DAVID BISCHOFF LE PAGINE DELL'ODIO (Quoth The Crow, 1998) A Dean Koontz. Maestro in passato, nel presente e nel futuro. ...
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DAVID BISCHOFF LE PAGINE DELL'ODIO (Quoth The Crow, 1998) A Dean Koontz. Maestro in passato, nel presente e nel futuro. Un battito d'ala in segno di ringraziamento a: Jimmy Vines, Martha Bayless, Robin Shurtz, John Douglas e Jeff Conner. Prologo Ero stremato, stremato a morte dalla lunga agonia; e quando alla fine mi liberarono e mi consentirono di mettermi a sedere, mi accorsi che stavo per perdere ì sensi. La sentenza, la terribile sentenza di morte, fu l'ultimo suono che mi giunse distintamente alle orecchie... Il pensiero giunse lento e furtivo, e sembrò passare molto tempo prima che venisse compreso appieno; ma quando alla fine il mio spirito lo avvertì e lo accolse, le figure dei giudici scomparirono, come per magia, dal mio cospetto; gli alti ceri svanirono nel nulla; le loro fiammelle si spensero completamente; la nera oscurità prese il sopravvento; ogni sensazione sembrò inghiottita in una folle e precipitosa caduta come dell'anima nell'Ade. Poi l'universo fu silenzio, immobilità e notte. EDGAR A. POE, Il pozzo e il pendolo La casa urlò. L'urlo era di quelli cinematografici, da raggelare il sangue, per i quali erano famose le reginette dell'urlo protagoniste di molti film dell'orrore. Sembrò far tremare i vetri alle finestre del piccolo edificio, scuotendone le pareti. Le frequenze più basse fecero pulsare le fondamenta, l'acuto ululato si librò verso il tetto piatto agitando il pietrisco e la carta catramata che lo ricopriva. La voce era piuttosto simile a quella di Jamie Lee Curtis, pensò il Conte Mishka. E in effetti si trattava proprio di Jamie Lee Curtis, la sua voce doppiata e manipolata come un grido di Tarzan. Un taglia e incolla digitale operato su
classiche espressioni di angoscia e disperazione tratte sia da Terror Train, sia da Non entrate in quella casa. Il ragazzo, tutto vestito di nero (camicia nera, stivali neri, jeans neri, maglietta nera, orecchino nero, piercing al naso nero, matita nera agli occhi, corti capelli neri, sciarpa nera, giacca nera; abbigliamento e accessori non banalmente neri, ma di un nero gotico, elegante) rise. Premette ancora il tasto del nuovo campanello. Un altro urlo di donna, questa volta un po' più breve e improvvisamente smorzato, come se un killer avesse a un tratto mozzato la testa a chi lo stava emettendo. Che bellezza. Le tenebre, fredde e autunnali, calarono sull'accogliente quartiere di Baltimora. Un cane abbaiò in un vicolo. Una donna avvolta in un cappotto con cappuccio si dirigeva verso la sua destinazione. L'odore di catrame steso da poco si propagava nell'aria da un cantiere a qualche edificio di distanza. Un gabbiano, allontanatosi dal suo ambiente naturale nei dintorni del porto, scendeva ripetutamente in picchiata sopra la fila di minuscole casette a schiera di Fells Point. Stringendo il bottino sotto un braccio, il Conte Mishka, noto ai genitori e all'anagrafe con il nome di Richard Mark Henneman, infilò la chiave nella serratura della porta di casa con la mano destra. La porta si aprì, accompagnata dal tintinnio delle chiavi. La coda dell'ultimo urlo registrato ed elaborato dal Conte si dissolse tra le ombre come una nuvoletta di fumo scuro. La casa sembrò percorsa da un gelido soffio di vento. Richard rabbrividì, non solo a causa del freddo. Che storia è questa? si domandò. Non sarà forse stregata, questa casa? Stai calmo, si disse. La gang avrebbe approvato. Da ormai un anno Richard Henneman si era alleato a un sedicente gruppo «d'élite», i Goths, rappresentanti locali e funebremente addobbati di quella sottocultura post-punk il cui feroce rifiuto della società consumistica veniva spesso oscurato da altrettanto rigide e narcisistiche ossessioni, da un settarismo assolutista e una malsana passione per lo smalto da unghie nero. Ultimamente, tuttavia, i Goths si erano trasformati in un gruppo molto più unito. Un gruppo unito non solo da un patto di sangue... ma anche dal denaro. Molto denaro. Che sarebbe diventato ancora di più in futuro. Sì, i Goths stavano rapidamente prendendo le sembianze di un'impresa: la
Goths Inc. E tutto questo per via di un piccolo, insignificante omicidio. Che delizia! Il corridoio del Conte era punteggiato da schizzi di sangue. Resti umani in forma di locandine di film. Dracula dai canini insanguinati appartenenti a generazioni diverse, da Bela a Gary, si affacciavano minacciosi. Donne sventurate con ampie scollature alzavano le braccia al cielo, urlando. Le locandine erano affiancate da una serie di collage incorniciati, creati da Richard con immagini fotocopiate tratte dalle sue riviste di cinema preferite, Fangoria, Shivers, Midnight Marquee, European Trash Cinema, e da altre testate meno note dedicate al genere. Opere esotiche dei truccatori cinematografici e rappresentazioni di violenza. Teste mozzate. Corpi squartati. Mostri bavosi che si lasciavano alle spalle una scia di interiora fumanti, raramente le proprie. Arte, pura e semplice. Attimi immortalati di puro cinema pop al suo apice. Sorridendo soddisfatto, il Conte accese la luce del soggiorno, si chiuse la porta alle spalle con un calcio e puntò direttamente verso il suo santuario, l'angolo dell'intrattenimento. Rivolse un lieve inchino al Buddha posizionato sopra il televisore. «Abbiamo molto incenso da ardere questa sera, o Illuminato!» Lasciò cadere i suoi tesori sul divano e frugò tra i CD fino a trovare quello nuovo di Iggy Pop; be', non propriamente nuovo, dato che si trattava di Raw Power in versione rimixata, una rivisitazione vent'anni dopo il classico album che era stato «rovinato» (secondo i fan più accaniti) dal tentativo di David Bowie di renderlo più commerciale, in passato, quando il signor Pop era ancora conosciuto come Iggy Stooge. Il Conte inserì il dischetto nel lettore e premette il tasto «random play» (la più importante innovazione nel campo delle moderne comodità domestiche dopo il telecomando). Immediatamente Iggy e gli Stooges cominciarono a riversare un fiume di autentico proto-punk attraverso il nuovo sistema satellitare di casse acustiche Bose. «Rock my world, Iggy!» incitò il Conte. Attraversò pogando la stretta sala da pranzo fino ad arrivare nella stretta cucina, dove aprì il frigorifero da cui estrasse una grossa lattina di Fosters. Tirò la linguetta, lasciando che la schiuma fuoriuscisse nella migliore tradizione australiana. Ai tempi che furono era stato costretto a bere anonime marche americane. Ora il Conte poteva permettersi di bere roba buona. «Vai, Iggy, vai!» Rise, lasciandosi
scorrere la birra sul mento e sulla camicia. Gli Stooges risposero elettronicamente all'appello. Il basso pulsava e le chitarre suonavano stridenti. La batteria rullava e martellava. «I am the world's forgotten boy!» gridava Iggy. Iggy faceva tremare le pareti, adornate da immagini Gothic rock, icone della darkwave. Sisters of Mercy, The Cure, The Mission, The Damned e i Bauhaus; gruppi più recenti come Switchblade Symphony, Laibach, Chem Lab, Attrition, Lycia, Dorian Gray, Die Laughing, London After Midnight; ma anche rappresentazioni leggermente ammuffite di esponenti della vecchia guardia come David Bowie (ehi, a Trent piace), i Kiss e Alice Cooper (Marilyn Manson dovrebbe pagare i diritti a tutti questi per avergli rubato immagine e spettacolo) per affermare la cattolicità dei suoi gusti. Iggy faceva tremare la libreria, che ospitava volumi sul cinema e sulla televisione e qualche romanzo dell'orrore. Iggy faceva tremare gli scaffali carichi di fumetti protetti da buste di plastica. Iggy faceva tremare i porta CD e le pile di dischi. Iggy faceva tremare l'angolo multimediale, affollato da centinaia di video disposti accanto al televisore Sony da trentuno pollici e una serie di lettori video, assediati da altre videocassette, laserdisc e DVD. Iggy faceva tremare tutto. La collezione di cultura ed esalazioni pop del Conte irrompevano fuori dal soggiorno, invadendo la sala da pranzo. Altre pile di video e CD risalivano le scale, fino a giungere in cima, alle stanze del piano superiore, anch'esse piene di librerie, fumetti, poster, statuette e robot giapponesi. Molti degli oggetti erano rubati. Richard era un eccellente taccheggiatore. Ancor prima della pubertà aveva scoperto che la sua fame di fumetti e merci correlate eccedeva di gran lunga le possibilità della sua paglietta. Di mano agile, di piede veloce e con cappotto capiente, trovò la sua specializzazione nel furto. Prese a vendere o a barattare gli articoli che non aveva interesse a conservare, ponendo così le basi di una meravigliosa collezione. A quattordici anni si era introdotto con scasso in un negozio di fumetti durante la notte, aveva forzato il lucchetto della cassetta contenente i pezzi da collezione e aveva rubato un autentico tesoro di fumetti Marvel e DC, e addirittura alcune pubblicazioni della EC risalenti agli anni Cinquanta. All'età di diciotto anni possedeva un tale numero di fumetti, libri, cassette, CD e dischi da consentirgli di condurre una vera e propria attività commerciale nel suo appartamento nel campus universitario, traendo insospettati benefici dalla vendita di fu-
metti Image Comics (che splendide copertine!) durante il boom del mercato. Ahimè, era stato cacciato dal college al secondo anno, accusato di numerose infrazioni alla disciplina. Per nulla scoraggiato, aveva proseguito la sua attività truffaldina raffinando le proprie tecniche e ampliando inventario e volume d'affari; ma la sua insaziabile fame di nuova refurtiva aveva l'effetto di limitare la sua visione, rendendolo vittima dei propri appetiti compulsivi. Poi aveva conosciuto i Goths, o meglio aveva cominciato a frequentare il Salon des Gothiques, un maleodorante scantinato che fungeva da luogo di ritrovo, presieduto da un certo Baxter Brittle. I suoi talenti arrivarono ben presto all'attenzione di Brittle, un artista dedito all'alcol, già editor della Tome Press e recentemente beneficiario di una inattesa eredità (il bar Cork'd Sailor, sotto il quale si trovava lo scantinato). Anche le sue collezioni venivano spesso incrementate dalle attività del Conte. Considerato in un primo momento solo uno sfigato brufoloso dotato di una mano vellutata, la vita sociale di Richard Henneman cominciò a intensificarsi. Divenne il «Conte Mishka». Riusciva addirittura a ottenere, seppure non con assoluta regolarità, qualche servizietto da alcune dalle Goths di sesso femminile attratte dal ruvido carattere di Brittle (e dalle bevute gratis). Tuttavia, era stato solo nel corso dell'ultimo anno, con l'ingresso nella cerchia ristretta degli uomini di fiducia di Brittle, che la sua situazione economica era sensibilmente migliorata. Aveva acquistato una piccola casa a schiera a Fells Point, dove aveva trasferito tutto il contenuto del precedente appartamento e del magazzino. Certo, ben presto sarebbe stato costretto ad affittare un altro spazio presso il deposito, ma il volume del flusso di materiale che passava per le sue mani (in alcuni casi addirittura comprato, come il bottino di quella sera) era tale da consentirgli di continuare a vendere e trarre profitti da sommare al denaro guadagnato lavorando alla Tome Press. Iggy faceva tremare la cassapanca dei libri. La cassapanca intarsiata, un autentico pezzo di antiquariato in legno di quercia massiccio, era stato un regalo da parte della Tome Press («per gli straordinari servizi resi», aveva detto Brittle). Tutte le chiusure erano state sostituite con serrature moderne e l'interno era stato reso a tenuta d'aria e di umidità, ideale per conservare i libri rari, proprio come i bauli utilizzati da William Blessing per custodire la sua famosa collezione di opere di Poe.
Iggy Pop continuava a cantare di penetrazione e di «shake appeal», e il Conte rise di nuovo. Scuotendo la testa, introdusse sorridendo la tessera magnetica nell'antica piastra che celava la nuova serratura della cassapanca. L'aprì e passò in rassegna il più prezioso dei suoi tesori, composto da articoli che meritavano una doppia busta di plastica protettiva. Ecco! Prime edizioni. Prime edizioni autografate, sempre il miglior investimento per qualsiasi collezionista, la cui lievitazione di valore era garantita. C'erano tutti, da Stephen King ad Anne Rice, a Clive Barker, a Dean Koontz, a Ramsey Campbell, a Robert Bloch, e ancora Shirley Jackson e Richard Matheson. E le copie in ottime condizioni, o meglio ancora firmate ma mai sfogliate, possedevano un valore intrinseco superiore a qualsiasi piano di risparmio o fondo pensione. C'era una prima edizione del Dracula di Bram Stoker, firmata. Un Ambrose Bierce. Alcuni Lovecraft di pregio. Decine di splendidi oggetti da collezione. Davvero roba magnifica. Ma il materiale di primissimo ordine che aveva da poco ottenuto... il più prezioso, il più antico... il più magico... E per giunta gratis! Era lì, davanti ai suoi occhi: una serie completa di prime edizioni di Edgar Allan Poe. Risalivano a un'epoca in cui le prime edizioni avevano una tiratura di poche centinaia di copie, e spesso venivano pubblicate solo in forma privata. Frutto di quella terribile notte quattro mesi prima che poi si era trasformata, chissà come, in un colpo di estrema buona fortuna. Come era solito fare ogni sera, lasciò scorrere le dita sulle coste in pelle delle vecchie sopraccoperte realizzate artigianalmente (in sé preziose reliquie), che proteggevano i fragili volumi dall'azione corrosiva della luce, dell'aria e dell'inutile maneggiamento. Provò un'emozione palpabile, avvertendo un fremito di squisita energia all'interno di quei ricettacoli di magia. Già, chi avrebbe potuto prevedere che per mezzo di una morte e di un furto una tale fortuna sarebbe piombata sulla sua testa di collezionista! La Tome Press prosperava come non mai, espandendosi a grandi balzi. In quanto membro della cerchia interna, Richard Mark Henneman era ora il vicepresidente responsabile per i Progetti Speciali. Il che implicava, oltre al consueto e agevole compito di supervisionare la trasformazione di una piccola tipografia in una grande tipografia, la ricerca di altre vie di espansione. Essendo un appassionato di musica e un cultore di cinema, era naturale che gli interessi del Conte venissero agitati dal desiderio di «produr-
re». E a giudicare dagli idioti già impegnati nel campo, aveva concluso il Conte, non doveva trattarsi di un'attività tanto difficile. Quello stesso giorno aveva parlato ad alcuni studenti di cinema dell'intenzione della Tome Press di produrre il suo primo film dell'orrore. Ed era sicuro di riuscire a convincere uno dei maghi degli studi di registrazione come Trust Obey a occuparsi della musica, stringendo poi accordi per la colonna sonora con qualche gruppo tipo Projekt, Tess o Cleopatra. Le possibilità erano infinite. Dio, che sballo! Toccare quei volumi di Poe era come ricevere scosse di energia pura. Energia grezza! La Goth Inc. era in viaggio verso le stelle! «E noi saremo in viaggio con lei, no, Iggy?» disse il Conte richiudendo la preziosa edizione. Per tutta risposta Iggy continuò a gridare, a lamentarsi e a ruttare. «Give me danger, little stranger», cantarono insieme. Prese un altro sorso di Fosters, poi si spostò ancheggiando nel soggiorno. Balzò spensieratamente all'indietro (dopo aver appoggiato la lattina sul tavolino, già affollato di figate) ricadendo sul divano. Afferrò uno dei telecomandi. Prese la mira. Premette un tasto. Via la testa di Iggy! Premette un altro tasto e Intervista con il Vampiro prese a scorrere sullo schermo da trentuno pollici. Il Conte mimò qualche battuta di Brad Pitt, recitandole a memoria, poi bevette un altro sorso di birra australiana. Eh, sì, dopo una lunga giornata nelle miniere di sale era ora di concedersi un po' di meritato riposo. A patto di riprendersi in tempo per andare al Fletcher's, dove suonavano i Death On Two Legs, una nuova band che lo interessava parecchio. Avrebbe dato un'occhiata alle ragazze, calato un po' di Ecstasy... scambiato qualche chiacchiera in compagnia... E forse avrebbe trovato una femmina ben disposta (il suo obiettivo personale: un autentico splendore di ragazza ritratta nel sito web Ragazza Goth della settimana) da portarsi nella tana, con cui guardare i trailer di sessanta film dell'orrore e abbandonarsi a un po' di sesso sfrenato. Ragazzi, che prospettiva perfetta per una serata! Cullato dall'inquietante colonna sonora del video vampiresco, il Conte si sentì pervadere dalla spossatezza, che aveva trovato nella birra un'alleata. Non era niente male dormire, ma tutto sommato avrebbe preferito farlo di giorno. La notte, a suo modo di vedere, era sempre stata gravida di molte
altre possibilità. Prendendo sonno sognò di volare sul dorso di un gigantesco uccello nero. La creatura scendeva in picchiata e volteggiava sopra tenitori avvolti nella nebbia e punteggiati da misteriosi castelli, sovrastati da arcobaleni. Lampi e fulmini si scatenavano accompagnati da musica heavy metal in oscure caverne. Che storia, pensò. Incredibile. I sogni erano una figata. Anche quelli brutti. Forse soprattutto quelli brutti. «Dopotutto», mormorò nel dormiveglia, cominciando a destarsi, «senza i sogni sarei disoccupato.» Allungò stancamente un braccio verso la lattina di Fosters per aiutarsi a rimettere in moto i neuroni. La mano si richiuse sul vuoto, dove avrebbe dovuto esserci la lattina. «Ma che diavolo...» esclamò, poggiando i piedi a terra con i sensi ancora annebbiati. «Cercavi questa?» domandò una voce. Una figura scura fece un passo in avanti e gli premette la lattina nella mano. «Te ne ho presa una fresca, Conte. La birra calda non va bene quando ci si sta riprendendo da una pennichella.» C'è qualcuno in casa... Ma chi? Il Conte alzò gli occhi dal suo giaciglio sul divano. La figura sembrò danzare evanescente davanti a lui. La luce proveniente dalla sala da pranzo scontornava la figura, ma la testa sembrava circondata da un'aureola di totale oscurità. Da qualche parte (forse dal piano di sopra?) giunse il rumore di un battito di ali. Lo scatto metallico di un cane. Tutti gli ingranaggi si rimisero in moto e si scosse dal torpore. «Ehi, amico. Non c'è molto da rubare qui. Ho un po' di soldi in tasca... il mio televisore, e...» Si voltò verso l'angolo dell'intrattenimento e lo indicò. Dove prima aveva troneggiato un Sony XBR da trentuno pollici nuovo di zecca, ora c'era solo un vuoto. «Cristo! L'hai già preso!» Fece per alzarsi.
La figura si chinò in avanti. Gli infilò la canna di una Heckler e Koch HK-4 in una narice. Il Conte si lasciò ricadere sul divano. Riconobbe la pistola. Era la sua. «Merda. A quanto pare hai in mano tutta la situazione. Immagino che ora ti prenderai tutto quello che vuoi, no?» «So esattamente quello che voglio, signor Henneman. Ti chiami così, non è vero, Conte? Richard Mark Henneman.» La voce dell'uomo era rauca e aspra, stranamente sbagliata... come una voce prodotta con effetti speciali, alterata di registro, a comunicare rabbia attraverso i denti stretti. «Sì. Sì, sono io.» La canna della pistola era fredda e pesante all'interno del suo naso. E faceva un male d'inferno. «Ascolta, mi dispiace essere d'impiccio. Prendi quello che vuoi, okay? Non mi interessa. Ma non mi sparare.» «No?» «No! Sarebbe... davvero una sciocchezza.» «Dici?» «Che stai cercando di fare? Qualche giochetto psicologico? Ti ho detto di prendere quello che ti interessa. Se vuoi ti faccio vedere dov'è tutta la roba, okay? Ma toglimi la pistola dal naso!» La pistola si ritrasse. La figura fece un passo indietro. Apparentemente si trattava di un uomo con indosso un cappotto nero, ma nell'indietreggiare una parte dell'oscurità che gli avvolgeva il volto sembrò dissiparsi. Era un uomo di una certa età, con la pelle stanca e tirata. Portava un paio di occhiali scuri. Stava forse venendo rapinato da un pensionato? Magnifico! «Stammi a sentire, nonno. Ti prometto di collaborare. Puoi anche prenderti la pistola. Mi è costata un occhio della testa, credimi...» E vorrei tanto averla tenuta sempre addosso... A quest'ora pezzi della tua testa sarebbero sparsi per tutto il soggiorno... Non era realmente capace di sparare, ma quel pensiero lo rallegrò e contribuì a tenere sotto controllo la sua paura. Mick Prince lo aveva accompagnato a comprare la pistola e gli avrebbe mostrato come usarla. Mick stava mostrando al Conte un sacco di cose nuove e interessanti.
Quanto desiderava che Mick fosse lì con lui in quel momento. Lui avrebbe saputo come comportarsi. «Tu non hai idea di chi sono io!» gridò l'uomo. «Non hai idea!» Senza alcun preavviso l'uomo spazzò il tavolino con la mano in cui impugnava la pistola, gettando a terra i libri, le videocassette e la scatola contenente il necessario per la droga. Gli oggetti attraversarono in volo la stanza. Due bicchieri si infransero contro la parete di fronte. Per essere un vegliardo ne aveva di forza, quel tipo! Istintivamente, il Conte si raggomitolò. Prese a scalciare sul divano nel tentativo di allontanarsi dall'uomo e mettersi al sicuro. Con sorprendente velocità l'Uomo delle tenebre protese un braccio e lo afferrò per la maglietta con la mano libera. Trascinò poi il Conte sul tavolino da caffè e ve lo sbatté violentemente sopra. Il Conte era stordito al punto da percepire appena i movimenti successivi dell'Uomo delle tenebre. Tentò di alzarsi, ma ben presto si rese conto di essere stato legato. Era trattenuto da una serie di cinghie di cuoio. Era in grado di muovere solo la testa, le mani e i piedi, ma non di molto. «Merda! E ora come faccio a indicarti dov'è la roba?» si lamentò, per nulla felice di come si mettevano le cose, prendendo coscienza lentamente della realtà. «So esattamente quello che voglio e so dov'è», ribatté l'Uomo delle tenebre. «Ma ora ho bisogno di alcune cose che posso ottenere solo dal tuo cervello.» «Eh? Che vuoi dire? Informazioni? Cristo...» Lo sconosciuto appariva oscuro ed evanescente in ogni sua parte. Ceri rituali erano stati accesi e disposti in tutta la stanza, ma in alto, all'altezza del soffitto, regnava il buio. Il Conte avvertì una forma, una presenza lassù in alto, per certi versi sgraziata, ma enorme e minacciosa. Per un attimo l'Uomo delle tenebre rimase in silenzio, forse per consentire alla miccia del terrore di accendersi nel cuore del prigioniero. Poi si inginocchiò accanto a lui. «Ora ho dei poteri... poteri strani... percepisco cose come non ero mai stato in grado di fare prima... cose a proposito della vita», affermò in un solenne sussurro. «Cose a proposito della vita, signor Henneman. Io percepisco, signor Henneman... Conte Mishka... che oltre i peccati e le piccole atrocità che hai già tessuto nel cosmo, nel tuo destino ci sono mali più grandi. Immagina, Conte... Immagina, per esempio, se in Joseph Goebbels
del Terzo Reich fosse stato riconosciuto per tempo il criminale che sarebbe divenuto. Il mondo sarebbe stato migliore se la sua esistenza fosse stata recisa. Le forbici del fato sono sempre in funzione, Conte. Ma troppo spesso agiscono con eccessivo ritardo per il mondo. Sto prendendo seriamente in considerazione di aiutare quelle forbici ad agire, stasera.» L'Uomo delle tenebre tirò fuori delle cesoie di grandi dimensioni e le lame fresche di affilatura brillarono alla luce danzante delle candele. «Gesù! Che cosa vuoi fare con quelle?» ansimò il Conte. «Guarda, ti ho detto che...» «Tu non hai idea di chi sono io, vero?» domandò l'Uomo delle tenebre. «Lascia che ti informi.» Si avvicinò. «Io sono il dottor Phibes, signore Henneman. Sono l'attore shakespeariano calunniato dell'Oscar insanguinato di Vincent Price. Sono Peter Cushing in Racconti dalla tomba. Sono Claude Rains nel Fantasma dell'Opera. Potrei continuare, Conte. Mi capisci ora che parlo il tuo gergo cinematografico?» «Che cosa stai... Io non... non... Stai vaneggiando!» squittì il Conte. Le cesoie si misero in azione. L'Uomo delle tenebre si mise in ginocchio al suo fianco e si tolse gli occhiali scuri. Il bagliore delle candele veniva riflesso dalla sua pelle grigia e squamosa. Il Conte avvertì un lieve puzzo di putrefazione. Guardò in quegli occhi e vide qualcosa che gli sembrò di ricordare. Qualcosa che era accaduto pochi mesi prima. Poi li riconobbe, quegli occhi. Aprì la bocca per parlare, o almeno urlare, ma non riuscì a emettere alcun suono. Oh, Dio, oh, Dio, oh, Dio... «Vedo la scintilla del riconoscimento nei tuoi occhi, Richard», osservò l'Uomo delle tenebre. Tornò lentamente a inforcare gli occhiali scuri, poi si alzò in piedi. «Questo mi fa bene all'anima. Penso che forse potrà scaturire qualcosa di buono dalla mia morte. Ed è per questo che mi trovo qui. Vedi, non si tratta solo di vendetta. Né solo di redenzione. Sono qui per il bene delle generazioni future!» Ancora paralizzato per l'orrore e incredulo, il Conte guardò l'Uomo delle tenebre togliersi qualcosa di tasca. Era il telecomando del suo televisore... Ma che diavolo voleva fare con?... Clic, clic. La forma sgraziata la cui presenza era stata avvertita dal Conte nel buio nei pressi del soffitto improvvisamente si accese.
Era il suo enorme televisore Sony XBR, chissà come agganciato per i cavi dell'antenna e dell'alimentazione all'attacco del lampadario sul soffitto. In splendido technicolor, il Van Helsing interpretato da Peter Cushing impugnava un picchetto di legno, scuotendo furiosamente i capelli mentre lottava con il Dracula Christopher Lee. Il gigantesco televisore era sospeso due metri sopra la testa di Richard Henneman. L'Uomo delle tenebre cominciò a recitare. «'Ora osservai, inutile dire con quale orrore, che la sua estremità inferiore consisteva in una mezzaluna di acciaio splendente, lunga circa un piede da corno a corno; questi erano rivolti verso l'alto e la lama inferiore appariva affilata come quella di un rasoio. E come un rasoio sembrava massiccia e pesante, assottigliandosi dalla lama e saldandosi in una solida e ampia struttura in alto. Era sospesa a una pesante barra di ottone, e tutto l'insieme sibilava mentre oscillava nell'aria.' «È l'ora del quiz, signor Henneman. Da dove è tratta questa citazione?» «Io... non... lo so...» riuscì a bofonchiare il Conte, terrorizzato. «Forse dovrei affrontare la materia attraverso il mezzo di comunicazione a te più familiare.» Improvvisamente balenarono sullo schermo scene tratte da un film che il Conte conosceva. Vincent Price con indosso una cappa. Scalini di pietra, una segreta... Una donna dal seno prosperoso... Poi il protagonista di Millennium (grande serie!), anche lui avvolto in una cappa. Una segreta. Una donna dal seno prosperoso, nuda... «Il pozzo...» disse. «Il pozzo e il pendolo.» «Risposta esatta, Conte», si complimentò l'Uomo delle tenebre. Sollevò verso l'alto le cesoie e impresse una forte spinta al televisore. Cominciò a oscillare avanti e indietro, avanti e indietro. La luce produceva un effetto stroboscopico. «Ci fu la memorabile interpretazione di Roger Corman... seguita dalla versione più recente di Stuart Gordon», informò l'Uomo delle tenebre. «E certamente ricorderai la vivida citazione del racconto da parte di Dario Argento qualche anno fa.» Avanti e indietro. Avanti e indietro. Luce stroboscopica sulla pelle secca e incartapecorita dell'Uomo delle tenebre, riflessa dalle lenti dei suoi occhiali. «Che cos'è questa storia?» domandò gridando il Conte. «Baxter! Che
scherzi sono? Baxter? Tutto questo è frutto del tuo senso dell'umorismo malato e distorto?» Il televisore oscillava avanti e indietro, sospinto dalle cesoie dell'Uomo delle tenebre. Avanti e indietro. Luce stroboscopica. Il poderoso tubo catodico sparava sullo schermo scene di film, sgargianti sequenze da La notte dei morti viventi, vecchi film dell'orrore della Universal, film degli anni Cinquanta con mostri per protagonisti, film splatter degli anni Ottanta, film di Stephen King, film dimenticati che il Conte aveva acquistato da Sinister Cinema e da Video Search a Miami, dopo aver letto le recensioni in Video Watchdog... Avanti e indietro, oscillavano le immagini. Luce stroboscopica. «Che arcobaleno di delizia, Conte! Dolore e sangue e orrore in confezioni da novanta minuti! Una forma di divertimento piuttosto decadente, non trovi? Ma certo non divertente quanto partecipare alla melodrammatica scena di morte che ho preparato. Non divertente quanto saltare sul carro del mio patrimonio, diretto a gran carriera verso l'inferno commerciale.» «Basta!» implorò il Conte. «Finiscila adesso!» «Forse. Forse ti lascerò andare, se mi riveli dovo sono gli altri tuoi nobili amici. Il... Marchese, credo si chiami, no?» «Al Cross Club», non si fece pregare il Conte. «Sì. In questi giorni della settimana solitamente bazzica da quelle parti.» «Grazie.» Tuttavia, l'Uomo delle tenebre che sosteneva di essere William Blessing, risorto dalla tomba, non liberò il Conte dai legacci che lo immobilizzavano. «Mmm. Vedo che collezioni anche questi autentici modelli di cultura... i fumetti.» L'Uomo delle tenebre zoppicò in direzione di una libreria e ne afferrò un po'. Avanti e indietro... Il Sony oscillava sibilando sopra la sua testa. «Guarda, guarda. The Sandman di Neil Gaiman.» Tornò zoppicante sui suoi passi e gettò la pila di fumetti sul petto del Conte. «Tutte queste edizioni sono incentrate su quell'inafferrabile invito al carcere che si chiama Morte. Voglio stringere un patto con te, Conte. Tu mi spieghi esattamente che cosa vorrebbero significare questi fumetti e io ti lascio libero.»
«Che vuoi dire?» «Ai miei occhi è evidente, ma del resto io sono un professore di lingua e letteratura. Ascoltando il giudizio di un vero appassionato del genere potrò forse cogliere qualche sfumatura che mi era sfuggita, non credi?» Sul volto del Conte era apparsa un'espressione inorridita. Come poteva rispondere a domande da quiz con un televisore di quarantacinque chili che gli ballava sopra la testa come la palla d'acciaio per la demolizione? «Sandman è... ehm, una specie di principe dei sogni... e va e viene attraverso scene mitologiche... ed è un tipo... come dire... in gamba, profondo... e...» «No. Sapevo che non saresti stato in grado di spiegarmelo», sentenziò l'Uomo delle tenebre con una lieve nota di tristezza nella voce. «Che senso ha collezionare qualcosa se non ti prendi neppure la briga di comprendere di che si tratta? È una 'figata' semplicemente perché piace agli altri o perché piace a te? Capisci quello che intendo, no? Be', comunque sia, ben presto lo capirai perfettamente.» L'Uomo delle tenebre si allungò verso l'alto e tagliò i cavi del televisore con un solo movimento delle pesanti cesoie. Ciac. Il televisore stereo Sony XBR da trentuno pollici piombò verso il basso, interrompendo il moto pendolare, con innaturale velocità, come se fosse stato scagliato da un'altezza molto maggiore. L'Uomo delle tenebre lo guardò cadere. Non provava gioia, né soddisfazione. Ma neppure dispiacere o rammarico. Lo spigolo del televisore si abbatté come un'incudine su una mela sul volto dell'uomo legato, riducendolo in poltiglia (spargendo dappertutto schizzi di sangue e frammenti di cervello) prima di ricadere su un lato del tavolino e fracassare anche quello. Con un forte rumore di legno spezzato, simile a quello di un melone che si spappola, il televisore schiacciò a terra un lato del tavolino spostando verso l'alto quello opposto, che come un colpo di frusta dilaniò ulteriormente il corpo della vittima, spezzandolo. Schegge di vetro vennero proiettate in ogni direzione, colpendo in più punti le gambe dell'Uomo delle tenebre. Le schegge gli lacerarono la carne, ma lui registrò appena il dolore. Scintille elettriche esplosero dal televisore e, per un attimo, dai cavi recisi. I rottami e i resti umani vennero avvolti dal fumo. Poi, con uno scoppiettio, la corrente elettrica si interruppe.
I piedi del Conte furono scossi da uno spasmo, poi rimasero immobili. L'Uomo delle tenebre stette in piedi in silenzio per qualche istante. Da una tasca interna della giacca estrasse una penna nera. Era la penna di un corvo. La infilò in una mano del Conte. «Ora vola verso le tenebre, mio nemico», disse l'Uomo delle tenebre. «Vola verso un luogo che non conosciamo, né io, né tu.» Poi si voltò e si allontanò in direzione del prossimo compito... ... mentre nella sua mente si affollavano i ricordi. ... il primo proiettile gli penetra nel petto. L'impatto è tremendo, la pallottola attraversa la pelle, straziando costole, il polmone destro, vene, arterie, esplodendo poi fuori dalla camicia e dal maglione di cashmere. È come se un demone ghignante lo avesse trafitto con un attizzatoio incandescente, ustionandolo e provocandogli un dolore lancinante... Ma il demone porta sul volto la maschera contorta di un folle dallo sguardo selvaggio, tendendo davanti a sé un'enorme pistola. L'Uomo delle tenebre camminava per le strade della notte, le strade di Baltimora, diretto al prossimo appuntamento. Quegli uomini lo avevano ucciso, avevano distrutto tutto quello che in vita gli era stato più caro. Ora toccava a loro morire. L'Uomo delle tenebre percorse le strade di Fells Point. ... assillato dai ricordi... ... Amy! Oh, Dio mio! Amy! Non fate male a Amy! ... Ladri! Pazzi! Assassini! Aiuto! Gesù! Aiuto! Viene scagliato, agonizzante, contro la libreria. Volumi antichi e preziosi cadono a terra. L'odore di pergamena e di carta invecchiata, l'odore di cera misto a quello di sangue appena versato. L'immagine dell'aggressore gli si imprime a fuoco nella mente, ogni più piccola contrazione dei muscoli facciali, ogni dettaglio dei pori e della curva del naso. Le labbra dure e sottili. Le sopracciglia folte e arricciate. Gli occhi di granito. Gli unti capelli neri, legati in un codino sulla nuca da un anello di osso... E, guardando con la coda dell'occhio, l'immagine dell'altro aggressore, che ha immobilizzato sua moglie. Un muscoloso gorilla d'uomo con i capelli a spazzola, l'arcata sopracciliare sporgente, senza mento, uno sguardo lussurioso negli occhi porcini.
Tenta di rialzarsi, cercando con le mani un appiglio sugli scaffali della libreria, deciso a continuare a lottare, un unico pensiero nella mente: «Devo salvare Amy, salvare la collezione...» Poi l'uomo con la pistola gli rivolge un ghigno sprezzante... ... e lui ha la certezza, nel profondo dell'animo, che non sarà possibile. L'Uomo delle tenebre percorreva le strade di Baltimora, la sua casa. Baltimora, nel Maryland. Era nato in città e lì era cresciuto permeandosi della sua storia e delle sue promesse. Ora sentiva l'odore delle acque dell'Inner Harbor, il molo poco più a sud. Baltimora, che sorgeva sull'estuario del fiume Patapsco nella baia di Chesapeake. La più grande città del Maryland e uno dei porti naturali più grandi del mondo. Una città caratterizzata dalla crescita economica americana, dall'architettura americana, dal retaggio culturale americano. Ora, mentre camminava, riusciva quasi ad assaporare nell'aria, tra i cattivi odori e l'umidità, il granchio azzurro al vapore, la birra fredda e a buon mercato, le ricche spezie della baia. Baltimora. Un buon posto per morire. Ma non per riposare... Non ancora. L'Uomo delle tenebre camminò attraverso gli oscuri meandri di Little Italy... ... assillato dai ricordi... L'arma esplode un secondo colpo e l'impressione comunicatagli dai suoi sensi acuiti dal dolore è che la pallottola fuoriesca dalla canna, in un'aureola di fuoco, al rallentatore. Avverte il suo tentativo di negare quanto sta accadendo, di gridare «No!» di fare ricorso a qualche sorta di potere interiore per respingere il piombo che sta sfrecciando nella sua direzione. Quando arriva a destinazione la forza brutale dell'impatto lo scaraventa contro la base della libreria dov'era finito dopo il primo colpo. La pallottola affonda nell'addome, forando e dilaniando la camicia già inzuppata di sangue, una sega circolare di potere allo stato puro, impegnata a devastare la sua carne e la sua vita con totale abbandono, sputando fuori pezzi del suo corpo che ricadono sanguinolenti sul pavimento. La sente farsi strada dentro di lui, tranciargli il plesso solare e gli organi interni con folle indifferenza, masticando ciò che rimane della sua vita per poi sputarlo fuori. Il suo aggressore sta dicendo qualcosa, ma non può più sentirlo. Si ren-
de conto che l'aggressore ha parlato tutto il tempo, rivolgendogli accuse, ma lui non le ha registrate... non le ha recepite. Tutti i suoi pensieri sono rivolti a Amy, a sua moglie, al suo amore... E alla sua sensazione di impotenza, a quanto si sente consumato dal dolore. Sangue sangue sangue... Ricade a terra in un bagno di sangue, la coscienza annegata in un lago di sangue. Affonda nel sangue denso e scuro della perdita di conoscenza aggrappandosi a un unico pensiero: Amy. L'Uomo delle tenebre camminava lungo le strade di Baltimora. Passò accanto ai muri nuovi e puliti di Harborplace, oltre l'acquario e gli alberghi con le luci scintillanti, oltre il riflesso della luna nelle finestre degli edifici per uffici. Ma non è morto. ... Non ancora. Riesce a sfuggire all'oscurità, indietro, per salvare Amy, per salvare la collezione, per salvare... salvare... Apre gli occhi e si lascia sfuggire un lamento... È costretto a guardare negli occhi l'orrore più grande di ogni altro... L'Uomo delle tenebre camminava in direzione del Cross Club. Avvertì un battito di ali, guardò verso l'alto e vide una forma oscura che volava lungo i canyon della città, sopra le automobili e l'animazione della vita notturna. La seguì. E mentre seguiva il corvo l'Uomo delle tenebre ricordò il suo sogno. Il suo sogno di Edgar Allan Poe. 1 Prego Dio che possa giacere Per sempre con occhi chiusi... Nel profondo della foresta, buia e fredda, Possa per lei aprirsi un alto sepolcro Una tomba, che spesso ha spalancato le sue nere E vampiresche ali di pietra Svolazzando trionfante sopra i paramenti funebri Dei suoi vecchi funerali di famiglia.
EDGAR A. POE, Al cuore benevolo, «Irene» 8 dicembre, 1811 Nella foresta sotto il cielo d'inverno c'era un uccello. «William», aveva chiamato Edgar. «William! Un uccello!» Un uccello di grandi dimensioni. Un uccello nero. Nero come i tenebrosi scantinati sotto il teatro dove lui e William giocavano mentre la mamma era impegnata nelle prove. Nero come la notte quando nella pensione tutte le candele si spegnevano e le nuvole come un gigantesco paio d'ali oscuravano le stelle e la luna. Nero come l'abito indossato il giorno prima dal cupo medico quando era venuto a visitare la mamma. «Dove?» Nel portico suo fratello William si alzò dal punto in cui era seduto. «Là! sull'albero...» Ma nel punto indicato da Edgar c'erano adesso solo rami. Rami scheletrici, memorie irrigidite di alberi un tempo carichi di foglie verdi, di frutti e di vita, ma ora spogli nel freddo dicembrino. «Io non vedo alcun uccello, Edgar», disse William, che aveva continuato a giocare ai soldatini escludendo Edgar dal gioco. Ora Edgar si trovava accanto a una finestra. Con lui nella stanza c'erano l'infermiera, con la piccola Rosalie, che aveva un anno, e un gruppetto di amici di famiglia, perlopiù gente di teatro, raccolti attorno al letto. William, il volto privo di espressione, si aggrappava a una donna che aveva trascorso tutta la notte al capezzale della mamma. Edgar sedeva vicino alla finestra, stropicciandosi le mani e fissando gli alberi all'esterno. Il grande volatile lo affascinava. Con il suo vibrante gracchiare e il suo occhio consapevole, il becco affilato e i potenti artigli, appariva al tempo stesso estremamente strano eppure perfettamente in sintonia con il contesto. Come se potesse fornire la misteriosa risposta a un enigma. Continuò a cercare con lo sguardo l'uccello perché le parole degli adulti presenti nella stanza lo inquietavano, benché non ne comprendesse esattamente il significato, e questo non solo perché venivano sussurrate. «Non potrà resistere ancora a lungo.»
«Che cosa ne sarà dei poveri bambini?» «Io non potrò certo aiutarli! Ne ho già abbastanza di miei da accudire!» «Dovranno essere separati. Che peccato. Danno l'impressione di volersi così bene!» «Povera donna. Che talento! Una voce da usignolo. Credo che ora canterà per Gesù in persona.» «Andrà certamente in un posto migliore di questo.» La mamma che andava da qualche parte? Ma com'era possibile? si era domandato Edgar. Indossava la camicia da notte ed era a letto, ben infilata sotto le coperte. No, gli adulti si sbagliavano: anche se aveva solo tre anni sapeva perfettamente che prima di andare da qualche parte bisognava vestirsi... o comunque alzarsi dal letto. Ma ormai erano giorni e giorni che la mamma riposava nel letto... Certo, non era proprio da lei. La mamma era quasi sempre in piedi. Mamma era un'attrice. Un'attrice famosa, affermava William. «Ha calpestato le assi dei palcoscenici da Richmond a Boston!» aveva declamato una volta il fratello di cinque anni, assumendo una posa melodrammatica. «Signori, con la sua voce melodiosa ha conquistato anche i freddi cuori degli abitanti di New York e di Filadelfia. È semplicemente la più grande attrice e cantante di tutti i tempi.» Edgar sapeva bene che la madre era la creatura più splendida di tutto il mondo. Ma sua mamma era la donna che lo prendeva in braccio, gli infilava il cappottino, gli allacciava le stringhe e lo consolava quando cadeva e si sbucciava un ginocchio. La donna che si truccava il viso, indossava vestiti ornati svolazzanti e cantava in Time Tells a Tale, o che piangeva e si disperava nei melodrammi Tekeli o The Siege of Montgatz, gli sembrava invece una persona quasi sconosciuta... ma comunque meravigliosa. Un fremito d'ala... Una chiazza nera in movimento... Eccolo... appena sopra l'orizzonte di quella lugubre domenica mattina. Che cos'era quello strano uccello? «Mi domando se suo marito è al corrente che è malata.» «Quel mascalzone! David Poe! Nessuno ha sue notizie. Ha abbandonato la famiglia l'anno scorso, quell'ubriacone.» «Un pessimo padre.» Edgar ricordava appena il padre. Nel suo profondo serbava qualche memoria. Nel suo profondo serbava anche qualche sentimento. Tuttavia, in quel momento ciò che più gli stava a cuore non erano i sussurri delle
persone che ronzavano attorno al letto della mamma, bensì la possibilità di cogliere una fugace immagine di quell'oscuro emissario in forma di uccello. Dov'era finito? «Edgar? Edgar, vieni qui caro. La tua cara mamma desidera parlare con tutti i suoi figli.» Edgar riconobbe la voce. Era quella di Fanny Allan, che tanto si era adoprata per la sua famiglia. Fanny gli piaceva molto. Era una signora dolce. Suo marito John, al contrario, era severo, sprezzante e spaventoso. Edgar non era sicuro che John Allan gli piacesse. «Sto cercando l'uccello!» rispose Edgar. «So che è lì fuori!» «Lo cercherai dopo, caro», insistette Fanny. «Tua mamma vuole parlarti immediatamente.» Edgar sospirò. Scese dalla sedia accanto alla finestra e si avvicinò al letto. William era già lì, triste e confuso, e stringeva la mano della mamma nelle sue. Un'altra donna teneva in braccio Rosalie, la sorellina di Edgar, che fissava la mamma con grandi occhi scuri senza emettere alcun suono. Edgar si portò sul lato del letto e vi si appoggiò contro. «Edgar?» chiamò una voce fioca e incerta. «Edgar, sei tu?» «Sì, mamma.» La sua voce era strana. Mamma aveva una voce molto femminile, ma era anche la voce potente di una soprano. La voce che aveva appena ascoltato non era che lo spettro di quella della mamma, e sembrava uscirle a fatica dalla gola, come se avesse dovuto attraversare una barriera di dolore. Con un rantolo, William Blessing si destò. Era sudato e ansimava. Le lenzuola erano madide di sudore. «Oh, caro», lo consolò con voce sonnacchiosa la moglie Amy, girandosi per appoggiargli una mano sulla spalla in un gesto di conforto. «Hai fatto di nuovo quel terribile sogno su Poe?» «Sì», ammise William Blessing. «Di nuovo quel sogno. Quel sogno con il corvo...» «Forse dovresti scrivere un bel romanzo d'amore, la prossima volta», sussurrò lei. 2 Gaiamente abbigliato,
Un galante cavaliere, Con la luce e con le ombre Da lungo tempo ormai viaggiava, Cantando una canzone In cerca dell'Eldorado. EDGAR A. POE, «Eldorado» Mick Prince aprì la porta. I vapori dell'alcol e i fumi della droga si riversarono nel corridoio, seguiti dal puzzo di cibo rancido e di vomito. Le veneziane abbassate, in pessimo stato, lasciavano filtrare il mattino consentendogli di posarsi sui corpi inerti, ancora sotto gli effetti della notte. Erano riversi sul sudicio tappeto del soggiorno e sul divano strappato in più punti, in stato semicomatoso nonostante il baccano infernale che risonava attorno a loro. L'uomo dal fisico imponente e con indosso un lungo cappotto afferrò il più vicino dei ragazzi per l'orecchio, lo tirò su e gli infilò la canna della pistola semiautomatica nella bocca. «Grimsley», ringhiò Mick Prince. «Dov'è?» Un filo di bava aveva cominciato a scorrere dall'angolo della bocca del ragazzo. Ora aveva gli occhi sgranati e prese a tossire, soffocato. L'uomo con il lungo cappotto nero gli tolse la pistola dalla bocca per permettergli di parlare. «Non lo so», disse il ragazzo, che emanava ora un fetore di sudore misto a urina. Mick tornò ad affondare la canna, spezzandogli un dente. «Pensaci bene.» Cominciarono a scorrere lacrime e sangue. «Nel bagno», balbettò. «Penso di averlo visto andare in bagno.» Mick udì lo scatto metallico di un'arma. Non perse tempo per controllare di che cosa si trattava voltandosi nella direzione del rumore: con un riflesso automatico orientò e livellò la pistola, premette il grilletto e sparò una raffica. I primi proiettili colpirono un ragazzo bianco con i capelli lunghi addormentato sul divano, che si svegliò di soprassalto giusto in tempo per morire, il petto devastato da due pallottole che ne fecero schizzare via ammassi sanguinolenti di carne e pelle grandi quanto pugni. Mick proseguì il movimento facendo risalire la raffica verso l'alto, falciando il pistolero
che aveva estratto l'arma. Due dei colpi non andarono a segno, rompendo un gong di plastica e scheggiando la superficie del tavolo sul quale poggiava. Il terzo si schiantò nel cranio dell'uomo di colore, praticandoci un foro perfettamente circolare e facendone schizzare fuori cervello e sangue. La mano che impugnava la pistola ebbe uno scatto e sparò un paio di pallottole nella parete, formando nuvolette di intonaco polverizzato. Gli altri tre drogati si svegliarono tra scatole per pizza marcescenti, cannucce per coca e siringhe abbandonate, avvolti in una fine nebbiolina di sangue e ossa che ricadeva attraverso l'aria carica di cordite. Uno di loro portava una fondina ascellare dalla quale spuntava il calcio di una pistola. Gli altri sembravano disarmati. Non che importasse. L'uomo con il lungo cappotto nero riorientò l'arma. Mick Prince ricordò di aver letto la ricostuzione storica dell'attacco delle forze cattoliche contro la città nella quale si erano rifugiati gli eretici catari. Alla richiesta di ordini in merito all'opportunità di mostrare pietà nei confronti di alcuni componenti della setta, l'erede di san Pietro aveva risposto: «Uccideteli tutti. Sarà Dio a riconoscere i giusti tra loro». Quel papa non era solo saggio, pensò Mick Prince. Era anche un pontefice estremamente pratico. Con collaudata facilità l'uomo svuotò il resto del caricatore contro i tre ancora in vita. Le vittime morirono spruzzando sangue, dimenandosi e scossi da spasmi come se ganci invisibili fossero stati calati dall'alto a trafiggerli per farne marionette spastiche. Quando il caricatore fu vuoto e la pistola quasi incandescente, una nube di fumo rimase sospesa sopra i corpi senza vita come incenso, e le pareti, il soffitto e il pavimento apparivano riverniciati di un cremisi umido e scioccante. Senza sostare un secondo, il messaggero di morte affondò la mano in una delle tasche del cappotto e ne estrasse un nuovo caricatore, che sostituì a quello vuoto. Era stato assoldato per uccidere il capo di quel gruppo, e per quanto i suoi mandanti sarebbero indubbiamente rimasti entusiasti della carneficina e del terrore che avrebbe provocato tra i capi delle gang e i signori della droga, non aveva ancora portato a termine la sua missione. A grandi falcate Mick Prince si trasferì nel locale attiguo, eretto e determinato, cercando il bagno. Mick aveva trascorso buona parte della sua vita in istituti di ogni genere. Ciascuno degli istituti era fornito di una biblioteca. E lui ne aveva letto il contenuto, perlopiù volumi tascabili. Se fosse stato un appassionato di ci-
nema, si sarebbe identificato con Clint Eastwood, il mercenario dal volto privo di espressione e gli occhi di ghiaccio, intento a compiere il suo dovere nel selvaggio West. Tuttavia, preferiva considerarsi una sorta di moderno Parker, il protagonista dei gialli scritti da Donald E. Westlake con lo pseudonimo di Richard Stark. Parker, il freddo e spietato professionista privo di scrupoli, elegante, rapido e letale. Ecco Parker che si muove nella struttura di una prosa semplice e diretta, pensò Mick Prince. Moderno e alla moda, protagonista di una scorreria noir pre-Quentin Tarantino, impegnato a guadagnare il denaro necessario per concedersi qualche mese di vacanza e inseguire un sogno postmoderno. Ecco Parker nella versione aggiornata. Sicario, professionista del crimine... Scrittore! Impegnato a guadagnare il denaro sufficiente per isolarsi da qualche parte con il taccuino e il computer, per scrivere taglienti racconti di puro, sfrenato orrore. Parker uccideva, ma non era un killer professionista. Mick Prince, invece, lo era. Lavorava soprattutto nell'ambiente degli spacciatori di droga, caratterizzato dalla grande disponibilità di denaro. Quando fosse diventato uno scrittore ricco e famoso avrebbe forse fatto un lavoretto ogni tanto, giusto per tenersi in allenamento. Ma intendeva smettere di farlo come professione il più presto possibile. Mick Prince si domandò quale sarebbe stata la reazione del suo insegnante della Writer's Digest School al suo ultimo pezzo. Il racconto soffriva di problemi strutturali, temeva, e forse andava accorciato. Il fatto che si trattava di un racconto horror certo non aiutava, considerata l'attuale situazione del mercato editoriale: così avrebbe certamente affermato l'insegnante di Pittsburgh. Ma da qualche tempo Mick non riusciva a scrivere altro. Oltrepassò una cucina in sfacelo che puzzava di muffa da frigorifero. Avanzando lungo il corridoio, il fetore si mescolò a quello proveniente dal bagno. Si stava avvicinando. Da sotto una porta chiusa si allargava nel corridoio una pozza d'acqua. Tutti i locali adiacenti sembravano vuoti e le finestre erano chiuse. Grimsley doveva aver scelto il bagno per arroccarsi. Il moderno Parker avanza, implacabile e meccanico, lungo i corridoi, un nuovo uomo post-nietzschiano. È il detenuto che ha letto più libri nella
sua prigione, è in grado di citare per capitoli e capoversi filosofi, poeti e scrittori pulp. Tuttavia, in quel momento zen, ogni cosa è dimenticata. È tutt'uno con la sua metaforica spada-pistola, tutt'uno con la sua missione. Il moderno Parker, sofisticato samurai. Guerriero da strada. La sua mente acuita è sintonizzata sull'Adesso e si prepara al futuro. Il feroce nemico è in agguato. Alzando la pistola, pronto a fare fuoco, Mick Prince trasse una serie di lunghi e silenziosi respiri, come se stesse recitando un mantra. Poi, come un esperto di arti marziali al cospetto del pubblico, alzò uno degli scarponi con la suola metallica e sferrò un calcio nel punto esatto di congiunzione tra la maniglia e lo stipite della porta. La fragile barriera di legno si aprì, scheggiandosi. Un secondo calcio la spalancò, mandandola a sbattere contro la parete di fianco. Mick Prince puntò immediatamente la pistola, pronta a sparare una breve raffica di proiettili. Ma qualcosa lo bloccò. Il pavimento del bagno era rivestito di piastrelle bianche e nere, come andava di moda un tempo, e la metà erano spaccate o sollevate. Le pareti erano coperte di graffiti, lo specchio dell'armadietto dei medicinali da tempo rotto e le tubature spaccate e arrugginite. Una finestrella stretta, senza tendina, aveva il vetro rotto ed era aperta a metà. Sulla tazza di porcellana scheggiata sedeva un uomo con indosso una maglietta strappata. Aveva i boxer abbassati e raccolti attorno alle caviglie. Era riverso all'indietro, gli occhi socchiusi. Un laccio di gomma gli stringeva il braccio sinistro. L'ago di una siringa ipodermica spuntava dall'incavo del gomito. Il braccio era blu. Un filo di bava scorreva dalle labbra dell'uomo. Respirava a fatica, ma era vivo. Non era armato. Mick Prince lo riconobbe dalla fotografia che gli era stata consegnata. Era Grimsley. L'odore nel locale era insopportabile. Un improvviso, inatteso presagio pervase l'uomo con il lungo cappotto. C'era il sentore di qualcosa in quel luogo. Qualcosa che nasceva dagli incubi più tremendi nelle celle più nascoste delle carceri. L'Altro. Era stato lì.
L'uomo sul water alzò la testa. Le sue palpebre erano così spalancate da scomparire, e la pelle del volto si contrasse al punto che Mick Prince ebbe l'impressione di fissare un teschio vivente con occhi esorbitanti. «Mick», disse l'Altro, «il Nemico... è qui! Sono io il nemico!» «No», lo contraddisse l'uomo con il lungo cappotto nero. Fu colto dal panico. Alzò la pistola e fletté l'indice. La canna sputò fuoco. L'uomo sulla tazza venne investito da una gragnuola di colpi. Lo sollevarono verso l'alto come una forza invisibile, sempre più su, riducendolo a un ammasso di brandelli di carne e cotone, schegge di osso e fontanelle di sangue. Ma Mick Prince continuò a tenere premuto il grilletto, crivellando il corpo di proiettili. Un occhio sgranato balzò fuori dall'orbita, il naso implose verso l'interno del cranio. Ancora qualche pallottola e la testa del cadavere esplose producendo gli effetti di un petardo infilato nel culo di una rana. Continuò a sparare finché non ebbe svuotato il caricatore. Ciò che restava del corpo del signore della droga rimase sospeso in bilico per qualche istante, come se la carne e il sangue stessero compiendo un ultimo, disperato tentativo di ricompattarsi. Poi il cadavere scivolò verso il basso, cadendo a terra con un tonfo, sollevando schizzi dalla pozza di sangue e urina. L'uomo con il cappotto rimase in piedi in silenzio per un momento, avvertendo il battito del cuore e ascoltando il respiro affrettato. Il Nemico. Quel fottutissimo Altro! Era lì a Baltimora! Doveva trovarlo... Rintracciarlo... Distruggerlo... Una forma oscura, simile a un mucchietto di fuliggine che si consolidava in un'indistinta figura animata, si posò sul davanzale della finestra. Un becco si sporse verso l'interno. Ali aperte, per mantenere l'equilibrio. Gli artigli incuneati sul legno. La testa inclinata per fissare, con un solo occhio, Mick Prince, per squadrarlo con tenebrosa intelligenza. La mascella dell'uomo con il cappotto cadde verso il basso. Un corvo! Che diavolo ci faceva un corvo lì? Da bambino aveva vissuto in una fattoria. Sapeva che i corvi si cibavano di carogne, astuti e codardi saccheggiatori di resti. Il corvo rimase a fissarlo per qualche attimo, scrutandolo come se riuscisse a vedere attraverso la sua pelle, a leggergli nell'anima. I loro sguardi si incrociarono.
Fu come se il corvo dicesse: «Ti conosco!» Mick Prince rabbrividì, incapace di muoversi. Aveva letto molti libri, libri di ogni genere. La comparsa di un corvo non era mai un buon presagio. «Merda!» Ma il fatto che avesse letto delle cose non implicava necessariamente che le prendesse per oro colato. Lasciò cadere la mitraglietta e si portò una mano alla cintura per impugnare la sua Beretta Cougar semiautomatica calibro 32 dotata di silenziatore. Ma nell'istante stesso in cui la sua mano toccò il calcio dell'arma, l'uccello allargò le ali e balzò in avanti. Una molla nera come la pece e dagli occhi infocati si avventò contro il volto di Mick Prince, gli artigli protesi. Se non fosse stato per i suoi riflessi felini, l'uomo con il cappotto avrebbe perso un occhio. Un artiglio gli affondò nella fronte, squarciandola per il lungo e staccando dal cuoio capelluto una lunga ciocca di capelli. Estrasse la pistola, tolse la sicura e sparò. I proiettili a punta cava sfrecciarono dall'arma producendo un suono sibilante. Dal soffitto una pioggia di intonaco gli ricadde sulla testa. Ma la creatura alata si allontanò in volo, incolume. «Merda!» Mick Prince inseguì l'uccello e i passi pesanti dei suoi scarponi risonarono lungo il corriodio. Il corvo schizzò fuori dalla porta. Mick Prince fece di nuovo fuoco, poi lo eseguì all'interno del soggiorno. Il covo dei drogati era ridotto a un ammasso di cadaveri con il pavimento zuppo di sangue. Dapprima l'uomo con il cappotto pensò che il corvo fosse scomparso. Ma poi, come ad annunciare «Sono qui!» balzò sullo schienale del divano e riprese a fissarlo, alzando le ali, un po' arruffato ma imperturbato. Gracchiò, sfidando con lo sguardo Mick Prince. Il buon senso consigliava all'uomo con il cappotto di lasciare perdere e andarsene. La reazione nel bagno era stata automatica e comprensibile. Era una macchina programmata per uccidere, e il corvo si era parato all'improvviso davanti a lui. Ma ora... Ora aveva compiuto la sua missione ed era meglio allontanarsi. Nonostante si trovasse in uno dei quartieri più degradati della città, più a lungo si fosse soffermato, più avrebbe rischiato di essere preso. La miglior cosa da fare era uscire da quella maledetta porta, sbattersela alle spalle e lascia-
re che il corvo banchettasse... Dargliela vinta. Ma c'era qualcosa... qualcosa di profondamente inquietante in quella creatura. Era il corvo più grande che Mick Prince avesse mai visto, e possedeva una strana presenza, qualcosa che faceva accapponare la pelle, come se venisse dall'aldilà. Ma la cosa peggiore era che in lui percepiva qualcosa dell'Altro. Il Nemico. Fin dai tempi ai quali risalivano i suoi primi ricordi, Mick Prince aveva sempre avvertito la presenza del Nemico. Lo aveva percepito nei suoi sogni, nelle ombre delle giornate e nelle distorte motivazioni di coloro che l'avevano torturato, coloro che gli avevano reso così difficile la vita. Si sentiva come se la sua anima fosse più vecchia dei suoi anni, come se avesse attraversato le lande desolate del tempo inseguita da una oscura e misteriosa creatura alla quale aveva dato il nome di Nemico. Un nemico che voleva distruggerlo. Un nemico che voleva consumarlo. Per anni era fuggito a capo chino nel terrore. Ma ora le cose erano cambiate. Ora era deciso a stanare il suo avversario, ad affrontarlo... A ucciderlo. «Chi sei?» domandò. Il corvo si scrollò le penne. Saltò giù sul bracciolo del divano e picchiettò il becco nell'aria, come se stesse utilizzando un arcano linguaggio muto. «Perché non potevi essere un fottuto corvo imperiale?» gridò l'uomo con il lungo cappotto nero. «'Disse il corvo imperiale... Mai più, Lenore!' E non un maledetto, schifosissimo corvaccio?» Il corvo agitò la coda, come per esprimere indifferenza. «Pensi che non abbia letto Poe?» domandò Mick Prince. «Quello scribacchino sopravvalutato! Che barzelletta! Qualche francese si è innamorato di lui... ed ecco fatto! Il Jerry Lewis della letteratura! Be', lascia che ti dica una cosa: io appartengo alla vecchia scuola. Io dico che aveva ragione Rufus Griswold. Edgar Allan Poe era un ubriacone bastardo senza alcun valore.» Mick Prince si batté sul petto la punta della canna della pistola. «E quando io scrivo, non m'inchino certo al suo altare!» Il corvo gracchiò. Fissò Mick Prince negli occhi, senza battere ciglio. «Vaffanculo!» sussurrò Mick. Alzò la pistola e la puntò contro l'uccello, prendendo con cura la mira. Immaginava già di vedere il proiettile squarciarne il petto, mandando in pezzi l'intera fragile struttura ossea della crea-
tura in un fuoco d'artificio dai toni rossi e neri. Sarebbe stato tutto uno svolazzare di penne, un frantumarsi di becco! Aveva appena cominciato a premere sul grilletto quando l'uomo entrò nella stanza. Indossava pantaloni larghi, una felpa strappata e un cappellino dei Baltimore Orioles con la visiera sulla nuca. Nella mano destra stringeva una Walther PPK. «Figlio di...» Senza esitare, Mick Prince gli sparò due volte. Fiori di sangue sbocciarono sulla felpa. L'uomo indietreggiò barcollando di due passi, roteando le braccia come per sfuggire volando alla morte imminente. Mick Prince fece di nuovo fuoco e stavolta i colpi gli sfondarono metà del cranio. Pezzi di cervello e spruzzi di sangue andarono ad aggiungersi alla nuova tappezzeria alle pareti. Un'estensione d'ali, poi un battito. L'uomo con il cappotto riportò di scatto l'attenzione sul volatile. Il corvo volò in direzione del corridoio. Mick Prince gli sparò, ma la pallottola mancò il bersaglio e infranse una finestra. Il corvo virò, invertendo la direzione del volo e seguendo una traiettoria irregolare e imprevedibile. Scese in picchiata su Mick Prince, poi all'ultimo istante deviò. Il corvo si posò sul davanzale della finestra. Si voltò e fissò ancora una volta negli occhi l'uomo con il cappotto. C'era qualcosa in quello sguardo che impedì a Mick Prince di fare fuoco. C'era qualcosa di così intenso, così raggelante... Non era sicuro che fosse stato il vento, o forse le tubature della casa. Certamente non era stato l'uccello, perché i corvi non avevano il dono della parola... Eppure, la verità era che il becco affilato della tenebrosa creatura si era mosso. Non ora, avevano detto il vento o le tubature. Non ancora. Ma presto! Poi l'uccello si era voltato e aveva allargato le ali. «No!» gridò Mick Prince. Alzò la pistola e sparò. Ma il corvo era scomparso. Mick Prince corse alla finestra, urlando. «No, maledetto! Torna qui!» Ma quando si affacciò il corvo era solo un lontano puntino nero all'oriz-
zonte sopra la spettrale e corrotta città, sotto un cielo che aveva il colore di un livido appena comparso. 3 Una cupa mezzanotte, mentre meditavo debole e stanco, Su molti bizzarri e curiosi volumi di un sapere dimenticato, Mentre mi assopivo, quasi addormentato, all'improvviso sentii ticchettare, Come se qualcuno leggermente bussasse alla porta della mia stanza. «È qualcuno che viene in visita», mi dissi, «che bussa alla mia porta. Solo questo e nulla più.» EDGAR A. POE, «Il corvo» C'era qualcosa sul tetto. Qualcosa di grosso e rumoroso, e molto, molto fastidioso. Lo studio di William Blessing si trovava al quarto piano della sua grande casa nel centro di Baltimora. A tarda notte, mentre lavorava al suo nuovo romanzo, Cose oscure e rifulgenti, per l'editrice Knopf, aveva cominciato a sentire uno strano rumore proveniente dal piccolo tetto dell'edificio a schiera. ... Un ticchiettio... ... Un raschiare... ... Un battito... Un uccello? si era domandato, alzando gli occhi dalla tastiera del computer. Possibile che un uccello avesse costruito il nido lassù? In effetti era primavera, la stagione della riproduzione per le piccole creature. Blessing non voleva loro male. Tutt'altro: la presenza degli uccelli in città lo rallegrava. Pettirossi, cardinali, ghiandaie, passeri... svolgevano tutti un ruolo importante per la natura all'interno del tessuto urbano. Lo stesso valeva per i piccioni e i gabbiani, tutto sommato. Per quanto lo riguardava, se la sua amata Baltimora aveva un difetto, ebbene questo, in tutta sincerità, era proprio la scarsità di alberi. Il più delle volte, la costruzione delle brutte e minuscole case a schiera nei quartieri meno prestigiosi della «città dello charme», come veniva chiamata, aveva implicato il semplice abbattimento
degli alberi, conferendo alle zone un aspetto spoglio e dimesso. Per fortuna era stato approvato un piano per il ripristino di aree di verde in quei quartieri meno considerati. Non che Baltimora fosse totalmente priva di alberi, tuttavia. Gli enormi parchi erano ricchi di querce, pini e cipressi, superstiti del rigoglioso patrimonio boschivo del Maryland, suo autentico tesoro, che aveva dovuto subire nel corso della storia il terribile attacco dell'industrializzazione. Blessing si riteneva un uomo fortunato, non solo per l'enorme casa risalente al 1890 di cui era proprietario, ma anche per il quartiere in cui essa sorgeva, pieno di grandi querce, benevole e vecchie sentinelle contro l'avanzare dello squallore urbano, espressione della volontà della natura di resistere. Dunque poteva trattarsi di un uccello, ma a giudicare dal rumore che produceva doveva essere un uccello di notevoli dimensioni. Blessing interruppe il lavoro e guardò verso il soffitto. Un frullio d'ali. Un palpito. Uno scricchiolio. Maledizione! Che fastidio. Aveva sperato in una mattinata piacevole, e il tempo aveva collaborato nel migliore dei modi, regalandogli una di quelle splendide giornate primaverili con poca umidità, una leggera brezza, basse concentrazioni di polline, un sole caldo e qualche elegante nuvola cumuliforme in un cielo terso e sereno. Era sabato, Amy era impegnata a scuola e il nuovo laureando non sarebbe arrivato fino al tardo pomeriggio. Stephen King gli aveva inviato il suo nuovo libro, sperando non semplicemente in una buona recensione da parte di un collega scrittore, ma forse in una «caustica stroncatura per sgravare la mia schiena stanca dal pesante fardello di vendere troppe copie». Be', questo non sarebbe stato possibile perché il libro, che si scostava notevolmente dalle classiche atmosfere di King, era davvero un capolavoro e meritava una recensione entusiastica, che Blessing sperava di riuscire a pubblicare sul New York Times Book Review. Peggio, il romanzo era di quelli magici che tenevano incollati alle pagine il lettore, e benché Blessing avesse una quantità di altre cose da fare, nulla gli sembrava ora più urgente che giungere alle ultime pagine del volume. In cima al piano più alto della casa, nel contesto di una serie di lavori di ristrutturazione eseguiti da Blessing dopo il successo del suo terzo romanzo Anima nera in agguato, era stato ricavato una sorta di balcone, collegato a una piccola cupola realizzata in grandioso stile neogotico del di-
ciottesimo secolo. Unita al tetto a due spioventi che la casa già possedeva, la cupola costituiva un meraviglioso salottino nel quale ospitare amici e colleghi per una tazza di tè o una birra, e da cui ammirare i tetti della vecchia Baltimora. In effetti erano visibili anche gli splendidi edifici vittoriani che costituivano buona parte del complesso architettonico della Johns Hopkins University, dove Blessing era ordinario di una cattedra nel dipartimento di Lingua e letteratura inglese. Era su quel balcone, in quella bellissima giornata, che aveva portato il caffè keniota accompagnato da latte fresco, toast e marmellata, con l'intenzione di rilassarsi e immergersi totalmente nel mondo di Stephen King. Un fruscio. Passi affrettati. Un raspare. In linea di principio, Blessing approvava la presenza degli uccelli. D'altro canto, un volatile che lo disturbava con tutto quel terribile rumore mentre stava cercando di scrivere o di leggere... Be', quella era un'altra faccenda. Sospirò, si alzò dalla poltrona e salì nella zona dove il legno stagionato e intarsiato cedeva il passo alle tegole, e da cui il tetto angolava verso l'alto in direzione della fila di comignoli e muretti che ne percorrevano la cima. Appoggiandosi a un palo, sporse la testa e guardò verso l'alto cercando di vedere che cosa si era posato lassù. Dev'essere dall'altra parte, pensò. Non c'era traccia dei ramoscelli o dei rovi con cui gli uccelli in quel periodo costruivano i loro nidi. Era tentato di abbandonare la sua postazione sul tetto, scendere nella biblioteca, mettere un CD di Bach o Chopin sul lettore e riprendere a leggere, avviluppato e protetto dalla musica. Tuttavia, aveva in programma di tenere un festa la settimana seguente, e quello era uno dei punti in cui i suoi ospiti più amavano raccogliersi per chiacchierare. La presenza di un uccello sul tetto poteva essere negativa o positiva, a seconda dei punti di vista, ma se effettivamente di un uccello si trattava, voleva perlomeno essere in grado di poterne disquisire con gli amici. Oltre a possedere un intelletto raffinato e conoscenze approfondite in una varietà di campi, William Blessing vantava una spiccata curiosità ed era una fonte inesauribile di aneddoti. Amava conversare a lungo delle meravigliose stranezze, accademiche e non, che la sua curiosità l'aveva aiutato a scoprire. Indubbiamente Lincoln Holmes avrebbe partecipato alla festa e, nel caso in cui l'uccello avesse manifestato la propria presenza sul tetto, certamente avrebbe chiesto quale creatura possedesse mai tanta sfrontatezza da
costruire il proprio nido sul tetto della casa del grande William Blessing. Se non fosse stato in grado di fornire una risposta esauriente e dettagliata, Blessing non sarebbe stato Blessing. Non solo i suoi amici si sarebbero preoccupati, ma i suoi colleghi più pericolosi e gelosi avrebbero cominciato a bisbigliare dietro le spalle: «Povero Bill. Comincia a perdere lo smalto». Blessing conosceva gli uccelli. Gli sarebbe bastato solo un breve sguardo per capire a che specie di volatile apparteneva. Inoltre, se il nido che stava costruendo era ancora nelle fasi iniziali, avrebbe potuto scacciarlo. Blessing non intendeva certo allontanarlo da eventuali uova o piccoli; ma prima scopriva che cosa c'era sul tetto, meglio sarebbe stato per tutti. A dispetto dei suoi quarantasette anni era in forma fisica relativamente buona e gli fu facile scavalcare la ringhiera e risalire la scanalatura nel tetto, al centro della quale passava una grondaia in alluminio. Le tegole erano ancora piuttosto nuove e offrivano una buona presa; inoltre, per quanto ripida, l'inclinazione del tetto non era proibitiva. Fece comunque molta attenzione, sporgendosi in avanti più volte per appoggiarsi alle ruvide tegole. In cima al tetto, issò verso l'alto una gamba, la posò sull'altro lato e si sedette a cavalcioni degli spioventi, rizzandosi poi cautamente in piedi. Ora vedeva lo stadio di Camden Yards, dove giocavano i Baltimore Orioles, i grandi palazzi per uffici e gli alberghi nel centro della città, raccolti attorno al centro vitale della rinascita di Baltimora negli anni Settanta e Ottanta: l'Inner Harbor. Il sindaco Scheafer aveva fatto dragare il vecchio porto e incaricato un architetto di ridisegnarlo in tutte le sue parti, dopodiché ne aveva fatto un grande centro di attrazione per turisti, fiore all'occhiello di una città stanca e dimessa. Guardando verso est Blessing vedeva i ristoranti di Little Italy, l'acquario e, dall'altra parte del canale, il Museo delle Scienze. Era sabato e decine di pedalò punteggiavano l'acqua grigioazzurra sotto gli imponenti alberi della vecchia nave coloniale U.S.S. Constellation, restaurata e tirata a lucido, pronta per sopportare i flash delle macchine fotografiche e i passi frenetici delle scarpe da ginnastica dei bambini. C'era un filo di brezza, nell'aria il profumo di boccioli di ciliegio, caprifoglio e catrame. Blessing abbassò lo sguardo verso la strada. La casa di sei piani, compreso il solaio e il tetto, era alta ventidue metri; a parole non sembrava poi un granché, ma guardando in giù dalla cima del tetto verso il marciapiede d'asfalto, a Blessing l'altezza sembrò ragguardevole. Fu improvvisamente colto da vertigini. Ebbe un giramento di testa e do-
vette accovacciarsi per non perdere l'equilibrio. Trasse un respiro profondo. Forse non è stata una buona idea venire quassù, pensò. Ma che cosa l'aveva spinto ad arrampicarsi? Era proprio per evitare questo genere di cose che tornavano utili i soldi: meglio lasciare che fossero gli altri a rischiare di spezzarsi il collo. Avrebbe fatto bene a chiamare un operaio e chiedere a lui di investigare. Una persona esperta, abituata a camminare sui tetti e con un ottimo senso dell'equilibrio. Tuttavia, ben presto le vertigini passarono. Be', si disse, giacché ci sono... Poco avanti a lui s'innalzava il comignolo, un vecchio, coraggioso avamposto di mattoni dotato ancora dei suoi originali, sbiaditi fumaioli di ceramica rossa, orgogliosamente inclinati a fronteggiare gli elementi atmosferici. E, oltre il camino, un fruscio, uno sgambettare, un raspare. Blessing avanzò di qualche passo. Se fosse riuscito ad avvicinarsi ancora un po', sarebbe riuscito a guardare dall'altra parte del camino. A quel punto avrebbe scoperto se c'era o no un nido. Se si trattava semplicemente di un grosso volatile posatosi sul tetto per riposare qualche ora, o anche impegnato nel porre le basi di un nido, l'avrebbe scacciato, ponendo fine a tutta quella storia. Non avrebbe dovuto chiamare alcun operaio e avrebbe potuto vantarsi con Amy del suo exploit. Raggiunse il comignolo. Odorava di fuliggine e di cenere. Blessing non vedeva nulla oltre il fianco della base del camino. Era come se quel maledetto uccello si fosse volutamente nascosto alla sua vista. Se solo fosse riuscito a sporgere la testa oltre la base di mattoni, l'uccello non avrebbe più potuto sfuggire al suo sguardo. Perlomeno avrebbe visto i rametti o quant'altro veniva utilizzato per costruire un nido, il che gli avrebbe consentito di trarre una conclusione. Dopodiché sarebbe tornato prudentemente indietro e avrebbe potuto riprendere a leggere il libro di Stephen King sapendo esattamente quale era la situazione sul tetto. All'improvviso un'immagine gli balenò nella mente: era Stephen King in persona, visto attraverso un grandangolo, intento a spiare nella sua vita, gli occhiali dalla montatura nera enormi sul naso. Non scendere in cantina, Bill! «Ma sono sul tetto, non vedi?» rise a denti stretti Blessing. «E comunque la vita non è un film dell'orrore!» Sfruttando le scanalature tra i mattoni del camino come appigli, avanzò lentamente ancora di un passo. Notò con la coda dell'occhio qualcuno che camminava sul marciapiede.
Sentì dei passi risalire una serie di gradini. E poi l'acuto clamore del campanello della porta di casa. Maledizione! imprecò mentalmente Blessing. Chi può essere? Distratto, si allungò per aggrapparsi al mattone più alto della base del camino, senza notare che anni di esposizione alla pioggia, al vento, alla neve e alla brina l'avevano eroso. Blessing ci posò sopra la mano e si tirò verso l'alto per riprendere l'equilibrio. Con un rumore di sgretolamento che gli raggelò il sangue, il mattone cedette. Blessing si trovò sospeso in aria con le braccia che mulinavano. Lasciò cadere i resti del mattone, che precipitò lungo lo spiovente del tetto, rimbalzò sulla grondaia di alluminio e poi piombò sul barbecue a gas nel giardino sul retro. William Blessing cadde dall'altro lato. Allungò disperatamente la mano destra per aggrapparsi alla copertura di latta che percorreva la cima del tetto, ma non ce la fece. Il suo corpo sbatté pesantemente sulle tegole e rimbalzò. Poi cominciò a scivolare. L'inclinazione del tetto era ancora maggiore rispetto al lato dal quale era salito e sapeva che c'erano ben poche speranze che la sottile grondaia di alluminio potesse reggere il suo peso, anche nel caso in cui fosse riuscito ad afferrarla. Prese a scalciare con tutte le forze, tentando di riportarsi verso l'alto. Le suole delle Rockport sfregarono contro le tegole provocando sufficiente attrito per interrompere almeno temporaneamente la sua caduta. Gettò verso l'esterno la mano sinistra e la chiuse come una morsa attorno alla grondaia verticale. La Rockport sinistra scivolò sulle tegole e riprese a scendere verso il basso. Cadde, e si trovò a reggere tutto il suo peso con il braccio sinistro, ma riuscì in qualche modo a non mollare e a interrompere all'ultimo istante lo scivolamento. Blessing rimase aggrappato con tutte le forze, rendendosi conto che la caduta l'aveva lasciato senza fiato. Inspirò faticosamente e nel frattempo protese verso l'alto il braccio destro, cercando di afferrare la grondaia anche con l'altra mano. Il primo tentativo andò a vuoto, ma al secondo strinse saldamente l'alluminio tra le dita. Restò immobile per qualche istante, la presa sulla grondaia salda, tentando di riprendere fiato e raccogliere le forze. Dopo la breve pausa si accorse di poter usare i piedi (grazie a Dio per le Rockport, scarpe solide
con una robusta suola a carrarmato!) e i jeans per risalire lentamente lo spiovente. Poi avrebbe gettato le braccia oltre la cima e ripreso l'equilibrio. A quel punto non sarebbe restato che scendere giù verso il balcone: certo non era un piano che rivelava una brillante competenza ginnica, ma se non altro avrebbe riguadagnato una piattaforma di assi di legno che l'avrebbe salvato da una caduta di quasi venti metri. Tuttavia, proprio quando Blessing stava riprendendo fiato e meditando di dare il via ai suoi forzi, sentì uno svolazzare e un battito d'ali. E un gracchio. Spaventato, guardò verso il camino. Da dietro la base in mattoni comparve il più grande uccello che William Blessing avesse mai visto in libertà. La sua prima impressione fu di vedere una macchia nera, come se qualcuno avesse ritagliato un pezzo del buio della notte precedente e l'avesse nascosto dietro il comignolo, da dove ora spuntava. Doveva avere un'apertura alare di almeno un metro. Lo notò mentre veniva verso di lui. Si posò in cima al tetto, a poche decine di centimetri dalle sue dita, e inclinò la testa a fissarlo, come per ispezionarlo da vicino. Un corvo. Un corvo come quelli che Blessing era solito vedere volare alti sopra i tetti delle fattorie del Maryland, o appollaiati sui fili del telefono in campagna, intenti a scrutare i campi in cerca di una preda; ma che raramente si avventuravano nel centro della città. A una distanza tanto ravvicinata Blessing vide che in realtà non era interamente nero. Aveva le zampe grigie, gli artigli bianchi e gli occhi rossi. «Sciò!» gridò Blessing. «Pussa via! Sciò!» Invece di spiccare il volo l'uccello si avvicinò, muovendo qualche passo di lato, graffiando con gli artigli affilati l'alluminio. Aprì il becco tagliente e fissò Blessing negli occhi mentre continuava ad avvicinarsi alle sue mani. 4 Ma ecco, tra la folla di mimi, Si fa strada una forma strisciante! Una cosa rosso sangue fuoriesce contorcendosi Dalla scena deserta! Si contorce! Si contorce! Tra spasmi mortali
Dei mimi fa il suo cibo, E i serafini singhiozzano alle verminose zanne Imbevuti di sangue umano. EDGAR A. POE, «Il verme conquistatore» Quando Baxter Brittle si svegliò sette minuti dopo mezzogiorno, si ritrovò per metà zuppo di sangue che non era il suo. Il sangue era appiccicoso e aveva un odore dolciastro. Il mal di testa da sbornia raddoppiò d'intensità mentre sedeva fissandosi le mani, attonito, domandandosi che cosa diavolo fosse successo. Sapeva che non poteva essere sangue vero. Qualcuno aveva forse spruzzato in giro sangue finto per ricreare l'atmosfera di un concerto degli Insane Clown Posse? Tra le pareti della «segreta», il locale principale del Salon des Gothiques, tuonava il suono dei Lustmord. Merda, pensò Baxter. Devo smetterla di premere il tasto REPEAT quando metto su i CD. Le inquietanti vibrazioni riecheggiavano in ogni angolo buio dello scantinato. Nonostante si fosse sforzato di ripulire e mettere in ordine il locale dopo aver ereditato l'intero edificio dai suoi genitori (glielo avevo detto che dovevano cambiare le gomme della macchina), e a dispetto degli incensi accesi a getto continuo dai membri della gang, nell'aria aleggiava ancora l'odore di muffa e di umidità, il puzzo di Baltimora. Tutte le pareti erano adornate da penne d'uccello, poster, catene, spade, spadini e pezze di mussola bianca, ed enormi ceri (l'unica valida alternativa alle torce!) ardevano in torciere, conferendo all'ambiente atmosfera e profondità. Corridoi conducevano a un misterioso e mai finito sottoscantinato, un progetto abbandonato negli ultimi giorni del proibizionismo. Ma il soffitto era troppo basso e l'altare non era che un arredo di scena preso dal set di qualche film dell'orrore girato direttamente in video. Sgargiante e detestabile, tutto quanto, pensò Baxter. Se mai fosse riuscito a mettere insieme una somma decente di denaro avrebbe rifatto tutto a modo suo... o, meglio ancora, se ne sarebbe andato, lasciando perdere tutta quella storia dei Goths. Si sarebbe ritirato nel sud della Francia, a bere vino rosso, mangiare lumache e tartufi e ad ascoltare Chopin. Si sollevò sulle ginocchia, con un lamento. Indossava il lungo cappotto, raso nero all'esterno e raso rosso all'interno. Parte del dolore che avvertiva non aveva a che fare con i postumi della sbornia, ma era concentrato all'interno della bocca. Estrasse la dentiera di plastica e la posò su un tavolino
da mahjong in stile antico che aveva comprato da Goodwill. Accidenti! Non ricordava di aver sfoggiato i suoi denti da Dracula la notte prima. D'altra parte, non ricordava granché. Barney e Wilhemina avevano preso posto dietro il bancone verso le nove. Lui era rimasto nel locale seduto a uno dei tavolini appartati in compagnia dei primi arrivati tra i componenti della gang. Era stata una serata dedicata ai Goths della vecchia guardia, con musica dei Bauhaus, The Cure, Sisters of Mercy e The Mission. Era in concorrenza con l'Orpheus e l'Hepburns, due locali sconvenientemente vicini, per conquistare l'esigua clientela Goth della città, che spaziava da studentelli curiosi ai fan dei RenFest Celtic, e da metallari confusi a vecchi punk. I suoi due DJ di punta lavoravano in due negozi di dischi della città, il Modern Music e il Soundgarden, e stavano cominciando a crearsi un seguito, sebbene le serate di maggior successo fossero ancora quelle del fine settimana dedicate alla New Wave e alla disco-music. Ricordava molto vagamente di aver bevuto qualcosa di verde con striature azzurre, senza dubbio una bomba alcolica. Ah, già, poi c'era quella ragazza nuova, una teenager molto carina con una tale quantità di mascara e ombretto sugli occhi da sembrare un procione gotico. Capelli platino ad aculei, maglietta strappata dei Siouxsie and the Banshees tenuta assieme da spille da balia cromate. Palesemente minorenne, ma carina al punto da convincerlo a non farla buttare fuori. Anzi, quando la gang era scesa da basso per una riunione del Salon des Gothiques, aveva incaricato il Barone DeBaskerville di accertarsi che lei li seguisse. Tuttavia, a quel punto la sua memoria cominciava a perdersi in un'orgia di fumo, specchi, chitarre elettriche pulsanti e cori gridati. Il resto... Il resto era buio. Baxter Brittle si tirò su. Maledizione! Doveva aprire il bar. Nonostante la sbornia della notte precedente, era sabato pomeriggio, e il turno dietro il banco spettava a lui. Se non avesse aperto per accogliere i clienti fissi del pomeriggio rischiava di perderli a vantaggio di uno delle altre miriadi di bar nei pressi della Little Italy di Baltimora. Visto l'attuale flusso di cassa, non era un buon momento perché ciò accadesse. Per nulla un buon momento. Il vero appartamento di Baxter era sopra il bar, ed era lì che Baxter doveva trasferirsi per fare una doccia. Ma in un angolo della segreta c'era un lavatoio con rubinetto, al quale si avvicinò e dove si bagnò con acqua fredda dal sapore vagamente salmastro. Le tempie gli pulsavano. Aveva gli
occhi annebbiati. Tornò al tavolino da mahjong e ne guardò speranzoso la superficie. Sì! C'era ancora una piccola fiala. Conteneva una dose sufficiente per una sniffata. La sottile riga tirata per mezzo di una cannuccia gli schiarì leggermente la testa. Per il momento desiderava solo uscire da quel buco fetente; si sarebbe occupato delle macchie di «sangue», o quant'altro, più tardi. Ma nell'armadietto del dottor Caligari accanto all'altare della camera dell'Orrore Nudo doveva esserci una bottiglia di buon cognac Napoleon importato dalla Francia, e un sorso avrebbe certamente alleviato la pressione degli artigli che sembravano affondare nella sua corteccia cerebrale. Si avviò barcollante in quella direzione, sostando brevemente per zittire il cavernoso tuonare dei Lustmord (dolce, dolce silenzio!), e giunto a destinazione aprì lo sportello in finto noce dell'armadietto. E infatti, all'interno trovò la bottiglia. Era quasi vuota, ma pochi sorsi potevano bastare. Afferrò la bottiglia per il collo, ne tolse il tappo e ne bevve un sorso. Un concentrato di vino e fuoco. Il liquido gli scivolò bruciante nella gola, esplodendo in un calore meno aggressivo nello stomaco. Sentiva l'alcol allungare le sue soavi e confortevoli dita lungo il torso, poi più su verso la testa, lenendo in parte il dolore che lo attanagliava. Il sollievo fu tanto grande che prese un altro lungo sorso. L'impatto iniziale fu minore, ma comunque efficace. Ripose la bottiglia nell'armadietto, si girò e tornò sui suoi passi con andatura incerta, calpestando il tappeto davanti al plasticoso altare degno di un film di serie Z, dove... ... rischiò di inciampare nel corpo che vi era riverso. Era una donna nuda. Non l'aveva vista prima perché per metà era nascosta sotto il tavolo sul quale erano poggiati i piatti e i calici rituali, insieme con tutte le altre cianfrusaglie da magia nera. Era allungata, e la testa sormontata da aculei neri di capelli sporgeva in fuori come un pezzo di carne ingrigita da drappeggi e paramenti funebri. «Oh, cazzo», imprecò Baxter Brittle. «Ehi! Non puoi stare qui...» Cristo, quella ragazza rischiava di fargli passare dei guai. «Sveglia! Mi senti?» Si chinò e la tirò con fare esitante verso di sé. Quando allentò la presa lei ricadde all'indietro Il mascara e il trucco che le aveva coperto il volto sembravano essersi sciolti per poi gocciolarle lungo le guance e le tempie, e le labbra rosse producevano l'effetto di una manciata di ciliegie ridotte in poltiglia.
Non aveva più l'aspetto di una sexy troietta punk. Aveva l'aspetto di una ragazzina morta. Tra i seni piccoli e banali spuntava il manico d'argento di un coltello. Nonostante lo sgomento e l'orrore, Baxter lo riconobbe. Era uno dei coltelli cerimoniali della gang. Anch'esso era stato recuperato dal set di un film di serie Z, ma apparentemente in origine proveniva, come molti degli oggetti utilizzati per quei film, da uno dei banchi di pegni meno rispettabili del centro di Baltimora. Fino a quel momento era stato uno degli oggetti ornamentali della segreta di cui Baxter era stato più autenticamente orgoglioso. Insieme ad altri Goths aveva passato ore a fare congetture sulla vera provenienza di alcuni pezzi della mostruosa, macabra collezione. Il coltello dal manico dorato e imperlato era stato uno dei preferiti. Certamente proveniva dalle camere di tortura dell'inquisitore Torquemada! No. Era appartenuto a uno dei soldati di Vlad, imperatore transilvanico, impegnato a combattere le orde barbariche! No. Era stato rubato a un antico monastero buddhista in Nepal! Ora, pensò Baxter, era solo un pezzo di metallo affilato infilzato nel corpo di una ragazza nuda. C'era sangue dappertutto. Era quella la fonte del sangue di cui lui stesso era imbrattato. Oltre il cadavere, ce n'era una grande pozza, che stava già coagulandosi. Aggrappandosi a una flebile speranza, Baxter appoggiò, esitante, due dita sul lato del collo della ragazza, in cerca di un battito. Nulla. Solo fredda carne morta. Ritrasse le dita come se fosse stato scottato. Per un istante avvertì un ronzio nella testa e si sentì svenire. Barcollò e dovette appoggiarsi al tavolo. L'urto fece cadere un calice, dal quale si rovesciò altro sangue, freddo e denso, che andò a macchiare il pentacolo al centro della tovaglietta sulla quale era stato poggiato. Aprì di nuovo l'armadietto, afferrò la bottiglia di cognac e ne tracannò gli ultimi sorsi. Se la lasciò cadere dalle dita, poi si allontanò su gambe malferme dalla scena di sangue, morte e ancora sangue. Aveva avuto risvegli migliori. 5 E il serico, triste, incerto fruscio di ciascuna tenda purpurea
Mi faceva rabbrividire, mi colmava di terrori fantastici mai prima conosciuti; E per acquietare il battito del mio cuore, ora ripetevo: «E qualcuno alla porta, che chiede di entrare... Qualcuno in visita a tarda ora, che chiede di entrare... Solo questo e nulla più». EDGAR A. POE, «Il corvo» Donald Marquette premette il campanello per la terza volta. Ne sentì di nuovo il suono riecheggiare nella casa. Era abbastanza forte da risvegliare i morti, pensò. Ma dov'era finito il professor William Blessing? Aveva detto di essere libero a mezzogiorno, e ora non rispondeva... Donald controllò l'orologio. Mezzogiorno e sette minuti! Marquette cominciò ad avvertire una certa ansia. Aveva avuto cura di arrivare puntuale. Benché avesse intrattenuto una corrispondenza con Blessing e gli avesse parlato al telefono, non si erano mai incontrati. Ci teneva a dare una buona prima impressione e cominciare così con il piede giusto il suo percorso letterario ed educativo con William Blessing, il famoso scrittore; William Blessing, il brillante accademico; William Belssing, autorità internazionale su Edgar Allan Poe; William Blessing, «l'unico autore di sicuro valore e di solida formazione accademica a entrare nel campo della letteratura popolare», secondo l'autorevolissmo New Yorker, e... e... «Non vali niente», gli sembrò di sentire dire da suo padre. «Sei un essere inutile! Non fai che startene laggiù in cantina a leggere. Dio! Non sono neppure certo che tu sia davvero mio figlio! Sei solo... uno sbaglio!» E quando suo padre aveva pronunciato quelle parole, aveva desiderato ucciderlo. Marquette cercò di calmarsi appoggiandosi alla ringhiera. Si rese conto che il battito cardiaco era aumentato e che la pressione sanguigna era probabimente alle stelle. Era giunto il momento che aveva atteso con ansia per mesi e mesi e si stava lasciando sfuggire di mano la situazione. Calmati, ragazzo. Ventotto anni sono troppo pochi morire facendosi saltare le coronarie. Certo, sei emozionato... ma anche Blessing s'infila i pantaloni una gamba alla volta e probabilmente, come tutti gli uomini, si dimentica di abbassare l'asse del water. D'accordo, è un grande! E potrebbe rappresentare il veicolo verso la fama letteraria, la fortuna economica e il rico-
noscimento accademico per un umile ragazzo di campagna di Dubuque, nell'Iowa! E adori i suoi romanzi, i suoi racconti, la sua critica, e la sua grandiosa opera Storia della tradizione gotica da Il castello di Otranto a Stephen King e oltre! Ma lui stesso ha affermato di non vedere l'ora di cominciare a lavorare con te, di conoscerti, promettendo di portarti fuori a bere qualcosa con lui (a bere qualcosa con lui!) questo pomeriggio a Fells Point, dove Edgar Allan Poe in persona era caduto riverso sul pavimento con la bava alla bocca ed era morto. Donald Marquette era un giovane alto e dinoccolato che dava l'impressione di potersi trovare più a suo agio avviandosi lungo la strada che dall'Iowa conduceva al Congresso degli Stati Uniti in compagnia dello Smith di Jimmy Stewart. Aveva capelli lunghi e scuri che si legava in un codino con un laccio di cuoio, occhi dallo sguardo sincero, un naso sensibile e sottili labbra da tipico originario del Midwest. Aveva orecchie un po' troppo grandi rispetto alle dimensioni della testa, particolare messo in risalto dal taglio di capelli, che lo rendeva simile a Dumbo. Marquette fu grato quando le lentiggini, che da ragazzo gli avevano coperto il volto, due anni prima erano scomparse. Ora portava i baffi e un paio di occhiali scuri con la montatura metallica per indurire il suo aspetto innocente e dargli un più attendibile contegno da letterato. Non era mai stato attratto dalle sigarette o dalla pipa, ma da qualche tempo aveva abbandonato il vizio adolescenziale di masticare gomma (cominciando invece a tenere d'occhio il peso). Ora si trovava in quella bellissima via di Baltimora, costeggiata da tulipani in fiore, cespugli curati e altre profumate forme di vegetazione: un isolato impregnato dei colori della storia di cui il suo paese natale era dolorosamente privo. La brezza gli arruffò i capelli e, mentre le farfalle svolazzavano nel suo stomaco, le api si posavano sui denti di leone nel lussureggiante prato verde davanti alla vecchia casa di mattoni rossi. Un ramoscello cadde a un tratto sui gradini accanto a lui. Poi volò giù un pezzette di tegola, che gli sfiorò la testa. Guardò verso l'alto, proteggendosi con una mano gli occhi dal sole. Non cadde altro. Portò di nuovo lo sguardo al suo Timex, che ora fissava l'ora digitale a mezzogiorno e nove minuti, e... Oh, Gesù. L'appuntamento inizialmente era stato fissato per mezzogiorno. Ma poi Blessing aveva voluto spostarlo all'una. E lui se n'era completamente dimenticato.
Dio, che gaffe! Si girò, con l'intenzione di darsela a gambe, allontanandosi il più rapidamente possibile prima che Blessing (probabilmente con indosso un accappotoio) si affacciasse a una finestra e urlasse: «Marquette, idiota, sei in anticipo. Tornatene nei campi da dove sei venuto». Ma prima che fosse riuscito a scendere il primo gradino, la porta alle sue spalle si aprì. «Sì?» Donald tornò a voltarsi. Riconobbe immediatamente l'uomo sulla porta, le cui foto aveva visto sulle sopraccoperte di molti libri. Tuttavia, in quelle foto William Blessing era apparso ben più professionale e lucido. Ora aveva i capelli spettinati, la camicia di flanella fuori dalla cintura dei pantaloni e tutto sommato sembrava... be', un po' sbandato, sia mentalmente sia fisicamente. Aveva un frammento di foglia secca su una spalla. Era alto circa un metro e ottanta e, benché non fosse sovrappeso, era evidente che ormai da tempo la sua unica attività fisica di un certo impegno consisteva nel recarsi a piedi all'università, impresa di cui era orgoglioso. Aveva occhi chiari e un volto regolare e anonimo; ma pur vedendolo in quello stato, Donald capì che doveva essere un tipo pacato, cordiale. E non sembrava affatto irritato. La constatazione lo aiutò in qualche modo a rilassarsi. Marquette tese la mano al professore. «Mi sono appena reso conto di essere in anticipo! Sono Donald Marquette, ma tornerò più tardi, nel pomeriggio, e mi dispiace davvero tanto averla disturbata, sono mortificato e...» «Ah, Donald!» esclamò Blessing. La sua espressione perplessa si trasformò in un sorriso. Spalancò la porta e accettò la stretta di mano. «In effetti sei un po' in anticipo, ma non importa. A dire il vero sono felice di avere compagnia. Stare in compagnia è una delle poche cose che mi riescono bene.» Donald gli strinse vigorosamente la mano, e il professore ricambiò con una stretta salda e incoraggiante. Fu come se il cuore di Donald venisse all'improvviso sgravato da un peso enorme. «Sta bene, professor Blessing?» «Donald, ti prego, te l'ho già detto: chiamami Bill e dammi del tu. Mi rendo conto che sarai il mio assistente, ma siamo pur sempre due autori, no? Siamo colleghi.» Blessing pronunciò la parola «autori» con ironica pomposità. «E questo pomeriggio andremo a farci una bevuta. Dio sa quanta voglia ho di una birra oggi. Ma ora entra. Vieni. Vuoi un caffè?
Una tazza di tè? Ho una caffettiera di miscela keniota in caldo e stavo giusto per versarmene una tazza. Comunque sì, sto bene... sono solo un po' scosso. Vieni in cucina, Donald. Da questa parte.» Donald seguì il professore attraverso l'ingresso. Era già rimasto impressionato dalla facciata della casa, con la porta fresca di riverniciatura, i bellissimi fiori e i mattoni rossi di epoca vittoriana. Ma l'interno sembrava uscito direttamente da una famosa rivista di arredamento come House Beautiful. Più che l'agiatezza dei suoi occupanti, la casa comunicava il loro ottimo gusto. Era arredata con splendidi pezzi d'antiquariato. Quadri di pregio adornavano le pareti e il lussuoso parquet era coperto da magnifici tappeti orientali. Specchi e accessori d'argento occhieggiavano e brillavano in più punti, e nell'ampia sala da pranzo oltre l'ingresso troneggiava, sulla lucida superficie del tavolo, uno scintillante candelabro. Nell'aria aleggiava il profumo di cera e di prodotti per la pulizia dei tappeti: ben altra cosa rispetto alle squallide e umide case nelle quali Donald aveva vissuto a Dubuque. «È... davvero magnifica!» esclamò quasi senza accorgersene. «Grazie. È mia moglie che la tiene così in ordine... E devo dire che prima dell'improvviso successo che ho avuto dieci anni fa non avrei davvero potuto permettermi l'esercito di collaboratori domestici che abbiamo dovuto assumere. Ma è troppo grande per occuparsene da soli. Allora, vuoi anche tu una tazza di caffè?» «Sì, grazie.» Blessing fece strada verso la grande, moderna cucina. Aprì un armadietto e prese due tazze, nelle quali versò poi del caffè da una caffettiera automatica della Braun sistemata sul piano di lavoro piastrellato. «Latte? Zucchero?» «Solo un goccio di latte.» «Anch'io lo bevo così. I grandi pensatori hanno gli stessi gusti. Ti dico una cosa, Donald. Prima che si trasferisse qui mia moglie, non avevo tutti questi moderni elettrodomestici. Possedevo la casa e un sacco di pezzi di antiquariato, ma non mi ero mai preso la briga di sistemare tutto in maniera ordinata. Il primo progetto di Amy è stato di ristrutturarla interamente e di renderla come la vedi ora. Immagino che l'abbia voluto per fare colpo sulle altre donne, e certo ci si sta molto bene ed è comoda... Ma per certi versi mi manca la confusione che regnava qui prima. Aveva un certo... carattere, capisci che cosa intendo?» «Be', non essendo proprio ricco, anch'io ho abitato in diverse dimore con
un certo 'carattere'.» «Ah! Ben detto! Ma non lo dire a Amy. È disperata per il mio studio, che è un vero disastro. Ma quello è il mio territorio, e lei non è ammessa. Che ne pensi, faccio male?» «Penso che il termine usato in psicologia sia 'confini'... Bill.» «Il linguaggio degli strizzacervelli! Lo adoro! La conduttrice di un talkshow centrato sulla psicologia è una delle protagoniste del mio nuovo libro», rise Blessing. «Viene impiccata con il cavo di un telefono e fulminata. E chi dice che la mia fiction non possiede valore letterario!» Donald scoppiò in una risata. Si sentiva molto più a suo agio. Inoltre, il caffè era buonissimo. Lui solitamente beveva caffè solubile, per svegliarsi al mattino o come stimolante mentre scriveva, quando il più delle volte lo lasciava raffreddare fino a diventare imbevibile. Il caffè di Blessing, invece, aveva un aroma ricco ed equilibrato, e il sapore era complesso ed eccellente. «Tutti gli autori di successo fanno un caffè così buono?» domandò. «No, non è un requisito indispensabile, ma ti ringrazio per il complimento. Mi piace il caffè. E Dio solo sa quanto ne avevo bisogno ora... magari corretto. Vieni con me. Blessing fece un cenno con il capo, poi si avviò di nuovo in direzione della sala da pranzo. Al capo opposto del grande locale, pieno di mobili antichi in noce e dominato da un incredibile tavolo in stile francese per dodici commensali, si trovava un fornitissimo mobile bar, ovviamente progettato su misura per adattarsi alle caratteristiche estetiche della stanza. Blessing appoggiò la tazza sul tavolo e aprì uno sportello del mobile. La schiera di bottiglie all'interno sarebbe stata sufficiente a rifornire un cocktail-bar di medie dimensioni. Blessing ne scelse una e si voltò verso il suo ospite per mostrargliela. «Gradisci un goccio di whisky irlandese, Donald? Bushmills.» «Ehm... no, grazie. Prenderò volentieri qualche birra con te, ma non bevo superalcolici.» «Buon per te.» Blessing svitò il tappo della bottiglia e versò una generosa dose di liquido ambrato nel suo caffè, riempiendo la grande tazza fino all'orlo. «Di solito non bevo a quest'ora della giornata, ma devo confessarti, Donald, che i miei nervi hanno bisogno di una calmata, oggi.» Blessing prese un sorso, fece schioccare le labbra, poi sembrò rabbrividire. Sembrava qualcuno che avesse appena avuto una sorta di... visione spettrale, pensò Donald.
«Ti senti bene?» Certo, un simile episodio avrebbe spiegato il suo aspetto scompigliato. «Ancora un paio di sorsi e starò meglio», rispose Blessing. Sollevò la tazza, bevve di nuovo, poi tornò a posarla. «Ecco. Del resto, come si può pretendere che un esperto di Poe stia lontano dal whisky?» Il professore sembrava vagamente inquieto e distratto. Ma poi guardò Donald Marquette e i suoi occhi riacquistarono intensità. «C'era un corvo sul tetto.» «Un corvo? Un corvo imperiale?» indagò Donald. «No. Un autentico corvo da fattoria di campagna... Di quelli per i quali i contadini costruiscono grandi spaventapasseri. Ma questo era molto più grosso del solito. Ero sul balcone, mi stavo godendo il sole primaverile e leggevo le bozze del nuovo libro di Stephen King, quando ho sentito un rumore che proveniva dal camino. E io, essendo un autentico cretino, sono salito sul tetto per dare un'occhiata. Sono scivolato, e ho dovuto aggrapparmi a una grondaia per evitare di cadere giù... magari proprio sulla tua testa!» Rise e bevve un altro sorso di caffè corretto con il whisky. Il pezzo di tegola! ricordò Donald. «E mentre me ne sto aggrappato lì, salta fuori questo corvo e comincia a fissarmi. Aveva grandi occhi rossi. Metteva davvero paura. Si avvicina alle mie mani e per un attimo penso, Gesù! ora si metterà a beccarmi le dita con quel beccaccio affilato!» «Mamma mia!» «Espressioni più forti mi sono passate per la testa in quel momento, te lo posso garantire. Ma quel corvo... mi ha squadrato. Mi ha studiato. Era come se volesse accertarsi che ero proprio io. Sembrava... dotato di intelligenza. È rimasto a fissarmi per qualche istante, che a me sono sembrati un'eternità, poi ha allargato le ali, ha gracchiato e ha spiccato il volo. Non ho ancora idea se abbia costruito un nido lassù. Dovrò mandare qualcuno a controllare. «Ma certo non sarò io a tornarci», concluse Blessing. «Ci puoi contare. Non io!» Un altro sorso di caffè, al quale seguì una pausa di silenzio durante la quale Blessing studiò Marquette. Il professore sorrise. «No, Donald. Non ti arrampicherai affatto sul tetto. Questo non fa parte del lavoro che svolgeremo assieme.» Gli posò una mano paterna sulla spalla e gli diede un colpetto. «Sei qui in qualità di mio assistente. E per aiutarmi con l'antologia.» Blessing agitò un indice nell'aria, fingendo autoritarismo.
«Non sei qui per scacciare volatili che saccheggiano gli spioventi del mio tetto.» «È un sollievo. Ma se questo rientra nelle prove necessarie per poter lavorare con un personaggio come te... Ebbene sono pronto!» dichiarò Donald. «No, no. Dovrai solo leggere, scrivere e condurre ricerche. Dovrai sporcarti le mani solo portando a termine qualche lavoretto da impiegato. A proposito, ti sei sistemato nella tua nuova abitazione?» «Sissignore. La pensione che mi hai trovato è perfetta.» «Sapevo che ti sarebbe piaciuta. Gli studenti più adulti dovrebbero sempre avere qualcuno che si occupa di cucinare e fare le pulizie per loro. Quelli con troppi impegni domestici... be' non hanno mai il tempo necessario per il loro lavoro. E dal momento che tu stai scrivendo un romanzo... e magari dovrai tenere anche qualche lezione... No, non se ne parla. La pensione della signora McDonald è l'ideale. E puoi andare all'università a piedi. E anche venire qui!» «Ti sono davvero grato per avermela trovata.» «Bene, bene. Dunque. Ora mi verserò ancora un po' di caffè e un goccio di whisky, dopodiché andremo di sopra e ti mostrerò il resto della casa.» «Mi mostrerà anche il luogo dove lavorerò?» «Sì, il tuo posto ai remi di questo splendido galeone, impegnato a navigare gli impetuosi mari della letteratura. Tutti i miei schiavi hanno un loro cubicolo nel reparto dei computer!» Blessing rise all'espressione comparsa sul volto di Donald. «Sto scherzando, naturalmente. Ho un paio di studenti che lavorano per me part-time per tenere aggiornato l'archivio e sbrigare qualche mansione di segreteria. Anche Amy mi dà una mano. Sai, gli scrittori hanno a che fare con una grande quantità di scartoffie.» «Immagino che tu abbia bisogno di un aiutante a tempo pieno solo per leggere la posta degli ammiratori», osservò Donald. Blessing rise amabilmente. «Eh, sì. Il ragazzo è ben preparato nella sana, vecchia arte dell'adulazione. Sempre una dote piuttosto eccezionale, direi. Vieni, vieni ragazzo mio.» Blessing inarcò un sopracciglio. «Varca la soglia del mondo di Edgar Allan Poe e di William Blessing. Abbandonate ogni speranza, o voi che entrate!» Donald lo seguì, felice, sentendosi un uomo davvero fortunato. Chi avrebbe immaginato che i racconti realizzati all'università durante il corso di scrittura creativa l'avrebbero portato fin lì! Aveva sempre amato la
letteratura, sia quella trovata sugli scaffali dei negozi di libri usati sia nelle biblioteche. Era un lettore vorace, entusiasta delle emozioni e degli scopi della narrativa, ed era stata una naturale conseguenza quella di cercare di orientare la sua vita in quella direzione. Aveva conseguito la laurea in Lingua e letteratura inglese all'Università dell'Iowa, a indirizzo pedagogico in modo tale da ottenere l'abilitazione all'insegnamento. Dopo l'università aveva lavorato come insegnante in un liceo di Dubuque, continuando a studiare di sera per ottenere un master in Letteratura americana. Nel frattempo, aveva anche preso a coltivare un hobby che cominciava a rivelarsi remunerativo: scrivere racconti. Dapprima si era dedicato ai gialli e alla fantascienza, ma ben presto si era reso conto di avere un'innata predisposizione per l'horror. La maggioranza dei suoi racconti erano stati pubblicati da piccole riviste come Cemetery Dance, Bones of the Children, Frights e altri periodici gestiti semiprofessionalmente (parecchi erano stati poi costretti a chiudere i battenti, come Inquities e Midnight Graphitti). Ma alcuni dei suoi racconti avevano ottenuto la pubblicazione su Magazine of Fantasy and Science Fiction e in altre riviste più prestigiose (incluso un brevissimo racconto in Rage, la sua prima comparsa in un mensile per soli uomini). Aveva anche scritto uno dei libri dell'eterna collana horror basata sulla nota serie televisiva Tramonto oscuro. Purtroppo, era stato praticamente riscritto dall'editor della serie televisiva, e il suo romanzo era rimasto vittima della tendenza degli editori a ridurre il numero di pubblicazioni di opere di fiction destinate a volumi di vendita limitati. In altre parole, il libro non aveva venduto molto perché non era sufficientemente ambizioso e l'autore non era ancora un nome conosciuto tra i lettori. Ma lo sarà ben presto, si era detto. La tesi che aveva discusso per ottenere il master era intitolata: «William Blessing e la letteratura gotica americana». Era rimasto sorpreso ed entusiasta quando Blessing si era degnato di rispondere alle domande che gli aveva rivolto in una lettera. E quando aveva ricevuto una copia della tesi, William Blessing aveva apprezzato a tal punto il lavoro di Marquette da incoraggiare la sua pubblicazione, in forma di monografia, da parte di una piccola casa editrice universitaria. Avevano cominciato a corrispondere per mezzo di posta elettronica, e quando Donald aveva cominciato a covare l'ambizione di conseguire un dottorato, Blessing gli aveva dato il suo pieno appoggio. Avendo letto e apprezzato non solo la saggistica di Donald Marquette, ma anche i suoi racconti, Blessing gli aveva proposto di presentare domanda alla Johns Hopkins University e si era adoperato per far-
gli ottenere una borsa di studio. Blessing stava inoltre curando un'enorme antologia di fiction gotica in tre volumi: uno dedicato agli autori nordamericani, uno agli inglesi e uno agli scrittori del resto del mondo. In aggiunta ad altri compiti di editing, Blessing sperava che Donald potesse avere interesse anche nell'aiutarlo a compilare l'antologia. Naturalmente, Donald aveva reagito con entusiasmo alla proposta. L'insegnamento al liceo cominciava a frustrarlo. Ottenere un dottorato presso un'università prestigiosa come la Johns Hopkins gli avrebbe consentito di aspirare al ruolo di assistente professore in qualche ateneo. Inoltre, la sua collaborazione con un personaggio del calibro di Blessing, sia a livello accademico che sul fronte della narrativa popolare, non poteva che avere riflessi positivi sulla sua carriera di scrittore. Con l'aiuto di Blessing la sua domanda venne accettata dalla sede di Baltimora. Era giunto in città prima dell'inizio dell'anno accademico in modo da ambientarsi e cominciare a lavorare insieme con Blessing all'ambiziosa antologia in tre volumi. Ora, la prospettiva di vedere la famosa biblioteca di Blessing con la sua incredibile collezione di reperti, non solo attinenti a Edgar Allan Poe, ma anche ad altri scrittori della tradizione gotica, provocò in Donald un'eccitazione tale da percorrerlo come una scarica elettrica. A parte la strana storia del corvo sul tetto, la giornata si prospettava meravigliosa. Blessing, per quanto palesemente disturbato dall'episodio (e dal suo incontro ravvicinato con la morte) era una brava persona e Donald, per quanto ancora nervoso, si sentiva molto più a suo agio grazie alla gentilezza e alla calorosa accoglienza del professore. Che magnifica esperienza lo attendeva al piano di sopra! Blessing fece una rapida deviazione in direzione del mobile bar. «Andiamo», esortò, versandosi un altro goccio di whisky nella tazza, stavolta senza diluirlo con caffè di prima qualità. Si lisciò i capelli sulla testa e indicò il soffitto. Gli brillavano gli occhi. Era chiaro che adorava mostrare la sua casa e i suoi tesori agli ospiti, soprattutto a quelli come Donald Marquette, che potevano apprezzarli appieno. «Andiamo nel laboratorio e vediamo che c'è sul tavolo operatorio.» «Un sacco di libri, immagino», disse Donald. Mentre imboccavano il corridoio, diretti verso le scale, si aprì la porta d'ingresso. «Ah! Mia moglie!» esclamò Blessing. Tracannò rapidamente il whisky e si pulì le labbra con una manica. Passò la tazza a Donald. «Fammi un favo-
re: occulta le prove, d'accordo?» Estrasse una caramella balsamica dalla tasca, la liberò dell'involucro e se la infilò in bocca. «Okay», lo assecondò Donald. Si fermò un istante a riflettere, poi tornò in direzione della cucina. Si avvicino al lavandino e aprì il rubinetto dell'acqua calda, sciacquando via dalla tazza ogni traccia di whisky. Quando lo richiuse, sentì due voci nel locale attiguo: quella di un uomo e quella di una donna. «Per fortuna non ti sei fatto male.» «Ti garantisco una cosa: nessuno riuscirà più a farmi salire su quel tetto una seconda volta. Ma ora vieni, cara, è arrivato Donald Marquette.» «Splendido! Non vedevo l'ora di conoscerlo.» La voce della donna era ricca, dolce, melliflua. Marquette uscì dalla cucina, asciugandosi furtivamente le mani sulla camicia, preparandosi all'incontro con quella che immaginava come una donna energica ed espansiva. Forse con qualche striatura di grigio tra i capelli, ma solida nel fisico, dotata di un sorriso gentile e maturo, e dell'equilibrio necessario a garantire a un grande scrittore e accademico come Blessing una salda ancora su cui contare per affrontare le impetuose burrasche della vita. «Donald! William mi ha parlato così tanto di te», confessò la donna quando lo vide. Donald Marquette sbatté le palpebre e si bloccò. Amy Blessing era una delle donne più belle e affascinanti che avesse mai incontrato in vita sua. E non poteva avere più di venticinque anni. 6 Si spengono le luci - si spengono tutte! E su ciascuna figura tremante. Il sipario, funebre drappo, Cala con la furia di una tempesta, E gli angeli, pallidi e sfiniti, Si levano e svelandosi affermano Che la tragedia ha per titolo «Uomo» E l'eroe è il Verme Conquistatore. EDGAR A. POE, «Ligeia»
Nello scantinato c'era una ragazza con un pugnale conficcato nel petto. Baxter Brittle riuscì in qualche modo a controllare il tremore delle mani mentre si versava una generosa correzione al cognac francese in un bicchiere di Coca. Una ragazza molto, molto morta. Brittle bevve con gratitudine, permettendo all'alcol di distaccarlo una frazione di più dal problema con cui era alle prese. Anche la familiare atmosfera del locale in cui si trovava gli dava una mano: la sensazione tattile delle bottiglie, l'odore delle birre e delle sigarette consumate la sera precedente. Per fortuna Ed, l'uomo delle pulizie, era arrivato di buon'ora come al solito e aveva dato una ripulita al bar dopo i baccanali della notte. Baxter e gli altri baristi ce la facevano da soli durante la settimana, ma al sabato e alla domenica mattina avevano assoluto bisogno dell'aiuto di un professionista. Ore tutte le lattine di birra vuote si trovavano in un sacco nero sul marciapiedi davanti al locale, insieme agli altri relitti del venerdì notte. Peccato che gli spazzini non passino a ritirare anche i cadaveri, pensò Baxter. Fuori era una bellissima giornata di primavera, purtroppo. Una delle qualità migliori del suo bar erano le persiane alle finestre, che gli permettevano di controllare l'illuminazione interna. La maggior parte del tempo le teneva ben chiuse. Baxter era orgoglioso del fatto che nel suo locale era in grado di creare una notte perpetua. In quel momento, infatti, le persiane erano chiuse. L'interno era illuminato solo dalla fioca luce di un neon al soffitto, da qualche lampada dietro il bancone e dal segnale luminoso posto sopra l'uscita d'emergenza che dava sul retro. Ciononostante, c'era fin troppa luce per i gusti di Baxter Brittle, date le delicate condizioni in cui si trovava. Fu contento di aver preso l'abitudine di portare saltuariamente occhiali scuri, all'interno del locale e all'esterno: nessuno avrebbe notato alcunché di strano nel vederglieli inforcare quel sabato pomeriggio (non solo per proteggersi dalla luce, ma anche per nascondere gli occhi iniettati di sangue e le profonde occhiaie). Buttò giù il resto della Coca, concedendo al cognac l'accesso al suo organismo. Poi se ne versò dell'altro, liscio, e appoggiò il bicchiere sul bancone. Dopodiché passò in rassegna il suo dominio. Grazie a Dio non c'è nessuno, disse tra sé. Sapeva che prima o poi qualche cliente barcollante si sarebbe fatto vivo, ma voleva approfittare di ogni minuto di pace a sua disposizione per rimet-
tere in funzione a pieno regime il suo cervello. Dopo l'intimo incontro con il sangue e la morte era riuscito a trascinarsi nel suo appartamento al piano di sopra. Aveva fatto una lunga e rigenerante doccia calda, che aveva contribuito notevolmente a rimetterlo sulla giusta carreggiata per riacquistare uno stato se non altro prossimo alla sanità mentale. Mentre si frizionava lo shampoo nei capelli e si lasciava carezzare dal vapore aveva raggiunto una conclusione. Qualsiasi cosa fosse accaduta la notte precedente, c'era tempo per affrontarla. Era trascorso il tempo sufficiente per permettere ad alcuni ricordi chiave di tornare a prendere forma nella sua mente, il più importante dei quali era il fatto che la ragazza veniva da lontano, da molto lontano; era scappata di casa, se non ricordava male, ed era appena giunta in città, dove non conosceva nessuno. Probabilmente gli altri Goths stavano smaltendo una sbornia simile alla sua, rifletté Baxter. Anche nel caso in cui qualcuno di loro ricordasse quello che era successo la notte prima, era ragionevolmente sicuro che non si sarebbe rivolto alla polizia. No, sapeva troppe cose sul loro conto ed esercitava un potere sufficiente da poter contare sul fatto che si sarebbero recati al bar, per controllare la situazione e discutere con lui il da farsi. Nessuno ancora si era fatto vedere, ma non c'era da stupirsene. Molti componenti della gang non si alzavano mai dal letto prima del tramonto. Vampiri di Baltimora! Meglio così. Dopo la doccia aveva indossato indumenti puliti, chiuso con un lucchetto l'accesso allo scantinato e aperto la porta d'ingresso del locale. Aveva concluso che la scelta di non aprire il locale avrebbe potuto destare qualche sospetto. No, meglio tenere duro ancora un giorno, affrontare un altro tipico sabato di lavoro, per poi dedicarsi all'orrore nello scantinato di notte dopo la chiusura o il giorno successivo. Per questo aveva chiuso la porta dello scantinato con un lucchetto. Certo, i poliziotti avrebbero potuto sfondarla, ma era un'eventualità a cui avrebbe fatto fronte nel momento in cui fosse accaduta. Per il momento la cosa giusta era far buon viso a cattivo gioco, immettere nell'organismo una quantità sufficiente di droga e alcol per apparire normale e continuare a servire da bere ai clienti come al solito. Aveva appena cominciato a pensare lucidamente, finalmente libero dal cuneo di terrore e di ansia che sembrava gli penetrasse nel culo, quando la porta si aprì ed entrò l'uomo tutto vestito di nero. Era un uomo alto e muscoloso. Aveva il torace a forma di V e indossava
un paio di stretti blue jeans. Dalle spalle immense un cappotto di ottima fattura pendeva giù fino all'altezza dei tacchi degli stivali di cuoio nero. I capelli lunghi e mossi mettevano in risalto un volto che pareva scolpito nella pietra. Gli occhi erano incastonati in profondità tra le arcate sopraccigliari e gli zigomi, e guardavano Baxter con stupefacente intensità. «Ehi, Brittle», salutò l'uomo, rivelando denti bianchi e lupeschi in un sorriso da predatore. «Che ne dici di farmi un bel vodka martini? Shakerato, non agitato. Proprio come te.» Il sorriso si trasformò in un ghigno. Baxter lo fissò. Conosceva quell'uomo. Già, lo conosceva... e le tessere del mosaico cominciarono a combaciare. Ieri sera. Quest'uomo era qui nel bar ieri sera! Ma era tra quelli che erano scesi nello scantinato? La mente di Baxter Brittle si era messa in moto a pieno regime, ma non riuscì a ricordare altro. Tuttavia, per il momento era sufficiente. C'era qualcosa di importante nella presenza di quell'uomo. Di vitale. Difficile dire esattamente cosa fosse, ma poteva guadagnare tempo preparando il cocktail che aveva ordinato. Baxter sorrise. «Ehi, amico. Sei il primo cliente della giornata. Cocktail doppio a prezzo di favore.» «I cocktail si pagano sempre con qualcosa di più che semplice denaro», osservò l'uomo. Aveva un voce precisa e risonante, ricca di ironia. Baxter si sforzò di ridere. «Già. Ma vanno giù bene.» Tirò fuori lo shaker d'acciaio inossidabile e lo usò come una paletta per raccogliere la giusta quantità di ghiaccio tritato. Una generosa dose di vodka, una lacrima di vermouth. Coperchio. Movimento da manuale per shakerare. Rapidamente, senza permettere al ghiaccio di sciogliersi, posizionò uno dei suoi classici bicchieri da martini su una tovaglietta davanti al cliente. La retina in cima allo shaker trattenne il ghiaccio mentre versava il miscuglio trasparente. Era un rito con regole precise, e l'esecuzione delle varie fasi gli procurò uno strano ma familiare conforto. «Oliva o twist?» «Cos'è, un romanzo di Charles Dickens?» «Come? Ah, ho capito.» Guardò l'uomo e gli strizzò l'occhio come per complimentarsi, puntandogli contro l'indice. «Buona. È un po' presto per capire certe battute al volo.»
«Ci credo... dopo quello che è successo ieri notte.» L'uomo si sporse sul bancone, mostrando i denti in un ghigno alla Jack Nicholson. «Prenderò sia l'oliva, sia la buccia di limone. Grazie.» Baxter aprì il cassetto che conteneva il vassoio dei condimenti, scelse una grossa oliva spagnola farcita e la infilzò con uno stuzzicadenti. Poi tolse un ricciolo di buccia da un limone e lo lasciò cadere delicatamente nel drink. Con grande cautela, azzardò: «Non credo di capire a cosa ti riferisci». Studiò il volto dell'uomo, tentando di ricordare qualcosa di più, ma non ottenne altro che la vaga certezza che l'uomo era stato in qualche modo coinvolto negli eventi della notte. L'uomo prese tra le dita l'estremità dello stuzzicadenti, lo agitò per qualche istante nel cocktail, poi mangiò l'oliva. La masticò con metodo, poi bevette un dito del drink, gli occhi penetranti sempre fissi in quelli di Baxter. «Spero che tu non voglia considerarmi nient'altro che un alleato, Baxter. Ti dirò di più. Ci tengo a rassicurarti che mi trovo in pieno accordo e armonia con tutto quello che fai nella vita. Ma io posso guidarti nella direzione in cui desideri andare.» «Scusami, ma non ti seguo.» Baxter aveva paura, ma era anche irritato. «Senti, ammetto di aver bevuto troppo ieri sera. Non ricordo nulla di quello che è successo dopo le dieci.» «Ma mi riconosci.» «Vagamente.» «Bene. Conta solo questo. A proposito, fattene uno anche tu. Offro io.» «Ti ringrazio.» Baxter prese una bottiglia di vodka, se ne versò un bicchierino e bevve un sorso. Il bruciore dell'alcol nella gola gli concesse un attimo di tregua dall'angoscia che andava montando in lui. «Che stai cercando di fare, di ricattarmi?» Sospirò. «Se sei a caccia di soldi, temo che tu abbia sbagliato persona.» L'uomo sorseggiò il suo cocktail, continuando a fissare intensamente Baxter. Sembrava un gigantesco serpente che avesse intrappolato la preda in un angolo, impegnato a squadrarla e a prepararsi per l'affondo mortale. «Siamo entrambi a caccia di soldi, me ne rendo conto. Ma se riusciremo a sviluppare una certa sincronia, più avanti verranno anche quelli.» L'uomo raddrizzò la schiena, con fare rilassato. «Il tuo risveglio dev'essere stato piuttosto scioccante, non è così Baxter Brittle? E io voglio aiutarti a venire
fuori dalla situazione in cui ti trovi.» Baxter finì il contenuto del bicchiere. «Basta con i mezzi termini. Che cosa mi stai proponendo?» «L'hai visto quel film, Pulp Fiction?» «Certo.» «John Travolta e Samuel L. Jackson fanno saltare per sbaglio le cervella al tipo sul sedile posteriore della loro macchina. Il risultato? Un gran casino nel retro dell'auto. La portano nel garage di Quentin Tarantino. Il boss dei due sicari chiama Harvey Keitel, che sa tutto quanto occorre fare prima che arrivi la moglie di Tarantino. Lui è l''uomo che risolve i problemi'.» «Che vuoi dire?» «Chiamami pure Harvey.» L'uomo sorrise. «Tu hai un problema. Io te lo posso risolvere. Chiaro e semplice.» Baxter scosse la testa. «Se tu sai che ho un problema, allora forse saresti così gentile da dirmi che cos'è successo!» «Forse è meglio che tu non lo sappia, Baxter. Dormirai molto meglio in futuro se cerchi solo di metterti dietro le spalle questa brutta faccenda. E io mi occuperò... di sollevarti dei pesi morti nella tua vita. Nessun altro lo sa, Baxter. E a nessuno importa nulla della vittima. In ogni caso, io possiedo il talento e il potere di cancellare ogni traccia che rischia di condurre qui chiunque la stia cercando.» Baxter era infinitamente grato per il fatto che non c'erano altri avventori nel bar. L'essenza stessa della sua persona sembrava aver chiuso i battenti dal momento in cui aveva visto quel pugnale conficcato nel corpo della ragazza. Ora qualcosa di molto simile alla speranza andava prendendo forma nei recessi della sua mente. Sapeva perfettamente che quell'uomo poteva essere una strana specie di informatore. Forse era un investigatore che si occupava di sette sataniche, impegnato a indagare nel mondo dei Goths e che si era imbattuto in qualcosa di molto più grosso di quanto avesse previsto: l'opportunità di inchiodare l'autore di un odioso omicidio a danno di una povera vittima innocente. No. Scrutando il volto roccioso dell'uomo, Baxter vi lesse ambizioni di altro genere. Ambizioni dalle quali si sentiva già contagiato. Baxter prese un pacchetto di sigarette francesi. Ne prese una e se la infilò tra le labbra. Quel semplice gesto bastò a farlo sentire più forte. «Dimmi come ti chiami. Prima devo sapere qual è il tuo nome», spiegò offrendo una sigaretta allo sconosciuto. L'uomo prese una Gauloise e se la portò alla bocca. Da una delle grandi
tasche del cappotto prese un accendino. Accese la sigaretta. Mentre avvicinava poi la fiamma al tubicino di tabacco tra le labbra, Baxter Brittle notò che l'accendino era fatto di legno e metallo, con le sembianze intarsiate di uno dei famosi gargouille di Notre Dame. «Prince. Mi chiamo Mick Prince.» Mick Prince. Sì, aveva già sentito quel nome. La sera prima, certo... Ma anche in un altro contesto. «Sei un abbonato! Un abbonato a The Tome. E...» E ci hai proposto racconti e poesie... La prosa e i versi più rivoltanti e maligni che abbia mai letto in vita mia. E io ho rifiutato di pubblicarne anche solo una virgola. «... ci hai mandato del materiale, se non sbaglio.» L'uomo sembrò illuminarsi in una sorta di infernale piacere. «Esatto. Nulla che corrispondesse alle vostre esigenze, credo. Ma questa è una delle cose di cui potremo discutere. Vedi, una dimensione tutta nuova sta per aprirsi a te e alla Tome Press.» Una nuvoletta di fumo oscurò momentaneamente il suo volto. «E io voglio mostrarti come raggiungerla.» Baxter comprese tutto in un lampo. Guadagnò tempo inspirando una densa e aromatica boccata di fumo ed espirando lentamente, attraverso le narici, esaminando nel frattempo la punta del cancerogeno bastoncino gallico. Quell'uomo era uno psicopatico. Uno degli spiacevoli effetti collaterali che emergevano tra i gruppi estremisti di lettori della sua rivista, di cui era editore e redattore, e dei vari libri della Tome Press. Apparteneva a quella categoria di tristi personaggi che Baxter sapeva esistere ma che aveva sempre cercato di evitare. Ma ora, a quanto pareva, uno di loro era riuscito a insinuarsi sulla scena. Che cos'era successo la notte precedente? Se solo fosse riuscito a ricordare! Solo ricordando avrebbe potuto giudicare fino a che punto fidarsi di quella tenebrosa creatura. Brittle tentò di ricostruire mentalmente la scena. Immaginava di vedere i sibaritici edonisti del Salon, fatti e ubriachi, mentre danzavano con la Morte... Il pugnale cerimoniale, un mortale giocattolo, che affondava inspiegabilmente nel corpo di una delle partecipanti, un tragico incidente che poteva segnare la fine non solo del Salon des Gothiques ma anche della libertà personale e della gioia di vivere di Baxter Brittle. Era stato lui a impugnare il coltello? Era stato lui a urlare di gioia mentre penetrava con la lama il torace
della ragazza? No. Il rischio sarebbe stato troppo grande. Ma lo sconosciuto sapeva del cadavere nello scantinato, e oltre a non sembrare affatto intenzionato a denunciare il fatto alle autorità, gli stava offrendo un aiuto. Voleva occuparsi del problema, risolverlo, facendolo sparire in una gettata di cemento di un viadotto in costruzione, o nelle profonde acque della baia di Chesapeake, zavorrato da un'ancora e destinato a diventare cibo per i granchi. Perché no? Perché non accettare il suo aiuto? Un patto con il diavolo? No. Certo che no. Il diavolo non esisteva, come del resto non esisteva Dio. Come disse il fratello Crowley, il caro vecchio Aleister: Fai quello che vuoi, è questa l'unica legge. Be', quello che voleva fare lui era evitare di finire rinchiuso in una prigione o in una casa di reclusione statale, a offrire carne fresca di prima qualità ai predatori sodomiti! «E perché mai dovresti farlo?» domandò. «Perché vuoi aiutarmi?» «Voglio trasferirmi a Baltimora. Voglio entrare a far parte dei Goths.» «E perché? Chiunque sia dotato di un minimo di ambizione scappa via da Baltimora appena può. Se non avessi questo bar, io stesso me ne sarei andato da un pezzo.» Gli occhi d'agata dell'uomo brillarono e si socchiusero. «Perché credo che tu abbia... delle potenzialità. E sono convinto nel profondo dell'anima di essere io la chiave di queste potenzialità.» Di nuovo, le sue labbra si separarono e formarono quel sorriso forte, duro. Baxter Brittle rabbrividì. L'uomo aveva un lato oscuro impressionante. Cercò di tornare con la memoria alle poesie e ai racconti che l'uomo aveva inviato a The Tome. Ricordò vagamente scene di sventramenti, corpi in decomposizione che gocciolavano di fetidi umori, bambini scuoiati, imploranti salmodie rivolte a dèi dimenticati... la solita litania di adolescenziale adorazione della morte. Ma il materiale scritto da quell'uomo aveva qualcosa di diverso; conteneva una malsana intensità, una ferocia sfrenata che risultava allarmante. Spaventosa. E se avesse contenuto solo un accenno, un'ombra di valore letterario, Brittle ne avrebbe certamente pubblicato una parte. Tuttavia, gli scritti erano piuttosto puerili, privi di senso della struttura, di ritmo, di personalità o di altre qualità che potessero renderle degne di nota... a parte la loro brutale, aggressiva, stranamente confessionale in-
tensità, naturalmente. Eh, sì. La ferocia di quell'uomo faceva rabbrividire Baxter Brittle. Ma ne era altresì intrigato. E se proprio desiderava salvare il culo a Baxter Brittle... Perché impedirglielo? Non si fece illusioni. Era chiaro che avrebbe dovuto pagare un prezzo. L'uomo scriveva come un demonio ed era orgoglioso del suo lavoro; desiderava pubblicarlo. Chiaro e semplice. Ah, l'ambizione letteraria! Che affascinante condizione umana! Certo, amico... Tutto sommato queste poesie non sono affatto male. E i racconti... be', potrebbero avvantaggiarsi di una revisione, di qualche miglioramento nel tono e scorrevolezza. Ma a questo prowederemo noi. Certo! E seppure non riusciremo a pubblicarne più di un certo numero in The Tome... potrebbe esserci un'alternativa. Ma naturalmente! Un'edizione per collezionisti, firmata e numerata. Illustrata da... da chi? Ma certo, Alan Clark oppure Harry O. Morris sarebbero perfetti per la sopraccoperta, e poi uno di quei giovani artisti emergenti della Chaos! Comics o della Verotik per le illustrazioni interne. Credo proprio che potremo trovare un accordo, signore. E a proposito, grazie di nuovo per aver fatto sparire dal mio armadio quella ragazza nuda allo spiedo. Ho chiuso con le sedute chirurgiche alimentate dall'alcol, glielo garantisco! «Mmm. Sì... la gang è sempre in cerca di nuove forze!» L'uomo gli tese la mano. Indossava guanti di pelle senza dita. Il movimento della mano venne accompagnato da un tintinnio di catenelle e braccialetti. Baxter strinse il guanto nella mano. «Benvenuto nel club.» «Niente bisboccia, stasera. Cerca di rimanere sobrio», consigliò l'uomo. «Sei uno stronzo fortunato. Nessun altro ricorda quello che è successo ieri notte.» «E tu come lo sai?» indagò Baxter. Non che la cosa lo preoccupasse più di tanto. I membri della gang erano legati da un patto di sangue e anche se alcuni di loro erano stati presenti allo sciagurato, accidentale «sacrificio umano», certamente ora soffrivano tutti della stessa, confusa amnesia di Baxter. Nessuno sarebbe stato tanto stupido da rivolgersi alla polizia. «Fidati, fratello.» Si guardò attorno. «Non hai mai clienti a quest'ora?» «Sì. È che oggi non si sono ancora visti.» «Proprio come pensavo. Ti raccomando solo una cosa: tieni ben chiuso lo scantinato. Metterò tutto a posto io stanotte, dopo la chiusura.» Il lungo cappotto dell'uomo si animò e ondeggiò come un sipario che si chiudeva a
celare un mistero. «Tornerò qui a mezzanotte. Fatti trovare.» Si avviò a lunghe falcate verso la porta. Sulla soglia, si voltò e rivolse ancora una volta il suo sorriso maniacale a Baxter Brittle. «È bello far parte della tradizione gotica, vero, Baxter?» E con questo sparì, una chiazza nera sullo sfondo luminoso di un sabato mattina di sole. 7 Sì, è vero! Sono sempre stato e sono tuttora molto nervoso, straordinariamente nervoso; ma perché insistete nel dire che sono pazzo? EDGAR A. POE; Il rumore del cuore Gli prese delicatamente la mano nella propria e gli regalò la più soave stretta di mano che avesse mai ricevuto in tutta la sua vita. La mano era soffice, con dita lunghe ed eleganti, e lui avrebbe desiderato sentire in eterno il loro tocco sul proprio corpo. «Ehm... Ah. Sì. Piacere di conoscerla, signora...» Ma che cosa dici, cretino? Preso in contropiede, Donald Marquette cercava le parole giuste. «Amy. Sì, piacere, Amy.» «Stavo per mostrare la casa a Donald», intervenne il professor Blessing. Gli occhi di Amy Blessing brillarono e il suo sorriso si fece malizioso. «Dovresti farti pagare almeno dieci dollari, Donald. Tutte quelle sue vecchie cianfrusaglie possono diventare piuttosto noiose, a lungo andare.» Donald rise e con riluttanza le lasciò la mano. «Non puoi immaginare da quanto tempo sogno di vedere quelle cianfrusaglie.» Non era sicuro di essere riuscito a recuperare la sua capacità di parlare in modo coerente. Nel suo intimo si sentiva ancora come un adolescente imbarazzato a cui era stato mozzato il fiato. «E di trovarmi qui, di conoscere voi... di venire a Baltimora per studiare all'università. Mi sembra davvero tutto un sogno che si avvera.» Lei rise, esprimendo una gioia quasi infantile. «Bene. È bello far parte del sogno meraviglioso di qualcuno.» Donald Marquette non aveva mai conosciuto prima una donna come Amy Blessing. La prima volta che le posò gli occhi addosso fu per lui come ricevere fisicamente un colpo, un colpo vellutato che lo scosse in ogni sua fibra. Non era alta, un metro e sessantacinque al massimo, ma la sua
vitalità era tale da rendere la sua presenza fisica travolgente. Aveva lunghi capelli biondi perfettamente acconciati, che ricadevano su una semplice camicetta nera e andavano ad accarezzare seni né piccoli, né grossi. Indossava un paio di blue jeans della Guess, che le fasciavano il vitino ma permettevano al suo posteriore di esprimersi in tutta la sua splendida forma di albicocca. Ai suoi piedi le semplici scarpe da ginnastica nere della Reebok acquistavano grande femminilità. Un filo di trucco accentuava il nasino all'insù, aveva un mento affilato ma non spigoloso e zigomi alti. Tuttavia, forse la caratteristica più incredibile erano gli occhi. Aveva grandi occhi nocciola, vivaci e scintillanti; gli occhi dell'innocenza affamata di esperienza. Ogni gesto e movimento di quella donna tradivano un temperamento brillante e vitale. Detto semplicemente, era tanto bella che guardarla era doloroso. E i suoi occhi lo scrutavano con schietto interesse, come a chiedergli: Chi sei tu? Mi interessa molto. Voglio davvero saperlo. Ci tengo. Nella sua vita Donald Marquette non aveva conosciuto molte persone che tenessero davvero a lui. «Be', qui i sogni sono vietati», ammonì il professor Blessing. «Sono ammessi solo gli incubi. Sono loro la via alla ricchezza, alla fama e al benessere!» Rise, sottolineando la propria ironia. «Come ti trovi in pensione?» volle sapere Amy. «Ti sei sistemato? Se dovessero esserci problemi abbiamo una camera degli ospiti a tua disposizione.» «No, no. Sono arrivato ieri e sta andando tutto a meraviglia. La signora che gestisce la pensione mi sta già viziando», rispose Donald. «Non mi sono ancora abituato al fatto che c'è qualcuno che mi prepara la colazione al mattino.» «Che guaio», commentò Amy. «Be' dovrai abituarti anche a mangiare da noi, perché verrai certamente invitato spesso. Trovo che il progetto al quale stai lavorando con il nostro caro dottore sia davvero eccitante.» I suoi occhi sprizzavano contentezza «Sai, vi darò una mano anch'io. Certo, nel limite delle mie possibilità... Sono piuttosto presa.» «Anche Amy ha cominciato a scrivere, nei ritagli di tempo che i suoi studi per conseguire un master in musica le consentono. Se lei non fosse così impegnata probabilmente non avresti avuto questo impiego, Donald», gli fece notare Blessing. «Temo che dovrai sopportare i miei studi musicali mentre lavori», lo avvertì giocosamente Amy. «Ti assicuro che cerco di tenere ben accordato il
mio strumento. Per quanto riguarda invece le mie esecuzioni... e composizioni... Be', non ti prometto nulla.» Donald non si lasciò sfuggire l'occasione. «Ah! E che strumento suoni?» «Il pianoforte», rispose lei. «Pianoforte da concerto», precisò Blessing. «E a volte penso che mi abbia sposato solo per il mio Steinway a coda.» La cinse con le braccia. Lei si abbandonò al suo abbraccio con languore felino, sollevando la testa a guardarlo con amore, ammirazione e qualcos'altro di ancora più intimo. «A dire la verità, amore, preferisco il tuo organo.» All'improvviso arrossì e si portò una mano alla bocca, ridendo mentre guardava Donald. «Oh, che gaffe. Ma il fatto è che ha davvero un organo molto bello, sai, un organo a canne, come quelli delle chiese...» Blessing arrossì leggermente a sua volta. «Ora non devi fare altro che fornire misure e proporzioni, cara, e a quel punto il mio ego maschile risulterà definitivamente confermato a beneficio del nostro ospite.» Sorrise mestamente. Donald sbatté le palpebre, fingendosi confuso. «Dovete scusarmi, ma io non ci ho capito nulla!» Entrambi i Blessing risero. Insieme con l'imbarazzo, scomparve anche ogni frammento residuo di ghiaccio, di formalità. William Blessing allungò un braccio e lo posò paternamente sulle spalle di Donald. Ma Donald non fece caso a quel contatto fisico quanto all'impatto del profumo dei capelli di Amy, floreale e muschioso al tempo stesso. «Non ti preoccupare, ragazzo. Stammi accanto e vedrai che ben presto riuscirai anche tu a dire sciocchezze a ripetizione. Ora, che ne dici di andare a fare quel giro per la casa che ti ho promesso?» «In altre parole, mi si sta chiedendo di andare a preparare da mangiare», fece notare Amy. «Ti fermi da noi, vero Donald?» Il professor Blessing finse di venire meno e si portò il dorso di una mano alla fronte, assumendo una posa melodrammatica. «Che onta! Il mio segreto è stato svelato! Il mio status di scrittore politically correct è perduto! Costringo mia moglie a preparare pranzetti.» Lei inarcò un sopracciglio e si piazzò le mani sui fianchi. «A condizione che non mi mandi in giro scalza e perennemente incinta, immagino di poter sopportare la situazione. Ma ti prego di rimanere, Donald. A pranzo il professore sa essere così noioso...» «D'accordo, grazie», accettò Donald.
«Magnifico!» Amy rivolse a entrambi un saluto con la mano e si allontanò per darsi da fare. Donald dovette costringersi a toglierle gli occhi di dosso. Gli costò un notevole sforzo di concentrazione riportare la sua attenzione su quanto diceva il professore mentre gli faceva strada salendo la scalinata con corrimano d'epoca. Il profumo di lei, le tracce del suo passaggio nell'aria sembrarono persistere come per una splendida stregoneria. «Siete davvero una coppia unica. Se mai dovessi raccontare tutto questo in pubblico, verrebbero in massa a fare richiesta di un dottorato alla Johns Hopkins University.» «Credo che i nostri contatti precedenti abbiano contribuito molto a farci sentire a nostro agio con te, Donald», spiegò amabilmente Blessing. «Sei un giovane intelligente, dotato di talento, che lavora duro, e molto promettente nel tuo campo. È un mio vanto quello di riuscire a individuare simili qualità. Inoltre, hai qualcosa che riveste forse un'importanza pari a tutte queste altre qualità. Hai iniziativa.» Senza volerlo, Donaid annuì. «Direi più precisamente ambizione sfrenata.» Blessing si fermò in cima alle scale e si voltò, evidentemente colpito dall'intensità, dalla sincerità e dalla convinzione con cui il nuovo assistente aveva parlato. «Bene, allora. Lungi da me fare altro che agevolare l'ascesa della nostra nuova stella letteraria!» Donaid sorrise alla venatura di ironia nella battuta. Ma provò anche una bruciante punta di rabbia. Aspetta e vedrai, bastardo compiaciuto che non sei altro. Ti farò vedere io. Gliela farò vedere a tutti. «Se non sbaglio», disse Donaid con voce pacata, «già da ragazzo Edgar Allan Poe era convinto che sarebbe diventato un grande poeta. E credo di ricordare qualche frase tratta dai tuoi primi lavori in cui descrivevi la missione della tua vita. È per questo che sono qui, professor Blessing. Bill. Per stare a contatto con un personaggio di grande ambizione e ispirazione.» «Devo ripetere che i complimenti sono sempre ben accetti quando vengono dal cuore.» Serrò le labbra, fingendosi mortificato. «Mmm. Credo tu ti riferisca a quel breve saggio che scrissi all'epoca del mio dottorato, 'Sulle ali di Poe'.» «Esatto.» «Ero piuttosto giovane e sciocco, allora. Convinto delle mie idee come
solo i giovani sanno essere. Ora sono solo sciocco.» «Capisco, ma allora invocasti Poe come tuo ispiratore, affermando di sentirti a volte addirittura come se fossi la sua reincarnazione. E comunque era come se invocassi il suo spirito. Ne rivendicavi quasi il possesso. Un'autentica ostentazione di audacia. Un pezzo davvero stupefacente. Potere e passione, una miscela esplosiva, eppure gestita con magistrale controllo. Dio, mi fece venire la pelle d'oca quando lo lessi.» Donald scosse la testa in segno di genuina e totale ammirazione. «La letteratura possiede un tale potere.» «Sì. In questo hai ragione. Trascende lo spirito. Trascende l'arte. Trascende lo spazio e il tempo e le cose meschine dalle quali la nostra vita è gravata», disse Blessing. Seguì una pausa di condivisa serietà. Donald Marquette notò il suo nuovo mentore che lo fissava in modo strano e preoccupato. Lo stava soppesando, giudicando, ma al tempo stesso si andava formando una unione... E un brivido di oscura luminosità gli accarezzò il cuore. Avvertì una comunione di spiriti, ma anche un'inspiegabile sensazione di pericolo. E le due cose assieme risultarono eccitanti come il pensiero delle labbra di Amy Blessing che gli sfioravano delicatamente il lobo dell'orecchio. Blessing rise di nuovo, rompendo l'incantesimo. «Eh, sì, Poe! Poe! Andiamo a fare qualcosa di più che invocare il suo spirito. Invochiamo la gloriosa strada maestra che ci ha indicato!» Fece cenno all'ospite di seguirlo. Tirò fuori un mazzo di chiavi. La robusta porta alla quale giunsero era dotata di una serratura a combinazione e protetta da un sistema d'allarme. Blessing digitò una sequenza di numeri. La luce sul congegno elettronico da rossa si fece verde e qualcosa nella porta scattò. Blessing inserì una delle chiavi del nutrito e tintinnante mazzo che teneva in mano. Mentre apriva la porta, Donald avvertì una corrente d'aria fresca. «Mmm... Sei sicuro che questa non sia la stanza H.P. Lovecraft?» domandò Donald. «Dio, che sagacia! Una battuta dopo l'altra. No, è solo consigliabile tenere bassa la temperatura all'interno della stanza; per conservare meglio la collezione, capisci.» Blessing fece un gesto plateale improvvisando un'imitazione di Vincent Price. «Venga avanti, mio onorato ospite. Mi perdoni se non ho con me il candelabro, ma lo sto facendo lucidare.» Blessing allungò una mano all'interno e premette un interruttore. La
stanza venne inondata di luce soffusa. Si voltò a guardare il suo ospite con un luccichio maniacale negli occhi, poi lo precedette oltre la soglia. Incredibile, pensò Donald entrando nella stanza. La prima cosa che lo colpì non fu tanto il contenuto della stanza, bensì l'ordine che vi regnava. Era un locale ampio, con finiture in stile vittoriano, ma arredato con tavoli, librerie e vetrinette moderne, tutte impeccabilmente illuminate da faretti nascosti, oppure con fonti luminose incastonate nella parte inferiore per conferire agli oggetti un senso di profondità maggiore di quella data da tre dimensioni solo. C'erano indumenti, occhiali, penne, pettini, bicchieri, bottiglie, scarpe, mobili, schizzi, dipinti, fotografie e dagherrotipi, tutti meravigliosamente messi in mostra ed etichettati. Ma più che altro c'erano libri. Libri, riviste, manoscritti. Lettere, quaderni, blocchi. La stanza ne era stipata, e il loro argomento principale indicato dalla posizione centrale riservata a un busto di Pallade sovrastato da un corvo imperiale imbalsamato; alla parete, sopra la scultura, un grande ritratto splendidamente incorniciato, il cui soggetto ostentava la familiare fronte arcuata, le sottili labbra, i baffi, gli abiti da dandy e lo sguardo tenebroso, con gli occhi che sembravano sopravvivere a fatica alla propria oscurità. EDGAR A. POE erano le parole incise sulla targhetta sotto il pregevole ritratto. «Avrai tempo in abbondanza per ispezionare tutto da vicino, a tuo piacimento», assicurò Blessing. «Alcuni indumenti e reperti appartenuti all'uomo e risalenti alla sua epoca...» Avanzò nella stanza, accarezzando delicatamente con un dito le superfici vitree dei mobili. «Lettere. Pezzi autografi. Tutto quanto. Testimonianze e documenti del tempo trascorso sulla terra da un grande personaggio. E, naturalmente, tutte le edizioni ancora esistenti delle sue opere, incluse le edizioni estere degne di nota, le edizioni pirata e le traduzioni non autorizzate. Tamerlano. Al Aaraaf. Racconti del grottesco e dell'arabesco. Collected Tales. Eureka. Tutte prime edizioni.» Parlava con tono enfatico, ma Donald udiva appena la sua voce. Si avvicinò alla vetrinetta indicata da Blessing e la fissò. I libri al suo interno avevano un aspetto piuttosto modesto, ed erano innegabilmente vecchi. Tuttavia, sembravano rifulgere di una luce ulteriore agli occhi del giovane scrittore e studioso. Le prime edizioni delle opere di Edgar Allan Poe. Aveva forse tenuto lui stesso quei volumi tra le mani tremanti?
Li aveva autografati per i suoi ammiratori? Aveva accidentalmente versato del vino sulle loro pagine? Erano i bambini di cui aveva potuto seguire l'infanzia. Anche nei suoi più folli deliri, il loro creatore aveva mai potuto immaginare quanto grandi sarebbero diventati, quanta ammirazione avrebbero destato? «Naturalmente le copie più rare sono protette da custodie fatte su ordinazione, provenienti per la maggior parte dalle grandi biblioteche private di Baltimora dell'epoca. Le rilegature personalizzate erano di gran moda a quei tempi. Gli editori mettevano spesso a disposizione dei loro clienti più appassionati e facoltosi copie non tagliate perché potessero portarle dai loro rilegatori preferiti. Era uno status symbol. Si avvalevano di artigiani di squisita bravura. «Inoltre, sono riuscito a rintracciare tutte le riviste dell'epoca di Poe in cui è apparso il suo lavoro. Non solo il Southern Literary Messenger, Burton's, The Mirror, The Broadway Journal, ma anche tutte le altre pubblicazioni in cui apparve o alle quali collaborò come redattore. Possiedo anche alcune serie di riviste alle quali potrebbe aver collaborato celandosi sotto pseudonimi, una pratica nella quale sappiamo che indulgeva spesso. Credo anche di aver scoperto qualche racconto e alcune poesie precedentemente non attribuite a Poe.» Gli occhi di Blessing ardevano di entusiasmo. «Sto scrivendo proprio in questi giorni un articolo in merito, in preparazione dell'uscita di un volumetto. Prova a immaginare! Nuovi racconti e nuove poesie di Edgar Allan Poe.» Donald Marquette era senza parole. Era inaudito. Centinaia di studiosi dovevano aver indagato a fondo la vita di Poe, le sue opere e le riviste del suo tempo; com'era possibile che nessuno si fosse accorto dell'origine di simile materiale? La sua metà più razionale si rifiutava di credere a una tale possibilità. Tuttavia, il cultore di Poe che c'era in lui trovò oltremodo eccitante l'idea di una prospettiva del genere. «Quella che vedi qui, Donald», continuò Blessing, «è la più grande collezione privata del suo genere. È il motivo per cui non possiedo una seconda casa negli Hamptons!» Sorrise. «Ho investito troppo tempo e denaro in tutto questo, ma del resto tali sono i privilegi offerti dall'essere il discendente di un'agiata famiglia di accademici. La mia famiglia comprendeva letterati e studiosi già prima della guerra civile americana. Molti pezzi della mia collezione, e naturalmente questa stessa casa, sono il risultato della lungimiranza dei miei antenati. Pur considerando le risorse oggi a mia disposizione, dubito fortemente che sarei riuscito da solo a mettere
insieme una simile collezione.» Il suo sguardo si fece distante, assente, come se stesse avendo una visione. Dopo una breve pausa Blessing tornò a voltarsi verso Donald e sorrise. «È per me fonte di costante ispirazione custodire qui tanta parte della vita di Poe. E trovo altrettanto rinvigorente la consapevolezza di dover affrontare solo un breve viaggio in automobile per potermi recare in visita alla sua tomba, ai suoi resti terreni. È come se tutto questo costituisse un arcano microfono attraverso il quale il suo spirito mi parla, si identifica con me, si mette al mio servizio come io sono al servizio della voce che trovò mesta e dolorosa espressione dalla sue labbra.» Blessing produsse un sorriso furbo. «Naturalmente tutto questo ha anche un notevole valore materiale.» «Certo», commentò Donald. «Ma non è per questo che hai fatto della collezione la tua ragione di vita. Lo hai fatto perché la passione ce l'hai nel sangue.» «E perché avevo i mezzi per farlo. The Blessing blessing, la benedizione dei Blessing, potremmo definirla con un gioco di parole. Ho altri manoscritti e libri sparsi per la casa. E altrove, al sicuro; neppure questa grande casa sarebbe in grado di contenere tutto il materiale.» Si avvicinò al busto e toccò lo splendido esempio di tassidermia appollaiato sopra di esso. «La collezione è il mio hobby. Un tempo ne ero totalmente assorto, a livelli forse eccessivi... poi conobbi Amy.» «Eccessivi? A me sembra una passione ammirevole», assicurò Donald. «Voglio dire, tu stesso hai ammesso di avere il tempo e il denaro necessario...» «Il denaro, certamente. Non mi fraintendere, Amy apprezza la mia collezione. È solo che ha riportato una buona dose di equilibrio mentale nella mia vita.» Blessing scosse la testa e sorrise. «Non sto dicendo che fossi uno squilibrato, in precedenza. Forse a tratti solo un po' monomaniacale.» Alzò le mani a indicare il ritratto di Poe. «Dio, quanto sono felice! Felice! Non so immaginare che cosa abbia fatto per meritare una tale contentezza. No, contentezza non è la parola giusta, Donald. Felicità, Donald. È questa la parola adatta. Felicità. Grazie al cielo Zeus e compagnia bella non bazzicano davvero nell'Olimpo. Altrimenti sarebbero invidiosi!» Colse lo sguardo sul volto di Donald, si girò a guardarlo e gli puntò contro l'indice. «Naturalmente. So che cosa stai pensando. Com'è possibile che un professore matto e celibe abbia potuto conoscere una creatura meravigliosa come Amy?» I suoi occhi si illuminarono. «Una giovane e meravigliosa creatura
come Amy. Ha venticinque anni, sai? Venticinque!» Ci avevo azzeccato, si disse Donald. «La conobbi quando aveva ventidue anni, a un congresso mondiale di autori fantasy a Providence, Rhode Island. Era in città per fare visita ad alcuni parenti e aveva saputo che avrei partecipato a un incontro con i lettori, per autografare le copie del mio nuovo romanzo. Non era particolarmente appassionata di narrativa fantasy, e all'epoca io ero meglio conosciuto come critico e autore di racconti. Anima nera in agguato era appena stato pubblicato, e piuttosto in sordina, devo ammettere; dietro richiesta del mio editore mi trovavo lì per promuoverlo, pur sapendo che il congresso era riservato a soli settecentocinquanta partecipanti. Ma chissà come lei conosceva il mio lavoro, e ne era stata sufficientemente intrigata da venire a vedere che aspetto avevo.» Sorrise, meditabondo. «Naturalmente me ne innamorai l'istante in cui la vidi. Chi avrebbe mai detto che anche lei si sarebbe innamorata di me?» Mentre Blessing, lo sguardo rapito, si abbandonava ai suoi piacevoli ricordi, tra i due uomini calò un imbarazzante silenzio. Donald si ritrovò a cercare disperatamente qualcosa di neutro da dire. L'impressione lasciatagli da Amy Blessing aleggiava ancora attorno a lui, delicatamente ma con insistenza. «Suonava già il pianoforte?» azzardò finalmente. «Come? Ah, certo. Sì. Ed era molto brava, ma la cosa che più mi colpì fu che componeva. Creatività! È questo il dono più grande che Dio ha dato a noi esseri umani. La creatività e la capacità di amare.» «E di collezionare!» aggiunse Donald. «Be', sì. Comunque Amy rimase piuttosto affascinata da tutto questo, te lo posso garantire. Ma fu lei a suggerire che avrei forse dovuto dedicare più tempo all'aspetto creativo della mia carriera. Di fare un tentativo serio, insomma.» Ghignò. «E infatti alla fine dell'anno accademico, durante il quale spero di sistemarti e di completare con te una delle antologie che sto preparando, prenderò un anno sabbatico. Che potrebbe trasformarsi in un congedo permanente. Affitteremo una villa in Italia, affacciata sul Mediterraneo, dove Amy si dedicherà alle composizione, e io a scrivere due romanzi.» Blessing gli mostrò due dita. «Contale. Due romanzi. Vedi, ho firmato un nuovo contratto che mi impegna a scrivere tre romanzi, e ho quasi portato a termine il primo. Avrei dovuto finirlo questa estate, in realtà. Mi aspettano tre trimestri di impegni accademici... e poi la beatitudine.» «Questo si prospetta come un anno fortunato per tutti», commentò Donald. «Posso dire in tutta franchezza di non essere mai stato più eccitato
dalla direzione in cui sembra volgere la mia vita.» «Allora siamo una bella coppia, Donald. Una bella coppia.» Si guardò attorno felice, passando in rassegna i suoi tesori, poi si strofinò le mani. «Ma prima di scendere da basso per il pranzo, lascia che ti mostri dove lavoreremo insieme. Che ne dici?» «Non vedo l'ora.» Sul lato opposto del corridoio si apriva un soggiorno. Donald sbirciò verso l'interno al suo passaggio davanti alla porta socchiusa. Tende di chiffon, carta da parati di gusto, sedie di antiquariato e un divano. Da un lato troneggiava un pianoforte Steinway a coda: nero, lucido, elegante. La stanza profumava di fiori freschi. «È la stanza della musica?» «Sì. Pensavo di lasciare che fosse Amy a mostrartela. La sentirai suonare spesso, ne sono certo. Ma ora vieni. Ho fatto preparare questo spazio appositamente per te dalla nostra segretaria, e sono ansioso di fartelo vedere.» Donald lo seguì in cima a un'altra rampa di scale. «Quanti piani ha questa casa?» «Quattro, senza contare lo scantinato. Le camere e la zona giorno sono al terzo. Il mio studio è al quarto. Salire e scendere le scale mi tiene in forma. E vado all'università a piedi.» Raggiunsero il pianerottolo al terzo piano. «Ecco, qui c'è il nostro ufficio, e le due camere per gli ospiti.» Ne indicò una. «Questa potrai usarla tu quando dovrai lavorare fino a tardi. Oppure quando avremo bevuto troppo e non sarai in condizione di tornare barcollando fino alla pensione.» Donald sorrise. «Molto bene.» Blessing lo condusse in una grande stanza piena di scrivanie, armadietti, scaffali, schedari e computer. Di nuovo il profumo di fiori (violette?), stavolta misto all'odore della carta e del toner per stampanti laser. A Donald parve quasi di sentire nell'aria il sapore del lavoro e del successo, venato di un vago sentore di colla per francobolli. L'indice di Blessing diresse la sua attenzione verso un angolo della stanza. Donald non poté fare a meno di notare su una scrivania una pila di copie tascabili del secondo romanzo dell'orrore di Blessing, La sala d'attesa nera. Dopo anni di duro lavoro nell'anonimo ambito della fiction «seria», che avevano prodotto una serie di lavori ben scritti, intellettualmente impegnati ma emotivamente aridi, Blessing aveva cominciato a scrivere racconti ispi-
rati ai fondamentali principi creativi di Poe. Dapprima era stata una sfida personale, per verificare le proprie capcità (chi non è in grado di creare si volge all'insegnamento, recitava la massima); ma poi aveva acquistato sufficiente sicurezza per tentare il salto di qualità. Anima nera in agguato avrebbe riassunto in sé tutte le convinzioni e le interpretazioni dell'autore relative alla tradizione della letteratura gotica. Era il libro con cui aveva sfondato, il suo Rosemary's Baby, il suo Esorcista, il suo Shining, il suo Storie di fantasmi. E così era accaduto che, con sua grande sorpresa e, a tratti, costernazione, Blessing aveva conosciuto il grande successo commerciale. Il lavoro di Blessing conteneva qualcosa che aveva risvegliato una nuova ondata di interesse per la tradizione gotica basata sul gusto per la suspense e per l'orrore. Il mercato editoriale non reagiva con simile entusiasmo alla comparsa sulla scena di un nuovo autore dai tempi del debutto di Stephen King. E, a differenza di quanto accaduto per King, critici in tutto il mondo si erano fatti in quattro per elogiare i romanzi e le raccolte di racconti di Blessing. Quando gli avevano chiesto a che cosa attribuisse il successo dei suoi libri, Blessing aveva risposto semplicemente: «Valori letterari accessibili». Sette milioni di copie vendute solo negli Stati Uniti! ricordò ammirato Donald Marquette. «Ecco.» La voce di Blessing ruppe l'incantesimo. «Che ne pensi?» La domanda scosse immediatamente Donald dal suo fantasticare. Si voltò e guardò ciò che Blessing stava indicando. In un angolo della stanza era stata sistemata una scrivania nuova di zecca sulla quale faceva bella mostra di sé un Computer Compaq, anch'esso nuovo, accanto a essa uno schedario, una libreria, una stampante e una sedia da ufficio dal design ergonomico per garantire la massima comodità. Alla parete c'era un ritratto incorniciato di Edgar Allan Poe. Accanto, un poster di Picasso. Sulla scrivania era stato appoggiato un mazzo di fiori tenuto assieme da un nastro, e il biglietto che lo accompagnava recitava: «Benvenuto Donald, nella stanza delle nobili imprese letterarie... e di stupidi videogiochi a volontà, se ti aggradano. William e Amy Blessing». «Sono senza parole», disse Donald avvicinandosi. «Videogiochi. Uau!» «Già. Abbiamo organizzato tutto per te. Se non ricordo male, ti eri definito uno spirito disorganizzato. Ma già prima di incontrare Amy, io avevo compreso che poter disporre di un ufficio ben organizzato è assolutamente fondamentale per liberare lo spirito creativo. Allora ci siamo presi la liber-
tà di fornirti tutto quanto ti sarà necessario. Se lo desideri, potrai usare questo ufficio anche per scrivere le tue cose. Naturalmente non vorremmo che interferisse con il lavoro che svolgerai per noi, ma se dovessi essere colto da ispirazione...» Blessing scosse la testa, come se fosse stato improvvisamente rapito da una musa. «La creatività. L'ispirazione. Noi qui le adoriamo, Donald. Sono le nostre guide, e dobbiamo riverirle. Capisci? Riverirle. Troppa gente pensa che gli scrittori non facciano altro che sedersi, cominciare a inanellare parole e pum! ecco fatto. Ma non è così!» «Non potrei essere più d'accordo con te», assicurò Donald. «E inoltre...» Stava per completare l'espressione del suo pensiero quando all'improvviso vide qualcosa che lo fece rimanere di stucco. Ordinatamente raccolte tra due fermalibri di legno a forma di leone, notò una serie di riviste e un unico romanzo tascabile che gli erano familiari. Riconobbe le pubblicazioni solo dopo un iniziale momento di choc, dopodiché si commosse al punto da non riuscire più a proferire parola. «Scrivere è diffìcile», spiegò Blessing. «Occorre tenere sempre sott'occhio le prove che si è capaci di farlo, non credi?» «I miei racconti pubblicati!» rise Donald. «Il mio stupido romanzetto Tramonto oscuro. Li hai tutti!» «Ti ho detto che sono un collezionista. Ho i miei contatti. Ma devi capire che sono lì solo per essere consultati. Rimangono miei.» Blessing sorrise calorosamente. «E spero che durante la tua permanenza qui tu possa trovare il tempo per autografarli, per Amy e per me. Tutti tranne il racconto pubblicato da Rage. Mia moglie potrebbe fraintendere», rise. «Sei così gentile. Grazie! Certo che ve li firmerò», rispose Donald. Blessing si chinò in avanti e fece scorrere il pollice sulla collezione di pubblicazioni. Estrasse una rivista ordinatamente stampata, con una copertina piuttosto rigida, che dava l'impressione di essere una sorta d'incrocio tra una rivista letteraria e un tascabile di qualità. «The Tome», mormorò. «Ti hanno pubblicato alcuni racconti e un paio di poesie», disse come tra sé. «Sì. E credo siano interessati anche a pubblicare una raccolta di miei lavori», aggiunse Donald. «E la loro sede è proprio qui a Baltimora.» «Sì. Pensavo di farci un salto, uno di questi giorni. Sai, per salutarli, fare un po' di pubbliche relazioni con gli editor.» Blessing abbassò gli occhi sulla copertina della rivista. Sulla copertina spiccava una bella riproduzione di un'incisione in stile
medievale rappresentante Satana in forma di caprone, acquattato al centro di un pentacolo ornato di Barbie e Ken che copulavano in svariate posizioni. Il caprone mostrava denti da vampiro finti, indossava occhiali scuri e un mantello da Dracula in velluto. In una zampa impugnava una chitarra elettrica. Nell'altra un'enorme canna ganja, la madre di tutti gli spinelli. Donald si sentì leggermente a disagio, avvertendo la disapprovazione di Blessing. «Questa è la gente che vedo travestita da mostri e vampiri ad alcune delle convention fantasy a cui partecipo, non è vero?» domandò con tono mesto. «Be', per così dire», rispose Donald. «Non sono sicuro che partecipino alle convention. Ma credo che si possano definire una diramazione dei Goths.» «I Goths. Li ho sempre reputati piuttosto inoffensivi. Una sottocultura per certi versi affascinante, oserei dire.» Blessing prese a sfogliare la rivista. «Inquietante rock'n'roll inglese. Leziosaggini europee. Strati di trucco. Arroganza. Pelle. No, non trascuriamo la pelle. E... decadenza. E questo il termine che cercavo. Decadenza byroniana.» «È solo un gioco di ruolo.» «Oh, certo. Ma credo che il problema con la sottocultura americana sia che non offre sufficiente varietà. Allora i giovani inventano la propria, affermando la propria individualità attraverso rituali e comportamenti di gruppo», concluse Blessing, rendendosi conto troppo tardi di essere passato ad adottare il tono professorale e accademico consueto. «Spero che paghino; per il materiale pubblicato, intendo.» «Qualche centesimo a parola.» «Mmm. Meglio della maggioranza delle riviste letterarie.» Blessing sembrava intrigato. «Interessante. Potrei farne lo spunto per un articolo, e...» Stava leggendo il risvolto interno della copertina. «Editore e direttore, Baxter Brittle.» L'espressione sul volto di Blessing si fece concentrata. Aggrottò la fronte. «Questo nome non mi è nuovo... Ah, certo. Ho ricevuto alcune lettere e telefonate da questo individuo. Voleva che gli scrivessi dell'influenza di Edgar Poe su Aleister Crowley e il paganesimo contemporaneo. Naturalmente tutto questo è assurdo! Ho cercato di spiegarglielo in modo garbato. Per tutta risposta mi ha mandato un'ultima, ingiuriosa lettera, dopodiché non si è più fatto vivo. Grazie a Dio.» Blessing fu percorso da un brivido. «Questo gruppo di Goths in particolare ha qualcosa che non mi piace.»
«Che cosa intendi?» «Mi fanno un po' paura. Certo, so che non ho motivo di temerli. Ma se vai a incontrarli ti consiglio di fare attenzione. Non c'è nulla di male nello stringere contatti nel mondo dell'editoria, ma occorre prudenza. Ci sono dei personaggi molto strani là fuori. Fortunatamente è la mia segretaria a sbrigare la posta che ricevo dai pazzi sui quali evidentemente esercito una certa attrattiva, e di conseguenza il mio livello di paranoia è ancora molto basso. Tuttavia, me ne starei alla larga da questo Baxter Brittle se fossi in te, Donald.» Donald alzò le spalle. «Certo non è il motivo per cui sono venuto a Baltimora.» «No, infatti», disse Blessing. «Ma ora seguimi e ti mostrerò il mio sancta sanctorum. Abbiamo ancora qualche minuto prima che sia pronto il pranzo.» «Il tuo studio!» «Sì! Se non sbaglio in una delle tue lettere scrivevi che ti sarebbe piaciuto vederlo.» «Sì. È che ho la sensazione... la sensazione che ne rimarrei ispirato.» «Be', ti ringrazio... a volte vorrei che ispirasse me più di frequente.» Blessing rise e si avviò in direzione dello studio. Aveva lasciato la copia del Tome sulla scrivania. Donald la raccolse, grato di aver incontrato quell'uomo generoso e dal talento sconfinato... ma al tempo stesso avvertiva una strana rabbia nei suoi confronti. Bastardo condiscendente! sembrava accusare una voce nel suo profondo. Io farò quello che voglio qui dentro, e incontrerò chiunque abbia voglia di incontrare! Ripose con cura la rivista al suo posto e seguì il suo mentore. 8 L'ora del vecchio era giunta! Con un grido spalancai la lanterna e balzai dentro la stanza. Lui lanciò un urlo, un urlo solo. EDGAR A. POE, Il rumore del cuore Il corvo volteggiava sopra gli edifici sognanti. Le nuvole ribollivano davanti alla mezza luna mentre l'oscurità s'incuneava nelle vie e nei vicoli del quartiere di Baltimora, scorrendo come dita
liquide, toccando e cancellando ogni cosa. Il corvo sbatté le palpepre, coprendo per un istante i suoi penetranti occhi marrone quasi neri con pagliuzze rosse. Descriveva ampi cerchi e fluttuava come una fetta di cielo ritagliata tra le costellazioni, una porzione di destino sottratta con un colpo di forbice al tessuto della realtà, smarrita e in cerca di un luogo dove posarsi. E in basso sotto il suo volteggiare: movimento. Il vento frusciò accanto alle sue orecchie mentre con un battito di ali scendeva in picchiata. Si posò in cima ai resti di una vecchia chiesa diroccata. L'edificio puzzava di guano di piccione, ma il corvo non se ne curò. Inclinò la testa, i sensi etereamente acuiti. Laggiù. Figure umane. Si muovevano nell'ombra, loro stessi apparentemente fatti di ombra. Il corvo si chinò in avanti, come un gargouille, seguendo le figure mentre vorticavano e ruotavano nel vicolo. Il rumore del coperchio metallico di un bidone delle spazzatura. Il riso degli ubriachi che riecheggiava tra i vetri rotti delle finestre. Una corrente d'aria smosse le nuvole e la luna tornò a mostrarsi, inondando di serica luce il corvo. Il volatile gracchiò, allarmato. «Ehi!» gridò una voce. «E quello che diavolo è?» «Porta sfortuna.» Un fischio. Una lattina vuota scagliata contro la grondaia, poco distante dal punto in cui si era posato il corvo. Allarmato, lasciando che un antico istinto avesse la meglio sulla sua indistinta missione, il corvo spiccò di nuovo il volo, afferrando con le grandi ali l'aria e tirandosi su, facendo leva, riguadagnando il cielo, tornando in alto tra le stelle... ... per ora. «Fottuto parassita volante!» gridò Mick Prince, sbattendo l'una contro l'altra le mani guantate per liberarle dallo sporco che potevano aver raccolto. Con una risata solo per metà cosciente Baxter Brittle guardò il grande uccello esplodere in volo. Una penna cadde giù oziosamente, sullo sfondo luminoso della luna. La lattina vuota ricadde sul ciottolato del vicolo, rotolando fino al piede del Conte Mishka.
«Passa!» disse la figura vestita di pelle nera, gli occhi anneriti dal trucco e i lunghi capelli attorcigliati attorno al volto affilato. Diede un calcio alla lattina, indirizzandola verso il Marchese de la Cinque e colpendolo a un braccio, protetto da una spessa manica nera. «Ehi! Attento!» Il Conte Mishka alzò il volto pallido alla luna e rise selvaggiamente. Scosso dalla propria ilarità barcollò e dovette sostenersi contro un muro del vicolo per non cadere. Quel bastardo è messo addirittura peggio di me, pensò Baxter Brittle. «Un corvo!» ripeté, tornando con gli occhi al cielo. L'uccello era stato ingoiato dall'oscurità. «Che fastidio ti dà un corvo?» Mick aveva assunto una postura rigida ed era immobile come una statua. Aveva i pugni chiusi e portati al petto, come se stesse preparandosi a eseguire il primo movimento di un'arcana mossa di arti marziali. Il suo grande cappotto venne gonfiato dalla brezza, come le vele di un vascello fantasma. «Io odio i corvi», sussurrò a denti stretti. L'intensità con cui aveva pronunciato quelle parole era comica! Baxter sentiva la droga cominciare a sortire il suo pieno effetto e gli sembrò che il cervello si gonfiasse come una mongolfiera, librandosi verso il cielo per essere portato dalla brezza e guardare dall'alto quel grandioso scherzo che chiamavano terra. Stai tranquillo, si ammonì. Non ti bucare urtando la punta di una stella! «Avrei voluto avere la mia pistola», si rammaricò Mick. «L'avrei spazzato via a colpi di piombo da lassù.» Sputava le parole come brandelli di carne straziata. La sua immobilità era rapimento. La sua presenza catarsi. Baxter Brittle avvertì all'improvviso la droga scorrergli impetuosa nel corpo e scaraventarlo attraverso... Qualcosa. I detriti della distruzione salirono verso l'alto, più in alto, sempre più in alto, il cervello che si dipanava in un vortice di coscienza. Si sentiva come se si stesse librando in aria sulle ali di un corvo, volando oltre i pianeti, oltre le costellazioni, per entrare nelle volte dell'Olimpo e del Walhalla, attraverso le vertiginose verande del Cosmo... E tutto nel delizioso fetore di bucce d'arancia marcescenti, di whisky gettato nella spazzatura, accompagnato da una colonna sonora dei Nine Inch Nails. Sentiva nella bocca il sapore del sangue di un delirante piacere/dolore ed
era squisito, così squisito. Come il corvo, volava alto, al pulsante battito industriale, al cocktail di Ecstasy, metadone, morfina e cognac nel suo cervello, ai ritmi del suo cuore, una martellante colonna sonora. Guardò i membri della gang, i Vendicatori dei Gothiques, sguinzagliati a Baltimora nell'aria fresca di inizio autunno, alle tre e mezzo del mattino. Guidati da Mick, l'Arcidiacono in persona, il Chierico dello Chic. Gravitando in quel modo attorno alla presenza di Mick, eppure in qualche modo distaccato, Baxter sentì di poter guardare indietro ai mesi passati con assoluta lucidità, e vedere la cristallina giustezza iniettata nelle vene della notte. Che spirito. Che spirito oscuro e potente era Mick Prince, regale compagno! E di parola. Il corpo di quella sventurata ragazza era stato fatto sparire per sempre. Baxter lo sapeva. Aveva passato al setaccio i giornali per intere settimane dopo il fatto. Nulla. Zero. La verità era che Baxter non aveva avuto neppure la più pallida idea di che fare con quel coltello, tanto meno con il corpo nel cui petto era imprigionato. Più che una liberazione Mick era stato un dono divino. Esattamente di quale tenebroso dio, a Baxter non interessava. Sapeva solo che all'improvviso il Salon era rifornito delle migliori droghe e gli affari al bar andavano bene al punto da costringerlo ad assumere altro personale, incluso un gestore. Ora poteva dedicare tutto il tempo e le energie alle attività di scrittore, redattore ed editore. The Tome e la Tome Press prosperavano come non mai. Il primo libro di nuova pubblicazione era stato Viti d'odio nelle cornee, una raccolta dei racconti e delle poesie di Mick che in precedenza aveva così stupidamente rifiutato (Mick stesso aveva partecipato alle spese di stampa). L'edizione di lusso a tiratura limitata e illustrata da T.M. Caldwell era andata a ruba e l'edizione commerciale stava riscuotendo un discreto successo. Concesso, nessun editore di portata nazionale sembrava intenzionato a richiederne i diritti, ma Baxter l'aveva previsto e non aveva realmente bisogno di alcun aiuto esterno. Il prossimo passo sarebbe comunque stato un tascabile di larga distribuzione e aveva già stretto un accordo con il Publishers Group East perché gestisse l'operazione. Mick stava ultimando il suo primo romanzo, e con i nuovi fondi provenienti dagli impegni editoriali in crescita, Baxter avrebbe potuto pubblicare altre pregevoli opere. Ora che la Tome Press aveva steso un vero e proprio piano di uscite, le
librerie specializzate in opere di piccoli editori erano meglio disposte nei suoi confronti, mettevano in mostra sugli scaffali anche buona parte del catalogo di opere già pubblicate e alcune cominciavano addirittura a pagare puntualmente! Si era adoperato perché le sue pubblicazioni entrassero a far parte del catalogo on-line di Amazon.com e dei siti web delle principali catene di librerie, e ora cominciavano a comparire recensioni e articoletti nei giornali universitari e nelle riviste alternative. Inoltre, ora poteva dedicarsi al suo passatempo preferito in assoluto. Bisboccia e casino, Belzebù! Ah, che serate fantastiche avevano trascorso nello scantinato. Niente più ragazze scappate di casa e ritrovate nude e morte, quello no. Ma tante altre cose divertenti e stimolanti. Mick aveva introdotto strani (e piuttosti schifosi) riti basati sul Golden Dawn. Dapprima erano stati piuttosto difficili da accettare. Già. Aveva cominciato con qualche pollo. Poi i conigli, un maiale ogni tanto, e ora capre e pecore. C'era stato qualche incidente di percorso, inutile negarlo, ma quali che fossero le parole pronunciate da Mick mentre tagliava e squarciava, indubbiamente contribuivano in maniera determinante alla buona sorte del Tome, del Cork'd Sailor e della vita in generale. Angeli delle tenebre! Ritrovare quel giovane corpo nudo al risveglio dopo una mastodontica sbornia era stato come toccare il fondo nella sua vita. (E che spreco, si era detto poi. La ragazzina era stata proprio un bella fichetta.) Ora si inarcava sempre più verso l'apice. E che viaggio! «Baxter!» ringhiò Mick. Baxter Brittle, barcollante e assorto nella sua trance, riuscì a recuperare in parte conoscenza e a ricompattare la sua rigonfia materia grigia nel cranio. «Eccomi!» Baxter si voltò a guardare Prince e sbatté le palpebre. Il volto forte e marcato dell'uomo era spaventoso nell'espressione che aveva assunto. Aveva gli occhi sgranati. Vene gli pulsavano a entrambe le tempie. Digrignava rumorosamente i denti. I tendini del collo erano tesi e in rilievo. Senza alcun preavviso la sua mano destra sfrecciò in avanti e afferrò Baxter per il bavero, portandolo a tiro del suo alito pesante di aglio e sigarette francesi. «Lo sento. Lo sento nell'aria. È vicino, Baxter.» Anche solo al chiaro di
luna e al bagliore dei lampioni Baxter vide che gli occhi di Mick erano iniettati di sangue. «Il Nemico, Mick» gridò il Conte Mishka. «Avverto la sua presenza. Vorrebbe divorare la mia anima. Ma sarò io per primo a strappargli il cuore. Glielo addenterò e ne masticherò i ventricoli, poi lo risputerò nella polvere. Dovrò accertarmi che il suo spirito venga ridotto in brandelli e affondi negli inferi del creato.» A un tratto Baxter ricordò. Già, era quello il motivo per cui era uscito in città nel cuore della notte. Stavano oziando nello scantinato, le menti devastate dalle droghe e dall'alcol, le casse dello stereo tuonanti di Usherhouse e Sleep Chamber, quando Mick si era tirato su e aveva gridato: «È là fuori!» Naturalmente si riferiva a lui, il Nemico. L'Anti-Mick. Che l'ossessione di Mick fosse o meno una costruzione mentale, c'era effettivamente qualcosa là fuori che lo turbava profondamente. Che lo seguiva. Che lo portava a giurare che l'avrebbe distrutto prima di diventare sua vittima. Non c'era nulla di male in un tocco di paranoia, naturalmente. Baxter Brittle ne era sempre stato convinto, anche nei giorni dell'idealismo prima di quella Brutta Cosa capitata ai suoi genitori (gliel'aveva detto di comprare gomme nuove, ne era sicuro); anche a non essere paranoici, non significava necessariamente che non ci fossero persone là fuori che volevano fotterti. Ma Mick... Cristo, Mick a volte sembrava impazzire, andava completamente fuori di testa quando avvertiva quella presenza... «È per questo che sono venuto qui», aveva ammesso una volta, uno sguardo selvaggio negli occhi. «È tutta la vita che avverto la sua presenza. È tutta la vita che fuggo. Non so chi sia o che cosa sia. Sono stanco di fuggire. Ho deciso di prendere in mano la situazione. Sono qui e lo distruggerò quel bastardo! Lo affronterò. È il muro che devo sfondare. Per giungere al mio destino. Capisci, Baxter? E tu mi aiuterai. Mi capisci, vero?» Baxter capiva, come no. Capiva che quando Mick era contento tutto andava bene. Quando Mick non era contento, le cose diventavano spinose. E così quando Mick decideva che era ora di fare un'uscita, di avventurarsi in un'esoterica battuta di caccia notturna, lasciandosi trasportare dai sogni alimentati dalle droghe, Baxter Brittle riteneva più saggio assecondarlo. «Là!» ansimò Mick, puntando un indice dall'altra parte della strada. «Laggiù, vicino alle rovine di quel castello. Lo sento. Avanti, miei prodi cavalieri delle tenebre!» Gonfiando quel suo grande cappotto balzò in avanti e cominciò ad attra-
versare la strada. Baxter fece cenno ai membri della gang di seguire il loro Principe, sperando che non accadesse nulla di strano. Sentiva l'effetto della droga cominciare a scemare, lasciandosi dietro l'inizio di un forte mal di testa ed era sprovvisto dei medicamenti necessari per garantirsi un attcrraggio morbido. Be', ora la facciamo finita con questa storia e me ne torno alla mia pipetta d'oppio, si rincuorò. Con sbalorditiva rapidità Mick era scattato sul lato opposto della via e ora strisciava furtivamente contro un muro di mattoni, un'ombra che si fondeva con il buio della notte. Affaticati e ansimanti, Baxter e gli altri si ritrovarono all'imbocco del vicolo. Cercarono di scrutare nell'oscurità. Baxter cominciò ad avvertire una certa apprensione, che sembrava risalirgli la spina dorsale come un grosso ragno. C'era qualcosa che non andava lì. Qualcosa di sbagliato. «Ecco!» gridò l'inconfondibile voce rauca di Mick. «Venite!» Udirono un rumore di scatoloni e uno svolazzare di giornali. «Sei tu!» La voce si era fatta più dura, come venata da schegge di vetro. «Ti ho trovato!» Comparve il fascio di luce di una torcia elettrica. Avanzò lungo il vicolo, cercando, oscillando, per poi fermarsi. Un grugnito, seguito dal rumore di lattine e bottiglie sull'asfalto. Una voce sonnacchiosa da un cumulo di rifiuti: «Ehi! Sto solo cercando di dormire. Cazzo. Lasciatemi stare!» «Vuoi dormire?» gridò Mick. «MacDuff ha assassinato il sonno!» «Ma che...» «Mi hai perseguitato a sufficienza, sporco cane bastardo. Torna nell'Ade, dal quale sei venuto.» Baxter e gli altri erano ora giunti vicini abbastanza da vedere che cosa stava accadendo. Mick puntava una torcia elettrica tra l'asfalto e il muro in fondo al vicolo, dove c'era un cumulo di scatoloni di cartone. Raggomitolato tra stracci e giornali Baxter vide un barbone con un pesante cappotto e una lunga barba, uguale agli innumerevoli altri senzatetto che gli era capitato di incrociare per la strada nella sua vita. Cristo, perché non li trasferivano tutti a Washington, dove si sarebbero trovati insieme con gli altri della loro razza? «Che cazzo stai dicendo?» domandò l'uomo, catarroso e puzzolente. Si alzò in piedi, lasciando cadere una bottiglia vuota di liquore.
«Mick», chiamò Baxter. «È solo un barbone.» Troppo tardi. Mick fece un passo in avanti e sferrò un calcio. Le punte degli stivali neri alti fino alla coscia di Mick brillarono argentee, la luce danzante della torcia riflessa dai rinforzi metallici. Un colpo violento, che mozzò il fiato alla vittima. Il barbone si piegò in due, ansimò e poi vomitò di getto nel vicolo. Vino, bile e pane in corso di digestione... ... e sangue. Qualcosa scattò nella testa di Baxter. Avanzò e prese Mick per un braccio. «Ehi, amico! Calmati!» Mick lo spinse all'indietro, indicando l'uomo a terra. «Vedi? Tenta di sputarmi addosso il suo veleno! Non sottovalutare l'astuzia del Nemico! Ora mi devi aiutare. Aiutare a rimuovere il mio Nemico. Tieni!» Passò a Baxter la torcia. Poi, dalle pieghe del cappotto estrasse qualcosa. Qualcosa che brillava in modo più netto e definito nell'incerta luce della torcia. Un coltello a scatto nero, dalla lama lunga almeno venti centimetri. Prima che Baxter riuscisse a pronunciare anche una sola parola, il coltello balenò nella mano di Mick, affondando, facendo scempio di carne viva. Il barbone riuscì a emettere un solo lamento gorgogliante prima che i fiotti di sangue rosso gli esplodessero dal collo e dal torso. Mick indietreggiò, la lama e le mani grondanti di sangue. Il barbone tremava, spruzzava sangue e cadeva in preda a convulsioni. Mick si voltò a guardare i membri della gang. «Ora datemi prova della vostra lealtà e fedeltà verso di me. Date inizio al suo viaggio. Calpestatelo, prendetelo a calci con furia tale da scaraventarlo all'altro lato dell'aldilà, per non fare mai più ritorno.» «Mick... Mick...» implorò Baxter, la testa presa in un vortice, la realtà che sembrava sfracellarsi davanti ai suoi occhi. «Non posso...» «Certo, Mick», rispose il Conte Mishka. «Eccomi», lo affiancò il Marchese. Si fecero avanti e cominciarono una macabra partita di calcio con la testa sanguinolenta del barbone. Baxter non riusciva a muoversi. Era impietrito. «Che c'è?» domandò Mick. «Che cazzo hai?» La lama del coltello a scatto fendette l'aria, spruzzando gocce di sangue su Baxter. «Fallo. Fal-
lo!» La paura affondò i suoi aculei nelle viscere di Baxter. Voleva scappare, lasciarsi alle spalle quella follia, quella sconfinata follia. Ma non osava. Sapeva che Mick Prince non avrebbe esitato ad affondargli quello stesso coltello nella schiena. Baxter ebbe l'impressione di sentire già la lama, calda di sangue, toccargli la spina dorsale... Facendogli spazio, fissandolo di sbieco alla luce della torcia, il Conte e il Marchese si spostarono a lato. Separando la sanità mentale dal resto di sé, Baxter permise al proprio corpo di fare un passo in avanti e dare un calcio al corpo prostrato. Era cedevole, e perdette altro sangue. Carne morta. Baxter indietreggiò. «Dall'altra parte dell'aldilà, Mick. Uno stronzo perso per sempre nell'oblio», trovò la forza di dire. Mick grugnì. «Bastardo!» gridò. Sputò sull'uomo appena ucciso. Poi fece un passo indietro, inspirando vittoriosamente a pieni polmoni. «Sì! Sono libero! Finalmente libero! Libero!» Silenzio. Una pausa di silenzio e riflessione, rotta solo per un istante da quello che sembrò un battito d'ali. «Dammi la torcia!» ordinò Mick. Baxter gliela passò. Mick la prese e la indirizzò sull'ammasso sanguinante in fondo al vicolo. Mick sospirò, disgustato. «Ingannato!» disse «Mi ha ingannato!» «Come sarebbe?» Mick alzò le spalle. «Non è lui. Non è il Nemico.» Sferrò un pugno nell'aria. «Ma ti prenderò, bastardo!» Si voltò. «Forza, andiamo. Ho bisogno di bere.» Si allontanò a lunghe falcate. Ridendo, il Conte e il Marchese lo seguirono. Baxter, stravolto e sgomento, non poté fare altro che seguirli. Nel cielo sopra di lui gli sembrò di udire soffici battiti di ali, ma non osò guardare verso il cielo della notte, che andava di nuovo scurendosi. 9 Solo vivevo In un mondo d'affanni.
EDGAR A. POE, «Eulalie» ... Il delicato battito di ali nel cielo della notte... Via dal vicolo, lontano vola il corvo. Vola verso il porto, dove brillano le luci delle imbarcazioni. Dal mare giunge la nebbia, densa, avanzando su peduncoli catarrosi, e sa di mare, sa di pesci morti. ... Il delicato battito di ali nel cielo diurno... Il corvo vira e gracchia, volando verso un nuovo appuntamento, scendendo in picchiata alla luce del sole. Si posa su un comignolo in cima a un tetto, sopra la strada dalla quale si leva l'odore del catrame. Segue con lo sguardo l'uomo che si chiama Marquette mentre entra nel bar noto come il Cork'd Sailor. Batte le palpebre e monta solitario di guardia. Il sole tramonta, le stelle si accendono. Il traffico ringhia e si contorce nelle strade, risate e musica crescono e scemano d'intensità. Quando la luna piena cala, al fondo della notte, lo scrittore conosciuto con il nome di Marquette lascia il Sailor, libri sotto il braccio... ... barcollando quasi impercettibilmente. Il corvo gracchia e si lancia verso lo spazio tra le stelle. ... Il delicato battito di ali nel cielo d'estate... Il corvo vira e piomba verso il basso. L'uccello nero passa in volo accanto al monumento a Washington, oltre la Johns Hopkins University, attraverso il profumo delle bancarelle dei venditori di hot dog e pretzel e il fruscio delle fronde delle querce. Si abbassa e si posa sul tetto di una casa a schiera. Guarda giù verso il balcone, sul quale è sistemato un tavolo. Il giovane scrittore di nome Marquette e Amy Blessing siedono l'uno di fronte all'altra, mangiano insalata e bevono vino. Parlano animatamente per qualche minuto. Poi la ragazza ride e allunga una mano sul tavolo a toccare quella del giovane scrittore. Lui gliela stringe, sorride, poi la lascia. L'uccello gracchia e con un balzo si lancia verso lo spazio tra le nuvole, muovendosi in avanti, sfrecciando in avanti... ... Il delicato battito di ali nel cielo d'autunno... Gli edifici della Johns Hopkins University si stagliano verso l'alto, venerabili e massicci, sopra le foglie che si vanno tingendo. Una corrente fresca trasporta il corvo, rallentandone la discesa verso il marciapiede. Lì, avvolto in un cardigan, con una grossa valigetta in mano e la pipa
stretta tra i denti, cammina l'uomo noto come il professor Blessing. Il corvo plana e si posa sulla panchina di un giardinetto, inclinando la testa e fissando con un occhio marrone il professore. Il professore si blocca e guarda attentamente il corvo. «Tu!» esclama il professore, fermandosi. Il corvo rimane in silenzio. «Tu sei quello che bazzica nei paraggi di casa mia, non è vero? Fin dalla primavera scorsa.» Il corvo rimane in silenzio. «Be', posso solo ringraziare che tu non sia un corvo imperiale come quello della poesia di Poe!» Ride e scuote la testa. Estrae dalla valigetta un sacchetto di patatine metà vuoto. Il corvo inclina di nuovo la testa, quasi a formulare una domanda. «D'accordo, ammetto di avere dei brutti vizi. Ascolta, facciamo un patto. Ti lascio tutte le patatine rimaste e in cambio tu non dici nulla a mia moglie. Okay?» Vuota il sacchetto sul marciapiede. Il corvo le guarda per un attimo. Poi salta giù dalla panchina e comincia a mangiare. «Sai, se fossi superstizioso avrei l'impressione che tu stia cercando di dirmi qualcosa, corvo. Sei un simbolo mitologico, lo sapevi?» Si piegò le braccia sul petto. «Be', se non altro non sembri intenzionato a uccidermi. Se avessi voluto farlo, mi avresti beccato le mani quando ero aggrappato alla grondaia del mio tetto come uno stupido, no? Che dici, corvo?» Il corvo non dice nulla. Si limita a mangiare un'altra patatina. Non è ancora il momento. «Bene. Ti auguro una buona giornata, amico. Spero che la tua vita sia splendida quanto la mia.» Ridendo, il professore si volta e riprende fischiettando il cammino verso casa. Il corvo continua a mangiare patatine finché l'uomo scompare dietro l'angolo. A quel punto spicca di nuovo il volo verso lo spazio tra le spire vittoriane della Johns Hopkins University. ... Il delicato battito di ali nell'aria d'inverno... Cala la notte in un gennaio imbiancato dalla neve. I cristalli di ghiaccio luccicano alla luce dei lampioni. Dalle bancarelle dei venditori ambulanti si leva il profumo di caldarroste.
Il corvo vola verso una casa a schiera. Una luce calda si diffonde da una delle finestre. L'uccello nero plana sul davanzale. All'interno, in un ampio ufficio, ci sono tre persone: il professor Blessing, Donald Marquette e Amy Blessing. Stanno parlando. Il corvo li guarda, concentrato. ... Il delicato battito di ali nell'aria dell'oltretomba... Presto. Presto. 10 E i viaggiatori, ora, in quella valle, Attraverso le finestre di rosso illuminate intravedono Vaste forme che si muovono fantastiche Al ritmo di una dissonante melodia, Mentre, come un lugubre fiume in piena, Dal cereo portale irrompe Per sempre un'orrida folla Che ride, ma non sorride mai più. EDGAR A. POE, «Il palazzo stregato» Il pugno si abbatté sul volto dell'uomo. Mick Prince udì il rumore di denti che si spezzavano. Uno schizzo di sangue e saliva. La testa dell'uomo venne frustata all'indietro e la sedia di legno alla quale era legato si inclinò, scricchiolando, poi ricadde a terra con un tonfo. L'uomo immobilizzato si piangeva e si lamentava. Mick sentiva l'odore del suo sudore, ne avvertiva il dolore e la paura. Le sue narici si dilatarono per inebriarsi di quelle sensazioni. Tuttavia, erano periferiche rispetto al fulcro della sua attenzione. Era concentrato sull'uomo con il pugno di ferro. Il torturatore. C'era qualcosa in lui... Un uomo di colore che indossava un abito italiano alzò la mano. Il torturatore dalle nocche d'ottone fece un passo indietro, permettendo all'elegantone di chinarsi sul prigioniero, attento a non sporcarsi di sangue il vestito. «Allora, pagliaccio. Ho sentito dire che hai intenzione di cambiare campo.»
Si trovavano in un magazzino abbandonato. All'esterno era calata la notte, come un'imbottitura protettiva. Un radiolone sputava fuori attraverso gli altoparlanti l'ultimo gangsta rap californiano dei Mack 10, accanto agli altri cinque membri della gang che facevano da pubblico. Mick si era domandato perché l'avessero portato lì. Ora lo sapeva. Gli occhi del pagliaccio erano quasi fuori dalle orbite, lividi di dolore. Il suo volto aveva già cominciato a gonfiarsi. «Merda, sono bugie, Cobra!» «Ah, sì?» Il longilineo uomo dai capelli rasati che indossava l'abito italiano tornò a posizionarsi accanto al tavolo che era stato sistemato al centro del magazzino. Estrasse dal secchiello di ghiaccio una bottiglia da settanta centilitri di liquore di malto Cobra e versò il liquido ambrato in due bicchieri da vino a gambo lungo. Ne passò uno a Mick. Mick detestava quella roba, ma accettò comunque il bicchiere. Se vuoi fare affari con qualcuno, devi bere quello che beve lui. «Sai una cosa, pagliaccio? Potrebbe anche essere vero. Ma potrebbe anche non essere vero. I soldi, amico... i soldi hanno la capacità di mandare a puttane il cervello di un uomo. Sono capaci di fargli dimenticare il sangue del suo sangue.» «Io non ti ho dimenticato, fratello!» protestò l'uomo legato alla sedia. «Siamo amici da una vita.» «Già. Da una vita. Ed è per questo che non ti ammazzo.» L'uomo piagnucolò, quasi un espressione di sollievo. «Mi limiterò a scassarti un po'.» Si voltò a guardare un imponente uomo bianco. «Theodore. Fagli assaggiare ancora un po' di metallo, per favore.» Pronunciato l'ordine, si portò con indifferenza il bicchiere alle labbra e fece un sorso. Theodore avanzò. Mick pensò che doveva avere tra i venti e i trent'anni, ma il suo volto portava le tracce di una lunga vita già vissuta. Era un volto che dimostrava quarant'anni. L'uomo aveva l'aria di essere un ex marine, il tipico biondo dalla scorza dura. Indossava pantaloni di tela neri fermati da una cintura alla vita stretta e una maglietta traforata che metteva in risalto addominali duri come le pietra, un torace da sollevatore di pesi e massicci bicipiti e tricipiti. Deve aver tenuto fede agli allenamenti quotidiani iniziati in prigione, pensò Mick. L'uomo sembrava di origine nordica. Probabilmente da ragazzo era somigliante in tutto e per tutto agli ariani le cui fotografie servivano a Hitler per farsi le seghe. Ma ora aveva un aspetto più saggio e indurito. Era un professionista di lunga esperienza. Eppure i suoi occhi non erano anneb-
biati. Brillavano d'intelligenza. Non sembravano trarre particolare godimento dal compito che stava portando a termine. Theodore alzò il pugno rinforzato dal metallo e lo affondò nell'addome dell'uomo. La vittima si piegò in due. Tossì, sputando sangue, ansimò e lottò per respirare. Theodore caricò di nuovo il pugno, chiaramente intenzionato ad assestare un colpo al volto. Sull'altro lato, stavolta. «No!» urlò la vittima. «Basta! Okay, okay, ho venduto un paio di panetti per i fatti miei. Merda! Ma è stato DelRoy... È stato DelRoy a spiegarmi come avrei potuto fare. DelRoy è sul libro paga dei D.C. Crips!» «Porca puttana!» Uno dei giovani vestiti con larghi pantaloni a cavallo basso, felpe troppo grandi di quattro misure e voluminose scarpe da tennis con la linguetta sollevata fece un passo indietro ed estrasse una pistola. «Io non mi faccio spaccare la faccia, cazzo! Tutti fermi, stronzi! Non muovete neppure un pelo di culo, o vi riempio di buchi, lo giuro. Bastardi figli di puttana!» «DelRoy, amico mio. Avevo dei sospetti su di te», confessò l'elegantone. «Merda, ma che ti è saltato in mente? Perché l'hai fatto?» L'elegantone sembrava calmo, come se episodi simili si ripetessero ogni giorno. Mick, al contrario, sprizzava adrenalina da tutti i pori. Voleva solo stringere un accordo con la gang a vantaggio della Tome Press, e non farsi crivellare le budelle per una scaramuccia intestina. «Perché stai andando fuori di testa, cazzo! Sei pieno di merda. Stai reclutando stronzi bianchi, uomini delle mafia. Cristo, sto pensando seriamente di alzare le mie chiappe nere e andarmene da Baltimora. Voglio andare a Miami. Io non ho fatto niente per danneggiarti. Quindi lasciami andare, cazzo, e lasciami...» Il colpo di pistola riecheggiò nel magazzino. Un grosso buco comparve al centro della fronte del ribelle nero. Dal lato opposto della testa schizzarono fuori schegge di cranio, cervella e sangue, accompagnate da una fine foschia rossa che andò a posarsi sul pavimento cosparso di segatura. La pistola semiautomatica che aveva impugnato gli cadde a terra dalle dita con un rumore metallico. Le gambe del ragazzo di colore cedettero e si accartocciò all'indietro. La scarpa da tennis si staccò da uno di suoi piedi, scosso da uno spasmo. Mick si voltò di scatto. Theodore stava in piedi immobile con una Coonan .357 Magnum fumante nella mano sinistra. «Sono ambidestro», spiegò.
«Bel colpo, cazzo!» L'elegantone sorrise e poi si abbandonò a una risata di sollievo. «Sei caro, amico. Ma vali quello che costi.» Tornò ad avvicinarsi al tavolo, tirò fuori la bottiglia dal secchiello. «'Fanculo.» Scagliò lontano il bicchiere, che si infranse contro una parete. Afferrò la bottiglia per il collo e tracannò qualche sorso. Quando ebbe finito, la offrì a Mick. «No, grazie. Sono a posto così», disse Mick, mostrandogli il bicchiere da vino ancora mezzo pieno. Cobra scrollò le spalle e tirò fuori una bottiglia nuova. «Immagino che tu non sia qui per vederti puntare addosso una pistola. Ti sei spaventato, eh?» «Io non mi spavento.» «Di che sei fatto? Di pietra? Vi presento Clint Eastwood.» «Il cavaliere senza nome.» «Già, è per questo che non incido nomi sui miei proiettili. Merda, voi bianchi dovete sempre dimostrare quanto li avete grossi. Come li chiamano i nostri fratelli latini? Cojones? Huevos?» Fece ancora un sorso di liquore di malto, poi rivolse un cenno della testa agli altri. I membri della gang si avvicinarono e presero dal secchiello le bottiglie rimanenti, palesemente scossi nonostante i volti da malavitosi. «Allora, signor Eastwood, che cosa vuoi dal Cobra?» «Pace, fratello. Proprio come recita la vecchia canzone. Vedi, sto meditando un avanzamento di carriera, essendomi da poco trasferito nella tua bella città. Il gruppo con il quale lavoro si sta espandendo e ha intrapreso un piccolo traffico di droghe leggere. Ho saputo che sei tu l'uomo di riferimento a Baltimora, allora sono venuto a porgerti i miei doverosi rispetti.» «Ci hai azzeccato, e mi è piaciuto il modo in cui l'hai detto. Sei onesto, ma che cos'è questo gruppo di cui parli?» «Una società nata da poco, attiva nel campo dell'intrattenimento. Una piccola casa editrice. Riviste. Libri. In futuro anche musica e film.» «Ma che stai dicendo?» Il boss scosse la testa, come per schiarirsi l'udito. «Che genere di riviste? E che libri? Non stai parlando di quei giornali porno con foto di ragazzine e ragazzini, vero?» Mick dovette dare fondo a tutto il suo autocontrollo per trattenersi dal ridere. «No», rispose pazientemente. «Il nostro genere è il Dark Fantasy.» «E che roba è?» «Sai, libri dell'orrore, come quelli di Stephen King. Vampiri. Romanzi noir.»
«Che storia!» esclamò Theodore, benché nessuno l'avesse coinvolto nella conversazione. Mick si voltò a guardarlo. L'omone stava ridendo. Sul suo ampio volto il sorriso produceva uno strano effetto. «Mi stai prendendo per il culo, vero?» domandò Cobra. «In realtà è una copertura per un traffico di pornografia a droga, l'ho capito. Ma non è un problema. Possiamo trovare un accordo.» Mick fece un nuovo tentativo. «Sì, trattiamo un po' di roba per arrotondare, ma solo per qualche circolo riservato, o come favore personale per rendere più interessante qualche festa. Fondamentalmente l'attività della società è legittima e pulita, e offre buone possibilità di far girare parecchi contanti, riciclare fondi sporchi e nasconderli dagli agenti federali. E quando avremo ingranato faremo il salto di qualità nello show business: musica e film.» «Una casa discografica con un nome tipo Braccio della morte posso concepirla, ma occuparsi di libri, cazzo», disse Cobra scuotendo la testa. «Non c'è guadagno nei libri, a meno che non siano svuotati per contenere qualcos'altro.» «Capisco il tuo punto di vista, ma come disse il buon reverendo, io ho un sogno. Credo ci siano ottime potenzialità di crescita nel settore, che nessuno ha ancora avuto la lungimiranza di sfruttare.» Sorrise. «E la cosa migliore è che non ci vedrai in giro armati per le strade a sparare alla gente.» Accennò un ghigno. «La nostra è un'operazione pacifica. E interamente legale.» Si batté leggermente il petto. «A parte il ramo di affari di cui mi occupo io. Ed è per questo che sono qui.» Cobra alzò le spalle. «Mmm. L'idea di riciclare denaro sporco è interessante.» Indicò il ribelle ucciso. «Ma devi ricordarti una cosa: io non prendo merda da nessuno.» «Mi piaci così», rispose sorridendo Mick. «D'accordo Clint, amico mio. Ne parleremo. Vieni nel mio ufficio. Domani. 'Round Midnight, come dice il pezzo di Thelonius Monk.» «Cobra!» chiamò l'uomo legato alla sedia. «Ehi, capo. Mi lasci andare adesso, vero?» Cobra alzò un dito e lo mostrò a Theodore. Theodore si tolse il pugno di ferro. Poi si passò la pistola nella mano destra, prese la mira e fece fuoco. La pallottola centrò con un tonfo il cuore della vittima, attraversandolo e
sfondando lo schienale della sedia. Schegge di legno e carne lacerata ricaddero a terra. «Ecco», tagliò corto Cobra. «Vattene pure.» Si voltò verso gli altri, che lo fissavano tentando di non lasciarsi turbare oltremodo dall'improvvisa carneficina. «Ragazzi, a quanto pare abbiamo per le mani i resti umani di una sparatoria da marciapiede tra gang.» Fece schioccare le dita. «Portate via questi traditori, sistemateli nel punto giusto e magari si guadagneranno il servizio di apertura del telegiornale delle sei di domani sera. Le loro mamme ne saranno orgogliose.» Mick assistette imperturbabile alla scena, senza reagire in alcun modo. Era interessante osservare senza partecipare. A Mick non dispiaceva affatto. Cobra gli diede una pacca sulla spalla. «Ci vediamo, Clint.» Agitò la mano in direzione del suo sicario personale, Theodore, che ripose la pistola nella fondina e seguì verso l'uscita il suo datore di lavoro. Ma l'omone sostò per un attimo accanto a Mick. «Horror, eh?» «Sì.» «Mi piacciono i libri horror. E i film dell'orrore. Anche i gialli e i noir. Sai, con il lavoro che faccio...» Alzò le spalle. «Mi aiutano a rilassarmi.» «Lo so.» «Magari possiamo andare a farci una birra assieme, o qualcosa del genere. Dopo l'ora di Thelonius Monk, chiaramente.» «Vuoi scambiare qualche tascabile?» «Sì. Perché no.» Mick alzò le spalle. «Non c'era niente di meglio da fare in carcere per passare il tempo.» «Anche per me è stato così.» Mick annuì. «D'accordo.» L'uomo dal fisico imponente e muscoloso annuì e fece uno strano sorriso. Poi inseguì a lunghe falcate Cobra. Mick si controllò i pantaloni e le scarpe per accertarsi di non essere stato colpito da schizzi di sangue. Quindi si avviò con fare rilassato verso l'altra uscita del magazzino abbandonato. I libri, pensò. Incredibile come aiutano la gente a conoscersi. 11
Presumo che tutti voi abbiate sentito parlare di me. Sono la Signora Psyche Zenobia. Questo lo so per certo. Solo i miei nemici mi chiamano Suky Snobbs. EDGAR A. POE, Come scrivere un articolo alla Blackwood «Questa è la cosa più ridicola che abbia mai letto in vita mia!» Il professor William Blessing fissò la lettera e le diede un colpo con il dorso della mano, come a tentare di renderla sensata con la forza. «A dire il vero, caro, Donald me ne ha parlato», disse Amy, sorridendo amabilmente. «E io penso che... Be', che sia invece un'idea piuttosto interessante.» Rise, con birichina gaiezza. «Certo, ammetto di non essere imparziale, essendo stata chiamata in causa personalmente...» Blessing alzò gli occhi a guardare Marquette. Anche il suo assistente e pupillo sorrideva, ma sembrava a disagio. «Vuoi farmi il favore di dirmi esattamente che ruolo hai avuto in questa storia, Donald? So che sei in contatto con questa gente. E loro evidentemente sanno che tu sei in contatto con me... ma sono comunque confuso.» «Ehm... Bill... forse non l'hai letta con attenzione», azzardò Donald. «Io ho solo dato una scorsa alla copia di Amy. Forse se la leggi di nuovo...» «D'accordo», concesse Blessing. Aveva degli strani presentimenti sul conto di Donald, e quella lettera non faceva che rafforzarli. Tuttavia, lui stesso, come spesso gli rimproverava Amy, aveva la tendenza a perdere le staffe. Un respiro profondo. Due. «Molto bene», disse, gonfiando tutto il suo piumaggio professorale per non dare segni di debolezza o irritazione. «Allora credo che la cosa migliore sia leggerla ad alta voce, non trovate?» «Ottima idea, Bill», concordò Amy. Si avvicinò a lui con un saltello e lo cinse allegramente con un braccio. «E ricordati che hai sempre promesso che mi avresti aiutata a diventare famosa.» «Famosa!» Ebbe l'impulso di esclamare «Stupidaggini», ma si trattenne. Invece di commentare oltre, allungò un braccio sulla superficie della sua scrivania e ne raccolse una delle numerose paia di occhiali da lettura che aveva disseminato per la casa, li inforcò, rassettò la lettera e cominciò a leggere:
Caro dottor Blessing, sono certo che lei abbia sentito parlare di me, o almeno della collana di libri di cui sono il curatore. Mi chiamo Roscoe Mithers. Sì! Proprio il Roscoe Mithers curatore della collana Tramonto oscuro per la casa editrice Paperback Gems. Certo! Basata naturalmente sulla serie di telefilm e film (che indubbiamente lei segue, data l'influenza che ne riscontro nel suo più che eccellente lavoro, benché in tutta onestà ritengo che lei debba osservare più da vicino i vampiri di Tramonto oscuro per imparare qualcosa di più su questa particolare creatura della notte!) e presenza fissa nelle classifiche dei libri più venduti compilate da Walden e B. Dalton, spalla a spalla con le sue degne opere. Uno dei nostri autori, Donald Marquette (I fiori della tortura, numero ventuno dalla collana Estremo tramonto oscuro), mi ha informato che non solo è suo allievo in materia di letteratura gotica e dell'occulto, ma che sta collaborando con lei in qualità di assistente alla compilazione di un'antologia di maestri dell'orrore. Come lei indubbiamente sa, la serie televisiva Tramonto oscuro e le sue diramazioni Alba oscura, Aurora del giorno oscuro e Ricardo il vampiro, insieme con i film di cassetta a esse ispirate, ha avuto il ruolo di mantenere in vita l'horror agli occhi del mondo. Come avrebbe fatto altrimenti la sua ben meritata popolarità a trovare il pubblico giusto? Naturalmente lei è stata una delle prime persone a cui ho pensato quando siamo riusciti a convincere gli Oscuri Poteri che ci governano (ha ha) della potenziale efficacia di questo progetto: l'Antologia del tramonto oscuro. Si tratterebbe di uno spesso volume tascabile (inevitabilmente destinato ad andare a ruba tra i club di lettori e dunque a vedere la pubblicazione in versione con copertina rigida) contenente racconti originali basati sui personaggi più popolari della serie: Rupert lo Zombie, Hilda la Strega e, naturalmente, Ricardo il Vampiro. Saremmo entusiasti se lei volesse scrivere un racconto per l'antologia. In verità ho già ventilato agli Oscuri Poteri la possibilità che, nel caso lei accettasse, potrebbe volerlo ambientare nell'universo di uno dei suoi romanzi. (Come se Stephen King raccontasse di una visita di Ricardo a Castle Rock, no?) Naturalmente siamo in attesa di un racconto anche da parte di Donald. Inoltre, mi ha informato che lei ha una affascinante moglie a sua volta impegnata nella fiction. Accetteremmo volentieri anche un suo contributo.
Oppure, poiché sappiamo che lei è un uomo molto impegnato, un'eventuale collaborazione! Noi di Tramonto oscuro siamo sempre stupiti dal fascino che la serie esercita su milioni di lettori e telespettatori. Proprio la scorsa settimana mi trovavo a una convention organizzata da Tramonto oscuro e ancora una volta ho avuto modo di verificare con stupore quanto efficacemente il fenomeno incarni la fruizione della tradizione della letteratura gotica e horro nella cultura moderna! Spero che lei voglia unirsi alle nostre crescenti schiere! Grazie! Roscoe Mithers P.S. Le ho inviato, per sua referenza (e per la sua collezione), le più recenti pubblicazioni della collana Tramonto oscuro, incluso l'eccitante titolo di esordio della nostra serie per i giovani lettori, la Backbone Shivers, dal titolo C'è un mostro nella mia gavetta. Terminata la lettura, ci fu una pausa di silenzio. Finalmente, William Blessing rise in modo piuttosto forzato. «Certo. Ora capisco. Si tratta di uno scherzo! Una specie di pesce d'aprile.» Non poté fare a meno di notare l'espressione ferita sul volto di Donald. «No, Bill. Non è uno scherzo. Mithers è l'editor che acquistò il mio libro per Tramonto oscuro. E mi ha proposto di scriverne altri, raddoppiando il mio compenso.» «Oltre al racconto per l'antologia, naturalmente», osservò Blessing, incapace di evitare una punta di acidità. «Capisco. È che speravo si trattasse di uno scherzo.» Amy si corruccio. «Bill, ti prego. La pubblicazione di quel libro è stato un passo importante per Donald. E lo sai che non è ancora riuscito a vendere l'altro romanzo che ha scritto. È servito a dargli la forza di andare avanti. Non essere così negativo!» Blessing cercò di riprendere il controllo. Aveva avuto una serie di invettive sulla punta della lingua. Si trattenne dal pronunciare le parole «puerile», «asinino» e «buffone». Tuttavia, non poté evitare un piccolo commento. «A quanto pare questo... Roscoe Mithers... è... ehm... molto preso dal suo lavoro.» «Sì, è vero. Devi scusarlo», disse Donald. «Roscoe è un grandissimo fan
della serie televisiva dalla prima puntata. Potersi occupare di questi libri è per lui un sogno che si è avverato. Ci mette l'anima e il cuore nel suo lavoro.» «Già.» Blessing scosse mestamente la testa, riuscendo a placare la sua rabbia. Ora era semplicemente afflitto da una lieve depressione. «Scusatemi. Ovviamente puoi scrivere un racconto per la serie se lo desideri, Amy. Stai diventando molto brava. E naturalmente tu devi farlo, Donald. Hai già le qualità di un ottimo romanziere. L'esperienza che stai maturando qui ha chiaramente migliorato le tue abilità più di quanto mi sarei aspettato. Semplicemente speravo che ambissi a qualcosa di più che pubblicare materiale adatto a Tramonto oscuro.» «Non ti sembra di avere un atteggiamento un pochino pomposo ed elitista, Bill?» obiettò Amy, la mani piazzate sui fianchi, non più carina nel suo malumore ma decisamente bellissima. «Voglio dire, scendi dalla tua torre d'avorio! Stiamo parlando di una serie divertente, di libri divertenti. Io li seguo quei telefilm, e abbiamo anche visto l'ultimo film insieme!» «Solo perché mi ci hai costretto», ribatté Bill. La sua ira stava di nuovo montando. Non riusciva a credere che sua moglie lo stesse contraddicendo apertamente sulla questione in presenza di Marquette. «Ascolta, io insegno letteratura popolare all'università. So tutto quello che c'è da sapere sulla letteratura di consumo. Sai quanti romanzi e racconti furono pubblicati nel diciannovesimo secolo solo per cadere nel più oscuro oblio? E stiamo parlando di fiction di livello ben superiore a quanto viene pubblicato nella collana Tramonto oscuro. A mio modo di vedere, questa ondata di libri commerciali tesi a trarre profitto da dubbie politiche editoriali, ora intraprese direttamente da autentiche multinazionali dell'editoria, contribuisce al graduale inaridimento della cultura occidentale in senso lato. Rischiamo il declino e la caduta, gente. E voi volete unirvi alla follia di massa? D'accordo, buon per voi. Ma non riesco a capacitarmi della faccia di bronzo di chi abbia trovato il coraggio di chiedere a me di scrivere simili... simili... ciarle.» «In tal caso... forse è meglio lasciar perdere quell'altra questione, Amy», propose Donald timidamente. «No», s'impose Amy. «Ne hai ogni diritto. E hai promesso di chiederglielo.» «Ma...» «D'accordo, lo farò io.» «Ma di che state farneticando?» volle sapere Blessing.
«Bill, il signor Mithers voleva sapere, nel caso non fossi interessato a scrivere un racconto per l'antologia, se saresti invece disposto a scrivere una recensione positiva per il libro quando verrà pubblicato.» «Che cosa?» «Hai capito perfettamente, Bill. Un pezzo che elogia il libro... o anche la serie stessa. Lo fai sempre per i tuoi amici. Scrivi sempre recensioni entusiaste per Dean, Peter, Stephen e Clive.» Blessing vide rosso. Si voltò e si avvicinò a una libreria. Si appoggiò contro gli scaffali, respirando profondamente e lentamente, cercando di ricomporsi. Finalmente, si girò. «Sai, una delle cose che ho sempre fatto notare a proposito di Edgar Allan Poe è che, sebbene abbia scritto molto nella sua vita, riuscì a fare relativamente poco di cui andasse realmente fiero: le sue poesie e i suoi racconti, Eureka... qualche articolo di critica... Il resto del suo tempo lo passò svolgendo monotono lavoro per riviste letterarie. Che tortura dev'essere stata per lui, in aggiunta alle altre sventure della sua vita. Riuscite a immaginare che cosa sarebbe riuscito a fare se il suo odioso patrigno John Allan avesse davvero creduto in lui? Se avesse ricevuto un'istruzione di alto livello? O se fosse riuscito a ottenere un impiego da insegnante come Longfellow? O se qualche mecenate avesse riconosciuto il suo valore e lo avesse preso sotto la sua ala? Invece no. Fu costretto a lavorare per un'industria patetica e squallida, piena di melensa fiction da strapazzo, manierista nei sentimenti e nello stile. «Questo dovette fare Poe. E quel poco che poté scrivere nella sua breve vita trionfò. «Ma ora l'insensato lavoro da scribacchini, lo stupido, sensazionalistico nonsenso del gusto popolare, le inconsisenti menti capitaliste, hanno sovvertito quelli che erano gli obiettivi della tradizione che lui tanto bene modernizzò. E che cosa abbiamo oggi? Buffy l'ammazzavampiro? Xena? E, Dio ce ne scampi, Tramonto oscuro.» Sospirò. «E voi avete pensato che avrei accettato di legare il mio nome a un genere di prodotto che aborro!» Blessing sentiva montare la sua pressione sanguigna. Era un sacrilegio! La negazione di ogni suo ideale, di tutto ciò che lui stesso rappresentava! Non c'era stato nulla da fare. Aveva dovuto esprimere il suo sdegno. Erano questioni fondamentali per la sua esistenza. Non se ne rendevano conto?
Amy alzò gli occhi al cielo. «Per l'amor del cielo, Bill! Nessuno vuole attentare alla tua integrità. E comunque ci riesci perfettamente da solo, a quanto pare. Lascia perdere tutto, d'accordo? Non parliamone più.» Lo guardò, e la rabbia che lampeggiava nei suoi lucidi occhi nocciola lo scosse. «Ti chiedo scusa, Bill», mormorò Donald. Sembrava a disagio e ferito, evidentemente in imbarazzo per essersi trovato coinvolto in un litigio tra coniugi. Controlla la tua rabbia, diamine. Conta fino a dieci. E così fece, rapidamente, muovendo le spalle dentro il cardigan di cachemere, allentandosi la cravatta per agevolare la circolazione sanguigna. «Avete toccato un nervo scoperto, ecco tutto.» «Mi dispiace davvero. Dubitavo che l'idea ti sarebbe piaciuta», ammise Donald. «Ma... alla fine abbiamo deciso che sarebbe comunque valsa la pena fare un tentativo.» L'espressione sul suo volto sembrava aggiungere: Non ci aspettavamo certo che facessi saltare qualche valvola. «Non nego di avere una posizione molto rigida su quest'argomento», concesse Blessing. «Ma non posso tradire i miei principi.» Si schiarì la voce e azzardò uno sguardo in direzione della moglie. «Ascolta, cara. Ti chiedo scusa. Fai pure quello che vuoi. Ne hai ogni diritto. Ma io non voglio lasciarmi coinvolgere in un'operazione del genere. Ci sono cose più degne a cui dedicare il mio tempo, e scopi più nobili a cui legare la mia reputazione e tutto quanto ho fatto di buono fino a oggi nel campo accademico e letterario. La ricerca del successo commerciale non obbliga necessariamente un autore a scendere al livello del minimo comune denominatore per ottenerelo.» «Ma solitamente funziona così, su questo non ci sono dubbi», inveì Amy. «Dio, Bill. A volte sei proprio... proprio uno stronzo!» Amy alzò le braccia al cielo. Si voltò e uscì dalla stanza a grandi falcate, percorrendo rumorosamente prima il corridoio e poi le scale. Preoccupato, Donald fece per seguirla. «No», lo richiamò Blessing. «Le passerà. Probabilmente è andata a fare una passeggiata o a chiamare una delle sue amiche per lamentarsi e chiacchierare un paio d'ore. Le chiederò scusa più tardi.» Marquette non sembrava convinto. «Scusami se mi sono comportato scioccamente, te lo chiedo per favore. Ma giacché sei qui vorrei parlarti di una cosa.» Blessing sentiva ancora
l'adrenalina scorrergli nelle vene come un insieme di minuscole e affilate lamette. Si avvicinò alla sua scrivania, aprì un cassetto e tirò fuori una mezza bottiglia di Johnnie Walker etichetta rossa e due bicchieri. «Bevi con me?» Per una volta, Marquette non esitò ad accettare l'offerta di un superalcolico. «Sì, grazie.» «Bravo ragazzo.» Blessing versò dosi sconsigliabili di scotch in entrambi i bicchieri e ne passò uno a Marquette facendolo scivolare sulla superficie della scrivania. «A Poe!» esclamò, ripetendo il brindisi che lui e Marquette utilizzavano quando uscivano a bere qualche birra insieme. «A Poe», echeggiò Marquette, con minore trasporto. Blessing trangugiò subito una lunga sorsata di whisky. Il liquido lasciò dietro di sé una scia di fuoco pungente e aromatico, riversandosi poi nell'acido calderone del suo stomaco. Avvertì immediatamente il calore espandersi lungo tentacoli di calma e di ammiccamento all'oblio. Oblio? Era questo che aveva cercato Edgar Poe? Una tregua dalla travolgente agonia del quotidiano? Avrebbe dovuto saperlo se davvero era la reincarnazione di Poe. Posò lo sguardo sul suo assistente e pupillo. Anche Donald ci dava dentro con il suo whisky. Ne aveva già bevuto metà. Sentì un leggero brivido di paura percorrergli la schiena. A proposito di quello di cui gli voglio parlare... I nove mesi trascorsi in compagnia di Donald Marquette erano stati positivi. Il ragazzo imparava in modo incredibilmente rapido. Assorbiva le sue indicazioni come una spugna e lavorava duro. Il primo volume dell'antologia era quasi stato completato, il dottorato di Marquette procedeva bene e gli articoli che scriveva sulle «Manifestazioni della tradizione gotica nella prosa moderna», oltre a essere basati su un ottimo lavoro di ricerca, contenevano brillanti intuizioni. In più, produceva a gran ritmo la propria fiction, come se irrefrenabilmente ispirato dai prolissi seminari di Blessing e dall'osservare da vicino il maestro mentre scriveva a rivedeva il suo lavoro. Quando gli forniva i suoi consigli e i suoi insegnamenti, Marquette era sempre concentrato, focalizzato ed estremamente attento. Mi ricorda me da giovane, pensò Blessing. Ma ha qualcosa che non va, e non riesco a capire cosa sia... E poi c'era quel suo ultimo racconto. Oltre a essere davvero molto buono, lo stile e la maestria nell'uso dei
tropi e dell'allusione complementavano ottimamente la trama appassionante e originale. Più di un lettore avrebbe potuto scambiarlo per un lavoro di William Blessing. Era stata una constatazione allarmante, ma al tempo stesso piuttosto gratificante. No, non era quello il problema. La questione che preoccupava il professore era un'altra. Blessing bevve ancora un sorso di whisky, poi posò il bicchiere. Marquette, invece, teneva il suo stretto tra le mani come se intuisse l'approssimarsi di qualcosa di spiacevole. Conteneva ancora un dito di scotch, ma Donald guardava la bottiglia sulla scrivania come se si stesse trattenendo con fatica dal chiederne ancora. Nei suoi occhi Blessing vedeva già gli effetti dell'alcol. «Donald. Ripetimi qual è la tua ambizione», esordì Blessing amabilmente. Gli occhi di Donald sembravano infuocati. «Quale ambizione? L'immortalità letteraria?» «Sì. Non è un traguardo da poco, non ti sembra? Era la stessa ambizione di Poe. Fin da quando era più giovane di quanto lo sei tu adesso riteneva di essere un grande. Naturalmente Tamerlano non è certo la più bella delle poesie, ma rivela una fortissima ambizione, non credi?» Blessing contemplò il suo drink. Appoggiò di nuovo il bicchiere sulla scrivania e sospirò. «Sei bravo», disse, alzandosi e andando a prendere la sua grossa cartella di cuoio. «Sei un bravo scrittore, dotato di grande talento. E continui a migliorare. Sei troppo bravo per perdere tempo con progetti infantili come Tramonto oscuro. Se hai bisogno di soldi... Be', ti aumenterò la paga. Al diavolo, sono disposti a pagarti vitto e alloggio e spese di cartoleria, se è di questo che hai bisogno. Ma questa storia di Tramonto oscuro...» «È che mi aiuta a sentirmi sicuro nei miei mezzi», spiegò Marquette con tono affatto conciliante. «Mi stimola, serve a tenermi attivo, e vedere il mio nome nelle classifiche dei bestseller... be', fa parte anche questo del mio sogno.» «Mmm. Di questo potremo discutere in seguito, credo.» Blessing aprì la borsa di cuoio e ne estrasse un libro con copertina rigida. «A proposito, congratulazioni.» Posò il libro sulla scrivania. Demoni sognanti, proclamava il titolo. Racconti sospesi sull'orlo del baratro di Donald Marquette. «Pubblicato dalla Tome Press, vedo», rimarcò Blessing. «Ah, ne hai preso una copia. Sì. È appena uscito. Volevo regalarne una copia firmata a te e a Amy», disse Donald, ancora piuttosto apprensivo.
«Sei stato laggiù, vero? Hai socializzato con loro.» Marquette alzò le spalle. «Sì. Qualche riunione di lavoro.» Blessing scosse la testa. «D'accordo. Mi domando solo perché non ti sei rivolto a qualche altro editore.» «Be', francamente nessun editore non specializzato accetta raccolte di racconti horror in questo periodo.» «E perché non rivolgersi a qualche altro piccolo editore nello stesso campo, ma più rispettabile? Perché proprio loro?» «Erano disposti a pubblicarmi.» Marquette finì il whisky. «Tutto qua, Bill. E in più la loro sede è qui in città. Mi permette di essere maggiormente coinvolto nella gestione dei progetti. E comunque non sono certo meno rispettabili di Necro, Subterranean o Terminal Fright. Il settore della piccola editoria di genere horror non è certo quella che era negli anni Ottanta, quando la Sream Press, la Underwood Miller, la Dark Harvest e decine di altre case si contendevano un mercato in forte espansione. Oggigiorno non ci sono molte alternative.» «Be', spero che la cosa non abbia ripercussioni negative sulla tua reputazione.» Blessing trasse un respiro profondo e sofferto. «E spero che non danneggi la mia, dal momento che il tuo nome è ora associato al mio.» «Non capisco. La Tome Press sta andando estremamente bene. Hanno già distribuito metà della prima tiratura e stanno lavorando a una versione tascabile. Non vedo che cosa ci sia di male.» «È già accaduto in precedenza nel campo dell'horror la scorsa volta», rispose Blessing. «Alcuni scrittori disturbati ne hanno approfittato per promuovere le proprie psicopatologie. E alcuni editori sono caduti nell'inganno di credere che ciò che la gente ama della letteratura gotica, che come ben sai è la definizione che di gran lunga preferisco, sia la sua crudezza e sanguinolenza. Queste persone affette da turbe psichiche e fuorviate vogliono semplicemente stravolgere le menti dei lettori, dare sfogo ai loro inferni personali di pornografica violenza facendone una sorta di manifesto. È questa la mia opinione di quelli della Tome. E posso aggiungere di aver sentito cose preoccupanti sul loro conto da diverse altre fonti. Si mormora di riti satanici e sacrifici di sangue. Sono cose brutte, Donald. A noi, in qualità di scrittori seri, viene concessa ampia licenza, ma dobbiamo fare molta attenzione a come ci comportiamo, per tutta una serie di ragioni.» «A me non hanno fatto una cattiva impressione», ribatté Donald. «Forse sono un po' fuori, concesso. Si definiscono cultori del Goth estremo, così lo chiamano, ma hanno a cuore la qualità letteraria. Prendono il loro lavoro
molto sul serio.» «Non ne dubito. Ma la serietà non implica la bontà delle intenzioni.» Blessing si incrociò le braccia sul petto e si portò un dito alle labbra. «Questa gente... ho un cattivo presentimento sul loro conto.» «Solo perché hai sentito parlare male di loro dalle bocche di scrittori smidollati senza una vita di cui vantarsi!» protestò Donald. «Donald», lo richiamò con polso Blessing. «La tua comparsa nella loro rivista e la pubblicazione di questo libro probabilmente non mi arrecherà grandi danni. Io tengo molto alla mia reputazione, e data la natura di parte del mio materiale devo prestare molta attenzione alle mie frequentazioni. Quello che sto cercando di dirti, è che per quanto io ti rispetti e mi sia affezionato a te, se continuerai ad avere rapporti con questa gente, le nostre strade dovranno dividersi.» Marquette diede l'impressione di voler dire qualcosa a sua discolpa, in difesa della Tome Press, ma si trattenne. Annuì. «Okay. Mi dispiace che tu la veda così. Secondo me stai diventando un po' paranoico, ma in fondo ti capisco.» Marquette accennò un sorriso. «Vuoi ancora che ti firmi una copia con dedica per te ed Amy?» «Te ne prego! Sarebbe un grande onore.» Notevolmente sollevato dal vedere Marquette accettare la sua richiesta, dato il talento del ragazzo e l'ottimo lavoro svolto nella preparazione dell'antologia (senza trascurare il fatto che ormai stava diventando parte della sua famiglia), Blessing si rilassò. Nell'angolo dell'ufficio, accanto a una libreria, erano disposte due poltrone Eames con poggiapiedi e un tavolino da caffè. Blessing afferrò la bottiglia di whisky e il bicchiere e fece cenno a Donald di seguirlo. «Ammetto che la tua decisione è un grande sollievo per me, Donald. Perché non voglio perderti. E sono certo che anche Amy sarebbe stata molto dispiaciuta e arrabbiata con me se avessimo dovuto interrompere il nostro rapporto.» «Anche a me sarebbe dispiaciuto.» Blessing si avvicinò allo stereo e accese la radio, perennemente sintonizzata su un canale di musica classica. Soavi melodie di Bach si diffusero nello studio. Il professore versò un altro goccio di whisky nel bicchiere di Donald e lo invitò a sedersi. «Ho cominciato un progetto nuovo di zecca. Ora che abbiamo risolto il nostro piccolo problema sento di potertene parlare», ammise Blessing. «Davvero?» L'entusiasmo sul volto di Marquette era genuino.
«Sì. È piuttosto sorprendente e nessuno lo ha mai fatto prima. Se avrà successo e mi sarà consentito farne un caso, scatenerà dibattiti e polemiche. Non solo nel mondo accademico, ma anche nel quotidiano.» «Muoio di curiosità. Ha a che fare con Poe?» «Certamente.» Blessing si adagiò all'indietro, appoggiandosi allo schienale della comoda poltrona di pelle. «Donald, abbiamo già discusso di quanto Poe fosse affascinato dalla crittografia e dagli indovinelli, vero?» «Naturalmente. Come nello Scarafaggio d'oro, per esempio.» «Sì. Esattamente. Be', spingiamoci un passo più avanti. Conosci le teorie avanzate di recente sul misticismo ebraico e sul Vecchio Testamento, sulle quali si fonda l'attuale dibattito sul cosiddetto codice biblico?» «No. Non ne ho sentito parlare.» Bevve un sorso di whisky. «Sembra un argomento interessante.» «Come materia di pettegolezzo per cocktail party hollywoodiani lo è. Pseudoscienza di prim'ordine e molto in voga. Tuttavia, il dibattito mi ha portato a considerare alcuni aspetti del lavoro di Edgar Poe.» «Ma immagino che il codice di cui si parla abbia a che fare con forme di esoterismo risalenti a migliaia di anni fa. Qual è il collegamento con l'opera di Poe?» «Messaggi nascosti, Donald. Vedi, pare che ci siano numerosissimi messaggi e profezie celate negli originali testi biblici, che un certo ricercatore sarebbe stato in grado di scoprire grazie a un programma che ha permesso al suo computer di leggere le pagine dal basso verso l'alto, da sinistra verso destra e al contrario, come un rebus basato su diagrammi di parole da individuare. Il fatto che elementi arbitrari quali i margini delle pagine siano necessari per il funzionamento della tecnica di decodificazione viene minimizzato dai proponenti della teoria. «Potrei addentrarmi oltre in dettagli tecnici, ma tutto questo è irrilevante. Tutti i gruppi esoterici, dai templari ai rosacrociani, hanno sempre affermato di essere a conoscenza di insegnamenti segreti. Basta leggere Il pendolo di Foucault di Umberto Eco per averne la conferma. Ma secondo un libro sull'argomento, avvenimenti recenti come l'assassinio del primo ministro israeliano nel 1995 sarebbero stati annunciati in questi antichi scritti. Naturalmente è una teoria ridicola, ma, come ti ho spiegato, mi ha portato a pensare al fascino che simili cose esercitavano su Poe.» «Allora immagino che tu abbia cominciato a condurre ricerche simili sull'opera di Poe», esortò Donald, tentando di portare Blessing a concludere il suo discorso.
«Sì. Ho scaricato una versione di questo software di decodificazione, ho apportato qualche modifica e ho intravisto possibilità affascinanti. Ho ancora parecchio lavoro da svolgere, dopodiché pubblicherò un articolo che potrebbe fungere da spunto per un libro.» «Hai scoperto qualcosa? Messaggi segreti da parte di Edgar Poe?» indagò Marquette, ora totalmente concentrato. Qualcosa di freddo e serpentino sembrò srotolarsi nel ventre di Blessing. Rabbrividì, incapace di controllarsi. Poi si sporse in avanti e rivelò tutto a Donald Marquette. 12 Una notte, mentre sedevo mezzo intontito in un miserabile antro, la mia attenzione venne improvvisamente attratta da un oggetto nero in cima a una delle gigantesche botti di gin o di rum che formavano per buona parte l'arredamento del locale. Fissavo la botte da diversi minuti e mi sorprese il fatto di non aver notato prima l'oggetto sopra di essa. Mi avvicinai e lo toccai con la mano. Era un gatto nero, un gatto nero molto grosso. EDGAR A. POE, Il gatto nero «Pregate per me», invocò Donald Marquette. «Perché sono un'anima dannata come mai un'anima è stata dannata prima.» Il gruppo esplose in una risata. Donald ghignò e bevve un altro sorso di birra. «È questo il messaggio che il buon professore crede di aver trovato celato nell'opera di Edgar Poe.» «Come una specie di anello decodificatore segreto alla Capitano Planet, no?» commentò il Conte Mishka, agitando le dita, mettendo in mostra i numerosi gioielli di cui si adomava e le lunghe unghie color lavanda tempestate di brillantini. «Oppure alla Batman!» rilanciò il Marchese. Il Marchese attraversava una fase retro ispirata al New Romantic, scimmiottando il Dracula di Gary Oldman e Alan Jorgensen dei Ministry. Quella sera indossava un cappotto di velluto viola, una camicia da sera a fiori (solo qualche macchia di vino fino a quel momento), il cappello a cilindro di feltro portato schiacciato sulla testa, come d'ordinanza, occhiali con montatura metallica e lenti viola, e smalto smalto nero e lucido sulle unghie. Stava prendendo seriamente
in considerazione di farsi allungare i capelli con ciocche posticce la settimana successiva. Quel look sembrava andargli a genio. Il gruppo raccolto attorno al tavolo rise al racconto. «Quello è fuori di testa, secondo me», sentenziò Baxter Brittle, che sedeva a capotavola su una sedia vittoriana dallo schienale alto e intarsiato. Era sdraiato, con le gambe a penzoloni oltre uno dei braccioli e un calice stretto al petto. Ultimamente Baxter aveva adottato look e atteggiamenti alla Oscar Wilde: palpebre sempre chiuse a metà, capelli scuri divisi sopra la fronte, ampio cappotto edoardiano e calzoni neri con ghette. «Mi piace come si vestiva Oscar, lo ammetto. Ma non mi piace succhiare cazzi, come invece adorava fare lui», ripeteva quotidianamente per evitare che qualcuno potesse cominciare a nutrire dubbi sui suoi gusti in camera da letto. L'odore pungente dell'assenzio si librava verso l'alto dal calice incastonato di gioielli. Da qualche tempo Baxter ne aveva fatto il drink preferito, essendo riuscito a distillarne in proprio e con buon successo una versione accettabile da vendere nel bar. Grazie in parte al video The Perfect Drug di Trent, l'esotico liquore, due volte più forte della vodka, con lievi proprietà allucinogene e ben visto perché associato a personalità artistiche del calibro di Hemingway e Rimbaud, stava conoscendo un notevole ritorno di popolarità tra i Goths. Donald Marquette fece una smorfia e abbassò gli occhi alla sua pinta imperiale in stile britannico di birra Old Peculiar, un'altra recente aggiunta alla lista degli alcolici in vendita al Sailor. Quella birra ad alto contenuto di alcol e dal sapore ricco e particolare lo stava rapidamente conquistando. Maledetto bastardo, pensò. Gliela farò vedere! Gliela farò vedere a quello stronzo arrogante! «Sì, ne farà l'argomento di un articolo», riferì dopo un altro, lievitoso sorso di birra. «E dal momento che gode di tanta stima negli ambienti accademici, letterari e anche popolari, la gente lo prenderà sul serio.» «Ecco a voi un uomo che si meriterebbe di essere ridimensionato», decretò Baxter, agitando leggermente il suo assenzio e colpendo poi il calice con un'unghia per farlo risonare come una campanella. «È un pallone gonfiato», rincarò il Marchese, usando un comico tono di voce alla George Sanders (avendo rinunciato alle poco credibili imitazioni di Peter O'Toole e James Mason). Donald sorrise, poi sospirò. Già. Proprio un pallone gonfiato. Avvertiva nelle vene il mormorio della birra, e la droga che avevano fu-
mato poco prima nello scantinato stava trasformando la sua mente in uno studio di Escher. Era una bella sensazione. Stava bene. Molto bene. Ridimensionarlo. Ci puoi scommettere! Arrogante pezzo di merda! «C'è dell'altro», aggiunse. Era un mercoledì sera al Cork'd Sailor, la serata del «bar di lusso», che non aveva riscosso particolare successo tra la clientela priva di ironia con cui Baxter era costretto a convivere. Tuttavia, l'aria era comunque satura di fumo grigioazzurro. L'odore che aleggiava era quello di sigari, fiammiferi e tovagliette di spugna impregnate di birra. Eppure Donald era perfettamente a suo agio. Il locale era buio e rassicurante, con le pareti decorate da quadri e ogni sorta di oggetto in stile vittoriano. Le file di bottiglie di superalcolici dotate di beccuccio appoggiate allo specchio dietro il bancone creavano l'impressione di un meraviglioso giardino di vetro, che scintillava alla luce soffusa. Benché troppo vicino a Little Italy per i suoi gusti, il locale possedeva il carattere esotico e l'atmosfera di Fells Point, e Donald Marquette se n'era innamorato, quasi con lo stesso trasporto con cui si era innamorato di Amy Blessing. «Dell'altro?» strascicò Baxter, alzando gli occhi annebbiati a guardare il suo autore. «Sì. Si è infuriato quando ha visto la collezione di miei racconti pubblicata dalla Tome Press. Ha capito che vengo qui spesso e che vi conosco. Ora vuole che interrompa ogni rapporto che ho con voi. Niente più racconti per The Tome, niente più libri per la Tome Press... e immagino che se dovesse venire a sapere che continuo a venire qui anche solo per bere birra mi licenzierebbe.» Pronunciare quelle parole fece di nuovo montare la furia in Donald. Come se tutti avessero a disposizione una serie di alternative! E con il carico di lavoro che si trovava a gestire, era naturale volersi scaricare in compagnia di amici ogni tanto! Il professor Adolf Hitler Blessing stava trattando Donald come se fosse un adolescente, e per di più suo figlio! In effetti Donald aveva frequentato il locale solo nei fine settimana. Era cominciato tutto in modo assolutamente innocente, con un paio di incontri di lavoro. Ma dopo la firma del contratto per la pubblicazione della raccolta di racconti, Baxter aveva cominciato a invitarlo al bar nei weekend e a offrirgli da bere. Donald aveva fatto la conoscenza della sua cricca, i cui componenti avevano tutti letto le sue novelle e le avevano trovate fantastiche. Ai loro occhi Donald era ormai quasi una celebrità. Pendevano dalle
sue labbra, soprattutto quando si parlava di letteratura. Baxter gli aveva ben presto offerto un lavoro da coredattore, «per dare lustro a questa umile rivista», ma Donald aveva declinato. Aveva troppi altri impegni. Tuttavia, era stato genuinamente lusingato, e il rispetto che gli veniva tributato in quella cerchia, oltre a dargli sicurezza in se stesso, aveva fatto sì che si trovasse a suo agio anche con... gli aspetti più eccentrici del Salon des Gothiques. Indubbiamente aveva imparato ad apprezzare il liquore che bevevano. E anche qualcuna delle droghe di cui facevano uso, sebbene si limitasse rigorosamente su quel fronte. Le accettava solo in occasioni speciali, a dire il vero. Durante le feste. Ma quando la pressione esercitata dal suo carico di lavoro cominciava ad avere la meglio, aveva provato ad assumere una o due delle pasticche stimolanti che i ragazzi gli avevano regalato. E che botta, che carica ne aveva ricevuto. Riusciva a lavorare molto di più e a dormire molto meno. A suo avviso la droga aveva anche l'effetto di migliorare la qualità della sua scrittura. Era come se spalancasse una porta dentro di sé, permettendo alla sua creatività grezza, sì, al suo genio di fluire. Fare bisboccia con i Goths. Era molto, molto divertente. Certo, quel Mick a volte lo inquietava... c'era qualcosa nello sguardo, negli atteggiamenti e nel modo in cui vestiva. E i racconti. Donald doveva ammettere che Blessing aveva fatto centro su quell'aspetto della questione. Sia Mick, sia la sua prosa, erano duri, forzati, strani, minacciosi. Donald si rendeva conto che proprio Mick aveva ispirato un paio dei suoi racconti più recenti e meglio riusciti. Ma ora, in quella che sarebbe stata la sua ultima visita al locale per parecchio tempo, provava un certo sollievo per l'assenza di Mick. «Cazzo», commentò Baxter, irritato. «Che maledetto bastardo.» Già. Al punto, notò Donald, da scuotere il proprietario del bar, l'editore e redattore, dal torpore indotto dalle pressioni del mondo e dall'alcol. Qualcosa ardeva nei suoi occhi come l'estremità di un cavo elettrico reciso. «Questa cosa mi fa andare il sangue alla testa», esclamò Baxter. Più che lusingato, Donald si sentì commosso nel vedere la reazione di Baxter. Aveva spesso pensato che i Goths fossero semplicemente condiscendenti nei suoi confronti, perché lo trovavano divertente e interessante. Aveva immaginato che avrebbero accolto il suo annuncio con un semplice «ciao, baby, peggio per te». Ma era diverso.
Loro ci tenevano a lui. Lui gli piaceva davvero... Donald Marquette era sempre stato un tipo piuttosto solitario, e non aveva mai riscosso grande successo con le ragazze o nei rapporti sociali. Si sentiva ancora leggermente a disagio in presenza di William Blessing, che trovava molto amichevole ma sempre pomposo e un po' troppo formale. Il buonumore che mostrava in presenza del famose scrittore e studioso era spesso falso o forzato. In fondo, il motivo per cui si trovava lì era migliorare le proprie conscenze, apprendere l'arte della scrittura e, soprattutto, promuovere la propria carriera. Non aveva mai avuto rapporti con persone tanto composte, sicure di sé, aggiornate e informate. I Goths, invece... erano... be', in gamba. E gli piaceva il fatto che loro considerassero lui in gamba. Era davvero una bella sensazione, essere accettati e rispettati. Baxter Brittle si strofinò il mento. Poi si alzò, infilando la fiaschetta di assenzio in una delle sue grandi tasche. «Venite, Cerchia Interna. Questo è davvero un problema molto serio. Dobbiamo scendere nel fetido sancta sanctorum per cogitare.» Con consumata platealità si avviò verso lo scantinato. Il Conte e il Marchese lo seguirono. Ritenendo di essere stato a sua volta incluso, anche Donald si alzò per seguirli. Tuttavia, prima di giungere alla porta che si apriva sulle scale dello scantinato, vennero interrotti dall'arrivo di una giovane coppia, elegantemente vestita da vampiri Goths. «Baxter Brittle», chiamò la ragazza, alzando una mano guantata di seta nera. «Al vostro servizio», rispose Brittle con un ossequioso mezzo inchino. «Che cosa posso fare per voi, Lady Jessica e Principe Knowlton?» La ragazza, un tipo spumeggiante, al limite del punk, con capelli variopinti, fece un passo avanti, avvicinandosi a Baxter. «Stanno accadendo un sacco di cose strane tra la tua gente, Baxter.» «Chiedo scusa?» «Ascolta, io amo la scena Goth quanto chiunque altro del giro. Forse più di chiunque altro», disse la slanciata ragazza. «Ma stanno succedendo cose che non mi piacciono affatto.» «Ah, sì? E a che cosa ti riferisci?» «Alcune persone che conosco, che erano perfettamente a posto, negli ul-
timi sei mesi si sono trasformate in veri e propri tossici», riferì Lady Jessica con fermezza. «Io non sono certo una santa, né dico sempre 'preferisco vivere', ma la cosa si sta facendo seria. Non è più divertente. E il Principe è tornato a casa ieri sera con il mantello sporco di sangue!» «Pietà!» esclamò Baxter. «Un vampiro con una macchiolina di sangue addosso! Che scandalo.» Brittle barcollò leggermente, ovviamente sotto l'effetto dell'assenzio. «Io non ricordo niente di quello che è successo ieri notte!» dichiarò il Principe Knowlton. «E questa è una cosa che mi fa cagare addosso dalla paura!» «Questa storia del Salon des Gothiques è nata come una forma interessante e decadente di divertimento, non solo una scusa per bere e drogarsi come degenerati», affermò Lady Jessica con tono accusatorio. «La maggior parte di noi si alza il lunedì mattino per andare a lavoro, o a scuola o quant'altro, e deve affrontare il mondo reale. A me dispiace per quello che è successo ai tuoi genitori, lo sai, ma noi non disponiamo di eredità con cui vivere. Non te ne sto facendo una colpa, non fraintendermi, ma voialtri state cominciando a scavare troppo in profondità nelle tenebre.» Scosse la testa. «Troppo in profondità.» «Ti prego», oppose Baxter. «La concisione è l'anima dell'arguzia e dello spirito. E devo dire che stai mancando di sprito.» «Abbiamo deciso di lasciare i Goths», rivelò Lady Jessica. «Stiamo formando un gruppo nostro. Io e Knowlton e qualche altro. Abbiamo deciso di mollare questa scena e, soprattutto, allontanarci da te.» Baxter allargò le dita di una mano e se la portò al petto. «Gasp! Mi hai ferito!» esclamò sarcasticamente. «Sono davvero così cattivo, pazzo e pericoloso?» «Andiamo, Principe», esortò Lady Jessica, prendendolo per un braccio e tirandolo in direzione della porta. «Andiamocene via da qui.» «Oooooh!» chiamò Baxter alle loro spalle. «Andate a prendere il tè dagli altri vampiri? Ricordatevi di tenere alzato il mignolo quando bevete, mi raccomamdo!» Donald si sorprese a ridere insieme con gli altri. «Troppa paura di scottarsi, eh?» disse allegramente Baxter. Ma all'improvviso l'espressione sul suo volto s'indurì. Guardò la sua cerchia ristretta, il Marchese, il Conte e Donald Marquette, poi domandò: «Voi, invece, ci state dentro, non è vero?» Annuirono tutti. Loro non avevano paura di scottarsi.
Sì, pensò Donald, ci sto dentro. Questi sono i miei amici. È il genere di compagnia che ho sempre cercato. E non sono gli unici a scavare nelle tenebre... Anch'io lo faccio. Lo facciamo tutti, in realtà, nel profondo del cuore. Era una citazione tratta da uno dei suoi racconti e sapeva che corrispondeva a verità. Il gruppo passò oltre la tintinnante tendina di perline dietro il bancone, attraversò la cucina mentre Baxter si toglieva le chiavi di tasca, poi scese nella Segreta. Se la prima volta che era sceso nello scantinato Donald aveva trovato il «salon» intelligentemente decorato e affascinantemente misterioso, ora... Be', ora la situazione finanziaria della Tome Press migliorava a vista d'occhio e, di pari passo, cresceva l'opulenza di quella tana di dissolutezza. Baxter Brittle aveva acquistato una serie di spettacolari tappeti orientali che ora ricoprivano il pavimento, conferendo lusso e calore all'ambiente. Pezzi di antiquariato e quadri con costose cornici si erano aggiunti all'arredamento. Collane, croci e simboli esoterici e dell'occulto pendevano qua e là, luccicanti al bagliore delle fiammelle di grosse candele aromatiche. Il profumo ricco e denso dell'incenso, unito al fumo delle sigarette francesi di Baxter, persisteva nell'aria. Sego, tabacco e incenso... e tracce di profumi esotici e alcol. Baxter li guidò verso uno splendido tavolo rotondo in legno di quercia attorniato da sedie intarsiate riccamente. Gesticolò con una mano. «Sedetevi.» Estrasse la sua fiaschetta e il calice e li posò sul tavolo davanti a lui. «Che cosa bevete, fratelli?» Scelsero tutti di bere birra. Baxter indicò la ghiacciaia. «Servitevi pure.» Donald prese un'altra bottiglia di Old Peculier. Tornarono a sedersi. «Abbiamo un problema», annunciò Baxter. «Siamo alle prese con un dilemma. Da un lato è una cosa molto positiva che alcuni membri del nostro gruppo ci lascino. Dall'altra, dobbiamo sorvegliarli attentamente per accertarci che tengano la bocca chiusa.» Le sue sopracciglia vibrarono leggermente mentre pronunciò quelle parole. «Poi, abbiamo qui un amico che non intende abbandonarci, ma che si vede costretto a farlo per motivi professionali dal suo mentore.» «William Blessing!» gridò il Conte. «Un personaggio illustre e potente», puntualizzò il Marchese. «Forse dovremmo invitare Blessing a unirsi a noi!» propose il Conte.
«Più volte in passato gli ho comunicato la nostra disponibilità», confessò Baxter. «Ma a quanto pare il buon professore vive in una torre d'avorio. Si ritiene superiore a noi. Ci disprezza. Facile, quando si ha denaro a palate e si gode di successo. Eppure, fratelli, non attingiamo forse alla stessa fonte? La letteratura, la filosofia e le emozioni che attraversano la nostra materia grigia, che scorrono nelle nostre vene... non sono forse le stesse che scorrono in quelle di William Blessing? Il nostro amico Donald Marquette lo riconosce. Noi lo riconosciamo. Altri lo riconoscono. Ma evidentemente Blessing è un negromante che nega l'odore di zolfo prodotto dal suo incantesimo. Si crede impervio, potente e immune dai deliziosi vapori della notte che ci ammantano.» Baxter fece un pausa di silenzio. Le fiammelle delle candele accanto al tavolo fluttuarono come se nei locali alitasse un vento demoniaco. «Forse dovremmo dare una sveglia a quel Blessing», suggerì il Conte. «Sì», concordò il Marchese «Dovrebbe svegliarsi e prendere atto della realtà.» «Facile a parole», disse Donald. «Ma al momento tutte le persone che sto incontrando, tutti i contatti nel mondo dell'editoria... e intendo le case editrici di New York...» «Capisco. Ma c'è sempre Tramonto oscuro, no?» «Purtroppo non gli è andata giù neppure quella.» «Ehi!» protestò il Marchese. «Ma è la mia serie preferita!» «Devo ammettere di non essere imparziale», disse Baxter. «Ma guardiamo la realtà: potrebbero chiamare gli autori di Star Trek per scrivere quella roba e venderebbero comunque l'ira di Dio.» «Ehi!» Stavolta toccò al Conte protestare. «A me piacciono i libri di Star Trek!» «Non tutti hanno gusto quando si tratta di letteratura», ribatté Baxter, chinandosi in avanti e strofinandosi il naso per cercare di farne sgorgare ispirazione. Donald sorseggiò la birra. La situazione gli appariva nera. Avrebbe semplicemente dovuto rifugiarsi ancora di più nel lavoro. Era dura stare sempre in casa di Blessing e dover sopportare le eccentricità di quell'uomo. Dio, quanto era logorroico, e parlava sempre in modo pomposo e perlopiù di se stesso. Morditi la lingua e sorridi, Marquette. Baciagli quel culo peloso! La Grande Autorità ha parlato e indicato la via! Fate tutti attenzione alla nuova tediosa masturbazione mentale!
Ma la cosa peggiore era la vicinanza di Amy. Si era innamorato perdutamente di lei fin dal primo istante in cui l'aveva vista, e il suo sentimento non aveva fatto che crescere. Dio, quant'era difficile starle vicino e trattenersi dallo stringerla tra le braccia, baciarla per sempre. Era un persona così fisica. Adorava toccarlo. Ultimamente aveva preso anche ad abbracciarlo. Sentire il seno di lei contro il petto, o contro un braccio, era elettrizzante. La calda fragranza del suo profumo lo mandava in estasi. A Natale gli aveva dato un bacio sotto il vischio. Sulla guancia, certo, ma... Mi vuole, pensò, bevendo altro liquido ambrato. Forse non se ne rende ancora conto, ma è così! Se solo avesse avuto più potere per gestire la situazione. Se solo... A un tratto si udirono passi lenti e precisi scendere le scale. Baxter Brittle alzò la testa, interrompendo il corso dei suoi pensieri. «Chi mai potrebbe essere?» Il fruscio di un lungo cappotto. La cadenza delle suole di cuoio degli stivali. Il lembo del cappotto si allungò e prese gradualmente la forma snella e tenebrosa di Mick. Stringeva una bottiglia di Courvoisier in una mano. Nell'altra impugnava un elegante frustino da fantino. Lo usò per colpire il corrimano mentre scendeva. Le fiammelle delle candele languirono. Stranamente, al suo ingresso l'aria sembrò farsi più fredda, venata dell'odore della nebbia, del puzzo di topi di fogna e di gabbiani. Alle sue spalle un secondo paio di stivali, stavolta non sfiorati dal lembo di un cappotto. Gli stivali neri s'inserivano fluidamente in un paio di pantaloni di pelle nera. A mano a mano che le gambe scendevano i gradini, rivelandosi alla vista, Donald notò che i pantaloni erano decorati con borchie cromate. Le gambe dei pantaloni erano lunghe, e in alto fasciavano un paio di potenti glutei, aprendosi in una brachetta sul davanti. Risalendo ancora si vedeva una pancia piatta e tesa, una camicia di pelle aperta a mostrare gli addominali ben formati, poi pettorali enormi, spalle larghe e un volto di giocatore di football, squadrato e roccioso. Incoronato da un cappuccio nero di pelle, con altre borchie. «Vieni, Theodore», invitò Mick. «Non temere. Ti garantisco che questa gente non morde.» Produsse un ghigno. «Ma non dubito che ti divertiresti se lo facessero.»
Mick si rivolse agli altri. «Gang, vi presento una nuova recluta. Questo è il cugino Theodore. Desidera diventare un faro della letteratura.» La montagna di muscoli grugnì. «Vuoi bere, Theodore?» offrì Mick. «Una Becks.» «Certamente. Serviti pure. Il frigorifero laggiù è ben fornito.» L'omone si avvicinò alla ghiacciaia mentre Mick si dirigeva a passi lenti verso il tavolo. Ne colpì leggermente la superficie con il frustino, poi si sedette su una delle sedie. «Una riunione in mia assenza?» domandò con tono sospettoso facendo pensare le parole. «Qualcosa non va?» Baxter si appoggiò allo schienale della sedia e si abbandonò a una risata che aveva del maniacale. «Non più.» Mick aggrottò la fronte. «Che cazzo vuoi dire?» «Il tuo arrivo rappresenta la soluzione», spiegò Baxter. «Ho un'idea. Un'idea per una soluzione meravigliosa!» Il suo volto, in precedenza scuro e assente, era ora radioso mentre si voltava a guardare Donald. «E oltre a permetterti di guadagnare ulteriormente la stima del nostro amato dottor Blessing, e di continuare a frequentarci, renderà un contributo immenso alla nostra causa!» Ormai Donald era pronto a prendere in considerazione qualsiasi idea. Bevve un altro sorso di birra, intrecciò le dita delle mani e si sporse in avanti sul tavolo per ascoltare. 13 Allora spalancai le imposte e, con un frenetico battito di ali, Entrò un maestoso corvo imperiale dei santi tempi che furono; Non fece inchini, né si fermò un istante; Ma con fare da gentiluomo o da gran dama si appollaiò sopra la mia porta. Si appollaiò sul busto di Pallade sopra la mia porta. Si posò, si sedette e nulla più. EDGAR A. POE, «Il corvo» William Blessing aveva sempre sentito parlare di quel genere di serata.
Tuttavia, in tutta la sua vita da celibe ne aveva disprezzato l'idea. Stupide chiacchiere melense, si era detto. Sciocchezze senza senso, una forma di propaganda evocata per minare l'indipendenza, imporre al maschio di mordere il freno e imporgli di continuare a trascinare i suoi geni attraverso le distese del tempo, verso un ineluttabile, gelido e totale inverno. Ora, seduto davanti al camino, Blessing si rese conto che non solo tutto ciò era piuttosto piacevole, non solo si sentiva contento e soddisfatto come mai prima di allora... Ma era anche felice. Assaporava una pura, incontaminata felicità! Il bagliore del fuoco crepitante nel camino lo avvolgeva di un caldo manto di pace. L'odore ricco e aromatico del legno di cedro che ardeva si fondeva perfettamente con i diffusori di essenze al poutpourri di cui Amy aveva acceso le candeline. Il sapore della cioccolata sulla sua lingua complementava splendidamente la forza del goccio di whisky con il quale l'aveva corretta. Aveva tra le mani una copia dell'800 molto ben conservata e meravigliosamente illustrata del romanzo Nicholas Nickleby di Charles Dickens, il libro nel quale amava rifugiarsi in quei giorni di tranquillità, cercando scampo alle rapide del mondo letterario per tuffarsi in un mondo protetto di parole magiche e personaggi immortali. Era un piacevole sabato sera di febbraio, e insieme con la sua amata si trovava al sicuro e al caldo nella sua bella casa, al riparo dalla neve e dal vento che soffiava e sibilava al di là della finestra. Uno scoppiettio dal fuoco. Alzò gli occhi alle fiamme, allarmato, ma subito si rassicurò, vedendo che una scintilla era schizzata via dai ceppi e si stava ora spegnendo sulle piastrelle di cotto. Nulla più. Si guardò attorno. La verità, naturalmente, era che la sua contentezza, o meglio, felicità, era interamente dovuta alla persona che ora sedeva nella poltrona di fronte alla sua, immersa nella lettura di Mansfield Park di Jane Austen, dopo aver messo da parte i ferri da maglia. Amy. La sua Amy. Non poté fare a meno di soffermarsi ad ammirarla. Era così bella, e la sua bellezza sembrava muovere qualcosa nel profondo della sua anima, qualcosa di risonante e di puro... e di sacro. A quella bellezza contribuiva la gioventù ma, quand'anche essa fosse sfiorita, la maturità avrebbe preso il suo posto per creare forse una bellezza ancora maggiore e più completa.
Lei lo prendeva in giro, affermando che la sua ossessione per Poe aveva travalicato ogni limite, che come Edgar aveva sposato la cuginetta tredicenne così William Blessing si era preso una sposa bambina. Naturalmente, quando avevano cominciato a scriversi e a parlare al telefono dopo quel primo fine settimana trascorso insieme in occasione della convention di autori fantasy (un weekend casto! la prima esperienza del genere per lo scapolo Blessing), era risultato evidente che per molti versi, sul lato emotivo e sentimentale, era Amy la più matura dei due. Poi, qualche mese dopo l'eccitazione del matrimonio e della luna di miele, settimane fatte costruite stando insieme, di fiori, bigliettini e tutte le altre espressioni della gioia dell'amore, le sue battute sulla differenza di età erano cessate. In modo rapido e alquanto naturale si erano fusi in un'unità domestica improntata alla passione, l'amore e la comprensione reciproca. Avevano stabilito un incredibile legame che trascendeva l'età e la carne, celebrato dal sesso. Agli occhi di Blessing Amy incarnava il meglio della poesia stessa: bellezza, gusto, talento musicale... e un animo dolce e gentile. L'aveva intuito fin dal momento in cui aveva posato gli occhi su di lei, sul suo sorriso timido, e di tanto in tanto scriveva versi dedicati a lei con un'antica penna, intingendone la punta nell'inchiostro e facendola vibrare mentre scorreva grattando sulla carta. Quando avrebbe completato il quaderno sulle quali trascriveva le poesie d'amore, l'avrebbe chiuso con un nastro rosso e l'avrebbe posato sul suo guanciale prima di partire per uno dei suoi viaggi. Dio, quanto l'amava! Alzò di nuovo gli occhi dal libro per ammirare quei lineamenti perfetti, come faceva spesso durante le serate dedicate alla lettura, e la sorprese a guardarlo in modo piuttosto strano. «Amy, va tutto bene?» domandò. «Sì. Credo di sì, Bill.» «Sembri... turbata.» «Mmm. Sto facendo fatica a concentrarmi. Sono un po' preoccupata.» «A che proposito?» «Non lo so. È solo una sensazione strana...» Si alzò e posò il libro. Le si avvicinò e si inginocchiò accanto alla sua poltrona, cingendola con un braccio. Profumava di gelsomino e di tè Earl Grey. I suoi capelli risplendevano alla luce del fuoco. «Sei ancora arrabbiata per il battibecco che abbiamo avuto la settimana scorsa?» «Che cosa? Quella storia di Tramonto oscuro?» Rise dolcemente. «Perché mai? Ho vinto io. Scriverò un racconto e me lo pubblicheranno, a di-
spetto del tuo atteggiamento borioso e presuntuoso.» Gli strinse il naso delicatamente tra le dita. «E devo confessare di non essere per nulla dispiaciuta se hai consigliato a Donald di non immischiarsi con quella strana gente.» «Sai, cara, non devi pensare che io disapprovi a priori i gruppi di persone che si vestono e si comportano in modo strano, benché io da giovane non l'abbia mai fatto.» «Già. Eri troppo impegnato a scrivere note a piè di pagina.» Sorrise in apprezzamento della battuta. «È che ho letto il materiale che pubblicano e ne sono rimasto piuttosto turbato. Sono purtroppo riuscito a crearmi una buona reputazione, chissà come, e devo stare molto, molto attento a come mi muovo. Mi capisci?» «Certo. E Donald non sembra averla presa male. Anche se vorrei che si trovasse una ragazza. Ne ha bisogno. Forse abbiamo sbagliato a tenerlo troppo impegnato. Ho cercato di presentarlo a una delle mia amiche del Peabody, ma non sembra interessato.» «È a lui che stavi pensando, Amy? A Donald?» «Be', no... non solo.» Si morse il labbro, lo guardò con occhi tristi e gli accarezzò la guancia. «Bill, a volte penso che siamo entrambi... troppo impegnati. Abbiamo troppe cose da fare. Mi domando se le nostre vite non ci stiano divorando.» «Pensi che dovremmo prenderci una vacanza?» Rise. «Mi conosci bene. Io ho sempre bisogno di una vacanza. No.» si fermò a riflettere. «Sai, stavo pensando. Gli anni passano. So che sono giovane, ma tu...» «Sto invecchiando rapidamente?» «Ma no, che dici? Be', forse è meglio che sputi il rospo. So che ne abbiamo già parlato... di mettere su famiglia... e abbiamo deciso di rimandare. Ma ora penso che se aspettiamo troppo... forse non ti godrai appieno i bambini. E poi, chissà?» Sorrise mestamente, gli occhi gonfi di lacrime. «Chissà che cosa ci porterà il futuro? Mi piacerebbe avere... dei nipotini, e poterli coccolare insieme con te... e godere di tutti gli altri sciocchi sentimentalismi.» Tirò su con il naso e girò la testa. «È troppo. Poco tempo fa leggevo Herman Hesse e ascoltavo Kurt Cobain. Ora voglio cominciare a fare maglioncini per i nipotini e organizzare crociere per pensionati!» Lui rise, profondamente commosso. Prima di conoscere Amy aveva represso o negato molti dei suoi sentimenti. Ora sembrava ospitarne una lussureggiante coltivazione... si sentiva
il possessore di un giardino di Matisse ricco di meraviglia e vitalità, l'intero spettro dell'amore in tutte le sue sfumature e rappresentazioni artistiche. «Lo sapevo. La nostra differenza di età alla fine comincia a preoccuparti.» «Scusami», disse. «Sai che sono a disagio nell'esprimere i miei sentimenti.» «Non ti preoccupare», la rassicurò. «Non c'è nulla di male. E non stai solo esprimendo i tuoi sentimenti. Stai affrontando una questione concreta e logica. Una questione che dobbiamo affrontare insieme.» «Temevo che ti arrabbiassi.» «Scherzi? Pensi che sia tanto vanitoso da non voler ammettere che sto invecchiando?» «Non sei vecchio. Non è questo il problema.» «Certo che no», rise. «Lo so.» Lei aveva di nuovo voltato la testa. Allungò una mano e gliela fece girare, guardandola negli occhi. La baciò delicatamente su una guancia. «Hai perfettamente ragione, tesoro. Non c'è alcun motivo di non avere bambini. Dovremmo farlo subito. Ammetto di essere stato molto egoista fino a oggi. Ho voluto averti tutta per me il più a lungo possibile.» I suoi occhi si riempirono di stupore e di gioia. «Bill! Dici sul serio?» «Be', dovremo fare qualche sacrificio economico, ma sai quello che dicono: quando hai dei bambini riesci sempre a recuperare in qulche modo quello di cui hai bisogno.» Parlò con voce da bambina. «Posso scrivere un romanzo per Tramonto oscuro, papà!» Poi, finalmente, lo abbracciò. Lo strinse con tale forza da dargli l'impressione che volesse fondersi con lui. E se fosse stato possibile, in quel momento William Blessing non avrebbe avuto nulla da obiettare. La strinse a sé, e la sua morbidezza, la sua inebriante fragranza e calda essenza lo avvolsero in un'aura di sensazioni erotiche. Si baciarono, e fu il bacio più dolce e più tenero di tutta la sua vita. Senza neppure rendersene conto, l'istante dopo si trovarono intrecciati sul pavimento presi in un vortice di passione, accanto al camino. Il suo amore per lei ardeva come i tizzoni nel camino. Ma era destinato a durare molto, molto di più. «Sai, amore», disse Blessing. «Anche il fascino di Charles Dickens impallidisce di fronte a te.» Alzò un dito a indicare il soffitto. «E sai una co-
sa? Nonostante le tue affermazioni, penso di essere un po' troppo vecchio per rotolarmi sul pavimento. Credo che sarei molto più felice di impegnarmi per cominciare una gravidanza nel nostro letto caldo, bello e decisamente caro.» «Guastafeste», ribatté lei scherzosamente. Amy balzò atleticamente in piedi e aiutò Blessing a tirarsi su. Lui mimò un attacco di reumatismi e la seguì barcollante, facendosi guidare dal suo sguardo amorevole e malizioso verso la scalinata che conduceva alla camera da letto al piano superiore. Erano giunti a metà strada quando suonarono alla porta. «Chi può essere?» domandò Amy, seccata. «Non può essere Donald», disse Blessing. «Ha la chiave e sarebbe entrato senza suonare. E comunque non viene mai di sabato sera.» «Lascia perdere, Bill. Non rispondere. Andiamo.» Lo tirò per un braccio. «Facciamo finta di non essere in casa.» «No. È evidente che ci siamo. Potrebbe essere qualcosa d'importante.» Si liberò delicatamente dalla presa e le sorrise per rassicurarla. «Comincia a salire. Chiunque sia, lo manderò via in un paio di minuti e poi ti raggiungerò.» «No. Ti aspetto qui.» Incrociò le braccia sul petto, vagamente irritata da quella insubordinazione. «Fuori nevica. Forse qualcuno ha avuto un incidente oppure ha la macchina bloccata dalla neve e ha bisogno di fare una telefonata», ipotizzò. «Verremmo meno ai nostri doveri di buon vicinato se non aprissimo.» «Nel centro della città? Non credo proprio», replicò. Amy era una ragazza della tranquilla periferia americana e vivere in un contesto metropolitano la innervosiva ancora. Tuttavia, il loro era un quartiere piuttosto sicuro e Blessing non credeva proprio che nei paraggi criminali di strada girovagassero sotto la neve. Strade e marciapiedi ghiacciati non erano certo l'ideale per una rapida fuga! Inoltre, non era necessario aprire la porta per vedere chi avesse suonato. Giunto all'ingresso, accese il monitor del sistema di sicurezza. «Chi è?» domandò al citofono. Il monitor si schiarì, ma non produsse immagini. Evidentemente la neve aveva coperto l'obiettivo della telecamera all'esterno. «Mi dispiace disturbarla, ma c'è stato un incidente. Avrei bisogno di chiamare un carro attrezzi, e magari anche la polizia.» Era la voce di una donna, leggermente tremante per via del freddo. Bles-
sing sentiva il sibilo del vento e i grossi fiocchi di neve che si adagiavano sui vetri delle finestre. Solo ascoltando la voce della donna gli sembrò di sentire il freddo pungente. Ma non riusciva a vederla. Maledetta neve. Non gli dispiaceva, solitamente, ma in momenti come quello desiderava di aver scelto di vivere in un luogo dove il clima era più mite. L'inverno sulla costa orientale degli Stati Uniti poteva essere estremamente rigido. Per quale motivo quella donna avesse scelto di bussare proprio alla sua porta era un mistero. Ma si sentì obbligato a compiere il suo dovere di buon cittadino e a darle una mano. Compose il codice che disattivava l'allarme, aprì la serratura, sganciò la catenella di sicurezza e tirò a sé la pesante porta di quercia, aprendola. L'aria fredda irruppe immediatamente nella casa, rapida e pungente, portando con sé una spolverata di neve. «Che cosa è succe...» cominciò a dire. Vide subito che non c'era una donna sulla soglia di casa, ma un uomo imponente con indosso un lungo cappotto, una figura nera monolitica sullo sfondo più chiaro della notte innevata. Prima che avesse anche solo il tempo di prendere in considerazione di richiudere la porta sbattendola, l'uomo fece un passo in avanti e gli assestò un pugno al plesso solare, con la precisione e la velocità di un pugile esperto. La neve si illuminò di stelle. Blessing emise un grido strozzato e gli si annebbiò la vista. Si piegò in due per il colpo ricevuto e cadde in avanti. L'uomo lo sostenne e lo sospinse nell'ingresso. Blessing ebbe l'impressione di essere stato spezzato in due. «Bravo, professor Blessing», disse un voce alle spalle dell'uomo che l'aveva colpito. «Ci faccia un po' di spazio. Fa freddo qua fuori.» Il dolore aveva cominciato a risalirgli dall'addome verso il petto. Perdeva e riacquistava conoscenza, rendendosi conto a malapena che l'altro uomo era entrato in casa sottraendosi alla nevicata e si stava chiudendo la porta alle spalle. Il cappotto nero era lungo, molto lungo. Dita bianche sbucavano da guanti neri. Un mento duro, squadrato. Un ghigno sul volto. «Ecco. Così va meglio», approvò con un tagliente sussurro. «Bene, professore. Non c'è motivo di soffrire oltre, anche se disponiamo di tutti gli
strumenti nel caso fosse necessario, gliel'assicuro.» «Già, cazzo. Coltelli e pistole», ringhiò l'uomo vestito di nero. «E qualche altro simpatico attrezzo», sussurrò l'uomo con il lungo cappotto. «Siamo professionisti, capisce, e ci piace il nostro lavoro. Dunque, sappiamo che lei possiede una magnifica collezione, contenente pezzi di notevole valore. È così professore?» Il fiato fuoriuscì dai polmoni di Blessing, ma senza produrre suono. «Le ho chiesto...» L'uomo si ravviò i capelli all'indietro e lo affrontò, faccia a faccia. Blessing sentì l'odore di alcol, di aglio e di qualcosa ancora peggio nell'alito dell'uomo. «Le ho chiesto se è così, professore.» «Sì», riuscì con fatica a rispondere Blessing. Una quantità sufficiente di adrenalina si era ora riversata nel suo organismo per permettergli di mettere a fuoco la vista. In quell'istante capì che la paura che provava non era per la possibile perdita della sua collezione di cimeli di Poe... ma piuttosto per l'incolumità della moglie. Amy. Non devono fare del male a Amy. «Sì, vi prego. Non c'è bisogno di usare la violenza», riuscì a dire «Potete prendere quello che volete.» «Che uomo di buon senso», commentò l'uomo con il cappotto. «Tuttavia...» Fece un cenno con la testa. Il teppista alto e massiccio con una faccia butterata che sembrava uscita da un fumetto della Marvel afferrò Blessing da dietro, gli portò le braccia dietro la schiena e gli immobilizzò i polsi. Una fitta di dolore risalì le braccia di Blessing fino alle spalle. Era come se l'uomo volesse staccargliele. Fu di nuovo sul punto di perdere i sensi, ma come se l'avesse intuito, l'uomo allentò la pressione. «Eccellente. Ora, possiamo rendere tutto molto rapido e, se non proprio indolore, certamente meno tragico di quanto potrebbe essere», disse l'uomo con il cappotto. «La prego, professore. Ci mostri la sua collezione. Presumo che si trovi al piano di sopra, no?» «Sì», confermò Blessing. «Bene. Ora con calma e tranquillità andiamo a vedere. Ma non troppo lentamente. Potremmo diventare impazienti.» Entrambi gli uomini erano a volto scoperto e, a mano a mano che si riacuivano i sensi, Blessing prese nota mentalmente di ogni dettaglio, di ogni cicatrice, ogni curvatura di naso e ogni follicolo, imprimendoseli a fuoco nella memoria.
State commettendo uno sbaglio, pensò. Vi prenderanno. Non riuscirete a farla franca. Era quello il pensiero che gli dava forza, che gli permetteva di controllarsi e di non tentare una reazione. Che impediva il formarsi di pensieri come Non può essere vero a vantaggio di Giustizia verrà fatta! e Devo proteggere Amy. Lo sospinsero su per le scale. «Ora ci indichi quale porta dobbiamo aprire», pretese l'uomo con il cappotto. Blessing pensò di offrire loro denaro e oggetti di valore per convincerli ad andarsene, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Chiaramente sapevano ciò che volevano ed erano decisi a ottenerlo. Aveva sempre saputo che una simile collezione di oggetti preziosi era vulnerabile. Ma aveva solo temuto che potessero cadere per caso nelle grinfie di qualche topo d'appartamento. Non aveva mai immaginato che qualcuno potesse desiderare quelle prime edizioni e quei reperti al punto da organizzare un furto su commissione. Come potevano pensare di riuscire a rivenderli, di trarre profitto da un saccheggio del genere? Eppure evidentemente era la collezione l'obiettivo dei due. E che alla fine non sarebbero riusciti a farla franca gli sembrava ovvio. Blessing era preoccupato per la sorte degli oggetti che venerava e per i quali aveva speso cifre esorbitanti; tuttavia, la salvezza della vita sua e di quella di Amy era di gran lunga più importante. Avrebbe obbedito a ogni loro istruzione. Giunsero al primo piano nell'istante in cui Amy uscì dal bagno. «Bill, va tutto?...» Appena vide i due uomini che trattenevano Blessing il suo volto si contorse in un'espressione di panico. Si voltò e tentò di fuggire. «Amy. No!» chiamò Blessing. L'uomo con il cappotto lungo scattò al suo inseguimento. Non ci fu storia. La raggiunse all'altezza del primo gradino della rampa di scale, la prese per la vita con un braccio e la trattenne. Lei strillò. «Zitta, puttana!» intimò l'uomo. La scosse come un cane scuote un coniglio. «Non farle male!» implorò Blessing. Amy smise di divincolarsi. L'uomo con il cappotto la trascinò verso la porta da dove era sbucata.
«Nessuno si farà male se obbedirai a quanto ti diciamo. D'accordo?» Scosse di nuovo Amy. Lei annuì, gli occhi spalancati per la paura. Guardò Blessing e sembrò sollevata nel vederlo apparentemente incolume. «Vogliono solo i reperti nella stanza della collezione», spiegò Blessing. «Ho intenzione di farglieli prendere.» «Una decisione saggia e democratica, professore», si complimentò l'uomo con il cappotto. «E adesso, prego...» Indicò la centralina del sistema di allarme. «Ci pensi lei.» «Lo farei se avessi una mano libera.» «Naturalmente. Ma si ricordi: non esiteremo a fare del male alla signora Blessing. Ed è quello che accadrà se cerca di fare il furbo.» L'energumeno rimase vicino a Blessing e lo fissò mentre si strofinava le braccia per riattivare la circolazione e poi volgeva la sua attenzione alla centralina. Il professore digitò qualche cifra e la luce rossa si spense. Si mise una mano nella tasca destra dei pantaloni. «Occhio, professore», ammonì l'uomo con il cappotto. «Sto solo prendendo le chiavi.» «Molto bene.» Blessing le estrasse, tintinnanti. Le mostrò all'uomo con il cappotto, poi scelse quella che gli serviva. La inserì nella toppa. La girò. E aprì la porta con una spinta. All'apertura della porta dalla stanza uscì una corrente d'aria fredda, carica del profumo di pelle, cuoio e carta. Allungò una mano veso l'interno e accese la luce. Il gruppetto varcò la soglia. Nel momento stesso in cui l'uomo con il cappotto entrò e si guardò attorno, qualcosa cambiò. In precedenza aveva avuto sul volto un ghigno soddisfatto e arrogante. Ora, invece, appariva vagamente confuso. Disorientato. Turbato. Forse addirittura spaventato. «Cazzo», sussurrò. «Che c'è?» indagò il complice. «Tieni la donna», ordinò lui. L'energumeno obbedì, facendo un passo di lato e afferrando Amy. «Niente male, la ragazza. Ha anche un buon profumo.» L'uomo con il cappotto si infilò una mano nella tasca, lo sguardo assente, e ne tolse una pistola.
«Figlio di puttana!» esclamò. Cominciò a fremere. Si voltò a guardare Blessing, gli occhi ora arrossati e iniettati di sangue. Puntò la pistola. Il foro della canna era quanto di più nero e freddo i sensi di Blessing avessero mai registrato. «Sei tu!» accusò l'uomo con il lungo cappotto. «Che cosa?» «No!» gridò Amy. Istintivamente, nonostante la paura che lo attanagliava, Blessing si girò a guardare la moglie. Quanto stava accadendo nella stanza aveva distratto l'energumeno. La vicinanza fisica con una donna tanto avvenente aveva evidentemente innescato desideri più immediati di quello di rubare. Le sue narici bovine erano dilatate e aveva affondato la bocca nel collo di Amy, stringendole violentemente il seno destro in una grossa mano. «Lasciala stare!» urlò Blessing. Senza preoccuparsi della propria incolumità si scagliò contro l'energumeno, colpendolo al volto con un pugno. Il colpo fece più male alla mano di Blessing che all'aggressore, ma riuscì se non altro ad attirare la sua attenzione. Alzò lo sguardo, gli occhi pieni di lussuria e di sfida. A dispetto del dolore alla mano Blessing si stava preparando a sferrare un secondo pugno quando venne atterrato da un tremendo colpo alla nuca. Cadde dall'altra parte della stanza, urtando una pila di libri e rischiando nuovamente di perdere conoscenza. Si raggomitolò sul pavimento, tentando di rimanere cosciente. Rimani sveglio! Rimani vivo! Per amore di Amy! Poi si rese conto che l'uomo con il cappotto si era piazzato sopra di lui e gli stava puntando contro la pistola. «Tu!» ringhiò a denti stretti. «Il mio persecutore!» «Che cosa?» bofonchiò Blessing. I tendini sul collo dell'uomo erano tutti in rilievo e le vene sulla fronte sudata erano gonfie. «Finalmente ti ho trovato!» dichiarò l'uomo con il cappotto. I suoi occhi vibravano selvaggiamente. «Non mi darai più noia...» «Di' a quella bestia di allontanarsi da mia moglie!» Blessing fece per alzarsi. Venne ricacciato a terra da due proiettili.
Il dolore fu intenso, immediato e viscerale. Le tenebre lo avvolsero rapidamente. E non portarono alcun conforto. 14 Poi quell'uccello d'ebano indusse a un sorriso il mio mesto umore, Con il grave e austero decoro del suo portamento, «Benché rasata sia la tua cresta», dissi, «non sei un vile Orrido e antico Corvo che vieni da notturne rive. Dimmi qual è il tuo nobile nome sulle plutonie rive!» Disse il Corvo: «Mai più». EDGAR A. POE, «Il corvo» Era un piano geniale! Assolutamente geniale, pensò Donald Marquette mentre la Volvo di Baxter Brittle navigava sulle strade ghiacciate. La neve cadeva ora talmente fitta da offuscare i lampioni. Marquette non indossava guanti e, seduto al posto del passeggero, teneva le mani sul cruscotto dell'auto davanti al bocchettone dell'aria calda per scaldarsi. Al Marchese era stato ordinato di non bere quella sera e ora guidava la macchina coadiuvato dalle pesanti gomme da neve. Baxter Brittle e il Conte sedevano sul sedile posteriore. L'interno della macchina era pervaso dall'odore dolciastro e nauseabondo dell'assenzio a cui Baxter non aveva voluto rinunciare, nonostante Marquette avesse insistito perché rimanesse sobrio. Indossava una pelliccia di taglio vittoriano e sembra affascinato, quasi ipnotizzato dai fiocchi di neve che cadevano in larghe volute dal cielo. «Notte di pace e di gioia, eh?» strascicò Baxter. Cominciò a canticchiare l'm dreaming of a white Christmas! con voce stridula e stonata. «Ecco, siamo arrivati», disse Donald. «La casa è quella.» «Parcheggia! Parcheggia!» esortò Baxter. «Ci piegheremo dalle risate!» «Volentieri», rispose il Marchese, guardandosi attorno nella notte quasi opaca per la neve. «Devo solo trovare un posto, okay?» Donald si tirò su la manica e controllò l'orologio. «Non essere troppo pignolo», invitò. «È quasi l'ora dell'appuntamento.»
Lui stesso, sebbene non proprio ubriaco, era piuttosto brillo. Benché avesse caldeggiato la sobrietà come condizione ideale per quel genere di situazione, aveva faticato a gestire l'eccitazione e il nervosismo durante l'attesa al Cork'd Sailor. Nessuno sembrava curarsi del fatto che si fosse scolato qualche birra e infilato una bottiglia di vodka nella tasca del cappotto prima di uscire. Non si sa mai, si era detto. Avrebbe sempre potuto lanciarla. Un piano favoloso! Mentre il Marchese lottava con il volante della Volvo nel tentativo di parcheggiarla nello spazio che aveva individuato, il parabrezza inondato di fiocchi di neve tra una spazzata e l'altra dei tergicristalli, a Donald Marquette sembrò di ascoltare di nuovo Baxter Brittle che nello scantinato sotto il bar illustrava la sua idea: «Un piano semplice ed efficace!» aveva affermato, agitando la tazza di liquore con una mano e indicando Mick e Theodore con l'altra. «Abbiamo davanti a noi la soluzione. Ecco: due uomini dal fisico imponente e dall'aspetto minaccioso. Penetreranno in casa di Blessing, minacciandolo allo stremo ma esercitando il minimo di violenza fisica. Immagino che voi due ci stiate, no?» aveva domandato, guardando gli uomini vestiti di nero. «Potrebbe essere divertente», aveva commentato Mick con tono pacato. «Già. Perché no?» concordò Theodore. «Benissimo.» Baxter Brittle aveva continuato. «Dunque. A questo punto fa la sua comparsa il nostro giovane eroe, Donald Marquette. Che cosa lo spinge a visitare la dimora dei Blessing quel fatidico sabato sera? Ma per appianare un disaccordo, naturalmente. Per deporre al diretto cospetto dei Blessing l'oggetto stesso della controversia! Le cattive influenze in carne e ossa! I Goths! A tal fine, in quanto rappresentanti del gruppo, il sottoscritto, il Marchese e il Conte lo hanno accompagnato, portando con loro offerte di pace e forse qualche libro da farsi autografare.» Agitò con aria melodrammatica un dito. «Ma che cosa vedono i nostri occhi! Sembra che ci siano guai! Sì, la dimora dei Blessing e la meravigliosa collezione di reperti di Poe che custodisce sono in pericolo! Noi, cittadini coraggiosi e intrepidi, oltre che ottimi Goths, ci lanciamo in soccorso degli aggrediti. «Pam! Pum! Schiaffi e cazzotti ai cattivi! Prendete questo, e quest'altro!» Baxter Brittle si era a tal punto immedesimato nella parte che si era alzato e aveva cominciato a sferrare pugni contro immaginari avversari. Sbuffava e ansimava, mimando un incontro di boxe. Poi aveva concluso
con un poderoso gancio, si era girato di scatto e aveva alzato le braccia al cielo in segno di gloriosa vittoria. «I cattivi sono sconfitti. Se la danno a gambe, dileguandosi nella notte. Ma la collezione di reperti di Poe, il brillante professore e la sua signora sono sani e salvi grazie al nostro valore. Ci acclameranno come eroi.» Aveva raccolto la tazza di assenzio. «Grazie Donald! Grazie Goths. Ora non possiamo che ricrederci sul vostro conto. Incontriamoci di nuovo in un momento di maggiore tranquillità, beviamo qualcosa insieme e diventiamo amici!» Baxter si era voltato a guardare Donald. «E lei, signor Marquette... ora le siamo così grati e la rispettiamo al punto da non avere alcun problema con le sue frequentazioni; del resto, è gente splendida!» A quel punto aveva riso. «Vedete? Molto semplice, ma estremamente efficace. E chissà che valore aggiunto potrebbe ricavarne la Tome Press? Un'edizione esclusiva di un inedito e oscuro racconto di William Blessing? Perché no? Che bella idea, Baxter Brittle. Lei è un genio.» Si era inchinato. «Grazie! Grazie mille a tutti!» Avevano poi brindato insieme, celebrando la genialità della proposta. Donald l'aveva trovato un piano perfetto. Oltre a consolidare la sua posizione nei confronti dei Blessing, avrebbe potuto continuare a frequentare i suoi amici... magari anche guadagnare prestigio all'interno del gruppo. Avrebbero potuto ricompensarlo pubblicando un'intera collana di suoi libri! Tutto era possibile. L'unico limite in quel genere di situazione era imposto dalla fantasia, e la sua, di fantasia, era... be', quella di uno scrittore e dunque illimitata. L'urto delle ruote contro il marciapiede, il fischio della gomma in attrito sul ghiaccio. La macchina era parcheggiata. Scese, immergendosi nell'aria gelida. Estrasse la bottiglia. Non c'era nulla di meglio della vodka per scaldare l'anima di un uomo. Prese un sorso, poi un secondo e si ripose in tasca la bottiglia. «Da questa parte.» Li condusse alla scalinata all'ingresso della casa a schiera. La via sembrava tratta da un fiabesco paesaggio urbano invernale. Stalattiti di ghiaccio pendevano dai rami degli alberi come bizzarre imitazioni di canini vampireschi. Le automobili erano coperte da cumuli di neve. Come una fila di giganti congelati le case erano gravate del peso del ghiac-
cio e della neve. Dall'alto nell'oscurità, dal punto del cielo in cui si materializzava la neve, giunse un suono. Un gracchio! Donald alzò lo sguardo. Un pezzo di notte sembrò volare via da lassù. Poi una spruzzata di neve che gli cadde sul volto dall'alto lo costrinse ad abbassare la testa. Baxter Brittle faticava a camminare sulla neve, ma con l'aiuto del Marchese e del Conte risucì a non scivolare, rimanendo in piedi. Che magnifico gruppo di soccorritori. Per fortuna gli aggressori erano in combutta con loro e avrebbero finto di cadere sotto i colpi, per poi darsi alla fuga. Il minimo impiego di forza avrebbe sortito il massimo effetto. Donald fece strada e salì i gradini ghiacciati. Dovette aggrapparsi al corrimano per non scivolare. La porta era chiusa a chiave, naturalmente, e presumibilmente il sistema di allarme era stato disattivato. Non si prese la briga di bussare. Avrebbe potuto affermare di averlo fatto e, preoccupato di non ricevere risposta, aveva utilizzato la chiave datagli in consegna dai Blessing. «Grazie a Dio l'hai fatto», avrebbero detto, e non se ne sarebbe più parlato. La serratura scattò. La porta si aprì con uno scricchiolio. Donald entrò e rimase sorpreso da quanto udì. Totale silenzio. Alzò un mano, facendo cenno agli altri. «Non sento rumori.» «Questa casa ha i muri spessì», spiegò Baxter. «Se stanno già saccheggiando la stanza della collezione non possiamo certo sentirli da quaggiù. Facci entrare! Sto congelando.» Donald avanzò nell'ingresso e gli altri lo seguirono. Si avvicinò alla scalinata che conduceva al primo piano. Colpi sordi. Un grido strozzato. Altri colpi. «Okay, saliamo», disse. Deglutì e si rese conto di essere nervoso e spaventato, benché razionalmente non ne avesse motivo. «Abbiamo sentito rumori sospetti», disse Brittle. «Allora abbiamo preso oggetti da usare come armi. Ragazzi! La cucina è laggiù. Andate a vedere
che cosa riuscite a trovare.» Il Conte e il Marchese si avviarono in fretta verso la cucina mentre Baxter Brittle si guardava attorno. Indicò il camino. «Sì, abbiamo sentito rumori sospetti e ci siamo armati di attizzatoi e palette. Perfetto!» Baxter prese la paletta, Donald l'attizzatoio. Il Conte e il Marchese emersero dalla cucina reggendo una piccola mannaia e un coltello da cucina. Fortunatamente erano vestiti normalmente quella sera, e davano l'impressione di essere ragazzi impegnati a contrastare una rapina, proprio come previsto dal piano. Salirono le scale. La porta della sala Poe era aperta. Ma i colpi sordi erano cessati. «Entra prima tu», esortò Baxter. «Sei tu l'eroe.» Donald annuì. Alzò l'attizzatoio e varcò la soglia. Al centro della stanza sedeva Mick, il cappotto aperto e le gambe divaricate. Aveva gli occhi fissi sulla pistola che impugnava in una mano. Avvertendo l'arrivo di qualcuno alzò lo sguardo. Gli occhi annebbiati misero a fuoco. Guardò Donald e gli rivolse il sorriso di una persona posseduta dal demonio. «Il mio Nemico è morto!» sussurrò raucamente. «Finalmente morto! Ora potrò dormire di notte! Non mi perseguiterà più!» Un'ondata di terrore travolse Donald. Rimase immobile, gli occhi fissi su Mick, non sapendo che fare. Poi Theodore si alzò da dietro un tavolo. Era rosso in volto e aveva gli occhi assonnati e lucidi. Aveva i pantaloni abbassati fino a metà delle potenti cosce. «Cazzo, ragazzi», disse. «Che figata!» Donald gli andò incontro. A terra, dietro il tavolo giaceva Amy Blessing seminuda, i vestiti strappati, insanguinata e priva di conoscenza. Donald non ebbe bisogno di chiedere a Theodore che cosa le avesse fatto. «Oh, mio Dio», esclamò. Mollò la presa sull'attizzatoio, che cadde a terra rimbalzando con un colpo sul tappeto. Baxter Brittle entrò barcollando nella stanza e guardò Mick. «Cazzo», esclamò. «Mick! Mick!» lo rimproverò agitando un dito nella sua direzione, come se si stesse rivolgendo a uno scolaretto indisciplinato. «Questo non era nel piano.» «È morto! Il Nemico è morto!» ripeté Mick. «Come sarebbe?» domandò il Conte con un filo di voce. «Ha ucciso
Blessing? Cazzo, lo ha ucciso!» Le parole riecheggiarono nella mente di Donald. Una parte di lui si barricò semplicemente nella negazione e rifiutò di crederci. Un'altra parte lo spinse all'azione. «Di che stai parlando, Mick?» pretese di sapere, ormai ull'orlo dell'isteria. L'orrore della vista del corpo nudo e insanguinato di Amy era già troppo. Ora il timore concreto che Blessing fosse stato ucciso... «Dov'è?» «All'inferno! Ho mandato la sua anima dritta all'inferno, lontana da me. Lontana un'infinità, un'eternità!» Mick gettò indietro la testa e rise. Un'improvvisa consapevolezza fluì attraverso Donald come una febbre inarrestabile. Comprese in un istante che il senso di disagio e tutti i cattivi presentimenti che aveva avuto in presenza di Mick non erano che flebili dubbi paragonati alla realtà che gli si parava davanti. L'uomo non era uno scrittore affetto da qualche problema caratteriale, ma un vero e proprio psicopatico, un autentico killer con turbe psichiche che si dilettava a scrivere quando non era in giro a martoriare la sua ultima vittima. Donald alzò la testa e si guardò attorno. Gambe. Vide un paio di gambe spuntare da dietro una sedia vittoriana con lo schienale alto. Donald si affrettò in quella direzione. Le gambe erano effettivamente quelle di William Blessing. Il suo corpo giaceva per metà su un cumulo di libri caduti sul pavimento, sotto il corvo sistemato in cima al busto di Pallade. Aveva nel petto due fori insanguinati ed era rigido, immobile... Morto. Morto! Donald Marquette sentì tutto il suo mondo incrinarsi e crollare a mano a mano che si avvicinava allo scrittore falciato, vedendo il sangue che gli gocciolava dal petto e andava a macchiare il pavimento, impregnando la moquette di un rosso profondo. Si girò di scatto. «Sei un idiota!» inveì contro Mick. Poi si rivolse a Theodore, puntandogli contro l'indice. «Perché avete fatto tutto questo? Non faceva... non faceva parte del piano.» Baxter Brittle scosse la testa sconsolato: «Mamma mia, che casino!» «Ehi!» chiamò il Conte. «Guardate quante figate ci sono qui, però.» «È vero!» rispose il Marchese. «Tanto vale prendere tutto, no?» «Dovevate solo spaventarli!» strillò Donald. Abbassò la voce. «E poi noi
saremmo... arrivati... in soccorso.» «Il Nemico è sconfitto», annunciò Mick, ridendo con uno sciocco ghigno sul volto. «Il Nemico è kaput! Il Nemico è... al bando!» Donald stava per scagliarsi in avanti e togliere a calci quella maledetta pistola dalla mano di Mick. Ma doveva prima controllare Amy. Sì, se Amy era ancora viva, solo priva di sensi, sarebbe stato ancora possibile sopravvivere a quell'incubo. Forse... Qualcosa lo afferrò per la gamba dei pantaloni. Il cuore gli balzò in gola. Si voltò di scatto. Gli occhi di William Blessing erano aperti. Si era allungato in avanti e aveva afferrato la gamba del pantalone di Donald Marquette con tale violenza da affondargli le unghie nella carne. «Tu!» accusò gracchiando Blessing. «Donald... Sei stato tu! Perché?» Mentre guardava in basso, in preda allo choc e all'orrore, qualcosa nel profondo dell'animo di Donald Marquette si raggelò. Si gelò di un freddo antico, come quello dei ghiacciai. La scena si dipanava al rallentatore, come la moviola di un'azione vincente di football. Il gelido Donald Marquette ebbe il tempo di osservare, analizzare, di prendere la decisione logica e assolutamente inevitabile. «Tu... pagherai», ansimò Blessing, spingendosi in avanti, allungando un braccio come a voler afferrare Donald per la gola. «Pagherai!» Donald afferrò il busto di Pallade e lo alzò sopra la testa, facendo cadere a terra il corvo imbalsamato. Mentre con tutte le forze abbatteva il busto sulla testa di William Blessing con la mente gridava: No, caro vecchietto, sarai tu a pagare! Con un rumore nauseante di osso fratturato il cranio del professore si spaccò. Blessing non produsse più suono. Mollò la presa sul pantalone di Donald e ricadde a terra, aggiungendo alla moquette una nuova, più grande macchia di sangue. Il busto di Pallade rotolò giù e si fermò sul pavimento con la faccia a terra. Attonito per quanto aveva fatto, ma comunque freddamente convinto di non aver avuto alternative, un Donald Marquette diverso, meno vivo e più vicino alla morte, si voltò a guardare i compagni. «Non avevo scelta», si giustificò con voce piatta. «Il Nemico... non era morto», osservò Mick. Girò la testa a guardare Donald, gli occhi colmi di nuova gratitudine e rispetto. «Tu... hai ucciso il
Nemico.» «Mamma mia», commentò Baxter Brittle. Tirò fuori la sua fiaschetta e fece un lungo sorso. «Mamma mia!» Donald aggirò il tavolo e si portò accanto a Amy Blessing. Si inginocchiò e le tastò il polso. Sì, il cuore batteva. Era ancora viva. Misericordiosamente priva di sensi, ma ancora viva. «Ora ascoltatemi», disse Donald, sentendosi a un tratto totalmente sobrio e deciso ad assumere il comando. «Prendete tutta la roba che riuscite a trasportare. Non c'è nessuno fuori. Non ci sono testimoni, ma dobbiamo comunque stare attenti. Ce ne andremo... poi io tornerò e scoprirò quanto è successo. Intesi?» Gli altri annuirono. «Muoviamoci, allora!» ordinò Donald. «Vi farò vedere quali sono i pezzi più preziosi.» La pistola di Mick era munita di silenziatore. Dalle case attigue non giungeva alcun segnale di allarme o di curiosità. Bene. Forse sarebbero riusciti a farla franca. Dovevano riuscirci. Era l'unica speranza di Donald Marquette E se ci riuscivano... se davvero avessero concluso gli inquirenti che i Blessing erano caduti vittime di rapinatori drogati e violenti... Donald guardò Amy Blessing, riversa a terra e insanguinata ma, incredibilmente, bellissima. Amy sarà mia! E non solo lei, pensò, tirando fuori un fazzoletto e cominciando a cancellare le impronte digitali. All'esterno Donald ebbe l'impressione di udire un battito d'ali. Lo ignorò. 15 Mimi, parodiando Dio nel cielo, Mormorano e borbottano sottovoce, Volando qua e là. Mere marionette che vengono e vanno Al cenno di cose immense informi Che spostano gli scenari avanti e indietro,
Scuotendo dalle loro ali di Condor Invisibile Pena! EDGAR A. POE, «Il verme conquistatore» Il resto non fu silenzio. Il professor William Blessing si destò. La prima cosa che vide fu una luce soffusa che penetrava attraverso i vetri colorati delle finestre. Guardò in alto e si rese conto di trovarsi in un'enorme stanza sovrastata da una rotonda. Nella parte alta della rotonda un uccello bianco svolazzava, intrappolato. Mettendo a fuoco vide che era una colomba. Una colomba che volava da un punto all'altro, posandosi, in cerca di una via di fuga. Guardò giù. Era seduto su una vecchia sedia di legno. Sotto di essa uno splendido pavimento piastrellato. Era attorniato da file di tavoli. Tavoli da lettura, non occupati. Gli scaffali curvi erano colmi di libri, riviste e giornali. Una biblioteca, dunque. Si trovava in una vecchia e splendida biblioteca. Il profumo nell'aria era quella deliziosa miscela di cuoio consunto e carta, di silenzio e concentrazione. Granelli di polvere danzavano in un raggio di luce, come atomi d'intelletto libero, volteggianti nei corridoi della sapienza. Indossava un abito scuro di foggia vittoriana. Era di seta e comodo. Guardandosi attorno vide, accanto alla grande scrivania del bibliotecario, che evidentemente non era ancora arrivato, una fontanella di acqua potabile. Aveva la bocca secca e si alzò per bere. L'acqua era fredda e rinfrescante, ma salmastra. Dopo aver bevuto si girò e scorse un uomo dietro la grande e lucida scrivania. Anche lui indossava una lunga giacca vittoriana, portava strani occhialini, basette folte e cespugliose e un fiocco nero al collo, annodato con estro byroniano. Era anziano, ma c'era qualcosa di familiare nella forma della sua testa e nel suo sguardo. «Posso esserle di aiuto?» domandò il bibliotecario. «Io... io non so perché mi trovo qui», confessò Blessing. «Certamente lei è qui per avvalersi della biblioteca, signore», rispose l'uomo. «Posso vedere la sua tessera?» «Naturalmente.» Blessing si controllò le tasche, ma le trovò vuote. «A
quanto pare non ce l'ho», disse. «Allora evidentemente lei è qui per iscriversi», ribatté l'altro, in modo oscuro e meditabondo. «Lasci che l'assista. Si avvicini alla scrivania.» Blessing obbedì, ancora confuso e smarrito. L'uomo con l'abito scuro, il fiocco e la fronte arcuata tirò fuori da sotto la scrivania un foglio di carta. «Il suo nome, signore?» domandò il bibliotecario. «William Clark Blessing.» «Data di nascita?» «Ehm... quindici dicembre millenovecentocinquanta.» «Data di morte?» Blessing sbatté le palpebre, poi fissò il vecchio bibliotecario. «Mi scusi?» «Mi occorre la data della sua morte, signore. Se intende entrare o uscire dalla biblioteca e consultare il materiale che contiene devo disporre di tutte le informazioni necessarie.» L'uomo sembrava vagamente spazientito e piccato. Ma c'era dell'altro nel suo sguardo: una sorta di furia repressa. Un'aria di sfida. «Ma io non sono morto! Non so di che cosa sta parlando!» «Nessun ricordo della propria morte. Mmm. Non è raro», osservò il bibliotecario. «Be', forse i registri potranno venire in nostro aiuto. Ho il suo nome. Mi lasci vedere se riesco a trovare qualcosa.» Sospirò, poi fece un ampio gesto della mano. «Qui ci sono i periodici più recenti. Non è permesso l'accesso agli scaffali, alle altre sale di lettura o alle cripte senza la tessera. Tuttavia, nell'attesa, si senta pure libero di consultare i nostri giornali. Sono sicuro che risolvere questo intoppo, deve solo avere un po' di pazienza.» Più che paziente, Blessing si sentiva sconcertato. L'esperienza che stava vivendo possedeva le caratteristiche di realtà alterata di un sogno, ma tutte le sensazioni che provava erano autentiche. «Grazie.» Non riuscì a dire altro. «Con permesso.» La cadenza dei tacchi del bibliotecario riecheggiò nella rotonda. Blessing guardò verso l'alto. La colomba svolazzava ancora lassù. In cerca di una via di fuga. Ma tutte le finestre sembravano chiuse. Blessing si avvicinò ai quotidiani e alle riviste ordinatamente disposte su un tavolo. La sua attenzione venne subito catturata da un titolo. UCCISO SCRITTORE HORROR - CONTINUA LA CATENA DI
MISTERIOSI OMICIDI. Lesse l'articolo. Dean Koontz era stato ucciso nonostante le straordinarie misure di sicurezza che aveva adottato dopo le morti di Stephen King, Peter Straub, Clive Barker e, il primo della serie, William Blessing. Il quotidiano era il Washington Post. Ironia del destino! Dean aveva sempre sostenuto di non essere uno scrittore horror. Blessing si sentiva stranamente distante. Distaccato. Era come se i suoi sentimenti si trovassero in un luogo remoto, lo stesso cervello non più ben inserito nel cranio ma piuttosto sospeso sopra la testa come un pallone aerostatico, stranamente dotato di un nuovo apparato sensoriale che non aveva idea di come utilizzare. Accanto al Washington Post c'era una copia del New York Times. Lo sfogliò distrattamente, cercando la classifica dei libri più venduti nelle ultime pagine. Al numero uno della classifica trovò un libro che recava il suo nome ma che non aveva mai scritto. La quinta posizione era occupata da un libro scritto a quattro mani da William Blessing e Donald Marquette. Al numero dodici un romanzo di Donald Marquette. Blessing controllò poi la classifica dei libri tascabili. Numero uno era William Blessing presenta i classici di Tramonto oscuro. Al numero tre Gli Spaventosi di William Blessing: i goblin mi hanno mangiato le mutande! In quinta posizione Soul Bite: i racconti di William Blessing, secondo volume, a cura di Donald Marquette. Al numero dieci un altro romanzo che non aveva mai scritto. Sfogliò l'inserto. Notò la pubblicità della rivista L'occulto di William Blessing e l'annuncio di romanzi di prossima pubblicazione scritti da lui in collaborazione con Donald Marquette. Lentamente, molto, molto lentamente, cominciò ad avvertire qualcosa di simile a un sentimento. Dapprima sembrò permearlo dal pavimento, come una fiamma che prima gli riscaldava le suole delle scarpe e poi risaliva verso l'alto, all'altezza dell'addome. Accanto ai due quotidiani trovò la rivista People. La sfogliò con più attenzione. Nelle prime pagine riconobbe due persone in una fotografia...
Il titolo dell'articolo era: L'eredità Blessing. La didascalia della foto recitava: «I novelli sposi Donald Marquette e Amy Blessing, vedova di William Blessing, in un momento di relax nella loro villa in Maryland». La pagina seguente era dominata da una fotografia di Amy Blessing in tenuta da cavallo in sella a un purosangue. In quella dopo Donald Marquette era ritratto seduto e attorniato da pile di libri con copertina rigida, libri tascabili, videocassette e locandine di film. Blessing lesse l'articolo con attenzione. Scoprì che dopo la sua morte, inspiegabilmente, erano stati «ritrovati» alcuni suoi romanzi inediti. Alcuni erano finiti, altri incompleti. Inoltre, erano stati rinvenuti numerosi appunti per lunghe serie di telefilm, qualche sceneggiatura e una quantità tale di annotazioni di concetti e trame da tenere impegnati diversi scrittori per molti anni. I diritti di molti romanzi erano stati venduti per trarme film e ora William Blessing era acclamato come il più famoso autore horror di tutti i tempi, avendo superato in popolarità anche Stephen King, il quale, ahimè, alla sua prematura scomparsa non aveva lasciato lavori incompleti o inediti, e oltretutto aveva esplicitamente richiesto che il suo nome non venisse sfruttato per scopi commerciali dopo la sua morte. Secondo quanto affermato da Marquette, dopo il lancio della rivista dedicata a Blessing, erano in cantiere una collana di maschere William Blessing per Halloween e una serie di statuette ispirate ai personaggi da lui creati. Marquette prometteva inoltre la realizzazione di una serie televisiva, una collana di fumetti e prospettava la possibile costruzione di un parco divertimenti ispirato all'universo di Blessing. In quei giorni era al lavoro sulla creazione di loghi ed emblemi ispirati alla simbologia antica che avrebbero decorato una lussuosa serie di piatti e tazze di porcellana William Blessing, disponibili esclusivamente su richiesta alla QVC. Un passaggio dell'articolo recitava: «'Sono stato addirittura contattato da una cartiera. Volevano ottenere il permesso di utilizzare i loghi ispirati a Blessing per decorare la carta igienica di loro produzione.' Marquette, scostando i lunghi capelli dal volto abbronzato e pieno di salute, si appoggia allo schienale della poltrona e ride. 'Ma ho avuto qualche remora di natura morale in questo caso!' «Tuttavia, dopo aver contattato la Esquire Paper, People ha appreso che Marquette, presidente della Blessing Enterprises, avrebbe approvato la
produzione di carta igienica 'William Blessing presenta Edgar Allan Poe', con illustrazioni, stralci di prosa e poesie del famoso autore americano, nel contesto della serie di prodotti 'Letture da bagno'». L'articolo si soffermava anche sul boom della Tome Press, affiliata della Blessing Enterprises, e sulle stravaganti feste ed eccentricità di cui si era reso protagonista lo staff dell'organizzazione di Baltimora in occasione dei convegni e dei concerti promossi dalla stessa Tome Press. Una nuova etichetta discografica, la Tome Records, stava per aprire i battenti, seguita da una casa di produzione televisiva e cinematografica. «Quando abbiamo chiesto a Marquette se a suo avviso William Blessing, noto studioso e professore universitario, le cui escursioni nel campo della fiction erano semplicemente una seconda attività, avrebbe approvato un'uso del suo nome per il lancio di un programma commerciale tanto intenso, la sua risposta è stata: 'È una questione che non ho neppure preso in considerazione. Le opere dei grandi uomini deceduti appartengono alla storia. Io stesso appartengo al mondo accademico e mi sono investito del compito di accertare che il nome di William Blessing venga inciso a caratteri cubitali nella pietra dell'immortalità letteraria'. «E oltre all'immensa ricchezza e alla fama che si sta guadagnando con il suo attuale lavoro, anche Marquette amerebbe assurgere all'immortalità letteraria? «'Perché mentire? Io sono solo un umile scribacchino... Ma credo che chiunque di noi aspiri all'immortalità artistica. Ma non è la cosa che più mi sta a cuore, glielo assicuro, e in ogni caso dovrei tutto all'eredità lasciatami da Blessing. Ciò che più mi rende felice è la mia adorata moglie Amy, separata da William Blessing nel momento della sua partenza per l'estremo viaggio.' «E se potesse dire qualcosa a William Blessing oggi, che cosa gli direbbe? «'Che mi sto prendendo cura di Amy'.» Quando finì l'articolo William Blessing chiuse la rivista. La stanza sembrava aver cambiato colore. Guardò in alto e vide che il cielo sopra la cupola della rotonda si era annuvolato e che scoccavano fulmini. Cominciò a tuonare e la pioggia prese a tamburellare contro i vetri. William Blessing tornò alla grande e lucida scrivania, dove trovò ad aspettarlo l'anziano bibliotecario, che ora teneva in mano una piccola tessera plastificata. La sua testa sembrava attorniata da un'aura di mestizia, e sul suo volto era comparso un sorriso che somigliava piuttosto a un ghigno
maligno. «Ora ricordo», annunciò William Blessing. Sentì un battito di ali sullo sfondo del rumore della pioggia. Apparentemente non si trattava della colomba. Erano ali più tenebrose. «Sì, ho trovato il registro. Circostanze spiacevoli, non c'è che dire. Ho già scritto a inchiostro i dati nel certificato. Manca solo la sua firma, dopodiché potrà rendere questa meravigliosa, tranquilla istituzione la sua casa, esplorare gli scaffali di libri o riposare in pace, a suo piacimento.» «Ci sono dei conti in sospeso», disse William Blessing. Sentiva il sentimento risalirgli verso la testa, estendersi fino alle punte delle dita. Il sentimento era il furore, travolgente e allo stato puro. «Ci lasciamo tutti alle spalle dei conti in sospeso, signor Blessing.» Blessing alzò le braccia e la testa ai tuoni e ai fulmini. Vide la forma scura dare la caccia alla colomba. «Sono io», annunciò. «Il corvo sono io.» Dall'alto giunse un furioso svolazzare seguito da un verso stridulo. Dolore e angoscia risonarono e riecheggiarono nella rotonda. Il lampo di un fulmine, a illuminare per un istante il nero del carbone che dilaniava il bianco candore. Un corpicino piombò sulla scrivania, dibattendosi in preda a spasmi, schizzando sangue sulla superficie lucida. Con un ultimo fremito la colomba morì. L'uccello nero, il predatore, scese dalla cupola. Si posò accanto alla vittima, squadrando Blessing e il bibliotecario con aria di sfida. Scure macchie cremisi gli macchiavano il becco e il petto. «Disse il Corvo», recitò William Blessing. D'istinto, Blessing tese il braccio destro e invitò la creatura nera a posarvisi sopra. 16 Per quanto attiene, dunque, alla Bellezza come mio ambito, la mia domanda successiva era riferita al tono delle sue più alte espressioni - e ogni esperienza insegna che questo tono è quello della tristezza. La bellezza di qualsiasi genere, nel suo supremo sviluppo, induce invariabilmente l'animo sensbile alle lacrime. La Maliconia è dunque il più legittimo di tutti i toni poetici.
EDGAR A. POE, La filosofia della composizione Le malinconiche melodie di una sonata di Beethoven si diffondevano dall'alto della grande casa di città. «Meraviglioso», commentò Baxter Brittle, alzando gli occhi al soffitto e al lampadario di cristallo. «Suona divinamente!» «A dire la verità», confessò Donald Marquette con una punta di fastidio nella voce, «preferirei ascoltare Roll Over Beethoven che questa roba. Lei non fa altro che suonare malinconica e struggente musica classica. Quando lavoro qui sono costretto a mettermi le cuffie.» «Le ferite impiegano tempo a rimarginarsi», sentenziò il Marchese, ispezionando un'ultima volta la disposizione dei posti, i bicchieri, le posate e i piatti di portata d'argento. «Ecco fatto. Direi che siamo pronti.» «Aspetta!» esclamò il Conte. «Abbiamo dimenticato di stappare il vino. È un vino di grande qualità. Deve respirare...» Baxter Brittle prese la grande bottiglia alla quale si erano già dedicati e ne studiò analiticamente il contenuto, che andava rapidamente scemando. «Be', digli di respirare a pieni polmoni, perché credo che lo berremo molto presto.» Brittle non indossava il completo alla Oscar Wilde. Quella sera, anzi, era vestito in modo tradizionale, con una bella giacca, cravatta e scarpe di cuoio. I capelli lunghi erano l'unico elemento superstite del consueto look, così come lo erano per il Conte e il Marchese. Il look decadente e gli accessori, per una volta, erano stati messi da parte. Quella sera erano solo eleganti ultraventenni impegnati a controllare con cura tutti i preparativi per la cena. In tutta la casa andava diffondendosi come una promessa il magnifico profumo di squisito cibo italiano, un misto di origano, basilico, salsa di pomodoro, olio di oliva extravergine e pane fatto in casa. Anche il vino era rosso. Donald indossava abiti nuovi in stile casual: bei pantaloni, una camicia azzurro chiaro, una giacca di tweed comprata da Saks sulla Quinta Avenue. Gli stavano bene, e anche il recente influsso di denaro che gli aveva consentito di acquistarli gli stava bene. Anzi, gli andava a genio. Il costoso profumo Calvin Klein che si era spruzzato addosso gli conferiva un tocco di sicurezza e autostima in più, coadiuvato dai due bicchieri di vino che aveva già bevuto. Tuttavia, stava cercando di limitare il suo consumo di alcol.
Quella era la grande serata, e benché avesse bisogno di allentare la tensione nervosa, era deciso a fermarsi molto, molto prima di ubriacarsi. Aveva ordinato al Conte e al Marchese di fare altrettanto. Con Baxter era un'altra storia, dal momento che reggeva molto bene e il vino era comunque come acqua per lui, al confronto all'adorato assenzio. La serata si sarebbe conclusa molto prima che il livello di intossicazione di Baxter Brittle montasse oltre la soglia della piacevolezza e della socialità. «Una domanda, ragazzo», disse Baxter, alzando lo sguardo dal vino rosso d'annata. «Perché proprio cibo italiano?» «È il preferito di Amy», spiegò Donald. «Blessing, invece, detestava la cucina dell'Italia del sud. Era allergico alle spezie, credo. Non la mangiavano mai.» «Ottima scelta!» si complimentò il Conte. «E sono andato io a prendere tutto nel miglior negozio di Little Italy.» «Ho l'acquolina!» disse il Marchese. «Adoro la cucina napoletana. Ho già assaggiato i formaggi... buoni da morire!» «Pessima scelta di parole», commentò Baxter Brittle. «Hai preso i cannoli per il dolce, spero.» «Certamente. I migliori!» assicurò il Conte. «Mmm. Molto bene. E molto decadente», osservò Baxter. «Siamo pronti. Forse dovresti andare su a chiamare la padrona di casa.» Donald annuì. Sì. Era ora. Si lisciò la giacca rimirandosi nello specchio del soggiorno, poi si passò un pettine tra i capelli. Fece un respiro profondo e si avviò lungo le scale. La sala Poe era chiusa da due serrature e da una serie di assi di legno. Nessuno era entrato nella stanza dopo la conclusione dell'inventario disposto per scoprire che cosa era stato rubato. Da quando era rientrata a casa dall'ospedale Amy non era più riuscita a guardare quella porta, tanto meno a pensare di varcarne la soglia. Era stata lei a tentare rozzamente di murarla. Un peccato, poiché Donald avrebbe potuto mettere a profitto il materiale ancora custodito nella sala. Che era tutt'altro che poco. Ma se stasera andrà tutto bene, avrò il tempo che mi occorre, pensò mentre saliva le scale. Risonarono le prime note di uno studio di Chopin, delizioso, ma eseguito più lentamente di quanto avrebbe dovuto. Non c'era da sorprendersene. Tutto ciò che concerneva Amy era più lento di quanto avrebbe dovuto essere in quel periodo. Tuttavia, riteneva già un successo il fatto che fosse
ragionevolmente reattiva e non rinchiusa in un istituto psichiatrico. Sorprendentemente, nonostante la morte, il sangue e lo stupro, le cose erano andate molto meglio di quanto era stato previsto dal piano originale di Baxter Brittle. Avevano trasportato scatoloni pieni di libri, lettere e reperti di Poe alle auto in attesa davanti alla casa. Gli altri erano fuggiti per nascondere la refurtiva e non farsi trovare nei pressi del luogo del delitto. Poi Donald era tornato e aveva «scoperto» l'orribile scena. Aveva chiamato la polizia, componendo il 911 al telefono. I poliziotti erano arrivati. E avevano creduto al suo racconto; anche nel caso in cui qualche indizio avesse destato sospetti contro di lui, la versione di Amy, al suo risveglio due giorni più tardi, l'avrebbe del tutto scagionato. Cominciò la caccia all'uomo per rintracciare il ladro assassino e il ladro violentatore, ma senza successo. La Tome Press aveva fornito loro i fondi necessari per prendersi una lunga «vacanza». Fu solo dopo l'accaduto, tuttavia, che Donald Marquette prese coscienza del suo vero talento. A colloquio con i detective della polizia il suo comportamento era stato perfetto: aveva interpretato a meraviglia il ruolo dello studente afflitto, del pupillo inorridito. Ma non era stata che la prova generale per la straordinaria performance fornita a beneficio della stampa. All'improvviso, con le luci della ribalta puntate su di lui, Marquette si era trasformato in Fred Astaire, capace di danzare con leggiadria e catturare le menti e i cuori di lettori in ogni angolo del mondo. Gli ultimi libri di Blessing, che già vendevano piuttosto bene, schizzarono in vetta alle classifiche dei bestseller. Le proposte che giunsero dal mondo del cinema si trasformarono ben presto in contratti di produzione. I diritti vennero acquistati anche in quei paesi dove prima non erano stati trovati acquirenti. E Donald Marquette, il cui nome era ormai inscindibile da quello del famoso scrittore (e studioso!) horror assassinato, era riuscito a vendere senza alcun problema il suo primo, esitante romanzo, firmando un contratto che lo impegnava a scriverne altri due in cambio di una somma ragguardevole. Una buona percentuale di questa fu con accortezza offerta come ricompensa a chiunque fosse stato in grado di fornire informazioni utili all'arresto e alla condanna dell'assassino di Blessing, oltre che al recupero degli oggetti sottratti dalla sala Poe. Naturalmente, essendo a conoscenza della vera identità dell'assassino, sapeva anche che non avrebbe mai dovuto versare un soldo. Accordi minori crescevano e scemavano d'intensità mentre entrava nella
stanza. Quel mattino aveva sistemato sullo Steinway un vaso di fiori e il loro profumo era fresco e piacevole. Ciononostante, data la vicinanza con la scena del delitto, nell'aria aleggiava ancora un lieve odore di sangue raggrumato. Non era un odore poi così fastidioso... misto al profumo dello shampoo di Amy. Non usava più profumi e aveva cominciato a indossare vestiti scuri e semplici, ma ai suoi occhi era più bella che mai. Ora, mentre sedeva sullo sgabello, sfiorando delicatamente i tasti e premendo i pedali, appariva pallida e preziosa, un alito di vita sofferta in un quadro immobile e congelato. Si appoggiò al pianoforte, in modo che lei potesse percepire la mia presenza con la coda dell'occhio, assumendo la posizione di un intento ascoltatore. Quando terminò il pezzo di Chopin lui batté delicatamente le mani. «Molto brava.» Lei accennò un sorriso. «Grazie, Donald.» «Ciao.» Lei annuì, poi frugò tra gli spartiti sul leggio. «Hai per caso sentito qualche particolare profumino arrivare quassù dalla cucina nell'ultima ora?» Lei batté le palpebre. «Oh, Dio! Stai preparando la cena? Me n'ero dimenticata.» «Sì. Ci crederesti? Rigatoni alla bolognese con l'aggiunta di qualche salsiccia italiana per equilibrare il piatto. Preceduti da un antipasto e con contorno di insalata di spinaci freschi perché non bisogna trascurare le verdure. E il dolce: cannoli.» Mimò comicamente i gesti di un cameriere che elencava i piatti del giorno. «Ah. E naturalmente un buon vino rosso.» Questo sembrò rallegrarla un po'. Solo un po', ma bastò a creare l'impressione che la luce nella stanza fosse aumentata lievemente d'intensità. Non era mai stata una forte bevitrice in passato, ma ora aveva aumentato il suo consumo di vino rosso. Era una delle ragioni per cui Donald aveva optato per una cena italiana. Un ricco sugo di pomodoro aveva bisogno di essere accompagnato da un vino rosso. Il pasto l'avrebbe incoraggiata a bere. «Niente male.» Distolse lo sguardo, distante e leggermente turbata. «Non c'era anche dell'altro?» «Hai dimenticato la cosa migliore. Ho invitato i ragazzi della Tome Press.» «Ah, già. I tuoi strani amici.» Tentò ancora un sorriso. «Verremo sgravati dall'onere della conversazione. Baxter è appena tornato da un convegno di autori inglesi e credo che abbia una quantità di pet-
tegolezzi e aneddoti da raccontare.» Lei annuì, ma rimase seduta, assente e disorientata. Era in quello stato, più o meno assente a seconda dei momenti, da quando si era risvegliata. Era come se il dolore per la morte del marito e il trauma della violenza carnale l'avessero resa, se non proprio socialmente autistica, almeno parzialmente sfasata rispetto al resto della sua esistenza. I medici avevano assicurato che le sue condizioni fisiche erano ora ottime, ma lo avevano avvertito che probabilmente il recupero a livello emotivo avrebbe richiesto molto più tempo. Donald aveva giurato di fare di tutto perché la guarigione psicologica di Amy avvenisse in modo rapido ma naturale. Tutti i medici che l'avevano curata, così come gli amici e i parenti, sapevano quanto stretto fosse diventato il rapporto tra Donald e i Blessing, e sembravano convinti che se c'era una persona in grado di perforare il guscio in cui Amy Blessing si era rinchiusa, ebbene questa era Donald Marquette. Nel frattempo, tuttavia, Amy era perfettamente capace di prendere le decisioni necessarie alla gestione quotidiana del patrimonio dei Blessing, occupandosi delle assicurazioni, del testamento e di tutto il resto. Portava a termine tali mansioni in modo apatico, senza spirito o reale interesse. A quattro mesi dall'uccisione di Blessing la situazione relativamente ai suoi libri si era fatta piuttosto statica. Ce n'era uno nuovo la cui pubblicazione era in programma per il mese successivo, ma il romanzo che era stato impegnato a scrivere era completo solo per metà. E i suoi racconti, gli articoli, gli appunti... nessuno sapeva granché a proposito di quel materiale. Amy teneva tutto sotto chiave, nascondendolo anche a Donald, che nel frattempo era ancora al lavoro per completare le antologie curate da Blessing. In parte, la cena di quella sera aveva anche a che fare con tali questioni. «I ragazzi hanno fame. Da mezz'ora bevono vino, mangiano patatine e ascoltano la tua musica. Mi hanno detto di chiederti se più tardi suonerai per loro... ma ora credo che dovremmo metterci a tavola prima che la pasta si raffreddi.» «Certo.» Chiuse il coperchio della tastiera. «Non voglio farli aspettare.» Si alzò e lui le offrì il braccio. Lei lo prese e sospirò. «Questo è proprio un gesto simbolico, Donald. Conto enormemente sul tuo conforto e sul tuo aiuto. Non so come farei senza di te.» «È un onore per me fare tutto ciò che posso», rispose lui. «Tu rappresenti una parte molto importante delle mia vita. In questi giorni m'importa so-
lo del mio lavoro... e di te.» Fece una pausa, come se un'improvvisa commozione gli rendesse difficile parlare. «Sei importantissima... Fondamentale. Assolutamente fondamentale.» Lei allungò una mano a carezzarlo. «Sì», disse, «è stata dura. Molto dura.» Lui finse di ricomporsi, a fatica. «Dura. Già.» Le picchiettò in modo rassicurante la mano. Era quello il trucco, naturalmente... Mostrarle il suo cordoglio e i suoi sentimenti, per stanarla. In quel modo si sarebbe creato un legame tra di loro. Avrebbero cominciato a convivere in armonia. E, a poco a poco, avrebbe potuto indirizzare la composizione che andava forgiando verso le lande musicali che più gli aggradavano. Anche questo rientrava nella forza che aveva scoperto di possedere: l'abilità di ritrarsi in un guscio freddo, razionale e analitico nel profondo del suo animo e gestire le sue emozioni come un burattinaio. La verità era che provava ancora un forte sentimento nei confronti di quella donna. Ma ora che il suo obiettivo appariva più a portata di mano, era in grado di riconoscere anche gli aspetti più legati alla lussuria e al possesso. Ora aveva più obiettivi. L'amore e il desiderio erano solo due tra i tanti. Obiettivi. Sì. Dentro di sé si abbandonò a una risata maliziosa. Un tempo Donald Marquette aveva creduto che se mai avesse fatto del male a qualcuno, non sarebbe stato in grado di convivere con il rimorso. Non era particolarmente religioso ma aveva sempre ritenuto di rischiare la paralisi e il collasso morale nel caso in cui si fosse comportato male. Ora, invece, dopo che aveva addirittura ucciso un uomo... Be', in tutta onestà non stava poi così male. Era colto di quando in quando da sensi di colpa, ma le crisi di sconforto diventavano meno frequenti con il passare del tempo. E a mano a mano che i vantaggi che potevano derivargli dalla morte di Blessing andavano delineandosi più chiari, Marquette divenne sempre più riconoscente nei confronti di Mick e della granitica Pallade, che aveva fracassato il cranio di Blessing. Un uomo di talento e di grande cultura, certamente... ma ripensando in maniera più distaccata alla personalità di Blessing, Marquette si era reso conto che il rispetto e le deferenza nei confronti dell'uomo che era stato il suo idolo l'aveva reso cieco ai suoi palesi difetti. Quell'uomo era stato un vero bastardo. «Questo genere di conversazione non aiuterà il nostro appetito», osservò
lui. «Perché non scendiamo e cerchiamo semplicemente di goderci una bella serata?» L'accompagnò da basso, dove erano attesi dai Goths e da vino rosso a profusione. La cena si rivelò un successo strepitoso. Il cibo era squisito, il vino corposo e di elevato contenuto alcolico. Il Conte e il Marchese furono loquaci e si mostrarono in piena forma, discutendo con passione della scena culturale di cui si sentivano parte. Baxter Brittle mostrò tutto il suo fascino e il suo spirito, attento a rendere Amy sempre partecipe della conversazione, benché le parole pronunciate da lui contribuissero al minimo. Anche Marquette le rivolse grande attenzione, senza tuttavia essere opprimente. Le sorrideva spesso e si accertava che il suo bicchiere fosse sempre pieno di vino. Quando ebbero finito i cannoli (assolutamente deliziosi!) Baxter riuscì finanche a strapparle un sorriso o due. A grande richiesta accettò di suonare il pianoforte per i suoi ospiti dopo il caffè. Mentre bevevano il caffè (corretto al cognac per Baxter, in misura minore per se stesso e in modo più generoso per Amy), Donald Marquette cominciò a spostare la conversazione sull'argomento che in realtà era la ragione principale per la quale aveva organizzato la serata. Aveva cominciato in modo quasi distratto, accertandosi di fare riferimento a William Blessing in più occasioni nel corso della cena. «Sapete, io credo che dovremmo essere molto grati», disse alzando le mani. «Grati al nostro compianto amico per questa casa, per tutto ciò che ci ha lasciato. Nessuno di noi sa quanto lunga sarà la sua permanenza su questa terra. Ma poter lasciare dietro di sé qualcosa, qualcosa di valore, è certamente un successo che deve suscitare la nostra gratitudine.» «Io sarò certamente tra quelli che custodiranno con amore le edizioni speciali delle opere di William Blessing», annunciò Baxter alzando il bicchiere come se stesse pronunciando un brindisi. «Anch'io!» concordò il Conte. «E io!» si unì al coro il Marchese. Amy scosse la testa, sconsolata. «Io non so se potrò mai più leggere quello che ha scritto. Il suo lavoro era così pieno di dolore e angoscia, sentimenti oscuri in un uomo in realtà tanto buono, un uomo... di luce.» «Mmm. Eppure sei tu la curatrice della sua eredità letteraria, mia cara»,
le fece notare Baxter Brittle. «Hai ereditato un compito piuttosto arduo, oltre a tutti i benefici derivanti da un'impresa letteraria in piena salute, naturalmente.» «In ogni caso», intervenne Marquette, «io ho giurato a me stesso di dedicare una parte della mia vita alla conservazione e alla promozione dell'eredità che ci ha lasciato. Sto pensando addirittura di scrivere una biografia.» Era uno dei segnali in codice per dare il via allo scambio accuratamente preparato in precedenza. Silenzio. Si voltò, seccato, a guardare Baxter Brittle, impegnato a vuotarsi nel bicchiere il fondo di una bottiglia di vino. «Baxter», lo richiamò. «Tu che ne pensi? Una biografia di William Blessing!» Essendo seduto di fronte a lui, poté assestargli un calcio nello stinco. Baxter sussultò. Riuscì a stento a evitare di versare il vino sulla tovaglia. Amy, sempre piuttosto assente, non si accorse di nulla. «Una biografia? Ah, certo! Una biografia! Che splendida idea!» Sorseggiò il vino, lasciando passare qualche attimo. Aggrottò la fronte, meditabondo. «Però onestamente non credo che raccogliere l'eredità di William Blessing possa significare limitarsi a una biografia... A mio avviso il suo contributo alla letteratura, o meglio alla storia... be', credo che possegga delle potenzialità molto maggiori.» Con eccellente tempismo il Marchese domandò: «Che cosa intendi esattamente, Baxter?» «Semplicemente che ci sono racconti da raccogliere... lettere da pubblicare. Chissà, potrebbero anche saltare fuori un paio di romanzi inediti che Blessing teneva da parte. E in più appunti, spunti, idee... il romanzo incompleto... e chi può dire quant'altro.» Si voltò a guardare Amy, un sorriso di solidarietà sul volto. «Capisco che parlare di queste cose ti rattrista... ma... No. Non importa. Meglio lasciare perdere.» Grande! pensò Donald. Ottima interpretazione! L'interesse di Amy, benché ancora velato dalla malinconia, era chiaramente stato risvegliato. Si sporse in avanti verso Baxter. «No, ti prego. Parla, Baxter. Sei sempre una fonte di buone idee.» «Be'... stavo solo pensando che il nostro Donald... Donald Marquette conosce più di chiunque altro il lavoro di tuo marito. Chi più di lui sarebbe indicato per assumere il ruolo di curatore aggiunto dell'eredità letteraria...
oppure, se vuoi sgravarti da una simile responsabilità, quello di curatore letterario in toto?» Amy sbatté le palpebre. Donald la scrutò in volto. Non stava opponendo un rifiuto, ma neppure sembrava decisa a rispondere sì. Ultimamente era molto difficile interpretare le sue espressioni. Decise di adottare una tattica in linea con quella di Baxter. «Non saprei...» Esitò. «Si tratterebbe di un impegno davvero gravosa.» «Naturalmente dovrà essere Amy a decidere», precisò Baxter. «Ma se non sbaglio stai già svolgendo una notevole mole di lavoro con il materiale lasciatoci da Blessing.» Amy annuì. «È vero.» Guardò Donald. Allungò una mano ad accarezzarlo. «Lo faresti, Donald? Mi rendo conto che devi anche portare avanti il tuo lavoro... ma mi sembra un'ottima idea. Mi solleveresti da una grande responsabilità e aiuteresti a perpetuare il ruolo che William ha avuto nella letteratura.» Gli strinse un braccio. «So che ce la puoi fare. E poi, io mi fido di te.» «Sai, mi piacerebbe molto...» disse Donald. «Ma come faremo? Voglio dire, c'è il testamento di Bill e tutto il resto...» «Conosco un po' di codici e articoli di legge», intervenne Baxter. «Amy non dovrebbe fare altro che firmare qualche documento.» Amy annuì. «Lo farei con piacere. E date le circostanze, so che anche William approverebbe con entusiasmo.» «Secondo me è un'idea meravigliosa!» esclamò il Conte. «Sì», concordò il Marchese. «E tu sei un bravo scrittore! Potresti anche finire quel romanzo...» Donald alzò timidamente le spalle. «Sono lusingato.» Si girò e guardò intensamente negli occhi scuri e addolorati di Amy. «È un grosso impegno, ma naturalmente farò del mio meglio.» «Benissimo», concluse Baxter strofinandosi le mani. «Allora la questione è chiusa. Ma Amy aveva promesso di suonare qualche pezzo al piano. È tutta la sera che aspetto questo momento.» Amy annuì e si alzò lentamente dalla sedia. Mentre saliva le scale alle sue spalle, ammirando i movimenti di quel delizioso culetto, Donald Marquette sapeva esattamente quale canzone avrebbe voluto chiederle di eseguire, se avesse potuto. Soldi soldi soldi!
17 I confini che separano la Vita dalla Morte sono tutt'al più sfuggenti e vaghi. Chi può dire dove termina l'una e comincia l'altra? EDGAR A. POE, La sepoltura prematura Quando si destò e fece per alzarsi, William Blessing urtò il capo contro il coperchio della bara. La bara era foderata di velluto imbottito, per cui non si fece male. In realtà, ciò che provò non sembrava correlarsi in alcun modo con il ricordo che aveva del dolore. Tuttavia, fu comunque una sensazione inquietante e sconcertante. La bara sigillata era più che buia, e per quanto si trattasse di una bara spaziosa, bastarono pochi movimenti delle mani e dei piedi per accertarsi che di una bara si trattava. Odorava di terra umida, muffa e decomposizione. Concluse immediatamente di essere stato sepolto vivo. La constatazione non indusse in lui alcuna riflessione o meditazione su La sepoltura prematura di Edgar Allan Poe. Scatenò invece un attacco acuto di claustrofobia, che lo colmò di un terrore totale e devastante. L'urlo montò in lui in maniera istintiva e sgorgò forte e travolgente dalla sua gola. La violenza stessa dell'urlo, tuttavia, lo scosse a sufficienza da permettergli di riprendere a ragionare, cosa che tentò di fare. La pistola, gli spari... Donald Marquette con il busto di Pallade tra le mani, mentre lo abbatteva su di lui, con violenza... La ragione, sotto forma di una piccola, piatta voce nell'oscurità, gli disse: «Sei morto». Poi ricordò la biblioteca. E il bibliotecario, la colomba insanguinata e... «Hai intenzione di rimanere a oziare laggiù tutta la notte?» domandò una voce chiara e definita. Non sembrava giungergli attraverso l'udito, ma piuttosto direttamente nella sua mente. Eppure possedeva un timbro e un tono particolare... con un vago accento newyorchese, più precisamente di Brooklyn. Ricordò il corvo.
«Dove... dove mi trovo?» domandò. «In un posto bello e privato, Dottore», rispose la voce. «Ma credo che nessuno qui si abbracci.» «Sono impazzito», concluse. «Certo che sei impazzito. È per quello che sei qui.» «Dove?» «Due metri sotto terra!» rispose la voce, esasperata. «In un sepolcro! In una tomba! Dottore, ti trovi in una bara nella tua tomba! Divertente, eh?» Stranamente, nonostante avvertisse un crescente panico nel profondo dell'animo, qualcosa impediva che avesse il sopravvento. Le sue potenti capacità cognitive, certo, ma anche qualcos'altro. Un altro sentimento. La rabbia. Rabbia infocata, rabbia fredda, tutte le possibili varianti di rabbia. La rabbia si estendeva dalla sua mente e cuciva assieme le cartilagini, le ossa e la carne del suo corpo resuscitato. Appiccava il fuoco del suo essere e pompava attraverso le sue vene, che un tempo avevano contenuto sangue, la sostanza di cui era fatta la vendetta. Comprese di essere resuscitato. La verità lo colse con una certezza tanto travolgente quanto calmante. «Sono tornato dalla morte», dichiarò con tono neutro. «Ci hai azzeccato, amico! Bentornato!» Comunque fosse, si trovava pur sempre in una bara sotto terra, a una buona distanza dalla superficie. E gli sembrava un pessimo luogo da cui ricominciare. Non aveva l'impressione di soffocare, né era particolarmente affamato. Ma non era un posto dove sarebbe potuto rimanere a lungo. «Chi sei?» indagò. «Suvvia, non fare domande stupide. Alza il culo e vieni fuori da lì. Hai del lavoro da portare a termine», esortò la voce. «E come?» «Coraggio! Sei tu lo scrittore horror. In che modo i corpi che tornano in vita riescono a uscire dalle tombe? Eh? Trasporto molecolare? No, ritenta. Che ne dici di provare a scavare? Tombola!» «Sono tornato dalla morte per intercessione di un'entità soprannaturale», fece notare. «Certo non per intercessione del ministero dei Trasporti.» «Allora perché non posso uscire di qui secondo canoni soprannaturali?» obiettò Blessing. «Ascolta, amico. Sei già soprannaturale, okay? Pensi che un essere u-
mano normale sarebbe in grado di uscire da una bara scavando? Fidati, fai un tentativo.» Effettivamente, mentre contemplava le parole pronunciate dalla voce, si rese conto di sentirsi cambiato. Si sentiva come sull'orlo di sensi alieni, di poteri occulti. I tessuti e le molecole che costituivano ora la sua forma corporea sembravano cariche di una sorta di insondabile energia. Blessing alzò le mani. Si portò le mani davanti al viso e agitò le dita nell'oscurità, immaginandole... Le vide. Nonostante la totale oscurità, vedeva le sue dita. Sembravano ardere di una luce soprannaturale. Era acutamente cosciente di ogni ruga all'altezza delle nocche, di ogni follicolo, di ogni unghia. Notò che erano cresciute parecchio; più che unghie ora somigliavano ad artigli. Le alzò, appoggiandole contro l'umido e setoso velluto che rivestiva l'interno del coperchio della bara. Spinse. Il coperchio sembrò cedere di qualche millimetro. Una manciata di terra ricadde all'interno della bara, che evidentemente si era aperta. Avvertiva la pressione della terra sopra di lui, ma stranamente non gli parve opprimente. La percepiva come... alterata. «Così!» incoraggiò la voce. «Vedo che hai capito. Insisti! Insisti!» Con uno sforzo per nulla eccessivo spinse verso l'alto il coperchio, che piano piano si aprì. La terra prese a ricadergli sul volto e sul corpo. Sapeva di humus e sassi e di vermi. Puzzava di ricordi, disperazione, rammarico. La terra ricadde addosso a William Blessing, ma era terra che non aveva mai conosciuto prima. Non densa, ma opalescente, fluida, come acqua torbida. Spingeva verso l'alto e la terra cedeva lentamente, come se riconoscesse il suo dominio sulla propria tomba, il suo trionfo sul luogo di sepolutra. Cominciò a sollevare il suo corpo e a farsi largo nella strana sostanza, risalendo lentamente ma in modo costante una scalinata di pietrisco verso la superficie. «Bravo, così!» rise la voce. «Hai già imparato. Viene naturale, no?» Scavò tirandosi su, sempre più su, poi, allungando di nuovo il braccio verso l'alto, sentì la mano sbucare attraverso la terra umida e l'erba bagnata nell'aria fredda della notte. La sensazione lo caricò di energia allo stato puro, che rese agevole la parte finale della sua sortita. Emerse nella corroborante aria della mezzanotte, respirò la foschia umida e si liberò dalla fossa in cui lo avevano imprigionato i suoi cari.
Crollò a terra, ansimante e annaspante, scuotendosi la terra dai capelli e dal volto, sentendo la notte gonfiarsi attorno a lui come una sinfonia di silenzio. «Te l'avevo detto che ce l'avresti fatta!» risonò la voce, ora non più solo nella sua mente, ma da un punto nell'oscurità vicino a lui. «Complimenti!» Sputò terra e tossì. «Proprio come un fumetto dell'orrore della E.C.», disse amareggiato, avvertendo il sapore della bile non solo nella bocca ma in tutto il corpo. Orientò la testa in direzione della voce. «E tu saresti il guardiano della cripta?» «No. Non ho origini tanto scontate. Anzi, se non fossi così assolutamente vero forse mi accaserei in qualche romanzo molto descrittivo. Preferibilmente francese. Oui! Bon soir, monsieur. Bentornato su questo magnifico pianeta. Pronto a fare scorribande?» Blessing si tirò su, riguadagnò barcollando le gambe. Attorno a lui vide lapidi innalzarsi dal terreno, bianche al chiaro di una luna a falce nel cielo notturno punteggiato di nuvole. Le sue articolazioni scricchiolavano come catene strette attorno a un'anima in agonia. Quel luogo puzzava di storia e trasudava noia. «Dove sei?» «Prova a guardare la tua lapide, signore!» Si sforzò di mettere a fuoco gli occhi e il bagliore soprannaturale tornò ad accendersi, come se indossasse occhiali agli infrarossi. Il cimitero che illuminò era diverso da qualsiasi altro camposanto che avesse mai visto, o anche solo immaginato. Eppure, lo riconosceva. Scosso, inciampò e cadde sul terriccio, picchiando la testa contro un sasso. Alzò lo sguardo. Scolpite nel marmo lesse due date... e il suo nome. «Amatissimo... Riposa in pace, amatissimo... Mai, mai dimenticato.» Alzò una mano e fece scorrere le unghie sulle parole incise. «Amy», sussurrò. «Amy.» «Avrebbe anche potuto scrivere qualcosa in latino, non credi?» provocò la voce. «Oppure in greco. In una delle lingue classiche, insomma. Roba di classe, appunto. Tu le conosci entrambe, no?» «Sì», rispose distrattamente Blessing. «Kyrie eleison, amico. E al quarto mese risorse dalla tomba e, udite, spaccò il culo!» Blessing, irritato, guardò più su. La lapide era in realtà una grossa croce celtica. Doveva essere stata un'i-
dea di Amy, dato che a lui non erano mai particolarmente piaciute le croci, indipendentemente dalla loro foggia. Aveva sempre scherzato di voler essere sepolto solamente con un computer portatile e una linea telefonica per il modem. In cima alla croce, a fissarlo con occhi scuri e intensi, vide un grande corvo, di un nero radioso. «Un corvo», disse pensosamente. «Un corvo... uno dei simboli più antichi dell'umanità.» «So che cosa stai pensando.» Il corvo inclinò la testa. «Ma questo non è un fumetto, Blessing. Questa è realtà noir. Sei qui per un motivo. E io sono qui per aiutarti. Fine del discorso.» Blessing si voltò e si guardò attorno. Riconobbe il cimitero. Era il famoso camposanto nel quale era stato sepolto il grande Edgar Allan Poe! Naturalmente! Dal momento che vi aveva acquistato un lotto (più come aggiunta alla sua collezione di cimeli di Edgar Allan Poe che non realmente intenzionato a occuparlo) era logico che fosse stato sepolto lì. «Per aiutarmi», ripeté lentamente. «Per aiutarmi.» «Sì. Per aiutarti... a fare giustizia», spiegò il corvo, a un tratto serio e pragmatico. «C'è solo caos nell'universo. Ma il caos crea anche ordine, seppure in modo casuale. E l'ordine può essere strappato all'entropia, alla strada che riconduce al caos... dalla più grande creazione dell'ordine stesso: la volontà. La coscienza. L'autoconsapevolezza.» La voce del corvo si mutò in un sussurro duro e sprezzante. «E benché alla fine il caos inghiottirà tutto... noi possiamo controllare ciò che inghiotte. Poiché la volontà, quando è davvero forte, sa distaccarsi dal caos... dalla morte e dal nulla...» Il becco fece uno scatto. «Per qualche tempo. Solo per un breve periodo.» Tempo. Breve periodo. Blessing passò in rassegna il luogo della sua tumulazione. Sembrava un paesaggio cimiteriale monocromo reso da Vincent Van Gogh, con folate di azzurro e un'aura surreale. Una terra spettrale, di allusioni sovrapposte a illusioni. Tre dimensioni che scivolavano nella quarta... che si decomponevano e si essiccandosi, perdendo la loro ossuta presa sulla vita, sul simbolismo e sull'architettura. Ruggine alla polvere. Sudari alla cenere. L'uomo vive solo per un breve periodo... ... un periodo sgradevole, brutale e breve...
... privato anche solo di un sogno. «Se non posso aspirare al sogno», dichiarò Blessing, «mi accontenterò dell'incubo.» Si avviò lentamente attraverso la foschia, un cadavere tornato alla vita per portare a termine una missione... E ben presto udì le ali del suo familiare volatile battere alle sue spalle. 18 ... l'invisibile figura, che ancora mi stringeva il polso, aveva causato l'apertura delle tombe di tutta l'umanità; e da ciascuna si diffondeva il flebile, fosforescente livore della decomposizione, cosicché potevo vedere i recessi più nascosti, e ivi scorgere i corpi avvolti nei sudori, nel loro triste e solenne sonno verminoso. Ma, ahimè! i dormienti erano meno, molti milioni di meno, di quelli che non riposavano affatto; e v'era un fiacco dibattersi; e una diffusa, triste irrequietezza; e dalle profondità delle innumerevoli fosse giungeva un malinconico fruscio di paramenti sepolcrali. EDGAR A. POE, La sepoltura prematura La città era viva. Per la prima volta Blessing vide Baltimora come una bestia, vivente e ansimante. Ora sudava foschia, respirava attraverso le fognature, russava lungo i fili del telefono. Puzzava di ciminiere. E aveva il sapore del destino. Mentre lasciava zoppicante l'onirico cimitero, le stradine tortuose sembrarono torcersi e modificarsi, allontanandosi dallo stile di Van Gogh per avvicinarsi a quello di Picasso. Pezzi e frammenti si separavano, per poi riconnettersi sottilmente come una variopinta lanterna lavica di triangoli e quadrati e rettangoli, ma contenente anche ammassi informi e sfere. «Non so...» ansimò. «Non so dove...» Alle sue spalle, ali che fendevano l'aria. «Concentrati, Blessing. Ricorda. Immagina.» Si fermò e si appoggiò a un muro di mattoni. Chiuse gli occhi. Baltimora. La mia città. Quando li riaprì vide di nuovo strade, palazzi e luci al neon. I lampioni
brillavano di luce alogena. I semafori lampeggiavano. Ma nulla era del tutto a perpendicolo. Ogni cosa era leggermente curvata, circondata da nembi multicolori. C'era una musica nell'aria che non aveva suono, una silente vibrazione. Avvertiva queste cose, le vedeva con sensi che non aveva mai saputo di possedere prima. Giunto all'imbocco di un ampio viale, sul declivio di una collina, si fermò e guardò verso il basso. Sotto di lui vedeva estendersi la parte meridionale del centro di Baltimora. Il porto brillava e scintillava, gli edifici si stagliavano l'uno contro l'altro con esagerata nitidezza. Il cielo appariva come un gigantesco calderone di galassie, inseguite da violente striature di nubi. In alto, sopra l'asfalto iperreale e il cemento, il mattone transdimensionale, scorrevano grotteschi stralci di volti, resti mutilati di corpi con occhi tra le natiche o bocche sul petto, perduti e vaganti senza meta. A tratti un grande ammasso di artigli e denti sembrava avventarsi su un ectoplasma grumoso, come uno squalo su un banco di pesci, per inghiottirlo e continuare poi a veleggiare maligno, in cerca, a caccia, perpetuando la catena alimentare in quel fratturato mondo spettrale. «Bene. Cominci a prenderci la mano», incoraggiò il corvo. Blessing rabbrividì. Distolse lo sguardo, rifugiandosi barcollando in un vicolo. Il corvo si posò ai suoi piedi e lo guardò, dal basso verso l'alto. «Ehi. Forza. Bisogna mettersi al lavoro.» «Devo... devo solo ricompormi.» «Naturalmente. In effetti ti stai decomponendo!» «Oh, Dio! Dio mio!» esclamò, guardandosi le mani alla luce e temendo di vedere brandelli di carne putrefatta penzolare da falangi scheletriche. Invece le sue mani gli apparvero perfettamente formate. Di nuovo vide ogni loro particolare, fin nel dettaglio delle più sottili creste epidermiche dei polpastrelli. Si portò un palmo al naso. Non sentì odore di putrefazione. Abbassò gli occhi a guardare il corvo. «Non chiederlo a me! Ti sei semplicemente ricomposto grazie alla forza di volontà. Ma credimi, non potrà durare per sempre», avvertì la creatura nera, zampettando al suolo, facendo scattare la coda e sollevando leggermente le ali, come per rassettarsi le penne. «Quanto tempo ho?» volle sapere Blessing. «Qualche giorno. Forse un po' di più. Chissà», rispose il corvo. «Ma devi restare risoluto. Se in te scema la passione, la rabbia e la decisione, tornerai quello che eri.»
«Cielo. Ho bisogno di bere un goccio!» «Qualcosa che contiene un po' di conservanti non ti farebbe certo male», pungolò il corvo. «Se svolti l'angolo laggiù penso che troverai quello che cerchi.» Blessing si staccò dal muro di mattoni sostenendosi con le braccia, poi si avviò con passo incerto nella direzione indicatagli dal corvo. Il volatile gli si posò sulla spalla. «Spero non ti dispiaccia se mi faccio trasportare, di tanto in tanto.» «No.» «Se hai qualche domanda, meglio rivolgermela ora. Non penso che lascino entrare i corvi nei bar. Accettano solo corvi vecchi.» «Che dici?» «Old Crow. Il whisky.» Blessing non replicò. Forse aveva abbandonato il suo senso dell'umorismo nella tomba. O forse era stato segregato nella parte di lui che ora aveva preso la forma del corvo. Quando svoltò l'angolo vide il bar che il corvo gli aveva promesso. Era un bar per avventori del quartiere, privo di nome; era indicato solo da un'enorme insegna al neon raffigurante un bicchiere da cocktail. «Non lo so...» si lamentò fermandosi. «Non so se sarò in grado di fare... quello che devo.» «Bere un goccio di whisky? Se non sbaglio è qualcosa che hai già fatto in più occasioni in passato», ribatté il corvo. «Sai bene... che cosa intendo.» «Ehi. Vendono anche liquori in bottiglia. Prenditi un paio dì bottiglie. Tutto quello che ti serve, amico. Okay?» Blessing giunse all'ingresso del bar. «Io devo andare. Ci vediamo!» Il corvo spiccò il volo dalla sua spalla e s'inoltrò nella notte. William Blessing aprì la porta ed entrò. Era uno di quegli squallidi locali del centro tenuti in attività da clienti affezionati nel corso della settimana e dai forti bevitori del fine settimana; il genere di bar che negli anni Trenta e Quaranta avrebbe offerto pasti gratuiti ai frequentatori più assidui. Due bevitori solitari sedevano ben distanziati l'uno dall'altro al lungo, tarlato bancone di legno. Il barista sedeva su uno sgabello accanto al registratore di cassa, impegnato a fumare una sigaretta e a sfogliare una copia del Sun. Nessuno sembrò notare il suo arrivo quando varcò la soglia. Blessing era nervoso.
Era il genere di bar che aveva sempre evitato. Il liquore scadente e l'atmosfera deprimente gli ricordavano in modo troppo insistente lo spettro dell'alcolismo che pendeva sulla testa di tutti i bevitori. In quanto studioso di Edgar Allan Poe, conosceva bene i danni provocati a lungo andare dal bere. La maledizione della classe scrivente, amava definire scherzosamente l'alcol durante le sue lezioni all'università. Inoltre, Blessing si sentiva notevolmente a disagio. Dopotutto, era morto. Come l'avrebbero trattato i vivi? Tuttavia, la voglia di un buon drink era stata resuscitata con tutto il resto della sua persona. Aveva bisogno di bere, e lì avrebbe potuto farlo. Si sedette al bancone. Il barista chiuse il giornale e si avvicinò, guardandolo in modo strano. «Ehi, amico! Da dove arrivi, da una festa in maschera?» Abbassò gli occhi a guardarsi. Ma certo! Indossava ancora gli indumenti sepolcrali: il suo smoking migliore. Era stata sua volontà essere seppellito con quell'abito. «Mi sta a meraviglia!» aveva precisato nel testamento. «Ehm... Sì. Proprio così. Una cena, ma servita senza alcolici. Ho disperato bisogno di bere qualcosa che sia più forte di un tè freddo.» «Allora sei venuto nel posto giusto. Che prendi?» «Un doppio Old Crow», ordinò. «Con acqua a parte.» «Subito.» Mentre il barista prendeva una delle bottiglie con il beccuccio allineate davanti allo specchio dietro il bancone, Blessing si frugò le tasche in cerca del portafogli. Le trovò vuote. Naturalmente. Nessuno veniva sepolto con denaro in tasca, almeno non più. Non aveva i soldi per pagare il drink. Il barista tornò con il doppio whisky e il bicchiere d'acqua. «Sono tre e cinquanta», disse. «Credo di aver dimenticato il portafogli... in macchina. Ti dispiace se vado...» «Non c'è problema. Ti tengo d'occhio io il whisky.» Imbarazzato e frustrato, Blessing lo ringraziò con un cenno della testa e uscì dal bar, domandandosi in che modo avrebbe potuto procurarsi dei soldi. Una ragione in più per smetterla di bere. Fuori, appollaiato in cima a un parchimetro ad aspettarlo, trovò il corvo. Aveva una banconota da cento dollari nel becco. Blessing, sorpreso ma grato, allungò una mano e la prese. «Grazie.»
«Avevo previsto che avresti avuto bisogno di qualche spicciolo per le piccole spese. Non ci si allontana dalla propria tomba senza soldi», ammonì il corvo. «Mai vista una situazione del genere in Creature Feature alla televisione, vero? Del resto, la risurrezione ha i suoi lati negativi!» «Forse è meglio che compri una bottiglia», concluse Blessing. Tornò nel locale e passò cento dollari al barista. «Caspita», esclamò lui. Era un uomo sui cinquanta, rotondetto, con un paio di sottili baffetti, ben avviato verso la calvizie. «Non hai nulla di più piccolo?» «Facciamo così. Prendo anche una bottiglia, d'accordo?» propose Blessing. Notò che a quello scambio gli altri due avventori avevano alzato lo sguardo dai loro bicchieri di birra. Sembravano entrambi più prossimi alla fossa di lui. Il barista alzò le spalle. «Fanno altri venti dollari.» «Va benissimo.» «Ora dovrei riuscire a cambiartelo», disse il barista, sorridendo felice per l'inatteso incasso. Si avvicinò al registratore di cassa mentre Blessing prendeva posto davanti al drink. Ne tracannò metà in un solo sorso. E aspettò. Per un attimo non sentì alcun sapore. Poi, come se si fossero appena risvegliate, le sue papille gustative si misero in azione. La gola gli bruciò e il familiare calore cominciò a diffondersi attraverso di lui. Ma stranamente frammisto ad altre sensazioni che non riusciva a identificare... Cionondimeno, comunque dal whisky arrivò un accenno di oblio e di rilassatezza, che accolse più che volentieri. Prese un sorso d'acqua, fredda e altrettanto agognata. Quando il barista tornò con il resto e la bottiglia, avvolta in un foglio di carta, aveva già vuotato il bicchiere. «Un altro, per favore», ordinò. «E ancora acqua.» «Dev'essere stata una serata dura», commentò il barista. «Non puoi immaginare quanto.» Il barista gli versò un altro doppio Old Crow, poi lo affiancò con un secondo bicchiere d'acqua. Missione. Aveva una missione e sapeva bene in che cosa consisteva. Disponeva di poco tempo soltanto per portare a termine quella missione. I fuochi del whisky si fusero ai fuochi dentro di lui, alla feroce motivazione che doveva averlo sospinto con forza fuori dalla tomba.
Giustizia! Vendetta! Tuttavia, pur continuando quegli incendi a divampare, l'effetto calmante dell'alcol allentò la pressione che sembrava lacerargli lo spirito come frammenti di vetro rotto su un nervo scoperto. Chiuse gli occhi. Ah, se potesse riposare! Lasciarsi andare! Abbandonarsi alla quiete e alla pace dei sensi laddove i sensi non esistevano. Avvertiva l'essenza stessa del bar pulsare in simpatia con lui. Mentre vuotava il bicchiere sembrarono unirsi al coro anche i vapori stantii che lo circondavano. Rilassati, sembravano dirgli. Comunque presto tutto sarà nulla. Tutto si riduce in polvere e in oblio, alla fine. Ti unirai ai fortunati che sono venuti prima di te. Pace, Blessing. Conforto e gioia, e dolce, dolce oscurità. La luce è la menzogna. L'oscurità è la verità. Il fiume Lete e le sue calme correnti di... Aprì gli occhi. C'era qualcosa nel suo bicchiere di whisky. Era un naso. Istintivamente, si portò una mano al volto. Dove prima c'era stato il suo naso, ora c'era un buco. Si guardò le mani. Le unghie erano crepate, la pelle andava seccandosi e ingrigendosi sotto i suoi occhi. No! No, era troppo presto! Si versò il naso nella mano sinistra, poi lo ricacciò con forza nel buco che in origine aveva occupato, tenendoselo a posto. Con l'altra mano afferrò il resto e la bottiglia incartata in un foglio marrone e uscì frettolosamente dal bar, tornando a immergersi nella notte. Lo schiaffo dell'aria fredda, il panico e la paura sembrarono arrestare quanto gli stava accadendo. Ma sentiva ancora la pelle del volto che cominciava a ritrarsi dai denti e dagli occhi. «No!» ansimò. «No!» Si fermò in un vicolo. Posò la bottiglia di whisky e si toccò le guance. La pelle aveva cominciato a squamarsi. Si sporcò la mano di una sostanza
verde e muschiosa, viscida di pus e... Che cos'era? Il fluido utilizzato dagli imbalsamatoli? Mentre fissava lo schifo che gli imbrattava la mano, il cui aspetto malsano era reso ancora peggiore dal bagliore ambrato della luce dei lampioni, avvertì qualcosa di duro e insistente premergli contro la schiena. «Okay, stronzo. Dammi i soldi e arriverai vivo al mattino.» La voce era dura e decisa. Non c'erano dubbi su che cosa impugnasse la mano del proprietario di quella voce. Vide di nuovo la pistola nella mano dell'uomo con il lungo cappotto. La vide fare fuoco. Ne avvertì il fuoco, l'impatto delle due pallottole. «No», disse. Si voltò. Riconobbe l'aggressore. Era uno dei due bevitori che erano stati seduti al bancone del bar. Doveva aver notato la qualità del suo abito e il biglietto da cento dollari, concludendo di aver identificato una preda facile. L'aveva seguito fuori dal locale, sperando di riuscire a coglierlo di sorpresa in un luogo poco illuminato. «Cristo!» esclamò l'uomo. Sparò. Blessing avvertì appena il colpo, un lieve urto all'altezza dell'addome. Non provò dolore. Solo un colpetto che servì a scatenare la rabbia che covava nel suo profondo. «Feccia!» gridò. Blessing scostò di lato la pistola, poi alzò la bottiglia di whisky e la usò per colpire la testa dell'uomo. La bottiglia si infranse, inondando la testa dell'uomo di whisky e accecandolo. Cercò di livellare di nuovo la pistola e sparare un secondo colpo. Blessing si ritrovò, con incredibile velocità, potenza e agilità, a conficcare il collo rotto della bottiglia nel torso dell'aggressore... ... trapassandolo, affondando l'avambraccio dentro di lui. Dalla bocca dell'uomo sgorgò sangue. Gettò indietro la testa, colto da spasmi, la luce nei suoi occhi sempre più fioca... e tutto questo, nella percezione di Blessing, avveniva al rallentatore, fotogramma per fotogramma. Aveva il braccio inondato di sangue. Blessing, in una sorta di trance, sostenne in quel modo l'aggressore per
alcuni lunghi attimi (il suo corpo non sembrava pesare molto)... dopodiché abbassò semplicemente il braccio. Con un rumore liquido e raccapricciante l'uomo si staccò, accasciandosi a terra in una massa ripugnante e inerte. L'odore del whisky e del sangue era pungente. Blessing alzò il collo della bottiglia, ora tinto di rosso, e l'annusò. Si sentì rinvigorito. La notte sembrò esplodere in una carica elettrica risonante, ronzante, in armonia con la sua rabbia, il suo sdegno e il suo cordoglio... Il suo furore. Abbassò gli occhi sul cadavere del suo aggressore e si sentì la personificazione della giustizia. Quel vile ammasso di detriti umani non avrebbe più importunato i viventi. Mentre fissava la carcassa, che già andava raffreddandosi, vide l'anima corrotta dell'uomo strisciare fuori, minuscola e rattrappita, per mescolarsi alla nebbia e agli spiriti della notte. Aveva reso un servizio all'umanità. Tale consapevolezza ebbe l'effetto di infondere in Blessing una rinnovata risolutezza. Sentiva le forze tornare in lui... La decisione. Una forma scura e alata si posò sul cadavere. Affondò il becco nelle budella fumanti, ne afferrò un lembo e lo deglutì. «Mmm. Interiora al whisky. Che bontà», commentò il corvo. «Devo andare... ho da fare», disse Blessing. «Guarda guarda», disse il corvo, dando un'occhiata al volto rovinato di Blessing. «Abbiamo perso un po' di fuoco interiore, eh? A quanto pare dovrai smettere di bere per sempre. Ammesso che tu voglia comunque aggiustare le cose. Ammesso che, tutto sommato, tu non preferisca vedere i tuoi assassini godersi una lunga e agiata vecchiaia e dilettarsi a molestare i ragazzini sulle giostre di Blessingland!» Il furore di Blessing montò. «Ammesso che non voglia vedere il tuo traditore fare i suoi porci comodi migliaia di volte con tua moglie...» Blessing emise un lamento, che si trasformò in una specie di ululato. Scagliò i resti della bottiglia contro il muro. Il vetro si frantumò in centinaia di pezzi. «Ecco. È questo lo spirito giusto», si complimentò il corvo. «Sono qui per aiutarti, William. Solo per aiutarti.» «La mia faccia», disse Blessing. «Il mio naso...» «Sì, vedo. Direi che occorre un piccolo intervento di chinirgia plastica ricostruttiva, Spero che tu abbia messo da parte la tua proboscide caduta.»
Blessing abbassò gli occhi. Sì, era ancora nella sua mano sinistra. «Bene. A quanto pare anche la tua faccia si sta... incartapecorendo un po'. Per fortuna abbiamo qui una bella dose di abbondante protoplasma fresco che potrà venire in tuo soccorso nell'opera di restauro.» «Ma come?... Io non...» «Lascia fare a me. Fidati. Dovrai essere pronto per domani mattino, no? Non vorrai forse che la tua cara Amy ti veda senza naso?» «Amy? Ma come?» domandò Blessing. Al solo pensiero di rivederla l'intero suo essere sembrava stringersi in una morsa di ghiaccio. «Perché?» «Devi scoprire il nome e l'indirizzo di almeno uno dei tuoi carnefici, no? E inoltre, credo che sia tu, sia il bibliotecario, apprezzereste molto la ricomposizione della collezione Poe e la sua restituzione alla sede originale. Un uccellino mi ha detto che il nostro caro amico Donald Marquette ha presentato diversi membri del suo nuovo club - membri che hanno avuto un ruolo nella tua morte - a Amy.» Il corvo fece una pausa e inclinò pensosamente la testa. «E poi», continuò freddamente, «devi ricordare quello che hai perso, Blessing. Altrimenti durante questa missione perderai ben altro che un naso.» «Sì», concordò Blessing, abbandonando ogni esitazione e sbarrando la mente a ogni riflessione. «Certo.» William Blessing si inginocchiò accanto al cadavere che emetteva vapori dell'uomo che aveva appena ucciso e, usando le unghie lunghe e affilate, seguì le istruzioni del corvo. 19 Questa notte, la signora Poe, nel suo capezzale prostrata dalla malattia e attorniata dai suoi bambini, chiede la tua assistenza; e la chiede forse per l'ultima volta.. Richmond Enquirer, 29 novembre 1811 «Bene. Allora siete tutti qui», disse Eliza Poe. «Tutti i miei bambini. Tutti i miei cari. Ora devo parlarvi.» La voce della donna dal pallore cadaverico era fioca ed estremamente triste. Riuscì a distogliere i pensieri del piccolo Edgar Poe dal grande corvo nero che aveva visto tra gli alberi del giardino. Edgar era confuso, ma rimase in silenzio ad ascoltare. Ascoltava sem-
pre quando parlava la mamma. Aveva sempre cose buone e interessanti da dire. La stanza sembrò farsi più buia, nonostante le lanterne e le candele. E più fredda, a dispetto del fuoco ben alimentato che ardeva nel camino. Nell'aria c'era odore di canfora e di sego, e il profumo del tè nero con panna che i grandi sembravano bere incessantemente. Accanto alla teiera era stato sistemato un vassoio con pasticcini e marmellata, ma Edgar non ne aveva voglia, nonostante la marmellata di more fosse la sua preferita e nonostante non avesse mangiato molto a colazione. Stranamente, non aveva per nulla fame. Sopra il mare lanoso delle coperte, la testa di Eliza Poe sembrava affondare nel cotone bianco del guanciale. I suoi capelli neri erano stati pettinati verso l'esterno in modo da formare una specie di sinistra aureola nera a circondare la testa. Era pallida, di un pallore bianco e profondo, del pallore dei vermi che Edgar trovava sotto i sassi; solo le guance e le labbra erano rosse come ciliege. Aveva sopracciglie folte e nere e gli occhi più grandi che Edgar avesse mai visto: grandi occhi scuri che erano stati sempre pieni di vita e di curiosità... ma ora erano colmi solo di tristezza. Tuttavia, quando si posarono su Edgar, sembrò scoccare in loro una piccola scintilla. Edgar provò un istante di felicità, perché lesse nello sguardo della mamma l'amore e la dedizione che provava per lui. C'erano momenti in cui aveva la sensazione che il mondo fosse un luogo freddo e cattivo, abitato da gente fredda e cattiva, e in cui c'era ben poco spazio per il divertimento e la gioia. Ma lui aveva sempre saputo, anche in momenti tristi come quello, di essere un bambino fortunato, perché nel mondo c'era pur sempre, e tutto per lui, il profondo calore, il confortante amore della mamma. «Oh, Edgar», disse lei con la sua vocina. «La tua cravatta della domenica ha il nodo storto.» «Sì, mamma», rispose lui, tentando di raddrizzarlo. Peggiorò la situazione e una delle vecchiette presenti dovette intervenire in suo aiuto. «Ecco fatto. Così va meglio», approvò Eliza Poe. «Avvicinati, Edgar.» Edgar si portò accanto a William, che cedette in silenzio il suo posto e la presa sulla mano della madre. Eliza Poe accarezzò i capelli scuri del figlio, poi fece scorrere amorevolmente le dita sul suo volto, toccandogli gli zigomi alti, le labbra sensibili, il nobile naso e il mento ben disegnato. La sua mano era fredda e sudaticcia ed Edgar avvertì un brivido cor-
rergli lungo la schiena. Era allarmato, e avvertì l'impulso di piangere, ma sapeva di doversi mostrare coraggioso per il bene della mamma e trattenne le lacrime. «Caro Edgar, nessuno potrà mai dubitare che tu sei mio figlio», dichiarò Eliza. «Hai i miei occhi.» «Sì, mamma.» «Hai fatto il bravo con i nostri cari amici?» «Sì, mamma.» «Non è vero», lo contraddisse a un tratto William. «Continua a cercare un corvo tra i rami. Non fa altro che parlare di quel corvo, sempre il corvo, il corvo...» La madre tornò a posare lo sguardo su di lui. «Edgar, non devi soffermarti su cose oscure. Tu vuoi bene a Gesù, Edgar?» «Sì, mamma.» «Gesù è il Figlio della luce, e in Lui non c'è oscurità. Rivolgiti a Gesù, Edgar. E prega sempre il Signore.» «Sì, mamma.» Eliza Poe trasse una serie di lunghi e faticosi respiri, poi chiuse gli occhi come per raccogliere le forze. Riaprì gli occhi e cominciò a parlare: «Bambini. Temo che si preparino tempi difficili davanti a voi», sussurrò con voce debole. Non erano tempi d'oro. Non erano tempi bui. Era la fine del 1811. L'Inghilterra avrebbe presto fatto un ultimo, debole tentativo di riconquistare le colonie perdute, ma l'America aveva già un'identità e una sua potenza. Le città crescevano, la sua autoconsapevolezza di nazione andava rafforzandosi. L'Unione era appena stata costituita, e gli stati avevano difficoltà a considerarsi parte di una nazione più grande, ma l'idea attecchiva e la maggioranza dei commercianti prosperava. Grazie agli ottimi porti, la costa atlantica si arricchiva e le nuove, coraggiose e bellissime città attiravano ondate di immigranti in cerca di lavoro. La nuova società necessitava di intrattenimenti e si rivolse al teatro e alla musica. Una delle giovani attrici di maggiore successo era Eliza Arnold, nata da una famiglia di attori, e da anatroccolo si era trasformata in uno splendido cigno della ribalta. Si era sposata con un altro attore, di nome David Poe. Pur dotato di notevole audacia e ambizione, purtroppo Poe non era un buon
attore. Il suo lavoro veniva abitualmente stroncato dalle recensioni e ben presto cominciò a bere. A cavallo tra Settecento e Ottocento l'alcol era socialmente accettato, al punto che negli uffici gli impiegati si concedevano una pausa whisky alle undici del mattino. Tuttavia, bere prima della colazione mattutina non sembrava una buona idea, ma David Poe non riusciva più a controllare il suo amore per la bottiglia. Quando si rese conto di essere un attore destinato al fallimento, fece i bagagli e lasciò la famiglia. Eliza aveva scelto di lottare e di andare avanti. Ma ora, all'età di ventiquattro anni, Eliza Poe giaceva sul suo letto di morte. Era malata da mesi. Alcuni affermavano che non era stata più la stessa dopo la nascita della piccola Rosalie, che la febbre da cui era stata aggredita l'avrebbe forse risparmiata se non l'avesse trovata indebolita dalla gravidanza e dal parto. Privata ormai da qualche mese del denaro che Eliza si guadagnava calcando il palcoscenico, la famiglia era caduta in miseria. Solo la gentilezza, l'ospitalità e il buon cuore cristiano di amici come Fanny e John Allan avevano scongiurato la morte per stenti di madre e figli. Tuttavia, la comprensione che il giovane Edgar aveva della situazione era minima. Era triste perché la mamma non stava bene e si alzava raramente dal letto; ma non aveva mai smesso di accarezzarlo, di abbracciarlo e di mostrargli il suo amore, e questo era indubbiamente un miglioramento rispetto a quando la sua vita era stata un frenetico viaggiare da un palcoscenico all'altro, intervallato da feste a cui era obbligata a partecipare e a prove in teatro, che le lasciavano ben poco tempo da dedicare ai figli. E gli aveva fatto bene vedere quanta gioia infondesse in lei la sua presenza; la sicurezza del bambino e la coscienza del proprio valore ne avevano indubbiamente giovato. «Difficili?» domandò William. «Anche papà diceva sempre così. Le cose erano sempre difficili nella 'nobile professione' dell'attore.» «Non possiamo più fare conto su tuo padre neppure per le massime», ribatté Eliza Poe. «Ora dobbiamo affidarci alla gentilezza degli altri... E io devo affidarmi alla pietà di Dio.» Batté le palpebre e sembrò sul punto di venire meno, ma reagì, esortandosi con un sussurro: «No, Eliza, no. Devi prima parlare ai bambini. Parla ai bambini». Una delle donne le diede una dose di medicina dall'odore cattivissimo, imboccandola con un grande cucchiaio d'argento, poi l'aiutò a bere del tè
caldo con latte. Tornò pienamente cosciente e fu di nuovo in grado di rivolgersi ai bambini. «Sto per andare via», avvertì. «Gesù mi sta chiamando.» «Veniamo anche noi!» ribatté subito Edgar. «No, figlio mio. Solo io posso andare.» All'improvviso Edgar fu molto irritato con Gesù. Gesù, che prima era stato un signore tanto amichevole e dolce... e ora non voleva consentirgli di andare con la mamma. Gli sembrava una cosa ingiusta... Molto ingiusta. Ed Edgar intendeva comunicare il suo disappunto a Gesù senza mezzi termini quando avrebbe recitato le preghiere quella sera. «Tu, William e Rosalie dovete crescere e compiere buone azioni e diventare brave persone. Dovete amare Dio e amare Gesù, e amare il vostro prossimo.» Mentre Eliza parlava, Edgar si sentì a un tratto freddo e abbandonato. Quella non era la mamma così come la conosceva, sempre pronta a dargli conforto; stava parlando come i pastori che predicavano nelle chiese dove erano soliti andare a messa, fredda e distaccata, generosa di parole e avara di dolcezza e conforto. Eliza parlò ai bambini per qualche minuto, recitando passi della Bibbia e istruendoli in materia di morale e di bontà. Edgar non poté fare a meno di notare che gli altri presenti nella stanza, gli adulti con i loro abiti rigidi e gli alti colletti inamidati, che odoravano di sapone grezzo e rettitudine, di tanto in tanto annuivano e aggiungevano «amen» severi ma pieni di approvazione alle istruzioni impartite da Eliza ai figli. Poi Eliza baciò Rosalie e sussurrò qualcosa all'orecchio dell'infermiera. A quel punto fece cenno a William di avvicinarsi per baciarle la guancia. William lo fece. Sussurrò qualcosa anche a lui e lui annuì. William era pallido in volto e aveva gli occhi gonfi di lacrime di smarrimento. Edgar si domandò se avesse preso la febbre dalla mamma; sperava vivamente di no. «Edgar, per favore, vieni qui.» Edgar si avvicinò e guardò negli occhi della madre. ... penne nere... ... battiti d'ali... ... battiti d'ali... ... le ali di un angelo delle tenebre... Edgar indietreggiò. Il cuore gli batteva furiosamente nel petto. Sentiva il bisogno di uscire. Non c'era più aria là dentro... Non si poteva respirare
altro che penne nere e... Il bambino fece un passo indietro e sbatté contro la gamba di un uomo. Si sentì calare addosso mani grosse e dure. Guardò verso l'alto e si trovò a fissare il volto granitico di John Allan. «Ragazzo!» lo rimproverò Allan con lo stesso tono autoritario che usava quando impartiva ordini ai suoi domestici. «Fa' il tuo dovere. Vai da tua madre!» Il terrore si mescolò allo smarrimento e accelerò ulteriormente il suo battito cardiaco, ma le parole ebbero l'effetto di bloccarlo e si ritrovò di nuovo accanto alla madre. «Edgar», esortò Eliza. «Ricordati di me. Te ne prego.» ... ricordati... ... ricordati... La parola riecheggiò nella sua mente. «Sei tanto giovane... Temo che dimenticherai la madre che ti ha amato così tanto. Per aiutarti a ricordare la mamma, Edgar, voglio darti la miniatura di un mio ritratto...» ... ricordati... «Alcune lettere che ho scritto e che credo contengano un po' della mia anima, e forse posseggono anche una certa qualità letteraria; so che ami molto leggere, le poesie, i racconti...» ... ricordati... «E per ultimo ti regalo un acquerello del porto di Boston. Ti ricordi Boston, Edgar? È la città in cui sei nato...» ... ricordati... «È la città in cui tua madre ha conosciuto i suoi amici più cari e solidali, alcuni dei quali sono qui oggi.» Le mani di Eliza erano fredde al tocco di Edgar. E la mamma aveva anche uno strano odore, che costringeva Edgar a sforzarsi di mantenere la compostezza che intuiva gli veniva richiesta in quel momento. La mamma disse dell'altro, ma le parole cominciarono a sembrargli sempre meno sensate. Vaneggiava di Gesù e di Dio, della carità e della forza, dell'amore e dell'onore, ma pronunciava anche parole che non avevano senso, in lunghi e febbrili sussurri. Alla fine, Eliza Poe non parlò più. Una donna le tastò il polso, poi le avvicinò uno specchietto al volto e alle narici. «Dio la benedica, e rendiamo grazie a Dio», dichiarò con tono flemmatico. «Se n'è andata in serenità.»
Fanny Allan si abbandonò a un pianto sommesso, ma il volto di John Allan era duro come quello di una statua. «E così ci ha affibbiato il moccioso di mezzo», mormorò. Edgar non capiva. Perché dicevano che se n'era andata? La mamma non era andata da nessuna parte! Non era andata in paradiso a trovare Gesù. Era lì... bella come sempre. Dormiva... non lo vedevano? Stava solo dormendo! «Edgar, William», chiamò Fanny Allan. «Vostra madre se n'è andata. Ora datele un bacio per rendere con il vostro amore il suo viaggio più rapido.» Diligentemente, William si avvicinò al letto, si chinò e baciò la madre sulle labbra. Sembrava rapito, in trance. Poi toccò a Edgar. Dovettero aiutarlo a salire sul letto. Guardò il volto pallido della madre e disse: «Mamma, svegliati». «Accidenti a te, bambino», ringhiò John Allan. «È morta. Non vedi? Ora baciala e facciamola finita. Ho un appuntamento di lavoro che mi aspetta.» Alla voce tuonante di John Allan Edgar si fece piccolo per la paura. Toccò il viso della madre. Stranamente, sembrava più caldo di prima. Le baciò le labbra e anch'esse erano molto calde. «D'accordo, mamma», sussurrò. «Non svelerò a nessuno che stai facendo finta.» Poi udì un improvviso ticchettio. Si voltò a guardare la finestra. Sul davanzale, dall'altra parte del vetro, si era posato il corvo. Aveva allargato le ali, impedendo a quel poco di luce che si faceva strada attraverso il cielo coperto di penetrare nella stanza. Il rumore delle penne sbattute contro la finestra si unì a quello degli artigli sui mattoni e al picchiettio del becco sul vetro, poi si librò in volo, scomparendo ancora una volta nel cielo plumbeo e nuvoloso. «Guarda, mamma!» esclamò Edgar Poe. «Gliel'avevo detto! L'avevo detto a tutti... Un grande uccello nero!» Ma sua madre non rispose. E non parlò mai più, né lo avrebbe più abbracciato o baciato, né avrebbe sorriso per lui o cantato ridendo le sue meravigliose canzoni. Mai. Mai. Mai più. «Mai più», mormorò Donald Marquette.
Si destò, ansimante. Era disorientato. Il sogno. Aveva di nuovo fatto quel maledetto sogno. «Poe», disse, allungando una mano a prendere il bicchiere d'acqua sul comodino. «Non ne posso più di Poe.» Coscienza sporca? Forse. Respinse con forza il pensiero. C'erano un sacco di cose da fare, imprese difficili da portare a termine se intendeva raggiungere i suoi obiettivi. I sensi di colpa erano un lusso che non poteva permettersi. Il bicchiere era freddo. Sorseggiò il liquido che conteneva... ... e lo sputò fuori. Maledizione! Aveva il sapore del sangue. 20 Prendi questo bacio sulla fronte! E, ora che dobbiamo separarci, Lascia che ti dica... Non ti sbagli, quando affermi Che i miei giorni sono stati un sogno; Eppure se la speranza è volata via In una notte o in un giorno, In una visione o nel nulla, È forse per questo meno perduta? Tutto quel che vediamo o sembriamo Non è che un sogno in un sogno. EDGAR A. POE, «Un sogno in un sogno» Amy Blessing era in cucina curva su una tazza di caffè caldo quando suonarono alla porta. Amy non aveva mai amato granché il caffè prima dell'uccisione di William. Aveva preferito di gran lunga il tè. L'anno prima lei e Bill erano tornati da un viaggio in Inghilterra carichi di tè di ogni tipo e qualità, acquistato da Fortnum e Mason's a Londra. Darjeeling, Earl Grey, Lapsang Suchong, English Breakfast e molti altri, conservati in splendidi barattoli di latta. Aveva in casa anche tè proveniente da diverse province indiane e ci-
nesi, tè meraviglioso, di prima qualità, estremamente caro. Ma ora beveva soprattutto caffè. Quando ne beveva una tazza fatta con chicchi di caffè appena macinati si sentiva scaldare e rinvigorire... e si sentiva vicina a Bill. Sorseggiava l'aromatica bevanda addolcita con un'ombra di zucchero e un goccio di latte, chiudeva gli occhi ed era di nuovo con lui. Il ricordo del suo dopobarba muschiato le sembrava più vivo, come il suono della sua voce, il sapore della sua pelle tra le lenzuola spiegazzate, la sua presenza che tanta sicurezza le aveva dato. Sapeva di essersi chiusa a riccio in se stessa, ma non conosceva altri metodi per affrontare la tremenda perdita che aveva subito. Alla conclusione di una brillante e divertente carriera di studentessa universitaria aveva nutrito progetti ben definiti per la sua vita. Il professor William Blessing era stata una sorpresa sconvolgente. La giovane discepola sarebbe inorridita al pensiero di sposare un uomo più vecchio di oltre vent'anni. Forse la parte di lui che era scrittore poteva esercitare un certo fascino sulla ragazza, ma la parte accademica? Per carità! Così borioso, teoretico, dolorosamente noioso... non era certo quello che aveva sognato. Affatto. Una vita passata ad attraversare gli oceani e a balzare di continente in continente, percuotendo appassionatamente i tasti del pianoforte e inseguita da eccitanti uomini stranieri con occhi di fuoco e un irrefrenabile bisogno di affondare le sensuali labbra nei suoi lunghi, morbidi capelli. Sì, era questo che aveva sognato. Poi, in seguito, si sarebbe sistemata, trovandosi un compagno con cui dividere il resto della vita e formare una famiglia; probabilmente un musicista. Qualcuno con cui duettare costantemente. William Blessing aveva naturalmente rappresentato un notevole scostamento dalla rotta stabilita, ma l'incontro con lui era apparso in tutto e per tutto giusto, per non dire addirittura predestinato. Ma il destino aveva evidentemente in serbo anche cose terribili. Se solo Bill avesse rinunciato a tenere la sua collezione di libri e cimeli di Poe in casa e avesse evitato di renderla di dominio pubblico. Se solo non avesse insistito per continuare a insegnare all'università e a vivere nel centro della città, indifeso e vulnerabile. Con tutto il denaro che aveva guadagnato avrebbero potuto vivere in una bella e grande casa in un quartiere protetto, lontani dalle minacce che assillavano chi non si allontanava dai virus umani di cui era ormai appestata la società... Se solo... Suonarono di nuovo alla porta.
Si avvicinò alla postazione di controllo. Dopo quella terribile sera, non essendo riuscito a convincerla ad abbandonare la sua casa, Donald aveva insistito perché Amy facesse potenziare il sistema di sicurezza. Era un'operazione costosa, ma l'aveva convinta affermando che c'era ancora molto denaro nel conto in banca, mentre la vita all'interno di quella casa era già stata dimezzata. Il centro nevralgico del nuovo sistema d'allarme (che comprendeva sbarre alle finestre e la garanzia di impenetrabilità del piano terreno e del seminterrato) era costituito da un sistema video per il monitoraggio di tutti gli ingressi e le finestre della casa, oltre che di buona parte dell'interno. Una delle postazioni di controllo era stata allestita in un angolo della cucina. Amy ci si avvicinò, stringendo la tazza di caffè in una mano come un talismano. Accese il monitor. Sullo schermo comparve un uomo con un cappello in testa, occhiali scuri e un lungo cappotto, il cui bavero era alzato e gli copriva il collo e parte del mento. La primavera a Baltimora era stata ventosa e fresca, ma certo non fredda al punto da richiedere un simile abbigliamento. Tuttavia, era mattino, gli indumenti e il cappello dell'uomo sembravano di ottima qualità e lui stesso appariva tutt'altro che minaccioso. Non c'era motivo di chiamare la polizia. Premette il tasto del citofono. «Sì?» domandò, con tono piatto. Era ancora in grado di suonare il pianoforte, ma non riusciva a raccogliere energie sufficienti per restituire alla sua voce la musicalità perduta. «Signora Amy Blessing?» indagò l'uomo. La voce era roca e smorzata, ma al tempo stesso stranamente familiare. «Sì.» «Mi chiedo se sarebbe così gentile da... avrei bisogno di parlarle.» «Mi dica.» «Di persona.» Un brivido di paura le corse lungo la schiena. Quella notte, quando Bill aveva aperto la porta... Erano le undici meno un quarto del mattino. Donald era arrivato di buon'ora e si era messo al lavoro nel suo ufficio, ma poi aveva ricevuto una telefonata ed era dovuto uscire per un incontro d'affari, o così aveva detto. Ora era sola in casa e non aveva alcuna intenzione di andare alla porta d'ingresso a parlare di persona con nessuno. Non avrebbe rinunciato alla sicurezza offertale dalle due spesse porte e dalle molte serrature che la pro-
teggevano dal mondo esterno. «Temo che...» «Capisco la condizione in cui si trova», la interruppe l'uomo. «Dopo la... tragedia da cui è stata recentemente colpita, è giusto che lei sia molto prudente. Tuttavia, le posso assicurare che non intendo affatto farle del male. Sono venuto da... molto lontano... per parlare con lei.» La voce dell'uomo, in precedenza piuttosto distaccata e fredda, sembrò colmarsi di emozione. «Chi è lei?» «Sono... sono Delmore Blessing.» «È un parente di Bill? Non ho mai sentito nominare alcun Delmore... Bill non mi ha mai detto di avere un parente che...» «Sono... un cugino di secondo grado, qualche anno più anziano di lui. I nostri contatti erano piuttosto... sporadici, purtroppo. Ma eravamo in contatto per corrispondenza e condividevamo l'uno con l'altro i nostri sentimenti e i nostri segreti. Io e suo marito avevamo un rapporto di immensa fiducia reciproca.» Fece una pausa. «Devo parlare con lei... a proposito di alcune cose.» Era indecisa. Esitò. «Come posso avere la certezza che lei è davvero il cugino di mio marito? Chi me lo garantisce? Non ho mai trovato lettere firmate da lei e non ricordo che ci abbia mai chiamato al telefono.» «Lei può chiedermi ciò che vuole sul conto di William Blessing e io farò del mio meglio per risponderle. Ma per prima cosa devo avvertirla che dispongo di pochissimo tempo. Potrei cominciare dicendole che... suo marito... l'amava moltissimo. Mi ha raccontato che in occasione del vostro ultimo anniversario di matrimonio le ha regalato una poesia che aveva scritto per lei, e che alla fine di ogni mese le forniva un indizio per la risoluzione dell'indovinello posto dalla poesia. La poesia l'avrebbe condotta in un posto segreto, dove avrebbe trovato un tesoro. Un tesoro d'amore.» Il cuore di Amy cominciò a battere più forte. Il ricordo di quella poesia provocò la rottura di qualcosa nel suo animo. Da quella falla il dolore sgorgò copioso, inondandola. Ma insieme con esso sgorgò anche una gioia infinita... Si rese conto di avere la vista appannata dalle lacrime. Non piangeva dal giorno del funerale di William Blessing. E sebbene le lacrime sembrassero bruciarle le guance, le accolse con gratitudine, perché costituivano la prova che era di nuovo in grado di provare emozioni. «Lei... lei sa di quella poesia. Nessuno ne sapeva nulla. Com'è possibi-
le?» «Fui io a iniziarlo a scrivere poesie», spiegò l'uomo che aveva detto di chiamarsi Delmore Blessing. «E gli diedi anche qualche lezione di prosa, quando cominciò a scrivere. Fui io a regalargli il primo libro di racconti e poesie di Edgar Allan Poe. Come vede... eravamo molto... molto intimi anni fa.» Nessun altro al mondo poteva essere a conoscenza dell'esistenza di quella poesia. Ora, a rigor di logica, avrebbe dovuto domandare al misterioso parente di William come mai non aveva chiamato prima per annunciare il suo arrivo. Non aveva mai neppure sentito parlare di lui. Ma il pover'uomo sembrava a disagio là fuori. Ed era stato in rapporti molto stretti con William. Doveva per forza essere così. E stare in compagnia di quell'uomo non sarebbe forse stato come avvicinarsi di nuovo al suo adorato marito morto? «D'accordo», disse. «Le credo. Arrivo.» Spense il monitor e andò alla porta d'ingresso per consentire a quello strano ma meraviglioso uomo di entrare. 21 Una oscura e insondata marea Di interminabile orgoglio Un mistero, e un sogno, Deve apparire la mia vita passata. EDGAR A. POE, «Imitation» «Tutto questo è terribile e sconcertante», disse Donald Marquette. «Devo ammettere che non ho mai visto o anche solo sentito parlare di nulla di simile», affermò il poliziotto. «Ma il mondo è pieno di pazzi. Bisogna aspettarsene di tutti i colori. La realtà è più strana della finzione, glielo dico io.» «Chi altro è al corrente di quanto è accaduto?» domandò Marquette, avvertendo lungo la spina dorsale una strana e inquietante sensazione di catene trascinate sulla pelle. «Solo i guardiani.» «E dov'erano quando è successo?»
Il poliziotto si chiamava Daniels. Aveva una ciambella di grasso attorno alla vita e la sua camicia azzurra era macchiata da chiazze di sudore. Aveva un grumo di moccio che gli pendeva da una narice. Il meglio di Baltimora, pensò Marquette. «È questa la cosa strana, signor Marquette. Questo cimitero ha un servizio di prim'ordine. Voglio dire, è il cimitero in cui è sepolto Edgar Allan Poe, mi capisce? Ma quelli della sicurezza, i guardiani di turno ieri notte, con cui ho parlato, non hanno visto niente di niente.» Marquette abbassò gli occhi al terreno. Era come se nella tomba fosse stata scavata un fossa e poi frettolosamente colmata alla buona. Blocchi e agglomerati di terra spuntavano dal prato dissestato e formavano una traccia che conduceva al cancello del cimitero. La nuova, risplendente, costosa croce celtica sulla tomba era intatta e non aveva subito alcun danneggiamento. Strano. Se di atto di vandalismo si era trattato, la croce avrebbe dovuto essere il primo obiettivo. «Avete esaminato la bara?» «No. Dobbiamo disseppellirla. È per questo che l'abbiamo chiamata. Volevamo sapere se lei ha sospetti su chi possa aver tentato di riesumare e trafugare il corpo del signore Blessing. Sa, essendo uno scrittore horror... avrà certamente avuto un sacco di fan strani. Ho sentito dire che una volta quell'altro scrittore, Stephen King, stava firmando autografi quando un tizio gli si avvicina, si taglia il palmo della mano e chiede a King di firmare il suo libro con il sangue.» «Era Clive Barker», lo corresse Marquette. «Davvero? Cazzo, sapevo che era un suo fan, ma arrivare a quel punto...» «No, intendo dire che era Clive Barker che stava firmando le copie di un suo libro.» L'avevano chiamato quel mattino per informarlo della profanazione della tomba di Blessing. Meno male che gli idioti non avevano fatto in tempo a parlare con Amy. Si era recato subito sul posto per vedere quanto era accaduto, dicendo a Amy che si trattava di un impegno di lavoro. Il genere di impegni di cui si farebbe volentieri a meno. «Ah, certo. Comunque io non leggo quelle cose. A me piacciono i gialli tradizionali, sa? Mi piace leggere di cose vere. Capisce cosa intendo?» «Be', immagino che dovremo riesumare la bara per accertarci che non sia stata danneggiata e che non siano state toccate le spoglie del dottor Blessing», disse Marquette. «Ma questo non rientra nei compiti della polizia, signore.»
«Mi rivolgerò alla direzione del cimitero per organizzare la cosa. Nel caso ci fossero delle spese, verranno fatturate alla Fondazione Blessing. Intanto vorrei ringraziarla, agente, per averci avvertito immediatamente di questo brutto affare.» «Non c'è di che. Dovere.» «Svolto con meticolosità.» Il poliziotto tornò mollemente alla sua auto e si allontanò, certamente diretto alla più vicina rivendita di ciambelle per la pausa pranzo. Donald Marquette andò a parlare con gli amministratori del cimitero. Poiché all'esterno non c'era alcun segno evidente che qualcosa fosse effettivamente stato rimosso dalla tomba, la riesumazione avrebbe comportato un costo. Marquette non protestò. Avrebbero provveduto il mattino seguente. Marquette avrebbe voluto che la faccenda venisse risolta molto più celermente, ma l'idea di afferrare personalmente una vanga e darsi da fare subito non era certo allettante. Una volta accordatosi con la direzione del cimitero, trovò una cabina telefonica e chiamò Baxter Brittle. Baxter non si trovava in ufficio alla Tome Publishing, il che non era sorprendente. Marquette riprovò componendo il numero di casa e gli rispose una segreteria telefonica. Anche in questo caso, nessuna sorpresa. Era molto presto per Baxter. Tuttavia, c'era un altro sistema per contattarlo senza andare fisicamente a casa sua e tirarlo giù dal letto. Dopo quella terribile, ma in ultima analisi meravigliosa notte in cui tutto era cambiato, Marquette aveva convinto Baxter della necessità di stabilire tra loro un canale di collegamento immediato e sempre aperto, nel caso in cui ci fossero stati sviluppi imprevedibili. Avevano fatto installare linee telefoniche speciali e avevano acquistato telefoni cellulari. Baxter odiava il suo telefonino e aveva chiesto esplicitamente a Marquette di tentare tutti gli altri mezzi di comunicazione prima di ricorrere al cellulare. Da parte sua, Brittle si era impegnato a tenerlo sempre acceso. Ventiquattr'ore su ventiquattro. Non avrebbe mai toccato l'interruttore dell'apparecchio. Non l'avrebbe sepolto sotto cumuli di cuscini. Né l'avrebbe mai semplicemente ignorato (improbabile, dal momento che Marquette si era accertato di acquistare il modello dotato della suoneria più fastidiosa). Marquette affondò la mano in una tasca interna della giacca e ne tirò fuori il cellulare. Aprì lo sportellino. Premette il tasto programmato per se-
lezionare automaticamente il numero di Baxter. Squillò ripetutamente, ma alla fine la voce di Baxter, distorta e roca, giunse dall'altro capo. «Dimmi, mio caro.» «Baxter, sei sobrio?» domandò Marquette. «Ho un mal di testa pazzesco per le bevute di ieri sera. Mi ci vuole un goccio e una pastiglia, dopodiché sarò lucidissimo. Torno subito.» «No. Aspetta. Devo parlarti.» «D'accordo. Si tratta di qualcosa di molto importante, presumo.» «Se così non fosse non ti avrei disturbato, Baxter. Io sono uno che mantiene la parola.» «Mi fa piacere. Mi dispiace solo che ci siano problemi. Che succede?» «Mick e Theodore sono tornati in città, vero?» «Sì. Come ti ho detto la settimana scorsa. Sono tornati dalla loro avventura nei Caraibi in splendida forma e abbronzati.» «Avrei comunque preferito che non fossero tornati qui a Baltimora.» Quando parlavano al telefono si premuravano sempre di non parlare in termini troppo espliciti, tenendosi il più possibile nel vago. La paranoia era una condizione utile quando si era costretti a gestire questioni delicate come la copertura di un furto degenerato in un omicidio. «Hanno comunque una loro utilità.» Il fastidio che i postumi della sbornia provocavano a Baxter Brittle cominciavano a trasparire nella sua voce, insieme con una certa irritazione. «Ti prego di venire al sodo, mio caro ragazzo.» «Una certa tomba è stata profanata. Volevo solo assicurarmi che certi nostri amici non siano dediti a simili preoccupanti attività.» Una pausa di silenzio. Poi una breve risata. «Forse l'occupante è risorto il terzo giorno per ascendere al cielo. Ho sempre pensato che soffrisse di un complesso di superiorità. Credeva di essere Gesù Cristo.» La replica di Marquette fu dura. «Non è il momento adatto per le tue battute di pessimo gusto, Baxter. Voglio che indaghi. Mi hai capito?» «Certamente, mio caro. Tuttavia, non credo ci sia motivo di farsi prendere dal panico.» «Niente panico. Solo estrema prudenza.» «D'accordo, d'accordo. Ora posso andare a curare i miei dolori?» «Sì, ma richiamami. E al più presto.»
«Devo usare questo odioso aggeggio?» «No. Mi troverai in ufficio.» «La prima buona notizia della giornata. Ciao.» Marquette spense il telefonino. Si ritrovò a tornare in direzione del cimitero e della tomba profanata. Sostò pensierosamente accanto alla croce, fissando il prato e la terra dissestata. Marquette scosse la testa e rise. Quell'episodio aveva fatto nascere in lui un'idea fantastica per un racconto dell'orrore. Si sentiva molto meglio. Tornò in direzione della sua auto, la mani infilate nelle comode tasche foderate di seta della giacca sportiva italiana. 22 Molti e molti anni fa, In un regno in riva al mare, Viveva una fanciulla che forse conoscete con il nome di Annabel Lee; E questa fanciulla viveva con l'unico pensiero Di amare ed essere amata da me. EDGAR A. POE, «Annabel Lee» Il dottor William Blessing, risorto dalla tomba, stava in piedi davanti alla porta della casa dove un tempo era vissuto, in attesa che i viventi rispondessero al citofono. Il corvo era scomparso e non si era più fatto vedere. Tanto meglio. Dopo una miserevole notte trascorsa sulla panchina di un parco, era tornato da lui stringendo nel becco altre banconote da cento dollari. Le aveva usate per comprare vestiti nuovi e del trucco in uno dei grandi magazzini del centro. Guardando nello specchio del bagno degli uomini, gli occhi fissi sulla pelle squamata e spaccata del suo volto di cadavere, si era applicato uno strato di fondo tinta. Poi, seguendo uno strano istinto, si era disegnato sul volto con la matita nera un sorriso clownesco e stelle da pagliaccio attorno agli occhi. Dopo una pausa di riflessione aveva deciso che quello non era un trave-
stimento ideale. Si era rassegnato a usare altro fondo tinta per coprire le cicatrici e le lacerazioni più profonde. Il lavoretto con la carne fresca eseguito la sera precedente aveva contribuito a riempire le spaccature attorno al naso martoriato. Tuttavia, nonostante il fondo tinta, dimostrava più anni di quelli che aveva avuto al momento della morte. Di conseguenza, dall'estinto William Blessing era stato portato alla vita (apparentemente) Delmore Blessing, cugino lontano ma intimo (per corrispondenza). Ora, sui gradini là fuori, in attesa che si aprisse la porta, quel che rimaneva o che ora stava al posto del suo cuore sembrò battere più forte. L'emozione di rivedere Amy era intensa. Il suono della sua voce al citofono lo aveva quasi paralizzato. Era grato di essere riuscito a parlare e a raccontare la sua storia, oltretutto in modo sincero. Fortunatamente il suo aspetto e la sua voce erano cambiati a sufficienza da permettergli di nascondere la vera identità. Stai calmo, si esortò. Questo incontro deve avvenire esclusivamente allo scopo di ottenere informazioni. Ma che strazio! La sua voce era stata così dolce e triste. Aveva provato il folle impulso di dirle la verità. Amy! Sono tornato! Sono risorto dalla morte per fare giustizia! Ma sapeva che non era possibile. Aveva già dovuto lasciarla una volta, contro la sua volontà. Come poteva dirle chi era sapendo che poi avrebbe dovuto separarsi nuovamente da lei... Quando? Presto. Molto presto. La porta si aprì. La vide affacciarsi cautamente all'ingresso, la catenella di sicurezza ancora agganciata. Oh, quanto era bella! Venne travolto da una tale ondata di emozioni che temette di sentirsi spezzare il cuore. Rimase il più distante possibile dalla porta, la mani, vuote, in vista lungo i fianchi. Le rivolse un cenno con il capo. «Buongiorno.» «Buongiorno», rispose lei, esitante. «La ringrazio infinitamente per essersi fidata di me», disse. «E devo
scusarmi di non averla avvertita del mio arrivo a Baltimora. La verità è che fino a ieri sera non sapevo neppure io che oggi sarei stato in città. Ho pensato che poteva essere il momento opportuno per presentarmi a lei, spiegarle chi sono e in che modo potrebbe essermi di aiuto... e in che modo potrei essere io di aiuto a lei.» «Vorrei solo che William... Bill... mi avesse detto di avere un cugino... con il quale si scriveva... e al quale confidava segreti tanto personali.» «Sono in imbarazzo. Ma vede, è necessario che le dica queste cose... per convincerla che non le voglio fare del male.» Sorrise, e sentì il trucco che gli copriva il volto e la pelle secca e tirata screpolarsi al movimento dei muscoli facciali. «Farmi del male? No, certo che no. È solo che...» «Mi creda, la capisco perfettamente.» «Entri, la prego.» «Grazie.» Sganciò la catenella di sicurezza alla porta e si scostò di lato. Mentre varcava la soglia dovette appellarsi a tutta la forza di volontà in ogni fibra del suo essere per resistere all'impulso di abbracciarla. Voleva stringerla a sé, sentire di nuovo la vita tra le braccia. Sentire di nuovo vicino ciò che aveva perso. Entrò e si fermò nell'ingresso. Era stato sul punto di procedere automaticamente verso la cucina per prepararsi una tazza di caffè, ma si fermò, rimanendo obbedientemente in attesa di istruzioni. «Vuole una tazza di tè o di caffè?» offrì Amy. «Sì, grazie.» «Da questa parte.» Mentre superava lo choc di trovarsi di nuovo in presenza della donna che amava, Blessing dovette fare una constatazione. Non era più la stessa. Mancava una scintilla nel suo essere. Sembrava meno radiosa. Quella scintilla era stata spenta. E non c'era da sorprendersi. Sentì crescere di nuovo la rabbia. Non avrebbe rischiato di perdere pezzi lì, davanti a lei. La presenza di Amy e la rabbia che gli ardeva in corpo avrebbero fortificato la fermezza della sua volontà. Amy gli fece strada verso il tavolo della sala da pranzo. «Sto preparando del caffè. Una miscela keniota che mi piace molto. La vuole assaggiare?»
«Caffè e non tè?» domandò lui. Lo guardò, incuriosita. «Sì, perché?» «Oh, mi perdoni. È che William mi ha raccontato della sua passione per i tè esotici. È strano trovarla che beve quello che era stato il suo caffè preferito.» «Quando bevo caffè... mi sento più vicina a lui», spiegò. «E poi aiuta a tenermi sveglia. Ultimamente sto dormendo davvero troppo.» «Pare che dormire molto aiuti a superare i momenti difficili e a rimarginare le ferite», disse. «In ogni caso, una bella tazza di caffè va benissimo. Grazie.» Amy andò in cucina. Mentre aspettava che tornasse, seduto nella sua sala da pranzo, gli vennero le lacrime agli occhi. Non aveva mai veramente amato quella stanza. Aveva sempre pensato che avesse un aspetto troppo... troppo... americano. Preferiva di gran lunga le sale da pranzo in stile europeo. Eppure ora non c'era altro luogo al mondo dove avrebbe desiderato trovarsi. Blessing trattenne le lacrime. Amy tornò reggendo un vassoio, lo posò sul tavolo e si voltò a guardarlo. «Perché non si toglie gli occhiali?» «Ah... questi?» disse toccandosi gli occhiali da sole. «Sa, ho gli occhi... molto sensibili alla luce.» «Come Vincent Price nella Tomba di Ligeia», rispose lei quasi senza pensare. «Ah, ehm, sì. Certo, uno dei classici film di Roger Corman tratti da Poe», puntualizzò Blessing. Amy prese a versare il caffè. «Secondo Bill, uno dei migliori.» «Già. Sceneggiatura scritta da Robert Towne e non da Richard Matheson, l'autore più comunemente associato al ciclo di film di Corman ispirati a Poe. Devo confessare che la versione resa da Charles Beaumont del Palazzo stregato è da sempre una delle mie preferite.» Blessing, senza accorgersene, rise. «Ma molto probabilmente questo è dovuto al fatto che il film, in realtà, era tratto da un vecchio racconto di H.P. Lovecraft.» «Ma a lei piace Poe, non è vero?» «Come le ho detto prima, fui io a introdurre William a...» «Il film che ci divertiva di più guardare assieme era forse Il corvo nella versione di Corman... benché anche in questo caso il riferimento a Poe è piuttosto limitato», disse Amy. «Ma credo che Peter Lorre sia stato fanta-
stico nel ruolo del corvo.» «Sì, è vero. Devo ammettere, però, che gli uccelli parlanti mi hanno un po' stufato ultimamente», confessò Blessing. Versò un goccio di latte nella sua tazza. «Prende il caffè con il latte. Proprio come Bill.» «A quanto pare è un vizio di famiglia.» «In effetti c'è una forte somiglianza.» «Sì. Ce l'hanno fatto notare più volte quando uscivamo insieme.» Blessing beve un sorso. Sentiva il calore del liquido, ma non poteva gustarne il sapore. La sua rabbia crebbe. «Lei ha detto che vuole parlarmi.» «Sì. Io vivo a Vancouver, nella Columbia Britannica. Quando ho saputo della morte di William i funerali si erano già svolti... mi dispiace terribilmente di non esserci stato.» «In realtà anch'io era piuttosto assente durante la cerimonia», disse lei. «Forse avrei potuto darle un po' di conforto. La morte violenta e improvvisa di William ha lasciato molte cose non dette. Non so come andassero le cose tra voi in quel periodo... ma so solo che ogni volta che mi ha scritto nel corso degli ultimi anni William non sembrava in grado di parlare di altro che di lei... e dei suoi sentimenti per lei. L'amava moltissimo.» «Non c'è bisogno che lei me lo rammenti. Lo so. Non ho mai dubitato del suo amore...» Sospirò. «Anch'io lo amavo. E lo amo ancora.» «L'amore trascende la morte.» «Sì. Ora lo so.» Ci fu una pausa di silenzio. «William aveva sempre sperato di poter condividere tutto con lei», riprese alla fine Blessing. «Ma mi confidò che c'erano molte cose nella sua vita di cui non aveva mai parlato con lei. Nulla di terribilmente eccitante... Solo dettagli, mi capisce? Io credo di essere qui per colmare le piccole lacune. Sono qui per raccontarle di alcune cose, cose piccole, certo, ma forse importanti, a proposito di suo marito.» Sospirò. «Mi rendo conto che se tutto questo è troppo doloroso...» Si sforzò di alzare lo sguardo. Amy Blessing lo stava fissando. C'era una luce nei suoi occhi. Una luce che prima non c'era stata. «Sì. Sì... mi piacerebbe», disse. «Continui, la prego.» Blessing bevve un sorso di caffè. Raccontò alla moglie cose di sé che non le aveva mai confidato, che era stato troppo impegnato per dirle. La
loro vita insieme in qualche modo era stata lasciata incompleta, assolutamente senza alcuna reale necessità. Lui l'aveva amata molto, ma non era mai stato bravo a confidarsi; ora era deciso a lasciarle una parte più grande di sé. Le raccontò di alcuni fallimenti, di come i suoi primi racconti erano stati rifiutati da vari editori. Di un brutto anno all'università, prima di avere la certezza di voler dedicare la propria vita alla missione letteraria che sentiva di dover portare a termine. Le raccontò delle difficoltà di rapporti che aveva avuto con alcune persone, delle cose sciocche e stupide che aveva fatto. Le aveva raccontato tutte le cose belle nel corso del loro breve, troppo breve, matrimonio. Ma da vivo non aveva rivelato tutti i suoi difetti e le sue debolezze; ora riteneva di non essere stato giusto nei suoi confronti. Amy doveva ricordarlo per quello che era realmente stato. Finalmente, un'ora più tardi, rendendosi conto che aveva ancora molto da dire, ma che questo gli era impedito da una grande stanchezza d'animo, si interruppe. «Mi dispiace. È tutto quello che riesco a ricordare in questo momento», disse. «Ci sono certamente altre cose che William mi ha raccontato... ma forse potrò parlargliene in un'altra occasione.» La guardò di nuovo, temendo di vedere sul suo volto un'espressione di disappunto. Disappunto per l'uomo pieno di difetti che aveva sposato. Forse anche un po' sollevata di essere stata liberata dal peso di dover trascorrere con lui un'intera vita. Invece, sembrava felice, nonostante il velo di lacrime negli occhi. «Grazie. Questo è davvero... molto importante per me», disse. «Ora, in qualche modo, sento... di conoscere Bill ancora meglio.» Lui annuì. «Bene.» «Ma lei deve rimanere! Può riposare, se desidera... ci sono diverse camere degli ospiti al piano di sopra.» «No. Ho preso una stanza in un albergo qui a Baltimora.» «La prego! Lasci la camera e venga a stare qui con me!» «Temo di non poterlo fare. E la prego di non chiedermi per quale motivo.» «D'accordo. Come preferisce.» «Ora devo andare. La chiamerò. Così le dirò quando potrò tornare.» «Non vedo l'ora.» «Un'ultima cosa. Durante la mia permanenza in città vorrei contattare alcune persone. Per questioni personali. Legate alla letteratura. Mi riferisco
a persone coinvolte in un'operazione commerciale che se non sbaglio si chiama Tome Press.» «Ah, certo! La Tome Press. Naturalmente. Il mio amico e socio Donald Marquette lavora a stretto contatto con loro. Lui potrà certamente aiutarla.» «Il problema è che devo muovermi con molta cautela. Non posso spiegarle perché in questo momento. Ma lei deve fidarsi di me. È per questo che sono stato così felice di poter parlare con lei come abbiamo fatto oggi, Amy. La prego di portare pazienza. Preferirei ottenere alcune informazioni direttamente da lei e non coinvolgere altre persone.» Apparve confusa, ma annuì. «Va bene. Se è questo il prezzo che devo pagare per ascoltare altri meravigliosi racconti a proposito di William, che sia.» «È in grado di dirmi come posso contattare queste persone?» «Sì. Ho dei biglietti da visita che mi hanno lasciato. È stato proprio di recente, durante una cena.» «Se potesse prestarmeli...» «Ma certo. Io non saprei che farne. Le occorrono ora?» «Sì. Purtroppo devo andare.» «Molto bene.» Andò nel suo ufficio e ne tornò con una serie di biglietti da visita, tutti decorati con simboli dell'occulto in rilievo. Lui li prese e si alzò per andarsene. Era faticoso e doloroso, ma si sentiva andare in pezzi. Doveva allontanarsi prima che le lacerazioni della decomposizione si facessero troppo profonde. «La ringrazio infinitamente...» «Sono io che ringrazio lei», rispose Amy, e prima che avesse il tempo di dire o fare altro lo abbracciò. La carne calda e morbida della moglie contro la sua ebbe l'effetto di una scarica elettrica. Il suo profumo, il profumo di talco misto all'odore di femmina, lo scosse come nessuna esperienza spirituale o fisica avesse mai fatto prima. Era soffice e tenera, sentiva i riccioli dei capelli sfiorargli la guancia e la vita che era in lei pulsava come una febbrile dinamo di possibilità, di meraviglie, di luce sconfinata in un universo oscuro e nichilista. Per un attimo temette che si sarebbe letteralmente dissolto in una pozza di lacrime. Riuscì a farsi forza e a rimanere imperturbabile. «Sono così contenta che sia venuto», gli disse. «Mi prometta che torne-
rà.» «Glielo prometto.» Si staccò delicatamente da Amy e si congedò, sentendo il commiato di Amy riecheggiare nella sua mente come le ultime note di una splendida sinfonia. Si ritrovò a camminare senza meta precisa lungo la strada, stringendo tra le dita i biglietti da visita che lei gli aveva dato. Provava un senso di vertigine. Era forse la luce del sole? Non lo sapeva. Si sentiva come un cittadino della notte, dissotterrato e restituito alla luce... eppure la luce non bruciava e non lo corrodeva, come invece accadeva a Christopher Lee nei classici film della Hammer su Dracula. Stranamente, aveva la sensazione contraria, come se la luce del sole accrescesse il suo potere e la sua comprensione delle cose. Innegabilmente, ora era una creatura della notte. Ma questo non implicava l'odio per il giorno. Alla fine si ritrovò nel campus della Johns Hopkins University. Si sedette su una panchina all'ombra di un albero. Guardò distrattamente gli studenti che passavano. Riconobbe alcuni ragazzi e ragazze. Suoi studenti. Dio, quant'erano giovani e freschi e pieni di energia. Ora si pentiva di quanto era stato duro con alcuni di loro, e quanto poco si era sforzato di conoscerli. Forse, se avesse cercato di comprenderli, loro avrebbero capito meglio lui. Avrebbe potuto trincerarsi nella vita dell'ateneo, quella sacra e prestigiosa istituzione. E scrivere celandosi dietro uno pseudonimo. Avrebbe potuto evitare l'assurdità della morte e della resurrezione. Avrebbe dovuto mettere su famiglia. Una famiglia normale. Un giovane con un libro di Dean Koontz in edizione tascabile in una mano e una bibita nell'altra si sistemò contro il tronco di un albero. Cominciò a sfogliare attentamente il libro, cercando la pagina a cui era arrivato, poi si immerse nella lettura. Lentamente, mentre osservava il ragazzo, in Blessing si fece strada una consapevolezza: somigliava in qualche modo a Amy, con i suoi capelli ricci, le sopracciglia scure e la forma del mento. E per altri versi somigliava a William Blessing. Quello studente avrebbe potuto essere loro figlio. Stringendo i biglietti da visita nella mano, Blessing dovette alzarsi dalla panchina e allontanarsi, pronto a battere zone più desolate e malfamate della città, ricordando quali erano state le intenzioni sue e di Amy quella sera, prima che su di loro si abbattessero violenza e atrocità.
Pagheranno! si disse. Il riscatto passerà attraverso la vendetta. 23 Non potevo più avere dubbi sulla condanna preparata per me dall'ingegnosità monacale nella tortura. Gli inquisitori si erano accorti della mia consapevolezza del pozzo - quel pozzo i cui orrori erano stati destinati a un ribelle audace quale ero io - il pozzo, ispirato dall'inferno, e generalmente considerato l'Ultima Thule di tutti i loro supplizi. EDGAR A. POE, Il pozzo e il pendolo La Croce era un nuovo locale notturno. Uno di quei locali nati altrove, che per un periodo attecchiscono al pulsare della musica da discoteca in un delirio di brillantini e amfetamine, vengono alimentati dall'alcol e dalle infinite ore notturne, e sono probabilmente destinati a procedere oltre per cambiare indirizzo o semplicemente a morire di una morte spastica e innaturale. Si trovava in fondo a un vicolo nel cuore della downtown di Baltimora, stretta tra edifici per uffici, negozi e ristoranti la cui chiusura notturna era già cominciata da parecchie ore. Un quartiere tutt'altro che residenziale. Nascosto in un canyon di cemento armato, il locale permetteva a chi lo frequentava di produrre rumore terribile e sfrenato fino all'alba. In assenza di quiete pubblica da disturbare, non c'era alcun pericolo di venire accusati di comportamenti delittuosi. O comunque, non di quel genere. Al capo opposto dell'ingresso c'era un'uscita di sicurezza. In teoria doveva essere aperta solo in caso di emergenza, ma quella sera, come accadeva spesso quando l'interno del locale si faceva troppo caldo, o i bagni ansimavano troppo colmi di attività carnali, uno degli avventori uscì nello spazio fresco e buio che lungo alcuni gradini di pietra conduceva in un vicolo parallelo a quello dell'ingresso principale. Era Evelyn Nichol, Marchese de la Cinque per i suoi confratelli. Dio mio, pensò forando con il volto madido di sudore l'aria fresca della notte. Fa caldo là dentro per essere un giorno feriale. Evelyn tirò fuori un pacchetto di Virginia Slims dall'elegante pochette nera su un lato della sua giacca di plastica rossa e la accese con uno zippo
decorato da un testa di morto. Contribuì all'inquinamento dell'aria di Baltimora soffiando fumo nel vicolo già invaso dalla foschia, surreale nella sua evanescenza. Gli girava la testa. Troppe luci stroboscopiche. Troppa musica martellante, aggressiva e cattiva: NIN, Prodigy, Ministry e tutti gli altri, un trapanante megamix di rabbia e disperazione. Troppe droghe, troppo alcol e troppi balli. Cercò di rilassarsi, ondeggiando sui tacchi a spillo, lasciando che l'aria fresca gli risalisse sotto la minigonna e abbassasse la temperatura delle strette, strettissime mutandine. Si lisciò amorevolmente le calze di nylon, ammirandosi di nuovo i polpacci perfettamente torniti e le caviglie sottili. La cosa strana era che, sebbene personalmente avesse una preferenza per gli uomini, il Marchese stava molto meglio quando era vestito da donna. Soprattutto quando si truccava. Possedeva una rara qualità che lo collocava a metà strada tra un transessuale e un travestito. Sì, era solito ammettere con allegria, il Rocky Horror ha avuto un grosso impatto sulla mia adolescenza. Un tempo, prima dell'incontro con i Goths, Evelyn Nichol si era procurato buona parte del suo reddito prostituendosi. Adescare gli uomini era facile e fingere di essere una donna era sempre divertente. Ma in ultimo si trattava di una pratica rozza, rancida e schifosa, con la costante minaccia della malattia che ti pendeva sulla testa. Di conseguenza, quando alla Tome Press aveva cominciato a guadagnare denaro a sufficienza per comprarsi i vestiti che desiderava, aveva smesso di battere. Gli piaceva sedurre e flirtare, ma aveva dato un taglio alle mani palpanti e ai grugniti baritonali, al selvaggio commercio dell'amore. Sì! esultò tra sé alzando le braccia al cielo come a riceverne poteri latenti e nascosti. Un mondo nuovo si sta aprendo davanti a me! Sono stato troppo a lungo a terra con la faccia nel fango! Ora i miei occhi si volgono alle stelle! In realtà il Marchese stava conquistando una forma di potere completamente diversa. Stava scoprendo di possedere un certo talento nel campo dell'amministrazione contabile. Chi lo avrebbe mai detto! Alla Tome Press, il cui volume d'affari era in fortissima espansione e le regole comportamentali imposte ai dipendenti erano improntate alla più assoluta tolleranza, sarebbe potuto diventare un alto dirigente, contribuendo a guidare la società verso le eccitanti prospettive che sarebbero nate dalla sua associazione con l'eredità Blessing. Che botta di adrenalina quella fatidica sera
quando un ricco autore aveva trovato la morte e i Goths avevano finalmente potuto cominciare ad aspirare alla grandezza! Inoltre, era ancora libero di uscire e fare baldoria come gli pareva e piaceva. No. Errata corrige. Fare baldoria era obbligatorio! Fare baldoria rientrava nella filosofia stessa della Tome Press. La fetta di lavoro costituita dal traffico di droga gestito da Mick Prince implicava di per sé recarsi a cene e feste con selezionatissimi soci in affari. Era un giro meraviglioso, bizantino, eccitante ed esaltante, ma soprattutto incredibilmente redditizio. Dio, ora non solo aveva accesso alle droghe migliori... Ma anche ai vestiti da donna più belli! Che meravigliosa vita da sogno, pensò il Marchese, riempiendosi i polmoni del fumo denso e ricco del tabacco, per poi lasciarlo fuoriuscire attraverso le narici. E tutto questo per aver schiacciato come uno scarafaggio un arrogante figlio di puttana che si era montato a dismisura la testa. E poi c'era l'aspetto più oscuro della faccenda. Ma quella era una libera scelta. Non aveva dubbi che l'aumento delle entrate e l'accrescersi del successo della Tome fossero dovuti in parte alle pratiche dell'occulto. Ma la verità, rifletté, era che tutte quelle storie di satanismo e di venerazione dell'occulto erano di per sé divertenti. Il Marchese fece un sorriso e gettò via il mozzicone della sigaretta. Ora di tornare a fare quattro salti. E poi magari pescare un bel fisichino da portare a casa... «Signor DeMille», sussurrò rassettandosi la parrucca. «Sono pronta per il primo piano!» Allungò una mano verso la porta, pronto a rituffarsi nella fragorosa, deliziosa cacofonia, ma venne bloccato. Una mano calò dall'alto, si infilò nel dietro del suo vestito, lo afferrò per la parte posteriore del reggiseno e lo tirò verso l'alto. Il Marchese si sentì come se fosse stato uncinato dal gancio di una gru. Ebbe appena il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo che già era stato portato al livello della strada, trasportato oltre la ringhiera metallica. «Ehi, ma che...» Una seconda mano lo afferrò. Sentì un braccio stringersi attorno al collo e riuscire in qualche modo a
imbavagliarlo. Venne trascinato scalciante e ansimante prima lungo il vicolo, poi attraverso la strada deserta in cui sbucava. Il Marchese perse entrambi i tacchi a spillo. L'adrenalina si riversò a fiotti nel suo organismo. Era forse a causa dello spaccio di droga? C'era stato qualche malinteso, o qualche pagamento ritardato? Che diavolo stava succedendo? Sapeva che Mick Prince era rientrato in città. Era forse uno scherzo organizzato da lui? C'era un cattivo odore nell'aria. Odore di sangue, di carne andata a male, di putrefazione... Si accorse di essere stato trasportato in un cantiere, al cui ingresso era stato posto un cartello recante la scritta PERICOLO. Nella notte un bulldozer Caterpillar comparve alla sua vista come un gigantesco insetto a riposo. Nell'aria aleggiava l'odore di asfalto, di terra e di fogna. All'improvviso il Marchese si ritrovò a guardare nelle profondità di uno scavo stretto e buio. In fondo, molto, molto più giù, intravide vaghe forme di spuntoni stagliarsi verso l'alto dalle fondamenta in costruzione di un edificio. Il suo rapitore lo sospese sopra la voragine. «No!» gridò, la voce smorzata dal bavaglio. Ora penzolava, scalciante, sopra l'abisso. «E invece sì, Evelyn. Chiedo scusa: Marchese.» Il Marchese, colmo di terrore, con l'aria malsana proveniente dallo scavo che gli risaliva per le cosce inguainate nelle calze, riuscì in qualche modo a ricomporsi. Tentò di parlare, ma non riuscì a rendere comprensibili le sue parole a causa del bavaglio. Stava cercando di dire che aveva parecchi soldi nella pochette. Ma l'aggressore non sembrava interessato al denaro. «'Nella confusione'», recitò l'Uomo delle tenebre, «'in attesa di cadere, non compresi immediatamente una circostanza piuttosto spaventosa, la quale, tuttavia, pochi secondi più tardi, mentre ancora giacevo prono, catturò la mia attenzione. Era questa: il mio mento poggiava sul pavimento della prigione, ma le mie labbra e la parte superiore della testa, per quanto apparentemente a un livello inferiore rispetto al mento, non poggiavano su nulla. Allo stesso tempo la mia fronte sembrava immersa in un vapore appiccicoso e il particolare odore di muffe in decomposizione mi salì alle narici. Allungai in avanti un braccio e rabbrividii scoprendo di essere caduto esattamente sul ciglio di una fossa rotonda, per determinare le cui dimensioni, naturalmente, non possedevo al momento alcun mezzo. Tastando i mattoni appena al di sotto dell'apertura riuscii a liberarne un frammento e a
lasciarlo cadere nell'abisso. Per molti secondi ascoltai il riverbero dei suoi urti contro le pareti dello scavo; alla fine, dopo un notevole intervallo, udii il tetro suono del coccio che piombava in acqua, seguito da una forte serie di echi.'» «Mmm!» si lamentò il Marchese. «Sai perché ti sta accadendo questo, Marchese?» domandò l'Uomo delle tenebre. «No», rispose con voce soffocata il Marchese. «Be', devo decidere se dirtelo. Del resto, che tu lo sappia o no, qual è la differenza? Non sei che un brandello di penombra in un mare di oscurità, a mio modo di vedere.» L'Uomo delle tenebre rimase qualche istante in silenzio, come se stesse riflettendo. Il Marchese venne colto da un improvviso attacco di vertigini, nonostante evitasse di guardare in basso. Era come se avvertisse il vuoto sotto di lui. Finalmente, l'Uomo delle tenbre parlò. «Il passo che ti ho recitato. Sai da che cos'è tratto, Marchese? Facciamo così. Se mi dai la risposta esatta forse non cadrai troppo in basso stanotte. Che ne dici?» Il Marchese annuì freneticamente. L'Uomo delle tenebre piazzò i piedi sui bordi dello scavo. Cristo, quanto è forte questo, per tenermi sospeso così, pensò il Marchese. «Se urli ti mollo subito», avvertì l'Uomo delle tenebre, liberandolo dal bavaglio. «Ma prima dimmi una cosa, Marchese. Dove si trova il tuo bravo compagno Baxter Brittle in questa splendida serata?» «A casa. Nel suo bar.» «Come pensavo. Volevo solo una conferma. Allora, sentiamo la tua risposta. Da che cosa è tratto il passo che ti ho recitato?» Il Marchese rabbrividì. Un pezzo di asfalto si staccò dal bordo della voragine e cadde nel vuoto. «Un aiuto... dammi un aiuto.» «Hai delle belle pretese, sai? Diciamo che è tratto da... un famoso racconto dell'orrore.» Il Marchese batté le palpebre. Non aveva letto molti racconti dell'orrore in vita sua, un fatto che da
sempre cercava di nascondere agli altri Goths. Una preoccupazione che, a quanto pareva, ben presto non l'avrebbe più afflitto. «Ehm... Shining?» «Sbagliato», sentenziò l'Uomo delle tenebre. Gli rimise il bavaglio sulla bocca. E lasciò cadere la sua vittima nella voragine. Il Marchese piombò giù, urlando. Ebbe l'impressione di cadere per un tempo infinito. Ma all'improvviso impattò il fondo e fu come se dall'oscurità un maglio si fosse levato dal basso, centrandogli le budella. L'oscurità si tinse di rosso e il sipario, o meglio, la tendina del camerino, si chiuse di colpo. Quando riprese conoscenza, il Marchese avvertì un vago ma sconvolgente dolore, ma soprattutto una sensazione di vuoto sotto il petto. Si sentì bagnare il volto da onde successive di liquido. Rizzava di argilla e di acqua torbida e stagnante. Sentiva il sapore di sangue nella bocca. Tentò di muoversi, ma non ne fu in grado. Era come se un gigantesco tacco a spillo esercitasse pressione su di lui, inchiodandolo al suolo. Improvvisamente, a poche decine di centimetri dal suo volto, si accese un fiammifero. L'Uomo delle tenebre, il volto nascosto dalla penombra, lo fissò dall'alto. Riprese a citare: «'Sotto il mio sguardo la fessura si aprì rapidamente; spirò un vento feroce e vorticoso; l'intero globo del satellite si parò a un tratto alla mia vista; il mio cervello fu colto da vertigine mentre guardavo le possenti mura crollare e ridursi in polvere; poi un lungo, tumultuoso urlo risonò come la voce di migliaia di mari; e la profonda, oscura pozza ai miei piedi si richiuse mestamente e in silenzio sui resti di Casa Usher'». Il Marchese aprì la bocca. Sentì sgorgare il sangue. «Chi-sei?» «Non l'hai ancora capito? Quei libri che hai rubato... La tua parte del bottino... non ti ricorda niente?» domandò l'Uomo delle tenebre. «I libri di Poe», ansimò il Marchese. «Non darti pena. Li ho recuperati oggi. Ho i miei mezzi.» Il fiammifero si spense. Sullo sfondo del costante ronzio nelle sue orecchie, il Marchese udì uno squittio. Poi il rumore di qualcosa che strisciava. Si accese un secondo fiammifero. Stavolta era molto più vicino. «Non
mi hai ancora riconosciuto? Certo che no, come potresti. Probabilmente non hai mai incontrato un uomo tornato dalla morte per vendicarsi, non è così?» C'era qualcosa che squittiva nelle vicinanze, ai margini dell'area illuminata dalla luce intermittente gettata dal fiammifero. Il dolore ottuso nella testa del Marchese cedette il passo alla comprensione. Respinse con forza il pensiero appena si formò nella sua mente, ma il nome gli sfuggì comunque dalle labbra. «Blessing?» «Proprio così, Marchese. Proprio così. A quanto pare esistono davvero forze tese alla giustizia in questo universo... a patto che si desideri entrarne in possesso con sufficiente decisione.» Il Marchese girò la testa e tentò di nuovo di muoversi. Si guardò alle spalle e capì la ragione della sua forzata immobilità. Era impalato su una delle barre d'acciaio di rinforzo del cemento armato sul fondo dello scavo per le fondamenta nel quale era stato spinto. «Aiutami», implorò. «Chiama... i soccorsi... il nove... uno-uno...» ansimò. «Aiuto!» «Sai una cosa, Marchese? Il finale del racconto Il pozzo e il pendolo. Ti ricordi che cosa succede?» Il Marchese emise un lamento. «Certo che no. Tu non sai nulla di Poe. A te non frega niente di Poe. Quelle prime edizioni delle sue opere non hanno alcun significato per te, a parte il loro valore in dollari. Ebbene, Marchese, il protagonista del racconto è un prigioniero degli inquisitori spagnoli. Torquemada e gli altri. Rinchiuso in una cella, viene torturato con il pendolo... un oggetto affilato che oscilla avanti e indietro, avanti e indietro, mentre scende lentamente verso il basso. Poi c'è il pozzo. Lui rischia di cadere nel pozzo, capisci. Ma alla fine si salva... E io mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe accaduto se, invece, fosse caduto. Sarebbe stato trasportato via da un fiume sotterraneo? O sarebbe semplicemente rimasto lì, in agonia, divorato da topi di fogna con denti affilati come rasoi?» Il fiammifero si spense. Gli squittii e l'umido strisciare si fecero più forti. Il suono raspante di piccole zampe. «Ratti affamati», spiegò l'Uomo delle tenebre. «Buonanotte, Marchese. Sogni d'oro.» Qualcosa mordicchiò l'orecchio del Marchese.
Le grida smorzate erano musica per le sue orecchie. Più tenebrosa della musica dark e più dura della musica hardcore. Nel vicolo, Blessing si appoggiò al muro di mattoni e ascoltò, ricomponendosi, riacquistando energie. E facevano due: il Conte e il Marchese. Ne mancavano quattro. Una forma nera comparve dal cielo e si posò sulla sua spalla. «Corvo...» disse all'uccello. «Corvo... ora posso fare cose... ci sono forze... io mi tendo verso di loro... e posso controllarle...» Un ultimo, straziante urlo e poi dal fondo del baratro giunse solo silenzio, accompagnato da un alito di foschia, simile a spiriti in fuga. «Certo. Come ti avevo detto: tutto sta nella forza di volontà. È quella che tiene assieme le parti del tuo corpo», spiegò il corvo. «Forza di volontà allo stato puro. Il tuo amore sopravvive. E la tua rabbia...» Il corvo inclinò il becco e guardò in direzione dello scavo. «Mmm. Chissà se hanno lasciato qualcosa. Mi farei volentieri uno spuntino.» «Ho ancora... forza di volontà sufficiente... per affrontarne un altro stanotte?» domandò Blessing. «Come sarebbe? Spero proprio di sì. Sei in pista. Io direi di continuare.» «Non lo so... Io non...» Blessing si guardò le mani. «Ora sono un assassino.» «Direi piuttosto uno speciale messaggero intento a svolgere il lavoro dell'Universo; tutto qua», replicò il corvo. «Stai solo facendo quello che devi dare, sfruttando un'opportunità che alla maggior parte delle persone non si presenta mai. Per cui non farti prendere dal dubbio, amico, o ti si staccherà di nuovo il naso. E forse anche le orecchie. Vuoi rivedere Amy, non è così?» Blessing rimase in silenzio per alcuni, lunghi attimi. «Io posso fare cose...» affermò finalmente, «che nessun essere umano dovrebbe avere il potere di fare. Mi sto forse dannando per via della mia rabbia?» «Pensa a quello che ti hanno sottratto. Non solo Amy, non solo la tua vita... ma anche il tuo legittimo posto nella storia. E ora vorrebbero rovinare il tuo nome associandolo a spazzatura», disse il corvo. «Hai ancora un grosso conto da saldare, William Blessing. Ma sei anche al servizio di forze che, senza di te, potrebbero fare giustizia in modi che troveresti meno soddisfacenti.» «Io... Io...»
«Ammazzali, quei bastardi», esortò il corvo. «E lascia le loro anime alla mercé dell'oscurità che venerano.» Il corvo volò via nella notte. William Blessing annuì e s'incamminò di nuovo nella foschia che avvolgeva il porto, in cerca di un bar. 24 Avevo tollerato come meglio potevo le mille offese di Fortunato, ma quando degenerò nell'insulto giurai vendetta. Voi, che ben conoscete la natura della mia anima, non supporrete tuttavia che io abbia pronunciato minacce. Prima o poi mi sarei vendicato, questo era certo, ma proprio la risolutezza con cui presi questa decisione precludeva l'idea di rischio. Non dovevo solo punire, ma punire impunemente. Un torto non viene riparato quando la punizione ricade sul vendicatore. Allo stesso modo, non viene riparato quando il vendicatore non si rivela come tale a colui che lo ha offeso. EDGAR A. POE, La botte di Amantillado «I casi sono due!» avvertì Baxter Brittle alzando lo sguardo, dalla sua consueta postazione dietro il bancone. «O sparisce questa carta da parati, o me ne vado io.» Gli avanzi di un cattivo pasto cinese da asporto, a base di gamberetti kung-pao, moo goo gai pan e untissimi involtini giacevano sul tavolo davanti a lui. Sollevò una bottiglia di Newcastle Brown Ale e versò le ultime gocce di birra schiumosa in un boccale di vetro di stile tradizionale. Ogni cosa puzzava di olio di sesamo, continuava a ruttare rischiando di rigurgitare luppolo e malto, e cominciava ad avvertire una certa nausea. Aveva in mano un favoloso romanzo horror di un giovane autore di grande talento che gli aveva chiesto di pubblicare un'edizione speciale del libro qualche mese in anticipo rispetto alla distribuzione della versione commerciale da parte del suo editore ufficiale. Baxter era deciso a crescere rapidamente come editore in modo da poter pubblicare autonomamente romanzi originali di autori sconosciuti, senza doversi limitare alle raccolte di racconti e alle edizioni speciali, le briciole lasciategli dalle grandi case di New York. Merda, pensò Baxter; non occorreva altro che denaro, una materia prima la cui disponibilità era recentemente andata crescendo negli uffici della Tome Press.
Eh, sì, la vita era bella. Ma quella carta da parati non gli andava proprio giù. Giallognola e decorata con gigli. Decise di farla rimuovere, e magari riportare alla luce il legno originale che rivestiva le pareti (adeguatamente trattato, naturalmente) per far risaltare le carabattole, gli oggetti da collezione e le fotografie in cornice. Il bar era tutf altro che affollato. Il barista di turno quella sera, impegnato ad asciugare alcuni bicchieri, rise. «Conosce tutte le massime di Oscar Wilde, signor Brittle?» «Sì, e ne ho in repertorio anche alcune mie. Ma solo gli stupidi contano esclusivamente su materiale originale. Noi persone intelligenti, invece, sappiamo quanto torni utile il plagio.» «Penso che sia il complimento più grande», commentò il giovane, che sfoggiava un paio di baffi. «A mio avviso ne fu colpevole anche lo stimatissimo Edgar Allan Poe, oltretutto sempre pronto ad accusare gli altri», disse Brittle. Abbassò gli occhi sui nauseanti resti di cibo. Si rese conto all'improvviso di aver bisogno di qualcosa di più forte della birra scura inglese che stava bevendo, e che aveva bisogno di consumarlo altrove. «Joe, ragazzo mio», disse alzandosi. «Saresti così gentile da togliere di mezzo questa roba? Ce n'è abbastanza per risolvere il pranzo di domani, se vuoi. E non andare in giro a dire che il padrone del Cork'd Sailor non è generoso con te.» Il barista fece un profondo, ironico inchino. «Oh, padrone, grazie per gli avanzi.» Baxter Brittle si alzò, si lisciò il lungo cappotto e raccolse il manoscritto macchiato di salsa di soia. «Ah, Joe, un'altra cosa. Aspetto visite. Sul tardi potrebbe passare un uomo con un lungo cappotto nero. Si chiama Mick. Lascialo scendere nello scantinato. Ti avverto perché temo di potermi lasciare distrarre da questo accattivante romanzo... e da altre cose, e potrei non sentirlo bussare.» «Ci può contare, signor Brittle.» Joe si spostò all'estremità opposta del bancone, dove un gruppo di studenti sembrava in procinto di ordinare un altro giro di birre. Baxter Brittle si avviò verso la porta della sua tana privata. Ah, il conforto del proprio angolo di paradiso, si compiacque mentre scendeva e inspirava le familiari essenze di legno di sandalo e olio di hashish, di candele e acqua di rose. Il suo rifugio somigliava sempre di più a un dipinto di Maxfield Parrish, concluse Baxter accendendo le luci. Tutto un fiorire di
colonne romane, tendaggi di raso e tendine traforate, variopinti tappeti persiani e anfore greche con piume di pavone. Dove una volta c'erano stati orribili ed economici divani arancioni e marroni, ora troneggiavano divini canapè e divanetti, ornati da un'infinità di cuscini di seta. Ahimè, se quello specialissimo scantinato aveva un tempo ospitato innumerevoli feste riservate ai Goths e ai loro amici in un periodo di più intensa socialità, ora, dato il gran ritmo al quale procedevano gli affari, l'attività stessa che aveva reso possibile le migliorie al locale ne determinava un uso molto meno frequente. Baxter Brittle era semplicemente troppo impegnato a curare il suo crescente impero Tome Press. Sempre più spesso doveva rinunciare alla sua postazione dietro il bancone del bar per rimanere nei nuovi uffici affittati dalla Tome Press qualche isolato più in là nella stessa via per ospitare i nuovi dipendenti. Ormai Baxter utilizzava quel luogo meraviglioso soprattutto come un rifugio, un luogo dove rilassarsi e dedicarsi ai suoi particolari vizi. Inserì l'ultima compilation dub della Planet Dog nel nuovo stereo con sistema audio surround. Il locale venne invaso da un ritmo pulsante come il battito di un cuore. Baxter muoveva la testa a tempo con il basso. «E ora un bel cocktail.» Si inumidì le labbra e si avvicinò all'altare. L'altare aveva prosperato e si era ingrandito di pari passo con il successo della Tome Press. Non sfoggiava più solo qualche scarno simbolo magico, un pentacolo qui e la testa di un caprone là. Ora era un autentico pantheon di divinità, santi e demoni, da Hitler a Shiva, da Lucifero a Jeffrey Dahmer. Grandi ceri votivi ardevano. Il sapore agrodolce del vino utilizzato per i riti si levava ancora da una serie di calici caduti. Baxter accese altre candele, poi inserì un paio di bastoncini di incenso nel grembo di un buddha grasso e accese anche loro. «Così ti brucerai le palle, fratello», si rivolse all'imperturbabile buddha. Scelse da un umidificatore la qualità di incenso che preferiva: un aromatico sigaro cubano, un El Presedente, nientemeno. Lo accese avicinando la punta alla fiamma di una candela profumata. Poi aprì lo stipo sotto l'altare. Ordinatamente allineate vi trovò una serie di bottiglie di assenzio con etichette scritte a mano. Ne scelse una, poi si portò accanto al lavello della nuova cucina-bar. Versò il liquido in un calice, lo annusò... Ah!... poi lo alzò e brindò all'altare e, più in generale, a tutto il suo dominio.
«Temo di avere un solo modo per fronteggiare le tentazioni», annunciò. «Cedere a esse!» La batteria digitale in uscita dalle casse dello stereo approvò con un rullo. La bevanda a elevato contenuto alcolico non impiegò molto a esercitare i suoi effetti sul suo organismo, regalandogli quella incredibile, illecita sensazione di calore e di radiosità, a un tempo seducente e psichedelica, che era esclusiva prerogativa dell'assenzio. Certo, a lungo andare avrebbe dovuto rinunciarci, accontentandosi di buon vino e birra. L'uso protratto di assenzio, oltre a scaldare il cuore, poteva uccidere. Il fardello del successo l'avrebbe indubbiamente salvato, rifletté Baxter. Chi aveva più il tempo di ubriacarsi tutto il santo giorno ora che c'erano attività ben più redditizie da portare avanti? Ma non era ancora giunto il momento delle rinunce. Per ora poteva ancora godere dello splendore conferito dal liquore ai colori della sua vita, e della pace che regalava al residuo di coscienza nella sua psiche. Prese il manoscritto e il calice e sprofondò in una comoda poltrona davanti al suo focolare privato, il delizioso altare illuminato dalle candele. Si sentiva molto meglio, ora. Perfettamente a suo agio. Guardò gli stoppini delle candele, impegnati a eseguire la loro eterna danza, e si abbandonò all'ipnotico conforto dei profumi, dell'assenzio e della calma che traeva dalla consapevolezza che le ricompense del lavoro e dell'ambizione stessero riversandosi piovendo a fiotti sopra di lui. Certo, avere denaro era bello, ma ciò che più apprezzava erano le cose materiali, le comodità e gli scenari futuri che i soldi potevano acquistare. E c'erano poi cose che non si potevano comprare con il denaro, cose che ora Baxter Brittle possedeva. Accanto a lui un altro recente acquisto: una robusta libreria fatta su misura, di lucido legno di rovere con antine di vetro. Guardò al suo interno, ammirando i suoi libri di Gurdjieff, comprese alcune prime edizioni. I suoi libri di Aleister Crowley, i suoi antichi volumi di conoscenze arcaiche. Ma i pezzi più pregiati e più importanti erano i libri, le riviste e i documenti che occupavano lo scaffale superiore, interamente riservato a loro. Data la sua discreta competenza nel campo, era stato rapido nell'impossessarsi della parte migliore del bottino in quella fatidica sera in casa Blessing. Neppure il caro Donald Marquette aveva fatto meglio di lui, sebbene fosse entrato in possesso di un numero maggiore di volumi. Anche in condizioni di coscienza alterata, come innegabilmente era stato quella sera, Baxter era stato in grado di scegliere e selezionare con grande perizia. E ora ammirava i suoi preziosi cimeli.
Era stato nel suo interesse aiutare Mick e Theodore, e anche il Marchese, a vendere la loro parte di bottino. Aveva preteso solo una piccola commissione per aver agevolato i contatti con un manipolo di trafficanti della costa occidentale, pirati delle fiere del libro (invariabilmente grassi e maleodoranti) che pagavano in contanti e non facevano mai domande. Lui stesso avrebbe potuto realizzare un ottimo incasso vendendo i pezzi che aveva preso, ma al pari di rare opere d'arte, i tesori più preziosi di Blessing erano ben noti negli ambienti dei collezionisti, e certamente assicurati per cifre notevoli. Da quel punto di vista era come se i libri fossero radioattivi, oltremodo pericolosi per essere messi in circolazione. Ma custoditi nella sua speciale libreria costituivano per Baxter una costante fonte di... be', non sapeva esattamente cosa, ritrovandosi per una volta a corto di parole. Ma era indubbiamente una sensazione piacevole. Adorava ammirare la nuova collezione alla luce delle candele. Meditare sul suo significato, sull'eredità letteraria di Poe. Crogiolarsi nel rassicurante calore della storia e del genio. Sorbì un altro lungo sorso di assenzio e rifletté, divertito, sull'ironia della sorte. Poe! Che uomo povero e misero era stato. Eppure aveva inventato forme letterarie sulle quali avevano costruito autentiche fortune altri autori, che si erano limitati ad applicare le formule da lui create e a imitare il suo modo di usare la parola e il linguaggio. Che cosa aveva letto una volta a proposito del contributo più importante di Poe alla letteratura? Ah, certo. Non era un'intuizione su cui Baxter aveva in un primo momento riflettuto a fondo, ma a ragion veduta corrispondeva al vero. Il critico aveva sottolineato il fatto che Edgar Poe era stato il primo autore di fiction a trasferire nella prosa l'intera tavolozza delle tecniche e delle licenze proprie della poesia. Ritmo, metrica, assonanza, tropi e così via. Poe aveva utilizzato nei racconti l'intero repertorio a sua disposizione. Ed era quello il motivo per cui le sue opere conservavano ancora una certa modernità di stile, nonostante i fronzoli tipici del diciannovesimo secolo. Perché, in ultima analisi, Poe aveva creato uno stile ancora assolutamente attuale. Mentre fissava i volumi nella vetrinetta, Baxter Brittle si domandò distrattamente se non dovesse rileggere Poe. Forse l'avrebbe fatto, una volta raggiunta una posizione che gli avrebbe permesso di delegare una parte maggiore delle sue crescenti responsabilità
alla Tome Press... E forse avrebbe ripreso a scrivere. Già, gli affari l'avevano coinvolto in modo eccessivo. Stavano creando una vera industria, grazie al brillante talento editoriale di Donald Marquette e alle originali idee di Mick Prince nel campo del marketing. Perché non rivendicare per sé una fetta della torta letteraria? Autori indubbiamente meno dotati di lui comparivano regolarmente nelle classifiche dei bestseller, idolatrati da lettori in tutto il mondo... Idolatrati... Baxter Brittle si domandò che sapore avesse quel genere di successo. Squisito, certo. Assolutamente squisito... All'improvviso una corrente spazzò le fiammelle delle candele, estinguendole. Di colpo il locale si riempì di ombre evanescenti. Baxter si guardò attorno. Avvertì la corrente. Era fredda e lo fece rabbrividire. Una presenza. «C'è qualcuno?» Tentò di alzarsi, ma aveva bevuto più assenzio di quanto fosse stato nelle sue intenzioni e si ritrovò troppo ubriaco per spostarsi dalla poltrona, a meno di non concentrarsi intensamente sull'impresa. Ricadde all'indietro, scrutando con occhi annebbiati l'oscurità in cui era piombato lo scantinato. Una figura emerse dalle tenebre. «Ciao, Baxter. Stai ammirando gli ultimi arrivi nella tua collezione, vedo.» Baxter socchiuse gli occhi. «Mick? Mick, sei tu?» L'aveva chiamato quella sera chiedendogli di incontrarlo. Sì, doveva essere Mick, impegnato in uno dei suoi macabri scherzi. Che mascalzone. «Vieni a bere qualcosa, Mick», invitò Baxter. «So che non ti aggrada particolarmente l'assenzio, ma sono sicuro che troveremo qualcosa di più affine ai tuoi gusti.» La figura fece un passo in avanti. Indossava un cappotto scuro, ma per nulla sfarzoso o particolare come quello di Mick Prince. L'uomo era preceduto da uno strano odore. Una volta, durante una delle loro scorribande alcoliche, la gang aveva visitato un macello. Pelli conciate, carcasse in putrefazione, ossa e colla animale. Avevano ripreso con la macchina fotografica alcune delle immagini post mortem più interessanti, bizzarre sovrap-
posizioni di luce, ombre e distorte posizioni di morte. Ma il ricordo più vivo che Baxter ancora serbava era il puzzo del luogo, uno strano, ultraterreno ma immediato messaggio dai morti ai vivi; fatto di istinto e promessa, come se ammonisse: «Noi ora siamo la carne oltre la carne. Il riverbero del sangue. La risonanza di ciò che è stato. Prendetevi il vostro tempo. Ma presto vi unirete a noi». Ora, stranamente, nonostante l'incenso e il sapore dell'assenzio, Baxter percepì un alito di quell'odore. «No, Baxter. Non sono Mick. E non prendo niente da bere, grazie.» La figura si fermò. Incrociò le braccia sul petto. «Sono una persona che una volta hai chiesto di incontrare. Forse avrei dovuto prestare maggiore attenzione all'epoca, prendere carta e penna e risponderti. Forse le cose sarebbero andate diversamente. O forse no.» La nebbia nella mente di Baxter gli impedì di elaborare rapidamente i pensieri. «Come hai fatto a entrare qui?» domandò, rendendosi conto che il visitatore era uno sconosciuto. «Adesso ho dei mezzi... abilità... cose che sono in grado di fare... Adesso. Che parola di natura qualitativa, non trovi? Il mio adesso non durerà molto. A dire il vero, in termini molto concreti, il mio adesso è una proiezione del passato, la persistenza di un'ombra.» Baxter era confuso, ma il lieve puzzo di decomposizione che aveva sentito nell'aria l'aveva messo in guardia, innescando una paura automatica. La paura gli schiarì la testa abbastanza da permettergli di alzarsi in piedi, il calice di assenzio ancora stretto nella mano. «Chi sei?» Mentre formulava la domanda posò il calice e fece mezzo passo indietro. «Qualcuno che non avresti mai immaginato di incontrare di nuovo, Baxter Brittle. Sono qui per due ragioni.» Baxter indietreggiò cautamente verso una cassettiera. Aprì uno dei cassetti, infilandoci lentamente e furtivamente una mano, tenendola nascosta dietro la schiena. Era sempre stato paranoico a proposito di eventuali intrusi nel suo sancta sanctorum e aveva preso precauzioni. A quanto pareva, era stata una mossa saggia. Avvertiva un pericolo immediato e serio. Tuttavia, e per fortuna, era troppo ubriaco per cedere al panico. Prendila, si esortò, solo lievemente più lucido. Afferrala e tutto andrà bene. Prendila e tutto si risolverà nel migliore dei modi. L'uomo parlava. Parlare richiedeva tempo, una buona cosa date le circostanze. Baxter sapeva che nel caso fosse stato costretto a denunciare l'epi-
sodio, il fatto che ci fosse scappato il morto non avrebbe rappresentato un particolare problema. Dopotutto, si trattava di un caso di legittima difesa, no? «Non so di che cosa stai parlando. Ma del resto, non so neppure chi sei, no?» domandò Baxter. La figura fece un altro passo avanti. Il suo volto venne illuminato da una convergenza di luce alogena con quella gettata dalle candele. Era pallido e ceruleo. Presentava molte lesioni e appariva leggermente rattrappito, ma conservava una certa eleganza. Gli occhi erano nascosti da occhiali scuri, che l'uomo a un certo punto si tolse. Gli occhi erano tenebrosi ma familiari. Quando si formò in lui la coscienza dell'identità dell'intruso, Baxter subì un tale choc che per un attimo la sua mano interruppe la ricerca della pistola. La sua mente si ribellò all'immagine trasmessa dagli occhi. «Blessing?» «Esatto, Baxter.» Baxter Brittle scoppiò in una risata. «Ma queste sono cose che succedono solo in racconti dell'orrore particolarmente odiosi e banali!» esclamò. «Mi rifiuto di crederci.» «Anch'io la pensavo così, Baxter. Ma, tutto sommato, potrebbe anche darsi che io e te siamo semplicemente personaggi odiosi e banali, non credi? Intrappolati in un pessimo romanzo d'appendice da quattro soldi, costretti a recitare una parte nella tediosa opera di un autore ancora più disperato di quanto lo siamo noi!» Baxter non riuscì a trattenere una nuova risata. «No, è solo un'allucinazione.» Scosse la testa. «Un pezzo di cartilagine che non sei riuscito a digerire? No, Baxter Brittle, io non sono un Jacob Marley venuto a invocare una spettrale redenzione. E conosco Ebenezer Scrooge. E tu, ragazzo, non hai nulla in comune con Ebenezer Scrooge.» L'Uomo delle tenebre scosse la testa, colmo di tristezza. «Qui non c'entra la redenzione, Baxter. Io sono qui per un solo motivo... per vendicarmi!» La telefonata di Donald Marquette. ... la tomba... ... profanata... E ora, ecco davanti a lui un uomo in abito scuro che presentava una preoccupante somiglianzà con William Blessing.
Baxter Brittle era sempre stato ateo. Aveva sempre ritenuto le sue esplorazioni nel mondo dell'occulto un esercizio di automanipolazione psicologica. Un divertimento, un metodo per il controllo ipnotico della propria persona e degli altri. Era sempre stato convinto che tutti i poteri risiedevano all'interno della persona, e che le cerimonie e i riti non erano che mezzi per liberarli. Tutto il resto era un gioco, una moda. Un particolare gusto per l'arredamento degli interni. Se non altro, l'occulto aveva sempre offerto una buona scusa per il consumo di alcol e di droga. Ma ora, pensò, aveva davanti a sé la prova che si era sbagliato. La sua mente si piegò. Ma non si spezzò. «Mamma mia», disse. «E così sei tornato dalla tomba per vendicarti. Ma perché ce l'hai con me, caro dottore?» Infilò la mano più in profondità nel cassetto. «Tu hai contribuito a portarmi via mia moglie; mia moglie... e tutto il resto della mia vita», spiegò perentoriamente l'uomo. «Ora vuoi appropriarti del mio nome e della mia reputazione. E inoltre ti sei impossessato di cose che appartengono a me, e che ora rivoglio.» «E quali sarebbero queste cose, caro il mio signor Cadavere?» «Gli oggetti che hai rubato nella mia biblioteca.» «E che vuoi fare? Portarteli nella tomba?» Baxter rise. «Non c'è luce per leggere laggiù.» «Mi faresti un favore, Baxter?» «Un favore? Ma certamente.» «Dimmi dove posso trovare l'uomo il cui nome è Mick Prince.» «Va bene.» Baxter gli diede l'indirizzo della casa di Mick. «Ci troverai anche Theodore Melvins. Sono loro quelli che cerchi, Blessing. Non io. È stato Mick a spararti. E Theodore ha violentato tua moglie. Per quanto mi riguarda... io volevo solo diventare tuo amico! Era solo uno stratagemma per conoscerti. Solo questo.» «Ma sei stato tu a ideare il piano.» «Il piano era mio, certo. Ma è andato tutto storto. Ti assicuro che le mie intenzioni erano buone. Ero assolutamente in buona fede.» L'Uomo delle tenebre, che rispondeva al nome di Blessing, rimase immobile. Le dita di Baxter trovarono la pistola. La sua mano si strinse attorno al calcio, e l'indice si posò sul grilletto.
Ma decise di attendere, curioso di vedere che cosa quel... quel... quell'essere intendeva fare. «Le intenzioni sono il marciapiede, Baxter Brittle», disse William Blessing. «Tu sei già in mezzo alla strada. È mio dovere darti una piccola spinta.» Merda, imprecò mentalmente Baxter Brittle. Puntò la pistola e fece fuoco. I due uomini si trovavano a poco più di cinquanta centimetri l'uno dall'altro. Non fu difficile prendere la mira. Tre pallottole colpirono in rapida successione l'Uomo delle tenebre. Baxter vide staccarsi dall'uomo pezzi di carne e brandelli di vestiti. Ma William Blessing non cadde a terra. Si limitò invece a fare un passo avanti, ad afferrare la pistola e a strapparla dalle mani del suo aggressore. «Mi dispiace, Baxter. Ti sei appena reso la vita molto più difficile.» Baxter, ansimante, si girò, tentando di divincolarsi. L'Uomo sferrò un colpo con la mano libera e fece piombare Baxter nell'oscurità. Si risvegliò in un ambiente buio. Avvertiva un vago dolore alla testa, ma più che altro si rese conto del persistere degli effetti dell'assenzio. Era ancora ubriaco. Per un attimo, Baxter Brittle provò smarrimento e confusione. Dove si trovava? Era seduto, con la schiena appoggiata contro una parete ruvida e strana. Vedeva un fioco bagliore penetrare l'oscurità dall'alto. Davanti a lui, nascosto alla sua vista, sentiva qualcosa raspare e ticchettare nel buio. Poi ricordò tutto. I libri di Poe. La pistola... William Blessing risorto dalla tomba per vendicarsi, in piedi davanti a lui. «No», implorò. Tentò di alzarsi e udì un tintinnio metallico. Aveva le mani e i piedi immobilizzati. Dio, ma che cos'erano? «Catene?» domandò incredulo, a corto di fiato. «Dove sono?» Un raspare. Qualcosa di bagnato che cadeva sul terreno. Il bagliore di una candela, uno spiraglio dell'oscurità sopra di lui. «'Al capo più remoto della cripta'», intonò la voce, «'ne comparve un'altra, meno spaziosa. Le sue pareti erano state rivestite di resti umani, impi-
lati fino alla volta sovrastante, come era consuetudine nelle grandi catacombe di Parigi. Tre lati di questa cripta interna erano ancora decorate in quel modo. Dal quarto le ossa erano state rimosse e giacevano mescolate sul terreno, formando in un certo punto un cumulo di notevole altezza. Oltre la parete rivelata dalla rimozione delle ossa, intravedemmo un'ulteriore nicchia, profonda poco più di un metro, larga un metro e alta quasi due. Sembrava che fosse stata costruita non per assolvere a una funzione specifica, ma piuttosto formata dall'intervallo tra due delle colossali colonne portanti del soffitto delle catacombe, ed era chiusa sul fondo da uno dei muri perimetrali di solido granito.'» «Basta!» gridò Baxter. Si ritrovò suo malgrado a ridere in modo maniacale. «Dove... dove siamo? Che razza di posto è questo?» Un raschiare, come se qualcuno stesse lavorando il cemento con un frattazzo. «Un attrezzo molto utile, questo», commentò Blessing. «Ci troviamo nel locale non finito sottostante il tuo scantinato.» «Sotto lo scantinato?» Baxter strizzò gli occhi nell'oscurità. Sì, sentiva l'odore di pareti umide, i freddi odori delle cantine... e qualcos'altro... Antico imputridimento. Carne morta. Vecchie carcasse di topi, forse? «Sì. Era già tutto pronto. Non ho dovuto fare altro che prenderne possesso.» Di nuovo quel raschiare. E un tintinnio metallico. «Hai riconosciuto la fonte della mia citazione, Brittle?» Baxter produsse una risata ebbra. «La botte di Amantillado.» «Un racconto strutturato in maniera perfetta, non trovi? Data l'opportunità che mi offriva questo posto non ho resistito alla tentazione di inscenarlo.» Brittle rise lottando per tenere a bada il panico. Era ancora vivo, e fin quando lo fosse rimasto, ci sarebbe stata speranza. Inoltre, c'era un cosa che Blessing, o chiunque fosse quel folle, non poteva sapere! Con molta cautela, facendo attenzione a non far tintinnare le catene e a insospettire il suo carceriere, Baxter Brittle infilò una mano nella tasca interna della giacca. Sì. C'era. Al riparo e al sicuro nella tasca c'era un aggeggio elettronico. Baxter
Brittle rise tra sé. Oh, Donald, ragazzo mio! Marquette, caro amico, ti ringrazio! Il cellulare. Avrebbe chiamato aiuto usando il cellulare. Rise. «Murato vivo!» disse Brittle. «Che originalità.» Si tolse la mano dalla tasca. «A questo punto, Blessing... o chiunque tu sia, la mia domanda è: dov'è l'Amontillado?» Un bagliore. Baxter vide che nel muro era rimasto un varco sufficiente per ospitare ancora un mattone solo. Due occhi, illuminati dalla luce di una candela, fissavano il prigioniero attraverso l'apertura. «Niente Amontillado, Baxter. Mi dispiace per te. Ho pensato piuttosto a qualcosa che potrebbe esserti molto più gradito. Mi sono preso la libertà di lasciarti alcune bottiglie di quella che sembrerebbe sia la tua bevanda preferita.» Baxter rise. «Assenzio! Mi hai lasciato dell'assenzio... Oh, quanta pietà!» Si guardò attorno. «Peccato che non vedo niente.» «Vicino a te c'è una candela con dei fiammiferi.» «Molto gentile da parte tua.» «'Per l'amor di Dio, Montressor!'» citò Blessing. «'Sì', dissi, 'Per l'amor di Dio!'» «'Ma a quelle parole attesi invano una risposta. Mi spazientii. Chiamai ad alta voce. «'"Fortunato!" «'Nessuna risposta. Chiamai di nuovo... «'"Fortunato!" «'Ancora nessuna risposta. Conficcai una torcia nell'ultimo spiraglio rimasto e la lasciai cadere all'interno. In risposta udii solo il tintinnare dei campanelli. Mi si strinse il cuore nel petto; per via dell'umidità delle catacombe. Mi affrettai a portare a termine il mio lavoro. Collocai con forza l'ultima pietra nell'apertura; la fissai con la malta. All'esterno della parete eressi di nuovo l'antico bastione di ossa. Per mezzo secolo nessun mortale le ha più disturbate. In pace requiescat!'» «Bravo!» si complimentò Baxter Brittle. «Eccellente. Molto più incisiva della lettura di Vincent Price. Una vera impresa.» Applaudì, facendo tintinnare le catene. «Addio, Brittle», si congedò Blessing. L'ultimo mattone cominciò a scivolare nel riquadro. Poi, a un tratto, si
bloccò. Venne tirato fuori. Ricomparvero gli occhi. «Ah, dimenticavo. Volevo avvertirti che sei in buona compagnia.» «Adieu!» salutò Baxter. L'ultimo mattone venne posato, smorzando quel poco di luce che fino a quel momento era penetrata nella sua umida tomba. Baxter cominciò immediatamente a tastare il terreno in cerca dei fiammiferi e della candela. Allungando una mano trovò la candela. La afferrò. Ne prese lo stoppino tra le dita. Continuò a tastare con l'altra mano, cercando i fiammiferi che gli erano stati promessi. Dapprima non trovò nulla; poi, muovendo la mano verso l'esterno e descrivendo un arco più ampio, le sue dita urtarono una scatoletta il cui contenuto produsse un rumore inconfondibile al suo tocco. La prese e se la poggiò in grembo, facendo del suo meglio a dispetto dei bracciali di ferro che gli stringevano i polsi. Immerso nella più totale oscurità, sentì per la prima volta scemare gli effetti dell'alcol. Avvertiva un terrore crudo, bruciante e minaccioso alla base della spina dorsale. Baxter aveva disperatamente bisogno di bere. Tanto più data la consapevolezza che aveva a disposizione dell'assenzio. Sì, avrebbe acceso la candela. Avrebbe trovato le bottiglie della sua qualità preferita di Amontillado. E poi, a differenza del povero Fortunato, sarebbe riuscito a sfuggire a quella prigione. Dopotutto, non doveva fare altro che tirare fuori il telefono cellulare e chiamare Marquette. E se Marquette non fossa stato raggiungibile... Mmm. Che fare? Chiamare i membri della gang? Sì, forse, ma nel caso in cui le cose si fossero messe davvero male, non avrebbe esitato a chiamare la polizia. Pronto, mi chiamo Baxter Brittle. Aiuto. Mi hanno murato vivo! Con attenzione, Baxter estrasse un fiammifero. Ne appoggiò la capocchia contro il lato della scatoletta e strofinò. La fiammata esplose magnifica, un faro di speranza, e l'odore dello zolfo gli parve squisito. Cautamente, frenando l'impazienza, avvicinò il fiammifero all'estremità superiore della candela. La toccò. Lo stoppino si accese quasi immediatamente. Gettò una luce intensa e audace in tutta la nicchia. Baxter alzò la candela per migliorare l'illuminazione e vide subito le bottiglie che gli erano state promesse. Erano state sistemate tra le braccia di un cadavere, evidentemente morto da tempo. La carne era corrotta e lasciava intravedere le ossa sottostanti,
ma il corpo conservava tratti caratterizzanti, in primo luogo i capelli, sufficienti da renderlo riconoscibile a Baxter. Inoltre, aveva ancora conficcato nel petto il pugnale rituale. La ragazza punk! Cristo, quando Mick aveva promesso di occuparsi del cadavere, Baxter aveva immaginato che l'avrebbe trascinato fuori per gettarlo nella baia, o qualcosa del genere. Mai avrebbe sospettato che intendeva inumarlo proprio nei locali sottostanti il suo bar! Gli occhi si erano decomposti, ridotti a oscene orbite scure che lo fissavano da sopra un ammasso di cartilagine distorta, i resti di un naso. Le orbite guardavano davanti ed erano puntate direttamente in direzione di Baxter, come a dirgli: «Eccoti qua, Baxter. Vieni pure a prendere da bere». Baxter venne colto da un parossistico attacco di panico. Perse la presa sulla candela. Il cilindro di cera cadde a terra e si spense, facendo ripiombare la tomba nella totale oscurità. Il silenzio lo avvolse come un sudario, interrotto solo dal frenetico battere del suo cuore. Come ne Il rumore del cuore di Poe: ... un suono basso, monotono, rapido - un suono come quello di un orologio avvolto nella bambagia. Si fece sempre più forte - più forte - più forte! E il suono roco del proprio respiro terrorizzato. «Ehi, festaiolo», gli parve di sentire una voce fuoriuscire dalla profonda gola della notte. «Diamoci al gotico più autentico!» Poi sentì il rumore di una bottiglia che si infrangeva contro la parete, il sibilo di una lama estratta da un costato... Sei in buona compagnia, aveva detto Blessing. E lo scuotersi raspante di vecchie ossa e carne secca che venivano verso di lui fu come il battito delle ali di un uccello predatore. 25 E infine sopraggiunse, come a rendere finale e irrevocabile la mia caduta, lo spirito della PERVERSITÀ. Di questo spirito la filosofia non tiene conto. Eppure non sono certo della vita della mia anima quanto lo sono del fatto che la perversità è uno degli impulsi primitivi del cuore dell'uomo - una delle indivisibili facoltà primarie, o sentimenti, che governano il carattere dell'uomo. Chi non si è scoperto, cento volte, a commettere un'azione vile o stolta, per nessun altro motivo se non la consapevolezza che
non avrebbe dovuto? EDGAR A. POE, Il gatto nero Il telefono cellulare di Donald Marquette squillò. Marquette era in piedi accanto alla finestra e fissava meditabondo la strada in basso, sorseggiando caffè forte con un goccio di latte e sentendosi più strano di quanto non gli fosse mai capitato prima in vita sua. Fu in quell'istante che l'insistente, irritante suoneria del meraviglioso frutto della tecnologia che teneva nel taschino della camicia si attivò come il motore di un cuore artificiale. Era mattino in casa Blessing. Fuori il cielo era coperto e la giornata si prospettava calda e afosa, e minacciose nubi nere si andavano addensando all'orizzonte. Nell'aria aleggiava l'odore elettrico del temporale. Donald era giunto nel suo ufficio di buon'ora per mettersi al lavoro. Non aveva dormito bene la notte precedente. Le poche ore di sonno erano state funestate da incubi che non riusciva a ricordare con esattezza. E così aveva deciso di alzarsi e di dare inizio alla sua giornata prima del solito. Non credeva che sarebbe riuscito a scrivere quel giorno, attività che comunque era solito svolgere a casa. No, quel giorno c'erano da sistemare alcune questioni pratiche, legate al fatto che ora deteneva il controllo dell'eredità letteraria di Blessing, i diritti sul nome Blessing e tutto quanto il resto. Fortunatamente Amy aveva smesso di entrare in quell'ufficio. I ricordi che induceva in lei erano troppo dolorosi. Aveva una segretaria, ma quel mattino aveva chiesto un permesso. Donald Marquette aprì lo sportellino del telefono cellulare. «Pronto?» Silenzio. Un rumore raschiante, un'eco... «Pronto!» disse di nuovo, esasperato. Quel mattino era nervoso, al punto da voler rifiutare ogni forma di comunicazione. Ma, data la situazione, sarebbe stata una mossa molto poco saggia. «Pronto? Oh, scusami, Donald! Sono Roscoe! Roscoe Mithers!» Il cuore di Donald sembrò mancare un battito. «Ah, sì. Buongiorno, signor Mithers.» «Diamoci del tu e chiamami Roscoe, Donald. Spero non ti dispiaccia se ti ho chiamato a questo numero. Agli altri numeri mi hanno risposto segreterie telefoniche e... ho pensato fosse comunque meglio contattarti sulla
tua linea personale.» «Sì, certo. Hai fatto benissimo. Mi fa piacere sentirti tanto presto.» «Naturalmente ho ricevuto la tua proposta. E ho a mia volta qualche idea da sottoporti. Ma voglio essere chiaro fin da subito... Sono molto, molto interessato. Come dice Ricardo il vampiro, penso di aver trovato qualcosa in cui affondare i denti! Questo pomeriggio sarò in riunione con le alte sfere. Presenterò le tue idee e alcune delle mie. Penso ci siano buone possibilità di mettere in piedi un'operazione molto remunerativa; e considerato il fatto che siamo una multinazionale con i tentacoli ben inseriti in ogni settore mediatico e ogni settore commerciale, con infinite possibilità sul fronte dei diritti e delle licenze, penso che riusciremo a trovare un accordo molto soddisfacente per entrambe le parti. Naturalmente dovremo definire i dettagli dell'accordo con il tuo agente, ma non credo ci saranno problemi.» Naturalmente Donald avrebbe potuto proporre l'eredità Blessing altrove. C'erano contratti da rispettare. E poi le antologie, i romanzi... ma si prospettavano altre possibilità e, nella persona di Roscoe Mithers, Donald Marquette intravedeva opportunità sconfinate. «Hai avuto occasione di dare un'occhiata al resto del materiale, Roscoe?» «Sì, certo, Donald. Che cosa posso dire? È eccellente. Sai, non posso fingere di negare che tutto questo costituisca un'opportunità assolutamente da non perdere anche per la mia carriera nell'azienda. Naturalmente mi piacerebbe molto pubblicare anche i tuoi lavori individuali, oltre a quelli proposti in collaborazione con Blessing...» Sì! «... e dal momento che sarò io a gestire l'operazione, ti prometto di sostenerli con altrettanta forza e convinzione.» Sì! Sì! «Ma non posso fare nulla se prima non ottengo l'okay dall'alto, e anche qualche dritta dai direttori vendite e marketing.» «Capisco, Roscoe. Quando mi farai sapere qualcosa?» «Nel tardo pomeriggio di oggi o domani mattina. In ogni caso dopo la riunione.» «D'accordo. Grazie, Roscoe. Aspetto notizie.» «Okay. A presto, Donald. Che il Golem sia con te!» Interruppero la comunicazione. Marquette era sempre piuttosto irritato dal modo in cui Mithers metteva
sempre tutto in relazione con l'universo Tramonto oscuro. Per quanto lo riguardava, l'unico motivo che l'aveva spinto ad avere a che fare con quella robaccia erano i soldi e le possibilità di avanzamento della sua carriera. Ma Roscoe Mithers era la persona ideale per aiutare Marquette a realizzare la sua ambizione: legare indissolubilmente il suo nome a quello di William Blessing. Da un simile trampolino di lancio (oltretutto molto redditizio) il suo lavoro sarebbe potuto decollare verso quote stratosferiche. Donald Marquette. Un bel nome da leggere con regolarità nelle classifiche dei bestseller! La telefonata lo mise di buonumore. Si sedette nella poltrona di cuoio e avvertì una scarica di vitalità. Buttò giù il resto del caffè, lasciando che la caffeina provvedesse a calarlo in uno stato di sublime trance. Le opportunità erano infinite, pensò. Il futuro era sconfinato. Il telefono cellulare squillò di nuovo. Questa volta lo estrasse dal taschino più rapidamente, domandandosi se fosse di nuovo l'editor di New York. Ma non era Mithers. «Marquette?» domandò una voce fredda e roca. «Sì.» «Ci sono guai.» «Mick?» «Sì. Sta succedendo qualcosa, amico. Il Conte e il Marchese. Fottuti. E non riesco a rintracciare Baxter. È... sparito. Senza lasciare tracce, e non ha neppure fatto le valigie o preso il passaporto.» Marquette sgranò gli occhi. «Fottuti? Che cosa intendi, non capisco.» «Morti. Ammazzati. Come... in uno dei miei racconti.» Non aveva mai sentito Mick Prince parlare a quel modo. Aveva i nervi a fior di pelle. Aveva paura. «Sta succedendo qualcosa, amico. Sento le vibrazioni negative», dichiarò Mick. «Theodore vuole sparire di nuovo dalla circolazione, andare via da Baltimora, e anch'io comincio a pensare che sia una buona idea.» «Morti?» domandò Marquette. «Ma come...» Mick gli raccontò tutto. «La polizia non verrà da te», concluse Mick. «Io l'ho saputo perché eravamo negli uffici della Tome quando sono venuti a cercare Baxter. Ce la
siamo data a gambe e dobbiamo continuare a correre prima che comincino a cercare di incolpare noi degli omicidi. Ehi, dimmi una cosa. Baxter ti ha mai parlato di... di nemici di cui io e Theodore non sappiamo niente? Che ne so, un altro gruppo di Goths, o qualcosa del genere?» E i tuoi, di nemici? pensò Marquette. Sei tu lo psicopatico criminale che ci ha cacciati tutti in questa situazione. «No. E poi tu sei entrato in scena molto prima di me.» «Merda, amico. Non cercare di scaricare la colpa su di me.» «Ascolta. Non dovremmo parlare di queste cose al telefono.» «Merda. Hai ragione, cazzo.» Marquette colse la paranoia nella voce di Mick. «Vuoi venire qui?» «Sì. Ma prima devo sistemare alcune cose. Ce la fate a stare tranquilli per un po' ad aspettarmi?» «Sì, certo. Ma non fare troppo tardi.» «Ascoltami, Mick. Io posso solo dirvi di stringere i denti e tenere duro. La posta in palio è troppo grande.» «Già. Una vera caccia alle streghe, cazzo.» La conversazione era conclusa. Che cosa voleva dire con quelle ultime parole? A Marquette girava la testa. Si appoggiò alla scrivania. In lontananza, udì il suono del campanello dell'ingresso. Si sedette. Avrebbe aperto qualcun altro. Qualcun altro... Lui doveva concentrarsi per assorbire quello che stava accadendo... Aveva pensato che la violenza sarebbe finita dopo quella terribile notte. Non disdegnava i vantaggiosi risultati del crimine, tutt'altro, ma per sua natura non amava la violenza e certo non ne traeva godimento. Aveva sempre ritenuto che la violenza fosse una risposta istintiva di menti poco dotate, e aveva giurato di lasciare che fossero Baxter e i suoi scagnozzi, nel caso, a occuparsi di quell'aspetto della faccenda. Quella notte... era davvero stato fuori di sé. Baxter è scomparso. Il Conte e il Marchese... morti? E la tomba profanata... Avrebbe dovuto interpretare l'episodio come un monito. Qualcuno stava dando loro la caccia. Qualcuno al corrente del fatto che la vicenda della morte di Blessing era più complessa di quanto apparisse in superficie. Qualcuno di folle e imprevisto. Un fulmine a ciel sereno. Poteva chiamare la polizia, certo. Ma avrebbe dovuto raccontare loro
troppe cose. Troppe cose in cui era direttamente implicato: la rapina, lo stupro, l'omicidio... No. Doveva gestire la situazione da solo. A un passo... A un passo dalla realizzazione del sogno di ogni scrittore. Il successo, la ricchezza... la fama! Forse addirittura l'immortalità letteraria. Al liceo, i redattori dell'annuario scolastico gli avevano domandato quali fossero le sue ambizioni nella vita. La risposta, stampata sotto la foto del sorridente adolescente nell'annuario del liceo di Dubuque, era stata: «Voglio diventare uno scrittore di fama mondiale!» Donald Marquette picchiò con forza la mano sulla scrivania. «No», protestò. Era così vicino al successo da poterlo assaporare. Niente lo avrebbe fermato. Niente! All'improvviso suonò l'interfono. «Donald?» Era la voce di Amy. «Donald, sei lassù? Ho ricevuto una consegna che ha dell'incredibile.» «Scusami, Amy», disse nel microfono dell'apparecchio. «In questo momento non posso venire a vedere. Devo uscire di corsa. Starò via un po'.» 26 Poi, l'aria parve farsi più densa, profumata da un occulto turibolo Fatto oscillare da serafini i cui passi risonavano sul tappeto. «Disgraziato!» gridai. «Dio ti offre - per mezzo di questi angeli ti concede Tregua - tregua e nepente dal ricordo di Leonore; Dunque bevi, bevi questo nepente e dimentica la perduta Leonore!» Disse il corvo: «Mai più». EDGAR A. POE, «Il corvo» Si controllò il naso, le orecchie, le appendici. Tutto sembrava saldamente al suo posto. L'abbondanza di carne e sangue della notte precedente era stata come
una manna. L'alba aveva illuminato un uomo morto in ottima salute, più in forma che mai. Ora, seduto nel parco su una panchina dalla quale vedeva la sua casa a schiera, immaginò di poter sentire il profumo dei fiori primaverili che crescevano in file ordinate nelle aiuole, di avvertire la calda pressione del sole sulla sua pelle ingrigita e tumefatta. Come se fossi davvero vivo, pensò William Blessing. Come se fossi davvero umano, e non un vendicativo involucro di pseudovita impegnato ad agitare il pugno insanguinato all'indirizzo della notte eterna. Un battito d'ali. Il corvo si posò accanto a lui sulla panchina. «Ciao, campione!» si complimentò il corvo. «Gli abbiamo dato una bella scossa. L'assassino Marquette è diretto verso il cimitero. E magari si fermerà dal ferramenta per comprare una vanga. Hai tutto il tempo di andare a parlare con Amy.» «A parlare con lei per l'ultima volta», sussurrò Blessing. Chinò il capo e si portò le mani al volto. «All'improvviso sono così stanco di tutta questa storia. Il dolore non ha mai fine e tutto questo non servirà a estinguerlo.» «Ehi, calmati, amico», esortò il corvo. «Sbaglio o ho sentito il rumore del tuo naso che cadeva nel drink? Ti sei spinto troppo avanti per fermarti, ormai. Devi aumentare il ritmo, altroché! Non hai ancora chiuso il conto con i tuoi assassini, per non parlare del bruto che ha violentato tua moglie...» La voce del corvo si fece velenosa. «... O dell'assassino che vuole fare altrettanto nei confronti della tua arte!» «Marquette», sibilò Blessing. Si colmò di nuovo di furore, freddo e allo stato puro. «Non avevi mai notato come la toccasse appena ne aveva la possibilità? Le risate compiici... il legame che cercava di stabilire con lei? Devi pur avere avuto qualche sentore della fetida lussuria che emanava quel mostro in presenza di tua moglie. Non è così? Un motivo in più per scagliarti addosso la vecchia Pallade, non credi? L'allievo che scalza il maestro attraverso l'eliminazione fisica.» Blessing annuì. «Sì.» «Allora vai a fare ciò che devi. Perché?» Il corvo batté il becco e i suoi occhi sembrarono infocarsi. «Perché devi farlo!» William Blessing si alzò dalla panchina e si diresse verso quella che era stata la sua casa. Il corvo volò via nella direzione opposta, per seguire i movimenti dei lo-
ro nemici. Gli scatoloni giacevano sul pavimento del soggiorno, tutti aperti. Amy Blessing impugnava ancora il coltello da cucina. Li guardava, ancora incredula per via del loro contenuto. I libri... Le riviste... Le lettere e i cimeli... La collezione Poe... Non c'era tutto. Lo seppe per istinto. Ma il grosso era stato recuperato, compresi i pezzi più importanti. I reperti erano stati sistemati in scatoloni, chiusi con nastro adesivo e spediti per mezzo di un corriere locale. Si chinò su uno di essi. La confortante fragranza della pergamena antica e di vecchia carta stampata la commosse, riempiendola di stupore e di una strana soggezione. Suonarono di nuovo alla porta. Fu felice di sentire la voce del cugino di William al citofono. Lo lasciò entrare immediatamente. «È accaduta una cosa assolutamente incredibile!» annunciò lei. «Guardi.» L'uomo aveva lo stesso aspetto della volta precedente, ma chissà perché sembrava più forte, non tradendo più tracce di fragilità nascosta. Si inginocchiò accanto ai libri. Li toccò. «Sì», disse. «Bene. Molto bene. Sono tornati a casa.» Amy ebbe la più strana delle sensazioni. «Non mi sembra sorpreso di vederli.» Lui si alzò in piedi, tenendo tra le mani una copia dei Racconti del grottesco e dell'arabesco, lisciandone la copertina con amore. «Le avevo detto che dovevo sbrigare alcune faccende a Baltimora, Amy.» «Ma allora... è stato lei! Li ha mandati lei questi libri?» «Li ho recuperati io. Sì, Amy. Confido ora in lei perché ne abbia cura. E li restituisca alla collezione di cui fanno parte.» «Naturalmente... ma come... come?...» «Non posso dirglielo, Amy. Ma stia tranquilla, mi sto adoperando per proteggere la memoria di suo marito e tutto quello a cui ha dedicato con tanta passione la sua vita. E ho ancora molto da fare...» «Be', sono felicissima di riavere questi libri. William li adorava... e anch'io sono molto attaccata alla collezione. Ma non è solo questo. William
sperava di salvarli a beneficio dei posteri. Intendeva creare una fondazione...» «È questo che deve ricordare, Amy. E posso confermarlo; ne scrisse anche a me in alcune sue lettere.» «Senta, prendiamo una tazza di caffè... Deve fermarsi qui con me... Mi deve raccontare tutto. E poi deve parlare con Donald. Dovete assolutamente conoscervi.» «No, grazie, niente caffè. Devo andare», disse l'uomo. «Ma prima, Amy, devo dirle un'ultima cosa. C'è qualcosa di cui suo marito voleva metterla al corrente... qualcosa che desiderava darle.» L'uomo con il cappotto scuro le spiegò a bassa voce di che si trattava. 27 Teniamo ora in mente i punti sui quali ho attirato la vostra attenzione la voce particolare, l'inconsueta agilità, e quella sorprendente mancanza di moventi per un omicidio tanto singolarmente efferato - ed esaminiamo la carneficina in sé... EDGAR A. POE, Gli omicidi della Rue Morgue Mick Prince scagliò una lampada contro uno specchio. Il vetro si infranse, facendo ricadere una pioggia di schegge sui fini pezzi di antiquariato che arredavano la tana sotterranea. L'aria era pesante di incenso. Il bagliore di una candela. Un movimento di drappi. Mick Prince ansimò. «Maledetto bastardo, figlio di puttana. Meglio per lui se ha lasciato i miei soldi quaggiù da qualche parte.» Theodore Melvins prese un sorso di vino da una bottiglia trovata abbandonata in un angolo. «Forse è semplicemente sparito con i soldi di tutti.» «Lo troverò», assicurò Mick. «Forse... forse è morto, come quegli altri due coglioni.» «Lo troverò comunque», ruggì Mick Prince, strappando il rivestimento di un divano. «E poi lo ammazzerò di nuovo, cazzo.» Dev'essere qui! pensò Mick. Estrasse un coltello dallo stivale e cominciò ad attaccare i cuscini. L'imbottitura volò dappertutto, ma non trovò nulla. Una volta, da ubriaco (una condizione piuttosto consueta nel caso di Brittle), Baxter aveva accennato al fatto di aver messo da parte una «riserva» per fronteggiare eventuali emergenze, conservata qua e là in diversi
punti. Dato il ritmo al quale le sue risorse finanziarie erano incrementate negli ultimi tempi, tali riserve dovevano ormai essere piuttosto consistenti. Il giorno prima, quando avevano parlato e deciso che sarebbe stato opportuno per Mick Prince e Theodore Melvins lasciare di nuovo la città per un certo periodo, Baxter gli aveva promesso il denaro che gli doveva. Mick sarebbe dovuto passare dal locale la sera precedente per discutere la strategia da adottare e ritirare quei soldi. Ed era stata sua ferma intenzione a quel punto rivelare a Baxter il suo piano più ambizioso, ottenendo ulteriori fondi per la sua esecuzione. Mick era stato particolarmente irritato dalla scomparsa di Baxter, che forse aveva portato con sé anche i capitali che potevano costituire le fondamenta di un'enorme fortuna, perché era avvenuta proprio nel momento in cui lui era sul punto di lanciarsi in un'impresa brillante. I piccoli crimini e il traffico di droga che aveva affiancato all'attività della Tome erano stati utili sia per lui, sia per la casa editrice. Ma ora che poteva contare su mortali muscoli d'acciaio come quelli di Theodore, Mick Prince si era reso conto che doveva cominciare a pensare in grande. «Vedi, B.B.» avrebbe detto a Baxter, cingendogli amichevolmente le spalle con un braccio, il boccale di birra inglese nell'altra mano a saldare ulteriormente il loro legame. «È molto semplice. Ora che la Tome, naturalmente in collaborazione con il nostro buon amico Donald Marquette e l'eredità Blessing, comincerà a immettere sul mercato i suoi prodotti, legando le nostre sorti finanziarie in modo particolare alle posizioni nelle classifiche dei bestseller raggiunte dai libri pubblicati, ho pensato a quale potrebbe essere il miglior sistema per garantirci una sostanziosa fetta di mercato. Tu quale pensi che sia?» E Baxter avrebbe scosso la testa distrattamente, alitando vapori di assenzio sul volto di Mick per rispondere: «Non lo so, Mick». «Ma eliminare la concorrenza, naturalmente! Sgombrare la strada per il nostro successo. È veramente semplice, in fondo. Con il mio talento per il furto con scasso, le qualità di mercenario di Theodore e il nostro talento congiunto per l'omicidio... non dovremo fare altro che... visitare altri autori horror i cui libri vendono altrettanto bene dei nostri, se non addirittura meglio, e farli sparire dalla faccia della terra! Naturalmente ci assicureremo di ottenere prime edizioni firmate prima di ucciderli, e non dubito che saccheggiare le loro case si rivelerà un'attività estremamente redditizia. Ma la spinta principale dietro la nostra missione sarebbe quella di seguire alla lettera il motto del capitalismo americano: seppellire la concorrenza!» E Baxter Brittle avrebbe commentato: «Che ottima idea, amico mio. Ti
prego, ti prego di portare via qualche souvenir per me. Ma non farti fare autografi con dedica, mi raccomando!» Mick Prince aveva elaborato il piano mentre si trovava ad Antigua con Theodore, fuori della circolazione e intenti a spassarsela. Gli era sembrato il metodo ideale per promuovere il miglioramento dei risultati nel settore editoriale. Mick si domandò come mai il crimine organizzato non ci avesse pensato prima. L'esecuzione del piano avrebbe potuto addirittura segnare il primo passo nello sviluppo di un nuovo potentato nel campo dei media. Sì. Droga, racket, prostituzione, gioco d'azzardo e bestseller! Merda, era un'idea geniale! E lui stesso, alla lunga, si sarebbe trovato in una posizione ideale per vendere i suoi libri ai grandi editori. Proprio come aveva promesso Donald Marquette. Avrebbe potuto entrare a far parte degli autori selezionati per la collana di cui avevano parlato: William Blessing presenta: Occhi cavati e affettati, di Mick Prince. Dio, che trip sarebbe stato! «Hai trovato qualcosa?» chiamò all'altro capo del locale. «No, merda», rispose Theodore. «Solo qualche bottiglia e vecchi video del cazzo!» «Continua a cercare. Dev'esserci per forza qualcosa!» Mick si avvicinò all'altare. Quel pazzo di Baxter venerava quell'angolo dello scantinato. Forse era convinto che un Satana di plastica sarebbe bastato a proteggere i soldi che aveva nascosto. «Scusami, fratello», disse Mick rivolgendosi all'immagine della testa di caprone sullo sfondo di un pentacolo che decorava un drappo. «Ho bisogno di quella grana.» Spazzò con un braccio la superficie dell'altare. Idoli e icone rovinarono a terra. Rimosse il paramento rosso dell'altare. Sotto di esso trovò una cassettiera. Mick cominciò a frugare nei cassetti. Sì, sì. Ora che il Nemico era stato sconfitto, il mondo era suo. Dopo quella sera nella casa di Blessing, quando aveva scoperto il vero motivo che l'aveva portato a Baltimora, si era finalmente sentito un uomo libero. Mick Prince aveva sempre avvertito la presenza di un Altro, un terribile nemico, fin dai tempi del riformatorio. Non aveva mai conosciuto i genitori, probabilmente una puttana e il suo magnaccia, come aveva sempre pensato. Eppure non si era mai inserito negli orfanotrofi che lo avevano ospitato, né aveva sopportato i genitori adottivi ai quali era stato a più riprese affidato. Fu solo quando venne arrestato per spaccio di droga nell'a-
rea della baia di San Francisco a quattordici anni che scoprì quanto gli piacesse leggere. E in particolare amava leggere storie folli e inquietanti, fiction e non. Era ugualmente felice di leggere il Marchese de Sade o Clive Barker, libri sull'Olocausto e sui khmer rossi o romanzi di Stephen King. Li divorava tutti. Era proprio una bella passione, quella per i libri. La maggioranza dei fuorilegge (ed era quello che Mick Prince si considerava: un fuorilegge) passavano il tempo giocando d'azzardo, andando a donne o quant'altro. Che spreco. La lettura, invece, era il massimo. Ci si poteva dedicare in cella o fuori della cella, non faceva alcuna differenza. I libri erano libri, e si potevano leggere dove cazzo ti pareva. Mick tirò a sé uno dei cassetti con violenza tale da strapparlo alle guide e rovesciare a terra tutto il suo contenuto di candele. Ne raccolse una, l'accese e la usò per illuminare gli angoli più bui della cassettiera e vedere se c'era nascosto qualcosa. Niente. Merda! Una furia nera s'impossessò di lui. Cominciò a scalciare e a spaccare l'altare, scheggiando la balsa e il compensato. La rabbia si placò altrettanto bruscamente di quanto l'aveva assalito. Ora che il Nemico era morto, Mick aveva cose migliori da fare che andare in giro a elemosinare spiccioli. Aveva degli obiettivi! Aveva dei sogni! Il Nemico era sempre stato il protagonista dei suoi incubi. Fin da quando ricordava. Una forma oscura, nascosta nella penombra, che si ostinava a far andare tutto storto nella vita di Mick. Di tutti i racconti dell'orrore e dell'occulto che aveva letto, quelli con cui Mick aveva incontrato maggiori difficoltà erano stati quelli di Edgar A. Poe. Una volta aveva anche letto una biografia di Poe. Cristo, che bastardo di uomo era stato! Non c'era da stupirsi di quanti nemici avesse. Il personaggio con cui Mick più si identificava era l'esecutore letterario Rufus Griswold. Il buon vecchio Griswold aveva detto la verità a proposito di Edgar, questo era certo. La A tra il nome e il cognome dell'autore non stava per «Allan», ma per asshole. Comunque era un peccato che si fosse precipitato a vendere la sua parte della collezione Poe. Quel denaro gli avrebbe certamente fatto più comodo ora. «Ehi, Mick!» chiamò Theodore dall'estremità opposta del locale. «Ab-
biamo compagnia!» «Baxter?» Il grido di Mick fu per metà dettato dalla rabbia, per metà dal sollievo. Se davvero si trattava di Baxter Brittle, la sua comparsa avrebbe risolto un sacco di problemi. Avrebbero potuto ottenere i soldi di cui necessitavano e poi adios, amigos! Adios Baltimora! «No, amico. Non è Baxter.» Mick si voltò di scatto aggrottando la fronte. Il lungo cappotto nero descrisse un arco. Un uomo stava in piedi nella penombra accanto all'ingresso del locale sottostante lo scantinato. Era vestito di nero e il suo volto era nascosto dall'oscurità. Qualcos'altro sembrò muoversi alle sue spalle, dove il buio era più fitto. «Chi sei?» pretese di sapere Mick, avanzando lentamente di un passo, spingendo in fuori il petto e usando il tono più profondo e minaccioso. «Come cazzo sei entrato qui?» «Sono sceso dalle scale», rispose la figura. «Per quanto riguarda la prima domanda, Mick... Ti chiami così, non è vero? Mick Prince?» «Sì», confermò Mick, cercando di decidere che cosa diavolo fare in quella situazione. Un dito indicò il suo grosso, rozzo compagno dal volto segnato dalle cicatrici. Durante la loro recente «vacanza» Theodore aveva ampliato la sua collezione di tatuaggi e piercing. Ora gli orecchini pendevano dai suoi lobi come ninnoli da un albero di Natale fatto di muscoli. «E tu... tu sei Theodore.» «E allora?» ribatté Theodore. «Sì. Vi riconosco entrambi. Non vorrei mai prendermela con le persone sbagliate. Sarebbe un peccato. Un vero peccato.» «Ascolta, bello, vuoi dirci che cosa vuoi da noi?» esortò Mick. «Stiamo lavorando!» «Già, e a quanto pare mi state dando una mano», commentò l'uomo. Mosse un passo in avanti. L'uomo indossava occhiali da sole nonostante la poca luce nello scantinato. Teneva le mani affondate nelle tasche di un lungo cappotto scuro. «Io sono l'uomo morto a cui tu hai violentato la moglie, Theodore», annunciò. «E vorrei scusarmi in anticipo per la mia mancanza di fantasia nel tuo caso.» Una mano emerse dal cappotto reggendo una Heckler e Koch. L'indice
coperto di croste premette il grilletto e indirizzò una pallottola dritto all'inguine di Theodore. Theodore urlò. Si piegò in due e cadde a terra, contorcendosi. «Merda!» imprecò Mick. Estrasse il suo coltello. La canna della pistola si orientò ancora e lo puntò. «Non lo farei se fossi in te, Mick. Ti consiglierei di startene buono per il momento e lasciare che mi occupi del nostro signor Theodore. Sono indeciso se lasciarlo continuare a vivere privato dei suoi attributi maschili... o se mandarlo dritto all'inferno privato dei suoi attributi maschili. Tu che ne dici, signor stupratore?» Theodore riuscì solo a produrre una serie di lamenti agonizzanti. «Come vuoi.» La pistola tornò a muoversi. Stavolta la pallottola straziò la testa della vittima. Sangue e materia grigia si riversarono sul pavimento come un getto di vomito particolarmente ripugnante. «Questo è il genere di piercing che mi piace di più, Theodore», disse l'Uomo delle tenebre. Il corpo di Theodore sussultò, fu colto da un spasmo, scalciò... e poi rimase immobile. Mick Prince tremò. Fece un passo indietro, cercando di decidere che fare. Uomo morto? Ha detto di essere l'uomo morto? Ma di che cazzo sta parlando? Mick Prince non lo sapeva ancora, ma l'uomo aveva ucciso Theodore, questo era chiaro, l'aveva visto con i suoi occhi. Fece ricorso alle sue esperienze con la violenza in carcere e sulla strada, oltre che con innumerevoli altre deliziose forme di espressione umana. Non aveva sempre sentito dire che era fondamentale mantere il sangue freddo quando gli altri perdevano il loro? E così Mick alzò le mani per mostrare di non essere armato. Sapeva che doveva guadagnare tempo. Dopodiché forse sarebbe stato in grado di reagire in modo appropriato. Se avesse guadagnato tempo sufficiente avrebbe avuto qualche possibilità di riuscire a fregare il misterioso pazzoide che aveva davanti. «Merda, amico! Io e te non abbiamo nessun conto in sospeso, chiunque tu sia!»
«Ah, no? E allora perché mi hai sparato?» Fu allora che Mick Prince comprese. La cosa non aveva alcun senso, ma cionondimeno comprese. Quel figlio di puttana credeva di essere William Blessing! Doveva per forza essere così. Perché non c'era modo che quel pezzo di merda potesse davvero essere Blessing! Lui stesso aveva sparato a Blessing... e poi Marquette, che il cielo lo benedica, gli aveva sfondato il cranio con quel busto. «Amico, quando io sparo a qualcuno... quello muore. Muore per davvero.» «Non ti posso certo contraddire, Mick. Io sono morto, infatti. Morto per davvero.» «Tu... tu saresti William Blessing?» «Esatto. Chi sarebbe in grado di riconoscere i suoi assassini in un caso ancora irrisolto... se non la stessa vittima?» «Cristo.» La mente di Mick sembrava distorcersi alla sola idea di quanto sembrava intuire. Ma rimase calmo, freddo, continuando a credere, nel profondo, che doveva pur esserci una spiegazione razionale. Nel frattempo, la sua prima e unica priorità era continuare a respirare. «E così... sei semplicemente... venuto fuori dalla tomba, ti sei procurato una pistola e hai cominciato a dare la caccia a quelli che secondo te ti avrebbero ucci...» In quell'istante colse la vibrazione. Era nell'aria... La carica elettrica che percepiva a tarda notte, quando i suoi sensi esasperati captavano quell'odore... L'odore dell'Altro... Del Nemico... Mick raggelò, incapace di muoversi. Era assurdo: si trovava a fissare negli occhi un uomo che aveva appena ucciso il suo compagno... e che sosteneva di essere un cadavere tornato alla vita. E all'improvviso, ogni sua fibra gli disse che quello era la cosa, l'entità che per tutta la vita aveva temuto di incontrare, la forza che disturbava il suo sonno, il suo anatema, la sua nemesi. Ma tenne duro. Era stato un duro per tutta la vita, e intendeva rimanere tale. «Tornato dalla morte, eh?» riuscì a replicare. «A me quella pistola sembra viva, invece.» «Funziona. È questo che importa.»
Qualcosa scattò nella mente di Mick. «Merda. Tu sei quello che ha ucciso il Conte... e il Marchese...» «Sì, ho una missione da portare a termine.» «E Baxter... che fine ha fatto?» «Temo che anche Baxter sia andato incontro al suo destino.» «D'accordo, maledetto. È tutta la vita che aspetto questo momento. Ti sentivo aggirarti nella mia mente fin da quando ero ragazzino, ce l'hai sempre avuta con me. Non so perché. Forse sei stato tu a fare di me quello che sono. Io ho solo una domanda da farti.» L'Uomo delle tenebre rimase in silenzio. «Dimmi una cosa sola: chi è la mia vera madre? Perché mi ha abbandonato? Devo saperlo.» Gli occhi di Mick tradirono la stessa sorpresa per aver pronunciato quelle parole. «Così le domande sono due. E poi credo che tu mi abbia scambiato per uno psicoterapeuta. Invece sono il tuo becchino.» «E allora cosa aspetti? Facciamola finita e smettila di sprecare il mio tempo.» «Sei veramente un duro, eh, Mick?» «Sì», rispose Mick. «Duro fino all'ossso.» «Hai paura?» «Paura un cazzo!» sibilò sprezzante Mick. «Mi piace il tuo coraggio, Mick», commentò l'Uomo delle tenebre. «Mi piace il tuo atteggiamento. E allora ti dirò una cosa: voglio darti una possibilità. Mi sembri uno abituato a cavartela e a lottare nelle strade, no?» Suo malgrado, Mick avvertì un'ondata di orgoglio. «Ci puoi scommettere.» «Se batti il mio ragazzo ti lascerò andare via di qui vivo.» «Il tuo ragazzo?» «'Quando il marinaio guardò all'interno'», citò l'Uomo delle tenebre, «'il gigantesco animale aveva afferrato Madame L'Espanaye per i capelli (che erano sciolti, poiché li stava pettinando) e le faceva danzare il rasoio attorno al volto, a imitazione dei movimenti di un barbiere. La figlia giaceva a terra, immobile, svenuta. Le urla e i tentativi della vecchia donna di divincolarsi (durante i quali le vennero strappati i capelli) ebbero l'effetto di mutare le intenzioni pacifiche dell'orangotango in rabbia. Con un solo, deciso colpo del muscoloso braccio, le staccò quasi la testa dal corpo.' «Dunque», disse l'Uomo delle tenebre. «Primo test: da dove è tratto il passaggio?»
«Facile. L'ho letto. Gli omicidi delle Rue Morgue.» «Eccellente. Allora hai già fatto la conoscenza del mio ragazzo.» L'Uomo delle tenebre si scostò di lato. Nel buio alle sue spalle si ripeté il movimento percepito in precedenza da Mick. Una presenza, una forma che si adattava perfettamente all'oscurità... E una massa di peli. Era una scimmia. Un primate... un orango. Sgraziato, brutto e ricurvo, ma insolitamente grande e dall'aspetto possente. «Che ne dici, Mick? Batti il mio ragazzo e sei libero di andartene.» «Allora mandalo avanti, non ho tempo da perdere.» L'Uomo delle tenebre lasciò passare la bestia. Dinoccolato e minaccioso, l'orango avanzò, le lunghe braccia tese in avanti. Puzzava di frattaglie e di selvatico. Mick fu grato per il rigonfiamento che avvertiva nello stivale: il suo coltello a scatto, l'arma per eccellenza delle lotte di strada. L'orango fece una smorfia e ritrasse le labbra sui denti, voltandosi a guardare l'Uomo delle tenebre come in attesa di istruzioni. Mick recuperò rapidamente il coltello e ne estrasse la lama in un unico, fluido movimento. Ma con un fulmineo colpo del gigantesco braccio l'enorme primate sbalzò la lama dalla mano di Mick, rompendogli il polso. Afferrandosi il polso con l'altra mano, Mick emise un grido di dolore. L'orango avanzò lentamente di un passo. Mostrando gli affilati denti gialli, alzò un braccio. Tra le dita stringeva un vecchio rasoio a lama libera. Poi, nella sua mente, Mick sentì il primate parlare. Un borbottio basso e soffocato, la rozza voce dell'Altro che s'incuneava nella sua testa per scheggiare gli ultimi suoi pensieri coerenti. Mick, vecchio mio, disse l'orango, ti farò a pezzi. Quando fu tutto finito, l'orango si ritrasse dai resti di quello che una volta era stato un uomo, gettò via il suo affilato strumento di lavoro e tornò a immergersi nelle tenebre. Le ombre mutarono. La figura che riemerse dal buio non era più un primate, bensì un rapace. Un corvo. «C'è parecchia materia prima a cui attingere laggiù, sei hai bi-
sogno di un ritocco di chinirgia plastica», reclamizzò il volatile. «Vedo», rispose Blessing. «Se fossi in te ne approfitterei. Il tuo aspetto non è a posto.» «Non mi sento a posto neppure dentro.» «Ancora uno, poi avremo finito e potrai riposare.» Blessing annuì. Sì. Il Riposo. Aveva ancora una sola dose di giustizia da somministrare. E aveva detto a Amy tutto quello che c'era da dire. Occasionalmente, nel corso della loro vita assieme, aveva scritto poesie per lei. Alcune gliele aveva regalate. Altre, invece, le aveva tenute per sé, raccogliendole in un unico volume data la loro coerenza tematica. Al momento della sua uccisione lei non sospettava nemmeno l'esistenza di quel volumetto, né aveva letto alcuna delle poesie in esso contenute. L'aveva nascosto dietro l'opera completa di Shakespeare e alcuni libri di Keats e Shelley. Era quella la rivelazione che aveva fatto a Amy nei panni del proprio cugino. «Su, coraggio», esortò il corvo. Si posò sui resti del cadavere, sorseggiò un goccio di sangue e beccò qualche brandello di carne. «Chi può dire che non incontrerai più Amy? Ti conviene comunque assumere il tuo aspetto migliore. Avanti, serviti! Ti ridarà un po' di colore alle guance!» Il corvo riportò la sua attenzione sul pasto sacramentale. Al margine della pozza di sangue, William Blessing si inginocchiò. Ma il suo gesto non preludeva ad alcuna forma di preghiera. 28 «Profeta!» dissi io. «Figlio del male! profeta, uccello o demonio che tu sia! Mandato dalla tempesta o scagliato dalla tempesta qui sulla riva, Desolato ma indomito, in questa deserta terra incantata, In questa casa infestata dall'orrore dimmi il vero, t'imploro... C'è, c'è un balsamo in Gilead? dimmelo, dimmelo, ti imploro!» Disse il corvo: «Mai più».
EDGAR A. POE, «Il corvo» La tomba era vuota. Donald Marquette fissò la bara che i becchini avevano estratto dalla fossa. Ciò che vide lo sconvolse. La bara si era riempita di terra, la quale naturalmente era stata rimossa. Il coperchio era stato sfondato, spaccato a metà, ridotto in schegge. «È la cosa più strana che abbia mai visto», commentò uno dei becchini, grattandosi la testa. «Sembra quasi che il cadavere l'abbia sfondato a cazzotti dall'interno!» Il sole era tramontato da poco e una brezza agitava le foglie di un albero accanto. Nell'aria c'era un forte odore di terra smossa e di gas di scarico, prodotti dal motore diesel del vecchio camion nella strada attigua. «Ma questo è impossibile, naturalmente», continuò l'uomo dall'aspetto trascurato, che puzzava di sudore mescolato a birra e fumo di sigarette. «Voglio ben sperare!» ribatté un altro, facendo un passo indietro. «Ovviamente impossibile», concordò Donald Marquette. «L'importante è aver scoperto che la tomba è stata profanata e il cadavere trafugato.» Si rivolse al guardiano notturno del cimitero, un vecchietto rugoso che stava mangiando un panino con pancetta, lattuga e pomodoro. «A chi devo rivolgermi per denunciare il fatto, a quale autorità, che non sia quell'idiota di un poliziotto di strada con cui ho parlato ieri?» Il vecchietto si pulì la maionese dai folti baffi. «Non saprei proprio. Per quel che ne so io, una cosa del genere non è mai successa prima.» Si tolse il cappello di panno e si grattò un solitario ciuffo di capelli al centro di una testa ormai calva. Una nuvoletta di forfora e di pelle morta gli ricadde sulle spalle. «La polizia ne ha già piene le tasche con i vivi, di sera. Secondo me le conviene sporgere denuncia domani mattina.» Scrollò le spalle. «Meglio parlare con quelli del turno di giorno.» Marquette aveva impiegato tutta la giornata per far procedere la riesumazione. I lavori erano cominciati relativamente presto solo in seguito alle sue insistenze e all'offerta di pagare un sovrapprezzo. E a dispetto della sua irritazione con il poliziotto della sera precedente, non era più tanto sicuro che avvertire i piedipiatti fosse ancora una buona idea. L'avrebbero certamente costretto a rispondere a una nuova, lunga serie di domande sulle circostanze della morte di Blessing. Il fresco della sera aveva cominciato ad accarezzargli le ossa come il viscido tentacolo di una piovra e riteneva già un discreto successo il fatto di
non aver ancora ceduto al panico. Un nuovo pensiero aveva cominciato a ronzargli per la testa come una battuta di una musica che si ripeteva all'infinito: E se Blessing fosse davvero uscito dalla tomba da solo? E se fosse tornato dalla morte per vendicare la moglie, per ricomporre la collezione Poe, per trascinare via con lui quelli che l'avevano ucciso? Sciocchezze, naturalmente. Pura follia. Qualcosa stava accadendo, questo era evidente. Il Conte e il Marchese erano stati uccisi, Baxter era scomparso, e ora questa faccenda della tomba. Che esistesse un filo comune era innegabile. Ma certamente era tutto opera di persone ben vive. Forse un gruppo Goth rivale, ossessionato dalla morte, oppure Baxter stesso, e si potevano formulare altre centinaia di ipotesi. Quando si aveva a che fare con un branco di personaggi morbosi e inquietanti come i Goths, c'era forsa da stupirsi per la trafugazione di un cadavere ogni tanto? Chissà. La messinscena poteva addirittura essere stata organizzata da quel pazzo di Tramonto oscuro, o anche dell'editore di Blessing. Gli sembrava di leggere i titoli dei giornali: Cadavere di scrittore horror in decomposizione ritrovato nell'ufficio recensioni del New York Times. Ottima pubblicità! Sì. Qual era quel principio filosofico e scientifico? Ma certo. Il rasoio di Occam. La risposta più semplice a un quesito era sempre la risposta esatta! E un cadavere con due pallottole conficcate negli organi vitali e il cranio sfondato, dichiarato morto oltre ogni ombra di dubbio e pieno di unguenti per l'imbalsamazione, non era certo il candidato ideale per riuscire a liberarsi da una robusta bara di rovere sepolta sotto due metri di terra e sassi! «Non si può fare nulla adesso?» domandò al capo dei becchini. «Temo di no», rispose l'uomo. Sputò una boccata di tabacco da masticare sul terreno. «Che strana storia. Era uno scrittore horror, no?» «Sì», confermò Marquette. Le fronde degli alberi sbattevano ora le une contro le altre alla brezza, che si stava trasformando in un vento piuttosto teso. Le stelle e la luna venivano oscurate da nubi scure e minacciose, che annunciavano un altro temporale. Nulla di strano in una zona dove il tempo era sempre capriccioso; ma comunque in un cimitero fonte di un certo disagio. «Il signor Poe è qui da un secolo e mezzo e non ha mai tentato di uscire dalla sua tomba», informò il guardiano.
«Per quanto ne puoi sapere tu», ribatté uno dei becchini. «Solitamente la gente esce dalle tombe quando è incazzata», scherzò uno degli altri, appoggiandosi alla vanga e sorridendo. «Perché mai sarebbe dovuto uscire Poe?» «Probabilmente per reclamare i suoi diritti d'autore!» sbottò il guardiano. «Quel poveraccio è morto senza un centesimo in tasca. Non come il nostro signor Blessing. Ho visto i funerali e la bara. Il signor Blessing era ricco. Non aveva bisogno di recuperare qualche soldo da portarsi nell'aldilà.» Marquette ebbe un accesso di rabbia. «Basta così!» intimò. «Ci troviamo sul luogo di un delitto. La tomba di Blessing è stata violata e profanata, e il suo corpo è stato trafugato. È un'odiosa dissacrazione e voglio che i colpevoli vengano scoperti.» La sua voce era tagliente e profonda. Marquette aveva scoperto di aver acquisito notevole autorevolezza e sicurezza in sé negli ultimi mesi. Uccidere un uomo l'aveva indubbiamente fatto maturare. «Sta per piovere. Coprite la fossa con un telone di plastica. Potrebbero esserci tracce e indizi utili per la polizia.» «Giusto», concordò il guardiano. «E terrò gli occhi aperti. Potrebbero esserci in giro cadaveri ambulanti.» «Se lo vedi, digli di tornare qui al suo posto!» rincarò il becchino più spiritoso. Marquette si voltò bruscamente e si allontanò a passo deciso. Qualunque cosa stesse succedendo, non gli piaceva affatto. Aveva già avvertito Mick e Theodore di sparire dalla circolazione. Erano tutti in pericolo. Lo avvertiva nell'aria. Mentre tornava in direzione della sua auto venne scosso da un brivido. Una grossa goccia di pioggia gli cadde sulla fronte. Era ora di ritirarsi in territori più sicuri. Ora di prendersi quella vacanza a cui pensava da tempo. Avrebbe potuto mandare avanti gli affari per telefono e per fax anche se si fosse trovato altrove. E nel frattempo avrebbe lasciato che si calmassero le acque. Il problema era che avrebbe dovuto convincere anche Amy a partire. Se lui era in pericolo, poteva esserlo anche Amy. E c'erano molti, molti motivi per cui era importante che Amy Blessing rimanesse viva e in salute. Perché l'amava? È così? si domandò, mentre oltrepassava in fretta il cancello del cimitero e correva verso la macchina. Dal cielo una pioggia gelida cadeva ora a tamburo battente.
Mentre apriva la portiera della sua fiammante BMW, immergendosi nel delizioso profumo delle macchine nuove, Donald Marquette sorrise mestamente tra sé. Già. «Amore» era sempre una parola utilissima. Un fragoroso tuono risonò all'esterno. Amy Blessing si svegliò. Era seduta al tavolo della stanza che ospitava la collezione Poe, il libro schiacciato sotto il petto. Avvertì sulle guance il bagnato salato delle lacrime. I fogli di carta stampati al laser, che William aveva accuratamente rilegato di persona, erano ancora umidi. I suoi capelli erano sciolti e in disordine. Sentiva l'odore del proprio corpo, misto a quello delle candele che aveva acceso e sistemato attorno a lei sul tavolo, accanto alla copia del New York Times che aveva sfogliato in quella stessa stanza la settimana precedente, per sentirsi vicina a William e alle cose che lui amava fare, e nonostante i terribili ricordi evocati da quell'ambiente. Si era addormentata. Aveva portato con sé il libro che aveva trovato, il volume di poesie che William aveva avuto intenzione di darle, perché voleva leggerle in quel luogo speciale, il luogo che William aveva riempito con la poesia dell'autore che tanto aveva significato per lui. Le candele alla lavanda erano quasi interamente consumate. Aveva dormito solo per poco tempo. Ma com'era successo? Poi ricordò. Abbassò gli occhi alla pagina alla quale era aperto il libro. La poesia che la occupava, molto breve, ricordava i giorni che avevano passato insieme in un rustico di montagna accanto a un bellissimo lago. Un mattino, dopo una squisita colazione a base di paste ai mirtilli, gli aveva tagliato i capelli. L'interno della casa profumava ancora dei dolci che aveva da poco sfornato, e lei si era sentita viva e piena d'energia gustando il sapore di una tazza di ottimo tè Earl Grey. Guardando fuori verso l'azzurro del lago, il verde dei pini e il rosso brillante delle bacche su un cespuglio accanto alla veranda, lui le aveva confessato di aver appena colto il reale significato di eternità. L'eternità non poteva essere misurata tra la nascita e la morte, perché non era affatto lineare. Si poteva conoscere la vita eterna se la vita di ciascuno era piena dell'autentica profondità dei sentimenti offerti dalla vita stessa. Ogni attimo del presente diventava eternità. Ma la chiave, aveva
spiegato, consisteva nell'essere veramente innamorato e poter guardare l'oggetto del proprio amore nella bellezza di quell'attimo. Per sempre. Per sempre era una precisazione scontata per gli innamorati. E poi William aveva detto di essere veramente ed eternamente innamorato di lei. Per sempre. Per l'eternità. Ora come allora. Aveva espresso meravigliosamente i suoi sentimenti nella poesia, e lei, leggendola, era stata travolta dall'emozione. Aveva pianto a lungo, a dirotto, appoggiandosi al singolare libro come a volersi avvicinare il più possibile a esso. Aveva pianto, affondando il volto nelle braccia piegate sul tavolo. E si era addormentata. Chiuse il libro e si strofinò gli occhi. Si sentiva strana. «Per stasera basta», sussurrò fra sé. Avrebbe portato il volume con sé in camera da letto e l'avrebbe sistemato sul cuscino accanto al suo nel grande letto matrimoniale. Il cuscino di William. Così avrebbe potuto leggere un'altra poesia l'indomani, se pensava di averne la forza. Fuori la notte le sembrò particolarmente buia e impenetrabile. Poi si rese conto che stava piovendo e che era stato un tuono a svegliarla. Un lampo illuminò la finestra. La luce persistette per un attimo. Poi scemò. Passò un istante. Poi di nuovo un tuono. Aveva davanti a sé una teiera e una tazza. Naturalmente il tè si era raffreddato. Prese la tazza. Continuava ad avvertire una sensazione strana. Molto strana. C'era qualcosa che non andava. Aveva fatto dei sogni assurdi, di cui però non ricordava nulla. Sembrava che fossero celati alla coscienza del suo ricordo da un tenda diafana e opaca. Oltre quel velo sembravano muoversi forme di cui serbava una vaga memoria, ma nessuna di esse era tangibile... Tuttavia, si sentiva molto vicina a William. Era come se la sua morte fosse stata il sogno dal quale si era appena destata. Il dolore della violenza, il trauma di quella serata... c'erano interi lassi di tempo di cui non riusciva a ricordare nulla. Come una sorta di blackout indotto dall'alcol. Un fenomeno di rimozione, aveva spiegato lo psichiatra che l'aveva in
cura. Una reazione perfettamente normale e sana. Era il modo in cui la mente affrontava cose troppo terribili per essere accettate. Non aveva udito gli spari che avevano ucciso William, né visto quale degli uomini malvagi aveva sollevato il busto di Pallade, usandolo per fracassare la testa del marito. Si era svegliata in ospedale, già sedata. Prendeva ancora gli antidepressivi. I suoi amici e la sua famiglia erano stati tutti gentili e di grande conforto, ma ciononostante dal momento in cui aveva appreso della morte di William le sembrava di vagare sul fondo di un oceano di un altro pianeta, avvolta nella penombra. A volte si pentiva di aver deciso di rimanere nella casa nel centro della città, ma d'altra parte non poteva neppure immaginare di abbandonarla. Un altro lampo, questa volta più intenso. Gettò un'ondata di luce fino all'altro capo della stanza, che prima era immerso nell'oscurità. C'era qualcosa che non andava là. C'era qualcosa di molto sbagliato in quell'estremità della stanza! La malinconia e la tristezza, la sensazione di smarrimento, vennero spazzate via da un fiotto di adrenalina. Amy si alzò, si avvicinò alla parete e premette l'interruttore. I faretti sistemati in modo da illuminare i pezzi più importanti della collezione si accesero. Il più distante era stato orientato in modo da illuminare il busto di Pallade, sovrastato dal corvo imbalsamato. Ma il busto era stato portato via dalla polizia per eseguire i rilievi delle impronte digitali e in quanto arma del delitto. Anche il corvo era stato rimosso, ma Amy non si era curata di chiedere perché, né dove fosse stato trasferito. Eppure ora erano lì. La testa di marmo bianco di Pallade Atena, la dea greca della saggezza. L'uccello nero. Intatto. Uno sguardo di sfida negli occhi. Mentre fissava impietrita i due oggetti (era stato Donald a riportarli nella biblioteca? E se così era, perché l'aveva fatto?) Amy sentì la porta al piano terreno chiudersi con un colpo. Sentì il rumore di passi che risalivano rapidamente le scale. «Amy! Amy, sei in casa?» Era la voce di Donald. Era agitato, la chiamava gridando. Si precipitò alla porta della sala Poe e la aprì. «Donald!» chiamò. «Sono qui.» La casa era illuminata a giorno. Aveva acceso tutte le luci. Salì di corsa
gli ultimi scalini, gli occhi sgranati, profondamente turbato. «Amy? Stai bene?» «Be', sì, credo di sì... ma sono molto scossa.» Lui l'afferrò per le spalle e le domandò ansimante: «Che cos'è successo?» Guardò alle sue spalle, verso l'interno della biblioteca. «Che ci fai qua dentro, Amy?» «Il busto di Pallade. Il corvo... Sei stato tu a riportarli qui?» «Che cosa?» Donald la scostò di lato ed entrò come una saetta nella stanza, gli occhi rivolti verso la parete più distante. Amy osservò Donald mentre, attonito, fissava il busto e l'uccello imbalsamato. Poi lui notò gli scatoloni che Amy aveva trasferito nella biblioteca. Gli scatoloni di libri che aveva aperto e portato su dal piano superiore, ma che non aveva ancora svuotato. Lui si avvicinò ai libri, come in trance, si chinò e sfiorò il dorso di alcuni con la mano. Quando tornò a guardarla, i suoi occhi erano colmi di stupore; sembrava quasi sotto choc. «Questi libri... Questi sono...» Donald scosse la testa, come se volesse riallineare parti del suo cervello che si erano scollegate. «Voglio dire, questi fanno parte della collezione rubata...» «Sì. Non è incredibile? Li hanno consegnati stamattina, dopo che sei uscito!» lo informò. «Sono tornati a casa, nel posto dove è giusto che stiano. Ma non ho la più pallida idea di chi abbia riportato qui il busto e il corvo. Sei forse...» Lui scosse la testa, tentando di nuovo di mettere ordine nella mente. «No. No, Amy.» Fece un passo verso di lei, la prese per un braccio. «Ma questi libri consegnati stamattina... hai idea di chi possa?...» Donald notò sul tavolo accanto alle candele il volumetto di poesie rilegato a mano. Si avvicinò e lo girò. «Un libro di poesie di William Blessing. Non sapevo nulla di questo!» «No, infatti. William intendeva darlo a me... È stato suo cugino a dirmi dov'era nascosto.» «Suo cugino?» domandò Donald. «Non sapevo che avesse un cugino con cui sei in contatto.» «Si chiama Delmore Blessing. Ultimamente non si erano frequentati molto. Ma sa un sacco di cose su Bill, cose di cui anch'io ero all'oscuro», spiegò Amy. «È stato Delmore a recuperare i libri.» «Recuperare...» fece eco Donald. «Ma... come ha fatto?»
«Non lo so.» «Come hai conosciuto... questa persona?» «È passato a trovarmi... ieri. Si è presentato. Abbiamo parlato. Avrei voluto raccontartelo, ma lui mi aveva chiesto di non dirti nulla. Non subito, comunque. Ha detto che vi sareste incontrati a tempo debito.» Donald l'afferrò per le braccia. La fissò negli occhi con un'intensità che Amy non aveva mai visto prima in lui. «Amy», disse. «Ascoltami molto attentamente. Tu sei in grave pericolo. E, di conseguenza, potrei esserlo anch'io.» «Pericolo? Ma perché? In che modo?» «Un pazzo, forse proprio quest'uomo che è venuto a trovarti, benché non possa dirlo con certezza, sta commettendo una serie di atrocità a Baltimora. Atrocità collegate con William Blessing.» «Atrocità? Cosa vuoi dire?» «Ci sono stati... degli omicidi! E la salma di Bill...» Distolse lo sguardo, mordendosi le labbra, dando l'impressione di essere enormemente combattuto. «È...» «La salma di mio marito? Che cos'è successo? Dimmelo!» pretese, sull'orlo di una crisi di pianto isterico. «Dimmi che cos'è successo alla salma di mio marito!» «È stata trafugata.» «Che cosa?» «Sì. Devo denunciare il fatto alle autorità competenti. Ma stasera... Ascoltami: stasera dovremmo andare da un'altra parte. Via da qui. Non sei al sicuro in questa casa.» Lei non era ancora riuscita ad afferrare appieno il significato delle parole di Donald. «Trafugata... Trafugata dalla tomba? Ma perché? Chi può aver fatto una cosa simile?» «Amy, tuo marito ha avuto una vita lunga e intensa prima di conoscere te. Potrebbe aver avuto segreti che non ti ha mai rivelato. Dio solo sa quali strane conoscenze e frequentazioni avesse. Forse ha fatto un torto a qualcuno... Forse c'è di mezzo... non lo so... la maledizione di qualcuno. Sono tutte cose che potremo scoprire più avanti. Ma ora devi preparare in fretta una borsa. Ti porterò in un albergo, ti accompagnerò nella tua stanza e ne prenderò una accanto alla tua. E magari avvertiremo la polizia per precauzione. Non so esattamente che cosa stia succedendo, ma sono assolutamente certo che dobbiamo andarcene da questa casa!» «Ma io abito qui... E devo proteggere...»
«Avvertirò la polizia. Possiamo anche ingaggiare una guardia di sicurezza, o qualcosa del genere. Amy, tutto quello che c'è in questa casa sarà al sicuro, te lo prometto. Ma noi dobbiamo andarcene!» Qualcosa nel profondo del suo animo non solo si ribellò all'idea di abbandonare la casa, ma la portò a guardare Donald Marquette con occhi nuovi, a vedere in lui una persona diversa. Una vocina sembrò sussurrarle nella mente: Chi è che nasconde davvero molti segreti? «Se c'è qualcosa da temere, perché non possiamo semplicemente chiamare la polizia da qui e chiedere un servizio di protezione?» «Non basta, Amy», replicò, scuotendo con energia la testa. «In questo caso... se possiamo rivolgerci a una società di vigilanza... perché non farlo subito, e da qui? Non possiamo chiamarli e far venire qualcuno?» Fece un ampio gesto con le braccia. «Questa collezione, questi libri e cimeli, erano cose a cui William teneva moltissimo. Ora che sono stati restituiti non voglio rischiare di perderli di nuovo.» «Tutti questi oggetti non valgono nulla rispetto a te. Alla tua sicurezza, alla tua vita.» Donald sembrava sottoposto a grande stress, come se qualcosa gli pesasse sulla coscienza da tempo e cominciasse solo in quel momento a esercitare appieno la sua pressione. Amy scosse la testa. «Perché mai la mia vita dovrebbe essere in pericolo? Non capisco, Donald. Se vuoi che lasci la mia casa, devo sapere esattamente che cosa ti fa pensare che io sia in pericolo.» Per un attimo Donald fu a corto di parole. «Questo uomo... questo sedicente cugino di William... la cosa mi suona strana. Potrebbe essere lui il pericolo. Potrebbe essere un folle!» «Se avesse voluto farmi del male, avrebbe potuto farlo già in due occasioni!» ribatté con decisione Amy. «Ora devi dirmi tutto quello che sai. Lo pretendo. Perché dici che potrei correre un pericolo stasera?» Amy cominciava a sentirsi come se stesse emergendo da una fitta nebbia. E ciò che vedeva differiva enormemente da quanto avesse mai immaginato. Fino a poco prima non aveva voluto conoscere altro che lo stupore chimicamente indotto della malinconia, unico scudo di protezione contro un'esistenza che non si sentiva di affrontare. Ora, invece, stava uscendo dal sonno e prendeva coscienza di un mondo strano; oltremodo strano. «Dimmelo! Devo saperlo.» Donald aprì la bocca, ma non riuscì a emettere suono. I suoi occhi sfrecciavano a destra e a sinistra, colmi di panico e indecisione, ma privi di una
risposta alla domanda di Amy. Poi una voce giunse dalla porta della stanza. «Sì, Donald. Forse dovresti dirglielo.» 29 «Signor Valdemar, ci può spiegare quali sono ora i suoi sentimenti o i suoi desideri?» EDGAR A. POE, La verità sul caso del signor Valdemar «Che queste parole siano il nostro commiato, uccello o creatura malvagia» gridai, alzandomi. «Ritorna alla tempesta e alle plutonie rive della notte! Non lasciare alcuna penna nera come pegno della menzogna espressa dalla tua anima! Lascia intatta la mia solitudine! Abbandona il busto sopra la mia porta! Togli il becco dal mio cuore e la tua figura dalla porta!» Disse il corvo: «Mai più». EDGAR A. POE, «Il corvo» Il cuore gli batteva veloce, insistente e martellante nel petto, e le orecchie sembravano ronzare e riecheggiare senza sosta in un vertiginoso tintinnio di parole disgiunte, paure e sentimenti contrastanti. Tuttavia, quando quella voce giunse dalla porta, le parole lo colpirono come uno schiaffo al volto assestato dalla gelida mano della notte. Donald Marquette venne scosso dal suo stato e recuperò una feroce concentrazione. Girò la testa in direzione della porta. Sulla soglia c'era un uomo con un lungo cappotto scuro. Indossava un cappello, la falda abbassata sulla fronte. Il bavero del cappotto era alzato e gli nascondeva la parte inferiore del volto. Buona parte del resto della faccia era celata dietro un grande paio di occhiali scuri. Donald Marquette ritrovò la lingua. «Chi sei? Come sei entrato?» Il panico e la paura sembravano svaniti, cancellati da una possente scari-
ca di adrenalina. Sembrava aver recuperato il controllo. Non avvertiva altro che un'oscura minaccia nella figura ferma sulla porta, ma qualcosa di profondo, di istintivo, una sorta di atavico istinto di sopravvivenza prese il sopravvento in lui. La reazione di Amy fu molto meno allarmata. «Delmore», disse, muovendosi in direzione dell'uomo. «Che piacere vederla. Aveva ragione! Ho trovato quel libro di poesie...» Amy tornò a passi rapidi verso il tavolo e sollevò il volumetto per mostrarlo allo sconosciuto. «Vede?» «Sono contento», seplicò l'Uomo delle tenebre. «Ha già avuto occasione di leggerne qualcuna?» La sua voce si era sensibilmente ammorbidita. «Sì! Certo. Sono meravigliose. È come... È come se mi avessero restituito William. Ora posso rassegnarmi all'idea di non averlo più accanto perché so quali erano i suoi veri e più profondi sentimenti nei miei confronti. E so che sarà sempre nel mio cuore.» L'Uomo delle tenebre annuì. «È questo... è questo che William avrebbe amato sentirle dire, Amy.» Donald Marquette sentì la rottura nella voce dell'uomo. Forse per via della commozione, forse a causa di qualcos'altro. «Presumo che questo sia il misterioso cugino, non è così?» domandò Donald, la voce carica di sospetto e diffidenza. «Oh, sì, scusami. Delmore, le presento Donald Marquette. Il collega di William. È rimasto per continuare il suo lavoro e per aiutarmi a gestire l'eredità... e un sacco di altre cose.» «Sì, certo», disse l'uomo. «William mi ha scritto di lui.» La sua voce tornò a indurirsi. «Ed è proprio con Donald che voglio parlare. È per questo che sono tornato qui stasera, Amy. Speravo di non disturbarla. Vorrebbe lasciarci soli, andare a sbrigare qualche faccenda di sopra? Magari suonare un po' il pianoforte? Peccato che la serata sia così brutta e piovosa, fuori. Ma potrebbe comunque andare a trovare un'amica. Le chiamo volentieri un taxi, se vuole.» Donald venne assalito da un dubbio feroce. «Ha a che fare con l'eredità Blessing?» «Per certi versi sì», rispose l'Uomo delle tenebre. «Allora perché chiedere a Amy di andarsene? Lei è ancora direttamente coinvolta. Io non ho nulla da nascondere a Amy per quanto riguarda la gestione dell'eredità. Se vuole, può rimanere.» L'Uomo delle tenebre scosse la testa. «Preferirei che ci lasciasse.»
«Amy.» Donald parlò con voce tesa e dura. «Tutto quello di cui ti ho parlato... le ragioni per cui volevo che ce ne andassimo da questa casa finché non avremmo avuto la certezza di essere al sicuro... tutto è cominciato con la comparsa di questo uomo. Ho paura che ci sia lui dietro tutto quello che sta succedendo. È lui l'uomo che dobbiamo temere!» «Ma... Ma perché?» Amy si voltò a guardarlo, con veemenza. «Mi ha raccontato moltissime cose. È riuscito in qualche modo a recuperare i libri...» Donald si rivolse all'uomo che si faceva chiamare Delmore Blessing. «Il corpo di William Blessing non è più nella sua tomba. Sei stato tu a trafugarlo?» L'Uomo delle tenebre allargò le mani guantate, implorante. «Amy, la prego. Deve andare ora!» Amy scosse la testa e il suo sguardo si fece più freddo. «Che cosa? È la verità? È stato lei a trafugare la salma di William? È lei la causa delle preoccupazioni di Donald? È così?» «Deve fidarsi di me, Amy!» A giudicare dalla sua voce, l'uomo sembrava sull'orlo delle disperazione. «Vada! Vada via! Ora!» «William mi diceva sempre che la verità e la cosa più dura da accettare, ma è sempre la migliore. Perché crea sempre un legame tra i giusti e distrugge i malvagi», sibilò Amy. «Lei è malvagio, Delmore? Sta riversando la sua malvagità sul ricordo di suo cugino?» «No, Amy! No, glielo giuro.» L'Uomo delle tenebre alzò le mani in un gesto di supplica. «E allora quale sarebbe la questione di cui non può parlare in mia presenza?» pretese di sapere. Donald avvertì nella sua voce una forza che non aveva mai sospettato in Amy Blessing. «Sentiamo», rincarò Donald, già impegnato mentalmente a cercare il modo di guadagnare qualche attimo per chiamare la polizia. Poteva scattare fuori dalla stanza e comporre il 911 sul cellulare che aveva in tasca. Si pentì di non aver chiamato un servizio di vigilanza prima di essere tornato alla casa. «Che cos'ha da nascondere a Amy?» L'Uomo delle tenebre si voltò a fissare Donald Marquette. A un tratto sembrò prendere le sembianze di una statua animata, fredda e distaccata... eppure qualcosa di intenso ardeva in lui. «Molto bene. Lei non mi lascia altra scelta, Amy. Speravo di risparmiarle quest'esperienza, ma sono a corto di tempo.»
Lentamente, l'uomo si tolse il cappello. Poi si abbassò il bavero. Per ultimi, si tolse gli occhiali. I lineamenti dell'uomo erano vaghi, cerei e mal definiti. Più che al volto di un essere umano normale, il suo somigliava alla rappresentazione impressionistica che avrebbe potuto darne uno scultore. Perdeva scaglie di pelle e aveva le guance e il collo punteggiate da lesioni simili a croste. Marquette notò che la metà di un orecchio era scomparsa, mentre l'altro padiglione si trovava a una strana angolatura rispetto alla testa. Gli occhi, per quanto leggermente velati, ardevano comunque di identità e personalità. Una identità che Marquette aveva riconosciuto ma che non riusciva ancora a convincersi di accettare. «Amy», disse William Blessing. «In futuro voglio che tu ricordi questo episodio come un sogno. Un sogno, Amy. Mi capisci? Non voglio che diventi parte della tua realtà interiore.» «Ma io non...» La voce le uscì smorzata e inorridita. «Non capisco. Somiglia... Ora somiglia ancora di più... a suo...» «Non esiste alcun cugino, Amy», rivelò l'Uomo delle tenebre. «Io sono William Blessing. Sono io, tuo marito. Ci sono... conti in sospeso. Non so come, mi è stata concessa... una seconda, breve possibilità.» Guardò Donald e i suoi occhi sembrarono ardere, duri e infocati. «Per mettere a posto le cose. Per proteggere il mio ricordo, la mia eredità... e te, Amy, da ulteriori atrocità.» Donald Marquette scosse con convinzione la testa. Sentiva la follia mordicchiargli già i talloni, ma quella forza che aveva trovato dentro di sé, quell'istinto vitale che si era impossessato di lui, che l'aveva salvaguardato nei momenti di catastrofe, tornò a farsi valere. «No, Amy. È un trucco. Un inganno. Non può essere William Blessing. William Blessing è morto!» gridò. L'Uomo delle tenebre scosse tristemente la testa. «Non ho mai sostenuto di essere vivo, Marquette.» Mosse un passo verso di lui, puntandogli contro l'indice in un gesto di accusa. «Li ho uccisi tutti, Donald. Tutti i tuoi compagni, i Goths. Ho cancellato loro e la rovina che volevano portare nella mia casa... e forse anche alla letteratura. Vendetta? Può darsi. Giustizia? Senza ombra di dubbio! E ora devo chiudere il conto con te.»
«William...» lo chiamò Amy, la voce tremante. «Bill...» Donald fece un passo indietro, ma prima che riuscisse ad allontanarsi l'Uomo delle tenebre sfrecciò in avanti. Una mano gelida e cerea si strinse attorno alla gola di Donald. «No!» gridò Amy. «No!» Il braccio e la mano dell'uomo erano incredibilmente forti, A quella distanza, preso nella sua morsa, con l'odore della tomba ancora addosso e il forte, sprezzante senso di ultraterreno che l'uomo emanava, Donald non poté più negare, a dispetto delle resistenze della parte più razionale di sé, che si trattava realmente di William Blessing. Sentendosi soffocare, allungò una mano verso quel volto. Un lembo di pelle si staccò sotto le sue dita. Annaspando, disperato, Donald si scagliò contro il braccio che lo tratteneva, tentando con tutte le forze di staccare quella mano dalla sua gola. «È stato questo infame», disse l'Uomo delle tenebre. «E stato questo infame a uccidermi, Amy. Questo ripugnante traditore che avevamo accolto nella nostra casa, di cui ci eravamo fidati. È stato lui a introdurre le forze del caos e della corruzione nelle nostre vite!» «Aiuto... Amy!» riuscì a squittire Donald. «Chiama... la polizia!» «No!» urlò Amy Blessing La vista di Donald cominciava ad annebbiarsi e a tingersi di rosso mentre continuava a lottare disperatamente. Colse con la coda dell'occhio il movimento di Amy. Accanto all'ingresso c'era una sedia, un pezzo d'antiquariato. Si diceva che un tempo fosse appartenuta a Edgar Poe. Amy afferrò la sedia e corse verso di loro. Con il volto trasformato in una maschera orripilata e confusa, scagliò con forza la sedia contro la schiena dell'uomo che sosteneva di essere risorto dalla tomba Con un rumore forte e secco il pezzo di antiquariato si spaccò, scheggiandosi. La morsa mortale sulla gola di Donald si allentò. Lui si scaraventò all'indietro, sfuggendo all'aggressore, tenendosi il collo come per aiutarsi a immettere aria nei polmoni che disperatamente la reclamavano. Barcollò, urtando il tavolo. Una pistola! Perché non si era munito di una pistola! L'Uomo delle tenebre rimase fermo e immobile; l'attacco alle spalle non gli aveva causato alcun danno, ma lo aveva sbalordito. «Amy!» «La gente non torna dalla tomba!» gridò Amy. «I morti non risorgono!»
«Ma sono io... Amy... Sono io... Bill.» Amy parlò con voce acuta, stentata a causa della tensione e dell'incredulità. «Se sei davvero mio marito, allora mio marito non è stato ucciso! Io non l'ho visto morire», disse. «Ma se è così, se sei Bill... allora devi essere impazzito! Bill Blessing non avrebbe mai, mai fatto male a nessuno. Mai. Era un persona gentile, civile. Non... non un mostro!» Per un attimo l'Uomo delle tenebre parve malfermo sulle gambe. Mosse le braccia in un gesto sgraziato, spastico, incerto, voltandosi verso Amy Blessing. «Amy... Tu non capisci...» A Donald sembrò di vedere Boris Karloff che interpretava il mostro di Frankenstein, nell'atto di protendersi pietosamente verso la luce e la compassione. Un brandello di pelle si staccò dal suo volto e cadde a terra. La parte più forte di Donald Marquette, la parte attaccata alla sopravvivenza e ancora in grado di comprendere, colse all'improvviso la realtà della situazione a un livello più profondo di quanto sarebbe mai stato in grado di fare la sua mente. Intuì la vera natura di quell'essere, la verità della sua asserzione, il tremendo pericolo che rappresentava, il significato impresso nelle oscure fondamenta che reggevano l'universo... il significato che aveva per lui... E ciò che avrebbe potuto fare per salvarsi. La parte di lui che voleva sopravvivere, quell'oscuro istinto, respinse con forza l'orrore del momento e si avventò all'attacco: «Ha ragione!» gridò Donald. «Tu non puoi essere Blessing! Blessing non avrebbe mai, mai commesso un omicidio. Blessing non avrebbe mai inflitto dolore! La sua opera ne è la prova. Certo, scriveva di morte e distruzione, ma adottando lo schema morale della commedia, della tragedia, della grandezza intcriore dell'uomo. Non scadeva certo nell'assoluta banalità del racconto di vendetta, nel melodramma proprio degli autori minori!» L'Uomo delle tenebre si girò verso di lui. Donald colse nel suo sguardo l'ombra di un dubbio. Un lembo più grande di pelle si staccò dalla sua fronte e cadde volteggiando sul pavimento. Dallo squarcio del volto cominciò a sgorgare lentamente un denso fluido rosso, come da una piaga purulenta. Sì! gridò il suo istinto. Ci sei! «No!» protestò l'Uomo delle tenebre. «Castigo! Dev'esserci il castigo... la prevenzione!» «Sei pazzo! Chiunque tu sia, sei pazzo. Prevenzione di che?» Fece un
balzo di lato, evitando l'attacco dell'uomo e portandosi al fianco di Amy, cingendole la vita con un braccio come a offrirle conforto. Lei si aggrappò a lui, lo strinse, terrorizzata dall'oscuro spettro che avevano davanti a loro. «Lei ha bisogno di aiuto!» disse Amy. «Lasci che chiamiamo qualcuno che possa aiutarla!» «Castigo!» ruggì l'Uomo delle tenebre, sempre più una creatura ricurva, una malefica imitazione di Basii Rathbone che interpretava il gobbo Riccardo III. Avanzò lentamente, ma i suoi movimenti sembravano ora provocargli dolore. Zoppicava. «Prevenzione!» «Io non ho fatto nulla per danneggiare Amy! Ho solo fatto cose buone per proteggere la memoria dell'eredità di William Blessing. I suoi libri continueranno ad avere successo grazie al mio lavoro. Il suo nome rimarrà nelle classifiche dei bestseller, i suoi racconti e romanzi saranno oggetto di studio nelle scuole. Verrà ricordato dai posteri... tenuto in vita da valori come il bene, la virtù e l'amore, valori di cui si elevava a personificazione nelle sue opere migliori», affermò Donald Marquette. «Qualunque cosa tu sia, sei uno strumento della follia, una cosa squallida e oscura, che porta distruzione nella casa di amici, di persone che credono nell'eredità spirituale e letteraria di William Blessing!» L'Uomo delle tenebre tese una mano. «La prego! Non ci faccia del male!» gridò Amy. «Chiunque... Qualunque cosa lei sia... deve sapere che William Blessing era pieno di amore e di buona volontà. Non di furia omicida e vendetta!» Due dita della mano protesa si staccarono e finirono a terra uno sopra l'altro. «Amy... No. Io devo... Ci sono forze: il destino, l'amore, la memoria, la giustizia, la volontà. E forze che devo contrastare... il male, l'oscurità... Io sono tornato per contrastare l'oscurità. Sono tornato... per amore! Per amor tuo. Per amore delle mia arte... Per tutto quello che rappresenta il mio lavoro! I valori! La virtù! L'arte! La bellezza!» Emise un gemito, rivolgendo la testa al soffitto. «Oh, tempo! Oh, poesia! Oh, muse!» invocò. «Datemi le parole di cui ho bisogno per convincere!» «Non hai letto gli articoli dei giornali, mostro?» domandò Donald Marquette, infondendo nel tono di voce la giusta dose di ironia per rendere la sua osservazione velenosa. «Gli scrittori del gotico sono persone gentili! Sono persone civili. Danno forma all'oscurità per permettere il passaggio alla luce. E poi, William Blessing... o comunque mi rivolgo alla parte di te che crede di essere William Blessing, tutta questa storia puzza. Puzza della
sconsideratezza, della grossolanità tipica della letteratura che tanto disprezzavi! Non eri un accanito sostenitore del sottile? Di un horror latente? Tutto questo, invece... mio povero Blessing... sembra tratto da un film dell'orrore di infimo livello!» L'Uomo delle tenebre gorgogliò. Tremò, sembrò scosso da un brivido. Parte del suo volto cominciò a incavarsi. L'intero lato sinistro cominciò a sciogliersi, rivelando lo scuro teschio sottostante. Piccoli vermi bianchi sbucarono strisciando dai globi oculari. La forza di volontà, comprese l'oscuro istinto di Donald. Sta perdendo la sua forza di volontà. «Amy», ansimò la creatura, perdendo pus dallo squarcio che era stata la sua bocca. «Amy...» Perse la mascella, che si ripiegò e cadde giù come una candela surriscaldata, colpendo il pavimento e macchiandolo. L'Uomo delle tenebre perse anche il naso, e si aprì un altro varco da cui fuoriuscirono liquidi di corruzione. Ora emanava un deciso puzzo di marcio e di putrefazione. Amy emise un gemito strozzato. La sua presa su Marquette si allentò. Si accasciò, mollandolo. Era svenuta. Amy crollò a terra, priva di sensi. «Bastardo sconsiderato!» accusò Marquette. «Guarda cos'hai fatto!» L'unico occhio ancora integro si orientò verso il basso a fissare la splendida donna che giaceva sul pavimento. La creatura emise un lungo ululato di dolore, la cui origine era da rintracciare in un luogo ben più profondo di qualsiasi bocca, gola o diaframma. «Sai una cosa, Blessing. Non ti ha mai amato veramente», gli disse Donald. «Me l'ha confessato... Sì. Aveva semplicemente una specie di fissazione per te in quanto figura paterna. Una debolezza psicologica. Sei sempre stato solo un illuso.» La volontà, lo esortava la voce nella sua mente. Privalo della sua volontà! «Proprio così, Blessing. Me l'ha detto lei. E abbiamo flirtato parecchio, anche quando eri vivo. Alle tue spalle. Abbiamo flirtato e riso insieme. E ci siamo baciati! Lo sapevi? Quelle dolci, dolci labbra si sono congiunte alle mie.» Marquette rise di gusto. «E io capivo... capivo quanto mi desiderasse. E capivo che quando i tuoi vecchi e decrepiti lombi non sarebbero
più stati in grado di soddisfarla, lei sarebbe venuta da me... Da me!» «No...» Il cadavere proseguì nella sua disgustosa decomposizione. «Sai, Blessing, sei davvero uno spettacolo! Sembri la strega cattiva del Mago di Oz! L'unica differenza è che non ho dovuto usare l'acqua per avere la meglio su di te, bensì solo la verità!» Con un sospiro di gas organici che si liberavano, le ossa del morto cedettero e la massa in decomposizione si accartocciò su se stessa, riducendosi a un cumulo di materiale crepuscolare tra gli abiti sparsi sul tappeto macchiato e impregnato. Per un attimo Donald Marquette rimase inebetito a fissare l'orrendo mucchio di materia corrotta. È sparito, gli disse il suo oscuro istinto. È finito peggio di un palloncino bucato. Poi Marquette scoppiò a ridere. La risata sgorgò dal profondo, come generata dallo stesso istinto che lo aveva salvato. Gli permeava lo spirito, gli attraversava l'anima e raggiungeva le sue parti più recondite. Saliva sempre più su, muovendosi attraverso il suo corpo fino a raggiungergli la gola e poi la bocca, dalla quale esplodeva tenebrosa e maniacale. Uno scherzo cosmico! Il famoso scrittore horror... ... risorto dalla tomba! Ed eccolo lì: niente più che un secchio di untuose interiora che macchiavano un tappeto orientale! «Ho vinto!» esclamò. «Il ragazzo del Midwest si è finalmente riscattato!» Il cumulo di resti organici non ebbe alcuna reazione. Marquette venne invaso da un'inebriante ilarità. «E sai qual è la cosa più divertente di tutte, Blessing? Che ti sei trasformato nel più trito dei cliché dell'horror. Che ne pensi di questo, eh? La copertina di un pessimo fumetto! Qualcosa che sembra uscito da un film destinato a non vedere mai il grande schermo.» Il cumulo di ossa rotte e umori raggrumati non replicò. La risata era lo sfogo di quell'oscuro istinto; la sensazione era veramente inebriante. Si sentiva come se avesse finalmente scoperto se stesso. Aveva intravisto il proprio destino. Sentiva quel nuovo potere riverberare al suo interno come una canzone che aveva appena trovato un esecutore. Lo col-
mò dell'eccitazione della scoperta, della forza, della risolutezza... e di una crescente euforia pregna di passione, bisogno e desiderio. Vedere la morte sfiorarlo senza coglierlo aveva scatenato nelle sue ghiandole una lussuria improvvisa e irrefrenabile. Distolse gli occhi dal cumulo di morte. (Oh, quali altre verità serbava la vita, che fino a quel momento aveva negato! Gli scenari che in virtù di questa consapevolezza si aprivano davanti a lui erano ora infinitamente più ampi della semplice creatività e ricchezza. Quali audaci dimensioni lo attendevano!) Posò gli occhi su Amy Blessing. Il suo corpo prostrato era incredibilmente carnale; i lunghi capelli si allargavano verso l'esterno con erotico abbandono e la bocca era socchiusa, come se stesse succhiando il membro di un invisibile demone. Allungò una mano e toccò la morbida ma soda rotondità della sua natica, coperta dal tessuto del vestito. Poi, eccitato come non lo era mai stato in vita sua, lasciò che la sua mano si infilasse sotto la lunga gonna di lana, risalendo la coscia, oltre l'elastico delle mutandine... per posarsi sulla carne più dolce e sconvolgente che avesse mai conosciuto. Il segreto... il proibito... il sublime... «Vedi, Bill», disse. «Qui abbiamo a che fare con i capricci del destino. In realtà, dei due sono io lo scrittore più dotato. Ma usurpando il tuo mondo... e limitandomi nel farlo a obbedire, dovrei precisare, alle leggi di natura, potrò assurgere alla grandezza che mi è dovuta, sfruttando i tuoi successi come un trampolino di lancio... e trascinando le tue opere verso l'immortalità sulla scia delle mie. Credo che i posteri ti avrebbero ben presto dimenticato. I miei romanzi, invece, verranno ricordati, te lo assicuro. E potrò scriverli nel lusso assoluto, coccolato dal successo.» Avvertì l'accelerazione del suo battito cardiaco, il pulsare alle tempie. L'odore di Amy gli giungeva forte alle narici e sentiva crescere dentro di sé il desiderio, turgido e complesso. Tolse la mano da sotto la gonna di Amy e cominciò a sbottonarle il maglioncino. Rise di nuovo. Amy era ancora priva di sensi e intuiva che lo sarebbe rimasta per parecchio tempo. Gli riusciva impossibile controllarsi in quel momento: sembrava far parte della natura stessa del suo oscuro istinto la necessità di schernire i vinti. Che sia. «Ah, un'altra cosa. Ti ringrazio davvero molto per avermi portato Amy. Non penso sarebbero bastati interi anni passati a setacciare il mondo per
trovare un fiore tanto splendido da piantare nel mio letto!» Aprì il maglioncino, scoprendo un reggiseno di pizzo nero. Non era bianco! Dio, quanto si era agitato di notte, rigirandosi infinite volte, incapace di dormire, figurandosi quel momento. Una sbirciatina. Una palpatina. Che male c'era? Poi avrebbe potuto rivestirla, rimetterla in ordine, infilarla nel letto e sistemarle sul comodino una bottiglia di vino e le sue pastiglie. Il giorno dopo le avrebbe raccontato che aveva rischiato un'overdose, che si era dimenata tutta la notte, urlando, in preda agli incubi. Incubi terribili. Inimmaginabili! «Mio caro Bill, che uomo fortunato eri! Che dolce frutto da assaporare. Che bel bocconcino abbiamo qui! Non ti dispiace se mi prendo un piccolo antipasto, vero?» Rise. «Certo che no. Dopodiché raccoglierò lo schifo che rimane di te e ti butterò via. Le autorità non scopriranno mai che cosa sia accaduto al cadavere trafugato di William Blessing. Mai. E non se ne daranno pena. Dopotutto, non farà che accrescere la leggenda. Sì. Mi accerterò di passare la notizia al National Enquirer. TOMBA DI SCRITTORE HORROR PROFANATA! E tutti i supermercati della nazione cominceranno a esporre le edizioni tascabili dei tuoi libri sugli scaffali accanto alle casse.» Scostò di lato e verso il basso il pizzo nero. Il capezzolo del seno destro di Amy era perfetto. Assolutamente perfetto! Rosa e succulento, ben disegnato e turgido. Le sue dita ebbero un lieve tremore mentre si allungavano a toccarlo. Sfiorò il capezzolo con i polpastrelli. La sensazione che provò fu elettrizzante, esattamente come aveva immaginato. Sentiva il sangue come un fiume in piena scorrergli verso l'inguine. «Presto, Blessing», disse. «Molto presto potrò succhiare questo dolce bocciolo. Presto...» Qualcosa si strinse attorno alla sua caviglia. Con forza. Con grande forza. «Ma che?...» Girò la testa e guardò giù, colto di sorpresa. Stretta attorno alla gamba c'era un mano. Per metà carne e per metà scheletro. Ma sotto i suoi occhi, mentre la fissava inorridito, vide le cartilagini e la carne riassemblarsi, ricomporsi, ricrescere e tornare a prendere la forma di una mano completa. Oltre la mano, mezza faccia si ricompose tornando a tendersi sopra un
teschio che lo fissava con orbite vuote. Lembi di pelle vibravano come anemoni di mare. Vene e arterie si materializzarono, la pelle si riformò, capelli e peli rispuntarono da un brodo protoplasmatico. «No!» urlò Marquette. Alzò il pugno e colpì il teschio sul suo macabro sorriso. La colonna vertebrale cedette e la testa ricadde all'indietro, staccandosi dal precario perno. Aveva appena sollevato il piede sinistro per liberarsi la caviglia dalla morsa della mano del morto quando all'altro capo della stanza udì gracchiare. Alzò lo sguardo. Vide il busto di Pallade, di nuovo al suo posto. Ma ciò che si trovava sopra il busto era ben più preoccupante. Anche il corvo imbalsamato era ricomparso, appollaiato sulla testa marmorea... ma ora si stava ingrandendo e diventava sempre più nero, a mano a mano che allargava le ali. I suoi occhi marroni venati di rosso si fecero di fuoco. L'uccello balzò in avanti. Batté due volte le ali e piombò addosso a Marquette, scaraventandolo all'indietro. Mentre il corvo volteggiava nella stanza, Marquette si portò una mano al volto e vide che era insanguinata. Riprese a scalciare, riuscendo finalmente a liberarsi dalla mano del morto. Il corvo virò e tornò nella sua direzione. Ma invece di attaccare si posò a terra tra Marquette e la porta. Tu non vai da nessuna parte, amico, sembrava minacciare. Marquette esitò solo un secondo. Poi scattò verso la porta, sospinto dalla voce del suo oscuro istinto, che gli ordinava la fuga immediata. Il corvo rimase fermo, gli occhi fissi su di lui. Marquette si preparò a spazzarlo via con un calcio, ma prima che riuscisse ad abbassare il piede venne afferrato alle spalle da un braccio, un braccio filamentoso dai muscoli esposti e ricoperto da chiazze di pelle isolate. Il braccio lo tirò all'indietro, sempre più indietro, e sentì di nuovo l'odore della tomba. Ma stavolta era diverso; era l'odore di un'altra tomba: la sua. Donald Marquette venne scagliato contro il tavolo. I documenti e i libri posati sopra volarono a terra. Fece uno sforzo sovrumano nel tentativo di divincolarsi, dando fondo a ogni residua forza di cui era ancora in possesso. Ma la creatura, che ormai aveva ben poco di umano, lo tenne inchiodato dov'era.
«Ho portato qualcosa che ho trovato nella tana del tuo amico Baxter Brittle», disse il cadavere ricomposto, parlandogli con voce rauca e aspra nell'orecchio. Marquette vide apparire l'oggetto e ne colse il riflesso metallico. L'aveva visto in precedenza sull'assurdo altare di Baxter. Era un pugnale, elaboratamente decorato e intagliato. Un pugnale del tipo utilizzato per i sacrifici di animali... e di chissà che cos'altro. Un pugnale rituale. «No!» urlò Donald Marquette. «Non puoi farlo... Non puoi... Ti prego... Ti prego!» «No, Donald», rispose freddamente la voce. «Non capisci. Io esaudirò il tuo desiderio! Te lo prometto. Avrai esattamente quello che hai sempre sognato!» Il coltello descrisse un arco argenteo mentre piombava su di lui. Si conficcò nel basso ventre di Donald fino all'altezza del manico. Il dolore lo travolse, feroce e implacabile. Donald guardò incredulo un fiotto del proprio sangue macchiare i documenti ancora sparsi sulla superficie del tavolo. Le immagini cominciarono a danzargli davanti agli occhi, creando un effetto stroboscopico. Guardò verso il basso e vide la mano del mostro tirare il coltello verso l'alto, le proprie viscere riversarsi fuori e ricadere sui fogli. Vide con stupore che i fogli erano in realtà una copia del New York Times Book Reviews, aperto a una pagina che conosceva bene. «Ecco fatto, Donald» gli bisbigliò all'orecchio la voce del morto. «Hai sempre desiderato comparire nella lista dei bestseller del Times, non è così?» Poi l'oscuro istinto si librò verso l'alto a reclamarlo, avviluppandolo come la densa nebbia della baia che si raccoglieva in un vicolo di Fells Point. William Blessing trattenne il corpo finché non ne avvertì la fuga dello spirito. Poi mollò la presa sul cadavere e sul manico del coltello. Donaid Marquette, decisamente morto, cadde prima sul tavolo, poi crollò a terra, portando con sé il coltello. Il corvo si posò sulla superficie lignea. «Era l'ultimo», disse Blessing. «L'ultimo», concordò il corvo. «Ora posso... posso riposare.» «Sì», disse il corvo. «E io posso proseguire... per continuare a fare ciò
che devo.» Blessing si guardò la mano. Era di nuovo rivestita di pelle. Certo, era in uno stato pietoso, ma non c'erano dubbi che si trattasse di una mano. La sollevò e si tastò il volto. Sì. Per buona parte si era ricomposto. Eppure, ora che aveva portato a termine la missione, sentiva di nuovo venire meno la sua risolutezza. Sapeva di avere delle riserve, ma era desciso a non finire ridotto in un ammasso di resti ripugnanti nella sua stessa casa. No, ora doveva trasferirsi in un'altra casa. La sua nuova casa era il cimitero, dove sapeva di dover tornare. «Devo tornare nella mia tomba», disse Blessing. «Come tutti, prima o poi», replicò il corvo. «Ma nulla dura per l'eternità. Vedrai.» William Blessing si voltò e guardò sua moglie. Amy giaceva scomposta sul pavimento, ancora priva di sensi. «Non posso lasciarla così, con un ricordo simile.» «No», convenne il corvo. «Tu hai il potere di aggiustare le cose, Blessing.» William Blessing annuì. Si avvicinò alla moglie. Si chinò e le rassettò il maglioncino, abbottonandolo. Poi, con estrema cura e riverenza, la sollevò e la prese tra le braccia. William Blessing la portò al piano di sopra. L'adagiò sul loro letto, appoggiandole delicatamente la testa sul cuscino. Ora che la sua rabbia si era placata, provava solo amore. L'amore ardeva luminoso dentro di lui, agendo da legante per il suo corpo precario. I bellissimi capelli di Amy si irradiavano a ventaglio sul cuscino ricamato. Era così bella che tolse al morto il poco fiato di cui disponeva. Sembrava la principessa di una fiaba, mentre riposava, in attesa del bacio del suo principe. Le posò una mano sulla fronte. «Riposa, Amy. Riposa per un giorno intero. Sogna. Ricordati di come ero. Non ricordare quello che sono dovuto diventare.» Avvertiva i suoi poteri rimescolarsi in lui, per poi cominciare ad agire sulla moglie. William Blessing venne travolto da un'ondata di intenso sentimento. «Ora devo lasciarti, Amy», sussurrò. «Quando ti risveglierai, l'orrore sa-
rà scomparso; e guarirai in fretta. Guarirai presto. E io posso lasciarti solo il mio nome, se lo vuoi... e una benedizione. Una benedizione perché tu possa continuare a vivere la tua vita consapevole del valore, del significato e della bellezza che hai regalato alla mia.» William Blessing si chinò e, con labbra che di nuovo si decomponevano, baciò la guancia arrossata della moglie viva. Mentre Blessing passava davanti alla porta del suo vecchio ufficio, diretto al cimitero e al riposo eterno, il corvo si posò sulla sua spalla sinistra. Poi squillò il telefono. Senza essere in grado di spiegare perché, William Blessing si fermò e ascoltò. «Risponde la Blessing Enterprises!» annunciò la voce allegra di Donald Marquette dalla segreteria telefonica. «In questo momento non possiamo rispondere alla vostra chiamata, ma lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.» Bip. «Donald!» chiamò «na voce. «Sono Roscoe Mithers! Sì, so che è tardi, ma la riunione si è protratta e poi sono andato a cena con l'editore. Questo è il giorno più eccitante della mia vita. Erano tutti entusiasti delle tue idee! Le hanno accolte dalla prima all'ultima! E hanno accettato anche alcune delle mie! C'erano tutti i direttori di divisione, e il caso ha voluto che fosse presente anche il direttore generale del settore media della sede sulla costa occidentale, che si trovava a New York per affari. C'è molto, moltissimo, interesse a sfruttare appieno il nome e l'eredità di William Blessing. E non stiamo solo parlando di libri, ma anche di film, di televisione, di video, di merchandising, di concessioni... I diritti per la produzione delle statuette ammonteranno da soli a una cifra da capogiro! La tua idea di associare il tuo nome a quello di Blessing per la pubblicazione di libri scritti a quattro mani ha mandato tutti in visibilio. E vogliono che sia io il responsabile per l'intera operazione! «Ma la cosa migliore è stata l'approvazione immediata che ho avuto dall'editore durante la cena per una mia idea: una serie di libri William Blessing come parte della collana Tramonto oscuro, ma scritti da te. Unione delle forze, Donald! Sinergia! Una brillante strategia di marketing, non credi? Le possibilità sono infinite. Per cui ti prego di richiamarmi. Ho urgente bisogno di parlarti. Chiamami appena puoi domani mattino, in ufficio, o anche stasera, a casa. Il numero ce l'hai. Svegliami pure! Non c'è
problema. Gesù, Donald! Non avevo idea di quanto grossa si sarebbe rivelata tutta questa operazione. Sei un genio. Sono in debito con te! Che il sole possa sempre splendere...» Blessing alzò la cornetta. «Pronto?» disse Mithers. «Sei tu, Donald? Lo sapevo che se avessi parlato abbastanza a lungo avresti risposto. Hai sentito tutto?» «Basta così», rispose il morto. «Ehi, chi parla? Lei non è Donald.» «Sono l'esecutore dell'eredità letteraria di William Blessing. Donald Marquette ha dovuto rassegnare le dimissioni.» «Una decisione improvvisa, non c'è che dire», replicò Mithers, senza sforzarsi di mascherare i suoi dubbi sulla situazione, il timore che qualcuno stesse in qualche modo tentando di fargli le scarpe. «Si è presentata una questione di primaria importanza e Marquette si è ritrovato nell'impossibilità di svolgere le sue mansioni.» «Ma avevamo un accordo. Stavamo discutendo dei dettagli», obiettò Mithers. «Ha firmato un contratto? Un accordo scritto?» «Non esattamente, ma un patto è un patto.» «Già, immagino che lo sia. Anche nel caso di un patto con il diavolo. Anzi, soprattutto in quel caso.» All'altro capo del filo ci fu una lunga pausa di silenzio mentre Mithers cercava di elaborare una risposta. Cominciava ad avere un brutto presentimento. La strana voce al telefono sembrava impastata di terra umida. C'era da farsi venire i brividi, pensò l'editor. Riusciva quasi a immaginare che all'altra estremità del filo potesse esserci davvero uno zombie, o qualche altra creatura resuscitata dalla morte uscita dal pantheon di Tramonto oscuro. «Signor Mithers», continuò l'inquietante voce. «Qualsiasi accordo lei possa credere di aver stretto con gli esecutori testamentari di Blessing è da considerarsi nullo. Revocato e rescisso. Mi capisce?» «Francamente, no, non capisco. Chi è esattamente lei? Dov'è Marquette? Tutto questo non ha senso.» «E invece lo ha, signor Mithers. Tutto è perfettamente sensato. E voglio chiarirglielo.» Un'onda d'urto di orrore si propagò lungo la linea telefonica, percorrendo le fibre ottiche e abbattendosi su Mithers tra un respiro e l'altro. Un fuoco di fila di immagini di morte gli assalì la mente. La sua mano si strinse con tale forza attorno al telefono che il ricevitore si incrinò. Non poté
fare altro che tremare impotente mentre la Morte, in tutte le sue forme, ribolliva nel suo cervello, raggelandogli il sangue. Cominciò a piangere e a perdere bava dagli angoli della bocca, l'anima trafitta da gelidi e incandescenti fendenti di terrore. Ora capisci perché è impossibile portare avanti i tuoi progetti? sembrava domandare la voce da un punto dietro il suo orecchio sinistro. Sarebbe molto deleterio per la tua salute. Ora dormi. Come se fosse stato improvvisamente sganciato da una forca, Mithers cadde a terra privo di sensi ansimando. A Baltimora il corvo planò sulla scrivania. «Sono impressionato», si complimentò con Blessing. «Ci stai davvero prendendo la mano nel ruolo di vendicatore risorto. Peccato che tu non sia stato ucciso per linciaggio da una folla di malviventi.» «Credi che abbia recepito il messaggio?» domandò Blessing, riagganciando il ricevitore. «Non capirà mai perché», rispose l'uccello, «ma il semplice suono del tuo nome evocherà nel signor Mithers una personalissima e incontrollabile forma di terrore. Non passerà molto tempo prima che cominci a prendere in considerazione la possibilità di cambiare lavoro e campo di attività.» «Già. Anch'io ho bisogno di cambiare attività, a questo punto», disse Blessing. Sostò per un attimo nella sala Poe per attingere sostentamento da ciò che rimaneva della dimensione terrena di Donald Marquette. La staffa. Poi William Blessing uscì nella notte, diretto al suo appuntamento con la tomba. Epilogo E il corvo, senza mai volare, siede ancora, siede ancora Sul pallido busto di Pallade sopra la mia porta E i suoi occhi sembrano quelli di un demone sognante E la luce della lampada getta la sua ombra a terra E la mia anima da quell'ombra che galleggia sul pavimento Non si solleverà - mai più! EDGAR A. POE, «Il corvo» 1849
Avvertì sul suo corpo la pesantezza della nebbia che giungeva dalla baia mentre giaceva nel vicolo di Fells Point. Si destò e subito venne scosso da violenti tremori. Il freddo; un freddo terribile. Lo trapassava senza pietà come la lama di un coltello. L'uomo tremava in modo spaventoso mentre si alzava e si trascinava sopra i ciottoli. Batteva i denti. L'odore del mare e l'odore di marcio erano forti e sembravano ricadere su di lui come una patina umida. Ondate di caldo e di freddo e di violento orrore lo lasciavano in preda a un parossismo di brividi e vampate, brividi e vampate... Tremante, sbucò dal vicolo e vide la nebbia avviluppare vecchi edifici e moli, il languido movimento delle acque scure... In alto, sopra una carrozza trainata da una coppia di cavalli, notò un volatile, enorme e nero, che si allontanava nella foschia battendo le ali. Poco distante da lui un uomo che indossava un abito, con gilet e un cappello a cilindro camminava a braccetto di una donna, in testa una cuffia e in mano un ombrello guarnito di nappine. Nella strada si mescolavano gli odori dei cavalli e quello di un mercato. Mentre zoppicava in direzione della coppia, le ginocchia gli cedettero. Ansimante e scosso da brividi, cadde in una pozzanghera di fango. Non riuscì neppure a reggersi in ginocchio, e cadde riverso in avanti. L'oblio della perdita della conoscenza volteggiò attorno a lui come uno sciame di irati e alati frammenti di notte. Come mi chiamo? domandò una voce. Come mi chiamo? Una seconda voce rispose, ma lui non fu in grado di sentire. «Signore! Si è fatto male?» domandò l'uomo. «No, sto bene», rispose, riuscendo in qualche modo a rialzarsi. «Sono solo... bagnato. E infreddolito per via di queste maledette piogge. Qualcosa da bere! Ecco di che cosa ho bisogno. Qualcosa da bere per scaldarmi. Mi potrebbe indicare dove posso prendere un drink, signore?» «Ma certo. Laggiù c'è il Gunner's Hall. Oggi è giorno di elezioni, e ci troverà molta gente impegnata a votare», disse l'uomo. «Lì troverà qualcosa da bere... E anche aiuto, se ne ha bisogno.» «Sì», borbottò mentre si girava e puntava barcollando in direzione dell'edificio indicato dall'uomo. «Lontano dai miei nemici.» Mentre zoppicava lungo la strada la nebbia di Fells Point cominciò a penetrargli di nuovo nella mente...
«Signor Poe», chiamò una voce. «Beva, signor Poe. Deve bere quest'acqua.» Si destò e vide l'immagine offuscata di un uomo vestito di nero, con folte basette, che gli offriva un bicchiere d'acqua. Venne immediatamente colto dai dolori, devastato dalla febbre e della sudorazione abbondante. Vedendo che si era risvegliato, il medico gli premette l'orlo del bicchiere contro le labbra, lasciandone cadere una goccia sulla sua lingua secca. Buona parte dell'acqua colò dalla bocca sul pigiama. Poe, pensò. Io non mi chiamo Poe! Ma se non si chiamava Poe, pensò, in preda a brividi alternati a fitte di dolore, qual era il suo nome? Un altro po' d'acqua nella bocca, poi gli permisero di riadagiarsi sul guanciale. Sentiva nell'aria odore di liscivia e di malattia: si trovava in qualche ospedale antiquato. Mentre si abbandonava al sonno, brandelli di memoria tornarono alla sua mente... tutti accompagnati da spasmi di dolore e da infinita malinconia. Virginia, morta di tubercolosi. Una lunga, tormentosa agonia. La lunga e terribile battaglia contro l'alcol, quell'angelo di lenimento contro la tortura di una vita fatta di stenti e di cordoglio... Alcol, demone della disperazione, che gli procurava emicranie e bruciori di stomaco, dolori lancinanti e una depressione senza fine... Le sporadiche isole di liberazione che erano i versi e i racconti, le recensioni e gli articoli, in un mare di pene e di guai. Era quella la sua miserabile vita. Ed era la vita, ora lo sapeva con certezza, di Edgar Allan Poe. L'uomo si svegliò di soprassalto e scattò a sedere nel letto. «Ma io non sono Poe!» urlò. «Che cosa ci faccio qui?» «Io sono il dottor John J. Moran. Lei si trova al Washington Medical College di Baltimora», lo informò l'uomo. «È stato trovato in stato di semicoscienza al Gunner's Hall. Lei non sta affatto bene. Ha delirato.» Tentò di scendere dal letto. Venne immediatamente circondato da infermieri. Doveva tornare a casa, nell'Iowa... rimettersi al lavoro. «Devo rimettermi al lavoro!» gridò. «Il lavoro mi aspetta! Devo diventare uno scrittore di successo! È questo il sogno della mia vita!» Le figure da cui era attorniato lo trattennero, costringendolo a sdraiarsi di nuovo nel letto. «Ma lei è uno scrittore, signore. E anche un poeta molto
conosciuto. Ora si calmi! Deve rimanere fermo. Nelle condizioni in cui si trova non è consigliabile agitarsi in questo modo.» Le forti mani degli infermieri vennero rapidamente rimpiazzate da cinghie di cuoio che lo legavano alle colonne del letto e gli impedivano ogni movimento, a eccezione di quelli più inutili. Mentre sprofondava di nuovo nell'oblio, sentì il medico sussurrare: «La mesta e inarrestabile devastazione del demone alcol lo tiene stretto nelle sue grinfie». No! pensò lui. La rabbia! Poe è morto di rabbia! E io non sono Poe! No, io mi chiamo Donald Marquette! Ma non riuscì a pronunciare quelle parole. Il torpore dei sensi si allungò su di lui e lo reclamò. Non riuscì a fare altro che bofonchiare frasi senza senso. Gli sembrava di galleggiare in un mare di oscurità e di confusione. Lo smarrimento e il delirio erano troppo grandi per consentirgli sentimenti di rammarico, di riflessione o di pentimento per il sangue e il dolore che sentiva gravare su di sé come un macigno. Emerse ancora una sola volta dal suo stato confusionale. «Dio aiuti la mia povera anima!» ansimò, muovendo avanti e indietro la testa. Quando udì le parole uscite di bocca, le riconobbe immediatamente. Erano state le ultime parole di Poe. Spalancò il suo essere e si preparò all'agognato sollievo del nulla e della morte. Ma la morte, invece, giunse su nere ali. Lo portò via, facendolo volteggiare come un marinaio aggrappato a un relitto dopo un naufragio, in balia del maëlstrom. Giù, sempre più giù, verso un nucleo profondo e oscuro... E quel nucleo improvvisamente prese vita. Sbattendo le palpebre, si trovò a guardare fuori da una finestra. Oltre il vetro le foreste e gli scarni campi di un gelido autunno inoltrato. Il cielo era oscurato da pesanti nubi scure. La stanza attorno a lui sapeva di canfora e di polverosa mestizia. Avvertiva una sensazione di pesantezza nel petto. L'uccello nero che aveva richiamato la sua attenzione si librò in aria e si posò sul tetto di un portico, da dove lo fissò con penetranti occhi marroni venati di cremisi. «Un uccello!» si udì esclamare. «Te l'avevo detto! Guarda l'uccello ne-
ro!» L'immagine riflessa nel vetro era il volto di un bambino. Vedeva attraverso gli occhi di un bambino! «Edgar!» chiamò la voce di una donna. «Vieni via da lì. Vieni a sederti accanto alla tua povera mamma morta!» «Maledizione», imprecò la voce severa di un uomo. «Ho già capito che questo ci causerà dei guai.» Si voltò. Su un letto, circondata da persone che indossavano abiti del primo Ottocento, giaceva una donna morta. Inspiegabilmente, Marquette capì che si trattava della madre di Poe. Che ora era anche sua madre... Ricordò il suo sogno... il suo incubo. Venne colto da un pensiero improvviso: allora doveva essere... il 1811? O il 1812? Ma che ci faccio qui? E mentre la sua mente elaborava la domanda, andava già prendendo forma la sconvolgente risposta. Venne avvicinato da una donna. «È un corvo, John. C'è un grande corvo nero, là fuori!» «Allora scacciatela, quella maledetta bestiaccia», ordinò l'uomo cattivo e accigliato. «È un cattivo presagio!» L'anima di Donald Marquette attraverso gli occhi di Edgar Poe fissò la creatura che lo aveva trasportato lì. Intrappolato! Era intrappolato nel corpo di un bambino condannato a vivere una vita di inimmaginabili agonie, crisi depressive e indigenza! Intrappolato in una sorta di infernale e infinito vortice temporale! Vivere e morire... per rivivere... In quell'essere maledetto... L'estrema vendetta... Per i suoi peccati... Gli sembrò di sentire il corvo che gli parlava. «Ora sei uno scrittore famoso in tutto il mondo, Donald», disse con voce tagliente e inquietante. «Quello che hai sempre desiderato!» Si appoggiò al vetro gelido e scuro della finestra e riuscì per un attimo a parlare attraverso quella bocca di bambino, sapendo che non sarebbe mai più riuscito a farlo, né a influenzare in alcuno modo l'ambiente o il destino
dell'individuo in cui si trovava. Era condannato solo a soffrire, in eterno. «Prega per me», implorò Donald Marquette rivolgendosi all'oscuro fato che l'aveva condannato a sprofondare in quell'inferno, «perché sono un'anima dannata come mai ne sono esistite.» «Per quanto tempo?» domandò al corvo, cosciente che quel fugace momento di piena consapevolezza volgeva al termine. «Quanto a lungo?» L'uccello lo fissò e per un attimo i suoi occhi divennero occhi umani. Occhi che avevano conosciuto un cordoglio smisurato. Per quanto tempo? gridò l'anima tormentata di Donald Marquette. Quanto a lungo? E l'uccello aprì il becco per parlare. Disse il corvo: «Sempre più!» FINE