegnata.» Gli mostrai il ciondolo che mi aveva regalato Joe. «Mi spezzi il cuore.» «Non credo proprio.» «Davvero, saresti la donna ideale, per me. Sai pure riparare le macchine!
Cosa può volere di più un uomo?» «Dai, Keith, fammi vedere la mia nuova auto», gli dissi. Accarezzai il parafango della Bonneville, aprii la portiera e mi sedetti al volante. Era una bella macchina, confortevole, con un sacco di indicatori, spie e gadget vari. Proprio come me la ricordavo. «Hai fatto un affare, Lindsay», mi disse Keith, appoggiandosi al tetto della macchina. «Non ti avrei mai venduto una carriola, comunque. Ti ho messo degli attrezzi nel bagagliaio, ma se hai dei problemi, chiama.» «Certamente.» Mi fece un sorriso, si tolse il berretto, scosse i capelli biondi, si rimise il berretto e disse: «Okay. Stammi bene». Lo salutai con la mano, poi infilai la chiave nell'accensione e provai a mettere in moto il mio nuovo bolide. Naturalmente non ci riuscii. Il motore non dava segni di vita. Morto, come una rana spiaccicata in mezzo alla strada. 43 Feci un elenco di pezzi di ricambio da comprare e passai il resto della giornata a lucidare la carrozzeria della Bonneville con un prodotto che mi aveva lasciato Keith. Trasformare il marrone opaco in un luminoso color bronzo mi riempì di soddisfazione. Stavo ammirando il risultato quando vidi lanciare un quotidiano dal finestrino di una macchina. Mi alzai e lo presi al volo, guadagnandomi i complimenti del ragazzo alla guida. Aprii il giornale e lessi il titolo in prima pagina. DONNA PUGNALATA IN CASA. SCOMPARSO IL MARITO MEDICO. Lessi l'articolo lì su due piedi: Lorelei O'Malley, moglie del dottor Ben O'Malley, è stata ritrovata cadavere nella propria abitazione di Ocean Colony Road questo pomeriggio. È possibile che la donna abbia sorpreso in casa qualcuno intento a rubare. A compiere la tragica scoperta è stata la figlia quindicenne del dottor O'Malley, Caitlin, al ritorno da scuola. L'uomo, stimato professionista, è scomparso. Il capo della polizia, Peter Stark, esorta la cittadinanza a mantenere la calma e a vigilare.
«Alcuni elementi fanno pensare a un possibile legame con i recenti omicidi commessi in questa zona», ha detto Stark, che non ha voluto rilasciare ulteriori dichiarazioni per non compromettere le indagini. Stark ha comunque sottolineato l'impegno delle forze dell'ordine a catturare il colpevole. Rispondendo alle domande dei giornalisti, ha detto che il dottor O'Malley è stato visto l'ultima volta intorno a mezzogiorno, quando è uscito dallo studio per andare a pranzo. Da allora, non si sono più avute sue notizie. Per il momento, non è sospettato dell'omicidio. Arrotolai il giornale e guardai le villette lungo Sea View Avenue. Avevo voglia di gridare: ero pur sempre una poliziotta, no? Non volevo informazioni su omicidi sui quali non potevo svolgere indagini. Volevo notizie di prima mano, non stupidi articoli di giornale. Misi via gli attrezzi, entrai e organizzai una teleconferenza. Avevo bisogno di parlare con le mie amiche. 44 L'operatore mi collegò con Claire, la cui voce mi tranquillizzò subito. «Ciao, cara. Dormi fino a tardi la mattina? Ti stai abbronzando?» «Ci provo. In realtà, sono un po' agitata.» «Cerca di rilassarti, Lindsay. Approfitta di questo periodo di vacanza. Quanto vorrei poterne fare una anch'io...» Anche Cindy si collegò, con il suo solito piglio entusiasta. «Senza di te non so stare, Lindsay.» «Anche voi mi mancate», risposi io. «Vorrei che foste qui con me. È un posto bellissimo. Sapete che Joe è venuto a trovarmi?» Cindy ci raccontò del giocatore di hockey con cui era uscita e io replicai con la storia di Keith, il biondo della stazione di servizio. «Giovanissimo, alla Brad Pitt. Mi ha invitata a cena...» Claire disse: «Voi due mi fate sentire una vecchia casalinga sposata da cinquant'anni». «Vorrei essere sposata io con Edmund», disse Cindy. Ridevamo e scherzavamo come nelle nostre serate da Susie's. E, come al solito, dopo un po' cominciammo a parlare di lavoro. «Cosa mi dici di quegli omicidi?» chiese Cindy.
«Be', la gente è preoccupata. Qualche settimana fa hanno ucciso una coppia, stamattina hanno trovato morta un'altra donna...» «Sì, ho visto», disse Cindy. «Brutta storia.» «Si comincia a pensare a un serial killer. Sapete, mi dà fastidio non poter fare nulla. Vorrei poter andare sulla scena del crimine, mi scoccia stare fuori del giro.» «Be', posso dirti una cosa io», intervenne Claire. «L'ho saputa da un collega. Sapete quei due che sono stati uccisi a Crescent Heights un po' di tempo fa? Sono stati frustati.» Mi venne subito in mente CNI24, il ragazzo mai identificato sul cui omicidio avevo indagato dieci anni prima. Che era stato sgozzato e frustato. «Frustati? Claire, sei sicura?» «Sicurissima. Sulla schiena e sulle natiche.» Sentii un bip nel telefono e apparve un numero che mi fece tornare al passato. Mi scusai con le mie amiche e accettai la chiamata. «Ciao, Lindsay, sono Yuki Castellano. Hai un attimo? Ti devo parlare.» Per fortuna avevo le mie amiche che mi attendevano in linea: mi occorreva un po' di tempo per parlare con il mio avvocato della sera del 10 maggio. Yuki mi disse che mi avrebbe richiamato la mattina dopo e io tornai a chiacchierare con Cindy e Claire, ma ero turbata. In quegli ultimi giorni mi ero un po' distratta, ma non potevo dimenticare che mi aspettava un processo. 45 Il Guardone camminava lungo il sentiero fra le dune, sotto uno spicchio di luna. Era vestito di nero e aveva un berretto di lana in testa. In mano, teneva la microcamera con lo zoom 10x. La stava usando per guardare una coppia che amoreggiava sulla spiaggia. Dopo un po', la puntò verso le case di Sea View Avenue, a un centinaio di metri da dove si trovava. Ne mise a fuoco una in particolare, azzurra e con un sacco di finestre. Vide il tenente Lindsay Boxer che si muoveva nel soggiorno. Aveva i capelli raccolti e una T-shirt bianca extra-large e giocherellava con la catenina al collo, parlando al telefono. La maglietta era trasparente e lui le guardò il seno. Pieno, sodo.
Belle tette, tenente. Il Guardone sapeva esattamente chi era il tenente Boxer, che tipo di lavoro faceva e perché in quel momento era a Half Moon Bay. Ma voleva conoscerla meglio. Si chiese con chi stesse parlando al telefono. Forse con l'uomo brizzolato che aveva dormito lì la notte prima ed era ripartito su una limousine. Chissà chi era. E chissà se sarebbe tornato. Dove teneva la pistola il tenente Lindsay Boxer? Le scattò una serie di foto, mentre sorrideva, mentre si accigliava, mentre si scioglieva i capelli. Mentre teneva il telefono fra l'orecchio e la spalla per rifarsi la coda di cavallo, sollevando il seno. Mentre la osservava, vide entrare un cane nella stanza e andare alla finestra. Sembrava quasi che lo avesse visto. Si incamminò lungo la spiaggia verso i due che amoreggiavano, per attraversare le dune e raggiungere il parcheggio dove aveva lasciato la macchina. Salì al posto di guida, prese il taccuino e lo aprì alla voce TENENTE LINDSAY BOXER. La luce era sufficiente: scrisse subito i suoi appunti. Risentita. Sola. Armata e pericolosa. PARTE TERZA DI NUOVO IN SELLA 46 Il cielo si stava appena tingendo di rosa, quando suonò il telefono. Lo cercai a tastoni e risposi al quarto squillo. «Ciao, Lindsay, sono Yuki. Spero di non averti svegliato, ma è l'unico momento libero che ho e ne ho approfittato per chiamarti. Sono in macchina.» Il mio avvocato era una donna in gamba ed energica, e parlava sempre a raffica. «Okay, dimmi.» E mi sdraiai di nuovo sul letto. «Sam Cabot è stato dimesso dall'ospedale. L'ho ascoltato ieri», mi riferì. «Ha ritrattato la confessione, ma questo è un problema del procuratore distrettuale. Quanto a te, sostiene che sei stata tu a sparare per prima, mancandoli. Dice che lui e Sara hanno sparato solo dopo, per autodifesa, e che tu a quel punto li hai presi. Un ammasso di stronzate, lo sappiamo noi e lo
sanno anche loro, ma siamo in America e quel cretino può dire quello che vuole.» Mi venne un groppo alla gola. Yuki continuava a parlare. «Il nostro unico problema è che quel ragazzino fa veramente pena: paralizzato, legato alla sedia a rotelle, con le labbra che gli tremano... Sembra un povero angioletto rimasto vittima...» «... della brutalità di una poliziotta cattiva», finii io. «Non è questo che volevo dire, ma non importa.» Rise. «Senti, dobbiamo vederci e decidere come agire. Possiamo prendere un appuntamento?» Avevo l'agenda vuota, nessun impegno, ma Yuki nei tre giorni successivi aveva colloqui, deposizioni e udienze praticamente uno dietro l'altro. Ci accordammo per un incontro qualche giorno prima del processo. «I giornali ci stanno sguazzando», disse Yuki. «Io gli ho fatto capire che sei da un'amica a New York, in maniera che non ti trovino. Lindsay, ci sei ancora?» «Sì.» Guardavo il ventilatore sul soffitto, con le orecchie che mi fischiavano. «Senti, cerca di rilassarti. Tieniti in disparte, mantieni un basso profilo. Al resto ci penso io.» «Okay.» Feci la doccia, mi misi un paio di pantaloni di lino e una maglietta rosa e andai a bere il caffè sulla terrazza. Mentre servivo la colazione a Penelope, mi sedetti su un panchetto e recitai: «Sopra la panca Penelope campa...» Ecco, mi ero messa persino a parlare con i maiali. Pensai a quello che mi aveva detto Yuki a proposito del basso profilo. Era vero che dovevo tenermi in disparte, ma morivo dalla voglia di fare qualcosa. Di dare uno scossone alla mia vita, di raddrizzarla. Davvero, non potevo farne a meno. Feci un fischio a Martha e misi in moto la Ford Explorer. E partii alla volta di un indirizzo di Crescent Heights dove si era consumato un duplice omicidio. 47 «Cattiva!» dissi a Martha. «Combini sempre un sacco di guai!» Il mio border collie mi guardò con aria abbattuta, scodinzolò e riprese a scrutare l'autostrada. Continuai a guidare, emozionata, fino a Crescent Heights, una zona di
case sparse sulla punta di Half Moon Bay. Imboccai un senso unico in salita, facendo attenzione a ogni dettaglio, finché non mi trovai davanti alla casa in cui erano stati uccisi i coniugi Daltry. Accostai e scesi. Era una villetta graziosa, gialla, di legno, con un giardino pieno di fiori e la sagoma intagliata di un boscaiolo sul cancello di legno e metallo. Sulla cassetta delle lettere era scritto, a mano, il nome Daltry. Intorno a quella casa da sogno c'era il nastro giallo che si usa per delimitare le scene dei crimini. Limite invalicabile. Vietato l'accesso ai non autorizzati. Non riuscivo a capacitarmi che in quel luogo idilliaco fosse stato commesso un omicidio. Sembrava assolutamente impossibile. Che cosa aveva attirato in quel luogo l'assassino? Si trattava di vittime designate o casuali? «A cuccia!» dissi a Martha. L'omicidio era avvenuto circa un mese e mezzo prima e la casa non era più sorvegliata dalla polizia. Chiunque poteva curiosare da fuori e vidi tracce del passaggio di parecchie persone, che avevano calpestato le aiuole e lasciato cicche e lattine sul prato. Varcai il cancello, che era aperto, passai sotto il nastro giallo e girai attorno alla casa, osservando tutto. Fra i cespugli c'era un pallone da basket e sui gradini davanti alla porta di servizio una scarpa da bambino ancora bagnata di rugiada. Notai che il vetro di una delle finestre del seminterrato era stato staccato dal telaio e appoggiato al muro: probabilmente l'assassino era entrato da lì. Avevo il batticuore: stavo curiosando, non ero lì nell'esercizio delle mie funzioni, e la cosa mi faceva stare male. Quel delitto non era affar mio, non avevo il diritto di stare lì, ma la rivelazione che mi aveva fatto Claire la sera prima mi impediva di andarmene. I Daltry di Crescent Heights non erano i soli a essere stati frustati e uccisi. Che quel caso fosse legato al primo di cui mi ero occupata, CNI24? Chi altro era stato torturato e ucciso in quel modo? Yuki mi aveva raccomandato di tenermi in disparte. Mi veniva da ridere. Salii sulla Explorer, feci una carezza a Martha e misi in moto. Prendendo l'autostrada, sarei arrivata a Half Moon Bay nel giro di dieci minuti. Volevo andare a vedere la casa degli O'Malley. 48
Ocean Colony Road era piena di volanti parcheggiate su entrambi i lati della strada. Vidi che alcune appartenevano alla polizia di Stato: evidentemente i colleghi del posto avevano ricevuto rinforzi. Vidi un agente di guardia davanti alla porta e un altro che parlava con un fattorino dell'UPS. C'era un gran viavai di detective e tecnici della Scientifica. Nel giardino dei vicini era stato predisposto un tendone per i media e c'era un reporter che faceva un servizio in diretta. Lasciai la macchina un po' più in giù e andai a piedi verso la casa, unendomi a un gruppetto di persone che osservavano la scena. La visuale era buona e, mentre guardavo, potevo riflettere. La prima cosa che mi venne in mente era che le case delle vittime erano molto diverse fra loro. Crescent Heights è abitata prevalentemente da colletti blu, con la Highway 1 che passa in mezzo a case modeste, rovinando la vista sul mare. Ocean Colony Road, invece, confina con un campo da golf e le ville che vi si affacciano sono curate e lussuose. Che cosa avevano in comune le vittime? Osservai la villa in stile neoclassico degli O'Malley, con il tetto di ardesia e le piante di bosso in vaso vicino al portone, continuando a farmi le stesse domande. Perché l'assassino aveva scelto proprio loro? Aveva un motivo personale per ucciderli o gli O'Malley erano stati semplicemente sfortunati? Guardai le finestre chiuse della stanza al primo piano in cui era stata pugnalata Lorelei O'Malley. Era stata frustata anche lei? Ero talmente assorta che qualcuno mi notò. Un poliziotto giovane, con la faccia rotonda. Mi venne incontro, agitato. «Mi scusi, posso farle un paio di domande?» Maledizione! Se mi avesse chiesto il tesserino, sarei stata rovinata: «Il tenente Lindsay Boxer era sul luogo del delitto!» Nel giro di venti minuti mi sarei trovata addosso i giornalisti. Feci la faccia innocente. «Vado via subito, agente.» Salutai con la mano, mi voltai e andai dritta alla macchina. Vidi che, mentre passavo davanti alla villa, il poliziotto si annotava il numero della mia targa.
49 Il bar si chiamava The Cormorant e sopra il bancone era appesa la sagoma di un cormorano. Avevano sei tipi di birra alla spina, musica a tutto volume e la consueta ressa del venerdì sera. Mi guardai intorno alla ricerca di Carolee Brown. La vidi seduta a un tavolino vicino al bancone, in pantaloni e pullover rosa acceso, con un crocifisso dorato che luccicava discreto al collo. La maga dei biscotti aveva la serata libera. Mi vide una frazione di secondo dopo e mi sorrise, facendomi segno di raggiungerla. Mi feci largo fra la folla e, quando lei si alzò per salutarmi, l'abbracciai. Ordinammo birra e linguine con le vongole. Come succede fra donne, ci trovammo ben presto a scambiarci confidenze. Carolee aveva parlato con mia sorella Cat ed era al corrente della sparatoria e delle grane legali che ne erano derivate. «Ho sottovalutato la situazione perché erano due ragazzini», le spiegai. «Quando hanno cominciato a sparare, prima a me e poi al mio collega, non ho potuto non rispondere al fuoco.» «È una vera schifezza.» «Uccidere una ragazza così giovane, intendi? Lo so, non pensavo di poter fare una cosa del genere.» «Non avevi alternative, Lindsay.» «Certo, erano due assassini. Quando li abbiamo beccati hanno capito che non avevano chance e hanno rischiato il tutto per tutto. Non ti aspetteresti che due ragazzi privilegiati come loro potessero arrivare a tanto.» «È vero. Però, ti assicuro che, lavorando in una struttura come la mia, ti accorgi che il disagio è ovunque», replicò Carolee. Quell'accenno al disagio mi fece scattare un pensiero nella testa. Mi rividi bambina, sbattuta contro il comò di camera mia da mio padre, che se ne andava urlandomi di non osare mai più rispondergli così. Sapevo anch'io cos'era il disagio familiare. Cercai di scacciare quel ricordo. «Ma tu sei single, Lindsay?» mi stava domandando Carolee. «Sei mai stata sposata?» «Sì, ma sono divorziata. Il mio ex è una specie di fratello per me, il fratello che non ho mai avuto», le risposi, contenta di cambiare discorso. «Ma adesso mi sento di nuovo pronta a scendere in pista.»
«Ah, già!» disse Carolee sorridendo. «Ho visto che avevi compagnia, l'altro giorno, quando sono venuta a portarti i biscotti.» Sorrisi, pensando che ero andata ad aprirle con la camicia di Joe. Stavo per parlarle di lui, quando notai qualcosa con la coda dell'occhio. Poco prima avevo visto tre uomini bere al bancone. Due se ne erano andati e quello che era rimasto era molto bello: capelli mossi, scuri, bel viso, occhiali senza montatura, calzoni eleganti, polo Ralph Lauren. Il barista passò lo straccio sul bancone e gli chiese: «Gliene verso un'altra?» «No, preferisco una scura, adesso. E poi magari provo una bionda.» Lo disse sorridendo, ma ebbi l'impressione che quell'uomo avesse qualcosa che non andava. Aveva l'aria dello yuppie affermato, ma parlava come un venditore di aspirapolveri. Rimasi di sasso nel vedere che si girava sullo sgabello e mi guardava in faccia. 50 Presi istintivamente nota del fatto che era maschio, bianco, un metro e ottantacinque per ottanta chili di peso, quarantuno, quarantadue anni ben portati, nessun segno particolare tranne una cicatrice fra pollice e indice della mano destra che poteva essersi procurato con una coltellata. Scese dallo sgabello e venne verso il nostro tavolo. Dissi sottovoce a Carolee: «Colpa mia. Mi ha beccato che lo guardavo». Mi voltai ostentatamente verso di lei, parlando, ma lui non si lasciò scoraggiare. «Buonasera, belle signore! Vi ho visto e non ho potuto fare a meno di venirvi a salutare.» «Grazie», lo liquidò brusca Carolee. «Piacere, Dennis Agnew», insistette lui. «Non ci conosciamo, ma possiamo rimediare subito. Se mi fate sedere con voi, vi offro la cena.» «Grazie, Dennis, ma abbiamo voglia di stare un po' da sole», risposi. «Sai com'è, abbiamo tante cose da dirci.» Si rabbuiò. Ma fu questione di un attimo, perché si riprese subito e fece un gran sorriso. «Stare in compagnia è più bello, però. Anche se non vi piacciono gli uomini, a me non importa. È solo una cena...» Aveva un atteggiamento difficile da definire, a metà fra il seduttore di-
sinvolto e lo sfigato rompiscatole. In ogni caso, mi aveva scocciato. «Senti, guarda che sono della polizia», gli dissi mostrandogli il distintivo. «Io e la signora stiamo facendo una conversazione privata. Ci siamo capiti?» Vidi che cercava disperatamente un modo per salvare la faccia. «I poliziotti non dovrebbero giudicare subito le persone che non conoscono», disse. Andò a pagare il conto e, uscendo dalla porta che dava sul parcheggio, ci lanciò un'ultima occhiata. Poi disse: «Ci si vede». «Sei stata brava, Lindsay», mi disse Carolee, soffiandosi sull'indice teso, come se fosse una pistola. «Che rompiscatole!» dissi io. «Hai visto che faccia ha fatto? Non credeva che avessimo il coraggio di mandarlo a quel paese. Chi si crederà mai di essere? George Clooney?» «Probabilmente sì», disse la mia nuova amica. «Si vede che da quando è nato lo specchio e la mamma non fanno che ripetergli che è irresistibile!» Scoppiai a ridere. Mi trovavo bene con Carolee, mi pareva che ci conoscessimo da una vita. E così smisi di pensare a Dennis Agnew, a omicidi e cadaveri, e persino al mio processo. Alzai una mano e ordinai altre due birre alla spina. 51 Il Cercatore nascose il suo coltello nuovo sotto il sedile anteriore della macchina, scese ed entrò nel negozio. L'aria condizionata e la vista dei frigoriferi pieni di bevande lo rallegrarono all'istante. Gli fece piacere vedere anche la brunetta con una costosa tuta da ginnastica della Fila in coda alla cassa. Si chiamava Annemarie Sarducci e il Cercatore sapeva che aveva appena finito il suo giro di jogging serale. A quell'ora aveva l'abitudine di comprare una bottiglia di acqua minerale di importazione, andare a casa e cenare con la famiglia nell'abitazione che dava sulla baia. Sapeva molte cose sul conto di Annemarie: che era fiera di portare la taglia extra small e di pesare solo quarantuni chili, che aveva una relazione con il suo personal trainer e un figlio che spacciava ai compagni di scuola. E che era gelosa al limite della paranoia della sorella Juliette, la quale recitava in una soap a Los Angeles.
Il Cercatore sapeva anche che Annemarie aveva un blog con lo pseudonimo di Twisted Rose, di cui era forse il più assiduo lettore da mesi. Aveva persino firmato il guest book con il proprio alias. «Mi piace come la pensi. Il Cercatore.» Prese un caffè alla macchinetta e si mise in coda dietro di lei, urtandola lievemente per sfiorarle un seno. «Mi scusi. Oh, salve, Annemarie.» «Salve», rispose lei annoiata. Porse una banconota da cinque dollari alla cassiera e prese il resto, andandosene senza salutare. Il Cercatore la guardò uscire sculettando. Annemarie sculettava d'abitudine. Nel giro di un paio d'ore sarebbe stato davanti al computer a leggere il suo blog, dove Annemarie scriveva cose perverse che non avrebbe mai ammesso davanti ad amici e conoscenti. A dopo, Twisted Rose... 52 Quando Carolee mi chiamò per chiedermi se potevo tenerle Allison un paio d'ore, avrei voluto risponderle: «Qualsiasi cosa, ma non chiedermi di fare la baby sitter». Ma Carolee non me ne diede il tempo. «Ha tanta voglia di vedere il maialino», disse. «Se la lasci stare un po' con Penelope, lei si diverte e io vado dal dentista più tranquilla. Mi faresti un grosso piacere, Lindsay.» Mezz'ora dopo, Allison scese dal minivan e corse alla porta. Aveva i codini ed era vestita di rosa dalla testa ai piedi. «Ciao, Ali.» «Ho portato le mele», mi disse, entrando in casa senza aspettare che io la invitassi a farlo. «Guarda.» «Che bello!» replicai, fingendomi entusiasta. Appena Ali aprì la porta di servizio, Penelope trotterellò verso il recinto e cominciò a grugnire rumorosamente. Ali rispose facendole il verso Quando temevo che i vicini stessero per chiamare la neuro, Allison mi spiegò: «Vedi? Ci parliamo...» «Già», risposi, sorridendole. «Davvero», ribadì Ali. Grattò il maialino con il rastrello e ancora una volta, Penelope si rotolò sulla schiena con aria di godimento. «Quando era piccola, stava in un porcile grande grande con tanti maialini che venivano da tutte le parti del mondo», mi informò. «Ha imparato a parlare con loro. Sai con cosa giocano i porcellini? Con le bambole di porcellana!»
«Sul serio?» «Sono molto più intelligenti di quanto crediamo», mi spiegò Ali in tono saccente. «Penelope, per esempio, sa un sacco di cose. Più di tanti esseri umani.» «Non l'avrei mai detto», replicai. «Senti, vuoi darle le mele? Così intanto io le metto lo smalto sulle unghie.» «Che cosa?» «Le piace da matti.» Allison mi assicurò che Penelope aveva il permesso di andare sulla terrazza e io ce la lasciai andare, le diedi le mele e Allison le laccò gli zoccoli con lo smalto rosa madreperlato. «Ecco fatto, Penny», le disse orgogliosa quando ebbe finito. «Adesso le lasciamo asciugare, okay?» Poi si rivolse a me: «E Martha? Che cosa sa fare?» «Anche i collie 'parlano', per la verità. Sono cani da pastore. Martha sa guidare un gregge di pecore, all'occorrenza.» «Mi fai vedere?» «Tu portami un gregge di pecore, e io ti faccio vedere.» «E dove lo vado a prendere?» «Ah, questo non lo so. Sai qual è la cosa che mi piace di più di Martha? Che mi tiene compagnia e fa la guardia: se arrivano i cattivi, lei mi avverte.» «E tu tiri fuori la pistola? Perché hai la pistola, vero?» mi chiese Ali. «Sì.» «Però. Un cane e una pistola. Sei fiera, Lindsay. Sei la persona più fiera che conosco.» Scoppiai a ridere. Ali era una bambina davvero simpatica. Mi stupivo di aver fatto amicizia con lei tanto in fretta. Lì a Half Moon Bay stavo scoprendo molte cose nuove su me stessa. Per esempio, che mi piacevano i bambini. Mi vedevo già in una bella casa, con Joe e una figlia. Stavo proprio pensando a questo, quando arrivò Carolee con il tipico sorriso storto di chi è appena uscito dal dentista. Mi sembrava impossibile che fossero già passate due ore. Mi dispiaceva che Ali dovesse andare via. «Torna presto», le dissi, abbracciandola. «Vieni a trovarmi quando vuoi!» 53
Rimasi lì a fare ciao con la mano finché il minivan di Carolee non scomparve dietro la curva. A quel punto focalizzai un pensiero che mi stava affiorando confusamente alla coscienza da ore. Portai il computer in salotto, mi sedetti in poltrona ed entrai nel database dell'FBI. Nel giro di pochi minuti scoprii che il dottor Ben O'Malley, quarantotto anni, aveva preso alcune multe per eccesso di velocità ed era stato fermato per guida in stato di ebbrezza. Si era sposato due volte e due volte era rimasto vedovo. La prima moglie si chiamava Sandra ed era la madre di Caitlin. Era morta suicida nel 1994: si era impiccata nel garage di casa. La seconda, Lorelei Breen, era stata pugnalata il giorno prima. Aveva trentanove anni e un precedente per furto in un negozio, che risaliva al 1998 e si era risolto con una sanzione pecuniaria. Feci qualche ricerca anche sul conto di Alice e Jake Daltry, ottenendo un sacco e mezzo di informazioni. Sposati da otto anni, avevano due gemelli di sei anni, maschi, rimasti orfani dopo la strage nella bella casa gialla di Crescent Heights. Ripensai a quel luogo da sogno, al pallone in giardino, alla scarpetta da ginnastica davanti alla porta di servizio. Poi ritornai a guardare lo schermo. Prima di sposarsi, Jake Daltry era stato un ragazzaccio: si era fatto beccare con una prostituta e aveva contraffatto la firma del padre su un assegno, gesto che gli era costato sei mesi di reclusione. Da otto anni a quella parte, però, rigava dritto. Lavorava in una pizzeria in città, dove era regolarmente assunto. Alice, trentadue anni, non aveva precedenti penali. Niente di niente: sembrava non fosse mai passata neppure con il rosso. Eppure, era morta ammazzata. Che cosa voleva dire? Telefonai a Claire, che rispose al primo squillo. Andammo subito al sodo. «Claire, puoi farmi un paio di indagini, per favore? Sto cercando un possibile legame fra l'omicidio della signora O'Malley e quello di Alice e Jake Daltry.» «Okay. Vuoi che chieda ai colleghi? Ti faccio sapere cosa mi dicono.» «Daresti una controllatina anche a Sandra O'Malley? Morta suicida nel '94. Impiccata, pare.» Parlammo ancora due minuti del marito di Claire, Edmund, e dello zaffiro che le aveva regalato per il loro anniversario. Poi le raccontai di Ali, che
sapeva parlare con i maiali. Quando riattaccai, mi sentivo meglio. Mentre spegnevo il computer, mi venne in mente una cosa: avevo letto che Lorelei O'Malley, quando era stata sorpresa a rubare un paio di orecchini da venti dollari, si era fatta rappresentare da Robert Hinton. Io conoscevo l'avvocato Hinton. Avevo il suo biglietto da visita nella tasca degli short: mi aveva investito con la bici pochi giorni prima. Quindi, era in debito con me. 54 Bob Hinton aveva lo studio in un bugigattolo di Main Street, fra uno Starbucks e una banca. Decisi di fare un tentativo, benché fosse sabato, e lo trovai dietro una grande scrivania di legno intento a leggere il San Francisco Examiner. Alzò la testa e allargò le braccia nel vedermi, rovesciando il caffè sul quotidiano. Prima che la macchia si allargasse, vidi la foto in prima pagina. Era il ritratto di un ragazzino su una sedia a rotelle. Sam Cabot. Il mio incubo. «Scusa, Bob. Non volevo spaventarti.» «N-non t-ti preoccupare», mi rispose lui. Si sistemò gli occhiali rosa sul naso e pulì la scrivania con un fascio di fazzoletti di carta. «Prego, accomodati.» «Grazie.» Mi chiese come mi trovavo a Half Moon Bay e io gli risposi che stavo d'incanto. «Stavo proprio leggendo di te», mi disse poi, cercando di asciugare la prima pagina del giornale. «Nell'era dell'informatica non esistono più segreti», replicai sorridendo. Spiegai a Bob che ero interessata agli omicidi che erano avvenuti in quella zona e che ero andata da lui apposta per parlargliene. «Io conoscevo Lorelei O'Malley», mi disse. «È stata mia cliente. L'ho aiutata a tirarsi fuori da un pasticcio», mi spiegò con aria modesta. «Il marito lo conoscevo solo di vista. Dicono che possa essere implicato nella morte della moglie, ma io non ci credo. La figlia era rimasta molto traumatizzata dal suicidio della madre e dubito che possa averle inflitto un altro dolore del genere.»
«Il coniuge è sempre il primo sospettato.» «Lo so. Ho degli amici che lavorano in polizia. Sono cresciuto qui a Half Moon Bay», spiegò. «Finita l'università, ho aperto questo studio. Mi piace essere un pesce piccolo in uno stagno piccolo.» «Sei troppo modesto, Bob», gli dissi, indicando le foto che lo ritraevano mentre stringeva la mano al governatore e altri dignitari. Appesi alla parete c'erano anche alcuni diplomi e attestati. «Be', faccio un po' di volontariato. Sai, difendo gratuitamente i minori vittime di abusi e roba del genere.» «Encomiabile», osservai. Bob Hinton mi era sempre più simpatico. Mi sembrava che anche lui si trovasse bene con me: aveva praticamente smesso di balbettare, dopo l'incidente del caffè. Si appoggiò allo schienale e mi indicò la fotografia di un ricevimento in municipio, in cui stringeva la mano a un signore che gli consegnava una targa. «Vedi questo?» mi chiese indicando un uomo sul palco insieme ad altri. «Si chiama Ray Whittaker. Viveva con la moglie Molly a Los Angeles, ma d'estate venivano sempre qui. Sono stati uccisi nel loro letto un paio di anni fa. Sai che tutte queste persone prima di morire sono state frustate?» «Sì, l'ho sentito.» Riflettei per un attimo sul fatto che altre due persone erano state uccise con le stesse modalità due anni prima. Ma perché l'assassino le frustava? Da quanto tempo uccideva? Mi riscossi dai miei pensieri e sentii che Bob continuava a parlare dei Whittaker. «Brave persone, simpaticissimi. Lui faceva il fotografo, lei l'attrice a Hollywood. Una tragedia assurda. E i figli, poveretti, finiscono tutti in un istituto, oppure con parenti lontani che manco conoscono. Mi fanno una gran pena, poveracci.» Scosse la testa, sospirando. «Cerco di non pensarci, ma non ci riesco.» «Ti capisco», gli dissi. «Senti, se hai un momento ti racconto una cosa a cui non riesco a non pensare io. Da dieci anni a questa parte.» 55 Bob si alzò e andò a prendere due caffè dalla macchinetta. «Ho tutto il tempo», mi rispose. «Ma Starbucks è troppo caro.» Mi sorrise. «Oltre che pieno di yuppie.» Bevendo il caffè tiepido e con il latte in polvere, gli raccontai il primo
caso di omicidio di cui mi ero occupata. «Lo trovammo in uno squallido hotel nel Mission District. Avevo già visto diversi morti, ma quello mi impressionò. Avrà avuto diciassette, vent'anni, ed era supino, braccia e gambe larghe, in una pozza di sangue, coperto di mosche.» Mi si chiuse lo stomaco al solo pensiero: ricordavo quella scena come se l'avessi vista il giorno prima. «Oddio!» Bevvi un sorso di quel caffè terribile per riprendermi. «Aveva indosso un calzino della Hanes, di un tipo molto comune in quegli anni, e una T-shirt del Distillery. Conosci il Distillery?» Bob fece di sì con la testa. «È un ristorante molto conosciuto, aperto negli anni '30, molto frequentato dai turisti.» «Sì, infatti. Un indizio che non vuol dire niente.» «Come era morto?» «Gli avevano tagliato la gola. E sulle natiche aveva dei segni viola: frustate. Ti dice qualcosa?» Bob annuì di nuovo. Mi ascoltava con attenzione, perciò continuai. Gli dissi che avevamo setacciato la città e Half Moon Bay per settimane. «Senza trovare nessuno che lo conoscesse, però. Le sue impronte digitali non erano nel database e la stanza in cui era morto era talmente lurida che prove e indizi erano per forza contaminati. Insomma, non avevamo niente in mano. Nessuno reclamò mai il corpo. Succede, purtroppo: quell'anno era il ventiquattresimo cadavere non identificato che trovavamo. Non mi scorderò mai quel viso innocente, quegli occhi azzurri...» dissi. «Era rosso di capelli. E le circostanze della sua morte adesso si ripropongono in questi ultimi omicidi.» «Sai cosa mi sembra strano, Lindsay? Pensare che forse l'assassino abita qui e...» Lo squillo del telefono lo interruppe a metà frase. «Pronto?» rispose. E sbiancò. Non parlava, a parte qualche «sì, sì» ogni tanto. Poi disse: «Grazie di avermi avvertito», e riattaccò. «Era un mio amico che lavora alla Gazette», mi spiegò. «Ben O'Malley è stato trovato. Alcuni ragazzi che facevano trekking hanno scoperto il cadavere.» 56
I genitori di Jake Daltry abitavano in un quartiere popolare di Palo Alto, a mezz'ora di macchina da Half Moon Bay. Lasciai la Explorer davanti alla loro villetta a schiera, che era beige. Venne ad aprirmi un uomo scarmigliato, con i capelli grigi, in camicia di flanella e pantaloni a righe con la coulisse. «Il signor Richard Daltry?» «Non ci serve niente», rispose lui, chiudendomi la porta in faccia. Adesso ti faccio vedere io. Tirai fuori il tesserino e suonai di nuovo. Questa volta mi aprì una donna con i capelli tinti di rosso e due centimetri di ricrescita grigia, con una vestaglietta a fiorellini. «Cosa posso fare per lei?» «Sono il tenente Lindsay Boxer della polizia di San Francisco», mi presentai. «Sto indagando su un vecchio omicidio.» «E noi che cosa c'entriamo, scusi?» «Presenta analogie con la morte di Jake e Alice Daltry.» «Prego. Sono la mamma di Jake, Agnes.» Mi fece accomodare. «Scusi se mio marito prima è stato scortese. Sa, siamo sotto stress e i giornalisti non ci lasciano un momento in pace.» La seguii in una cucina anni '80, che profumava di detersivo. Ci sedemmo a un tavolo di formica rossa. Dalla finestra, vidi due bambini che giocavano con la sabbia nel giardino sul retro. «I miei poveri nipoti», disse la signora Daltry. «Che tragedia!» Si vedeva che era sconvolta. Glielo si leggeva nella faccia segnata, nelle spalle curve. E si vedeva anche che aveva bisogno di parlare con qualcuno che non sapesse già tutta la storia. «Ma come è successo?» le chiesi. «Mi racconti tutto.» «Jake da ragazzo ci ha dato dei problemi, ma con Alice era cambiato», esordì Agnes Daltry. «Si volevano bene, hanno avuto i gemelli. Jake, diventando padre, ha messo la testa a posto. Adorava i figli, avrebbe dato ranima per loro. Erano una così bella famiglia...» Si portò una mano sul cuore e scosse la testa disperata. Non riusciva già più a parlare, e non mi aveva ancora detto niente. Il marito entrò in cucina a prendere una birra dal frigo, mi lanciò un'occhiataccia e se ne tornò di là sbattendo la porta. Agnes abbassò gli occhi e mi disse: «Richard è arrabbiato con me». «Come mai?» «Ho fatto una cosa imperdonabile.» Avrei tanto voluto sapere cosa. Le posai la mano sul braccio e lei si
commosse. «Me ne vuole parlare?» le chiesi con dolcezza. La donna si asciugò gli occhi con un fazzoletto di carta. «Dovevo andare a prendere i bambini a scuola, ma prima ho fatto un salto a casa per vedere se Jake e Alice avevano bisogno che gli comprassi il latte, o il succo di frutta. Jake era nudo per terra nell'ingresso. Alice era sulle scale.» La guardai, esortandola a continuare con lo sguardo. «Sa, ho pulito tutto il sangue», disse la donna, sospirando. Mi guardò, come se si aspettasse che anch'io la sgridassi. «E li ho rivestiti. Non volevo che li vedessero così.» «Ha contaminato le prove, signora Daltry.» «Non volevo che i bambini vedessero tutto quel sangue.» 57 Un mese prima non l'avrei fatto. Avrei avuto troppa fretta, troppe altre cose per la testa. Ma in quel momento no, e quindi mi alzai e abbracciai Agnes Daltry. Pianse sulla mia spalla per un tempo che mi parve infinito. Probabilmente cercava in me il conforto che avrebbe voluto dal marito. Singhiozzava talmente forte che sentivo il suo dolore come se fosse il mio. Mi trasmise una sofferenza tale che non potei fare a meno di ripensare alle persone che avevo perso: mia madre, Chris, Jill... Sentii suonare il campanello. Quando Richard Daltry entrò in cucina, sua moglie stava ancora piangendo sulla mia spalla. «È per lei», disse, rabbioso. «Per me?» L'uomo che Daltry aveva fatto accomodare in salotto era elegantissimo, tutto sui toni del beige e marrone. Aveva persino capelli, baffi e occhi della stessa sfumatura nocciola della giacca. «Tenente Boxer? Sono Peter Stark, il capo della polizia di Half Moon Bay. Ho bisogno di parlarle. Venga con me.» 58 Lasciai la Ford Explorer nel parcheggio della stazione della polizia riservato ai «visitatori». Stark scese dalla sua macchina e si avviò verso l'e-
dificio, lanciandomi un'occhiata per vedere se lo seguivo. Molto gentile. La prima cosa che notai, entrando nel suo ufficio, fu il motto appeso dietro la sua scrivania: FAI LA COSA GIUSTA, E FALLA BENE. Poi osservai il disordine: pile di fogli dappertutto, fax e fotocopiatrice vecchissimi, foto appese al muro di Stark in tenuta da cacciatore insieme a vari trofei, mezzo panino con il formaggio abbandonato su uno scaffale. Stark si tolse la giacca e l'appese a un gancio dietro la porta. Vidi che aveva torace e braccia possenti. «Si accomodi, tenente. Ho sentito parlare molto di lei», mi disse controllando una serie di messaggi. Non mi guardava in faccia da quando eravamo usciti dalla casa dei Daltry. Tolsi il casco da moto che occupava la sedia, lo posai per terra e mi accomodai. «Che cosa pensava di fare, tenente?» mi domandò. «In che senso, scusi?» «Che diritto ha di venire a ficcare il naso in casa mia?» chiese, fulminandomi con lo sguardo. «È sospesa dal servizio, dico bene?» «Con tutto il rispetto, non capisco dove vuole arrivare.» «Non mi prenda in giro, tenente. Lei ha una certa fama, lo sa? E non è stata ancora prosciolta dall'accusa di omicidio...» «Scusi tanto...» «Si è fatta prendere dal panico quella sera, tenente? Succede. Ma quelli a cui succede sono poliziotti pericolosi. Mi sono spiegato?» Sì, avevo capito benissimo. Stark era più in alto di me e, se avesse segnalato una violazione delle procedure da parte mia, per me sarebbe stata la fine. Cercai di rimanere impassibile. «Ho il sospetto che i recenti omicidi avvenuti qui a Half Moon Bay abbiano un legame con un caso di cui mi sono occupata anni fa», spiegai. «L'assassino potrebbe essere lo stesso. Sarebbe utile che noi collaborassimo.» «Noi? Io non collaboro con lei, tenente Boxer. Perlomeno finché è sospesa dal servizio. E vorrei che non mi intralciasse nel mio lavoro. Vada a fare delle belle passeggiate, si legga un libro, faccia quello che vuole. Ma non si immischi nelle nostre indagini, per favore.» Gli risposi con una voce talmente strozzata che quasi non la riconobbi. «Con tutto il rispetto, penso che la sua priorità dovrebbe essere catturare l'assassino che sta seminando il panico nella sua giurisdizione e accettare tutto l'aiuto che le viene offerto. Ma, evidentemente, lei ha un'opinione di-
versa...» Stark rifletté un secondo sulle mie parole e io ne approfittai per andarmene con dignità. «Se ha bisogno, sa dove rintracciarmi», dissi. E me ne andai. Ripensai alle raccomandazioni di Yuki: tieniti in disparte... Impossibile. Tanto valeva che mi consigliasse di imparare a suonare l'arpa... Salii in macchina e uscii dal parcheggio. 59 Ero in Main Street che borbottavo fra me e me rimpiangendo di non aver risposto in un altro modo al capo della polizia, quando notai che avevo il serbatoio praticamente vuoto. Ero di nuovo in riserva! Decisi di andare a fare benzina dal mio amico Keith. Lasciai la Explorer vicino al distributore e, non vedendo arrivare nessuno, mi diressi verso l'officina. Quando aprii la porta, mi investirono le note di Riders on the Storm dei Doors. Sul muro alla mia destra c'era un calendario con una splendida Miss Giugno in costume adamitico. Sopra di lei, erano appesi i simboli della Bendey, della Jaguar e della Mercedes montati su blocchetti di legno. Accoccolato dentro uno pneumatico c'era un grosso gatto rosso che dormiva. Osservai ammirata la Porsche rossa nell'officina e salutai Keith, che era sdraiato sotto: «Ohilà!» Keith spuntò da sotto la macchina e mi sorrise. «Hai visto che meraviglia di automobile?» Si alzò dal carrellino, si pulì le mani in uno straccio e abbassò la musica. «Ciao, Lindsay! Problemi con la Bonneville?» «No. Ho sostituito alternatore e candele. Il motore sembra il tuo gatto quando fa le fusa, adesso.» «Allora hai già fatto la conoscenza con Palla di Pelo», replicò Keith accarezzando il gatto sotto il mento. «È il mio gatto da guardia. Mi è piombato qui un paio di anni fa sul carburatore di un pick-up.» «Oddio!» «Veniva da Encino e aveva tutte le zampe bruciate. Ma adesso si è ripreso. Vero, Palla?» Mi domandò se dovevo fare benzina e io gli risposi di sì. Uscimmo insieme nello spiazzo pieno di sole.
«T'ho visto alla tele ieri sera», mi disse Keith mentre riempiva il serbatoio. «Figurati.» «Davvero. C'era un servizio sul processo e hanno fatto vedere la tua foto.» Sorrise. «Allora è vero, che sei una poliziotta.» «Perché? Non ci credevi?» Il ragazzo alzò le spalle. «Sì, certo. Ma, anche se non fosse stato vero, sarebbe stato lo stesso. Saresti stata comunque una con la battuta pronta.» Scoppiammo a ridere tutti e due. Gli raccontai dei ragazzi Cabot: solo i fatti principali, senza entrare nei dettagli emotivi. Keith fu molto comprensivo. Dopo il colloquio con Stark, parlare con lui era un piacere. Sembrava sinceramente interessato a quello che dicevo. E assomigliava davvero a Brad Pitt. Aprì il cofano della Explorer, controllò l'olio e mi guardò dritto negli occhi, abbastanza a lungo da consentirmi di notare che aveva le iridi azzurre punteggiate di pagliuzze dorate. «Devi rabboccare l'olio», mi disse. Arrossii. «Okay.» Aprì una latta di Castrol e lo versò nel motore con una mano nella tasca posteriore dei jeans e un'aria di studiata nonchalance. «Per curiosità, com'è il tuo fidanzato?» mi fece poi. 60 Cercai di riprendere le distanze da Keith e gli raccontai di Joe, che descrissi come un uomo molto in gamba, simpatico e gentile. «Lavora a Washington, alla Sicurezza Interna.» «Però», fece lui. Vidi che deglutiva. Poi mi domandò: «E lo ami?» Annuii, pensando a Joe e a quanto mi mancava. «È un uomo fortunato, questo Manicotti.» «Molinari», lo corressi, sorridendo. «Beato lui», ribadì Keith. Mentre mi chiudeva il cofano, arrivò a fare benzina una berlina nera con la targa di un autonoleggio. «Maledizione, è arrivato quello della Porsche. E io non ho ancora finito di ripararla.» Gli porsi la mia carta di credito. Intanto «quello della Porsche» stava scendendo dalla sua macchina a noleggio.
«Salve, Keith. Tutto a posto?» disse. Per la miseria, lo conoscevo! Alla luce del giorno sembrava più vecchio, ma era quello che ci aveva provato con me e Carolee al Cormorant. Dennis Agnew. «Cinque minuti e sono da lei», gli rispose Keith. Prima che potessi chiedergli chi fosse quell'odioso figuro, Keith si allontanò verso l'officina e l'odioso mi venne incontro. Si avvicinò, si fermò, posò una mano sul cofano della mia Explorer e mi lanciò un'occhiata da gran seduttore. Poi, lentamente, sorrise. «Com'è, ti piacciono i ragazzini?» Stavo per rispondergli, quando arrivò Keith. «Non sono mica un ragazzino», replicò, schierandosi dalla mia parte. Rispose al sorriso sarcastico di Agnew con un bel sorriso solare. «Non dia fastidio alla mia amica, per favore.» Un vero e proprio duello sotto il sole. Dopo un lungo silenzio, Agnew tolse la mano dal cofano. «Allora, a che punto è la mia macchina?» Keith mi fece l'occhiolino e mi restituì la carta di credito. «Ci sentiamo, Lindsay.» «Okay. Stammi bene.» Salii in macchina e misi in moto, ma rimasi lì a guardare Agnew che entrava nell'officina con Keith. Quell'uomo aveva qualcosa di strano, di malato. Ma non sapevo che cosa. 61 Dormii malissimo, facendo sogni inquietanti e svegliandomi spesso. Alla fine mi alzai e mi lavai i denti con rabbia. Ero tesa, agitata, e sapevo il perché. Minacciandomi, Stark mi stava impedendo di svolgere indagini che avrebbero potuto portare all'identificazione del cadavere numero 24 e alla cattura del suo assassino. Che, se non avevo preso una cantonata, aveva ricominciato a uccidere nella zona di Half Moon Bay. Andai a preparare il caffè e a dare da mangiare a Martha. Poi mi sedetti davanti a una ciotola di cereali. Stavo guardando distrattamente la TV quando vidi una striscia rossa scorrere sulla parte bassa dello schermo. Era arrivata una notizia importante.
Una giovane donna dall'aria compita, in piedi davanti a una casa di legno circondata dal nastro giallo della polizia, parlava concitata per farsi sentire nonostante il brusio della folla. «Alle sette e trenta di questa mattina il tredicenne Anthony Sarducci ha ritrovato i corpi senza vita dei suoi genitori nella loro abitazione di Outlook Road. Annemarie e Joseph Sarducci sono stati pugnalati. Anthony non ha sentito nulla. Abbiamo parlato con il capo della polizia, Peter Stark, pochi minuti fa.» A quel punto partì l'intervista a Stark, davanti alla stazione di polizia, in mezzo a una folla di curiosi e giornalisti che gli avvicinavano grossi microfoni con il logo di vari canali televisivi. Alzai il volume. «Dottor Stark, è vero che i Sarducci sono stati barbaramente uccisi a colpi di arma bianca?» «È stato il figlio a ritrovarli?» «Avete arrestato qualcuno?» Guardai Stark barcamenarsi come poteva, sotto assedio. Doveva scegliere se dire la verità o mentire, per mantenere calma la cittadinanza e non dare informazioni all'assassino. Sembrava Moose, quando i giornalisti gli chiedevano del cecchino di Washington. «Non posso rilasciare dichiarazioni», disse Stark. «Posso solo confermarvi che sono morte altre due persone, ma le indagini sono coperte dal segreto istruttorio. Appena avremo novità, non mancheremo di comunicarle alla cittadinanza.» Presi la sedia e mi avvicinai al televisore. Non era certo la prima volta che vedevo dei morti, ma quel caso mi turbava particolarmente. Se pensavo alla faccia tosta dell'assassino, mi veniva la pelle d'oca. Mi sembrava di essere anch'io tra la folla intorno alla stazione di polizia e mi rivolsi all'immagine di Stark sullo schermo del televisore: «Chi è stato? Chi è l'assassino di tutte queste persone?» PARTE QUARTA IL PROCESSO 62 Quando arrivai, stavano portando via i corpi. Posteggiai fra due auto della polizia nel giardino e alzai gli occhi verso la villa tutta vetri e legno,
molto moderna e molto bella. La folla si divise per lasciar passare le barelle con i sacchi mortuari, che vennero caricate su un'ambulanza. Non conoscevo Annemarie e Joseph Sarducci, ma provai lo stesso un'angoscia terribile. Mi feci largo fino alla porta, dove era di guardia un agente. Stava lì, in piedi, con le mani dietro la schiena, e sembrava a proprio agio. Capii subito che era un professionista, dal modo in cui mi guardò e sorrise. Decisi di tentare la sorte, e gli mostrai il tesserino. «Il capo è dentro, tenente», mi rispose. Suonai il campanello e mi arrivarono alle orecchie le prime note delle Quattro stagioni di Vivaldi. Mi aprì Stark. Appena mi vide, serrò la mascella. «Cosa diavolo vuole?» mi domandò a denti stretti. «Sono venuta a darle una mano», risposi sperando che vedesse la mia buona fede. «Mi fa entrare?» Ci guardammo a lungo negli occhi. A un certo punto Stark sbatté le palpebre. «Le hanno mai detto che è insistente?» mi chiese, lasciandomi entrare. «Sì. Grazie.» «Non mi ringrazi. Ho chiamato un mio amico del dipartimento di San Francisco, Charlie Clapper, che mi ha parlato bene di lei. Di lui mi fido, quindi... Ma non mi faccia pentire.» «Stia tranquillo.» Entrai nel salotto, che aveva una vetrata che dava sul mare. L'arredamento era in stile scandinavo, con mobili squadrati, kilim e quadri di arte astratta. Sentii la presenza dei Sarducci in quella casa, nelle loro cose. Catalogai mentalmente tutto e notai che mancava qualcosa: al piano terreno non c'erano segni di effrazione. Da dove era entrato l'assassino? Mi voltai verso Stark. «Mi spiega com'è arrivato qui dentro quel maledetto?» «Dal lucernario.» 63 La camera da letto dove si era consumata la tragedia sembrava orribilmente vuota. Le finestre erano aperte e le veneziane tintinnavano in maniera sinistra nella brezza. Sulle lenzuola azzurre c'erano schizzi di sangue scarlatto a
rendere ancora più macabra l'atmosfera. I tecnici della Scientifica stavano infilando in appositi sacchetti gli oggetti sui due comodini, aspiravano peli e fibre dalla moquette e prelevavano impronte dalle superfici. A parte il letto sporco di sangue, era tutto in ordine. Mi feci prestare un paio di guanti da chirurgo e mi chinai a osservare una foto dei Sarducci sul comò. Annemarie era una donna minuta e molto graziosa. Joe era una specie di gigante buono, che abbracciava orgoglioso la moglie e il figlio. Chi poteva averli voluti morti? «Alla donna hanno tagliato la gola», mi informò Stark, interrompendo il corso dei miei pensieri. «Le hanno quasi staccato la testa dal collo.» Mi fece vedere la chiazza di sangue sulla moquette, accanto al letto. «È caduta qui. Joe non era a letto, in quel momento.» Mi mostrò come gli schizzi di sangue si irradiavano su tutto il letto: era chiaro che non avevano incontrato ostacoli che li deviassero. «Non ci sono segni di colluttazione», proseguì il capo della polizia. «Joe è morto nel bagno.» Seguii Stark nella stanza da bagno, che era tutta di marmo bianco. In un angolo c'era una macchia di sangue rosso vivo, che era schizzato anche sul muro, a circa mezzo metro da terra. Dallo schizzo si dipartivano strisce di sangue verticali, che scendevano fin nella pozza sul pavimento. Guardai il punto in cui era caduto a terra Joe. E mi accucciai, per vedere meglio. «L'assassino deve aver trovato la signora sola nel letto», ipotizzò Stark. «Probabilmente le ha tappato la bocca e le ha chiesto dov'era il marito. O forse ha sentito lo sciacquone, chissà. Prima ha fatto fuori lei, poi ha cercato di cogliere di sorpresa lui. Magari il marito uscendo dal bagno se l'è trovato davanti e gli ha chiesto chi era e che cosa voleva.» «Questo sangue gli è uscito dalla ferita al collo», dissi indicando lo schizzo sul muro. «L'assassino deve averlo fatto mettere a quattro zampe, presumibilmente per controllarlo meglio. Era un uomo grande e grosso.» «Sì, lo so», disse Stark stancamente. «L'ha fatto inginocchiare, gli ha tirato la testa all'indietro prendendolo per i capelli e... zac!» Si passò un dito sulla gola. Gli feci alcune domande, e lui mi rispose che non era stato portato via niente, nessuno aveva sentito rumori strani e amici e parenti sostenevano che i Sarducci erano affiatati e non avevano un nemico al mondo.
«Come i Daltry e gli O'Malley», concluse Stark. «Niente armi, niente stranezze a livello finanziario, nessun movente apparente. Le vittime non si conoscevano.» Fece una smorfia. Per un attimo vidi il suo dolore, la sua vulnerabilità. «L'unica cosa che avevano in comune è che erano sposate», disse. «Come se questo volesse dire qualcosa: l'ottanta per cento degli abitanti di Half Moon Bay è coniugato. La città è nel panico. E io anche.» Si zittì e si voltò dall'altra parte, si sistemò la camicia nei pantaloni e si ravviò i capelli. Voleva darsi un contegno, benché si sentisse disperato. Poi mi guardò negli occhi. «Che cosa ne pensa, tenente? Mi faccia partecipe dei suoi pensieri.» 64 Non avevo visto i corpi e i risultati degli esami di laboratorio sarebbero stati pronti nel giro di qualche giorno. Ignorai il sarcasmo di Stark, tuttavia, e gli comunicai quel che mi suggeriva il mio istinto. «Gli assassini erano due.» Stark fece un salto. «Stronzate», fu la sua risposta. «Non ci sono segni di colluttazione, no?» gli dissi. «E Joe Sarducci era un uomo grande e grosso: perché non avrebbe dovuto opporre resistenza al suo aggressore? Secondo me, l'assassino l'ha costretto a collaborare sotto minaccia mentre un complice era in camera da letto con Annemarie.» Il capo della polizia si guardò intorno, osservando la scena dal mio punto di vista. «Andiamo nella stanza del figlio», proposi. Appena varcammo la soglia capii che Anthony Sarducci era un ragazzino in gamba. Sugli scaffali c'erano molti bei libri, alcuni terrari con insetti in buona salute e sulla scrivania c'era un computer potente. Ma a incuriosirmi furono i segni dei piedi della sedia sulla moquette. Era stata spostata. Perché? Mi voltai e capii. Mi venne in mente l'agente di guardia davanti alla porta. Il ragazzo non aveva sentito niente. Che cosa sarebbe successo, se invece avesse sentito? Indicai la sedia a Stark. «L'avete spostata voi?» gli chiesi. «Siamo i primi a entrare in questa stanza.»
«Ho cambiato idea», gli dissi. «Gli assassini non erano due, ma tre. Due hanno ucciso Annemarie e Joe, mentre il terzo doveva occuparsi del figlio, nel caso si fosse svegliato. E si è seduto qui, su questa sedia.» Stark si voltò, uscì nel corridoio e tornò con un tecnico della Scientifica, una ragazza giovane che aspettò sulla porta che noi uscissimo dalla stanza per poi chiuderla con il nastro giallo. «Non voglio crederci, tenente. Un maniaco basta e avanza. Dobbiamo prenderne tre?» Lo guardai negli occhi. Per un attimo, sorrise. «Non so se se n'è accorta, ma ho usato il noi», disse poi. 65 Uscii da casa Sarducci nel tardo pomeriggio e in macchina ripensai all'omicidio e alla mia conversazione con il capo della polizia. Quando avevamo avuto conferma del fatto che anche i Sarducci erano stati frustati, gli avevo parlato di CNI24. Non era stato accertato alcun legame fra quel vecchio caso e gli omicidi di Half Moon Bay, ma ero abbastanza sicura che ci fosse. Dieci anni nella squadra Omicidi mi avevano insegnato che lo stile di un assassino può cambiare nel tempo, ma solo fino a un certo punto. Mi sembrava alquanto improbabile che ci fosse qualcun altro che tagliava la gola alle sue vittime dopo averle frustate sul sedere. Mi fermai a un semaforo rosso e guardai nello specchietto. Vidi una spider rossa che si avvicinava a tutta birra, senza rallentare. Incredibile! Tenevo gli occhi fissi sullo specchietto, osservando l'auto che stava per venirmi addosso. Suonai il clacson, ma la spider non accennava a frenare. Chi era quel matto? Stava forse parlando al cellulare? Possibile che non mi avesse visto? Avevo l'adrenalina a mille, il tempo sembrava essersi fermato. Premetti l'acceleratore e sterzai per infilarmi in un giardino ed evitare di farmi investire. Travolsi una serie di attrezzi da giardino e andai a fermarmi sotto un abete. Innescai la retromarcia e tornai in strada, distruggendo il prato, e partii all'inseguimento del pazzo che, dopo aver cercato di venirmi addosso, si stava dando alla fuga senza controllare i danni che aveva causato. Avevo rischiato di morire.
Cercai di non perdere di vista l'auto rossa e mi avvicinai abbastanza da riconoscerla: era una Porsche. Mi sentivo le guance in fiamme. Ero furibonda. Schiacciai l'acceleratore a tavoletta e la seguii, benché zigzagasse fra le auto, superando più volte la doppia striscia al centro della strada. Avevo già visto quella macchina. Nell'officina di Keith. Era di Dennis Agnew. Feci una ventina di chilometri all'inseguimento della Porsche, su per le alture di San Mateo e lungo El Camino Real, che costeggiava i binari della ferrovia. A un certo punto la Porsche entrò nel parcheggio di un centro commerciale senza mettere la freccia. La seguii sgommando e mi fermai. Il parcheggio era deserto. Spensi il motore e, con il cuore che batteva all'impazzata, mi guardai intorno. Il centro commerciale comprendeva una serie di discount di autoricambi, liquori e cianfrusaglie varie. In fondo alla fila di negozi c'era una costruzione di cemento con un'insegna al neon che diceva PLAYMATE PEN XXX LIVE GIRLS. L'auto di Dennis Agnew era lì davanti. Chiusi la Explorer e mi avviai verso il pornoshop. Aprii la porta e vi entrai. 66 Il Playmate Pen era un posto squallidissimo, con una luce aspra al neon. Sulla sinistra c'erano una serie di gadget colorati, falli e altre parti del corpo in plastica; sulla destra, distributori di snack e bevande. Evidentemente gli amanti dei filmini porno chiusi a masturbarsi dentro i séparé ogni tanto avevano anche bisogno di mangiare e bere. Passai fra gli espositori di videocassette, sentendomi osservata: ero l'unica donna nel negozio. Probabilmente, se fossi stata nuda, avrei dato meno nell'occhio. Stavo per rivolgermi al commesso, quando vidi un'ombra al mio fianco. «Lindsay?» Feci un salto, ma Dennis Agnew sembrava contento di vedermi. «A cosa devo l'onore, tenente?» In quel dedalo di falli di ogni colore e dimensione, pensai che la cosa migliore fosse tirare dritto. L'ufficio di Agnew era piccolo e bene illuminato, ma senza finestre.
L'uomo si sedette dietro una scrivania di formica e mi fece segno di accomodarmi su un divanetto di pelle nera che aveva visto tempi migliori. «Grazie, preferisco stare in piedi», risposi. E rimasi sulla soglia a guardarmi in giro. Alle pareti erano appese foto con dedica a Randy Long di una serie di pin-up seminude e locandine di film porno con Randy Long e le sue partner in pose audaci. Vidi anche alcune istantanee di Agnew con uomini eleganti e sorridenti. Un attimo dopo mi accorsi che fra questi c'erano alcuni delinquenti a me ben noti. Almeno due di essi, nel frattempo, avevano fatto una brutta fine. Impiegai un po' di più, invece, per capire che il giovane Randy Long dalla lunga chioma e Dennis Agnew erano la stessa persona. L'uomo che avevo davanti era un ex attore porno. 67 «Allora, tenente, a cosa devo questa visita?» mi chiese Agnew con un bel sorriso, sistemando le carte sulla sua scrivania e mettendo in ordine una serie di cock ring. «Non so che cosa avessi in mente, ma come minimo rischi il ritiro della patente per guida pericolosa.» «Come sei arrabbiata, Lindsay!» Intrecciò le dita e mi fece un gran sorriso. «Come mai?» «Venti minuti fa a momenti mi mettevi sotto con la tua cavolo di Porsche. Guidi malissimo, lo sai? Hai rischiato di ammazzare qualcuno.» «Mi confondi con qualcun altro», replicò lui scuotendo la testa. «Me ne ricorderei, se fossi stato lì li per metterti sotto, non credi? Dai, ammetti che sei venuta perché avevi voglia di rivedermi...» Ero furibonda. Quell'uomo non era soltanto un pericolo pubblico, ma aveva anche una gran faccia tosta. «Vedi le mie amichette?» mi chiese indicando le modelle seminude. «Sai perché si comportano a questo modo? Si stimano talmente poco che si sentono potenti solo quando si abbassano a fare certe cose agli uomini. Non è ridicolo? Anche tu, però, ti abbassi a venire qui per me. Ti fa sentire potente?» Ero senza parole. «Ma chi ti credi di essere?» Un'altra voce mi interruppe: «Però. Vuoi venire a lavorare qui, bellezza?» Sulla porta dell'ufficio di Agnew c'era un uomo tarchiato, con la giacca
verde che gli tirava sulla pancia prominente. Si appoggiò allo stipite, vicinissimo a me, e mi squadrò dalla testa ai piedi con l'aria da maniaco. Agnew fece le presentazioni: «Rick Monte, il tenente Lindsay Boxer. Della squadra Omicidi di San Francisco. In vacanza, o almeno così dice». «Ti diverti qui a Half Moon Bay, tenente?» chiese Rick guardandomi le tette. «Molto. Sappiate che posso venire qui in veste ufficiale quando voglio.» Nel momento stesso in cui lo dissi, me ne pentii. Che cosa stavo facendo? Non potevo esercitare le mie funzioni, e comunque ero fuori della mia giurisdizione. Avevo inseguito un cittadino con la mia auto privata, da sola. Se quei due deficienti mi avessero denunciato, avrei passato dei guai. Ed era proprio l'ultima cosa al mondo di cui avevo bisogno, prima del processo. «Non ti conoscessi, direi che non stai bene», commentò Agnew con il suo tono viscido. «Non ti ho fatto niente, sai?» «La prossima volta, mantieni le distanze», replicai a denti stretti. «Scusa, sai, ma credo che tu stia facendo confusione: sei stata tu a seguire me, non il contrario.» Stavo per rispondergli per le rime, ma mi trattenni. Non aveva tutti i torti: in realtà, non mi aveva fatto nulla. Non mi aveva nemmeno insultato. Me ne andai, conscia di aver sbagliato ad avventurarmi nel territorio di quel poco di buono. Stavo per uscire dal negozio decisa a dimenticare quel che era successo, quando mi ritrovai davanti un giovane con i capelli lunghi tinti di biondo e alcune fiamme tatuate che gli uscivano dal collo della T-shirt. «Permesso», dissi. Ma quello mi bloccò, allargando le braccia. E mi fece un sorriso di sfida. «Dai, su! Mi chiamo Rocco», disse. «È una mia amica, Rocco, lasciala stare», disse Agnew. «Ti accompagno io, Lindsay.» Feci di nuovo per uscire, ma questa volta fu Agnew a pararmisi davanti. Era talmente vicino che gli vedevo i pori della pelle e i capillari degli occhi. Mi mise in mano una videocassetta. Con le epiche gesta di Randy Long ne La lunga notte. «Guardala, ti piacerà. Il mio numero è sulla copertina.» Lo spinsi da una parte, facendo cadere la cassetta per terra. «Permesso!» Agnew si spostò, lasciandomi aprire. Quando lo superai, vidi che sorri-
deva e si toccava i genitali. 68 La mattina dopo mi svegliai pensando a Dennis Agnew, quel viscido porco. Mi portai il caffè in terrazza e, siccome era troppo caldo, per distrarmi cercai di capire la causa del rumore che faceva ultimamente la Bonneville. Mentre trafficavo con le valvole, arrivò una macchina. Si fermò sul viale davanti alla casa e sentii sbattere le portiere. «Lindsay?» «Lindsay è nascosta nella macchina d'oro», risposi. Tirai fuori la testa da sotto il cofano, mi pulii le mani in uno straccio e abbracciai Cindy e Claire. Ci salutammo fra gridolini e risate e anche Martha, che era lì a sonnecchiare, venne a fare le feste alle mie amiche. «Passavamo di qui e abbiamo pensato di venire a vedere cosa stavi combinando», disse Claire. «Ma cos'è 'sto catorcio? È un pericolo pubblico! Credevo che ormai fossero state messe fuori legge...» «Non parlare male della mia bambina», risposi ridendo. «Va?» «Vola!» Le mie amiche mi porsero un cesto tutto infiocchettato, pieno di creme e bagno schiuma rilassanti, quindi salimmo a bordo della Bonneville per andare a fare un giro. Abbassai i finestrini elettrici e partimmo, con il vento fra i capelli. Girammo un po' per le strade intorno a casa di mia sorella Cat e poi ci dirigemmo verso l'entroterra. Claire mi mostrò una busta. «Stavo per dimenticarmela. Te la manda Jacobi.» Guardai la busta marrone. La sera prima avevo telefonato a Jacobi e gli avevo chiesto di farmi avere tutto quello che riusciva a trovare sul conto di Dennis Agnew, alias Randy Long. Raccontai a Cindy e Claire del mio incontro casuale con il viscido porco al Cormorant e degli scontri che avevamo avuto alla stazione di servizio di Keith e al semaforo, concludendo con una dettagliata descrizione del suo pornoshop. «Che cosa ti ha detto?» esclamò Cindy quando riferii il discorso che mi aveva fatto sulle donne che si abbassano per gli uomini. Cindy era paonazza per l'indignazione. «Quello sì che è un pericolo pubblico!»
Risi e continuai: «Agnew ha l'ufficio tappezzato di foto sue in compagnia di attricette e mafiosi, naturalmente autografate. Uno squallore terrificante. Claire, me l'apri per favore?» Claire estrasse dalla busta tre fogli pinzati assieme. Sul primo, c'era un post-it di Jacobi. «Ti spiace leggere a voce alta?» chiese Cindy, sporgendosi davanti. «Robetta: guida in stato di ebbrezza, denunce per violenza domestica, possesso di sostanze stupefacenti. Una breve pena detentiva a Folsom. Oh, ecco qua qualcosa di interessante: sospettato di omicidio di primo grado cinque anni fa, mai rinviato a giudizio.» Presi l'appunto di Jacobi. «La vittima era la sua ragazza. Il suo avvocato Ralph Brancusi.» Non c'era bisogno di dire altro: sapevamo tutte che Brancusi era un avvocato famoso, che solo i più ricchi potevano permettersi. Ed era l'avvocato della mafia par excellence. 69 Quando tornammo a casa, sul vialetto c'era una macchina della polizia. Stark mi venne incontro. Aveva l'aria cupa come al solito, la fronte aggrottata e uno sguardo sconfortato pericolosamente contagioso. «Che cosa è successo?» chiesi. «Stanno per fare l'autopsia ai Sarducci», mi informò strizzando gli occhi per il sole. «Questo è un invito formale.» Provai un brivido di eccitazione, ma mi guardai bene dal farmene accorgere. Gli presentai Cindy e Claire. «La dottoressa Washburn dirige l'Istituto di medicina legale di San Francisco», gli dissi. «Può venire anche lei?» «Certo, perché no?» grugnì il capo della polizia. «Chiunque ci può dare una mano è il benvenuto. Sto imparando, vero?» Cindy ci guardò, sentendosi esclusa. Chiaramente, l'invito non era esteso anche a lei: in fondo, era una giornalista. «Va bene, io vi aspetto qui. Ho il portatile, mi collego in rete. Certo che mi fate sentire come una lebbrosa...» Claire e io salimmo sulla Bonneville e seguimmo l'auto di Stark. «Sono proprio contenta», dissi, raggiante. «Alla fine, mi ha coinvolto nelle indagini.» «Io invece non sono per niente contenta», disse Claire scuotendo la te-
sta. «Ti sto venendo dietro, pur sapendo che te ne dovresti stare sulla tua bella terrazza con i piedi in alto a prendere il sole e bere gin tonic.» Scoppiai a ridere. «Ammettilo, interessa anche a te», la stuzzicai. «Sei curiosa.» «No, Lindsay», borbottò lei. Poi mi guardò e il mio sorriso la rasserenò. «Non riesco a dirti di no. Ma chi ci rimette sei tu, lo sai, vero?» Dieci minuti dopo, uscimmo dall'autostrada a Moss Beach. 70 I corpi erano nel sotterraneo del Seton Medical Center. La sala settoria era rivestita di piastrelle bianche e profumava di fresco e di pulito come un negozio di alimentari. Si sentiva il ronzio della cella frigorifera. Salutai due inservienti che brontolavano a proposito di orari e burocrazia sistemando gli indumenti delle vittime in sacchetti marroni. Guardai i due tavoli al centro della stanza, dove un altro inserviente stava lavando i corpi con una manichetta. Nel vedermi, chiuse l'acqua. Joseph e Annemarie erano nudi sotto le luci aspre, i loro corpi intatti a parte l'orrenda ferita al collo, i volti lisci come quelli di due bambini. Claire mi chiamò, interrompendo la mia silenziosa comunicazione con i morti. Mi voltai e la mia amica mi presentò un uomo in camice blu e grembiule di plastica, con una cuffia sui capelli grigi. Era magro e curvo e aveva la bocca storta, come se avesse avuto una paresi. «Lindsay, ti presento il dottor Bill Ramos, anatomopatologo. Bill, questa è Lindsay Boxer, tenente della Omicidi di San Francisco. Lindsay pensa che possa esserci un legame fra i recenti omicidi e un suo vecchio caso.» Stavo stringendo la mano a Ramos quando si avvicinò Stark. «Dottore, le dica quel che ha detto a me al telefono.» «Glielo faccio vedere, già che siamo qui», replicò Ramos. Poi, rivolto all'inserviente, disse: «Samir, mi volteresti la donna, per favore? Su un fianco, così vediamo la schiena...» Samir incrociò le caviglie della morta, mentre il dottore la prendeva per il polso sinistro. Insieme, i due uomini girarono il corpo in maniera che restasse su un fianco. Osservai i sette segni giallastri sulle natiche della morta, larghi meno di un dito e lunghi circa sette centimetri. «Colpi sferrati con grandissima forza», disse Ramos. «E tuttavia, si ve-
dono appena. Samir, adesso giriamo lui.» Insieme all'inserviente, voltò sul fianco anche Joseph Sarducci, facendogli ciondolare la testa. «Ecco, guardate», ci disse. «Anche qui. Abrasioni appena visibili, rettangolari, provocate presumibilmente per pressione. Non hanno né la colorazione rosso marrone che avrebbero se gli fossero state procurate da vivo, né quella giallastra che dovrebbero avere se gliele avessero fatte quando era già morto.» Mi guardò, per vedere se avevo capito. «Se mi dà un pugno in faccia e poi mi spara due colpi al petto, non mi verrà il livido che mi verrebbe in condizioni normali, ma l'alterazione di colore ci sarà, perché il cuore per un po' continua a pompare.» Prese il bisturi e praticò un'incisione sui tessuti sani e sulla pelle illividita. «Vede l'ombra marrone sotto l'abrasione? È un accumulo di sangue ben circoscritto. «Lei mi capisce, vero, dottoressa Washburn?» continuò Ramos. «La recisione della carotide e del nervo vago hanno provocato un arresto cardiaco quasi istantaneo. Ripeto, quasi istantaneo. Quest'uomo è stato frustato nella frazione di secondo intercorsa fra il momento in cui è stato sgozzato e il decesso. Probabilmente l'assassino credeva che potesse ancora sentire dolore.» «Se si è accanito così, forse conosceva le sue vittime», disse Stark. «Sì, anch'io penso che gli assassini conoscessero le vittime, e che le detestassero.» Ci fu un attimo di silenzio, in cui meditammo su quelle parole. «I segni sul corpo di lui sono più sottili, rispetto a quelli della donna», osservò Claire. «Già», confermò Ramos. «Provocati da due strumenti diversi.» «Una cintura?» chiesi. «Anzi, due cinture?» «Non ne sono sicuro al cento per cento, ma penso proprio di sì», disse Ramos. Claire era concentrata, ma vidi che era anche triste. «A che cosa stai pensando?» le domandai. «Mi spiace dirlo, Lindsay, ma questo caso mi fa venire in mente quel ragazzo sul cui omicidio indagammo assieme tanti anni fa, quello che non riuscimmo mai a identificare.» 71
Era mezzanotte passata e il Guardone si stava allontanando dalla spiaggia. Sali in cima a una duna di sabbia e seguì il sentiero fra i cespugli e l'erba alta che portava alla strada residenziale. Stava osservando una casa in particolare, quando incespicò in un tronco di traverso sul sentiero e cadde a faccia in giù, sbucciandosi tutte e due le mani. Si rialzò velocemente e si tastò il taschino della giacca: aveva perso la fotocamera. «Merda!» imprecò, frustrato. Si accucciò a quattro zampe e la cercò a tastoni, sudando. Quanto più tempo passava, tanto più disperato si sentiva. Finalmente la ritrovò, con l'obiettivo sulla sabbia. Ci soffiò sopra e la puntò in direzione delle case. Poi avvicinò l'occhio e si accorse che l'obiettivo era tutto graffiato. Che disastro... Imprecando fra sé, guardò l'ora: erano le 00.14. Si avviò verso la casa in cui stava Lindsay Boxer. Visto che l'obiettivo della sua macchina fotografica era rovinato, gli toccava avvicinarsi più del previsto. E a piedi. Scavalcò il guardrail e si fermò sul marciapiede, alla luce di un lampione. La casa di Cat Boxer, due villette più in là, aveva le finestre illuminate. Il Guardone si acquattò nell'ombra e si avvicinò alla casa dal retro, infilandosi nella stradina sterrata che passava sotto le finestre del salotto. Con il cuore che gli batteva all'impazzata, si alzò in piedi e guardò oltre il vetro. C'era tutta la banda: Lindsay, con una maglietta del dipartimento di polizia e pantaloni di felpa, Claire, la dottoressa nera, con un caffettano giallo oro, e Cindy, capelli raccolti e vestaglia di ciniglia sul pigiama rosa. Parlavano animatamente, a volte ridevano, poi tornavano serie. Gli sarebbe piaciuto moltissimo poter sentire quello che si dicevano. Ripensò ai fatti, alle cose che erano successe. Gli venne in mente la sedia della camera del figlio dei Sarducci. Aveva commesso un errore, anche se probabilmente nessuno si sarebbe accorto di niente. Era rischioso continuare? C'erano ancora tante cose da fare... Cominciava a sentire gli effetti dello stress: gli tremavano le mani, aveva
l'acidità di stomaco. Non poteva restare lì ancora a lungo, non ce la faceva... Si guardò intorno controllando che non ci fosse qualcuno fuori con il cane o un sacchetto della spazzatura, scavalcò la siepe e passò rapido sotto il lampione. Poi superò il guardrail e riprese il sentiero buio che portava alla spiaggia. Bisognava prendere una decisione a proposito di Lindsay Boxer. Era una decisione difficile. Anche perché Lindsay Boxer era una poliziotta. 72 La mattina dopo, quando mi svegliai, mi affiorò alla mente un pensiero come una medusa fra le onde. Feci uscire Martha, misi su il caffè e accesi il portatile. Ricordavo che Bob Hinton mi aveva detto che due anni prima a Half Moon Bay erano state uccise altre due persone, Ray e Molly Whittaker. Mi aveva riferito che passavano lì le vacanze estive, che Ray faceva il fotografo e Molly la comparsa a Hollywood. Mi collegai al database dell'FBI e feci alcuni controlli. Poi, scioccata, andai a svegliare le mie amiche. Lasciai loro il tempo di prepararsi e poi, quando furono sedute a tavola con caffè e scones, dissi loro che cosa avevo scoperto sul conto di Ray e Molly Whittaker. «Lavoravano nella pornografia, tutti e due. Ray girava filmini di sua moglie insieme con minorenni, maschi e femmine indifferentemente», spiegai. «Li beccarono e indovinate un po' da chi si fecero rappresentare al processo? Da Brancusi.» Le mie amiche mi conoscevano troppo bene e mi raccomandarono di stare attenta, perché ero a tutti gli effetti fuori servizio e, benché mi potesse sembrare logico controllare se ci fosse un legame fra i Whittaker e Dennis Agnew, dovevo comunque ricordarmi che ero sola, oltre che fuori della mia giurisdizione. Cercai di rassicurarle e, quando ci salutammo davanti a casa, promisi solennemente di non fare stupidaggini. «Comincia a pensare a tornare a casa, Lindsay», mi disse Claire alla fine, tenendomi il viso fra le mani. «Okay. Ti prometto che ci penserò.»
Mi abbracciarono come se stessimo per dirci addio per sempre e la cosa mi turbò un po'. Mentre Claire faceva manovra, Cindy si sporse dal finestrino. «Ti chiamo stasera, Lindsay. Ti prego, pensa a quello che ti abbiamo detto.» Mandai loro un bacio e tornai in casa. Presi la borsetta, che era appesa a una maniglia, e controllai di avere cellulare, tesserino e pistola. Quindi salii sulla Explorer. Ci misi poco ad arrivare in centro e, con la testa piena di pensieri, posteggiai davanti alla stazione di polizia. Trovai il capo nel suo ufficio, davanti al computer, con una tazza di caffè in mano e una scatola di krapfen sulla sedia vicino. «Il fritto fa male», dissi. Lui si limitò a spostare la scatola per farmi sedere. «Meglio morire per il colesterolo alto che per un proiettile in testa. Come mai è qui, tenente?» «Volevo farle vedere questo», dissi a Stark, posandogli i precedenti penali di Dennis Agnew sulla scrivania ingombra di carte. «Ray e Molly Whittaker furono frustati, vero?» «Sì. Furono i primi.» «Sospettavate di qualcuno?» Stark annuì. «Non riuscii a provarlo allora e non sono in grado di farlo nemmeno adesso, ma teniamo d'occhio quest'uomo da parecchio.» Mi restituì il foglio. «Sappiamo già tutto di lui. È il nostro principale sospettato.» 73 Ero in terrazza a guardare il tramonto e strimpellare la mia chitarra, quando vidi arrivare i fari di una macchina, che si fermò proprio davanti alla casa. Mi alzai e vidi aprirsi una portiera davanti e una dietro. «Scommetto che passavi di qui per caso», dissi, con un gran sorriso. «Proprio così», rispose Joe, abbracciandomi. «Volevo farti una sorpresa.» Gli posai la mano sul davanti della camicia perfettamente stirata. «Ti ha chiamato Claire?»
«Sì. E anche Cindy.» Rise, un po' timido. «Ti porto fuori a cena.» «Mmm. E se preparassi qualcosa io?» «Okay.» Joe batté le dita sul tettuccio, e la berlina ripartì. «Vieni qui», disse. Mi abbracciò, mi baciò e ancora una volta mi sorpresi dell'effetto che aveva su di me. I suoi baci mi infiammavano, le sue carezze mi facevano perdere la testa. Nella mia confusione, ebbi un unico pensiero sano: Ci risiamo: un altro breve interludio romantico in una storia che era un ottovolante emotivo. Joe mi prese il viso fra le mani e mi baciò. Mi lasciai andare senza protestare. Entrammo in casa e io chiusi la porta con un calcio. In punta di piedi, gli cinsi il collo e mi lasciai trasportare in camera, dove mi ritrovai sul letto, con Joe che mi toglieva i vestiti cominciando dalle scarpe, baciandomi dappertutto. Mi sentii sciogliere. Gemendo, feci per abbracciarlo, ma era sparito. Aprii gli occhi e vidi che si stava spogliando. Era bellissimo, in splendida forma, abbronzato. Ed era lì per me. Sorrisi, contenta. Fino a cinque minuti prima pensavo di guardare una sfilza di telefilm, ma la serata si stava prospettando assai più interessante. Allargai le braccia e lasciai che Joe si stendesse su di me. «Mi sei mancata, sai?» mi disse. «Me ne parli dopo», risposi, mordicchiandogli il labbro inferiore e cingendogli il bacino con le gambe. Quando uscimmo dalla camera da letto, un'ora più tardi, scalzi e scarmigliati, fuori era buio pesto. Martha batteva la coda, reclamando la sua cena. Le diedi da mangiare e poi preparai un'insalata mista condita con la senape e scagliette di parmigiano, quindi buttai la pasta mentre Joe preparava una salsa di pomodoro con basilico, origano e aglio, che aveva un profumino delizioso. Mangiammo in cucina, raccontandoci che cosa avevamo fatto la settimana prima. Ascoltare Joe era un po' come guardare la CNN: autobombe, infiltrati negli aeroporti, insabbiamenti. Ed era solo il poco che non era coperto dal segreto di Stato... Mentre lavavamo i piatti, feci a Joe un breve resoconto dei miei incontri con Dennis Agnew. Vidi che serrava le labbra. «Okay, fa' finta che non ti abbia detto niente», gli sussurrai, dandogli un bacio sulla fronte e versandogli un altro bicchiere di vino.
«E tu fa' finta che la tua incoscienza non mi faccia arrabbiare. Corri troppi rischi, Lindsay.» Si era forse dimenticato che ero una poliziotta? Capace e professionale, per giunta? La prima a essere promossa tenente nel dipartimento di San Francisco eccetera eccetera? «Che cosa pensi di Cary Grant?» gli domandai. «Ti piace Katharine Hepburn?» Guardammo Susanna, una delle commedie romantiche che preferivo, abbracciati sul divano. Come sempre, quando Cary Grant insegue un terrier con un osso di dinosauro in bocca, scoppiai a ridere. Joe rise con me, tenendomi fra le braccia. «Se mi vedi che faccio lo stesso con Martha, non farmi domande.» Scoppiai a ridere ancora più forte. «Ti amo, Lindsay.» «Anch'io ti amo, Joe.» Quella notte dormii fra le sue braccia pensando che era davvero l'uomo della mia vita. 74 Joe preparò uova strapazzate e pancetta, mentre io riempivo due tazze di caffè. Dalle finestre della cucina entrava un bel sole. Joe mi lesse negli occhi la domanda che volevo fargli. «Mi fermo finché non mi chiamano. Se vuoi, ti aiuto a fare il punto sugli omicidi.» Salimmo in macchina. Joe si mise al volante e Martha mi appoggiò la testa sulle ginocchia. Gli raccontai la storia dei Sarducci mentre passavamo lentamente davanti alla loro casa sul mare. Poi andammo a Crescent Heights e prendemmo lo sterrato tortuoso che portava alla casa dei Daltry. Se una casa può venire devastata da un omicidio, quello era il caso. Sul prato erano cresciute erbacce, porte e finestre erano chiuse con assi inchiodate e tra i cespugli svolazzavano brandelli del nastro giallo con cui vengono isolate le scene dei crimini. «Classe sociale e reddito completamente diversi dai Sarducci» commentò Joe. «Sì. Non credo che questi omicidi siano legati al denaro.» Risalimmo sulla Explorer, scendemmo a valle e dopo pochi minuti im-
boccammo Ocean Colony Road con i suoi campi da golf, dove avevano vissuto ed erano morti gli O'Malley. Avvicinandoci, indicai a Joe la villa di legno bianco con le persiane azzurre: nel giardino c'era un cartello che diceva VENDESI e davanti al portone era parcheggiata una Lincoln. Ci fermammo e dal finestrino vedemmo una donna bionda con un vestito rosa Lilly Pulitzer uscire dalla casa e chiudere a chiave la porta. Ci vide, e un sorriso le illuminò il volto pesantemente truccato. «Salve, sono Emily Harris, della Pacific Homes Real Estate», disse. «Mi dispiace, ma le prossime visite sono in programma per domenica. Non posso farvi vedere la casa adesso, perché ho un appuntamento in centro...» Vide la mia espressione delusa e ci osservò meglio. Probabilmente pensò che fossimo veramente interessati a comprare, perché rettificò: «Se volete, però, posso lasciarvi la porta aperta, così fate un giro da soli. Basta che prima di andarvene vi ricordiate di chiudere e di lasciare la chiave nella cassetta della posta, okay?» Scendemmo dalla macchina e io presi Joe sottobraccio. Con l'aria di due sposini in cerca di una nuova casa, andammo ad aprire il portone della casa degli O'Malley. 75 L'interno della casa era stato ripulito, disinfettato e completamente ridipinto: era stato fatto tutto il necessario, insomma, per ottenere il prezzo più alto possibile da una proprietà non facile da vendere. Mi soffermai un attimo nell'atrio, poi seguii Joe su per lo scalone ricurvo che portava al primo piano. Quando lo raggiunsi nella camera da letto degli O'Malley, vidi che osservava le ante dell'armadio. «Qui c'era un foro, all'altezza degli occhi, vedi? È stato tappato.» Con l'unghia scalfì lo stucco ancora morbido. «Uno spioncino?» «Già», confermò Joe. «Strano, ti pare? A meno che gli O'Malley non si divertissero a girare filmini spinti.» Mi venne in mente Dennis Agnew ed ebbi un attimo di turbamento nel pensare al possibile legame tra le prodezze di Randy Long e gli O'Malley. C'era stata davvero una telecamera nell'armadio? E, nel caso, che cosa voleva dire? Non c'era nulla di illegale nei giochi erotici tra adulti consenzienti, in
fondo. Guardai nell'armadio, spingendo da una parte le grucce di metallo e fermandole con la mano perché smettessero di tintinnare. Fu in quel momento che notai un'altra chiazza di stucco, appena visibile sulla parete di fondo. Premetti con un dito e mi venne il batticuore: c'era un altro spioncino. E attraversava anche il muro! Presi una delle grucce, la distesi fino a ottenere un filo di ferro diritto e lo conficcai nel foro. «Joe, ti dispiace andare a vedere dove spunta questo?» Mi sembrava che quel fil di ferro fosse una cosa viva, mentre aspettavo che Joe lo tirasse dalla parte opposta. Subito dopo tornò annunciando: «Arriva in un'altra camera da letto. Vieni a vedere». La camera adiacente era ancora parzialmente arredata, con letto a baldacchino, toeletta in stile e uno specchio a figura intera con una cornice molto elaborata appeso alla parete. Joe mi indicò il foro, mascherato tra i fiori intagliati nel legno della cornice. «Cazzo, Joe, questa è la camera della figlia! Quei pervertiti spiavano Caitlin? La filmavano?» Mentre tornavamo verso casa, guardavo fuori del finestrino e non riuscivo a smettere di pensare al secondo spioncino. Che razza di persone erano gli O'Malley? Perché filmavano la figlia? Era un vecchio baby monitor, o qualcosa di molto più. sinistro? La mia mente formulò una serie di ipotesi ma, mentre soppesavo le varie possibilità, la domanda a cui tornavo invariabilmente era: tutto questo aveva a che fare con gli omicidi? 76 Era solo mezzogiorno quando arrivammo a casa di Cat. Joe e io andammo nella camera delle mie nipoti, dove appeso al muro c'era un pannello di sughero che volevamo usare per riorganizzare le informazioni raccolte fino a quel punto sugli omicidi. Trovai dei pennarelli, del cartoncino e due piccoli sgabelli di plastica rossa. «Allora, che cosa sappiamo?» chiese Joe fissando con le puntine alcuni fogli gialli sul sughero. «Dalle prove indiziarie i killer sembrerebbero tre. Il medico legale dice
che sono stati usati coltelli e cinghie diversi, e questo avvalora la mia tesi che gli assassini siano più. d'uno. Purtroppo, però, non abbiamo altro. Non c'è un capello, una fibra, un'impronta, una briciola di DNA. È come indagare su un delitto commesso negli anni '40. La Scientifica questa volta non ci può essere di aiuto.» «Che cos'hanno in comune questi omicidi? Hai notato caratteristiche ricorrenti?» «Nessuna che mi sia balzata all'occhio», risposi. «Stark dice che le vittime erano tutte sposate, ma questo non vuol dire un corno, visto che l'ottanta per cento della popolazione da queste parti è sposato.» Joe scrisse in stampatello sui fogli i nomi delle vittime. «Continua.» «Avevano tutte dei figli, tranne gli Whittaker. Gli Whittaker giravano film porno con minori. Caitlin O'Malley potrebbe essere stata una delle loro vittime, chissà. Ma le mie sono solo speculazioni. Il fatto che ci sia di mezzo la pornografia mi fa pensare a un nesso con il mercato della pornografia locale e con la criminalità organizzata ma, di nuovo, si tratta di pure speculazioni. Infine, il mio CNI24 non corrisponde al profilo delle altre vittime.» «Forse il primo omicidio è stato passionale e i successivi sono stati premeditati», suggerì Joe. «Mah...» borbottai. Mi cadde l'occhio sul davanzale, dove c'erano alcune patate dolci che crescevano rigogliose in barattoli di vetro. «Sì, è plausibile. Forse CNI24 è stato ucciso in un impeto di passione. Poi l'assassino - o gli assassini - per un po' non hanno più ucciso. Certo, le caratteristiche sono le stesse. Ma qual è il movente?» «Difficile a dirsi. Prova a riassumermi tutta la storia.» «Abbiamo otto omicidi commessi nel raggio di una quindicina di chilometri. Tutte le vittime sono state sgozzate, tranne Lorelei O'Malley, che è stata accoltellata al ventre. Tutte, più il mio cadavere non identificato, sono state frustate. Movente sconosciuto. E il principale sospettato è un ex pornoattore, un viscido porco.» «Farò qualche telefonata», disse Joe. 77 Quando Joe ebbe finito di parlare con l'FBI, presi l'evidenziatore e ascoltai il suo riassunto.
«Nessuna delle vittime è nota all'FBI: nessun precedente penale, nessun cambiamento di nome, nessun legame con Dennis Agnew. Quanto ai suoi amici del Playmate Pen, Ricardo Montefiore, vulgo Rick Monte, è stato condannato per sfruttamento della prostituzione, atti osceni in luogo pubblico e aggressione. Rocco Benuto, il buttafuori del pornoshop, è un pesce piccolo. Ha precedenti per detenzione di stupefacenti e furto con scasso. In un negozio nel New Jersey, quando aveva diciannove anni, senza armi.» «Nessuno dei due ha il profilo tipico del serial killer.» Joe annuì e riprese: «Tutti e tre risultano legati a mafiosi di basso o medio calibro. Pare procurino ragazze per i loro festini. Di Dennis Agnew sappiamo che nel 2000 fu sospettato di omicidio, ma non fu rinviato a giudizio». «E si fece rappresentare dall'avvocato Ralph Brancusi.» Di nuovo Joe approvò con un cenno del capo. «La presunta vittima era un'attricetta porno di Urbana, nell'Illinois. Ventenne, eroinomane, fermata varie volte per prostituzione. Aveva una relazione con Agnew e improvvisamente sparì nel nulla.» «Nel nulla? E non è mai più stata ritrovata?» «Esatto, Lindsay.» «Quindi non sappiamo se fu sgozzata.» «No.» Appoggiai il mento sulle mani. Era frustrante trovarsi così vicino al cuore di quella vicenda horror e non avere uno straccio di pista da seguire. Una cosa era certa, però: l'intervallo tra un omicidio e l'altro si stava accorciando. Erano passati dieci anni dalla morte di CNI24, due dall'omicidio dei Whittaker e un mese e mezzo da quello dei Daltry. Poi, nell'arco di una settimana, erano state uccise altre quattro persone. Joe si sedette sullo sgabello accanto al mio, mi prese la mano e studiò con me gli appunti raccolti sulla bacheca di sughero. Quando parlai, mi parve che la mia voce rimbombasse nella stanzetta. «Stanno stringendo i tempi, Joe. Stanno pianificando un altro colpo in questo preciso momento.» «Come fai a esserne così sicura?» «Lo so. Me lo sento.» 78 Fui svegliata dal telefono che suonava sul comodino. Risposi al secondo
squillo e mi resi conto che Joe se n'era andato: sulla sedia dove la sera prima aveva appeso i suoi vestiti c'era un biglietto. «Joe?» «Sono Yuki, Lindsay. Ti ho svegliato?» «No, no, ero sveglia», mentii. Mi parlò per cinque minuti, a raffica come sempre, e quando misi giù decisi che non sarei più riuscita a riaddormentarmi. Lessi il biglietto molto affettuoso che mi aveva lasciato Joe, mi infilai una tuta, misi il guinzaglio a Martha e andai a correre sulla spiaggia con lei. Dal mare soffiava una brezza tesa e pulita. Ci incamminammo verso nord e, fatta poca strada, mi sentii chiamare per nome. Vidi una bambina che correva sulla sabbia verso di me. «Lindsay! Lindsay!» «Allison! Ciao, tesoro!» La figlia di Carolee mi abbracciò, poi si chinò per salutare Martha. «Ali, sei sola?» «Stiamo facendo una gita», mi rispose indicando un gruppo di persone e di ombrelloni in lontananza. Avvicinandomi, sentii cantare la canzone di Survivor e vidi Carolee che mi veniva incontro. Ci baciammo e Carolee mi presentò i suoi «figli». «Come si chiama il tuo bastardino?» mi domandò un bambino di undici o dodici anni con i capelli arruffati e pieni di sabbia. «Non è un bastardino. Si chiama Martha ed è un border collie.» «Non assomiglia a Lassie, però», disse una bambina con i ricci biondissimi e un occhio nero. «No. I border collie sono una razza diversa da quella di Lassie. Vengono dall'Inghilterra e dalla Scozia e sono cani da lavoro. Da pastore, per la precisione: radunano pecore e mucche nei pascoli.» A quel punto mi ero conquistata l'attenzione di tutti e Martha mi guardava come se avesse capito che parlavo di lei. «Bisogna insegnare loro a rispondere ai comandi, naturalmente, ma sono animali molto intelligenti. Prendono sul serio il loro lavoro e si sentono responsabili del gregge o della mandria che viene loro affidata.» «Ci fai vedere? Dai, Lindsay, mostraci che cosa sa fare Martha!» esclamò Allison. Sorrisi e domandai: «Chi vuole fare la pecora?» I bambini ridacchiarono, ma ben quattro, più. Allison, si offrirono volontari. Dissi loro di sparpagliarsi e correre per la spiaggia, poi liberai Martha.
«Martha, riportali», le dissi. Il mio cane corse verso i bambini, che gridavano e cercavano invano di sfuggirle: Martha era agile e veloce e quando si mise ad abbaiare a testa bassa ai loro piedi, i ragazzini si radunarono e corsero avanti in formazione piuttosto compatta. «Qui», gridai e Martha spinse i bambini, in cerchio, verso la riva. «Via!» ordinai allora e lei li fece tornare verso gli scogli. I bambini ridevano felici. «Ora basta», gridai e il mio bel cane bianco e nero li tenne radunati correndo loro intorno, spingendoli poco alla volta verso gli ombrelloni. «Ferma, Martha», ordinai. «Brava. Bravissima.» Martha abbaiò soddisfatta e mi venne vicino, mentre i bambini battevano le mani e acclamavano. Carolee distribuì bicchieri di succo di arancia e ci fu un brindisi collettivo in nostro onore. Dopo, quando l'attenzione si spostò altrove, presi in disparte Carolee e le raccontai quel che mi aveva detto Yuki. «Ho bisogno di un favore», le dissi. «Non hai che da chiedere», rispose. Poi aggiunse: «Sai, Lindsay, saresti una madre eccezionale». 79 Pochi minuti dopo aver salutato Carolee Brown e i ragazzi, Martha e io ci arrampicammo sulla scogliera e attraversammo il prato che separava Miramonte Street dalla spiaggia. Avevo fatto solo qualche passo sul marciapiede quando vidi un uomo a un centinaio di metri di distanza che puntava nella mia direzione una piccola macchina fotografica. Era così lontano che riuscii a distinguere soltanto il luccichio dell'obiettivo, il fatto che portava una felpa arancione e un berretto da baseball calato sugli occhi. Non riuscii ad avvicinarmi: appena capì che l'avevo notato, si voltò e si allontanò a passo svelto. Forse stava solo scattando foto del panorama, o forse era un paparazzo che finalmente era riuscito a trovarmi. Oppure quella che mi sentivo salire dentro era paranoia, fatto sta che mi avviai verso casa in preda a un certo disagio. Qualcuno mi osservava di nascosto. Qualcuno che non voleva essere visto. Tornata a casa, disfeci il letto e preparai la valigia. Poi diedi da mangiare a Penelope e le cambiai l'acqua nella scodella. «Buone notizie», dissi allo straordinario suino. «Carolee e Allison hanno
promesso di passare a trovarti. Prevedo che mangerai ottime mele, mia cara.» Misi il biglietto di Joe nella borsetta e, dopo essermi data un'ultima occhiata in giro, mi avviai verso la porta. «Si torna a casa», dissi a Martha. Salimmo sulla Explorer e partimmo per San Francisco. 80 Quella sera alle sette mi presentai da Indigo, un ristorante appena aperto in McAllister Street, poco lontano dal tribunale, particolare che rischiava di togliermi l'appetito. Attraversai la zona bar, con il soffitto basso e le pareti interamente rivestite di legno, ed entrai nella sala. Il maitre controllò la mia prenotazione e mi accompagnò verso un divanetto di velluto azzurro dove Yuki mi aspettava sfogliando delle carte. Il mio avvocato si alzò per salutarmi e, mentre ci baciavamo, mi resi conto che ero contenta di vederla. «Come va, Lindsay?» «Benissimo, a parte quando mi ricordo che lunedi comincia il processo.» «Vinceremo», mi disse. «Non ti preoccupare.» «Purtroppo non riesco a farne a meno», replicai. Mi sforzai di sorridere, ma ero più scossa di quanto volessi lasciar trapelare. Mickey Sherman aveva convinto le alte sfere che sarebbe stato meglio per tutti se fossi stata rappresentata da una donna e che Yuki Castellano era «l'ideale per quel genere di problema». Avrei voluto esserne altrettanto sicura... Benché ci fossimo date appuntamento alla fine di quella che per lei era stata una lunga giornata di lavoro, Yuki sembrava fresca come una rosa, in forma e, soprattutto, giovane. Mentre ordinavo la cena insieme alla mia avvocatessa ventottenne, strinsi istintivamente il mio Kokopelli. «Allora, che cosa mi sono persa mentre ero fuori città?» chiesi. Spinsi da una parte la spigola con purea di pastinaca, specialità dello chef Larry Piaskowy, e mangiai svogliatamente l'insalata di finocchi con pinoli e carote condita da una vinaigrette al dragoncello. «Sono contenta che tu sia stata via, Lindsay, perché durante la tua assenza i pescecani si sono scatenati», rispose Yuki. Notai che mi guardava dritto negli occhi, ma che muoveva nervosamente le mani. «Articoli e interviste ai genitori indignati ovunque, ventiquattr'ore su
ventiquattro... Hai visto Saturday Night Live!» «Non lo guardo mai.» «Be', per tua informazione, hanno fatto uno sketch con te nei panni dell'ispettrice Callaghan.» «Sarà stato uno spasso», commentai con una smorfia. «E questo è niente», continuò Yuki, attorcigliandosi un ciuffo di capelli su un dito. «Il giudice Achacoso ha autorizzato le riprese TV dal vivo in aula. E ho appena ricevuto l'elenco dei testimoni di Broyles: ci sarà anche Sam Cabot.» «Be', questo va bene, no? Ha ammesso di aver ammazzato quei ragazzi. Possiamo usare la sua confessione.» «Purtroppo no, Lindsay. I suoi avvocati l'hanno fatta invalidare in quanto non erano presenti i genitori.» Yuki vide la mia faccia sgomenta e mi prese le mani, senza dubbio per rassicurarmi. Disse: «Senti, non sappiamo che cosa dirà Sam Cabot, ma io lo sbugiarderò, te lo prometto. Anche senza usare la sua confessione. E la tua parola contro la sua, e lui è un tredicenne, mentre tu sei una poliziotta. Anche se avevi alzato un po' il gomito...» «Come fai a dirmi di non preoccuparmi?» «Te lo dico perché credo che la verità alla fine trionfi sempre. Le giurie sono composte da esseri umani e la maggior parte degli esseri umani almeno una volta nella vita si ubriaca. Sono convinta che ti riconosceranno il diritto di farti un aperitivo anche tu. Anzi, se lo aspettano. Volevi aiutare quei due ragazzi, Lindsay. Nessuno può darti addosso per questo.» 81 «Non dimenticare che sei sotto processo dal momento in cui entri in tribunale», mi disse Yuki mentre camminavamo insieme nell'aria fresca della sera. Entrammo nell'Opera Plaza Garage di Van Ness Avenue e con l'ascensore scendemmo al piano in cui aveva lasciato la sua Acura due porte beige. Poco dopo imboccammo Golden Gate Avenue in direzione est per andare nel mio bar preferito, anche se per quella sera avevo intenzione di non bere nulla di più forte di una Coca-Cola, per sicurezza. «Vieni con un'auto il più anonima possibile: niente macchine da poliziotto, niente fuoristrada ultimo modello o roba del genere.» «Ho una Ford Explorer che ho comprato quattro anni fa. Con una portie-
ra ammaccata. Che ne dici?» «Perfetto!» esclamò ridendo Yuki. «E vestiti come all'udienza preliminare. Tailleur scuro, spillino del dipartimento di polizia sul risvolto della giacca, niente gioielli. Quando i giornalisti ti assedieranno, puoi sorridere educatamente, ma non devi rispondere a nessuna domanda. Mi raccomando.» «Lascio parlare te.» «Esatto», disse fermando la macchina davanti a Susie's. Entrando nel locale provai un moto di felicità. La band di calipso aveva messo di buonumore i clienti del ristorante e Susie in persona, con un sarong rosa shocking, ballava il limbo al centro della pista. Le mie due migliori amiche si sbracciarono per invitarci a raggiungerle nel «nostro» séparé. Feci le presentazioni: «Claire Washburn, Yuki Castellano; Yuki, Cindy Thomas». Le ragazze strinsero la mano a Yuki. Lessi loro in faccia che erano preoccupate quanto me per la prova che mi aspettava. Nel porgere la mano a Yuki, Claire disse: «Sono amica di Lindsay ma non c'è bisogno che te lo dica - sono anche una teste dell'accusa». Cindy, con la faccia seria, disse: «Io lavoro per il Chronicle e sarò davanti al tribunale a gridare domande indiscrete». «E la farai a pezzi nei tuoi articoli, se se lo meriterà», concluse per lei Yuki. «Certamente.» «Mi batterò per la vostra amica con tutta me stessa, ragazze», disse Yuki. «Sarà una lotta dura, certo, ma vinceremo.» Come se sapessimo già che sarebbe andata a finire bene, mettemmo una sopra l'altra le nostre otto mani al centro del tavolo. «Mi raccomando, ragazze», dissi. Mi faceva piacere ridere un po', finalmente, e mi rallegrai nel vedere che Yuki si toglieva la giacca e Claire versava margarita per tutti, tranne che per me. «È la prima volta che lo assaggio in vita mia», disse Yuki con aria dubbiosa. «Non è mai troppo tardi. Ma bevi piano, d'accordo?» le disse Claire. Poi aggiunse: «Ma raccontaci di te. Dicci tutto, fin dall'inizio». «Okay. Per prima cosa: dove ho preso questo strano nome?» esordì Yuki leccandosi il sale dal labbro superiore. «Dovete sapere che giapponesi e italiani sono totalmente opposti. A cominciare dalla cucina: calamari crudi
e riso contro linguine ai frutti di mare.» Scoppiò in una risata squillante. «Mia madre era una giapponesina timida timida, mio padre un italoamericano grande, grosso e passionale. Si conobbero a una festa studentesca e fu amore a prima vista», ci raccontò Yuki parlando nel suo solito modo spiritoso, velocissimo. «Mio padre le disse: 'Sposiamoci, finché siamo innamorati'. Così, circa tre settimane dopo, convolarono a nozze. E io arrivai puntualissima nove mesi dopo.» Yuki ci spiegò che c'erano molti pregiudizi contro i «mezzosangue» in Giappone, un Paese ancora molto conservatore, e che la sua famiglia si era trasferita in California quando lei aveva solo sei anni. Ma ricordava ancora bene le prese in giro dei compagni di scuola perché era di razza mista. «Ho deciso che da grande volevo fare l'avvocato appena ho avuto l'età per capire Perry Mason in TV», raccontò con gli occhi che brillavano. «Mi sono laureata in legge alla Boalt Hall con il massimo dei voti e ho fatto una carriera lampo allo studio Duffy & Rogers. Credetemi, non lo dico per vantarmi, ma solo per vostra informazione: sono convinta che la performance delle persone dipenda moltissimo dalle motivazioni. E io ho sempre avuto bisogno di dimostrare a me stessa che valevo. Per questo ho sempre cercato di dare il massimo. Quanto a Lindsay, amica di lunga data per voi e nuova per me, sono profondamente convinta che sia innocente. E intendo dimostrarlo.» 82 Nonostante tutti gli avvertimenti di Yuki sull'invadenza dei media, il giorno dopo rimasi scioccata, quando vidi la ressa nella Civic Center Plaza. In Polk Street c'erano furgoni con antenne satellitari e la folla, piuttosto ostile e in continuo movimento, bloccava il traffico diretto verso il municipio e il tribunale. Lasciai la macchina nel garage di Van Ness Avenue, a tre isolati di distanza, e mi avviai a piedi sperando di passare inosservata. Ma non ci riuscii. Qualcuno mi riconobbe, i giornalisti accorsero in massa e mi circondarono, armati di microfoni e macchine fotografiche, gridandomi domande incomprensibili a cui comunque non avrei potuto rispondere. Le accuse di brutalità, gli sfottò, le urla della gente mi riempirono di angoscia e di confusione. Lavoravo in polizia con coscienza, per la miseria. Com'era possibile che la gente che avevo giurato di servire mi si rivoltasse contro in quel modo?
Carlos Vega di KRON-TV imperversava con il suo sketch sull'ispettrice Callaghan. Era un ometto piccolo, fanatico, famoso per le sue interviste in apparenza molto cortesi, ma che in realtà stritolavano il suo interlocutore. Lo conoscevo - mi aveva intervistato altre volte in passato - e quando mi chiese se ce l'avevo con i Cabot per avermi trascinato in tribunale, mi trattenni a stento. Stavo per dargli una rispostaccia sconsiderata che sarebbe senza dubbio finita in apertura a tutti i telegiornali della sera, quando qualcuno mi prese per un gomito e mi tirò via. Cercai di divincolarmi, finché non vidi che a tirarmi per un braccio era un collega amico, in divisa. «Conklin!» esclamai. «Grazie.» «Vieni con me, Lindsay», disse lui guidandomi tra la folla verso uno degli sbarramenti eretti dalla polizia per delimitare l'ingresso al tribunale. Commossa, passai tra i colleghi che mi stringevano la mano, aiutandomi a farmi largo nella ressa. «Gli dia una lezione, tenente.» «Tieni duro, Lindsay.» Individuai Yuki tra la gente sulle scale antistanti il tribunale e andai dritta verso di lei, che mi prese in consegna dall'agente Conklin. Spingemmo con tutte le nostre forze la pesantissima porta a vetri del tribunale, salimmo le scale di marmo e un attimo dopo entrammo nell'imponente aula del primo piano, dalle pareti interamente rivestite di legno. Varie teste si girarono a guardarci. Mi aggiustai il colletto appena stirato, mi passai una mano fra i capelli e insieme con Yuki avanzai sulla moquette fino al tavolo della difesa, di fronte allo scranno del giudice. In quegli ultimi minuti avevo ripreso un certo contegno esteriore, ma dentro di me ribollivo di rabbia. Come avevo fatto a finire in quel pasticcio? 83 Yuki rimase da una parte mentre io mi infilavo al mio posto dietro al tavolo, accanto a Mickey Sherman che, capelli argentei e grande eloquenza, mi strinse la mano accennando ad alzarsi educatamente. «Come va, Lindsay? Ti vedo in forma. Tutto okay?» «Mai stata così bene», ribattei scherzando. Ma sapevamo tutti e due che solo un pazzo si sarebbe sentito bene nei miei panni. La mia carriera era in pericolo e, se la giuria si fosse pronun-
ciata contro di me, anche la mia vita ne sarebbe uscita distrutta. Il dottor Andrew Cabot e la moglie avevano chiesto un risarcimento di 50 milioni di dollari, 49,99 dei quali sarebbero stati versati dal Comune di San Francisco, ma per le mie finanze sarebbe stata comunque la rovina, a parte il fatto che con tutta probabilità il nomignolo di ispettore Callaghan mi sarebbe rimasto appiccicato per sempre. Mentre Yuki si sedeva accanto a me, Tracchio allungò una mano oltre la balaustra e mi diede una leggera pacca di incoraggiamento su una spalla. Non mi aspettavo un gesto del genere dal capo della polizia e rimasi commossa. Poi nell'aula si levò un brusio: stava entrando la «squadra» dei ricorrenti. Gli avvocati presero posto di fronte a noi e, poco dopo, anche i signori Cabot entrarono e si sedettero dietro di loro. Il dottor Cabot, magrissimo, e la moglie, bionda e visibilmente addolorata, si misero subito a fissarmi. Si vedeva che Andrew Cabot tratteneva a stento l'ira e la disperazione ed Eva Cabot era il ritratto dello sconforto. Aveva perso in maniera inspiegabile la figlia per causa mia e, sempre per causa mia, si ritrovava il figlio invalido. Quando rivolse verso di me gli occhi grigi, arrossati di lacrime, vi lessi una furia senza fine. Eva Cabot mi odiava. Mi voleva morta. Yuki mi posò una mano fresca sul polso per richiamare la mia attenzione, ma ormai lo scambio di occhiate tra me e la signora Cabot era stato immortalato dalle telecamere. «Tutti in piedi!» ordinò l'usciere. Si udì un gran fruscio e tutti si alzarono mentre il giudice Achacoso, una donna piccola e occhialuta, si dirigeva verso il suo scranno. Frastornata, mi lasciai ricadere sulla sedia. Il grande momento era giunto. Il mio processo stava per cominciare. 84 La selezione della giuria richiese quasi tre giorni. Alla fine della prima giornata, siccome non reggevo più né lo squillare incessante del telefono né la ressa dei giornalisti davanti a casa, feci le valigie e mi trasferii insieme con Martha a casa di Yuki, un appartamento con due camere da letto in un condominio dotato di un ottimo servizio di sorveglianza, il Crest Royal.
L'assedio dei media si fece più serrato e incalzante a mano a mano che passavano i giorni. La stampa alimentava la curiosità morbosa della gente riferendo con dovizia di particolari il background etnico e socioeconomico di tutti i giurati che venivano scelti, naturalmente accusandoci di fare discriminazioni razziali. In realtà io ero disgustata dallo spettacolo offerto da entrambe le parti, che sceglievano o scartavano potenziali giurati in base ai pregiudizi, reali o immaginari, che potevano avere contro di me. Quando i miei avvocati respinsero quattro candidati neri e latino-americani uno dietro l'altro, alla pausa successiva ne parlai con Yuki. «Non hai raccontato, proprio l'altra sera, quanto è brutto sentirsi discriminati per via della razza cui si appartiene?» «Non è un problema di razza, Lindsay. I giurati che abbiamo escluso erano tutti prevenuti nei confronti della polizia. Spesso la gente non si rende conto di avere un sacco di pregiudizi, finché non gli fai le domande giuste. A volte, in un processo molto pubblicizzato come questo, c'è chi mente solo per avere il proprio quarto d'ora di fama. Stiamo semplicemente esercitando il nostro diritto di scegliere i giurati. Fidati di noi, ti prego. Dobbiamo giocare duro, se non vogliamo perdere in partenza.» Quello stesso giorno, la parte avversa ricorse per ben tre volte alla ricusazione perentoria per escludere dalla giuria due funzionarie pubbliche bianche, di mezza età - due donne che forse mi avrebbero giudicato benevolmente, considerandomi un po' come una figlia - e un vigile del fuoco di nome McGoey che con tutta probabilità non mi avrebbe crocifissa neppure se avessi bevuto tre litri di margarita al giorno. Alla fine, pur non essendo del tutto soddisfatte, le due parti accettarono i dodici giurati e i tre sostituti selezionati e, alle due del pomeriggio del terzo giorno, Mason Broyles si alzò per l'esposizione introduttiva. Nemmeno nel peggiore degli incubi avrei potuto immaginare in che modo quell'essere ignobile avrebbe presentato le accuse dei Cabot contro di me. 85 Mason Broyles aveva l'aria fresca e riposata e indossava un completo blu di Armani di taglio classico, una camicia azzurra perfettamente stirata e intonata al colore degli occhi. Si alzò e, senza bisogno di leggere, si rivolse alla corte e alla giuria. «Vostro onore, signore e signori della giuria, per capire che cosa accad-
de la sera del 10 maggio, dovete entrare nella mente di due adolescenti. I genitori non erano in casa. I ragazzini trovarono le chiavi della Mercedes nuova del padre e decisero di andare a fare un giro. Non avrebbero dovuto, certo, ma Sara aveva quindici anni e Sam solo tredici.» Broyles si voltò dalla giuria ai suoi clienti, come a dire: «Guardate questi due genitori in lutto. Guardate come sono ridotti, a causa della violenza della polizia». Poi si rivolse nuovamente ai giurati e continuò la sua esposizione dei fatti. «Sara Cabot si mise al volante e andò con il fratello nel Tenderloin District, un quartiere malfamato con un alto tasso di criminalità. A un certo punto, dal nulla, spuntò un'altra macchina che cominciò a inseguirli. Sam Cabot vi racconterà nel corso del processo che sia lui sia la sorella rimasero atterriti, quando videro l'auto della polizia che li inseguiva a sirene spiegate, con i lampeggianti che illuminavano le strade come fari stroboscopici di una discoteca infernale. Se Sara Cabot fosse ancora con noi, potrebbe raccontarci del panico che la colse nel vedere l'auto che la inseguiva, della paura che la spinse ad accelerare ancora di più, fino a perdere il controllo del volante e uscire di strada. Ci direbbe che, quando si rese conto che a inseguirla era la polizia, la sua paura crebbe ulteriormente perché non aveva la patente, non si era fermata al loro segnale e aveva distrutto la macchina del padre. E perché il fratello minore era rimasto ferito nell'incidente. E anche perché i poliziotti erano armati. Ma Sara Cabot, che a scuola era due anni avanti, aveva un quoziente di intelligenza di centosessanta e una vita ricca di promesse davanti a sé, non può più dirci nulla. È morta. Ed è morta perché il tenente Lindsay Boxer le ha sparato due colpi al cuore commettendo un madornale errore di giudizio. Il tenente Boxer ha sparato anche a Sam Cabot, un tredicenne sveglio, simpatico a tutti, capitano della squadra di calcio della sua scuola, campione di nuoto, atleta dalle doti straordinarie. Che non giocherà mai più. a pallone, non nuoterà più. e non potrà più neppure vestirsi o lavarsi da solo. Che avrà bisogno di qualcuno anche per mangiare e sfogliare un libro.» Nell'aula si levarono esclamazioni soffocate di sgomento, davanti al tragico quadro dipinto da Broyles. L'avvocato si zittì di colpo e si fermò. Il tempo parve fermarsi con lui, in una sorta di bolla in cui realtà e verità restavano sospese. Era una tecnica che Broyles aveva perfezionato nel corso di anni di esperienza. Si infilò le mani in tasca, rivelando le bretelle blu sotto la giacca, e si
guardò la punta delle scarpe nere, lucidissime, come se anche lui stesse meditando sulla tragedia spaventosa che aveva appena descritto. Sembrava quasi che stesse pregando, cosa che ero sicura non fosse uso fare. Non potei fare altro che starmene lì seduta, in silenzio, con lo sguardo fisso sul viso impassibile del giudice, finché Broyles non ruppe l'incantesimo alzando la testa e guardando verso i banchi della giuria. Preparata così l'atmosfera per la sparata finale, riprese la parola velocemente, con veemenza. «Signore e signori, ascolterete testimoni che vi diranno che il tenente Boxer non era in servizio la notte dell'incidente e aveva bevuto. E ciononostante decise di salire su una volante e usare una pistola. Vi diranno anche che Sara e Sam Cabot erano armati. Il fatto è che il tenente Boxer avrebbe dovuto avere abbastanza sale in zucca da riuscire a disarmare due bambini spaventati, ma quella notte violò tutte le norme del regolamento di polizia. Tutte. Per questo è responsabile della morte di Sara Cabot, una ragazza la cui vita piena di promesse è stata stroncata in un solo, tragico attimo. Ed è responsabile anche delle lesioni che hanno fatto di Sam Cabot un invalido. Vi chiediamo, dopo aver ascoltato le testimonianze, di dichiarare il tenente Lindsay Boxer colpevole di omicidio colposo ai danni di Sara Cabot e di tentato omicidio ai danni di Sam Cabot. Chiediamo inoltre che sia riconosciuto a Sam Cabot un indennizzo di cinquanta milioni di dollari per coprire le spese mediche che dovrà affrontare per il resto della sua vita e per rimediare al dolore e alle sofferenze sue e dei suoi familiari. E cento milioni di dollari a titolo di risarcimento esemplare, per mandare un chiaro monito alle forze di polizia di questa città e di tutte le altre città degli Stati Uniti, affinché capiscano che comportamenti del genere sono inammissibili. Non si pattugliano le strade delle nostre città quando si è ubriachi.» 86 Quando sentii descrivere quel miserabile psicopatico senza cuore di Sam Cabot come un campione mancato, mi venne quasi da vomitare. Campione di nuoto? pensai. Capitano della squadra di calcio? Quello era un assassino, altroché! Aveva ucciso due ragazzi e sparato a Jacobi! Mi sforzai di mantenere un'espressione neutrale, quando Yuki si alzò e prese la parola.
«La sera di venerdì 10 maggio il tenente Boxer era reduce da una settimana molto pesante», esordì con la sua voce dolce e melodiosa che riecheggiava in tutta l'aula. «Stava indagando sulla morte di due ragazzi brutalmente uccisi nel Tenderloin District ed era turbata dalla mancanza di indizi e prove.» Yuki andò verso i banchi della giuria e, facendo scorrere una mano sulla balaustra, guardò uno per uno i giurati, che la seguirono con lo sguardo. Sembravano pendere dalle labbra della giovane avvocatessa dal viso tondo e dai begli occhi castani. «In quanto responsabile della squadra Omicidi del dipartimento di polizia di San Francisco, il tenente Boxer coordina le indagini su tutti gli omicidi che si verificano in città. Si stava dedicando in modo particolare ai due assassini del Tenderloin District, preoccupata per via della giovane età delle vittime, ancora adolescenti. La sera del 10 maggio, alla fine del suo turno, stava prendendo l'aperitivo con alcune amiche quando ricevette una telefonata dell'ispettore Warren Jacobi. L'ispettore Jacobi ha lavorato a lungo in coppia con il tenente Boxer, prima che questa venisse promossa, e continua a coadiuvarla nelle indagini più difficili. In quel periodo, erano tutti e due concentrati sugli omicidi del Tenderloin District. Quando verrà a testimoniare, l'ispettore Jacobi ci spiegherà che telefonò al tenente Boxer per avvertirla che la Mercedes-Benz che era stata vista nelle vicinanze di entrambi gli omicidi - l'unica pista che avevano - era stata notata di nuovo a sud di Market Street. Molti, nei panni del tenente Boxer, avrebbero risposto: 'Scordatelo, non sono in servizio e non ho voglia di passare la notte su una volante'. Invece il tenente Boxer prende a cuore i suoi casi e voleva fermare il serial killer. Quando salì in macchina, disse subito all'ispettore Jacobi che aveva bevuto, ma che era perfettamente lucida. Signore e signori, l'accusa farà ampio uso della parola 'ubriachezza'. Ma si tratta di una distorsione dei fatti.» «Obiezione, vostro onore. È un'affermazione discutibile.» «Obiezione respinta. Si sieda, per favore, avvocato Broyles.» Yuki, mettendosi di fronte ai giurati, riprese: «Il tenente aveva bevuto soltanto due aperitivi. Non era ubriaca, non barcollava, non aveva la voce impastata, non straparlava, non sragionava. E non si mise al volante. I drink che aveva bevuto non ebbero influenza alcuna sugli eventi che si verificarono quella notte. Siete di fronte a un funzionario di polizia accusato di aver sparato brutalmente a una ragazzina con l'arma d'ordinanza, ma ricordate che il tenente Boxer non era l'unica persona ad avere una pistola in
pugno, quella sera». Yuki fece con le dita il segno che significa universalmente «virgolette» e aggiunse: «Non solo le 'vittime' erano armate, ma spararono per prime. E con l'intenzione di uccidere». 87 Mason Broyles balzò in piedi, furioso. «Obiezione, vostro onore. Questo non è un processo a Sara e Sam Cabot, ma al tenente Boxer. È scandaloso gettare fango in questo modo su due ragazzini.» «La mia assistita non avrebbe dovuto essere neppure processata» ribatté Yuki. «Non ha commesso nessun reato. Nessuno. È qui perché i signori Cabot hanno vissuto una tragedia e pensano di poter alleviare la loro sofiferenza dandone la colpa a qualcun altro.» «Obiezione, vostro onore! Queste sono pure speculazioni!» «Obiezione accolta. Avvocato Castellano, la prego di riservare le sue ipotesi all'arringa finale.» «Sì, vostro onore. Chiedo scusa.» Yuki si avvicinò al tavolo e consultò i propri appunti, poi si voltò e riprese come se non fosse stata neppure interrotta. «La sera in questione, i due figli modello dei signori Cabot sfuggirono alla polizia viaggiando a oltre centoventi chilometri all'ora su strade affollate, senza il minimo riguardo per la sicurezza propria e altrui, e questo è un reato. Erano armati, e questo è un altro reato. Dopo aver sfasciato l'auto del padre, Sara e Sam Cabot furono soccorsi con sollecitudine da due rappresentanti delle forze dell'ordine, con la pistola d'ordinanza riposta nella fondina. Il tenente Boxer e l'ispettore Jacobi fecero il loro dovere, che consiste nel servire e proteggere la collettività e, soprattutto, prestare soccorso ove necessario. Un esperto balistico della polizia vi confermerà che i proiettili estratti dalle loro ferite furono sparati dalle pistole di Sara e Sam Cabot. Accerteremo inoltre che Sara e Sam Cabot spararono ai due rappresentanti delle forze dell'ordine in assenza di qualsiasi provocazione. Quella sera, mentre era a terra ferita - e avendo perso quasi un terzo del suo sangue rischiava di morire - il tenente Boxer ordinò ai due ragazzi di gettare le armi. Essi non ubbidirono. Sara Cabot, anzi, esplose altri tre colpi che per fortuna non raggiunsero la mia cliente. Solo allora il tenente Lindsay Boxer rispose al fuoco. Se a sparare, in quelle condizioni, fosse stato un funzionario di banca, un fornaio, o addirittura un bookmaker, a quest'ora
non saremmo in tribunale. Ma se a difendersi è un rappresentante delle forze dell'ordine, tutti gridano allo scandalo...» «Obiezione!» Era troppo tardi per obiettare, però: la maschera di impassibilità del dottor Andrew Cabot era crollata, lasciando il posto a un'ira funesta. Cabot balzò in piedi e si avvicinò a Yuki con l'aria di volerla strangolare lì su due piedi. Mason Broyles lo trattenne, ma nell'aula si levò un gran brusio che neppure il martelletto del giudice Achacoso riuscì a placare. «Ho finito, vostro onore», disse Yuki. «Oh, no, non è finita qui», disse il giudice. «Non intendo permettere che questo processo si trasformi in una rissa. Assistente, faccia sgombrare l'aula. Desidero conferire con le partì in separata sede.» 88 Quando l'udienza riprese, a Yuki brillavano gli occhi. Immaginai che fosse convinta che la ramanzina che certamente le aveva fatto il giudice fosse più che compensata dai punti che aveva segnato con il suo intervento in aula. Broyles chiamò il primo testimone: Betty D'Angelo, l'infermiera del pronto soccorso che mi aveva assistito la sera dell'incidente, la quale ripeté con riluttanza quel che aveva già detto all'udienza preliminare, ovvero che il mio tasso di alcolemia era 0,067 - valore che poteva indicare uno stato di alterazione - ma che lei non aveva modo di stabilire se mi trovassi o meno in stato di ebbrezza. Subito dopo Broyles chiamò la dottoressa Claire Washburn. La mia amica declinò le proprie generalità, spiegò che dirigeva l'Istituto di medicina legale di San Francisco e che aveva eseguito l'autopsia su Sara Cabot. «Dottoressa Washburn, ha accertato la causa della morte di Sara Cabot?» Aiutandosi con un disegno molto schematico di una figura umana, Claire indicò i punti di ingresso dei proiettili sparati dalla mia pistola. «Sì, la ragazza presentava due ferite da arma da fuoco al torace. Il proiettile A è penetrato nel quadrante esterno superiore sinistro, in questo punto. Ha attraversato la cavità toracica fra la terza e la quarta costa sinistra, ha perforato il lobo superiore del polmone sinistro, è entrato nel sacco pericardico, ha lacerato il ventricolo sinistro e si è fermato nella gabbia toracica, sul lato sinistro.» Battendo sullo schema con una bacchetta, Claire
continuò: «La seconda ferita è stata provocata da un proiettile che ha attraversato lo sterno circa dieci centimetri sotto la spalla sinistra, ha perforato il cuore e si è conficcato nella quarta vertebra toracica». I giurati ascoltarono attentissimi la descrizione degli effetti dei miei colpi sul cuore di Sara Cabot. Quando Broyles ebbe finito di interrogare Claire, Yuki si alzò immediatamente per il controinterrogatorio. «Può dirci quali sono gli angoli di penetrazione, dottoressa Washburn?» domandò. «I colpi sono stati sparati dal basso verso l'alto, da pochi centimetri da terra.» «Dottoressa, la morte di Sara Cabot fu istantanea?» «Sì.» «Dopo che le venne sparato, dunque, era abbastanza morta da non poter più sparare?» «Abbastanza morta, avvocato Castellano? Che io sappia, quando uno è morto, è morto.» Yuki arrossì. «Riformulo la domanda. Dal momento che è accertato che i colpi che ferirono Lindsay Boxer furono esplosi dalla pistola di Sara Cabot, è ragionevole dedurre che la ragazza sparò per prima, se i colpi sparati dal tenente Boxer ne provocarono la morte istantanea. Per questo le chiedo: la morte fu istantanea?» «Sì. Sara Cabot morì subito.» «Ancora una cosa», disse Yuki come se le fosse venuta in mente una domanda all'ultimo momento. «Venne effettuato un esame tossicologico sul sangue della signorina Cabot?» «Sì.» «E quali furono i risultati?» «Si riscontravano tracce di metamfetamina.» «Dunque Sara Cabot era drogata?» «Drogata non è un termine scientifico, ma sì, aveva 0,23 milligrammi di metamfetamina per litro nel sangue. Il che corrisponde all'essere drogati.» «Quali effetti ha la metamfetamina?» «È un farmaco stimolante centrale molto potente, che produce una vasta gamma di effetti. Tra quelli positivi ci sono un piacevole senso di eccitazione, ma chi ne fa uso frequente va incontro anche a molti effetti negativi, quali paranoia e ideazione suicida e omicida.» «E comportamenti omicidi?» «Anche.»
«Grazie, dottoressa Washburn. Ho concluso con la testimone, vostro onore.» 89 Ero euforica, quando Claire tornò al suo posto, ma fu una sensazione di breve durata. Mason Broyles chiamò a deporre il dottor Robert Goldman che, dopo aver prestato giuramento, cominciò a descrivere le spaventose lesioni che Sam Cabot aveva subito a causa della mia cattiveria. Aveva capelli e baffi castani e indossava un completo azzurro. Servendosi di uno schema simile a quello usato da Claire, mostrò che il primo dei miei proiettili era entrato nella cavità addominale di Sam andandosi a conficcare nell'ottava vertebra toracica, dove tuttora si trovava. «Questo proiettile ha provocato una paralisi dalla vita in giù», spiegò il medico lisciandosi i baffi. «Il secondo, invece, è penetrato alla base del collo, ha attraversato la terza vertebra cervicale e ha provocato la paralisi dal collo in giù.» «Dottore, Sam Cabot recupererà mai l'uso delle gambe?» domandò Broyles. «No.» «Potrà mai avere rapporti sessuali?» «No.» «Tornerà mai a respirare autonomamente o a condurre una vita normale?» «No.» «È destinato a passare il resto della sua vita in carrozzina, vero?» «Esatto.» «Il testimone è suo», disse Broyles a Yuki tornando al proprio tavolo. «Non ho domande», rispose Yuki. «Chiamiamo allora a deporre Sam Cabot», annunciò Broyles. Lanciai un'occhiata piena di ansia a Yuki prima di voltarmi, come lei, verso il fondo dell'aula. Le porte si spalancarono e una giovane inserviente entrò spingendo una carrozzina, una Jenkinson Supreme tutta cromata, la Cadillac delle sedie a rotelle. Sam Cabot, benché in giacca e cravatta, aveva un'aria da bambino fragile e mingherlino, non sembrava affatto il delinquente dalla mente malata che aveva ucciso due ragazzi per puro divertimento e poi aveva sparato a Jacobi. Se non fosse stato per la luce malvagia degli occhi castani, non l'a-
vrei riconosciuto. Mi guardò e a me venne il batticuore. Provavo un misto di orrore, senso di colpa e compassione. Osservai l'apparecchio per la ventilazione assistita che ronzava sotto il sedile della carrozzina: era una grossa scatola metallica con quadranti e spie luminose e un sottile tubo di plastica che, dalla macchina, arrivava all'altezza della guancia sinistra del ragazzo. Davanti alla bocca Sam Cabot aveva un piccolo amplificatore vocale elettronico. Strinse le labbra intorno al tubo e, quando il ventilatore gli fornì aria ai polmoni, si senti un orrendo risucchio. Era un rumore che si ripeteva ogni tre o quattro secondi, ogni volta che Sam Cabot aveva bisogno di prendere fiato. L'inserviente spinse la carrozzina fino al banco dei testimoni. «Vostro onore, dal momento che non sappiamo quanto durerà la testimonianza, chiediamo il permesso di collegare il ventilatore a una presa di corrente, per non consumare le batterie», esordì Mason Broyles. «Certo», disse il giudice. Un tecnico stese un lungo cavo arancione e lo collegò a una presa, quindi si sedette alle spalle di Andrew ed Eva Cabot. Non potevo fare altro che guardare Sam. Aveva il collo rigido e un dispositivo di contenzione che gli teneva il capo appoggiato allo schienale della sedia a rotelle, una sorta di casco con una fascia che gli passava sulla fronte. Sembrava uno strumento di tortura medievale e sono certa che l'effetto che faceva a Sam fosse proprio quello. L'assistente del giudice, un giovanotto alto in divisa verde, gli si avvicinò. «Per favore, sollevi la mano destra.» Sam Cabot guardò da una parte all'altra, agitatissimo, prese aria e parlò nella scatoletta verde che aveva davanti alla bocca. La voce che ne uscì era sintetizzata, fatta di strani suoni inquietanti. «Non posso», disse. 90 La voce di Sam non sembrava più. del tutto umana, ma il suo viso fresco e il corpo martoriato lo facevano sembrare più fragile e vulnerabile di tutti i presenti. Gli spettatori emisero mormorii impietositi quando l'usciere si
rivolse al giudice Achacoso. «Giudice?» «Gli faccia prestare giuramento.» «Giura di dire tutta la verità, solo la verità e nient'altro che la verità?» «Giuro», disse Sam Cabot. Broyles gli sorrise, lasciando alla giuria tutto il tempo necessario per sentire, vedere e apprezzare sino in fondo lo stato pietoso in cui si trovava il ragazzo e provare a immaginare quale inferno doveva essere diventata la sua vita. «Tranquillo», gli disse. «Devi semplicemente dire la verità. Raccontaci che cosa successe quella sera, Sam.» Broyles rivolse al ragazzo una serie di domande di «riscaldamento», aspettando ogni volta che inspirasse l'aria necessaria dal tubo. Le risposte vennero sotto forma di frasi spezzate, la cui lunghezza dipendeva esclusivamente dalla quantità di aria che Sam riusciva a introdurre nei polmoni ogni volta. Broyles gli chiese quanti anni aveva, dove abitava e che scuola frequentava. Poi arrivò alla parte cruciale dell'interrogatorio. «Sam, ricordi che cosa successe la sera del 10 maggio?» «Non me lo dimenticherò mai... mai più», rispose Sam prendendo aria dal tubo ed emettendo le parole a scatti attraverso ramplificatore vocale. «Non riesco a pensare ad altro... e per quanto ci provi... non riesco a togliermelo dalla testa... Quella ha ucciso mia sorella... e mi ha rovinato la vita.» «Obiezione, vostro onore», disse Yuki alzandosi in piedi. «Giovanotto, so che non è facile, ma la prego di limitarsi a rispondere alle domande», disse il giudice. «Sam, facciamo qualche passo indietro», riprese in tono affabile Broyles. «Puoi raccontarci che cosa successe quella sera, una cosa alla volta?» «Successero un sacco di cose», disse Sam. Prese fiato e aggiunse: «Ma non ricordo... tutto quanto. So che prendemmo l'auto di papà... e ci spaventammo... Sentimmo arrivare le sirene... Sara non aveva la patente. Poi ci fu l'incidente, scoppiò l'air bag... Ricordo solo... che vidi quella donna... sparare a Sara. Non so per quale motivo.» «Okay, Sam. Va bene così.» «Vidi un lampo», continuò il ragazzo guardandomi fisso. «E poi mia sorella... morta.» «Sì. Lo sappiamo. Sam, ricordi quando il tenente Boxer sparò a te?»
Nel raggio limitato concessogli dalle fasce di contenzione, Sam scosse la testa. E poi si mise a piangere. I suoi singhiozzi strazianti erano interrotti dal risucchio d'aria e amplificati dall'apparecchio. Il risultato era un suono stranissimo, come non ne avevo mai sentiti in vita mia, che fece venire i brividi a tutti i presenti. Mason Broyles si diresse a passo svelto verso il suo cliente, tirò fuori dal taschino un fazzoletto e gli asciugò gli occhi e il naso. «Vuoi fare una pausa, Sam?» «No... Grazie, sto bene.» «A lei il testimone, avvocato», disse Mason Broyles lanciandoci un'occhiata di sfida. 91 Yuki si avvicinò all'assassino tredicenne che, con il viso arrossato e bagnato di lacrime, sembrava ancora più giovane e degno di pietà. «Ti senti un po' meglio, Sam?» gli chiese Yuki posandosi le mani sulle ginocchia e chinandosi leggermente per guardarlo negli occhi dalla sua stessa altezza. «Insomma...» rispose Sam. «Bene, mi fa piacere», disse Yuki raddrizzandosi e facendo alcuni passi indietro. «Cercherò di fare delle domande brevi. Perché ti trovavi nel Tenderloin District la sera del 10 maggio?» «Non lo so... Guidava Sara.» «La vostra auto era parcheggiata davanti al Balboa Hotel. Come mai?» «Volevamo comprare un giornale... credo... Per vedere cosa c'era al cinema.» «Pensavate che ci fosse un'edicola dentro il Balboa?» «Credo.» «Sam, conosci la differenza tra una bugia e la verità?» «Certo.» «Hai giurato di dire la verità, te lo ricordi?» «Sì.» «Okay. Allora, puoi dirci perché tu e Sara avevate la pistola quella sera?» «Le pistole erano... di papà», rispose il ragazzo. Fece una pausa per prendere fiato e forse anche per riflettere. «Erano nel vano portaoggetti... Pensavo che quelli... ci volessero ammazzare.»
«Non pensavi che la polizia stesse semplicemente cercando di fermarvi?» «Avevo paura... Non guidavo io e... Successe tutto molto in fretta.» «Sam, avevi preso qualcosa quella sera?» «In che senso?» «Pasticche? Magari metamfetamina?» «No, non avevo preso niente.» «Capisco. Ricordi l'incidente d'auto?» «Non bene.» «Ricordi di aver visto il tenente Boxer e l'ispettore Jacobi che vi aiutavano a uscire dall'auto dopo l'impatto?» «No, perché avevo gli occhi pieni di sangue... Mi ero rotto il naso... Poi di colpo... ho visto le pistole e un momento dopo... ci hanno sparato.» «Ricordi di aver sparato all'ispettore Jacobi?» Il ragazzo sgranò gli occhi. Era sorpreso da quella domanda? O lo sconvolgeva ricordare quel momento? «Pensavo che volesse farmi del male», balbettò poi. «Allora te lo ricordi?» «Stava per arrestarmi...» Yuki aspettò con calma che Sam si riempisse di nuovo i polmoni di aria. «Sam, perché sparasti all'ispettore Jacobi?» «No, non ricordo... di aver sparato a nessuno.» «Dimmi una cosa: sei in cura da uno psichiatra?» «Sì... Perché è un periodo difficile per me... Perché sono rimasto paralizzato... E perché quella donna ha assassinato mia sorella.» «Okay, raccontami come andò. Dici che il tenente Boxer ha assassinato tua sorella. Non vedesti tua sorella sparare per prima al tenente Boxer? Non vedesti Lindsay Boxer stesa per terra, ferita?» «No, non ricordo... non andò così.» «Sam, rammenti di essere sotto giuramento, vero?» «Sto dicendo la verità», protestò e ricominciò a singhiozzare. «Okay. Sei mai stato al Lorenzo Hotel?» «Obiezione, vostro onore. Dove vuole andare a parare la difesa?» «Avvocato Castellano?» «Lo capirete tra un attimo, vostro onore. Ancora una domanda e ho finito.» «Proceda, allora.» «Sam, sai che sei indagato per due omicidi?»
Sam girò la testa di pochi gradi verso il suo avvocato ed esclamò con la sua straziante voce meccanica: «Avvocato Broyles!» La voce si affievolì, a mano a mano che rimaneva senza fiato. «Obiezione! Domanda priva di fondamento, vostro onore!» gridò Broyles per farsi sentire oltre il brusio che si era levato nell'aula e i colpi secchi del martelletto del giudice Achacoso. «Esigo che questa domanda sia stralciata dal verbale, vostro onore, e che la giuria sia invitata a non tenerne conto...» continuò Broyles. Prima che il giudice avesse il tempo di rispondere, Sam cominciò ad alzare disperatamente gli occhi e, presa una boccata d'aria dal ventilatore, disse: «Mi appello all'emendamento... Mi appello al Quinto Emendamento perché...» In quel momento si udì un allarme, un fischio fortissimo, proveniente da sotto la carrozzina, e dalla galleria e dai banchi della giuria si alzarono delle urla, mentre le lancette dei quadranti del ventilatore si azzeravano. Andrew Cabot si alzò di scatto e spinse avanti l'inserviente gridando: «Faccia qualcosa! Faccia qualcosa!» Tutti rimasero con il fiato sospeso mentre il tecnico si chinava, armeggiava con manopole e pulsanti e resettava l'apparecchio. Finalmente l'allarme smise di suonare. Si sentì un risucchio molto forte e Sam riprese a respirare. Un attimo dopo ci fu un sospiro di sollievo collettivo. «Non ho altre domande per il teste», disse Yuki a voce alta per farsi sentire nel clamore proveniente dalle ultime file. «L'udienza è aggiornata a domani mattina alle nove», annunciò il giudice Achacoso battendo un'ultima volta il martelletto. 92 Mentre l'aula si svuotava, Yuki andò verso il giudice. Era alta un metro e sessanta, ma aveva un piglio molto autorevole. «Vostro onore! Chiedo l'annullamento del processo!» esclamò. Il giudice le fece cenno di avvicinarsi e Yuki, Mickey, Broyles e il suo collega andarono ai piedi dello scranno. Sentii Yuki che diceva: «La giuria è stata influenzata da quel maledetto allarme. Non è possibile che non lo sia stata». «Non vorrà accusare la controparte di averlo fatto scattare deliberatamente, spero», replicò il giudice.
«No, no, vostro onore.» «Avvocato Broyles?» «Vostro onore, sono cose che capitano. La giuria ha semplicemente visto con i propri occhi una delle costanti della vita di Sam Cabot. Ogni tanto il ventilatore si blocca e il ragazzo rischia di morire. La giuria l'ha potuto constatare. Non credo che questo aggiunga nulla alla realtà dei fatti, ovvero che Sam è in carrozzina e sua sorella è morta.» «Sono d'accordo. Istanza respinta, avvocato Castellano. Riprenderemo domani mattina come d'accordo.» 93 Non so chi fosse rimasto più scioccato, se io o Yuki. Cercammo la scala antincendio e scendemmo da quella parte, uscendo da una porta di servizio che dava in Polk Street e lasciando che ad affrontare la stampa fosse Mickey. Yuki aveva l'aria scossa e molto mortificata. «La testimonianza di Sam è stata peggio di un incubo», disse con la voce rotta. «Quando è scattato l'allarme, il mio controinterrogatorio è andato in fumo. Scommetto che tutti si sono chiesti che cosa diavolo avevo fatto a quel povero bambino.» Prendemmo la strada più tortuosa e meno panoramica per arrivare al garage e a un certo punto dovetti fermare Yuki con un braccio per impedirle di attraversare Van Ness Avenue con il semaforo rosso. «Mio Dio!» continuava a ripetere, allargando le braccia e alzando gli occhi al cielo. «Mio Dio, mio Dio! Che disdetta! Una farsa dal principio alla fine!» Cercai di consolarla. «Senti, Yuki, sei riuscita comunque a trasmettere il tuo messaggio. Gli hai fatto dire che erano fermi con la macchina nel Tenderloin District senza motivo apparente, che erano armati. Hai accennato al fatto che Sam è implicato in un'indagine per omicidio... Prima o poi lo processeranno: le sue impronte sono state trovate sul bordo della vasca da bagno in cui è morto folgorato uno di quei due poveretti. Sam e Sara Cabot sono due assassini, Yuki. Sam Cabot è un mostro e i giurati devono saperlo.» «Non sono sicura che lo abbiano capito. E io non posso insistere, visto che non è ancora stato rinviato a giudizio per gli omicidi del Tenderloin District. La giuria potrebbe pensare che voglio innervosirlo, fargli perdere
le staffe, come è già successo, peraltro...» Attraversammo Opera Plaza, un complesso con ristoranti, una libreria e vari cinema e, cercando di passare inosservate, prendemmo l'ascensore per scendere nel garage. Dopo essere andate avanti e indietro tra le file di auto per un po', finalmente trovammo l'Acura di Yuki. Ci mettemmo le cinture e Yuki mise in moto. Io stavo già pensando al giorno dopo. «Sei sicura che sia un bene chiamarmi a testimoniare?» le domandai. «Sicurissima. Sia Mickey sia io siamo convinti che tu ti debba conquistare le simpatie della giuria. Per questo bisogna che ti ascoltino e ti vedano per quello che sei veramente. Quindi sì, è un bene.» 94 L'indomani mattina il cielo oltre la finestra della cucina di Yuki era grigio e grossi nuvolosi annunciavano pioggia sulla città. Stranamente, era quella la San Francisco che preferivo, inquieta e tempestosa. Bevvi il mio caffè e diedi da mangiare a Martha, poi la portai a fare una breve passeggiata in Jones Street. «Dobbiamo sbrigarci», le dissi. L'aria era carica di umidità. «Sarà una giornata campale. La mamma verrà linciata.» Venti minuti più tardi Mickey passò a prenderci con la sua automobile. Arrivammo in tribunale alle otto meno un quarto, in modo da evitare la folla. Nell'aula B, Mickey e Yuki si sedettero vicini e si misero a confabulare tra loro. Yuki gesticolava animatamente, mentre io guardavo la pioggia battere sui vetri dell'aula e i minuti scorrere sul grande orologio elettrico alla parete. Mi sentii toccare un braccio. «Ti dirò, quell'allarme partito durante la testimonianza di Sam è stato una delle cose peggiori che mi siano mai capitate in un processo», mi disse Mickey sporgendosi davanti a Yuki per parlare con me. «Non voglio pensare che Broyles l'abbia fatto apposta, però... Da lui ci si può aspettare questo e altro.» «Dici che aveva architettato tutto?» «Non lo so. In ogni caso, dobbiamo cercare di rimediare. Adesso tocca a noi presentare le nostre argomentazioni, e i messaggi che dobbiamo far passare sono due: quel ragazzino sulla sedia a rotelle è un mostro e tu sei
una poliziotta con i fiocchi.» «Vai tranquilla, Lindsay», intervenne Yuki. «Se ti fossi preparata di più, non sembreresti naturale. Devi semplicemente raccontare come sono andate le cose. Non avere fretta e, se c'è qualcosa di cui non sei sicura, rifletti prima di parlare. L'importante è che non ti comporti da colpevole, ma da grande poliziotta quale sei.» «Già», dissi. E, per incoraggiarmi, lo ripetei subito dopo. L'aula cominciò a riempirsi fin troppo presto di spettatori che entravano con l'impermeabile umido, alcuni ancora scuotendo l'ombrello. Poi apparvero i nostri avversari, che posarono pesantemente le valigette sul tavolo. Mason Broyles ci salutò con un cenno del capo, nascondendo a stento la soddisfazione. Era nel suo elemento: un'aula di tribunale, davanti alle telecamere delle reti televisive. Con la coda dell'occhio vidi che stringeva la mano ad Andrew Cabot e dava un bacio sulla guancia a Eva. Aiutò persino l'operatore sanitario a sistemare la carrozzina di Sam. Faceva tutto lui... Perché non poteva aver fatto anche scattare l'allarme il giorno prima? «Hai dormito bene, Sam? Splendido», disse al ragazzo. Per me ricominciò l'incubo. Il rumore dell'aria che il ragazzo aspirava dal ventilatore ogni pochi secondi mi ricordava costantemente quel che gli avevo fatto e mi causava una tale angoscia che faticavo a respirare io stessa. All'improvviso si aprì la porta laterale dell'aula ed entrarono i dodici giurati e i tre supplenti, che andarono a sedersi ai loro posti. Anche il giudice andò al suo scranno, con un bicchiere di plastica pieno di caffè in mano. L'udienza era ricominciata. 95 Yuki, con l'aria calma e concentrata, elegantissima in tailleur grigio e collana di perle, aprì la serie delle testimonianze a mio favore chiamando l'operatrice Carla Reyes. Le rivolse alcune domande generali sulle sue mansioni e sul suo orario di lavoro il 10 maggio. Poi fece ascoltare la registrazione delle mie trasmissioni radio in quella terribile sera: per quattro minuti e mezzo si sentirono la mia voce che riferiva la posizione in cui ci trovavamo e le chiamate delle varie auto di pattuglia. Nel riascoltare quelle frasi concitate, inframmezzate da rumori di fondo,
sentii salire di nuovo l'adrenalina e mi trovai a rivivere minuto per minuto la corsa disperata all'inseguimento della Mercedes nera. La voce di Jacobi che chiamava l'ambulanza per i passeggeri dell'auto incidentata fu interrotta dai colpi secchi dei primi spari. Sobbalzai letteralmente sulla sedia nel sentire gli spari e mi accorsi che avevo le mani sudate e tremavo. Un attimo dopo sentii la mia voce smorzata che chiedeva di mandare delle ambulanze. «Due agenti feriti e due civili feriti.» Poi la voce di Carla Reyes, preoccupata. «Tenente, ma lei sta bene? Lindsay, è ferita?» «Per un attimo, ho temuto che fosse in pericolo di vita», disse Carla a Yuki dal banco dei testimoni. «Ero spaventatissima. Le vogliamo tutti bene.» Dopo il blando controinterrogatorio di Mason Broyles, Yuki chiamò il nostro secondo testimone, Mike Hart della balistica, il quale confermò che i proiettili che avevano estratto dalle mie ferite appartenevano alla pistola di Sara e quelli estratti dalle ferite di Jacobi all'arma trovata vicino a Sam Cabot. Broyles rinunciò al controinterrogatorio e così Yuki chiamò Jacobi. Mi si riempirono gli occhi di lacrime quando vidi il mio vecchio amico e collega andare con passo pesante verso il banco dei testimoni. Ultimamente era molto dimagrito. Si sedette faticosamente. Yuki gli lasciò il tempo di versarsi un bicchiere d'acqua, quindi gli rivolse alcune domande di routine: da quanti anni lavorava in polizia e da quanti nella squadra Omicidi. Poi gli chiese: «Ispettore Jacobi, da quanto tempo conosce il tenente Lindsay Boxer?» «Da circa sette anni.» «Ha avuto occasione di lavorare con lei prima della notte in questione?» «Sì. Abbiamo lavorato affiancati per tre anni.» «Vi siete trovati insieme in altre situazioni in cui il tenente Boxer ha dovuto fare uso delle armi?» «Sì, un paio di volte.» «A suo giudizio, come si comporta quando è sotto pressione?» «Benissimo. E ogni volta che si esce di pattuglia si è sotto pressione, perché da un momento all'altro può succedere qualcosa di grave, anche quando meno ce lo si aspetta.» «Ispettore, quando ha caricato in auto il tenente Boxer la sera del 10
maggio, ha notato se puzzava di alcol?» «No, non ho sentito niente.» «Sapeva che il tenente aveva bevuto?» «Sì, perché me lo disse lei stessa.» «Bene. E perché glielo disse?» «Perché voleva che lo sapessi, così che io potessi eventualmente decidere di andare da solo.» «Secondo lei che ha lavorato insieme a Lindsay Boxer per tanti anni, il tenente era nel pieno possesso delle sue facoltà?» «Certo. Era lucidissima, come sempre.» «Se fosse stata in qualche modo alterata, avrebbe partecipato all'operazione con lei?» «Non credo proprio.» Yuki gli fece raccontare tutto quello che era successo la sera del 10 maggio, dal momento in cui mi era venuto a prendere da Susie's fino all'ultima cosa che ricordava. «Ero contento che i due ragazzi fossero scesi dalla macchina. Avevo paura che prendesse fuoco da un momento all'altro. Stavo parlando con l'operatrice Carla Reyes, qui presente, chiedendo che mandasse un'ambulanza perché Sam Cabot si era fratturato il naso quando si era aperto l'air bag e sia lui sia la ragazza potevano aver riportato delle lesioni interne. Mai più mi sarei aspettato...» «Che cosa, ispettore?» «Mai più mi sarei aspettato che, mentre io chiamavo i soccorsi, quello stronzetto mi sparasse.» Mason Broyles, naturalmente, protestò e il giudice richiamò all'ordine Jacobi. Ero estasiata dal fatto che Jacobi avesse avuto il fegato di definire Sam Cabot uno stronzetto. Quando nell'aula fu tornato il silenzio, Yuki rivolse un'ultima domanda al mio collega. «Ispettore, lei sa che reputazione ha il tenente Lindsay Boxer nell'ambiente della polizia?» «Certo che lo so! Per noi tutti è una poliziotta in gambissima.» 96 Broyles non ricavò molto dal controinterrogatorio: Jacobi si limitò a rispondere sì o no e non abboccò quando Broyles insinuò che ci fosse stata negligenza da parte sua nell'applicazione del regolamento e delle procedu-
re del dipartimento di polizia di San Francisco. «Feci tutto quello che potevo per i due ragazzi. Mi rallegro che il suo cliente non abbia avuto una mira migliore, altrimenti non sarei qui a parlarvi», disse Jacobi. Quando la seduta fu sospesa per la pausa pranzo, riuscii a trovare un angolino in disparte al terzo piano e, tra un distributore automatico di CocaCola e una parete, parlai con Joe, abbracciandolo virtualmente a tre fusi orari di distanza. Mi chiese scusa cinque o sei volte perché si stava occupando di minacce terroristiche agli aeroporti, da Boston a Miami, e quindi non poteva essermi vicino a San Francisco. Ebbi appena il tempo di mangiare un panino e di bere un caffè, poi tornai al mio posto accanto a Yuki e l'udienza riprese. Era giunto il momento che tanto temevo. Yuki mi chiamò al banco dei testimoni, mi si piazzò di fronte per impedirmi di vedere la famiglia Cabot e mi fece un bel sorriso. «Tenente Boxer, lei crede nel rispetto dei regolamenti e delle procedure di polizia?» «Sì.» «Era ubriaca la notte in questione?» «No. Ero a cena con alcune amiche. Quando mi arrivò la telefonata di Jacobi, avevo bevuto due aperitivi.» «Era in servizio?» «No.» «Fuori servizio bere alcolici non è contrario al regolamento, vero?» «Vero.» «Quando salì sulla macchina dell'ispettore Jacobi, però, lei riprese ufficialmente servizio.» «Sì. Ma ero sicura di essere nel pieno delle mie facoltà, e tuttora lo penso.» «Lei crede nei regolamenti, tenente? Li rispetta?» «Sì, ma i regolamenti sono per forza di cose limitati e non prevedono tutte le situazioni possibili. A volte, di fronte a certi imprevisti, bisogna ricorrere al buon senso.» Su invito di Yuki, raccontai quel che era successo fino al momento in cui Jacobi e io avevamo aperto la portiera della Mercedes e aiutato Sam e Sara Cabot a scendere dall'auto incidentata. «Commisi un errore, perché i due ragazzi erano in grave difficoltà. Mi fecero pena.»
«Perché le fecero pena?» «Piangevano. Sam, in particolare, perdeva sangue e vomitava. Mi implorò...» «Si spieghi meglio, per favore.» «Mi pregò di non dire niente a nessuno, che altrimenti il padre li avrebbe ammazzati.» «E lei? Che cosa fece?» «Come ha detto l'ispettore Jacobi, dovevamo farli scendere dall'auto perché c'era il rischio che esplodesse. Perciò mettemmo via la pistola per avere le mani libere, aprimmo la portiera e li tirammo fuori.» «Continui, tenente.» «A quel punto avremmo dovuto ammanettarli. Invece li trattammo come se fossero vittime di un grave incidente stradale. Quando chiesi a Sara la patente, lei estrasse la pistola e mi sparò, prima alla spalla e poi alla coscia. Caddi a terra.» «Dov'era l'ispettore Jacobi quando Sara le sparò?» «Stava chiamando un'ambulanza.» «Dove aveva la pistola?» «Nella fondina.» «Ne è sicura?» «Sì. Stava parlando al telefono e aveva la pistola nella fondina. Ebbi appena il tempo di avvertirlo che erano armati, poi Sara fece fuoco. Jacobi si voltò e mi vide crollare a terra. Un attimo dopo Sam Cabot gli sparò e lo colpì due volte.» «È sicura di aver visto tutto questo, tenente? Non perse conoscenza?» «No, rimasi cosciente per tutto il tempo.» «L'ispettore Jacobi perse conoscenza?» «Sì. Pensai che fosse morto, perché Sam Cabot lo prese a calci in testa, ma lui non si mosse e non cercò di difendersi.» «Vide Sam Cabot prendere a calci in testa l'ispettore Jacobi, tenente? Continui, la prego.» «Forse pensavano che fossi morta, perché sembravano essersi dimenticati di me.» «Obiezione. La teste sta facendo delle ipotesi.» «Obiezione accolta.» «Ci dica soltanto ciò che vide, sentì e fece», mi raccomandò Yuki. «Va bene così.» Chinai la testa e cercai di concentrarmi.
«Sentii Sara dire a Sam che dovevano andarsene», raccontai. «Estrassi la pistola dalla fondina e le intimai di posare la sua pistola. Lei mi mandò a quel paese ed esplose vari altri colpi nella mia direzione. Allora risposi al fuoco.» «E poi che cosa successe?» «Sara cadde a terra e Sam cominciò a urlare che avevo ammazzato sua sorella. Di nuovo, gli intimai di posare la pistola e lui si rifiutò di farlo. Così sparai anche a lui.» «Mi dica, tenente: voleva fare del male a quei ragazzi?» «No, ovviamente no. Avrei preferito non dover ricorrere alla forza.» «Secondo lei, se Sam e Sara Cabot non fossero stati armati, sarebbe andata a finire diversamente?» «Obiezione», gridò Broyles. «Richiede alla teste di trarre conclusioni.» Il giudice si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò il soffitto da dietro gli occhiali spessi, con la montatura nera. Quando ebbe deciso, si raddrizzò di scatto. «Obiezione accolta.» «Lindsay, è vero che nei dieci anni in cui ha lavorato alla squadra Omicidi ha ricevuto trentasette menzioni individuali, quindici di squadra e venti encomi per servizio meritorio?» «Non ho tenuto il conto, ma più o meno direi di sì.» «In breve, tenente Boxer, il dipartimento di polizia di San Francisco è d'accordo con l'ispettore Jacobi sul fatto che lei sia una poliziotta in gambissima.» «Obiezione. Questa non è una domanda, ma un'orazione della difesa.» «Grazie. Ho finito, vostro onore.» 97 Mi dimenticai di Yuki non appena si allontanò da me: la mia mente mi stava riportando indietro nel tempo e provavo di nuovo tutto il dolore di quella sera spaventosa. Il sonoro risucchio del respiro di Sam Cabot era come acqua salata sulle mie ferite ancora aperte e l'aula era un mare di facce sfuggenti, in cui vedevo riflessa quella che doveva essere la mia espressione angosciata e sofferente. Individuai sei membri della famiglia Cabot in base alla somiglianza con Sara e Sam e all'odio che si leggeva nei loro occhi. E vedevo colleghi dappertutto, persone che conoscevo e con cui lavoravo da anni. Incrociai lo
sguardo di Jacobi, che mi mostrò il pollice rivolto verso l'alto: avrei voluto sorridere, ma Mason Broyles stava venendo nella mia direzione. Non perse tempo in convenevoli. «Tenente Boxer, quando sparò al mio cliente e a sua sorella, sparò per uccidere?» Uno strano fischio mi risuonò nelle orecchie, mentre cercavo di capire il senso di quella domanda. Voleva sapere se avevo sparato per uccidere? Ma come potevo dire di aver avuto intenzione di ammazzare due ragazzini? «Mi scusi, avvocato Broyles, può ripetere la domanda?» «Gliela formulerò in maniera diversa. Se l'incidente avvenne nel modo da lei descritto - e cioè Sara e Sam Cabot si rifiutarono di deporre le armi perché non si limitò a metterli semplicemente in condizioni di non nuocere? Sparando alle braccia o alle gambe, per esempio?» Esitai, cercando di immaginare la scena. Sara in piedi davanti a me sul marciapiede, i proiettili che mi centravano, io che cadevo a terra. Lo shock, il dolore, la vergogna... «Tenente?» «Avvocato Broyles, sparai per autodifesa.» «Incredibile che abbia avuto la mira così buona, dopo tutto quello che aveva bevuto.» «Obiezione. L'accusa cerca di intimidire la teste.» «Obiezione accolta. Si contenga, avvocato Broyles.» «Sì, vostro onore. Tenente, non capisco. Lei centrò il cuore di Sara Cabot per ben due volte. Eppure è un bersaglio piuttosto piccolo, non trova? Non poteva mirare a qualcos'altro, metterla in condizioni di non nuocere senza ucciderla? Perché non sparò alla mano di Sam Cabot?» «Vostro onore! La domanda è già stata fatta e la teste ha già risposto.» «Ritiro la domanda. In fondo, abbiamo capito che cosa fece, tenente Boxer. Abbiamo capito perfettamente che cosa accadde», concluse Broyles in tono di scherno. 98 Sentii Yuki che diceva: «Posso reinterrogare la teste, vostro onore?» Poi venne velocemente verso di me, aspettò che la guardassi negli occhi e mi chiese: «Tenente Boxer, quando sparò a Sam e Sara Cabot, si sentiva in pericolo di vita?»
«Sì.» «Che cosa prevede la procedura di polizia in tali circostanze? Che cosa dice il regolamento?» «Di sparare per mettere il soggetto in condizioni di non nuocere né a noi né ad altre persone. Per questo occorre centrare il bersaglio: sparando alle estremità si rischia di mancarlo, o comunque di lasciargli la possibilità di sparare e uccidere.» «A parte sparare al cuore di Sara Cabot, aveva alternative?» «No, nessuna. Una volta che i due ragazzi aprirono il fuoco, non potevo fare altro.» «Grazie, tenente. Adesso abbiamo capito perfettamente che cosa accadde.» Mi tremavano le gambe dal sollievo, quando tornai al mio posto. Sentii che il giudice annunciava la fine dell'udienza. «Arrivederci a domani mattina alle nove», disse. Con Yuki, Mickey e vari avvocati del suo studio che mi facevano scudo, uscimmo dal tribunale dalla porta sul retro e salimmo sulla limousine Lincoln Town Car nera che ci aspettava in Polk Street. Da dietro i finestrini scuri vidi la folla inferocita che agitava cartelli con la mia foto accompagnata da scritte tipo GRILLETTO FACILE e ISPETTRICE CALLAGHAN. «Sei stata bravissima, Lindsay», mi disse Mickey voltandosi dal sedile anteriore per darmi una pacca su un braccio. Ma avevo lo sguardo serio e non sorrideva. «Non avrei dovuto farmi vedere così esitante. Solo che non... non sapevo che cosa dire.» «Non c'è niente di male. Adesso andiamo a cena. Yuki e io dobbiamo parlare un po' dell'arringa. Se ti fa piacere, puoi venire anche tu.» «Se non avete bisogno di me, preferirei che mi lasciaste a casa di Yuki. Così potrete lavorare in pace.» Con le chiavi di casa di Yuki in mano, osservai le strade che sfrecciavano fuori del finestrino. Sapevo di aver commesso un grave errore. In quei brevi attimi di esitazione, tutti in aula mi avevano letto nel pensiero. L'impressione con cui la giuria era uscita dal tribunale quel giorno era che io avessi sparato ai due Cabot per ucciderli. Cosa che, naturalmente, era vera. 99
Uno squillo stridulo interruppe l'incubo di cui ero preda. Rigida e immobile nel letto, cercai di ritrovare l'orientamento. Lo squillo intanto si ripeté, meno stridente e fastidioso. Era il mio cellulare. Lo presi dal comodino dove era posato e lo aprii, ma ormai aveva smesso di suonare. Erano le sei del mattino, ero sveglia e di malumore. Frugai tra i mucchi di roba di Yuki nella piccola camera degli ospiti e trovai la tuta e le scarpe da jogging. Mi vestii senza fare rumore, misi collare e guinzaglio a Martha e insieme uscimmo dal Crest Royal alle prime luci dell'alba. Programmai mentalmente l'itinerario della mia corsa. Ero sicura di riuscire a fare tre chilometri in piano con alcune leggere salite, per cui mi diressi con Martha verso il rettilineo di Jones Street, correndo piano. Le articolazioni indolenzite mi ricordarono quanto detestavo correre. Dopo un po' tolsi il guinzaglio a Martha perché non mi facesse inciampare tagliandomi la strada e accelerai il passo nel tratto in discesa di Jones Street, finché il dolore alla spalla e alla gamba, che ancora mi davano fastidio, passò, confondendosi nel generale affaticamento di tutti i muscoli. Detestavo correre, sì, ma era l'unico modo in cui potevo sperare di sfuggire all'ossessione del processo, spostando la concentrazione dal senso di disagio mentale a quello, più gestibile, della sofferenza fisica. E in effetti, per quanto facessi una fatica terribile, mi piaceva sentire il tonfo delle scarpe da ginnastica sull'asfalto e il sudore che asciugava subito nell'aria fresca del primo mattino. Continuai a correre in Jones Street in direzione nord, attraversai Vallejo Street e arrivai finalmente in cima a Russian Hill. Davanti a me c'era l'isola di Alcatraz, con il faro ancora acceso e lo splendido panorama di Angel Island. Adesso la mia mente veleggiava libera e il cuore mi batteva di sano sforzo fisico, non di stress e paura. Quando raggiunsi Hyde Street sentii finalmente le endorfine che mi riscaldavano. Alla mia destra c'era Lombard Street, una bellissima strada a curve che scende dalla cima della collina fino a Leavenworth Street. Continuai a correre sul posto in attesa del verde, felice di aver preceduto la folla dei pendolari che, nel giro di mezz'ora, avrebbe intasato completamente strade e marciapiedi. Il semaforo scattò e io ripartii. L'itinerario che avevo scelto mi portò attraverso alcune delle zone più belle della città, con vecchie case e panora-
mi da cartolina anche con la nebbia. Martha e io eravamo a Chinatown quando sentii il rumore di una macchina che ci tallonava. Una voce gridò: «Signorina, il cane va tenuto al guinzaglio!» Irritata per essere stata interrotta in quel momento di pura felicità, mi voltai e vidi un'auto della polizia che mi seguiva. Mi fermai e chiamai Martha. «Oh, tenente! È lei!» «Buongiorno, Niccolò», dissi con il fiatone al giovane agente seduto davanti. E a quello al volante: «Salve, Friedman». «Siamo tutti con lei», mi disse Friedman. «Sentiamo la sua mancanza, tenente.» «Grazie», risposi con un sorriso. «Questo mi conforta molto, soprattutto oggi.» «E non si preoccupi per il cane, eh?» «Be', avete ragione voi. Dovrei tenerla al guinzaglio.» «Stando al regolamento?» «Già.» «In bocca al lupo, tenente.» «Crepi.» Friedman riparti e ci salutò sfanalando. Tenendo il guinzaglio di Martha con due mani davanti a me, in modo da non inciampare, svoltai in Clay Street e affrontai la salita per tornare in Jones Street. Quando entrai nel portone del palazzo di Yuki, tutte le tensioni e le contratture si erano sciolte. Pochi minuti dopo ero sotto una meritata doccia calda, una ricompensa meravigliosa. Mi asciugai con uno dei grandi teli di spugna di Yuki, poi ripulii dalla condensa lo specchio e mi guardai per bene. Avevo la pelle arrossata, lo sguardo vivace, avevo fatto i miei tre chilometri in un tempo decente, considerata la sosta per il guinzaglio, e stavo bene. Che avessi vinto o perso, ero ancora la persona che ero sempre stata. E questo Mason Broyles non avrebbe mai potuto togliermelo. 100 A parte la respirazione laboriosa di Sam Cabot, nell'aula non si sentiva volare una mosca quando Mason Broyles si alzò dal tavolo dell'accusa e diede un'ultima occhiata allo schermo del portatile in attesa di cominciare la sua arringa finale.
Si avvicinò ai banchi dei giurati e, dopo averli salutati con la consueta cerimoniosità, iniziò a ricapitolare le prove addotte. «Siamo tutti d'accordo sul fatto che quello dei poliziotti è un lavoro difficile. Sinceramente, non vorrei essere al loro posto. Hanno costantemente a che fare con persone violente e situazioni spaventose e si trovano a dover prendere decisioni difficili in tempi brevissimi. Ma sono queste le condizioni che il tenente Boxer ha sottoscritto quando ha prestato giuramento impegnandosi a far rispettare la legge e a tutelare la cittadinanza. Impegni, questi, cui non si può far fronte in stato di ubriachezza.» Qualcuno, in fondo all'aula, commentò quelle frasi retoriche con un attacco di tosse. Broyles restò in piedi ad aspettare pazientemente che smettesse. Quando tornò il silenzio, riprese dal punto in cui si era interrotto. «Ieri abbiamo ascoltato il tenente Boxer. Trovo curioso che neghi quel che non può ammettere e che ammetta quel che non può negare. La sera del 10 maggio non avrebbe dovuto partecipare a quell'operazione, dal momento che aveva bevuto, ma lo nega. Non avrebbe dovuto riprendere servizio, ma lo nega. È costretta ad ammettere, però, di non aver seguito la procedura. Così come è costretta ad ammettere di aver ucciso Sara Cabot e rovinato la vita a suo fratello Sam. Signore e signori, le procedure e i regolamenti di polizia esistono proprio per impedire che accada ciò che accadde la sera del 10 maggio. Tali procedure e regolamenti sono in vigore da ben prima di questo tragico incidente, da decine e decine di anni, e hanno dato prova della propria validità nel tempo. Qualsiasi poliziotto sa che ci si avvicina all'auto di un sospetto ad armi sguainate per dimostrargli che si sta facendo sul serio. E che per impedirgli di nuocere lo si disarma.» Broyles tornò verso il tavolo e bevve un sorso di acqua da un grosso bicchiere. Benché avessi una gran voglia di alzarmi e protestare per la versione distorta della verità che stava dando alla giuria, rimasi a guardarlo in silenzio. Prima di tornare verso i giurati, che lo fissavano attentissimi, si voltò verso le telecamere. «Sara e Sam Cabot, giovani e ribelli, si erano certamente presi delle libertà: avevano sottratto l'auto al padre senza chiedergli il permesso e, invece di fermarsi all'alt intimato dalla polizia, si erano dati alla fuga. Non dimostrarono né maturità né buon senso e per questo, secondo me, in una situazione del genere avrebbero avuto bisogno di maggiore protezione. Protezione che il tenente Boxer non seppe garantire loro, perché non seguì le più elementari regole di prudenza. Decise di entrare in servizio pur es-
sendo in stato di ebbrezza. E in seguito a tale decisione una ragazza straordinaria ha perso la vita e un ragazzo che aveva davanti a sé un futuro brillante passerà il resto dei suoi giorni su una sedia a rotelle.» Mason Broyles giunse le mani come per pregare. L'effetto fu commovente, dovevo ammetterlo... Prese fiato, emise un sospiro e con voce sommessa e addolorata mise la giuria a parte delle sue conclusioni. «Non possiamo riportare in vita Sara Cabot o restituire l'uso delle gambe a Sam Cabot. Il nostro sistema giuridico non può rimediare ai danni subiti da questi due giovani, ma voi avete l'autorità di risarcire Sam Cabot e i suoi genitori per le loro sofferenze. Signore e signori della giuria, vi chiedo di fare giustizia e di riconoscere al mio cliente un risarcimento di centocinquanta milioni di dollari. Fatelo per la famiglia Cabot. Fatelo per la vostra famiglia e per la mia, per tutte le famiglie e per tutte le persone che vivono nella nostra città. Dichiarare colpevole l'imputata in questo processo è l'unico modo che abbiamo per impedire che una tragedia come questa si ripeta.» 101 Yuki chiuse il blocco e andò al centro dell'aula. Si voltò verso i giurati e li salutò. Con le mani strettamente intrecciate, cercai di non pensare alle convincenti parole di Mason Broyles. «Questo è un processo che suscita grandi emozioni», esordì Yuki. «Da una parte abbiamo una tragedia che ha segnato per sempre la famiglia Cabot. Dall'altra un'agente di polizia 'in gambissima', ingiustamente accusata di aver provocato tale tragedia. Proprio perché la vicenda suscita tante emozioni, anche in virtù della giovane età di Sara e Sam Cabot, ritengo importante ricapitolare i fatti. Perché è sulla base dei fatti, e non delle emozioni, che siete chiamati a decidere. È un fatto che bere un aperitivo il venerdì sera, finito il proprio turno di lavoro, non è vietato da nessun regolamento di polizia. I rappresentanti delle forze dell'ordine sono esseri umani. E benché la polizia sia a disposizione della cittadinanza ventiquattr'ore su ventiquattro, non ci sarebbe stato assolutamente nulla di male se il tenente Boxer quella sera avesse detto all'ispettore Jacobi che aveva altro da fare. Ma Lindsay Boxer prende a cuore il proprio lavoro e andò oltre ciò che i suoi compiti richiedono e, così facendo, corse dei rischi. L'accusa ha ripetuto mille volte che il tenente Boxer aveva bevuto. È vero, aveva bevuto. Ma non era ubriaca. E se l'assunzione di alcolici da parte sua può avere
in qualche modo influito sugli eventi del 10 maggio sui quali siete chiamati a pronunciarvi, non ne è però la causa. Vi prego di non dimenticare questo distinguo. Il tenente Boxer non commise errori di giudizio per lentezza di riflessi o per scarsa lucidità. Se il tenente Lindsay Boxer commise un errore, quella sera, fu mostrare troppa compassione. A causare la morte di Sara Cabot e le lesioni di Sam Cabot fu la loro stessa sconsiderata condotta. La condotta di due adolescenti ricchi e viziati, che la sera in questione non avevano di meglio da fare che uscire e provocare danni e sofferenza a se stessi e agli altri. Signore e signori, furono Sam e Sara Cabot a causare gli eventi del 10 maggio con la propria incoscienza e con la scelta di usare le armi. Furono loro a ricorrere per primi alla forza, non il tenente Boxer. E questo è un fatto cruciale.» Yuki fece una pausa e, per un attimo, pensai con terrore che avesse dimenticato che cosa voleva dire. Vidi che sollevava la collana di perle dalla camicetta di seta e vi passava sopra un dito, voltandosi verso i giurati, e mi resi conto che stava semplicemente riordinando i propri pensieri. «Di solito, quando un rappresentante delle forze dell'ordine viene processato, è per un episodio alla Rodney King, o alla Abner Louima. È perché ha premuto il grilletto troppo presto o perché ha abusato del proprio potere. Lindsay Boxer, però, fece esattamente il contrario: ripose la pistola nella fondina perché i due Cabot sembravano inermi e in grave pericolo. Ma questo suo gesto di umanità nei confronti di due minorenni viene contrabbandato come abuso di potere. Scusate, ma io lo trovo assurdo, oltre che indegno. Il tenente Boxer si avvicinò all'auto in questione con la pistola spianata come da regolamento. Poi, dato che Sam Cabot era visibilmente ferito, gli prestò soccorso, come prevede la procedura. L'ispettore Jacobi, anch'egli 'in gambissima', con oltre venticinque anni di esperienza, fece lo stesso. Avete ascoltato la sua testimonianza. Ripose la pistola nella fondina e, dopo aver fatto scendere i due ragazzi dall'auto, chiamò un'ambulanza. Non è forse questo il tipo di comportamento che ognuno di noi si aspetta dalla polizia? Non è questo il trattamento che vorremmo ricevere in caso di incidente? Tuttavia, invece di ringraziarli, Sara e Sam Cabot spararono a Lindsay Boxer e a Warren Jacobi con l'intenzione di ucciderli. Sam, dopo avergli sparato, prese l'ispettore Jacobi a calci in testa. Compirono questa aggressione spietata e potenzialmente letale sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, o solo per il gusto di uccidere? Non lo sappiamo. Sappiamo però che la prima a cui venne sparato fu il tenente Boxer, la quale rispose al fuoco per legittima difesa. E questo è un altro fatto cruciale. Per-
ché la legittima difesa, signore e signori, rientra nelle 'procedure' e nei 'regolamenti' della polizia. Il tenente Boxer ha dichiarato che farebbe qualsiasi cosa per far tornare in vita Sara Cabot e restituire a suo fratello Sam l'uso delle gambe. Resta il fatto, però, che gli eventi del 10 maggio non furono causati dall'avventatezza di Lindsay Boxer, che anzi cercò di limitare i danni provocati dall'avventatezza dei due fratelli Cabot.» Provai un tale moto di gratitudine che mi vennero le lacrime agli occhi, nel sentirmi difendere con tanta passione e tanta eloquenza. Mordendomi un labbro, ascoltai Yuki concludere l'arringa. «Signore e signori della giuria, questa settimana avete dato prova di grande pazienza nell'ascoltare le deposizioni dei testimoni e nel sopportare l'invadenza dei mass media. So che siete ansiosi di deliberare. E so che troverete il tenente Lindsay Boxer colpevole soltanto di aver adempiuto il proprio dovere di tutore dell'ordine con compassione, con dedizione e con altruismo. E che la dichiarerete innocente delle ignobili accuse che le sono state rivolte.» 102 «Che ne dici se oggi usciamo dalla porta principale?» mi disse Mickey prendendomi a braccetto. «È venerdì. Dato che le udienze sono sospese fino a lunedì, penso che sia il momento adatto per incontrare la stampa.» Scortata dai miei due legali, percorsi il corridoio, scesi le scale di marmo e uscii in McAllister Street. Venendo dalla penombra, la luce del sole mi parve accecante. McAllister Street era talmente stracolma di gente, come sempre da quando era cominciato il processo, che non riuscivo a vedere oltre la calca dei giornalisti e dei furgoni delle TV allineati lungo il marciapiede. La stessa scena che si ripeteva ogni giorno all'uscita dal processo a O.J. Simpson, la stessa frenesia adrenalinica che mascherava la verità, qualunque essa fosse. Il mio processo non meritava tanta attenzione, se non per il fatto che i mass media si contendono l'audience, lo share e le entrate pubblicitarie a colpi di notizie sensazionali. Fatto sta che quel giorno erano tutti lì ad aspettare me. Come cani da caccia sulle tracce di un coniglio, i giornalisti mi videro e mi accerchiarono. Mickey aveva pronta una dichiarazione, ma non ebbe modo di farla. «Per quanto tempo resterà in camera di consiglio la giuria, avvocato
Sherman?» «Non lo so, ma sono sicuro che dichiarerà il tenente Boxer innocente e la scagionerà da tutte le accuse.» «Tenente Boxer, se la giuria dovesse pronunciarsi contro di lei...» «Questo è altamente improbabile», replicò Yuki al posto mio. «Avvocato Castellano, questo è il suo primo caso di così alto profilo. È soddisfatta?» A pochi metri di distanza si stava formando un analogo capannello intorno a Mason Broyles e ai suoi clienti e collaboratori. L'operatore sanitario spinse la carrozzina di Sam Cabot giù per una rampa in legno e aiutò il ragazzo a salire su un furgone, mentre i cineoperatori filmavano la scena. I giornalisti si precipitarono per intervistarlo, mentre il padre lo difendeva come poteva. Individuai Cindy nella ressa: stava sgomitando per avvicinarsi a me. Dato che stavo guardando lei, mi accorsi solo vagamente che Mickey parlava al cellulare. Sentii che mi posava una mano sulla spalla e lo guardai: era terreo. «Mi hanno appena chiamato dall'ufficio del giudice», mi gridò all'orecchio. «La giuria ha chiesto due informazioni.» Ci facemmo largo tra la gente diretti verso la strada e verso la macchina di Mickey, che ci aspettava. Yuki e io salimmo dietro, mentre Mickey si sedette davanti, accanto all'autista. «Che cosa volevano sapere?» domandò Yuki non appena le portiere furono chiuse e l'auto si avviò lentamente verso Redwood Street. «Dati sul tasso alcolemico», disse Mickey voltandosi indietro. «Cristo!» esclamò Yuki. «Com'è possibile che si siano fissati su quello?» «E poi?» domandai ansiosa. «Hai detto che volevano sapere due cose.» Vidi che Mickey esitava. Non voleva dirmi di che cosa si trattava, ma non poteva non farlo. «Hanno chiesto se c'è un limite all'ammontare del risarcimento che si può riconoscere alla parte lesa.» 103 Fu un colpo allo stomaco, e per la tensione ebbi un rigurgito di bile. Avevo preso in considerazione l'ipotesi della sconfitta solo a livello teorico, meditando se mettermi a fare l'ambulante, darmi alla lettura, trasferirmi al
mare e via discorrendo. Non avevo messo in conto lo scossone emotivo che il fatto di perdere mi avrebbe provocato. Yuki, seduta al mio fianco, esclamò: «Mio Dio, è tutta colpa mia! Non avrei dovuto dire che ero certa che ti avrebbero trovata colpevole, ma solo di aver adempiuto il tuo dovere. Era una figura retorica, mi pareva una buona idea, ma forse ho sbagliato...» «Sei stata bravissima», le dissi, oppressa. «Non dipende mica da quello che hai detto tu.» Incrociai le braccia e chinai la testa. Mickey e Yuki parlavano tra loro. Sentii che lui la rassicurava, le sussurrava che non era ancora detta l'ultima parola, ma avevo una vocina dentro la testa che mi ripeteva continuamente una domanda, come un disco di vinile rigato. Com 'è possibile? Com'è possibile? 104 Quando mi riscossi dalla mia trance e ripresi ad ascoltare, Mickey stava spiegando qualcosa a Yuki. «Il giudice ha dato ai giurati le cartelle cliniche dell'ospedale e la trascrizione della deposizione dell'infermiera. Ha anche detto loro di non preoccuparsi per il tetto massimo del risarcimento, perché sta al giudice determinarlo.» Si passò una mano sul viso con un gesto che interpretai come esasperazione e continuò: «Yuki, hai fatto un ottimo lavoro, dico sul serio. Non riesco a credere che la giuria si sia bevuta le frottole di Mason Broyles. Non riesco a crederci. E noi meglio di così non potevamo fare». In quel momento squillò il cellulare di Yuki. «La giuria è rientrata», disse. Chiuse il telefono e lo strinse con tanta forza che le nocche le diventarono bianche. «Sono pronti a dare lettura del verdetto.» Non capii più nulla. Vedevo davanti a me la parola «verdetto», cercavo di analizzarla, di trovare tra le lettere e le sillabe di cui era composta un barlume di speranza. Sapevo che deriva da una locuzione latina medievale, vere dictum, che significa «detto con verità». Quanta verità ci sarebbe stata in quel verdetto? La gente ci avrebbe comunque creduto. Mickey disse all'autista di fare inversione e pochi minuti dopo mi ritro-
vai a ripetere «No comment, no comment» mentre seguivo Mickey e Yuki tra la folla, su per la scalinata e quindi nell'atrio del tribunale. Prendemmo tutti posto nell'aula B. Mi sentii chiamare per nome, da una voce che mi parve provenire da un'altra dimensione spaziotemporale. Mi voltai. «Joe!» «Sono appena arrivato, Lindsay. Sono venuto direttamente dall'aeroporto.» Allungammo le braccia e per un attimo riuscimmo a tenerci la mano sopra le teste delle persone sedute alle mie spalle, poi dovetti lasciarlo andare e voltarmi di nuovo. I fotografi mettevano a fuoco gli obiettivi. A meno di un'ora dalla sospensione della seduta, il giudice entrò di nuovo in aula e i giurati si sistemarono ai loro posti. L'usciere richiamò i presenti all'ordine e la seduta fu aperta. 105 Ci volle un po' perché i membri della giuria si rassettassero i vestiti, posassero le borse e si accomodassero. Finalmente furono tutti seduti e attenti. Notai che solo due mi avevano guardato. Ascoltai un po' stordita il giudice chiedere alla giuria se era giunta a un verdetto. Il portavoce, un afroamericano sulla cinquantina che si chiamava Arnold Benoit, si aggiustò la giacca e rispose: «Sì, vostro onore». «La prego di consegnare il verdetto al mio assistente.» Sam Cabot, dall'altra parte del corridoio, prese a respirare più affannosamente. Anch'io ero agitata: avevo il batticuore, quando il giudice aprì il foglio di carta che le era stato consegnato. Lo scorse e, impassibile, lo restituì all'assistente, il quale a sua volta lo porse di nuovo al portavoce della giuria. «Invito il pubblico ad ascoltare in silenzio quel che dirà il portavoce della giuria e a non fare commenti», disse il giudice. «Bene, signor Benoit, dia lettura del verdetto.» Il portavoce estrasse gli occhiali dal taschino della giacca, li aprì lentamente, li inforcò e cominciò a leggere. «La giuria dichiara l'imputata tenente Lindsay Boxer non colpevole dei reati ascrittile.» «All'unanimità?»
«Sì.» Ero così in ansia che dubitai di aver sentito bene e, ripetendo tra me le parole del portavoce, per un attimo temetti che il giudice lo smentisse. Yuki mi afferrò per un polso e solo quando la vidi illuminarsi in un gran sorriso mi resi veramente conto che non avevo sognato: la giuria si era pronunciata in mio favore. Qualcuno gridò: «No! No! Non potete fare questo!» Era Andrew Cabot che, balzato in piedi, si reggeva alla sedia su cui era seduto Mason Broyles. L'avvocato era livido e aveva l'aria sconfitta. Broyles chiese in tono perentorio che ognuno dei giurati facesse una dichiarazione esplicita di voto e il giudice lo accontentò. «Quando sentite chiamare il numero corrispondente al vostro posto, dite alla corte come avete votato, per cortesia», ordinò il giudice Achacoso. Uno alla volta, i giurati risposero: «Non colpevole...» «Non colpevole...» «Non colpevole...» Era una formula che avevo sentito ripetere tante volte, ma non credo di averla mai compresa a fondo fino a quel momento. Mentre i miei due avvocati mi abbracciavano, provai un senso di sollievo come non ne avevo mai provato in vita mia. Forse era una sensazione riservata a momenti come quello. Ero libera! Mi pareva di volare. PARTE QUINTA ALLA GRANDE 106 Il cielo era grigio, quando Martha e io uscimmo di casa e salimmo in macchina. Mentre ci allontanavamo da San Francisco, accesi l'autoradio e ascoltai distrattamente le previsioni del tempo districandomi nel traffico dell'ora di punta. Procedendo lentamente in Potrero Street, pensai al mio capo, Traccino. Il giorno prima, quando ci eravamo visti in tribunale, mi aveva chiesto di tornare subito a lavorare e io ero arrossita come se mi avesse proposto una cenetta romantica. Avremmo potuto sancire l'accordo con una stretta di mano.
Se avessi accettato, a quell'ora sarei stata diretta in ufficio per parlare alle truppe della necessità di continuare la nostra lotta e per tuffarmi nel mare di dossier di casi irrisolti che ingombravano la mia scrivania. Invece, sebbene il capo avesse fatto di tutto per convincermi, gli avevo risposto picche. «Ho ancora qualche giorno di ferie, capo. Ho bisogno di riposarmi.» Aveva detto che capiva, ma non ci credevo. Non capivo neppure io che cosa fosse meglio fare e avevo la sensazione che non ci sarei riuscita finché non avessi scoperto l'autore degli omicidi di Half Moon Bay. Ormai facevano parte anche loro della mia vita. L'istinto mi suggeriva che, se mi fossi dedicata a ciò che sapevo fare meglio, se avessi perseverato, avrei trovato l'assassino. In quel momento, era l'unica cosa che desideravo veramente fare. Presi la 280 in direzione sud e, una volta fuori città, abbassai il finestrino e cambiai canale. Alle dieci del mattino avevo i capelli che mi volavano in faccia e ascoltavo Sue Hall su 99.7 FM, che trasmetteva tutti i miei classici preferiti. «Stamattina non piove», disse l'annunciatrice con la sua voce bassa e suadente. «È il 1° luglio, una bellissima giornata grigia, e San Francisco è avvolta in una nebbiolina madreperlacea. Non trovate che la nebbia sia una delle cose più belle di San Francisco?» Poi dallo stereo uscirono le note della canzone ideale per quel momento, Fly Like an Eagle. Mi misi a cantare a squarciagola e, a mano a mano che cantavo e respiravo a pieni polmoni, il mio umore migliorava. A un certo punto, mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Ero libera! Il ricordo dell'incubo che era stato il processo si allontanava nello specchietto retrovisore e davanti a me si apriva, sgombro e sconfinato come la strada, il futuro. Percorsi una trentina di chilometri e siccome Martha dava segno di voler fare una sosta, mi fermai nel parcheggio di un Taco Bell a Pacifica. Era un edificio di legno costruito negli anni '60, prima che le norme sui piani regolatori si inasprissero: un vero pugno in un occhio. A differenza del resto della Highway 1, che corre a picco sul mare, il parcheggio del ristorante era in basso, separato dalla spiaggia soltanto da una fila di scogli oltre i quali si scorgeva a perdita d'occhio l'azzurro intenso del Pacifico.
Non resistetti alla tentazione di comprarmi un churro alla cannella e un caffè e andai a gustarmeli seduta su uno scoglio, ammirando surfisti abbronzatissimi e coperti di tatuaggi che si divertivano fra le onde, mentre Martha correva sulla sabbia chiara. Dopo un po' il sole dissolse quasi del tutto la nebbia. Quando mi parve di essermi goduta abbastanza quel momento così piacevole, chiamai Martha e risalimmo in macchina. Venti minuti dopo arrivammo in vista della periferia di Half Moon Bay. 107 Entrai nella stazione di servizio Man in the Moon, mi fermai vicino ai distributori e suonai il clacson finché Keith non uscì dall'ufficio. Si tolse il berretto da baseball, scosse i capelli biondi, si rimise il cappello e, sorridendo, si avvicinò camminando tutto dinoccolato. «Guarda guarda chi si vede! La donna dell'anno!» esclamò posando una mano sulla testa di Martha. «In carne e ossa», replicai ridendo. «Sono felice che sia finita.» «Lo credo. Ho visto quel Sam Cabot al telegiornale. Faceva pietà. Ho avuto veramente paura per te, Lindsay. Per fortuna è acqua passata, ormai. Congratulazioni.» Lo ringraziai per l'interessamento e gli chiesi di farmi il pieno. Nel frattempo, presi la spugna dal secchio e mi lavai il parabrezza. «Allora, che cosa fai ancora qui, Lindsay? Non devi tornare a lavorare nella grande metropoli?» «Non subito. Sai, devo riprendermi...» Non ebbi il tempo di finire la frase: un'auto rossa attraversò a tutta velocità l'incrocio, rallentò quanto bastava perché l'uomo al volante mi guardasse in faccia, quindi accelerò e ripartì lungo Main Street. Ero arrivata da meno di cinque minuti e già mi ritrovavo alle prese con Dennis Agnew. «Ho lasciato la Bonneville a casa di mia sorella», dissi osservando la Porsche che si allontanava. «E ho ancora una faccenda da sistemare.» Keith si voltò e vide che stavo guardando nella direzione in cui si era dileguata la macchina di Agnew. «Non capisco», commentò scuotendo la testa mentre infilava la pistola del distributore di benzina nel serbatoio della mia macchina. «Quello è un tipo losco. Che cosa ci trovate voi donne, me lo spieghi?»
«Io niente», ribattei. «Perché? Pensavi che mi interessasse?» «Ah, non ti interessa?» «Di certo non nel senso che intendi tu. Il mio interesse per Dennis Agnew è squisitamente professionale.» 108 Mentre andavamo verso casa di Cat, Martha saltò dal sedile posteriore a quello davanti abbaiando come una forsennata. Quando fermai la macchina nel vialetto, uscì dal finestrino aperto e corse verso il portone, dove si fermò scodinzolando e continuando a ululare. «Calma, calma!» le dissi. «Datti una regolata.» Infilai la chiave nella toppa e aprii la porta. Martha entrò in casa trotterellando. Telefonai a Joe e gli lasciai un messaggio. «Ciao, sono a casa di Cat. Appena puoi, chiamami.» Poi ne lasciai uno anche a Carolee, dicendole che ero tornata e non c'era più bisogno che lei e Allison venissero a dar da mangiare a Penelope. Passai la giornata a riflettere sugli omicidi di Half Moon Bay e a rassettare. Per cena mi preparai spaghetti con i piselli e presi mentalmente nota di alcune cose da comprare l'indomani mattina. Poi portai il computer in camera delle mie nipoti e lo sistemai sulla scrivania. Notai che le patate dolci sul davanzale erano cresciute di parecchi centimetri e che i foglietti che Joe e io avevamo appuntato sulla bacheca delle ragazze erano esattamente come li avevamo lasciati. I nostri appunti sugli omicidi dei Whittaker, dei Daltry, dei Sarducci e degli O'Malley continuavano a restare lì, slegati, senza portarmi da nessuna parte. Idem per il foglietto su CNI24. Accesi il portatile ed entrai nel VICAP, il database dell'FBI sui crimini violenti, istituito con lo scopo di raccogliere tutte le informazioni relative a omicidi seriali. Il sito è dotato di un motore di ricerca efficientissimo e costantemente aggiornato dai dipartimenti di polizia di tutti gli Stati Uniti. Cominciai a digitare le parole chiave che mi parevano più indicate, nella speranza di trovare qualche risposta ai miei numerosi interrogativi. Le provai tutte: «frustate», «natiche», «morte», «coppie uccise nel letto» e, naturalmente, «sgozzamenti», voce alla quale trovai una montagna di informazioni. Troppe. Passarono le ore e cominciavo ad avere gli occhi stanchi. Misi il compu-
ter in stand by e mi buttai sul letto di una delle mie nipoti per riposarmi qualche minuto. Quando mi svegliai, fuori era buio pesto. Avevo l'impressione di essere stata svegliata da qualcosa, forse da un rumore insolito. Il videoregistratore segnava le 02.17. Sì, avevo la sgradevole sensazione, per quanto inspiegabile, che qualcuno mi stesse osservando. Sbattei gli occhi nel buio e vidi un bagliore rossastro attraversare il mio campo visivo. Era l'immagine residua della Porsche rossa, che mi ricordò Agnew e i nostri inquietanti incontri: le avance che mi aveva fatto al Cormorant, lo scontro alla stazione di servizio di Keith e l'incidente sfiorato al semaforo. Non riuscivo a smettere di pensare a quell'uomo. E continuavo a sentirmi osservata. Stavo per alzarmi e trasferirmi in camera mia per passare il resto della notte nel mio letto, quando una serie di colpi secchi e un fragore di vetri infranti riecheggiarono nel silenzio e mi piovvero intorno schegge di vetro della finestra. La pistola! La pistola! Dove diavolo era la mia pistola? 109 Martha ebbe i riflessi più pronti di me. Si precipitò giù dal letto per nascondervisi sotto. La seguii a ruota, rotolando sul pavimento e cercando di farmi venire in mente dove avevo lasciato la pistola. Ma si! L'avevo lasciata nella borsa in salotto, dove peraltro si trovava anche il telefono più vicino. Come avevo potuto commettere una simile imprudenza? E se fossi morta intrappolata in quella stanza? Avevo il battito a mille. Sollevai la testa di pochi centimetri e, al bagliore verdastro del display del videoregistratore, feci un rapido inventario. Osservai tutti i piani di appoggio e tutti gli oggetti della stanza in cerca di qualcosa da usare per difendermi. Qualsiasi cosa... C'erano un sacco di animali di peluche e una decina di bambole, ma né una mazza da baseball o un bastone da hockey: nessuna arma, per quanto impropria. Persino il televisore era fissato al muro. Strisciando sul parquet, arrivai alla porta e, sollevandomi sui gomiti, la chiusi a chiave. Proprio in quel momento si udì un'altra scarica di colpi: qualcuno stava
sparando con un'arma automatica contro la facciata della casa, nel salotto e nella camera degli ospiti in fondo al corridoio. A quel punto, capii qual era il suo scopo. In quella stanza avrei potuto, anzi, avrei dovuto dormire io. Strisciando sulla pancia e avanzando di un centimetro alla volta, afferrai per una gamba una sedia di legno e la spinsi contro la porta, inclinandola fino a incastrarla sotto la maniglia. Poi presi l'altra sedia e la sbattei con tutta la mia forza contro la scrivania. Armata di una gamba di sedia spezzata, mi accucciai vicino alla porta con le spalle al muro. Mi facevo pena da sola: il mio cane si era nascosto sotto il letto e io non avevo che un bastone improvvisato per difendermi. Se da quella porta fosse entrato qualcuno seriamente intenzionato a uccidermi, sarei stata spacciata. 110 Rimasi in agguato, con le orecchie tese a percepire il minimo scricchiolio sul pavimento fuori della stanza, e intanto immaginavo la porta che si spalancava, spinta da un calcio, e io che davo una bastonata in testa al mio aggressore, mettendolo fuori combattimento. L'orologio del videoregistratore segnava il passare dei minuti. Dopo un breve intervallo di assoluto silenzio, radrenalina cominciò a calare. E la rabbia a salire. Mi alzai, tesi ancora una volta le orecchie e, non sentendo alcun rumore, aprii la porta e mi avventurai guardinga lungo il corridoio. Quando arrivai in salotto, presi la borsa, appoggiata al divano, vi frugai dentro e strinsi fra le dita la mia pistola. Ti ringrazio, Signore. Mentre chiamavo il 911, sbirciai tra le stecche delle veneziane. La strada era deserta, ma mi parve di veder luccicare qualcosa nel prato davanti alla casa. Che cos'era? Dissi al centralinista nome, grado e numero di matricola e gli spiegai che erano stati esplosi dei colpi d'arma da fuoco contro il civico 265 di Sea View Avenue. «Ci sono dei feriti?» «No, sto bene, ma avverta Stark, per favore.» «Già fatto, tenente. Le mandiamo rinforzi.»
111 Sentii delle sirene e vidi delle luci lampeggianti che si avvicinavano. Appena la prima volante si fermò davanti a casa, aprii il portone e Martha si precipitò fuori. Corse verso un oggetto che sembrava un serpente fermo nell'erba sotto la luna e lo annusò. «Martha, che cos'hai trovato? Che cos'è?» Ero accucciata accanto al mio cane quando Peter Stark scese dalla sua auto. Mi venne incontro e si inginocchiò vicino a me con la torcia accesa. «Tutto bene?» «Sì, sì, tutto bene.» «Sbaglio, o è una cintura?» La osservammo insieme. Era una cintura da uomo, lunga circa novanta centimetri e larga poco più di uno, di cuoio marrone, con una fibbia rettangolare di argento opaco. Una cintura normalissima. Come se ne trovano negli armadi di metà della popolazione della California. Quella, però, aveva alcune macchie brunastre sulla fibbia metallica. «Non sarebbe straordinario se...» dissi, cercando di non pensare al terrore di poco prima. «Non sarebbe straordinario, se avessimo appena trovato una prova?» 112 C'erano tre macchine della polizia ferme lungo la strada, si sentivano voci e gracchiare di radio e a poco a poco lungo Sea View Avenue si accesero le luci nelle case e la gente cominciò ad affacciarsi sulla porta, chi in pigiama e vestaglia, chi in maglietta e mutande, con i capelli arruffati e la faccia spaventata e insonnolita. Il giardino di Cat era illuminato a giorno dai riflettori della polizia. Gli agenti scesero dalle auto, si consultarono con il capo e si sparpagliarono. Due cominciarono a raccogliere bossoli, mentre altri due andarono a interrogare i vicini. Accompagnai Stark in casa e insieme esaminammo i vetri infranti, i mobili scheggiati e la testata del mio letto sforacchiata di colpi. «Ha idea di chi può essere stato?» mi chiese Stark. «Assolutamente no», risposi. «Ho lasciato la macchina davanti a casa, sotto gli occhi di tutti. Però nessuno sapeva che sarei tornata qui.»
«E come mai è tornata, tenente?» Stavo cercando una risposta adatta a quella domanda quando mi sentii chiamare da Allison e Carolee. Un poliziotto molto giovane, con le orecchie rosse a sventola, si affacciò sulla porta e disse a Stark che avevo visite. «Qui non possono entrare», rispose il capo. «Cristo, ma non avete sbarrato la strada?» Il ragazzo scosse la testa e diventò ancora più rosso. «E perché no? Cazzo, è la prima cosa da fare. Vai, e sbrigati.» Seguii l'agente e vidi Carolee e Allison sulla porta. Mi abbracciarono, facendomi un gran piacere. «Uno dei miei ragazzi ha una radio sintonizzata sulle frequenze della polizia», mi disse Carolee. «Sono venuta appena ho saputo. Oh, mio Dio, Lindsay! Guardati le braccia!» Abbassai lo sguardo. Avevo alcuni tagli sugli avambracci, provocati dalle schegge di vetro, e siccome il sangue era colato anche sulla camicia, sembravo in condizioni molto peggiori di quanto non fossi veramente. «Sto bene», dissi a Carolee. «È solo qualche graffio, niente di grave.» «Non avrai intenzione di restare qui, vero, Lindsay? Sarebbe una follia!» Aveva un'espressione indignata e spaventata al tempo stesso. «Ho un sacco di posto, puoi venire a casa mia...» «Buona idea», intervenne Stark avvicinandosi. «Vada a stare dalla sua amica. Ho chiamato i tecnici della Scientifica: per fare il sopralluogo e tirar fuori i proiettili conficcati nelle pareti ci metteranno tutta la notte.» «Non importa. Preferisco rimanere qui», replicai. «La casa è di mia sorella. Non voglio andarmene.» «Va bene, ma si ricordi che siamo noi a dirigere le indagini, tenente. Qui lei è - e resta - fuori della sua giurisdizione. Non faccia scherzi, okay?» Non faccia scherzi? «E che scherzi dovrei fare?» «Okay, okay. Le chiedo scusa. Non si scordi, però, che qualcuno ha appena cercato di farla fuori.» «Grazie. Fin qui c'ero arrivata.» Con un gesto che gli era consueto, il capo della polizia di Half Moon Bay si lisciò i capelli. «Lascerò una pattuglia di guardia qui davanti, stanotte. E magari anche domani e dopo.» Mentre salutavo Carolee e Allison, Stark andò alla macchina e tornò con un sacchetto di carta. Con una biro raccolse dal prato la cintura e la mise
nel sacchetto. Chiusi dignitosamente la porta, con aria offesa. Andai a letto, ma naturalmente non riuscii a dormire. A parte il fatto che c'erano poliziotti che andavano e venivano per la casa sbattendo le porte, ridendo e parlando forte, avevo la mente in subbuglio. Accarezzai distrattamente Martha, che tremava accanto a me. Qualcuno aveva sparato contro la casa di mia sorella e lasciato un avvertimento in giardino. Era stato un tentativo di intimidazione, un modo per dirmi che dovevo stare alla larga da Half Moon Bay? O avevano veramente cercato di farmi fuori? Che cosa mi aspettava adesso? 113 Un raggio di sole entrò dalla finestra con un'angolazione diversa dal solito e mi costrinse ad aprire gli occhi. Vidi una tappezzeria azzurra, una foto di mia madre sul comò e di colpo ricordai tutto. Ero nel letto di Cat, perché alle due del mattino qualcuno aveva crivellato di colpi la testata del letto degli ospiti, pochi centimetri sopra il punto in cui si sarebbe dovuta trovare la mia testa. Martha mi fregò il naso umido sulla mano finché non mi decisi ad alzarmi. Mi infilai un paio di jeans sbiaditi e una camicetta di mia sorella, rosso corallo, con un'ampia scollatura increspata: un colore e un modello che io non avrei mai scelto. Mi pettinai, mi lavai i denti e andai in salotto. Siccome i tecnici della Scientifica stavano ancora estraendo proiettili dalle pareti, preparai caffè e pane tostato per tutti e feci una serie di domande precise, grazie alle quali venni a sapere alcuni dati fondamentali. Erano stati sparati dodici colpi, con proiettili da 9 millimetri, distribuiti uniformemente tra il salotto e la camera degli ospiti. Uno era entrato anche dalla finestra, piccola e alta, della camera delle mie nipoti. Sia i proiettili sia i bossoli erano stati raccolti ed etichettati, i fori erano stati fotografati e il sopralluogo era praticamente finito: nel giro di un'ora tutto quanto sarebbe stato inviato al laboratorio. «Tutto bene, tenente?» mi chiese uno dei tecnici, un ragazzo alto e magro, sulla trentina, con grandi occhi castani e un ampio sorriso. Mi guardai intorno: era un disastro, c'erano vetri rotti e polvere ovunque. «Insomma... Mi viene male al solo pensiero di dover ripulire questo ca-
sino, far sostituire i vetri alle finestre e stuccare i fori.» «A proposito, io mi chiamo Artie», si presentò lui. «Piacere», risposi stringendogli la mano. «Mio zio Chris ha una ditta che fa riparazioni. Vuole che gli telefoni? Le rimetterà tutto a posto in quattro e quattr'otto. Niente lista d'attesa: la tratterà come una di famiglia.» Accettai il suggerimento di Artie e lo ringraziai, poi presi la borsa e uscii con Martha dalla porta di servizio. Diedi da mangiare a Penelope, feci il giro intorno alla macchina della polizia ferma nel vialetto e mi chinai per parlare all'agente che era seduto al posto di guida. «Lei è Noonan, giusto?» «Sì, tenente.» «È ancora in servizio?» «Sì. Resteremo qui ancora per un po', tutti quanti, la squadra e il capo. Meglio sorvegliare la zona: questa faccenda puzza.» «Apprezzo la sollecitudine, grazie.» Ed era vero. Alla luce del giorno quel che era successo mi sembrava ancora più grave. Qualcuno era arrivato in macchina in quella strada tranquilla e aveva aperto il fuoco con un'automatica contro la casa di Cat. Ero spaventata e avevo bisogno di cambiare aria per ritrovare l'equilibrio. Scossi le chiavi della macchina. Martha abbassò le orecchie e scodinzolò energicamente. «Andiamo a fare la spesa», le dissi. «Ti va di portare la Bonneville a fare un giro?» 114 Martha saltò sul sedile anteriore del mio «bolide». Allacciai la cintura e girai la chiave dell'accensione. Il motore partì al secondo tentativo e ci dirigemmo verso il centro. Avevo intenzione di andare alla rosticceria di Main Street, ma percorrendo le strade diritte della zona in cui abitava Cat a un certo punto notai una Taurus azzurra nello specchietto retrovisore che sembrava seguirmi, tenendosi deliberatamente a distanza. Avevo di nuovo la sgradevole sensazione di essere osservata. Qualcuno mi pedinava? O ero io che ero paranoica e mi sentivo come un bersaglio in un tiro a segno?
Percorsi Magnolia Street passando sotto l'autostrada e arrivai in Main Street, dove passai senza fermarmi davanti a vari negozi: Music Hut, l'edicola Moon News, il distributore Feed and Fuel. Volevo convincermi che si trattava soltanto di uno scherzo della mia immaginazione, invece, se la Taurus spariva per un tratto, all'angolo successivo me la ritrovavo alle calcagna. Maledizione! «Tieniti forte. Facciamo una gara», dissi a Martha che sembrava sorridere con il muso al vento. In fondo a Main Street, svoltai bruscamente a destra e imboccai la Route 92, la strada che collega Half Moon Bay al resto della California. Le macchine procedevano veloci, il traffico era intenso ma scorrevole: mi immisi nella colonna di auto che procedevano a ottanta chilometri all'ora in un tratto dove il limite era quaranta. C'era la doppia striscia al centro della strada e per quasi otto chilometri, fino all'ingresso dell'autostrada, c'era il divieto di sorpasso. Guardavo davanti a me senza quasi notare il pendio coperto di arbusti e pochi alberi spelacchiati alla mia sinistra e il dirupo alto cinque o sei metri alla mia destra. Tre macchine dietro di me, la Taurus non mi perdeva d'occhio. Non ero pazza: qualcuno mi stava seguendo. Era una tattica per spaventarmi? O a bordo dell'auto c'era quello che mi aveva sparato addosso la sera prima, in attesa dell'occasione giusta per riprovarci? In fondo alla Route 92 c'è l'incrocio con Skyline Boulevard e all'angolo, sulla destra, c'è un'area di sosta con cinque tavoli da picnic e uno spiazzo di ghiaia per parcheggiare. Senza mettere la freccia, sterzai di colpo con l'intenzione di fermarmi sul ciglio della strada e lasciar passare la Taurus in maniera da vedere in faccia il mio inseguitore e prendergli la targa. E, naturalmente, togliermi dalla sua linea di tiro. Ma invece di tenere la strada come avrebbe fatto la Ford Explorer, la Bonneville fece testacoda sulla ghiaia e mi ritrovai di nuovo sulla strada, oltre la doppia striscia, contromano. La Taurus doveva essere passata, ma io non l'avevo vista. Mentre stringevo il volante con tutte le mie forze nel tentativo di controllare l'auto che girava su se stessa, tutte le spie luminose del cruscotto si spensero di colpo. Il servo sterzo e i freni non rispondevano più, l'alternatore era kaputt, il
motore cominciava a fumare e l'auto sembrava impazzita al centro della strada. Premetti varie volte il pedale del freno, invano. Un pick-up nero sterzò per evitarmi e l'autista suonò il clacson e mi urlò di tutto dal finestrino, ma io ero così contenta che non mi fosse venuto addosso che l'avrei baciato. Quando finalmente riuscii a fermarmi dalla parte opposta della strada, intorno a me si sollevò un tal nuvolone di polvere che non vedevo più nulla. Scesi dalla Bonneville e mi ci appoggiai, con le gambe di gelatina e le mani che tremavano. Per il momento l'inseguimento era concluso. Ma sapevo che non sarebbe finita lì. Qualcuno - non sapevo né chi né perché - mi voleva morta. 115 Con il cellulare chiamai la stazione di servizio Man in the Moon, ma mi rispose la segreteria telefonica. «Keith, ho avuto un piccolo contrattempo. Sono Lindsay. Per favore, rispondi.» Quando finalmente Keith venne al telefono, gli spiegai dov'ero e, dopo venti minuti che a me parvero un'ora, arrivò con il carro attrezzi, agganciò la Bonneville e la trainò poco dignitosamente fino a casa. Io salii davanti con lui. «È un'auto di lusso, Lindsay», mi disse in tono di rimprovero Keith. «Non si possono fare acrobazie con una macchina così. Ha più di vent'anni, renditene conto!» «Lo so, lo so.» Seguì un lungo silenzio. «Bella camicetta.» «Grazie.» «Dico sul serio. Perché non ti vesti da femmina più spesso?» mi consigliò, facendomi ridere. Arrivati all'officina, aprì il cofano della Bonneville. «Ah, ecco. Ti si è strappata la cinghia del ventilatore», sentenziò. «Lo sapevo.» «E sapevi anche che, in caso di emergenza, si può sostituire con un collant?»
«Sì, lo sapevo. Ma, ti sembrerà strano, nella cassetta degli attrezzi non ho collant.» «Senti, mi è venuta un'idea. Perché non me la rivendi? Ti do cento dollari più di quanto me l'hai pagata.» «Ci devo pensare. No.» Keith rise e si offrì di riaccompagnarmi a casa. Non potevo fare altro che accettare e, dal momento che l'avrebbe saputo comunque, gli raccontai quel che non avevo ancora detto né alle mie amiche né a Joe. E cioè che la notte precedente mi avevano sparato addosso. «E poco fa hai avuto l'impressione che qualcuno ti stesse seguendo? Perché non te ne torni a casa tua, Lindsay? Sul serio!» «Non posso andarmene così. Soprattutto adesso che qualcuno ha crivellato di colpi la casa di mia sorella.» Keith mi guardò preoccupato, si aggiustò il berretto dei Giants e continuò a guidare disinvolto. «Ti hanno mai detto che sei una donna ostinata?» «Certo. È considerata una dote, nella polizia.» Capivo che cosa stava cercando di dirmi. Non sapevo più nemmeno io se ero coraggiosa o stupida. Ma sapevo che non volevo arrendermi. 116 Quando arrivammo davanti a casa di Cat, il vialetto era pieno di macchine: la mia Explorer, un'auto della polizia, il furgone di un vetraio e un camioncino azzurro metallizzato con la scritta PRONTO INTERVENTO sulla fiancata. Ringraziai Keith del passaggio e, seguita da Martha, entrai in casa, dove trovai un omone con i baffi e la chierica intento a passare l'aspirapolvere sul divano. Spense l'apparecchio e dichiarò: «Sono lo zio Chris». Anch'io mi presentai. «Sono venuti dei giornalisti», mi informò. «Gli ho detto che si è trasferita e che torna quando la casa sarà a posto. Ho fatto bene?» «Perfetto. Bravissimo.» «E poco fa è passato il capo della polizia, Stark. Ha detto di chiamarlo appena può.» Ignorai i quarantasette messaggi che lampeggiavano sulla segreteria telefonica e chiamai la stazione di polizia dal telefono della cucina. Mi rispose
l'agente di turno. «Il capo è impegnato. Sta rilasciando un'intervista», disse. «Posso farla richiamare?» «Sì, grazie.» «Appena finisce, glielo dico.» Riattaccai e andai in fondo al corridoio, in camera delle mie nipoti. Le coperte erano ancora per terra, i vetri di una delle finestre erano rotti e una delle patate dolci, caduta per terra, stava appassendo. Sbattendo la sedia, avevo lasciato un gran brutto segno sul piano della scrivania e mi sembrava che gli animali di peluche mi guardassero con aria di rimprovero. E se le bambine fossero state in casa, ieri notte? Eh, Lindsay? Che cosa sarebbe successo? Portai la sedia che non avevo rotto davanti alla bacheca, mi sedetti e guardai i miei appunti sugli omicidi. Gli occhi mi corsero subito alla cosa che mi lasciava più perplessa. A volte i fatti più evidenti sono lì, sotto i nostri occhi, e noi non li notiamo. Ripensai ai fori nell'armadio degli O'Malley. Mi cambiai, feci uscire Martha nel giardino, con Penelope, raccomandai a tutte e due di stare brave e salii in macchina. Feci manovra per uscire da dietro il furgone del vetraio, mi immisi sulla strada e tornai in centro. 117 Il Guardone, al volante della Taurus, imboccò la 280 in direzione nord e proseguì fino Hillsborough. Aveva molte idee per la testa, la maggior parte delle quali riguardavano Lindsay Boxer. Pensare a lei gli ispirava un insieme di emozioni complesse. Stranamente, l'ammirava per come teneva duro e riusciva sempre a scamparla. Per come si rifiutava di arrendersi, di tirarsi indietro, di tornarsene a casa. Però, gli dava fastidio che si ostinasse a mettergli i bastoni fra le ruote. Peccato per lei. In fondo loro avrebbero preferito non ucciderla. Ammazzare una poliziotta, e soprattutto del calibro di Lindsay Boxer, significava tirarsi addosso tutto il dipartimento di polizia di San Francisco e forse anche l'FBI. Rallentò e imboccò l'uscita per Trousdale Drive. Dopo circa due chilometri, davanti al grande Peninsula Hospital, svoltò a destra e poi ancora a
destra, imboccando El Camino Real in direzione sud. Poco più avanti c'era una stazione di servizio Exxon. Il Guardone entrò nel minimarket e girò per qualche minuto tra gli scaffali, scegliendo una bottiglia di acqua minerale, una barretta energetica e un quotidiano. Pagò alla cassiera, giovanissima e prosperosa, i 4 dollari e 20 centesimi dei suoi acquisti, più 20 dollari di benzina. Uscendo dal negozio, aprì il giornale e vide l'articolo in prima pagina. SPARATORIA NOTTURNA. PRESO DI MIRA UN TENENTE DELLA OMICIDI. C'erano anche una foto di Lindsay Boxer in divisa e, sulla destra, un titolo che rimandava a un aggiornamento sul processo Cabot. «Rinviato a giudizio per la morte di due ragazzi il giovane Sam Cabot. Segue a pagina 2». Il Guardone ripiegò il giornale, lo posò sul sedile accanto a sé e fece benzina. Poi rimise in moto e partì verso casa. Con la Verità avrebbe parlato più tardi. Magari, invece di uccidere Lindsay Boxer come tutti gli altri, l'avrebbero soltanto fatta sparire. 118 Lo studio del fu dottor O'Malley si trovava in un edificio di mattoni a due piani in Kelly Street. Il nome era inciso su una targa di ottone a destra del portone. Provai una certa emozione nel suonare alla porta. Sapevo che il capo della polizia non avrebbe approvato la mia iniziativa, ma dovevo fare qualcosa e preferivo scusarmi a cose fatte, piuttosto che chiedergli il permesso e sentirmelo negare. Il portone si aprì ed entrai. La sala d'attesa dello studio medico era piccola, quadrata, con poltroncine grigie e un gran numero di biglietti di condoglianze appesi alle pareti. La receptionist, seduta dietro un vetro scorrevole, era una signora di mezza età con i capelli brizzolati lunghi fino alle spalle, acconciati come usava negli anni '60. «Sono il tenente Boxer del dipartimento di polizia di San Francisco», mi presentai, mostrandole il tesserino. Le spiegai che stavo indagando su un caso di omicidio che presentava alcune analogie con la triste fine fatta dal dottor O'Malley. «Abbiamo già parlato con la polizia», mi disse la donna esaminando con diffidenza sia il tesserino sia il sorriso che le avevo sfoderato. «Per ore e
ore.» «Io le chiedo solo pochi minuti.» La donna chiuse il vetro scorrevole e uscì dal suo bugigattolo. «Mi chiamo Rebecca Falcone. Si accomodi», disse. Nello studio del dottore c'erano altre due donne di mezza età. «Le presento Mindy Heller, infermiera», disse indicandomi una bionda in camice bianco, con gli occhi pesantemente truccati, che stava buttando via interi vassoi di biscotti avvolti nella pellicola trasparente. «E Harriet Schwartz, la segretaria del dottore.» Harriet Schwartz era una donna piuttosto robusta, che indossava una tuta da ginnastica rossa ed era seduta davanti a un vecchio computer. «Lavoravamo tutte per il dottor O'Malley. E da parecchio tempo.» Strinsi la mano alle tre donne, mi presentai di nuovo e spiegai che cosa ero venuta a fare. Feci loro le condoglianze e dissi che avevo bisogno del loro aiuto. «Vorrei che mi raccontaste qualsiasi cosa che, secondo voi, possa gettar luce sulla vicenda.» «Vuole sapere la verità?» disse Harriet Schwartz voltando le spalle al computer, appoggiandosi allo schienale e lasciandosi andare ai propri ricordi. «Il dottore era come un quadro di Picasso: incomprensibile.» Mindy Heller la interruppe. «Era un bravo medico, ma era anche taccagno, scontroso, saccente. E a volte era molto prepotente, ci trattava come schiave», disse lanciando un'occhiata alle colleghe. «Non credo che lo abbiano ammazzato per questo, però.» «Capisco. Dunque lei pensa che gli O'Malley siano stati uccisi per una sfortunata coincidenza?» «Sì. Secondo me, è stato un caso. L'ho sempre detto, del resto.» Provai a farmi dire se tra le altre vittime degli omicidi c'erano dei suoi pazienti, ma incontrai un muro. «Siamo tenuti a proteggere la privacy dei pazienti, come lei ben sa», mi rispose Mindy Heller. «Se lo faccia dire dal capo della polizia. È meglio.» Messaggio ricevuto. Scrissi su un foglietto il mio numero di cellulare e lo lasciai sulla scrivania di Harriet Schwartz. Poi ringraziai e me ne andai. Ero scoraggiata. Avevo scoperto che il dottor O'Malley era un personaggio complesso e antipatico, ma questo mi serviva a poco. Appena fuori del portone, mi sentii afferrare per un braccio. Era Rebecca Falcone. Aveva un'espressione preoccupata, la fronte aggrottata e le labbra strette.
«Devo parlarle» mi disse. «A tu per tu.» «Ci diamo appuntamento da qualche parte?» «Al Coffee Company. Sa dov'è?» «In cima a Main Street? Vicino al centro commerciale?» Fece di sì con la testa. «Smonto alle dodici e mezzo.» «D'accordo. L'aspetto là.» 119 Il tavolino in fondo al locale, vicino alla toilette, era così piccolo che le nostre ginocchia si toccavano. Avevamo ordinato una Caesar salad a testa, ma Rebecca non mangiava. E non sembrava neppure intenzionata a parlare. Giocherellava con la piccola croce d'oro che portava al collo, facendola scorrere sulla catenina. Credevo di indovinare qual era il suo problema: voleva darmi delle informazioni importanti, ma nello stesso tempo non voleva che le sue colleghe sapessero che era stata lei a fare la spia. «In realtà non so nulla», mi disse dopo un po'. «Soprattutto degli omicidi. Posso dirle però che il dottore era molto preoccupato, negli ultimi tempi.» «In che senso?» «Era più nervoso del solito. In un paio di occasioni rispose persino male ai pazienti e - mi creda - non succedeva mai. Gli chiesi che cosa c'era che non andava, se aveva qualche problema. Ma lui non mi disse niente.» «Lei conosceva sua moglie Lorelei?» «Certo. Si conobbero perché lei frequentava la stessa chiesa, ma francamente rimasi sorpresa, quando decise di sposarla. Forse lui si sentiva solo e Lorelei lo gratificava molto», rispose Rebecca con un sospiro. «Era una donna semplice, un po' infantile. L'unica cosa che le interessava era fare shopping. Non aveva nemici.» «Interessante», commentai. Bastò quel piccolo incoraggiamento perché Rebecca si decidesse a dirmi anche il resto. Aveva la faccia di una che, in piedi sul trampolino, guarda l'acqua sotto di sé, giù in basso. Prese fiato e si tuffò. «Lei sa della prima moglie di O'Malley, Sandra?» mi domandò. «Sa che si suicidò impiccandosi in garage?»
120 Provai quella specie di brivido che spesso precede una svolta importante. «Sì», risposi. «Ho letto che Sandra O'Malley morì suicida. Come successe? Lei lo sa?» «Fu una cosa del tutto inaspettata», cominciò Rebecca. «Nessuno immaginava nulla... Non so perché fosse così depressa.» «Ma secondo lei perché si tolse la vita?» Rebecca giocherellò con la sua insalata, quindi posò la forchetta senza neppure assaggiarla. «Non ne ho idea. Ben non me ne ha mai parlato. Non posso escludere, però, che la maltrattasse.» «In che senso?» «La trattava come una pezza da piedi, la umiliava. Le parlava in un modo che a me faceva accapponare la pelle», spiegò. Si strinse nelle spalle e rabbrividì. «E la moglie si lamentava?» «No, non era il tipo. Era molto docile, mite. Non protestò nemmeno quando lui si fece l'amante.» Facevo fatica a seguirla. Rebecca aveva l'aria scandalizzata. «Fu una storia che durò anni, anche dopo il matrimonio con Lorelei. Lo so perché la signora in questione telefonava in studio...» «Rebecca?» La interruppi, benché non stessi nella pelle dalla voglia di sentire il resto: «Come si chiamava quest'altra donna?» Rebecca si appoggiò allo schienale della sedia, aspettò che due uomini diretti nel bagno fossero passati, poi si chinò verso di me e sussurrò: «Emily Harris». Avevo già sentito quel nome. Visualizzai un viso molto truccato e un vestito rosa. «Quella che lavora alla Pacific Homes Real Estate?» «Sì.» 121 Emily Harris era seduta alla scrivania quando entrai nel suo ufficio, che era lungo e stretto, con una fila di postazioni di lavoro che occupavano una
parete. Mi rivolse un sorriso automatico. Poi mi riconobbe e mi sorrise con più sincerità. «Oh, salve! Lei è venuta con suo marito a vedere la casa di Ocean Colony Road qualche settimana fa, giusto? Ricordo il suo cane. Bellissimo.» «Sì. Sono il tenente Boxer, del dipartimento di polizia di San Francisco», le dissi mostrandole il tesserino. La donna si irrigidì immediatamente. «Ho già parlato con la polizia.» «Perfetto. Allora immagino che non le dispiacerà se le faccio ancora qualche domanda.» Presi la sedia di fronte alla sua e mi accomodai. «Mi risulta che lei fosse molto amica del dottor O'Malley», dissi. «Risparmi le insinuazioni, la prego. Non ho problemi ad ammettere di avere avuto una relazione con lui. Il suo era un matrimonio infelice, non l'ho fatto entrare in crisi io. E non ho niente a che fare con la morte di Ben o di Lorelei.» Mentre parlava, radunò e allineò i blocchi, le penne e i fogli sparsi sulla scrivania. Metteva in ordine, cercava di fare chiarezza. A che cosa pensava, nel frattempo? Che cosa sapeva? «È stata incaricata di vendere la sua casa, signora Harris?» «Non penserà che l'abbia ammazzato per questo, spero! Cosa c'entra? Io sono una delle agenti immobiliari più in gamba della zona.» «Calma, calma. Non intendevo dire che l'ha ammazzato lei. Sto solo cercando di scoprire qualcosa di più su O'Malley e sua moglie, perché sto indagando su un altro omicidio.» «Mi scusi. Sono ancora sotto shock.» «Certo, capisco. Ed è riuscita a vendere la casa?» «Non ancora, ma ho un'offerta in ballo.» «Bene. Me la farebbe vedere di nuovo, per favore? Ci sono un paio di domande a cui spero di trovare risposta. Forse lei può aiutarmi a risolvere il caso.» 122 C'erano vari dépliant della Pacific Homes disposti a ventaglio su un tavolo nell'atrio e i fiori erano stati cambiati da quando Joe e io avevamo visitato da soli la bella casa di Ocean Colony Road. «Le dispiace venire di sopra con me?» dissi all'agente immobiliare. Emily Harris si strinse nelle spalle, posò le chiavi vicino al vaso di gigli
e si avviò su per le scale, facendo strada. Quando arrivammo davanti alla porta della camera da letto dei coniugi O'Malley, si fermò e mi lasciò passare. «Non mi va di entrare qui dentro», disse. La tappezzeria era verdolina e la moquette, anch'essa verde, era stata cambiata da poco. Erano passate solo tre settimane da quando Lorelei O'Malley era stata trovata morta, accoltellata, a pochi passi da dove eravamo noi adesso. Anche a me, come a Emily Harris, sembrava di vedere la scena. La donna deglutì e mi seguì. Le mostrai il foro stuccato ma ancora visibile sotto la vernice dell'anta dell'armadio e il segno dell'unghia di Joe. «Che cosa significa, secondo lei?» chiesi. Con un filo di voce roca, Emily Harris rispose: «Una cosa spaventosa, mi sembra chiaro. Ben si filmava mentre era a letto con Lorelei. A me diceva che non facevano più sesso, ma evidentemente era una bugia». Di colpo si mise a piangere, sommessamente, asciugandosi gli occhi in un mucchio di fazzoletti di carta azzurrini che aveva tirato fuori dalla borsetta. «Oddio, oddio», diceva fra i singhiozzi. Dopo un po' si soffiò il naso, si schiarì la voce e disse: «La mia storia con Ben non ha nulla a che fare con la sua morte. Possiamo andarcene, adesso?» No, ti terrò qui finché posso. Se potevo scoprire qualcosa da Emily Harris, quelli erano il momento e il posto migliori. «Signora Harris.» «Senti, diamoci del tu. Ormai sai tutto di me...» «D'accordo. Emily, ho bisogno di conoscere la tua versione dei fatti.» «Okay. Sai di Sandra?» Annuii e lei cominciò a parlare: sembrava non potesse più fermarla nessuno. «Ho temuto che si fosse ammazzata per via della mia storia con Ben, sai?» Si asciugò gli occhi gonfi, ma subito le si riempirono di nuovo di lacrime. «Lui diceva che era malata di mente, che non poteva lasciarla... Dopo il suo suicidio, però, non ci vedemmo per un anno. E poi entrò in scena Lorelei, la principessa. Ben pensava di doversi risposare per il bene di Caitlin. Che cosa potevo farci, io? All'epoca ero ancora sposata... Poi ricominciammo a frequentarci. Ci vedevamo soprattutto a casa mia, qualche volta in motel. Stranamente, penso che a Lorelei di Caidin non fregasse niente. Ben e io cercavamo di trovare il lato buono della situazione, ci scherzava-
mo su. Lui mi chiamava Camilla e io lo chiamavo Carlo, oppure Vostra Altezza Reale. Ci divertivamo. Mi manca da morire, sai? Mi amava davvero, ne sono sicura.» Mi trattenni dal risponderle: «Sì, certo, ti amava. Per quanto può amare uno stronzo meschino e fedifrago». Mi limitai ad aprire l'anta e la invitai a entrare nell'armadio. «Guarda qua, Emily.» Le mostrai il secondo spioncino nella parete di fondo. «Questo foro attraversa la parete e dà sulla camera di Caidin.» Emily restò a bocca aperta. Poi si nascose il viso tra le mani, si voltò e corse via dicendo: «No! Io quello non l'ho mai visto! Non ne so niente! Ora devo andare...» La sentii che si allontanava giù per le scale. Quando la raggiunsi, stava prendendo le chiavi dal tavolo per aprire la porta. Uscì. La chiamai: «Emily!» «Basta!» replicò ansimando. Sbatté la porta e la chiuse a chiave. «Per me è una sofferenza, capisci? Io lo amavo!» «Lo vedo», dissi. La seguii fino alla macchina. Mentre lei metteva in moto, insistetti: «Dimmi solo un'ultima cosa. Ben conosceva un certo Dennis Agnew?» Emily mollò il freno a mano e si voltò verso di me con il viso rigato di lacrime. «Cosa? Che cosa dici? Non avrà venduto i nostri video a quel mostro?» Senza aspettare la mia risposta, girò il volante e premette l'acceleratore. «Immagino che questo voglia dire che lo conosceva», dissi fra me mentre la Lincoln si allontanava. 123 Passai lentamente davanti alla pattuglia di guardia in fondo a Sea View Avenue e salutai con la mano, poi imboccai il vialetto e fermai la Ford Explorer vicino alla Bonneville. Evidentemente, Keith me l'aveva riportata durante la mia assenza. Portai in casa Martha e le diedi un biscotto, poi mi occupai della segreteria telefonica che lampeggiava: premetti il tasto PLAY e cominciai a prendere appunti su un blocchetto. Joe, Claire e Cindy avevano telefonato tutti e tre, lasciandomi detto in tono preoccupato di richiamare al più presto. Il quarto messaggio era di
Carolee Brown, che mi invitava a cena nel suo istituto quella sera. Poi c'era un messaggio del capo della polizia Stark. Con voce stanca, diceva: «Boxer, abbiamo i risultati del laboratorio sulla cintura. Mi richiami». Stark e io ci eravamo inseguiti al telefono tutto il giorno senza riuscire a parlarci. Imprecai, cercai il suo numero e lo richiamai. «Un attimo solo, tenente. Devo trovarlo», mi rispose l'agente di turno. Sentii che lo cercava via radio. Tamburellando con le dita sul tavolo della cucina, contai fino a settantanove prima che Stark mi rispondesse. «Boxer.» «Hanno fatto presto, al laboratorio», dissi. «Cos'hanno scoperto?» «Hanno fatto presto perché su quella cintura non c'erano impronte. Né molto altro, a parte un po' di DNA bovino. Quello stronzo ha sporcato la fibbia di sangue di vacca.» «Non ci posso credere...» «Infatti. Senta, ora devo salutarla. Il sindaco mi vuole parlare.» Stark riattaccò. Non lo invidiavo, poveraccio. Uscii sul terrazzo, mi sedetti su una sedia di plastica, appoggiai le caviglie sulla balaustra come mi aveva consigliato di fare Claire e ammirai il panorama. Ripensai alla cintura che avevo trovato nel prato quella mattina e alla macchia di sangue che si era rivelata una falsa pista. Una cosa era chiara. Non avevano cercato di ammazzarmi. Avevano lasciato la cintura per mettermi paura, per convincermi ad andare via. Mi chiesi perché: non avevo risolto il caso di CNI24 e, a dieci anni di distanza, continuavo a brancolare nel buio. Gli assassini erano a piede libero e noi non avevamo in mano che una serie di ipotesi e di interrogativi che non portavano da nessuna parte. Non sapevamo perché. Non sapevamo chi. E non sapevamo dove avrebbero colpito ancora. A parte questo, tutto andava alla grande. 124 Certe famiglie erano la rovina della civiltà moderna, ricettacoli di mar-
ciume e schifezze di ogni genere. Questo pensava il Guardone quella sera. Aprì la porta di servizio e si introdusse nell'anticamera della villa rosa in cima a Cliff Road. I Farley, ricchi e privilegiati, erano andati a cena fuori senza neppure premurarsi di chiudere a chiave la porta, tanto si sentivano sicuri. Dall'anticamera si passava in una cucina con un'enorme finestra a colonnine su cui si riflettevano gli ultimi raggi del sole al tramonto. È solo un sopralluogo, si disse. Entra ed esci nel giro di cinque minuti. Come al solito. Estrasse la macchina fotografica digitale dalla tasca interna del morbido giubbotto di pelle e scattò una serie di istantanee in successione: gli spazi tra le colonne della finestra erano abbastanza larghi da permettere il passaggio di una persona. Clic, clic, clic. Passò velocemente dalla cucina al soggiorno, sul lato a monte della casa. Il bosco era illuminato da una luce ambrata che faceva sembrare quasi umani i tronchi ruvidi degli eucalipti, quasi fossero dei vecchietti che osservavano ogni sua mossa. Che capivano, e approvavano. È solo un sopralluogo, si ripeté ancora una volta. La situazione era troppo complicata, troppo arroventata, per poter procedere con il loro piano. Salì in fretta le scale che portavano alle camere da letto, facendo caso ai gradini che scricchiolavano di più, prendendo nota della robustezza della balaustra. Arrivato al primo piano, percorse il corridoio guardando in tutte le stanze, scattando foto e memorizzando particolari. Entrando nella camera da letto principale, guardò l'orologio: erano già passati quasi tre minuti. Aprì rapidamente gli armadi, riconobbe profumi di Vera Wang ed Hermès, richiuse tutte le porte. Tornò di corsa in cucina, pronto per andarsene, quando gli venne in mente il seminterrato: in realtà aveva il tempo di darci una rapida occhiata. Aprì la porta e scese le scale. A sinistra c'era la cantina dove i Farley tenevano il vino, davanti c'era la lavanderia. Ma ad attirare il suo sguardo fu la porta a destra. Era in ombra, chiusa da una serratura con la combinazione. Il Guardone era esperto di quel genere di serrature e aveva un'ottima manualità. Girò la manopola verso sinistra finché sentì una leggerissima resistenza, poi la girò a destra e quindi di nuovo a sinistra. Con un piccolo scatto, la serratura si aprì. Il Guardone spinse la porta. Nella semioscurità, riconobbe subito le attrezzature: computer, stampan-
te laser, risme di carta fotografica di alta qualità, telecamere e macchine fotografiche digitali. Su un bancone, una pila ordinata di stampe. Entrò e si chiuse la porta alle spalle. Cercò l'interruttore e lo premette. Era un semplice sopralluogo, uno come tanti. Ma quel che vide quando si accese la luce rischiò di fargli perdere la testa. 125 Quando scesi dalla macchina e mi avviai verso l'edificio in stile vittoriano in cui aveva sede l'istituto di Carolee sentii un delizioso profumo di basilico. Mi riparai gli occhi dai riflessi degli ultimi raggi di sole sulle finestre e afferrai il batacchio di rame sul grosso portone di legno. Mi venne ad aprire un ragazzino nero di dieci o dodici anni che mi accolse dicendo: «Salve. Lei è la signora della polizia, vero?» «Sì. E tu sei Eddie, giusto?» «Sissignora. Come fa a saperlo?» rispose con un sorriso. «Ho buona memoria.» «È giusto, dato che fa la poliziotta.» Quando entrai nel refettorio, che era grande, luminoso e dava sull'autostrada, si levò un'ovazione. Carolee mi abbracciò e mi invitò a sedermi a capotavola. Al «posto d'onore», tra Allison e Fern, la bambina dai capelli rossi che riuscì ad aggiudicarsi la sedia alla mia destra. Mi sentivo benvoluta e a mio agio, come in una grande famiglia. Passammo intorno al tavolo piatti di spaghetti, fette di pane toscano e poi una grossa ciotola di insalata condita con olio e aceto, mentre i ragazzini mi tempestavano di domande e indovinelli. Stetti al gioco, rispondendo a tutti e risolvendo anche qualcuno degli indovinelli più difficili. «Da grande voglio diventare come te», mi sussurrò Ali. «Sai che cosa vorrei io? Che da grande tu diventassi te stessa.» Carolee batté le mani e rise allegramente. «Lasciate respirare Lindsay», disse. «Lasciatela mangiare in pace, poverina. È un'ospite, non potete buttarvi su di lei come se fosse roba da mangiare.» Alzandosi per andare a prendere una bottiglia dal tavolo di servizio accostato alla parete, Carolee mi posò una mano sulla spalla e si chinò a dir-
mi: «Ti danno fastidio? Stravedono per te». «Anch'io per loro.» Quando la tavola fu sparecchiata e i bambini furono andati al piano di sopra a studiare un'oretta prima di andare a dormire, Carolee e io andammo a prendere il caffè sulla veranda che si afFacciava sul campo giochi. Ci accomodammo su due sedie a dondolo e rimanemmo ad ascoltare i grilli. Ero contenta di avere un'amica e, quella sera, mi sentivo particolarmente vicina a Carolee. «Hai scoperto chi è stato a sparare contro la casa di Cat?» mi domandò lei a un certo punto, senza riuscire a nascondere la preoccupazione. «No. Ma ti ricordi quel tizio con cui abbiamo avuto da dire al Cormorant?» «Dennis Agnew?» «Sì. Mi ha importunato di nuovo. E il capo della polizia mi ha confidato di sospettare di lui. Sai, per gli omicidi...» Carolee parve sorpresa, se non addirittura scioccata. «Davvero? Non l'avrei mai detto!» Si interruppe un attimo, poi precisò: «Voglio dire, è viscido, d'accordo, ma non mi pare un assassino». «È esattamente quello che dicevano di Jeffrey Dahmer», replicai ridendo. Mi misi a tamburellare con le dita sul bracciolo della poltrona e Carolee incrociò le braccia. Immaginai che stessimo pensando entrambe agli assassini che imperversavano nella zona. «Che silenzio, eh?» disse Carolee dopo un po'. «Sì. Mi piace moltissimo.» «Sbrigati a catturare quel maniaco, mi raccomando.» «Senti, Carolee, se ti dovesse capitare qualcosa di strano, qualsiasi cosa, chiama subito il 911. Anche se pensi che sia solo paranoia. E poi telefonami.» «Certo. Grazie. Te lo prometto.» Dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «Alla fine li prendete sempre, vero, Lindsay?» «Quasi sempre», risposi. Ma non era proprio la verità: quelli veramente furbi non solo non si facevano beccare, ma riuscivano a passare del tutto inosservati. 126 Quella notte dormii male, agitata da incubi in cui si accavallavano spara-
torie, cadaveri sfregiati dalle frustate e killer senza un volto e senza un nome. Mi svegliai e vidi che era una giornata grigia e tetra, di quelle che ti fanno venire voglia di restare a letto. Siccome sia Martha sia io avevamo bisogno di fare un po' di moto, però, mi misi la tuta azzurra, infilai la pistola nella fondina a spalla e il cellulare nella tasca del giubbotto di jeans e uscii. Andammo alla spiaggia. Da ponente stavano arrivando grosse nubi temporalesche e il cielo sembrava così basso che i gabbiani in volo lungo la costa ricordavano i dirigibili dei cinegiornali sulla seconda guerra mondiale. Notai che i pochi coraggiosi che erano usciti a correre o a passeggiare sulla spiaggia erano molto lontani da noi e lasciai libera Martha, che subito trotterellò verso un gruppo di pivieri, spaventandoli. Io mi misi a correre in direzione sud, ad andatura moderata. Avevo fatto poche centinaia di metri quando cominciarono a cadere le prime gocce. In breve tempo la pioggia si infittì, rendendo più. compatta la sabbia. Mi voltai per controllare dov'era Martha: stava seguendo un uomo con una cerata gialla a circa un centinaio di metri da me. Mi voltai e ricominciai a correre, con la pioggia che mi batteva sulla faccia. Avevo quasi ripreso l'andatura quando sentii Martha abbaiare. Cercava di mordere le caviglie dell'uomo con l'impermeabile giallo e abbaiava, come se lo sconosciuto fosse una pecora da riportare nel gregge. «Martha! Ora basta!» gridai. Era il comando per farla tornare da me, ma lei lo ignorò bellamente e spinse l'uomo perpendicolarmente alla spiaggia, verso le dune. A quel punto capii che non stava giocando. Voleva proteggermi. Qualcuno mi aveva seguito di nuovo. Bastardo! 127 Gridai: «Ehi! Smetta di correre e la lascerà stare!» Ma né lo sconosciuto né Martha mi diedero ascolto. Dopo un po', mi misi a correre anch'io in quella direzione, ma risalire le dune sotto la pioggia era come cercare di correre sott'acqua. Aiutandomi con le mani, riuscii ad arrampicarmi fino al campeggio di Francis Beach. Fra la pioggia e i capelli fradici sulla faccia, però, non ve-
devo nulla. Appena mi scostai i capelli dagli occhi, mi resi conto di aver perso il controllo della situazione. Il mio inseguitore non era da nessuna parte. Mi guardai intorno disperata. Maledizione! Mi era sfuggito di nuovo! «Mar-thaaa!» In quel momento vidi sbucare da dietro i gabinetti del campeggio una macchia gialla, che attraversò il mio campo visivo seguita a ruota da Martha. L'uomo con la cerata cercava di scrollarsela di dosso e provò persino a darle un calcio. Inutile. Ormai era nella zona picnic. Estrassi la calibro nove e gridai: «Alt! Polizia!» Ma l'uomo aggirò i tavoli e continuò a correre verso un furgone multicolore fermo nel parcheggio. Martha gli tenne dietro ringhiando e gli impedì di salire. Gridai di nuovo «Polizia!» correndo con la pistola in pugno. «In ginocchio!» intimai, quando fui a portata di tiro. «Tenga le mani bene in vista. Faccia a terra, su! Subito!» L'uomo con l'impermeabile ubbidì e io mi avvicinai in fretta, sotto la pioggia battente. Gli puntai la pistola alla schiena e gli abbassai il cappuccio. Lo riconobbi immediatamente, appena vidi i capelli biondi, ma mi sembrava impossibile. Poi, però, alzò la faccia e mi fulminò con lo sguardo. «Keith! Che cosa ci fai qui? Che cosa succede?» «Niente, niente, niente. Stavo solo venendo ad avvertirti.» «E di cosa? Perché non mi hai telefonato?» ribattei ansimando. Avevo il battito a mille. Mio Dio, eccomi di nuovo con una pistola carica in pugno. Con la punta del piede costrinsi Keith ad allargare le gambe e lo perquisii. Aveva un coltello da caccia Buckmaster con una lama di ventidue centimetri in una custodia appesa alla cintura. Glielo presi e lo gettai da una parte. La situazione si stava facendo sempre più grave. «E questo lo chiami 'niente'?» «Lascia che ti spieghi, Lindsay.» «No, prima parlo io. Sei in arresto.» «Perché?» «Non si può andare in giro con un coltello di queste dimensioni. Non te l'ha mai detto nessuno?» Mi misi in modo che Keith vedesse bene sia la mia pistola sia la mia faccia, e capisse che ero intenzionata a sparare, se necessario.
«Hai il diritto di non rispondere», gli dissi. «Qualsiasi cosa tu dica potrà essere usata contro di te in tribunale. Se non hai un avvocato, te ne sarà assegnato uno d'ufficio. Sai quali sono i tuoi diritti?» «Ti sbagli!» «Hai capito quali sono i tuoi diritti?» «Sì, ho capito.» Mentre mi frugavo nella tasca in cerca del cellulare, Keith si mosse come se volesse scappare, ma Martha scoprì i denti. «Resta dove sei, Keith. Non costringermi a sparare.» 128 Eravamo tutti e tre nella stanzetta grigia piastrellata della stazione di polizia che era riservata agli interrogatori. Stark mi aveva già espresso i suoi dubbi. Conosceva Keith Howard da oltre dieci anni e per lui era sempre stato semplicemente il meccanico dell'officina Man in the Moon, un bravo ragazzo senza altri pensieri se non il lavoro e i motori. Tuttavia, grazie al cielo, aveva deciso di fidarsi del mio istinto. E io ero preoccupatissima, perché avevo visto negli occhi di Keith lo stesso sguardo che mi era già capitato di osservare in molti pericolosi psicopatici. Mi sedetti di fronte a lui, dall'altra parte di un tavolo di metallo tutto rigato. Eravamo entrambi bagnati fradici. Il capo della polizia si appoggiò al muro in un angolo. Altri poliziotti osservavano la scena da dietro il vetro, sperando che io avessi visto giusto e che dietro a quel fermo ci fosse qualcosa di più di un porto d'armi abusivo e una serie di supposizioni. Keith era evidentemente spaventato e dimostrava molto meno dei suoi ventisette anni. «Non ho bisogno di nessun avvocato», mi disse. «Ti stavo seguendo, nient'altro. Di solito alle ragazze fa piacere... Lo sai che mi piaci, no? Perché non lo spieghi anche a loro?» «Stai dicendo che volevi farmi delle avance?» esclamai. «Sarebbe questa la tua spiegazione?» «No, Lindsay, ti stavo semplicemente seguendo. È diverso.» «In che senso? Non capisco. Perché mi seguivi?» «Lo sai benissimo! Per metterti in guardia. C'è qualcuno che ce l'ha a morte con te.» «Per questo hai sparato contro la casa di mia sorella?»
«Io? Non sono stato io!» Gli si incrinò la voce. Poi giunse le mani e chinò la fronte. «Mi piaci, mi sei sempre piaciuta. Non mi puoi arrestare per questo.» «Piantala di lamentarti, stronzetto», sbottò Stark e, fatto un passo in avanti, gli diede uno scappellotto. «Comportati da uomo. Confessa!» Keith parve ripiegarsi su se stesso: posò la fronte sul tavolo, girò la testa da una parte e dall'altra ed emise un gemito, un verso che sembrava provenire da chissà quali abissi di sconforto e di paura. Poteva piangere e disperarsi finché voleva, però: non avevo intenzione di cedere. L'ultima volta che mi ero lasciata abbindolare da lacrime di coccodrillo avevo commesso un errore madornale. E non intendevo ripeterlo. «Keith, mi fai paura, sai?» gli dissi con calma. «Sei in un pasticcio, cerca di non fare scemenze. Dicci che cosa hai fatto, in modo che possiamo aiutarti a presentare il tuo caso al giudice nel modo più favorevole per te. Ti voglio aiutare, sul serio. Parlami. Ci sono tracce di sangue sul tuo coltello?» «Nooo! Io non ho fatto niente di male!» gemette. Rilassai i muscoli della faccia, sorrisi e gli presi la mano. «Vuoi che ti togliamo le manette?» Lanciai un'occhiata interrogativa a Stark, che approvò in silenzio, estrasse dal taschino della camicia una chiave e gliele aprì. Keith si ricompose. Mosse i polsi, abbassò la lampo della cerata, se la tolse e l'appese allo schienale della sedia. Poi si levò anche il maglione. Se fossi stata in piedi, credo che le gambe mi avrebbero ceduto e mi sarei ritrovata per terra. Sotto il maglione, Keith aveva una T-shirt arancione con il logo del Distillery, il ristorante turistico sulla Highway 1, a Moss Beach. Identica a quella che aveva addosso CNI24 quando era stato frustato e ucciso dieci anni prima. 129 Keith vide che guardavo sconvolta la sua maglietta e mi chiese con disinvoltura, sorridendo come se fossimo alla stazione di servizio: «Ti piace? È praticamente introvabile. Il Distillery ha smesso di farle». Sarà stata introvabile sul mercato, ma ce n'era una identica, macchiata di sangue, nel magazzino dove venivano conservate le prove relative ai casi irrisolti.
Invece di rispondere, gli chiesi: «Dov'eri due sere fa, Keith? «Possiedi una pistola? «Contro che cosa volevi mettermi in guardia? «Dammi una spiegazione credibile». Sulle prime Keith si mostrò spavaldo, poi cominciò ad agitarsi e a piangere. A un certo punto, ammutolì del tutto. Dopo un po', Stark mi diede il cambio e cominciò a chiedergli se conosceva le vittime dei recenti omicidi. Keith ammise che le conosceva tutte. Ma del resto conosceva praticamente tutti gli abitanti di Half Moon Bay, che passavano dalla sua stazione di servizio. «Abbiamo un testimone», dichiarò Stark posando le mani sul tavolo e fissando Keith con uno sguardo che avrebbe trapassato una lamiera d'acciaio. «Sei stato visto uscire dalla casa dei Sarducci la notte in cui sono stati uccisi.» «Non mi faccia ridere. Non ci credo.» Non stavamo facendo nessun passo avanti. Se avessimo continuato così, Keith avrebbe potuto chiedere di essere rilasciato immediatamente. Se l'unica accusa a suo carico era porto d'armi abusivo, avrebbe avuto tutto il diritto di pagare la cauzione e andarsene. Mi alzai in piedi e, rivolgendomi al capo della polizia, in tono di grande compassione, dissi: «Sa una cosa? Secondo me non è stato lui. Aveva ragione, capo. Questo ragazzo non è in grado di fare una cosa del genere. Lo guardi: è un povero deficiente, non è manco del tutto equilibrato. Scusami tanto, Keith, mi dispiace dirtelo: come meccanico sei molto in gamba, ma è una follia pensare che tu abbia commesso quegli omicidi. Senza lasciare tracce, oltretutto. Non penso che tu sia all'altezza». «Sì, stiamo sprecando il nostro tempo», replicò Stark, stando al gioco. «Uno così non riuscirebbe nemmeno a rubare le monetine da un parchimetro senza farsi beccare.» Keith guardò prima Stark, poi me, poi di nuovo Stark e disse: «Ho capito il vostro gioco». Lo ignorai e continuai a rivolgermi direttamente a Peter Stark. «Aveva ragione lei. Agnew sì che è uno con le palle. Quello sì che è uno capace di tagliare la gola alla gente, di star lì a vederla soffrire, morire. Ed è anche abbastanza furbo da farla franca.» «È vero, e poi ha un sacco di contatti», approvò il capo della polizia lisciandosi i capelli con la mano. «È logico.» «Perché dite queste cose?» borbottò Keith.
Mi voltai, lo guardai con aria interrogativa e gli dissi: «Keith, tu conosci Agnew. Cosa pensi, è lui l'uomo che cerchiamo?» Sembrò scattargli qualcosa dentro: cominciò a tremare sempre più forte e poi esplose. «Dennis Agnew?» esclamò. «Quello sfigato di un pornoattore che ragiona con l'uccello? Avrei dovuto ammazzarlo, ecco che cosa avrei dovuto fare! Ci ho pensato, sapete.» Sferrò un pugno sul tavolo, mandando in aria penne, blocchi di carta e lattine. «Guarda che io sono molto più in gamba di quello che pensi, Lindsay. Ammazzare quella gente è stato un gioco da ragazzi per me.» 130 Keith aveva la stessa espressione di collera repressa di quando gli avevo puntato contro la pistola al campeggio. Sembrava un'altra persona, uno sconosciuto. Dovevo cercare di capire chi fosse veramente. «Vi sbagliate di grosso, tutti e due», disse. «Anche se fate così per incastrarmi, non importa. Sono stufo di questo disinteresse totale.» Quando lo sentii pronunciare quelle parole, feci un salto sulla sedia. Disinteresse totale? Erano le stesse due parole che Sam e Sara Cabot avevano scritto con la vernice spray sui luoghi dei loro delitti. Le stesse che aveva scritto anche l'assassino di CNI24 dieci anni prima. «Perché parli di disinteresse totale?» Keith mi fissò con uno sguardo impassibile negli occhi azzurri. «Fai tanto la furba... Dovresti saperlo.» «Non prendermi in giro, Keith. Non c'è nessun disinteresse da parte nostra. Siamo qui per ascoltarti.» La confessione che seguì, e che videoregistrammo, fu come un incubo diventato realtà. Keith ci disse tutto: nomi, date, particolari di cui solo l'assassino poteva essere a conoscenza. Ci raccontò di aver usato coltelli diversi e cinture diverse. Descrisse nei dettagli tutti gli omicidi e spiegò anche come aveva tratto in inganno Ben O'Malley. «L'ho stordito con un colpo di pietra in testa prima di tagliargli la gola. Poi ho lanciato il coltello nella scarpata lungo la strada.» Ci illustrò tutto nei minimi dettagli. Fu un racconto molto convincente,
che già di per sé sarebbe bastato a condannarlo. Tuttavia, stentavo a credere che avesse commesso tutti quegli omicidi così sanguinosi da solo. «Hai ammazzato tu Joe e Annemarie Sarducci senza un complice? Non si sono ribellati, nessuno dei due? O sei l'Uomo Ragno e a immobilizzare due persone non ci metti niente?» «Vedo che cominci a capire, Lindsay.» Avvicinò la sedia, facendola strisciare sul pavimento, e si sporse in avanti per guardarmi in faccia. «Li ho sedotti. Si sono lasciati fare di tutto, credimi. Ho agito da solo. Diglielo tu al procuratore. Digli che sono l'Uomo Ragno.» «Ma perché? Che cosa ti avevano fatto quei poveretti?» Keith scosse la testa con sufficienza. «Non puoi capire, Lindsay.» «Mettimi alla prova.» «No. Non ho altro da dire.» E non disse altro. Si ravviò i capelli biondi con le mani, finì la sua lattina di Coca-Cola e sorrise come un attore alla fine di uno spettacolo. Mi prudevano le mani: avrei voluto prenderlo a pugni. Tutti quei morti ammazzati senza una ragione... Perché non voleva dirci il motivo per cui aveva ucciso? Comunque, era stata una giornata fruttuosa. Keith Howard fu arrestato, fotografato, gli furono prese le impronte e, di nuovo ammanettato, fu sbattuto in una cella in attesa di essere trasferito a San Francisco e rinviato a giudizio. Mentre uscivo dalla stazione di polizia, incrociai Stark che mi disse: «Cosa c'è che non va, Boxer? Non è contenta?» «C'è qualcosa che non mi convince, capo. Secondo me, sta cercando di coprire qualcun altro. Ci giurerei.» «Non so. Io gli credo. Ha detto che è più furbo di quanto crediamo, no? Voglio prenderlo in parola.» Sorrisi stancamente. «Per la miseria, Boxer: ha confessato. Lo abbiamo preso, si accontenti. Anzi, voglio essere il primo a farle i complimenti, tenente. Per la cattura e per l'interrogatorio. Brava. Grazie a Dio, è finita. È una storia chiusa.» 131 Squillò il telefono, sorprendendomi in un sonno così profondo che lì per lì non ricordavo nemmeno dove mi trovavo. A tastoni cercai l'apparecchio nel buio e risposi con la voce assonnata: «Pronto».
«Sono io, Lindsay. Scusa l'ora.» «Joe!» Girai la sveglia verso di me e, vedendo che erano le 05.15, mi venne paura. «Tutto bene? Che cos'è successo?» «Io sto benissimo», disse lui con voce calma e affettuosa, molto sensuale. «Davanti a casa tua c'è la ressa, però.» «L'hai vista via satellite?» «No, ho appena acceso la TV.» «Un momento», dissi. Mi alzai e andai a guardare dalla finestra. C'erano due giornalisti in mezzo al prato e vari tecnici che stendevano cavi da una fila di furgoni pieni di antenne incolonnati lungo la strada come carri di pionieri nel Far West. «Hai ragione», dissi tornando a infilarmi sotto le coperte. «Sono circondata. Merda!» Mi raggomitolai al calduccio, con il telefono tra la guancia e il cuscino. Mi sembrava che Joe fosse vicinissimo, nonostante i vari fusi orari di distanza. Parlammo per una ventina di minuti, facendo piani per vederci non appena io fossi tornata in città, poi ci salutammo mandandoci tanti baci. Mi alzai, mi vestii, mi truccai in fretta e andai ad aprire la porta di casa di mia sorella. I giornalisti accorsero e mi ritrovai davanti a una selva di microfoni. Sbattendo gli occhi abbagliata dal sole, dissi soltanto: «Mi dispiace deludervi, ma non posso rilasciare alcuna dichiarazione. Si tratta di indagini dirette dal capo della polizia Stark. È con lui che dovete parlare. Non ho altro da dire». Rientrai in casa sorridendo e chiusi la porta, mettendo fine alla raffica di domande dei giornalisti, che mi chiamavano a gran voce. Misi il chiavistello e abbassai la suoneria del telefono. Stavo togliendo dalla bacheca in camera delle mie nipoti gli appunti sui delitti quando Cindy e Claire mi chiamarono al cellulare per una teleconferenza. «È finita», dissi loro, ripetendo le parole di Stark. «O perlomeno così sembra.» «Sembra solo o è finita veramente?» mi chiese Cindy, scettica. «Complimenti, signorina, lei è molto intuitiva», le risposi. «Grazie. Allora, sputa il rospo.» «In tutta riservatezza, il ragazzo è molto fiero di sé per essere entrato nell'ambita graduatoria dei serial killer ma, personalmente, non sono sicura
che il merito sia solo suo.» «Ha confessato anche l'omicidio di quel ragazzo dieci anni fa?» si informò Claire. «Brava: hai messo il dito nella piaga», replicai. «Allora?» «No, quello no.» «Quindi che cosa ne deduci?» «Non so che cosa pensare, Claire. Ero convintissima che l'assassino di tutte queste persone avesse ammazzato anche CNI24. Evidentemente mi sbagliavo.» 132 Era strano per me trovarmi sul sedile posteriore di un'auto della polizia insieme con Martha, eppure c'ero. Abbassai il finestrino, mi sbottonai la giacca e osservai l'animazione crescente lungo Main Street. Una banda musicale accordava gli strumenti in una traversa, mentre boy scout e vigili del fuoco allestivano carri allegorici sul pianale di vari pickup. Alcuni uomini arrampicati su scale a pioli tendevano striscioni da una parte all'altra della strada e dai lampioni sventolavano bandiere. Mi pareva quasi di sentire già il profumo degli hot dog che sfrigolavano sulla griglia. Era il 4 luglio. Il mio nuovo amico, l'agente Noonan, ci fece scendere davanti alla stazione di polizia, dove c'era un assembramento di giornalisti e di curiosi. Al centro, il capo Peter Stark. Mentre mi facevo largo tra la folla, dal portone uscì il sindaco Tom Hefferon in pantaloncini color cachi, polo e berretto da pescatore sulla pelata. Mi strinse la mano dicendo: «Spero che d'ora in avanti verrà a passare tutte le sue vacanze a Half Moon Bay, tenente». Poi batté con il dito sul microfono e tutti tacquero. «Grazie di essere venuti. Oggi oltre all'indipendenza, festeggiamo la liberazione da un incubo», disse con un lieve tremito nella voce. «Siamo finalmente liberi di ricominciare a vivere tranquilli.» Alzò una mano per fermare l'applauso che seguì a quelle parole. «Lascio la parola al capo della polizia, Peter Stark.» Il capo era in alta uniforme, con tanto di bottoni dorati, distintivo lucidissimo e pistola. Nello stringere la mano al sindaco fece - incredibile ma vero - un gran sorriso, quindi si schiarì la voce e si avvicinò ai microfono.
«Abbiamo tratto in arresto un uomo che ha confessato di aver commesso gli omicidi che hanno terrorizzato Half Moon Bay.» Nell'aria umida del mattino si levarono grida di giubilo, qualcuno addirittura si commosse. Un bambino portò uno di quei fuochi di artificio che producono scintille argentate sul podio e lo porse al sindaco. «Grazie. Questo è mio figlio Ryan», disse il sindaco alla folla, commosso. «Tienilo tu, d'accordo?» Fece cenno al bambino di avvicinarsi, gli posò una mano sulla spalla e riprese a parlare. Spiegò che la polizia aveva fatto la sua parte e che la giustizia avrebbe fatto il suo corso. Poi mi ringraziò pubblicamente per la «preziosa collaborazione» e, fra applausi ancora più forti, porse a suo figlio un nastro da cui pendeva una medaglia dorata. Il bambino consegnò la stella filante a un agente e appese la medaglia al collo di Martha. La sua prima onorificenza! «Bravo cane!» disse il capo. Poi ringraziò uno per uno gli uomini della sua squadra e la polizia di Stato per tutto ciò che avevano fatto «al fine di fermare l'autore di questi omicidi seriali che ha fatto tante vittime innocenti nella nostra comunità». Quanto a me, ero contenta di aver catturato il killer e mi sentivo di nuovo in pace con me stessa. Mi ero confermata una poliziotta «in gambissima». Tuttavia, nel momento stesso in cui mi godevo quel po' di gloria, ero tormentata da un pensiero che continuava a riaffiorare alla mia coscienza e, come il figlio di Hefferon che agitava la stella filante e lo tirava per la manica per attirare la sua attenzione, non mi lasciava tranquilla. E se gli omicidi seriali non si fossero fermati lì? 133 Quella sera ci fu lo spettacolo pirotecnico, con raffiche di mortaretti e fuochi artificiali che esplodevano uno dopo l'altro su Pillar Point allargandosi come fiori nel cielo. Misi la testa sotto il cuscino, ma era impossibile isolarsi e non sentire quel frastuono. Il mio eroico cane andò a nascondersi sotto il letto, accovacciandosi nell'angolo più inaccessibile. «Non aver paura, Martha. Fra poco finisce. Stai tranquilla.» Avevo appena preso sonno, quando fui svegliata dal rumore metallico di una chiave che girava nella serratura del portone. Anche Martha lo sentì, e si precipitò fuori della camera da letto abbaian-
do. Qualcuno stava entrando in casa. Successe tutto troppo in fretta. Afferrai la pistola, scesi dal letto e, con il cuore che batteva a mille, andai in punta di piedi verso l'ingresso. Avanzai strisciando con le spalle al muro, contando le porte che separavano la mia stanza dal soggiorno, finché vidi nell'ombra una sagoma. Mi accucciai con il cuore in gola. Impugnando la pistola con entrambe le mani gridai: «Mani in alto! Ho detto mani in alto, cazzo! Subito!» Sentii un grido acutissimo e, alla luce della luna che entrava dal portone spalancato, vidi la faccia terrorizzata di mia sorella. Aveva una bambina in braccio, che si mise a urlare. Per poco, non lanciai un urlo anch'io. Mi rialzai in piedi, tolsi il dito dal grilletto e lasciai ricadere il braccio destro con la pistola. «Cat, sono io. Scusami! Ora basta, Martha! Basta!» «Lindsay?» Cat venne verso di me, consolando Meredith. «Quella pistola è carica?» La sua figlia maggiore, Brigid, che aveva solo sei anni, la seguiva. Nascose la faccia nell'animale di peluche che aveva in braccio e scoppiò in un pianto dirotto. A me tremavano le mani. Mi sentivo pulsare il sangue nelle orecchie. Oddio, avevo rischiato di sparare a mia sorella! 134 Posai la pistola su un tavolo e corsi ad abbracciare Cat e Meredith. «Scusate, scusate», ripetevo. «Ti ho chiamato un sacco di volte», disse Cat con la faccia sulla mia spalla. Poi indietreggiò e disse: «Non vorrai arrestarmi, vero?» Presi in braccio Brigid, le diedi un bacio sulla guancia bagnata di lacrime e le accarezzai la testolina. «Martha e io non volevamo farti paura, tesoro, scusaci.» «Ti fermi da noi, zia?» «Solo per stanotte, cara.» Cat accese una luce, si guardò intorno e vide i fori dei proiettili riparati con lo stucco. «Non rispondevi al telefono e la segreteria telefonica era piena», disse. «Di telefonate di giornalisti», risposi. «Scusami, non volevo farti pren-
dere un colpo.» Cat allungò il braccio che le era rimasto libero, mi attirò a sé e mi diede un bacio. «Quando fai la poliziotta, mi fai sempre paura!» Portammo le bambine nella loro camera, dove finalmente si calmarono. Anche noi ci tranquillizzammo un po', le mettemmo in pigiama e rimboccammo loro le coperte. «Ho sentito le ultime notizie», disse Cat mentre chiudeva la porta della camera delle bambine. «È vero che hai preso l'assassino? Sul serio era Keith? Lo conosco, sai? E mi era pure simpatico.» «Già. Anche a me.» «E di chi è quella macchina davanti a casa? Sembra quella dello zio Dougie.» «Lo so. È per te. È un regalo.» «Ma no! Davvero?» «Per ringraziarti dell'ospitalità.» L'abbracciai di nuovo forte. Avrei voluto dirle: «Adesso è tutto a posto, l'abbiamo preso, quel bastardo». Invece dissi: «Domani andiamo a fare un giro di prova». Ci demmo la buonanotte e, mentre mia sorella riempiva la vasca per farsi un bagno, io presi Martha e tornai in fondo al corridoio, in camera mia. Accesi la luce e rimasi impietrita sulla porta. Anzi, per un pelo non lanciai un urlo. 135 Sul mio letto c'era la figlia di Carolee, Allison. Già questo sarebbe bastato a mettermi in allarme, ma mi spaventai ancora di più quando vidi in che stato era: scalza, con indosso soltanto una camicia da notte di sangallo, singhiozzante. Posai la pistola e mi avvicinai, inginocchiandomi e mettendole le mani sulle spalle. «Ali? Ali, che cosa c'è? Che cosa è successo?» La bambina mi si buttò al collo e si strinse disperatamente a me. Tremava, scossa dal pianto. L'abbracciai e la tempestai di domande, senza lasciarle neppure il tempo di rispondere. «Sei ferita? Come hai fatto ad arrivare qui? Che cosa è successo?» Allison rispose: «La porta era aperta, così sono entrata».
Nel dire quelle parole, ricominciò a piangere ancora più forte. Non riuscivo a capire che cosa avesse. «Che cosa ti è successo, Ali?» le chiesi. Mi scostai e la guardai, per vedere se era ferita. Aveva i piedi sporchi e graffiati. La casa di Cat si trovava a più di un chilometro dall'istituto e Allison doveva esserci venuta a piedi. Cercai di nuovo di farmi spiegare che cos'era successo, ma invano: Ali ansimava, singhiozzava e borbottava frasi sconnesse. Mi infilai un paio di jeans sopra il pigiama di seta azzurro, mi misi le scarpe da ginnastica, sistemai la Glock nella fondina da spalla e la nascosi sotto il giubbotto di jeans. Avvolsi Ali nella mia felpa con il cappuccio, la presi in braccio e, lasciando Martha in camera, andai verso il portone. «Ti riporto a casa, tesoro», le dissi. Ma Ali continuò a piangere. 136 La Forester di Cat era dietro la mia macchina e mi impediva di uscire, ma la Bonneville aveva le chiavi nel cruscotto ed era già girata verso la strada, per cui sistemai Ali sul sedile di dietro, le allacciai la cintura, mi sedetti al posto di guida e girai la chiavetta dell'accensione. Partì al primo tentativo. Arrivata allo svincolo, sotto un cielo solcato dagli ultimi fuochi d'artificio, misi la freccia preparandomi a imboccare la Highway 1 in direzione nord, verso il collegio. Con mia grande sorpresa, Allison gridò: «No!» Guardai nello specchietto retrovisore e la vidi, pallidissima, con gli occhi sbarrati. Con il dito indicava la direzione opposta. «Vuoi che vada da quella parte?» «Per favore, Lindsay! Ti prego, fai in fretta!» Contagiata dalla sua paura, decisi di fidarmi di lei e presi la Highway 1 in direzione sud finché, a un incrocio deserto, la bambina mormorò: «Gira qui». Lo scoppiettio dei fuochi artificiali del 4 luglio pareva alimentare l'adrenalina che già avevo in circolo. Avevo preso parte a troppe sparatorie, ultimamente, e i botti mi sembravano spari. Accelerai per affrontare Cliff Road, una salita sterrata e piena di curve. La Bonneville slittava e mi pareva di sentire Keith che mi rimproverava: «Non puoi guidarla così, Lindsay. La Bonneville è un'auto di lusso».
Superato un boschetto di eucalipti, sbucai in una radura da cui si vedevano le montagne e un gran cielo stellato. Sulla sinistra c'era una villa di un'insolita forma rotonda. Guardai di nuovo nello specchietto retrovisore. «E adesso dove devo andare, Ali?» La bambina mi indicò la casa, poi si coprì gli occhi con le mani e, con un filo di voce, disse: «Da nessuna parte. Siamo arrivate». 137 Fermai la macchina sul ciglio della strada e osservai la villa, che sembrava una specie di torre cilindrica, su tre piani, con molte vetrate. Al piano terra vidi muovere qua e là due fasci di luce. Torce. Per il resto, la casa era completamente buia. Capii che dentro c'erano degli intrusi. Mi tastai le tasche del giubbotto, in preda a un orribile presentimento. Subito dopo, ebbi la conferma che il mio atroce sospetto era fondato: avevo lasciato il cellulare a casa, accanto al letto. Mi pareva di vederlo, posato sul comodino vicino alla sveglia. Un errore imperdonabile. Non avevo né radio, né giubbotto antiproiettile, e non c'era nessuno a coprirmi le spalle. Affrontare dei criminali in quelle condizioni era una vera e propria follia. «Ali, devo andare a chiamare rinforzi», dissi. «No, Lindsay, non puoi andare via», mi rispose a voce bassissima. «Altrimenti moriranno tutti.» Mi voltai e allungai il braccio per farle una carezza. Aveva la bocca piegata all'ingiù e mi implorava con occhi pieni di una fiducia commovente. «Sdraiati sul sedile», le dissi. «Aspettami qui e non ti muovere finché non torno.» La bambina si stese a faccia in giù. Io le accarezzai la schiena, scesi dall'auto e chiusi la portiera. 138 La luce della luna proiettava sul terreno accidentato ombre sinistre. A ogni passo mi sembrava di precipitare in un burrone. Tenendomi al riparo degli arbusti lungo la strada, feci il giro della radura in modo da arrivare
sul retro della villa, lato monte, dove non c'erano finestre. Parcheggiato di fianco alla casa c'era un fuoristrada davanti a una porta di legno. L'aprii e mi ritrovai in un'anticamera. Avanzando a tastoni nel buio, entrai in una grande cucina e da lì avanzai verso un ampio soggiorno dal soffitto molto alto, rischiarato dalla luna. Proseguii, strisciando lungo i muri, girando alla larga dai lunghi divani di pelle e dalle piante in vaso. Alzai gli occhi appena in tempo per veder sparire il fascio di una torcia in cima alle scale. Estrassi la pistola e salii i gradini coperti di moquette due alla volta, in punta di piedi. Arrivata in cima, mi accovacciai. Tesi le orecchie e, oltre al rumore del mio stesso respiro, sentii un bisbiglio. Proveniva dalla camera in fondo al corridoio. Poco dopo, un grido acutissimo squarciò il silenzio. Corsi verso una delle porte, girai la maniglia e la spalancai con un calcio. Guardai dentro e vidi un ietto matrimoniale. Sopra c'era una donna, con la schiena appoggiata alla testiera. Un individuo vestito di nero le teneva un coltello puntato alla gola. «Mani in alto!» gridai. «Butta quel coltello!» «Troppo tardi», rispose una voce. «Vattene!» Allungai il braccio verso l'interruttore e accesi la luce. Era agghiacciante, spaventoso, incredibile: l'intruso armato di coltello era Carolee Brown. 139 Carolee Brown era un'assassina. La mia mente vacillò, quando cercai di elaborare quel concetto inconcepibile, ma appena mi ripresi dallo shock entrai in azione e urlai: «Lasciala stare, Carolee. Fa' un passo indietro e tieni le mani alzate». In tono assurdamente ragionevole, Carolee mi rispose: «Ti prego, Lindsay, vattene. Te lo chiedo per favore. Ormai questa donna è spacciata. Non riuscirai a fermarmi». «Te lo dico per l'ultima volta», dissi sollevando il cane della pistola. «Metti giù quel coltello o sparo.» Vedendo Carolee che misurava con gli occhi la distanza tra di noi e calcolava se avrebbe fatto in tempo a tagliarle la gola prima che io le sparassi un colpo in testa, la donna seduta sul letto si mise a piangere. Erano gli stessi calcoli che avevo fatto anch'io.
«Stai prendendo un grosso abbaglio», disse Carolee con rammarico. «Io sono dalla parte dei buoni. È questa qui, Melissa Farley, che fa schifo.» «Butta il coltello da questa parte. Lentamente», insistetti. Stringevo la Glock con tanta forza che mi vennero le nocche bianche. Sarei riuscita a sparare davvero a Carolee, se necessario? Non ne ero sicura. «Non mi spareresti mai», disse lei in quel momento. «Hai dimenticato chi sono.» Carolee fece per ribattere, ma poi mi guardò in faccia e si spaventò: non era scema e mi lesse negli occhi che le avrei sparato. Fece un mezzo sorriso, quindi lanciò il coltello sottomano verso di me. Lo mandai sotto un comò con un calcio e le ordinai di buttarsi a terra. «In ginocchio!» gridai. «Mani a terra!» La feci sdraiare a faccia in giù, le dissi di intrecciare le dita dietro la testa e di incrociare le caviglie, la perquisii e non le trovai addosso nulla, a parte una sottile cintura di pelle intorno alla vita. A quel punto lanciai un'occhiata alla donna sul letto. «Melissa? Sta bene? Chiami il 911, dica che è stata aggredita e che ho bisogno di rinforzi.» La donna allungò il braccio per prendere il telefono sul comodino senza staccare gli occhi da me. «Non era da sola», disse. «Lui è nel bagno con mio marito Ed.» 140 Seguii lo sguardo di Melissa Farley e vidi che la porta a sinistra del letto si stava aprendo lentamente. Uscì un uomo, che avanzò verso il centro della stanza barcollando, con gli occhiali sporchi di sangue. Notai tutto fin nei minimi particolari: portava una T-shirt nera insanguinata, aveva una cintura con la fibbia d'argento nella mano sinistra e un grosso coltello da caccia nella destra. Cercai di mantenere il sangue freddo e di prevedere la sua prossima mossa. «Getta quel coltello!» gli gridai. «Subito, o sparo!» Sulle labbra gli comparve un sorriso truce, l'espressione raggelante di uno che è pronto a morire. Continuò ad avanzare verso di me, con il coltello insanguinato in mano. Lo guardai fisso, concentrandomi unicamente su ciò che contava per la
mia sopravvivenza. C'erano troppi fattori in gioco, non potevo controllare tutto. Carolee era dietro di me, libera di muoversi. Anche l'uomo con il coltello lo sapeva. A denti stretti disse: «Alzati! Possiamo ancora farcela». Calcolai che cosa sarebbe successo se gli avessi sparato. Era a non più di tre metri da me. Anche se lo avessi preso in pieno petto, anche se gli avessi sparato al cuore... Era troppo vicino. E continuava ad avvicinarsi. Puntai la pistola e misi il dito sul grilletto. In quel momento, Melissa Farley scese dal letto e si precipitò verso il bagno. «No!» gridai. «Stia dov'è!» «Devo andare da mio marito!» Non sentii la porta aprirsi alle mie spalle. Non mi accorsi che qualcun altro era entrato nella camera. Poi, all'improvviso, me la vidi davanti. Allison. «Bobby, no!» urlò. E, per un secondo interminabile, tutto si fermò. 141 L'uomo che Allison aveva chiamato Bobby si bloccò. Immobile e con l'aria confusa, cercò di riaversi dalla sorpresa. «Allison, d-dovresti essere a c-casa», le disse poi, balbettando leggermente. Bobby? Non l'avevo riconosciuto, ma la balbuzie mi aiutò: era Bob Hinton, l'avvocato che mi aveva investito con la bici. Non avevo tempo di cercare di capire che ruolo avesse in quel dramma. Allison si fece avanti a passi leggeri, come in un sogno. Andò verso Bob Hinton e gli cinse la vita con le braccia. Non ebbi il tempo di fermarla. Hinton, con grande prontezza, l'abbracciò a sua volta. «Sorellina», mormorò. «Non dovresti essere qui. Non dovresti vedere queste cose.» Mi sentii venir meno. Avevo le mani così sudate che temetti mi scivolasse la pistola, ma continuai a tenere Hinton sotto tiro. Mi spostai leggermente per mettermi in una posizione migliore e Hinton
girò verso di me la bambina atterrita. Anche lui aveva l'aria stravolta. «Bob, dipende tutto da te», cominciai mettendoci l'anima, perché volevo che mi credesse. «Se non butti quel coltello e non ti inginocchi, ti sparo in testa.» Bob si chinò e nascose la faccia dietro la testa di Allison, usandola come scudo. Pensavo che la sua prossima mossa sarebbe stata puntarle il coltello alla gola e dirmi di gettare la pistola. A quel punto, non avrei potuto fare altro che ubbidire. Non mi aspettavo l'espressione di infinita tristezza con cui accostò la guancia a quella di Allison. «Oh, Ali, Ali, non hai l'età per capire.» Ali scosse la testa. «So tutto, invece. Devi arrenderti, Bobby. Racconterò ogni cosa a Lindsay.» Intravidi qualcosa di rosso che per un attimo mi distrasse dalla scena che avevo davanti. Melissa Farley, con la camicia da notte inzuppata di sangue, si affacciò sulla porta del bagno e quasi cadde. «Un'ambulanza!» disse ansimando. «Chiamate un'ambulanza! Ed è ancora vivo.» 142 Una decina di minuti dopo si udirono le prime sirene e dalla salita cominciarono ad arrivare auto della polizia con le luci lampeggianti. Sopra le nostre teste sentimmo l'elicottero del pronto soccorso. Melissa Farley era tornata nel bagno dal marito. «Allison, per piacere vai giù ad aprire la porta alla polizia» dissi. Bob la teneva ancora stretta. La bambina mi guardò con gli occhi sgranati e le labbra tremanti, sul punto di piangere. «Vai, tesoro», le disse Carolee, ancora sdraiata a terra. «Puoi andare.» Vidi Bob cambiare faccia: tutta un tratto assunse un'espressione sconfitta. Strinse le spalle di Ali, lasciandomi con il fiato sospeso, ma poi la mollò. Non appena la bambina fu uscita dalla stanza, diedi libero sfogo alla mia collera. «Ma chi siete? Pensavate di farla franca?» Mi avvicinai a Bob Hinton, gli strappai il coltello dalle mani e gli ordinai di mettersi faccia al muro. Mentre lo perquisivo, gli ricordai quali erano i suoi diritti.
«Capito?» dissi alla fine. Con una risata sardonica replicò: «Sono avvocato, no?» Gli trovai addosso e gli sequestrai un tagliavetro e una macchina fotografica. Poi lo feci stendere a terra e mi sedetti sul bordo del letto tenendo sotto tiro sia lui sia Carolee. Non battei nemmeno le ciglia, finché non sentii passi pesanti correre su per le scale. 143 Erano le tre del mattino e mi trovavo di nuovo alla stazione di polizia. Il capo Peter Stark era nella stanza degli interrogatori con Bob Hinton, il quale gli stava descrivendo nei dettagli i numerosi omicidi commessi insieme con Carolee e Keith a Half Moon Bay. Io mi sistemai con Carolee nell'ufficio di Stark. Sulla scrivania, in mezzo al disordine, c'era un vecchio registratore Sony. Un agente ci portò del caffè e si piazzò vicino alla porta. Cominciai l'interrogatorio. «Desidero parlare con il mio avvocato», esordi in tono piatto Carolee. «Bob Hinton? Allora dovrai aspettare qualche minuto», ribattei secca. «In questo momento è occupato: sta confessando tutto.» Carolee fece un sorriso perplesso. Tolse un capello che le era caduto sul dolcevita di seta nera e intrecciò le dita dalle unghie ben curate in grembo. Non potei fare a meno di fissarla. L'avevo considerata un'amica, ci eravamo scambiate molte confidenze, le avevo detto di chiamarmi se avesse avuto bisogno di qualsiasi cosa, mi ero affezionata a sua figlia. Persino in quel momento era dignitosa, lucida, apparentemente equilibrata. «Forse ti converrebbe cambiare avvocato», le dissi. «Non importa», rispose. «È uguale.» «Okay. Se è uguale, tanto vale che parli con me.» Accesi il registratore, dissi il mio nome, l'ora, la data, il mio numero di matricola e il nome della persona interrogata. Poi riavvolsi la cassetta e riascoltai la mia voce per essere sicura che funzionasse. Soddisfatta, mi appoggiai all'indietro sulla poltroncina girevole di Stark e dissi: «Okay, Carolee. Sentiamo». Bella ed elegante come sempre, nel suo stile Donna Karan, Carolee prese un attimo per riorganizzare le idee, quindi cominciò in tono pensoso:
«Se la sono voluta, Lindsay. Gli Whittaker facevano pornografia con minori. I Daltry stavano lasciando morire di fame i gemelli, perché la demenziale setta religiosa di cui facevano parte vieta di dare cibi solidi ai bambini». «Potevi rivolgerti ai servizi sociali.» «L'ho fatto. Li ho denunciati ripetutamente, ma Jack e Alice erano furbi e tenevano la dispensa piena di roba, che però non davano ai figli.» «E il dottor O'Malley e sua moglie?» «Il dottore vendeva sua figlia su Internet. C'era una telecamera nella sua stanza e quella stupida di Lorelei lo sapeva. Anche Caitlin lo sapeva. Spero solo che i suoi nonni riescano a farla curare come si deve. Vorrei tanto poterlo fare io.» Più andava avanti, più mi rendevo conto dell'enormità del suo delirio. Carolee e i suoi due complici si credevano investiti della missione di eliminare gli abusi contro i minori a Half Moon Bay. Si erano arrogati tutte le funzioni del sistema giudiziario, facevano da giudici, da giuria e persino da boia. Se uno l'avesse ascoltata senza sapere che cosa aveva fatto, avrebbe anche potuto cascarci. «Carolee, hai ucciso otto persone.» Fummo interrotte da qualcuno che bussò alla porta. L'agente la schiuse e vidi che fuori c'era Stark, con il viso grigio e tirato. Uscii nel corridoio. «Hanno telefonato dall'ospedale Coastside», mi comunicò. «Farley non ce l'ha fatta.» Tornai dentro e mi sedetti di nuovo di fronte a Carolee. «Non otto, nove», le dissi. «Ed Farley è morto.» «Bene!» replicò lei. «Andate a guardare nella baracca dietro la villa e vedrete che merito una medaglia. Erano coinvolti in un traffico di minorenni messicane che avviavano alla prostituzione in tutti gli Stati Uniti. Chiama l'FBI, Lindsay, questa è una cosa grossa.» Parve rilassarsi, appena mi ebbe dato quella notizia devastante. Si sporse in avanti come per farmi altre confidenze, con un'espressione convinta che trovavo assolutamente incredibile. «C'è una cosa che voglio dirti, da quando ci siamo conosciute», riprese. «E che interessa solo a te. Hai presente il tuo primo cadavere non identificato? Vuoi che ti dica come si chiamava, quello stronzo? Brian Miller. Sono stata io a ucciderlo.»
144 Non riuscivo a capacitarmi di quel che mi aveva appena detto Carolee. Era stata lei a uccidere CNI24. Erano dieci anni che pensavo alla morte di quel ragazzo. Carolee era amica di mia sorella. Non mi restava che rassegnarmi all'idea che l'assassino di CNI24 e io avevamo viaggiato a lungo su traiettorie parallele, per poi incontrarci, dopo tanto tempo, in quella stanza. «La tradizione vuole che al condannato sia concessa una sigaretta, vero, Lindsay?» «Ma certo!» risposi. «Tutte quelle che vuoi.» Presi una stecca di Marlboro da sopra uno schedario, l'aprii, tirai fuori un pacchetto e lo posai davanti a Carolee insieme a una bustina di fiammiferi, con una disinvoltura che ero lungi dal provare. Volevo assolutamente sapere la storia di quel ragazzo. Carolee mi ringraziò educatamente per le sigarette, da buona insegnante, madre, salvatrice di bambini maltrattati. Tolse l'involucro di cellofan e la stagnola dal pacchetto, tirò fuori una sigaretta e accese un fiammifero. Nell'aria si sentì odore di zolfo. «Keith aveva solo dodici anni, quando arrivò nella mia scuola. La stessa età di mio figlio Bob», cominciò a raccontare. «Erano due bravi ragazzi, entrambi molto promettenti.» Ascoltai attentamente la descrizione dell'arrivo di Brian Miller, un ragazzo un po' più grande, scappato di casa, che si era conquistato la fiducia di Carolee al punto da diventare pian piano uno dei collaboratori della scuola. «Brian stuprò più volte sia Bob sia Keith, e usò loro violenza anche dal punto di vista psicologico. Minacciò di evirarli con un coltello militare, se avessero fatto parola con qualcuno di quel che era successo.» Carolee aveva gli occhi lucidi. Scacciò il fumo con un gesto, come se fosse quello a farla lacrimare, e bevve un sorso di caffè. Quando sollevò la tazza, vidi che le tremava la mano. L'unico rumore nella stanza era il lieve fruscio del nastro magnetico del registratore. Carolee riprese a parlare, questa volta a voce più. bassa. Mi sporsi in avanti per essere sicura di non perdere neppure una parola. «Quando si stufò di loro, scomparve, lasciandoli privi della loro innocenza, della loro dignità, della loro autostima.»
«Perché non ti rivolgesti alla polizia?» «Sporsi denuncia, ma quando Bobby finalmente mi parlò della cosa, ormai era passato molto tempo. E alla polizia il mio istituto per ragazzi in difficoltà interessava poco o niente. Ci vollero anni, perché Keith tornasse a sorridere. Bob era ancora più fragile. Quando si tagliò le vene, decisi che dovevo fare qualcosa.» Carolee giocherellava con il cinturino dell'orologio con gesti aggraziati, molto femminili, ma aveva il viso distorto dalla rabbia. Sembrava animata dalla stessa ira di dieci anni prima. «Continua, Carolee. Ti ascolto», dissi. «Scoprii che Brian viveva in una pensione nel Tenderloin District e che si manteneva prostituendosi. Lo portai a cena fuori e lo feci bere. Mi sforzai di ricordare quanto mi era stato simpatico un tempo e lui ci cascò: credette che fossi ancora sua amica. Gli chiesi pacatamente spiegazioni. A sentir Brian, quello tra lui e i ragazzi era stato amore. Ci crederesti?» Carolee scoppiò a ridere e fece cadere la cenere in un piattino di alluminio. «Lo riaccompagnai alla pensione», continuò. «Gli avevo portato alcune cose sue: una maglietta, un libro, altra roba. Appena mi voltò le spalle, lo afferrai e gli tagliai la gola con il suo stesso coltello. Mi guardò incredulo. Cercò di gridare, ma gli avevo reciso le corde vocali. Poi mi tolsi la cintura e lo frustai. Fu molto bello, Lindsay: l'ultima faccia che vide Brian prima di morire fu la mia. L'ultima voce che sentì fu la mia.» Ripensai al ragazzo che avevamo trovato morto in quella pensione. Forse era stato davvero uno stronzo come diceva Carolee, ma non era giusto condannarlo e giustiziarlo senza processo. La coincidenza finale, nonché la più incredibile, era che Carolee aveva scritto DISINTERESSE TOTALE sul muro della camera della pensione e tutti i giornali ne avevano parlato. A dieci anni di distanza, ritagli di quegli articoli erano stati trovati nella camera da letto di Sara Cabot, che era ossessionata dalle storie di delitti irrisolti e, insieme con il fratello, si era impadronita di quella specie di slogan. Porsi un blocco per appunti e una penna a Carolee. Le tremava la mano, quando cominciò a scrivere. Inclinò la testa da una parte e disse: «Scriverò che l'ho fatto per i ragazzi. Ho fatto tutto per loro». «D'accordo, Carolee. Per me va bene. È la tua storia.» «Ma tu mi capisci, vero, Lindsay? Qualcuno doveva salvarli. E l'ho fatto io. Io sono una buona madre.»
Mi fissò. Dalla sigaretta si alzavano volute di fumo. «Capisco che si possa odiare chi ha fatto cose terribili a dei bambini innocenti», replicai. «Ma ammazzare, no. Quello non lo capisco e non lo capirò mai. Come hai potuto fare una cosa simile ad Allison?» 145 Imboccai lo squallido vicolo che si chiama Gold Street e arrivai fino all'insegna luminosa a grandi lettere azzurre che diceva BIX RESTAURANT. Entrai e, oltre la porta dagli stipiti di mattoni, fui accolta dagli accordi di un pianoforte a coda. I soffitti alti, il fumo di sigaretta che aleggiava sopra il lungo bancone di mogano del bar e l'arredamento art déco mi fecero pensare alla ricostruzione di un bar degli anni '20 in un set cinematografico. Mi rivolsi al maitre, il quale mi disse che ero la prima e mi accompagnò al piano di sopra, in un séparé a ferro di cavallo con vista sul bar sottostante. Ordinai un Dark & Stormy - rum e ginger ale - e appena lo assaggiai vidi arrivare la mia migliore amica. «Ma io ti conosco!» esclamò Claire venendo a sedersi accanto a me e abbracciandomi. «Sei la ragazza che ha catturato tre serial killer senza l'aiuto delle sue amiche, vero?» «E senza farsi ammazzare», aggiunsi. «Ce l'hai fatta per un pelo, a quanto mi risulta», ribatté Claire. «Un momento», disse Cindy, sedendosi dall'altra parte. «Voglio sentire anch'io. E non in via confidenziale. Se non ti dispiace, Lindsay, penso che questa volta un breve servizio sulla regina degli investigatori vada pubblicato.» Le diedi un bacio su una guancia. «Devo prima chiedere il permesso ai miei capi», puntualizzai. «Sei sempre la stessa!» commentò lei baciandomi a sua volta. Anche Claire e Cindy ordinarono uno dei cocktail esotici che erano la specialità del locale. Nel frattempo arrivò Yuki, direttamente dallo studio. Era ancora in tenuta da lavoro, ma aveva una nuova ciocca rosso fuoco tra i capelli nerissimi. Furono serviti le ostriche e i gamberi, mentre lo chef condiva la tartare direttamente al nostro tavolo. Nel frattempo io riferii alle ragazze la mia movimentata serata a casa Farley.
«La cosa più strana è che la consideravo un'amica», dissi parlando di Carolee. «E invece non la conoscevo affatto.» «C'è di che mettere in dubbio il tuo intuito», commentò Cindy. «Già. Tenete presente, però, che anche mia sorella c'era cascata.» «Pensi che ti tenesse d'occhio perché avevi indagato sulla morte di Brian Miller?» «Sì. Più ci frequentavamo, più informazioni aveva.» «Al CNI24 e alla chiusura del caso», disse Yuki alzando il bicchiere per un brindisi. «Meglio tardi che mai», dissi io. Facemmo tintinnare i bicchieri. Ordinammo rana pescatrice, razza con asparagi, spaghetti all'aragosta del Maine e una bistecca di manzo irlandese e, tra un boccone e l'altro di quelle prelibatezze, parlando tutte contemporaneamente, alla fine riuscimmo a raccontare ciascuna la propria storia. Cindy stava preparando un articolo su un rapinatore di banche che si era fatto beccare perché il foglio che aveva consegnato al cassiere con scritto «mani in alto» era il retro di una ricevuta con il suo nome e indirizzo. «Se n'è andato con i soldi e ha lasciato lì la ricevuta», ci raccontò. «Quando è arrivato a casa ha trovato i poliziotti che lo aspettavano sulla porta. Questo finisce dritto in cima alla mia graduatoria del 'rapinatore più scemo'.» «Anch'io ne ho una bella da raccontare», intervenne Yuki, attorcigliandosi su un dito la ciocca rosso fuoco. «È un mio cliente - di cui non vi rivelerò il nome - figliastro di uno dei soci dello studio. Mi è pure toccato difenderlo. Due poliziotti gli bussano alla porta in cerca del sospetto autore di una rapina e lui, tranquillo, gli dice 'Accomodatevi' perché non sa nulla di nessuna rapina. Poi precisa: 'Guardate pure dappertutto, tranne in soffitta'.» «Perché? Racconta», la esortammo. Yuki bevve un sorso del suo Germain-Robin Sidecar e si guardò intorno. «Il giudice emette un mandato di perquisizione e in soffitta i poliziotti trovano una serra per la coltivazione idroponica di marijuana. La settimana prossima ci sarà la sentenza», concluse fra le risate generali. La conversazione si spostò su altri argomenti e mi ritrovai a pensare a quanto ero fortunata a essere di nuovo in compagnia. Eravamo affiatate e insieme avevamo vissuto tante esperienze, anche con la nostra «nuova» amica, Yuki, che era stata ammessa all'unanimità nel nostro gruppo dopo avermi salvata dalle grinfie di Mason Broyles.
Stavamo per ordinare il dessert quando vidi venire verso di noi, zoppicando leggermente, un uomo dai capelli bianchi. Mi pareva proprio di conoscerlo. «Boxer, ho bisogno di te», disse Jacobi senza degnare di uno sguardo le altre. «La macchina è fuori che ci aspetta, con il motore acceso.» Posai la mano sul mio bicchiere ormai vuoto, riflettendo. Avevo già il batticuore e per un attimo rividi un inseguimento mozzafiato e una sparatoria. «Cos'è successo?» domandai. Jacobi si chinò verso di me, ma invece di sussurrarmi qualcosa all'orecchio, mi diede un bacio su una guancia. «Non è successo niente», rispose. «Volevo farti una sorpresa presentandomi nascosto dentro una torta gigantesca, ma le tue amiche non hanno voluto.» «Grazie», dissi scoppiando a ridere. Gli posai una mano sul braccio e lo invitai a mangiare il dessert con noi. «Volentieri», rispose. Ci spostammo un po' per fargli posto. Il cameriere portò una bottiglia di Dom Perignon - omaggio di Jacobi - e, quando ognuno ebbe il suo bicchiere pieno, i miei amici vecchi e nuovi brindarono tutti insieme al mio ritorno a casa. «Bentornata, Lindsay!» EPILOGO Quando rientrai a lavorare, la prima settimana fu un susseguirsi di eventi alla velocità di un uragano categoria 5. Il telefono squillava ininterrottamente e ogni pochi minuti si presentavano alla mia porta colleghi per aggiornarmi su varie decine di casi, tutti importantissimi, tutti urgentissimi. Ma il problema di fondo era un altro, e mi era più chiaro che mai, adesso. La media dei casi risolti dal nostro dipartimento era del cinquanta per cento circa, una delle più basse degli Stati Uniti. Non perché noi della squadra Omicidi non fossimo abbastanza bravi. Eravamo semplicemente pochi per il carico di lavoro che avevamo, e cominciavamo a dare segni di cedimento. Quella settimana, per esempio, un sacco di gente era in malattia. Quando Jacobi bussò alla mia porta di vetro il venerdì mattina, lo invitai
ad accomodarsi. «Tenente, c'è stata una sparatoria a Ocean Beach. Ci sono due feriti. Una pattuglia è già sul posto e una è per strada, ma gli agenti chiedono rinforzi. I testimoni sono in preda al panico e stanno cominciando a disperdersi.» «Dov'è il tuo collega?» «Sta facendo delle ferie arretrate.» Vedevo tutti i presenti oltre la vetrata del mio ufficio. L'unica che non avesse una pila di indagini avviate sulla scrivania ero io. Presi la giacca dallo schienale della sedia e dissi: «Andiamo. Per strada mi racconti tutto quello che sai». «C'è stato un regolamento di conti tra due gang, una di Daly City e una di Oakland, nel parcheggio vicino alla spiaggia», mi spiegò mentre scendevamo le scale di corsa. Quando fummo fuori, in McAllister Street, salì in macchina e si mise al volante. «Hanno cominciato a coltellate, poi qualcuno ha tirato fuori una pistola. Ci sono due vittime, un morto e un ferito. Due sono stati arrestati. Uno dei due è entrato nell'acqua e ha seppellito la pistola nella sabbia.» Immaginavo già la scena del delitto e cominciavo a cercare di ricostruire il puzzle. «Bisognerà chiamare i sommozzatori», dissi tenendomi al cruscotto mentre Jacobi svoltava a tutta velocità e a sirene spiegate l'angolo di Polk Street. Mi guardò e mi fece uno dei suoi rari sorrisi. «Cosa c'è, Jacobi?» «Scusa, ero soprappensiero», rispose. «Pensavo.» «A cosa?» «Pensavo che mi piace lavorare con te, Boxer. Sono contento di riaverti al mio fianco.» RINGRAZIAMENTI Desideriamo ringraziare il capitano Richard Conklin del Bureau of Investigations di Stamford, Connecticut, il dottor Humphrey Germaniuk, medico legale della contea di Trumbell, Ohio, grande esperto della teoria e della pratica dell'anatomia patologica. Un ringraziamento particolare anche a Mickey Sherman, straordinario penalista, per i suoi preziosi consigli. La nostra gratitudine va inoltre a Lynn Colomello, Ellie Shurdeff, Linda Guynup Dewey e Yukie Kito, che ci hanno aiutato nelle ricerche sul campo e su Internet.
FINE