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TESS GERRITSEN LEZIONI DI MORTE (The Apprentice, 2002) A Terrina e Mike PROLOGO Oggi ho guardato un uomo morire. È stato un evento inaspettato, e ancora mi meraviglio che tale dramma si sia consumato ai miei piedi. Gran parte di ciò che nella vita consideriamo eccitante non è prevedibile, dobbiamo imparare a goderci gli spettacoli come capitano, ad apprezzare i rari brividi che costellano il noioso scorrere del tempo. Le mie giornate qui passano lentamente, in questo mondo dietro le mura, dove gli uomini sono solo numeri e non si distinguono per il nome, né per i talenti donati da Dio, ma per la natura dei loro crimini. Ci vestiamo nello stesso modo, consumiamo gli stessi pasti, leggiamo gli stessi libri consunti prelevati dallo stesso carrello della prigione. Ogni giorno è uguale al precedente. Ma d'un tratto un evento sorprendente ci ricorda che la vita può cambiare in maniera repentina. È accaduto proprio oggi, 2 agosto, in una giornata che si è fatta deliziosamente sempre più calda e soleggiata, come piace a me. Mentre gli altri sudano e si trascinano di qua e di là come una mandria indolente, io me ne sto in piedi al centro del cortile, la faccia rivolta al sole, come una lucertola che assorba il calore. Ho gli occhi chiusi, perciò non vedo la pugnalata, né vedo l'uomo incespicare all'indietro e cadere. Ma odo il mormorio di voci agitate, e apro gli occhi. In un angolo del cortile un detenuto è a terra, sanguinante. Tutti indietreggiano e assumono la solita maschera d'indifferenza di chi non vede e non sa nulla. Io solo cammino verso l'uomo steso. Per un momento rimango in piedi e lo osservo. Ha gli occhi aperti, lo sguardo consapevole; a lui devo apparire semplicemente come una sagoma nera contro il cielo luminoso. È giovane, ha i capelli d'un biondo quasi bianco e solo un filo di barba. Apre la bocca e gli esce una bava gorgogliante, color rosa. Una macchia rossa gli si allarga sul petto. M'inginocchio accanto a lui e gli apro la camicia, scoprendo la ferita, poco a sinistra dello sterno. La lama, infilata tra le costole, gli ha certa-
mente perforato il polmone, e forse scalfito il pericardio. È una ferita mortale, e lui lo sa. Tenta di parlarmi, muove le labbra senza emettere suono, e i suoi occhi si sforzano di mettermi a fuoco. Desidera che mi chini su di lui, forse che ascolti una sorta di confessione, ma io non sono per nulla interessato, qualsiasi cosa abbia da dirmi. Mi concentro, invece, sulla sua ferita. Sul sangue. Ho molta familiarità col sangue. Ne conosco tutti i componenti. Ho maneggiato numerose provette, ammirato le sue molteplici sfumature di rosso. L'ho fatto girare in centrifughe che lo scomponevano in colonne bicolori di cellule ammassate e di siero paglierino. Ho familiarità con la sua lucentezza e la sua consistenza setosa. L'ho osservato sgorgare dalla pelle incisa e fluire in rivoli satinati. Il sangue gli fuoriesce dal petto come acqua benedetta da una sorgente sacra. Premo il palmo della mano sulla ferita, immergo la pelle in quel liquido caldo, e il sangue avvolge le mie dita come un guanto scarlatto. L'uomo crede che stia cercando di aiutarlo e una breve scintilla di gratitudine gli brilla negli occhi. Molto probabilmente non ha ricevuto molta compassione nella sua breve esistenza; è ironico che proprio io venga scambiato per il volto della pietà. Alle mie spalle odo uno scalpiccio di stivali, e alcune voci abbaiano comandi: «Indietro! Tutti indietro!» Qualcuno mi afferra per la camicia e mi fa alzare. Mi sento trascinare via, lontano dall'uomo morente. La polvere turbina e l'aria si riempie di grida e di bestemmie, mentre noi detenuti veniamo radunati in un angolo. L'arma letale, un coltello a serramanico, giace abbandonata sul terreno. Le guardie esigono risposte, ma nessuno ha visto nulla, nessuno sa nulla. Come sempre. In mezzo al caos del cortile rimango lievemente in disparte rispetto agli altri prigionieri, che da sempre mi evitano. Sollevo la mano, ancora gocciolante del sangue del morto, e ne inalo l'aroma dolciastro e metallico. Semplicemente dall'odore capisco che è sangue giovane, zampillato da carne giovane. Gli altri carcerati mi fissano, e si allontanano ancora un po'. Sanno che sono diverso, lo hanno sempre saputo. Brutali come sono, mi trattano con diffidenza, perché capiscono chi, e che cosa, sono. Io scruto le loro facce, cercando tra essi un fratello di sangue. Uno della mia specie. Non lo vedo nemmeno qui, in questa casa di mostri. Ma lui esiste. So di non essere l'unico della mia specie che vive su que-
sta terra. Da qualche parte ce n'è un altro. Un altro che mi aspetta. 1 Erano già arrivate le mosche. Quattro ore su un marciapiede bollente di South Boston erano state sufficienti per cuocere la carne polverizzata, rilasciando l'equivalente chimico del suono della campanella che annuncia l'ora del pasto, e l'aria era pervasa di mosche ronzanti. Ciò che rimaneva del torso era ormai coperto da un lenzuolo, ma c'era tessuto esposto sufficiente perché i saprofagi potessero banchettare. Pezzi di materia grigia e altri composti organici non identificabili erano sparpagliati per un raggio di nove metri sulla strada, un frammento di cranio era finito in una fioriera al primo piano, e grumi di tessuto erano appiccicati alle auto in sosta. La detective Jane Rizzoli aveva sempre avuto uno stomaco forte, ma persino lei dovette farsi forza, gli occhi chiusi, i pugni serrati, in collera con se stessa per quel momento di debolezza. Non perdere il controllo. Non perdere il controllo. Era l'unica investigatrice della Omicidi del Dipartimento di polizia di Boston, e sapeva di avere sempre i riflettori spietatamente puntati addosso. Ogni errore, ogni successo sarebbero stati notati da tutti. Il suo collega, Barry Frost, aveva già vomitato la colazione in circostanze umilianti, davanti a tutti, ed era seduto con la fronte sulle ginocchia nel veicolo con l'aria condizionata, in attesa che lo stomaco si assestasse. Lei non poteva permettersi di cedere alla nausea. Era l'agente più in vista sulla scena del delitto: dall'altra parte del nastro la gente la osservava e registrava ogni sua mossa, ogni dettaglio del suo aspetto. Sapeva di sembrare più giovane dei suoi trentaquattro anni, e assumeva consapevolmente un'espressione autoritaria. Compensava la bassa statura con uno sguardo diretto e le spalle larghe. Aveva imparato l'arte di dominare la scena, quanto meno grazie all'intensità della sua presenza. Il caldo però stava minando la sua determinazione. Era uscita con indosso la solita giacca sportiva, un paio di pantaloni larghi e i capelli ben pettinati. Ora si era tolta la giacca, aveva la camicetta stropicciata e l'umidità aveva trasformato la sua acconciatura in una massa di riccioli ribelli. Si sentiva aggredita su tutti i fronti dagli odori, dalle mosche e dal sole cocente. Doveva concentrarsi su troppe cose per volta. E tutti quegli occhi la stavano fissando. Alcune voci concitate attirarono la sua attenzione. Un uomo con una
camicia elegante e la cravatta stava litigando con un poliziotto perché voleva passare. «Ascolti, devo andare a una conferenza di venditori, va bene? Sono già in ritardo di un'ora, ma avete messo quel maledetto nastro attorno alla mia macchina, e ora mi dite che non posso usarla? L'auto è mia, dannazione!» «Si tratta della scena di un delitto, signore.» «È un incidente!» «Questo non è stato ancora stabilito.» «Vi serve tutto il giorno per capirlo? Perché non ci date retta? L'intero vicinato ha sentito!» La Rizzoli si avvicinò all'uomo, che aveva il volto lucido per il sudore. Erano le undici e trenta del mattino e il sole, prossimo allo zenit, guardava giù dal cielo come un occhio infuocato. «Che cosa ha sentito esattamente, signore?» gli chiese. L'uomo sbuffò. «Quello che hanno sentito tutti.» «Un urto violento.» «Già. Verso le sette e mezzo. Stavo uscendo dalla doccia. Ho guardato dalla finestra ed era là, sul marciapiede. Lo vedete da voi che è un brutto incrocio. Ci sono teste di cazzo che svoltano come pipistrelli scappati dall'inferno. Deve averlo investito un camion.» «Ha forse visto un camion?» «No.» «L'ha sentito?» «No.» «E non ha visto nemmeno un'auto, vero?» «Auto, camion.» L'uomo scrollò le spalle. «Sempre di pirata della strada si tratta.» Era la stessa storia, già sentita più volte dai vicini di casa. Fra le sette e un quarto e le sette e trenta avevano udito un forte schianto in strada. Non c'erano testimoni oculari, tutti avevano semplicemente sentito il rumore e visto il corpo. La Rizzoli aveva già considerato, e scartato, l'ipotesi che si fosse trattato di un salto dal balcone. Era un quartiere di edifici a due piani, non c'erano costruzioni abbastanza alte da giustificare una simile devastazione sul corpo di un suicida. E non aveva nemmeno rinvenuto tracce di esplosioni tali da provocare una disintegrazione dei tessuti. «Ehi, ora posso prendere la macchina?» chiese l'uomo. «È la Ford verde.» «Quella col cervello spiaccicato sul baule?»
«Già.» «Be', lei cosa pensa?» sbottò la Rizzoli, e si allontanò per raggiungere il medico legale, accucciato in mezzo alla strada a studiare l'asfalto. «La gente che abita in questa strada è proprio stronza», affermò Jane. «A nessuno importa niente della vittima. Non sanno nemmeno chi sia.» Il dottor Ashford Tierney non sollevò lo sguardo e continuò a fissare la strada. Sotto i suoi capelli radi e argentei, il cuoio capelluto scintillava di sudore. Tierney sembrava più vecchio e più affaticato che mai. Ora, mentre tentava di alzarsi, tese un braccio per chiedere silenziosamente aiuto. Jane gli prese la mano e percepì un crepitio d'ossa stanche e di articolazioni artritiche. Era un anziano gentiluomo del Sud, nativo della Georgia, e non si era mai abituato alla franchezza un po' rude e tipicamente bostoniana di Jane Rizzoli, come del resto lei al suo formalismo. L'unica cosa che i due avevano in comune erano i resti umani che passavano sul tavolo settorio di Tierney. Eppure, mentre lo aiutava ad alzarsi, la Rizzoli provò tristezza per la sua fragilità e le venne in mente suo nonno, di cui era stata la nipote preferita, forse perché in lei l'anziano ravvisava lo stesso orgoglio e la stessa tenacia. Ricordò quando lo aiutava ad alzarsi dalla poltrona e come la sua mano paralizzata da un ictus si appoggiava a mo' di artiglio sul suo braccio. Persino uomini fieri come Aldo Rizzoli si riducono col tempo a un fragile mucchietto d'ossa e articolazioni. Ora ne scorgeva gli effetti sul dottor Tierney, che vacillò nella calura mentre estraeva il fazzoletto e si tamponava la fronte madida di sudore. «Un caso incredibile per concludere la mia carriera», affermò. «Mi dica, verrà alla mia festa di pensionamento, detective?» «Eh... quale festa?» chiese la Rizzoli. «Quella che state organizzando per farmi una sorpresa.» La donna sospirò, poi ammise: «Sì, ci sarò». «Ah. Riesco sempre ad avere una risposta diretta da lei. È la prossima settimana?» «Tra due. E io non le ho detto nulla, d'accordo?» «Sono contento che l'abbia fatto.» Abbassò lo sguardo sull'asfalto. «Non amo molto le sorprese.» «Allora, che cosa abbiamo, dottore? Omissione di soccorso?» «Questo sembra essere il punto d'impatto.» La Rizzoli osservò l'ampia chiazza di sangue. Poi spostò lo sguardo sul cadavere coperto dal lenzuolo, che giaceva a tre metri e mezzo buoni di distanza, sul marciapiede. «Sta dicendo che prima ha colpito l'asfalto in que-
sto punto e poi è rimbalzato laggiù?» chiese. «Parrebbe di sì.» «Doveva essere un grosso camion per causare uno scempio simile.» «Non un camion», fu la risposta enigmatica di Tierney. Poi s'incamminò lungo la strada, gli occhi fissi sull'asfalto. Jane Rizzoli lo seguì, scacciando i nugoli di mosche. Tierney si fermò a una decina di metri di distanza e indicò un grumo grigiastro sul cordolo. «Altra materia cerebrale», osservò. «Non si è trattato di un camion?» chiese la detective. «No. E nemmeno di un'auto.» «E che mi dice dei segni di pneumatici sulla camicia della vittima?» Tierney si raddrizzò e con lo sguardo riesaminò la strada, i marciapiedi, gli edifici. «Nota qualcosa d'interessante in questa scena, detective?» «A parte il fatto che laggiù c'è un uomo morto a cui manca il cervello?» «Osservi il punto d'impatto.» Tierney indicò il luogo in cui poco prima si era accucciato. «Vede il modello di dispersione delle parti corporee?» «Sì. Va in ogni direzione. Il punto d'impatto è centrale.» «Esatto.» «È una strada trafficata», commentò Jane. «I veicoli svoltano a velocità troppo elevata. Inoltre, la vittima ha segni di pneumatico sulla camicia.» «Andiamo a dare un'altra occhiata a quei segni.» Mentre tornavano verso il cadavere, furono raggiunti da Barry Frost, che finalmente era uscito dall'auto, pallido e un po' imbarazzato. «Cavolo, oh cavolo», mugugnò. «Stai bene?» gli chiese la collega. «Credi che mi sia beccato l'influenza intestinale o qualcosa del genere?» «Qualcosa del genere.» Le era sempre piaciuto Frost, apprezzava la sua natura solare e paziente, e detestava vedere il suo orgoglio tanto calpestato. Gli diede una pacca sulla spalla e gli dispensò un sorriso affettuoso. Frost suscitava istinti di protezione, persino nella ben poco materna Jane Rizzoli. «La prossima volta ti porterò un sacchetto», esclamò. «Sai», ribatté lui trotterellandole dietro, «non credo sia solo l'influenza...» Raggiunsero il corpo. Tierney grugnì mentre s'acquattava con una vibrata protesta delle articolazioni, e sollevò il lenzuolo monouso. Frost impallidì nuovamente e fece un passo indietro. Jane soffocò l'impulso di imitarlo. Il tronco dell'uomo era spezzato in due, tranciato all'altezza dell'ombeli-
co. La metà superiore era coperta da una camicia di cotone beige e orientata in direzione est-ovest; quella inferiore, con indosso un paio di jeans, giaceva in direzione nord-sud. Le due parti erano connesse soltanto da qualche filamento di pelle e di muscolo. Gli organi interni erano fuoriusciti e formavano una massa polposa. L'area posteriore del cranio era fracassata, e il cervello era stato espulso. «Uomo giovane, ben nutrito, a quanto sembra d'origine ispanica o mediterranea, sui venticinque, trent'anni», affermò Tierney. «Si notano fratture palesi del rachide toracico, delle costole, delle clavicole e del cranio.» «Un camion non può causare tutto questo?» domandò Jane. «Certamente, è possibile che un camion provochi ferite gravi come queste.» Il medico guardò Jane, un'espressione di sfida negli occhi azzurro chiaro. «Ma nessuno ha sentito o visto un mezzo pesante, non è vero?» «Purtroppo, no.» Frost riuscì finalmente a esprimere un commento. «Sapete, non credo siano tracce di pneumatici quelle sulla camicia.» Jane Rizzoli si concentrò sulle strisce nere stampate sull'indumento della vittima. Con una mano protetta dal guanto ne toccò una, poi si guardò il dito. Sul guanto di lattice era rimasta una macchia nera. La fissò per un momento, elaborando quel nuovo dato. «Hai ragione», affermò. «Non è l'impronta di una ruota. È grasso.» Jane si alzò e guardò la strada. Non vide alcuna traccia lasciata da pneumatici insanguinati, nessun pezzo d'automobile. Niente frammenti di vetro o di plastica, dovuti all'impatto con un corpo umano. Per un attimo nessuno parlò. Si scambiarono occhiate, mentre l'unica possibile spiegazione prendeva improvvisamente forma. Quasi a confermare la teoria, un aereo rombò sopra le loro teste. La Rizzoli sollevò lo sguardo, gli occhi socchiusi, e vide un 747 sorvolare la città in procinto d'atterrare al Logan International Airport, otto chilometri a nord-est. «Oh, Gesù!» esclamò Frost, proteggendosi gli occhi dal sole. «Che razza di modo di andarsene. Speriamo almeno che fosse già morto quand'è caduto.» «Ci sono buone probabilità che lo fosse», ribatté Tierney. «Forse il corpo è scivolato quando hanno abbassato il carrello per l'atterraggio. Questo, supponendo che fosse un volo diretto qui.» «Be', certo», esclamò Jane. «Quanti sono i clandestini che cercano di uscire dal paese?» La donna osservò la carnagione olivastra della vittima. «Quindi arrivava in aereo, forse dal Sudamerica...»
«Deve aver volato a un'altitudine di almeno novemila metri», asserì il medico. «Il vano dei carrelli non è pressurizzato: un clandestino dovrebbe fare i conti con la rapida decompressione, e il congelamento. A quell'altitudine le temperature sono gelide, persino in piena estate. Poche ore in quelle condizioni e andrebbe in ipotermia, perdendo conoscenza per la mancanza d'ossigeno. Un'altra ipotesi è che sia rimasto schiacciato quando l'aereo ha ritratto il carrello al decollo. E un viaggio lungo in quel vano lo ha probabilmente finito.» Il cercapersone di Jane interruppe quella che di lì a poco si sarebbe trasformata in una vera e propria conferenza: il dottore aveva infatti già assunto un tono professorale. Jane guardò il numero sul display, ma non lo riconobbe. Un prefisso di Newton. Estrasse il cellulare e compose il numero. «Detective Korsak», rispose un uomo. «Sono Rizzoli. Mi ha cercato?» «Sta chiamando da un cellulare, detective?» «Sì.» «Riesce a raggiungere un telefono fisso?» «Non al momento.» Non sapeva chi fosse il detective Korsak, ed era ansiosa di chiudere la telefonata. «Perché non mi dice di che si tratta?» Seguì un istante di silenzio. Udì alcune voci in sottofondo e il crepitio di un walkie-talkie della polizia. «Sono sulla scena di un delitto qui a Newton», affermò l'uomo. «Credo che dovrebbe raggiungermi e dare un'occhiata.» «Sta chiedendo l'assistenza del Dipartimento di polizia di Boston? In tal caso posso fornirle il nome di un collega della nostra sezione.» «Ho cercato di contattare il detective Moore, ma mi hanno detto che è in licenza. Per questo motivo ho chiamato lei.» Rimase di nuovo in silenzio. Poi, in tono solenne, aggiunse: «Riguarda il caso che lei e Moore avete seguito la scorsa estate. Lei sa di cosa parlo». Jane non rispose subito. Sapeva esattamente a che cosa si riferisse. I ricordi di quell'indagine la perseguitavano ancora, riaffioravano nei suoi incubi. «Vada avanti», affermò a bassa voce. «Vuole l'indirizzo?» le chiese Korsak. La Rizzoli estrasse un blocco. Un istante più tardi chiuse la comunicazione e rivolse di nuovo l'attenzione al dottor Tierney. «Ho visto lesioni simili sui paracadutisti a cui non si è aperto il paracadute», affermò l'uomo. «Da quell'altezza un corpo che cade raggiunge la
velocità terminale. Ovvero sessanta metri al secondo. Sufficiente per causare la disintegrazione che vediamo.» «È un prezzo maledettamente alto per entrare in questo paese», mormorò Frost. Un altro jet rombò sopra di loro e la sua ombra passò veloce come quella di un falco. Jane guardò di nuovo il cielo. Immaginò un corpo che cadeva a capofitto da trecento metri d'altezza. Immaginò l'aria fredda che sibilava e che poi si faceva più calda, a mano a mano che il suolo si avvicinava. Guardò i resti, coperti dal lenzuolo, di un uomo che aveva osato sognare un mondo nuovo, un futuro più luminoso. Benvenuto in America. L'agente di Newton di guardia alla casa era un pivellino, e non riconobbe Jane. La fermò al limite del nastro e le si rivolse in un tono brusco che ben si addiceva alla sua uniforme nuova di zecca. Il cartellino recitava: RIDGE. «Questa è la scena di un delitto, signora.» «Detective Rizzoli, Dipartimento di polizia di Boston. Sono qui per vedere il detective Korsak.» «Documenti, prego.» Jane non si aspettava una richiesta simile, e dovette rovistare a lungo nella borsa per trovarli. Nella città di Boston quasi tutti i poliziotti la conoscevano. Un breve viaggio fuori dal suo territorio, in quel sobborgo facoltoso, ed eccola ridotta a ripescare il distintivo. Lo trovò e glielo mise sotto il naso. Lui lo guardò e arrossì. «Mi dispiace davvero, signora. Ma sa, un'idiota di reporter si è intrufolata pochi minuti fa. Non volevo accadesse ancora.» «Korsak è dentro?» «Sì, signora.» Jane osservò il groviglio di veicoli parcheggiati alla rinfusa in strada, fra i quali c'era un furgone bianco con una scritta sulla fiancata: COMUNITÀ DEL MASSACHUSETTS, UFFICIO DEL MEDICO LEGALE. «Quante vittime?» chiese la donna. «Una. Stanno per portarla fuori.» Il poliziotto sollevò il nastro per lasciarla entrare nel giardino anteriore. Gli uccelli cinguettavano e l'aria odorava d'erba dolce. Non sei più a South Boston, pensò Jane. Il paesaggio era immacolato, con siepi di bosso ben
potate e un prato tanto verde da sembrare finto. Si fermò sul vialetto di mattonelle e osservò la sagoma del tetto stile Tudor. Il signore del finto maniero inglese, fu tutto ciò che riuscì a pensare. Quelli erano una casa e un quartiere che un poliziotto onesto non si sarebbe mai potuto permettere. «Bella casa, eh?» esclamò l'agente Ridge. «Che lavoro faceva il proprietario?» «Ho sentito che era una specie di chirurgo.» Chirurgo. Per lei quella parola aveva un significato speciale: udendola, ebbe la sensazione d'essere trafitta da un ago ghiacciato, e rabbrividì nonostante la giornata calda. Guardò la porta d'ingresso e notò che la maniglia era cosparsa di polvere per impronte. Fece un respiro profondo, s'infilò un paio di guanti di lattice e soprascarpe di carta. Una volta entrata, vide un pavimento di legno di quercia lucidato e una scala che saliva ad altezze da cattedrale. Da una finestra di vetro colorato penetravano losanghe variopinte di luce. Udì uno strusciare di soprascarpe, poi in corridoio comparve un uomo grande e grosso come un orso, che avanzava con andatura pesante. Indossava abiti eleganti e portava una cravatta perfettamente annodata, ma l'effetto generale era rovinato dagli aloni di sudore sotto le ascelle. L'uomo aveva le maniche della camicia arrotolate, dalle quali fuoriuscivano due braccia muscolose ricoperte di peli neri. «Rizzoli?» chiese. «In persona.» Le si avvicinò col braccio teso, poi ricordò che indossava i guanti e lasciò cadere la mano. «Vince Korsak. Mi spiace non averle potuto dire di più al telefono, ma oggi hanno tutti un'antenna radar. Mi sono già ritrovato tra i piedi una giornalista. Che sfacciata.» «Ho saputo.» «Senta, immagino che probabilmente si starà chiedendo che diavolo ci fa qui, ma ho seguito il suo lavoro l'anno scorso, ricorda, gli omicidi del Chirurgo? Pensavo volesse vedere una cosa.» A Jane si era seccata la bocca. «Che cos'avete?» «La vittima è in salotto. È il dottor Richard Yeager, trentasei anni. Chirurgo ortopedico. Questa è casa sua.» La detective Rizzoli alzò lo sguardo verso la vetrata colorata. «Voi di Newton vi prendete gli omicidi di lusso.» «Ehi, non può averli tutti il Dipartimento di polizia di Boston. Si suppone che certi episodi qui non accadano. Specialmente cose strane come questa.»
Korsak fece strada lungo il corridoio ed entrarono in salotto. La prima cosa che Jane notò fu la luce intensa del sole proveniente da una parete di finestre alta due piani. Nonostante il gran numero di tecnici all'opera, la stanza appariva spaziosa e spoglia, tutta pareti bianche e pavimenti di legno lucido. E sangue. Malgrado avesse visto numerose scene del crimine, il sangue, a tutta prima, la sconvolgeva ancora. Uno schizzo di sangue arterioso, simile alla coda di una cometa, era impresso sul muro, lungo il quale era poi gocciolato in rivoli sottili. Il corpo da cui proveniva, quello del dottor Richard Yeager, era seduto con le spalle appoggiate alla parete, i polsi legati dietro la schiena. Indossava solo un paio di boxer, e aveva le gambe allungate davanti a sé, le caviglie legate con del nastro adesivo. La testa gli penzolava sul petto, nascondendo la ferita da cui si era scatenata l'emorragia fatale, ma Jane non aveva bisogno di vedere lo squarcio per sapere che era profondo e aveva raggiunto la carotide e la trachea. Le conseguenze di una ferita simile le erano fin troppo familiari, e nel disegno creato dal sangue riusciva a leggere gli ultimi istanti di vita dell'uomo: il getto arterioso, i polmoni che si riempiono, la vittima che aspira aria dalla trachea recisa e affoga nel suo stesso sangue. Schizzi di materiale tracheale gli si erano seccati sul petto nudo. A giudicare dalle spalle larghe e dalla muscolatura, doveva essere in forma, sicuramente abbastanza da respingere un aggressore. Eppure, era morto col capo chino, in posizione sottomessa. I due addetti dell'obitorio avevano già portato la barella ed erano in piedi accanto al corpo, occupati a capire quale fosse il modo migliore per spostare un cadavere già in rigor mortis. «Quando il medico legale l'ha visto stamattina alle dieci», affermò Korsak, «il livor mortis era fisso, e l'uomo già completamente rigido. L'ora del decesso è stata stimata fra la mezzanotte e le tre.» «Chi l'ha trovato?» «L'infermiera del suo studio. Stamattina, quando non si è presentato in clinica e non ha risposto al telefono, ha preso l'auto ed è venuta a controllare. L'ha trovato verso le nove. Non c'è traccia della moglie.» La Rizzoli guardò Korsak. «Della moglie?» «Gail Yeager, trentun anni. È scomparsa.» Il brivido che l'aveva attraversata davanti alla porta d'ingresso l'assalì di nuovo. «Un rapimento?» «Sto solo dicendo che non la troviamo.» Jane fissò Richard Yeager, il cui corpo muscoloso non aveva saputo im-
porsi sulla morte. «Mi racconti di loro. Del loro matrimonio.» «Erano una coppia felice. Almeno questo è ciò che sostengono tutti.» «È quello che si dice sempre.» «In questo caso sembra corrispondere alla verità. Erano sposati solo da due anni. Un anno fa hanno comprato questa casa. Lei è un'assistente di sala operatoria nel suo stesso ospedale, perciò hanno la medesima cerchia di amici, gli stessi orari di lavoro.» «Passavano un sacco di tempo insieme.» «Già, lo so. Io darei i numeri se dovessi avere mia moglie tra i piedi tutto il giorno. Ma loro sembravano andare molto d'accordo. Lo scorso mese lui si è preso due settimane intere di permesso, solo per stare a casa con lei dopo la morte della suocera. Quanto pensa che guadagni un chirurgo ortopedico in due settimane, eh? Quindici, ventimila bigliettoni? Le ha offerto una consolazione piuttosto costosa.» «Ne avrà avuto bisogno.» Korsak scrollò le spalle. «Sarà.» «Perciò non ha scoperto alcuna ragione per cui potrebbe averlo lasciato.» «E tanto meno per averlo aggredito.» La Rizzoli osservò le finestre del salotto. Alberi e cespugli nascondevano alla vista le case vicine. «Ha detto che la morte è avvenuta fra mezzanotte e le tre.» «Sì.» «I vicini non hanno sentito nulla?» «Quelli della casa a sinistra sono a Parigi. Ooh la la. I vicini di destra hanno dormito profondamente tutta la notte.» «Segni di effrazione?» «La finestra della cucina. La zanzariera è stata divelta, hanno usato un tagliavetro. Impronte di calzature numero quarantacinque nell'aiuola. Le stesse orme insanguinate presenti in questa stanza.» Il detective prese un fazzoletto e si tamponò la fronte sudata. Korsak era uno di quegli individui sfortunati per i quali non esistevano antitraspiranti abbastanza efficaci. In quei pochi minuti di conversazione le macchie di sudore sulla camicia si erano allargate a dismisura. «Va bene, facciamolo scivolare in modo da allontanarlo dal muro», affermò uno degli addetti dell'obitorio. «Inclinalo sul lenzuolo.» «Attento alla testa! Sta scivolando!» «Oh, Gesù.»
La Rizzoli e Korsak rimasero in silenzio mentre il dottor Yeager veniva steso su un fianco sopra un lenzuolo monouso. Il rigor mortis aveva bloccato il cadavere a un'angolazione di novanta gradi, e gli addetti stavano discutendo per capire come deporlo sulla barella, data la postura grottesca. Jane notò all'improvviso un frammento bianco sul pavimento, dove prima era adagiato il corpo, e si chinò a raccoglierlo. Sembrava una minuscola scheggia di porcellana. «Tazza rotta», esclamò Korsak. «Che cosa?» «C'era una tazza da tè col piattino accanto alla vittima. Come se gli fosse caduta dalle ginocchia o qualcosa del genere. L'abbiamo già prelevata per l'esame delle impronte.» L'uomo allora percepì lo sguardo perplesso della sua interlocutrice e si strinse nelle spalle. «Non me lo chieda.» «Oggetto simbolico?» «Già. Rito del tè per il morto.» La donna fissò il frammento di porcellana sul palmo della mano inguantata e rifletté sul suo significato. Le era venuto un nodo allo stomaco. Un terribile senso di familiarità. La gola squarciata, il nastro adesivo. Effrazione notturna di una finestra. La vittima o le vittime sorprese nel sonno. E una donna scomparsa. «Dov'è la stanza da letto?» chiese, pur non volendo vederla, perché aveva paura di farlo. «Bene. Era quello che volevo mostrarle.» Il corridoio che portava alla camera era disseminato di fotografie in bianco e nero, incorniciate. Non le classiche foto di famigliole sorridenti, presenti in gran parte delle case, ma immagini crude di nudi femminili, i volti oscurati o voltati rispetto all'obiettivo, i torsi anonimi. Una donna che abbracciava un albero, la pelle liscia premuta contro la corteccia scabrosa. Una donna seduta e china in avanti, i capelli lunghi che le ricadevano fra le cosce nude. Un'altra con le braccia al cielo, il petto lucido di sudore per la fatica. Jane si fermò a studiare una foto appesa storta. «Sono tutte della stessa donna», affermò. «È lei.» «La signora Yeager?» «Sembra che facessero cose perverse, eh?» Jane osservò il corpo armonioso di Gail Yeager. «Non credo affatto siano perverse. Sono foto splendide.» «Già, comunque, la stanza è qui.» Indicò la porta.
La Rizzoli si fermò sulla soglia. All'interno c'era un grande letto matrimoniale, le coperte tirate indietro, come se gli occupanti fossero stati svegliati bruscamente. Il pelo sintetico della moquette rosa pallido era appiattito e due solchi distinti correvano dal letto alla soglia. «Sono stati entrambi trascinati giù dal letto», mormorò Jane. Korsak annuì. «Il nostro uomo li sorprende a letto. In qualche modo li sottomette. Poi lega loro polsi e caviglie e li trascina sul tappeto fino al corridoio, dove inizia il pavimento di legno.» Jane era sconcertata dalle azioni del killer. Lo immaginò in piedi dove ora si trovava lei, lo sguardo fisso sulla coppia addormentata. La finestra in alto sopra il letto, senza tende, garantiva luce sufficiente per capire quale fosse l'uomo e quale la donna. Aveva iniziato con il dottor Yeager. La cosa più logica da fare sarebbe stata, infatti, immobilizzare l'uomo e lasciare la donna per dopo. Fin qui Jane riusciva a immaginare la scena. L'approccio, l'aggressione iniziale. Ciò che non capiva era che cosa fosse accaduto dopo. «Perché spostarli?» chiese. «Perché non uccidere Yeager qui? A che scopo portarlo fuori dalla stanza?» «Non lo so.» L'uomo la invitò a entrare. «È stato tutto fotografato. Può esaminarla.» Con riluttanza Jane fece qualche passo in avanti, evitando i solchi sul tappeto, e raggiunse il letto. Non c'era sangue sulle lenzuola, né sulle coperte. Su un cuscino si notava un lungo capello biondo; doveva essere il lato dove dormiva la signora Yeager, pensò. Si voltò verso la cassettiera, sulla quale una foto della coppia confermava che Gail Yeager era effettivamente bionda. E anche molto carina, occhi azzurri e una manciata di lentiggini sulla pelle abbronzata. Il dottor Yeager le cingeva le spalle con un braccio ed emanava la sicurezza tipica di un uomo che sa di essere fisicamente imponente. Non di chi un giorno sarebbe morto in mutande, le mani e i piedi legati. «È sulla sedia», affermò Korsak. «Che cosa?» «Guardi la sedia.» Jane si voltò verso l'angolo della stanza e vide una sedia antica con lo schienale a pioli. Sul sedile c'era una camicia da notte piegata. Si avvicinò e scorse alcuni schizzi rossi che macchiavano il raso color crema. Improvvisamente le si rizzarono i capelli sulla nuca e per qualche istante trattenne il fiato.
Poi si chinò e sollevò un lembo dell'indumento. Anche la parte inferiore della piega era sporca di sangue. «Non sappiamo di chi sia il sangue», esclamò Korsak. «Potrebbe essere del dottore; come della moglie.» «Era già macchiata quando è stata piegata.» «Ma in questa stanza non c'è sangue. Il che significa che la camicia è stata sporcata nell'altro locale, portata qui e piegata alla perfezione. Messa sulla sedia, come un regalo d'addio.» Korsak s'interruppe. «Non le ricorda qualcuno?» Jane deglutì. «Lo sa benissimo.» «Il killer sta imitando la firma del vostro uomo.» «No, in questo caso è diverso. È tutto differente. Il Chirurgo non aggrediva mai le coppie.» «Le camicie da notte piegate, il nastro adesivo, le vittime sorprese a letto.» «Warren Hoyt sceglieva donne single. Vittime che poteva facilmente soggiogare.» «Ma consideri le somiglianze! Le sto dicendo che abbiamo un imitatore. Qualche folle che ha seguito la vicenda del Chirurgo.» La Rizzoli stava ancora fissando la camicia da notte, rievocando altre stanze, altre scene di morte. Era accaduto tutto in un'estate insopportabilmente calda, come quella, quando le donne dormivano con le finestre aperte e un tipo di nome Warren Hoyt s'introduceva nelle loro abitazioni. Portava con sé oscure fantasie e bisturi, con i quali eseguiva riti sanguinosi sulle vittime, che erano sveglie e consapevoli di ogni incisione delle lame. Jane guardò la camicia da notte e una visione del volto assolutamente ordinario di Hoyt si affacciò con prepotenza alla sua mente, lineamenti che ancora affioravano nei suoi incubi. Ma questa non è opera sua. Warren Hoyt è rinchiuso in un luogo sicuro dal quale non può fuggire. Lo so, perché ho accompagnato io stessa quel bastardo. «Il Boston Globe ha pubblicato ogni particolare morboso», asserì Korsak. «Il vostro uomo è finito persino sul New York Times. E ora questo pazzo criminale lo sta imitando.» «No, il vostro killer fa cose che Hoyt non faceva. Trascina la coppia fuori dalla stanza, in un altro locale. Mette l'uomo in posizione seduta, poi gli taglia la gola. Sembra più un'esecuzione. O parte di un rituale. Poi c'è la donna. Uccide il marito, ma che cosa fa della moglie?» Jane ammutolì, ri-
cordando improvvisamente il frammento di porcellana sul pavimento. La tazza rotta. Il suo significato la colpì come una ventata d'aria gelida. Senza una parola uscì dalla stanza e tornò in salotto. Guardò la parete alla quale era stato appoggiato il cadavere del dottor Yeager. Poi abbassò gli occhi sul pavimento e si mise a descrivere un cerchio sempre più ampio, studiando gli schizzi di sangue sul parquet. «Rizzoli?» esclamò Korsak. Lei si voltò verso le finestre e batté le palpebre alla luce del sole. «Qui dentro è troppo chiaro. E c'è troppo vetro. Non possiamo coprirlo tutto. Dobbiamo tornare stasera.» «Pensa di usare un Luma-lite?» «Avremo bisogno degli ultravioletti per vederlo.» «Che cosa sta cercando?» Jane volse lo sguardo al muro. «Yeager era seduto qui quand'è morto. Il nostro sconosciuto l'ha trascinato dalla stanza da letto fino a questo punto; l'ha appoggiato al muro, con la faccia rivolta al centro della stanza.» «D'accordo.» «Perché l'ha messo in questa posizione? Perché prendersi tanto disturbo mentre la vittima era ancora viva? Deve esserci una ragione.» «Quale?» «È stato portato qui perché guardasse qualcosa. Per assistere a ciò che accadeva nella stanza.» Finalmente Korsak capì, l'espressione allibita. Fissò la parete, dove poco prima c'era il cadavere del dottor Yeager, unico spettatore in un teatro dell'orrore. «Oh, Gesù», mormorò. «La signora Yeager.» 2 Jane Rizzoli comprò una pizza nel negozio di specialità gastronomiche dietro l'angolo e scovò un vecchio cespo di lattuga in fondo al cassetto delle verdure in frigo. Tolse le foglie annerite fino a mettere a nudo il cuore, a malapena commestibile. Era un'insalata pallida e tutt'altro che appetitosa, e la mangiò per dovere più che per piacere. Non aveva tempo per soddisfare il palato e mangiò solo per rifocillarsi in vista della serata che l'attendeva, un programma che non l'allettava affatto. Dopo qualche boccone scostò il piatto e fissò le macchie vivide di salsa di pomodoro. Gli incubi non ti lasciano mai, pensò. Credi d'essere immune, d'essere abbastanza forte e sufficientemente distaccata da poterci con-
vivere, e sai come recitare la parte, come ingannarli. Ma quelle facce restano con te. Gli occhi dei morti. Tra loro c'era anche Gail Yeager? Jane abbassò lo sguardo sulle mani, sulle cicatrici gemelle che le deturpavano le palme, simili a ferite di una crocifissione. Ogniqualvolta era freddo e umido, lei avvertiva dolore alle mani, un ricordo di ciò che le aveva fatto Warren Hoyt un anno prima, il giorno in cui le aveva lacerato la carne col bisturi. Il giorno che aveva pensato fosse l'ultimo per lei sulla terra. Le vecchie ferite le dolevano anche ora, ma non poteva incolpare il tempo. No, era per ciò che aveva visto quel giorno a Newton. La camicia da notte piegata. Il ventaglio di sangue sul muro. Era entrata in una stanza in cui l'aria stessa era ancora satura di terrore, e vi aveva sentito aleggiare la presenza di Warren Hoyt. Impossibile, naturalmente. Hoyt era in carcere, proprio dove si meritava di stare. Lei però era seduta lì, agghiacciata dal ricordo di quella casa di Newton, perché l'orrore che aveva provato le era parso così familiare. Era tentata di chiamare Thomas Moore, col quale aveva lavorato al caso Hoyt. Lui conosceva i dettagli in maniera altrettanto profonda, e comprendeva quanto fosse persistente la paura che Warren Hoyt aveva tessuto a mo' di ragnatela intorno a tutti loro. Ma da quando si era sposato, la sua vita aveva preso una direzione diversa da quella di Jane. La sua ritrovata felicità era la cosa che più in assoluto li rendeva estranei. Le persone felici sono padrone di sé, respirano un'aria diversa e sono soggette a leggi di gravità differenti. Moore non era forse consapevole del cambiamento del loro rapporto, ma Jane l'aveva percepito, e ne soffriva, pur vergognandosi dell'invidia che provava per la felicità di lui. E della gelosia per la donna che gli aveva rubato il cuore. Qualche giorno prima aveva ricevuto una cartolina da Londra, dove lui e Catherine stavano trascorrendo le ferie. Un breve saluto scarabocchiato sul retro di una cartolina del Museo di Scotland Yard, solo qualche parola per farle sapere che si stavano divertendo e che nel loro mondo andava tutto bene. In quel momento, pensando al messaggio, pregno di allegro ottimismo, Jane si rese conto che non poteva disturbarlo per quel caso, non poteva riportare lo spettro di Hoyt nella loro vita. Rimase seduta ad ascoltare i rumori del traffico nella strada sottostante, che parevano amplificare il silenzio assoluto del suo appartamento. Si guardò intorno, il salotto spartano, le pareti bianche sulle quali non aveva ancora appeso un quadro. L'unica decorazione, se così la si poteva chiama-
re, era la cartina di una città, attaccata alla parete sopra il tavolo da pranzo. Un anno prima quella cartina era disseminata di puntine colorate, a contrassegnare gli omicidi del Chirurgo. Allora Jane era tanto desiderosa di riconoscimenti e d'essere trattata alla pari dai colleghi che aveva vissuto ogni secondo della caccia all'uomo. Persino a casa, aveva mangiato di fronte alla truce vista delle impronte dell'assassino. Ora le puntine del Chirurgo erano sparite, ma la cartina rimaneva appesa, in attesa di una nuova serie di puntini colorati che indicassero gli spostamenti di un altro killer. Si domandò che cosa ciò rivelasse di lei, quale conclusione pietosa si potesse trarre dal fatto che, dopo ben due anni di vita in quell'appartamento, l'unico addobbo alle pareti fosse una squallida piantina di Boston. Il mio territorio, pensò. Il mio universo. Quando Jane imboccò il vialetto alle nove e dieci di quella sera, le luci di casa Yeager erano spente. Era arrivata per prima, e dato che non aveva modo di accedere alla casa, rimase seduta in macchina con i finestrini aperti per lasciare entrare l'aria fresca, in attesa che giungessero gli altri. L'abitazione era situata in una tranquilla strada senza uscita, ed entrambi gli edifici vicini erano bui. Il che sarebbe andato a loro vantaggio, perché ci sarebbe stata meno luce a ostacolare le ricerche. Ma in quel momento, seduta da sola a contemplare la casa degli orrori, Jane sentiva la mancanza di un po' di luci accese e di una compagnia umana. Le finestre dell'abitazione degli Yeager la fissavano come gli occhi vitrei di un cadavere. Le ombre attorno a lei cominciarono ad assumere una miriade di forme, e nessuna benevola. Jane estrasse la pistola, tolse la sicura e se la posò in grembo. Così si sentiva più serena. Un paio di fari brillò nello specchietto retrovisore. Voltandosi, fu sollevata nel vedere il furgoncino della Scientifica posteggiare dietro di lei. Subito infilò la pistola in borsa. Un giovane dalle spalle robuste scese e si avvicinò alla sua auto. Mentre si chinava per guardare nel finestrino, Jane vide lo scintillio del suo orecchino d'oro. «Ehi, Rizzoli», esclamò il ragazzo. «Ciao, Mick. Grazie per essere venuto.» «Bel quartiere.» «Aspetta di vedere la casa.» Un altro paio di fari guizzò all'imboccatura della via senza uscita. Era ar-
rivato anche Korsak. «Ci siamo tutti», affermò la Rizzoli. «Forza, al lavoro.» Korsak e Mick non si conoscevano. Quando Jane li presentò sotto la luce fioca dell'abitacolo del furgone, vide che il detective fissava l'orecchino del tecnico e notò la sua esitazione prima di stringergli la mano. Riusciva quasi a scorgere gli ingranaggi girare nella mente del detective. Orecchino. Culturista. È per forza gay. Mick cominciò a scaricare l'attrezzatura. «Ho portato il nuovo Mini Crimescope 400», affermò. «Lampada ad arco da quattrocento watt. Tre volte più luminosa della vecchia GE da tre e cinquanta. La fonte di luce più intensa con cui abbiamo mai lavorato. Quest'aggeggio è persino più potente dello Xenon da cinquecento watt.» Il giovane guardò Korsak. «Le spiace portarmi l'attrezzatura fotografica?» Prima che il detective potesse rispondere, Mick gli piazzò fra le braccia una valigetta di alluminio, poi tornò al furgone per prendere il resto dell'equipaggiamento. Korsak rimase immobile per un istante, la valigia in braccio, sul volto un'espressione incredula. Poi si avviò a grandi passi verso la casa. Quando la Rizzoli e Mick raggiunsero la porta d'entrata con le varie valigie contenenti il Crimescope, i cavi elettrici e gli occhiali protettivi, Korsak aveva già acceso le luci e l'uscio era socchiuso. S'infilarono le soprascarpe ed entrarono. Come aveva fatto Jane qualche ora prima, anche Mick si fermò sulla soglia, lo sguardo meravigliato rivolto alle scale che salivano verso l'alto. «La vetrata è colorata», esclamò la Rizzoli. «Dovresti vederla con la luce del sole.» Korsak, irritato, urlò dal salotto: «Siamo venuti per lavorare o che altro?» Mick lanciò un'occhiata a Jane come per dirle: Che razza di stronzo, e lei si strinse nelle spalle. Insieme si avviarono lungo il corridoio. «Questa è la stanza», affermò Korsak. L'uomo si era cambiato e indossava una camicia pulita, ma anche quella era già macchiata di sudore. In piedi, le gambe divaricate, la mascella prominente, sembrava un capitano Bligh di cattivo umore sul ponte della sua nave. «Ci concentreremo qui, su quest'area del pavimento.» L'impatto emotivo del sangue non era svanito. Mentre Mick sistemava l'attrezzatura, inseriva la spina, preparava la macchina fotografica e il treppiede, lo sguardo di Jane fu attratto dalla parete. Per quanto avessero pulito
e fregato, non avrebbero mai cancellato completamente quel tacito segno di violenza. Le tracce biochimiche sarebbero rimaste per sempre, impronte invisibili. Non era, tuttavia, il sangue che avrebbero cercato quella sera, ma qualcosa di più difficile da vedere e, pertanto, avevano bisogno di una fonte di luce alternata abbastanza intensa da rivelare ciò che era invisibile a occhio nudo. Jane Rizzoli sapeva che la luce non è che energia elettromagnetica che si propaga attraverso onde. La luce visibile, ossia percepibile dall'occhio umano, presenta lunghezze d'onda comprese fra quattrocento e settecento nanometri; le lunghezze d'onda inferiori, appartenenti allo spettro ultravioletto, sono invisibili. Ma quando la luce ultravioletta illumina un certo numero di sostanze naturali e artificiali, può eccitare gli elettroni in esse contenuti, rilasciando luce visibile in un processo chiamato «fluorescenza». La luce ultravioletta è in grado di rivelare fluidi corporei, frammenti ossei, capelli e fibre. Per quello la Rizzoli aveva richiesto il Mini Crimescope: alla sua luce UV sarebbe potuta apparire una nuova serie di prove. «Sono quasi pronto», esclamò Mick. «Ora dobbiamo rendere la stanza più buia possibile», continuò, guardando Korsak. «Può iniziare spegnendo le luci del corridoio, detective Korsak?» «Aspetti. E gli occhiali?» chiese l'uomo. «Quella luce ultravioletta mi danneggerà gli occhi, giusto?» «Alla lunghezza d'onda in cui la userò non è tanto dannosa.» «Ne vorrei ugualmente un paio.» «Sono in quella valigia. Ci sono occhiali per tutti.» «Le luci del corridoio, le spengo io», affermò Jane. Uscì dalla stanza e premette gli interruttori. Quando tornò, Korsak e Mick erano ancora l'uno il più possibile lontano dall'altro, come se avessero paura di attaccarsi qualche malattia. «Allora su quali aree ci concentriamo?» chiese Mick. «Iniziamo da quell'estremità, dov'è stata trovata la vittima», rispose la Rizzoli. «Da lì ci allarghiamo fino a esaminare l'intera stanza.» Mick si guardò intorno. «Laggiù c'è un tappeto beige. Probabilmente diventerà fluorescente. E anche quel divano bianco s'illuminerà sotto gli UV. Desidero solo avvisarvi, sarà difficile trovare qualcosa con quello sfondo.» Lanciò un'occhiata a Korsak, che aveva già indossato gli occhiali. Sembrava un patetico fallito di mezz'età che cercava d'apparire interessante con un paio d'occhiali alla moda. «Spenga le luci della stanza», gli ordinò Mick.
«Vediamo quanto buio riusciamo a ottenere.» Korsak premette l'interruttore e la stanza piombò nell'oscurità. Dalle finestre senza tende s'intravedeva il debole luccichio delle stelle, ma non c'era luna e la fitta boscaglia del giardino sul retro oscurava le luci delle case vicine. «Non male», mormorò Mick. «Posso lavorare. Meglio di molte scene del delitto, dove ho dovuto procedere carponi sotto una coperta. Sapete, stanno progettando sistemi di imaging che potranno essere usati alla luce del giorno. In futuro non dovremo più brancolare nel buio come ciechi.» «Possiamo tagliar corto e cominciare?» sbottò Korsak. «Pensavo le interessasse sapere qualcosa della tecnologia del settore.» «Un'altra volta, va bene?» «Come vuole», rispose Mick, per nulla indispettito. La Rizzoli s'infilò gli occhiali non appena si accese la luce blu del Crimescope. I bagliori sinistri delle sagome fluorescenti apparvero come fantasmi nella stanza scura, il tappeto e il divano più luminosi, come aveva previsto Mick. La luce blu si spostò sulla parete opposta, dov'era stato deposto il cadavere del dottor Yeager, e subito comparvero alcuni frammenti brillanti. «Carini, vero?» esclamò Mick. «Che cosa sono?» chiese Korsak. «Ciocche di capelli, appiccicate al sangue.» «Oh, sì. Davvero carini.» «Spostala sul pavimento», gli suggerì Jane. «Se c'è qualcosa, lo troveremo lì.» Mick puntò l'obiettivo UV verso il basso, e un nuovo universo di fibre e di peli s'illuminò ai loro piedi. Prove minuscole che l'ispezione iniziale della Scientifica aveva tralasciato. «Più intensa è la fonte luminosa, maggiore è la fluorescenza», spiegò Mick mentre esaminava il pavimento. «Per questo è un aggeggio formidabile. Con quattrocento watt c'è abbastanza luce da rilevare tutto. L'FBI ha comprato settantun gioiellini come il mio.» «Cos'è lei, un fanatico della tecnologia?» chiese Korsak. «Mi piacciono i gadget. Sono specializzato in ingegneria.» «Davvero?» «Perché ne è tanto sorpreso?» «Non pensavo che i tipi come lei si interessassero a quella roba.» «I tipi come me?»
«Voglio dire, l'orecchino e tutto il resto. Capisce?» Jane Rizzoli sospirò. «Si tappi la bocca!» «Che cosa?» esclamò Korsak. «Non sto denigrando né altro. Osservavo soltanto che pochi di loro si dedicano all'ingegneria. Sono più quelli che amano il teatro, l'arte e cose del genere. Voglio dire, ben venga. Abbiamo bisogno di artisti.» «Ho frequentato l'University of Massachusetts», affermò Mick, ignorando la provocazione e continuando a esaminare il pavimento. «Ingegneria elettronica.» «Ehi, gli elettricisti fanno un sacco di soldi.» «Mm, non si tratta proprio della stessa professione.» Si stavano muovendo in un cerchio sempre più ampio, e la luce UV continuava a rilevare grovigli occasionali di capelli, fibre e altre particelle non identificabili. Improvvisamente s'imbatterono in un campo particolarmente brillante. «Il tappeto», esclamò Mick. «Di qualsiasi materiale siano le fibre, emanano una fluorescenza incredibile. Non riusciremo a vedere molto su questo sfondo.» «Analizzalo lo stesso», lo esortò Jane. «C'è in mezzo il tavolino. Potete spostarlo?» La Rizzoli si chinò verso quella che era solo un'ombra geometrica su uno sfondo bianco fluorescente. «Korsak, lo prenda dall'altra parte», lo incitò. Spostato il tavolino, il tappeto apparve come una macchia ovale luminosa di colore bianco bluastro. «Come facciamo a individuare qualcosa con un riflesso simile?» chiese Vince Korsak. «È come tentare di vedere il vetro che galleggia nell'acqua.» «Il vetro non galleggia», ribatté Mick. «Oh, giusto. È lei l'ingegnere. In ogni caso, per che cosa sta 'Mick'? È il diminutivo di Mickey?» «Passiamo al divano», lo interruppe Jane. Mick riposizionò la lente. Anche il tessuto del divano brillava alla luce UV, ma la fluorescenza era meno intensa, un po' come quella della neve al chiaro di luna. Lentamente esaminò il telaio imbottito, poi i cuscini, ma non notò alcuna macchia sospetta, solo qualche capello lungo e granelli di polvere. «Erano persone pulite», asserì Mick. «Niente macchie, e nemmeno tanta
polvere. Scommetto che questo sofà è nuovo di zecca.» Korsak grugnì. «Dev'essere bello averne uno così. L'ultimo divano che ho comprato risale a quando mi sono sposato.» Jane Rizzoli sentì il detective avvicinarsi e percepì un odore dolciastro di sudore. L'uomo respirava rumorosamente, come se avesse problemi di sinusite, e l'oscurità sembrava amplificarne i sibili. Seccata, Jane si allontanò di un passo e batté la tibia contro il tavolino. «Merda.» «Ehi, guardi dove va», esclamò Korsak. Jane si morse la lingua per non ribattere; l'atmosfera in quella stanza era già abbastanza tesa. Si chinò a massaggiarsi la gamba. Il buio e il brusco cambiamento di posizione le causarono un giramento di testa e dovette accucciarsi per non perdere l'equilibrio. Per qualche istante rimase china nell'oscurità, augurandosi che Korsak non le piombasse addosso, visto che era abbastanza pesante da schiacciarla. Sentiva i due uomini che si muovevano a qualche passo di distanza. «Il cavo si è aggrovigliato», mormorò Mick. La luce del Crimescope si spostò bruscamente in direzione di Jane mentre il tecnico si girava per districare il filo. Il fascio illuminò il tappeto dov'era accovacciata la Rizzoli, che rimase a fissarlo. Incorniciata dalla fluorescenza delle fibre del tappeto c'era una chiazza scura, irregolare, più piccola di una moneta da dieci centesimi. «Mick», esclamò. «Puoi sollevare quel lato del tavolino? Credo che il filo si sia avvolto intorno alla gamba.» «Mick.» «Che c'è?» «Porta quaggiù quel coso. Illumina il tappeto, proprio qui dove sono io.» Il giovane si voltò verso di lei. Korsak fece altrettanto, e Jane sentì avvicinarsi il suo respiro nasale. «Mira alla mia mano», mormorò. «Ho il dito vicino alla macchia.» Una luce bluastra inondò all'improvviso il tappeto, e la mano di Jane divenne una silhouette nera su uno sfondo fluorescente. «Ecco», esclamò la Rizzoli. «Che cos'è?» Mick si acquattò accanto a lei. «Una macchia di qualche genere. Dovrei fotografarla.» «Ma è una macchia scura», obiettò Korsak. «Pensavo stessimo cercando qualcosa di fluorescente.» «Quando lo sfondo è molto fluorescente, come le fibre di questo tappeto,
i fluidi corporei possono apparire scuri perché non hanno una fluorescenza altrettanto intensa. Questa macchia potrebbe essere qualsiasi cosa. Sarà il laboratorio a darci le conferme del caso.» «Ma allora dobbiamo tagliare un pezzo di questo magnifico tappeto, solo perché abbiamo trovato una vecchia macchia di caffè o altro?» Mick rimase per un attimo in silenzio. «Possiamo tentare con un altro trucchetto.» «Quale?» «Cambierò la lunghezza d'onda dell'apparecchio. Lo metterò in UV a onde corte.» «E che cosa succederà?» «Be', se succederà qualcosa, sarà davvero forte.» Mick effettuò le regolazioni, poi indirizzò la luce sull'area macchiata. «Guardate», affermò, e spense il Crimescope. La stanza piombò nel buio pesto. Regnava l'oscurità assoluta, fatta eccezione per la macchia luminosa ai loro piedi. «Che cosa diavolo è quella?» esclamò Korsak. La detective Rizzoli si sentì quasi in preda alle allucinazioni. Fissò l'immagine evanescente, che sembrava ardere di fuoco verde. Proprio mentre la guardava, il bagliore spettrale si affievolì e qualche istante più tardi si ritrovarono di nuovo al buio. «Fosforescenza», spiegò Mick. «Si tratta di fluorescenza ritardata. Si verifica quando la luce UV eccita gli elettroni di certe sostanze. Questi impiegano un po' più di tempo per tornare allo stato energetico di base. E nel processo rilasciano fotoni. Noi abbiamo assistito proprio a questo processo: una macchia che emana luce fosforescente verde intenso dopo un'esposizione ai raggi UV a onda corta. Molto suggestivo.» Il ragazzo si alzò e accese le luci della stanza. Nel bagliore improvviso il tappeto che tutti fissavano incantati apparve alquanto ordinario. Ma Jane non riusciva più a guardarlo senza provare ripugnanza, perché sapeva che cos'era accaduto in quel luogo: la prova del tormento di Gail Yeager era ancora appiccicata a quelle fibre. «È sperma», affermò. «Potrebbe benissimo esserlo», osservò Mick mentre fissava il treppiedi e posizionava il filtro Kodak Wratten per la fotografia a ultravioletti. «Dopo che avrò scattato una foto, asporteremo questa sezione del tappeto. Il laboratorio scoprirà di che cosa si tratta usando la fosfatasi acida e un microscopio.»
Ma Jane non aveva bisogno di conferme. Si voltò verso la parete imbrattata di sangue. Rievocò la posizione del corpo di Yeager, e si ricordò della tazza che era caduta dal suo ventre e si era rotta sul pavimento. La macchia verde fosforescente sul tappeto confermava i suoi timori. Capì che cos'era accaduto, e fu come se la scena si ripetesse davanti ai suoi occhi. Li hai trascinati fuori dal letto fino a questa stanza col pavimento di legno. Hai legato polsi e caviglie al dottore e gli hai tappato la bocca col nastro adesivo in modo che non potesse gridare, né distrarti. L'hai messo seduto contro la parete, unico spettatore del tuo show. Richard Yeager è ancora vivo, e perfettamente consapevole di ciò che stai per fare. Ma non può reagire. Non può proteggere la moglie. È per controllare i suoi movimenti, i suoi sforzi, gli appoggi una tazza col piattino sulle ginocchia, una sorta di segnale d'allarme a distanza. Se lui mai riuscisse ad alzarsi, la tazza cadrebbe sul pavimento. Assorto nel piacere, non puoi verificare che cosa faccia il dottor Yeager, e non vuoi essere colto di sorpresa. Ma vuoi che guardi. Fissò il punto che pochi istanti prima era verde brillante. Se non avessero spostato il tavolino, se non avessero cercato quelle tracce, forse non l'avrebbero notato. L'hai posseduta, qui su questo tappeto. L'hai fatto davanti agli occhi del marito, che non poteva fare nulla per salvarla, che non poteva nemmeno salvare se stesso. E quando hai finito, quando hai avuto la tua preda, una piccola goccia di seme è rimasta su queste fibre, seccandosi fino a diventare una pellicola invisibile. L'uccisione del marito contribuiva ad aumentare il piacere? L'assassino si era fermato, coltello in mano, per godersi quel momento? O si era trattato solo di una conclusione pratica degli eventi che l'avevano preceduta? Aveva provato qualcosa mentre prendeva Richard Yeager per i capelli e gli premeva la lama contro la gola? Le luci della stanza si spensero. L'otturatore della macchina fotografica di Mick scattò più volte per catturare la macchia scura circondata dal bagliore fluorescente del tappeto. E quando hai terminato, e il dottor Yeager è accasciato col capo chino, e il sangue imbratta il muro dietro il suo corpo, esegui un ultimo rito preso in prestito dal cilindro di un altro killer. Pieghi la camicia da notte imbrattata della signora Yeager e la metti in bella vista in camera da letto, proprio come faceva Warren Hoyt. Ma non hai ancora finito. Questo era solo il primo atto. Ti attendono al-
tri piaceri, piaceri terribili. Per questo porti con te la donna. Le luci della stanza si riaccesero e il loro bagliore fu come una pugnalata negli occhi. Jane era stordita e tremante, scossa da un terrore che non provava da mesi. E umiliata perché quei due uomini glielo leggevano sicuramente sul volto pallido e nel tremolio delle mani. Improvvisamente si sentì mancare il fiato. Uscì dalla stanza e si precipitò fuori dalla casa. Si fermò nel giardino anteriore, cercando disperatamente di respirare. Udì alcuni passi che la seguivano, ma non si voltò a vedere chi fosse. Solo quando l'uomo parlò, capì che era Korsak. «Sta bene, Rizzoli?» «Sto bene.» «Non aveva un bell'aspetto.» «Mi girava un po' la testa.» «Un flashback del caso Hoyt, vero? Vedere questa roba deve averla scossa.» «Che ne sa lei?» Silenzio. Poi uno sbuffo. «Sì, ha ragione. Che cosa posso saperne io?» Quindi il detective si avviò verso l'interno della casa. Jane si voltò e chiamò. «Korsak?» «Che c'è?» Si fissarono per un istante. L'aria notturna era piacevole e l'erba aveva un odore fresco e dolce. Ma un terrore profondo le aveva attanagliato lo stomaco provocandole la nausea. «So che cosa sta provando», mormorò Jane. «So che cosa sta passando.» «La signora Yeager?» «Dovete trovarla. A qualsiasi costo.» «La sua faccia è su tutti i giornali. Stiamo seguendo ogni indizio telefonico, ogni avvistamento.» Korsak scosse il capo e sospirò. «Ma sa, a questo punto mi chiedo se l'abbia tenuta in vita.» «L'ha fatto. Ne sono certa.» «Come può esserne tanto sicura?» La donna si cinse cpn le braccia per soffocare il tremore e guardò la casa. «È quello che avrebbe fatto Warren Hoyt.» 3
Fra tutti i doveri di detective della Omicidi di Boston, quello che odiava di più era recarsi al sobrio edificio di mattoni in Albany Street. Pur immaginando di non essere più impressionabile dei colleghi maschi, Jane non poteva dimostrarsi vulnerabile. Gli uomini erano veri maghi nello scoprire i punti deboli, e l'avrebbero inevitabilmente presa di mira con le loro battute e i loro scherzi. La detective Rizzoli aveva imparato a mantenere un'aria stoica, a guardare senza batter ciglio quello che di peggio offriva il tavolo settorio. Nessuno sospettava quanta fatica le costasse entrare in quel palazzo con fare indifferente. Sapeva che gli uomini pensavano a lei come a Jane Rizzoli la temeraria, la stronza con la corazza d'acciaio. Ma seduta nella sua auto, dietro all'ufficio del medico legale, non si sentiva né temeraria né d'acciaio. La notte precedente non aveva dormito bene. Per la prima volta dopo molte settimane Warren Hoyt si era intrufolato nei suoi sogni, e lei si era svegliata madida di sudore, le vecchie ferite alle mani doloranti. Si osservò le palme deturpate e improvvisamente le venne voglia di riavviare l'auto e di andarsene, qualsiasi cosa pur di evitare la prova che l'attendeva all'interno dell'edificio. Non era obbligata a presenziare: in fondo, era un omicidio di Newton, perciò non di sua competenza. Ma Jane Rizzoli non era mai stata codarda, ed era troppo orgogliosa per tirarsi indietro ora. Scese dalla macchina, sbatté violentemente la portiera ed entrò nel palazzo. Fu l'ultima ad arrivare nella sala autoptica; le tre persone presenti la salutarono con un breve cenno del capo. Korsak, che indossava un camice da sala operatoria extra large e una cuffia di carta a palloncino, assomigliava a una casalinga obesa con la retina in testa. «Che cosa mi sono persa?» chiese, mentre s'infilava un camice per proteggere i vestiti da schizzi improvvisi. «Non molto. Parlavamo del nastro adesivo.» La dottoressa Maura Isles stava eseguendo l'autopsia. La «Regina dei morti», così l'aveva soprannominata la Omicidi un anno prima, quando aveva iniziato a lavorare nell'ufficio medico legale della comunità del Massachusetts. Era stato lo stesso Tierney ad attirarla a Boston, scomodandola dalla sua cattedra alla Facoltà di medicina della UC, la University of California, a San Francisco. E non c'era voluto molto perché anche la stampa locale la chiamasse con quel nomignolo. Alla sua prima comparsa in tribunale a Boston, per testimoniare in qualità di medico legale, si era presen-
tata vestita completamente di nero. Le telecamere della TV avevano seguito la sua figura regale mentre saliva i gradini, inquadrando una donna dalla carnagione incredibilmente pallida e il rossetto vivo, i capelli corvini fino alle spalle e la frangetta, e un atteggiamento di fredda impenetrabilità. Al banco niente e nessuno erano riusciti a innervosirla. L'avvocato della difesa aveva flirtato con lei, l'aveva circuita, alla fine, disperato, era ricorso persino alla chiara prepotenza, ma la dottoressa Isles aveva risposto alle domande con una logica infallibile, mantenendo sempre il suo sorriso da Monna Lisa. La stampa l'adorava, gli avvocati difensori la temevano, i poliziotti della Omicidi erano spaventati e nel contempo affascinati da quella donna che aveva scelto di trascorrere la sua vita in comunione con i morti. La Isles sovrintendeva all'autopsia con la sua solita imperturbabilità. Yoshima, il suo assistente, aveva un atteggiamento altrettanto pratico mentre preparava silenziosamente gli strumenti e sistemava le luci. Entrambi esaminarono il corpo di Richard Yeager con lo sguardo freddo dello scienziato. Il rigor mortis era scomparso da quando Jane Rizzoli aveva visto il cadavere il giorno prima, e il dottor Yeager giaceva sul tavolo, i muscoli rilasciati. Il nastro adesivo era stato staccato, i boxer rimossi e la pelle ripulita da gran parte del sangue. L'uomo aveva le braccia stese lungo i fianchi ed entrambe le mani erano gonfie e violacee, simili a guanti color ecchimosi, a causa delle legature strette e del livor mortis. Lo squarcio sul collo era la lesione su cui tutti erano al momento concentrati. «Il colpo di grazia», affermò la Isles e, con un righello, misurò le dimensioni della ferita. «Quattordici centimetri.» «Strano che non sembri tanto profonda», osservò Korsak. «Questo perché il taglio è stato praticato lungo le linee di Langer. La tensione cutanea riavvicina i lembi e la ferita sembra lieve. È più profonda di quanto non appaia.» «Abbassalingua?» chiese Yoshima. «Grazie.» La dottoressa prese lo strumento e infilò delicatamente l'estremità arrotondata nello squarcio, mormorando: «Di' ah...» «Che diavolo...?» esclamò Korsak. «Sto misurando la profondità della ferita. Quasi cinque centimetri.» Poi la Isles spostò una lente sopra il taglio e sbirciò nell'apertura color rosso carne. «L'arteria carotide sinistra e la giugulare sinistra sono entrambe recise. Anche la trachea è stata incisa. Il livello di penetrazione tracheale, poco sotto la cartilagine tiroidea, suggerisce che il collo sia stato esteso
prima della coltellata.» La donna sollevò lo sguardo verso i detective. «Il vostro uomo ha tirato indietro la testa della vittima, poi ha eseguito l'incisione, in modo più che deliberato.» «Un'esecuzione», mormorò Korsak. La Rizzoli si ricordò allora dei capelli appiccicati alla parete sporca di sangue, rilevati dal Crimescope. I capelli del dottor Yeager, strappati dal suo cuoio capelluto mentre la lama gli affondava nella pelle. «Di che tipo di lama si tratta?» chiese. La dottoressa Isles non rispose immediatamente. Si voltò verso Yoshima ed esclamò: «Nastro adesivo». «Ho già preparato le strisce.» «Io avvicino i margini. Tu applichi il nastro.» Korsak emise una risata sorpresa quando si rese conto di ciò che stavano per fare. «Lo riappiccicate con lo scotch?» La Isles gli lanciò un'occhiata divertita. «Preferisce forse l'Attack?» «Deve tenergli attaccata la testa o che?» «Suvvia, detective. Il nastro adesivo non terrebbe nemmeno la sua, di testa.» La dottoressa guardò attraverso la lente e annuì. «Perfetto, Yoshima. Ora la vedo.» «Vede cosa?» domandò Korsak. «I miracoli dello scotch. Detective Rizzoli, mi ha chiesto che tipo di lama ha usato.» «Mi dica che non è un bisturi.» «No, non è un bisturi. Dia un'occhiata.» Jane si avvicinò alla lente e osservò la ferita. I lembi erano stati riavvicinati col nastro trasparente, e ciò che vedeva in quel momento era un'approssimazione della sezione trasversale dell'arma. Lungo un margine dell'incisione si notavano alcune striature parallele. «Una lama dentellata», affermò. «A prima vista sembra proprio così.» La Rizzoli sollevò la testa e incrociò lo sguardo tranquillo e provocatorio del medico legale. «Però non lo è.» «Il taglio della lama non è dentellato, perché l'altro margine dell'incisione è perfettamente liscio. Osservate come questi graffi paralleli appaiano solo lungo un terzo dell'incisione, non per l'intera lunghezza. Sono i segni lasciati quando la lama è stata estratta. Il killer ha iniziato l'incisione sotto la mandibola sinistra, ha tagliato in direzione della gola e ha terminato sulla parte più esterna dell'anello tracheale. I graffi compaiono quando, termi-
nata l'incisione, inclina lievemente la lama per ritrarla.» «E da cosa sono stati provocati?» «Non dal filo. Quest'arma ha una dentellatura sul dorso, che ha lasciato segni paralleli quand'è stata ritratta.» La dottoressa guardò la Rizzoli. «È tipico di un coltello da sopravvivenza, roba da Rambo. L'arma che potrebbe usare un cacciatore.» Un cacciatore. Jane guardò le spalle massicce e muscolose di Richard Yeager e pensò: Questo non è un uomo che si calerebbe mitemente nel ruolo della preda. «Bene, vediamo se ho capito», esclamò Korsak. «La vittima, Mister Muscolo qui presente, guarda il nostro uomo estrarre un coltellaccio da Rambo e se ne rimane seduto a lasciarsi tagliare la gola?» «Aveva polsi e caviglie legate», replicò la dottoressa. «Non m'importa, nemmeno se fosse stato bendato come Tutankhamon. Qualsiasi uomo robusto si dimenerebbe come un matto.» «Ha ragione», esclamò Jane. «Anche con i polsi e le caviglie legate, si può sempre scalciare. O colpire con la testa. Ma lui è rimasto seduto là, contro il muro.» La dottoressa Isles si raddrizzò. Per un attimo non rispose e rimase immobile, regale, come se il suo camice fosse una tunica da sacerdotessa. Guardò Yoshima. «Passami un asciugamano bagnato. Fai luce qui sopra. Puliamo bene ed esaminiamo tutta la cute, centimetro per centimetro.» «Che cosa stiamo cercando?» domandò Korsak. «Glielo dirò quando l'avrò trovato.» Qualche istante più tardi, dopo aver alzato il braccio destro del cadavere, la dottoressa Isles individuò i segni che cercava sul lato del torace. La lente d'ingrandimento mostrò due protuberanze lievemente arrossate. La patologa vi passò il dito inguantato. «Rigonfiamenti», mormorò. «Reazione tripla di Lewis.» «Reazione tripla di che?» chiese Jane. «Reazione tripla di Lewis. È un segno caratteristico della cute. Prima si vede l'eritema, le macchie rosse, poi un arrossamento causato dalla dilatazione arteriolare cutanea. Infine, nel terzo stadio, si formano i rigonfiamenti, in seguito all'aumento della permeabilità vascolare.» «A me sembra il segno di un Taser», esclamò la Rizzoli. La dottoressa annuì. «Esattamente. Questa è la classica reazione cutanea a uno shock elettrico provocato da un apparecchio come il manganello elettrico Taser. Di sicuro, l'avrebbe messo fuori combattimento. Zac, e la vittima perde il controllo neuromuscolare. Per il tempo sufficiente a che
qualcuno le leghi polsi e caviglie.» «Quando scompaiono di solito questi rigonfiamenti?» «Su un individuo vivo, normalmente dopo due ore.» «E su un morto?» «La morte arresta il processo di rigenerazione cutanea. Per questo sono ancora visibili. Pur essendo molto lievi.» «Perciò è morto entro le due ore successive alla scossa?» «Esatto.» «Ma un Taser ti immobilizza solo per pochi minuti», affermò Korsak. «Cinque, dieci al massimo. Per tenerlo buono deve avergli dato un'altra scarica.» «Ed è per questo che stiamo cercando altri segni», rispose la Isles, spostando la lampada lungo il torso. Il fascio di luce illuminò impietoso i genitali di Richard Yeager. Fino allora Jane aveva evitato di guardare in quella direzione. Fissare gli organi sessuali di un cadavere le era sempre sembrata un'invadenza crudele, un ulteriore oltraggio, un'ennesima umiliazione per la vittima. Ora la luce era puntata sul pene flaccido e sullo scroto; la violenza su Richard Yeager era ormai completa. «Ci sono altri rigonfiamenti», asserì la dottoressa Isles, rimuovendo una macchia di sangue per esporre la cute. «Qui, sulla parte inferiore dell'addome.» «E sulla coscia», mormorò Jane. La dottoressa sollevò lo sguardo. «Dove?» Jane Rizzoli indicò i segni rivelatori, a sinistra dello scroto. Dunque gli ultimi terribili istanti di Richard Yeager erano andati in questo modo, pensò. Vigile e all'erta, ma impossibilitato a muoversi. Non aveva potuto difendersi. I muscoli ben sviluppati, le ore trascorse in palestra non erano serviti a nulla, alla fine, perché il corpo non gli obbediva. I suoi arti giacevano inerti, messi in corto circuito dalla tempesta elettrica che aveva investito il sistema nervoso. Era stato trascinato fuori dalla stanza, impotente come una bestia stordita sulla via del macello, e poi appoggiato al muro, per assistere a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Ma l'effetto del Taser non dura a lungo. Presto i suoi muscoli erano tornati a contrarsi, le sue dita a chiudersi in un pugno. Mentre guardava la tortura che la moglie era costretta a sopportare, la rabbia aveva inondato il suo corpo di adrenalina. Stavolta, quando aveva provato a muoversi, i muscoli avevano obbedito. Quando però aveva tentato di alzarsi, il rumore
della tazza che teneva sulle ginocchia lo aveva tradito. Un'altra scarica elettrica e Richard era crollato, disperato, come Sisifo il cui masso rotola di nuovo giù dalla collina. Jane guardò il viso di Yeager, le palpebre aperte, e pensò alle ultime immagini che doveva aver registrato il suo cervello. Le gambe stese, inerti davanti a sé. La moglie, stuprata sul tappeto beige. E un coltello, stretto nella mano del cacciatore, che si avvicina per uccidere la preda. Nella sala comune c'è molta confusione, gli uomini vanno avanti e indietro come bestie in gabbia, cosa che del resto sono. La TV è accesa a tutto volume, e le scale metalliche che portano alla fila superiore di celle risuonano a ogni passo. Non possiamo mai sottrarci agli occhi delle guardie. Dappertutto ci sono telecamere di sorveglianza, nella sala docce, persino nei gabinetti. Dalle finestre della postazione di guardia i nostri custodi ci osservano mentre ci mescoliamo in questo pozzo. Possono vedere ogni nostra mossa. L'istituto correzionale Souza-Baranowski è una struttura di sesto livello, la più recente del sistema carcerario del Massachusetts, ed è una meraviglia della tecnologia. Le serrature non hanno chiave, sono azionate dai terminali della torre di guardia. I comandi sono impartiti da voci incorporee attraverso l'interfono. Le porte di ogni cella possono essere aperte o chiuse tramite accesso remoto, senza che sia presente nessun essere umano. Vi sono giorni in cui mi domando se le guardie siano fatte di carne e ossa, oppure se le sagome che vediamo, in piedi dietro ai vetri, non siano semplicemente robot telecomandati, torsi che girano, teste che annuiscono. Tuttavia, essere controllato, da uomini o da macchine, non mi disturba, perché nessuno è comunque in grado di vedere nella mia mente, non possono entrare nella landa oscura delle mie fantasie. Quel luogo appartiene solo a me. Mentre siedo nella sala comune, a guardare il telegiornale delle sei, cammino in quella landa. La giornalista, che mi sorride dallo schermo, viaggia insieme a me. Immagino i suoi capelli scuri come una chiazza nera su un cuscino. Vedo il sudore brillarle sulla pelle. E nel mio mondo lei non sorride; oh, no, ha gli occhi spalancati, le pupille dilatate come pozzi senza fondo, le labbra contratte in una smorfia di terrore. Immagino tutto ciò mentre la guardo, affascinante nel suo vestito verde giada. Vedo il suo sorriso, sento la sua voce gradevole e mi domando come sarebbero le sue grida. Poi sullo schermo appare una nuova immagine, e tutti i pensieri sulla
giornalista svaniscono. Un reporter è in piedi davanti alla casa del dottor Richard Yeager, a Newton. Con voce triste l'uomo spiega che, a due giorni dall'assassinio del dottore e dal rapimento della moglie, non è stato fatto alcun arresto. Sono già informato sul caso Yeager. Ora mi protendo, fisso intensamente lo schermo, in attesa d'intravedere qualcosa. Finalmente la vedo. La telecamera si è spostata verso la casa, e la riprende da vicino mentre esce dalla porta d'ingresso. Un uomo robusto emerge proprio dietro di lei. Restano a parlare nel giardino anteriore, ignari del fatto che il cameraman della TV abbia zumato su di loro. L'uomo ha un aspetto rude, da maiale, con le guance cadenti e rade ciocche di capelli pettinate su una testa quasi calva. Di fianco a lui, lei sembra piccola e inconsistente. È trascorso molto tempo dall'ultima volta che l'ho vista, e sembra molto cambiata. Oh, i suoi capelli sono sempre una criniera ribelle di riccioli scuri, e indossa uno dei suoi soliti completi blu navy; la giacca, abbondante sulle spalle, ha un taglio che non rende giustizia alla sua corporatura minuta. Ma il volto è cambiato. Un tempo era duro e sicuro di sé, non particolarmente bello, eppure singolare, per l'intelligenza penetrante dei suoi occhi. Ora sembra esausta e stanca. Ha perso peso. Vedo nuove ombre sul suo viso, nella cavità delle guance. Improvvisamente lei scorge la telecamera e la fissa, guardando dritto verso di me; i suoi occhi sembrano vedermi, proprio come la vedo io, come se mi stesse davanti in carne e ossa. Abbiamo una storia, io e lei, un'esperienza comune tanto intima da legarci per sempre, come due amanti. Mi alzo dal divano e mi avvicino al televisore. Premo la mano sullo schermo. Non sento più la voce del reporter, sono concentrato solo sul suo volto. La mia piccola Janie. Le mani ti danno ancora fastidio? Ti sfreghi ancora le palme, come facevi in tribunale, quasi per assicurarti che non ci fossero schegge intrappolate nella carne? Anche tu consideri quelle cicatrici un pegno d'amore? Piccoli ricordi della mia profonda stima per te? «Togliti da quella fottuta TV! Non vediamo niente!» urla qualcuno. Io non mi sposto. Rimango in piedi davanti allo schermo, tocco il suo volto, e ricordo quegli occhi scuri come il carbone, che una volta mi hanno guardato, sottomessi. Ricordo la lucentezza della pelle. Una pelle perfetta, priva della minima traccia di trucco. «Spostati, coglione!» Improvvisamente lei scompare, svanisce dallo schermo. È tornata la giornalista con la giacca verde giada. Solo un istante fa ero pronto ad ac-
contentarmi, per le mie fantasie, di quel manichino ben pettinato. Ora mi sembra insulsa, solo un altro bel viso, un'altra gola sottile. Mi è bastato un solo sguardo a Jane Rizzoli per ricordarmi ciò che vale veramente la pena di cacciare. Torno sul divano e vedo una pubblicità delle automobili Lexus. Ma non sto più guardando la TV. Sto, invece, rievocando i tempi in cui camminavo libero. Com'era passeggiare per le strade cittadine, respirando i profumi delle donne che mi passavano accanto. Non gli elaborati aromi floreali delle boccette, ma il vero profumo del sudore di una donna, o quello dei suoi capelli scaldati dal sole. Nei giorni d'estate mi mescolavo fra i passanti in attesa di attraversare ai semafori. Nella calca di una strada affollata chi mai noterebbe che l'uomo dietro di te si è avvicinato per annusarti i capelli? Chi mai s'accorgerebbe che l'uomo di fianco a te sta fissando il tuo collo e individuando i punti delle pulsazioni, dove sa che la tua pelle emana il profumo più dolce? Nessuno lo nota. La luce del semaforo diventa verde. La folla inizia a muoversi. E la donna prosegue per la sua strada, senza mai sapere, né sospettare, che il cacciatore ha individuato il suo profumo. «La camicia da notte piegata non significa di per sé che abbiamo a che fare con un emulatore», affermò il dottor Lawrence Zucker. «È solamente una dimostrazione di controllo. Il killer evidenzia il suo predominio sulle vittime. La sua padronanza della scena del crimine.» «Come era solito fare Warren Hoyt», ribatte Jane. «Altri killer l'hanno fatto prima di lui. Non è una peculiarità del Chirurgo.» Il dottor Zucker la osservava con uno scintillio strano, quasi animalesco, negli occhi. Insegnava psicologia criminale alla Northeastern University ed effettuava spesso consulenze per conto del Dipartimento di polizia di Boston. Aveva lavorato con la Omicidi alle indagini sul Chirurgo l'anno precedente, e il profilo criminale che aveva stilato del soggetto, a quel tempo sconosciuto, si era rivelato incredibilmente esatto. Talora Jane si domandava se Zucker stesso fosse normale. Solo un uomo che conoscesse intimamente la natura del male avrebbe potuto addentrarsi tanto nella mente di un mostro come Warren Hoyt. Non si era mai sentita a suo agio con quell'uomo dal tono di voce basso, sornione, e dagli sguardi intensi, che la facevano sentire violata e vulnerabile. Ma lui era uno dei pochi che avevano capito veramente Hoyt; forse sarebbe riuscito a farlo anche con un emu-
latore. «Non si tratta solo della camicia piegata», asserì Jane. «Vi sono altre affinità. Ha usato il nastro adesivo per legare la vittima.» «Anche qui, non è l'unico. Ha mai visto il telefilm MacGyver? Ci ha mostrato mille e più modi per utilizzare il nastro adesivo.» «L'effrazione notturna di una finestra. Le vittime vengono sorprese a letto...» «Quando sono più vulnerabili. È il momento più logico per un'aggressione.» «E lo squarcio alla gola, netto.» Zucker scrollò le spalle. «Un modo silenzioso ed efficace di uccidere.» «Ma metta insieme il tutto: la camicia da notte piegata, il nastro adesivo, la tecnica di effrazione, il colpo di grazia...» «E quello che ottengo è un soggetto sconosciuto che sceglie strategie piuttosto comuni. Anche la tazza sulle ginocchia della vittima... è una variante di ciò che è già stato fatto prima, da stupratori seriali. Mettono un piatto o qualcos'altro sul marito; se questi si muove, l'oggetto cade e avverte il violentatore. Sono strategie comuni, perché funzionano.» Frustrata, Jane estrasse le foto della scena del delitto di Newton e le dispose sul tavolo. «Stiamo cercando di trovare una donna, dottor Zucker. Finora non abbiamo tracce. Non voglio nemmeno pensare a quello che starà passando in questo momento... sempre che sia ancora viva. Perciò le guardi bene e mi dica qualcosa di quest'uomo. Mi dica come possiamo trovarlo. Come possiamo trovare lei.» Il criminologo s'infilò gli occhiali e prese la prima fotografia. Non parlò, si limitò a fissarla per un istante, poi esaminò la seconda della sequenza. Gli unici rumori erano lo scricchiolio della sua poltrona di pelle e qualche occasionale mormorio d'interesse. Dalla finestra del suo ufficio Jane Rizzoli vedeva il campus della Northeastern University, quasi deserto in quella giornata estiva. Solo alcuni studenti sdraiati sull'erba del giardino, zaini e libri disseminati tutti intorno. Jane invidiava quei ragazzi, le loro giornate spensierate e la loro innocenza. La fede cieca nel futuro. E le loro notti di sonno non interrotto da sogni oscuri. «Ha detto che avete trovato tracce di sperma», affermò Zucker. Riluttante, la detective Rizzoli distolse lo sguardo dagli studenti che prendevano il sole e si voltò verso di lui. «Sì. Su quel tappeto ovale della foto. Il laboratorio conferma che si tratta di un gruppo sanguigno diverso da quello del marito. Il DNA è stato inserito nel Combined DNA Index
System, il CODIS.» «Per qualche ragione, dubito che il vostro uomo sia tanto sconsiderato da farsi identificare in un confronto con la banca dati nazionale. No, scommetto che il suo DNA non è nel CODIS.» Zucker sollevò gli occhi dalla foto. «E scommetto che non ha lasciato impronte.» «L'AFIS, il sistema automatico di identificazione delle impronte digitali, non ha rilevato nulla. Sfortunatamente gli Yeager hanno ricevuto almeno una cinquantina di visite dopo il funerale della madre della signora. Il che significa che abbiamo numerose impronte non identificabili.» Zucker riabbassò lo sguardo sulla foto del marito, accasciato contro la parete imbrattata di sangue. «L'omicidio è avvenuto a Newton.» «Sì.» «Un'indagine a cui lei normalmente non prenderebbe parte. Perché è coinvolta?» Alzò di nuovo gli occhi e la fissò con un'intensità imbarazzante. «Me lo ha chiesto il detective Korsak...» «Che ufficialmente è a capo dell'indagine. Giusto?» «Giusto. Ma...» «Non ci sono già abbastanza omicidi a Boston da tenerla occupata, detective? Perché sente il bisogno di accollarsi anche questo?» Jane lo fissò a sua volta, con la sensazione che le si fosse insinuato in qualche modo nel cervello e che si stesse guardando intorno, in cerca del giusto punto debole per tormentarla. «Gliel'ho detto», rispose. «La donna potrebbe essere ancora viva.» «E lei vuole salvarla.» «Lei no?» sbottò lei. «Sono curioso, detective», affermò Zucker, impassibile di fronte a quell'impeto di rabbia. «Ha mai parlato a nessuno del caso Hoyt? Intendo, dell'impatto che ha avuto su di lei, personalmente?» «Non sono sicura di capire che cosa intende.» «Ha fatto ricorso al counselling?» «Vuol dire se sono andata da uno strizzacervelli?» «Dev'essere stata un'esperienza a dir poco tremenda, ciò che le è accaduto in quella cantina. Warren Hoyt le ha fatto cose che tormenterebbero qualsiasi poliziotto. Quell'uomo le ha lasciato cicatrici, fisiche ed emotive. Gran parte della gente svilupperebbe un trauma persistente. Flashback, incubi. Depressione.» «I ricordi non sono affatto piacevoli, ma riesco a gestirli.»
«Questo è sempre stato il suo modo di fare, vero? Andare avanti a muso duro. Mai lamentarsi.» «Mi lamento come tutti gli altri.» «Mai però di qualcosa che la farebbe apparire debole. O vulnerabile.» «Non sopporto i piagnoni. Mi rifiuto d'essere così.» «Non sto parlando di piagnucolare, ma di essere sufficientemente onesti da riconoscere di avere un problema.» «A quale problema allude?» «Me lo dica lei, detective.» «No, lo faccia lei. Visto che, a quanto pare, pensa che io sia incasinata.» «Non ho detto questo.» «Ma lo pensa.» «È stata lei a usare il termine 'incasinata'. È così che si sente?» «Ascolti, io sono venuta per quelle», esclamò indicando le foto della scena del delitto Yeager. «Perché stiamo parlando di me?» «Perché quando guarda queste foto, tutto ciò che vede è Warren Hoyt. Mi sto chiedendo per quale ragione.» «Quel caso è chiuso. Me lo sono lasciato alle spalle.» «Alle spalle? Davvero?» Quella domanda, posta con tono tanto pacato, la fece ammutolire. Il modo in cui Zucker sondava i suoi pensieri la infastidiva. E, soprattutto, la infastidiva il fatto che avesse riconosciuto una verità che lei non riusciva ad ammettere. Warren Hoyt aveva lasciato cicatrici. Non doveva fare altro che guardarsi le mani per ricordare il danno che le aveva inflitto. Ma le lesioni più profonde non erano fisiche. Quello che aveva perduto in quella cantina buia l'estate precedente era la sensazione d'invincibilità. La sicurezza in se stessa. Warren Hoyt le aveva insegnato quanto in realtà fosse vulnerabile. «Non sono qui per parlare di Warren Hoyt», esclamò. «Eppure è proprio lui la ragione per cui lei è qui.» «No. Sono qui perché vedo parallelismi fra questi due killer. E non sono l'unica. Anche il detective Korsak li vede. Perciò non divaghiamo, va bene?» Il criminologo le rivolse un sorriso blando. «Va bene.» «Allora, che cosa pensa di questo soggetto?» chiese picchiettando le dita sulle foto. «Che cosa può dirmi di lui?» Ancora una volta Zucker si concentrò sull'immagine del dottor Yeager. «Il vostro uomo è ovviamente organizzato. Ma questo lo sa già. È arrivato
sulla scena preparato di tutto punto. Il tagliavetro, l'arma per stordire, il nastro adesivo. È riuscito a soggiogare la coppia tanto velocemente da farmi pensare che...» Sollevò lo sguardo verso di lei. «Non è possibile che vi sia un secondo uomo? Un partner?» «Abbiamo trovato solo una serie di orme.» «Allora il ragazzo è molto efficiente. E meticoloso.» «Ma ha lasciato sperma sul tappeto. E ci ha consegnato le chiavi della sua identità. È un errore madornale.» «Già. E certamente lo sa.» «Allora perché stuprarla proprio lì, in casa? Perché non più tardi, in un luogo sicuro? Se è tanto ben organizzato da riuscire a irrompere in casa e controllare il marito...» «Forse è proprio quella la soddisfazione.» «Che cosa?» «Pensi al dottor Yeager seduto lì, legato e impotente. Costretto a guardare mentre un altro uomo s'impossessa di una sua proprietà.» «Proprietà», ripeté Jane. «Nella mente di questo soggetto la donna è esattamente questo: la proprietà di un altro uomo. Gran parte dei molestatori sessuali non si sognerebbero mai di aggredire una coppia. Sceglierebbero una donna sola, un bersaglio facile. La presenza di un uomo rende l'impresa pericolosa. Ma il vostro soggetto era al corrente che sulla scena c'era il marito, ed è arrivato pronto ad affrontarlo. Non potrebbe, quindi, essere parte del piacere, dell'eccitazione? Una sorta di pubblico?» L'unico spettatore. Jane guardò la foto di Richard Yeager, accasciato contro la parete. Sì, quella era stata anche la sua prima impressione quando era entrata nel salotto. Lo sguardo di Zucker si spostò sulla finestra. Rimase in silenzio un istante. Quando aprì di nuovo bocca, la sua voce era flebile e assonnata, come se parlasse in stato onirico. «Tutto si basa sul potere. E sul controllo. Il dominio su un altro essere umano. Non solo sulla donna, ma anche sull'uomo. Forse è proprio il marito a eccitarlo, un elemento sostanziale della sua fantasia. Il nostro uomo conosce i rischi, ma è costretto a soddisfare i suoi impulsi. Le sue fantasie lo controllano e lui, a sua volta, controlla le vittime. Lui è onnipotente. Il dominatore. Il suo nemico siede immobilizzato e impotente, e il killer fa ciò che le armate vittoriose hanno sempre fatto. Reclama la preda. Stupra la donna. E il suo piacere è accresciuto dalla sconfitta totale di Yeager.
Questo è qualcosa di più di un'aggressione sessuale: è una dimostrazione di potere virile. La vittoria di un uomo su un altro. Il conquistatore che reclama il suo bottino.» Fuori, sul prato, gli studenti stavano raccogliendo gli zaini e si scrollavano l'erba dai vestiti. Il sole pomeridiano tingeva ogni cosa di un color oro sbiadito. Che cosa aveva in serbo la giornata per quegli studenti? si chiese la Rizzoli. Forse una serata di relax e di chiacchiere, una pizza e una birra. E un sonno profondo, senza incubi. Il sonno degli innocenti. Qualcosa che non riavrò più. Il suo cellulare squillò. «Mi scusi», esclamò, e con un gesto rapido aprì il telefono. La chiamata proveniva da Erin Volchko, della Scientifica, laboratorio Capelli, Fibre e Tracce. «Ho esaminato le strisce di nastro adesivo staccate dal corpo di Yeager», affermò Erin. «Ho già inviato il rapporto al detective Korsak per fax. Ma sapevo che desideravi essere informata.» «Che cos'abbiamo?» «Numerosi capelli corti, castani, rimasti sull'adesivo. Peli degli arti, strappati alla vittima quando il nastro è stato tolto.» «Fibre?» «Ci sono anche quelle. Ma c'è un'altra cosa molto interessante. Sulla striscia staccata dalle caviglie della vittima c'è un unico capello castano scuro, lungo ventun centimetri.» «Sua moglie è bionda.» «Lo so. Per questo lo trovo interessante.» Lo sconosciuto, pensò la Rizzoli. Appartiene al nostro killer. «Hai rinvenuto cellule epiteliali?» chiese. «Sì.» «Dunque saremmo in grado di ricavare il DNA dal capello. Se corrisponde allo sperma...» «Non corrisponderà.» «Come lo sai?» «Perché non è possibile che il capello sia dell'assassino.» Erin rimase un istante in silenzio. «A meno che non sia uno zombi.» 4 Per gli investigatori della Omicidi di Boston una visita al laboratorio della Scientifica richiedeva solo una breve passeggiata lungo un corridoio
piacevolmente inondato dal sole, verso l'ala meridionale di Schroeder Plaza. Jane aveva percorso quel tragitto numerose volte, lo sguardo rivolto distrattamente alle finestre che sovrastavano il problematico quartiere di Roxbury, dove di notte i negozi si barricavano dietro sbarre d'acciaio e lucchetti, e ogni auto parcheggiata aveva un antifurto meccanico. Ma quel giorno era alla ricerca di risposte e, senza nemmeno guardare fuori, andò dritta alla stanza S269, il laboratorio Capelli, Fibre e Tracce. In quel locale senza finestre, pieno zeppo di microscopi e provvisto di un gas cromatografo con prisma gammatech, l'esperta Erin Volchko regnava sovrana. Lontana dalla luce del sole e dal panorama esterno, la donna concentrava tutta la sua attenzione sul mondo che appariva sotto la lente del microscopio, e aveva gli occhi sciupati e perennemente socchiusi di chi ha fissato troppo a lungo nell'oculare. Quando Jane entrò nella stanza, Erin si voltò. «L'ho appena messo sotto il microscopio per te. Guarda un po'.» La detective Rizzoli si sedette e sbirciò nell'oculare. Vide il fusto di un capello disposto orizzontalmente nel campo visivo. «È il capello lungo e castano recuperato dal nastro adesivo che legava le caviglie del dottor Yeager», affermò Erin. «È l'unico di questo tipo rimasto attaccato. Gli altri erano peli corti delle gambe e delle braccia, oltre a un capello della vittima, sulla striscia che gli copriva la bocca. Ma quello lungo è orfano, ed è piuttosto sconcertante. Non corrisponde né ai capelli della vittima né a quelli recuperati dalla spazzola della moglie.» Jane modificò il campo, per esaminare meglio il fusto. «È sicuramente umano?» «Sì, è umano.» «E perché non può essere dell'assassino?» «Guardalo e dimmi che cosa vedi.» Jane tacque, richiamando alla mente tutto ciò che aveva imparato sull'analisi medicolegale dei capelli. Sapeva che Erin doveva avere una ragione precisa per indurla in modo tanto sistematico a rivedere quel processo, percepiva una lieve eccitazione nella sua voce. «Il capello è curvo, grado di arricciamento punto uno, punto due. E hai detto che la lunghezza del fusto era di ventun centimetri.» «Una lunghezza tipicamente femminile», suggerì Erin. «Meno comune in un uomo.» «È questo che ti ha insospettito?» «No. La lunghezza non ci rivela il sesso.»
«Allora su cosa dovrei concentrarmi?» «Sull'estremità prossimale. La radice. Non noti niente di strano?» «La radice appare un po' sfilacciata. Come una sorta di spazzola.» «Quella è esattamente la parola che userei io. In gergo si chiama 'radice con estremità a spazzola'. Si tratta di un insieme di fibrille corticali. Esaminando la radice possiamo determinare in quale stato di crescita si trovasse il capello. Azzarda un'ipotesi.» Jane osservò la radice bulbosa, con la sua guaina sottile come una ragnatela. «C'è qualcosa di trasparente attaccato alla radice.» «Una cellula epiteliale», rispose Erin. «Ciò significa che era in una fase di crescita attiva.» «Già. La radice è lievemente ingrossata, ciò vuol dire che il capello era in fase anagen finale; stava per completare la fase di crescita attiva. E quella cellula epiteliale potrebbe fornirci il DNA.» La Rizzoli sollevò la testa e guardò Erin. «Non vedo il nesso con gli zombi.» La donna emise una risata sommessa. «Non intendevo in maniera letterale.» «Che cosa volevi dire, allora?» «Guarda di nuovo il fusto. Seguilo dalla radice in direzione della punta.» Jane osservò ancora una volta nel microscopio e si concentrò sul segmento più scuro del fusto. «Il colore non è uniforme», mormorò. «Vai avanti.» «Si vede una fascia nera sul fusto, poco lontano dalla radice. Che cos'è?» «Si chiama bandatura radicolare distale», rispose l'esperta. «È il punto in cui il dotto della ghiandola sebacea entra nel follicolo. Tra i secreti della ghiandola ci sono enzimi che scompongono le cellule, in una sorta di processo digestivo. Ciò causa quel rigonfiamento e quella formazione nera vicino all'estremità radicolare del capello. Proprio quello che volevo farti vedere. La fasciatura distale. Esclude ogni possibilità che il capello appartenga al vostro uomo. Può essergli caduto dai vestiti. Ma non dalla testa.» «Perché no?» «La fasciatura distale e le estremità radicolari a spazzola sono entrambe variazioni post mortem.» Jane sollevò di scatto la testa e fissò Erin. «Post mortem?» «Esattamente. Proviene da un cuoio capelluto in decomposizione. I mutamenti di quel capello sono classici, e sono specifici del processo di putrefazione. A meno che il killer non si sia risvegliato dalla tomba, questo ca-
pello non può essergli caduto dalla testa.» Trascorse qualche istante prima che la Rizzoli ritrovasse la voce. «Da quanto dovrebbe essere morto un individuo perché il capello presenti queste caratteristiche?» «Sfortunatamente questo genere di variazioni non consente di stabilire l'intervallo post mortem. Potrebbe essere stato staccato dal cuoio capelluto in un lasso di tempo compreso fra otto ore e parecchie settimane dopo la morte. Anche i capelli di cadaveri imbalsamati anni or sono possono apparire così.» «E che cosa accade se strappi i capelli a qualcuno che è ancora vivo e li lasci in giro per un po'? Anche in questo caso compaiono quei segni?» «No. I segni da decomposizione si manifestano solo quando il capello resta attaccato al cuoio capelluto del defunto e viene strappato in seguito, dopo la morte.» Erin incrociò lo sguardo sbalordito di Jane. «Il vostro uomo è entrato in contatto con un cadavere. Il capello gli è rimasto attaccato ai vestiti e l'ha lasciato sul nastro, quando ha legato le caviglie del dottor Yeager.» «Può appartenere a un'altra vittima», mormorò la Rizzoli. «Questa è una possibilità. Io ne vorrei proporre un'altra.» Erin si avvicinò a un altro bancone e tornò con un piccolo vassoio, contenente una sezione di nastro con la parte adesiva rivolta verso l'alto. «Questo pezzo è stato rimosso dai polsi di Yeager. Voglio mostrartelo sotto la luce UV. Ti dispiace premere quell'interruttore?» Jane lo premette e, nell'oscurità improvvisa, la piccola lampada a ultravioletti della Volchko emise un bagliore soprannaturale color verdeblù. Si trattava di una fonte di luce meno potente di quella prodotta dal Crimescope usato da Mick a casa degli Yeager, ma quando il suo raggio colpì il pezzo di nastro, rivelò dettagli altrettanto sbalorditivi. Un nastro adesivo lasciato su una scena del delitto può essere una miniera d'oro per un detective, perché vi possono aderire fibre, capelli, impronte digitali e persino il DNA di un criminale, sotto forma di cellule cutanee. Sotto gli ultravioletti la Rizzoli notò alcuni granelli di polvere e qualche pelo corto. E, lungo un'estremità del nastro, ciò che sembrava una frangia di fibre molto sottili. «Hai notato la continuità delle fibre sul margine?» chiese Erin. «Corrono per tutta la lunghezza del nastro rimosso dai polsi e dalle caviglie. Sembrano quasi un difetto di fabbrica.» «Ma non lo sono.» «No, non lo sono. Se appoggi un rotolo di nastro adesivo su un lato, le
estremità raccoglieranno tracce della superficie su cui poggiano. In qualsiasi posto andiamo, collezioniamo tracce del nostro ambiente. E poi le rilasciamo in altri luoghi. Lo stesso ha fatto il vostro uomo.» Erin riaccese le luci della stanza e la Rizzoli batté le palpebre per il bagliore improvviso. «Di che tipo di fibre si tratta?» «Ti mostro.» La Volchko tolse il vetrino contenente il capello e lo sostituì con un altro. «Guarda tu stessa. Ti spiegherò quello che vedrai.» Jane appoggiò l'occhio al microscopio e vide una fibra scura, curva, a forma di C. «Quella proviene dal bordo del nastro adesivo», affermò Erin. «Ho usato un getto d'aria calda per separare i diversi strati del nastro. Quelle fibre blu scuro corrono per l'intera lunghezza. Ora lascia che ti mostri la sezione trasversale.» L'esperta allungò un braccio e prese un raccoglitore, da cui estrasse una fotografia. «Questo è ciò che appare al microscopio elettronico a scansione. Vedi la forma a delta della fibra? Ricorda un piccolo triangolo. È fabbricata così per ridurre la ritenzione di sporcizia. Viene utilizzata per la produzione dei tappeti.» «Quindi si tratta di un materiale sintetico?» «Esatto.» «E che mi dici della birifrangenza?» Jane sapeva che quando la luce passa attraverso una fibra sintetica, spesso esce polarizzata su due piani diversi, come se avesse attraversato un cristallo. La rifrazione doppia era chiamata birifrangenza. Ogni tipo di fibra presentava un indice caratteristico, misurabile con un microscopio polarizzante. «Questa specifica fibra blu», rispose Erin, «ha un indice di birifrangenza di 0,63.» «È caratteristica di qualcosa in particolare?» «Del nylon 6,6. Comunemente usato per i tappeti, perché è antimacchia, elastico e robusto. In particolare, la forma trasversale della fibra e la spettrografia a infrarossi indicano un prodotto della Dupont chiamato Antron, utilizzato per la produzione di tappeti.» «Ed è blu scuro?» domandò Jane. «Non è un colore che molti sceglierebbero per una casa. Forse si tratta di moquette per auto.» Erin annuì. «In effetti, questo colore, il numero otto zero due blu, viene da tempo offerto negli allestimenti standard per le auto americane di lusso. Cadillac e Lincoln, per intenderci.» Jane comprese esattamente dove Erin volesse andare a parare. «La Cadillac produce carri funebri», asserì.
Erin sorrise. «Anche la Lincoln.» Stavano entrambe pensando la stessa cosa: Il killer è qualcuno che lavora con i cadaveri. Jane passò in rassegna tutte le figure professionali che avevano contatti con i morti. Il poliziotto e il medico legale chiamati sulla scena di un decesso senza testimoni. Il patologo e il suo assistente. L'imbalsamatore e l'impresario delle pompe funebri. Il preparatore, che lava i capelli e applica il trucco, in modo che il defunto sia presentabile per l'ultimo addio. Il morto entra in contatto con numerosi vivi, e le tracce del suo passaggio potrebbero rimanere appiccicate addosso a chiunque tra questi. Jane guardò Erin. «La donna rapita. Gail Yeager...» «Che cosa?» «Sua madre è morta il mese scorso.» Joey Valentine faceva resuscitare i morti. Jane Rizzoli e Korsak erano in piedi nella sala di preparazione ben illuminata della Whitney Funeral Home and Chapel e stavano osservando Joey frugare nel suo kit di make-up Graftobian. All'interno della valigetta c'erano minuscoli vasi di creme, ciprie e rossetti; sembrava un kit teatrale qualsiasi, invece quei trucchi servivano a ridare vitalità alla pelle cinerea dei cadaveri. La voce vellutata di Elvis Presley cantava Love Me Tender da uno stereo portatile mentre Joey premeva un po' di cera modellante sulle mani del defunto, riempiendo i buchi e le incisioni lasciati da numerosi cateteri endovenosi e dalle linee arteriose. «Questa era la musica preferita della signora Ober», esclamò mentre lavorava, guardando di tanto in tanto le tre istantanee appese con le graffette al cavalletto, che aveva sistemato accanto al tavolo di preparazione. Jane immaginò che fossero della Ober, anche se la donna viva ritratta in quelle foto assomigliava molto poco al cadavere grigio e rinsecchito sul quale stava lavorando Joey. «Il figlio mi ha detto che era fanatica di Elvis», continuò l'uomo. «È andata a Graceland tre volte. Mi ha portato questa cassetta, in modo che la usassi mentre la truccavo. Io cerco sempre di ascoltare la loro musica preferita, sapete. Mi aiuta a sintonizzarmi con loro. Si comprende molto di una persona ascoltando la musica che preferisce.» «Che aspetto si suppone debba avere una fan di Elvis?» chiese Korsak. «Be'... rossetto più carico, capelli più voluminosi. Niente a che vedere con qualcuno che ascolta, diciamo, Shostakovich.»
«E che tipo di musica ascoltava la signora Hallowell?» «Non ricordo esattamente.» «Ha lavorato su di lei solo un mese fa.» «Sì, ma non sempre rammento i dettagli.» Joey aveva finito di incerare le mani. Si spostò allora verso l'estremità del tavolo, e lì rimase muovendo il capo al ritmo di You Ain't Nothing but a Round Dog. Vestito con un paio di jeans neri e scarponi Doc Martens, sembrava un giovane artista alternativo intento a contemplare una tela bianca. Ma la sua tela era carne fredda, e i suoi strumenti un pennello da trucco e un vasetto di belletto. «Ci vuole un tocco di Bronze Blush Light, credo», concluse, e afferrò la boccetta corrispondente. Con una spatola cominciò a mescolare i colori su una tavolozza d'acciaio inossidabile. «Già, questo mi sembra perfetto per una vecchia fan di Elvis.» Poi cominciò ad applicare la miscela sulle guance della defunta, sfumandola fino all'attaccatura dei capelli, dove le radici argentee spuntavano sotto la tinta nera. «Forse ricorda di aver parlato con la figlia della signora Hallowell», gli suggerì Jane, mettendogli sotto il naso una foto di Gail Yeager. «Dovete chiedere al signor Whitney. È lui che prende gran parte degli accordi. Io sono solo un assistente...» «Ma lei e la signora Yeager dovete aver discusso del trucco che avrebbe applicato alla madre per il funerale. Dal momento che ha preparato lei la salma.» Lo sguardo di Joey si posò sulla foto di Gail Yeager. «Ricordo che era una donna davvero attraente», mormorò. Jane gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Era?» «Ascolti, seguo i telegiornali. Non penserà davvero che la Yeager sia ancora viva, vero?» Joey si voltò e guardò accigliato Korsak, che si aggirava nella stanza sbirciando negli armadietti. «Uh... detective? Sta cercando qualcosa in particolare?» «No. Mi domandavo solo che tipo di roba si tiene in una camera mortuaria.» Infilò la mano in un armadietto. «Ehi, questo è un ferro per arricciare i capelli?» «Sì. Facciamo shampoo e messa in piega. Manicure. Tutto per far apparire al meglio i nostri clienti.» «Ho sentito che è molto bravo.» «Finora sono stati tutti soddisfatti del mio lavoro.» Korsak scoppiò a ridere. «Lo dicono loro di persona, eh?» «Intendo dire, le famiglie. I parenti sono soddisfatti.»
Il detective posò il ferro per capelli. «Da quanto lavora per il signor Whitney, sette anni?» «Più o meno.» «Deve aver iniziato appena terminate le superiori.» «Al principio lavavo i carri funebri, pulivo la sala di preparazione delle salme, rispondevo alle chiamate notturne. Poi il signor Whitney mi ha chiesto di aiutarlo con l'imbalsamazione. Ora che è avanti con gli anni, faccio quasi tutto io.» «Allora, immagino che abbia una licenza d'imbalsamatore, giusto?» Un attimo di silenzio. «Uh, no. Non l'ho mai chiesta. Mi limito ad aiutare il signor Whitney.» «Perché non la richiede? Equivarrebbe a salire di un gradino.» «Sono contento del mio lavoro così com'è.» Joey tornò a rivolgere l'attenzione alla signora Ober, il cui viso aveva ormai assunto un colorito roseo. Afferrò un pettine e cominciò a distribuire un po' di marrone sulle sopracciglia grigie, muovendo le mani con delicatezza quasi amorevole. A un'età in cui gran parte dei giovani si gettano a capofitto nella vita, Joey Valentine aveva scelto di trascorrere il suo tempo con i morti. Trasportava i cadaveri dagli ospedali e dalle case di cura fino a quella stanza pulita e illuminata. Li lavava e li asciugava, faceva loro lo shampoo, applicava creme e polveri sul corpo per restituirgli l'illusione della vita. Mentre stemperava il colore sulle guance della signora Ober sussurrò: «Perfetto. Oh, sì, davvero perfetto. Sta che è una meraviglia...» «Allora, Joey», lo interruppe Korsak. «Lavora qui da sette anni, giusto?» «Non ve l'ho appena detto?» «E non si è mai sognato di dotarsi, come posso dire, di credenziali professionali?» «Perché continua a chiedermelo?» «È forse perché sa di non poter ottenere una licenza?» Joey si pietrificò, il rossetto in mano a mezz'aria. Rimase in silenzio. «Il signor Whitney è al corrente dei suoi precedenti penali?» gli chiese il detective. Alla fine il giovane alzò lo sguardo. «Voi non gliel'avete detto, vero?» «Forse dovrei farlo. Visto che ha spaventato a morte quella povera ragazza.» «Avevo solo diciotto anni. È stato uno sbaglio...» «Un errore? Nel senso che ha sbirciato nella finestra sbagliata? Che ha spiato la ragazza sbagliata?»
«Andavamo alle superiori insieme! Non era un'emerita sconosciuta!» «Allora lei sbircia solo nelle finestre delle ragazze che conosce? Che altro ha combinato senza farsi beccare?» «Ve l'ho detto, è stato uno sbaglio!» «Non si è mai intrufolato in casa d'altri? Non è mai andato nella loro camera da letto? Magari a rubare qualcosina come un reggiseno o un paio di mutandine?» «Oh, Gesù.» Joey fissò il rossetto che gli era appena caduto per terra. Aveva l'aspetto di una persona che sta per sentirsi male. «Lo sa, i guardoni spesso passano ad altre cose», proseguì Korsak imperterrito. «Cose brutte.» Joey si diresse verso lo stereo e lo spense. Nel silenzio che seguì, rimase in piedi con le spalle ai poliziotti, lo sguardo fuori dalla finestra, verso il cimitero oltre la strada. «State cercando di fottermi», affermò. «No, Joey. Stiamo solo tentando di parlare sinceramente.» «Il signor Whitney non lo sa.» «E non deve per forza essere messo al corrente.» «A meno che?» «Dove si trovava domenica sera?» «A casa.» «Da solo?» Joey sospirò. «Ascolti, so dove vuole arrivare. So che cosa sta cercando di fare. Ma gliel'ho detto, conoscevo appena la signora Yeager. Tutto ciò che ho fatto è stato prendermi cura della madre. Ho fatto un buon lavoro, sapete. Me l'hanno detto tutti. Sembrava davvero viva.» «Le dispiace se diamo un'occhiata alla sua auto?» «Perché?» «Solo per controllare.» «Sì, mi dispiace. Ma lo farete in ogni caso, giusto?» «Solo col suo permesso.» Korsak fece una breve pausa. «Sa, la cooperazione è una strada a doppio senso.» Joey continuò a fissare fuori dalla finestra. «Oggi c'è un funerale», affermò sottovoce. «Vedete tutte quelle limousine? Amo guardare le processioni, fin da quand'ero bambino. Sono tanto belle, così solenni. È l'unica cosa che le persone fanno ancora bene. L'unica cosa che non hanno rovinato. Non come i matrimoni, dove fanno quelle cose stupide, tipo gettarsi dagli aerei o pronunciare il voto in diretta sulla televisione nazionale. Ai funerali mostriamo ancora rispetto per ciò che è decoroso...»
«La sua auto, Joey.» Finalmente Joey si voltò e raggiunse uno degli armadietti. Aprì un cassetto ed estrasse un mazzo di chiavi, che porse a Korsak. «È la Honda marrone.» Jane e Korsak erano in piedi nel parcheggio a fissare la moquette grigio marrone che foderava il baule dell'auto di Joey Valentine. «Merda.» Korsak sbatté lo sportello del baule. «Non ho ancora finito con quel tizio.» «Non ha nulla contro di lui.» «Ha visto le sue scarpe? Mi sembravano un quarantacinque. E il carro funebre ha i tappetini blu navy.» «Come migliaia di altre auto. Ciò non fa di lui il suo uomo.» «Be', di sicuro non è il vecchio Whitney.» Il capo di Joey, Leon Whitney, aveva sessantasei anni. «Senta, abbiamo il DNA del soggetto», esclamò Vince Korsak. «Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è quello di Joey.» «Crede che sputerà in una tazza per farla contenta?» «Se vuole tenersi il lavoro, sì. Credo che per me si alzerà su due zampe e scodinzolerà come un cane.» Jane guardò dall'altra parte della strada, che luccicava per il calore, e osservò il cimitero, dove la processione funebre si snodava solenne verso l'uscita. Una volta che i morti sono sepolti, la vita continua, pensò. Qualsiasi sia la tragedia, la vita deve sempre lasciarsela alle spalle. E io dovrei fare altrettanto. «Non posso permettermi di perdere altro tempo con questa roba», affermò. «Che cosa?» «Ho i miei casi da risolvere. E non credo che il caso Yeager abbia qualcosa a che fare con Warren Hoyt.» «Non è quello che pensava tre giorni fa.» «Be', mi sbagliavo.» Attraversò il parcheggio fino alla sua auto, aprì la portiera e abbassò i finestrini. Un'ondata di calore che fuoriusciva dall'abitacolo rovente la investì. «L'ho fatta arrabbiare o qualcosa del genere?» le chiese il detective. «No.» «E allora perché molla tutto?» Jane s'infilò al posto di guida. Il sedile era ustionante, persino attraverso
la stoffa dei pantaloni. «Ho trascorso l'intero anno a tentare di lasciarmi alle spalle il Chirurgo», affermò. «Devo dimenticarlo. Devo smettere di vedere la sua mano dietro ogni cosa in cui m'imbatto.» «Sa, a volte l'istinto è l'unica cosa su cui si può contare.» «A volte, è questo il punto. È un istinto, non un fatto. Non c'è nulla di sacro nell'istinto di un poliziotto. E che diavolo è l'istinto, in ogni caso? Quante volte un presentimento si rivela sbagliato?» Accese il motore. «Troppo spesso.» «Allora non è arrabbiata con me?» Jane sbatté la portiera. «No.» «Sicura?» La Rizzoli lo guardò dal finestrino aperto. Korsak era in piedi sotto il sole, gli occhi ridotti a due fessure incorniciate dalle sopracciglia cespugliose. Le braccia ricoperte di peli neri, folti come una pelliccia, e la sua posizione, fianchi in avanti e le spalle cadenti, le ricordò un gorilla dinoccolato. No, non l'aveva fatta arrabbiare. Ma non riusciva a guardarlo senza provare una sensazione di disgusto. «Semplicemente non posso sprecare altro tempo su questo caso», affermò. «Sa com'è...» Di nuovo seduta alla sua scrivania, Jane Rizzoli si concentrò sui fascicoli che si erano accumulati. In cima alla pila c'era quello dell'uomo Aeroplano, la cui identità rimaneva sconosciuta e il cui corpo giaceva ancora non reclamato nell'istituto di medicina legale. Aveva trascurato quella vittima troppo a lungo. Ma persino mentre apriva il fascicolo e guardava di nuovo le foto dell'autopsia, ripensava agli Yeager e a un uomo che aveva capelli di cadaveri attaccati ai vestiti. Riesaminò il piano degli atterraggi e dei decolli del Logan Airport, ma davanti a sé vedeva ancora il volto di Gail Yeager, che le sorrideva dalla foto sul cassettone. Ricordò la serie di fotografie di donne appese alla parete della sala riunioni un anno prima, durante l'indagine sul Chirurgo. Anche quelle donne sorridevano, i loro visi colti in un momento in cui erano ancora caldi, in cui la vita brillava nei loro occhi. Non riusciva a pensare a Gail Yeager senza ricordare i cadaveri che l'avevano preceduta. Si domandò se Gail fosse già fra loro. Il cercapersone vibrò, e il ronzio che percepì alla cintura ebbe l'effetto di un elettroshock. L'annuncio anticipato di una scoperta che le avrebbe rivoluzionato la giornata. Sollevò subito la cornetta del telefono. Un attimo dopo si stava già precipitando fuori dall'edificio.
5 Il cane, un labrador biondo, era quasi isterico per l'eccitazione causata dagli agenti di polizia che gli giravano intorno. Saltava e abbaiava al guinzaglio, legato a un albero. Il proprietario del cane, un uomo asciutto di mezz'età con pantaloncini da jogging, era seduto lì vicino su una grossa pietra, la testa fra le mani, sordo alle richieste d'attenzione del suo cane. «Il nome del proprietario è Paul Vandersloot. Vive in River Street, a un chilometro e mezzo da qui», affermò l'agente Gregory Doud, che aveva isolato la scena e aveva già teso il nastro della polizia a semicerchio fra gli alberi. Erano ai margini del campo da golf comunale e guardavano verso i boschi della riserva di Stony Brook, che confinava direttamente con il campo. Situata sulla punta meridionale del confine della città di Boston, la riserva era circondata da una vasta area di sobborghi. Ma i quasi duecento ettari di Stony Brook costituivano una zona accidentata, piena di colline e di valli boscose, di affioramenti rocciosi e di paludi circondate da tife. In inverno gli sciatori che praticavano fondo esploravano i sedici chilometri di piste del parco, in estate gli amanti del jogging trovavano rifugio nella quiete dei suoi boschi. Era quel che aveva fatto il signor Vandersloot, finché il suo cane non l'aveva condotto verso quella cosa nascosta fra gli alberi. «Afferma di venire qui ogni pomeriggio per portare a spasso il cane», asserì l'agente Doud. «Di solito imbocca il sentiero della East Boundary Road, attraverso i boschi, poi fa il giro e torna lungo questo margine del campo da golf. È una passeggiata di sei chilometri e mezzo. Dice che tiene il cane al guinzaglio per l'intero tragitto. Ma oggi gli è scappato. Stavano risalendo il sentiero quando il cane si è diretto a ovest, nel verde, rifiutandosi di tornare indietro. Allora Vandersloot è andato a cercarlo e praticamente è inciampato nel corpo.» Doud guardò in direzione dell'uomo, ancora raggomitolato sulla roccia. «Poi ha chiamato il 911.» «Ha usato un cellulare?» «No, signora. È andato alla cabina pubblica del Thompson Center. Io sono arrivato intorno alle due e venti. Sono stato attento a non toccare nulla. Mi sono addentrato nel bosco quel tanto che bastava per assicurarmi che ci fosse un corpo. Dopo soli cinquanta metri riuscivo quasi a sentirne l'odore. Dopo altri cinquanta l'ho visto. Sono tornato subito qui e ho isolato
la zona. Ho chiuso entrambe le estremità del sentiero di Boundary Road.» «E quando sono arrivati tutti gli altri?» «I detective Sleeper e Crowe sono arrivati verso le tre. Il medico legale alle tre e mezzo.» Rimase un istante in silenzio. «Non immaginavo che venisse anche lei.» «Mi ha chiamato la dottoressa Isles. Parcheggeremo tutti sul campo da golf, vero?» «L'ha ordinato il detective Sleeper. Non vuole che dalla Enneking Parkway sia visibile alcun veicolo. Qui siamo al sicuro dai curiosi.» «Non si è ancora fatto vivo nessun giornalista?» «No, signora. Sono stato attento a non trasmettere via radio. Ho usato la cabina lungo la strada.» «Perfetto. Forse saremo fortunati e non si faranno nemmeno vedere.» «Oh-oh», esclamò Doud. «Quello potrebbe essere il nostro primo sciacallo?» Una Marquis di colore blu scuro attraversò il campo da golf e parcheggiò accanto al furgone del medico legale. Una figura familiare, in sovrappeso, si trascinò fuori dall'auto e si lisciò i quattro capelli che aveva in testa. «Non è un giornalista», affermò Jane. «Lo stavo aspettando.» Korsak li raggiunse con passo pesante. «Pensa davvero sia lei?» le chiese. «La dottoressa Isles sostiene che le probabilità sono elevate. Se è così, il suo omicidio è all'interno dei confini territoriali di Boston.» Jane guardò Doud. «Da che parte possiamo avvicinarci per non contaminare nulla?» «Potete entrare da est. Sleeper e Crowe hanno già filmato la scena. Le impronte e i segni di trascinamento provengono tutti dalla direzione opposta, partono dalla Enneking Parkway. Dovete semplicemente andare diritti.» Jane e Korsak scivolarono sotto il nastro della polizia e s'incamminarono nel bosco. Quella zona di alberi di seconda crescita era fitta quanto poteva esserlo una foresta. Si abbassarono sotto rami spinosi graffiandosi il volto, rimasero impigliati con i pantaloni nei rovi, ma alla fine emersero sulla pista da jogging dell'East Boundary e scorsero, attaccato a un albero, un pezzo di nastro della polizia che svolazzava. «L'uomo stava correndo lungo questo sentiero quando il cane gli è scappato», affermò la Rizzoli. «Sembra che Sleeper ci abbia lasciato una traccia col nastro.»
Attraversarono il sentiero e s'immersero ancora una volta nel bosco. «Oh, cavolo. Mi sembra già di sentirne l'odore», esclamò Korsak. Ancor prima di vedere il corpo, udirono il ronzare sinistro delle mosche. I rami secchi si spezzavano sotto i loro piedi e risuonavano forte, come colpi d'arma da fuoco. Fra gli alberi davanti a loro intravidero Sleeper e Crowe, i visi contorti dal disgusto mentre scacciavano gli insetti con le mani. La dottoressa Isles era accucciata a terra, i capelli corvini illuminati da piccole chiazze di sole, simili a diamanti. Quando furono più vicini videro quello che stava facendo. Korsak emise un grugnito inorridito. «Oh, merda. Questo non dovevo vederlo.» «Potassio vitreo», affermò la dottoressa, e le parole suonarono quasi seduttrici pronunciate con la sua voce roca. «Ci fornirà un'altra stima dell'intervallo post mortem.» L'ora della morte sarebbe stata difficile da stabilire, pensò Jane osservando il cadavere nudo che la dottoressa Isles aveva fatto rotolare su un lenzuolo. Ora giaceva supino, gli occhi sporgenti a causa dei tessuti interni del cranio, gonfiati dal calore. Un girocollo di contusioni a forma di disco le cingeva la gola; i lunghi capelli biondi erano un groviglio di paglia secca. L'addome era gonfio e nella parte inferiore aveva assunto una colorazione verdastra. I vasi recavano i segni della decomposizione batterica del sangue, e le vene risaltavano in maniera sorprendente, come fiumi neri sotto la cute. Ma tutti quegli orrori erano nulla rispetto alla procedura che stava eseguendo la Isles. Le membrane attorno all'occhio umano sono le superfici più sensibili del corpo; un ciglio o un minuscolo granello di sabbia sotto la palpebra possono, infatti, causare immenso fastidio. Perciò Jane e Korsak trasalirono quando la dottoressa perforò l'occhio del cadavere con un ago calibro venti e aspirò lentamente il fluido vitreo con una siringa da dieci centimetri cubi. «Sembra chiaro e trasparente», asserì Maura Isles, in tono compiaciuto. Poi mise la siringa in un refrigeratore pieno di ghiaccio, si alzò in piedi e perlustrò il luogo con sguardo regale. «La temperatura del fegato è di soli due gradi inferiore a quella ambientale», continuò. «E non si vedono danni causati da insetti o da animali. Non è qui da molto.» «L'hanno soltanto scaricata?» chiese Sleeper. «Il livor indica che è morta a faccia in su. Vede com'è più scura sulla schiena, dove si è accumulato il sangue? Ma è stata trovata in posizione prona.»
«È stata portata qui.» «Meno di ventiquattro ore fa.» «Sembra sia morta da molto più tempo», esclamò Crowe. «Già. È flaccida e la distensione è significativa. La cute sta già cominciando a venir via.» «Quello è sangue da naso?» chiese Korsak. «Sangue decomposto. Sta iniziando a spurgare. I fluidi sono spinti verso l'esterno dalla formazione interna di gas.» «Ora del decesso?» chiese Jane. La Isles rimase un istante in silenzio, lo sguardo fisso sui resti grottescamente gonfi di una donna che tutti credevano fosse Gail Yeager. Le mosche riempivano il silenzio con il loro avido ronzio. Fatta eccezione per i capelli biondi e lunghi, nel cadavere non c'era quasi nulla che ricordasse la persona ritratta nelle fotografie, una donna che un tempo aveva certamente fatto girare molti uomini con un semplice sorriso. Triste monito del fatto che tutte le donne, belle e brutte, alla fine vengono ridotte dai batteri e dagli insetti a un mucchio di carne putrida. «A questa domanda non posso rispondere», disse. «Non ancora.» «Da più di un giorno?» insistette Jane. «Sì.» «Il rapimento è avvenuto domenica notte. Potrebbe essere morta già da allora?» «Quattro giorni? Dipende dalla temperatura ambientale. L'assenza di danni causati da insetti mi fa pensare che il corpo sia stato tenuto all'interno fino a poco tempo fa. Protetto dall'ambiente circostante. Una stanza con l'aria condizionata rallenterebbe la decomposizione.» Jane e Korsak si scambiarono un'occhiata, entrambi con la stessa domanda in testa. Perché l'assassino attenderebbe tanto a lungo prima di liberarsi di un corpo in putrefazione? Il walkie-talkie del detective Sleeper gracchiò, e si udì la voce di Doud: «È appena arrivato il detective Frost. E anche il furgone della Scientifica. Siete pronti a riceverli?» «Aspetta», rispose Sleeper. L'uomo sembrava già esausto, prosciugato dalla calura. Era il detective più anziano della sezione, forse a cinque anni dal pensionamento, e non aveva bisogno di dimostrare nulla. Guardò Jane Rizzoli. «Noi siamo arrivati nella fase finale di questo caso. Lei ci sta lavorando con il Dipartimento di polizia di Newton?» La donna annuì. «Da lunedì.»
«Dunque guiderà lei le indagini?» «Esatto», asserì Jane. «Ehi», protestò Crowe. «Siamo arrivati prima noi sulla scena.» «Il rapimento si è verificato a Newton», precisò Korsak. «Ma ora il corpo è a Boston», ribatté Crowe. «Gesù», mormorò Sleeper. «Perché diavolo stiamo litigando per una cosa del genere?» «Il caso è mio», affermò Jane. «Lo conduco io.» Poi fissò Crowe con aria di sfida, in attesa che si accendesse la scintilla della rivalità, come sempre accadeva. Lo vide sollevare un angolo della bocca in un abbozzo di ghigno meschino. Poi Sleeper parlò nel walkie-talkie. «La detective Rizzoli guiderà le indagini.» Guardò di nuovo verso di lei. «Pronta per la Scientifica?» Jane sollevò gli occhi al cielo. Erano già le cinque del pomeriggio e il sole si era abbassato sotto il profilo degli alberi. «Facciamoli venire finché riescono ancora a vedere ciò che fanno.» Una scena del delitto all'aperto, al calare del sole, non era una delle situazioni migliori, pensò Jane Rizzoli. Nelle aree boschive gli animali selvatici erano sempre pronti a scendere in campo a sparpagliare resti e ad alterare le prove. I temporali lavavano via sangue e sperma, e il vento spazzava eventuali fibre. Inoltre, non c'erano porte a tenere lontano la gente, e i perimetri potevano essere facilmente violati dai curiosi. Perciò Jane era piuttosto ansiosa che la Scientifica cominciasse a setacciare la zona. La squadra portò con sé metal detector, lenti d'ingrandimento e sacchetti per le prove, in attesa di riempirli di tesori grotteschi. Dopo aver scarpinato ulteriormente nel bosco e aver raggiunto il campo da golf, Jane era ormai sudata, sporca e stanca di scacciare zanzare. Si fermò per scuotersi i vari rametti dai capelli e pulirsi i pantaloni con le mani. Nel risollevare la testa, lo sguardo le cadde all'improvviso su un uomo con i capelli biondo ramati, in giacca e cravatta, in piedi di fianco al furgone del medico legale, il cellulare all'orecchio. Subito si diresse dall'agente Doud, che stava ancora pattugliando il perimetro. «Chi è quel tizio in giacca e cravatta?» gli chiese. Doud lanciò un'occhiata in direzione dell'uomo. «Quello? Dice di essere dell'FBI.» «Che cosa?» «Mi ha mostrato il distintivo e ha cercato di passare. Gli ho detto che prima avrebbe dovuto parlare con lei. Non mi è sembrato troppo conten-
to.» «Che cavolo ci fa qui un federale?» «È quello che ho pensato anch'io.» La Rizzoli rimase a fissare l'uomo per un istante, infastidita dalla sua presenza. In qualità di responsabile delle indagini, non voleva che la sua autorità fosse messa in discussione, e quel tizio, col suo portamento militare e il vestito da uomo d'affari, sembrava già aver preso possesso della scena del delitto. Jane gli andò incontro, ma lui non notò la sua presenza finché la detective Rizzoli non gli fu proprio accanto. «Mi scusi», esclamò Jane. «Mi hanno detto che è dell'FBI.» L'uomo chiuse rapidamente il cellulare e si voltò verso di lei. Aveva un viso con i lineamenti marcati e uno sguardo freddo e impenetrabile. «Sono la detective Jane Rizzoli, a capo delle indagini», affermò lei. «Posso vedere il suo distintivo?» L'agente infilò una mano nella giacca ed estrasse il documento. Mentre lo esaminava, Jane percepì su di lei il suo sguardo indagatore. Era infastidita da quella valutazione silenziosa, dal modo in cui l'aveva costretta a mettersi sulle difensive, come se fosse lui a detenere il controllo. «Agente Gabriel Dean», affermò infine, restituendogli il distintivo. «Sì.» «Posso chiederle che cosa fa l'FBI da queste parti?» «Non credevo che ci fossero problemi di rivalità.» «Ho forse detto questo?» «Ho la netta sensazione che pensi che non dovrei essere qui.» «Solitamente l'FBI non si presenta sulle nostre scene dei delitti. Sono solo curiosa di sapere che cosa l'abbia portata qui oggi.» «Abbiamo ricevuto una richiesta di consulenza da parte del Dipartimento di polizia di Newton riguardo all'omicidio Yeager.» Era una risposta incompleta: stava tralasciando troppi dettagli, la costringeva a fare domande. L'occultamento d'informazioni era una forma di potere, e Jane capì a che gioco stesse giocando. «Immagino che riceviate numerose richieste di consulenza», affermò la Rizzoli. «Sì, certo.» «Per ogni omicidio, vero?» «Sì, ci vengono notificati tutti.» «C'è qualcosa che rende quest'omicidio speciale?» Dean la guardò con la sua espressione impenetrabile. «Credo che per le
vittime lo sia.» La rabbia di Jane stava montando come un'onda. «Questo corpo è stato trovato solo poche ore fa», asserì. «Adesso le notificazioni sono diventate istantanee?» L'ombra di un sorriso comparve sulle labbra dell'uomo. «Non siamo completamente fuori dal giro, detective. Le saremmo grati se ci tenesse aggiornati sui progressi. Verbali dell'autopsia, tracce, copie delle dichiarazioni di tutti i testimoni...» «Sono un sacco di documenti.» «Me ne rendo conto.» «E li vuole tutti?» «Sì.» «Per qualche ragione particolare?» «Un omicidio e un rapimento non dovrebbero suscitare il nostro interesse? Vorremmo seguire il caso.» Per quanto fosse imponente, Jane non esitò a sfidarlo e si avvicinò di qualche passo. «Quando intende assumere la direzione delle indagini?» «Il caso resta suo. Io sono qui solo per darle il mio aiuto.» «Anche se io non ne vedo la necessità?» Lo sguardo dell'agente Dean si spostò sui due addetti che erano emersi dal bosco e stavano caricando la barella con i resti della donna sul furgone del medico legale. «Ha tanta importanza chi lavorerà al caso?» chiese con tono pacato. «L'obiettivo non è catturare il colpevole?» Entrambi guardarono il furgone allontanarsi, portando con sé quel cadavere dissacrato che ben presto sarebbe stato sottoposto ad altre umiliazioni sotto le luci spietate della sala autoptica. La risposta di Gabriel Dean le aveva ricordato con dolorosa chiarezza quanto poco contassero le questioni di giurisdizione. A Gail Yeager non interessava sapere chi si sarebbe preso il merito per aver catturato il suo assassino: tutto ciò che chiedeva era giustizia, a chiunque fosse in grado di rendergliela. E giustizia era ciò che la Rizzoli le doveva. Jane però aveva già sperimentato la frustrazione di vedersi soffiare i risultati di un duro lavoro dai colleghi. Più di una volta li aveva osservati farsi avanti e assumere con arroganza la direzione di casi che aveva costruito scrupolosamente da zero. Non avrebbe permesso che la cosa si ripetesse. «Apprezzo l'offerta d'aiuto del Bureau», rispose. «Ma al momento, credo che le nostre basi siano tutte coperte. Le farò sapere se avremo bisogno di
lei.» Detto ciò, si voltò e si allontanò. «Non sono sicuro che abbia compreso la situazione», esclamò il federale. «Ora facciamo parte della stessa squadra.» «Non ricordo di aver chiesto l'assistenza dell'FBI.» «Gli accordi sono stati presi con il vostro comandante, il tenente Marquette. Se vuole verifichi con lui». Al che Dean le porse il cellulare. «Ho il mio, grazie.» «Allora la invito a chiamarlo. In modo da non perdere tempo in lotte territoriali.» Jane rimase sbalordita dalla facilità con cui l'agente Dean era salito a bordo della sua barca, e dalla precisione con cui lei l'aveva inquadrato. Quello era un uomo che non se ne sarebbe stato buono a guardare. Prese il telefono e cominciò a digitare il numero. Ma prima che Marquette potesse rispondere, Jane udì la voce dell'agente Doud che la chiamava. «Il detective Sleeper le vuole parlare», esclamò Doud porgendole il suo walkie-talkie. Jane premette il tasto di trasmissione. «Rizzoli.» In mezzo a un crepitio di scariche elettrostatiche udì Sleeper affermare: «Forse è meglio che torni qui». «Che c'è?» «Oh... meglio che lo veda con i suoi occhi. Siamo a una cinquantina di metri a nord del luogo in cui è stato trovato quell'altro.» «Quell'altro?» Restituì rapidamente la radio a Doud e si precipitò nel bosco. Aveva una tale fretta che non s'accorse subito che Gabriel Dean la stava seguendo. Solo quando udì il rumore di un ramo spezzato si voltò e si rese conto che era dietro di lei, il volto severo e implacabile. Non aveva voglia di discutere, perciò lo ignorò e continuò a camminare. Dopo un po' intravide gli uomini riuniti in un cerchio sinistro sotto gli alberi, la testa china come se partecipassero a un funerale. Sleeper si voltò e lei incontrò il suo sguardo. «Avevano appena terminato la prima perlustrazione col metal detector», affermò. «Il tecnico della Scientifica stava tornando al campo da golf quando è suonato l'allarme.» Jane s'insinuò nel cerchio di uomini e s'accucciò per ispezionare ciò che avevano trovato. Il cranio era staccato dal corpo e giaceva isolato dagli altri resti quasi
scheletriti. Una corona d'oro scintillava come il dente di un pirata fra una fila di denti sporchi di terra. Non vide vestiti, né resti di tessuto, solo ossa nude con brandelli coriacei di carne in decomposizione ancora attaccati. Ciocche di lunghi capelli castani erano aggrovigliate alle foglie e indicavano che si trattava dei resti di una donna. La Rizzoli si alzò e scrutò il suolo del bosco. Le zanzare le si posavano sul volto e si nutrivano del suo sangue, ma lei era insensibile alle punture. Era concentrata solo sugli strati di foglie morte e di rami, sul fitto sottobosco. Un angolo silvestre che ora contemplava con orrore. Quante donne ci sono in questi boschi? «È la sua discarica.» Jane si voltò e guardò Gabriel Dean, che aveva appena parlato. Era accosciato a pochi centimetri di distanza e stava frugando tra le foglie con le mani protette da guanti. Non l'aveva nemmeno visto indossarli. In quel momento si alzò e i loro sguardi s'incrociarono. «Il nostro uomo ha già usato questo luogo», affermò Dean. «E probabilmente se ne servirà ancora.» «Se non lo spaventiamo.» «Ed è questa la sfida. Mantenere il silenzio. Se non lo allarmiamo, è possibile che torni. Non solo a scaricare un corpo, ma anche per una semplice visita. Per provare nuovamente il brivido.» «Lei è dell'unità di scienza comportamentale, vero?» Dean non rispose alla domanda ma si voltò verso lo spiegamento di uomini presenti nel bosco. «Se riusciamo a nasconderlo alla stampa, potremmo avere una probabilità di riuscire. Ma dobbiamo stringere i lacci già da questo momento.» Dobbiamo. Con quel plurale era entrato in una società che Jane non aveva cercato e che non aveva mai approvato. Tuttavia era lì, a sputare sentenze. Ciò che la irritava maggiormente era il fatto che tutti stessero ascoltando la loro conversazione e capissero che la sua autorità era messa in discussione. Solo Korsak, con la sua solita franchezza un po' rude, osò intromettersi nel dialogo. «Scusi, detective Rizzoli», esclamò. «Chi è questo signore?» «FBI», rispose lei, lo sguardo fisso su Dean. «Qualcuno mi potrebbe spiegare da quando questo è diventato un caso federale?» «Non lo è», affermò Jane. «E l'agente Dean sta per lasciare la scena. Qualcuno potrebbe indicargli la strada?»
La giovane donna e Dean si scrutarono per un istante. Poi l'uomo inclinò il capo verso di lei in una sorta di tacita ammissione, come per dirle che le concedeva la vittoria di quel round. «Trovo da solo la strada», rispose. Poi si voltò e si avviò verso il campo da golf. «Che cosa vogliono i federali?» chiese Korsak. «Pensano sempre di essere i signori del maniero. Che diavolo c'entra il Bureau in questo caso?» Jane fissò il tratto di bosco in cui Gabriel Dean era appena scomparso, una figura grigia che svaniva nella semioscurità. «Vorrei saperlo anch'io.» Il tenente Marquette arrivò sulla scena mezz'ora dopo. La presenza dei pezzi grossi era di solito l'ultima cosa che Jane desiderava; detestava avere un superiore che la osservasse mentre lavorava. Ma Marquette non interferì e rimase semplicemente fra gli alberi, valutando in silenzio la situazione. «Tenente», esclamò Jane. L'uomo rispose con un breve cenno del capo. «Rizzoli.» «Che cos'è questa novità del Bureau? Hanno mandato un agente, che si aspetta di avere accesso a tutte le prove.» Il tenente annuì. «La richiesta è arrivata dall'OPC.» Dunque era stata approvata al vertice, dall'Office of the Police Commissioner, la direzione generale. Jane osservò il personale della Scientifica radunare gli strumenti e dirigersi al furgone. Nonostante si trovassero ai confini della città di Boston, quell'angolo scuro della riserva di Stony Brook infondeva la stessa sensazione d'isolamento delle foreste più remote. Il vento sollevava le foglie e diffondeva l'odore di carne in decomposizione. Al di là degli alberi Jane vide la torcia di Barry Frost ballonzolare nell'oscurità mentre il collega toglieva il nastro e rimuoveva tutte le tracce della polizia. La sorveglianza sarebbe iniziata quella sera stessa, perché una folata d'aria putrida avrebbe potuto attirare nuovamente il loro uomo in quel parco solitario, in quel fitto gruppo d'alberi. «Perciò non ho scelta?» chiese la Rizzoli. «Devo cooperare con l'agente Dean.» «Ho garantito all'OPC che l'avremmo fatto.» «Che interesse ha il Bureau in questo caso?» «L'ha chiesto a Dean?» «È come parlare con quell'albero laggiù. Non si ottiene risposta. Non sono affatto entusiasta della cosa. Noi dobbiamo dargli tutto, ma lui non è obbligato a dirci nulla.»
«Forse non l'ha preso dal lato giusto.» La rabbia le scoccò come un dardo avvelenato in corpo. Comprendeva bene il significato implicito di quell'affermazione: Sei arrogante, Rizzoli. Fai sempre incazzare gli uomini. «Non ha mai incontrato l'agente Dean?» gli chiese. «No.» Jane emise una risata sarcastica. «Buon per lei.» «Ascolti, scoprirò ciò che posso. Cerchi comunque di collaborare con lui, d'accordo?» «Qualcuno dice che non l'ho fatto?» «Lo dicono le telefonate. Ho sentito che lo ha cacciato dalla scena. Questo non è esattamente quello che io chiamo 'rapporto di collaborazione'.» «Ha messo in dubbio la mia autorità. Voglio che le cose siano chiare fin dal principio. Sono o no a capo dell'indagine?» Una pausa. «È a capo dell'indagine.» «Sono certa che anche l'agente Dean afferrerà il messaggio.» «Farò in modo che sia così.» Marquette si voltò e si avviò nel bosco. «Dunque, abbiamo due corpi. Le vittime sono entrambe donne?» «A giudicare dalle dimensioni dello scheletro e dai capelli, anche il secondo cadavere sembra appartenere a una donna. Non è rimasta quasi traccia dei tessuti molli. Danni post mortem causati da predatori, ma nessuna causa ovvia di morte.» «Siamo sicuri che non ci siano altri cadaveri qui intorno?» «I cani non hanno trovato nulla.» Marquette sospirò. «Grazie a Dio.» Il cercapersone della Rizzoli si mise a vibrare. La donna abbassò lo sguardo sulla cintura e riconobbe il numero di telefono sul display digitale: l'ufficio del medico legale. «È proprio come l'estate scorsa», mormorò Marquette, senza distogliere lo sguardo dagli alberi. «Anche il Chirurgo cominciò a uccidere in questo periodo.» «È il caldo», rispose Jane mentre estraeva il cellulare dalla tasca. «Scatena i mostri.» 6 Ho la libertà sul palmo della mano. Ha la forma di un minuscolo pentagono bianco con la scritta MSD 97
stampata su un lato. Decadron, quattro milligrammi. Una bella sagoma per una pillola, non la banale silhouette di un disco, né una capsula a forma di siluro, come quelle di molti altri farmaci. Quel disegno ha richiesto uno sforzo d'immaginazione, un guizzo di fantasia. Mi figuro gli esperti di marketing della Merck Pharmaceuticals, seduti attorno a un tavolo per conferenze, a chiedersi: «Come possiamo rendere questa compressa immediatamente riconoscibile?» E il risultato è questa pillola a cinque lati, che nella mia mano sembra un minuscolo gioiello. È da tanto che la conservo, nascosta in un piccolo strappo del materasso, in attesa che arrivi il momento giusto per sfruttare la sua magia. In attesa di un segno. Sono raggomitolato sulla branda della mia cella, un libro appoggiato alle ginocchia. La telecamera di sorveglianza vede solo un prigioniero colto che legge Le opere complete di William Shakespeare. Non può guardare attraverso la copertina del libro. Non può vedere che cosa tengo in mano. Dabbasso, nella sala comune, una pubblicità televisiva risuona a tutto volume e una pallina da ping-pong ticchetta avanti e indietro sul tavolo. Un'altra serata eccitante nella cella del Blocco C. Fra un'ora, l'altoparlante annuncerà lo spegnimento delle luci e gli uomini saliranno le scale fino alle celle, lo scalpiccio delle loro scarpe sugli scalini di metallo. Tutti entreranno nella loro gabbia, topi obbedienti che danno retta al padrone attraverso l'interfono. Nella postazione di guardia qualcuno digiterà il comando sul computer e le porte si chiuderanno simultaneamente, segregando i topi per la notte. Io mi chino in avanti, avvicino la testa alla pagina, come se le parole fossero scritte troppo in piccolo. Fisso il testo con intensa concentrazione. La dodicesima notte, atto terzo, scena terza: una strada. Antonio e Sebastiano si avvicinano... Non c'è nulla da vedere qui, amici miei. Solo un uomo sulla sua branda, assorto nella lettura. Un uomo che improvvisamente tossisce e, di riflesso, si porta una mano alla bocca. La telecamera non vede la compressa appiccicata alla palma come un'ostia amara, mentre viene portata alla bocca. Inghiotto la pillola, non ho bisogno d'acqua. È sufficientemente piccola da essere deglutita senza difficoltà. Ancor prima che si sciolga nello stomaco, immagino di percepirne il potere nelle mie vene. Decadron è il nome commerciale del desametasone, un corticosteroide che ha effetti marcati su tutti gli organi del corpo uma-
no. I glicocorticoidi come il Decadron influenzano tutte le funzioni corporee, dalla glicemia alla ritenzione idrica e alla sintesi del DNA. Senza di essi il corpo collassa. Tali sostanze contribuiscono a mantenere la pressione sanguigna e prevengono lo shock in caso di ferite e infezioni. Alterano la crescita ossea e la fertilità, lo sviluppo muscolare e il sistema immunitario. Modificano la composizione del sangue. Quando, finalmente, le porte delle gabbie si chiudono e le luci si spengono, mi sdraio sulla branda, e ascolto il sangue che scorre pulsando dentro di me. Immagino le cellule che rotolano nelle vene e nelle arterie. Ho visto le cellule ematiche più volte al microscopio. Conosco la forma e la funzione di ognuna, e con un semplice sguardo attraverso la lente vi so dire se un campione di sangue è normale. So esaminare un vetrino e stimare immediatamente la percentuale dei vari leucociti, i globuli bianchi che ci difendono dalle infezioni. Il test si chiama «conta leucocitaria differenziale», e l'ho eseguito molte volte quando facevo il tecnico di laboratorio. Penso ai leucociti che circolano nelle mie vene. In questo momento la mia conta leucocitaria differenziale sta variando. La compressa di Decadron, che ho ingoiato due ore fa, si sarà ormai sciolta nello stomaco e l'ormone starà turbinando nel sistema circolatorio, compiendo le sue magie. Un campione di sangue delle mie vene rivelerebbe un'anomalia sconcertante: una superiorità schiacciante di globuli bianchi con nuclei multilobati e maculatura granulare. Si tratta di neutrofili, che entrano automaticamente in azione quando sussiste il rischio di un'infezione grave. In presenza di un rumore di zoccoli, agli studenti di medicina si insegna a pensare ai cavalli, non alle zebre. Il dottore che vedrà la mia conta ematica penserà di certo ai cavalli, e arriverà a una conclusione perfettamente logica. Non gli verrà nemmeno in mente che, questa volta, si tratti proprio di zebre. Jane Rizzoli si preparò nello spogliatoio della sala autoptica, indossando camice, soprascarpe, guanti e una cuffia di carta. Non ebbe tempo di farsi una doccia dopo essere tornata dalla riserva di Stony Brook, e in quella stanza iperraffreddata il sudore le si ghiacciò come brina sulla pelle. Non aveva nemmeno cenato e si sentiva svenire per la fame. Per la prima volta nella sua carriera considerò l'idea di mettersi un po' di Vicks sotto il naso, per coprire gli odori dell'autopsia, ma resistette alla tentazione. Non l'aveva
mai fatto, perché lo riteneva una dimostrazione di debolezza. Un agente della Omicidi doveva essere in grado di gestire ogni aspetto del suo lavoro, per quanto sgradevole, e mentre i colleghi si paravano spesso dietro uno scudo di mentolo, lei aveva sempre sopportato stoicamente tutti i fetori della sala autoptica. Fece un respiro profondo, inalò un'ultima boccata d'aria pulita e aprì la porta che dava nella stanza accanto. Si aspettava di trovarvi la dottoressa Isles e Korsak; chi invece non si aspettava di vedere era Gabriel Dean. Le stava di fronte, dall'altra parte del tavolo, con un camice da sala operatoria che gli copriva la camicia e la cravatta. Mentre il volto e le spalle curve di Korsak denotavano un'evidente stanchezza, l'agente Dean non sembrava né logorato né sopraffatto dagli eventi della giornata. Solo un'ombra di barba incolta oscurava la sua mandibola e guastava il suo bell'aspetto gelido. L'uomo la fissò con lo sguardo sfacciato di chi sapeva di avere tutto il diritto di stare in quel luogo. Sotto le luci abbaglianti della sala autoptica il corpo appariva ancor più deteriorato di quando l'avevano rinvenuto, poche ore prima. Il fluidi corporei avevano continuato a fuoriuscire dal naso e dalla bocca, disegnando rivoli rossastri sul viso. L'addome era tanto gonfio da sembrare quello di una donna in stato avanzato di gravidanza. Sotto la cute s'intravedevano bolle rigonfie di fluidi, che la sollevavano dal derma e la sfaldavano in strati della consistenza della carta. La pelle si stava staccando interamente dalle regioni del torso e si era raccolta a mo' di pergamena sotto i seni. La Rizzoli notò che i polpastrelli erano sporchi d'inchiostro. «Le avete già preso le impronte.» «Poco prima che lei arrivasse», rispose la Isles, concentrata sul vassoio di strumenti che Yoshima aveva appena avvicinato al tavolo. Alla dottoressa interessavano di più i morti che i vivi ed era estranea, come sempre, alle tensioni emotive presenti nella stanza. «Che mi dice delle mani? Prima che prendesse le impronte?» L'agente Dean rispose al posto del medico legale. «Abbiamo completato l'esame esterno. La cute è stata trattata con nastro adesivo per rilevare eventuali fibre, e le unghie sono state tagliate.» «E lei quand'è arrivato, agente Dean?» «Ancora prima di me», esclamò Korsak. «Immagino che qualcuno si trovi più in alto di noi nella catena alimentare.» Se con quel commento Korsak intendeva aumentare la sua irritazione,
colpì esattamente nel segno. Sotto le unghie di una vittima possono essere ritrovati brandelli di pelle dell'aggressore e un pugno chiuso può racchiudere capelli e fibre. L'esame delle mani è un passo cruciale dell'autopsia e lei se l'era perso. Ma non Dean. «Abbiamo già una prima identificazione», affermò la Isles. «Le radiografie dentali di Gail Yeager sono lassù, sulla lavagna luminosa.» Jane si avvicinò e studiò la serie di piccole lastre appese. I denti spiccavano come una fila di lapidi spettrali sullo sfondo nero della pellicola. «Il dentista ha applicato alcune corone alla signora Yeager l'anno scorso. Le può vedere. La corona d'oro è sul venti della serie periapicale. Inoltre, presenta otturazioni in amalgama d'argento al tre, al quattordici e al ventinove.» «Corrispondono?» La Isles annuì. «Non ho dubbi sul fatto che siano i resti di Gail Yeager.» Jane si voltò verso il corpo steso sul tavolo, lo sguardo fisso sulla collana di lividi intorno alla gola. «Ha eseguito radiografie del collo?» «Sì. Presenta fratture bilaterali del corno tiroideo compatibili con lo strangolamento manuale.» La dottoressa si rivolse a Yoshima che, con la sua efficienza silenziosa e talora inquietante, faceva scordare a tutti la sua presenza nella stanza. «Mettiamola in posizione per eseguire i tamponi vaginali.» Ciò che seguì sembrò alla Rizzoli la peggiore umiliazione a cui potessero essere sottoposte le spoglie mortali di una donna, persino più oltraggioso dell'incisione addominale e della resezione di cuore e polmoni. Yoshima posizionò le gambe flaccide a rana e divaricò le cosce per l'esame pelvico. «Mi scusi, detective?» esclamò Yoshima rivolto a Korsak, che era la persona più vicina alla coscia sinistra di Gail Yeager. «Potrebbe tenere ferma la gamba?» Korsak lo fissò inorridito. «Io?» «Deve solo tenere il ginocchio flesso in questo modo, così possiamo eseguire i tamponi.» Riluttante, Korsak toccò la coscia della defunta, ma ritrasse bruscamente la mano quando uno strato di pelle gli rimase sul guanto. «Cristo. Oh, Cristo.» «La pelle scivola via, qualsiasi cosa lei faccia. Le spiacerebbe tenere semplicemente la gamba aperta?»
Il detective si lasciò scappare un respiro breve e rumoroso. Nel tanfo generale della stanza Jane sentì una zaffata di Vicks. Korsak, per lo meno, non era stato tanto orgoglioso da non spalmarselo sul labbro superiore. Con una smorfia afferrò la coscia e la ruotò lateralmente, esponendo i genitali di Gail Yeager. «Questo renderà il sesso decisamente più allettante», mormorò. La dottoressa Isles puntò la lampada sul perineo. Scostò con delicatezza le labbra gonfie e rivelò l'apertura. Jane, pur con ogni sforzo, non riuscì a sopportare la vista di quella violazione grottesca e si voltò. Il suo sguardo incontrò quello di Gabriel Dean. Fino allora l'agente aveva osservato le procedure con freddo distacco. Ma in quell'istante Jane Rizzoli scorse rabbia nei suoi occhi, la stessa che provava lei nei confronti dell'uomo che aveva costretto Gail Yeager a quell'ultima umiliazione. Fissandosi a vicenda in preda al medesimo risentimento, dimenticarono momentaneamente ogni rivalità. La dottoressa inserì un tampone di cotone nella vagina, lo spalmò sul vetrino del microscopio e appoggiò il campione su un vassoio. Poi eseguì un tampone rettale, anch'esso da analizzare alla ricerca di tracce di sperma. Quand'ebbe completato la raccolta di campioni e le gambe di Gail furono stese nuovamente sul tavolo, Jane ebbe la sensazione che il peggio fosse passato. Persino quando la Isles cominciò l'incisione a Y, tagliando il corpo in diagonale dalla spalla destra fino all'estremità inferiore dello sterno, Jane pensò che nulla potesse superare l'oltraggio a cui era appena stata sottoposta quella vittima. La dottoressa stava per eseguire un'incisione analoga dalla spalla sinistra quando Dean chiese: «E lo striscio vaginale?» «I vetrini verranno inviati al laboratorio della Scientifica», rispose il medico. «Nessun preparato a fresco?» «Il laboratorio è perfettamente in grado di identificare lo sperma in un campione secco.» «Questa è l'unica possibilità per esaminarlo fresco.» La dottoressa Isles rimase un istante in silenzio, la punta del bisturi a pochi centimetri dalla pelle, e guardò sconcertata Dean. Poi si rivolse a Yoshima. «Metti qualche goccia di salina su quel vetrino e inseriscilo nel microscopio. Lo guarderò fra un secondo.» Il passo successivo era l'incisione addominale, e il bisturi di Maura Isles resecò il ventre gonfio. Improvvisamente, il fetore degli organi in decom-
posizione fu più di quanto la Rizzoli potesse sopportare. Vacillò all'indietro e si portò sopra il lavandino in preda a conati di vomito, rimpiangendo di esser stata tanto sciocca da voler mettere alla prova la sua resistenza. Si domandò se l'agente Dean la stesse guardando in quel momento, se provasse un senso di superiorità. Jane non aveva visto il Vicks brillare sul suo labbro superiore. Rimase con le spalle al tavolo e si limitò ad ascoltare, anziché guardare, i progressi dell'autopsia dietro di lei. Udì il sibilo costante del sistema di ventilazione, il gorgoglio dell'acqua e il rumore metallico degli strumenti. Poi udì Yoshima esclamare con voce sorpresa: «Dottoressa Isles?» «Sì?» «Sto guardando il vetrino, e...» «C'è sperma?» «Deve constatare con i suoi occhi.» La nausea ormai quasi placata, Jane si voltò e vide la Isles togliersi i guanti e sedersi al microscopio. Yoshima si mise alle sue spalle. «Li vede?» le chiese. «Sì», mormorò la donna. Poi si scostò, sbalordita. «Il corpo è stato trovato intorno alle due del pomeriggio?» chiese, rivolta alla Rizzoli. «All'incirca.» «E ora sono le nove di sera...» «Be', lo sperma c'è o no?» tagliò corto Korsak. «Sì, c'è», rispose la Isles. «Ed è mobile.» Korsak aggrottò le sopracciglia. «Che cosa significa? Che gli spermatozoi si muovono?» «Esatto. Si muovono.» Nella stanza calò il silenzio. L'implicazione di quel reperto li aveva sbalorditi tutti. «Per quanto tempo uno spermatozoo rimane mobile?» chiese la Rizzoli. «Dipende dall'ambiente.» «Per quanto?» «Dopo l'eiaculazione possono rimanere mobili per uno o due giorni. Almeno la metà degli spermatozoi sotto il microscopio si sta muovendo. Si tratta di eiaculato recente. Probabilmente non più vecchio di un giorno.» «E da quanto tempo è morta la vittima?» chiese Dean. «In base ai livelli di potassio vitreo che ho prelevato circa cinque ore fa, dev'essere morta da almeno sessanta ore.» Altri istanti di silenzio. Jane intuì dai volti che tutti avevano tratto le
medesime conclusioni. Guardò Gail Yeager, che ora giaceva con il torso aperto e gli organi messi a nudo. Si portò una mano alla bocca e corse verso il lavandino. Per la prima volta nella sua carriera di poliziotto, Jane Rizzoli si sentì male. «Lo sapeva», esclamò Korsak. «Quel figlio di puttana lo sapeva.» Si trovavano nel parcheggio dietro all'istituto di medicina legale, e la brace della sigaretta di Korsak brillava, arancione, nel buio. Dopo l'aria gelida della sala autoptica, era quasi un sollievo essere immersi nell'umidità di una notte estiva, lontani dalle luci accecanti, avvolti da un manto di oscurità. Jane si sentiva umiliata per la sua debolezza, soprattutto per il fatto che l'agente Dean fosse lì a guardarla. Almeno aveva avuto abbastanza riguardo da non commentare e l'aveva trattata con semplice indifferenza, senza compassione né scherno. «E stato Dean a chiedere il test sullo sperma», affermò Korsak. «O comunque l'abbia chiamato...» «Il preparato a fresco.» «Già, quella roba lì. La dottoressa Isles non aveva alcuna intenzione di esaminare il campione fresco. L'avrebbe lasciato seccare. Ed ecco che quel federale le dice cosa fare; come se sapesse esattamente che cosa cercare, e che cosa avremmo trovato. Come faceva a saperlo? E che cazzo c'entra l'FBI con questo caso?» «Ha condotto lei le indagini sulla famiglia Yeager. Che cosa potrebbe attirare l'attenzione del Bureau?» «Nulla.» «Si erano immischiati in qualcosa che non li riguardava?» «Parla come se gli Yeager si siano fatti ammazzare.» «Lui era un medico. C'è forse in ballo qualche affare di droga? Un testimone federale?» «Era pulito. E sua moglie pure.» «Quel colpo di grazia... simile a un'esecuzione. Forse si tratta di un gesto simbolico: uno squarcio alla gola per farlo tacere.» «Gesù, Rizzoli. Ha virato di centottanta gradi. Prima sospettavamo di un pervertito che uccide per il gusto di farlo. E ora lei parla di complotti.» «Sto cercando di capire la ragione del coinvolgimento di Dean. All'FBI non importa mai un cazzo di quello che facciamo. Loro stanno alla larga da noi, e noi da loro, così siamo tutti contenti. Non abbiamo chiesto aiuto per il Chirurgo. Abbiamo gestito la situazione in casa, abbiamo usato il no-
stro esperto di profili. La loro unità di scienza comportamentale è troppo occupata a leccare i piedi a Hollywood per prestare attenzione a noi. E allora, perché questo caso è diverso? Che cosa rende gli Yeager tanto speciali?» «Non abbiamo trovato nulla su di loro», ripeté Korsak. «Niente debiti, né evasioni fiscali. Nessun processo in corso. Non un pettegolezzo.» «E allora perché tutto questo interesse da parte dell'FBI?» Vince Korsak rifletté un istante. «Forse gli Yeager avevano amici nelle alte sfere. Qualcuno che ora pretende giustizia.» «E perché mai Dean non dovrebbe dircelo con chiarezza?» «Ai federali non piace divulgare informazioni», ribatté Korsak. Jane si voltò verso l'edificio. Era quasi mezzanotte e non avevano ancora visto uscire Maura Isles. Quando la Rizzoli si era tolta il camice, la dottoressa Isles stava dettando il verbale e non le aveva nemmeno augurato la buonanotte. La Regina dei morti prestava poca attenzione a chi era ancora vivo. Io sono forse diversa da lei? Quando sono nel mio letto, di notte, quello che vedo sono i volti delle vittime. «Questo caso è più importante, non riguarda solo gli Yeager», asserì Korsak. «Ora abbiamo quegli altri resti.» «Credo che questo possa scagionare Joey Valentine», replicò Jane. «Spiega perché il nostro uomo aveva addosso quel capello di cadavere... era di una vittima precedente.» «Non ho finito con Joey. Ancora un giro di vite.» «Ha qualcosa su di lui?» «Sto cercando, sto cercando.» «Avrà bisogno di più di una vecchia accusa di voyeurismo.» «Ma quel Joey è strano. E bisogna esserlo tanto, per divertirsi a mettere il rossetto ad anziane signore morte.» «La stranezza non basta.» Jane fissò l'edificio, pensando a Maura Isles. «In un modo o nell'altro, siamo tutti strani.» «Già, ma noi siamo strani normali. Nella stranezza di Joey non c'è niente di normale.» Jane rise. Quella conversazione aveva sconfinato nell'assurdo, e lei era troppo stanca per trovarvi un senso. «Che diavolo ho detto?» chiese Vince. Jane si voltò verso la sua auto. «Sono distrutta. Ho bisogno di andare a casa a dormire.»
«Ci sarà domani, per il medico delle ossa?» «Ci sarò.» Il pomeriggio seguente un antropologo forense avrebbe aiutato la dottoressa Isles a esaminare i resti dello scheletro della seconda donna rinvenuta. Nonostante non fosse entusiasta di tornare in quella casa degli orrori, era un dovere a cui non poteva sottrarsi. Jane raggiunse l'auto e aprì la portiera. «Ehi, Rizzoli», le gridò Korsak. «Sì?» «Ha già cenato? Le va un hamburger o qualcosa del genere?» Era il tipo d'invito che qualsiasi poliziotto avrebbe fatto a un altro. Non vi era nulla di insolito o di sconveniente, eppure la fece sentire a disagio, perché capì che celava solitudine e disperazione. Non desiderava essere coinvolta nella ragnatela appiccicosa dei bisogni emotivi di quell'uomo. «Magari un'altra volta», rispose. «Va bene», ribatté Vince. «Sarà per un'altra volta.» E con un gesto rapido della mano, si voltò e si avviò verso la sua auto. Quando entrò in casa, trovò un messaggio di suo fratello Frankie nella segreteria telefonica. Mentre controllava la posta, sentì la sua voce rimbombare nella stanza e s'immaginò il suo atteggiamento arrogante, il suo volto spavaldo. «Ehi, Janie? Ci sei?» Una lunga pausa. «Oh, merda. Ascolta, mi sono scordato del compleanno della mamma domani. Che ne dici di farle un regalo insieme? Mettici anche il mio nome. Ti spedirò un assegno. Fammi solo sapere quanto ti devo, okay? Ciao. Oh, a proposito, tu come stai?» Jane gettò la posta sul tavolo e borbottò: «Certo, Frankie. Come se mi avessi pagato per il regalo dell'ultima volta.» In ogni caso era troppo tardi. Il regalo era già stato spedito: una confezione di asciugamani da bagno color pesca, con il monogramma di Angela. Quest'anno Janie si prende tutto il merito. Per la differenza che può fare. Frankie era l'uomo delle mille scuse, tutte solide come massi quando si trattava della mamma. Era sergente istruttore a Camp Pendleton, e Angela si preoccupava per lui, temeva per la sua sicurezza, come se ogni giorno affrontasse il fuoco nemico nella pericolosa boscaglia californiana. Si chiedeva persino ad alta voce se mangiasse abbastanza. Sì, certo, mamma. Il corpo dei Marine americani lascerà morire di fame il tuo piccolino di cento chili. Era Jane che invece non mangiava da mezzogiorno. Dopo quell'imbarazzante attacco di nausea
davanti al lavabo della sala autoptica, il suo stomaco si era svuotato di tutto, e lei era più che affamata. Si gettò sulla credenza e trovò il tesoro di tutte le donne pigre: tonno in scatola, che mangiò direttamente dalla confezione, con una manciata di cracker. Ancora affamata, tornò alla credenza, prese una scatola di pesche sciroppate e trangugiò anche quelle, leccando lo sciroppo dalla forchetta mentre fissava la cartina di Boston appesa alla parete. La riserva di Stony Brook era un'ampia zona verde circondata dai sobborghi cittadini: West Roxbury e Clarendon Hills a nord, Dedham e Readville a sud. In qualsiasi giorno d'estate la riserva attirava un gran numero di famiglie, di sportivi e di persone che facevano picnic all'aperto. Chi mai avrebbe notato un uomo solo su un'auto lungo la Enneking Parkway? Chi si sarebbe soffermato a osservarlo mentre entrava in una delle aree di parcheggio e scrutava i boschi? Un parco in periferia è irresistibile per chi è stanco di cemento e asfalto, di ingorghi e clacson. Tra quelli che cercavano rifugio nella frescura dei boschi e dell'erba c'era una persona animata da un proposito completamente diverso. Un predatore in cerca di un luogo in cui scaricare la sua preda. Jane vide tutto nella sua mente: gli alberi fitti, il tappeto di foglie morte. Un mondo in cui gli insetti e gli animali del bosco sarebbero stati lieti di collaborare all'eliminazione. Jane ripose la forchetta e il rumore che questa emise a contatto con il tavolo risuonò incredibilmente forte. Dalla libreria prese la confezione di puntine colorate. Ne mise una rossa in corrispondenza della strada in cui era vissuta Gail Yeager, a Newton, e un'altra dello stesso colore sulla riserva di Stony Brook, dov'era stato rinvenuto il suo corpo. Nella stessa area collocò una seconda puntina, questa volta blu, a rappresentare i resti della donna anonima. Poi si sedette a riflettere sul mondo del killer. Durante gli omicidi del Chirurgo aveva imparato a studiare la cartina di una città, come un predatore studia il terreno di caccia. Dopotutto, anche lei era una cacciatrice, e per catturare la preda doveva comprendere l'universo in cui questa viveva, le strade che percorreva, i quartieri che perlustrava. Sapeva che i predatori umani cacciano spesso in aree a loro familiari. Come chiunque altro, hanno la loro zona di sicurezza, la loro routine quotidiana. Perciò quando osservava le puntine sulla cartina, sapeva che stava guardando molto di più di semplici scene del delitto e discariche per corpi: stava guardando la sua sfera d'azione. La città di Newton era raffinata e costosa, una zona di professionisti. La
riserva di Stony Brook era situata cinque chilometri a sud-est, in un'area che per eleganza non era nemmeno lontanamente paragonabile a Newton. Il loro uomo abitava forse da quelle parti e catturava le prede che incontrava sul suo cammino mentre si spostava da casa al lavoro? Doveva essere una persona normale; qualcuno che non destava sospetti, non un emarginato. Se fosse vissuto a Newton avrebbe dovuto essere un colletto bianco, con gusti da colletto bianco. E colletti bianchi come vittime. La griglia delle strade di Boston si offuscò davanti ai suoi occhi stanchi, eppure Jane non cedette alla tentazione di andare a dormire: rimase seduta, stordita, in uno stato che andava ben oltre la spossatezza, con un'infinità di particolari che le ronzavano in testa. Pensò allo sperma mobile in un corpo in decomposizione. Allo scheletro senza nome. Alle fibre di moquette blu navy. A un killer che spargeva capelli delle precedenti vittime. A un'arma immobilizzante, a un coltello da cacciatore e alle camicie da notte piegate. E a Gabriel Dean. Qual era il ruolo dell'FBI in tutto ciò? Si prese la testa fra le mani, come se stesse per esplodere per le troppe informazioni. Aveva voluto essere a capo delle indagini, lo aveva persino preteso, e ora il peso dell'investigazione la stava schiacciando. Era troppo stanca per pensare e troppo tesa per dormire. Si domandò se si trattasse di esaurimento nervoso, ma scacciò rabbiosamente l'idea. Jane Rizzoli non avrebbe mai permesso a un esaurimento di ostacolarla. Nel corso della sua carriera aveva inseguito malviventi sui tetti, aveva sfondato porte a calci, si era trovata a tu per tu con la morte in una cantina buia. Aveva ucciso un uomo. Ma fino a quel momento, non si era mai sentita tanto vicina al crollo. L'infermiera della prigione non è affatto delicata mentre mi lega il laccio emostatico al braccio destro, facendo schioccare il lattice come un elastico. Il laccio mi dà un pizzicotto e mi strappa i peli, ma lei non se ne preoccupa; ai suoi occhi sono solo un altro finto malato, che l'ha buttata giù dalla brandina e ha interrotto il suo turno, solitamente tranquillo, nell'ambulatorio del carcere. È una signora di mezza età, o così sembra, con gli occhi gonfi e le sopracciglia troppo sottili, e l'alito che odora di sonno e di sigarette. Ma e una donna, e io le fisso il collo, flaccido e un po' cadente, mentre si china sul braccio per cercare una buona vena. Penso a quello che si trova sotto a quella pelle bianca, rugosa. L'arteria carotide, che pulsa di sangue chiaro, e accanto a essa, la vena giugulare, dilatata,
in cui scorre un fiume più scuro, il sangue venoso. Ho molta familiarità con l'anatomia del collo femminile, perciò studio anche il suo, per quanto sia poco attraente. La mia vena antecubitale si e gonfiata e lei grugnisce di soddisfazione. Prende un tampone con l'alcol e me lo strofina sulla pelle. È un gesto sbadato, incurante, non quello che ci si aspetta da un professionista sanitario, eseguito per mera abitudine. «Sentirà una puntura», annuncia. Avverto l'ago ma non batto ciglio. Ha preso bene la vena, e il sangue fluisce nella provetta Vacutainer dal cappuccio rosso. Ho lavorato con il sangue di molte persone, ma mai con il mio, perciò lo osservo con interesse, notando che è ricco e scuro, del colore delle ciliegie nere. La provetta è quasi piena. La estrae dall'ago e ne inserisce un'altra. Questa ha il cappuccio porpora, per la conta completa delle cellule ematiche. Quando anch'essa è piena, mi sfila l'ago dalla vena, allenta il laccio emostatico e mi appoggia un batuffolo di ovatta sul forellino. «Prema qui», mi ordina. Inutilmente, sollevo il polso sinistro ammanettato alla brandina dell'infermeria. «Non riesco», mormoro con voce frustrata. «Oh, per l'amor del cielo», sospira. Non si tratta di compassione, solo d'irritazione. Ci sono individui che disprezzano i deboli, e lei è fra questi. Se avesse potere assoluto e una persona vulnerabile per le mani, potrebbe facilmente trasformarsi in uno di quei mostri che torturavano gli ebrei nei campi di concentramento. La crudeltà è lì, palpabile, poco sotto la superficie, mascherata dall'uniforme bianca e dalla targhetta di identificazione. Lancia un'occhiata alla guardia. «Prema qui», ripete. L'uomo esita, poi appoggia le dita sul cotone, premendolo contro la pelle. La sua riluttanza a toccarmi non è dettata dalla paura di una reazione violenta: sono sempre stato tranquillo ed educato, un prigioniero modello, e nessuna guardia mi teme. No, è il mio sangue che lo rende nervoso. Vede il cotone macchiarsi di rosso e immagina che ogni sorta di orrore microbico possa aggredirgli le dita. Quando l'infermiera prepara un cerotto e lo applica sull'ovatta, appare sollevato. Immediatamente si dirige al lavandino e si lava le mani con acqua e sapone. Il suo terrore per una cosa elementare come il sangue mi fa ridere, tuttavia rimango immobile sul lettino, le ginocchia flesse, gli occhi chiusi, e di tanto in tanto emetto un piagnucolio di sofferenza.
L'infermiera esce dalla stanza con le provette; la guardia, con le mani ben pulite, si siede ad aspettare. Attendiamo. Sembrano passare ore e ore in quella stanza fredda e asettica. Nessuna notizia dall'infermiera; è come se ci avesse abbandonato, se si fosse dimenticata di noi. La guardia cambia posizione sulla sedia, domandandosi perché ci impieghi tanto. Io lo so. A quest'ora la macchina ha completato le analisi, e lei ha in mano i risultati. I numeri la allarmano. Ogni sospetto di simulazione è fugato; sulla stampata legge le prove della pericolosa infezione che sta invadendo il mio corpo. I dolori addominali sono sicuramente reali. Nonostante mi abbia esaminato il ventre, abbia sentito i muscoli contrarsi e mi abbia udito mugugnare alla pressione, non aveva creduto ai miei sintomi. È stata infermiera in un carcere troppo a lungo, e l'esperienza l'ha resa scettica nei confronti delle lamentele fisiche dei prigionieri. Ai suoi occhi siamo tutti manipolatori e imbroglioni, e ogni sintomo e solo un altro modo per ottenere qualche farmaco. Ma un test di laboratorio è oggettivo. Il sangue entra nella macchina, e da questa escono dei numeri. Lei non può ignorare una conta dei globuli bianchi tanto allarmante. Perciò è sicuramente al telefono, chiede un consulto all'ufficiale sanitario. «Ho qui un carcerato che presenta forti dolori addominali. Nessun rumore intestinale, ma ha il quadrante inferiore destro dolente. Quello che più mi preoccupa è la conta dei globuli bianchi...» ha porta si apre, e sento le scarpe dell'infermiera scricchiolare sul linoleum. Quando mi rivolge la parola, ha perso il tono beffardo di prima. Ora è cortese, persino rispettosa. È consapevole di avere a che fare con un uomo gravemente malato e sa che se dovesse accadermi qualcosa, verrebbe ritenuta responsabile. Improvvisamente cesso d'essere oggetto di disprezzo e divento una bomba a orologeria che potrebbe distruggerle la carriera. E ha già perso troppo tempo. «Lo trasferiamo in ospedale», afferma rivolta alla guardia. «Deve essere ricoverato immediatamente.» «Allo Shattuck?» chiede l'uomo, riferendosi al reparto carcerario del Lemuel Shattuck Hospital di Boston. «No, è troppo lontano. Non può attendere tanto. Ho predisposto il trasferimento al Fitchburg Hospital.» La sua voce ha un tono concitato, e la guardia ora mi osserva con preoccupazione.
«Che cos'ha che non va?» chiede. «Potrebbe trattarsi di perforazione dell'appendice. Ho già preparato tutte le carte e ho chiamato il pronto soccorso del Fitchburg. Ci dovrà andare in ambulanza.» «Oh, merda. Sarò costretto ad accompagnarlo. Quanto ci vorrà?» «Probabilmente lo ricovereranno. Credo che lo debbano operare.» L'uomo guarda l'orologio. Sta pensando alla fine del turno e spera che qualcuno si presenti in tempo per sostituirlo in ospedale. Non si preoccupa per me, ma per i suoi progetti, per la sua vita. Io sono solo una complicazione. L'infermiera piega un fascio di documenti e li infila in una busta, che porge alla guardia. «Questa è per il pronto soccorso del Fitchburg. Si assicuri che il dottore la riceva.» «Dobbiamo spostarci per forza con l'ambulanza?» «Sì.» «La sicurezza diventa un problema.» Lei mi fissa. Ho il polso ancora legato alla branda. Sono perfettamente immobile, le ginocchia flesse... la classica posizione di un paziente con una peritonite acuta. «Io non mi preoccuperei troppo della sicurezza. Quello sta troppo male per mettersi a lottare.» 7 «La necrofilia», affermò il dottor Lawrence Zucker, «o 'amore per i morti', è da sempre uno dei misteri più oscuri dell'umanità. La parola deriva dal greco, ma già ai tempi dei faraoni sono state rinvenute prove di questa pratica. A quell'epoca, quando una donna bella o d'alto rango moriva, veniva sempre consegnata agli imbalsamatori almeno tre giorni dopo il decesso. Questo per assicurarsi che nessuno abusasse sessualmente del suo corpo durante la preparazione per la sepoltura. L'abuso sessuale sui morti è ricorrente nella storia. Si dice che persino re Erode abbia fatto sesso con la moglie per sette anni dopo la sua morte.» Jane sollevò lo sguardo nella sala riunioni e fu colpita dalla strana familiarità di quella scena: un gruppo di detective stanchi, documenti e foto della scena del delitto disseminati sul tavolo. La voce bisbigliante dello psicologo Lawrence Zucker, che li attirava nella mente angosciosa di un predatore. E l'atmosfera gelida; più di tutto ricordava il freddo di quella stanza, come le si era insinuato nelle ossa e le aveva intorpidito le mani.
Anche molte delle facce erano le stesse: i detective Jerry Sleeper e Darren Crowe e il suo partner, Barry Frost. I poliziotti con cui aveva lavorato al caso del Chirurgo un anno prima. Un'altra estate, un altro mostro. Ma questa volta nella squadra c'era un volto in meno. Il detective Thomas Moore non era con loro, e a Jane mancavano la sua presenza, la sua calma fiduciosa, la sua fermezza. Avevano avuto un diverbio durante l'indagine sul Chirurgo, ma poi erano diventati amici, e in quel momento la sua assenza era come un vuoto nel gruppo. Al posto di Moore, seduto sulla sedia che lui occupava di solito, c'era un uomo di cui non si fidava: Gabriel Dean. Chiunque fosse entrato nella stanza durante la riunione avrebbe notato immediatamente che Dean era l'outsider. Dall'abito sartoriale alla postura militare, questi si distingueva dagli altri poliziotti, e tutti ne erano consapevoli. Nessuno gli rivolgeva la parola; lui era l'osservatore silenzioso, l'uomo del Bureau il cui ruolo rimaneva un enigma per chiunque. Il dottor Zucker proseguì. «Far sesso con un cadavere è un'attività a cui gran parte di noi non pensa minimamente, eppure è citata più volte nella letteratura, nella storia e in numerosi casi criminali. Il nove per cento delle vittime di serial killer subisce abusi sessuali dopo la morte. Assassini seriali quali Jeffrey Dahmer, Henry Lee Lucas, e Ted Bundy hanno ammesso di averlo praticato.» Poi abbassò lo sguardo sulle foto dell'autopsia di Gail Yeager. «Perciò la presenza di eiaculato recente in questa vittima non è affatto sorprendente.» A quel punto Darren Crowe prese la parola. «Una volta si pensava fosse prerogativa dei pervertiti. Questo è quanto mi ha spiegato un esperto di profili criminali dell'FBI.» «Sì, un tempo si credeva fosse indicativo di un assassino con gravi disturbi mentali», rispose Zucker. «Di qualcuno che se ne andava in giro in preda a una specie di stordimento psicotico. Ed è vero, molti di questi criminali sono psicotici che rientrano nella categoria dei killer disorganizzati... né sani di mente né intelligenti. Hanno così poco controllo dei loro impulsi che lasciano dietro di sé ogni genere di prove. Capelli, sperma, impronte digitali. Sono i più facili da prendere, perché ignorano l'esistenza della medicina legale, o se ne infischiano.» «Mentre il nostro uomo?» «Il nostro uomo non è psicotico. È una creatura completamente diversa.» Zucker aprì il fascicolo contenente le foto di casa Yeager e le dispose sul
tavolo. Poi guardò la Rizzoli. «Detective, lei ha visto la scena del delitto.» Jane annuì. «Quest'uomo è metodico. È entrato con un kit per uccidere. È preciso ed efficiente. Inoltre, non ha quasi lasciato tracce.» «C'era lo sperma», puntualizzò Crowe. «Ma in un luogo che normalmente non avremmo controllato. Potevamo benissimo non vederlo. In effetti, poco ci è mancato.» «La sua impressione generale?» le chiese Zucker. «È organizzato. Intelligente.» Jane rimase un istante in silenzio; poi aggiunse: «Proprio come il Chirurgo». Lo sguardo di Zucker incrociò quello di Jane. Il criminologo la metteva da sempre a disagio e anche in quel momento si sentì trafitta dalla sua occhiata indagatrice. Ma Warren Hoyt doveva essere nei pensieri di tutti. Di certo non era l'unica a credere che quel caso fosse la replica di un vecchio incubo. «Concordo con lei», affermò Zucker. «Questo è un killer organizzato. Segue ciò che alcuni esperti di profili chiamerebbero 'il tema dell'oggetto cognitivo'. Il suo comportamento non mira solo a ottenere una gratificazione immediata, anzi, le sue azioni hanno uno scopo specifico, e questo scopo consiste nell'assumere il totale controllo del corpo di una donna... nella fattispecie, della vittima, Gail Yeager. Desidera possederla, usarla anche dopo la morte. Aggredendola di fronte al marito, l'assassino stabilisce il suo diritto di possesso, diventa il dominatore di entrambi.» Lo psicologo indicò la foto dell'autopsia. «Trovo interessante che non sia stata né mutilata né smembrata. A parte le alterazioni naturali di una decomposizione precoce, il cadavere sembra in condizioni abbastanza buone.» Guardò la detective Rizzoli in cerca di conferme. «Non c'erano ferite aperte», affermò Jane. «La causa della morte è lo strangolamento.» «Che è il modo più intimo per uccidere qualcuno.» «Intimo?» «Pensate a ciò che significa strangolare manualmente un individuo, a quanto sia personale. Il contatto ravvicinato. Faccia a faccia. Le vostre mani sulla sua carne. Comprimete la gola e sentite la vita che scivola via sotto di esse.» Jane lo fissò disgustata. «Gesù.» «Questo è ciò che lui pensa. Ciò che lui prova. È l'universo in cui vive, e noi dobbiamo scoprire come sia fatto quest'universo.» Zucker indicò la fo-
to di Gail Yeager. «È spinto a possedere il suo corpo, a farlo suo, vivo o morto che sia. Quest'uomo sviluppa un attaccamento personale a un cadavere, e continuerà a coccolarlo. E ad abusarne sessualmente.» «Ma allora perché sbarazzarsene?» chiese Sleeper. «Perché non conservarlo per sette anni? Come ha fatto Erode con la moglie?» «Magari per motivi pratici», propose Zucker. «Potrebbe vivere in un appartamento, dove l'odore di un corpo in decomposizione attirerebbe l'attenzione. Nessuno terrebbe un cadavere per più di tre giorni.» Crowe rise. «Forse nemmeno per tre secondi.» «Lei sostiene quindi che il killer provi per il corpo lo stesso attaccamento di un amante», concluse Jane. Zucker annuì. «Dev'essere stata dura per lui scaricarlo laggiù, a Stony Brook.» «Già, dev'essere stato difficile. Come quando ti lasci col fidanzato.» Jane Rizzoli pensò a quel luogo in mezzo ai boschi. Gli alberi, le ombre screziate. Tanto lontano dalla calura e dal frastuono cittadino. «Non è soltanto una discarica», affermò. «Potrebbe essere il suo terreno consacrato.» Tutti la fissarono. «Ossia?» chiese Crowe. «La detective Rizzoli ha colto nel segno: è il punto a cui volevo arrivare», esclamò Zucker. «Quel luogo, nella riserva, non è solo un posto per liberarsi dei cadaveri. Dovreste chiedervi perché mai non li sotterri. Perché li lascia esposti, rischiando che vengano scoperti?» «Perché fa loro visita», rispose Jane con un sussurro. Il criminologo annuì. «Sono le sue amanti. Quello è il suo harem. Lui torna da loro, le guarda, le tocca. Probabilmente le abbraccia anche. Per questo sparge in giro i capelli dei cadaveri.» Zucker guardò la Rizzoli. «Quel capello appartiene ai resti del secondo corpo?» La giovane donna annuì. «Io e il detective Korsak avevamo ipotizzato che il capello provenisse dal posto di lavoro del soggetto. Ora che conosciamo la sua reale origine, ha ancora senso continuare a sondare nelle imprese di pompe funebri?» «Sì», rispose Zucker. «E vi dico anche perché. I necrofili sono attratti dai cadaveri e maneggiarli li eccita sessualmente. Imbalsamarli, vestirli, applicare loro il trucco. Potrebbero cercare di dare libero sfogo a tale eccitazione scegliendo un lavoro in un'impresa di pompe funebri. Un assistente imbalsamatore, per esempio, o un preparatore. Ricordate che i resti non identificati potrebbero anche non appartenere a una vittima di omicidio.
Uno dei necrofili più famosi fu uno psicotico di nome Edward Gein, che iniziò compiendo incursioni nei cimiteri. Riesumava i cadaveri delle donne e se li portava a casa, ma solo in un secondo tempo ricorse all'omicidio quale mezzo per procurarseli.» «Oh, cielo», mormorò Frost. «Andiamo di male in peggio.» «È uno degli aspetti dell'ampio spettro del comportamento umano. I necrofili ci appaiono malati e perversi, ma sono sempre stati fra noi, un sottogruppo di individui che agisce spinto da strane ossessioni. Da strani tipi di voglie. Sì, alcuni di loro sono psicotici. Ma altri sono perfettamente normali, sotto ogni profilo.» Anche Warren Hoyt era perfettamente normale. Gabriel Dean, che non aveva proferito parola per tutta la riunione, intervenne e la Rizzoli fu sorpresa nell'udire la sua voce baritonale. «Ha detto che il soggetto potrebbe tornare nei boschi per rivedere il suo harem.» «Sì», rispose Zucker. «Perciò la sorveglianza di Stony Brook dovrebbe continuare a tempo indeterminato.» «E che accade se scopre che il suo harem è scomparso?» Lo psicologo rifletté per un istante. «Non la prenderebbe molto bene.» A quelle parole la Rizzoli sentì un brivido lungo la schiena. Sono le sue amanti. Come reagirebbe un uomo se gli venisse sottratta la sua donna? «Impazzirebbe», continuò Zucker. «S'infurierebbe perché qualcuno ha preso ciò che era suo. E sarebbe ansioso di sostituire quello che ha perso. Riprenderebbe la caccia.» L'uomo guardò la Rizzoli. «Dovete tenerlo nascosto ai media, il più a lungo possibile. La sorveglianza potrebbe essere la chance migliore per catturarlo. I nostro uomo tornerà in quei boschi, ma solo se si sentirà sicuro. Se crederà che il suo harem sia ancora lì, ad attenderlo.» La porta della sala riunioni si aprì. Il tenente Marquette fece capolino e tutti si voltarono. «Detective Rizzoli?» chiamò. «Ho bisogno di parlarle.» «Subito?» «Se non le dispiace. Andiamo nel mio ufficio.» A giudicare dall'espressione, tutti i presenti avevano pensato la stessa cosa: la Rizzoli è chiamata a rapporto. E Jane non aveva idea della ragione. Si alzò dalla sedia, rossa in volto, e uscì dalla stanza. Mentre percorrevano il corridoio fino alla sezione Omicidi, Marquette restò in silenzio. Entrarono nel suo ufficio e lui chiuse la porta. Attraverso il divisorio di vetro, Jane vide gli agenti che la guardavano dalle loro postazioni. Marquette andò alla finestra e chiuse le veneziane. «Perché non si
accomoda, Rizzoli?» «Sto bene così. Voglio solo sapere che cosa sta succedendo.» «Prego.» La sua voce era più calma, quasi gentile. «Si sieda.» Quel nuovo sollecito la turbò. Tra lei e Marquette non c'era mai stato un rapporto veramente cordiale. La Omicidi restava un club maschile, e Jane sapeva di essere considerata, in quanto donna, un'intrusa. Si lasciò cadere su una sedia e il cuore cominciò a martellarle nel petto. Per un attimo il tenente rimase seduto in silenzio, come se cercasse le parole giuste. «Volevo dirglielo prima che lo vengano a sapere gli altri. Perché credo che su di lei abbia un impatto maggiore. Sono certo che si tratta solo di una situazione temporanea, che si risolverà in un paio di giorni, se non di ore.» «Quale situazione?» «Questa mattina, verso le cinque, Warren Hoyt è fuggito.» In quel momento capì perché avesse insistito per farla sedere: si aspettava che crollasse. Ma lei non crollò. Rimase perfettamente immobile, le emozioni represse, i nervi paralizzati. Quando parlò, la sua voce suonò stranamente calma, tanto che la riconobbe a stento. «Com'è successo?» chiese. «Durante un trasferimento per ragioni di salute. La scorsa notte è stato ricoverato al Fitchburg Hospital per un'appendicectomia d'urgenza. Non sappiamo esattamente come sia andata. Ma nella sala operatoria...» Marquette si arrestò. «Non ha lasciato testimoni.» «Quanti morti?» chiese Jane con la voce sempre neutra. Con la voce di un'estranea. «Tre. Un'infermiera e un'anestesista, che lo stavano preparando per l'intervento, oltre alla guardia che l'aveva accompagnato all'ospedale.» «Il Souza-Baranowski è una struttura di sesto livello.» «Sì.» «E hanno autorizzato il ricovero in un ospedale civile?» «Se fosse stato un ricovero di routine, l'avrebbero trasportato al reparto carcerario di Shattuck. Ma in caso d'emergenza, la politica del Massachusetts Correctional Institute è portare i carcerati alla struttura convenzionata più vicina. E la più vicina era il Fitchburg.» «Chi ha deciso che si trattava di un'emergenza?» «L'infermiera della prigione. Ha esaminato Hoyt, e ha interpellato il medico dell'MCI. Entrambi erano dell'opinione che richiedesse assistenza medica immediata.»
«Basandosi su quali dati?» Adesso la sua voce cominciava a inasprirsi, a rivelare una certa emotività. «Presentava sintomi. Dolori addominali...» «Hoyt ha studiato medicina. Sa esattamente che linguaggio usare.» «Gli esami di laboratorio erano alterati.» «Quali esami?» «Un test dei globuli bianchi, una conta elevata.» «Sapevano con chi avevano a che fare? Avevano la minima idea di chi fosse?» «Nessuno può alterare un esame del sangue.» «Lui sì. Ha lavorato in ospedale. Sa come manipolare le analisi di laboratorio.» «Detective...» «Per l'amor del cielo, era un maledetto tecnico del sangue!» Il suono stridulo della sua voce la spaventò. Jane lo fissò, sconvolta dal suo sfogo, travolta dalle emozioni che infine erano esplose dentro di lei. Rabbia. Impotenza. E paura. In tutti quei mesi era riuscita a soffocarla, perché sapeva quanto fosse irrazionale temere Warren Hoyt, dal momento che era rinchiuso in un luogo da cui non poteva raggiungerla o darle la caccia. Gli incubi erano stati una mera conseguenza del trauma, echi persistenti di un vecchio terrore che Jane sperava svanisse col tempo. Ma ora la sua paura aveva un senso, e la sentiva nelle mascelle. D'un tratto s'alzò in piedi e si voltò per andarsene. «Detective Rizzoli!» Jane si arrestò sulla soglia. «Dove sta andando?» «Credo lo sappia.» «Il Dipartimento di polizia di Fitchburg e la polizia di Stato hanno la situazione sotto controllo.» «Davvero? Per loro è solo uno dei tanti evasi. Si aspettano che faccia gli stessi errori degli altri. Ma non sarà così. Riuscirà a sfuggire alla loro rete.» «Non dà loro abbastanza credito.» «Sono loro che non ne danno abbastanza a Hoyt. Non capiscono con chi hanno a che fare», ribatté Jane. Ma io sì. Io lo capisco perfettamente. Fuori il parcheggio luccicava, arroventato dal sole cocente, e il vento che
si alzava dalla strada era denso e solforoso. Il tempo di salire in auto, e Jane aveva già la camicia bagnata di sudore. A Hoyt sarebbe piaciuta quella calura, pensò. Ne traeva giovamento, come una lucertola dal sole, immobile sulla sabbia bollente del deserto. E, come ogni rettile, sapeva mettersi rapidamente al sicuro. Non lo troveranno. Mentre guidava verso Fitchburg, continuò a pensare al Chirurgo, di nuovo in libertà. Lo immaginò mentre camminava per le strade della città, il predatore di nuovo in mezzo alle prede. Si domandò se avesse ancora la forza di affrontarlo. Se, dopo averlo sconfitto una volta, non avesse esaurito il suo coraggio. Non si sentiva affatto una codarda; non si era mai sottratta a una sfida e si era sempre gettata a capofitto nella mischia, ma il pensiero di rivedere Warren Hoyt la faceva tremare. L'ho affrontato una volta, e per poco non mi ha ucciso. Non so se riuscirò a farlo ancora. Se sarò in grado di ricacciare il mostro in gabbia. Il perimetro non era sorvegliato. Jane si fermò nel corridoio dell'ospedale in cerca di un agente in uniforme, ma vide solo alcune infermiere: due erano abbracciate e si stavano consolando a vicenda, altre facevano capannello e parlavano tra loro a voce bassa, i volti lividi per lo shock. Jane passò sotto il nastro giallo allentato e s'incamminò indisturbata verso le doppie porte, che si aprirono automaticamente con un sibilo e la condussero nel reparto operatorio. Sul pavimento notò chiazze di sangue e un andirivieni d'impronte insanguinate. Un investigatore della Scientifica stava già riponendo il suo kit. Era una scena fredda, esaminata a fondo e ripetutamente calpestata, in attesa d'essere sgomberata e ripulita. Ma per quanto freddo, per quanto contaminato fosse ormai quell'ambiente, Jane riusciva ancora a leggere ciò che vi era accaduto, perché era scritto sulle pareti. Vide gli archi di sangue secco schizzato dall'arteria pulsante di una vittima, che formavano una curva ondulata sul muro e imbrattavano l'ampia lavagna cancellabile sulla quale era scritto il programma giornaliero degli interventi, con i numeri delle sale operatorie, i nomi dei pazienti e dei chirurghi, e le procedure degli interventi. Il programma dell'intera giornata. Jane si domandò che cosa fosse accaduto ai pazienti i cui interventi erano stati cancellati all'improvviso, dopo che quella sala si era trasformata nella scena di un delitto. Si domandò che cosa avrebbe comportato rinviare una colecistectomia... qualsiasi cosa fosse. Quella lista spiegava perché la scena del delitto fosse stata analizzata tanto in fretta. Era neces-
sario soddisfare le necessità dei vivi, non si poteva sospendere a tempo indeterminato l'attività del reparto operatorio più affollato di Fitchburg. Gli archi di sangue continuavano lungo la lavagna, dietro un angolo, e sulla parete adiacente. Lì i picchi erano più bassi, a indicare che la pressione sistolica era diminuita: le pulsazioni avevano iniziato a ridursi, a scendere verso il pavimento, per terminare in una pozza di sangue irregolare accanto al banco dell'accettazione. Il telefono. Chiunque sia morto lì stava cercando di raggiungere il telefono. Dietro all'accettazione, un largo corridoio costellato di lavandini conduceva alle sale operatorie. Alcune voci maschili e il crepitio di una radio portatile attirarono Jane verso una porta aperta. Passò accanto ai lavabi dei chirurghi e superò un addetto della Scientifica che a malapena la degnò di uno sguardo. Nessuno la fermò, nemmeno quando entrò nella sala operatoria numero quattro e si arrestò, sconcertata alla vista dei segni di una carneficina. Nella stanza non c'erano più le vittime, ma il loro sangue era dappertutto, sulle pareti, sugli armadietti, sui banchi e sul pavimento, trasportato da tutti coloro che erano arrivati lì sulla scia dell'assassinio. «Signora? Signora?» Due uomini in borghese stavano in piedi accanto all'armadietto degli strumenti e la guardavano accigliati. Quello più alto attraversò la sala e le si avvicinò, con le soprascarpe di carta che aderivano al pavimento. Aveva circa trentacinque anni e quell'aria impertinente di superiorità che ostentano tutti gli uomini muscolosi. Compensazione maschile, pensò, per la precoce stempiatura. Prima che potesse rivolgerle la classica domanda, Jane estrasse il distintivo. «Jane Rizzoli, Omicidi. Dipartimento di polizia di Boston.» «Che ci fate qui voi di Boston?» «Mi scusi. Non mi ha detto il suo nome», ribatté la giovane donna. «Sergente Canady. Sezione Arresto fuggitivi.» Un agente della polizia di Stato del Massachusetts. Fece per porgergli la mano, poi notò che indossava guanti di lattice. In ogni caso l'uomo non sembrava propenso a ricambiare la cortesia. «Posso aiutarla?» chiese Canady. «Forse io posso aiutare voi.» Canady non sembrò particolarmente entusiasta dell'idea. «Come?» Jane osservò i numerosi rivoli di sangue sulla parete. «L'uomo che ha fatto questo... Warren Hoyt...»
«Venga al punto.» «Lo conosco molto bene.» L'uomo più basso li raggiunse. Aveva il volto pallido, un paio d'orecchie alla Dumbo e, malgrado fosse anch'egli chiaramente un poliziotto, non sembrava condividere il senso di territorialità di Canady. «Ehi, io la conosco. Rizzoli. Lei è quella che l'ha sbattuto dentro.» «Ho lavorato con la squadra.» «No, lei è quella che l'ha inchiodato a Lithia.» A differenza di Canady, non indossava guanti e le strinse la mano. «Detective Arlen. Dipartimento di polizia di Fitchburg. Ha fatto tutta quella strada solo per questo?» «Non appena l'ho saputo.» Il suo sguardo si posò di nuovo sulle pareti. «Vi rendete conto del personaggio con cui avete a che fare, vero?» «È tutto sotto controllo», intervenne Canady. «Conoscete la sua storia?» «Sappiamo quello che ha combinato qui.» «Ma conoscete lui?» «Abbiamo i fascicoli del Souza-Baranowski.» «E le guardie laggiù non avevano idea di che mostro fosse. Altrimenti questo non sarebbe mai accaduto.» «Li ho sempre riportati dentro», esclamò Canady. «Commettono tutti gli stessi errori.» «Lui no.» «Ha solo sei ore di vantaggio.» «Sei ore?» Jane scosse il capo. «L'avete già perso.» Canady s'irritò. «Stiamo setacciando il vicinato. Abbiamo allestito posti di blocco per controllare i veicoli. Sono stati allertati i media, e la sua foto viene trasmessa da tutte le TV locali. Le ripeto, è tutto sotto controllo.» La Rizzoli non rispose e rivolse nuovamente l'attenzione ai rivoli di sangue. «Chi è morto qui dentro?» chiese a bassa voce. Fu Arlen a risponderle. «L'anestesista e un'assistente di sala operatoria. L'anestesista giaceva qui, all'estremità del tavolo. L'infermiera è stata trovata laggiù, accanto alla porta.» «Hanno gridato? Hanno chiamato la guardia?» «Non avrebbero potuto emettere neanche un suono. A entrambe è stata squarciata la laringe.» Jane si spostò all'estremità opposta del tavolo e osservò l'asta di metallo alla quale era appesa una sacca di soluzione endovenosa, il tubicino di plastica e il catetere che penzolavano sul pavimento, in mezzo a una pozza
d'acqua. Sotto il tavolo c'era una siringa di vetro in frantumi. «Gli stavano mettendo la flebo», affermò. «Gliel'avevano già inserita al pronto soccorso», rispose Arlen. «L'hanno trasportato direttamente qui, dopo che il chirurgo l'aveva visitato di sotto. Gli avevano diagnosticato una rottura dell'appendice.» «Perché il chirurgo non è salito con lui? Dov'era?» «Stava visitando un altro paziente al pronto soccorso. È salito forse dieci, quindici minuti dopo la strage. Ha oltrepassato le porte, ha visto la guardia carceraria a terra nell'accettazione, ed è balzato verso il telefono. È accorso quasi tutto il personale del pronto soccorso, ma per le vittime, ormai, non c'era più niente da fare.» Jane guardò il pavimento e vide i segni e le strisce di troppe scarpe, un caos impossibile da interpretare. «Perché la guardia non era qui a sorvegliare il prigioniero?» chiese. «La sala operatoria è una zona sterile. Non sono ammesse persone in abiti normali. Probabilmente gli avranno detto di attendere fuori.» «Ma la politica dell'MCI non prevede che i prigionieri restino ammanettati per tutto il tempo che trascorrono fuori dalla struttura?» «Sì.» «Anche in sala operatoria, o sotto anestesia, Hoyt avrebbe dovuto avere una gamba o un braccio legati al tavolo.» «Avrebbe dovuto.» «Avete trovato le manette?» Arlen e Canady si scambiarono un'occhiata. «Le manette erano sul pavimento, sotto il tavolo», affermò Canady. «Dunque era ammanettato.» «Fino a un certo punto, sì...» «Perché lo avrebbero liberato?» «Forse per ragioni pratiche», suggerì Arlen. «Per fargli una flebo? Per riposizionarlo?» Jane scosse il capo. «Avrebbero dovuto chiedere alla guardia di entrare. E lui non sarebbe uscito lasciando il prigioniero senza manette.» «Forse ha commesso un'imprudenza», osservò Canady. «Al pronto soccorso avevano avuto tutti l'impressione che Hoyt stesse molto male, che non fosse in grado di ingaggiare una lotta. Ovviamente non si aspettavano che...» «Gesù», mormorò Jane. «Non ha perso il suo stile.» Osservò il carrello dell'anestesista e vide che uno dei cassetti era aperto. All'interno alcune
fiale di tiopentale brillavano sotto le luci abbaglianti della sala operatoria. Un anestetico. Stavano per addormentarlo, pensò. Lui è sdraiato sul tavolo, con la flebo nel braccio. Mugugna, il volto contorto dal dolore. Loro non hanno idea di ciò che stia per accadere, sono impegnate a fare ciò che devono. L'infermiera pensa a preparare gli strumenti, a quello di cui avrà bisogno il medico. L'anestesista sta calcolando le dosi dei farmaci, mentre osserva il battito cardiaco del paziente sul monitor. Forse vede il cuore che accelera e suppone sia per il dolore. Non si rende conto che si sta preparando a scattare. A uccidere. E poi... che cos'era accaduto dopo? Jane osservò il carrello degli strumenti accanto al tavolo. Era vuoto. «Ha usato un bisturi?» chiese. «Non abbiamo trovato l'arma.» «È il suo strumento preferito. Usava sempre il bisturi...» Un pensiero improvviso le fece rizzare i capelli sulla nuca. Guardò Arlen. «Potrebbe essere ancora nell'edificio?» «Non è nell'edificio», sbottò Canady. «Ha già finto d'essere un medico. Sa come mescolarsi al personale. Avete perlustrato l'ospedale?» «Non ce n'è bisogno.» «Come fate a escludere che sia ancora qui?» «Perché abbiamo le prove che ha lasciato l'edificio. È stato ripreso.» Jane sentì il cuore accelerarle. «L'avete sul nastro delle telecamere di sicurezza?» Canady annuì. «Suppongo vorrà controllare di persona.» 8 «Quello che fa è strano», asserì Arlen. «Abbiamo visto il nastro più volte, ma ancora non capiamo.» Si erano trasferiti al piano inferiore, nella sala conferenze dell'ospedale. In un angolo c'era un armadietto a rotelle con un televisore e un videoregistratore. Arlen lasciò che Canady accendesse tutti gli interruttori e azionasse il telecomando. Il controllo di quest'ultimo spettava a un maschio dominante, e Canady aveva bisogno di sentirsi tale. Arlen era abbastanza sicuro di sé da non curarsene. Canady infilò la cassetta ed esclamò: «Bene. Vediamo se la polizia di Boston riesce a capirci qualcosa». Le sue parole suonarono come un guan-
to di sfida. Poi premette il tasto PLAY. Sullo schermo apparve una porta chiusa in fondo a un corridoio. «Questa è la telecamera montata sul soffitto di un corridoio del primo piano», spiegò Arlen. «Quella porta dà direttamente all'esterno, nel parcheggio del personale, a est dell'edificio. È una delle quattro uscite. L'ora della registrazione appare là sotto.» «Cinque e dieci», lesse Jane. «Secondo il registro del pronto soccorso il prigioniero è stato trasferito in sala operatoria verso le quattro e quarantacinque, perciò sono passati venticinque minuti. Ora guardi. Accade intorno alle cinque e undici.» Sullo schermo videro trascorrere i secondi. Poi, alle 5 11' 13" comparve d'un tratto una figura che avanzava tranquilla, senza fretta, verso l'uscita. Dava le spalle alla telecamera: si notavano i capelli castani corti sopra il colletto di un camice bianco da laboratorio. Indossava pantaloni da sala operatoria e soprascarpe di carta. Raggiunse la porta e, prima di spingere la maniglia antipanico, si fermò improvvisamente. «Guardi questo», esclamò Arlen. L'uomo si voltò lento e alzò lo sguardo verso la telecamera. La detective Rizzoli si protese verso lo schermo, la gola secca, gli occhi inchiodati sul volto di Warren Hoyt. Lei lo fissava, e lui pareva ricambiare lo sguardo. Si avvicinò alla telecamera e Jane vide che aveva qualcosa infilato sotto il braccio sinistro. Una sorta di fagotto. Continuò ad avanzare e si fermò poco sotto l'obiettivo. «Adesso viene la parte più strana», mormorò Arlen. Sempre fissando la telecamera, Hoyt sollevò la mano destra, il palmo rivolto in avanti, come per un giuramento in tribunale. Con la mano sinistra indicò il palmo aperto, e sorrise. «Che cavolo sta facendo?» esclamò Canady. Jane non rispose. In silenzio guardò Hoyt girarsi, raggiungere l'uscita e svanire oltre la porta. «Riavvolga», mormorò. «Sa per caso che cosa significhi quel gesto con la mano?» «Riavvolga.» Canady aggrottò le sopracciglia e premette REWIND, poi di nuovo PLAY. Ancora una volta Hoyt s'incamminò versò la porta. Si voltò. Raggiunse la telecamera, lo sguardo fisso su chi lo stava osservando in quel momento. Jane rimase seduta con i muscoli tesi, il cuore impazzito, in attesa del
suo gesto successivo. Quello che lei aveva già compreso. Il Chirurgo sollevò il palmo. «Fermi il nastro», esclamò. «Qui!» Canady premette PAUSE. Sullo schermo rimase il volto sorridente, pietrificato, di Hoyt, l'indice sinistro indicante il palmo aperto della mano destra. Quell'immagine la lasciò paralizzata. Infine, Arlen ruppe il silenzio. «Che cosa significa? Lei lo sa?» La Rizzoli deglutì. «Sì.» «Be', cosa?» sbottò Canady. Lei aprì le mani, fino allora chiuse a pugno sul grembo. Su entrambi i palmi erano visibili le cicatrici lasciate dall'aggressione di Hoyt l'anno precedente, i noduli spessi che avevano ricoperto i due squarci causati dai suoi bisturi. Arlen e Canady fissarono le cicatrici. «Gliele ha fatte Hoyt?» chiese Arlen. La Rizzoli annuì. «È questo che intende. Ecco perché ha mostrato la mano.» Guardò il televisore, dove il Chirurgo continuava a sorridere, la palma aperta verso la telecamera. «È un giochetto, tra me e lui. È il suo modo di dirmi 'ciao'. Hoyt mi sta parlando.» «Deve averlo proprio fatto incazzare», commentò Canady, e indicò lo schermo col telecomando. «Guardi là. È come se stesse dicendo 'a noi due'.» «Oppure 'ci vediamo presto'», osservò Arlen tranquillamente. Quelle parole la fecero rabbrividire. Già, sono certa che ci rivedremo. Solo che ignoro quando e dove. Canady premette PLAY, e il nastro riprese a scorrere. Guardarono Hoyt sollevare la mano, e poi girarsi e proseguire verso l'uscita. Mentre il Chirurgo si allontanava, Jane si concentrò sul fagotto che teneva sotto il braccio. «Fermi ancora», esclamò. Canady premette PAUSE. La Rizzoli si protese e toccò lo schermo. «Che cos'è questa cosa che si porta appresso? Sembra un asciugamano arrotolato.» «Lo è», rispose Canady. «Perché ha portato con sé quella roba?» «Non è per l'asciugamano, ma per quello che c'è dentro.» Jane si accigliò, pensando a ciò che aveva appena visto di sopra, in sala
operatoria. Ricordò il vassoio vuoto accanto al tavolo. Poi guardò Arlen. «Ferri», affermò. «Ha preso gli strumenti chirurgici.» Il poliziotto annuì. «Dalla stanza manca un set da laparotomia.» «Laparotomia? Che diavolo è?» «È un termine medico che significa 'taglio dell'addome'», rispose Canady. Hoyt era ormai scomparso dallo schermo, e si vedevano solo un corridoio vuoto e una porta chiusa. Canady spense il televisore e si voltò verso la giovane detective. «Sembra che il vostro ragazzo sia ansioso di tornare al lavoro.» Il trillo del cellulare la fece trasalire. Mentre lo estraeva dalla tasca riusciva a sentire il cuore che le martellava nel petto. I due uomini la stavano guardando, perciò, prima di rispondere alla chiamata, si alzò e si voltò verso la finestra. Era Gabriel Dean. «Si ricorda che la riunione con l'antropologo forense è alle tre?» domandò l'uomo. Jane guardò l'orologio. «Sarò puntuale.» Quasi, pensò. «Dove si trova ora?» «Ascolti, ci sarò, va bene?» Poi chiuse la comunicazione. Fissò il paesaggio fuori dalla finestra e fece un respiro profondo. Non posso resistere, pensò Jane. I mostri mi stanno consumando... «Detective Rizzoli?» esclamò Canady. Lei si voltò. «Mi spiace. Devo tornare in città. Mi chiamerete non appena saprete qualcosa di Hoyt?» L'agente annuì e sorrise. «Non credo passerà molto tempo.» L'ultima persona con cui aveva voglia di parlare era Dean, ma, quando entrò nel parcheggio dell'istituto di medicina legale, lo vide scendere dall'auto. Jane parcheggiò rapidamente in uno spazio libero e spense il motore, pensando che se avesse atteso qualche minuto lui sarebbe entrato per primo nell'edificio, e lei avrebbe potuto evitare una conversazione superflua. Purtroppo, l'agente l'aveva già vista e si era fermato ad aspettarla nel parcheggio. Un ostacolo insormontabile. Non aveva altra scelta che affrontarlo. Jane scese dall'auto nella calura rovente e s'incamminò verso Dean, col passo di chi non ha tempo da perdere. «Non è più tornata alla riunione di questa mattina», osservò l'uomo. «Marquette mi ha convocato nel suo ufficio.»
«Me l'ha detto.» Jane si fermò a fissarlo. «Detto cosa?» «Che uno dei vostri vecchi delinquenti è fuori.» «Esatto.» «E che la cosa l'ha turbata.» «Anche questo gliel'ha riferito Marquette?» «No. Ma dato che non è tornata alla riunione, ho dedotto che fosse sconvolta.» «C'erano altre questioni che richiedevano la mia attenzione.» Jane s'incamminò verso l'edificio. «Lei è a capo di quest'indagine, detective Rizzoli», le gridò Gabriel Dean. Jane si arrestò e si voltò a guardarlo. «Perché sente il bisogno di ricordarmelo?» Lentamente, Dean avanzò verso di lei, finché non fu abbastanza vicino da intimorirla. E forse la sua intenzione era proprio quella. Si trovavano faccia a faccia e, anche se non si sarebbe mai spostata, Jane non poté evitare di arrossire al suo sguardo. Non era solo la sua superiorità fisica a metterla in soggezione, ma anche il fatto d'essersi improvvisamente resa conto che fosse un uomo desiderabile... una reazione contraddittoria, vista la sua rabbia. Tentò di non cedere all'attrazione, ma questa l'aveva già ghermita con i suoi artigli, e non riusciva a scrollarsela di dosso. «Questo caso richiederà la sua più completa attenzione», affermò. «Ascolti, capisco che sia sconvolta per la fuga di Warren Hoyt. Scuoterebbe qualsiasi poliziotto. Metterebbe a dura prova i nervi di...» «Lei non mi conosce. Non tenti di fare lo strizzacervelli.» «Mi domandavo solo se lei sia in grado di concentrarsi abbastanza da condurre le indagini. O se ci siano altre questioni che potrebbero interferire.» Jane riuscì a soffocare la rabbia e, con calma, chiese: «Sa quante persone ha ucciso Hoyt stamattina? Tre, agente Dean. Un uomo e due donne. Ha tagliato loro la gola, ed è sparito, come se niente fosse. Come riesce sempre a fare». Sollevò le mani e si fissò le cicatrici. «Questi sono piccoli souvenir che mi ha lasciato l'estate scorsa, poco prima che cercasse di tagliarmi la gola.» Lasciò cadere le mani e scoppiò a ridere. «Sì, certo, lei ha assolutamente ragione. Con lui ho una questione in sospeso.» «Ma ha anche un lavoro da svolgere. Qui, adesso.» «È quello che sto facendo.»
«Lei è distratta da Hoyt. Gli permette d'intralciarla.» «L'unica questione che continua a intralciarmi è lei. Non so nemmeno che cosa ci faccia qui.» «Cooperazione tra agenzie. Non è questa la linea da seguire?» «Sono l'unica che sta cooperando. Lei che cosa mi dà in cambio?» «Lei cosa si aspetta?» «Potrebbe iniziare col dirmi perché il Bureau sia coinvolto. Prima non si è mai intromesso nei miei casi. Che cos'hanno di diverso gli Yeager? Che cosa sapete su di loro che io non so?» «Ne sono informato quanto lei», ribatté Dean. Qual era la verità? Jane non lo sapeva. Non riusciva a decifrare quell'uomo. E ora l'attrazione sessuale aveva aggiunto confusione alla confusione, ingarbugliando qualsiasi comunicazione tra loro. Gabriel Dean guardò l'orologio. «Sono le tre passate. Ci stanno aspettando.» L'agente dell'FBI si avviò verso l'edificio, ma lei non lo seguì immediatamente. Per un attimo rimase sola nel parcheggio, agitata per le emozioni che Dean le aveva causato. Alla fine respirò profondamente ed entrò nell'obitorio, preparandosi a un'altra visita ai morti. Almeno quel cadavere non le diede il voltastomaco. Il secondo corpo ritrovato non emanava nemmeno lontanamente il fetore insopportabile che l'aveva fatta star male durante l'autopsia di Gail Yeager. Ciononostante, Korsak aveva preso le solite precauzioni e si era spalmato un po' di Vicks sotto il naso. Solo pochi brandelli di tessuto connettivale coriaceo aderivano ancora alle ossa e, per quanto l'odore non fosse di certo piacevole, perlomeno non costrinse la giovane donna a precipitarsi verso il lavandino. Jane era decisa a non ripetere la performance imbarazzante della sera precedente, soprattutto con Gabriel Dean di fronte, in grado di cogliere ogni contrazione del suo volto. Perciò mantenne un'espressione stoica mentre la dottoressa Isles e l'antropologo forense, il dottor Carlos Pepe, toglievano il sigillo alla scatola, ne estraevano i resti e li disponevano con cura sul tavolo settorio ricoperto da un lenzuolo. Un uomo di sessant'anni, una gobba da gnomo, il dottor Pepe sembrava eccitato come un bambino mentre sollevava il contenuto della scatola, osservando ogni pezzo quasi fosse d'oro. Se per Jane quello era solo un mucchio d'ossa sporche di terra, tutte uguali come i rami di un albero, il dottor Pepe vedeva radi, ulne e clavicole, che identificava con metodo e dispone-
va in posizione anatomica. Costole disarticolate e sterno emisero un rumore metallico a contatto col tavolo d'acciaio inossidabile. Le vertebre, due delle quali fuse chirurgicamente, formavano una catena nodosa nel centro del tavolo fino all'anello cavo del bacino, che ricordava una macabra corona reale. Le ossa delle braccia costituivano due arti lunghi ed esili, che terminavano con un mucchietto di quelli che sembravano sassolini infangati, ma che in realtà erano gli ossicini che conferiscono alle mani la loro miracolosa versatilità. La prima cosa che balzò all'occhio fu il segno di una vecchia ferita: alcuni chiodi chirurgici d'acciaio nel femore sinistro. Alla testa del tavolo il dottor Pepe appoggiò il cranio e una mandibola disarticolata. Tra le incrostazioni di terra scintillarono alcuni denti d'oro. Tutte le ossa erano ormai in posizione. Ma la scatola non era vuota. Il dottore la capovolse, lasciando cadere ciò che restava del contenuto su un vassoio coperto da un telo: una pioggia di terra, di foglie e ciocche arruffate di capelli castani. Puntò la lampada su quel cumulo e, con un paio di pinzette, cominciò a frugare nella terra. Pochi secondi più tardi trovò ciò che stava cercando: una specie di pepita scura, con la forma di un chicco di riso gigante. «Pupario», affermò. «Spesso scambiato per escrementi di ratti.» «È quello che avrei detto io», esclamò Korsak. «Cacca di topo.» «Ce n'è molta qui dentro. Bisogna solo sapere che cosa cercare.» Il dottor Pepe scovò altri chicchi neri e li ammucchiò da una parte. «Specie Calliphorida.» «Come?» chiese Korsak. «Mosche della carne», s'intromise Gabriel Dean. Il dottor Pepe annuì. «Questi sono gli involucri in cui si sviluppano le larve. Una specie di bozzoli. In pratica l'esoscheletro di larve di terzo stadio, dal quale emergono sotto forma di mosche adulte.» Quindi spostò la lente d'ingrandimento sui pupari. «Sono tutti sfarfallati.» «Che cosa significa?» chiese Jane. «Significa che sono vuoti. Le mosche sono nate.» «Qual è il tempo di sviluppo delle Calliphoridae in questa regione?» chiese Dean. «In questo periodo dell'anno trentacinque giorni circa. Ma notate come questi pupari differiscano per colore e stato di degradazione. Sono tutti della stessa specie, ma questo involucro è stato esposto più a lungo agli agenti atmosferici.»
«Due generazioni diverse», commentò la Isles. «Credo di sì. Sono curioso di sentire che cosa dirà l'entomologo.» «Se ogni generazione impiega trentacinque giorni a maturare», iniziò la Rizzoli, «significa che stiamo parlando di un'esposizione di una settantina di giorni? È questo il tempo per il quale la vittima è rimasta laggiù?» Il dottor Pepe guardò le ossa sul tavolo. «Ciò che vedo qui non è in accordo con un intervallo post mortem di due mesi estivi.» «Non può essere più specifico?» «Non con i resti scheletrici. Questo soggetto può essere rimasto nei boschi per due mesi. O forse sei.» Jane vide Korsak alzare gli occhi al cielo, fino allora poco impressionato dall'esperto di ossa. Ma il dottor Pepe aveva appena iniziato. Spostò la sua attenzione sui resti disposti sul tavolo. «Un unico soggetto, di sesso femminile», asserì, esaminando la disposizione delle ossa. «Piuttosto piccolo... non più di un metro e cinquantacinque. Ci sono segni evidenti di fratture consolidate. Abbiamo una vecchia frattura femorale comminuta, trattata con una vite chirurgica.» «Sembra un chiodo tipo Steinman», osservò Maura Isles, indicando il tratto lombare della colonna. «E le è stata praticata una fusione chirurgica di L-2 e L-3.» «Lesioni multiple?» chiese Jane. «Questa donna è stata vittima di un evento traumatico significativo.» Il dottor Pepe continuò il suo inventario. «Mancano due costole sinistre e...» Rovistò fra le minuscole ossa della mano. «tre carpali e gran parte delle falangi della mano sinistra. Qualche animale si è concesso uno spuntino, direi.» «Un sandwich di mano», esclamò Korsak. Nessuno rise. «Le ossa lunghe sono tutte presenti. E anche le vertebre...» S'interruppe e osservò accigliato le ossa del collo. «Non c'è lo ioide.» «Non siamo riusciti a trovarlo», rispose la Isles. «Avete setacciato la zona?» «Sì. Sono tornata io stessa sul posto per cercarlo.» «Potrebbe esserselo portato via qualche predatore», concluse Pepe. Poi sollevò una scapola. «Vede questi fori a forma di V? Sono segni di denti carnassiali.» Sollevò lo sguardo. «La testa è stata trovata staccata dal corpo?» «A circa mezzo metro dal torso», rispose la Rizzoli.
Il dottor Pepe annuì. «Tipico dei cani. Per loro una testa è come una grossa palla. Una cosa con cui giocare. La fanno rotolare in giro, ma non riescono ad addentarla bene, come potrebbero fare con un braccio o con la gola.» «Aspetti», esclamò Korsak. «Stiamo parlando di Fido e Bobi?» «I canidi, selvatici o domestici, si comportano in modo simile. Anche ai coyote e ai lupi piace giocare con la palla, proprio come a Fido e a Bobi. Dal momento che i resti sono stati ritrovati in un parco periferico, circondato da quartieri residenziali, quasi sicuramente i suoi boschi sono frequentati da cani domestici. E, come tutti i canidi, per istinto cercano cibo, rosicchiano qualsiasi cosa riescano ad addentare. I margini dell'osso sacro, i processi spinosi. Le costole e le creste iliache. E, naturalmente, strappano i tessuti molli residui.» Korsak aveva l'aria sconvolta. «Mia moglie ha un piccolo Highland terrier. Non gli permetterò mai più di leccarmi la faccia.» Pepe afferrò il cranio e lanciò alla Isles un'occhiata maliziosa. «Giochiamo un po' a 'vediamo-se-lo-sa', dottoressa Isles. Che mi dice di questo?» «A vediamo-se-lo-sa?» chiese Korsak. «Sì, come alla facoltà di medicina», rispose Maura. «Giocare a vediamose-lo-sa significa verificare le conoscenze di qualcuno. Metterlo sotto torchio.» «Cosa che sono certo lei faceva con i suoi studenti di patologia alla UC», esclamò Pepe. «Spietatamente», ammise la dottoressa Isles. «Quando li guardavo, si facevano piccoli piccoli. Sapevano che stavo per fare una domanda difficile.» «Ora sono io a interrogare lei», affermò l'antropologo, con una vena d'allegria. «Ci racconti qualcosa di questo soggetto.» La dottoressa si concentrò sui resti. «Gli incisivi, la forma del palato e la lunghezza cranica sono compatibili con quelli della razza bianca. Il cranio è piuttosto piccolo, con creste sopraorbitarie molto ridotte. Poi c'è la pelvi. La forma dell'apertura, l'angolo soprapubico. Si tratta di un individuo di sesso femminile.» «L'età?» «Si nota una fusione epifisaria incompleta della cresta iliaca. Assenza di alterazioni artritiche del rachide. Una giovane donna.» «Concordo.» Il dottor Pepe sollevò la mandibola. «Tre corone d'oro»,
osservò. «E presenta ricostruzioni estese in amalgama. Avete fatto le radiografie?» «Le ha fatte Yoshima stamattina. Sono sulla lavagna luminosa», rispose la dottoressa Isles. Pepe si avvicinò per esaminarle. «Le hanno praticato due terapie canalari», esclamò indicando la lastra della mandibola. «Sembrano otturazioni con guttaperca. E guardate qui. Vedete come le radici da sette a dieci e da ventidue a ventisette sono corte e smussate? C'è stato un movimento ortodontico.» «Quello, non l'avevo notato», mormorò Maura Isles. Pepe sorrise. «Sono lieto di avere ancora qualcosa da insegnarle. Stavo cominciando a sentirmi un po' inutile.» «Dunque, stiamo parlando di una persona in grado di pagarsi interventi odontoiatrici», intervenne ancora Dean. «Interventi odontoiatrici molto costosi», precisò Pepe. Jane pensò a Gail Yeager e alla sua dentatura perfetta. Molto tempo dopo che il cuore cessa di battere, e che la carne si è decomposta, le condizioni dei denti distinguono i ricchi dai poveri. Chi fatica a pagare l'affitto, solitamente trascura un molare dolente. Le caratteristiche di quella vittima cominciavano a suonarle familiari. Donna giovane. Bianca. Benestante. Pepe ripose la mandibola e si concentrò sul torso. Per un momento studiò la cassa toracica e lo sterno infossati. Sollevò una costola disarticolata, la inarcò verso lo sterno e studiò l'angolo formato dalle due ossa. «Torace a imbuto», affermò. Per la prima volta la Isles parve costernata. «Mi era sfuggito.» «E che mi dice delle tibie?» Subito la dottoressa si spostò ai piedi del tavolo e prese in mano un osso lungo. Lo fissò e si accigliò ancora di più. Poi sollevò l'osso corrispondente dell'altra gamba e li mise l'uno accanto all'altro. «Ginocchio varo bilaterale», affermò, in un tono che esternava tutto il suo sbigottimento. «Forse di quindici gradi. Non so come abbia fatto a non vederlo.» «Si è concentrata sulla frattura. La prima cosa che salta all'occhio è il chiodo chirurgico. E questa non è una condizione che si veda ormai molto spesso. Ci vuole un vecchio come me per riconoscerla.» «Non è una scusa. Avrei dovuto notarlo immediatamente.» La Isles rimase in silenzio per un istante, spostando lo sguardo infastidito dalle ossa della gamba a quelle del torace. «Non ha senso. Non è in accordo con le te-
rapie odontoiatriche. È come se stessimo trattando due soggetti diversi.» «Vi spiace dirci di che cosa state parlando? Che cosa non ha senso?» li interruppe Korsak. «Il soggetto presenta una condizione nota come ginocchio varo», spiegò Pepe, «comunemente chiamata 'gambe storte'. Le sue tibie evidenziano una curva di circa quindici gradi rispetto all'asse verticale. Ossia due volte la curvatura tibiale normale.» «E allora perché siete tutti tanto eccitati? Un sacco di gente ha le gambe storte.» «Non sono solo le gambe arcuate», ribatté Maura Isles. «C'è anche il petto. Osservi l'angolo formato dalle costole con lo sterno. Presenta il cosiddetto 'torace a imbuto'. Ossa e formazioni cartilaginee anormali hanno fatto sì che lo sterno s'infossasse. In casi gravi può causare affanno, disturbi cardiaci. In questo caso era di media entità e probabilmente non le procurava sintomi. Quasi certamente la condizione era più che altro un problema estetico.» «Ed è dovuto alla formazione anomala delle ossa?» chiese Jane. «Sì, a un difetto del metabolismo osseo.» «Di che tipo di malattia stiamo parlando?» La Isles esitò e guardò il dottor Pepe. «È di bassa statura.» «Qual è la valutazione Trotter-Gleiser?» La dottoressa prese un metro e misurò rapidamente femore e tibia. «Oserei dire un metro e cinquantacinque. Con uno scarto di più o meno tre centimetri.» «Dunque abbiamo un torace a imbuto, ginocchia vare e bassa statura.» L'antropologo annuì. «Molto suggestivo.» La dottoressa Isles guardò Jane. «Da piccola ha sofferto di rachitismo.» «Rachitismo», quasi una parola d'altri tempi, che nella mente di Jane evocava visioni di bambini scalzi in baracche fatiscenti, di neonati in lacrime e di estrema povertà. Un'era diversa, color seppia. Il rachitismo non era una malattia da cui si potesse pensare fosse affetta una donna con tre corone d'oro e un trattamento ortodontico alle spalle. Anche Gabriel Dean aveva preso atto dell'ovvia contraddizione. «Credevo che il rachitismo fosse causato dalla malnutrizione», asserì. «Sì», rispose la Isles. «Da carenza di vitamina D. Gran parte dei bambini ricevono un apporto adeguato di tale vitamina attraverso il latte o la luce del sole, ma se il bambino è malnutrito, e tenuto in casa, soffrirà di una carenza di vitamina D. Il che influisce sul metabolismo del calcio e sullo svi-
luppo osseo.» Poi rimase un istante in silenzio. «In effetti, non avevo mai visto un caso simile.» «Un giorno venga con me sul sito di uno scavo», esclamò il dottor Pepe. «Le mostrerò numerosi casi del secolo scorso. Scandinavia, Russia settentrionale...» «Ma oggi? Negli Stati Uniti?» chiese Dean. Pepe scosse il capo. «È molto insolito. A giudicare dalle deformità ossee, e dalla statura bassa, oserei dire che il soggetto abbia vissuto in circostanze di povertà. Almeno durante l'adolescenza.» «Tutto ciò non è congruente col trattamento ortodontico.» «No. Per questo la dottoressa Isles ha affermato che sembra di avere a che fare con due persone diverse.» La bambina e l'adulta, pensò la Rizzoli. Ricordò la sua infanzia a Revere, la famiglia stipata in una casa d'affitto, piccola e calda, un luogo tanto angusto che per godersi un po' di privacy doveva gattonare nel suo spazio segreto sotto la veranda. Ricordava il breve periodo seguito al licenziamento del padre, il bisbigliare preoccupato nella stanza dei genitori, le zuppe di mais in scatola e il purè di patate istantaneo. Ma il periodo di magra non era durato a lungo; dopo un anno suo padre era tornato al lavoro e sulla tavola era ricomparsa la carne. La povertà, tuttavia, lascia sempre il segno, nella mente se non nel corpo, e i tre fratelli Rizzoli avevano scelto professioni dal reddito sicuro, anche se non eccezionale: Jane nella polizia, Frankie nei marine, e Mikey alle poste, per tentare di sfuggire alle incertezze dell'infanzia. Jane guardò lo scheletro sul tavolo ed esclamò: «Dalle stalle alle stelle. Talvolta accade». «Come nei romanzi di Dickens», affermò Dean. «Oh, sì», rispose Korsak. «Tiny Tim.» Maura Isles annuì. «Tiny Tim soffriva di rachitismo.» «E poi visse felice e contento, perché il vecchio Scrooge probabilmente gli lasciò un sacco di soldi», mormorò Korsak. Ma tu non sei vissuta felice e contenta, pensò Jane, guardando i resti della vittima. Non erano più un triste mucchio d'ossa, ma una donna la cui vita cominciava a prendere forma nella mente di Jane. Vedeva una bambina con le gambe storte e il petto infossato, che cresceva rachitica nello squallore della miseria. Vedeva quella bambina diventare adolescente, con indosso camicie dai bottoni spaiati, la stoffa logora, quasi trasparente. C'era forse qualcosa di diverso in quella ragazza, qualcosa di speciale? Uno
sguardo di determinazione negli occhi, un'inclinazione della mandibola che preannunciassero l'avvento di una vita migliore di quella toccatale alla nascita? Perché la donna in cui si era trasformata viveva in un mondo diverso, in cui con i soldi si compravano denti diritti e corone d'oro. La fortuna o il duro lavoro, o forse le attenzioni dell'uomo giusto, le avevano permesso di accedere a un'esistenza più confortevole. Ma la povertà della sua infanzia le era rimasta impressa nelle ossa, nella curvatura delle gambe e nel petto. C'erano anche segni di dolore, un evento catastrofico le aveva fratturato la gamba sinistra e la colonna vertebrale, lasciandola con due vertebre fuse e una barra d'acciaio incastonata per sempre nel femore. «A giudicare dagli estesi restauri dentali e considerando il suo probabile status socioeconomico, è una donna la cui scomparsa sarebbe stata notata», affermò la dottoressa Isles. «È morta da almeno due mesi. È possibile che sia stata inserita nel database dell'NCIC.» «Già, lei e centomila altre persone», ribatté Korsak. Il National Crime Information Center, centro informazioni dell'FBI, gestiva un file di persone scomparse, i cui dati potevano essere incrociati con quelli di eventuali resti non identificati per ottenere un elenco di possibili corrispondenze. «Non abbiamo nulla a livello locale?» chiese Pepe. «Nessun caso irrisolto di persone scomparse che potrebbe corrispondere?» La Rizzoli scosse il capo. «Non nello Stato del Massachusetts.» Esausta com'era quella notte, non riuscì a prendere sonno. Si alzò dal letto una prima volta per controllare nuovamente i lucchetti della porta e il gancio della finestra che dava sulla scala antincendio. Poi, un'ora più tardi, udì un rumore e immaginò che Warren Hoyt stesse percorrendo il corridoio verso la sua stanza con un bisturi in mano. Allora afferrò la pistola dal comodino e s'acquattò nell'oscurità. Madida di sudore, attese, con l'arma puntata, che l'ombra si materializzasse sulla soglia. Ma non vide nulla, e non udì più nulla, eccetto il martellio del suo cuore e le vibrazioni provenienti dall'autoradio di una macchina di passaggio nella strada sottostante. Alla fine si decise a raggiungere il corridoio e ad accendere le luci. Nessun intruso. Andò in sala e accese un'altra lampada. Con un'occhiata rapida vide che la catena della porta era ancora al suo posto e che il gancio della finestra
sulla scala antincendio non era stato spostato. Rimase a fissare la stanza, che era esattamente come l'aveva lasciata, e pensò: Sto diventando pazza. Al che si lasciò sprofondare sul divano, depose la pistola, e si prese la testa fra le mani, desiderosa di spremere dal suo cervello tutti i pensieri riguardanti Warren Hoyt. Ma lui era sempre là, come un tumore che non poteva essere estirpato e che generava metastasi in ogni momento della sua vita cosciente. Quand'era a letto non pensava a Gail Yeager o alla donna senza nome di cui avevano appena esaminato le ossa. Né all'uomo Aeroplano, il cui fascicolo giaceva sulla scrivania dell'ufficio, sotto ai suoi occhi, come una sorta di rimprovero silenzioso per la mancata attenzione. Erano tanti i nomi e i rapporti che richiedevano il suo intervento, ma quando la sera si coricava e fissava l'oscurità, vedeva solo il volto di Warren Hoyt. Il telefono squillò. Jane si rizzò di scatto, il cuore martellante nel petto. Fece un paio di respiri profondi per calmarsi a sufficienza da poter sollevare il ricevitore. «Rizzoli?» esclamò Thomas Moore. Era una voce che non s'aspettava di udire, e fu presa alla sprovvista da un improvviso sentimento di nostalgia. Solo un anno prima lei e Moore avevano lavorato insieme durante le indagini sul Chirurgo. Anche se la loro relazione non si era mai spinta oltre la semplice amicizia, avevano posto la vita l'uno nelle mani dell'altra, e in un certo senso quel legame d'intimità era profondo come un matrimonio. Udire la sua voce le ricordò quanto sentisse la sua mancanza. E quanto ancora le bruciasse il fatto che si fosse sposato con Catherine. «Ehi, Moore», lo salutò Jane, una risposta noncurante, che non rivelava le sue emozioni. «Che ore sono laggiù?» «Sono quasi le cinque. Mi spiace disturbarti a quest'ora. Ma non volevo che Catherine sentisse.» «Non preoccuparti, sono ancora sveglia.» Un istante di silenzio. «Anche tu hai problemi di sonno.» Non era una domanda, ma un'affermazione. Moore sapeva che lo stesso fantasma perseguitava entrambi. «Marquette ti ha chiamato?» gli chiese la Rizzoli. «Sì. Speravo che ormai...» «Ancora niente. Sono trascorse quasi ventiquattro ore, e non c'è ancora stato un dannato avvistamento.» «Dunque la pista si è raffreddata.» «Non c'è mai stata alcuna pista. Uccide tre persone in sala operatoria, si trasforma nell'uomo invisibile ed esce dall'ospedale. La polizia di Fi-
tchburg e la polizia di Stato hanno setacciato l'intero quartiere e allestito posti di blocco. La sua faccia è su tutti i notiziari serali. Niente.» «C'è un luogo dal quale potrebbe essere attratto. Una persona...» «Il tuo palazzo è già stato messo sotto controllo. Non appena si avvicina, lo acciuffiamo.» Trascorse un lungo istante di silenzio. Poi Moore affermò con un filo di voce: «Non posso portarla a casa. La tengo qui, dove so che è al sicuro». Jane captò una nota di paura nella sua voce, non per sé, ma per la moglie e si domandò, con un pizzico d'invidia, che cosa si provasse a essere oggetto di un amore tanto profondo. «Catherine sa che è fuggito?» gli chiese. «Sì. Ho dovuto dirglielo.» «Come l'ha presa?» «Meglio di me. Semmai è lei che tenta di tranquillizzare me.» «Ha già affrontato il peggio, Moore. L'ha sconfitto due volte. Ha dimostrato di essere più forte di lui.» «Lei crede di esserlo. Ed è qui che la cosa si fa pericolosa.» «Be', lei ha te.» lo invece sono sola. Come al solito, e come forse sempre sarà. Moore doveva aver colto la nota di stanchezza nella voce di Jane, perché affermò: «Dev'essere dura anche per te». «Io sto bene.» «Allora la stai prendendo meglio di me.» Jane rise, un suono stridulo, tutt'altro che spontaneo. «Come se avessi tempo di preoccuparmi per Hoyt. Sto guidando il gregge in una nuova indagine. Abbiamo trovato un corpo nella riserva di Stony Brook.» «Quante vittime?» «Due donne, più un uomo ucciso durante il sequestro. È un altro brutto caso, Moore. È sempre così quando Zucker dà un nome all'assassino. Questo, lo chiamiamo 'il Dominatore'.» «Perché?» «Perché il dominio, a quanto pare, gli dà piacere. Il fremito del potere. Il controllo assoluto del marito. I mostri, e tutti i loro schifosi riti.» «Sembra una replica dell'estate scorsa.» Solo che questa volta non sei qui a guardarmi le spalle. Hai altre priorità. «Progressi?» le domandò. «Lenti. Sono coinvolte più giurisdizioni, più giocatori. Il Dipartimento di polizia di Newton ci sta lavorando e, senti questa, si è fatto vivo anche il
fottuto Bureau.» «Che cosa?» «Già. Un federale di nome Gabriel Dean. Dice che fa da consulente, ma s'infiltra dappertutto. Ti è mai successo prima?» «Mai.» Una pausa. «Qualcosa non quadra, Rizzoli.» «Lo so.» «Che cosa dice Marquette?» «Ha capitolato e fa finta di nulla, perché l'OPC ci ha ordinato di cooperare.» «Qual è la versione di Dean?» «È molto reticente. Sai, del tipo 'se te lo dico, poi ti devo uccidere'.» Jane rimase un attimo in silenzio, ripensando allo sguardo di Dean, agli occhi penetranti come due pugnali di ghiaccio azzurro. Sì, riusciva a immaginarselo mentre premeva un grilletto senza nemmeno battere ciglio. «In ogni caso», continuò, «Warren Hoyt non è al momento la mia preoccupazione principale.» «Ma per me è così», replicò Moore. «Se ho qualche notizia, sarai il primo che chiamerò.» Jane riagganciò e, nel silenzio, la spacconeria mostrata al telefono col collega svanì all'istante. Ancora una volta si ritrovava sola con le sue paure, seduta in un appartamento con la porta sbarrata e le finestre chiuse, e soltanto una pistola a tenerle compagnia. Forse sei la mia migliore amica, pensò. E, raccolta l'arma, la riportò in camera da letto. 9 «Stamattina l'agente Dean è venuto a parlarmi», esordì il tenente Marquette. «Ha qualche perplessità su di lei.» «La cosa è reciproca», ribatté la detective Rizzoli. «Non sta mettendo in dubbio le sue capacità. È convinto che lei sia un ottimo poliziotto.» «Ma?» «Si domanda se sia il detective giusto per condurre quest'indagine.» Per un attimo Jane rimase in silenzio, tranquillamente seduta con lo sguardo fisso sulla scrivania di Marquette. Quand'era stata chiamata nel suo ufficio quel mattino, subodorava già l'argomento del colloquio, ed era entrata là dentro decisa a mantenere un ferreo controllo sulle sue emozioni,
a non offrirgli alcuna dimostrazione di ciò che lui si aspettava: un segno che avesse superato il limite, e che dovesse essere sostituita. Quando parlò, la sua voce suonò calma ed equilibrata. «Che cosa lo preoccupa?» «Che abbia perso la sua lucidità. Che abbia problemi irrisolti dovuti a Warren Hoyt. Che non si sia ripresa completamente dall'indagine del Chirurgo.» «Che intende con 'non ripresa'?» chiese Jane, pur sapendo già con esattezza che cosa volesse dire. Marquette esitò. «Gesù, Rizzoli. Non è facile parlarne. Lei lo sa bene.» «Vorrei solo che me lo dicesse senza giri di parole.» «Dean pensa che lei sia instabile, d'accordo?» «E lei cosa pensa, tenente?» «Io credo che abbia un gran peso addosso, e che la fuga di Hoyt sia stata un colpo tremendo.» «Mi giudica instabile?» «Anche il dottor Zucker ha espresso qualche timore. L'autunno scorso non ha mai chiesto assistenza.» «Non mi è mai stato ordinato di farlo.» «Con lei funziona solo così? Bisogna ordinarle tutto?» «Non ne sentivo la necessità.» «Zucker ritiene che non abbia ancora superato il trauma del Chirurgo. Afferma che vede Warren Hoyt dietro ogni angolo. Come fa a condurre quest'indagine se rivive quella dell'estate scorsa?» «Vorrei sentirlo da lei, tenente. Personalmente, mi giudica instabile?» Marquette sospirò. «Non lo so. Ma se l'agente Dean viene qui a espormi le sue perplessità, devo tenerne conto.» «Non credo che l'agente Dean sia una fonte del tutto affidabile.» Il tenente rimase un istante in silenzio. Poi si protese verso di lei con espressione corrucciata. «Questa è un'accusa grave.» «Non più grave di quella che lui ha mosso contro di me.» «Su che cosa si basa la sua affermazione?» «Stamattina ho chiamato l'ufficio dell'FBI a Boston.» «E allora?» «Non sanno nulla dell'agente Gabriel Dean.» Marquette si appoggiò allo schienale e la fissò per un istante, in silenzio. «È arrivato qui direttamente da Washington», continuò Jane. «L'ufficio di Boston non ha niente a che fare con lui. Non è così che dovrebbe anda-
re. Se chiediamo un profilo criminale, la questione passa per il coordinatore della loro sezione di zona. In questo caso non è avvenuto. Tutto è partito direttamente da Washington. E poi perché l'FBI s'intromette nel mio caso? Che cosa c'entra Washington?» Marquette non rispose. Sentendo aumentare la frustrazione e vacillare l'autocontrollo, Jane Rizzoli non mollò la presa. «Lei mi ha detto che l'ordine di cooperare veniva dal comandante della polizia.» «Certo.» «Chi dell'FBI si è rivolto all'OPC? Con che organismo del Bureau abbiamo a che fare?» Marquette scosse il capo. «Non si tratta del Bureau.» «Cosa?» «La richiesta non è venuta dall'FBI. Ho parlato con l'OPC la settimana scorsa, il giorno che Dean si è fatto vivo. Ho fatto loro la stessa domanda.» «E che cosa ha ottenuto?» «Ho promesso che avrei considerato l'informazione strettamente confidenziale. Mi aspetto la stessa cosa da lei.» Solo dopo che Jane ebbe fatto un cenno d'assenso con la testa, il tenente continuò. «La richiesta è giunta dall'ufficio del senatore Conway.» La Rizzoli lo fissò sconcertata. «Che diavolo c'entra il senatore in tutto questo?» «Non lo so.» «L'OPC non glielo ha detto?» «Forse non lo sanno nemmeno loro. Ma è una richiesta che non rifiuterebbero mai, non se viene direttamente da Conway. E non ha chiesto la luna: solo una cooperazione tra agenzie. Lo facciamo abitualmente.» Jane si protese e affermò con calma: «C'è qualcosa sotto, tenente. Lo sento. Dean non è stato franco con noi». «Non l'ho convocata qui per parlare di Dean. Stiamo parlando di lei.» «Ma lei si fida della sua parola. Adesso l'FBI si mette a dettare ordini al Dipartimento di polizia di Boston?» Quelle parole sembrarono cogliere Marquette alla sprovvista. L'uomo si raddrizzò improvvisamente e la fissò dall'altro lato della scrivania. Jane lo aveva punto sul vivo. Il Bureau contro il nostro Dipartimento. È davvero lei che comanda? «Va bene», rispose. «Abbiamo parlato, lei ha ascoltato. Per me può bastare.»
«Per me anche.» Dopodiché Jane si alzò dalla sedia. «Ma la terrò d'occhio, Rizzoli.» Lei annuì. «Non è quel che fa sempre?» «Ho trovato qualche fibra interessante», esclamò Erin Volchko. «Sono state prelevate col nastro adesivo dalla pelle di Gail Yeager.» «Ancora fibre blu di moquette?» chiese Jane. «No. Per essere onesti, non so esattamente di che cosa si tratti.» Erin non ammetteva spesso d'essere perplessa, il che bastò a suscitare l'interesse della Rizzoli per il vetrino posto sotto il microscopio. Attraverso la lente si vedeva un singolo filamento scuro. «Stiamo osservando una fibra sintetica, di un colore che definirei grigioverde. Se ci basiamo sugli indici di rifrazione, direi che siamo in presenza del nostro vecchio nylon Dupont, tipo 6,6.» «Proprio come le fibre di moquette blu.» «Esatto. Il nylon 6,6 è una fibra molto diffusa a causa della sua robustezza e della sua resilienza. E lo si trova in una gran varietà di tessuti.» «Hai detto che è stato prelevato dalla pelle della Yeager?» «Le fibre erano appiccicate ai fianchi, al seno e a una spalla.» Jane si accigliò. «Un lenzuolo? Qualcosa che ha usato per avvolgere il corpo?» «Sì, ma non un lenzuolo. Il nylon non è adatto per quest'uso perché assorbe poco l'umidità. Inoltre, i fili sono composti da filamenti molto sottili, da trenta denari; ce ne sono dieci in ognuno. E il filo è più sottile di un capello umano. Questo tipo di fibra darebbe un prodotto finito a trama molto fitta. Forse impermeabile.» «Una tenda? Una tela cerata?» «Forse. Sono tessuti che si potrebbero utilizzare per avvolgere un cadavere.» In quel momento Jane ebbe una strana visione delle cerate che aveva notato nella vetrina di Wal-Mart, con gli usi suggeriti dal produttore stampati sull'etichetta: PERFETTE PER IL CAMPEGGIO, L'IMPERMEABILIZZAZIONE, E PER AVVOLGERE CADAVERI. «Se si tratta di una cerata, abbiamo a che fare con un tessuto piuttosto generico», asserì Jane. «Suvvia, detective. Ti farei venire fin quaggiù per mostrarti una fibra generica?» «Non lo è?»
«In realtà è molto interessante.» «Che cosa c'è d'interessante in una cerata di nylon?» Erin prese una cartellina dal bancone del laboratorio e ne estrasse un grafico elaborato al computer, sul quale si scorgeva una linea simile al tracciato di un elettrocardiogramma. «Ho sottoposto le fibre ad analisi ATR. Questo è il risultato.» «ATR?» «Attenuated Total Reflection, riflessione totale attenuata. È una tecnica che si avvale della microspettroscopia a infrarossi per esaminare singole fibre. La fibra viene irradiata con gli infrarossi e noi leggiamo gli spettri della luce riflessa. Questo grafico mostra le caratteristiche IR della fibra stessa. E conferma semplicemente che si tratta di nylon 6,6, come ti ho detto prima.» «Nessuna sorpresa.» «Non ancora», ribatté Erin con un sorriso malizioso sulle labbra. Prese un secondo grafico dal fascicolo e lo appoggiò accanto al primo. «Qui vediamo il tracciato IR della stessa identica fibra. Noti nulla?» Jane spostò lo sguardo da un foglio all'altro. «Sono diversi.» «Sì, lo sono.» «Ma riguardano la stessa fibra, perciò dovrebbero essere identici.» «Per il secondo grafico ho alterato il piano dell'immagine. Questo ATR è il riflesso dalla superficie della fibra. Non del nucleo.» «Dunque superficie e nucleo sono diversi.» «Esatto.» «Due fibre diverse attorcigliate insieme?» «No. È una fibra unica. Ma il tessuto è stato trattato in superficie. La seconda analisi ATR ha rivelato le sostanze chimiche della superficie. Poi ho effettuato l'analisi cromatografica, e sembra trattarsi di una sostanza a base di silicone. Dopo che le fibre sono state intrecciate e tinte, al tessuto finito hanno applicato una gomma siliconica.» «Perché?» «Non ne sono sicura. Forse per aumentare l'impermeabilizzazione o la resistenza allo strappo? Dev'essere un processo costoso. Credo che questo tessuto abbia un utilizzo molto specifico. Solo che non ho idea di quale sia.» La Rizzoli si raddrizzò sullo sgabello. «Trova questo tessuto», affermò, «e noi troveremo il nostro uomo.» «Sì. A differenza della moquette blu, molto diffusa, questo tessuto è uni-
co.» Gli asciugamani col monogramma erano stesi sul tavolino affinché tutti gli invitati li potessero ammirare, ognuno con le iniziali AR, Angela Rizzoli, ricamate in stile barocco. Jane aveva scelto il color pesca, il preferito di sua madre, e aveva pagato un sovrapprezzo per la confezione regalo per compleanni, adorna di nastri color albicocca e di un bouquet di fiorellini di seta. Era stata inviata con la Federal Express, perché la madre era solita associare i camioncini rossi, bianchi e blu con i pacchi regalo e i lieti eventi. E il cinquantanovesimo compleanno di Angela Rizzoli avrebbe dovuto essere un lieto evento. In famiglia i compleanni erano sempre un giorno importante. Ogni dicembre, non appena comperato il calendario per l'anno nuovo, Angela sfogliava le pagine dei mesi e segnava le date di nascita di tutti i membri della famiglia. Dimenticarsi di un tale giorno era una colpa grave. Dimenticarsi del compleanno della mamma era addirittura imperdonabile, e Jane si guardava bene dal non celebrarlo. Aveva comprato il gelato e i festoni e spedito gli inviti a una dozzina di vicini, che ora si trovavano radunati in salotto. In quel momento era impegnata a tagliare la torta e a passare le fette agli ospiti sui piatti di carta. Come sempre, aveva fatto il suo dovere ma quest'anno la festa non era riuscita. E tutto a causa di Frankie. «C'è qualcosa che non va», affermò Angela. Era seduta sul divano accanto al marito e al figlio minore, Michael, e fissava senza gioia i regali disposti sul tavolino... perle d'olio da bagno e talco sufficienti a profumarla per almeno dieci anni. «Forse è malato. Magari c'è stato un incidente e nessuno mi ha ancora chiamato.» «Mamma, Frankie sta bene», ribatté Jane. «Già», intervenne Michael. «Magari l'hanno mandato a fare... come si chiamano? Quando giocano alla guerra?» «Manovre», rispose Jane. «Sì, qualche tipo di manovra. O magari è all'estero. In qualche luogo che non ci può svelare, dove manca il telefono.» «È un sergente istruttore, Mike. Non è Rambo.» «Persino Rambo manda a sua madre una cartolina d'auguri», sbottò Frank senior. Nel silenzio improvviso, tutti gli ospiti abbassarono la testa e addentarono simultaneamente la torta, impiegando gli istanti successivi a masticarla con grande concentrazione.
Fu Gracie Kaminsky, la vicina della porta accanto, a rompere coraggiosamente il silenzio. «Questa torta è veramente deliziosa, Angela! Chi l'ha fatta?» «Io», rispose lei. «Pensa che mi sono dovuta preparare da sola la torta di compleanno. Ma è così che va in questa famiglia.» Jane arrossì come se avesse ricevuto uno schiaffo. Era tutta colpa di Frankie. Angela in realtà era furiosa con lui ma, come sempre, toccava a lei sorbirsi le lamentele. «Io mi ero offerta di portare la torta, mamma», esclamò in tono calmo, misurato. Angela scrollò le spalle. «Di pasticceria.» «Non avevo tempo per farne una.» Era la verità, ma anche la cosa più sbagliata da dire in quel momento e Jane se ne rese conto non appena ebbe pronunciato quelle parole. Vide il fratello Mike farsi piccolo sul divano e il padre arrossire e stringersi le braccia attorno al corpo. «Non avevi tempo», sbottò Angela. Jane emise una risata disperata. «In ogni caso le mie torte fanno sempre schifo.» «Non avevi tempo», ripete Angela. «Mamma, vuoi un po' di gelato? Che ne dici...» «Dal momento che sei così occupata, immagino che dovrei inginocchiarmi e ringraziarti per essere riuscita a venire al compleanno della tua unica madre.» Jane non rispose, immobile, il volto arrossato, cercando di reprimere le lacrime. Gli ospiti ripresero a divorare freneticamente la torta, senza osare guardare in faccia nessuno. Il telefono squillò. Tutti rimasero impietriti. Finalmente Frank senior si decise a rispondere. «Tua madre è qui accanto a me», esclamò e porse il cordless ad Angela. Gesù, Frankie, perché ci hai messo tanto? Con un sospiro di sollievo, Jane cominciò a raccogliere i piatti sporchi e le forchette di plastica usate. «Quale regalo?» gli chiese la madre. «Non l'ho ricevuto.» Jane fece una smorfia. Oh, no, Frankie. Non provare a dare la colpa a me. Nell'istante successivo tutta la rabbia scomparve magicamente dalla voce della donna. «Oh, Frankie, capisco, tesoro. Sì, davvero. I marine ti fanno sgobbare, vero?» Scuotendo il capo, Jane si stava dirigendo in cucina quando la mamma
le gridò: «Vuole parlare con te». «Con me?» «Così ha detto.» Jane prese il ricevitore. «Ehi, Frankie», salutò. «Che cazzo combini, Janie?» sbottò il fratello. «Cosa?» «Sai benissimo di che parlo.» Jane uscì subito dalla stanza, portando il telefono in cucina e lasciando che la porta si richiudesse alle sue spalle. «Ti ho chiesto solo un fottuto favore», continuò. «Parli del regalo?» «Chiamo per farle gli auguri e lei mi aggredisce.» «Te lo saresti dovuto aspettare.» «Scommetto che ci godi, non è vero?, che mi metta sul libro nero.» «Hai fatto tutto da solo. E sembra anche che tu sia stato già cancellato da quel libro.» «Questo ti fa incazzare, vero?» «Non me ne frega niente, Frankie. È una cosa fra te e la mamma.» «Sì, ma tu sei sempre in mezzo, a tramare alle mie spalle. A fare di tutto per mettermi in cattiva luce. Ti costava tanto aggiungere il mio fottuto nome su quel fottuto regalo?» «Il mio regalo era già stato spedito.» «E suppongo che fosse un grave disturbo comprarle qualcosina a nome mio?» «Esatto. Non sto qui a pulirti il culo. Lavoro diciotto ore al giorno.» «Oh, sì. Continui a ripeterlo. 'Povera me, lavoro così tanto che riesco a dormire solo quindici minuti per notte.'» «A proposito, non mi hai ancora pagato l'ultimo regalo.» «Sì che l'ho fatto.» «Invece no.» E mi fa ancora incazzare che la mamma ne parli tuttora come di «quella graziosa lampada che mi ha regalato Frankie». «Allora è tutta una questione di soldi, vero?» esclamò il fratello. In quell'istante il cercapersone di Jane suonò e vibrò a contatto con la sua cintura. Lei guardò il numero. «Non me ne frega niente dei soldi. È il modo in cui riesci sempre a farla franca in tutto. Non ti sforzi neanche ma, in una maniera o nell'altra, ottieni sempre tutto il merito.» «Ancora con la storia della povera, piccola vittima?» «Devo riattaccare, Frankie.»
«Ripassami la mamma.» «Prima devo rispondere al cercapersone. Richiama fra un minuto.» «Che diavolo? Non ho intenzione di rifare un'altra interurbana...» Jane riagganciò. Rimase un momento immobile per ritrovare la calma, poi compose il numero apparso sul display del cercapersone. Rispose Darren Crowe. Non era dell'umore adatto per parlare con un altro uomo sgradevole, e rispose con voce stizzita: «Rizzoli. Mi hai cercato». «Gesù, se hai le tue cose perché non provi con un po' di Midol?» «Vuoi dirmi che succede?» «Sì, abbiamo un dieci cinquantaquattro. Un cadavere a Beacon Hill. Io e Sleeper siamo arrivati circa mezz'ora fa.» Jane udì delle risate in soggiorno e guardò verso la porta. Pensò al putiferio che si sarebbe scatenato se se ne fosse andata durante la festa di compleanno di Angela. «Devi venire a vedere», continuò Crowe. «Perché?» «Lo capirai quando sarai qui.» 10 In piedi nella veranda, Jane Rizzoli percepì l'odore di morte dalla porta aperta e si fermò, riluttante a compiere quel primo passo che l'avrebbe condotta in casa, dove avrebbe visto ciò che già si era prefigurata. Avrebbe preferito aspettare ancora qualche istante, per prepararsi ad affrontarlo, ma Darren Crowe, che nel frattempo aveva aperto la porta, la stava fissando, perciò non le rimase che infilarsi guanti e soprascarpe e fare quello che doveva. «Frost è già qui?» gli chiese mentre indossava i guanti. «È arrivato una ventina di minuti fa. È dentro.» «Sarei venuta prima, ma ero a Revere.» «Che cosa c'è a Revere?» «La festa di compleanno di mia madre.» Il collega scoppiò a ridere. «Dal tono sembrava proprio ti divertissi un sacco.» «Lasciamo perdere.» Jane indossò l'altra soprascarpa e si sollevò, il volto di nuovo serio. Gli uomini come Crowe rispettavano solo la forza, e forza era tutto ciò che lei gli lasciava trasparire. Mentre entravano, sentiva
che le teneva gli occhi puntati addosso, che avrebbe osservato la sua reazione di fronte a qualsiasi cosa le si fosse parata davanti. Quell'uomo sembrava sottoporla a un esame senza fine, pronto a cogliere il momento in cui avrebbe ceduto, certo che prima o poi sarebbe arrivato. Crowe chiuse la porta d'ingresso e la giovane donna avvertì all'improvviso una sensazione di claustrofobia, una mancanza d'aria fresca. Il tanfo di morte era più forte, e Jane sentiva i polmoni riempirsi del suo veleno. Naturalmente, mentre avanzava nell'atrio osservando il soffitto alto quasi quattro metri e una pendola antica, che non ticchettava, non lasciò trapelare alcuna emozione. Aveva sempre considerato quella zona di Boston, Beacon Hill, il quartiere dei suoi sogni, il luogo in cui si sarebbe trasferita se avesse vinto alla lotteria o, possibilità ancor più remota, se avesse sposato l'uomo giusto. Quella avrebbe potuto essere la casa perfetta. Era già allarmata dalle affinità con la scena del delitto Yeager. Un'abitazione di lusso in un quartiere di lusso. L'odore del massacro nell'aria. «Il sistema d'allarme non è scattato», affermò Crowe. «Era disattivato?» «No. Le vittime semplicemente non l'hanno azionato. Forse non sapevano come funzionasse, dato che non era casa loro.» «E di chi è?» Crowe aprì il blocco per appunti e lesse: «Il proprietario è Christopher Harm, sessantadue anni. Agente di cambio in pensione. È membro del comitato della Boston Symphony Orchestra. Sta trascorrendo l'estate in Francia. Ha offerto ai Ghent la possibilità di usufruire della sua casa mentre erano in tournée a Boston». «Che significa, in tournée?» «Sono entrambi musicisti. Sono arrivati in aereo da Chicago una settimana fa. Karenna Ghent suona il piano. Suo marito Alexander era violoncellista. Stasera dovevano eseguire l'ultimo concerto alla Symphony Hall.» A Jane non sfuggì che Crowe avesse usato il passato con riferimento all'uomo, ma non alla donna. Attirati da un suono di voci, percorsero il corridoio producendo un lieve fruscio con le soprascarpe di carta. Entrata in salotto, Jane non vide subito il corpo perché era nascosto da Sleeper e da Frost, che le voltavano le spalle. Ciò che vide fu invece l'ormai ben nota storia di orrore: i molteplici schizzi di sangue arterioso sulle pareti. Doveva aver trattenuto di colpo il fiato, poiché Frost e Sleeper si voltarono contemporaneamente a guardarla. Poi si scostarono e Jane notò la dottoressa Isles accucciata accanto alla vit-
tima. Alexander Ghent era seduto contro la parete come una marionetta triste, il capo reclinato a mostrare la ferita aperta infertagli alla gola. È giovane, fu la sua prima reazione di shock, mentre fissava il volto sorprendentemente sereno, gli occhi azzurri ancora aperti. È così giovane. «Un'impiegata della Symphony Hall, la signora Evelyn Petrakas, è venuta a prenderli intorno alle sei per il concerto», aggiunse Crowe. «Non hanno risposto al citofono. La donna ha visto che la porta non era chiusa a chiave ed è entrata a controllare.» «Indossa i pantaloni del pigiama», osservò la Rizzoli. «È in rigor mortis», asserì la dottoressa alzandosi in piedi. «E c'è stato un raffreddamento significativo. Potrò essere più precisa quando avrò i risultati del potassio vitreo. Al momento stimo che la morte sia avvenuta fra le sedici e le venti ore fa. Il che significherebbe...» Maura guardò l'orologio. «Più o meno tra l'una e le cinque del mattino.» «Il letto è disfatto», affermò Sleeper. «La coppia è stata vista per l'ultima volta ieri sera. Ha lasciato la Symphony Hall verso le undici, e la signora Petrakas li ha accompagnati sin qui.» Le vittime stavano dormendo, pensò Jane, lo sguardo fisso sul pigiama di Alexander Ghent. Erano assopiti e ignari che qualcuno fosse entrato in casa. Che si stesse avvicinando al letto. «In cucina c'è una finestra aperta che dà su un giardinetto sul retro», continuò Sleeper. «Abbiamo trovato numerose impronte nelle aiuole, ma non sono tutte dello stesso numero. Alcune potrebbero appartenere al giardiniere o persino alle vittime.» Jane osservò il nastro adesivo che legava le caviglie del signor Ghent. «E la signora Ghent?» domandò, pur conoscendo già la risposta. «Scomparsa», mormorò Sleeper. La giovane donna esaminò con lo sguardo la zona intorno al cadavere, ma non vide tazze rotte, né frammenti di porcellana. C'è qualcosa di strano, pensò. «Detective Rizzoli?» Jane si voltò e vide un tecnico della Scientifica in corridoio. «L'agente di sorveglianza dice che fuori c'è un tizio che sostiene di conoscerla. Sta facendo il diavolo a quattro per entrare. Vuole verificare?» «So chi è», rispose. «Vado io a prenderlo.» Korsak stava fumando una sigaretta e camminava su e giù per il marciapiede, tanto furioso per la vergogna d'esser stato degradato a comune spet-
tatore che sembrava sputare fumo anche dalle orecchie. Quando la vide, gettò immediatamente via il mozzicone e lo schiacciò come se fosse un insetto disgustoso. «Mi sta tagliando fuori o che?» esclamò. «Ascolti, mi spiace. L'agente non era stato informato.» «Maledetto pivello. Non ha mostrato un briciolo di rispetto.» «Non lo sapeva, d'accordo? È colpa mia.» Jane sollevò il nastro e lui vi passò sotto. «Voglio che lei lo veda.» All'ingresso Jane attese che il collega si infilasse le soprascarpe e i guanti di lattice. Mentre cercava di rimanere in equilibrio su un piede, Korsak vacillò. Quando si avvicinò per sostenerlo, rimase stupefatta nel sentire che puzzava d'alcol. L'aveva chiamato a casa dall'auto, in una serata in cui era fuori servizio. Ora rimpiangeva d'averlo fatto. Vince era già arrabbiato e bellicoso, ma non avrebbe potuto rifiutargli l'accesso senza scatenare una violenta scenata in pubblico. Sperava solo che fosse abbastanza sobrio da non mettere entrambi in imbarazzo. «A posto», sbuffò. «Mi mostri che cosa abbiamo.» Giunto in salotto, Korsak fissò senza fare commenti il cadavere di Alexander Ghent accasciato in una pozza di sangue. Aveva la camicia spiegazzata e, al solito, respirava come avesse le adenoidi. Jane vide Crowe e Sleeper lanciare un'occhiata nella loro direzione, poi notò che Crowe alzava gli occhi al cielo e d'un tratto s'infuriò per il fatto che Korsak si fosse presentato in quelle condizioni. Lo aveva avvertito perché era stato il primo detective ad arrivare sulla scena del delitto Yeager, e desiderava avere la sua impressione anche in quel caso. Invece si ritrovava con un poliziotto ubriaco, la cui presenza iniziava a diventare imbarazzante. «Potrebbe essere il nostro uomo», esclamò Korsak. Crowe sbuffò. «Come sarebbe a dire potrebbe? Niente cazzate, Sherlock.» Korsak fissò Crowe con occhi iniettati di sangue. «Lei fa parte dei geni, eh? Sa tutto, vero?» «Non che ci voglia un genio per capire di che cosa si tratta.» «E, vediamo, di che cosa pensa si tratti?» «Di una replica. Irruzione notturna. Una coppia sorpresa nel letto. La moglie rapita e il marito ucciso con un colpo di grazia. È tutto qui.» «E allora, dov'è la tazza?» Per quanto sbronzo, Korsak era riuscito a cogliere il dettaglio che turbava anche Jane. «Non c'è», rispose Crowe. Korsak fissò il ventre della vittima. «Mette l'uomo in posizione. Lo ap-
poggia contro il muro per farlo assistere allo show, come l'ultima volta. Ma dimentica il sistema d'allarme: la tazza. Se aggredisce la moglie, come fa a tenere d'occhio il marito?» «Ghent è mingherlino. Non è un gran pericolo. Inoltre, è completamente legato. Come fa ad alzarsi e a difendere la moglie?» «C'è un cambiamento, dico solo questo.» Crowe alzò le spalle e si voltò. «Ha riscritto il copione.» «Il genio sa tutto, non è vero?» Nella stanza piombò il silenzio. Persino la dottoressa Isles, spesso pronta alle battute ironiche, tacque, limitandosi a guardare con espressione vagamente divertita. Crowe si voltò, e il suo sguardo trafisse Korsak come un laser. Quando parlò, tuttavia, si rivolse alla Rizzoli: «Detective, c'è una ragione particolare perché quest'uomo si trovi qui, sulla nostra scena del delitto?» Jane prese Korsak per un braccio. Era molliccio e umido, e non le sfuggì l'odore acre di sudore. «Non abbiamo ancora visto la stanza da letto. Forza, andiamo.» «Già», rise Crowe. «Non ci vogliamo perdere la stanza da letto!» Korsak si divincolò dalla presa della Rizzoli e fece qualche passo incerto verso Crowe. «Ho lavorato al caso prima io, stronzo.» «Andiamo, Korsak», gli ordinò Jane. «... sto seguendo ogni fottuta pista, maledizione. Avrebbero dovuto chiamare me per primo, perché ora lo conosco. Riesco a sentirne l'odore.» «Oh. Allora è quello l'odore che sento?» ribatté Darren Crowe. «Andiamo», ripeté Jane, al limite della sopportazione, temendo lo scoppio d'ira che avrebbe avuto di lì a poco. Rabbia per Korsak e per Crowe, e per quella loro stupida abitudine di prendersi a cornate. Barry Frost intervenne diplomaticamente per allentare la tensione. Se Jane tendeva d'istinto a gettarsi a capofitto in ogni litigio, Frost era il pacificatore. È la sfortuna d'essere il fratello di mezzo, le aveva detto una volta, che sa che altrimenti le prenderà da entrambi. Frost non tentò nemmeno di calmare Korsak, ma si rivolse direttamente a Jane: «Devi vedere che cos'abbiamo trovato in camera. Collega i due casi». Poi attraversò il salotto e percorse un altro corridoio, con un passo deciso che sembrava proclamare: Se vuoi andare dove c'è azione, seguimi. Un attimo dopo Korsak lo seguì. Nella stanza da letto Frost, Korsak e la Rizzoli osservarono le lenzuola spiegazzate e la coperta scostata. E i due solchi sul tappeto.
«Trascinati giù dal letto», esclamò Frost. «Come gli Yeager.» Ma Alexander Ghent era più basso e molto meno muscoloso del dottor Yeager, e l'assassino aveva certamente compiuto uno sforzo minore nel trascinarlo lungo il corridoio e nell'appoggiarlo al muro. Di sicuro era stato più facile afferrarlo per i capelli ed esporgli la gola. «È sul cassettone», affermò Frost. Era un body color carta da zucchero, di taglia media, piegato scrupolosamente e macchiato di sangue. Un indumento che una giovane donna indosserebbe per attrarre un amante o eccitare un marito. Di certo, Karenna Ghent non avrebbe mai immaginato il violento teatro in cui quel capo sarebbe servito sia da costume sia da arredo scenico. Accanto a esso c'erano due buste contenenti i biglietti della Delta Airline. Jane vi sbirciò dentro e vide l'itinerario, organizzato dall'agente dei Ghent. «Avevano il volo domani», mormorò. «La tappa successiva sarebbe stata Memphis.» «Che peccato», esclamò Korsak. «Non vedranno mai Graceland.» Una volta fuori, lei e Korsak si sedettero nell'auto di lui con i finestrini aperti, e Vince si accese una sigaretta. Aspirava profondamente ed esalava sospiri di soddisfazione ogni volta che il fumo compiva la sua magia velenosa all'interno dei polmoni. Sembrava più calmo, più lucido di quand'era arrivato, tre ore prima. L'influsso dannoso della nicotina gli aveva affinato la mente; o forse aveva finalmente smaltito l'alcol. «Ha dubbi sul fatto che non sia lui?» chiese a Jane. «No.» «Il Crimescope non ha rilevato tracce di sperma.» «Forse questa volta è stato più attento.» «O non l'ha stuprata», suggerì Korsak. «Ciò spiegherebbe l'assenza della tazza.» Infastidita dal fumo, Jane voltò la testa verso il finestrino aperto e agitò la mano per disperderlo. «L'assassino non segue un copione fisso», rispose. «Ogni vittima reagisce in modo diverso. È una commedia con due personaggi, Korsak. Il killer e la vittima. Entrambi possono influenzarne il finale. Il dottor Yeager era molto più robusto di Alexander Ghent. Forse il nostro uomo si è sentito maggiormente in pericolo e ha usato la tazza come segnale d'allarme. Con Ghent potrebbe non averne avvertito il bisogno.» «Non lo so.» Korsak scrollò la cenere fuori dal finestrino. «Quella della tazza è una mossa maledettamente strana. Fa parte della sua firma. È una
cosa a cui non avrebbe rinunciato.» «Tutto il resto era identico», sottolineò la Rizzoli. «Una coppia benestante. L'uomo legato e messo in posa. La donna scomparsa.» Poi, quando il medesimo pensiero sfiorò loro la mente, rimasero entrambi in silenzio. La donna. Che cos'ha fatto a Karenna Ghent? Jane conosceva già la risposta. La foto della donna sarebbe ben presto apparsa su ogni schermo televisivo della città, avrebbero lanciato un appello per chiedere l'aiuto della gente, il Dipartimento di polizia di Boston si sarebbe fatto in quattro per verificare ogni indizio telefonico, ogni avvistamento di una donna con i capelli neri, eppure lei sapeva quale sarebbe stato il risultato. Se lo sentiva, come un peso sullo stomaco. Karenna Ghent era morta. «Il corpo di Gail Yeager è stato scaricato circa due giorni dopo il rapimento», osservò Korsak. «Sono passate... quante? Venti ore circa da quando la coppia è stata aggredita?» «Alla riserva di Stony Brook», affermò Tane. «La porterà lì. Darò ordine di aumentare la sorveglianza.» Jane guardò Korsak. «Ha scoperto se Joey Valentine potrebbe essere coinvolto?» «Ci sto lavorando. Alla fine ha acconsentito a farsi prelevare un campione di sangue. Siamo in attesa dei risultati del DNA.» «Non mi sembra un comportamento da persona colpevole. Lo sta ancora sorvegliando?» «L'ho fatto, finché non mi ha querelato perché lo molestavo.» «Ed è vero?» Korsak rise, emettendo uno sbuffo di fumo. «Qualsiasi uomo adulto che ami imbellettare donne morte piagnucolerebbe come una ragazzina, indipendentemente da quello che faccio.» «E come piagnucolano, esattamente, le ragazzine?» ribatté Jane irritata. «Un po' come fanno i ragazzini?» «Oh, Gesù. Non cominci con queste cazzate femministe. Ne ho già abbastanza di mia figlia. Poi quando finisce i soldi, viene a frignare da quel porco sciovinista di suo padre perché l'aiuti.» Korsak si raddrizzò improvvisamente. «Ehi. Guardi un po' chi è appena arrivato.» Una Lincoln nera aveva parcheggiato sull'altro lato della strada. La Rizzoli vide Gabriel Dean scendere dall'auto, la figura atletica, elegante, sembrava uscito direttamente dalle pagine di GQ. L'agente dell'FBI rimase a osservare la facciata di mattoni rossi dell'abitazione; dopodiché si avvicinò al poliziotto di guardia e gli mostrò il distintivo.
L'agente lo fece passare. «Ma tu guarda», esclamò Korsak. «Questo mi fa proprio incazzare. Lo stesso agente mi ha lasciato lì ad aspettare finché non è arrivata lei. Come se fossi un barbone di strada. Ma Dean... gli basta agitare il distintivo magico e dire 'agente federale del cazzo', ed è fatta. Come diavolo ci riesce?» «Forse si è semplicemente preso la briga di sistemarsi la camicia.» «Oh, già, come se un bel vestito mi servisse a qualcosa. Sta tutto nell'atteggiamento. Lo guardi, sembra il padrone dell'intero dannato mondo.» Jane osservò Dean mentre si teneva abilmente in equilibrio su una gamba per mettersi una soprascarpa e infilava le lunghe mani nei guanti, come un chirurgo pronto a operare. Sì, stava tutto nell'atteggiamento. Korsak era un pugile arrabbiato che si aspettava che il mondo lo prendesse a calci. E naturalmente era ciò che accadeva. «Chi l'ha chiamato?» chiese Vince. «Io no.» «Eppure si è presentato.» «Come sempre. Qualcuno lo tiene informato. E non è uno della mia squadra. No, sta più in alto.» Jane fissò ancora la porta d'ingresso. Dean era entrato e se lo immaginò in piedi nel salotto, a esaminare le macchie di sangue. A leggerle così come si leggono i rapporti di battaglia, le chiazze lucide scisse dalla loro componente umana. «Sa, ci ho pensato a lungo», esclamò Korsak. «Dean non si è fatto vivo se non quattro giorni dopo l'aggressione agli Yeager. La prima volta che lo abbiamo visto è stato alla riserva di Stony Brook, quand'è stato trovato il corpo della signora Yeager. Giusto?» «Giusto.» «Perché ci ha messo tanto? L'altro giorno stavamo vagliando la possibilità che si sia trattato di un'esecuzione. Qualche guaio in cui gli Yeager si erano cacciati. Se erano già sul radar dei federali, indagati, diciamo, o solo sorvegliati, non crede che si sarebbero interessati al caso nel momento stesso in cui il dottore è stato assassinato? Invece hanno atteso tre giorni prima d'intervenire. Che cosa li ha attirati? Che cosa ha scatenato il loro interesse?» Jane lo guardò. «Ha inviato un rapporto al VICAP?» «Sì. Mi ci è voluta un'ora intera per compilarlo. Centottantanove domande. Roba schifosa del tipo: 'Qualche parte del corpo è stata staccata a morsi?', 'Quali oggetti sono stati inseriti in quali orifizi?' Ora devo inviare
un rapporto supplementare sulla signora Yeager.» «Ha chiesto una valutazione del profilo quando ha trasmesso il modulo?» «No. Non vedevo l'utilità di farmi dire da qualche esperto dell'FBI cose che già sapevo. Ho fatto solo il mio dovere e inviato il modulo al VICAP.» Il VICAP, Violent Criminal Apprehension Program, era il database dell'FBI riguardante i crimini violenti. Per gestirlo era necessaria la collaborazione di tutti i tutori della legge ma questi, spesso oberati di lavoro, non si prendevano nemmeno la briga di leggere il lungo questionario. «Quando ha inviato il rapporto?» gli chiese la Rizzoli. «Subito dopo l'autopsia del dottor Yeager.» «Ed è allora che Dean è comparso. Il giorno seguente.» «Pensa sia per quello?» le domandò Korsak. «Crede sia arrivato qui per il rapporto?» «Forse ha fatto scattare un allarme.» «Che cosa potrebbe aver suscitato la loro attenzione?» «Non lo so.» La Rizzoli fissò di nuovo la porta d'ingresso, dietro la quale era svanito Dean. «Ed è più che evidente che non ha intenzione di dircelo.» 11 Jane Rizzoli non era donna da opere sinfoniche. La sua conoscenza della musica si riduceva a una collezione di CD facilmente orecchiabili e ai due anni in cui aveva suonato la tromba nella banda della scuola media, una delle due ragazze che avevano scelto quello strumento. Era rimasta affascinata dalla tromba perché emetteva un suono forte e metallico, non come quegli arroganti clarinetti e quegli stupidi flauti che erano gli strumenti preferiti delle altre ragazzine. No, Jane voleva essere udita, perciò sedeva spalla a spalla con i ragazzi nella sezione trombe, e amava ascoltare le note che uscivano come esplosioni. Purtroppo però si trattava spesso delle note sbagliate. Dopo che il padre l'aveva relegata nel giardino sul retro quando si esercitava, e dopo che i cani dei vicini avevano iniziato a ululare per protesta, Jane aveva finalmente riposto la tromba una volta per tutte. Persino lei si era resa conto che un grande entusiasmo e due polmoni forti non sarebbero bastati a compensare una scoraggiante mancanza di talento. Da allora per Jane la musica non era stata altro che il rumore bianco a
bordo degli ascensori e il tuonare dei clacson delle auto di passaggio. Era entrata nella Symphony Hall dall'ingresso tra la Huntington e Mass Ave solo due volte in vita sua, entrambe quand'era in gita scolastica, alle superiori, per assistere alle prove della Boston Symphony Orchestra. Nel 1990 era stata aggiunta la Cohen Wing, una zona dell'edificio che Jane non aveva mai visitato prima. Quando lei e Frost entrarono nella nuova ala, Jane rimase colpita dalla sua modernità: non era di certo l'edificio buio e cigolante che ricordava. Esibirono il distintivo all'anziana guardia, che drizzò un po' la sua schiena cifotica non appena vide che i due visitatori erano della Omicidi. «Siete qui per i Ghent?» chiese. «Sì, signore», rispose Jane. «Terribile. Veramente terribile. Li ho visti la settimana scorsa, poco dopo il loro arrivo in città. Sono passati di qui per un sopralluogo della sala.» Il vecchio scosse il capo. «Sembravano una bella coppia, giovane.» «Lei era di servizio la sera che hanno suonato?» «No, signora. Io lavoro qui solo di giorno. Finisco alle cinque per andare a prendere mia moglie al centro d'assistenza. Ha bisogno di essere controllata ventiquattro ore al giorno, sapete. Si dimentica di spegnere i fornelli...» S'interruppe, arrossendo improvvisamente. «Ma suppongo che non siate venuti per passatempo. Siete qui per incontrare Evelyn?» «Sì. Da che parte è l'ufficio?» «Non è in ufficio. L'ho vista dirigersi alla sala concerti qualche minuto fa.» «Stanno facendo prove o qualcosa del genere?» «No, signora. È stagione di riposo. L'orchestra va a Tanglewood in estate. In questo periodo dell'anno viene solo qualche artista da fuori.» «Allora possiamo entrare nella sala?» «Signora, ha il distintivo. Per quanto mi concerne, potete andare dove volete.» Non riuscirono a individuare subito Evelyn Petrakas. Quando Jane entrò nell'auditorium buio, tutto ciò che vide fu una marea di posti vuoti che dall'alto digradavano verso un palco illuminato. Attirati dalla luce, i due agenti iniziarono a percorrere il corridoio con i pavimenti di legno, che scricchiolava come il ponte di un'antica nave. Avevano già raggiunto il palco quando sentirono una voce flebile esclamare: «Posso aiutarvi?»
Socchiudendo gli occhi alla luce, Jane si voltò verso il fondo buio dell'auditorium. «Signora Petrakas?» «Sì?» «Sono la detective Rizzoli. Questo è il detective Frost. Possiamo parlarle?» «Sono qui, nell'ultima fila.» I detective risalirono il corridoio per raggiungerla. Evelyn non si alzò dalla poltrona e rimase rannicchiata dov'era, come se si nascondesse dalla luce. Quando i due presero posto accanto a lei, li salutò con un debole cenno del capo. «Ho già parlato con un poliziotto. Ieri sera», affermò Evelyn. «Il detective Sleeper?» «Sì, credo si chiamasse così. Un uomo un po' attempato, molto gentile. So che avrei dovuto aspettare e parlare con qualche altro poliziotto, ma sono dovuta andare. Non potevo resistere un minuto di più in quella casa...» Guardava verso il palco, come incantata da uno spettacolo che poteva vedere solo lei. Anche nella penombra, Jane riusciva a scorgere un bel volto, una donna sulla quarantina, con alcune ciocche precocemente argentee. «Avevo da fare qui», continuò Evelyn. «Tutti i rimborsi dei biglietti. E ha cominciato a farsi viva la stampa. Dovevo tornare a gestire la situazione.» Emise una risata stanca. «Sempre a spegnere incendi. Questo è il mio lavoro.» «In che cosa consiste esattamente il suo lavoro, signora Petrakas?» chiese Frost. «La mia carica ufficiale?» Scrollò le spalle. «Sono 'coordinatrice del programma per gli artisti esterni'. Significa che tento di tenerli allegri e in salute mentre sono qui a Boston. È impressionante quanto alcuni di loro siano imbranati. Trascorrono la vita in sala prove e negli studi di registrazione. Il mondo reale li sconcerta, perciò io cerco loro una sistemazione, organizzo i trasferimenti da e per l'aeroporto, faccio in modo che trovino cesti di frutta in camera. E provvedo a qualsiasi comodità extra desiderino. Li tengo per mano.» «Quando ha incontrato per la prima volta i Ghent?» chiese Jane. «Il giorno in cui sono arrivati in città. Sono andata a prenderli a casa. Non potevano spostarsi in taxi perché la custodia del violoncello di Alex non ci stava. Io ho un fuoristrada con il sedile posteriore reclinabile.» «Li scarrozzava in giro per la città mentre erano qui?» «Solo da casa alla Symphony Hall, e viceversa.»
Jane Rizzoli diede un'occhiata al blocco per appunti. «Mi hanno detto che la villa di Beacon Hill è di proprietà di un membro del comitato. Di un certo Christopher Harm. Ospita spesso musicisti?» «Durante l'estate, quand'è in Europa. È molto più accogliente di una stanza d'albergo. Il signor Harm si fida dei musicisti classici. Sa che si prenderanno cura di casa sua.» «Qualche ospite ha mai segnalato problemi?» «Problemi?» «Violazioni di domicilio. Furti con scasso. Qualcosa che li abbia messi a disagio.» Evelyn scosse il capo. «Stiamo parlando di Beacon Hill, detective. Non c'è quartiere migliore. So che ad Alex e Karenna piaceva quel luogo.» «Quando li ha visti per l'ultima volta?» La donna deglutì. Poi, a voce bassa, rispose: «Ieri sera. Quando ho trovato Alex...» «Intendo dire, quando li ha visti vivi, signora Petrakas.» «Oh.» Evelyn fece una risata imbarazzata. «Naturalmente, era questo che intendeva. Mi dispiace, sono distratta. È così difficile concentrarsi.» Scosse il capo. «Non so nemmeno perché oggi mi sia presa la briga di venire a lavorare. Ma mi sembrava una cosa da farsi.» «L'ultima volta che li ha visti?» la incalzò Jane. Questa volta Evelyn rispose con voce più ferma. «Due sere fa. Dopo il concerto, li ho riportati a Beacon Hill. Verso le undici.» «Li ha solo accompagnati? O è entrata in casa con loro?» «Li ho lasciati davanti all'ingresso.» «Li ha visti entrare?» «Sì.» «Quindi non l'hanno invitata a seguirli?» «Credo fossero molto stanchi. Ed erano un po' giù di morale.» «Perché?» «Avevano aspettato con gioia l'esibizione a Boston, ma il pubblico non è stato numeroso come previsto. E si suppone che Boston sia la città della musica. Se quello era il meglio che potevamo offrire, che cosa avrebbero trovato a Detroit o a Memphis?» Evelyn fissò il palco con aria triste. «Siamo dinosauri, detective. L'ha detto Karenna quand'eravamo in auto. Chi apprezza più la musica classica? Gran parte dei giovani preferisce guardare i video musicali. La gente se ne va in giro con quelle borchie metalliche in faccia. È tutto sesso, lustrini e stupidi costumi. E perché quel
cantante, come si chiama, deve tirar fuori la lingua? Che cosa ha a che fare quello con la musica?» «Assolutamente nulla», concordò Frost, infervorato dall'argomento. «Sa, signora Petrakas, io e mia moglie abbiamo fatto lo stesso discorso l'altro giorno. Alice adora la musica classica. Le piace moltissimo. Ogni anno compriamo l'abbonamento alla stagione dei concerti.» Evelyn gli rivolse un sorriso triste. «Allora temo che anche voi siate dinosauri.» Quando si alzarono per congedarsi, Jane Rizzoli vide un programma patinato sul sedile davanti a lei. Si allungò per prenderlo. «Qui dentro ci sono i Ghent?» chiese alla donna. «Vada a pagina cinque», rispose Evelyn. «C'è la foto pubblicitaria dei loro concerti.» Era un'immagine di due persone innamorate. Karenna, slanciata ed elegante, indossava un abito da sera nero, scollato, e guardava negli occhi il marito. Aveva il volto luminoso, i capelli scuri, da spagnola. Alexander la guardava dall'alto con un sorriso infantile, una ciocca ribelle di capelli chiari sugli occhi. «Erano belli, vero? È strano, sapete. Non ho mai avuto veramente l'occasione di parlare con loro. Ma conoscevo la loro musica. Ho ascoltato le registrazioni, li ho visti esibirsi, là sul palco. Si può intuire molto di una persona ascoltando la musica che suona. E una cosa che ricordo era la loro tenerezza nel suonare. Credo sia questa la parola che userei per descriverli. Erano persone molto tenere», osservò dolcemente Evelyn. Jane Rizzoli rivolse lo sguardo al palcoscenico e immaginò Alexander e Karenna la sera dell'ultimo concerto. I capelli neri e lucidi della donna sotto i riflettori, il violoncello luccicante del marito. E la loro musica, come le voci di due amanti che cantino l'uno per l'altro. «La sera dell'esibizione», intervenne Frost. «Ha detto che l'affluenza è stata scarsa.» «Sì.» «Quanto pubblico c'era?» «Credo siano stati venduti circa quattrocentocinquanta biglietti.» Quattrocentocinquanta paia d'occhi, pensò Jane, tutti fissi sul palco, dove una coppia innamorata era avvolta dalla luce. Che tipo di emozioni aveva suscitato nel pubblico l'esibizione dei Ghent? Il piacere della musica ben suonata? La gioia di guardare due persone che si amano? O altri turbamenti, più oscuri, nel cuore di qualcuno seduto in quella stessa sala?
Bramosia. Invidia. L'amarezza di desiderare ciò che un altro uomo possiede. Abbassò nuovamente lo sguardo sulla foto della coppia. È stata la bellezza a catturare la sua attenzione? O il fatto che i due fossero innamorati? Jane bevve una tazza di caffè nero e rimase a fissare i fascicoli dei morti che si erano accumulati sulla scrivania. Richard e Gail Yeager. La donna affetta da rachitismo. Alexander Ghent. E l'uomo Aeroplano che, pur non essendo più considerato vittima di omicidio, occupava ancora la sua mente. Con i morti era sempre così. Una serie interminabile di cadaveri, ognuno bisognoso della sua attenzione, ognuno con la sua vicenda orribile da raccontare, se solo la Rizzoli avesse scavato abbastanza in profondità da mettere a nudo le loro storie. Scavava da così tanto tempo che tutte le vittime stavano cominciando a fondersi insieme, come scheletri aggrovigliati in una fossa comune. Quando, a mezzogiorno, il laboratorio di analisi genetiche la chiamò sul cercapersone, Jane fu sollevata di poter fuggire, almeno per un istante, da quella pigna di documenti accusatori. Si alzò dalla scrivania e percorse il corridoio fino all'ala sud. Il laboratorio era situato nella sezione S253, e l'esperto che l'aveva chiamata era Walter De Groot, un olandese biondo, dal volto pallido e stralunato. Solitamente trasaliva ogni volta che la vedeva, dal momento che le sue visite avevano spesso lo scopo di pungolarlo o lusingarlo, al fine di ottenere i risultati del test sul DNA con la maggiore velocità possibile. Quel giorno, tuttavia, la accolse con un largo sorriso. «Ho sviluppato l'autoradiografia», affermò. «È appesa là.» Un'autoradiografia era una radiografia che catturava l'impronta digitale del DNA. De Groot staccò la pellicola dal filo a cui era appesa ad asciugare e la agganciò alla lavagna luminosa. Alcune file parallele di macchioline scure correvano dall'alto in basso. «Quello che vede è il profilo VNTR», esclamò. «Sta per Variable Numbers of Tandem Repeats, sequenze nucleotidiche note ripetute in tandem un numero variabile di volte. Ho ricavato il DNA dalle diverse fonti che mi ha fornito, e ho isolato i frammenti con locus specifico che stavamo confrontando. Questi, in realtà, non sono geni, ma sezioni del filamento di DNA che si ripete senza scopo evidente. Sono dei buoni marker identificativi.»
«Allora, che cosa sono quelle tracce? A cosa corrispondono?» «Le prime due file, partendo da sinistra, sono i controlli. La numero uno è una sequenza di DNA standard, che ci aiuta a stimare le posizioni relative nei vari campioni. La fila due è una linea cellulare standard, anch'essa usata come controllo. La tre, la quattro e la cinque sono linee probative, ricavate da fonti conosciute.» «Quali fonti?» «La fila tre è quella del sospetto Joey Valentine. La quattro è del dottor Yeager. La cinque della moglie.» Jane Rizzoli indugiò sulla quinta linea. Cercò di focalizzare la mente sull'idea che quella fila fosse parte della matrice che aveva creato Gail Yeager. Che quell'essere umano unico, dalla sfumatura precisa dei capelli al suono della sua risata, potesse essere stato ricavato da quella catena di macchioline scure. Ma non vide alcuna umanità nell'autoradiografia, nulla della donna che aveva amato un marito e pianto una madre. È tutto qui ciò che siamo? Una catena di sostanze chimiche? In che punto della doppia elica sta l'anima? Spostò lo sguardo sulle ultime due linee. «E queste, che cosa sono?» chiese. «Sono i non identificati. La linea sei è stata ricavata dallo sperma rinvenuto sul tappeto degli Yeager. La sette è lo sperma raccolto dalla volta vaginale di Gail Yeager.» «Queste ultime due sembrano corrispondere.» «Esatto. Entrambi i campioni di DNA non identificato appartengono allo stesso uomo. E, come può notare, non sono del dottor Yeager né del signor Valentine. Questo elimina definitivamente quest'ultimo quale fonte dello sperma.» Jane fissò le linee non identificate. L'impronta genetica di un mostro. «Quello è il nostro uomo», affermò De Groot. «Ha chiamato il CODIS? C'è qualche possibilità che riusciamo a convincerli a dare precedenza alla nostra ricerca?» Il CODIS era una banca dati nazionale del DNA, che conteneva i profili genetici di migliaia di criminali in carcere, nonché quelli di soggetti non identificati, ricavati dalle scene dei delitti commessi in tutto il paese. «In realtà è questa la ragione per cui l'ho chiamata. Ho inviato loro il DNA dello sperma sul tappeto la scorsa settimana.» Jane sospirò. «Il che significa che avremo la risposta fra un anno.» «No, l'agente Dean mi ha appena telefonato. Il DNA del nostro uomo
non è nel CODIS.» La giovane donna lo guardò sorpreso. «È stato l'agente Dean a darle la notizia?» «Deve aver fatto schioccare la frusta o qualcosa del genere. Da quando lavoro qui, non ho mai visto una richiesta CODIS espletata tanto velocemente.» «Ha verificato direttamente con il CODIS?» De Groot si accigliò. «Be', no. Supponevo che l'agente Dean sapesse...» «Per favore, li chiami. Voglio una conferma.» «Esiste qualche dubbio sull'affidabilità di Dean?» «Meglio andare sul sicuro, d'accordo?» Jane guardò ancora una volta la lavagna luminosa. «Se è vero che il nostro uomo non è nel CODIS...» «Allora avete un nuovo giocatore, detective. O qualcuno che è riuscito a rimanere invisibile al sistema.» Jane fissò, frustrata, la catena di macchie scure. Abbiamo il suo DNA, pensò. Abbiamo il suo profilo genetico. Ma ancora non sappiamo il suo nome. Jane inserì un disco nel lettore CD e sprofondò sul divano mentre si frizionava con un asciugamano i capelli umidi. La ricca melodia di un assolo di violoncello si propagò dalla cassa come cioccolato liquido. Malgrado non fosse patita di musica classica, aveva comperato una delle prime incisioni di Alex Ghent nel negozio di souvenir della Symphony Hall. Se voleva conoscere ogni dettaglio della sua morte, doveva conoscere anche la sua vita. E gran parte della sua vita era la musica. L'archetto di Ghent scivolava sulle corde dello strumento, la melodia della Suite n. 1 in sol maggiore di Bach cresceva e diminuiva come le onde di un oceano. Era stata registrata quando Alex aveva solo diciotto anni. Se lo immaginò seduto in uno studio, le dita calde che premevano le corde e stabilizzavano l'archetto. Quelle stesse dita ora erano bianche e congelate nel frigorifero dell'obitorio, la loro musica ridotta al silenzio. Jane aveva assistito all'autopsia quel mattino e le aveva notate, lunghe e affusolate, immaginandosele mentre scorrevano su e giù lungo il manico del violoncello. Le sembrava un miracolo che due mani umane potessero produrre suoni tanto melodiosi con un pezzo di semplice legno e qualche corda. Prese la copertina del compact disc e studiò la foto, scattata quando Ghent era ancora un ragazzo. Aveva lo sguardo abbassato e col braccio sinistro cingeva lo strumento, ne abbracciava le curve, come un giorno a-
vrebbe fatto con sua moglie, Karenna. Jane aveva cercato un CD di entrambi, ma tutti quelli registrati insieme erano andati a ruba. Era rimasto solo quello di Alexander. Il violoncello solitario, che chiamava la sua compagna. Dove si trovava lei in quel momento? Era viva, agonizzante, posta di fronte al terrore estremo della morte? O aveva superato il dolore e il suo corpo era già nelle prime fasi di decomposizione? Squillò il telefono. Jane abbassò il volume del lettore e sollevò la cornetta. «Allora c'è», esclamò Korsak. «Sono tornata a farmi una doccia.» «Ho chiamato qualche minuto fa. Non ha risposto.» «Vuol dire che non ho sentito. Che cos'è successo?» «È quello che voglio sapere.» «Se scopriamo qualcosa, sarà il primo a esserne informato.» «Già. Come ha fatto oggi, vero? Ho saputo del DNA di Joey Valentine dal tizio del laboratorio.» «Non ho avuto modo di informarla. Sto correndo di qua e di là come una matta.» «Si ricordi che sono stato io a coinvolgerla in questo caso.» «Non l'ho dimenticato.» «Sa», esclamò Korsak, «sono passate cinquanta ore da quando l'ha rapita.» E Karenna Ghent era probabilmente morta già da due giorni, pensò la Rizzoli. Ma la sua morte non avrebbe scoraggiato il killer. Anzi, ne avrebbe stimolato l'appetito. Avrebbe guardato il cadavere e visto solo un oggetto di desiderio; qualcuno che poteva controllare e che non era in grado di opporgli resistenza. Lei è carne fredda, passiva, indifferente agli oltraggi più estremi. L'amante perfetta. Il CD continuava a suonare piano, mentre il violoncello di Alexander tesseva il suo incantesimo malinconico. Jane sapeva il fine di quella conversazione, sapeva che cosa voleva Korsak. Ma non aveva idea di come dissuaderlo. Si alzò dal divano e spense il lettore. Le note del violoncello sembrarono indugiare nel silenzio. «Se fa come l'ultima volta, la scaricherà questa sera», affermò l'uomo. «Saremo pronti ad accoglierlo.» «Allora sono parte della squadra o che?» «Abbiamo già la nostra pattuglia d'appostamento.» «Ma non avete me. Potreste contare su un uomo in più.»
«Abbiamo già assegnato le posizioni. Ascolti, la chiamerò non appena...» «'Fanculo alle maledette telefonate! Non me ne starò seduto accanto al telefono a fare da dannata tappezzeria. Conosco quell'assassino da prima di lei, da prima di chiunque altro. Come si sentirebbe, se qualcuno interrompesse il suo ballo? Se la lasciasse fuori dal gioco? Ci pensi.» Jane rifletté. E comprese la rabbia che lui nutriva nel petto. La capì meglio di chiunque altro, perché a lei era accaduta la stessa cosa. L'esclusione, l'amaro spettacolo visto da dietro le quinte, mentre altri si affannavano per aggiudicarsi la sua vittoria. Guardò l'orologio. «Sto per uscire. Se vuole venire con me, ci incontreremo là.» «Dove si apposterà?» «Nel parcheggio dello Smith Playground, dall'altra parte della strada. Ci incontriamo al campo da golf.» «Ci sarò.» 12 Alle due del mattino alla riserva di Stony Brook l'aria era calda e umida, densa come una zuppa. Jane Rizzoli e Korsak erano seduti nell'auto parcheggiata, ben ridossata alla fitta boscaglia. Dalla loro posizione riuscivano a vedere tutte le macchine che entravano nella riserva da est. Altri veicoli di sorveglianza erano appostati lungo la Enneking Parkway, la strada principale che si snodava all'interno del parco. Qualsiasi veicolo si fosse fermato in una delle aree di sosta sterrate sarebbe stato circondato rapidamente da più mezzi. Era una trappola dalla quale nessuno sarebbe potuto sfuggire. Jane sudava nel giubbotto. Abbassò il finestrino e inspirò l'odore delle foglie morte e della terra umida. I profumi del bosco. «Ehi, così entrano le zanzare», protestò Korsak. «Ho bisogno di aria fresca. Qui dentro c'è puzza di fumo.» «Ho fumato solo una sigaretta. Io non la sento.» «Come tutti i fumatori.» Korsak la guardò. «Gesù, è tutta la sera che mi aggredisce. Se ce l'ha con me, forse ne dovremmo parlare.» Jane fissò fuori dal finestrino, verso la strada, che continuava a rimanere buia e deserta. «Lei non c'entra», rispose.
«Di chi si tratta, allora?» Quando Jane non rispose, Korsak intuì ed emise un grugnito. «Oh. Ancora Dean. Che ha fatto stavolta?» «Qualche giorno fa si è lamentato di me con Marquette.» «Che cosa gli ha detto?» «Che non sono la persona adatta per quest'indagine. Che forse avrei bisogno di assistenza per certi problemi irrisolti.» «Si riferiva al Chirurgo?» «Lei che ne pensa?» «Che stronzo!» «E oggi scopro che abbiamo ottenuto una risposta istantanea dal CODIS. Non è mai successo prima. A Dean basta schioccare le dita e tutti obbediscono. Se solo sapessi che diavolo fa qui.» «Be', con i federali è sempre così. Dicono che l'informazione è potere, giusto? Allora ce la tengono nascosta, perché giocano a fare i duri. Io e lei siamo semplici pedine per quel fottuto James Bond.» «Si sta confondendo con la CIA.» «CIA, FBI.» L'uomo scrollò le spalle. «Tutte queste agenzie di acronimi... vivono di segreti.» La radio gracchiò. «Pattuglia Tre. Abbiamo un veicolo, berlina vecchio modello, si dirige a sud sulla Enneking Parkway.» La giovane detective si irrigidì, in attesa del rapporto della pattuglia successiva. Udì la voce di Frost, nel veicolo della seconda postazione. «Pattuglia Due. Lo vediamo. Procede verso sud. Non sembra intenzionato a rallentare.» Qualche secondo più tardi, si udì una terza unità. «Pattuglia Cinque. Ha appena oltrepassato l'incrocio di Bald Knob Road. Si dirige fuori dal parco.» Non è il nostro uomo. Pur essendo mattina presto, la Enneking Parkway era piuttosto trafficata. Ormai avevano perso il conto dei veicoli che avevano attraversato la riserva. I troppi falsi allarmi intervallati da lunghi periodi di noia avevano fatto diminuire la carica di adrenalina, e ora Jane stava scivolando nel torpore che accompagna una notte insonne. Si appoggiò al sedile con un sospiro di delusione. Oltre il parabrezza si vedeva l'oscurità dei boschi, illuminata di tanto in tanto da qualche lucciola. «Forza, figlio di puttana», mormorò fra i denti. «Vieni dalla mamma...» «Vuole un po' di caffè?» le chiese Korsak.
«Grazie.» Gliene versò una tazza dal suo thermos e gliela porse. Il caffè era nero, amaro, assolutamente disgustoso, ma Jane lo bevve ugualmente. «L'ho fatto extraforte stasera», affermò l'uomo. «Due cucchiai di solubile al posto di uno. Ti fa crescere i peli sul petto.» «Forse è proprio quel che mi serve.» «Forse, se ne bevo abbastanza, qualcuno di quei peli potrebbe migrarmi in testa.» Jane rivolse lo sguardo al bosco, dove l'oscurità nascondeva foglie marce e animali in cerca di cibo. Animali con i denti. Ricordò i resti rosicchiati della donna rachitica e pensò ai procioni che addentavano le costole e ai cani che facevano rotolare i crani come fossero palle. Ciò che immaginava nascosto fra gli alberi non era di certo Bambi. «Non posso più nemmeno parlare di Hoyt», esclamò. «Non posso nominarlo senza che qualcuno mi lanci un'occhiata di compatimento. Ieri ho tentato di spiegare i parallelismi fra il Chirurgo e il nostro uomo, e capivo perfettamente quello che pensava Dean: Ha ancora in mente il Chirurgo. Crede che ne sia ossessionata.» Sospirò. «Magari lo sono. Forse sarà sempre così. E ogni volta che arriverò sulla scena di un delitto vedrò la sua mano. Tutti i killer avranno la sua faccia.» D'un tratto entrambi si girarono verso la radio, che stava trasmettendo una comunicazione dalla Centrale: «Si richiede un controllo a Fairview Cemetery. C'è qualche unità in zona?» Nessuno rispose. La Centrale ripeté la richiesta: «Abbiamo una chiamata per un sopralluogo a Fairview Cemetery. Possibile ingresso non autorizzato. Unità Dodici, siete ancora in zona?» «Unità Dodici. Stiamo effettuando un controllo a River Street. È un codice uno. Non possiamo rispondere.» «Ricevuto. Unità Quindici? Qual è la vostra posizione?» «Unità Quindici. West Roxbury. Siamo ancora impegnati in una chiamata. Stimiamo almeno mezz'ora, forse un'ora prima di poter arrivare a Fairview.» «Altre unità?» chiese la Centrale, sondando tra le onde radio per trovare una pattuglia disponibile. In un caldo sabato notte un controllo di routine in un cimitero non era una chiamata ad alta priorità. I morti vengono dopo le coppie che si danno alla pazza gioia e i vandali adolescenti. Sono i vivi a richiedere prima di tutto l'attenzione di un poliziotto.
Il silenzio radio fu rotto da un membro della squadra di sorveglianza della Rizzoli. «Uh, qui è la pattuglia di sorveglianza Cinque. Siamo appostati sulla Enneking Parkway. Fairview Cemetery è nelle immediate vicinanze...» Jane afferrò il microfono e premette il pulsante di trasmissione. «Pattuglia Cinque, qui pattuglia Uno», sbottò. «Non abbandonate la vostra posizione. Intesi?» «Abbiamo cinque veicoli appostati...» «Il cimitero non è la nostra priorità.» «Pattuglia Uno», affermò la Centrale. «Al momento tutte le unità sono impegnate. Non potete inviarne una?» «Negativo. Voglio che la mia squadra resti in posizione. Intesi, pattuglia Cinque?» «Ricevuto. Manteniamo la posizione. Centrale, non possiamo rispondere alla chiamata di controllo.» Jane emise un sospiro spazientito. Il mattino seguente ci sarebbero state le rimostranze del caso, ma non aveva intenzione di rinunciare a un veicolo della squadra di sorveglianza, non per una chiamata banale. «Non che abbiamo molto da fare», commentò Korsak. «Quando accadrà, accadrà rapidamente. Non voglio che niente possa mandare all'aria il piano.» «Sa quella cosa di cui stavamo parlando prima? L'essere ossessionati?» «Adesso non cominci.» «Non c'è pericolo. So che mi mangerebbe vivo.» Dopodiché Korsak aprì la portiera. «Dove va?» «A fare un goccio. Mi serve il suo permesso?» «Ho solo chiesto.» «Quel caffè è arrivato subito a destinazione.» «Non mi stupisce. Il suo caffè bucherebbe anche la ghisa.» L'uomo uscì dall'auto e s'incamminò nel bosco, le mani impegnate ad aprire la cerniera. Non si curò nemmeno di andare dietro un albero, urinò lì, sui cespugli. Jane non aveva alcuna intenzione di assistere alla scena, perciò distolse lo sguardo. Ogni classe ha il suo alunno disgustoso, e in quel caso era Korsak, il ragazzino che s'infila beatamente le dita nel naso, rutta di gusto e ha sempre la camicia macchiata di cibo. Il bambino dalle mani sudate e grassocce, che i compagni evitano a qualsiasi costo di toccare, perché sono certi di prendersi i pidocchi. Da una parte provava repul-
sione per quell'uomo, dall'altra, pena. Guardò il caffè che le aveva versato, e gettò quel che restava dal finestrino. La radio gracchiò nuovamente e Jane trasalì. «Un veicolo si sta dirigendo a est sulla Dedham Parkway. Sembra un taxi.» La Rizzoli rispose. «Un taxi alle tre del mattino?» «Sembra di sì.» «Dov'è diretto?» «Ha appena svoltato a nord sulla Enneking.» «Pattuglia Due?» esclamò Jane, chiamando la seconda postazione su quella rotta. «Pattuglia Due», rispose Frost. «Sì, lo vediamo. Ci ha appena superato...» Silenzio. Poi, in tono improvvisamente teso, aggiunse: «Sta rallentando...» «Che cosa fa?» «Frena. Sembra che stia per accostare...» «Posizione?» sbottò la Rizzoli. «L'area di parcheggio sterrata. È appena entrato!» È lui. «Korsak, ci siamo!» sibilò dal finestrino. Ogni nervo fremente d'eccitazione, Jane s'infilò la cuffia per le comunicazioni e sistemò il microfono. Korsak si allacciò i pantaloni e tornò di corsa alla macchina. «Che c'è? Che cosa è successo?» «Un veicolo ha appena accostato sulla Enneking... Pattuglia Due, che cosa sta facendo?» «È fermo. I fari sono spenti.» Jane Rizzoli si protese, concentrata, le cuffie premute sulle orecchie. I secondi passavano, nessuno parlava, tutti attendevano una mossa del sospetto. Sta controllando la zona. Verifica se può procedere con sicurezza. «Aspettiamo un tuo ordine, Rizzoli», esclamò Frost. «Ci muoviamo?» Jane esitò, vagliando tutte le opzioni, timorosa di far scattare la trappola troppo presto. «Aspetta», mormorò Frost. «Ha appena riacceso i fari. Oh, merda, sta facendo retromarcia. Ha cambiato idea.» «Vi ha visto? Frost, vi ha visto?» «Non lo so! È tornato sulla Enneking. Va a nord...» «L'abbiamo spaventato!» In quella frazione di secondo capì chiaramente
quale fosse l'unica decisione possibile. «A tutte le unità, convergete, convergete! Accerchiatelo, ora!» abbaiò nel microfono. Avviò l'auto, inserì la marcia e accelerò. Gli pneumatici sgommarono, scavando un solco nella terra coperta di foglie morte, e alcuni rami schiaffeggiarono il parabrezza. Udì il fuoco di fila di trasmissioni fra la sua squadra e il suono lontano di numerose sirene. «Pattuglia Tre. Abbiamo appena bloccato la Enneking...» «Pattuglia Due. Lo stiamo inseguendo...» «Il veicolo si avvicina! Sta frenando...» «Circondatelo! Circondatelo!» «Non affrontatelo senza rinforzi!» ordinò la detective Rizzoli. «Attendete rinforzi!» «Ricevuto. Il veicolo è fermo. Rimaniamo in posizione.» Quando Jane li raggiunse, la Enneking Parkway era già un groviglio di volanti e di lampeggianti blu. Appena scesa dalla macchina, la giovane donna fu temporaneamente accecata. Erano tutti carichi di adrenalina, lo percepiva dalle voci, sentiva la tensione di uomini che si preparavano alla violenza. Frost aprì di scatto la portiera del sospetto e l'uomo si ritrovò con una mezza dozzina di pistole puntate alla testa. Il tassista rimase seduto, battendo le palpebre, disorientato, mentre le luci blu gli illuminavano il viso a intermittenza. «Scenda dall'auto», gli ordinò Frost. «Che cosa... che cos'ho fatto?» «Scenda dall'auto.» In quella notte carica di tensione persino Barry Frost si era trasformato in un individuo che incuteva timore. L'uomo scese lentamente, le mani in alto. Nell'istante in cui i suoi piedi toccarono terra, fu fatto girare e schiacciato a faccia in giù sul cofano dell'auto. «Che cos'ho fatto?» piagnucolò mentre Frost lo perquisiva. «Nome e cognome!» esclamò la Rizzoli. «Non capisco che cosa sta succedendo...» «Il suo nome!» «Wilensky», rispose con un singhiozzo. «Vernon Wilensky...» «Controllate», ordinò Frost, leggendo il tesserino di riconoscimento del tassista. «Vernon Wilensky, maschio, bianco, nato nel 1955.» «Corrisponde alla licenza», affermò Korsak, che si era chinato nel taxi per verificare la targhetta appesa allo specchietto.
Jane Rizzoli sollevò lo sguardo, strizzando gli occhi al bagliore dei fari. Anche alle tre del mattino il traffico andava e veniva e, con la strada bloccata dai veicoli della polizia, si sarebbe presto creata una fila di macchine in entrambe le direzioni. Si concentrò nuovamente sul tassista. Lo afferrò per la camicia, lo fece voltare verso di sé e gli puntò la torcia negli occhi. Vide un uomo di mezz'età, i capelli biondi radi e spettinati, la pelle giallastra sotto il fascio spietato di luce. Il killer che si era immaginata non aveva di certo quella faccia. Aveva guardato il male negli occhi più volte di quanto amasse ricordare e serbava il ricordo di tutti i volti dei mostri che aveva incontrato. Quell'uomo spaventato non figurava nella sua galleria. «Che cosa fa qui, signor Wilensky?» gli chiese. «Stavo solo... rispondendo a una chiamata.» «Quale chiamata?» «Un tizio, voleva un taxi. Ha detto che aveva finito la benzina sulla Enneking Parkway...» «Dov'è?» «Non lo so! Mi sono fermato dove mi ha dato appuntamento, ma non c'era. Per favore, è un errore. Chiamate la centrale! La ragazza vi darà conferma.» La Rizzoli ordinò a Frost: «Apri il bagagliaio». Mentre raggiungeva la parte posteriore dell'auto, avvertì una sensazione crescente di nausea. Aprì il baule e puntò la torcia all'interno. Per almeno cinque secondi rimase a fissare un vano vuoto, e il senso di nausea s'intensificò. S'infilò un paio di guanti. Sentì il volto diventarle rosso e caldo, il petto gonfiarsi di disperazione, mentre sollevava la moquette grigia che ricopriva il fondo. Vide una ruota di scorta, un cric e qualche attrezzo. Allora cominciò a tirare con violenza il tappeto, sollevandolo ulteriormente, e ne strappò via con rabbia ogni centimetro quadrato, mettendo a nudo ogni possibile angolo scuro che la moquette avrebbe potuto celare. Sembrava una pazza che si affannava disperatamente per cercare di ghermire i brandelli della sua stessa salvezza. Quando non rimase più nulla da strappare e la struttura metallica del baule fu completamente esposta, Jane si limitò a fissare lo spazio vuoto, rifiutando di accettare l'evidenza. La prova inconfutabile del suo fallimento. Una messinscena. Quella era solo una messinscena con lo scopo di distrarci. Ma da che cosa? La risposta le arrivò a una velocità sorprendente. Una voce gracchiò dal-
le ricetrasmittenti. «Dieci cinquantaquattro. Fairview Cemetery. A tutte le unità, dieci cinquantaquattro, Fairview Cemetery.» Jane incrociò lo sguardo di Frost, entrambi con lo stesso, atroce pensiero in testa. Dieci cinquantaquattro. Omicidio. «Resta col tassista!» ordinò a Frost, correndo alla macchina. Nel groviglio di veicoli, la sua auto era la più facile da manovrare, quella che poteva fare più rapidamente inversione. Mentre si precipitava al volante e girava la chiave, cominciò a maledire la sua stupidità. «Ehi! Ehi!» urlò Korsak. Stava correndo di fianco all'auto e batteva la mano sul vetro. Jane frenò quel tanto che bastò per farlo salire e permettergli di chiudere la portiera. Poi premette a fondo l'acceleratore, scagliandolo contro lo schienale del sedile. «Che cazzo, voleva lasciarmi qui?» gridò lui. «Si allacci la cintura.» «Non sono un comune passeggero.» «Si allacci la cintura!» Korsak tirò la cintura di sicurezza e l'agganciò. Nonostante le voci che gracchiavano nella radio, Jane riusciva a udire il suo respiro affannoso e ansimante. «Pattuglia Uno, rispondo al dieci cinquantaquattro», comunicò alla Centrale. «La vostra posizione?» «Enneking Parkway, abbiamo appena superato l'incrocio con Turtle Pond. Tempo d'arrivo stimato, meno di un minuto.» «Sarete i primi sulla scena.» «Situazione?» «Non abbiamo ulteriori informazioni. Crediamo si tratti di un dieci cinquantaquattro.» È armato e si suppone pericoloso. Jane aveva il piede incollato all'acceleratore. La deviazione per il Fairview Cemetery comparve tanto in fretta che quasi la mancò. Imboccarono la curva con un gran stridore di pneumatici, e la giovane donna dovette faticare per mantenere il controllo del volante. «Uau!» esclamò Korsak quando schivarono per un soffio una serie di massi lungo il ciglio della strada. Il cancello di ferro battuto era aperto e la Rizzoli entrò con l'auto. Il cimitero era buio, e dietro i fari s'intravedeva un
prato disseminato di tombe, che si levavano da terra come denti bianchi. Un veicolo della vigilanza era parcheggiato a cento metri dal cancello. La portiera del conducente era aperta e la luce dell'abitacolo accesa. Jane Rizzoli frenò e, prima ancora di scendere, portò la mano alla pistola, un gesto ormai tanto automatico da risultare inconscio. Troppi dettagli la stavano assalendo: l'odore dell'erba appena tagliata e della terra umida. Il cuore che batteva dietro lo sterno. E la paura. Mentre scrutava l'oscurità, sentì il pungolo freddo della paura, perché sapeva che se il taxi era stato un diversivo, poteva esserlo anche quello. Un gioco sanguinoso di cui non si era nemmeno resa conto di far parte. D'un tratto s'impietrì, gli occhi fissi su un'ombra vicino alla base di un monumento commemorativo. Puntò la torcia e vide il corpo ricurvo della guardia. Gli si avvicinò e sentì l'odore del sangue. Non esisteva altro odore uguale a quello, e nel suo cervello suonò un campanello d'allarme. S'inginocchiò sull'erba imbrattata di sangue, ancora caldo. Korsak la raggiunse immediatamente, facendo luce con la sua torcia, e lei udì gli sbuffi e i rumori porcini che l'uomo era solito emettere quando faceva uno sforzo. La guardia era prona. Jane la voltò. «Gesù!» urlò Korsak, trasalendo con tanta violenza che il fascio di luce s'impennò di scatto verso il cielo. Anche la luce proiettata dalla torcia di Jane tremò, mentre la donna osservava il collo quasi reciso, brandelli di cartilagine bianca e lucida che fuoriuscivano dalla carne macellata. Era morto, non c'erano dubbi. A terra, fuori combattimento, la testa a malapena attaccata al corpo. Varie luci blu lampeggianti squarciarono la notte, un caleidoscopio surreale che si avvicinava al cimitero. Jane si alzò, i pantaloni imbrattati di sangue, il tessuto organico appiccicato alle ginocchia. Con gli occhi chiusi per difendersi dal bagliore delle pattuglie in arrivo, si voltò verso la distesa nera del cimitero. In quell'istante, mentre i fari tracciavano un arco nell'oscurità, un'immagine si fissò sulle sue retine: una figura che correva fra le lapidi. L'esperienza durò una frazione di secondo, ma nel lampo di luce successivo la figura era scomparsa nella marea di marmi e graniti. «Korsak», esclamò. «Qualcuno si sta muovendo... a ore due.» «Non vedo un cazzo.» Jane fissò il buio. Lo scorse di nuovo, correre giù dal pendio, verso la copertura di alberi. Scattò come una molla, zigzagando fra le lapidi, pe-
stando rumorosamente il suolo sotto il quale riposavano i defunti. Udì Korsak alle sue spalle: sbuffava come un treno, incapace di starle dietro. Qualche secondo più tardi, si ritrovò sola, le gambe che si muovevano macchinalmente, alimentate dall'adrenalina. Aveva quasi raggiunto gli alberi e si stava avvicinando al punto in cui aveva intravisto la sagoma l'ultima volta, ma non colse alcun movimento, nessun'ombra nera nella fitta oscurità. Allora rallentò e si fermò, scrutò il buio, a destra e a sinistra, in cerca del minimo indizio. Nonostante si fosse fermata, il suo cuore accelerò, incalzato dalla paura, dall'inquietante certezza che lui fosse nelle vicinanze. La stava guardando. Ma non voleva accendere la torcia, per non rivelare la sua posizione. Lo spezzarsi di un ramoscello la fece voltare a destra. Gli alberi davanti a lei formavano una cortina nera e impenetrabile. Sopra il rumore del battito del cuore e il sibilo dei polmoni, Jane udì un fruscio di foglie e uno scricchiolio di rami. Sta venendo verso di me. Si accucciò, puntò la pistola, il dito pronto sul grilletto. I passi cessarono all'improvviso. Jane accese la torcia e indirizzò la luce davanti a sé. Fu allora che lo vide, vestito di nero, in piedi fra gli alberi. Sorpreso dalla luce, si voltò, sollevando un braccio per ripararsi gli occhi. «Fermo!» gridò Jane. «Polizia!» L'uomo rimase perfettamente immobile, la faccia voltata, le mani che gli coprivano il volto. Con voce tranquilla, disse: «Ora mi tolgo gli occhiali». «No, stronzo! Tu rimani fermo dove sei.» «E poi cosa, detective Rizzoli? Ci scambiamo i distintivi? Ci diamo una pacca sulla spalla?» Jane Rizzoli lo fissò, riconoscendo d'un tratto la voce. Gabriel Dean si tolse gli occhiali con deliberata lentezza e si girò verso di lei. Con la luce della torcia negli occhi non riusciva a guardarla in faccia, ma lei lo vedeva bene, e la sua espressione era fredda e composta. Lo illuminò dal basso all'alto: riconobbe i pantaloni neri, una pistola nella fondina legata alla vita e, in mano, gli occhiali per la visione notturna che si era appena tolto. Ricordò allora le parole di Korsak: 'Il fottuto James Bond'. Dean fece un passo verso di lei. Jane alzò d'istinto la pistola. «Rimanga dov'è.» «Calma, Rizzoli. Non c'è ragione di farmi saltare la testa.» «Ah, no?»
«Mi avvicino soltanto, così possiamo parlare.» Dean guardò i lampeggianti delle auto. «Chi crede che abbia segnalato l'omicidio via radio?» Jane rimase immobile, senza permettere alla sua mano di tremare. «Usi la testa, detective. Credo che le funzioni bene.» Fece un altro passo. «Rimanga dov'è, cazzo!» «D'accordo.» Sollevò le mani. Poi ripeté piano: «D'accordo». «Che cosa ci fa qui?» «La stessa cosa che fa lei. È qui che c'è l'azione.» «Come faceva a saperlo? Se è stato lei a chiamare quel dieci cinquantaquattro, come sapeva che l'azione era qui?» «Non lo sapevo.» «È capitato qui per caso e ha trovato il cadavere?» «Ho sentito la Centrale che chiamava per un controllo a Fairview Cemetery. Un possibile intruso.» «E allora?» «Allora mi sono chiesto se si trattasse del nostro uomo.» «Ah, davvero?» «Sì.» «Doveva avere delle valide ragioni.» «Istinto.» «Non mi prenda per il culo, Dean. Arriva vestito di tutto punto per una missione notturna, e io dovrei credere che è venuto qui solo per verificare la presenza di un intruso?» «Ho un buon istinto.» «Dovrebbe avere poteri extrasensoriali per essere così bravo.» «Stiamo perdendo tempo, detective. O mi arresta o collabora.» «Propendo per la prima soluzione.» Gabriel la guardò imperturbabile. Le stava nascondendo troppe cose, troppi segreti che non le avrebbe mai rivelato. Non in quel luogo, non quella sera. Alla fine abbassò l'arma, ma non la ripose nella fondina. Gabriel Dean non le ispirava molta fiducia. «Dal momento che è arrivato per primo sulla scena, che cos'ha visto?» «Ho trovato la guardia già a terra. Ho usato la radio della sua auto per chiamare la Centrale. Il sangue era ancora caldo. Ho pensato che il nostro uomo potesse essere nei pressi. Perciò ho dato un'occhiata.» Jane Rizzoli emise un sospiro, dubbiosa. «Fra gli alberi?» «Non ho visto altri veicoli nel cimitero. Sa che quartieri ci sono qui intorno, detective?»
Jane esitò. «Dedham a est. Hyde Park a nord e a sud.» «Esattamente. Quartieri residenziali su tutti i lati, con numerosi posti per parcheggiare un'auto. Da lì al cimitero è una breve passeggiata.» «Perché il nostro uomo sarebbe venuto qui?» «Che cosa sappiamo di lui? Che è ossessionato dai morti. Che ne brama l'odore, il contatto. Conserva i corpi finché l'odore diventa impossibile da camuffare, da nascondere. Solo allora abbandona i resti. È un uomo che probabilmente si eccita al solo camminare in un cimitero. Ed eccolo qui, al buio, che si concede una piccola avventura erotica.» «Questa è perversione.» «Guardi con la sua mente, il suo universo. Noi pensiamo che sia malato, ma per lui questo luogo è una fetta di paradiso, dove vengono deposti i morti, perché riposino. Proprio il posto in cui verrebbe il Dominatore. Lui cammina fra le tombe e forse immagina un harem intero di donne addormentate sotto ai suoi piedi. Ma poi viene disturbato, sorpreso dall'arrivo di una guardia della sicurezza. Un vigilante che probabilmente lo scambia per qualche innocuo ragazzino in cerca di un'avventura notturna.» «E la guardia lascia che un uomo solo gli si avvicini e gli tagli la gola?» Dean rimase in silenzio. Per quello, non aveva spiegazioni. E nemmeno Jane. Quando risalirono il pendio, la notte pulsava ormai di lampeggianti blu e la squadra di Jane stava già recintando la scena del delitto con nastro e paletti. Lei fissò quel truce viavai e improvvisamente si sentì troppo stanca per affrontare ciò che l'aspettava. Raramente aveva dubitato della propria capacità di giudizio, o messo in discussione i suoi istinti. Ma quella sera, di fronte all'evidenza del fallimento, si domandò se Gabriel Dean non avesse ragione: magari era inadatta a condurre l'indagine. Forse il trauma inflittole da Warren Hoyt l'aveva segnata al punto di impedirle di essere un buon poliziotto. Quella notte aveva preso la decisione sbagliata, aveva impedito che qualcuno della sua squadra rispondesse a una chiamata per un controllo. Eravamo solo a un chilometro e mezzo di distanza. Seduti in auto ad attendere un bel nulla, mentre quest'uomo stava morendo. Il peso della sconfitta si era accumulato tanto rapidamente sulle sue spalle che ora si sentiva piegata in due, come sotto un carico di pietre. Tornò all'auto e rispose al cellulare. Era Frost. «La centrale ha confermato la storia del tassista», le comunicò. «Hanno ricevuto la telefonata alle due e sedici. Un uomo affermava di essere rimasto a secco sulla Enneking Parkway, e hanno inoltrato la chiamata al si-
gnor Wilensky. Stiamo cercando di rintracciare il numero.» «Non è stupido. La telefonata non porterà a niente. Di certo è stata fatta da una cabina pubblica o da un cellulare rubato. Merda.» Picchiò una mano sul cruscotto. «Che cosa facciamo con il tassista? È pulito.» «Lascialo andare.» «Sei sicura?» «È stato tutto un gioco, Frost. Sapeva che lo stavamo aspettando. Si sta divertendo. Ci vuole dimostrare che ha lui il controllo. Che è più intelligente di noi.» E ci è appena riuscito. Richiuse il telefono e rimase seduta per un istante, cercando di raccogliere le energie per uscire dalla macchina e affrontare ciò che l'aspettava. Un altro caso di omicidio. Tutte le domande che, sicuramente, sarebbero seguite alla sua decisione di quella notte. Pensò a quanto fermamente aveva creduto che il soggetto rispettasse il suo modus operandi; invece glielo aveva ritorto contro, per farsi beffe di lei, per metterla nella scomoda posizione in cui ora si ritrovava. Un gruppetto di poliziotti vicini al nastro si voltarono e guardarono nella sua direzione... segno che, malgrado la stanchezza, non si sarebbe potuta nascondere a lungo in macchina. Ricordò il thermos di caffè di Korsak: per quanto disgustoso, poteva sempre sfruttare le proprietà della caffeina. Si voltò per prenderlo dal sedile posteriore e improvvisamente s'impietrì. Guardò gli agenti in piedi fra le auto. Notò che Gabriel Dean, magro ed elegante come un gatto nero, stava perlustrando il perimetro della scena. Vide poliziotti intenti a esaminare il terreno, i fasci di luce spostarsi su e giù. Ma Korsak non c'era. Si precipitò fuori dall'auto e si avvicinò all'agente Doud, che faceva parte della squadra. «Hai visto il detective Korsak?» domandò. «No, detective.» «Non era qui quando sei arrivato? Non stava aspettando di fianco al cadavere?» «Non l'ho proprio visto.» Guardò verso gli alberi, nel punto in cui aveva incontrato Gabriel Dean. Korsak stava correndo proprio dietro di me. Ma non mi ha mai raggiunto. E non è tornato qui... S'incamminò verso il bosco, ripercorrendo la strada che aveva fatto di corsa in mezzo al cimitero. Durante quello scatto si era concentrata solo sull'inseguimento e aveva prestato poca attenzione a Korsak, che si era
messo a correre alle sue spalle. Ricordava la paura, il cuore martellante, la brezza notturna sul viso. Rammentava il respiro affannoso del collega mentre cercava di raggiungerla. Poi Vince era rimasto indietro, e lei se n'era scordata. Accelerò il passo, muovendo la torcia a destra e a sinistra. Era la strada che aveva fatto prima? No, la fila di lapidi era diversa. Poi riconobbe un monumento che si ergeva alla sua sinistra. Correggendo la rotta, si diresse verso di esso e quasi inciampò nelle gambe di Korsak. Giaceva ricurvo accanto a una lapide e l'ombra del suo torace possente si confondeva con il granito. Immediatamente, Jane si inginocchiò accanto a lui e gridò chiedendo aiuto, mentre cercava di metterlo in posizione supina. Un'occhiata al viso gonfio e scuro le rivelò che era in arresto cardiaco. Gli tastò il collo, desiderando a tal punto di sentire il polso carotideo che quasi scambiò quello delle sue dita per il battito di Korsak. Non percepiva nulla. Gli diede un pugno sul petto. Ma nemmeno quel colpo violento servì a risvegliargli il cuore. Gli reclinò la testa e tirò con forza in avanti la mandibola, per liberare le vie respiratorie. Fino a poco prima erano così tante le cose che la disgustavano in quell'uomo: il puzzo di sudore e di sigaretta, il respiro rumoroso, la sua stretta di mano molliccia. Ma non avvertì alcun ribrezzo quando premette la bocca contro la sua e gli soffiò aria nei polmoni. Sentì il suo petto espandersi e udì un sibilo rumoroso quando i polmoni espulsero di nuovo aria. Allora gli piazzò le mani sul petto e cominciò a rianimarlo, facendo il lavoro che il suo cuore si rifiutava di fare. Mentre altri poliziotti accorrevano in soccorso, lei continuò a pompare nonostante cominciassero a tremarle le braccia e stesse sudando a profusione nel giubbotto. Senza fermarsi, cominciò a rimproverarsi tra sé. Come aveva fatto a non vederlo, là steso? Perché non aveva notato la sua assenza? Le bruciavano i muscoli e le dolevano le ginocchia, ma non si fermò. Glielo doveva, quella volta non l'avrebbe abbandonato. Si udì la sirena di un'ambulanza in avvicinamento. All'arrivo dei paramedici, Jane non aveva ancora smesso di rianimarlo. Solo quando qualcuno le strinse un braccio e la trascinò via con fermezza desistette. Rimase in disparte, le gambe tremanti, mentre i paramedici gli inserivano una linea endovenosa per avviare una flebo di soluzione salina. Poi rovesciarono all'indietro la testa di Korsak e gli infilarono un laringo-
scopio in gola. «Non vedo le corde vocali!» «Gesù, ha un collo enorme.» «Aiutami a riposizionarlo.» «Va bene. Prova ancora!» Il paramedico inserì di nuovo il laringoscopio, sforzandosi di sostenere il peso della mandibola del detective. Con il collo massiccio e la lingua gonfia, Korsak sembrava un toro appena squartato. «Il tubo è in posizione!» Gli strapparono la camicia, mettendo a nudo una folta peluria, e gli appoggiarono le piastre del defibrillatore. Sul monitor dell'ECG comparve una linea frastagliata. «Tachicardia ventricolare!» Azionarono le piastre e una scarica di corrente elettrica si propagò nel petto di Korsak. La scossa fece sussultare il torso pesante, che però, poco dopo, ricadde a terra inerte. Le numerose torce degli agenti misero a nudo ogni crudele dettaglio del suo corpo, dal grosso ventre pallido e prominente al petto quasi femminile, motivo di imbarazzo per tanti uomini sovrappeso. «Bene! C'è battito. Tachicardia sinusale...» «Pressione?» Il bracciale si strinse forte attorno al suo arto carnoso. «Sistolica novanta. Spostiamolo!» Anche dopo che Korsak venne trasferito sull'ambulanza e le luci di coda del veicolo furono svanite nella notte, la Rizzoli rimase immobile. Intorpidita dalla stanchezza, fissò in direzione della vettura, immaginando ciò che avrebbe dovuto affrontare il collega. Le luci abbaglianti del pronto soccorso, altri aghi, altri tubi. Le venne in mente che avrebbe dovuto chiamare la moglie, ma non sapeva nemmeno il suo nome. In effetti, non conosceva quasi nulla della sua vita personale, e provò una tristezza insopportabile per il fatto di essere più informata sui coniugi Yeager, defunti, che sull'uomo vivo e vegeto che aveva lavorato accanto a lei. Il partner che aveva trascurato. Abbassò lo sguardo sull'erba dove lui era rimasto sdraiato: conservava ancora l'impronta del suo corpo pesante. Immaginò Korsak correre dietro di lei, troppo affannato per raggiungerla. Doveva aver fatto uno sforzo enorme, spinto dalla vanità maschile, dall'orgoglio. Si era tenuto il petto prima di cadere? Aveva chiamato aiuto?
Non l'avrei udito ugualmente. Ero troppo impegnata a seguire le ombre. A tentare di salvare il mio orgoglio. «Detective Rizzoli?» L'agente Doud la chiamò. Le si era avvicinato tanto silenziosamente che non si era nemmeno accorta della sua presenza. «Sì?» «Temo ce ne sia un altro.» «Un altro...?» «Sì, un altro corpo.» Sbigottita, non riuscì a proferire parola mentre seguiva Doud sull'erba umida e la torcia dell'agente illuminava la strada nell'oscurità. Più in là, ulteriori guizzi di luci indicarono loro la destinazione. Quando Jane percepì il fetore di putrefazione, erano ormai a centinaia di metri dal punto in cui era stata uccisa la guardia di sicurezza. «Chi l'ha trovato?» chiese Jane. «L'agente Dean.» «Perché stava cercando tanto lontano?» «Credo che stesse facendo un giro di perlustrazione.» Mentre Jane si avvicinava, Dean si voltò. «Penso che abbiamo trovato Karenna Ghent», annunciò. La donna giaceva su una tomba, i capelli neri sparpagliati intorno al volto. Mucchietti di foglie erano disposti fra di essi a mo' di decorazione, a dileggio della carne mortificata. Doveva essere morta da tempo, perché aveva il ventre gonfio e rivoli di fluidi corporei spurgavano dalle narici. Ma l'impatto di quei dettagli non fu nulla a confronto dell'orribile lacerazione al basso ventre. La detective fissò la ferita aperta. Un singolo taglio trasversale. D'un tratto le sembrò che la terra le si aprisse sotto i piedi e vacillò all'indietro, cercò a tentoni qualcosa a cui aggrapparsi ma trovò solo aria. Fu Dean a sostenerla, afferrandola fermamente per un gomito. «Non è una coincidenza», affermò. Jane rimase in silenzio, lo sguardo sempre fisso sulla terribile ferita. Le tornarono alla memoria lacerazioni simili di altre donne. Ricordò un'estate ancora più calda di quella in corso. «Segue i telegiornali», esclamò Gabriel Dean. «È a conoscenza del fatto che lei è a capo dell'indagine. Sa come capovolgere la situazione a suo favore, come giocare al gatto e al topo, a ruoli invertiti. È questo che è diventato per lui ormai. Un gioco.» Nonostante udisse le sue parole, non riusciva a capire che cosa le stesse
dicendo. «Quale gioco?» «Non ha visto il nome?» Indirizzò il fascio di luce della torcia sulle parole incise sulla lapide di granito: MARITO E PADRE AMOREVOLE ANTHONY RIZZOLI 1901-1962 «È una provocazione», asserì Gabriel. «Ed è rivolta proprio a lei.» 13 La donna seduta accanto al letto di Korsak aveva capelli lisci e castani, che sembravano non aver visto da giorni né shampoo né pettine. Non lo toccava, limitandosi semplicemente a osservare il letto con sguardo assente, le mani in grembo, immobile come un manichino. Jane era in piedi fuori dalla stanza dell'unità di Terapia intensiva, indecisa se entrare o no. Poi la donna alzò lo sguardo e incrociò il suo oltre il vetro, e a quel punto Jane capì di non poter fuggire. Entrò nella stanza. «Signora Korsak?» chiese. «Sì?» «Sono la detective Rizzoli. Jane. Per favore, mi chiami pure Jane.» L'espressione della donna rimase immutata; quel nome non le diceva niente. «Mi spiace, ma non so come si chiami», affermò la giovane detective. «Diane.» La donna rimase in silenzio per un attimo; poi si accigliò. «Mi scusi. Mi dice di nuovo chi è lei?» «Jane Rizzoli. Sono del Dipartimento di polizia di Boston. Lavoravo a un caso insieme a suo marito. Forse gliel'ha accennato.» Diane scrollò le spalle e guardò il marito. Il suo volto non rivelava dolore né paura, solo il torpore passivo dell'esaurimento. Per un istante Jane rimase in silenzio accanto al letto. Quanti tubi, pensò. Quante macchine. E in mezzo c'era Korsak, ridotto a un ammasso di carne inerte. I medici avevano confermato la diagnosi di attacco cardiaco ma, nonostante il polso fosse ormai stabile, Vince permaneva in uno stato d'incoscienza. Aveva la bocca semiaperta, da cui fuoriusciva un tubo endotracheale simile a un serpente di plastica. Una sacca appesa di fianco al letto si riempiva lentamente d'urina. Le lenzuola gli coprivano i genitali, ma il
petto e l'addome erano nudi, e una gamba pelosa sporgeva da sotto il lenzuolo, rivelando un piede dalle unghie gialle e lunghe. Mentre osservava quei dettagli, Jane si vergognava di aver violato la sua privacy, di vederlo in una condizione di vulnerabilità estrema, eppure non riusciva a distogliere gli occhi da lui. Si sentiva obbligata a fissare, lo sguardo attirato da quei particolari intimi che, se fosse stato cosciente, Korsak non avrebbe voluto mostrarle. «Ha bisogno di radersi», affermò Diane. Una preoccupazione del tutto banale, ma era la prima frase spontanea di Diane. Non aveva ancora mosso un muscolo, era seduta perfettamente immobile, le mani flaccide, l'espressione placida scolpita come nella pietra. Jane cercò qualcosa da dire perché si sentiva in dovere di confortarla, e optò per un cliché. «È un uomo combattivo. Non si arrenderà facilmente.» Le sue parole caddero nel vuoto come pietre in uno stagno senza fondo. Nessuna increspatura, nessun effetto. Trascorsero lunghi attimi di silenzio prima che Diane la guardasse con i suoi occhi azzurri spenti. «Temo di aver scordato di nuovo il suo nome.» «Jane Rizzoli. Suo marito e io eravamo impegnati in un'operazione di sorveglianza.» «Oh, è lei.» Jane rimase in silenzio per un istante, improvvisamente in preda a sensi di colpa. Sì, sono io. Quella che l'ha abbandonato. Che l'ha lasciato solo, moribondo, nell'oscurità, perché ero troppo impegnata a cercare di rimediare al casino di quella sera. «Grazie», affermò Diane. La giovane detective aggrottò la fronte. «Per cosa?» «Per quello che ha fatto. Per averlo aiutato.» Jane guardò negli occhi azzurri e vacui della donna, e per la prima volta notò le sue pupille ristrette. Gli occhi di un'anestetizzata, pensò. Diane Korsak era in uno stato di stordimento indotto da narcotici. Jane si voltò verso Korsak. Rammentò la notte in cui l'aveva chiamato sulla scena del delitto Ghent, e lui era arrivato ubriaco. Ricordò, inoltre, la sera in cui erano al parcheggio dell'istituto di medicina legale, quando Vince gli era sembrato riluttante all'idea di tornare a casa. Era questo che affrontava ogni sera? Una donna con lo sguardo assente e la voce da robot? Non me l'hai mai detto. E io non mi sono mai presa la briga di chiedere. Si avvicinò al letto e gli strinse una mano. Ricordò quanto la sua stretta
di mano l'avesse sempre disgustata. Non quel giorno però: in quel momento sarebbe stata contenta se lui l'avesse ricambiata. Ma la mano dell'uomo rimase inerte tra le sue. Quando finalmente tornò a casa, erano le undici del mattino. Chiuse la porta con due mandate, premette il pulsante di blocco della serratura e agganciò la catena. Una volta avrebbe considerato tutti quei lucchetti un segno di paranoia; una volta si sarebbe accontentata di girare il pomolo della maniglia e di tenere un'arma nel cassetto del comodino. Ma un anno prima Warren Hoyt le aveva cambiato la vita, e da allora la sua porta era stata dotata di tutti quegli accessori d'ottone lucido. Fissò le chiusure, improvvisamente conscia di essere diventata come tutte le altre vittime di un crimine violento, ansiosa di barricarsi in casa e di chiudere fuori il mondo. Era tutta colpa del Chirurgo. Ora c'era anche quel nuovo assassino, il Dominatore; aveva aggiunto la sua voce al coro dei mostri che urlavano fuori dalla sua porta. Gabriel Dean aveva capito subito che la scelta della tomba sulla quale era stato lasciato il cadavere di Karenna Ghent non era stata casuale. Nonostante l'occupante, Anthony Rizzoli, non fosse suo parente, si trattava chiaramente di un messaggio indirizzato a lei. Il Dominatore conosce il mio nome. Non si tolse la fondina finché non ebbe completato il giro dell'appartamento. Non era molto grande e le occorse meno di un minuto per guardare in cucina e nel salotto, per percorrere il breve corridoio fino alla stanza, dove aprì l'armadio e controllò sotto il letto. Solo allora la slacciò e infilò la pistola nel cassetto del comodino. Si sfilò i vestiti e andò in bagno. Chiuse la porta a chiave, un altro riflesso automatico e completamente inutile, ma era l'unico modo per riuscire a entrare nella doccia e trovare il coraggio di tirare la tenda. Qualche attimo più tardi, i capelli ancora viscidi di balsamo, fu colta dalla sensazione di non essere sola. Aprì la tenda e fissò il bagno vuoto; il cuore le martellava nel petto e l'acqua le gocciolava dalle spalle sul pavimento. Chiuse il rubinetto e si appoggiò alla parete piastrellata, respirando profondamente, in attesa che il battito cardiaco rallentasse. Oltre il ritmo incalzante delle pulsazioni, udì il ronzio della ventilazione. Il brontolio dei tubi dell'edificio. Rumori quotidiani che non si era mai presa la briga di ascoltare prima di allora, in giorni in cui la regolarità di quei suoni la rilassava.
Quando il cuore riacquistò finalmente un battito normale, l'acqua le aveva raffreddato la pelle. Uscì dalla doccia, si asciugò e pulì il pavimento. Malgrado la spavalderia sul lavoro e l'atteggiamento da dura, era ridotta a un mucchietto di carne tremante. Si guardò allo specchio e vide come la paura l'avesse cambiata. La donna che la fissava aveva perso peso, e la sua figura, già sottile, si stava avvicinando sempre di più alla magrezza estrema. Il volto, un tempo squadrato e forte, ora sembrava emaciato come quello di un fantasma, gli occhi larghi e scuri sempre più infossati. Distolse lo sguardo dallo specchio, uscì dal bagno e andò in camera. Con i capelli ancora umidi si lasciò cadere sul letto e rimase stesa con gli occhi aperti, consapevole di dover dormire almeno per qualche ora. Ma la luce del giorno filtrava dalle fessure delle tapparelle, e si sentiva il rumore del traffico nella strada sottostante. Era mezzogiorno, era sveglia da quasi trenta ore e come minimo da dodici non mangiava. Ciononostante, non aveva appetito né riusciva a prendere sonno. Gli eventi di quel primo mattino le ronzavano come corrente elettrica nel sistema nervoso, e i ricordi crepitavano nella sua mente, ricorrenti. Vedeva la gola squarciata della guardia, la sua testa reclinata in un'angolazione assurda rispetto al torso. Vedeva Karenna Ghent, le foglie sparse tra i capelli. E vedeva Korsak, il corpo martoriato da tubi e fili. Le tre immagini si ripetevano nella sua mente come una luce stroboscopica, che lei non era in grado di spegnere. Non riusciva a zittire quel ronzio. Era così che iniziava la pazzia? Qualche tempo prima il dottor Zucker le aveva suggerito di chiedere assistenza e lei aveva rifiutato rabbiosamente il consiglio. Ora si domandava se nelle sue parole, nel suo sguardo, il criminologo potesse aver captato ciò di cui nemmeno lei si rendeva conto. Le prime crepe nella sua salute mentale, che avanzavano inesorabilmente da quando il Chirurgo le aveva sconvolto la vita. Lo squillo del telefono la fece destare di soprassalto. Le sembrava di avere appena chiuso gli occhi, e la prima sensazione che provò mentre cercava a tentoni la cornetta fu di rabbia, per il fatto che non le fosse concesso nemmeno un attimo di riposo. Rispose con un brusco: «Rizzoli». «Ehm... detective Rizzoli, sono Yoshima, l'assistente del medico legale. La dottoressa Isles la aspettava per l'autopsia della Ghent.» «Sto arrivando.» «Be', ha già iniziato, e...»
«Che ore sono?» «Quasi le quattro. Abbiamo tentato di rintracciarla sul cercapersone, ma non ha risposto.» Jane si mise a sedere con tanta rapidità che la stanza prese a girare. Allora scrollò la testa e guardò l'orologio accanto al letto: erano le tre e cinquantadue. Non aveva nemmeno udito il suono della sveglia, e il cercapersone era squillato a vuoto. «Mi spiace, sarò lì il più presto possibile.» «Attenda in linea. La dottoressa le vuole parlare.» Udì un clangore di ferri su un vassoio metallico, poi la voce della Isles. «Detective Rizzoli, sta arrivando, vero?» «Mi ci vorrà circa mezz'ora.» «Allora aspetterò.» «Non voglio farle perdere tempo.» «Sta arrivando anche il dottor Tierney. C'è una cosa che entrambi dovete vedere.» Era molto strano. Con tutti i medici legali disponibili, perché la dottoressa Isles aveva richiamato in servizio il dottor Tierney, neopensionato? «C'è qualche problema?» chiese Jane. «La ferita all'addome della vittima», rispose Maura. «Non è un semplice squarcio. È un'incisione chirurgica.» Quando Jane arrivò, il dottor Tierney aveva già indossato il camice ed era in piedi nella sala autoptica. Come la Isles, in genere non si curava di indossare una maschera di protezione e, quel pomeriggio, portava una semplice visiera di plastica, attraverso la quale Jane riusciva a scorgerne l'espressione truce. Tutti i presenti avevano un'aria altrettanto cupa, e la accolsero con un silenzio snervante. Ormai la presenza dell'agente Dean non la sorprendeva più, perciò ricambiò il suo sguardo con un debole cenno del capo, domandandosi se, come lei, fosse riuscito a dormire qualche ora. Per la prima volta notò stanchezza nei suoi occhi. Anche Gabriel Dean cominciava lentamente a crollare sotto il peso di quell'indagine. «Che cosa mi sono persa?» chiese Jane. Non ancora pronta a guardare il cadavere, mantenne gli occhi puntati sulla dottoressa Isles. «Abbiamo completato l'esame esterno. I tecnici del laboratorio hanno già prelevato eventuali fibre, tagliato le unghie e pettinato i capelli.» «E per quanto riguarda il tampone vaginale?» La dottoressa annuì. «C'erano spermatozoi mobili.» Jane fece un respiro profondo e finalmente abbassò lo sguardo sul corpo
di Karenna Ghent. L'odore nauseabondo era quasi più forte del mentolo che, per la prima volta, si era spalmata sotto le narici. Non si fidava più del suo stomaco. Troppe cose erano andate storte nelle ultime settimane, e Jane aveva perso fiducia nelle forze che l'avevano sostenuta in altre indagini. Quando era entrata in quella stanza, ciò che temeva non era l'autopsia in sé, ma la sua reazione in quella circostanza. Non era in grado di predire, né di controllare, le proprie emozioni, cosa che la spaventava più di ogni altra. A casa aveva mangiato qualche cracker, per non affrontare quello strazio a stomaco vuoto, e fu lieta di non percepire nemmeno una fitta di nausea nonostante gli odori e le grottesche condizioni del cadavere. Mentre osservava l'addome bruno verdastro riuscì, dunque, a mantenere una certa compostezza. La dottoressa non aveva ancora effettuato l'incisione a Y. La ferita aperta era la sola cosa che non riusciva a guardare; perciò si concentrò sul collo, sui lividi a forma di disco, visibili malgrado la discromia post mortem, situati a entrambi gli angoli della mandibola. I segni lasciati dalle dita del killer, che premevano sulla carne. «Strangolamento manuale», affermò la Isles. «Come per Gail Yeager.» 'Il modo più intimo per uccidere qualcuno' l'aveva definito il dottor Zucker. Il contatto ravvicinato, faccia a faccia. Le vostre mani sulla sua carne. Comprimete la gola e sentite la vita che scivola via sotto di esse. «E le radiografie?» «Hanno evidenziato una frattura del corno tiroideo sinistro.» «Non è il collo che ci preoccupa. È la ferita. Le suggerisco di mettersi un paio di guanti, detective. Dovrà esaminare da sé», intervenne il dottor Tierney. Jane raggiunse l'armadio dove tenevano i guanti. Ne prese un paio di taglia piccola e se li infilò lentamente, approfittando dell'occasione per calmarsi. Infine si girò e tornò al tavolo. La dottoressa Isles aveva puntato la lampada sulla parte inferiore dell'addome. I margini della ferita somigliavano a labbra nere semiaperte. «Lo strato di pelle è stato inciso con un unico taglio netto», affermò Maura, «praticato con una lama liscia. Subito dopo è seguita un'incisione più profonda. Prima la fascia superficiale, poi il muscolo, e infine il peritoneo pelvico.» Jane fissò la ferita, pensando alla mano che aveva tenuto la lama, a una mano tanto ferma da poter eseguire l'incisione in un'unica fase, con sicurezza. «La vittima era viva quando le hanno fatto questo?» chiese con un sus-
surro. «No. Non ha usato suture, e non c'è stata emorragia. Si è trattato di un'asportazione post mortem, effettuata dopo che il cuore della vittima si era fermato, a circolazione cessata. Il modo in cui è stata effettuata, ossia la sequenza metodica delle incisioni, indica che l'assassino ha una certa esperienza chirurgica. L'ha già fatto altre volte.» «Vada avanti, detective. Esamini la ferita», la incalzò Tierney. La giovane detective esitò, le mani ghiacciate nei guanti di lattice. Lentamente, infilò la mano nell'incisione, penetrando in profondità nel bacino di Karenna Ghent. Sapeva esattamente che cosa avrebbe trovato, eppure restò ugualmente sconvolta. Guardò il dottor Tierney e nei suoi occhi colse uno sguardo di conferma. «L'utero è stato rimosso», asserì il medico. Jane estrasse la mano dalla pelvi. «È lui», affermò con un filo di voce. «È stato Warren Hoyt.» «Ma tutto il resto è coerente con il modus operandi del Dominatore. Il rapimento. Lo strangolamento. Il rapporto sessuale post mortem...» «Ma non questo», affermò Jane, senza distogliere gli occhi dalla ferita. «Questa è una fantasia di Hoyt. È ciò che lo eccita. L'incisione, il prelievo dell'unico organo che identifica la donna in quanto tale e le da il potere che lui non ha mai avuto.» Guardò negli occhi Dean. «Conosco il suo operato. Ho già avuto modo di osservarlo.» «Entrambi abbiamo avuto questo 'piacere'», confermò il dottor Tierney all'agente dell'FBI. «L'anno scorso ho eseguito le autopsie sulle vittime di Hoyt. Questa è la sua tecnica.» Dean scosse il capo, incredulo. «Due killer diversi? Che combinano le tecniche?» «Il Dominatore e il Chirurgo», esclamò la Rizzoli. «Si sono trovati.» 14 Era seduta in auto, dal bocchettone del climatizzatore usciva aria calda e il sudore le imperlava il volto. Nemmeno il calore della notte riusciva a dissipare il gelo che l'aveva assalita nella sala autoptica. Devo essermi presa qualche virus, pensò, massaggiandosi le tempie. E non ci sarebbe stato nulla di strano; aveva corso per giorni, e ora ne pagava le conseguenze. Le faceva male la testa e tutto ciò che desiderava era mettersi a letto e dormire per una settimana.
Guidò fino a casa. Entrò nell'appartamento e ripeté ancora una volta il rituale diventato ormai tanto importante per la sua salute mentale. Chiuse il lucchetto, fece scivolare la catena nella sua sede con grande attenzione e, solo dopo aver completato il giro di perlustrazione, aver chiuso ogni serratura e guardato in ogni armadio, si tolse scarpe, pantaloni e camicia. Rimasta con indosso la biancheria intima, si lasciò cadere sul letto e si massaggiò le tempie, domandandosi se fosse rimasta qualche aspirina nell'armadietto dei medicinali, troppo esausta per andare a controllare. Quando il citofono suonò, scattò a sedere, il polso accelerato, i nervi tesi, in allarme. Non aspettava visite, e nemmeno le desiderava. Il citofono ronzò ancora, il suono come lama d'acciaio conficcata nelle terminazioni nervose scoperte. Jane si alzò, andò in soggiorno e sollevò il ricevitore. «Sì?» «Sono Gabriel Dean. Posso salire?» Di tutte le persone che conosceva, quella di Dean era l'ultima voce che si aspettava di sentire. Per un momento rimase sorpresa al punto di non riuscire a rispondere. «Detective Rizzoli?» «Di che si tratta, agente Dean?» «Dell'autopsia. Ci sono questioni di cui dovremmo discutere.» Jane premette il tasto e quasi immediatamente si pentì del suo gesto. Non si fidava di Dean, eppure stava per lasciarlo entrare in quel porto sicuro che era il suo appartamento. Aveva preso una decisione avventata, ma oramai non poteva più cambiare idea. Ebbe appena il tempo di indossare un accappatoio di cotone che lui bussò. Attraverso lo spioncino grandangolare i lineamenti marcati di Dean apparvero distorti, sinistri. Quando ebbe finito di aprire le varie serrature, quell'immagine grottescamente deformata le si era già radicata nella mente. La realtà però era molto meno minacciosa. L'uomo in piedi sulla soglia aveva gli occhi stanchi e un viso che rivelava tutta la fatica di aver assistito a troppi orrori, con troppo poche ore di sonno alle spalle. La sua prima domanda, tuttavia, riguardò lei: «Sta bene?» Jane ne comprese le implicazioni: Dean pensava che non si sentisse bene e che avesse bisogno di essere controllata, un poliziotto instabile che stava per rompersi in una miriade di fragili schegge. «Benissimo», rispose Jane. «Se n'è andata subito dopo l'autopsia. Prima che avessimo l'occasione di parlare.»
«Di che cosa?» «Di Warren Hoyt.» «Cosa vuole sapere di lui?» «Tutto.» «Temo ci vorrà una notte intera, e io sono stanca.» Jane si strinse nell'accappatoio, improvvisamente a disagio. Per lei era sempre stato importante apparire professionale, e di solito s'infilava un blazer prima di recarsi sulla scena di un delitto. In quel momento, però, se ne stava davanti a Dean con indosso solamente l'accappatoio e la biancheria intima, e non le piaceva affatto la sensazione di vulnerabilità che provava. Allungò la mano verso la porta, con un gesto inequivocabile: La nostra conversazione è terminata. Gabriel non si scostò di un centimetro dalla soglia. «Senta, ammetto di aver commesso un errore. Avrei dovuto ascoltarla fin dall'inizio. Lei è quella che l'ha capito per prima. Io non avevo colto i parallelismi con Hoyt.» «Questo perché non l'ha mai conosciuto.» «Allora mi racconti di lui. Dobbiamo lavorare insieme, Jane.» La risata di lei suonò tagliente come un rasoio. «Adesso le interessa il lavoro di squadra? Questa è proprio una novità.» Rassegnata al fatto che lui non avesse intenzione di andarsene, Jane si girò e si avviò verso il salotto. Dean la seguì, chiudendo la porta dietro di sé. «Mi parli di Hoyt.» «Può leggere il suo fascicolo.» «Già fatto.» «Allora sa tutto ciò che le serve.» «Non tutto.» La giovane donna si voltò a guardarlo. «Che altro vuole?» «Voglio sapere quello che sa lei.» Dean le si avvicinò e lei percepì un brivido di allarme, perché si sentiva in netto svantaggio, lì davanti a lui a piedi nudi, troppo stanca per respingere i suoi assalti. Perché di questo si trattava... tutte quelle domande che le faceva e il modo in cui il suo sguardo sembrava trapassare quel poco che aveva addosso. «Fra voi c'è una specie di legame emotivo», affermò. «Una sorta di attaccamento.» «Non lo chiami 'attaccamento', cazzo.» «Come lo definirebbe?» «Lui è il criminale. Io sono quella che l'ha messo con le spalle al muro. È molto semplice.»
«Non così semplice, da quello che ho sentito. Che lo ammetta o no, fra voi c'è un legame. Lui è tornato di proposito nella sua vita. La tomba su cui hanno lasciato il corpo di Karenna Ghent non è stata scelta casualmente.» Jane non rispose. Su quel punto non poteva obiettare. «È un cacciatore, proprio come lei», affermò Dean. «Entrambi cacciate esseri umani. Questo è un legame. Un terreno comune.» «Non c'è alcun terreno comune.» «Ma vi capite. Indipendentemente dai sentimenti che nutre per lui, gli è in qualche modo legata. Ha colto la sua influenza sul Dominatore prima di chiunque altro. Era mille miglia avanti a noi.» «E lei ha creduto che io avessi bisogno di uno strizzacervelli.» «Sì, allora lo credevo.» «Perciò adesso non sono più pazza, ma brillante.» «Lei ha accesso alla sua mente. Ci può aiutare a capire quale sarà la sua prossima mossa. Che cosa vuole?» «Come faccio a saperlo?» «Ha avuto modo di studiarlo nell'intimo, più di qualsiasi altro poliziotto.» «Nell'intimo? È così che lo definisce? Quel figlio di puttana mi ha quasi ucciso.» «E non c'è nulla di più intimo di un omicidio, vero?» In quel momento lo odiò, perché aveva affermato una verità da cui lei sarebbe voluta fuggire. Dean aveva messo in evidenza un dato di fatto cui non poteva sottrarsi: lei e Warren Hoyt erano legati l'una all'altro, per sempre. La paura e il ribrezzo sono sentimenti più forti dell'amore. Jane si lasciò sprofondare sul divano. Una volta avrebbe reagito. Una volta sarebbe stata tanto grintosa da tener testa a qualsiasi uomo, parola per parola. Ma quella sera era stanca, molto stanca, e non aveva la forza di ribattere. Lui avrebbe continuato a spingere e pungolare finché non avesse ottenuto risposte, e lei si sarebbe arresa all'inevitabile. Meglio farla finita, così l'avrebbe lasciata finalmente in pace. Jane si raddrizzò e si ritrovò a fissarsi le mani, le cicatrici gemelle sui palmi. Quello era il souvenir più evidente lasciatole da Hoyt; le altre ferite non erano visibili: le fratture delle costole e degli zigomi, ormai guarite, erano, tuttavia, ancora osservabili in radiografia. Più nascoste erano invece le linee di rottura che dividevano ancora in due la sua vita, simili a crepe lasciate da un terremoto. Nelle ultime settimane aveva permesso che quelle
crepe iniziassero ad ampliarsi, quasi che il terreno stesse per aprirsi sotto i suoi piedi. «Non mi ero accorta che era ancora lì», sussurrò. «In piedi, alle mie spalle, in quella cantina. In quella casa...» Gabriel Dean prese posto sulla sedia davanti a Jane. «Lei è quella che l'ha scovato. L'unico poliziotto che ha saputo dove guardare.» «Sì.» «Perché?» Jane scrollò le spalle ed emise una risata. «Pura fortuna.» «No, ci vuole qualcosa di più.» «Non mi attribuisca meriti che non ho.» «Credo di non avergliene riconosciuti abbastanza, Jane.» Lei sollevò lo sguardo e vide che Dean la stava fissando con una schiettezza che le faceva venire voglia di nascondersi. Ma non c'era alcun luogo in cui ritirarsi, né difese che potessero neutralizzare uno sguardo tanto penetrante. Fino a che punto può vedere? Si domandò. Si rende conto di quanto mi fa sentire vulnerabile? «Mi dica che cos'è accaduto in quella cantina», continuò. «Lei sa quel che è successo. È scritto nel mio rapporto.» «Si omettono molte cose nei rapporti.» «Non c'è altro da aggiungere.» «Non ci vuole nemmeno provare?» La rabbia le scoppiò dentro come una bomba. «Non ci voglio pensare.» «Eppure non può farne a meno, giusto?» Jane lo fissò, domandandosi a quale gioco giocasse, pensando a quanto facilmente l'avesse circuita. Aveva conosciuto altri uomini carismatici, che riuscivano ad attirare lo sguardo di una donna prima che questa potesse dire una sola parola. Lei aveva sempre avuto il buonsenso di mantenersi a distanza da individui di quel genere, di considerarli per ciò che erano, persone geneticamente dotate rispetto ai comuni mortali. Non aveva bisogno di loro, né loro di lei. Quella sera, però, Jane aveva qualcosa che a Gabriel Dean serviva, e l'agente stava esercitando su di lei tutto il suo potere d'attrazione, con buoni risultati. Mai prima di allora un uomo l'aveva fatta sentire tanto confusa ed eccitata al tempo stesso. «Le aveva teso una trappola in cantina», esclamò Dean. «E io ci sono cascata in pieno. Non lo sapevo.» «Perché no?» Era una domanda strana, e Jane si soffermò a riflettere. Ripensò a quel
pomeriggio, in piedi sulla soglia della cantina aperta, al timore di scendere per quella scala buia. Ricordava il calore soffocante della casa, il reggiseno e la camicia inzuppati di sudore. Rammentava il modo in cui la paura le aveva elettrizzato tutti i nervi. Sì, sapeva che qualcosa non quadrava. Sapeva che cosa la stava aspettando in fondo ai gradini. «Che cos'è andato storto, detective?» «La vittima», sussurrò lei. «Catherine Cordell?» «Era in cantina. Legata a una branda, in quella cantina...» «L'esca.» Jane chiuse gli occhi e le parve di sentire di nuovo l'odore del sangue della Cordell, della terra umida. Del suo stesso sudore, reso acre dalla paura. «Ho abboccato. Ho abboccato all'esca.» «Lui sapeva che l'avrebbe fatto.» «Avrei dovuto capirlo...» «Ma lei era concentrata sulla vittima. Sulla Cordell.» «Volevo salvarla.» «E quello è stato il suo errore.» Jane aprì gli occhi e lo guardò furiosa. «Errore?» «Ha dimenticato di perlustrare prima l'area. Si è resa vulnerabile a un'aggressione. Ha commesso il più banale degli sbagli. Sorprendente, per qualcuno in gamba come lei.» «Lei non c'era. Non sa in che situazione mi sono trovata.» «Ho letto il rapporto.» «La Cordell era là distesa. Sanguinante...» «Perciò ha reagito come farebbe un normale essere umano. Ha cercato di aiutarla.» «Sì.» «E si è cacciata nei guai. Ha dimenticato di pensare come un poliziotto.» Lo sguardo offeso di Jane non sembrò turbarlo minimamente. Si limitò a fissarla, impassibile, il volto composto, spavaldo, il che aumentò ulteriormente l'agitazione di lei. «Io non dimentico mai di pensare come un poliziotto», ribatté Jane. «In quella cantina l'ha fatto. Si è lasciata distrarre dalla vittima.» «La mia prima preoccupazione è sempre la vittima.» «Anche se mette in pericolo entrambe? È logico?» Logico. Sì, quello era Gabriel Dean. Non aveva mai conosciuto un uomo come lui, che trattava con lo stesso distacco vivi e morti. «Non potevo la-
sciarla morire», ribatté. «Quello era il mio primo... il mio unico... pensiero.» «La conosceva? La Cordell?» «Sì.» «Eravate amiche?» «No.» La risposta fu tanto immediata che Dean sollevò un sopracciglio con aria interrogativa. Jane prese un respiro profondo e affermò: «Era coinvolta nell'indagine sul Chirurgo, tutto qui». «Non le piaceva?» Jane rimase un istante in silenzio, presa in contropiede dalla perspicace intuizione di Dean. «Non mi era molto simpatica, mettiamola così», asserì. Ero gelosa di lei. Della sua bellezza. E del suo effetto su Thomas Moore. «Tuttavia la Cordell era una vittima», constatò l'agente dell'FBI. «Da principio non ne ero sicura. Non subito. Ma poi mi fu chiaro che era un bersaglio del Chirurgo.» «Si sentiva in colpa per aver dubitato di lei.» Jane non rispose. «Per questo doveva salvarla a tutti i costi?» Jane s'irrigidì, irritata dalla domanda. «Era in pericolo. Non avevo bisogno di altre ragioni.» «Ha corso dei rischi, ha agito in modo poco prudente.» «Non credo che 'rischio' e 'prudente' siano termini in qualche modo conciliabili.» «Il Chirurgo ha teso la trappola, e lei ha abboccato all'esca.» «Sì, d'accordo. È stato un errore...» «Un errore che il killer sapeva lei avrebbe commesso.» «Come diavolo avrebbe potuto?» «Sa molto di lei. Per via di quel legame. Di quel nesso che vi unisce.» La giovane donna scattò in piedi. «Queste sono tutte stronzate», sbottò e uscì dal salotto. Dean la seguì in cucina, continuando a tormentarla con le sue teorie, che lei non voleva sentire. Il pensiero di qualsiasi legame emozionale fra lei e Hoyt era troppo ripugnante da considerare, e non poteva più restare ad ascoltarlo. Ma lui era lì, invadeva la sua cucina già claustrofobica, e la obbligava a udire ciò che aveva da dirle. «Come lei ha un canale diretto con la psiche di Warren Hoyt», continuò Dean, «così lui ne ha uno con la sua.» «A quel tempo non mi conosceva.» «Ne è certa? Di sicuro seguiva l'indagine. E sapeva che lei era nella
squadra.» «Quella è l'unica cosa che sapeva di me.» «Io penso sappia più di quanto lei creda. Hoyt si nutre della paura delle donne. È tutto scritto nel suo profilo psicologico. È attratto dalle donne con problemi, con danni emotivi. Il sentore della sofferenza femminile lo eccita: è molto sensibile a essa, riesce a percepirla dagli indizi più sottili. Il tono di voce, la posizione in cui tiene la testa o rifiuta il contatto visivo. Tutti i minuscoli segnali fisici che il resto di noi potrebbe ignorare lui li coglie. Sa riconoscere le donne ferite, e sono loro quelle che vuole.» «Io non sono una vittima.» «Ora sì. Lui l'ha resa tale.» Gabriel le si avvicinò, fin quasi a toccarla, e Jane avvertì un impulso improvviso, sconsiderato, di gettarsi fra le sue braccia, di stringersi a lui. Per vedere come avrebbe reagito. Ma l'orgoglio e il buonsenso la indussero a restare immobile. Reagì con una risata forzata. «Chi è la vittima qui, agente Dean? Io no. Non dimentichi, sono stata proprio io a spedirlo in gabbia.» «Sì», rispose lui, pacato, «ha messo dentro il Chirurgo. Ma non senza subire gravi danni.» Lei lo guardò in silenzio. «Danni.» Quella era la parola giusta per descrivere ciò che le aveva fatto. Una donna con cicatrici sulle mani, barricata dietro a una serie di catenacci. Una donna che non avrebbe più apprezzato la calda brezza d'agosto senza ricordare l'afa di quel giorno d'estate e l'odore del suo stesso sangue. In silenzio, Jane si voltò e uscì dalla cucina, diretta nuovamente in salotto. Là si lasciò cadere sul divano e rimase come in trance. Dean non la seguì subito, e per un momento rimase piacevolmente sola. Avrebbe voluto che sparisse, che uscisse dall'appartamento e le concedesse quella solitudine tanto amata dagli animali sofferenti. Ma non fu così fortunata. Lo udì arrivare dalla cucina e, quando alzò lo sguardo, lo vide davanti a sé con due bicchieri in mano. Gliene porse uno. «Che cos'è?» chiese Jane. «Tequila. L'ho trovata nella credenza.» Jane afferrò il bicchiere e aggrottò la fronte. «Mi ero scordata di averla. È vecchia.» «Be', non era aperta.» Il sapore della tequila non la faceva impazzire. La bottiglia era solo uno di quegli inutili regali da ubriaconi che Frankie le portava dai suoi viaggi, come il Kahlúa dalle Hawaii e il sakè dal Giappone. Il suo modo di dimo-
strare che era un uomo di mondo, grazie al corpo dei Marine degli Stati Uniti. Quell'occasione era buona quanto un'altra per assaggiare il suo souvenir dal soleggiato Messico; ne bevve un sorso e batté le palpebre per controllare il pizzicore e le lacrime. Mentre la tequila le scaldava lo stomaco, ricordò improvvisamente un dettaglio del passato di Warren Hoyt. Le sue prime vittime erano state dapprima stordite con il Roipnol, mescolato alle bevande. Com'è facile coglierci con la guardia abbassata, pensò. Quando una donna è distratta o non ha ragione di diffidare dell'uomo che le porge un drink, è come un agnello intrappolato. Anche lei aveva accettato un bicchiere di tequila senza fare storie. Anche lei aveva permesso a un uomo che conosceva a malapena di entrare nel suo appartamento. Guardò di nuovo Dean. Era seduto di fronte a lei, i loro sguardi alla stessa altezza. Il liquore, bevuto a stomaco vuoto, stava già facendo effetto, e Jane avvertiva una certa insensibilità agli arti. L'anestesia dell'alcol. Era distaccata e calma, in modo pericoloso. Gabriel si protese verso di lei, ma Jane non si ritrasse col suo solito fare difensivo. Lui stava invadendo il suo spazio vitale come pochi uomini avevano osato ma non fece nulla per evitarlo. Anzi, gli si arrese. «Non abbiamo più a che fare con un solo killer», affermò. «Sono entrati in società. E uno dei partner è l'uomo che lei conosce meglio di chiunque altro. Che lo voglia ammettere o no, ha un legame speciale con Hoyt. Il che la lega anche al Dominatore.» Jane espirò profondamente e mormorò: «È il modo di operare preferito da Warren. È ciò che desidera. Un partner. Un mentore». «Ne aveva uno a Savannah.» «Sì. Un medico di nome Andrew Capra. Dopo che Capra fu ucciso, lui lasciò la città. Fu allora che venne a Boston. Ma non ha mai smesso di cercare un socio. Qualcuno che condividesse i suoi desideri, le sue fantasie.» «Temo che l'abbia trovato.» Si guardarono negli occhi, comprendendo entrambi le truci conseguenze di quel nuovo sviluppo. «Ora sono doppiamente efficienti», esclamò Dean. «I lupi lavorano meglio in branco.» «Caccia di gruppo.» Lui annuì. «Rende tutto più facile. Appostarsi, tendere la trappola, mantenere il controllo sulle vittime...» Jane si raddrizzò di scatto. «La tazza», esclamò. «Che cosa?»
«Sulla scena del delitto Ghent non c'erano tazze. Ora sappiamo perché.» «Perché Warren Hoyt era lì ad aiutarlo.» Jane annuì. «Il Dominatore non aveva bisogno di un sistema d'allarme. Aveva un partner che poteva avvisarlo se il marito si fosse mosso. Uno che gli stava accanto e osservava ogni cosa. E Warren Hoyt si sarà di certo eccitato. Gli sarà piaciuto. Guardare mentre una donna viene aggredita fa parte delle sue fantasie.» «E il Dominatore ama avere un pubblico.» Jane annuì ancora. «Per questo sceglie le coppie. In modo che ci sia qualcuno che guardi. Che lo veda mentre assapora il potere assoluto che esercita sul corpo di una donna.» Ciò che descrisse era una violenza tanto intima che le risultò doloroso guardare Dean negli occhi. Tuttavia, non distolse lo sguardo. L'aggressione sessuale era un crimine che risvegliava una curiosità lasciva in molti uomini. Unica investigatrice presente alle riunioni mattutine, Jane aveva spesso osservato i colleghi discutere dei dettagli degli stupri con un fremito d'eccitazione nella voce, nonostante l'aria composta e professionale. Indugiavano sui rapporti del medico legale riguardanti le lesioni sessuali, fissavano troppo a lungo le foto delle scene dei delitti che ritraevano donne a gambe divaricate. Viveva quelle reazioni come una sorta d'oltraggio personale, e con gli anni aveva sviluppato una sensibilità incredibile che le permetteva di cogliere il miniino segno d'interesse inopportuno negli occhi di un poliziotto. In quel momento, guardando negli occhi di Dean, cercò quel fremito offensivo, ma non lo vide. Né, quando l'agente aveva esaminato i corpi martoriati di Gail Yeager e di Karenna Ghent, vi aveva scorto altro che non fosse truce determinazione. Dean non era eccitato da quelle atrocità, ne era profondamente sconvolto. «Ha detto che Hoyt desidera un mentore», affermò. «Sì. Qualcuno che lo guidi, che gli insegni.» «Che gli insegni cosa? Sa già come uccidere.» Jane tacque per bere un altro sorso di tequila. Quando risollevò lo sguardo, scoprì che Gabriel le si era avvicinato ancora di più, come se temesse di perdersi il suo più debole sussurro. «Variazioni sul tema», affermò la Rizzoli. «Donne e dolore. Quanti modi esistono per profanare un corpo? Quanti per infliggere torture? Warren aveva un modello a cui si è attenuto per molti anni. Forse è pronto ad allargare i propri orizzonti.» «O il nostro uomo è pronto ad allargare i suoi.»
Jane rimase in silenzio per un istante. «Il Dominatore?» «Potremmo capovolgere il tutto. Forse è il nostro uomo a cercare un mentore. E ha scelto Hoyt come insegnante.» La giovane donna lo fissò, agghiacciata all'idea. Il termine «insegnante» implicava maestria, autorità. Era questo il nuovo ruolo assunto da Hoyt nei mesi trascorsi dietro le sbarre? L'isolamento aveva forse alimentato le sue fantasie, affinato i suoi impulsi per scopi ben precisi? Già prima dell'arresto era un essere spaventoso, e Jane non voleva nemmeno pensare a un'incarnazione ancora più potente. Dean si appoggiò allo schienale, gli occhi azzurri fissi sulla tequila. L'aveva sorseggiata con moderazione, e ora appoggiò il bicchiere sul tavolino. Fino a quel momento, le era sempre apparso come un uomo dedito alla disciplina, capace di tenere sotto controllo ogni impulso. Ma la fatica esigeva il suo tributo, e Dean aveva le spalle curve e gli occhi arrossati. Si sfregò la faccia con una mano. «Come fanno due mostri a mettersi in contatto in una città delle dimensioni di Boston?» chiese. «Come fanno a trovarsi?» «E tanto in fretta?» aggiunse Jane. «I Ghent sono stati aggrediti solo due giorni dopo la fuga di Hoyt.» Dean sollevò la testa e la guardò. «Si conoscevano già.» «O sapevano l'uno dell'altro.» Il Dominatore conosceva senz'altro Warren Hoyt di fama. L'autunno precedente non c'era quotidiano di Boston che non avesse descritto le sue atrocità. E, se anche non si fossero mai incontrati prima, Hoyt conosceva il Dominatore, se non altro attraverso i telegiornali. Aveva sentito della morte degli Yeager e appreso dell'esistenza di un mostro molto simile a lui. Forse si era chiesto chi fosse l'altro predatore, il suo fratello di sangue. Comunicavano attraverso l'omicidio, i messaggi trasmessi dai notiziari televisivi e dal Boston Globe. Ha visto anche me in televisione. Hoyt sapeva che ero sulla scena del delitto Yeager. E ora sta cercando di incontrarmi di nuovo. Il tocco di Dean la fece trasalire. Aveva il volto accigliato e le si era fatto ancora più vicino, tanto che le sembrò che nessun uomo si fosse mai concentrato su di lei con tale intensità. Nessuno tranne il Chirurgo. «Non è il Dominatore che sta giocando con me», affermò la Rizzoli. «È Hoyt. L'appostamento fallito... era mirato ad avvilirmi. È l'unico modo in cui può avvicinare una donna, prima la deve umiliare. La deve demoralizzare, deve fare a pezzi la sua vita. Perciò sceglie le sue prede fra le vittime
degli stupri, donne che sono già state simbolicamente distrutte. Aggredisce solo le persone deboli, impaurite.» «Lei è l'ultima donna al mondo che definirei 'debole'.» Jane arrossì per il complimento, perché sapeva di non meritarlo. «Sto solo cercando di spiegarle il modo in cui opera», esclamò. «Come caccia le sue prede. Come le rende impotenti prima di agire. Lo ha fatto con Catherine Cordell. Prima di sferrarle l'attacco finale, l'ha terrorizzata con giochetti mentali. Le ha inviato messaggi per farle sapere che poteva entrare e uscire dalla sua vita senza che lei si accorgesse della sua presenza. Come un fantasma che passa attraverso i muri. Catherine non sapeva dove sarebbe apparso la volta successiva, o da quale direzione sarebbe arrivato l'attacco. Ma era consapevole che ci sarebbe stato. È così che ti logora. Facendoti sapere che un giorno, quando meno te lo aspetti, verrà a prenderti.» Nonostante la natura agghiacciante delle sue parole, la Rizzoli aveva mantenuto un tono di voce calmo, quasi innaturale. Per tutto il tempo Dean l'aveva osservata intensamente, in silenzio, come alla ricerca di un barlume di sentimento, di debolezza. Ma lei non glielo aveva mostrato. «Ora ha un partner», continuò Jane. «Qualcuno da cui imparare. Qualcuno a cui può insegnare, in cambio. Una squadra di caccia.» «Pensa che rimarranno insieme?» «Warren lo vorrebbe. Ha sempre desiderato un socio. Hanno già ucciso insieme una volta. Hanno stabilito un legame potente, sigillato col sangue.» Jane bevve l'ultimo sorso di tequila. Sarebbe servita ad allontanare gli incubi di quella notte, o nemmeno l'anestesia dell'alcol avrebbe fatto effetto? «Ha chiesto protezione?» La domanda la sorprese. «Protezione?» «Una pattuglia, almeno. Per sorvegliare l'appartamento.» «Sono un poliziotto.» Gabriel inclinò la testa, come se attendesse il resto della risposta. «Se fossi un uomo», continuò lei, «mi farebbe la stessa domanda?» «Ma non lo è.» «Questo significa automaticamente che ho bisogno di protezione?» «Perché si offende così?» «L'essere donna mi rende forse incapace di difendere la mia casa?» Dean sospirò. «Deve sempre fare meglio degli uomini, detective?» «Ho lavorato sodo per essere trattata come tutti gli altri», affermò Jane. «Non ho intenzione di chiedere favori speciali perché sono una donna.»
«E proprio perché è una donna che si trova in questa situazione. Le fantasie sessuali del Chirurgo sono rivolte alle donne. Le aggressioni del Dominatore non sono mirate ai mariti, ma alle mogli. Quel mostro stupra le mogli. Non può venirmi a dire che in questo caso essere donna è irrilevante.» Jane sussultò alla menzione dello stupro. Fino a quel momento il discorso delle aggressioni sessuali aveva riguardato altre donne. Il fatto che lei fosse una vittima potenziale spostò l'attenzione a un livello molto più intimo, e quel genere di discussione la metteva a disagio con qualsiasi uomo. Ma ancora di più dell'argomento «stupro», era Dean stesso a metterla in imbarazzo. Il modo in cui la studiava, come se serbasse un segreto che lui era ansioso di carpirle. «Non si tratta di essere poliziotti o di essere in grado di difendersi», affermò. «Il fatto è che lei è una donna, sulla quale Warren Hoyt ha, probabilmente, fantasticato in tutti questi mesi.» «Non vuole me. Vuole la Cordell.» «La Cordell è fuori portata. Non può toccarla. Ma lei è qui. La può avere, la donna che lo ha quasi sconfitto. La donna che ha inchiodato al pavimento in quella cantina. Aveva il coltello puntato alla sua gola, sentiva già l'odore del suo sangue.» «La smetta, Dean.» «In un certo senso, l'ha già fatta sua. E lei è allo scoperto tutto il giorno, a indagare sui delitti che lui si lascia dietro le spalle. Ogni corpo è un messaggio rivolto a lei. Un assaggio di ciò che ha pianificato per lei.» «Le ho detto di smetterla!» «Crede di non aver bisogno di protezione? Crede che una pistola e un po' di sfacciataggine siano tutto ciò che serve per rimanere in vita? Allora non ascolta il suo istinto. Lei sa che cosa farà ora. Sa quello a cui anela, quello che lo eccita. E ciò che lo eccita è lei. Quello che progetta di farle.» «Chiuda quella bocca, cazzo!» Il suo sfogo stupì entrambi. Jane lo fissò, costernata per aver perso il controllo e per le lacrime che improvvisamente le inumidivano gli occhi. Maledizione, maledizione, non avrebbe pianto. Non aveva mai lasciato che un uomo la vedesse crollare, e non avrebbe permesso che Dean fosse il primo. Fece un profondo respiro e con voce calma esclamò: «Ora vorrei che se ne andasse». «Le sto solo chiedendo di ascoltare il suo istinto. Di accettare quella protezione che offrirebbe a un'altra donna.» Jane si alzò e andò alla porta. «Buonanotte, agente Dean.»
Per un istante Gabriel non si mosse, e lei si domandò che cosa avrebbe dovuto fare per cacciare quell'uomo da casa sua. Finalmente lui si alzò, ma quando raggiunse la porta si fermò e la guardò dall'alto. «Non è invincibile, Jane», mormorò. «E nessuno si aspetta che lo sia.» Per molto tempo, dopo che se ne fu andato, rimase con la schiena premuta contro la porta, gli occhi chiusi, cercando di placare il subbuglio causato dalla sua visita. Sapeva bene di non essere invincibile. L'aveva imparato un anno prima, quando aveva sollevato lo sguardo sul volto del Chirurgo e atteso il taglio del suo bisturi. Non c'era bisogno che qualcuno glielo ricordasse, e si risentì per il modo brutale in cui Dean le aveva impartito quella lezione. Tornò verso il divano e prese il telefono. A Londra non era ancora l'alba, ma quella chiamata non poteva attendere. Moore rispose al secondo squillo, la voce rauca ma attenta, nonostante l'ora. «Sono io», esclamò Jane. «Mi spiace di averti svegliato.» «Aspetta che vado nell'altra stanza.» Jane attese. Dall'altro capo del filo udì il cigolio del materasso a molle quando Thomas si alzò dal letto, poi il rumore di una porta che si chiudeva alle sue spalle. «Che succede?» chiese l'uomo. «Il Chirurgo è ancora a caccia.» «C'è già stata una vittima?» «Ho assistito all'autopsia poche ore fa. È opera sua.» «Non ha perso tempo.» «La situazione è peggiorata, Moore.» «Com'è possibile?» «Ha un nuovo partner.» Ci fu un lungo silenzio. Poi, a bassa voce, lui chiese: «Chi è?» «Pensiamo sia lo stesso uomo che ha ucciso quella coppia a Newton. In qualche modo, lui e Hoyt si sono trovati. Ora cacciano insieme.» «Così rapidamente? Come hanno fatto a mettersi insieme tanto in fretta?» «Si conoscevano. Per forza.» «Dove si sono incontrati? Quando?» «Questo, lo dobbiamo ancora scoprire. Potrebbe essere la chiave per svelare l'identità del Dominatore.» Improvvisamente Jane Rizzoli pensò alla sala operatoria dalla quale Hoyt era scappato. Le manette. Non era stata
la guardia a toglierle. Qualcun altro era entrato in quella sala per liberare Hoyt, qualcuno vestito, forse, con una divisa da inserviente o con un camice da medico. «Dovrei essere lì», mormorò Moore. «Dovrei lavorare con te...» «No. È giusto che tu resti dove sei, con Catherine. Non credo che Hoyt possa scovarla, ma ci proverà. Non si arrende mai, questo lo sai. Ora ci sono due assassini, e non abbiamo idea di che aspetto abbia il socio. Se si facesse vivo a Londra, non potresti riconoscerlo. Devi tenerti pronto.» Come se qualcuno potesse essere preparato ad affrontare un'aggressione del Chirugo, pensò mentre riagganciava. Un anno prima Catherine Cordell aveva creduto di esserlo. Aveva trasformato la sua casa in una fortezza e viveva come sotto assedio. Eppure, Hoyt si era insinuato fra le sue difese; aveva colpito quando meno se lo aspettava, in un luogo che lei credeva sicuro. Proprio come io penso che la mia casa sia sicura. Si alzò e andò alla finestra. Guardando giù in strada si domandò se, in quel momento, qualcuno la stesse guardando, se la stesse vedendo incorniciata nella luce del riquadro. Non sarebbe stato difficile trovarla. Tutto ciò che il Chirurgo doveva fare era guardare nell'elenco telefonico sotto RIZZOLI J. Nella strada sottostante un veicolo rallentò e accostò al marciapiede. Era una macchina della polizia. La guardò per un istante, ma l'auto non si mosse e i fari si spensero, indicando che era intenzionata a fermarsi. Lei non aveva chiesto protezione, ma sapeva chi l'aveva fatto. Gabriel Dean. La storia riecheggia delle urla delle donne. Le pagine dei libri di testo prestano poca attenzione agli orrendi dettagli che oggi bramiamo. Ci vengono raccontate aride storie di strategie militari e di attacchi ai fianchi, di generali scaltri e di concentrazioni di eserciti. Vediamo illustrazioni di uomini in uniforme, le spade incrociate, i corpi muscolosi impegnati nel combattimento. Guardiamo immagini raffiguranti generali a cavallo di nobili destrieri, che scrutano i campi in cui i soldati attendono la falce come file di frumento. Vediamo mappe con frecce che indicano la marcia degli eserciti conquistatori, e leggiamo ballate di guerra, cantate in nome del re e del paese. I trionfi degli uomini sono sempre scritti a caratteri cubitali, con il sangue dei soldati. Nessuno parla delle donne.
Ma tutti sappiamo che c'erano, carne morbida e pelle liscia, il loro profumo esala dalle pagine della storia. Tutti sappiamo, nonostante non se ne parli, che la ferocia della guerra non è circoscritta ai campi di battaglia. Che quando l'ultimo soldato nemico e caduto, e un esercito si leva vittorioso, l'attenzione di quest'ultimo viene poi rivolta alle donne conquistate. È sempre stato così, per quanto la realtà brutale sia menzionata di rado nei libri. Al contrario, ho letto di guerre sfolgoranti come l'ottone, con gloria per tutti. Di battaglie greche sotto gli occhi vigili degli dèi, e della caduta di Troia, che il poeta Virgilio ci racconta come una guerra combattuta da eroi: Achille ed Ettore, Aiace e Ulisse, nomi ormai consacrati per l'eternità. Egli descrive il clangore delle spade, il sibilo delle frecce, la terra impregnata di sangue. Ma tralascia le parti migliori. È Euripide che ci narra le conseguenze patite dalle donne troiane, ma anch'egli è cauto. Non si sofferma sui particolari stuzzicanti: racconta di una Cassandra terrorizzata, trascinata fuori dal tempio di Atena da un condottiero greco, ma lascia il seguito alla nostra fantasia. La lacerazione degli abiti, l'esposizione della pelle. Le spinte fra le cosce verginali. Le grida di dolore e di disperazione della donna. Per tutta la città di Troia tali urla sono sicuramente riecheggiate dalla gola di altre donne, mentre i greci, vittoriosi, si prendevano ciò che gli era dovuto, lasciando il segno della loro vittoria nella carne delle donne conquistate. Qualche troiano era rimasto in vita per guardare? Gli antichi non ne fanno parola. Ma quale modo migliore di cantare vittoria se non abusare dell'amata del nemico? Esiste forse un modo più schiacciante per dimostrare la sua sconfitta e la sua umiliazione del costringerlo a guardare mentre voi godete, ancora e ancora? Io ho compreso questo: il trionfo richiede un pubblico. Penso alle donne troiane mentre la nostra auto scivola lungo Commonwealth Avenue, a velocità costante nel traffico. È una strada congestionata, e anche alle nove di sera le macchine avanzano lentamente, dandomi il tempo di studiare con calma l'edificio. Le finestre sono buie; né Catherine Cordell né il suo nuovo marito sono in casa. Questo è tutto ciò che mi concedo, solo uno sguardo, poi l'edificio scorre via. So che il quartiere è sorvegliato, ma non resisto, devo dare un'occhiata alla sua fortezza, impenetrabile come le mura di ogni castello. Un castello vuoto, ora, non più interessante per chi vorrebbe assaltarlo.
Guardo il mio autista, il cui volto è nascosto nell'ombra. Vedo solo una silhouette e il luccichio degli occhi, due scintille fameliche nella notte. Su Discovery Channel ho visto documentari sui leoni girati di notte, il fuoco verde dei loro occhi che brucia nell'oscurità. Mi tornano in mente quei leoni, come fissavano affamati la preda, in attesa di scattare. Ora colgo la stessa fame negli occhi del mio compagno. La stessa fame che lui sicuramente vede nei miei. Abbasso il finestrino e inalo profondamente l'odore caldo che entra. Il leone che annusa l'aria della savana, in cerca del sentore della preda. 15 Viaggiavano insieme sull'auto di Dean, diretti a ovest, verso la cittadina di Shirley, a una settantina di chilometri da Boston. Gabriel parlò poco durante il viaggio, ma il silenzio fra loro sembrò solo acuire in Jane la percezione del suo profumo, della sua calma sicurezza. Lei non lo guardò quasi mai in faccia, nel timore che lui cogliesse nei suoi occhi le emozioni che le suscitava. Invece guardò in basso e notò la moquette di colore blu scuro sotto i suoi piedi. Si domandò se fosse di nylon 6,6, 802 blu, e quante auto avessero rivestimenti simili. Era un colore molto comune e, dovunque guardasse, vedeva tappetini blu e immaginava innumerevoli scarpe che sparpagliavano fibre di nylon 802 per le strade di Boston. L'aria che usciva dal condizionatore era troppo fredda; Jane chiuse il bocchettone vicino alle ginocchia e si mise a osservare i campi d'erba alta fuori dal finestrino, desiderosa di immergersi nella calura, fuori da quella bolla d'aria gelida. La foschia mattutina si srotolava come garza sui campi verdi e gli alberi erano immobili, neanche una lieve brezza muoveva le foglie. Jane si avventurava di rado nella campagna del Massachusetts. Era nata e cresciuta in città, e non sentiva alcuna affinità con la campagna, con i suoi spazi vuoti e i suoi insetti mordaci. Nemmeno quel giorno ne subì il fascino. La notte precedente aveva dormito male. Si era svegliata più volte di soprassalto, ed era rimasta in ascolto, col cuore in gola, per captare eventuali passi o il respiro di un intruso. Alle cinque si era alzata stanca e intontita. Solo dopo due tazze di caffè si era sentita abbastanza sveglia da chiamare l'ospedale per informarsi delle condizioni di Korsak. Era ancora nel reparto di Terapia intensiva, attaccato al respiratore.
Jane abbassò di due dita il finestrino e lasciò entrare l'aria calda, l'odore di erba e di terra. Considerò la triste possibilità che Korsak non potesse più godere di quei profumi o del soffio del vento sulla faccia. Cercò di ricordare se le ultime parole che si erano scambiati fossero state cordiali, ma non ci riuscì. All'uscita 36, Dean seguì le indicazioni per MCI-Shirley. Il SouzaBaranowski, il carcere di sicurezza di sesto livello in cui era stato rinchiuso Warren Hoyt, si stagliò alla loro destra. Gabriel parcheggiò nel posto riservato ai visitatori e si voltò a guardarla. «Se in qualsiasi momento desiderasse tirarsene fuori», le disse, «lo faccia senza problemi.» «Perché si aspetta che getti la spugna?» «Perché so che cosa le ha fatto. Chiunque, al posto suo, avrebbe problemi a lavorare a questo caso.» Jane Rizzoli colse una preoccupazione sincera nei suoi occhi, ma non gliene fu grata perché non faceva che ricordarle quanto fosse effimero il suo coraggio. «Andiamo e basta, va bene?» esclamò e aprì la portiera dell'auto. L'orgoglio la indusse a entrare con truce determinazione nell'edificio e ad attraversare la postazione di controllo, dove lei e Dean mostrarono il distintivo e consegnarono le armi. Mentre attendevano la scorta, Jane lesse il codice di abbigliamento per i parenti, appeso all'entrata della sala visite: Ai visitatori non è permesso entrare a piedi nudi né indossare i seguenti indumenti: costumi da bagno o pantaloni corti; qualsiasi vestito che denoti affiliazione a una banda o sia simile a quelli assegnati ai carcerati o al personale in uniforme; indumenti stratificati; vestiario con cordini di chiusura; abiti facili da indossare; indumenti eccessivamente larghi, spessi o pesanti... L'elenco era infinito e proibiva ogni cosa, dai nastri per capelli ai reggiseni con il ferretto. Finalmente arrivò un agente del penitenziario, un uomo robusto con la divisa blu estiva. «Detective Rizzoli e agente Dean? Sono l'agente Curtis. Da questa parte, prego.» Curtis si dimostrò affabile, persino gioviale, mentre li scortava attraverso la prima porta chiusa, nella zona dello spogliatoio. La detective Rizzoli si domandò se sarebbe stato altrettanto piacevole se non fossero stati poli-
ziotti, membri della stessa confraternita. Ordinò loro di togliersi cinture, scarpe, giacche, orologi e chiavi e di riporre tutto sul tavolo, perché fosse esaminato. Jane si tolse il suo Timex e lo appoggiò accanto all'Omega scintillante di Dean, poi si sfilò il blazer, imitata da Gabriel. In quel processo di svestizione c'era un non so che di intimo che la mise a disagio. Mentre si slacciava la cintura e la sfilava dai passanti dei pantaloni, sentì lo sguardo di Curtis fisso su di lei: l'atteggiamento dell'uomo che osserva una donna spogliarsi. Si tolse le scarpe scollate a tacco basso, le mise accanto a quelle di Dean e incrociò, fredda, lo sguardo della guardia carceraria. Solo allora, questi guardò altrove. Poi rovesciò le tasche e seguì Dean attraverso il metal detector. «Ehi, lei è fortunata», affermò Curtis al passaggio di Jane. «Ha appena evitato la perquisizione del giorno.» «Che cosa?» «Ogni giorno il nostro capoturno stabilisce un numero a caso e il visitatore corrispondente viene perquisito. L'ha appena evitata. Toccherà al prossimo.» «Essere palpeggiata sarebbe stata la cosa migliore della giornata», esclamò ironica Jane. «Ora potete rimettervi tutto. E tenere gli orologi al polso.» «Lo dice come se fosse un privilegio.» «Solo gli avvocati e i legali possono portarli oltre questo punto. Tutti gli altri devono consegnare la gioielleria. Ora vi marchierò il polso sinistro e poi potrete entrare nelle celle.» «Abbiamo un appuntamento col sovrintendente Oxton alle nove», fece presente Gabriel Dean. «È un po' in ritardo. Mi ha chiesto di mostrarvi prima la cella del prigioniero. Poi vi accompagnerò nel suo ufficio.» Il centro di detenzione Souza-Baranowski era la struttura più nuova dell'MCI, con un sistema di sicurezza elettronico all'avanguardia, azionato da quarantadue terminali a interfaccia grafica, spiegò loro l'agente Curtis, indicando le numerose telecamere di sorveglianza. «Registrano in diretta ventiquattr'ore al giorno. Gran parte dei visitatori non vede mai una guardia in carne e ossa. Sentono solo gli altoparlanti che via via dicono loro cosa fare.» Mentre attraversavano una porta d'acciaio, percorrevano un lungo corridoio e passavano un'altra serie di cancelli, Jane era consapevole che ogni sua mossa fosse spiata. Con lievi pressioni sulla tastiera, le guardie pote-
vano chiudere qualsiasi passaggio, qualsiasi cella, senza mai abbandonare la sala di controllo. All'entrata del blocco C una voce proveniente dall'altoparlante ordinò loro di appoggiare i distintivi contro il vetro. Dichiararono per la seconda volta i loro nomi, e l'agente Curtis affermò: «I due visitatori vogliono ispezionare la cella del prigioniero Hoyt». Il cancello d'acciaio si aprì ed essi entrarono nella sala comune delle celle del blocco C. I muri erano di un deprimente verde ospedale. La giovane donna scorse un televisore montato sulla parete, un divano, alcune sedie e un tavolo da ping-pong dove due carcerati stavano giocando. Tutti i mobili avevano un lucchetto. Una decina di uomini, vestiti con le divise di denim blu dei prigionieri, si voltarono simultaneamente a guardare. Fissavano in particolare Jane, l'unica donna presente nella stanza. I due che giocavano a ping-pong smisero improvvisamente. Per un istante il solo rumore era quello emesso dalla TV, sintonizzata sulla CNN. Jane guardò a sua volta i prigionieri, rifiutando di farsi intimidire, anche se intuiva bene che cosa pensasse ognuno di loro. Che cosa immaginasse. Non notò che Dean le si era avvicinato finché non sentì un braccio contro il suo e si accorse che era proprio di fianco a lei. Una voce dall'altoparlante annunciò: «I visitatori possono procedere verso la cella C-8». «Da questa parte», affermò l'agente Curtis. «Di sopra, al livello uno.» Salirono per una scala e i loro passi risuonarono sui gradini metallici. Dalla galleria superiore, su cui si aprivano le singole celle, osservarono la sala comune. Curtis li guidò lungo il camminamento finché non giunsero alla C-8. «Questa è la cella del prigioniero Hoyt.» Jane Rizzoli rimase sulla soglia e guardò dentro. Non vide nulla che la distinguesse dalle altre, foto od oggetti personali che le dicessero che Warren Hoyt aveva abitato in quello spazio... eppure sentiva un formicolio al cuoio capelluto. Nonostante se ne fosse andato, la sua presenza pervadeva l'aria. Se la malvagità avesse potuto indugiare in un luogo, allora quello ne sarebbe stato di certo contaminato. «Potete entrare se volete», affermò Curtis. Jane entrò. Vide tre pareti spoglie, una branda e un materasso, un lavabo e un water. Un cubicolo spoglio. A Warren sarebbe sicuramente piaciuto. Era un uomo ordinato, preciso, che aveva lavorato nel mondo asettico di un laboratorio medico, in cui gli unici spruzzi di colore erano le provette di
sangue che maneggiava ogni giorno. Non aveva bisogno di circondarsi di immagini oscene; quelle che evocava nella sua mente erano già abbastanza terrificanti. «La cella non è stata riassegnata?» chiese Dean. «Non ancora, signore.» «E nessun altro prigioniero è stato qui da quando Hoyt se n'è andato?» «Esatto.» Jane si diresse verso la branda e sollevò un angolo del materasso. Dean afferrò l'altro angolo e insieme lo alzarono e guardarono sotto. Non trovarono nulla. Allora lo capovolsero e ne ispezionarono la fodera in cerca di eventuali strappi nel tessuto, di nascondigli in cui potesse aver riposto oggetti contrabbandati. Trovarono solo un piccolo strappo sul fianco, non più lungo di due centimetri. Jane infilò un dito all'interno, ma non sentì nulla. Si raddrizzò e scrutò la cella, lo stesso ambiente che Hoyt aveva fissato fino a poco tempo prima. Lo immaginò steso sul materasso, gli occhi fissi sul soffitto squallido, mentre elaborava fantasie che avrebbero sconvolto qualsiasi persona normale. Ma Hoyt ne traeva eccitazione. Iniziava a sudare al suono delle grida delle donne che riecheggiavano nella sua testa. Jane si rivolse all'agente Curtis. «Dove sono i suoi effetti personali? I suoi oggetti? La corrispondenza?» «Nell'ufficio del sovrintendente. Ora vi ci porto.» «Stamattina, non appena avete chiamato, mi sono fatto recapitare gli effetti personali del prigioniero perché li possiate esaminare», affermò il sovrintendente Oxton, indicando una grossa scatola di cartone sulla scrivania. «Abbiamo già passato tutto in rassegna. Non abbiamo trovato oggetti di contrabbando.» L'uomo sottolineò quest'ultimo punto, come se lo assolvesse dalla responsabilità dell'accaduto. Oxton apparve alla Rizzoli come una persona intollerante delle infrazioni, spietata nell'applicare leggi e regolamenti. Di sicuro avrebbe scoperto ogni sorta di commercio illecito, isolato i fomentatori e preteso che l'ordine di spegnere le luci fosse rispettato al secondo ogni sera. Un'occhiata superficiale al suo ufficio, con le foto che lo raffiguravano da giovane, lo sguardo fiero e l'uniforme militare addosso, bastò a rivelarle che quello era il regno di un individuo che aveva costantemente bisogno di tenere tutto sotto controllo. Eppure, nonostante i suoi sforzi, un prigioniero era sfuggito alla custodia, e Oxton si era messo sulle difensive. Li aveva salutati con una rigida stretta di mano e un fugace lampo di cordialità nei freddi occhi azzurri.
Il sovrintendente aprì la scatola, ne tolse un grosso sacchetto trasparente a chiusura ermetica e lo porse a Jane. «Gli effetti personali del prigioniero», esclamò. «Quelli per l'igiene personale.» Jane vide uno spazzolino, un pettine, un asciugamano e una saponetta. Una lozione idratante per il corpo a base di vaselina. Appoggiò rapidamente il sacchetto, disgustata all'idea che Hoyt avesse usato tutti i giorni quegli articoli per curare la sua persona. Tra i denti del pettine c'erano ancora alcuni capelli castano chiaro. Oxton continuò a prelevare il contenuto dalla scatola. Biancheria intima. Una pila di National Geographic e numerosi numeri del Boston Globe. Due barrette di Snickers, un blocco di carta gialla, con relative buste, e tre penne a sfera di plastica. «E la sua corrispondenza», mormorò Oxton estraendo un altro sacchetto di plastica, contenente un pacchetto di lettere. «Abbiamo letto tutta la sua posta», proseguì Oxton. «La polizia di Stato ha i nomi e gli indirizzi di tutti i suoi corrispondenti.» Porse le buste a Dean. «Naturalmente questa è solo la posta che ha tenuto. Probabilmente molte lettere sono state gettate via.» Dean aprì il sacchetto trasparente e ne estrasse il contenuto. C'era una decina di lettere, ancora nelle buste. «L'MCI controlla la posta dei prigionieri?» chiese. «La passate al vaglio prima di consegnarla?» «Abbiamo l'autorità per farlo. Ma dipende dal tipo.» «Dal tipo?» «Se è classificata come confidenziale, le guardie possono solo guardarci dentro per evitare il contrabbando. Ma non possono leggerla. La corrispondenza è privata, fra mittente e prigioniero.» «Dunque non avete idea di che cosa gli scrivessero.» «Se si tratta di posta confidenziale, no.» «Qual è la differenza fra la posta confidenziale e quella ordinaria?» chiese Jane Rizzoli. Oxton reagì a quell'interruzione con un lampo di fastidio negli occhi. «La posta non confidenziale è quella spedita da amici, famigliari e comuni cittadini. Per esempio, alcuni prigionieri hanno instaurato una corrispondenza con amici di penna che ritengono di svolgere un servizio caritatevole.» «Corrispondono con assassini? Sono pazzi?» «Molti di loro sono donne ingenue e sole. Facili prede dei truffatori. Quelle sono lettere non confidenziali, e le guardie hanno l'autorità di leg-
gerle e censurarle. Ma non sempre abbiamo tempo di esaminarle tutte. Parliamo di montagne di posta. Nel caso del prigioniero Hoyt, le lettere da controllare erano molte.» «Chi erano i mittenti? Non credo avesse parenti», affermò Dean. «Si è fatto un sacco di pubblicità l'anno scorso. Ha suscitato l'interesse del pubblico. Tutti volevano scrivergli.» Jane era sbigottita. «Sta dicendo che ha ricevuto posta dai fan?» «Sì.» «Gesù, la gente è proprio fuori di testa.» «L'opinione pubblica si eccita all'idea di parlare con un killer. Probabilmente ha la sensazione di toccare da vicino la fama. Manson, Dahmer e Gacy, tutti avevano i loro fan. I nostri prigionieri ricevono proposte di matrimonio. Le donne mandano loro soldi, o foto che le ritraggono in bikini. Gli uomini scrivono di voler sapere che cosa si prova a commettere un omicidio. Il mondo è pieno di teste di cazzo, perdonatemi il linguaggio, che s'infervorano per il solo fatto di conoscere un vero assassino.» Ma uno di loro, con Hoyt, era andato oltre la corrispondenza. Uno di loro era effettivamente entrato a far parte del club esclusivo del Chirurgo. Jane fissò il fascio di lettere, furiosa di fronte a quella prova tangibile della fama di Hoyt. Killer e rockstar. Pensò alle cicatrici che le aveva lasciato sulle mani, e ognuna di quelle lettere era come un altro colpo di bisturi. «E che cosa mi dice della posta confidenziale?» chiese Dean. «Ha detto che non viene letta né censurata. Che cosa classifica una lettera come tale?» «È confidenziale se proviene da uffici statali o federali. Da un funzionario del tribunale, per esempio, o dal procuratore generale. Lettere del presidente, del governatore o di agenzie che si occupano di tutela della legge.» «Hoyt riceveva questo tipo di posta?» «Potrebbe averla ricevuta. Noi non registriamo ogni lettera in entrata.» «Come fate a essere certi che la posta sia veramente confidenziale?» chiese Jane. Oxton la guardò con impazienza. «Ve l'ho detto. Se arriva da un ufficio federale o statale...» «Voglio dire, come fate a sapere che non si tratta di materiale contraffatto o rubato? Io potrei scrivere un piano di fuga a uno dei vostri prigionieri e spedirlo in una busta, diciamo, dell'ufficio del senatore Conway.» L'esempio non era stato casuale. Guardò Dean e lo vide sollevare di scatto il
mento all'udire il nome del senatore. Oxton esitò. «Non è impossibile. Ma ci sono punizioni...» «Dunque è già accaduto.» Il sovrintendente annuì con riluttanza. «Abbiamo avuto numerosi casi. Informazioni criminali recapitate sotto forma di lettere ufficiali. Cerchiamo di fare attenzione ma, talora, qualcosa ci sfugge.» «E la posta in uscita? Le lettere spedite da Hoyt? Quelle, le controllavate?» «No.» «Nessuna?» «Non avevamo ragione di farlo. Non è mai stato considerato un prigioniero problematico. Era sempre pronto a collaborare. Molto tranquillo e gentile.» «Un prigioniero modello», esclamò Jane Rizzoli. «Già.» Oxton le rivolse un'occhiata glaciale. «Qui dentro abbiamo uomini che le strapperebbero le braccia e si metterebbero a ridere, detective. Uomini che hanno spezzato il collo a una guardia solo perché il cibo non era di loro gradimento. Un prigioniero come Hoyt non era in cima alla lista delle nostre preoccupazioni.» Gabriel riportò con calma la conversazione all'argomento precedente. «Dunque non sappiamo a chi possa aver scritto?» Quella domanda diretta sembrò smorzare l'irritazione dell'uomo. Oxton distolse lo sguardo dalla Rizzoli e si concentrò su Dean, da uomo a uomo. «No, non lo sappiamo», rispose. «Il prigioniero Hoyt può aver scritto a chiunque.» In una sala riunioni poco distante dall'ufficio di Oxton Jane Rizzoli e Dean s'infilarono i guanti di lattice e disposero sul tavolo le buste indirizzate a Warren Hoyt. Jane notò la grande varietà di carta da lettera, color pastello o con motivi floreali, una con stampate le parole: GESÙ SALVA. La più assurda di tutte era una busta con un disegno di gattini che giocavano. Sì, la cosa più adatta da spedire al Chirurgo. Come doveva essersi divertito a riceverla. Jane aprì la busta con i gatti e vi trovò la foto di una donna sorridente dallo sguardo speranzoso. Dentro c'era anche una lettera, scritta con una calligrafia infantile e le i con un piccolo cerchio al posto del puntino: Al signor Warren Hoyt, detenuto
Istituto correzionale del Massachusetts Caro signor Hoyt, l'ho vista oggi in televisione, mentre la stavano portando in tribunale. Io credo di essere brava a giudicare il carattere delle persone, e quando ho guardato il suo volto, ho visto molta tristezza e dolore. Oh, un gran dolore! C'è del buono in lei, lo so che c'è. Se solo qualcuno potesse aiutarla a cercarlo dentro di sé... La giovane donna si rese improvvisamente conto che stava stringendo la lettera con rabbia. Avrebbe voluto scrollare quella donna stupida che aveva scritto parole simili. Costringerla a guardare le foto delle autopsie delle vittime di Hoyt, a leggere il referto del medico legale sull'agonia che avevano patito prima che la morte ponesse pietosamente fine al loro tormento. Si fece coraggio e lesse il resto, un appello mieloso all'umanità di Hoyt e alla «bontà che c'è in ognuno di noi». Poi prese un'altra lettera. Niente gatti, solo una busta bianca contenente un foglio a righe. Ancora una volta il mittente era una donna che aveva accluso la foto, un'istantanea sovraesposta di una bionda tinta che faceva l'occhiolino. Caro signor Hoyt, posso avere il suo autografo? Ho collezionato molte firme di persone come lei. Ho anche quella di Jeffrey Dahmer. Sarei contenta se continuasse a scrivermi. La sua amica, Gloria Jane fissò quelle parole, incapace di credere che fossero state scritte da una persona sana di mente. «'Sarei contenta... La sua amica', Cristo», esclamò. «Queste sono davvero pazze.» «È il potere della fama», affermò Dean. «Non hanno una vita propria. Si sentono insignificanti, anonime. Perciò tentano di avvicinarsi a qualcuno che ha un nome. Vogliono che la magia tocchi anche loro.» «La magia?» Jane guardò Gabriel. «È così che la chiama?» «Sa quello che intendo.» «No, non capisco. Non ho idea del perché queste donne scrivano ai mostri. Sono forse alla ricerca di una storia d'amore? Di un momento di passione con un tizio che potrebbe girarsi e squartarle? Devo supporre che ciò porti un brivido d'eccitazione nella loro patetica vita?» Jane spinse indietro
la sedia, si alzò e raggiunse la parete con le strette finestre. Guardò fuori, le braccia incrociate, quella stretta striscia di luce, quella fetta di cielo blu. Qualsiasi vista, per quanto limitata, era preferibile a quella della posta dei fan di Hoyt. Di certo il mostro si era rallegrato per le attenzioni. Probabilmente considerava ogni nuova lettera come una prova del suo costante potere sulle donne e del fatto che, anche rinchiuso là dentro, poteva corromperne la mente, manipolarle. Trasformarle in cose di sua proprietà. «È una perdita di tempo», esclamò amareggiata mentre guardava un uccello sfrecciare oltre gli edifici, dove erano gli uomini a essere in gabbia, dove le sbarre rinchiudevano mostri, non animali con voce melodiosa. «Non è stupido. Avrà distrutto qualsiasi cosa lo leghi al Dominatore. Avrà protetto il suo partner. Sicuramente non ci lascerebbe nulla di utile per rintracciarlo.» «Forse non di utile», affermò Dean, sfogliando le carte dietro di lei. «Ma di decisamente illuminante sì.» «Oh, certo. Come se mi divertissi a leggere quello che gli hanno scritto queste malate di mente. Mi danno il voltastomaco.» «Potrebbe essere proprio questo il punto.» Jane si voltò a guardarlo. Un fascio di luce proveniente dalla finestrella gli attraversava il volto, illuminandogli uno degli occhi azzurri. Jane aveva sempre ammirato i suoi lineamenti, ma mai come in quel momento, osservandolo dall'altra parte del tavolo. «Che cosa intende?» «Leggere le lettere dei suoi fan la sconvolge.» «Mi manda in bestia. Non è ovvio?» «Lo è anche per lui.» Dean annuì rivolto alla pila di lettere. «Lui sapeva di sconvolgerla.» «Crede voglia farmi impazzire, con queste lettere?» «È un gioco mentale, Jane. Le ha lasciate per lei. Questa graziosa collezione di lettere dei suoi ammiratori più accaniti. Sapeva che alla fine sarebbe arrivata qui, dov'è ora, a leggere quello che avevano da dirgli. Forse voleva dimostrarle che ha dei fan. Che nonostante lei lo disprezzi, esistono donne che non la pensano allo stesso modo, che sono attratte da lui. È come un amante respinto, che cerca di farla ingelosire, di farle perdere l'equilibrio.» «Non cominci con i suoi giochetti.» «E sta funzionando, non è vero? Si guardi. L'ha innervosita a tal punto che non riesce nemmeno a stare seduta. Sa come manipolarla, come entrare nella sua testa.»
«Lo sta sopravvalutando.» «Davvero?» Jane agitò la mano verso le lettere. «Suppone che siano lì per me? Sono forse il centro del suo universo?» «Lui non è il centro del suo?» replicò Dean con tono pacato. Jane lo fissò, incapace di ribattere, perché quello che aveva detto la colpì, in quell'istante, come una verità inoppugnabile. Warren Hoyt era il centro del suo universo. Dominava come un re del male i suoi incubi e anche le ore di veglia, sempre pronto a uscire dall'armadio, a insinuarsi nei suoi pensieri. In quella cantina era stata marchiata come una sua proprietà, come ogni vittima dal suo assalitore, e lei non poteva cancellare quel marchio. Era inciso nelle mani, cauterizzato nell'anima. Tornò al tavolo e si sedette, decisa a portare a termine il suo compito. La busta successiva aveva il mittente stampato: «Dr J.P. O'Donnell, 1634 Brattle Street, Cambridge, MA 021138». Vicina alla Harvard University, Brattle Street era un quartiere di belle ville, dimora di un'élite colta, dove docenti universitari e industriali in pensione facevano jogging lungo gli stessi marciapiedi e si salutavano da una parte all'altra della strada, passando accanto a siepi ben curate. Non era il tipo di quartiere in cui ci si aspettava di trovare il seguace di un mostro. Spiegò la lettera. Risaliva a sei settimane prima. Caro Warren, grazie per la sua ultima lettera, e per aver firmato i due moduli di autorizzazione. I dettagli che mi ha fornito mi aiuteranno a comprendere le difficoltà che ha affrontato. Ho molte domande da porle, e sono lieta che lei sia ancora disposto a incontrarmi come programmato. Se non ha obiezioni, vorrei registrare il nostro colloquio. Lei sa, naturalmente, che il suo contributo è essenziale per il mio progetto. Cordiali saluti, Dr O'Donnell «Chi diavolo è J.P. O'Donnell?» esclamò Jane. Dean sollevò lo sguardo, sorpreso. «Joyce O'Donnell?» «La busta dice solo dottor J.P. O'Donnell, Cambridge, Massachusetts. Deve aver intervistato Hoyt.» Gabriel guardò la busta e aggrottò la fronte. «Non sapevo che si fosse trasferita a Boston.» «La conosce?»
«È una neuropsichiatra. Diciamo solo che ci siamo incontrati in circostanze ostili, in un'aula di tribunale. Gli avvocati difensori la adorano.» «Non mi dica, è un perito che si batte per i cattivi.» Dean annuì. «Non importa che cosa abbia fatto il tuo cliente, né quante persone abbia ucciso, la O'Donnell sarà lieta di fornire un'attenuante.» «Mi domando perché abbia scritto a Hoyt.» Rilesse la lettera. Denotava grande rispetto, e lo lodava per la sua collaborazione. Jane nutriva già un certo disprezzo per la dottoressa O'Donnell. Anche la lettera successiva era sua, ma non conteneva messaggi, bensì tre istantanee rigorosamente amatoriali. Due erano state scattate di giorno, all'aperto; la terza raffigurava un interno. Per un attimo Jane si limitò a fissarle mentre gli occhi registravano ciò che il suo cervello rifiutava di accettare. Fece un balzo all'indietro, e le foto le caddero di mano come fossero carboni ardenti. «Jane, che c'è?» «Sono io», sussurrò. «Cosa?» «Mi sta seguendo. Mi scatta foto. Gliele ha spedite.» Dean si alzò dalla sedia e si portò dalla sua parte del tavolo, per guardare oltre le sue spalle. «Io non la vedo...» «Guardi. Guardi.» Tane indicò la foto di una Honda color verde scuro parcheggiata sulla strada. «È la mia auto.» «Non si legge il numero di targa.» «So riconoscere la mia macchina!» Dean girò la polaroid. Sul retro qualcuno aveva disegnato una faccia con un sorriso assurdo e aveva scritto con un pennarello blu: «La mia auto». Jane sentì la paura martellarle nel petto. «Guardi la prossima», lo incitò. Gabriel prese la seconda foto. Anche quella era stata scattata di giorno, e mostrava la facciata di un edificio. Non ebbe bisogno di chiedere di che palazzo si trattasse, c'era stato la sera precedente. Girò la foto e lesse le parole: «La mia casa». Sotto, un'altra faccia sorridente. Dean prese la terza foto, scattata all'interno di un ristorante. A prima vista, sembrava una banale inquadratura dei clienti seduti ai tavoli da pranzo e una cameriera sfocata, ritratta mentre attraversava la stanza con una caffettiera. A Jane erano bastati pochi secondi per riconoscere la figura seduta a sinistra, una donna con i capelli scuri, il volto preso di profilo, i lineamenti oscurati dal riverbero della finestra. Attese che anche Dean la riconoscesse.
«Sa dov'è stata scattata?» le chiese a bassa voce. «Allo Starfish Café.» «Quando?» «Non lo so...» «È un luogo che frequenta spesso?» «La domenica, per colazione. È l'unico giorno della settimana in cui...» La voce le si affievolì. Fissò il suo profilo, le spalle rilassate, il volto chino verso il basso, lo sguardo su un giornale aperto. Doveva essere un'edizione domenicale. Era l'unico giorno in cui si permetteva di fare colazione allo Starfish. Una mattinata di pane tostato, pancetta e fumetti. E qualcuno appostato. Non si era mai accorta di essere sorvegliata. Che le stessero scattando delle foto, per poi mandarle all'uomo che la tormentava nei suoi incubi. Dean girò anche la terza foto. Sul retro un'altra faccia sorridente. E sotto, racchiusa in un cuore, una sola parola: «Io». 16 La mia auto. La mia casa. Io. Jane tornò a Boston con lo stomaco sottosopra per la rabbia. Sebbene Dean le sedesse a fianco, non lo degnò nemmeno di uno sguardo: era troppo concentrata a tenere a bada la sua collera, a sentire le fiamme che la consumavano. L'ira divenne ancora più intensa quando Dean si fermò di fronte alla casa della O'Donnell, in Brattle Street. Jane fissò l'ampio edificio coloniale, le assicelle dipinte di un bianco immacolato, messe in risalto dalle persiane grigio ardesia. Un cancello di ferro battuto circondava il giardino dal prato curato, con un vialetto lastricato di granito. Anche per gli standard piuttosto elevati di Brattle Street, quella era una casa splendida, che un dipendente statale non avrebbe mai potuto possedere. Eppure, sono i dipendenti statali come me a inchiodare i vari Warren Hoyt e a patire le conseguenze di quelle battaglie, pensò. Era lei che sbarrava porte e finestre di notte, che si svegliava di soprassalto al rumore di passi fantasma che si avvicinavano al letto. Era lei che combatteva i mostri e ne subiva le ripercussioni, mentre là dentro, in quella meravigliosa villa, viveva una donna che porgeva a quegli stessi mostri un orecchio comprensivo, che entrava nei tribunali e
difendeva gli indifendibili. Era una casa costruita sulle ossa delle vittime. La donna con i capelli biondo cenere che venne alla porta era ben curata quanto l'abitazione, la chioma lucida a caschetto, camicia Brooks Brothers e un paio di pantaloni perfettamente stirati. Era sulla quarantina, e aveva un volto dalla carnagione chiara come l'alabastro. E, come il vero alabastro, quel viso non trasmetteva calore. Lo sguardo emanava solo una fredda intelligenza. «Dottoressa O'Donnell? Sono la detective Rizzoli. E questo è l'agente Gabriel Dean.» Lo sguardo della donna indugiò su Dean. «L'agente Dean e io ci siamo già conosciuti.» E si erano già fatti un'idea l'uno dell'altra... un'idea non di certo positiva, pensò la Rizzoli. Palesemente seccata per la visita, la dottoressa O'Donnell li fece entrare nell'ampio ingresso con un gesto meccanico, senza sorridere, e li condusse in un salotto formale. C'era un divano di seta bianca, con il telaio di palissandro, e vari tappeti orientali in ricche tonalità di rosso mettevano in risalto il pavimento di tek. Jane Rizzoli non era un'esperta d'arte, ma persino lei riconobbe che i dipinti alle pareti erano originali, probabilmente di grande valore. Altre ossa di vittime, pensò. Lei e Dean si sedettero sul divano, di fronte alla O'Donnell. Non era stato loro offerto tè né caffè, nemmeno un bicchiere d'acqua, segno piuttosto chiaro che l'ospite desiderasse porre fine alla conversazione al più presto. La O'Donnell non perse tempo e si rivolse a Jane. «Ha detto che si trattava di Warren Hoyt.» «Ha tenuto una corrispondenza con lui.» «Sì. È un problema?» «Qual era la natura della corrispondenza?» «Dal momento che ne siete a conoscenza, presumo l'abbiate letta.» «Qual era la natura della corrispondenza?» Jane ripeté la domanda, il tono inflessibile. La dottoressa O'Donnell la fissò per un istante, stimandone in silenzio l'avversione. Aveva ormai capito che Jane le era ostile, e le rispose, di conseguenza, irrigidendo la sua postura come se indossasse un'armatura. «Prima dovrei farle una domanda, detective», ribatté. «Perché la mia corrispondenza con il signor Hoyt interessa la polizia?» «Sa che è evaso?» «L'ho sentito al telegiornale, naturalmente. E poi la polizia di Stato mi
ha interpellato per sapere se abbia tentato di contattarmi. Lo hanno fatto con tutte le persone che avevano una corrispondenza con Warren.» Warren. Si chiamavano per nome. Jane aprì la grossa busta di carta grezza che aveva portato con sé ed estrasse le tre polaroid, infilate in sacchetti per le prove. Poi le porse alla dottoressa O'Donnell. «Ha mandato lei queste foto al signor Hoyt?» La donna diede una rapida occhiata alle istantanee. «No, perché?» «Non le ha nemmeno guardate.» «Non ce n'è bisogno. Non ho mai mandato foto a Hoyt, di nessun genere.» «Queste sono state trovate nella sua cella. In una busta con il suo indirizzo.» «Allora deve aver usato la mia busta per conservarle.» Quindi restituì le polaroid. «Che cosa gli spediva esattamente?» «Lettere. Moduli di autorizzazione da firmare e restituire.» «Moduli per cosa?» «Per visionare i documenti scolastici, le cartelle pediatriche. Qualsiasi informazione potesse aiutarmi a valutare la sua storia.» «Quante volte gli ha scritto?» «Credo quattro o cinque.» «E lui rispondeva?» «Sì. Ho le sue lettere in formato elettronico. Potete averne copia.» «Ha tentato di contattarla dopo la fuga?» «Non crede che l'avrei riferito alle autorità se l'avesse fatto?» «Non lo so, dottoressa O'Donnell, non conosco la natura della sua relazione con il signor Hoyt.» «Era una corrispondenza. Non una relazione.» «Però gli ha scritto quattro o cinque volte.» «Gli ho fatto anche visita. L'intervista è su una videocassetta, se la volete esaminare.» «Perché ha parlato con lui?» «Ha una storia da raccontare. Una lezione da impartirci.» «Per esempio, come macellare le donne?» Le parole le uscirono di bocca prima ancora che potesse riflettere, un dardo d'amarezza che non riuscì a scalfire l'armatura della dottoressa O'Donnell. Impassibile, questa ribatté: «Come tutrice della legge, lei vede solo il risultato finale. La brutalità, la violenza. Crimini terribili che sono la natura-
le conseguenza di ciò che questi uomini hanno vissuto». «E lei che cosa vede?» «Quello che è accaduto prima, nella loro vita passata.» «Ora mi dirà che è tutta colpa dell'infanzia difficile.» «Sa qualcosa dell'infanzia di Warren?» Jane Rizzoli sentì la pressione aumentarle. Non desiderava parlare delle cause delle ossessioni di Hoyt. «Alle sue vittime non interessa un accidenti della sua infanzia. E nemmeno a me.» «Ma sa comunque qualcosa?» «Mi è stato detto che era perfettamente normale. So che ha avuto un'infanzia migliore di molti uomini che non si divertono a squartare le donne.» «Normale.» La O'Donnell sembrò trovare quella parola divertente. Per la prima volta da quando si erano seduti, guardò Dean. «Agente Dean, perché non ci dà una definizione di normale?» I due si scambiarono un'occhiata aspra, eco ostile di un antico scontro non ancora del tutto risolto. Ma quali che fossero i sentimenti di Dean in quel momento, nella sua voce non se ne notò traccia. «La detective Rizzoli le sta facendo delle domande. Le suggerisco di rispondere, dottoressa», replicò con calma. Jane era colpita dal fatto che Gabriel non le avesse ancora sottratto il controllo dell'interrogatorio. Le era sembrato un uomo avvezzo al comando, eppure ora lo aveva passato a lei e si era scelto il ruolo dell'osservatore. Jane, tuttavia, aveva permesso che la rabbia guastasse la conversazione. Era ora di riprendere il controllo, e a tale scopo avrebbe dovuto reprimere i suoi sentimenti. Bisognava procedere pacatamente, con metodo. «Quando avete iniziato a scrivervi?» chiese. La dottoressa O'Donnell rispose, con altrettanta freddezza: «Circa tre mesi fa». «Perché ha deciso di farlo?» «Aspetti un attimo.» La dottoressa fece una risata sorpresa. «Ha capito male. Non ho iniziato io la corrispondenza.» «Intende dire che è stato Hoyt?» «Sì, mi scrisse lui per primo. Disse che aveva sentito parlare del mio lavoro sulla neurologia della violenza. Sapeva che ero stata testimone della difesa in altri processi.» «Voleva ingaggiarla?» «No. Sapeva che non c'erano possibilità che la sentenza venisse cambiata. Non dopo che era passato tanto tempo. Ma pensava che il suo caso mi
avrebbe interessato. Ed era vero.» «Perché?» «Mi sta chiedendo perché ero interessata?» «Perché avrebbe dovuto perdere tempo a scrivere a qualcuno come Hoyt?» «È esattamente il tipo di individuo su cui voglio ottenere maggiori informazioni.» «È stato esaminato da cinque o sei strizzacervelli. Non c'è niente che non vada in lui. È perfettamente normale, se non per il fatto che gli piace uccidere le donne. Si diverte a legarle e ad aprire loro il ventre. Si eccita giocando al chirurgo. Peccato che lo faccia mentre sono ancora sveglie. Mentre sono coscienti di ciò che sta facendo loro.» «Eppure lei lo ha definito 'normale'.» «Non è un malato di mente. Sa quello che fa, e si diverte.» «Dunque lei crede che sia nato malvagio.» «Quella è esattamente la parola che userei per lui», ribatté Jane. La dottoressa la osservò per un momento con uno sguardo che sembrò penetrarla. Quanto in fondo riusciva a vedere? La sua formazione psichiatrica le consentiva di sbirciare oltre la maschera che un individuo portava in pubblico, di scorgere la carne traumatizzata che vi stava dietro?» Improvvisamente la O'Donnell si alzò in piedi. «Perché non venite nel mio studio?» esclamò. «C'è una cosa che vi vorrei mostrare.» Jane e Dean la seguirono in corridoio, il rumore dei passi attutito dalla passatoia color vinaccia che correva lungo tutto il pavimento. La stanza in cui li condusse creava un netto contrasto con il salottino riccamente decorato. Lo studio della dottoressa era concepito unicamente per il lavoro: pareti bianche, scaffali pieni di libri di consultazione, armadietti di metallo per l'archivio. Entrare in quel locale, pensò Jane, equivaleva a concentrarsi subito sul lavoro. E sulla O'Donnell sembrò avere proprio quell'effetto. Con ferma determinazione la donna raggiunse la scrivania, prese una busta per radiografie e si diresse a una lavagna luminosa sulla parete. Appese una lastra con le mollette e premette un interruttore. La lavagna si accese, illuminando l'immagine di un cranio umano. «Visione frontale», affermò la dottoressa. «Maschio bianco, ventottenne, muratore. Era un onesto cittadino, descritto come un uomo premuroso e un marito modello. Padre affettuoso di una bambina di sei anni. Poi si ferì sul posto di lavoro, una trave gli cadde in testa.» La donna guardò in direzione dei suoi ospiti. «L'agente Dean probabilmente l'ha già notato. E lei, detec-
tive?» Jane Rizzoli si avvicinò alla lavagna luminosa. Non le capitava spesso di esaminare radiografie, e riusciva solo a cogliere i tratti generali: la volta cranica, le cavità oculari gemelle, le file dei denti. «Vi mostro la visione laterale», esclamò la O'Donnell, e appese una seconda radiografia. «Ora lo vede?» La seconda lastra mostrava il cranio di profilo. Jane riusciva ora a scorgere una sottile ragnatela di linee di frattura, che dalla porzione frontale s'irradiava verso quella posteriore. La indicò con un dito. La dottoressa O'Donnell annuì. «Era in stato d'incoscienza quando lo portarono al pronto soccorso. La TAC rivelò un'emorragia con un ampio ematoma subdurale, un accumulo di sangue, per intenderci, che comprimeva i lobi frontali del cervello. Il sangue fu drenato chirurgicamente, e lui si riprese. O, meglio, sembrò riprendersi. Andò a casa e tempo dopo tornò al lavoro. Ma non era più lo stesso. Sul lavoro continuava a perdere la pazienza e fu licenziato. Cominciò a molestare sessualmente la figlia. Poi, dopo una lite con la moglie, la picchiò a morte con tale brutalità che il suo cadavere era irriconoscibile. Aveva cominciato a colpirla e non riusciva a smettere. Nemmeno dopo averle rotto gran parte dei denti. Nemmeno dopo averle ridotto la faccia in poltiglia e fracassato tutte le ossa.» «Mi sta dicendo che tutto può essere dovuto a quello?» asserì Jane, indicando il cranio fratturato. «Sì.» «Non mi faccia ridere, dottoressa.» «Guardi la radiografia, detective. Vede dov'è localizzata la frattura? Consideri quale parte del cervello si trova dietro di essa.» La O'Donnell si voltò verso Dean. Lui incrociò impassibile il suo sguardo. «I lobi frontali», affermò. Un debole sorriso piegò le labbra della dottoressa. Evidentemente, approfittava dell'occasione per sfidare un vecchio rivale. «Che scopo aveva questa radiografia?» «Fui chiamata in causa dalla difesa perché effettuassi una perizia neuropsichiatrica. Usai quello che chiamiamo il Wisconsin Card Sort Test e un Category Test della Halstead-Reitan Battery. Prescrissi anche una risonanza magnetica cerebrale. Il tutto mi portò a un'unica conclusione: quell'uomo aveva subito gravi danni a entrambi i lobi frontali.» «Eppure ha detto che si era completamente ripreso dopo l'incidente.» «Sembrò riprendersi.»
«Aveva danni cerebrali o no?» «Anche con lesioni estese dei lobi frontali è possibile camminare, parlare ed eseguire le attività quotidiane. Potrebbe instaurare una conversazione con un individuo che ha subito una lobotomia frontale e non rilevare nulla di strano. Ma quella persona ha subito senza dubbio un danno.» Indicò la lastra. «L'uomo soffre di ciò che chiamiamo 'sindrome da disinibizione frontale'. I lobi frontali influiscono sulla prudenza, sulla capacità di giudizio e sul controllo degli impulsi inopportuni. Se vengono lesi, diventiamo socialmente disinibiti, ci comportiamo in maniera impropria senza provare senso di colpa o dolore. Perdiamo la capacità di controllare gli istinti violenti. E tutti noi abbiamo momenti di rabbia in cui vorremmo reagire. Tamponare l'auto di qualcuno che ci ha tagliato la strada. Sono sicura che sa cosa intendo, detective. Quando siamo infuriati e vogliamo fare del male a qualcuno.» Jane Rizzoli non rispose, ammutolita dalla verità delle sue parole. «La società considera gli atti violenti come manifestazioni di malvagità o di immoralità. Ci viene insegnato a controllare il comportamento, e che ognuno di noi ha il libero arbitrio di scegliere di non fare del male a un altro essere vivente. Ma non è solo la moralità a guidarci, bensì anche la biologia. I lobi frontali ci aiutano a integrare pensieri e azioni, a soppesare le conseguenze dei nostri gesti. Senza quel controllo, cederemmo a ogni impulso selvaggio. Ed è ciò che è accaduto a quell'uomo. Ha perduto la capacità di vigilare sul suo comportamento. Provava attrazione sessuale per la figlia, e l'ha molestata. La moglie l'ha fatto arrabbiare, e lui l'ha picchiata a morte. Abbiamo tutti pensieri inopportuni, per quanto fugaci siano. Vediamo un estraneo che ci attrae e, per un istante, pensiamo al sesso. Ma è tutto lì, solo un pensiero effimero. Che cosa accadrebbe, però, se cedessimo all'impulso? Se non riuscissimo a fermarci? Quell'impulso sessuale potrebbe condurre allo stupro. O a qualcosa di peggio.» «E questa è stata la sua difesa? 'È stato il cervello a spingermi a farlo'?» Un lampo d'irritazione comparve negli occhi della O'Donnell. «La sindrome da disinibizione frontale è una diagnosi accettata fra i neurologi.» «Sì, ma ha funzionato in tribunale?» Ci fu un istante di gelido silenzio. «Il nostro sistema legale si basa ancora su una definizione d'infermità mentale risalente al diciannovesimo secolo. C'è forse da stupirsi che i tribunali siano ignoranti anche in materia di neurologia? Quest'uomo è nel braccio della morte in Oklahoma.» Con espressione arcigna, la dottoressa staccò le radiografie dalla lavagna lumi-
nosa e le rimise nella busta. «Che cosa c'entra questo con Warren Hoyt?» La O'Donnell raggiunse la sua scrivania, prese un'altra busta e ne estrasse una coppia di radiografie, che appese alla lavagna. Mostravano un cranio, visto di fronte e di lato, ma più piccolo del precedente. Il cranio di un bambino. «Questo ragazzino è caduto mentre scavalcava un cancello», affermò la O'Donnell. «È atterrato di faccia, sbattendo la testa sul marciapiede. Guardate qui, sulla radiografia frontale. Si vede una minuscola crepa, che corre verso l'alto, più o meno a livello del sopracciglio sinistro. Una frattura.» «La vedo», affermò la Rizzoli. «Guardi il nome del paziente.» Jane si concentrò sul piccolo riquadro accanto al margine della lastra, contenente i dati identificativi. Ciò che lesse la paralizzò. «Aveva dieci anni al tempo dell'incidente», affermò la O'Donnell. «Un bambino normale, vivace, cresciuto in un sobborgo benestante di Houston. Almeno, questo è quanto indicano i suoi referti pediatrici, e ciò che riferiscono le pagelle delle elementari. Un bambino sano, con un'intelligenza superiore alla media, che amava giocare con gli altri.» «Finché non è cresciuto e ha iniziato ad ammazzarli.» «Sì, ma perché Warren ha iniziato a uccidere?» La dottoressa indicò le radiografie. «Questa lesione potrebbe essere uno dei fattori scatenanti.» «Ehi, io sono caduta da una giostra in un parco a sette anni. Ho picchiato la testa contro una delle sbarre. Ma non vado in giro a fare a pezzi la gente.» «Però dà la caccia ad altri esseri umani. Proprio come Hoyt. Lei, in realtà, è una cacciatrice professionista.» Il viso della giovane donna avvampò di rabbia. «Come può paragonarmi a lui?» «Non lo sto facendo, detective. Ma consideri ciò che prova in questo preciso momento. Probabilmente vorrebbe darmi uno schiaffo, vero? Che cosa glielo impedisce? Che cosa la frena? È la moralità? Sono le buone maniere? Oppure è solo fredda logica, che le suggerisce che ci saranno conseguenze? La certezza che sarà arrestata? L'insieme di queste considerazioni la trattiene dall'aggredirmi. Ed è proprio nei suoi lobi frontali che si svolge questo processo mentale. Grazie a quei neuroni intatti, lei è in grado di controllare gli impulsi distruttivi.» La O'Donnell s'interruppe, poi, con sguardo furbo, aggiunse: «Il più delle volte».
Quelle ultime parole, affilate come una lancia, colpirono nel segno. Un punto debole, vulnerabile. Solo un anno prima, durante l'indagine sul Chirurgo, Jane aveva commesso un terribile errore, del quale si sarebbe sempre rammaricata: nella foga di un inseguimento aveva sparato e ucciso un uomo disarmato. Jane guardò la O'Donnell e vide un lampo di soddisfazione nei suoi occhi. Dean ruppe il silenzio. «Ci ha detto che è stato Hoyt a contattarla. Che cosa sperava di ottenere? Attenzione? Compassione?» «Se dicessimo umana comprensione?» affermò la dottoressa. «È tutto quello che le ha chiesto?» «Warren sta lottando per ottenere risposte. Non sa che cosa lo spinga a uccidere. Sa che lui è diverso, e vuole scoprire il perché.» «Le ha detto proprio così?» La O'Donnell tornò alla scrivania e prese una cartellina. «Ho qui le lettere. E la videoregistrazione dell'intervista.» «È andata al Souza-Baranowski?» «Sì.» «Dietro suggerimento di chi?» La dottoressa esitò. «Entrambi abbiamo pensato che avrebbe potuto essere utile.» «Ma chi ha lanciato l'idea di un incontro?» Jane Rizzoli rispose alla domanda al posto della O'Donnell. «Lui, non è vero? Ha chiesto Hoyt d'incontrarla.» «Potrebbe essere stato un suo suggerimento, ma lo volevamo entrambi.» «Lei, in realtà, non ha la più pallida idea del perché le abbia chiesto di fargli visita», affermò Jane. «Giusto?» «Dovevamo incontrarci. Non posso valutare un paziente senza vederlo di persona.» «E mentre eravate seduti, faccia a faccia, che cosa suppone pensasse lui?» La O'Donnell assunse un'aria indifferente. «Lei lo sa?» «Oh, sì. So esattamente che cosa passa nella testa del Chirurgo.» Jane aveva ritrovato la voce, e le parole le uscirono di bocca fredde e spietate. «Le ha chiesto di vederla perché voleva sondare la sua mente. Lui fa così con le donne. Sorride, parla con dolcezza. È scritto nelle sue pagelle scolastiche, vero? 'Un ragazzino gentile', dicevano gli insegnanti. Scommetto che è stato cortese quando vi siete incontrati, è così?» «Sì, lo è stato...»
«Un uomo normale, pronto a collaborare.» «Detective, non sono tanto ingenua da pensare che sia un uomo normale. Ma collabora. Ed era turbato per le sue azioni. Vuole capire le ragioni del suo comportamento.» «Perciò lei gli ha detto che era dovuto a quel colpo alla testa.» «Gli ho detto che l'incidente poteva essere un fattore concorrente.» «Gli avrà fatto piacere sentirlo. Sapere di avere una scusa per ciò che ha fatto.» «Io gli ho dato un parere onesto.» «Sa che cos'altro lo ha reso felice?» «Come?» «Essere nella stanza con lei. Vi siete seduti nel medesimo locale, vero?» «Ci siamo incontrati in una sala colloqui. La sorveglianza video è continua.» «Ma non c'erano barriere fra voi. Nessun vetro protettivo, nemmeno un pezzo di plexiglas.» «Non mi ha mai minacciato.» «Poteva avvicinarsi a lei. Studiare i suoi capelli, sentire il profumo della sua pelle. Ha un debole per l'odore di una donna. Lo stimola. Ma quello che lo eccita veramente è l'odore della paura. I cani sentono la paura, vero? Quando ci spaventiamo, rilasciamo ormoni che gli animali riescono a rilevare. Anche Warren Hoyt ne è capace. Lui è uguale a qualsiasi altro predatore. Sente l'odore della paura, della vulnerabilità. E questo alimenta le sue fantasie. E posso sicuramente immaginare quali fossero le sue fantasticherie quando si è seduto in quella stanza con lei. Ho visto a che cosa portano.» La O'Donnell cercò di ridere, ma non riuscì bene nell'intento. «Se cerca di spaventarmi...» «Lei ha il collo lungo, dottoressa O'Donnell. Qualcuno lo definirebbe un collo da cigno. Lui l'ha certamente notato. Non l'ha sorpreso nemmeno una volta a fissarle la gola?» «Oh, la prego.» «Non ha mai notato il suo sguardo abbassarsi, di tanto in tanto? Forse pensava che sbirciasse il seno, come fanno gli altri uomini. Ma non Warren. A lui non sembra importare molto del seno. È la gola che lo attrae. Hoyt pensa al collo di una donna come a un dessert. Il tessuto che non vede l'ora di tagliare, dopo che ha terminato con un'altra parte anatomica.» Rossa in volto, la dottoressa si rivolse a Dean. «La sua collega sta u-
scendo dal seminato.» «No», rispose pacato Gabriel. «Credo che la detective Rizzoli sia sulla pista giusta.» «Questa è pura intimidazione.» Jane scoppiò a ridere. «Lei si trovava in una stanza con Warren Hoyt. E là dentro non si sentiva intimorita?» La dottoressa O'Donnell le lanciò un'occhiata gelida. «Si trattava di un colloquio clinico.» «Lei credeva che lo fosse. Ma lui pensava a qualcos'altro.» Jane le si avvicinò, un gesto di tacita aggressione che ebbe il suo effetto sulla dottoressa. Nonostante la O'Donnell fosse più alta e più imponente, sia di statura sia per status, non poteva competere con la ferocia inesorabile della Rizzoli, e arrossì ancor di più quando Jane continuò a colpirla con le parole. «Era gentile, ha detto. Collaborava. Be', naturalmente. Ha avuto proprio quello che voleva: una donna nella stanza con lui. Una donna seduta abbastanza vicino da eccitarlo. Ma sa nasconderlo, in questo è bravo. Riesce a condurre una conversazione perfettamente normale, anche se sta pensando a come tagliarle la gola.» «Lei non sa quello che dice», replicò la O'Donnell. «Crede che stia solo cercando di spaventarla?» «Non è lampante?» «Se c'è qualcosa che dovrebbe spaventarla a morte è il fatto che Warren Hoyt l'abbia annusata bene. Lei lo ha eccitato. E ora è fuori, di nuovo a caccia. E sa una cosa? Non dimentica mai il profumo di una donna.» La dottoressa la fissò, lo sguardo finalmente atterrito. Nel percepire la sua paura, Jane non poté fare a meno di provare un po' di soddisfazione. Voleva che la O'Donnell assaporasse ciò che lei aveva provato l'anno prima. «Si abitui ad avere paura», affermò. «Perché è bene che ne abbia.» «Ho già lavorato con uomini come lui», ribatté la dottoressa. «So quando avere paura.» «Hoyt è diverso da tutti quelli che lei ha incontrato.» La donna fece una risata. La sua spacconeria era riaffiorata, alimentata dall'orgoglio. «Sono tutti diversi. Tutti unici. E non volto mai le spalle a nessuno.» 17
Carissima dottoressa O'Donnell, mi ha chiesto dei miei primi ricordi d'infanzia. Ho sentito dire che pochi conservano memoria della propria vita prima dei tre anni, perché il cervello immaturo non ha ancora acquisito la capacità di elaborare il linguaggio, e il linguaggio è necessario per interpretare quello che vediamo e sentiamo durante l'infanzia. Qualsiasi sia la spiegazione dell'amnesia infantile, non è applicabile a me, perché io ricordo molto bene alcuni particolari dei miei primi anni. Riesco a rievocare immagini nitide che, credo, risalgono a quando avevo circa undici mesi. Senza dubbio lei li scarterà come ricordi fabbricati, costruiti su storie udite dai miei genitori. Io le assicuro che sono veri, e che se i miei genitori fossero vivi, le direbbero che la mia memoria di questi episodi è molto accurata e non potrebbe basarsi su nessun racconto che potrei aver udito. Data la natura stessa di quelle immagini, erano eventi di cui la mia famiglia probabilmente non parlava volentieri. Ricordo il mio lettino, assi di legno dipinte di bianco, la sbarra con i segni dei miei denti. Una coperta blu con sopra stampati minuscoli animali: uccelli o api, o forse orsetti. E sopra il lettino c'era appeso un aggeggio che ora so essere stata una giostra, ma che allora mi pareva qualcosa di magico. Luccicava, si muoveva sempre. Stelle, lune, pianeti, mi confermò mio padre più tardi, proprio il tipo di cosa che avrebbe appeso sopra la culla del figlio. Era ingegnere aerospaziale, e credeva fosse possibile trasformare un bambino in un genio stimolandone lo sviluppo cerebrale con giochi, cartelli, nastri o con la voce di suo padre che recitava le tabelline. Io sono sempre stato bravo in matematica. Ma dubito che lei sia interessata a questo tipo di racconti. No, lei sta cercando i temi più oscuri, non i ricordi di culle bianche e di giostrine graziose. Lei vuole sapere perché sono ciò che sono. Perciò suppongo di doverle raccontare di Mairead Donohue. Ho saputo il suo nome solo anni dopo, quando raccontai a una zia i miei primi ricordi e lei esclamò: «Oh, mio Dio. Ti rammenti davvero di Mairead?» Sì, in effetti me la ricordo. Quando rievoco le immagini della mia culla, non vedo la faccia di mia madre, ma quella di Mairead che mi guarda da sopra la sbarra. La pelle bianca, deturpata da un solo neo che spicca come una mosca nera sulla guancia. Occhi verdi, bellissimi e freddi. E il suo sorriso... persino un bambino piccolo come me riusciva a scorgere ciò che gli adulti non vedono: quel sorriso celava odio. Lei odia la casa in cui lavora. Odia la puzza dei pannolini. Odia il mio piangere per
fame, che le interrompe il sonno. Odia le circostanze che l'hanno portata in questa calda città texana, tanto diversa dalla sua nativa Irlanda. Soprattutto, odia me. Lo so perché lo dimostra in più modi, tutti altrettanto silenziosi e sottili. Non lascia tracce degli abusi; oh, no, è troppo abile. Il suo odio assume la forma di un sussurro rabbioso, sommesso come il sibilo di un serpente, mentre si china sopra la mia culla. Io non comprendo le parole, ma capto il loro veleno, e vedo l'astio nei suoi occhi socchiusi. Non trascura mai i miei bisogni fisici; il mio pannolino è sempre pulito e il biberon del latte caldo. Ma ci sono i pizzicotti, le torsioni della pelle, il bruciore dell'alcol sfregato direttamente sull'uretra. Ovviamente urlo, ma non rimangono mai cicatrici né lividi. Sono semplicemente un bambino con problemi di coliche, dice ai miei genitori, nato con un temperamento nervoso. Povera Mairead! È lei che deve badare alla piccola peste urlante, mentre mia madre pensa ai suoi obblighi sociali. Mia madre, che odora di profumo e di visone. Questo è quanto ricordo. Le fitte improvvise di dolore. Il suono delle mie stesse urla. E, sopra di me, la pelle bianca della gola di Mairead, mentre si china per darmi un pizzicotto o punzecchiare la mia pelle tenera. Non so se un bambino piccolo com'ero io allora possa provare odio. Credo sia più probabile che resti semplicemente sconcertato da tali punizioni. Incapace di ragionare, il meglio che può fare è associare causa ed effetto. E io dovevo aver capito, persino allora, che la fonte del mio tormento era una donna con gli occhi freddi e una gola bianca come il latte. Jane Rizzoli, seduta alla sua scrivania, stava fissando la grafia meticolosa di Warren Hoyt, i margini della lettera ben allineati, le parole piccole, quasi attaccate, che si snodavano in linea retta da una parte all'altra del foglio. Nonostante avesse scritto a penna, non vi erano correzioni, né cancellature. Ogni frase era già strutturata prima ancora che l'inchiostro sfiorasse la carta. Se lo immaginò chino sopra il foglio, le dita affusolate strette intorno alla penna a sfera, la pelle che scivolava sulla carta, e improvvisamente sentì un bisogno quasi disperato di lavarsi le mani. Si recò nel bagno delle donne e cominciò a strofinarsi con acqua e sapone, cercando di cancellare ogni traccia di lui, ma persino dopo, essersi detersa e asciugata le mani, si sentiva ancora contaminata, come se le parole del Chirurgo fossero penetrate come veleno attraverso la pelle. E le rimanevano altre lettere da leggere, altro veleno da assorbire.
Qualcuno bussò alla porta e Jane s'irrigidì. «Jane? È qui dentro?» Era Dean. «Sì», esclamò. «Ho preparato il videoregistratore in sala conferenze.» «Arrivo subito.» Si guardò allo specchio e non fu felice di ciò che vide. Gli occhi stanchi, l'aspetto abbattuto. Non lasciare che ti veda in questo stato, pensò. Aprì il rubinetto, si lavò il volto con l'acqua fredda e lo tamponò con un asciugamano di carta. Poi si raddrizzò e fece un respiro profondo. Così va meglio, pensò, guardando La sua immagine riflessa. Non lasciare mai che ti vedano a terra. Entrò nella sala riunioni e fece un breve cenno del capo a Dean. «Va bene. Siamo pronti?» Gabriel aveva già acceso il televisore e la spia del videoregistratore stava lampeggiando. Prese la busta di carta grezza che aveva dato loro la dottoressa O'Donnell ed estrasse la videocassetta. «È datata 7 agosto», osservò. Solo tre settimane fa, pensò Jane, turbata dal fatto che si trattasse di immagini e di parole molto recenti. Si sedette al tavolo riunioni, la penna e il blocco di carta pronti per gli appunti. «Iniziamo.» Dean inserì il nastro e premette PLAY. La prima immagine che videro fu della dottoressa O'Donnell ben pettinata, davanti a un muro bianco di blocchi di calcestruzzo, assurdamente elegante nel suo tailleur di maglia blu. «Oggi è il 7 agosto. Sono all'istituto Souza-Baranowski, a Shirley, Massachusetts. Il soggetto è Warren D. Hoyt.» Lo schermo divenne improvvisamente nero; poi apparve una nuova immagine, una faccia tanto ripugnante per la Rizzoli da farla sussultare sulla sedia. A chiunque altro Hoyt sarebbe apparso come un individuo comune, persino insignificante. I capelli castano chiaro erano ben pettinati e il volto aveva il pallore tipico dei detenuti. La camicia di denim, del classico colore azzurro del carcere, era un po' abbondante per la sua corporatura esile. Chi lo aveva conosciuto nella vita quotidiana, lo aveva descritto come un uomo gradevole e cortese, e quella era l'immagine che dava di sé nel video. Un giovane piacevole e innocuo. Il suo sguardo si spostò dalla telecamera e si concentrò su un punto esterno all'inquadratura. Udirono il rumore di una sedia trascinata e poi la voce della O'Donnell. «È comodo, Warren?»
«Sì.» «Allora possiamo cominciare?» «Quando vuole, dottoressa O'Donnell.» Hoyt sorrise. «Non devo andare da nessuna parte.» «Bene.» Si udì lo scricchiolio della sedia della dottoressa, che subito dopo si schiarì la voce. «Nelle sue lettere mi ha già raccontato molto della sua famiglia e della sua infanzia.» «Ho cercato di essere esauriente. Credo sia importante che lei capisca ogni aspetto della mia persona.» «Sì, ho apprezzato la cosa. Non mi capita spesso di intervistare soggetti eloquenti come lei. Certamente nessuno che abbia tentato di essere altrettanto analitico in merito al proprio comportamento.» Hoyt scrollò le spalle. «Be', sa quello che si dice sulla vita non analizzata: non vale la pena di viverla.» «Qualche volta, tuttavia, ci spingiamo troppo in là con l'autoanalisi. È un meccanismo di difesa. L'intellettualismo come mezzo per distanziarsi dai sentimenti più forti.» Warren rimase un istante in silenzio. Poi, con un lieve tono di scherno, chiese: «Lei vuole che le parli dei sentimenti?» «Sì.» «Di qualcuno in particolare?» «Voglio sapere che cosa spinge gli uomini a uccidere. Che cosa li porta a essere violenti. Mi piacerebbe capire che cosa le passa per la testa. Cosa prova quando uccide un altro essere umano.» Lui tacque per un momento, riflettendo sulla domanda. «Non è facile da spiegare.» «Ci provi.» «Per il bene della scienza?» Il tono di scherno era ricomparso. «Sì. Per il bene della scienza. Che cosa prova?» Ci fu un lungo silenzio. «Piacere.» «Perciò la fa sentire bene?» «Sì.» «Me lo descriva.» «Vuole saperlo davvero?» «È il fulcro della mia ricerca, Warren. Voglio capire che cosa sente quando uccide. Non si tratta di curiosità morbosa. Devo sapere se presenta sintomi che possano indicare anomalie neurologiche. Mal di testa, per esempio. Gusti o odori strani.»
«L'odore del sangue è molto piacevole.» Poi tacque di nuovo. «Oh, credo di averla scioccata.» «Continui. Mi racconti del sangue.» «Io lavoravo con il sangue, sa.» «Sì, ne sono al corrente. Era un tecnico di laboratorio.» «La gente vede il sangue solo come un fluido rosso che circola nelle vene. Come l'olio di un motore. Ma è molto complesso, individuale. Ogni tipo di sangue è unico. Come ogni omicidio. Non ne esistono di tipici.» «Ma tutti le danno piacere?» «Alcuni più di altri.» «Mi racconti di uno che per lei è importante. Uno che ricorda in particolare. C'è?» Hoyt annuì. «Ce n'è uno a cui penso sempre.» «Più che ad altri?» «Sì. È sempre nella mia mente.» «Perché?» «Perché non l'ho terminato. Perché non ho mai avuto la possibilità di godermelo. È come sentire prurito e non potersi grattare.» «Questo lo fa sembrare banale.» «Davvero? Ma col tempo anche il prurito più insignificante inizia a catturare la tua attenzione. È sempre lì, ti titilla la pelle. Come saprà, il solletico sotto i piedi è una forma di tortura. Può sembrare una sciocchezza, all'inizio. Ma poi continua per giorni e giorni senza sollievo. Diventa la forma di tortura più crudele. Credo di aver detto, nelle mie lettere, di conoscere abbastanza bene la storia della disumanità dell'uomo verso i suoi simili. L'arte di infliggere dolore.» «Sì. Mi ha scritto del suo... interesse per l'argomento.» «Gli aguzzini sanno da sempre che il più piccolo fastidio può diventare, col tempo, piuttosto intollerabile.» «E il prurito di cui mi ha parlato è diventato intollerabile?» «Mi tiene sveglio la notte. Rifletto su come avrebbe potuto essere. Sul piacere che mi è stato negato. Sono un tipo meticoloso e mi piace finire ciò che comincio. Perciò la cosa mi disturba. Ci penso continuamente. Rivedo le immagini nella mia mente.» «Mi descriva ciò che vede, che sente.» «Io la vedo. È diversa, non è come le altre.» «In che senso?» «Mi odia.»
«Le altre no?» «Le altre erano nude e impaurite. Conquistate. Ma questa continua a combattermi. Lo sento quando la tocco. La sua pelle freme di rabbia, anche se sa che l'ho sconfitta.» Hoyt si protese, come stesse per confidarle i pensieri più intimi. Lo sguardo non più rivolto alla O'Donnell, ma alla telecamera, come se potesse vedere attraverso l'obiettivo e fissare direttamente Jane. «Sento la sua collera», disse. «Assorbo la sua ira, solo toccandole la pelle. Sembra incandescente. Qualcosa di liquido e di pericoloso, energia pura. Non mi sono mai sentito tanto potente. Voglio riprovare quella sensazione.» «La eccita?» «Sì. Penso al suo collo. Molto sottile. Ha un bel collo bianco.» «A che altro pensa?» «A toglierle i vestiti. A quanto siano sodi i suoi seni e il ventre. Un bel ventre piatto...» «Dunque le sue fantasie sulla dottoressa Cordell... sono sessuali?» Hoyt rimase in silenzio. Batté le palpebre, come risvegliato da uno stato di trance. «La dottoressa Cordell?» «È di lei che sta parlando, non è vero? Della vittima che non ha ucciso, Catherine Cordell.» «Oh, penso anche alla dottoressa. Ma non è di lei che sto parlando.» «E di chi allora?» «Dell'altra.» Warren fissò l'obiettivo della telecamera con tale intensità che la Rizzoli percepì la forza del suo sguardo. «Della poliziotta.» «Intende quella che l'ha scovata? È quella la donna su cui fantastica?» «Sì. Si chiama Jane Rizzoli.» 18 Dean si alzò e premette STOP sul videoregistratore. Lo schermo diventò grigio. Le ultime parole di Hoyt sembrarono risuonare come un'eco perpetua nel silenzio. Nelle sue fantasie l'aveva spogliata degli abiti e della dignità, l'aveva ridotta a una serie di parti anatomiche. Collo, seno e ventre. Si domandò se Dean la vedesse ora in quel modo, se le fantasie erotiche evocate da Hoyt fossero rimaste impresse anche nella mente di Gabriel. L'agente si voltò a guardarla. Jane non aveva mai trovato facile leggere il suo volto, ma in quell'istante nei suoi occhi c'era inequivocabilmente rabbia.
«Capisce, non è vero?» affermò Dean. «Voleva che vedesse questo video. Ha lasciato le briciole sul sentiero perché le seguisse. La busta con l'indirizzo della O'Donnell ci ha condotto da lei. Alle lettere, alla cassetta. Sapeva che lei alla fine avrebbe visto tutto.» Jane fissò lo schermo grigio. «Hoyt sta parlando con me.» «Esatto. Usa la O'Donnell come mezzo. Quando Hoyt parla con la dottoressa, in questa intervista, in realtà si rivolge a lei, Jane. Le racconta le sue fantasie. Le usa per spaventarla, per umiliarla. Ascolti che cosa dice.» Dean riavvolse il nastro. La faccia di Hoyt apparve nuovamente sullo schermo. «Mi tiene sveglio la notte. Rifletto su come avrebbe potuto essere. Sul piacere che mi è stato negato. Sono un tipo meticoloso e mi piace finire ciò che comincio. Perciò la cosa mi disturba. Ci penso continuamente...» Dean premette il tasto STOP e la fissò. «Come la fa sentire? Sapere che è sempre nei suoi pensieri?» «Lo sa bene come mi fa sentire, dannazione.» «E lo sa anche lui. Per questo ha voluto che vedesse l'intervista.» Dean premette FAST FORWARD e quindi PLAY. Gli occhi di Hoyt fissavano in modo strano un pubblico che non potevano vedere. «A toglierle i vestiti. A quanto siano sodi i suoi seni e il ventre. Un bel ventre piatto...» Dean premette nuovamente STOP. Lo sguardo che le indirizzò la fece arrossire. «Non fiati», esclamò lei. «Vuole sapere come mi sento...» «Messa a nudo?» «Sì.» «Vulnerabile.» «Sì.» «Violata.» Jane deglutì e distolse lo sguardo. Poi, sottovoce, aggiunse: «Sì». «Tutte sensazioni che vuole lei provi. Ha detto che è attratto dalle donne con problemi. Dalle donne che sono state violate. Ed è proprio così che la fa sentire ora. Con semplici parole pronunciate in un video. Proprio come una vittima.» Jane si voltò di scatto. «No», ribatté. «Non una vittima. Vuole sapere cosa provo realmente in questo momento?» «Cosa?» «Ho voglia di fare a pezzi quel figlio di puttana.» Era una risposta urlata
per pura spacconeria, le parole come pugni agitati nel vuoto. Colto alla sprovvista, Dean la guardò accigliato per un istante. Aveva capito quanto si sforzasse per mantenere in piedi la facciata? Aveva captato la nota falsa nella sua voce? Jane Rizzoli continuò sicura, per non dargli la possibilità di smascherare il bluff. «Sta dicendo che sapeva, già allora, che avrei visto questa roba? Che la videocassetta era indirizzata a me?» «Non le pare che sia così?» «Mi sembra una fantasia degna di qualsiasi malato di mente.» «Non di chiunque. E nemmeno la vittima è una qualsiasi. Sta parlando di lei, Jane. Sta parlando di quello che le farebbe.» Le sue terminazioni nervose lanciarono segnali d'allarme. Dean la stava mettendo di nuovo sul piano personale, stava puntando di nuovo il dito verso di lei. Forse si divertiva a vederla umiliata? Tutto ciò serviva a qualcosa oltre che ad aumentare le sue paure? «Quando è stato registrato il video, Hoyt aveva già progettato la fuga», affermò Dean. «Si ricordi che è stato lui a contattare la O'Donnell. Sapeva che l'avrebbe incontrato, che non avrebbe resistito a una simile offerta. Lei era un microfono aperto, registrava tutto ciò che lui diceva, tutto ciò che voleva che il pubblico udisse. E soprattutto quello che doveva sentire lei, Jane. Poi ha orchestrato una sequenza logica di eventi, che ha portato dritto a questo istante, con lei che guarda il video.» «Esistono persone tanto abili?» «Warren Hoyt non lo è?» le chiese Gabriel. Un'altra freccia scoccata per indebolire le sue difese. Per sottolineare l'evidenza. «Ha trascorso un anno dietro le sbarre. Ha avuto un anno intero per alimentare le sue fantasie», continuò. «Ed erano tutte su di lei.» «No, lui voleva Catherine Cordell. Ha sempre voluto la Cordell...» «Non è quello che ha detto alla dottoressa O'Donnell.» «Allora ha mentito.» «Perché?» «Per vendicarsi. Per sconvolgermi...» «Perciò mi dà ragione. Questo video era destinato a finire nelle sue mani. È un messaggio diretto a lei.» Jane fissò lo schermo vuoto del televisore. Il fantasma del volto di Hoyt sembrava ancora osservarla. Tutto ciò che aveva fatto era mirato a scombussolare il suo universo, a minare il suo equilibrio mentale. Proprio come con la Cordell, prima che iniziasse la caccia. Voleva che le sue vittime fos-
sero terrorizzate, sfibrate; le catturava solo dopo averle cotte sul fuoco lento della paura. Non le era rimasto alcun rifiuto da opporre, nessuna difesa contro l'evidenza. Dean si sedette al tavolo di fronte a lei. «Credo che dovrebbe ritirarsi dall'indagine», affermò pacato. Sorpresa, Jane sollevò lo sguardo. «Ritirarmi?» «È diventata una faccenda personale.» «Fra me e un assassino è sempre una faccenda personale.» «Non fino a questo punto. Lui la vuole, per poter fare i suoi giochetti. Per insinuarsi in ogni aspetto della sua vita. Come responsabile delle indagini, è in vista, accessibile. Completamente presa dalla caccia. Ora Hoyt ha anche iniziato ad allestire per lei le scene dei delitti. Per comunicare con lei, Jane.» «Una ragione in più per rimanere.» «No. Una ragione in più per mollare. Per mettere una certa distanza fra voi.» «Io non mollo mai, agente Dean», replicò brusca la Rizzoli. Dopo un istante di silenzio, Gabriel mormorò sarcastico: «No, certo. Immagino che non succeda mai». Questa volta fu lei ad avvicinarsi, in atteggiamento di sfida. «In ogni caso, perché lei ce l'ha con me? Ha cercato di togliermi di mezzo fin dall'inizio. Ha parlato con Marquette alle mie spalle. Ha sollevato perplessità...» «Non ho mai messo in dubbio la sua competenza.» «E allora, qual è il problema?» Dean rispose a quell'impeto di rabbia con voce calma ed equilibrata. «Consideri la persona con cui ha a che fare. Un uomo che ha incastrato, che la incolpa del suo arresto. Lui pensa ancora a quello che vorrebbe farle, mentre lei ha trascorso un anno intero a cercare di dimenticare ciò che le ha già fatto. Lui brama un secondo atto, Jane. Sta gettando le fondamenta, la sta portando proprio dove vuole. E non è certo un luogo sicuro.» «È davvero preoccupato per la mia incolumità?» «Insinua forse che avrei altri scopi?» chiese Gabriel. «Non saprei. Non l'ho ancora inquadrata.» Dean si alzò e si diresse al videoregistratore. Estrasse la cassetta e la rimise nella busta. Stava prendendo tempo, per cercare una risposta plausibile. Tornò a sedersi e la guardò. «La verità è», ribatté, «che non l'ho inquadrata nemmeno io.»
Jane si mise a ridere. «Non mi ha inquadrata? Io sono quello che vede.» «Lei mi lascia conoscere solo il poliziotto. Che cosa mi dice di Jane Rizzoli, la donna?» «Sono la stessa cosa.» «Sa bene che non è vero. È solo che non permette a nessuno di guardare oltre il distintivo.» «Che cosa dovrei svelare di me stessa? Che non possiedo il prezioso cromosoma Y? Il distintivo è l'unica cosa che voglio che vedano.» Dean si protese in avanti, il viso abbastanza vicino da invadere il suo spazio vitale. «Qui si tratta della sua vulnerabilità, perché lei è un bersaglio. Stiamo parlando di un assassino che sa già come prenderla in trappola. Di un uomo che è riuscito a portarsi in zona di tiro. E lei non sapeva nemmeno che fosse in agguato.» «La prossima volta, lo saprò.» «Davvero?» Si guardarono negli occhi, i volti vicini come quelli di due amanti. Il desiderio sessuale che la trafisse fu tanto improvviso e inaspettato che le causò dolore e piacere nello stesso tempo. Si ritrasse di scatto, il volto in fiamme, e, nonostante i loro sguardi s'incrociassero a distanza di sicurezza, si sentiva ancora messa a nudo. Non era brava a nascondere le emozioni, e le pareva di essere disperatamente inadeguata quando si trattava di flirtare o di mettere in atto le piccole malizie fra uomini e donne. Si sforzò di mantenere il contegno, ma si rese conto di non poterlo più guardare senza sentirsi trasparente al suo sguardo. «Capisce che ci sarà una prossima volta?» affermò Dean. «Ora non c'è solo Hoyt. Sono in due. Questo dovrebbe bastare per spaventarla a morte.» Jane guardò la busta contenente la videocassetta che Hoyt aveva voluto mostrarle. Il gioco era appena iniziato, uno a zero per Hoyt, e sì, era terrorizzata. In silenzio, radunò le sue carte. «Jane?» «Ho sentito tutto quello che ha detto.» «Per lei non fa differenza. Vero?» Lei lo guardò. «Sa una cosa? Potrei essere investita da un autobus appena attraverso la strada. Oppure accasciarmi sulla scrivania per un ictus. Ma non penso a queste cose. Non lascio che queste idee prendano il sopravvento. L'avevo quasi permesso, sa? Gli incubi... stavano per logorarmi. Ma ora ho ritrovato la carica. O forse sono solo diventata insensibile e non rie-
sco a provare più nulla. Perciò, il meglio che posso fare è continuare a marciare, passo dopo passo. Solo così sarò in grado di uscirne, continuando a marciare. È l'unica cosa che ognuno di noi può fare.» Fu quasi sollevata quando il cercapersone suonò. Le dava una ragione per interrompere il contatto visivo, per abbassare lo sguardo sul display digitale dell'apparecchio. Quando attraversò la sala riunioni fino al telefono e compose il numero, sentì il suo sguardo che la seguiva. «Capelli e Fibre. Volchko», rispose una voce. «Rizzoli. Mi hai cercato?» «Si tratta delle fibre di nylon verde. Quelle raccolte sulla pelle di Gail Yeager. Ne abbiamo trovate di uguali su Karenna Ghent.» «Dunque usa lo stesso tessuto per avvolgere tutte le sue vittime. Non mi sorprende.» «Oh, ma una sorpresa per te ce l'ho.» «Di che si tratta?» «So che cosa ha usato.» Erin indicò il microscopio. «I vetrini sono pronti. Date un'occhiata.» Jane Rizzoli e Dean si sedettero l'uno di fronte all'altra, gli occhi premuti sull'oculare doppio del microscopio. Attraverso le lenti videro la stessa cosa: due filamenti, messi l'uno accanto all'altro per essere confrontati. «La fibra a sinistra è stata prelevata da Gail Yeager. Quella a destra da Karenna Ghent», affermò Erin. «Che ne pensate?» «Sembrano identiche», rispose Jane. «Lo sono. Sono entrambe nylon Dupont tipo 6,6, grigioverde. I fili sono da trenta denari, molto sottili.» Erin aprì un raccoglitore e prese due grafici, che appoggiò sul bancone. «Ed ecco ancora gli spettri ATR. Il numero uno è della Yeager, il due della Ghent.» La donna guardò Dean. «Lei conosce le tecniche dell'Attenuated Total Reflection, agente Dean?» «Si tratta di una tecnica a infrarossi, giusto?» «Esatto. La usiamo per distinguere i trattamenti superficiali dalla fibra in sé. Per rilevare le sostanze chimiche applicate al tessuto dopo la tessitura.» «E ce n'erano?» «Sì, una copertura di silicone. La settimana scorsa io e la detective Rizzoli abbiamo pensato alle possibili ragioni di tale trattamento. Non avevamo idea del possibile utilizzo di questo tessuto. Ciò che sapevamo era che le fibre sono resistenti al calore e alla luce, e che i fili sono tanto sottili che, se intrecciati, formerebbero un tessuto impermeabile.» «Pensavamo potesse trattarsi di una tenda o di una cerata», intervenne
Jane. «E quale utilità avrebbe il silicone?» chiese Dean. «Proprietà antistatiche», rispose Erin. «Resistenza allo strappo e all'acqua. Inoltre, riduce la porosità del tessuto quasi a zero. In altre parole, non può passarci attraverso nemmeno l'aria.» La Volchko guardò Jane. «Qualche idea di che cosa sia?» «Hai detto di conoscere già la risposta.» «Be', mi hanno dato un po' di aiuto. Il laboratorio della polizia di Stato del Connecticut.» Erin appoggiò un terzo grafico sul bancone. «Me l'hanno inviato via fax oggi pomeriggio. È uno spettrografo ATR di fibre prelevate dalla scena di un omicidio nelle campagne del Connecticut. Erano state raccolte dai guanti e da una giacca di lana del sospetto. Confrontatelo con le fibre rinvenute su Karenna Ghent.» Lo sguardo di Jane Rizzoli saettò da un grafico all'altro. «Corrispondono. Le fibre sono identiche.» «Esatto. Solo il colore è diverso. Le fibre, nei nostri due casi, sono grigioverdi. Quelle dell'omicidio del Connecticut erano di due colori diversi. Alcune arancione brillante, altre verde lime.» «Stai scherzando.» «Vistosi, non è vero? Ma, a parte il colore, le fibre del Connecticut sono identiche alle nostre. Nylon Dupont tipo 6,6. Fili da trenta denari, ricoperti da uno strato di silicone.» «Ci racconti del caso del Connecticut», esclamò Dean. «Un incidente di paracadutismo. Il paracadute della vittima non si era aperto bene. Solo quando sono state trovate queste fibre arancioni e verdi sugli abiti del sospetto è stata aperta un'indagine per omicidio.» La Rizzoli fissò gli spettri ATR. «È un paracadute.» «Esattamente. Il sospetto dell'omicidio del Connecticut aveva manomesso il paracadute della vittima la notte precedente. Questo ATR è caratteristico del tessuto usato per i paracadute. Resiste allo strappo e all'acqua. Dopo l'uso, si può piegare e riporre facilmente. Per questo il nostro uomo lo usa per avvolgere le vittime.» Jane la guardò. «Un paracadute», mormorò. «Un sudario perfetto.» 19 C'erano documenti dappertutto, fascicoli aperti sul tavolo riunioni e foto delle scene dei delitti disposte come tegole lucenti. Blocchi di carta gialla
scarabocchiati a penna. Nonostante fosse l'era dei computer - e si notassero alcuni laptop aperti con lo schermo luminoso -, in cui le informazioni venivano trasmesse alla velocità della luce, i poliziotti cercavano ancora il conforto della carta. Jane Rizzoli aveva lasciato il suo portatile sulla scrivania, preferendo prendere appunti con la sua grafia illeggibile, ma decisa. Il foglio era un groviglio di parole, di frecce curve e di riquadri che enfatizzavano dettagli significativi. Ma in quel caos c'era un ordine, e l'indelebilità dell'inchiostro procurava un senso di sicurezza. Jane voltò pagina, tentando di concentrarsi sulla voce bassa del dottor Zucker e di non farsi distrarre dalla presenza di Gabriel Dean, che sedeva accanto a lei, anch'egli intento a prendere appunti, ma con una scrittura ben più chiara. Lo sguardo di Jane si posò sulla sua mano, sulle grosse vene che gli solcavano la pelle mentre impugnava la penna, il polsino della camicia che spuntava, bianco e in ordine, dalla manica della giacca grigia. Era arrivato alla riunione dopo di lei e aveva scelto di sedersi al suo fianco. Significava qualcosa? No, Rizzoli Significa solo che c'era una sedia vuota vicino a te. Abbandonarsi a quei pensieri era una perdita di tempo, una distrazione. Non riusciva a concentrarsi, a focalizzare l'attenzione, e persino la sua grafia seguiva traiettorie oblique sul foglio. C'erano altri cinque uomini nella stanza, ma solo Dean catturava il suo interesse. Ora conosceva il suo profumo e riusciva a percepirlo, fresco e pulito, nella sinfonia di dopobarba presente nella stanza. Jane, che non metteva mai profumi, era circondata da uomini che ne facevano ampio uso. Abbassò lo sguardo su quello che aveva appena scritto: «Mutualisnio: simbiosi con reciproco vantaggio dei due o più organismi coinvolti». Il termine che definiva il patto di Warren Hoyt con il suo nuovo partner. Il Chirurgo e il Dominatore, uniti in una squadra. Due uomini che insieme cacciavano e si nutrivano di carogne. «Warren Hoyt ha sempre lavorato meglio in società», affermò il dottor Zucker. «Per lui è il modo preferito di cacciare. Come faceva con Andrew Capra, finché non è morto. In realtà, Hoyt ha bisogno della partecipazione di un altro uomo per realizzare il suo rituale.» «Ma l'anno scorso cacciava da solo», intervenne Barry Frost. «Non aveva un compagno.» «In un certo senso sì», rispose il criminologo. «Pensi alle vittime che ha scelto qui a Boston. Erano tutte donne che erano state stuprate, non da Hoyt ma da altri. È attratto da donne ferite, donne segnate da un'aggressio-
ne sessuale. Ai suoi occhi, ciò le rende sporche, contaminate, e perciò avvicinabili. Nel profondo, Hoyt teme le donne normali, e la sua paura lo rende impotente. Si sente forte solo quando pensa che siano inferiori a lui. Simbolicamente distrutte. Quando cacciava con Capra, era quest'ultimo ad aggredire le donne. Solo allora Hoyt usava il bisturi. Solo allora poteva trarre piena soddisfazione dal rito che seguiva.» Zucker si guardò attorno e vide le varie teste annuire. Questi erano particolari che i poliziotti nella stanza già conoscevano. Tranne Dean, avevano lavorato tutti al caso del Chirurgo; l'operato di Warren Hoyt era loro familiare. Il dottore aprì un fascicolo sul tavolo. «Veniamo ora al secondo assassino, il Dominatore. Il suo rituale è quasi speculare a quello di Hoyt. Lui non teme le donne, né gli uomini. Infatti, sceglie di aggredire donne che vivono con un partner. Il marito, o il fidanzato, non è una presenza scomoda. No, a quanto pare il Dominatore vuole che ci sia, ed entra preparato ad affrontarlo. Ha una pistola elettrica e del nastro adesivo per immobilizzarlo. Lo posiziona in modo che sia costretto a vedere ciò che viene dopo. Il Dominatore non uccide subito il marito, anche se potrebbe essere la mossa più logica, ma assapora il brivido di avere un pubblico. Sapendo che un altro uomo lo sta guardando mentre rivendica il suo bottino.» «E Warren Hoyt si eccita a guardare», affermò la Rizzoli. Zucker annuì. «Esatto. A uno piace agire. All'altro piace guardare. È un esempio perfetto di mutualismo. Quei due sono partner naturali. Le loro brame sono complementari. Insieme sono più efficaci, possono controllare meglio le prede. Possono combinare le loro abilità. Quando Hoyt era in carcere, il Dominatore copiava le sue tecniche, prendeva a prestito alcune strategie del Chirurgo.» Jane l'aveva capito prima di chiunque altro, ma nessuno nella stanza lo riconobbe. Forse loro se n'erano dimenticati, ma lei no. «Sappiamo che Hoyt ha ricevuto numerose lettere. Anche dalla prigione è riuscito a reclutare un ammiratore. Lo ha coltivato, forse persino istruito.» «Un apprendista», disse Jane Rizzoli sottovoce. Zucker la guardò. «Quella che ha usato è una parola interessante: 'apprendista'. Qualcuno che acquisisce una capacità o un'arte sotto la guida di un maestro. In questo caso l'arte della caccia.» «Ma quale dei due è l'apprendista?» chiese Dean. «E quale il maestro?» La domanda irritò Jane Rizzoli. L'anno precedente Warren Hoyt aveva incarnato l'incubo peggiore che lei riuscisse a immaginare. In un mondo
pieno di predatori in agguato, lui non aveva eguali. Ora Dean aveva sollevato una possibilità che lei non voleva nemmeno considerare: il Chirurgo quale accolito di un mostro ancor più spaventoso. «Qualunque sia la loro relazione», affermò Zucker, «sono molto più efficaci in squadra che singolarmente. E in squadra è anche possibile che il loro modus operandi cambi.» «Come?» chiese Sleeper. «Finora il Dominatore ha scelto coppie, usando il marito come pubblico, per avere qualcuno che assista all'aggressione. Lui vuole che un altro uomo lo veda mentre reclama la sua preda.» «Ma ora ha un partner», intervenne Jane. «Un uomo che guarderà. Un uomo che vuole guardare.» Zucker annuì. «Hoyt potrebbe impersonare il ruolo chiave nella fantasia del Dominatore. Quello dello spettatore. Del pubblico.» «Il che significa che la prossima volta potrebbe non scegliere una coppia», continuò la Rizzoli. «Potrebbe scegliere...» S'interruppe, rifiutandosi di terminare il pensiero. Ma Zucker aspettava di sentire la sua risposta, una conclusione a cui peraltro era già arrivato. Rimase col collo allungato, gli occhi chiari puntati su di lei con un'intensità sinistra. Fu Dean a parlare. «Potrebbe scegliere una donna che vive da sola.» Zucker annuì. «Facile da sottomettere, facile da controllare. Senza alcun marito di cui preoccuparsi, i due possono concentrare tutta la loro attenzione sulla donna.» La mia auto. La mia casa. Io. Jane Rizzoli entrò nel parcheggio del Pilgrim Hospital e spense il motore. Per un attimo restò seduta con le portiere chiuse, a scrutare il garage. Come poliziotto si era sempre considerata un guerriero, un cacciatore. Non si era mai immaginata in veste di preda. Ma ora si ritrovava a comportarsi come tale, guardinga come un coniglio che si prepara a lasciare la sicurezza della tana. Lei, che era sempre stata coraggiosa, era ridotta a lanciare occhiate nervose fuori dal finestrino. Lei, che aveva abbattuto porte a calci, che era sempre stata uno dei primi agenti a irrompere nelle case dei sospetti. Colse di sfuggita il proprio riflesso nello specchietto retrovisore e vide il volto pallido, lo sguardo allucinato di una donna che conosceva appena. Non una conquistatrice, ma una vittima. Una donna che disprezzava. Aprì di scatto la portiera e uscì. Rimase in piedi, rassicurata dal peso
della pistola comodamente riposta al suo fianco. Venite, bastardi, sono pronta, pensò. Salì da sola nell'ascensore del garage, le spalle dritte, l'orgoglio più forte della paura. Quando uscì, trovò altre persone, e l'arma divenne inutile, persino eccessiva. Entrò nell'ospedale e si sistemò la giacca del vestito per tenere nascosta la fondina, poi prese un altro ascensore insieme a tre studenti di medicina, i visi giovani e lo stetoscopio che usciva dalla tasca. I ragazzi scambiarono qualche frase in gergo medico, ostentando il lessico imparato di recente, e ignorarono la donna dall'aria stanca accanto a loro. Sì, quella con l'arma nascosta al fianco. Giunta nel reparto di Terapia intensiva, Jane superò la scrivania della caposala e si diresse verso la stanza numero 5. Là si fermò, e rimase a guardare accigliata attraverso il vetro. Nel letto di Korsak giaceva una donna. «Mi scusi. Signora?» Un'infermiera la chiamò. «I visitatori devono registrarsi.» La Rizzoli si voltò. «Dov'è?» «Chi?» «Vince Korsak. Dovrebbe essere in quel letto.» «Mi dispiace; ho iniziato il turno alle tre...» «Eravate tenuti a chiamarmi se fosse successo qualcosa!» La sua agitazione aveva ormai attirato l'attenzione di un'altra infermiera, che intervenne rapidamente, parlando con il tono rassicurante di chi ha spesso a che fare con parenti sconvolti. «Il signor Korsak è stato estubato stamattina, signora.» «Che cosa significa?» «Il tubo che aveva in gola... quello che lo aiutava a respirare... gliel'abbiamo tolto. Ora sta meglio, perciò l'abbiamo trasferito nell'unità di Terapia intermedia, in fondo al corridoio.» Poi, con atteggiamento difensivo, aggiunse: «Comunque, abbiamo avvertito la moglie del signor Korsak». Jane Rizzoli pensò a Diane Korsak, ai suoi occhi spenti, e si domandò se la mente della donna avesse registrato la telefonata o se quell'informazione fosse semplicemente caduta come un penny in un pozzo scuro. Quando raggiunse la stanza di Vince, era più calma e aveva riacquistato il controllo. In silenzio, fece capolino nella camera. Lui era sveglio e fissava il soffitto. La pancia sporgeva sotto le lenzuola. Teneva le braccia immobili lungo i fianchi, come se avesse paura di muoverle per non danneggiare il groviglio di fili e di tubi.
«Ehi», mormorò Jane. Korsak la guardò. «Ehi», rispose con voce rauca. «Te la senti di ricevere visite?» In tutta risposta, Vince picchiettò una mano sul letto, invitandola ad accomodarsi. A restare. Jane prese una sedia, la avvicinò al letto e si sedette. Lui sollevò gli occhi, non verso il soffitto, come aveva dapprima pensato lei, bensì verso un monitor cardiaco montato in un angolo della stanza. Un ECG mandava segnali sullo schermo. «Quello è il mio cuore», affermò. Il tubo in gola l'aveva reso rauco, e la voce che uscì era poco più che un sussurro. «Sembra che batta normalmente», affermò Jane. «Già.» Seguì un istante di silenzio, lo sguardo di Korsak sempre fisso sul monitor. Jane vide il bouquet di fiori che gli aveva mandato quella mattina appoggiato sul comodino. Era l'unico vaso nella stanza. Nessun altro aveva pensato di mandargli dei fiori? Nemmeno la moglie? «Ieri ho incontrato Diane», affermò. Lui la fissò, poi distolse rapido lo sguardo, ma Jane riuscì a cogliere lo sgomento nei suoi occhi. «Immagino che non te l'abbia detto.» Vince scrollò le spalle. «Oggi non è venuta.» «Oh. Magari arriverà più tardi.» «Chi diavolo lo sa.» La risposta di Korsak la colse di sorpresa. Forse ne era rimasto sbigottito anche lui; improvvisamente arrossì. «Non avrei dovuto dirlo», affermò. «A me puoi dire tutto quello che vuoi.» Korsak guardò di nuovo il monitor e sospirò. «D'accordo, allora. Mi fa schifo.» «Che cosa?» «Tutto quanto. I tipi come me passano la vita a fare ciò che si suppone essere il loro dovere. Portano a casa lo stipendio. Danno alla figlia ciò che vuole. Non prendono mazzette, nemmeno una. Poi, d'un tratto, arrivano a cinquantaquattro anni e bum, il cuore gli si rivolta contro. E si ritrovano distesi a pensare: A che cazzo è servito tutto questo? Rispetto le regole e finisco con una figlia perdente che chiama ancora il papà quando ha bisogno di soldi. E con una moglie che s'imbottisce di qualsiasi schifezza riesca a farsi dare in farmacia. Io non posso competere col Principe Valium.
Sono solo l'uomo che le dà un tetto sotto cui vivere e paga le sue dannate prescrizioni.» Emise una risata, rassegnata e amara. «Perché sei ancora sposato?» «Qual è l'alternativa?» «Tornare single.» «Tornare solo, intendi dire.» Pronunciò la parola «solo» come fosse l'alternativa peggiore di tutte. Alcune persone scelgono sperando in meglio, Korsak aveva scelto illudendosi di evitare il peggio. Non perdeva d'occhio il tracciato cardiaco, il simbolo verde, pulsante, della sua mortalità. Scelte giuste o sbagliate, tutto aveva portato a quel momento, in quella stanza d'ospedale, in cui la paura teneva compagnia al rimpianto. Dove sarò io alla sua età? si domandò Jane. Stesa in un letto d'ospedale, a rimpiangere le scelte fatte, a desiderare la strada che non ho mai preso? Pensò al suo appartamento silenzioso con le pareti spoglie, al suo letto solitario. La sua vita era forse migliore di quella di Korsak? «Ho paura che si fermi», esclamò Vince. «Che diventi piatto, capisci? Mi spaventa a morte.» «Smetti di guardarlo.» «Se smetto di guardarlo, chi diavolo lo terrà d'occhio?» «Le infermiere sono di guardia alla scrivania. Anche là hanno i monitor, sai?» «Ma li staranno realmente guardando? O stanno solo ciondolando, impegnate a parlare di shopping, di ragazzi e di stronzate varie? C'è il mio maledetto cuore in gioco, non so se mi spiego.» «Hanno anche sistemi d'allarme. Alla minima irregolarità nel battito, il loro apparecchio comincia a suonare.» Lui la guardò. «Non stai dicendo cazzate?» «Ehi, non ti fidi di me?» «Non lo so.» Si osservarono per un istante, e Jane provò un senso di vergogna. Non aveva diritto di aspettarsi la sua fiducia, non dopo ciò che era accaduto al cimitero. Korsak accasciato, solo, abbandonato nell'oscurità, quella visione la tormentava ancora. E lei, un solo obiettivo in testa, dimentica di tutto tranne che dell'inseguimento. In quel momento non riuscì a guardarlo negli occhi, e abbassò lo sguardo sulle sue braccia robuste, piene di cerotti e di tubi della flebo. «Mi dispiace così tanto», affermò. «Dio, se mi dispiace.» «Per cosa?» «Per non averti cercato.»
«Di che cosa stai parlando?» «Non ricordi?» Lui scosse il capo. Jane Rizzoli rimase un istante in silenzio, capendo d'un tratto che Vince non rammentava nulla. Che avrebbe potuto tacere e lui non avrebbe mai saputo che non si era preoccupata di lui. Il silenzio sarebbe stato una facile via d'uscita, ma sapeva di non poter vivere con quel fardello. «Che cosa ricordi della notte al cimitero?» gli chiese. «L'ultima cosa?» «L'ultima cosa che ricordo? Stavo correndo. Stavamo correndo, giusto? Dietro all'assassino.» «Che altro?» «Ricordo che ero parecchio incazzato.» «Perché?» Korsak sbuffò. «Perché non riuscivo a star dietro a una donna.» «E poi?» Lui scrollò le spalle. «È tutto. Questa è l'ultima cosa che ricordo. Finché quelle infermiere hanno cominciato a infilarmi quel dannato tubo in...» Si arrestò. «Mi sono svegliato che stavo bene. L'ho fatto sapere anche a loro, ci puoi scommettere.» Trascorsero alcuni secondi di silenzio, Korsak strinse i denti, lo sguardo caparbiamente fisso sul monitor dell'ECG. Poi con pacata indignazione affermò: «Credo di aver rovinato l'inseguimento». Le parole la colsero di sorpresa. «Korsak...» «Guarda qui.» L'uomo indicò il suo ventre prominente. «È come se avessi ingoiato una fottuta palla da basket. È questo che sembra. O che sia al quindicesimo mese di gravidanza. Non riesco nemmeno a vincere una gara con una ragazza. Una volta ero veloce, sai? Ero robusto come un cavallo da corsa. Non come ora. Avresti dovuto conoscermi allora, Rizzoli. Non mi avresti riconosciuto. Ma scommetto che non ci credi, vero? Perché mi vedi come sono adesso. Uno sfatto pezzo di merda. Fumo troppo, mangio troppo.» Bevi troppo, aggiunse tra sé Jane. «... una schifosa palla di lardo.» Con una mano si schiaffeggiò arrabbiato il ventre. «Korsak, ascoltami. Sono io quella che ha rovinato tutto, non tu.» Lui la guardò, palesemente confuso. «Al cimitero. Stavamo entrambi correndo dietro a quello che credevamo fosse l'assassino. Tu eri dietro di me. Ti sentivo ansimare, cercavi di raggiungermi.»
«Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo.» «Poi non c'eri più. Così, all'improvviso. Ma io ho continuato a correre, ed è stata tutta una perdita di tempo. Non era il killer. Era l'agente Dean che perlustrava il perimetro. L'assassino se n'era andato da tempo, Non stavamo inseguendo nessuno, Korsak. Solo ombre. Tutto qui.» Vince rimase in silenzio, in attesa di udire il resto della storia. Jane si fece forza e continuò. «È a quel punto che sarei dovuta venire a cercarti. Che mi sarei dovuta accorgere che non eri più al mio fianco. Ma la situazione è come impazzita. E io non ci ho pensato. Non mi sono fermata a domandarmi dove fossi...» Sospirò. «Non so quanto tempo sia trascorso prima che mi ricordassi di te. Forse solo pochi minuti. Ma credo, e temo, che siano stati di più. E per tutto quel tempo tu sei rimasto lì, dietro una lapide. Mi ci è voluto tanto per iniziare a cercarti. Per pensare a te.» Trascorsero attimi di silenzio. Jane si domandò se lui avesse capito ciò che gli aveva detto, perché cominciò a giocherellare con la flebo, a distendere le anse dei tubi. Era come se non volesse guardarla in faccia e cercasse di concentrarsi su qualcos'altro. «Korsak?» «Sì.» «Non hai niente da dirmi?» «Sì. Scordatene. Questo è quello che ho da dirti.» «Mi sento una tale idiota.» «Per quale ragione? Perché stavi facendo il tuo lavoro?» «Perché avrei dovuto controllare dove fosse finito il mio partner.» «Come se io fossi il tuo partner.» «Quella notte, lo eri.» Vince scoppiò a ridere. «Quella notte ero un dannato handicap. Una catena con una palla da due tonnellate che ti tratteneva. Ti sei fatta tanti problemi per non avermi cercato. Io ero là sdraiato a rimproverarmi di essere caduto sul lavoro. Intendo letteralmente caduto. Plaff, come un budino. Stavo pensando a tutte le cazzate che continuavo a ripetermi. Vedi questa pancia?» Di nuovo si schiaffeggiò il ventre. «Doveva scomparire. Sì, ne ero davvero convinto. Credevo che uno di questi giorni mi sarei messo a dieta e mi sarei liberato della zavorra. Invece continuavo a comprare pantaloni sempre più larghi. Mi dicevo che le ditte stavano facendo confusione con le taglie, tutto lì. Da qui a un paio d'anni finirò per indossare un paio di pantaloni da clown. Da pagliaccio. E una tonnellata di lassativi e di pillole antiritenzione non mi aiuterà a passare la visita medica.»
«Lo hai fatto veramente? Hai preso pillole per passare la visita?» «Non ho detto questo. Ti sto solo dicendo che questa faccenda del cuore doveva accadere prima o poi. Non è che non lo sapessi. Ma ora che è accaduta davvero, mi fa incazzare.» Sbuffò, infuriato. Poi sollevò di nuovo lo sguardo al monitor, sullo schermo il battito cardiaco risultava un po' accelerato. «Ora è aumentato.» Per un momento rimasero seduti a guardare l'ECG, in attesa che il suo cuore rallentasse. Jane non aveva mai prestato molta attenzione al proprio ritmo cardiaco. E mentre osservava il tracciato di quello di Korsak, divenne consapevole del suo battito: lo aveva sempre dato per scontato, e si domandò come sarebbe stato vivere con la paura che il cuore si sarebbe potuto fermare in ogni istante. Che il pulsare della vita nel suo petto sarebbe potuto cessare d'un tratto. Guardò Korsak, semisdraiato con lo sguardo incollato al monitor e pensò: È molto più che arrabbiato, è terrorizzato. Improvvisamente, Vince si mise seduto, si portò la mano al petto e sbarrò gli occhi in preda al panico. «Chiama l'infermiera! Chiama l'infermiera!» «Cosa? Che cosa c'è?» «Non senti l'allarme? È il mio cuore...» «Korsak, è solo il mio cercapersone.» «Cosa?» Jane staccò l'apparecchio dalla cintura e lo spense. Lo tenne alzato per fargli leggere il numero di telefono sul display digitale. «Vedi? Non è il tuo cuore.» Korsak si lasciò ricadere sui cuscini. «Gesù. Porta quel coso fuori di qui. Altrimenti mi viene un altro attacco.» «Posso usare questo telefono?» Era sdraiato con la mano ancora premuta sul petto, l'intero corpo rilassato per il sollievo. «Sì, sì. Non m'interessa.» Jane alzò il ricevitore e compose il numero. Rispose una voce familiare, un po' roca: «Medicina legale, dottoressa Isles.» «Rizzoli.» «Io e il detective Frost stiamo esaminando una serie di radiografie dentali al computer. Abbiamo analizzato l'elenco delle donne scomparse nell'area del New England che ci ha inviato l'NCIC. Questo fascicolo mi è stato spedito per e-mail dalla polizia di Stato del Maine.»
«Di che caso si tratta?» «È un omicidio con rapimento del 2 giugno di quest'anno. La vittima dell'omicidio è Kenneth Waite, trentasei anni. La persona rapita era la moglie, Maria Jean, di trentaquattro. Sono le radiografie di Maria Jean quelle che sto guardando.» «Abbiamo trovato la donna rachitica?» «Sì», rispose la Isles. «La ragazza ha un nome: Maria Jean Waite. Mi stanno inviando per fax le cartelle in questo momento.» «Aspetti. Ha detto che l'omicidio e il rapimento sono avvenuti nel Maine?» «In una città chiamata Blue Hill. Frost dice di esserci stato. È a circa cinque ore di macchina.» «Il nostro uomo ha un territorio di caccia più ampio di quanto pensassimo.» «Le passo Frost, le vuole parlare.» Dall'altro capo del filo si udì la voce allegra di Barry. «Ehi, hai mai assaggiato un involtino di aragosta?» «Che cosa?» «Possiamo gustarci gli involtini di aragosta per strada. A Lincolnville Beach c'è una baracca in cui si mangia divinamente. Partiamo domani mattina alle otto, così arriviamo per l'ora di pranzo. Andiamo con la mia auto o con la tua?» «Prendiamo la mia.» Jane rimase un secondo in silenzio. E non poté trattenersi dall'aggiungere: «Probabilmente Dean vorrà venire con noi». Un altro silenzio. «D'accordo», rispose finalmente Frost, senza entusiasmo. «Se credi.» «Lo chiamo io.» Mentre riagganciava, sentì lo sguardo di Korsak che la fissava. «Dunque Mr FBI adesso fa parte della squadra», affermò il detective. Jane lo ignorò e compose il numero di cellulare di Gabriel. «Quand'è successo?» «È solo un'altra risorsa.» «Non la pensavi così prima.» «Da allora abbiamo avuto occasione di lavorare insieme.» «Non dirmi. Hai conosciuto un altro lato del suo carattere.» Quando il telefono squillò, Jane gli chiese con un gesto di fare silenzio. Ma Dean non rispose e scattò il messaggio automatico: «L'utente chiamato non è al momento raggiungibile».
Al che riagganciò e guardò Korsak. «Qual è il problema?» «Mi sembra sia tu ad avere un problema. Hai una nuova pista e non vedi l'ora di chiamare il tuo amico federale. Che succede?» «Non succede nulla.» «A me pare il contrario.» Jane si sentì avvampare. Non era stata sincera con lui, e lo sapevano entrambi. Già mentre componeva il numero di cellulare di Dean, aveva sentito il polso accelerare, e sapeva bene che cosa significasse. Le sembrava di essere una drogata che brama la sua dose, e non poté trattenersi dal cercarlo all'albergo. Voltando le spalle allo sguardo truce di Korsak, osservò fuori dalla finestra mentre il telefono iniziava a suonare. «Colonnade.» «Può passarmi un vostro ospite? Si chiama Gabriel Dean.» «Un attimo, per favore.» Mentre attendeva, cercò le parole giuste, il tono di voce appropriato. Misurato. Professionale. Un poliziotto. Sei un poliziotto. Il centralinista dell'albergo tornò in linea. «Mi spiace, ma il signor Dean non è più qui.» Jane si accigliò e strinse il telefono. «Non ha lasciato un recapito?» «No.» Jane fissò fuori dalla finestra, gli occhi improvvisamente abbagliati dal sole calante. «Quando ha lasciato l'hotel?» chiese. «Un'ora fa.» 20 Jane Rizzoli chiuse il fascicolo contenente le pagine trasmesse via fax dalla polizia di Stato del Maine e si concentrò sui boschi che scorrevano fuori dal finestrino, intercalati da qualche fattoria bianca, nascosta tra gli alberi. Leggere in macchina le dava sempre la nausea, e i dettagli della scomparsa di Maria Jean Waite non facevano che aumentare il suo malessere. Il pranzo che avevano consumato non le era stato, peraltro, d'aiuto. Frost aveva voluto provare gli involtini di aragosta in uno dei locali lungo la strada e, nonostante le fossero piaciuti, la maionese le risultava ora indigesta. Fissò la strada davanti a sé, in attesa che la nausea svanisse. Per fortuna Barry era un guidatore cauto e tranquillo, che non faceva manovre brusche e riusciva a mantenere una velocità costante. Jane aveva sempre apprezzato la sua grande prevedibilità, ma in quel momento, in cui aveva
lo stomaco sottosopra, gli fu particolarmente grata. Quando si sentì meglio, iniziò a fare caso alle bellezze naturali del paesaggio. Prima di allora non si era mai addentrata tanto nel Maine. Il punto più a nord che conosceva era Old Orchard Beach: ci era andata un'estate con la famiglia, quando aveva dieci anni. Ricordava il lungomare e le giostre, lo zucchero filato azzurro e le pannocchie infilate sul bastoncino. E ricordava anche quand'era entrata in mare, l'acqua tanto fredda che le penetrava nelle ossa come una miriade di ghiaccioli. Eppure aveva continuato ad avanzare, solo perché la madre l'aveva avvertita di non farlo. «È troppo fredda per te, Janie», le aveva gridato. «Rimani al caldo sulla sabbia.» A lei si erano uniti i fratelli: «Sì, non farlo, Janie, ti congelerai quelle gambette rachitiche!» E naturalmente lei era entrata, attraversando risoluta la lingua di sabbia fin dove il mare s'increspava e spumeggiava, e l'acqua le toglieva il fiato. Ma non era il freddo pungente dell'acqua a esserle rimasto impresso tutti quegli anni, bensì lo sguardo dei fratelli che la osservavano dalla spiaggia, provocandola, spingendola ad andare sempre più al largo in quel gelo mozzafiato. Avanti e avanti, finché l'acqua non le era arrivata alle cosce, poi alla vita, alle spalle, senza esitazioni, senza nemmeno fermarsi per riscaldarsi con le braccia. Aveva proseguito perché ciò che temeva di più non era il dolore, ma l'umiliazione. Avevano superato Old Orchard Beach da ormai centosessanta chilometri e il paesaggio che vedeva ora non assomigliava affatto al Maine che ricordava dall'infanzia. In quel punto della costa non c'erano banchine di legno né giostre. Solo alberi e campi verdi, e qualche sporadico villaggio abbarbicato a un campanile bianco. «Alice e io veniamo qui ogni luglio», affermò Frost. «Io non ci sono mai stata.» «Mai?» Barry la guardò con un'espressione di sorpresa che la irritò. Con uno sguardo le diceva: E dove sei stata finora? «Non ho mai avuto ragione di venirci», ribatté. «I genitori di Alice hanno un bungalow a Little Deer Isle. Andiamo là.» «Bello. Non immaginavo che Alice fosse un tipo da campeggio.» «Oh, lo chiamano bungalow. In realtà è una casa normale. Bagni privati e acqua calda.» Frost scoppiò a ridere. «Alice impazzirebbe se dovesse andare a fare pipì nei boschi.» «Solo gli animali dovrebbero fare pipì nei boschi.» «A me piacciono i boschi. Io vivrei lassù, se potessi.» «E ti perderesti tutta l'eccitazione della grande città?»
Frost scosse il capo. «Ti dico che cosa mi perderei volentieri. Tutto il marcio. Quello che ti spinge a chiederti che cos'abbia la gente che non va.» «Pensi che lassù sia meglio?» Barry rimase in silenzio, gli occhi incollati alla strada, un arazzo infinito di alberi che scorreva dietro i finestrini. «No», rispose dopo un po'. «Considerando la ragione per cui siamo qui.» Jane guardò i boschi e pensò: Anche il nostro uomo è venuto da queste parti. Il Dominatore, in cerca di prede. Forse aveva percorso quella stessa strada, osservato gli stessi alberi o si era fermato a mangiare alla casa dell'aragosta lungo la strada. Non tutti i predatori si trovano in città: alcuni vagano per le strade di periferia o si aggirano nei paesi, nei territori dei vicini fiduciosi e delle porte senza catenacci. Forse era stato lì in vacanza e gli era capitata un'occasione che non poteva perdere? Anche i predatori vanno in vacanza. Fanno giri in campagna e si godono il profumo del mare, proprio come tutti gli altri. In questo senso sono assolutamente umani. Fra gli alberi si cominciarono a intravedere scorci di mare e di promontori, un paesaggio frastagliato che avrebbe apprezzato molto di più se non avesse avuto la certezza che anche il killer era stato in quella zona. Frost rallentò e allungò il collo per esaminare la strada. «Abbiamo superato la svolta?» «Quale svolta?» «Dovevamo girare a destra sulla Cranberry Ridge Road.» «Non l'ho vista.» «Stiamo viaggiando da troppo tempo. Saremmo ormai dovuti arrivare.» «Siamo già in ritardo.» «Lo so, lo so.» «È meglio chiamare Gorman e dirgli che gli stupidi cittadini si sono persi nei boschi.» Jane aprì il cellulare e aggrottò le sopracciglia vedendo che il segnale era debole. «Credi che ci sia campo in un posto così sperduto?» «Aspetta», esclamò Frost. «Forse siamo fortunati.» Più avanti un veicolo con una targa dello Stato del Maine era parcheggiato sul ciglio della strada. Frost lo affiancò e Jane abbassò il finestrino per parlare con il conducente. Prima ancora di presentarsi, l'uomo gridò loro: «Siete voi quelli del Dipartimento di polizia di Boston?» «Come ha fatto a indovinare?» chiese Jane. «La targa del Massachusetts. Immaginavo che vi sareste persi. Sono il detective Gorman.» «Rizzoli e Frost. La stavamo appunto chiamando per chiedere informa-
zioni.» «I cellulari non funzionano bene ai piedi della collina. Non c'è copertura. Perché non mi seguite fino in cima?» L'uomo avviò il motore. Senza la guida di Gorman non avrebbero sicuramente trovato l'imbocco della Cranberry Ridge. Era una strada sterrata che s'addentrava nei boschi, contrassegnata solo da un cartello appeso a un palo: STRADA TAGLIAFUOCO 24. Sobbalzarono sulle buche, lungo un fitto tunnel di alberi che nascondeva qualsiasi visuale, percorrendo la strada piena di tornanti. Poi il bosco terminò all'improvviso e videro giardini terrazzati e un prato verde che saliva verso una casa in cima alla collina. Il paesaggio sorprese Frost al punto di indurlo a rallentare bruscamente; entrambi rimasero ad ammirarlo. «Non avrei mai pensato», affermò. «Vedi quella strada sconnessa e immagini che porti a una baracca o a una roulotte, non a un posto del genere.» «Forse è proprio questo lo scopo della strada sterrata.» «Tenere lontano la marmaglia?» «Già. Solo che non ha funzionato, vero?» Quando parcheggiarono dietro l'auto di Gorman, il poliziotto era già in piedi sul vialetto, in attesa di stringere loro la mano. Indossava un completo, come Frost, ma gli andava largo, quasi avesse perso molti chili da quando l'aveva comprato. Anche il suo volto dalla pelle giallastra e avvizzita rifletteva l'ombra di una malattia passata. Gorman consegnò a Jane un fascicolo e una cassetta. «Il vìdeo della scena del crimine», affermò. «Stiamo facendo fotocopiare per voi il resto dei fascicoli. Alcuni sono nel mio bagagliaio, potete prenderli quando partite.» «La dottoressa Isles vi manderà il rapporto definitivo dell'autopsia», affermò Jane. «La causa della morte?» Jane Rizzoli scosse il capo. «Abbiamo solo resti ossei. Non si può determinare.» Gorman sospirò e guardò verso la casa. «Be', almeno sappiamo finalmente dove si trovi Maria Jean. Questo caso mi stava facendo impazzire.» Indicò l'abitazione con la mano. «Dentro non c'è molto da vedere. È stata pulita. Ma me l'avete chiesto...» «Chi ci vive ora?» chiese Barry. «Nessuno. Non dopo l'omicidio.» «È una casa troppo graziosa per restare disabitata.»
«L'autenticità del testamento deve essere ancora confermata. Ma anche se potessero metterla sul mercato, sarebbe difficile venderla.» Salirono i gradini della veranda, sulla quale si era depositato uno strato di foglie portate dal vento; gerani appassiti pendevano dai davanzali. Sembrava che nessuno avesse spazzato o bagnato i fiori da settimane, e la casa aveva già un'aria d'abbandono, come fosse avvolta da una grossa ragnatela. «Non vengo qui da luglio», esclamò Gorman mentre sceglieva la chiave giusta da un anello. «Ho ripreso il lavoro solo la settimana scorsa, e sto ancora cercando di ingranare. Lasciate che ve lo dica, l'epatite ti mette KO. E io ho contratto il tipo più leggero, la A. Almeno non mi ucciderà...» Sollevò lo sguardo verso i visitatori. «Un piccolo consiglio: non mangiate molluschi in Messico.» Finalmente trovò la chiave e aprì la porta. Entrando, Jane Rizzoli sentì odore di vernice fresca e di cera per pavimenti, il sentore di una casa pulita a fondo e sterilizzata. E poi abbandonata, pensò, guardando le sagome spettrali dei mobili del salotto ricoperti da lenzuola. I pavimenti di quercia bianca brillavano come vetro levigato e il sole entrava da enormi finestre alte fino al soffitto. Lassù, in cima alla collina, erano appollaiati al di sopra della morsa claustrofobica dei boschi e si godevano una vista che si estendeva fino a Blue Hill Bay. Un aereo tracciò una linea bianca nel cielo azzurro e, sotto, una barca lasciò la sua scia sulla superficie dell'acqua. Jane rimase per un momento alla finestra, a fissare lo stesso paesaggio che aveva sicuramente contemplato Maria Jean Waite. «Ci racconti di queste persone», esclamò la detective Rizzoli. «Avete letto il fax che vi ho inviato?» «Sì. Ma non ho capito bene che tipi fossero. Come vivessero.» «Chi può saperlo veramente?» Jane si voltò verso Gorman e rimase colpita dalla tonalità lievemente giallastra dei suoi occhi. La luce del pomeriggio sembrava enfatizzare quel colore malsano. «Cominciamo da Kenneth. Pensava solo ai soldi, vero?» Gorman annuì. «Era un coglione.» «Questo, non l'ho letto nel rapporto.» «Ci sono cose che non si possono scrivere nei rapporti. Ma questo è quello che pensava la gente in città. Sapete, quassù abbiamo un sacco di amministratori fiduciari come Kenny. Blue Hill è diventata un luogo alla moda per i ricchi rifugiati di Boston. Gran parte di loro non danno problemi, ma ogni tanto se ne incontra uno come Kenny Waite, che si crede d'essere chissà chi. Già, lo sapevano tutti chi era. Uno con i soldi.»
«Da dove gli arrivavano?» «Dai nonni. Trasporti marittimi, credo. Di sicuro Kenny non se li era guadagnati. Ma gli piaceva spenderli. Aveva un grazioso Hinckley giù al porto. Ed era solito sfrecciare avanti e indietro da Boston con la sua Ferrari. Finché non gli hanno ritirato la patente e sequestrato la macchina. Troppe contravvenzioni.» Gorman grugnì. «Credo che questo riassuma bene chi fosse Kenneth Waite Terzo. Tanti soldi, poco cervello.» «Che spreco», affermò Frost. «Lei ha figli?» Frost scosse il capo. «Non ancora.» «Se vuole allevare un branco di bambini inutili», affermò il poliziotto, «tutto ciò che deve fare è lasciar loro dei soldi.» «E che mi dice di Maria Jean?» chiese Jane, ricordando i resti della donna affetta da rachitismo sul tavolo dell'autopsia. Le tibie rosicchiate e lo sterno deforme... prove scheletriche di un'infanzia povera. «Lei non aveva soldi, giusto?» Gorman scosse il capo. «È cresciuta in una città mineraria del West Virginia. È venuta quassù per un lavoro estivo come cameriera. Così ha incontrato Kenny. Credo che lui l'abbia sposata perché era l'unica che riuscisse a sopportare le sue fesserie. Ma non mi sembrava un matrimonio felice. Specialmente dopo l'incidente.» «Incidente?» «Qualche anno fa, Kenny stava guidando, sbronzo come sempre, ed è andato a sbattere contro un albero. Lui ne è uscito senza un graffio... la sua buona sorte, giusto? Ma Maria Jean è finita in ospedale per tre mesi.» «Dev'essere stato in quell'occasione che si è fratturata il femore.» «Che cosa?» «Aveva un chiodo nel femore. E due vertebre fuse.» Gorman annuì. «Avevo sentito dire che zoppicava. Un vero peccato, perché era una bella donna.» Mentre le donne brutte sono contente di essere claudicanti, pensò la Rizzoli, ma si morse la lingua. Si avvicinò a una serie di mensole ricavate nel muro e studiò la foto di una coppia in costume da bagno. Erano in piedi su una spiaggia, l'acqua turchese lambiva loro le caviglie. La donna era minuscola, quasi infantile, i capelli castano scuro lunghi fino alle spalle. Ora capelli di cadavere, non poté fare a meno di pensare Jane. L'uomo era biondo, la vita lievemente appesantita e i muscoli un po' flaccidi. Quello che poteva essere un viso attraente era rovinato da una vaga espressione di
sprezzo. «Il loro matrimonio era infelice?» chiese Jane. «È ciò che mi ha detto la governante. Dopo l'incidente Maria Jean non aveva più molta voglia di viaggiare. Kenny riusciva a trascinarla solo fino a Boston. Ma lui era solito andare a St Bart a gennaio, perciò la lasciava qui.» «Sola?» Gorman annuì. «Un tipo simpatico, vero? Aveva una donna che le faceva le commissioni. Puliva e le portava la spesa, dal momento che a Maria non piaceva guidare. Questo è un luogo isolato, ma la governante pensava che Maria Jean sembrasse più felice quando Kenny non era nei paraggi.» Gorman s'interruppe. «Devo ammettere che, dopo aver trovato Kenny, mi è anche passata per la mente l'idea che...» «Che fosse stata Maria Jean», concluse la Rizzoli. «È sempre la prima ipotesi.» S'infilò una mano in tasca e ne estrasse un fazzoletto per asciugarsi la faccia. «Non avete caldo qui dentro?» «Sì, fa caldo.» «Non sto tanto bene con la calura di questi giorni. Il mio corpo è ancora scombussolato. Ecco che cosa si guadagna a mangiare molluschi in Messico.» Attraversarono il salotto, oltrepassando le forme spettrali dei mobili sotto i lenzuoli e l'enorme camino di pietra, accanto al quale si ergeva una catasta ordinata di ceppi di legno. Carburante per alimentare il fuoco in una fredda notte del Maine. Gorman li condusse in una zona della stanza in cui il pavimento era nudo e il muro completamente bianco, privo di decorazioni. Jane Rizzoli fissò l'intonacatura recente e si sentì rizzare i capelli sulla nuca. Rivolse lo sguardo per terra e vide che in quel punto il legno di quercia era più chiaro, segno che era stato carteggiato e riverniciato. Ma il sangue non si cancella tanto facilmente e, se avessero oscurato la stanza e spruzzato un po' di Luminol, il pavimento ne sarebbe apparso ancora intriso, perché le tracce chimiche penetrate tanto in profondità nelle crepe e nelle venature del legno non venivano mai completamente eliminate. «Kenny era appoggiato qui», mormorò Gorman, indicando la parete dipinta di recente. «Le gambe distese in avanti, le braccia dietro il corpo. Caviglie e polsi erano legati con del nastro adesivo. Un singolo taglio alla gola, praticato con un coltello da Rambo.» «Nessun'altra ferita?» chiese Jane Rizzoli.
«Solo al collo. Come un'esecuzione.» «Segni di una pistola elettrica?» Gorman rifletté. «Sapete, era qui già da due giorni quando la governante l'ha trovato. Due giorni caldi. E la sua pelle aveva ormai assunto un aspetto sgradevole. Per non parlare dell'odore. Non è escluso che un segno del genere possa esserci sfuggito.» «Avete mai esaminato il pavimento con una fonte di luce alternata?» «C'era un sacco di sangue qui intorno. Non credo che avremmo trovato qualcosa con un Luma-lite. Ma è tutto registrato sulla videocassetta.» L'uomo si guardò attorno e individuò il televisore e il videoregistratore. «Perché non diamo un'occhiata? Dovrebbe rispondere a gran parte delle sue domande.» Jane Rizzoli si avvicinò al televisore, premette il tasto dell'accensione e infilò la cassetta nell'apertura. Sullo schermo comparve con gran clamore un canale di televendite, che offriva un pendente di zirconi per soli novantanove dollari e novantacinque, le sfaccettature della pietra riflesse sulla gola di una modella dal collo di cigno. «Questi aggeggi mi fanno impazzire», affermò Jane armeggiando con due telecomandi. «Non ho mai imparato a programmare il mio.» Poi lanciò un'occhiata a Frost. «Ehi, non guardare me.» Gorman sospirò e prese il telecomando. La modella con gli zirconi svanì improvvisamente, sostituita dall'immagine del vialetto degli Waite. Si udiva il vento sibilare nel microfono e la voce distorta del cameraman che dichiarava il suo nome, detective Pardee, l'ora, la data e il luogo della registrazione. Erano le diciassette del 2 giugno, un giorno di tempesta, con gli alberi che ondeggiavano. Pardee puntò la videocamera verso la casa e cominciò a salire i gradini, facendo vacillare l'immagine sullo schermo. Jane vide i gerani in fiore nei vasi, gli stessi che ora erano avvizziti per mancanza di cure. Si udì una voce che chiamava Pardee, e lo schermo si oscurò per qualche secondo. «La porta d'ingresso non era chiusa a chiave», affermò Gorman. «La governante disse che la cosa non era insolita. Molti da queste parti lasciano la porta aperta. Era certa che ci fosse qualcuno in casa, dal momento che Maria Jean non andava mai da nessuna parte. Prima bussò, ma non ottenne risposta.» Una nuova immagine comparve bruscamente sullo schermo, la videocamera puntata attraverso la porta aperta, direttamente nel salotto. Quello
era ciò che la governante doveva aver visto non appena aveva aperto la porta, quando il puzzo e l'orrore l'avevano assalita. «Forse ha fatto un passo dentro casa», spiegò Gorman. «Ha visto Kenny contro la parete più lontana. E tutto quel sangue. Non ricorda nient'altro. Voleva solo fuggire da quel luogo. Perciò è salita in auto e ha premuto l'acceleratore tanto forte che gli pneumatici hanno scavato dei solchi nella ghiaia,» La videocamera entrò nella stanza, fece una panoramica dei mobili e si fermò sull'elemento principale: Kenneth Waite Terzo, con indosso solo un paio di boxer, la testa ciondolante sul petto. Era già gonfio per la decomposizione precoce. L'addome era dilatato, pieno di gas, e il volto ingrossato aveva perduto qualsiasi sembianza umana. Ma non fu la faccia ad attirare l'attenzione di Jane, bensì quell'oggetto di una finezza assurda che aveva appoggiato sulle cosce. «Non sapevamo come interpretarlo», asserì Gorman. «A me sembrava una sorta di oggetto simbolico, e così l'ho classificato. Un modo per ridicolizzare la vittima. 'Guardami, sono tutto legato, con questa stupida tazza in grembo.' È proprio ciò che potrebbe fare una moglie al marito, per dimostrare quanto lo disprezza.» Il poliziotto sospirò. «Ma questo quando pensavo potesse essere stata Maria Jean.» La videocamera si spostò dal cadavere al corridoio e ripercorse i passi del killer, verso la camera da letto in cui avevano dormito Maria Jean e Kenny. L'immagine oscillava come il panorama, nauseante, visto attraverso l'oblò di una nave durante una tempesta. L'obiettivo si fermò su ogni soglia per offrire uno scorcio degli interni dei locali. Prima un bagno, poi la stanza degli ospiti. Mentre proseguiva lungo il corridoio, il polso della Rizzoli aumentò. Senza rendersene conto si era avvicinata al televisore, come se fosse lei, e non Pardee, quella che camminava nell'appartamento. All'improvviso sullo schermo apparve l'immagine della stanza da letto principale. Alle finestre tende verdi damascate. Un cassettone e un guardaroba, entrambi bianchi, e una cabina armadio. Un letto a quattro colonne, le coperte scostate, quasi strappate via. «Sono stati sorpresi nel sonno», affermò Gorman. «Lo stomaco di Kenny era quasi vuoto. Al momento della morte era digiuno da almeno otto ore.» Jane Rizzoli si avvicinò ancor di più al televisore, esaminando rapidamente l'immagine. Pardee si era voltato di nuovo verso il corridoio. «Torni indietro», esclamò rivolta a Gorman.
«Perché?» «Solo un attimo. Al punto in cui si vede per la prima volta la stanza.» Gorman le porse il telecomando. «È tutto suo.» Jane premette REWIND e il nastro si riavvolse con un ronzio. Ancora una volta Pardee era in corridoio e si dirigeva verso la camera da letto. Di nuovo l'obiettivo si spostò a destra, eseguendo una panoramica del cassettone, del guardaroba, delle ante dell'armadio e infine del letto. Frost era in piedi accanto a lei, in cerca della stessa cosa. La Rizzoli fermò il nastro. «Non c'è.» «Che cosa?» chiese Gorman. «La camicia da notte piegata.» Jane si voltò verso di lui. «Non l'avete trovata, vero?» «Avrei dovuto? Non lo sapevo.» «Fa parte della firma del Dominatore. Piega la camicia da notte della donna e la espone nella stanza come simbolo del suo potere.» «Se si tratta di lui, qui non l'ha fatto.» «Tutto il resto coincide. Il nastro adesivo, la tazza sulle cosce. La posizione dell'uomo.» «Quello che vedete è ciò che abbiamo trovato.» «È certo che non sia stato spostato nulla prima che venisse girato il video?» Era una domanda poco discreta e Gorman s'irrigidì. «Be', credo sia sempre possibile che il primo agente arrivato sulla scena del delitto sia entrato qui e abbia deciso di spostare le cose, tanto per rendercele più interessanti.» Frost, sempre diplomatico, s'intromise per mitigare l'eccessiva franchezza che tanto spesso la collega dimostrava. «Non è che l'assassino segua una checklist. Questa volta sembra abbia fatto una piccola variazione.» «Se è lo stesso individuo», ribatté Gorman. Jane Rizzoli distolse lo sguardo dallo schermo e scrutò, ancora una volta, la parete contro la quale Kenny era morto e si era gonfiato per il caldo. Pensò agli Yeager e ai Ghent, al nastro adesivo e alle vittime addormentate, e alla ragnatela di particolari che legavano strettamente quei casi fra loro. Ma qui, in questa casa, il Dominatore ha tralasciato qualcosa. Non ha piegato la camicia da notte. Perché lui e Hoyt non erano ancora una squadra. Rievocò il pomeriggio a casa Yeager, il suo sguardo pietrificato sulla
camicia da notte di Gail, e ricordò quella sensazione di raggelante familiarità. Il Chirurgo e il Dominatore hanno sancito la loro alleanza solo con gli Yeager. Quello è stato il giorno in cui mi hanno attirato nel gioco, con una camicia da notte piegata. Persino dalla prigione, Warren Hoyt è riuscito a mandarmi il suo biglietto da visita. Jane guardò Gorman, che si era accomodato su una delle sedie ricoperte dai lenzuoli e ancora una volta si stava asciugando il sudore dal viso. Quell'incontro l'aveva già prostrato, stava crollando a poco a poco sotto i loro occhi. «Non avete mai identificato nessun sospetto?» gli chiese Jane. «No. E questo dopo quattro o cinquecento interrogatori.» «Gli Waite, per quanto ne sappia, conoscevano gli Yeager o i Ghent?» «Quei nomi non sono mai saltati fuori. Ascoltate, riceverete le copie di tutti i documenti tra uno o due giorni. Potete controllare tutto quello che abbiamo.» Gorman piegò il fazzoletto e se lo mise nella tasca della giacca. «Potreste chiedere anche all'FBI», aggiunse. «Per vedere se hanno qualcosa da aggiungere.» Jane Rizzoli rimase attonita. «All'FBI?» «Abbiamo inviato un rapporto al VICAP tempo fa. Un agente dell'unità di scienza comportamentale è venuto a farci visita. Ha trascorso un paio di settimane con noi per seguire le indagini, poi è tornato a Washington. Da allora non ho più avuto sue notizie.» La Rizzoli e Frost si guardarono. Jane vide il suo stesso sconcerto riflesso negli occhi del collega. Gorman si alzò lentamente dalla sedia e si sfilò le chiavi di tasca, un chiaro segno che voleva terminare l'incontro. Solo quando il poliziotto si avviò verso la porta Jane ritrovò la voce per porgergli l'ovvia domanda. Anche se non desiderava affatto udire la risposta. «L'agente dell'FBI che è venuto qui», esclamò. «Ricorda come si chiamasse?» Gorman si fermò sulla soglia, gli abiti cascanti sulla figura scarna. «Sì. Si chiamava Gabriel Dean.» 21 Guidò per tutto il pomeriggio fino a sera, gli occhi puntati sull'autostrada buia, la mente fissa su Gabriel Dean. Frost si era addormentato sul sedile a
fianco, e Jane era sola con i suoi pensieri, con la sua rabbia. Che cos'altro le aveva tenuto nascosto Dean? si domandò. Quali altre informazioni già conosceva mentre la guardava affannarsi a trovare le risposte? Fin dal principio era sempre stato qualche passo avanti a lei. Il primo a raggiungere la guardia al cimitero, il primo a scoprire il corpo di Karenna Ghent sulla tomba, il primo a suggerire l'esame del preparato a fresco durante l'autopsia di Gail Yeager. Lui sapeva già, prima di tutti loro, che avrebbe rivelato la presenza di spermatozoi vivi. Perché aveva già incontrato il Dominatore. Ma ciò che Dean non aveva previsto era che il Dominatore si sarebbe trovato un partner. Allora è venuto nel mio appartamento. Quella è stata la prima volta che si è interessato a me. Perché avevo qualcosa che lui voleva, di cui aveva bisogno. Io ero la sua guida nella mente di Warren Hoyt. Accanto a lei Frost sbuffò rumorosamente nel sonno. Jane Rizzoli lo guardò e vide che aveva la bocca aperta, il ritratto dell'innocenza indifesa. In tutto il tempo che avevano lavorato insieme, mai una volta aveva colto un lato oscuro nel collega. Ma il fatto che Gabriel l'avesse ingannata l'aveva tanto scossa che ora, guardando Frost, si domandò se anche lui le nascondesse qualcosa, quali crudeltà celasse dentro di sé. Erano quasi le nove quando finalmente entrò nel suo appartamento. Come sempre impiegò un po' di tempo per chiudere tutte le serrature, ma questa volta non era la paura a dominarla mentre infilava la catena e girava i pomoli di sicurezza, bensì la rabbia. Serrò l'ultima con uno scatto secco, poi andò diritta in camera senza fermarsi a controllare, come di prammatica, armadi e stanze. Il tradimento di Dean le aveva temporaneamente scacciato dalla mente ogni pensiero su Hoyt. Slacciò la fondina, infilò la pistola nel cassetto del comodino e lo richiuse con violenza. Poi si voltò e si guardò nello specchio sopra il comò, disgustata da ciò che vide. Il capelli ribelli da Medusa. Lo sguardo ferito. Il volto di una donna che si era lasciata accecare dall'attrazione per un uomo. Il suono del telefono la spaventò. Fissò il display che indicava la provenienza della chiamata: WASHINGTON DC. Il telefono squillò due, tre volte, mentre Jane tentava di controllare le emozioni. Quando finalmente rispose, accolse l'interlocutore con un freddo: «Rizzoli». «So che mi ha cercato», esclamò Dean. Jane chiuse gli occhi. «È a Washington», affermò e, nonostante avesse cercato di soffocare l'ostilità nella voce, le sue parole suonarono come u-
n'accusa. «Sono stato richiamato la notte scorsa. Mi dispiace che non abbiamo avuto occasione di parlare prima che partissi.» «E che cosa mi avrebbe detto? La verità, per esempio?» «Deve capire, si tratta di un caso molto delicato.» «Per questo non mi ha mai parlato di Maria Jean Waite?» «Al momento non era cruciale per le sue indagini.» «Chi cazzo è lei per deciderlo? Oh, aspetta un attimo! Dimenticavo. È un fottuto federale.» «Jane», rispose lui pacato. «Voglio che lei venga a Washington.» Jane rimase in silenzio, sorpresa dal risvolto repentino della conversazione. «Perché?» «Non possiamo parlarne al telefono.» «Si aspetta che salti su un aereo senza sapere il perché?» «Non glielo chiederei se non lo ritenessi necessario. Ho già organizzato tutto con il tenente Marquette, tramite l'OPC. Qualcuno la chiamerà per i dettagli.» «Aspetti. Non capisco...» «Capirà. Quando arriverà qui.» Poi la comunicazione s'interruppe. Lentamente, Jane abbassò il ricevitore e rimase a fissare il telefono, incredula per ciò che aveva appena udito. Quando squillò di nuovo, rispose subito. «Detective Jane Rizzoli?» chiese una voce femminile. «Sì.» «La chiamo per prendere accordi in merito al suo viaggio di domani a Washington. Potrei prenotarle un volo con la US Airways, volo sei-cinquedue-uno, che parte da Boston a mezzogiorno e arriva a Washington alle tredici e trentasei. Le va bene?» «Solo un secondo.» Jane afferrò un blocco e una penna e cominciò a scrivere i dati del volo. «Mi pare ottimo.» «E il ritorno per giovedì, con il volo US Airways numero sei-quattrozero-sei, delle nove e trenta, che arriva a Boston alle dieci e cinquantatré.» «Devo fermarmi per la notte?» «Questa è la richiesta dell'agente Dean. Le abbiamo prenotato una stanza al Watergate Hotel, a meno che non preferisca un altro albergo.» «No. Il... Watergate va bene.» «Domani mattina alle dieci la verrà a prendere una limousine e la porterà in aeroporto. Ce ne sarà un'altra ad aspettarla quando atterrerà a DC. Posso
avere il suo numero di fax, per favore?» Qualche attimo più tardi il fax di Jane iniziò a stampare. Lei rimase seduta sul letto a fissare l'itinerario stampato ordinatamente, sbalordita per la velocità con cui si stavano susseguendo gli eventi. In quel momento, più che mai, desiderava parlare con Thomas Moore, per chiedergli consiglio. Alzò il ricevitore, poi lo riabbassò lentamente; la prudenza di Dean l'aveva spaventata, e non si era preoccupata che la sua linea fosse sicura. All'improvviso si rese conto di non aver eseguito il rito della perlustrazione serale. Ora sentiva il bisogno di controllare la sua fortezza. Aprì il cassetto del comodino ed estrasse la pistola. Poi, come faceva tutte le sere dall'anno precedente, si spostò di stanza in stanza, a caccia di mostri. Carissima dottoressa O'Donnell, nella sua ultima lettera mi ha chiesto quando mi sia accorto di essere diverso da tutti gli altri. A essere sinceri, non sono certo di essere diverso. Credo di essere semplicemente più onesto, più consapevole. Più a contatto con gli stessi istinti primitivi che sussurrano alle orecchie di tutti noi. Sono sicuro che anche lei ode tali sussurri, quelle immagini proibite che talora compaiono nella mente come lampi, illuminando, solo per un istante, il paesaggio sanguinoso del nostro subconscio oscuro. Oppure cammina tra i boschi e vede un uccello insolito, dai colori sgargianti, e il suo primo impulso, prima che il tacco della moralità lo schiacci, è quello di cacciarlo. Di ucciderlo. È un istinto predeterminato dal nostro DNA. Siamo tutti cacciatori, divenuti esperti attraverso gli eoni, nel crogiolo sanguinario della natura. In questo non sono diverso da lei o da altri, e trovo divertente che molti psicologi e psichiatri abbiano esaminato la mia vita in questi ultimi dodici mesi, cercando di comprendermi, sondando la mia infanzia, come se da qualche parte nel mio passato ci sia un momento, un evento, che mi ha trasformato nella creatura che sono oggi. Temo di averli delusi, perché questa svolta decisiva non c'è stata. Anzi, ho ribaltato la domanda. Ho chiesto loro perché pensano di essere diversi. Sicuramente hanno nutrito pensieri di cui si vergognano, elaborato immagini che li terrorizzano e che non riescono a cancellare. Io li osservo, divertito, mentre negano tutto. Mentono a me come mentono a se stessi, ma io colgo l'incertezza nei loro occhi. Mi piace spingerli fino al limite, costringerli a guardare giù dal precipizio, nel pozzo nero delle loro fantasie.
L'unica differenza fra me e loro è che io non mi vergogno delle mie, e non ne ho paura. Ma io sono considerato quello malato, quello che ha bisogno di essere analizzato. Perciò racconto loro tutte le cose che, segretamente, desiderano sentire, cose che so li affascineranno. Nell'ora in cui mi visitano, assecondo la loro curiosità, perché e la vera ragione per cui vengono da me: nessun altro alimenterà le loro fantasie come riesco a fare io. Nessun altro li porterà in un territorio tanto proibito. Mentre tentano di tracciare un mio profilo, io traccio il loro, misuro la loro bramosia di sangue. Mentre parlo, guardo le loro facce in cerca dei segni rivelatori dell'eccitazione. Le pupille dilatate. Il collo proteso. Le guance rosse, il respiro trattenuto. Racconto loro della mia visita a San Gimignano, un paesino appollaiato sulle dolci colline della Toscana. Vagando tra i negozi di souvenir e i bar all'aperto, mi sono imbattuto in un museo dedicato interamente al tema della tortura. Era proprio in cima ai miei interessi, come sa. Dentro c'è una luce fioca, per riprodurre l'atmosfera delle prigioni medievali. La penombra oscura anche le espressioni dei turisti, risparmiando loro la vergogna di rivelare l'intensità con cui fissano gli strumenti esposti. Uno in particolare attira l'attenzione di tutti: un aggeggio veneziano del 1600, progettato per punire le donne colpevoli di essersi unite sessualmente con satana. È fatto di ferro, forgiato a forma di pera, e si inserisce nella vagina della povera accusata. A ogni giro di vite, la pera si allarga, finché la cavità non si rompe con risultati letali. La pera vaginale è solo uno dei tanti strumenti antichi per mutilare mammelle e genitali nel nome della santa Chiesa, che non tollerava il potere sessuale delle donne. Io sono perfettamente realista mentre descrivo tali aggeggi ai miei dottori, molti dei quali non hanno mai visitato un simile museo e si sentirebbero senza dubbio imbarazzati ad ammettere di volerne vedere uno. Tuttavia, mentre racconto loro degli strappaseni con quattro artigli e delle cinture di castità mutilanti, li guardo negli occhi; spio oltre la repulsione e l'orrore superficiali, per cogliere segni di eccitazione. Di desiderio. Oh, sì, vogliono sapere tutti i dettagli. Quando l'aereo toccò terra, Jane Rizzoli chiuse il fascicolo delle lettere di Warren Hoyt e guardò fuori dal finestrino. Vide un cielo grigio, carico di pioggia, e gocce di sudore sui volti degli addetti in piedi sulla pista. Una volta scesa avrebbe fatto la sauna, ma fu lieta di quel caldo, perché le parole di Hoyt l'avevano raggelata.
Sulla limousine diretta all'albergo Jane osservò, dal vetro fumé, una città che aveva visitato solo due volte prima di allora, l'ultima in occasione di una conferenza intergovernativa all'Hoover Building dell'FBI. In quella circostanza era arrivata di sera, e ricordava il timore riverenziale che aveva provato alla vista dei memoriali, illuminati dai riflettori. Ricordava una settimana di grandi bagordi e come avesse cercato di tener testa agli uomini, una birra dopo l'altra, una barzelletta oscena dopo l'altra. Rammentava, inoltre, come una sbornia, gli ormoni e una città strana si fossero catalizzati in una notte di sesso disperato con un collega della conferenza, un agente di Providence... sposato, naturalmente. Questo era ciò che significava Washington per lei: una città di rimpianti e di lenzuola macchiate. La città che le aveva insegnato che non era immune alle tentazioni di un cattivo cliché. E che, nonostante pensasse di essere uguale agli uomini, il mattino dopo si era sentita vulnerabile. In coda davanti alla reception del Watergate Hotel, osservò una bionda elegante davanti a lei. Pettinatura perfetta, scarpe rosse con tacchi vertiginosi. Una donna che sembrava sentirsi perfettamente a suo agio al Watergate, al contrario di lei, con i capelli arruffati e un paio di banali scarpe scollate blu. Le calzature tipiche delle donne poliziotto, fatte per camminarci, e perciò consumate. Non ho bisogno di scuse, pensò. Questa sono io; rivelano ciò che sono. La ragazza di Revere, che caccia mostri per guadagnarsi da vivere. I cacciatori non portano tacchi alti. «Posso aiutarla, signora?» le chiese un impiegato. Jane trascinò la sua valigia vicino al bancone. «Dovrebbe esserci una prenotazione. A nome Rizzoli.» «Sì, ecco il suo nome. È c'è un messaggio di un certo signor Dean. La riunione è fissata per le quindici e trenta.» «Riunione?» L'uomo alzò lo sguardo dallo schermo del computer. «Non ne era informata?» «Be', ora lo sono. Sa a che indirizzo?» «No, signora. Ma alle tre verrà un'auto a prenderla.» Le porse la chiave magnetica e sorrise. «Sembra che abbiano pensato proprio a tutto.» Nuvole nere screziavano il cielo e l'elettricità di un temporale in arrivo le faceva rizzare i peli sulle braccia. Era in piedi fuori dalla lobby, sudata nell'aria densa di pioggia, in attesa che arrivasse la limousine. Ma quella che accostò sotto la tettoia e si fermò accanto a lei era una Volvo di colore blu
scuro. Jane sbirciò attraverso il finestrino e vide che al volante c'era Gabriel Dean. La serratura della portiera scattò e lei si accomodò sul sedile accanto a lui. Non si aspettava di affrontarlo tanto presto e si sentì impreparata. Infastidita che lui apparisse tanto calmo e controllato, mentre lei era ancora disorientata dal viaggio mattutino. «Benvenuta a Washington, Jane», esclamò. «Com'è andato il viaggio?» «Bene, direi. Potrei abituarmi a viaggiare in limousine.» «E la stanza?» «Di gran lunga migliore di quelle a cui sono abituata.» Un lieve sorriso comparve sulle sue labbra mentre rivolgeva la sua attenzione alla guida. «Allora non è solo tortura.» «Ho forse detto che lo era?» «Non mi sembra particolarmente contenta di essere qui.» «Lo sarei di più se sapessi il motivo per cui ci sono.» «Le sarà chiaro quando arriveremo.» Jane osservò i nomi delle strade e si rese conto che si stavano dirigendo a nord-ovest, dalla parte opposta rispetto al quartier generale dell'FBI. «Non stiamo andando all'Hoover Building?» «No. Siamo diretti a Georgetown. Vuole incontrarla a casa sua.» «Chi?» «Il senatore Conway.» Dean le lanciò un'occhiata. «Non è armata, vero?» «La mia pistola è ancora in valigia.» «Bene. Il senatore non vuole armi da fuoco a casa sua.» «Questioni di sicurezza?» «Serenità d'animo. Ha combattuto in Vietnam. Non ha bisogno di vedere altre armi.» Sul parabrezza cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia. Jane sospirò. «Vorrei poter dire lo stesso.» Lo studio del senatore Conway era arredato con mobili di legno scuro e pelle, la stanza di un uomo, con una collezione maschile di oggetti, pensò Jane, notando la serie di spade giapponesi appese alla parete. Il proprietario, un signore dai capelli argentei, la salutò con una vigorosa stretta di mano e una voce tranquilla, ma i suoi occhi scuri come il carbone erano due laser penetranti, che la studiavano apertamente. Jane sopportò quello
sguardo indagatore solo perché comprese che non avrebbero potuto cominciare se Conway non fosse stato soddisfatto di ciò che vedeva. E quello che vide fu una donna che lo guardava dritto negli occhi, una donna a cui importava poco delle astuzie della politica ma molto della verità. «La prego, si sieda, detective», la invitò il senatore. «So che è appena arrivata da Boston. Probabilmente avrà bisogno di qualche attimo di decompressione.» Una segretaria portò loro una caffettiera e alcune tazze di porcellana su un vassoio. Jane Rizzoli frenò la sua impazienza mentre veniva servito il caffè, e la panna e lo zucchero passavano di mano in mano. Finalmente la segretaria si congedò, chiudendo la porta dietro di sé. Conway appoggiò la tazza, senza bere nulla. In realtà non aveva voglia di caffè, e ora che la cerimonia era terminata, concentrò la sua attenzione su Jane. «È stato gentile da parte sua venire sin qui.» «Non ho avuto molta scelta.» La sua schiettezza lo fece sorridere. Malgrado il senatore osservasse i riti delle strette di mano e dell'ospitalità, la giovane donna intuì che, come molti nativi del New England, apprezzava la sincerità quanto lei. «Allora possiamo arrivare subito al punto?» Anche Jane appoggiò la tazza. «Gliene sarei grata.» Dean si alzò e raggiunse la scrivania. Prese un raccoglitore a fisarmonica gonfio di carte, lo portò dov'erano seduti ed estrasse una foto, che posò sul tavolino davanti a lei. «25 giugno 1999», affermò. Jane fissò l'immagine di un uomo barbuto, seduto scompostamente, uno schizzo di sangue sul muro di calce bianca dietro la testa. Indossava pantaloni scuri e una camicia bianca strappata. Aveva i piedi nudi e sulle gambe si scorgeva una tazzina di porcellana col piattino. Jane Rizzoli stava ancora cercando di elaborare l'immagine, quando Dean posò una seconda foto accanto alla prima. «15 luglio 1999», esclamò. La vittima era di nuovo un uomo, questa volta ben rasato. Anch'egli morto, appoggiato a un muro imbrattato di sangue. Gabriel estrasse una terza foto, un altro uomo. Ma questo era gonfio, il ventre dilatato per il gas della decomposizione. «12 settembre», disse. «Stesso anno.» Jane era sbalordita da quella galleria di morti, disposti così ordinatamente sul tavolino di legno di ciliegio. Testimonianze di orrore tanto contrastanti con l'immagine civile della serie di tazzine e cucchiaini da caffè.
Mentre Dean e Conway attendevano in silenzio, lei prese una foto alla volta, cercando di assimilare i dettagli di ciò che distingueva ognuno di quei casi. Ma erano tutte variazioni dello stesso tema, già inscenato nella casa degli Yeager e dei Ghent. Il testimone muto. Lo sconfitto, obbligato a guardare l'indicibile. «Che mi dice delle donne?» chiese. «Devono esserci state delle donne.» Gabriel annuì. «Solo una è stata identificata con certezza. La moglie del caso numero tre. Fu trovata parzialmente sepolta nel bosco, una settimana dopo lo scatto di quella foto.» «Causa della morte?» «Strangolamento.» «Violenza sessuale post mortem?» «Dal cadavere è stato prelevato un campione di sperma vivo.» La Rizzoli fece un respiro profondo. Poi chiese a bassa voce: «E le altre due?» «A causa dello stato avanzato di decomposizione, non è stato possibile confermarne l'identità.» «Ma avevate dei resti?» «Sì.» «Perché non siete riusciti a identificarle?» «Perché avevamo a che fare con più di due corpi. Molti, molti di più.» Jane sollevò lo sguardo e si ritrovò a fissare Dean direttamente negli occhi. L'aveva osservata per tutto quel tempo, in attesa di una sua reazione di sorpresa? In risposta alla sua tacita domanda, lui le porse tre fascicoli. Jane Rizzoli aprì il primo e trovò un verbale autoptico su una delle vittime di sesso maschile. Automaticamente, sfogliò rapida fino all'ultima pagina e lesse le conclusioni: «Causa della morte: emorragia massiva dovuta a singola ferita da taglio, con resezione trasversale completa dell'arteria carotide sinistra e della vena giugulare sinistra». Il Dominatore, pensò. È una sua preda. Lasciò che i fogli tornassero al loro posto e lo sguardo le cadde sulla prima pagina del verbale. Un dettaglio che le era sfuggito nella fretta di leggere le conclusioni. Era nel secondo paragrafo: «Autopsia effettuata il 16 luglio 1999, ore 22.15, nell'unità mobile di Gjakove, Kosovo». Prese gli altri due fascicoli delle autopsie e controllò subito la località di effettuazione.
«Peje, Kosovo.» «Djakovica, Kosovo.» «Le autopsie sono state fatte sul campo», spiegò Dean. «Eseguite, a volte, con mezzi primitivi. Tende e lanterne. Niente acqua corrente. Una marea di cadaveri da esaminare.» «Si trattava di indagini su crimini di guerra», affermò Jane. Dean annuì. «Io facevo parte della prima squadra dell'FBI che arrivò nel giugno 1999. Eravamo stati inviati su richiesta del tribunale criminale internazionale per la ex Yugoslavia, l'ICTY. Sessantacinque di noi erano stati assegnati a quella missione. Il nostro lavoro consisteva nel localizzare e salvaguardare le prove di uno dei teatri di violenze più vasti della storia. Abbiamo raccolto prove balistiche dai siti dei massacri. Abbiamo riesumato ed eseguito autopsie su più di cento vittime albanesi e, probabilmente, altre cento non siamo riusciti a trovarle. E per tutto il tempo in cui abbiamo operato, gli omicidi sono continuati.» «Uccisioni per vendetta», affermò Conway. «Perfettamente prevedibili, dato il contesto di quella guerra... di tutte le guerre, se è per questo. Sia io sia l'agente Dean siamo ex marine. Io ho servito in Vietnam, l'agente Dean durante Desert Storm. Abbiamo visto cose di cui non riusciamo nemmeno a parlare, cose che ci spingono a chiederci perché noi esseri umani ci consideriamo migliori degli animali. Durante la guerra i serbi uccidevano gli albanesi, dopo la guerra, era il KLA albanese a uccidere i civili serbi. Entrambi hanno le mani grondanti di sangue.» «Così, in un primo tempo», intervenne Gabriel, indicando le foto delle scene dei delitti sul tavolino da caffè, «abbiamo classificato gli omicidi come uccisioni per vendetta, scatenate dalla guerra. Non faceva parte della nostra missione porre freno all'anarchia dilagante. Eravamo stati inviati su specifica richiesta del tribunale per raccogliere le prove di crimini di guerra, non di altro genere.» «Eppure lo avete fatto», asserì Jane, guardando la carta intestata dell'FBI su cui era stato scritto il verbale autoptico. «Per quale ragione?» «Perché li avevo individuati per quello che erano», rispose Dean. «Questi omicidi non avevano motivazioni etniche. Due degli uomini erano albanesi; uno era serbo. Ma tutti avevano qualcosa in comune: avevano mogli giovani. Donne attraenti, che erano state rapite dalle loro case. Alla terza aggressione ho capito che si trattava di un serial killer. Ho compreso che cosa avevamo di fronte. Ma quei casi rientravano nelle competenze del sistema giudiziario locale, non dell'ICTY, che ci aveva chiamati in Koso-
vo.» «E che cos'è stato fatto?» chiese Jane. «In una parola? Niente. Non c'è stato nessun arresto, perché non è mai stato identificato un sospetto.» «Naturalmente c'è stata un'indagine», aggiunse Conway. «Ma consideri la situazione, detective. Migliaia di cadaveri sepolti in più di centocinquanta fosse comuni. Forze di pace straniere che tentavano di mantenere l'ordine. Fuorilegge armati che vagabondavano fra i paesi bombardati, in cerca soltanto di un motivo per uccidere. E gli stessi civili che covavano vecchi rancori. Laggiù sembrava il selvaggio West, con scontri a fuoco per i traffici di droga, le ostilità familiari o le vendette personali. E, quasi sempre, venivano tirati in ballo i conflitti razziali. Come si faceva a distinguere un assassino da un altro? Ce n'erano talmente tanti.» «Per un serial killer», affermò Dean, «era il paradiso in terra.» 22 Jane guardò Dean. Non era rimasta sorpresa nell'apprendere dei suoi trascorsi militari. Lo aveva già intuito dal portamento e dall'aria di comando che ostentava. Doveva conoscere bene le zone di guerra e avere familiarità con il copione dei conquistatori militari: l'umiliazione del nemico, la presa di possesso del bottino. «Il nostro uomo è stato in Kosovo», affermò Jane. «È il genere di luogo in cui può meglio prosperare», osservò Conway. «Dove la morte violenta fa parte della vita quotidiana. Un killer vi arriva, commette ogni atrocità e se ne va senza che nessuno noti la differenza. Non c'è modo di sapere quanti omicidi siano stati ritenuti puri atti di guerra.» «Forse, allora, abbiamo a che fare con una persona immigrata di recente», suggerì la detective Rizzoli. «Un profugo kosovaro.» «È una possibilità», rispose Dean. «Una possibilità che lei ha considerato fin dall'inizio.» «Sì.» Gabriel rispose senza esitazioni. «Mi ha tenuto nascoste informazioni cruciali. Si è messo in disparte a guardare, mentre noi stupidi poliziotti giravamo in tondo.» «Ho lasciato che traesse le sue conclusioni.» «Sì, ma senza una piena conoscenza dei fatti», ribatté, poi indicò le foto. «Queste avrebbero potuto fare la differenza.»
Dean e Conway si guardarono. Poi Conway esclamò: «Temo che ci sia dell'altro che lei non sa». «Dell'altro?» Dean aprì di nuovo il raccoglitore ed estrasse un'altra foto di un delitto. Jane credeva di essere pronta ad affrontare quella quarta immagine, che invece la colpì a livello viscerale. Vide un giovane biondo con un paio di baffetti. Era più tendini che muscoli, le spalle sottili sporgenti come due pomoli bianchi. Si notava chiaramente l'espressione agonica, i muscoli del volto contratti in una smorfia d'orrore. «Questa vittima è stata trovata il 28 ottobre dello scorso anno», dichiarò Gabriel. «Il corpo della moglie non è mai stato rinvenuto.» Jane deglutì e distolse lo sguardo dal volto della vittima. «Sempre in Kosovo?» «No. A Fayetteville, North Carolina.» Sbigottita, alzò lo sguardo verso di lui. Lo fissò mentre il calore della rabbia le inondava il viso. «Che cos'altro mi avete taciuto? Quanti casi ci sono?» «Questi sono tutti quelli di cui siamo a conoscenza.» «Intende che ce ne potrebbero essere altri?» «È probabile. Ma non abbiamo accesso a quelle informazioni.» Jane gli lanciò un'occhiata incredula. «L'FBI non ha accesso?» «Quello che vuol dire l'agente Dean», intervenne il senatore, «è che potrebbero esistere altri casi fuori della nostra giurisdizione. In paesi che non hanno una banca dati degli atti criminali. Ricordi, stiamo parlando di zone di guerra. Di aree di rivolgimenti politici. Proprio i luoghi da cui sarebbe attratto il nostro killer. Posti in cui si sentirebbe a casa.» Un omicida che attraversa liberamente gli oceani. Il cui terreno di caccia non conosce i confini nazionali. Pensò a tutto ciò che aveva appreso sul Dominatore. La velocità con cui aveva soggiogato le vittime. Il desiderio di contatto con i morti. L'uso di un coltello da Rambo. E le fibre di paracadute... grigioverdi. Sentì lo sguardo dei due uomini puntato su di lei mentre elaborava ciò che Conway le aveva appena detto. La stavano mettendo alla prova, per vedere se fosse all'altezza delle loro aspettative. Jane Rizzoli guardò di nuovo l'ultima foto appoggiata sul tavolino da caffè. «Ha detto che quest'aggressione si è verificata a Fayetteville.» «Sì», rispose Dean. «C'è una base militare in quella zona, vero?» «Fort Bragg. Si trova a circa sedici chilometri a nord-ovest di Fayettevil-
le.» «Quanti uomini risiedono in quella base?» «Circa quarantunmila in servizio effettivo. Ospita il Diciottesimo corpo aviotrasportato, l'Ottantaduesima divisione aviotrasportata e il comando Operazioni speciali.» Il fatto che Gabriel avesse risposto senza indugio le confermò che riteneva importanti tali informazioni. Dati che l'agente aveva già sulla punta della lingua. «Per questo mi avete tenuto all'oscuro, giusto? Abbiamo a che fare con qualcuno che possiede nozioni di combattimento. Qualcuno che è pagato per uccidere.» «Siamo stati tenuti all'oscuro anche noi, proprio come lei.» Dean si protese, il volto tanto vicino che Jane poteva vedere solamente lui. Conway e tutto il resto della stanza scomparvero dalla vista. «Quando ho letto il rapporto VICAP inviato dalla polizia di Fayetteville, ho pensato di essere di nuovo in Kosovo. Il killer avrebbe anche potuto firmare con il suo nome, tanto era caratteristica la scena del delitto. La posizione del corpo. Il tipo di lama usato per il colpo di grazia. La tazza di porcellana appoggiata sulle gambe del cadavere. Il rapimento della moglie. Mi sono precipitato a Fayetteville e ho trascorso due settimane con le autorità locali, assistendo alle indagini. Ma non è stato individuato nessun sospetto.» «Perché non poteva informarmi di tutto prima?» chiese Jane. «A causa della possibile identità del soggetto.» «Non m'importa se è un generale a quattro stelle. Avevo il diritto di sapere del caso di Fayetteville.» «Se fosse stato essenziale per identificare un sospetto a Boston, l'avrei informata.» «Ha detto che a Fort Bragg ci sono quarantunmila soldati in servizio effettivo.» «Sì.» «Quanti di loro hanno servito in Kosovo? Immagino che vi siate posti questa domanda.» Gabriel annuì. «Ho richiesto al Pentagono l'elenco di tutti i soldati il cui stato di servizio coincidesse con i luoghi e le date delle uccisioni. Il Dominatore non è in quella lista. Solo pochi di loro risiedono oggi nel New England, e nessuno si è rivelato essere il nostro uomo.» «Suppongo che mi debba fidare.» «Sì.» Jane rise. «Questo richiede un bel po' di fede da parte mia.»
«Entrambi dobbiamo averne, Jane. Io suppongo di potermi fidare di lei.» «Per quale ragione? Finora non mi ha detto nulla che giustifichi una particolare segretezza.» Nel silenzio che seguì Dean lanciò un'occhiata a Conway, che gli rispose con un cenno impercettibile del capo. Senza bisogno di parole, i due convennero che era giunto il momento di fornirle il pezzo cruciale del puzzle. «Ha mai sentito parlare di sheep-dipping o disinfestazione delle pecore, detective?» le chiese il senatore. «Immagino che il termine non abbia nulla a che fare con gli animali.» Conway sorrise. «In effetti no. È gergo militare. Si riferisce alla pratica della CIA di prendere talvolta in prestito per alcune missioni gli uomini dei corpi speciali. È accaduto in Nicaragua e in Afghanistan, quando il gruppo Operazioni speciali della CIA, il SOG, ha avuto bisogno di personale aggiuntivo. In Nicaragua i SEAL della marina sono stati utilizzati per minare i porti. In Afghanistan i Berretti verdi sono stati impiegati per addestrare i mujaheddin. Quando hanno lavorato per la CIA, questi soldati sono diventati, in pratica, suoi agenti. Non sono iscritti nei registri del Pentagono. E i militari non hanno documentazione delle loro attività.» Jane Rizzoli guardò Dean. «E allora l'elenco che le ha dato il Pentagono, i nomi dei soldati di Fayetteville che hanno servito in Kosovo...» «La lista era incompleta», affermò. «Quanto incompleta? Quanti nomi sono stati omessi?» «Non lo so.» «Ha chiesto alla CIA?» «Lì ho trovato un muro.» «Non faranno nomi?» «Non sono obbligati», affermò Conway. «Se il nostro uomo era coinvolto in operazioni segrete all'estero, non lo ammetteranno mai.» «Anche se ora sta uccidendo in patria?» «Soprattutto se sta uccidendo in patria», rispose Dean. «Sarebbe un disastro a livello di relazioni pubbliche. Che cosa accadrebbe se decidesse di testimoniare? Quante informazioni riservate potrebbe rivelare alla stampa? Crede che l'Agenzia voglia far sapere che uno dei suoi ragazzi fa irruzione nelle case e uccide onesti cittadini? Abusando dei cadaveri delle donne? Non c'è modo di tenere una notizia simile lontano dalle prime pagine.» «E cosa vi ha detto la CIA?» «Che non avevano informazioni sull'omicidio di Fayetteville.» «Suona come il classico rifiuto.»
«È stato molto di più», affermò Conway. «A un giorno di distanza dalla sua richiesta alla CIA, l'agente Dean è stato sospeso dalle indagini di Fayetteville e richiamato a Washington. L'ordine è arrivato direttamente dall'ufficio del vicedirettore dell'FBI.» Jane Rizzoli lo guardò, sbalordita dal fatto che l'identità del Dominatore fosse tenuta tanto segreta. «È stato allora che l'agente Dean è venuto da me», continuò il senatore. «Perché lei fa parte dell'Armed Services Committee?» «Perché ci conosciamo da anni. I marine hanno un modo tutto loro di ritrovarsi. E di fidarsi gli uni degli altri. Così mi ha chiesto di indagare al posto suo. Ma temo di non aver fatto molti progressi.» «Nemmeno un senatore ci riesce?» Conway le rivolse un sorriso ironico. «Un senatore democratico di uno Stato liberale, aggiungerei. Posso aver servito il mio paese da soldato. Ma alcuni elementi all'interno della Difesa non mi accetteranno mai del tutto. Né mi daranno mai piena fiducia.» Jane posò lo sguardo sulle fotografie. Su quella galleria di morti, scelti per il massacro, non per le loro convinzioni politiche, la loro etnia o le loro credenze, ma perché avevano sposato ragazze attraenti. «Avrebbe potuto dirmi tutto questo settimane fa», sbottò Jane rivolta a Dean. «Nelle indagini di polizia ci sono sempre fughe di informazioni», rispose lui. «Non nelle mie.» «In qualsiasi indagine di polizia. Se avessi condiviso queste notizie con la sua squadra, sarebbero finite in pasto ai media. E questo avrebbe attirato sul suo lavoro l'attenzione delle persone sbagliate. Persone che cercherebbero d'impedirle di fare un arresto.» «Crede davvero che l'avrebbero protetto? Dopo quello che ha fatto?» «No, penso che desiderino toglierlo di mezzo tanto quanto noi. Ma vogliono farlo in silenzio, lontano dagli occhi dell'opinione pubblica. Hanno chiaramente perso le sue tracce. Quell'uomo è sfuggito al loro controllo e uccide civili. È diventato una bomba ambulante, e non possono permettersi di ignorare il problema.» «E se lo prendono prima di noi?» «Non lo sapremo mai, non crede? Gli omicidi cesserebbero e noi rimarremmo sempre nel dubbio.» «Questa non è quella che chiamo una conclusione soddisfacente», esclamò Jane.
«No, lei vuole giustizia. Un arresto, un processo, una reclusione. La procedura completa.» «Parla come se stessi chiedendo la luna.» «In questo caso, forse sì.» «Per questo mi ha portato qui? Per dirmi che non lo prenderò mai?» Dean si protese nuovamente verso di lei, lo sguardo improvvisamente intenso. «Vogliamo esattamente quello che vuole lei, Jane. La procedura completa. Inseguo quest'uomo dal Kosovo. Crede forse che mi possa accontentare di qualcosa di meno?» «Ora capisce, detective, la ragione per cui è stata condotta qui? Il bisogno di segretezza?» osservò Conway in tono pacato. «Mi pare che ce ne sia già troppa.» «Per ora, tuttavia, è l'unico modo per giungere a una conclusione definitiva. Che, presumo, sia quello che tutti desideriamo.» Jane fissò per un istante il senatore Conway. «Mi ha pagato lei il viaggio, vero? I biglietti aerei, la limousine, l'albergo di lusso. Tutto questo non è sul conto spese dell'FBI.» Conway annuì, con un sorriso ironico. «Le cose che contano davvero», replicò, «è meglio che non compaiano.» 23 Il cielo si era spalancato e la pioggia batteva come un'infinità di piccoli martelli sul tetto della Volvo di Dean. Oltre i tergicristalli s'intravedevano immagini annacquate di auto in colonna e di strade allagate. «Meno male che non deve partire stasera», affermò Dean. «Probabilmente l'aeroporto sarà nel caos.» «Con questo tempo terrò i piedi ben piantati a terra, grazie.» Lui le lanciò uno sguardo divertito. «E io che credevo fosse una donna senza paura.» «Che cosa le ha dato quest'impressione?» «Lei. E ci riesce anche molto bene. Ha sempre lo scudo alzato.» «Sta cercando di nuovo d'insinuarsi nella mia mente. Come sempre.» «È solo questione d'abitudine. È quello che facevo nella guerra del Golfo. Operazioni psicologiche.» «Be', io non sono il nemico, d'accordo?» «Non ho mai pensato lo fosse, Jane.» Lei lo guardò e non poté fare a meno di ammirare, come sempre, il suo
profilo deciso, elegante. «Ma non si fidava di me.» «Non la conoscevo ancora.» «Allora, ha cambiato idea?» «Perché pensa che le abbia chiesto di venire a Washington?» «Oh, non lo so», rispose lei, lasciandosi sfuggire una risata. «Perché le mancavo e non vedeva l'ora di rivedermi!» Il silenzio di Dean la fece arrossire. Improvvisamente si sentì stupida e disperata, proprio le due caratteristiche che disprezzava in una donna. Prese a fissare fuori dal finestrino, evitando di guardarlo, mentre il suono della sua voce e quelle parole idiote le riecheggiavano nelle orecchie. Davanti a loro il traffico stava finalmente ricominciando a scorrere, sollevando l'acqua delle profonde pozzanghere. «In effetti è così», affermò lui, «volevo vederla.» «Oh!» L'esclamazione le uscì spontanea. Si era già trovata in una situazione imbarazzante, non avrebbe ripetuto l'errore. «Volevo scusarmi per aver detto a Marquette che lei non era all'altezza. Mi sbagliavo.» «Quando l'ha deciso?» «Non c'è stato un momento preciso. È accaduto... guardandola lavorare, giorno dopo giorno. Ho visto quant'è determinata, come cerca di fare tutto nel modo migliore.» Dopodiché, sommessamente, aggiunse: «Poi ho capito quello che sta vivendo dall'estate scorsa. Cose di cui non mi rendevo conto». «Uau... 'E nonostante tutto riesce a fare il suo lavoro.'» «Crede che la compatisca?» «Non è particolarmente lusinghiero sentirsi dire: 'Guarda cosa sa fare, considerato quello che sta passando'. Mi dia pure la medaglia d'oro per poliziotti emotivamente disturbati.» Gabriel emise un sospiro esasperato. «Cerca sempre un motivo recondito dietro ogni complimento, dietro ogni parola di lode? Qualche volta la gente pensa esattamente ciò che dice, Jane.» «Non è difficile intuire perché sono tanto scettica su tutto quello che mi dice.» «Pensa che le nasconda ancora qualche segreto?» «Non lo so più.» «Ma devo per forza averne uno, giusto? Perché lei sicuramente non si merita un complimento sincero da parte mia.» «Ho capito cosa intende.»
«Forse sì. Ma non ci crede veramente.» Dean frenò a un semaforo rosso e la guardò. «Da dove viene tutto questo scetticismo? È tanto dura essere Jane Rizzoli?» Jane emise una risata stanca. «Lasciamo perdere, Dean.» «È il fatto di essere una donna poliziotto?» «Dovrebbe riuscire a sistemare da solo i tasselli mancanti.» «I colleghi sembrano rispettarla.» «Esistono alcune ragguardevoli eccezioni.» «Quelle ci sono sempre.» Scattò il verde e Gabriel spostò nuovamente lo sguardo sulla strada. «È l'ambiente della polizia», affermò Jane. «Tutto quel testosterone.» «Perché ha scelto questo mestiere?» «Perché mi hanno bocciato a economia domestica.» Scoppiarono a ridere. Era la prima risata spontanea che condividevano. «La verità è», continuò Jane, «che volevo diventare un poliziotto fin da quando avevo dodici anni.» «Perché?» «Tutti rispettano i poliziotti. O, per lo meno, così è agli occhi dei bambini. Volevo il distintivo, la pistola. Le cose che fanno sì che le persone si accorgano di te. Non ambivo a finire in qualche ufficio da cui sarei stata inghiottita. Dove mi sarei trasformata nella donna invisibile. Sarebbe stato come essere sepolta viva, essere qualcuno a cui nessuno dà retta, che nessuno nota.» Appoggiò un gomito sulla portiera e la testa sulla mano. «Ora l'anonimato inizia a non sembrarmi più tanto male.» Almeno il Chirurgo non saprebbe il mio nome. «Da come parla pare che sia pentita di aver scelto la carriera di poliziotto.» Jane pensò alle lunghe notti in piedi, alimentate dalla caffeina e dall'adrenalina. All'orrore di confrontarsi con quanto di peggio gli esseri umani sapevano infliggere al prossimo. E pensò all'uomo Aeroplano, il cui fascicolo era ancora sulla sua scrivania, eterno simbolo della futilità. Della sua, e di quella della Rizzoli. Viviamo i nostri sogni, pensò, e talora ci portano là dove non ci aspettiamo. Nella cantina di una fattoria impregnata dell'odore del sangue. O a lanciarci in caduta libera nel cielo blu, gli arti che si dibattono contro la forza di gravità. Sono i nostri sogni, e noi andiamo dove essi ci conducono. Finalmente rispose. «No, non mi sono pentita. È il mio mestiere. È quello a cui tengo, per cui mi arrabbio. Devo ammetterlo, gran parte del lavoro
ruota intorno alla rabbia. Non riesco a rimanere distaccata e a guardare il corpo di una vittima senza andare su tutte le furie. È in quel momento che divento il suo difensore... che mi lascio coinvolgere dalla sua morte. Probabilmente, quando smetterò di arrabbiarmi, saprò che è ora di smettere.» «Non tutti hanno quel fuoco dentro.» Dean la guardò. «Credo che sia la persona più passionale che abbia mai conosciuto.» «Non è una grande qualità.» «No, la passione è un'emozione positiva.» «Anche se significa che sei sempre sul punto di scoppiare?» «Lei lo è?» «Qualche volta mi sento così.» Fissò la pioggia che sferzava il parabrezza. «Dovrei cercare di assomigliarle di più.» Dean non rispose, e Jane si domandò se non l'avesse offeso con quell'ultima affermazione, accusandolo implicitamente di essere freddo e insensibile. Eppure, era proprio questo che l'aveva sempre colpita di lui: l'uomo in grigio. Per settimane Gabriel l'aveva disorientata, e ora, in preda alla frustrazione, lei voleva provocarlo, indurlo a esprimere qualche emozione, anche sgradevole, se non altro per dimostrare che era capace di farlo. L'attrattiva dell'inespugnabile. Ma erano proprio impulsi come quello che spingevano le donne a rendersi ridicole. Quando finalmente si fermò di fronte al Watergate Hotel, Jane aveva già in mente la frase d'addio. «Grazie per il passaggio. E per le informazioni.» Si voltò e aprì la portiera, facendo entrare una zaffata d'aria calda e umida. «Ci vediamo a Boston.» «Jane?» «Sì?» «Niente più segreti tra noi, d'accordo? Quello che dico è quello che penso.» «Se insiste.» «Non mi crede, vero?» «È davvero importante?» «Sì», mormorò. «Per me vuol dire molto.» Jane rimase in silenzio, il polso improvvisamente accelerato. Lo guardò di nuovo. Avevano custodito gelosamente i propri segreti tanto a lungo che nessuno dei due sapeva come leggere la verità negli occhi dell'altro. Era il momento in cui ognuno avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, in cui tutto sarebbe potuto accadere. Ma nessuno dei due osò fare il primo passo. Il pri-
mo errore. Un'ombra si avvicinò alla portiera aperta dell'auto. «Benvenuta al Watergate, signora! Le serve aiuto con i bagagli?» Jane sollevò lo sguardo, sorpresa, e scorse il portiere dell'albergo che le sorrideva. L'aveva vista aprire la portiera e aveva pensato che stesse uscendo dall'auto. «Sono già registrata, grazie», rispose, e si voltò nuovamente verso Dean. Ma il momento magico era svanito. Il portiere era ancora accanto alla macchina, in attesa che scendesse. E lei lo fece. Un'occhiata attraverso il vetro, un cenno con la mano; questo fu il loro saluto. Jane si voltò ed entrò nell'atrio, fermandosi a osservare l'auto che usciva da sotto la tettoia e svaniva nella pioggia. In ascensore, si appoggiò alla parete, chiuse gli occhi, e si rimproverò silenziosamente per i sentimenti che aveva lasciato trapelare, per le sciocchezze che aveva detto. Quando giunse nella stanza, il suo unico desiderio era quello di lasciare l'albergo e tornare a Boston. Ci sarebbe stato certamente un volo quella sera. O un treno. Le era sempre piaciuto viaggiare in treno. Nella fretta di scappare, di gettarsi Washington e i suoi imbarazzi alle spalle, aprì la valigia e cominciò a prepararla. Aveva portato poca roba con sé, e non impiegò molto a togliere la camicia e i pantaloni dall'armadio in cui li aveva appesi e a riporli sopra la cintura e la pistola. Poi prese spazzolino e pettine e li gettò nel beauty case. Chiuse il tutto nella valigia e stava trascinandola verso la porta quando udì bussare. Dean era in piedi in corridoio, l'abito grigio bagnato di pioggia, i capelli umidi e luccicanti. «Non abbiamo terminato la nostra conversazione», esclamò. «Ha qualcos'altro da dirmi?» «Sì, in effetti.» Gabriel entrò nella stanza e chiuse la porta. Guardò accigliato la valigia, chiusa e pronta per la partenza. Gesù, pensò Jane. Qualcuno qui deve farsi coraggio. Qualcuno deve afferrare il toro per le corna. Prima che potessero scambiarsi un'altra parola, lo tirò a sé. Contemporaneamente, sentì le sue braccia cingerle la vita. Quando le loro labbra si sfiorarono, nessuno dei due aveva più dubbi che quell'abbraccio fosse reciproco e che, se si trattava di un errore, ne erano entrambi responsabili. Jane non sapeva quasi nulla di lui, solo che lo desiderava e che avrebbe pensato dopo alle conseguenze.
Il volto di Dean era bagnato di pioggia, e quando i suoi vestiti scivolarono sul pavimento, lasciarono un profumo di tessuto umido sulla sua pelle, un profumo che Jane inalò avidamente, mentre con la bocca esplorava il suo corpo, e lui accampava uguali diritti su quello di lei. Jane non era tipo da indulgere alle dolcezze del corteggiamento: era impetuosa, passionale. Sentiva che Gabriel cercava di frenarla, di rallentare, di mantenere il controllo; ma lei oppose resistenza, usò il suo corpo per provocarlo. E in quel loro primo incontro fu lei a vincere, e lui ad arrendersi. Si addormentarono mentre la luce pomeridiana si affievoliva dietro la finestra. Quando Jane si svegliò, l'uomo steso accanto a lei era illuminato solo dal pallido bagliore del tramonto. Un uomo che, anche in quel momento, rimaneva per lei un mistero. Aveva usato il corpo di Gabriel, come lui aveva usato il suo; si sarebbe dovuta sentire un po' in colpa per il piacere che avevano provato, eppure tutto ciò che avvertiva era un senso di stanca soddisfazione. E di meraviglia. «Avevi fatto la valigia», affermò Gabriel. «Volevo lasciare l'albergo stasera e tornarmene a casa.» «Perché?» «Non vedevo ragioni per rimanere.» Allungò una mano per toccargli il viso e accarezzargli la barba non rasata. «Finché non sei ricomparso tu.» «C'è mancato poco che me ne andassi. Ho fatto un paio di giri in macchina attorno all'edificio. Per trovare il coraggio.» Jane scoppiò a ridere. «Da quello che dici, sembri avere paura di me.» «Vuoi la verità? Sei una donna formidabile.» «È così che appaio?» «Fiera. Passionale. Mi stupisce tutto quell'ardore che riesci a trasmettere.» Le accarezzò la coscia, e il tocco delle sue dita le causò un nuovo fremito in tutto il corpo. «In auto hai detto che volevi essere più simile a me. La verità, Jane, è che io vorrei essere come te. Vorrei possedere la tua intensità.» Jane gli posò una mano sul petto. «Parli come se qui dentro non ci fosse un cuore.» «Non è quello che pensavi?» Lei non rispose. L'uomo in grigio. «È così, non è vero?» affermò Dean. «Non sapevo che cosa pensare di te», ammise. «Sembri sempre così distaccato. Non del tutto umano.»
«Insensibile.» Pronunciò quella parola a voce tanto bassa che Jane si domandò se fosse semplicemente un pensiero sussurrato fra sé e sé. «Noi reagiamo in modi diversi», continuò Gabriel, «alle cose che dobbiamo affrontare. Tu hai detto che ti arrabbi.» «Spesso sì.» «E allora ti lanci nella mischia. A tutta velocità, a testa bassa. Nello stesso modo in cui affronti la vita.» Poi, con una risatina, aggiunse: «Il brutto carattere, e tutto il resto». «Tu come fai a non arrabbiarti?» «Me lo impongo, semplicemente. Questo è il mio modo di agire. Mi distacco, prendo fiato. Affronto ogni caso come un puzzle.» Dean la guardò. «Per questo mi affascini. Tutto quell'ardore, quel sentimento che metti in ogni cosa che fai. Hai un non so che di... pericoloso.» «Perché?» «Sei il contrario di quello che sono io. Sei quello che cerco di essere.» «Temi che ti contagi?» «È come avvicinarsi troppo al fuoco. Ne siamo attratti, anche se sappiamo che ci brucerà.» Jane premette le labbra contro le sue. «Un po' di pericolo», sussurrò, «può essere molto eccitante.» La sera si trasformò in notte. Si fecero una doccia per lavarsi il sudore dalla pelle, e sorrisero vedendosi nello specchio con indosso gli accappatoi uguali dell'albergo. Si fecero portare la cena in camera e sorseggiarono vino a letto, con la TV sintonizzata su Comedy Channel. Quella sera niente CNN, niente brutte notizie ad avvelenare l'animo. Quella sera Jane voleva essere a milioni di chilometri da Warren Hoyt. Ma persino la lontananza e il conforto delle braccia di un uomo non riuscirono a escluderlo dai suoi sogni. Si svegliò di soprassalto nell'oscurità, madida di sudore per la paura, non per la passione. Al di là del battito del suo cuore udì il trillo del cellulare. Le occorse qualche secondo per liberarsi dall'abbraccio di Dean, allungarsi sopra di lui verso il comodino e prendere il telefono. «Rizzoli.» Dall'altro capo la salutò la voce di Frost. «Immagino di averti svegliata.» Jane batté le palpebre e guardò la radiosveglia. «Le cinque? Sì, immagini bene.» «Come ti senti?» «Sto bene. Perché?»
«Ascolta, so che tornerai oggi, ma ho pensato che avresti dovuto saperlo prima di arrivare qui.» «Che cosa c'è?» Barry non le rispose immediatamente. Jane udì una voce in sottofondo che rivolgeva a Frost una domanda su come impacchettare una prova, e intuì che il collega doveva trovarsi sulla scena di un delitto. Accanto a lei, Gabriel si mosse, allarmato dalla sua tensione improvvisa. Si sedette sul letto e accese la luce. «Che cosa succede?» Frost tornò in linea. «Rizzoli?» «Dove sei?» gli domandò. «Sono stato chiamato per un dieci sessantaquattro. In questo momento sono sul posto...» «Da quando rispondi alle chiamate per scasso?» «Si tratta del tuo appartamento.» Jane s'irrigidì, il telefono premuto contro l'orecchio, e cominciò a sentire il battito accelerare. «Dal momento che non sei in città, abbiamo temporaneamente sospeso la sorveglianza del tuo edificio», continuò Frost. «Ci ha chiamato la tua vicina in fondo al pianerottolo, al due-zero-tre. La signorina, mm...» «Spiegel», mormorò Jane. «Ginger.» «Già. Sembra una ragazza sveglia. Dice che lavora come barista da McGinty. Stava tornando a casa e ha notato alcuni pezzi di vetro sotto la scala antincendio. Ha guardato in alto e ha visto che una delle tue finestre era rotta. Così ha chiamato subito il 911. Il primo agente arrivato sul luogo si è reso conto che era il tuo appartamento e mi ha chiamato.» Dean le toccò il braccio con espressione interrogativa. Lei lo ignorò. Si schiarì la voce e riuscì a chiedere con calma ingannevole: «Ha preso qualcosa?» Il soggetto era sottinteso. Senza nemmeno pronunciare il suo nome, entrambi sapevano chi fosse stato. «Questo ce lo dovrai dire tu quando torni», esclamò Frost. «Dove ti trovi adesso?» «In piedi, in salotto.» Jane chiuse gli occhi, e fu assalita dal disgusto e dalla rabbia al pensiero che degli estranei invadessero casa sua, aprissero i suoi cassetti, toccassero i suoi vestiti. Indugiassero, magari, sulle cose più intime. «A me pare sia tutto in ordine», disse Frost. «Il televisore e il lettore CD ci sono ancora. Sul bancone della cucina ho visto un grosso vaso pieno di monetine. C'è altro che qualcuno potrebbe voler rubare?»
La mia serenità. Il mio equilibrio mentale. «Rizzoli?» «Non mi viene in mente niente.» Ci fu un attimo di silenzio, poi Frost aggiunse in tono premuroso: «Passeremo in rassegna tutto, centimetro per centimetro. Quando torni lo faremo insieme. Il padrone di casa ha già provveduto alla finestra in modo che non piova dentro. Se vuoi rimanere a casa mia per un po', sono certo che Alice ne sarà contenta. Abbiamo una camera degli ospiti che non è mai stata usata...» «Non preoccuparti», rispose lei. «Non è un problema...» «Va tutto bene.» La sua voce era colma di rabbia e d'orgoglio. Soprattutto d'orgoglio. Frost la conosceva abbastanza da non prendersela e non sentirsi offeso, e in tono impassibile, ribatté: «Fammi uno squillo appena rientri». Dean la fissò mentre riagganciava. Improvvisamente Jane non riuscì a sopportare di essere osservata mentre era nuda e impaurita, di mostrare apertamente la sua vulnerabilità. Perciò sgusciò fuori dal letto, andò in bagno e chiuse la porta a chiave. Un istante dopo, Gabriel bussò. «Jane?» «Mi faccio un'altra doccia.» «Non chiudermi fuori.» Bussò di nuovo. «Esci e parla con me.» «Quando avrò finito.» Aprì l'acqua della doccia ed entrò nella cabina, non perché sentisse il bisogno di lavarsi, ma perché l'acqua corrente impediva la conversazione. Era una cortina rumorosa dietro cui isolarsi, dietro cui nascondersi. Con l'acqua che le scrosciava addosso, Jane rimase in piedi con il capo chino, le mani appoggiate alla parete di piastrelle, a lottare con la sua paura. La immaginò scivolare via dalla pelle come fango e gorgogliare giù nello scarico. Staccarsi strato dopo strato. Quando finalmente chiuse il rubinetto, si sentì calma. Pulita. Si asciugò, e nello specchio appannato scorse il suo volto, non più pallido ma rosso per il calore. Era di nuovo pronta a calarsi nel ruolo pubblico di Jane Rizzoli. Uscì dal bagno. Dean era seduto sulla poltrona vicino alla finestra. Non disse nulla, la guardò mentre cominciava a vestirsi, raccogliendo gli abiti dal pavimento, girando intorno al letto dalle lenzuola stropicciate, silenziose testimoni della loro passione. Una telefonata aveva chiuso quella parentesi, e ora lei si spostava nella stanza con precaria determinazione, abbottonandosi prima la camicia, poi i pantaloni. Fuori era ancora buio, ma
per lei la notte era finita. «Hai intenzione di dirmi qualcosa?» le chiese. «Hoyt è stato nel mio appartamento.» «Sanno che è stato lui?» Jane si voltò a guardarlo. «Chi altro potrebbe essere stato?» Le parole le uscirono di bocca in un tono più alto rispetto alle intenzioni. Arrossendo, recuperò le scarpe da sotto il letto. «Devo andare a casa.» «Sono le cinque del mattino. Il tuo aereo parte alle nove e mezzo.» «Credi veramente che possa tornare a dormire? Dopo quello che è successo?» «Arriverai a Boston esausta.» «Non sono stanca.» «Perché sei carica di adrenalina.» Jane si infilò le scarpe. «Smettila, Dean.» «Di fare cosa?» «Di cercare di prenderti cura di me.» Dopo qualche istante di silenzio, Gabriel esclamò sarcastico: «Scusami. Continuo a scordarmi che sei perfettamente in grado di badare a te stessa». Lei rimase immobile, dandogli le spalle, già pentita delle sue parole, desiderando, per la prima volta, che Dean si prendesse cura di lei. Che la cingesse con le sue braccia e la persuadesse a tornare a letto. Desiderava dormire abbracciata a lui finché non fosse giunta l'ora di partire. Ma quando si voltò a guardarlo, si accorse che si era alzato dalla poltrona e aveva già cominciato a vestirsi. 24 Jane si addormentò sull'aereo. Quando iniziò la discesa verso Boston, si svegliò intontita e con una sete terribile. Il brutto tempo l'aveva seguita da Washington, e la turbolenza scuoteva i tavolini dei sedili e i nervi dei passeggeri, mentre l'aeroplano attraversava le nubi. Fuori dal finestrino la punta delle ali scompariva in una coltre grigia, ma Jane era troppo stanca per provare la pur minima ansia per il volo. Dean occupava ancora i suoi pensieri, distraendola da ciò che richiedeva la sua attenzione. Guardò la foschia e ricordò il tocco delle sue mani, il calore del suo respiro sulla pelle. Le tornò alla mente l'ultimo scambio di parole sul marciapiede dell'aeroporto, un arrivederci distaccato e frettoloso sotto la pioggia battente. Non la separazione di due amanti, ma di due soci in affari, ansiosi di proseguire
per la propria strada, ognuno con le proprie incombenze. Si rimproverò per quella nuova distanza che si era creata fra loro e biasimò anche lui, per averle permesso di andarsene. Ancora una volta Washington si era trasformata nella città dei rimpianti e delle lenzuola macchiate. L'aereo toccò terra sotto un diluvio. Jane vide gli addetti alla pista sguazzare sull'asfalto con impermeabili e cappucci e si sentì male al pensiero di ciò che avrebbe dovuto affrontare. Il viaggio fino a casa e il suo appartamento, che non sarebbe mai più stato sicuro perché lui ci aveva messo piede. Prese la valigia al ritiro bagagli e uscì dall'aeroporto, per essere subito investita da una raffica di pioggia spinta dal vento fin sotto la pensilina. Una lunga coda di persone afflitte attendeva un taxi. Scrutando la fila di limousine parcheggiate dall'altro lato della strada, fu sollevata nel vedere il nome RIZZOLI scritto su uno dei finestrini. Bussò al conducente e il vetro si abbassò. Era un autista diverso, non l'anziano nero che l'aveva accompagnata all'aeroporto il giorno prima. «Sì, signora?» «Sono Jane Rizzoli.» «Va a Claremont Street, giusto?» «Esatto.» L'autista scese dalla macchina e le aprì la portiera posteriore. «Benvenuta a bordo. Sistemo la sua valigia nel bagagliaio.» «Grazie.» Jane s'infilò in macchina e sospirò, stanca, mentre si appoggiava al lussuoso schienale di pelle. Fuori si udivano clacson e pneumatici slittare sotto la pioggia scrosciante, ma all'interno della limousine, grazie a Dio, l'ambiente era silenzioso. Chiuse gli occhi mentre l'auto si allontanava dal Logan Airport, diretta sulla Boston Expressway. Il cellulare suonò. Scrollandosi di dosso la stanchezza, si rizzò sul sedile e frugò con aria sbalordita nella borsa, facendo cadere penne e monetine sul tappetino dell'auto, alla ricerca del telefono. Al quarto squillo riuscì finalmente a rispondere. «Rizzoli.» «Sono Margaret, dell'ufficio del senatore Conway. Le ho organizzato il viaggio, ricorda? Volevo solo verificare che avesse trovato un passaggio dall'aeroporto a casa.» «Sì. Sono già sulla limousine.» «Oh.» Una pausa. «Be', sono lieta che sia stato tutto sistemato.»
«Sistemato cosa?» «Il servizio limousine ha chiamato per riferire che aveva cancellato il trasferimento dall'aeroporto.» «No, mi stavano aspettando. Grazie.» Chiuse il cellulare e si piegò per recuperare quello che le era caduto dalla borsa. La penna a sfera era rotolata sotto il sedile dell'autista. Mentre la cercava, con le dita sul pavimento, si rese improvvisamente conto del colore del tappetino. Blu navy. Lentamente si alzò. Avevano appena imboccato il Callahan Tunnel, che passava sotto il Charles River. Il traffico aveva rallentato e stavano viaggiando a passo d'uomo nella lunga galleria di cemento, illuminata da una debole luce color ambra. Nylon blu navy Dupont Antron 6,6. Moquette standard su Cadillac e Lincoln. Jane Rizzoli rimase perfettamente immobile, lo sguardo fisso sulla parete del tunnel. Pensò a Gail Yeager e alle processioni dei funerali, alla fila di limousine che procedevano lentamente verso i cancelli del cimitero. Pensò ad Alexander e Karenna Ghent, che erano arrivati al Logan Airport solo una settimana prima di morire. E pensò a Kenneth Waite e alle sue multe. Un uomo a cui era stata ritirata la patente, e che tuttavia portava la moglie a Boston. È così che le trova? Una coppia sale sulla sua auto. Il bel viso della donna si riflette nel retrovisore. Lei si accomoda sul sedile di pelle morbida per il viaggio verso casa, ignara di essere osservata e del fatto che quell'uomo, che quasi non ha guardato in volto, sta decidendo che lei è quella giusta. Le luci ambrate del tunnel scorrevano lente mentre Jane costruiva la sua teoria, mattone dopo mattone. Un'auto comoda, un viaggio silenzioso, i sedili di pelle morbida come quella umana. Un uomo senza nome dietro il volante. Tutto progettato per far sentire il passeggero sicuro e protetto. Il cliente non sa nulla dell'uomo alla guida. Ma questi conosce il nome del passeggero. Il numero di volo. La via in cui vive. Il traffico si era fermato. Più avanti si intravedeva l'uscita del tunnel, una piccola apertura di luce grigia. Jane tenne la faccia voltata verso il finestrino, perché non osava guardare l'autista. Non voleva che notasse la sua apprensione. Con le mani sudate frugò nuovamente nella borsa e prese il telefono. Non lo estrasse, ma lo tenne fra le mani, pensando alla mossa suc-
cessiva. Fino allora il conducente non aveva fatto nulla per allarmarla, niente che le facesse dubitare che lui non fosse la persona che dichiarava di essere. Lentamente, estrasse il cellulare dalla borsa e lo aprì. Nell'oscurità del tunnel si sforzò di distinguere i tasti in modo da poter comporre il numero. Fai finta di nulla, pensò. Come se stessi solo annunciando il tuo arrivo a Frost, non urlando un SOS. Ma che cosa gli avrebbe detto? «Credo di essere nei guai, ma non ne sono sicura?» Premette il tasto di composizione automatica del numero di Barry. Udì alcuni squilli, poi un debole «pronto» seguito dal fruscio della linea disturbata. Il tunnel. Sono in un dannato tunnel. Chiuse il telefono. Guardò avanti per vedere quanto mancasse all'uscita. In quell'istante il suo sguardo si posò involontariamente sullo specchietto retrovisore. Jane commise l'errore di incrociare i suoi occhi, di notare che lui la stava fissando. Fu in quel momento che entrambi seppero, che entrambi capirono. Scendi. Scendi dall'auto! Jane si tuffò sulla maniglia, ma l'uomo aveva già bloccato le sicure. Cercando di forzarla, ghermì in preda al panico il pulsante d'apertura. In quell'attimo l'uomo si allungò sul sedile posteriore, le puntò la pistola elettrica e la azionò. La scarica la colpì alla spalla. Cinquantamila volt le squassarono il torace, la corrente si propagò come un fulmine nel suo sistema nervoso. La vista le si oscurò e Jane ricadde sul sedile, le mani paralizzate, i muscoli contratti in una tempesta di convulsioni, il corpo fuori controllo, tremante, soggiogato. Un rumore battente, proveniente dall'alto, la costrinse a uscire dalle tenebre. Le sue retine misero lentamente a fuoco una foschia grigia. Sentì il sapore del sangue in bocca, caldo e metallico, e la lingua le pulsava come se se la fosse morsicata. A poco a poco la foschia si diradò e Jane vide la luce del giorno. Erano usciti dal tunnel e si dirigevano... dove? Aveva ancora la vista annebbiata, ma dal finestrino scorse le sagome di edifici alti contro il cielo grigio. Tentò di muovere il braccio, ma era pesante e lento, i muscoli esausti per le convulsioni. E la vista dei palazzi e degli alberi che scorrevano fuori dal finestrino era tanto nauseante che dovette chiudere di nuovo gli occhi. Concentrò tutta la sua attenzione sui suoi arti, per indurii a obbedire. Sentì i muscoli contrarsi e le dita chiudersi a pugno. Più stretto.
Più forte. Apri la portiera. Sblocca la serratura. Spalancò gli occhi, lottando contro le vertigini, lo stomaco in subbuglio mentre, fuori dall'auto, il mondo girava vorticosamente. Si sforzò di allungare il braccio, ogni centimetro conquistato era una piccola vittoria. Protese la mano verso la portiera, verso il pulsante di apertura. Lo premette e udì la serratura scattare con un clic rumoroso. Improvvisamente sentì una pressione sulla coscia. Vide il conducente voltarsi verso di lei e spingerle il Taser contro la gamba. Un'altra scarica nel corpo. Le sue membra ebbero uno spasmo e l'oscurità calò come un cappuccio sugli occhi. Una goccia d'acqua fredda sulla guancia. Il rumore del nastro adesivo staccato da un rotolo. Si svegliò mentre l'uomo le legava i polsi dietro la schiena, avvolgendo il nastro più volte prima di tagliarlo. Le tolse le scarpe e le lasciò cadere con un tonfo. Poi fu la volta delle calze, per permettere all'adesivo di aderire meglio alla pelle. Mentre lavorava, Jane riacquistò lentamente la vista, e scorse la sommità del capo del suo aggressore mentre era chino nell'abitacolo, impegnato a legarle le caviglie. Dietro di lui, attraverso la portiera aperta, scorse una distesa verde. Paludi e alberi. Nessun edificio. Terreni paludosi... L'aveva portata nei Back Bay Fens? Di nuovo lo scricchiolio del nastro adesivo, poi l'odore di plastica mentre gliene premeva una striscia sulla bocca. L'uomo la fissò, e Jane notò dettagli che non si era preoccupata di rilevare quando lui aveva abbassato la prima volta il finestrino. Particolari che allora le erano sembrati trascurabili. Gli occhi scuri, un viso dai lineamenti spigolosi, un'espressione scaltra, selvatica. Eccitata per ciò che sarebbe seguito. Un viso che, dal sedile posteriore di un'auto, sarebbe passato inosservato. È uno dell'esercito dei senza volto in uniforme, pensò. Gli individui che puliscono le nostre stanze d'albergo, trasportano i nostri bagagli e guidano le limousine su cui viaggiamo. Si muovono in un mondo parallelo, raramente li notiamo, finché non ne abbiamo bisogno. Finché non fanno intrusione nel nostro mondo. L'uomo raccolse il cellulare dal pavimento dell'auto dov'era caduto. Lo gettò in strada e lo calpestò col tacco, trasformandolo in un ammasso di pezzi di plastica e fili, che poi allontanò con un calcio in un cespuglio. Nessuna chiamata al 911 avrebbe più messo la polizia sulle sue tracce.
In quell'istante, l'uomo le sembrò l'efficienza in persona. Il professionista esperto che fa ciò che gli riesce meglio. Si chinò nell'auto, la trascinò verso la portiera, poi la prese fra le braccia senza il benché minimo segno di fatica. Per un soldato dei corpi speciali, che può marciare per chilometri con uno zaino da cinquanta chili in spalla, non era di certo un grande sforzo spostare una donna di cinquantadue chili. La pioggia le sferzò la faccia mentre lui la portava verso il retro dell'auto. Vide alcuni alberi, argentei nella foschia, e un fitto groviglio di sottobosco. Ma nessun'altra auto, anche se riusciva a udire i motori oltre la boscaglia. Percepiva il brusio del traffico, simile al rumore dell'oceano quando si porta una conchiglia all'orecchio, abbastanza vicino da strapparle un gemito di disperazione. Il baule era già aperto, il paracadute grigioverde steso in attesa di ricevere il suo corpo. L'uomo la lasciò cadere dentro, tornò nell'abitacolo per prendere le scarpe e gettò anche quelle nel bagagliaio. Poi lo chiuse e Jane lo udì girare la chiave nella serratura. Anche se avesse avuto le mani libere, non sarebbe stata in grado di uscire da quella bara nera. Sentì chiudersi la portiera; poi l'auto cominciò a muoversi. Diretta all'appuntamento con un uomo che, lei sapeva, la stava aspettando. Pensò a Warren Hoyt, al suo sorriso affabile, alle sue lunghe dita infilate nei guanti di lattice. Pensò a ciò che avrebbe tenuto in quelle mani inguantate, e il terrore la assalì. Il suo respiro accelerò e si sentì soffocare, come se non riuscisse a incamerare abbastanza aria, e sufficientemente in fretta per evitare di morire asfissiata. Si agitò in preda al panico, dimenandosi come un animale impazzito che cerca disperatamente di sopravvivere. Con il viso sbatté contro la valigia, e il colpo momentaneamente la stordì. Rimase immobile, la guancia che le pulsava. L'auto rallentò e si fermò. Jane s'irrigidì, il cuore le martellava nel petto, mentre attendeva ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Udì la voce di un uomo esclamare: «Buona giornata». La limousine ripartì, riacquistando velocità. Un casello del pedaggio. Erano sulla Turnpike. Pensò a tutte le cittadine situate a ovest di Boston, ai campi e ai tratti di foresta, luoghi dove nessuno avrebbe pensato di fermarsi. Posti in cui un corpo poteva non essere mai trovato. Le tornarono alla mente il cadavere di Gail Yeager, gonfio e scuro, e le ossa sparse di Maria Jean Waite, che giacevano nella quiete dei boschi. È questa la sorte della carne. Chiuse gli occhi, concentrandosi sul rumore della strada sotto i pneumatici. L'auto correva veloce. Ormai dovevano aver superato da un pezzo i
confini cittadini. Che cosa avrebbe pensato Frost mentre attendeva la sua telefonata? Quanto tempo sarebbe trascorso prima che si rendesse conto che qualcosa era andato storto? Non fa differenza. Non avrebbe idea di dove cercare. Nessuno lo saprebbe. Il braccio destro le si intorpidì, schiacciato dal peso del suo corpo, e il formicolio divenne insopportabile. Rotolò sul ventre, la faccia premuta sul tessuto serico del paracadute, lo stesso che aveva avvolto i corpi di Gail Yeager e di Karenna Ghent. Credette di sentire l'odore di morte fra le pieghe. Il puzzo della putrefazione. Disgustata, cercò di mettersi in ginocchio e batté la testa contro il portello. Avvertì un dolore acuto. La sua valigia, per quanto piccola, le lasciava poco spazio di manovra e la claustrofobia alimentò nuovamente il panico. Controllo. Dannazione, Rizzoli. Riprendi il controllo. Ma non riusciva ad allontanare dalla mente le immagini del Chirurgo. Ricordò il suo volto, gigantesco sopra di lei mentre giaceva immobilizzata sul pavimento della cantina. Rammentò di essere rimasta in attesa dello squarcio del bisturi, consapevole del fatto che non sarebbe potuta fuggire. Che il meglio che poteva sperare era una morte rapida. E che l'alternativa sarebbe stata infinitamente peggiore. Si sforzò di respirare lentamente, a fondo. Una goccia calda le scivolò lungo la guancia, e la nuca cominciò a bruciarle. Si era ferita il cuoio capelluto e ora sanguinava, un rivolo continuo che sgocciolava sul paracadute. Prove, pensò. Il mio passaggio contrassegnato dal sangue. Sto sanguinando. Contro che cosa ho battuto la testa? Sollevò le mani dietro la schiena, e con le dita tastò il cofano, cercando qualsiasi cosa le avesse tagliato la testa. Sentì la plastica e una distesa di metallo liscio. Poi, d'un tratto, la punta affilata di una vite le punzecchiò la pelle. Si concesse una pausa per far riposare i muscoli delle braccia doloranti e per togliersi il sangue dagli occhi. Rimase in ascolto del rumore monotono dei pneumatici sulla strada. Stavano ancora viaggiando ad alta velocità, Boston ormai lontana alle loro spalle. È magnifico, qui nei boschi. Sono in piedi circondato da alberi, le cui cime bucano il cielo come spire di una cattedrale. Ha piovuto tutta la mattina, ma ora un raggio di sole squarcia le nuvole e illumina il suolo sul
quale ho piantato quattro pali di ferro, a cui ho legato quattro lunghezze di corda. Tranne che per il gocciolio costante delle foglie, il silenzio è assoluto. Poi sento un fruscio d'ali, sollevo lo sguardo e vedo tre corvi appollaiati sui rami soprastanti. Mi guardano con una strana bramosia, come se pregustassero ciò che verrà dopo. Loro conoscono già questo posto, e ora aspettano, sbattendo le ali nere, attirati dalla promessa di una carogna. Il sole riscalda il suolo e fili di vapore si levano dalle foglie bagnate. Ho appeso il mio zaino a un ramo, per tenerlo all'asciutto, e ora penzola come un grosso frutto maturo, appesantito dagli strumenti chiusi al suo interno. Non ho bisogno d'inventariarne il contenuto; li ho scelti con cura, accarezzando l'acciaio freddo mentre li riponevo nel sacco. Nemmeno un anno di prigionia è stato sufficiente a farmi perdere familiarità con essi, e quando le mie dita si chiudono intorno a un bisturi, mi sento a mio agio come se stringessi la mano di un vecchio amico. Ora sto per salutare un'altra vecchia conoscenza. Esco sulla strada ad aspettare. Le nuvole si sono assottigliate in filamenti sottili, e il pomeriggio si è fatto afoso e caldo. Sulla strada, poco più di due solchi di fango, spiccano alcuni ciuffi d'erba alta, il cui fragile seme è cresciuto indisturbato, perché il traffico è quasi inesistente. Sento gracchiare e sollevo lo sguardo verso i tre corvi che mi hanno seguito e che attendono lo spettacolo. A tutti piace guardare. Un sottile filo di polvere si alza dietro gli alberi. Sta arrivando una macchina. Aspetto, il cuore mi batte più rapidamente, le mani mi sudano già al pensiero. Finalmente intravedo l'auto, un mostro nero luccicante, che avanza lungo la strada sterrata, con fare lento e dignitoso. Mi porta una vecchia conoscenza. Sarà una visita lunga, credo. Guardando in su vedo che il sole è ancora alto, ci aspettano molte ore di luce. Ore di divertimento estivo. Mi sposto al centro della strada e la limousine si ferma di fronte a me. Il conducente esce dall'auto. Non abbiamo bisogno di scambiarci parole; ci guardiamo e sorridiamo. Il sorriso di due fratelli, uniti non da legami familiari, ma da desideri e brame comuni. Le parole scritte sulla carta ci hanno uniti. Nelle nostre lunghe lettere abbiamo dato sfogo alla fantasia, forgiato la nostra alleanza, con parole che fluivano dalle penne come fili serici di una ragnatela, che ci hanno condotto in questi boschi in cui i corvi osservano con occhi avidi.
Ci dirigiamo insieme verso il retro della macchina. Lui è eccitato al pensiero di scoparsela. Vedo il rigonfiamento dei pantaloni e odo il tintinnio delle chiavi dell'auto tra le sue mani. Ha le pupille dilatate, e il labbro superiore imperlato di sudore. Ci fermiamo accanto al bagagliaio, entrambi ansiosi di dare la prima occhiata alla nostra ospite. Di percepire la prima deliziosa ventata del suo terrore. Infila la chiave nella serratura e la gira. Il bagagliaio si apre. Lei giace raggomitolata su un fianco, ci guarda, battendo le palpebre per la luce improvvisa. Sono tanto concentrato su di lei che non noto immediatamente il particolare del reggiseno bianco che pende da un angolo della valigia. Solo quando il mio partner si china per estrarla capisco che cosa significa. «No!» urlo. Ma lei ha già portato le mani in avanti. Sta già premendo il grilletto. La testa del mio socio esplode in una nube di sangue. Il modo in cui il suo corpo s'inarca e cade all'indietro sembra un balletto strano, aggraziato. E il modo in cui le braccia di lei ruotano verso di me con precisione infallibile. Ho solo il tempo di girarmi lateralmente, poi dalla sua pistola parte il secondo proiettile. Non lo sento perforarmi la nuca. Lo strano balletto continua, solo che ora è il mio corpo a eseguire la danza, le braccia si agitano in cerchio mentre precipito al suolo con un tuffo da cigno. Atterro su un fianco, ma non avverto dolore all'impatto, solo il rumore del busto che cozza per terra. Rimango disteso in attesa del dolore, della pulsazione, ma non provo niente. Solo una sensazione di sorpresa. La sento uscire a fatica dall'auto. È rimasta là dentro raggomitolata per più di un'ora, e impiega diversi minuti per costringere le gambe a obbedirle. Mi si avvicina. Mi mette un piede contro la spalla e mi gira sulla schiena. Sono perfettamente cosciente e la guardo, consapevole di quello che sta per accadere. Mi punta l'arma in faccia, le tremano le mani, respira in maniera rapida e superficiale. Sulla guancia sinistra ha del sangue secco, che mi ricorda la vernice di guerra. Ogni muscolo del suo corpo è pronto per uccidere. Ogni suo istinto le urla di premere il grilletto. Io la fisso, senza timore, osservando la battaglia che si svolge nei suoi occhi, domandandomi quale forma di sconfitta sceglierà. Tra le mani tiene l'arma della sua stessa distruzione; io sono solamente il catalizzatore.
Uccidimi, e le conseguenze ti annienteranno. Lasciami vivere, e dimorerò per sempre nei tuoi incubi. Poi emette un lieve singhiozzo. Abbassa lentamente la pistola. «No», sussurra. E di nuovo, più forte, in tono provocatorio: «No». Poi si alza, fa un respiro profondo. E torna all'auto. 25 Jane Rizzoli era in piedi nella radura, lo sguardo fisso sui quattro pali di ferro conficcati nel terreno. Due per le braccia, due per le gambe. La corda annodata, già pronta per essere stretta intorno ai polsi e alle caviglie, era stata trovata poco lontano. Evitò di soffermarsi troppo sul chiaro scopo di quei pali. Invece perlustrò il luogo con l'atteggiamento risoluto di qualsiasi poliziotto che esamini la scena di un delitto. Il fatto che gli arti legati ai pali e la carne lacerata dagli strumenti contenuti nello zaino di Hoyt sarebbero stati i suoi era un dettaglio che non prendeva in esame. Sentiva lo sguardo dei colleghi addosso, notava come le loro voci si abbassavano quando lei si avvicinava. La benda stretta intorno alla ferita suturata sul capo la qualificava come il ferito ambulante, e tutti la trattavano come se fosse di vetro, facilmente frantumabile. Non riusciva a sopportarlo, non in quel momento in cui aveva più che mai bisogno di credere di non essere una vittima. Di avere il pieno controllo delle sue emozioni. Perciò continuò a esaminare i dintorni, come avrebbe fatto con qualsiasi altra scena di un crimine. Il luogo era già stato fotografato e analizzato dalla polizia di Stato la sera precedente, ed era stato ormai reso ufficialmente accessibile, ma quel mattino Jane e la sua squadra sentirono la necessità di riesaminarlo. La detective Rizzoli e Frost perlustrarono il bosco, misurando più volte con il metro la distanza tra la strada e la piccola radura in cui la polizia di Stato aveva rinvenuto lo zaino di Warren Hoyt. Nonostante la valenza personale di quello spiazzo in mezzo agli alberi, Jane lo osservò con indifferenza. Sul blocco aveva elencato ciò che era stato trovato dentro il sacco: bisturi e pinze, un divaricatore e un paio di guanti. Aveva studiato le foto delle impronte dei piedi di Hoyt, rilevate nel gesso, e aveva fissato i sacchetti delle prove contenenti le corde senza fermarsi a pensare ai polsi ai quali erano destinate. Sollevò lo sguardo per studiare il cambiamento del tempo, senza però riconoscere che quella vista del cielo e delle cime degli alberi avrebbe potuto essere l'ultima della sua vita. Jane Rizzoli la vittima
non era presente quel giorno. Per quanto i colleghi la scrutassero, in attesa di un segno rivelatore, non l'avrebbero vista. Nessuno l'avrebbe vista. Jane chiuse il blocco degli appunti, alzò lo sguardo e scorse Gabriel Dean che avanzava tra gli alberi nella sua direzione. A quella vista si sentì sollevata, ma lo salutò con un semplice cenno del capo e un'espressione che invitava a un comportamento professionale. Gabriel capì, e si trattarono come normali colleghi, attenti a non rivelare alcun indizio dell'intimità che solo due giorni prima li aveva legati. «L'autista era stato assunto sei mesi fa dalla VIP Limousines», affermò Jane Rizzoli. «Gli Yeager, i Ghent, gli Waite... li ha trasportati tutti lui. E aveva accesso al programma di prenotazioni della VIP. Deve aver visto il mio nome sulla lista e cancellato la mia prenotazione, in modo da sostituirsi al conducente che sarebbe dovuto venire a prendermi.» «La VIP aveva controllato le sue referenze?» «Le sue referenze erano vecchie di qualche anno, ma ottime.» Ci fu una pausa di silenzio. «Nel curriculum non c'era alcun riferimento al servizio militare.» «Questo perché John Stark non era il suo vero nome.» Jane lo guardò accigliata. «Furto d'identità?» Dean le indicò gli alberi e insieme lasciarono la radura e si avviarono nel bosco, dove avrebbero potuto parlare in privato. «Il vero John Stark è morto nel settembre del 1999 in Kosovo», le spiegò Dean. «Faceva parte delle forze di soccorso dell'ONU, e rimase ucciso quando la sua jeep urtò una mina. È sepolto a Corpus Christi, in Texas.» «Allora non conosciamo nemmeno il suo nome.» Gabriel scosse il capo. «Impronte digitali, radiografie dentali e campioni di tessuto saranno inviati sia al Pentagono sia alla CIA.» «Non otterremo risposte, vero?» «Non se il Dominatore era uno di loro. Per quanto li riguarda, tu hai risolto il loro problema. Non c'è bisogno di dire o di fare altro.» «Posso aver risolto il loro problema», ribatté lei con amarezza. «Ma il mio è ancora vivo.» «Hoyt? Non sarà più un problema per te.» «Dio, avrei dovuto sparargli un altro colpo...» «Probabilmente è tetraplegico, Jane. Non riesco a immaginare punizione peggiore.» Emersero dal bosco sulla strada sterrata. La limousine era stata rimossa la sera precedente, ma rimanevano ancora le prove di quanto era accaduto.
Jane abbassò lo sguardo sulla chiazza di sangue secco rimasta nel punto in cui era morto un uomo conosciuto col nome di John Stark. Qualche metro più in là la macchia, più piccola, dov'era caduto Hoyt, gli arti insensibili, il midollo spinale spappolato. Avrei potuto finirlo, ma l'ho lasciato vivere. E ancora non so se fosse la cosa giusta da fare. «Come stai, Jane?» Jane Rizzoli percepì una nota d'intimità nella domanda, una tacita ammissione che fossero qualcosa di più di semplici colleghi. Lo guardò e improvvisamente si sentì imbarazzata per il volto pesto e la vistosa benda sul capo. Non era così che desiderava farsi vedere da lui, ma ora che l'aveva davanti era inutile nascondere i lividi, poteva solo affrontarlo con dignità e incrociare il suo sguardo. «Sto bene», rispose. «Qualche punto in testa, i muscoli un po' doloranti. E un aspetto da mostro.» Indicò vagamente il volto ammaccato e scoppiò a ridere. «Ma avresti dovuto vedere l'altro tizio.» «Non credo ti faccia bene stare qui», affermò Gabriel. «Che vuoi dire?» «È troppo presto.» «Io sono l'unica persona che dovrebbe stare qui.» «Non ti concedi mai tregua, vero?» «Perché dovrei?» «Perché non sei una macchina. Finirà per annientarti. Non puoi andartene in giro in questo luogo e far finta che la scena del crimine riguardi qualcun altro.» «È esattamente così che la considero.» «Persino dopo quello che stava per succedere?» Quello che stava per succedere. Jane guardò le macchie di sangue sul terreno, e per un istante la strada sembrò oscillare, come se un tremito avesse scosso la terra, squassando i muri che aveva faticosamente eretto a sua difesa, minacciando le fondamenta profonde sulle quali poggiava. Dean le prese la mano. Era un tocco rassicurante, che le fece venire le lacrime agli occhi. Un tocco che le diceva: «Per questa volta, Jane, hai il permesso di essere umana. Di essere debole». «Mi dispiace per Washington», mormorò. Scorse rammarico negli occhi di Gabriel e si rese conto che aveva frainteso le sue parole. «Così, vorresti non fosse mai accaduto nulla fra noi», affermò lui.
«No. No, al contrario...» «Allora, di cosa sei dispiaciuta?» Jane sospirò. «Mi dispiace di essermene andata senza dirti che cosa abbia significato per me quella notte. Di non averti salutato per bene. E mi dispiace di...» Un altro istante di silenzio. «Di non aver lasciato che ti prendessi cura di me, solo per una volta. Perché la verità è che ne avevo davvero bisogno. Non sono forte come mi piace pensare.» Lui sorrise e le strinse la mano. «Nessuno di noi lo è, Jane.» «Ehi, Rizzoli?» Era Barry Frost, che la chiamava dal margine della boscaglia. Jane scacciò le lacrime e si voltò. «Sì?» «Abbiamo appena ricevuto un doppio dieci cinquantaquattro. Quik-Stop Grocery Store, Jamaica Plain. Sono morti il commesso e un cliente. La scena non è ancora stata isolata.» «Gesù, la mattina presto...» «Siamo i più vicini. Te la senti?» Jane fece un respiro profondo e si voltò nuovamente verso Dean. Gabriel le aveva lasciato la mano e, per quanto le mancasse quel contatto, Jane si sentì più forte, ogni tremore svanito, il suolo di nuovo solido sotto i piedi. Ma non era pronta a porre fine a quel momento. Il loro addio a Washington era stato frettoloso; non avrebbe permesso che accadesse di nuovo. Non avrebbe lasciato che la sua vita assomigliasse a quella di Korsak, una triste cronaca di rimpianti. «Frost?» chiamò, lo sguardo sempre fisso in quello di Gabriel. «Sì?» «Io non vengo.» «Che cosa?» «Lascia che ci pensi un'altra squadra. In questo momento non me la sento.» Non udì risposta. Allora lanciò un'occhiata a Frost e lo vide sbigottito. «Vuoi dire che... ti prendi un giorno libero?» chiese Barry. «Già. Il mio primo permesso per malattia. Qualche problema?» Frost scosse il capo e scoppiò a ridere. «Cazzo, era ora! È tutto quello che posso dire.» Jane guardò Frost allontanarsi. Lo udì ridere mentre si avviava verso il bosco. Attese che scomparisse tra gli alberi, poi si voltò a guardare Dean. Lui allargò le braccia e lei vi si tuffò dentro. 26
Ogni due ore vengono a controllarmi la pelle perché non si formino piaghe da decubito. È un trio di facce che ruota: Armina di giorno, Bella di sera, e di notte la timida e silenziosa Corazon. Le mie ragazze ABC, come le chiamo io. Una persona poco osservatrice non le distinguerebbe l'una dall'altra, tutte con lo stesso viso scuro e liscio e le voci musicali. Un allegro coretto di filippine con l'uniforme bianca. Ma io noto le differenze tra loro. Le colgo nel modo in cui si avvicinano al mio letto, nei movimenti che fanno quando mi afferrano per voltarmi su un fianco o sull'altro, per riposizionarmi sulla pelle di pecora. Devono farlo giorno e notte, perché non posso girarmi da solo e il peso del mio corpo che preme sul materasso mi logora la pelle. Comprime i capillari e interrompe il flusso nutritizio di sangue, fa morire di fame i tessuti, li rende pallidi e fragili, facilmente deteriorabili. Una piccola piaga può suppurare e allargarsi, come un ratto che rosicchia la carne. Grazie alle mie ragazze ABC non ho alcuna piaga... o così mi dicono. Non posso verificare di persona perché non riesco a vedermi la schiena o le natiche, né a percepire sensazioni al di sotto delle spalle. Sono completamente dipendente da Armina, Bella e Corazon, che mi mantengono in salute, e, come un neonato, presto grande attenzione a coloro che si occupano di me. Studio i loro volti, inalo il loro profumo, memorizzo le loro voci. So che il naso di Armina non è perfettamente diritto, che l'alito di Bella puzza spesso d'aglio e che Corazon ha un lieve accenno di balbuzie. So anche che hanno paura di me. Naturalmente, sanno chi sono. Tutti quelli che lavorano nell'unità spinale conoscono la mia identità e, per quanto mi trattino con la medesima cortesia che riservano agli altri pazienti, noto che non mi guardano realmente negli occhi, che esitano a toccare la mia carne, come se dovessero saggiare un ferro caldo. Talvolta scorgo gli inservienti in corridoio, che mi osservano e parlottano fra loro. Con gli altri pazienti chiacchierano, chiedono loro come stanno amici e parenti, ma a me nessuno pone tali domande. Oh, mi domandano come mi sento e se ho dormito bene, ma la conversazione non va oltre. Eppure so che sono curiosi. Tutti vogliono dare un'occhiatina al Chirurgo, ma hanno paura di avvicinarsi, come se d'improvviso potessi balzare in piedi e aggredirli. Perciò mi lanciano sguardi rapidi attraverso la porta, ma non entrano, a meno che il lavoro non lo richieda. Le ragazze ABC si prendono cura della mia pelle, della mia vescica e del mio intesti-
no, e poi fuggono, lasciando il mostro da solo nella sua tana, incatenato al letto dal suo stesso corpo menomato. Non stupisce, perciò, che io attenda con tanta ansia le visite della dottoressa O'Donnell. Viene una volta alla settimana. Porta il registratore e il blocco di carta, nonché un astuccio pieno di penne a sfera blu, con cui prende appunti. E porta con sé la sua curiosità, esibendola senza timore, con spudoratezza, come se fosse un mantello rosso. È una curiosità puramente professionale, o almeno così crede. Avvicina la sedia al letto e appoggia il microfono sul tavolino a rotelle, in modo da poter cogliere ogni mia parola. Poi si sporge in avanti, il collo arcuato verso di me, come per offrirmi la gola. È un bel collo. È una bionda naturale, molto chiara di carnagione, e le vene tracciano delicate linee blu sotto il biancore della pelle. Mi guarda, temeraria, e mi rivolge le sue domande. «Le manca John Stark?» «Lo sa bene. Ho perso un fratello.» «Un fratello? Ma non conosceva nemmeno il suo vero nome.» «La polizia continua a chiedermelo. Non posso aiutarli, perché non me l'ha mai detto.» «Eppure vi siete scritti per molto tempo quando lei era in prigione.» «I nomi non avevano importanza per noi.» «Vi conoscevate abbastanza bene da uccidere insieme.» «Solo quella volta, a Beacon Hill. È come fare l'amore, credo. La prima volta serve per imparare a fidarsi l'uno dell'altro.» «Dunque uccidere insieme era un modo per conoscerlo?» «Esiste modo migliore?» Lei solleva un sopracciglio, come se non fosse sicura al cento per cento che io stia parlando seriamente. Ma è così. «Si riferisce a lui chiamandolo 'fratello'», afferma. «Che cosa intende con questo termine?» «Avevamo un legame. Un legame sacro. È così raro trovare persone che mi comprendano appieno.» «Immagino.» Riesco a captare la minima vena di sarcasmo, ma nella sua voce non la rilevo, e nemmeno la vedo nel suo sguardo. «So che là fuori ci devono essere altri individui come noi», affermo. «La sfida è trovarli. Contattarli. Tutti vogliamo stare con i nostri simili.» «Parla come se appartenesse a una specie diversa.»
«Homo sapiens reptilis», esclamo allegramente. «Scusi?» «Ho letto che una parte del nostro cervello risale alle nostre origini rettiliane. Controlla le funzioni più primitive. Combatti e fuggi. Accoppiamento. Aggressività.» «Oh. Intende l'archipallio.» «Sì. Il cervello che avevamo prima di diventare umani e civilizzati. Non elaborava emozioni, né coscienza. Né morale. Quello che vedi quando guardi negli occhi un cobra. La stessa porzione del nostro cervello che risponde direttamente alla stimolazione olfattiva. Per questo i rettili hanno uno spiccato senso dell'olfatto.» «Questo è vero. Dal punto di vista neurologico, il nostro sistema olfattivo è strettamente connesso all'archipallio.» «Sa che ho sempre avuto un olfatto eccezionale?» Per un momento mi fissa senza parlare. Di nuovo, non capisce se sono serio o se sto esponendo questa teoria perché so che è una neuropsichiatra e, di conseguenza, l'apprezzerà. Dalla domanda seguente intuisco che ha deciso di prendermi sul serio. «Anche John Stark aveva un olfatto sviluppato?» «Non ne ho idea.» Il mio sguardo è intenso. «Ora che è morto, non lo sapremo mai.» Lei mi studia come un gatto pronto a scattare. «Sembra arrabbiato, Warren.» «Non ho ragione di esserlo?» Abbasso lo sguardo sul mio corpo inutile, disteso inerte sulla pelle di pecora. Non lo considero più nemmeno il mio corpo. Perché dovrei? Non riesco a sentirlo. È solo un ammasso di carne aliena. «È arrabbiato con la poliziotta», asserisce la dottoressa. Un'affermazione tanto ovvia che non merita risposta, perciò rimango in silenzio. Ma la dottoressa O'Donnell è abituata a mettere a nudo i sentimenti, a rimuovere il tessuto cicatriziale e a esporre la ferita viva e sanguinante che si nasconde sotto. Ha percepito l'odore di sentimenti suppuranti e ora si accinge a raschiare e a scavare. «Pensa ancora alla detective Rizzoli?» mi chiede. «Tutti i giorni.» «Che sorta di pensieri fa?» «Vuole saperlo davvero?»
«Sto cercando di capirla, Warren. Di comprendere che cosa pensa, che cosa sente. Che cosa la spinge a uccidere.» «Allora sono ancora la sua piccola cavia di laboratorio. Non sono suo amico.» Una pausa. «Sì, posso essere sua amica...» «Ma non è questa la ragione per cui viene qui.» «A essere onesta, vengo qui per ciò che mi può insegnare. Ver ciò che può insegnare a tutti noi sulla ragione per cui gli uomini uccidono.» Si protende verso di me e mi sussurra: «Su, mi racconti. Tutti i suoi pensieri, per quanto sconvolgenti siano». Segue un lungo silenzio. Poi affermo a bassa voce: «Ho alcune fantasie...» «Quali?» «Su Jane Rizzoli. Su ciò che mi piacerebbe farle.» «Me le descriva.» «Non sono fantasie gradevoli. Sono certo che le troverà disgustose.» «Tuttavia vorrei conoscerle.» I suoi occhi hanno assunto una strana luce, come se fossero illuminati dall'interno. I muscoli del viso le si contraggono, è ansiosa di sentire. Trattiene il fiato. Io la fisso e penso: Oh, sì, vuole conoscerle. Come tutti gli altri, vuole udire ogni dettaglio oscuro. Sostiene che il suo è puro interesse accademico, che ciò che le racconto le serve solo per le sue ricerche. Ma scorgo una scintilla di bramosia nel suo sguardo. Capto il profumo dei feromoni, dell'eccitazione. Vedo il rettile, che si risveglia nella gabbia. Vuole sapere ciò che so io. Vuole camminare nel mio mondo. È finalmente pronta per il viaggio. È tempo che la inviti a entrare. RINGRAZIAMENTI Durante la stesura di questo libro ho potuto contare su una magnifica squadra che mi ha confortato, consigliato e mi ha fornito il sostegno emotivo di cui avevo bisogno. Ringrazio sentitamente la mia agente, nonché amica e guida, Meg Ruley, Jane Berkey, Don Cleary e lo squisito personale della Jane Rotrosen Agency. Un grazie speciale anche alla mia splendida editor, Linda Marrow, a Gina Centrello, per il suo instancabile entusia-
smo, a Louis Mendez, per il grande incoraggiamento, a Gilly Hailparn e Marie Coolman, per avermi assistito nei giorni bui e tristi dopo l'11 settembre e condotto sana e salva fino a casa. Grazie anche a Peter Mars per le informazioni sul Dipartimento di polizia di Boston, e a Selina Walker, la mia capo claque dall'altra parte del lago. Infine, i ringraziamenti più sinceri a mio marito, Jacob, che sa quanto sia difficile vivere con una scrittrice... e ciononostante continua a rimanermi accanto. FINE