K.W. JETER LE MACCHINE INFERNALI (Infernal Devices, 1987) A James Blaylock e Tim Powers, maîtres de l'absurdité Ogni con...
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K.W. JETER LE MACCHINE INFERNALI (Infernal Devices, 1987) A James Blaylock e Tim Powers, maîtres de l'absurdité Ogni conforto nella vita si basa sul regolare verificarsi di fenomeni esterni. Goethe PARTE PRIMA In cerca di San Lofio 1 Il signor Dower riceve un incarico In un mattino come questo, quando la minaccia della pioggia incombe su Londra a mo' di un'esecuzione capitale né rinviata né sospesa per concessione della grazia, ma piuttosto eseguita all'infinito, Creff, il mio factotum, interruppe la colazione che mi aveva portato solo pochi minuti prima e annunciò che si era presentato alla porta, probabilmente per acquistare un orologio, un etiope folle. Lettore, se il nome di George Dower, già abitante nel distretto londinese di Clerkenswell, non ti è familiare, ti imploro di non procedere nella lettura. Forse un fato pietoso (pietoso con la sensibilità del nobile lettore, e ancor di più con la reputazione dell'autore) ha risparmiato a poche anime la conoscenza della sordida storia ormai legata al mio nome. Ben poco vi è da sperare, lo so, poiché l'infamia si è diffusa in ogni possibile modo. Le macchine della carta inchiostrata e della stampa hanno lavorato a ritmo incessante, mentre l'ancor più onnipresente soffio delle voci umane ha sussurrato, in salotti e casamenti, i particolari che non si possono trascrivere. Ma se per avventura il lettore dovesse essere miracolosamente ignaro del recente scandalo, deponga questo libro intonso. Forse i ristretti confini di una stanza d'ospedale, o i più ampi orizzonti di un viaggio oltremare, lontano dal clima inglese e dall'ancor più cupo e penetrante gelo delle malelingue inglesi, hanno risparmiato le sue orecchie. Ben scarso profitto si può trarre dall'udire le dicerie popolari sulla dubbia confraternita scientifi-
ca nota come Regia Anti-Società, e sul ruolo che io avrei giocato nella sua resurrezione dall'ambiguo passato che l'aveva sepolta, rendendola un'ombra mitologica del fiat lux newtoniano. Questa felice ignoranza è possibile. Al pubblico sono stati divulgati solo esili dettagli delle ricerche di Lord Bendray sulla cosiddetta Armonica del Cataclisma, con la quale egli si proponeva di schiantare il cuore stesso del pianeta. Ancora oggi, la sfera rivettata in ferro della sua Vettura Ermetica è sepolta fra le rovine di Bendray Hall, con le bandierine di segnalazione e le luci ammaccate e rotte; è un semplice oggetto di speculazione per i servitori che ascoltano pazienti le balbettanti domande della figura grigia sulla sua nuova vita su un altro pianeta. La discrezione che si può comperare con le sterline ha risparmiato agli eredi dei beni di Bendray ulteriori imbarazzi. Non per desiderio di gettare discredito, ma per rimediare ai danni fatti al nome mio e di mio padre, esporrò in queste pagine un fedele resoconto della fatidica soirée musicale di Lord Bendray. La pioggia principia, cade sui vetri della finestra del mio studio. Di fronte al contenitore del carbone, il cane che dorme sul tappeto uggiola e graffia il pavimento. Un timore apprensivo fa cadere una macchia d'inchiostro dalla penna che stringo nella mano, e nella tasca del mio panciotto una moneta di nessun valore, se non come pauroso ricordo, diventa fredda contro la mia pelle sotto strati di stoffa. Non importa; io proseguo. Molti di coloro che leggeranno, lo so, andranno in cerca di nuovi, salaci particolari sulle più disgustose accuse che mi sono state mosse. Sono stato dipinto come un demone di lussuria. Voci sulle mie incursioni tra i vicoli male illuminati del porto su un tiro a quattro, all'inseguimento di piaceri innaturali come le "ragazze verdi" tanto spesso ritenute causa dei casi di follia e corruzione fisica della nostra giovane nobiltà, hanno goduto di un credito ben superiore alle modeste porzioni di verità contenute in quelle storie. Non è stata colpa mia se l'Associazione Dame per la Soppressione del Vizio Carnale ha organizzato una marcia a lume di torcia sulla dimora che ospitava il mio negozio e il mio alloggio. In realtà, se il pubblico fosse a conoscenza della natura nascosta della signora Trabble, capitano di quel reggimento tanto stimato, molte eccitate chiacchiere non avrebbero più me come bersaglio. In quanto al più vasto scandalo sulla doppia carriera che mi viene attribuita, virtuoso di violino degno del grande Paganini e incallito donnaiolo addirittura superiore al libidinoso Casanova, asserisco che nessuna delle
due imprese si deve a me. Né uno Stradivari né una donna di degni natali hanno mai risposto al mio arco in tale guisa. Per quanto sia stato usato il mio cervello nella produzione di quelle melodie, così seducenti sul palco e ancora più dietro le quinte, le mie mani sono innocenti. Mi è difficile sperare che le mie rivelazioni vengano credute. Le scrivo qui per mia consolazione. Su altre questioni sono stati espressi giudizi ufficiali nelle aule di tribunale. L'accusa a mio carico di profanazione di un luogo di culto, avvenuta tramite sostituzione dei libri degli inni della Saint Mary Alderhyte, Bankside, con copie del Manuale del perfetto pescatore all'amo di Izaak Walton e tramite la decorazione dell'altare con attrezzature da pesca, è perfettamente spiegabile. Posso essere colpevole di condotta stravagante, ma non di sacrilegio. Se anche il mio nome è stato collegato (con qualche ragione, lo ammetto) a certe segnalazioni giunte dalle Highlands scozzesi sull'apparizione della Bestia a sette teste dell'Apocalisse, che avrebbe svolazzato scaraventando carcasse di ovini in fiamme sulle teste dei battitori di Sir Charles Wroth, mentre la Prostituta di Babilonia, appollaiata sulla creatura, rideva e urlava commenti insolenti, continuo a credere che una mente aperta possa assolvermi. Anzi, il fatto che i fucili dei cacciatori di galli cedroni di Sir Charles fossero puntati su di me dovrebbe indurre un'anima caritatevole a provare una certa simpatia per i miei tristi casi. Ma mentre faccio sosta per un istante, sollevo la penna, e scruto oltre il vetro solcato d'acqua le esili colonne di fumo che si alzano dalla folla di camini e svaniscono poi tra le nebbie del fiume (un panorama che non posso descrivere in ulteriori dettagli per il timore di guidare qui, al mio rifugio, l'avida folla), un brivido non provocato da malaria o freddo mi scorre sulle braccia. Il cane leva la testa, tende le orecchie al suono delle distanti campane che né io né alcun altro gentiluomo cristiano abbiamo mai udito, né dovremmo sperare di udire. In qualche angolo del distretto cittadino di cui viene fatto il nome solo nei più smorzati sussurri, e la cui posizione è contemporaneamente per ogni dove e in nessun luogo di Londra, la congregazione chiamata a raccolta da quelle campane per noi misericordiosamente mute sta scivolando tra stretti vicoli, diretta a un umido rito d'adorazione. Riabilitare il mio nome, il nome di mio padre, mi pare ora vacua vanità. Che importano gloria o ignominia, quando simili visioni hanno alterato il mondo stesso ai miei occhi? Tagliato in due, come intendeva fare Lord
Bendray con la Terra, eppure ancora intero. Per me, il grigio velo di Londra, fumo e nebbia, è stato sollevato. Felice chi scambia il sipario dipinto per la realtà che sta dietro. Il cane abbassa la testa sulle zampe e riprende il sonno. E pur sminuito, cosciente della mia futilità, io insisto a vergare la carta con l'inchiostro. Il lettore avvertito, consapevole dei forse ignobili interessi che nutre per queste cose, faccia come preferisce. Creff era visibilmente agitato dall'apparizione dello sconosciuto alla nostra porta. La memoria richiama alla mente l'ansioso contorcersi delle sue mani, simili a due tassi rosei e privi di pelo che tentassero di azzannarsi alla gola, e la perfetta circolarità dei suoi occhi sgranati. — Signor Dower, è un etiope! — sussurrò Creff. — È folle. Un selvaggio animato da intenzioni omicide! — I tassi si avvinghiarono, divennero esangui. Io mantenni salda la voce. Essendo il negozio al piano inferiore rispetto alla stanza dove stavo consumando la colazione, il visitatore non correva il rischio di udire le calunnie che aveva generato. — La sua natura "etiope" potrebbe essere apparente, in superficie — dissi. — Ma cosa le ha permesso di discernere il suo stato mentale? — La finestra colma di grigiore alle mie spalle necessitava della fiamma della lampada a gas, nonostante l'ora avanzata del mattino. In quella luce gialla rigirai un frammento di pane tostato, nella vana speranza che tenesse nascosto sotto di sé il gemello della frugale fetta di bacon. — Signor Dower, i suoi occhi. — Quelli di Creff si sgranarono ancora di più. — Solo piccole fessure, ecco cos'erano. Come se qualche robusto liquore gli avesse dato alla testa, rendendolo pronto all'omicidio! In effetti, l'ebbrezza era una possibilità. Con discrezione sufficiente per evitare di urtare i sentimenti di Creff, inalai a pieni polmoni, in cerca dei fumi che potessero segnalare una qualche singolarità nella sua condotta. Indulgere all'alcol lo portava a episodi di spiacevoli bizzarrie; solo pochi mesi addietro ero stato costretto a ricorrere a tutta la mia diplomazia con la moglie del negoziante a diverse porte di distanza da noi. Creff era stato scoperto nel vicolo, in ginocchio di fronte al perplesso gatto del negoziante. La birra stantia lo aveva convinto che il gatto fosse l'Angelo Contabile, e Creff stava tentando di corromperlo con certe caramelline. L'oggetto dei suoi negoziati erano alcuni peccatucci dei quali molto si pentiva. La signora Draywaite si era calmata solo alla mia spiegazione, improvvisata su due piedi, sulla debolezza congenita alle ginocchia che provocava in Creff
quelle imprevedibili genuflessioni. Similmente, per quanto nell'aria non vagassero aromi rivelatori di alcolici, l'etiope segnalato a pianterreno sarebbe potuto essere nulla più d'un italiano di carnagione insolitamente scura. Negli ultimi tempi, gli africani occupavano un grosso spazio nella mente di Creff grazie alle assai celebrate esibizioni del Principe Ko-Mo-Lo, il tenore abissino, sul palcoscenico di un teatro di Mayfair, nonché all'apparizione di diversi cantanti da strada di colore similare. Dopo le indagini di polizia, si scoprì che questi ultimi erano semplici suonatori ambulanti irlandesi, occultati sotto il nerofumo che avevano usato per trasformarsi in africani. Avevano sperato che il pubblico, ormai orientato verso il nero, premiasse le loro nenie incomprensibili con una messe più rigogliosa delle scarne monete riservate alla loro precedente incarnazione con un repertorio a base di ballate sentimentali. Anche dopo lo smascheramento di quelle frodi, Creff si era fissato sull'argomento; come se gli antropofagi delle storie della sua infanzia fossero arrivati con armi e bagagli in ogni vicolo. Creff, fraintendendo la mia cauta reazione, si protese sul tavolo della colazione. — Ecco cosa possiamo fare, signor Dower. Lei sguscia fuori dalla scala sul retro e chiama i poliziotti, e io lo tengo a bada finché non arrivano. — Estrasse da sotto il grembiale un coltello da scalco, fornito di una lama a stento capace di minacciare un formaggio. La povertà della colazione, indice dello stato della dispensa e delle risorse bancarie che la sostenevano, mi suggeriva altre strategie. Non desideravo che un cliente, nero d'incarnato o pallido come un angelo che fosse, scappasse dal mio negozio spaventato da un coltello. Strappai l'arma alla presa di Creff e gli ordinai di riferire al gentiluomo che sarei immediatamente sceso a prendermi cura di lui. Lo spettro di perdere un lavoro, quale che fosse quello portato dall'"etiope" di Creff, mi indusse a ulteriori meditazioni mentre dissezionavo l'uovo palesemente anziano che avevo di fronte. Da che avevo ereditato il negozio e l'attività dal mio defunto padre, il lavoro e le mie fortune avevano subito fluttuazioni simili a quelle di una foglia in autunno, talora portata in alto dal vento ma sempre destinata a ridiscendere. Non possedendo l'innato genio di mio padre per l'escogitazione di orologi, meccanismi e apparecchiature scientifiche che avevano creato la sua reputazione, e non avendo ricevuto da lui un'educazione che compensasse le mie lacune in quei campi, i miei modesti commerci si limitavano alla manutenzione e riparazione delle creazioni che gli ex clienti di mio padre mi portavano. Ovvia-
mente, nei limiti in cui ero in grado di occuparmi dei congegni di mio padre, poiché nemmeno in quello potevo vantare grandi capacità. Il livello di maestria di mio padre provvedeva a rendere rare anche le semplici riparazioni, e la complessità delle sue invenzioni poneva gli interventi più minuziosi ben al di là della mia portata. In verità, era fortissima in me la tentazione di svendere quella raccolta di macchine parzialmente montate, ingranaggi, volani, treni d'ingranaggi, scappamenti, tutto ciò che si trovava nel laboratorio di mio padre, e semplicemente intascare il vile valore dell'ottone e degli altri metalli ricevuti in eredità, non fosse stato per i diritti acquisiti dell'assistente di mio padre, Creff. Il primo giorno che mi ero presentato in negozio, col nastro nero ancora sulla manica dopo il funerale e la comunicazione del decesso in tasca, avevo trovato il fedele Creff intento a pulire. Vetrina e banco erano tirati a lucido come lo erano sempre stati per mio padre. Dopo aver deciso di tenerlo con me per quei compiti e per altri lavori domestici, scopersi ben presto che, per quanto la lentezza d'ingegno gli avesse impedito di afferrare i principi usati da mio padre nelle sue creazioni, la sua caparbia attenzione ne aveva impresso una certa pragmatica conoscenza nel suo cervello, per pura ripetitività. La prima volta che riuscii ad aprire la cassa di uno dei più semplici orologi di mio padre, portato per una riparazione da un gentiluomo del Kent, dopo che ebbi visto il fitto universo di ingranaggi e molle a spirale, incomprensibile e lucido nel leggero velo d'olio, furono solo le istruzioni di Creff, chino sulla mia spalla, a impedirmi di scoppiare in un pianto dirotto. Le mie dita erano in grado di fare ciò che era impossibile alle sue, rozze e callose; e le sue istruzioni guidarono i minuscoli utensili da gioielliere disposti sul banco da lavoro di mio padre. Dato che il negozio di mio padre sorgeva nei pressi di Clerkenwell Green, nel distretto londinese noto da tempo per i suoi orologiai, tenevo in vetrina alcuni orologi fabbricati dai miei vicini, nella speranza di venderne uno a qualche passante. Creff aveva desunto che il visitatore fosse ricorso a quel pretesto per introdursi e ucciderci. Quando infine riemersi dai miei pensieri, quel che restava della colazione si era tramutato da poco attraente in immangiabile. Spinsi via il piatto e mi alzai. Sulla scala superai Creff, ancora intento a borbottare oscure preoccupazioni su "selvagge palle da cannone", e scesi a vedere quale tipo di commercio mi si sarebbe presentato quel mattino. Il primo apparire di quella figura, i cui andirivieni nel corso delle mie peripezie sarebbero stati fonte di tanti stupori, non instillò in me l'appren-
sione che aveva ghermito Creff. Il gentiluomo mi girava la schiena quando giunsi ai piedi della scala. Attendeva, col cappello accanto al gomito sul banco, e studiava uno degli orologi di mio padre, appeso alla parete di fronte. Di statura superiore alla media, eppure scarsamente florido di spalle in un modo che il cappotto non riusciva a celare, l'uomo era perfettamente immobile, assorto nei movimenti dell'orologio che segnalavano ora, data, e posizione dei maggiori pianeti. — Posso esserle di qualche aiuto? — Annunciai la mia presenza, e l'uomo si girò verso me ruotando sui tacchi con una lenta, fluida grazia. Vidi allora cosa avesse evocato le paure di Creff. Dapprima pensai che la regolazione della lampada a gas del negozio fosse troppo bassa e lasciasse nell'ombra il volto dello sconosciuto; poi il fulgore della fiamma brillò sulle zone più alte del suo fisico. La pelle del viso e delle mani (i guanti, vidi, erano deposti accanto al cappello) era di un castano scuro, ricco. Mi ricordò il mogano levigato o il miglior marocchino, coperto da una patina resa liscia e brillante dagli anni. Non poteva essere un travestimento, nerofumo spalmato su una carnagione chiara come la mia, ma solo il pigmento fornito dalla natura. A rinforzare l'ipotesi dell'origine africana provvedevano le linee simmetriche di minuscole cicatrici che correvano su guance e fronte: è noto che certe tribù si autoinfliggono quelle decorazioni, scavando piccole ferite con una spina e sfregandole poi con la sabbia, per renderle di maggiore spicco una volta guarite. Gli occhi erano come li aveva descritti Creff, con palpebre che scendevano a formare due fessure sopra le sfere leggermente protuberanti degli occhi. Non trovai la cosa sconcertante com'era accaduto al più eccitabile Creff; anzi, l'espressione grave, lontana dal sorriso, conferiva una calma dignità alla presenza dello sconosciuto. Lo stato selvaggio che poteva essere rimasto nel suo petto era ben nascosto sotto il costoso taglio del suo abbigliamento. — Signor Dower? — Parlava in modo chiaro ma smorzato. Le labbra sottili si muovevano appena. — Infatti. Il figlio. — Faccio sempre questa precisazione a chi potrebbe avere conosciuto mio padre solo attraverso le sue creazioni, nello sforzo di anticipare ogni delusione per i miei inferiori servigi. — Il fondatore dell'attività è deceduto. — Le condoglianze le porgo. — Un accento non identificabile si palesava nel suo dire. Il lieve inchino permise alla luce della fiamma di sfiorare l'altrettanto scura e levigata curva del suo cranio.
— Sono trascorsi due anni. Il mio dolore si è un poco placato, ritengo. — Quelle parole erano una parodia dei miei veri sentimenti, come spesso accadeva quando parlavo di mio padre. Come piangere un uomo che non si è mai conosciuto, per quanto intimo possa essere il rapporto di parentela? Mi spostai dietro il banco e distesi le mani sul piano. — Per venire agli affari, signor... Ah... — Grazie all'attenta osservazione dei miei vicini ero riuscito a coltivare il sorriso ossequioso del commerciante. — Ho il piacere di rivolgermi a... Il gentiluomo ignorò le mie incursioni nella direzione del suo nome, ed estrasse da sotto il braccio un pacchetto avvolto nella carta. Dopo averlo sistemato sul banco, l'Uomo di Cuoio Marrone (già nella mente avevo cominciato a identificarlo così) slacciò i nodi della corda e spinse via la carta con le mani scure. — Ero cliente del suo povero padre — disse. — Per me ha costruito questo, su mia commissione. Un qualche elemento di disordine si è introdotto nei meccanismi, e io desidero impiegare lei per riaggiustarlo. L'ultimo pezzo di carta cadde. — Cos'è? — chiesi. I miei occhi si alzarono al silenzio dell'Uomo di Cuoio Marrone, e scopersi che le strette fessure mi studiavano con inquietante intensità. Fu un sollievo riabbassare lo sguardo su ciò che avevo davanti. Una scatola di mogano lunga poco più di trenta centimetri, e la metà circa nelle altre dimensioni; un paio di cerniere d'ottone di fronte a me. Con un dito cercai di ruotare la scatola, ma il suo sorprendente peso la mantenne immobile sul banco. Fui costretto ad afferrarla con entrambe le mani per girarla. Sollevai il semplice fermaglio d'ottone e alzai il coperchio. Il mio cuore diede un tuffo quando scrutai la complicata anatomia del congegno. La sensazione di disperazione non mi era ignota; mi invadeva spesso alla vista di una delle creazioni di mio padre. Il suo genio non si limitava alla produzione degli orologi da taschino e dei più grandi orologi, creati con tanta sottigliezza e complicazione di disegno da portare il suo nome in primo piano tra gli ammiratori dell'arte dell'orologeria. Con la sua morte e il mio del tutto inadeguato subentrargli, mi ero familiarizzato con sfaccettature del suo lavoro che sono ancora ben poco note, poiché nate dalle richieste di una clientela scelta e discreta. Apparecchi scientifici e astronomici d'ogni tipo, dai semplici barometri, anche se di una finezza di calibratura raramente o mai eguagliata, a complessi astrolabi e planetari meccanici, questi ultimi contraddistinti da eccentrici in serie, capaci di mostrare le
vere orbite ellittiche dei corpi celesti, non i movimenti circolari semplificati che tante altre rappresentazioni meccaniche dell'universo producono. Tutto questo, e molto più, erano i figli di mio padre. Più ancora di me, avevo spesso pensato nel rimirare il complesso intreccio di molle e meccanismi come quello che si era svelato all'interno della scatola dell'Uomo di Cuoio Marrone. Le minuscole, minuziose parti in ottone mostravano una cura e un'attenzione del tutto assenti nella creazione della mia persona e nel suo assemblaggio per l'età adulta. Scopo e funzionamento di alcuni dei congegni che mi venivano sottoposti erano indecifrabili, e tra i clienti di mio padre prevaleva una bizzarra tendenza alla segretezza. Le attività scientifiche a livello dilettantesco rientravano da tempo negli interessi dei gentiluomini più seri, colti e benestanti, ma le persone che si presentavano da me erano spesso mal disposte a comunicare, quanto i congegni che volevano far riparare. Sestanti che dividevano il cielo in angoli ignoti alla consueta geometria, microscopi le cui lenti sigillate distorcevano l'oggetto osservato riducendolo a sfolgoranti arcobaleni, altri strumenti la cui complessità e ricchezza di comandi andavano ben oltre le mie capacità di speculare sul loro uso: tutto questo, prima o poi, era stato portato al mio negozio. Con l'assistenza di Creff ero riuscito a eseguire le riparazioni più semplici, una catenella filiforme sfuggita dalla posizione che le competeva o una ruota dentata che aveva perso i denti e poteva essere sostituita con un duplicato: possedevo buone scorte nel grande caos di parti e macchine montate a metà rimaste nel laboratorio di mio padre. La facoltosa clientela alla quale prestavo questi servigi pagava a livelli piuttosto buoni. Ero costretto a restituire a clienti mugugnanti, con le mie scuse, altri congegni le cui disfunzioni erano misteriose quanto le funzioni. Temevo che i miei commerci stessero declinando proprio a causa del numero sempre più alto delle mie ammissioni di incapacità; tra gli esperti doveva essere corsa voce che il figlio non era all'altezza del padre. Il disastroso episodio degli Automi Clericali Brevettati, da me completati e messi in funzione in una chiesa di Londra quando la mia fiducia nell'occuparmi delle creazioni di mio padre non era ancora stata minata a sufficienza, era stato nascosto all'opinione pubblica. In caso contrario, la generale conoscenza dell'evento avrebbe posto fine per sempre alle mie attività. Tali erano le logore riflessioni che pesavano sui miei pensieri mentre ero chino sul bauletto. Per quanto le mie finanze personali necessitassero di rinforzi, temevo che quella non fosse un'occasione di profitto. Alzai la fiamma della lampada a gas dietro il banco e, mentre il visitatore continua-
va a fissarmi col suo sguardo a fessure, mi abbassai sul congegno con la lente d'ingrandimento nella mano. Il mio studio non svelò alcunché degli scopi della macchina, anche se venne allontanato ogni dubbio sulla sua origine. Con la lente scopersi lo scappamento oscillante con i contrappesi a nottolino d'arresto che mio padre aveva inventato, anche se in questo caso di dimensioni inferiori agli esemplari che già conoscevo e collegato in parallelo a un treno di duplicati che scomparivano nelle viscere d'ottone. Altre componenti erano tanto minuscole che la lente d'ingrandimento, per quanto mi affannassi a guardare, non riusciva a mostrarmi i particolari del congegno. Una sezione, più brillante delle altre, sembrava fatta di lamine d'oro finemente martellate; le lamine erano ripiegate su se stesse in varie fogge asimmetriche. Semplici viti d'arresto agli angoli della scatola mostravano in quali punti il congegno si potesse rimuovere dal suo alloggiamento di mogano. Diversi collegamenti articolati incompleti disposti lungo i lati, con tracce di usura sui collari alle estremità delle asticelle sporgenti, indicavano le possibilità di connessione con altri, più grandi congegni. — Sembrerebbe un qualche tipo di meccanismo di regolazione — riflettei ad alta voce. Guardai su e incontrai gli occhi dell'Uomo di Cuoio Marrone ancora puntati su di me. Scrollai le spalle, a disagio sotto quell'intensa disamina. — Per un orologio, forse, dotato di varie altre funzioni? — Sapevo che il congegno era troppo complesso per uno scopo così semplice. Cuoio Marrone annuì. — Un Regolatore, sì. È così. Lei ha pratica di simili apparecchiature? — Conosco molto del lavoro di mio padre — risposi. — Ma questo in particolare... No. Mi dispiace. — Ma ripararlo? — Il suo sguardo parve farsi ancora più affilato, come se gli scintillii nei suoi occhi fossero punte d'ago. — È all'altezza del compito? Come accade a tanti commercianti, nella mia natura l'avidità aveva il sopravvento sulla prudenza. Non c'era nulla da perdere nel tentativo di riaggiustare il congegno, per quanto esigue fossero le probabilità di successo. Ma gli occhi dell'uomo mi innervosivano, evocavano in me il vago sapore della paura provata da Creff, e mi spinsero all'onestà. Richiusi il coperchio di mogano e spinsi via il cofanetto. — Penso di no — dissi. — Certe creazioni di mio padre sono al di là delle mie capacità. Ritengo che potrei solo danneggiare ulteriormente il congegno coi miei armeggiamenti. La sincerità mi permise di fissare direttamente negli occhi il gentiluomo.
Per un attimo restò muto, e i puntini di luce dietro le palpebre socchiuse scavarono ancora più a fondo sotto il mio viso. — Il suo avvertimento accetto — disse infine. — In ogni caso, renderò fonte di soddisfazione ogni suo tentativo. — Non posso garantire risultati. — La prego. — Le mani castane si avvolsero sui lati della scatola e la spinsero verso di me. — Anche il semplice tentativo prezioso mi è. — Molto bene. — Le mie dita sfiorarono le sue quando riportai verso di me il congegno. Un gelo profondo fluì dalla pelle scura, sottraendo una briciola di calore alla mia. — Non sono, ah... preso da altri incarichi al momento. Vuole tornare entro una settimana? Forse per allora avrò concluso qualcosa. Le scrivo una ricevuta. — Presi un foglio di carta da sotto il banco. — Ricevuto da...? Lui mi ignorò. Il suo sguardo si staccò da me e prese a vagare su ciò che il negozio conteneva. Ogni orologio, semplice o complesso, finì sotto la sua ispezione. — Posso esserle utile in qualche altra cosa? — chiesi. Libero dal suo sguardo inquisitore, ero riuscito a giudicare come sciocco il mio attimo di paura. Forse era possibile concludere un affare un poco più solido. Cuoio Marrone si girò di nuovo verso di me. — Il laboratorio di suo padre — disse. — Mi piacerebbe vederlo. La richiesta mi colse di sorpresa. Battei le palpebre prima di ritrovare la voce. — Perché? — domandai semplicemente. — Non c'è nulla... — Suo padre, signor Dower. Ha forse lasciato qualche articolo il cui uso perplesso la rende? Meccanismi non esattamente identici a questo, ma simili in parte. O anche totalmente differenti, ma sempre di funzioni per lei misteriose. Se ve ne sono nel suo laboratorio, amerei esaminarli. La cosa potrebbe essere... — La sua voce vibrò in un tono insinuante. — "Preziosa" per me. La sua ipotesi sui contenuti del laboratorio di mio padre era assolutamente precisa. Non appena giunto a Londra per prendere possesso della mia eredità, ero rimasto stupefatto dal caos meccanico che colmava la grande stanza priva di finestre sul retro del negozio. Traballanti montagne di meccanismi, orologi eviscerati d'ogni dimensione, dagli orologi da taschino con quadranti piccoli come unghie alle massicce forme di orologi da torre campanaria con lancette più grosse di un polso umano, scheletri in ottone d'automi con le tonde orbite di occhi di porcellana che fissavano il nulla da visi scarnificati, apparecchiature scientifiche con lenti polverose
che scrutavano solo il buio: un intero universo colto a mezza strada nel momento della creazione e lì raggelato dalla morte del suo Creatore. A quanto sembrava, mio padre aveva lavorato simultaneamente a una messe di progetti, e solo il suo fervido cervello era stato capace di discernere le correlazioni dell'uno con l'altro in quello spazio così affollato. Nel breve periodo del mio soggiorno lì, lo scompiglio era stato accresciuto dal naturale decadimento prodotto dal Tempo, e dalla mia innegabile ritrosia a crearmi uno spazio decentemente sgombro sul banco da lavoro di mio padre. Inoltre, la mia abitudine di procedere alle riparazioni saccheggiando pezzi e frammenti dai congegni solo parzialmente assemblati aveva avuto lo sgradevole effetto di accelerare la disintegrazione generale. La mia riluttanza a permettere a un estraneo di vedere l'imbarazzante stato al quale il mio patrimonio ereditario si era ridotto, fu vinta dalla prospettiva di trarre profitto da qualche agglomerato di meccanismi e molle dal quale mi ero aspettato al massimo il guadagno che si può avere da cascami metallici. — Ma senz'altro — dissi, gesticolando in direzione della porta dietro il banco. — Se vuole avere la cortesia di trasferirsi qui, sarò lieto di concederle un'ispezione. Lo guidai in corridoio e giù per la breve rampa di scalini in pietra, fino al laboratorio. Non essendovi alcun braccio per il gas alle pareti, accesi la lampada che tenevo sul banco da lavoro. La fiamma, anche regolata sul massimo, proiettava una luce a stento capace di penetrare gli angoli della stanza, se fossero stati visibili dietro l'ammasso disordinato delle creazioni abortite di mio padre. Il bagliore traeva riflessi dagli ingranaggi d'ottone, e poco più. Indifferente alle tenebre, l'Uomo di Cuoio Marrone stava già esaminando l'intrico di congegni. Sondava i singoli meccanismi con un lungo dito marrone, si chinava a studiare la congerie di ingranaggi. Si giunse a un passo dal disastro quando una parete di ruote d'ottone tremò sotto la sua indagine. Dall'alto, la testa priva di corpo di un manichino guardava giù, a mo' del pellerossa che segue di soppiatto un esploratore nei selvaggi deserti dell'America. Un telescopio privo di lenti ruotò sul proprio perno, scostandosi da Cuoio Marrone che si stava addentrando ancora di più nella palude meccanica. — Ha trovato qualcosa che le interessi? — chiesi dalla mia postazione al banco di lavoro. Il silenzio della sua schiena girata verso di me fu l'unica risposta. Leggermente irritato, sollevai la lampada e la portai verso di lui, col cerchio di
luce gialla attorno ai piedi, più per soddisfare la mia curiosità che per aiutarlo nella ricerca. Reggendo alta la lampada, scrutai da dietro le spalle dell'Uomo di Cuoio Marrone. La luce si rifletteva sulla curva fosca del suo cranio. Davanti a lui, raggelata nell'immobilità del Tempo, v'era una complessa distesa di ingranaggi e ruote dentate. Il suo indice teso tastava come il bisturi di un chirurgo penetrato in un cadavere d'ottone. Era così intento in quell'esame post mortem che quasi non parve accorgersi della mia presenza dietro di lui. Un improvviso schiocco metallico, e il mio strano cliente balzò all'indietro. Io finii a terra e la lampada si involò dalla mia mano. La luce non si spense. La lampada atterrò contro la gamba del banco da lavoro, ma la zona attorno all'Uomo di Cuoio Marrone e al sottoscritto, assai poco dignitosamente seduto sul pavimento, piombò nel buio. La luce riflessa dalla catena montuosa di metallo mi permise di alzare lo sguardo e comprendere cosa fosse accaduto. Una molla elicoidale di un apparecchio che l'Uomo di Cuoio Marrone stava studiando penzolava ora di fronte a lui. L'estremità frastagliata era scossa da sussulti frenetici. A quanto sembrava, la molla si era spezzata sotto le sue stimolazioni ed era schizzata nell'aria con tanta forza da ferirlo. In effetti, potei vedere che una mano di Cuoio Marrone si era stretta sull'avambraccio opposto, per bloccare il flusso del sangue dal taglio sopra il polso. Mi rialzai in tutta fretta, spinto dalla naturale partecipazione umana e dalla prospettiva dei danni dei quali potevo essere ritenuto responsabile. — Mio Dio, signore, lei è ferito! — urlai, chinandomi per prendermi cura della ferita. Orripilato, vidi le umide chiazze di sangue sul pavimento in pietra e sul più vicino congegno in ottone. Lui sottrasse alla mia mano l'arto ferito. — Non è nulla — disse. — Non si preoccupi. — Le sue azioni smentirono le parole: continuando a stringersi l'avambraccio, ripercorse veloce il corridoio fino al negozio, tallonato da me. Prima di raccogliere cappello e guanti dal bancone, estrasse a fatica una moneta dalla tasca della giacca e la depose nella mia mano. Un liquido lucido colava tra le dita marroni serrate sul braccio. — Un acconto — disse, mentre le fessure dei suoi occhi si puntavano di nuovo su di me. — Per il lavoro che ancora deve fare. Poi se ne andò. La porta del negozio sbatté alle sue spalle; il suono degli zoccoli sull'acciottolato e delle ruote di una carrozza svanì nel continuo
mormorio della strada. — Signore, glielo avevo detto che era un folle! Oh se glielo avevo detto! Mi voltai, e vidi Creff scrutarmi ai piedi della scala, ancora armato dell'inetto coltello da cucina. Senza preoccuparmi di controllare la moneta che l'Uomo di Cuoio Marrone mi aveva dato (il bagliore argenteo e il suo peso familiare mi assicuravano che si trattava di una corona) la depositai nel taschino del panciotto. — C'è un po' di confusione in laboratorio — dissi. — Sangue sul pavimento... Gli occhi di Creff si sgranarono, come gonfiati dalla sua rumorosa inspirazione. — Un incidente — gli assicurai. — Solo una molla spezzata. Vuole essere così gentile da pulire? Pochi istanti dopo, mentre al banco studiavo il congegno lasciato dal visitatore di quel mattino e la strana irrequietezza generata da una premonizione impediva alla mia mano di sollevare il coperchio, dal laboratorio giunse un urlo. Creff apparve all'imboccatura del corridoio, con uno straccio in mano. — Non c'è sangue. — Sembrava irritato, come avesse appena scoperto di essere stato preso in giro. — È tutto bagnato, sì, ma non c'è sangue. — Lei si sbaglia — ribattei. — Sul fondo della stanza, sotto le vecchie cose di mio padre. — Venga a vedere lei, allora. Lo seguii giù per i gradini. In laboratorio, di fronte alla parete d'ottone delle creazioni di mio padre, dove avevo visto l'orlo frastagliato della molla lacerare la pelle marrone, mi inginocchiai sul pavimento. Creff tenne alta la lanterna, a illuminare il liquido che era fuoriuscito dalla ferita del mio cliente. Ancora prima di toccarlo, un vago aroma mi penetrò nelle narici, evocando ricordi d'infanzia: la zia che mi aveva cresciuto, le nostre visite alla spiaggia di Margate. Penetrai con l'indice una delle chiazze. Il fluido sulla punta del dito era di colore perfettamente chiaro, non certo il rosso scarlatto che mi aspettavo. Incuriosito, lo assaggiai. Non sangue, ma acqua salmastra. Mentre ero lì inginocchiato su un pavimento di pietra nel cuore di Londra, i ricordi della sabbia e del volteggiare dei gabbiani si fecero più forti, evocati dal sapore netto, vivido, dell'acqua di mare. 2
Visite portentose Sono tornato dal mio abituale passeggio mattutino. La lunga pratica dei congegni di mio padre, e le funzioni evacuatorie di un cane già vecchio ancora prima di diventare mio compagno di tribolazioni e perigli, hanno conferito alle mie abitudini gli stessi rigidi orari delle figure meccaniche che sfilano in parata entrando e uscendo dagli orologi di certe torri bavaresi. In un cortile annerito dal fumo, di lato alla mia via, un gruppo di bambini in abiti a brandelli, coi piedi nudi e neri come la sporcizia sulla quale saltavano, cantava, preso da un semplice gioco basato sul battito delle mani. Il cane ha abbaiato, come per unirsi alla loro stridula, innocente allegria, ma un brivido si è posato sul mio cuore quando ho decifrato le parole che accompagnavano l'intrecciarsi delle loro lerce braccia e il battere delle mani. L'arco di Georgie, L'orologio di Georgie, Tutto sul molo Georgie depone; Col suo archetto E le signore al petto Georgie l'orologio mette in funzione! I bambini sono corsi via, ridendo e strillando rudi motti di scherno all'uomo che li fissava con espressione esterrefatta. Ricordi dolorosi, evocati da un canto infantile, correvano sotto la mia fronte aggrottata mentre, seguito dal cane, riprendevo il cammino di casa. Le monotone rime del gioco erano, senza dubbio, una fioca eco delle ballate popolari, complete dei più indecenti dettagli, nate non appena la mia storia era giunta alla pubblica attenzione. Rimembrai l'orrido mattino in cui, convinto di essere finalmente tornato alla sicurezza dell'anonimato, mi fermai al limitare di una folla raccolta attorno a un cantastorie. Nel giro di pochi minuti mi resi conto che, sul motivo di Hail, Smiling Morn, alla folla veniva fatto un osceno resoconto delle mie recenti peripezie. Sopra la testa delle persone, appeso a un palo, un cartello raffigurava una sagace caricatura del mio viso, con contorno di giovinette che cadevano in deliquio alle mie supposte doti di violinista; l'artista aveva disegnato una mano femminile tremante, tesa a toccare l'esagerata chiave di un meccanismo a orologeria nella quale una parte
intima della mia anatomia era stata trasformata. La vista di quell'infamante ritratto nelle mani del complice del cantastorie mi fece barcollare all'indietro; i volti più vicini si girarono verso di me e individuarono la somiglianza col diabolico violinista del cartello. Fui costretto a fuggire tra strade contorte prima che si scatenasse un putiferio. Poco tempo dopo trasferii le tende alla mia nuova residenza, al mio nascondiglio, in un distretto meno popoloso dove i crimini a me attribuiti potevano passare sotto silenzio, nel grigio squallore dei suoi abitanti. Tornato ora al mio scrittoio e alla mia penna, col cane di nuovo sonnolento di fronte al camino, tento di scacciare dai pensieri il canto di quelle voci beffarde. Inutilmente: formano una continua parte obbligata che fa da contrappunto alle parole e alle armonie che cerco di evocare dal passato. Già la prima apparizione nella mia vita dell'Uomo di Cuoio Marrone avrebbe reso memorabile quel giorno. Il fatto che sia stata seguita da altri visitatori destinati a rivelarsi altrettanto significativi è un'ottima esemplificazione del principio noto come Superfluità degli Eventi. La mia perplessità sull'uomo giunto quel mattino e sulla commissione che mi aveva affidato continuarono a circolare nella mia testa per il resto della giornata. La mia incapacità di dare ascolto ai truci avvertimenti sul conto dell'"etiope", o forse l'ostinato rifiuto di quest'ultimo ad assassinarmi, avevano provocato in Creff un'esplosione di puntiglio. La mancanza della sua assistenza mi permise solo di trasportare la scatola di mogano e il congegno che conteneva dal negozio al banco da lavoro del laboratorio. Sotto la lampada, il complesso groviglio d'ottone mi intimidì quanto prima; lo abbandonai lì in attesa dell'indomani, sperando in un uso migliore delle risorse mie e di Creff. Quel giorno non si presentarono altri clienti. Appariva sempre più probabile che il congegno dell'Uomo di Cuoio Marrone fosse destinato a essere la salvezza del mio conto bancario. La moneta che mi aveva lasciato a parziale pagamento pesava nel taschino del mio panciotto mentre cominciavo a chiudere gli scuretti sul buio della sera. Quando stavo per spegnere le lampade a gas, qualcuno bussò alla porta del negozio. Sollevai la tendina e scrutai la figura appena discernibile all'esterno. La consistenza e il taglio raffinato del mantello identificarono la presenza di un gentiluomo. Prima che io potessi parlare, egli batté di nuovo sul vetro con l'impugnatura argentea del bastone. — Andiamo, andiamo — disse. La sua voce leggermente roca aveva un accento indefinibile. —
Gesù Cristo santissimo — lo udii sussurrare a un'altra figura alle sue spalle. — Certo che da queste parti bisogna avere a che fare con un bel mucchio di coglioni... Attribuii l'inflessione ignota e i termini incomprensibili a un'affettazione influenzata da usanze straniere o dalla moda. La mia esistenza solitaria mi teneva lontano dalle frasi gergali ("Che tipaccio raccapricciante!" e affini) che fioriscono sulla bocca di tutti per una stagione, per essere poi sostituite da qualcosa di altrettanto sciocco. Il fatto che quel gentiluomo avesse tempo per simili frivolezze indicava denaro, e il desiderio di spenderlo. Aprii la porta e lo invitai a entrare. Avanzò con portamento maestoso, piantando il bastone d'ebano sul pavimento a ogni passo, in sicura arroganza. Il mantello possedeva uno sfarzo byroniano; il panciotto era decorato da dorature ben al di là della parsimonia o del buon gusto. Il viso da falco, leggermente butterato, era sormontato da occhiali con lenti blu scuro che gli celavano gli occhi, per quanto l'unica illuminazione della via fosse il bagliore giallastro, circonfuso di nebbia, del lampione all'angolo. Non accennò a togliere gli occhiali; mi esaminò col loro ausilio come fosse chino sulla lente di un microscopio. La sua compagna gli cingeva il braccio, con una mano posata sull'incavo del gomito. Ebbi solo un attimo per notare la sua spiccata bellezza, nonostante il naso un po' troppo deciso: lo sguardo che mi lanciò da sotto le ciglia scure fece ritrarre, confusi, i miei occhi, e il latrato del gentiluomo mi spinse a girare sui tacchi nella sua direzione. — Lei è Dower? — Sollevò il bastone, diresse su di me la punta in argento. — Sì. Il figlio... — Sì, già. Sicuro. — La signora alzò lo sguardo su di lui e gli strinse il braccio, in una qualche sorta di segnale. L'uomo si zittì, aggrottò la fronte e si morse il labbro inferiore, come per chiamare a raccolta le idee. Quando tornò a parlare, le sue parole furono manierate e formali. — Signor Dower — disse, con un lieve inchino — è un piacere fare la sua conoscenza. Ehm, cioè, mi permetta di presentarmi. Scape, Graeme Scape. — Spostò alla sinistra il bastone e tese una mano guantata, poi, dopo avere ricevuto un'altra stretta d'avvertimento dalla signora, la ritirò, borbottando sottovoce un'altra parola incomprensibile. — Questa è Jane... La signorina McThane. Ho l'onore di presentargliela. O come si dice. La donna scostò i lembi dello scialle tanto da svelare la curva bianca del-
la gola. Balbettai qualche semplice frase fatta, e in viso mi fiorì il calore del sangue. Il sorriso che la signorina McThane mi regalò possedeva l'inquietante franchezza che avevo in passato incontrato una volta sola, quando, innocente appena giunto a Londra, mi ero trovato a passeggiare per la Burlington Arcade ed ero stato avvicinato da quella che sembrava una signora. Mi aveva salutato con un sorriso analogo, mormorando: — Sei un uomo generoso, caro? — Un'offerta ovvia anche per un ingenuo come me. Allora ero riuscito a fuggire da quell'area di scintillanti vetrine di gioiellieri e ancor più scintillanti donne, preservando così la mia innocenza. Nei confini del mìo negozio, però, mi sentii chiuso in un angolo e inseguito da quel sorriso scarlatto, e abbassai con discrezione le palpebre. Il mio sguardo trafitto venne strappato a lei dal battito secco del bastone di Scape sul pavimento. Come risvegliato di botto da un sogno capace di provocare sensazioni di colpa, mi voltai verso di lui. — Signor Dower. — Il sorriso gli inarcò la bocca, come se noi due condividessimo un qualche segreto da cospiratori. — Mi piacerebbe discutere d'affari con lei. Okay? Volevo dire, le sta bene? Un aspetto dei suoi modi, una stranezza del suo comportamento, mi lasciava perplesso. Non possedeva l'aggraziato modo di presentarsi che contraddistingue l'aristocratico gentiluomo nato nella ricchezza e nell'alta posizione sociale. Né la salda schiettezza, di parole come d'espressione, che caratterizza la nuova classe imprenditoriale: uomini che col denaro e le idee mercantili hanno oscurato tanta parte del territorio nazionale nel corso di questa generazione, come il fumo che si leva dalle loro fonderie e dagli sbuffanti motori del loro commercio. Non era uno straniero; per quanto bizzarre fossero le sue scelte linguistiche, appariva chiaro che la sua lingua di nascita era l'inglese di un distretto o dell'altro. Uno spirito da ciarlatano o una qualche tendenza alla furfanteria si presentarono alla mia mente come possibili spiegazioni, eppure il gentiluomo, se tale era, non dava mostra della strisciante, ambigua capacità di insinuarsi nella fiducia della vittima che è tipica del mascalzone. Nello spazio di pochi secondi, la mia mente svolazzò da un'ipotesi all'altra, sempre inseguita e confusa dall'inestirpabile immagine di due occhi scuri e una gola candida come neve. — Sì... Sì, certo. — Balbettai quelle parole, rimirandomi nello specchio scuro dei suoi occhiali, attento a non lasciar vagare lo sguardo sul viso e sul dolce sorriso della sua compagna. — Sono terribilmente spiacente. La stanchezza di una lunga giornata, temo. — Mi trasferii dietro il bancone e distesi le mani sulla liscia superficie. — In che posso esserle d'aiuto?
Scape sottrasse il braccio alla stretta della compagna e intrecciò le mani sull'impugnatura argentea del bastone da passeggio. La signorina McThane si spostò, col suo sorriso stuzzicante, a esaminare uno degli orologi alla parete, restando però a portata d'orecchio. — Forse avrà già sentito parlare di me, Dower. — L'uomo alzò una mano per estrarre un biglietto da visita da una tasca interna, poi lo depositò sul banco di fronte a me. — Non credo. — La comune cortesia, e l'egoismo del commerciante, mi vietavano un diniego esplicito. — Forse... — Guardai il quadrato di carta stampata sul banco. Lettere svolazzanti annunciavano: G. Scape ) IMPRESARIO TEATRALE ( I celebri automi musicali di Scape Reduci dai successi di Milano Buda-pest - Brighton La parola "automi" provocò in me un atteggiamento di cautela. Del segmento della camera di mio padre consacrato alla produzione di figure simil-umane capaci di muoversi, parlare, e compiere altri atti tipici delle creature in carne e ossa, avevo imparato a negare ogni conoscenza, stimolato dalle amare conseguenze dei miei traffici coi congegni lasciati da mio padre. Le scene di caos all'interno della chiesa di Saint Mary Alderhyte, celate al pubblico scandalo grazie ai buoni uffici e all'influenza delle autorità parrocchiali, erano state per me un monito sufficiente. Se l'interesse di quel gentiluomo per le mie merci e i miei servigi si limitava a trabiccoli meccanici che imitavano le movenze corporee, tra noi non esisteva possibilità di commercio. Con gesto guardingo, spinsi indietro sul bancone il biglietto da visita con un dito. — No — risposi, scuotendo la testa. — Temo di no. Senza dubbio, se avessi più tempo per edificare la mia cultura, conoscerei i contributi che lei ha dato. Tuttavia... — Non ci dia troppo dentro — mi interruppe Scape, spazzando via la mia ignoranza con un cenno della mano. — Prego? — Le manderò qualche biglietto, la prossima volta che apriremo a Londra. — Ruotò sul perno del bastone, e la sua mano alzata dipinse una scena immaginaria sopra le nostre teste. — Luci sfolgoranti, nomi scritti col neon. Porti la sua ragazza alla cassa e le daranno i posti migliori del...
— Non sono certo di seguirla. — I suoi modi si erano fatti eccitati ed espansivi, e a me sfuggiva il significato, forse osceno, di qualche suo termine. La sua compagna gli poggiò una mano sul braccio, il che lo calmò un poco. — Lasci perdere — disse Scape. — Non c'è alcun problema. La signorina McThane rivolse di nuovo su di me il suo sorriso malizioso. — Abbiamo fatto lunghe tournée all'estero. Resta attaccato addosso, sa? Il modo di parlare, e cose simili. — Da quel discorso, il più lungo che mi avesse rivolto, emersero lo stesso strano accento e la dizione che avevo già riscontrato nella voce del gentiluomo. — Sì, giusto — convenne Scape. — Quei pazzi d'italiani. Ah. Strani, proprio strani. — In che posso esserle utile? — ripetei, sperando di spostare la conversazione su un binario produttivo. — Affari. Già. — Scape girò attorno gli occhi, scrutò tra gli orologi, poi tornò a fissare me. — Questi, eh, automi che ho... Li porto in giro. E fanno la loro parte. Mi segue? Vedevo la mia espressione cortese e riservata riflessa nelle lenti blu puntate su di me. — Suppongo di sì. Lei allude, ritengo, a esibizioni musicali... — Centrato, socio. — E i congegni meccanici che formano la sua troupe sono di sua creazione? — Stavo tentando di farlo uscire allo scoperto con tutta la gentilezza possibile, per appurare quanto in realtà sapesse di musicisti meccanici. — No, no. — Scape scosse la testa. — Li ho comperati da... Come si chiama... — Jackey Droze — lo aiutò la signorina McThane. Occorse un istante perché quelle due parole accendessero una scintilla nella mia memoria. — Vorrà dire "Jacquet-Droz" — la corressi. I nomi dell'orologiaio svizzero del Diciottesimo secolo e dei due figli che avevano proseguito la carriera del padre, con un successo superiore al mio, mi erano familiari. Un tempo lo erano stati all'intera Europa. Anzi, Creff mi aveva riferito che una volta mio padre si era recato a Lisbona espressamente per esaminare i congegni battezzati dal loro creatore Charles lo Scrivano, Henri il Disegnatore, e Il Musicista. L'interesse di Dower senior per le riproduzioni meccaniche delle azioni umane, e i suoi sforzi in quel campo, risalivano probabilmente a quella visita in Portogallo. — È lui — disse Scape.
— Allora lei è l'attuale proprietario della celebre figura che suona l'organo? — Sapevo che la donna meccanica, secondo alcuni modellata da Pierre Jacquet-Droz sulle fattezze della moglie, aveva cambiato di mano molte volte dopo che l'orologiaio e i figli si erano esibiti con le loro creazioni davanti alle teste coronate del Continente. — A dire il vero, no... — Un'eco della mia cautela si insinuò nel fare di Scape. — Altre sue creazioni. — Altre? — Già. Un, ehm, un suonatore di tromba e un paio di... come si chiama quell'altro aggeggio, quello con le corde? Violoncello. Esatto. Due violoncellisti. — Straordinario. — Mi grattai il mento, per nascondere il profondo livello delle mie perplessità. — Non ho mai sentito parlare di queste creazioni musicali di Jacquet-Droz. Scape si esibì in una diffidente scrollata di spalle. — Ecco, insomma, non le ha mai fatte vedere a nessuno. Sono rimaste in famiglia, ha presente? E poi io le ho comperate dal pronipote del vecchio. — Vedo. — Ed era proprio così. Qualunque dubbio avessi nutrito sugli intenti men che onesti di quella persona fuori dal comune era stato pienamente confermato dal suo racconto. Le doti di Jacquet-Droz come artefice di macchinari, stando ai resoconti giunti sino ai nostri giorni, erano state eclissate solo dal suo genio di uomo di spettacolo e promotore di se stesso. L'idea che avesse creato un'intera orchestra e non l'avesse messa in mostra assieme ai suoi altri figli meccanici era chiaramente ridicola. Il che, unito ai confusi ricordi degli strumenti che la troupe di quel supposto impresario avrebbe dovuto suonare, lo rendeva ai miei occhi un produttore di parole da soppesare a una a una in cerca di menzogne. — E per quale circostanza, signore — continuai — si è presentato da me? Debbo confessare di sapere ben poco di musica, essendo solo... — Sorrisi, levai la mano in direzione degli orologi che ticchettavano alle pareti. — Un semplice orologiaio. Scape mi restituì il sorriso, per lo meno a metà; solo un lato del suo viso si alzò a svelare qualche dente giallo. Si appoggiò all'impugnatura del bastone, avvicinò il volto al mio. — Ecco, vede... Mi piacerebbe ampliare un po'. Mi segue? Insomma, un suonatore di tromba e due violoncellisti... Roba "vecchia". La gente vuole sentire qualcosa di diverso. Afferra? Per esempio, qualcosa che sappia... "cantare"... — Sarebbe meraviglioso. — Ovviamente, desiderava che io gli presen-
tassi sul piatto il pesce che il suo amo verbale stava cercando. Con la coda dell'occhio intravidi un cambiamento nell'espressione della signorina McThane e, scoccandole un'occhiata di sbieco, scopersi i suoi occhi scuri socchiusi in quello che poteva essere un moto di riluttante rispetto per me. Scape insistette: — O magari "suonare... il violino". — Le sue parole mi urtarono, come potrebbe accadere a una serratura che qualcuno cerchi di forzare con la chiave sbagliata. — Possedere un simile congegno, immagino, porrebbe chiunque nella sua professione all'apice del successo. Egli girò il viso, per meglio nascondere l'esclamazione irritata che borbottò sottovoce. Riuscii a percepire vagamente solo due termini, "rotella" (forse un'allusione alla mia professione) e "soccorso" (una preghiera di assistenza divina?). Sorrisi tra me, compiaciuto di avere schivato le sue taglienti richieste d'informazioni. — Senta — disse Scape, controllando le proprie emozioni con visibile sforzo. — Il suo vecchio era un tipo molto in gamba, giusto? Diciamo che si è... interessato alle questioni musicali. E può darsi per esempio che abbia costruito un violinista. Voglio dire, una figura meccanica capace di suonare il violino. — Dietro le lenti blu, i puntini nascosti del suo sguardo sondarono il mio viso. — Lei cosa potrebbe saperne? Ecco, finalmente. Chiaro come la luce del sole. In qualche modo, grazie a una qualche corrente di voci sotterranee, quel furfante aveva saputo dell'incidente alla chiesa di Saint Mary Alderhyte e degli Automi Clericali che mio padre aveva lasciato, ma mai animato prima di morire. Per quanto il mio tentativo di mettere in movimento quel complesso insieme di meccanismi si fosse risolto in un disastro, quello Scape, ammesso che fosse il suo vero nome, aveva evidentemente concepito l'idea che uno o più degli automi (forse il sacerdote, o i coristi) si potesse alterare rendendolo atto a esibirsi nei teatri. Per un uomo della sua rozza sensibilità, non c'era forse differenza tra un vespro cantato e una serie di gighe suonate sul violino; se una figura meccanica era stata investita di un talento musicale, quell'individuo senza dubbio la riteneva capace di qualunque esecuzione. — Non ho alcuna conoscenza di un simile congegno. — Era la più pura verità: per quanto mio padre avesse di certo eclissato Jacquet-Droze, conferendo ai suoi Automi Clericali una notevole approssimazione delle doti vocali umane tramite un ingegnoso sistema di ruote impeciate che giravano sfregandosi su corde da strumento musicale, per quel che ne sapevo non aveva mai nemmeno progettato un violinista a orologeria.
La bocca di Scape formò una linea esangue; le sue mani corsero lungo il bastone da passeggio, come se egli coltivasse l'ambizione di abbatterlo sul mio insolente capo. Indietreggiai di un passo dal banco, temendo un'esplosione di violenza, e sobbalzai sorpreso quando una mano morbida si posò sul mio braccio. — Signor Dower... — Nel corso del duello verbale tra Scape e me, la sua compagna si era portata con discrezione al mio fianco. Il suo sguardo, semicelato sotto le ciglia nere, e il sorriso complice mi privarono della parola mentre ella si frapponeva tra il proprietario del negozio e il soi-disant cliente. La sua mano sfiorò come una piuma la mia spalla. A quanto pareva, mentre ella si trovava all'esterno del mio campo visivo l'orlo del corpetto del suo vestito si era abbassato, svelando aspetti di scarsa modestia. I miei occhi storditi non sapevano staccarsi dalla gola bianca e dalle forme erette che stavano sotto. Una vena delicata si gonfiava al ritmo del suo battito cardiaco sotto un'ombra chiusa da merletti, come fosse un torrente che scorresse sotto campi innevati, emanando un calore inspiegabile. — Sa — disse, mentre io, mesmerizzato, osservavo le parole formarsi sull'arco corallino della sua bocca — lei mi sembra un bravo ragazzo. Un vero bravo ragazzo. (La tortura dei ricordi! Siedo alla prigione del mio scrittoio, stringendo i denti e premendo il pennino sulla beffarda distesa bianca di carta sotto la mia mano. Le lusinghe di una vera Dalila! Avessi saputo cosa stava dietro quelle parole!) — Il mio socio, il signor Scape, a volte diventa un po' eccitato. Ha presente? — La mano della signorina McThane vagò fino alla cima della mia cravatta a farfalla; uno snello dito slacciò un lembo di seta. — Per esempio quando parla di qualcosa che gli sta veramente a cuore. Mi segue? — Sì... — La mia risposta fu solo un ansito stridulo. La scomparsa della costrizione al collo non servì affatto a far emergere il respiro dalla pietra che mi si era formata in gola. Sentii la mia spina dorsale entrare in contatto col muro dietro il banco: le mie gambe, quasi fungendo da serbatoio per tutta la saldezza morale evaporata dal resto del corpo, avevano eseguito la ritirata davanti all'assalto perenne della donna. — Come... i violini... La mia nuca colpì la cassa in argento di uno dei più complessi orologi di mio padre. La forza dell'impatto mise in movimento i delicati meccanismi. Mi resi vagamente conto che sopra di me si erano aperte minuscole porticine, e un cerchio di manichini in uniforme, sfilando avanti e indietro in
parata tra i numeri del quadrante, suonava un tema da Jefte di Handel. Dietro la mia fronte, altre porticine si aprivano, emettevano figure più scure che strillavano melodie più inebrianti, mentre io osservavo la sinuosa grazia del dito della signorina McThane salire a poggiare la punta sul mio mento. — I violini... — ansimai. — Già. C'è qualcosa... nei violini. Lo fanno... impazzire. Tentai di parlare, ma invano. Un aroma di lillà, sparso dal calore del suo petto nella distanza sempre più ridotta tra noi due, mi avviluppava la testa. La donna pareva avere acquisito statura all'improvviso; mi guardava dall'alto. Mi resi fiocamente conto che la consueta virtù aveva abbandonato i miei arti, sicché stavo scivolando lungo la parete con lento movimento. Il suo sorriso si ampliò, i suoi occhi divennero ancor più velati. — Violini... — sussurrò. (Tentatrice! Il cane sobbalza, rialza la testa dal sonno. Ha udito lo schiocco della penna nel mio pugno. Ripulisco dall'inchiostro versato lo scrittoio, estraggo un nuovo foglio, e ricomincio.) All'improvviso, come da grande distanza, udii un trepestio e un frastuono di voci. La catena che teneva il mio sguardo puntato sulla signorina McThane si spezzò quando ella girò di scatto la testa verso la fonte del rumore. Sentii urlare il mio nome. — Signor Dower! — Era Creff, a pieni polmoni. I suoi duri accenti risuonavano dal corridoio sul retro del negozio. — Ladri! Ladri e assassini! Il tono eccitato della voce mi destò dall'involontario torpore. Mi rialzai e superai d'impeto la signorina McThane, scrollando via la mano che ella aveva deposto sul mio braccio per trattenermi. In fondo al corridoio, la porta del laboratorio era spalancata. Nel cerchio di luce proiettato dalla lampada sul banco da lavoro, Creff e Scape si accapigliavano per il possesso di un cofanetto di mogano. Al vedermi, Creff urlò: — Sono i complici dell'etiope! Li ha mandati qui per manganellarci e derubarci! Corsi verso i due in lotta, indifferente a ogni pericolo. La prospettiva di vedere rovesciate le probabilità a suo favore spronò Scape a più robusti sforzi: strappò a Creff il congegno lasciato dall'Uomo di Cuoio Marrone, e si scaraventò a testa bassa verso me. Caddi all'impatto della sua spalla sul mio petto. Scape proseguì al galoppo, ma io riuscii ad abbrancargli la gamba, e precipitammo assieme sul pavimento del negozio. Le mani di Scape si aprirono, e la scatola di mogano scivolò per qualche centimetro, sull'onda della propria accelerazione.
La signorina McThane si chinò a raccoglierla, ma dato il grande peso non riuscì a sollevarla. Creff, brandendo a mo' di mazza un manico di scopa, piroettò sulle forme supine di Scape e del sottoscritto e costrinse la donna a indietreggiare dall'oggetto dei turpi desideri della coppia. Con destrezza indegna di una vera signora, ella sollevò l'orlo dell'abito e infilò la punta del suo stivaletto di pelle in una parte molto sensibile dell'anatomia del mio domestico. Così colpito, Creff si rovesciò in un groviglio umano sul bauletto. — E levati di dosso, Cristo santo — disse Scape. Si rizzò in ginocchio, sottraendosi alla mia stretta. Le mie mani spasmodiche cercarono un qualunque appiglio su di lui; le mie dita si chiusero a gancio sulle lenti blu degli occhiali, glieli strapparono dal volto. A quel punto, la natura della lotta cambiò in maniera drastica. — Merda! — Scape si alzò barcollando, si piegò in due, le mani premute sulle orbite degli occhi. Il fioco bagliore delle lampade, abbassate per amore di economia, gli provocava un ovvio dolore, quasi fosse un animale delle viscere della terra rudemente riportato in superficie dalla zappa di un villico. Sotto i suoi palmi colavano lacrime. — Figliodiputtana — urlò alla cieca nella mia direzione. Le lenti si fracassarono sotto le convulsioni del suo stivale. Quello spettacolo strappò Creff alle sue immediate preoccupazioni personali. A bocca spalancata, scrutò l'uomo accecato e la signorina McThane che, rinunciando a dare la caccia alla scatola, corse ad aiutare il compagno. Rinvigorito dalla piega degli eventi, con l'eccitazione che mi scorreva nel sangue a prosciugare ogni isola di cautela, raccolsi il manico di scopa che Creff aveva lasciato cadere e lo depositai sulla schiena di Scape. — Fuori di qui, signore! — strillai. — Clienti come lei non sono i benvenuti. — Brutto ritardato... — L'uomo, squassato dal dolore, sputò le parole in direzione della mia voce. — E dai. C'è tempo per queste fesserie. — La signorina McThane lo trascinò alla porta. Una vettura a due ruote attendeva nel buio. Poco dopo, la figura china su se stessa fu depositata all'interno della carrozza, e il cocchiere, senza bisogno d'istruzioni, spronò il cavallo, portandosi via i due in tutta fretta. Creff, eretto in precario equilibrio, scrutò dalla vetrina la vettura che svaniva nelle nebbie della sera. — L'etiope — disse, girandosi verso di me. — Erano i suoi scagnozzi, non c'è dubbio. — Gesticolò in direzione della scatola al centro del pavimento. — Li ha mandati a rubare quella maledetta
cosa. Un tremito aveva sostituito il vigore delle mie braccia. Posai il manico di scopa sul bancone prima che mi sfuggisse di mano. — Il gentiluomo al quale alludi — dissi — avrebbe scarsi motivi di assoldare qualcuno per rubare ciò che lui stesso ha portato qui. Se vuole avere quella scatola, perché non si è limitato a tenerla in proprio possesso? Creff aggrottò la fronte, rigirò l'obiezione nella mente, in cerca di falle. — No — continuai. — Ritengo che i nostri ultimi visitatori giudichino prezioso quell'articolo. Evidentemente hanno pensato fosse più facile sottrarlo alla nostra custodia che a quella del legittimo proprietario. Poco convinto, ma incapace di spiegare perché, Creff annuì. — Senta qua — disse, alzando lo sguardo. — Cos'erano tutte quelle ciance sui violini? — Non ne ho idea — risposi esausto. A quanto sembrava, Creff era rimasto in ascolto per un certo tempo sulla scala. Per fortuna: da quella posizione privilegiata doveva avere scorto le azioni furtive di Scape. Quegli eventi mi avevano sfibrato. Ordinai a Creff di riportare il bauletto in laboratorio. Mi chiesi per un istante se avvertire la polizia del tentato furto, ma decisi di non farlo. L'articolo per il quale avevamo lottato, del quale non sapevo identificare né l'uso né il valore, poteva venire sequestrato per essere studiato, e io avrei perso un prezioso incarico. Poco dopo il mio arrivo al negozio, Creff aveva diretto la mia attenzione su un nascondiglio ben celato sotto il pavimento del laboratorio. Le mie indagini avevano svelato che conteneva solo qualche schizzo dei macchinari di mio padre e una fiaschetta di antimonio. La proprietà dell'Uomo di Cuoio Marrone venne affidata alla custodia di quel buco, protetta da mani estranee dal coperchio che chiudeva il nascondiglio. Come il lettore potrà ben immaginare, i miei pensieri erano enormemente turbati dall'enigmatica natura degli eventi di quel giorno. Dall'apparizione dell'Uomo di Cuoio Marrone nel mio negozio, col bizzarro versamento di acqua di mare in laboratorio (un particolare quasi onirico nella sua apparente mancanza di senso e sconcertante assurdità), allo Scape nascosto da lenti blu, esagitato nei modi e di strano linguaggio, alla sua compagna dal comportamento ancor più pauroso, fino all'accesa zuffa per il possesso della scatola di mogano, le ore si erano riempite di avvenimenti l'uno più incomprensibile dell'altro. Come se un grande Orologio invisibile, dedito a ticchettare con regolare monotonia il trascorrere della mia vita, avesse rag-
giunto uno zenit e prodotto uno scampanio di clangore e pericolosità mai udite. Ben errata è la nostra comprensione della Pace, che descriviamo Eterna proprio quando la lancetta sta per battere l'ora del terribile cambiamento. Tanto profonde erano le mie riflessioni che solo i morsi della fame mi rammentarono l'impegno che avevo per quella stessa sera. Uno dei più prosperi orologiai di Clerkenwell (la prosperità era dovuta più ai prezzi economici dei suoi articoli che ad altre qualità), pervaso da uno snobismo che lo rendeva ansioso di intessere rapporti con chi portava il riverito cognome di mio padre, aveva rinnovato il suo invito. L'opportunità di una cena superiore a quel che la mia magra dispensa e le scarse capacità culinarie di Creff mi permettevano, mi stimolava a sopportare la vacua compagnia dell'uomo. Lasciato Creff, armato del manico di scopa e del coltello che gli avevo tolto al mattino, a vigile guardia del negozio e dell'abitazione, percorsi la breve distanza che mi divideva dalla residenza del mio collega. Nulla, nella conversazione dell'uomo o della moglie, si intromise nel continuo fluire sotterraneo dei miei pensieri. Riuscii a erigere una facciata di cortesia con pochi entusiastici commenti, un "Oh?" o un "Davvero?" mormorati davanti alle patate lesse, mentre le spettrali figure del dramma di quel giorno si aggiravano sul palcoscenico e declamavano le loro battute nel teatro del mio cranio. Solo quando il mio ospite e io ci trovammo a bere un Porto resinoso di fronte al fuoco, i suoi commenti penetrarono nella mia coscienza. — Gente peculiare, eh?, quei venditori ambulanti. Molto "peculiari". — L'uomo si versò un altro bicchiere. — Vendono cose stranissime. Mai visto niente di simile. — Prego? — Forse mi ero finalmente stancato di rimescolare le carte da gioco nella mente. Riemersi dai miei pensieri per udire la sua orazione sui venditori ambulanti di Londra. — L'altro giorno... Ieri, a dire il vero... — Si protese in avanti per farmi le sue confidenze. — Mi trovavo nella Tottenham-court-road con la mia bambina. — (Conoscevo la figlia: una creatura viziata col muso rincagnato.) — Ci si è avvicinata una vecchia irlandese, sporca come un maiale, che vendeva bambole da un cesto. "Sono proprio bambole bellissime", dice. — Imitò l'accento della donna con beffardo disprezzo. — "Adatte agli angeli di questo mondo", il che significava mia figlia. Con quel tipo di lusinga, dopo un po' la mia piccola Sally vuole a tutti i costi una di
quelle orribili cose. — (Avevo sentito spesso la bambina uggiolare all'esterno del mio negozio, chiedendo un giocattolo o un dolce.) — La vecchia strega voleva quattro penny, ci crederebbe?, per una di quelle cose, ed era molto ansiosa di vendere, finché la mia Sally non ne vede alcune avvolte nella stoffa sul fondo del cesto e dice di volere una di quelle. E mi venga un accidenti se a quel punto la donna non diventa all'improvviso schiva. Si rifiuta di estrarre una delle bambole dal fondo, dice che non sono "adatte" per una bambina così bella e cose del genere, fino a che la mia Sally non finisce preda della collera. Alla fine ho dovuto sborsare sei penny per convincere la vecchia a vendermene una, e ha continuato a fare un grandioso sfoggio di riluttanza, fino in fondo! Dopo di che è sgattaiolata via col suo cesto, e la mia Sally ha estratto la bambola dalla stoffa, mi venga un accidenti se la piccola non lancia uno strillo e getta a terra quella cosa! Sono certo che sia la creazione più brutta che si possa concepire, e che sia uno scherzo perverso venderla per le mani dei bambini. — Col viso grosso arrossato dal porto e dall'indignazione, si alzò e aprì le ante del suo armadietto-scrittoio. — Eccola qui. Guardi coi suoi occhi. Presi l'oggetto che mi tendeva e lo esaminai con ben scarsa curiosità. Era il tipo di bambola spesso venduto per strada, un oggetto di poco costo fatto di cartapesta immersa nella cera. Il lato sorprendente era la straordinarietà del viso: una rozza parodia, come se l'arte approssimativa del fabbricante avesse inteso ritrarre un qualche animale diverso dall'uomo. Fronte inclinata, occhi tondi e sporgenti, labbra protese all'infuori sopra un mento inesistente; quei tratti, uniti al colore verdastro della cera, davano la netta impressione di un pesce, come se un'aringa appena acquistata al banco del pescivendolo fosse stata rivestita di abiti per bambola. Per un attimo, mentre rigiravo la cosa tra le mani, mi parve di nuovo di vagare tra i rigori di un sogno. Mi ricordò l'acqua di mare (giunta da dove?) sul pavimento del mio laboratorio. — Straordinaria — convenni. Feci per restituire la bambola al mio ospite, ma lui la rifiutò con un cenno della mano. — Tenga lei quella maledetta cosa — disse. — Sua figlia... — Puà! Non ne sopporta la vista. No, no, ci faccia una cortesia e la porti fuori di qui. La depositai sul bracciolo della poltrona. I miei pensieri scivolarono via, sui loro precedenti percorsi, e il mio ospite divagò su un altro argomento. Le mie mani si adagiarono sullo stomaco, pieno fino a scoppiare come mi-
sura preventiva contro future carestie, e sentii una forma circolare nel taschino del panciotto. La moneta che mi aveva dato l'Uomo di Cuoio Marrone. La estrassi pigramente, mentre la voce dell'orologiaio ronzava monotona. Una forma e un peso familiari; forse non troppo, di recente. La guardai sul palmo della mano, ed ebbi la sensazione che il mio stomaco si svuotasse dopo la cena digerita a metà. Il viso ritratto di profilo sulla moneta era il gemello dell'orribile bambola. Un panico improvviso mi fece schizzare dal sedile della poltrona. Imbastii una scusa frettolosa per l'ospite, e raccolti cappello e mantello, corsi fuori dalla casa. Giunto all'esterno, mi resi conto che la bambola si era in qualche modo sistemata nelle mie mani assieme alla moneta. Infilai entrambe le cose in una tasca, per sottrarle allo sguardo. La nebbia si era infittita, inghiottendo ogni aspetto delle case e delle cancellate. Sotto il bagliore sulfureo dei lampioni, semplici chiazze di luce affogate nel grigio, forme indistinte si spostavano da un recesso buio all'altro. Mi affrettai verso casa, guidato più dalla memoria che dalla vista, incapace di guardarmi alle spalle per scoprire quali confuse ombre potessero essersi fuse con la mia. 3 Il signor Dower indaga Il mattino dopo mi destai, a metà convinto che gli eventi del giorno prima fossero stati soltanto un sogno, condotto dai suoi eccentrici meccanismi a un enigmatico epilogo. Il mio sonno era stato tormentato da figure d'ombra, scure di carnagione e molto serie, oppure con occhi nascosti da lenti blu e bocche che profferivano incomprensibili oscenità. Sarei stato felice di poterle scacciare dalla mia testa confusa, di vederle svanire assieme a tutti gli spettri notturni che le avevano precedute. Avevo sistemato il panciotto sulla sedia accanto al letto. Tendendo la mano da sotto le coperte, sentii nel taschino la forma della moneta dell'Uomo di Cuoio Marrone. Col pollice seguii sotto la lana il bizzarro profilo che mi si era svelato due volte nel salotto del mio ospite. Se era un sogno, non ne ero ancora libero. Una volta vestito, quasi non toccai la colazione che Creff mi portò. Spinsi via le magre cibarie e depositai sul tavolo i resti tangibili della sera precedente. La bambola stava ritta, gli occhi sporgenti mi fissavano dal viso ittiomorfo. Un oggetto rozzo: se la sua bruttezza si fosse potuta attribui-
re solo all'incapacità del fabbricante di riprodurre una fisionomia umana, sarebbe stato un deplorevole fallimento e nulla più. Però il suo potere d'inquietare stava proprio in quel che pareva essere l'intento dell'artigiano: per quanto goffi, erano quelli i tratti che intendeva dare al volto. — Guarda, Creff — dissi. Creff stava togliendo i piatti in un silenzio offeso, come se il cibo rimasto intatto fosse un commento alle sue capacità. Presi la bambola e gliela tesi da esaminare. — Hai mai visto qualcosa di simile? Creff la scrutò sospettoso, poi scosse la testa. — Mi venga un accidenti se l'ho mai vista. — Il suo amore delle novità si era spento dopo gli scompigli del giorno addietro. Forse mi riteneva responsabile di quella successione di bizzarrie; evidentemente considerava la bambola un'altra beffa ai suoi danni. — No, signore, mai vista. — Si allontanò coi piatti in ferita dignità. Avevo sperato di ottenere da lui qualche idea ulteriore sulle origini della bambola. Possedeva un'esperienza assai superiore alla mia dei venditori ambulanti che riempivano le strade di Londra, poiché traeva molti dei suoi semplici piaceri dalle loro mercanzie. Lo avevo spesso visto rientrare in negozio frugando tra i resti di molluschi avvolti in un cono di carta, o fornito di qualche altra leccornia da consumare passeggiando. Non acquistava solo generi commestibili; poco dopo il mio arrivo a Londra, cominciò a sfoggiare un orologio da taschino con relativa catena. Impossibilitato a comperare uno dei costosi articoli in vendita nel negozio del suo datore di lavoro, aveva acquistato da un venditore ambulante un esemplare di quegli orologi economici noti ai miei colleghi come white jenny, e si era adornato lo stomaco con la sua scintillante catena. Poco gli importava che in breve le lancette si fossero immobilizzate in un'unica posizione, e che non avessero mai più ripreso a muoversi. Creff ignorava l'arte di leggere l'ora, se non servendosi della posizione del sole in cielo; ma si sentì imbrogliato quando la patina aurea della catena si dissolse, rivelando il vile metallo che stava sotto. Nonostante ciò, gli mancavano o la capacità o il desiderio di illuminarmi sull'orribile bambola. La misi da parte per future riflessioni e raccolsi la moneta dalla tovaglia. La corona brillava tra pollice e indice. Come prima, peso e forma erano di conforto alla mano. Su una faccia era raffigurato uno stemma araldico, e sul rovescio il profilo non della Regina Vittoria, ma piuttosto del gemello esoftalmico della bambola. Il ritratto della moneta era di qualità superiore,
pari a quella usata per riprodurre le fattezze di un monarca. Con tutta la sicurezza di sé che tratti così repellenti potevano conferire, la figura (che supposi maschile, basandomi sul lembo di parrucca di vecchia foggia che s'intravedeva sopra la fronte inclinata) guardava verso il margine della moneta. Se gli abitanti del mare avessero deciso di darsi un sovrano, quel profilo sarebbe potuto appartenere al più nobile candidato. Sotto il viso era incisa una scritta. Alzai la moneta per leggere le parole. Il personaggio veniva identificato come un certo San Lofio. Un nome che non compariva in alcuno dei calendari di santi di mia conoscenza. Però la mia educazione religiosa era piuttosto scarsa; la zia che mi aveva allevato nutriva ben poco interesse per la chiesa, al di là del mantenere gli aspetti esteriori della rispettabilità, e non aveva ricevuto istruzioni da mio padre su quel punto. In effetti, il disastroso episodio a Saint Mary Alderhyte era stato, nell'età adulta, la mia unica occasione di ingresso in una chiesa, riti funebri a parte. E i cupi contraccolpi di quell'esperienza producevano ancora in me un brivido involontario se solo mi accadeva di passare davanti a un luogo consacrato. Quindi, le mie conoscenze in fatto di cristianità erano talmente limitate che, scrutando la moneta nel palmo della mano, non potevo impedirmi di chiedermi se davvero non esistesse un San Lofio nell'agiologia minore: forse il patrono dei brutti? Alla mia mente si affacciò l'immagine delle deformità facciali che sfioriamo di corsa sulla via, quando lasciamo cadere l'elemosina nella mano alzata e distogliamo gli occhi. Forse quegli infelici facevano i loro atti di devozione all'altare nascosto nell'angolo più buio di qualche chiesa, dove loro e l'intercessore celeste potessero nascondersi agli sguardi di commiserazione. La mia mente era colma di congetture e interrogativi sollevati dai due strani oggetti. Decisi di dedicarmi a un'immediata indagine; non c'era lavoro ad attendermi in negozio, al di là del bauletto di mogano lasciato dall'Uomo di Cuoio Marrone. Se anche avessi ritenuto le mie capacità cerebrali pronte a studiare e riparare il congegno, i miei pensieri erano troppo presi dai misteriosi rapporti che potevano esistere tra quel macchinario, la ripugnante bambola, e la moneta col suo curioso santo. Forse la monotonia generata da lunghi periodi di povertà, e la conseguente mancanza di rapporti sociali e divertimento, avevano prodotto in me la sete di ciò che dovremmo definire "sventatezza", ma preferiamo chiamare "avventura". Cose che una persona più saggia avrebbe giudicato semplici coincidenze o banalità indegne di nota avevano suscitato la mia attenzione. Depositai in una piccola borsa di velluto, normalmente usata per preser-
vare il metallo levigato di un orologio che si trovava nel cassetto del banco, i due bizzarri oggetti e tirai saldamente i cordoni. Ordinai a Creff di non aprire gli scuri della vetrina e di informare eventuali clienti che avrei ripreso l'attività il giorno seguente; poi uscii, con l'intento di scoprire il possibile. La chiesa parrocchiale sorgeva vicinissima al mio negozio. La scelsi come punto di partenza delle mie investigazioni, deciso se non proprio a fugare la mia paura delle chiese, per lo meno a inghiottire l'amara pillola di una visita a un luogo di culto prima che cupe premonizioni potessero peggiorare la situazione. Vetrate lorde di sporcizia proiettavano vaghe forme sul pavimento in pietra quando affacciai la testa dal portale in legno. Poche candele gocciolavano e avvampavano nelle nicchie disposte attorno alle colonne, svelando le forme raggomitolate di gente in preghiera oppure segretamente immersa nel sonno, dopo una notte trascorsa a vagare tra le strade che erano la loro unica casa. Una figura esile, che supposi fosse il sagrestano, smise di togliere ragnatele dagli angoli di una delle panche più grandi. Con la mano nodosa stretta attorno al ramo di salice che aveva la punta avvolta in polverose tele di ragno, strascicò i piedi verso me. — Vorrei vedere il parroco — lo informai. Lasciai che il portale si chiudesse cigolando alle mie spalle, rendendo ancora più completa la tenebra fra quelle pareti a contrafforti. — Vuole proprio vederlo? — L'età e le fatiche della vita lo piegavano in modo tale che il collo sporgeva ad angolo retto dal petto scavato. Aveva così l'aspetto di una tartaruga, rafforzato dal secco schioccare delle arcate di una bocca quasi del tutto priva di denti. — Se lei è un altro disgraziato che si presenta qui con le fandonie di una lettera di referenze, le conviene andarsene. Il parrocco si è già scottato troppe volte per dare retta a un altro della sua stessa risma. — I suoi occhi gialli mi fissarono lucidi, tra il naso e il mento da Pulcinella. — Lei ha frainteso — protestai. — Non ho intenzione di chiedere soldi. — Evidentemente, il prelato era stato vittima dei mendicanti professionisti che si guadagnano comprensione, e doni consistenti, fingendosi anime pie perseguitate dal fato. — Cerco solo informazioni, e nient'altro. Ho qualche domanda di natura... teologica. — Maledettamente probabile — borbottò il sagrestano. Comunque, mi guidò alla canonica annessa alla chiesa. Poco dopo venni introdotto nello studio del parroco. L'unico ornamento
del severo ambiente erano gli spessi volumi di sermoni allineati alle pareti. L'odore delle vecchie rilegature in marocchino si mischiava ai fumi che ancora si levavano dall'annerita pipa di terracotta posata in una ciotola sullo scrittoio. L'anziano prelato si alzò dietro il mobile, appoggiandosi a un logoro bastone di prugnolo. Il sagrestano tossì una vaga presentazione e sgomberò il campo. Il parrocco, sotto il grigio cespuglio delle sopracciglia, mi fissò con aperto sospetto, come il marinaio che scruti nella nebbia per discernere, in acque infestate dai pirati, la sagoma di una nave amica. — Il suo nome è...? — cantilenò, senza indulgere alle formalità della cortesia. — Dower, signore. — Mi avvicinai allo scrittoio. — George Dower. Appartengo a questa parrocchia. Egli si riabbassò sulla sedia. — Mi pare di avere qualche ricordo del suo viso — rifletté. — Ma non qui in chiesa. — Gesticolò brusco in direzione di un punto nei miei pressi. Mi accomodai sulla sedia più piccola che mi aveva indicato. — La mia partecipazione ai riti religiosi è stata... irregolare. Forse in strada... Il mio negozio è vicino. — In verità, il suo volto rugoso e accigliato suscitava rimembranze anche in me, ma non avrei saputo dire da dove, o da quando. La disordinata criniera bianca gli sfregò il colletto quando scosse la testa. — Io non esco di qui. — Sollevò il bastone a mo' di spiegazione. — La mia mobilità è limitata da diverso tempo. — Le mani tozze si intrecciarono sulle carte depositate sul piano, e il prelato si protese verso di me. — Il motivo della sua visita, signore. Ho questioni pastorali delle quali occuparmi. — Mi occorre un solo momento del suo tempo — gli dissi. — Sto tentando di scoprire quel che posso su un certo santo. Piuttosto oscuro, temo. E le sarei grato di ogni aiuto che lei possa fornirmi. — Un santo, lei mi dice? — Annuì, meditabondo. — Un'impresa degna di lode. Le vite dei beati dovrebbero esserci d'ispirazione. Molto commendevole, ne sono certo. Quale periodo? — Prego? — Quando — sillabò pazientemente il prelato — è vissuto questo suo santo? — Non ne ho la più pallida idea. — Hmm. — Dal modo in cui mi studiò, la mia commendevole natura doveva essere diminuita ai suoi occhi. — Molto bene. Il nome di questo santo, allora.
Trattenni il respiro prima di rispondere. — San Lofio, per l'esattezza. — Ma certo. — Un cascante sopracciglio si inarcò mentre egli pizzicava il labbro inferiore tra pollice e indice. La mia richiesta, a quanto pareva, lo aveva precipitato in profonde riflessioni. — San Lofio, dice. — Sì — confermai ansioso. — Lo conosce? Il prelato meditò in silenzio, carezzandosi il labbro. — Vede, mi sono imbattuto nel nome in maniera assai peculiare. — Estrassi la piccola borsa di velluto e slacciai i cordoni. — Mi hanno dato questa moneta... Prima che potessi estrarla, la voce del parroco risuonò in un cupo borbottio. — San Lofio, esatto? Un attimo... Ora mi pare di ricordarmi di lei... Alzai gli occhi e incontrai uno sguardo penetrante sotto la fronte aggrottata. Ci riconoscemmo a vicenda nello stesso istante. — Ragazzaccio insolente! — Il bastone atterrò sullo scrittoio con un poderoso schiocco, disperdendo i fogli come uccelli spaventati. — Miserabile blasfemo! Spinsi la sedia all'indietro, lontano dalla tremante punta del bastone. L'ira improvvisa del religioso portò la mia mente a un'identificazione completa. Il parroco era uno dei dignitari invitati al servizio religioso inaugurale degli Automi Clericali di mio padre, nella chiesa di Saint Mary Alderhyte. Anzi, la memoria assalita dal panico mi informava adesso che la sua infermità fisica era diretta conseguenza delle ferite riportate in quella deplorevole occasione. — E ora... — I suoi occhi dardeggiavano fiamme, la mascella sussultava spasmodicamente. — E ora, non contento della profanazione operata dalle sue sataniche macchine, lei si presenta qui per farsi beffe della Chiesa! Apostata! — Il bastone fendette l'aria, fischiò a scarsa distanza dal mio viso. — Irridendo, irridendo, dico! le sacre tradizioni ritenute intoccabili da ogni uomo di retto pensiero. San Lofio, ma certo! Molto sagace. Infame... Infame manicheo! Il bastone guizzò di nuovo verso di me. Eretto ormai in tutta la sua statura, il vecchio prelato sembrava a un passo dal lanciarsi sulla scrivania e trafiggermi il petto con la punta, perforandomi fino alla schiena. Mi rialzai barcollando, indietreggiai con la borsa di velluto stretta al cuore. — Non... non intendevo offendere — balbettai. — Giuro... Egli girò attorno allo scrittoio, brandendo il bastone. — Lofio! — urlò, con labbra venate di sputo. — Te lo faccio vedere io il lofio, delinquente! Una secca frustata si posò sulla mia spalla mentre armeggiavo con la
serratura della porta. La porta si spalancò, dandomi accesso alla navata laterale della chiesa. Poche persone dagli occhi umidi alzarono il capo dalla preghiera o dal sonno quando il suono del prugnolo che si abbatteva sulla lana echeggiò tra le pareti in pietra. Il vecchio parroco continuò a strillarmi anatemi mentre fuggivo di panca in panca. Per strada, a una certa distanza dalla chiesa, rallentai il passo. La folla mi metteva al sicuro da ogni inseguimento da parte del religioso azzoppato. Ormai in salvo, tentai un bilancio delle ferite procedendo a muovere le scapole sotto la giacca. Forse qualche livido, ed ero stato fortunato: se il vigore del vecchio fosse stato pari alla sua ira, mi sarei trovato riverso sul selciato, col corpo spiaccicato. Un rude colpo della malasorte: introdurmi del tutto ignaro nel covo di qualcuno che nutriva nei miei confronti tante rimostranze, sia personali che teologiche. Ma se non altro, avevo aggiunto una briciola alle mie cognizioni: se mai era esistito un San Lofio, la sua canonizzazione era avvenuta all'esterno di ogni Chiesa di mia conoscenza. Contemplai l'ipotesi di abbandonare le mie indagini. Tutto ciò che avevo appreso sino a quel momento lo avevo duramente pagato. Il meccanismo lasciato dall'Uomo di Cuoio Marrone attendeva ancora le mie attenzioni; occuparmi di modesti misteri non significava schivare i servigi che dovevo rendere a quel gentiluomo. Una bambola orribile e una strana moneta: che erano, se non semplici coincidenze del tutto insignificanti per chi non fosse alla ricerca di diversivi. Meglio occuparmi del negozio. Cuoio Marrone aveva esplicitato l'intenzione di tornare nel giro di una settimana; forse allora avrei trovato risposta a tutte le domande. Saggi consigli, anche se fui io a darli a me stesso. Ma li cacciai dalla mente e ripartii per il mio percorso londinese di scoperta. Persisteva in me la sensazione di un rapporto onirico, di una non so quale coesistenza tra acqua di mare e meccanismi a orologeria; e come il sognatore danza impavido sull'orlo di dirupi che lo lascerebbero paralizzato nello stato di veglia, così io proseguii. La moneta col ritratto di San Lofio mi aveva già causato disgrazie a sufficienza. Rivolsi il passo verso la Tottenham-court-road, la grande via che è il regno dei venditori ambulanti, dove si vende e si compera di tutto. Ben presto posai l'occhio sulla persona che volevo. In mezzo al frastuono e al groviglio umano, ai guizzanti pedoni e alle vetture, gli ambulanti che porgevano le loro mercanzie da carretti e vassoi appesi al collo urlavano lusinghe ai potenziali clienti. Mi feci strada oltre il consueto grumo di imbonitori, imbroglioni, mercanti di robaccia, e simili. Vicino alla curva
che immetteva in Hampstead-road, un ambulante con un cesto di bambole sotto il braccio stava sventolando due dei suoi articoli sotto il naso dei passanti. — Sissignore. Le migliori bambole — disse, scorgendo il mio ovvio interesse mentre mi avvicinavo. — Faccia la felicità di una bambina con quattro penny. A questo mondo non esistono molte cose capaci di farlo. Lei ha una figlia che l'attende a casa? — Invero, no — risposi. — A lei voglio chiedere solo informazioni. — Può ben darsi. — L'uomo armeggiò nel cesto, risistemò le bambole per ottenere il maggior effetto. — Però dubito che lei sappia dirmi quanti affari perderei nel frattempo. Senza dubbio vi sono tante ottime persone che preferirebbero inghiottire la delusione all'idea di non poter acquistare uno di questi rari giocattoli, piuttosto che interrompere una simile discussione. Estrassi uno scellino e glielo porsi. La moneta svanì nella sua tasca. — Molto bene, signore. Benissimo. Per questa cifra lei verrà a sapere tutto ciò che Dick l'Uomo delle Bambole sa, anche se occorreranno ore a narrarlo. Prima da ragazzo e poi da uomo, ho venduto mercanzie per le vie di Londra, per quanto fossi uso a commerci di ben altra classe. Solo i duri colpi delle circostanze mi hanno ridotto a questo. Mio padre ha studiato al Greenwich College, pagando badi la retta di tasca sua... Interruppi un monologo che, con le sue frequenti ripetizioni, sembrava avere assunto gli aspetti meccanici di una delle creature a orologeria di mio padre. — Chiedo scusa, a me occorre solo conoscere l'origine delle bambole che lei vende. Chi le produce, e da dove vengono? — Che diamine, le faccio io stesso, signore. E sono anche molto abile. Ho prodotto teste di cera di grandi dimensioni, grosse come la sua o la mia... io non faccio quelle piccole... di assassini morti impiccati, teste che sono state utilizzate da gente di spettacolo. Ho riprodotto l'infame Rush, e il signore e la signora Manning, ed erano estremamente convincenti. Per tutto ciò che concerne bambole e figure di cera e affini, sono il suo uomo. — Lei non crea le teste per queste bambole? — Mi aggrappai a quello, che sembrava l'unico fatto utile. — Oh, no, signore. È più conveniente comperarle e montarle sui corpi di cera, come faccio io. Non c'è profitto nel produrre queste teste minuscole, visto che posso facilmente acquistarle a sette penny e mezzo la dozzina. — Dove le compera? Chi le produce? — insistetti.
— Diamine, vengono fatte quasi tutte ad Amburgo, ma noi le acquistiamo qui a Londra. Quelle di Alfred Davis, di Houndsditch, sono di eccellente qualità, finissime. Le preferisco a quelle di White, che pure è più vicino. Ci sono anche quelle di Joseph, in Leadenhall-street, ma non sono nemmeno lontanamente così aggraziate. Mi avvicinai un poco di più al venditore, per meglio separare le sue parole dal circostante frastuono della via. — Debbo supporre, allora, che se le mostrassi una particolare testa di bambola lei saprebbe identificarne il luogo d'origine? L'uomo prese a pavoneggiarsi, si lisciò lo sparato della camicia con una mano. — Come le ho detto, per tutto ciò che concerne le bambole, Dick è il suo uomo. Estrassi dalla borsa di velluto l'orripilante bambola che mi aveva regalato la sera prima il mio ospite. — Se vuole essere così gentile... — dissi, tendendogliela. — Quale dei negozi da lei menzionati ha venduto questa? Vidi i suoi occhi sgranarsi, stupefatti, all'apparizione della cosa; un pallore terreo calò sul suo viso. Poi l'uomo riacquistò una certa compostezza e mi guardò. — Mai visto qualcosa del genere — disse, scuotendo la testa. Nella sua voce vibrava solo una frazione della spacconeria di poco prima. — Mai in vita mia. È davvero abominevole, in fede mia. — Rimise nel cesto le sue merci e si allontanò da me. Lo afferrai per la manica della giacca per trattenerlo. — Dice di non averne mai vista una simile? — Un'evidente menzogna: l'espressione dei suoi occhi parlava di un timoroso riconoscimento. Egli sottrasse il braccio alla mia stretta. — No, mai — ripeté cupo. — Non è un giocattolo adatto a una bambina. Le conviene gettarlo, signore. Sul fuoco. — S'avviò a passo lesto, introducendosi nella cangiante parete di folla. — Ma senza dubbio... — gli urlai. Si girò a spalle chine, mi fissò con sguardo folgorante. — Lei ha avuto il suo scellino di informazioni, signore. Mi creda, è preferibile che lei non sappia altro. — Poi scomparve. Restai a fissare la schiena della sua persona a lungo, anche dopo che la folla l'ebbe inghiottita. Per il momento, le mie indagini avevano dato solo magri frutti: colpi di bastone in un caso, e una frettolosa evasività nell'altro. Ne sapevo ben poco più di quando avevo iniziato. Anzi, la paura chiaramente visibile sul volto del venditore di bambole aveva infittito il miste-
ro. Quel San Lofio era una figura di sinistra importanza a me ignota? Avevo in mente un solo altro possibile informatore, sicché diressi i passi in quella direzione. Nel corso delle mie attività avevo talora intrattenuto sporadici contatti con diversi numismatici londinesi. Quando si ha a che fare con articoli rari e preziosi, si tratti d'orologi o d'altro, si crea spesso un'aura informale che unisce la varietà di commercianti al servizio dei desideri dei ricchi più entusiasti. Alcuni miei clienti, gentiluomini di campagna inesperti delle complicazioni commerciali di Londra, mi avevano chiesto di indicare loro i massimi conoscitori di svariate, arcane mercanzie, comprese le monete. Non avevo impiegato molto ad acquisire le cognizioni necessarie per dirigerli ai migliori luoghi. Un certo tempo dopo la discussione col venditore ambulante in Tottenham-court-road (le mie condizioni finanziarie mi inibivano mezzi di trasporto più veloci delle gambe) entrai nel negozio del numismatico che giudicavo potenzialmente più utile. Nell'atmosfera scura, come da museo, il commerciante di monete rialzò la testa da un espositore di antichi denari romani. Le lunghe ore trascorse chino su oggetti così minuti gli avevano conferito l'aspetto di una talpa che, a zampe unite, stesse esaminando insetti in cerca di un boccone particolarmente prelibato. Riconobbe ben presto il mio nome, se non il viso, e io gli sottoposi l'interrogativo. Depositai sul banco, per fargliela esaminare, la moneta con la quale ero stato pagato dall'Uomo di Cuoio Marrone. — Vorrei avere informazioni su questo esemplare — dissi. — Cosa può raccontarmi su una corona di San Lofio? — San chi? — Raccolse la moneta con le punte a spatola delle dita e la sollevò alla luce. Con l'altra mano abbassò gli occhiali abbarbicati sulla fronte. — Molto curioso — sentenziò dopo un attimo. — Davvero molto curioso. — Perché mai? — Non è mai stata coniata una simile moneta, in Inghilterra o altrove, che io sappia. Non con un ritratto di questo San Lofio. — Scrutò più da vicino il profilo. — Un diavolo d'uomo piuttosto brutto, eh? Solo per questo sarebbe stata un'emissione memorabile, penserei. Ma del resto, non è una vera moneta. — Me la tese in palmo di mano. Passai lo sguardo dalla moneta al volto del numismatico. — Come sarebbe a dire? — È falsa — rispose semplicemente, rialzando gli occhiali sulla fronte.
— Guardi meglio. È solo un grumo di metallo vile placcato. Per ottenere questo effetto si usano una batteria galvanica e cianuro d'argento. Anche se questo è un ottimo esempio di quell'arte perversa. Quasi perfetto, direi. — Mi restituì la moneta. — Seppure io non riesca proprio a immaginare che scopo possa avere la falsificazione di una moneta che non esiste. — In effetti — mormorai, stringendo l'oggetto tra pollice e indice. — Chi farebbe una cosa simile? — Oh, il problema non è chi. — Il numismatico spazzò via la domanda con un cenno della destra. — Riconosco la mano. Direi che con ogni probabilità lei sta stringendo una Fexton. — Fexton? — Non avevo mai udito il nome. — Proprio così. Esistono molti entusiasti collezionisti di monete falsificate. Le ritengono curiosità più notevoli dei pezzi che imitano. E in quell'ambito, una moneta Fexton è considerata la più desiderabile. Un vero artista. Un peccato che abbia una tale natura morale. Sì, direi che la sua mano sia l'unica capace di produrre quell'esemplare. Rigirai la moneta, studiandola. Il lucido oggetto era ora ancor più misterioso. — Può indirizzarmi a questo maestro dei falsari? — Oh, temo di non poterla aiutare in questo. — Il numismatico scosse la testa. — Conoscevo l'uomo, almeno come lo conoscevano tanti. Un tipo molto schivo, anche al di là delle esigenze della sua professione. Forse i fumi deleteri delle sostanze chimiche che usava hanno finito col danneggiargli l'intelletto. Ho avuto le sue ultime notizie qualche anno fa. Mi ha scritto una lettera per dirmi che si trasferiva a... com'era la frase? Ah, sì, "al distretto di Wetwick", diceva la lettera. E da allora non ho più saputo nulla di lui. Un altro mistero. Mi ritenevo dotato di una ragionevole familiarità coi distretti di Londra, ma non avevo mai sentito parlare di Wetwick. (Come vorrei essere ancora vergine di tale conoscenza!) Lo dissi al numismatico. — Nemmeno io — convenne. — Come ho detto, forse la sua ragione vacillava. Forse un tale posto esisteva solo nel suo povero cervello stravolto, o sui fondali del Tamigi. Anche se confesso che la mia conoscenza della città non è enciclopedica. Perché non assolda un vetturino e chiede a lui? — Sì. Sì, certo. — Rimisi la moneta nella borsa di velluto. I conducenti di carrozze erano rinomati per la loro conoscenza delle parti meno note di Londra; da quello dipendeva il loro lavoro. Se qualcuno sapeva di quel distretto, sarebbe stato uno di loro. — Grazie.
Le mie indagini, per quanto prive di frutti, avevano richiesto l'intera giornata. La sera avvolgeva già la città quando uscii dal negozio del numismatico e tornai sulla via. Poco dopo udii il cigolio di ruote e il suono di zoccoli che annunciavano l'arrivo di una vettura pubblica. Alzai la mano e la richiamai. Il conducente, dall'alto della serpa, diede il freno al cavallo con redini e frusta, e ben presto si arrestò davanti a me. Alzai gli occhi sulla figura con mantello e cilindro. Mi parve una buona scelta: i suoi floridi baffi erano venati dal grigio degli anni e dell'esperienza. — Conosce bene la città? — gli chiesi. — Ma certo. Salga, signore. — Il suo orgoglio sembrava vagamente ferito dalla mia mancanza di fiducia. — Non esiste zona che io non conosca, signore. La mia mano si alzò sulla maniglia della vettura. — Può portarmi al distretto di Wetwick? — chiesi. Lo sguardo di sorpresa indignazione mi bloccò la mano. L'uomo raddrizzò le spalle e mi scoccò un'occhiata di fuoco. — Lei non sembra quel tipo di gentiluomo. — La sua voce era aspra per un senso d'oltraggio a stento soffocato per la mia richiesta. — Potrà trovare qualche altro vetturino disposto a portarla là, ma non questo. Buonanotte a lei, allora. — Schioccò le redini e rimise in movimento il veicolo. Il mio stupore aveva raggiunto il limite; il mio cervello non era in grado di assorbire altro. Ogni tentativo di penetrare il mistero era stato come il. raggio di luce d'una lanterna proiettato in un pozzo senza fondo, capace di svelare solo tenebre sempre più dense. Il mio vagare per Londra era stato un'inutile caccia; la borsa di velluto coi suoi bizzarri contenuti sarebbe anche potuta penzolare da un paletto legato alla mia nuca, per quanti succhi ne avevo tratto. Esausto, rivolsi il passo in direzione di casa. 4 La strada per Wetwick Rientrai al negozio e scopersi che, in mia assenza, i visitatori della sera precedente erano tornati a riprendere le loro ricerche con insistenza anche maggiore. I locali erano bui e cinti dagli scuretti quando di entrai. Nessuna luce sulla scala per le stanze al piano di sopra; in fondo al corridoio sul retro del negozio brillava il fioco bagliore della lampada sul banco da lavoro. Il completo silenzio mi instillò una cautela densa di premonizioni mentre
raggiungevo il bancone. Chiamai Creff, ma non ci fu risposta. Forse, ragionai, si era assunto il compito di iniziare il lavoro sul congegno lasciato dall'Uomo di Cuoio Marrone, ed era troppo intento all'opera per reagire alla mia voce. O qualche altra spiegazione poteva giustificare la quiete: così speravo mentre, con qualche trepidazione, mi avventuravo in corridoio. In laboratorio non trovai Creff, ma il caos totale. Dal banco da lavoro erano stati spazzati via tutti i progetti e le macchine, in varie fasi di montaggio e smontaggio, che lo occupavano. Restava solo la lampada, a proiettare la sua luce sugli utensili e sui pezzi di complessi macchinari sparsi sul pavimento. Inoltre, tutti i materiali di mio padre, l'immane massa di meccanismi, intelaiature metalliche, inerti manichini e altri residui della sua feconda carriera, erano stati strappati dalle pareti del laboratorio e passati al setaccio. Mani divorate dalla fretta del ladro avevano lasciato i pezzi in uno stato di disordine superiore a quello provocato dalla mia incuria. Quasi non restava spazio per deporre un piede sul pavimento ingombro di detriti. Indifferente a scoprire se fosse stato rubato qualcosa di valore, girai sui tacchi e corsi alla scala, chiamando di nuovo il nome di Creff. Questa volta dal piano superiore giunse al mio orecchio un tonfo smorzato. Trovai il mio assistente, legato e imbavagliato, sulla soglia della sua stanza. Era riuscito a sciogliere un piede dai legacci per darmi il segnale sonoro che mi aveva portato a lui. Gli tolsi di bocca il fazzoletto (femminile, a giudicare dalle trine e dal profumo), perché avevo l'impressione che il suo viso paonazzo stesse per esplodere nel tentativo di emettere parole. — Sono stati loro! — Creff torse il collo a guardarmi mentre gli scioglievo le corde ai polsi. — Quei porci assassini sono tornati! — Quello Scape? — domandai. — Proprio lui. Farabutto! — Creff cercò di ristabilire la circolazione nelle mani esangui prima di dedicare l'attenzione ai legacci alle caviglie. — E la bella signora che era con lui. La peggiore dei due. Feroce come una gatta. Mi rialzai, aiutai anche Creff a rimettersi in piedi, tenendogli una mano sul gomito. — Come hanno fatto a entrare? — Non ne ho la minima idea, signore. Molto astuti. Non ho udito praticamente nulla prima di ricevere una tremenda mazzata sul cranio... mi sorprende anzi che il mio cervello non sia sparso sul pavimento, tanto è stato feroce il colpo... e mentre tutto mi ruotava attorno, ho visto i loro volti fissarmi. La donna rideva mentre mi legava come un'anatra. Una perfetta si-
gnora, quella! Il mistero del loro ingresso venne presto chiarito. Lasciato Creff nella sua stanza ad attendere il ritorno delle forze nelle gambe mollicce, feci il giro dei locali. Scopersi che la finestra del retrocucina era stata forzata, in maniera molto esperta, a giudicare dai minimi danni subiti dal telaio in legno. Sulla soglia della stanza spiccavano due paia di impronte, stagliate dalla sporcizia raccolta per strada dalle suole delle scarpe. Nel disastro del laboratorio, era difficile accertare se fosse stato rubato qualcosa di valore. Comunque, sapevo quale fosse il probabile oggetto delle loro ricerche. Scostata l'intelaiatura rovesciata di un orologio e i meccanismi sparsi in giro come monete d'ottone, portai allo scoperto il nascondiglio di mio padre. Sollevai la pietra che fungeva da coperchio e scrutai sotto. La scatola di mogano era ancora lì. La apersi: il congegno che mio padre aveva costruito, e che l'Uomo di Cuoio Marrone mi aveva portato a riparare, era al suo posto. L'incursione nel mio negozio era fallita. Inginocchiato sul gelido pavimento in pietra, scrutando il complesso meccanismo come fosse un aureo tesoro scavato di fresco dal terreno, ma al tempo stesso senza vederlo nella corsa automatica dei miei pensieri, contemplai quell'ultimo evento. La reazione più saggia, ben lo sapevo, sarebbe stata convocare il poliziotto più vicino al negozio e denunciare l'attacco al mio domestico e il furto, tentato, se non riuscito, ai miei danni. In quel modo, avrei messo in moto contro i malfattori tutto il peso della giustizia inglese. Che, ritenevo allora, nel mio stato di innocenza, era perfettamente capace di condurre al processo e al meritato castigo ogni delinquente. La Legge, nella maestà e nel potere dei suoi rappresentanti, avrebbe tolto la questione dalle mie mani e, cosa più importante, avrebbe impedito che potessero verificarsi altri danni a me o alle persone e agli oggetti entro la sfera della mia responsabilità. A quello serviva la Legge, incarnata nel corpo di polizia e nei giudici imparruccati; la questione nella quale ero coinvolto, giunta a quel punto, era di loro competenza. Di certo non concerneva me. Prima l'intera faccenda fosse stata affidata alle autorità, con tutto il suo apparato di enigmatici meccanismi, strane monete falsificate, sequele di bizzarri personaggi, e prima io sarei stato in grado di tornare alle mie consuete attività. La cura meticolosa del mio piccolo negozio, nel continuo succedersi di giorni privi d'eventi, verso la modesta ricchezza o la bancarotta che mi attendevano alla fine del percorso: era di quello che io dovevo occuparmi. Furono questi i pensieri che sfilarono nella mia testa, in bell'ordine. Non
posso giustificare le mie successive azioni con la scusante di non avere avuto idea di ciò che avrei dovuto fare. Chiunque, risalendo sino ad Adamo nel Giardino, invoca a difesa la propria ignoranza; quando, se solo fossimo onesti, dovremmo ammettere che la mela era circondata da ogni immaginabile avvertimento. Così, anch'io sono caduto. Forse tutti i peccati sono non cause ma effetti, in quanto risultati del peccato primo, la Noia. Scrutai quel buco buio e lo scintillante congegno che vi era nascosto come stessi rimirando i segreti movimenti del mio stesso cuore. Una cosa nuova era entrata nella mia esistenza; ne ero ammaliato, e reso indifferente a ogni possibile conseguenza. Ciò che avrebbe dovuto accelerare i miei battiti per naturale apprensione li accelerò invece d'eccitazione. Cacciai dalla mente il pensiero dei poliziotti. La Legge avrebbe aspettato; come già appartenessi alla congrega dei criminali, decisi che lasciar continuare l'ignoranza delle autorità giocasse a mio vantaggio. Mi proposi di fare solo pochi altri passi (è così che inizia ogni progresso su un sentiero scivoloso) per giungere a penetrare quegli allettanti misteri. Il mio sangue ribolliva. Perché attendere oltre? "Perso ogni controllo, ha inizio la caccia". Risistemai la pietra sopra il congegno dell'Uomo di Cuoio Marrone, poi fui prodigo di istruzioni col redivivo Creff quando sigillò con assi di legno la finestra del retrocucina. Senza offrirgli alcuna spiegazione, tornai in strada. La febbre che ardeva nel mio cervello mi riscaldava quanto il soprabito che mi salvaguardava dall'aria umida della sera. Mentre passeggiavo, facendomi strada a spallate tra i gozzovigliatori della sera, rammentai le parole che mi erano state dette prima che tornassi al negozio: — Potrà trovare qualche altro vetturino disposto a portarla là, ma non questo. — Molto vero. Era ormai chiaro che mi trovavo coinvolto in una faccenda oscura; questioni che una persona poteva trovare disgustose erano forse adatte al palato di qualcun altro. Nel corso delle mie commissioni giornaliere avevo notato la particolare clientela che si raccoglieva in uno dei locali pubblici di Clerkenwell. Un tempo locanda per chi viaggiava in carrozza, il posto era ormai consacrato al semplice spaccio di bevande; a mo' di letto poteva offrire solo la pietra del cordolo all'esterno, per i troppo ebbri. Aveva ancora il cortile che offriva ampio spazio per l'alloggio della vettura e del cavallo, mentre all'interno il vetturino placava la sete. A ogni ora del giorno o della sera non v'era mai meno di una dozzina di quei veicoli raggruppati attorno alla porta d'ingresso. Non esisteva luogo migliore, avevo deciso, per rintracciare l'intrepida
guida che desideravo. Una volta lì, superai le carrozze a due ruote disposte in bella fila e i pazienti cavalli con le grandi teste abbassate nel sonno. Di tanto in tanto gli zoccoli raschiavano il selciato, come se il sogno li avesse affrancati dal grigiore cittadino e liberati in verdi pascoli. Il vapore del loro fiato si mischiava alla nebbia che velava le finestre gialle del locale. Spalancai la porta ed entrai, passando dal freddo al caldo fetore della birra rovesciata e del tabacco stantio. Il fumo delle pipe di terracotta presenti a ogni tavolo era tanto denso da nascondere il soffitto sotto una nube grigia. Mentre procedevo nella caligine, percepii occhi che si giravano in silenzio a scrutare i miei passi. Il taglio dei miei abiti, anche se lontano dai massimi livelli di qualità e adorno di discreti rammendi nei punti necessari, bastava a indicare la mia classe; i mantelli e i cilindri dei vetturini erano inzaccherati e scuriti dalla lunga esposizione alle inclemenze del clima, inevitabile nella loro professione. Era raro avvistare un gentiluomo, poiché tale apparivo ai loro occhi, lì, nel loro covo. Dopo essermi sistemato in mezzo alle schiene girate di due vetturini che si guardarono bene dall'interrompere la conversazione coi loro colleghi, depositai uno scellino sulle ruvide assi che formavano il banco. Il proprietario del locale, cinto di grembiale, mi versò un bicchierino di un liquido chiaro, dall'aroma ignobile, presumibilmente gin. Lo scellino scomparve senza lasciare progenie. Deposto il bicchiere, mi scostai dal banco e mi schiarii la gola con ostentazione. Dopo la ripetizione del segnale su un tono più insistente, i vetturini a entrambi i miei lati mi ricompensarono interrompendo i loro dialoghi e girandosi a guardarmi. — Chiedo scusa, gentiluomini — dissi. — Mi necessita una lieve assistenza, e forse l'uso di una vettura e del suo conducente, dietro versamento di un'adeguata ricompensa. — I loro occhi si illuminarono alla menzione di un pagamento. — Debbo raggiungere un certo distretto cittadino, del quale ignoro però l'esatta ubicazione. Di conseguenza, mi debbo affidare all'esperienza di uno del vostro consesso per una tale questione di navigazione. Uno degli uomini annuì solenne, percependo la voluta adulazione più dal mio tono di voce che dalle parole in sé. — Molto giusto — borbottò un vetturino alle sue spalle, che aveva ascoltato come tutti i suoi vicini. — Orsù — disse l'uomo alla mia destra. — Qual è il distretto che vuole
raggiungere? Dica il nome, e si parte. — Wetwick — risposi. L'uomo raddrizzò le spalle, sollevò lo sguardo dai sedimenti depositati nel suo bicchiere per puntarmi addosso le fessure degli occhi da un'altezza maggiore. Su entrambi i lati, e dietro di me, sentii gli altri indietreggiare di una frazione di centimetro. La sala si zittì. Ogni conversazione cessò a cerchio attorno a me, così come le piccole onde prodotte da un sasso scagliato in acqua scompaiono, e torna l'immobilità. Il vetturino mi fissò per qualche altro attimo, poi girò il volto. Mi guardai attorno: tutti i visi erano distolti da me. Il suono di voci ricominciò al riprendere delle conversazioni, ma su un livello più basso di prima. — Prego? — La mia voce cadde, come infrangendosi contro un muro. Nessuno di loro rispose; finsero di non avere udito. Abbassando gli occhi, vidi il proprietario del locale raccogliere il mio bicchiere e scaraventarlo, liquore e tutto quanto, in un secchio dietro il banco. — State a sentire. È davvero straordinario. — Mi sentivo irritato a buon diritto dal trattamento generale che avevo ricevuto. — Esigo... — Eh, li lasci perdere — intervenne una nuova voce, accanto al mio gomito. — Si credono tanto per bene, ma le garantisco che un po' di formaggio non li strozzerebbe, se mi spiego. Mi girai, regolai il livello dello sguardo sull'altezza dell'uomo che mi aveva parlato: l'orlo del suo cilindro, un copricapo ancora più in disarmo di quanto sia consueto tra i vetturini, mi arrivava appena alla spalla. Sotto c'era una faccia avvizzita dagli anni e dagli ovvi pensieri sconci. Mi faceva l'occhiolino e sorrideva. — Come ha detto? — chiesi. — Proprio non seguo... Il sorriso a denti gialli si allargò. — Seguire, già, giusto. Lei ancora "non mi segue", forse, però "potrebbe seguirmi..." se per caso mi capitasse di andare dove lei vuole andare. Eh? Le sue parole velavano appena il loro reale intento. — A Wetwick, allora? — domandai. — Conosce quel distretto? — Freni la lingua, Gesù santo. Conosco bene questo posto, e penso che non siamo più i benvenuti. — Annuì in direzione del proprietario del locale, che stava avanzando lungo il banco, arrotolando le maniche su braccia grosse, muscolose. — Sono qui solo per raccogliere i soldi di una scommessa. Buon per lei. Questi signorini azzimati non le darebbero mai una mano. Bozzimacoo! — Quell'ultima esclamazione era rivolta al pro-
prietario, minacciosamente proteso sul banco. — Tanto non toccherei con un dito la robaccia puzzolente che servi qui! Andiamo. — Mi strattonò per il braccio. — Quel tipaccio dello Yorkshire impiegherà un'ora buona a ricordare le parolacce che conosce. Poi si metterà in azione. Fuori, in cortile, un cagnetto emise un guaito di saluto quando il vetturino emerse con me alle calcagna. — Zitto, tu — ringhiò l'uomo. Il cane, un bastardo che più d'ogni altra cosa ricordava un terrier buono solo a dare la caccia ai topi, danzò comunque attorno agli stivali dell'uomo, facendo sfoggio di una zampa posteriore zoppa. — Venga. — Il vetturino mi fece cenno di seguirlo mentre si aggirava, un poco barcollante, tra le carrozze. — Più avanti c'è una birreria molto più accogliente. È lì che che mi rintano di solito. Lo scantinato al quale mi condusse era poco più illuminato del vicolo sul quale si affacciava la cadente porta d'ingresso. Sul davanti c'era un cavallo, con le costole che sporgevano sotto la bardatura che lo legava a una carrozza singolarmente decrepita: le proprietà della mia guida, probabilmente. Il vetturino distese le mani dalle unghie nere su un tavolo così traballante che ogni tocco faceva ondeggiare la fiamma della candela che gocciolava al centro. — Un lavoro duro — disse, e fece di nuovo l'occhiolino. La palpebra di sottile cuoio scese sull'occhio iniettato di sangue. — Arrivare fino a Wetwick... Un viaggio lungo. Molto lungo, tanto da trovarsi con la gola riarsa, se mi capisce. Capivo benissimo. Una figura col grembiale si avvicinò al tavolo. Tesi un'altra moneta, e la persona strascicò i piedi al lato opposto dello scantinato. Mentre attendevo che ci portasse da bere, con gli occhi ormai abituati all'oscurità, mi guardai attorno. Solo pochi uomini sedevano lungo le pareti, o chini sulle caraffe mezzo vuote che avevano davanti o riversi all'indietro sulle sedie, coi tacchi degli stivali affondati nelle pozzanghere che dal tavolo colavano sul pavimento lercio. Un membro di quest'ultima categoria era giovane, un gentiluomo di posizione ben superiore alla mia, come raccontava il taglio finissimo della giacca; le sue imberbi guance, tese nel sonno a bocca spalancata, erano già scavate dalle corrotte abitudini delle quali era caduto prigioniero. Una donna cadaverica in uno degli angoli della stanza era crollata in avanti, e i capelli striati di grigio le scendevano a cespuglio sul viso; ai suoi piedi, un neonato giaceva immobile in una cesta, come paralizzato dal laudano o dal latte contaminato della madre. Due boccali vennero depositati sul tavolo. Il liquido si rovesciò e quasi
spense la candela. La mia guida bevve di gusto la poltiglia priva di schiuma, sgranando gli occhi sopra l'orlo del boccale. — Molto gustosa — sentenziò, e rimise giù la birra. Ne aveva svuotato un quarto. Io non toccai la mia. — Ora, per quel che concerne Wetwick... — Wetwick — mi interruppe. — Sì, certo, Wetwick. Tutto a suo tempo, signore, tutto a suo tempo. — La parola che aveva suscitato tanta repulsione nell'altro locale non provocò lì sguardi inquisitori, anche se la stanza era tanto piccola da permettere a tutti di udirci. Gli ebbri bevitori continuarono a fissare gli spazi bui che contenevano i residui dei loro pensieri. — Ehi, molla. — Il cagnetto ci aveva seguiti nello scantinato e stava ora uggiolando e grattando il ginocchio del vetturino. — E molla, accidenti, cagnaccio rognoso. Che ti ha preso? — L'uomo rivolse lo sguardo alla porta e vide una figura scendere gli umidi gradini in pietra, con un peso malamente bilanciato su una spalla. — È questo, allora? — chiese il vetturino al cane. — Hai fame? Bene, bene, un boccone non guasterebbe. Per la bestia o per il padrone. — Mi scoccò un'altra di quelle sue beffarde occhiate calcolatrici. Il lugubre macellaio, poiché tale era la natura dell'uomo appena entrato, fece il giro dello scantinato, inclinando il cesto di fronte a ogni bevitore per esporre la sua mercanzia sanguinolenta. Trovò ben poca risposta tra una congrega che ormai nutriva appetito solo per l'alcol: gli ebbri scossero a turno la testa, o continuarono a scrutare con occhi vacui davanti a sé. Il vetturino fischiò e fece un cenno all'uomo. Gli uggiolii del cane divennero frenetici all'approssimarsi del cesto coperto di chiazze scure. Il mio stomaco si rivoltò all'odore della carne troppo frollata. — Samuel, ragazzo mio... — Evidentemente, vetturino e macellaio si conoscevano da lunga pezza. — Che delizie offri stasera? — Il vetturino frugò tra i pezzi di carne, sollevando un modesto nugolo di mosche. — Un pezzo da due penny, allora — decise infine. — E gli scarti per il cane. — Osservò avidamente il macellaio tagliare la carne. Entrambi i visi degli uomini si volsero verso di me quando il pezzo dondolò nell'aria, trafitto dalla punta del coltello. Scostandomi per sfuggire all'odore, pagai. — Molto gentile da parte sua, signore — disse il vetturino, porgendo alla bocca del cane una striscia di carne cruda. — Gliene sono grato. — Il suo pezzo di carne era stato trasferito in un'altra stanza; mi giunse all'orecchio lo sfrigolio del fuoco e del grasso. — Questo gentiluomo — proseguì, indicando me — vuole essere portato a Wetwick. Ci crederesti? Il lugubre macellaio, rimesso il cesto sulla spalla, abbassò il mio boccale
dal quale si era servito. Le labbra aperte in un grande sorriso erano umide di birra rancida. — Davvero? Non lo avrei creduto il tipo, guardandolo. Non mi stupisce che non abbia fame di carne di questo tipo. — Un dito chiazzato di sangue batté su un lato del cesto. — Gli interessano altre ghiottonerie. — Con un sorriso sempre più osceno, mi strizzò l'occhio, poi si girò e tornò alla porta col suo carico. Il vetturino fece cenno di riempirgli di nuovo il boccale. — Sì, vero — disse, protendendosi sul tavolo. Il suo viso raggrinzito trasudava la bonhomie complice di chi presume, deliziato, che l'intero mondo sia corrotto quanto lui stesso. Si abbandonò a furbesche rimembranze. — Molte volte, in tutti questi miei anni di lavoro come notturno... è così che diciamo noi, dalle sei di sera alle dieci del mattino successivo, badi bene... Molte volte ho incontrato raffinati gentiluomini come lei che hanno chiesto di essere portati al distretto di Wetwick. Certo, raffinati gentiluomini... e ragazzi in cerca di bagordi. — La frase generò in lui una qualche eccitazione; i suoi occhi si sgranarono nel viso rubizzo. — Eh? Eh? Ragazzi in cerca di bagordi. Usciti a divertirsi. — Scrutò la propria immagine riflessa nel boccale riempito di fresco e sorrise, forse compiaciuto di quel che vide. — Le "ragazze verdi..." Sono loro che voialtri lord volete, vero? Eh? Non risposi, costretto al mutismo dalla ristrettezza dell'ambiente e dai fumi alcolici che conteneva. Il volto pallido del vetturino danzava davanti a me: una bambola infantile dedita alla perversione e ai piaceri che in essa trovava. — E attento... — continuò, inarrestabile. — Per quanto la cosa sia nei desideri del suo cuore... — Quelle ultime parole lo precipitarono in un'estasi di salivazione. — ... i desideri del suo cuore, dico, è impossibile trovare un affare migliore di questo. E come mai? Eh? Intuii che mi stava sottoponendo un indovinello. — Non ne ho idea. — La mia testa aveva preso a pulsare. — Perché, oh oh!, perché per arrivare là basta un'unica moneta. Ah! — Si strozzò e batté il pugno sul tavolo, in preda all'allegria. — Un'unica moneta. Molto astuto, eh? — Sì... — convenni debolmente, cercando di mascherare la mia totale incomprensione. — Sì, molto divertente. Egli mi scrutò più a fondo. — Naturalmente — disse lento — deve essere la moneta giusta. Esatto, signore? Una sola può servire. — Si ritrasse, in attesa della mia risposta. Intuii che dietro il suo sorriso c'era un altro elemento, al di là del sempli-
ce scherzo. Nello stesso istante, in un lampo, afferrai il senso delle sue parole. Tenendo gli occhi puntati sui suoi, estrassi la corona di San Lofio e la depositai sul tavolo, di fronte a lui. Il vetturino raccolse la moneta e la portò al lume di candela. Per un attimo studiò il notevole profilo inciso sulla superficie, poi me la restituì. Eseguì un inchino esageratamente servile e disse: — Perfetto, signore. Molto lieto di poter essere utile a chi sa. A Wetwick, allora. — Alzò lo sguardo quando un piatto crepato, lustro di grasso, gli venne deposto davanti. Conteneva il pezzo di carne, ora annerito dal fuoco. Lo guardai tagliare l'olezzante carne col coltello da tasca, dividerla in frammenti che poi infilzava sulla punta e portava alla bocca. — Partiamo, allora? — gli domandai. Egli trafisse un altro brandello e lo porse al cane, che lo fece lestamente sparire dalla lama. — Non c'è nessuna fretta, signore. — Mangiò un altro boccone. — Abbiamo tutto il tempo, come lei ben sa. — Chiese con un cenno un altro giro di birra. Il tempo, negli angusti confini della rancida birreria, parve congelarsi in una sostanza opaca, simile alle gocce di grasso raggrumate sul piatto lurido. I boccali davanti al vetturino si moltiplicarono, finché sul tavolo non ne furono disseminati sei o sette, tutti vuoti. Persino io ne avevo bevuto uno, nel vano tentativo di dissipare la sete provocata dall'aria fumosa. Questo rallentò ancora di più il procedere delle ore; avevo la sensazione di essere intrappolato nello scantinato col mio malizioso compagno sin dall'inizio della Creazione. Feci il tentativo di alzarmi, e fu come cercare di risalire alla superficie di uno stagno infestato dalla vegetazione. — Quando — chiesi con labbra pesanti — partiamo? Per Wetwick. — Al lato opposto della stanza discernevo a stento la forma della donna sudicia. Stringeva il bambino al seno; la testolina del neonato penzolava all'indietro, gli occhi erano due cavità grige e cieche. Il vetturino si riscosse dalle proprie meditazioni. Il suo sorriso era ancora più ampio, tanto da svelare le gengive sotto i denti ingialliti. — Quando sarà il momento, signore. Lei lo sa. — Sì, certo. Però... — Il mio cervello obnubilato lottò per esprimere quello che mi appariva un concetto molto significativo. — Ma come sapremo quando sarà il momento? Egli scosse la testa, facendosi beffe della mia ovvia stupidità. — Ce lo dirà lui, no? E in che altro modo?
— Ce lo dirà lui? — Il cane. — Puntò il pollice lordo sulla piccola creatura ai suoi piedi. Mi chinai, scostando i boccali vuoti, a guardare il piccolo animale. Rispose al mio sguardo con quella che non sembrava un'intelligenza superiore alla media canina. Mi riadagiai sulla sedia, perplesso dalla meccanica di quella supposta comunicazione. Lo avevo appena fatto, quando la bestia emise un latrato eccitato. Il tono della sua voce da terrier fu tanto acuto da risvegliare dallo stupore catatonico alcuni abitanti dello scantinato. Il cane si girava di continuo, abbaiando dapprima alla porta e poi al suo padrone. — Si va — annunciò il vetturino. Spinse indietro la sedia e si rizzò in piedi; sistemò cilindro e mantello, e di primo acchito non mi parve che le sue recenti bevute avessero lasciato tracce degne di nota. Per parte mia, mi trovai costretto a eseguire le stesse operazioni per gradi, ricorrendo al supporto del tavolo per controbilanciare la plumbea pesantezza che si era insinuata nelle mie gambe. Il cane, sempre più eccitato, prese a guizzare attorno agli stivali del vetturino sulle tre zampe buone, continuando ad abbaiare all'aria sopra gli scalini dell'ingresso. Andai a sbattere a corpo morto contro uno degli altri tavoli quando il vetturino mi trascinò fuori. L'impatto distrusse il precario equilibrio del giovane gentiluomo che sedeva lì immoto, coi gomiti sul legno e il viso tra i palmi delle mani: lo sentii scivolare lentamente e crollare sul pavimento alle mie spalle. Una volta fuori, l'aria notturna sul volto sudato mi ridiede un po' di vita. Ben presto mi trovai depositato a bordo della vetusta carrozza. Il sedile di pelle antica, screpolata, affondò sotto di me. Sentii il vetturino appollaiarsi sulla serpa, col cane che ancora abbaiava stretto sotto il braccio. Le zampe dell'animale graffiarono il tettuccio della vettura ancor prima che i colpi di frusta mettessero in movimento il cavallo. Ben presto, dondolando su assi sussultanti, eravamo usciti dal vicolo per immetterci nella più ampia via. Gli assordanti movimenti del veicolo mi fecero cadere riverso sul sedile. Il mio cervello, ancora gravato dal peso della sostanza che doveva essere stata aggiunta alla birra per aumentarne la potenza, lottava per dare un senso al panorama di lampioni e strade avvolte nella nebbia che sfilava all'esterno. Il cavallo, forse per il timore di ulteriori percosse, era capace di una velocità superiore a quel che avrei immaginato possibile. Il soffio del vento mi scompigliò i capelli quando mi aggrappai al bordo del finestrino e torsi il collo per urlare al vetturino: — È questa la strada per Wetwick, al-
lora? Le mie parole parvero alimentare il suo buonumore come aveva già fatto l'alcol. Con un sorriso ancora più maniacale, schioccò la frusta sopra la testa del cane. Anche la piccola creatura era in preda a uno stato di frenesia: guizzava avanti e indietro sul tettuccio della carrozza, abbaiava a tutto spiano come per spronare il cavallo. — A Wetwick! — urlò il vetturino. — Per uno della "sua" fede, è la nuova Roma! "Tutte" le strade portano a Wetwick! Ricaddi all'interno, scaraventato indietro da una svolta improvvisa che per un attimo fece correre la carrozza su una sola ruota. All'esterno sfilò qualche viso pallido, pedoni stupiti dalla furia della vettura. Sopra la mia testa, l'abbaiare e il raspare del cane parvero assumere un chiaro schema: quando le sue zampe sfregavano un lato della carrozza e i latrati risuonavano in quella direzione, il vetturino faceva deviare il veicolo da quella parte alla prima opportunità. Riguadagnato il finestrino, guardai di nuovo fuori e riconobbi il distretto che stavamo attraversando: l'odore del fiume era forte, disteso su una regione di moli sconquassati e magazzini. Non eravamo lontani dalla mia casa di Clerkenwell. A quanto pareva, avevamo viaggiato in cerchio. Il cane smise di abbaiare nello stesso istante in cui la carrozza si fermò. Il vetturino aprì l'usciolo al centro del tettuccio e si chinò a scrutarmi. — La sua destinazione, signore — disse in tono lascivo, insinuante. Scesi dal veicolo e mi guardai attorno. Avevo una vaga idea della zona, se non della strada in sé; sapevo di certo che sarei stato in grado di ritrovare la via di casa, sobbarcandomi una buona camminata. Forse il vetturino mi stava prendendo in giro; mi aveva scarrozzato qua e là senza avere una sola idea più di me su come raggiungere il probabilmente mitico Wetwick. Comunque, ero lieto di avere lasciato quel suo scuotitore d'ossa, e per lo meno l'area nella quale ero stato depositato non era deserta. Per quanto le strade fossero prive di lampioni, potevo discernere un considerevole numero di figure che mi passavano a fianco, rasenti alle facciate sbarrate degli edifici. — Quanto le devo? — chiesi al vetturino appollaiato sulla serpa. — Ah! Lei è proprio un burlone, signore! — Sia lui che il cane mi guardarono. — Sa benissimo che avrò la mia ricompensa dall'altra parte. La sua corsa è pagata da Mollie Maud, giusto, no? — Fece ripartire il cavallo al trotto, e in breve svanì tra le nebbie del fiume. Sino ad allora, le mie ricerche mi avevano procurato più disagi che av-
venture; la casa e il letto mi apparivano l'idea più allettante. Attraversai l'acciottolato della via per chiedere indicazioni esatte a uno dei passanti. Avvicinandomi a loro, potendoli vedere meglio oltre la nebbia che mi depositava in volto il suo umido velluto, notai che tutti, uomini e donne, procedevano nello stesso modo, con un curioso movimento sghembo, a spalle chine; come se, a mo' di granchi, camminassero tanto di lato quanto in avanti. Per un istante pensai che il cane del vetturino fosse balzato giù dalla carrozza e corso lì, perché vidi un animale del tutto simile precedere una delle figure; poi individuai diversi di quei macilenti terrier, ognuno intento a guidare il proprio padrone mal vestito nella stessa direzione. La sensazione di vivere un sogno mi avviluppò di nuovo. Mi fermai a un metro circa dalla fila di pedoni che mi sfioravano. Poi, lentamente, tesi una mano e afferrai una spalla china. L'uomo sollevò la testa e mi guardò. Mi trovai a fissare la controparte vivente della faccia raffigurata sulla moneta di San Lofio. 5 Il fato di un falsario Ho bisogno di riposare; la mia mano trema anche mentre scrivo queste parole. Richiamare alla memoria il passato non è grande sforzo, quando gli eventi da rammentare sono così saldamente incisi nei ricordi. È l'esistenza nel presente, cupo relitto e residuo di ciò che è stato, a essere tanto pesante. Dopo avere completato la parte precedente di queste memorie, ho deposto la penna e sono di nuovo uscito di casa, nella speranza di spurgare per breve tempo il ricordo di quella sera col chiarore del giorno attuale. Misericordiosamente anonimo in questo distretto, ho passeggiato tra la folla intenta ai propri affari. Perso tra la gente, ho trovato un momento di pace che si è spezzato solo quando mi è parso di scorgere un volto familiare che mi fissava. Girandomi, ho sentito il cuore balzarmi in gola nel riconoscere il viso inclinato, esoftalmico, e dalla mascella cascante tipico degli abitanti di Wetwick. Ho barcollato all'indietro, scontrandomi con le persone più vicine, nel timore che gli indigeni di quella regione fossero migrati con me dal loro consueto ambiente. L'orripilante visione si è dissolta quando, incuriosito dal mormorio che si levava attorno a me, un pescivendolo del luogo si è voltato, e io ho visto che la spaventosa fisionomia era solo quella di una carpa insolitamente grossa che l'uomo stava trasportando sulla spalla al suo banco. Col cuore che ancora batteva accelerato, sono tornato di cor-
sa al rifugio della mia casa. Tra l'ultima frase e quella che sto scrivendo adesso è passata un'ora buona, trascorsa a letto a placare la paura con un bicchiere di whisky scozzese, una consolazione alla quale sono stato iniziato nel corso del mio soggiorno forzato su un'isola delle Ebridi, Groughay, in compagnia di uno Scape sempre più lunatico. Per tutto quel tempo, quando ero appena sfuggito all'esecuzione capitale per mano del Pio Esercito, il nettare ambrato è stato forse l'unica cosa che abbia salvato la mia sanità mentale, mentre il mio compagno di naufragio montava la sua assurda macchina volante con rami d'albero e carcasse d'ovini. Così fortificato, col calore del whisky che disperde il gelo dell'aria e dei ricordi, torno alle mie fatiche. In quella strada buia di Londra, vidi per la prima volta in carne e ossa i tratti che sino ad allora mi si erano presentati solo nel metallo e nella cera. Per quanto rientrassero nelle possibili gamme delle varianti dell'umanità in generale, quelle creature si trovavano senza dubbio all'inquietante fondo della scala. Ciò che si sarebbe definito enorme bruttezza in un individuo acquistava echi bizzarri grazie alle somiglianze tra l'uomo che avevo fermato e gli altri passanti. Non mi sarei trovato nel mezzo di una tribù d'aspetto più alieno se mi fossi introdotto alla corte di Gengis Khan. Gli occhi tondi e sporgenti conferivano all'uomo del quale ancora stringevo la spalla un'ingannevole aria di stupidità. Di certo, al momento era in possesso delle proprie facoltà più di quanto lo fossi io. Aggrottò la fronte, o meglio si esibì nella miglior approssimazione di quell'espressione che il viso dalla fronte inclinata e privo di mento gli permetteva; liberò la spalla con una torsione, poi scappò via, a riprendere le sue occupazioni notturne. Mi tolsi dall'acciottolato per lasciar passare gli altri. Per quanto possedessero tutti gli stessi tipi di tratti, le varianti tra loro costituivano una parata della società umana e dei suoi componenti: vidi, in rapido ordine, il giovane artigiano e il commerciante, forniti di cappello e di fazzoletto allacciato al collo, con uno spiccato vigore nella camminata laterale; gli anziani, di rotonda corpulenza come di scheletrica magrezza, assistiti nel passo trasversale da bastoni da passeggio; donne che tenevano stretto lo scialle sotto il mento, di ogni età, dalla nonna all'ingénue, quest'ultima pronta ad arrossire per modestia all'occhiata di uno sconosciuto e a correre dai famigliari in cerca di protezione; e bambini, tanto ben vestiti che cenciosi. I giovani, non ancora perfettamente edotti dagli adulti, mi fissavano attoniti mentre i genitori li trascinavano via, con bocche pronte a spalan-
carsi come borse prive di cordoni. Più di una bambina stringeva tra le braccia un giocattolo, una bambola col suo stesso viso. Una bimba, momentaneamente divisa dai genitori e resa cieca dai piccoli pugni che arginavano le lacrime versate dagli occhi sporgenti, mi venne a sbattere contro la gamba. Mosso a compassione, estrassi l'orribile bambola dalla tasca della giacca e gliela misi tra le mani. La piccola inghiottì un singhiozzo, il tempo necessario per fissare incredula l'inatteso dono; ma quando alzò lo sguardo sul benefattore, la sua bocca si aprì in una O stupefatta dinnanzi al mio viso, e la bambina scappò via terrorizzata. Per un attimo avevo pensato che il terrier avesse abbandonato il vetturino e fosse tornato lì, avendo visto quella che pareva la stessa identica creatura aggirarsi attorno alle gambe di un pedone; abbaiava nello stesso tono acuto, schizzava avanti di pochi metri e poi tornava indietro, come per guidare il nuovo padrone nella direzione desiderata. Poi notai la replica della creatura, e altre ancora, tutte intente a guizzare tra i piedi dei passanti, abbaiare in una cacofonia uniforme, correre avanti e indietro alla maniera dei cani da pastore. In totale dovevano esserci oltre una dozzina di quei cagnetti solo sul breve tratto di via che riuscivo a vedere. Le uniche varianti erano nel colore e nella maculazione dei mantelli. La novità della situazione nella quale mi ero trovato si dileguò dopo qualche minuto. Gli individui che passavano non erano certo di bell'aspetto, ma nemmeno erano gli esseri più ripugnanti che avessi mai visto; in realtà, erano le somiglianze tra loro a generare disorientamento più di ogni altro fattore: all'incirca lo stesso tipo di confusione che si prova imbattendosi in una coppia o un terzetto di gemelli, quando l'occhio sembra venirci meno nel passare da un viso a un altro identico. Forse i precedenti incontri con quella forma craniale spiccatamente ittioide, l'orribile bambola e la moneta di San Lofio, mi avevano chissà come preparato alla sua apparizione in vivo. Comunque, fu solo con brividi minimi e facilmente sedati che mi avvicinai a un altro di loro, deciso a rinnovare le mie domande. — Chiedo scusa, ma è questo il distretto di Wetwick? La figura alla quale mi ero rivolto imbnittì ulteriormente il viso col cipiglio sdegnato e si allontanò bruscamente, senza restituirmi una sola parola. Ripetei la domanda all'uomo che lo seguiva e ricevetti lo stesso rude silenzio. Parevano londinesi davvero singolari: la maggioranza dei cittadini esprime le proprie cattive maniere affidandosi a una rozza volubilità, e non perde occasione per colmare l'orecchio dello sfortunato sconosciuto con disquisizioni filosofiche non richieste su ogni possibile argomento. E lad-
dove sia necessario il denaro per sciogliere le lingue e produrre l'informazione desiderata, la transazione viene chiaramente esplicitata dal tendersi di un palmo aperto; i visi degli individui più poveramente vestiti di quel luogo mi avevano scrutato con aperta ostilità e sfiducia. Il pensiero del denaro accese un'idea nel mio cervello. Risentii le parole del vetturino: "Basta un'unica moneta... Naturalmente, deve essere la moneta giusta..." Estrassi la corona di San Lofio dal taschino del panciotto e la contemplai. La strana moneta aveva prodotto nel vetturino una sorprendente misura di disponibilità; forse era la chiave adatta anche lì. Non vedevo cosa avessi da perdere dal tentativo. — Mio buon'uomo. — Tesi la moneta, stringendone l'orlo tra pollice e indice; il luccichio del metallo fu sufficiente, all'esile luce delle stelle, a catturare l'attenzione del successivo passante. — Mi chiedo se lei possa fornirmi una qualche assistenza. L'esperimento incontrò successo. Alla vista della moneta, gli occhi del giovane si sgranarono oltre la loro già straordinaria circolarità. Si tolse il cappello, tenendolo appoggiato allo sparato della camicia con mani rese ruvide dal lavoro, in rispettosa attesa della mia richiesta. Una risposta servile più adatta a un villico che a un cittadino. Soddisfatto dell'efficacia del talismano, ripetei la domanda che in precedenza non aveva provocato risposte. — È questo il distretto di Wetwick? Il giovane annuì torpidamente. — Sto cercando un uomo che si chiama Fexton. Mi hanno informato che vive qui. Lei lo conosce? Un altro cenno d'assenso. Il mio cuore esultò: finalmente qualche progresso. Speravo solo che quelle risposte silenziose non significassero che mi stavo rivolgendo a un muto. — Allora potrebbe dirmi dove posso trovare questo Fexton? L'uomo mi afferrò il braccio e mi trascinò per qualche metro, sino a uno stretto vicolo che si dipartiva dalla strada. Puntando le tozze dita verso l'oscurità stigia, disse: — Là... — O così intesi: il suono era più simile a Glaaa, come se il giovane fosse alle prese con un palato difettoso. — Il signor Fexton vive là? — Riuscivo a stento a intravvedere l'edificio in fondo al cortile al quale il vicolo dava accesso. Il cenno d'assenso fu ancor più vigoroso. Il mio interlocutore presumeva forse che io fossi una persona di considerevole rango, impegnata in una missione ufficiale. — Di sopra. — (Zii uopra.) Il dito indicava ora una finestra fiocamente illuminata, al di sopra del livello del suolo.
— Molte grazie. — Il giovane, intuendo che le mie domande erano terminate, sgattaiolò all'inseguimento dei suoi simili, chiaramente lieto che l'incontro fosse concluso. Mi avviai nel vicolo, con cautela, pronto a individuare ogni mano che potesse tentare di ghermirmi. L'umidità della sera si era fusa coi rifiuti marcescenti deposti sul fondo stradale, dando vita a un contatto precario e odoroso tra le suole dei miei stivali e il selciato. Appoggiai una mano al muro per sorreggermi, ma la ritrassi subito, disgustato, dopo avere toccato qualcosa che aveva la flaccida consistenza della frutta marcia. Nel buio, ebbi l'illusione di vedere qualcosa strisciare via a mo' di lumaca. La nebbia non serviva affatto a ripulire l'aria dai miasmi della sporcizia e del grasso messo a sfrigolare sul fuoco; gli odori di squallide abitazioni gravavano su di me quando entrai nel cortiletto. La porta d'ingresso dell'edificio sul fondo, priva di chiavistello o catenaccio, si spalancò quando poggiai la mano sul legno ruvido. Sporsi il collo a scrutare una traballante rampa di scale, pregando di poter scorgere una traccia del lume di candela che era stato visibile alla finestra del piano superiore. — Eilà — urlai nel buio. — C'è qualcuno? Nessuna risposta, almeno non a parole. Mi parve di udire un lieve grattare, di piedi o delle gambe di una sedia, su un pavimento in legno sopra di me. La ringhiera traballò sotto la mia mano quando presi ad affrontare gli scricchiolanti gradini. Salii di due piani, e ora potevo vedere un frammento di luce di candela sgusciare da sotto una porta, a una certa distanza dal pianerottolo. Il legno, divorato dalla muffa, smorzò il suono dei miei colpi. — Signor Fexton? — Avvicinai l'orecchio per udire la risposta. — Cosa? Cosa? — Uno gracidio stupefatto dalla stanza dietro la porta. Mi giunse all'orecchio un suono come di molte carte smosse in fretta e furia, forse per nasconderle a una verifica indesiderata. — Chi è? — Cerco un certo Fexton — urlai. — Ardo dal desiderio di fargli qualche domanda. — Domande? Domande? — La voce dell'interlocutore invisibile si alzò a un roco strillo. Il rumore della carta smossa crebbe fino a una vera tempesta, punteggiata dal secco crepitare di strumenti metallici. — Che tipo di domande? Era chiaramente ovvio che una persona dedita a quel tipo di vita nutrisse sospetti nei confronti di ogni possibile visitatore. Ma d'altro canto, come spesso accade in tanti passi della vita, l'avidità poteva portare a scavalcare
la cautela. — Si tratta di, ah, una proposta d'affari. Che potrebbe dare qualche guadagno a questo Fexton, se riuscissi a rintracciarlo. — La menzogna non era eccessiva. Ero pronto a sborsare qualche scellino per ogni informazione. Per pochi secondi ci fu silenzio, il che probabilmente indicava cogitazioni dietro la porta; poi il silenzio fu spezzato dal cigolio di un cardine. Un occhio fornito di lente, socchiuso dietro la curva del vetro, mi ispezionò da una stretta fessura. L'uomo doveva essere di statura molto bassa, a giudicare dal livello dei suoi occhiali. Un naso a punta e un mento chiazzato di peluria grigia si sporsero in fuori, a mo' di creatura marina che affacciasse il muso da un crepaccio sommerso. — Affari? — chiese il volto accigliato. — Che tipo d'affari? In risposta, gli mostrai la corona di San Lofio. L'occhio si sgranò, poi tornò ad alzarsi con un guizzo sul mio viso. — Dove l'ha presa? Eh? La moneta rientrò nel mio taschino. — Desidero parlare col signor Fexton — dissi, in tono gelidamente cortese. — Se lei è in grado di convocarlo qui, o di indirizzarmi al posto dove potrei trovarlo, gliene sarei estremamente grato. La porta si aprì un poco di più, a svelare per intero il volto dell'uomo. Rade ciocche di capelli grigi stavano incollate sulla zona anteriore di un cranio per il resto nudo; il viso era sgradevolmente butterato, ma non in conseguenza di pustole giovanili o di un più tardo vaiolo, poiché in entrambi i casi si tratta di eruzioni da sotto la cute; lì sembrava invece che la pelle fosse stata corrosa e scavata "da fuori", come scogli continuamente scolpiti dall'incessante azione dell'oceano. La mia impressione di una modesta statura era dovuta alla curvatura della spina dorsale, una deformità che lo lasciava piegato in due sulle mani esangui. — Sono io Fexton — annunciò. (Ovviamente lo avevo sospettato.) Tornò strascicando i piedi nella sua dimora per lasciarmi entrare. — E lei chi è? Di quali affari va parlando? Vidi che la stanza conteneva un altro occupante: un terrier, identico a quelli che avevo incontrato per strada, balzava da angolo ad angolo com'è tipico della sua specie. Un attimo prima poggiava le zampe anteriori sul davanzale della finestra, e l'attimo dopo mi fiutava il risvolto dei pantaloni. — Stai giù, bastardo! — urlò Fexton. Indirizzò al cane un poderoso colpo del bastone che lo aiutava a sorreggere il corpo sformato, e quasi precipitò per la violenza del gesto. Il cane si ritrasse intimorito, sistemandosi
appena fuori tiro. — Venga, venga. — Aggirandosi per la stanza, Fexton si rivolgeva di nuovo a me. — Non ho tempo... no, no, per niente... proprio non ho tempo... Che vuole da me? Eh? Parli, uomo. — Un tavolo d'abete, traballante quanto il suo proprietario, vibrò quando Fexton frugò tra le cose ammassate in disordine sul piano: un catino di zinco, diverse fiaschette maculate, e una serie di stampi di piombo erano la prova evidente della sua professione. I miei occhi vennero automaticamente attratti dal caos che regnava nella stanza. Un cumulo di involucri cartacei in un angolo, coperti di briciole e macchie d'unto, indicava la sede dei suoi furtivi pasti; un letto, poco più di un pagliericcio sul pavimento infossato, sfoggiava lenzuola grige e un soprabito pesante che fungeva da coperta. Un primitivo scaffale inchiodato a una parete sosteneva una fila di libri. I titoli che riuscii a decifrare rientravano tutti nella categoria di Sub Umbra, ovvero I Divertimenti di Una Sempliciotta e La Risposta Pronta, ovvero Citazioni Salaci per Ogni Occasione, e simili volgarità di basso livello (non che io conoscessi quei libri, al di là della reputazione di cui godevano). L'impressione generale offerta dal locale era quella di una triste, solitaria degenerazione. La voce stridula dell'uomo interruppe la mia meditabonda ispezione. — Parli! Non c'è tempo! — Sto cercando qualcuno che conia monete... — cominciai. — Monete? Monete? — Il suo collo da tartaruga si tese quasi sino a spezzare i tendini. — Io non so niente delle maledette monete. Niente, le dico. Soldatini, ecco quel che produco. Di ottima qualità, molto ricercati, collezionati dai più nobili gentiluomini! — I suoi dinieghi crebbero in uno strillo. — No, niente monete! Non so nulla! Non mi avrà tanto facilmente! Non era difficile immaginare che, in passato, altre indagini sulle sue attività si erano tradotte in conseguenze molto sgradevoli per lui. — Le assicuro — dissi, col mio tono più rassicurante — che non sto alludendo a falsificazioni. A me interessano le innocue curiosità come l'esemplare che le ho mostrato alla porta. Fexton socchiuse gli occhi, insospettito. Tolse il tappo a una delle fiaschette sul tavolo e la avvicinò alle labbra; l'odore aspro del gin da pochi soldi si mescolò ai più forti aromi chimici sospesi nella stanza. Insistetti: — La moneta col profilo di San Lofio... Fexton si passò sulle labbra il dorso della mano. — Eh? Allora? — L'ha coniata lei? — E se anche fosse? Eh? Che interesse riveste per lei?
Quel suo continuo ringhiare mi irritava. Solo con un certo sforzo di controllo su me stesso riuscii a frenare l'asprezza delle parole. — Ho deciso di interessarmene, signore. Trovo la moneta... intrigante, per così dire. Amerei sapere qualcosa di più sul suo significato. — Ah! — La pelle butterata di Fexton si imporporò sotto l'effetto del liquore. — Come se lei non ne sapesse già a sufficienza! Lei e i suoi simili. Schifosi farabutti. Schifosi, schifosi... — La sua voce si smorzò in un mormorio, definitivamente smorzato da un altro sorso dalla fiaschetta. Come era accaduto col vetturino, anche quell'uomo presumeva in me un grado di conoscenza del quale ero in realtà completamente privo. — Le assicuro — dissi — che le mie domande sono del tutto sincere... — Oh, già! — mi sbeffeggiò Fexton. — Innocenti. Splendido! Molto divertente! — Il gin gli colò giù dalla punta del mento. — E naturalmente sarei disposto a pagare... Questo lo riportò a una certa serietà. I suoi occhi si strinsero, calcolatori, dietro gli occhiali. — Pagare? Quanto? Scrollai le spalle. — Dipenderà dal valore delle informazioni... Una furibonda esplosione di latrati mi interruppe. Il terrier balzò alla finestra, appoggiò le zampe sul davanzale, e abbaiò a qualche evento, invisibile a noi, che si stava svolgendo nella tenebra notturna. Poi si girò ad abbaiare al padrone, come per descrivergli il segnale che lo aveva eccitato. — Maledizione a te! Dannato cagnaccio! — I latrati resero Fexton furibondo. Gli colò saliva dal labbro. Sollevò il bastone e lo abbatté con un orripilante tonfo sulla schiena del cane. L'animale, disfatto, si accucciò e rimase immobile, in attesa del colpo successivo. — Ti insegno io... Afferrai il polso di Fexton, bloccai il bastone nell'aria. La sofferenza del cane, un insieme di dolore fisico e tremula fedeltà a un padrone crudele, suscitò la mia ira. — Si fermi — ordinai. — Non ha nessun pudore? Molestare in quel modo una povera bestia... — Sì, sì. Certo. — L'uomo si raggrinzì in maniera abietta, quasi si aspettasse che io volessi percuoterlo col bastone. — Ma lei non sa. Lei non sa... — Girò gli occhi verso il cane che uggiolava di eccitazione repressa, di nuovo concentrato sulla finestra buia. — Sono giunto qui con poche semplici domande, nella speranza di trovare risposte altrettanto semplici. — La stanza minuscola, intrisa di odori ripugnanti, e il suo perfido occupante mi davano ormai la nausea. — Se vuole essermi d'aiuto, e ricevere la debita ricompensa, lo dica. Se no... — Ma non c'è tempo! Non adesso! — Fexton prese ad aggirarsi in un
angolo, cinse le membra tremanti con un lacero soprabito. — Devo uscire. Molto urgente. Lei non sa quanto. — Avvolse attorno alla gola scheletrica, in maniera sommaria, una sciarpa. — Torni. Sì! Torni più tardi, e le dirò tutto quello che vuole sapere. Ma non adesso! Schizzò via verso la porta, seguito dal cane sventuratamente fedele. Emerso sul pianerottolo, mi chinai a strillargli dall'alto della tromba delle scale: — Quando? — Dopo... dopo mezzanotte! — I rinnovati latrati del cane si fusero con la sua risposta. — Sì, per allora! Poco dopo udii, oltre il vetro della finestra, il ticchettare del suo bastone sulle pietre del cortile. L'atmosfera opprimente della stanza mi costrinse in breve a uscire. Lasciai l'edificio, mi trasferii all'aria più pulita della sera. La strada sulla quale il vicolo sfociava ora era deserta; tutti quegli individui di rimarchevole aspetto avevano raggiunto le loro rispettive destinazioni. Prendendo accurata nota delle porte che superavo e delle svolte che imboccavo, per essere più tardi in grado di tornare sui miei passi, lasciai la zona. Fui attratto dalle luci di un piccolo locale pubblico; potevo aspettare lì il momento del mio nuovo incontro con Fexton, e sperare che decidesse di essere più comunicativo. Affacciando la testa oltre la porta d'ingresso, fu per me un sollievo scoprire che non era quello il luogo di ritrovo degli abitanti di Wetwick: bevitori e clienti in genere non andavano oltre il consueto livello medio di bruttezza. Da certe scontrose reazioni dedussi che si stavano chiedendo perché mai un gentiluomo fosse improvvisamente apparso tra loro, ma per lo meno non si girarono a scrutarmi con gli occhi sporgenti che avevo scoperto nel distretto appena abbandonato. Debbo ammettere che quando mi accomodai a uno dei tavoli più isolati, e quando procedetti a mantenere una cauta sobrietà col giudizioso consumo di un piccolo boccale di birra, il mio cuore batteva veloce, riverberandosi nella gola. La grande avventura nella quale mi ero lanciato si stava rivelando un divertimento magistrale: i misteriosi abitanti di una Londra che prima di allora mi era ignota; il colorito squallore della povertà e del vizio, solitamente raccontato a persone del mio rispettabile rango solo dalle colonne degli eccellenti reportage di Mayhew sul "Morning Chronicle"; un rendez-vous con un vero trasgressore della legge, un habitué, a quel che sembrava, delle patrie galere... In quei momenti, mi sembrò di avere del tutto spezzato le catene della mia vecchia esistenza terrena e di avere posto piede nel territorio di una vita più selvaggia e più libera. All'ora concordata mi affrettai al tugurio di Fexton. Le strade erano an-
cora deserte, ma la cosa era prevedibile, visto che era notte fonda. Risalii i precari scalini e mi fermai sul pianerottolo davanti alla porta di Fexton. Battei e chiamai il suo nome, ma non ci fu risposta. Però, tendendo l'orecchio, potevo udire l'uggiolare ansioso del cane. Forse il padrone, rientrato dalla segreta missione nella quale si era imbarcato, si era addormentato. Spalancai la porta e sbirciai dentro. La candela sul tavolo si era consumata fino al livello del piatto che la sorreggeva; la fiamma ardeva in un oceano di cera. In quella fioca illuminazione riuscii a vedere non il falsario, ma solo il cane, che stava grattando con le zampe quello che mi parve un lungo cumulo di cenci sul pavimento. L'animale riprese a uggiolare, tastando col muso l'oggetto tanto più grande di lui. Quando mi chinai a guardare, gli sforzi del cane riuscirono a scostare qualche lembo di stoffa: il viso immobile del suo padrone, un occhio nascosto sotto la lente frantumata degli occhiali, mi fissò dal basso. Il cane staccò la zampa dal colletto grigio della camicia e sfregò il muso sul volto inerte. Indietreggiai orripilato, e vidi per la prima volta la superficie umida e scura del pavimento sotto l'uomo. Lo sparato della camicia era imbevuto dello stesso liquido scarlatto, che ancora colava dai tagli nella stoffa e nella carne sotto. Le impronte dei miei stivali rimasero nelle pozzanghere di sangue quando quella vista mi fece barcollare all'indietro. I miei tacchi si impigliarono in qualcosa di morbido; evitai di cadere solo aggrappandomi all'orlo del tavolo al mio fianco. Mi girai a guardare, e, col cuore impazzito che non batteva più di eccitazione ma di paura, vidi un'altra forma, muta e immobile come quella di Fexton. Mi inginocchiai sulle gambe tremanti e incontrai la spalla sollevata dell'uomo. La figura ricadde sulla schiena, e mi trovai a fissare il viso scuro, solcato da cicatrici, dell'Uomo di Cuoio Marrone. Anche il suo petto era trafitto e bagnato, ma il fluido che si mescolava sul pavimento col sangue di Fexton era chiaro. L'aroma dell'acqua di mare, nitido nei ricordi, mi giunse alle narici quando fissai la mia mano umida. L'agonizzante candela morì all'improvviso soffio d'aria prodotto dall'aprirsi della porta. Mi rialzai, e mi piovve addosso la luce di una piccola lanterna. Dietro il bagliore intravvidi vagamente le forme di un paio d'uomini. — E questo chi sarebbe? — chiese uno dei due. — Chi è costui? — Madre di Dio, te lo avevo detto che avremmo dovuto portarci tutta l'attrezzatura la prima volta. — Il secondo uomo si protese in avanti con la
lanterna. — Sarà meglio dargli una botta e prendere su anche lui. Chiamai a raccolta le mie disastrate facoltà mentali. Nutrivo l'impressione che i due non fossero bene intenzionati nei miei confronti, e che potessero essere gli autori della carneficina. — Sentite un po'... Le mie argomentazioni non andarono oltre. I due uomini si portarono ai miei fianchi; il più grosso dei due mi superava di una testa buona in altezza. O così pensai: all'improvviso mi parve che mi stesse guardando da una distanza ancora maggiore. — Dagliene un'altra — tuonò una voce lontana chilometri. Ma non fu necessario. Il primo colpo ottenebrò infine i miei sensi, come la palla di cannone che frantuma il muro del castello rimasto intatto per un istante e ridotto in briciole l'attimo successivo. La mia guancia piombò sul pavimento bagnato, a mezza via tra il cadavere dell'Uomo di Cuoio Marrone e gli stivali del mio assalitore. Per un momento, prima di perdere conoscenza, mi parve di volare, quando uno dei due mi issò su una spalla. 6 Un rito religioso va a catafascio I saggi dell'Arabia Felix hanno scritto: "Esistono due cose senza limiti: la stupidità dell'Uomo e la misericordia di Dio." (Ho trovato tempo per gli studi religiosi, da che ho lasciato gli affari del mondo.) Non ho ancora avuto prova della seconda asserzione, ma la prima si è concretizzata nella realizzazione dei miei stessi deplorevoli desideri. Avevo bramato l'eccitazione, la fine della Noia; mi erano state concesse, e in abbondante misura. Ma mentre riprendevo conoscenza, coi pensieri in disordine che si riassettavano dentro il mio cranio pulsante, avrei urlato per invocare il ritorno di ogni monotono e prevedibile secondo della mia passata esistenza, così scioccamente disprezzata e irrevocabilmente persa. Avrei urlato, non fosse stato per lo straccio infilato in bocca che mi impediva ogni parola. L'esatta natura della mia prigione mi si palesò a gradi. La nuca (che sembrava intatta, per quanto fossi portato a supporre che il colpo ricevuto ne avesse depositato frammenti sul pavimento della stanza di Fexton) sobbalzava contro le assi di un carretto. Ogni ciottolo sotto le ruote cigolanti provocava una nuova stilettata di dolore alla testa. Avevo le mani legate dietro la schiena; contro i due lati delle mie spalle erano premuti altri corpi, probabilmente le forme ormai fredde di Fexton e dell'Uomo di Cuoio
Marrone. Una ruvida coperta di tela di sacco era stata gettata sui visi del vivo e dei morti, per nasconderci agli occhi di chi potesse affacciarsi alle finestre e vedere il carro procedere nella notte. Rare volte udii mormorare i due ruffiani che mi avevano rapito, seduti a cassetta. Un leggero mormorio d'acqua, e un cambiamento nella qualità dell'aria che filtrava dalla stoffa sopra il mio volto, segnalarono la vicinanza del fiume. Il carretto si fermò, ondeggiò lievemente quando i due uomini balzarono a terra. Dai cupi rimbombi dei loro stivali dedussi che dovevamo trovarci su una banchina, nella zona portuale della città. A quel punto ero pienamente cosciente, e i miei pensieri si agitavano in cerca di una via d'uscita dalle mie ambasce. Le curiosità che un tempo nutrivo sugli affari dei due defunti che dividevano il carretto con me erano ormai estinte. Per quanto le mie dilettantesche indagini mi avessero portato a scoprire meno di nulla, con un bilancio finale di una stupefazione anche superiore a quella iniziale, ero adesso perfettamente disposto ad accettare la più completa ignoranza su quelle faccende. Di certo quegli uomini non nutrivano sentimenti malvagi rivolti in maniera specifica a me; ero stato solo uno scomodo testimone delle loro sgradevoli transazioni. Tentai disperatamente di indicare la mia disponibilità a cancellare dalla mente tutto ciò che avevo visto, il che avrebbe concesso loro di procedere senza il timore di interventi miei o di poliziotti che avrei in caso contrario allertato, ma le mie parole di rassicurazione vennero bloccate dal cencio che mi riempiva la bocca. — Ehi, tu — disse uno dei due, pungolandomi col dito attraverso la stoffa. — Smetti di gorgogliare. Non prestai orecchio all'avvertimento, ma anzi raddoppiai i miei convulsi tentativi di comunicazione. I rumori che produssi mi guadagnarono un colpo alla testa che mi lasciò stordito e muto, ma ben consapevole degli eventi attorno a me. — Allora lui dov'è? — mormorò uno dei due. — Aspetta. Eccolo che arriva. — Un terzo paio di passi risuonò debolmente sulle assi all'estremità della banchina e crebbe gradualmente di volume. Nella voce dei miei rapitori era risuonata una servile ansietà. Questo diede fiato alla speranza che la figura in arrivo fosse il loro padrone, o comunque qualcuno dotato di autorità su di loro. Senza dubbio, se avessi potuto sottoporre il mio caso a lui, avrebbe corretto l'errore dei suoi sottoposti, rimettendomi in libertà per non accrescere ulteriormente le iniquità che
avevano portato alla morte di Fexton e dell'Uomo di Cuoio Marrone. Il giuramento di un discreto silenzio da parte di un gentiluomo sarebbe senz'altro bastato per farmi riguadagnare un'incolume libertà. I nuovi passi si arrestarono a lato del carretto. Tutti e tre gli uomini si spostarono a una certa distanza, a tenero una frettolosa conferenza su toni smorzati. Io feci pressione sulle corde che mi legavano i polsi, ansioso di tornare libero, lontano dai macabri pesi che mi gravavano addosso. Il mormorio di voci si zittì. Sentii il trio tornare al carretto; la tela di sacco venne strappata dal mio viso. Dietro il bagliore di una lanterna retta nell'aria da uno dei ruffiani, riuscii appena a discernere l'aspetto del capo della banda. Più alto e più snello dei suoi tozzi e muscolosi scagnozzi, fornito di mantello e cilindro, come fosse appena uscito dal teatro dell'opera o da una sala da ballo; tranne gli occhi, tutto del suo volto era nascosto dietro una sciarpa di seta che egli teneva sollevata con la mano guantata per impedire ogni possibile riconoscimento. Puntai lo sguardo su quello dell'uomo. La mia voce soffocata stava cercando di comunicargli che ero in possesso di informazioni d'urgente natura per lui, quando l'uomo indietreggiò dal cerchio di luce della lanterna. — Sì. — Udii la sua voce nel buio, e quell'unica sillaba bastò a indicare l'alto livello d'istruzione di chi aveva parlato. — Buttatelo con gli altri — ordinò ai due ruffiani. Trascorse un istante prima che mi rendessi conto di essere destinato a subire la stessa sorte decisa per i due cadaveri che dividevano il carro con me. Urlai, producendo solo un gorgogliante colpo di tosse sotto lo straccio, e battei i tacchi sul legno, ma invano: il gentiluomo che aveva deciso con tanta indifferenza del mio fato si stava già allontanando sulla banchina. Venni rudemente afferrato e fatto oscillare dalle mani dei due come fossi un sacco di patate, poi, in modo altrettanto ruvido, venni depositato sul fondo di una barca che dondolava a fianco dei pali della banchina. L'atterraggio delle forme inerti dei due cadaveri su di me, l'uno dopo l'altro, mi tolse ogni fiato dai polmoni. La barca si inclinò quando i due salirono a bordo. Dietro il cranio di Fexton, i cui scarni e oleosi capelli grigi si erano avviluppati come tentacoli al mio viso, vidi scivolare via l'orlo della banchina e apparire in cielo le stelle. Il mio Caronte stava usando un remo per staccare l'imbarcazione dal palo. — Smettila con quei maledetti gorgoglii e gracidii. — L'altro ruffiano, assiso a prua della piccola imbarcazione, mi assestò un calcio. — Rispar-
mia il fiato. Tra un po' dovrai nuotare. — I tonfi del remo sull'acqua scura creavano un cupo contrappunto al suo iroso ringhio. Il suo compagno stava spostando la barca verso una zona deserta del Tamigi. — Qui dovrebbe andare bene — venne annunciato. — Non penso che ci siano acque più profonde nei dintorni. — Non avremmo dovuto mettere qualche peso? — Il secondo uomo ritirò i remi. — Torneranno a galla, giusto? Una macabra cogitazione. — La corrente è molto forte. Se riemergeranno, sarà chilometri più giù. Riconsiderando le mie goffe azioni all'aurea luce del senno di poi, mi rendo conto che più mi sarebbe convenuto dedicarmi alla preghiera e alla muta contemplazione dell'Eternità, anziché tentare di formulare parole sotto il cencio che avevo in bocca. Supplicai i due; offersi somme favolose per la mia liberazione; li minacciai con legioni di poliziotti; e lo straccio ridusse tutto a un mormorio strozzato. Il peso morto sul mio petto fu più che dimezzato quando gli uomini sollevarono il cadavere dell'Uomo di Cuoio Marrone. — E andiamo, brutto bastardo — disse uno, tra grugniti di sforzo; poi, facendolo dondolare per i piedi e sotto le ascelle, lo lanciarono fuori dalla barca. L'impatto del corpo sull'acqua mi schizzò schiuma sul viso. — E adesso te... — I ruffiani erano d'umore scherzoso quando raccolsero il più lieve peso di Fexton. — Puà! Non ti andava a genio di farti il bagno quando eri vivo, a giudicare dall'odore. Bene, adesso ne farai uno molto lungo, anche se un po' freddo, ragazzo mio. Al tre. Uno... due... Vai! — Un nuovo tonfo seguì il primo. — Parla, parla, parla — mi canzonò uno degli uomini, avvicinando il viso sorridente al mio. — Sei un uomo di molte parole, giusto? — Potrà raccontare tutto ai suoi amici — intervenne l'altro, indicando l'acqua scura del fiume col pollice puntato dietro la spalla. — Non lasciamoci prendere dalla fretta. — I due si accoccolarono rispettivamente alla mia testa e ai miei piedi. Uno mi batté sulla fronte col robusto indice. — A me pare un giovanotto molto gradevole. Proprio molto gradevole. — Ma cosa ti passa per la testa? — Sollevando il capo, intravedevo appena la fronte corrugata dell'altro. — Penso solo che un gentiluomo gradevole come questo, e anche prospero, a giudicare dall'orologio che gli abbiamo tolto... Mi sembrerebbe un peccato buttarlo a mollo senza dargli occasione di esprimerci il giusto tipo
di gratitudine, se ti è chiaro a cosa voglio arrivare. Annuii vigorosamente, sbattendo la nuca ancora dolorante sul fondo dell'imbarcazione, tentando di segnalare con gli occhi che ero in completo accordo con quei sentimenti. — Ti venga un accidenti. — Fu quello il rude commento alla sottintesa proposta. — Qui è questione delle nostre dannate teste... Se lui ha detto che dobbiamo scaricare anche questo, lo scarichiamo, dico io. "No!" urlai, o tentai d'urlare. "Ascolta il tuo amico!" — Non ti agitare. Stavo solo scherzando col povero diavolo. Guarda che occhi enormi ha! Credeva che volessi liberarlo. — Smettila. Qui fa un freddo assassino. Il mio tormentatore mi afferrò sotto le ascelle. — Più che giusto. Mi dispiace, mio bel gentiluomo. Noi due correremo allo spaccio di gin, ma non ci incontreremo te. Mi sentii sollevare in aria dai due. Mi impressero la prima oscillazione, necessaria per farmi superare la fiancata dell'imbarcazione. Mi parve che il mio cervello dondolasse da un lato all'altro della calotta cranica, seguendo i movimenti del corpo. Le stelle divennero una scia confusa, si immobilizzarono in cielo, poi invertirono il proprio moto. L'acqua eruttò attorno a me, eppure, stranamente, mi sentii sollevare nell'aria gelida. Mi resi conto che i due ruffiani, urlanti di terrore, avevano abbandonato la presa sui miei arti e stavano precipitando con me: la barca si era sollevata all'improvviso, rovesciando nel fiume tutti i suoi occupanti. Precipitai in acqua, tagliai in due il sottile velo di nebbia che la rivestiva, e il gelo tenebroso corse a coprirmi il viso. Per un qualche caso, lo straccio venne strappato dalla mia bocca. Già senza fiato, riemersi in superficie, ancora legato a polsi e caviglie. Nella luce fioca, spettrale, vidi la barca rovesciata; la chiglia era ormai un foro spalancato sul nulla. A pochi metri da me, le acque torbide del fiume si gonfiavano di schiuma all'agitarsi delle figure dei due ruffiani. I loro volti si contorsero di paura quando una terza forma, un uomo, si sollevò dietro di loro. Dopo averli afferrati per le spalle, indifferente al mulinare delle braccia, la forma scura li scaraventò nell'acqua, come fossero solo due puntelli ai quali l'uomo si potesse aggrappare per sfuggire al fiume. Mi venne concesso di intravederlo per un solo istante. Nel panico e nello shock che l'improvvisa immersione avevano scatenato in me, vidi il volto dell'Uomo di Cuoio Marrone, terribile e cupo nel riflettersi delle stelle sui tratti bagnati. Con una smorfia rigida sul viso solcato dalle cicatrici, anne-
gò i suoi assassini. Scivolai di nuovo sott'acqua. Il respiro mi arse i polmoni per breve tempo; poi l'acqua si fece ancora più scura, e, appena prima che la mia coscienza si dissolvesse completamente, il freddo ghiacciò il mio stesso sangue. Lentamente, come chi sogna riconosce i contorni del cuscino, mi resi conto di avere il viso premuto su un terreno ghiaioso. Dapprima credetti fosse il fondo del fiume, sul quale mi ero adagiato; i miei pensieri erano solo un ultimo guizzo prima dell'estinzione definitiva, o forse l'inizio di quella nuova, incorporea natura promessa dagli insegnamenti della Chiesa. Sperai confusamente di essere sul punto di raggiungere una dimora più alta. Le mie riflessioni teologiche vennero interrotte da un conato che mi fece versare una considerevole quantità di acqua di fiume sul terreno. Sollevata la testa, mi trovai a rabbrividire nella gelida aria notturna. I vestiti fradici si erano incollati al mio corpo; ne dedussi che non ero ancora morto. In qualche modo ero stato sottratto a quella che doveva essere la mia tomba acquatica e depositato in un luogo relativamente sicuro. Salvezza, se non comodità: il sapore dell'acqua in bocca era ripugnante, e provavo una spiccata nausea per la quantità che ne avevo ingerito durante l'immersione. Inzuppato fino all'anima, e morso dal vento che smuoveva le nubi scure in alto, sarei presto finito con l'avere membra in preda a duri brividi febbrili se non avessi rintracciato in tutta fretta una fonte di calore. Mi rizzai in piedi e scopersi che i miei polsi non erano più legati. Anche le caviglie erano libere. Le corde ancora pendevano dal mio corpo, e tastandole le trovai spezzate in due, non sciolte dai nodi o tagliate. Mi liberai di quei residui e li scagliai via. Sentii i frammenti di corda colpire l'acqua. Inginocchiato sul terriccio umido, vidi che digradava alla riva del fiume. I miei occhi si erano abituati alla tenebra mentre un certo ordine tornava nei miei pensieri. Mi guardai attorno per soppesare la situazione. Ero apparentemente solo. Né i miei rapitori, né le forme inerti delle altre due vittime erano state portate a riva con me. (Il fatto che l'Uomo di Cuoio Marrone fosse stato assassinato era al di là di ogni dubbio. Avevo visto io stesso il cadavere nella stanza di Fexton. Attribuii l'apparizione che aveva accompagnato il rovesciarsi della barca dei ruffiani al momentaneo crollo della mia ragione, dopo che i miei sensi erano stati travolti dalle temibili
circostanze.) Forme scure, i contorni geometrici e gli angoli squadrati di edifici bui, si stagliavano sovrapposte l'una all'altra contro il cielo notturno, a una certa distanza dalla mia precaria posizione. Erano i magazzini, gli uffici dei produttori di candele e di altri generi legati alle attività sul fiume; si intravvedevano diverse navi all'ancora, saldamente fissate ai moli. Tutte apparivano deserte a quell'ora tarda; marinai e portuali si stavano dedicando al sonno o ai baccanali nei locali di loro scelta in città. La speranza che avevo nutrito di urlare per rivolgermi a quelle fonti di aiuto e rifugio venne subito scacciata da un'altra considerazione: il levarsi della mia voce avrebbe potuto segnalare la mia posizione a uno dei ruffiani o a entrambi, poiché era possibile che la corrente li avesse depositati a riva a una distanza al di là della mia immediata percezione. La mia condizione solitaria, compresi ben presto, concerneva solo l'assenza di altri esseri umani. Sentii l'orlo della mia fradicia giacca strattonato da una piccola creatura; poi, quando i suoi denti mollarono la presa, udii un guaito stridulo. Un cane, e per la precisione il terrier male in arnese di Fexton. Ne riconobbi il passo saltellante quando prese a corrermi attorno eccitato, deliziato dalla mia resurrezione. Come era giunto sin lì? La spiegazione più semplice era che avesse seguito il carretto col padrone morto, con la tipica fedeltà della razza canina nei confronti dell'indegna specie umana, e si fosse posto di guardia in riva alle acque che avevano infine inghiottito quel personaggio. Pareva ora che l'affetto del cane si fosse trasferito su di me; forse la sua piccola mente ricordava il mio intervento contro la crudeltà di Fexton. L'apparizione del cane suggerì un rimedio alla mia situazione. Avevo notato, nel distretto di Wetwick, quelli che sembravano i gemelli della creatura intenti a condurre gli abitanti della zona verso un'apparente meta comune: latrati e guizzi simili avevano guidato le rimarchevoli figure. Il cane di Fexton era forse ansioso di riportarmi a un qualche luogo di quel distretto? Di tanto in tanto mi mordicchiava gli abiti e mi strattonava, come tentasse di farmi alzare. Se così era, da Wetwick sarei stato in grado di ritrovare la via di casa. Il mio negozietto e il letto erano le uniche immagini di sicurezza e riposo che il mio cervello gravato di tanta fatica sapesse evocare. — Molto bene. — Parlai ad alta voce; il cane abbaiò in risposta. — Guarda, mi sto alzando. — Barcollai sul terreno scivoloso. — Fammi strada. — Il cane guizzò avanti di qualche metro, poi tornò indietro per assicurarsi che lo seguissi. Così, a passi stanchi e confusi, risalii dalla riva del
fiume che solo poco prima mi aveva imprigionato nei suoi abissi. Il cane mi guidò a una rampa di scalini in pietra scavati nella riva. Mi tirai su aggrappandomi agli anelli d'ormeggio; giunto in cima, fu un sollievo scoprire di nuovo sotto i piedi un solido acciottolato. Su entrambi i lati si ergevano magazzini, a formare uno stretto corridoio. Erano chiaramente abbandonati; i vuoti tra un'asse e l'altra delle porte rivelavano dietro spazi deserti, invasi da ragnatele, e tetti cadenti, aperti sulle intemperie. Seguii barcollando l'abbaiare della mia guida. Un mormorio di voci, debole in lontananza, accelerò il mio passo. Il cane mi trascinò dietro l'angolo dell'ultimo magazzino e vidi, debolmente stagliata dalla fioca luce che filtrava dalle finestre, l'inconfondibile forma di una chiesetta. Era dotata di proporzioni classiche, alla Wren, con un'esile guglia che scavava un solco nello sfondo scuro della notte. Dalla tenebra non sarebbe mai potuto spuntare un rifugio più desiderabile. Un inquietante frammento di ricordo, come se l'edificio suscitasse una dolorosa ricognizione, mi attraversò i pensieri, ma ero troppo prossimo allo sfinimento per pormi interrogativi. Col cane che danzava avanti e indietro tra le mie gambe, mi affrettai verso la costruzione. Giunto più vicino, vidi nei pressi della chiesa una carrozza, e a fianco del veicolo una figura in abiti talari; non ne distinguevo il volto, oscurato dall'ombra proiettata dalle colonne del portico. Lì finalmente avrei trovato soccorso e rifugio dai miei assalitori. Mormorando una prece di ringraziamento, mentre un insieme di sollievo e stanchezza mi privava di ogni forza residua, percorsi disfatto gli ultimi metri di un sentiero coperto d'erbacce e crollai tra le braccia del sacerdote. — Gesù Cristo santissimo — sentii esclamare da una voce stranamente familiare. — Che diavolo ci fai tu qui? Apersi gli occhi e mi trovai a fissare le lenti blu degli occhiali del truffatore e aspirante ladro Scape. La mia antica nemesi. Ora che depongo la penna sullo scrittoio e mi massaggio la fronte corrugata nello sforzo della composizione letteraria, rivedo quel volto dai tratti aguzzi. Un tempo, nel corso della mia infanzia rurale, al vedere un furetto ghermire un topolino da granaio ero rimasto trafitto dall'espressione della creatura che tradiva vile astuzia, feroce avidità, e torva soddisfazione di sé; ed è così che ricordo quell'uomo, meno come "Uomo", più come "Natura": una vivacità priva di riflessione, senza dubbi su se stessa, non più di quanti ne abbia il fulmine che abbatte l'albe-
ro e incendia il campo. E se l'asserzione di Scape, la sua presunta cognizione del futuro, fosse esatta, e un giorno tutti gli uomini dovessero diventare ciò che egli è? (E non abbiamo già visto iniziare questa trasformazione?) Uomini fedeli solo a se stessi, con un'imprevedibile ambizione alimentata dal combustibile della propria intelligenza. Saranno davvero creature temibili. Quel giorno è, lo spero ardentemente, ancora assai lontano. Siedo nel mio piccolo, sicuro rifugio e di nuovo apro il ritaglio tratto da un giornale di Edimburgo che un fedele corrispondente mi ha spedito per sottoporlo alla mia attenzione. L'articolo contiene informazioni su remote comunità delle Highlands scozzesi: un uomo con occhiali dalle lenti blu, sfigurato dall'andatura zoppicante e dalle cicatrici da ustioni (un altro veterano! Tutti noi portiamo le nostre cicatrici, dentro o fuori), è passato tra quella gente, lasciando una turbolenta scia... Restammo entrambi stupefatti. Davanti alla chiesetta alla quale mi aveva condotto il terrier di Fexton, le mie gambe cedettero, e sarei crollato nella pozzanghera d'acqua di fiume che si era formata ai miei piedi se Scape non mi avesse afferrato sotto un'ascella. Il tono delle sue parole rese completa l'incongruenza dell'abito talare. — Merda. Ti ha mandato qui Bendray? Deve essere stato lui. Figlio di puttana. Non mi dice mai una stramaledetta cosa... — Il viso sopra il colletto bianco avvampò d'ira a stento repressa. Non feci nulla per correggere la sua supposizione circa la mia presenza. Le perniciose circostanze mi avevano lasciato troppo a corto di fiato, e con troppa confusione nei pensieri, per evocare parole di spiegazione. Inoltre, non avevo modo di sapere se Scape, già colpevole riconosciuto di un attacco al mio assistente Creff e di un tentativo di furto nel mio negozio, non potesse essere anche in combutta coi ruffiani omicidi che mi avevano depositato nel fiume. Se una qualche confusione insorta tra loro mi forniva momentanea salvaguardia (quel Bendray era un capo dei cospiratori?), ero pronto a non correggere la situazione. Non appena mi fossero tornate le forze e l'attenzione di Scape fosse stata distolta, avrei potuto fuggire di soppiatto. — Cristo, e guardati. — Indietreggiò per esaminarmi. — Sei bagnato fradicio. Hai fatto il bagno o cosa? — Io... Ecco... — Lascia perdere, uomo. — La frettolosa interruzione di Scape rese su-
perflua l'invenzione di una scusa. — Adesso non ho tempo. Le cose qui si metteranno in moto molto presto. — Mi strattonò verso l'ingresso della chiesa. — Vieni. Dentro ti troveremo qualcosa d'asciutto. — Il cane trotterellò al nostro fianco, finché Scape non si accorse di lui. — Sciò. Fuori di qui. — Batté il piede; il cane, con grande riluttanza, si fermò all'esterno. — Maledetti "cani da campana". — Non avevo idea di cosa intendesse dire. Un'altra figura in abito talare si girò verso noi mentre avanzavamo nella navata centrale. Riconobbi la compagna di Scape, la signorina McThane. Si era pettinata i capelli all'indietro per la mascherata, ma aveva trascurato di togliere i pigmenti artificiali applicati al viso, il che le conferiva un aspetto piuttosto singolare e inquietante. Sgranò gli occhi al vedermi. — E lui da dove viene? — Piantala, eh? — Scape, continuando a stringermi per il braccio, mi spinse avanti più in fretta. — Bendray gli ha raccontato tutta la faccenda. — La sua mente agile, sempre impaziente di fronte ai meri fatti, aveva incorporato l'erronea conclusione in un quadro generale. — Ti ha mandato qui per aiutarci con questa cosa, giusto? — Mi guardò per avere conferma. — Io... — Appunto. — Mi spinse avanti. — Dai, dobbiamo muoverci. Quegli stronzi dall'aria strana arriveranno da un minuto all'altro. Ci sono ancora un po' di queste vestaglie da pezzo grosso in... come si chiama? In sagrestia, già. Ti spiace farlo vestire? Io vado a prendere il resto della roba. — Scape girò sui tacchi e ripartì veloce nella navata. La signorina McThane, sorridente, mi prese a braccetto. — E come no — disse. — Gesù, sei tutto bagnato. Non preoccuparti. Ci penso io. Ero ancora troppo debole per opporre resistenza quando mi guidò verso una porta laterale, a fianco dell'altare. Pochi attimi dopo mi trovai in una stanza fiocamente illuminata. Nell'aria stagnava l'odore di muffa che è tipico degli spazi rimasti chiusi troppo a lungo. La signorina McThane chiuse la porta e si appoggiò al legno, studiando la mia figura esausta e gocciolante. — Tieni. — Prese una lunga veste da sacerdote da un gancio alla parete, sollevando una nube di polvere grigia, e la depositò sullo schienale di una cadente sedia. Mi si avvicinò, slacciò destramente i bottoni del mio panciotto, poi quelli della camicia fradicia. Mi si bloccò il respiro in gola quando ella depose la mano chiara sulla pelle nuda del mio petto. — Sei quasi congelato — sussurrò. Io rammentai il suo sorriso dall'episodio nel mio negozio. — Sarà meglio scongelarti...
Indietreggiai. Feci cadere un candeliere e una fila di ammuffiti breviari. — Non è... non è necessario — ribattei debolmente. — Le assicuro che posso cavarmela da solo, grazie... Le mie vie di fuga vennero sbarrate dai detriti ammassati nella stanzetta. La signorina McThane, avanzando intrepida, mi aveva ben presto chiuso in angolo tra un piccolo organo e una panca capovolta. Negli occhi della mia persecutrice brillava una conturbante avidità. L'organo emise un ansito disperato quando mi appoggiai all'indietro, depositando la mano sulla tastiera ingiallita. La voce della ragazza fu un osceno contrappunto in pianissimo: — E dai, figlio di puttana... Il tendaggio alle mie spalle, che credevo coprisse una parete, si aprì, e così precipitai sul pavimento di una piccola nicchia. Sopra di me, quando alzai lo sguardo, incombeva un volto che fece tremare il mio cuore più ancora di quello della signorina McThane: il viso liscio, in porcellana e cera, di un corista meccanico. Un occhio azzurro, sgranato, mi fissava; l'altro era sigillato da una molla arrugginita, come si stesse facendo beffe della mia tutt'altro che dignitosa situazione. La signorina McThane era china sulla preda, ma io quasi non notavo più la sua presenza. Con un orrore che cresceva a ritmo vorticoso, mi resi conto di dove mi trovassi, e del perché la chiesetta mi fosse parsa così stranamente familiare. In passato, ero stato lì una sola volta, ma il terrore che quell'occasione aveva generato aveva inciso per sempre l'aspetto dell'edificio nella mia memoria. Dal fiume ero stato condotto direttamente al portale di Saint Mary Alderhyte, il luogo della disastrosa, addirittura blasfema resurrezione degli Automi Clericali Brevettati di Dower. Quella che avevo preso per una tenda era in realtà la veste del corista la cui ingannevole faccia da cherubino mi fissava sorniona. Sollevandomi su un gomito e torcendo il collo riuscii a vedere un'intera fila di creature meccaniche, allineate nella nicchia come soldati in parata. Sotto di me c'era il binario d'ottone che correva sul pavimento della chiesa per guidare i manichini canterini nel loro circuito del luogo sacro. Un fato beffardo mi aveva riportato al luogo dove la mia presuntuosa incompetenza aveva scatenato scene di caos meccanico. E l'evento, oltre a essere un ricordo doloroso per me, era anche fonte di rabbioso odio da parte di individui come il pastore azzoppato, divenuto tale dopo quell'orribile sera, che mi aveva inseguito armato di bastone solo il giorno prima. — Buon Dio. — Rialzai la testa, stordito. — Tutto ciò che temevo mi è piombato addosso.
— Cristo santo. — La signorina McThane si inginocchiò e strinse nei pugni delicati la mia camicia. — Non andrà poi così male. Senti un po'... In quel momento, la porta della sagrestia si spalancò. La luce della chiesa ci piovve addosso. — Non adesso — disse Scape, vedendoci. — Accidenti a te. Lo puoi fare dopo. Dobbiamo preparare la fetentissima chiesa. — Gettò sul pavimento una borsa dalla forma bizzarra che si aprì immediatamente, rovesciando il proprio contenuto. — Muoviti — ordinò, e uscì. La signorina McThane si alzò, risistemò dietro le orecchie alcune ciocche vagabonde di capelli castani. — La prossima volta — mi assicurò, lisciandosi l'abito talare. Raccolse gli altri indumenti e me li lanciò. Dopo che scomparve per unirsi al suo ladresco compagno, completai in fretta la svestizione che ella aveva iniziato e indossai le vesti sacerdotali che sapevano di muffa. L'umidità e il gelo dei miei abiti mi erano entrati nelle ossa. Fuggire da quel luogo sventurato sarebbe stato facile sotto un travestimento da sacerdote peripatetico, non certo più difficile di quanto potesse essere a un quasi cadavere che, in preda ai brividi e agli sternuti, si avventurasse per le strade notturne. La fuga era ora più che mai al centro dei miei pensieri. Mentre sistemavo attorno al collo un colletto grigio di polvere, delineai l'essenza della mia difficile situazione. Non avevo dubbi sul fatto che Scape intendesse usare la chiesa di Saint Mary Alderhyte per qualche scopo criminale, anche se non tecnicamente sacrilego, poiché l'edificio era stato sconsacrato in tutta fretta dopo le mie ignominiose esperienze lì. (Avevo già percepito, a quello stadio iniziale della nostra conoscenza, che nessuna delle attività di Scape era esente da intenti illeciti.) Stavano "preparando la chiesa": per chi? Quale rito era previsto? Non pareva avesse qualcosa a che fare con gli Automi Clericali che mio padre aveva costruito e installato lì. Investigai ulteriormente tra le varie nicchie della stanza e scopersi tutte le figure, alcune con ragnatele che riempivano gli angoli dei loro arti meccanici, rimaste indisturbate dopo la catastrofe che le mie maldestre attenzioni nei loro confronti avevano provocato. Inciampai nella borsa che Scape aveva depositato al centro del pavimento. Chinandomi, vidi che conteneva volumi coi dorsi logori per l'uso: erano i breviari e i libri d'inni della chiesa, come raccolti da un bibliofilo ladro e nascosti lì. Cominciai a chiedermi se le azioni di Scape non fossero magari governate più dalla follia che dalla disonestà. Quando affacciai la testa dalla porta della sagrestia, nella speranza di vedere un sentiero sgombro fino all'ingresso della chiesa e alla libertà delle
tenebre, venni invece avvistato da Scape che stava frettolosamente trasportando nella navata centrale un'altra borsa. Mi fece cenno di raggiungerlo. — Hai un'aria chic, amico. Sul serio. — Appoggiò la borsa alla stoffa della mia veste talare. — Comincia a sistemare questi, okay? — Prego? — chiesi. Volevo fargli continuare a credere di essere stato reclutato da qualcun altro in quella cospirazione, per meglio sopire i suoi sospetti e potermela squagliare indisturbato alla prima occasione, ma il suo rapido discorso mi sfiorò e s'involò prima che riuscissi a comprenderlo. — Le panche, uomo... — si girò a urlare, già balzando verso il portale della chiesa. — Mettili sulle panche! Apersi la borsa e trovai dentro altri libri. Ma non di natura religiosa: nelle più svariate edizioni e in una miriade di stati d'usura, tanto da indicare che erano state recuperate in tutti i negozi di libri usati di Londra, quelle erano copie di Il manuale del perfetto pescatore all'amo di Izaak Walton. Per un attimo dubitai non tanto della sanità mentale di Scape, quanto della mia. La natura onirica delle mie avventure si impose di nuovo alla mia attenzione; gli eventi erano divenuti da enigmatici a ridicoli, come accade quando le visioni del nostro sonno precipitano verso un confuso finale e ogni somiglianza con la realtà dello stato di veglia svanisce. Stavo per alzare la testa dal cuscino, battere le palpebre alla luce del sole, non trovare (con sollievo) alcuna traccia di strani visitatori e disastrose escursioni? Mi sarebbero state restituite la mia esigua colazione e la placida esistenza? L'idea era confortante. Sollevai lo sguardo dal volume strapazzato che avevo in mano. Con la coda dell'occhio avevo visto che la signorina McThane stava sistemando qualcosa sull'altare. Il finto sacerdote sorrise e con la mano mi fece un segnale che consisteva nell'unire pollice e indice sino a formare una O. Me ne sfuggì il significato. Mi voltai e, obbedendo alle istruzioni di Scape, cominciai a distribuire il Manuale. Trascinai la borsa tra le panche e sistemai una copia del tomo di Walton in ogni scaffaletto ligneo o, quando questo mancava, direttamente sul sedile. Avevo appena concluso l'incarico quando sentii un'altra carrozza arrivare all'esterno della chiesa. Con la borsa vuota che penzolava da una mano, tornai alla navata centrale, dove mi imbattei in un gesticolante Scape in compagnia di un altro uomo. Quest'ultimo era un gentiluomo notevolmente ingrigito e smagrito dall'età. La sua snella figura era nobilitata dall'elegante, per quanto antiquato, taglio del vestito e dal portamento fiero, evidente nel passo e nell'angolazione della testa. Mi scoccò un'occhiata sbri-
gativa nell'incrociarmi, come il lord del maniero che passi in rassegna la servitù; intanto ascoltava distrattamente la volubile descrizione di Scape dei preparativi approntati. — Questa è fatta — disse la signorina McThane al mio fianco. — Speriamo che al vecchio bastardo piaccia. — Mi girai a guardare verso il punto dove lei si era data da fare mentre io distribuivo i libri, e vidi che l'altare, alla maniera delle chiese rurali che mettono in mostra gli esempi più notevoli dei prodotti agricoli dei parrocchiani al tempo del raccolto, era adorno di attrezzature da pesca. Sogno su sogno; mi stordì assai scoprire che altre salmerie della pesca erano state disseminate in chiesa, sotto ogni finestra e attorno ai telai. Non appena ebbi percepito quella bizzarra trasformazione della chiesa, dall'esterno giunse un mormorio di voci. — Andiamo! — urlò Scape, schizzando nella navata. Afferrò me e la signorina McThane per un braccio e ci spinse verso la sagrestia. — Sono qui. Bendray dice che l'effetto sarà migliore se non ci vedranno subito. Poco dopo ci installammo nel buio della sagrestia. Scape sbirciava fuori dalla porta socchiusa. Alle sue spalle, riuscivo a vedere sopra la sua testa: l'anziano gentiluomo (il misterioso Bendray, presumevo) attendeva all'ingresso della chiesa. La signorina McThane, facendo sfoggio di ogni possibile manifestazione di noia, si era accomodata sulla panca dell'organo e stava studiando le condizioni delle proprie unghie. — Arrivano — sussurrò alla fine Scape. — Cristo, che branco ripugnante. Mi danno i fottuti brividi. Li vidi, intenti a scrutare con apprensione oltre il portale aperto. L'anziano gentiluomo sollevò le braccia in un gesto di benevolo benvenuto. Lentamente, con occhiate ansiose all'interno della chiesa, gli strani residenti del distretto dove ero stato scaricato all'inizio di quell'incubo entrarono, coi cappelli in mano. Era arrivata la gente di Wetwick. — Ma guardate quei coglioni con gli occhi da insetto. — Scape, continuando a scrutare dal pertugio, scosse la testa. — Wow. Adesso si stanno eccitando, come no. Dalla mia posizione, proteso sulla sua schiena china, vedevo Bendray aggirarsi con fare grandioso, distendere ancora di più le braccia, chiaramente invitando la folla dagli occhi sporgenti a ispezionare lo stato della chiesa. Alcuni residenti di Wetwick si erano già insinuati tra le panche e avevano raccolto, eccitati, copie di Il manuale del perfetto pescatore all'amo dagli scaffali per i libri d'inni. I loro occhi straordinari divennero an-
cora più grandi quando i volumi presero a circolare. Altri, con strilli dal bizzarro accento, avevano scoperto le attrezzature da pesca disposte in vari punti a mo' di drappeggio; i sussulti vocali crebbero quando gli ami vennero alzati davanti a ogni singolo volto. Ben presto la chiesa si riempì delle loro voci. Un gruppo si mise a correre verso l'altare decorato dalla signorina McThane. Scape chiuse la porta. — Il vecchio Bendray non avrà bisogno di noi per un po' — disse, raddrizzandosi. — Pare che stia riuscendo a trasmettere il suo punto. Desideravo ardentemente chiedere quale fosse quel punto, ma mi trattenni. La prossimità dei cospiratori mi imponeva di proseguire la recita. Mantenni un silenzio discreto mentre Scape passeggiava avanti e indietro nei ristretti confini della sagrestia, grattandosi la schiena. — I maledetti libri erano pesanti — borbottò. — Più tutta quell'altra robaccia. Dovrei chiedere un extra al vecchio caprone per i rischi professionali. — Gesticolò in direzione della signorina McThane e di me. — Prendetevela calma, ragazzi. Mi sa che dovremo restare qui finché la brigata degli occhi da pesce non avrà finito. La signorina McThane alzò lo sguardo su di me, sorrise prima di tornare a fissare in silenzio il suo compagno, poi riprese a studiarsi le unghie. Io indietreggiai il più possibile da lei nella stanza troppo piena di cose. — Ehi, cos'è questa roba? Mi voltai e vidi che Scape aveva scoperto la nicchia dietro l'organo. Sotto i miei occhi, estrasse uno dei coristi meccanici facendolo scorrere sul binario d'ottone. — No! — urlai involontariamente. — Non... Cioè... Non penso che lei dovrebbe armeggiare con quello. Indifferente al mio avvertimento, egli si chinò a esaminare il congegno. — È roba del tuo vecchio, eh? — Mi guardò un istante, poi riportò l'attenzione sul manichino del corista. — Bestiale. — È... molto delicato. — Mi feci avanti e gli deposi una mano sul braccio. — Estremamente delicato. Ritengo sarebbe meglio se lei si astenesse... — Fottiti. — Mi scrollò via, poi si chinò a guardare più da vicino. Le sue mani avevano già trovato il piccolo pannello sul retro e lo avevano aperto. — Avevo una voglia matta di mettere le zampe su uno di questi. — La prego... La imploro. — Atroci ricordi alimentavano la mia ansietà. — Desista... — Lascia perdere — mi disse la signorina McThane. — Impossibile
fermarlo quando trova un giocattolo nuovo. — Con espressione disgustata, scrutò Scape che proseguiva le esplorazioni nella nicchia del corista. — Perfetto. — La sua voce giungeva smorzata dagli abissi dietro la fila di manichini. La fiamma di un fiammifero di sicurezza proiettò la propria ombra verso di me. — Penso di avere trovato i comandi. Era vero. Riconobbi l'insieme di leve e ingranaggi dall'ultima volta. Senza dubbio l'apparato era ancora nello stato di erronea regolazione nel quale lo avevo lasciato io; vedevo che la grande molla principale era ancora avvolta a spirale. Smisi di contorcere le mani e afferrai il retro dell'abito talare di Scape, per allontanarlo dal macchinario. — Non deve — urlai. — I congegni sono mal regolati e non funzionano a dovere... Lui si liberò di me con notevole violenza. Mi scaraventò a gambe levate sul pavimento. La sua fronte si corrugò d'ira sopra le lenti blu. — Sono anni che studio gli aggeggi del tuo vecchio — disse secco. — Non c'è niente che non sappia sul loro conto. Feci un altro tentativo di allontanare la tragedia. Lo afferrai alle ginocchia. Scape barcollò all'indietro e, in cerca di un punto d'appoggio, si aggrappò alla leva centrale. — Attenzione! Animandosi sotto uno strato di ruggine, la leva si mosse ad arco, sollecitata dal peso di Scape. Per un momento ci fu silenzio, poi uno smorzato, inconfondibile tic. La nostra zuffa cessò, con Scape supino sul pavimento della nicchia e io piegato sopra di lui. Torcemmo entrambi il collo a guardare il macchinario dietro noi. Un altro tic, e il gemito del metallo che si spostava da una posizione rimasta fissa per troppo tempo. I suoni si fecero sempre più forti e caotici. Gli scappamenti e i denti d'arresto dell'apparato si stavano risvegliando alla loro spuria vita. — Cristo onnipotente... — Scavalcai la forma del mio avversario e afferrai la leva. Resistette a tutti i miei sforzi; non avrei ottenuto risultati migliori se, a mo' di novello Sansone, avessi preso a premere le mani sulle pietre della chiesa nel tentativo di far crollare l'intero edificio sulle nostre teste. La fila di coristi meccanici si mosse. Gli arti cigolarono sotto le vesti, i volti di porcellana ruotarono sopra i colletti. Alla maniera del gufo, la testa del primo corista eseguì una rotazione completa su se stessa. Gli occhi di vetro ci scrutavano con aria beata. Le ruote impeciate che mio padre aveva installato nella gola del congegno si misero in moto. — Glo...ri...a — cantò l'automa, in un tremulo acuto.
Scape si rialzò e si unì a me negli sforzi sulla leva. — Dobbiamo spegnere questo affare prima che quei mostri che stanno in chiesa lo sentano. — I nostri tentativi non valsero a nulla. La leva rimase al suo posto. Scricchiolii risuonarono dalle altre nicchie lungo il perimetro della sagrestia: il resto dei congegni di mio padre si stava risvegliando dal sonno rugginoso. Guardandomi alle spalle, vidi un prete dai capelli bianchi emergere all'aperto nella stanza. La figura era assolutamente realistica, a parte il maniacale roteare degli occhi di vetro e la mano che ripeteva la benedizione sopra l'organo. — E con lo spirito tuo — disse; o meglio, lo dissero le ruote all'interno della sua gola. — Bello spettacolo — disse la signorina McThane. Il suo sarcasmo ebbe vita breve: fu costretta a sottrarsi alla benedizione del sacerdote a orologeria, che ora ruotava a velocità tale da sollevare l'orlo della veste, come fosse un derviscio. La luce invase la stanza quando la porta, anch'essa collegata al macchinario, si spalancò. Molti residenti di Wetwick rimasero a bocca aperta davanti all'improvvisa apparizione. I coristi oscillarono avanti e indietro sul binario metallico, poi cominciarono a dirigersi verso gli spettatori. Dalle gole di porcellana usciva uno stonato canto latino. — Ferma quelle merde. — Scape mi spinse via e afferrò la veste dell'ultimo corista della processione. La stoffa ormai marcia si lacerò, mettendo a nudo le ticchettanti armature e gli ingranaggi rotanti del congegno, che proseguì. Scape si avvinghiò a un albero in ottone, ma riuscì solo a danneggiare la testa da cherubino che crollò di lato sulla spalla e continuò a gemere in basso profundo. Il prete smise le sue piroette e seguì il coro. I residenti di Wetwick erano ora tutti all'erta per il frastuono e la confusione. Smisero di sbirciare coi loro occhi sporgenti le copie del Manuale del perfetto pescatore all'amo e scrutarono stupefatti il disordinato ingresso degli automi in chiesa. I macchinari, ormai ridotti a un tale stato di decadimento, sussultavano con raccapricciante violenza. Le azioni dei coristi erano ulteriormente peggiorate dal fatto che l'abito talare di Scape si era impigliato nei meccanismi messi a nudo dell'unica figura con la quale egli aveva tentato di interferire: sventolando le braccia, rosso in viso per la vigoria delle imprecazioni che andava urlando, Scape, riverso sulla schiena, veniva trascinato via dal coro. I terrorizzati spettatori si dispersero, calpestandosi a vicenda nella fretta di sfuggire a quell'apparizione. La signorina McThane, coi lunghi capelli in totale scompiglio, strattonava il suo compagno nel futile tentativo di soccorrerlo. Da una posizione di relativa sicurezza sulla soglia della sagrestia rimirai
Bendray, che a mani levate e con voce tremante tentò dapprima di riportare ordine tra i fedeli in preda al panico. Rinunciò ben presto allo sforzo e, saggiamente temendo per la propria pelle, scivolò fuori dal portale. Pochi attimi dopo, la grande massa degli abitanti di Wetwick si affollò all'uscita. Tutti si aggrappavano a spalle e braccia altrui in una lotta disperata, e la folle energia del loro gruppo fece in modo che praticamente nessuno riuscisse a guadagnare le tenebre esterne. Fra le pareti di pietra, echeggianti di urla di terrore e di striduli suoni metallici, la carneficina si era trasformata in un incubo anche peggiore di quell'unica occasione del passato, quando io avevo tentato di far eseguire ai congegni di mio padre i movimenti previsti. Trainando a rimorchio l'esagitato Scape, il coro aveva raggiunto le proprie posizioni, ma si era diviso in varie fazioni, come se gli automi avessero litigato sul modo migliore di procedere col rito. Un gruppo di manichini pareva intenzionato a dare vita a un'altra processione, e all'uopo aveva fatto dietrofront, andando a scontrarsi con gli altri che procedevano sul binario guidati da un macchinario impazzito. Le imprecazioni di Scape si mescolavano alla cacofonia degli inni cantati all'unisono. Lo strillo delle voci artificiali si fece ancora più acuto quando le ruote impeciate presero a girare sul nudo metallo. Due teste di porcellana cozzarono l'una contro l'altra come in un combattimento di montoni; si creparono e cominciarono a spruzzare in chiesa frammenti di facce da cherubini, assieme alle molle e agli ingranaggi che stavano sotto. I coristi decapitati proseguirono la lotta a livello del torace; una vetrata della chiesa, sotto l'impatto di uno di quei missili, si dissolse in una pioggia multicolore di frammenti. Simultaneamente, il prete, intento a eseguire il ciclo di doveri che mio padre aveva programmato nei suoi meccanismi, si era impigliato nelle attrezzature da pesca sparse sull'altare. Trascinandosi dietro fili e ami, afferrò una povera creatura che era rimasta paralizzata dal terrore allo stato puro. La brutta faccia di Wetwick si imbruttì ancor più quando il prete trascinò l'uomo al fonte battesimale e ve lo immerse. Un diluvio d'acqua, sollevato dalle braccia esagitate dell'uomo, si abbatté sul volto dolce e sorridente del prete a orologeria; ma non gli impedì di recitare il suo appello per le donazioni al fondo destinato alla risistemazione di una campana. Quegli spettacoli assicurarono agli abitanti di Wetwick di essere stati attirati nella chiesa come vittime designate di gravi mutilazioni. Raddoppiarono gli sforzi per aprirsi un varco con la forza tra i compagni e uscire. Anche i loro urli gorgoglianti crebbero di volume, come li stessero già as-
sassinando en masse. Nessuno puntava la propria attenzione su di me. La saggezza dell'idea di lasciare quel luogo risultava ora anche più apparente. Scivolai tra le panche vuote sino alla vetrata frantumata dai frammenti in porcellana della testa del cherubino. Le voluminose pieghe dell'abito talare mi protessero le mani quando mi arrampicai sul grosso davanzale in pietra; poi balzai giù, atterrando su un folto tappeto d'erba. Raccolsi tra le mani l'orlo della veste nera e mi tuffai nel buio, lontano dal caos strillante e rimbombante della chiesa. Correndo con l'unica idea di mettere distanza tra me e l'orribile scena, poco dopo entrai in collisione col recinto in ferro che circondava il sagrato. Trovai un cancello laterale che si socchiuse sotto la mia spinta. La libertà e la sicurezza delle strade buie erano a portata di mano; mi infilai nella stretta fessura e venni afferrato da robuste paia di mani a entrambe le braccia. — Chi è costui? — La lampada venne sollevata in aria, e nel bagliore scorsi due poliziotti che esaminavano con aria severa il mio volto. — Come prete, lei ha un aspetto ben singolare. Mi resi conto di apparire probabilmente molto sospetto, paonazzo e senza fiato, con la veste stracciata e in disordine. Ansimai poche sillabe senza riuscire a collegarle tra loro in parole di spiegazione. — E cosa succede là dentro, fra l'altro? — Un poliziotto sollevò la lampada a indicare la chiesa. Girando la testa, vidi le vetrate illuminate. — Venga, lei. Andiamo a dare un'occhiata. — No! — urlai. Tentai vanamente di liberarmi da chi mi aveva catturato. — Non andate là... — Oh. No, eh? Là sta succedendo qualcosa che preferirebbe non farci vedere, eh? Alla buon'ora. Andiamo a vedere cosa stavate combinando lei e i suoi compagni. — I due sollevarono quasi del tutto i miei piedi dal terreno e presero a trascinarmi verso la chiesa. L'edificio era muto quando i poliziotti mi depositarono davanti al portale. All'esterno non si trovava alcuna carrozza. I poliziotti spalancarono il portale e assieme scrutammo lo spazio vuoto all'interno. Vale a dire, vuoto di presenze umane. Scape, la signorina McThane e gli abitanti di Wetwick erano tutti migrati, dopo essere finalmente riusciti a trovare la via di fuga per la notte. Tutto ciò che restava, per lo stupore dei miei occhi e la stupefazione dei poliziotti, erano le macerie degli Automi Clericali di mio padre. Nel mezzo delle attrezzature da pesca sparse intorno, tra le copie dell'Izaak Walton scaraventate per ogni dove dalle mani
degli abitanti di Wetwick in preda al panico, i coristi giacevano aggrovigliati tra loro come su un campo di battaglia di una guerra tra giovinetti. Le loro voci stridule erano ormai silenti; i visi di porcellana, o almeno quelli ancora intatti, scrutavano il soffitto con la serenità delle guance rosee. Il prete meccanico ciondolava nella sua posizione davanti all'altare; nella molla principale restava ancora la forza necessaria per indurlo agli ultimi frammenti della sua liturgia. Alzò una mano rigida, lisciò i capelli bianchi su un lato del benevolo viso sorridente. — Pax vobiscum — annaspò. — Fiera di beneficenza. — Poi si rovesciò. Alzai gli occhi sui poliziotti, che proprio allora stavano volgendo lo sguardo su me. Erano muti, esterrefatti dall'enormità dei miei crimini blasfemi. 7 Il signor Dower lascia la capitale Dei dettagli della mia traduzione in carcere ho scarso ricordo. Forse l'ignominioso shock di venire affidato alle autorità si era combinato con la fatica cumulativa che gravava sulla mia costituzione, alterando temporaneamente l'equilibrio della mia ragione. Ricordo una voce vagamente simile alla mia rispondere alle domande che mi venivano poste, anche se da lontano, come stessi udendo una conversazione da strada con scarso interesse. I volti aggrottati e critici dei guardiani della Legge mi sfilarono davanti, ma anch'essi erano remoti. Da un angolo leggermente più in alto li sentii recitare il sorprendentemente lungo elenco di misfatti attribuiti alla mia persona (in primo luogo, la profanazione di un luogo sacro e un comportamento criminosamente blasfemo) e udii i loro accigliati commenti sulla mia mancanza d'attenzione, come fossero facchini di Smithfield intenti a descrivere una carcassa bovina particolarmente repellente. Solo quando venni infine sistemato in una cella, completamente solo su una fredda lastra di pietra che sporgeva da una parete umida, iniziai a rendermi conto che la natura onirica delle mie esperienze si era corrosa, svelando la dura realtà che stava sotto. L'oscura cella era vera, e altrettanto lo era la mia presenza lì; una cosa fornita di occhi luminosi e zampette morbide mi scrutò da un foro di scolo al centro del pavimento prima di correre via. Sentivo qualcuno vicino a me cantare con la foga inarticolata dell'ubriaco; la voce echeggiò tra le mura finché il tonfo di un manganello di legno che si abbat-
teva sulla carne produsse un urlo di dolore e il successivo silenzio. Grazie a varie follie avevo raggiunto quel nadir. Mi avvolsi il corpo tra le braccia per respingere il gelo dell'aria fetida della galera, e col mento abbassato sul petto contemplai le mie miserie. A un certo punto, anche se non sapevo quante ore di prigionia fossero trascorse, la pesante porta si aprì cigolando ed entrò un carceriere munito di chiavi che pendevano da un anello; gettò un fagotto sulla panca al mio fianco e si ritirò senza parlare. Mi alzai a indagare e scopersi che si trattava di miei abiti. La spiegazione del loro arrivo lì venne fornita dall'apparire del viso del fedele Creff dietro la piccola grata della porta; tendeva il collo a guardare dentro, come costretto a stare in punta di piedi nel corridoio esterno. — Signor Dower, signore — esordì. — Mi hanno detto... — La consolazione del suo volto familiare svanì. Sentii il carceriere ordinargli di andarsene. — Ehi, lei... — La sua voce si spense sotto ulteriori sollecitazioni. — Attento a quel che fa con quel manganello. Guardia impudente... Smisi il malconcio abito talare e mi rivestii. L'eleganza discreta del mio secondo abito migliore restituì dignità al mio aspetto, anche se fece poco per lo spirito. Traevo un qualche conforto dal pensiero di poter se non altro attendere il fato che mi era riservato abbigliato da gentiluomo, non più travestito da falso sacerdote. Non dovetti aspettare a lungo. La porta si riaprì, proiettando un cuneo di luce negli oscuri confini della cella. Mi girai e incontrai non la stolida figura del carceriere, ma quella di Scape. Anch'egli si era liberato della veste sacerdotale; lo vidi tornato all'esuberante ricchezza del primo incontro con lui nel mio negozio. Nella tenebra della cella, i suoi occhiali a lenti blu parevano due fori vuoti e vacui scavati nel viso pallido. — Alzati, Dower, vecchio mio. — Sorrise e agitò il bastone in un gesto teatrale, come fosse sul punto di dirigere un'orchestra sinfonica nell'ouverture di un'opera lirica. — Forza, preparati ad azzannarli. L'ora della tua libertà sta per suonare. L'apparizione di quella figura, ormai identificata dalla mia mente come portatrice di tutte le tribolazioni che mi erano piombate addosso, depresse ulteriormente il mio spirito. — Se ne vada — risposi, raggomitolandomi sulla panca. — Non mi ha già procurato dolori a sufficienza? — Dolori? Ehi, su con il morale... Ignorai la sua protesta. — I motivi che la spingono qui non rivestono alcun interesse per me. Preferirei restare indisturbato ad attendere la sentenza che la corte riterrà opportuna. — Stoico, col poco di dignità che mi ri-
maneva, distolsi il volto dalla porta. Le mie parole suscitarono uno sbuffo irridente di Scape. — Già. Lascia perdere tutte quelle stronzate. Abbiamo già provveduto. Il vecchio Bendray ti ha pagato la cauzione, per così dire. Ha più fili da tirare del lord medio. Sarai affidato alla sua custodia. È per questo che sono venuto a prenderti. Quindi, l'apparente architetto delle mie peripezie, o almeno di una buona parte d'esse, era davvero Lord Bendray. Il titolo non mi era più riconoscibile di quanto lo fosse il nome. Non riuscivo a immaginare per quale motivo un membro della nobiltà potesse essere coinvolto nell'assurdo vandalismo ai danni di una chiesa, cosa della quale al momento ero falsamente accusato io; nessun motivo al di là della follia pura. Forse quel Lord Bendray apparteneva alle linee ereditarie, delle quali tanto si chiacchierava, nelle quali generazioni di accoppiamenti tra consanguinei e stravizi avevano prodotto una debolezza cerebrale congenita? In ogni caso, non desideravo intrattenere ulteriori rapporti con lui, per quanto stesse usando come esca la mia stessa libertà. Stavo per sottolineare quel punto a Scape quando vidi che la creaturina che mi aveva fissato coi suoi occhi luminosi dal foro di scolo si era fatta tanto audace da studiare la punta del mio stivale con le zampette nude. Scappò via quando io, con un brivido involontario, balzai su dalla panca. — Così va bene — disse Scape, unendo il suo braccio al mio. — Puoi fidarti di noi. Sul serio. — Mi spinse verso il corridoio mal illuminato. — Ma... — Le mie proteste morirono; l'oscurità della cella mi mise in mano al nemico. Il carceriere, ora notevolmente più rispettoso, depositò tra le mie braccia un fagotto legato con lo spago. Mentre ci guidava fuori, riconobbi i miei vestiti, ancora bagnati, recuperati dalla chiesa di Saint Mary Alderhyte. Tastando con l'indice, sentii la forma circolare della moneta di San Lofio dentro il panciotto ripiegato. Uscito dal cupo edificio, rimasi a scrutare, socchiudendo gli occhi, la luce del sole mattutino: avevo disperato di poter riuscire a rivederla in diversi momenti della mia avventura notturna. Scape aprì lo sportello di una carrozza, la stessa che avevo visto all'esterno di Saint Mary Alderhyte, e mi guidò a bordo. Non appena mi fui seduto, mi resi conto che c'erano altri passeggeri sul veicolo. Di fronte a me sedevano l'enigmatico Lord Bendray e, restituita alla sua raffinatezza femminile, la signorina McThane. Riuscii non so come a ignorare i segnali delle sue ciglia abbassate e del leggero
sorriso. Scape si accomodò al mio fianco, e la carrozza si mise in movimento. Guardai fuori dal finestrino, scrutai la sfilata delle strade londinesi. Uno spazzino con una gamba sola si tolse dalla nostra rotta e si toccò il cappello in segno di rispetto; venditori ambulanti d'ogni tipo stavano sistemando le mercanzie per le ispezioni dei clienti; gli edifici e la popolazione della città avevano riacquistato l'apparente realtà della quale la vertiginosa notte li aveva derubati. Quel luminoso mondo diurno era parso un mero fantasma, qualcosa che esisteva solo nella fallacia dei ricordi, quando le acque scure turbinavano sopra la mia testa, o quando ero fuggito da una chiesa al cui interno fisionomie ittiche fissavano orripilate un ticchettante prete con tanto di coro; ora, mentre cercavo di rammentarli, quegli eventi notturni si fondevano in un ammasso confuso. Ero troppo esausto per dividere il reale dal falso: la sanità mentale consiste spesso nel sapere a cosa non si debba pensare. Mi distolsi dalle mie affannate riflessioni quando, con le mani cosparse di macchie marroni serrate sull'impugnatura del bastone, Lord Bendray protese verso di me il viso cadaverico. — Volevo esprimerle il mio più profondo apprezzamento — disse, nel tono tremulo del settantenne. — Per essersi assunto ogni responsabilità relativa al nostro piccolo, ah... intrattenimento ecclesiale. Eh, eh, eh. — L'entusiasmo per la sua stessa battuta provocò uno spasmo di tosse che durò quasi un minuto. Si tamponò le labbra sporche di catarro con un fazzoletto prima di riprendere a parlare. — Ho sempre ricevuto eccellenti servigi da Dower senior, ma non mi sarei mai aspettato tanta fedeltà anche dal figlio. Proprio non sapevo a cosa si riferisse; non avevo mai visto il nome Bendray in uno dei libri contabili di mio padre. In quanto agli eventi notturni verificatisi a Saint Mary Alderhyte, mi pareva ora che il percorso più saggio fosse dissociarmene proclamando la mia ignoranza sugli intenti che potevano celare, ammesso che ve ne fosse qualcuno. — Mi spiace, vostra Signoria — dissi freddamente. — Non... Il gomito di Scape si era affondato tra le mie costole, facendomi espellere tutto il fiato e riducendomi così al silenzio; le pieghe del suo soprabito avevano celato il colpo. Mi girai a guardarlo in volto e vidi, sotto le lenti blu, la minaccia di ulteriori violenze. Scape si voltò verso Lord Bendray. — In galera, quando sono andato a prenderlo, il signor Dower mi ha detto di essere piuttosto esausto. È stata una lunga notte, per lui. Quindi al momento non se la sente di discutere
della situazione. — Scape rivolse su di me il suo sorriso ingraziante, e lo tenne immobilizzato lì. Io frenai la lingua. Lord Bendray non si era accorto di nulla. — Un vero peccato — disse, appoggiandosi al sedile in pelle imbottita. — Spero allora che accetterà l'invito alla mia dimora di campagna. Vedrà che è un ambiente molto riposante, Dower. E, ovviamente, ci sono tante questioni delle quali dovremmo riuscire a discutere con agio. Proposte che sono certo troverà... molto interessanti. Io ricevetti una gomitata nascosta da Scape. — Ah... Sì. Sì, certo — mi affrettai a rispondere. — Molto grazioso da parte di vostra Signoria, ne sono certo. Però non sono sicuro di potermi allontanare proprio ora. — In realtà, non riuscivo a immaginare sorte peggiore dell'essere trascinato in una qualche costruzione isolata dove subire di nuovo le folli bizzarrie di quell'uomo, senza nemmeno il conforto del provvidenziale intervento della polizia. — Sa, l'urgenza degli affari. Sì, è un periodo molto denso d'impegni per me. Il commercio degli orologi si impenna sempre di questa stagione... — Intravidi, con la coda dell'occhio, il cipiglio scuro di Scape e interruppi le mie farneticanti divagazioni. Il mento di Lord Bendray si raggrinzì sotto il suo broncio infantile, come stesse soffrendo per il rifiuto di un compagno di giochi a partecipare a una féte di compleanno. — Ebbene — disse, scrutando fuori dal finestrino con fare stoico — spero che lei riuscirà a vedere chiaramente la sua strada. — Sono certo — annunciò maestoso Scape — che il signor Dower offrirà ogni considerazione alla cosa. — Mi si avvicinò di più, e la mia pallida immagine si riflesse nelle sue lenti scure. Non ci furono altre conversazioni. Venni scaricato col mio fagotto di vestiti davanti al mio negozio, e la carrozza ripartì immediatamente. Prima di avere il tempo di girare la chiave nella toppa, udii un secco abbaiare alle mie spalle. Mi girai e vidi il terrier di Fexton, leggermente impolverato dopo avere rincorso la carrozza. Mi guardava dalla via, con la lingua che penzolava a un lato della bocca ansimante e lo sguardo lucido, colmo d'attesa, puntato su di me. — Povero infelice — mormorai, chinandomi a grattarlo dietro l'orecchio ritto. L'animale si dimenò di piacere. Non ero l'unico ad avere vissuto una tortuosa odissea notturna. Il cane era stato tanto intelligente da trasferire su di me l'innata fedeltà dopo avere intuito che il suo padrone, Fexton, era stato assassinato; dopo di che, quella lealtà lo aveva trascinato a ogni tappa del mio percorso forzato. Senza dubbio era in attesa all'esterno del carcere
al momento della mia liberazione. — Bene. Entra, allora. — Spalancai la porta del negozio e invitai l'animale a introdursi. — Tra reduci della stessa guerra è necessaria una certa civiltà, suppongo. Creff corse giù dalla scala ad accogliermi. — Grazie al cielo lei è tornato, signore! Ero preoccupatissimo... Quando sono venuti a dirmi... Cos'è quello? — Abbassò gli occhi sul mio compagno, tutto preso a grattarsi con una zampa posteriore. — È, sono stato informato, un "cane da campana". Vuole trovargli qualcosa da mangiare? Sono certo che la povera creatura è alla fame. — Superai il mio factotum e poggiai la mano sulla ringhiera della scala. — E non tolga gli scuri. Oggi non apriamo. Mi ritirerò a letto per un certo tempo. — Spostai il fagotto sotto l'altro braccio e montai stancamente il primo gradino. — Mi perdoni, signore, ma c'è qualcuno che vuole vederla. Mi fermai e mi girai a guardarlo. — Qui? Lei avrà senz'altro allontanato ogni cliente... — Oh, no, signore. Ho tentato, ma senza riuscirci. Un tipo davvero formidabile, quella donna, si potrebbe dire. Una donna formidabile che voleva vedermi. Il mio sguardo viaggiò all'insù sulla scala, fino alla porta del mio salotto. Per un attimo tremai, all'idea che la signorina McThane avesse in qualche modo lasciato la carrozza di Lord Bendray, dove l'avevo vista l'ultima volta. — Le ha dato un nome? — chiesi. — Una certa signora Trabble, signore. Non ha voluto specificare il motivo della sua presenza qui. Ha detto che si tratta di questione di una certa... ehm... — La voce di Creff si abbassò a un sussurro. — Delicatezza. Potevo ben immaginarlo. Il sangue defluì dal mio viso alla prospettiva di un incontro con una simile visitatrice. La signora Augustina Trabble, nel suo ruolo di fondatrice e leader dell'Associazione Dame per la Soppressione del Vizio Carnale, aveva avuto di recente un impatto considerevole sia sulla società londinese che sulla stampa popolare. Le voci sui suoi assalti ai depravati habitués del demi-monde londinese, assalti nati dal suo oltraggiato senso morale e dalla sua totale impavidità, circolavano abbondantissime: non aveva forse affrontato il Principe di Galles in persona nel suo séparé all'El Dorado di Leicester Square, rimbrottandolo aspramente per il basso esempio che aveva dato alle classi inferiori? Altre storie si spingevano sino ad attribuire a lei l'incendio che aveva fatto del teatro di
varietà un cumulo di ceneri fumanti. Non esisteva nell'intera città una sala per fumatori dove il suo nome non fosse ingiuriato da signorotti irritati dal suo interferire con la loro ricerca di sordidi piaceri. Ma che aveva a che fare con me quell'inquietante figura? Non ne avevo idea. Forse (il meglio che il mio povero cervello esausto potesse immaginare) la semplice richiesta di una donazione per le pie opere della sua organizzazione? L'installazione di un lampione a gas nel vicolo dietro il negozio, per meglio impedirne l'uso come luogo di rendez-vous di natura sia romantica che mercantile? Purtroppo, v'era un solo modo di scoprirlo. Con passo afflosciato, salii la scala. — Signora Trabble. — Chiusi la porta alle mie spalle. — È un onore... — Si sieda, giovanotto — disse ella severa, indicando la poltrona che aveva di fronte. Il suo sguardo intimidatorio mi inchiodò all'imbottitura in crine di cavallo. Una donna grassa, vestita di scarna bambagina nera. La sua presenza fisica dal petto abbondante sembrava sufficiente per ricavare due o tre esemplari umani delle mie dimensioni. Una fiera mascella squadrata, come se tra la falda del cappello a piume e l'alto orlo del colletto a trine fosse stato interposto un blocco di granito, e un volto rigido scolpito nello stesso materiale: nell'insieme, una persona che imponeva rispetto, anche al di là della sua reputazione. Restai immobile al mio posto, incapace di fare altro. — Sono giunti alla mia attenzione alcuni rapporti. — Le sue grandi mani si intrecciarono sulla borsetta a rete che teneva in grembo. — Rapporti inquietanti. Molto disgustosi, se così posso dire. — Rapporti? Su cosa? — Sul suo comportamento, signor Dower. — Il suo mento si proiettò verso di me, come l'affilata prua di una nave da guerra. — Sulle sue piccole... "avventure". Per troppo tempo i suoi simili hanno creduto che la notte conceda l'anonimato necessario per perseguire e abbandonarsi alle più luride pratiche. Ebbene, da questo momento in poi getti pure a mare quell'idea, signor Dower. Le tenebre non offrono alcuna sicurezza ai sibariti. L'Associazione Dame ha vigili agenti in ogni angolo della città, e tutti condividono la mia ripugnanza per le malefatte della sua tribù bestiale. Di questo può stare certo. La fissai stupefatto. — Non ho la più vaga idea del senso delle sue parole — protestai. — Io credo che lei capisca benissimo, signor Dower. — I suoi occhi si socchiusero, divennero due lumini di disprezzo. — Vuole negare di avere
chiesto indicazioni su come raggiungere certi luoghi di pessima fama, gestiti da una certa "Mollie Maud"? Luoghi di natura ancora più sinistra dei consueti covi del vizio? Non intendeva sollazzarsi con le malfamate "ragazze verdi"? Per un attimo non riuscii a ricordare dove avessi udito il nome che ella mi aveva sputato addosso; poi nella mia memoria echeggiò la voce del vetturino che aveva accettato di portarmi a Wetwick. — No — ribattei dopo il momento di confusione. — È del tutto falso... — Lei non sa nulla dei commerci di quella scellerata? Scossi la testa, in muto diniego. — E le ragazze verdi... Deduco che lei si dichiari ignaro anche di questo abominevole soggetto? Il vetturino aveva profferito un vago accenno. — Le ho sentite nominare, ma... La signora Trabble sbuffò di disgusto. — Basta questa ammissione a svelare la sua colpa. Se lei si fosse tenuto sul sentiero della virtù, come dovrebbero averle dettato la diligenza e una retta educazione, l'argomento sarebbe del tutto al di fuori delle sue conoscenze. — Si alzò. La rigida bambagina del suo abito frusciò: il suono di lontane nubi di temporale. — Deduco che lei non sia pronto a confessare la sua intima conoscenza di simili questioni, che intenda mascherare la sua colpa con uno sfacciato sfoggio d'innocenza. Ben poco conforto gliene verrà. I membri della Associazione Dame per la Soppressione del Vizio Carnale lottano con la massima tenacia per estirpare le odiose pratiche che lei tanto ama, e posso assicurarle che le sue trasgressioni non sfuggiranno alla nostra attenzione. Mi alzai per seguirla. — Mi creda, è evidente che lei si sbaglia... Si girò a folgorarmi con lo sguardo dal pianerottolo. — Buona giornata, signor Dower — disse gelida. — Non dovrà aspettare a lungo. La velata minaccia, espressa con tanta autorità, mi inchiodò lì. Udii, da lontano, il suo secco ordine a Creff, l'aprirsi della porta del negozio e il sussiegoso uscire della dama. Quell'ultimo incontro, dopo tutto ciò che era accaduto, mi svuotò di ogni energia. Raggiunsi il mio letto e crollai. Sprofondai in un buio più consolante dei pensieri che ribollivano nel mio cranio sconquassato. Mi destai nella desolata condizione nota a chiunque si sia mai addormentato di giorno per svegliarsi la sera; quella sensazione tetra, come di sepoltura, che si tinge a un tempo di colpa e commiserazione di sé. Il so-
gno raggelante di affondare sotto acque scure scemò quando mi rizzai a sedere e ritrovai i familiari contorni della mia camera, che stavano prendendo forma nel buio. Nel sogno, urlavano voci; le udivo ancora. Quando mi si schiarì il cervello, mi resi conto che quelle parole surriscaldate giungevano dal negozio. Mi rivestii in tutta fretta e scesi verso il clamore. In negozio, scopersi Creff alle furibonde prese col delinquenziale Scape. Entrambi stringevano le mani sulla scopa; Scape opponeva resistenza agli sforzi del mio assistente di spingere fuori lui e la sua compagna, la signorina McThane. — Richiama questo figlio di puttana — urlò Scape, quando mi vide apparire dietro il banco. Strappò la scopa all'avversario e la scaraventò in un angolo. Creff assunse la posa del pugile; fece roteare i pugni davanti al viso. — Si sono introdotti con la forza, signore — mi urlò. — Hanno bussato, e prima che potessi riconoscerli, i briganti erano entrati. — Tirò un destro a Scape, facilmente schivato. — Me ne occupo io — dissi, frapponendomi tra i due. Mi ersi in tutta la mia statura e puntai occhi severi sulle lenti blu. — Uscite di qui — ordinai. — Immediatamente. Nulla di ciò che potreste riferirmi mi interessa. Scape finì di riassettare il soprabito, scompigliato dalla foga del breve combattimento. Un sorriso esile spuntò sul suo viso spigoloso. — Ne sei proprio convinto, eh? Be', magari ti conviene ripensarci, socio. Il vecchio Bendray ci ha chiesto di fare un salto qui e... rinnovarti il suo invito. Voleva assicurarsi che tu sappia quanto gli farebbe piacere una tua visita a casa sua. La mia voce si raffreddò. — Può riferire al suo datore di lavoro che non nutro il minimo desiderio di accettare la sua ospitalità. Non in questo momento, né, temo, in alcun punto del futuro. Trasmetta il mio rammarico come meglio preferisce. Preferirei tornare in galera, piuttosto che rivedere uno qualunque di voi. — Sul serio? — Scape mi fissò. La lingua gli gonfiava la guancia. — Forse potremmo renderti più interessante l'invito. Non si sa mai... Una mano mi sfiorò leggera la spalla. Mi girai e vidi sorridermi, a occhi socchiusi, la signorina McThane. — Sarebbe bellissimo se tu venissi — disse. — Noi due da soli potremmo parlare di tante cose... Mi scostai. — Per favore, uscite di qui. Tutti e due. La mia decisione è assolutamente irrevocabile. State sprecando il vostro tempo. Nulla mi spingerà a cambiare idea.
— Forse. Forse no. — Scape andò a una finestra del negozio e aprì gli scuri. — Che te ne pare di questo, per cominciare? In fondo alla via, le fiamme delle torce proiettarono un bagliore ondeggiante sul mio viso quando mi avvicinai al vetro e fissai, a bocca aperta, la scena. Una folla stava urlando frasi di incoraggiamento all'oratrice che predicava ardentemente, in piedi su una cassa rovesciata. Orripilato, vidi un pupazzo imbottito di paglia oscillare sopra le loro teste. Ma non era il manichino di Guy Fawkes a penzolare dalla corda: il cartello appeso al suo collo diceva, in lettere vergate da una mano rozza, DOWER IL PORCO. Indietreggiai barcollando dalla finestra, ma non prima di avere riconosciuto nell'oratrice la signora Trabble. — Mio Dio — mormorai roco. — Ha... Ha... — Mi interruppi, incapace di visualizzare le infamie verbali con le quali la donna stava aizzando la congrega. Scape scrutò la folla con sguardo calmo, critico. — Adesso sono molti di più — commentò. — E pare tutta gente che ama divertirsi. — Si girò verso me. — Probabilmente non hanno niente contro di te personalmente... È solo una scusa per bere un po' e picchiare qualcuno... Roba del genere. Le torce si levarono più alte. Mi giunse alle orecchie una specie di coro. — Devo fuggire da qui... Scape distese le braccia. — Ehi, è proprio quello che stavo dicendo io, uomo. Una vacanza in campagna. Cosa potrebbe esserci di meglio? Specialmente quando c'è una mandria di gente che vuole sbatterti fuori a calci in culo da casa tua. Puoi prendertela calma da Bendray, chiaro? Aspettare che le cose qui si raffreddino... Tra un po', questi qui si saranno scordati di te. E se tu e Bendray troverete qualcosa di, uhm... interessante da discutere intanto che tu sarai là, tanto meglio, no? — Il sorriso tornò a riformarsi sul suo volto quando si grattò la punta del mento col lungo indice. — Allora, cosa ne dici? Eh? La temibile signora Trabble, ultimo terrore apparso nella mia vita, riuscì forse ad avere maggior peso di ogni altra considerazione. Le mie risoluzioni su Scape e Bendray, e sull'intero folle baraccone che rappresentavano, vennero spazzate via dall'improvvisa ondata di panico alla vista di quella folla sempre più eccitata. Mi girai a urlare al retro del negozio: — Creff! Il mio baule. Al più presto. — Fottiti dei bagagli, uomo. — Scape, scrollando disgustato la testa, si rivolse alla sua compagna. — Ma ci crederesti? Il povero scemo sta per essere fatto a pezzi, e si preoccupa di avere una scorta di calzini puliti. — Se permette, signore... Mi sono preso la libertà... — Un bauletto da
viaggio, con le maniche di diverse delle mie camicie che sporgevano da sotto il coperchio, seguì Creff giù per le scale. A quanto sembrava, l'incontro con la signora Trabble aveva molto colpito anche lui, spronandolo alle azioni del caso. Vidi che aveva indossato il suo cappotto ricchissimo di rammendi, e infilato in tasca il cappello. — Ovviamente, il mio assistente viene con me — dissi a Scape. — Non possiamo lasciarlo qui, alla loro mercé... — Sì, sì, ma certo. — L'agitazione di Scape cresceva visibilmente, forse per le urla sempre più alte della folla. — Bendray è ricco, ha una casa grande. Non c'è problema. Vogliamo andare, per favore? — E Abel! — urlò Creff. — Anche lui! — Chi? — Quel suo improvviso intervento mi lasciava perplesso. — Abel, signore! Il cane! Chi si prenderà cura di lui? Abbassai la testa e vidi ai miei piedi gli occhi, liquidi e fiduciosi, dell'animale che un tempo apparteneva al perverso Fexton e ora sembrava diventato mio. Mi fissava nella paziente attesa di sentir pronunciare il suo destino. Ebbi un'ovvia intuizione: Creff aveva preso la mia iniziale spiegazione sulla natura del cane (un cane da campana, a bell-dog) come nome proprio della creatura, Abel dog. Un nome buono come un altro, probabilmente. — Cristo santissimo! — urlò Scape. — Vuoi restare lì per l'eternità a guardare quello stupido bastardo? Portati anche il fottuto cane. Cosa me ne frega? Ma vediamo di darci una mossa, eh? La signorina McThane mi assestò una poderosa spinta alla schiena. — Usciamo dall'altra parte. La carrozza è nel vicolo. Muoviti, muoviti. — Un'altra cosa... — Scape mi afferrò per il braccio. — Tu hai qualcosa che al vecchio Bendray interessa molto. E sappiamo che si trova qui. Valla a prendere — ordinò. — In fretta. L'ululare della folla si era fatto più alto di volume e più acuto. Mi scrollai di dosso la stupefazione che il rapido procedere degli eventi aveva fatto calare sui miei pensieri. Il congegno che l'Uomo di Cuoio Marrone mi aveva affidato, ecco di cosa parlava Scape; senza dubbio era stato Lord Bendray a commissionare lo sterile tentativo di sottrarlo da quelle stanze. Quindi lo desiderava ancora, e la sua promessa di un rifugio dipendeva dal fatto che io glielo consegnassi. Senza esitare, corsi dal corridoio al laboratorio e tornai barcollando sotto il peso della massiccia scatola di mogano. Nel giro di pochi istanti, il mio bauletto venne issato sulla cassetta della carrozza, con Creff e il conducente (uno degli uomini di Bendray, suppo-
si), e il resto del gruppo si sistemò a bordo del veicolo. La creazione di mio padre, la fonte di tante furfanterie, era sul pavimento della carrozza, in mezzo a noi. Abel, ormai così battezzato, mi balzò in grembo quando la carrozza, trainata da una coppia di cavalli, schizzò via dal vicolo. Si mise ad abbaiare furibondo dal finestrino alla vista della folla guidata dalla signora Trabble: quegli invasati avevano lasciato il luogo di raduno e stavano procedendo verso il mio negozio deserto, con torce che ardevano in lieta anticipazione. Lo squillo del fischietto di un poliziotto che chiamava a raccolta altri suoi colleghi sulla scena echeggiò nelle strade circostanti. Fu quella la mia ultima visione e il mio ultimo ricordo della mia modesta dimora, un tempo così tranquilla e indisturbata, per molti giorni a venire. La carrozza procedette verso i bui confini della città, e oltre. PARTE SECONDA Un intrattenimento serale 8 La completa distruzione della Terra I lunghi perìodi di viaggio inducono una sonnolenza che non rinvigorisce il corpo e non calma la mente. Che si debba sopportare il nauseante rollio di una nave presa tra gli apici e i ventri delle onde oceaniche, o si subiscano invece i sussulti della schiena prodotti dal sobbalzare delle ruote di una carrozza sulle buche e le sconnessioni delle strade inglesi, l'effetto è identico. Non si può dormire; panorami deprimenti sfilano davanti agli occhi, di giorno o di notte; si inghiottono di continuo le rancide, assillanti proteste dell'apparato digestivo, pronte a risalire senza tregua alla gola; non v'è conforto, né pace sufficiente a riordinare e ricollegare i pensieri che cozzano l'uno contro l'altro come frammenti di un mosaico disfatto. Poco sopporto la massima orientale "Meglio viaggiare in compagnia della speranza che arrivare". (Chi non ha mai assaporato il delizioso piacere di rimettere piede sul terreno immobile e sentire ossa e muscoli che si sciolgono con tanta dolcezza?) Ritengo invece che, se la punizione finale per un individuo dovesse essere un Inferno scomodo e angusto, una carrozza in perpetuo movimento sarebbe la soluzione più efficace. Tale era la natura delle mie riflessioni, una volta scemata l'eccitazione iniziale per essere sfuggito alle mani della folla. Trascorremmo la maggior
parte del viaggio in uno sgradevole silenzio. Di tanto in tanto aprivo gli occhi e scrutavo l'interno del veicolo, fiocamente illuminato dalla luna e dalla luce delle stelle che filtrava dai finestrini. Di fronte a me, la signorina McThane era riuscita ad addormentarsi; la bocca aperta emetteva un leggero russare, da vera signora. Al suo fianco, Scape sedeva a braccia conserte e mento abbassato sul petto; le lenti blu rendevano impossibile determinare se fosse immerso nel sonno o solo perso nella contemplazione di ulteriori atti criminosi. Quando avevamo lasciato i confini della città e la carrozza era entrata nella profonda quiete di una strada per la contea del Kent, aveva trascorso un po' di tempo chino a ispezionare la scatola di mogano sul pavimento; alla fine aveva rinunciato al tentativo di decifrare i misteri del congegno, a causa della mancanza di una luce sufficiente. Abel, l'unica creatura a bordo degna della mia fiducia, dato che Creff si trovava a cassetta col conducente, teneva il mento appoggiato sul mio ginocchio e chiudeva gli occhi in rapimento estatico solo quando la mia mano correva a grattarlo dietro le orecchie. I miei pensieri, o i loro frammenti, si inseguivano e si frangevano dietro le sponde della fronte. Non sapevo dove fossimo diretti, né come sarei stato accolto all'arrivo. Forse ero stato indotto a presentarmi al mio stesso omicidio. Ero già incorso in un tentativo in quel senso; sulle circostanze che mi avevano sottratto al freddo abbraccio del Tamigi attendevo ancora spiegazioni. Certo era che forze prive di scrupoli erano entrate in azione nella notte londinese: lo testimoniavano i cadaveri di Fexton e dell'Uomo di Cuoio Marrone. (Ero più sicuro che mai che l'apparizione di quest'ultimo, impegnato a rovesciare la barca dei ruffiani fosse un'illusione; la vista delle ferite fatali inferte al poveruomo restava salda nella mia memoria.) Se Scape e il suo padrone Bendray non erano in combutta con quei disperati, ben poco poteva comunque raccomandarli alla mia fiducia. "Senza dubbio", mi dissi mentre la mia nuca sussultava contro la pelle scarsamente imbottita della carrozza, "senza dubbio costoro sono pazzi". Quale altra spiegazione era possibile per la lunatica empietà delle attenzioni da loro rivolte alla chiesa di Saint Mary Alderhyte? (Una follia e un'empietà che sapevo, per triste esperienza, ormai attribuite a me.) Dovevo ancora destarmi dal sogno nel quale la mia vita si era trasformata; il mio sonno era stato premiato non col ritorno all'alba della mia vecchia, monotona esistenza, ma col proseguire del mostruoso caos notturno. Queste e altre poco allegre cogitazioni vennero interrotte dal cane Abel. Drizzò le orecchie e si svegliò dal dormiveglia; in un lampo mi era balzato
in grembo per meglio emettere una salva di furiosi latrati, grattando con le zampe anteriori il finestrino. — Gesù Cristo santissimo. — A quanto pareva, Scape stava dormendo dietro gli occhiali scuri. Li sollevò un attimo sulla fronte per massaggiarsi il viso intorpidito. — Che diavolo è tutto questo casino? Al suo fianco, la signorina McThane seppellì ancor di più la spalla nell'angolo del sedile, nell'inutile tentativo di sfuggire al subitaneo frastuono. — Fai chiudere il becco al tuo maledetto cane, Dower — borbottò, poco signorilmente. — Abel... Dico... — Afferrai il sottile collare di cui il defunto padrone lo aveva dotato e cercai di allontanarlo dal finestrino. — Calmati, vecchio mio. L'estremità superiore del finestrino era stata lasciata socchiusa, per la ventilazione durante il viaggio. Con nuova decisione, Abel incuneò il muso affilato nello stretto spazio e ululò con vigore anche maggiore. — A mio giudizio ha visto qualcosa. — Appoggiai un lato del volto al vetro, per poter meglio vedere dietro la carrozza. — Qualcosa là fuori. Quell'opinione fece rizzare Scape di scatto sul sedile, dimentico dell'irritata stanchezza. La signorina McThane alzò la testa, a occhi sgranati. Scape si protese, bilanciandosi con la mano appoggiata al sedile di fronte, e si unì a me nello scrutare la notte che si srotolava nella scia della vettura. Avevamo continuato ad allontanarci da Londra per tanto tempo che l'alba non distava ormai più di un'ora o due; già le tenebre si erano sfoltite tanto da conferire una sottile aura di grigio al profilo nero di alberi e campagna. Tra gli alberi correvano le forme di cavalieri avvolti nei mantelli, che tenevano il passo con noi. — Merda — borbottò Scape. Aveva alzato gli occhiali per discernere le figure che ci seguivano; il minuscolo bagliore delle stelle produsse due lente lacrime che colarono dagli angoli di quegli occhi troppo sensibili. — Sono quegli stramaledetti Pii. — Ancora loro? — La signorina McThane sembrava seccata. — Come hanno fatto a sapere dove eravamo diretti? Scape risistemò gli occhiali nella posizione originale. — E che ne so? Devono avere qualche informatore. Magari il maggiordomo del vecchio Bendray o qualcun altro dei suoi fanno il doppio gioco. — I Pii? — feci eco. — Chi sono? — Lascia perdere. — Scape abbassò il vetro del finestrino e urlò al conducente: — Vuoi accelerare un po'? — La frusta schioccò in risposta e la
carrozza sussultò più di prima tra le buche. Scape si mise a frugare nelle tasche della giacca. — Ci penserà questa a sistemare quegli stronzi. Vidi che aveva estratto una voluminosa pistola di considerevole antichità. — Vuoi starci attento, per favore? — disse la signorina McThane. — L'ultima volta... — Sì, sì — ribatté Scape, irritato. Dall'arma era caduto un pezzo di meccanismo, che lui risistemò al suo posto girando la vite con l'unghia del pollice. — Non preoccuparti. — A me: — Fatti da parte. Trattenendo il cane ancora agitato, mi portai all'angolo del sedile. Scape si sistemò col braccio sul davanzale del finestrino, lo sguardo fisso sulla pistola. Il clic sordo del metallo che percuote il metallo risuonò quando egli premette il grilletto. — Merda. Tutta questa fottuta pioggia. — Prese a battere la pistola contro l'interno della carrozza; la signorina McThane e io ci raggomitolammo agli opposti angoli. Non appena Scape ebbe puntato di nuovo la pistola dal finestrino, l'arma sparò con un colpo assordante e uno scoppio di fiamma. — Chinga tu madre. — Scape si leccò la mano ustionata. La pistola, ridotta in pezzi, era sfuggita alla sua presa. — Figlia di puttana. Il colpo non doveva avere prodotto danni; la pallottola si era persa nella strada fangosa. L'esplosione, però, aveva ispirato i nostri cavalli a più robusti sforzi. Sbirciando dal finestrino, vidi che anche la nostra scorta aveva prudentemente allungato le distanze. Scape annuì soddisfatto quando glielo feci notare. — Bastardi cagasotto — disse, tastando la piccola ustione sul palmo. — Gesù! — disse la signorina McThane. — Idiota. — Scoccò a Scape un'ultima occhiataccia prima di riavvolgersi lo scialle attorno alle spalle e riprendere il sonno interrotto. Un poco più tardi, quando la luce del mattino si affacciò all'orizzonte, non c'era più segno dei nostri inseguitori; erano svaniti come fossero stati solo frammenti animati del manto di tenebra. Dal finestrino mi trovai a scrutare un paesaggio di rimarchevole cupezza e fetidume. Il sole appena sorto brillava rosso su terreni paludosi ingombri di canneti. A intervalli irregolari tra gli acquitrini, collinette tondeggianti ospitavano pochi alberi stentati, dai rami contorti, e bicocche cadenti. Maiali dalle zampe magre grufolavano in un fango distinguibile dalla campagna circostante solo grazie ai muri in pietra rozza, coperta d'antichi muschi. In distanza, una figura oscurata dalle nebbie che si levavano dalle acque stagnanti procedeva, aiutata da un bastone, su uno dei sentieri fangosi tra un acquitrino e l'altro.
Il denso aroma della vegetazione in decomposizione mi costrinse a riportare la testa all'interno della vettura. Scape studiò la mia espressione stupefatta con un certo divertimento. — Gran bel posto, eh? — chiese con un sorriso esile. Non risposi. La carrozza rallentò, e vidi che eravamo entrati in un paesello. Edifici bassi, alcuni tanto affondati nel terreno che i tetti spioventi quasi toccavano il suolo, si raccoglievano attorno a uno spazio aperto. Al centro, contrassegnato da un pozzo che era poco più di un cerchio di pietre attorno a un foro slabbrato e a una trave sghemba dotata di corda e secchio, era radunato uno sbrindellato gruppetto di indigeni. — Dove siamo? — Il mio spirito, già provato dai rigori del lungo viaggio, si abbatté ulteriormente alla vista di quello squallore rurale. — Nel pittoresco villaggio di Dampford — disse Scape. — Quei pezzenti sono tutti fittavoli di Bendray. Il suo maniero è a poca distanza da qui. Mentre io guardavo fuori, le ruote della carrozza spruzzarono fango sulle schiene degli uomini. Alcuni di loro si girarono, sfiorando le falde del cappello in rispettosa deferenza. Li vidi in volto e ricaddi all'indietro sul sedile, orripilato. — Dio dei cieli! — Quasi non udii le risate beffarde di Scape e della signorina McThane. I volti degli abitanti di Dampford erano gli stessi volti esoftalmici e con la fronte inclinata degli abitanti del distretto londinese chiamato Wetwick. Le fisionomie ittiche danzarono alla mia vista; quelle uscite dai ricordi dell'odissea notturna nelle viscere della città si fusero coi tratti gemelli che fissavano a bocca aperta il procedere della carrozza. Non c'era dubbio: ero stato trasportato al suolo natio (o alla palude natia) dal quale era sorta quella specie brutta ed enigmatica. E che pensare di Bendray, loro signore? Non era del loro sangue, eppure sfoggiava pretese da proprietario sui loro cugini della lontana Londra; avevo notato con quale paternalistica espansività li avesse accolti nella chiesa di Saint Mary Alderhyte. Un brivido mi scese nella carne tra le scapole mentre rimuginavo su quelle questioni. I visi degli indigeni di Wetwick erano divenuti tratti ineliminabili dei miei incubi, e lì mi trovavo di nuovo in mezzo a loro. Lo squallido villaggio si perse alle nostre spalle. La strada cominciò a salire. Mi raggomitolai all'angolo del sedile ed esclusi dallo sguardo il deprimente paesaggio. Presi a meditare sulle possibili spiegazioni del mio viaggio lì.
— Dower, molto gentile da parte sua venire qui. Sì, sì, lei è il benvenuto. Abbiamo così tante cose da discutere. Tante, tante davvero. Lord Bendray in persona aveva sceso gli ampi scalini in pietra per accoglierci alla carrozza. Prese la mia destra tra le sue mani e la strinse col tenero, per quanto tremulo, riguardo dovuto a un parente mai più rivisto da tempo. Gli occhi umidi mi scrutarono senza il beneficio delle lenti degli arzigogolati occhiali d'ingrandimento spinti sulla fronte; probabilmente era impegnato in una qualche ricerca scientifica quando un domestico gli aveva portato notizia del nostro arrivo. Avevo rinvenuto un paio d'occhiali simili nel laboratorio di mio padre; riconoscevo l'arte di mio padre anche in quelli che ornavano la fronte di Bendray. — Com'è stato il viaggio? Privo d'eventi, spero. — Mi prese per il braccio, e usandomi come sostegno per il suo debole passo mi guidò verso il maniero. Le mura incrostate di rampicanti incombevano alte; la torretta che coronava un'ala era stata amputata in un momento del passato per ospitare una sfera d'ottone, ora scolorita dal verderame. Un'apertura nella curva di metallo svelava i cilindri lucidi di diverse apparecchiature astronomiche. Mi girai a guardare. Creff stava facendo da supervisore ufficiale allo scarico del mio bagaglio dalla cassetta, mentre Scape aiutava la signorina McThane a scendere. Alle loro spalle, il terreno attorno al maniero digradava in una serie di complessi giardini a terrazze, o per meglio dire, in ciò che ne restava. Le grandi vasche erano colme di un verde stagnante, e le mute fontane al centro ammantate di foglie morte. Su entrambi i lati degli aggraziati sentieri, le siepi topiarie avevano assunto contorni vaghi; le loro antiche forme erano sepolte sotto il disordinato crescere dei rami più recenti. Lo stato di decadenza sembrava dovuto più a incuria che alla discreta povertà nella quale tanto spesso piomba la nobiltà: Lord Bendray non sembrava certo a corto di personale. Un paio di stallieri stavano portando i due cavalli, staccati dalla carrozza, alle scuderie; all'ingresso del maniero vedevo una fila di camerieri e altri domestici in nostra attesa. Riportai l'attenzione sul mio ospite. — C'erano degli uomini, vostra Signoria. Cavalieri... La sua mano libera sventolò in un cenno distratto. — Sì, sì. Il Pio Esercito. Gente seccante. Li ignori. — Ehi, lei, dove pensa di andarsene con quella? È proprietà personale del signor Dower. Ci girammo al suono della voce alterata del mio assistente. Creff aveva bloccato Scape a metà d'un passo, afferrandolo per il bavero del soprabito.
Sotto un braccio di Scape c'era la pesante scatola che conteneva il congegno di mio padre. — Eccellente! — urlò Lord Bendray. Il sorriso accentuò le rughe del suo volto. — È così? Ha portato il Regolatore? Ben fatto! — Raggiante, guardò prima me e poi Scape. A un cenno della sua mano, un uomo in livrea corse a liberare Scape dal peso. — Portalo in laboratorio, da bravo. — Mentre Bendray dava istruzioni al domestico, non notò l'espressione arcigna che Scape regalò a Creff: il desiderio di Scape di poter esaminare più da vicino il congegno era stato frustrato per la seconda volta. Da parte sua, Creff gli restituì lo sguardo rabbioso, assecondato da Abel stretto al suo petto. Il braccio di Lord Bendray mi spinse su per gli scalini in pietra. — Ora si compiranno grandi cose, ragazzo mio. La creazione di suo padre, il Regolatore Eterico... Che meraviglia! — Precipitò in un eccitato borbottio; i suoi occhi si illuminarono al contemplare una visione interiore. — Sì, sì. Suo padre era un genio, non v'è dubbio... grandi cose, grandi... sì, e col Regolatore, e con la sua assistenza, il culmine delle mie ricerche! Vedrà! — La sua morsa decisa si strinse sul mio braccio, il suo viso avvizzito fissò estasiato il mio. — Grandi cose! A quel punto, eravamo arrivati nell'atrio d'ingresso del maniero, seguiti dalla sfilza di domestici, da Creff, Scape, e dalla signorina McThane. Mi fermai sotto il soffitto a volta, raggiunta una decisione. Fingere a più riprese di sapere cose che ignoravo e di fare parte della cospirazione che mi circondava non era servito a procurarmi sicurezza. Anzi, la recita mi aveva solo scaraventato in rischi sempre maggiori e, com'era chiaro dopo la precipitosa fuga da Londra, aveva infangato la mia reputazione. Mi risolsi dunque a mettere in chiaro la mia ignoranza; mi era impossibile immaginare che questo potesse precipitarmi in difficoltà superiori a quelle che già avevo affrontato. Staccai il braccio da quello di Lord Bendray e mi sistemai direttamente di fronte a lui. — Vostra Signoria, debbo confessare di non avere la più pallida idea delle questioni di cui lei parla. Temo di essere entrato nella sua confidenza sotto mentite spoglie... Scape mi aveva sentito. Corse avanti e mi afferrò al braccio per trascinarmi via. — Lo scusi. Il ragazzo è esausto per il viaggio, penso. — Rivolse a Bendray un sorriso forzato. — Un tipo nervoso, sa... — Avvicinò la bocca al mio orecchio e sussurrò: — Cosa diavolo credi di fare? Lo scrollai via e rinnovai il mio appello a Lord Bendray. — È vero. So-
no del tutto all'oscuro di queste cose... — Non gli dia retta! È fuori fase! I grandi spazi del maniero di Bendray, con le scalinate a colonne marmoree, parvero ruotarmi attorno quando girai sui tacchi a mani alzate. — Non so per quale scopo lei mi abbia fatto condurre qui, in cosa si aspetta che io possa assisterla. E l'apparecchio che lei chiama "Regolatore"... Certo, mio padre può averlo costruito, ma cosa sia, e cosa faccia, sono argomenti al di là della mia comprensione! — Davvero? — Lord Bendray accolse la rivelazione non con l'ira che evidentemente Scape si attendeva, ma con un sorriso perplesso. — Mio caro ragazzo, perché non me lo ha detto prima? — Mi prese di nuovo per il braccio, lo carezzò sollecito con la mano solcata da vene. — Non debbono esserci segreti in ciò che concerne la Scienza. Parola mia, no. Ho scordato che lei non ha avuto occasione di trascorrere tanto tempo col suo defunto padre, come invece ho fatto io. Era un uomo brillante... Sì, sì, certo. Brillante. — Mi trascinò avanti, guidandomi col suo passo incerto verso un'ala del maniero. — Lei saprà tutto. Glielo prometto... Mi girai a guardare. Scape, a palmi levati, rivolgeva una scrollata di spalle alla signorina McThane. — Ah, ecco il porto. È tutto per ora. — Lord Bendray congedò il cameriere ma trattenne la bottiglia che gli era stata recata su un vassoio d'argento. Accettai il bicchiere che mi offriva e lo seguii. Mi aveva guidato giù per diverse rampe di scale, tra pareti sature di umidità e secoli, per raggiungere il suo laboratorio nei sotterranei del maniero. Trangugiò il contenuto del suo bicchiere in un solo sorso, a testa all'indietro, coi muscoli del collo tesi attorno al pulsare del pomo d'Adamo. Il porto fece apparire sulle guance rosee due chiazze rosso scuro. Bendray si aggirava tra bassi archi in pietra, con la bottiglia che dondolava in una mano: l'archetipo di un roué londinese che stesse per entrare in un luogo di perdizione. Sorseggiando dal mio bicchiere, mi guardai attorno. Lo spazio si stendeva a perdita d'occhio. A giudicare dall'aspetto di pareti e soffitto, i diversi locali al di sotto del maniero erano stati unificati in un'unica sala, lasciando solo i grandi pilastri in pietra a sostenere il peso della dimora. File di beccucci per il gas fornivano l'illuminazione; diversi erano forniti di lenti e dispositivi riflettenti per amplificare e puntare la luce sui vari banchi da lavoro e sulle scaffalature per gli utensili disseminate nell'area. Ovunque il
brillare dell'ottone lucido mi colpiva l'occhio. Di nuovo, i prodotti dell'arte di mio padre; più di quanti ne avessi mai visti raccolti in un singolo luogo, compreso il laboratorio che avevo ereditato col negozio. Riconobbi in alcuni dei pezzi i duplicati, per quanto in condizioni migliori, di quelli in mio possesso. Altri mi erano ignoti, e le loro funzioni mi risultavano incomprensibili. Le forme variavano da quello che sembrava un ragno snodabile più alto di un uomo a un semplice orologio da taschino col quadrante suddiviso in ore sconosciute. Raccolsi quest'ultimo nel passare davanti al banco da lavoro sul quale riposava; il movimento della mia mano mise in funzione un meccanismo interno, e si udirono dolci rintocchi di campana. La musica si interruppe solo quando io mi resi conto che il congegno stava misurando i battiti del mio polso e lo lasciai cadere, in preda a un improvviso, irragionevole panico. Corsi a raggiungere Lord Bendray che si aggirava in quella grotta di Aladino a orologeria. — Grandi cose... — La voce tremula di Lord Bendray echeggiò tra i confini dello spazio sotterraneo. Il livello del liquore nella bottiglia era sceso abbondantemente, e lo spirito di Bendray si era innalzato in eguai misura. — Quell'uomo era un genio... — Vostra Signoria, forse dovrebbe riposare un poco. — Ci eravamo di molto allontanati dalla scala dalla quale eravamo scesi. Guardandomi attorno, non riuscivo nemmeno a vedere in quale direzione si trovasse, tanto l'intrecciarsi di archi e colonne confondeva l'occhio. Soli come eravamo, mi turbava l'idea che il vecchio gentiluomo potesse subire un incidente dovuto all'eccitazione e all'ebbrezza. — Ha parlato di spiegazioni... Attento, vostra Signoria... "Lei saprà tutto" sono state le sue parole, mi pare... Oh! Si sente bene? Nel suo procedere sempre più irregolare, era inciampato nell'orlo di una delle pietre del pavimento. Corsi ad assisterlo, ma Bendray si era già messo a sedere e stringeva trionfante la bottiglia intatta. — Si sieda, ragazzo mio. — Batté la mano su una sezione rialzata di pavimento. — Si sieda, e parliamo... di... — Ondeggiò piano in un senso e nell'altro, fissando il nulla di fronte a sé. — Grandi cose... Io obbedii. — Sta bene? — gli chiesi di nuovo. — Mai stato meglio — rispose giulivo, girandosi a guardarmi a occhi spalancati. — Mio caro ragazzo, siamo alla vigilia... — Di grandi cose? — suggerii. Egli annuì. Alzò un indice scheletrico per aggiungere enfasi. — Nuovi mondi. — Parlava ora in un tremante sussurro. — Non... siamo soli.
Scrutai attorno nel cavernoso laboratorio, ma non vidi altre persone. — Prego? L'indice si protese verso il soffitto. — Lassù... No, non nel maniero, zuccone... Oltre! Nei cieli! Le stelle! Intelligenze... non come la nostra, mi comprenda. Diverse, e molto più avanzate... Cose meravigliose. Ci fanno sembrare bambini nella nursery. Si aggirano... — Nella nursery? — Ero sempre più preoccupato per gli effetti dell'alcol sulla sua debole costituzione. Forse era quella la spiegazione di alcune delle altre bizzarrie generate da lui. — No, no. Nei cieli! Tra i pianeti... e le stelle! Io li ho visti — concluse con indiscutibile certezza. — Non sono sicuro di capire... Lord Bendray sospirò e si versò un altro bicchiere. — È evidente. Suo padre però capiva. Che capacità d'intuizione aveva quell'uomo! Il Cosmo era un libro aperto per lui. Attenzione, io sospettavo da lunga pezza la "loro" esistenza. Ma suo padre l'ha dimostrata! Me li ha fatti vedere! — Le ha fatto vedere chi? — Lo sfoggio di un certo interesse da parte mia parve avere un effetto calmante sul vecchio gentiluomo. Tra me, stavo dibattendo se fosse meglio trascinarlo in cerca della scala che portava fuori di lì, o se abbandonarlo e andare a rintracciare qualche membro del suo personale in grado di aiutarmi. — Loro! E chi altri? Creature di mondi diversi dal nostro. Intelligenze molto più grandi della nostra. — Si avvicinò a me. La sua voce scese a un pigolio complice. — Lo tenga a mente, ragazzo mio: la Terra è soggetta a esame da parte di esseri di altri pianeti. — Raddrizzò la schiena, per mantenere un'ondeggiante dignità. — Io stesso li ho visti — annunciò. — Davvero? — Era ancora peggio di quel che pensassi. Egli annuì. — Non qui, anche se ho tentato. Ho speso una maledetta fortuna per i telescopi e tutto il resto che ho sul tetto. A quanto sembra — rifletté — preferiscono località isolate per le loro occasionali incursioni nella nostra atmosfera. A Groughay, ecco dove li ho visti. In uno dei loro grandi veicoli celestiali. — Dove sarebbe? — Forse, se Bendray avesse potuto sfogare a parole la sua mania avrebbe recuperato una certa dose di sanità mentale, e noi due saremmo riusciti a tornare nel maniero vero e proprio. Una mano ossuta indicò con un cenno una distanza vaga. — Un'isoletta delle Ebridi Esterne. La sede ancestrale dei Bendray. Un posto dimenticato da Dio. Soltanto rocce e alghe. Non che ci sia niente di male nelle alghe,
attenzione. Si possono fare molti soldi con le alghe. È stato il primo incarico che io abbia mai assegnato a suo padre... Le alghe... Sembrò perdersi in un qualche recesso della memoria. Ignaro della mia presenza, fissò con aria assente il vuoto. Lo stimolai. — Le alghe, dice... — Alghe? — Posò il fiero cipiglio su di me. — Lasci perdere le alghe. Robaccia. Si concentri sulle questioni importanti. "Possiamo contattare gli esseri di un altro mondo"... Ci pensi! Le cose che potrebbero dirci. La Scienza, i Segreti dell'Universo... e ancora di più, forse! Dobbiamo solo inviare loro un segnale. E verranno da noi. — Chi verrà? Egli strabuzzò gli occhi alla mia ottusità. — Gliel'ho detto, quegli esseri di altri mondi. Che hanno già osservato i nostri meschini andirivieni limitati alla Terra dalle lenti dei loro potenti telescopi e da più vicino. Glielo ripeto, stanno solo aspettando un nostro segno. Ero finalmente riuscito a decifrare il contorno generale della sua ossessione. — Sì... Ebbene, vostra Signoria, è davvero molto interessante. Un segno da noi, dice? Hmm. Immagino che una bandiera molto grande non basterebbe, vero? — Certo che no. — Si alzò. I residui di porto fluttuarono nella bottiglia. — Venga con me, ragazzo mio. Vedrà... tutto. Lord Bendray mi condusse in più profondi antri del laboratorio. — Attento, lì — avvertì dopo qualche minuto di ondeggiante procedere. — Prego? Cristo celeste! — Balzai indietro dall'orlo di un baratro circolare; un altro passo mi avrebbe precipitato nei suoi recessi neri come inchiostro. Un frammento di pietra cadde dall'orlo; non ci fu alcun suono a indicare che avesse raggiunto il fondo. Lord Bendray si posizionò davanti al foro. La forma circolare si stendeva in ogni direzione per una certa distanza; sembrava tanto grande da poter inghiottire sino alle porte dell'Inferno un piccolo villaggio, come il ripugnante Dampford. L'arco di circonferenza sul lato opposto a noi era celato da rozze colonne in pietra che scendevano nel pozzo, scomparendo nelle tenebre. Sopra di loro, un complesso insieme di travi, grandi ruote dentate più alte di un uomo, catene tanto spesse da potervi appendere una casa, e altri macchinati si intrecciavano tra loro, congiungendosi con le colonne. Il mio ospite fissò rapito le pietre. — Scendono — annunciò solenne — fino allo strato di roccia. E oltre, per centinaia di metri. — Si girò a guardarmi. — L'ultima creazione di suo padre. È un'immane tragedia che sia
morto prima di poter mettere in azione il suo capolavoro. Mi tenni ben discosto dall'orlo del baratro. I miei occhi viaggiarono sulle massicce travi e catene. — Cosa sono? — Soldati, ragazzo mio... — Lo sguardo di Lord Bendray viaggiò attraverso di me, puntandosi sulle sue contemplazioni private. Bevve una sorsata direttamente dal collo della bottiglia. — Soldati in marcia... Alle mie spalle vedevo brillare i congegni d'ottone sui lontani banchi da lavoro; gli archi in alto si intrecciavano in modo da generare confusione. Le prospettive di trovare da solo una via d'uscita apparivano scarse. Gli occhi di Lord Bendray tornarono a fuoco su di me. — Soldati che marciano su un ponte. Li ha mai visti? Scrollai le spalle. — Suppongo di sì, vostra Signoria. Una parata militare o qualcosa di simile. — Bene. — Agitò l'indice in direzione del mio petto, a mo' d'insegnante. — Ora, è un fatto di comune conoscenza... sospetto ne abbia sentito parlare anche lei... che molto spesso, quando un plotone di soldati attraversa un ponte, gli uomini ricevono l'ordine di "interrompere il passo". Non destsinist, dest-sinist, tutti assieme. Ogni uomo procede a modo proprio, senza più stare al passo con chi ha vicino. Finché non hanno raggiunto l'altra riva, dopo di che si riprende il minuetto, dest-sinist, dest-sinist all'unisono. Allora, perché mai? Eh? — Ecco... — Frugai nel cervello, in cerca di una spiegazione dimenticata a metà. — È per le vibrazioni, giusto? Um. Riverberazioni o qualcosa di simile. Se tutti gli uomini avanzassero a passo cadenzato, il ponte potrebbe cominciare a vibrare al ritmo del loro passo. E, vediamo, se procedessero nella marcia, le vibrazioni del ponte si rafforzerebbero, diventerebbero sempre più potenti, e sarebbe possibile l'improvviso sbriciolarsi del ponte sotto i loro piedi. — Oh, non solo "possibile", ragazzo mio. È accaduto molte volte. La pratica militare non deriva dalla mera speculazione intellettuale. Distruggere qualcosa è il modo migliore d'imparare. No, il modo migliore per attraversare un ponte è una cosa che è stata imparata sul campo, per così dire. Alghe marine; esseri di altri mondi; ora il modo migliore di marciare. Ero tristemente perplesso da quell'ovvia evidenza di incipiente senilità. — Ebbene, sì... Affascinante, ne sono certo. Um, forse dovremmo rientrare... Raggiungere gli altri... Per il tè, magari. Egli scosse la testa, spazientito. — Ammetterà, quindi, che in base a
questo principio una cosa di massa considerevole, diciamo un ponte, può essere distrutta dalla "precisa azione" di una massa più piccola, come un plotone di soldati in marcia? — Sì. Suppongo di sì... — E può concepire un motivo per il quale questo principio di distruzione non sia più vero, a prescindere dalla relativa disparità tra la massa più grande e la più piccola? — Ecco... A dire il vero, non vi ho mai riflettuto... Lord Bendray proseguì, il viso grinzoso velato d'eccitazione. — Ammesso, ovviamente, che si possa determinare "l'esatto" ritmo di pulsazioni da applicare alla massa più grande... Eh? Che mi dice di questo? — concluse trionfante. Scrollai le spalle. — Mi sembra ragionevole. — Meglio continuare ad assecondarlo, probabilmente. Egli roteò su se stesso sull'orlo del precipizio, levando le braccia nell'adorazione delle colonne di pietra. — È questo, ragazzo mio, lo scopo di tutto questo. Il magnum opus di suo padre! I capelli sulla mia nuca presero a rizzarsi. Avevo intuito una follia ancora maggiore di quanto sospettassi all'inizio. Girando la testa, Lord Bendray mi lesse in volto l'orrìbile stupefazione. — Sì, ha afferrato! Ha afferrato, ragazzo mio! Esatto! Dower senior era un maestro della Scienza nota col nome di Armonica del Cataclisma. Come i soldati in marcia trasmettono le vibrazioni che riducono in polvere il ponte, così questa grandiosa costruzione... — Gesticolò verso le colonne di pietra che affondavano nel pozzo. — ...La più grande creazione di suo padre, è progettata per trasmettere pulsazioni altrettanto distruttive al nucleo stesso della Terra. Pulsazioni che crescono e si rafforzano a vicenda... soldati in marcia! Ah! Sì!... finché l'intero mondo non pulsi con esse, e si dissolva negli atomi che lo compongono! — La visione lo fece cadere in preda al tremito. — Il ponte crolla, il mondo si disintegra... Proprio così, proprio così. — Annuì felice. Fissai la costruzione, sgomentato dal fervore del vecchio gentiluomo. Possibile? Mi sentii invadere dall'atroce certezza che avesse detto la verità. Una creazione di mio padre... Questo di certo era indubitabile. Se quella cosa era il prodotto del suo genio, allora, nel bene o nel male, doveva essere potente quanto ogni altra creazione delle sue mani e della sua mente. — Ma... — Guardai Bendray, perplesso. — Che scopo avrebbe una simile distruzione? — Nei miei pensieri si concretizzò la terribile visione di
montagne che si fendevano in due, di deserti che tremavano all'improvvisa invasione delle acque oceaniche, dell'urlo della pietra frantumata e degli strilli delle donne. — A quale causa potrebbe servire? Egli mi guardò con paziente benevolenza. — Ovvio. A ciò di cui abbiamo appena parlato — disse. — A contattare i saggi, progrediti esseri di altri mondi. Quale segnale potrebbe essere migliore? Senza dubbio, creature capaci di mandare in frantumi il mondo sul quale vivono verrebbero percepite da quelle intelligenze come esseri degni di rispetto e attenzione. È molto logico. La sua voce calma, che parlava in tono misurato di distruzione totale, echeggiò nel mio cranio. — Ma se ciò che lei dice è vero... non ci sarà alcun contatto con quegli esseri, o con qualunque altra cosa! Saremo tutti morti! — Puà! Le sue preoccupazioni sono superflue. Venga qui. — Lord Bendray si scostò dall'orlo del baratro, si avviò verso un altro settore del laboratorio. Lo seguii, lanciando di tanto in tanto occhiate alla mostruosa macchina che conteneva nei suoi meccanismi la distruzione della Terra. — Eccoci arrivati. — Batté la mano su una parete curva d'ottone, che risuonò al contatto. — La Vettura Ermetica. Sono orgoglioso di dire che questa, per lo meno, è solo opera mia. Seguii la direzione del suo gesto e mi scoprii a guardare una grande sfera rivettata, alta sino al soffitto. Diverse escrescenze (finestrini tondi, lanterne, e, assurdamente, un'enorme bandiera britannica appesa a un braccio articolato di metallo) sporgevano dall'ottone lucido. — Imponente, eh? — Lord Bendray era raggiante. — Venga. Da questa parte. Le nostre scarpe trassero rimbombi dalla rampa di scalini metallici che portavano a una piattaforma, a metà della circonferenza della sfera. Lord Bendray batté le dita su uno dei finestrini. — Osservi — disse. Premetti il viso sul vetro spesso e scopersi una versione ridotta del salotto di un gentiluomo: poltrona imbottita e ottomana, una parete coperta di libri, un portasigari e una modesta scorta di bottiglie. Le pareti curve erano tappezzate di marocchino, il pavimento coperto da un antico Tabriz. Le uniche note stonate in quel quadro di comodità domestiche erano svariate fiaschette di metallo unite l'una all'altra da tubi a serpentina. — Quelle servono per le scorte d'aria. — Lord Bendray avvicinò il viso al mio, per meglio indicarmi i particolari all'interno della sfera. — Cibo e altre cose essenziali in quegli armadietti là. I comandi per le lanterne di se-
gnalazione e altre apparecchiature esterne... Molto ben concepita, ne conviene? Mi scostai da lui. — Non sono certo di comprendere lo scopo di questo congegno. — È davvero semplicissimo. Quando la Terra si sgretolerà, una cosa simile non potrà sfuggire all'attenzione degli esseri degli altri mondi. Verranno senz'altro a studiare le macerie. E quando lo faranno, io potrò inviare loro segnali, come da una lancia di salvataggio dopo il naufragio di una nave. Dopo che avranno appurato il mio rango e la mia cittadinanza, immagino che mi condurranno al luogo dal quale provengono per lunghe discussioni e consultazioni. — Si carezzò meditabondo il mento. — Penserei... Marte. Sì, con ogni probabilità, Marte. Sotto il mio palmo, il corrimano della piattaforma si inumidì. — Ma, e la Terra? E tutte le persone che ospita? — Via, via. Non possiamo permettere intrusioni di mero sentimentalismo. Questa è "Scienza". — Ma l'intera Umanità distrutta? Nel cataclisma finale? — Niente affatto — sbuffò Lord Bendray. — Guardi i letti da campo lì dentro. La informo che ho provveduto a prendere le misure necessarie per portare con me diversi membri del personale del maniero. Un gentiluomo non potrebbe mai viaggiare senza domestici, vero? Barcollai, stordito da quella placida discussione di morte e orrore. — È follia, e lei lo sa! Sì! — Afferrai il vecchio per i risvolti della giacca. — Nessuno potrebbe prendere seriamente in considerazione un simile gesto. Ecco perché lei non ha mai messo in azione questo mostruoso macchinario! Egli staccò le mie mani dalla giacca. — Niente affatto — disse con altero disprezzo. — La verità dei fatti è che la morte di suo padre ha lasciato incompleto l'apparato. La grande struttura esiste, pronta a martellare nel nucleo della Terra il suo ritmo distruttivo, ma quel che manca è il complesso congegno regolatore necessario per determinare le pulsazioni e mettere in funzione la macchina. Cioè, mancava sino a oggi. Indietreggiando dalle sue parole, poiché il mio cuore era già affondato nel petto, prevedendo quali sarebbero state, per poco non precipitai dai gradini di metallo. Solo la salda stretta sul corrimano mi impedì di perdere l'equilibrio. — Sì — disse Lord Bendray, sorridendomi. — Ora la grande opera può essere completata. Lei mi ha portato il Regolatore.
Mi girai e fuggii a testa bassa sugli scalini metallici, lungi dalla sua voce tremolante e dal sorriso benevolo. Mi lanciai nel labirinto di archi in pietra che avevo davanti. 9 Un recital interrotto — Quell'uomo è pazzo! Dobbiamo fermarlo! Prima che distrugga il mondo! Anche dietro le lenti blu, lo sguardo di commiserazione di Scape era perfettamente leggibile. Portò alle labbra una bottiglia di porto, identica a quella della riserva privata di Lord Bendray che anch'io avevo assaggiato, poi si ripulì la bocca col dorso della mano. — Ti ha ripetuto la solita vecchia tirata? Che svitato. — Scosse la testa, disgustato. Ero ancora senza fiato dopo la frenetica fuga dal laboratorio sotterraneo di Lord Bendray; avevo le mani escoriate per le collisioni con gli archi in pietra. Guidato solo dalla disperazione, avevo ritrovato alla cieca la via del ritorno nel maniero, e alla fine avevo rintracciato Scape in una delle stanze al primo piano, seduto in maniche di camicia sull'angolo di un letto. Il mio cervello era ancora ossessionato dalla voce tremula e dalle parole che pronunciava. — Ma non capisce? — urlai. — Il cataclisma... Tutto in frantumi... Come soldati in marcia... La signorina McThane apparve dal bagno adiacente. A braccia nude, si massaggiava i capelli bagnati con una salvietta. — Cosa sono tutti questi strilli? Scape puntò il pollice su di me. — Il vecchio Bendray ha appena raccontato a Dower che vuole fare saltare in aria il mondo. — Oh, "quello". — La signorina McThane uscì dalla stanza. Afferrai Scape per la spalla. — Ma dobbiamo fare qualcosa... Lui mi scrollò via. — E calmati, Cristo santo. Non posso credere che solo adesso il tuo cervelletto abbia realizzato che Bendray è pazzo. — Ma la macchina sotto il maniero... — È andato. Completamente partito. L'ho capito la prima volta che ho messo gli occhi sullo stronzo. Ecco da dove esce tutta quella roba sull'idea di fare a pezzi il mondo. Dal suo piccolo cranio svitato. Indietreggiai di un passo. — Vuole dire che non è vero? — Oh, merda. — La bottiglia ritrovò la via della sua bocca. — Non riuscirebbe a rompere un uovo con quel mucchio di spazzatura. Il tuo vecchio
stava imbrogliando Bendray. Una delle sue molte truffe, a dire il vero. Ti ha raccontato le panzane sugli esseri di altri pianeti che se ne vanno a spasso in cielo? Sì, già. Be', io ho i miei sospetti anche sull'origine di quelle idiozie. Lui e il resto dei suoi amici di quella balorda Regia Anti-Società. Se uno di loro voleva qualcosa, dalla macchina del moto perpetuo a... qualunque cosa, un paio di trampoli a molla da usare sul soffitto, o un'altra maledetta robaccia, tuo padre la metteva assieme per loro. Sono quasi tutti talmente senili da non accorgersi nemmeno se un aggeggio funziona o no. — Dico... — Ero stupefatto. Quello era un aspetto, per ciò che implicava, del carattere di mio padre nel quale non mi ero mai imbattuto. — Non posso crederlo. — "Andiamo", Dower. Due minuti fa starnazzavi come un'anitra, strillavi che il mondo sta per fare bang. Devi darti una calmata, uomo. I miei pensieri, che erano stati così agitati, cominciarono a disporsi in una sorta di ordine. — Allora il Regolatore, il congegno che lei mi ha fatto portare da Londra... — Tranquillo — disse Scape. — Sicuro, il vecchio lo voleva, ma con quello non riuscirà a mettere in moto il gigantesco orologio a cucii giù in cantina. Insomma, dopo tutto, se ho cercato di fregare l'aggeggio dal tuo negozio era perché sapevo che Bendray lo voleva. Credi davvero che glielo avrei venduto se pensassi che potrebbe usarlo per farci saltare il mondo? — Suppongo di no — arguii. — Un attimo. Lei come faceva a sapere che il congegno era in mio possesso? — Gesù, Dower. Secondo te io che mestiere faccio? Sono "tenuto" a scoprire cose del genere. Ho i miei metodi. Annuii, per nulla turbato da quella franca ammissione di criminosità. Avvertivo un senso di grande sollievo: quali che fossero i misteri che ancora mi circondavano, se non altro non erano gravati dall'imminente annichilimento della Terra. — Forse ti conviene coricarti o qualcosa del genere — consigliò Scape. — Hai un'aria stravolta. — Si alzò e mi guidò per il gomito alla porta. Lì mi indicò, più avanti in corridoio, la stanza che mi era stata assegnata. — Riposati un po', uomo. Il capomaggiordomo di Bendray mi ha detto che stasera c'è una festa. Verranno un po' dei vecchi della Regia Anti-Società. — Chi sono? — Il termine mi aveva lasciato all'oscuro già la prima volta che lo avevo udito da Lord Bendray. — Nessuno. — Scape mi diede una spinta verso la mia stanza. — Solo una manica di vecchi scorreggioni. Balordi. Niente di cui preoccuparsi. —
La porta mi si chiuse in faccia prima che potessi fare altre domande. Trovai Creff intento a disporre i miei abiti sul letto. Il cane Abel dormiva, acciambellato sul cuscino. Drizzò le orecchie al mio ingresso, ma non fece alcun altro movimento. — Gente bizzarra, da queste parti — mugugnò Creff, continuando a estrarre indumenti dal bauletto. — Mai incontrato tipi così strampalati in vita mia. Esausto, mi abbandonai su una comoda poltrona. — Lei proprio non sa — gli dissi — quanta verità ci sia nelle sue parole. — Appoggiai la testa allo schienale e chiusi gli occhi. Mi svegliai alcune ore più tardi. Le lampade a gas erano accese per disperdere il buio della sera. Creff mi stava pungolando la spalla. — Tra beve arriverà gente, signore. Per un qualche tipo di trambusto. — Ah, sì. Certo. — La mia bocca era arida, e amara. Mi alzai dalla poltrona. Una vigorosa applicazione di sapone e acqua mi riportò al pieno stato di coscienza. Vestendomi, sentii un peso stranamente familiare nel taschino del panciotto del vestito che Creff mi aveva preparato. Estrassi la corona di San Lofio e restai a fissarla per un istante. Quanto lontano mi aveva portato quel semplice pezzo di metallo! Ma non certo più vicino a risolvere gli interrogativi che poneva. Il giorno in cui l'Uomo di Cuoio Marrone mi aveva pagato con quella moneta pareva più che mai appartenere a un altro tempo, un'altra vita. Una sconsiderata curiosità mi aveva spronato ad accertare l'identità di quel misterioso santo, e a che pro? La moneta mi aveva portato solo a essere testimone di due morti (il povero Fexton, e il progenitore di tanti enigmi con la pelle così scura) e a vedere minacciata la mia stessa vita dalle gelide acque del Tamigi. Chi aveva promesso di rispondere alle mie domande, come Lord Bendray, si era limitato a suscitare nuovi misteri. Bisognava porre fine a tutto quel caos. Riposi la moneta nel taschino, e decisi che se le mie richieste di chiarimenti non fossero state accolte nel corso della serata sarei ripartito da solo per Londra, senza avere più nulla a che fare con quei "tipi strampalati", come li aveva magistralmente definiti Creff. Un'onesta confessione della mia sventatezza sarebbe stata lo scudo capace di proteggermi da ogni falsa accusa. — Gesù Cristo santissimo! — Uno Scape senza fiato entrò in collisione con me quando uscii dalla stanza. — Svelto! — disse, e mi ricacciò dentro.
— Stammi a sentire... Mi ritrassi dal suo viso paonazzo e ansimante. — Che accade? Egli aumentò la stretta sul braccio. — Sto cercando di dirtelo, va bene? Tu ascolta e basta, okay? Non sapevo che questa gente si sarebbe fatta viva qui stasera. Per cui tu devi... — Chi? — La mia risoluzione includeva anche il rifiuto a lasciarmi manipolare da quell'eccitabile individuo. — Quale gente? Scape ritrovò un minimo di controllo, abbassò la voce. — Un certo Wroth. Okay? Sir Charles Wroth e sua moglie. Sono loro. Sapevo che Lord Bendray aveva invitato per stasera un po' dei suoi soci della Regia Anti-Società, ma nessuno mi aveva detto che ci sarebbe stato il fottuto Wroth. Per cui, quello che devi fare... Staccai la sua mano dalla mia giacca e la lasciai cadere. — Io non devo fare niente — ribattei secco. — A meno che non mi si dia una ragione maledettamente buona. Cosa ha di tanto significativo questo... Wroth, o quel che è? — È quello che sto cercando di dirti, Dower. — La voce di Scape si restrinse in un sussurro roco. — È all'incirca... un altro mio cliente. Per così dire. Afferri il significato? — Mi sta dicendo — ribattei freddo — di essere impegnato in chissà quale attività criminosa per conto di questo gentiluomo. — Be'... Sì! Gesù! — Il suo tono si fece stridulo. — Mettimi davanti al plotone d'esecuzione solo perché cerco di rimediare un po' di grano, stronzo d'un figlio di puttana! — Riprese il controllo di sé. — Senti, vuoi farmi un favore? Quando parli col tizio, comportati in modo naturale. Okay? Però non... — Dower! Eccola. Venga a conoscere i miei ospiti. Scape venne interrotto da Lord Bendray. Il vecchio, tornato a un apparente stato di sobrietà, percorse il corridoio e si attaccò al mio braccio, tramite il quale mi trascinò alla scala. — Sono certo che li troverà molto interessanti — disse. — Sir Charles nutre un acuto interesse per tutto ciò che attiene alla Scienza. Mentre camminavamo, Scape, al mio fianco, si chinò sul mio orecchio e sussurrò: — Non darci troppo dentro, okay? Come spesso accadeva, il suo enigmatico lessico mi lasciò perplesso. Presi la frase come una sorta di avvertimento, ma di cosa, non avevo idea. Poco dopo mi trovai in un salone da banchetti fastosamente illuminato, sottoposto all'ispezione di una figura ingrigita dall'età ma ancora vigorosa
nell'atteggiamento militaresco. — Spero che vorrete scusarmi — disse Lord Bendray. — Devo occuparmi di alcune piccole questioni. — E si allontanò. Sir Charles si chinò in avanti, scrutandomi in maniera ancora più attenta. — Meraviglioso — mormorò tra sé. — Davvero straordinario. — Sorprendentemente, mi tastò il petto con l'indice. — Molto verosimile. Parli? — mi chiese all'improvviso. La singolare domanda mi colse alla sprovvista. — Sì. Certo. — Alle sue spalle, Scape si stava rivolgendo a me con una serie di movimenti clandestini della mano. Mi lasciarono tanto perplesso da impedirmi di aggiungere altro. Oltre a quello, mi turbava la strana familiarità della voce di Sir Charles: mi pareva di averlo già sentito parlare, ma non riuscivo a immaginare dove. — Certo — ripeté Sir Charles con un sorriso. — Proprio divertente. — Si girò verso Scape, che interruppe all'istante le sue segnalazioni. — Mi congratulo. Lo ha portato qui in condizioni di funzionamento straordinariamente buone. Scape scrollò le spalle, modesto. — Ecco... Cerchiamo di fare del nostro meglio. — La signorina McThane, coi capelli raccolti a crocchia, era entrata nella stanza e si era portata al suo fianco, con un sorriso amabile. Una donna più giovane di Sir Charles, di considerevole bellezza e adorna di una sorprendente scollatura, si fece avanti per un'ispezione più ravvicinata. — Sì — disse roca la signora Wroth, facendo scorrere la mano guantata di seta sulla mia guancia. — Molto... verosimile. — La sua mano tremò sfiorando la curva della mia spalla; gli occhi, limpidamente cerulei, si socchiusero come già avevo visto fare dalla signorina McThane. Non riuscii più a parlare per l'improvviso groppo che mi chiuse la gola. Sir Charles sembrava ignaro dell'evidente natura dell'interesse della moglie per me. — Mi congratulo col tuo costruttore. O meglio, lo farei se fosse ancora vivo. — Sir Charles prese un bicchiere di chiaretto per sé e per la moglie dal vassoio che un domestico di Bendray stava portando in giro. — Una tecnica superba, semplicemente superba. Attendo con ansia l'esibizione di stasera. La signora Wroth bevve un sorso di vino; la punta della lingua intercettò una goccia rossa all'angolo della bocca. Le mani eleganti vagarono sullo stelo del bicchiere, e il suo sguardo restò puntato su di me. — Sì — disse. — Dovrebbe essere... molto eccitante. — Si girò a guardare la signorina
McThane. Le due donne si scambiarono sguardi velenosi. Scape mi si avvicinò e mi prese per il braccio. — Però ha bisogno di qualche aggiustatina, gente. — Sorrise e sventolò la mano libera mentre mi trascinava via. — Bevete... spassatevela... ci rivediamo tra un po'. — Il suo sorriso si fece ancora più ampio. — All'ora dello spettacolo, giusto? — Mi sussurrò sotto voce: — Dai. Non mandare tutto all'aria adesso. — Cosa significano queste assurdità? — domandai non appena Scape ebbe chiuso una porta, isolandoci da tutti quelli che si trovavano nel salone. — Di cosa parlava? "Una tecnica superba" e discorsi simili... — Ehi, posso spiegarti. — Scape distese le mani a ventaglio, in un gesto pacificatore. — Non c'è bisogno di scaldarsi. Si dà il caso che Sir Charles creda che tu sia... um... un uomo a orologeria. Tutto qui. Sgranai gli occhi. — Cosa? — Un uomo a orologeria. Una specie di macchina. Come quelle che costruiva tuo padre. Sir Charles pensa che tu sia una macchina. Semplice, no? L'assurdità della spiegazione mi irritò. — Può anche darsi, ma non vedo motivo di lasciargli coltivare oltre quest'idea ridicola. — Ecco... — Scape risucchiò aria tra i denti. — A dire il vero, ci sarebbe... — Se si aspetta che io la aiuti a portare avanti una frode ai danni di quel gentiluomo, a beneficio delle sue attività criminose... — Ehi. — Egli aprì ancora di più le mani. — Qui non c'è in ballo soltanto il mio culo, fesso. Sir Charles è un pezzo grosso della Regia AntiSocietà. Mica tutti quelli prendono alla leggera come il vecchio Bendray qualcuno che si presenta sotto mentite spoglie. Insomma, tirano calci. Non sono durati duecento anni a forza di bontà e gentilezza. Hanno smoccolato gente per molto meno. — Smoccolato... — Ebbi l'immagine mentale di una fiamma di candela spenta tra pollice e indice. — Sarebbe a dire "ucciso"? — Centro perfetto. Hai vinto una bambolina. — Mi aveva detto che sono un gruppo di innocui vecchietti! Scape scrollò le spalle. — Innocui, nocivi... Non tirargli bidoni e non ti succederà niente. Afferri? E se farai quel che ti dirò, sarai okay. Lanciai un'occhiata nervosa alle mie spalle, nel timore che qualcuno avesse udito filtrare dalla porta le nostre voci sempre più alte. — Cosa devo fare? — mormorai. La minaccia di violenze aveva fatto evaporare ogni mia decisione.
— Una robetta da niente. — Scape prese da una credenza una lunga scatola in pelle e la depositò su un tavolo di fronte a me. La aprì, estrasse un violino con l'arco, e me lo tese. — Tutto quel che devi fare è... suonare un po'. — Prego? — Scrutai lo strumento che teneva in mano. — Vuole dire, suonare il violino? — E secondo te questo cosa sarebbe, una fottuta tromba? Sì, il violino. Dai, prendilo. — Me lo allungò. Io indietreggiai. — Ma perché? Egli sospirò, in uno sfoggio d'esagerata pazienza. — Senti, Sir Charles pensa che tu sia... un congegno... creato da tuo padre. Il Paganinicon. — Il "cosa"? — Vuoi starmi a sentire? Il Paganinicon. Un violinista a orologeria. Modellato sul grande virtuoso. Mi segui? Tu sei un... come si chiama?... un automa, giusto, e sai suonare il violino come il vero Paganini. O almeno è quello che vogliamo che Sir Charles continui a credere. Visto? Te l'avevo detto che è semplice. — Ma... — Il mio sguardo stravolto vagò dal viso di Scape allo strumento. — Non ho mai sentito Paganini suonare. Non ho mai tenuto in mano un violino in vita mia! — E con ciò? Sarà poi tanto difficile? — Scape mi depositò lo strumento tra le mani. — Dai, prendi. Grazie alla mia goffa presa, l'archetto si impigliò tra le corde. — È impossibile... — Non così. Dall'altra parte! Non lasciarlo cadere, Cristo santo. È un vero Guarneri. Lo ha fatto arrivare appositamente Sir Charles. Un giorno varrà un sacco di soldi. Anzi, probabilmente li vale già. — No. No, non ci riesco. — Il violino sembrava incredibilmente leggero, lieve, come potesse alzarsi nell'aria se solo io avessi lasciato la presa. Il legno lucido tremava al ritmo del mio polso. — Non ci crederanno mai... Le mie proteste vennero interrotte dallo spalancarsi della porta. Era uno dei domestici di Lord Bendray. Vidi alle sue spalle che il salone da banchetti era deserto. L'uomo ci informò che gli ospiti ci attendevano nella sala da musica. — C'è il tuo capo? — chiese Scape. — No, signore. È in laboratorio e ha dato ordine di non disturbarlo. Scape emise un sospiro di sollievo, e io compresi un'ulteriore sfaccettatura della sua duplicità: né Lord Bendray né Sir Charles sapevano in quale guisa Scape mi avesse presentato all'altro. Da lì il suo panico quando ave-
va appreso della presenza di Sir Charles al maniero; i suoi intrighi dipendevano dal tenere divisi i due uomini, per lo meno finché la loro attenzione era puntata su di me. — L'inganno non reggerà — gli sussurrai mentre il domestico ci guidava in un altro dei corridoi del maniero, sotto l'ampio soffitto. — È pura follia! Scape mi rispose con l'angolo della bocca. Le lenti blu rimasero puntate in avanti. — Tu cerca solo di fare del tuo meglio. Cosa hai da perdere? Dietro una nicchia chiusa da una tenda, vidi Sir Charles e la signora Wroth seduti a una certa distanza da un pianoforte a coda. Lo stesso maggiordomo di prima li stava servendo da un vassoio. Dopo che i due ebbero preso un bicchiere di sherry a testa, il maggiordomo si girò verso la signorina McThane, alle spalle della coppia; il domestico sgranò un poco gli occhi quando lei afferrò la bottiglia dal vassoio e non la restituì. Gli occhi cupi e socchiusi della ragazza, mentre ingollava la prima sorsata, erano puntati sulla nuca della signora Wroth. Scape mi assestò una gomitata. — Forza. Rompiti una gamba. — Cosa? — Il manico del violino scivolò sotto la mia viscida presa. — Lascia perdere. Esci di qui e basta. — Appoggiò entrambe le mani alla mia schiena e spinse con una eerta violenza. Mi trovai a fianco del pianoforte, col violino in una mano e l'archetto nell'altra. Battei le palpebre. Sir Charles mi fissò aggrottato. Si protese in avanti, adagiò il mento nell'angolo tra pollice e indice mentre studiava le azioni di quello che credeva un automa. Come prima, non notò l'inquietante interesse, di natura completamente diversa, che sua moglie comunicava col mezzo sorriso e lo sguardo fisso. Invisibile a quegli occhi intimidatori, la mia mente ruotava su se stessa a velocità in continua crescita. Il violino, Paganini: cosa sapevo dell'uno e dell'altro? Mentre un rivolo salato mi correva dal labbro superiore all'angolo della bocca, frugai nel cervello alla disperata ricerca di un frammento di ricordo, di qualche brandello d'informazione udito per caso e a metà scordato. Mi maledissi per non avere prestato attenzione ai giubilanti resoconti sulle esibizioni del virtuoso che erano apparsi in svariati giornali: come avrei potuto sapere che l'argomento avrebbe mai rivestito la benché minima importanza per me? Non rammentavo nulla, non una sola parola pronunciata sul conquistatore musicale che aveva fatto suoi i palcoscenici e i teatri del mondo intero; una vaga sensazione, ricavata dai commenti occasionali e dalle argute allusioni di uomini più au courant di me dei raffinati regni della cultura: solo
quello emerse dalla mia frenetica scorribanda negli armadi della memoria. Un mio cliente, un nobile, compiaciuto della riparazione al suo orologio, non mi aveva definito "un vero Paganini degli orologiai"? E io non avevo sorriso al complimento, come avessi inteso alla perfezione il senso della frase, come se entrambi fossimo uomini bene informati, dotati di gusto e discernimento? Un difetto comune, questo: fingiamo di capire, e non ci informiamo mai; finché, in una qualche sorta di corte d'Assise, la nostra ignoranza diviene a un tempo accusa e confessione. Sir Charles continuava a fissarmi con espressione sconcertante. Quanto avrebbe impiegato a indovinare la verità? La mia vita era già stata minacciata con scarso preavviso; era piuttosto facile immaginare che anche quel gentiluomo ingrigito e fiero sarebbe stato capace di emanare lo stesso ordine, nel nome della misteriosa Regia Anti-Società. Serrai la presa sull'impugnatura del violino, e le mie dita fecero miagolare le corde. Un'incisione su acciaio: dove l'avevo vista? L'immagine di un uomo dal viso affilato, dal fisico scheletrico, le lunghe dita piegate sulle corde dello strumento, la criniera di capelli scuri che scendeva a cascata sui folgoranti occhi da pazzo... Doveva essere l'immagine del virtuoso riprodotta da qualche giornale. Pazzo; lo era senza dubbio; in ogni suo ritratto che avessi mai visto, di certo "sembrava" pazzo. E satanico. Sì, esatto. Aveva attaccata a sé un'aurea sulfurea. Non erano circolate storie idiote sul fatto che avesse venduto l'anima al diavolo in cambio del suo virtuosismo? Imprevedibile, collerico, portato a ire colossali: ma del resto, non era opinione comune che tutti i virtuosi fossero di quella tempra? O lo erano sin dall'inizio, o finivano col diventarlo. Molto probabilmente, parecchi spettatori sarebbero rimasti delusi se non ci fossero state esplosioni di temperamento focoso. Forse erano lì più per assistere a quelle che per sentire la musica. Mi aggrappai a quell'idea con la foga disperata di chi venga condotto al patibolo. — La... — Feci con l'archetto un cenno che sperai melodrammatico a sufficienza. — La luce è troppo forte. È del tutto inadatta. Sir Charles si protese in avanti con evidente interesse. Al suo fianco, la signora Wroth sgranò un poco più gli occhi. Così incoraggiato, proseguii. — Come ci si può attendere che io mi esibisca in queste condizioni? — Mi chiesi per un attimo se il mio non potesse sembrare solo un tono petulante. Occorreva qualcosa di più forte. — È un "oltraggio" — urlai, alzando la voce in quello che pensavo fosse l'urlo stridulo del folle. — E per... per un pubblico di "queste" dimensioni? Un insulto! Io suono per centinaia, per migliaia di persone. Per il mondo inte-
ro! Non per una manciata di individui a bocca aperta! Le teste coronate d'Europa devono prendere il loro umile posto accanto agli altri. Non sono un intrattenitore di bambini assoldato per una féte di compleanno! Udii Scape sibilare qualcosa dalla nicchia, e con la coda dell'occhio vidi i suoi gesti frenetici per catturare la mia attenzione. Lo ignorai. Era stato lui a ficcarmi in quell'impiccio; ovviamente, stava a me riuscire a districarmene. Furono forse i ripetuti contatti con tanta gente palesemente lunatica a conferire alla mia recita un tono verace. Presi a passeggiare in su e in giù davanti agli spettatori, sventolando il violino sopra la testa nel trasporto emotivo. — Un oltraggio, vi dico. Questi contadinacci ignoranti non "meritano" il mio genio! Sir Charles e la signora Wroth parevano sempre più ipnotizzati dal montare della mia ira. Mi sentivo stordito, come se urlare mi avesse privato di tutto il fiato che possedevo. In preda al delirio, ormai ignaro di ogni divisione tra il placido negoziante e il virtuoso pazzo che avevo evocato, brandii il violino e lo agitai nell'aria, come a minacciare violenza. — La luce! Voialtri idioti! La grande arte non può nascere in simili circostanze! Quegli orribili tendaggi! E... — Mi fermai, guardai il pianoforte come vedendolo per la prima volta. — "Dov'è il mio accompagnatore?" Una nuvola rossa corse sui volti che mi fissavano. — Dov'è il mio accompagnatore? — tuonai. L'ira monumentale si riversò sul pianoforte. Udii uno schianto di legno e un'eco cacofonica. Abbassai gli occhi sulle mani e vidi che il mio pugno stringeva solo l'impugnatura del violino. Le corde schiantate erano avvolte attorno al mio polso. Il coperchio del pianoforte era rimasto ferito dall'impatto; mi stavano piovendo addosso schegge lignee. — Magnifico! — sentii qualcuno urlare. Esterrefatto, mentre lo spettro del virtuoso si perdeva nel nulla allo shock della distruzione del violino, vidi Sir Charles schizzare dalla poltrona e correre verso di me. Mi superò ed estrasse a viva forza Scape dalla nicchia. — Semplicemente meraviglioso! — disse Sir Charles, stringendo con vigore la mano di Scape. — Un risultato magnifico. L'esatto duplicato, il temperamento del vero Paganini in ogni particolare! Debbo congratularmi con lei. Scape ritrovò il controllo dopo un momento di confusione. — Be', sì... Non è poi quella gran cosa. — Sorrise modesto.
Mentre li osservavo, ebbi la sgradevole sensazione di un altro sguardo puntato su di me. Mi girai, coi resti del violino frantumato nella mano, e vidi la signora Wroth: la testa piegata di lato, che mi scrutava con un interesse ancor più inquietante. Prima che qualcuno di noi potesse pronunciare un'altra parola, fummo raggelati dal suono di una finestra che andava in frantumi. A un lato della stanza, un pesante tendaggio tremò sotto l'impatto di un qualche missile. Sir Charles lasciò andare la mano di Scape e corse a quel punto. Le schegge di vetro si frantumarono sotto i suoi stivali quando scostò imperioso la tenda, rivelando la fioca luce della sera. — Sono qui! — urlò. — Il Pio Esercito! — Girò sui tacchi e uscì di corsa dalla stanza, il viso stravolto dall'ira. Dall'esterno giunsero urli e altri rumori. Raggiunsi Scape alla finestra. — Merda — mormorò lui. — Ma perché quei coglioni devono farsi vivi proprio adesso? Mi occorse qualche istante per percepire, nell'incombente tenebra, le forme in movimento. La fiamma improvvisa di una torcia svelò i cavalieri col mantello che avevano inseguito la carrozza che ci aveva portati al maniero. Ve n'erano varie decine. Il brillare della luce sull'acciaio mi mostrò le armi che impugnavano. — Alle armi! — urlò qualcuno dal corridoio. Udii piedi in corsa tra i meandri del maniero, e un vociare eccitato più vicino. Scape era scomparso, portando con sé la signorina McThane. Raggiunsi la doppia porta della sala da musica e la spalancai. Vidi, sul pianerottolo della grande scala, Lord Bendray con un antico moschetto sotto il braccio. Era ancora in maniche di camicia, con gli occhiali d'ingrandimento appollaiati sulla fronte. A quanto pareva, l'emergenza lo aveva spinto a lasciare il laboratorio. Il personale di casa, maggiordomi e camerieri, gli mulinava attorno. Spade e picche erano state divelte dalle numerose armature sistemate ai lati delle porte; Lord Bendray era intento a distribuirle e a organizzare la difesa del maniero. A poca distanza da lui, Sir Charles era concentrato nel caricamento di una coppia di pistole. Sotto il mio sguardo annichilito, la porta d'ingresso tremò all'impatto di un ariete. — Vieni con me — disse una voce al mio orecchio. Girandomi, incontrai la signora Wroth. Mi strattonò via dalla ringhiera. — Spicciati. Non c'è molto tempo. Non nutrivo alcun desiderio di essere reclutato per i preparativi marziali
a pianterreno. Mentre ella mi guidava in un corridoio, mi girai per un'occhiata nervosa al risuonare di urli e cozzi metallici. — Cosa sta succedendo? Chi c'è là fuori? La signora Wroth mi spinse su per una delle scale sul retro dell'edificio. — Il Pio Esercito — mi rispose. — Meglio stare alla larga da loro. — Ma Scape mi ha detto che non c'era da preoccuparsi. Dietro di me, ella rise ironica. — Mio marito può anche fidarsi di quell'uomo, e Lord Bendray può averne un'opinione altrettanto alta, ma "io" so che è un mascalzone impenitente. Ti consiglierei di accogliere ogni sua affermazione col più alto scetticismo. Dopo due rampe a passo assai veloce, ansimavo. Mi fermai sbuffando davanti alla ringhiera del pianerottolo successivo. — Chi... chi sono quegli individui, allora? Ella si portò al mio fianco. Il suo petto roseo si alzava a ogni inspirazione. — Il Pio Esercito? — Levò una mano sollecita e scostò una ciocca di capelli dalla mia fronte madida. — Ah, hanno una lunga storia alle spalle. Molto lunga. Quasi quanto quella della Regia Anti-Società. Le avrei chiesto informazioni anche su quell'ultima organizzazione, ma ero troppo preso dall'ascolto dei suoni dell'attacco e della difesa che filtravano sino a noi. — Alcuni degli elementi più puritani delle forze di Cromwell — disse la signora Wroth, e intanto, come per celia, si avvolse attorno all'indice una ciocca dei miei capelli. — Hanno saputo di certi interessi dei nobili della Regia Anti-Società... Mmm... "Diavolerie" di vario tipo, ecco cos'erano probabilmente per loro. Le ultime parole mi vennero sussurrate all'orecchio, con lei china su di me. Io mi scostai, scoprendo nel suo sguardo intenso la stessa espressione conturbante che avevo già visto. Da sotto ci giunsero urli incomprensibili. — Forse sarebbe meglio... Ella abbassò la mano, mi carezzò il collo. — Quindi esiste un'organizzazione segreta — continuò — e un'altra organizzazione segreta che la combatte. Con gli anni, le fila di entrambe si sono andate riducendo. Temo che quelle... vecchie passioni... dopo un po' muoiano. Come nelle vecchie famiglie. Il sangue si inaridisce. — Puntò direttamente nei miei occhi quel suo sguardo sconcertante. Scivolai all'indietro lungo la ringhiera. — Qui... Qui siamo al sicuro? Prendendomi per mano, ella mi guidò alla rampa successiva di scale. — Non vogliamo che ci disturbino — disse, con un sorriso.
Un odore di muffa, di stanze chiuse da tempo ci accolse al piano di sopra. Nel buio, la signora Wroth mi trascinò con sé. — Sbrigati. Qui non ci troveranno. Da una finestra priva di tende filtrò il chiarore lunare sufficiente a permettermi di vederla armeggiare su un tavolino. Si accese un fiammifero, poi piovve su di noi la luce più calda di una candela. Si sollevò una nube di polvere quando ella sedette sull'orlo di un letto. — Adesso vediamo. — Mi afferrò per un polso, con un sorriso ancora più ampio. — Dio dei cieli! Signora Wroth... — Incollato al suo petto, caddi con lei, lungo e disteso, sul letto. Le sue braccia, snelle e delicate come il resto del corpo, erano imbevute della vigorosa forza del desiderio. Io lottai invano, quasi impossibilitato a respirare, tanta era la potenza del suo abbraccio. — Per favore... Cosa sta facendo? La signora Wroth si rovesciò, inchiodandomi al nudo materasso. Nei suoi occhi brillava una lussuria ai limiti della follia; la sua gonna si era scompigliata nell'improvviso assalto, mettendo a nudo una distesa di carne perlacea lucida di sudore. — Tic toc — disse, e dopo una risatina chiocciante si chinò ad affondare nel mio mento le aguzze punte dei denti. — Cosa? — Riuscii a liberare un braccio, ma solo per un attimo, prima che lei tornasse a farlo prigioniero. — Il mio marchingegno a orologeria. — Il suo morso, sceso a una latitudine più bassa, mi strappò un gemito. — Tic toc, mmm. — Le sue mani presero a darsi da fare coi miei vestiti. — Vediamo se riusciamo a trovare la chiave che ti dà la carica. — Signora... Buon Dio... — Ansimai, in cerca d'aria. Chissà dove, risuonarono voci lontane. — Non... molto sconveniente... — Solo un attimo... Cosa... — Si inarcò all'improvviso, staccandosi da me. Mi fissò a occhi sgranati. — E questo cosa significa? Non sei una macchina a orologeria! Riuscii a trovare il fiato per parlare. — No... no, non lo sono... — Sei un uomo in carne e ossa! — urlò la signora Wroth, furibonda. — Non sei il Paganinicon! Accostai i lembi della camicia. — Temo di no, signora. — Zuccai con la nuca contro la parete quando strisciai all'indietro sui gomiti. — Mi spiace... — Quel bastardo. — Il viso della signora Wroth si rabbuiò. Gli occhi si ridussero a fessure. — Mi aveva detto... — Prego? — Fu un sollievo constatare che la sua attenzione si era rivol-
ta altrove. — Di chi si tratta? — Sir Charles — borbottò ella. — Mio marito. Gliela farò pagare. Mi aveva informata che stasera qui ci sarebbe stato un duplicato a orologeria di Paganini. Un esatto duplicato, "in ogni dettaglio". — Si rosicchiò con furia un'unghia. — Ebbene... Temo di non saper suonare il violino. — Guardai la porta, oltre le sue spalle: gli urli erano diventati più forti. — Al diavolo il maledetto violino. Era l'altra cosa che mi interessava. Quel mascalzone... — L'altra cosa? — domandai. Ella mi trafisse con lo sguardo, come io fossi l'epitome vivente del genere che comprendeva il suo perfido marito. — Sai benissimo di cosa sto parlando. Il grande Paganini... gode della reputazione di virtuoso in altri ambiti, oltre alla musica. Ha lasciato il segno tra le dame ricche e titolate di ogni paese d'Europa. Alcune di loro... mie amiche, ah! Cagne!... mi hanno raccontato come è stato. Quegli occhi... quegli occhi penetranti... — Il suo sguardo si perse nella contemplazione di quella visione romantica, poi tornò feroce su me. — E cosa trovo qui? Te! Indietreggiai dalla sua furia. — C'è stato... un equivoco — ammisi. Ella sbuffò disgustata e si alzò dal letto. Riaggiustandosi il corpetto, uscì a passo di carica dalla stanza. Dopo avere risistemato al meglio possibile i miei abiti, andai alla porta e guardai fuori. Non v'era segno di lei in corridoio, ma i suoni dell'aspra battaglia erano paurosamente vicini. A quanto sembrava, il Pio Esercito era riuscito a penetrare le difese di Lord Bendray, e il combattimento era risalito furioso per i piani del maniero. Raggiunto il primo scalino, guardai giù, affacciandomi dalla ringhiera. Fu un errore: mi ero appena sporto quando uno dei combattenti, madido di sudore in volto, mi individuò. — Eccolo! — urlò, indicandomi alla sua coorte. — La macchina diabolica! La blasfema parodia delle divine creazioni! — Così ispirati, gli uomini diedero nuova foga all'attacco. Salirono le scale, pugnando con mani e bastoni, solo moderatamente frenati dai domestici di Lord Bendray, che in buona sostanza stavano battendo in ritirata. — Distruggete l'irriverente marionetta! — urlò il capo degli attaccanti. Rimasi paralizzato dall'orrore per un attimo, poi schizzai via e rientrai nella stanza. Non c'era un paletto all'interno della porta; se anche ci fosse stato, non mi avrebbe protetto a lungo dalla furibonda marea che montava verso me. Corsi alla finestra.
Nel buio, i cavalli facevano gruppo, abbandonati dagli uomini che stavano combattendo nel maniero. Salii sul davanzale e afferrai l'antico rampicante che cresceva sulle pietre. Quando mi esposi alla gelida aria della sera, gli urli risuonavano in corridoio. Ero sceso di poche decine di centimetri, graffiandomi nocche e stinchi contro il muro, quando il mio peso cominciò a strappare il rampicante dai suoi ormeggi. Col suono della stoffa che si lacera, il vegetale si staccò dal muro e mi lasciò a penzolare come un pesce preso all'amo. Mi agitai alla disperata per fare entrare le suole delle scarpe in contatto con la pietra, ma invano. Il rampicante si scollò nella sua intera lunghezza, facendomi precipitare a terra come un masso. Il fogliame attuti in buona misura la caduta, sicché la mia spina dorsale non si frantumò quando atterrai sulla schiena. Le stelle ruotarono in cielo mentre lottavo per ritrovare il fiato che mi era stato bruscamente cavato dal petto. Ancora boccheggiante, riuscii a rialzarmi. Adesso gli urli giungevano dall'alto. Guardai su, e vidi facce alla finestra che mi era servita da via di fuga: scrutavano il terreno in cerca di mie tracce. Il panico ebbe la meglio su ogni ulteriore riflessione strategica. Trascinandomi dietro i viticci che si erano aggrovigliati alle mie caviglie, corsi verso i limiti più bui dei giardini del maniero, verso le mura e le paludi che mi avrebbero offerto rifugio. Precipitai a faccia avanti quando il rampicante si estese in tutta la sua lunghezza, con l'altra estremità ancora radicata nel terreno ai piedi dell'edificio. Dopo essermi liberato, mi rialzai e ripresi la fuga. 10 Il signor Dower viene inseguito Anni d'incuria avevano arrecato seri danni al muro che recingeva i possedimenti di Lord Bendray. Fu semplice trovare punti d'appoggio per i piedi dove pietra e malta si erano sgretolate, e ben presto raggiunsi la cima. Mi girai a guardare il maniero, e mi rallegrò vedere che i domestici di Lord Bendray avevano trovato l'energia per un contrattacco alle forze del Pio Esercito. Tra gli ampi portici dell'edificio, la battaglia infuriava rinnovata, nel cozzo delle armi illuminate dalle torce. Lo strepitio delle voci e il clangore del metallo sul metallo mi giungevano portati dall'aria; almeno per il momento, i miei inseguitori erano alle prese con questioni più urgenti.
Tutto era buio sull'altro lato del muro; non riuscivo nemmeno a discernere il terreno alla base. A una certa distanza, tra le paludi che avevo osservato dalla carrozza, rade luci gialle brillavano deboli nella nebbia. Doveva trattarsi del villaggio di Dampford, decisi. E non importava che non riuscissi a vedere lo stretto nastro di strada che dai cancelli del maniero portava al villaggio; senza dubbio, nella mia ricerca dell'aiuto degli indigeni, sarei stato individuato con minore facilità se mi fossi mosso nell'aperta campagna. Saltai giù dal muro. Un gesto che rimpiansi all'istante. Una pozza d'acqua, strangolata dalle canne, si era raccolta a ridosso delle pietre; il fango mi schizzò fino al petto, prima di trovare un minimo di terreno solido sotto i piedi. Raggelato fino all'anima, avanzai nella fanghiglia che tentava di risucchiarmi le scarpe, aggrappandomi al marcescente fogliame per mantenere l'equilibrio. Alla fine, scosso dai brividi, strisciai su un terreno che, per quanto ancora imbevuto d'umidità e cedevole sotto mani e ginocchia, mi garantiva se non altro che non sarei morto affogato. Sputando una boccata di fetida acqua, mi rialzai per fare il punto della mia posizione. A diversi metri di distanza, la nera distesa del muro celava la furibonda battaglia all'interno e all'esterno del maniero. Guardandomi attorno, temetti per un istante di avere smarrito la direzione del villaggio. Poi individuai un pennacchio di fumo che oscurava una manciata di stelle, e alla sua base il debole bagliore di una luce di lanterna che usciva da una finestra con l'intelaiatura a riquadri. Mi avviai verso quella promessa di rifugio. Quando raggiunsi il villaggio ero ancora più zuppo d'acqua, essendomi imbattuto in una mezza dozzina buona di torrentelli e pozze stagnanti. Uno di quei corsi d'acqua possedeva una corrente sufficiente a farmi perdere l'equilibrio e trascinarmi per diversi metri, finché non ero riuscito ad ancorarmi al canneto della riva; una famiglia di topi di campagna mi aveva fissato con occhietti lucidi prima di ritirarsi nel nido. Così, grondando fango e vegetazione marcescente da ogni arto, entrai barcollante nello spazio centrale di Dampford. Il pennacchio di fumo che avevo spiato in precedenza usciva dal più grande dei tozzi edifici. Dedussi che fosse la locanda del villaggio, o quel che lì passava per una locanda; dalla porta aperta mi giungevano voci mischiate nelle conversazioni e scoppi di risate, il tutto al ritmo dei boccali sbattuti sui tavoli di legno. L'accento degli indigeni era talmente spiccato, nel fondersi delle sillabe distorte che già avevo udito a Wetwick con la pe-
sante "r" gutturale della campagna, da impedirmi di comprendere le parole anche a pochi metri di distanza. Avevo ragione: all'interno della costruzione v'era quella che doveva essere una buona fetta della popolazione, maschile e femminile, del villaggio. Sotto un cadente soffitto a travi, oscurato dal velo del fumo, gli occhi sporgenti si girarono verso di me quando mi presentai sulla soglia. Le conversazioni cessarono; le pipe vennero deposte; e ai tavoli negli angoli più lontani si rialzarono teste dalle pozzanghere di birra rovesciata. Persino le corpulente donne, coi capelli grigi che colavano sulle fronti inclinate, interruppero le chiacchiere e il lavoro ai ferri nel quale erano impegnate attorno al camino. Indubbiamente, aggrappato alla porta com'ero per non crollare, dovevo essere uno spettacolo sconcertante. Attorno ai miei piedi cominciò a formarsi una pozzanghera marrone. — Brava gente... — Riuscii a parlare prima ancora di tentare di rimettere ordine nei pensieri. Le facce ittiche continuarono a fissarmi senza emozioni discernibili. — Sono accaduti eventi paurosi... — Alzai il braccio e puntai la mano sulla sera. Un rigagnolo freddo mi corse giù per la manica. — Il maniero di Lord Bendray... è stato attaccato da uomini, una specie di tremendo esercito... Dovete dare il vostro aiuto... Gli indigeni si guardarono l'un l'altro, guardarono me, poi ripresero a conversare come prima, anche se forse su un tono più smorzato. Uno o due scoccarono un'altra occhiata interrogativa nella mia direzione prima di alzare il boccale, ma nessuno espresse il minimo interesse per il mio appello, o accennò a muoversi per portare soccorso. Barcollai nella stanza, scrutai esterrefatto quella congrega indifferente, totalmente estranea alle mie implorazioni. — Ma non comprendete? Lord Bendray... il maniero... il vostro dovere di fittavoli... Una delle brutte donne mi fissò prima di sbuffare altera e tornare al basso mormorio rivolto alle orecchie della sua vicina. — Semplice carità cristiana, per amor di Dio... — Afferrai il braccio di un uomo, interrompendo il gorgoglio della bocca che trangugiava birra. — Dovete nascondermi prima che mi trovino qui... — L'uomo emise un'imprecazione incomprensibile, irritata, e mi scrollò via rudemente. Mi folgorò il ricordo dell'incontro con una mancanza di civiltà identica a quella, sfoggiata da persone che erano la controparte urbana di quei ripugnanti villici. Era accaduto nel distretto londinese di Wetwick, e avevo scoperto il rimedio per le pessime maniere nei confronti di un estraneo. Un
simbolo che imponeva rispetto; un oggetto che avevo ancora con me, nel taschino del panciotto. Le mie dita scavarono nel fradicio indumento ed estrassero la corona di San Lofio. — La vostra attenzione, prego! — Alzai la moneta nell'aria, trionfante. L'ira per quell'accoglienza indecente proiettò la mia voce negli angoli più remoti del locale. — Vedete cosa ho qui? Eh? Le voci ripiombarono nel silenzio. Gli occhi sporgenti si puntarono sul lucido oggetto. Infilai la moneta sotto il naso dell'uomo più vicino, che solo un istante prima mi aveva scacciato col palmo della mano bovina. Le sue dita tremanti afferrarono il pezzetto di metallo; i suoi compagni di tavolo fecero crocchio alle sue spalle per guardare. Uomini e donne sciamarono attorno al tavolo, gesticolando e parlottando. La moneta era il fulcro della loro eccitazione. Sorrisi fra me, soddisfatto, e mi scostai dal rumoroso branco. La corona aveva prodotto ancora la sua inesplicabile magia, frantumato la testarda indifferenza degli abitanti del villaggio. Il clamore che si levò al passaggio della moneta di mano in mano mi parve molto gradevole: mi aspettavo la reverenza che aveva già prodotto in passato, e l'immediata offerta dell'assistenza che avevo chiesto. Gli abitanti di Dampford levarono gli occhi su di me. Una delle donne urlò una rabbiosa imprecazione; un boccale mi colpì alla fronte. En masse, i presenti si alzarono dal tavolo, disseminando in giro sedie e panche, e mi piombarono addosso. Stordito dal colpo alla fronte, mi trovai sollevato come da un'onda marina. Immobilizzato alle braccia, venni trascinato fuori dalla porta, sulle teste della folla urlante. Avvertivo ancora un forte capogiro quando mi si schiarì la vista tanto da riuscire a vedere che la popolazione di Dampford aveva formato un cerchio attorno a me. Scopersi di avere le mani legate dietro la schiena; una rozza fune di canapa era stata annodata attorno al mio collo. L'estremità opposta della corda stava a cavalcioni di un ramo di un contorto albero, al centro del villaggio. Una vecchiaccia marciò verso di me, scaraventò la moneta di San Lofio contro la mia camicia, e mi sputò in faccia. Era scoppiata una discussione tra gli uomini che stringevano l'altro capo della fune. Dai loro violenti gesti riuscii ben presto a dedurre che una fazione voleva sollevarmi in aria, mentre gli altri sostenevano che fosse meglio issarmi su un ramo per poi spezzarlo. — Aspettate! — urlai. La corda, strattonata dalle mie convulsioni, mi u-
stionò la gola. — Dev'esserci uno sbaglio! Non ho... — Le mie proteste servirono solo ad alimentare l'ira degli indigeni: torce e lanterne vennero levate più in alto, e i bagliori gialli resero ancora più brutte le facce digrignanti. Tra gli uomini era prevalso uno dei due punti di vista. Sentii il nodo stringersi sotto la nuca quando cominciarono a tirare la corda. Per un momento, mi trovai in punta di piedi, circondato dalla visione confusa della folla irata. La lingua mi parve all'improvviso troppo grande per la mia bocca, e bloccò ogni ulteriore appello alla misericordia. Poi, mentre il sangue mi rimbombava nelle orecchie, udii una lontana salva di esplosioni. L'urlo di una donna trafisse il clamore generale; la fune si allentò, e io precipitai sul terreno a quattro zampe. Boccheggiante, fissai le mie dita che artigliavano il terreno. Sopra la mia testa, gli eccitati borbottii degli abitanti del villaggio assunsero un ritmo frenetico. Il suono si ripeté, e io riconobbi colpi di pistola. Alzai gli occhi e vidi gli indigeni disperdersi verso la locanda e gli altri edifici, abbandonandomi nel bel mezzo dello spazio vuoto. — Allora, amico, come sta la tua trachea? — domandò una voce gioviale. Venni sollevato da mani che mi puntellarono sotto le ascelle. Due uomini mi sostenevano da entrambi i lati; erano fatti a mia immagine e somiglianza, anche se non rasati e di costituzione notevolmente più muscolosa della mia, non sul modello della ripugnante fisionomia degli abitanti di Dampford. A parlare era stato un terzo uomo, di fronte a me; tutti e tre indossavano giacche di velluto, piuttosto luride, su camicie ornate di gale e a loro volta lerce. Per quanto fossero ancora dotati di un fisico imponente, coi tratti martoriati e le orecchie ruvide tipiche degli ex pugili, i bottoni dei loro panciotti erano tesi allo spasimo sotto il ventre gonfio che il troppo bere procura a uomini del loro genere. Il terzo uomo mi tastò il corpo con la canna della pistola. — Le maledette facce da pesce te l'hanno fatta vedere molto brutta, allora? Tossii per schiarirmi la gola e scossi la testa. — Sto... sto bene. Gli altri due tolsero le mani dalle mie braccia. Barcollai un poco ma rimasi in posizione eretta. I due infilarono alla cintura le rispettive pistole. — Sarà meglio andarcene da qui — disse il capo della piccola banda. — Prima che quei mostri dagli occhi a palla ritrovino il cervello e si accorgano di essere più numerosi di noi. Attento coi piedi. Da questa parte, diritto così. — Afferrandomi alla spalla, mi fece ruotare verso un sentiero che usciva dal villaggio. Ben stretti l'uno all'altro, ci avviammo in mezzo alla
campagna. — Arrivi fresco fresco da Londra, allora, eh? — Nel buio, il capo si chinò a scrutarmi in viso mentre marciavamo sulla strada paludosa. Smisi di massaggiarmi il collo con la destra. — È esatto — risposi. Per quanto giunti come angeli di salvezza, i tre avevano pur sempre un aspetto piuttosto scabro, sicché mi trattenni dal fornire ulteriori informazioni su me stesso, finché non avessi scoperto per conto di chi lavorassero. L'innata fiducia era un tratto della mia natura che la dura esperienza aveva ormai dissolto. Egli annuì, con l'aria di chi sa. — Mi pareva di non averti visto nel gruppo che Mollie Maud ha portato con sé. Ma dato che ha proclamato l'adunata generale per tutti i "duri di bordello" da Whitechapel a Marylebone, non mi sorprende che ci sia qualche faccia nuova nella ciurma. Con discrezione, scoccai un'occhiata ai due che procedevano alle mie spalle. Quell'esame meno frettoloso confermò le mie impressioni iniziali: i tre avevano l'aspetto abbruttito, a un tempo ottuso e scaltro, dei guardiani che si vedono ciondolare sugli ingressi delle case di pessima reputazione; individui incaricati di intimidire le infelici donne che, intrapreso il cammino della perdizione, siano per loro sventura finite sotto gli artigli di una tenutaria di bordello, e di mantenere un ribollente ordine tra gli ebbri edonisti che in quei luoghi vanno in cerca di piaceri carnali. "Duri" era il nome che simili uomini si guadagnavano, grazie alla possanza fisica e alla sconsiderata violenza; e ora mi trovavo circondato da un trio che mi credeva membro della stessa squallida congrega. La dignità oltraggiata mi avrebbe strappato un urlo di protesta a quell'infame idea, se la cautela non avesse suggerito una calma più adatta alle circostanze. — Sei nuovo del mestiere, eh? — Il capo era in vena di chiacchiere, rubizzo in volto per l'alcol e per il trionfo militare sugli abitanti del villaggio. — Non hai mai partecipato a una di queste "spedizioni di reclutamento", mi pare. Reclutamento? Un altro mistero da aggiungere a una lista sempre più lunga. — Ah... sì. Infatti. — Raddrizzai le spalle e cercai di imitare la loro andatura burbanzosa, per aggiungere forza di convinzione alla mia recita. — Un bel divertimento, a mio giudizio. — Divertimento? — intervenne uno degli altri. — Io non vedo l'ora di tornare in città, per me. Questo schifo che chiamano campagna, alberi e paludi e merda... — Sputò sul ciglio della strada per esprimere la propria opinione. — Se i damerini hanno tanta voglia delle loro "ragazze verdi"
puzzolenti di sgombro, farebbero meglio a venire qui e prendersele loro, dico io. Ragazze verdi... La mia memoria virò, si posizionò sulla voce del vetturino londinese che mi aveva portato nel distretto di Wetwick: si era fatto beffe di me con quelle parole nella schifosa birreria. — Già, e allora che ne sarebbe di noi? — Il capo si girò a sbuffare al collega. — Pagano per i loro piaceri, quei bravi gentiluomini. E siccome pagano, nella borsa di Mollie Maud finiscono soldini tintinnanti, e un po' entrano nelle nostre tasche. Cosa importa a me se quei signorotti sono talmente depravati da preferire delizie da pescatori, ragazze verdi e cose del genere, a una buona, sana, normale ragazza? Finché mettono mano al borsellino, il Signore benedica i loro cuori viziosi, dico io. — Furfanti contro natura — borbottò l'altro, arricciando il naso in uno sfoggio di disgusto. Nella mia mente prese a formarsi un'ipotesi provvisoria. Forse le "ragazze verdi" erano le giovani figlie degli abitanti di Dampford, e gli scagnozzi di Mollie Maud (evidentemente una tenutaria di bordelli di una certa importanza in città) si erano spinti in quel distretto rurale per arruolarle come prostitute. Stando ai rapporti dei bene informati, simili pratiche, l'attirare con l'inganno innocenti ragazze di campagna per trascinarle alla perdizione nel sordido sottobosco londinese, erano assai comuni. In quanto alle qualità che le ragazze di Dampford potevano possedere, le doti che le rendevano particolarmente attraenti per debosciati non più eccitati dal normale fascino femminile, rabbrividivo al pensiero di azzardare un'ipotesi. — Ho sospettato che fossi un novellino quando Nigel... — Il capo puntò il pollice sul terzo uomo della banda — ha detto di avere visto dalla finestra di quell'obbrobrio di locanda che hai cercato di appioppare un soldo matto ai bifolchi. — Prego? — chiesi, perplesso. Egli mi fissò mentre continuavamo a camminare. — Un soldo matto. Una corona. Ti ha visto tirare fuori una di quelle monete false col ritratto del papa a faccia di pesce. — Faccia di pesce... Vuol dire San Lofio. — E chi, se no? Non mi stupisce che ti abbiano riservato quel trattamento. La vecchia Mollie non ti ha spiegato la rava e la fava? Azzardai una modesta confessione d'ignoranza. — No... — Ci penso io, allora, ragazzo mio. — Il capo avvicinò al mio il suo viso bovino, con un sorriso da segreti lubrichi. — Vedi, diamo a quelle stupide ragazze di campagna, che non sanno niente di niente, una di quelle
monete scintillanti perché vengano con noi a Londra, dove presto ne potranno vedere molte altre. Trovano rassicurante ricevere una cosa tanto preziosa, per di più col profilo di uno che ha il loro stesso identico aspetto. E un santo, poi! Le spinge a pensare che Londra sia un posto rispettabile come raccontiamo noi, un posto dove non correranno rischi. Quello che "non" diciamo è che se rivedranno San Lofio, quando lavoreranno nei letti di Mollie Maud, sarà solo perché un onesto gentiluomo tirerà fuori la moneta per dimostrare di fare parte della raffinata clientela che sa apprezzare un pizzico di verde. — Il duro gongolò, palesemente compiaciuto di essere al corrente di simili informazioni. — Furbo, eh? Annuii. Un senso di generale disgusto mi stava montando in gola. Se non su tutti, almeno su alcuni misteri, come le salaci allusioni del vetturino, era stata fatta luce. Il mio informatore si leccò le spesse labbra, nella parodia di un pensoso riflettere. — Col tempo perde un po' d'efficacia, penso io. È sempre più difficile trovare una di quelle ragazze dagli occhi sporgenti che non ne abbia sentito parlare, e di certo tutti i loro genitori sanno cosa significhi la moneta di San Lofio! — Rise, e mi assestò una pacca sulla spalla. — Avevano messo le manacce squamose su un seduttore delle loro verginelle, quando tu hai tirato fuori la corona... Se Nigel non avesse visto e non fosse venuto a chiamarci, saresti finito in un brutto guaio. Mollie avrebbe dovuto avvertirti di non farla vedere a cani e porci. — Sì... — Riuscii a fingere un sorriso turbato. — Immagino di sì. — Tanto probabilmente lei dirà che è stata colpa tua, che ti sei comportato da idiota. Ma puoi fare le tue lamentele direttamente a lei, se vuoi. Siamo arrivati. Il sentiero si era alzato dalla palude a una collinetta di terreno relativamente asciutto. Un tiro di cavalli brucava la stenta vegetazione ai limiti della cavezza; la carrozza che avevano trainato fungeva da riparo a un falò. Una dozzina di duri di bordello era disposta a semicerchio attorno alla fiamma. Si passavano bottiglie avanti e indietro, sghignazzavano, bevevano finché il liquore rosso non colava dagli angoli delle bocche. Formavano la corte di sicofanti attorno a una donna di corporatura imponente, seduta di schiena rispetto a me. Sulla sua testa era sistemata una parrucca color rosso acceso, decorata da file di perle; altre perle le cingevano il collo robusto. La mano paffuta, appesantita da una miriade d'anelli, stringeva una bottiglia riservata al suo esclusivo piacere; il liquore si rimescolava e ribolliva mentre lei agitava la bottiglia, persa nella rude crapula dei suoi tira-
piedi. Mi fermai di botto. Non nutrivo il minimo desiderio di conoscere la regina di quella disgustosa banda. — Forse dovrei... tornare al villaggio e cercare un po' in giro. Pensare agli affari, per così dire, adesso che ho un'idea migliore del modo giusto di procedere. — Nooo. A quest'ora della notte, non ci saranno altre brutte ragazze a prendere la via di Londra. — Una mano salda come la roccia calò sulla mia spalla e mi spinse avanti. — Adesso bisogna divertirsi un po'. Mollie si offenderebbe se dopo essere arrivato fin qui non bevessi un goccetto con lei. Il cerchio di ruffiani sbraitò al nostro arrivo. Tutti si presero a pacche e agitarono le bottiglie, invitandoci. La donna massiccia si ripulì la bocca col dorso della mano e si girò a guardarci. — Ecco fatto, Mollie. — Il capo dei miei salvatori mi diede una spinta in mezzo alle scapole, e quasi mi fece perdere l'equilibrio. Mi trovai scaraventato direttamente di fronte alla donna. — Il tuo ragazzo qui è ancora piuttosto crudo. Forse avresti dovuto lasciarlo marinare un po' prima di spedirlo fuori. — Gli altri due si strozzarono sui colli delle bottiglie dalle quali stavano già trangugiando, e sputacchiando alcol presero a spiegare il senso della battuta al resto della congrega. — E chi sarebbe? — La donna batté le palpebre, mi fissò, cercò di mettermi a fuoco dietro la foschia della propria ebbrezza. — Non ricordo nessuno stramaledetto... — Piombò in un silenzio stupefatto, e restò a bocca aperta nel riconoscermi. Io ero altrettanto stupito. I duri si zittirono. I loro sguardi si congelarono su noi due che ci stavamo fissando. In precedenza, avevo visto quella donna una sola volta, ma l'occasione si era impressa a fuoco nella mia memoria. — Tu! — urlò Mollie Maud. La bottiglia le cadde di mano e si frantumò sul sasso sul quale ella sedeva. — Buon Signore — mormorai. Avevo il capogiro. Sotto il florido belletto della tenutaria di bordello vedevo alla perfezione i tratti severi, imperiosi, della signora Trabble, la comandante dell'Associazione Dame per la Soppressione del Vizio Carnale. Forse le tensioni della mia recente esistenza avevano finito col prendere il sopravvento sulla mia ragione; forse, in luogo della mera confusione e dello stupore, la mia mente aveva iniziato a produrre in proprio visioni e fantasmi. Il mio cranio si riempì di questo etereo concetto; mi parve di in-
volarmi verso il cielo, di lasciare sotto di me il fuoco e la folla irrequieta. Il pensiero che l'arcirispettabile signora Trabble, la doyenne di tutti i crociati morali di Londra, potesse reclutare donne per la soddisfazione di qualche indicibile vizio mi parve divertente in sommo grado. — Prendetelo! — Un urlo stridulo mi riportò sulla Terra. Battei le palpebre, e mi trovai a scrutare il viso stravòlto dall'ira di Mollie Maud, ovvero della signora Trabble: stessa identica persona. Puntava contro di me un indice tremante. I duri, intontiti dall'alcol, mi fissavano a bocca spalancata. Prima che il più vicino di loro riuscisse a rialzare la sua forma corpulenta, mi ero gettato in un varco del cerchio umano. Una mano mi artigliò la gamba, troppo tardi per fermarmi; però mi fece rotolare giù per la collina. Affondai nel buio paludoso che stava sotto. — Cosa c'è? — sentii uno dei duri chiedere, in preda alla più assoluta perplessità. — Chi è? L'ululato della donna trafisse la notte. — Stupidi! Prendetelo! Sa chi sono! Accucciato in un fangoso corso d'acqua, divisi la cortina della vegetazione e vidi la signora Trabble tempestare le schiene dei suoi tirapiedi coi pugni grassocci. Alcuni di loro estrassero la pistola dalla cintura e presero a scendere goffamente la collina, verso il mio nascondiglio. La mia recita con quei ruffiani era terminata; non restava che la semplice fuga. La campagna circostante era troppo paludosa per permettere progressi significativi; se, assalito dal panico, mi fossi aggirato alla cieca nel labirinto di torrentelli e acquitrini, i duri di bordello mi sarebbero inevitabilmente piombati addosso. Se fossi riuscito a raggiungere una delle strade che attraversavano la zona, avrei se non altro avuto una minima possibilità di mettere un po' di distanza tra me e gli inseguitori. Nel maggior silenzio possibile, con la fanghiglia che mi arrivava al petto, guadai la palude verso il buio crinale che solcava il cielo notturno. Alle mie spalle udivo il diguazzare e gli urli furibondi dei duri, che nella loro ricerca entravano in continua collisione l'uno con l'altro. Guadagnai la riva ghiaiosa e strisciai all'insù, in un mare di canne. Quando raggiunsi l'orlo della strada, sporsi con cautela la testa per vedere se qualcuno degli uomini di Mollie Maud avesse anticipato le mie intenzioni e avesse aggirato la palude per intercettarmi lì. Non vedendo nessuno, mi issai sulla strada. Lo avevo appena fatto, quando udii il tonfo viscido di zoccoli di cavalli
nel fango, distante ma in rapido avvicinamento. Nella notte si stagliavano i profili dei cavalieri del Pio Esercito; puntavano direttamente su di me. L'uomo che li guidava brandì alta la spada ed emise un urlo di trionfo: ero stato individuato. Per un attimo, restai paralizzato come un coniglio sorpreso da una muta di cani; poi mi tuffai giù dall'orlo della strada, scivolai tra ghiaia e fango fino al pantano sotto. Non era più tempo di mosse silenziose: il Pio Esercito fermò i cavalli nel punto che avevo appena lasciato. Disperato, presi ad avanzare nell'acqua, strappando le radici e l'intrico di canne che mi sbarravano il cammino. Alle mie spalle, udii il nuovo gruppo di inseguitori lasciare i cavalli, inutili nelle paludi, e riprendere a piedi la caccia all'uomo. Nell'incoscienza della fretta, per poco non finii tra le braccia della banda di Mollie Maud. Individuai in tempo le loro torce (i duri, affondati nella palude fino alla cintura, stavano frugando tra la vegetazione con le canne delle pistole) e, soffocato un urlo di allarme e disperazione, mi apersi il varco in un'altra direzione. Si levarono urla quando i due gruppi entrarono in collisione; scoppiò tra loro una lotta fangosa, e a me fu concesso un attimo di sollievo. Colpi di pistola e urla blasfeme risuonarono sul paesaggio. Solo quando tutti si resero conto che la preda comune stava fuggendo cessarono di battagliare, per riprendere le rispettive ricerche, sempre più caotiche, diguazzanti, e fangose. Un continuo scambio di pugni contrassegnò l'incrociarsi dei loro percorsi. La confusione tra gli inseguitori mi aveva permesso di guadagnare un certo vantaggio, anche se mi bastava girare la testa per vedere le varie torce brillare tra gli acquosi meandri. Ormai prossimo alla spossatezza definitiva, pregavo tra me di riuscire a raggiungere un'altra strada prima di venire intercettato dai duri o dal Pio Esercito. Era l'unica speranza che potessi immaginare; il mio cervello intirizzito non era in grado di elaborare altre strategie. All'improvviso udii nuove voci strepitare su toni furibondi, questa volta di fronte a me. Mi accoccolai dietro un canneto e sbirciai. Un gemito d'angoscia mi sfuggì dalle labbra al vedere che si trattava degli abitanti di Dampford: armati di forconi e altri brutali utensili, sguazzavano nella palude. La ferocia rendeva ancora più ripugnanti i volti pisciformi; a quanto pareva, avevano ripreso coraggio ed erano tornati a cercare la vittima sacrificale strappata da poco alle loro mani. Le tre fazioni (i duri di Mollie Maud, il Pio Esercito, e ora gli abitanti del villaggio) mi accerchiavano su tutti i lati, tranne uno. Mi tuffai in quel-
la direzione, incurante del fatto che mi sarei soltanto inoltrato tra i corsi d'acqua e le pozze stagnanti della palude. Nella mia testa non esisteva più un solo pensiero cosciente; il cieco panico mi spingeva a fuggire. Qualcosa nell'acqua mi si avviticchiò attorno ai piedi, e precipitai a faccia in giù su un banco di fango. Quando risollevai la testa, udii la trama di urli farsi più feroce: a pochi metri di distanza, gli abitanti di Dampford erano entrati in collisione con gli altri. Gli strilli di "Bastardi faccia da pesce!" dei duri si mescolarono ai "Mostri! Progenie del Demonio"! del Pio Esercito e alle imprecazioni indecifrabili della gente del villaggio. Altri spari, il cozzo delle spade contro le falci, il tonfo nell'acqua quando un corpo veniva scaraventato via, il sibilare delle torce che si spegnevano nell'acqua scura: così infuriò la rinnovata battaglia. Nessuna alleanza era possibile tra elementi tanto disparati; ognuno combatteva con i membri degli altri gruppi, e occasionalmente, nella confusione, coi propri alleati. Sputai il fango che mi riempiva la bocca e ansimai, senza fiato. Era solo questione di tempo, poi una delle fazioni avrebbe prevalso sulle altre, e tutti gli uomini rimasti vivi e vegeti avrebbero ripreso a cercarmi. Oppure, se avessero compreso l'inutilità del combattimento, avrebbero forse potuto raggiungere un qualche tipo di tregua, e tutti e tre i gruppi si sarebbero dedicati all'intento comune. Zuppo d'acqua, gelato, e angosciato, mi nascosi dietro le canne, soffocando la paura che mi avrebbe sollecitato a diguazzare in una direzione qualunque. Prima che potessi chiamare a raccolta le mie vacillanti capacità mentali, uno spruzzo d'acqua fangosa mi si rovesciò sul petto. Una figura si alzò davanti a me, oscurando il cielo notturno quando caddi all'indietro. Il mio unico pensiero fu che uno dei combattenti si fosse separato dagli altri e mi avesse raggiunto in perfetto silenzio. La sua mano si tese e mi afferrò alla spalla prima che io potessi tentare la fuga. Mi avevano preso. Chiusi gli occhi, in attesa dell'inevitabile colpo di pistola, o della spada o del forcone che dovevano affondare nei miei organi vitali. Udii invece una voce, familiare ai recessi della mia memoria: — Dower, mi ascolti. — La mano mi scrollò. — Poco tempo v'è. La nube che oscurava la luna si spostò proprio quando riapersi gli occhi. Nell'esile chiarore vidi il volto scuro, ornato di file di cicatrici. L'essere che mi fissava era l'Uomo di Cuoio Marrone. 11 Il varo di una grande carriera
— Ma... lei è "morto"... L'Uomo di Cuoio Marrone mi trasse più vicino al rifugio della riva e depose un dito sulle mie labbra, zittendo ogni altra esclamazione di stupore. Vidi che, sopra l'acqua che ci arrivava alla cintola, la metà superiore del suo corpo era nuda. Le nubi davanti alla luna si divisero; l'esile luce rimbalzò sul petto e sulle braccia possenti, correndo su linee di cicatrici identiche a quelle che gli decoravano il volto. — Stia calmo, Dower — mi sussurrò all'orecchio. — In grande pericolo lei è. Accucciato sotto un groviglio sporgente di radici, udivo gli urli e i suoni violenti prodotti dagli inseguitori: andavano dapprima in una direzione, poi in un'altra, come un mare squassato dalla tempesta. — Sì... — La mia voce era sul punto di spezzarsi in un singhiozzo. — Gli abitanti del villaggio... e quella Mollie Maud... La testa nera annuì impaziente. — È una persona del male. La maschera del bene usa per meglio celarsi. — Non capisco... L'Uomo di Cuoio Marrone mi scrollò rudemente, interrompendo l'esile voce tremante della mia confusione. — Ora non è importante. — Gli occhi a fessura si posarono sui miei. — Molte spiegazioni dopo verranno. Prima deve sfuggire a lei, e agli altri. — Sì... Sì, certo! — Mi aggrappai al suo braccio; il velo della mia spossatezza si era lacerato. — Ma come... Egli mi fece di nuovo cenno di tacere. — Preparativi ho fatto. Di nascosto l'ho seguita finché non ho potuto aiutare. Ma ora tutto sarà sicuro. Le strade... Là. — Mi staccò dall'argine e indicò. Il suo braccio scuro splendeva nel buio. — Vede? Due degli alberi contorti di quella regione facevano la sentinella a un tratto di terreno solido, a poche centinaia di metri di distanza. Dopo un attimo riuscii a distinguere le superfici piane delle due strade che si intersecavano in quel punto. — Sì — sussurrai. — Là vada. Quest'acqua... — Puntò l'indice sulla palude attorno a noi. — Giunge là. Curva, sì? Ma se in acqua lei resta, gli altri non la vedranno. All'incrocio, aspetti. Sotto... Finché una carrozza arrivare non sentirà. "Allora" salga. Via la porterà, alla salvezza. — Il suo sguardo mi scrutò in viso. — Tutto è chiaro? — Capisco. Ma... ci sarà lei? Con la carrozza? — Lo speravo disperatamente. Dopo tanto tempo, la sua era la prima voce che, nonostante il biz-
zarro accento, non sembrasse venata di ostilità o demenza. — No. — Si allontanò da me. Si spostò verso la parte più profonda della palude, si abbassò sino a lasciarsi lambire il petto dall'acqua. — Più tardi mi rivedrà. — Solo la testa rimaneva visibile; poi una mano perforò la superficie e indicò. — L'incrocio. Vada. — Scomparve completamente, lasciando solo un'onda circolare nel chiarore lunare. Ero di nuovo solo, come se l'apparente resurrezione dell'Uomo di Cuoio Marrone non fosse altro che uno spettro creato da una mente disperata, condotta oltre i propri limiti di sopportazione. In distanza, udivo i miei inseguitori (i duri di Mollie Maud, gli abitanti del villaggio, e il Pio Esercito, fusi in un unico branco latrante) aggirarsi nel pantano: loro erano indubbiamente molto reali. Mi rimisi in marcia lungo la riva del fiume, diretto al luogo del previsto rendez-vous. Anche se il fiato fu un macigno nella mia gola per l'intero percorso, l'avanzata fu priva di eventi, salvo quando una torcia si alzò in aria direttamente sopra la mia testa. Mi raggomitolai contro la riva, nascondendomi sotto un groviglio di canne mentre una figura di profilo (impossibile capire a quale fazione appartenesse) scrutava la superficie dell'acqua. — Non è qui! — urlò l'uomo agli altri. — Deve avere fatto il giro dall'altra parte. — Aspettai che i tonfi dei passi recedessero in distanza prima di riprendere, con estrema cautela, il cammino. Giunto a pochi metri dall'incrocio delle due strade, con gli alberi contorti che si stagliavano contro il cielo, la mia ansietà aveva raggiunto un livello tale che presi a diguazzare nell'acqua, incurante del rumore che producevo. Ritrovai l'autocontrollo sufficiente per esitare alla base dell'argine che saliva alle strade; e udire il ritmo regolare degli zoccoli mi diede un sollievo enorme. Artigliando il terriccio friabile, mi issai sulla cima. Il mio gaudio evaporò quando, fermo al centro della strada, gocciolante d'acqua, scrutai in tutte e quattro le direzioni. Nessun veicolo si stava avvicinando. E proprio mentre mi rendevo conto di essere stato tradito dai battiti del mio stesso cuore che lavorava spasmodicamente nella gabbia toracica, vidi anche una fila di torce immobilizzarsi all'improvviso, a una certa distanza da me. Tra i pantani risuonò un grido: — Eccolo là! Così esposto sul terreno aperto, ero stato individuato dagli inseguitori. Ruotai sui tacchi, e scorsi le figure disseminate nei bui quadranti tra i bracci del crocicchio. Mi circondavano. L'urlo d'avvertimento fu ripetuto da altri uomini; le torce vennero levate in alto, e tutti ripresero ad avanzare con nuovo piglio tra fango e canneti, ansiosi di avermi tra le mani.
Non potevo fuggire ridiscendendo l'argine e tuffandomi nella palude: in breve mi sarebbero stati addosso da ogni lato, chiudendomi in trappola. Però ora potevo procedere sul terreno ben più solido della strada. Mi scrollai di dosso la paralisi che mi aveva attanagliato e presi a correre. Le scarpe inzaccherate seminavano acqua nei solchi scavati dai veicoli. Avevo superato solo pochi metri quando ciò che vidi dinnanzi a me mi bloccò. Alcuni dei membri più astuti delle fazioni non avevano seguito un percorso rettilineo tra le paludi, ma avevano compiuto una circumnavigazione per raggiungere la strada più vicina. Li vidi risalire gli argini. Mi voltai e scopersi che anche altri avevano ideato la stessa tattica. Ero totalmente circondato. Ogni via di fuga mi era sbarrata. Di fronte a me, in distanza, gli uomini raggiunsero il fondo stradale e si rialzarono. Li vidi fermarsi a riprendere fiato, raggianti per la mia situazione disperata: pochi istanti, e si sarebbero lanciati su di me. Il mio sangue avrebbe placato il loro senso dell'onore. Poi, sotto i miei occhi, schizzarono ai due lati della strada, disperdendosi come birilli. Un tiro di cavalli avanzò al galoppo, calpestando sotto gli zoccoli uno degli inseguitori. Il conducente della carrozza che trainavano li spronò con la frusta, facendoli accelerare ancora di più. Urli esplosero alle mie spalle. Mi girai e vidi, a non più di venti metri di distanza, un gruppo misto di abitanti del villaggio e di duri, in corsa verso me. Mi voltai e alzai i tacchi, agitando le braccia alla carrozza. Un colpo di pistola risuonò sopra la mia testa. Il conducente mi vide. Lavorò ancora di frusta. La carrozza stava quasi per travolgermi quando l'uomo tirò bruscamente le redini, fermando il veicolo con tanta violenza da rischiare di rovesciarlo. Lanciai una frettolosa occhiata alle mie spalle e vidi il volto stravolto di un uomo che correva velocissimo verso di me, a mani tese. Qualcuno spalancò lo sportello della vettura; la persona invisibile mi afferrò per il gomito e mi aiutò a salire. Crollai sul pavimento della carrozza, e i cavalli ripartirono. Il mio inseguitore, strappato alla presa della maniglia, urlò, poi precipitò sotto la ruota posteriore. Rialzai la testa al suono di altri urli e colpi di pistola. Dal finestrino vidi avvampare le torce, mentre la carrozza fendeva il gruppo che più mi era stato vicino. Le voci furibonde si persero dietro di noi. La vettura acquistò velocità, sussultando sul fondo stradale irregolare. — Mi pare che stia bene — disse una voce femminile, fredda. Scopersi che le mie mani, adagiate sul pavimento, quasi sfioravano un paio di stiva-
letti bianchi. Guardai su e, alla luce soffusa della lanterna appesa a un gancio, riconobbi il viso sorridente della signora Wroth. — Sembrerebbe che se la sia cavata piuttosto bene — convenne una voce maschile. Mi girai verso il sedile di fronte. Per un attimo ebbi l'impressione di guardare in uno specchio: quello che mi scrutava era il mio stesso volto. Poi le labbra dell'immagine si mossero, formarono parole, e la mia bocca si spalancò nello stupore. — Sono lieto che tu possa essere con noi. — La figura elegantemente vestita intrecciò in grembo le mani guantate. Sorrise, facendo sfoggio di un'ironica sicurezza sui tratti che avevo creduto miei. — Tu sei... "molto importante" per me. La sua risata, alla quale si unì quella della signora Wroth, risuonò all'interno della vettura. Esterrefatto, restai a fissare l'apparizione. — Sei davvero uno spettacolo, Dower. — Il divertimento del mio doppio era evidente. — Grondi acqua. Per fortuna, abbiamo pensato di portare un po' delle mie cose. Sono certo che le troverai della misura giusta. — Tese una mano e aprì lo sportelletto per comunicare col conducente; la carrozza rallentò e si fermò, obbedendo alle istruzioni. Ci eravamo lasciati sufficientemente alle spalle la scena della mia fuga tra le paludi, e le forze di Mollie Maud, degli abitanti di Dampford e del Pio Esercito che l'avevano provocata. Il conducente della carrozza, nel quale riconobbi lo stesso dipendente di Lord Bendray che mi aveva portato fuori da Londra, sollevò dal tettuccio della vettura un piccolo baule. Alla luce della lanterna, accettai in cambio dei miei vestiti una serie di indumenti che erano esattamente della mia taglia, come aveva promesso il mio doppio, però emanavano uno spiccato odore di muffa, come fossero rimasti chiusi sotto chiave per un considerevole lasso di tempo. Mi rivestii nel chiarore lunare, sul ciglio della strada deserta; il benessere degli indumenti asciutti soverchiò ogni possibile imbarazzo. Dalla mia lurida camicia un oggetto luccicante cadde sulla strada: la moneta di San Lofio, che mi aveva procurato tante sventure! Per un attimo feci per scaraventarla nel fossato; poi modificai la mia decisione e la riposi nella tasca della giacca. Gettai invece i vestiti fradici d'acqua e di fango e tornai a bordo della vettura. La signora Wroth aveva raggiunto il mio doppio sul sedile. Io sedetti di fronte a loro, e la carrozza ripartì. Il braccio della donna era disteso sul sedile; la sua mano giocherellava languida con una ciocca di capelli, sopra il
colletto dell'enigmatica figura. La signora Wroth guardò il mio doppio, poi mi sorrise con l'aria di chi conosce un grande e soddisfacente segreto. — Immagino che adesso tu ti senta meglio. — Il mio doppio mosse la testa sotto la carezza della donna. — Mi dispiace di averti fatto vivere un momento d'ansia. Abbiamo cercato di raggiungerti il più in fretta possibile. Mi protesi nello spazio che ci divideva, scrutando il viso che in passato avevo visto solo in uno specchio. — Chi sei? — chiesi dopo un attimo di meravigliato silenzio. Di nuovo risuonò la risata argentina della signora Wroth. — Scape non te ne ha parlato? — chiese piano il mio doppio. — Di me? La comprensione si affacciò alla mia mente. — Sei il... — Esatto. Avresti dovuto riconoscermi, comunque. Dopo tutto, abbiamo lo stesso padre. Per così dire. Ricaddi contro la pelle imbottita. — Il Paganinicon — mormorai. Egli accennò un inchino ironico. Abbassò la testa e sventolò la mano. — Infatti. Finalmente abbiamo questo... "reciproco" piacere, spero. — Ma... non sei un congegno a orologeria, vero? Le sue leste mani slacciarono i bottoni centrali della camicia e scostarono i lembi. Alla luce ondeggiante della lanterna vidi non carne, ma una pelle fatta di lucido metallo. Sistemò le dita sotto la curva del costato, e sollevò. Rimasi esterrefatto. Niente cuore, niente ossa, niente muscoli o vene umane. Dentro una cassa metallica, meccanismi ronzavano e giravano. Molle raccolte a spirale si intrecciavano tra loro e ticchettavano, misurando il lento procedere della sua vita artificiale. Alzai gli occhi e lo vidi assaporare il mio stupore. — Sì — sorrise. Le sue mani richiusero il coperchio di metallo e riabbottonarono la camicia. — L'uomo che mi ha fatto, l'uomo che ha fatto anche "te", era un genio, vero? — È... — Mi mancavano le parole. — È impossibile... I suoi occhi parvero emettere un lampo, come d'ira. — Oh? Davvero? — La voce prese un tono tagliente, trapassò l'affettazione di buon umore. — E se io aprissi te, vedresti qualcosa di meno sorprendente? Di meno complesso e stupefacente, pur nella spugnosa carnosità? Polmoni e cuori e milza, e tutto il resto. Organi che ticchettano, per così dire. Eppure tu cammini per strada, e incroci un'infinità di questi portentosi congegni, tutti impegnati nel loro ticchettio, e non ti paiono grande meraviglia. Il vigore del suo eloquio mi colse alla sprovvista. — Ma... ma gli esseri
umani... — balbettai. — Non vengono "fabbricati", se non forse da Dio. — Non avevo ancora terminato di dirlo quando mi trovai a rimpiangere il tono di bigotto sentimento religioso. Il Paganinicon non se lo lasciò sfuggire. — Ah! Tu ritieni possibile credere in un Creatore "invisibile", ma un Creatore che tu possa avere visto, col quale hai parlato quando era in vita, è al di là delle tue capacità, esatto? — Sorrise trionfante, compiaciuto della propria retorica. Pochi minuti prima correvo nella palude in cerca di salvezza, e ora stavo discettando di teologia con un violinista a orologeria: il mio cervello, più che sussultare all'impazzata per gli eventi, si stava liberando da ogni cavo d'ormeggio con la realtà. Mi sforzai, nella mia spossatezza, di escogitare una "risposta". — Le operazioni di un Creatore invisibile sono "destinate" a rimanere al di là della nostra comprensione. È questa la natura dei Misteri. Ma i congegni a orologeria, i meccanismi e le ruote e le molle, sono un'altra questione. Egli emise una risata sarcastica. — Non cercare di spaccare in due quel tipo di capello con me, Dower. So bene quanto te che ai tuoi occhi il più semplice degli orologi è fonte di stupore quanto il funzionamento del cuore che ti batte in petto. Per te, "tutto" è mistero, non è vero? Fui morso dal risentimento alle sue insinuazioni. — Non riesco a immaginare — ribattei, rigido — su cosa tu basi questa asserzione. Porto avanti l'attività di mio padre come faceva lui... — Per favore. — Il Paganinicon mi strizzò l'occhio. — Conosciamo entrambi la verità, no? "Porto avanti l'attività di mio padre", ma certo... La porterai al cimitero, più probabilmente. Tu non sai nulla di nulla dei marchingegni che il vecchio ha lasciato. — E tu come lo sai? Egli si protese ancora più verso me. — Perché, Dower, mio quasi fratello... noi due condividiamo lo stesso "cervello". Non è così? L'interno della carrozza sembrava essersi stretto attorno a me; mi gravavano addosso due paia d'occhi astuti e compiaciuti, mentre continuavamo a procedere nella notte d'inchiostro verso una destinazione ignota. — Non capisco il senso delle tue parole... — Oh, diglielo — tubò la signora Wroth all'orecchio del Paganinicon. — Smettila di giocare con lui. Sei così "crudele". — I suoi occhi si socchiusero in una sorta di rapimento estatico a quell'ultima frase. — Molto bene. — Il Paganinicon aveva il mio volto, ma i suoi tratti erano colmi di furbesche conoscenze, non certo della mia continua stupefa-
zione. — Stammi a sentire con molta attenzione, Dower. Cerca di rendere elastiche le grette definizioni di "possibile" e "impossibile" che coltivi. — Si appoggiò allo schienale e mi scrutò. — Dunque, io sono una cosa a orologeria. Il tuo scetticismo non può sconfiggere la realtà. Hai visto il mio cuore meccanico. Certo, non sono un manichino tintinnante che guarda il mondo con un sorriso fisso e occhi di vetro. Osserva. — Alzò il palmo della mano ed eseguì un movimento a ventaglio, simile alle mosse di un prestigiatore. — Sono capace di movimenti complessi, molto più dei tuoi, per la verità. Potrei suonare il violino, se qui ce ne fosse uno. No, i miei futuri spettatori non resteranno delusi dalle mie doti. Tutto ciò di cui sono capaci gli esseri in carne e ossa rientra nelle mie possibilità. — "Tutto" — disse la signora Wroth. Lo fissò rapita. — Sì. Sì, è vero. — Il Paganinicon annuì. — Non vi saranno delusioni nemmeno per quell'aspetto... — Me ne sono già accertata — disse ella, compiaciuta. — Perché, ovviamente, è da lì che nasce il, ah, "il fuoco", vero? La passione che si riversa nella musica. E come, ti chiedo, potrei essere all'altezza del grande virtuoso, Paganini, se non fossi... attrezzato per ogni verso come l'originale? — Non saprei immaginarlo — risposi gelido. Anche nel mio stato di stanchezza, e in quelle strane circostanze, le sordide allusioni dei miei due compagni mi erano ben chiare. Il Paganinicon alzò l'indice verso il tettuccio della carrozza. — Eppure, anche una natura flemmatica quanto la tua, mio caro Dower, deve essere perplessa dal "come" ciò sia possibile. Quei rozzi prototipi che tuo padre, nostro padre, ha ideato, gli Automi Clericali... Sai benissimo quale complesso intrico di ingranaggi e molle contengano quei congegni, e sai che servono solo a far loro eseguire i più semplici, ripetitivi gesti e atteggiamenti. Quanto altro deve essere necessario allora, eh? Per un capolavoro come questo! — Si batté la mano sul petto con sublime teatralità; si udì un cupo clangore metallico. — Quale possibile meccanismo potrebbe governare una tale gamma di movimenti, eloquio... "tutto", perfettamente umano sotto ogni riguardo? Eh, Dower? Di che potrebbe trattarsi? La voce era passata dall'entusiasmo all'esaltazione. — Non ne ho idea — risposi cauto, scostandomi da lui. — Cos'altro se non un "cervello umano"? Ma certo! È ovvio! Lo studiai per un attimo. — Stai dicendo... di avere dentro te un cervello umano? — Mi pareva un concetto raccapricciante. Ebbi l'involontaria vi-
sione di un tale organo acquattato viscido dietro i suoi occhi, in una vaschetta rivestita di zinco. Egli si protese e mi batté un dito sulla fronte. — No... Però ne hai uno tu. — Il suo sorriso si fece più ampio, deliziato dalla perplessità che quei discorsi stavano generando. Ammisi la sconfitta. — Sono certo di non avere la più pallida idea del senso delle tue parole. Il Paganinicon intrecciò sotto il mento le lunghe mani, esatti duplicati delle mie. — Esaminiamo — disse, nella parodia dell'insegnante — il principio delle vibrazioni simpatiche. Il concetto ti è familiare? Bene. Diciamo che viene pizzicata una corda di violino. All'altro lato della stanza, una corda di violino accordata sulla stessa identica nota, né un po' più alta né un po' più bassa, vibra assieme alla prima, anche se nessuna mano l'ha toccata. Un fenomeno riscontrato di frequente. Lo si nota spesso negli strumenti musicali, dato che la loro stessa natura li rende risonanti in maniera particolare, però per un certo grado tutte le cose sono risonanti. Si tratta semplicemente di scoprire la particolare vibrazione che possa rendere risonante, diciamo, una pietra. Le vibrazioni con le quali abbiamo maggiore familiarità sono vibrazioni neH'"aria", però esistono altri veicoli capaci di trasmettere vibrazioni ancora più sottili del suono prodotto da un violino. Certe vibrazioni sono talmente rarefatte, per quanto reali, da trovarsi al di là dei nostri modi di percezione. Si tratta cioè di vibrazioni delle quali non siamo consapevoli. Queste vibrazioni, e i veicoli nei quali viaggiano, ci circondano, ci penetrano, danno addirittura forma ai nostri stessi pensieri, alla nostra esistenza, eppure non le conosciamo, all'incirca come un pesce deve essere ignaro dell'acqua nella quale nuota. Mi segui? — Suppongo di sì — risposi, scrollando le spalle. — Anche se non vedo l'utilità di formulare congetture su cose che non si possono percepire. Tanto varrebbe presumere che non esistano e non pensarci più. — Bene, bene. E questo dall'uomo che un momento fa invocava Dio. Ammiro la flessibilità della tua logica, Dower. Ma sorvoliamo. Il veicolo del quale parlo, e le sottili vibrazioni che lo attraversano, possono essere resi percepibili e utili a chi possegga le necessarie capacità. Vedi, è il veicolo nel quale le finissime vibrazioni del cervello umano si irradiano dall'interno del cranio. Ogni cervello è accordato, potremmo dire, su una particolare nota di questo veicolo, come un numero infinito di corde di violino può essere accordato su una gamma infinita di tonalità che risuonino nel veicolo dell'aria. Ciò che manca è il mezzo per percepire queste vibrazioni
e accordare un altro oggetto alla loro tonalità, in modo che si produca una risonanza esattamente simile a quella tra le corde di due distinti violini. — La voce del Paganinicon si abbassò al sussurro dello svelamento di un mistero. — Questo, mio caro Dower, è ciò che tuo padre è riuscito a fare. — Non dirmi. — Ero perplesso sul punto al quale quella spiegazione voleva arrivare. — Non fare quell'aria attonita — disse il mio doppio. — È piuttosto semplice. Dower senior ha creato un congegno tanto sensibile da percepire le vibrazioni di un certo cervello umano. Anche nel genio più prodigioso esiste un'incredibile quantità di capacità cerebrali non sfruttate. Tuo padre ha capito che quelle capacità possono essere il mezzo per controllare e modificare le azioni e le risposte agli stimoli esterni di un automa complesso come me. Quindi, il cervello sulle cui vibrazioni è regolato il meccanismo di comando serve a regolare due creature, una in carne e ossa, l'altra a orologeria. Ora, a tuo giudizio, a chi appartiene il cervello usato in questa maniera? — Le sue sopracciglia si inarcarono, a fare da contrappunto al sorriso. Un sospetto grottesco si formò nei miei pensieri. — Vuoi dire... "me"? Il mio cervello? — Molto bene! Sei sveglio, Dower! E la tua è una storia personale davvero notevole, se così posso dire. A tuo padre, dopo avere scoperto il principio delle vibrazioni simpatiche rarefatte, occorreva un essere umano dotato di una mente di natura particolarmente complessa ma flemmatica. Qualcuno che non fosse incline alle svariate eccitazioni che provocano vibrazioni cerebrali irregolari nella maggior parte degli esseri umani, rendendole inadatte come necessario supporto al meccanismo regolatore. Così si è messo in cerca e ha sposato tua madre, una donna... e non intendo certo offendere la sua memoria... una donna di "singolare" apatia. Contro ogni difficoltà, è riuscito a farle partorire un figlio. Tu, Dower. Dopo la sua morte, tu, ancora neonato, sei stato affidato a tua zia, soprattutto per tenere le tue vibrazioni cerebrali distanti dai congegni ai quali tuo padre lavorava. Sarebbe stato disastroso un prodursi prematuro della congiunzione. Per un istante mi parve di essere a bordo della carrozza e al tempo stesso lontanissimo. Stavo ascoltando la narrazione della vita di qualcun altro. Un sogno. Quella persona col mio viso stava descrivendo misteri, le perplessità a lungo sofferte dell'abbandono e dell'esilio di un bambino; e le risposte a quei misteri erano fredde e meccaniche come i meccanismi interni di un orologio. Meditai cupo nel mio silenzio finché l'altro non riprese a parlare.
— Vedi — disse il Paganinicon — dopo essere stato installato nel congegno che deve governare, il meccanismo di controllo deve trovarsi a pochi chilometri di distanza dal cervello aggiuntivo, il tuo, mio caro Dower, per poter ricevere le sottili vibrazioni e cominciare a operare. Comunque, dopo l'attivazione la distanza tra congegno e cervello non ha più alcuna importanza. Il veicolo nel quale viaggiano le vibrazioni non è limitato dallo spazio. La sua natura appartiene totalmente a un'altra dimensione. — Mi scrutò attento. — Lo capisci? — Credo... di sì. — La mia mano tremante passò sulla fronte. — In qualche modo è tutto così strano... Il Paganinicon annuì, mosso da un'altra forma di simpatia. — Lo immagino. Ma la prova è davanti ai tuoi occhi. Prima di morire, tuo padre ha creato le mie fattezze... — Si toccò il volto con un dito. — ... Servendosi di un ritratto che gli ha mandato tua zia. Però è morto prima di poterti riprendere con sé, portandoti vicino quanto era necessario perché le vibrazioni del tuo cervello mi dessero vita. Io ero solo una macchina inerte, meccanismi congelati nell'attesa. E, come sai, i beni di tuo padre erano in uno stato di grande confusione. Molta parte del suo lavoro è rimasta nel negozio che hai ereditato, ma il contenuto di altri laboratori... ne aveva diversi in città... è andato disperso. Tale era il mio fato, anche se ovviamente io ne ero ignaro. — Si mordicchiò il labbro inferiore e cadde in mesti pensieri. Provai una morsa di compassione per lui, per quel meccanismo creato a mia immagine. Eravamo stati mossi da luogo a luogo, del tutto inconsapevoli, come pedine con gli occhi bendati su una scacchiera immersa nel buio. Il Paganinicon si riscosse dalle rimembranze e riprese a parlare. — Sono debitore al nostro comune conoscente Scape di questo resoconto della nostra storia. È una sorta di autodidatta in materia. E uno dei personaggi principali del dramma stesso, per lo meno nelle fasi finali. È stato lui, assieme alla sua affascinante collega, la signorina McThane, a entrare in possesso della mia forma inerte. Gestiva alcune sale da gioco, il cosiddetto gioco d'azzardo, anche se le probabilità erano sempre deplorevolmente a suo favore, al nord. Un eccentrico industriale e collezionista di bizzarrie saldò un debito contratto al tavolo del whist con una serie di strani congegni meccanici che erano entrati in suo possesso per vie traverse, come accade spesso in quel campo. Scape, che ha sempre avuto la mania della meccanica, fu lieto di accettare l'offerta. L'oggetto di maggiore spicco ero io. Essendo nulla più di un manichino privo di vita, per quanto complesso
all'interno, rivestivo per lui uno scarso valore. Tuttavia, una persona del suo giro d'affari aveva molte fonti d'informazione; sapeva che i membri della Regia Anti-Società erano interessati alle macchine uscite dai laboratori di Dower senior. Mi portarono a sud e cercarono di vendermi a Sir Charles, asserendo che sarebbero stati capaci di attivarmi. È stato questo il motivo della loro visita al tuo negozio di Londra: erano in cerca del meccanismo di comando per me. Una ricerca inutile, in realtà. Se Scape avesse posseduto qualche conoscenza teorica in più, sarebbe riuscito ad accertare che una versione più piccola di quel congegno assai ingombrante, un secondo Regolatore Eterico, di dimensioni ridotte rispetto all'originale, era già incorporato nei miei meccanismi. Fallito il suo tentativo di rubare ciò che erroneamente riteneva indispensabile ai suoi affari, stasera Scape è stato costretto all'espediente di fare passare "te" per "me". Un concetto piuttosto interessante: un essere in carne e ossa che si spaccia per un congegno a orologeria, invece del contrario. — "Io" ho scoperto la frode — intervenne la signora Wroth. — Ma certo, mia cara. — Il Paganinicon le carezzò la mano. — E ti sono molto grato dell'acutezza delle tue percezioni. E dei tuoi poteri di convincimento. — Si girò di nuovo verso di me. — Vedi, Dower, nella confusione generale provocata dall'attacco del Pio Esercito al maniero di Bendray, la stimata signora al mio fianco ha scoperto che i nostri buoni amici Scape e McThane se la stavano squagliando dal maniero passando per la finestra del retrocucina. Ha protestato con Scape in modo assai furibondo per la frode... — Quel piccolo delinquente odioso — mormorò ella, minacciosa. — ...E li ha costretti a esibire il vero Paganinicon. Per fortuna, si trovava nei pressi. Lo avevano nascosto in un casotto da caccia sui terreni di Lord Bendray. Entrando, sono rimasti sorpresi nello scoprire il Paganinicon, cioè me, attivato. Passeggiavo nella stanza ed ero in grado di conversare. Scape, nel corso delle sue precedenti attenzioni per la mia persona, aveva lasciato la mia molla principale e le varie molle ausiliarie cariche. Non sapeva che per mettermi in movimento era necessario solo che il cervello aggiuntivo, cioè "tu", mio caro Dower, si trovasse nel raggio di pochi chilometri dal Regolatore Eterico che io contengo. Se Scape fosse stato al mio fianco, e non con te sulla carrozza che vi portava al maniero di Bendray, avrebbe assistito al culmine di tutte le cure che aveva dedicato ai miei poveri, trascurati meccanismi. È davvero molto capace in ciò che concerne la meccanica, in maniera rozza e incolta, ovviamente. E trattandosi di una
questione, per così dire, vicina al mio cuore, naturalmente sono stato in grado di illuminare tutti i presenti, Scape, la signorina McThane, e la buona signora Wroth... — le carezzò la mano e scambiò di nuovo un sorriso con lei — ... su buona parte dei misteri che circondavano l'improvviso animarsi di quello che sino ad allora era stato metallo muto e inerte. Ma abbiamo avuto ben poco tempo per le spiegazioni. Ben presto siamo stati raggiunti da un altro individuo che recava conturbanti notizie sulle tue disgrazie, Dower. — Il Paganinicon mi fissò, inarcò le sopracciglia come si aspettasse che fossi io a fornirgli la parola successiva. — Il "tuo" amico, quell'uomo massiccio... Io stavo ancora lottando con le rivelazioni che mi erano state fatte. — Vuoi dire l'Uomo di Cuoio Marrone? — È così che lo chiami? — Il Paganinicon scrollò le spalle. — Più che adatto, suppongo. Ho l'impressione che egli si attribuisca un altro nome, ma purtroppo l'urgenza della situazione ha impedito presentazioni ben fatte. Non importa. Quell'individuo aveva osservato di nascosto molti degli eventi della serata. Immagino che quel suo colore scuro sia piuttosto utile per aggirarsi non visto e spiare. Ci ha informati che correvi il rischio di essere catturato e ucciso da una o più delle varie fazioni di cui avevi sollevato le ire. La prospettiva generava allarme, soprattutto in me: nutro per te un attaccamento ben più che fraterno, mio caro Dower. La tua morte, e più specificamente la morte del tuo "cervello", che funge anche da "mio" cervello, mi permetto di ricordarti, avrebbe ovviamente posto fine anche alle mie funzioni vitali. Sicché si sono approntati in tutta fretta piani che garantissero la tua salvezza. A quel punto, l'assedio del maniero da parte del Pio Esercito si era tramutato nel generale inseguimento della tua persona. La strada per il maniero era sgombra. La signora Wroth e io abbiamo potuto tornarvi, ottenere carrozza e conducente, e siamo partiti per il rendez-vous che il tuo amico, l'Uomo di Cuoio Marrone, aveva predisposto Nel frattempo, Scape e la signorina McThane si sono recati al porto marittimo più vicino per procurarti un posto su un'imbarcazione. Raggiungerai un luogo dove potrai stare al sicuro finché le acque non si saranno un po' calmate. — Il Paganinicon si appoggiò allo schienale, aprì le mani a ventaglio in un gesto di soddisfazione. — Visto, allora? Tutto perfettamente semplice. Tutto diventa comprensibile, se si ha tempo a sufficienza. Stavo per ribattere che le spiegazioni che mi aveva fornito non erano né "semplici" né "comprensibili", ma frenai la lingua. Essendomi leggermente ripreso dalle fatiche della fuga nell'acquitrino, riuscivo ad apprezzare il fat-
to di essere fuori pericolo, almeno per il momento. E quali che potessero essere le motivazioni dei miei salvatori, non parevano intenzionati a darmi morte immediata. Gli sforzi di tracciarmi da solo un percorso sulla perigliosa scacchiera del mondo avevano avuto come risultato più disastri che successi; ero contento di diventare per un po' la pedina di qualcun altro, apparendo chiaro che sarei stato trasferito a un'oscura fila, lontano dall'infuriare della battaglia al centro della scacchiera. (Così, venuta meno la fiducia in noi stessi, concediamo ad altri quella fiducia, a nostro rischio e pericolo!) Guardai i due volti sorridenti di fronte a me, uno dei quali assurdamente simile al mio. — Ne deduco allora — dissi — che tu verrai con me... qualunque destinazione Scape mi abbia scelto. — Venire con te? Mìo caro Dower. — Il Paganinicon scosse la testa. — Non ne vedo la necessità. Dopo tutto, quella gente vuole la "tua" pelle. "Io" non li temo. Posso avere il tuo stesso aspetto, ma le mie imprese e le mie capacità dimostreranno ben presto che sono una persona completamente diversa. — Gesticolò teatralmente. — Mi attende una grande carriera, rimandata per troppo tempo. La signora Wroth lo studiò con sguardo intenso. — Non è l'unica cosa che sia stata rimandata per troppo tempo. — Sì, certo. Anche quello. — Il Paganinicon scrollò le spalle. — Un vero peccato che tu abbia fracassato quel Guarneri al maniero, Dower. Non appena arriverò a Londra, il mio primo impegno sarà rintracciare un degno strumento. Uno Stradivari decente o qualcosa di equivalente, penso. Con occhi ridotti a fessure, ella lo scrutò. — Ti procurerò io lo Stradivari — sussurrò roca. — Aspetta e vedrai. Fui folgorato da un pensiero. — Ma se io partirò per mare, se alloggerò in qualche luogo remoto, e tu sarai a Londra, a una distanza considerevole da me... questo non interferirà con le tue funzioni? Se ti troverai tanto lontano dal mio cervello? — No, no. I tuoi timori per me sono davvero toccanti, ma non occorre che ti preoccupi. Il veicolo che mi trasmette le sottili vibrazioni del tuo cervello, offrendomi la base che mi permette di modificare azioni e reazioni, e cioè l'etere, è un veicolo di natura assolutamente non spaziale. Esiste in un'altra dimensione. Un concetto piuttosto difficile da afferrare, ma ti assicuro che è vero. La tua vicinanza è stata necessaria solo per mettere in movimento i miei meccanismi, ma finché resterai in vita e nessuna catastrofe sconvolgerà le operazioni notevolmente placide del tuo cervello... e
onestamente non so proprio immaginare cosa potrebbe riuscire a tanto, data la tua natura flemmatica... tutte le paure generate dall'inseguimento hanno prodotto solo una modesta onda sulla placida superficie dello stagno, com'è dimostrato dal fatto che io non abbia cessato di funzionare... ecco, tu potresti anche trovarti sull'altra faccia della luna, e non farebbe alcuna differenza. La brezza salmastra che penetrò nella carrozza segnalò il nostro arrivo alla costa. Guardando dal finestrino, vidi la prima luce dell'alba riflettersi sulla placida distesa dell'oceano. Poche barche, insignificanti pescherecci, ballonzolavano sull'acqua a fianco di una banchina cadente. Una nave di considerevoli dimensioni, incongrua tra quegli insetti, era all'ancora nelle acque più profonde all'estremità della banchina. Una figura sul ponte aveva avvistato la carrozza e ci stava facendo cenno di avvicinarci. Il Paganinicon ordinò al conducente di fermarsi. — Qui ci dividiamo, mio caro Dower. Abbi cura di te stesso, per il tuo bene come per il mio. Quando finalmente le acque si placheranno e tu tornerai a Londra... tra qualche mese, o un anno, chi lo sa? Gli stati d'animo del pubblico sono così capricciosi... In ogni caso, vieni a cercarmi. Se non sarò in tournée nel Continente, è ovvio. Spalancò lo sportello e io scesi. — Au revoir — mi salutò, mentre il conducente faceva ripartire i cavalli. La carrozza invertì il senso di marcia e tornò nella direzione dalla quale era arrivata. Sentii qualcuno urlare il mio nome dietro me. — Eilà, Dower! — Sulla passerella della nave, Scape alzò le braccia in un esuberante saluto. Anche dall'estremità del pontile potevo vedere quanto fosse compiaciuto di se stesso. Presi ad avanzare sulle assi, con le lenti blu puntate addosso. — Ehi, guarda un po'. — Sporgendosi dal parapetto, gesticolò a indicare la nave. — Grandiosa, eh? La signorina McThane era con lui. Salito sul ponte che rollava dolcemente, passai lo sguardo dai due alla massa di vele e cordame sopra le nostre teste. — Chi è il proprietario della nave? — Appartiene a Sir Charles. Uno dei piccoli vantaggi dell'essere ricco, se mi spiego. Ha un intero equipaggio a bordo, scorte, tutto quanto. Siamo quasi pronti a levare l'ancora e partire in crociera. — "E va bene". — La signorina McThane si mise a cantare e danzare, battendo il fianco contro Scape. — Lascia che ti porti in una crociera sul mar...
Per quanto sconcertato dal comportamento eccentrico della donna, fui piacevolmente sorpreso all'udire un'altra voce che mi chiamava. — Signor Dower, signore! Lei è "vivo"! Mi girai e vidi il mio fido assistente Creff. Mi afferrò un braccio con entrambe le mani e mi fissò. I suoi occhi erano lucidi di lacrime di gioia. Il terrier Abel volteggiava attorno ai nostri piedi, abbaiando nel delirio della felicità. — Mi hanno detto che lei era vivo, signore. Ma non sapevo se dovessi credere loro, quando hanno promesso che lei ci avrebbe raggiunto a bordo, da quei mascalzoni che sono... — Ehi! — Scape, col braccio attorno alla spalla della signorina McThane, avvampò a quel commento. — Che razza di discorsi sarebbero? — Ma siccome hanno detto che lei poteva avere bisogno di me nel lungo viaggio che sta per intraprendere, ho ritenuto fosse mio dovere venire ad accertarmi di persona. Ed eccola qui, sano e salvo, dopo tutta quell'orribile confusione! Per me è un miracolo, ecco che cos'è. Annuii stancamente. — Confesso di essere d'accordo con lei sul punto. Comunque, è bello rivederla. Creff si alzò in punta di piedi per raggiungere il mio orecchio. — Farò del mio meglio per lei, signor Dower, ma temo che non potrà essere molto. Non sono mai stato un uomo di mare, e già col poco tempo che ho trascorso a ondeggiare su questa cosa mi sembra di avere l'anima in gola. Se ci trovassimo in alto mare e dovesse sorprenderci una tempesta, non posso garantire di riuscire a mantenere l'efficienza. In verità, aveva un colorito un po' verdognolo, e il disperato ruotare dei suoi occhi mimava il leggero rollio della nave. — Penso — dissi — che lei mi sarà più utile se rientrerà a Londra, per tenere sotto controllo il negozio in mia assenza. Non ci saranno folle assetate del "suo" sangue, e lei potrà salvaguardare locali e merci da chiunque possa nutrire rancori nei miei confronti. — Molto giusto, signore — rispose Creff, con evidente gratitudine. Si chinò, e con l'indice alzato ordinò al cane: — È compito tuo tenere d'occhio il signor Dower. — Abel, a orecchie diritte, lo guardò senza dare segno di comprendere, però rimase con me quando Creff mi strinse la mano nell'arrivederci e si affrettò alla passerella. Un marinaio, uno dei molti che avevo intravisto occuparsi di misteriosi incarichi nella luce dell'alba, ci raggiunse. — Ci sono cabine sottocoperta — disse, rispettosamente togliendosi la cuffia di lana — se volete riposare un po' prima che salpiamo.
Accettai di buon grado l'invito, travolto com'ero dall'improvvisa percezione del mio stato di spossatezza. Il marinaio mi guidò a una stanza piccola e scarsamente arredata, ma pulita. L'unica cosa importante era che conteneva un letto. Non appena ebbi poggiato la testa sul cuscino, le parole e le voci che si aggiravano nel mio cervello si involarono per le tenebre sopra i miei occhi chiusi, e caddi in un sonno senza sogni. Più tardi (non avevo modo di sapere quanto tempo fosse trascorso) venni destato da qualcuno che mi scrollava rudemente una spalla. Spalancai gli occhi e vidi il volto del marinaio che mi aveva condotto in cabina. Sentii attorno il movimento rollante della nave, udii gli scricchiolii lignei dello scafo e il frangersi delle onde. — In piedi — ordinò il marinaio. La precedente cortesia era svanita. — La vogliono sul ponte. Mi girai su un fianco. — Trasmetta per favore le mie scuse — dissi. — Sono indisposto... Egli mi strappò a forza dal letto e mi spinse verso la porta della cabina. — Di buon passo! Prima che io perda la pazienza. Barcollai fin sul ponte, e vidi Scape e la signorina McThane, ora serissimi. A smorzare la loro ilarità provvedevano le facce scure dei marinai schierati sull'attenti. La nave era ancora a portata di voce dal porto dal quale eravamo salpati. Il marinaio mi spinse verso Scape e la signorina McThane, poi si unì ai colleghi. — Adesso cosa succede? — chiesi, sconcertato da quell'improvviso cambio di umori. — Che c'è? Scape mi fissò con una smorfia truce. — Penso — rispose — che ci abbiano fottuti. Una figura col mantello emerse da uno dei boccaporti di prua e si avvicinò a noi seguendo la fila di marinai; tutti gli uomini si drizzarono come pali al passare di quello che doveva chiaramente essere un loro capo. Si fermò infine di fronte a noi e ci scrutò a turno. L'orlo sollevato del mantello gli celava il volto. — Buongiorno, signori e signora — disse sottovoce. Il mio cuore diede un tuffo a quelle parole. Il mantello e la voce fecero scattare una scintilla nella mia memoria: la figura mi aveva già scrutato un'altra volta, e aveva emesso un'impietosa sentenza. Era l'uomo che aveva ordinato ai ruffiani colpevoli dell'omicidio del sudicio falsario Fexton di scaraventare nel Tamigi il mio corpo legato. L'uomo abbassò il mantello, e mi trovai a fissare gli occhi di Sir Charles Wroth.
La mia sorpresa, e quella di Scape e della signorina McThane, evocò un certo divertimento nei suoi tratti. Ci venne concesso un sorriso esangue. — Non so perché — disse Scape, con una risata snervata — ma ho la sensazione di non lavorare più per lei. — Zitto — ordinò Sir Charles. — Ora non c'è tempo per la tua idiozia. Ti conviene provvedere a rappacificare l'anima col Signore. Debbo informarvi che siete nelle mani del Pio Esercito. — Gesticolò in direzione dei marinai. — Questi uomini, tutti impeccabili cristiani, sono ai miei ordini. Rendetevi conto che il giorno della resa dei conti per i vostri peccati è vicino. Nessuna fuga è più possibile. — Mi sta prendendo per il culo. — Scape scosse la testa, incredulo. — Non è vero? L'occhiata folgorante di Sir Charles lo zittì. — È indubbio che la mia recita vi abbia ingannati. Quindi, ha avuto successo. In realtà, io non sono l'effeminato musicomane e scienziato senza Dio per il quale mi avete preso. Anche se la Regia Anti-Società, quel consesso di demoni!, è solo una frazione di ciò che era un tempo, i membri sono comunque tenuti al segreto, per meglio salvaguardare le loro diaboliche conoscenze. Con grande difficoltà mi sono infiltrato tra loro, fingendomi dedito al culto di quelle vane arti. Nemmeno mia moglie ha mai sospettato la mia devozione alla buona causa puritana. E ho infine deciso che fosse giunta l'ora di colpire. Sono stato io a dare il segnale per l'inizio dell'assedio, dall'interno del maniero di Lord Bendray; e sempre io ho sabotato le varie difese organizzate da quell'idiota di Lord Bendray, in modo che i miei uomini potessero entrare. Sfortunatamente, l'oggetto della nostra sortita... — A occhi socchiusi, scrutò nella mia direzione. — È fuggito nella confusione. Ma Dio accomoda ogni cosa. Non appena ti abbiamo perso, la richiesta di Scape di provvedere a fornirti un mezzo di fuga ti ha riportato tra le nostre mani. E così, giustizia è fatta. — Penso... penso che lei stia commettendo un errore — balbettai. — Non so quali crede siano i miei... rapporti con tutto questo, ma... — Silenzio! — Sir Charles indietreggiò da noi tre. — Tergiversare è inutile. Noi conosciamo la verità di Dio. Tra breve vi sarà reso noto quale fato sia riservato a esseri della vostra risma. Vi porgo il mio addio. Due marinai lo aiutarono a scendere su una barca legata alla fiancata della nave. Mentre la piccola imbarcazione ripartiva verso il porto, le vele si gonfiarono sopra le nostre teste. Fissai disperato la fetta di terra che veniva gradualmente inghiottita dall'orizzonte marino.
PARTE TERZA Narrazione di un viaggio alle Ebridi 12 Barlumi di futuro L'esperienza personale mi ha insegnato che l'essere condannato a morte produce nell'individuo una benefica calma, tanto fisica quanto spirituale. Il tempo e le meschine preoccupazioni mondane recedono, assumono la mancanza di significato che loro compete rispetto all'idea dell'Eternità. Forse è più facile cullare questi nobili concetti a bordo di una nave, dove l'incessante rollio dell'oceano e l'informe orizzonte grigio non offrono vane distrazioni dalla meditazione. Ma anche qui, nel mio rifugio al limitare della grande città, mi torna un frammento di quella pace; il cane, mio compagno in tante ardue avventure, pisola davanti al fuoco, e io procedo nello scrivere, ignaro dei rochi richiami dei pescivendoli nella strada sotto. Mi rendo conto ora di avere acquisito, nel mio viaggio in mare, solo una "visione più chiara" della condizione alla quale noi tutti, uomini e bestie, siamo condannati. Anche se per la maggior parte del tempo siamo ignari o dimentichi del fatto, tutti noi viviamo un Viaggio di breve durata, diretti all'approdo della nostra Morte. Fortunato è il marinaio che scruta l'orizzonte e intravede più avanti una nube chiara. La nave della quale Scape, la signorina McThane e io ci trovammo involontari passeggeri si chiamava Virtuous Persistence, anche se a prua era ancora visibile la sbiadita prova di una sua precedente incarnazione come Miss Clementina Peckover. L'equipaggio (più una Pia Marina che un Pio Esercito, per quanto tutti si attenessero agli usi militari ricevuti in eredità dai tempi di Cromwell) era capitanato da un certo tenente Brattle; fu lui ad assumersi l'incarico di informare i suoi passeggeri della destinazione prevista. — In tempo di guerra, misure crudeli sono spesso necessarie. — Il tenente, una versione giovanile del suo superiore Sir Charles, passeggiava serio di fronte a noi. Il nostro gruppo di tre (quattro, contando il cane appollaiato ai miei piedi che seguiva le parole con fervido impegno, se non proprio con totale comprensione) era stato radunato sul ponte poche ore dopo la partenza. — E la guerra contro Satana — dichiarò il tenente — è
incessante. — Merda — borbottò Scape al mio fianco. Il tenente gli scoccò un'occhiata aspra, ma proseguì. — Questo vascello segue una rotta che lo porterà alle Ebridi Esterne. Uno degli isolotti più lontani dalle coste scozzesi è quello noto col nome di Groughay, patria ancestrale degli infami Bendray. La scarsa popolazione che vi risiedeva ha abbandonato l'isola anni fa. Le sue nude rocce saranno testimoni della sentenza che vi è stata comminata dalla compassionevole saggezza di Dio Onnipotente, tramite le persone dei Suoi difensori... — Che mucchio di stronzate. Il vigoroso commento di Scape provocò un'occhiata ancora più severa. — Le consiglio il silenzio. Questo sfoggio di mancanza di rispetto può solo attirare sul suo capo ulteriori disgrazie. — Ah! — Le lenti blu si girarono verso me e la signorina McThane. — Ma "sentitelo". — Scape si voltò di nuovo verso il tenente, avendo divinato quello che sarebbe stato il contenuto del discorso. — Di quanto possiamo peggiorare le cose, eh? Il tenente irrigidì ulteriormente la sua espressione sdegnata. — Sull'isola di Groughay, voi tutti sarete giustiziati nella maniera più acconcia e pietosa. È dovere mio e degli uomini ai miei ordini, come soldati al servizio di Cristo, eseguire la sentenza per i mostruosi crimini da voi commessi contro Dio e la nazione. — Figli di puttana — disse la signorina McThane. Per un attimo mi parve di vedere tremare il suo labbro inferiore; poi ella si fece avanti e assestò un calcio allo stinco del tenente. Uno degli uomini che ci sorvegliavano si interpose; prima che potesse metterle le mani addosso, la signorina McThane era guizzata indietro, posizionandosi tra Scape e me. — Um... Le chiedo scusa, tenente. — Per quanto mi aspettassi quell'annuncio, le parole mi avevano comunque fatto salire il cuore in gola. — È possibile... Non pensa di essere forse un po'... ecco, duro? Egli annuì, grave. — Solo con la carne che ha errato, signor Dower. Con l'involucro provvisorio del suo spirito immortale. E a esso concediamo un grande beneficio: trascorrerà un considerevole periodo di tempo prima che raggiungiamo Groughay, e le nostre ferventi preghiere per le vostre anime vi assisteranno nel raccomandarvi al vostro Artefice. — Grazie tante. — Scape rivolse una smorfia alla schiena del tenente, che marciò via coi suoi uomini. Per qualche attimo restò muto, la testa abbassata a riflettere. Poi si girò a guardare me. L'angolo del suo sorriso fiorì
sotto gli occhiali scuri. — Be', questo è quanto. La signorina McThane si appoggiò al parapetto, scrutò il cielo ingombro di nubi grige, poi riportò gli occhi su noi due. — E adesso che diavolo dovremmo fare? Giocare a shuffleboard? Raccolsi Abel tra le braccia e gli carezzai la testa. Le strade londinesi per le quali mi aveva inseguito sembravano remotissime. — Come ha detto il tenente — mormorai — forse dovremmo fare alcuni preparativi. Dopo la furia delle mie recenti avventure, la vita a bordo della Virtuous Persistence non era del tutto sgradevole. A differenza del povero Creff, tradito da un sistema digestivo di scarso ancoraggio, scopersi di essere uno dei fortunati che trovano il rollare e l'ondeggiare di un vascello relativamente rilassante. Anche nelle rare occasioni di fortunali subii solo minimi disagi; mi sentii talmente a mio agio da dover rimpiangere di avere individuato le mie doti marinaresche solo così tardi. Ai prigionieri venne concessa assoluta libertà di movimenti, visto che l'unico possibile obiettivo da raggiungere erano le onde gonfie attorno a noi, e che il nostro gruppetto era troppo sparuto per presentare la minaccia di impossessarsi con la forza della nave. Il cibo era primitivo, ma abbondante; gli uomini del Pio Esercito, nel loro ruolo di marinai e carcerieri, ci trattavano con una certa misura di rispetto, dovuto forse all'enormità dei crimini che ci avevano attirato quella condanna. Una mia domanda sulla sorte del cane provocò un acceso dibattito in seno all'equipaggio: alcuni sostennero l'innocenza della povera bestia, altri (i più primitivi nelle loro convinzioni) asserirono che potesse trattarsi del familiare di una strega e che quindi dovesse subire lo stesso fato del padrone. In simili condizioni di riposo forzato, e dopo avere assunto un atteggiamento filosofico nei confronti della morte imminente, l'unico atteggiamento possibile nella circostanza, trovai l'opportunità di riflettere sulle singolari esperienze che avevo vissuto. Come si dice che l'intera esistenza passi in un lampo davanti agli occhi di chi sta affogando, così nel mio cervello tornarono a svolgersi, molto più lentamente, gli eventi iniziati con l'annuncio di Creff di un etiope alla porta. Il mio compagno di viaggio Scape si imbatté in me mentre ero immerso in una di quelle riflessioni. Sedevo appoggiato all'intelaiatura di un boccaporto aperto, grattando Abel dietro le orecchie. Il cane ansimava, dopo le fatiche di cacciare i gabbiani dal ponte. — Eilà, Dower — mi salutò Scape, prima di sedersi. Appoggiò le braccia sulle ginocchia sollevate, studiò il
fumo della sigaretta che si era preparato col tabacco mendicato a un uomo del Pio Esercito, tabacco poi avvolto in una pagina della Bibbia ottenuta dalla stessa fonte. — Ecco cosa succede — disse, annuendo verso un gruppo di uomini impegnati in una serrata esercitazione militare — quando dai alla gente Bibbie e pistole. Dovresti dargli o una cosa o l'altra, ma non tutte e due. Spappolano il cervello. — Sul mozzicone di sigaretta erano ancora visibili alcune parole delle Sacre Scritture quando egli lo scaraventò in mare. Scrollai le spalle, indifferente. — Non sono poi cattivi. Fanno il loro dovere e tutto il resto. E ci lasciano vivere questo tempo invece di giustiziarci subito, come avrebbero potuto fare. La sua risposta fu uno sbuffo disgustato. — Svegliati. Hanno i loro motivi per quello che stanno facendo. Vogliono levarci di mezzo, lasciare i cadaveri su quella stupida isola, e far sembrare che ci sia sotto lo zampino del vecchio Bendray. Groughay è la sua isola, ricordi? Questi vogliono solo far scoppiare un bordello sulla testa del vecchio. Quindi non possono ucciderci adesso. Vogliono che siamo ancora carne fresca quando qualcun altro ci troverà. Come sempre, Scape aveva una spiegazione per le azioni di chiunque altro. Purtroppo, non sapevo trovare falle nel suo ragionamento. Visto che i risultati pratici sarebbero stati gli stessi, che avesse ragione o no, lasciai cadere quell'argomento di scarsa importanza. Dopo un attimo di riflessione, ripresi a parlare. — Ci sono molte cose che ancora mi lasciano perplesso... — Sì, ci scommetto. — Per esempio, come abbia fatto una persona col suo carattere a restare coinvolta in queste faccende... — Il mio carattere? — Mi scoccò un'occhiata di finta severità. — Ehi, attento. Insistetti: — O le ragioni di tante azioni apparentemente insensate. Per esempio, a Londra, quella sera in chiesa... — Oh, quello. — Egli scrollò le spalle. — Potrei darti una spiegazione ragionevole per ogni tipo di cosa. — Per esempio? — Be', già. Sicuro, perché no? Abbiamo un'infinità di tempo, suppongo. — Scape sistemò meglio la schiena contro l'orlo del boccaporto, per mettersi comodo.
Il discorso che seguì si è talmente impresso nella mia memoria che posso garantire l'autenticità della sua trascrizione qui. Nel modo di parlare di Scape, parecchie cose (diverse parole, varie frasi gergali) mi avevano lasciato perplesso sin dalla prima comparsa del mascalzone nel mio negozio di Clerkenwell. Il mistero era stato rafforzato di continuo dalla indubbia stranezza (in mancanza di un termine migliore) del suo aspetto generale: alieno, eppure al tempo stesso familiare, come se lo vedessi attraverso un vetro che lo distorceva, che ingrandiva alcuni aspetti e ne rimpiccioliva altri. Vediamo un'immagine ondeggiante, e diciamo di riconoscere la figura contenuta nel vetro, ma non capiamo come e perché la riconosciamo. Così accadeva con l'enigmatico Scape: la sua divergenza da me, o da ogni altro inglese, era resa più inquietante dalla similarità che rimaneva. In quanto alla veridicità della storia che egli mi riferì a bordo della Virtuous Persistence, non posso offrirne pegni. All'epoca, tête-à-tête nella mutua prigionia, la visione che egli tracciò dal nulla, di macchine favolose e del Futuro da esse svelato, gravò sulla mia anima con opprimente certezza. Alla mia attuale distanza, nel tepore del fuoco del mio rifugio, non nutro né fede né incredulità; in questo, se non altro, sono caduto nell'abietta posizione, inferiore persino a quella del più turpe ateo, di non sapere cosa credere. Il lettore dovrà prendere la propria posizione senza alcuna assistenza da me. — Il fatto è — disse Scape, dopo un attimo di riflessione — che io non sono sempre stato... come mi hai chiamato? Una persona con questo carattere. Insomma, non parlavo così, per esempio. Per caso ti sei accorto che il mio modo di parlare è un po' diverso dal tuo? — Non era sfuggito alla mia attenzione. Scape annuì. — Parlavo più o meno come te, con tutti quei fronzoli. Magari un po' meno forbito, perché ero, come dire?, del mestiere. Del ramo. Mi segui? Azzardai un'ipotesi. — Attività criminose? La sua fronte si aggrottò in una smorfia. — Cristo, Dower, non metterla così brutta. Diciamo che me la cavicchiavo con qualche piccolo... imbroglio. Tiravo a campare, niente di grosso. Io e la signorina McThane... Lei è ancora in cabina. Dorme. È rimasta in piedi fino a tardi, a cercare di prendere al laccio uno di quei tizi del Pio Esercito, ma alla fine ha dovuto arrendersi. Una causa persa... Comunque, noi due avevamo un piccolo show viaggiante. Lo chiamavamo "La Raccolta delle Curiosità". Se ne vedono
parecchi in certe città e nei paesi. Quei bifolchi vanno matti per cose del genere. Non avevamo niente di troppo spettacolare: una foca impagliata con una parrucca che cercavamo di spacciare per una sirena, un manichino a molla capace di portare un corno alla bocca e soffiarci dentro, solo che di solito se lo infilava nell'occhio. Robaccia. Perché, vedi, la baracca in realtà era solo una scusa per spostarci da un posto all'altro. Una specie di buon motivo per entrare in alcune di quelle città. — Annuì di nuovo, questa volta allietato da chissà quali ricordi. — Ti sorprenderebbe, uomo, scoprire quanti soldi hanno messo da parte alcuni di quei vecchi signorotti di campagna. O certi pilastri della comunità in una di quelle città industriali di merda. Città grasse. As-so-lu-tamente pronti a farsi spennare. Siccome non hanno nient'altro per cui spendere i soldi, diciamo magari il vecchio e il figlio maggiore col sangue caldo, sono felici di veder entrare un po' d'eccitazione nelle loro vite. E poi sono convinti di essere troppo fottutamente furbi per lasciarsi fregare, perché non hanno mai avuto niente come metro di paragone per i loro cervelli, a parte un branco di contadini spalamerda. — Sorrise tra sé, immerso nelle reminiscenze. — Credimi, era grande. Avrei dovuto restare nel ramo. A quest'ora lei e io potremmo già essere in pensione, invece di trovarci bloccati qui con quegli stronzi. Il racconto mi turbò un poco. — Che ruolo aveva la signorina McThane nelle sue attività? — Oh, si dava da fare anche lei. Ci metteva tutto il suo peso. — Sta dicendo... Egli intuì immediatamente il senso della mia domanda. — Nooo, non ha dovuto fare la baldracca o roba del genere. Be', non troppo spesso, per lo meno. Non ce n'era bisogno. Bastava che facesse gli occhi dolci ai polli al tavolo da gioco, e quelli alzavano le puntate solo per cercare di fare colpo su di lei. Quando si accorgevano di essere stati bidonati, noi avevamo già tagliato la corda. Eravamo in viaggio per un'altra città. — La sua voce assunse un tono più filosofico. — È un modo come un altro per guadagnarsi da vivere. Comunque, una volta, mi pare fossimo dalle parti di Birmingham, quel vecchio si trova indebitato con noi per una cifra che non può pagare. Dice di avere un paio di interessanti congegni a orologeria, preziosi pezzi da collezione, creati dal celebre inventore George Dower senior. Io ho sempre avuto la passione di quelle cose, così le accetto al posto dei soldi... Lo interruppi. — E uno dei congegni era il Paganinicon. — Sì, esatto. Ti hanno già informato, giusto? Una cosa bestiale, eh? De-
vi essere rimasto proprio di cacca quando lo hai visto. Io me la sono quasi fatta addosso quando sono tornato al casotto da caccia di Bendray e l'ho trovato che passeggiava e parlava. — Una macchina... meravigliosa — convenni. Egli mi si accostò. — Be', senti qui. L'altro congegno che ho avuto dal vecchio era ancora "più pazzesco". — Sul serio? E cos'era? — A guardarlo — disse Scape — non si sarebbe pensato che fosse quel granché. Insomma, a paragone di un vero violinista a orologeria, Cristo santo. Cos'era? Una scatola lunga più o meno così... — Aprì le mani, posizionandole una trentina di centimetri l'una dall'altra. — Tipo uno di quei proiettori per diapositive... com'è che li chiamate qui? Lanterne magiche, giusto. Con un piccolo scomparto per una lampada a paraffina all'interno, e una lente sul davanti. Ma non c'era nessuna fessura per infilare lastre di vetro o qualcosa d'altro. Quasi tutto l'interno del congegno era occupato da quegli strani meccanismi di tuo padre. Mi ci è voluto un po', ma sono riuscito a farlo funzionare. Ed era bestiale. — Cosa faceva? Scape mi fissò con astuto compiacimento. — Lampeggiava — rispose semplicemente. Non per la prima volta, rimasi perplesso. — Lampeggiava? — Guardavi nella lente, e quella emetteva un lampo. I meccanismi controllavano un otturatore che si apriva e si chiudeva di fronte alla luce. Molto veloce, e con un certo andamento ritmico. — Annuì, leccandosi le labbra per un istante. — La cosa più pazzesca che io abbia mai visto. — Cosa aveva di tanto meraviglioso? — Forse le mie impressioni iniziali su Scape erano esatte. Forse era solo un demente. — Guardavi nella lente mentre esplodeva il lampo, e vedevi cose. — La sua voce si abbassò nello svelamento del segreto. — Vedevi... il Futuro. Il fervore della sua voce, di natura quasi religiosa, fece correre un brivido nella mia schiena. — Il Futuro, dice. Egli annuì. — Sì. Credevo di impazzire, quando è cominciato. Ma tutto ha continuato a dipanarsi nella mia testa, e ho capito che era realtà. Il vero Futuro, tra un centinaio o più di anni. Vedevo tutto quello che sarebbe successo, attraverso gli occhi dei miei figli e nipoti e pronipoti. Pazzesco, eh? — Infatti — mormorai. — Vedi, Dower — disse egli, eccitato — il tuo vecchio... che genio era il figlio di puttana!... ha trovato il modo di alterare le onde cerebrali e tutto
il resto, tutte le cose che succedono nella testa, con la sua fottuta luce lampeggiante. E non è nemmeno stato il primo, uomo! Il vecchio Bendray mi ha fatto vedere certe carte degli archivi della Regia Anti-Società. Caterina de Medici, nel sedicesimo secolo, ha fatto costruire una torre per il suo pronosticatore Nostradamus, e lo sai come funzionava? Quello si sedeva nella torre girato verso il sole, e aprendo e chiudendo le dita davanti agli occhi, a tutta velocità, vedeva cose! Il Futuro! È così che ha fatto tutte quelle predizioni. Ce ne sono molte che devono ancora avverarsi. Aspetta e vedrai. Ma comunque, se per Nostradamus è stata solo un'intuizione, tuo padre ha trovato il modo scientifico per farlo. Il Paganinicon ti ha raccontato un po' di balle su un certo tipo di veicolo nel quale viaggiano certe vibrazioni molto sottili del cervello umano? Annuii. — Okay. Il succo è che quel veicolo non è limitato dalle dimensioni spaziali, come ti ha detto lui. "Ma non è nemmeno limitato dal Tempo". Si estende nel Passato, nel Presente e nel Futuro, tutti assieme. Nessuna differenza. Tutto è simultaneo. E la luce lampeggiante, se riesci a regolare alla perfezione velocità e ritmo dei lampi, può alterare la sezione del veicolo che percepisci. Invece del solito pezzettino che vedi normalmente, puoi scivolare nel Futuro. È come un viaggio nel tempo genetico. Quelle che ricevi sono le percezioni... quello che vedono, quello che pensano e sanno... dei tuoi discendenti, sovrapposte alle tue. Cerca di afferrare: vedi il mondo che verrà attraverso gli occhi dei tuoi figli. Non avevo capito alcuni dei suoi termini, ma avevo compreso il senso generale della spiegazione. — Allora è questo che ha fatto? Ha usato il congegno di mio padre per... percepire il Futuro? — Sicuro. Io e la signorina McThane. Abbiamo passato tanto di quel tempo a guardare nella lente di quella scatola che ci lampeggiava sugli occhi... Cristo, te lo sto dicendo. — Scosse la testa. — Ho passato tanto tempo nel Futuro... In realtà non appartengo più a questa epoca. Ecco perché parlo così, hai capito? Sarà il modo di parlare di un mio pronipote, un giorno. E ho preso anche la personalità. Una personalità futura, voglio dire. Sono sempre stato un imbroglione, ma da quando ho assunto le caratteristiche della gente del prossimo secolo, Gesù, sono diventato uno che sa il fatto suo sul serio. Immagino che un giorno tutti quanti saranno così. Una prospettiva orripilante. Un mondo di Scape... Forse era meglio che non fosse mio destino vedere avvicinarsi quel terribile panorama umano. — In effetti — continuò Scape — penso di avere guardato un po' troppo nel Futuro. Tutti quei lampi mi hanno rovinato gli occhi. Non sopporto più
la luce. Ecco perché porto sempre gli occhiali. Probabilmente è stato un bene che alla fine il congegno sia andato in pezzi, se no avrei continuato a usarlo fino a diventare cieco. L'argomento esercitava su di me un fascino orribile. — Come... come sarà il futuro, allora? — Ehi, sarà uno sballo — mi assicurò Scape. — Se ti piacciono le macchine e roba del genere come piacciono a me, ci andresti pazzo. La gente avrà merde di tutti i tipi. Potranno farci quello che vogliono. Ecco perché non mi ha fatto né caldo né freddo sapere che il vecchio Bendray voleva far saltare in aria il mondo. Ehi, nel Futuro tutti vorranno farlo saltare! Aveva soddisfatto la mia curiosità. Non volevo udire oltre su quegli atroci giorni a venire. — Allora quel congegno non esiste più? — Già. Quando è saltato, è saltato a bomba. Non avrei saputo da dove cominciare per rimetterlo assieme. Così io e la signorina McThane, coi nostri nuovi cervelli, abbiamo pensato che magari si poteva vendere l'altro aggeggio che non riuscivamo a mettere in moto, il violinista, per un sacco di soldi. Abbiamo saputo che a quel figlio di puttana di Sir Charles Wroth interessava roba del genere, così ci siamo trasferiti a sud per farglielo vedere. Per rifilarglielo, abbiamo dovuto raccontare la balla che saremmo riusciti a far funzionare il Paganinicon, se avessimo fatto un salto a Londra per farci consegnare il Regolatore Eterico da te. Quello ha creduto che sapessimo il fatto nostro. In realtà, se avessi saputo che dentro il Paganinicon c'era già un regolatore e che bastava portarlo nei tuoi paraggi perché cominciasse a ticchettare, mi sarei risparmiato un casino di rogne. Invece avevo solo una vaga idea di quel che cercavo quando sono arrivato al tuo negozio, perché Sir Charles mi aveva raccomandato al suo amichetto della Regia Anti-Società Lord Bendray, e lui mi aveva detto che aspetto avesse il Regolatore che gli serviva per la sua macchina schiantapianeta. Poi, quando la signorina McThane e io stavamo tenendo d'occhio il negozio, abbiamo visto quel tizio con la pelle scura portarti proprio quello che volevamo, così abbiamo cercato di rubartelo. Tutto qui. — Quindi eravate al soldo di Sir Charles e di Lord Bendray contemporaneamente? Egli annuì. — Già. Stavo cercando di crearmi una clientela tra i vecchi scorreggioni della Regia Anti-Società. Diventare una specie di consulente per gli aggeggi che tuo padre aveva costruito per loro. Solo che dovevo stare attento a non lasciar capire che certe cose erano soltanto un mucchio di spazzatura, tipo la grossa baracca che tuo padre ha rifilato a Bendray. Se
si divertivano tanto, be', era meglio lasciarli fare. Ero ancora perplesso. — Ma per quanto concerne la chiesa di Londra... Perché tutte quelle attrezzature da pesca? Cosa stavate combinando là? Rise e scosse la testa. — Guarda, me lo sto ancora chiedendo anch'io. Secondo me serve solo a dimostrare che il vecchio Bendray si è bevuto il cervello. Eravamo a Londra, la signorina McThane e io. Stavamo cercando di rubarti il Regolatore, e a un certo punto salta fuori lui con questa idea balorda di addobbare la vecchia chiesa con ami e fili da pesca, e mettere sulle panche i libri di Izaak Walton. Assurdo. Tutta una faccenda assurda. C'erano di mezzo quei brutti ceffi che vivono da quelle parti. Non sapevo ci fosse gente del genere a Londra finché non li ho visti spuntare in chiesa quella sera. Avevo visto le stesse facce a Dampford, il villaggio dalle parti di casa sua, per cui presumo che ci sia qualche parentela. Cugini di città e di campagna, direi. Ma cosa volesse concludere Bendray con lo sfoggio di una chiesa piena di ami e fili da pesca, be', mi venga un accidenti se lo so. Ci immergemmo assieme nel silenzio. Stavo per fargli un'altra domanda, quando lo sentii russare. Cullato dal movimento della nave, e riscaldato da un momentaneo aprirsi delle nubi, si era addormentato, con la testa reclina contro il boccaporto. Scostai dalle mie gambe il muso di Abel e mi alzai. Col folle resoconto di Scape che mi turbinava nella mente (quanta parte fosse dovuta alla demenza, e quanta fosse verità, non ero in grado di decidere), scesi alla mia cabina sottocoperta. Caddi in un agguato prima di giungere a destinazione. Nel corridoio buio, un paio di braccia mi circondarono il collo e mi sollevarono dal pavimento. Il respiro della signorina McThane era caldo sul mio viso. — Vi ho sentiti parlare — mi sussurrò all'orecchio. — Mi trovavo sotto di voi, e vi ho sentiti. — La prego... — Riuscii a districarmi. La candida distesa della sua gola e le morbide forme sotto parevano quasi luminose nel buio. — Si trattenga... — Ehi... — Qualcosa di umido mi toccò l'interno dell'orecchio, sorprendendomi ancor più. Riuscii a intravvedere la punta della sua lingua che si ritraeva dietro il sorriso salace. — Tutto quello che ti ha detto Scape è vero. "Tutto". — Può... può essere... — Il fervore dell'abbraccio aveva quasi svuotato d'aria i miei polmoni. — Però...
Ella rovesciò la testa all'indietro. Le punte aguzze dei suoi denti sfolgorarono. — Io ho nella testa un cervello del Futuro. È così che sarà un giorno. Non ci saranno più tutte quelle idiozie da signora per bene. Nel Futuro, le donne "prenderanno" quello che vogliono. — La sua bocca scese di nuovo su me: l'aquila che si tuffa sulla preda. — Dio ci aiuti. — Mi liberai dalla stretta, ma nel giro di pochi secondi mi ritrovai inchiodato alla porta della cabina. Il suo sguardo vorace si piantò nei miei occhi. — Non solo le donne — ansimò. — Uomini, donne, chiunque. "Non penseranno ad altro". — Il suo respiro ansimante accelerò ancora. — Non come te. Mi fai impazzire. Sei così maledettamente freddo, mai eccitato, come una fottuta macchina. Sei tu l'essere a orologeria. — I suoi occhi si socchiusero a fessura. — Be', cambierà. Adesso. Non lo sopporto. Preparati, idiota... La porta si spalancò alle mie spalle, e io precipitai all'indietro, strappato all'abbraccio della signorina McThane. Quell'evento improvviso la colse di sorpresa, sicché io ebbi il tempo di accoccolarmi sulle ginocchia, richiudere la porta, e appoggiarvi il mio peso per impedire il suo ingresso. Ella se ne andò, dopo diversi minuti di svariati tentativi. Io ricaddi a sedere sul letto, la testa fra le mani, sgomento a quella visione del Futuro: un paese lontanissimo dal mio, dove una persona come me si sarebbe trovata spersa quanto in mezzo alle orde dei Mongoli. Se ciò che Scape mi aveva raccontato era vero, quanto sarebbero stati diversi gli abitanti del Tempo A Venire; diversi, e più crudeli, pronti a carpire col morso dei denti i piaceri della carne. Tanto inquietante era la visione, che per un attimo temetti di avere infine perso la sanità mentale. Alzai gli occhi al suono del legno che si lacerava, e vidi alzarsi dal pavimento della cabina una lama di lucido metallo. Un fiore d'ottone si gonfiò e si protese verso di me. Una voce, familiare, indimenticabile, mi parlò. — Dower, è qui? — Le parole dell'Uomo di Cuoio Marrone echeggiarono sordamente, come giungessero, attraverso il tubo, da grande distanza al di sotto di me. 13 Una lezione di storia naturale Non era un'apparizione generata dal crollo della mia ragione: a quel punto avevo vissuto tante esperienze straordinarie da nutrire una certa fiducia nella mia capacità di decidere cosa stesse realmente accadendo.
Una chiazza scura di acqua marina si formò attorno al foro che lo stelo d'ottone aveva scavato nel pavimento della cabina. L'apparato di metallo scintillava umido, e l'estremità a forma di fiore ruotava su se stessa. — Dower? — La voce dell'Uomo di Cuoio Marrone mi giunse di nuovo. — È lì? Si avvicini a questo congegno e mi risponda. L'apparato si era sollevato a un'altezza di circa sessanta centimetri dal pavimento. Mi inginocchiai e accostai la bocca al fiore d'ottone. — Sono qui. Il congegno smise di ruotare. L'estremità si puntò su di me. — Sa chi sono? — Sì — sussurrai in risposta. — Bene. — La voce dell'Uomo di Cuoio Marrone, filtrata dal tubo, aveva un tono cupo. — Ascolti attentamente. Posso aiutarla. A quelle persone, gli uomini che l'hanno catturata, sfuggire lei può. Può sottrarsi alle loro fatali intenzioni. Il mio cuore accelerò all'udire quelle parole. Mi ero rassegnato alla prospettiva della morte, apparentemente inevitabile. Era, forse, nulla più dello stoicismo dell'agnello nell'imminenza della macellazione: l'animale non vede il senso di scagliarsi contro gli invalicabili confini del recinto. Ma quell'enigmatica figura, apparendo nei più inaspettati momenti, non mi aveva aiutato già due volte a schivare una ria sorte? Per quanto non riuscissi a immaginare come ciò potesse essere di nuovo possibile, data la preponderanza numerica degli uomini del Pio Esercito, permisi a un bagliore di speranza di aumentare il ritmo delle mie pulsazioni. — Non ora, ma più tardi — continuò la voce dell'Uomo di Cuoio Marrone. — Quando buio sarà, e quegli uomini dormiranno. Deve allora incontrarmi. — Descrisse un punto del ponte, non illuminato e al di fuori della vista delle sentinelle. — Ma... ma come può essere possibile? — chiesi. Le mie labbra quasi toccavano il freddo, lucido metallo. — Come... — Adesso calma — ordinò la voce. — Spiegazioni dopo. Quando ci incontreremo. Non informi nessuno. — Il fiore d'ottone si ripiegò su se stesso e lo stelo scomparve. L'unica prova che restasse di quella singolare apparizione era il foro rotondo, non più grande della punta di un dito, e un rivolo d'acqua salmastra. Sistemai sopra il buco, per nasconderlo, un tappetino che stava ai piedi del letto. All'ora fissata, quando l'intero equipaggio dormiva, salvo l'uomo di ve-
detta a prua, scivolai fuori dalla cabina e raggiunsi di soppiatto il ponte. Il mio procedere passò inosservato nella tenebra notturna, e ben presto ero accoccolato in mezzo al cordame e ad altre attrezzature marinaresche, perfettamente nascosto. Solo un'accurata ricerca avrebbe potuto svelare la mia presenza. Attesi con nervosa anticipazione l'arrivo dell'Uomo di Cuoio Marrone. Gli schiaffi delle onde e gli scricchiolii di risposta del legno della nave erano tutto ciò che udivo; il cielo sgombro di nubi proiettava luci sulla distesa dell'oceano. Il viaggio dell'Uomo di Cuoio Marrone per presentarsi all'appuntamento fu ancora più impercettibile del mio, anche se, come appresi di lì a poco, comportò il suo arrampicarsi sul fianco della nave e lo scavalcare il parapetto. Non mi accorsi della sua presenza finché una mano mi toccò la spalla e la sua voce sussurrò il mio nome. Stupefatto, mi voltai; la sua mano mi serrò la bocca prima che un'esclamazione potesse tradirci. — Non parli — mi ordinò in tono smorzato. Seguì, mentre io ascoltavo accoccolato la sua voce, la spiegazione che riassumerò qui. Se anche fossi in grado di riprodurre le sue esatte parole (eliminando le mie esclamazioni di sorpresa, che molto allungarono il discorso), non riuscirei comunque a trasmettere la stranita meraviglia evocata dal suo narrare. Mi disse il suo vero nome, ma alla voce umana mancano i mezzi per pronunciare un suono talmente strano. La mia mente continuò a identificarlo come ormai faceva da quando egli era entrato per la prima volta nel mio negozio a Londra. Sostenne (e ne ebbi ben presto una dimostrazione che bandì ogni residuo di scetticismo che potessi nutrire) di essere l'ultimo superstite di una razza anfibia, a proprio agio più negli abissi marini che sulla terraferma. La sua specie era alla base delle varie storie e leggende sui Selkies diffuse nelle isole scozzesi. A sostegno di quel punto mi mostrò che quella che io credevo la sua carnagione scura era, in realtà, un sottile involucro pieghevole (in effetti, una sorta di cuoio, anche se di origine marina) creato per tenere il corpo immerso in uno strato di acqua marina, essenziale alla sua sopravvivenza; quelli che avevo scambiato per cicatrici al modo degli autoctoni africani erano i fitti punti delle cuciture che tenevano assieme quella guarnizione artificiale. L'Uomo di Cuoio Marrone passò dal singolare al generale; il suo discorso formò una storia naturale della sua razza. Mai molto numerosi e sempre ammantati dall'ombra, i Selkies, per usare il termine più adatto, avevano
mantenuto nei lunghi anni pochi, amichevoli contatti con gli esseri umani: le svariate narrazioni dei marinai sui misteriosi salvataggi di equipaggi di navi disperse in mare avevano quella base nella realtà. Grazie alla loro fisionomia simile a quella dei pesci, i processi riproduttivi dei Selkies erano esterni. La fertilizzazione e lo sviluppo degli embrioni avevano luogo tra grandi distese di alghe marine; e gli unici luoghi adatti si trovavano nelle acque al largo dell'isola di Groughay. Purtroppo, le attività umane avevano avuto un effetto disastroso sulla situazione. I lettori di sufficiente età ricorderanno forse che, attorno alla fine del secolo scorso, si verificò una redditizia espansione nel commercio delle alghe. Venivano raccolte in grande quantità dalle rive delle lontane isole scozzesi, bruciate fino a ottenere una sostanza nera, e distribuite in Gran Bretagna per essere usate come fertilizzante. (I lettori pratici delle piocedure agricole contemporanee sapranno che altre sostanze, più produttive, hanno sostituito in quel campo le alghe, che al presente non hanno quasi commercio.) Uno degli uomini che avevano tratto profitto dal mercato delle alghe era il giovane capo del clan che aveva base a Groughay, Lord Bendray. Egli aveva cercato di accelerare il processo della trasformazione delle alghe marine in denaro, commissionando la creazione di un congegno a un brillante inventore londinese, mio padre. L'apparecchio che venne forgiato consisteva in una serie di bracci lignei che, una volta installati a Groughay sotto la supervisione di mio padre, si estendevano nell'oceano e venivano tenuti sommersi da pesanti catene. Dopo essere stati sistemati sotto i letti di alghe al largo della costa, i bracci venivano liberati dalle catene e risalivano in superficie impigliandosi nella vegetazione marina. A quel punto, le alghe potevano essere tratte a riva con gli argani e raccolte in quantità molto maggiori di quanto fosse mai stato possibile grazie ai semplici movimenti di marea. Il congegno di mio padre funzionava assai bene. Fece la fortuna della famiglia Bendray prima che il mercato delle alghe marine crollasse. (La storia riferita dall'Uomo di Cuoio Marrone mi riportò alla mente i vaneggiamenti di Lord Bendray nel laboratorio nei sotterranei del maniero. All'epoca, avevo ritenuto le sue allusioni alle alghe semplici farneticazioni di un cervello male in arnese; però ricordavo l'accenno al fatto che il suo primo contatto con mio padre avesse avuto a che fare con quei vegetali.) Fu a Groughay (così proseguì la spiegazione dell'Uomo di Cuoio Marrone), mentre era impegnato a installare l'apparecchio per la raccolta delle alghe, che mio padre entrò in contatto con la specie acquatica dei Selkies. Forse si sviluppò una qualche attrazione fra menti di uguale fulgore: i Sel-
kies, dotati di una natura filosofica e curiosa, possedevano molte conoscenze teoriche assai avanzate su questioni poco studiate dagli scienziati umani. Fu da loro che mio padre apprese gli arcani principi delle vibrazioni simpatiche in veicoli rarefatti, le idee che usò in invenzioni successive come il Paganinicon. L'Uomo di Cuoio Marrone mi riferì che mio padre compì diversi viaggi all'isola di Groughay, molto dopo che il prezzo delle alghe era crollato nel 1811, il suo congegno era stato abbandonato e l'isola si era spopolata, al preciso scopo di consultarsi coi dotti anziani dei Selkies su questioni scientifiche. Per lo meno, mio padre fece quei viaggi finché i Selkies sopravvissero come razza. Senza volerlo, aveva messo in moto la macchina della loro estinzione. Il congegno per la raccolta delle alghe turbò i loro cicli vitali e riproduttivi in misura tale che la razza cominciò a spegnersi. Quel fatale processo accelerò con progressione geometrica, e anche la durata della vita degli esseri già nati ne risultò abbreviata, forse a causa dell'angoscia collettiva. Nessun rancore velò mai i rapporti con mio padre; anche nel cuore dell'Uomo di Cuoio Marrone, ultimo della sua gente, esisteva solo perdono. La loro dolce saggezza aveva compreso che quel tragico esito era stato del tutto involontario. L'Uomo di Cuoio Marrone, comunque, aveva appurato che esisteva ancora speranza. Le alghe al largo della costa di Groughay, non più molestate per tanto tempo, avevano ripreso l'antica estensione. E molto più lo aveva confortato scoprire che un certo numero di embrioni di Selkies, in uno stato simile a quello delle spore, era sopravvissuto al processo di conversione delle alghe in fertilizzante. In un punto nel quale il fertilizzante era stato usato, le paludi attorno al villaggio di Dampford, gli embrioni erano maturati, avevano raggiunto lo stadio di esseri adulti, ed erano persino riusciti ad accoppiarsi con gli indigeni di quella trista regione, piuttosto rozzi e ormai su un gradino basso della scala evolutiva. L'Uomo di Cuoio Marrone non era stato il primo ad accorgersene: Lord Bendray aveva deciso di acquistare il distretto e stabilire lì la propria residenza, avendo riconosciuto gli abitanti di Dampford per ciò che erano, un incrocio tra gli umani e i Selkies che aveva imparato a conoscere in giovinezza, sull'isola di Groughay. Date le loro scarse capacità cerebrali, gli uomini di Dampford furono facile preda di un altro dei progetti finanziari di Lord Bendray: le ragazze del villaggio, che non possedevano solo un volto sgradevole ma anche altre alterazioni anatomiche (non chiesi spiegazioni più dettagliate), cominciarono a essere trasferite a Londra, arruolate da Mollie Maud per soddi-
sfare le turpi passioni della sua ricca e annoiata clientela. Quel commercio aveva avuto un tale successo, come accade di solito a tutto ciò che concerne la smodata lussuria degli uomini, che col tempo a Londra si era stabilita un'intera sottocultura di Dampford. Maschi e femmine avevano dato vita all'amorfo distretto di Wetwick, nel quale mi ero imbattuto per puro caso. Per accrescere l'isolamento di quegli innocenti e quindi ridurre il rischio di vederli sfuggire al predominio di Lord Bendray e Mollie Maud, Bendray aveva creato per loro una religione fittizia, incentrata sull'immaginario San Lofio. Onde non essere identificata, la Chiesa di San Lofio non ha una sede fissa di culto, ma si sposta da un luogo all'altro della città. Gli abitanti di Wetwick (è questo il nome che il loro supposto benefattore, Lord Bendray, ha imposto al distretto) vengono convocati ai servizi religiosi da una campana fatta appositamente forgiare da Lord Bendray. Il suo suono è troppo acuto per l'orecchio umano; gli incroci dei Selkies, grazie alle origini marine, posseggono un raggio uditivo diverso da quello degli uomini. Gli anziani della comunità, come accade anche agli umani, perdono la capacità di udire quei suoni così alti; sicché vengono loro forniti cani addestrati a percepire i rintocchi della campana e a guidarli alla sede dei servizi religiosi. Uno di quei "cani da campana" era Abel, che al momento dormiva nella mia cabina. I cani erano usati anche per un altro, più sinistro scopo: venivano adoperati da diversi vetturini al servizio dei più depravati, per recapitare i passeggeri al distretto dove gli abietti dipendenti di Mollie Maud avrebbero provveduto ai loro piaceri. Anche al falsario Fexton, convertitosi all'adorazione di San Lofio, occorreva uno di quei cani. Lord Bendray, con la sua impeccabile mentalità scientifica, aveva persino creato un'economia alternativa per gli abitanti di Wetwick; la moneta circolante, con l'effigie del mitico San Lofio, serviva anche da emblema di identificazione per gli umani iniziati ai segreti della clandestina esistenza del distretto. Comunque, per quanto gli abitanti di Wetwick fossero tardi di cervello, erano giunti a sospettare che le cose non stessero come raccontava il loro signore Lord Bendray. Oltre a creare un'intera religione, avanzando a grandi passi nell'eresia, egli aveva detto loro che il Cristianesimo praticato dal resto della popolazione era una fede i cui sacramenti erano tutti imperniati sulla "pesca", una pratica che ovviamente la popolazione di Wetwick riteneva orripilante. L'addobbo della chiesa di Saint Mary Alderhyte con attrezzature da pesca e con copie del manuale di Izaak Walton era un piano
concepito da Lord Bendray per rafforzare, nella mente dei suoi poveri parrocchiani, la credenza dell'innata ostilità della razza umana nei loro confronti. L'Uomo di Cuoio Marrone aveva scoperto tutto questo grazie alle proprie indagini. Il richiamo del sangue lo aveva spinto a lasciare la casa marina di Groughay per ritrovare i cugini perduti della sua tribù. Così aveva appreso con quale crudeltà fossero stati sfruttati per soddisfare la lussuria e l'avidità dell'uomo. Un altro motivo lo aveva spronato al pellegrinaggio: voleva appurare quale conoscenza dei principi delle vibrazioni simpatiche impartiti a mio padre, una conoscenza potenzialmente pericolosa, fosse ancora in possesso degli uomini. Per questo si era presentato al mio negozio, recando con sé uno dei Regolatori che mio padre aveva lasciato sull'isola di Groughay. Nella fretta provocata dal taglio alla sua pelle artificiale dalla molla rotta, l'Uomo di Cuoio Marrone mi aveva lasciato per sbaglio la corona di San Lofio. Ne era entrato in possesso nel corso di una visita al distretto di Wetwick. Comunque, il suo obiettivo primario era ridare vita alla sua razza. Dopo avere appurato il destino delle spore presenti nel fertilizzante a base di alghe, si era recato a Londra nella speranza di ottenere uova da fertilizzare col proprio seme; sperava di riportarle alle ancestrali alghe di Groughay e ricominciare da capo la specie. La sua natura sempre incline al perdono si era sentita oltraggiata dallo stato servile e credulo degli abitanti di Wetwick; aveva rintracciato Fexton per accertare chi fosse il vero responsabile di quell'inganno. Fexton, aveva scoperto l'Uomo di Cuoio Marrone, col generale deteriorarsi delle capacità intellettive era giunto a credere che la religione inventata dal suo padrone, Lord Bendray, fosse vera, e si era unito alla massa di fedeli che i suoi talenti criminali avevano aiutato a creare. Mentre l'Uomo di Cuoio Marrone parlava con Fexton, due membri del Pio Esercito (sempre vigili contro ogni eresia, avevano appreso del culto di San Lofio spiando Lord Bendray) si erano introdotti nella stanza e li avevano assaliti. Nella zuffa, Fexton era rimasto ucciso e all'Uomo di Cuoio Marrone era stata inferta una ferita che gli aveva ridotto il ritmo della respirazione e il battito cardiaco, un processo normale per la sua razza anfibia. Io ero stato scambiato per un compagno d'eresia quando i due soldati del Pio Esercito, tornati all'appartamento di Fexton, mi avevano scoperto lì. Per fortuna, l'essere scaraventato nelle gelide acque del Tamigi aveva fatto riprendere i sensi all'Uomo di Cuoio Marrone, che aveva rovesciato la barca e mi aveva poi tratto in salvo a riva.
Lì i nostri sentieri si erano divisi, per tornare a intrecciarsi nel villaggio di Dampford. I suoi sforzi di ottenere le indispensabili uova dalle femmine di Wetwick si erano risolti in un fallimento, così egli era tornato al villaggio d'origine di quelle creature. Lì, appena prima di essere testimone dei contretemps nei quali ero riuscito a incagliarmi e prima di districarmene, aveva avuto maggiore successo. A quel punto, il primo bagliore dell'alba si stava levando sull'orizzonte del mare; le ore della notte erano corse mentre ascoltavo, quasi mesmerizzato, quel singolare racconto. Restava ben poco tempo, poi quella figura misteriosa ma ormai familiare avrebbe dovuto tornare all'oceano, per non essere individuata dai miei carcerieri. Mi afferrò un braccio e sussurrò: — Dower, lei deve accettare qualcosa da me. E nasconderla in modo sicuro. — Cercò dietro sé e mi porse un oggetto, un cilindro d'ottone che brillava alla fioca luce. Rigirandolo, vidi che vi era incorporata una sezione di vetro spesso; all'interno, un'acqua chiara, leggermente intorbidita da un fluido latteo più pesante. — Questo — disse l'Uomo di Cuoio Marrone, battendo l'indice sul cilindro — è il motivo che mi ha spinto al viaggio. È il seme del mio sangue, e dei perduti discendenti del mio sangue. Tutti i figli della mia razza... Ora in mano li tiene lei. Erano le uova raccolte tra gli abitanti di Dampford, fertilizzate col suo seme. Mi tremavano le mani mentre scrutavo il contenuto dell'oggetto. — Cosa devo farne? — Lo nasconda. È tutto. I figli sono così minuscoli per ora che lei vederli non può. Sono delicati. Riposare dovrebbero nel letto marino di Groughay, non in queste turbolente acque del mare aperto. Li nasconda dove saranno al sicuro. Per me lo faccia. Studiai le strette fessure che celavano i suoi occhi, poi annuii e riposi il cilindro in una tasca interna della giacca. — E per il Pio Esercito? Qui sulla nave? Cosa farà per... — Shhh. — Egli levò un indice ammonitore e si girò a guardare l'orizzonte sempre più rosso. — Non si preoccupi di queste cose. Da quegli assassini io la salverò. Non v'è nulla da temere. — Si accoccolò e prese a dirigersi verso il parapetto della nave. — Ma quando... Si voltò verso me prima di scendere la fiancata. — Presto. Vedrà. Il suo ingresso nell'acqua non provocò alcun suono. Ero di nuovo solo. Il cilindro d'ottone, freddo di mare, mi gravava sul petto. Sfuggendo allo
sguardo dell'uomo di vedetta, tornai alla mia cabina sottocoperta. Per il resto del viaggio sulla Virtuous Persistence, la mia attenzione restò focalizzata su un'unica cosa. Non trascorreva giorno senza che mi ritirassi in cabina ed estraessi il cilindro d'ottone, nascosto nel mio bauletto sotto gli indumenti. Era la prova tangibile della fantastica narrazione che mi era stata fatta; sotto di me, sommersa ma vicinissima alla nave, c'era la figura quasi umana che mi aveva affidato la sua progenie. Per qualche tempo sperai che il fiore d'ottone col quale aveva comunicato con me riapparisse, protendendosi dal pavimento della cabina. Non fu così; il foro che aveva scavato nello scafo restò sigillato da sotto. Nei giorni seguenti il mio continuo studio del cilindro venne premiato. Spingendomi al limite delle mie capacità visive, vidi dapprima puntolini che nuotavano nel liquido. Si svilupparono in fretta, aumentando di dimensione di giorno in giorno, finché riuscii a distinguerli come minuscoli pescetti, forme che si contorcevano, ciascuna dotata di due chiazze nere che evidentemente fungevano da occhi. Quei segni di animazione mi spronarono a cure anche maggiori per il cilindro; lo sistemai sempre con l'attenzione che si riserva a un neonato. Assieme a quegli sviluppi cresceva anche la mia ansietà. La promessa di soccorso fatta dall'Uomo di Cuoio Marrone aveva rinnovato il mio attaccamento al mondo dei vivi; il placido atteggiamento alla prospettiva di defungere era evaporato. Finché esiste una speranza, la più piccola scintilla basta a scaldarci il cuore. Dal ponte studiai, deluso, l'avvicinarsi delle isole più a sud tra quelle scozzesi: forme tondeggianti all'orizzonte, contrassegnate sulle carte da monosillabi sgraziati come Muck e Rhum ed Eigg. La fine del viaggio, e della mia vita, si approssimava rapida, e ancora non v'era segno dell'intervento dell'Uomo di Cuoio Marrone. Infine, giunse il temuto momento. Bussarono alla porta della mia cabina. Infilai il cilindro d'ottone, col suo minuscolo carico vivente, sotto la coperta del letto. Uno degli uomini del Pio Esercito spalancò la porta e mi informò che la mia presenza era richiesta sul ponte. Quando emersi dal boccaporto, ad accogliermi c'era il tenente Brattle. — Signor Dower — disse, con un cenno formale del capo. — Spero lei abbia usato saggiamente il suo tempo e abbia raccomandato l'anima al Signore. Scape e la signorina McThane erano di fronte al parapetto. Alle loro spalle vedevo la costa rocciosa di un'isoletta. — Ehi, siamo arrivati! —
disse Scape, con ironica allegria. Dopo che fui condotto al loro fianco, il cane Abel si accovacciò ai miei piedi, fissandomi con occhi colmi di fiducia. — Siamo davvero giunti a destinazione — disse il tenente, solenne. — Quella che vedete è Groughay. Presto una squadra sbarcherà sull'isola. Lei e i suoi compagni ne farete parte. Ma non nel novero dei vivi. Scrutai la superficie ondeggiante dell'oceano, in cerca di tracce dell'Uomo di Cuoio Marrone. Vidi solo la vuota distesa d'acqua; il mio cuore desiderò affondarvi. Forse i piani dell'Uomo di Cuoio Marrone, quali che fossero, si erano risolti in nulla; forse aveva dovuto lasciare il contatto con la nave e si era perso nel buio del mare notturno, oppure una qualche temibile creatura lo aveva lacerato coi denti, uccidendolo. Quanto spesso le nostre speranze vengono accese solo per poi essere crudelmente spente. — Sarebbe stato saggio da parte sua, Dower, usare il suo tempo in preghiera, per non trovare l'anima impreparata al momento dell'abbandono del suo guscio mortale. — Il tenente Brattle scosse la testa. — Ma temo purtroppo che lei non lo abbia fatto. Fece un cenno a un uomo dell'equipaggio, il quale si portò avanti e, con evidente disgusto da parte sua e orrore da parte mia, gli tese il cilindro d'ottone che avevo lasciato in cabina. Il tenente passò lo sguardo dall'oggetto a me. — Cos'è questa cosa, Dower? — Sarebbe... piuttosto difficile da spiegare. Il tenente batté l'indice sul vetro incorporato nel metallo. — Non occorrono spiegazioni. È l'ovvia prova di ulteriori diavolerie perpetrate da lei. Anche al momento della morte, quando la sua anima immortale corre il serio rischio della dannazione eterna, la sua degradazione è tale che lei prosegue in queste oscene pratiche. Quali demoni contenga questo tubo, e a quali scopi intendesse usarli, è una conoscenza che la misericordia del Signore ci risparmierà. — Restituì il cilindro all'uomo. — Se ne liberi. Udii il tonfo dell'ottone nell'oceano; l'uomo si unì al resto del Pio Esercito, schierato sul ponte di fronte a noi. Tutti erano armati di fucili. In un'improvvisa esplosione di attività, caricarono e alzarono le armi. Dal parapetto, la signorina McThane li fissava fiera, come sfidandoli a sparare. Scape si protese dietro le sue spalle e mi strìnse la mano. — È stato un bel divertimento — disse. — Ci vediamo sulle pagine degli annunci funebri. Per quanto prodotta dalla demenza, la sua vigoria in quelle circostanze destò la mia ammirazione. — Magari in qualche punto del Futuro — gli ri-
sposi, mordendomi il labbro inferiore per fermarne il tremito. I soldati del Pio Esercito puntarono le armi all'ordine del tenente Brattle. L'aroma salmastro del mare mi colmava le narici. Un gabbiano lanciò il suo richiamo in cielo. Io non vedevo altro che le bocche scure delle canne dei fucili, puntate su di noi. A quanto pareva, la discussione sulla complicità di Abel nei diabolici atti dei quali eravamo accusati si era risolta a suo sfavore: due uomini abbassarono la mira sul cane. Egli pensò si trattasse di un gioco, e abbaiò allegro. Prima che il tenente potesse dare l'ordine di fare fuoco, comunque, la fila di soldati finì a gambe all'aria per l'improvviso sollevarsi della nave sotto i loro piedi. Anche Scape, la signorina McThane e io subimmo lo stesso scossone. Fummo costretti ad aggrapparci al parapetto per mantenere l'equilibrio. Con un ululato legnoso, la nave sussultò di nuovo, parve quasi alzarsi dal letto del mare. Diversi uomini del Pio Esercito, presi dal panico, urlarono e ruppero le fila; corsero al parapetto opposto e guardarono giù. Dal punto in cui mi trovavo vidi grandi forme muoversi sotto le onde, avvolte in fasce scure di alghe. — Demoni! — urlò un soldato, puntando su di noi l'indice tremante. — Li hanno evocati. Sono venuti a salvarli! L'ipotesi trovò l'immediato consenso di tutti, mentre la nave ondeggiava paurosamente e suoni sempre più forti echeggiavano dallo scafo. Si erano convinti che noi fossimo in combutta con forze sataniche; e la conseguenza fu l'improvviso affacciarsi di paure irrazionali nei loro petti. Anche l'ufficiale comandante, il tenente Brattle, perse il controllo di sé; si unì agli uomini nella corsa alle due piccole barche che si trovavano sul ponte. Vennero messe in mare. Alcuni degli uomini furono costretti a tuffarsi nell'oceano ribollente; nuotarono sino al fianco delle barche e si issarono a bordo. Nel panico, nessuno aveva prestato attenzione a noi tre, al di là di quella veloce accusa. Aggrappato al parapetto, guardai i remi delle due barche affondare in acqua, portando via i nostri carcerieri alla massima velocità possibile. — Gesù Cristo esoterico — disse Scape. La nave sussultò di nuovo, scaraventandolo a corpo morto addosso a me. — E adesso? Gli rispose il furibondo abbaiare di Abel. Il cane aveva alzato le zampe sul parapetto opposto e lanciava i suoi latrati all'isola di Groughay come fosse una pulce particolarmente fastidiosa. — Buon Dio — dissi. Vidi cosa avesse attirato l'attenzione di Abel: la
costa dell'isola era perfettamente discernibile, e il rumore delle onde che vi si frangevano era altissimo. — Finiremo schiantati sulle rocce! Scape e la signorina McThane si spostarono alla meglio fino a raggiungermi. — Sì, hai ragione. — La nave diede un altro sussulto, e si avvicinò a riva di parecchi metri: la cosa che assestava colpi allo scafo era anche responsabile del nostro moto in direzione dell'isola. — La situazione è brutta — disse la signorina McThane. — Forse è meglio abbandonare la nave. — E con cosa? — Scape si girò a indicare le figure ormai lontane degli uomini del Pio Esercito. — Quei cagasotto si sono presi le barche. Potemmo solo restare a guardare impotenti l'avvicinarsi delle coste rocciose. La nostra velocità crebbe; un'onda risalì dal mare fino al parapetto. Il grattare delle cose che stavano sotto lo scafo venne soverchiato dallo schianto secco del legname che andava in frantumi. Le alberature ondeggiarono, si schiantarono, e noi fummo investiti da un diluvio di corde e vele. Il ponte si squarciò, scaraventando Scape e la signorina McThane lontano da me. Tentai di afferrare Abel, ma mancai la presa, e nel sussulto della nave mi venne a mancare il terreno sotto i piedi. Per un attimo sentii il cane abbaiare sopra di me; poi la mia schiena colpì il parapetto, che si aprì in due, facendomi precipitare nella schiuma bianca che correva verso la riva. Il grande scafo della Virtuous Persistence si sollevò in cielo, trafitto e perforato dalle rocce. Poi affondai nelle acque furibonde. Scese il buio. Mentre la mia bocca si riempiva di sale, mi parve di vedere, tese negli abissi, le forme ancora più scure di catene gigantesche. Un'onda mi sollevò in aria. Un'asse divelta dalla nave mi centrò alla fronte, e smisi di vedere. 14 Le speranze di una razza Sognai che mi lavavano il viso con una flanella umida e morbida; riapersi gli occhi e scopersi Abel accoccolato sul mio petto, intento a leccarmi il mento. Abbaiò a quel segno della mia resurrezione. Lo spinsi via e mi rizzai a sedere, stordito. I miei palmi affondarono nella sabbia. L'odore dell'oceano era forte alle narici, forse a causa della quantità di alghe impigliate nei miei arti. Un pezzo di legno mi lambì il piede, spinto dalle onde. Altri detriti,
frammenti della sfortunata Virtuous Persistence, erano disseminati nella piccola baia circondata dalle rocce. — Dower — disse una voce dietro di me. Mi girai e scorsi il viso impassibile dell'Uomo di Cuoio Marrone chino su di me. Tese la mano scura e mi aiutò ad alzarmi. — Bello è rivederla desto. Non ho trovato ferite sulla sua persona, ma in queste cose certi essere non si può. Scossi la testa, per schiarirmi le idee come per disperdere l'acqua che mi aveva invaso le orecchie. — Che posto è questo? — chiesi, scrutando gli alti dirupi che delimitavano la riva. — Lei è sano e salvo sull'isola di Groughay. — Gesticolò in direzione degli scogli circostanti. — Perdonerà, spero, la necessaria violenza dei mezzi impiegati per portarla qui. Però ora lei è libero dal Pio Esercito, se non altro. — È stato lei? Ma come ha fatto? — Me lo ha permesso suo padre. Il congegno che ha creato per la raccolta delle alghe in stato funzionante ancor esiste. In mare, catene e bracci di legno sono ancora al loro posto. Ho solo dovuto attivare il macchinario per creare il caos che ha visto e portare in salvo lei e i suoi compagni. — I miei compagni? Intende Scape e la signorina McThane? Dove sono? — Non tema — rispose l'Uomo di Cuoio Marrone. — A lieve distanza da qui essi sono, su un altro punto della riva. Ma a lei devo chiedere, dov'è ciò che le ho consegnato? Tra i relitti della nave ho cercato, e non l'ho trovato in quel che la sua cabina era. Avrà nascosto altrove l'oggetto, confido. Era del cilindro d'ottone, col suo contenuto di minuta progenie, che parlava. Col cuore greve, gli riferii che il tenente Brattle lo aveva gettato in mare. Egli barcollò all'udirlo, come colpito al petto. Il suo sguardo vagò da me all'oceano, quasi contemplando l'enormità di una ricerca del prezioso oggetto negli abissi. Le correnti della fortuna lo salvarono da quel compito impossibile. Udii Abel abbaiare a diversi metri da noi. V'era un bagliore metallico tra le acque al confine della riva; un movimento all'interno aveva attirato l'attenzione del cane. — Guardi là. — Afferrai il braccio dell'Uomo di Cuoio Marrone e indicai. Egli vide. Corse a raccogliere il cilindro e lo strinse a sé con la tenerezza riservata ai neonati. Vidi nuotare dentro gli esserini dagli occhi scuri. — Devo lasciarla — disse l'Uomo di Cuoio Marrone. — Hanno raggiunto l'età della deposizione nell'adatto luogo. — Si girò e si avviò in mare.
— E noi? — gli urlai. — Che ne sarà di noi? Le onde gli lambivano ormai il petto, e il cilindro che vi stringeva contro. — Non tema. Mi rivedrà presto. A tutto si provvederà. Restai a fissare il punto in cui era scomparso. Tallonato da Abel, mi spostai nella direzione che l'Uomo di Cuoio Marrone mi aveva indicato per ritrovare i miei compagni. Erano vivi, e in perfetta salute. Li individuai dalla cima del promontorio roccioso che divideva da un'altra insenatura la piccola baia che mi aveva accolto. Scape stava recuperando pezzi di detriti della nave, anche se sulla sabbia non c'era nulla di un qualche valore; la signorina McThane, seduta su un sasso rotondo, osservava le sue fatiche. Spalle e braccia della ragazza erano esposte nude al sole, e l'abito stracciato messo ad asciugare sulla roccia. Alzarono la testa al mio urlo. Scape gesticolò, invitandomi a scendere e raggiungerli. — È bello rivederti, uomo. — Mi assestò una pacca gioviale alla schiena. Una delle lenti blu era leggermente scheggiata su un orlo, ma non v'era traccia di altri danni. — Ce la siamo cavata. Sani e salvi. La signorina McThane rise beffarda. — Già. Ci va alla grande, giusto. — Le sue parole grondavano sarcasmo. — Naufraghi su un maledetto mucchio di pietre in mezzo al nulla. Adesso cosa facciamo? L'umore di Scape era notevolmente più allegro. — Non un mucchio di pietre qualunque, tesoro. Crede che qui potremmo trovare roba interessante. E d'alta parte, per lo meno non moriremo di fame. — Indicò una sezione di dirupo sopra le nostre teste. Seguii la direzione del suo dito e scopersi che i musi ebeti di parecchie pecore ci stavano guardando. — Mi chiedo quante siano. — E chi lo sa? Questo posto è abbandonato da un bel po'. Non hanno avuto nient'altro da fare che riprodursi. Probabilmente ne avremo a sufficienza per nutrirci finché non scopriremo il modo di andarcene da qui. — Sì? — La signorina McThane restò scettica. — Tu cosa ne sai di come si macella una pecora? Non sono solo un pacco di costolette che se ne va in giro sotto un maglione di lana, hai presente? Egli scrollò le spalle. — Non può essere troppo difficile. Prendi un coltello, sfreghi due bastoncini... Stasera canteremo tutti attorno a un falò. Aspetta e vedrai. Io scrutai le nubi grige che si addensavano sull'oceano. — Suggerisco di provvedere a trovarci un rifugio, come prima cosa. Il clima da queste parti ha fama di essere inclemente.
— Bella pensata. Visto, piccola? Il vecchio Dower qui ha afferrato lo spirito delle cose. E tirati un po' su. Pensa "da Boy Scout". — Si fottano, i Boy Scout. — Mugugnando, la signorina McThane si alzò e si avvolse il vestito sulle spalle, a mo' di scialle. — Qui ci vorrebbe una fottuta bancarella di enchilada. Ci arrampicammo su per un crepaccio nella roccia. I sassi smossi dai nostri piedi rotolavano via. Scape faceva strada. La signorina McThane si fermò e mi mise una mano sul braccio. — In effetti — disse, con un sorriso — essere naufraghi ha i suoi vantaggi. In posti come questo non c'è nessuno, ed è tutto così... selvaggio e primitivo. Afferri? — Avvicinò il viso al mio. — A volte la gente si sente... ispirata... — Le assicuro — ribattei, scostandomi il più possibile da lei sullo stretto sentiero — che i miei sentimenti non sono mutati. — Vedremo. — Si voltò e ricominciò a seguire Scape. Raggiunta la vetta, Scape si girò a porgerci le mani per aiutarci a raggiungerlo. — Cosa vi avevo detto? — Sventolò il braccio in direzione del terreno aspro, sparsamente coperto d'erba. Pecore assai numerose, per quanto magroline per lo scarso cibo, ci scrutavano con placida pacatezza. — Carne da macello. — Abel corse verso gli ovini, abbaiando; le bestie gli rivolsero sguardi di scarso interesse, prima di allontanarsi in cerca di nuove, magre erbette da brucare. Diressi l'attenzione di Scape su quelle che sembravano mura in disfacimento, a una certa distanza. — Forse potremmo trovare rifugio là. — Dev'essere il vecchio castello di Bendray — disse egli. — Non credo che gli dispiacerà, date le circostanze. Le pietre erano davvero i resti di un castello; la primitiva struttura denotava una notevole antichità. Alcune parti di un corridoio avevano ancora il tetto; tutto il resto era andato in rovina. Un tavolo traballante e le relative sedie furono ben presto trasformate in legna da ardere; la pietra focaia e l'acciarino trovati nei pressi di un imponente camino diedero vita a una graditissima fiamma. La signorina McThane e io ci accoccolammo davanti al fuoco, mentre un affamato Scape tornò all'aperto. Rientrò qualche ora dopo, esausto spettro imbrattato di sangue, seguito dall'abbaiare eccitato di Abel. — Quelle maledette bestie sono più complicate di quel che credevo — annunciò, ripulendo il coltello da tasca sui calzoni. I brandelli di carne che aveva riportato con sé vennero infilzati su uno spiedo, posti sul fuoco, e lasciati ad annerire sino a perdere ogni traccia della loro macabra origine.
Così trascorse il nostro primo giorno sull'isola di Groughay, in relativa scomodità, considerato che sino a poco tempo prima eravamo pronti a rinunciare alla vita. Un evento assai più confortante fu scoprire la scorta di whisky nascosta sotto certe assi marcescenti del pavimento. Il cielo si aprì nel corso della notte; mi svegliai al suono del temporale che infuriava contro le mura in pietra che ci davano rifugio. Accanto a me, la signorina McThane sussurrò speranzosa il mio nome. Finsi di dormire, e per il momento ella s'arrese. Dopo la colazione a base di montone freddo, Scape procedette nell'esplorazione delle rovine. Un urlo trionfante annunciò il frutto delle sue fatiche. — Guarda un po' qui. — Si trovava al centro di quella che un tempo era una stanza di considerevoli dimensioni, troncata a un'estremità dal crollo di una delle pareti. Tutt'attorno a lui, svariate strutture in metallo, ahimè tristemente divorate dalla ruggine. — Era il laboratorio di tuo padre, quando è stato qui tanti anni fa! Mi portai al suo fianco e passai in rassegna la scena. A rendere ancora più sconcertante la caleidoscopica varietà del genio di mio padre contribuiva lo stato decrepito dei congegni. Alcuni torreggiavano sopra le nostre teste quasi fossero gli scheletri di giganti metallici; altri erano semplici manciate di meccanismi e ruote smangiate dalla ruggine. I banchi da lavoro erano marciti, rovesciando sul pavimento pozzanghere di utensili e macchinali in fase di costruzione. Scape, indifferente a quelle pietose condizioni, si mise a frugare tra i resti. — Ehi, questo è in buono stato — disse, strattonando un braccio metallico. — Dammi una mano. Fra tutti e due liberammo il congegno in questione. A me sembrava la carcassa priva di carne di un pipistrello, anche se su scala notevolmente grande. I bastoncini metallici formavano una intelaiatura a ombrello, che vista da qualche metro di distanza appariva arcuata. Erano collegati da un sistema di catene ai congegni di un apparato centrale a orologeria; brandelli di tela marcia penzolavano dalla forma. Una delle ali, se erano ali, emise sussurri rugginosi quando Scape la smosse avanti e indietro. — Da non crederci — disse, ammirato. — Che scoperta. Io scrutai, dubbioso, la cosa. La fragilità della costruzione, unita al degrado provocato dagli anni, dava l'impressione di un imminente collasso.
— Cos'è? Egli la carezzò teneramente, provocando una pioggia di fiocchi di ruggine. — Ricordi quello che ti ha detto il vecchio Bendray? Quando ti ha raccontato di essersi convinto che c'è gente, voglio dire alieni, che se ne vanno a zonzo in cielo? Venuti da altri pianeti? Non ti ha spiegato di averli visti volteggiare nel cielo di Groughay coi suoi stessi occhi? Tornai con la mente al monologo di Lord Bendray, nel laboratorio nei sotterranei del suo maniero. — Um... sì. È esatto. — Me lo immaginavo. Appena ha una mezza occasione, racconta quelle stronzate a tutti quelli che incontra. Be', il buffo è che li ha visti sul serio andare a spasso in cielo. — Strinse più forte il braccio metallici L'intera struttura gemette, cigolò e ondeggiò. — Ecco qui, uomo. I visitatori dallo spazio esterno. È questo che il vecchio Bendray ha visto. Il mio sguardo passò da lui al congegno. — Questo qualunque cosa sia... Ha visto "questo"? Scape annuì. — È una macchina volante. Grande eh? Te l'ho detto che il tuo vecchio stava tirando qualche bidone a Bendray. Per come la vedo io, tuo padre doveva convincerlo che dei tizi di un altro pianeta svolazzano qua e là a controllare come vanno le cose sulla Terra. Così Bendray avrebbe comperato il pacco di merda che ha in cantina. Quello che secondo lui potrebbe far saltare tutto il pianeta. Tuo padre aveva un laboratorio qui, perché aveva già lavorato per Bendray. Gli bastava tornare, costruire questo aggeggio, poi farlo volare sotto il naso di Bendray e raccontargli che erano gli alieni dello spazio esterno. Probabilmente si era già fatto un'idea molto precisa di quante fesserie potesse far ingoiare a Bendray. Lasciai passare quelle calunnie sulla morale di mio padre. Trovai preferibile credere che si fosse impegnato nella manipolazione fraudolenta di Lord Bendray, era meglio che ritenerlo capace di costruire una macchina destinata a distruggere la Terra. — Trovo difficile pensare che questo... congegno fosse davvero in grado di alzarsi in aria. — Be', se fosse in condizioni migliori ce la farebbe. Tutti quegli spazi erano coperti di tessuto, quindi erano come vere ali. — La tela marcia si lacerava alla minima pressione delle sue dita inquisitrici. — Poi la molla principale qui metteva in movimento ruote e tutto il resto, e via! Si decolla. — Hm. — Ancora non ero convinto, per quanto non sapessi immaginare a quale altro scopo potesse servire quella cosa marcescente. — Piuttosto interessante, immagino. Però non vedo perché ci si debba tanto eccitare. — Ma non afferri, uomo? — La voce di Scape vibrava d'eccitazione. —
Con questo possiamo andarcene dalla fottuta isola. Lo aggiustiamo, e voliamo via. — Cosa? Con "questo"? Non sia assurdo. Non è niente di più di un... aquilone meccanico. — Deficiente. — Mi indicò la struttura a ragnatela. — Guarda lì. Visto? Quelli sono i comandi per il volo. Quei cavi arrivano alle ali. E qui c'è il sedile. Cristo, magari su questo aggeggio ci ha volato tuo padre. L'idea mi strappò una risata beffarda. — Non mi dica! Mi ha davvero preso per un credulone? Una macchina volante! Capace di sollevare in aria il peso di una persona... L'idea è palesemente ridicola. Completamente al di là del possibile. — Ne sai molto, tu — ribatté Scape, con una certa irritazione. — Ehi, io ci sono stato. Nel Futuro. Tutte le macchine volanti che potresti volere. Un giorno, il cielo ne sarà pieno. Cose maledettamente grandi che trasporteranno "centinaia" di passeggeri. Credimi, so di cosa parlo. Non volevo discutere con lui di quel punto. Le sue visioni del Futuro, sulla cui origine conservavo un sano scetticismo, avevano profonde radici in Scape. — Sì, d'accordo — dissi, nel tentativo di raddolcirlo. — Potrebbe essere interessante... armeggiarci un po'. — Armeggiarci un corno. Faremo funzionare questo aggeggio. In alto, in alto, e via, lontano da questa stupida isola. E di corsa. — Perché tanta urgenza? Le sue sopracciglia si inarcarono al di sopra degli occhiali. — Ehi, ti sei dimenticato i tizi del Pio Esercito? Non ci metteranno molto a ritrovare coraggio e a fare un salto qui per spedirci al creatore. Quelli sono fanatici. Non si arrendono. E volevano ucciderci già prima. Secondo te, la prossima volta che ci incontreremo di che umore saranno? In realtà, mi ero scordato degli uomini che ci avevano catturato, tanto grande era stato il sollievo di ritrovarmi vivo e intatto sull'isola. Strappata al sonno dalle nostre voci, la signorina McThane si fece strada tra le macerie e ci raggiunse. — Cos'è tutto questo gridare? Il pollice di Scape le indicò il congegno. — Voleremo via dall'isola con quello. — Ganzo. — Senza il minimo segno di trepidazione, ella afferrò uno dei bracci metallici e lo mise in movimento. — Ma deve pur esserci — protestai — qualche altro modo di lasciare l'isola. — Per esempio? Non si può raggiungere a nuoto la Scozia. Troppo lon-
tana. E le correnti qui attorno sono micidiali. Ho guardato le carte nautiche quando eravamo sulla nave. E su questa isola fetente non ci sono alberi, quindi non possiamo costruire una barca. No, uomo. L'unica via di fuga è questa. — Scape batté la mano sul metallo rugginoso. — Via verso l'infinito azzurro. Più egli si mostrava fiducioso, e più il mio cuore si colmava di paura. — Ma le ali... La stoffa è marcita. Con cosa propone di ricoprirle? Scape allontanò le mie obiezioni con un cenno della mano. — Nessun problema. Siamo circondati da quei bastardi pieni di lana, no? Pelle di pecora, amico. Le spelliamo e attacchiamo le loro pelli qui. La signorina McThane rise. — Ci sarà da divertirsi. Sei uno spettacolo, con un coltello e una pecora. Egli la fissò truce per un attimo, poi tornò a guardare me. — Nulla di cui preoccuparsi — mi assicurò. — Vedrai. Nel petto, un'orribile premonizione mi disse che sì, avrei visto. Lasciai Scape al lavoro sulla supposta macchina volante (la mia paura del congegno aveva raggiunto il punto di impedirmi il solo toccarla) e passeggiai fino alla riva sulla quale mi ero risvegliato dopo il naufragio della Virtuous Persistence. Forse un qualche articolo di valore, una parte non danneggiata dall'acqua marina delle scorte alimentari della nave, era finita sulle rocce, e la si sarebbe potuta usare per migliorare la nostra monotona dieta di montone. Sulla sabbia erano disseminati frammenti di legno; lo scafo della nave, perforato dalla violenta azione del congegno per la raccolta delle alghe, doveva essere affondato, ormai irraggiungibile. Frugai tra le macerie finché non mi sentii chiamare da una voce familiare. L'Uomo di Cuoio Marrone uscì dal riparo di un gruppo di pietre. Mi afferrò il braccio con entrambe le mani, un gesto di buona volontà capace di trascendere ogni abisso tra le nature delle nostre razze. — Molta gratitudine le debbo — disse. La sua voce si colmò di commozione, anche se lo strato artificiale che gli copriva il volto restò impassibile. — Per cosa? — chiesi, perplesso. Dopo tutto, era stato lui a salvare me, e gli altri, dalla morte per mano del Pio Esercito. — I figli. Del mio sangue. Salvi sono, e crescono. — Tese il braccio verso l'oceano, dove avevano sede le alghe. — Oh. Sì, certo. Sì, immagino che lei debba trovarlo... molto gratificante. — Sembrava dare un peso eccessivo ai miei eventuali meriti in quel lie-
to evento; non vidi motivo di correggerlo. — Um... Tra i miei compagni e me è sorta una certa preoccupazione. Mi chiedevo se lei potesse forse... assisterci nella questione. — Hm? — Egli emise un suono flebile, più per cortesia che per attenzione a me. Il suo sguardo restava puntato sull'oceano, e chiaramente i suoi pensieri erano molto lontani. — Sì. Ci stavamo domandando se sia saggio restare molto a lungo su quest'isola. Dopo tutto, nei dintorni ci sono persone che paiono nutrire una spiccata ostilità nei nostri confronti, e pensavamo... — Turbare non si lasci da codesti pensieri d'altri. — Il suo mento ricadde sul petto. — È mio compito, generato dalla gratitudine, proteggerla da loro. — Oh. Molto gentile da parte sua, ne sono certo. — Andai in cerca del miglior approccio al suggerimento che volevo dare. — Forse... è un'idea che ho avuto... forse il modo migliore per aiutarci sarebbe... farci trovare un modo per lasciare l'isola. E raggiungere la terraferma. Forse, se lei potesse portarci una barca, o avvertire qualcuno della nostra presenza qui, qualcuno che possa venire a prenderci... Era profondamente immerso nelle sue contemplazioni, appena consapevole della mia vicinanza. — Tutto a suo tempo — rispose, distrattamente. — Queste cose saranno fatte. Terminata la nostra breve conversazione, egli tornò al mare. Nelle settimane seguenti si stabilì uno schema fisso di vita. La nostra prigionia sull'isola continuò; io scrutavo l'orizzonte dal più alto dirupo di Groughay, nell'ansiosa attesa del ritorno del Pio Esercito, degli uomini decisi a completare l'incarico che era stato sabotato; Scape, assistito dalla signorina McThane, lavorava alla supposta macchina volante. Aveva recuperato, scavando nel pavimento, utensili e parti ausiliarie avvolte in panni imbevuti d'olio, a mo' di protezione, e il suo progetto ne era stato grandemente facilitato: le catene ora giravano attorno ai denti dei meccanismi dei quali egli aveva individuato l'esatto uso, e le armature di metallo non stridevano più sotto l'annoso accumulo di ruggine. Il sapore del montone divenne disgustosamente familiare a noi tutti, ma se non altro ne avevamo grande abbondanza. Una parte in continua espansione delle rovine del castello prese a somigliare a un mattatoio, con le pelli sanguinolente degli ovini appese tra le pietre. Solo il gelo dell'aria del nord impediva la rapida decomposizione. I metodi di Scape nella preparazione delle pelli erano
contraddistinti da una rozza fretta e dalla totale mancanza di cognizioni appropriate; molte teste dei poveri animali ciondolavano, ancora attaccate alle pelli, e gli occhi vacui sembravano chiedersi cosa mai avesse scatenato quelle indegne atrocità. Le pecore superstiti divinarono le crudeli intenzioni di Scape, e catturarle divenne sempre più difficile; il cane Abel, nella sua astuzia da terrier, divenne ben presto esperto nel far invertire la rotta al gregge in fuga, gettandolo tra le braccia di Scape. Il mio scrutare dal dirupo ebbe termine un mattino, dopo un temporale particolarmente intenso. Per l'intera notte le mura del castello erano state percosse dal diluvio di pioggia; il vento strappò una parte del tetto che ancora restava. Mentre Scape ispezionava la macchina per appurare gli eventuali danni, io andai a vedere se la tempesta avesse scaraventato a riva qualcosa di valore. Dal mio punto d'osservazione vedevo le onde frangersi a riva, dense d'alghe: la tempesta aveva infuriato anche a una certa distanza dall'isola. Mentre scrutavo il ribollire della schiuma, un urlo inumano di disperazione risuonò nell'aria, espressione di un'angoscia incapace di articolarsi. Sapevo a chi appartenesse la voce, anche se mai l'avevo udita straziata da una simile emozione. Provocando una pioggerella di sassi, scesi fino al punto dal quale si era levato il gemito. Trovai l'Uomo di Cuoio Marrone in ginocchio al limitare dell'acqua. La sabbia era coperta dall'intreccio scuro delle alghe. Egli aveva le mani affondate nel fogliame; lo sollevava, lo portava all'altezza degli occhi, mentre dalle sue braccia colava acqua salmastra. Non reagì quando gli toccai la spalla. Mi avvicinai di più, per scoprire quale spettacolo meritasse una tanto fiera attenzione. Tra le alghe erano depositate cose morte. Un singhiozzo uscì dalla gola dell'Uomo di Cuoio Marrone quando rivolse il viso scuro al cielo. Le forme minuscole erano mostruosamente malfermi: crani pisciformi, viscere rovesciate ed esposte all'aria. La tempesta non li aveva uccisi, aveva solo portato a riva i cadaveri deformi. Il sangue al quale l'Uomo di Cuoio Marrone aveva mescolato il proprio era ormai troppo degenerato; il suo seme, fecondando le uova prodotte dal corrotto incrocio con la specie umana, era riuscito a produrre solo quegli aborti. Non riuscii a escogitare nulla da dire. L'ultima progenie di una razza era impantanata in quella massa scura; l'inetta carne dei cuccioli brillava pallida di innata corruzione. — Mi spiace. — Non era possibile dire altro.
Il suo sguardo terrificante si volse lento verso di me. Una mano si staccò dalla massa d'alghe. Senza alzarsi, l'Uomo di Cuoio Marrone mi percosse il petto col braccio, scaraventandomi all'indietro. Torreggiò sopra di me, mentre ansimavo riverso a terra. Il suo indice dardeggiò verso il mio corpo, quasi fosse un cupo lampo da Giudizio Universale. — Tu... — La sua voce torturata era un sussurro strozzato. — La tua razza... Guarda cosa avete fatto. Finché c'era speranza, la speranza di ridare vita al mio sangue, ho potuto perdonarti. L'intera tua razza ho saputo perdonare. Ma ora... Ora che la vostra follia ha ucciso il mio sangue, e speranza più non v'è... — La sua mano si sollevò sopra la testa, raccogliendo forza per il colpo. Strisciai indietro sulla sabbia, incapace di fuggire. Per un attimo egli rimase immobile, col braccio alzato che tremava. Poi, con un altro urlo disumano, si girò e si tuffò negli abissi dell'oceano. Dopo essermi rialzato, scrutai il mare. Di lui non v'era traccia. Servendomi di un pezzo di legno, scavai una piccola trincea nella sabbia e seppellii tutte le alghe, col loro carico di cadaveri, che mi riuscì di trovare. Scape mi accolse giulivo quando rientrai alle rovine del castello. Con la camicia imbrattata di sangue ovino, annunciò: — Siamo quasi pronti, Dower! Magari domani facciamo il primo volo sperimentale. — Si rimise al lavoro, fregandosi le mani nell'eccitazione. Io ero ancora stordito dagli eventi accaduti sulla spiaggia. Mi occorse qualche istante per rendermi conto che una mano mi carezzava la nuca. Mi girai e incontrai il viso sorridente della signorina McThane. — Avrà da fare per parecchio tempo — disse ella. — E io mi annoio tanto... — No. — Scossi la testa. Un tremito violento si impadronì del mio corpo. Indietreggiai, poi mi voltai e corsi fuori, verso il nudo terreno dell'isola. 15 Il signor Dower salva la situazione Una mano che mi scrollava mi destò dal sonno. Apersi gli occhi: una figura scura, stagliata di profilo contro le stelle, era china su di me. Dapprima la credetti la signorina McThane; poi la voce parlò, e io seppi quale entità si fosse introdotta di soppiatto tra le rovine del castello. — Venga con me, Dower — disse in tono smorzato l'Uomo di Cuoio
Marrone. — Molto con lei da discutere ho. Al riconoscerlo, mi ero raggomitolato contro le pietre del muro, ma nella sua voce non v'era traccia dell'ira del mattino; solo un'urgenza che mi ispirò a una veloce obbedienza alla sua richiesta. Scape e la signorina McThane ancora dormivano a una certa distanza. L'Uomo di Cuoio Marrone, a gesti, mi indicò di fare silenzio. Percorremmo assieme i disastrati corridoi sino a emergere all'aperto. — Lei deve perdonarmi — disse, afferrandomi il braccio. La tenebra della notte pareva assorbita e condensata dalla sua forma al mio fianco. — La mia ira... Lei capirà. Grandi erano le mie speranze. Ma giammai ho inteso farle del male. — Sì, certo. — Non riuscii a escogitare altre parole per rassicurarlo. — Un'occasione molto triste. — Quella frase mi parve ancor più meschina. — Appartiene al passato. Ad altre cose s'ha da pensare. Quest'isola dev'essere lasciata. Immediatamente. Emisi un sospiro di sollievo. A quanto pareva, le mie richieste avevano avuto il loro effetto. — Sono lieto di questi suoi sentimenti. Non appena farà mattina informerò gli altri. Immagino che una barca sarebbe il mezzo più pratico... Egli scosse la testa. — Tempo non v'è. Lei deve andarsene "ora". Lei solo. Gli altri non sono importanti. — Ma perché? Di certo... Serrò la presa sul mio braccio. — Cose di grande urgenza. Grandi pericoli che lei solo può evitare. Lei ora se ne deve andare e in Inghilterra tornare. Al maniero di Bendray. Quando là sarà, tutto le verrà spiegato. Crebbe in me una meschina irritazione. — Nemmeno riesco a calcolare quante volte mi sia stata detta la stessa cosa. "Tutto le verrà spiegato." E ogni volta che faccio ciò che mi viene chiesto confidando in quella promessa, finisco con l'essere inseguito da branchi di maniaci assetati di sangue. Lo trovo estremamente snervante. — La mia parola le do — disse l'Uomo di Cuoio Marrone. — Al procedere della nostra conversazione, i preziosi attimi fuggono. Solo quest'ultima cosa, quest'unico compito, e ogni mistero sarà risolto. Ma se ciò che le chiedo non verrà fatto, se al maniero di Bendray non si recherà, grande sciagura su tutti noi ricadrà. Ogni danno alla sua persona sarà solo la minima conseguenza. Il fervore del suo eloquio fugò le mie obiezioni. — Molto bene, allora. E come mi propone di lasciare l'isola?
— Venga. Alla riva andar dobbiamo. Mi condusse alla spiaggia, scendendo il sentiero. L'oceano, debolmente luminoso sotto il bagliore stellare, si frangeva contro le pietre arrotondate dalla sua stessa azione. — Io la porterò — disse l'Uomo di Cuoio Marrone. — Tra le mie braccia, in mezzo alle onde. Il mio elemento naturale è il mare. Sicuro lei sarà. Scrutai dubbioso l'oceano. La schiuma gelida mi inumidiva il viso. — Non è un lungo percorso? E... piuttosto freddo? — Non tema. In mare, di questo non ho necessità. — Le sue mani percorsero le finte cicatrici sul petto. — L'involucro esterno che mi permette di camminare sulla terraferma. In esso la avvolgerò. La sua natura è tale che saprà proteggerla dalle asprezze del mare. — Hmmm... — Altra via non v'è. La sua stessa vita, e molto altro, dal fare questo dipendono. La vita della quale parlava era stata nelle sue mani più di una volta: in chi avrei potuto riporre la mia fiducia, se non in qualcuno che già mi aveva salvato dalla morte? — Molto bene — dissi, placando il sussulto dei nervi. — Proceda. Alcune cuciture si allentarono e si aprirono sotto le sue dita. Nel giro di pochi minuti, il "cuoio" che lo ricopriva si staccò dalla carne che stava sotto, di qualunque natura fosse. Come la serpe cambia pelle, però in questo caso ritto in piedi, l'Uomo di Cuoio Marrone rimosse l'epidermide artificiale. La sua vera carnagione, più chiara, apparve umida nella luce lunare. Una bocca a fessura, e occhi di perfetta circolarità, solo marginalmente paragonabili a quelli degli abitanti di Dampford e Wetwick, vennero rivelati al denudarsi della testa. Libero dai confini artificiali, un roseo collare si gonfiò attorno alla sua gola. — Si affretti — disse. — Nell'aria in questo stato solo per poco tempo posso restare. Mi lasciai avvolgere nel rivestimento artificiale che si era tolto. Dato che ero di statura considerevolmente più bassa, il sottile "cuoio" risultò piuttosto largo sul mio corpo; non ci fu bisogno di esercitare la minima forza per inserire i miei arti nei punti adatti. Sulle mie gambe si formò un sovrapporsi di pieghe, come fossi un bambino impossessatosi per gioco dei calzoni del padre. L'Uomo di Cuoio Marrone (non più marrone, ma anzi lucido come accade alle creature marine esposte alla luce) strinse lo strato artificiale attorno
al mio petto, assicurandolo in posizione con un nodo all'altezza della spalla. Mi guidò tra le onde; quando l'acqua mi arrivò al mento, si chinò e con estrema facilità mi sollevò dal mare. Il mio peso si distribuì tra la sua formidabile forza e il galleggiamento prodotto dal sale oceanico. Le rassicurazioni sul mio benessere si rivelarono fondate: l'involucro mi mantenne ragionevolmente asciutto. Solo il viso si bagnò agli schizzi di schiuma mentre l'Uomo di Cuoio Marrone mi trasportava tra le onde. L'isolamento prodotto dal "cuoio" artificiale bastò a conservare il calore del mio corpo. Una volta passata l'apprensione iniziale, mi sforzai di rilassarmi il più possibile, come mi trovassi a bordo di una sicura imbarcazione anziché essere trasportato nel gonfiarsi delle onde dal braccio dell'altro, saldamente stretto sulla mia vita. Le potenti bracciate del suo arto libero e gli agili movimenti della parte inferiore del suo corpo solcavano le onde con una grazia ritmica, a dimostrazione del suo naturale adattamento all'elemento. Udii all'improvviso, nello sciabordio dell'acqua, un urlo distante. Girai la testa a guardare. Il sole del mattino si stava levando sopra i dirupi; su una cima rocciosa, una figura ci aveva individuati in mare. Era Scape. Da quella distanza non potevo scorgere l'espressione del suo volto, ma il pugno agitato nell'aria era perfettamente visibile. — Figlio di puttana! — ululò. — Abbandonarci così! Vedrai! Puoi scommetterci il tuo dolce culo... — Il suono della sua voce svanì al nostro allontanarci dalla riva. Il singolare viaggio durò oltre un'ora, nonostante la velocità del progresso in acqua dell'Uomo di Cuoio Marrone. Una volta sola, quando un'onda particolarmente alta si abbatté su di noi, subii un minimo disagio, ma non inghiottii più di una boccata d'acqua salata. Quando toccammo terra sulla costa scozzese, il sole era alto all'orizzonte. I suoi raggi diedero ulteriore urgenza alla richiesta del mio compagno per la restituzione del suo involucro protettivo. Mi tolsi in tutta fretta la pelle scura; gli abiti sotto erano leggermente umidi. — Straordinario — dissi, scostando dal viso i capelli fradici. L'isola di Groughay era visibile solo come un minuscolo puntolino all'orizzonte. Mi girai a guardare le colline coperte d'erica. Nello stesso istante, risuonò un colpo di fucile che sollevò uno spruzzo di sabbia ai miei piedi. — Svelto! — L'Uomo di Cuoio Marrone mi spinse verso il riparo di una sporgenza rocciosa. — Corra! — Non poté seguirmi; aveva ancora tra le braccia l'involucro che lo avrebbe protetto sulla terraferma. Si rituffò in
mare e scomparve. Un altro colpo risuonò prima che raggiungessi il rifugio della roccia. Il tiratore doveva trovarsi a una certa distanza, a giudicare dal suono fioco dell'esplosione; senza dubbio ero stato individuato da una posizione soprelevata tra le colline circostanti. Col cuore che mi martellava in petto, feci il giro delle rocce e presi ad arrampicarmi sul lato opposto, celato allo sguardo dal fitto fogliame. Guadagnai ben presto la cima della collinetta. Quando mi accoccolai, la riva era sotto di me, sulla sinistra. Di fronte a me, nella vallata ai piedi della collina, trovai conferma alla prima ipotesi sull'identità della persona che poteva avermi sparato. Anche da quella distanza riuscii a riconoscere la figura di Sir Charles Wroth, vestito in abiti di tweed da caccia, col fucile imbracciato. Era al comando di un gruppo di notevoli dimensioni, persone che avanzavano tra il fogliame: ai suoi fianchi, parecchi uomini, senza dubbio membri del Pio Esercito, erano allineati e armati come lui. Di fronte a loro, diverse decine di indigeni, armati solo della loro conoscenza del terreno, procedevano a sciami, al modo dei battitori che devono scovare i galli cedroni per il piacere dei cacciatori. Era piuttosto facile capire come fosse stato possibile arruolarli per quella causa: la mancanza di cultura degli abitanti delle Highlands e la loro rigida religiosità calvinista li avrebbero resi entusiastici inseguitori di qualcuno accusato di diavoleria e svariati atti blasfemi. Dalle loro mani nude potevo aspettarmi lo stesso fato promesso dalle pallottole del Pio Esercito. Senza dubbio, quella forza si era raccolta lì, nel luogo sulla terraferma più vicino a Groughay, in attesa del probabile arrivo mio e degli altri. Data la disponibilità di uomini lì, era parsa probabilmente una strategia preferibile a una spedizione direttamente all'isola di Groughay. Vidi Sir Charles ascoltare la notizia del mio avvistamento e dei colpi che erano stati sparati, portata da uno degli uomini sistemati all'estremità della fila più vicina al mare. Sir Charles diede rapidi ordini; spedì i battitori alla base della collina sulla quale mi ero arrampicato. Mi restavano poche vie di fuga. Direttamente di fronte a me c'erano i fucili del Pio Esercito che avanzava nella valle; mi era precluso anche il terreno alla mia sinistra, perché sulla sabbia della costa sarei stato un bersaglio facilissimo. Se non mi affrettavo, presto i battitori mi avrebbero circondato e intrappolato sulla collina. Mi lanciai giù per il fianco sul lato opposto, penetrando nei cespugli. Venni fermato poco dopo dall'apparizione di un dirupo che scendeva ri-
pido a un fiume sottostante. Non erano visibili appigli da sfruttare per la discesa; le frastagliate rocce sotto di me, battute dalla schiuma marina, mi assicuravano la morte se avessi tentato un folle balzo. Alle mie spalle udivo già i rozzi accenti degli indigeni che si lanciavano urli. Accoccolato per evitare il più a lungo possibile di essere scorto, corsi lungo l'orlo del dirupo, nella speranza di riuscire a scendere prima che i battitori completassero l'accerchiamento della collina. Troppo tardi: quando raggiunsi il punto dal quale potevo vedere il dirupo tramutarsi gradualmente in una massa di pietrisco che arrivava alla riva del fiume, gli uomini all'ala estrema della linea dei battitori raggiunsero l'acqua, bloccandomi anche quella via di fuga. Ancor peggio, ero stato individuato. Uno degli uomini urlò e puntò l'indice, allertando gli altri. Strillandomi imprecazioni e minacce, presero ad arrampicarsi sul fianco della collina, scavando tra l'erica con le mani per trovare appiglio. Girai sui tacchi e, abbandonata ogni cautela, ripresi a correre nella direzione dalla quale ero giunto. Ansimante, risalii la collina senza avere in testa più idee strategiche di quante ne abbia una volpe sfinita, assediata da ogni lato dall'abbaiare dei cani. Si levarono urli anche dal lato opposto; Sir Charles e il resto del Pio Esercito mi avevano visto. S'incamminarono verso di me, tanto sicuri di avere la preda tra le mani da attendere di potermi sparare quando mi fossi trovato allo scoperto. Ruotando su me stesso, vidi che le mascelle della natura, il dirupo e il mare, mi bloccavano su due lati; gli uomini assetati di sangue provvedevano a chiudere gli altri lati del mio perimetro. Immobilizzato, in preda a un angoscioso presentimento, rimasi a scrutare la linea di uomini che, salendo dalla valle, si erano fermati a metà collina. I fucili vennero poggiati sulle spalle del Pio Esercito, e i volti crudeli presero la mira. Un ruggito ritmico esplose all'improvviso sopra la mia testa. Per un attimo pensai che il pulsare del sangue mi avesse trapassato le tempie. Poi udii urli, non di trionfo ed eccitazione come prima, ma di stupore e paura, e vidi gli inseguitori alzare lo sguardo, passando gli occhi sgranati da me al cielo. Incredibilmente, dall'alto qualcuno urlava il mio nome. Guardai su. Una grande ombra passò sopra di me. Una sorta di uccello, ma enormemente più grosso, guizzò via, battendo nell'aria ali dai contorni frastagliati. Si abbassò sulla valle, facendo piombare a terra gli uomini sul lato della collina, che cercarono rifugio tra l'erica. Quando la cosa virò per tornare nella mia direzione, vidi le figure che vi stavano sopra: un uomo,
una donna, e un cane che abbaiava. Scape, ritto in piedi, stringeva tra le mani i cavi che controllavano le giravolte della macchina come un auriga dell'antica Roma. Quando il battito delle ali lo riportò vicino a me, vidi che sul suo volto ardeva una selvaggia eccitazione. Inginocchiata al suo fianco, la signorina McThane si teneva stretta ai bracci metallici; la testa piegata all'indietro, rideva, e il soffio del vento proiettava nell'aria i suoi capelli sciolti. La stretta di una corda impediva ad Abel di cadere; il tono del suo abbaiare sembrava più entusiasta che timoroso. La macchina volante si abbassò tanto sulla mia testa da farmi sentire la forza delle ali che la sorreggevano. Gocce di sangue mi piovvero sulla fronte mentre mi spostavo dalla sua rotta: le pelli d'ovino che ricoprivano le armature delle ali erano poco più che carcasse private di carne e ossa; il vello era ancora umido di sangue in molti punti, e teste dagli occhi vuoti ondeggiavano e dondolavano ai movimenti della macchina. La fretta di Scape di far alzare la macchina in volo aveva prodotto quel grottesco risultato. — Te lo avevo detto, stronzo! "Te lo avevo detto!" — Il suo urlo di trionfo era a un passo dalla follia: Scape era finalmente penetrato nel suo vero elemento. La schiuma scura spruzzata dalle carcasse gli colava su petto e viso, come a scrivere sul suo corpo l'emblema del Futuro. La macchina risalì in cielo, e la risata della signorina McThane si unì a quella di Scape. — Mangiate merda, coglioni! — strillò la voce beffarda della donna. Un'altra voce si alzò alle mie spalle. Uno dei battitori, un vecchio scozzese con una barba da profeta dell'Antico Testamento, levò un indice tremante verso l'apparizione in cielo. — La Bestia! — strillò. — Dell'Apocalisse! Non ha le teste, e la Prostituta sulla schiena? — Stravolto, il vecchio si mise a esortare gli altri. — Rideva, la Prostituta di Babilonia! Gli ultimi giorni sono scesi su di noi! — L'ipotesi venne rapidamente recepita dagli altri, e le voci si alzarono in un balbettio venato di panico. Sopra la valle, la macchina volante virò, con le ali quasi piegate in posizione verticale, e tornò verso la collina. — La Bestia! — Voci sul fianco della collina, davanti a me, riecheggiarono l'urlo: tutte quelle menti tanto portate alla religione avevano riconosciuto la creatura. L'idea non risparmiò nessuno; diversi uomini del Pio Esercito avevano già gettato i fucili, per meglio giungere le mani in fervente preghiera. Un nuovo urlo si levò dalla collina: — Il fiato ardente! — Il fumo e le
fiamme che si alzavano tra le ali del congegno erano stati visti da diversi degli attoniti spettatori. Vidi scintille guizzare dalle giunture metalliche. I risultati del frettoloso montaggio di Scape cominciavano a essere evidenti. Le pelli ovine che coprivano le ali avevano iniziato a incendiarsi, lasciando una scia di fumo untuoso. La macchina prese a disintegrarsi, un po' per l'inadeguatezza della costruzione e un po' per la violenza delle manovre in cielo. Carcasse in fiamme si staccarono dalle ali; le teste di pecora, puzzolenti di carne bruciata, piovvero sugli uomini raccolti sul fianco della collina. Quell'ultimo evento, com'era prevedibile, li portò al terrore completo. Tra urla inarticolate, gli indigeni e i membri del Pio Esercito fecero dietrofront e si dispersero in ogni direzione, fuggendo la fiammeggiante ira di Satana che si era abbattuta su di loro. La macchina volante ondeggiò sopra di me. I cavi di controllo che Scape teneva in mano non funzionavano più. La signorina McThane strillò quando il congegno si rovesciò; si aggrappò disperatamente a uno dei bracci metallici per non cadere. Il povero Abel ululò quando la corda che lo legava alla macchina in via di disintegrazione si impigliò tra ruote e catene. Impotente, orripilato, guardai la macchina piroettare su se stessa, riprendere quota per un istante nel gonfiarsi di fiamme e fuoco, e poi precipitare tra le colline sul lato opposto della vallata. Per un attimo rimasi inchiodato sul posto. Poi rammentai le mie sorti: per quanto tragiche fossero le conseguenze, l'improvvisa apparizione della macchina volante mi offriva un'occasione di fuga. Battitori e Pio Esercito se l'erano data a gambe, inseguiti dai demoni biblici della loro stessa immaginazione. Corsi al dirupo alle mie spalle, lo seguii fino al punto in cui era possibile scendere al fiume. — Dower! — La voce mi paralizzò. Frenai tanto bruscamente da finire quasi a terra. Il pietrisco franò sotto i miei piedi. Sul fondo della discesa, sulla riva del corso d'acqua, Sir Charles mi attendeva. I nostri sguardi si incontrarono da lontano. Poi egli sollevò il fucile, lo appoggiò alla spalla, socchiuse l'occhio nel prendere la mira sul mio petto. La collina non offriva nascondigli; ero in trappola sul suo fianco coperto d'erica. Senza speranza, senza pensieri coerenti, girai sui tacchi e fuggii sul sentiero sassoso. Udii lo sparo, che parve risuonare a chilometri di distanza. Per un attimo pensai che mi avesse mancato, che mi fosse ancora possibile raggiungere la cima della collina e ridiscendere sul lato opposto, verso il mare. Poi
qualcosa parve colpirmi la spalla, e avvertii un caldo indicibile. Il terreno mi mancò sotto i piedi, e caddi fra le tenebre che si protesero a inghiottirmi. Il primo suono che udii fu quello dell'acqua che si frangeva contro le rocce. Apersi gli occhi e vidi sopra di me una massa scura di terriccio, cosparsa di radici. La luce del giorno brillava sul fiume, si proiettava danzando fino a me, riverso sotto una sporgenza di roccia. Un viso scuro si interpose tra me e la luce. Misi a fuoco lo sguardo, e mi trovai scrutato dall'Uomo di Cuoio Marrone come lo avevo visto tanto tempo addietro, col volto celato dall'involucro artificiale. — Dower? — disse. — Mi sente? Come sta? Mi sollevai, appoggiando le palme sulla sabbia umida. Lo spazio in cui mi trovavo era una stretta fessura, alta pochi centimetri; la mia testa ne sfiorò il soffitto. — Mi sento... disastrato — annunciai. Ogni parte del mio corpo dolorava, come bastonata, e quando mossi il braccio destro scopersi che era legato da qualcosa. Girai la testa e vidi una benda, ricavata dalla mia camida ridotta a strisce, sistemata sulla scapola. Al centro del tessuto spiccava una chiazza rossa. — Di quello non si preoccupi — disse l'Uomo di Cuoio Marrone. — Stava già cadendo quando il proiettile l'ha colpita. La carne solo sfiorata è stata. Sua fortuna è stata atterrare nella parte più profonda del fiume. Ha qualche contusione, ma ossa rotte non vi sono. — Annuì per rassicurarmi. — Uomo fortunato lei è. — Hm. — Mi massaggiai la fronte pulsante. — Vorrei poter condividere la sua opinione. — Fui colpito da un pensiero che generò ansia. — Dov'è adesso Sir Charles? Mi starà ancora dando la caccia. — Questo non tema. Nelle vicinanze ero nascosto quando le ha sparato. L'ho visto scrutare giù in cerca del suo corpo. Uno dei suoi uomini, vinto il panico, è tornato. Parlare li ho uditi. La conclusione hanno raggiunto che al mare il suo corpo sia stato portato, e lì si sia perso. Provai un certo sollievo a quell'ipotesi sulla mia morte. — Un caso fortunato — dissi. — Penso che per un po' resterò a riposare qui. — No. No, non deve. — Mi sollecitò il braccio. — Tempo da perdere non v'è. Lei deve andare in Inghilterra, il più in fretta possibile. Notai di nuovo l'estrema urgenza della sua voce. — Ma perché? Egli scosse la testa. — Spiegazioni qui possibili non sono, tanto è grande la crisi. Vada al maniero di Bendray. Lì tutto saprà.
Con la sua assistenza, strisciai fuori dalla fessura nella roccia e mi rialzai. Egli mi ordinò di seguire il fiume, che portava a un piccolo villaggio, in direzione opposta al punto in cui erano accampati Sir Charles e i suoi seguaci. — Non viene con me? — chiesi. — Non posso. Molto altro devo fare. Ma mi rivedrà. — Si girò e si avviò in direzione opposta alla mia. Quando mi ritrovai solo, partii zoppicante verso la mia destinazione. I miei progressi in direzione dell'Inghilterra furono sorprendentemente rapidi, dato il mio precario stato fisico. Di certo la Fortuna, che negli ultimi giorni mi aveva giocato tanti tiri, sembrava ora ben disposta nei miei confronti. L'inizio del mio percorso fu contrassegnato da auspici particolarmente favorevoli. Quando raggiunsi il villaggio, pochi chilometri più in là lungo il corso del fiume, lo trovai deserto. Tutti erano fuggiti, abbandonando ogni cosa, persino il primitivo cibo ancora disposto sulle tavole. Era rimasta soltanto una vecchia di pessimo umore, che incontrai mentre tornava dal pozzo nella piazza del villaggio. Mi informò a sussurri che l'intera popolazione era fuggita tra le colline dopo essere stata informata dell'imminente arrivo di Satana, a capo di uno squadrone di mille draghi volanti. Ella nutriva un sommo disprezzo per gli intelletti dei suoi vicini. Alla locanda mi impossessai del cavallo d'aspetto più robusto, di un cambio d'abiti prelevato in una stanza, e, visto che nelle mie tasche restava solo la moneta di San Lofio, di una piccola quantità di denaro che trovai in una credenza. Appuntai alla porta un pagherò per tutte quelle cose, completo del mio indirizzo londinese. Sulla strada incrociai la vecchia che tornava a casa, ed ella mi indicò la via che portava al confine. Gradualmente, nel risorgere delle mie forze a ogni giorno di viaggio, e con ogni pasto consumato nelle locande lungo strada (ordinai solo e sempre manzo, mai montone), procedetti in direzione sud per l'Inghilterra. Raggiunta Carlisle, ebbi un altro colpo di fortuna. In città viveva un cliente al quale avevo riparato diversi orologi costruiti da mio padre. Mi riconobbe dalle visite al mio negozio di Londra, anche se lo meravigliò vedere quanto fossero scavati i tratti del mio volto. E altrettanto lo sorprese incontrarmi così lontano da casa. Da Londra, alle sue orecchie erano giunti resoconti assai sorprendenti, che egli mi riferì con mia notevole afflizione. Una grave onta, mi narrò, pesava sul mio nome. Mi sarei imbarcato in una nuova carriera da violinista; evidentemente, il Paganinicon aveva trovato più
conveniente appropriarsi della mia identità e residenza. Si narrava che le mie capacità musicali fossero tali da avere conquistato le sale da concerto dell'intera Europa, mentre certi altri talenti avevano generato un gregge in continua crescita di ammiratrici. A quanto sembrava, di quei certi talenti si sussurrava abbondantemente nei salotti alla moda; più di un duello verbale si era consumato in pubblico, con me come divertito testimone della scena. All'udire quelle cose, la mia mortificazione fu totale. Il mio informatore ebbe la benevolenza di prestarmi una somma di denaro, a titolo di anticipo sui miei futuri lavori per lui, sufficiente a pagare il resto del viaggio in carrozza. Così percorsi il tratto che ancora mi restava da superare in relativa comodità. Nella mia mente, comunque, anche al di là dell'umiliazione degli scandali perpetrati a mio nome dal mio doppio a orologeria, vibrava l'urgenza della sollecitazione dell'Uomo di Cuoio Marrone: dovevo raggiungere il maniero di Bendray il più presto possibile. Ogni prospettiva di riposo venne annullata dalle ipotesi che mi turbinavano nella mente sulla natura di quell'emergenza. Scartai l'idea di recarmi per prima cosa a Londra, ritenendo di priorità secondaria i miei affari. Obbedendo agli ordini dell'Uomo di Cuoio Marrone, mi diressi subito al maniero di Lord Bendray. Giunto nei pressi del distretto che ospitava Dampford, presi a nolo un cavallo e aspettai che scendesse la sera, per meglio passare inosservato nel villaggio: non avevo idea di quale ricordo potessero ancora serbare di me gli abitanti di Dampford. Nel buio superai i cancelli del maniero e raggiunsi il grande edificio. Restavano alcune tracce dell'assedio del Pio Esercito: una nuova porta sostituiva quella che era stata abbattuta, e sotto le finestre del pianterreno v'erano segni di bruciature. Smontai di sella, salii i gradini in pietra, e battei il pugno sul legno della porta. In risposta si udì dall'interno un passo claudicante, come di qualcuno che camminasse servendosi di una gruccia. La porta si spalancò, e la luce del grande ingresso si riversò su di me, accecandomi per un attimo col suo bagliore dopo la corsa nella sera. Poi udii la voce della persona. — Gesù Cristo santissimo — disse Scape. — Mi venga un colpo se non è il vecchio Dower. Battei le palpebre e distinsi la sua figura. Aveva davvero una gruccia sotto un'ascella, ed era notevolmente inclinato in quella direzione. — Mio Dio — dissi. — La credevo morto. Tornò il suo sorriso maniacale. — Un uomo per bene non si lascia mai
abbattere. Entra. — Si girò a urlare a qualcuno che stava scendendo le scale. — Ehi, guarda chi si è fatto vivo. Era la signorina McThane, coi capelli notevolmente più corti e piuttosto arruffati qua e là, come fossero intervenute le forbici a tagliare le parti bruciacchiate. Mi sorrise deliziata. — Cristo benedetto. E noialtri pensavamo che ti avessero fatto fuori. — Siete... siete sopravvissuti tutti e due? — chiesi stupefatto. — Così pare — rispose Scape. — Ci siamo lanciati prima che la maledetta cosa si schiantasse. — Un cenno triste del capo. — Però il cane ha tirato le cuoia. Non lo abbiamo mai ritrovato, quel piccoletto. — Ma cosa ci fate qui? Egli scrollò le spalle. — Dove altro potevamo andare? Abbiamo pensato che tanto valesse tornare qui e riprendere le nostre attività. Ehi, aspetta che vado a chiamare il vecchio Bendray. Lo tirerà su rivederti. Non gli fu necessario andare a cercare Lord Bendray; uno dei domestici lo aveva già informato del mio arrivo. Egli trotterellò nell'ingresso. — Com'è stato gentile a venire, Dower. — Con un ampio sorriso, afferrò la mia destra in entrambe le mani. — Pensavo di non rivederla mai più. Ma ora lei è tornato, e tutto ciò che speravo di concludere mi è reso possibile. — Vostra Signoria... — cominciai, ma mi tacitò con un cenno. — Non c'è tempo per parlare. Di tempo ne abbiamo già sprecato anche troppo. — Si girò e ripartì, sostenuto per un gomito dal domestico. Scape mi studiò con aria interrogativa. — Perché sei tornato qui, fra l'altro? — Pensavo... mi hanno informato... che qui era in corso una qualche crisi. — Mi guardai attorno, confuso; tutto era tranquillo nella casa. — E che occorreva la mia presenza. — Crisi? Io non so di nessuna "crisi". — Scape fissò la signorina McThane. — Tu sai qualcosa di una crisi? Ella mi sorrise. — Soltanto la solita. Bussarono di nuovo alla porta. Un altro membro della servitù corse ad aprire. Mi girai a guardare la persona che entrava, e a quella vista barcollai all'indietro. — Lei! — urlò Sir Charles Wroth, avvistandomi. — Cosa succede? — chiese Scape, mentre io cercavo frenetico con gli occhi una via di fuga. Egli si girò e vide l'uomo che poche settimane prima aveva ordinato la sua fucilazione. — Merda! — esclamò, in palese costernazione.
Sir Charles barcollò nell'ingresso, terreo in volto, i tratti contorti da un orrore inesprimibile. Il suo aspetto devastato mi inchiodò sul posto. La sua voce si abbassò in un ansito strozzato. — Credevo... che foste... morti. — Aveva tutta l'aria dell'uomo che è sul punto di crollare. Scape lo aiutò a mantenere l'equilibrio. La sua paura era scemata al vedere così disarmato il capo del Pio Esercito. — Ehi, sta bene? — chiese la signorina McThane, chinandosi su Sir Charles. In quel momento, un tremito percorse la struttura del grande maniero. Pareva giungere da sotto: una vibrazione pulsante che si riverberò tra mura e soffitto. Il suono, al limite estremo dell'udito umano, strappò un gemito d'angoscia a Sir Charles. Con le viscere in preda a un improvviso sussulto, mi sentii afferrare da un cupo pensiero. Ricordai le parole che mi erano state dette su una carrozza che correva nella campagna immersa nel buio. Un viso che era il mio, ma labbra che pronunciavano le frasi di qualcun altro: "Dopo essere stato installato nel congegno che deve governare, il meccanismo di controllo deve trovarsi a pochi chilometri di distanza dal cervello aggiuntivo, il tuo, mio caro Dower, per poter ricevere le sottili vibrazioni e cominciare a operare". Il mio volto, puntato su Sir Charles, si raggelò nella comprensione. Egli mi rivolse un triste cenno. — Non le avrei mai fatto del male di mia spontanea volontà, ragazzo mio. Ma l'ho ritenuto necessario. Era l'unico modo per impedire il verificarsi di questo atroce evento. — Quale atroce evento? — chiese un impaziente Scape. Sir Charles passò gli occhi su tutti noi. — La distruzione della Terra stessa sulla quale viviamo. Scape lo fissò incredulo. — Vuol dire quella porcata di merda che il vecchio Bendray ha in cantina? — Proprio quel congegno. Non è una frode. Può fare tutto ciò che promette, e lo farà. — Si girò verso di me. — Suo padre possedeva la natura di chi non si preoccupa delle conseguenze che possono sortire dal suo genio. Teneva in considerazione solo l'esecuzione di ogni incarico che gli venisse commissionato. Ho visto i modelli che ha costruito, e i calcoli teorici sui quali ha basato il proprio lavoro. Io sono al servizio del governo di Sua Maestà, e membro di un comitato speciale dell'augusto corpo scientifico, la Regia Società. Da molto tempo è nostro compito osservare, e intervenire laddove sia necessario nelle attività di coloro che si autodefiniscono Regia Anti-Società. Questi uomini posseggono molte conoscenze di sinistro valore, e non hanno una fede che inibisca l'uso privo d'ogni scrupolo
di quelle cognizioni. Non sono un puritano retrogrado, per quanto lei mi abbia visto interpretare quella parte. Il Pio Esercito, già informato sulla Regia Anti-Società, mi è servito come utile paravento dietro il quale compiere le mie osservazioni. A questo scopo mi sono insinuato nei loro ranghi e ho raggiunto una posizione di comando. Quel discorso, per buona parte mormorato tra sé e sé, parve svuotarlo d'ogni energia. Barcollò contro il braccio di Scape prima di procedere. — Sapevo — disse — che una volta ottenuto il congegno regolatore, Lord Bendray lo avrebbe inserito nella macchina che si trova sotto i nostri piedi. E che lei, Dower, per quanto privo di intenzioni malvage... che la sua semplice presenza sarebbe stata l'unica cosa necessaria per mettere in movimento il macchinario capace di distruggere la Terra. Sapevo che, se avessi avuto il tempo di prospettarle il dilemma, lei sarebbe stato lieto di fare l'appropriato sacrificio, offrendo la sua stessa vita. Così, in tutta coscienza, ho ordinato l'assedio del maniero, che aveva come obiettivo la sua morte. Lei è fuggito, ahimè, ma è stato di nuovo consegnato alle mie mani. Il suo lungo viaggio, dopo che le era stata comminata la pena capitale, doveva servire solo a eliminare ogni possibilità di un suo ritorno qui. Ma un fato maligno ha frustrato tutte le mie fatiche. Lei è ricomparso qui, sfuggendo alla tomba d'acqua nella quale credevo di averla deposta. — Il mento gli ricadde sul petto. Aveva l'aspetto dell'uomo vecchio, spezzato. — E ora invece la Terra, e tutto ciò che essa ospita, deve morire. — Sì! — urlò un'altra voce, dall'alto della scala. Ci girammo all'unisono alla nota di sprezzante trionfo contenuta in quell'unica parola. L'Uomo di Cuoio Marrone ci scrutava dal pianerottolo, le braccia alzate sopra la testa. Si era introdotto passando per vie segrete, e ora giubilava della nostra disperata situazione. — Guardate! — La sua voce era un ululato selvatico; ogni somiglianza con l'eloquio umano era svanita. — È questa la vostra follia! "Questo" avete scatenato su voi stessi! Al vostro sangue non sta a cuore alcun altro sangue! La loro morte voi provocate, la vostra stupidità e avidità uccidono, e a voi nulla importa! Ora giungerà la "vostra" morte! — Si voltò, e con un colpo del braccio mandò in frantumi la finestra alle sue spalle. Le schegge di vetro gli piovvero addosso quando si tuffò nella tenebra. La vibrazione che emanava dai sotterranei del maniero era divenuta più alta di volume e più stridula. Scape afferrò uno dei domestici fermi a lato della porta. — Dov'è Bendray? — chiese, sollevando l'uomo per il bavero. — Dov'è?
Il servitore rispose con placida fedeltà. — Lord Bendray si è ritirato in laboratorio. Vi porge le sue scuse per non potersi unire a voi per l'intrattenimento di questa sera. Scape lo scaraventò via. — Facciamo irruzione! — urlò al nostro gruppo. — Gettiamo una chiave inglese o qualcosa d'altro nei meccanismi della macchina! Sir Charles scosse stancamente la testa. — Sono al corrente dei preparativi che Lord Bendray ha fatto per l'occasione. L'entrata del laboratorio è ben fortificata. Non riusciremmo mai a introdurci in tempo per fermare il processo. — Figlio di puttana — borbottò Scape. La signorina McThane, pallida, a occhi sgranati, lo prese a braccetto. Un dipinto cadde dal muro tremante e si schiantò sul pavimento. Nella stanza accanto, un'armatura precipitò e andò in frantumi. — Se ne starà chiuso nella sua maledetta camera ermetica, a farsi servire champagne da uno dei suoi maggiordomi. Lo stronzo. Mi guardai attorno. Ogni parete del maniero sembrava fremere, presa da un'agitazione distruttiva. Le vibrazioni del congegno sotto di noi, il congegno creato da mio padre, mi risuonavano all'interno del cranio, stordendomi. Per quello avevo dovuto uscire indenne da tante ore disperate? Mi girai verso Sir Charles. — Allora mi uccida adesso — dissi. — Se quella macchina funziona grazie alle vibrazioni del mio cervello, vi ponga fine. Così... — Mi battei la mano sul petto. — Riduca il mio cervello al silenzio, e con esso la macchina. Egli mi guardò con un'ammirazione colma di rimpianto. — È troppo tardi. Il Regolatore ha già utilizzato le vibrazioni sottili per determinare il ritmo di pulsazioni necessario per schiantare la Terra. Non accade come col Paganinicon, costretto a variare di continuo le proprie azioni in base alle diverse situazioni nelle quali si trova. Il congegno per la distruzione della Terra procederà ormai con lo stesso ritmo, che lei sia vivo o morto. Le pulsazioni si espanderanno da questo luogo, finché l'intero mondo vibrerà in sincronia con esse per poi dissolversi negli atomi che lo compongono. Le fondamenta dell'edificio emisero un gemito, come se già si stessero lacerando. I domestici si scambiarono occhiate impaurite; la natura del pericolo era finalmente divenuta chiara anche a loro. Morsi dal panico, fuggirono dall'ingresso. Scape si avvicinò a Sir Charles e me. Mi studiò a bocca socchiusa prima di parlare. — Ma se... — La sua mano si levò a puntarsi su me. — Ma se
succedesse qualcosa al suo cervello? Al "tuo" cervello, Dower. Insomma, non è per via del fatto che ha una... come si dice... una natura flemmatica, giusto? — Il suo eloquio si fece ancora più rapido. — Il suo cervello ticchetta placido come un congegno a orologeria. Ecco perché il meccanismo regolatore può usare le vibrazioni che emette per controllare la macchina alla quale è collegato. Giusto? Sir Charles annuì. — È esatto. — Quindi, "se succedesse" qualcosa al suo cervello, qualcosa che lo rendesse "non più flemmatico"... tipo "eccitato" fino all'anima... le vibrazioni andrebbero a farsi friggere! Diventerebbero sfasate! La macchina qui sotto le riceverebbe, ma sarebbero completamente sbagliate. Rovinerebbero le pulsazioni che sta emettendo, e il congegno non funzionerebbe più. Non riuscirebbe a fare a pezzi il mondo perché riceverebbe nuove vibrazioni completamente sballate e si adeguerebbe a quelle. Il maledetto aggeggio si fotterebbe da solo! C'è una sola cosa che dobbiamo fare. "Cambiare le vibrazioni del cervello di Dower." La signorina McThane fu la prima ad afferrare l'antifona. Lentamente, mi girai verso di lei. I nostri occhi si incontrarono; poi vidi l'angolo della sua bocca piegarsi in un sorriso. Senza parole, la guardai afferrare con entrambe le mani l'orlo della scollatura. Lo lacerò con due possenti strattoni. Brandelli di stoffa rimasero prigionieri dei suoi pugni. — D'accordo, idiota! — urlò. — L'Inghilterra si aspetta che ogni uomo faccia il suo dovere! Una sensazione strana, mai prima conosciuta, scese su me. Forse a quel punto ero ormai impazzito, strappato alla sanità mentale dai molti travagli subiti, o forse l'imminente distruzione della Terra servì a porre tutto in una nuova prospettiva. Le mura stesse del maniero parvero recedere, allontanarsi da me, mentre ammiravo il roseo satin della pelle femminile. Mi lasciai prendere per mano da lei e guidare su per la scala tremante. Il candeliere si staccò dal soffitto mentre salivamo i gradini. Il cristallo si frantumò sul pavimento sotto di noi. Epilogo Con un sospiro rivolto ai defunti, riprendiamo i tediosi impegni della vita, nella certezza che noi anche avremo il nostro riposo. LORD BYRON, scrivendo a R.C. Dallas, 12 agosto 1811.
La pioggia è cessata per un poco. Ora riprenderà, avviluppando nel suo grigio manto il breve intervallo di luce solare. Nelle buie ore ho continuato a scrivere, col cane a guardia delle mie fatiche anche mentre dorme davanti alle ultime braci dietro la grata del camino. Con l'alba giungerò all'ultima sosta di questa storia. Non occorre grande discernimento per notare che la Terra non venne distrutta; percorriamo ancora la sua scura superficie. Se il fallimento del tentativo di schiantarla sia stato dovuto al fatto che la signorina McThane riuscì infine a prendere piacere da me come tanto desiderava, o se si sia trattato di un difetto del congegno creato da mio padre, ebbene, lo ignoro. Basti dire che le mura del maniero di Lord Bendray erano ancora in piedi dopo l'interrompersi delle vibrazioni provenienti dai sotterranei. La padronanza di Lord Bendray della propria sanità mentale si dimostrò molto più tenue. Emerse dalla sua Vettura Ermetica completamente folle, ossessionato dal concetto che la Terra fosse stata distrutta, e convinto di essere stato trasportato su un altro pianeta dagli esseri che tanto bramava conoscere. Anche se gli eredi dei beni di Bendray, oggi passati nelle mani di lontani cugini, sono riusciti a comperare il silenzio, circolano ancora voci sul pietoso stato cerebrale del Lord, al momento rinchiuso in un ospedale. Si racconta che ritenga le persone che si occupano di lui sagge creature di un altro mondo, e che si calmi solo quando esse inventano assurdi dettagli sulla vita su Marte e Venere. Nessuna voce, sussurrata o urlata, sul conto dell'Uomo di Cuoio Marrone è mai giunta alle mie orecchie. In cuor mio, ritengo che la scura figura sia tornata alla sua casa ancestrale, al largo dell'isola di Groughay, a perdersi in cupe meditazioni nell'attesa di estinguersi come gli altri membri della sua razza. È opinione diffusa che la tenutaria di bordelli Mollie Maud viva ora in Francia. Avrebbe abbandonato i suoi commerci carnali nel nostro paese dopo la perdita di molti dei suoi duri, nell'aspra battaglia con gli abitanti di Dampford. La simultanea sparizione della signora Trabble, la ben nota crociata della morale, resta argomento di speculazioni nei circoli delle persone per bene. Rientrato a Londra, scopersi che la mia reputazione era stata danneggiata in maniera irreparabile. Il Paganinicon, che si spacciava per me, era impazzito durante un concerto che vedeva la presenza di tutti i più elevati membri della società inglese. A mio giudizio, quel tracollo, inesplicabile per chi vi assistette, venne provocato dalle stesse azioni da parte mia e del-
la signorina McThane che schiantarono il meccanismo regolatore del congegno per la distruzione della Terra. La basilare natura del Paganinicon, già incline alle conquiste romantiche, venne ulteriormente stimolata dalla temporanea alterazione del suo cervello aggiuntivo. Debbo lasciare nel vago i particolari degli eventi che ne conseguirono (sono di natura troppo delicata per descriverli; io stesso vi credetti a stento quando mi furono raccontati), ma occorrerà notare che la signora Wroth e diverse altre dame d'alto rango si ritirarono, dopo il concerto, nell'isolamento di un convento. Si trovano ancora lì. Perseguitato dalle folle stimolate dagli scandali che il Paganinicon aveva generato, mi fu impossibile riprendere la mia esistenza precedente e il lavoro in negozio. Per fortuna, Sir Charles Wroth, forse per fare ammenda dei suoi precedenti tentativi di privarmi della vita (anche se per una buona causa), convinse l'augusto corpo scientifico della Regia Società ad acquistare tutti i congegni lasciati in laboratorio da mio padre. La somma ricavata mi bastò per ritirarmi nella solitudine di questo distretto di Londra poco trafficato, accompagnato dal fedele Creff, che con tanta pazienza e fiducia aveva atteso il mio ritorno. Un altro toccante esempio di lealtà si manifestò mentre Creff e io stavamo caricando i miei bagagli su una vettura. Per strada apparve una figura zoppicante e male in arnese, con le costole che sporgevano dopo il rigore del viaggio, ancora bruciacchiata dal disastro della macchina volante e scarsamente riconoscibile. Era il cane Abel, che, come si è narrato per altri animali, aveva percorso colline e fiumi dell'Inghilterra per tornare alla casa dove per la prima volta era stato trattato con dolcezza. Il caldo fuoco davanti al quale dorme anche ora e un piatto colmo di cibo lo ricompenseranno sino alla fine dei suoi giorni. La mia ricompensa sarà deporre questa penna e non riprenderla mai più in mano. La mia apologia è conclusa, a qualunque cosa possa servire. Mi sono giunte segnalazioni su un uomo viscido, con gli occhiali a lenti scure, che in compagnia di una donna viaggia di villaggio in villaggio nel nord dell'Inghilterra e in Scozia. Si dice che organizzino spettacoli con pochi rozzi automi musicali, ma che vengano ben presto cacciati dalle polizie locali quando emergono imbrogli al tavolo da gioco e altre mascalzonate. Se anche sono giunto a questo porto sicuro, ammesso che si possa trovare sicurezza in questa vita, ancora rimpiango la semplicità dei miei giorni andati. Ho perso la mia innocenza, in più di un modo. Ho visto i meccanismi e le furibonde macchine del mondo che si nasconde, invisibile,
sotto i nostri piedi. Più non posso percepire, come invece accade ad altri, il trascorrere delle ore sul volto etereo del cielo senza la visione di una molla principale segreta che si srotola sino al silenzio finale. Attendo il giorno in cui tutti gli orologi si fermeranno, compreso quello che batte nel mio petto. Fai lo stesso anche tu, Lettore, e trai profitto dal mio esempio. FINE