ROBERT BLOCH L'IRA DI CTHULHU (Strange Eons, 1979) Questo libro è dedicato a HPL che si è dedicato ad altri outsider ed ...
20 downloads
776 Views
719KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ROBERT BLOCH L'IRA DI CTHULHU (Strange Eons, 1979) Questo libro è dedicato a HPL che si è dedicato ad altri outsider ed ha dato loro una chiave argentea. I ORA Albert Keith non credeva all'amore a prima vista, finché non vide il ritratto. Non era uno dei soliti faccini graziosi. Per la verità i tratti erano piuttosto canini; occhi rossastri e sfolgoranti, una protuberanza ben poco sporgente che voleva essere un naso, labbra cascanti e bavose, e orecchie a punta. E il corpo rannicchiato, incrostato di fango, aveva un'aria solo vagamente umanoide, con gli arti superiori che terminavano con degli artigli ossei ricoperti di scaglie, e i piedi che nella parte di sotto conservavano ancora qualcosa degli zoccoli. La creatura del dipinto era gigantesca, e la figura dell'uomo stretto tra i suoi artigli sembrava piccola al suo confronto. Malgrado lo strato di polvere che ricopriva il quadro, Keith notò immediatamente che la testa dell'uomo era stata mordicchiata. Fermo nella semioscurità del tetro retrobottega del negozietto in South Alvarado Street, Keith cominciò a tremare. Per un momento tentò di analizzare la causa di quella sua reazione. Non era paura... anche se il soggetto della sconfinata tela che stava addossata al muro era, certamente, davvero spaventevole. Era stato colto dalla tipica sindrome del collezionista, tremava dall'impazienza e per la pregustazione del piacere, dal momento che aveva capito che quel quadro sarebbe diventato suo, qualsiasi fosse stato il prezzo. Keith si girò e lanciò un'occhiata al proprietario del negozio che stava in piedi a fianco a lui. «Quanto costa?», mormorò.
Il tozzo omino tarchiato si strinse nelle spalle. «Facciamo cinquecento.» «Cinquecento dollari?» La faccia del mercante rimase impassibile. «Guardi solo quanto è grande. Se lo ripulissi un po' e ci mettessi una bella cornice allettante, non ne ricaverei meno di un bigliettone da mille.» «Per una cosa di questo genere?» Keith aggrottò le ciglia ma il mercante non si mosse dalle sue posizioni; la sua era la tipica faccia impassibile, professionale, dell'uomo che aveva interpretato quella parte con i clienti per anni e anni. «Sì, certo è un po' selvaggio, ma lei dovrebbe vedere qualcuno dei bizzarri individui che circolano da queste parti. L'unica cosa che dovrei fare è ficcare questo quadro qui, nella vetrina principale, e se lo arrafferebbero immediatamente... così, in un battibaleno. Quei finocchi delle gallerie di arte fantastica, lì alla "La Cinega" vanno sempre in giro in cerca di cose strambe. Basterebbe uno sguardo a questo quadro e gli sembrerebbe di toccare il cielo con un dito.» Keith continuava a fissare il quadro. Sì, era proprio come toccare il cielo con un dito, su questo non c'era alcun dubbio. Quell'opera aveva un potere tutto suo, un'autorità di esecuzione che andava oltre il suo pur sensazionale soggetto. «Chi è l'autore?», chiese. L'omino scosse la testa. «Non ne ho la più pallida idea. Non c'è firma.» Lanciò a Keith uno sguardo furtivo. «Ho la sensazione che possa trattarsi di qualche artista famoso che non ha voluto firmare un lavoro così particolare come questo.» «Da dove viene?» «Non ne so quasi niente. L'ho preso ad un'asta di un grande emporio giù nell'Est. Stavano tirando giù il magazzino e volevano fare piazza pulita di tutta la merce invenduta che c'era in deposito. Una parte della roba era abbandonata lì da forse quaranta o cinquant'anni. Ho preso anche delle casse di libri e lettere che ancora non ho finito di mettere a posto.» «Non ci sono altri quadri?» «No, questo è l'unico.» Il mercante spostò il suo sguardo verso la tela e annuì. «Vede: provi a pensarci un po', forse farei davvero meglio a fare come avevo detto. Pulirlo, trovare una bella cornice ed esporlo in vetrina...» Keith continuava a guardare fisso il quadro: l'immensa figura dall'aspet-
to canino accucciata davanti a lui e, per un attimo, provò la folle sensazione che stesse ascoltando e stesse aspettando che lui parlasse. Gli occhi rossi della figura sembravano interrogarlo, poi si imposero alla sua volontà. «Le darò i cinquecento dollari,» disse Keith. Il mercante si girò, cercando di nascondere il suo sorriso di soddisfazione, mentre Keith tirava fuori il suo libretto degli assegni e si frugava nelle tasche alla ricerca di una penna. «A chi lo devo intestare?» «Santiago. Felipe Santiago.» Keith fece un cenno d'assenso e scrisse, strappò l'assegno dal libretto e lo porse all'altro. «Ecco fatto. Ha bisogno di un documento di riconoscimento?» «No, va bene così.» L'omino sollevò la tela. «Dove ha parcheggiato?» «Proprio qui di fronte.» Fuori, nel posto dov'era parcheggiata la vecchia Volvo di Keith, ci furono dei problemi logistici. Il quadro era troppo grande per entrare nel bagagliaio. Furono necessari gli sforzi congiunti dei due uomini per far passare la tela attraverso la porta e poi spingerla sul pianale, dove rimase appoggiata contro il sedile posteriore. Lì incombeva minacciosa e lanciava occhiate lascive. Mentre Keith guidava verso casa tra le ombre del crepuscolo che si addensava, riusciva a vedere gli occhi rossi che lo guardavano dallo specchietto retrovisore. Quella notte gli occhi di quella creatura canina guardarono Keith attraverso i riflessi delle fiamme del caminetto. Aveva appoggiato la tela sul grande tavolo del suo rifugio, e, in quell'ambiente, il quadro si adattava stranamente a perfezione. L'ondeggiante luce del fuoco che passava da una parte all'altra della gigantesca figura, giocava sulle maschere tribali degli Ibo che stavano appese alle pareti, e danzava lungo le file di statuette d'avorio e di giada allineate sulle mensole di un mobiletto cinese. Spostata verso l'alto, al di sopra del camino, la testa avvizzita stava sospesa ad una cordicella che dondolava sulla mensola del caminetto e faceva rapidi inchini. Keith non era ancora certo che la testa fosse originale, ma quello strano signore che veniva dall'Ecuador aveva giurato che si trattava di un pezzo Jibaro autentico, e lui aveva pagato per quell'oggetto una piccola fortuna. Ad ogni modo, il quadro era sufficientemente autentico e il mercante
non aveva mentito sulla sua epoca. Gli strati di sporcizia e di polvere che ricoprivano tutta la sua superficie dovevano effettivamente essersi accumulati nel corso di numerosi decenni. E quindi, prima di prendere in considerazione i problemi dell'incorniciatura e quelli dell'effettivo valore del quadro, Keith si accinse al duro compito di ridurlo. Aveva a disposizione vari fluidi e composti chimici che facevano al caso suo, ma Keith aveva imparato a sue spese che il miglior metodo era quello di usare acqua e volgare sapone. Lentamente cominciò ad asportare lo sporco servendosi di un panno di flanella, facendo al contempo attenzione a non strofinare con troppa forza. A poco a poco la superficie madreperlacea si schiarì e si illuminò, in modo che la creatura accovacciata risaltò prepotentemente sulle scure ombre del fondo del quadro. I toni delle carni divennero delle livide mescolanze di un color ocra simile a quello delle pustole con un verde tipico dei mixomiceti, mentre gli occhi rossi brillavano con rinnovata intensità. Dettagli fino allora celati vennero messi in evidenza: i minuscoli acari neri che stavano avvinghiati agli orribili avambracci, i pezzi di usnea humana sulla superficie del cranio della vittima, e i minuscoli pezzetti di carne conficcati tra le zanne banchettanti. «Buon Dio!» Keith si girò spaventato dal suono di quella voce stridula. «Waverly,» disse. «Come hai fatto ad entrare?» L'uomo che era entrato nella stanza, alto, con la barba, si mosse verso di lui sorridendo. Almeno Keith pensò che stesse sorridendo, anche se la combinazione degli occhiali con le lenti sfumate nascondeva quasi del tutto l'espressione del suo volto. «Come al solito.» Simon Waverly scosse la testa. «Dico sul serio, dovresti prendere l'abitudine di chiudere a chiave la porta principale. E dovresti far riparare il campanello. Sono stato lì a bussare per buoni cinque minuti.» «Mi dispiace, non ti ho sentito.» Keith indicò la bacinella con l'acqua e sapone che stava sul tavolo. «Come ti avevo accennato al telefono, sto pulendo un demonio che divora cadaveri.» Gesticolò in direzione del quadro. «È proprio un demonio che divora cadaveri, non ti pare?» Il suo amico scrutò la tela attraverso le lenti scure, poi dalle sue labbra uscì un fischio lento e sommesso che indicava tutto il suo stupore. «Non è esatto dire che è un demonio che divora cadaveri,» disse. «Questo è il demonio che divora cadaveri. Sai cosa hai qui? Il Modello di Pi-
ckman.» «Che cosa?» Simon Waverly annuì. «Ti ricordi di Pickman, quell'eccentrico artista che dipingeva tutti quadri misteriosi che avevano come soggetto demoni che scoperchiavano le tombe nei cimiteri di Boston e saltavano fuori dalle fosse per attaccare la gente nei tunnel della metropolitana? Infine lui scomparve e il suo amico trovò una tela nella sua cantina, un immenso ritratto di una cosa molto simile a questa. Attaccato alla tela con dei chiodi c'era un quadro che raffigurava la stessa creatura. Ma non era un disegno... era una foto dal vero.» «Dove hai trovato un'idea così pazzesca?» «In Lovecraft.» «Chi?» Gli occhiali scuri di Waverly mascherarono la sua sorpresa. «Non mi dirai che tu non sai chi è H.P. Lovecraft?» «Non l'ho mai sentito nominare.» «Che io sia dannato!» Waverly tirò un lungo sospiro. «Continuo a dimenticare che tu non sei un gran lettore di fantasy. La cosa mi ha sempre sconcertato, soprattutto considerati i tuoi gusti piuttosto morbosi.» «Io sono un collezionista, non un bibliofilo.» Disse Keith. «Il che vuol dire che hai i soldi per comprare le cose che noi poveri bastardi possiamo permetterci solo di leggere nei libri.» Waverly ridacchiò. «Eppure con il tuo interesse per la magia e per il soprannaturale, dovresti davvero conoscere Howard Phillips Lovecraft. Si dà il caso che sia uno dei più grandi scrittori moderni del genere dell'orrore, e il Modello di Pickman è uno dei suoi migliori racconti. O almeno io ho sempre pensato che lo fosse.» La voce di Waverly era suadente. «Ma ora che ho visto questo, non ne sono più così sicuro.» «Sicuro di cosa?» «Che la sua storia fosse solo pura invenzione.» Waverly si mise di nuovo a fissare la tela. «Giuro su Dio che questo è esattamente il quadro che ha descritto lui. Qualcuno ha proprio lavorato per riprodurre ciò di cui Lovecraft aveva scritto... un lavoro fatto davvero con amore, anche se questo è difficilmente il mot juste, vero?» Ridacchiò ancora. «Gli artisti trovano ispirazione nei luoghi più incredibili, ma questo quadro oltrepassa ogni limite. Chi l'ha dipinto?» «Non lo so,» disse Keith. «Non c'è firma.» «Un'opera magnifica.» Waverly allargò le braccia. «Il modo in cui quei
toni della carne vengono messi in risalto...» Keith sollevò il panno di flanella e cominciò a strofinare la base della tela con un movimento circolare. «Avrà un aspetto ancora migliore quando avrò finito di rimuovere tutta questa sporcizia,» disse. «Vedi come vengono fuori le zampe? Non aveva fatto caso agli artigli prima. Ed anche il primo piano diventa più chiaro. Ora non è più tutto in ombra, si riesce a vedere...» «A vedere che cosa?» «Waverly, guarda qui! C'è una firma, qui nell'angolo a sinistra.» Waverly guardò socchiudendo gli occhi e scosse la testa. «Non riesco a decifrarla. Dannazione a questi maledetti occhiali... dopo l'operazione di cataratta non riesco a sopportare la luce forte. Che c'è scritto?» «Upton. E c'è un'iniziale. Penso che sia R.» Keith fece cenno di sì con la testa. «Sì, è proprio così. R. Upton.» Waverly emise di nuovo quel suono simile a un fischio, e Keith si girò di scatto. «Che c'è che non va?», disse. «Il Modello di Pickman,» bisbigliò Waverly. «Il nome completo dell'artista del racconto è Richard Upton Pickman.» Più tardi, parecchio più tardi, i due uomini se ne stavano seduti davanti ad una tazza di caffè nella cucina di Keith. Il forte vento di Santana faceva sbattere le imposte, ma né Keith né Waverly facevano caso al rumore. Il silenzio del pensiero può disturbare più di qualsiasi altro suono. «Non saltiamo a conclusioni affrettate,» disse Keith. «Consideriamo le varie possibilità.» «Del tipo?» «Primo, il caso. Upton non è poi un nome così raro. E non sappiamo se l'iniziale voglia dire proprio Richard: potrebbe essere Roy, Roger, Raymond, Robert, Ralph, o qualsiasi altro nome tra le dozzine e dozzine possibili. Tutto ciò che abbiamo noi è 'R. Upton' e ciò in sé e per sé non prova nulla.» «Stai dimenticando una cosa,» mormorò Waverly. «Il nome da solo può non essere una prova determinante, ma si dà il caso che sia inciso su un dipinto... proprio lo stesso dipinto sul quale ha scritto Lovecraft. E questa combinazione non può essere dovuta ad una semplice coincidenza.» «Allora è una mistificazione. Qualche pittore ha letto il racconto e ha
deciso di fare uno scherzo.» Waverly scosse la testa. «In questo caso, perché non ha seguito la storia e non si è firmato 'Richard Upton Pickman'?» Keith aggrottò le ciglia. «Sì, questo è un punto a tuo favore. E, a ben pensarci, il quadro è eseguito con troppa maestria per essere stato buttato giù d'impulso come una cosa improvvisata. Se non fosse per il soggetto, si potrebbe dire che sia il risultato di una tenera attenzione amorosa.» «Al diavolo il soggetto,» disse Waverly. «È un capolavoro.» «Allora c'è solo una risposta. L'opera è stato un omaggio dell'artista, un tributo sincero. Il dipinto è stato ispirato dal racconto di Lovecraft.» «Supponiamo che sia avvenuto esattamente il contrario.» Proferì Waverly con tono lento e suadente. «E se fosse stato il racconto di Lovecraft a trarre ispirazione dal quadro?» Keith si fece scuro in volto. «Stai lasciando correre la tua immaginazione a briglia sciolta. Non che abbia molta importanza, perché noi non sapremo mai...» «Non esserne così sicuro,» disse Waverly. Si lisciò la barba pensieroso. «Non hai accennato qualcosa sul fatto che quel mercante avesse delle altre cose in quei fondi di magazzino che aveva comprato?» «Sì, ma non c'erano altri dipinti. Solo delle casse di libri e lettere che lui non aveva ancora esaminato.» «Bene, vorrei essere io ad esaminarle.» Gli occhi di Waverly brillarono dietro le sue lenti scure. «Supponiamo che quelle cose fossero di proprietà dell'artista. Forse potremmo trovare un indizio, qualcosa che sia in grado di darci la risposta che cerchiamo. Senti, perché non chiami questo tipo e gli chiedi se possiamo dare uno sguardo al materiale?» «A quest'ora?» Keith posò la sua tazza di caffè sul tavolo. «È mezzanotte passata.» «Domani, allora.» Waverly si alzò. «Devo andare giù alla Acres of Books a Long Beach, ma sarò di ritorno prima di sera. Stabiliamo fin d'ora di cenare insieme e poi di andare da lui. Prendi un appuntamento in serata.» «Cercherò,» disse Keith. «Ma forse non vorrà rimanere aperto fino a così tardi.» «Hai pagato cinquecento dollari per un quadro, te ne ricordi?» Sotto la barba di Waverly passò l'ombra di un sorriso. «Terrà pronto il tappeto rosso per darci il benvenuto quando arriveremo.»
Il Santana era ancora forte e schiaffeggiava i parabrezza della Volvo mentre, la sera seguente, Keith guidava sull'autostrada che porta ad Alvarado, sulla rampa d'uscita. Waverly era al suo fianco e guardava fuori dal finestrino. Quando l'auto girò e si diresse verso sud, notò che il vento aveva spinto la gente della strada lontano dai suoi rifugi abituali. C'erano poche persone sui marciapiedi e sorprendentemente poco traffico per quell'ora della sera. I negozi erano chiusi, anzi sbarrati, e così la South Alvarado era buia e deserta. E quando l'auto di Keith si fermò accanto al marciapiede che si trovava davanti al negozietto di Santiago, si accorsero che anche lì era tutto spento. Keith si voltò a guardare il suo compagno con fare accigliato. «Non vedo nessun tappeto rosso,» mormorò. Waverly si strinse nelle spalle. «Quando ha telefonato, lui ha detto che sarebbe stato qui alle nove. Probabilmente vuole solo risparmiare elettricità.» Ma quando i due uomini scesero dall'auto e si avvicinarono alla porta, la trovarono serrata con un lucchetto. All'interno della vetrina principale c'era un grosso cartello che pendeva contro il vetro e sul quale, a grosse lettere, c'era scritto: Chiuso — Chiamate di nuovo. L'aspetto corrucciato di Keith era segno della sua irritazione, ma Waverly scosse la testa. «Così è solo un po' in ritardo. Diamogli ancora qualche minuto.» Le cartacce turbinavano nella strada, danzando al ritmo del vento. «Questo non mi piace,» disse Keith. «Sono tre giorni ormai che tira questo ventaccio.» «È normale in questa stagione.» La morbida voce di Waverly era del tutto inespressiva, come la sua faccia. «Rilassati.» «Mi dà sui nervi.» Keith passeggiava avanti e indietro sul marciapiede di fronte all'entrata del negozio. «L'altra sera mi ha tenuto sveglio per quasi tutta la notte. Vivere lassù sulle colline rende irascibili. Ogni volta che sbatte un'imposta, io faccio un balzo. E non riesco a far uscire quel quadro dalla mia mente... il modo in cui la creatura ti fissa e se ne sta lì accucciata, proprio come fosse lì lì per saltare fuori dalla tela e afferrarti alla gola.» «Non è quello il motivo per cui l'hai comprato? Pensavo che ti piacesse questo genere di cose.» «Così pensavo anch'io. Ma questo è differente. C'è qualcosa in quel quadro che lo fa sembrare... reale.» «Ma, mio Dio, Eliot, era una fotografia dal vero.» «Che cosa?»
Waverly fece una risatina soffocata. «Stavo solo citando l'ultimo rigo del Modello di Pickman. Dovresti leggere anche tu il racconto. In verità faresti bene a leggere tutto ciò che Lovecraft ha scritto; e anche ciò che è stato scritto su di lui. Ricordami di portarti alcuni dei suoi libri.» «Non sono sicuro di volere che tu lo faccia.» «Su, ragazzo... dov'è finita la tua curiosità intellettuale? È proprio il genere di libro che va a fagiolo per te.» «Non credo proprio,» disse Keith. Non con un vento di Santana che soffia così forte e un mostro che mi aspetta non lontano da qui.» Sorrise imbarazzato. «Non farci caso, sono solo i nervi.» Keith si interruppe e diede un'occhiata all'orologio. «Dove si sarà mai cacciato Santiago? Sono quasi le nove e mezza.» Mentre Keith si girava a scrutare la strada deserta, Waverly si spostò di nuovo verso la porta d'ingresso del negozio. «Aspetta un momento,» disse. Keith alzò lo sguardo. «Forse è già qui.» Waverly guardava attentamente attraverso i vetri. «Quella porta alla fine del corridoio... deve portare a qualche stanza sul retro. Vedi la luce che si intravede sotto?» «Hai ragione. Potrebbe essere entrato da qualche porta sul retro.» Waverly cominciò a sbattere l'anello della porta, poi picchiò con le nocche sul vetro, ma non ci fu nessuna risposta. «Non ci sente,» disse. «Facciamo il giro e andiamo sul retro.» Keith gli lanciò un'occhiataccia. «Ti ho appena detto che non ho voglia di andare in giro con questo vento.» Mentre sollevava la mano per bussare di nuovo, Waverly si fermò all'improvviso con il pugno ancora aperto, proprio un attimo prima di afferrare l'anello della porta. «È aperto.» Mentre lui pronunciava quelle parole, la porta si spalancò da sola. Keith si diresse verso l'entrata. «Signor Santiago?» Si sporse in avanti per dare un'occhiata dove c'era la luce, poi si girò verso Waverly con aria accigliata. «Guarda!» La stanza sul retro del negozio era vuota. Ma sotto la luce abbagliante di
una lampadina senza paralume, che si trovava proprio sulle loro teste, agli occhi dei due uomini si prospettò la scena di una recente perquisizione. La poltrona era capovolta; i cassetti della scrivania rovesciati alla rinfusa sul pavimento e tutto ciò che vi era dentro veniva giù a cascata in bianche onde di carta spiegazzata; gli schedari dell'armadietto, letteralmente messi a soqquadro, pendevano contro le pareti; un guazzabuglio di scatole vuote e di scatoloni di cartone stavano ammassati in un angolo: erano tutti segni silenziosi ma inconfutabili di una perquisizione e di un furto. «È stato derubato,» mormorò Waverly. «Ma dov'è Santiago?» Mentre parlava, Keith cominciò ad attraversare la stanza in direzione della porta chiusa che portava verso la parte anteriore del negozio. Proprio appena prima di raggiungerla, si imbatté in un'altra porta, più piccola, sulla sua destra. Era leggermente socchiusa, e Keith si arrestò con la mano sul pomello. «Aspetta.» Waverly era ora al suo fianco, indicandogli a gesti di fare attenzione. Keith notò che aveva sollevato da tutta quella roba sparsa sul pavimento un vecchio tagliacarte di metallo e l'aveva impugnato come un'arma. «Fai andare prima me,» disse Waverly. Spinse la porta e si avviò verso l'interno. Poi rimase a bocca aperta per lo stupore. Arrestandosi alle sue spalle Keith lanciò un'occhiata alla piccola stanza da bagno che si trovava al di là. Non c'era luce, ma la finestra che si trovava esattamente all'altra estremità della stanza era aperta. E sporgendosi silenziosamente oltre la soglia riconobbe la silhouette di Santiago. Mettendo bruscamente da parte Waverly, attraversò la stanza e diede un colpetto sulla spalla di Santiago. La figura china si girò, scivolando di lato sul pavimento mentre Keith lanciava un urlo. Sì, perché Felipe Santiago era morto. E, su ciò che rimaneva della sua testa rosicchiata e morsicata, non c'era più traccia di un volto. «The Lurking Fear», bisbigliò Waverly. «The Lurking Fear.» «Che stai dicendo?» Keith batté le palpebre alla luce dell'alba mentre andava nervosamente avanti e indietro per lo studio di Waverly. «Una storia di Lovecraft. Un uomo e il suo amico giornalista fanno delle indagini in un villaggio i cui abitanti sono stati uccisi da qualcosa che ave-
va tutta l'aria di venir fuori dalle tane che si trovavano sotto le colline. Nell'oscurità il giornalista si sporge dalla finestra per guardare la tempesta che infuria nella notte. Alla fine il suo compagno si accorge che è fermo nella stessa posizione ormai da molto tempo. Lo tocca sulla spalla e...» Waverly si interruppe e rabbrividì. «Sai già il resto.» «Io non so proprio un bel niente,» disse Keith. «Sono sempre del parere che avremmo fatto meglio a chiamare la Polizia, invece di fuggire via.» Waverly sospirò. «Per favore non ripetiamo di nuovo sempre la stessa cosa! Se l'avessimo fatto, adesso io e te non saremmo qui. Ci troveremmo giù in città, in prigione, sospettati di omicidio e in attesa di essere interrogati dallo staff del Giudice Distrettuale. E a quelle domande né io né te avremmo saputo e potuto dare risposte.» «Ma certamente la Polizia si sarebbe resa conto che non abbiamo nulla a che fare con la morte di Santiago!» «La Polizia ha la tendenza ad essere molto miope in situazioni di questo genere. E anche nel caso in cui non avessero trovato delle prove a nostro carico, saremmo stati costretti a comparire in giudizio in quanto testimoni oculari. Prima mi hai detto che non ti piacciono i viali ventosi. Bene, io sono allergico alle celle delle prigioni.» Waverly scosse la testa. «Quando troveranno il corpo di Santiago, si scatenerà un vero e proprio inferno. Questo è il tipo di notizia che fa molto scalpore, e nessuno di noi due ha bisogno di questo tipo di pubblicità. È meglio che noi ne restiamo fuori.» Keith distolse lo sguardo e si mise ad osservare le numerose mensole di libri allineate alle pareti dello studio. «Ma noi siamo già coinvolti,» disse stancamente. «Il problema è che non so in cosa siamo coinvolti. Tu dici che questo tipo, Lovecraft, ha scritto una storia in cui qualcuno si sporgeva da una finestra e aveva il volto devastato da morsi. E ora questo accade nella vita vera...» Waverly lo interruppe con un gesto d'impazienza. «Non siamo tenuti a supporre una cosa di questo genere. La mia ipotesi è che il Coroner, nel suo rapporto, dimostrerà che Santiago è stato ripetutamente colpito alla testa con qualche strumento acuminato che ha devastato i suoi lineamenti.» «Ma perché? A giudicare dalle circostanze, il movente è stato quello del furto. Chiunque sia stato a perpetrare il crimine, non aveva bisogno di ucciderlo. E anche se è rimasto ucciso accidentalmente, non c'era motivo di infierire così sul suo volto... o di farlo sporgere dal davanzale della finestra
proprio come nella storia.» Waverly si lisciò la barba. «La natura copia l'arte,» disse. «O è l'arte che copia la natura? Ora noi abbiamo davanti a noi due esempi: la morte di Santiago e il tuo dipinto. Entrambi strettamente collegati con l'opera di H.P. Lovecraft.» «Ma Lovecraft non è collegato in alcun modo con Santiago.» «Io penso che lo sia.» Wavcrly raggiunse la tasca della sua giacca e ne tirò fuori un pezzetto di carta ingiallito, sgualcito e spiegazzato. Dopo averne appiattite le piegature, lo sistemò sul tavolo davanti a lui. «E questo che cos'è?», disse Keith. L'ho trovato sul pavimento della stanza sul retro del negozio quando ho raccolto il tagliacarte,» gli disse Waverly. «Non ho avuto occasione di dargli nemmeno uno sguardo finché non ci siamo messi sulla strada per venire qui. Tu eri troppo occupato a guidare e troppo sconvolto per farci caso... e quando ho visto di che si trattava, ho deciso di non dire niente. Ma ora credo che sia arrivato il momento che tu stesso ci dia un'occhiata.» Spinse il foglio in avanti. Keith chinò lo sguardo sulla parte superiore di quel pezzetto di carta raggrinzito, coperto da una scrittura fitta e minuta. Era difficile leggere ciò che c'era scritto: Keith sollevò il foglio verso la luce e si mise lentamente a decifrare il messaggio. 10 Barnes Street Providence, R.I., 13 Ottobre 1926 Mio caro Upton: Scrivo con una certa preoccupazione. Considerato ciò che mi hai rivelato a Boston — verbalmente, e soprattutto a gesti — sento che è assolutamente necessario che noi ci incontriamo di nuovo il più presto possibile. Devo anche vedere quell'altro lavoro di cui mi hai accennato. Mai nelle mie più selvagge fantasie ho mai immaginato l'esistenza di tale... La calligrafia si interrompeva bruscamente sul margine lacerato del frammento strappato, e Keith guardò in alto per incontrare lo sguardo imperturbabile di Waverly. «Mio caro Upton», disse Waverly lentamente. «Ora sei convinto?» Lui annuì.
«C'era un'artista con questo nome, e Lovecraft lo conosceva.» «Ma non c'è nessuna firma. Come fai a sapere che è stato Lovecraft a scrivere questa lettera?» «C'è sopra il suo indirizzo. E chiunque abbia visto una volta qualcosa scritta da lui, riconosce immediatamente la sua scrittura.» Waverly si alzò e si diresse verso uno scaffale dietro la sua sedia dove prese un piccolo volume con una copertina gialla. Keith diede un'occhiata, lesse il titolo del libro — Marginalia — e notò l'illustrazione della copertina: una vecchia casa messa in evidenza da una cornice; ai lati era tutta soffocata dalle erbacce e sotto c'era una creatura con la barba, accucciata e che guardava con apprensione verso la casa incorniciata. Waverly aprì il volume ad una pagina dove c'era una riproduzione fotostatica di un foglio di una lettera con delle annotazioni scritte a mano. «Guarda qui,» disse. «Un piano di lavoro di Lovecraft, datato 2 maggio 1924, di sua propria mano.» Waverly girò le pagine fino alle altre riproduzioni: uno schizzo di una casa eseguito a penna, con una scritta sotto; una cartolina; una carta geografica disegnata a mano; una pagina campione della revisione di un racconto. Keith guardò il suo compagno con scetticismo. «Ammetto che la scrittura sembra simile, ma tu non puoi eliminare la possibilità di una contraffazione.» «Guarda questo foglio.» Waverly mantenne sotto la luce il pezzo di carta stropicciato. «Giallo e spiegazzato. Vedi come si è sbiadito l'inchiostro? Questa lettera è stata scritta più di cinquanta anni fa, quando Lovecraft era un vero e proprio sconosciuto. Perché quindi qualcuno avrebbe dovuto contraffare la sua scrittura?» «Forse è stato fatto di recente,» disse Keith. «Qualcuno è venuto in possesso di un vecchio foglio di carta ingiallita... un giocherellone...» «Ma qui non si tratta di uno scherzetto. Non c'è niente di divertente in un omicidio così feroce e perverso.» Non appena Waverly distolse lo sguardo da quella luce violenta, i suoi occhi sensibili cominciarono a sbattere dietro gli occhiali scuri. «Il killer — o i killer — avevano uno scopo ben preciso.» «Rubare nel magazzino?» Waverly scosse la testa. «Loro non si interessavano di antiquariato... volevano quelle scatole che Santiago aveva comprato in quel vecchio negozio di Boston. E volevano
sbarazzarsi di lui prima che potesse rivelare ciò che aveva o da dove quel materiale provenisse. Ti ricordi come erano stati messi a soqquadro i suoi schedari e la sua scrivania? Penso che cercassero degli scontrini di vendita, il libretto d'assegni, le polizze di carico: qualsiasi cosa che indicasse dove era stato fatto l'acquisto. E quei cartoni vuoti che abbiamo, dovevano contenere il materiale che stavano cercando.» «Che tipo di materiale?» «Penso che si trattasse degli effetti personali di R. Upton, che erano stati conservati e non reclamati da nessuno: i suoi libri ed una raccolta di lettere che gli erano state indirizzate. Lettere come questa, da parte di H.P. Lovecraft.» Waverly sollevò di nuovo il pezzetto di carta. «Devono aver strappato e lasciato cadere parte di una pagina, fatto di cui non si sono accorti, perché il tagliacarte è caduto e l'ha coperto.» La fronte di Keith si aggrottò. «No, quest'ipotesi non mi convince. A che scopo rubare qualche vecchio libro e la corrispondenza appartenuta ad un artista di cui nessuno ha mai sentito parlare?» «Forse per evitare che se ne parlasse,» disse Keith. «Troveremo la risposta...» Keith si alzò di scatto e si passò velocemente la mano sul volto stanco. «Ho bisogno di riposare un po'.» «Vuoi rimanere qui? Posso prepararti il letto nella stanza degli ospiti se ti va.» «No, me ne vado a casa.» «Sei sicuro che te la senti di guidare?» Keith guardò fuori dalla finestra. «È ancora troppo presto per il traffico mattutino. Farò in fretta.» Waverly lo accompagnò per il corridoio fino alla porta principale. «Chiamami stasera. Poi decideremo la nostra prossima mossa.» Keith scosse la testa. «Io non ho nessuna intenzione di fare altre mosse,» disse. «Non possiamo fermarci ora!» «Oh, sì che possiamo.» La voce di Keith era molto decisa. «A questo punto io la faccio finita. Non voglio più sentire parlare di questa storia, non ne voglio sapere più niente.» Aprì la porta e oltrepassò la soglia uscendo fuori nelle prime luci del mattino. «La sola cosa che voglio è dimenticare tutta questa folle faccenda. E questo è proprio quello che farò.» Mentre Waverly lo seguiva con lo sguardo, Keith si incamminò a passi
veloci verso la sua auto. C'era una notevole risolutezza nei suoi movimenti mentre metteva in moto; una decisa determinazione che gli faceva superare la stanchezza mentre correva lungo le strade vuote della città e percorreva il tragitto lungo le strade ventose che conducevano in cima alla collina, alla sua casa al di sopra del canyon. Solo dopo aver parcheggiato la sua Volvo nel garage ed aver aperto la porta, permise a se stesso il lusso di rilassarsi. Era piacevole essere di nuovo in quella casa silenziosa. Mentre Keith oltrepassava l'ingresso e si dirigeva verso la stanza da letto, gli eventi delle ultime dodici ore gli sembrarono solo un brutto sogno, un incubo da cui alla fine si era risvegliato, sano e salvo. Poi, quando passò davanti al vano della porta, Keith guardò nel suo studio, e la sua sicurezza e il suo senso di tranquillità furono duramente scossi. Lo studio era buio. Niente era stato toccato e la stanza era immobile, ma il tavolo sul quale la diabolica tela era stata appoggiata era incredibilmente vuoto. Il quadro era scomparso. Il crepuscolo ricopriva le cime delle colline alle loro spalle mentre Keith indicava la finestra dello studio. «Sono entrati da lì,» disse. «Vedi questi segni sul lucchetto dove hanno forzato la finestra?» Waverly annuì: dietro gli occhiali scuri i suoi occhi avevano un'espressione molto seria. «Sei sicuro che non è stato preso niente altro?» «Assolutamente sicuro.» Keith indicò con un gesto del braccio le figurine di giada e di avorio nel mobiletto cinese. «Quella è roba di valore, vale una piccola fortuna, ma non ne manca neanche un pezzo. Sono venuti esclusivamente per il quadro.» Scosse la testa. «Ma chi sono, e come facevano a sapere che il quadro era qui?» Waverly si allontanò dalla finestra. «La risposta è ovvia. Sono le stesse persone che sono andate da Santiago e hanno trovato le registrazioni dei suoi conti. Deve aver annotato le sue vendite giorno per giorno, incluso il quadro. Poi hanno trovato il tuo assegno con sopra il tuo indirizzo.» Keith storse la bocca. «Non hanno davvero perso tempo, non ti pare?» «È stato un bene che tu fossi ancora a casa mia quando sono venuti qui,»
gli disse Waverly. «Dopo aver visto ciò che è accaduto a Santiago...» Si interruppe. «Hai visto i giornali?» «No, ho sentito le notizie del mattino alla televisione. La Polizia ha trovato il corpo stamattina, dopo che un uomo addetto alla consegna di non so che cosa ha bussato alla porta di servizio del negozio ed è entrato. Il servizio non diceva niente di più di ciò che già sappiamo, solo che sono in corso le indagini.» Keith aggrottò le ciglia. «Suppongo che controlleranno le impronte digitali.» «Tu non sei mai stato coinvolto in niente che abbia a che fare con l'FBI, non è vero?» «Certo che no.» «Neanche io. Così le nostre impronte non sono registrate. Siamo liberi e insospettabili.» «Liberi?» Keith fissò il tavolo dove era stata poggiata la tela. «Non credo che mi sentirò mai più libero.» «Lo farai, quando avrai scoperto ciò che c'è dietro a questa storia.» Keith scosse la testa. «Ti avevo già detto che me ne sarei tirato fuori. Lascia che sia la Polizia ad occuparsene. E sono ancora del parere che dovremmo dire ciò che sappiamo.» «Dire che cosa? Che ieri sera hai scoperto un omicidio e hai dimenticato di riferirlo... ma che ora qualcuno ha rubato un ritratto di un demone che divora cadaveri e tu lo rivuoi indietro?» «Allora lasciamo perdere questa storia, proprio come ho suggerito io.» «È tardi ora. Chiunque sia stato sa chi sei.» Waverly tirò un lungo sospiro. «Non vorrei sembrarti allarmista, ma se fossi in te me ne andrei da qui per alcuni giorni. Prenditi una stanza in un albergo e cerca di non dare nell'occhio. Non penso che torneranno, ora che hanno il quadro, ma non si può mai sapere.» «È proprio questo il problema. Noi non sappiamo niente di questa gente... o di questa persona, se ce ne è una sola coinvolta. E non abbiamo neanche un indizio.» «Io penso che potremmo trovarne uno». Waverly si mosse verso una sedia e sollevò un pacco che stava poggiato sul cuscino. Mentre lo portava verso il tavolo tolse la carta che lo avvolgeva e tirò fuori una mezza dozzina di libri. «Ho portato questi con me,» disse. «Puoi leggerli nell'albergo. Ma per favore stai attento: niente macchie di caffè. Alcuni di questi sono dei veri e propri pezzi d'antiquariato ed hanno un grande valore.»
Keith si avvicinò al tavolo e passò in rassegna i volumi, leggendo i titoli tra sé e sé. «The Outsider and Others, Beyond the Wall of Sleep...» «Le opere complete di Lovecraft,» gli disse Waverly. «Marginalia, quello con la copertina gialla che hai visto ieri sera. Gli altri sono biografie e memorie: Lovecraft di de Camp, Il sognatore della Notte, di Long e L'ultimo Lovecraft di Conover. Ti suggerirei di leggere prima i libri di Lovecraft e poi quelli su di lui.» «Ma a che servirà?» «Quelli che sono alla continua ricerca dell'orrido, frequentano posti molto, molto strani,» disse Waverly. «Questo è ciò che Lovecraft ha scritto in una delle sue storie, e credo che tu scoprirai che ha ragione. Da qualche parte nelle opere di Lovecraft o proprio nella sua vita, possiamo trovare la risposta che cerchiamo.» «Non sono sicuro di voler trovare quella risposta.» «Non si tratta più di una scelta.» Il volto di Waverly aveva un'espressione severa. «La nostra stessa sopravvivenza potrebbe dipendere dal fatto di essere capaci di scoprire cosa c'è dietro tutto ciò. Leggi questi libri, amico mio. Leggili come se la tua vita dipendesse da loro. Perché in effetti è proprio così.» L'albergo era esattamente il prototipo di tutto ciò che Keith più disprezzava; un simulacro sterile e funzionale fatto di comfort di plastica e modernità impersonale. Ma, durante i tre giorni che seguirono, notò a stento ciò che lo circondava, perché con l'aiuto dei libri che Waverly gli aveva dato, stava esplorando un altro mondo. Era il mondo del New England negli anni '90 del Diciannovesimo Secolo in cui Howard Phillips Lovecraft era nato, unico figlio di genitori agiati le cui fortune declinarono. Suo padre morì quando Lovecraft aveva otto anni, e lui passò gli anni della sua formazione culturale in compagnia di una madre le cui eccentricità degenerarono col tempo in una vera e propria malattia mentale. Una salute piuttosto debole lo spinse a rifugiarsi nella lettura, così che divenne sostanzialmente un autodidatta. Da ragazzo si sentiva alienato dalla società contemporanea e, identificandosi con il passato, assunse l'aspetto e gli atteggiamenti di un uomo del Diciottesimo Secolo. Al suo tempo fu un outsider, dal momento che si interessò con molto fervore alla scienza moderna; pubblicò una rivista di astronomia e fu un attivo sostenitore di Case Editrici amatoriali. Ben presto cominciò ad intrattenere fitte corrispondenze con altri scrittori. E quando lo stesso Lovecraft intraprese la sua carriera letteraria, scelse il
campo della fantasy. La sua prima produzione poetica ricalcava i modelli classici, i suoi primi lavori in prosa contenevano degli elementi che possono essere paragonati all'opera di Dunsany. Ma negli anni '20, in seguito alla morte della madre, Lovecraft andò a vivere con due vecchie zie, e l'assottigliarsi del vitalizio che ricavava dalla somma ereditata da sua madre, lo costrinsero ad entrare a far parte di un mondo molto diverso. Divenne uno scrittore fantasma dal momento che revisionava i lavori di altri, poi cominciò a pubblicare professionalmente dei lavori originali scritti interamente da lui. Gradualmente le sue condizioni economiche cominciarono a migliorare. Il solitario vagabondo notturno delle strade di Providence, viaggiava ora lungo la costa dell'Atlantico alla ricerca dei segni del passato, e si stabilì a vivere a New York. Ma dopo alcuni anni, durante i quali si sposò e si separò da una brillante donna d'affari, si ritirò di nuovo a Providence dove continuò il suo lavoro di revisione, la sua corrispondenza, e a scrivere finché la morte, dovuta ad un cancro, stroncò la sua carriera nel 1937. Mentre Lovecraft era ancora in vita, i suoi racconti erano poco conosciuti, dal momento che erano apparsi esclusivamente su delle riviste popolari. Nessuno degli editori più importanti si era arrischiato a pubblicare un romanzo o una raccolta delle sue opere, mentre era ancora in vita o anche dopo la sua morte. Due giovani scrittori, August Derleth e Donald Wandrei, misero sù alla fine una Casa Editrice di loro proprietà per pubblicare The Outsider and Others e Beyond the Wall of Sleep in piccole edizioni vendute su ordinazione per posta. Ma la fortuna continuava a non sorridere a Lovecraft, anche dopo la sua morte; le vendite procedevano con lentezza e le recensioni erano scarse. Ma col tempo i suoi racconti vennero ripubblicati in antologie. Derleth continuò da solo l'avventura editoriale e fece uscire anche dei volumi di altri scrittori che erano stati membri del cosiddetto «Circolo di Lovecraft», cioè di artisti che erano stati in corrispondenza con lui, e alla fine il tardivo riconoscimento arrivò. L'opera dell'uomo che i suoi amici chiamavano «HPL» crebbe sempre più d'importanza fino a diventare una sorta di classico dell'underground. Le vecchie riviste e i primi libri che contenevano dei suoi racconti, arrivarono ad essere pagati prezzi favolosi, e diventarono dei veri e propri pezzi per collezionisti. Infine, negli anni '60, Lovecraft acquistò una notevole importanza, e negli anni '70 divenne il centro di una diffusa attenzione critica in patria e all'estero. Tutto ciò Keith lo apprese dalle biografie che, nonostante il consiglio di
Waverly, lesse prima di passare alle opere di Lovecraft. E, una volta che fu entrato nel mondo privato e personale di Lovecraft, scoprì effettivamente molti elementi con i quali lui stesso sentiva di potersi identificare. Anche Keith era stato un bambino molto solo che praticamente non aveva conosciuto il padre, anche se la causa di quella circostanza era stata il divorzio e non la morte. Anche lui era quindi diventato una persona introversa, ed aveva fatto l'esperienza di un breve matrimonio seguito da un'amichevole separazione. Fortunamente la sua salute era buona, e la somma di denaro che aveva ereditato gli permetteva di vivere come gli piaceva, di viaggiare molto e di soddisfare la sua passione di collezionare quegli oggetti bizzarri e grotteschi che stuzzicavano la sua fantasia. A quelle stesse condizioni, forse, la vita di Lovecraft poteva essere paragonata alla sua. Con il proseguire della lettura, Keith cominciò a provare un forte senso di immedesimazione con HPL. Ma c'erano altri aspetti della sua natura che non riusciva a comprendere. Le tre biografie differivano notevolmente l'una dall'altra. William Conover aveva scritto quello che ricordava di un uomo con cui era stato in corrispondenza, con lo spirito di un giovane ammiratore: la figura di Lovecraft era quella di un nonno gentile ed erudito. L'ultimo Lovecraft era il Lovecraft degli anni '30. Il Dreamer on the Night-Side di Long, si concentrava su gli anni '20 e su gli anni in cui era vissuto a New York e nei quali i due uomini avevano passato molto tempo insieme. Il suo HPL, magro, alto, quasi macilento, era una figura paterna disegnata con i caldi ed affettuosi colori del ricordo. Il lungo libro di de Camp trattava HPL ancora da un altro punto di vista. I due uomini non si erano mai conosciuti, ma Lovecraft: A Biography era un intenso studio su tutta una vita e uno stile di vita. Il ritratto di Lovecraft che aveva tracciato ne includeva anche i lati negativi, senza tralasciare nulla; venivano analizzate tutte le sue eccentricità e affettazioni che si rivelavano come responsabili delle sue fantasticherie. Presi insieme, i tre libri rappresentavano un paradosso e una contraddizione. E tutti e tre scomparivano davanti al tenebroso splendore delle opere di Lovecraft. Keith lesse i primi tentativi poetici, ma ben presto si trovò irretito in temi più tetri: gli orrori della decadenza nelle cittadine del New England e l'ancora più spaventosa decadenza dei suoi abitanti. Lovecraft aveva inventato per le sue storie delle ambientazioni. Particolarmente inquietante era la città di Arkham infestata dalle streghe, sede
della Miskatonic University. Nella sua biblioteca era conservata una rara copia del Necronomicon, un libro blasfemo di Magia Nera che conteneva delle rivelazioni su poteri diabolici che si moltiplicavano e che segretamente ancora controllavano il nostro universo. Nel fitto dei boschi alle spalle della città, un bizzarro eremita nato nel Diciottesimo Secolo prolungava la sua vita innaturale praticando il cannibalismo. Sulle solitarie colline vicino al villaggio di Dunwich, un eccentrico agricoltore che si occupava di pratiche di stregoneria, offriva una fanciulla debole di mente ad un'entità aliena che si perpetuava in una prole orrenda, nella quale l'umano si fondeva al mostruoso. Altri ibridi stavano in agguato nel porto abbandonato di Innsmouth, i cui abitanti, esperti navigatori, si erano incontrati ed accoppiati con delle creature che abitavano nelle profondità dell'oceano in Polinesia, dove venivano adorate dagli abitanti del luogo. L'orrenda progenie nata da queste unioni contro natura, perse a poco a poco le sue caratteristiche umane e divenne ictoide o batracica; alla fine svilupparono delle branchie e cominciarono a vivere nelle profondità marine. Ma nel frattempo si erano celate nelle case in rovina della città abbandonata, servendo le bizzarre divinità che avevano trovato nei mari del sud e sbarazzandosi degli intrusi che capitavano da quelle parti. Nel mondo di Lovecraft visitatori alati che provenivano da altri pianeti frequentavano le deserte colline del Vermont e i picchi delle montagne. Aiutati da alleati umani, complottavano contro il genere umano. Altri umani formarono un culto universale per servire Cthulhu, uno dei Grandi Vecchi che nell'antichità governavano la Terra, e che ora dormiva sotto il mare nella città sepolta di R'lyeh. Quando l'attività vulcanica fece sorgere Cthulhu dalle profondità marine, questi scivolò fuori dalla sua tomba di pietra pronto a regnare e a predare. Quasi per caso venne apparentemente distrutto, e di nuovo sprofondò nella città di pietra sotto il mare, ma è ancora in vita e aspetta il giorno in cui i suoi seguaci riusciranno a trovare la formula magica per richiamarlo dalle profondità. Tutte le opere di Lovecraft che seguirono, ebbero come soggetto questa leggenda; una razza di mostri che un tempo aveva governato la Terra e che poi era stata scacciata, viveva ancora fuori o sotto la superficie terrestre e sarebbe ritornata con l'aiuto di alleati umani che adoravano questi mostri con riti di magia segreta. Il Mito di Cthulhu mette a nudo un mondo in cui la sua civiltà e tecnologia sono effimere e senza senso. L'uomo moderno, completamente assorbito dall'inutile progresso, non può sfuggire al potere
dei Grandi Vecchi che un tempo dominavano la Terra e presto avrebbero ripreso a farlo. Per tre giorni Keith visse in questo mondo: il mondo confuso e sognante della vita di Lovecraft e il mondo da incubo delle sue storie. Poi la telefonata di Waverly lo riportò di nuovo a casa sua, nel mondo della realtà. «Bene, che ne pensi di Lovecraft, ora?» Waverly si accomodò meglio nella sedia con un bicchierino di cognac tra le mani. I due uomini guardavano il tramonto dalla finestra dello studio di Keith. Keith scrollò le spalle. «Aveva una straordinaria immaginazione, su questo non c'è alcun dubbio.» «Nessuno?» «E con questo che cosa vorresti dire?» «Supponiamo che non stesse solo scrivendo delle storie di fantasia.» Waverly si chinò in avanti. «Supponiamo che stesse tentando di metterci in guardia.» «E su che cosa? Non mi dirai che tu credi in demoni che divorano cadaveri?» «Qualcuno ci crede.» Gli occhi di Waverly si socchiusero dietro le lenti scure e fece un gesto con il quale indicò il tavolo vuoto. «Qualcuno ha rubato il tuo dipinto. Qualcuno ha ucciso il mercante che te lo aveva venduto.» «È questo ciò che dice la Polizia?» «La Polizia non dice niente.» Waverly si lisciò la barba. «Non c'è stato alcun seguito a questa storia dell'omicidio — neanche un rigo in tre giorni — e non credo che ci sarà. L'assassino non ha lasciato tracce. Se non avessimo trovato quel pezzetto di carta...» «Ma non prova niente. E neanche il quadro.» Keith bevve un sorso di cognac. «Molti artisti dipingono dei mostri, ma questo non vuol dire che essi esistano davvero. A molti piacciono delle forme misteriose di adorazione; e potrebbero persino esserci alcuni misteriosi culti sotterranei, simili a quelli descritti nelle storie di Lovecraft. Ma ciò che essi adorano è una superstizione, pura e semplice.» «Non penso che sia pura, e nemmeno semplice.» Waverly raggiunse la bottiglia del cognac e si riempì il bicchiere. «Neanche Lovecraft lo pensa-
va... e tutti i suoi biografi sono d'accordo sul fatto che egli era un materialista nel senso più stretto della parola. Sono convinto che scrivesse lavori di fantasy solo per mascherare i fatti.» «Che genere di fatti?» «L'incrocio delle razze.» Waverly annuì. «Lovecraft ha un atteggiamento puritano nei confronti del sesso, e questo tema si intreccia in tutte le sue storie. Anche nei suoi primi racconti, il suo morboso disprezzo per gli stranieri allude a qualcosa di diabolico nei miscugli di sangue, qualcosa che avrebbe degradato le abitudini civili e avrebbe declassato il genere umano a livelli primordiali. «Ti ricordi di quella razza degenerata che viveva nei sotterranei che lui ha descritto in The Lurking Fear e in The Rats in the Walls? In Arthur Jermyn ha parlato della progenie delle scimmie e degli umani, ma penso che in realtà alludesse a qualcosa di peggio. Poi, in Pickman's Model, ha parlato chiaramente di demoni che mangiano cadaveri, creature che banchettano con i morti e che erano presumibilmente nate da un'unione necrofila. «Ma tutto ciò non è stato che un preludio all'orrore vero e proprio, e cioè non l'accoppiamento del superiore con l'inferiore, dell'uomo con gli animali, dei vivi con i morti, ma qualcosa di ancora più orripilante: l'accoppiamento dell'uomo con i mostri. «Considera Wilbur Whateley e il suo fratello gemello in The Dunwich Horror, figli di Yog-Sothoth e di madre umana. Pensa agli abitanti del villaggio in The Shadow over Innsmouth, che adoravano le divinità Kanaka della Polinesia con riti sessuali che diedero vita ad una razza di esseri che abitarono sulla Terra finché non svilupparono l''aspetto di Innsmouth': occhi di pesce, mutazioni che avvicinarono le loro sembianze a quelle delle rane e che alla fine li fecero strisciare in mare dove, nelle profondità, si unirono al Grande Cthulhu.» Waverly trangugiò un sorso del suo cognac. «È questo ciò che Lovecraft stava tentando di dirci con le sue storie: ci sono dei mostri tra di noi.» Keith posò i suoi occhiali sul tavolo. «Se davvero Lovecraft credeva in tali superstizioni, allora perché ha scritto dei libri di fantascienza?» Waverly contrasse le labbra sotto la barba. «Nelle parole che hai usato c'è già la risposta. Fin dall'inizio dei secoli ci sono testimonianze dell'esistenza di questi esseri. La mitologia greca e babilonese ci hanno tramandato l'idra, la medusa e il minotauro, e uomini-
drago alati. Nelle credenze africane troviamo gli uomini-leopardo e gli uomini-leone; gli Eschimesi parlano di creature mezzo uomo e mezzo orso; i Giapponesi hanno le loro donne-volpe; i Tibetani parlano dello Yeti, il cosiddetto Abominevole Uomo delle Nevi. In Europa c'è sempre stata la credenza del lupo mannaro, il licantropo; i nostri stessi Indiani temono Grande Piede e le creature-serpente che bisbigliano nelle foreste. Da sempre solo pochi hanno cercato di mettere in guardia contro il pericolo e alcuni ci hanno creduto, ma la maggior parte ha continuato a parlare come fai tu. Cioè con la voce della ragione, che bolla tutto ciò come superstizione, e considera quelli che ci credono pazzi ed ignoranti. Lovecraft conosceva il loro destino e non considerava condividerlo. Ma non poteva mantenere un silenzio totale; di conseguenza decise di celarsi dietro la maschera della fantasy.» Le mani di Keith formarono la guglia di un tempio della miscredenza. «Continui a sostenere che Lovecraft sapeva,» mormorò. «Nelle tue parole è sottinteso che fosse a conoscenza di qualche credenza proibita, e che abbia trascorso anni e anni ad indagare sull'argomento.» «Giusto,» disse Waverly. «Ma è assurdo! I fatti accaduti nella vita di Lovecraft sono ampiamente documentati.» «Non tutti.» «Che mi dici allora delle biografie che ho letto, e delle memorie di Derleth e degli altri?» «De Camp non aveva conosciuto Lovecraft di persona. Long lo conobbe a New York e poi lo incontrò in altre occasioni: ma vide solo ciò che Lovecraft aveva deciso di rivelare di se stesso. Conover lo vide solo due volte, e Derleth non ha posato gli occhi su di lui neanche una volta. Né lo hanno conosciuto la maggior parte dei suoi corrispondenti o dei suoi studiosi attuali. Tutti si basano su delle dicerie e sulle lettere che ha scritto. Bene, le dicerie sono del tutto inattendibili. Per quanto riguarda le lettere, qual è il modo migliore a disposizione di un uomo che vuole nascondere la sua vera persona, se non quello di una marea di lettere?» Waverly parlava con molta calma. «Ti dico che quell'uomo era coinvolto in qualcosa, mirava a qualcosa.» Keith si accigliò. «Ma come è cominciato tutto ciò?» «Sappiamo che HPL era affascinato dal vecchio New England e dalle sue memorie storiche. Trascorse molto tempo in compagnia di antiquari e
storici locali nelle varie città del paese. Probabilmente questi gli rivelarono delle cose. Lui cominciò a frequentare le zone boscose e selvagge, piccoli villaggi ormai quasi del tutto dimenticati, con le loro case deserte e sprangate di cui ha scritto così frequentemente nelle sue storie. Ma supponiamo che non stesse semplicemente andando in giro con il gusto del turista. Forse stava cercando qualcosa. Qualcosa che trovò in una vecchia soffitta o in uno scantinato in rovina... o in un vecchio diario, in un manoscritto, o anche in un libro.» «Tu pensi davvero che il Necronomicon sia veramente esistito?» «Non mi spingerei così in là.» Waverly scosse la testa. «Eppure c'erano nel New England dei veri e propri culti delle streghe, e si usavano dei testi della cosiddetta Magia Nera. Se Lovecraft aveva scoperto uno di questi culti, ciò lo portò probabilmente a pensare seriamente alle vecchie leggende e a cercare la verità che si nascondeva dietro di loro.» Keith si versò un altro cognac. «Quando pensi che sia successo tutto ciò?» «Il tutto deve essere iniziato a partire dal 1926, dopo il fallimento del suo matrimonio, quando lasciò New York e tornò a vivere a Providence con le sue due vecchie zie. Ci sono molte cose sulla vita di Lovecraft che noi non conosciamo e che non sono facili da indovinare.» Waverly si schiarì la voce: stava diventando rauco. «Tutto ciò che è stato scritto sul fatto che Lovecraft fosse un sonnambulo, che si aggirava di notte per le strade. Pensi davvero che vagabondasse così, senza uno scopo, o invece aveva una meta ben precisa? Penso proprio che dovesse avercela. E fu allora, naturalmente, che incontrò Upton: il Richard Upton Pickman della sua storia.» Keith lo interruppe con un gesto. «Ancora non sappiamo con sicurezza se sia effettivamente esistita una persona che corrisponda a questo nome. Solo perché hai trovato un pezzettino di carta...» Waverly fece una risatina soffocata, ma i suoi lineamenti rimasero immobili. «Partendo da quel pezzetto di carta, io sono stato davvero molto indaffarato in questi tre giorni: ho anche chiamato delle persone che vivono giù nell'Est. Lascia che ti racconti ciò che ho scoperto. Prima di tutto, c'era un artista che si chiamava Richard Upton. Nato a Boston, nel 1884. Morto nella stessa città nel 1926.» «Suppongo che ora mi racconterai che è scomparso da una vecchia villa
misteriosa nel cuore della notte.» «Niente di tutto ciò. Secondo quanto è riportato dagli articoli di giornale, il dieci di dicembre ritornò da un viaggio — a Providence, ricordàtene — e scoprì che il suo studio era stato messo a soqquadro e che tutta la collezione dei suoi quadri era stata rubata. Quella sera stessa, dopo aver denunciato il furto alla Polizia, si sparò un colpo di pistola alla tempia.» «E per quale motivo?» «Non ha lasciato scritto nulla. I suoi quadri non sono mai stati recuperati, e se pure la Polizia scoprì qualcosa, non è mai stato reso noto nulla.» Waverly si sporse in avanti. «Ma io ho scoperto qualcosa che loro non sapevano. Una settimana prima, prima che Upton facesse quel suo viaggio a Providence, lui dipinse un quadro, mise in alcuni scatoloni i suoi libri e tutta la sua corrispondenza, e spedì il tutto alla «North End Warehouse and Storage Company». Tutta la roba è stata lì in giacenza, non reclamata da nessuno — probabilmente del tutto dimenticata — per tutti questi anni. Finché Santiago non ha comprato l'intera partita.» «Come hai fatto a scoprire tutto questo?» «Ti ho detto che ho dei contatti. Beckman mi ha suggerito di trovare i recapiti telefonici di tutte le ditte che si occupano di deposito e magazzinaggio merci di Boston e di chiedere se recentemente avevano venduto qualcosa a un certo Santiago; è così che sono riuscito ad ottenere quest'informazione.» «Beckman?» «Un mercante di libri che conosco qui in città. Specializzato in prime edizioni e pezzi rari. Naturalmente è interessato a tutto ciò che possa riguardare HPL. Pensa che sia molto probabile che Santiago non abbia preso tutto il materiale di Upton: ci può essere ancora della roba in quel magazzino, incluso le lettere di Lovecraft. Lettere come quelle hanno ora dei prezzi molto alti. In ogni caso, vuole fare un affare con me.» «Che tipo di affare?» Waverly si alzò. «Sto per andare a Boston a spese di Beckman. Qualsiasi cosa io trovi da comprare, Beckman la rivenderà... e poi faremo a metà.» «Quando partirai?» «C'è un volo di mattina.» Waverly si diresse verso la porta dello studio. «Se pensi di essere a casa, ti farò una telefonata domani sera, verso le otto, e ti dirò ciò di cui sarò venuto a conoscenza.» «Rimarrò in attesa della tua telefonata,» disse Keith.
Venivano fuori dalle tenebre e dagli abissi, facevano capriole, strisciavano, si muovevano sinuosamente seguendo il debole e lugubre zufolìo di un flauto invisibile. Quelli che facevano capriole erano creature umane, o umanoidi; danzavano all'ondeggiante luce di fuochi accesi in prossimità di antiche pietre poste sulla cima di colline solitarie, e Keith sentì la loro cantilena stridula e ritmata: Iaa! Shub-Niggurath! Il nero caprone delle foreste con mille giovani! E poi arrivò la risposta... il ronzante brusio che non era né una voce umana, né un suono umano e neanche un'imitazione della voce dell'uomo. Ma c'erano delle parole che lui riuscì a riconoscere — Yog-Sothoth, Cthulhu, Azatoth — e la pronunzia di queste parole sorse da queste formefantasma che danzavano e facevano capriole nella notte solitaria, al di là del cerchio del fuoco. Nessuna di quelle forme si riusciva a vedere con chiarezza, e di questo Keith era contento, ma i bagliori delle fiamme davano un'idea di quelle figure massicce e mostruose come montagne. Pesanti montagne vive che tremavano come scosse da brividi, con movimenti che assomigliavano a quelli di miriadi di tentacoli vischiosi. Montagne ricoperte di occhi sporgenti e rigonfi, che si aprivano e si chiudevano spasmodicamente, e centinaia di bocche spalancate dalle quali venivano emessi quegli orribili suoni sibilanti e gracchianti, suoni mai articolati da una lingua mortale. Keith ebbe l'impressione che le stesse colline fossero scosse da brividi alla spaventevole eco di quel richiamo gutturale, e poi la scena si scolorì e lui si ritrovò di nuovo nella sua stanza. Realizzò che aveva sognato e che stava ancora sognando mentre il suo letto era scosso da tremiti violentissimi come se ci fosse in atto un terremoto. Ora, mentre il suo sogno continuava, il tremore cessò, ma il ricordo delle creature persisteva, e con quello il ricordo di tutto ciò a cui Waverly aveva alluso. Arrivò la paura, e poi la decisione. Nel sogno Keith immaginò di riuscire ad afferrare l'elenco telefonico che si trovava sul comodino e di cercare febbrilmente tra le pagine fino a che non individuò Beckman, Frederick T., libri rari. Immaginò di fare il numero, di udire il suono del telefono che squillava in lontananza, il ricevitore che veniva alzato dall'altra parte, e la sua stessa voce bisbigliare, «Mr. Beckman?»
Poi arrivò la risposta: profonda, come se provenisse dal vuoto, un suono non di questa terra, ma distinto. La voce disse, «Stupido... Beckman è morto!» Proprio in quel momento Keith aprì gli occhi e si trovò seduto sul bordo del letto, con il telefono tra le mani, ad ascoltare il click che interrompeva il collegamento... il click che gli fece capire che non aveva sognato. Alle 7.30, quella mattina, Keith tirò sì il suo giornale dalla soglia della porta principale. In cima alla propria pagina c'era un titolo in grassetto che attirò la sua attenzione: SCOSSA DEL TERZO GRADO A L.A. LIEVI DANNI Quello, almeno, non l'aveva sognato. Keith lesse velocemente l'articolo — si trattava di una storia familiare per gli abitanti di Los Angeles — e notò che c'erano i soliti riferimenti alla faglia di Sam'Andrea, e che l'epicentro del terremoto era stato nella zona di Lancaster. I sismologi ripetevano il loro solito avvertimento: che quella scossa poteva essere il segnale che annunciava un sisma di violenza maggiore, ma che comunque la situazione era sotto controllo. Keith lesse il tutto quasi con sollievo e solo quando girò la pagina vide l'articolo che lo lasciò letteralmente esterefatto. Anche questo aveva il titolo in grassetto ed era piuttosto breve, come se fosse stata una notizia dell'ultim'ora che erano a stento riusciti ad inserire: MERCANTE DI LIBRI UCCISO A GLENDALE La polizia sta investigando sull'assassinio di Frederick T. Beckman di 59 anni, che è stato pugnalato a morte ieri notte nella sua casa, al 1482 di Whitsun Drive, Glendale. Il corpo è stato scoperto dal sostituto dello sceriffo in seguito alla telefonata di un vicino che dichiarava di aver udito degli strani rumori provenire dall'appartamento attiguo al suo. Presumibilmente l'assalitore di Beckman era entrato da una finestra aperta nella stanza da letto e l'aveva colpito nel sonno. Beckman, un mercante in libri rari e manoscritti, teneva la maggior parte della merce in una cassetta di sicurezza incassata in un muro a casa sua, ma la cassetta sembra non essere stata forzata..
Quando rimise giù il giornale, a Keith tremavano incredibilmente le mani; e gli tremavano ancora mentre faceva il numero di Waverly e ascoltava l'eco degli squilli che si ripetevano. Ovviamente Waverly era già uscito per andare all'aeroporto a prendere il volo per Boston, ma forse poteva ancora farcela a raggiungerlo lì. Keith chiamò l'aeroporto internazionale di Los Angeles per far rintracciare Waverly, ma la cortese voce che gli rispose lo informò che il volo per Boston era già partito da mezz'ora. E così ora non c'era altro da fare che aspettare. Come prima cosa, comunque, Keith controllò che tutte le finestre fossero ben chiuse e chiuse a chiave le porte. Si sentiva sciocco e imbarazzato nel compiere quest'operazione nella splendente mattinata di sole di quel luminoso giorno d'autunno, eppure il rumore metallico di catenacci e chiavistelli che scivolavano al loro posto era rassicurante. Rassicurante... e fastidioso. Perché il rumore gli aveva ricordato un altro click: il click del ricevitore in un sogno che non era un sogno. O invece sì? Passarono alcune ore prima che Keith si facesse forza e prendesse uno dei libri che Waverly gli aveva prestato: il volume grosso e ben rilegato di The Outsider and Others. Sfogliò le pagine del libro finché non trovò la storia che purtroppo si ricordava molto bene: The Statement of Randolph Carter. Si trattava di un breve resoconto di una visita notturna in un vecchio cimitero fatta dal narratore e dal suo amico Harley Warren. Lo scopo di Warren era quello di aprire una vecchia tomba che, a suo dire, conteneva strani segreti: qualcosa che aveva a che fare con cadaveri che non andavano mai in decomposizione. Era un racconto tipico del suo primo periodo, scritto nello stile fiorito che Lovecraft usava allora e che certi critici avevano condannato come troppo pomposo. E tuttavia proprio gli eccessi di quel tipo di immaginazione evocavano un'aura da incubo; la sensazione di trovarsi in presenza di cose più grandi della vita stessa... o più grandi della morte. Era un'emozione che Keith aveva provato la notte precedente, ed ora, riprovandola in pieno giorno, si sentiva di nuovo molto a disagio. Si costrinse a continuare a leggere, fino al punto in cui l'enorme lastra di marmo che si trovava sopra il sepolcro veniva rimossa, scoprendo una scala di pietra che portava giù nell'oscuro vano che si apriva sotto. Era a quel punto che il compagno del narratore, Warren, scendeva da solo, dopo aver
sistemato un telefono portatile per comunicare. Warren scomparve nelle tenebre, tirandosi dietro un rocchetto di filo che partiva dal suo ricevitore, mentre il narratore aspettava sopra nel cimitero fino a che un click lo invitò a sollevare il suo telefono e ad ascoltare. Keith scoprì che era quasi incapace di andare avanti nella lettura: i bisbigli sconvolti di Warren, che descriveva le terribili scoperte che aveva fatto nel pozzo sotto la tomba; la sua ansia crescente a mano a mano che risaliva; e poi, il frenetico avvertimento con il quale ordinava al narratore di rimettere a posto la lastra e fuggire per salvarsi la vita. All'improvviso il balbettio di Warren si interruppe. E mentre il narratore lo chiamava, dal filo gli giunse il rumore di un click e il suono di un'altra voce... una voce cupa, profonda, non umana che diceva: «Stupido, Warren è morto.» Beckman è morto. Era questo ciò che la voce aveva detto a Keith, e non era stato solo un incubo. L'incubo era adesso, nella realizzazione del fatto che lui non aveva sognato. Il libro gli scivolò dalle mani e Keith rabbrividì. «Stupido...» Forse era davvero uno stupido. C'era stata davvero una tale voce, e presumibilmente apparteneva all'assassino di Beckman. Ma Beckman era morto a causa delle ferite infertegli con un pugnale nel suo stesso letto, non in un pozzo immaginario sotto una tomba immaginaria, vittima di un mostro immaginario. Il suo killer era umano, e le parole che aveva scelto non erano state casuali. Chiaramente l'assassino era qualcuno che aveva familiarità con le opere di Lovecraft. Ma che tipo d'uomo aveva potuto uccidere un vecchio commerciante di libri indifeso a sangue freddo, e poi con calma rispondere al telefono e pronunziare una frase beffarda presa in prestito da un romanzo? Quale insano impulso aveva ispirato un humor così demoniaco? Demoniaco. Pickman's Model. Un culto diffuso in tutto il mondo, per salvaguardare i segreti di antiche divinità-mostro e dedicato al loro ritorno. Waverly sembrava crederci, e lui non era uno stupido. Sapeva forse di più di quanto non avesse già detto? E anche Beckman era a conoscenza delle stesse cose? E questa conoscenza poteva essere cancellata solo dalla morte? Se così fosse stato, se qualcuno avesse sospettato della consapevolezza
di Beckman e per questo l'avesse eliminato, allora, forse, Waverly era in pericolo. Cosa avrebbe trovato a Boston... o cosa a Boston avrebbe trovato lui? Non c'erano risposte a quegli interrogativi; solo silenzio. Il silenzio di una casa vuota, il silenzio che alla fine Keith cercò di vincere con le stupide chiacchiere degli sceneggiati sentimentali televisivi e la frenesia artificiale degli spettacoli di giochi pomeridiani. I notiziari del pomeriggio non offrirono ulteriori chiarimenti sul terremoto e non fecero alcun riferimento alla morte di Beckman. Di questo Keith fu stranamente riconoscente, proprio come se fosse riconoscente per il puro e semplice suono delle voci degli annunciatori che prodigiosamente rivelavano gli affari di politici e personaggi dello sport. La stessa banalità delle loro affermazioni era in qualche modo rassicurante; era qualcosa che ricordava che nel mondo reale la vita stava procedendo secondo i suoi soliti parametri: tre minuti di fatti reali seguiti da tre minuti di pubblicità. Il tempo passò e arrivò il buio. Keith spense il televisore e accese le luci. All'improvviso realizzò che non aveva mangiato nulla durante tutta la giornata; andò in cucina e si preparò la colazione al posto della cena. Stava proprio per finire quando squillò il telefono. «Keith, stai bene?» Quando Keith udì la voce di Simon Waverly, fu come se un peso enorme gli fosse stato sollevato dalle spalle. «Sì, naturalmente. E tu, come stai?» «Sono un po' stanco... sono stato in giro tutta la giornata, ma ora sono ritornato in albergo. Ho fatto bene a venire oggi, perché Oliphant mi ha detto che domani avrebbero cominciato la demolizione vera e propria.» «Oliphant?» «Sì, il proprietario del magazzino. Lo ha ereditato da suo zio e non sembra sapere granché sull'affare. È stato piuttosto circospetto finché non mi sono qualificato, ma poi mi ha aiutato. Mi ha preso tutto quello che era rimasto in magazzino oggi pomeriggio.» «Hai trovato qualcosa?» «Secondo l'inventario della merce, Santiago aveva comprato in blocco tutto il materiale appartenuto a Upton. Ma come se avessi avuto un presentimento, ho chiesto di vedere il posto dove era stata immagazzinata la merce. Non puoi immaginare quanto fosse sudicio: il vecchio, lo zio, aveva lasciato andare tutto in rovina da anni. E, naturalmente, i topi se ne erano ap-
propriati. Sembrava che avessero usato tutte le carte che c'erano per fare i loro nidi. Ed è lì, in un angolo, che l'ho trovato. E se non fosse stato imballato in un telo cerato, probabilmente lo avrebbero distrutto.» «Di che cosa stai parlando?» «Vedrai. Te l'ho appena spedito, per raccomandata. Ti dovrebbe arrivare in mattinata.» «E non mi dici di che si tratta? Perché tutto questo mistero?» La voce suadente di Waverly si spense in un bisbiglio. «Ho le mie ragioni. Oliphant mi ha detto che aveva ricevuto varie telefonate anonime che chiedevano informazioni sul materiale di Upton per sapere chi l'avesse acquistato. Naturalmente lui non ha dato nessuna informazione, ma considerando ciò che noi sappiamo, qualcuno deve averlo scoperto.» «Gli hai detto quali sono i tuoi sospetti?» «Non gli ho detto tutto... tanto quanto basta per fargli capire che i miei erano motivi legittimi. Lui sosteneva che, chiunque fosse stato a telefonargli, aveva poi tentato di irrompere nel magazzino, ma era passata di lì una pattuglia della Polizia che li aveva messi in fuga. E aveva anche notato degli strani tipi aggirarsi dalle parti del parcheggio in diverse occasioni, come se stessero tenendo il posto sotto controllo. Naturalmente, queste erano solo sue supposizioni, ma non c'è nessuna certezza. Così, proprio pensando che qualcuno avesse potuto individuarmi, ho pensato che fosse meglio spedirti immediatamente il pezzo piuttosto che rischiare di portarlo con me.» Keith esitò per un attimo, poi tirò un profondo sospiro. «Forse è stata una buona idea, dopo quello che è successo al tuo amico Beckman.» «Beckman?» «È stato ucciso la scorsa notte.» Keith gli raccontò dell'omicidio e della sua esperienza. Quando finì di parlare, ci fu un lungo silenzio dall'altro capo del telefono finché, alla fine, Waverly riuscì a trovare la forza perv parlare. «Parleremo di questo più in là, non appena sarò di ritorno. Ho prenotato il volo per domani a mezzogiorno, così sarò a casa nel pomeriggio. Ti telefonerò.» «Va bene.» «Intanto, voglio che tu mi prometta due cose. Prima di tutto, non fare nessun passo prima che io ti chiami,»
«D'accordo, farò come tu dici. Cos'altro?» «Quel pacco che ti ho spedito. Firma quando arriva, ma non aprire la busta fino a quando non saremo insieme.» «C'è qualche motivo particolare?» «Ti spiegherò quando ci vedremo; allora capirai. E Keith...» «Sì?» «Fai attenzione.» Keith fece molta attenzione; controllò per ben due volte le porte e le finestre, e fu attento ad ogni minimo rumore sospetto per tutta la notte. Ma tutto sembrava normale e silenzioso, e quando alla fine, vinto dalla stanchezza, se ne andò a letto, dormì tranquillamente senza essere tormentato da nessun incubo. La mattina dopo continuò ad essere molto vigile, aprendo la porta solo una volta, a mezzogiorno, per aprire al postino. Quando firmò e prese in consegna la busta di carta grezza che Waverly gli aveva spedito da Boston, si sentì sollevato e immediatamente la ripose nella tasca della sua giacca. Decise di seguire il consiglio di Waverly, nonostante fosse tentato di rompere il sigillo e di esaminarne il contenuto. Waverly doveva avere delle buone ragioni per chiedergli di aspettare, e nel giro di poche ore si sarebbero incontrati. C'erano molte domande che voleva porgli, e i pensieri che le avevano suscitate erano molto inquietanti. Keith aveva l'impressione che lui stesso avesse vissuto per tutti quegli anni sotto una specie di campana di vetro, godendo nella vita di un trattamento speciale accordato solo a quei pochi fortunati che avevano i mezzi per isolarsi da rapporti e situazioni spiacevoli. Poi, da una settimana, in un modo o nell'altro il vetro si era rotto e lui si era trovato improvvisamente esposto a... a che cosa? Certamente non alla realtà. Perché gli ultimi avvenimenti non coincidevano con nessun concetto della realtà così come lui la intendeva. Ma forse la maggior parte della gente, sia ricca che povera, viveva sotto a delle campane di vetro; strette, quasi bidimensionali, che limitavano il loro modo di vedere le cose e che non permettevano loro di affacciarsi sul mondo esterno o di rendersi conto di ciò che stava accadendo loro. Lanciati in una vita quasi meccanica, non potevano immaginare o comprendere: organizzati e dominati da entità la cui stessa esistenza non era nemmeno sospettabile, essi viaggiavano attraverso lo spazio e il tempo verso destinazioni imprevedibili. Ma adesso, fuori dalla protezione della campana di vetro, quella visione ristretta si era allargata, rivelando prospettive senza limiti, e il sottile foglio
di carta su cui era scritta la parola equilibrio, era esposto ai grandi venti che soffiano dai golfi al di là delle stelle. Keith scosse la testa. Quel genere di pensieri non lo avrebbe portato da nessuna parte; era tempo di affidarsi al buon senso. Ci doveva essere una spiegazione logica per ciò che era accaduto, e lui sperava che Waverly avrebbe potuto fornirla; altrimenti, sarebbe andato alla Polizia. Una volta presa quella decisione, si sentì sollevato. Passò il pomeriggio a riprendere i contatti con la vita di tutti i giorni: chiamò il suo agente di cambio, controllò il suo estratto-conto in banca, prese un appuntamento per una messa a punto della sua Volvo, chiamò un'impresa di pulizie per far mettere un po' in ordine la casa il venerdì successivo. Poi controllò cosa c'era nel frigorifero e nel congelatore, e fece una lista della spesa. La natura prosaica di tali attività ebbe in se stessa un potere calmante, e a sera Keith era di nuovo l'uomo di sempre. Preparò la cena, mangiò, sparecchiò, mise i piatti e le pentole nella lavastoviglie. Poi si premiò con un drink e si mise tranquillamente in poltrona nel suo studio ad aspettare la telefonata di Waverly. Lì, alla fioca luce della lampada, le statuette di avorio e di giada sbirciavano silensiose, le maschere tribali facevano le smorfie, e la testa avvizzita penzolava; le sue labbra sembravano cucite in un ghigno che derideva le sue pretese di gusti e interessi comuni. Ma non necessariamente. Dopotutto, non si sentono tutti attratti dagli aspetti misteriosi e fantastici dell'esistenza? I raffinati artisti che avevano foggiato quelle forme grottesche; gli artisti delle civiltà primitive che avevano intagliato le maschere, persino i crudeli selvaggi responsabili di aver rimpicciolito una testa umana... tutti erano stati spinti dagli impulsi della loro immaginazione, che cercava il modo in cui esprimersi. Proprio come era accaduto anche a lui, che con il collezionare oggetti così bizzarri, soddisfaceva la sua propensione verso il fantastico. E tali propensioni non erano ristrette solo agli artisti, agli artigiani e ai collezionisti. Tutta l'umanità condivideva il bisogno di dare libero sfogo ai voli della fantasia, anche se i mezzi di evasione erano semplicemente i film, la televisione e i fumetti. Persino le persone incolte conoscevano il richiamo dell'ignoto; nessun essere umano, per quanto umile, è insensibile all'eterno enigma della vita e della morte. In ognuno di noi c'è un qualcosa che va in cerca di ciò che è strano, anormale, inspiegabile. E, così facendo, queste bizzarrie s'impossessano delle nostre menti. È proprio il realista più
ostinato e cocciuto, colui che si autoproclama scettico su tutto, il derisore di ogni mistero, che è il più vulnerabile alla pazzia. Keith osservava la sua collezione con una nuova consapevolezza. Tutti quegli oggetti che aveva accumulato non erano solo l'espressione di un gusto eccentrico; rappresentavano il bisogno di circondarsi di simboli spaventosi fino a che la paura non era diventata familiare. Una volta che ciò era stato accettato come una cosa normale, quegli oggetti non lo turbavano più. In un certo senso si trattava di magia; un modo per superare le paure più intime. Proprio come Waverly che esorcizzava i suoi demoni personali leggendo libri di fantasy, e Lovecraft — il paragone balzava subito agli occhi — l'aveva fatto con lo scrivere i suoi libri. Keith si stava versando un altro drink quando udì il suono stridulo del telefono. Sollevò il ricevitore e sorrise, rassicurato dalla voce di Waverly. «Ciao. È arrivato il pacco?» «La busta? Sì, è qui.» «Bene. Non l'hai aperta, vero?» «No.» «Bravo. Mi dispiace di aver fatto tardi a chiamarti... ho avuto qualche problema.» «Sembra che tu sia raffreddato.» «A Boston pioveva e, come uno sciocco, non avevo portato il cappotto. Ma ciò non ha molta importanza ora. È il mio dannato piede...» «Che cos'è successo?» «Sono inciampato scendendo dalla scaletta dell'aereo, dopo essere atterrati qui. Mi sono rotto la caviglia.» «Oh, mio Dio!» «Mi sta bene, perché avevo troppa fretta. Gli steward di bordo mi hanno messo su un'autoambulanza che mi ha portato fino allo studio del dottor Holton. Mi ha fatto la radiografia e poi mi ha messo il gesso. Mi ha accompagnato a casa lui stesso. Ora non posso camminare senza le stampelle, ma Holton mi manderà un'infermiera che baderà a me per qualche giorno.» «Quindi per stasera non ci vediamo.» «Non ti preoccupare, sto bene. Vieni da me e porta la busta.» «Non possiamo vederci domani, invece? Hai bisogno di riposarti.» «Vedi, penso di aver trovato la risposta a tutto ciò, e voglio che tu senta di che si tratta, prima che io perda completamente la voce. Quanto tempo ti ci vuole per arrivare?»
«Dammi un'ora.» «Ti aspetto.» L'aria della sera era calda e immobile, dava un senso d'oppressione. Keith si liberò della giacca mentre guidava sulla Melrose, poi girò verso sud in una strada laterale dove delle vecchie case di legno con la veranda si alzavano simili a scatole dalle ombre di giardini incolti e infestati dalle erbacce. La casa di Waverly era più grande e meglio tenuta di quelle dei suoi vicini ed era tutta circondata da una staccionata; ma nel buio di una notte senza luna non sembrava più invitante delle case che la circondavano. Keith parcheggiò davanti ad un furgone bianco e rimase piuttosto perplesso da quella presenza; ma poi si ricordò che Waverly aveva accennato all'arrivo di un'infermiera. Così era preparato quando, in risposta al suo bussare, la porta principale si aprì e una voce sconosciuta lo invitò ad entrare. Nell'ingresso si trovò di fronte un sorridente giovanotto di colore vestito normalmente. «Il signor Keith?», disse l'infermiere. «Io sono Frank Peters.» «Piacere di conoscerla.» Keith abbassò la voce. «Come va il paziente?» «Un po' sotto tono. Sta prendendo delle pillole per il dolore che gli ha prescritto il dottore, ma la gola gli sta dando filo da torcere. Ho telefonato per farmi dire qualche medicina per la tosse che gli possa dare un po' di sollievo: ora che lei è qui, faccio un salto in farmacia per prenderle.» «Buon'idea.» «La sta aspettando nello studio. Ma cerchi di non farlo parlare troppo.» Keith annuì e si avviò per il corridoio mentre il ragazzo usciva chiudendosi la porta dietro le spalle. «Ci vediamo dopo,» disse. Lo studio er in penombra e ci volle qualche minuto prima che gli occhi di Keith si abituassero alla semioscurità; la lampada sulla scrivania era stata girata verso il basso. Waverly stava seduto in una grande poltrona in un angolo dall'altra parte della stanza con il piede sinistro poggiato su un cuscino e ricoperto in uno stampo di gesso. Nonostante il caldo soffocante indossava una vestaglia di lana e aveva una sciarpa al collo, ma la parte del suo volto pallido che non era ricoperta dalla barba non presentava alcuna traccia di sudorazione. Annuì quando vide entrare Keith.
«Ti ringrazio di essere venuto... mi fa piacere vederti.» «Mi dispiace non poterti ricambiare il complimento.» Keith squadrò il suo ospite. «Hai l'aria molto, molto abbattuta. E hai una voce terribile.» «Non ci fare caso: starò meglio ora che sei qui. Serviti qualcosa da bere, se ti va.» «No, grazie.» Keith si accomodò in una poltrona vicino alla scrivania. «Non ho intenzione di trattenermi a lungo: si suppone che tu debba riposare.» «Allora sarò breve.» Waverly ammiccò al suo visitatore dietro le sue lenti scure. «Hai portato il pacchetto?» Keith tirò fuori dalla giacca la busta marrone. «Bene,» Waverly annuì con approvazione. «Puoi aprirla, ora. Qui siamo al sicuro.» Prendendo un tagliacarte dal ripiano sulla scrivania, Keith squarciò il lembo della busta ed estrasse della tela cerata ingiallita, sigillata da un lato. Waverly stava a guardare, inespressivo, mentre il tagliacarte fendeva la tela cerata lasciando scoperto un singolo foglio di carta da lettere, sgualcito e ripiegato in due. Mentre posava il foglio sulla scrivania, Keith lo aprì e cominciò ad esaminarlo. «Allora?», disse Waverly dolcemente. «È una specie di carta geografica.» Keith aggrottò le ciglia. «Non riesco a decifrare i particolari... l'inchiostro è sbiadito. Ti dispiace se alzo la lampada?» «I particolari non sono importanti.» Waverly scosse la testa. «Quello che voglio sapere è: riconosci la scrittura?» Keith socchiuse gli occhi, poi alzò lo sguardo, attonito. «È quella di Lovecraft!» «Sei sicuro?» «Naturalmente. Nessuno potrebbe imitare il suo modo di scrivere. Ho visto altri campioni della sua scrittura in quel libro che mi hai fatto vedere, Marginalia. Non c'era anche lì una carta geografica?» «Sì. La cartina stradale di Arkham.» Waverly si schiarì la voce, poi ridacchiò. «Ti immagini? Disegnare una cosa simile, inventare i nomi di tutte quelle strade e poi scriverli come se realmente esistessero? Quell'uomo aveva uno strano senso dell'umorismo.» «Pensi che la sua sia stata una messa in scena?» «Naturalmente.» Waverly scrutò Keith attraverso i suoi occhiali scuri.
«Ti ricordi della lettera in cui Lovecraft dava ad un altro autore il permesso di usarlo come personaggio in una storia? Incluse persino le firme di testimoni immaginari, scritte in tedesco, arabo e cinese. Poi rese la contraffazione ancora più perfetta con lo scrivere una continuazione alla storia dell'altro autore... eliminando il suo personaggio. Utilizzò persino come ambientazione la sua casa di Providence, proprio per far sembrare il tutto più autentico. Lovecraft era un burlone impenitente e raffinato. Una volta che hai compreso questo lato fondamentale della sua personalità, riesci a spiegarti tutto.» «Non ti seguo,» disse Keith. Sollevò il foglio di carta da lettere per esaminarlo meglio, ma le parole di Waverly lo distrassero. «Quel quadro che avevi comprato tu... era stato Upton a dipingerlo, ma non era stato quello ad ispirare la storia di Lovecraft. Penso che sia accaduto esattamente il contrario. Prima è stata scritta la storia, e poi HPL fece illustrare da Upton ciò che lui aveva creato. Si sarebbe divertito a vedere come ci siamo cascati! Per un attimo ci ha fatto quasi credere che davvero esistessero demoni che divorano i cadaveri e tutte quelle altre morbose sciocchezze che si ritrovano nel Mito di Cthulhu, che invece lui ha inventato.» Waverly ridacchiò di nuovo. «Capito? È stato solo un tiro mancino.» L'aria si era fatta ancora più pesante. Da qualche parte giù nell'ingresso giunse un suono indistinto di passi: probabilmente era Peters che ritornava dalla farmacia con le medicine. Keith non fece caso a quel rumore in quanto era troppo preso ad osservare la figura che stava seduta di fronte a lui, in penombra. «Stai dimenticando una cosa,» disse. «Santiago e Beckman sono stati assassinati. Questa non è una burla.» «Sì, può essere.» La voce di Waverly si alzò all'improvviso e si fece acuta e stridula. «Peters... prendi la carta!» Keith si girò. L'uomo di colore avanzava verso di lui dalla soglia della porta. Non sorrideva ora, e teneva un revolver tra le mani. «Dammela,» disse. Keith fece un passo indietro, ma Peters lo incalzava, con l'arma puntata contro di lui e pronta a fare fuoco. «Dammela,» bisbigliò il negro. Poi la mano che teneva il revolver cominciò a tremare. Si udì un rumore sordo e rimbombante e tutta la stanza fu scossa da un tremore violentissimo; le pareti, il soffitto, il pavimento. Keith sentì la casa
scuotersi e ondeggiare, il tutto accompagnato dal rumore di uno schianto improvviso che sommerse l'urlo del negro mentre le travi del soffitto cominciavano a crollare. Keith si girò, tenendo ben stretta la carta tra le mani, e corse verso la porta d'uscita. Poi il rumore aumentò fino a diventare un vero e proprio ruggito, il soffitto rovinò a terra con fracasso, e lui non capì più nulla. Quando riaprì gli occhi, tutt'intorno c'era silenzio. Un silenzio tombale, e tutto era buio e immobile. Il terremoto. Ne avevano previsto un altro, ed era arrivato. Keith cominciò a spostarsi molto cautamente, e si sentì incredibilmente sollevato quando si rese conto che riusciva a muovere le gambe e le braccia senza provare dolore. Si sentiva tutta la parte dietro l'orecchio sinistro intorpidita: doveva essere rimasto colpito da qualche pezzo del soffitto. Grandi parti di intonaco gli pesavano sul torace; le spinse lontano da sé e si tirò sù a sedere. La carta sgualcita era ancora stretta nella sua mano destra. Ma l'uomo di colore non teneva più il revolver tra le mani. Era disteso dietro a Keith, seppellito sotto una trave enorme, con il cranio ridotto in poltiglia. Keith si alzò e si girò per non essere costretto a guardare quello spettacolo rivoltante. Brancolando tra i detriti sparsi sul pavimento, guadagnò l'uscita, cercando anche di capire se c'erano tracce di Simon Waverly dall'altro lato della stanza. Miracolosamente la poltrona non era rimasta danneggiata. Ma era vuota ora... o quasi vuota. Attraverso le tenebre, Keith lanciò uno sguardo alle cose che erano rimaste sulla poltrona. Erano precisamente tre; tre oggetti forniti di ganci di metallo. Tre oggetti inconfondibili: la faccia e le mani di Simon Waverly. L'incubo non era ancora finito. Continuò nella strada, dove figure stordite uscivano incespicando da case distrutte o tentavano freneticamente di rientrarci in cerca di quelli che mancavano all'appello. Sebbene intontito dallo shock, Keith notò che il furgone bianco non era più parcheggiato davanti alla casa di Waverly. Ma la Volvo era ancora lì, e apparentemente, non sembrava aver subito danni; Keith girò la chiave dell'accensione e la macchina partì immediatamente.
Guidò nella notte che ora non era più né buia né immobile. Le case di legno andate in rovina erano diventate delle torce, che gli illuminavano la strada attraverso la città, da cui si alzava un unico, lacerante urlo di dolore. Non era solo; il traffico aumentava costantemente mano a mano che altri tentavano di scappare con le auto dalle conflagrazioni e dalle esplosioni provocate dalle perdite delle condutture del gas. Le fognature erano scoppiate e avevano inondato Melrose, e quindi Keith costeggiò l'arteria finché non trovò un punto sicuro dove attraversarla. Girò a ovest alla Fountain Avenue, sterzando in continuazione per evitare di urtare contro quelli che scappavano o camminavano a fatica o che semplicemente se ne stavano immobili e instupiditi al centro della strada, senza sapersi decidere sul da fare. L'Highland Avenue era intasata di veicoli diretti a nord, verso l'autostrada; sulla La Brea gemevano le sirene delle macchine della Polizia, delle autoambulanze, e dei Vigili del Fuoco che correvano alle varie chiamate d'urgenza. Ma, mentre proseguiva verso ovest, c'erano meno segni di una distruzione così violenta. Sembrava che il terremoto avesse colpito con più violenza la parte centrale della città, e Keith recitò una preghiera silenziosa, con la speranza che il suo quartiere potesse essere scampato alle scosse più forti. Quanto tempo gli ci volle per farsi largo attraverso quella giungla di macchine, non sapeva dirlo; quando la Volvo cominciò ad arrampicarsi su per le colline, lui si trovava in un vero e proprio bagno di sudore. Ma lì c'erano ben pochi segni dell'effetto del terremoto: le case erano rimaste tutte saldamente in piedi sulle pendici delle colline e solo alcuni alberi che erano caduti, bloccavano parzialmente la strada. Keith li aggirò e notò soddisfatto che lì non erano scoppiati incendi, e l'urlo delle sirene era ora diventato solo un'eco che si udiva in lontananza. Quando alla fine raggiunse casa sua, tirò un sospiro di sollievo; la casa sembrava intatta. Keith parcheggiò la Volvo ed entrò annusando l'aria per sentire se c'erano perdite di gas. Non sentendo nessun odore particolare, fece per accendere la luce dell'ingresso e la trovò già accesa. La strana sensazione di stordimento persisteva, ma si impose di fare un giro di ispezione per controllare se c'erano stati danni. Alcuni bicchieri nella credenza della cucina si erano rotti, ma tutti i contenitori che si trovavano nel frigorifero erano intatti. La cucina elettrica funzionava, il rubinetto del lavello andava bene. Solo la profonda crepa che si era aperta nel muro della cucina testimoniava il passaggio del terre-
moto. Nello studio le statuette si erano rovesciate nel mobiletto; Keith non si preoccupò di controllare se si fossero rotte. Parecchie maschere tribali pendevano storte sul muro e la testa avvizzita non dondolava più. Mentre dal pavimento la testa ghignava verso di lui con i suoi occhi ciechi, stretti come fessure, e con la sua bocca beffarda, un'altra immagine, all'improvviso, si sovrappose a quella visione: la flaccida, spaventosa maschera di carne umana che era la faccia di Simon Waverly. L'intontimento lasciò il posto al panico. Keith si girò, aprì il mobile bar e cercò a tastoni tra le bottiglie che erano rimaste intatte finché trovò una bottiglia di brandy. La portò nella stanza da letto e accese tutte le luci per accertarsi che non ci fossero danni. Dopo aver allontanato le scarpe con un calcio, Keith si lasciò cadere pesantemente sul letto, svitò il tappo della bottiglia e, per la prima volta in vita sua, si ubriacò e cadde in un pietoso oblio. Doveva essere quasi mezzogiorno quando si svegliò, con la testa pesante e la bocca secca. L'acqua e un'aspirina lo aiutarono ad alleviare il malessere fisico, ma la sensazione di panico permaneva. Uscito dal bagno, si diresse subito verso il comodino e alzò il ricevitore del telefono. Aveva già iniziato a comporre il numero della Polizia, quando realizzò che non c'era linea. Evidentemente il terremoto aveva fatto saltare le linee della zona. Keith si spostò nel soggiorno e accese il televisore. Funzionava; e, dopo pochi secondi di riscaldamento, l'immagine rassicurante di un telecronista riempì lo schermo. Si congratulò con se stesso per aver trovato così in fretta un notiziario, poi pensò che tutte le reti locali stavano verosimilmente trasmettendo in continuazione informazioni sul disastro della notte precedente. Nell'ora che seguì, apprese un numero sufficiente di cose per mettere insieme un resoconto abbastanza completo della tragedia che aveva colpito la città con una scossa di forza 7.1 della Scala Richter. Gli effetti più devastanti si erano avuti nella parte bassa della città, dove enormi pezzi di vetrate erano rovinati giù dai grattacieli e avevano mandato in frantumi le vetrine dei negozi. Fortunatamente, a quell'ora il cuore della città era praticamente deserto, ed erano stati in pochi a rimanere uccisi o feriti nelle strade. Ma il panico si era diffuso nei teatri mentre crollavano le attrezzature e i lampadari; nella ressa per fuggire erano rimaste calpestate centinaia di persone. Molti ospedali erano stati seriamente dan-
neggiati dalla calamità, e i danni nelle case private erano notevoli. I danni causati dagli incendi erano stati considerevoli, anche se non veniva data notizia di nessuna conflagrazione che avesse interessato aree particolarmente vaste. La contea di Los Angeles era stata ufficialmente dichiarata zona disastrata e la Milizia Territoriale stava collaborando alla ricerca delle vittime, tra i mille pericoli rappresentati dalle fughe di gas e dalle linee dell'elettricità cadute. Keith abbassò il volume e andò in cucina per farsi un caffè. La testa gli faceva di nuovo male, ma probabilmente quel mal di testa era dovuto ai pezzi di intonaco caduti la sera prima a casa di Waverly. Quel pensiero gli riportò alla mente tutto ciò che era accaduto il giorno prima: una ricostruzione completa degli avvenimenti a casa di Waverly. E con il ricordo arrivò anche la consapevolezza. Quegli ultimi momenti nello studio di Waverly erano esattamente l'equivalente di ciò che succedeva in una storia di Lovecraft. The Whisperer in Darkness. Anche la situazione generale presentava delle analogie. Il narratore della storia di Lovecraft entrava in contatto con Henry Akeley, uno studioso il quale credeva che delle creature alate, provenienti da un altro pianeta, si nascondessero nelle solitarie colline del Vermont, vicino casa sua. Avendo anche lui confidato le sue paure al compagno, lo studioso aveva invitato il narratore ad andare a casa sua e a portare con sé il materiale fotografico e la registrazione che gli aveva inviato come prova. Quando il narratore arrivava, era accolto da uno sconosciuto che dichiarava di essere un amico di Akeley e lo faceva entrare in casa dove, presumibilmente, lo stava aspettando lo studioso ammalato per bisbigliargli delle parole rassicuranti nell'oscurità della stanza. Avendo infine realizzato che il presunto amico di Akeley era un alleato umano delle creature alate, che lo aveva attirato lì per impadronirsi delle prove, il narratore riusciva a scappare. Ma, prima di uscire dalla stanza, faceva anche lui la sconvolgente scoperta di un volto e di due mani umane abbandonati sulla sedia che, stando alle apparenze, era stata occupata dal suo amico. Naturalmente c'erano delle differenze. Nella storia era sottinteso che lo studioso morto fosse impersonato da una delle creature alate che in un orribile travestimento era fornita di un volto e di mani umane. Keith scosse la testa. Era certo di non essere stato ingannato da qualche mostro che proveniva da un altro mondo e che gli aveva sussurrato delle cose imitando il modo di parlare degli uomini. Ma volendo usare la storia
di Lovecraft come guida, sembrava fin troppo semplice presumere ciò che realmente era accaduto. Chiunque stesse sorvegliando il magazzino a Boston, era venuto a conoscenza della presenza di Waverly e della scoperta che aveva fatto lì. Il telefono della sua stanza d'albergo era stato messo sotto controllo, così loro sapevano che avrebbe spedito ciò che aveva trovato a Keith. Forse Waverly era stato seguito sull'aereo per Los Angeles; più probabilmente la notizia era stata passata, e qualcuno lo aveva atteso al suo arrivo. Keith si ricordò dell'uomo di colore e del furgoncino. Sarebbe stato davvero facile avvicinarsi alla casa di Waverly senza farsi notare nel retro del furgoncino in attesa. Poi la telefonata a Keith: la voce rauca che si spacciava per Waverly, che inscenava la storia dell'incidente e gli chiedeva di andare a casa sua con la busta. Ogni tassello aveva il suo posto: l'uomo di colore che recitava la parte dell'infermiere, e il suo complice che si era travestito da Waverly per ottenere la busta. Ma perché non l'avevano ucciso subito? Perché tutto quel complicato camuffamento, e la falsa spiegazione fornita dall'essere che bisbigliava? Gli venne in mente un possibile motivo. Keith si ricordò che la voce al telefono aveva parlato di un «pacchetto» e non di una busta. Sicché loro non erano sicuri di ciò che Waverly aveva trovato nel magazzino; e, cosa ancora più importante, non erano a conoscenza di quanto Keith potesse sapere della scoperta. Ecco perché l'uomo di colore se ne era andato, o aveva finto di andarsene... per dare a Keith la possibilità di aprire la busta e controllare la sua reazione. Prima di ammazzarlo, dovevano essere ben certi che lui non avesse passato a nessun altro la notizia del ritrovamento. Una volta che si fossero assicurati di ciò, il negro era pronto ad agire. Ma il terremoto che l'aveva messo fuori combattimento e che aveva stordito Keith, aveva offerto all'individuo che impersonava Waverly l'opportunità di fuggire. Probabilmente lui aveva pensato che anche Keith fosse rimasto ucciso; in ogni caso era fuggito con il furgoncino. Comprensibilmente, l'improvviso panico che aveva causato la sua fuga gli aveva fatto dimenticare di prendere il contenuto della busta. Ma che razza di gente poteva aver concepito e compiuto gli omicidi plurimi di Santiago, Beckman e Waverly? C'era davvero una sorta di culto come quello delle storie di Lovecraft, che adorava qualche presenza diabolica che ancora segretamente sopravviveva sulla Terra?
Keith portò la sua tazza di caffè nel soggiorno e cercò una risposta più razionale. Supponiamo che fosse solo uno scherzo di cattivo gusto, ma non perpetrato da Lovecraft, come colui che aveva bisbigliato aveva goffamente suggerito, ma da fanatici e squilibrati ammiratori delle sue opere? Keith si ricordò delle storie di massacri rituali compiuti da adoratori di Satana che tentavano di far passare le loro atrocità come opera del diavolo in persona. Sarebbe stato tipico da parte di fedeli così folli emulare gli elementi presenti nei romanzi di HPL e tramare omicidi per ripetere quelli dei suoi racconti. Non era stato Waverly una volta ad accennare ad una specie di Società chiamata «L'Ordine Esoterico di Dagon», — il nome adottato dagli orribili cultori dalla faccia di pesce nel romanzo The Shadow over Innsmouth — composta dagli umani che si erano accoppiati con i mostri delle profondità marine e la cui progenie aveva sviluppato poi l'«aspetto di Innsmouth»? Il Mito di Cthulhu inventato da Lovecraft sembrava attirare un buon numero di giovani affetti da turbe psichiche; qualche anno prima c'era stato persino un gruppo rock chiamato H.P. Lovecraft. Gli allucinogeni potevano accrescere l'intensità della misteriosa immaginazione di HPL, e trascinare dei tossicodipendenti squilibrati a tradurla in orribile ed allucinante realtà. In ogni caso, neanche questa soluzione del problema riusciva a svelare il mistero del dipinto di Pickman's Model o a spiegare l'esistenza di un artista che corrispondeva al nome di Upton, il vero prototipo del personaggio della storia. Quel quadro era stato dipinto nel 1926: prima che Lovecraft avesse pubblicamente scritto del Mito di Cthulhu, e prima della nascita di qualunque membro della nostra attuale civiltà dei computer. C'era anche un'altra possibilità. Sia nelle lettere che nelle sue conversazioni, Lovecraft aveva spesso accennato al fatto che lui trovasse ispirazione per le trame delle sue storie nei sogni. Durante tutta la sua vita fu soggetto a incubi molto realistici, ben al di là del muro del sonno. Cosa c'era realmente al di là di quel muro? Forse HPL aveva vagato in quel mondo sconosciuto, in altre dimensioni, in un universo parallelo? Era riuscito nei suoi sogni a viaggiare attraverso il tempo e lo spazio, e nel suo viaggio era stato testimone di eventi del passato? Aveva realmente visto delle cose che erano accadute e non aveva fatto altro che riportarle nei suoi romanzi, cambiando i personaggi e l'ambientazione? Era un'ipotesi stravagante, eppure, se la scartava, Keith si trovava di fronte ad un'alternativa ancora più spaventosa.
Una volta lui aveva paragonato se stesso a Lovecraft. ma supponiamo che ci fosse un altro paragone da fare? Supponiamo che Keith fosse simile ad uno dei tipici personaggi delle storie di Lovecraft? In effetti lui faceva venire in mente proprio i narratori di quei racconti: introverso, fantasioso, molto nevrotico. Spesso quei personaggi dubitavano delle loro stesse esperienze... ammettevano che potevano essere stati vittime di allucinazioni, o di essere dei veri e propri alienati. Qual era la risposta giusta? Il tutto era solo il prodotto della sua paranoica ed errata interpretazione di ciò che era avvenuto? C'era stato un terremoto, su questo non sussistevano dubbi, e lui aveva subito un colpo alla testa mentre si trovava a casa di Waverly. Ma forse aveva avuto una commozione cerebrale, nel qual caso poteva essere ancora disorientato e fantasticare di eventi passati. Non era un'idea piacevole, ma in fin dei conti era possibile da un punto di vista clinico... e, se quell'ipotesi fosse stata vera, il suo stato poteva essere alleviato da cure mediche. Molto meglio questo che affrontare un mondo di divinità mostruose e una confraternita di gente di colore dedita a riportarle in vita. Anche se poteva sembrare strano, quella conclusione era confortante, dava un senso di sicurezza. Poi la mano di Keith raggiunse la tasca della sua giacca e, quando la ritirò, tutto il suo senso di sollievo e di sicurezza svanì all'improvviso. Perché lì c'era la prova che ciò che era accaduto la notte precedente non era solo frutto della sua immaginazione: teneva in mano la carta geografica di Lovecraft del... «Pacifico del Sud...» La frase si udì a malapena mentre veniva pronunciata dall'annunciatore sullo schermo televisivo. Keith si alzò di scatto per alzare il volume e si mise ad ascoltare. «... dove gli ultimi bollettini danno notizia di un'attività sismica di uguale o forse maggiore potenza del terremoto che la scorsa notte ha colpito la nostra città. Sebbene la scossa sia stata avvertita fino in Australia e Nuova Zelanda, non c'è stato quasi nessun danno. I sismografi indicano eruzioni di vulcani sommersi situati in una zona dell'oceano a sud dell'isola di Pitcairn e a sud-est di Tahiti, in prossimità della congiunzione del punto di latitudine sud 45 con quello di longitudine ovest 125...» Keith abbassò di nuovo lo sguardo per dare un'occhiata ai margini della carta dove le cifre indicavano i gradi della latitudine e della longitudine. Poi, con lo sguardo, andò alla ricerca del punto dove si intersecavano le li-
nee segnate. Ma, ancora prima di trovarlo, sapeva ciò che avrebbe visto. Sotto la croce appena abbozzata che segnava il posto, Lovecraft aveva scarabocchiato un'unica parola: R'lyeh. La ricchezza offre alcuni vantaggi, particolarmente nei momenti di stress. Nonostante lo scombussolamento della normale routine della città che aveva fatto seguito al terremoto, a Keith furono necessarie meno di trentasei ore per mettere a posto i suoi affari e salire a bordo del jet dell'Air France per Tahiti. Aveva abbandonato casa sua immediatamente, dopo aver velocemente preparato una valigia con quello che pensava gli sarebbe potuto servire, e aveva trovato rifugio all'Hotel Bel-Air. Lì si sentì al sicuro da eventuali intrusi mentre prendeva gli accordi necessari con un'agenzia di viaggi e per le pratiche del rilascio del passaporto. La sua banca gli fece recapitare la somma che aveva richiesto e, seguendo un suo consiglio, contattò una ditta che si occupava di immobili per far chiudere la casa e farla mantenere in ordine durante la sua assenza. Quando arrivò il momento della partenza, Keith si sentiva ormai praticamente al sicuro. Sembrava che il recente terremoto avesse provocato la cancellazione di molte prenotazioni per le vacanze e, una volta a bordo dell'aereo, Keith si ritrovò ad occupare lo scompartimento di prima classe insieme ad un solo compagno di viaggio. L'altro viaggiatore era un inglese di mezz'età la cui aria scostante sembrava far parte di lui almeno quanto la sua carnagione rosea, la cravatta a strisce fuori moda, e la copia del catalogo di vendita di Sotheby, sul quale i suoi occhi rimanevano assolutamente fissi. Ma l'insistente ospitalità dello steward diede gli inevitabili risultati e, quando i due uomini furono arrivati a sorseggiare il loro terzo drink, si erano spostati nel comodo bar che si trovava nella parte anteriore dell'aereo e si erano presentati. Il nome dell'inglese era Abbott, Maggiore Ronald Abbott; aveva servito nella Quinta Brigata Fucilieri dell'Esercito Reale nel Northumberland ed ora era in pensione e risiedeva a Tahiti. «Ma solo per sei mesi all'anno,» disse. «Non si può rimanere più a lungo, altrimenti si viene privati della cittadinanza: i francesi stanno bene attenti a non farsi invadere il campo.» «Ha sentito del terremoto?», gli chiese Keith. «Pensa che ci siano molti
danni?» Abbott scosse la testa. «Non c'è di che preoccuparsi. L'epicentro è stato in mare aperto a miglia e miglia di distanza dalla costa. Certo c'è sempre il pericolo di un maremoto, ma non è stato neanche fatto cenno a niente di simile. Sono certo che a Papeete non ci sarà assolutamente nessun problema per i turisti. Lei è in vacanza, non è vero?» «Non esattamente.» Keith alzò lo sguardo verso la steward, grato dell'interruzione e del nuovo drink che era venuta ad offrire. Ma il bicchierino, unito all'effetto dell'altitudine e della stanchezza, servì a sciogliergli la lingua. Quasi senza rendersene conto si trovò a parlare della missione che lui stesso si era assegnata; e, anche se evitò accuratamente di spiegare nei dettagli sia la natura di quella missione sìa i motivi che l'avevano originata, parlò liberamente dei frettolosi preparativi della sua partenza. «Sembra che si tratti di qualcosa di grosso,» commentò Abbott. «Con tutta quella fretta...» Lanciò a Keith un'occhiata pungente. «Non avrà per caso dei guai con la legge?» Keith sorrise. «Non sono un malvivente, se è questo a cui sta pensando. Ma ho dovuto tagliare la corda in fretta quando ho realizzato...» Si interruppe e si mise a scrutare il volto impassibile di Abbott. Aveva un gran bisogno di confidarsi, ma era meglio essere prudenti. Una cosa però era certa: se voleva realizzare il suo scopo, aveva bisogno di aiuto; e un uomo come Abbott aveva tutta l'aria di conoscere molto bene le leggi e i regolamenti locali. Ma di cos'altro poteva essere a conoscenza? Infine Keith tirò un profondo respiro e saltò il fosso. «Lei per caso conosce qualcosa di uno scrittore chiamato H.P. Lovecraft?» Abbott si rigirò il bicchiere tra le mani. «Non l'ho mai sentito nominare. È un suo amico?» «No... ma c'è qualcosa che ha scritto, un racconto che spiega ciò che io spero di fare. Se posso approfittare di lei...» «Mi faccia dare un'occhiata,» disse Abbott. «Ah, dimenticavo.» Keith si accigliò. «Temo di averlo lasciato in valigia.» «Non c'è problema. Me lo darà dopo che saremo atterrati, e cercherò di leggerlo più in fretta possibile.»
All'aeroporto, dopo aver passato il controllo della dogana, Keith trovò in una delle sue borse The Outsider and Others e gli indicò il racconto in questione. «Il richiamo di... di che?» Abbott si interruppe piuttosto confuso. «Penso che si pronunci 'Cuth-uul-hoo,'» gli disse Keith. «Comunque, ciò non ha nessun'importanza. Semplicemente... lo legga e mi faccia sapere che cosa ne pensa.» Abbott annuì. «Dov'è alloggiato lei?» «Al Royal Tahitian.» «Bene. La chiamo stasera in albergo.» Il "Royal Tahitian" era un relitto di un'era passata, precedente all'invasione turistica resa possibile dai jet. Vecchio, cadente, ma indicibilmente affascinante, aveva la struttura principale circondata da ampi spazi dove sorgevano dei singoli villini. Lì si ballava il tradizionale tamaré e, quando Keith si mise ad esplorare la zona del giardino, scoprì un gigantesco fallo di pietra, che nell'antichità poteva essere stato tranquillamente oggetto di adorazione. Sorrise a quella vista, poi si rabbuiò al pensiero di cos'altro i Polinesiani avevano adorato a quei tempi... o cosa alcuni di loro potevano ancora adorare. Non lì, naturalmente, in un albergo di Papeete, né nelle vicinanze di quelle strade rimbombanti del traffico delle moto e del suono delle radio a transistor. Se le antiche tradizioni e le antiche credenze ancora persistevano, bisognava andarle a cercare nell'interno, dove i cinghiali grufolavano sui fianchi delle colline e gli enormi granchi di terra scappavano sui picchi rocciosi. Più probabilmente alcune reminiscenze del passato primitivo potevano ancora sopravvivere nelle isole più lontane, per esempio Moorea o BoraBora, o a nord nelle solitarie Marchesi. Era difficile credere che quella gente sorridente e cordiale avesse un tempo fatto parte di una società bellicosa che praticava l'infanticidio, il cannibalismo inteso come un vero e proprio rito, e cerimonie dove le pratiche magiche si fondevano con quelle sessuali. Ma ciò riguardava la storia pubblica... comunque ci poteva essere anche una storia privata. Keith si ricordò dei Kanakas che in The Shadow over Innsmouth si accoppiavano con le creature-pesce. Forse avrebbe dovuto indicare quella storia ad Abbott, ma c'era un limite alla sua fiducia. Al punto in cui stava-
no le cose, lui aveva corso un rischio calcolato nel sottoporgli l'altro racconto, e dopo cena si trovò ad attendere con molta impazienza la telefonata di Abbott. E invece Abbott si presentò di persona. Arrivò verso le nove, e Keith si trovò davanti un uomo completamente diverso. Era scomparso l'abito di tweed, scomparsa la camicia e la cravatta vecchio stile: Abbott indossava ora dei pantaloncini dai colori sgargianti e una camicia a mezze maniche. Le sue braccia e le sue gambe nude erano abbronzate e muscolose, e il suo colorito rubicondo sembrava ora frutto dell'esposizione al sole piuttosto che del vizio del bere. Ma il cambiamento più evidente era quello del suo modo di fare. Tenendo il libro saldamente stretto nella sua mano destra, condusse Keith fuori dell'atrio nel giardino che si trovava sul retro. «Dov'è il suo bungalow?», mormorò. «Dobbiamo parlare.» Keith lo accompagnò lì e, una volta dentro, gli chiese se voleva bere qualcosa. «Non c'è tempo per questo.» Abbott posò il libro sul tavolino davanti a lui, poi coprì con la mano la copertina. «Buon Dio, amico mio... qui c'è sotto qualcosa di grosso.» «Vuol dire che ha capito?» «Perfettamente. Qui non si tratta di finzione, giusto?» «Non ho detto questo.» «Non ne ha bisogno. La cosa è fin troppo chiara.» Abbott aprì il libro, fece scorrere le pagine finché non trovò il rigo che cercava. «Ne dà anche l'esatta collocazione: latitudine sud 47° 9', longitudine ovest 126° 43'. E la data, il marzo del '25. Coincide tutto.» «Coincide con cosa?» «Da quando sono qui, ho messo il naso in un bel po' di cose. Ho imparato anche a cavarmela con la loro lingua e sono stato sempre cordiale con tutti. Takita mi è stata di grande aiuto.» «Takita?» «Mia moglie. Sì, insomma non c'è stata nessuna cerimonia religiosa, ma si può tranquillamente dire che è stata mia moglie. Povera donna... è morta l'anno scorso.» Per un attimo Abbott rimase in silenzio, poi continuò. «Ad ogni modo, io conosco la sua gente. La sua famiglia vive ancora nelle isole Rapa. Suo nonno — Dio sa quanti anni avrà avuto... ma aveva tutta l'aria di averne almeno novanta — raccontava delle storielle davvero strane. Non le solite superstizioni locali, ma cose che lui giurava fossero vere. Per e-
sempio, quel terremoto di cui parla Lovecraft, c'è stato davvero. E ci fu un gran parlare di una strana creatura, o di più esseri, che vivevano nelle profondità del mare.» «È possibile andarlo a trovare?» «Direi di no. È morto da un bel po' d'anni.» Abbott mise di nuovo giù il libro. «Ma non ha importanza: dopo aver letto il libro, mi è stato subito chiaro ciò che lei ha intenzione di fare. Lei vuole andare lì a dare un'occhiata in giro, giusto?» Keith annuì. «È più o meno quello che ho in mente. Pensa che potrei ricevere dell'aiuto dalle autorità locali?» «Impossibile. Il territorio è fuori della giurisdizione francese. E lei sa cos'è la burocrazia. Immagino che questo sia il motivo per il quale lei non ha detto a nessuno il motivo della sua partenza.» «Sì, è proprio così.» Keith aggrottò le ciglia. «Ma qualcosa bisogna pur fare, e in fretta anche. E io ho bisogno di aiuto.» «Dica cosa ha in mente.» «Pensavo, se si poteva sorvolare la zona...» Abbott scosse la testa. «Non c'è un aeroplano che faccia charter sull'isola che potrebbe coprire la distanza.» «E che ne dice di fittare una barca?» «Le costerebbe un occhio della testa: c'è da pagare l'equipaggio e tutto il resto.» «Questo non è un problema.» «Ottenere il permesso per salpare potrebbe essere un po' noioso.» Abbott increspò le labbra. «Il miglior modo per aggirare l'ostacolo sarebbe quello di dichiarare Pitcairn porto di scalo, e dire ai francesi che lei sta lavorando a un libro sui discendenti degli ammutinati del Bounty. Così, se poi dovesse essere portato fuori rotta, non sarà stata colpa sua.» Keith si sporse verso di lui. «C'è qualcuno che lei mi consiglierebbe per un viaggio del genere?» «Devo chiedere un po' in giro, vedere cosa c'è in porto e cosa è disponibile. Lei ha bisogno di uno skipper che sappia tenere la bocca chiusa, e un tipo del genere di solito non fa il capitano di un palazzo galleggiante.» Abbott guardò Keith dritto negli occhi. «Ma, prima di andare avanti, lei farà bene a dirmi anche tutto il resto. Non credo che abbia fatto tutta questa strada solo per fare un giro d'ispezione. Supponiamo che lei trovi ciò che
sta cercando... dopo che succederà?» Keith esitò. «Non sono sicuro. Ma se fosse possibile procurarsi dell'esplosivo, bombe di profondità per esempio, forse...» «Perfetto.» Abbott sorrise. «Naturalmente lei non si aspetterà di potersi procurare questo genere di merce al mercato. Ci sono tutti i tipi di armi e munizioni nell'artiglieria locale, ma fornirsi dalle proprietà del Governo presenta qualche difficoltà. Ho bisogno di corrompere un po' di gente.» Keith scosse la testa. «Io non mi aspetto che lei corra un rischio del genere.» «Tutta la faccenda è rischiosa. Falsificare i documenti di bordo, comprare il silenzio del personale militare, trasportare bombe di profondità.» Abbott sogghignò. «Proprio ciò che ci vuole per tonificare un fegato indolente. Con il suo permesso, io vorrei essere arruolato per l'impresa.» «Lei verrebbe con me?» «Sono stanco di riposarmi e di stare sempre da solo, e lei avrà bisogno di qualcuno che le faccia esplodere quelle cariche,» disse Abbott. «Ho una certa esperienza nel campo. Comandavo un'Unità di Dimostrazione che si esercitava nei porti.» Sospirò. «Inoltre, se c'è qualche possibilità che ciò che sospettiamo sia vero, l'impresa va tentata.» «Potrebbe essere pericoloso.» Abbott si strinse nelle spalle. «Francamente, credo che lei sia un maledetto stupido. Ma così siamo in due. Con il suo permesso, comincerò a darmi da fare domani mattina di buon'ora.» Ci vollero tre giorni per ultimare i preparativi. Per sua abitudine Abbott evitava di usare il telefono per aggiornarlo sui suoi programmi. Più d'una volta invitò Keith ad andare a casa sua, nella zona con le spiagge dalla sabbia nera che si trovava proprio dall'altra parte dell'isola, ma Keith pensò che fosse meglio evitare quell'andirivieni per non dare nell'occhio. E così si erano messi d'accordo che Abbott sarebbe yenuto di volta in volta in albergo per tenere Keith aggiornato sulla situazione, e che avrebbe provveduto lui a tutti i preparativi necessari con il denaro contante che Keith si era procurato con le tratte della sua banca e con i travel cheque. Al quarto giorno si misero finalmente in viaggio. Il mare era calmo, e questa si rivelò una vera benedizione, perché la Okishuri Maru era una vecchia carretta, e il Capitano Sato — come Abbott aveva predetto — non si dava molta pena di tenere un granché in ordine la sua imbarcazione. Ma
nessuno avrebbe potuto trovare qualcosa da ridire sulla sua arte marinaresca, ed Abbott parve molto soddisfatto di poter lasciare tutto nelle sue mani dopo che fu stabilita la rotta. Keith vide ben poco gli otto uomini dell'equipaggio e non fece alcun tenttivo di comunicare con loro quando i loro compiti li portavano su in coperta. «Non parlano inglese,» aveva detto Abbott. «Sono sporchi e trasandati, ma è il meglio che sia riuscito a racimolare in così breve tempo. Non volevo gente del posto, per ovvie ragioni: questi ragazzi non sono di queste isole, vengono dalle Tuamotu. Sato ha procurato il cambusiere e il cuoco; giura che sono affidabili e non possiamo far altro che fidarci. In fin dei conti il cibo non è malvagio.» «Quanto sa il Capitano Sato di tutta la faccenda?» Keith fece questa domanda mentre erano seduti a bere caffè e cognac la prima sera del loro viaggio. «Un po' di più di quello che mi sarebbe piaciuto.» Abbott abbassò la voce. «Non è uno stupido: all'inizio deve aver pensato che eravamo dei contrabbandieri, e non ha fatto una piega. Poi, quando ha visto portare a bordo le cariche, ha fiutato qualcosa. Ho dovuto raccontargli una frottola, così gli ho detto che lei è un oceanografo e che deve far esplodere quelle cariche per portare alla luce dei reperti che si trovano sommersi a grandi profondità.» «L'ha bevuta?» «È difficile dirlo. Ma ha capito benissimo che comunque si tratta di qualcosa di illegale, e ha stabilito il prezzo tenendo questo fatto in debita considerazione. Quando si renderà conto di qual è la nostra vera missione, si dovrà preparare a sborsare anche di più di quanto abbiamo pattuito.» «Nel caso in cui noi dovessimo davvero trovare qualcosa.» Keith diede un'occhiata fuori dell'oblò della cabina e fissò i raggi del sole al tramonto che striavano di bagliori multicolori l'immobile superficie del mare. «Vede, io non mi sono mai illuso che sarebbe stato facile. Certo è difficile credere che lì fuori ci possa davvero essere qualcosa che rappresenti un pericolo per noi, a parte tutti gli avvertimenti di Lovecraft.» Fu solo la mattina del quinto giorno che la calma di Keith fu scossa. Quando Abbott bussò alla porta della cabina padronale e lo chiamò per farlo salire su ponte, la vista che si offrì agli occhi di Keith lo lasciò sgomento, senza parole. Un brivido gli corse lungo la schiena e rimase attonito a fissare ciò che
galleggiava al largo della loro prua, a dritta. Era qualcosa di sconvolgentemente familiare, e per un attimo pensò di stare vivendo un déja vu. Poi realizzò che davanti ai suoi occhi c'era ciò che Lovecraft aveva così realisticamente ed accuratamente descritto nel suo racconto: l'estremità di una solitaria vetta fangosa spinta verso l'alto dalle profondità dell'oceano, in cima alla quale torreggiava una colossale massa di arte muraria che si ergeva fino a un monolite formato da giganteschi blocchi di roccia color verde limo. Era R'lyeh, ed era reale. I membri dell'equipaggio ciarlavano tra di loro e si erano affiancati a lui in coperta. Il Capitano Sato si unì a loro. Aveva un'aria minacciosa e, con gli occhi socchiusi a causa del sole, fissava quella massa abnorme che si innalzava su una superficie fangosa, e che su quella superficie si poggiava e si alzava formando degli angoli talmente distorti da far venire il capogiro dal momento che sfidavano ogni legge di gravità e ogni pretesa di equilibrio mentale. Ora, finalmente, Keith riusciva a credere a tutto, perché lì, davanti a lui, c'era la prova definitiva... una prova che si manifestava in una forma ben più spaventevole di qualsiasi cosa che si potesse suggerire a parole, o che si potesse vedere nelle immagini di un incubo. Fissando quell'orrore delle profondità, comprese il suo potere: il potere di rendere nota la sua presenza nei sogni degli uomini di quasi tutto il mondo. Era stato nei suoi sogni che Lovecraft l'aveva visto tanto tempo prima, e si era destato per mettere per iscritto il suo avvertimento. E anche la setta esisteva davvero; la setta che con le sue preghiere e le sue invocazioni aveva propiziato l'avvento del terremoto: la tanto attesa eruzione che aveva fatto sorgere ancora una volta R'lyeh dalle sconfinate profondità dove il Grande Cthulhu dormiva immortale ed eterno, inviando i suoi ordini. Ordini. Keith era vagamente consapevole della presenza di Abbott a fianco di lui che in modo secco e brusco impartiva ordini al Capitano Sato. Doveva essere immediatamente calata in mare la scialuppa. «Si assicuri che a bordo ci siano almeno un paio di cariche,» disse Keith. «Se riuscissimo ad aprire quella porta e a lanciarle dentro...» Abbott accennò di sì con la testa, poi comunicò a Sato le istruzioni necessarie.
Durante le operazioni che seguirono, Keith continuò a fissare la ciclopica cittadella che stava a poco a poco prendendo una forma intellegibile; soprattutto l'imponente scala di pietra dalle folli angolazioni che certamente non era stata progettata e foggiata pensando all'andatura umana, e la grande porta, ampia quasi quanto un acro, a cui essa conduceva. Anche da quella distanza riusciva a vedere le sculture dalle strane forme che correvano lungo tutta la sua superficie: creature dotate di enormi tentacoli, orrendamente contorte e indicibilmente terrificanti. E dietro quella porta... al di là di quella porta e sotto quella porta... c'era la realtà che quelle immagini rappresentavano. «Si sente bene?» Abbott l'aveva preso per le spalle e lo stava scuotendo. Keith fece di sì con la testa; abbassò lo sguardo e si rese conto che ora la scialuppa stava battendo contro il fianco della nave, con degli uomini a bordo e pronta per partire. «Andiamo, allora.» Abbott si arrampicò giù per la scala di corda e Keith lo seguì goffamente fino a che non raggiunse la salvezza, quando toccò la barca che si trovava sotto. Quindi mollarono la cima che li legava alla nave e partirono con Sato al timone. Ancora una volta lo sguardo di Keith fu attirato dalla montagna di fango, ornata di erbe, che si ergeva davanti a loro, e dal mastodontico mostro di pietra che la sovrastava. «Guardi,» disse. «Non mentiva... Il modo in cui quelle pietre sono sistemate, tutte di traverso. Eppure reggono.» Abbott annuì con impazienza. «Non c'è tempo adesso per lezioni di geometria. Si mantenga a poppa.» La scialuppa stava già rallentando davanti alla base inclinata della bizzarra costruzione. Il Capitano Sato urlò i suoi ordini e fu dato fondo all'ancora. Keith notò che l'equipaggio continuava a chiacchierare e non mostrava di essere minimamente impaurito... ma, in effetti, loro non avevano idea di ciò che c'era lì dentro, di ciò che stava nascosto in attesa nelle tenebre dietro quella grande porta che si trovava in cima a quella scala così stranamente inclinata. Keith scivolò e inciampò all'inizio del pendio mentre seguiva Abbott. Sapeva che gli uomini dell'equipaggio avrebbero trascinato sù le cariche di profondità e che si trovavano immediatamente dietro di lui, ma non si guardò alle spalle. Il cuore gli batteva e non solo per lo sforzo ma soprat-
tutto per l'ansia dell'attesa. Alla fine lui e Abbott raggiunsero la grande porta in cima, riccamente ornata con delle sculture in pietra, che non cedeva ad alcuna pressione e in nessun punto. Allora gli venne in mente ciò che era scritto nel racconto. «Si ricorda la storia?» Mormorò Keith. «È come un pannello, basculante nella parte superiore.» Abbott passò lentamente la mano lungo tutto il lato intagliato, poi fece pressione sulla superficie limacciosa dell'architrave di pietra in un punto posto proprio sulla parte più alta. La porta si inclinò verso l'interno e, mentre lui scendeva i gradini, il passaggio si fece più ampio e rivelò gli abissi di ebano. Dall'apertura veniva fuori un odore putrescente che stordiva i sensi, un fetore così opprrimente e così intenso che per poco Keith non svenne. Anche se faceva fatica a respirare, tornò in sé e vide che il Capitano Sato e i membri dell'equipaggio avevano ora raggiunto la sommità della scala e stavano fermi accanto a lui, a mani vuote. Si girò accigliato verso Abbott. «Le cariche di profondità... dove sono?» «Nel dannato deposito dell'artiglieria di Papeete,» disse Abbott. «Non avrà davvero creduto che io le avessi prese, vero? C'erano già abbastanza problemi così... se solo lei fosse venuto a casa mia come io avrei voluto, non ci sarebbe stato bisogno di andare fino in fondo.» Si strinse nelle spalle. «Ma, del resto, sarei comunque dovuto venire qui per aprire la porta.» Keith restò senza fiato, poi si girò verso Sato. Mentre faceva quel movimento, udì un suono come di qualcosa che si muoveva nel fango, un suono che proveniva dall'oscuro baratro oltre la gigantesca entrata. Anche Sato lo udì, ma la sua espressione non si alterò assolutamente. Uno degli uomini dell'equipaggio, un indigeno tarchiato dalla pelle scura, si avvicinò e si mise a scrutare Keith molto attentamente con occhi impassibili piazzati in un volto dalla bocca enorme. Il Capitano Sato fece un cenno col capo in direzione dell'uomo. «Lui appartiene a Cthulhu,» disse. Gli uomini dell'equipaggio si stavano ora accalcando attorno a Keith, e lo afferravano con mani appiccicaticce per sollevarlo al di sopra dell'apertura spalancata di quella porta demoniaca dalla quale qualcosa stava salendo e li stava raggiungendo. Keith non poté sopportare la vista di ciò che stava in agguato lì sotto; i
suoi occhi si chiusero mentre cadeva in avanti nelle tenebre. L'ultima immagine che gli rimase impressa fu quella dei volti degli uomini dell'equipaggio che avevano gli occhi come quelli dei pesci. Aveva riconosciuto troppo tardi le caratteristiche degli abitanti di Innsmouth. II POI «Temo che non ci siano dubbi,» disse Danton Heisinger. «È morto.» Kay Keith non rispose. Se ne stava seduta nell'ufficio del direttore della banca ad esaminare le sue reazioni. Kay era acutamente consapevole del freddo che arrivava dal condizionatore dell'aria, dell'odore acre del sigaro di Heisinger, delle rapide occhiate dei suoi occhi astigmatici che si nascondevano dietro la spessa barriera di lenti bifocali, del fruscio dei fogli di carta che lui gettava alla rinfusa sulla sua scrivania dopo averli velocemente esaminati. Le sue reazioni ai vari stimoli erano a posto: udito, tatto, olfatto, vista. Tutto funzionava perfettamente. Ma la notizia della morte di Albert Keith non produceva nessuna reazione cosciente. «Questo è il rapporto inviato dal Consolato,» stava dicendo Heisinger in quel momento. «Ci sono le deposizioni dei testimoni oculari, del Capitano e di alcuni membri dell'equipaggio. Sono stati interrogati separatamente dalla Polizia e dalle Autorità Governative francesi, e ciò che hanno raccontato coincide perfettamente, in ogni minimo particolare!» Heisinger spinse verso di lei i fogli a velo di cipolla delle copie carbone. «Se vuole esaminarli...» Kay scosse la testa. «Non c'è bisogno. Credo a quello che mi dice. Solo che ubriacarsi e cadere in mare da una barca nel mezzo del Pacifico... questo non è da Albert. Sono sicuri che l'identificazione del corpo è giusta?» «Assolutamente.» Heisinger schiacciò il mozzicone del sigaro nel posacenere, con gran sollievo di Kay. «Hanno ricostruito tutti i suoi movimenti a partire da quando ha comprato il biglietto d'aereo qui a Los Angeles.» Kay scosse ancora la testa, poi si passò una mano tra i riccioli biondi, con un gesto lento e ponderato. «Il problema è che non mi sembra proprio il genere di cosa che lui avrebbe fatto. Scappare così in un posto sperduto. Non riesco proprio a im-
maginarmi Albert che agisce d'impulso.» Heisinger alzò le spalle. «Francamente, neanch'io. Il suo ex marito mi ha sempre dato l'idea di essere un uomo molto metodico.» «Così, ci deve essere stata una ragione...» «Ne sono più che certo.» Heisinger annuì. «Il punto è, che non sapremo mai qual è stata. Non mi ha consultato prima della partenza. Tutto ciò che posso dirle è che annunciò la sua decisione immediatamente dopo il terremoto. Stabilì di ritirare ventimila dollari in travel cheque, e chiese alla banca di aiutarlo per abbreviare i tempi necessari per il rinnovo del passaporto e per superare le lungaggini burocratiche della partenza. Lo aiutammo anche a trovare una ditta che si occupa della manutenzione degli immobili per prendersi cura della casa mentre lui era via. Li pagò in anticipo per il primo mese e non accennò assolutamente al fatto che potesse stare fuori più a lungo, così si può supporre che intendesse tornare entro quel lasso di tempo. E questo è tutto ciò che sono in grado di dirle.» Kay aggrottò le ciglia. «Ma perché Tahiti tra tanti posti? E che ci stava a fare su un'imbarcazione giapponese a centinaia di miglia lontano dalla costa? Non era un pescatore. E non era nemmeno un ubriacone. L'ultima volta che l'ho visto, quando ci siamo incontrati per discutere le clausole del nostro divorzio, pranzammo insieme, e lui non bevve neanche un bicchiere di vino.» «Questo è accaduto tre anni fa, se ricordo bene,» disse Heisinger. «Le persone cambiano.» Il piccolo funzionario di banca sorrise con aria esitante. «Non del tutto, naturalmente. Lei può sentirsi almeno confortata dal fatto che il suo ex marito non ha mai cambiato il suo testamento. Lei è ancora l'erede della proprietà. In qualità di suo esecutore testamentario, sto provvedendo affinché l'inventario di tutti i beni venga approntato il più in fretta possibile. Ah, ecco, questo mi fa venire in mente...» Heisinger aprì il cassetto superiore destro della sua scrivania e da una busta di carta da imballaggio tirò fuori un portachiavi. «Ecco qui. Il duplicato delle chiavi della casa: porta principale, porta di servizio, più un'altra per il garage. Ho pensato che poteva aver voglia di andare a dare uno sguardo.» «Grazie.» Kay mise le chiavi nella borsa. «Devo avvertirla di non spostare o rimuovere nulla senza prima consultarmi.»
«Naturalmente.» Kay spinse indietro la sedia e si alzò. «C'è qualcos'altro su cui devo essere informata?» «No. Per il momento nient'altro. Ho conservato la chiave della sua cassetta di sicurezza, naturalmente. Sembra che non avesse alcuna assicurazione sulla vita.» «Doveva aver fatto scadere la polizza dopo l'inizio delle pratiche del divorzio.» Kay sospirò. «In effetti non c'era motivo di continuare a pagarla.» Per la prima volta, mentre pronunciava quelle parole, Kay sentì salirle alla gola un'ondata di sentimento, anche se non era in grado di identificarne l'esatta natura. Dispiacere perché Albert era morto? No, in tutta sincerità, non poteva affermare di stare provando un sentimento così forte come il dolore. Forse compassione. Sì quella era la sensazione che più si avvicinava alla verità. Compassione per un uomo che era morto così lontano e così tremendamente solo. Ma, in fin dei conti, Albert Keith era sempre stato lontano e solo, anche quando loro erano stati sposati. Se lei avesse avuto compassione allora, se fosse stata in grado di comprendere, forse ora avrebbe potuto essere ancora vivo. Al diavolo, ora sì che riconosceva qual era la sua reazione emotiva: si sentiva colpevole! Se la colpa si può considerare un'emozione. Comunque non aveva importanza, lei non aveva nessun motivo per sentirsi in colpa; ex marito o no, lei non aveva mai veramente conosciuto Albert; non poteva piangerlo né per quello che era stato né per quello che avrebbe potuto essere. Con un sussulto Kay realizzò che Heisinger stava parlando con lei, e che stava già parlando da un bel po' di tempo. «... e quando l'inventario sarà completo, farò sì che il procuratore compili i documenti necessari per la verifica dell'autenticità del testamento. Ci manterremo in contatto.» «Ancora grazie per tutto quello che ha fatto.» «Non c'è di che.» Heisinger si alzò e accompagnò Kay fino alla porta dell'ufficio. «Siamo sempre qui a sua disposizione.» Le sue labbra sottili si distesero in un fuggevole sorriso; Kay si scoprì a tradurlo in decimi di secondo mentre accennava di sì con la testa e usciva sul corridoio. Il cinque per cento di un sorriso per il cinque per cento della proprietà. Un giusto rapporto, pensò Kay. Le rimaneva comunque il novantacinque per cento di ogni cosa: inclusa la responsabilità di scoprire cosa poteva essere successo. Ma lei non era responsabile, ricordò Kay a se stessa. Il divorzio aveva
messo la parola fine a tutto, e lei aveva le carte, e i documenti legali che lo provavano. Se poi i documenti legali possono veramente provare qualcosa. Dannazione, perché si sentiva così in colpa? La cosa più intelligente che poteva fare era uscire da tutta quella storia. Lasciare che l'esecutore, il procuratore e gli agenti delle tasse facessero l'inventario e mettessero tutto a posto, poi prendersi il suo novantacinque per cento e goderselo. Lei non amava Albert, e lui non la amava. E, anche se avessero avuto la più bella storia d'amore dopo Romeo e Giulietta, Antonio e Cleopatra, o Sonny e Cher, adesso la cosa non avrebbe avuto più nessuna importanza. Albert era morto, lei non poteva fare niente per portarlo in vita di nuovo, e se c'era qualcosa di sospetto nel modo in cui era morto... Qualcosa di sospetto. Oh Gesù, ecco cos'era! Un brivido gelido le corse lungo la schiena. Si affrettò ad uscire dall'edificio per potersi scaldare al tepore del sole. Kay tremava e ricordava. Si ricordava della bambina di cinque anni che stava in piedi sulla riva del fiume Colorado davanti agli avanzi del picnic e guardava la Polizia di Stato che tirava fuori dall'acqua la cosa e la trascinava sulla sabbia. I ganci della presa avevano lasciato i segni, ma non era quello ciò che aveva lasciato il segno nella sua memoria, l'aveva segnata e l'aveva ferita per tutti quegli anni. Era stata l'assenza di segni che l'aveva tormentata nei suoi incubi; la gonfia levigatezza della cosa che cadde pesantemente sulla riva, bagnata e gocciolante. La lunga immersione nell'acqua aveva cancellato ogni somiglianza con un essere umano; la carne era tumefatta e grigia come il fango, le braccia e le gambe era come pinne sgraziate che terminavano con parti senza dita e senza punte, e i pesci ne avevano divorato il volto. Quella era la cosa veramente orribile; il pensiero dei pesci banchettanti. La bambina di cinque anni aveva visto quella scena e aveva urlato, ed ora quell'urlo echeggiava ancora nei lunghi corridoi della memoria. Sì, la cosa più intelligente da fare era uscire da quella storia. Ma a Kay le gambe tremarono finché non fu al sicuro seduta nella sua macchina a fare la manovra per uscire dal parcheggio. Eppure non poteva andar via, non poteva scappare — perché non aveva più cinque anni — non poteva sfuggire al pensiero di Albert. Della morte di Albert e di come era morto; affogato lì in quelle acque profonde dove i
pesci pullulavano e i denti seghettati affondavano nella carne flaccida... Non riusciva ad andarsene. E neanche a guidare. All'angolo girò a destra e diresse la macchina verso le colline avvolte nella nebbia. Una volta imboccato il canyon, Kay cominciò lentamente a riprendersi, come se il fatto stesso di aver preso una decisione l'avesse liberata sia del suo senso di colpa, sia dei suoi ricordi. Poi, a un certo punto, fu assalita da qualcosa di molto simile a un déja vu. Aveva già percorso quella strada molte volte nel passato, ma non negli ultimi anni, e i suoi ricordi erano piuttosto offuscati. Sbagliò strada per due volte nell'incredibile confusione di tratti ciechi e strade che giravano su se stesse; le ombre del tardo pomeriggio si stavano allungando e stavano sfumando nel crepuscolo quando finalmente si fermò davanti al luogo che un tempo aveva chiamato casa. Ma era davvero così? Di nuovo quella sensazione di déja vu. Riconosceva quella casa eppure non riusciva veramente ad associarla con la realtà passata. Forse aveva sognato di aver vissuto lì; forse si era appropriata dei ricordi di qualcun'altro e li aveva considerati suoi. Heisinger aveva ragione. Le persone cambiano. Albert era cambiato, su questo non c'erano dubbi. Lei si ricordava meglio del suo breve periodo di spavalderia prima del loro matrimonio, una specie di prepotenza che alludeva alla forza del suo desiderio. Non si trattava, naturalmente, di niente del genere; era solo il bisogno perenne di un bambino viziato di possedere qualsiasi cosa considerasse di volta in volta attraente. Ma lei voleva che lui fosse possessivo, lei sentiva il bisogno di appartenere a qualcuno. Sfortunatamente, la sua esigenza, o istinto — o mania del collezionista, perché forse di questo veramente si trattava — si rivelò un fenomeno temporaneo. I bambini si stancano dei giocattoli, per quanto attraenti, soprattutto quando il possederli comporta delle responsabilità. Albert era presto scivolato nella sua abituale introversione, e questo era stato il motivo determinante che li aveva portati alla separazione e poi al divorzio. Ma anche lei era cambiata. Se l'alienazione di Albert era cresciuta, la sua stessa tendenza a fare la gregaria si era ingigantita. Al tempo del suo matrimonio con Albert lei era un tipo solitario, timida ed inibita, ben poco sicura della sua abilità di sapersela cavare con le difficoltà della vita di tutti i giorni e nel mondo del lavoro, ed ancora meno sicura della sua sessualità.
Fin da quando era stata un'adolescente, gli uomini avevano trovato Kay sempre molto attraente, ma l'idea che lei aveva di se stessa era sempre quella di un brutto anatroccolo. Per essere più precisi, non aveva mai coscientemente desiderato di diventare un cigno. E Albert Keith per ironia della sorte, l'aveva risvegliata. I rapporti sessuali dei quali così in fretta lui era sembrato stancarsi, le avevano fatto prendere coscienza della sua condizione e avevano fatto nascere in lei il desiderio di realizzarsi. Ma Albert non si era mostrato sensibile alle sue esigenze. Il suo interesse verso di lei diminuì; lei poteva tranquillamente essere rimasta un brutto anatroccolo, dal momento che lo stile di vita di Albert non sentiva assolutamente né la necessità, né il desiderio che lei fosse un cigno. Non c'era quindi nessun bisogno di recitare la parte della donna emancipata, elegante e alla moda, prodotto falso e artificiale del Movimento di Liberazione delle Donne. In ogni caso, per quanto perversa potesse sembrare, quella era esattamente l'immagine di sé che Kay voleva costruire. I corsi universitari per studenti lavoratori che intraprese per sfuggire alla noia portarono a dei corsi per fotomodella, e i corsi per fotomodella a incarichi professionali. Il resto era stato inevitabile. Da quello al caos più completo il passo era stato breve. Non era stato un anno piacevole. Il divorzio, quando arrivò, era stato amichevole — questa era la parola che usava Albert; lui era sempre così bravo a trovare la parola giusta per una cosa sbagliata — e ognuno se ne era andato per la sua strada. La sua non era stata facile, ma nel corso degli ultimi anni, a poco a poco, l'aveva condotta alla maturità emotiva. Kay ne era consapevole e ciò la rendeva felice. Eppure ora si trovava a interrogarsi. Come se ne era andato Albert? Aprendo la porta, entrando nel soggiorno, Kay si trovò di fronte alla risposta. Più esattamente — più esoticamente, lì tra le tenebre che si addensavano — la risposta si mise di fronte a lei. Dalla finestra alle sue spalle gli ultimi raggi rosseggianti del sole al tramonto andarono ad illuminare gli occhi sporgenti e le bocche ringhianti delle maschere appese al muro. Per un momento restò immobile, stupita, ma non era spaventata da ciò che vedeva; la testa avvizzita che dondolava nella semioscurità e le statuette rovesciate nel mobiletto cinese non le facevano paura. Quelli erano giocattoli, non erano cose che terrorizzavano. Il genere di
cose che i ragazzini ordinano per posta, pescandole tra gli avvisi pubblicitari delle ultime pagine dei fumetti. Sebbene le maschere fossero autentiche, e non delle riproduzioni di plastica, la minaccia che volevano portare era del tutto fasulla; la testa avvizzita, qualsiasi fosse la sua origine, non poteva farle niente di male. Ma poteva aver fatto del male ad Albert? Sì, fargli del male, perché il suo interesse per quel genere di cose era diventato un'ossessione, perché l'aveva fatto rintanare in un mondo puerile, lontano dalla realtà quotidiana? Io sono cresciuta, Kay disse a se stessa. Albert era diventato più infantile. Perché? Che cosa era accaduto? Che cosa aveva fatto sì che si ritirasse in quello strano mondo, lontano dalla realtà? Io gli sono capitata. C'è stato il nostro matrimonio. Lui non ha saputo affrontare quella nuova condizione, così è fuggito. Non si è saputo confrontare con me, così si è circondato di cose che non gli ponevano questi problemi. Maschere che non vedono, che non parlano; occhi e bocche che non possono criticare o disprezzare. Una testa avvizzita con un cervello inaridito che non ha pensieri segreti in grado di minacciare l'immagine di sé che si era faticosamente costruito. Kay scosse la testa. Da quando sei diventata una psicanalista così esperta? Ma forse è vero. Il mondo sembra essere pieno di gente che non riesce a far fronte ai propri problemi. Le droghe e l'alcool contribuiscono ad offuscare la distinzione tra sogno e realtà, ma non basta. Non basta per dimenticare le paure, eliminare la rabbia, esorcizzare i demoni quotidiani. Così si colpiscono palline, invece che volti, si mandano all'aria palle da bowling, piuttosto che fracassare teste, e si gode perversamente assistendo davanti allo schermo alle violenze praticate da altri. Albert non aveva imboccato quella strada, ma allora non ne aveva avuto bisogno. Aveva denaro sufficiente per potersi permettere un'eterna privacy; lì, nel suo rifugio, si poteva circondare di tutti i simboli della sicurezza. Se si ha paura di vivere con la gente, allora è meglio vivere con gli oggetti. Cose prive di vita, cose che fanno venire in mente la morte, ma che non ti minacciano l'esistenza perché possono essere tenute facilmente sotto controllo. Tu le possiedi, e loro non possono farti nulla di male. Stai cercando di farlo apparire come un candidato al manicomio, Kay disse a se stessa. Ma lui non era pazzo. Ecco cosa gli era successo: era impazzito. Il modo in cui era scomparso, come fosse svanito nel nulla, il modo in cui era morto.
Eppure ci doveva essere una spiegazione razionale anche per questo; una spiegazione strettamente collegata con il suo desiderio di fuga. E se fosse andato a Tahiti in cerca di un posto quanto più lontano possibile dalla routine quotidiana del cosiddetto mondo civile, in cerca della stessa semplicistica soluzione che aveva attirato Gauguin nelle stesse isole? Probabilmente il terremoto era stato il fattore scatenante che gli aveva fatto prendere l'improvvisa decisione della partenza. Se così era stato, il mistero che circondava la sua morte poteva essere facilmente svelato. Albert, con ogni probabilità, aveva trovato la Tahiti dei nostri giorni una vera e propria trappola per turisti; aveva quindi deciso di noleggiare una barca per cercare un'isola più appartata dove stabilirsi. Per quanto riguardava il fatto che fosse ubriaco, poteva essere stato semplicemente un antidoto al caldo. Lui non era abituato a bere, questo lei se lo ricordava bene, e l'alcool unito al sole poteva essere bastato a fargli perdere il controllo. Perdere il controllo. Era lei quella che aveva perso il controllo dei nervi e se ne stava lì in quella casa vuota a sognare ad occhi aperti in pieno giorno. In verità ormai si era fatto scuro, perché il sole era ormai tramontato, e c'erano ombre dappertutto. Strisciavano fuori dagli angoli, scivolavano lungo i muri, si trascinavano sul pavimento, si affollavano intorno a lei. Nell'oscurità, le maschere potevano muovere le loro bocche, le statuette nel mobiletto guardare attraverso il vetro, la faccia della testa avvizzita contorcersi in un ghigno spettrale. La logica fiorisce alla luce del giorno ma, quando scende la notte, appassisce rapidamente al fuggevole tocco delle tenebre. Poi fioriscono e appassiscono i fiori più tetri diffondendo nell'aria il profumo della paura. Fluttuano tra le ombre, e le ombre fluttuano con loro. Gesù, da dove veniva quella? Kay sorrise impacciata, poi si diresse verso l'interruttore della luce. Tutte quelle belle parole sulla maturità facevano colpo, ma eccola là, proprio come un gattino spaventato, impaurita dalla sua stessa ombra. Solo che non era la sua ombra. Quell'ombra si muoveva. Emerse dalla porta d'ingresso e le andò incontro. «Buona sera Mrs. Keith,» disse l'ombra. «Accenda la luce.» Kay premette l'interruttore e l'ombra scomparve. Al suo posto vide un
uomo dalla corporatura robusta di circa trentacinque anni. Capelli corti, zigomi alti, occhi grigi e stretti come fessure, torace ampio che quasi faceva scoppiare l'abito marrone che indossava. Notò tutto questo con una sola occhiata, ma certo ciò non era sufficiente a spiegare quel pungente senso di apprensione che la presenza dell'uomo aveva destato in lei. Si sforzò di mantenere calma la voce. «Chi è lei... che cosa sta facendo qui?» «Ben Powers.» L'uomo mosse la testa dal basso verso l'alto con fare indifferente. «Heisinger non le ha detto nulla?» «Dirmi cosa?» «Sono della banca. Ufficio beni e proprietà.» Si frugò in tasca, tirò fuori il portafogli, lo aprì e mostrò il suo biglietto da visita. Kay lo mise da parte con un gesto impaziente. «Come ha fatto ad entrare?» «Esattamente come ha fatto lei, immagino.» La mano di Powers sprofondò in un'altra tasca della giacca e ne uscì tenendo una chiave. «Tutti noi abbiamo il duplicato.» «Noi?» «Lavoriamo in squadra, Mrs. Keith. Stiamo facendo l'inventario... prepariamo una lista da presentare quando sarà registrata la copia autenticata del testamento.» «A quest'ora?» «Sono stato qui per quasi tutto il pomeriggio. Di là nelle stanze da letto. Credo di non averla sentita entrare.» Powers fece un largo sorriso. «Quando l'ho sentita, mi sono un po' spaventato: ho pensato che fosse un ladruncolo. Ecco perché sono arrivato di soppiatto.» «Come fa a sapere chi sono?» «Dalle sue fotografie. Ho trovato in uno dei cassetti un vecchio album di foto.» «E cos'altro ha trovato?» «Non molto. Il suo ex marito non doveva essere il tipo d'uomo che ama circondarsi di molti ricordi.» Kay si accigliò. «Non capisco. Questo cosa ha a che fare con l'inventario?» Ben Powers indicò ai vari oggetti che si trovavano nella stanza. «Ci potrebbe dare un'idea della somma che ha pagato per tutta questa roba. E che provenienza ha. Lei per caso non sa...» «Mi dispiace.» Kay scosse la testa. «La maggior parte di queste cose so-
no state acquistate dopo che me ne sono andata.» Guardò l'ora. «Il che mi fa venire in mente... ora devo andar via.» «Anch'io. Non mi ero accorto di come si è fatto tardi.» Il perito si avviò verso la porta principale. «L'accompagno alla sua auto.» Spense la luce. Uscirono nell'oscurità, e Ben Powers chiuse a chiave la porta dietro le loro spalle. Kay si diresse verso il posto di guida della piccola Honda rossa, poi guardò il suo compagno. «Dove ha parcheggiato?», disse. «In fondo alla strada.» Lui le sorrise. «In questo genere di lavoro è meglio essere prudenti. I vicini potrebbero insospettirsi nel vedere un'auto sconosciuta ferma qui tutti i giorni.» «Quanto tempo ancora ci vorrà prima che il lavoro sia terminato?» Powers si strinse nelle spalle. «Con un'altra seduta dovremmo aver finito. Con il suo aiuto.» «Il mio?» Kay pescò la chiave nella borsa. «Io non ho alcuna intenzione di tornare ancora qui.» «Non intendevo questo. Solo alcune domande e risposte...» «Ma le ho già detto che non so nulla su ciò che Albert ha acquistato durante gli ultimi tre anni.» «Ci sono altre cose che lei potrebbe dirmi. Il prezzo della casa è stato registrato, ma non il costo del mobilio o di tutte le modifiche che vi avete eventualmente apportato.» Ben Powers sorrise di nuovo. «Guardi, ho un'idea. Perché stasera non viene a cena con me e sistemiamo tutto?» «In verità, Mr. Powers...» «È tutto a suo vantaggio. Prima sarò in grado di presentare un resoconto e prima si potrà proseguire alla verifica dell'autenticità del testamento. Suppongo che lei avrebbe piacere che tutto ciò fosse sistemato il più presto possibile.» Kay esitò. Powers le fece un cenno col capo. «Non ci vorrà molto, lo prometto. Tra l'altro, lei dovrebbe cenare comunque. Quindi perché non mi segue?» «E dove?» «C'è un posto giù nella Burton Way, Maxwell...» «Lo conosco.» «Bene. Ci vediamo lì.» Ben Powers si girò e scomparve nel buio. Il parcheggio di Maxwell era ben illuminato, ma all'interno del ristorante
le luci erano molto fioche. Powers socchiuse gli occhi, dopo che ebbero preso posto, e si accorse che Kay si era accigliata. «C'è qualcosa che non va?» «Niente.» Kay abbassò lo sguardo sul menù. «Avevo dimenticato che questo posto è specializzato in piatti a base di pesce.» «Non le piace il pesce?» «Non in maniera particolare.» «Fanno anche delle buone bistecche qui. E dei buoni drink. Sono proprio tutti eccellenti: non saprei quale consigliarle.» Per prima cosa arrivarono i drink. E Ben Powers guardava al di sopra dei bicchieri nella semioscurità del locale. «Il suo ex marito,» disse, «anche lui detestava il pesce?» «Perché mi fa questa domanda?» «Così, solo curiosità. Dal rapporto che ho letto ho dedotto che fosse impegnato in una battuta di pesca quando c'è stato l'incidente.» Il sorriso di Powers svanì nella penombra. «Detestava il pesce, Mrs. Keith?» «Non lo so. Io non ho mai preparato piatti a base di pesce quando eravamo sposati, ma naturalmente questo succedeva perché a me il pesce non piaceva.» «Allergia?» «No. È qualcosa che risale alla mia infanzia...» Kay si interruppe, corrucciata. «Ma che cosa ha a che fare tutto ciò con l'inventario?» «Mi scusi. Suppongo che sia perché sono interessato a ciò che c'era scritto nel rapporto. O meglio, a ciò che non c'era scritto. Non le è parso strano che in effetti non c'è nessuna vera informazione? Nel mio lavoro si tende ad essere piuttosto pignoli per quanto riguarda i particolari.» «Io le posso dare i particolari sul prezzo che pagammo per i mobili, i tappeti e gli elettrodomestici,» disse Kay con voce dura. «Che ne dice di soffermarci su quest'argomento e di lasciare da parte i gusti di mio marito?» «Le faccio le mie scuse.» Powers tirò fuori un taccuino e una penna. «Allora cominciamo prima che venga servita la cena.» Le sue domande erano di routine, e le risposte di Kay meccaniche. A poco a poco la sua irritazione scomparve; ora che aveva la sensazione di averlo messo a posto, non c'erano più problemi. Powers si rimise in tasca il taccuino non appena fu servita l'insalata. Il cibo era buono, e, con sua sorpresa, Kay si accorse che in effetti si stava divertendo. Ben Powers si rivelò un commensale molto piacevole, soprat-
tutto dopo aver smesso i panni dell'inquisitore. Quando finirono di cenare, continuarono a rimanere seduti per bere un caffè e poi un digestivo. A quel punto Kay si sentiva completamente rilassata. Si sorprese anche a domandarsi se Ben Powers fosse sposato. «Si sente meglio?» Le sorrise nella semioscurità. «Sì, molto meglio. Grazie.» «Grazie a lei per essere venuta! Lei probabilmente mi ha salvato da un destino peggiore della morte.» «Sarebbe?» Powers si strinse nelle spalle. «Non ha mai notato come la nostra società penalizzi gli individui soli?» Non è sposato, si disse Kay; poi concentrò di nuovo la sua attenzione sul suono della voce di Powers, dal momento che lui aveva continuato a parlare. «Prendiamo per esempio quegli annunci della catena di Alberghi Vega. Prezzi speciali scritto a grosse lettere sulla porta d'ingresso ma, una volta che sei arrivato alla reception dell'albergo, specificano che le facilitazioni valgono solo se si occupa una doppia. E quando vai in un ristorante da solo, di qualunque levatura sia, ti danno sempre un tavolino malandato vicino alla cucina.» «Questo è il motivo per cui evito i posti dove si serve il pesce,» disse Kay. «Ogni volta che i camerieri passano per quelle porte oscillanti, arriva una folata di puzza di pesce fritto.» «Anche Lovecraft li odiava,» disse Powers. «Chi?» «H.P. Lovecraft. Lo scrittore.» «Non l'ho mai sentito nominare.» «Ne è sicura?» Ben Powers si sporse in avanti. «Naturalmente. Perché avrei dovuto?» «Pensavo che forse il suo ex marito poteva avergliene parlato. Sembra che lui e il suo amico Waverly ne sapessero parecchio sul Mito.» «Il Mito?» «Lasci perdere.» Powers ritornò al suo posto e sollevò il suo bicchiere di liquore. «Non finché non mi avrà detto di che si tratta.» Kay mise giù il suo bicchiere e rimase a fissare il volto dell'uomo che si trovava in penombra.
«Come fa a sapere che Albert e Waverly erano amici? E che cosa ha a che fare con la proprietà di mio marito?» «Niente. Penso di aver commesso uno sbaglio.» «Sono io ad aver commesso uno sbaglio.» Kay si alzò afferrando la borsa con un gesto nervoso. «No, aspetti un attimo...» Ben Powers fece per alzarsi ma Kay lo fermò con un gesto. «Non si preoccupi di accompagnarmi,» disse. «E in futuro non si prenda il fastidio di volermi rivedere.» «Mrs. Keith... la prego...» Ma Kay si stava già muovendo tra le ombre, e non si girò a guardarsi indietro. Le ombre percorrevano a gran passi le strade lungo le quali guidò, le ombre stavano acquattate nel buio del garage sotto il complesso dove si trovava il suo appartamento e volteggiavano nell'ingresso. Ancora altre ombre l'attendevano nella stanza da pranzo, ma quelle riuscì a metterle in fuga accendendo la luce. Ma la luce non disperse le altre ombre che si annidavano dentro di lei... le ombre del sospetto e del dubbio. Kay entrò nella stanza da letto e scaricò alla rinfusa sul letto tutto ciò che c'era nella sua borsa alla ricerca del pezzetto di carta dove aveva segnato l'indirizzo di Danton Heisinger e il suo numero telefonico. Se ricordava bene, lui le aveva dato due numeri telefonici, e il secondo doveva essere quello di casa. Quando trovò ciò che stava cercando, fece immediatamente la telefonata. «Mrs. Heisinger?» «Sì. Chi parla?» «Sono Kay Keith. Mi dispiace disturbarla a quest'ora...» «Non si preoccupi. Cosa posso fare per lei?» «Vorrei delle informazioni sul signore che si sta occupando dell'inventario dei beni di Albert.» «Chi?» «Ben Powers. Era a casa quando sono passata di lì nel pomeriggio, e...» «A casa?» Ci fu un attimo di pausa, e in qualche modo Kay intuì che Heisinger doveva star scuotendo la testa. Poi riprese a parlare. «Ma non è possibile.» «Come sarebbe a dire?» «Sono più che certo che non si trovasse a casa del suo ex marito perché
io sono andato a vederlo proprio subito dopo che lei ha lasciato il mio ufficio oggi pomeriggio.» «E dov'era?» «Nella camera mortuaria della Pierce Brothers. È morto per un attacco di cuore due giorni fa.» Nell'appartamento di Kay le luci rimasero accese per tutta la notte, ma le ombre rimasero. Le ombre del dubbio, che si fecero sempre più angosciose quando chiuse gli occhi e tentò di dormire. Le ombre erano ancora lì, nei suoi occhi — e, cosa ancora peggiore per una modella professionista, sotto gli occhi — quando la mattina dopo si presentò all'appuntamento che aveva con Danton Heisinger nell'ufficio della banca. «Per favore non mi guardi,» disse Kay mentre si muoveva sulla sedia con fare imbarazzato. «So di avere un aspetto orribile, ma non sono riuscita a dormire molto.» «Neanch'io.» Heisinger batté la mano sul libretto che aveva davanti a sé sulla scrivania. «Ecco, questo l'ho avuto dalla Pierce Brothers. Sembra tutto in ordine. A parte me e poche altre persone della banca, nessun altro ha firmato il libro dei visitatori. Che loro sappiano, Ben non aveva parenti, e i suoi effetti personali si trovano ancora nella loro cassetta di sicurezza. Ed includono il suo portafogli e i suoi documenti di riconoscimento. È di fatto impossibile che qualcuno sia riuscito ad avere accesso alle cassette di sicurezza. È sicura di ciò che le è stato mostrato?» Kay scosse la testa. «La verità è che io ho dato, così, solo un'occhiata al portafogli e al suo biglietto da visita. Come facevo a sapere che era un impostore?» «Lui contava soprattutto sul fatto che lei non lo conosceva, questo è chiaro. In caso contrario non avrebbe rischiato tanto, soprattutto considerato che questa era la sua prima mossa. Dalla descrizione che lei me ne ha fatto, non c'è assolutamente nessuna somiglianza fisica tra quell'uomo e il vero Ben Powers. Si deve essere sentito molto sicuro di sé per giocare questa carta con lei.» «Ma perché?» Kay aggrottò le ciglia. «Io non sapevo che fosse lì. Se aveva intenzione di svaligiare la casa, non doveva far altro che starsene nascosto finché non me ne fossi andata.» Heisinger annuì. «Esattamente. Penso che tutti e due abbiamo subito pensato che quel-
l'uomo fosse lì per compiere un furto. Ma quest'ipotesi dà adito a qualche domanda interessante. Come faceva a sapere il suo nome? Che cosa l'ha spinto ad invitarla a cena? E poi chi è questo H.P. Lovecraft di cui continuava a chiederle?» «Non so cosa risponderle,» disse Kay. «Bene, io ho una risposta.» Heisinger abbassò lo sguardo sul suo blocchetto per gli appunti. «Secondo l'impiegato del settore consultazioni della Biblioteca Centrale, Lovecraft era uno scrittore di storie di fantasy e dell'orrore. Nato a Providence, Rhode Island, nel 1890; morto sempre lì nel 1937. I suoi racconti sono stati raccolti per la prima volta dopo la sua morte nel...» Kay lo interruppe con un rapido gesto della mano. «Ma io non l'ho mai nemmeno sentito nominare! Ed è esattamente la stessa cosa che ho detto all'uomo che si spacciava per Ben Powers.» Heisinger alzò lo sguardo e annuì. «Probabilmente era proprio ciò che lui voleva scoprire.» «Non la seguo.» «Supponiamo che lui avesse già organizzato l'intero piano: entrare in casa, presentarsi come un perito stimatore, invitarla a cena. E tutto solo per sapere quanto lei ne sapesse su Lovecraft.» «Perché doveva pensare che io lo conoscessi? Non c'è alcun collegamento.» «Forse Albert Keith è il collegamento.» Heisinger si poggiò allo schienale della sedia. «Gli piaceva leggere o raccogliere libri di fantasy?» «Io non ho mai visto libri di questo genere in casa, né lui ha mai parlato di queste cose con me.» «Ma collezionava quelle maschere e quelle statuette.» «Non mentre eravamo insieme.» «Capisco.» Heisinger abbassò di nuovo lo sguardo sul blocchetto degli appunti. «Bene, tentiamo un'altra strada. Aveva mai vissuto a Providence?» «No.» «Era mai stato lì?» «Se ci fosse stato, sono sicura che me ne avrebbe parlato.» «Avevate amici a Rhode Island, qualcuno che avesse potuto scrivergli?» Kay corrugò la fronte. «Ho capito cosa sta cercando di fare. Ma non c'è assolutamente nessun legame tra Albert e un uomo che è vissuto e morto a tremila miglia di di-
stanza e più di cinquanta anni fa.» Heisinger sospirò. «Temo che lei abbia ragione. Sembra che Lovecraft non sia la chiave del mistero. E a proposito di chiavi...» Kay vide Heisinger prendere un elenco telefonico da uno dei cassetti della scrivania. «Che cosa ha intenzione di fare?» disse. «Trovare un fabbro. Chiunque sia quest'intruso e qualsiasi cosa stia cercando di fare, un cambio di serratura gli impedirà di introdursi in casa di nuovo. E mentre io mi occupo di ciò, le consiglio di far mettere una nuova serratura anche a casa sua.» «Non pensa di stare un po' esagerando? Dopotutto non mi sembra di correre alcun pericolo.» «Non possiamo esserne certi.» «Allora perché non andare alla Polizia?» Heisinger sorrise con aria desolata. «Ho già tentato questa carta. Stamattina presto ho parlato con il sergente Schneider. È alla Sezione Furti giù in città.» Da dietro le spesse lenti bifocali gli occhi consultarono il suo taccuino degli appunti. «Ecco qui... Ralph Schneider... sì, ecco il suo numero 485-2524, se vuole annotarlo. Ha suggerito che lei potrebbe fare un salto alla Stazione di Polizia e guardare le foto segnaletiche per vedere se riesce ad identificare il sospetto.» «Questo è tutto?» «Francamente non sembrava molto contento di quello che gli ho raccontato. Dal momento che sembra che non sia stato rubato nulla, la cosa non si può certo definire un furto. Non c'è neanche alcuna prova che la serratura sia stata forzata per entrare in casa, così rimane solo il reato di violazione di proprietà e falsa identità.» «Quindi loro non hanno intenzione di procedere.» «Il sergente inoltrerà queste informazioni alla Divisione di Hollywood. Le auto di pattuglia della Polizia terranno d'occhio la casa. Ed è stato lui a suggerire il cambio di serratura. Dopo che avranno finito il lavoro, farò in modo che lei abbia la nuova chiave.» «Grazie.» Kay si alzò. «Sta andando giù in città?» «Ci sto pensando.» Kay alzò lo sguardo per guardare il piccolo funzionario della banca. «Non si incomodi ad accompagnarmi alla porta. Ma se riesce a sapere qualcosa...»
«Non si preoccupi Mrs. Keith. Mi manterrò in contatto con lei.» Il sorriso di commiato di Heisinger scomparve dietro la porta che si chiuse alle spalle di Kay. Per un lungo momento se ne rimase lì seduto ad ascoltare il ticchettio dei passi che si allontanavano verso l'ingresso. Poi allungò la mano verso il telefono. Kay sollevò la cornetta nel suo appartamento e compose il numero della sua segreteria telefonica. C'era un messaggio per lei: chiamare l'agenzia Colbin. Lei telefonò, e Max Colbin aveva il solito tono sicuro di sé. «Dove diavolo ti eri cacciata?», la salutò. «Non perder tempo a darmi delle spiegazioni: è già mezzogiorno e hai un appuntamento per le due.» «Un appuntamento dove?» «Al 1726 della South Normandie. Allo Starry Wisdom Temple.» «Dove?» «Allo Starry Wisdom Temple. Sì, uno di quei gruppi fricchettoni che si fanno pubblicità distribuendo volantini per strada. Vogliono qualcuno per della roba semplice, sì modelli senza pretese: niente alta moda, niente gioielli. Bodard ha già parlato con loro e, se prendi il lavoro, si occuperà lui delle riprese. Ma prima vogliono vederti.» Kay sospirò. «Non potevi solo mostrargli l'album? Sai bene quanto odio questi provini.» «Senti piccola, avrai tre bigliettoni per ogni ora di lavoro, più il normale pagamento dello straordinario se si va oltre il tempo stabilito. Mi pare che per un ingaggio così puoi anche soffrire un po', quindi sbrigati ad andare laggiù. E chiedi del Reverendo Nye.» Erano le due in punto quando la macchina di Kay si fermò e scivolò nel parcheggio completamente deserto davanti al 1726 della South Normandie. Ma esitò un attimo prima di mettere la moneta da dieci cent nel parchimetro. La grande insegna di legno sull'entrata di quell'edificio a due piani, portava a chiare lettere la scritta Starry Wisdom Temple, ma si trattava chiaramente di un'insegna aggiunta di recente, e lo stesso era per i pesanti drappi rossi che coprivano i finestroni su tutti e due i lati dell'entrata. Kay intuì che la struttura in pietra dell'edificio doveva essere stato in precedenza un tempio dei Mormoni. Ma qualcuno lì dentro aveva trecento dollari da spendere per un'ora di lavoro. Il dovere la chiamava e Kay lasciò cadere la moneta.
Il dovere chiama. Era quello il modo in cui una ragazza squillo considerava il suo compito? Arrivare ad uno strano indirizzo per tener fede ad un appuntamento con uno strano individuo che avrebbe preso in affitto il suo corpo per trecento bigliettoni all'ora? Salendo i gradini che portavano all'entrata, Kay ricordò a se stessa che c'era differenza tra fotografia e pornografia, almeno come livello. Naturalmente anche lei riceveva il suo bel numero di proposte più o meno oscene; dopotutto si trattava di un rischio del mestiere. Ma lei non posava per riprese di nudi o di indumenti di biancheria intima, e fino a quel momento non aveva avuto problemi seri. Guardoni e tipi strambi non assumevano più le modelle, ma si servivano degli istituti di bellezza, dei saloni per i massaggi o persino delle taverne agli angoli delle strade. Kay sorrise con aria sarcastica. Come si era assuefatta in fretta al suo nuovo stile di vita! Se Albert sapesse quello che sto pensando si rivolterebbe nella tomba. Il sorriso sparì in fretta dalle sue labbra. Albert non avrebbe saputo mai più niente, e non stava neanche in una tomba. Era a miglia e miglia di distanza, sperduto da qualche parte nelle profondità del mare, e i pesci... Kay diede con foga uno strattone al battente della porta. Rimase fermo; la porta era chiusa a chiave. Forse quello era un buon auspicio e lei poteva andarsene con la coscienza tranquilla. Poi, quand'era già pronta a voltare le spalle, si accorse del campanello a fianco alla porta. Il dovere chiama. Suonò il campanello e attese. Si udì uno scampanìo debole e indistinto provenire da qualche parte all'interno dell'edificio. Il secco scatto della serratura gli fece eco in risposta. Kay afferrò il pomello; questa volta rispose alla sua sollecitazione e la porta si aprì. Si inoltrò in un ingresso buio che portava ad una stanza interna tutta tappezzata di tende. Da lì, sulla sua sinistra, partiva la tromba delle scale inclinata verso l'alto. Da sopra risuonò una voce maschile. «Mrs. Keith?» «Sì.» «Salga, per favore.» Una luce illuminava debolmente la scala. Kay si arrampicò sù, guardando davanti a sé per riuscire a distinguere l'uomo che le aveva parlato. Ma il vano in cima alla scala era vuoto. A destra della scala si vedeva un'altra luce che proveniva da una stanza con la porta aperta. «Sono qui dentro,» disse l'uomo.
Ed era lì. Kay entrò nel piccolo ufficio e si meravigliò dell'incredibile confusione. Tutte e quattro le pareti erano tappezzate di librerie e il loro contenuto era straripato sul pavimento privo di tappeti. Scatoloni pieni di libri dalla copertina rigida e in brossura, riviste e quotidiani, stavano ammucchiati negli angoli ed erano disposti in ordine sparso da tutti e due i lati della scrivania al centro della stanza. Il topo di biblioteca che se ne stava seduto dietro alla scrivania le fece un gesto di saluto col capo. «Pace e saggezza a lei,» disse con tono suadente. La sua voce aveva un accento cadenzato che non riusciva a classificare. «Il Reverendo Nye?» Lui si alzò e le tese la mano ricoperta da un guanto bianco. Kay la strinse, chiedendosi se la sua sorpresa fosse molto evidente; pareva proprio di sì perché lui sorrise. «Il signore dell'agenzia dovrebbe averglielo detto,» disse. «Lei non si aspettava che io fossi negro.» Quella, stabilì Kay, era un'affermazione troppo modesta, che non dava un'esatto quadro della situazione. E anche se Max Colbin gliel'avesse detto, lei non sarebbe stata preparata ugualmente... non a quello, almeno. Perché il Reverendo Nye era il cliché del negro, come se avesse fatto un bagno nel carbone, o tipo campione negro. L'accento poteva essere di un posto delle Indie Occidentali, probabilmente giamaicano. Ma con quel colore di pelle così scuro, l'abito scuro e quegli assurdi guanti bianchi, sembrava uno di quei ballerini-cantanti truccati da negri nei vecchi spettacoli di varietà. Kay riuscì a ricambiare il suo sorriso. «Il signore dell'agenzia avrebbe dovuto dire qualcosa a lei,» disse Kay. «Si dà il caso che anche lui sia negro.» «Touché.» Il Reverendo Nye fece una risatina soffocata. «Bene, si vive per imparare.» Fece il giro intorno alla scrivania e spinse da un lato un grosso cartone di libri, scoprendo così un piccolo sgabello munito di cuscino che era rimasto nascosto lì dietro. Lo indicò a Kay e lei si mise a sedere. «Mi scusi per come la ricevo,» disse. «Continuo a dirmi che devo dare una ripulitina a questo posto, ma sembra che non ci sia mai abbastanza tempo. Sono troppo occupato a vivere e a imparare.» Il Reverendo Nye tornò indietro e si mise di nuovo a sedere dietro alla scrivania. «È un vero
peccato essere costretti a fare questa distinzione. Vivere e imparare dovrebbero essere un'unica cosa, assolutamente imprescindibili, non è d'accordo?» «Non ci ho mai pensato.» «In verità pochi lo fanno.» Annuì con aria seria. «Bisogna essere illuminati, e questo è lo scopo del mio ministero. Conosce qualcosa sulla dottrina della Starry Wisdom?» La domanda colse Kay di sorpresa. «No, veramente no. Voglio dire ci sono così tanti nuovi movimenti in questo periodo... gli Haré Krishna, la Scientologia...» Si sentì di nuovo il riso soffocato dell'uomo. «Le assicuro che non c'è nessuna affinità. E la Starry Wisdom non è nuova. La sua antica dottrina è antecedente a tutte le altre religioni ancora praticate. Ma questo è il punto: naturalmente ci sono altre religioni che di fatto non vengono più praticate, perché non si aggiornano. Sono ormai morte e seppellite, vittime della tecnologia dei nostri giorni. Che ne sapeva Buddha dell'elettricità? Ci aveva forse Maometto preparato per l'era spaziale? Poteva Gesù tener testa a un computer? «La Bibbia, il Corano, il Talmud, sono ormai diventati tutti antiquati. La loro dottrina e le loro leggi erano adatte allo stile di vita dei nomadi del deserto che conducevano un'esistenza che si curava solo delle cose terrene senza essere turbata dal pensiero di realtà cosmiche. Oggi noi scorriamo le pagine di quei libri e non troviamo niente di pertinente ai problemi attuali. «Ecco perché questi nuovi movimenti, come li chiama lei, stanno nascendo. Ma la maggior parte di loro offrono le solite vecchie risposte con parole diverse. Risposte senza senso. La complessità della vita contemporanea richiede meditazione, ma loro insegnano la meditazione. E tutti i loro cerimoniali metafisici e gli orpelli psicologici fanno capo al più noioso e trito dei luoghi comuni: Conosci Te Stesso. Ma anche se ciò fosse possibile — e non lo è, almeno in alcun modo ricco di significato — qual è lo scopo della presa di coscienza di se stessi? La nostra unica speranza di salvezza risiede nella conoscenza del mondo esterno, del mondo dello spazio e delle stelle. Non è d'accordo?» Kay annuì chiedendosi dove volesse arrivare. Il Reverendo Nye era un predicatore, su questo non c'erano dubbi, ma perché fare la predica a lei? «Una volta, molto tempo fa, l'umanità sapeva la verità su se stessa, sul proprio posto nell'universo. Conosce l'ipotesi di Wegener secondo la quale un tempo tutte le masse emerse della terra formavano un unico continente,
che si è suddiviso ed è andato alla deriva nel corso dei secoli? Viene considerata una teoria relativamente nuova, ma la Starry Wisdom conosceva la verità già da molto tempo. Così come era già a conoscenza della realtà che sta dietro al cosiddetto fenomeno degli UFO, e di ciò che noi definiamo impulsi radio da un altro mondo...» Un pazzo che crede ai dischi volanti, pensò Kay tra sé e sé. Quest'uomo non è un predicatore, è un fanatico. Ancora una volta risuonò la risata sommessa e soffocata dell'uomo. «Mi dispiace, Mrs. Keith. Tendo a essere portato fuori strada.» Dagli uomini con i camici bianchi. Il pensiero di Kay riecheggiò il completamento della frase, ma non era ciò che aveva in mente il Reverendo Nye. «Ma lo faccio solo perché, se si familiarizza con i nostri principi fondamentali, ciò le sarà d'aiuto nel suo compito,» stava dicendo lui. «Mi avevano detto che lei aveva bisogno solo di alcune fotografie,» disse Kay. «Per degli annunci sui giornali, presumo.» «Giusto.» L'uomo dietro alla scrivania fece degli ampi gesti con la sua mano inguainata nel guanto bianco. «Ma le necessità sono una cosa; i desideri un'altra. E io voglio qualcosa di più di semplici fotografie di un volto sorridente ed affascinante. Io voglio che quel volto rispecchi la sincerità, la chiarezza, la vera comprensione.» Kay annuì, dolorosamente consapevole che il suo volto in quel momento non poteva assolutamente rispecchiare nessuna di quelle cose. L'odore stantìo di quei vecchi libri si fece sempre più acuto intorno a lei, e quello stravagante personaggio con i guanti bianchi cominciava a non piacerle affatto. Ma... il dovere soprattutto. «Al Bedard è uno che ci sa fare con la macchina fotografica,» disse lei. «Sono sicura che non verrà meno alle sue aspettative.» «Solo se i suoi occhi saranno aperti e consapevoli,» disse il Reverendo Nye. Si sporse in avanti e cominciò a scrutarla. «Per questo motivo, avrei una richiesta da fare. Ci sarà una conferenza della Starry Wisdom al Tempio, questa sera alle otto. Lei avrà un'opportunità per ascoltare e imparare, un'opportunità per capire. Tornerà qui stasera?» Assolutamente no, disse Kay tra sé e sé, alzandosi in gran fretta. Ma quando parlò ad alta voce, le parole furono differenti. «Certamente, ci sarò,» disse. In qualche modo uscì dall'ufficio, scese le scale, passò per l'ingresso, e si ritrovò di nuovo in auto. Anche dopo essere partita ed essersi avviata alla
luce del tramonto, tutto continuava a sembrarle sfocato. Tutto, cioè tutto tranne la visione di ciò che le aveva fatto improvvisamente cambiare idea: ciò che aveva intravisto nel momento in cui si era alzata e aveva abbassato lo sguardo sullo scatolone di libri a fianco alla scrivania. Il titolo del volume posto più in alto non voleva dire assolutamente nulla per lei: The Outsider and Others. Ma il nome dell'autore era H.P. Lovecraft. «Spero che tu non stia facendo sul serio.» Al Bedard la guardò di traverso con aria stizzita mentre guidava la sua Volkswagen su una strada dissestata che conduceva giù alla South Normandie, con Kay seduta al suo fianco. «Trascinarmi in un postaccio del genere quando ormai è già buio. Non è per niente sicuro...» Come per confermare le sue parole, un cumulo di macerie si parò all'improvviso davanti a loro, circondato da cavalletti gialli che segnalavano i lavori in corso per riparare i danni provocati dal terremoto del mese precedente. Bedard girò bruscamente lo sterzo per lasciare l'ostacolo sulla sinistra, scuotendo la testa con aria disgustata. Kay gli sorrise. «Non volevi mica lasciarmi andare da sola, vero?» «Io penso che tu non ci saresti dovuta andare e basta,» le disse Bedard. «Quanto ti danno per questo lavoro... due, trecento dollari? Ebbene il gioco non vale la candela.» «Abbi fiducia in me,» disse Kay. Con un cenno del capo gli indicò il marciapiede alla sua destra. «Puoi parcheggiare qui.» «Non credo che ci sia un'anima viva in tutto il circondario,» biascicò Bedard. «Smantelleranno l'auto neanche cinque minuti dopo che l'avremo lasciata.» Ma comunque si apprestò a fare la manovra e sistemò l'auto dove Kay aveva suggerito, provvedendo a tirare sù i finestrini non appena Kay ne fu uscita. Dopo aver chiuso a chiave le portiere, la raggiunse mentre se ne stava immobile a fissare l'edificio che si trovava dall'altro lato della strada. Le tende erano ancora tirate per nascondere le finestre, ma la porta principale era aperta. Una luce che proveniva dall'interno illuminava l'insegna sopra all'entrata. Bedard la osservò con attenzione mentre attraversavano la strada.
«Starry Wisdom Temple,» disse. «Di che si tratta: una specie di riunione per propiziare la rinascita?» «Vedremo.» Kay guardò l'ora. «Andiamo, sono già le otto passate. Avranno già iniziato.» Mentre si avvicinava all'entrata, Kay si rese conto che dall'interno non si diffondeva solo la luce ma anche il suono di una musica... uno zufolio stridulo che le sembrava vagamente familiare. Poi, quando delle note basse più profonde si fusero nella melodia, Kay riconobbe il motivo. Era un brano di Holst, La Suite dei Pianeti, il movimento chiamato Urano, il Mago. Non sembrava proprio il sottofondo musicale adatto per una riunione sulla rinascita. Ma poi, dopo che ebbero sorpassato l'ingresso e il varco che si apriva tra le due file di cortine, fu immediatamente chiaro che quello non era un normale raduno di Cristiani per la Rinascita. Kay non si era formata nessun pregiudizio; e anche se l'avesse fatto, non sarebbe riuscita in alcun modo a presagire ciò che c'era ad attenderli all'interno. La sala delle riunioni era più grande di quanto ci si potesse immaginare; si trattava di una stanza interna che si estendeva per tutta la lunghezza dell'edificio, con le pareti completamente dipinte di nero e dei drappeggi di velluto che dal soffitto arrivavano fino al pavimento. Forse originariamente avevano addobbato una chiesa, così come le vecchie e pesanti panche di legno scuro di quercia che dovevano servire per far sedere i fedeli. Certamente dall'arredo di una chiesa dovevano provenire i bracieri di ferro battuto sistemati lungo i muri laterali nei quali bruciava l'incenso, che diffondeva nell'aria un odore nauseabondo e malsano che evocava associazioni sconcertanti. Anche Al Bedard lo avvertì e arricciò il naso. «Puzza come un'agenzia di pompe funebri qui,» mormorò. Kay annuì e si mise a squadrare gli occupanti delle panche. La presenza di gente di colore non la sorprese affatto, ma rimase stupita dal gran numero di Latino-Americani e di Orientali; i gruppi etnici si mescolano solo molto raramente, fatta eccezione che per i riti religiosi. Nei recessi della sua mente aveva la sensazione che ci fosse un comune denominatore lì, e cercò di identificarlo. Non si trattava della posizione economica, questo era certo: alcuni dei presenti erano decisamente ben vestiti, e anche in maniera molto classica, ed altri erano vestiti in maniera povera e trasandata. Poi realizzò qual'era l'unico attributo che li accomu-
nava tutti, indistintamente: la giovinezza. Un'alta percentuale del gruppo sembrava essere di teen-agers, e nessuno aveva l'aria di superare i trenta. Piuttosto stranamente, la folla era dignitosa, e non aveva affatto le caratteristiche della rumorosa agitazione che di solito si associa con un'adunanza di giovani militanti. Sedevano tutti compostamente, ascoltavano con grande attenzione la musica diffusa dagli autoparlanti, e guardavano alla fioca luce proveniente da una fila di riflettori che erano allineati lungo tutti e due i lati del palco sopraelevato in fondo alla sala. Il palco a sua volta era circondato su entrambi i lati da pesanti tendaggi che lasciavano intravedere solo una stretta apertura centrale. Ed era lì che si trovava un grande leggìo. La zona dietro al leggìo era immersa nelle tenebre. Bedard fece cenno a Kay. «Sediamoci lì in fondo,» mormorò, indicando una fila di panche vuota. Kay annuì e presero posto nelle vicinanze della navata centrale. Si erano appena seduti, che la musica cambiò. Ancora una volta Kay rimase sorpresa di riconoscere il motivo, dal momento che Holst aveva lasciato il posto a Vaughan Williams: il movimento finale della Sesta Sinfonia. Forse il Reverendo Nye aveva avuto ragione di insistere per farla andare lì per ascoltare e imparare. Così facendo, aveva già scoperto di conoscere abbastanza bene la musica e i suoi effetti. La misteriosa qualità degli strumenti a corda suonati in sordina evocavano immagini di altri mondi, pianeti senza vita, soli morti e distanti, che si muovevano come particelle di polvere nel vuoto infinito di un altro universo, che stava morendo. È questo il modo con cui il mondo finisce: non con una grande deflagrazione, ma con un bisbiglio. Un bisbiglio che si perdeva nelle tenebre. Poi, nel silenzio generale, si spensero le luci. Ci fu un fruscio, un mormorio dalla platea. Anche loro si erano sentiti in contatto con il vuoto eterno ed ora, per un istante, erano parte di esso. Ma solo per un attimo. Il suono squillante di un gong mandò in frantumi l'illusione dell'eternità e una luce livida divampò all'improvviso al di sopra della piattaforma mentre una figura con una lunga toga rossa veniva avanti dall'oscurità. «Pace e saggezza a voi!» Risuonò la voce del Reverendo Nye. Sollevò le braccia da sotto il suo mantello scarlatto e suscitò la risposta dell'uditorio. «Pace e saggezza.»
«Fulgida saggezza!» «Fulgida saggezza,» fecero eco i presenti. Invocazione e risposta. Diamine, era vera e propria industria dello spettacolo, si disse Kay. Ma funzionava. Funzionava come fosse una magia, perché era magia. Musica e incenso, tenebre e luce, toghe e rituali: funzionava adesso come aveva sempre funzionato. Maghi e stregoni recitavano le loro formule magiche al Sabbath, i druidi svolgevano i loro riti magici davanti ai dolmen, gli stregoni-dottori farfugliavano i loro responsi nella giungla, e la magia aveva luogo. Il Reverendo Rye, avvolto nella sua toga rossa, non era uno stregone. Ma quando sollevò le sue mani coperte dai guanti bianchi con un gesto d'altri tempi davanti a un microfono moderno, anche quello fu un avvenimento. I singoli individui si fusero nell'insieme dell'uditorio; l'uditorio si tramutò nei seguaci; i seguaci divennero credenti. Lui parlava, e Kay vide avverarsi, udì avverarsi le sue parole. Di nuovo, come era successo dopo la sua intervista del pomeriggio, la vista e l'udito le sembravano stranamente sfocati. Ma sebbene spesso le sfuggisse l'esatta sostanza delle parole, il senso era limpido come il cristallo, evocato in immagini che brillavano a intermittenza nell'offuscamento dei sensi, e reso più ammaliante dal tono della sua voce profondo e monotono. Azathoth. Yog-Sothoth. Shub-Niggurath. Quelle parole erano un insieme di sillabe senza senso, ma le sillabe senza senso erano dei nomi; nomi formulati da labbra umane nel debole tentativo di identificare le realtà che essi rappresentavano. Le realtà dei Grandi Vecchi generati in un altro mondo che erano venuti a regnare sulla Terra prima che l'umanità si sollevasse dalla melma primitiva... prima che si sollevasse al loro cenno di comando, per servire e assistere i loro desideri. L'uomo era stato creato per venerare e rispettare i Grandi Vecchi che gli avevano dato il dono della vita, ed esisteva la prova di questo rapporto. La prova è nelle leggende di tutte le terre, recentemente resuscitata dalla teoria di Velikowsky degli «astronauti» che provengono da altri pianeti, oltre a quella de «i carri degli Dei» di Von Daniken, simboli dei viaggi dei Grandi Vecchi attraverso il tempo e lo spazio. Sopravvivono persino dei brandelli di prove fisiche e possono ancora essere ritrovate, perché fu grazie alla saggezza e alla direzione dei loro im-
mortali maestri, che gli uomini innalzarono i grandiosi Templi di Atlantide, Lemuria, Mu e delle altre perdute terre della preistoria, e la biblica torre di Babele che fu distrutta dal diluvio. Fu il diluvio — provocato dal sollevamento della crosta terrestre che spaccò e sommerse i continenti con delle convulsioni che a loro volta erano state causate dal passaggio di comete gigantesche — che mandò in rovina i Templi dei Grandi Vecchi, intrappolandoli sotto il peso schiacciato di oceani in tempesta e masse di ghiaccio polare grandi come montagne. In qualche modo, una piccolissima parte dell'umanità sopravvisse; sopravvisse in uno squallore bestiale per interminabili ere di detriti glaciali e, solo molto lentamente, cominciò a evolversi in un nuovo tipo di civiltà. Ma tra le nuove culture se ne conservarono anche alcune di quelle del passato che sopravvissero in forma di miti, distorte per creare le basi delle religioni emergenti. Fu conservata anche una parte della dottrina; nozioni sufficienti per spiegare le forme di Stonehenge, Zimbabwe, i templi dei Maya, l'Angkor Wat, le grandi piramidi. Allora governavano nuove caste religiose che avevano travisato l'antica saggezza per renderla adatta ai loro fini. Negarono l'esistenza stessa dei Grandi Vecchi, dissimulando la loro memoria sotto le sembianze di demoni: Ahriman, Set, Baal, Satana. Ma non riuscirono a dissimulare la memoria delle razze, che continuava ad affiorare nei sogni degli uomini e ancora oggi si riflette nelle loro forme articolate. L'immaginario collettivo ha sempre serbato delle tracce della verità che esistono in fogge alterate persino ai nostri giorni. Che cos'è l'astrologia se non un'espressione dell'influenza delle stelle... le stelle dalle quali i Grandi Vecchi sono giunti per governare i nostri destini? Le varie religioni hanno sempre tentato di screditare la verità, di spacciare la consapevolezza come un peccato. L'uomo era caduto, dicevano loro, perché aveva provato ciò che era proibito: il frutto dell'Albero della Sapienza. Ed erano stati gli dei dei preti, tanti o uno solo, ad inviare come punizione i diluvi e i cataclismi. E sempre gli stessi portavoce delle nuove divinità sostengono che la loro è l'unica vera saggezza, le loro preghiere e i loro riti gli unici giusti. Perciò ci sono stati scismi e sono nate sette religiose, guerre e conquiste, divisioni di nazioni, rivalità tra dottrine che hanno messo a ferro e fuoco interi paesi: insomma la distruzione di tanti affinché pochi potessero dominare. E poi, di conseguenza, c'è stata la persecuzione dei fedeli. Eppure i fedeli sono rimasti. C'è sempre stato un piccolo gruppo partico-
larmente selezionato, gli iniziati, che non si sono fatti ingannare dai travisamenti e dalle calunnie messi in pratica dai loro maestri mortali. Loro custodivano il ricordo dei Grandi Vecchi. E i Grandi Vecchi si ricordavano di loro. Perché loro non erano morti. Entità capaci di attraversare la vastità degli spazi extraterrestri sono immortali. Possono essere seppellite sotto titanici ammassi di ghiaccio o imprigionate in immense cittadelle di pietra sotto mari impetuosi: seppellite ma ancora senzienti. Entità addormentate nell'eternità, che per loro non è altro che un istante, e che si agitano nel loro sonno per inviare i sogni. Sogni che invadono le menti dei miscredenti sotto forma di veri e propri incubi... Ma ai credenti quei sogni portano una rinnovata fede, e una rinnovata speranza nell'avvento del giorno in cui i Grandi Vecchi sorgeranno e regneranno di nuovo. A R'lyeh sprofondata, il Grande Cthulhu giaceva in attesa, in attesa del momento in cui le stelle si sarebbero trovate nella congiunzione propizia e in cui sarebbe ritornata la potenza per liberarsi. Quel momento era ormai a portata di mano, il potere era efficacemente salvaguardato, depositato in scritture segrete che i fedeli avevano custodito nel corso dei secoli. È questo potere, questa sapienza, che era rappresentato dalla Starry Wisdom. «Io vi porto l'annuncio,» intonava il Reverendo Nye. «La faticosa attesa sta giungendo al suo fine. Le costellazioni si raggruppano nel loro corso cosmico. Il terremoto del mese scorso è stato un segno di ciò che è stabilito. Le forze prendono forma per foggiare il futuro. Presto le montagne si ridurranno a granelli di polvere, le barriere di ghiaccio si dissolveranno, il mare svelerà i suoi segreti. «Molti periranno: i preti delle false fedi e i loro falsi profeti che gli uomini chiamano scienziati, insieme a tutti quelli che credono in loro. Saranno tempi terribili per loro, amici miei... e tempi vittoriosi per noi. Quelli che hanno fede sopravviveranno.» Le mani inguantate si sollevarono e si mossero davanti alla faccia scura con gesti lenti che facevano da contrappunto alle parole che andava intessendo. «So che per alcuni ciò che dico sembra il più assurdo dei nonsensi. Per altri suonerà come una bestemmia, e, nella migliore delle ipotesi, come sciocca e insulsa superstizione. E voi direte a voi stessi, chi è questo ciarlatano?» L'intonazione della sua voce cambiò all'improvviso. «O, forse, state pensando: chi è questo pallone gonfiato e perché ci sta propinando tutte queste
assurde scempiaggini? Accidenti, noi non gli abbiamo chiesto cosa ci riserva il futuro, e non abbiamo già abbastanza guai?» Il Reverendo Nye sorrise e si strinse nelle spalle. «Bene, comunque la mettiate, un dubbio rimane sempre un dubbio. Ostruisce il cammino della verità e deve essere rimosso.» «Così ora è venuta l'ora della verità.» Mentre parlava, le mani inguantate si immersero dietro il leggio e poi si sollevarono di nuovo tenendo stretta una scatola o uno scrigno. Kay fissava con molta attenzione il contenitore rettangolare; era largo probabilmente poco più di trenta centimetri e lungo poco più di quaranta, fatto di metallo giallastro ossidato a causa degli anni. Sulla superficie esterna vi erano incisi dei disegni raffiguranti delle figure che si contorcevano, appena visibili nella penombra della sala, e il coperchio era riccamente intagliato. Il Reverendo Nye piazzò la scatola sulla parte superiore del leggìo; la folla fu percorsa da un mormorio e poi tacque di nuovo. Kay avvertì la sensazione come di un bisogno impellente, un'aspettativa, e dal calore della folla accalcata salì una specie di brivido che portava con sé il profumo della paura. Ancora una volta tutto sembrò sfocato e confuso. Poi il Reverendo Nye fece pressione su un lato della scatola. Il coperchio si spalancò e, nell'oscurità generale, ne uscì un raggio di luce... di luce brillante, abbagliante, che veniva fuori dal contenitore di metallo. Il volto di Nye era soffuso da quella luminescenza mentre lui se ne stava immobile davanti alla scatola aperta e la fissava. Poi le sue braccia si allargarono e la voce divenne più forte in sintonia col gesto. «Mirate il dono dei Grandi Vecchi, sorto dal mare, così come loro stessi sicuramente risorgeranno! Mirate il dono della verità, inviato dalle stelle per rendervi liberi!» Inclinò la scatola in avanti per mostrare la fonte della luce che si trovava all'interno: un enorme cristallo, fissato e mantenuto in sospensione da alcune lamine di metallo poste in posizione orizzontale che si allungavano da un lato all'altro e dalla base dell'interno della scatola, la cui superficie era intagliata con mirabili sfaccettature, che irradiavano un fulgido splendore negli occhi degli astanti. Kay tentò di distogliere lo sguardo da quella luce accecante, ma non c'era scampo; quel bagliore attirava lo sguardo come una calamita. La luce aveva invaso tutti gli spazi, e così pure la voce. La voce era parte della luce, la luce era parte della voce, e il tutto faceva
parte di un sogno. E nel sogno Kay si sentì dispersa, divisa in tanti piccoli frammenti, numerosi come le sfaccettature del cristallo. Una parte di lei guardava e una parte di lei ascoltava, e ancora un'altra volta partecipava a ciò che vedeva e a ciò che ascoltava. Perché la voce aveva ora intonato una cantilena, una cantilena in una lingua bizzarra che suscitò, nella folla assiepata sotto la tribuna, una risposta altrettanto bizzarra. Profondi brontolii gutturali che si fondevano in un rumore simile a un ronzio, che poi si trasformò in suoni acuti e sibilanti che non avevano assolutamente niente in comune con il suono della voce umana e con il modo di parlare degli uomini. Eppure, in un modo o nell'altro, a lei parve di intuire il significato delle parole, se di parole si poteva parlare. In effetti era come una voce udita in sogno, una voce che risuonava nella scatola vuota del cranio del dormiente. E, a dispetto della sua bizzarria, era familiare; a dispetto della paura che incuteva, costringeva ad un'attenzione totale, e la forza che rivelava portava con sé una promessa rassicurante. Ascolta non le parole ma il significato che esprimono; apri i tuoi occhi alla verità. Abbandona la paura per la fede, dall'ignoto viene la comprensione. E nell'incubo, nel sogno, nella realtà, Kay udiva la voce esortare i fedeli ad avvicinarsi. Ad avvicinarsi per essere purificati dalla luce eterna del cristallo, ad avvicinarsi per essere sollevati da tutti i dolori e da tutte le sofferenze grazie alla fulgida potenza della verità. Ci furono un mormorio ed un movimento generali; figure indistinte si alzarono e confluirono verso la base del palco sotto il cristallo sul leggìo. Lo storpio, il deforme e il cieco erano chiamati a raccolta dalla voce e attirati dal fulgore. Lentamente, zoppicando e procedendo a tastoni, si fecero strada verso il palco e si fermarono, uno per volta, davanti ai raggi emanati dal cristallo. Sostavano lì per essere immersi nel suono e nello scintillìo, poi si allontanavano con gli arti raddrizzati e gli occhi aperti mentre la folla esultava e si esaltava sempre di più fino a... «Sù, andiamo via di qui!» Qualcuno stava scuotendo Kay per le spalle e lei fu costretta ad aprire gli occhi. Strano, lei pensava che i suoi occhi fossero stati aperti per tutto il tempo, ma ora batté le palpebre e vide Al Bedard in piedi sopra di lei, che la guardava con fare preoccupato. Mormorò ancora qualche altra cosa, ma lei non riuscì a capire ciò che aveva detto; le parole si erano perse nei lamenti e nelle urla di quelli che le
stavano intorno. E su tutto dominava la cantilena e la luminescenza verdastra che veniva emanata dal cristallo nella scatola. Bedard le afferrò il braccio e l'aiutò ad alzarsi. Mentre voltava le spalle alla folla plaudente, Kay intravide per l'ultima volta i volti immersi nella luce del cristallo... i volti pallidi, bruni e color dello zafferano, i volti con la barba, i volti con occhi dalle pupille piccolissime e bocche spalancate, che si lamentavano e ansimavano e la perseguitavano con le eco del loro rapimento mistico mentre Bedard la guidava fuori della sala nella quieta oscurità della strada deserta. Non era ancora riuscita a rientrare nel pieno possesso delle sue facoltà; c'erano momenti in cui quella sensazione di annebbiamento di tutti i sensi tornava di nuovo. Il rumore, del motore dell'auto che partiva la fece dissipare, e lei si ritrovò seduta a fianco di Al Bedard mentre l'auto usciva dal parcheggio facendo un'inversione a U e si avviava verso nord sulla Normandie. Per tutto il tempo lui continuò a parlare esortandola a riaversi, a rimettersi in sesto. Lei tentò di concentrarsi su ciò che Al le stava dicendo. «Un ipnotizzatore, ecco quello che è, un dannato ipnotizzatore! Mi ricordo quand'ero bambino, che i miei genitori mi portavano a vedere Sorella Aimee nel suo Tempio. Lei usava un organo e dei lampi di luce, ma anche per lei la cosa funzionava...» Ipnosi di massa, quella era la risposta, si disse Kay. Bedard continuò a parlare. «... una vera pagliacciata con quel cristallo: deve aver installato dietro al cristallo una luce che funzionava con delle pile...» Molto probabile. Kay annuì e accolse con sollievo quella spiegazione così ricca di buon senso. «... tutti quelli che pretendono di guarire ogni cosa in nome della fede fanno affidamento su un'unica cosa: lanciare una corda a un manipolo di isterici pazzi per dar loro la possibilità di raggiungere Gesù e poter gettar via le stampelle. Naturalmente potrebbe anche aver usato dei fantocci ed averli piazzati tra la folla. Qualunque sia stato il trucco, sono pronto a scommettere che stasera se ne andrà a casa con un bel gruzzolo dopo averli abbindolati per bene. Li hai guardati attentamente quei ragazzi? Almeno la metà di loro erano completamente fuori di testa. E quel maledetto incenso per me aveva proprio l'odore dell'hascisc. Li ha spediti lontano, in un vero viaggio.» Kay annuì di nuovo. Ciò che diceva aveva senso, era il tipo di spiega-
zione di cui lei andava disperatamente in cerca. La droga poteva aiutare a spiegare la reazione della folla e spiegava anche la composizione dei presenti. Si sforzò di ricordare ciò che aveva visto e sentito, come se brancolasse tra i ricordi sbiaditi di un sogno. E i frammenti e le varie parti le tornavano alla mente come fossero dei flash, con varie sfaccettature come quelle del cristallo. Occhi fissi. Bocche spalancate. Volti bianchi, neri, bruni, gialli: volti giovani. Ma qualcosa ancora le sfuggiva, qualcosa di importante, qualcosa che sapeva di dover ricordare. Era lì in fondo al sogno, in fondo all'annebbiamento dei sensi, in fondo alla cantilena e in fondo alla sala. Una breve apparizione di qualcosa che non aveva niente a che fare con tutti gli altri... con tutti quei giovani. Poi realizzò di cosa si trattava. Era stato quando si era alzata e si era avviata verso l'uscita; era stato allora che aveva visto il volto. Il volto nascosto nell'ombra del lato più lontano della sala... un volto che non era giovane. Il volto dell'uomo che si era presentato come Ben Powers. Dopo che Bedard l'ebbe lasciata nel suo appartamento, Kay prese una delle pilloline rosse. Normalmente cercava di evitarlo; in verità Kay aveva praticamente nascosto lo scatolino nella parte posteriore dell'ultimo scaffale del suo armadietto delle medicine, proprio per ridurre al minimo le tentazioni. Diavoletti rossi, state lontano da me. Ma c'erano volte in cui il sonno tardava ad arrivare, e quindi diventava necessario cercare il riposo aiutandosi con le capsule. Tutte le altre modelle che Kay conosceva si comportavano alla stessa maniera; erano tutte Belle Addormentate la cui stessa vita dipendeva dal fatto di svegliarsi fresche e riposate dopo un lungo sonno. Senza sonno la bellezza svaniva, e i segni inequivocabili della stanchezza sarebbero stati messi allo scoperto dalla macchina fotografica. La macchina fotografica era il Principe Azzurro dei nostri giorni, che sveglia la moderna Bella Addormentata con uno scatto invece che con un bacio. La notte precedente aveva cercato di affrontare il suo problema dell'insonnia senza ricorrere ad una soluzione chimica, ma non aveva avuto successo. Ripetere l'esperienza era assolutamente fuori discussione. Sì, non c'era nemmeno da pensarci: chi era quell'uomo che la spiava e perché, chi era il Reverendo Nye e che cosa voleva? Kay prese la pillola e tutte le domande svanirono.
Svanirono nel buio della sua stanza, nell'oscurità crescente del suo scivolare nel sonno, nepente, la piccola morte. Ma durante il sonno si sentì ancora spiata: non dall'uomo che aveva detto di essere Powers, ma da un irlandese pazzo chiamato O'Blivion. Lui se ne stava immobile a guardare il Reverendo Nepente che le dava da bere una pozione, la pozione che dona la pace e l'oblio. Solo che lei non dimenticava... lei ricordava. Ricordava il canto ossessivo che echeggiava nelle tenebre più profonde. «Non è morto ciò che può vivere eternamente. E in strani eoni, anche la morte può morire.» Ora sapeva che cosa significava. Significava che Albert non era morto. Era solo addormentato, come lei, e avrebbe riposato sotto le onde finché la morte non fosse morta e lui sarebbe risorto. Un diavolo rosso che sorgerà dal profondo mare blu quando i Grandi Vecchi usciranno dai sepolcri di pietra e dalle tombe di ghiaccio per esigere ciò che è loro. I loro occhi la guardavano, milioni di occhi che si aprivano per lanciare la loro fame in uno sguardo. Milioni di bocche che si aprivano per placare quella fame. Milioni di tentacoli brancolavano per afferrarla, avvicinarla agli occhi affamati e alle mascelle spalancate. Mentre il canto crescenta di intensità, lei lo soffocò con un grido. E si mise a sedere nel letto, battendo gli occhi alla luce del mattino. Kay non aveva bisogno di uno specchio per sapere che non aveva riposato. Un'occhiata alla sveglia, che aveva dimenticato di regolare, fu sufficiente a fornirle un'altra informazione di cui aveva bisogno. Le dieci. Aveva dormito troppo, ma era un bene. Significava che l'agenzia era aperta e che lei poteva chiamare Max, dirgli di cancellare la seduta con il Reverendo Nye. Kay ci pensò mentre si lavava, si vestiva e preparava la colazione. Max avrebbe avuto bisogno di una buona scusa per rompere il contratto, ma lei che cosa poteva dirgli? Certamente non la verità... la verità era solo un sogno. Oppure no? Una cosa era reale: il fatto che lei la notte precedente avesse visto l'uomo che si fingeva Ben Powers. Ma questo non riguardava Max. Quell'informazione doveva essere riferita a Danton Heisinger. Forse avrebbe fatto meglio a parlare prima di tutto con lui. Nel frattempo poteva pensare a che cosa dire a Max. Forse Heisinger poteva darle un suggerimento, qualcosa che lei poteva usare per uscire da quel vicolo cie-
co. Ma la cosa più importante per uscire dal vicolo cieco era proprio il telefono. Kay alzò il ricevitore e formò il numero della banca, ma senza alcun risultato. La linea era muta. Provò un'altra volta, poi capì che il telefono era morto. Ma non poteva essere! Non è morto ciò che può vivere eternamente... Riappese il ricevitore, e si accigliò ai pensieri che le vennero spontanei alla mente. Lì, alla luce del sole, il sogno si dissolse. Il panico non era una reazione pratica alla realtà. La cosa da fare era attraversare il pianerottolo, vedere se uno dei vicini era in casa e chiedergli il favore di usare il telefono per chiamare il servizio riparazioni della Compagnia dei Telefoni. Non era la fine del mondo: le linee telefoniche si guastavano tutti i giorni. Era arrivato il momento di fermare quella spirale di paranoia e agire. Kay si alzò e arrivò alla porta del soggiorno. Proprio in quel momento risuonarono i colpi alla porta. «Sì?», disse lei. «Chi è?» «La Compagnia dei Telefoni. La vostra linea non funziona.» «Come fate a saperlo?» «La padrona di casa ci ha segnalato il guasto. Vi dispiace se faccio un controllo?» «Prego.» Kay aprì la porta all'operaio dei telefoni. E lo sconosciuto che diceva di chiamarsi Ben Powers entrò nella stanza. Non c'era il modo di oltrepassarlo. Kay poté solo arretrare mentre l'uomo chiudeva a chiave la porta. «Non abbiate paura,» disse. «Perché mai dovrei?» Kay con uno sforzo riuscì a tenere ferma la voce, e intanto gettava occhiate alla borsa degli attrezzi di tela, che l'intruso stringeva nella mano sinistra. O non era una borsa degli attrezzi? L'uomo avanzò verso il tavolino e vi appoggiò la borsa rigonfia. Kay fece un altro passo indietro, e si chiese se potesse approfittare dell'occasione per correre nel bagno e chiudersi a chiave all'interno. Lo sconosciuto la guardò e scosse la testa. «Aspettate,» disse, aprendo la chiusura lampo della borsa. «Ho qualcosa per voi.»
La sua mano affondò nella borsa. Kay inspirò profondamente, pronta ad espellere l'aria in un grido quando l'uomo avesse tirato fuori il coltello. Ma non era un coltello. Invece, la mano uscì dalla borsa stringendo un libro in edizione economica. Kay non riuscì a leggerne il titolo. Poté solo scorgere il nome dell'autore sul dorso del libro. «H.P. Lovecraft?», mormorò Kay. «Ecco.» Lo sconosciuto le porse il volume. «Leggetelo.» «Perché dovrei?» «Perché è imortante che voi capiate che cosa sta succedendo.» Le infilò il libro tra le mani. «Leggetelo subito.» Kay scosse la testa. «Le risposte di cui ho bisogno non sono in un libro. Chi siete voi? Che cosa volete? Avete ucciso Ben Powers?» L'intruso sogghignò. «Avete fatto le domande giuste, ma nell'ordine sbagliato. Prima di tutto, io non ho niente a che fare con la morte di Powers: ha avuto un attacco di cuore e potete assicurarvene se non mi credete. Penso che il resto l'abbiate già immaginato da sola. Ho usato il nome di Powers per entrare in contatto con voi, per capire che cosa sapevate del vostro defunto marito e del suo coinvolgimento in questa faccenda.» «Come avete fatto a sapere che il mio telefono non funzionava, questa mattina?» «Perché ho tagliato i fili.» Lo sconosciuto alzò una mano per zittire Kay. «Immaginavo che avreste fatto qualcosa di avventato, come cancellare l'appuntamento con il Reverendo Nye o parlare con il direttore della banca.» «Perché non avrei dovuto?» «Ne parleremo dopo... dopo che avrete letto quel libro.» Kay esitò. «Ancora non mi avete detto chi siete.» «Mi chiamo Mike Miller. Ma non è importante.» «Tanto per cominciare, avreste dovuto dirmelo prima. Perché tutta questa segretezza?» «Misure di sicurezza.» «Siete una specie di agente segreto?» «Non ufficialmente.» Kay incontrò il suo sguardo.
«Guardate, Miller, se questo è il vostro vero nome. Avete ammesso di avermi mentito. E non ho nessuna prova che ora mi stiate dicendo la verità. Perché dovrei credervi?» «Non mi importa nulla se mi credete o no. Dovete solo leggere il libro.» Sollevò la borsa di tela, si girò, si avvicinò alla porta. Fece un cenno a Kay mentre l'apriva. «Non perdete tempo. Tornerò oggi pomeriggio. Riallaccerò i fili del telefono dopo che avremo parlato.» Poi se ne andò. Kay guardò la porta chiusa, e si costrinse ad aspettare che lo sconosciuto avesse il tempo di raggiungere la strada. Poi si avvicinò alla finestra e guardò giù. Con sollievo, vide che l'auto di Miller si allontanava dal marciapiede, e lo scorse al volante. Almeno le aveva detto la verità sul faètto che sarebbe andato via. Allora, se avesse agito in fretta... Kay si girò, gettò il libro sul tavolino mentre andava verso il guardaroba. Prese la borsetta dalla mensola, poi si avviò alla porta di ingresso. La aprì e oltrepassò la soglia. Un uomo le bloccava l'uscita. Non vide il suo volto nel buio del pianerottolo, ma non era importante. Tutta la sua attenzione fu attirata dalla piccola automatica dal naso camuso che sembrò materializzarsi all'improvviso nella mano destra dell'uomo. «Mi dispiace, signora,» disse a voce bassa. Kay indietreggiò e gli sbatté la porta in faccia. Chiuse a chiave la porta, appoggiò la borsa sul tavolo e prese la copia in edizione economica de L'Orrore di Dunwich e Altri Racconti. Quando leggere è inevitabile, sedetevi e divertitevi. Si sistemò sul divano e guardò l'orologio da polso. Le undici. Poi aprì il libro. Quando guardò di nuovo l'orologio erano le due del pomeriggio e qualcuno stava bussando alla porta. «Avete già letto il libro?», chiese Mike Miller. Kay annuì. «Fino all'ultima parola.» «E allora?» «Era un bravo scrittore, se è questo che intendete. Sinceramente, la fantasy non mi è mai piaciuta.» «Nemmeno a me.»
«Allora qual è il punto?» «E se Lovecraft non fosse stato uno scrittore di fantasy?» Kay aggrottò la fronte. «Non vi aspetterete che creda a quelle storie, è vero? Ora capisco perché volevate che le leggessi. Sono la fonte di quel culto folle del Reverendo Nye. Anche il nome del suo Tempio — Starry Wisdom Temple — lo ha tratto da uno dei racconti di Lovecraft.» «The Haunter of the Dark.» «Sì. Ed è lì che ha preso l'idea per quell'aggeggio di cristallo che maneggiava durante il culto. Lovecraft lo chiama il Trapezio Scintillante, non è vero? Nye lo deve aver ideato seguendo la descrizione che è nella storia.» «Piuttosto efficace, non è vero?», disse Mike Miller. «Molto. Si è conquistato tutto il pubblico, non c'è dubbio.» «Qual è stata la vostra reazione?» «La mia?» Kay esitò. «Vi ho guardato durante la cerimonia. Non riuscivate a staccare gli occhi dal cristallo.» Kay si strinse nelle spalle. «Naturalmente era solo ipnosi di massa.» «E che cos'è l'ipnosi di massa?» «Beh, sapete... è come il Trucco della Corda Indiana. Il mago fa vedere agli spettatori qualcosa che non c'è.» «In che modo?» Kay fece un gesto di impazienza. «Non Io chiedete a me. Non sono uno psicologo.» «Giusto,» sorrise Mike Miller. «Gli psicologi hanno abbandonato il concetto assurdo di ipnosi di massa già da molto tempo. Sanno che un mago può servirsi di trucchi e di aggeggi meccanici per creare illusioni. Ma sanno anche che nessuno può ipnotizzare un intero gruppo. L'ipnosi è sempre individuale. Ci sono persone che, per varie ragioni, sono eccezionalmente sensibili all'ipnosi. Se fanno parte di un pubblico che assiste all'ipnosi di un soggetto sul palco, possono reagire anche loro nello stesso modo. Ma persone simili sono delle eccezioni, e reagiscono all'ipnosi solo come individui. Non esiste l'ipnosi di massa.» «Allora che cosa è successo allo Starry Wisdom Temple ieri sera?» «Qualcosa che gli psicologi non sanno spiegare.» «E se il Reverendo Nye avesse avuto dei complici tra gli spettatori, falsi
storpi che fingevano di venire guariti?» «È possibile. Ma allora che cosa dire di quel fenomeno, di quell'offuscamento, quella sensazione di essere afferrati in un sogno? L'avete provata anche voi, non è vero?» «Sì.» Kay aggrottò la fronte. «Ma perché voi non ne siete stato colpito?» «Perché ero preparato a quello che avrei visto. Perché avevo letto Lovecraft e sapevo che cosa aspettarmi.» «Voi volete dire che il Reverendo Nye usava il vero Trapezoedro Scintillante, e che quello che ha scritto Lovecraft era vero?» «Non era. È.» «E tutte quelle follie sui Grandi Vecchi... anche quelle dovrebbero essere vere?» Kay aggrottò la fronte. «Non ci credo.» «Non ci credete, o non volete crederci?» «Mi state ingannando.» «Siete voi ad ingannarvi.» Mike Miller si alzò e cominciò a misurare la stanza a grandi passi. «Non che vi biasimi. La maggior parte di noi cerca di evitare le realtà sgradevoli. Sappiamo che esiste, ma non vogliamo affrontarla: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. «Siamo disposti ad ammettere che mangiamo carne, ma preferiamo non approfondire il concetto. Non vogliamo entrare in un macello e vedere uccidere gli animali per soddisfare il nostro appetito. «Accettiamo la presenza dei disturbi mentali, delle malattie letali e della morte, ma evitiamo di parlarne e perfino di pensarci. Ci teniamo lontani da manicomi e ospedali, e ci sono milioni di persone che non andrebbero mai ad un funerale. «Siamo condizionati ad evitare qualsiasi cosa sia anche lievemente fastidiosa. Preferiamo non ascoltare 'i guai degli altri' o 'le lagne'. Esiste una scuola di pensiero largamente accettata che respinge i cosiddetti 'pensieri negativi', inclusa la critica dello status quo. La filosofia panglossiana vince.» «Qualsiasi cosa essa sia,» mormorò Kay. «Scusatemi,» Miller si fermò e sorrise imbarazzato. «So di essermi lasciato trasportare. Ma sono così stanco di vedere come voltiamo le spalle a tutto ciò che può turbarci. Soffochiamo le nostre voci interiori con la stereofonia, le stordiamo con le droghe e...» Inspirò profondamente. «Ma è inutile discutere. Forse questo è il mio modo di evitare la realtà.» «Mi pare che la vostra idea di realtà sia piuttosto bizzarra,» disse Kay.
«Affermate che qualcuno che scrisse per i pulp magazines cinquant'anni fa, ha rivelato tutti i segreti della creazione per un penny a parola. Dite che quel sacerdote fasullo si serve di quei segreti per riempire la sua cassetta delle elemosine.» «Pensate che sia tutto quello che fa?» «Che cos'altro potrebbe fare?» «È quello che dovete scoprire voi.» «Perché io?» «Perché siete la sola che ha la possibilità di vedere che cosa sta succedendo dietro le quinte.» Kay scosse la testa. «Pensavo che la vostra organizzazione avesse agenti per questo genere di operazioni.» «Li abbiamo. Negli ultimi mesi siamo riusciti ad inserire due nostri agenti nel gruppo di Nye che hanno finto di essersi convertiti alla sua setta.» «Che cosa è successo?» «Vorrei saperlo. Sono scomparsi.» Kay guardò Mike Miller. «E vi aspettate che corra lo stesso rischio?» «Per voi non sarebbe la stessa cosa. Voi avete il diritto di entrare. E non siete stata voi ad avvicinare Nye, lui è venuto da voi.» «Che cosa vi fa pensare che io potrei concludere qualcosa, se andassi fino in fondo a questa faccenda?» «Non sto dicendo che potete. Ma almeno c'è una possibilità. Prima di tutto, noi vogliamo scoprire dove Nye ha stabilito il quartier generale.» «Non vive nell'appartamento sovrastante il Tempio?» «È solo una copertura. I nostri agenti sono riusciti a farci qualche rapporto prima di scomparire. Nye li stava indottrinando; disse loro che sarebbero stati portati in un posto speciale per l'iniziazione agli ordini superiori del culto, quando ne sarebbero stati degni. Da quando sono spariti, abbiamo messo degli agenti di guardia al Tempio, che aspettavano di veder uscire Nye per seguirlo. È uscito una sola volta, la settimana scorsa, ed è stato seguito.» «Dov'è andato?» «Al centro, in un palazzo d'uffici, provvisto di un parcheggio sotterraneo. Due sono le ipotesi: o ha fatto un cambio di auto, o è riuscito a sgusciare non visto dall'edificio. Ad ogni modo, l'abbiamo perso.» «Non avete mai pensato di fare un'irruzione nel Tempio?»
«Che sia dannato se non ci abbiamo pensato,» la voce di Miller era aspra. «Quando i nostri agenti sono scomparsi, ho dovuto faticare per trattenere i miei uomini dal farlo. Ma è l'ultima risorsa. Se facessimo questa mossa, manderemmo all'aria la nostra copertura. E, a meno che non riuscissimo a spezzare la resistenza di Nye o di qualcuno dei suoi seguaci, ritorneremmo al punto di partenza. Ho il presentimento che non ci sia il modo di far parlare qualcuno di quella setta.» «Ma ho letto delle nuove tecniche per il lavaggio del cervello. Se prendete un paio di ragazzi di quel gruppo e li decondizionate...» «Vedete, non abbiamo a che fare con un normale fanatico religioso. L'uomo contro cui lottiamo ha i suoi sistemi per controllare i convertiti. Deve farlo, perché mira molto in alto.» Kay alzò lo sguardo. «Se ne siete tanto sicuro, allora dovete avere qualche idea di quali siano le loro attività.» Mike Miller annuì. «Perciò ho voluto che leggeste quei racconti. Ricordate che cosa scrisse Lovecraft a proposito del Messaggero degli Dei? Appare dopo terremoti e disastri per predicare la fine del mondo. Sarebbe un uomo scuro di pelle con una tunica rossa, che parla di scienza, inventa strani strumenti, e dà dimostrazioni del suo potere. Non vi ricorda qualcuno?» «Il Reverendo Nye...» «Nyarlathotep.» «Aspettate un momento. Questa non la bevo!» Miller scosse la testa. «È naturale che non ci crediate. Ma gli altri ci credono. Ovviamente quell'uomo ha preso deliberatamente il nome di Nye. E sospetto che ai seguaci più convinti, ai più devoti, egli dica di essere veramente Nyarlathotep.» «Tutte queste assurdità solo per raggirare e togliere i soldi a qualche spostato?» «Vorrei che fosse così semplice.» Mike Miller riprese a camminare. «Ma, per quanto ne sappiamo, i seguaci più devoti non hanno soldi. In maggioranza sono giovani che provengono dal barrio e dal ghetto negro, tutti tossicomani.» «Ma se non vuole i soldi, che cos'è che vuole?» «Potere.» Gli occhi di Miller divennero due fessure. «Avete mai sentito parlare dello Sheikh al-Jebal?»
«Chi?» «Il Vecchio delle Montagne. Costruì una fortezza chiamata Alamut, ai tempi delle Crociate. Nessuno osava toccarlo; nemmeno i Crociati e i Saraceni. Essi gli pagavano un tributo e obbedivano ai suoi ordini perché lui aveva il potere. Il potere della vita e della morte. Forse non avete sentito parlare di lui, ma il nome dei suoi seguaci è passato alla storia. Venivano chiamati gli Assassini. «È una parola che deriva dall'arabo. Hashashin, che ha la stessa radice della parola hashish, perché i seguaci dello Sheikh erano dediti a questa droga. Lo Sheikh reclutava ragazzi, li prendeva al laccio con l'hashish, diceva che poteva garantire loro la vita eterna se obbedivano ai suoi ordini. Poi gliene dava un assaggio. «Li drogava, poi, quando perdevano conoscenza, li trasportava nel suo giardino segreto che era sulla cima della montagna. Quando si svegliavano, pensavano di essere in paradiso. Li stordiva con luci, musica, profumi, vino, cibi prelibati e un harem di belle donne e ragazzi. Quando l'effetto della droga finiva, veniva loro detto che quello era solo un saggio, ma che se avessero eseguito gli ordini, quel paradiso sarebbe stato loro per sempre, anche dopo la morte. «Coloro che vi credevano diventavano i fedais, i fedeli, e venivano addestrati in tutti i modi all'omicidio segreto. Poi lo Sheikh li mandava ad uccidere: essi si introducevano nei palazzi o negli accampamenti militari per accoltellare o strangolare le vittime prescelte nel cuore della notte. «Credetemi, funzionava. Funzionava tanto bene che centinaia di funzionari, principi e ufficiali morirono, e migliaia di altri pagavano il tributo per salvarsi la vita. Funzionava allora e funziona ancora oggi.» «Tutto questo che cosa ha a che fare con Nye?», chiese Kay. «Non siamo sicuri che sia Nye. Ma qualcuno si sta servendo di queste tattiche. Azioni terroristiche: se sapeste quante persone importanti sono state colpite negli ultimi mesi...» «Come mai non lo so? Leggo i giornali.» «Non è scritto nei giornali. Se lo fosse, si spargerebbe il panico tra la gente.» Mike Miller aggrottò le ciglia. «Dobbiamo convalidare i nostri sospetti su Nye con prove solide, e dobbiamo farlo in fretta. Non sarebbe di nessuna utilità fargli delle accuse false. Abbiamo bisogno di scoprire che cosa c'è dietro questa storia, vedere se c'è qualcuno più in alto ancora. È la cosa più importante.» «Forse per voi, ma non per me.» Kay si strinse nelle spalle. «Non abba-
stanza importante da rischiare la vita.» «Penso che lo sia.» «Datemi una buona ragione.» «Va bene.» Miller la guardò. «Penso che una delle vittime di quell'uomo sia stato il vostro ex marito, Albert Keith.» Il telefono di Kay suonò alle tre precise. Kay trasalì e alzò gli occhi su Miller. Era confusa. «Vi avevo detto che la linea sarebbe stata ripristinata,» disse. «Fate pure, rispondete.» «Se è Nye...» «Sapete che cosa dire.» Kay esitò, chiedendosi se Miller le avesse detto la verità. O tutta la verità. Poi, visto che il telefono trillava categorico, alzò il ricevitore. «Miss Keith?» «Sì.» «Buon pomeriggio. Sono il Reverendo Nye.» Kay fece un cenno di assenso verso Miller e silenziosamente sillabò il nome dell'interlocutore. Poi ascoltò. Miller guardava, incapace di interpretare i suoi monosillabi. Quando alla fine posò il ricevitore, Miller fece un gesto impaziente. «Beh?» «Vuole fissare per stasera la seduta fotografica con Bedard. Ho acconsentito.» «A che ora?» «Alle sette e mezza.» «Dove?» «Immagino che sia casa sua. L'indirizzo è Lampton Drive, 400.» «Non l'ho mai sentito.» «Dice che è una strada secondaria della Pacific Coast Highway, a nord di Malibu.» Mike Miller si accigliò. «Per qualcuno che copre le proprie tracce bene come lui, è piuttosto avventato nel dare l'indirizzo di casa. O è stato imprudente o è sicuro di sé stesso.» Miller afferrò il telefono. «Vediamo che cosa possiamo scoprire.» Formò un numero, poi aspettò. «Diciotto,» disse. «Richiesta di informazioni: descrizione di una proprietà. Indirizzo: Lampton Drive, 400. Zona di Malibu.»
Fu il turno di Kay di guardarlo aspettare, e poi sentire le sue affermazioni concise. Quando riappese il ricevitore, si voltò verso di lei e annuì. «Come fate a saperlo?» «Perché il numero quattrocento di Lampton Drive non è una casa. È un museo privato.» «Un museo?» «Come la Fondazione Getty, a poche miglia più a sud. Ma questo è nuovo di zecca. È stato costruito da una certa Probilski Foundation, qualsiasi cosa sia, e verrà aperta ufficialmente il mese prossimo.» «Non ci vado.» «Ovviamente Nye vi ha dato l'appuntamento in un punto di smistamento. Voi ci andrete e lui vi porterà da qualche altra parte.» Miller anticipò la reazione di Kay con un sorriso rassicurante. «Non preoccupatevi, non lo perderemo questa volta. Lo terremo sotto stretto controllo, apposteremo uomini su entrambi i lati della strada, e sarà coperta anche ogni possibile uscita posteriore. Se vi porta via, sarà seguito. E voi non andrete sola.» «Bedard?» Kay scosse la testa. «Che cosa vi fa credere che potrebbe essere d'aiuto in una faccenda del genere?» «Bedard non sarà con voi.» «Ma...» «Ho già parlato con Max Colbin, gli ho detto abbastanza da assicurarmi che tenga la bocca chiusa e collabori. È disposto a lasciarmi sostituire Al Bedard con uno dei nostri agenti. Fred Elstree, penso che l'abbiate già incontrato.» «Dove?» «Sul vostro pianerottolo, questa mattina, poco dopo che sono uscito.» Mike Miller fece un gesto verso la porta d'ingresso. «Non preoccupatevi, non è un fotografo professionale ma conosce abbastanza la fotografia da fingere di farvi un servizio. Se esce fuori qualcosa, è in grado di affrontarla, ma non voglio anticipare i problemi. Tutto quello che dovete fare è tenere occhi e orecchie aperti, stare vicina a Nye, vedere che cosa riuscite a sapere delle sue attività.» «Questo è tutto,» mormorò Kay. «Devo solo fare la parte della piccola mosca che va dritta nella tela del ragno, senza dimenticare di sorridere per i fotografi...» Lo guardò infuriata. «Volete che faccia qualcos'altro?» «Sì.» Mike Miller annuì gravemente. «Voglio che ricordiate Albert Keith.»
Era difficile per Kay realizzare che erano passate solo ventiquattro ore dalla sua visita allo Starry Wisdom Temple con Al Bedard. Sotto un certo aspetto, il viaggio di quella sera fu quasi una ripetizione dell'esperienza della notte precedente. Quasi, non del tutto. Quella sera l'auto si dirigeva ad ovest, verso Santa Monica, e la Coast Highway era al di sotto. Fred Elstree era alla guida. Kay era grata della sua presenza, grata che fosse attento, vigile e armato. Quella sensazione di gratitudine sottolineava la differenza tra il viaggio di quella sera e quello della sera precedente. Il giorno prima Kay era solo curiosa riguardo alla loro meta e a quello che vi avrebbero trovato. Quella sera aveva paura. Il consiglio di Miller di ricordare Albert Keith non le era di nessun aiuto. In un certo senso, peggiorava la situazione. Se il Reverendo Nye in qualche modo era responsabile della morte di Keith, allora quale conforto poteva venirle dal fatto di stare per incontrare l'assassino del suo ex marito? Trasse tutto il conforto che poteva dal silenzio di Fred Elstree. Faceva pensare all'esperienza, alla sicurezza di un uomo che aveva un lavoro da fare e sapeva esattamente come farlo. Elstree guidava bene. Quando l'auto girò bruscamente per la rampa che scendeva alla Coast Highway, non ci fu nessun movimento brusco che spostò le borse delle apparecchiature fotografiche che erano sul sedile posteriore. Kay fu improvvisamente sicura che Elstree sarebbe stato altrettanto abile nell'uso di quelle apparecchiature quando fosse arrivato il momento. Probabilmente avrebbe sostenuto il ruolo di fotografo senza alcuna difficoltà. Allora che cosa aveva da temere? «La nebbia,» disse Elstree, mentre si dirigevano verso nord. «Da dove è venuta?» Veniva dal mare, naturalmente, e questo era quello che Kay temeva: il mare, e ciò che generava. Creature affogate che si muovevano sotto le onde, scivolavano alla superficie, camminavano traballanti sulla terra. Creature affogate si nascondevano nella nebbia che si alzava a spirale sulla strada e formava una cortina ondeggiante di un grigio spettrale. Creature affogate. Albert Keith era una di loro? Kay chiuse gli occhi in unisono con i fari dell'auto quando Elstree li abbassò e rallentò la velocità. «Meglio prendersela con calma,» disse. La donna annuì. Sì, prenditela con calma. Dimentica Albert Keith. Lui è morto e tu sei viva. Questo è importante.
L'auto avanzò verso nord mentre il traffico diminuiva e la nebbia si infittiva. A destra si scorgevano le sagome delle alte colline, ma non si vedevano le luci delle case che erano sulla cima. Altre abitazioni correvano lungo la riva del mare, a sinistra, ma le loro luci erano celate dietro quel grigio sudario. L'aria era gelida e umida. Elstree alzò il finestrino che era dalla parte del guidatore quando notò la reazione di Kay. Ma non era l'umidità a farla rabbrividire. Guardò attraverso il parabrezza le file di cottage sulla spiaggia, e più in là la distesa che scendeva ripida all'acqua, in quel punto molto lontana dalla strada. Non c'erano case laggiù, solo la nebbia, che saliva e si avvolgeva sul mare tenebroso e silenzioso. E allora, quando ebbero svoltato una curva, davanti a loro si profilò una struttura isolata, appollaiata sul bordo del dirupo come... «La Strana Casa nella Nebbia,» mormorò Kay. Elstree le lanciò un rapido sguardo. «Che cosa?» «Niente.» E non era niente: solo il titolo di uno dei racconti che aveva letto in quel libro. Uno dei racconti di Lovecraft su un vecchio che in una vecchia casa intratteneva rapporti con i Vecchi del Mare. Fred Elstree conosceva quelle storie? Sperava di no. Era meglio che si preoccupasse solo di eseguire i suoi soliti compiti di sicurezza nel solito modo. Il disagio di lei avrebbe potuto turbarlo e lei non voleva. «State bene?», stava dicendo. «Certo. Una volta che saremo usciti da questa nebbia.» «Eccoci arrivati.» Elstree girò il volante e l'auto svoltò a sinistra, in uno stretto viale d'accesso. Parcheggiato ai bordi della strada c'era un camioncino aperto. Non si vedeva nessuno nella cabina di guida ma, quando l'oltrepassarono, i fari del camioncino lampeggiarono rapidamente. «I nostri agenti,» disse Elstree. Kay aggrottò la fronte. «C'è solo un'auto?» «Un'auto significa che questa è l'unica strada per entrare o per uscire,» Elstree le rivolse un sorriso rassicurante. «È stato tutto controllato bene. Se c'è un'altra uscita che non conosciamo, Miller la tiene sicuramente d'occhio.» «Forse più avanti,» disse Kay.
Ma non videro nient'altro, solo il parcheggio vuoto e avvolto nella nebbia che era all'estremità opposta del viale d'accesso. Quello e la strana casa sui bordi del dirupo. Un esame più da vicino rivelò che non era affatto una casa. La bassa struttura, priva di finestre, di pietra bianca, si fondeva quasi impercettibilmente con la nebbia, e fu solo quando parcheggiarono e scesero dall'auto, che Kay si accorse che il tetto era a cupola e l'ingresso era sulla sommità di una fila di scalini. Aveva l'aspetto di un museo, e ogni eventuale dubbio fu dissipato dalla placca di bronzo affissa al portone di quercia scura. Elstree prese le due borse con l'attrezzatura fotografica dal sedile posteriore, chiuse lo sportello dell'auto, e si affiancò a Kay. Lanciò un'occhiata alla targhetta. «Probilski Foundation,» mormorò. «Che diavolo di nome per un museo. Sembra una bestemmia in polacco.» Il sorriso gli morì sulle labbra quando lanciò un'occhiata a Kay. «Scusatemi. Non è il momento di fare battute di spirito, è vero?» Kay annuì. «Non mi piace l'aspetto di questo posto.» «Beh, forse qualche informazione in più vi aiuterà. Abbiamo già svolto qualche ricerca. La Fondazione è legale, è stata fondata nel 1974 da Donald Probilski, un petroliere di Shreveport, per sfuggire alle tasse. È morto due anni fa. La sua vedova, Elsie, ha ereditato e dirige la Fondazione come amministratrice. Abbiamo saputo quando è stata acquistata questa terra e da chi è stata acquistata. Abbiamo esaminato le domande e i permessi di costruzione per il museo. Al di fuori dei soliti sotterfugi, la faccenda sembra pulita. J.C. Higgins ha diretto i lavori... sono stati effettuati da una grande impresa di costruzioni di Long Beach. Il museo verrà inaugurato ufficialmente il mese prossimo, e sarà aperto al pubblico quattro giorni alla settimana. Il direttore è un tipo che lavorava nella Biblioteca dell'Università dello Wyoming. Questo vi fa sentire un po' meglio?» C'era qualcosa di molto rassicurante nel tono pratico di Elstree e nel suo pratico resoconto. Kay gli sorrise grata. «Sì, grazie. Tra parentesi, che genere di museo è?» «Lo scopriremo subito.» Elstree premette il pulsante che era accanto al portone. All'interno echeggiò un campanello e l'uomo sussurrò: «State calma ora. Ricordate che non c'è nulla di cui preoccuparsi.» Tranne Albert Keith e quello che gli è accaduto.
Il giovane che aprì la porta era una figura familiare. Nel corso degli anni Kay ne aveva visti migliaia uguali a lui, sui viali del Campus e nelle strade della città, abbigliati in jeans e giubbotti, con i capelli lunghi e le barbe folte. Non solo avevano lo stesso aspetto; parlavano lo stesso gergo, rispondevano uniformemente agli stessi stimoli, marciavano allo stesso ritmo che, nel loro caso, era quello di una chitarra elettrica. E avevano un'altra caratteristica in comune: ciascuno di loro era orgoglioso della propria personalità unica e originale. Di conseguenza, sebbene Kay pensasse di aver visto quel particolare ragazzo tra il pubblico del Tempio la sera prima, non poteva esserne certa. Forse se l'avesse sentito parlare... Ma non parlò, fece solo un cenno col capo e li guidò attraverso l'atrio, illuminato e privo di mobili, verso un ampio passaggio. Ora non c'erano più dubbi sul fatto che si trovassero in un museo. L'atmosfera dell'atrio comunicava quella freddezza caratteristica derivata più dall'architettura che dalla temperatura. Le spoglie pareti di marmo bianco e le severe colonne creavano un gelido déjà vu. Il tocco finale era dato dall'eco dei loro passi che risuonavano sul pavimento privo di tappeto. Kay aveva udito quel suono in ogni museo che aveva visitato. Ma una volta all'interno della stanza che era aldilà del passaggio ampio, ogni sensazione di familiarità scomparve. L'enorme camera era illuminata fiocamente da lampade inserite nelle nicchie che orlavano l'alto soffitto. E il soffitto non aveva nessuna rassomiglianza con la cupola circolare che sovrastava l'edificio. Invece, dalle pareti si alzavano quattro lastroni di pietra triangolari, che si inclinavano lievemente fino ad incontrarsi in alto. Si trovavano in quello che sembrava l'interno di una piramide in miniatura. Kay lanciò uno sguardo ad Elstree, chiedendosi se si fosse accorto di quel particolare. Evidentemente l'aveva notato, perché sogghignò e sussurrò: «Peccato che non l'ho saputo prima. Avrei portato con me qualche lametta da affilare.» Il suo involontario sorriso si gelò quando vide il contenuto della stanza. Ogni dubbio sullo stile architettonico svanì. Le bacheche montate su piedistalli di marmo contenevano degli oggetti di cui Kay aveva conosciuto l'esistenza grazie ad un corso facoltativo di Egittologia. Parole ed immagini semidimenticate diventarono realtà rico-
noscibili. In una bacheca era conservata una grande stele di pietra che aveva inciso il simbolo dell'aspide. In un'altra, ad ali spiegate, c'era Bennu, la fenice simbolo di resurrezione. Altre ancora ospitavano rotoli di papiro, tavolette di bronzo, urne funerarie. In una vetrinetta c'era il modello in miniatura del barcone sacro, che portava gli spiriti dei morti negli Inferi per il giudizio finale. In un'altra era mostrato, a grandezza naturale, quello che i morti lasciavano dietro di sé: quattro canopi contenenti il fegato, i polmoni, lo stomaco e l'intestino dei defunti. I corpi da cui erano stati tolti quegli organi erano nei sarcofagi, con il cuore ancora intatto e la faccia conservata con cura, in modo che potessero essere riconosciuti quando avrebbero affrontato i Quarantadue Giudici dei Morti. E contro le pareti triangolari si ergevano grandi statue di ottone, bronzo e pietra, sculture dalle forme umane e dalle teste d'animali: gli Dei dell'Egitto. Si scorgevano Apis dalla testa di toro, Hathor dalle lunghe corna, Sebek dal muso di sauro e Horus con il becco di falco. Bast e Madre Sekhmet erano accucciati e scoprivano le zanne letali. Il profilo di ibis di Thoth e il muso di sciacallo di Anubis, si rizzavano nella luce fioca. Accanto a loro la faccia d'avvoltoio di Nekhbet guardava gelida la grande testa d'ariete di Amon, il cranio da scarabeo di Khepri, l'uomo-serpente Buto e il viso animalesco di Set, Signore del Male. Su tutte torreggiava la statua avvolta dalla veste di piume, con lo scettro uas e la corona atef: Osiride, Re dei Morti. Guardava. Si mosse. Kay trattenne il fiato mentre la figura usciva dalle tenebre, poi capì che non era stata la statua a muoversi, ma l'uomo che aspettava al buio dietro di essa. «Pace e saggezza a voi,» disse il Reverendo Nye. Fece un cenno del capo a Kay, tese la mano guantata di bianco a Fred Elstree. Kay fece in fretta le presentazioni, strappando un sorriso educato al suo compagno e un cipiglio fuggevole, quasi impercettibile, al negro. Lanciò un'occhiata interrogativa a Kay. «Non è il signore che era con voi al Tempio ieri sera.» «No, è dovuto partire per San Diego, per un altro servizio.» Kay fece un cenno del capo verso Elstree. «Penso che sarete altrettanto soddisfatto del lavoro di Fred. Quando si tratta di ritratti, è veramente un grande fotogra-
fo.» «Sono felice di sentirlo. Ma conosce lo scopo di questo servizio fotografico?» «Sì, l'ho messo al corrente.» «Bene.» Nye fece un gesto verso il giovane barbuto. «Puoi andare ora, Jody.» Il ragazzo rimase immobile, con gli occhi fissi sulla collezione di statue che era contro la parete. La voce di Nye ordinò fermamente. «Jody, fuori!» Gli occhi vitrei diedero un guizzo e la testa del giovane sobbalzò. Si girò e si mosse verso la porta con una strana andatura strascicata, che confermò i sospetti di Kay. Sotto l'effetto di qualche droga. Ricorda quello che ha detto Mike Miller a proposito degli Assassini. Se Miller aveva ragione in questo, allora forse aveva ragione in tutto il resto. Il museo era solo un punto di smistamento. Ora Nye avrebbe tentato di portarli in qualche altro posto. «Beh, cominciamo,» stava dicendo Nye. «Se volete preparare la vostra attrezzatura...» Mentre parlava, il Reverendo attraversò la stanza e premette un interruttore. Kay batté gli occhi a quell'improvvisa esplosione di luce. Miller aveva torto sul fatto che saremmo stati portati via di qui. E forse aveva torto in tutto il resto. Per un attimo, Kay si arrese alla confusione, ma la luce l'aiutò a disperdere tutti i dubbi insieme alle ombre. Il suo bagliore scaldò la stanza, trasformò quelle statue sinistre in innocui esempi di scultura. Erano grottesche, ma non sembravano più minacciose. Forse quella era la soluzione di tutto il problema, dopotutto. Grottesca ma non minacciosa. Tutto faceva parte della droga di Nye: messe in scena per il suo culto. Anche le fotografie per cui Kay doveva posare erano finalizzate alla pubblicità, finzioni per attrarre i creduloni. Ancora una volta quel pensiero attraversò la mente di Kay: tutta quella messa in scena era solo un'altra forma di industria dello spettacolo. Kay lanciò un'occhiata a Fred Elstree, chiedendosi che cosa stesse pensando, ma non riuscì a capire le sue reazioni. Fred stava già aprendo le due borse ed estraeva l'attrezzatura portatile per le luci. Allungò le gambe del cavalletto per agganciarvi i faretti, svolse i fili elettrici attaccati alle lampade e li allungò attraverso la stanza per inserire le spine negli attacchi.
Svolgeva il suo lavoro da vero professionista, e le apprensioni di Kay svanirono. Sembrava proprio un'altra seduta fotografica. Con sua sorpresa, fu quasi esattamente così. Il Reverendo Nye fece un cenno di approvazione. «Tutto pronto? Bene. Ora, prima di cominciare, vorrei dirvi perché ho scelto questo posto. La signora che dirige la Fondazione è anche un membro dello Starry Wisdom, ed è stata tanto gentile da darmi il permesso. Penso che possiamo servirci ottimamente di queste statue e, se non vi dispiace, vorrei suggerire qualche posa.» «Fate pure,» disse Elstree. «Io sono qui solo per puntare la macchina fotografica.» Nye prese il controllo della situazione: diede le sue istruzioni a bassa voce. Quello che voleva, ovviamente, era una serie di primi piani che ritraevano Kay a mezzo busto. Ma ogni posa includeva una statua sullo sfondo: Buto dalla testa di serpente. Nekhbet l'avvoltoio. Osiride dagli occhi che vedono tutto. Di nuovo, tutta l'importanza era data all'illuminazione e alla composizione. La differenza era nel fatto che le sue istruzioni erano per la modella. «Ricordate la notte scorsa,» mormorò Nye. «Ricordate l'espressione di quei poveri storpi quando si avvicinavano all'altare. È quello che voglio: l'intensità, la concentrazione assoluta sui misteri dell'Essere e del Divenire. Voglio che vediate queste statue per quello che sono, simboli degli Dei, che a loro volta sono simboli di poteri ancora più grandi. Guardate nell'occhio di Osiride e vedete ciò che vede il Dio: il segreto della vita, che è il segreto della morte, che è il segreto dell'eternità. Rinnovo e ritorno, ripetuti senza fine. Nell'occhio di Osiride voi stessa siete solo un riflesso. E quando l'occhio si chiude, voi svanite, per riapparire solo quando il Dio lo riapre.» Kay udiva la sua voce mormorare monotona aldilà del cerchio di luce, attrarla verso le tenebre. Ascoltando, obbediva. Obbedendo, credeva. Quando guardò, poteva quasi avvertire che l'occhio di Osiride le restituiva lo sguardo con una sua propria coscienza. E, se avesse chiuso l'occhio, lei avrebbe cessato di esistere. Silenziosamente, rese grazie per il suono dell'altra voce, la voce che la riportava alla realtà. «Facciamone una di profilo,» stava dicendo Elstree. «Alzate il mento di qualche centimetro. Ecco, l'ho fatta...» Quando finirono, Kay si sentiva prosciugata di ogni energia. Fu grata ad
Elstree di aver spento gli accecanti faretti, e a Nye di aver diminuito l'intensità delle luci centrali. La stanza fu un'altra volta fasciata dalle ombre. Ora Kay non doveva più guardare quegli Dei grotteschi, guardare nell'occhio di Osiride e vedersi restituire lo sguardo. Elstree staccò gli attacchi elettrici, riavvolse i fili, smontò e ripose nelle borse l'attrezzatura. Se avessero potuto andarsene da lì... Fred alzò le borse e annuì. «Tutto pronto,» disse. «Grazie per essere venuti.» Il Reverendo Nye li accompagnò alla porta. «Le stampe saranno pronte dopodomani,» gli disse Elstree. «Ottimo.» Nye si girò e bussò con forza sul pannello superiore della porta. «Jody... apri!» La porta si aprì verso l'interno. Sulla soglia c'era il ragazzo barbuto. Teneva qualcosa in mano e, a quella vista, Elstree infilò rapidamente la mano nella tasca della giacca. Strillò qualcosa. A Kay parve che fosse: «Attenta!» Non poteva esserne certa, perché la voce rimbombò nell'atrio che era oltre la soglia. Ma non ci fu nessun'eco quando il giovane barbuto sparò col revolver e staccò la parte superiore della testa di Fred Elstree. Kay sentì la pressione fredda del pavimento di pietra contro la guancia e la sua prima reazione fu di sorpresa. Non sono il tipo che sviene, si disse. Poi ricordò che cosa aveva visto e le ritornò la debolezza. Ma era successo senza nemmeno un rumore. Doveva aver usato il silenziatore. In quel momento, si sentì un rumore: il mormorio soffocato di varie voci. Kay aprì gli occhi. Dal punto in cui era distesa, sul pavimento nella sala del museo, vedeva il giovane barbuto parlare con Nye davanti alla porta socchiusa. Kay non riuscì a capire che cosa stesse dicendo né quale fosse la risposta di Nye. Ma vide il sacerdote annuire e attraversare la soglia, oltrepassando il corpo di Elstree. Nye chiuse la porta, poi si girò mentre Kay si metteva a sedere. Le si avvicinò, con il volto scuro immobile, e con voce inespressiva chiese: «Siete armata?» Kay scosse la testa. Si ritrasse quando egli tese la mano, ma il sacerdote non fece alcun tentativo di toccarla. Invece raccolse la sua borsetta, che le era caduta accanto. L'aprì e capovolse il suo contenuto sul pavimento. Cipria, penna e matita
caddero a terra con frastuono. Soddisfatto, si girò. Quando Kay si sollevò su un gomito, Nye l'aiutò ad alzarsi in piedi. Prima che potesse ritrarsi, le sue mani guantate si mossero rapidamente sul corpo della donna con movimenti esperti. «Sono sorpreso che non vi abbiano dato una ricetrasmittente,» disse. «Naturalmente, non avrebbe fatto alcuna differenza.» «Di che cosa state parlando?» Nye scosse la testa. «Non sprecate il fiato. Siate solo felice di averlo ancora. Jody voleva far fuori anche voi, come gli altri.» «Gli altri?» «Quei due nel camioncino parcheggiato qui fuori.» Annuì. «Credo che fossero troppo occupati ad ascoltare la loro radio ricetrasmittente per notare il suo arrivo. Il silenziatore è un'invenzione rozza ma utile.» «Sono morti?» «Nel gergo attuale, morti stecchiti. Jody ha messo in moto il camioncino e lo ha fatto cadere oltre il dirupo. Non posso discutere la saggezza di sbarazzarsi di tutte le prove, ma mi sarebbe piaciuto esaminare i corpi e la radio. Visto che non ho l'opportunità, devo dipendere da voi. Era una specie di operazione di sicurezza, non è vero?» «Non lo so.» «Allora ditemi quello che sapete.» Kay scosse la testa. «Niente. Tutto quello che ho fatto è stato venire qui a lavorare...» «Anche Elstree era qui per lavorare.» La voce di Nye era piatta. «Non lavora per Max Colbin. Qualcuno gli ha ordinato di accompagnarvi. Ora voglio sapere chi è il responsabile.» «Vi dico che io...» Anche una mano guantata può far male. Il dolore attraversò la guancia e la tempia di Kay. «Scusatemi.» Nye abbassò la mano e il tono della voce. «Date le circostanze, forse è chiedervi troppo dire la verità. Ma posso immaginare. Qualche organizzazione governativa non identificata mi tiene sotto sorveglianza, in base ad accuse inventate. Spaccio di droga, contrabbando, attività terroristiche. Vi hanno chiesto di collaborare, di scoprire tutto quello che potevate. Beh, vi risparmierò ogni ulteriore dubbio. Tutte le accuse sono vere.» «Lo ammettete?» Kay si sentì di nuovo debole, ma lottò contro quella
sensazione. «Questo significa che state per uccidermi...» La faccia color ebano era una maschera enigmatica. «Lo ammetto perché non importa. Niente avrebbe potuto salvare quegli uomini. Sarebbero morti ad ogni modo, come tutti gli altri, compreso Albert Keith.» «Sapete di lui?» «Naturalmente. Pensate che sia stato un caso che vi abbia rintracciata, che vi abbia cercata all'agenzia per uno stupido servizio fotografico? Non ho bisogno di nessuna fotografia per pubblicizzare un culto falso che è già servito al suo scopo. Fa tutto parte dello schema, del piano...» «Quale piano?» «Salvarvi la vita.» «Non vi credo.» «Fermatevi a pensare. A che scopo tutto ciò? Se fosse solo per costruire lo Starry Wisdom, non ci sarebbe bisogno di misure così drastiche. Ma noi abbiamo un altro scopo, un fine più grande. Ammetto che i nostri metodi sono rozzi, le nostre precauzioni inconsistenti e prive di raffinatezza. Ma dobbiamo agire rapidamente, perché sta per arrivare il giorno in cui le stelle si troveranno nella congiunzione propizia, il giorno in cui il mondo finirà.» Kay aggrottò la fronte. «Dite che il culto è falso. Ma mi state parlando proprio come parlate a quella gente del Tempio.» «Il culto è falso, sì, ma i suoi insegnamenti sono basati sulla verità. Il mondo sta per finire, il mondo così come lo conoscete, il mondo della ragione, della morale e dell'umanità. I Grandi Vecchi si stanno già muovendo, e la Terra trema in previsione della loro venuta. Solo gli eletti saranno risparmiati, e voi siete una di loro, destinata ad avere un ruolo particolare in quello che accadrà. Questo è il motivo per cui cerco di salvarvi.» Nye alzò gli occhi quando la porta si aprì Jody entrò con il revolver in mano. Il giovane barbuto chiuse la porta, poi si spostò con Nye verso l'angolo opposto della stanza, dove le statue incombevano nell'ombra. Conversarono a voce bassa. Poi Jody annuì e si avvicinò a Kay. Teneva ancora l'arma in mano. «Giratevi,» disse. «Che cosa?» «Giratevi verso la porta.» La sua voce rimase inespressiva ma il revolver fu alzato in segno di co-
mando, e Kay obbedì. Restò immobile, avvertendo la presenza di Jody direttamente dietro di sé, poi sentì qualcosa di freddo e duro premerle tra le scapole. Sta per uccidermi, si disse. Improvvisamente la pressione si alleviò. «Non state in tensione, signora,» disse Jody. «Rilassatevi.» Kay si girò mentre il giovane barbuto abbassava l'arma. Guardò dietro di lui per vedere il suo compagno, ma vide solo il semicerchio di statue incombere nell'ombra, lungo il muro più lontano. «Il Reverendo Nye?» «Ha tagliato la corda.» Era ovvio. Ma come se n'era andato? La porta era chiusa a chiave e non c'era nessun'altra uscita in quella stanza priva di finestre. Lo sguardo di Kay incontrò il ghigno di Jody. «Non preoccupatevi, tornerà. Non se ne andrebbe mai senza di voi. In nessun modo.» Nessun modo. Ma doveva esserci un modo. Kay cercò di mettere da parte la paura e di concentrarsi sulla realtà. Nye se n'era andato e Jody le avrebbe fatto la guardia fino al suo ritorno. E poi... «Dove andiamo?», mormorò lei. «Partiamo per un viaggio. Vi piacciono i viaggi, signora?» Era drogato, non c'era dubbio. Ma lei gli credeva. Nye sarebbe tornato presto per portarla via. Aveva promesso di salvarla... ma per che cosa? Kay non voleva sapere la risposta. Ma l'unico modo per evitarlo era agire subito, prima che Nye tornasse. Deve esserci un modo... Guardò in basso, poi si mosse in avanti. «Aspettate,» disse Jody. «Dove state andando?» «La mia borsetta... lì a terra. Voglio prendere le mie cose.» Era difficile per Kay tenere la voce calma, era difficile muoversi. Ma doveva farlo, e lo fece. Si chinò sulla borsa e cominciò a raccogliere i suoi averi. Jody le si affiancò, la osservò raccogliere gli oggetti che si erano sparsi a terra dalla borsa: fazzoletto, portacipria, specchio, profumo, portachiavi, penna, matita, agendina. Kay li ficcò nella borsa. E, nel farlo, sistemò gli oggetti più pesanti in alto e sganciò con un unghia la chiusura del portacipria. Era evidente che nella borsa non aveva armi e avvertì Jody rilassarsi mentre lei sollevava la borsa e si alzava. Poi si girò e fece oscillare la borsa aperta in avanti, lanciandola contro la
faccia di Jody. Una pioggia accecante di polvere esplose dal portacipria, e il braccio di Jody si alzò a proteggere gli occhi dal portachiavi e dalle punte aguzze della penna e della matita. E allora Kay si slanciò verso di lui per strappargli il revolver. Tossendo, Jody l'afferrò, con la faccia contorta. Kay non si era accorta di premere il grilletto, ma doveva averlo fatto, perché improvvisamente la faccia di Jody scomparve. Al suo posto c'era un ammasso rosso e zampillante. Il giovane arretrò, vacillò e cadde a terra. Kay non era preparata a quella vista, né all'odore, né alla sua propria reazione. Si girò, lo stomaco in subbuglio. Il revolver le scivolò dalle dita quando lei si aggrappò ad una bacheca per non cadere. Per un momento restò immobile, finché i conati di vomito non si furono calmati. Poi il panico la spinse verso la porta. Era chiusa a chiave. E nella serratura non c'era buco. Guardò, e cominciò confusamente a capire. Jody aveva chiuso la porta quando era entrato. Doveva esserci un meccanismo a scatto che la chiudeva dall'esterno. Ci deve essere un modo. Evitando accuratamente di guardare il corpo a terra, Kay si girò a raccogliere il revolver. Si mise da un lato per ripararsi, prese di mira la serratura e premette il grilletto. Clic. Premette di nuovo e di nuovo il grilletto scattò a vuoto. Il revolver era scarico. Nessun modo. Guardò dall'altra parte della stanza, fissò le tenebre dove gli Dei dell'Egitto erano accucciati o eretti, e sogghignavano deridendola. Lentamente si avvicinò alle statue. Guardò il muso di pietra di Sebek, Horus dal becco di bronzo, le fauci d'ottone di Bast. E dall'alto, sul suo piedistallo, Osiride aveva l'occhio fisso su di lei. Nye era lì quando lei l'aveva visto l'ultima volta. Lì, accanto ad Osiride, Signore dei Morti. La parete che era dietro la raccolta di statue era solida e intera. Kay fece scorrere le dita sulla fredda superficie di pietra, ma non notò alcun cedimento. Non c'era nessuna uscita segreta da quella parte. Nessun modo. Si voltò a guardare nell'occhio di Osiride, il Signore degli Inferi. Gli inferi. Kay guardò in basso, tra le ombre che erano dietro al piedistallo. Per po-
co non inciampò nella sporgenza, prima di vederla. L'anello di metallo sporgeva dal cerchio di ferro che era al livello del pavimento. Si chinò ad afferrarlo. Il pesante coperchio rotondo era perfettamente equilibrato, cosicché si sollevò rapidamente, silenziosamente, senza sforzo. Kay si inginocchiò e fissò la buia apertura. Era così che Nye era andato via, attraverso una botola. Non c'erano gradini, solo una serie di pioli che formavano una scala. Ma dove portava? Kay inspirò profondamente, poi afferrò il primo piolo in alto. Lentamente cominciò a calarsi negli Inferi. Giù. Giù nelle tenebre, giù nell'umidità. Kay scese cautamente lungo la scala di metallo. Muoveva una mano alla volta per avere una presa salda su entrambi i lati, poi abbassava un piede per cercare l'appoggio sul piolo posto più in basso. I pioli sembrava che fossero ad una distanza di una cinquantina di centimetri, il loro piano di appoggio era più stretto di quello di una scala normale. Grazie a Dio non ho i tacchi alti, si disse. La luce che trapelava attraverso la botola diventava sempre più fioca, man mano che lei scendeva. Teneva il conto dei pioli: trentuno, trentadue, trentatre, e si chiedeva quanti altri ce ne fossero. Ma sapeva che non era importante quando finivano, ma dove finivano. Si fermò per un momento, aggrappata alla scala nel fosco silenzio. Non c'era niente da vedere, niente da sentire, e Kay si sentì perduta. Senza né vedere né sentire, poteva basarsi solo sulle sensazioni tattili. I pioli di metallo erano freddi al tatto, l'aria le soffiava sul volto, e la fronte era umida e ghiacciata. Il vento che soffiava a folate dal basso doveva provenire da qualche parte all'esterno del pozzo. Se Nye era andato via attraverso quella strada, le scale dovevano portare ad un'uscita. Con lentezza, con calma, Kay riprese la discesa. La luce che veniva dall'alto divenne un puntino luminoso, poi scomparve del tutto. Lei ignorò il buio e si concentrò sul tenere il conto dei pioli. Dopo aver raggiunto il sessantaseiesimo piolo, il suo piede destro calò su una solida superficie di pietra. E questo significherebbe quaranta metri? Ma sono tredici piani! Kay tentò di ricordare l'altezza del dirupo su cui sorgeva la casa. Kay doveva trovarsi alla base, vicino al livello del mare. E, quando tese le orecchie, le
parve di sentire un lontano rimbombo smorzato, ripetuto ad intervalli regolari. Il rumore delle onde che sbattevano contro la parete rocciosa, in lontananza. Doveva trovarsi un passaggio, ma non c'era nessun modo di capirne le dimensioni o la direzione in cui procedeva. Kay poteva solo seguire la corrente d'aria che le arrivava sul volto, seguirla fino alla fonte. E se il rimbombo diventava più forte, voleva dire che si stava avvicinando all'uscita. Kay abbandonò la presa sul piolo di metallo e se ne pentì subito. Ora era sola nel buio. Una volta che si fosse allontanata dalla scala, non sarebbe mai riuscita a trovarla di nuovo. Si girò e tese le mani, nel tentativo di toccare le pareti dell'apertura in cui si trovava. Il braccio sinistro urtò contro qualcosa di solido, che sporgeva verso l'esterno, al livello della spalla, e Kay sentì le dita stringersi intorno ad una maniglia o leva. Si mosse in avanti con un lieve scatto, e Kay chiuse gli occhi perché la luce improvvisa le aveva ferito le pupille. Una fioca fluorescenza si riversò dall'alto e lei ne vide la fonte: il tetto del tunnel che le si apriva davanti, lì, alla base della scala. La stretta apertura sembrava tagliata nella solida roccia, misurava circa un metro e venti in larghezza e un metro e ottanta in altezza. Neon tubolari erano messi a distanza regolare in un tubo protettivo che si stendeva lungo il soffitto del passaggio, rivelando le pareti, rozzamente tagliate, che serpeggiavano in avanti. La loro superficie rocciosa era umida e chiazzata da stillanti macchie verdastre di licheni. Era una caverna scavata dall'uomo, non c'erano dubbi, ed era evidentemente antica. Ma la luce, altrettanto evidentemente, era un'aggiunta recente, e l'interruttore a leva contro cui aveva urtato era un'installazione moderna. In quel momento un ricordo le attraversò la mente; il ricordo spontaneo e sgradevole dei passaggi sotterranei nella storia di Lovecraft. The Shunned House. Kay scosse la testa. Era il momento di concentrarsi sui fatti, non sulle fantasie, e in quel preciso momento solo l'aria era importante. L'aria che usciva dall'imboccatura del tunnel e proveniva da una fonte che doveva essere dall'altra parte. Doveva esserci un'uscita alla fine del passaggio. Avanzò senza ulteriori esitazioni. Il tunnel era umido e l'odore del mare era ovunque. L'eco dei suoi passi si fondeva al rimbombo ritmato delle onde che sbattevano contro le pareti rocciose. Come aveva pensato, il tunnel serpeggiava attraverso la roccia. Dopo poco Kay non vide più l'apertura
che le era alle spalle. Di tanto in tanto, incontrava aperture più piccole su entrambi i lati, come se tutto il dirupo fosse perforato di caverne e gallerie, ma lei ignorò quelle imboccature secondarie e si concentrò sul passaggio centrale, illuminato. La costante corrente d'aria che le soffiava sul volto era promettente e lei cominciò ad accelerare il passo. Solo quando le fu addosso, Kay avvertì il cambiamento graduale che era avvenuto nella qualità del suono. L'eco dei suoi passi rimaneva costante, come il rombo soffocato della risacca, ma ora c'era qualcos'altro, qualcosa che riempiva gli intervalli tra l'assalto furioso delle onde. Qualcosa si muoveva, non all'esterno ma all'interno. Kay si fermò, scrutò davanti a sé. La galleria, avvolta dalle ombre, era vuota. Non vide muoversi niente, ma quando il ruggito delle onde invisibili si placava, il silenzio successivo era rotto di nuovo da quell'altro rumore, più lieve. Che cosa le ricordava? Fruscii. Insidiosi rumori di passi. Corse di topi: erano parole di Lovecraft. E il racconto era, The Rats in the Walls. Qualcosa pigolò e trillò nel buio, ma il rumore veniva dalle sue spalle. Kay si girò a guardare la galleria. L'estremità era immersa nel buio. Ma le ombre non scivolano e non si contorcono. Le ombre non hanno occhi. Li vide guizzare in lontananza, mille occhietti rossi che brillavano su una massa in movimento che chiudeva il passaggio alle sue spalle, mille corpi gonfi e neri che galoppavano in uno sciame uscito da un'apertura laterale per ostruire la galleria centrale. Ora udiva gli artigli affilati grattare la pietra, sentiva il tanfo di quell'orda che le si avventava contro. Kay cominciò a correre, e quelle ombre vive corsero al suo inseguimento. Minuscoli artigli tintinnavano. Le creature stavano guadagnando terreno, si avvicinavano. Ormai erano solo ad un metro da lei, si preparavano a balzare. I musi zannuti erano aperti, squittivano all'unisono, strillavano la loro fame. La fame dei topi, i topi nelle pareti... Vide l'apertura laterale appena in tempo; il vano della porta era inserito in una stretta nicchia alla sua sinistra. Quando Kay corse verso il vano, quelle forme pelose e frenetiche si sollevarono. Kay si girò sulla soglia, e rimase agghiacciata alla vista di quegli occhietti rossi, dei musi pelosi, dei denti appuntiti e gialli da cui pendevano filamenti di saliva. Un grande topo grigio balzò in avanti, verso la sua gamba destra. Kay scalciò, strillò, poi si infilò nell'apertura, roteò su se stessa e tirò la pesante porta, che era socchiusa contro la parete interna. Per un momento la porta fece resistenza e Kay lottò per tirarla in avanti,
mentre l'orda di topi strillava e saltava verso l'apertura. Poi la porta si chiuse con uno schianto. Dietro di essa, Kay sentì i tonfi dei corpi, le strida, gli squittii. Ma la porta mantenne. Era una barriera modernissima di metallo robusto, agganciato a cardini scintillanti. Kay la guardò per un attimo. Affannava, si sforzava di ritrovare il fiato e la calma. Solo quando ci riuscì, si girò a guardare la stanza. E si trovava veramente in una stanza, non una caverna naturale o scavata dall'uomo. Le pareti squadrate dell'enorme camera rivelavano chiaramente la mano di operai esperti. La luce fluorescente si spandeva da fessure che si aprivano simmetricamente sul soffitto. Il ronzio che si sentiva indicava la presenza di un macchinario che era in funzione da qualche parte. Aria condizionata? L'idea sembrava assurda, ma quel rumore somigliava al ronzio continuo, persistente, di un gigantesco condizionatore d'aria in funzione. E faceva freddo in quella stanza, molto più freddo che nel passaggio umido che era all'esterno. Quando ritrovò la calma. Kay ebbe la conferma finale dell'attività di esseri umani in quella stanza. Il lungo passaggio aperto che portava ad un'altra porta all'estremità opposta era coperto su entrambi i lati da file di casse di metallo. Ognuna era alta un metro e venti, larga sessanta centimetri, e lunga circa due metri. La parte superiore era piatta e sembrava ricoperta da un involucro di alluminio. Ad un'occhiata superficiale, sembrava che i contenitori metallici fossero parecchie centinaia. Quando Kay abbassò lo sguardo sul pavimento del passaggio che si apriva tra le due file, notò un intrico di tubi che partivano dalla base di ciascuna cassa e le univano l'una all'altra. Il ronzio aumentò e soffocò il rumore delle creature che erano nel passaggio esterno, ma questo nuovo rumore aveva qualcosa di inquietante. Era una pulsazione ritmica, simile al profondo pulsare di un cuore gigante. Kay accelerò il passo, e fece del suo meglio per ignorare il rumore che si alzava da entrambi i lati. Ma non poteva ignorare il gelo crescente e gli involontari brividi che la scuotevano. Il freddo emanava dalle casse. Centinaia di casse refrigerate, simili ai contenitori di un enorme cella frigorigera. L'impulso la spinse a guardare una cassa che era alla sua destra. La curiosità la portò a fermarsi e fece afferrare alle sue dita la gelida maniglia metallica che sporgeva dal sottile involucro di alluminio che copriva il contenuto della cassa. L'involucro doveva poggiare su guide mobili, perché al suo tocco la copertura scivolò all'indietro e rivelò quello che c'era al
di sotto. C'era solo un altro strato protettivo, questa volta di plastica spessa e trasparente. Kay vide che cosa conteneva la cassa. Un intrico di fili e tubi che si avvolgevano in un liquido torbido, gorgogliante e luccicante. I fili si avvolgevano a spirale e terminavano in morsetti che erano attaccati alla forma galleggiante nel liquido: un cadavere sorridente. Era il cadavere nudo di un uomo anziano, scarno ed emaciato, messo a faccia in sù in quella soluzione lattiginosa che gorgogliava contro gli arti rinsecchiti, l'ossuta cassa toracica, la frangia penzolante di sottili capelli bianchi che incorniciavano le guance scavate. La cassa conteneva la morte. Avvolto dai fili come una marionetta mostruosa, il corpo ballonzolante ghignava attraverso il turbine ribollente. E aveva gli occhi aperti. Kay non urlò. Restò immobile, lasciò che il freddo la penetrasse, inalò il tanfo di ammoniaca, mentre parole insensate le attraversavano la mente. Non è morto ciò che può vivere in eterno. Una frase di Lovecraft. E, di nuovo, un suo racconto. Cool Air, si chiamava: raccontava dei rozzi tentativi di prolungare e preservare la vita con la refrigerazione artificiale, avvenuti più di cinquant'anni prima. Prolungare la vita: era un tema a cui quello scrittore aveva accennato più volte. E poi il tema degli antichi sopravvissuti, risorti o eterni, in He, The Festival, The Terrible Old Man. E quell'altro uomo, il cannibale di The Picture in the House. Ma quel corpo nella cassa non era nutrito con il sangue, o con mezzi primitivi di conservazione. In quella stanza era presente la moderna realtà della criogenia. Carne congelata, putrefazione interrotta in un'animazione sospesa, l'ibernazione in attesa del giorno della rinascita. E nelle altre casse... Kay scoprì a caso gli involucri degli altri contenitori, sapendo che cosa avrebbe trovato. Ogni cassa conteneva un cadavere. In una c'era un uomo di mezza età, lustro e sorridente, le guance gonfie di una grassezza oscena, ancora più orribile della magrezza. In un'altra, il corpicino di un bambino che si muoveva tra i tubi che nutrivano le vene congelate, per impedire il disseccamento e la putrefazione. E una ragazza, molto simile a Kay: le labbra blu erano atteggiate ad un segreto sorriso. Gli occhi vitrei specchiavano i sogni della morte. Quante centinaia di morti erano stipati in quel luogo, prigionieri della
criogenia, in attesa del risveglio? Kay si allontanò, si affrettò verso la porta che era alla fine del passaggio, pregando che non fosse chiusa. Qualsiasi cosa ci fosse aldilà, non poteva essere peggio di quello che c'era in quella camera. Con suo sollievo la porta si aprì facilmente e rivelò un altro corridoio fiocamente illuminato. Lei si fermò per un attimo sulla soglia, grata del flusso di aria più calda che le colpiva il viso. E l'aria si muoveva veramente. Il che significava che era di nuovo nella direzione giusta. Da qualche parte, alla fine del tunnel, c'era l'uscita che lei cercava. Kay si avviò lungo la galleria. Le sue dimensioni erano molto simili a quelle della galleria che aveva appena attraversato e l'illuminazione era simile. Quando Kay avanzò, il ronzio si placò, e non si sentì lo scalpiccio. Si ritrovò di nuovo ad oltrepassare nicchie, altre porte che si aprivano nelle pareti laterali del tunnel. Cercò di non pensare che cosa potesse celarsi aldilà, e non si fermò a investigare. Invece Kay concentrò la propria attenzione sul vento umido che entrava da qualche parte davanti a lei. Avanzava in trepida attesa. Il tunnel curvò a destra e lei lo seguì, notando che la pendenza del pavimento roccioso saliva gradualmente. Quel tunnel doveva condurre all'uscita, doveva essere la strada verso la libertà. Kay accelerò il passo, cosciente del rumore che faceva nel respirare affannosamente. E poi... L'altro rumore. In lontananza, l'eco smorzata di un clangore. Il clangore di porte, delle porte di metallo che si aprivano ai lati del tunnel alle sue spalle. Kay si girò a guardare la galleria, verso il punto in cui curvava. La distesa rocciosa era vuota, il buio lontano deserto. Ma da qualche parte, aldilà della svolta, il rumore avanzava verso di lei, trasformandosi. Il clangore era cessato, e al suo posto arrivava l'inconfondibile tonfo di qualcuno che si muoveva. Ma, diversamente dal rumore di passi o dallo scalpiccio delle zampe di animali, il ritmo era irregolare. Quei tonfi facevano pensare ad uno zoppichìo, accompagnato da strascichii e stridii che facevano pensare ad una creatura che strisciasse invece di camminare. E allora, improvvisamente, Kay avvertì un odore disgustoso, di pesce; un tanfo nauseante che le arrivava dalla stessa fonte del rumore, e cresceva insieme ad esso. Tra pochi istanti i suoi inseguitori sarebbero apparsi nel rettilineo del tunnel che era alle sue spalle, e Kay si irrigidì in attesa di ve-
derli. Allora la luce se ne andò. Le tenebre l'avvolsero, e dalle tenebre si alzò il rumore: tonfi, colpi, stridii provocati da una creatura invisibile che le si avvicinava. Ma questo non era il peggio. Il peggio era il nuovo rumore che si stagliava sugli altri, l'inconfondibile mormorio di voci, che non avevano nulla di umano. Una babele bestiale di latrati, ringhi e gracchi profondi e gutturali. Kay si girò e corse, corse alla cieca, con le braccia tese in avanti per ripararsi dagli urti contro le pareti serpeggianti. I piedi battevano contro il pavimento del tunnel la cui pendenza aumentava sempre di più. La superficie di pietra era umida e scivolosa, resa infida da rivoletti di invisibile umidità. E dal buio dietro alle sue spalle, i rumori incalzavano, i tonfi, i colpi, gli scalpiccii si frammischiavano alle strida rauche e agli ansiti, che alludevano allo sforzo crescente fatto per raggiungerla. Il frastuono crebbe, l'onda dell'odore nauseabondo divenne ancora più intensa. Ma davanti c'era una luce. Una luce fioca che proveniva da un'apertura circolare che era in alto: l'uscita del tunnel. Tendendosi per lo sforzo, Kay si slanciò in avanti, corse per raggiungere l'uscita. Affannando, si arrampicò lungo l'ultima salita, E cadde. Per un momento perse conoscenza per lo shock della caduta, quando il suo corpo urtò contro la roccia scivolosa. Poi la coscienza tornò quando si sentì toccare la spalla. Cercò di sgusciare via, ma il tocco divenne una stretta, la stretta divenne una morsa ferrea. E, al di sopra del balbettio, degli ansiti, dei gracchi e dei ringhi selvaggi, arrivò il suono di una voce. «Kay, non lottate contro di me, per l'amor di Dio, presto!» Lei aprì gli occhi mentre Mike Miller la tirava in piedi e la trascinava attraverso l'apertura. Il resto fu una serie di impressioni momentanee, confuse. Visioni di luce frammischiate al buio. Una visione fulminea della stretta sporgenza rocciosa a picco sul mare con cui finiva il tunnel. L'immagine della lancia a motore che dondolava sul mare. La faccia ansiosa di Mike che la guardava mentre l'aiutava a scendere nella barca. Le vibrazioni contro il suo corpo disteso quando il motore salì di giri e la lancia cominciò a muoversi rapidamente verso il largo. Un'ultima visione dell'apertura della caverna, man mano che la costa si allontanava.
Qualcosa riempì quell'apertura, si stagliò nell'ombra: si sentirono tonfi, zoppichii, gracchi e belati. Tra qualche momento sarebbe balzata fuori. Ma quel momento non arrivò mai. Invece si sentì il boato dell'esplosione, che provocò una pioggia di rocce e pietrisco sull'entrata della caverna mentre tutto il dirupo sembrò tremare in una convulsione cosmica. Un rumore assordante, una luce accecante, e una torsione, fu quello che Kay vide e sentì mentre la barca accelerava. Poi sentì che le braccia di Mike Miller l'accoglievano mentre lei cadeva all'indietro. Quindi furono solo tenebre. Passarono ventiquattro ore prima che Kay riprendesse conoscenza, ma ebbe degli intervalli di coscienza. I ricordi di quei momenti consistevano quasi esclusivamente di sobbalzi e rumori vagamente identificabili. Il rumore del motore della lancia che borbottando si avvicinava alla riva. La sensazione di essere portata, un po' barcollando un po' appoggiandosi a qualcuno, ad un'auto in attesa. Il calore rassicurante della spalla di Mike quando Kay le si appoggiò nell'auto che correva. La sensazione di essere portata da quell'auto in un altro posto dove rombavano altri motori. La pressione che aumentava contro i suoi timpani mentre le pulsazioni aumentavano, e di nuovo la pressione quando la pulsazione divenne un ronzio. Ancora una volta la sensazione di essere portata e di un'altra corsa in un'auto con Mike accanto. Infine dei passi barcollanti che finirono quando affondò nella morbidezza di un letto. E, poi, inevitabilmente... «Dove sono?» Kay aprì gli occhi e alzò lo sguardo su Mike che le era accanto, nel cerchio di luce di una lampada. «È casa mia,» disse. «Siete a Washington.» «Ma come ci sono arrivata?» «Ne parleremo dopo. Il Dr. Lowenquist vuole che riposiate.» Mentre parlava, Mike prese una bottiglia e un bicchiere da un tavolino, e versò il contenuto dell'una nell'altro. «Ecco, bevete questo.» Kay bevve e si arrese al sonno. Questa volta non ebbe più momenti di coscienza e, per fortuna, non fece sogni. Quando si svegliò Mike era lì: sul tavolino accanto al letto c'era un vassoio con dei piatti coperti. Con sua grande sorpresa, si accorse di avere fame, e di essere perfettamente in grado di alzarsi a sedere e di mangiare da sola.
Il cibo la rinvigorì e l'aiutò ad affrontare la conversazione che seguì. Insieme, ricostruirono gli avvenimenti dei due giorni precedenti. La squadra di sorveglianza di Mike era stata veramente colta di sorpresa e uccisa, proprio come le aveva detto Nye. Ma, malgrado le sue precauzioni, Nye non aveva pensato che qualcuno potesse controllare l'uscita sul mare, e perciò Mike era riuscito a trovare lo sbocco della caverna con la lancia e ad andare a salvarla. «E l'esplosione?» Mike si strinse nelle spalle. «Nye doveva aver minato quel passaggio, con dei detonatori che potevano essere attivati con la sola pressione di un piede. Fortunatamente voi li avete evitati. Quando la caverna è esplosa, è crollato tutto il dirupo, portando con sé anche il museo. L'esplosione ha rotto tutti i vetri da Santa Monica a Oxnard. Sul posto è al lavoro una squadra di operai, ma non riusciranno mai a scavare tra quei detriti abbastanza da trovare qualcosa.» «Che cosa è accaduto a Nye?» «Quando vi ho lasciato deve essere andato direttamente allo Starry Wisdom Temple. Almeno, così immaginiamo, perché nello stesso momento in cui il dirupo è crollato, si è scatenato l'inferno nella South Normandie.» «Un'altra esplosione?» Mike scosse la testa. «Un incendio. Ma così improvviso e così devastante, che è stato indubbiamente doloso. Tutto l'edificio è stato distrutto in pochi minuti. E questa volta ci sono state vittime: sono stati trovati almeno una dozzina di corpi, secondo le ultime notizie.» «Compreso Nye?» «Non lo sappiamo. Le vittime erano incenerite, bruciate e rese irriconoscibili. Erano suoi seguaci, non c'è dubbio, ma non credo che Nye avesse intenzione di uccidersi. Si voleva solo assicurare di non lasciare prove dietro di sé.» Kay aggrottò la fronte. «Prove di che cosa?» «Possiamo servirci del vostro aiuto per stabilire questo punto.» Mike si sedette sul letto accanto a lei. «Pensate di riuscire a dirmi esattamente quello che è avvenuto la notte scorsa?» «Tenterò.» «Bene.» Mike premette la superficie del cassetto che era sotto il tavolino. Si sentì
un lieve scatto. «Che cos'è?» «Un registratore incorporato. Vi stavamo registrando nel caso aveste parlato nel sonno.» Sogghignò. «Talvolta questi aggeggi da romanzo di spionaggio tornano utili. Vi dispiace se comincio con qualche domanda?» Kay annuì. «Fate pure. Forse possiamo dare un senso a tutta questa storia.» Ma le domande di Mike e le risposte di Kay non avevano nessun senso. Non finché la stessa Kay prese le redini dell'interrogatorio: allora le risposte di Mike ebbero un senso che lei non era preparata a sentire, tantomeno ad accettare. «Il vostro sospetto a proposito del racconto Cool Air, era esatto, naturalmente,» le disse. «Abbia o non abbia preso l'idea da Lovecraft, sembra probabile che le installazioni criogeniche facessero parte del grande piano di Nye. Doveva aver promesso ai suoi convertiti più ricchi il dono della resurrezione futura quando il Grande Giorno fosse arrivato. Per esempio, già sappiamo che Elsie Probilski è scomparsa poco dopo aver donato il museo e la proprietà del dirupo alla setta. Abbiamo seguito le sue tracce fino ad una clinica privata di Mexico City, dove veniva sottoposta ad un trattamento poco ortodosso per il cancro. Ha lasciato quella clinica molti mesi fa ed è scomparsa. È possibile che sia stato Nye a farla sparire. Scommetto che era uno dei soggetti criogenici nella stanza refrigerante che avete visto voi.» «E i topi?» «Sono incline ad attribuirli al caso, piuttosto che a Lovecraft. Quei tunnel erano un santuario naturale per loro. Da quello che dite, tutto il dirupo doveva essere traforato da caverne e gallerie. I seguaci di Nye ne usavano qualcuna e avevano apportato i miglioramenti necessari ai loro scopi. E poi, secondo la vostra esperienza, non erano solo i topi ad essersi rifugiati in quei tunnel. Quegli altri che vi inseguivano...» «Vi prego,» Kay scosse in fretta la testa. «Ci stavo pensando. Forse mi sbagliavo.» «Come è possibile?» «Vi ho detto quanto fossi spaventata. Forse è stata la mia immaginazione a giocarmi quei brutti scherzi. Quei passi che ho sentito potevano appartenere a qualche seguace di Nye, agli assassini, come li chiamate voi, invece che a...» «Invece che...?»
«Non ne voglio parlare.» «Allora lo farò io.» La faccia di Mike era truce. «Stavate pensando di nuovo a Lovecraft. Al suo racconto, The Shadow over Innsmouth. E alle creature che emergevano dal mare per accoppiarsi con gli uomini e generare ibridi semi-umani.» «Ma questa è solo una leggenda, come quella delle sirene. Nessuno ha mai visto creature come quelle descritte da lui.» Mike scosse la testa. «Lovecraft diceva che all'inizio quegli ibridi hanno un aspetto abbastanza umano. È solo nella maturità che comincia il cambiamento, ed essi sono costretti ad andare a nascondersi. E se quel dirupo traforato da caverne era un nascondiglio simile? Un rifugio per creature che saltellano, strisciano e gracchiano. Voi le avete sentite...» «Ho sentito quei rumori, sì. Ma non ho visto niente.» «Siatene felice.» Kay lo guardò. «Significa che voi le avete...?» «Forse.» Mike annuì lentamente. «Quell'esplosione non è passata inosservata. L'intera parete del dirupo si è spezzata ed è crollata in mare. Perciò la Polizia e i Vigili del Fuoco non hanno potuto fare niente quando sono arrivati, tranne che creare un cordone intorno alla zona. I cutter della Guardia Costiera sono stati avvertiti immediatamente di pattugliare la costa e ricuperare tutto quello che risaliva a galla. Uno di loro è stato fortunato — o sfortunato — e ha trovato qualcosa. «Ma, prima che cominciassero a circolare strane voci, i nostri agenti sono intervenuti. Hanno requisito la cosa che era stata ritrovata, l'hanno avvolta col ghiaccio secco e l'hanno portata al nostro laboratorio per l'esame e l'analisi. Sono andato a dare un'occhiata poche ore fa.» Kay si sollevò su un gomito. «Che cos'era?» Mike esitò, poi inspirò profondamente. «Un corpo. Parte di un corpo, per essere esatti. La testa e il busto erano quasi intatti, ma le braccia e gli arti inferiori mancavano, e la faccia non esisteva più. Quello che è restato sembra umano, ad un primo sguardo. È stato uno dei patologi che ha sottolineato il significato delle formazioni che sono su entrambi i lati del collo. Le ha identificate come branchie rudimentali, poi si è corretto.» «Non erano branchie?»
«Non erano rudimentali.» Mike annuì. «Le analisi indicano che questi organi erano in uno stato di sviluppo parziale, con i segni evidenti di una crescita in atto. Altri esami hanno rivelato le caratteristiche del sangue, che non corrispondono a nessuna classificazione nota.» «Il soggetto — è così che chiamano quella creatura — non è annegato, ma aveva acqua nei polmoni. E gli stessi polmoni non hanno una conformazione fisiologicamente normale. È come se si stessero adattando alle branchie funzionali. C'è anche una relazione preliminare dell'ortopedico, che rivela altri cambiamenti nella struttura ossea. Anomalie, penso che questo sia il termine tecnico, che riguardano la colonna vertebrale. E qualcosa a proposito dell'atrofia della cassa toracica. Naturalmente si è scatenato l'inferno: tutte le persone coinvolte hanno una propria teoria. Grazie a Dio, la faccia è stata distrutta. «Ma sono pronti a procedere all'autopsia e alla dissezione e, una volta che avranno dato un'occhiata al cuore e agli altri organi, temo che non avranno più dubbi.» «Che cosa accadrà allora?» «Niente, se possiamo evitarlo. Tutto il personale del laboratorio sarà tenuto sotto stretta sorveglianza. Questo ci può far guadagnare del tempo, ma non possiamo tenere la storia nascosta per sempre.» «Giornali e televisione si sono impossessati della storia dell'esplosione ed è stata una fatica tenere lontane dalla zona le telecamere della televisione. La ricerca della Guardia Costiera viene svolta di nascosto. Le lance stanno ancora pattugliando la costa, ma finora non è emerso niente in superficie. Il prossimo passo sarà mandare sul fondo dei sommozzatori, sebbene ho il presentimento che non riusciranno a passare attraverso la frana. Almeno, così spero.» Kay annuì. «Se riuscirete a non far trapelare la storia, non si creerà panico. E anche se alla fine dovesse trapelare, almeno il pericolo sarà finito.» «Vorrei che fosse così facile,» disse Mike. «Che cosa significa?» Mike si alzò, si avvicinò al tavolino, allungò la mano e spense il registratore incorporato nel cassetto. «Il Dr. Lowenquist tra poco passerà a chiedere come state. Vedete di riuscire a dormire finché non arriva.» «Non rispondete alla mia domanda?» «Non appena Lowenquist dirà che potete alzarvi, fisseremo un incon-
tro.» «Un incontro?» «Con i miei colleghi. È per questo che vi hanno voluto qui a Washington: hanno anche loro delle domande da farvi.» «Ma sono le risposte che a me interessano.» «Anche a noi.» Mike annuì. «Il problema è che non possono esserci risposte.» La mattina seguente il Dr. Lowenquist diede il suo assenso, e Kay si alzò, piacevolmente sorpresa nello scoprire quanto si sentisse bene. Fu ancora più sorpresa nello scoprire che erano arrivati i suoi vestiti e i suoi effetti personali, accuratamente piegati nelle valigie, in attesa che le servissero. Ogni irritazione all'idea che fosse stata invasa la sua privacy scomparve presto, sostituita dal piacere di scegliere biancheria e abiti puliti e di rendersi presentabile al prossimo incontro. Mike Miller le aveva detto di essere pronta per le sette di quella sera. Egli arrivò poco dopo che Kay aveva finito la cena portatale da uno degli uomini del Servizio di Sicurezza, un'ora prima. Era strano quanto si fosse abituata in fretta alla loro presenza e a vivere con quelle strette misure di sicurezza. Era solo grazie a quelle misure che lei viveva ancora. Kay si rese improvvisamente conto di non aver mai espresso tutta la gratitudine che sentiva per Mike. Voleva farlo allora, ma avvertì che l'uomo non era nello stato d'animo di ascoltare. Dopo il loro scambio iniziale di saluti, la condusse al pianterreno, alla sua auto, e immediatamente accese la radio, come per creare una barriera di suono tra loro. Qualcosa lo turbava, non c'era dubbio, ma qualsiasi cosa fosse, sembrava deciso a tenerla per sé. Uscirono dalla città. La pioggia batteva monotona sul parabrezza, e Mike dedicava tutta la sua attenzione al traffico serale che avanzava lentamente sull'asfalto sdrucciolevole dell'autostrada. Kay si appoggiò allo schienale del sedile in un finto abbandono ai suoni sommessi che provenivano dalla radio, e lanciò un'occhiata furtiva al suo compagno. Domande e risposte. Questa era stata la sostanza della loro conversazione precedente. Ma non era la sostanza di tutte le conversazioni, la sostanza, in realtà, di tutti i rapporti? La vita stessa era solo un breve periodo di meditazione tra due grandi domande senza risposta; i misteri della vita e della morte.
E la conversazione non era un mezzo soddisfacente di comunicazione. Per esempio, Mike, come la maggior parte della gente, non aveva un solo tipo di linguaggio. A volte usava il dialetto, come faceva anche Kay. Ma era capace di servirsi di un vocabolario completamente diverso quando discuteva l'opera di Lovecraft e il rapporto che aveva con Nye. Nye aveva la stessa versatilità verbale, passava dal gergo della strada all'oratoria evangelica o alla terminologia colta di Lovecraft. Quanto era diverso il linguaggio delle persone nei drammi e nei film! In quelle opere, un personaggio veniva identificato dall'uniformità del suo stile di linguaggio. Ma, in realtà, il linguaggio di una persona, come i suoi pensieri, la sua vera personalità, erano infinitamente più complessi. Le parole offrivano solo un indizio parziale, ed erano ugualmente utili come copertura. Il Reverendo Nye era un esempio perfetto, con il ruolo che si era scelto. Kay non aveva idea di quali fossero le sue vere motivazioni, di quanta verità ci fosse nelle sue parole, di quanto vi credesse egli stesso. A questo proposito, le stesse domande si applicavano a Mike. Non l'aveva ingannata quando si erano conosciuti? E dopo, fingendo di essere sincero, non le aveva tenuto nascosto quello che sapeva sul pericolo costituito da Nye? Ma, parole a parte, una cosa sembrava certa. Il pericolo esisteva. E la domanda restava. Ma quale era il pericolo? Nella sua preoccupazione, Kay non osservò dove si stessero dirigendo. Quando alzò gli occhi, fu sorpresa di vedere che avevano lasciato l'autostrada e stavano correndo lungo una strada di campagna, spazzata dalla pioggia. Davanti a loro, alla luce dei fari, si stagliava un'area recintata di rete metallica, dietro la quale era visibile il capannone di una fabbrica. L'auto si fermò ad un cancello e Mike spense le luci per segnalare la sua presenza alla guardia che uscì da un cubicolo per farli entrare. Quando i fari si riaccesero, illuminarono un cartello di legno su cui era scritto: Pinckard Salon Furniture. L'auto percorse il viale d'accesso e si andò a fermare direttamente davanti all'ingresso del capannone. Mike uscì dall'auto e Kay lo raggiunse. Si avvicinarono alla porta, e l'uomo premette un pulsante. La porta si aprì — attivata, comprese Kay, da un controllo elettronico — e lui le fece cenno di entrare prendendola per un braccio. Di nuovo il pensiero del pericolo le attraversò la mente, ma la stretta di Mike era sicura. Guardò davanti a sé, irrigidendosi in attesa di uno shock improvviso.
Con grande sorpresa, Kay si ritrovò in una vera fabbrica di mobili, vivacemente illuminata. Non c'era da equivocare sulla natura dei torni e dei macchinari. Sebbene la catena di montaggio fosse ferma, l'odore di segatura fresca testimoniava che aveva funzionato di recente. Dietro una vetrata alla sua sinistra, vide il reparto dei tappezzieri, ingombro di ritagli di stoffe. I cubicoli degli uffici erano allineati lungo la parete destra, ma Mike la condusse oltre. Percorsero il corridoio, fino ad un montacarichi che era inserito nella parete posteriore. «Mi volete dire dove stiamo andando?», mormorò lei, quando salirono sulla piattaforma. «Giù,» disse Mike. la porta si chiuse rumorosamente e il montacarichi cominciò a scendere. Ancora una volta le tornò alla mente la domanda: quale era il pericolo? Cinque piani più sotto trovò la risposta. La sala delle conferenze era grande, ben illuminata e ampiamente fornita di ogni mezzo audio-visivo. Kay notò sulla parete destra lo schermo per i film o per la proiezione delle diapositive. Sulla sinistra c'era lo schermo per guardare la televisione a circuito chiuso. Sulla parete più lontana era appesa un'enorme carta geografica del mondo. Al di sotto c'era l'impianto di registrazione, nel quale un nastro si avvolgeva silenziosamente. Il lungo tavolo rivestito di plastica, che era al centro della sala, aveva incorporati dei microfoni davanti ad ognuna delle venti sedie che erano sistemate lungo la sua circonferenza. Diciotto di quelle sedie erano già occupate, le uniche libere erano le due poste ad uno dei due capi. Quando Kay e Mike sedettero, non restarono più posti vuoti. Il brusio delle conversazioni non si interruppe al loro arrivo, né la coppia sembrò essere oggetto di un esame particolare. Non fu fatta nessuna presentazione e Kay poté solo lanciare occhiate curiose ai propri compagni. Quell'esame aumentò la sua confusione. Non trovò nessuna coerenza nell'aspetto dei presenti. Andavano da uomini dell'età di Mike a persone anziane, e c'erano altre due donne, entrambe con i capelli grigi e vestite piuttosto sciattamente. Il tipo di abbigliamento non offriva alcun indizio. Se pure qualcuno degli uomini era uno scienziato, non apparteneva al tipo fumatore di pipa e con il camice bianco, familiare ad ogni spettatore di film dell'orrore. Parecchi di loro avevano il portamento rigido e l'espressione severa che in genere si attribuiscono agli alti gradi militari, ma non indossavano uniformi. E almeno tre dei più giovani erano barbuti quanto i
seguaci del Reverendo Nye. I loro giubbotti e i loro jeans sembravano indefinibili quanto i completi grigi degli altri. Allora Kay si girò a porre una domanda a Mike, preparandosi ad alzare la voce al di sopra del brusio delle conversazioni che si svolgevano intorno al tavolo. Ma improvvisamente il ronzio cessò per essere sostituito da un silenzio denso di aspettativa, rotto solo da qualche nervoso colpo di tosse. Un uomo alto, calvo, seduto all'altro capo del tavolo, sotto la carta appesa al muro, si alzò e diede qualche colpo sul tavolo per richiamare l'attenzione. Ogni incertezza riguardo alla sua posizione di comando fu dissipata dalla presenza di un imponente schieramento di raccoglitori e di documenti rilegati ammucchiati sul tavolo, davanti a lui, e le sue parole confermarono la sua autorità. «La maggior parte di voi non si conosce,» disse. «E pochi di voi conoscono me. Ma non perderò il tempo a fare presentazioni. «L'importante è che io vi conosca, dalle vostre relazioni dai verbali, dalle conversazioni registrate, deposizioni e dossier.» Fece un gesto verso i raccoglitori e i documenti ammassati davanti a lui. «Questa è solo una frazione, una piccola parte di quello che abbiamo esaminato negli scorsi due anni. La quantità di materiale che abbiamo scartato — le piste false, le testimonianze inconsistenti, le beffe, le sciocchezze, i deliri e le assurdità complete — avrebbe probabilmente riempito questa stanza, perfino se ridotta a microfilm. Ma quello che resta è stato studiato, analizzato, computerizzato, sottoposto ad ogni possibile prova di autenticità. È verificato. «È per questo che siete qui. Perché ciascuno di voi ha offerto dati validi a questa ricerca, una ricerca che molti di voi non sanno nemmeno che esiste.» L'uomo alto guardò una per volta le persone intorno al tavolo. «Alcuni di voi hanno una cultura accademica in un'ampia varietà di discipline: letteratura, antropologia, archeologia, astrofisica, geologia, parapsicologia avanzata. Ciascuno di voi ha compiuto delle ricerche che hanno risvegliato l'attenzione di questa organizzazione. A causa della natura di quella ricerca, un certo numero di voi è stato chiamato e interrogato, e invitato a far procedere i propri studi nella stessa direzione. Nello stesso tempo avete acconsentito a non diffondere o pubblicizzare le vostre scoperte, e ad agire nella massima segretezza.» Ci furono involontari cenni di assenso e mormorii da parte di alcuni degli ascoltatori quando l'uomo alto si fermò: poi riprese.
«Ciascuno di coloro che hanno collaborato sente che il proprio lavoro è stato non ortodosso, aperto ai dubbi del cosiddetto establishment scientifico e, soprattutto, unico nel proprio campo. «E così è stato. Ma quello che non sapete è che i vostri compagni qui questa sera — altri studiosi e ricercatori, che si occupano di aree interamente diverse e apparentemente non collegate — sono stati impegnati in compiti simili. E che le loro teorie, i loro esperimenti, le loro esperienze, hanno tutti un rapporto con lo stesso soggetto.» Altri mormoni, questa volta di sorpresa, interruppero l'oratore. Egli fece cenno di fare silenzio. «Un'altra era la caratteristica comune dei vostri sforzi individuali: la convinzione di esservi imbattuti, nel corso delle vostre ricerche, in qualcosa che non solo era nuova e senza precedenti, ma anche pericolosa. In una parola, una possibile minaccia alla sicurezza mondiale. «Avevate ragione.» Si alzò di nuovo il mormorio e l'uomo alto batté sul tavolo per richiamare l'attenzione. «Non è un giudizio di valore irragionevole, una conclusione determinata affrettatamente. I vostri dati, così come ci sono arrivati e sono stati immessi nel computer, formavano uno schema in sviluppo. Ma non era un quadro né completo né comprensibile. Quello che avevamo, in effetti, erano i pezzi di un puzzle che sembravano combaciare. Ma c'erano dei vuoti, dei pezzi mancanti. «Allora l'operazione è stata ampliata, si è estesa fino a comprendere la collaborazione dei militari e dei Servizi di Sicurezza. Quello che loro hanno scoperto sono le connessioni. Connessioni in campi ben lontani dalla portata della nostra ricerca particolare. Connessioni che riguardano faccende apparentemente disparate come le attività terroristiche internazionali, gli assassinii politici, le irregolarità geofisiche e i sollevamenti della crosta terrestre; le epidemie di psicosi, e la nascita di movimenti religiosi come quelli descritti nella conversazione registrata tra una giovane donna e uno dei nostri agenti, che avete ascoltato in precedenza.» Kay si sentì arrossire quando comprese il riferimento, ma la mano di Mike sul suo braccio le offriva sicurezza. «Due anni di lavoro di squadra, due anni di sforzi di gruppo, due anni di lotte politiche e di interferenze burocratiche, ma alla fine i pezzi si sono uniti e abbiamo il quadro completo. Un quadro tanto sconvolgente, ma così chiaro e innegabile, che le fonti ufficiali non hanno più avuto dubbi e
creato ostacoli. Sono pienamente convinti, come noi, che quanto è stato loro mostrato è la verità. Una verità che deve essere affrontata senza ulteriori indugi. «Il risultato è che voi siete stati convocati qui come membri di una speciale unità operativa, parte di un'operazione più generale che è stata ufficialmente definita Progetto Arkham.» Arkham? Kay si tese al suono di quella parola. Non era il nome... «Un'etichetta stupida.» L'uomo alto si strinse nelle spalle. «Ma forse no. Perché simbolizza l'opera di Howard Phillips Lovecraft, il cui nome e i cui scritti sono noti a tutti voi.» L'oratore si fermò e ci fu di nuovo una reazione sorpresa da parte del pubblico. Una reazione condivisa da Kay. Era vero che tutti i presenti conoscevano Lovecraft? E se era così, come e perché? «Fin dall'inizio, qualcuno di voi cui erano già note le sue opere, ha notato alcune similitudini con i fenomeni che avete sottoposto alla nostra attenzione. Questo ha originato il nostro primo sospetto che tutti i dati facessero parte di un disegno più generale. Quando la nostra ricerca si è approfondita, abbiamo ricevuto altri resoconti da persone che non sapevano niente di Lovecraft. È diventata nostra abitudine far sì che l'opera di Lovecraft fosse nota a tutti loro, perché i fatti presentati da loro corrispondevano alle fantasie che egli aveva scritto.» Kay lanciò un'occhiata a Mike. Egli annuì, con aria indifferente, mentre l'oratore continuava. «Di conseguenza, sapete tutti che Arkham è il nome di una città del New England che fa da sfondo a molti dei racconti di Lovecraft. Come altri nomi di luogo nelle sue opere — Dunwich, Kingsport, Innsmouth, la Miskatonic University — non esiste al di fuori della sua immaginazione. «La stessa cosa vale per il libro di stregoneria e magia nera che viene citato nelle sue storie: il Necronomicon. Lo stesso Lovecraft ne negò l'esistenza. Ma noi non possiamo escludere la possibilità che sia realmente esistito, magari con un altro nome, che Lovecraft tenne nascosto per ovvi motivi. Di una cosa siamo assolutamente certi: Lovecraft non scriveva opere di fantasia, anche se a quell'epoca così sembrava. «Durante gli ultimi cinquant'anni sono stati compiuti progressi notevoli nel campo della fisica. Alcune delle persone responsabili dei progressi e delle scoperte più recenti sono sedute qui a questo tavolo. Lasciatemi citare qualche esempio, senza fare nomi. «Nel suo racconto breve, At the Mountains of Madness, Lovecraft de-
scrive una spedizione antartica, che si imbatte nelle rovine di un'antica città in una zona montagnosa inesplorata, una città un tempo apparentemente abitata da creature aliene che venivano dalle stelle. «Quando scrisse questo racconto, l'esplorazione dell'Antartide era appena cominciata, e non c'era nessuna ragione di credere che in quella terra ghiacciata e desolata fosse mai fiorita un'avanzata forma di vita. Da allora è stato scoperto molto a proposito della deriva dei continenti. Movimenti massicci che hanno provocato lo spostamento dei poli. Ere glaciali che hanno apportato mutamenti tremendi nel clima. Periodi di milioni di anni, durante i quali l'Antartide era una regione tropicale. È ormai accertato che in quella regione devono essere esistite delle forme di vita, in epoche preistoriche, la cui natura era completamente estranea alla nostra. Studi più recenti hanno rivelato la possibilità che zone più calde si trovino dietro le barriere montagnose, forse perfino sotto la calotta polare stessa. «La città di Lovecraft potrebbe trovarsi lì, sotto l'altipiano che si chiamava Leng. La regione inesplorata dell'Australia che lo scrittore descrive nel libro The Shadow out of Time, può svelare i suoi segreti. Per quanto riguarda gli alieni che egli descrive, alla luce degli avvistamenti di UFO, inspiegabili ma verificati, non possiamo più escludere la possibilità della loro presenza, né oggi né in un passato remoto.» Un uomo basso e grassoccio, a cui Kay poteva attribuire solo l'aggettivo 'grosso', per la figura, per i tratti e per l'accento, scosse la testa con impazienza. «Ma Herr Lovecraft da nessuna parte parla di navicelle spaziali,» mormorò. «Non direttamente, forse,» disse l'uomo alto. «Ma bisogna considerare le implicazioni.» Si girò ad indicare la carta geografica che gli era alle spalle. «L'enorme cosiddetta meteorite, che teoricamente esplose vicino al fiume Tunguska sull'altipiano siberiano nel 1908, non creò alcun cratere nel luogo dell'impatto e non furono mai trovate tracce dell'oggetto caduto. Ricerche più recenti tendono a confermare la teoria che qualche tipo di veicolo spaziale a motore atomico esplose in aria quando entrò a contatto con la nostra atmosfera ad alta velocità. Lo stesso Lovecraft si servì di un meteorite come possibile veicolo per una forma di vita aliena nel racconto The colour out of the Space, ma forse tentava di proposito di camuffare ciò che sapeva. Altre creature extraterrestri, nei suoi racconti, arrivano in volo sulla Terra su ali membranose. I loro corpi sono resistenti ai pericoli dello spazio esterno, le loro menti sono sigillate per gli infiniti anni-luce di
viaggio. Queste creature sopravvivono solo grazie ad un diverso senso soggettivo del tempo, ad una fisiologia aliena e ad una durata della vita spaventosamente lunga. «Ma ci sono altri modi di spiegare i viaggi interstellari o intergalattici, e Lovecraft non li trascurò. Scrisse di varchi tra le dimensioni e di passaggi per tornare a questa dimensione in altre zone di spazio o di tempo. I concetti attuali dell'astrofisica — buchi neri, buchi bianchi, antigravità e antimateria — furono anticipati nelle sue opere. «E forse Lovecraft non stava anticipando. Il suo racconto, The Dreams in the Witch House, collega la scienza moderna all'antica stregoneria, e suggerisce che alcuni incantesimi e formule magiche incarnano realmente i principi matematici che causano interscambi spaziali e temporali. In altre parole, le forme di vita aliene che un tempo venivano considerate demoni sarebbero evocate non dall'inferno ma dallo spazio esterno, da altre dimensioni, altri punti nel tempo, per mezzo di parole magiche rituali finalizzate ad alterare la frequenza delle vibrazioni, la struttura della materia, e la loro interrelazione. «Alcuni di voi hanno effettuato delle ricerche avanzate in questo campo. Altri hanno investigato sui fenomeni parapsicologici — perfino sulla cosiddetta Magia Nera — e queste indagini hanno portato alla stessa conclusione. «Attraverso alcune fonti, siamo riusciti a stabilire uno scambio di informazioni con i laboratori sovietici impegnati nella stessa ricerca, e le loro scoperte corrispondono alle nostre. «Questo è quanto concerne l'aspetto scientifico del Progetto Arkham. Se questo fosse tutto, potremmo stringere le spalle e definirlo irrilevante. E, incidentalmente, fare omaggio all'intuizione brillante di Lovecraft. «Purtroppo c'è un altro aspetto di cui ci siamo occupati. Un aspetto che riguarda i disastri militari, politici e geofisici che ci minacciano oggi, nella vita reale.» L'uomo alto ignorò il mormorio di risposta del suo pubblico, raccolse un fascio di appunti dal tavolo e si voltò verso la carta geografica che gli stava alle spalle. «Quelle che sto per comunicarvi sono informazioni riservate. Solo una piccola parte di esse è stata riferita dalla stampa negli ultimi mesi, e in tali casi i particolari sono stati soppressi o falsati. In molti casi, questi particolari sono venuti alla luce solo dopo le nostre investigazioni. Per fortuna, nessuna agenzia e nessun osservatore esterno hanno ancora scoperto la
connessione tra tutti quegli avvenimenti. È toccato a noi stabilire i collegamenti.» Il suo indice ossuto toccava vari punti della carta geografica. «Oggetto: terrorismo.» Lesse dai suoi appunti. «L'assassinio di Fuentes in Argentina il 9 luglio, dello Scià dell'Iran il 23, la scomparsa ancora misteriosa dei leaders di tre repubbliche africane tra il 15 e il 27 luglio. In agosto, l'attentato alla vita del Ministro francese della Giustizia il primo del mese, la morte per affogamento dell'erede putativo al trono di Spagna il 10, la morte accidentale di due membri del Politburò il 18. L'incidente aereo che ha stroncato le vite di cinque Delegati alle Nazioni Unite dei paesi arabi il 2 settembre, l'11 settembre la notizia della morte improvvisa del Numero Due del Governo di Pechino. L'assassinio di Hoffman nella Germania ovest il 25 e del Presidente del Salvador il 29. L'omicidio del leader del Partito Conservatore indiano la settimana seguente, il suicidio del nostro Senatore Portright l'8 ottobre...» Si fermò quando il mormorio del pubblico crebbe, poi si girò a picchiare il pugno sul tavolo per riportare l'ordine. «Potrei andare avanti, ma penso che questi esempi siano sufficienti. Apparenti suicidi, supposti incidenti mortali, scomparse inspiegabili, omicidi irrisolti e tentativi di assassinio. In solo quattro degli ultimi casi i colpevoli sono stati arrestati. Tre sono stati uccisi sul posto e il quarto si è ucciso prima di poter essere interrogato. Nessuno è stato identificato con certezza, e nessun gruppo terrorista si è fatto avanti per prendersi il merito o la responsabilità dei crimini. La morte di leaders di importanza mondiale e di persone che occupavano posti-chiave nei governi, resta un mistero.» Kay lanciò un'occhiata a Mike mentre l'uomo alto ritornava a girarsi verso la carta geografica. Mike annuì, poi diresse la sua attenzione sull'oratore. «Oggetto: Pacifico del Sud. L'attività vulcanica riferita od osservata durante gli ultimi mesi nell'area tra l'Equatore e la Latitudine Sud 46°, Longitudine Ovest 131° fino a circa 150°. Vi risparmierò le date e citerò solo alcuni degli esempi più importanti, perché gli eventi sismici si sono succeduti in quella zona ad un ritmo quasi quotidiano. Un terremoto più grande, seguito da una tsunami senza precedenti, ha inondato le isole Gilbert ed Ellice. Eventi simili hanno portato al disastro di Manihiki e hanno dato il via ad un catena di distruzioni maggiori nella zona di Celebes, Ceram, Timor e Tuamotu. La settimana scorsa, una nuova scossa e una tsunami hanno spazzato via ogni costruzione umana sull'isola di Pasqua, hanno abbat-
tuto tutte le statue, e non hanno lasciato sopravvissuti. Quest'ultimo avvenimento non è stato rivelato pubblicamente, come non è stata data notizia del tifone che ha colpito Pitcairn due giorni fa. I rapporti delle squadre di soccorso sono stati, e saranno, soppressi. Più di metà della popolazione è morta, e il resto o è gravemente ferito o è in uno stato di trauma, che un ufficiale medico ha assimilato ad una schizofrenia paranoide in fase acuta. «Durante lo stesso periodo di due mesi, altri avvenimenti hanno accompagnato questi fenomeni. Sono scomparsi aerei leggeri, pescherecci, lance a motore e navi mercantili. Le informazioni in nostro possesso sono ancora incomplete, ma abbiamo notizia di almeno settantanove di questi casi.» Una delle donne dai capelli grigi alzò in fretta gli occhi. «Il Triangolo delle Bermude!», disse. L'uomo alto scosse la testa. «Sto parlando della stessa zona del Pacifico in cui sono avvenuti i terremoti. Naturalmente, anche i Caraibi potrebbero essere una delle loro tane segrete.» «Tane?» Un uomo anziano e baffuto guardò accigliato l'oratore, e socchiuse gli occhi. «Uso il termine opportunamente. I Caraibi, l'Antartide, l'altipiano siberiano settentrionale, l'Himalaya, le caverne sotterranee del Maine: Lovecraft accennò o scrisse specificamente di tutte queste cose. Ma la sua preoccupazione principale, e la nostra, riguarda il Pacifico del Sud. L'area che lo scrittore identificò con grande precisione nel Richiamo di Cthulhu.» «Non avete risposto alla mia domanda.» L'uomo con i baffi si era alzato, e gli occhi gli scintillavano. «Quelle tane di cui parlate... 'opportunamente', come avete detto. Che ne sapete? Dobbiamo presumere che voi credete che siano veramente abitate? E se è così, da chi? Alieni? Extraterrestri? I mostri di cui Lovecraft scrive nei suoi racconti? Avete detto che la sua maggiore preoccupazione, e la vostra, è il Pacifico del Sud. Va bene, e allora permettetemi di parlarvi chiaramente e voi potrete darmi una risposta chiara. State dicendo che Cthulhu esiste veramente?» Ci fu un momento di silenzio stupito. Tutti gli occhi erano fissi sull'oratore, che incontrò lo sguardo dello sfidante. «Non lo sappiamo,» disse. «Ma è per questo che siete tutti qui. Perché lo dobbiamo scoprire.» Improvvisamente la stanza sembrò gelida. Kay avvertì i tremiti del proprio corpo. La luce cominciò a tremolare, e tutto ondeggiò come se fosse
sott'acqua, in profondità, dove i pesci si cibavano della carne putrefatta di un cadavere, poi scappavano all'arrivo di creature che non erano né pesci né uomini. Queste, a loro volta, scivolavano via quando le acque si agitavano e il fondo marino si scuoteva all'arrivo del Grande Cthulhu... Kay lottò per concentrare lo sguardo e l'attenzione sull'uomo alto che aveva ripreso a parlare. «Vi ho fatti venire qui perché ho bisogno delle vostre reazioni, delle vostre valutazioni, dei dati che precedentemente avete potuto ignorare, ma che possono avere un rapporto con il problema, ora che ne avete compreso l'ampiezza. Ho bisogno della vostra competenza, della vostra collaborazione, del vostro aiuto, e ne ho bisogno subito. «A tutti voi è stato attribuito un ufficiale di collegamento e una protezione. A ciascuno di voi è stato assegnato un alloggio di sicurezza in questa zona. Vi chiedo di rispettare questa sistemazione per il momento. Pochi tra di voi si conoscono, a causa di precedenti contatti professionali nel corso di ricerche comuni. Ma vi prego di non presentarvi a nessun altro presente a questa riunione. Non fraternizzate e non confrontate le esperienze. «Ho programmato interviste individuali per tutti nelle prossime quarantotto ore, e il vostro ufficiale di collegamento sarà informato dell'ora a voi assegnata. Quando ci incontreremo privatamente, confido che ciascuno sarà preparato a rispondere ad altre domande e offrirà suggerimenti o altri dati che riterrà utili. Durante questo incontro vi potrà essere chiesto di continuare a lavorare da soli o, in taluni casi, di unire le vostre forze con altri dei presenti. In quest'ultima evenienza, le presentazioni necessarie saranno fatte a tempo debito. «Questo è quanto posso dirvi ora. Qualsiasi sia la natura della vostra particolare funzione professionale, le sue esigenze sono state previste. Abbiamo i fondi, gli uomini e l'attrezzatura, e vi forniremo qualsiasi cosa sia necessaria a portare avanti le vostre ricerche. Tutte le risorse di questo Governo sono a vostra disposizione. «Ora vi chiederò di tornare ai vostri alloggi separati e di aspettare ulteriori istruzioni. Penso che abbiate sentito parlare abbastanza da comprendere le ragioni di queste precauzioni, la necessità di questa segretezza, e l'urgenza della nostra preoccupazione. «Vi saluterò con quest'ultima osservazione. Quello che conosciamo è chiamato scienza. Quello che non conosciamo è chiamato magia. E quello che dobbiamo determinare, al fine di sopravvivere, è se magia e scienza siano realmente un'unica cosa.»
Ventiquattro ore dopo, l'uomo alto si recò all'appartamento di Mike per un colloquio privato con Kay. La donna non sapeva ancora il suo nome, ma anche allora non ci furono presentazioni, sebbene le sue maniere fossero amichevoli e dirette. Trasse una pipa dalla tasca, prese posto in una sedia con i braccioli, e fece un cenno col capo a Kay e al suo ospite. «Tutto sotto controllo? Bene. So che questa sistemazione è imbarazzante per entrambi, ma è importante mantenere la massima segretezza.» Sorrise a Kay. «Sistemarvi in un albergo avrebbe dato origine a qualche problema. Non appena qualcuno avesse saputo che avevate una guardia del corpo, la notizia sarebbe trapelata.» «Capisco,» disse Kay. «Allora passiamo agli affari. Siete stata per noi di grande aiuto, Mrs. Keith. Da quanto abbiamo dedotto dalla vostra testimonianza, siamo ora persuasi che il vostro ex-marito e il suo amico Waverly hanno avuto il ruolo degli spettatori innocenti in questa faccenda. Almeno posso tranquillizzarvi su questo punto. Quelle poche indicazioni che abbiano, sembrano mostrare che siano stati coinvolti per caso e siano stati eliminati prima che sapessero troppo.» «Mi state dicendo che Nye li ha uccisi?» L'uomo alto accese la pipa. «Abbiamo controllato i suoi movimenti e le sue attività durante la maggior parte di questo periodo, abbastanza da convincerci che egli non si trovava né a Boston né nel Pacifico del Sud al momento in cui sono scomparsi. Ma è ragionevole presumere che Nye abbia dato ordine di farli fuori.» «Che cosa avrebbero potuto sapere?» «Non ho risposte sicure a questa domanda. Ma sospettiamo che Waverly si recò a Boston per investigare su qualcosa che riguardava Lovecraft. E questo lo rese una minaccia potenziale per Nye. «Per quanto riguarda il vostro ex-marito, il suo viaggio nel Pacifico del Sud indica che egli sapeva o sospettava qualcosa a proposito del Culto. Ora pensiamo che potesse essere alla ricerca della stessa R'lyeh. E che sia stato distrutto quando l'ha trovata... proprio come i personaggi di Lovecraft venivano distrutti quando trovavano tane simili. Mi riferisco a Dagon e al Tempio.» «Ma non riesco ad accettarlo,» disse Kay. «Pur sapendo che cosa è successo a me.»
«Allora pensate alla mia posizione.» L'uomo alto aspirò dalla pipa. «Come pensate che mi senta, quando mi trovo davanti a scienziati dalla testa dura e a militari, e devo ammettere le basi reali della Magia Nera? E non solo ammettere, per Dio, ma insistere perché loro ci credano?» «E loro ci credono,» mormorò Mike. «A causa delle loro esperienze personali.» «È proprio così.» L'uomo alto annuì. «Tutto combacia. E Nyarlathotep tiene tutti i fili.» Kay ricordò la sua conversazione con Mike. «Pensate veramente che Nye sia Nyarlathotep?» «Considerate i fatti.» L'uomo alto pulì la pipa nel posacenere. «Secondo Lovecraft, Nyarlathotep è scuro di pelle, e la profezia dice che verrà dall'Egitto. Non conosciamo le origini di Nye, ma non possiamo escludere questa probabilità. Sappiamo che si adatta alla descrizione. Tuniche rosse, strani congegni e tutto il resto. Nelle sue prediche parla della fine del mondo e i fedeli se ne vanno senza aver assolutamente capito quello che hanno sentito.» «Allora si è adeguato al personaggio descritto nei libri.» «Questa è la conclusione più ovvia, e vorrei che fosse vera. Ma che cosa dire degli altri avvenimenti: terremoti, maremoti, tutti quegli improvvisi disastri naturali combinati a quei disastri provocati dall'uomo, sotto forma di terrorismo su scala mondiale? Potrebbe essere una coincidenza, naturalmente, ma somiglia certamente alla descrizione di Lovecraft di quello che accadrà quando apparirà il Potente Messaggero.» «Allora credete che accadrà anche tutto il resto... la fine del mondo?» «Non ho detto questo. Quello che dico è che dobbiamo considerare contro che cosa prepararci a lottare, anche se questo significa ammettere che i leggendari Vecchi possono esistere realmente.» «Ma io non posso...» «Perché no? Pensateci per un momento.» L'uomo alto infilò in tasca la pipa. «L'umanità ha avuto molte cosmologie, molti dei. Non sto parlando dei selvaggi, ma delle civiltà più avanzate. I greci e i romani con i loro pantheon, gli egiziani che si inchinavano ai loro dei immortali dalle teste d'animale, i fedeli delle centinaia di divinità hindu: bilioni di veri credenti hanno adorato strane entità. Passiamo ora ad analizzare il monoteismo moderno. Su che cosa basano le loro credenze i mussulmani? Solo sulla parola di un cammelliere, che affermava che Aliati era l'unico vero dio e l'aveva designato come unico vero profeta. Molto simili sono i casi di Gau-
thama e del Buddismo, di Mosé e dell'Ebraismo, di Gesù e del Cristianesimo. Nella maggior parte dei casi, una persona qualsiasi si promuove a predicatore, e o lui o i suoi seguaci incorporano la nuova religione in un libro, che dicono sia stato dettato dal dio stesso. E funziona. Gli uomini credono, milioni e milioni di loro. «Ma dov'è la prova? Queste grandi religioni sono state accettate quasi esclusivamente per fede. Noi abbiamo i fatti.» Mike guardò l'uomo alto. «Allora qual è la prossima mossa?» «Ci sono molte mosse. Non ne stiamo trascurando nessuna. Ad una squadra è stato già assegnato il compito di sbrogliare il problema linguistico: le parole, le frasi, i nomi di luogo, i nomi propri che compaiono in tutte le opere di Lovecraft. Abbiamo sempre supposto che fossero neologismi di sua invenzione, ora non ne siamo più così sicuri. Stiamo tentando di metterli in relazione alle eventuali similitudini nei grimoires più diffusi e nei riti di Magia Nera, nelle formule magiche e negli incantesimi in tutte le lingue conosciute. Forse esiste un denominatore comune e, se così è, sarebbe di grande aiuto trovarlo. I filologi impegnati in questo progetto si servono di un computer, perché abbiamo bisogno di risposte rapide.» Fece un cenno a Mike. «I vostri colleghi, naturalmente, stanno conducendo le indagini fisiche, con la piena collaborazione della CIA, dell'FBI e delle Forze dell'Ordine. In grande segretezza, abbiamo messo i nostri dati a disposizione dell'Interpol per organizzare una retata dei gruppi terroristici noti o sospetti, qui e all'estero. Entro stasera faremo piazza pulita dei membri dello Starry Wisdom. Non penso che riusciremo ad acciuffare i capi, ma vale la pena di tentare. Abbiamo la speranza che qualcuno possa portarci a Nye.» Mike si strinse nelle spalle. «Non riuscirete a tenere nascosta la faccenda, se seguirete questa strada.» «Faremo il possibile, ma stiamo lottando contro il tempo. Qualsiasi reazione dell'opinione pubblica alla retata non è niente, se confrontata al panico di massa che si originerebbe se non riuscissimo ad evitare quello che può accadere in seguito. Se R'lyeh emergesse dalle acque a causa di questi terremoti e si svegliasse qualcosa che dorme tra quelle pietre, dovrebbe essere fermata.» «Come?» «Ho appena preso gli accordi con Ermington del Dipartimento della Ma-
rina.» L'uomo alto guardò l'orologio. «Tra esattamente trentotto ore, secondo la nostra stima, un sottomarino nucleare partirà da una base del Pacifico. Obiettivo: Latitudine Sud 47° 9', Longitudine Ovest 126° 43'. Ordini ricevuti: cercare e distruggere.» Mike aggrottò la fronte. «Sanno contro chi spareranno?» «Il comandante verrà informato, naturalmente, ma non possiamo fare completamente affidamento su di lui. Ho chiesto il permesso di assegnare un osservatore alla missione con la mansione di consigliere speciale.» «Qualcuno di cui potete fidarvi?» «Spero di sì.» L'uomo alto si alzò. «Partirete per Guam domani mattina.» La sveglia che era accanto al letto smise di suonare. Kay si stiracchiò, poi allungò una mano ed esortò Mike. «È ora di alzarsi, caro,» mormorò. Caro. Una strana parola, pronunciata spontaneamente. Ma quando Mike si girò e le sue braccia la strinsero, la stranezza svanì. Quello che era accaduto la sera prima, ora sembrava inevitabile e giusto. E quello che stava accadendo quella mattina sembrava giusto, solo che... Un'immagine nacque improvvisa e spontanea. Il bestiame che si avviava al macello, un animale dopo l'altro che veniva spinto a forza, ciecamente, verso la morte che l'aspettava. «No!», sussurrò Kay, e si allontanò. «Che cosa c'è?» Mike la guardò, sorpreso. «Non mi ami?» «Lo sai che ti amo.» Kay si liberò dalla sua stretta e si alzò rapidamente, pettinandosi con le mani i capelli. «Non c'è tempo.» Lo amo, si disse. E lo ripeté mentre cercava a tentoni una vestaglia nella luce grigiastra, mentre si alzava e andava in cucina a preparare il caffè intanto che Mike si radeva e si vestiva. Era un sentimento reale, era molto più di uno sfogo puramente fisico, molto più dell'avventura di una notte con qualche estraneo conosciuto in un bar. Ma quali erano i sentimenti di Mike; che cosa significava quel rapporto per lui? Kay non aveva una risposta, e non ne trovò nessuna sul volto di lui, quando sedettero a tavola per la colazione. «Perché sei così silenziosa?», chiese. «Dimmi che cosa ti preoccupa.» «Niente.» Sospirò. «Tutto. Vorrei che nulla di tutto ciò fosse mai accaduto, che tu non stessi partendo...»
La mano di Mike si allungò a carezzare le sue. «Se non fosse accaduto niente, noi non ci saremmo mai incontrati. E sai che devo partire. Ma tra pochi giorni sarò di ritorno.» «E poi?» Mike si strinse nelle spalle. «Che cosa vuoi, una proposta di matrimonio formale?» «Caro!» Questa volta la parola le venne spontanea e facile. E da allora in poi, fino all'ultimo momento quando lo accompagnò alla porta e lui la strinse, non ci fu più alcun dubbio. Ma quando se ne fu andato la paura ritornò. Ritornò e rimase. Non paura per se stessa: lei era al sicuro lì e l'agente che sostituiva Mike era una presenza rassicurante. Era un meridionale dal dolce accento, di nome Orin Sanderson, e Mike lo aveva accolto con calore quando era comparso a prendere il suo posto. «Orin è un brav'uomo,» le disse. «Non farti ingannare dal suo aspetto di gentiluomo del Kentucky. È quel genere di gattino che diventa una tigre quando se ne ha bisogno.» Era certamente educato e, fortunatamente, discreto. Gli era stato ordinato di stare nell'appartamento ventiquattro ore su ventiquattro, mentre gli altri montavano la guardia all'esterno a turno, ma non ci fu nessun problema nel mantenerlo a distanza. Sebbene mangiasse con lei, quando arrivavano i pasti, continuava a starle lontano durante il resto del giorno. La maggior parte del tempo la passava a leggere seduto sul divano del soggiorno, dove trascorreva anche la notte. Da quando Kay aveva scoperto una libreria ben fornita e un televisore portatile nella camera da letto, non ebbe più bisogno di raggiungerlo. La sua sola presenza le era di conforto. Eppure la paura restava e non poteva essere allontanata. Guardava al di sopra della sua spalla quando lei leggeva, era accucciata al suo fianco quando lei guardava la televisione. E le sorrideva maligna ogni volta che guardava un orologio. Le dieci di sera. Che ora era a Guam? Mike era già arrivato? Era ancora lì o il sottomarino era già partito per la missione? Quanto distava la zona a cui era diretto e dove si trovava esattamente? La latitudine e la longitudine citate dall'uomo alto durante l'incontro privato non significavano niente per lei. Ecco, erano passate trentasei ore e più da quando Mike era partito, e lei non sapeva ancora niente. Ma il tempo in qualche modo passava e Kay sa-
peva dove andava. Se ne nutriva la paura, che ingurgitava, ingozzava un minuto dopo l'altro, e cresceva. Le parole stampate sulla carta non avevano più significato, e le immagini sul quadro del televisore erano confuse e sfocate. La seconda sera cominciò a rovistare nella libreria e a buttare per aria il contenuto con un'impazienza crescente. Il rumore che faceva richiamò l'attenzione di Orin Sanderson, che raggiunse la soglia della camera da letto. «C'è qualcosa che non va, madame?» «Stavo solo cercando un atlante o un almanacco. Qualcosa che contenga delle carte geografiche.» «Allora non perdete tempo con questa libreria.» «Potremmo farci mandare un atlante?» Sanderson scosse il capo. «Mi dispiace.» Consultò l'orologio. «Forse vi sarebbe d'aiuto, se vi dicessi che ora sono nella zona dell'obiettivo. Se la fortuna è dalla loro, tutto sarà finito tra poche ore. Se rispettano il programma, dovrebbero essere di ritorno alla base domani nella mattinata.» «Chiameranno per comunicarci l'arrivo?» «Riceveremo la notizia quando sarà il momento.» Sanderson annuì con gentilezza. «Ora calmatevi. Ho preparato del caffè...» Kay si sforzò di sorridere. «No, grazie. Sto bene ora.» «Perché non vi coricate? La cosa migliore per voi è una buona notte di riposo.» Kay andò a letto, ma non da sola. La paura strisciò sotto le coperte accanto a lei, e nel buio la sentiva giacere gelida e immobile, in attesa di abbracciarla, di trascinarla nei sogni e nelle profondità. Le profondità del mare scuro, dove nella sua casa di pietra a R'lyeh, il morto Cthulhu attende. Kay lottò contro la paura, ma i sogni vennero e lei si trovò negli abissi, a galleggiare tra le torri titaniche dei templi crollati, incrostate di alghe fetide per il tanfo di un icore secolare. In un vuoto millenario e in un silenzio di infiniti secoli, cercò una presenza svanita, ma non restava niente oltre il miasma di una paura antica. Poi, davanti, si profilò la gigantesca fessura sul fondo del mare, e aldilà l'immenso guazzabuglio di rocce frastagliate che salivano per penetrare la superficie. Ora anche Kay saliva: oltrepassò le folli configurazioni e raggiunse il
punto dove una parte della cittadella di pietra si ergeva intatta, si librava al di sopra delle onde nere come l'inchiostro in un cielo grigio-ghiaccio. E la sua forma continuava a fondersi e a trasformarsi, cosicché Kay non poteva definire il suo aspetto o le sue dimensioni né scorgere nulla dei suoi portali tranne il fatto che fossero aperti. Più si avvicinava all'enorme ingresso, più scrutava le tenebre che si spalancavano, più cresceva la sua paura del pensiero di quello che stava per vedere. Niente poteva superare quella paura, o almeno lei così pensava, anche mentre guardava. Ma si sbagliava. La paura più grande doveva ancora arrivare. La assalì quando guardò oltre i portali aperti, quando guardò nella casa di Cthulhu che emergeva in superficie, guardò nella dimora del male e la trovò... «Vuota!» L'urlo esplose dalle sue labbra mentre Kay si svegliava. Si svegliò, le luci si accesero improvvisamente nella camera da letto, e Orin Sanderson oltrepassò la soglia e avanzò verso di lei. «Madame?» «Ho avuto un incubo.» Kay si sollevò su un gomito, e tirò le coperte verso di sé con un gesto imbarazzato mentre si sforzava di calmare il tremito. «Non preoccupatevi, sto bene ora.» «Bene. Stavo per svegliarvi, ad ogni modo. La chiamata è appena arrivata.» «La chiamata?» Sanderson annuì. «È tutto finito. Missione compiuta.» «Che cosa è successo?» «Non so i particolari. Ma Mike ve ne potrà parlare quando lo vedrete.» Kay non tremava più. Si alzò a sedere in fretta, incurante di mostrarsi. «Quando lo vedrò?» L'agente della Sicurezza sorrise. «I miei ordini sono di scortarvi fino a Los Angeles. Mike arriverà domani. Credo che il capo delle operazioni sarà pronto a riceverlo e ad avere un resoconto di prima mano, non appena arriverà.» «Non pensavate invece che sarebbe arrivato direttamente qui?» Sanderson sorrise. «Faccio questo lavoro da dodici anni ormai, madame. Fino ad ora ho imparato due cose.» «Quali?»
«Non pensare. E non fare domande.» Kay fece del suo meglio per seguire l'esempio di Sanderson, ma non era facile. Era troppo quello che lei voleva sapere, troppo quello che voleva capire. Il suo ultimo sogno era stato premonitore o aveva simbolizzato la realtà? La cripta vuota al di sotto di quella spaventosa apertura, significava che Cthulhu era stato distrutto? Ovviamente era così, se Mike stava tornando. Ricordava il racconto di Lovecraft: la nave aveva bombardato la mostruosa creatura, aveva dilaniato il suo corpo, ma la sua sostanza si era ricomposta. Ma non c'erano armi nucleari all'epoca di Lovecraft. Perfino una forma di vita aliena non poteva sopravvivere alla disintegrazione atomica. Non pensare, non fare domande. E poi, non c'è tempo. Kay preparò in fretta i bagagli, mentre Sanderson era occupato al telefono. Qualsiasi cosa era accaduta, non influiva sulle precauzioni di sicurezza, notò Kay. L'auto di Sanderson era scortata da un secondo veicolo in cui c'erano altri agenti. Li seguì fino al Dulles International. Lì l'auto di scorta si fermò mentre Sanderson attraversava un anonimo ingresso di servizio che era in fondo. Fermò l'auto davanti ad un hangar privo di insegne in cui lavoravano degli uomini in un'uniforme anonima. Il jet era pronto a partire, e anche il velivolo era privo di qualsiasi segno di riconoscimento. Non ci fu nessuna comunicazione diretta con il personale che svolgeva i servizi a terra. Sanderson fece loro un cenno mentre guidava Kay lungo la scaletta. Lo sportello si chiuse immediatamente dietro di loro e la scaletta fu allontanata. Il velivolo vibrava come se fosse impaziente di decollare. Nella cabina di pilotaggio il pilota, il secondo pilota e l'ufficiale di rotta, stavano completando il controllo finale, ma lo spazioso settore per i passeggeri era deserto. A giudicare dai raffinati accessori — cucina, bar portatile, un apparecchio compatto con radio e televisore, un tavolo per conferenze, e perfino una zona notte nella coda — Kay pensò che il jet di solito trasportasse gli alti vertici dell'Esercito e del Governo, serviti da uno staff al completo. La conferma venne da Sanderson mentre l'aereo rullava lungo la pista. «Peccato che non ci sia il solito equipaggio di servizio,» disse. «Ma meno persone vengono coinvolte, minore è il rischio.» «Non vi scusate,» gli disse Kay. «Sono felice di tornare a casa.» Si al-
lungò su una poltrona mentre decollavano, e dopo qualche momento l'aereo volava tranquillamente. «Quando arriveremo?» «Il tempo stimato di volo è circa tre ore.» Sanderson soffocò uno sbadiglio e Kay lo guardò. «Stanco?» «Solo un po' annebbiato.» Sogghignò. «Quel divano nell'appartamento era pieno di bozzi.» «C'è una camera da letto nella coda. Perché non vi riposate un po'?» «E voi che cosa farete?» «Io sto benissimo qui.» Fece un gesto verso l'apparecchio radiotelevisivo, poi verso il tavolino che le era davanti. «Guardate, ci sono perfino i quotidiani di oggi.» Sanderson ammiccò. «Ho disobbedito agli ordini.» Kay scosse la testa. «Non avete disobbedito, li avete solo resi più flessibili. Andate pure, prometto di svegliarvi prima dell'atterraggio.» «Grazie, Madame.» Sanderson si girò e si avviò verso la zona notte, e questa volta non fece nessuno sforzo per nascondere lo sbadiglio. Kay lo guardò allontanarsi. Non c'era da stupirsi che fosse stanco. Era stato in servizio notte e giorno, e la fatica era visibile. Ora che il pericolo era passato, la sentiva anche lei, ma la fatica era controbilanciata dall'ansia che le dava scariche di adrenalina. Mike era sano e salvo, e dopo qualche ora sarebbero stati di nuovo insieme. Ora doveva rilassarsi. Allungò la mano verso il tavolino e prese le ultime edizioni del Post e del Times. Forse vi avrebbe trovato un articolo o almeno una breve notizia, comunque censurata o camuffata, che la avrebbe dato qualche idea a proposito di quello che era accaduto. Non trovò nulla. Evidentemente l'operazione era ancora segreta, o almeno lo era stata al momento che i quotidiani andavano in stampa. Kay mise i quotidiani da parte e decise di indagare altrove. Accese la radio, ma quando il programma musicale fu interrotto dalla voce di un annunciatore, il messaggio era indirizzato soltanto ai sofferenti di emorroidi. E lo schermo tremolante del televisore non offriva nient'altro che l'immagine in bianco e nero dei Bowery Boys. Kay si appoggiò allo schienale, chiuse gli occhi, poi li riaprì in fretta
quando si accorse che stava cedendo al sonno. Non aveva senso correre il rischio. Non aveva senso. Che cambiamento era avvenuto nel significato di quella frase! Solo una settimana prima niente di tutta quella storia avrebbe avuto un senso per lei, e grazie ai Servizi di Sicurezza governativi — la censura, in realtà — avrebbe continuato a non avere senso per la maggior parte del mondo. Le persone sarebbero andate avanti come prima, ad ascoltare le pubblicità per i sofferenti di emorroidi e a guardare i vecchi film dei Bowery Boys, proprio come se nulla fosse accaduto. I Grandi Vecchi non avrebbero mai turbato i loro sogni. Naturalmente, lei non aveva prove che i suoi sogni provenissero da quella fonte, e nemmeno una teoria che spiegasse come arrivassero. Ma la convinzione restava. In qualche modo, i sogni erano un metodo di comunicazione tra le presenze aliene e il genere umano. Non tutti gli uomini erano in grado di ricevere ed evocare i loro messaggi. Solo coloro che avevano il dono — o la maledizione — di avere una certa forma di creatività. Non era questo che Lovecraft cercava di comunicare nel racconto Il richiamo di Cthulhu? Quegli artisti sensibili, pittori e scultori, in particolare, rispondevano a sogni simili e riproducevano i loro ricordi nell'argilla o sulla tela? E che cosa dire dello stesso Lovecraft? Quei sogni erano la fonte delle sue conoscenze? Alludeva a questo quando scriveva degli incubi dei suoi personaggi apparentemente immaginari? Se era così, questo poteva spiegare tutto. Kay guardò nelle tenebre che erano aldilà del finestrino e annuì. Alla luce di quello che lei stessa aveva vissuto, poteva avere un senso. Perfino nel mondo concreto degli scettici e dei dileggiatori era documentata l'esistenza di individui i cui sogni non erano come quelli degli altri uomini. Erano i cosiddetti «sensitivi psichici», come, per esempio, Edgar Cayce. Le loro visioni notturne sembravano in qualche modo collegarli alle fonti di coscienze aliene. Lovecraft era stato un uomo del genere? A detta sua, aveva sognato con chiarezza per tutta la durata della vita. Ed egli stesso aveva ammesso che i sogni erano spesso la fonte diretta dei suoi racconti. E se le spiegazioni psicologiche della sua opera erano corrette, ma la causa e l'effetto erano invertiti? Gli studiosi suggerivano che un'allergia ai pesci lo aveva portato a scrivere fantasie come L'ombra su Innsmouth. Ma forse la spiegazione doveva essere capovolta: egli aveva scritto la verità
che gli veniva svelata attraverso i sogni, ed era la sua paura e il suo odio per le creature marine ad aver provocato la sua avversione per i pesci nella vita reale. Kay annuì. Se era vero, tutto era anche troppo chiaro. Quegli stessi studiosi avevano tentato di collegare la sua leggenda dell'Atlantico con la sua reazione fisica alle basse temperature. Ma quella reazione non poteva essere psicosomatica? Non era possibile che quelle visioni oniriche di Kadath nella Distesa Gelida fossero sfociate in un timore del freddo che si era esteso nella sua esistenza quotidiana? E del suo discusso odio nei confronti delle infiltrazioni «meticce» dall'Europa, dall'Asia e dall'Africa, quanto di questo sentimento derivava dai suoi sogni su ibridi generati dall'unione di uomini e alieni? Quanto derivava dal conoscere gli adoratori delle entità che egli incontrava aldilà della soglia del sonno? Forse ì suoi «meticci» erano simbolici. E se la sua fissazione per le case antiche, per le rovine e per i cimiteri, da cui emergevano le creature della superstizione, non era basata sulla paura della morte ma sulla paura di certe forme di vita? Perché i sogni gli avevano detto che la morte non è la fine. Ci sono creature che continuano ad esistere in uno stato di eterna stasi vitale, creature che possono essere evocate. Non è morto ciò che eternamente vive... Kay aggrottò la fronte. Era così che era accaduto? I sogni di Lovecraft erano veri? Lo scrittore aveva accresciuto le proprie conoscenze con uno studio segreto e con ulteriori ricerche nelle ore di veglia? E le sue storie erano veramente avvertimenti camuffati? Se era così, tali avvertimenti erano stati raccolti, appena in tempo. Il tempo. Kay lanciò un'occhiata oltre il finestrino e vide il cielo scuro. Guardò l'orologio e fu sorpresa nello scoprire che erano passate quasi tre ore. Aveva promesso di svegliarlo prima che si preparasse ad atterrare. Si alzò, e si avviò lungo il corridoio che portava alla zona notte. Il movimento fisico era un richiamo rassicurante alla realtà, o a quella che lei accettava come tale. Come aveva detto Jung? L'individuo è l'unica realtà. Il che significa che tutto è una questione di interpretazione soggettiva. Eccola, a quarantamila piedi al di sopra della terra, a viaggiare ad una velocità maggiore di quella del suono. Lovecraft l'avrebbe accettata come realtà cinquant'anni fa? Solo con difficoltà, e forse quello che lei ora trovava difficile accettare nelle sue opere era altrettanto valido. Kay aprì la porta dello scompartimento e guardò nella cabina, dove San-
derson era sdraiato prono sulla cuccetta. Era così immobile, che per un momento il suo cuore le balzò in petto per l'improvvisa paura. Poi, con sollievo, sentì il lieve ansito di un respiro. Allungò una mano e toccò una spalla dell'agente. «Svegliatevi,» mormorò. L'uomo si stiracchiò e si girò, sbattendo gli occhi. «Mi dispiace di disturbarvi,» disse Kay, «ma è quasi l'ora.» «Grazie.» Sanderson sorrise e poggiò le gambe a terra. Si alzò, si avvicinò alla porta e la seguì nella cabina principale. Kay lo guardò sedersi. «Dovremmo atterrare tra poco,» disse lei. «C'è ancora tempo.» Sanderson indicò l'altra parte del tavolino. «Sedetevi.» Lei annuì e accondiscese. «Dovevate essere veramente stanco, Vi sentite meglio ora?» «Molto meglio. Che cosa avete fatto mentre io dormivo?» «Ho cercato di mettere ordine tra i miei pensieri. Ho pensato a Lovecraft e ad alcune delle cose che ha scritto.» «Lovefraft?» Kay annuì imbarazzata. «Scusatemi. Non ne abbiamo parlato, è vero? Non credo che sappiate di che cosa sto parlando.» Sanderson sorrise. «Che cosa volete sapere su Lovecraft? Diceva la verità, naturalmente. È Nye che l'ha distorta.» Kay si sporse in avanti. «Conoscete anche lui?» «Abbastanza da capire che quanto predicava ai fedeli dello Starry Wisdom era modificato per adattarsi ai suoi scopi. In realtà, il genere umano non esisteva ancora, quando i Grandi Vecchi vennero a colonizzare la Terra. Pensate alla storia della creazione nelle varie religioni. Quasi tutte affermano lo stesso concetto in vari modi. Dio, o in alcune versioni, un gruppo di dei, creò l'uomo. «Ed è questo che è accaduto veramente. I Grandi Vecchi furono i primi su questo pianeta. Il mondo che essi dominavano doveva essere molto diverso da quello che conosciamo oggi... e quando si trasformò, in terremoti che distrussero continenti, essi scapparono in altre dimensioni. Ma alcuni
restarono, sommersi sotto il mare o intrappolati sotto montagne di ghiacchio. Fisicamente impotenti ma mentalmente potenti. «Fu allora che crearono la vita nella forma che noi conosciamo, sia animale che umana.» Kay incontrò lo sguardo di Sanderson. «Ma perché?» «La follia è solo la reazione dell'uomo ad una realtà che non riesce ad affrontare. Ora sapete perché Nye ha tenuto nascoste queste verità alla sua setta. Se sospettassero qual è la vera ragione della loro esistenza, non lo seguirebbero e non obbedirebbero alla volontà dei Vecchi. Ma è vero. Azathoth, Yog-Sothoth e gli altri, crearono forme di vita inferiori e gli animali perché si divorassero gli uni con gli altri, e tutti questi divennero il cibo per gli uomini. E gli uomini, a loro volta, sono sulla Terra solo per nutrire i Grandi Vecchi. «Non fisicamente, capite. I Grandi Vecchi non si nutrono di carne, si cibano di emozioni umane. «Questa è la fonte della loro forza. E la più potente, la più soddisfacente delle emozioni, è la paura. «Gli uomini sono stati allevati per avere paura, proprio come loro stessi allevano piante ed animali selettivamente per le loro qualità più desiderabili. Di tanto in tanto, nuove stirpi sono state aggiunte a quella che il genere umano nella sua vanità chiama la razza umana. Sono stati effettuati accoppiamenti con alcune forme di vita aliene. Le creature del mare, la cosiddetta progenie di Dagon, ne sono un esempio. Ci sono state altre unioni con gli esseri alati dell'anello esterno della galassia, e talvolta questi esperimenti sono riusciti. La mescolanza di sangue ha dato origine ad ibridi con una capacità maggiore di risposte emotive. «Naturalmente, la maggior parte degli uomini erano ignari di tutto ciò. Credete che i loro animali sappiano di essere usati come cibo, o perfino di essere allevati come animali domestici per puro divertimento? «Ma talvolta la verità si fa strada nei sogni degli uomini. Le leggende degli incubi e dei succubi derivano da visioni da incubo di accoppiamenti simili. E le mutazioni che ne risultano continuano a vivere, e spiegano i miti dei vampiri, dei lupi mannari, creature per metà animali e per metà umane. Quante volte avete osservato persone il cui volto somigliava a quello di qualche animale? Non è una coincidenza, né lo è la brama di crudeltà, di tortura, di genocidi, che noi, erroneamente, definiamo un comportamento 'bestiale'.
«Tutti questi attributi accrescono la paura, e durante le ere i Grandi Vecchi se ne sono nutriti, accumulando la forza per muoversi, per spezzare le barriere, per riemergere sulla terra e affermarne il loro possesso. «E pochi uomini hanno intuito o scoperto la verità. Coloro che l'hanno appresa in parte hanno chiamato la loro conoscenza magia, negromanzia, stregoneria. E coloro che l'hanno conosciuta appieno — attraverso sogni e ispirazioni inviate loro dai Grandi Vecchi — hanno mantenuto viva la fede. La loro adorazione e il loro aiuto avvicinano il giorno in cui i Vecchi torneranno. «Mai prima il mondo è stato così pieno di paura come ora. Mai gli adoratori sono stati così potenti e decisi. L'attesa è finita, perché i Grandi Vecchi sono di nuovo forti e la loro ora è arrivata. Le stelle sono nella congiunzione propizia e la strada è finalmente aperta.» Kay ascoltava con uno stupore crescente. Ancora una volta ricordò l'incoerenza della lingua, come le persone variassero il loro vocabolario per adattarsi alle situazioni. Ma non avrebbe mai immaginato che Sanderson, dalla testa dura e dal dolce accento, potesse parlare in quel modo. La sua reazione dovette essere evidente, perché Sanderson fece un rapido gesto. «Per favore, perdonatemi. Non avevo intenzione di turbarvi, Mrs. Keith.» Mrs. Keith. Sanderson non l'aveva mai chiamata così. La chiamava sempre «madame». Non c'era motivo di cambiare, a meno che... Si alzò involontariamente, incapace di controllare la propria espressione o le proprie parole. «Voi non siete Orin Sanderson!» Il suo sorriso silenzioso fu una risposta sufficiente. Kay fece un passo indietro, con gli occhi spalancati. «Ma come?...» «Il cambio è avvenuto mentre lui dormiva.» Il sorriso non si spense. «Forse ricorderete un altro racconto di Lovecraft...» «La cosa sulla soglia!» Kay lo ricordava anche troppo bene. Una strega, una donna il cui sangue aveva la tara delle creature del mare di Innsmouth, si impossessava del corpo del marito. «Allora è vero, tutte quelle leggende sulla possessione demoniaca...» Il sorriso si allargò.
«È tutto vero, Mrs. Keith!» «Voi chi siete?» «Solo uno dei molti che servono.» Kay si girò e corse verso la parte anteriore della cabina e tirò con violenza la porta. Non si smosse. Mentre lei la prendeva a pugni, il corpo di Orin Sanderson si alzò. «State sprecando il vostro tempo,» disse. «Non sono venuto da solo.» Lei si girò, con gli occhi sbarrati. «Volete dire che il pilota e l'equipaggio sono?...» «Non è necessario essere addormentati affinché lo scambio abbia luogo.» Annuì. «Non vi preoccupate. Siamo qui a proteggervi durante il viaggio.» «Ma perché? Atterreremo a Los Angeles tra pochi minuti.» Ancora con il sorriso sulle labbra, egli lanciò un'occhiata al finestrino della cabina che era alla sua destra. Kay guardò oltre l'uomo, abbassò lo sguardo, ed era lì, molto più in basso, che trovò la risposta alla sua domanda. Stavano sorvolando un'infinita distesa d'acqua. Quasi infinita. Kay doveva essere svenuta, perché non si accorse più del passare del tempo mentre riposava sulla poltrona. Ad intervalli apriva gli occhi per trovare la figura familiare di Orin Sanderson seduta accanto a lei, poi li richiudeva al suono delle parole e delle frasi che le labbra di lui pronunciavano. I frammenti sussurrati filtravano nella sua mente. «Il piano di Nye... voi siete stata la moglie di Keith e lui doveva mettersi in contatto con voi, per scoprire quanto sapevate... completamente all'oscuro, naturalmente, ma quando avete incontrato Miller era troppo tardi per lasciarvi andare. «Vi abbiamo seguita... quell'incontro a Washington... fortunatamente abbiamo saputo della missione del sottomarino in tempo. Ma qualcuno doveva essere scelto... voi eravate l'ideale, ha detto... impossessarsi dell'aereo... rischio... non trattare con una Lavinia... ha insistito... scritto nelle stelle... tutte le precauzioni... anche se qualcosa va male, l'essenza sarà preservata...» Quando l'ago della siringa le entrò nel brccio, Kay non lo sentì. Era svenuta di nuovo: quando rinvenne, l'aereoplano cominciò a discendere, vol-
teggiando su una massa rocciosa che emergeva dal mare sottostante. Stordita, lanciò un'occhiata alla figura che le era accanto. L'uomo parlò, anticipando la sua domanda. «Ranu Roraku,» disse. «Il cratere di un vulcano estinto. Lo vedete? Dietro il promontorio Poike.» «Ma dove siamo?» «L'Isola di Pasqua.» Era come qualcosa udito in sogno, e lei sembrava far parte di quel sogno quando si sentì rispondere. «Il posto delle statue... ricordo di aver visto delle foto... grandi teste si ergono e guardano il mare.» «Temo che ora non si ergano più. La maggior parte sono cadute quando c'è stato il terremoto la settimana scorsa, e il maremoto ha fatto il resto. Il villaggio che era lungo il margine occidentale è stato raso al suolo. Centinaia di persone, migliaia di pecore... è tutto scomparso, spazzato via.» «Ma c'è qualcuno laggiù!» Kay sentì che stava per svegliarsi mentre guardava in basso. «Vedo delle luci...» «Torce per guidare l'aereo.» Le afferrò un braccio. «È meglio sedersi, Potremmo fare un atterraggio brusco.» Per un attimo Kay fu pienamente cosciente, pienamente sveglia, e terrorizzata. «Perché siamo qui? Ditemi...» L'uomo la costrinse a sedersi, la mantenne. Lei lottava contro di lui, lottava contro la paura. Lo stordimento ritornò. Da molto lontano sentì il suono delle proprie grida alzarsi tra il rombo provocato dalle spinte contrarie dell'aereo. Avvertì la collisione, l'urto dell'aereo sul suolo, al momento dell'atterraggio. Quando l'aereo si fermò, incerto e oscillante, lei affondò nella poltrona, grata di quello stordimento che la isolava dalla paura. Forse era un sogno dopotutto. Doveva essere un sogno. Kay era completamente calma ormai, quando Sanderson la guidò fuori dalla cabina e l'aiutò a scendere lungo la scala di corda che pendeva dallo sportello al posto della solita scaletta. I tre membri dell'equipaggio stavano già aspettando ai piedi della scala e Kay fu sollevata nel vedere le loro figure in uniforme e i volti comuni. Forse Sanderson le aveva mentito: certamente quei giovani non avevano affatto un aspetto alterato. Gli altri riuniti sulla pista d'atterraggio, il gruppo di uomini con le torce,
erano ovviamente polinesiani e orientali. Indossavano indefinibili uniformi da marinaio e la loro lingua era incomprensibile, ma niente nel loro comportamento dava motivo di allarme. Invece, zittirono quando lei entrò nel cerchio di luce delle torce e la guardarono in un modo che suggeriva un rispetto esagerato, quasi reverenziale. «Andiamo ora,» disse Sanderson — deve essere Sanderson, si disse Kay — «Ci aspetta.» E poi la guidò oltre l'ampia distesa sdrucciolevole dove era atterrato l'aereo. Oltrepassarono gruppi di massi caduti e sgretolati e grandi fessure nella superficie rocciosa, che inclinava verso i pendii vicini. Dietro di loto, venivano gli altri, portando le torce. Camminavano in silenzio. Quando si avviarono lungo un sentiero che serpeggiava tra le rocce, l'aereo che era alle loro spalle scomparve alla vista. Ormai non c'era nient'altro che la notte. Le tenebre, la desolazione e il lontano rumore del vento e delle onde che sferzavano le coste rocciose in basso. D'improvviso si alzò un altro suono; le voci degli uomini che erano dietro. Kay non distingueva né parole né frasi, ma la cadenza era inconfondibile. Stavano cantando. Cantavano mentre si arrampicavano, con le torce fiammeggianti contro il cielo fosco. Un immagine le venne alla mente: l'immagine di una processione religiosa. Ecco che cos'era: un rito pagano, un viaggio ad un santuario segreto dove una presenza segreta aspettava... «Pace e saggezza a voi!» Lei riconobbe la voce mentre la figura usciva dal riparo delle rocce che le erano davanti. Il Reverendo Nye guardò Kay dall'alto del declivio: il suo alto corpo ondeggiava alla luce tremula delle torce. Era vestito di nero e la sua faccia era nera. Quando alzò le mani in segno di saluto, lei vide che non erano più guantate. Quando l'uomo le sollevò verso l'alto e verso l'esterno, Kay vide quello che i guanti avevano sempre nascosto. Anche i palmi delle sue mani erano neri. Non rosa, ma neri. Kay li guardò, guardò lui. L'uomo nero. L'Uomo Nero delle congreghe di streghe, l'Uomo Nero delle leggende. Nyarlathotep, il Potente Messaggero. Non era un sogno. L'uomo era reale, lei era lì, e Mike... Kay aveva urlato o lui le aveva letto nel pensiero?
«Miller è morto,» disse. Allora lei gridò, ma lui continuò, senza prestarle attenzione. «Tutti coloro che hanno tentato di distruggere R'lyeh sono stati distrutti. Non importa, visto che siamo venuti qui ad aspettare. Ora voi siete giunta qui, ed è giunta l'ora di liberare il caos.» Non era il modo di parlare dell'uomo comune, il linguaggio dell'assassino politico, e nemmeno della retorica del predicatore roboante, non quando quelle parole erano pronunciate lì in quel luogo di tenebre, non quando erano pronunciate da quelle labbra nere... E le sue labbra erano nere, comprese Kay. Non le aveva mai notate prima, non aveva mai visto la lingua nera avvolta nella caverna nera della sua bocca. «Questa è l'ora!», gridò l'Uomo Nero. «Perché ora le stelle sono nella congiunzione propizia.» Le dita nere si alzarono, puntarono verso il cielo, e Kay guardò in alto, i suoi occhi si fissarono sulle stelle... le stelle che non erano fisse. Non fisse, ma roteanti. Roteavano, vorticavano, si muovevano e si fondevano, cosicché le costellazioni note si plasmavano in nuove configurazioni di fredda fiamma. La mano dell'Uomo Nero si tese in avanti per acquietare il mormorio che si era alzato, e guardò oltre Kay, annuendo rapidamente. «Abbott,» disse. «Tu e Sato la preparerete e la condurrete...» Kay si girò mentre il corpo di Sanderson si allontanava. Ma altri due avanzarono da entrambi i lati e l'afferrarono per le spalle. Uno era alto e aveva il volto rosso; l'altro era tarchiato e scuro di pelle. Lei lottò, ma la loro stretta era ferma e le loro mani le strapparono i vestiti finché la donna non restò nuda nel cerchio di luce delle torce. L'Uomo Nero alzò le braccia. «Guardate la sposa!», cantò. E da dietro Kay si alzarono le voci in risposta. «Guardate la sposa!» Poi, da qualche parte nel buio, un tamburo risuonò. Risuonò e rimbombò mentre le stelle ardevano: Mike era morto e lei tremava di vergogna e di freddo, ma i due uomini la tenevano stretta. L'Uomo Nero fece un cenno, e si mise alla testa della processione. La spingevano in avanti, la trascinavano lungo il pendio del Rano Roraku, tra le file di statue rovesciate: le grandi teste di pietra con le basi conficcate nel terreno, guardiane del cratere che era più sopra. Kay lottò e si
contorse, ma non riuscì a liberarsi. La tirarono verso l'orlo, mentre le facce scolpite guardavano da ogni lato. Strane facce con i nasi volti in su, le labbra sprezzanti, e senza occhi. Che cos'era che nemmeno le pietre potevano guardare? I tamburi rombarono e le voci si alzarono in un canto. Oltre il cratere, Kay vide le linee frastagliate del promontorio Poire, che si profilava attraverso un velo di nebbia. Era nebbia o miasma? L'odore si diffuse, nauseante e soffocante, un tanfo di mare che vorticò sul suo corpo nudo e l'avvolse in un puzzo di putrefazione che le appannò i sensi. Dietro di lei i tamburi rombavano, i portatori di torce cantavano le loro litanie senza fine. «Guardate la sposa!» Kay barcollò e inciampò, stordita dalle ondate di suono e di odore nauseabondo. Freneticamente chiuse gli occhi, sforzandosi di non sentire e di non vedere, ma l'eco del canto restava. Guardate la sposa. E un'altra eco ora: la voce del finto Sanderson che le aveva sussurrato sull'aereo. Qualcuno doveva essere scelto... voi eravate l'ideale, ha detto... rischio... non trattare con una Lavinia... Lavinia? All'improvviso ricordò il nome e la sua origine. Il racconto di Lovecraft, L'orrore di Dunwich. La ragazza albina, ritardata mentale, di nome Lavinia... che diventa la sposa di Yog-Sothoth. Kay aprì gli occhi e, quando lo fece, la cortina di nebbia che le era davanti cominciò ad aprirsi. Quancosa si muoveva nella nebbia. Si alzò — enorme, nero, gorgogliante — dall'enorme cratere vulcanico dove era stato a guardare e ad aspettare. Il suo corpo squamoso cominciò a strisciare verso di lei, dimenandosi, e si stagliò contro le stelle. Lo vide per un attimo e gridò così forte che non sentì i tamburi, il canto, e nemmeno il rumore degli aerei che si avvicinavano. La spinsero in avanti. Poi i tentacoli contorti si allungarono ad abbracciarla, e lei non seppe più nulla. III FRA BREVE
Mark Dixon era nella cabina telefonica che si trovava nell'atrio dell'albergo, e parlava al suo redattore capo, quando cominciò la sparatoria. «Aspetta,» disse. Si girò a guardare attraverso la porta di plexiglass, poi si chinò involontariamente quando risuonò un altro colpo. La faccia di Heller lo guardò truce dallo schermo. «Che cosa sta succedendo?» «Il sindaco,» disse Mark. «È appena arrivato...» Sollevò cautamente la testa, scrutò attraverso il vetro mentre una fucilata esplodeva nell'atrio. «Qualcuno gli sta sparando... dalla balconata... gli Agenti della Sicurezza sono intervenuti a coprirlo... non riesco a vedere...» «Abbassati e fammi guardare!», gridò Heller. «Stai coprendo lo schermo!» Mark si chinò di nuovo, e lasciò libero lo schermo. Heller socchiuse gli occhi nello sforzo di guardare, proprio mentre echeggiava la scarica finale di spari. Poiché la cabina telefonica pubblica era fornita solo di un trasmettitore standard, non aveva né l'obiettivo grandangolare né lo zoom, ed Heller vide solo la folla, che era vicina all'ingresso dell'atrio, ondeggiare e strillare. Da qualche parte, al centro, c'era il sindaco con le sue guardie del corpo. Ma poi, quando l'ultima esplosione di colpi partì dal gruppo, tutti alzarono gli occhi e strillarono. Il campo visivo che aveva Heller non includeva il mezzanino, ma egli vide il corpo cadere oltre il parapetto della balconata e urtare il pavimento dell'atrio sottostante. Poi, quando la folla si avvicinò e si alzò un tumulto di voci, Heller strillò di alzare il volume. «Non ti preoccupare di videoregistrare: manderò una squadra per un servizio completo. Raccogli solo tutte le notizie che puoi e vieni qui subito!» «Lo farò,» disse Mark. E lo fece. Dopo mezz'ora entrava rapidamente nell'ufficio di Heller, sulla cima del palazzo del Times al centro di Los Angeles. L'ometto nerboruto che era dietro la scrivania stava già cominciando a premere bottoni quando Mark entrò. Tutto si spense: il videotelefono, gli interfoni, gli schermi televisivi, perfino lo schermo che era di fronte alla scrivania su cui si avvolgevano incessantemente le cronache inviate a filo diretto dai computer. Mark non aveva mai visto quello schermo spento. Non che ne avesse avute molte opportunità. In qualità di ricercatore junior — «galoppini»,
non era così che li chiamavano ai vecchi tempi? — era entrato in quell'ufficio solo due volte durante l'anno che aveva trascorso lì. In quanto a questo, aveva parlato raramente con lo stesso Heller attraverso il videotelefono. Di solito riferiva le notizie ad uno dei ricercatori senior che si trovava in un ufficio esterno, e dubitava che Heller ricordasse il suo nome. Ma era tutto cambiato ora. «Siediti, Dixon,» disse l'editore capo. Premette il bottone del registratore e annuì. «Dall'inizio.» «Sono arrivato presto all'albergo,» disse Mark. «Il banchetto era programmato per l'una, ma alle 12,30 il Sindaco non si era ancora fatto vedere, così sono state aperte ugualmente le porte. Il banchetto si doveva tenere nella Sala Dorata, al secondo piano, e gli ospiti erano nel foyer a bere gli aperitivi. C'era la maggior parte dell'amministrazione comunale... i liquori erano gratis credo. Ho parlato con Stanley, uno degli addetti dell'Ufficio Stampa, e lui ha detto «Sua Eccellenza è stata trattenuta...» Heller fece un gesto brusco. «Taglia corto. Sei sceso nell'atrio a telefonarmi. Perché?» «Ci stavo arrivando. Stanley ha detto che il Sindaco non si sarebbe fatto vedere. Sembra che avesse ricevuto un'altra minaccia di morte stamattina.» «Lui te l'ha detto?» Heller aggrottò le sopracciglia. «Come è successo?» «Credo che fosse sobrio, aveva fatto pochi viaggi al bar. Nessun altro gli aveva rivolto la parola e quando ho cominciato a insistere, se l'è lasciato sfuggire. Mi è sembrato abbastanza importante da comunicartelo subito.» «Particolari?» «La minaccia è arrivata alle nove, quando il Municipio apre. Qualche segretaria ha preso la chiamata. Hanno chiesto del Sindaco, ma non era ancora arrivato.» «Hanno chiesto?» Heller si sporse in avanti. «Chi erano queste persone?» «Era uno solo. Qualcuno che portava un passamontagna.» «Si è identificato in qualche modo?» Mark scosse la testa. «È stato ripreso, naturalmente, e hanno cercato la sua voce nella nastroteca. Potrebbe essere qualcuno che ha già chiamato, ma non ne sono certi. Ad ogni modo, il messaggio era lo stesso. Dimettiti o muori.» «Ma il Sindaco si è fatto vedere ugualmente al banchetto.» Heller aggrottò le sopracciglia. «Motivo?» «Ho presunto che la minaccia non fosse precisa riguardo all'ora e al luo-
go. E poiché era una manifestazione politica, con tutti i capoccioni del partito pronti a dare il calcio d'inizio alla campagna elettorale, suppongo che abbia pensato di dover comparire in pubblico. Non sarebbe sembrato un codardo quando avesse annunciato la sua candidatura per la rielezione...» «Taglia corto.» Heller puntò un dito contro Mark. «Sei sceso nell'atrio e mi hai telefonato. Tu eri nella cabina, Sua Eccellenza è entrata attraverso l'ingresso principale con le sue guardie...» «Erano sei, tutte in borghese. Ufficiale di Servizio, il Sottotenente Eduardo J. Morales. Ho gli altri nomi scritti qui.» Heller fece un gesto impaziente. «Dopo. Continua a raccontare.» «Erano a metà dell'atrio quando è cominciata la sparatoria. Senza nessun preavvertimento. Sulle prime, non hanno capito da dove venivano i colpi. Morales ha buttato a terra il Sindaco e lo ha protetto con il suo proprio corpo. Un altro ufficiale, Perez, ha scorto l'uomo sulla balconata e ha aperto il fuoco. Poi gli altri hanno visto il bersaglio e si sono uniti. L'assassino non ha cercato di ripararsi. Ha sparato altri due colpi contro il Sindaco e Morales, mancandoli entrambi. Poi è stato colpito. «È caduto oltre il parapetto ed è atterrato sul pavimento dell'atrio, senza la faccia. Perez era l'uomo che l'aveva colpito, e usava un diffusore ad ammoniaca. È un miracolo che nessuno nell'atrio sia stato ferito.» «Passiamo all'assassino.» «Sono corso fuori dalla cabina telefonica e mi sono infilato tra la folla. Due agenti della Sicurezza hanno portato via il Sindaco attraverso un'uscita secondaria e gli altri hanno sgomberato l'atrio. Sono riuscito a dare solo un'occhiata di sfuggita.» «Descrivi.» «Maschio, bianco, capelli castani, alto circa un metro e ottanta, magro, indossava una tuta da operaio. Deve essere sgusciato attraverso i controlli con una squadra di imbianchini, c'erano macchie di vernice sulla tuta.» Mark Dixon fece una smorfia. «E un mucchio di sangue. La parte anteriore della faccia era saltata via...» «Lascia perdere il colore locale,» disse Heller. «Passiamo all'arma.» «Non ho potuto. Qualcuno l'ha raccolta sul mezzanino e ha strillato che era un'automatica.» «Nessun documento di identificazione sul corpo dell'assassino?» «Se c'era, non l'hanno ancora trovato. Come ho detto, ho potuto dare solo una rapida occhiata prima che mi mandassero via. L'ufficiale che si è
occupato di sgomberare l'atrio era un certo Philip Kaufman. È quello che mi ha dato i nomi delle altre guardie del corpo.» «Che cos'altro ti ha dato?» «Niente. Solo che è sicuro che l'assassino appartenesse alla Fratellanza Nera.» Judson Moybridge spense il televisore, e lo schermo a parete scomparve quando Mark entrò. «Ho appena sentito il telegiornale della sera,» disse Moybridge. «Una faccenda sconvolgente. Sconvolgente. Non c'è da meravigliarsi che fossi tanto turbato.» Il corpulento avvocato fece un gesto verso il bar. «Posso offrirti qualcosa?» Mark scosse la testa. «Voglio solo informazioni.» «In questo caso, andiamo nel patio. È una vergogna sprecare una serata così bella.» Ed era veramente così, notò Mark, mentre seguiva Moybridge attraverso le porte-finestre verso la terrazza che circondava la piscina. Lì, nella luce dell'imbrunire, si sedette su una poltrona a guardare nella placida piscina lo scintillìo multicolore delle luci che brillavano oltre l'acqua e al di sotto di essa. Era una vista magnifica, e solo un uomo della ricchezza di Moybridge poteva permettersi un simile spettacolo notturno, guardando la città dall'alto. Non che Mark gli invidiasse quel privilegio. Qualsiasi cosa avesse Judson Moybridge, era meritata. Aveva lavorato trent'anni come legale di una società prima di raggiungere quella posizione elevata, e aveva poco altro nella vita, né una moglie né una figlia. A meno che Mark non si potesse considerare come un familiare. Dopotutto, finché non aveva compiuto i ventun anni, tre anni prima, l'avvocato era stato il suo tutore legale. Mark alzò gli occhi al suono del ghiaccio che tintinnava in un bicchiere. Il suo ospite si era servito da solo dal bar portatile che era accanto alla sua poltrona. «Sei sicuro di non volermi fare compagnia?», disse Moybridge. «No, grazie.» «Fa' come vuoi.» L'avvocato alzò il bicchiere e bevve, poi l'appoggiò a terra. «Allora. Informazioni. Che genere di informazioni?» «Prima di tutto, mi devi aggiornare con le notizie del telegiornale. La radio della mia auto è rotta e non ho sentito niente da quando ho lasciato l'uf-
ficio. Hanno scoperto chi era?» «Stai parlando dell'uomo che ha fatto quel tentativo di omicidio?» Moybridge scosse il capo. «Un esame preliminare ha rivelato che i capelli erano tinti, i polpastrelli sono stati staccati con l'acido, e di recente era stato sottoposto ad un'operazione alla laringe per alterare la voce. Questo, e l'assenza di etichette sui vestiti o di qualsiasi altra cosa che possa aiutare ad identificarlo, sembra stabilire che si trattasse di un professionista.» «Hanno detto qualcos'altro a proposito dell'arma?» «Sì, hanno detto un nome, ma non prestavo attenzione. Mi sembra di aver capito che fosse solo un revolver normale.» Esitò, notando il cipiglio di Mark. «C'è qualcosa che non va?» «Sì.» Moybridge allungò un braccio a prendere il bicchiere, e guardò il giovane che si aggiustava i capelli neri sulla fronte abbronzata. Un bel ragazzo. Potrebbe essere mio figlio. Detesto vederlo così teso. Un altro sorso, e poi, «Qual è il problema?» «Non capisci? Abbiamo qualcuno che si è affaticato a nascondere la propria identità, un vero professionista, hai detto. Ma, se analizziamo le sue mosse, ha agito da dilettante. Un assassino di professione avrebbe preso la precauzione di nascondersi. Avrebbe usato un fucile ad alta precisione munito di silenziatore e mirino telescopico, o avrebbe avuto uno di quei nuovi supersonici. Ma quest'uomo è semplicemente salito su una balconata, visibile a centinaia di testimoni e ha fatto fuoco con un fucile manuale, rumoroso e antiquato. Non ha senso. A meno che...» «A meno che?» «Forse era quello che intendeva fare. Voleva essere visto e sentito, voleva assicurarsi che — sia in caso di fallimento che in caso di successo — il suo attentato non potesse essere ignorato o messo a tacere.» «In altre parole, uno psicotico in cerca di pubblicità.» «In cerca di pubblicità, sì. Ma non uno psicotico. Almeno, non nel senso comune del termine.» Mark annuì. «Ho parlato con uno degli agenti della Sicurezza. Pensa che sia stata opera della Fratellanza Nera.» Moybridge ingoiò il resto della sua bibita. «Quante volte devo dirti che...» «Che non esiste la Fratellanza Nera?» Mark si strinse nelle spalle. «Conosco la storia: è una beffa, un tiro mancino organizzato da qualche burlone, pubblicizzato finché non è diventato di dominio pubblico, e poi una scusa per ogni crimine non risolto. Me l'hai spiegato decine di volte. Ma
quello che voglio ora è che tu mi dica la verità.» «Ma io ti ho sempre detto la verità.» L'avvocato si alzò rigidamente, mentre la faccia e la voce comunicavano una rabbia gelida. «Hai letto il mio libro. Vivevi ancora con me nella vecchia casa quando ho fatto le ricerche per scriverlo.» Mark annuì. «Quei viaggi che facevi, gli inviti a Washington, i colloqui con gli Agenti Federali. Mi sono sempre chiesto che cosa ti dicessero.» Moybridge si preparò un'altra bibita. «È tutto nel libro,» disse. «La caduta di Cthulhu. È lo stesso titolo a rispondere alla tua domanda. Io ho provato il mio punto di vista, e da allora decine di altri hanno confermato quei fatti. «Tu non eri ancora nato quando si scatenò tutto quel pandemonio sui terremoti, che erano voluti e prodotti dagli adoratori di Cthulhu. Era pura isteria, semplicemente la vecchia teoria del diavolo. La gente cercava un capro espiatorio. Ma ora sappiamo la verità. L'Isola di Pasqua fu distrutta per sbaglio durante il test di un'arma termonucleare, questo è un fatto registrato nei documenti ufficiali. Per quanto riguarda quel Lovecraft, entrambi conosciamo la risposta. Nei cinque anni trascorsi dalla pubblicazione del mio libro, altri ricercatori sono arrivati alla stessa conclusione. Era dotato, persuasivo, ed era un classico esempio di schizofrenia paranoide.» Moybridge si fermò per bere e Mark lo guardò nell'oscurità che si infittiva. «Ho letto quello che hai scritto. Ma dove sono le prove?» «Proprio sotto i tuoi occhi,» disse l'avvocato. «È passato un quarto di secolo da quando sono avvenuti quei terremoti. Ma, nonostante il panico, nonostante tutte le profezie folli delle religioni stravaganti, non è successo nulla. I terremoti si sono fermati, non è vero? E nessun mostro viscido è mai emerso dal mare. Siamo ancora qui, grazie a Dio, sani e salvi come sempre. E ora che le opere di Lovecraft sono esaurite in tutte le librerie...» «Questa è un'altra faccenda,» disse Mark. «Con tutto l'interesse che c'è per il Mito di Cthulhu, si penserebbe che gli editori sfruttassero questa tendenza del mercato. Ma io non sono riuscito a trovare i suoi libri nemmeno nelle librerie dell'usato. Credi che sia coinvolta una specie di censura del governo, che compra tutte le copie e le distrugge?» «Non credo possibile una cosa del genere.» «Che cosa ne è stato delle tue copie, quelle che lessi quando cominciasti a scrivere il tuo libro?»
«Me ne sono liberato quando mi sono trasferito qui.» Moybridge sospirò. «Guarda, non c'è alcuna utilità nel continuare a discutere. Ho fatto del mio meglio per rispondere alle tue domande...» «A tutte tranne una.» «Quale?» Mark guardò l'avvocato. «Come mai sei stato coinvolto in questa storia? Perché hai abbandonato il tuo lavoro di legale solo per scrivere un libro che smentiva la teoria del Mito?» «Te l'ho detto, non c'è alcuna utilità nel continuare a discutere...» «Ma c'è, invece. Perché mi fido di te. Mi sono sempre fidato di te, più di chiunque altro.» «Allora fidati di me ora.» Moybridge si avvicinò a Mark. Nel buio la sua faccia era una macchia confusa tranne che per gli occhi scuri. «Eravamo tanto vicini fino a qualche anno fa. Non me ne lamento, tu sei un uomo ormai, era giusto che te ne andassi per tuo conto. Ma ho sentito la tua mancanza, e mi sento ancora responsabile per te. È il tuo benessere che mi preoccupa, ora e sempre. «Ecco perché voglio che lasci perdere queste indagini. Non esiste alcuna Fratellanza Nera, credimi. Ma ci sono fanatici politici, uomini pericolosi, privi di principi, che sfruttano l'attuale disagio sociale per i loro scopi. Si sono impossessati di questa vecchia superstizione per razionalizzare la loro violenza. È impossibile fermarli, ed è inutile tentare. Se ti metterai sulla loro strada, ti distruggeranno.» Moybridge posò una mano sul braccio di Mark. «Per favore... nell'interesse mio e tuo...» Mark indietreggiò. «Non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché hai scritto quel libro? Che cosa sai? Dimmi perché sei così spaventato...» «Spaventato?» La voce dell'avvocato era stridula. «Non ho mai detto...» «Non ne hai bisogno. Guarda la tua mano, trema così forte che farai cadere quel bicchiere. Ho cercato di chiamarti in ufficio questa mattina presto; mi hanno detto che non ci vai da settimane. Perché ti stai nascondendo quassù? Non capisci? Io voglio aiutarti, ma non ne ho la possibilità, a meno che tu non mi dica la verità. La Fratellanza vuole uccidere anche te?» «Fuori di qui!» «Per favore, ascoltami. Sei in qualche guaio, lo so. Se sei coinvolto in questa...»
«Non sono coinvolto. E tu non mi coinvolgerai!» La voce di Moybridge crebbe. «Ma tu vattene via e non farti vedere. Sta' lontano da qui, lontano dalla mia vita, lontano da questa indagine!» Poi restò il silenzio, guardò Mark girarsi e attraversare la porta-finestra. Lo vide passare attraverso il soggiorno e sentì la porta d'ingresso chiudersi alle sue spalle. Moybridge restò immobile finché non sentì l'auto di Mark partire. Solo allora raccolse la forza necessaria ad attraversare il patio e raggiunse il bar portatile che era accanto alla poltrona. Pensò che le mani gli tremavano tanto che non sarebbe riuscito mai a stappare la bottiglia. Ma ci riuscì. Anche Mark ci riuscì, ma non fu facile. Il mal di testa lo stava uccidendo: pulsava e batteva nelle tempie. E anche il collo gli faceva male; dovette sbottonarsi il colletto per respirare. Che cos'era accaduto? Non era solo un litigio, non aveva senso fingerlo. Non aveva mai visto il suo ex tutore spaventato, non aveva mai visto qualcuno così sconvolto da una divergenza di opinioni. Solo che non era una questione di opinioni. E, nonostante quello che affermava Judson Moybridge, i fatti stavano diversamente. La Fratellanza Nera non era un'invenzione dei mass media: esisteva veramente. E l'ondata attuale di omicidi e attentati era troppo ampia per essere liquidata come opera di pochi sovversivi politici. Non c'era niente di politico nelle loro minacce o nelle loro previsioni di calamità future. Le argomentazioni che Moybridge avanzava nel suo libro e che venivano ripetute nei libri di altri scettici semplicemente non reggevano. Nonostante l'improvvisa scomparsa delle opere di Lovecraft dalle librerie e dalle biblioteche di consultazione, sembrava esserci una diffusione generale dei loro contenuti. Una diffusione favorita dalle affermazioni della Fratellanza Nera e dalle rivelazioni che correvano di bocca in bocca. Secondo queste fonti, i rapporti ufficiali del Governo facevano parte di una manovra deliberata di copertura. Durante il ciclo di terremoti di venticinque anni prima, Cthulhu si era veramente destato dal suo sonno, quando la Città Sommersa di R'lyeh era in parte emersa dal mare. Aveva cominciato un viaggio segnato dalle distruzioni che si lasciava alle spalle: navi e aerei scomparsi, intere popolazioni di isolette remote erano sparite. Erano state organizzate missioni segrete: un'esplosione termonucleare aveva distrutto sia l'Isola di Pasqua sia lo squadrone suicida che era stato inviato a
distruggerla. La storia non era mai stata ufficialmente negata o confermata, ma la cosa non finiva lì. Secondo queste voci ostinate, Cthulhu non era morto. Nessun'arma poteva distruggere una forma di vita aliena, capace di ricostituire le proprie componenti atomiche. Quell'entità immortale aveva trovato di nuovo rifugio in una tana segreta sotto il mare. E anche i vari culti che predicavano la sua venuta erano stati sommersi. Al loro posto c'era la Fratellanza Nera. L'aggettivo «nero» richiamava la magia, non la razza, ricordò Mark. Naturalmente il gruppo doveva comprendere una percentuale normale di non caucasici, soprattutto a Los Angeles, dove la popolazione era per il ventidue per cento nera, per il sette per cento orientale e per oltre il trenta per cento ispanica. Ma nessuno conosceva i membri di quel culto: quanti fossero bianchi, quanti fossero neri, quanti fossero attivisti e quanti solo credenti. Probabilmente, i membri effettivi erano pochi, ma la loro influenza si stava allargando e ogni attentato terroristico dava maggiore forza al culto. Nessuna smentita ufficiale, nessuno sforzo di studiosi come Judson Moybridge, poteva fermare la marea montante di tensione che circondava il concetto della venuta di Cthulhu. E nessuna azione delle Forze di Polizia era riuscita a trovare, e tanto meno a distruggere, la setta segreta responsabile di quell'ondata di violenza e distruzione. Non solo lì, ma in tutto il mondo, il disegno era chiaro: bombardamenti, incendi dolosi, sabotaggi, l'assassinio o la scomparsa misteriosa di cittadini in vista, sia impegnati in attività pubbliche sia private, preceduti da avvertimenti chiari, come nel caso dell'attentato di quel giorno. Senza dubbio le autorità stavano effettuando ampie indagini segrete, ma senza risultati. Quello che un tempo era stato un problema minore stava rapidamente diventando un enorme grattacapo a livello governativo. Il mal di testa. Mark batté gli occhi quando il dolore gli pulsò dietro i bulbi. Abbassò il finestrino in cerca d'aria e il freddo della notte gli ventilò la fronte. Dal mare stava salendo la foschia. Alla propria sinistra vide la nebbia celare la distesa di alberi e cespugli che era dietro le mura del Parkland Cemetery. Non amava i cimiteri, ma quella era una vista gradita, significava che era vicino alla meta. Una svolta a sinistra lo portò alla casetta che sorgeva dall'altra parte della strada. Fermò l'auto accanto al marciapiede che era nel vicolo cieco. Dopo qualche momento suonava il campanello del n° 1112 di
Parkland Place. Si accese una luce alla finestra che fiancheggiava l'ingresso, e poi si sentì una voce dietro la porta. «Sì, chi è?» «Mark.» La porta si aprì e Laurel Colman lo guardò. Indossava una vestaglia e i suoi capelli erano legati. Era evidente che si stava preparando ad andare a letto, e la sua faccia aveva ancora qualche traccia del latte detergente. Ma, anche senza trucco, i tratti fini della minuta brunetta e gli occhi lievemente a mandorla con la loro luce color zaffiro esercitavano un intenso fascino esotico. Gli occhi erano turbati in quel momento. «Che diavolo fai qui a quest'ora?» «Fammi entrare.» «Naturalmente.» Laurel si fece da parte per permettergli di entrare. «Ma dimmi...» «Dopo. Hai un'aspirina?» «Siediti. Te la porterò.» Lo condusse nel soggiorno, poi svanì, riapparendo un momento dopo con due pasticche in una mano e un bicchiere d'acqua nell'altra. Quando Mark ebbe ingoiato le pillole e bevuto, la ragazza lo guardò, aggrottando le sopracciglia. «Che cosa c'è che non va?», disse. «Niente. Solo un altro dei miei mal di testa.» «Mark dovresti veramente andare da un medico. L'hai promesso, ricordi?» «Lo so.» Annuì. «Non ho avuto il tempo.» «Mi dovevi telefonare stasera,» mormorò Laurel. «Che cosa è successo?» Glielo raccontò e lei ascoltò attentamente, senza interromperlo. «È per Moybridge che sono preoccupato,» disse Mark. «Sai quanto siamo stati vicini. Fin da quando avevo tre anni, quando lui mi tolse da quell'orfanotrofio, mi portò nella sua casa, proprio come se fosse il mio vero padre...» Laurel alzò gli occhi. «Sei sicuro che non lo sia?» «Desideravo molto che lo fosse, a volte, ma è impossibile. Una volta anni fa, quando avevo quattordici o quindici anni, gliel'ho chiesto apertamen-
te, Mi ci è voluto molto coraggio per farlo, ma deve essercene voluto ancora di più per lui per rispondere.» «Omosessuale?» Mark scosse la testa. «Sterile. Qualche malattia infantile, orecchioni o scarlattina. È per questo che non si è mai sposato. E suppongo sia stato uno dei motivi per cui è diventato mio tutore. Negli anni successivi al grande terremoto, molti bambini restarono senza genitori: in certi casi, venivano abbandonati davanti alle case. Gli orfanotrofi erano sovraffollati e le autorità lanciarono questa campagna di adozioni. Moybridge fu uno di quelli che risposero all'appello, e io sono fortunato che scelse me.» «Allora, veramente non sai niente delle tue origini?» «Nemmeno un vago accenno. Il cognome — Dixon — era il nome da ragazza della madre di Moybridge. Divenne legalmente il mio, quando mi prese in affidamento. Aveva una vecchia casa a Los Feliz a quell'epoca, e Mrs. Grimes, la sua governante, si prese cura di me. Quelli erano gli anni in cui era impegnato a fare carriera, ma trovava sempre il tempo per stare con me. Come ho già detto, fui fortunato. «Ricordo quanto fu felice quando mi iscrissi alla Facoltà di Giornalismo dell'UCLA. Aveva dei contatti con qualche uomo d'affari e mi aiutò ad entrare nel giornale dopo che mi laureai. Poi comprò la nuova casa e io mi trasferii nel mio appartamento. Ma non c'era dell'astio tra noi; lui mi incoraggiò a vivere per mio conto. Ci siamo sempre tenuti in contatto e, ogniqualvolta ho avuto un problema, è stato sempre pronto ad aiutarmi. Fino a questa faccenda della Fratellanza Nera...» Laurel aggrottò le sopracciglia. «Non ho mai letto il suo libro, ma da quello che mi hai detto deve averci lavorato molto.» «È vero. Ha cominciato a compiere delle ricerche quando ero ancora a scuola. Gli ci sono voluti anni per finire quell'opera.» «Capisco.» Laurel era pensierosa. «Ma che cosa lo ha spinto ad occuparsene all'inizio? Aveva degli amici che se ne interessavano, qualcuno che gli suggerì di scriverlo?» «No, che io sappia. Ma mentre lavorava al libro, non parlava più di nient'altro. Quando era impegnato nella stesura definitiva, non si preoccupava più nemmeno del suo studio: se ne presero cura i soci più giovani. Poi, dopo che il libro fu pubblicato, sembrò perdere ogni interesse alla faccenda. Ritornò agli affari, comprò la casa nuova, e vi si trasferì. Penso che nessu-
no di noi abbia più nominato Lovecraft fino a questa notte.» Mark rigirò il bicchiere vuoto tra le dita. «Ora, all'improvviso, quest'esplosione. Minacce. Avvertimenti. Ma perché?» «Non hai pensato che sia naturale per lui preoccuparsi del tuo benessere?», disse Laurel. «Finora non hai avuto niente a che fare con la Fratellanza Nera. Ora ne sei coinvolto, e lui si preoccupa.» «Allora perché nega perfino l'esistenza della Fratellanza Nera? Perché mente su tutto quello che sta succedendo? Sa qualcosa che noi non sappiamo?» Laurel si strinse nelle spalle. «Sono tutti irritabili in questi giorni. E non è solo a causa del terrorismo. Pensa solo a tutte quelle notizie sulla deriva dei continenti, o qualsiasi cosa sia. Stavo leggendo qualcosa in un quotidiano, appena l'altro giorno, a proposito delle scorie nucleari che inquinano l'atmosfera e cambiano il clima, è quello che si definisce l'effetto serra. Dicono che possiamo aspettarci un'altra serie di terremoti come quella di venticinque anni fa, o anche peggio.» Sorrise. «Naturalmente, non credo a tutte queste previsioni della fine del mondo.» «Nemmeno io.» Mark si alzò. «Ma forse Moybridge ci crede. Forse conosce un segreto.» «Non devi farti prendere in questo modo dall'ansia, caro.» Laurel si alzò. «Senti, è veramente tardi...» «Mark appoggiò il bicchiere sul tavolino, poi si avvicinò a Laurel e la prese tra le braccia. Le sue labbra avevano il lieve sentore del latte detergente, ma questo non attenuò in nessun modo l'improvvisa e sorprendente ondata di calore che gli investì le reni quando strinse a sé lo snello corpo di lei. Le mani di Mark già armeggiavano con i bottoni della sua vestaglia. «Mark, fermati: dalla strada possono vederci...» «Ma se andiamo in camera da letto...» La guidò fino all'altra camera, e questa volta la vestaglia fu tolta. Quel volto esotico, che rispecchiava la mescolanza di sangue ereditata da un padre irlandese e da una madre giapponese, lo guardò con un'espressione lievemente ironica. «Pensavo che avessi mal di testa.» «Sì. Ma speravo che me lo curassi.» «Farò del mio meglio,» mormorò Laurel. Lo distese sul letto e mantenne la promessa.
Buio. Prima solido, poi liquido e avvolgente. Una cascata di freddo, un'ondata gelida che si frangeva su un mare di ghiaccio. Le acque si increspavano e si andavano a rompere sulla spiaggia della notte, cancellando vista, udito e sensazioni... «Mark... svegliati!» Aprì gli occhi e vide oscillare le ombre sul soffitto della camera da letto, mentre Laurel lo scuoteva per destarlo. No, non era Laurel. Era la stanza che si scuoteva. E da tutt'intorno echeggiava un rombo che diventava un boato. «Il terremoto!» Si alzò rapidamente, poi aiutò la ragazza a mettersi in piedi mentre le assi del pavimento tuonavano e gemevano. «Fuori, presto!» Laurel raccolse una vestaglia e un paio di pantofole dalla sedia accanto al letto mentre Mark afferrava le proprie scarpe e i vestiti maltrattati. Avanzarono quindi con difficoltà lungo il vestibolo e nel soggiorno. Dalla camera da letto arrivò il rumore di vetri che si frantumavano. Quando corsero verso la porta, un lampadario precipitò al suolo e alcuni quadri si staccarono dalle pareti ondeggianti per fracassarsi sul pavimento. Ormai tutta la casa tremava come se fosse stretta nella morsa di un mano gigantesca. Mark tirava la porta d'ingresso, sforzandosi di socchiuderla. L'ostacolo cedette. Egli spinse Laurel oltre la soglia e la seguì nella notte nebbiosa. Dietro di loro, la mano invisibile stringeva e torceva. Si sentì un boato quando una parte del tetto cedette. «Attento!», gridò Laurel. Mark alzò gli occhi e vide il globo di un lampione cadere a spirale tra una pioggia di scintille che svanirono nella nebbia fitta. «Raggiunti l'auto!», strillò Mark. Ma la sua auto non era più lungo il marciapiede. Guardò alla propria destra e la vide conficcata di sghembo contro la banchina di cemento che chiudeva il vicolo cieco. Il cofano era schiacciato da un palo di telefono crollato. Una nube luminosa ondeggiava tutt'intorno, rendendo verde la nebbia. Le linee elettriche ondeggiavano e sferzavano con tentacoli crepitanti il veicolo intrappolato. D'improvviso, un sibilo minaccioso si stagliò sul lontano boato di fondo. Il bagliore verde divenne rosso e l'auto esplose in una fiammata.
Qualcosa volò in alto, e Mark fece abbassare Laurel. Fissarono quella foschia cremisi. Rivoletti di benzina si erano allungati sul prato e sull'acciottolato, e si arrossavano man mano che la fiamma li consumava. Presto avrebbero raggiunto la casa, e poi... Mark si alzò, e si girò verso l'ingresso della strada. Lì era caduto un albero e le linee elettriche erano impigliate tra i rami. Anche l'albero cominciava a prendere fuoco. Sarebbe diventata una barriera di fiamme. L'unica via di fuga era davanti a loro, dall'altra parte della strada, dove il muro del Parkland Cemetery si alzava dietro lo spesso velo di nebbia e buio. Senza una parola, Mark si avviò in quella direzione, stringendo una mano di Laurel. Almeno sarebbero stati al sicuro in quello spazio aperto, se fosse riuscito a scalare il muro di pietra che circondava il cimitero. Quando tra turbini di nebbia arrivò dalla parte opposta della strada, vide che il problema era scomparso, insieme ad una porzione del muro. Un'ampia breccia si spalancava alla loro destra, dove una sezione del muro era crollata. Fece un cenno alla ragazza. «Andiamo, prima che l'incendio si diffonda...» Si arrampicarono sul pietrisco che era al di sotto dell'apertura, poi si fermarono, esausti e silenziosi, ai limiti del cimitero avvolto dalla nebbia. «Penso che sia finito,» mormorò Laurel. «Senti...» Mark annuì. Il rombo stava attenuandosi e le vibrazioni sotto i loro piedi si erano fermate. Inspirò profondamente, guardò Laurel abbottonarsi la vestaglia e stringersi la cintura intorno alla vita. All'improvviso si accorse del gelo che avvolgeva il suo corpo, e del mucchio di vestiti stretto nella mano sinistra. Si vestì in fretta, infliò le scarpe nei piedi nudi e graffiati. Dietro di loro risuonò il crepitìo minaccioso delle fiamme che si alzavano, ma Mark non si girò a guardare dietro. La via di fuga era davanti, attraverso gli alberi avvolti nella nebbia. E ora che il terremoto era finito... I morti. Anche Laurel l'avvertì, perché la mano le tremava quando gli toccò una spalla. «Non mi piacciono i cimiteri,» sussurrò. «Usciamo di qui.» «Non possiamo rischiare di camminare per la strada ora,» disse lui. «Non con quelle linee elettriche a terra. Taglieremo attraverso il cimitero, fino all'entrata principale che dà sul boulevard.»
«Dobbiamo proprio farlo? Ho paura...» «Sii grata di essere riuscita ad allontanarti in tempo,» le disse. «Almeno siamo al sicuro qui. Andiamo, prendimi per mano.» Le dita tremanti di Laurel si chiusero intorno alle sue quando si incamminarono. Avanzarono tra gli alberi, lungo un sentiero di ghiaia, avviluppato di nebbia, che serpeggiava tra le tombe e le lapidi cadute. La foschia era più fitta lì, incombeva sul silenzioso cimitero come un sudario avvolgente. Ad un tratto, Laurel boccheggiò e tirò Mark per il polso. Lui abbassò gli occhi e guardò nella fossa aperta che gli stava davanti. La mano invisibile aveva lavorato anche nel cimitero, aveva sradicato le lapidi e le pietre tombali e aveva ghermito le tombe che erano al di sotto. Grandi fessure si aprivano in tutte le direzioni nel suolo sabbioso, squarciando la terra in profondità. Mark guardò nella tomba e vide la cassa frantumata, il coperchio di quercia divelto. Guardò ciò che c'era all'interno... e, attraverso la nebbia, un teschio gigante gli restituì lo sguardo. Le orbite vuote erano fosforescenti al buio. Laurel fece uno strano rumore con la gola, poi si girò e lo tirò per la mano. Deviarono per evitare l'apertura e proseguirono. Quando affrettarono il passo, le scanalature nel terreno li circondarono. Cocci di urne frantumate erano sparsi tra le pietre tombali rovesciate. Rallentarono di nuovo per aggirate altre tombe sventrate, ma non si fermarono a vedere che cosa vi era all'interno. Si erano ormai allontanati dal sentiero di ghiaia, si muovevano tra la nebbia e i fossi. Mark guardò cenotafi caduti e monumenti crollati, poi per poco non inciampò nella statua di un angelo con le ali spezzate. Stavano raggiungendo il centro del cimitero, quella zona antica dove i mausolei di marmo e le tombe di granito erano ancora in piedi. Ma non erano del tutto intatti. In molti casi, il terremoto aveva divelto le grate e i cancelli di ferro battuto che decoravano le porte. E dalle tombe si irradiavano in ogni direzione le profonde scanalature nella terra. La tomba spalancata. Per la prima volta Mark capì il significato di quella frase. Il significato e la minaccia. Laurel affannava accanto a lui. Saltarono per superare i crepacci, oltrepassarono le fosse che portavano ai domini della morte. Era il caos. Mark notò l'acre tanfo della putrefazione che si alzava dai solchi per mescolarsi alla nebbia viscida.
Ma la cosa peggiore di tutte era il silenzio, il silenzio mortale della nebbia, della notte e dell'incubo, rotto solo dagli ansiti affaticati di Mark e della sua compagna. E dall'altro rumore. Un cane abbaiava in lontananza. I suoi ululati echeggiavano flebili da qualche parte alle loro spalle. Poi si sentì un rumore di passi, uno scalpiccio che rimbombava nella notte, e gli ululati divennero più forti. Mark si fermò a guardare indietro attraverso la nebbia. Non vide niente, ma il rumore divenne ancora più forte. Anche Laurel lo sentì e la sua mano fredda gli serrò il polso. «Sta arrivando qualcosa!», gridò lei. E poi, quando si girò a guardare nella nebbia, «Oh, mio Dio...» Mark allora lo vide, o pensò di vederlo. Un'ombra scura si alzò dalla terra che era ammucchiata ai bordi di una scanalatura. Scorse la testa e le spalle stagliarsi contro la nebbia. Si muoveva di traverso, in modo che il muso da cane fu chiaramente visibile. Un cane gigantesco apparve dalle fessure per guardare, poi scomparve. Oppure no? I cani abbaiano, ma il loro abbaiare non si trasforma in risate. Allora si udì ridacchiare, e qualcosa scivolò in avanti, lungo la scanalatura piena di nebbia. «Fermati!», gridò Mark. Ma Laurel scomparve di corsa nel buio, in direzione di un gruppo di tombe che stavano su una montagnola da cui si irradiavano le scanalature. Ma non erano scanalature. Erano tane. Mark lo capì con chiarezza, e quella chiarezza lo gelò. Un terremoto poteva squarciare la terra, ma non poteva creare ciò che vi era celato al di sotto: centinaia di tunnel che si incrociavano secondo uno schema regolare, a due metri al di sotto della superficie del cimitero. Centinaia di tunnel scavati nell'argilla in un secolo di sforzi, da creature che si muovevano da una tomba all'altra in cerca di... Cibo. Mark si tuffò nella nebbia, gridando. «Laurel... aspetta... torna indietro!» Non ci fu nessuna risposta, e nessuna possibilità di scorgere la ragazza attraverso il buio fitto di nebbia che avvolgeva le aperture delle tombe. Ma si sentì di nuovo ridacchiare. Il rumore veniva da qualche parte davanti a Mark, dalla montagnola su cui convergevano le scanalature. E, per
un istante, scorse il muso da cane alzarsi da terra, seguito da un corpo che penzolò e balzò in posizione eretta su due zampe divaricate. Le braccia, o le zampe anteriori, erano grottesche e lunghe, ed erano stese avidamente. Poi scomparve, inghiottito dal buio, proprio nel posto dove era stata Laurel. «Laurel!», chiamò a gran voce e, nel farlo, lanciò un'occhiata in basso giusto in tempo per evitare di cadere in una delle aperture del tunnel. Poi corse verso la montagnola su cui si profilavano le tombe nella notte gelida e nebbiosa. «Laurel... dove sei?» La risposta fu un urlo che si alzò dall'entrata di un mausoleo, che era alla sinistra di Mark. Mentre si avviava verso il mausoleo l'urlo si fermò di colpo, ma si alzò l'eco della risata, seguito da un rumore indescrivibile: un miscuglio di ringhi e di gorgoglii. Mark corse verso il pendio, gli occhi incollati alla porta aperta che gli stava davanti. Fu così che non vide la lapide caduta. Inciampò e cadde in avanti, colpendo con la fronte il granito con una forza tale che ne rimase stordito. Per un lungo momento vista e udito svanirono mentre Mark si sforzava di non perdere conoscenza. Poi giacque ansimante, la vista gli si schiarì ed avvertì l'improvviso pulsare delle tempie, il dolore acuto al collo e alle spalle. Ma non perdeva sangue e riusciva di nuovo a sentire e a vedere con chiarezza. Barcollando, riuscì ad alzarsi. Guardò l'entrata del mausoleo, e si sforzò di concentrare l'attenzione su qualsiasi rumore si potesse udire dal suo interno. Ma tutto era silenzioso. Mark si avvicinò, poi si fermò all'ingresso e si tese per sentire che cosa vi fosse aldilà. Silenzio e buio. In qualche modo sapeva che qualsiasi cosa fosse entrata nel mausoleo, se ne era andata ormai, era svanita quando Mark era caduto sul pendio, rimanendo celato. «Laurel?» chiamò piano, ma non ci fu risposta. Mark inspirò profondamente. Poi, con cautela, un passo dopo l'altro, passò oltre quella soglia buia ed entrò in un'oscurità fetida. I suoi passi echeggiarono sul pavimento di pietra del mausoleo. Appoggiando la mano destra contro il freddo marmo della parete per farsi strada, avanzò in un regno invisibile di odore nauseante e freddo gelido. Ancora una volta sussurrò il nome di Laurel.
Furono i suoi piedi a trovarla, toccarono la sua vestaglia stesa sul pavimento. Giaceva immobile e Mark non sussurrò più il suo nome. Invece si chinò rapidamente e prese il corpo floscio di lei tra le braccia. Era così leggera che non ebbe nessuna difficoltà a riportarla all'ingresso, e poi fuori, nella notte nebbiosa. Fu lì che la guardò, che comprese perché gli fosse sembrata tanto leggera. Qualsiasi cosa l'avesse afferrata nell'oscurità, non le aveva danneggiato il corpo; arti e busto erano intatti. Ma non aveva più la testa. Per quanto tempo aveva corso? L'ultimo ricordo chiaro era la visione del moncherino lacero e contorto di quel collo zampillante. Allora aveva lasciato cadere il suo macabro fardello, e aveva cominciato a correre faticosamente nei reami dell'orrore. Tutto era frammentato in lampi di coscienza, punteggiato da fitte dolorose alla testa. Un mal di testa da impazzire, non era quello il vecchio modo di dire? Un mal di testa che frantumava la differenza tra la realtà e l'allucinazione. C'era stata una ragazza che si chiamava Laurel ed era morta, ma come poteva essere sicuro di tutto il resto? Se non esisteva nessun cane mostruoso, allora perché ne conservava il ricordo con tanta orrenda chiarezza: la visione di quel muso grondante bava, di quelle zampe ansanti orlate di un pelo argenteo? Poteva essere meno reale della visione di un'armata di creature simili che si muovevano lungo i tunnel del cimitero per cercare ciò che vi era sepolto, e nutrirsene? O era solo l'evocazione di una delle storie di Lovecraft, qualcosa che Mark aveva solo letto? Ma la testa di Laurel era scomparsa. E lui aveva corso, aveva raggiunto l'uscita del cimitero che dava sul boulevard. Per strada, il silenzio sepolcrale aveva ceduto il posto a rumori stridenti. L'ululato delle sirene in lontananza, il gemito delle voci nelle strade vicine. Il ruggito delle fiamme nella notte, le strida dei metalli torturati quando le auto si scontravano nelle loro zigzagate. Il boato delle mura che cadevano, lo squillo dei megafoni ad una barricata, dove figure in uniforme lottavano contro gli sciacalli che avevano invaso un centro commerciale crollato. La testa di Laurel era scomparsa.
Doveva recarsi al centro della città, raggiungere Heller, dirgli che cosa era avvenuto nel cimitero. Il terremoto era una notizia importante, doveva essere stato uguale o peggiore di quello di venticinque anni prima, ma anche Mark aveva una notizia da dire, e doveva essere detta. Nessuna auto. Allora bisognava camminare, non doveva essere a più di un miglio di distanza. Bisognava evitare i corpi ammucchiati, i tizzoni ardenti. Chinatown era in fiamme. Un vecchio correva lungo la strada, con capelli e barba in fiamme. Una conduttura del gas esplose in lontananza e il vecchio scomparve; la scossa violenta, le onde d'urto, una pioggia di detriti, una parete di fiamme si alzò a sbarrargli la strada. Bisognava aggirarla. Passare sotto il cavalcavia dell'autostrada, ma in fretta. Il tratto più avanti era già crollato, aveva sparso detriti, aveva fatto cadere le auto come giocattolini rotti e aveva lanciato fuori i passeggeri-bambole. Ma le bambole si contorcevano e strillavano. Il rumore gli fece pulsare le tempie. Sii felice di avere la testa. La testa di Laurel è scomparsa. Bisogna dirlo ad Heller... Mark, affannando, risalì la Bunker Hill. Lì il fumo si mescolava alla nebbia e gli inaridiva i polmoni, gli faceva bruciare gli occhi. Ma, quando raggiunse la sommità, il centro della città si stendeva davanti a lui. Quando guardò tra il fumo che si alzava a spirali, vide quella frase incarnarsi mostruosamente. La città si stendeva letteralmente davanti a lui. Si stendeva dopo la scossa, la scossa di quel terremoto che aveva raso al suolo i grattacieli, buttato all'aria le spirali che si innalzavano nel cielo, frantumato il Pavillon e il Music Center, e staccato la sommità del City Hall. La testa di Laurel era scomparsa. E il palazzo del Times era scomparso. Al suo posto si innalzava una colonna di fuoco. Non poteva parlare con Heller. Non poteva parlare con nessuno. Tranne che con Judson Moybridge. Era così, doveva raggiungere Moybridge. Doveva aver perso il senso del tempo, perché stava già salendo, non verso il centro, ma verso le colline. Era la realtà o l'immaginazione che evocava il vago ricordo di un uomo con un auto, un giovane negro che si era fermato e gli aveva fatto un cenno? «Siete distrutto... è meglio che veniate con me... dove state andando? Io cerco di raggiungere la Statale 101, se non è bloccata. Okay, vi porterò fi-
no al fondo del canyon. Poi devo filarmela.» Un mal di testa da impazzire. Ma doveva essere successo, doveva essere stato accompagnato. Ora saliva lungo la strada, nel buio. Le linee elettriche erano intatte perlopiù, ma nessuna luce era accesa nelle case appollaiate lungo i pendii delle colline e poche auto erano restate nei vialetti d'accesso. Tutti erano fuggiti, scappati. Scomparsi: come la testa di Lovecraft. «Capisci ora? Avevi torto, e Lovecraft diceva la verità. Esistono creature del genere, perché io ne ho vista una. Dio sa quante altre sì nascondevano in quelle tane. Dio sa che cosa si è liberato e ora sciama per la città. Avranno abbondanza di cibo stanotte, si ingozzeranno... Era questo che stava dicendo a Moybridge. O stava parlando tra sé e sé mentre saliva nel buio? Allucinazione e realtà. Quando raggiunse la cima, il cielo aldilà era rosso. Rosso bruciante, rosso ruggente. Rumori di fiamme e sirene, elicotteri che volavano al di sopra. Le fitte nella testa, il dolore nel collo e nelle spalle, furono eguagliati da sensazioni dolorose ai polmoni, alle reni e alle gambe. Salire, ancora salire. Bisogna raggiungere Moybridge, dirglielo. La casa che era in cima alla collina era buia, ma un'auto era sotto la tettoia e c'era un'altra auto parcheggiata sulla strada. Mark trovò il cancello aperto. Entrò e si avvicinò alla porta principale. Non ci fu nessuna risposta allo squillo del campanello, né ai colpi alla porta. Girò la maniglia ma la porta era chiusa a chiave. Seguì il sentiero che fiancheggiava la casa e trovò una finestra munita di imposte. Anche la finestra era assicurata dall'interno. Sì guardò intorno in cerca di un sasso con cui rompere il vetro. Nel farlo, si accorse che il cancello alla fine del sentiero era socchiuso. Lo spalancò ed entrò nel patio, che era sul retro. La nebbia era più fitta lì, saliva dal mare e copriva la zona circostante la piscina. Ma non era la piscina che gli interessava. Si girò e vide la porta-finestra che dava sul soggiorno. Era aperta, e dall'interno veniva un ronzio e un lampeggiare di luci. Mark guardò dentro. Il ronzio e la luce venivano dallo schermo televisivo a parete. La sua superficie spaccata non trasmetteva nessuna immagine, solo una macchia confusa di luminescenza lattea.
Entrò nella stanza, trovò e premette un interruttore. Le luci non si accesero. Dopotutto, la casa aveva subito qualche danno. E se era così, che cosa era accaduto a Judson Moybridge? Mark lo chiamò, poi gridò, ma non ci fu risposta. Si sentì di nuovo pulsare la testa e le spalle. Attraversò ansimando la stanza e si avviò lungo il vestibolo che portava alla cucina e alle camere da letto. Non c'era alcun segno di confusione, nessun rumore tranne quello dei suoi passi nel buio. Poi ricordò l'accendino che aveva in tasca, e lo prese. La fiamma si accese e si mantenne costante mentre ispezionava la zona pranzo e la cucina. Erano entrambe vuote e intatte. Lentamente si fece strada verso la prima delle camere da letto, si fece forza e guardò dentro. Ma anche lì la fiamma dell'accendino non rivelò nessuna presenza, e il bagno annesso non diede alcun indizio. Poi ricordò che una volta Moybridge aveva detto che la seconda camera da letto era usata come studio. Mark andò alla parte opposta del vestibolo. La porta lì era chiusa, ma non a chiave. La spinse, sollevò l'accendino, ed entrò. Oltre la soglia era il caos. Libri erano stati spezzati via dagli scaffali a muro per ammucchiarsi in cumuli disordinati. Una sedia da scrivania si era rovesciata tra gli schedari caduti, e il loro contenuto si era capovolto sulla moquette. La scrivania formava uno strano angolo con la parete, la sua superficie era cosparsa di un miscuglio di carte e schedari. Mark guardò, e aggrottò la fronte. Solo un capriccio del terremoto aveva potuto produrre simili effetti. O no? I terremoti possono aprire i cassetti, ma non possono riempirli. I terremoti possono gettare a terra gli schedari, ma non possono forzarne le serrature o rovistarne il contenuto. I terremoti non possono aprire una cassaforte a muro... Attraversò lo spazio che era dietro la scrivania. Si avvicinò allo sportello circolare, d'acciaio, che era aperto. La cassaforte era vuota. Si chinò a guardare la pila di carte che era ai suoi piedi. Alcune delle carte erano cadute dalla cassaforte, non c'erano dubbi. La cartella di pelle delle polizze assicurative, la lunga busta di carta gialla che portava il nome di un'agenzia di credito, e fasci di banconote, accuratamente legati. Mark ne raccolse uno e l'esaminò. Il fascio era spesso circa otto centimetri, e i biglietti erano tutti da cento. Più di una mezza dozzina di quei fasci
di banconote erano ai suoi piedi, una fortuna in valuta legale. Ovviamente, chiunque avesse aperto quella cassaforte non cercava soldi. Si accoccolò, conscio del dolore che ora gli si allargava in petto. Il respiro era affannoso e Mark annaspava in cerca d'aria. Stava male, stava molto male, ma il dolore avrebbe dovuto aspettare. C'era qualcosa che non andava in quel posto, e doveva scoprire che cosa... Sul pavimento c'erano altre carte cadute dalla cassaforte: ricevute, titoli, documenti legali. In fondo al mucchio, c'era una busta che egli ignorò finché le dita non toccarono per caso l'oggetto duro che era al suo interno. Non era un altro documento o una lettera, sebbene chiunque l'avesse gettata da parte l'aveva dovuto pensare. Mark ne lacerò un lembo con la mano libera e il contenuto della busta rotolò sul suo palmo. Era solo una minuscola bobina di microfilm, chiusa in un sacchetto di plastica sigillato con del nastro adesivo. Sul nastro c'era un'annotazione scritta a mano. «Estratti — Necronomicon.» La vista di Mark si annebbiò di nuovo ed egli avvertì una fitta di dolore alle spalle. Allucinazione e realtà. Il Necronomicon era un'allucinazione. Judson Moybridge diceva che quel libro esisteva solo nella fantasia di Lovecraft. Ma la bobina di microfilm era reale, e proveniva dalla cassaforte di Moybridge. Che cos'altro aveva custodito quella cassaforte, e chi era andato a frugarla? Mark si alzò, e lasciò cadere in tasca la bobina. L'accendino tremò nella sua stretta e le fitte di dolore divennero più forti. Allucinazione e realtà. Moybridge aveva giurato che la Fratellanza Nera non esisteva, ma la Fratellanza Nera aveva preannunciato il terremoto, e la previsione si era avverata. Moybridge aveva dedicato anni della propria vita per provare che le fantasie di Lovecraft non avevano nessuna base reale, ma quella notte una di quelle storie si era animata, e a causa di essa Laurel era morta. Se Moybridge sapeva la verità, perché aveva mentito? La testa di Laurel era scomparsa. E dov'era Moybridge? Mark uscì dalla stanza e si fece strada lungo il vestibolo, attento ad ogni segno o suono che potessero tradire una presenza nascosta. Non vide altro che le ombre, udì solo il ronzio dello schermo rotto che era nel soggiorno. Sul patio la nebbia era fitta fino alla soglia della porta-finestra.
Spense l'accendino, poi uscì nella notte velata di foschia nella quale echeggiava uno sciabordio e un gorgoglio d'acqua. Il suono lo portò ai bordi della piscina che era aldilà. Guardò la superficie increspata dell'acqua, nella quale ribollivano ed esplodevano nere bolle. Qualcosa si muoveva al di sotto della superficie. Qualcosa si muoveva, si contorceva, risaliva dalle profondità. E poi, lentamente, ritornò in superficie. Tra le spire di nebbia, Mark guardò la cosa che galleggiava al centro della piscina, fissò e vide il corpo ballonzolante e la faccia rigonfia di Judson Moybridge. Gli occhi vitrei sporgevano dalle orbite senza vedere, e nessun suono usciva dalla boca spalancata e contorta, perché i morti non vedono e non parlano. Moybridge era morto. Mark si chinò in avanti e si allungò verso il cadavere. E fu allora che dal bordo dell'acqua si alzò rapidamente una mano per afferrargli le caviglie e tirarlo nell'oscurità gorgogliante che era al di sotto. Quando si affoga, si rivede tutta la propria vita. Così diceva una vecchia storia, ma era falsa. Mark lo capì, perché stava affogando, stava affogando nella piscina accanto al corpo di Judson Moybridge. Il dolore gli dava fitte alla testa, gli pulsava nel collo e nel petto. Lottò per liberarsi ma le mani invisibili lo tenevano forte, lo tirarono verso il fondo, finché i suoi polmoni brucianti non furono pieni d'acqua. Allora doveva essere morto, ma non era ancora la fine. C'era un sogno... Nel sogno, era ancora vivo quando lo tirarono fuori dalla piscina; bagnato e gocciolante, confuso e indebolito, ma vivo. Li vide allora, quando lo circondarono, lo misero in piedi, lo trascinarono all'auto che era parcheggiata accanto al marciapiede, poco più sopra della casa. C'era qualcosas di sbagliato nei loro vestiti; non si adattavano alla loro figura. Quegli abiti erano stati tagliati per seguire i normali contorni umani, ma i suoi rapitori non erano normali. L'andatura zoppicante rivelava la malformazione delle loro gambe: le schiene curve e i colli gonfi si espandevano e si contraevano al ritmo ansimante del loro respiro. I polsi allungati sporgevano dai polsini per terminare in dita palmate che avvolgevano e stringevano come artigli. E quello che scorse dei loro volti servì a trasformare il sogno in un incubo. Grandi occhi sferici senza palpebre. Nasi piatti e larghi con narici allar-
gate. Bocche ampie, prive di labbra, che mostravano file di denti piccoli e serrati. Pelle squamosa tesa rigidamente sulle teste prive di capelli. Colli rasposi con dei tagli che si aprivano e si chiudevano in una pulsazione perpetua. Tutto questo faceva parte del sogno. Ma era il loro odore soffocante di pesce che era veramente repellente. Il loro odore e le loro voci. I suoni profondi e gutturali sembravano solo l'imitazione di una lingua, ma Mark riuscì a comprendere anche troppo bene quelle parole pronunciate a fatica. Due delle creature erano sedute o accucciate accanto a lui sul sedile posteriore dell'auto. Altre due erano davanti. Quello che guidava sembrava conoscere la strada, ed era la sua voce che ora ronzava nel sogno. «Niente costa... l'autostrada non c'è più... tutto portato via dal mare... bisogna percorrere le strade interne... attraverso le montagne...» Poi, misericordiosamente, tutto svanì. Quando la coscienza ritornò, Mark capì che la notte era gelida, ma lui non sentiva freddo. Erano saliti al di sopra della nebbia, traballando e slittando. Mark aprì gli occhi e guardò l'orizzonte rossastro che era alle loro spalle e il cielo tetro e oscuro che era davanti a loro. Sullo sfondo nero si stagliavano alte cime. Mentre sobbalzavano lungo le strade dissestate, tagliate nei ripidi pendii delle montagne più alte, gli parve che il respiro dei suoi compagni diventasse più difficile. Ansimavano e si lamentavano, ma il guidatore continuava a scuotere la testa calva e gonfia. Ripeteva di continuo, con voce monotona: «L'unica strada sicura è questa... l'unica strada.» Erano al sicuro da ogni interferenza umana, perché non apparve nessun altro veicolo su quei pericolosi valichi tra le cime. Quando un sole cupo e cremisi sorse ad oriente, una luminosità rossastra brillò oltre le montagne che erano alla loro sinistra. La fonte di quella luce era il riflesso del sole sull'acqua che era aldilà e al di sotto, ma Mark non ricordava di aver mai visto l'oceano così vicino alle catene montuose che erano a nord. Era la geografia confusa che si incontra solo durante i viaggi nei sogni. Gli parve di nuovo di abbandonarsi ad un sonno profondo. Si svegliava solo di tanto in tanto, quando l'auto si fermava per raffreddare il radiatore in ebollizione. Ma ripartiva sempre, e le ore passavano senza fine, in un silenzio indisturbato perché, malgrado i suoi rapitori lo tenessero fermo per le braccia, non facevano nessun tentativo di rivolgergli la parola. I sogni sono senza tempo, e Mark non sapeva dire quando avessero costeggiato la vallata nella quale le acque avevano coperto le case fino alle
cime dei tetti. Né sapeva quando avessero guardato dall'alto un torrente impetuoso e fangoso nel quale i corpi di uomini e animali turbinavano tra la schiuma rossastra. Si svegliò e scoprì che era di nuovo calata la sera, e l'auto stava oltrepassando un segnale stradale pencolante: Los Gatos — 30 Km. Dovevano essere in qualche punto delle montagne di Santa Cruz, o lo sarebbero stati se cose simili fossero veramente esistite nei sogni. E quello doveva essere un sogno, si disse, un sogno di morte. La realtà era morta in città, proprio come egli stesso era morto nella piscina affogato, perché non aveva mai imparato a nuotare. Era meglio che fosse andata così. Meglio essere morto e sognare, piuttosto che essere vivo e essere veramente prigioniero di quelle creature. L'auto riprese di nuovo a salire nel crepuscolo incorniciato dagli alberi. Si cominciavano a vedere delle case rare, remote e silenziose, buie e vuote tra le gigantesche sequoie. Scorse un cartello stradale e ne lesse la scritta: Skyview Tenace. L'auto l'oltrepassò, poi girò per una strada stretta e ripida, in terra battuta, poco più di un sentiero, che si inerpicava tra un intrico di alberi. Era un'allucinazione, naturalmente, perché il sogno era l'unica realtà. Quel sogno e quelle creature. Sapeva chi fossero, quegli ibridi simili a pesci. Sapeva da dove venissero e dove stessero andando. Lo stavano portando ad Innsmouth... «Innsmouth?», disse la voce. «Certamente sai che non esiste. E non è mai esistita... almeno, non con questo nome.» Mark aprì gli occhi. La stanza era buia e il cielo notturno che si scorgeva aldilà della finestra era ancora più buio. Gli sembrava di essere seduto su un divano accanto a quella finestra, un divano coperto di un panno particolarmente grezzo e ruvido. Poi capì perché gli irritava tanto la pelle; era nudo. L'aria era umida e gelata, ma questo non gli dava fastidio. Il dolore e il mal di testa erano scomparsi cosicché si sentiva di nuovo bene. Ma come era possibile, quando era morto e stava sognando? «Non sei morto, non stai sognando,» disse la voce. Mark si guardò intorno, cercandone la fonte. Gradualmente la sua vista si abituò alla mancanza di luce ed egli cominciò a distinguere una sagoma scura che occupava la sedia accanto alla parete opposta. La figura era scura, ma il suo portamento eretto, unito all'assenza dell'o-
dore nauseante e alla precisione della sua lingua, rivelò a Mark che non si trovava alla presenza di uno dei suoi rapitori. «Non sei stato rapito,» disse la voce. «Sei stato condotto qui.» In ritardo, Mark capì di non aver parlato ad alta voce. E questo significava... «Leggere il pensiero?» La voce era lievemente divertita. «Intuizione. Un trucco da salotto. Se ne fossi veramente capace, avrei saputo che non ci si poteva fidare di Moybridge. Così come stavano le cose, ho sospettato una possibilità del genere e ho ordinato la perquisizione della sua casa. Quello che è stato trovato nella cassaforte ha confermato i miei sospetti.» «Lo avete fatto assassinare,» disse Mark. «Una parola troppo aspra. Sarebbe morto in ogni caso, quando si sono alzate le acque.» «Le acque?» «Dimenticavo: non sai niente del maremoto che ha seguito le scosse della notte scorsa. Il bacino di Los Angeles non è più vuoto. La linea costiera da Baja California a San Francisco Bay è stata inondata. Perfino qui, tra le montagne, siamo al sicuro solo temporaneamente. Guarda tu stesso.» Mark guardò attraverso la finestra che era alla sua sinistra. Sentì il mormorio prima di vederne la fonte. Una distesa ininterrotta di acqua si rompeva contro le rocce, cento metri più in basso. «E sale ancora,» disse la voce. «Ci raggiungerà molto presto.» Involontariamente, Mark fece il gesto di alzarsi, e il suo movimento fu accolto da una risata sardonica. «Resta dove sei,» disse la voce. «Non è rimasto nessun posto dove andare. Quello che il terremoto ha risparmiato verrà preso dal mare. In tutto il mondo le orgogliose città sono cadute, e sono rimaste solo le cime più alte. Ma emergeranno nuove terre dagli abissi, terre antiche, in realtà, perché un tempo avevano il dominio su tutta la Terra ed ora emergeranno per dominare di nuovo. Gli Antichi e gli usi antichi verranno ripristinati, e ciò che resta del genere umano avrà un ruolo minore. Alcuni diventeranno schiavi, altri bestiame da allevare per accoppiarsi con le creature che vivono sotto il mare o per nutrire quelle che vivono sottoterra.» «No!» Mark scosse la testa. «Non credo...» «Nemmeno all'evidenza dei tuoi stessi occhi?» Di nuovo, nell'oscurità risuonò una risata sarcastica. «Gli uomini sono sempre stati usati per accoppiarsi con le creature del mare o per essere dati in pasto alle creature della terra, anche quando l'umanità si riteneva la razza dominante. Il risul-
tato di uno di quegli accoppiamenti ti ha portato qui. Per quanto riguarda le creature della terra... quello che gli uomini chiamavano il luogo del loro estremo riposo non era mai tale. Ogni cimitero è accessibile da sotto, e tutta le terra è trivellata di gallerie che portano alle tombe. Quello che hai visto l'altra notte è solo un accenno di quello che si nasconde sotto terra e nelle caverne sotto le montagne.» Mark guardò la sagoma scura da cui proveniva la voce. «Chi sei?» «Il mio vero nome non significherebbe niente per te. Ma qui sulla terra, secoli fa in Egitto, gli uomini mi chiamavano Nyarlathotep.» Il nome echeggiò sullo sfondo del mormorio delle acque. Nyarlathotep. Il Potente Messaggero dei Grandi Vecchi, I racconti di Lovecraft... «Lovecraft sapeva, naturalmente,» mormorò la voce. «Pochi hanno saputo. Alhazred scrisse le sue conoscenze nel Necronomicon, in modo che gli uomini potessero comunicare con i loro veri Signori. Ma quegli incantesimi e quelle formule magiche potevano essere dannosi se cadevano nelle mani sbagliate. Fu necessario cercare e distruggere tutte le copie del suo libro e farlo credere pazzo, anche se egli aveva avuto solo l'intenzione di illuminare l'umanità. «Invece Lovecraft voleva avvertirla, e questo era un grave pericolo. Solo un caso fermò l'avvento di Cthulhu più di un secolo fa. Lovecraft ne narrò la cronaca anche troppo chiaramente e previde che il Grande Cthulhu sarebbe sorto di nuovo. L'ampia diffusione che ebbe la sua opera, ci rese impossibile eliminare tutte le copie stampate, e inevitabilmente qualche lettore sospettò la realtà celata dietro la finzione. «Si rese necessario gettare discredito sui suoi racconti, collegarli a bizzarri culti religiosi come lo Starry Wisdom. Questo accadde un quarto di secolo fa. Agli iniziati fu affidato il compito segreto di eliminare ogni prova concreta che potesse confermare le rivelazioni di Lovecraft. Documenti e lettere che gli servirono da fonti furono rintracciati, le pitture di Richard Upton e i loro proprietari — uomini come Albert Keith — furono distrutti. «E poi la profezia dell'avvento del Grande Cthulhu fu nuovamente adempiuta, o quasi. Ma in qualche modo le autorità ne furono avvertite e, per una serie di circostanze, l'ex moglie di Keith ne fu coinvolta. «Una missione fu mandata contro Cthulhu, e io feci quanto era necessario per vanificarla. Ma, a tutti gli effetti, sembrò che Cthulhu fosse morto, e le autorità si sentirono di nuovo al sicuro. «In questo clima di compiacimento, ripresi il mio compito, cominciai a
creare le condizioni che avrebbero distrutto il dominio dell'uomo. Costituii la Fratellanza Nera, che si serviva del terrorismo e degli omicidi per distrarre l'umanità dalla vera natura di ciò che stava per accadere. «Questa volta non furono commessi errori. E quando le stelle si sono congiunte nella giusta posizione, quando i segni della distruzione della Terra sono riapparsi, tutto era pronto. E adesso è ora che abbia luogo.» «Perché dici a me tutto questo?» Mark si mosse a disagio. «Non capisco...» «Capirai.» Si sentì un lieve scatto, e improvvisamente si accese una luce con una tale intensità accecante che per un momento Mark non vide più nulla. Poi, lentamente, la sua vista si abituò all'intensità della luce ed egli vide fin troppo chiaramente. Seduto di fronte a lui, c'era un uomo nero di pelle che indossava degli abiti neri. C'era qualcosa di strano nell'intensità omogenea del colore della sua pelle, ma questo particolare non era sconvolgente quanto la fonte di luce che l'illuminava. La luce proveniva da una scatola di metallo dorato e opaco che era posata nel grembo dell'uomo. Ai lati vi erano incise delle figure che si contorcevano, tutte occhi e tentacoli. Non somigliavano a nessuna forma vivente che Mark ricordasse. La scatola stessa non era né quadrata né rettangolare. Sembrava conformarsi ad una sua propria geometria. Ma poi fu la luce ad attirare la sua attenzione. Si irradiava da un grande cristallo montato su strisce di metallo, che erano attaccate alle facce e alla base dalle mille sfaccettature. Il cristallo sembrava nero, chiazzato di venature rossastre, ma la luce che irradiava era simile ad un fuoco verde. Mark sbatté gli occhi. «Che diavolo è?» «Non è sempre stato qui sulla Terra,» mormorò l'uomo nero. «Ma ora è qui per adempiere al suo scopo. Il Trapezoedro Scintillante...» Così l'aveva chiamato Lovecraft, ricordò Mark. «Non era in un racconto: The Haunter of the Dark?» L'uomo nero annuì. «La luce evocava l'entità, che uccideva il suo scopritore. Ma ha anche altre proprietà. È un punto focale, un passaggio che collega le stelle, che apre la strada agli abitanti di altre dimensioni. La luce può sanare così come può distruggere, e principalmente, può trasformare. «È stato attraverso il Trapezoedro Scintillante che io assunsi le sembian-
ze di un uomo, secoli fa, nell'antica Khem. Ed è destinato ad avere un ruolo ancora più importante.» Mark sbatté di nuovo gli occhi. Gli sembrava che il cristallo emanasse anche calore oltre che luce... eppure quel calore era freddo. Ricordò il sogno che aveva fatto a casa di Laurel, quel sogno in cui c'erano fiamme gelide; anche questo faceva parte di quel sogno? «No,» disse piano l'uomo nero. «Il tempo per i sogni è finito e i sognatori — Alhazred, Upton, Lovecraft — sono morti. Albert Keith osò cercare la fonte dei suoi sogni e anch'egli è morto. E tu...» «Che cosa c'entro io in tutto questo?», mormorò Mark. «Non lo intuisci? Moybridge sapeva la verità, naturalmente, ma non ha mai parlato. Ci contavamo perché l'avevamo ricompensato e, quando scrisse quel libro, dietro nostro ordine, ci sentimmo al sicuro. Aiutò a gettare discredito su Lovecraft e non avevamo motivo di credere che avrebbe mai rivelato la sua alleanza segreta con noi. Ma lui sapeva e conservò le informazioni che gli avevamo fornito, come il microfilm che hai trovato. Gli promettemmo che sarebbe stato risparmiato in cambio del suo aiuto, ma quando è arrivato il terremoto, ha cominciato a sospettare altrimenti. «Allora è stato troppo tardi per raggiungere le autorità, ma c'era ancora la possibilità che usasse alcuni degli incantesimi e delle formule magiche contro di noi. E sapevamo che tu lo saresti andato a cercare. Di conseguenza, si è reso necessario recuperare il materiale in suo possesso ed eliminarlo.» Il calore freddo era dovunque. Mark sentì un formicolio alla testa e alle spalle. «Perché sono qui?», disse. L'uomo nero si sporse in avanti. «Ti ho detto che l'ex moglie di Albert Keith fu coinvolta nel tentativo di distruggere Cthulhu. Ma prima che ciò accadesse, fu catturata e condotta dove il Grande Vecchio aspettava. Quella notte le bombe caddero sull'Isola di Pasqua e nemmeno il Grande Cthulhu riuscì a resistere alle forze che gli erano state scatenate contro.» «Allora è morto?» «Solo due riuscirono a scampare: la donna, Kay Keith, ed io stesso. La portai in segreto in un luogo sicuro che era stato approntato allo scopo e la sorvegliai finché non venne la sua ora. Morì durante il parto, come c'era da aspettarsi. Ma il figlio visse.» Mark aggrottò la fronte.
«Quale figlio...» «L'unione fu consumata prima del bombardamento.» L'uomo nero lo guardò da dietro il raggio di luce ghiacciata, bruciante. «Per quanto riguarda il resto... un uomo di nome Heisinger aveva in affidamento la proprietà di Keith. Aveva un nipote, e la faccenda fu sistemata in modo che il bambino venisse allevato come un orfano adottato finché non fosse arrivata l'ora. Perciò il figlio di Cthulhu è sopravvissuto. Nessuno lo ha mai sospettato, meno di tutti il figlio stesso.» L'uomo nero sorrise a Mark. «E tu non hai sospettato,» disse. Mark tentò di alzarsi allora, ma la scatola si inclinò in avanti cosicché fu paralizzato da una colonna di luce livida. L'urlo gli morì in gola e poté solo guardare. Guardare il raggio di luce che bagnava il suo corpo e bruciava il suo cervello. Il figlio di Cthulhu era sopravvissuto. Ereditarietà: non c'era da meravigliarsi che non fosse affogato nella piscina. E i dolori, la difficoltà nella respirazione, facevano parte di un processo di mutazione, di metamorfosi in una forma che poteva sopravvivere sott'acqua o volare tra le stelle. Quel cambiamento non era ancora completo. Ma la luce trasforma... Gli parve che il cristallo nero, che era dietro il raggio, fosse uno specchio nel quale si vide riflesso, immerso in un imbuto di fiamma. E poi, in qualche punto della sua cavità cerebrale, uno spillo di luce trafisse il ponte, penetrò nel locus coeruleus. La sua immagine si annebbiò, ondeggiò. Le membra si sciolsero, poi si moltiplicarono, spuntarono e si allungarono da una forma senza volto nella quale la mortalità si fondeva in una forma più grande di gigantesca divinità. Non c'era più dolore, solo pulsazione e potenza, pienezza e potere. Non è morto ciò che può vivere in eterno, e il tempo degli strani eoni era arrivato. Le stelle erano nella giusta posizione, le porte erano aperte, i mari pullulavano di moltitudini immortali e la Terra aveva spinto in superficie i suoi immortali. Presto, da Yuggoth, le creature alate sarebbero discese dal vuoto, e i Vecchi sarebbero tornati. Azathoth e Yog-Sothoth, di cui egli era il Sacerdote, sarebbero giunti dalle oscure Leng e Kadath sui continenti emersi che si erano trasformati, come egli stesso si era trasformato. Si mosse, e le mura che lo circondavano si frantumarono e caddero. Respirò, e Nyarlathotep svanì nel nulla, stringendo il Trapezoedro, che sembrava un giocattolino.
Ondeggiò, e le acque che erano al di sotto si alzarono, ribollenti e invitanti. Si alzò, e le montagne tremarono e sprofondarono nel mare. Il tempo si fermò. La morte morì. E il Grande Cthulhu avanzò verso il mondo per dare inizio al suo regno eterno. FINE