TOM EGELAND LO SPECCHIO DELL'ASSASSINO (Trollspeilet, 1997) Ecco! Incominciamo! Quando arriveremo alla fine di questa st...
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TOM EGELAND LO SPECCHIO DELL'ASSASSINO (Trollspeilet, 1997) Ecco! Incominciamo! Quando arriveremo alla fine di questa storia, ne sapremo più di quello che sappiamo adesso: sapremo che tutto fu opera d'uno spirito malvagio, uno dei più cattivi, il diavolo in persona! Un giorno egli era veramente di ottimo umore, perché era riuscito a fabbricare uno specchio che aveva questo potere: ogni cosa buona e bella che vi si rifletteva dentro, scompariva fino a non esistere quasi più, ma se una cosa si presentava male o era sconveniente, allora risaltava chiaramente e diventava ancora più brutta. H.C. Andersen Perché le chiamano ultime notizie? Tanto sono sempre le stesse. «The New Yorker» RIPRESE CINEMATOGRAFICHE Ammerud, Oslo Luglio 1976 Lei disse, mentendo: «Non importa.» La notte era afosa e soffocante. Nel boschetto davanti al condominio le rane e gli uccellini facevano un gran baccano. Quando si erano trasferiti lì, sei mesi prima, aveva pensato che il canto del ruscello avesse qualcosa di esotico, di affascinante. Una specie di giungla. Anche se ora sentiva la mancanza di tutti i classici rumori del centro: lo stridere e lo sferragliare dei tram, il picchiettio dei tacchi delle donne sul selciato, il rimbombo dei bassi proveniente da una discoteca lontana, le sirene delle ambulanze. Era seduta sul letto, nuda. Imbarazzata, si era coperta con il piumone. Lui era in piedi, di spalle. Al chiarore della lampada che si trovava sul comodino, i suoi muscoli disegnavano delle ombre. L'aria era densa, la si poteva quasi toccare, come se fosse stata una stoffa. «Come il velluto,» pensò lei, «proprio come la sua pelle.» Si mise a ridacchiare: «Non avrei mai creduto che alla fine Ann-Reidun
sarebbe riuscita a infinocchiare Rune e a trascinarlo a quella stupida seduta spiritica.» Lo disse per rompere il silenzio. Ma lui non rispose. «Non cresceranno mai,» continuò rabbrividendo. Attraverso uno spiraglio della finestra aperta, la luna emanava una luce simile a quella di una lanterna di carta di riso. Piano, in maniera quasi impercettibile, lui si schiarì la voce. Il suo volto risplendeva riflesso nel vetro della finestra. Lei stava per dire qualcosa, si trattenne, ma poi lo disse lo stesso: «Senti... Non importa. Davvero...» Era brava a mentire. Sembrava che stesse dicendo la verità. Finalmente lui si girò. Avrebbe potuto tuffarsi e poi annegare in quegli occhi azzurri. Fu percorsa da un brivido leggero. Quando deglutì, il suono della saliva che le scendeva lungo la gola risuonò come un clic. Si protese sul letto, sollevò il piumone da un lato e si mise a fissarlo con espressione interrogativa, come attraverso una porta socchiusa. Potresti almeno provarci, per favore! «Vieni,» le disse lui alla fine. Quasi sussurrando. «Vieni, andiamo a fare il bagno.» Lei rise: «Il bagno?» «Ti piace tanto farlo,» commentò lui. La precedette, andando a riempire la vasca da bagno. Quando lei gli si avvicinò, esitante e con le braccia incrociate sui seni, lui la attirò a sé e prese a baciarla. In maniera ferma, decisa. Lei sentì la propria tensione ammorbidirsi, sciogliersi. Premette la sua pancia contro quella di lui. Ancora... niente. Lui la spinse verso la vasca piena d'acqua. «Prima tu,» le disse. Lei esitò, non sapendo come voleva che si mettesse. Si sedette al centro della vasca con le braccia attorno alle ginocchia. «Aspetta!» le disse lui prima di scomparire. Quando tornò, lei non capì subito che cosa avesse davanti alla faccia: qualcosa che ronzava. Lui accese una luce accecante. Lei strizzò gli occhi. Una cinepresa Super 8? Con un urlo misto a risa, lei si schermò il volto con le mani per proteggersi da quel bagliore. Gli spruzzò addosso dell'acqua. Tirò la tenda della doccia, per metà trasparente. Attraverso il vapore che si era depositato sul-
la plastica, intravide la sagoma del suo corpo. «Sorridi!» le disse lui. «Smettila!» «Proprio come in Psycho! La scena della doccia!» La tenda gli distorceva i lineamenti, trasformando il suo viso in qualcosa di mostruoso. «Piantala! Dico davvero!» Lui smise di filmarla. Rimase immobile, come congelato. «Che cosa c'è di male?» «Basta! Sei pazzo! Qualcuno potrebbe... vederlo!» Con una smorfia, si sporse da dietro la tenda. Lui spense la luce abbagliante. «Non ho intenzione di mostrarlo a nessuno!» «D'accordo. Ma non voglio che tu mi riprenda. Entra! Entra nella vasca...» Parlava con un filo di voce. Abbassò lo sguardo. Non credeva ai propri occhi: non glielo aveva mai visto così duro. «Entra! Subito!» Prima che sia troppo tardi! Entra, entra, entra! Lui posò a terra la cinepresa, entrò nella vasca e scivolò alle sue spalle. Lei si lasciò andare contro di lui. Chiuse gli occhi. Le sue mani le trovarono i seni, li strizzarono, li sollevarono. Sì, sì, Dio del cielo, sì. «Hai...?» le sussurrò. «Mmm?» «Hai mai visto Psycho? Di Hitchcock?» Lei spalancò gli occhi. Oddio, chissà dove vuole andare a parare! «Sì, certo,» mormorò. Impaziente, si premette le mani di lui sui seni. Lui la baciò sui capelli. La cinse con le gambe. Disegnando dei cerchi, le fece scivolare le mani insaponate sui seni, sulla pancia, in mezzo alle cosce. Oh sì, ti prego, non smettere... Il respiro di lei si era fatto ansimante. ... un po' più giù, sì, lì! Di colpo, il movimento delle sue mani si interruppe. Come accadeva sempre. Come se all'improvviso lui perdesse ogni interesse. Rimasero seduti immobili. Lei respirava in modo affannoso, quasi singhiozzando. Il cuore che martellava. «Sai,» disse lui, «oggi ho visto Werner in metropolitana.» Ma dai? Werner? Interessante! Stavo proprio pensando a lui in questo
momento! «Senti la sua mancanza?» gli chiese acida. Il suo sarcasmo non lo sfiorò nemmeno. «Di chi? Di Werner?» «Di Werner! Degli altri! Del clan!» «Ah, loro...» «Molti continuano a vedersi.» «Quegli idioti!» Avvertì il respiro caldo e veloce di lui sulla nuca. «Non sono degli idioti,» replicò. Le punte delle sue dita giocherellavano su di lei. Le diede un morso debole sul collo. «È così bello,» sospirò lei, «così terribilmente bello.» Non smettere, ti prego! «Un po' più giù,» gli sussurrò nell'orecchio. Le sue mani erano ovunque. Sì... ah... lì! Lei scivolò in avanti. Le sue dita le facevano formicolare e incendiare la pelle. Chiuse gli occhi, lasciandolo fare. Oddio, non ce la faccio più! Forse... Ridacchiando, si infilò una mano dietro la schiena, trovò l'ombelico di lui e si mise a cercare più in basso. Le sue braccia la strinsero. Con forza. «Mi fai male,» disse lei. Poi la spinse giù. Inizialmente lei pensò che si trattasse di uno scherzo, uno dei suoi tanti giochi violenti. Chiuse gli occhi e trattenne il fiato, voleva stare al gioco. Ma lui non mollò la presa. Il suo corpo si strinse contro quello di lei: una piovra dai tentacoli di ferro. Lei provò a opporre resistenza... ... lasciami!... ... cercò di divincolarsi. Le sue membra la avvilupparono. ... lasciami!... Aria!... Emise un suono che sembrava un gorgoglio, un rantolo. I polmoni le si riempirono d'acqua.
... lasciami!... Poco dopo rimase immobile, in silenzio. Lui pensò: «Com'è bella! Com'è incredibilmente bella!» Vista attraverso l'obiettivo della Super 8, ricordava una sirena addormentatasi a fior d'acqua. O forse, piuttosto, una ninfa. «Così pallida,» pensò lui. «Così deliziosamente bianca e liscia. Come marmo visto attraverso l'acquerugiola.» Lucente. Levigata. Premette il pulsante dell'avvio. La cinepresa ricominciò a ronzare monotona. «Così indicibilmente bella,» pensò lui. *** «Dagbladet», agosto 1976 IL FIDANZATO DICHIARA: «NON HO UCCISO IO LINDA» di Gunnar Borg «Sento la mancanza di Linda in maniera terribile! E il fatto che la polizia mi sospetti di averla uccisa rende questo dolore ancor più difficile da sopportare.» È quanto ha dichiarato ieri al «Dagbladet», dopo quattro settimane di detenzione, uno scosso Rune Strøm (20 anni). Strøm, fidanzato di Linda Merethe Gabrielsen (20 anni), trovata morta a luglio nella vasca da bagno dell'appartamento della coppia, ritiene che hinda sia annegata a causa di un malore. «Affermare che io l'abbia uccisa è una follia,» ha detto il giovane di Oslo. Ha spiegato che a hinda piaceva molto fare il bagno e che spesso si addormentava nella vasca. «Non so quante volte mi è toccato andare in bagno a svegliarla,» ha aggiunto. Il fatto che la polizia abbia lasciato cadere l'accusa, indica secondo
Strøm, che i sospetti si basavano unicamente su supposizioni e congetture. «Se davvero avessi ucciso Linda, non l'avrei certo lasciata nella vasca da bagno e non avrei chiamato la polizia,» ha proseguito Strøm. Adesso ha intenzione di chiedere alla polizia il risarcimento per i danni morali e materiali subiti. «Non possono mettere in prigione la gente solo perché sospettano che qualcuno sia stato ucciso,» ha concluso. Insieme al suo avvocato, intende ora inoltrare una richiesta di risarcimento. *** Quando lesse l'articolo, non poté fare a meno di sorridere. Affermare che io l'abbia uccisa è una follia. Bastava che uno proclamasse all'infinito la propria innocenza! In seguito, dopo aver incollato il ritaglio del giornale sul diario, annotò a margine Numero 1. Rimase seduto a lungo, meditando sul perché avesse scritto quelle parole. Non ci aveva pensato su neanche un attimo. Le aveva scritte e basta. Così. Numero 1? Vesletjern, Oslo Maggio 1981 Fu una scolaresca in gita a trovare la ragazza morta che galleggiava a pelo d'acqua. Era mezzo svestita. Agli occhi dei passanti, avrebbe potuta sembrare un subacqueo che aveva trattenuto a lungo il respiro e che ora stava osservando con attenzione qualcosa di interessante sul fondo del laghetto. L'insegnante fece allontanare gli studenti... «Via!... Andate là, sul ciglio della strada!... Veloci!» ... dopodiché si inoltrò nell'acqua ghiacciata, ma molto prima di raggiungere la ragazza, molto prima che le sue dita si stringessero intorno al braccio livido di lei, molto prima che riuscisse a capovolgere quel corpo rigido, capì che era troppo tardi. La scomparsa della ragazza era stata denunciata due giorni prima da un
istituto per giovani in difficoltà. I medici legali presero atto dell'evidenza: la ragazza era annegata. Impossibile dire se si fosse trattato di una disgrazia o se qualcuno l'avesse annegata. Non potevano escludere l'eventualità che fosse caduta in acqua. O che si fosse suicidata. Con un pennarello rosso la ragazza (o forse era stato qualcun altro a farlo) aveva tracciato un 2 in mezzo ai suoi piccoli seni appuntiti. Nessuno riusciva a capire perché. La polizia passò al setaccio i boschi nei dintorni del laghetto, ma niente di ciò che trovarono - giornali sbiancati dal sole, un termos rotto, un boccaglio, l'involucro argentato di una bobina Super 8, una bandiera norvegese senza asta - poté in alcun modo essere ricollegato alla ragazza. I suoi abiti non vennero mai rinvenuti. Le indagini furono interrotte quello stesso autunno. Bankplassen, Oslo Ottobre 1986 La osservò a lungo prima di chiamarla. Era ferma su uno scalino di pietra, nel tentativo di ripararsi da quel gelido clima autunnale. Per tutto il giorno aveva soffiato una tramontana fredda, e verso sera erano cominciati a cadere alcuni fiocchi di neve misti ad acqua. I fiocchi bagnati turbinavano nell'aria, in balia delle raffiche di vento. Aveva le gambe lunghe e una gonna cortissima. Calze a rete. Stivali di vernice con il tacco alto. Giacca di pelliccia. La mise a fuoco con lo zoom e premette il pulsante dell'avvio. Probabilmente c'era troppa poca luce, ma se fosse riuscito a catturare la sua silhouette con il lampione sullo sfondo, il risultato sarebbe stato di grande effetto. Un po' alla Hiroshima mon amour. Nascosto nell'ombra, la osservava da dentro la macchina ferma. La figura slanciata, il vapore che le si levava dalla bocca per via del freddo, la brace della sigaretta che ogni tanto si illuminava. Appoggiò la cinepresa e azionò i fari, accendendoli e spegnendoli. Due volte. La brace della sigaretta disegnò un ampio arco. Camminando sui tacchi alti, la donna si diresse verso di lui. Una bella ragazza. Sulla ventina. Non una tossica.
Abbassò il finestrino e le sorrise. Il suo sorriso alla Robert Redford. Dallo sguardo di lei, capì che lo trovava attraente... Niente a che vedere con quei vecchi grassi e in calore che continuavano a ronzarle intorno a bordo delle loro Volvo. «Un giro?» gli chiese con fare pratico e professionale. Rabbrividì. «Numero 3,» le rispose lui. Dritto al punto. Rise di sé. Lei lo guardò senza capire, con la testa piegata di lato. «Uno scherzo! Lascia perdere!» Le sorrise con calore, si allungò e le aprì la portiera per farla salire. Come un venditore ambulante, lei cominciò a sciorinargli il listino prezzi. Lui la interruppe. Le offrì mille corone in più se fosse andata a casa sua per qualche ora. Magari anche un po' di più, se si fossero trovati in sintonia. Lei lo scrutò. Lui sostenne il suo sguardo e sorrise, un sorriso innocente, amichevole. «OK,» rispose lei alla fine, esitante. La portò a casa sua, le aprì la porta, la aiutò a sfilarsi la giacca di pelliccia e la invitò ad accomodarsi in salotto. Mise un disco di Barry Manilow e riempì due bicchieri di cognac. Lei adorava Barry Manilow. E il cognac. Lui fece un brindisi: «Alla salute di Barry!» Gli disse di chiamarsi Mona. Ragazza madre. Aveva iniziato a prostituirsi pochi mesi prima, aveva bisogno di soldi. Fino a quando non avesse trovato un lavoro... Un lavoro vero. «Vorrei filmarti, Mona,» le disse lui. Sulle prime lei non rispose. Poi, stringendosi nelle spalle, disse: «Ti costerà altre mille corone.» «Va bene. Aspetta a spogliarti fino a quando non sarò di ritorno.» Andò a prendere la cinepresa Bauer e accese il riflettore da 1000 watt. Lei strizzò gli occhi per difendersi dalla luce accecante. «Pronta?» le domandò. «Ready when you are, babe.» Si spogliò con una professionalità goffa che a lui parve commovente. La filmò per tutto il tempo. «Sai... mi piaci,» disse lei, «davvero!» Lui non rispose. Nuda, si diresse verso di lui. «E tu non ti spogli?» gli chiese sorniona,
mentre gli sfilava la cintura. Lui smise di riprenderla. Quando scostò la cinepresa dall'occhio, ebbe una visione confusa. «Vorrei che prima facessimo un bagno,» disse lui. «Volentieri,» rispose lei sorridendo. Non fu mai ritrovata. Si era sempre meravigliato del fatto che gli assassini non riuscissero a nascondere i cadaveri delle loro vittime. Come se fosse difficile. Il punto, constatò, era che o si facevano prendere dal panico oppure erano stupidi. La scomparsa della ragazza fu segnalata a settembre. Nel corso delle indagini il suo protettore venne accusato del delitto e incarcerato. «La polizia è talmente priva di fantasia,» pensò malignamente. Il protettore fu scarcerato quattro settimane più tardi. Nessuno venne mai rinviato a giudizio. Per un paio di mesi si divertì a leggere sui giornali del «Mistero di Mona». Ma alla fine sia la polizia che i giornalisti smisero di interessarsi al caso. Invece, lui aveva ancora con sé la pellicola. «Aftenposten», agosto 1991 NESSUNA TRACCIA DELLA DONNA DI OSLO SCOMPARSA La polizia è ancora priva di indizi in grado di chiarire che fine abbia fatto la donna residente a Oslo, Eirin Granvik (22 anni), scomparsa dopo un giro in barca alla fine di luglio. La donna, sposata e madre di tre figli, si trovava da sola sulla barca al momento della scomparsa. L'imbarcazione è stata ritrovata ormeggiata a un molo riservato ai visitatori nel porticciolo di Son. La congregazione della chiesa libera a cui appartiene la famiglia della donna ha promesso una ricompensa di 50.000 corone a chi saprà fornire informazioni che possano portare alla soluzione del mistero della sua scomparsa. Secondo la polizia, è poco probabile che la donna si sia nascosta volontariamente. Eirin Granvik ricopre un ruolo di responsabilità nella congregazione cristiana Il Dominatore della Luce ed è molto legata alla propria
famiglia. Una delle ipotesi avanzate dalla polizia è che la donna sia caduta in acqua mentre stava ormeggiando la barca. Chiesa di Grorud, Oslo Luglio 1996 Il furgoncino è parcheggiato all'ombra, sul retro della chiesa. Lei non se ne accorge subito. La ghiaia le scricchiola sotto le suole mentre inspira i profumi carichi d'estate che provengono dal cimitero. Nella luce che giunge a sprazzi attraverso le fronde degli alberi, intravede a malapena il campanile e le guglie. Sono le otto e mezzo. Ha la chiesa a propria disposizione per due ore. Da tre mesi funge da organista della congregazione al posto del titolare. Adora il suono fragile e delicato dell'antico organo a canne. L'eco che si diffonde nella navata, la corposità degli accordi. «Scusi?» La voce la fa sobbalzare. L'uomo è seduto nel furgoncino, con le gambe che gli sporgono dalla portiera aperta. Ha abbassato il finestrino e ha una Coca-Cola nella mano sinistra. «Ha l'aria di una che lavora qui,» esordisce. C'è in lui qualcosa di vagamente familiare. Come un vecchio compagno di scuola di cui si era dimenticata. Un bell'uomo su cui il suo sguardo si sarebbe soffermato, se lo avesse visto nella sede della congregazione una domenica pomeriggio. «Posso aiutarla?» gli chiede. «Devo consegnare della merce, ma qui non c'è anima viva. Se mi passa l'espressione.» Ride. Anche lei. «Solo un attimo,» gli risponde mentre fruga nella borsa alla ricerca delle chiavi. «Che tipo di merce?» «I nuovi moduli.» «Moduli?» «Non ne ha sentito parlare? Vanno cambiati tutti. Per le comunicazioni interne ed esterne, i matrimoni, le cerimonie, i battesimi... tutto quanto. Vengo ora da una stamperia con quelli nuovi. Per il pastore della comunità.»
Alla fine trova le chiavi. «Non c'è.» Apre la porta della sagrestia. «Vacanze estive. Ma li può lasciare dentro. Glielo dirò io.» «OK. Da dove viene?» «Danimarca. Sono originaria di lì. Si sente?» «Un po'.» La segue nella sagrestia guardandosi attorno. «Dovrò mettere le casse una sopra l'altra.» «Va bene qui?» «Sì, certo.» Lui esita. «Mi potrebbe dare una mano? Le casse sono un po' difficili da scaricare. Non che siano particolarmente pesanti, ma non sono molto pratiche da maneggiare se si è da soli,» aggiunge veloce. «Non c'è problema.» Lei appende la borsa alla maniglia della porta ed esce insieme a lui. La fa salire nel retro del furgoncino. Le casse sono sul fondo. Due, marrone. Non sembrano né pesanti né difficili da maneggiare. «Se lei prende quella sopra...» dice lui facendola passare avanti. Lei ne solleva una. È troppo leggera. «Ma non c'è...» attacca lei. Lo straccio le tappa il naso e la bocca. Fa per alzarsi, ma batte la testa contro il tettuccio. La cassa cade. Cerca di liberarsi. Il puzzo acre della pezza aumenta e si dilata... aumenta e si dilata... Lentamente e a fatica, come dopo l'operazione di appendicite di tre anni prima, ritorna in sé. Non è in grado di dire dove termini il buio e dove abbia inizio lo stato di coscienza. Sa soltanto che si sente male. E che sta accadendo qualcosa di terribilmente stonato. Batte le palpebre. Geme piano. Un ospedale? La stanza è spoglia. Pareti bianche. Un grande specchio. Un televisore. Una porta chiusa. Una lampadina appesa a un filo pende dal soffitto. Si ricorda dell'uomo. Del furgoncino. Sto sognando... È sdraiata su un materasso. Qualcuno le ha infilato una camicia da notte bianca, ruvida. Il braccio sinistro è incatenato a un gancio che sporge dalla parete. ...un incubo. Strizza nuovamente gli occhi. Incatenata?
Non sta accadendo davvero! Voglio tornare a dormire. «Numero 5!» La sua voce. Il cuore le esplode nel petto. I muscoli le si contraggono. Spalanca gli occhi, singhiozza, non lo vede. «Ti ho spaventata?» «Sì!» La voce è flebile, come quella di una bambina. Deve piegare la testa all'indietro per riuscire a vederlo. È seduto su una sedia alle sue spalle. Contro la parete. «Male?» Lei geme. «Paura?» Geme di nuovo. «Lo capisco. Lo capisco bene.» «Mi violenterà,» pensa lei. «Prima mi violenterà e poi mi ucciderà. Se avesse avuto intenzione di lasciarmi vivere, si sarebbe messo una maschera. O mi avrebbe bendato gli occhi.» È sorpresa dall'aspetto gentile di quell'uomo. Normale. Proprio come... sì, come una persona qualunque. Solo negli occhi c'è qualcosa che non va. Quegli occhi azzurri. Se ci guardi dentro, puoi... Non riesce a trovare le parole. Ma è come se qualcosa dentro di lui fosse morto. E rimasto lì. «Ti ho filmata,» dice lui allegro. «Vuoi vedere?» È trascorsa qualche ora. Lei è seduta sul materasso e mangia. Una fetta di pane bianco con del camembert e dei peperoni. Un piccolo grappolo di uva verde, asprigna. Succo d'arancia. Preferirebbe farne a meno. Eppure risponde: «Sì, volentieri.» Lui punta il telecomando in direzione del televisore. Lei riconosce immediatamente la casa all'interno della quale ha preso in affitto un appartamento. Poi intravede se stessa in giardino. Sta tosando l'erba del prato con addosso un bikini. Rabbrividisce - lui doveva trovarsi dietro la siepe! Cambio di scena: una strada. Da qualche parte a Frogner. Negozi. Un tram che passa sferragliando. Un nido di uccelli. Un marciapiede. E sullo sfondo lei che avanza, camminando lentamente, a braccetto di un uomo. Non lo riconosce subito.
Erlend? «Oddio,» pensa lei, «ma era maggio!» I Il primo segno 1 La prima lettera arrivò un lunedì mattina. In seguito, quando avrebbe trascorso intere notti sdraiata sul letto ripensando a quel giorno, le sarebbero venuti in mente soltanto dei dettagli insignificanti: il sole che splendeva argenteo, penetrando nella redazione attraverso le persiane impolverate, il gracchiare di una radio che non era sintonizzata con precisione, un telefono che squillava senza sosta. Si sarebbe ricordata del sapore della caramella alla menta che stava succhiando e dell'odore di bruciato che proveniva dall'impianto di aerazione. La busta era grande e marroncina. Imbottita. Il suo nome era scritto in stampatello. Pennarello rosso. KRISTIN BYE. Sottolineato due volte, sempre in rosso. Sentì qualcosa dentro di sé che si raggelava. Soppesò la busta in una mano. Nessuna bomba, perlomeno. Forse qualche foto piccante? La speranza è l'ultima a morire, ridacchiò tra sé. «Kristin?» Con l'unghia lunga dell'indice aprì la busta. Di nuovo esitò. Rabbrividì. Per favore, Kristin, adesso vedi di riprenderti! Senza sollevare lo sguardo, fece scivolare il contenuto sulla scrivania. Una videocassetta. Un foglio ripiegato. «Kristin!» Sussultò. Dall'altro lato della stanza il caporedattore stava agitando la cornetta di un telefono. «Per me?» chiese ad alta voce. L'uomo alzò gli occhi al cielo. «Una soffiata! Una rapina! Qual è il tuo interno?» Sovrappensiero, Kristin si infilò il foglio nella tasca della gonna. Devo? chiese silenziosamente muovendo le labbra. Doveva.
Nessuno aveva mai veramente capito perché Kristin Bye avesse lasciato il «Dagbladet» per andare a lavorare a Kanal 24. Quasi non lo capiva nemmeno lei. Era sembrata una sorta di diserzione. Mentre si dirigeva verso l'auto aziendale parcheggiata nel cortile sul retro, le venne in mente che proprio quel giorno erano passati quattro mesi da quando si era chiusa alle spalle la porta della sezione Servizi Speciali. Il commiato dai colleghi del giornale era stato molto commovente: lacrime e discorsi, auguri di buona fortuna e abbracci, vino rosso fino all'alba. Il caporedattore le aveva consegnato una stilografica dorata, promettendole che il giornale l'avrebbe riaccolta a braccia aperte qualora l'ambiente della televisione fosse risultato troppo duro per lei. I suoi colleghi che si occupavano delle notizie dell'ultima ora avevano creato una pagina di giornale dal titolo «Tu e la TV, Kristin!», con una sua foto orrenda. E in un batter d'occhio quel periodo della sua vita era svanito. Sorrise pensierosa: scrivi una lettera di dimissioni, qualcuno tiene un discorso in tuo onore e di colpo ti aspetta una nuova vita. Una vita nuova ed eccitante, anche se senti la mancanza di quella vecchia. «Kristin, per piacere! Non assordarmi con le tue chiacchiere!» Roffern, meglio noto come il Duro - probabilmente il suo vero nome era Rolf, anche se nessuno lo chiamava così - strinse le mani attorno al volante lanciandole un'occhiata scherzosa. Era un tipo smilzo, sulla trentina. Carino in un modo tutto suo, secondo Kristin. Occhi intensi. Coda di cavallo, due orecchini d'oro a un orecchio, pizzetto. Pieno di idee e di entusiasmo. Durante una festa aziendale le aveva confidato che gli sarebbe piaciuto girare un film, o anche solo dei cortometraggi o dei video di musica pop. Ma da due anni lavorava come cameraman al telegiornale di Kanal 24 «24 timer!» «Scusa,» gli rispose imbarazzata, «ero immersa nei miei pensieri...» «... e senti la mancanza della tua stella del cinema?» «Marcus? Stella del cinema?» Pronunciò quelle parole in maniera spiccia, contrariata. Gli fece alcune smorfie buffe per cercare di riparare. Lui gliele restituì. «E poi non mi manca affatto,» aggiunse Kristin con un tono di voce un po' troppo spavaldo. «Si è portato via molti soldi?» «Marcus?» «Il rapinatore, ochetta!» «Non ne ho idea.» «Action?»
«Non lo so. Sono riuscita a malapena a farmi dare l'indirizzo dalla polizia, ocone!» Era la sua quinta rapina a «24 timer!». Detestava quel genere di incarichi: poliziotti scorbutici, il solito cartello appeso alla vetrina («Chiuso per rapina»), i curiosi che passavano davanti alla telecamera rovinando le riprese. «Il centro commerciale di Veitvet...» disse Roffern. «Una volta ho avuto una storia con una che abitava in uno dei palazzoni di quel quartiere.» «Non ne dubito, Roffern, non ne dubito.» Tre volanti della polizia occupavano il breve tratto di strada di fronte all'ufficio postale. In quella luce accecante, i lampeggianti blu quasi non si vedevano. Un'ambulanza era parcheggiata di traverso in mezzo alla strada. Il solito assembramento di curiosi con il collo allungato - studenti con gli zaini che pendevano da una spalla, ragazzi che fumavano e casalinghe con carrozzelle e passeggini - premeva contro le transenne. Roffern salì con la macchina sul marciapiede, piazzandosi dietro a quella del «VG». Afferrata la pesante telecamera, porse a Kristin un microfono rosso con impresso sopra il numero 24 in caratteri gialli. Gli inviati di TV2 e di TVNorge parcheggiarono dietro di loro. Kristin si guardò intorno alla ricerca degli inviati del telegiornale di Stato. Non si sarebbero senz'altro occupati della rapina, non dopo il dibattito estivo a proposito del risalto dato dalle altre televisioni alle notizie di cronaca. Un breve accenno, forse, se si fosse trattato di un'enorme somma di denaro. Roffern indicò il furgone della polizia con la scritta «Squadra Operativa di Pronto Intervento». Dentro, un poliziotto dai capelli grigi era seduto con le gambe che sporgevano dal veicolo. Stava parlando a una ricetrasmittente. «Rødberg. Capo della squadra di pronto intervento. Un vero stronzo,» le sussurrò Roffern spingendola verso il poliziotto. Kristin stava annuendo in direzione dell'uomo quando questi alzò lo sguardo, in attesa che un altro poliziotto rimettesse il microfono della ricetrasmittente al suo posto. «Salve, permette? Kristin Bye di '24 timer!' - al momento è possibile rilasciare qualche dichiarazione?» «Non c'è molto da dire.» La voce era ruvida e secca, come il suo sguardo. «Può chiamare la centrale tra qualche ora.» «Si conosce il valore del bottino?» Almeno questo l'aveva imparato: di solito ci volevano ore prima che riuscissero a sapere quanto era stato ruba-
to. «Non si è portato via niente.» «Niente?» «La rapina è stata scongiurata.» «Accidenti, cosa è successo?» L'uomo scosse la testa. «Qualche ferito?» «No.» Kristin lanciò uno sguardo interrogativo in direzione dell'ambulanza. «Niente di grave. Normale routine.» «Ma cosa è successo?» Di nuovo, il poliziotto la tirò per le lunghe prima di rispondere: «Un cliente ha cercato di bloccare il rapinatore ed è stato atterrato con un pugno. Niente di grave. Il rapinatore è fuggito. Senza soldi. Nessun dramma, niente di cui valga la pena scrivere.» «È possibile parlare con lui? Con il cliente?» Il poliziotto sospirò con fare irritato. «No?» La trapassò con lo sguardo, come se neanche esistesse. «Scusi,» insistette lei. «Vorrei intervistarlo.» Di colpo il poliziotto si alzò in piedi, fissandola dritto negli occhi. «Signorina!» Le sembrò di sentire il vecchio professor Foss. Kristin non riuscì a trattenere una risatina infastidita. «Senta, agente, non mi chiami...» L'uomo richiuse la portiera con violenza. «Ha rischiato di farsi uccidere!» «Sì, ma...» «E subito voi giornalisti lo acclamate come se fosse un eroe. Un fottutissimo eroe! In modo che un altro povero temerario ripeta lo stesso errore e venga ucciso come un cane, per poi finire spiattellato sulle vostre prime pagine.» Kristin lo guardò contrariata. «Mi scusi, ma sto semplicemente cercando di fare il mio lavoro.» «Guarda caso anch'io!» «E poi lavoro per la televisione...» «È la stessa cosa!» «... e noi non abbiamo prime pagine!» Senza risponderle, la oltrepassò per dirigersi verso il nastro di plastica
bianco e rosso. «Buona giornata anche a lei!» gli gridò intanto che l'uomo si allontanava. Mentre Roffern riprendeva le solite cose - le volanti della polizia, le transenne, il cartello «Chiuso per rapina», i grappoli di curiosi - Kristin telefonò al caporedattore per comunicargli le informazioni che aveva raccolto fino a quel momento. Non erano certo un granché. Sperava di essere richiamata in redazione, invece lui le disse di rimanere e di intervistare il cliente che aveva sventato la rapina. Proprio ciò che aveva temuto: dopo soli quattro mesi trascorsi a Kanal 24, era in grado di prevedere i pensieri di quell'uomo prima ancora che lui stesso li formulasse nella propria testa. Commentò con un «Blaaaaah», chiedendogli se stesse dicendo sul serio. Stava dicendo sul serio. A un chiosco, comprò una Coca-Cola light da un uomo che le domandò se per caso non lavorasse al telegiornale di Stato o a TV2. Insieme a Roffern, si sedette sul marciapiede. L'ambulanza se ne andò. Un'altra volante della polizia giunse sul posto a velocità sostenuta, con tanto di sirene e lampeggianti accesi. Un ragazzino sui tredici o quattordici anni le si avvicinò per chiederle un autografo. Kristin arrossì leggermente e gli scarabocchiò qualcosa sul diario. Roffern mormorò: «Quindici minuti di fama.» Quando era stata assunta al «Dagbladet», quattro anni prima, aveva creduto che ci sarebbe rimasta per sempre. Invece aveva accettato l'offerta di Kanal 24 come se si trattasse della cosa più naturale al mondo. Era come se in lei agissero due forze contrapposte: il bisogno di sicurezza e di stabilità e la pulsione verso il cambiamento e le novità. Eppure... come aveva potuto rinunciare al lavoro dei suoi sogni al «Dagbladet»? Sin da piccola le era sempre piaciuto scrivere. La sera, dopo i compiti e gli allenamenti di pallamano, si chiudeva nella sua cameretta a comporre dei versi, a scrivere racconti e abbozzi di storie. Ancora adesso riusciva a rievocare l'euforia che aveva provato quando un quotidiano locale aveva pubblicato il racconto di Natale che lei aveva spedito in redazione. Più di metà pagina. Durante gli anni del liceo aveva ottenuto un lavoro serale in quello stesso giornale, e mentre viveva negli Stati Uniti come studente di scambio aveva scritto per il giornalino della scuola. In questo modo (quasi
per caso, senza aspirazioni idealistiche e senza l'ambizione di realizzare chissà quale scoop) si era incamminata sulla strada del giornalismo. Lavorava già da quattro anni all'«Adresseavisen» di Trondheim quando aveva fatto domanda per il posto di responsabile della sezione Servizi Speciali del «Dagbladet». Il lavoro dei suoi sogni. Era stato Gunnar a informarla. E Kristin aveva ottenuto il posto. Non capiva perché. Lo aveva chiesto a Gunnar, uno degli anziani del giornale, ma come al solito Gunnar si era limitato a stringersi nelle spalle, dicendo che probabilmente era la migliore. La migliore? D'accordo, scriveva bene, aveva fantasia e forza di volontà, ma erano arrivate centosessantotto richieste. Centosessantotto! Ottenere un lavoro così ambito era stato come ricevere una nuova nazionalità, e quando aveva dato le dimissioni per cominciare a Kanal 24 si era sentita una traditrice. Neppure alle sue amiche era riuscita a spiegare il motivo per il quale voleva lavorare in televisione. Diceva di non sentirsi un'esibizionista, ma dentro di sé sapeva che anche questo faceva parte delle emozioni che andava cercando. E poi c'erano tante altre cose: il modulo televisivo... la velocità... l'attualità... il linguaggio delle immagini... la spettacolarità... il contatto diretto con il pubblico... la vicinanza con gli spettatori. In Norvegia le televisioni commerciali avevano dato inizio a una nuova epoca mediatica e lei voleva prendere parte a questa evoluzione... sì, imprimerle il suo segno. Le sue amiche si prendevano gioco di lei. A sentir loro, la televisione era un prodotto scadente. E pensare che quelle stronze non leggevano neanche il «Dagbladet». Era una questione di principio. Non che le importasse un granché del loro parere. Non le vedeva quasi più. Avevano sempre pronta sulla punta della lingua qualche malignità per commentare quello che lei faceva. Kristin non era certa che ci fosse ancora qualcosa che le accomunava. In fondo, si trattava più di conoscenti che di amiche. La vecchia cricca degli anni di scuola passati alla Nissen. Un gruppo di femmine spocchiose e privilegiate, radicali all'acqua di rose, che venivano dai quartieri bene di Oslo. Di larghe vedute solo quando faceva comodo a loro. Ragazze di sinistra abbienti e amanti del vino rosso. A cui interessavano la letteratura, la psicologia e il sesso. La musica e i film. E il sesso. La tutela dell'ambiente. Il divario esistente tra il mondo dei ricchi e quello dei poveri. La filosofia. La parità. E il sesso. Non certo il tipo di gente che faceva per lei. Stava cominciando a rendersene conto soltanto ora.
Il cliente uscì dall'ufficio postale tre quarti d'ora dopo. Una donna poliziotto con i capelli raccolti in una coda di cavallo piantonava a gambe larghe e a braccia conserte il nastro bianco e rosso; lo sollevò per farlo passare. Come dei lemming, i fotografi dei giornali si precipitarono in mezzo agli arbusti più bassi, scalpitando e imprecando per garantirsi un'immagine del cliente e della donna poliziotto insieme. Mentre Kristin sollevava la tracolla della borsa, nell'aria risuonarono scatti e cigolii. Era un ragazzo giovane, esile, con un'aria spaventata ma insieme piena di aspettative nei confronti dei giornalisti e dei fotografi che gli si erano assembrati attorno. No, non aveva fatto in tempo ad avere paura. No, eroe era una parola grossa, eh, eh. No, non si era fatto male: una mascella dolorante, tutto qui. Sì, sapeva che era pericoloso aggredire un rapinatore, ma sai com'è, eh, eh. Quando i giornalisti della carta stampata ebbero finito, Kristin lo soffiò da sotto al naso all'inviato di TV2. Si presentò, ma lui, ridendo nervosamente, disse che sapeva già chi era. Guardava «24 timer!» ogni martedì e ogni giovedì, prima che trasmettessero «FBI Inc». Per tutto il tempo evitò il suo sguardo. Kristin lo fece spostare di lì, in modo che Roffern potesse filmare l'intervista con l'ufficio postale sullo sfondo. Mentre Roffern predisponeva l'attrezzatura, Kristin scambiò quattro chiacchiere con il ragazzo, calmandolo e facendolo abituare alla presenza del microfono e della telecamera. Ma non si trattava certo di un affabulatore. Balbettava, si interrompeva in continuazione, non completava le frasi, e ridacchiando lanciava occhiate in direzione dei presenti raccolti dietro la telecamera. Soltanto dopo venti minuti Kristin e Roffern poterono dirsi in qualche modo soddisfatti. 2 «Uno e trenta. Massimo!» Mentre esaminava la scaletta sullo schermo del computer, Toralf Skaug si appoggiò allo schienale reclinabile della sedia. Aveva diversi soprannomi: il Dittatore, il Serbo, Nostro Signore. Era il caporedattore. Un uomo corpulento, dai capelli radi, con il respiro affannoso e aloni di sudore sulla camicia all'altezza delle ascelle. Una volta Kristin si era servita di lui come modello per un articolo sugli infarti. «Ma dai!» insistette Kristin. Seduta sul bordo della scrivania, dondolava
le gambe. «Mi servono almeno due minuti!» «Al diavolo, Kristin, non sei stata assunta per fare dei lungometraggi! La puntata è già strapiena.» Picchiettò ripetutamente l'indice sullo schermo del computer. «Il Medio Oriente! La crisi del personale medico! L'omicidio di Tromsø! Quel fottuto casino politico!» «E allora devi stabilire delle priorità,» gli disse lei mielosa. «Tesorino mio,» le fece il verso lui con lo stesso tono zuccheroso, «è esattamente quello che faccio.» Poi, in tono arcigno: «Uno e trenta! E ti voglio in studio con Ninni durante la prima edizione.» Nina «Ninni» Nilsen era la conduttrice dell'edizione delle 18. Solitamente Skaug le faceva intervistare uno degli altri giornalisti su un argomento di attualità. Secondo lui, in questo modo la trasmissione diventava più vivace, oltre a dare ai giornalisti quella patina di autorevolezza e di competenza di cui avevano decisamente bisogno. L'edizione principale, quella delle 22, era condotta dalla giovane Ninni insieme al veterano della televisione di Stato, la NRK, Arve Arnesen, un uomo già in là con gli anni. Al direttore del telegiornale piaceva l'idea che gli spettatori pensassero che tra i due ci fosse una relazione. Skaug prese una sigaretta e se la infilò in un angolo della bocca senza accenderla. Si era sbottonato il colletto della camicia e il nodo della cravatta gli pendeva mollemente sul petto. «Uno e quarantacinque?» azzardò Kristin. Dopo essersi aggiustato gli occhiali, Skaug finse di fare un tiro. «Signorina Fellini, guarda le mie labbra. Uno e trenta precisi! Punto! Sala di montaggio 2. Scattare!» Il montatore fece riavvolgere velocemente il nastro per poi soffermarsi su un'immagine che riprendeva la facciata dell'ufficio postale sullo sfondo e una volante della polizia in primo piano. «Un taglio interessante,» disse, «un po' da film noir. Apriamo con questa?» «OK. Quanto posso far durare il mio commento?» chiese Kristin. «Puoi raccontare tutta la tua vita, baby. Quattro secondi. Massimo cinque.» «Prendi il tempo: 'Subito dopo l'apertura, il rapinatore ha assaltato l'ufficio postale di Veitvet.'» «Sei secondi. Cos'è? Un lungometraggio da prima serata?» «Sei? Accidenti, faccio in tempo a morire!» ridacchiò lei. «Prova con questa: 'Il rapinatore assale l'ufficio postale di Veitvet poco dopo l'apertu-
ra.» «Quattro netti, se parli un po' più veloce.» «IlrapinatoreassalelufficiopostalediVeitvetpocodopolapertura!» «Due secondi. Record olimpico. Magari non coooosììì veloce...» Scoppiarono a ridere entrambi. Dopodiché montarono le immagini e i commenti, sequenza per sequenza. Come sempre, Kristin dovette cancellare la maggior parte del testo che si era preparata. Una delle prime cose che aveva imparato quando aveva iniziato a lavorare in televisione era stata che non le concedevano mai spazio per più di un terzo di quello che avrebbe voluto dire. O non c'erano abbastanza immagini, oppure le immagini non erano adatte al testo. I cameraman la consolavano dicendole che un'immagine valeva più di mille parole. «Ah sì?» ribatteva sempre lei. «E allora fatemi vedere un'immagine dei Dieci Comandamenti!» Impiegarono mezz'ora per montare il servizio. Era più corto di quanto avesse stabilito Skaug: uno e venticinque. Kristin aprì la porta della redazione e fece un fischio per richiamare l'attenzione di Skaug. «Uno e venticinque netti! E domani ho cinque secondi di credito!» esclamò. Skaug le mandò un bacio con la punta delle dita. 3 Una casa. Una grande casa bianca con dei meli, un cancello in ferro battuto e siepi alte. A una certa distanza, accanto a una panchina dipinta di bianco in giardino, una donna in bikini. La videocamera la mette a fuoco con lo zoom. Sulla ventina, probabilmente. Graziosa. Alza lo sguardo in direzione dell'obiettivo, ma non accenna a nessun saluto con la mano. Poi si mette a tosare il prato. Kristin premette il pulsante dello stop per far riavvolgere il nastro. Non ci stava capendo niente. Alle sue spalle Skaug imprecò, chiedendo poi a voce alta: «Qualcuno si è occupato dell'incendio di Bærum? Nessuno? Maledizione! Caspar, occupatene tu! E vai subito sul posto, se è il caso!» Kristin premette PLAY e si mise a riguardare le immagini. Questa volta fece andare avanti il nastro. Una strada di città. Asfalto grigio rappezzato. Un selciato. A Kristin sembrò di riconoscere vagamente il posto, ma non riusciva a individuare la
via. Frogner? Briskeby? Un tram. Un nido di uccelli. Un marciapiede. «La polizia di Bærum ha appena confermato l'incendio di una casa!» disse Caspar. «Abbiamo delle foto?» La videocamera mette a fuoco una donna che avanza in compagnia di un uomo. La stessa di prima. Nient'altro. Kristin non capiva. Si era aspettata un momento clou, una svolta, un'immagine o un avvenimento che le avrebbe spiegato il motivo per cui qualcuno le aveva spedito quella videocassetta. Fece un cenno con la mano a Ninni, che stava entrando sparata in redazione. «Skaug, abbiamo ricevuto qualche informazione sull'incendio di Bærum?» fece Ninni in direzione della scrivania. «Tutto sotto controllo,» rispose lui. «Sotto controllo?» mugugnò Caspar. «Ma se non abbiamo neanche un cameraman libero!» Mentre riavvolgeva il nastro, Kristin prese Ninni in disparte. «Che bel tailleur! Nuovo? Senti, da' un'occhiata a questa, per favore.» Guardarono in silenzio le immagini. A metà della registrazione, Skaug si piazzò alle loro spalle. «Questo è tutto,» commentò Kristin. «Vi dice qualcosa?» Ninni scosse la testa. Dal corridoio, Caspar stava chiamando impaziente Roffern. «E cosa rappresenterebbe?» domandò Skaug. «Avete riconosciuto la donna?» «Avrei dovuto?» chiese Ninni. In sottofondo, due telefoni presero a squillare contemporaneamente. «Lì per lì pensavo fossi tu,» disse Skaug. «Hai una sorella?» «Io? Toralf, pulisciti gli occhiali!» Kristin guardò Ninni con una smorfia rassegnata. «Credo che stia cercando di farti un complimento,» ridacchiò Ninni. «Hai intenzione di dirci di cosa si tratta?» Kristin si strinse nelle spalle: «Non ne ho idea! Mi è stata spedita per posta. Non capisco perché. Pensavo ci fosse qualche dettaglio che mi era sfuggito. Sicuramente si tratta solo di uno scherzo di cattivo gusto.» «Mi piacerebbe avere il numero di telefono di tua sorella,» commentò Skaug.
4 «Cinque minuti al via!» Nel caos di monitor, matasse di cavi e telecamere comandate a distanza, Kristin e Ninni cercarono di concentrarsi. A Kristin tremavano le mani. Anche se si era già trovata in studio insieme a Ninni almeno altre venti volte, era tesa come se fosse la prima. Ninni stava facendo una serie di smorfie, blaterando in maniera incomprensibile per distendere i muscoli del viso e sciogliere la lingua. Sul gobbo piazzato davanti a una delle telecamere scorreva il suo testo scritto a caratteri cubitali. Kristin lanciò un'occhiata furtiva in direzione della collega. Ninni aveva la rara dote di penetrare attraverso la lente della telecamera e di entrare nelle case degli spettatori come una divinità onnisciente. Non erano molti i giornalisti dotati di credibilità, di sicurezza nei propri mezzi e di una preparazione tale da riuscire a leggere le notizie all'interno di un telegiornale. Molti di loro erano in grado di leggere le notizie, ma solo pochissimi avevano la capacità di comunicarle come se le «possedessero», come se fossero in grado di influenzarle e si trovassero nel cuore degli avvenimenti. Ninni era una di questi. Lo studio da cui veniva trasmesso il telegiornale era dominato da un tavolo ovale decorato con un orologio luminoso. Nello studio era tutto rosso. «Ultime notizie dalla Banca del Sangue», aveva scritto una volta un critico televisivo. «Quattro minuti al via!» esclamò l'assistente di studio. Era seduto alla sinistra del regista, davanti a una parete di monitor e a una consolle che sembrava quella di una navicella spaziale. Lanciando un'occhiata alla propria immagine riprodotta nel grande monitor accanto a una delle telecamere, Kristin si aggiustò i capelli. Non si riconosceva mai in televisione: diventava una sorta di estranea, una specie di attrice che interpretava la parte di una giornalista televisiva. Un redattore che si occupava di cronaca estera entrò in studio correndo; aveva in mano un telegramma con il numero aggiornato delle persone morte a Beirut durante l'esplosione di una bomba. Ninni prese nota della cifra su un foglio che teneva davanti a sé. «Tre minuti al via!» Kristin inspirò profondamente più volte. Ninni provò a ripetere i due titoli principali dell'edizione, usando intonazioni diverse. «Ferma il rapinatore e viene picchiato.» «Autobomba a Beirut.»
Vennero accesi i riflettori, abbaglianti. «Non capisco come mai Skaug abbia deciso di mettere in primo piano quel fatterello di cui mi sono occupata,» mormorò Kristin. «Un guizzo di umanità,» commentò Ninni. «Ama questo genere di cose. E poi abbiamo iniziato con le notizie dall'estero per quattro giorni di fila. Il che lo manda in paranoia.» «Bambine, non dimenticatevi che sento tutto quello che dite.» La voce di Skaug risuonò attraverso gli altoparlanti. «E ricordatevi che il caporedattore è l'essere che vi permette di arrivare il più vicino possibile a Dio!» Dopo essersi girata verso una telecamera, Ninni gli mandò un bacio. Sotto il tavolo, Kristin strinse i pugni con una forza tale che le si sbiancarono le nocche. Le era difficile immaginare che dietro le lenti nere delle telecamere ci sarebbero stati quattro o cinquecentomila spettatori. «Due minuti! Silenzio in studio!» Con l'indice, Ninni e Kristin si spinsero dentro l'orecchio i rispettivi auricolari, attraverso i quali avrebbero ricevuto le indicazioni del regista nel corso della trasmissione. I conduttori si erano fatti prendere l'impronta dell'orecchio in modo che l'auricolare calzasse loro perfettamente, mentre gli altri giornalisti ne avevano in comune uno che per Kristin era un po' troppo grande. «Un minuto al via!» Il silenzio in cabina di regia e in studio era opprimente, carico di tensione. L'assistente di studio annunciò attraverso gli altoparlanti: «HK a News trenta secondi.» Kristin si riempì i polmoni d'aria per poi farla defluire lentamente. «Dieci secondi... cinque... quattro... tre...» La sigla squillante di «24 timer!» tuonò come una fanfara dagli altoparlanti della regia. Sul monitor, l'ora si illuminò sopra un planisfero di metallo. La telecamera 1 inquadrò Ninni. Che con voce chiara disse: «Benvenuti a '24 timer!' - oggi con questi titoli.» Sul monitor, un mosaico fatto di piccoli tasselli andò gradualmente a comporre l'immagine dell'uomo che Kristin aveva intervistato qualche ora prima. «Ferma il rapinatore e viene picchiato.» L'immagine si dissolse in un nuovo mosaico che si ricompose nella foto di un avamposto di guerra.
«Autobomba a Beirut: almeno otto i morti.» Il planisfero di metallo si trasformò nel logo di «24 timer!». La fanfara prese a scemare. Ninni si voltò in direzione della telecamera 2: «In questa edizione avrete modo di incontrare il pappagallo Pharo, che questo pomeriggio è stato messo in salvo nel corso del drammatico incendio di un'abitazione a Bærum. Cosa ha detto Pharo ai vigili del fuoco,» disse flirtando con lo sguardo rivolto ai telespettatori, «lo saprete tra qualche minuto. Ma prima andiamo a Veitvet, un quartiere di Oslo dove un cliente dell'ufficio postale ha fermato stamattina un rapinatore disperato. Forse non avrebbe dovuto farlo.» «Vai col filmato,» disse la voce del regista nell'auricolare. Durante il filmato Ninni e Kristin passarono ancora una volta in rassegna le tre domande. Entrambe parlavano a bassa voce, concentrate. Ninni le ricordò che le risposte dovevano essere brevi. «Mi va più che bene,» pensò Kristin. «Kristin, stranamente la polizia non si è dimostrata molto grata per questo aiuto.» Kristin sentì il proprio corpo irrigidirsi. Sotto il tavolo le ginocchia le tremavano incontrollate. Ciononostante la testa, la lingua e le labbra vivevano di vita propria, come se fossero del tutto separate dal resto del corpo. «Esatto, Nina, anche se forse non è poi una cosa così strana. Gli agenti con cui ho parlato oggi sul luogo della rapina temono infatti che altre persone possano seguire il suo esempio. E prima o poi potrebbe accadere qualcosa di terribile.» «Intendi dire che i rapinatori potrebbero sparare a chi cerca di intervenire?» «Proprio così! La polizia chiede alla gente di mantenere la calma e di non prendere iniziative nel corso delle rapine. L'importante è che nessuno metta a repentaglio la propria vita.» «Dunque non vale la pena morire per del denaro?» «Lo puoi ben dire. E se c'è qualcuno a cui i soldi non mancano, quel qualcuno sono proprio le banche e gli uffici postali.» Ninni ridacchiò. Una risata fredda, professionale, totalmente diversa dalle sue risatine infantili. «Grazie, Kristin. Proseguiamo ora con la nostra edizione...» Cancellata ogni traccia di sorriso, assunse di nuovo un'espressione seria, «... e adesso gli sviluppi in Medio Oriente.»
5 Kristin aprì la porta d'ingresso, entrò, e a tentoni si mise a cercare l'interruttore. Le sembrò di rincasare nella sala fredda e deserta di un museo. Ogni sera le toccava fare il giro dell'appartamento, passando di stanza in stanza, per accendere le luci (anche se fuori non era ancora buio) e riempire così la casa della propria presenza. In passato, quando stava da lei, Marcus le sussurrava qualche frase romantica ogni volta che Kristin si richiudeva la porta alle spalle. La loro relazione era finita due mesi prima. Anche se era felice di esserselo tolto di torno, le mancavano le sue parole di benvenuto. Dopo aver appeso la borsa e la giacca, si diresse in salotto. Una parete era occupata dai libri, un'altra da stampe a buon mercato, ma originali. L'enorme divano in pelle aveva un aspetto costoso, anche se in realtà era stato acquistato all'Ikea. Tirò le tende e accese tre candele a forma di cubo. In camera da letto si sfilò la camicetta e il reggiseno, che le andava stretto, e si mise una delle magliette di Marcus («I'M WITH SEXY»). Il letto non era stato rifatto. Il lenzuolo giaceva avvoltolato per terra. Nel punto in cui era solita dormire si era formato un avvallamento. Sul comodino c'era l'edizione tascabile di Il senso di Smilla per la neve, che stava leggendo per la quinta volta. Il poster appeso sopra il letto raffigurava un uomo nudo e muscoloso visto da dietro di sbieco. Marcus lo detestava. Aprì leggermente la finestra. L'abbaiare dei cani e le grida dei bambini nel parco di Birkelunden arrivavano fin lì. Nei suoi giorni liberi aveva l'abitudine di prepararsi un cestino con uno spuntino, del vino e una radiolina e di andare a rilassarsi in mezzo al verde. Abitava in quel quartiere, a Grunerløkka, da quattro anni. Ci si sentiva a proprio agio. Un pizzico di Greenwich Village, un pizzico di Karachi, un pizzico di Oslo. Per un po' rimase in piedi a osservare una famiglia che stava arrostendo dei wurstel e delle bistecche in mezzo al parco. L'odore di bruciato la raggiunse. Nella stanza che usava come studio (in realtà una minuscola cameretta per i bambini) accese il computer per controllare la posta elettronica. Niente. Negli ultimi mesi si era scambiata delle e-mail con un fuori di testa di Oxnard, in California. In cucina, si preparò una tazza di tè. Aveva decorato da sola quella stanza, mettendo delle piastrelle di ceramica sopra il piano di lavoro e intorno agli armadietti. Su una delle pareti più corte, dietro la porta, aveva appeso
quattro piccoli bidoni dell'immondizia di legno, dipinti a mano con dei motivi floreali tipicamente norvegesi. Le sembrava che stessero bene. Marcus l'aveva definita una fondamentalista dell'ambiente. Secondo lui non aveva alcun senso suddividere la spazzatura a Grunerløkka: tanto avrebbe finito col buttare tutti i rifiuti nello stesso enorme cassonetto nero che si trovava in cortile. Marcus non capiva. Il punto era che lei aveva fatto il suo dovere. Si spostò in salotto, riuscendo a non rovesciare il contenuto della tazza stracolma. Dal ripiano dei CD prese quello di Joan Baez, e dopo essersi messa le cuffie alzò il volume dell'amplificatore. Immediatamente le sembrò di vedersi Marcus davanti. Di solito si sedeva proprio in quella poltrona. Con i piedi nudi appoggiati sul tavolo. Magari con un copione in grembo. Enquist. O'Neill. E con il bicchiere a portata di mano. Dal suo sguardo, Kristin era in grado di capire quanto aveva bevuto. E se aveva voglia di lei. Cosa che accadeva puntualmente. Al pub Tostrupkjelleren, tra uno scoppio di risa e l'altro, aveva sentito qualcuno chiamarlo Marcus il Seduttore. Marcus era un bastardo - ma con stile. Tutto era cominciato la sera in cui lo aveva incontrato al ristorante dell'Hotel Continental per fargli un'intervista per l'inserto del sabato del «Dagbladet». Marcus aveva stregato sia la critica che il pubblico con la sua audace interpretazione di Peer Gynt. Lei gli aveva fatto delle domande e Marcus aveva risposto senza mai smettere di fissarla; una volta che l'illustratore, finito il suo ritratto, se n'era andato e le domande erano giunte al termine, lui l'aveva invitata a casa sua per un bicchiere di vino. Incredibilmente, Kristin si era sentita rispondere di sì. Ancora adesso non riusciva a capire che cosa le fosse preso quella notte. Le aveva messo di nascosto qualcosa nel vino? Erano trascorse alcune settimane prima che i suoi colleghi subodorassero qualcosa. E un altro paio di giorni prima che la rivista di gossip «Se og Hør» la contattasse. Erano stati insieme un anno. Una relazione, più che una convivenza. Romantiche serate condite con vino rosso e musica, feste chiassose con i vip di Oslo, notti folli e domeniche passate a letto. Ma a Kristin era mancata la quotidianità. Non fare niente insieme. E Marcus questo non lo aveva mai capito: lui era un drogato delle emozioni, del divertimento. Irrequieto, egocentrico. Nuove feste, nuove persone. Nuove conquiste.
Si chiese se per caso non avesse un debole per i bastardi, visto che si innamorava sempre di uomini così. Sorseggiando il suo tè, si tolse le cuffie. L'appartamento era immerso nel silenzio. Dopo che il proprietario aveva sostituito le finestre, Kristin a malapena sentiva il rumore del traffico. Sfogliò svogliatamente un numero di «Newsweek» che trovò su un tavolino in salotto. Poco prima delle dieci accese il televisore per vedere il telegiornale. Il suo contributo era scivolato dal primo al quarto posto. Rassettò la camera da letto. Si annoiava. Tanto valeva concedersi una bella doccia fredda, infilarsi a letto e leggere un capitolo o due di Il senso di Smilla per la neve. Accese la luce del bagno, e dopo essersi sfilata la maglietta la buttò nel cesto della biancheria sporca. Con espressione stanca, prese a osservarsi allo specchio. Ogni giorno si aspettava di vedere i sottili segni intorno agli angoli della bocca e agli occhi trasformarsi in rughe. Chinandosi fin quasi a sfiorare lo specchio, si scrutò sussurrando: «E anche per oggi niente, ragazza mia.» Aprì l'armadietto dietro lo specchio, da cui prese la scatola dei contraccettivi. Con un sospiro estrasse una pillola... Non aveva neppure baciato un altro uomo dopo Marcus. Be', perlomeno so quando mi arriverà il ciclo. Dallo scaffale sotto il lavandino, dietro la pila di asciugamani di cotone, prese un sapone che scartò per poi appoggiarlo sul ripiano nella doccia. Fu soltanto quando si slacciò la cintura che si ricordò della lettera che si era infilata nella tasca della gonna quella mattina. Oddio, Kristin, un inizio di Alzheimer? Frugò nella tasca, dalla quale estrasse un foglio: lo spiegò. Due righe. Nessuna firma. Le lettere, in stampatello, erano piccole, contorte, tracciate con una forza tale da far pensare che l'autore della lettera avesse cercato di inciderle sulla carta: DUNQUE SE NON TI CREDONO E NON ASCOLTANO LA VOCE DEL PRIMO SEGNO, CREDERANNO ALLA VOCE DEL SECONDO! Una È il polso che le fa più male. Quando è sdraiata su un fianco, con il brac-
cio dietro la schiena, ogni volta che si muove la catena si tende. Le è venuta una piaga nel punto in cui la manetta le sfrega contro la pelle, e il braccio le si è gonfiato ed è diventato leggermente bluastro. Il sangue le pulsa nelle punte delle dita. Il materasso è duro, e lei sente la mancanza di un cuscino. Ma non osa chiederlo. Tutte le volte che lui entra nella stanza, o con il cibo o per filmarla, lei fa in modo di assumere un atteggiamento castigato. Finora non l'ha toccata. Finora. Le ha dato un vaso da notte che viene a portar via, senza dir nulla, ogni volta che lei ha finito di usarlo. Sulla parete accanto al materasso, quasi a livello del pavimento, c'è un campanello. Non l'ha mai premuto. Probabilmente è lì affinché lei lo possa chiamare quando ha bisogno di qualcosa. Non vuole niente da lui. Le ha portato via l'orologio. I minuti e le ore si accumulano senza alcun senso. Dorme molto. E prega. Non era mai stata particolarmente religiosa. Aveva smesso di recitare le preghiere della sera quando aveva dieci anni. Era diventata organista perché il mondo traboccava di bella musica e perché il suono di un organo dentro una chiesa aveva il potere di riempirle gli occhi di lacrime. Eppure lo studio, i salmi, le domeniche passate in chiesa e il contatto con i membri della comunità avevano risvegliato in lei la sua fede di bambina. Da un paio d'anni, la sera, aveva ricominciato a pregare. Finora non l'ha toccata. Ma lo farà. Lei sa che lo farà. Si immagina il dolore, il disgusto, l'umiliazione. Si sforza di pensare ad altro, ma continuano a tornarle in mente le stesse immagini: il viso di lui sopra il suo, madido di sudore. Gli occhi azzurri. Le labbra. La lingua. Il membro che la dilania: un cuneo di ferro rovente che la apre e la trafigge fino a quando di lei non rimane altro che un tizzone consumato fatto di frammenti, schegge e abiezione. Lo odia. Prima di adesso sarebbe stata in grado di affermare con sincerità di non essere capace di odiare nessuno. Pensava di avere dentro di sé soltanto amore. Ma si sbagliava. Lo odia.
Odia odia odia. Non sa se è giorno o notte. Ma non le importa. Dorme un'ora o due, poi sta sveglia per un po' - ed è così che il tempo scorre. Rievoca i brani per organo su cui si è esercitata. È una buona terapia. Si vede davanti i manuali, le tastiere color avorio e nere, avverte la leggera resistenza dei tasti, percepisce la spinta delle molle dei pedali dei bassi contro i suoi piedi. Sente le canne dell'organo che riempiono con i loro suoni le navate della chiesa, i bassi che fanno vibrare le panche di legno e alcuni accordi che quasi feriscono le orecchie. Spesso piange. Allora distoglie lo sguardo dallo specchio. Sa che lui è là dietro che la guarda. E non vuole che la veda piangere. «Sei così dolce quando dormi,» le dice. Di colpo apre gli occhi. Lui è lì, a gambe larghe, in piedi sopra il materasso. In mano ha una videocamera. È giunto il momento! «Ti ho ripresa,» continua. «Mentre dormivi.» Lei non dice nulla. Piano: «Sei speciale, sai?» Non lo sa. «Numero 5,» le spiega. «Il mio numero fortunato. Il 5 è il numero attorno al quale ruota il mondo, lo sapevi?» Non lo sapeva. «Non hai fame?» le chiede. «Non mangi quasi niente.» «Non ho molta fame.» «Hai paura?» La sua domanda le fa venir voglia di piangere. Ma si riprende. «Sì,» risponde con un filo di voce. «Paura di me?» «Sì.» Lui esita. «Nessuno ha denunciato la tua scomparsa.» «No...» «È strano.» «Le persone che mi hanno affittato l'appartamento sono via. I miei genitori abitano in Danimarca. Il pastore è in ferie. E ai frequentatori della chiesa non importa dove sono o quando mi esercito. Non devo suonare prima di sabato. A un matrimonio.» Respira in maniera irregolare. Come
se avesse parlato troppo. È la prima volta che gli parla così a lungo. «Capisco.» Lei lo guarda, cercando di leggere qualcosa nel suo sguardo. Sabato... Sarà ancora viva sabato? Sarà morta? Strangolata, accoltellata, uccisa con un colpo d'arma da fuoco? Sepolta in giardino? O sarà ancora sdraiata lì, sul materasso, incatenata, sabato e il sabato dopo e quello dopo ancora? Lui avvicina la sedia al materasso. «Parlami di te,» la prega. «Di... me? Cosa intendi dire?» «Voglio sapere chi sei. Dentro.» «Non c'è molto da dire...» «A cosa pensi? Cosa provi? Chi sei? Voglio sapere tutto di te. Tutto!» «Non credo...» «Racconta!» Lei racconta. ... sangue sulla terra asciutta 1 Kristin si era ormai dimenticata sia della lettera che della videocassetta quando ricevette la seconda busta. Era un giovedì piovoso: una di quelle giornate grigie che le facevano venir voglia di cioccolata calda e pane bianco tostato. La coltre di nubi poggiava sulle alture che circondavano la città. Aveva tuonato per la maggior parte della notte e all'alba si era scatenato il diluvio, ma in mattinata il brutto tempo aveva allentato la presa, come se, sfinito dopo le scorrerie notturne, avesse deciso di smettere per poi riprendere in seguito. La busta si trovava nella cassetta della posta quando, trafelata, era tornata a casa dopo la lezione di aerobica. Era uguale a quella della volta prima. Grande, marroncina, imbottita. Il suo nome era scritto con un pennarello rosso. Rimase a fissarla, chiedendosi perché il cuore le battesse così forte. Questa volta lesse prima la lettera: SE NON CREDONO NEPPURE A QUESTI DUE SEGNI E NON ASCOLTERANNO LA TUA VOCE, ALLORA PREN-
DERAI ACQUA DEL NILO E LA VERSERAI SULLA TERRA ASCIUTTA: L'ACQUA CHE AVRAI PRESA DAL NILO DIVENTERÀ SANGUE SULLA TERRA ASCIUTTA. Le ultime quattro parole erano scritte in rosso. «Effetti speciali da quattro soldi,» pensò Kristin rabbrividendo. Con un calcio spinse la borsa sotto la scrivania, dopodiché appese la giacca. Al proprio posto, Skaug era sommerso dai fax. Kristin prese videocassetta e lettera e si diresse verso di lui. «Senti... mi è arrivata un'altra lettera,» esordì piano. Skaug alzò lo sguardo con espressione confusa: «Cos'hai detto?» «Una lettera! Mi è arrivata un'altra lettera!» «Una lettera? Ma che bello, Kristin. Davvero! Sono sincero, davvero bello! Una lettera! Ma guarda!» «Non scherzare!» Gli porse il foglio. «Una... lettera così.» «Una lettera così?» Skaug le diede una rapida occhiata. Poi, aggrottando la fronte, la rilesse con attenzione. «Ma cos'è questa roba? Qualcuno che cerca di convertirti?» «Non credo.» «La campagna pubblicitaria della Banca del Sangue per reclutare nuovi iscritti?» «Skaug, non sei divertente!» «Scusa, scusa! E allora cosa significa?» «Una nuova videocassetta.» «Videocassetta?» «Non ti ricordi di quella cassetta che mi è arrivata lunedì? Adesso me ne hanno mandata un'altra.» «E?» «Non l'ho... ancora vista.» Stava per dire: «Non mi va di vederla da sola», ma non riusciva a capire che cosa la impaurisse tanto. «E allora diamole un'occhiata,» commentò Skaug. Sghignazzando, si sfregò le mani. «Magari è un bel porno coi fiocchi. Con due parlamentari come attori!» Ridendo, lanciò uno sguardo rapido in direzione di Kristin, ma subito dopo tornò ad assumere un'aria seria. «Scusa, scusa, signorina, di cattivo gusto, scusa!» La prima immagine è ravvicinata, praticamente indecifrabile fino a quando l'autore del video non si allontana: fu in quel momento che Kristin
capì che si trattava delle ombre proiettate sul muro da una catena. La catena è fissata alla parete. L'obiettivo della videocamera segue la catena fino a... Kristin trattenne il respiro, che poi si trasformò in un singhiozzo... una mano. «Merda,» sbottò Skaug. L'inquadratura successiva è quella di una stanza spoglia. Su un materasso giace una donna. Indossa una camicia da notte bianca. La mano è incatenata alla parete. «O mio Dio,» sussurrò Kristin. «È la stessa donna.» «La stessa donna?» «Quella della prima videocassetta!» Inizialmente la donna sembra morta. È sdraiata con gli occhi socchiusi e la bocca aperta. Ma poi gira la testa e rivolge lo sguardo all'autore del video. Uno sguardo torbido, indifferente. Sembra drogata. Skaug fece un fischio. «Credo,» disse appoggiando un braccio sulla spalla di Kristin, «credo che sia venuto il momento di far intervenire qualcuno con uno stipendio migliore del nostro.» 2 Il direttore del telegiornale, Richard Wolter, si intrecciò le mani in grembo dopo aver appoggiato le gambe sulla scrivania. Era la posizione che assumeva quando doveva affrontare una questione spinosa; quindi, per quanto lo riguardava, una posizione per niente inusuale. Di scatto si scompigliò i capelli, piuttosto lunghi. Aveva cinquantadue anni, ma ne dimostrava dieci di meno. Slanciato e muscoloso. Per molti anni aveva condotto un dibattito popolare e controverso alla radio di Stato. Nell'ambiente lo si accusava di essersi venduto quando era stato assunto da Kanal 24 per sviluppare un modello di telegiornale innovativo e ispirato ai tabloid. «Le possibilità sono due,» disse Wolter pensoso. Ancora ventenne, da Steinkjer si era trasferito a Oslo, e gli era rimasto un leggero accento di quella zona. «O qualcuno ci sta prendendo in giro, oppure per qualche oscuro motivo il rapitore ha scelto noi per mandare in onda le immagini della sua vittima.» «Il rapitore?» chiese Kristin. «E cos'altro, se no? Non sembra una scena recitata spontaneamente.» «Aspetta un attimo,» intervenne Skaug. Si mise a cercare il pacchetto di Prince prima di scoprire che ce l'aveva nel taschino della camicia. Tirò
fuori una sigaretta. «Da quanto ne so io, non c'è nessuna denuncia di persone scomparse. Se lo scopo è quello di servirsi di noi per ottenere un riscatto, qualcuno deve prima scoprire che la donna è scomparsa!» Si infilò la sigaretta tra le labbra. «Certo,» commentò Wolter. «Ma può anche darsi che il rapimento sia stato tenuto segreto.» «E allora perché manda a me la videocassetta?» domandò Kristin. «Per finire in televisione, ovviamente.» «Ma perché a me? Perché non a te? All'emittente?» A quanto pareva, quel pensiero non aveva nemmeno sfiorato Wolter, che alzò lo sguardo verso il soffitto prima di farle un sorriso che aveva lo scopo di sortire un effetto rassicurante. «Difficile dirlo, Kristin. Rilassati. Forse gli piaci.» «Forse gli piaci?» Skaug e Wolter si schiarirono la voce. «Allora... cosa ne facciamo del filmato?» chiese Skaug prima di fare un tiro a pieni polmoni dalla sigaretta spenta, fingendo poi di buttar fuori il fumo dalle narici. Nessuno disse nulla. «Non possiamo mandarlo in onda,» pensò Kristin. Poi esclamò: «Statemi a sentire! Non avrete mica intenzione di mostrare quelle immagini?» «Perché no?» le domandò Wolter, guardandola con quella sua espressione da cucciolo innocente. Kristin cercò di addurre degli argomenti validi. Perché non sapevano chi fosse la donna. Perché si poteva trattare di uno scherzo di pessimo gusto. Perché quelle immagini potevano davvero ritrarre una donna tenuta prigioniera. Perché sentiva che non dovevano farlo. Ma non riuscendo a tradurre nessuno di questi pensieri in una risposta, disse: «Sei pazzo, non possiamo farle vedere!» «Perché no?» ripeté Wolter. «Comunque sia, è una buona storia!» A Oslo, nel giro dei giornalisti, lo chiamavano l'Avvoltoio. Quando un anno prima «24 timer!» aveva mandato in onda le immagini di un uomo che si era buttato dal tetto dell'Hotel Sas dopo aver ucciso a colpi d'arma da fuoco una donna e il suo bambino, il critico televisivo di un famoso quotidiano aveva scritto che Richard Wolter sarebbe stato disposto a mostrare dei cadaveri pur di rubare spettatori ai telegiornali concorrenti. Persino per Kristin, che intimamente aveva una visione rigorosa
del giornalismo, una condanna ingiusta e ipocrita. Il giorno dopo tutti i quotidiani avevano pubblicato ampi reportage fotografici relativi al suicidio. Wolter non accettava il fatto che i giornalisti televisivi dovessero ragionare e trattare le notizie in base a norme etiche diverse da quelle dei loro colleghi della carta stampata. A sentir lui si trattava di una visione antiquata, retaggio del periodo in cui la NRK, la radiotelevisione di Stato norvegese, deteneva ancora il monopolio. I telespettatori erano stati avvisati prima che il filmato fosse mandato in onda, aveva precisato Wolter, ed esistevano sia telecomandi per cambiare canale che gente in grado di decidere quali programmi vedere. Ciononostante, alcune persone ritenevano che la televisione non potesse mettersi sullo stesso piano dei giornali venduti nelle edicole, dal momento che la radiodiffusione implicava una responsabilità maggiore. Wolter non era d'accordo. Lui stesso aveva formulato il grido di battaglia di «24 timer!»: «Reality TV». In un dibattito sull'etica televisiva trasmesso in seguito alla messa in onda delle riprese del suicidio, Wolter si era scagliato contro gli astiosi partecipanti che non avevano speso nemmeno una parola per l'uomo che si era lanciato nel vuoto e che aveva ucciso a sangue freddo una donna e suo figlio, né per il fatto che metà del centro di Oslo fosse stato transennato mentre l'omicida si arrampicava sul tetto e migliaia di persone avessero seguito dal vivo quella tragedia. Mentre erano tutti interessati a tutelare un fratellastro e due zie dell'assassino che avrebbero potuto vedere il suicidio in televisione dieci ore prima che le stesse immagini venissero pubblicate sui giornali. «A volte la realtà è terribile,» aveva urlato Wolter nello studio in fermento. «E se la gente preferisce non vedere la realtà in televisione, allora che cambi canale o che la spenga durante il telegiornale. Perché quella che noi diffondiamo è la realtà.» «Richard,» disse Kristin, «si scatenerà di nuovo l'inferno!» «E allora?» Kristin non poté fare a meno di sorridere. Non conosceva nessuno impermeabile alle opinioni altrui quanto Richard Wolter. «Non sappiamo niente di queste immagini!» continuò lei. «Forse c'è qualcuno che vuole spingerci a mostrarle!» Wolter aggrottò le sopracciglia. Il suo sguardo diceva: Spingerci? «In modo da poter correre al 'Dagbladet' per raccontargli quanto è facile prendere per i fondelli '24 timer!'» «Lo pensi davvero?»
«Ragazzi,» disse Skaug spostando la sigaretta da un angolo all'altro della bocca con la lingua, «non facciamo i paranoici! Non dobbiamo perdere di vista l'eventualità che quella donna sia davvero nelle mani di un maledetto psicopatico.» «Oddio!» esclamò Kristin. Wolter e Skaug le lanciarono un'occhiata. «Comunque sia, continuo a non capire perché le mandi a me,» rimarcò lei. Né Wolter né Skaug risposero. «Forse non mi hanno sentito,» pensò Kristin. Wolter guardò Skaug con espressione torva: «Amico, ti decidi o no ad accendere quella maledetta sigaretta?» Skaug scosse la testa: «Sto cercando di smettere.» Wolter ridacchiò, tamburellando le dita sulla pancia: «Be', è venuto il momento di telefonare al commissario Basettoni.» Rise. «Tu? Smettere?» Una faccenda complicata 1 Herdis se n'era andata di casa. Dopo aver appoggiato la fronte sul vetro freddo della finestra dell'ufficio, l'ispettore Runar Vang lasciò vagare lo sguardo sui tetti delle case con la strana sensazione di essere finito nel corpo di uno sconosciuto. Nella testa gli ronzava un pezzo di Chet Baker, ma non riusciva a capire quale fosse. Il mondo all'esterno gli appariva lontano, sfocato, quasi irreale. Non sapeva spiegarsi il perché. In fondo, si trattava soltanto di una sensazione. La luce era piatta e calda. Pigre nubi estive si stavano muovendo in direzione di Bjørvika. Cavalcando il vento, un gabbiano prese a battere le ali per poi lanciarsi in picchiata verso il basso. «Lo fa per divertirsi,» pensò stupito. Come se per la prima volta in cinquantaquattro anni si fosse reso conto che gli animali di tanto in tanto fanno delle cose solo perché ne hanno voglia. Inconsciamente e per l'ennesima volta gli esplose dentro l'immagine di Herdis, e in quel momento gli venne in mente il titolo della canzone che gli ronzava nel cervello. She Was too Good to Me. Sogghignò sarcastico. Diede un'occhiata all'orologio. Le dieci e cinque. Aveva l'abitudine di essere puntuale, cosa per cui di nascosto lo prendevano in giro. Il Professore, lo chiamavano quando credevano che lui non li sentisse. Sol-
tanto perché pretendeva che la gente si presentasse all'orario stabilito. Avrebbero dovuto cominciare l'interrogatorio cinque minuti fa. L'agente Anne-Beth Carlsen - la sua giovane e brillante collega che gli ricordava una scout - probabilmente aveva pensato che fosse morto o qualcosa del genere. Commozione cerebrale. Arresto cardiaco. Forse in quel preciso istante Anne-Beth e la sua segretaria erano in piedi fuori dalla porta, chiedendosi se avrebbero avuto il coraggio di dare un'occhiata a quell'orrendo spettacolo. Nella sua mente le vide precipitarsi dentro la stanza, la Scout per prima, seguita dalla sua segretaria. «Oddio!» avrebbero urlato. Lui era riverso sulla scrivania, con le mani lungo i fianchi e la testa di traverso. «Chiama il pronto soccorso!» avrebbe gridato la Scout. Allora sì che ti saresti pentita, Herdis! Di solito lasciava che i suoi sottoposti interrogassero i sospetti senza intromettersi. A dire il vero, erano persino più bravi di lui, più pazienti di quanto lui non fosse mai stato, ma questa volta aveva chiesto di prender parte all'interrogatorio. Forse perché a suo tempo si era occupato di quel caso di omicidio e ora desiderava seguirlo fino in fondo. O forse perché il suo sesto senso gli consigliava di sobbarcarsi più lavoro possibile nelle settimane a venire. Per evitare di pensare a Herdis. Stava pensando a Herdis. Erano in piedi in cucina. Ieri sera. Lui le stava raccontando che finalmente aveva arrestato il presunto omicida di un vecchio caso che i giornali, con la loro solita sensibilità, avevano battezzato l'«Omicidio gay». «Bene,» aveva borbottato lei. Dal suo tono di voce, lui aveva avvertito che c'era qualcosa che non andava. Dopo vent'anni di matrimonio, era in grado di intuire con facilità l'umore di sua moglie. Ma aveva provato una strana sensazione. Lei aveva svuotato la lavastoviglie con un nervosismo febbrile. «Forse crede che io non sia più qui,» aveva pensato lui. Ma poi si era girata, e dopo essersi asciugata le mani sul grembiule e aver inspirato profondamente aveva detto: «Runar, dobbiamo parlare. Credo di aver bisogno di un po' di tempo per me stessa.» Tempo per me stessa. I particolari della conversazione che era seguita ora risultavano confusi. Lui aveva dovuto sforzarsi di sembrare impassibile. Ricordava di essersi appoggiato a un piano della cucina mentre lei parlava. Era qualcosa a cui pensava da tempo, gli aveva detto. E dopo che quelle prime parole le erano uscite di bocca, le altre erano sgorgate a fiumi, in
una corrente di accuse e scuse e spiegazioni. Come in un sogno, lui si era allontanato dal proprio corpo - Non sta succedendo davvero! - e quando vi aveva fatto ritorno quel corpo era freddo, estraneo. «Non capisco,» aveva continuato a ripetere. La sua voce sembrava quella di un bambino piagnucoloso. «Forse è proprio questo il problema,» aveva replicato lei. Era diventata irriconoscibile. Se n'era andata quella sera stessa. Lui non sapeva dove. Erano venuti a prenderla con un vecchio furgoncino col simbolo della pace dipinto su una fiancata. Dentro c'erano dei ragazzi, e dalla finestra li aveva visti applaudire mentre lei saliva a bordo del veicolo. Dieci e otto. Inspirò profondamente. Lo stavano aspettando. 2 «Io non ho ucciso nessuno!» Sembrava che lo avessero spalmato sulla sedia. «Forse gli hanno strappato la spina dorsale con una tenaglia,» pensò Vang, «trasformandolo in una specie di medusa dotata di braccia e gambe ma priva di cervello.» Non sorrise, anche se quel pensiero assurdo gli sembrò divertente. Per mantenere la propria imperturbabilità diede un'occhiata all'agente AnneBeth Carlsen, la Scout. Si chiese perché nella sua testa la chiamasse così. Il dialetto della contea del Sunnmøre? Il corpo gracile? I capelli corti e ricci? Lei incontrò il suo sguardo, ma era impossibile leggervi qualcosa. «Quella sera eri a casa sua, vero?» domandò Vang per tastare il terreno. «Cazzo, a casa di quello? Un frocio schifoso? Io non ho ucciso nessuno, cazzo...» Il ragazzo aveva la faccia costellata di cicatrici e di macchie. Il suo vocabolario era alquanto limitato. Ogni volta che Vang lo fissava, il suo sguardo cominciava a vacillare. Respirava affannosamente. Seduto, continuava a grattarsi in modo maniacale un tatuaggio indecifrabile sulla mano destra. Una croce? Un pugnale? Vang si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia, facendo in modo che il silenzio agisse per lui. Avevano ricevuto una soffiata. Il caso risaliva a otto anni prima, e anche
se a intervalli regolari avevano ripreso in mano gli incartamenti, la speranza di giungere a una soluzione dopo tutto quel tempo ormai era decisamente esile. Ma un giornalista di «Øyenvitne» aveva intervistato su TV2 la madre della vittima, un omosessuale a cui erano stati inferte quarantacinque coltellate. Con la voce soffocata dal pianto, la donna aveva fissato la telecamera pregando l'omicida di costituirsi, e quella sera stessa un uomo aveva telefonato alla polizia. Una volta un suo amico, ubriaco fradicio, si era vantato di aver liberato la terra da un bastardo culo-rotto. Aveva usato esattamente quelle parole. Ma lui le aveva interpretate come i deliri di un alcolizzato. Tuttavia, un paio di dettagli finora sconosciuti che erano stati rivelati nel corso del servizio televisivo - una parola scritta sullo specchio con il sangue, la posizione in cui era stata ritrovata la vittima - corrispondevano perfettamente a quelli che gli aveva descritto il suo amico. Così, per sicurezza, aveva chiamato la polizia. Non era stato difficile scovarlo. Si trovava a circa duecento metri dalla questura. In una cella del carcere circondariale di Oslo. Non avevano riposto troppa fiducia in quella soffiata, ma sapendo che il giornalista di TV2 avrebbe cominciato a indagare, avevano affidato il caso a uno dei loro investigatori. Era bastato un giorno per avere la certezza di essere di fronte all'assassino. «La cosa strana,» mentì Vang, «è che un testimone ricorda di averti visto scendere dal suo pianerottolo alle due di notte.» Era facile capire che si trattava di una bugia, ma l'ora coincideva pressappoco con quella della morte della vittima e la medusa prese a dimenarsi. «Ho diritto a un avvocato, cazzo!» Buon segno. «Certo,» disse Vang. Anne-Beth gli suggerì: «Forse eri andato a trovare qualcuno che abitava sullo stesso pianerottolo?» Il suo dialetto era dolce, cantilenante. «Ispira fiducia,» pensò Vang. «Forse è per questo che la chiamo la Scout?» La medusa abboccò. Guardò Vang e non lei quando rispose: «Certo, una donna!» Vang pensò: «Ecco che ci è cascato! Come si fa a essere così stupidi? Così maledettamente stupidi? Facoltà mentali scarsamente sviluppate, come si dice in psichiatria legale. Il che significa stupido.» «Ora sì che comincio a capire,» commentò Vang sghignazzando. La medusa fece un ampio sorriso fissando il pavimento.
«Una donna!» insistette Vang. «Adesso capisco perché non lo volevi dire quando è stato scoperto il cadavere. La medusa rise. «E magari era sposata?» insinuò Anne-Beth Carlsen. Herdis. Il ricordo di lei lo paralizzò come una folata di vento gelido. La medusa si contrasse ancor di più sulla seggiolina fatta di tubi metallici, mentre fissava un punto a metà tra Vang e Anne-Beth Carlsen. «Sposata, infatti! Non telefoni di certo alla polizia quando ti fai una sposata, no?» Tempo per me stessa. La medusa rise di gusto. Vang scambiò un'occhiata con la collega. La medusa aveva abboccato e ora oscillava, pesante e soddisfatta, appesa all'amo. Adesso bastava soltanto che riavvolgessero la lenza. In quel momento suonò il telefono. Né Vang né la Carlsen si mossero per sollevare la cornetta. Nessuno dei due pensava che si trattasse di una vera telefonata, e così l'apparecchio continuò a squillare. «È per me?» chiese la medusa. Continuava a non capirci niente. Vang allungò la mano per afferrare la cornetta. «Sì!» disse secco. «Vang?» Una voce rude, nota. Vang non riuscì a ricollegarla a un volto. «Sì!» abbaiò. «Mi spiace disturbarti nel bel mezzo di un interrogatorio...» Vang si raddrizzò. Il questore! Quello nuovo. «Non c'è problema,» rispose Vang laconico, in segno di rispetto. Doveva trattarsi di qualcosa di importante. Il centralino filtrava tutte le telefonate, e sicuramente gli aveva riferito che al momento era impegnato in un interrogatorio importante. «È emerso un caso...» gli spiegò il questore. Vang non disse nulla. «Vorrei che te ne occupassi di persona.» «Sì?» «È una faccenda molto delicata.» «Capisco.» «È stata rapita una donna. Almeno sembra.» «Cosa intende dire con 'Almeno sembra'?» «Il rapitore l'ha ripresa con una videocamera.» Vang emise un fischio. «E ha mandato a noi la cassetta?»
«Non esattamente. È questo il problema. Ed è per questo che voglio che sia tu a occupartene. L'ha mandata a Kanal 24.» 3 Nell'ambiente del giornalismo l'ispettore Vang era molto conosciuto, sia nel bene che nel male. Per i crimini più importanti, era lui che le televisioni intervistavano davanti alla questura di Grønland: Vang in giacca, camicia azzurra e cravatta e con una frangetta rada, indomabile, che gli ricadeva sulla fronte. Secondo alcuni giornalisti di cronaca nera, Vang considerava la stampa alla stregua di una sua unità, e con gli anni si era ingiustamente guadagnato la fama di essere uno sempre in cerca di notorietà. Ma la verità era che nel suo dipartimento Vang era quello con l'atteggiamento meno ostile nei confronti dei giornalisti. Vang aveva già incontrato il direttore del telegiornale, Richard Wolter, in un paio di occasioni. Un osso duro, ma a posto. Non c'erano mai problemi con Wolter. Vang apprezzava il suo stile alla mano e la sua onestà. Molti giornalisti non erano altro che dei saputelli arroganti, ma con Wolter era possibile dialogare. «Pensate di mostrare le immagini?» chiese Vang tenendo sollevata la busta di plastica con la videocassetta. Era seduto al tavolo ovale usato per le riunioni che si trovava nell'ufficio di Wolter. Insieme a Wolter, Kristin Bye e Toralf Skaug. Non aveva il benché minimo dubbio sul fatto che si fossero tenuti una copia dei due filmati e delle lettere. Vang aveva infilato gli originali in buste di plastica trasparenti. «La domanda che dobbiamo porci,» esordì Wolter dondolandosi sulla sedia, «è se si tratta o meno di uno scherzo di pessimo gusto.» «Impossibile dirlo,» rispose Vang. Fece crepitare la busta. «Ma la faccenda va affrontata seriamente.» Con una matita, Skaug mescolò lo zucchero nel suo caffè. «Bella brodaglia, eh?» sogghignò. Nessuno rise. Kristin Bye aveva intrecciato le mani sul piano del tavolo e, seduta, fissava un punto fuori dalla finestra. La cosa lo fece pensare di nuovo a Herdis. Herdis aveva dodici anni meno di lui, ma sembrava una ragazzina in età scolare. E a volte si comportava in quanto tale. Vang seguì lo sguardo della giornalista, fisso sugli alberi che si ergevano
nel parco dall'altra parte della strada. «Una sognatrice,» pensò Vang. Aveva la tendenza a classificare le persone. Una deviazione professionale, a quanto pareva. E Kristin Bye era senza ombra di dubbio una sognatrice. «La polizia è contraria al fatto che trasmettiamo i filmati?» gli domandò Wolter. Pensoso, Vang soppesò la cassetta che aveva in mano. «Personalmente non mi sembra una buona idea.» Wolter si sistemò sulla sedia. Si schiarì la voce: «A essere sincero, non mi interessa un granché il tuo parere. Ci sono delle ragioni connesse al lavoro della polizia per cui non dovremmo mostrare queste immagini?» «Abbiamo bisogno di tempo per studiare il materiale. E soprattutto per esaminare gli elenchi dei sospetti. Dal momento che me lo chiedi, ti sarei molto grato se potessi contare su un giorno o due per affrontare il caso in santa pace. Rischiate di rovinare le indagini preliminari, se mandate subito in onda questa roba.» «Infatti!» sospirò Skaug. «Così uno dei tuoi può correre al 'VG' a spiattellare tutto quanto per qualche corona.» Vang avvertì dell'astio nelle sue parole. «Il fatto è che la polizia vorrebbe disporre di un po' di tempo per esaminare i filmati e le lettere,» disse Wolter. «In tutta calma e nel massimo riserbo. Non si tratta di una richiesta irragionevole. Siamo disposti ad aspettare fino a domani sera prima di rendere pubblica la vicenda. In esclusiva, ovviamente. Mi sembra un accordo onesto.» Dopo essersi sistemato la giacca, Vang guardò nuovamente Kristin: «Non hai nessuna idea di chi ci sia dietro?» «No.» «Hai un ex che...» «No, per favore!» «Mai ricevuto prima d'ora lettere o cose che...» «No.» «Nessuna telefonata che...» «No. Mi spiace. Non capisco perché lui le abbia mandata a me.» «Lui?» Kristin si strinse nelle spalle come per dire: E chi se no? «Potresti fare un elenco dei servizi che hai curato e dei casi di cui ti sei occupata... diciamo... negli ultimi sei mesi. Forse esiste un collegamento.» «Un lavoraccio! Ma se per te va bene...» commentò Kristin rivolta a Wolter.
«Certo che sì.» Wolter tamburellò con le dita sul tavolo. «OK, allora siamo d'accordo? Diamo tempo alla polizia fino a domani sera prima di trasmettere i filmati.» «Va bene.» Ancora una volta, Vang sollevò la busta con la videocassetta all'altezza degli occhi. «A una condizione precisa: la polizia non deve fornire le immagini né informazioni su di esse a nessun altro,» puntualizzò Wolter. «Stai tranquillo.» Vang guardò Kristin: «Devi venire con me in questura per poter fare quattro chiacchiere con calma e farti prendere le impronte digitali. Chi altro ha toccato le lettere o le videocassette oltre a te?» «Cavolo!» esclamò Skaug. «Io! Merda! Puoi mandare qualcuno qui? Non ho tempo di...» «Io ho tenuto in mano le lettere mentre le leggevo,» disse Wolter. «E un tecnico ha toccato le videocassette. Siamo stati degli sconsiderati, mi dispiace!» «Stando così le cose, sono costretto a prendervi le impronte. In questura. Nel corso del pomeriggio! Chiedete di me.» Fece un sorriso smagliante, con un'aria un po' strafottente: «Su con la vita, ragazzi. Vi tratteremo con i guanti!» Alla polizia 1 L'ispettore Vang fece accomodare Kristin in un ufficio del tutto anonimo al quarto piano della questura. Una scrivania a ferro di cavallo era rivolta verso un tavolo da riunioni circolare. Sulla scrivania c'era una cornice con una sua fotografia (scattata alcuni anni prima) in compagnia di una donna bella e dall'aspetto giovanile e di un ragazzo in età adolescenziale. Alle pareti erano appesi vari diplomi rilasciati da dipartimenti di polizia norvegesi e americani e la grande foto di un gruppo di uomini in borghese che puzzavano di questura lontano un miglio. Aveva due casseforti (come se il pericolo di furto fosse incombente), ma neanche un computer. Su una piastra rivestita di feltro e incorniciata, Kristin vide un enorme coltello da macellaio (si rifiutò di chiedergli a cosa fosse servito), mentre sulla libreria dietro la scrivania c'erano un paio di manette che, secondo lei, Vang non usava da molto, molto tempo. Tranne che, forse, con la sua bella moglie il sabato sera.
Vang aveva in mano due tazze di plastica colme di caffè. Si sedettero al tavolo rotondo. A quattr'occhi sembrava imbarazzato, timido. «La tua famiglia?» chiese Kristin per fare un po' di conversazione, indicando con la testa la foto. «Oddio,» pensò poi, «solo una giornalista può fare una domanda così stupida.» Vang guardò per un attimo la fotografia, come se non ne fosse del tutto sicuro. Poi spostò una pila di documenti sulla destra. «Tra un attimo verrà un agente. Trascriverà la tua deposizione.» «Ma io non so niente.» Vang annuì. «Comunque... Lavoravi per il 'Dagbladet' prima di passare a Kanal 24?» «Sì...» rispose Kristin con aria interrogativa. Aveva davvero notato il suo nome? O aveva fatto una puntatina ai servizi segreti per ritirare tutta la documentazione che avevano su di lei? «Puoi aver scritto qualcosa che...» Kristin alzò le mani. «Lascia perdere. So a cosa stai pensando. Ma non ho mai lavorato alla cronaca nera al 'Dagbladet'. Ero ai Servizi Speciali.» «Cerco solo di capire perché abbia scelto proprio te.» Lei rabbrividì. «Non intendevo spaventarti!» «Figuriamoci... E di cosa dovrei aver paura?» commentò lei facendo la spavalda. Vang scosse il capo. «A livello internazionale non è insolito che i criminali mandino lettere ai giornalisti. Il giornalista diventa il loro canale per farsi pubblicità. Un pazzo in California, che si firmava Zodiac, venti o trent'anni fa divenne famoso per le lettere che inviava ai giornali. E forse sei abbastanza vecchia da ricordarti del Figlio di Sam, a metà degli anni Settanta. Intrattenne una vera e propria corrispondenza con il giornalista Jimmy Breslin.» «Ma erano degli assassini,» disse lei. «Vero.» «E pazzi!» «Sì.» «Perché ha scelto me?» «Gli sei utile. Gli servi per diffondere il suo messaggio.» «Grazie!» «Sai cosa intendo dire. Sto cercando di spiegarti perché non devi aver paura. Non si rivolge a te come persona, ma in quanto giornalista. Avrebbe
potuto scegliere chiunque altro, ma per qualche motivo ha scelto te.» «La cosa non mi tranquillizza più di tanto.» Vang sorrise. «Tanto per cominciare, nei prossimi giorni rafforzeremo il pattugliamento intorno a Kanal 24 e al tuo appartamento. Una volante rimarrà parcheggiata davanti a casa tua per un po'. Cose così. Sufficienti a spaventarlo se dovesse gironzolare nei dintorni.» «Ora sì che dormo sonni tranquilli!» sospirò lei. «E ti doteremo di un allarme di sicurezza. Un brevetto svedese che testeremo in autunno. Ti basterà premere un pulsante ogni volta che ti sentirai in pericolo. Il segnale giunge alla centrale operativa e in un attimo arriva un'unità!» Alzò le mani quando vide l'espressione spaventata dipinta sul volto di Kristin. «Stai tranquilla, non ti servirà. Te lo prometto!» «Oddio... Che razza di individuo è questo?» «Non lo so.» Vang si sfregò gli occhi. «Uno che pedina e filma una donna prima di rapirla e incatenarla a una parete... Ti deve pur dire qualcosa...» Vang scosse la testa. Ma i suoi occhi dicevano il contrario. Il poliziotto bussò alla porta un paio di minuti dopo. Era un uomo dal sorriso mellifluo e dalla stretta di mano sudaticcia. La condusse in un ufficio ancor più piccolo e ancor più anonimo lungo il corridoio, dove le fece mille domande. Kristin non avrebbe mai pensato di poter raccontare tutte quelle cose a una persona che non sapeva assolutamente niente di lei; in effetti, quel tizio avrebbe potuto far carriera come giornalista. Volle sapere ogni cosa della sua vita privata. E soprattutto dei suoi ex fidanzati. Con quanti uomini aveva avuto rapporti sessuali (cosa che lei non aveva voluto dire neanche a Marcus). E quanti uomini aveva avuto dopo la rottura con Marcus (la domanda venne formulata in questo modo: Quanti partner sessuali ha avuto? - non Con quanti sei andata a letto? o Con chi hai fatto sesso?) e se ne conosceva l'identità. Quelle domande la fecero sentire una ragazza «facile». Una donna di malaffare. Il tipo aveva l'aria di essere uno a cui piaceva far domande di natura intima alle donne. «Solo uno dopo Marcus,» rispose lei. Lui sorrise in attesa, lo sguardo opprimente. Kristin piegò l'indice della mano destra in modo eloquente. «Questo!» Non avrebbe mai creduto di poter essere così sfacciata, ma quell'idiota se l'era andata a cercare. E provò una grande soddisfazione quando lo vide arrossire.
Nel corso dell'interrogatorio arrivò un giovane tecnico della scientifica che le prese le impronte digitali. Come in un thriller. Si sentiva colpevole di qualcosa, come quando attraversava la dogana con la coscienza più sporca del mondo. La risposta sfrontata di Kristin aveva smontato il poliziotto, che concluse l'interrogatorio in modo freddo e formale e che non disse nemmeno una parola quando l'accompagnò all'ascensore. 2 Tornò a casa presto dal lavoro. Per una volta, trovò un posto libero sul tram. Con la valigetta contenente l'allarme fornitole dalla polizia sulle ginocchia, prese a scrutare gli uomini intorno a lei. Che tipo di individuo poteva essere? Brutto e brutale? Bello e arrogante? Anonimo e comune? «Un tipo qualsiasi,» pensò. «Uno che si confonde tra la folla.» Un uomo su cui aveva posato lo sguardo le fece l'occhiolino. Imbarazzata, si mise a guardare fuori dal finestrino e si accorse che stava per mancare la sua fermata. A casa collegò l'allarme al telefono, si sintonizzò su Radio P4, e dopo aver alzato il volume andò in bagno. Appoggiò il braccialetto con il dispositivo di allarme sul bordo del lavandino, e una volta che ebbe finito di spogliarsi buttò i vestiti nel cesto della biancheria sporca. Aprì l'acqua e rimase a lungo sotto la doccia. Prima si sfregò per bene con una spazzola di crine, poi si insaponò da capo a piedi e si tastò il seno alla ricerca di noduli. Si strigliò una seconda volta. I getti d'acqua fredda sembravano degli artigli sulla sua pelle. Dopo la doccia, si infilò un paio di jeans e una maglietta («DONT WORRY, BE HAPPY!») e si preparò una specie di zuppa che non sapeva di niente. Mentre mangiava, lesse l'edizione serale del giornale. La pagina con gli auguri di compleanno la fece pensare ad Halvor. Suo fratello avrebbe compiuto quarant'anni due giorni dopo. Era da un po' che non lo sentiva. Dopo la morte dei loro genitori, Halvor era rimasto il suo unico parente stretto. Tuttavia, con il trascorrere degli anni si erano allontanati. Si telefonavano più o meno una volta al mese e lei lo andava a trovare una o due volte all'anno - e la cosa finiva lì. Kristin voleva raccontargli del filmato prima che lo vedesse in televisione o leggesse la notizia sui giornali. Dopo mangiato si sedette accanto al tavolino del telefono, prese la rubrica, che era finita sotto l'elenco telefonico, e la aprì alla lettera H. Aveva
sbagliato a memorizzare sul telefono il numero di Halvor, e finiva sempre per chiamare un pastore di Valle. Compose il numero e fece squillare il telefono a lungo. Halvor viveva da solo. Kristin non capiva perché. Era basso e tozzo e tutt'altro che bello, ma era buono e affettuoso: un sogno per una donna di sani princìpi che non ambiva a una vita piena di follie. Ma non l'aveva mai sentito parlare di una fidanzata né di un'amica. Dentro di sé era convinta che non avesse mai avuto rapporti sessuali. Era impensabile immaginarselo mentre corteggiava e seduceva una donna. E altrettanto impensabile era l'idea che fosse disposto a pagare per far sesso. Era un verginello di quarant'anni. Non era omosessuale. Era semplicemente - Kristin scandagliò il proprio cervello alla ricerca della parola giusta - asessuale. Asessuato. Forse per via del fatto che era così timido. Era ancora capace di arrossire fino alla stempiatura. Riagganciò dopo aver lasciato squillare il telefono almeno venti volte. Era nella stalla oppure nei campi. Avrebbe provato più tardi. Nella borsetta aveva due copie ripiegate delle lettere del rapitore. Le spiegò sul tavolo del salotto e prese a studiarne la calligrafia. Lettere piccole e marcate scritte in stampatello. Era arrabbiato mentre scriveva? Traboccante di un'ira cieca? O stava soltanto tentando di rendere la propria grafia il più lontana possibile da quella vera? Dal momento che la calligrafia di un essere umano può risultare riconoscibile quasi quanto un'impronta digitale. Tenne una delle due lettere in controluce, come se il foglio potesse contenere un codice segreto. DUNQUE SE NON TI CREDONO E NON ASCOLTANO LA VOCE DEL PRIMO SEGNO, CREDERANNO ALLA VOCE DEL SECONDO! Che diavolo di messaggio ampolloso era quello? Qualcosa che ti saresti aspettato di trovare nella Bibbia o in un racconto di Edgar Allan Poe. Suo nonno avrebbe potuto scrivere una cosa simile, ma era nato nel 1899. Il rapitore era forse un vecchio? Kristin aggrottò la fronte. O magari un giovane che fingeva di essere vecchio? Ma qual era il punto? Lesse la seconda lettera:
SE NON CREDONO NEPPURE A QUESTI DUE SEGNI E NON ASCOLTERANNO LA TUA VOCE, ALLORA PRENDERAI ACQUA DEL NILO E LA VERSERAI SULLA TERRA ASCIUTTA: L'ACQUA CHE AVRAI PRESA DAL NILO DIVENTERÀ SANGUE SULLA TERRA ASCIUTTA. Del tutto incomprensibile. «Sangue sulla terra asciutta» era scritto in rosso. Pensava forse che lei fosse tarda di comprendonio? Quelle parole le suonavano in qualche modo conosciute. Forse erano citazioni prese da un classico? Ibsen? Hamsun? Dostoevskij? Se c'era qualcuno in grado di aiutarla, questo era Gunnar. Era capace di recitare a memoria lunghi stralci delle opere classiche che aveva letto. E le aveva lette tutte. Tutte! Il suo appartamento sembrava una biblioteca. O un negozio di libri antichi e introvabili. Non vedeva Gunnar da un paio di settimane. Sicuramente le avrebbe potuto dare qualche consiglio utile. Non soltanto sulle lettere, ma su tutta quella dannata storia. Sulle videocassette. Gunnar sapeva sempre che cosa bisognava fare. Guardò l'ora. Le sei e mezzo. Se l'avesse invitato da Beckers, avrebbe potuto raggiungerla nel giro di mezz'ora. Prese la rubrica telefonica. «Gunnar, mio caro, vecchio Gunnar,» mormorò mentre componeva il numero, «per favore, fa' che tu sia a casa, ti prego!» Un anziano giovanotto «Elementare, mia cara Kristin: è Mosè!» Con un'espressione compiaciuta, Gunnar Borg le restituì le due fotocopie. Squadrandole da sopra le lenti degli occhiali, mandò giù un bel sorso di birra analcolica. Le bollicine gli pizzicarono piacevolmente il palato. «Mosè?» gli fece eco Kristin. Gunnar dovette reprimere un rutto. «Mosè!» tuonò allargando le braccia. Due ragazzi seduti al tavolo a fianco gli lanciarono un'occhiata di traverso. «Il patriarca! Quello dei comandamenti!» Con aria degna di un professore, si calò gli occhiali sulla punta del naso: «Signorina Bye, dormiva durante l'ora di religione? Queste sono citazioni bibliche!» Kristin guardò i fogli.
«Il quarto o il quinto libro dell'Esodo,» continuò Gunnar. Lei gli rispose con un sorriso, che lui le restituì. Kristin era per lui come una figlia, una figlia ribelle e indisciplinata. «E dal momento che sei così onnipotente e onnisciente, o mio signore e padrone, mi puoi spiegare perché, in nome del cielo, qualcuno mi manda delle lettere e delle cassette di questo genere?» Quando Gunnar fece scivolare l'indice sul bordo del bicchiere, sforzandosi di sembrare indifferente, dal vetro si levò una specie di lamento. Non era facile. Era in ansia per lei. Un pazzo furioso aveva messo gli occhi su Kristin, e i pazzi furiosi erano capaci di inventarsi qualsiasi cosa. Qualsiasi. Ma non voleva spaventarla. Così, con un sorriso forzato le disse: «Accidenti, che storia fantastica, Kristin! Stupenda! La voglio nell'edizione di domani.» «Gunnar! Hai promesso!» «Scusami, Kristin, sto quasi per dichiarare lo stato di emergenza. In fondo non mi aspettavo certo...» «Gunnar!» «Mia cara, fammi parlare...» «Non ci provare!» «Sto solo cercando...» «Hai promesso!» «Sì, sì, lo so che ho promesso!» «Io mi fido di te!» «Ma non sapevo di cosa mi avresti parlato! Per favore!» «Hai promesso! Gunnar!» «Ho promesso, ho promesso, ho promesso. Ma non mi dai neanche il permesso...?» «No.» «Insomma, non ho uno scoop da sbattere in prima pagina dal giorno in cui è stato assassinato Lincoln!» «Scordatelo, Gunnar.» «Non ti dimenticare che sono un signore anziano. Che morirò tra qualche settimana! Abbi pietà di uno stacanovista in punto di morte.» «Bah! Non mi freghi.» «Una prima pagina sul giornale di domani vorrebbe...» «No!» «Ti ho mai chiesto...» «Gunnar... No!»
«Se il 'Dagbladet' dovesse rendere nota la faccenda domani mattina, ti garantisco che il numero dei tuoi telespettatori...» «Io... ho... detto... Scordatelo!» Alzando il bicchiere, la guardò di sottecchi attraverso il liquido dorato, con un'espressione a metà tra il rassegnato e l'arrabbiato. «Perlomeno ci ho provato.» «Sì, Gunnar.» «Capisci cosa intendo dire? Se qualcuno dovesse andare in giro a fare la spia, siamo d'accordo nel dire che io ci ho provato?» «Ci hai provato.» «Insistito a più non posso?» «Hai insistito a più non posso.» «Quasi con la forza?» «Quasi con la forza, Gunnar.» Trangugiò un altro sorso di birra: perlomeno ci aveva provato. A volte si sentiva una specie di caricatura. La caricatura di un giornalista vecchio, pingue e giunto al capolinea. Disilluso, senza più sogni né obiettivi. Aveva fatto tutto, vissuto tutto. Ogni giorno sfogliava quel malloppo di vita con uno sbadiglio. Aveva intervistato Hemingway a Cuba. Aveva intervistato Marilyn Monroe per otto paradisiaci minuti all'Hotel Bel-Air in California. Martin Luther King. Cary Grant. Aveva stretto la mano al presidente Kennedy e partecipato a un banchetto a Pechino con Mao come padrone di casa. I suoi colleghi lo chiamavano «Manuale di storia ambulante». Avrebbe compiuto sessantasette anni tra cinque settimane. Si sentiva già in bocca il sapore della parola: sessantasette. Da ragazzo, avere sessantasette anni equivaleva per lui ad averne cento. Un settuagenario con un piede nella fossa. Ma non si sentiva vecchio. Un po' logoro e con qualche cigolio alle giunture, questo sì, ma non vecchio. Il cervello gli funzionava ancora. E il suo sguardo era ancora capace di incollarsi al sedere di una donna. Ma pur essendo giovane di spirito, non vedeva l'ora di andare in pensione. Un tempo era stato un reporter celebre (più o meno al tempo in cui Gutenberg aveva creato il primo armadio a scomparti della storia dell'architettura d'interni). L'epoca in cui era ancora possibile seguire tutta una guerra per conto di un giornale. Prima che la CNN si impadronisse dell'intero campo di battaglia. L'epoca in cui la gente aveva il tempo di leggere, il
tempo di apprezzare una frase ben formulata, di capire le ragioni di un conflitto. Prima che la televisione invadesse il mondo con le sue antenne paraboliche, i collegamenti in diretta e gli inviati che riferivano con ammirazione della conduzione chirurgica della guerra; giovani reporter in erba con tanto di blazer, cipria e lacca sui capelli. Come se la guerra fosse un'eccitante puntata di una serie televisiva. There's no business like show business. Gunnar era stato sdraiato a testa bassa in mezzo alla polvere nei teatri di guerra di tutto il mondo. Gli avevano sparato e lo avevano minacciato. Aveva viaggiato sui carri armati, vagato per le giungle, mentito per riuscire a superare i posti di blocco. Tutto alla ricerca di una notizia, di una buona storia. E, alla fine, un telefono. In modo da poter dettare i suoi articoli a casa, al «Dagbladet». Dal Nord Africa, dalla Corea, dalla Cambogia, dal Medio Oriente, dal Vietnam, dall'Afghanistan, dal Cile. Le quattro paroline magiche: «Dal nostro inviato speciale». Era stato persino ferito. Era successo in Vietnam. Una giornata calda, soleggiata, senza la morte nell'aria. Un cecchino dietro un terrapieno. La ferita non era stata mortale, un proiettile nella coscia, ma, accidenti, in Norvegia era diventato un eroe. I colleghi più anziani gli chiedevano ancora, con un misto di sarcasmo e di ammirazione, se quella ferita gli desse sempre fastidio. Era solito eludere la domanda con una risata. Quando si era stancato di trascorrere settimane e mesi perennemente in viaggio, aveva cominciato a fare il commentatore di politica estera. Il direttore del giornale gli aveva offerto un posto nel comitato di redazione, ma dopo una notte di riflessione Gunnar aveva rifiutato. Non voleva diventare un dirigente. Aveva visto fin troppo bene come se la passavano i colleghi che si erano lasciati convincere ad abbandonare la macchina da scrivere. Gunnar voleva scrivere. Punto. Era un giornalista. Punto e a capo. Non se n'era mai pentito. In qualità di commentatore, aveva goduto di un grande rispetto tra i suoi colleghi. Il suo parere aveva un certo peso. I due libri che aveva scritto sui suoi anni come inviato di guerra erano andati piuttosto bene. E lo avevano persino intervistato alla TV di Stato. Ma poi, di punto in bianco, si erano dimenticati di lui. Si sarebbe addirittura potuto credere che fosse morto. A metà degli anni Settanta tutto si era come fermato. La sua vita aveva subito una battuta d'arresto. I suoi articoli erano rimasti a ingiallire nei contenitori di plastica sulla sua scrivania in redazione. C'erano cose più importanti di cui occuparsi. E Gunnar lo aveva capito. Si era stufato. E la cosa si era fatta evidente. Stufato di leggere
quello che scrivevano gli inviati, stufato di riscrivere gli articoli degli altri, stufato di rielaborare i tristissimi dispacci che provenivano dalle agenzie di stampa estere. Aveva cominciato a bere sempre di più. E nel tentativo di risorgere a livello professionale, aveva cercato lavoro nell'unica sezione che avrebbe ancora potuto garantirgli un minimo di eccitazione: la cronaca nera. Aveva conosciuto Kristin mentre lei frequentava il liceo e scriveva per un piccolo quotidiano locale. Dal momento che Gunnar abitava a un tiro di schioppo dal giornale e godeva di una parvenza di notorietà, il caporedattore voleva un suo ritratto da inserire nell'edizione del venerdì. E aveva mandato a intervistarlo la giovane Kristin. Durante l'intervista, Kristin non aveva fatto colpo su Gunnar. Era insicura, parlava a voce bassa e arrossiva troppo di frequente per impressionare un giornalista della sua esperienza. Ma quando tre giorni dopo aveva letto il suo articolo, ne era rimasto stupito. Quella ragazzina così dolce e riservata gli aveva fatto un ritratto al fulmicotone, condito di punzecchiature e pieno di carattere. Era stato l'inizio di una lunga amicizia. Gunnar le aveva insegnato i trucchi del mestiere e aveva vivisezionato gli articoli di Kristin. L'aveva torchiata sull'uso preciso della lingua e della grammatica e l'aveva istruita su come rapportarsi alle fonti e sulle tecniche da utilizzare nel corso di un'intervista. Aveva telefonato a un suo amico quando Kristin aveva cercato lavoro all'«Adresseavisen» e le aveva aperto le porte del «Dagbladet». Non le aveva mai raccontato queste cose e non voleva che lei le venisse a sapere. Il successo di Kristin era frutto esclusivamente delle sue capacità. Kristin aveva perso i genitori quando era ancora una ragazzina, prima la madre e poi, un paio d'anni dopo, il padre. E Gunnar si sentiva come un secondo padre per lei. Non aveva mai goduto della tranquillità necessaria per metter su famiglia. Negli anni in cui correva a testa bassa con le granate che gli fischiavano attorno non avrebbe retto al pensiero che qualcuno a casa lo stesse aspettando. E così Kristin era diventata la figlia che non aveva mai avuto. Con orgoglio paterno, l'aveva vista crescere e trasformarsi da timida studentessa in una giovane donna bella e saggia. Salutava i suoi fidanzati con uno sguardo assassino e la consolava tutte le volte che le sue storie finivano. Quando Gunnar si era fatto prendere la mano con l'alcol, alcuni anni prima, era stata Kristin a occuparsi di lui. Aveva sempre bevuto troppo. Forse per tenere a bada l'ansia, o forse perché i cocktail e le pinte di birra
erano diventati per lui uno stile di vita. E un conforto. In giro per il mondo, erano i bar i luoghi dove si facevano nuove conoscenze. Informatori, persone da intervistare, colleghi, magari anche una compagna per una notte. Tanto, a casa, ad aspettarlo non c'era altro che un silenzio opprimente. Nel corso di tutti quegli anni era riuscito a tenere la bottiglia alla giusta distanza. Ma un giorno aveva perso il controllo. Era stata Kristin a prendere in mano la situazione. Era stata spietata. Inclemente. Gliene aveva dette di tutti i colori e non gli aveva risparmiato niente. E l'aveva rimesso in piedi. Da due anni beveva solo acqua, succhi e birra analcolica. Sarebbe stato un bugiardo se avesse affermato di non sentire la mancanza di un drink o di una vera birra. Ma tirava avanti. Era nato con la camicia e con una grande forza di volontà. Era sempre riuscito a cavarsela. Quando si era occupato della guerra civile in Biafra nel 1968, aveva conosciuto un tizio sdentato che, in cambio di una notevole somma di denaro, si era dichiarato in grado di procurargli un'intervista con uno dei capi dei guerriglieri che aveva fatto perdere le proprie tracce. Gunnar lo aveva seguito in un albergo sudicio per incontrare quell'uomo, ma aveva realizzato troppo tardi di esser stato ingannato. Erano in tre. Gunnar aveva sempre pensato di essere un codardo, un fifone che sarebbe caduto in ginocchio tremante qualora si fosse trovato di fronte a una grave minaccia, ma nel giro di trenta secondi era riuscito a impossessarsi della pistola di uno dei tre, a sparargli in pancia e a far scappare gli altri due. La cosa gli sembrava ancora irreale, quasi un film. Non aveva mai saputo se quell'uomo alla fine era morto o se lo aveva soltanto ferito. E l'aveva stupito il fatto che la cosa non gli importasse. Non aveva mai scritto niente a proposito di quell'episodio e non ne aveva mai parlato con nessuno: era come se non fosse mai accaduto. «Tu avresti mostrato le immagini, Gunnar?» gli chiese Kristin. Si riscosse dai propri pensieri, e con l'indice si calò gli occhiali sulla punta del naso. «Secondo te? Certo che le avrei mostrate! Non sei forse una giornalista, signorina? Kristin, ti hanno servito la storia del secolo su un piatto d'argento! Approfitta di questa chance!» «Non so se è la cosa giusta da fare.» «Giusta?» le strizzò l'occhio. «OK. Hai ragione. Lo farò io per te. Sul 'Dagbladet', domani. D'accordo?» «Gunnar!»
«Solo per darti una mano!» «Sai una cosa, Gunnar? Tu...» «Sì, lo so, lo so. Ho promesso.» Incrociò il suo sguardo e vi riconobbe subito la ragazzina insicura che l'aveva intervistato dieci anni prima. Lei disse: «Ho paura.» Gunnar un po' se l'era aspettato. O forse l'aveva sperato. Non erano i suoi pareri quelli che lei voleva. Non aveva bisogno dei suoi consigli professionali: era circondata da persone in grado di darglieli. Era Gunnar quello di cui lei aveva bisogno. Gunnar. L'amico. Il suo secondo papà. Allungò la mano sul tavolo e l'appoggiò su quella di Kristin. Una buona storia 1 «Ladies and gentlemen,» disse Richard Wolter con un'espressione degna di un direttore di circo, prima di rimettere al suo posto con un tonfo la cornetta del telefono, «it iz show-time!» Kristin strinse i braccioli della sedia con le mani. Il caldo si stava impadronendo della stanza. Il sole mattutino proiettava delle strisce di luce bianca attraverso le persiane socchiuse. Dalla redazione proveniva un ronzio fatto di telefoni che squillavano, discussioni, dita che battevano sulle tastiere dei computer, risate. «Allora?» Kristin guardò Skaug e poi di nuovo Wolter. «Cos'ha detto?» Divaricando le dita, Wolter si ravviò i capelli con le mani. A Kristin ricordava un hippy. Wolter si passò la lingua sui denti e fece un enorme sorriso. «Richard!» esclamarono Kristin e Skaug all'unisono. «OK, il punto è il seguente: nessuna delle donne scomparse corrisponde a quella delle immagini. Non hanno trovato altre impronte oltre alle nostre. E la polizia definisce tutta quanta la storia come un grande mistero.» Si trattenne. «E... possiamo intervistare Vang nel pomeriggio davanti alla questura. La polizia vuole l'aiuto dei telespettatori. Questa sera indiranno una conferenza stampa...» sorrise con aria furba, «... dopo la nostra edizione delle 18.» Skaug batté il pugno di una mano sul palmo dell'altra ed esclamò: «Yes! Yes! Yes!»
Kristin chiuse gli occhi. «Qualcosa che non va?» le domandò Wolter. Lei spalancò gli occhi e si mise a ridere nervosamente. «No! Io... È che la cosa è un tantino strana, l'intera faccenda, intendo. Pensavo che la polizia...» Scosse la testa. «Non importa! Non importa!» Skaug le mise una mano sulla spalla: «Tranquilla, Kristin, se non vuoi occuparti di questo caso, dirò a Caspar di farlo.» Lei abbassò lo sguardo. Nella stanza regnava il silenzio. Poi, ammiccando, gli lanciò un'occhiata: «Caspar? E tu pensi che io voglia mettere questa storia nelle mani di quell'essere viscido?» Skaug aggrottò le sopracciglia e guardò di sottecchi Wolter, che si schiarì la voce. «Promettimi di stare attenta, Kristin,» disse. «Ma certo!» Pensò: «Attenta a cosa?» 2 Alle tre meno cinque Kristin si trovava insieme a Roffern davanti all'ingresso principale della questura. Quell'edificio lungo e dalle linee morbide le ricordava un gigantesco animale preistorico che, morendo, si era pietrificato. Sul prato che si affacciava sulla Grønlandsleiret, gli alberi davano vita a delle zone d'ombra. Roffern aveva già finito di montare la videocamera sul cavalletto quando Vang all'improvviso uscì dalle porte automatiche. Strinse brevemente la mano a Kristin. Si era messo il blazer e la cravatta da televisione, e in quella luce accecante Kristin notò che si era riempito di lacca la frangia per farla stare a posto. «Niente di nuovo?» gli chiese. «Niente. Sarà un'intervista lunga?» «Quattro o cinque minuti. La più lunga che tu abbia mai fatto.» «Come hai intenzione di strutturarla?» «Ti chiederò cosa è in grado di dire la polizia a proposito dei filmati e delle lettere, dopodiché possiamo chiudere con un tuo appello ai telespettatori.» Mentre si schiariva la voce, Vang si strinse il nodo della cravatta. Un noto avvocato, passando, lo salutò allegramente. «Pronto, Roffern?» domandò Kristin. «Un attimo... Potete dire qualcosa, così controllo l'intensità del suono?» Porse a Kristin il microfono con il numero 24 scritto in giallo. «Kristin,
mettiti un po' più a destra. E Vang, non guardare in camera, per favore. Guarda lei. Kristin, faccio una prova.» Kristin contò fino a dieci nel microfono, poi lo porse a Vang, il quale si mise a dire a voce alta «Hallo-hallo-hallo» finché Roffern non si dichiarò soddisfatto. «Quando sei pronta tu, sono pronto anch'io,» disse a Kristin. «Allora iniziamo!» «Vai!» Kristin si schiarì la voce: «Come valuta la polizia le immagini della donna tenuta prigioniera?» «Stiamo prendendo seriamente in considerazione...» «Stop!» gridò Roffern. «Vang, non guardare in camera. Vai, Kristin.» Lei sollevò due dita per indicargli che stava per ricominciare a parlare. «Come valuta la polizia le immagini della donna tenuta prigioniera?» «Come ho appena detto, stiamo prendendo seriamente in considerazione...» «Stop,» lo interruppe Kristin. «Non puoi dire 'Come ho appena detto'. Rifacciamo.» Alzò tre dita e aspettò qualche secondo. «Come valuta la polizia le immagini della donna tenuta prigioniera?» «La questura di Oslo ritiene gli elementi in suo possesso molto preoccupanti. La notte scorsa e per tutta la giornata di oggi abbiamo esaminato sia i filmati che le lettere, ma non ci è ancora chiara l'identità della donna.» «Quindi la sua scomparsa non è stata denunciata?» «Non alla polizia, no.» «Potrebbe forse trattarsi di uno scherzo di pessimo gusto?» «Non possiamo certo escludere che qualcuno abbia inviato il materiale a Kanal 24 per prendersi gioco dell'emittente e della polizia. Allo stesso tempo, tuttavia, il quadro mostrato dalle immagini è di così grave natura da spingerci a considerarle autentiche.» «La polizia dispone di qualche indizio?» «Al di là della calligrafia usata per scrivere le lettere, delle buste e delle impronte lasciate sulle videocassette, non disponiamo di indizi di natura tecnica. Per questo chiediamo l'aiuto dei telespettatori: innanzitutto allo scopo di identificare la donna, ma anche, se possibile, di aiutarci a chiarire il motivo per cui a quanto pare verrebbe tenuta prigioniera.» «In quale modo procederanno le indagini?» «Continueremo ad analizzare il materiale, ma rimaniamo in attesa di informazioni da parte dei telespettatori nel corso della serata. Questa sera alle otto, in questura si terrà una conferenza stampa.»
Kristin esitò. «A questo punto non ho altre domande. Vuole aggiungere qualcosa?» «Direi di no.» «OK, andava bene.» Girò la testa. «Soddisfatto, Roffern?» «Sì, ora però ci servono altre immagini. Vang, potresti rientrare e poi riuscire dalla porta e camminare oltrepassando la telecamera? Senza guardarla!» «Ci serve per montare il mio commento,» gli spiegò Kristin. «Guarda che non è la prima volta che lo faccio! Non so quante altre volte sono uscito da quella porta in onore dei fotografi...» Sorrise con fare professionale a Kristin, la quale gli restituì il sorriso con fare altrettanto professionale. Nella sala buia del montaggio, con l'immagine della donna stesa sul materasso che veniva riproposta su tutti i monitor, a Kristin venne la nausea. Questa storia la toccava in maniera completamente diversa rispetto a tutti gli altri casi di cui si era occupata. Si rese conto di esser diventata come lobotomizzata nel corso degli anni. Incidenti e tragedie raramente la turbavano. Aveva eretto un muro di indifferenza tra sé e il dolore altrui. Ma in un punto imprecisato della città una donna giaceva incatenata su un materasso e il suo aguzzino voleva che proprio lei - Kristin Bye, ventotto anni, giornalista televisiva alle prime armi - fosse informata dei fatti. 3 Il primo giornale chiamò già nel corso della trasmissione. Un redattore del «VG» disse che la loro squadra si era già messa in viaggio per andare a intervistare Kristin e Wolter. Subito dopo telefonarono il «Dagbladet» e la NTB, oltre ad alcune radio locali di cui Kristin aveva a malapena sentito parlare. Qualche minuto dopo dalla reception comunicarono che erano arrivati un giornalista e un fotografo dell'«Aftenposten». Wolter e Kristin lasciarono passare qualche minuto prima di invitarli nella sala riunioni. I giornalisti, zelanti, impazienti e un tantino aggressivi, li subissarono di domande rubandosi le parole di bocca. «Cosa sapete della donna?» «Chi è il rapitore?» «Perché avete mostrato le immagini?» «Perché ha mandato a voi il video?»
«Cosa succederà alla donna?» Cercavano di convincere Kristin a concedere a ognuno di loro i dettagli più esclusivi. Alla fine Wolter riuscì a calmarli. Sottolineò il fatto che a condurre le indagini fosse la polizia e non Kanal 24, aggiungendo che Kristin aveva raccontato tutto ciò che sapeva nel servizio che era appena andato in onda, ma che avrebbe potuto ripetere ogni cosa se solo i presenti fossero stati così gentili da chiudere la loro bocca per permettere a lei di aprire la sua. Dopo che Kristin ebbe ripercorso la vicenda per la seconda volta, con Wolter che l'aiutò a scongiurare tre o quattro interruzioni, quest'ultimo fornì un breve resoconto di quelle che erano state le valutazioni di «24 timer!» riguardo al filmato e al timore di esser stati oggetto di una truffa ben orchestrata. I fotografi scattarono ognuno le proprie foto di Kristin e Wolter, insieme e da soli. Quando tutto fu finito, Kristin avvertì la spossante sensazione di aver subito un prelievo di sangue. Qualcosa come tre litri. Quella sera stessa Kristin e Caspar Vik, il giornalista che si occupava dei casi di cronaca nera per «24 timer!», si presentarono alla conferenza stampa in questura. Kristin venne di nuovo circondata dai giornalisti. L'ispettore Vang non aveva niente di nuovo da comunicare. Con il permesso del direttore del telegiornale Wolter - e Vang sottolineò la parola permesso con un tono di voce talmente acido che Kristin capì che Wolter gli aveva imposto una serie di condizioni - distribuì un ritratto della donna ricavato dal filmato. Si levarono rumorose proteste da parte degli inviati delle televisioni, quando questi realizzarono che non avrebbero ricevuto nessuna copia della videocassetta. L'inviato del «Dagsrevyen» attaccò con un panegirico a proposito del dovere, da parte della polizia, di tenerli informati, prima che la sua voce venisse coperta da quella degli altri giornalisti. Il reporter di TV2, che Kristin aveva conosciuto nel corso di altre conferenze stampa, disse che era certo che Kanal 24 avrebbe posto una clausola di eclusività, ma, sussurrò soddisfatto, non era certo vietato riprendere qualcuno che guardava un televisore su cui scorrevano i servizi di «24 timer!». Alla fine della conferenza stampa, Kristin e Caspar concordarono sul fatto che non fosse necessario rivedere il servizio di Kristin, e stabilirono che Caspar avrebbe preparato un breve servizio sulla conferenza stampa e sulle reazioni che questa aveva scatenato. Kristin telefonò in redazione per sapere se poteva andare a casa. Non se ne parlava neanche. La volevano in stu-
dio anche per l'edizione delle 22, e poi avevano telefonato un sacco di telespettatori che ritenevano di sapere chi fosse la donna. 4 Solo verso mezzanotte la tempesta di telefonate cessò. Il centralino aveva ricevuto sessantacinque chiamate a proposito della donna, che per il momento aveva quattordici identità diverse. Quando Kristin ebbe finito di passare in rassegna le informazioni arrivate in redazione, una pila di segnalazioni risultò più alta delle altre: Una Mørch, organista con incarico temporaneo. Anche la polizia aveva ricevuto parecchie telefonate, ma soltanto nel corso della nottata avrebbe finito di escludere le informazioni false o inattendibili. Era l'una meno un quarto quando Kristin scese dal taxi che l'aveva riportata a casa, al suo domicilio di Schleppegrells Gate. Era un nome che spingeva a non alzare il gomito, vista la difficoltà che si aveva nel pronunciarlo da ubriachi, e non c'era tassista che non le ripetesse la stessa battuta ogni volta che lei comunicava dove doveva andare. Era sfinita. Non ebbe neppure la forza di lavarsi i denti. Si spogliò, e dopo aver abbandonato a terra i vestiti si infilò a letto. Da uno spiraglio della finestra aperta sentì lo sferragliare del tram che saliva lungo Thorvald Meyers Gate. Prima ancora che passasse sotto la sua finestra, Kristin stava già dormendo. 5 I giornali del sabato furono un vero trionfo. Il titolo dell'«Aftenposten» occupava sei colonne della prima pagina: «La polizia a caccia della vittima del video». Sotto c'erano una foto grande della sconosciuta e una più piccola di Kristin. Il «VG» aveva sovrapposto le parole «Choc in TV» all'immagine della donna, mentre il «Dagbladet» aveva ingigantito una foto di Kristin sottotitolandola: «Stella della TV riceve video dell'orrore». «Stella della TV?» si domandò Kristin stupita. I pochi colleghi che lavoravano durante il weekend applaudirono, inneggiando al suo nome, quando Kristin entrò in redazione. Erano le dieci e
mezzo: Skaug le aveva concesso di dormire un po' di più, dal momento che la giornata precedente era stata lunga. Qualcuno aveva incollato le prime pagine del «VG» e del «Dagbladet» a una colonna della redazione, e sulla sua scrivania campeggiava un grande mazzo di fiori da parte del direttore. Skaug arrivò con andatura dinoccolata, la sigaretta spenta in un angolo della bocca. «Buongiorno. Pensavo di metterti al lavoro prima che ti venissero delle smanie da primadonna.» «Moi?» gli rispose lei mettendosi in posa. «Abbiamo ricevuto un bel po' di informazioni su chi potrebbe essere la donna.» «Serie?» «Mettiamola così: alcune sono meglio di altre. Abbiamo uno che insiste nel dire che si tratta di sua moglie, morta l'anno scorso. Uno che afferma che è Maria Antonietta. E due che sostengono che ci hanno mandato uno spezzone di un film sadomaso, The Basement.» «Risparmiamelo!» «Ma in effetti le informazioni più interessanti vengono da diverse persone che ritengono che la donna si chiami...» Skaug rovistò febbrilmente tra i fogli che aveva in mano. «Una qualcosa?» suggerì Kristin. «Esattamente! Una Mørch. Come facevi a saperlo?» «Il suo nome è stato fatto più volte anche ieri sera.» «Organista di una chiesa. Di origine danese. L'informatore più attendibile è un sagrestano...» «Un sagrestano?» «Proprio così! Tipo il Gobbo di Notre Dame, una cosa del genere... Dove diavolo ho messo l'appunto? Eccolo! Della parrocchia di Grorud. Questo è il suo numero di telefono. Trova Roffern e vai a farti un giro da quelle parti.» «Roffern? Poverino, è di turno anche oggi?» «Poverino? Ma senti questa! Nel petto di quello squalo degli straordinari non batte un cuore, ma un tassametro! Sono io che dovrei farti pena.» «Tu? E così tu avresti un cuore?» Il sagrestano era esile, coi capelli radi, una risata che sembrava sempre come di scusa e un pomo d'Adamo che andava su e giù in continuazione. Quando Kristin gli chiese perché ritenesse che quella donna fosse proprio
Una Mørch, rise nervosamente prima di dire: «L'ho riconosciuta!» Raccontò loro che Una stava sostituendo un altro organista e che non la vedeva da qualche giorno, cosa di per sé del tutto normale, dal momento che la donna non avrebbe dovuto suonare prima di quel pomeriggio, a un matrimonio. Aveva cercato di contattarla più volte la notte scorsa e nel corso della mattinata, ma non gli aveva mai risposto. «È una ragazza perbene,» aggiunse. Pronunciò perbene in un modo tale che Kristin non ebbe alcun dubbio su cosa intendesse dire. L'uomo voleva essere di aiuto, ma sulle prime si rifiutò di farsi intervistare con tanto di microfono e telecamera. Kristin impiegò dieci minuti per convincerlo del fatto che fosse un suo dovere di essere umano e di cristiano dire qualcosa di bello su Una. Si sentì una carogna, ma ottenne ciò che voleva. 6 La casa si trovava a pochi metri di distanza dalla chiesa. Kristin sentì un tuffo al cuore quando riconobbe la grande casa bianca del primo filmato, con le siepi alte, il cancello di ferro battuto, il giardino e la panchina. Roffern non disse una parola quando tornò indietro per andare a prendere la telecamera. Il cancello cigolò mentre lo aprivano. La ghiaia scricchiolava sotto i loro piedi. I meli erano carichi di frutti ancora acerbi. Le finestre sembravano buchi neri. Salirono su per la scala di granito. Kristin suonò al campanello. L'eco si diffuse in lontananza in modo sinistro. Aspettarono. Suonò una seconda volta. «Non c'è nessuno,» disse. «Allora riprendo solo te,» suggerì Roffern. Kristin storse il naso. Non le piaceva essere ripresa da sola. Vedersi sullo schermo nel corso del telegiornale - davanti alla telecamera, con il microfono in mano e lo sguardo proiettato in avanti - la faceva sentire parte dell'avvenimento di cui si stava occupando. Preferiva mantenere una certa distanza nei confronti dei telespettatori e delle notizie. Ma a volte non aveva scelta. Inoltre, la cosa poteva sortire un certo effetto all'interno di un servizio. Come in questo caso. Lei e Roffern impiegarono qualche minuto per decidere in che modo a-
vrebbero dovuto riprendere la scena. Roffern si posizionò accanto ad alcuni cespugli e fece segno a Kristin che poteva cominciare. Kristin salì lungo la scala, suonò il campanello e aspettò un attimo. Quindi si girò verso la telecamera sollevando il microfono: «È in questa casa che Una Mørch ha preso in affitto un appartamento. Oggi non c'è nessuno. E tutto pare confermare che la vittima apparsa nel video amatoriale spedito a '24 timer!' sia proprio l'organista.» Roffern riprese la casa da diverse angolazioni, mentre Kristin fece un giro dai vicini per sentire cosa sapevano sul conto di Una Mørch. Molti di loro dissero che era una brava ragazza, tranquilla, che non dava mai nessun disturbo. Soltanto uno di loro si rese disponibile a rilasciare delle dichiarazioni pubblicamente. Lo condussero davanti al cancello in ferro battuto e lo intervistarono servendosi della casa come sfondo. Stavano per rimettere l'attrezzatura in macchina quando due volanti della polizia, una Volvo di pattuglia e una Opel in borghese, si fermarono dietro di loro. Vang e tre poliziotti in abiti civili scesero dalla Opel. «Vedo che avete trovato la strada da soli,» osservò Vang con un tono di voce che indicava a chiare lettere che avrebbe voluto essere lui il primo ad arrivare. «È confermato che si tratti di Una Mørch?» gli chiese Kristin. «Non ufficialmente. Dobbiamo fare una perquisizione.» «Possiamo intervistarti?» «Lasciatemi prima ispezionare la casa.» «Possiamo venire anche noi?» «Mi dispiace,» sorrise lui. «Tutela della privacy eccetera eccetera.» «Che sbirro di classe,» pensò Kristin sorridendo a sua volta. Vang uscì due ore dopo. Nel frattempo la notizia aveva raggiunto anche le redazioni della concorrenza e Kristin era lì fuori che aspettava insieme ad altri dodici colleghi. Vang si fermò sulla scala. Si schiarì la voce. Poi, annuendo, disse: «Per il momento posso soltanto confermare che Una Mørch corrisponde perfettamente alla donna del video. È tutto quello che posso dire al momento. Vi forniremo ulteriori informazioni nel corso di una conferenza stampa che si terrà in giornata.» Mentre alcuni giornalisti telefonavano alle redazioni per trasmettere le ultime notizie, gli altri si mossero in branco in direzione della chiesa. Tutti volevano riprendere il matrimonio al quale Una Mørch avrebbe dovuto suonare.
È quasi mezzanotte. Entra in casa e posa il borsone al solito posto, in un angolo dell'ingresso, si toglie i sandali e li ripone su una mensola della scarpiera. Appende l'ombrello a un gancio e il K-Way all'attaccapanni. Il pavimento scricchiola quando entra in salotto. Accende la luce. La stanza è in ordine; sul pavimento non c'è nemmeno un granello di polvere, è stato lavato di recente. Proprio come l'aveva lasciata quando era uscito. Shere Khan avanza zoppicando verso di lui. Si inginocchia per grattare il gatto dietro le orecchie mentre l'animale gli si strofina contro i pantaloni di velluto a coste. Shere Khan non è in forma. È fiacco, non ha appetito, ma è affettuoso. Prima di alzarsi, si scuote alcuni ciuffi di peli dai pantaloni. In cucina, mette una padella sul fornello elettrico e lo accende. Nel frigorifero trova due uova e qualche patata bollita, che pela. Non c'è niente di meglio, per uno spuntino notturno, delle uova al tegamino con le patate fritte. Versa qualche cucchiaiata di Whiskas nella ciotola di Shere Khan. Mentre la padella si scalda e la stanza si riempie dell'odore di fritto, scende in cantina per vedere come sta la ragazza. Ha allestito una stanza per poterla sorvegliare, servendosi del ripostiglio vicino alla camera dove sta lei: in questo modo non è costretto a disturbarla in continuazione. Attraverso lo specchio, sembra che stia dormendo. Prima di andare a lavorare le aveva acceso la luce da notte. Non voleva che rimanesse sdraiata nel buio più totale. Si era chiesto se non fosse il caso di incatenarla alla caviglia: stare con il braccio contorto dev'essere piuttosto doloroso. Ma lei non si è mai lamentata. Con lei non ci sono mai problemi. Il burro sta sfrigolando nella padella quando ritorna in cucina. Cuoce le uova e le patate e mangia leggendo il giornale della sera. Shere Khan dormicchia sul divano. Non ha toccato cibo. Dopo aver lavato i piatti e aver rimesso tutto a posto nell'armadietto, per un attimo è indeciso se scendere a dare un'occhiata alla ragazza o guardarsi una videocassetta. Di solito opta per un film. Possiede pochi libri. La libreria in salotto è piena di videocassette. Non le ha mai contate, ma deve averne centinaia, forse migliaia. I classici, ovviamente: Via col vento, Psycho, Casablanca, 2001: Odissea nello spazio, Quarto potere... I film più amati dal grande pubblico, come Guerre stellari, Il grande Gatsby, E.T., Forrest Gump... Rosemary's Baby, L'esorcista... Oltre a pellicole meno famose, per pochi appassionati: Plan 9 from Outer Space, Non aprite quella porta... Li ha visti tutti, la maggior parte quattro
o cinque volte, alcuni cento. Quando non lavora, è capace di vedere cinque o sei film uno dopo l'altro. Alcuni li conosce a memoria. Le battute finali di Via col vento. Parti del monologo di Forrest Gump. Non lo stancano mai. Anche se sa come vanno a finire, ogni volta che li vede tutti quei film continuano a entusiasmarlo. Come se si aspettasse che le storie, di volta in volta, cambiassero un po'. Stasera guarderà un western, un classico: Ombre rosse. Va a letto verso le tre. Shere Khan lo segue per andarsi a coricare ai suoi piedi. Fuori inizia ad albeggiare, e attraverso la fessura lasciata dalla finestra aperta sente il rombo lontano dei veicoli che percorrono la Trondheimsveien. All'età di cinque anni aveva fatto un sogno che poi era tornato a perseguitarlo ogni notte. È una gelida mattina invernale. La bruma che si leva a causa del freddo aleggia sulla montagna. È in piedi su un fiume ghiacciato. Sembra un vetro appannato. Abbassa lo sguardo, e sotto l'acqua ghiacciata intravede sua madre che preme con forza il volto contro la crosta. Gli occhi fiammeggianti. Mentre con le mani cerca di aprirsi un varco nel ghiaccio. Urla il suo nome, ma dalla bocca le escono soltanto delle bollicine. Lui la guarda, mentre la madre si scortica le dita fino a farle sanguinare. La mattina prepara la colazione per la ragazza e mette un film nel videoregistratore in modo che non si annoi. Dopo cerca di parlarle, ma lei non è dell'umore giusto: le sue risposte sono laconiche. Se è così che intende comportarsi, che faccia pure. Non le mette nessun altro film prima di uscire. Il sabato in cui spedisce la prima videocassetta e la criptica citazione biblica a Kristin Bye, offre alla ragazza cioccolato e Coca-Cola e le propone una serata di film italiani: Ladri di biciclette, La strada e La dolce vita. Per tutto il tempo rimane seduto a guardarla attraverso lo specchio. Sembra che i film le piacciano, soprattutto l'ultimo. A sera inoltrata le porta un piatto di spaghetti e un bicchiere di Chianti. Lei diventa loquace per via del vino. Il giorno dopo fa una lunga passeggiata nei boschi che circondano Oslo. Pensa continuamente a Kristin. Gli occhi. La voce. La notte la sogna. Sotto il ghiaccio.
Non crede che trasmetteranno le immagini della ragazza: non saranno neppure in grado di coglierne il senso. Né del filmato né della citazione. Ma per sicurezza registra tutti i telegiornali e li guarda velocemente quando torna a casa dal lavoro. Per due volte - lunedì e mercoledì - vede Kristin Bye in studio. Allora riavvolge il nastro e lo rivede in continuazione. Il mercoledì successivo le invia la seconda busta. Ma neanche in quell'occasione mostrano le immagini. Era convinto che l'avrebbero fatto. In fondo è evidente che la ragazza è stata rapita. E le citazioni bibliche... Ride tra sé e sé... Le citazioni bibliche li avranno indotti a credere che si tratti di un pazzo ossessionato dalla religione. Ma venerdì sera (aveva quasi perso le speranze), nell'edizione delle 18 trasmettono il filmato. Quasi troppo bello per essere vero. Gli danno una grande importanza. Kristin Bye è ospite in studio. Insieme a un redattore che spiega perché hanno deciso di mostrare il filmato. Stappa una bottiglia di vino. Poi prende la cassetta con la registrazione del telegiornale e la porta giù in cantina per farla vedere alla ragazza. Ma lei non l'apprezza affatto. Scoppia a piangere, e lui è sul punto di entrare a consolarla. Il giorno dopo, di ritorno dal centro, prima di scendere in cantina raccoglie un mazzo di viole del pensiero. La ragazza è seduta con la schiena appoggiata contro la parete. Mentre sistema i fiori in un vaso, lei alza lo sguardo verso di lui: uno sguardo speciale, uno strano miscuglio di paura, rabbia e indifferenza. Le dice: «Sui giornali è pieno di notizie su di noi.» «Ah...» «Ma non hanno ancora scoperto come ti chiami. Il che mi sembra strano.» «Sì.» «Siamo su tutte le prime pagine.» Lei chiude gli occhi. Lui rimane in piedi davanti a lei, scoraggiato. Passa un minuto. «Ho un regalo per te,» dice. Per un attimo lei alza lo sguardo verso di lui. «Devo slegarti perché tu possa godertelo.» «Sì...»
«Promettimi che non proverai a fuggire.» «Va bene.» «Lo sai come va a finire se ci provi.» «Non ci provo.» «Se soltanto...» «Non ci provo. Slegami. Per favore.» Lui la slega. Poi va a prendere il regalo: un organo da tavolo elettronico. ... finché non sia passato lo sdegno 1 MA DI NUOVO VIVRANNO I TUOI MORTI, RISORGERANNO I LORO CADAVERI. SI SVEGLIERANNO ED ESULTERANNO QUELLI CHE GIACCIONO NELLA POLVERE, PERCHÉ LA TUA RUGIADA È RUGIADA LUMINOSA, LA TERRA DARÀ ALLA LUCE LE OMBRE. VA, POPOLO MIO, ENTRA NELLE TUE STANZE E CHIUDI LA PORTA DIETRO DI TE. NASCONDITI PER UN MOMENTO FINCHÉ NON SIA PASSATO LO SDEGNO. PERCHÉ ECCO, IL SIGNORE ESCE DALLA SUA DIMORA PER PUNIRE LE OFFESE FATTE A LUI DAGLI ABITANTI DELLA TERRA; LA TERRA RIBUTTERÀ FUORI IL SANGUE ASSORBITO E PIÙ NON COPRIRÀ I SUOI CADAVERI. La voce di Kristin si spense di colpo. Sollevato lo sguardo dalla lettera, fissò Wolter e Skaug. I due uomini sedevano inquieti, in silenzio. Era la terza busta. Una delle impiegate della reception era corsa di sopra per consegnargliela subito dopo che la posta era stata smistata. Grande, marroncina, imbottita. Proprio come le altre. Il suo nome era scritto in stampatello con un pennarello rosso. E sottolineato. Kristin appoggiò la lettera sul tavolo ed estrasse la videocassetta dalla busta. Si guardarono. Nessuno si mosse. «Diamole un'occhiata,» disse Wolter. «Eh sì,» esclamò Skaug. «Forse dovremmo chiamare Vang?» chiese Kristin. Wolter e Skaug arricciarono il naso.
«Prima guardiamola noi,» rispose Wolter. Andarono in redazione e si disposero intorno allo schermo. Molti dei loro colleghi, intuito che stava accadendo qualcosa di speciale, si assieparono dietro di loro. Skaug infilò la cassetta nel videoregistratore e premette PLAY. La donna è seduta sul materasso con le mani appoggiate sulle ginocchia. Non è più incatenata. Indossa la camicia da notte bianca. Guarda in direzione della telecamera e per un attimo sorride. Esita - sembra che l'uomo che la sta riprendendo le stia facendo un segno - prima di alzarsi e dirigersi verso uno strumento posto lungo la parete opposta. È un piccolo organo. Si mette a sedere su uno sgabello e con la punta delle dita sfiora la tastiera. Poi comincia a suonare. Un salmo. Kristin non lo riconosce subito, non prima che le note di Resta con me le rievochino l'immagine del funerale di sua madre, avvenuto tredici anni prima. Si vede davanti agli occhi le corone funebri. La bara bianca. Il padre che, singhiozzando, le stringe la mano. Gli accordi che si levano dall'organo sono dolci, delicati. Deve aver suonato quel salmo molte altre volte. La vedono da dietro. La testa che ondeggia da una parte all'altra, come in un sogno. C'è qualcosa di irreale in quella scena. Forse perché la melodia è così bella. E perché quella donna ha un nome. Un'identità. Una Mørch. Lo sparo giunge da destra e il proiettile la colpisce alla nuca. Il corpo della donna cade pesantemente in avanti sulla tastiera. L'esplosione dei suoni sembra un urlo. Il braccio destro pende dalla tastiera. Oscilla. La mano trema. E fu proprio quella mano scossa dai tremiti, chissà perché, il dettaglio che impressionò maggiormente Kristin. Non il sangue. Non il suono dell'organo. Fino a quando l'immagine non si dissolse, fu quella mano sussultante a catturare il suo sguardo. 2 Quando Kristin uscì dal bagno, si era lavata il viso e sciacquata più volte la bocca. Le tremavano le mani.
Vicino alla sua scrivania, Skaug stava consolando Nina. Uno dei montatori aveva preso il nastro per convertirlo in un formato Beta per uso professionale prima che l'originale venisse consegnato alla polizia. «Meglio?» le chiese Wolter, che porgendole una tazza di caffè le mise un braccio sulla spalla. «Una cosa terribile,» disse lei. Wolter scosse il capo, non sapeva cosa dire. «Vang è già in viaggio. Andiamo a parlare nel mio ufficio prima che arrivi.» Alzò la voce: «Skaug, vieni?» Skaug si era arrotolato le maniche della camicia fin dove aveva potuto. Diverse volte Kristin si era chiesta con stupore come un uomo dai capelli così radi potesse avere tanti peli sulle braccia. Wolter sprofondò nella seggiola girevole. «Dobbiamo sapere cosa vogliamo prima che qui dentro brulichi di gente.» «Vogliamo?» domandò Kristin. Skaug capì dove voleva andare a parare. «Per favore, Richard! Non possiamo mostrare quelle immagini! Per la miseria, si tratta di un omicidio!» Mostrare le immagini? Il pensiero non le aveva nemmeno sfiorato la mente. Wolter appoggiò le gambe sulla scrivania e si mise a tamburellare con le mani sulla pancia. «Kristin?» In lontananza, lei sentì una sirena. «Non possiamo farle vedere! Parli sul serio? Sei pazzo? Non possiamo farle vedere!» Wolter intrecciò le dita mentre si inumidiva le labbra con la punta della lingua. «Non è il momento adatto per discutere della cosa. Siamo tutti sotto choc.» «E questo che cosa c'entra?» «È una discussione che va rimandata. Lo stato in cui ci troviamo interferisce con la nostra capacità di giudizio. Ma prima che arrivi la polizia, voglio che vi sia chiaro che, secondo il mio punto di vista, quelle immagini vanno mostrate, in un modo o nell'altro.» «Richard! È stata uccisa!» sbottò Kristin. «Per me sei completamente pazzo!» rincarò Skaug. «Scoppierebbe l'inferno! Proprio così: l'inferno!» La sirena si spense. Wolter annuì lentamente. «So che la cosa scatenerà un putiferio. Ma voi vi state ponendo nei confronti di questa faccenda da un punto di vista emotivo e non professionale. Siete scioccati, in stato di agitazione. E lo capisco
perfettamente. Anch'io lo sono! Non ho mai assistito a niente di più orribile in tutta la mia vita. Ma non dobbiamo dimenticarci chi siamo.» «Credo di averlo già fatto,» commentò Kristin. «Siamo dei giornalisti professionisti. Il che comporta dei doveri sgradevoli.» Fece una pausa, guardando Kristin. «Doveri?» chiese lei, giusto per dire qualcosa. «Non evitiamo di riferire di un incidente aereo solo perché è tragico, o sbaglio? E se un regista dilettante riprende un aereo mentre questo precipita nel bel mezzo del Parco di Vigeland, quelle immagini noi le mostriamo, giusto? Anche se finora nessun incidente ci ha mai toccato così da vicino. Secondo me, il punto è che dobbiamo valutare queste immagini in modo obiettivo e professionale. Da un momento all'altro Vang sarà qui. Mi occuperò io della polizia. Andate a bervi un caffè, fatevi una passeggiata, calmatevi e riflettete. Ci rivediamo quando Vang se ne sarà andato.» «Ma Richard, non possiamo...» mormorò Kristin. Skaug la prese per un braccio e la trascinò verso la porta. «Andiamo a prenderci un caffè.» «Mio Dio, lui... lui l'ha uccisa! Così... Senza nessuno scrupolo!» Le ultime parole le uscirono dalla bocca sotto forma di un incomprensibile singhiozzo. Skaug si fermò in mezzo alla stanza e si mise a fissare il soffitto. «Sai, esiste un nome per queste cose: snuff movies. Film che mostrano gente che viene torturata, mutilata e uccisa. Cose vere. Disgustose. Finora ne avevo solo letto, e non avrei mai pensato di...» Bussarono alla porta. Una delle segretarie infilò la testa nella stanza. «L'ispettore Vang, giù alla reception, sembra un toro infuriato. Lo faccio accomodare?» 3 Quando avevano fondato Kanal 24, i proprietari aveva acquistato una villa sulla Wergelandsveien, di fronte al Palazzo Reale, trasformandola in un moderno centro mediatico. Al pianterreno c'erano la reception, la redazione del telegiornale, gli studi di registrazione e le sale di montaggio; al secondo le redazioni degli altri programmi, l'ufficio stampa e lo studio da cui venivano annunciati i programmi; e nel sottotetto gli uffici dell'amministrazione e del marketing (in gergo, Wall Street). Fin dal primo giorno la villa si era rivelata troppo piccola, così, nel corso dei primi due anni, erano
sorte diverse filiali di Kanal 24 sparse per la città. Ora i proprietari stavano pensando di trasferire l'intera attività nel quartiere di Nydalen, una zona industriale un po' fuorimano dove alcune emittenti si erano trasferite nel tentativo di creare un polo. Tuttavia, Kristin sperava che la redazione rimanesse lì dov'era. Amava il centro di Oslo. I suoi ritmi. Il fatto di essere vicina a tutto. E amava passeggiare nel parco, lanciare il pane alle anatre e osservare le guardie reali. Un furgoncino della Tiny frenò di colpo e prese a strombazzare mentre lei attraversava la Wergelandsveien senza guardare. Gli olmi del parco che circondava il Palazzo Reale sembravano gli alberi di un bosco magico. Le loro chiome filtravano la luce del sole dando vita a un'atmosfera spiritata, attutita. Persino il rumore della città arrivava diluito. Con i pugni stretti, Kristin si mise a correre in mezzo alle ombre e agli improvvisi sprazzi di luce. Lontana dal traffico, con davanti agli occhi un laghetto in cui le papere sonnecchiavano, si accasciò su una panchina. «Se qualcuno mi vedesse adesso, penserebbe che sono pazza. O strafatta.» Fissò il cielo pensando a sua madre. Quando Kristin aveva otto anni, sua madre aveva avuto uno dei suoi attacchi epilettici. Kristin era seduta su una sedia in cucina, intenta a disegnare, quando aveva sentito uno schianto dietro di sé; giratasi, aveva visto sua madre a terra in preda alle convulsioni, in mezzo alle padelle che si erano rovesciate e alle polpette sparse sul pavimento. Fino ad allora, quando sua madre aveva avuto degli attacchi c'era sempre stato suo padre. Mentre ora con la mamma c'era solo lei. Kristin non era riuscita a muoversi. Pur sapendo che avrebbe dovuto sbottonarle il vestito e impedirle di mordersi la lingua facendosi del male, per tutta la durata dell'attacco era rimasta seduta immobile sulla sedia a guardare. Non era riuscita a fare niente. Quando alla fine sua madre si era addormentata, Kristin aveva pensato che fosse morta. Era rimasta incollata alla sedia fino a quando non aveva sentito delle persone parlare in cortile. Allora era balzata giù dalla sedia e si era precipitata fuori dalla stanza per andare a nascondersi sotto il piumone. Un aereo della SAS volò rumorosamente sopra il parco. Kristin abbassò lo sguardo, e appoggiati i gomiti sulle ginocchia si nascose il volto tra le mani. Rivide la donna seduta con davanti l'organo, udì le note e lo sparo. Non si era mai sentita tanto sola e indifesa. A eccezione, forse, di quel pomeriggio sulla sedia. Quell'attacco era stato l'ultimo. In seguito i medici le avevano prescritto
una nuova medicina in grado di tenere a bada la malattia. Era morta sette anni dopo. Tumore al cervello. Kristin e suo padre si erano presi cura di lei, a casa, fino a quando i medici non avevano insistito per ricoverarla. Gli ultimi giorni li aveva trascorsi in coma. Ogni respiro era breve e affannoso, come se fosse l'ultimo. Il respiro era ciò che Kristin ricordava in maniera più distinta. Non i bip dei macchinari. Non la vista di quel volto scavato sul quale si intravedevano delle vene azzurrognole. Non l'odore delle medicine e la morte lenta. Era il respiro quello che ricordava. Avvertiva come la madre si aggrappasse alla vita attraverso ogni respiro. Le pause tra un respiro e l'altro si erano fatte via via sempre più lunghe, e ognuna di quelle pause riempiva Kristin dell'agghiacciante consapevolezza che la sua ora stava per arrivare. Ogni nuovo singhiozzo che le raschiava la gola non faceva altro che rimandare l'inevitabile ancora di un po'. Ma un mattino presto la pausa non ebbe più fine, e quando Kristin alzò lo sguardo su sua madre, lei era morta. Un'anziana signora col bastone la oltrepassò, trascinandosi sulle gambe. Lanciò un'occhiata a Kristin e le sorrise. Un piccione tubava. Dietro una finestra del Palazzo, Kristin intravide qualcosa muoversi: un riflesso della luce. «Il re?» pensò automaticamente. 4 L'atmosfera in redazione era elettrica. Giornalisti, cameraman e montatori discutevano ad alta voce. Alcuni peroravano con grande pathos le proprie teorie, contrarie alla messa in onda del filmato, mentre altri scuotevano scoraggiati la testa di fronte all'eccessivo sentimentalismo dei colleghi che non capivano il valore di quel video. Quando entrò, molti di loro chiamarono Kristin per chiederle un parere, ma lei si limitò ad agitare la mano a mo' di diniego. Skaug si trovava nell'ufficio di Wolter, e quando la videro le fecero con impazienza segno di entrare. «Vang era su tutte le furie,» disse Wolter. «Per un pelo non ha arrestato tutta la redazione.» «Gli hai parlato della tua idea di trasmettere il filmato?» «Ha cercato di impedircelo. Ma quando gli ho chiesto su quale legge si basasse il suo divieto, non mi ha saputo rispondere. Per la miseria, quell'uomo pensa di essere il padrone del mondo!» Skaug richiamò l'attenzione di Kristin: «Temo che voglia interrogarti di
nuovo.» «Perché? Gli ho già detto tutto quello che sapevo.» Skaug annuì tristemente. Il telefono sulla scrivania cominciò a squillare. Lo fissarono con espressione torva fino a quando non smise. Skaug tirò fuori una sigaretta. Wolter guardò Skaug, poi Kristin, poi di nuovo Skaug. «Allora? Ci avete pensato?» Entrambi trattennero il respiro. Nessuno disse niente. «Toralf?» Skaug aspirò avidamente dalla sigaretta spenta, dopodiché soffiò il fumo immaginario fuori dal naso. «Non mi sono ancora chiarito le idee,» disse succhiando la sigaretta. «Mi rendo conto che ci sono dei motivi validi per decidere di mostrare il filmato, ma ho come una sensazione allo stomaco che mi urla di no. No! No! E tutte le volte in cui poi mi sono ritrovato nella merda, è stato quando non le ho dato ascolto.» «Kristin?» Lei scosse la testa. «Secondo me non è giusto farle vedere. Sono troppo crude! Un omicidio! Non abbiamo nessun motivo valido per trasmetterle. Nessuna ragione degna. Il pubblico ha il diritto di non vedere le immagini di un assassinio.» Wolter appoggiò le gambe sul tavolo. «Sono d'accordo sul fatto che l'omicidio in sé sia troppo.» «Accipicchia,» pensò Kristin, «ti sei ammorbidito con gli anni?» «Ma,» continuò, «non vedo alcuna ragione per non mostrare le immagini della vicenda in sé. Intendo dire quelle che precedono e quelle che seguono il momento in cui la donna muore.» «Confini sottilissimi,» commentò Kristin. «Richard, si scatenerà l'inferno,» disse Skaug. «I telespettatori ci subisseranno di telefonate. I politici ci scuoieranno vivi! I soliti detrattori dei mass media non esiteranno a versare benzina sul fuoco. I giornali si getteranno su di noi come squali tigre. Sarà un bagno di sangue, Richard, e noi saremo nell'occhio del ciclone! Non sarebbe una scelta vincente.» «Come sempre, non sei lungimirante.» Wolter fece un sorriso sbilenco. «Uno come te non è in grado di vedere più in là di dodici ore.» «Sentiamo le tue argomentazioni,» lo pregò Kristin. «Si tratta di due motivazioni, una di tipo strategico e una di tipo giornalistico.» «Per la miseria, due pensieri in una volta sola!» commentò Skaug ridac-
chiando. Wolter finse di non cogliere l'acidità della battuta. «Cominciamo con quella strategica: le immagini faranno scalpore. In tutto il mondo! E la linea la dettiamo noi! Noi diventiamo la linea. Certo, nei primi giorni ci sarà un po' di maretta. Si scateneranno molte reazioni, ma poi tutto passerà. Tutto. E noi avremo guadagnato l'attenzione del pubblico. '24 timer!' diventerà un marchio di fabbrica. E noi diventeremo una televisione con cui il pubblico sarà costretto a confrontarsi.» «Che cinico bastardo!» sorrise Skaug. «E la motivazione giornalistica?» chiese Kristin. «Non la vedete da soli? È la prima volta che un assassino riprende un omicidio e invia il filmato a un'emittente televisiva. Questa vicenda entrerà nella storia del giornalismo. Statemi a sentire: vi ricordate delle fotografie che i terroristi tedeschi avevano scattato a quell'industriale che avevano rapito... come si chiamava? Hanns-Martin Schleyer! I giornali si sarebbero forse dovuti rifiutare di pubblicarle? Per rispetto ai parenti? Per rispetto alla dignità di Schleyer? Merda, questa è storia! Cosa credete che farebbe la CNN se le inviassero il filmato di un omicidio?» «Scoppierà un casino,» commentò Kristin rassegnata, mentre guardava fuori dalla finestra. Dei gabbiani si stavano dando la caccia in alto nel cielo, sopra gli olmi. «E allora? Dobbiamo convivere con l'opinione pubblico. Certo, i cosiddetti saggi si metteranno a dir la loro dai giornali a proposito del decadimento della televisione e del giornalismo. Mi sembra già di sentirli: 'Un adeguarsi alla violenza sul modello americano', 'I doveri morali nei confronti degli spettatori della televisione'. Denigratori pieni di sé che non leggono nemmeno i giornali per i quali scrivono.» «Mamma mia, che orrore,» esclamò Skaug ridacchiando. «Già me li vedo. A pagina 2 il direttore del 'VG' si dichiarerà d'accordo con tutti i detrattori dei tempi moderni, mentre a pagina 3, 4, 5, 6 e 7 i suoi giornalisti si trastulleranno con il caso. Poi arriveranno le telefonate dalle radio, nelle quali dovrò difendermi da chiunque, dal direttore del 'Vårt Land' a quello dello 'Stavanger Aftenblad'. Tutte conseguenze facilmente prevedibili. Non sono certo uno sprovveduto. Ma non possiamo scegliere le notizie da trattare in base al timore di eventuali reazioni. Dobbiamo compiere una scelta indipendente. E per come la vedo io, entreremo a far parte della storia del giornalismo. Se quel pazzo là fuori continuerà a macellare la gente, tra cent'anni si continuerà a parlare di lui nei libri di storia.
E noi faremo parte di quella storia! In base a questa prospettiva, a chi importa se qualche giornalista moralmente indignato del 'Dagbladet' o dell''Aftenposten' si dispererà perché il monopolio della televisione di Stato, della NRK, è stato smantellato? Non capite? È la realtà che questa gente vuole dirigere e redigere.» «Avresti dovuto fare il politico,» disse Kristin. «O il predicatore,» fece Skaug. «Nel trasmettere le immagini il nostro scopo deve essere uno solo, e cioè avvisare i telespettatori che là fuori c'è un mostro,» aggiunse Skaug. «Penso che lo capiranno comunque,» commentò Kristin. «Ma esiste davvero una differenza tra le riprese della donna tenuta prigioniera e quelle effettuate poco prima che venisse uccisa?» chiese Wolter. «Un'enorme differenza,» ribatté Kristin. «Anche i telespettatori hanno dei diritti. Per esempio, quello di non essere costretti ad assistere a un omicidio. Nel primo filmato lei è viva. Mentre nell'ultimo siamo testimoni di un'esecuzione. Per me, la differenza è enorme.» «Ma non è una questione di principio, o sbaglio? Neanch'io ho intenzione di mostrare il momento dell'uccisione. Quella che noi renderemo nota sarà la situazione dalla quale esso è scaturito. E le sue conseguenze. Nelle tue considerazioni c'è un vizio d'origine, che consiste nel confondere la condanna morale nei confronti di un omicidio con la tua valutazione del filmato in quanto materiale giornalistico. Quella donna è morta. Le hanno sparato. L'hanno fatta fuori. È una cosa che è successa, a prescindere dal fatto che noi la mostriamo o no. Qui abbiamo, per la prima volta nella storia del giornalismo, la testimonianza di un crimine crudele. Ma tutti gli omicidi lo sono. Tutti! È solo che prima d'ora non abbiamo mai avuto in mano immagini che documentassero la disumanità e la ferocia di un omicidio. Mentre adesso abbiamo la possibilità di aprire gli occhi al pubblico. Di fargli capire quante tragedie prive di senso si nascondano dietro ogni omicidio che viene commesso.» «Uno a zero,» ammise Kristin. «Se le tue motivazioni non fossero così suppletive...» «Ma non capite?» disse Wolter. «Qui possiamo forgiare la storia! Possiamo scuotere la gente! Al pubblico non gliene frega più niente di niente. Accettano gli omicidi e la violenza come parte del loro quotidiano. Mentre ora noi abbiamo l'opportunità di scrollargli di dosso questa indifferenza, di dargli un ceffone mentre sono seduti nei loro salotti: è di questo che si tratta quando si parla di violenza! È così che avviene un assassinio!»
«Capisco il tuo punto di vista,» intervenne Skaug. «Sono d'accordo con le tue argomentazioni. Ma il mio stomaco mi dice un'altra cosa.» «Kristin?» «Non lo so. Sei sempre stato bravo a elaborare teorie. È difficile starti dietro.» «È perché ormai ho deciso. Si va avanti. Ma non voglio costringere nessuno. Posso fare io da caporedattore questa sera, se la cosa per te è difficile, Toralf. L'edizione delle 18 si svolgerà in maniera normale, come sempre: non possiamo certo trasmettere il filmato in un orario in cui i bambini sono davanti alla TV. Ma nell'edizione delle 22 si parte. Alla grande. Kristin, Caspar sarà senz'altro entusiasta di occuparsi lui del caso. Rispetto il tuo no. Veramente! Non voglio costringere nessuno. Sta a voi decidere.» Skaug si decise: «Al diavolo, Richard, non lascio il telegiornale del secolo nelle mani di un fottuto direttore.» Spense la sigaretta spenta nel posacenere. Entrambi guardarono Kristin. Con i palmi delle mani premuti uno contro l'altro, si stava sforzando di non fare la figura della cretina. Forse Richard aveva ragione, forse era giusto mostrare le immagini. Forse era la sua capacità di valutazione a essere inadeguata. Forse qualsiasi altra emittente televisiva avrebbe scelto di trasmettere il filmato se solo fosse stato spedito alla sua redazione. Persino il telegiornale di Stato. Sospirò. «OK. Cioè, sono sempre incerta, come prima, ma se decidi di mandare in onda il filmato, voglio occuparmene da sola. Dio solo sa che schifezza ne verrebbe fuori se a occuparsene fosse Caspar. Ma a una condizione: non intendo mostrare l'omicidio. Il momento in cui lei muore. Quello no!» Wolter e Skaug annuirono. Kristin pensò: «È stata una mia scelta. Ho deciso io. O no?» 5 Fu una serata diversa dalle altre in redazione. Skaug abbaiava i suoi ordini, il regista continuava a criticare ogni cosa, Arve Arnesen si rovesciò una tazza di caffè sui pantaloni, e mezz'ora prima dell'edizione delle 22 le stampanti smisero di funzionare. Ogni cinque minuti Wolter andava da Skaug per chiedergli se fosse tutto sotto controllo, e ogni volta Skaug rispondeva con una risata isterica, forzata.
Quando i numeri rossi sull'orologio appeso alla parete dello studio indicarono le 21:59:55, regnava la calma. Non era più possibile tornare indietro. Kristin era seduta in regia insieme a Skaug e al regista. Wolter era in studio tra Arve e Ninni. La voce dell'assistente di studio annunciò: «Cinque, quattro, tre...» Risuonò la sigla. La telecamera 1 si mosse verso Ninni. «'24 timer!' - stasera con delle immagini che scuoteranno il mondo!» Il mosaico andò a formare la foto della donna, che finì col dominare lo studio. Ninni guardò dritta in camera. «Il drammatico rapimento di Una Mørch è giunto a una tragica svolta. Il collega Arve Arnesen ha qualcosa da aggiungere a proposito di questo sviluppo triste e inaspettato.» La telecamera 1 mise a fuoco un profilo ravvicinato di Arve. La sua voce era profonda e decisamente cupa: «Stasera '24 timer!' vi mostrerà delle immagini che non scioccheranno soltanto la Norvegia, ma tutto il mondo. La settimana scorsa in redazione è stato recapitato un video che ritraeva l'organista rapita Una Mørch. Oggi un nuovo filmato inviato a Kanal 24 ne mostra l'uccisione. La polizia ha messo in moto ogni mezzo a sua disposizione per catturare l'omicida, la cui identità al momento è sconosciuta.» Fece una pausa a effetto mentre abbassava gli occhi. «Teniamo a sottolineare che il servizio che segue contiene immagini molto forti.» Kristin aveva montato il servizio con un andamento cronologico, riempiendolo di pause e di momenti in cui lo schermo era nero. Aveva ricostruito i retroscena della vicenda intramezzandoli con degli spezzoni tratti dalle prime due videocassette. Si era presa tutto il tempo necessario. Nell'istante in cui Una Mørch cominciava a suonare l'organo, aveva smesso di commentare le immagini. Qualche secondo prima dello sparo lo schermo diventava nero. La musica invece continuava. Poi partiva il colpo. Lo schermo era ancora nero mentre si sentiva il corpo di Una Mørch accasciarsi sulla tastiera. Per anticipare le reazioni del pubblico, la redazione aveva elaborato una lista di domande salienti che Arve, senza l'intensità e la partecipazione che normalmente caratterizzavano le sue interviste con domande a raffica, avrebbe posto a Wolter. Il servizio di Kristin, l'intervista e due brevi filmati di riempimento preparati da Caspar occuparono in tutto quindici minuti del telegiornale.
Macabra ironia, il servizio successivo riguardava le cinquecento vittime di un terremoto in Armenia. Lo staff Vang spense il televisore portatile. «Per la miseria,» pensò, «adesso sì che si sono messi in un bel pasticcio. Si scatenerà l'inferno!» Nell'anticamera il telefono cominciò a squillare. Probabilmente un giornalista che voleva un suo commento. Dopo essersi lasciato cadere sulla seggiola, riprese a bere il caffè tiepido. Dentro di sé fece il conto alla rovescia partendo da dieci. Al quattro il telefono smise di suonare. Avevano allestito una sala operativa qualche piano più sotto. Qualcuno l'aveva già battezzata Sala Cinematografica, con un macabro riferimento al modo di procedere dell'assassino. Era da tempo che non si ritrovavano tra le mani un caso di tale portata, un caso che li stava praticamente obbligando a trascurare tutto il resto per mettere a punto uno staff che si sarebbe concentrato su un'unica indagine. Vang sbirciò fuori dalla finestra: era buio pesto. Sarebbe stata una lunga nottata. Il ministro di Giustizia si era già messo in contatto con il questore. Era presto. Di solito potevano lavorare in pace per qualche settimana prima che il ministro si facesse sentire. Vang e il capo del dipartimento anticrimine erano d'accordo nel far condurre le indagini ad Aksel Antonsen. Quell'omone, responsabile della scientifica, era un poliziotto di grande esperienza e un capo rispettato. Freddo e determinato come un esploratore polare. Vang sapeva che sarebbe stato costretto a ricorrere a tutte le proprie capacità. La pressione sarebbe stata enorme. Tutti avrebbero scalpitato, compresi i suoi stessi uomini. Qualcuno avrebbe affermato che stava dando la priorità alla pista sbagliata. Secondo altri, avrebbe invece dovuto servirsi dei mezzi a sua disposizione in maniera diversa. Andava sempre così. E prima o poi qualche suo sottoposto avrebbe sussurrato una parolina o due all'orecchio di un giornalista, in modo da far scoppiare uno scandalo sui dissidi che si consumavano all'interno della polizia. E in mezzo a tutta quella bufera lui avrebbe dovuto mantenere salda la sua rotta. Insieme ad Antonsen, Vang aveva organizzato lo staff che si sarebbe occupato del caso. Si trattava di un puzzle umano in cui tutto, dalle competenze maturate sul campo alla personalità degli individui prescelti, avrebbe dovuto confluire in un insieme più solido dei singoli elementi che lo com-
ponevano. Antonsen aveva scelto il sergente di polizia Håvard Alm come vicecapo delle indagini e Ida Sand come responsabile amministrativo. Sotto di loro erano stati messi Geir Ryvik come responsabile della scientifica ed Elisabeth Gran come responsabile della squadra tattica. Il capo dell'ufficio stampa della questura, Hugo Aaasen, era stato prestato allo staff in qualità di portavoce. Vang si sarebbe occupato personalmente di tutte le più importanti conferenze stampa (Antonsen era un disastro con i giornalisti - o non apriva bocca o parlava troppo) e avrebbe agito come tramite tra Kanal 24 e la polizia. Il primo incontro dello staff si sarebbe tenuto quindici minuti dopo, allo scopo di pianificare tattiche e strategie. Antonsen avrebbe diretto la riunione, ma Vang aveva chiesto di poter essere presente. I due avevano già discusso le linee generali. A eccezione delle videocassette e delle lettere, di fatto non disponevano di indizi di natura tecnica. E neanche di un cadavere. Le indagini preliminari sarebbero state di fondamentale importanza. Avrebbero dovuto passare al setaccio gli ambienti ecclesiastici. Una Mørch era cristiana, faceva l'organista in una chiesa, e le tre lettere erano composte da citazioni bibliche. Poteva trattarsi di un bluff, certo. Ma era l'unico elemento in loro possesso. La storia dei casi di cronaca nera era piena di killer cresciuti in maniera distorta all'interno di famiglie fortemente religiose. I filmati potevano anche lasciar presupporre che l'assassino avesse realizzato dei video pornografici di Una che forse avrebbe cercato di vendere ai distributori di materiale porno di tutto il mondo. Vang annotò su un bloc-notes giallo che doveva parlare con Antonsen perché interpellasse il professor Vidar Bryne. Bryne era uno specialista di psicologia criminale, nonché un esperto nel definire i profili delle personalità degli assassini. Inoltre, con l'aiuto delle videocassette e tramite l'analisi delle immagini avrebbero dovuto cercare di stabilire che tipo di videocamera avesse usato l'assassino. Se ci fossero riusciti, avrebbero fatto un bel passo avanti. Molti degli importatori e dei rivenditori di videocamere tenevano dei registri con il nome degli acquirenti, sempre che questi avessero compilato e spedito la cedola di garanzia. Era lecito nutrire delle speranze. Vang si scoprì a fissare il ritratto di famiglia che aveva sulla scrivania. La sera precedente aveva invitato Roger a cena per dirgli che sua madre se n'era andata. Suo figlio aveva vent'anni; un anno prima si era trasferito in
un monolocale e da allora lo avevano visto molto di rado. Una cena la domenica di tanto in tanto. Era stato un incontro strano. Herdis aveva già parlato con Roger e il ragazzo non voleva toccare l'argomento: sembrava disinteressato, imbarazzato. Era sempre stato più attaccato a sua madre che a lui. Quando era nato Roger, Herdis aveva vent'anni e lui trentaquattro. Si erano incontrati un anno prima. Lei aveva subito il fascino della sua uniforme e si erano subito messi insieme. Poi Herdis era rimasta incinta e lui aveva fatto il suo dovere e l'aveva sposata. La solita vecchia storia. Erano sposati da vent'anni. Lei non si era mai lamentata di niente. Per tutti quegli anni lui aveva creduto che quella che era iniziata come una relazione eccitante si fosse trasformata in qualcosa di più profondo. O almeno era ciò che era sembrato a lui. Non si era mai dimenticato di un anniversario di matrimonio. Sempre i fiori, se le si era rivolto in maniera sgarbata. Quando lei aveva compiuto quarant'anni, all'inizio di quella primavera, l'aveva invitata a trascorrere un romantico weekend a Parigi. Quando aveva smesso di amarlo? A Parigi si erano comportati come due adolescenti innamorati. Avevano camminato mano nella mano lungo la Senna, lui le aveva comprato dei fiori dagli ambulanti, e in camera avevano fatto l'amore intensamente ogni sera. E allora perché se n'era andata? Il suo cercapersone si mise a suonare. Lo teneva infilato nella cintura e fu costretto a girarlo per leggere il testo: «Riunione iniziata. Vieni? Aksel A.» La seppellisce vicino al cespuglio di lillà in fondo al giardino. Il terreno non è particolarmente duro e non ha bisogno di scavare molto in profondità. Dopo averla ricoperta di plastica nera e terriccio, pianta una fila di Tagetes che ha comprato in offerta in un vivaio. L'aiuola è bellissima. Oggi ha il turno di sera. Nel borsone ha uno spuntino e l'abbonamento mensile ai mezzi pubblici. E l'ombrello. Non va mai al lavoro senza ombrello. Non si può mai sapere quando comincerà a piovere. Nella tasca interna della giacca c'è la lettera. L'ha letta soltanto una volta. Una volta sola. È lì, incandescente, e fa male. Cerca di non pensarci.
Lei è là fuori quando lui esce dopo aver finito il turno. Si ferma di colpo. All'inizio, prima ancora di riuscire a mettere a fuoco l'immagine, crede che sia lei. Ma ovviamente non è così. Tuttavia rimane fermo a fissarla. Il cuore sembra un animale selvatico che cerca di lottare per uscirgli dal petto. Lei non si accorge di niente. Sembra che stia aspettando qualcuno che sarebbe dovuto arrivare già da un pezzo. Indossa un abitino estivo leggero, a fiori, e ha lunghi capelli di lino. Una ninfa. Una piccola ninfa diventata adulta. Le passa furtivamente davanti dirigendosi verso la fermata dell'autobus. Da lì la può tenere d'occhio. Ogni due minuti lei guarda l'orologio. Dopo dieci o quindici minuti scruta più volte la strada da una parte e dall'altra e si allontana. Lui la segue mantenendo una certa distanza. Lei cammina a passi veloci, stizziti, e lui deve quasi correre per starle dietro. Si affretta lungo la Stortingsgaten, attraversa la strada proprio davanti a un tram che si mette a suonare furiosamente, oltrepassa la via pedonale davanti al parlamento e scompare lungo la Karl Johan per dirigersi verso la Egertorvet. Lì scende le scale che portano alla metropolitana. Abita in una villetta nella zona di Godlia. Lui rimane fermo per strada, in attesa. Al pianterreno si accende una luce. Lei tira le tende leggere e lui vede la sua ombra armeggiare per la stanza. A quel punto lui, attraversato il giardino, si avvicina furtivo ai nomi scritti sui campanelli. Il nome del proprietario campeggia su un'enorme targa di ottone. Poi c'è quello della ragazza, scritto con un'etichettatrice e incollato sopra un campanello di plastica nera. Anita Fjordvik. «So anche il nome,» pensa. Il mattino dopo è seduto nel suo furgoncino parcheggiato lungo la strada, quando la vede uscire di corsa per andare a prendere la metropolitana. Sono le otto e mezzo. È lì che aspetta da tre ore. La riprende con la videocamera ma lei non lo vede. Lascia lì il furgoncino e la segue. Alla stazione di Tøyen lei scende in metropolitana e prende la linea 5 per andare a Blindern. Dalla stazione corre verso l'auditorium della facoltà di Storia e Filosofia. Arriva tardi a lezione. «Corso estivo - Storia III-IV», c'è scritto su un foglietto affisso all'entrata con due puntine da disegno. Attraverso la porta sente una voce cantilenante che parla dell'assistenza ai poveri nelle città nel Settecento. Lui si siede su una panchina scomoda in corridoio e aspetta. Nella pausa, lei esce insieme ad altre due ragazze e a un ragazzo. Le ra-
gazze sono molto carine. Quando lo superano, sente la voce di lei per la prima volta. Un dialetto aperto. Coglie qualche parola su un certo Espen che non mantiene mai la parola data e sul fatto che questa è l'ultima volta che lei... Poi non sente più niente. Riesce a tornare a casa e a preparare il filmato prima di andare al lavoro. In una cameretta per i bambini inutilizzata ha allestito una sala semiprofessionale per lo sviluppo e il montaggio. Due grandi monitor. Due videoregistratori professionali e uno normale. Grappoli di cavi. Con l'aiuto del computer, è in grado di fare quasi tutto ciò che vuole con le immagini. Modificarne la sequenza, tagliare le scene che non gli interessano, inserire testi e suoni. È come dar vita a una nuova realtà. La segue per una settimana. Le svolazza intorno come uno spirito invisibile, ascolta di nascosto le sue conversazioni, riesce addirittura a risalire al numero di telefono dei suoi genitori nel Sørlandet. Alla fine gli sembra di conoscerla. Anita Fjordvik. Laureanda in Storia. Lavora part-time in un chiosco. Per metà del tempo, e immancabilmente arrabbiata, si accompagna a un tipo coi capelli lunghi che si chiama Espen e che una sera è andato a casa sua per poi uscirne alle tre e dieci di notte. Ma insomma... Le tre e dieci! Di notte!
Putiferio 1 Le reazioni furono addirittura più violente di quanto avessero temuto. Le prime telefonate giunsero mentre il servizio era ancora in corso. Cinque minuti dopo la fine, il centralino venne subissato di chiamate e presero a squillare anche le linee telefoniche dirette della redazione. I telespettatori erano furibondi. Ancora una volta, il branco di lupi della stampa si precipitò sulla preda. Questa volta neanche le televisioni concorrenti riuscirono a starne fuori. Era tardi quando Wolter, Skaug e Kristin staccarono telefoni, cellulari e cercapersone per tuffarsi nella notte di Oslo. Per Kristin, i giorni successivi furono irreali e dolorosi. Wolter aveva,
secondo le previsioni, colpito nel segno. I critici scrissero articoli pieni d'astio su come il cinismo e il profitto fossero diventati il motore del giornalismo televisivo. Uno degli opinionisti del «Dagbladet» definì Wolter «la carogna più infame del mondo del giornalismo» lo stesso giorno in cui il suo giornale pubblicò in prima pagina una foto a colori della donna che giaceva morta sull'organo. Il «VG» scrisse nel suo editoriale che Kanal 24 aveva trasformato «la quotidianità televisiva norvegese in una filosofia americanizzata nella quale si usano tutti i mezzi a propria disposizione per catturare l'attenzione dei telespettatori». Nella stessa testata, sotto il titolo «Gli ultimi secondi di Una», c'era un articolo di due pagine che descriveva nel dettaglio come l'organista si era accasciata dopo essere stata colpita a morte. Per il «Klassekampen» il ministero della Cultura avrebbe dovuto valutare seriamente l'ipotesi di ritirare la concessione a «... un canale privo di scrupoli, che glorifica la violenza, con una direzione che riversa a suo piacimento nelle case norvegesi la maggior quantità possibile di sangue e di schifezze». L'«Aftenposten» si chiedeva se Kanal 24, con il pretesto di fare giornalismo, non si fosse invece trasformato in uno strumento di propaganda della mente malata dell'assassino. Per i giornali il dibattito che ne nacque fu come al solito un'ottima cosa. Il caso risvegliò nei politici il desiderio di controllare i media. Il portavoce del Partito Laburista si dichiarò favorevole, con una fedeltà ai propri princìpi degna di una banderuola, a elaborare un divieto contro l'uso in televisione di immagini «particolarmente offensive della dignità dell'essere umano». Il Partito di Centro intendeva costituire una commissione che avrebbe avuto il compito di sorvegliare i telegiornali e di perseguire, sia all'interno delle televisioni che nei tribunali, ogni violazione. Il Partito Cristiano Popolare ribadì la necessità di creare una legge ad hoc che vietasse la proiezione di scene di violenza all'interno dei telegiornali (subito battezzata «Legge Poveri Ingenui»). Un rappresentante alle prime armi di un partito di estrema sinistra ebbe il tempo di suggerire che il monopolio dei telegiornali fosse affidato alla televisione di Stato, la NRK, prima che i vertici del partito lo mandassero in Murmansk per un viaggio di studio relativo alla tutela dell'ambiente. Wolter venne preso di mira da ogni parte, dibattito dopo dibattito. L'«Aftenposten» riuscì a rintracciare i genitori di Una Mørch, che condannarono quello che definirono «lo sfruttamento della scomparsa di nostra figlia come intrattenimento televisivo». L'Associazione Norvegese dei
Giornalisti organizzò una riunione per discutere della questione che finì nel caos. La rivista della categoria, il «Journalistlag», pubblicò in prima pagina una foto di Wolter sottotitolata «Il boia dell'etica». I giornali traboccavano di lettere scritte da lettori indignati, e un pomeriggio il centro sociale Blitz organizzò davanti alla sede di Kanal 24 una dimostrazione che sfociò in un tafferuglio con la polizia. Una congregazione religiosa incitò i telespettatori a boicottare il canale. Ma i telespettatori non se andarono. Anzi. Sempre più persone iniziarono a sintonizzarsi su Kanal 24 per vedere cosa diavolo si stavano perdendo. 2 Nel corso di questo dibattito infuocato, Kristin strinse i denti con fierezza. Faceva aerobica tutti i giorni per combattere la tensione. A suo parere, si trattava di un dibattito ingiusto e privo di sfumature. Riteneva che i suoi colleghi della carta stampata fossero degli ipocriti, ma quello che davvero non riusciva a capire era il motivo per cui i giornali si stessero dimostrando più interessati a Kanal 24 che all'assassino. I primi giorni, la stampa pose lo stesso accento sulla questione etica e sul fatto che ci fosse un killer pericoloso e tutt'altro che stupido a piede libero. Kristin venne convocata tre volte in questura. Avevano affidato a un poliziotto il compito di passare al setaccio la sua vita privata. Per fortuna non lo stesso dell'ultima volta, ma una donna giovane e simpatica di nome Anne-Beth Carlsen, la quale cercò di capire se nel suo passato ci fosse qualcosa in grado di spiegare la ragione per cui le videocassette erano state recapitate proprio a lei. Ma Kristin non ne aveva idea. Quando il dibattito su «24 timer!» cominciò a scemare, finalmente si accese una lampadina nella testa di tutti i giornalisti, che ripresero a concentrarsi a tempo pieno sulla caccia all'assassino. Il «VG» lo chiamò «il killer del video». Mentre il «Dagbladet» diede inizio alla campagna «Uccidi la violenza», promettendo una ricompensa di centomila corone a chi avesse fornito informazioni tali da consentire la cattura dell'omicida. Kristin pensò: «Adesso siamo sicuri che non la smetterà!» 3
Nella sala stampa della questura le aspettative erano altissime. Kristin era arrivata presto per assicurarsi un posto nelle prime file. In attesa che la conferenza stampa iniziasse, si mise a osservare i presenti. I suoi colleghi le ricordavano un branco di cani della Groenlandia affamati e incatenati a un metro di distanza da un orso polare appena scuoiato. Era quel branco vorace che stava accusando lei e Kanal 24 di pasteggiare con la tragedia? Numerose radio locali avrebbero trasmesso la conferenza stampa in diretta. Le testate più importanti avevano mandato i loro migliori giornalisti e commentatori. I giornalisti erano allo stremo, dopo tutti quei giorni a digiuno di notizie. Nelle soffiate che erano arrivate ai quotidiani, si era alluso al fatto che ora la polizia fosse in possesso di parecchie informazioni sull'assassino, e che questa svolta decisiva sarebbe stata illustrata durante la conferenza stampa. Gli investigatori si erano avvalsi della collaborazione di un esperto per creare un profilo della personalità dell'assassino. Anche se nel corso degli interrogatori Kristin aveva capito che in realtà la polizia brancolava nel buio. Stavano cercando di farsi un'idea sul tipo di videocamera usata, e avevano sguinzagliato dei poliziotti in borghese nei negozi che vendevano videocassette. Avevano esaminato le schede dei ricercati e preso contatto con gli istituti psichiatrici. Avevano controllato la cerchia degli amici di Kristin, i suoi ex fidanzati e coloro che aveva intervistato. Tutto ciò che fosse in grado di spiegare perché era stata lei a ricevere i video. Niente. Entrarono uno dopo l'altro, quasi a passo di marcia. Ridacchiando, Kristin pensò che sembravano degli anatroccoli alle calcagna di un'anatra. Prima il questore, poi Vang e Aksel Antonsen, quindi due uomini che Kristin non conosceva, e infine il portavoce nonché capo dell'ufficio stampa della questura. Fu quest'ultimo a battere con il martelletto sul tavolo. Nella sala calò il silenzio. Il questore salutò i giornalisti, e dopo essersi presentato e aver presentato gli altri lasciò la parola a Vang. Vang riassunse a grandi linee la dinamica dell'omicidio. I giornalisti si misero a sospirare impazienti: tutte quelle cose le sapevano già. Dopodiché Vang illustrò la metodologia scientifica (come dire, il tentativo di tirare a indovinare) impiegata per la definizione del profilo della personalità dell'omicida.
«Pensiamo che l'assassino sia sulla trentina,» disse Vang. «Congettura supportata tra l'altro sia dalla calligrafia impiegata per scrivere le lettere, che mostra come l'omicida sia ricorso all'utilizzo di diversi tipi di scrittura adottati all'interno del sistema scolastico norvegese negli anni Sessanta, sia dal fatto che la vittima fosse una giovane donna. Una caratteristica costante di questo tipo di omicidi consiste infatti nella scelta, da parte dell'assassino, di donne che abbiano la sua stessa età mentale, il che spesso significa che si tratta di donne che hanno dieci o vent'anni meno di lui.» «Cosa intende dire con 'questo tipo di omicidi'?» chiese un inviato del «Dagbladet». E quello dell'«Aftenposten»: «Che si tratta dell'autore di altri omicidi irrisolti?» Il portavoce alzò entrambe le mani: «Risponderemo alle vostre domande alla fine, signori.» «E signore!» esclamò una delle giornaliste. Vang continuò: «Riteniamo dunque, come dicevo, che l'omicida sia un uomo sulla trentina, ma potrebbe anche avere venticinque così come quarantacinque anni. Ci siamo attestati su queste fasce d'età.» «L'età di quasi tutti noi,» osservò un collaboratore della NTB tra le risate dei colleghi. «Pensiamo che sia un lupo solitario. Non crediamo sia sposato. Probabilmente vive da solo. Forse a casa dei genitori o di uno di loro. Dall'esterno potrebbe sembrare impacciato e timido. Ma è altrettanto possibile che venga considerato simpatico e premuroso. Quando lo troveremo - e sottolineo quando e non se - tutti coloro che lo conoscono rimarranno sconcertati. Perché mai nessuno avrebbe potuto pensare che fosse lui l'assassino sconosciuto.» Vang fece una pausa. Mentre inspirava profondamente, sfogliò le carte che aveva davanti. Il silenzio era tale che Kristin sentì il fruscio dei fogli. «Ha patito profondi traumi personali, ma riesce a tenerli nascosti. Il fatto che abbia spiato a lungo la sua vittima mostra come il suo modo di agire sia calcolato e premeditato. Non è un soggetto che uccide in preda all'emozione o all'istinto. L'assassinio era pianificato nei minimi dettagli. Abbiamo buoni motivi per apporgli il marchio ormai abusato di 'psicopatico'. Gli psicologi non amano questa definizione, ma noi lo definiremmo senza ombra di dubbio uno psicopatico.» Vang scrutò i presenti prima di proseguire: «Permettetemi di precisare il significato di questo termine. Molti ritengono gli psicopatici degli alienati.
Al contrario, invece, uno psicopatico appare spesso come una persona piena di risorse. È assetato di potere. È intelligente e sa essere molto eloquente e affascinante. Spesso è un individuo che si pone al centro dell'attenzione. Ma soltanto dopo un certo periodo di tempo chi lo frequenta comincia a intuire che in lui c'è qualcosa che non va. È un manipolatore. Mente. Ingigantisce i particolari più futili fino a fargli assumere dimensioni stratosferiche. È in grado di individuare con facilità i punti deboli delle persone che ha davanti. E ha la tendenza a dare la colpa dei propri problemi agli altri, alla società, alle sue vittime. Può essere brutale e senza scrupoli, totalmente privo di empatia e compassione. Ed è proprio quando comincia a perdere l'autocontrollo che lo psicopatico diventa pericoloso. Poiché non possiede freni morali. Dal punto di vista intellettuale sa che ciò che fa è sbagliato, ma non prova alcun rimorso nel farlo. Nessuna empatia. È negli altri che c'è qualcosa di sbagliato. Osserva la sua vittima come noi osserveremmo una zanzara o una mosca prima di ucciderla.» Vang abbassò lo sguardo su un moscerino immaginario depositatosi sulla sua mano. Kristin pensò: «Che attore eccellente!» «Ma ciò che rende lo psicopatico più pericoloso della maggior parte dei comuni assassini è la sua brama di attenzione. Di autoaffermazione. Una notorietà ottenuta attraverso azioni nefande. Desidera essere al centro dell'attenzione della società. Il terrore della società. Obiettivo che raggiunge uccidendo.» Vang tacque, lasciando vagare lo sguardo sui giornalisti. Un fotografo scattò una raffica di fotografie. A Kristin sembrarono degli spari. «Quest'uomo sta usando consapevolmente i media come cassa di risonanza per le proprie azioni. Vent'anni fa avrebbe inviato a un giornale lettere o fotografie, ma oggi i tempi sono cambiati, e così invia dei video della sua vittima a un'emittente televisiva. Filma la sua vittima nel momento stesso in cui la uccide, mantenendo però l'anonimato. Mentre le sue gesta diventano di dominio pubblico. Capite? Con l'aiuto della videocamera e dei francobolli riesce a stabilire una certa distanza tra lui e noi. Può rimanere nascosto nel suo antro buio, al sicuro, mentre il mondo va nel panico. In questo modo gode nell'essere al centro dell'attenzione, nell'essere colui al quale l'intera società deve rapportarsi e che deve temere, evitando però di dover mettere a nudo i propri sentimenti, la propria identità.» Vang inspirò profondamente mentre sfogliava le sue carte. «Le citazioni bibliche, in particolare, denotano una confusione di natura religiosa. Potrebbe trattarsi di un individuo ossessionato in modo insano dalla religione,
ma è altrettanto probabile che la religione sia soltanto uno strumento per le sue distorsioni mentali. È possibile che sia religiosamente attivo, ma è più probabile che abbia un atteggiamento problematico e contrastante nei confronti della propria fede.» Vang represse un sorriso: «È inoltre ipotizzabile che stia cercando di prendersi gioco di noi. E che le citazioni bibliche non siano altro che un bluff ai nostri danni.» Vang rimise in ordine le carte. «Avete delle domande?» La sala esplose. Grida ed esclamazioni confuse. Per un minuto regnò il caos più totale. Il portavoce si mise a battere con il martelletto sul tavolo, ma alla fine dovette alzarsi per far sì che i presenti si calmassero. «Facciamo come a scuola,» esclamò. «Alzate la mano! Terrò io l'ordine. Prima l''Aftenposten'!» Due dei giornalisti della testata presero a discutere per qualche secondo su chi dovesse formulare la domanda, prima che ad alzarsi fosse quello con i capelli lunghi, la giacca di jeans e gli stivali da cowboy. «Secondo la polizia quest'uomo ucciderà di nuovo?» «Impossibile a dirsi. Si tratta soltanto di una supposizione, ma temiamo che ripeterà il gesto.» «Perché temete che lo ripeterà?» «Per via del profilo della sua personalità. Naturalmente potrebbe anche aver soddisfatto il proprio desiderio di attenzione. O, al contrario, sentirsi stimolato a ritentare...» Vang stava per dire «il successo», ma cambiò idea, «...il delitto.» «Tocca al'VG'!» L'inviato del «VG» indossava giacca e cravatta e sembrava appena uscito dalla riunione di una loggia massonica. «Ha mai ucciso prima?» «Questo non lo sappiamo.» «Ma avete svolto delle indagini in proposito?» «Ovviamente sì. Stiamo prendendo in esame tutti gli omicidi irrisolti a partire dagli anni Settanta per cercare possibili connessioni.» «E?» «Ci sono alcuni casi che stiamo valutando con attenzione.» «Quali?» «Per il momento nessun commento al riguardo, ma molti di questi sono già stati esclusi - 'Dagbladet'!» Gunnar Borg si alzò. Il modo in cui aggrottò la fronte lo fece sembrare un avvocato di grido in un tribunale americano. Kristin nascose un sorriso dietro la mano. Gunnar le aveva rivelato quanto gli piacesse strutturare le
proprie domande in maniera teatrale allo scopo di accentuarne l'effetto. «Mi sono chiesto una cosa: ucciderà ancora per ottenere maggiore notorietà?» «Ottima domanda. E di nuovo: non lo sappiamo! La pulsione che lo spinge ad agire potrebbe essere il desiderio di notorietà, ma se la sua domanda implica invece che di omicidi di questo tipo non si dovrebbe parlare, le rispondo che, così facendo, commetteremmo una grave ingenuità. Se la ricerca di notorietà è la forza scatenante delle sue azioni, allora non farebbe altro che rincarare la dose.» «Cosa intende dire?» «Per esempio, potrebbe uccidere più persone in una volta. Far saltare in aria un autobus. Qualsiasi azione che risulti così eclatante da costringere la stampa a parlarne.» «'Kanal 24!'» disse il portavoce. Calò il silenzio. Le telecamere vennero puntate addosso a Kristin nel momento stesso in cui lei si alzò. I riflettori la accecavano. Dopo essersi schiarita la voce, fece la sua domanda a voce così bassa che nessuno la sentì. «Può ripetere?» chiese Vang. Kristin alzò la voce: «Smetterebbe di uccidere se nessuno parlasse più di lui?» Vang la fissò. Sembrava che avesse voglia di dire quello che forse pensava («Questo lo sai meglio tu di noi»), invece rispose: «Non lo sappiamo.» Il giornalista del «Vårt Land» era un uomo basso e barbuto di Kvinesdal. Quando all'improvviso gli fu data la parola, si mise a cercare febbrilmente tra i suoi appunti prima di riuscire a formulare la domanda: «Che significato dà la polizia al fatto che l'assassino ricorra a citazioni prese dal Vecchio Testamento?» Il giornalista capì immediatamente che Vang non aveva afferrato la domanda, così aggiunse: «Cioè, in contrapposizione a quelle del Nuovo Testamento?» Molti in sala cominciarono a ridere. Vang disse serio: «Non abbiamo preso in considerazione questo aspetto.» «I riferimenti biblici possono essere un tentativo di depistare la polizia?» «Certamente, è possibile. Fino a quando non arriveremo a conoscere la psicologia dell'assassino, non sapremo se si tratta di un individuo abbastanza calcolatore da fornirci piste false o se invece è un soggetto con delle fissazioni. Ma, come ho già detto prima, le citazioni bibliche potrebbero
anche essere un tentativo per depistarci. Oppure potremmo trovarci di fronte a un uomo ossessionato dalla religione. Altre domande?» Ce n'erano delle altre. Anita Il sole splende accecante attraverso la vetrina della gelateria, costringendola a strizzare gli occhi. La banana split ha già cominciato a sciogliersi. Si infila il cucchiaino carico di gelato in bocca, e mentre fa schioccare le labbra dà un'occhiata fuori, in direzione della via gremita di gente. Già dal mattino, prima di alzarsi, Anita Fjordvik aveva presagito che tipo di giornata sarebbe stata. La camera da letto era inondata dalla luce morbida e dal polline, dal ronzio delle mosche vicino allo stipite della finestra e dall'alitare caldo del vento tra le tende. Il sole la faceva sempre pensare alle estati trascorse a casa, nella Norvegia meridionale. Si immaginava sdraiata su uno scoglio, gocciolante d'acqua, snella e abbronzata, circondata dai ragazzi di città che giocando lottavano per decidere chi le si sarebbe seduto accanto. La dea dell'estate. Il fiordo scintillava. Piccole imbarcazioni a motore solcavano il mare avanti e indietro, con in sottofondo le grida allegre di qualcuno che stava giocando su un materassino. Quando la pelle le fosse diventata calda e asciutta, si sarebbe alzata per andarsi a buttare dal trampolino, seguita da quei ragazzi impacciati. Si sarebbe tuffata in modo perfetto, un librarsi in aria che le sarebbe rimasto impresso nella memoria. Prende un cucchiaino di gelato: granella di nocciole, una pallina di gelato al cacao con delle scaglie di cioccolato, due alla fragola e una banana tagliata per lungo e ricoperta di caramello. Lo assapora con gli occhi socchiusi, dando di tanto in tanto una sbirciatina agli uomini che camminano sul marciapiede. Valuta. Scarta. Ammira. Aveva attraversato la vita su un raggio di sole. Genitori affettuosi e benestanti, religiosi ma non troppo. Lei era sempre stata brava a scuola, aveva molte amiche, era ricercata. A quindici anni era stata adocchiata dai ragazzi più grandi che stazionavano davanti al chiosco degli hamburger. Si ricordava dei venerdì sera passati sui sedili posteriori delle Opel Ascona e delle BMW: Guns N' Roses, birre tiepide, The Final Countdown, baci con la lingua. Le sue storie duravano all'incirca sei mesi. Non superavano mai l'estate. Quando al mare arrivavano dei ragazzi nuovi. Dalla città. Dopo aver superato brillantemente l'esame di accesso, aveva cominciato a studia-
re all'Università di Oslo. Subito dopo essersi trasferita nella capitale, si era innamorata di un uomo sposato, Vidar. Che aveva appena deciso di troncare la loro relazione. Per rispetto nei confronti della moglie. A lei la cosa andava benissimo. Lui l'annoiava. Dopo un po' gli uomini avevano questo effetto su di lei. Con la coda dell'occhio vede che qualcuno si è seduto sullo sgabello accanto al suo. «Allora, Anita? Oggi lasci che la storia norvegese vada avanti senza di te?» Guarda stupita lo sconosciuto. In lui c'è qualcosa di indefinito e di familiare che le procura un formicolio. «Scusa?» balbetta, accorgendosi con irritazione di essere arrossita. Era convinta di non arrossire più. «Ci conosciamo?» Lui per un attimo ride. «Temo di non poter dire di conoscerti davvero.» Ha una voce dolce, simile a quella del sacerdote che l'ha cresimata. Le porge la mano. «Bård! Non mi riconosci? Sono lettore alla facoltà di Storia e Filosofia. Mi sono chiesto parecchie volte perché diavolo snobbi il mio corso estivo.» Notando l'espressione stupita della ragazza, passa sopra alla battuta con una risata. È più vecchio di lei, affascinante. «C'è qualcosa in quegli occhi azzurri,» pensa lei, «qualcosa di insondabile, di misterioso.» Gli stringe la mano imbarazzata. La confonde. Perché è bello, perché è riuscito a farla arrossire, e perché dopo un po' che gli sta parlando si ricorda di averlo visto più volte a Blindern negli ultimi tempi, senza però essersi mai veramente accorta di lui. «Come fai a sapere chi sono?» gli chiede prima di infilarsi un cucchiaino di gelato in bocca. «Se anche solo immaginaste quante cose sappiamo di voi studenti,» le risponde lui, «ci pensereste su tre volte prima di fare quello che fate.» Lei arrossisce di nuovo. Cosa c'è in quell'uomo? «Mentre tu... tu hai l'abitudine di pedinare le studentesse in giro per la città?» gli chiede scherzosa. «Assolutamente sì,» risponde lui serio. «In effetti, è da una settimana che ti sto seguendo. Notte e giorno!» Lei osserva la sua espressione enigmatica e scoppia a ridere. E così facendo gli spruzza del gelato sulla maglietta. La cosa la fa arrossire e ridere ancor di più. Quando alla fine riesce a riprendersi, quasi non ha più il coraggio di guardarlo.
«Allora,» le chiede lui per fare conversazione, «a che punto siete con le lezioni?» «Siamo al Settecento.» «Ah, il lungo periodo di pace.» «Noioso!» esclama lei. «Devo ammettere di essere d'accordo con te, ma per carità, non dirlo al professor Albertsen!» Questa volta ridono entrambi. «È un tipo strano,» commenta lei. «Ma molto colto.» «Sembra un gufo!» «Voglio confidarti un segreto: è così maledettamente preparato perché ha novecento anni e una memoria da elefante! Ha vissuto in prima persona tutte le cose di cui parla!» Lei ridacchia. «Strano che non mi sia mai accorta di te!» «Davvero. Di solito faccio colpo sulle donne.» Ridono di nuovo. Lei arrossisce. Quando ha finito di mangiare il suo gelato, lui la invita a bere un caffè in un bar stretto e buio, con un cameriere effeminato che continua a chiedergli se per caso non vogliono altro zucchero. Le racconta della sua tesi di dottorato, dell'alpinismo, del paracadutismo e della moglie morta quattro anni prima. Quando la invita a casa sua per un bicchiere di vino, per un istante Anita pensa a Espen, che comunque sia è un bastardo inaffidabile, prima di accettare. Ma soltanto se lui ha qualcosa di più forte del vino da offrirle. Ce l'ha. La sua casa è così perfettamente in ordine da apparire quasi disabitata. Si percepisce un vago sentore di ospedale, come di qualcosa di lontano. Si siede su un divano mentre lui infila un CD nel lettore. Roxy Music. Che coincidenza: lei adora i Roxy Music! Si guarda intorno. Il salotto è arredato in maniera banale. Anonima. Alla parete è appeso un quadro che ritrae una ragazza che le assomiglia. Mentre lui prepara i drink, lei di nascosto lo osserva. Il suo volto è allo stesso tempo duro e dolce. Quando si dirige verso di lei con i bicchieri in mano, sembra che non riesca a decidersi se sedersi accanto a lei o sulla poltrona. Lei batte una mano sul cuscino pensando: «Che quadretto sconta-
to... giovane studentessa con insegnante maturo.» «Scommetto che è un amante da urlo,» pensa poi. Come se le avesse letto nel pensiero, lui dice: «Senti... spero che tu non creda che io, sai, voglia approfittare della mia posizione...» Non sa cosa rispondergli. A dire il vero, era proprio quello che aveva sperato. Lui fraintende il suo silenzio. «Non devi aver paura. Non ho l'abitudine di invitare delle studentesse a casa.» «E chi ti ha detto che ho paura?» chiede lei. Questa volta senza arrossire e con la netta sensazione di aver preso in mano le redini del gioco. C'è qualcosa di scandalosamente eccitante in quella situazione: lui e lei soli, il maestro e l'allieva. «Cin cin!» fa lui sollevando il bicchiere. Lei beve un sorso. Gin tonic. Un filo più amarognolo del normale. Un gatto scheletrico fa il suo ingresso nella stanza vacillando. Si ferma, la guarda, e zoppicando si dirige verso l'uomo, che lo accarezza sulla testa. «Shere Khan,» le spiega lui. «È malato?» Lui non risponde. Forse è soltanto magro. «Che casa ordinata,» osserva lei mentre pensa: «Ho voglia di lui! Non c'è motivo di fingere che non sia così. Non c'è motivo di giocare alla santarellina. Ho voglia di fare l'amore con quest'uomo!» «Abbastanza,» commenta lui. «Sai com'è, quando vivi da solo.» Rabbrividendo, lei beve un altro sorso: «Non affitti mai qualche camera?» Lui scoppia a ridere. «Di solito no.» «C'è qualcosa di divertente?» «Soltanto se tu fossi me,» ridacchia. «E non lo sei.» Anche lei si mette a ridere, sporgendosi verso di lui. Lui si irrigidisce. «Cin cin,» ripete cercando di raddrizzarsi. «Istigazione al bere,» mormora lei bevendo. Inizia a girarle la testa. Accidenti, di solito sopporta più di tre sorsi! Gli posa una mano sul ginocchio. Sente che sta tremando. «Forse è passato molto tempo dall'ultima volta,» pensa. «Meglio cambiar musica, no?» suggerisce lui. «È soltanto nervoso,» pensa Anita. «Bello e affascinante fino a quando non si arriva al dunque. Dopodiché il coraggio svanisce. Va be', vorrà dire che ci penserò io.» Beve un altro sorso. «La musica è perfetta,» dice piano,
accorgendosi stupita di farfugliare. Riprenditi! Gli preme la mano sulla coscia e prende a massaggiargli i muscoli con la punta delle dita. Lui è seduto immobile. «Qualcosa che non va?» gli domanda con voce felpata. E se fosse gay? No, se ne sarebbe accorta subito. «Niente.» Quasi non riesce a respirare. «Assolutamente niente.» Forse ha paura? Al liceo aveva avuto a che fare con dei ragazzi che venivano presi dal panico non appena lei prendeva l'iniziativa e slacciava un po' troppi bottoni. Con uno sforzo si raddrizza, e ondeggiando un po' prima di trovare l'equilibrio lo guarda. In quella luce smorzata, i muscoli del suo viso emergono in maniera nitida. È incredibilmente bello. Sei ubriaca, Anita! Dopo mezzo drink! Sei ubriaca e pazza! «Senti,» esordisce, «ho una domanda da farti...» «Sì?» «Posso baciarti?» Lui si inumidisce le labbra con la punta della lingua. Lei si china su di lui. «Aspetta un attimo,» dice lui con il fiato corto. «Cosa c'è?» Lui sorride con un'espressione ammiccante. «Andiamo a fare un giro in cantina.» «In cantina?» «Ho... una stanza là sotto.» Lei avverte dei brividi che le pungono i seni e le cosce come aghi infuocati. «Una stanza?» ripete allegra. Si immagina di tutto: una camera da letto, una stanza dei giochi con un materasso buttato a terra, una cabina per pratiche sadomaso. Per lei va bene lo stesso. Lo desidera, e se lui è un pervertito, be', lei starà al gioco. Anche i pervertiti hanno il loro fascino. Le prende la mano e la fa alzare. Lei è così vacillante che lui deve sorreggerla. Dei cerchi neri le ballano davanti agli occhi. «Oddio, non mi sento del tutto...» mormora. «Vieni,» le sussurra lui. Sviene. Shere Khan si mette a miagolare. Aquarius
1 In redazione la giornata comincia lentamente. I primi collaboratori iniziano ad arrivare verso le otto: insonnoliti, desiderosi di un caffè, privi di ispirazione. Qualcuno fa una telefonata per verificare una fonte, mentre altri si chiudono nella saletta fumatori a leggere i giornali. In sottofondo si sentono i programmi del mattino. Il caporedattore è sommerso da mucchi di quotidiani, fax e inviti a conferenze stampa. Alle nove ha inizio la riunione del mattino. I giornalisti più zelanti sono pieni di idee e di proposte, mentre i più pigri danno una rapida occhiata al programma del giorno per individuare qualcosa di poco impegnativo di cui occuparsi. Il caporedattore si sforza di avviare una discussione su «ciò che interessa oggi alla Norvegia». Continua a riproporre la stessa domanda. Nessuno gli sa dare una risposta. Né la Norvegia né i giornalisti sono ancora del tutto svegli. Alcuni suggeriscono un tema trattato dall'«Arbeiderbladet» la settimana prima. Alla fine, con un sospiro, il caporedattore affida a ognuno di loro un compito, contrassegnando via via con una crocetta i servizi assegnati. Ma poi, lentamente, la redazione comincia a rianimarsi. Mentre il caporedattore è al telefono, i giornalisti gli si raggruppano intorno: sono incappati in una notizia curiosa, nella svolta inaspettata di un caso o in un soggetto interessante da intervistare. Il telefono comincia a squillare. E nel giro di qualche ora la redazione si lascia la notte alle spalle. Con un sospiro, Kristin compose il numero diretto dell'ispettore Vang. Odiava quelle telefonate di routine. Non soltanto perché Vang non aveva mai niente di nuovo da raccontarle, ma perché quelle telefonate la facevano sentire una rompiscatole oltre che una sua complice. Quando Vang rispose, sentì delle voci in sottofondo. Si immaginò Vang che, impaziente, tendeva il braccio dal tavolo delle riunioni per afferrare il telefono che si trovava sulla sua scrivania. «Kristin Bye...» esordì lei. «Niente di nuovo!» la interruppe lui immediatamente. Poi aggiunse, come uno che ha perso ogni speranza: «Prometto di inviarti un comunicato stampa non appena avremo qualcosa da comunicare.» «Preferisco mantenere comunque un contatto diretto.» «Come tutti i tuoi colleghi. Io invece preferirei di no.» «Chiedo scusa per il disturbo. Credevo che la polizia fosse conscia
dell'importanza di tenere il pubblico informato. A ogni modo richiamerò. Tra l'altro, si tratta di un ordine impartitomi dai miei superiori. Comunque sia...» e qui la sua voce si fece mielosa, «... se mai dovessero arrivarmi altre lettere o filmati, mi guarderò bene dall'importunarti.» Vang rimase in silenzio. «Questo è un colpo basso,» disse piano. «Scusa.» «Non ho tempo per queste sciocchezze!» Le riagganciò il telefono in faccia. Per parecchi minuti Kristin rimase seduta digrignando i denti e cercando di calmarsi. Non si era accorta che Skaug, accanto alla sua scrivania, la stava osservando. «Qualcosa che non va?» le chiese. «Vang! Quel... quel...» «Forse questo potrà farti cambiare umore.» Le mise sulla scrivania il prospetto con le percentuali di share. Kristin fece scorrere un dito sull'elenco dei programmi prima di trovare «24 timer!» . L'edizione delle 18 aveva registrato il 15,3% di share, quella delle 22 il 20,5! Sorrise a Skaug. Erano allo stesso livello del telegiornale di TV2 e sempre più vicini alla percentuale di share del telegiornale di Stato. La curiosità che si era venuta a creare intorno ai filmati aveva finito con l'attirare l'attenzione del pubblico. Skaug le si accovacciò davanti: «Hai voglia di occuparti di qualcosa di diverso oggi?» «Tipo?» gli domandò lei. «Qualcosa che non è né sanguinario né pericoloso e che fa bau bau?» «Cos'hai in serbo per me? Un cane?» Skaug si alzò sorridendo con aria furba. «Ho bisogno di un ultimo servizio. Qualcosa di dolce e di carino. La mostra dei cuccioli a Hellerudsletta! In cambio tu cosa mi dai?» Kristin gli diede un pizzicotto sulla pancia. «Se non fossi così terribilmente brutto, avrei già stampato un bacio su quel tuo faccione!» Si recò a Hellerudsletta insieme a un giovane cameraman di nome Yngve. Gli organizzatori della manifestazione mostrarono loro l'enorme spazio espositivo. Yngve aveva in mano la telecamera, mentre due assistenti lo seguivano portandogli il cavalletto e la borsa con il resto dell'attrezzatura. Gli organizzatori avevano un sacco di argomenti di cui parlare:
l'addestramento dei cani, la loro alimentazione, la scelta della razza... Kristin si sforzò di fargli capire che non stavano girando un documentario su come si allevava un cane, ma un servizio della durata di pochi minuti sui cuccioli. Si sistemarono in uno dei tendoni, in cui riecheggiavano i latrati e i guaiti dei cani più grandi e dei cuccioli. Yngve si mise la telecamera in equilibrio su una spalla, accese il riflettore e diede il via alle riprese. A Kristin parve di capire che quel servizio lo interessasse molto: riprese il tendone da ogni angolazione possibile, appoggiò la telecamera per terra in modo che i cuccioli annusassero l'obiettivo, la sollevò muovendola come se si trattasse di un cane e fece anche in modo di ottenere delle panoramiche dell'intera aerea espositiva. In seguito intervistarono brevemente uno degli organizzatori (che avrebbe invece voluto che venisse intervistato il comitato al completo), dopodiché ringraziarono e se ne andarono. A Kristin sembrava di puzzare di cane e di stoccafisso. 2 La busta nella cassetta della posta era bianca, con il logo del comune di Oslo stampato in alto a sinistra. Il suo nome e l'indirizzo erano scritti a macchina su un'etichetta adesiva. Motivo per cui non si inquietò alla vista della videocassetta. Non era una VHS normale, come le altre, ma una VHS Super. La lettera, ripiegata diverse volte e infilata in una busta più piccola, era stata scritta a macchina: Cara Kristin Bye, alla conferenza stampa della polizia è stato chiesto se io avessi mai ucciso prima d'ora. La risposta è sì, molte volte, ma è stato parecchio tempo fa. Ero fuori allenamento. Ma uccidere è come andare in bicicletta: una volta che impari, poi non te lo dimentichi più. Non sono mai stato preso. La prima volta ci è mancato poco, ma io sono sfuggente come un'anguilla (se capisci cosa intendo dire). Un paio delle mie vittime non sono state mai ritrovate. Così ho voluto. La prima, invece, sì. Ovviamente non avevo cercato di nasconderla. Hanno fatto un po' di chiasso, ma alla fine non sono riusciti a prendermi, anche se avrebbero potuto farcela se solo si fossero dati un po' più da fare. Ora il caso è stato
archiviato. La sua cartella giace sotto la polvere degli archivi della polizia. Archiviato, sì, archiviato, e tra poco cadrà in prescrizione. Anche la seconda vittima è stata ritrovata. Ma non è servito a niente: non hanno saputo cogliere il nesso. Nessuno ha capito. La terza e la quarta, invece, non sono mai state ritrovate. Così ho voluto. Forse ce ne sono state altre? Non credere che la polizia sia in grado di rintracciarmi risalendo alla macchina da scrivere che sto usando. Non sono così imprudente. Mi trovo in un negozio in cui vendono articoli da ufficio e dove si possono utilizzare le macchine da scrivere. Mossa astuta, non trovi? Non farti illusioni! Il nastro me lo porto via. Nella busta troverai una nuova videocassetta. Una bella ragazza. Non l'ho ripresa dopo averla rapita, non questa volta. Così vi rendo il compito ancor più arduo, dal momento che non saprete se vi sto prendendo in giro o no. Se io sono davvero io. O un malefico burlone. Oppure può darsi che la faccenda sia maledettamente seria. Se mostrerai il video nell'edizione di questa sera, forse lascerò che la ragazza viva. Se invece non lo farai, morirà. A te la scelta. Saluti. Aquarius Il filmato durava cinque minuti. Ritraeva una giovane donna che passeggiava per strada, in una zona residenziale e in uno spiazzo grande e disadorno punteggiato da gruppi di ragazzi. «L'università di Blindern?» pensò Kristin. Non sembrava che la donna fosse consapevole di venire filmata. Quando sullo schermo le immagini sfumarono, si fissarono a vicenda. «Cosa diavolo è questa roba?» chiese Wolter. «Nessun rapimento, nessun omicidio,» constatò Skaug sollevato. «Uno scherzo di cattivo gusto?» suggerì Kristin. «Non mi stupirebbe,» commentò Wolter. «È tutto diverso rispetto alle lettere precedenti. Busta diversa. Videocassetta diversa. E la lettera è stata scritta a macchina.» «E non aggiunge nulla a quello che c'è scritto sui giornali,» sottolineò
Kristin. «Nessuna citazione biblica,» disse Skaug. «E questa volta si è dato un nome,» fece osservare Wolter. Kristin alzò lo sguardo al cielo. «Aquarius. Un riferimento all'astronomia.» «All'astrologia!» la corresse Wolter. «Parla di quattro precedenti omicidi,» disse Skaug. «In maniera così poco dettagliata da non farci escludere niente.» Wolter agitò la lettera. «Credo che qualcuno ci abbia preso di mira. Qualcuno che ci vuole veder annaspare. Magari uno di quegli studenti di giornalismo che ci ha insultato dopo che abbiamo trasmesso l'ultimo filmato. Non mi stupirebbe se si fossero inventati tutta questa storia per farci cadere in trappola e per poi andare a raccontare alla stampa che abbiamo un atteggiamento acritico nei confronti delle fonti. Sembra quasi che lo dica, nella lettera. Guardate! Ecco: '... non saprete se vi sto prendendo in giro o no. Se io sono davvero io. O un malefico burlone.' Cosa dovrebbero significare queste parole? Le avrebbe scritte un assassino?» Skaug ridacchiò. «Una punta di paranoia, capo?» «Ero preparato al fatto che potesse accadere qualcosa di simile. Me l'aspettavo! Qualcuno che ha interesse a colpirci. Perché questa volta l'assassino avrebbe dovuto agire in maniera tanto diversa? Si è comprato una videocamera nuova? Ha smesso di usare le buste marroncine imbottite? Ha fregato una busta col timbro del comune mentre era al lavoro? Probabile, no? E perché avrebbe dovuto rischiare di essere scoperto mentre scriveva la lettera in un negozio di articoli da ufficio? Perché esporsi in questo modo? Non mi convince. Secondo me, si tratta soltanto di uno scherzo di pessimo gusto. A nostre spese.» «Ci sarebbe anche un'altra possibilità,» disse Kristin. «E cioè che qualcuno ha filmato di nascosto la ragazza, ma per colpire lei. Un suo ex, magari. Un amante respinto. Se noi mandassimo in onda le immagini e lei, vedendosi, venisse a sapere che c'è un omicida che le sta dando la caccia, andrebbe fuori di testa.» «Ottima osservazione! Ottima!» «Ora vi faccio una domanda che non c'entra niente,» intervenne Skaug. «Abbiamo le palle per mostrare altri filmati del genere dopo tutto il casino che c'è stato?» Lui e Wolter si guardarono negli occhi: nessuno dei due rispose. «Ti ricordi il numero di Vang?» chiese Wolter.
«Uffa, dobbiamo proprio coinvolgere quell'ameba?» commentò Kristin. La polizia arrivò dopo sette minuti. Kristin aveva preso il tempo. Dopo cinque minuti sentì le sirene, e un minuto e cinquanta secondi dopo la polizia era alla reception. I poliziotti videro il video più volte. Come se si trattasse di un capolavoro del quale era importante non farsi sfuggire un solo dettaglio. Lessero e rilessero la lettera. «Che impressione vi fa?» domandò Wolter. «Difficile a dirsi,» rispose Vang. «Va fatta analizzare alla scientifica. A un primo sguardo sembra scritta da una persona diversa dall'assassino. Ma si tratta soltanto di un'ipotesi.» «Secondo te dovremmo mostrare il filmato?» Vang rise. «Non mi coinvolgere in questa storia. Ho già abbastanza problemi.» «Chi ha scritto la lettera ha formulato una minaccia ben precisa,» commentò Kristin. «Dobbiamo prenderla sul serio?» Vang si strinse nelle spalle. «Mettiamola così: per il momento io non la prenderei troppo sul serio. Analizziamo la lettera e stiamo a vedere. Ma ho i miei dubbi. Se ci fosse anche un solo elemento in comune con le buste precedenti, la questione sarebbe più chiara. Ma personalmente credo che qualcuno ve l'abbia mandata per farvi uno scherzo.» «Anche noi siamo di questo avviso,» disse Wolter. «Ma visto che tanto vi siete assicurati una copia del filmato, fate un po' come vi pare.» Non mostrarono le immagini. 3 A casa, Kristin aveva appena finito di vedere l'edizione delle 22 quando squillò il telefono. Di riflesso guardò l'orologio e sospirò. Aveva sperato di andare a letto presto quella sera. Poteva trattarsi di lavoro, nel qual caso avrebbe dovuto dire addio al letto, oppure di un'amica, il che equivaleva alla stessa cosa. «Pronto, sono Kristin...» disse. Silenzio. «Pronto!» ripeté impaziente.
Rumori smorzati. «Con chi parlo?» Stava per riattaccare quando udì una voce flebile. «Pronto?» Di una donna. Impaurita. «Con chi parlo?» «Sono io, io...» Una voce con la erre tipica della Norvegia meridionale. Silenzio. Di nuovo rumori smorzati. L'urlo penetrò come un coltello attraverso la cornetta, scuotendo Kristin. Durò solo qualche secondo. Poi le sembrò di sentire qualcuno che strappava un lenzuolo. Kristin emise un singhiozzo. Le urla proseguirono, più lontane, attutite, intermittenti. Poi, di nuovo, quel rumore di tessuti lacerati. Come se stessero strappando un lenzuolo. «Pronto?» Nel silenzio che seguì, Kristin rimase immobile con la cornetta in mano. «Pronto?» gridò. La cornetta venne sollevata. Kristin sentì qualcuno respirare affannosamente. «Pronto? Mio Dio, con chi parlo? Perché... Cosa sta succedendo?» Respiri ovattati. «Pronto?» Passarono alcuni secondi. Sentì un tonfo. Dopodiché riagganciarono. 4 Anita Fjordvik venne ritrovata morta in una delle fontane attorno al municipio di Oslo. Era una mattina silenziosa, grigia. Il sole non era che un disco incerto sopra l'orizzonte. Alcuni gabbiani si stavano azzuffando per via di un pesce morto che galleggiava nel fiordo. Un paio di piccole imbarcazioni stavano rientrando da Nesodden e un tram vuoto superò sferragliando Aker Brygge. Il netturbino la vide nel momento in cui l'orologio del municipio batté le sei. Aveva notato il cadavere qualche minuto prima, ma era stanco morto e aveva bisogno di un paio di occhiali nuovi, così aveva pensato che si trat-
tasse di un telone di plastica. Nei pressi della scalinata, i suoi due colleghi stavano armeggiando accanto a un furgoncino giallo fumandosi la seconda sigaretta della mattinata. Fu soltanto avvicinandosi alla fontana che capì di cosa si trattava. Rimase immobile, paralizzato dallo choc. Gli sembrava di sognare o di essere il personaggio di un film. Con la cinepresa alle spalle che lo riprendeva. Girò la testa, con la mano stretta attorno al manico della scopa. Vide il cadavere. I capelli biondi. Il corpo nudo. Le braccia. Le gambe. Sul seno sinistro era incisa una specie di stella con un numero dentro. 6. L'urlo gli proruppe dalla gola. Quando finalmente riuscì a riprendere il controllo della propria voce, le sue grida parevano ululati. Nei pressi del porto un gabbiano spiccò il volo. Nel tratto di mare tra Nesoddtangen e Bygdøy stava transitando una nave da crociera straniera. 5 Kristin ricevette la lettera quella mattina stessa. Una busta marroncina. Come le prime. Il suo nome era scritto con un pennarello rosso. Una VHS. Una lettera scritta a mano, in stampatello: KRISTIN! NON MI HAI PRESO SUL SERIO E NON MI HAI CREDUTO. MIA CARA, FAMMI SAPERE COME TI SI PUÒ LEGARE. COSÌ COME È SCRITTO. LA DOMANDA È: SEI IN GRADO DI LEGGERE - LEGGERE E CAPIRE VERAMENTE - IL MIO MESSAGGIO? SE TI PUÒ CONSOLARE, POSSO DIRTI CHE LA RAGAZZA ERA SOTTO LA MIA CUSTODIA QUANDO HAI RICEVUTO LA LETTERA PRECEDENTE. E COSÌ PENSAVI CHE IO CERCASSI DI INGANNARTI? IN UN CERTO SENSO AVEVI RAGIONE. ANCHE SE NON COME CREDI. ADESSO SO DOVE VI HO. QUANDO MI ASSALGONO I MALVAGI PER STRAZIARMI LA CARNE.
AQUARIUS Vang arrivò dieci minuti dopo, accompagnato da due poliziotti. Si riunirono nell'ufficio di Wolter, dove avevano collegato un videoregistratore al televisore. Wolter lo accese. Anita è seduta su un materasso. Lo stesso materasso di Una Mørch. I polsi legati. Ha le mani giunte. «Come se stesse pregando,» pensò Kristin. Si sente il rumore di una porta che si apre e si chiude. Anita alza lo sguardo. Un'ombra cala su di lei. La videocamera zooma sul suo viso. Lei fissa l'obiettivo. Poi l'inquadratura si allarga fino a includere tutta la stanza, prima di tornare a stringere su di lei. Succede qualcosa alla sinistra della ragazza. Una mano le porge un telefono. Lei afferra la cornetta con le mani legate. «Pronto?» Rimane in ascolto, confusa. «Sono io, io...» La mano rispunta di colpo all'interno dell'inquadratura, le sottrae la cornetta e l'appoggia sul materasso. La ragazza guarda in alto, di lato. Il volto le si contrae. Poi urla. Appare un braccio nudo. Nella mano, un rotolo di nastro da pacco. Mentre la ragazza cerca di opporre resistenza, lui inizia ad avvolgerle il nastro intorno alla testa. Comincia da sotto gli occhi. Poi glielo avvolge intorno alla testa molte altre volte. Le copre il naso. Ancora e ancora. Il nastro produce un suono come di un tessuto strappato. Lei urla, scuote la testa, lotta con le mani legate. Ma lui è più forte. Quando il nastro le raggiunge la bocca, lei la spalanca il più possibile. Ma lui continua la sua opera incollandole il nastro alla bocca aperta. Ancora e ancora. Poi la lascia andare. Attraverso alcune minuscole fessure, lei riesce a inspirare piccole quantità d'aria. Ma non sono sufficienti. Non per molto. Passa un minuto. Un minuto e mezzo. Le dita delle mani si aprono e si chiudono. China la testa all'indietro. Si vede soltanto il bianco degli occhi. Due minuti. Due minuti e trenta secondi. Si accascia su un fianco. La testa colpisce la parete con uno schianto.
«Oddio!» pensò Kristin. «Oddio!» Arretrò di un passo e andò a sbattere contro Wolter, che la afferrò. Si infilò un pugno in bocca, mordendolo con tutta la forza di cui era capace. «Oddio!» «Kristin?» fece Skaug. «Sono io!» gemette lei. Wolter e Skaug si guardarono confusi. Vang fece un passo verso di lei. «Tu?» chiese Vang. «Ma era la stessa donna che...» «Al telefono!» gridò lei. «Era con me che stava parlando al telefono!» Al liceo aveva fatto parte di un gruppo che si faceva chiamare «Il Clan». Era stato allora che aveva conosciuto Linda. Durante il weekend fumavano hashish, e nelle calde notti estive facevano il bagno nudi sulla spiaggia di Ingjerstrand. Erano un po' troppo giovani per fare gli hippy, ma ce la mettevano tutta per assomigliargli. Facevano meditazione, e alcune delle ragazze avevano imparato a leggere le carte astrali. Talvolta di sera organizzavano addirittura delle sedute spiritiche. Una delle ragazze - si ricordava bene di lei, si chiamava Ann-Reidun ed era tutta pelle e ossa - sosteneva di essere una vera medium e di aver stabilito un contatto telepatico con uno spirito di nome Gowdie. O qualcosa del genere. Lui non aveva mai dato credito a quelle idiozie, anche se la propensione all'occulto del Clan lo affascinava. Tutti quei discorsi. L'eccitazione. Le voci che salmodiavano al buio. L'odore dell'incenso. L'effetto blando dell'hashish. Per un certo periodo era stata una specie di ossessione, ma poi si era lasciato tutto alle spalle. Tranne Linda, ovviamente. Linda! Linda, bella e stupida! Ride rivolta verso di lui dallo schermo di tela. Si nasconde il viso, gli spruzza dell'acqua addosso, tira la tenda della doccia. La sagoma del suo corpo attraverso la plastica. E poi, di colpo, una ninfa che dorme a fior d'acqua, incatenata per sempre alla sua eterna giovinezza. È buio nella stanza. Il proiettore Super 8 è sul tavolo accanto a lui, con la parte anteriore appoggiata a un piedistallo formato da quattro libri. A fatica, ha appeso il telone al treppiedi malfermo. L'odore della lampada a incandescenza arroventata. I movimenti a scatti, come nei vecchi film muti. Dopo Linda c'era stata la ragazza del laghetto. E poi Mona. Dopo Mona si era comprato una videocamera. Più facile da maneggiare,
più sicura. Ma senza il fascino della Super 8. La prima a essere ripresa era stata Eirin. Strana, dolce, piccola Eirin! Che credeva di averlo convertito. Non aveva mai capito niente. Le aveva chiesto di andare a fare un giro in barca insieme a lui e lei aveva accettato, un po' perché era innamorata di lui e un po' perché era convinta di averlo redento. Avevano parlato di Dio e della Bibbia, e quando lui l'aveva baciata, lei aveva pensato che si fosse convertito alla fede. Era stato dal veterinario con Shere Khan. Non sapeva bene cosa avesse, ma era certo che il gatto fosse malato. Shere Khan non mangia da una settimana. Ha gli occhi opachi e perde moltissimo pelo. Il veterinario gli aveva fatto alcuni esami e un'iniezione di vitamine. Dopo aveva portato Shere Khan al parco. Shere Khan aveva sempre amato il parco. Lì poteva spiare i piccioni, rotolarsi nell'erba, andare a caccia di farfalle. Ma adesso non vuole nemmeno uscire dalla cesta. L'aveva appoggiata sull'erba. Shere Khan aveva alzato a malapena la testa e poi l'aveva lasciata ricadere. Allora lui era scoppiato in lacrime. Si era girato, in modo che nessuno vedesse che stava piangendo. Shere Khan si era limitato a guardarlo di sottecchi con occhi privi di espressione. Gioco diabolico 1 La volante della polizia attraversò le strade del centro a velocità sostenuta, con le sirene e i lampeggianti accesi. Vang, seduto sul sedile posteriore, aveva chiesto che lo riportassero in questura, e l'autista doveva aver interpretato le sue parole come un invito a partecipare al Gran Premio di Montecarlo o a qualcosa di simile. Vang non aveva protestato. Dentro di sé gioiva come un ragazzino nell'avanzare lungo le strade con i lampeggianti blu accesi. Una serie di omicidi a opera dello stesso autore. Sentì in bocca il sapore di quelle parole. Cinque anni prima, durante un viaggio di aggiornamento presso l'accademia dell'FBI a Quantico, in Virginia, aveva assistito a un'affascinante lezione a proposito di una serie di soggetti mentalmente disturbati che, quando uccidevano, si attenevano a un lugubre rituale. L'oratore
era a capo dell'Unità di Scienza Comportamentale e dell'Unità Investigativa di Supporto dell'FBI. Gente che operava in una zona al confine tra psicologia e investigazione. E che nei casi più fortunati era in grado di elaborare il profilo di assassini di cui non si sapeva niente in modo così dettagliato da consentirne l'arresto nel giro di pochi giorni, o al massimo di alcune settimane. Sfrecciarono oltre un semaforo rosso. Eppure, rispetto al modello americano, in questo caso erano molti i particolari che non combaciavano. Gli omicidi descritti nella lezione alla quale aveva assistito uccidevano infatti seguendo sempre lo stesso rituale. Le vittime, di norma, appartenevano allo stesso sesso. E grosso modo alla stessa fascia di età. Spesso si assomigliavano fisicamente. Venivano uccise nello stesso modo. E abbandonate in contesti simili. Mentre in questo caso l'assassino non seguiva nessun copione. Certo, entrambe le vittime erano giovani donne, ed entrambe erano state rapite e tenute prigioniere prima di venire assassinate, ma Una era stata freddata con un colpo d'arma da fuoco, mentre Anita era stata soffocata con del nastro da pacco. Apparentemente Anita non aveva subito abusi sessuali, ma era stata rinvenuta in pieno centro il giorno dopo esser stata uccisa. Una, invece, non era ancora stata ritrovata. A Vang tutto questo non piaceva. Un serial killer che si atteneva pedissequamente a un rituale era più facile da smascherare rispetto a uno che di volta in volta agiva in maniera diversa. La volante si spostò sulla corsia di sinistra, obbligando un autobus a salire per metà sul marciapiede. Aveva sbagliato nel non prendere sul serio la lettera. Che cosa sarebbe cambiato se si fosse comportato diversamente? Ad Anita sarebbe forse stato concesso di vivere se avessero seguito le sue indicazioni? Vang ne dubitava. E il dubbio lo rendeva profondamente inquieto. Intuitivamente, si rese conto che per l'assassino si trattava di un gioco, un gioco diabolico. A duecento metri dalla questura, l'autista spense le sirene. 2 Lo stavano aspettando nell'ufficio del questore. Il questore e il capo del dipartimento anticrimine sedevano a un'estremità del tavolo. Di fronte a loro c'erano il capo della polizia e il sottosegretario del ministero di Giustizia. Vang li salutò velocemente ancor prima di
fare il suo ingresso nella stanza. Il sottosegretario prese la parola: «Come ho già ripetuto al questore, il ministero di Giustizia non intende interferire con il lavoro della polizia.» «Perfetto,» pensò Vang, «ma...» «Tuttavia il ministro desidera manifestare la propria preoccupazione circa l'andamento assunto dalle indagini. Confida però pienamente nel fatto che la questura di Oslo farà tutto ciò che è in suo potere per arrestare al più presto questo criminale.» Nessuno disse niente. Vang pensò: «Sono tutti interessati a pararsi le spalle. Se dovesse succedere qualcosa, il ministro potrà sempre dire di essersi pronunciato fin dall'inizio a proposito dell'operato della polizia di Oslo. Come farà il questore a tirarsene fuori?» Il questore si schiarì la voce: «Come il ministro, anche la questura è ovviamente molto preoccupata a causa degli ultimi sviluppi,» disse rivolto al sottosegretario. A quel punto si girò verso Vang: «D'intesa con il capo del dipartimento anticrimine, ho deciso che d'ora in poi sarai tu a dirigere le indagini.» Vang rispose: «Ho piena fiducia in Antonsen.» «Ce l'abbiamo tutti. Ma visto come stanno le cose, ci sembra comunque opportuno che sia tu ad assumere formalmente e concretamente il comando delle operazioni.» Vang pensò: «Così il sottosegretario può precipitarsi dal ministro e riferirgli che il questore ha già rafforzato lo staff che si sta occupando delle indagini.» «È la cosa migliore,» aggiunse il capo del dipartimento anticrimine, come per soffocare sul nascere ulteriori discussioni. 3 Chiamò Aksel Antonsen nel suo ufficio. Vang aveva avuto qualche esitazione nel comunicarglielo, ma Antonsen sembrò averla presa bene. Vang suppose che si sentisse sollevato per il fatto di non avere più la responsabilità diretta delle operazioni. «Ovviamente rimani il vicecapo delle indagini, nonché il mio braccio destro,» disse Vang. «E Alm?» «Farà da tramite: sarà il responsabile del passaggio di informazioni tra le
due sezioni che ho pensato di creare. Un ruolo di grossa responsabilità.» «E cosa sarebbero queste due sezioni?» «Una si concentrerà esclusivamente sulle vittime, mentre l'altra continuerà a investigare sull'assassino. E per evitare qualsiasi dispersione di notizie, istituiremo una sezione a parte che avrà il compito di confrontare informazioni e teorie e di stabilire delle connessioni che potrebbero sfuggire alle singole sezioni.» «Saggia decisione.» «Voglio che ci siano due riunioni al giorno, la mattina e la sera, tra noi e i responsabili delle sezioni. E voglio che ai responsabili vengano distribuiti quotidianamente dei rapporti informativi.» «Avremo bisogno di gente!» constatò Antonsen. «Parecchia gente!» «Avremo tutto ciò che ci serve. Nel giro di due giorni disporremo già di una settantina di elementi. E tra una settimana saremo in più di cento.» Antonsen fece un fischio. «Ci vediamo qui tra due ore con i responsabili delle sezioni,» continuò Vang. «Per quell'ora avrò definito un organigramma dettagliato. Dobbiamo scavare nella vita di Una Mørch e Anita Fjordvik. Chi frequentavano, con chi hanno avuto delle relazioni, cosa facevano nel tempo libero, tutto! L'assassino ha incrociato la propria strada con la loro, e noi dobbiamo scoprire dove. Qualcuno all'università deve per forza aver notato un tipo con una videocamera. Dobbiamo aumentare il numero degli agenti speciali. Sono certo che tutta questa storia ha a che fare in qualche modo con la pornografia. Bisogna passare al setaccio quell'ambiente! E voglio sapere con esattezza che cosa vuol dire il suo nome, Aquarius. Se ha un significato astrologico. Voglio i nomi di tutti gli astrologi della Norvegia. Voglio sapere chi ricorre al loro aiuto chiamandoli per telefono. E cosa diavolo significa quella stella incisa sul seno della vittima? Nella penultima lettera ci sono parecchi dettagli relativi agli omicidi che avrebbe commesso alcuni anni fa. Voglio sulla mia scrivania tutti gli incartamenti. Dobbiamo analizzare ogni singolo caso irrisolto, tutte le denunce di persone scomparse. Dobbiamo setacciare i negozi di articoli per ufficio. Se si è fermato a scrivere una lettera così lunga, qualcuno deve averlo senz'altro notato. Che tipo di nastro ha usato per soffocare Anita? Dove lo si trova? Che telefono usa? Lo abbiamo visto di sfuggita, ma abbastanza a lungo perché qualcuno ne identifichi la marca. E poi voglio una lista di tutti i possessori di un telefono cellulare.» «Accidenti!» commentò Antonsen.
Qualcuno bussò con forza alla porta. Vang sospirò irritato: «Avanti!» Il responsabile del pool che si stava occupando di analizzare i filmati infilò la testa nella stanza con l'espressione di chi è convinto di aver interrotto una discussione furibonda. Non sapeva se rivolgersi ad Antonsen o a Vang, e così, mentre parlava, si rivolse prima all'uno e poi all'altro. «Scusate il disturbo, ma abbiamo appena finito di analizzare l'ultima videocassetta.» «E?» «Abbiamo scoperto qualcosa di cui credo vogliate esser subito messi al corrente.» «Vieni al punto!» intervenne Antonsen. «Il video è stato manipolato.» «Cosa intendi dire?» chiese Vang. «È stato editato. Dopo le riprese.» «Editato?» domandarono all'unisono Vang e Antonsen. «Lo si nota da un paio di passaggi. Il tizio non è affatto un dilettante. E ha accesso ad attrezzature parecchio sofisticate. Pensavo che avreste voluto saperlo subito.» Vang pensò: «E se fosse qualcuno di Kanal 24?» Giostra 1 Non mostrarono le immagini dell'omicidio di Anita. La questione non venne neanche discussa. Kristin e Roffern si recarono alla fontana dove era stato rinvenuto il cadavere. L'avevano svuotata. Tutto intorno, accanto al nastro di sbarramento della polizia, c'erano montagne di fiori e di bigliettini. Con una copia della videocassetta in mano, Kristin puntò lo sguardo in camera spiegando che «24 timer!» aveva deciso di non trasmettere il filmato. «Un omicidio che ancora una volta sconvolgerà la Norvegia,» disse. Anita Fjordvik. Vent'anni. Uccisa e trasportata in una fontana davanti al municipio di Oslo tra le undici e mezzo di sera e le cinque della mattina. L'assassino, non più tardi di mezzanotte, aveva imbucato la busta in una delle cassette che si trovavano fuori dalla sede centrale delle poste. La polizia era alla ricerca di testimoni. Qualcuno doveva aver visto qualcosa.
Dalle parti del municipio. Nei pressi delle poste. Ma non si fece vivo nessuno. 2 Era come un déjà vu senza fine. Questa volta i giornalisti arrivarono molto prima che il telegiornale iniziasse. Parecchi di loro avevano telefonato per chiedere se «24 timer!» avesse ricevuto una videocassetta. Anche se Wolter aveva cercato di temporeggiare prima di dare una conferma ufficiale, nel giro di poco tempo alla reception si era formato un capannello. Ancora una volta, improvvisarono una conferenza stampa nella sala riunioni. Ancora una volta Kristin dovette posare per i fotografi. Alla fine Kristin seguì Wolter nel suo ufficio. Una volta chiusa la porta, Wolter aprì uno dei cassetti della scrivania e ne estrasse una bottiglia di Martell. «Da usare in caso di necessità,» disse seccamente mentre versava il cognac in due bicchieri di plastica. Bevvero. «Cosa credi che scriveranno?» gli chiese Kristin. Wolter guardò per aria. «Non saranno critici come l'ultima volta. Hanno già detto tutto quello che c'era da dire. Questa volta non ci possono accusare di niente. Ci siamo adeguati. Ovviamente rimarcheranno il fatto che non siamo seri e che non ci si può mai fidare completamente di noi, ma ci lasceranno uno spiraglio aperto. In modo da permetterci di correre ai ripari.» «Quanto sei cinico.» Kristin non aveva più mangiato niente da quella mattina e il cognac cominciò a farle girare la testa. «Non sono cinico, Kristin. Sono realista. Ricordati che conosco le regole del gioco. Perché è di questo che si tratta! Di un maledetto gioco!» Si trattenne. «Hai ragione. Sono cinico.» Kristin non disse nulla. Inalò il profumo del cognac e lo sentì propagarsi attraverso i centri nervosi fino ad arrivare al cervello. «Un gioco!» insistette Wolter. «Una lotta per aggiudicarsi uno scoop da sbattere in prima pagina, per aggiudicarsi le notizie più strane, i tagli più esclusivi. Le curiosità. Un po' di human touch. E bisogna arrivare per primi. Scattare le foto per primi. Dettare la linea. Un fottutissimo gioco!»
«Brindiamo al gioco!» Wolter sorseggiò il cognac ammiccando con un'espressione disarmante. «Non dico che non siamo seri. Che non ci importa nulla di quello che facciamo.» «Alleluia!» «E non dico che non ci interessano le cose veramente importanti. Ma anche questo non è altro che un maledetto gioco.» Brindarono di nuovo. «Ne facciamo tutti parte,» continuò pensieroso. «È nella natura del giornalismo.» «Perlomeno di certi giornalisti...» Wolter scosse la testa. «È lì che vi sbagliate. Tu e tutti gli altri. Perché non si tratta soltanto di giornali come il 'VG' e il 'Dagbladet'. O dei telegiornali. Lo stesso vale per l''Aftenposten' e il 'Dagsnytt'. Il 'Nordlys' e il 'Fædrelandsvennen'. Per non parlare del piccolo quotidiano locale e del telegiornale di Stato. Non c'è nessuno che non si faccia un bel giro sulla giostra dell'ultima notizia, e alla fine la giostra gira così forte che nessuno ha più il coraggio di scendere.» «Accidenti, sei ubriaco o cosa?» Dopo aver guardato nel bicchiere, lui incontrò il suo sguardo. «Non sono ubriaco, Kristin, solo leggermente disilluso.» Aprì e chiuse le mani come se stesse cercando di afferrare qualcosa. «Si può sapere cosa diavolo stiamo facendo?» Kristin rifletté su quale fosse la risposta giusta da dare. Fece un tentativo: «Informiamo. Teniamo il pubblico aggiornato. Analizziamo e sveliamo. Stabiliamo l'ordine del giorno. Devo continuare?» «Ma sai cos'è che facciamo veramente? Noi che ci occupiamo di trasmettere le notizie in televisione? Sai qual è il nostro principale obiettivo?» Kristin si strinse nelle spalle. «Far sì che i telespettatori ci guardino?» «Noi siamo un maledetto rito! Noi siamo la conferma che il mondo esiste. Sera dopo sera! In ogni parte del mondo! I telegiornali sono uguali dappertutto. Noi surfiamo sulla cresta dell'onda. Diamo rilievo alle notizie più eclatanti. Eye candy e sound bites da questo mondo così drammatico. Brevi e frammentarie riproduzioni della realtà. Una verità che è fatta di immagini. Sentimenti. Partecipazione. Dramma. Una realtà diversa da quella dei giornali. Una realtà diversa da quella delle radio. Ma, comunque sia, un maledetto brandello di realtà. Una realtà che rassicura i telespettato-
ri sul fatto che possono andare a letto tranquilli perché anche domani il sole sorgerà.» «Su nuove guerre, nuovi omicidi, nuove tragedie...» «... che rappresentano soltanto una minima parte di quello che noi trasmettiamo.» Alzò gli occhi al cielo. «Oddio, sembri una dell'Associazione Giornalisti Cristiani! I telespettatori, quelli se ne fregano delle tragedie che gli passano davanti agli occhi mentre sono davanti al televisore. Buttano giù un altro sorso di caffè e la cosa finisce lì. Perché tanto non sono loro a esser stati colpiti. E nemmeno tu o io. Sono sempre gli altri che vengono colpiti.» Dopo essersi rigirata tra le mani il bicchiere di plastica, Kristin ne annusò il contenuto. «Secondo me invece gli importa.» Bevve un sorso. «Ma non hanno voglia di farsi coinvolgere.» Wolter rimase seduto a riflettere sulle sue parole prima di rispondere: «Quanti sono quelli che telefonano per protestare quando mandiamo in onda delle immagini di guerra particolarmente cruente? Dieci? Venti?» «Più o meno gli stessi che scriverebbero al 'VG' per lamentarsi di un articolo di gossip?» «Esatto! Ma sai che cos'è che si dimenticano tutti quelli che preferirebbero essere risparmiati dalla vista del sangue in televisione mentre se ne stanno placidamente seduti nei loro salotti? Si dimenticano che sono proprio quelle immagini a tenere sveglio il mondo. A cambiarlo! A chi sarebbe importato di una guerra tribale in Ruanda se la televisione non avesse mostrato i cadaveri ormai gonfi e i bambini che piangevano sul ciglio della strada? Nessuno aveva neanche mai sentito parlare del Ruanda, dannazione! E che cos'ha costretto la comunità internazionale a intervenire in Bosnia? Cosa ci è voluto perché intervenissero?» «Ti stai riferendo al bombardamento del mercato di Sarajevo?» «Un bagno di sangue! Quelle immagini hanno fatto il giro del mondo e hanno risvegliato l'opinione pubblica. Li hanno costretti a reagire. A esigere un intervento. E a determinare la svolta non è stato il numero dei morti. E non sono stati neanche gli articoli sui giornali. O tutte quelle fantastiche foto che sono state scattate. Il punto di svolta sono state le immagini apparse in televisione. Perché quelle immagini, con tutto il loro orrore, hanno svelato il significato della parola 'guerra'. Sangue... corpi mutilati... morte... madri e figli che piangono.» Wolter si alzò e andò alla finestra. Rimase a lungo a guardare fuori. «Credi che il telegiornale di Stato avrebbe mostrato il filmato?» gli chie-
se lei. Wolter fece una smorfia sorniona. «Mi sono posto anch'io la stessa domanda. Non lo so. In un modo o nell'altro credo che l'avrebbero fatto. L'avrebbero camuffato in tutti i modi possibili, ma alla fine avrebbero fatto come noi e avrebbero usato alcune delle immagini. Non l'omicidio in sé. Del resto neanche noi l'abbiamo fatto. Scommetto che le avrebbero lasciate scorrere su un monitor sullo sfondo, durante l'intervista a un poliziotto o a uno psichiatra. E allora, sai com'è, non si sarebbe scatenato nessun putiferio. I media avrebbero rispettato le gerarchie. Perché quello è il telegiornale di Stato. E non necessariamente perché il loro servizio sarebbe stato più serio o migliore del nostro, ma perché il modello da seguire sono loro.» «E noi siamo?» «Noi, Kristin, siamo l'ultimo arrivato della classe, quello più ribelle. Quello a cui nessuno dà il benvenuto ma che tutti stanno a guardare.» Kristin era sfinita e un po' brilla quando prese un taxi per tornare nel suo appartamento buio e vuoto. Si lasciò cadere sul divano, si sintonizzò su MTV e si addormentò vestita. 3 La mattina dopo fu svegliata presto da un collega del telegiornale di Stato che le comunicò che avrebbero voluto averla ospite nell'edizione del sabato. «Mio Dio,» pensò, «sto diventando famosa!» Mentre camminava diretta al lavoro, notò che in molti la fissavano. Cosa che non le piacque affatto. Passando davanti a un'edicola, vide che sia il «VG» che il «Dagbladet» avevano messo in prima pagina due suoi grandi ritratti. Neppure questo le piacque. Al lavoro, ad attenderla c'era una pila di richieste da parte di stazioni radio e settimanali che la volevano intervistare. Una delle riviste le aveva mandato via fax un invito a partecipare a una crociera ai Caraibi insieme a una sua troupe e, in caso le avesse fatto piacere, a un amico. Un'altra l'avrebbe voluta come ospite fissa della nuova rubrica «Pensieri davanti al caminetto», mentre una rivista soft porno le offrì di farsi fotografare nuda per cinquantamila corone. Era decisamente strano trovarsi nei panni della persona a cui tutti davano la caccia. Per anni era stata lei la cacciatrice, una delle miriadi di giornali-
sti che telefonavano ai politici di spicco, agli imprenditori, alle stelle dell'intrattenimento e ai campioni dello sport per ottenere una frase o un'opinione in esclusiva. Non aveva mai capito perché apparissero così riluttanti, stanchi, disillusi. Ma in fondo non era poi così incomprensibile. Non ricevevano una telefonata soltanto, ma cento. Il loro telefono squillava in continuazione. Non c'era un giornalista ad aspettarli al varco, ma cinquanta. E una cosa era fissare più o meno di propria spontanea volontà l'obiettivo di una telecamera o di una macchina fotografica, un'altra trovare il proprio volto con tanto di rughe spiaccicato sulla prime pagine dei giornali. Bevve un caffè insieme a Wolter e a Skaug, che si sforzarono di convincerla del fatto che Anita Fjordvik sarebbe stata uccisa anche se loro avessero mandato in onda le immagini che la ritraevano. Ma si trattava di argomentazioni poco convinte, formali, stanche. Wolter ammise di essersi sentito pressato dall'opinione pubblica, dai media, dalle autorità. Disse di aver fatto la figura del codardo. Se avesse avuto il coraggio di ascoltare il proprio cuore, avrebbe mostrato le prime immagini di Anita. E forse ora lei sarebbe stata ancora viva. «Stronzate,» disse Skaug. «L'assassino non poteva non ucciderla. Lei l'avrebbe smascherato. Era condannata a morte fin dal primo momento.» Kristin era d'accordo. E anche Wolter dovette ammettere che era così. Skaug batté con forza la mano sul tavolo. Anche se tutti e tre pensarono: «Forse, se avessimo fatto quello che ci chiedeva l'assassino, ora Anita sarebbe ancora viva.» 4 Il panico non scoppiò di colpo, come ci si sarebbe potuti aspettare: si diffuse gradualmente, come una specie di paralisi che si propaga con lentezza. Era come se, una dopo l'altra, tutte le donne di Oslo avessero cominciato a pensare: Mio Dio, la prossima volta l'assassino potrebbe prendere me! Nei primi tempi la centrale dei taxi registrò un considerevole aumento del numero di passeggeri femminili. Mentre in seguito fu la volta di un fenomeno che il «Dagbladet» battezzò la «Catena delle donne», e che consisteva in due o più donne che si prendevano sottobraccio e che a turno si accompagnavano a casa dopo un giro in centro. Un tizio in vena di scherzi ebbe un certo successo vendendo magliette con scritto: «Lasciami vivere.
Non sono fotogenica!» Diversi condomini e gruppi di volontari organizzarono dei turni di guardia. Alcuni attivisti redassero un appello in cui reclamavano la presenza di più poliziotti nelle strade. L'appello fu immediatamente sottoscritto dal Partito Progressista, che durante un'interrogazione parlamentare mise il ministro di Giustizia con le spalle al muro per via del fatto che l'assassino non era ancora stato preso. Tutti ne parlavano. Nelle mense, negli uffici, nelle strade, nei cortili delle scuole, al telefono - ovunque non si parlava d'altro: Aquarius. Chi era? E chi sarebbe stata la sua prossima vittima? I fabbri avevano liste di attesa di settimane, dal momento che tutti volevano cambiare serratura. Il numero di emergenza della polizia venne subissato di telefonate da parte di ragazze isteriche che vedevano uomini sospetti vagabondare davanti alle loro abitazioni. Dopo mezzanotte nei locali c'erano soltanto uomini, e quando se ne accorsero smisero di uscire anche loro. Un innamorato che, dopo un incontro segreto nel cuore della notte, stava sgattaiolando fuori dalla finestra della camera della fidanzata, rischiò di essere linciato da un gruppo di volontari. Un turista americano che stava riprendendo con la videocamera alcune ragazze in topless al Parco di Vigeland venne aggredito da due passanti e tenuto steso a terra fino a quando sul posto non arrivò una volante della polizia. Nei negozi di articoli fotografici i commessi esigevano di vedere la carta d'identità di tutti coloro che acquistavano delle videocassette. Per strada, un fanatico che stava tenendo un'orazione infervorata contro l'immoralità, che secondo lui andava punita con la morte e il fuoco eterno, fu accerchiato e consegnato a una pattuglia di poliziotti. 5 Il funerale di Anita, che si tenne in una chiesetta della Norvegia meridionale, fu molto diverso dalla cerimonia privata che i suoi genitori avrebbero voluto. Nella cittadina, le bandiere sventolavano a mezz'asta. Tutti gli abitanti presero parte alla celebrazione. La radio locale trasmise un salmo funebre. E lungo il tragitto che portava dalla casa di Anita alla chiesa, alcuni sconosciuti avevano appeso dei mazzi di fiori ai pali della luce. C'era una grande folla, riunitasi non per curiosità o per presenzialismo, ma per una dimostrazione di cordoglio e di affetto. Tre quarti d'ora prima che le campane iniziassero a suonare, la chiesa era già gremita.
Per riguardo nei confronti dei genitori, la polizia aveva relegato i giornalisti su una collinetta a doverosa distanza dalla chiesa, ma in una posizione tale da consentire ai fotografi di svolgere il loro lavoro. Nella chiesa c'erano un fotografo e un cameraman che avevano ottenuto il permesso da parte del sacerdote e dei genitori di fotografare e di filmare il funerale, a patto però che dopo condividessero il materiale con i loro colleghi rimasti fuori. La bara fu portata in spalla dal padre di Anita, dai suoi due fratelli e da tre zii. La madre la seguiva, sorretta dalla sorella. I singhiozzi strazianti della donna giunsero fino alla collinetta sulla quale erano abbarbicati i giornalisti. Quando la bara bianca venne calata nella fossa, la luce del sole si rifletté sugli obiettivi delle telecamere e nei cannocchiali. Stallo 1 Le ultime notti aveva dormito sul divano dell'ufficio: non solo perché le giornate di lavoro si erano andate sempre più dilatando, fino a sconfinare nella notte, ma perché il suo appartamento gli appariva freddo ed estraneo come una cella d'isolamento. Tuttavia la sera prima Vang era stato costretto a tornare a casa per farsi una doccia e cambiarsi. Si era spogliato in bagno e aveva infilato la camicia, i calzini e la biancheria intima in lavatrice. Dopo aver aperto il rubinetto dell'acqua e versato il detersivo nella vaschetta, nudo come un verme, era rimasto accovacciato a fissare tutti quei pulsanti e quei simboli senza capirci niente. Dopo la doccia, in cucina aveva spalmato del formaggio di capra e del paté su tre fette di pane. Il latte nel frigorifero era andato a male. Herdis aveva l'abitudine di fargli trovare un bricco di caffè sul fornello, ma questa volta Vang trovò soltanto un barattolo di caffè liofilizzato. Era incredibile come lei lo viziasse. Le rare volte in cui era tornato a casa per cena, Herdis gli aveva servito i manicaretti più sfiziosi. Se invece aveva dovuto lavorare fino a tardi, si sedevano al tavolo della cucina a parlare e a bere caffè. A volte lei accendeva una candela prima di spegnere il lampadario. Era molto più brava di lui in questo genere di cose. Quando era stanco e abbattuto, lei gli toglieva la cravatta e gli sbottonava la camicia per massaggiargli le spalle. In un paio di occasioni lo aveva spinto in salotto, dove avevano fatto l'amore sul divano. Ovviamente dopo che Ro-
ger era andato a vivere per conto suo. Herdis sapeva essere molto fantasiosa. Vang pensò: «Sono diventato troppo vecchio per lei? È di questo che si tratta?» Abitavano al secondo piano di una palazzina nel quartiere di Årvoll. Tre stanze, cucina e bagno. Una casa ordinata, tranquilla. Una meravigliosa vista sulla città e sul fiordo. Era stata Herdis a dare il proprio tocco all'appartamento. A Vang ricordava uno chalet di montagna. Mobili di pino in stile rustico. Tende rosse a fiori. Una libreria in legno massiccio stracolma di libri. I ritratti di famiglia appesi alle pareti. E alcuni acquerelli che Herdis definiva artistici. Quelle palazzine popolari erano state costruite subito dopo la guerra e lo spirito socialdemocratico ne impregnava i giardini e le parti comuni. Tre volte all'anno i condomini si riunivano per svolgere insieme tutti quei lavori di manodopera necessari per mantenere il palazzo pulito e in ordine. L'amministratore controllava che tutto procedesse secondo le regole. Se qualcuno si sottraeva al proprio dovere di lavare le scale, subito l'amministratore andava a bussare alla sua porta. A Vang piaceva molto abitare lì. In vestaglia, si diresse strascicando i piedi verso il grande baule dove conservava i suoi dischi di jazz. Era orgoglioso della propria collezione. L'unico lusso che si fosse mai concesso. Quasi duecento LP in vinile. Count Basie. Errol Garner. Oscar Peterson. Art Tatum. Tutti quanti. Gli piaceva il jazz più datato, i pianisti soprattutto. I ritmi. Gli accordi dilatati, sincopati. Le corse leggere come piume sulla tastiera. E tutte le sensazioni che ne derivavano. Scelse un LP di Errol Garner che aveva sentito un sacco di volte. Appoggiate le gambe sul tavolino, si mise comodo sul divano. Chiuse gli occhi, in ascolto. Dietro gli accordi si sentivano degli scricchiolii e dei ronzii. Ascoltò gli schiocchi compiaciuti di Garner. Ogni strofa gli ricordava loro due, lui e Herdis. Quando andò a letto, il profumo di lei impregnava le lenzuola. Si raggomitolò nel punto in cui Herdis era solita dormire e si addormentò. 2 Tornò in ufficio alle sei e mezzo del mattino dopo. Il cielo era terso e lucente. Lui era stanco. Quando si sedette alla scrivania per esaminare i rapporti delle sezioni in-
vestigative, sapeva già che vi avrebbe trovato una grande quantità di notizie ma nessuna informazione decisiva. Anche se Vang era consapevole del fatto che tutte le grosse indagini prima o poi entravano in una fase di stallo, si sentiva contagiato dal senso di frustrazione che aveva cominciato a diffondersi all'interno del suo staff. I primi giorni di un'indagine erano sempre caratterizzati dall'entusiasmo e dall'ottimismo, dallo spirito di squadra e da una sensazione di invulnerabilità. Ma ben presto la gioia di lavorare in gruppo svaniva. Essendo loro così tanti e gli elementi di cui disponevano così pochi, il numero di informazioni che avevano raccolto sembrava già ingestibile. Metri e metri di raccoglitori. Scatole traboccanti di dischetti. Catene montuose di mensole impiegate per immagazzinare provvisoriamente il materiale accumulato. Nomi, nomi, nomi. Protocolli di interrogatori. Elenchi. Cartine. Ritagli di giornale. Teorie. Nemmeno la pista rappresentata da Kanal 24, che Vang aveva sperato potesse risolvere il caso in un baleno, aveva dato risultati. Le indagini si erano svolte in maniera molto discreta. Vang in persona aveva interrogato Wolter a proposito dei suoi tecnici e dei giornalisti, ma nessuno di questi aveva risvegliato l'interesse della polizia. Avevano stilato un elenco di venti nomi che in teoria avrebbero potuto presentare delle similitudini con il profilo dell'assassino, ma uno alla volta erano stati scartati. Neppure i «Discepoli», come venivano chiamati scherzosamente i componenti del pool che si occupava del versante religioso delle indagini, avevano avuto successo. A dire il vero, per una coincidenza fortuita avevano scoperto una cerchia di pedofili all'interno di una chiesa libera, ma anche i loro nomi erano stati presto stornati dall'elenco dei sospetti. Il gruppo che si occupava dell'analisi dei filmati era incappato in un canale di distribuzione di film porno, ma anche qui niente che potesse condurli ad Aquarius. Un team di otto investigatori aveva passato al setaccio i vecchi casi di violenza e le denunce di persone scomparse. Furono analizzati e valutati tutti i casi che potevano in qualche modo rimandare alle allusioni contenute nella terza lettera. Tutti i dati, uno dopo l'altro, vennero inseriti nel computer. L'obiettivo era quello di archiviare il maggior numero possibile di informazioni. Prima o poi avrebbero trovato una qualche corrispondenza: un nome che ricorreva in più punti, una persona a cui andava prestata più attenzione. E prima o poi quel nome sarebbe appartenuto ad Aquarius.
3 Vang e Aksel Antonsen si diressero verso Grønland per pranzare. Il locale era praticamente vuoto. E non era difficile capire il perché: era un posto freddo e squallido. Sedie scomode e tavoli di plastica. Il vetro del bancone era pieno di mosche. Presero dei panini e due tazze di caffè. Le sedie cigolarono quando si sistemarono a un tavolo vicino alla finestra. «Dimmi una cosa, Runar,» esordì titubante Antonsen intrecciando le mani, «c'è qualcosa che non va?» Vang sentì la tensione irradiarsi in tutto il corpo. Non aveva detto a nessuno di Herdis. Non aveva voglia di occhiate compassionevoli. «Sembri... sai...» Antonsen si schiarì la voce. «Un caso difficile,» rispose Vang evasivo guardando fuori dalla finestra. Una donna pachistana stava spingendo una carrozzina attraverso il piazzale. Sentì lo sguardo di Antonsen che lo studiava. «Un caso estremamente difficile,» ripeté muovendosi inquieto sulla sedia. «Vero,» commentò Antonsen. Guardò Vang, e stava per insistere quando invece decise di lasciar perdere. «Credi che lo prenderemo?» «Prima o poi...» «Quindi la questione sta nel numero di vittime che riesce a uccidere prima che lo prendiamo?» «Sì.» «Una volta non avevi frequentato un corso? Negli Stati Uniti?» «Non un corso,» precisò Vang. «Una lezione.» «Allora? Cosa ne pensi?» «Di cosa?» «Di lui! Di Aquarius!» «Quello che penso...» «Lanciamoci un po' la palla, Runar. Come ai vecchi tempi! Ti ricordi quando lo facevamo, nei momenti di stallo?» Sorridendo, Vang bevve il suo caffè. Sì, se lo ricordava. «Comincia tu!» disse Antonsen. «Come vuoi...» Finito di masticare, Vang appoggiò il panino sul piatto. «Si tratta soltanto di congetture astratte... Al diavolo, comunque: all'apparenza è un tipo sicuro di sé. Calmo e pacato. Ma dentro è un fascio di nervi. È freddo, cinico. Un vero e proprio bastardo. Manipolatore e calcolatore. Eppure, al tempo stesso mi immagino che abbia il profondo desiderio di
essere preso. Si sta sbilanciando sempre di più. Se è vero che ha già ucciso prima e non si tratta solo di una sua fantasia, allora vuol dire che l'ha fatto più o meno in segreto. Mentre adesso sta correndo dei rischi. Tra cui quello di essere scoperto. Sfida il pericolo, oltrepassa i limiti. Ci sfida, Aksel, ci provoca!» «E perché, se desidera tanto essere catturato, non si costituisce?» «Se alla fine non lo prendiamo, forse lo farà, ma per il momento sarebbe troppo facile! Per lui si tratta di un gioco. Un giochino elettronico tridimensionale in cui l'avversario è la società. A livello emotivo, uccidere un essere umano ha per lui lo stesso peso che avrebbe uccidere una sagoma sullo schermo di un computer. Fa parte del gioco. Ma vuole essere battuto, non gli va di arrendersi.» «Le citazioni bibliche indicano che ha delle turbe. Anche se non è credente, può darsi che sia cresciuto in una famiglia particolarmente religiosa. Il figlio di un pastore protestante. O di un predicatore di una di quelle chiese libere. Probabilmente da bambino è stato vittima di maltrattamenti. Forse di abusi sessuali. Che ne pensi?» «Sono sempre più convinto che si tratti di un bluff. Che ricorra alle citazioni solo per confonderci.» «L'ho pensato anch'io.» «Vuole crearsi un personaggio. L'assassino posseduto dalla religione. Da un demone occulto. Non ci credo. È come il regista di un film: si preoccupa della messa in scena. Se avesse veramente avuto l'ossessione dalla religione, la cosa si sarebbe manifestata in molti altri modi: nel rituale delle uccisioni, nei luoghi in cui abbandona le sue vittime. Nei simboli.» «C'è la stella. E il numero.» «Non capisco cosa simboleggino.» «E perché diavolo filma le sue vittime? Perché invia i filmati a Kanal 24?» «Autoaffermazione! Così facendo, è visibile e invisibile allo stesso tempo. Proprio come Kristin Bye. Visibile e potente - invisibile e anonima. Allo stesso tempo. Ti ricordi di Zodiac? Imperversò in California dal '66 fino alla metà degli anni Settanta. Completamente pazzo. O almeno così sembrava. Disegnava simboli astrologici intorno alle sue vittime. Nessuno sa quante persone abbia ucciso. Alcuni dicono sei, altri quarantanove. Ma inviò più di venti lettere ai giornali. Non voleva essere invisibile.» «È mai stato preso?» «No.»
Antonsen annuì. Si era sollevato gli occhiali sulla fronte. «È furbo. O legge molti gialli o vede molti film. Non è un fatto un po' insolito per uno così?» «Insolito? Al contrario! Molti di loro hanno un buon livello di istruzione. Sono intelligenti. Non ti ricordi di Ted Bundy?» «Quello che è finito sulla sedia elettrica?» «Alla fine sì. Dopo aver manipolato per anni il sistema giudiziario. Scaltro. Intelligente. Affascinante. Un mito per le donne. Ma... pazzo da legare.» «Il nostro assassino li conosce senz'altro. E infatti anche lui si è scelto uno pseudonimo. Cerca di emularli.» «Lo credo anch'io. È istruito. Colto. Si esprime con proprietà,» disse Vang. «Sa usare le parole. Prende iniziative.» «Tutto questo lo rende ancor più spaventoso.» Si guardarono. Entrambi pensarono la stessa cosa: ucciderà ancora. Oldtimer «Ti mancherà tutto questo! Che ne dici, Oldtimer?» Il direttore del giornale, Anders Langen, soprannominato da tutti il Serpente, diede una gomitata amichevole a Gunnar, che, in piedi e a braccia conserte, stava osservando la redazione immersa nel silenzio. Erano quasi le tre del pomeriggio. Gunnar sbirciò Langen da sopra le lenti degli occhiali. Avevano lavorato insieme alla cronaca nera per dodici anni prima che Langen diventasse caporedattore e poi direttore. Gunnar constatò scoraggiato che Langen era l'unica persona che poteva definire amica nel suo ambiente di lavoro. Perlomeno l'unica ancora viva. «Sì,» rispose Gunnar sconsolato, «mi mancherà.» Lasciò vagare lo sguardo sulla stanza. A quell'ora, nessuno avvertiva ancora lo stress. Un compositore e un grafico si stavano dedicando con impegno a una pagina a colori che andava consegnata di lì a poco. Un redattore e il capo dell'ufficio stampa stavano ridacchiando con aria di sufficienza davanti alla copertina di una rivista di gossip. Un giornalista entrò correndo con una pila di carte tra le mani, ma dopo essersi guardato intorno con espressione disperata abbandonò la stanza. Un assistente sollevò la cornetta di un telefono che stava squillando già da un po', e dopo aver passato in rassegna i presenti con lo sguardo trasferì la chiamata a un altro assistente.
«Non proprio come ai vecchi tempi,» pensò Gunnar. Avrebbe anche potuto essere una banca. Un'agenzia immobiliare. Uno studio pubblicitario. Soltanto le copie di alcune pagine appese alle pareti gli facevano pensare di trovarsi nella redazione di un quotidiano. Ai vecchi tempi la redazione centrale aveva l'aspetto di una redazione centrale. Polverosa, sporca, disordinata. A quei tempi, i dispacci frusciavano uscendo dalle rumorose macchine telex - dalla Norsk Telegrambyrå, dalla Associated Press, dalla Reuters, dalla United Press International -, con una campanella che trillava ogni volta che arrivava un dispaccio importante. Metri e metri di carta frusciante che veniva strappata con l'aiuto di un righello, riiiiic!, suddivisa e infilzata su chiodi d'acciaio. Macchine da scrivere ticchettanti che emettevano dei secchi cling! quando raggiungevano il margine destro. Telefoni che squillavano, invece di avere il suono di giocattoli elettronici. Tuttavia, Gunnar dovette ammetterlo, l'ambiente era esattamente quello di prima. Persone nuove, eppure uguali a quelle di allora. Un manipolo di arrivisti e di cacciatori, di mezzi artisti e di scansafatiche, di idealisti e di cinici. Tazze di caffè mezze piene. Bloc-notes dai geroglifici incomprensibili. Un senso dell'umorismo distorto. Montagne di giornali vecchi e di carte. Alcuni in attesa, altri a caccia della notizia giusta. Della storia che avrebbe dettato la linea sul giornale dell'indomani. E più si avvicinava il momento della consegna, più l'atmosfera si faceva tesa. La piacevole sensazione di chi ha saputo mettere insieme un buon numero. Un sentimento collettivo. E la disperazione quando mancavano degli argomenti interessanti, quando bisognava reimpostare la prima pagina perché la notizia principale non teneva ma non si aveva sottomano nient'altro. Gunnar pensò a quella vecchia battuta: «I medici seppelliscono i propri errori, i giudici e gli avvocati li mettono in carcere, i giornalisti li stampano.» Un esame quotidiano con centinaia di migliaia di esaminatori. Se solo commetti un errore, i lettori sono lì che ti aspettano al varco, con la matita rossa in mano e la querela facile. Trionfanti! Gli insegnanti di norvegese che inviavano lettere indignate perché scrivevi «era» invece che «fosse». L'astronomo che telefonava perché avevi scritto che un anno su Nettuno era lungo quanto duecento anni terrestri, quando anche un idiota sa che Nettuno impiega 164,79 anni per compiere il suo giro intorno al Sole. L'esperto di statistica che insisteva sulla differenza tra «percentuale» e «punto percentuale». L'avvocato che minacciava di denunciarti perché avevi scritto che il suo cliente era stato condannato per «rapina in banca» invece che per «tentativo di rapina in posta». E la cosa peggiore era che tutti avevano ragione. Il giornale ideale
è privo di errori. Non c'era dunque da stupirsi del fatto che il loro senso dell'umorismo fosse crudo e impietoso. Un linguaggio in codice impossibile da decifrare. Gli estranei in visita alla redazione di solito sbiancavano e ammutolivano quando per sbaglio sentivano i commenti salaci che volavano per la stanza. Sì, avrebbe sentito la mancanza di quell'ambiente. «Non ti sconvolge l'idea di smettere?» gli chiese Langen. Gunnar trattenne il fiato. Aveva la risposta pronta sulla punta della lingua: «Sì, sarà strano.» Era quello che rispondeva a tutti ogni volta che glielo domandavano. Sarebbe stato strano. Triste. Ma la cosa più strana era che non vedeva l'ora. Ormai sembrava quasi che uno che aveva compiuto sessantasette anni dovesse per forza di cose farsi venire il panico all'idea di andare in pensione. Ma c'erano ancora così tante cose da fare, tanto da dare, c'era ancora un sacco di energia in quella vecchia carcassa. Magari gli avrebbero permesso di occupare un ufficio in un corridoio abbandonato, dove si sarebbe trovato seduto a balbettare e a scrivere un articolo che prima o poi forse sarebbe stato pubblicato. Invece Gunnar non vedeva l'ora. Non vedeva l'ora di stare sveglio fino a notte fonda e di alzarsi quando ne aveva voglia la mattina dopo. Di sprofondare in una poltrona a leggere. Ma la cosa che più di tutte non vedeva l'ora di fare era tirar fuori la sua vecchia macchina da scrivere portatile Underwood e scrivere. Un libro di memorie, sì. Un giallo (se solo fosse riuscito a risolvere l'enigma di quella porta chiusa che gli stava dando del filo da torcere). Era da quando aveva trent'anni che sognava di scrivere un romanzo di guerra. Una versione norvegese de Il nudo e il morto, che Gunnar considerava come il più alto esempio di romanzo mai scaturito dalla seconda guerra mondiale. Aveva già pronti una decina di personaggi. Aveva in mente la trama. Gli intrecci. Ma ogni volta che infilava un foglio bianco nella macchina da scrivere e batteva in cima alla pagina le parole «Capitolo primo», poi si bloccava. La prima frase non ne voleva sapere di uscire. Non era certo Mailer. Non era Hemingway. E non era neanche Gunnar Larsen, accidenti. Ma una volta in pensione, si immaginava che tutto sarebbe cambiato. Avrebbe avuto il tempo di starsene seduto ad aspettare che le parole arrivassero. Tempo. La parola magica. Tempo. Magica e insidiosa. «Gunnar?» Langen lo fissò in attesa di una risposta. Gunnar ridacchiò a mo' di scusa e disse: «Mi perdo dietro ai miei sogni! Ma ti dirò una cosa.» E mise la mano robusta sulla spalla di Langen, attirandolo a sé. Era l'unico in tutta la redazione che avesse il coraggio di fare una cosa simile con il Serpente. «Non vedo l'ora. Davvero! Non vedo l'ora,
Anders.» Afferrata la matita gialla che teneva sempre infilata dietro l'orecchio, Langen ispezionò i segni dei morsi (come per assicurarsi che fossero i suoi) prima di infilarsela in bocca come una sigaretta. «Me lo immaginavo.» Con uno strano movimento della mascella, fece rotolare la matita tra i denti. «Stai ancora sognando di scrivere quel libro?» Non lo disse in tono scherzoso o strafottente. Langen pronunciò la parola «libro» con la L maiuscola. Con rispetto. Gunnar sussultò. Non si ricordava di avergliene mai parlato. Di averne mai parlato con nessuno. A eccezione di Kristin, probabilmente. Il libro era il suo sogno segreto. Quando mai ne aveva parlato a Langen? Forse nel periodo in cui beveva. A quei tempi Langen era stato uno dei suoi fedeli compagni di sbronza. Gunnar disse: «Forse un giorno scriverò davvero quel libro, Anders. Forse.» «Bene...» Langen si raddrizzò, assumendo l'espressione di uno che non ha ancora finito di parlare. «Ma se così non fosse, sappi che qui sarai sempre il benvenuto.» Lo disse con noncuranza, quasi per gentilezza, ma quelle parole fecero inaspettatamente venire a Gunnar gli occhi lucidi. Che ti venga un colpo, Gunnar, invecchiando sei diventato uno sciocco sentimentale! Sbattendo le palpebre per sviare l'attenzione, disse: «Grazie per l'offerta! Si possono dire tante cose sul giornalismo, ma è...» «... ma è meglio che lavorare,» completò la frase Langen. Diede un'ultima pacca sulla spalla a Gunnar. «Ci vediamo, Oldtimer.» Mentre faceva ritorno al suo ufficio attraverso i tortuosi corridoi del giornale, Gunnar pensò a Kristin. La pensava spesso. Si era occupato di parecchi omicidi. Tragedie squallide. Omicidi compiuti in stato di ubriachezza. Omicidi scatenati dalla gelosia. Solo di rado si era imbattuto in omicidi studiati nei dettagli, pianificati. Ma questo tizio, questo Aquarius, costituiva una categoria a sé. Gli ricordava i killer americani e inglesi di cui aveva letto. L'assassino di bambini di Atlanta. Il figlio di Sam. Lo stupratore dello Yorkshire. Fred e Rosemary West. Individui asociali. Mentalmente disturbati. Perché aveva scelto proprio Kristin? Dopo essersi richiuso la porta alle spalle, si mise a sedere sulla vecchia seggiolina da ufficio verde che il fisioterapista aziendale aveva minacciato di buttargli via più volte nel corso degli ultimi otto anni.
Perché Kristin? Non riusciva a capirlo. Era bella, sì, ma non più di tanti altri volti femminili che si vedevano in televisione. Non si era mai messa particolarmente in mostra. A intervalli regolari appariva sullo schermo, ma la cosa finiva lì. Alcune riviste di gossip avevano pubblicato delle sue foto quando stava con Marcus, ma non la si poteva certo considerare una celebrità. E allora perché mandava le videocassette a lei? Aveva ucciso due giovani donne. Le aveva riprese. Aveva inviato i filmati a Kristin. E ricevuto più attenzione di quanto si sarebbe mai potuto sognare. I giornali non scrivevano d'altro. Tutte le televisioni, i giornali, le riviste e le radio di Oslo avevano istituito delle sezioni interne dedicate ad Aquarius che sgomitavano e si affannavano alla ricerca di nuove informazioni. Gunnar sperava che a quel punto l'assassino si ritenesse soddisfatto. Che avesse ottenuto tutta l'attenzione che aveva desiderato. Sperava che adesso se ne stesse rintanato fino al giorno in cui l'ispettore Vang non avesse bussato alla sua porta per dirgli che il gioco era finito. Tuttavia Gunnar temeva che non si trattasse che dell'inizio. Sperava, e Dio solo sapeva quanto, che non ci sarebbero stati altri omicidi. E che Kristin fosse al sicuro. L'incertezza gli riempiva la bocca di un sapore che gli ricordava la sua infanzia. Il sapore di quando da bambino succhiava una monetina da cinque centesimi. Ha solo diciassette anni. Ne dimostra dieci di più, ma il fatto che sia così giovane lo confonde. Ha grosse tette e uno sguardo indurito. Tutt'altro che una ninfa. Davvero tutt'altro che una ninfa. Era stato così facile, così incredibilmente facile. Aveva trascorso il weekend in montagna, con tanto di tenda, canna da pesca e attrezzatura da campeggio, e poco più a nord di Dokka eccola lì, sul bordo della strada, che faceva l'autostop. Non c'era quasi più nessuno che avesse il coraggio di farlo, neppure fuori Oslo. Così, quando si era fermato per domandarle dove fosse diretta, le aveva chiesto se non avesse paura di Aquarius. «Ma va!» gli aveva risposto lei con il suo accento di campagna. «A me non succederà un bel niente. Non qui!» Gli si era seduta accanto e aveva appoggiato lo zaino sul sedile posterio-
re. Avevano cominciato a parlare. Era scappata di casa dopo un litigio con i genitori e aveva pensato di andare a stare a Oslo da alcuni amici. «Che strano,» aveva commentato lui, «il mio inquilino ha appena traslocato. Se la cosa ti può interessare.» Certo che sì. Se l'affitto non era troppo caro. No, non chiedeva molto. Aveva un lavoro? No, non ce l'aveva. Per il momento. Pensava di procurarsene uno nel giro di qualche giorno. Un negozio. Un ufficio. Una cosa qualsiasi. Di sicuro. Davvero strano. Lui aveva una piccola ditta, le aveva spiegato, e stava proprio cercando qualcuno che desse una mano in ufficio. Centralino, preparare il caffè... cose così. Le poteva interessare? Perfetto! Lei era un razzo nel preparare il caffè, e in molti le avevano detto che aveva una bellissima voce. «Allora possiamo passare da casa mia, così dai un'occhiata alla stanza,» le aveva suggerito, «se per te va bene.» «Benissimo,» aveva risposto lei. Era stato così facile. Adesso è sdraiata sul materasso in cantina e si lamenta. Marianne. Completamente diversa da Una e da Anita. Loro erano state tranquille e taciturne. Dignitose. Invece con Marianne è uno strepitare continuo. «Non uccidermi, non violentarmi, farò tutto quello che vuoi, ma non uccidermi, ti prego» - un continuo. Ogni maledettissima volta che apre la porta della stanza, lei attacca con la solita solfa. Gli dà sui nervi. Quando le porta da mangiare, lei scoppia a piangere. E quando la osserva attraverso lo specchio, si agita e strattona la catena. Le ricorda una volpe disperata finita in una tagliola. Nel buio pesto, prende il blocco A4 a righe e una penna. Si infila i guanti di lattice, sottilissimi. Apre la Bibbia. CAM KRISTIN, scrive. Rimane seduto a fissare un punto davanti a sé. Kristin. Quel nome ha il sapore del miele. Se solo lei sapesse! Si ricorda della prima volta che aveva sentito la sua voce. La prima volta che l'aveva incontrata. Lo stupore quando all'improvviso l'aveva vista in televisione. Studia gli strani caratteri in stampatello che ha imparato a usare. Lascia scorrere lo sguardo sulla scrittura minuta che riempie le pagine della Bibbia. Trattiene il respiro. Scrive con una forza tale che la punta della penna quasi lacera il foglio:
LA BAMBINA NON È MORTA, MA DORME. ED ESSI LO DERIDEVANO. MA EGLI, CACCIATI TUTTI FUORI, ENTRÒ. PRESA LA MANO DELLA BAMBINA, SUBITO LA FANCIULLA SI ALZÒ. Sorridendo, preme la penna sul foglio: UNA NUOVA FANCIULLA PER TE. NON SAI CHI È. POTREBBE ESSERE CHIUNQUE. MA APPARTIENE ALLA STIRPE DI LILIT. IL SANGUE DI LILIT SCORRE NELLE SUE VENE. Si appoggia allo schienale della sedia. Legge a mezza voce ciò che ha scritto, chiedendosi quanto tempo impiegheranno a decifrare il suo messaggio. HA UNA PREGHIERA. PREGA DI CONTINUARE A VIVERE. SCEGLI TU SE NON ASCOLTARLA, COME L'ULTIMA VOLTA, O SE FARE QUELLO CHE TI CHIEDE. FORSE LE SALVERAI LA VITA, O FORSE NO. LE SACRE SCRITTURE DICONO: EGLI PREGHERÀ PER TE E TU VIVRAI. MA SE NON LA RESTITUISCI, SICURAMENTE MORRAI, TU E TUTTI I TUOI. AQUARIUS Il demone della notte 1 Il volto è pallido, deperito. I capelli le pendono a ciocche sulla fronte. I grandi occhi sono rossi di pianto. «Mi chiamavo Marianne,» dice. La voce le trema. Tira su con il naso, e dopo essersi inumidita le labbra fissa qualcosa dietro la videocamera. Si sforza più volte di proseguire, ma non riesce a pronunciare nemmeno una parola. «Ma ora il mio nome è... Lilit. Aquarius mi ha chiesto di dire queste pa-
role: 'Quando saranno trascorsi i mille anni, Satana sarà liberato dalla sua prigione.' Ora i mille anni sono giunti alla fine.» Esita, con espressione interrogativa torna a guardare qualcosa (un essere umano? un cartellone?) dietro la videocamera, dopodiché riprende a parlare con voce rotta: «Aiutatemi! Per favore! Mandate in onda questo filmato stasera! Così lui non...» I singhiozzi prendono il sopravvento. Piange a dirotto. Le tremano le mani. Alla fine si riprende: «Per favore! Fate come vi dice! Per favore!» Kristin aveva gli occhi lucidi. Guardò prima Wolter e poi Skaug. Wolter si passò una mano sulla fronte prima di strofinarsela sul naso. Nessuno disse nulla. Il telefono di Wolter prese a squillare. Lui non rispose. Quando finalmente il telefono smise di suonare, Wolter chiese piano: «Abbiamo scelta?» Né Kristin né Skaug risposero subito. Poi Kristin disse: «È un ricatto.» «Lo puoi ben dire,» ribadì Wolter tagliente. «Non capisco il significato delle citazioni. E chi è Lilit?» Kristin li guardò entrambi. «Quell'uomo è completamente pazzo,» fu il commento di Skaug. Irrazionalmente, Kristin avvertì sulle proprie spalle il peso dell'intera vicenda e la responsabilità del suo esito. Come se fosse stata lei a chiedere che le inviassero quelle videocassette per far carriera. «Chi contatta Vang?» domandò Skaug. «Io no,» rispose Kristin. «Voglio scoprire chi è Lilit.» Wolter alzò la mano con un movimento fiacco. Kristin si precipitò nell'ufficio accanto per telefonare a una vecchia fonte che aveva all'università, un lettore esperto di folclore. A Natale e a Pasqua lo intervistava perché parlasse delle tradizioni popolari norvegesi. Per quale motivo si addobbano gli alberi di Natale, se Babbo Natale è norvegese o è una creazione di Walt Disney, cosa c'entrano le uova e i libretti gialli con la Pasqua. «Che cosa sai di Lilit?» gli chiese una volta che ebbero finito con le frasi di rito. «Spero che non abbia niente a che fare con il caso Aquarius,» disse lui. «Perché no?» Perché Lilit era all'origine di tutto. Lilit la malvagia. Nella tradizione popolare nordica, era la progenitrice
delle creature dell'oltretomba. Mentre secondo gli antichi ebrei era un demone femminile che si manifestava di notte. Si diceva che fosse stata la prima moglie di Adamo e che lo avesse abbandonato per dei demoni lascivi. Ogni giorno metteva al mondo centinaia di bambini. Lilit. La regina dei demoni femminili. Che rapiva i neonati per strangolarli. Che seduceva gli uomini nel sonno per berne il sangue. Dopo aver riagganciato, ringraziandolo per l'aiuto, Kristin strizzò gli occhi per trattenere le lacrime. «Povera ragazza!» pensò. «Povera Marianne, povera, povera ragazza!» 2 D'accordo con la polizia, decisero di mandare in onda il filmato di Marianne, della durata di un minuto. Purtroppo la minaccia che avevano ricevuto la volta precedente si era dimostrata reale. Non avevano niente da perdere nell'accondiscendere a quella richiesta. A dire il vero, Wolter non sarebbe stato molto propenso a cedere a quel ricatto, ma, dannazione, persino il «New York Times» aveva pubblicato una lettera di Unabomber nella speranza che la smettesse di far circolare buste piene di esplosivo. Era in gioco la vita di una giovane donna, e se mandando in onda il filmato avevano anche solo una piccolissima possibilità di salvarla, be', in quel caso era disposto a mettere da parte le proprie convinzioni. Per evitare complicazioni, Wolter volle che Vang apparisse in studio dopo la messa in onda del filmato. La redazione doveva coprirsi le spalle. Davanti alla nazione, Vang avrebbe confermato che la polizia aveva praticamente supplicato «24 timer!» perché mostrasse l'appello di Marianne. Kristin preparò il servizio. Avvertiva in maniera sempre più netta che questo caso la riguardava personalmente. All'inizio aveva finto che non fosse così, che il fatto che fosse lei a ricevere le videocassette fosse una pura casualità, ma poi si era resa conto che le cose stavano diversamente. Aquarius - chiunque lui fosse - l'aveva scelta tra la miriade di volti nuovi che apparivano ogni giorno in televisione. Non sapeva perché. E non poteva farci niente. Nel servizio, esordì con alcune immagini d'archivio tratte dai filmati precedenti. Parlò per un minuto della tempesta di critiche che si era abbattuta su «24 timer!» e intervistò Wolter, il quale sottolineò con decisione che le immagini di Marianne venivano mostrate unicamente nella speranza
che così facendo la giovane non venisse uccisa. Prima di mostrare l'appello di Marianne, Kristin spiegò che alla fine del servizio sarebbero apparsi tre numeri di telefono tramite i quali i telespettatori avrebbero potuto mettersi in contatto direttamente con la redazione. Sia la polizia che uno psichiatra specializzato in situazioni di crisi erano pronti a parlare con i parenti della ragazza e con le persone che avevano informazioni da fornire agli investigatori. La madre di Marianne telefonò trenta secondi dopo che i numeri furono apparsi sullo schermo. Era in preda a una crisi isterica. Dopo averla ascoltata per qualche istante, il poliziotto che aveva preso la telefonata alzò gli occhi al cielo e passò la cornetta allo psichiatra, il quale impiegò parecchi minuti prima di riuscire a calmare la donna. Anche gli altri due telefoni presero a squillare: la sorella di Marianne, che studiava a Tromsø, un'amica di Dokka e qualche spiritoso che riagganciò subito non appena capì che la polizia avrebbe potuto risalire alla persona che aveva effettuato la chiamata. Mentre lo psichiatra parlava con voce calma alla madre di Marianne, la polizia contattò il commissariato del paesino in cui lei viveva perché qualcuno si recasse a casa dei genitori della ragazza insieme a un medico. Gli investigatori sarebbero arrivati da Oslo nel corso della serata. 3 Tutti - non soltanto Kristin e gli investigatori che stavano indagando sul caso - provarono la stessa disperazione quando Marianne fu trovata morta. Venne rinvenuta sul fondo di un piccolo gommone che galleggiava alla deriva tra Nesodden e il bacino portuale di Oslo. Era nuda. Erano in molti ad averla vista senza però aver dato l'allarme. Avevano pensato che stesse prendendo il sole. Quando il capitano del traghetto che faceva la spola tra Nesoddfergen e Oslo aveva contattato la polizia portuale, era stato perché aveva superato due volte il gommone e lo aveva irritato il fatto che la ragazza si mostrasse senza pudore ai passeggeri. Esagramma Fu soltanto nel corso dell'autopsia che il medico legale scoprì l'esagramma inciso sul palmo della mano destra della ragazza.
Le foto a colori della mano vennero portate all'ufficio dell'ispettore Vang con una moto della polizia. Vang aprì la cartellina gialla, e dopo aver estratto le foto rimase a lungo a osservarle. Una stella a sei punte: un triangolo con la punta rivolta verso l'alto e uno rivolto verso il basso incastrati uno dentro l'altro. Come sul seno di Anita. Questa volta con il numero 7. «Qual è il messaggio?» si chiese. «Cosa sta cercando di dirci Aquarius?» Studi psicologici condotti negli Stati Uniti avevano dimostrato che erano pochissimi i particolari privi di significato nella dinamica degli omicidi seriali. Alcuni mutilavano le loro vittime. Altri le decapitavano. Altri ancora abusavano sessualmente dei cadaveri. E tutto questo poteva essere spiegato a partire dalla logica malata dell'assassino. Ma Vang non riusciva a interpretare la simbologia che si celava dietro la stella di David. E neppure dietro i numeri. Era impossibile che l'assassino avesse numerato le sue vittime. In questo caso avrebbe dovuto aver ucciso già quattro volte. Impensabile. Raccolse le foto e le infilò nella cartellina. Sarebbe ricorso all'aiuto dei tre psicologi che stavano studiando la personalità di Aquarius. Dovevano per forza essere in grado di decifrare il suo messaggio. Ricevette i primi risultati dell'autopsia qualche ora dopo. Marianne era annegata. O era stata affogata. Impossibile a dirsi. Nei suoi polmoni c'erano tracce di acqua dolce. E di sapone. Aria nei bronchioli. Schiuma nelle vie respiratorie, nel naso e nella bocca. L'incisione sulla mano era stata eseguita quando lei era già morta. La morte era avvenuta ventiquattro ore prima del rinvenimento del cadavere. Non c'era alcun segno di violenza sessuale. «Perché non abusa di loro?» si chiese Vang. «Le segue, le rapisce, le incatena a una parete, le lascia sdraiate su un materasso, le filma. È un esercizio di potere, di dominio. Vuole essere il loro padrone. Eppure non le violenta. Anche quando sono morte le lascia stare. Molti assassini sono dei necrofili. Hanno paura delle donne. Hanno paura di essere derisi e rifiutati. Hanno paura di ciò che le donne pensano di loro. E la paura li rende impotenti. Soltanto quando la loro vittima è morta osano sfogare la propria sessualità. Ma Aquarius non fa niente di tutto questo. E allora qual è la molla che lo spinge a uccidere?» Probabilmente il filmato dell'omicidio si trovava già in una cassetta postale da qualche parte in città. Da tre giorni alcuni poliziotti in borghese
stavano sorvegliando le cassette più usate nelle zone in cui erano state imbucate le buste precedenti. Il contenuto delle cassette sarebbe stato portato in una zona riservata della sede centrale delle poste, dove un impiegato e un poliziotto avrebbero passato al setaccio ogni singola busta per scoprire se ce ne fosse una indirizzata a Kanal 24. Se avessero avuto la fortuna di trovare una lettera indirizzata a Kristin Bye, allora avrebbero anche ottenuto la fotografia dell'assassino. Si sarebbe poi trattato di escludere una alla volta le persone innocenti. Purtroppo, però, tra le otto buste destinate a Kanal 24 c'erano soltanto quattro richieste di partecipazione a un concorso a premi, un curriculum, due comunicati stampa e una lettera di lamentela in cui si chiedeva che i conduttori che parlavano in neonorvegese venissero sottotitolati. Lei è più dolce e più graziosa delle altre. Persino più di Anita. Gli ricorda Linda. È seduto al fresco, su una panchina all'ombra di alcuni olmi, quando lei esce spalancando di colpo la porta e scendendo le scale. Abito corto, gambe lunghe. Lui inspira quello strano profumo fatto di gas di scarico e di erba mentre la segue con lo sguardo. Figura slanciata. Fianchi che ondeggiano. Quando si ferma per attraversare la strada, anche lui si ferma, guarda l'ora e inizia a pedinarla. Lei ha alcune commissioni da sbrigare in centro. In piedi sul marciapiede dall'altro lato della strada, la guarda entrare nei negozi. Sul tram non ci sono posti a sedere, e lui rimane in piedi appeso a una cinghia di sostegno proprio dietro di lei. In prossimità di una curva il tram sferraglia, e lei all'improvviso si volta. Lui sussulta quando i loro sguardi si incrociano. Le sorride velocemente, come se fossero vecchi conoscenti che si sono incontrati per caso. Lei gli restituisce a malapena il sorriso. «Non mi ha riconosciuto,» pensa sollevato. E deluso. Lei scende a una fermata davanti a un negozio di immigrati dai quali acquista un barattolo di qualcosa e mezzo litro di Coca-Cola light. Lui avanza per un po' lungo la strada, e quando si accorge che lei lo sta seguendo, prosegue guardandosi di nascosto alle spalle. Ride: è la prima volta che segue qualcuno standogli davanti. Cammina rapido, attraversa una strada e si infila in un parco.
Lei lo segue. «Può avermi visto?» si domanda. Non è possibile. Lui è invisibile. Basta solo che si comporti nella maniera giusta. Non può averlo visto. Si siede su una panchina accanto a un'anziana signora con un barboncino al guinzaglio. Guarda per terra. La donna estrae un sacchetto di plastica con dentro del pane raffermo e lancia le briciole ai piccioni, che si raccolgono in una ressa tubante. Lei gli passa davanti eseguendo un arco per evitare gli uccelli. Non mi ha visto! Sull'altro lato della strada, davanti a una palazzina, lei si ferma, apre la porta con la chiave ed entra. Lui lentamente attraversa la strada, le mani in tasca. Si allaccia con cura una scarpa. Il marciapiede è deserto. Dentro le macchine parcheggiate non c'è nessuno. Tuttavia si copre bene il volto, calandosi il berretto sulla testa e infilandosi un paio di occhiali da sole. Davanti alla porta d'ingresso, si ferma per leggere i nomi sui campanelli. È una placca ben rifinita e molto elegante, con le targhette di ottone lucido perfettamente avvitate. Abita al terzo piano. A destra. «Kristin Bye», legge sulla targhetta d'ottone su cui è scritto il suo nome. Il sogno su Bø 1 Nei suoi sogni, Bø scintilla splendida e fluttuante come in una fiaba di altri tempi. Le pareti fatte di tronchi bruciati dal sole che poggiano saldamente uno sull'altro, l'aia, le finestre che brillano nere. Per duecento anni quella baita sperduta aveva sfidato le intemperie e le folate di vento al riparo della sporgenza rocciosa che la proteggeva. Nei suoi sogni è sempre disabitata. Nella realtà c'era sempre stata in compagnia di diverse persone: i suoi genitori, suo fratello Halvor, le sue amiche, i fidanzati di turno. Mentre in sogno è sempre sola. Dietro le pareti di legno ci sono le stanze, sonnolente e buie. Quando un colpo di vento sibila a un angolo della baita, il pavimento e i muri scricchiolano. Un vecchissimo pendolo consumato dagli anni continua a tic-
chettare cupo scandendo il tempo. In uno specchio deformato il chiarore della luna dà vita a delle figure indistinte. Circolava una storia sullo specchio di Bø. Si diceva che la figlia di uno degli antenati di Kristin fosse rimasta imprigionata là dentro. La piccola si era persa nei boschi, sotto la roccia azzurrognola che sovrastava la baita. La sua famiglia era convinta che a rapirla fossero stati i dèmoni del sottosuolo. Due settimane dopo la scomparsa della bambina - era una notte d'autunno inoltrato e la neve graffiava contro i vetri delle finestre - la madre si era messa a urlare. Aveva visto sua figlia nello specchio. Da quel momento la donna non era più stata la stessa. Quando si svegliava, carica di tutte le sensazioni e dei ricordi evocati dai sogni, Kristin era capace di rimanere a letto anche mezz'ora ripensando alle estati che da bambina aveva trascorso nella valle di Juvdal, nella contea di Telemark. Giù al villaggio, la fattoria della sua famiglia materna si estendeva tra la statale e il fiume, e Kristin conosceva tutti i sassi e i tronchi che si trovavano lungo il sentiero che conduceva alla baita. Adesso era Halvor a occuparsi sia della fattoria che della baita. Seduta sul letto, con uno sbadiglio Kristin si stropicciò gli occhi. Era da tanto che non sognava più Bø. Diede un'occhiata alla sveglia: le nove e mezzo. Oggi era il suo giorno libero e aveva deciso di non fare assolutamente niente. A meno che non la chiamassero dalla redazione. A meno che non le venisse recapitato il video di Marianne. Sperava che Aquarius avesse esaurito le videocassette. O che le batterie della videocamera gli si fossero scaricate. O che fosse ruzzolato giù da una scala spezzandosi l'osso del collo. Negli anni prima della scuola, Kristin aveva abitato in città d'inverno e nella fattoria della madre o alla baita d'estate. E anche quando era cresciuta, prima che sua madre si ammalasse, durante le vacanze Bø aveva continuato a essere il paradiso di famiglia. Dopo la morte della madre si era tenuta lontana dalla baita per qualche anno, ma poi aveva ripreso a portarci i suoi fidanzati: Knut-Olav, che si era rifiutato di usare il bagno all'aperto perché diceva di aver visto gli occhi di un animale in fondo al buco... Sigmunn, che era convinto che ci fosse uno spirito che vagava per le stanze... Kjell Rune, che si era rotto il pollice nel tentativo di stare in equilibrio sui paletti del recinto... Per Sverre, con cui aveva fatto l'amore nel fienile. Marcus, invece, si era sempre rifiutato di accompagnarla. Sotto la sporgenza rocciosa c'era una sorgente di acqua fresca, e nella cantina che si trova-
va sotto la cucina c'erano ancora del cibo in scatola del 1964 e i vasetti di vetro con la marmellata della nonna. Con un calcio si liberò del piumone ed entrò nella doccia. L'acqua era gelata e le fece accapponare la pelle. Poi si avvicinò alla finestra, e dopo essersi allacciata meglio la vestaglia sbirciò in strada. Dentro un furgoncino, notò due mani appoggiate sul volante. Era parcheggiato lì già da un po'. Un tipo paziente. Chissà chi stava aspettando. Dopo che ebbe finito di far colazione, Gunnar telefonò per invitarla a cena. Non credeva alle proprie orecchie. Cena? Da Gunnar? «Dev'essere Aquarius che cerca di farmi cadere in trappola!» disse ridendo nella cornetta. Accese la radio e si preparò un caffè, godendo nel vagare da una stanza all'altra con indosso quella vestaglia di seta leggera. Ascoltò il telegiornale delle 12,30 vestendosi con estrema lentezza, come in uno spogliarello al contrario: mutandine e reggiseno neri, calze gialle, pantaloni rossi sotto il ginocchio e una maglietta viola con sopra una camicia di cotone azzurra aperta. Si raccolse i capelli in una coda di cavallo, legandoli con un elastico ricoperto di stoffa. «Forse,» pensò facendo una smorfia poco convinta, «è venuto il momento di far provare a questo tugurio il brivido dell'aspirapolvere.» 2 L'appartamento di Gunnar si trovava in una palazzina elegante e discreta in una delle traverse di Bigdøy Allé. Un prato profondo due metri, verde chiaro e molto chic, separava le mura della palazzina dal marciapiede. La porta d'ingresso ricordava il portale di una cattedrale. La scalinata che conduceva al secondo piano era ampia e piastrellata. Gunnar era tutto tranne che un cuoco. Aveva vissuto mangiando cibi in scatola, uova al tegamino e piatti pronti, ma quella sera aveva dato il meglio di sé. Sul tavolo c'era una tovaglia (non stirata di fresco, a dire il vero, ma comunque sia una tovaglia). Aveva acceso quattro candele. Dalla cucina si diffondeva un profumino di agnello arrosto (Kristin non riusciva a credere al proprio naso) e di aglio. Gunnar indossava un grembiule da cucina macchiato, e dopo averla condotta verso il divano le offrì un Martini Dry - shaken, not stirred. Portò il cibo in tavola e la aiutò a sedersi. «Vecchio seduttore,» pensò Kristin.
«Ho letto il tuo ritratto del sabato. Splendido!» commentò lei. «Mia cara, un capolavoro da quattro soldi.» Lo guardò. «Ti affligge il pensiero di smettere?» Gunnar fece una smorfia che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa. Lei ridacchiò. «Mi è piaciuto il tuo commento sul linguaggio burocratico che usa quel tizio. Com'era? 'Le sue argomentazioni sono come i paragrafi...'» «'Citare il procuratore generale è come aprire il codice penale. A caso.' Non ti torna mai la voglia di scrivere?» «Spesso.» L'agnello era delizioso. Tenero, sugoso. Gunnar abbassò timidamente gli occhi quando lei si mise a lodare le sue doti culinarie, dopodiché diede un'occhiata al vecchio televisore spento che si trovava in un angolo. Kristin seguì il suo sguardo. «Non credo che sarei stato capace di lavorare in televisione,» disse lui. «No?» «Forse prima. Negli anni Sessanta. Altri tempi.» «Cosa intendi dire?» «Sei troppo giovane, Kristin. Troppo giovane per capire. La televisione era un'icona! Era magica. E i presentatori erano dei semidei. Illuminavano la gente. Idealisti. Mentre ora di idealisti non ce ne sono quasi più. Erik Bye! Kjell Arnljot Wig! Dove siete?» esclamò scherzosamente parlando rivolto alla stanza. «Mi sembra di sentir parlare un vecchio rimbambito, Gunnar.» «Ma io sono un vecchio rimbambito.» «Adesso lo spirito è un altro. Guarda il 'Dagbladet'! Il giornale va avanti anche senza Larsen e Borgen ed Hestenes.» «Ah, sì? Davvero?» «Testone!» «Ricordati che sto diventando vecchio.» Lo guardò attraverso il chiarore della candele: stava davvero diventando vecchio. Fecero un brindisi con un vino rosso analcolico che sapeva di succo d'uva acido. Kristin prese delle altre verdure e un po' di salsa. «Per il resto?» chiese Gunnar. Kristin scosse la testa. «Stiamo aspettando tutti la prossima busta.» «Sono preoccupato per te.» «Per me? Ma se sono l'ultima persona sulla quale vorrebbe mettere le
mani...» «E come lo sai?» «Non lo so. Ma me lo sento. Sono io quella su cui vuole far colpo. Per qualche strana ragione.» Gunnar non aggiunse altro. Mangiarono. Alzarono i bicchieri e bevvero. Per dessert aveva preparato un budino di riso, ma senza la tradizionale salsa di lamponi. Quando si furono trasferiti in salotto, le offrì un caffè, del cognac e dei dolcetti. Lei rifiutò il cognac, ma Gunnar insisté. Era per questo che ne teneva una bottiglia in casa, disse, e se gli ospiti dicevano di no per riguardo a lui, allora un giorno se lo sarebbe scolato tutto da solo. Sulla porta, la aiutò a infilarsi il soprabito. Per un attimo Kristin gli si parò davanti cercando di dire qualcosa che gli esprimesse il suo affetto. Non le venne in mente niente. «La cena era ottima, Gunnar,» disse semplicemente. «È stato un piacere!» «Sono rimasta impressionata! E io che pensavo che tu fossi un uomo da piatti pronti.» «Nella vita tutto è un'illusione.» «Cosa intendi dire?» Fece un sorriso sghembo. «Pronta per la confessione della serata? La signora Henriksen del terzo piano mi ha aiutato con l'arrosto e con la salsa.» «Gunnar!» scoppiò a ridere lei. «Ma le patate le ho bollite da solo.» Kristin lo abbracciò. «Anche le patate erano ottime,» gli sussurrò all'orecchio. 3 La cartolina non era firmata. Si trovava in mezzo alle lettere e ai volantini dentro la casella della posta che aveva in ufficio. C'era scritto soltanto: SO CHE ABITI DOVE SATANA HA IL SUO TRONO. Non diede molta importanza alla cosa. Ultimamente aveva ricevuto un sacco di lettere strane. Alcuni la incolpavano di incoraggiare l'assassino a compiere altri delitti. Altri le consigliavano di liberarsi da Satana e di cercare aiuto nel Signore. Un paio l'avevano addirittura accusata di essere la responsabile degli omicidi. Aveva ricevuto una ventina di offerte di ma-
trimonio (alcune sembravano serie e benintenzionate) e otto proposte oscene. Uno di questi maniaci - uno che aveva delle perversioni così assurde che lei non ne aveva mai nemmeno sospettato l'esistenza - aveva allegato una... be', una Polaroid decisamente spinta. La giornata trascorse veloce. Sulla segreteria telefonica aveva due milioni di messaggi ai quali rispondere (perlopiù richieste di interviste), e dopo pranzo si incontrò in questura prima con Skaug e con Wolter e in seguito con Vang. Vang le confermò indirettamente i suoi timori: la polizia brancolava ancora nel buio. Con sollievo gli consegnò tutte le lettere che aveva ricevuto, e ridacchiò quando vide la reazione di Vang alla vista della foto del tizio dalle perversioni fantasiose. 4 Anche se sperava di non ricevere più altre videocassette da Aquarius, Kristin si accorse che in realtà era in attesa della prossima busta. E non era la sola. In redazione anche gli altri scalpitavano. I giornali avevano già cominciato a chiedersi se Kanal 24 e la polizia non stessero per caso nascondendo qualcosa. L'omicidio di Marianne sembrava... Kristin cercò le parole adatte... incompleto, finito a metà, privo di una firma. Aveva il terribile sospetto che lui li stesse tenendo sulle spine in modo da rendere lo choc ancora più violento. Che cosa stava aspettando? Aveva smesso di filmare le sue vittime? Era accaduto qualcosa? La busta sarebbe arrivata presto? Arrivò il mattino dopo. Fu Skaug a svegliarla. Erano le nove e lei non si era ancora alzata. Vang e la sua squadra erano già in redazione con la busta. L'avevano trovata i poliziotti che stavano sorvegliando la sede centrale delle poste. Voleva essere così gentile da catapultarsi in taxi e da precipitarsi in redazione più veloce della luce? Kristin pensò: «Mio Dio, povera piccola Marianne.» La reception brulicava di poliziotti in borghese. Vang, Skaug e Wolter la stavano aspettando seduti nell'ufficio di Wolter. Vang si alzò per porgerle un paio di guanti in lattice. Mentre se li infila-
va, Kristin ebbe la sensazione che quei tre stessero avendo delle strane fantasie. Vang le consegnò la busta con un sorriso indecifrabile: «È indirizzata a te. Non abbiamo voluto aprirla.» Quando prese in mano la busta, le sembrò di compiere un antico rituale religioso. Era uguale alle altre. Grande, marroncina, imbottita, e con il suo nome scritto in rosso, in stampatello e sottolineato. Vang si mise a fischiettare piano un vecchio motivo jazz. Kristin aprì la busta in modo deciso. Ne estrasse una videocassetta e una lettera. Lesse ad alta voce: KRISTIN! ADESSO STIAMO GUARDANDO IN UNO SPECCHIO, IN UN ENIGMA, MA POI CI GUARDEREMO IN FACCIA. ADESSO CONOSCO DEI BRANDELLI, MA POI CONOSCERÒ L'INSIEME, PROPRIO COME ACCADRÀ A ME, CHE ATTRAVERSO TUTTO QUESTO VERRÒ CONOSCIUTO. KRISTIN, TU CONOSCI LA STORIA DI SUOR MADELEINE DE DEMANDOLX. CONSIDERAMI IL TUO BEELZEBUB. NELLA BIBBIA È SCRITTO: PERCHÉ SE UNO ASCOLTA SOLTANTO E NON METTE IN PRATICA LA PAROLA, SOMIGLIA A UN UOMO CHE OSSERVA IL PROPRIO VOLTO IN UNO SPECCHIO. AQUARIUS «Messaggio chiarissimo, come al solito,» osservò Kristin. Chinandosi in avanti, Vang le strappò la lettera dalle mani per infilarla in una busta di plastica trasparente con tanto di sigillo. «Vediamo il filmato?» domandò Wolter. Non era costretta a guardare. Se lo era ripetuto diverse volte. Non sei costretta a guardare. Sarebbe stato bello non guardare. Tuttavia si appoggiò allo schienale della sedia con gli occhi socchiusi, come aveva l'abitudine di fare quando guardava un thriller o un film dell'orrore in televisione. Sentì Vang sospirare impaziente e Skaug tamburellare con le dita sul tavolo. «Fai partire il nastro!» disse Skaug.
Wolter premette un pulsante sul telecomando. Kristin non fu sorpresa quando si riconobbe. Le sembrò naturale. Aveva sempre saputo che sarebbe andata a finire così. Sentì Wolter mormorare in continuazione «Merda», mentre le dita di Skaug le premevano sulle spalle come le zampe di un orso. Vang stringeva le labbra e respirava pesantemente dal naso. Le prime immagini erano state riprese davanti al suo appartamento. Il suo pensiero fu: «Dov'era quando mi filmava? Dietro una macchina? Oppure dentro?» Le immagini successive erano state girate mentre aspettava il tram. Qualche fotogramma di lei che entrava nell'edificio di Kanal 24 sulla Wergelandsveien e una sequenza abbastanza lunga mentre comprava qualcosa al 7-Eleven in Thorvald Meyers Gate. Come aveva osato? Doveva aver nascosto la videocamera in una borsa. Lei l'aveva visto? Poteva essersi trovata in coda davanti alla cassa insieme a lui, magari potevano anche essersi scambiati un'occhiata. Le ultime immagini erano state filmate la sera. Dalla tuta da ginnastica turchese, Kristin capì che l'aveva ripresa mentre tornava correndo dalla lezione di aerobica. Guardò quei tre uomini seri, cercando di dire qualcosa di divertente che potesse allentare la tensione. Ma poi si mise a piangere. II È più vecchia delle altre. Se ne accorge soltanto ora. Sembrava così giovane e carina quando l'aveva incontrata: capelli lunghi e biondi, occhi grandi, maglietta aderente e jeans stretti. Ma adesso, mentre giace priva di sensi sul materasso, si rende conto che è più vecchia di quanto pensasse. Delle rughe sottili le si irradiano dagli angoli della bocca e degli occhi. Alla radice dei capelli si intravede un inizio di grigio. Ha almeno trent'anni, forse trentacinque. Accidenti! Se l'avesse osservata con più attenzione prima di attirarla nel furgoncino, l'avrebbe senz'altro lasciata perdere. Ma ora è troppo tardi. Geme, ma non ha ancora aperto gli occhi. Di solito ci vuole un po' prima che si riprendano. Le toglie i sandali bianchi col tacco alto. Non ha le calze. Le dita dei piedi sono minute, le unghie dipinte con uno smalto rosa che si sta stac-
cando. Le slaccia i jeans, le abbassa la cerniera e a fatica glieli sfila. Le mutandine rosse le scivolano giù lungo le cosce. Lui gliele rimette a posto. Le sgancia la cintura che si è stretta intorno alla vita e le toglie la maglietta. Il reggiseno ha gli stessi disegni in trasparenza delle mutandine. Glielo sfila. Sa che alle donne non piace starsene sdraiate con indosso soltanto mutandine e reggiseno. Ha lavato la camicia da notte: profuma di fresco e di pulito, e la stoffa scorre ruvida tra le punte delle sue dita. Lei è così rilasciata e inerte che gli è difficile infilargliela, ma alla fine riesce a chiuderle la manetta intorno al polso sottile. Come sempre, dà uno strattone alla catena per assicurarsi che sia attaccata saldamente alla parete. Chiude la porta a chiave e si sistema nella stanza accanto per osservarla mentre riprende i sensi. Non aveva progettato di rapirla. Era successo e basta. Senza che lui lo volesse. Da non credere. A volte capitava che desse la caccia a una ragazza per settimane senza riuscirci, mentre questa neanche la voleva. Si era... lasciata imprigionare. Come se dietro a tutto questo ci fosse un significato nascosto. Lei si sveglia un'ora dopo. All'inizio è soltanto il corpo a dimenarsi, ma poi anche la testa prende a muoversi. Impiega qualche minuto prima di realizzare che non si sta svegliando a casa sua, nel suo letto, con i postumi di una sbornia colossale. Si mette a sedere sul letto. Confusa, impaurita. Strattona la catena, si tocca la camicia da notte, si guarda intorno. Reagiscono tutte nello stesso modo. Prima o poi inizierà a piangere. Si mette in ginocchio, controlla con la mano di avere ancora addosso le mutandine (ma per chi l'ha preso?) e cerca di sradicare la catena dal muro. È più aggressiva delle altre. Quando capisce che la catena è fissata saldamente, torna a sedersi sul materasso. Poi fa una cosa inaspettata: impreca. Poco dopo va da lei. Lei lo guarda, addossata alla parete. «Hai paura di me?» le chiede. «Cosa cazzo credi?» La sua rabbia lo confonde.
«Sei tu, vero?» gli domanda. «Io?» «Sei...» cerca di farsi venire in mente il nome, «... Aquarius!» Gli vomita in faccia quella parola come se fosse una ciliegia marcia. Lui cerca di sorriderle con fare misterioso. Impresa non facile, dal momento che si sente insicuro. Quando entra nella stanza, di solito le ragazze iniziano a lamentarsi o a piangere, ma non sono mai arrabbiate. «Come ti chiami?» le chiede. «E tu?» Si guardano. Lei aggiunge: «Voglio dire, non ti chiami Aquarius, no?» Non è la domanda in sé a irritarlo, ma il suo sorrisetto disgustato. Si avvicina al materasso, si accovaccia e le dà uno schiaffo. Prima d'ora non aveva mai picchiato una ragazza, ma questa volta non ha scelta. La colpisce con la mano aperta, e fa male a se stesso tanto quanto a lei. Perlomeno adesso terrà la bocca chiusa. «Come ti chiami?» torna a chiederle nel momento in cui è certo di aver ripreso il controllo della propria voce. «Frøydis,» abbaia lei. I suoi occhi sono di vetro. «E poi?» «Vik.» «Benvenuta, Frøydis. Quanti anni hai?» «Che importanza...» La schiaffeggia di nuovo. Tanto per chiarire chi è che comanda. «Quarantadue.» Lui la guarda stupito. «Sembri molto più giovane,» commenta alla fine. Acida: «Grazie.» «Molto più giovane,» ripete. «Neanche tu sei come ti avevo immaginato,» replica lei. «Cosa vuoi dire?» «Pensavo che somigliassi a un enorme gorilla.» «Gorilla?» Non capisce di cosa stia parlando. «Non pensavo che tu fossi così, visto quello che fai.» «Che aspetto ho?» Lei si stringe nelle spalle. «Del tutto normale. Un bel ragazzo. Pensi che mi ucciderai?» Lui si alza un po' troppo velocemente, e deve appoggiarsi alla parete perché gli gira la testa.
«Mi ucciderai?» ripete lei. Lui abbandona la stanza e chiude la porta a chiave. Quarantadue anni! Per piacere, quarantadue anni! Era al parco, con il sole che le splendeva tra i capelli biondi e gli occhi che le brillavano mentre lo fissava. Gli aveva chiesto: «Scusi, signore, non ha per caso visto un golden retriever?» Signore. Era talmente carina. E lui in maniera del tutto automatica le aveva risposto: «È tuo? Caspita, che fortuna. È nella mia macchina. Avevo pensato di portarlo alla polizia.» Proprio come in quel film, Il collezionista. «Davvero? Che fortuna!» aveva commentato lei, con gli occhi che le luccicavano. Era stato davvero facile. Si erano diretti verso il furgoncino, e aprendo il portellone lui le aveva detto: «Dev'essersi nascosto dietro quegli scatoloni», dopodiché l'aveva aiutata a salire. Non aveva pianificato niente. Era semplicemente successo. Quarantadue? Davvero? Quand'era un ragazzino, capitava che le ragazze della sua età volessero mettersi con lui. Ma lui rispondeva sempre di no. In modo gentile, ovviamente. Non voleva ferirle. Quando entra con il cibo, lei sta dormendo, ma poi all'improvviso si sveglia. «Non so praticamente niente di te,» le dice. Lei si mette a ridere. Gli viene voglia di darle uno schiaffo. «Voglio sapere tutto,» le dice. «Immagino...» gli risponde lei recalcitrante. «Hai dei figli?» Non ha l'aria di una che ha dei figli. Lei resta zitta. «Rispondi!» le urla lui. Lei lo guarda dritto negli occhi. Lui le assesta un ceffone sulla guancia. «Hai dei figli?» ripete. «Sì.» «Quanti?» «Due.»
«Maschi? Femmine? «Maschi.» «Come si chiamano?» Esita. «Bjarne e Anders.» Dopo aver pronunciato quei nomi, ammutolisce. «Quanti anni hanno?» «Quindici e diciotto,» «Vivono insieme a te?» «Più con il padre.» «Che lavoro fai?» «Pubblicità. AD.» «Pubblicitaadi?» «AD! Art director.» «Perché non hai paura di me?» Lei lo guarda. «Chi ti ha detto che non ho paura?» «Non sembri averne.» «Non voglio morire,» gli risponde. «Allora perché non hai paura?» Lei lo fissa. Ha uno sguardo caparbio, ribelle. Lo intimorisce. È una sensazione insolita. «Sei sposata?» «Divorziata.» «Allora vivi sola?» «Non esattamente.» «Cosa intendi dire?» «Convivo.» «E lui come si chiama?» «Eva,» risponde lei. Attesa 1 Le guardie del corpo avevano un fisico statuario e capelli cortissimi. Indossavano abiti grigio chiaro, e nel taschino della giacca avevano gli occhiali da sole. Occhi freddi. A Kristin sembravano sulla trentina. Uno si chiamava Patrick, l'altro Claes. Le strinsero la mano. Con vigore. Vang sottolineò il fatto che la protezione della polizia non rappresentava
affatto una garanzia. Kristin avrebbe dovuto collaborare. Seguire le loro indicazioni, non fare niente che la rendesse vulnerabile, fidarsi delle loro valutazioni. Avrebbero preferito che cambiasse casa, almeno per un po', ma Kristin si era opposta. C'era un limite a tutto, altrimenti avrebbe finito col trasferirsi in una cella, sigillare la porta e vivere al sicuro per il resto dei suoi giorni. Dovette compilare degli elenchi: parenti, amici vicini e lontani, le sue abitudini. La cosa le risultò odiosa. Anche se la polizia lo faceva soltanto per proteggerla, non le piaceva l'idea di mettere la propria vita nelle loro mani. Claes si era seduto alla reception di Kanal 24 per tenere sotto controllo tutti coloro che avevano qualche faccenda da sbrigare in redazione, mentre Patrick seguiva Kristin come un'ombra. Ogni volta che andava in bagno, lui rimaneva davanti alla porta ad aspettarla. «Secondo te la notte me li posso portare a letto tutti e due?» chiese a Wolter barricandosi nel suo ufficio. Patrick era rimasto fuori a braccia conserte. «O si daranno il cambio?» Wolter ridacchiò per gentilezza, ma senza aver l'aria di divertirsi. Attraverso la porta, sentirono Skaug discutere sconfortato con Patrick prima di bussare e di infilare la testa nell'ufficio. «Neanche fossi fatta d'oro,» sospirò alzando gli occhi al cielo in direzione di Patrick. «Finalmente abbiamo trovato qualcuno che sa qualcosa di questa suora...» si decise a dirlo, «Madeleine de Demandolx.» Pronunciò il nome in un francese perfetto. Kristin e Wolter lo guardarono. Con un «Scusi, prometto di non ucciderla» rivolto a Patrick, si richiuse la porta alle spalle. «È una storia pazzesca,» esordì mettendosi a sedere sulla scrivania. «Si tratta di una suora di Aix-en-Provence che a quanto pare era posseduta dal demonio.» Fece una smorfia eloquente. «Quanto mi date? Demonio! Il caso è menzionato in alcuni scritti teologici, ma perlopiù in una serie di trattati psichiatrici. A poco a poco iniziò a essere posseduta da questo... Beelzebub e cominciò a fare dei sogni - e qui la cosa si fa piccante - che avevano a che fare con la sodomia e il cannibalismo. Una suora! Quando le venivano gli attacchi, cadeva a terra e, ehm, mostrava i suoi gioielli.» «E chi sarebbe questo Beelzebub?» domandò Wolter. «Il principe dei dèmoni,» rispose Kristin. Le sue parole rimasero sospese su di loro.
«Non capisco perché mi abbia filmata,» continuò Kristin. «Perché vuole dimostrare quanto tu sia vulnerabile.» «E quanto sono vulnerabile?» Si guardarono. 2 Dopo il lavoro, Patrick e Claes l'accompagnarono a casa a bordo di una Volvo nera con i finestrini scuri e un lampeggiante blu appoggiato per terra, davanti al sedile anteriore destro. A casa, aiutò i poliziotti a mettersi a proprio agio. Erano uomini taciturni, privi di un qualsiasi senso dell'umorismo, che dovevano aver ricevuto quell'incarico come una sorta di provvedimento disciplinare. Babysitter troppo cresciuti con indosso dei giubbotti antiproiettile. Controllarono porte e finestre, scandagliarono il parco sottostante con l'aiuto di un binocolo ed emisero profondi sospiri di noia. A pomeriggio inoltrato, Kristin telefonò ad Halvor per raccontargli quello che era successo. Dalla voce lo sentì farsi sempre più inquieto e si sforzò di minimizzare. «Non sono altro che un mezzo di cui si serve per ottenere maggiore visibilità,» gli disse. E ne avrà ancora di più se alla fine riuscirà a farcela - se riuscirà a rapirmi, a infilarmi la camicia da notte bianca e a incatenarmi alla parete per poi riprendermi distesa sul materasso. «Non puoi tornare a casa, sorellina? Qui non ti troverà mai!» Kristin non aveva mai pensato alla fattoria come a casa, come invece faceva Halvor. Erano cresciuti a Oslo, e la fattoria materna a Juvdal era stata soltanto il luogo delle loro vacanze. Halvor ci si era trasferito quando il nonno, per via dell'età, non ce l'aveva più fatta da solo, e adesso parlava persino con l'accento di quelle parti. Gli disse delle guardie del corpo, aggiungendo che comunque era più al sicuro in città che in una fattoria in un villaggio sperduto. Ma gli promise che sarebbe andata a trovarlo non appena tutta quella faccenda si fosse conclusa. Ma riagganciando pensò: «Quando si concluderà?» Alle nove di sera - di sfuggita notò che anche il telegiornale di TV2 le aveva dedicato la prima pagina - Patrick e Claes furono sostituiti da due
poliziotti più giovani, Gustave Ådne. Stesso modello, anche se questi erano un po' più vivaci e spiritosi. Gustav era bravissimo a fischiettare. Sorprese Ådne a osservarla sempre più spesso, e quando annunciò che sarebbe andata a dormire, lui le chiese scherzosamente se si sentisse al sicuro da sola. Lei gli rispose di sì, grazie. Anche se era la prima volta che lui si spingeva così in là con le battute, aveva oltrepassato un confine sottile: le aveva ricordato che lui era un uomo e lei una donna indifesa, che lui era lì per proteggerla e che ormai la polizia aveva srotolato i suoi nastri di sbarramento a righe bianche e rosse intorno alla sfera più intima della sua vita. Si fece una doccia prima di coricarsi. «Da un momento all'altro mi spunteranno le branchie,» pensò. «O le pinne.» Si infilò un paio di slip e una maglietta piuttosto ampia. Prima di abbassare le tapparelle guardò il parco, al cui centro si trovava un padiglione sorretto da alcune colonne greche. Alla luce del crepuscolo si sentì trasportata in un'altra dimensione, in un altro luogo. Abbassate le tapparelle, fece due passi verso il letto e vi si lasciò cadere. Le lacrime giunsero dopo qualche minuto. Si era sforzata di pensare a tutte le cose possibili e immaginabili, a qualsiasi cosa fosse in grado di distrarla, incluso un torrido triangolo con Ådne e Gustav, ma a un certo punto le lacrime avevano avuto il sopravvento. Stringendo i denti, aveva cercato di trattenerle. Non voleva far la figura della ragazzina piagnucolosa. Non voleva permettergli di farle paura. Eppure non riuscì a fermarsi. 3 Quando riaprì gli occhi, si chiese per quanto tempo avesse dormito. Era buio. Intravide il profilo della finestra attraverso le tapparelle. Qualcosa l'aveva svegliata. Immobile, si mise ad ascoltare il silenzio. Pensò: «È arrivato.» Non era tanto un pensiero cosciente, quanto la sensazione di qualcosa di ineluttabile. Nessun rumore. Forse si trovava già dentro casa? Aveva scalato la facciata come un vampiro per poi entrare da una finestra? La finestra della camera da letto? In quel momento era lì in piedi che la guardava, nascosto nell'angolo più buio della stanza? Avrebbe dovuto nascondere sotto il cuscino qualcosa con cui difendersi. Un coltello da pane, perlomeno. Un martello. Un'ascia. Un razzo a testata
atomica, un modello da donna piccolo e grazioso in grado di far saltare in aria un carro armato. Avrebbe voluto gridare. Ma se solo avesse emesso un suono, in un batter d'occhio lui le sarebbe stato addosso. Doveva rimanere sdraiata, facendogli credere che stava dormendo. Sentì un rumore. Forse era solo la sua immaginazione. O il ronzio del sangue che le rimbombava nelle orecchie. Li aveva uccisi. I poliziotti. Era riuscito a introdursi nell'appartamento e a colpirli con un coltellaccio da macellaio, e ora loro erano lì, in soggiorno, immersi in un lago di sangue. Mentre lui aspettava che lei si svegliasse. Al buio, la camera le sembrò più piccola. Dovette sforzarsi di controllare il respiro. Signore, fa' che non sia qui! Lo sentì di nuovo. Un rumore sordo, indefinito, lontano. Se lo vide davanti: un uomo robusto, dai tratti spigolosi, il volto contratto, i capelli corti, sottili, radi, la pelle butterata, lo sguardo annebbiato dalla follia. Mani forti, dita tozze, pelose, capaci di uccidere una persona. Nel soggiorno sentì qualcuno tossire. Ebbe un sussulto. Una voce. Ådne. Stava dicendo qualcosa a Gustav, che si era messo a ridere. La risata di Gustav toccò un punto dentro di lei. Urlò. Nel giro di pochi istanti erano da lei. Non credeva che potessero muoversi così velocemente, che fossero in grado di alzarsi dal divano, afferrare le pistole, aprire la porta, accendere la luce e precipitarsi nella sua stanza così rapidamente. Ma lo fecero. Ådne andò alla finestra. Gustav ispezionò il bagno e l'armadio. Con un sorriso, Ådne diede un'occhiata sotto il letto. Per tutto il tempo Kristin rimase sdraiata con il piumone tirato su fino all'altezza degli occhi. «Hai fatto un brutto sogno?» le domandò Ådne. «Dato che ti sei messa a urlare,» continuò Gustav. «Pensavo...» cominciò lei. Aveva la voce rotta. Non sapeva neanche lei che cosa avesse pensato. Non era stato un sogno, ma neppure un pensiero cosciente. Lanciò un'occhiata alla sveglia sul comodino. 02,04, dicevano le lineette rosse. Prima di uscire, Ådne le chiese se per caso non preferisse tenere la luce accesa. Kristin gli chiese di spegnerla. Non dovevano pensare che fosse
una fifona con la paura del buio. Ma quando ebbero richiuso la porta, accese la lampada da notte sul comodino. Rimase sveglia fino allo spuntare dell'alba, e solo allora si addormentò. 4 Patrick e Claes portarono con sé la posta indirizzata a Kristin quando vennero a dare il cambio a Gustav e Ådne. Una bolletta del telefono, due opuscoli pubblicitari e una busta senza francobollo. «Dall'amministratore del palazzo?» pensò. Forse non gradiva la presenza di inquilini che attiravano su di sé le attenzioni degli assassini. Invece era lui: SALVAMI, SIGNORE, DAL MALVAGIO, PROTEGGIMI DALL'UOMO VIOLENTO, DA QUELLI CHE TRAMANO SVENTURE NEL CUORE. Era stato lì. Il giorno prima, durante la notte o quella mattina. Si era fatto aprire la porta da qualcuno (o si era intrufolato alle sue spalle; quella porta ci metteva un'eternità a richiudersi), e a quel punto era salito fino al pianerottolo e aveva infilato la busta nella cassetta della posta. Ma quell'uomo non aveva paura di niente? La giornata proseguì lenta. Kristin sussultava ogni volta che sentiva il clacson di una macchina o lo squillo del telefono. Tutti volevano parlare con lei. Richard. Gunnar. Halvor. I colleghi delle altre televisioni e della carta stampata. Alla fine staccò il telefono. Patrick si arrabbiò e lo disse a Vang. La polizia aveva collegato al suo telefono un registratore e un'apparecchiatura in grado di risalire al luogo da cui provenivano le chiamate. Giusto nel caso in cui a lui fosse venuto in mente di chiamarla. Vang cercò di tranquillizzarla dicendole che, comunque sia, quelli continuavano a essere il suo telefono e la sua casa. Kristin si mise a fare ordine negli armadi e a spolverare in punti in cui non le era mai venuto in mente di spolverare. Irrequieta, vagava da una finestra all'altra. Ogni volta che vedeva un uomo sulla trentina, pensava che fosse lui. Si sentiva in gabbia. Senza avvicinarsi a lei, quell'uomo era riuscito a invadere la sua vita. A rinchiuderla in una prigione di paura e di no-
ia. E aveva trasformato coloro che la proteggevano, le sue guardie del corpo, in intrusi. Nel corso della giornata divenne sempre più intrattabile. Di tanto in tanto i due poliziotti se ne uscivano con dei commenti fatti soprappensiero. Uno di loro si era messo a sfogliare l'album con le foto sue e di Marcus senza nemmeno chiederle il permesso. La scrutavano di nascosto, e attraverso la porta sentì uno dei due (Claes?) affermare che aveva delle belle tette. Kristin voleva che nessuno di loro si facesse la benché minima opinione su di lei. Né sulle sue tette. O sul suo appartamento. E tantomeno sulla sua vita. Patrick e Claes stavano in cucina o in salotto, mentre lei passava sempre più tempo barricata in camera da letto. Perlomeno dietro la porta chiusa poteva starsene in pace. Wolter la chiamò sul cellulare chiedendole se andava tutto bene. Lei impiegò quasi cinque minuti per raccontargli come tutto avrebbe potuto andare molto meglio, grazie. Le fece bene scaricarsi un po'. «Quantomeno, da ieri non si è più fatto sentire,» commentò Richard. Gli disse della lettera che aveva trovato nella cassetta della posta. «Merda,» fu il commento di Wolter. Per Kristin il silenzio suonava come una minaccia. Sapeva che lui ci si nascondeva dentro. Da qualche parte. Proprio in quel momento. Non si era acquietato. Era astuto. E aveva a disposizione tutto il tempo che voleva. 5 Quella notte sognò di nuovo Bø. Augurò gentilmente la buonanotte ad Ådne e a Gustav che, stravaccati sul divano, facevano zapping tra MTV e la CNN. In fondo non era colpa loro se la sua vita si era inceppata, motivo per cui poteva anche evitare di comportarsi come una strega con la sindrome premestruale. Prima di richiudere la porta della camera da letto, promise che durante la notte non avrebbe gridato. Spalancò la finestra e abbassò le tapparelle. La notte era afosa; c'era un'aria di temporale incombente che colorava il cielo. Si fece una doccia veloce, ma non appena si fu asciugata si sentì di nuovo sudata e accaldata. Si infilò una maglietta: magari avrebbe finito col gridare, e allora l'ispettore Manetta e il commissario Basettoni si sarebbero precipitati da
lei, ma dopo un quarto d'ora se la sfilò, si asciugò il sudore sulla fronte e sul seno e la sbatté per terra. Cadde subito in un sonno agitato. Nel sogno si trovava di nuovo a Bø. Era sola. Era un pomeriggio inoltrato di piena estate. Il sole batteva caldo contro i vetri ondulati delle finestre, le vespe e le mosche le ronzavano intorno e un tiepido vento di ponente sibilava attraverso i boschi diretto verso la montagna. C'era qualcosa che non andava nel vecchio orologio a pendolo. Quello strumento centenario non ticchettava più come aveva sempre fatto, producendo invece un suono penetrante. Qualcuno aveva sostituito il vecchio pendolo con un flauto elettronico. Aprì gli occhi. Per un attimo, in preda al terrore, si sentì ancora a Bø, davanti al pendolo. Nel buio afoso della stanza respirò a fatica. Il telefono! Il cellulare! Si girò di scatto verso il comodino, accese la lampada, e dopo aver strizzato gli occhi per via della luce si mise a cercare il telefono a tentoni. La sveglia indicava che erano le 01,05. Kristin guardò il cellulare con gli occhi socchiusi prima di riuscire a premere il pulsante giusto. «Kristin! Pronto?» Ci fu un silenzio che durò qualche secondo. «Pronto?» ripeté. Richard? Halvor? Gunnar? Bastava solo che non fosse Marcus! «Sono io.» La voce era bassa, simile a un mormorio. Profonda, mascolina. Io? Lui! Si sedette sul letto, improvvisamente sveglia. Il lenzuolo che aveva usato per coprirsi le ricadde sui fianchi. Mio Dio, è lui! «Stavi dormendo?» le chiese. Con il fiato corto: «Sì.» «Mi dispiace. Non volevo svegliarti. Volevo parlare con te senza quei... gorilla che ascoltano di nascosto.» Avrebbero dovuto prevedere che sarebbe accaduta una cosa simile. E dotarla di un registratore da collegare al cellulare. E di un rilevatore. La risata attutita, rauca di lui le ricordava un rumore di carta vetrata strofinata sulla pietra. «Cosa vuoi?» gli domandò.
«Voglio farti una domanda.» Silenzio. «Una domanda che vorrei tu facessi alla polizia. Chiedigli...» rimase in silenzio per un paio di secondi, «... chiedigli se hanno capito il significato dei simboli.» «Quali simboli?» «Loro capiranno.» «Cosa intendi dire? Di quali simboli stai parlando?» Lo sentì inspirare profondamente. Non si sentiva nessun rumore in sottofondo. Se lo immaginò in un soggiorno buio: una sagoma, un profilo maschile in camicia bianca. Se lo vide davanti con una sigaretta accesa. Con in mano un bicchiere di qualcosa. Pensò a suo padre. A come lei se lo immaginava. Uguale a suo padre. «Hai avuto paura quando hai visto che ti ho filmata?» «Sì.» «Lo avevo previsto.» «Perché non mi vuoi dire di quali simboli parli?» «Non importa. Mi chiedevo soltanto perché la polizia li avesse tenuti segreti.» Kristin strinse con forza il telefonino, che nella sua mano sembrava piccolo e leggero. Così leggero che avrebbe potuto volteggiare in aria se solo lei avesse mollato la presa. «Hai mai pensato di uccidermi?» gli domandò. Lo sentì respirare. Ai lati delle tapparelle risplendevano due strisce di luce pallida. La stanza era inondata di ombre incolori, fredde. Per strada qualcuno accese il motore di una macchina. Lontano, molto lontano, alcuni ragazzi stavano gridando. «Sai come ho ucciso Marianne?» Kristin deglutì, «È stata annegata. O qualcosa del genere.» I medici legali avevano fornito pochissimi dettagli. O almeno era quello che le aveva detto Vang. Lui soffocò una risata. Sembrava un bambino. «Lo puoi ben dire.» «Non ho ricevuto nessun film.» «Filmato,» la corresse lui. «Non ho ricevuto nessun filmato.» «Devi esserne felice.» Dal soggiorno, Kristin sentì provenire le note che annunciavano il noti-
ziario della CNN. «Chi sei?» gli chiese. Lui rise. Alzò la voce: «Ho una domanda. Per te.» «Sì?» «Perché... In nome del cielo, perché uccidi delle persone innocenti?» Sembrò che tirasse su con il naso prima di far schioccare le labbra. «Un tic, sicuramente,» pensò Kristin. Una brutta abitudine che valeva la pena di annotarsi. «Cosa vuoi che ti risponda?» le domandò. Poi aggiunse: «Tipico di voi giornalisti! Pensate sempre che ci siano delle risposte semplici a tutto. Che uno sia in grado di rispondere alle domande più banali.» In strada, una moto accelerò. «Sei contento quando trasmettiamo i tuoi filmati in televisione?» gli chiese. «E tu?» «Ma se smettessimo di mandarli in onda, tu... smetteresti di uccidere?» «Smettere? Kristin, guarda che esistono anche altre emittenti. E poi ci sono sempre i giornali.» Sentire il suo nome pronunciato da lui la fece rabbrividire. «Mio Dio, ma perché lo fai?» «Considerami un serpente velenoso. Uccido e poi scompaio nella giungla.» «Senza alcun rimorso,» commentò lei. Lui rise gelido. «Stai recitando!» Lui rimase in silenzio. «Stai recitando. Reciti in mio onore. Fai finta di essere pazzo! E lo sei! Ma bluffi!» Lui non disse nulla, ma rifece quello schiocco. «Non so quale sia il tuo problema, ma non c'è bisogno che tu finga di essere qualcosa che non sei.» «Sei acuta.» «Anche tu. Quindi parliamoci chiaro. Non recitare.» «Va bene. Visto che me lo chiedi così gentilmente.» «Mi prometti di smettere?» «Smettere?» «Smetti di uccidere! Consegnati alla polizia!»
Lui emise una risata sonora. «Non è divertente,» gli rispose. «Smettila! Non ti rendi conto di quello che stai facendo?» La risata si spense. Si schiarì la voce. «Certo,» replicò. «So benissimo quello che faccio. Ma tu mi stai chiedendo di comportarmi in maniera razionale.» La porta si aprì lentamente. Ådne e Gustav lanciarono un'occhiata nella camera. Lui? Le chiese Ådne muovendo le labbra. Kristin annuì. «Ma io non sono un essere razionale. Non ho le tue stesse inibizioni. Sono altre le pulsioni che mi bruciano dentro, e sono molto più forti delle tue.» In silenzio, si avvicinarono al letto. Gustav vi si sedette tendendo l'orecchio verso il telefono. Ådne le gettò addosso la maglietta che giaceva sul pavimento. Solo allora Kristin si rese conto di avere addosso soltanto gli slip. «Perché mi filmi?» gli domandò. «Perché,» disse lui, e dalla voce sentì che stava sorridendo, «voglio che tu sappia quanto ti posso essere vicino.» «Ma perché proprio io?» «Lo capirai.» Sentì un brivido scenderle lungo la spina dorsale. «Sogni d'oro,» le sussurrò. 6 Vang arrivò dopo meno di un'ora. Nel frattempo Kristin aveva già raccontato almeno quattro volte a Gustav e ad Ådne tutto ciò che ricordava della telefonata. Sulle prime si irritò per il fatto di dover raccontare la stessa cose più volte, ma ogni volta le venivano in mente nuovi dettagli. Così, quando con l'aiuto degli appunti di Gustav riferì ogni cosa a Vang, fu sorpresa di essersi ricordata tutte quelle cose. «Abbiamo ripetuto quello che ti ha detto. Ora, invece, raccontami della sua voce,» disse Vang. «La sua voce?» «Come ti sembrava. Che immagini ti suscitava.» Kristin ripensò alla loro conversazione. Se chiudeva gli occhi e si concentrava, era in grado di rievocare la sua voce in maniera così vivida da arrivare quasi ad avvertirne la presenza nella stanza. «Sono praticamente cer-
ta che sia sulla trentina. Cinque anni più, cinque anni meno. Parla in modo chiaro e nitido. Norvegese di queste parti. È molto probabile che viva nei dintorni di Oslo. Oslo ovest, direi. Bærum, forse.» Intrecciando le mani, Vang si mise a sedere più comodamente. «Cos'altro hai pensato ascoltando la sua voce?» «È una voce profonda. Mascolina. Leggermente roca, ma allo stesso tempo infantile. È qualcosa che ha a che vedere con la cadenza. Non del tutto regolare. Una voce dal tono un po' risentito, viziato. Me lo sono sempre immaginato come un tipo muscoloso, brutale. Il tipico criminale dei fumetti. Ma mi sbagliavo. Non ha l'aspetto di un assassino. Credo invece che abbia le sembianze di una persona normale.» Quando lei gli parlò della sua domanda a proposito dei simboli, Vang sorrise nervosamente. «Avevamo deciso di non far trapelare la notizia,» disse riluttante. «Quale notizia?» «I simboli. Sulle vittime. Sul seno di Anita. E sul palmo della mano di Marianne.» «Di che genere di simboli si tratta?» «Esagrammi. Incisi sulla pelle con qualcosa di sottile, di tagliente. Un ago, forse. O la punta di un coltello.» «Cosa rappresentano?» «Un cerchio con dentro una stella a sei punte. Due triangoli incastrati uno nell'altro. Come nella stella di David.» Kristin guardò per aria. «... gli omicidi potrebbero avere una valenza politica? Terrorismo? Qualcosa che ha a che fare con l'accordo di pace di Oslo?» «Abbiamo preso in considerazione anche questa possibilità. Ma non si tratta di politica.» «No?» «Hai letto le sue lettere. Sono piene di riferimenti alla Bibbia, all'astrologia e all'occultismo. E l'esagramma è un classico simbolo che rappresenta le forze occulte. Viene usato nelle cerimonie e nei riti magici. Hai mai sentito parlare del sigillo di Salomone? Pensiamo che l'assassino abbia voluto marchiare le sue vittime.» L'uomo invisibile L'ispettore Vang sbadigliò fissando il soffitto. Aveva provato a sdraiarsi
sul divano dell'ufficio, ma non era riuscito ad addormentarsi. Irrequieto, si era alzato e aveva acceso la macchina del caffè. Alla quinta tazza era un fascio di nervi. Prese la tazza e si parò davanti alla finestra per scrutare l'alba, i tetti delle case, il traffico del mattino. Pensò a Herdis. Pensò a Una, ad Anita e a Marianne. Pensò a Kristin scuotendo la testa. Ci mancava solo quello: una maledetta stella della televisione in pericolo di vita. Ripensò a Herdis. Dopo aver appoggiato la tazza sulla scrivania, si buttò la giacca sulle spalle e si diresse verso la Sala Cinematografica. Pur essendo prestissimo, l'attività ferveva già. Con un lunghissimo sbadiglio, esaminò quella stanza enorme. Anche se ormai da un pezzo non era più adeguata alle loro esigenze e già da un po' di tempo avevano iniziato a occupare, uno dopo l'altro, anche gli uffici vicini, la Sala Cinematografica continuava a essere il centro nevralgico delle operazioni. Un giovane poliziotto lo salutò. Vang annuì di rimando. La pressione cominciava a pesare sui più inesperti. Ogni giorno che passava con Aquarius ancora a piede libero veniva avvertito come una sconfitta. Vang capiva le ragioni di quella frustrazione: un pazzo invisibile imperversava e la polizia era impotente. La mancanza di risultati aveva reso il suo staff impaziente e irritabile. Quando Vang aveva tolto tre agenti dal team che si stava occupando del versante religioso delle indagini per rafforzare quello appena istituito che aveva il compito di scandagliare la pista dell'occultismo, i Discepoli avevano manifestato apertamente il proprio scontento. Uno di loro aveva persino lasciato trapelare il suo disappunto in un'intervista rilasciata al «VG». Temevano che tutto il lavoro svolto finora si rivelasse inutile e che le loro teorie non riuscissero a essere avvalorate. Avrebbero voluto battere più piste, affrontare la cosa da diverse angolazioni, e quella riduzione del loro organico era stata percepita come una profonda ingiustizia. Nessuna di queste reazioni aveva colto Vang impreparato. Stabilire delle priorità, si era detto, significava deludere qualcuno per far contento qualcun altro. Trascinandosi, si avviò in direzione della grande scrivania a ferro di cavallo che condivideva con Antonsen, Alm, Ryvik e la Gran: veniva chiamata, appunto, Ferro di Cavallo. Non gli piaceva sedersi lì: gli sembrava di essere in vetrina. Quando si sedette, la seggiola scricchiolò. Fissò la pila dei rapporti stilati nel corso della notte. Per risparmiare tempo, aveva insistito perché tutti i
rapporti fossero preceduti da un riassunto dei punti salienti. Nello stile dei quotidiani. Ai suoi uomini la cosa non piaceva, ma lui si era reso ben presto conto che all'interno di uno staff così affollato la dispersione delle informazioni avrebbe costituito uno dei rischi maggiori. Più di un criminale si trovava ancora in libertà perché una serie di informazioni fondamentali erano andate perse nella selva dei rapporti e delle analisi. Per questo era particolarmente soddisfatto di avere istituito la sezione informativa, il cui compito consisteva nel passare al setaccio la documentazione prodotta dalle altre due sezioni, nell'estrapolarne teorie e conclusioni e nel compararle le une alle altre. Vang era convinto che il team che si stava occupando dell'analisi dei filmati fosse quello con il maggior numero di chance di svelare l'identità di Aquarius. Per questo era il più numeroso. Dopo parecchi tentennamenti, erano riusciti a ottenere tutti gli elenchi degli iscritti alle associazioni e ai circoli cinematografici del paese. Contemporaneamente, erano state esaminate le schede di tutti coloro che lavoravano a Kanal 24. Vang aveva il brutto presentimento che Aquarius fosse più vicino a Kristin di quanto si pensasse. Fece un profondo sbadiglio. Ma se le cose stavano come Vang temeva, Kristin avrebbe dovuto riconoscere la voce dell'uomo al telefono. Lo irritava non aver previsto l'eventualità che lui la chiamasse sul cellulare, dal momento che, se l'avesse fatto, ora sarebbero stati in possesso di una registrazione della sua voce. Sbadigliò di nuovo. Perché lo faceva se non si sentiva stanco? Quel giorno lo chiamò Roger. Voleva sapere se poteva passare dalla questura per prendere in prestito le sue chiavi di casa. Herdis gli aveva chiesto di portarle alcune cose. Quando gli annunciarono che suo figlio era arrivato, Vang prese l'ascensore e scese nell'atrio. Insieme, uscirono dalla questura per poi fermarsi nella piazzetta antistante. Era una giornata incredibilmente calda e afosa. Vang si era talmente abituato all'aria condizionata della Sala Cinematografica da essersi quasi dimenticato che fuori era estate. «Dove abita?» chiese con finta noncuranza mentre armeggiava con il mazzo di chiavi. «La mamma mi ha chiesto di non dirtelo.» «Ma tu non puoi...»
«Maledizione, papà, non farmi immischiare in questa faccenda. È già abbastanza dura così.» Vang gli porse le chiavi, pregandolo di riconsegnarle alla guardia che sarebbe stata di servizio quella sera. Vang non aveva mai abusato della propria posizione, ma quel giorno fornì il proprio indirizzo, diede una descrizione del figlio e ordinò a una delle unità di pattuglia di pedinarlo. E di fare rapporto direttamente a lui. Per la prima volta in vita sua si sentì un criminale. Il rapporto gli venne consegnato due ore dopo. Il ragazzo aveva portato una valigia a un indirizzo di Vogts Gate. Una comunità in cui vivevano studenti ed ecologisti militanti. Vecchi amici Volevano che entrasse a far parte del gruppo che si stava occupando del caso Aquarius. Ma aveva risposto di no. In maniera chiara e inequivocabile. In maniera così chiara e inequivocabile che avevano chiesto al Serpente di intervenire per convincerlo a cambiare idea. Nel gruppo Aquarius lavoravano giornalisti che provenivano da tutte le redazioni del giornale, ma perlopiù da quella della cronaca nera. Stando così le cose, non ci sarebbe stato niente di strano nel loro tentativo di coinvolgerlo. Se non si teneva conto del fatto che non gli avevano mai chiesto di prendere parte a nessun progetto speciale nel corso degli ultimi vent'anni. Se non si teneva conto del fatto che era considerato una specie di nonno che nel giro di un mese sarebbe andato in pensione. E se non si teneva conto del fatto che era l'amico e il confidente di Kristin Bye. Era tutto talmente ovvio. Il responsabile del gruppo Aquarius, uno dei redattori del giornale, era venuto nel suo ufficio assalendolo con un fiume di discorsi dal contenuto nebuloso. Avevano bisogno della sua esperienza e della sua professionalità. Avrebbe potuto dare un contributo fondamentale alle ricerche. Un modo glorioso di concludere la sua carriera. «Stronzate,» era stato il commento di Gunnar. «Ritorna pure da dove sei venuto.» Un paio d'ore dopo era arrivato il Serpente in persona.
Il soprannome se l'era davvero guadagnato sul campo: era furbo, e aveva intuito perfettamente le ragioni del rifiuto di Gunnar. «Abbiamo bisogno di una via d'accesso a Kristin Bye,» aveva esordito. Era sincero. Gunnar l'aveva apprezzato, anche se sapeva che la sua franchezza era frutto di una tattica. Il Serpente aveva dato per scontato che in seguito a una sfida così diretta lui avrebbe ceduto. Ma Gunnar aveva ribadito il suo rifiuto. Non aveva mai abusato dell'amicizia, gli aveva detto. E non voleva essere una specie di anello di congiunzione, il centralino del gruppo Aquarius. Se Kristin si voleva confidare con lui, doveva essere sicura di avere davanti a sé un amico e non lo stenografo del «Dagbladet». Langen lo capiva. O quantomeno questo era quello che gli aveva detto. Anche se avrebbe visto volentieri dozzine di Kristin Bye in esclusiva sulle prime pagine del «Dagbladet». Ci abbiamo provato, aveva aggiunto. Gunnar era l'unico in tutto il giornale che osasse dire di no al Serpente. Rimase in ufficio fino a pomeriggio inoltrato. Aveva deciso di riordinare tutte le sue cose prima di andare in pensione e l'operazione si era rivelata piena di sorprese. (Si diceva che una volta, durante una di queste pulizie di primavera, un suo collega avesse rinvenuto tra le sue carte la ruota di una bicicletta). Trovò vecchie lettere, documenti, bozze di articoli, soffiate anonime a cui aveva pensato di dare un'occhiata prima o poi (pur sapendo che «prima o poi» equivaleva a dire «mai»), copie di reportage apparsi su giornali stranieri che un tempo aveva deciso di usare dopo avergli conferito un tocco norvegese. Finì tutto in un grande scatolone per il riciclo della carta. Alle sei e mezzo scese nella redazione centrale per vedere il telegiornale. L'ennesima intervista all'ispettore Vang. Sullo sfondo, leggermente sfocato, intravide Oscar Lund. «Vecchio volpone da combattimento,» pensò Gunnar stupito. Oscar era andato in pensione cinque anni prima, e con lui era sparito dalla circolazione uno degli informatori più fedeli che Gunnar avesse mai avuto. Era un bravo poliziotto, un poliziotto vecchio stampo, uno che aveva fatto carriera iniziando come agente semplice e che, sfidando le tradizionali trafile della scalata al successo, alla fine era diventato ispettore. «Il Re», così veniva chiamato non solo dai giornalisti ma anche dai delinquenti. Soprattutto negli anni Ottanta, Gunnar e Oscar erano stati parecchio in contatto. Tanto che tra i due si era venuta a creare una cauta amicizia. An-
davano a pescare, e quando la moglie di Oscar era morta in seguito a un colpo apoplettico, per due settimane erano stati in montagna insieme a camminare. Non erano mai diventati amici intimi (erano entrambi troppo eccentrici per diventarlo), ma si piacevano e si rispettavano. Quando Oscar era andato in pensione, avevano cercato di non perdersi di vista, ma i loro incontri si erano fatti sempre più radi. Erano passati due anni dall'ultima volta che si erano visti. Quando Gunnar telefonò in questura, gli risposero che non conoscevano nessun Oscar Lund. Avresti dovuto sentirli, Oscar! Chiese che trasferissero la sua chiamata alla sede dello staff Aquarius, dove gli risposero che avevano visto Oscar alcune ore prima ma che in quel momento non sapevano dove fosse. Gunnar compose allora il suo numero di cellulare e Oscar rispose ringhiando Lund!, un ringhio che un tempo sarebbe bastato a terrorizzare tutti coloro che avevano osato disturbare il Re. «Non ce l'hai proprio fatta a tenerti alla larga, eh?» esordì Gunnar. Senza presentarsi. «Un caso stuzzicante, e tu ti ci sei precipitato subito, come un vecchio bastardo in calore!» Oscar riconobbe la sua voce, e senza alcuna esitazione attaccò a parlare con il tono tipico delle loro conversazioni: «Accidenti, sei davvero tu? Allora è vero che esiste un'altra vita dopo la morte! Pensavo che al giorno d'oggi, nell'era dei tabloid, le mummie incartapecorite come te le avessero ibernate!» «Vado in pensione tra un mese. E al contrario di te ho deciso di non fare il santo patrono della situazione.» Oscar scoppiò a ridere in quel modo tutto suo che ricordava una specie di grugnito: «Lo sai meglio di me, anche una vecchia carcassa comincia a riprendere vita quando avverte l'odore della tensione e dell'eccitamento.» «Ti ho visto in televisione. Non ti è passato l'esibizionismo, vedo. Ti hanno coinvolto in qualità di investigatore? O quello che ho visto era il tuo fantasma?» «Do una mano come posso. Gratis. Non ufficialmente. Sai com'è: vado e vengo quando voglio e mi occupo solo delle cose che mi interessano.» «Né più né meno di quando eri il capo, in altre parole.» Oscar ridacchiò: «Dormo tra due guanciali. Nessuno chiede di me, ma quando ci sono Vang mi rifila qualche incarico.» «Non oserebbe far altro. Non era il tuo vice prima di prendere il tuo posto?» «Vang è uno in gamba. E a dire il vero non è che qui io serva poi a mol-
to. Finora ho solo controllato quattro soffiate a cui sono certo che Vang non aveva dato alcun credito. Ma qualcuno doveva pur farlo. Io la vedo così, Gunnar: se il vecchio Lund può svolgere un po' di manovalanza permettendo così a Vang di occuparsi di cose più importanti, per me va bene.» «Sarebbe bello vedersi, Oscar. È passato un bel po' di tempo dall'ultima volta.» «Giugno 1994. Norum Bar. Hai bevuto soltanto seltz. Invece io ero ubriaco fradicio e ho detto un mucchio di stronzate. Avevo pensato di chiamarti. Ma i giorni passano... i giorni passano. Dove vogliamo incontrarci?» «Non complichiamoci la vita. Vediamoci a casa mia.» «Sei ancora un seguace dell'acqua?» «Sì. Diciamo domani? Verso le sei?» «Facciamo dopodomani. Domani ho il bridge.» «Sarà un piacere, vecchia aquila.» «Un piacere? Ah sì? Hai invitato anche qualche bella figliola?» Il telefono rosso 1 Dall'ufficio chiamò la comunità in cui viveva Herdis. Mentre componeva il numero, gli tremava la mano. Lo stesso nervosismo che aveva provato la prima volta che l'aveva chiamata. Allora lei aveva diciannove anni. Il telefono suonò a lungo. Alla fine qualcuno alzò la cornetta. «Pronto?» sbottò una voce. Brusca. Come se telefonare alle nove e mezzo del mattino fosse troppo presto. In sottofondo si sentiva una chitarra. Vang pensò: «Si sono appena alzati? O non sono ancora andati a dormire?» «È possibile parlare con Herdis Vang?» «Eh?» Forse aveva usato un tono di voce troppo gentile. Si era sintonizzato su una frequenza sbagliata. «Herdis! Herdis Vang!» ripeté. «Herdis? Bråthen?» «No...» rispose. Bråthen. Il suo cognome da ragazza. «Sì,» si corresse. «Non l'ho vista. Non credo si sia ancora alzata. Un attimo! Bob?» «Bob?» Tempo per me stessa.
«Bob! Sai se Herdis è sveglia?» Uno degli amici di suo figlio si chiamava Bob. Americano. Sulla trentina. Una specie di cantautore. I capelli che gli scendevano sulle spalle. Roger si era presentato a casa un paio di volte con lui al seguito. Aveva cenato con loro e aveva dormito sul divano in salotto. Non poteva trattarsi della stessa persona. «Sta dormendo,» rispose Bob. Due parole. Pronunciate con un accento straniero. Vang riagganciò. 2 «Il telefono rosso» squillò due ore dopo. A dire il vero non era rosso, ma color mattone. Si trovava al centro del Ferro di Cavallo, appoggiato su un supporto d'acciaio, e gli avevano appioppato quel soprannome dopo che Vang lo aveva definito come qualcosa di simile alla linea diretta che un tempo aveva collegato il Cremlino alla Casa Bianca. Soltanto i vertici dello staff conoscevano il numero segreto. Vang aveva dato istruzioni precise affinché gli esterni chiamassero a quel numero solo nel caso in cui fosse stato indispensabile mettersi in contatto con lui e tutte le altre linee fossero state occupate. Fino a quel momento nessuno aveva mai osato servirsene. Vang, seduto al suo posto al Ferro di Cavallo, stava sfogliando i rapporti stilati nel corso della notte e della mattinata. Fissò sorpreso il telefono prima di sollevare la cornetta. «Vang,» disse a voce alta. Intorno a lui calò il silenzio. Una voce giovanile iniziò a parlare nervosamente. Agente semplice Skogstad. Quel nome non diceva niente a Vang. Affermò di essere uno degli addetti alla sorveglianza della sede centrale delle poste. Aveva cercato di contattare Vang al suo numero diretto, ma era occupato. Vang gli chiese di arrivare al punto. Voleva solo comunicare, proseguì con voce tesa, come se volesse chiedere scusa per il disturbo, che avevano trovato una nuova busta con una videocassetta indirizzata a Kristin Bye. Diretto alla sede di Kanal 24 sulla Wergelandsveien, Vang si chiese se la videocassetta contenesse altre immagini di Kristin Bye o se Aquarius le avesse invece inviato il filmato dell'omicidio di Marianne.
Sperava si trattasse della seconda ipotesi. Del materiale nuovo avrebbe potuto aiutarli a imprimere una svolta alle indagini, e se c'era qualcosa di cui avevano bisogno, quella era una svolta. L'autista spense le sirene in prossimità della Grotten, per poi parcheggiare sul marciapiede davanti a Kanal 24. Contemporaneamente giunse la volante che arrivava dalla sede centrale delle poste con la busta. Dopo aver preso in consegna la busta ed essersi precipitato in direzione delle scale che portavano alla reception, Vang sentì il debole suono delle sirene dell'auto in borghese di Patrick e Claes. Wolter lo stava aspettando alla reception. Vang lo vide attraverso le porte di vetro sulle quali campeggiava un grosso 24: era impaziente e si batteva il pugno di una mano sul palmo dell'altra. Vang era persino arrivato a ipotizzare che Aquarius potesse essere Wolter. Ma gli psicologi dello staff lo avevano convinto che si stava sbagliando. L'unico movente plausibile, per Wolter, sarebbe stato quello di voler attirare l'attenzione del pubblico sul suo telegiornale. Se Aquarius era uno dei collaboratori di Kanal 24, avevano concluso gli psicologi, allora andava cercato un uomo tra i venticinque e i quarant'anni, frustrato e pieno di aggressività latente, uno che aveva dei problemi con le donne (qualsiasi tipo di problema, da una timidezza patologica all'impotenza) e che abitava solo o insieme a una madre dispotica o a un altro parente anziano (più probabilmente una donna). E Wolter non corrispondeva a nessuna di queste descrizioni. Era troppo vecchio, sposato, aveva due figli, e l'aria di essere maledettamente in pace con se stesso. Alcuni dei giornalisti e dei tecnici di Kanal 24, al contrario, erano scapoli e leggermente nevrotici, ma il candidato più papabile, uno dei montatori, un trentaduenne che viveva con la madre, si trovava negli Stati Uniti per un seminario quando Una era stata rapita e uccisa. «Forse sto dando la caccia a un fantasma,» pensò Vang. Si strinsero la mano. Mentre si stavano dirigendo verso l'ufficio di Wolter, Kristin Bye li raggiunse correndo, tallonata da Patrick e Claes. Impaurita, guardò prima uno e poi l'altro. «Dov'è?» chiese con il fiato corto. Nei suoi occhi Vang intuì il panico galleggiare sotto la superficie. Le fece vedere la busta. Come per dimostrarle la propria calma, Vang si mise a fischiettare. Moonlight Serenade. Con cautela l'aprì, si infilò i guanti ed estrasse la lettera e la videocassetta. Porse a Kristin un altro paio di guanti, che lei si infilò con impazienza, e
le consegnò la lettera. «Per te,» disse con un sorriso conciliante. E riprese a fischiettare. Il paradiso di Lilit 1 Con le dita come paralizzate, Kristin aprì la lettera. Sollevando lo sguardo dal foglio, fissò gli uomini che la circondavano. Wolter e Skaug erano seduti sulla scrivania di Wolter. Vang e i suoi tirapiedi erano in piedi a braccia conserte. Un giovane cameraman, Yngve, si era abbarbicato su una sedia per riprendere la scena. «Devo leggere ad alta voce?» chiese. Era una domanda superflua, ma voleva assicurarsi che la sua voce fosse ferma. Vang annuì. Kristin guardò i caratteri contorti scritti in stampatello. La lettera era breve. Così breve che era riuscita a leggerla tra sé e sé prima ancora di aver avuto il tempo di pensarci. Incomprensibile. Del tutto incomprensibile. «Kristin?» Era la voce di Wolter. Impaziente. Si schiarì la gola un paio di volte: KRISTIN! VANNO A TASTONI PER LE TENEBRE, SENZA LUCE, E BARCOLLANO COME UBRIACHI. COSÌ STA SCRITTO. LILIT È TORNATA A CASA. BAPHOMET APPLAUDE! AQUARIUS Senza incrociare il suo sguardo restituì la lettera a Vang, che l'afferrò e la rilesse velocemente prima di riporla in una busta di plastica. Dopodiché andò verso il videoregistratore e infilò la videocassetta. Kristin si tolse a fatica i guanti. Wolter trattenne il respiro. Skaug socchiuse gli occhi, come se in realtà non volesse vedere. Vang era immobile, imperturbabile.
Le prime immagini sono di un prato in fiore. In sottofondo, le note di un'aria di Bach. Due farfalle si librano sull'erba. I fiori sono una fiammata di colore. Le nuvole, simili a fiocchi di cotone, e il cielo si riflettono nello stagno pieno di gigli d'acqua. «Il paradiso,» pensò Kristin senza volere. «Vuole che ci immaginiamo il paradiso.» Lentamente l'immagine sfuma, lasciando il posto a uno scenario diverso. Marianne è seduta dentro una vasca da bagno. Indossa un bikini nero. Ha paura. Ha le caviglie e i polsi legati con una corda la cui estremità scompare fuoricampo. Con gli occhi lucidi, fissa l'obiettivo della videocamera. Muove la bocca, ma si sente soltanto la musica. La corda viene strattonata. Lei cerca di divincolarsi, mentre viene trascinata sul fondo della vasca. Urla (ma il suono della sua voce non si sente, continua a sentirsi solo la musica). La testa finisce sott'acqua. Per qualche secondo riesce a dibattersi in modo da far affiorare il viso sopra il livello dell'acqua. La corda viene strattonata un'altra volta. La ragazza viene di nuovo trascinata sott'acqua. Dalla bocca le escono delle bollicine. La vedono distintamente, sotto la superficie dell'acqua. Sbarra gli occhi. La testa sbatte freneticamente da una parte all'altra. Dalla bocca continuano a fuoriuscire incessantemente delle bollicine. Poi smette di muoversi. Ancora qualche bollicina. Il suo corpo ha un sussulto. La musica gradualmente si affievolisce. Per qualche secondo l'obiettivo si sofferma sulla ragazza agonizzante. Poi ricompare l'immagine del prato fiorito. Una cinciallegra si alza in volo. Un bombo, carico di nettare, ronza attorno a un garofano. Il regista punta la videocamera verso il cielo, dove il sole proietta tra le nuvole delle lame argentate. Lentamente contro il cielo si stagliano due parole: The End 2
Era sconvolta. Addolorata. Si sentiva in colpa. Seduta in uno degli uffici della redazione, fissava con sguardo assente fuori dalla finestra. Aveva chiesto di poter stare un po' da sola. Patrick e Claes avevano annuito in silenzio e si erano piazzati fuori dalla porta, uno di fianco all'altro, con le braccia conserte. «Le mie statue di pietra,» pensò Kristin. Alcuni ricordi eseguono dei movimenti circolari: prima o poi ritornano. Otto anni prima era stata in vacanza alle Canarie con il suo fidanzato di allora, Jan. Il giorno prima del rientro, sull'isola si erano abbattute delle violente raffiche di vento: le onde sembravano pareti d'acqua alte due metri. Dalla sdraio, aveva osservato i surfisti e i nuotatori che avevano deciso di sfidare le correnti, e a un certo punto si era accorta che c'era qualcosa che si stava muovendo. Lì per lì aveva pensato che si trattasse di uno squalo. Era stato il suo incubo durante tutta la vacanza. Ma poi aveva visto qualcuno trascinare un uomo sulla spiaggia: un turista grassoccio, di mezza età. Era tutto intero (nessuno squalo, dunque), ma blu e inerte. Sulla spiaggia, a pochi metri di distanza da Kristin e dal suo fidanzato, avevano cercato di rianimarlo. Respirazione bocca a bocca, massaggio cardiaco: tutto quanto, insomma. Venti minuti dopo era arrivata un'ambulanza. Dopo aver dato un'occhiata all'uomo, i barellieri gli avevano coperto la testa con un lenzuolo e l'avevano portato via. Kristin era rimasta immobile per tutto il tempo: il libro in edizione economica (Stephen King? Koontz?) le era rimasto aperto sulla pancia e il barattolo di crema solare era ancora lì, immobile, tra le sue gambe. Tutto le era sembrato così incredibilmente irreale. Aveva alzato la testa e aveva visto un uomo annegare, lo avevano deposto davanti a lei per cercare di rianimarlo e alla fine lo avevano portato via, e adesso era quasi ora di girarsi per abbronzarsi la schiena. Ora provava la stessa sensazione di confusione e di impotenza che l'aveva assalita allora. Si sforzò di non pensare alle immagini di Marianne, che nella sua mente continuavano a sovrapporsi a quelle del turista morto su una spiaggia del Sud. Se lui l'avesse filmata ancora per qualche minuto, l'avrebbero vista diventare cianotica. Si ricordava che, dopo l'accaduto, erano rimasti in spiaggia ancora un paio d'ore. Poi avevano raccolto le loro cose ed erano rientrati in albergo per togliersi la sabbia di dosso con il getto della doccia. Prima di uscire per andare a mangiare una pizza avevano fatto l'amore. E per tutto il tempo lei non aveva mai smesso di pensare al turista morto. «In questo momento,» aveva pensato, «avrebbe dovuto essere in camera sua, intento a infilarsi i
bermuda beige prima di uscire con la sua famiglia alla ricerca di un ristorante per la cena. In questo momento avrebbe dovuto essere a cena. In questo momento avrebbe dovuto sentire il vento caldo che soffia dal mare.» Invece si trovava in una fredda camera mortuaria all'obitorio. Proprio come Marianne. Su uno dei sentieri in terra battuta del Parco Reale, un uomo che stava facendo jogging le corse incontro. «Potrebbe essere lui,» pensò. «Potrebbe essere chiunque.» Strizzò gli occhi. Il rimorso le si stava espandendo all'altezza del diaframma, come un grumo. Quando l'avevano chiamata, aveva pensato che fosse arrivato un nuovo video con delle immagini che la ritraevano. Lungo tutto il tragitto verso Kanal 24 aveva cercato di non pensarci, aveva cercato di non pensare a quello che l'aspettava, e quando aveva visto che invece si trattava di Marianne si era sentita sollevata. Sollevata! Sollevata! Insomma, Kristin! Vedi morire una ragazzina e l'unica cosa a cui pensi è che sei felice di non essere tu. Dovresti vergognarti! La nausea le arrivava fino in bocca e la saliva sapeva di metallo. Un inizio di mal di testa le pulsava dietro le orecchie. Si vergognava. Prima di tornare a casa passò dall'ufficio di Wolter. Skaug era seduto con le gambe appoggiate sul tavolo delle riunioni, mentre Wolter aveva appoggiato le sue sulla scrivania. Entrambi stavano fumando. Questi maschi! «È così che si lavora qui?» chiese in tono esageratamente allegro. Wolter non la guardò nemmeno. Skaug fece una smorfia a mo' di sorriso. «Toralf, ti sei dimenticato di non accendere la sigaretta,» commentò Kristin. La battuta cadde nel vuoto. Skaug fece un tiro senza rispondere e senza neanche guardarla. «Non mostreremo le immagini,» disse Wolter. Sembrava stanco. Triste. Come se quanto stava accadendo avesse cominciato a consumarlo. Come se alla fine avesse realizzato che era tutto vero. Che le notizie non erano qualcosa che ronzava dentro un televisore.
Là fuori c'era veramente un assassino che uccideva delle donne. Skaug strizzò gli occhi, e dopo essersi strofinato il naso scosse la testa. «Bene,» disse Kristin. Nessuno dei due rispose. Con un sospiro Skaug fece un altro tiro, trattenendo il fumo nei polmoni. «Ci vediamo,» mormorò Kristin rivolta alla stanza. Silenziosamente si richiuse la porta alle spalle. Il sospetto 1 «Troppo facile,» affermò Vang. Guardò gli altri con espressione di sfida. «Troppo facile!» Da tempo, e ne era passato molto più di quanto lui volesse ammettere, aveva smesso di formulare giudizi etici. Al suo esordio in polizia, tutti gli omicidi senza senso lo sconvolgevano. Si sentiva in obbligo di acciuffare il colpevole allo scopo di ristabilire una giustizia morale. Ma poi un assassino prendeva il posto dell'altro. Col passare degli anni Vang aveva scoperto che ognuno di loro aveva un volto e una storia, e un giorno, di colpo mentre stava osservando il cadavere malconcio di una donna riverso sul pavimento di un birrificio - si era reso conto che il tempo aveva ammorbidito la sua rabbia e il suo sdegno fino a trasformarli in una stanca rassegnazione nei confronti della vita. Ma le immagini di Marianne avevano risvegliato in lui un guizzo di quell'antico disgusto. Non capiva perché fosse stata proprio Marianne a sortire quell'effetto. Una Mørch era stata senza dubbio una donna più poetica. Anita Fjordvik era più bella. Ma forse in Marianne aveva visto una ragazzina impaurita incastrata in un corpo da adulta. Ogni essere umano, ogni vita, avevano un loro valore: per quanto brutale, quella era la realtà. Vang aveva sempre cercato di non dare un prezzo a ogni vittima, ma non c'era mai riuscito. Nella testa di un poliziotto ogni cadavere ha un suo prezzo. Anche se Vang affidava le indagini dell'omicidio di un barbone allo stesso numero di uomini che impiegava per l'omicidio di una ragazzina, l'impegno che questi ci mettevano non era lo stesso. Nessuno si prendeva a cuore il caso del barbone, nessuno seguiva ogni singola pista fino alla fine e tutto veniva archiviato un po' troppo in fretta.
Era così che andavano le cose. Per la prima volta dall'inizio delle indagini Vang era furioso. Aveva perso il controllo della situazione, si sentiva impotente. E non riusciva a capire se fosse più furioso con se stesso o con Aquarius. Cercò di immaginarselo, Questa era una delle sue doti, una sorta di chiaroveggenza. Anche se non era mai riuscito a tratteggiare i lineamenti di un volto o i suoi dettagli, spesso era stato in grado di ricostruire la personalità del criminale a cui stava dando la caccia, un profilo della sua psiche e della sua indole. Incredibilmente, queste intuizioni spesso trovavano una corrispondenza nella realtà. Ma con Aquarius non c'era ancora riuscito: nessuna sensazione, nessuna supposizione relativa al suo modo di ragionare, niente. Sapeva soltanto questo: quando prima o poi avrebbero arrestato Aquarius, il suo avvocato si sarebbe servito di uno psichiatra che lo avrebbe dichiarato incapace di intendere e di volere, chiedendo che l'imputato venisse rinchiuso in una cella di isolamento. Ma Aquarius non era un malato di mente. Vang ne era certo. Aquarius era un assassino privo di scrupoli e brutale. Depravato e malvagio. Era uno psicopatico, un sadico e un cinico. Ma non era un malato di mente. Vang pensò: «Sa benissimo quello che sta facendo. Non c'è nessuna voce nella sua testa. Nessun demone si è impadronito del suo cane. Sa quello che sta facendo.» «Vang?» fece Antonsen con espressione interrogativa. Come per riportarlo sulla terra, alla realtà dei fatti, all'ufficio e alla riunione che Vang aveva indetto. Alzando gli occhi, Vang sbatté le palpebre. «Troppo facile! Troppo facile,» ripeté meccanicamente. Gli sguardi di Aksel Antonsen, Geir Ryvik ed Elisabeth Gran vagarono per la stanza, come se si stessero sforzando di non guardarsi. «Non necessariamente,» commentò Antonsen. La sua voce aveva assunto un tono scoraggiato. «Abbiamo riflettuto sull'eventualità che desideri essere catturato. E forse questo è il suo modo di svelarci la propria identità.» «In pratica, si tratterebbe di un omicidio firmato,» disse Ryvik. Con uno zelo eccessivo. «Si sono parlati,» pensò Vang. «Hanno parlato di me. Di come sto conducendo le indagini.» Abbassò lo sguardo sulle dita sottili delle proprie mani e sulla pila di incartamenti vecchi di vent'anni che aveva davanti. Il rapporto che si trovava
in cima alla pila era stato redatto con una macchina da scrivere antiquata e recava i timbri relativi al numero del caso e a quello del protocollo, oltre a una serie di scarabocchi illeggibili annotati a margine. Sembrava che il testo fosse stato battuto con violenza lettera dopo lettera. Era talmente pieno di errori da far pensare che il poliziotto che l'aveva redatto fosse alessico. O che avesse gli indici spessi come salsicce. «Comunque sia...» ribadì Vang pensieroso, «... è troppo facile.» «Meglio di niente,» sospirò Elisabeth Gran. «Sono d'accordo con te sul fatto che la soluzione può sembrare...» si schiarì la voce, «... troppo convincente. Come se mancasse soltanto il biglietto da visita. Ma casi simili sono stati risolti partendo da presupposti ancor più deboli di questo.» Rune Strøm... Vang si ricordava a malapena di quel vecchio caso. Una giovane donna era stata trovata morta nella vasca da bagno di casa sua. Il fidanzato era rientrato a notte fonda e l'aveva scoperta quando era entrato in bagno per lavarsi i denti. O almeno così aveva detto. All'arrivo della polizia, si era mostrato decisamente apatico. «Come uno zombie,» aveva commentato uno dei poliziotti nel suo secco e laconico rapporto. Come se la parola «zombie» rappresentasse una categoria giuridica o psicologica. Gli investigatori avevano indirizzato i loro sospetti su di lui, ma per quanto si fossero accaniti, Strøm aveva continuato a negare. Era rimasto in carcere per qualche settimana in regime di custodia cautelare, ma non si era mai tradito. Il pubblico ministero si era rifiutato di promuovere un'azione penale. E alla fine erano stati costretti a rilasciarlo. Rune Strøm. Neanche il nome era da assassino. Quel pomeriggio Vang aveva ricevuto otto imbeccate dallo staff e quattro dall'esterno: volevano tutti fargli tornare alla memoria il vecchio «Omicidio della vasca da bagno». A voler essere precisi, non era nemmeno mai stato accertato che si trattasse di un omicidio. La ragazza avrebbe potuto essere annegata in seguito a un incidente o a un malore. Il caso era stato esaminato dal team che si stava occupando di analizzare i vecchi casi di omicidio e di violenza. Finora non c'era stato nulla che avesse fatto pensare a un legame tra Rune Strøm e Aquarius. Finora... Vang osservò la fotocopia della carta d'identità di Rune Strøm. Era nato il 30 gennaio. Ci rifletté sopra. 30 gennaio... Acquario.
«Cosa c'è?» gli chiese la Gran. Vang scosse la testa massaggiandosi il lobo di un orecchio. «Assolutamente niente.» «Hai un sorrisetto strano.» A occhi chiusi, Vang represse il sorriso. «Dovremmo farlo venire qui per farci due chiacchiere,» intervenne Antonsen. Le teste che annuivano intorno al tavolo ricordarono a Vang quelle dei pupazzetti che si mettevano sui lunotti delle macchine. «Si può fare,» commentò stancamente. Ammiccando soddisfatta, Elisabeth Gran fece per alzarsi: «Mando due pattuglie!» «Aspetta, aspetta!» Vang alzò le mani. «Calmatevi! Non abbiamo ancora risolto il caso. Non abbiamo ancora preso Aquarius. Abbiamo un possibile sospetto con cui vogliamo fare una chiacchierata.» Sorrise con fare disarmante. «Procediamo con ordine.» La Gran si lasciò ricadere pesantemente sulla sedia. «Runar! Per piacere!» Antonsen era impaziente, quasi arrabbiato. «Dobbiamo andarci con i piedi di piombo, giusto? Prima di intraprendere una qualsiasi azione contro di lui, vorrei conoscere più da vicino questo...» diede un'occhiata al rapporto, anche se si ricordava perfettamente il suo nome, «... Rune Strøm.» Troppo facile... Dopo che gli altri se ne furono andati, Vang rimase seduto a sfogliare l'incartamento. L'ultimo rapporto, decisamente illeggibile, era datato 1992. Lo sguardo di Vang scorse rapidamente il testo. Il 17 novembre 1992 il tribunale di Oslo si pronuncia... numero del caso... numero di protocollo... pubblico ministero... contro Rune Strøm, rappresentato dal legale... paragrafo... del codice penale... per essersi introdotto... Vang scosse la testa, ma non riuscì a reprimere un sorrisetto sciocco. Nell'estate del 1992 Rune Strøm era stato arrestato per essersi introdotto nell'Historisk Museum. Era riuscito ad arrivare fino alla sala in cui era stata allestita una mostra itinerante sul voodoo haitiano. Prima di essere ripreso da una telecamera. Tentativo degno di un dilettante. In una macchina che lo attendeva parcheggiata davanti al museo, la polizia aveva fermato una donna che si era dichiarata completamente estranea ai fatti. Era stata portata in questura e interrogata, ma contro di lei non era mai stata sporta
alcuna denuncia. Quando era stata convocata al processo in veste di testimone, non si era presentata. Strøm si era rifiutato di fornire alcuna spiegazione, ma il pubblico ministero aveva ritenuto che volesse rubare una delle antiche bambole tradizionalmente usate nei riti voodoo. Visto che l'imputato era incensurato, la corte si era mostrata in un certo senso magnanima, decidendo comunque di spedirlo in prigione senza la condizionale, dal momento che era stato accertato che Strøm aveva tentato di rubare dei tesori appartenenti al patrimonio culturale di un paese straniero in prestito a un museo di Oslo. Vang si passò le mani tra i capelli. Voodoo... ci mancava solo quello. Dove sarebbero andati a finire? Si lasciò andare a una risata involontaria. Voodoo! Cercò una connessione, un legame. Ma fu scosso da un impeto di rabbia e sussurrò «Merda, merda, merda» picchiando con violenza il pugno sul tavolo. Sorpreso dalla sua stessa reazione, sollevò il palmo della mano all'altezza degli occhi. Gli bruciava ancora quando si rimise a studiare l'incartamento riguardante Rune Strøm. «Troppo facile,» mormorò tra sé e sé. Un piccione volò vicino alla finestra facendo sussultare Vang, che prese a fissare il cielo. Pensò: «O sono io che rendo le cose più difficili di quello che sono?» 2 Lasciò l'ufficio a tarda sera. L'edizione serale dell'«Aftenposten» giaceva sullo zerbino («Nuovo video choc a Kanal 24»). Dopo essersi infilato il giornale sottobraccio aprì la porta. L'appartamento era vuoto. Silenzioso. Accese la luce nell'ingresso. In cucina. In soggiorno. Mise un disco di Art Tatum per rompere il silenzio. Prima di andarsene, aveva avuto un'altra discussione a proposito della pista Rune Strøm. Antonsen e la Gran avevano insistito affinché lui si decidesse a richiederne immediatamente la cattura. Ma il suo istinto gli diceva che non dovevano compiere mosse azzardate. Sia Antonsen che la Gran gli avevano chiesto che cosa avesse. Non lo sapeva. In cucina, una delle luci al neon cominciò a lampeggiare (cosa che faceva già da alcune settimane). Aveva promesso di cambiare la lampadina. Si accorse di non aver più mangiato nulla da quella mattina. Trovò dello stufato di patate in scatola e lo scaldò in una pentola.
Mentre mangiava, si chiese cosa stesse facendo Herdis in quel momento. Se davvero Rune Strøm era l'assassino, allora voleva che la polizia lo sapesse. Non avrebbe potuto fornire un indizio più chiaro. Dunque, stasera non avrebbe ucciso. Se Rune Strøm era Aquarius, in questo momento si trovava a casa in attesa che la polizia bussasse alla sua porta. Non c'era fretta. A volte era proprio quella che rovinava tutto. Bevve un po' d'acqua: aveva messo troppo pepe sulla carne. Pensò: «Non riesco a capire come Herdis abbia potuto trasferirsi nella comunità di Bob. Non è possibile che abbiano una relazione. L'avrei notato. Lei non è capace di mentire. Herdis e Bob? Oddio, ha dieci anni più di lui. Ed è la madre di un suo amico. Herdis non farebbe mai una cosa simile.» Immaginò di vedersi davanti Rune Strøm: seduto su una poltrona in un salotto buio. Anche se ormai era un uomo adulto, se lo immaginava come un ragazzino introverso, un ragazzino per il quale il tempo si era fermato. Spinse il piatto con lo stufato al centro del tavolo. Avrebbe potuto telefonarle. Sapeva dove abitava. Assaporò quelle parole: dove abitava. Come se non avesse mai abitato lì insieme a lui, nell'appartamento al secondo piano dove avevano vissuto durante gli ultimi quindici anni. Avrebbe potuto andarla a trovare, se solo l'avesse voluto. Bussare alla porta e chiedere di poter parlare con lei. Ma ci sarebbero state delle scenate. Cosa che lui detestava. Cercò di pensare a Rune Strøm. Herdis era stanca di lui? La loro vita sessuale era diventata troppo grigia e scontata? Non sopportava più le sue lunghe giornate passate al lavoro? Non lo amava più? Era arrabbiata con lui perché si era dimenticato di cambiare la lampadina in cucina? Batté la mano sul tavolo facendo sobbalzare il piatto. «Al diavolo!» sussurrò. Il dolore alla mano gli fece venire le lacrime agli occhi. La batté di nuovo. A quanto pareva, stava diventando una brutta abitudine. E poi ancora. Con più violenza. Squillò il telefono. «Herdis!» pensò, balzando in piedi. Ma era dal lavoro. Bollicine Quelle immagini continuavano a tormentarle la mente, come un'eco: bol-
licine, bollicine, bollicine. Era china sulla tazza del gabinetto. Aveva lo stomaco sottosopra. Il diaframma le si era trasformato in un pugno di frammenti di vetro. Il ronzare dei tubi. In corridoio, Gustav e Ådne erano in procinto di dare il cambio a Patrick e Claes. Ridevano e scherzavano su qualcosa che aveva a che fare con Gustav e una loro collega. Bollicine, bollicine, bollicine. Tirò l'acqua e si sdraiò per terra con il mento appoggiato alla porcellana rosa. «Kristin?» Era la voce di Ådne. «Tutto bene?» Tutto bene? Ti sei dimenticato perché sei qui, tesoro? Oggi ho visto una ragazzina che veniva annegata. Diciassette anni e una vita spezzata. Uccisa in una vasca da bagno. Fatta fuori a sangue freddo. Assassinata da un malato di mente che è me che vuole. Me! E mi chiedi se tutto va bene? «Certo...» rispose sfinita. «Possiamo vedere la partita?» Fate quello che volete. «Certo...» Dopo essersi rialzata, si sciacquò la bocca con l'acqua del rubinetto. Sapeva di marcio. Si riempì le mani di acqua fredda e se la buttò sulla faccia. Rimase in piedi a guardarsi. L'immagine riflessa nello specchio le appariva estranea, irreale. Come in quel vecchio specchio a Bø. Pensò: «Non sono vecchia. Non ancora. Ma non sono più neanche una ragazzina. Lo vedo. E neanche più una giovane donna. Sono un'adulta.» Si fissò intensamente nello specchio. «Matura,» pensò. Tra non molto le sarebbero spuntate le rughe. Una dopo l'altra. E da un momento all'altro quelle linee sottili, quasi invisibili, si sarebbero gradualmente trasformate in solchi. I seni le si sarebbero inflacciditi e il sedere le si sarebbe abbassato. Sulla pancia le si sarebbe formato un sottile strato di grasso impossibile da eliminare anche con l'aerobica. Le vene si sarebbe fatte più blu. I capelli avrebbero cominciato a diventare grigi. Prima sulle tempie, dopodiché l'argento si sarebbe diffuso ovunque. Se lui non l'avesse catturata prima. Il suo respiro aveva appannato lo specchio. Meglio così. Quanto tempo sarebbe durato quell'incubo? Settimane? Mesi? Anni? E se non fossero mai riusciti a prenderlo? Avrebbe vissuto il resto della sua vita sotto scorta? A quel punto avrebbe anche potuto sposarsi Ådne. O uno degli altri tre, perché no? Ma più di tutti le piaceva Ådne.
Si era sempre immaginata che alla fine la polizia lo avrebbe acciuffato. Un centinaio dei migliori poliziotti del paese stavano dando la caccia ad Aquarius. Molti più che nel «Caso Therese». E se invece... e se invece non fossero riusciti a prenderlo? Non si sarebbe mai potuta rilassare. Ogni suono inaspettato l'avrebbe spaventata. Ogni sguardo per strada le avrebbe ricordato la propria vulnerabilità. Si lavò i denti usando troppo dentifricio per sciacquarsi via il sapore del vomito. Al piano di sopra il suo vicino aveva aperto l'acqua della doccia. Sollevò il chiavistello e spense la luce del bagno. Andò in salotto. Gustav e Ådne la salutarono con un rapido cenno del capo prima di tornare a concentrarsi sulla partita. Lei non sapeva neanche chi stesse giocando e non gliene fregava niente. A braccia conserte, andò verso la finestra per osservare il parco. C'era parecchia gente. Era uno di loro? Forse l'uomo che stava facendo una passeggiata con il suo grasso cocker spaniel? O quello con le borse della spesa? Un jet aveva striato il cielo di bianco. La sera era inondata di pace. Quell'idillio la innervosì. Le venne voglia di aprire la finestra e di urlare, di ricordare a tutti chi si nascondeva nell'ombra. «Non credo sia molto saggio da parte tua rimanere troppo a lungo alla finestra,» disse Ådne. Prima di andare a dormire si fece una doccia. Per una volta, calda. Dopo aver visto il filmato di Marianne, aveva avvertito in continuazione dei brividi di freddo. Quando infilò la testa in salotto per augurare la buonanotte ai ragazzi, i due stavano ascoltando il commento alla partita. Cinque esperti con il senno di poi stavano spiegando i motivi per cui era andata come era andata. Stava per chiedere chi aveva vinto, ma si accorse di non sapere nemmeno se era una partita della Nazionale o di campionato. «È davvero qualcosa di cui vale la pena discutere in televisione?» si chiese. «Qualsiasi deficiente sa che una squadra perde perché l'altra ha segnato più goal. Corrono più veloci, dribblano meglio, segnano.» In camera da letto abbassò le tapparelle. Il materasso cigolò quando lei si sedette sul letto: non lo aveva mai fatto prima. Si coprì con il lenzuolo e si mise a fissare il soffitto. Era esausta, ma non stanca. Strizzò di nuovo gli occhi.
Bollicine, bollicine, bollicine... «Dove sarà adesso?» pensò. «Cosa starà facendo in questo momento?» È molto fotogenica. Quando la filma attraverso lo specchio, esegue dei primi piani di quel volto da bambina. Se invece le abbassa la luce nella stanza, gli sembra di vedere Ingrid Bergman in Casablanca. Ha occhi grandi che scintillano nella penombra. Era stato da lei per cercare di filmarla, ma lei si era imbruttita. Nonostante l'avesse picchiata, seppure a mano aperta e non in maniera violenta, si era messa a fare delle smorfie rovinando le riprese. Giace incatenata alla parete, e se solo lo volesse, potrebbe fare di lei tutto ciò che vuole. Tutto ciò che vuole! Invece va da lei il meno possibile. Non riuscirà a realizzare un video decente. Dato il suo rifiuto di collaborare, è impossibile che si crei l'atmosfera giusta. I filmati di Una e di Anita erano sensuali, suggestivi. Quello di Marianne era volgare e crudo, in sintonia con la sua natura. Ma da Frøydis era impossibile cavare qualcosa. Pensa a Eva. Eva. Da non credere. Frøydis ed Eva. Dietro lo specchio, cerca di immaginarsi Frøydis nuda insieme a un'altra donna. Eva. Non è facile, ma una volta aveva visto un film, Bilitis. Insomma, qualcosa sa. Però! Quarantadue anni e due figli! Ma com'è possibile? Prima d'ora non aveva mai fatto i calcoli, ma se fosse stata ancora viva, adesso Linda avrebbe avuto più o meno l'età di Frøydis. Che strano. Per lui, quando era morta, Linda era rimasta congelata nel tempo. Come Frøydis, che era riuscita a conservare la propria giovinezza. Solo andandole molto vicino si finiva con lo scoprire che gli anni avevano scalfito anche lei. I ricordi si sono fatti così incalzanti che alla fine tira fuori il proiettore Super 8. Dopo aver abbassato le tende, fa partire il nastro della sera in cui lei è morta. Seduto in silenzio, immobile, la osserva tornare in vita sullo schermo: la sua risata muta... quel sorriso negli occhi... il volto che arrossisce... la ma-
no che lo spruzza d'acqua... la sua sagoma dietro la tenda di plastica. E poi le sue immagini da ninfa, quelle immagini da ninfa superbe, bellissime. Linda l'incantevole, Linda dal cuore d'oro, bianca e priva di vita nell'acqua limpida. Riavvolge il nastro e lo fa ripartire un'altra volta. Gli occhi di Linda catturano il suo sguardo. La sua risata silenziosa ha un effetto contagioso. E poi il suo corpo, come la statua marmorea di una dea che fa il bagno nel vino bianco. Pensa: «Una ninfa d'acqua cosparsa di polvere argentata.» Il vecchio caso Gunnar Borg era inquieto e non capiva perché. Prima di mettersi a letto aveva visto il telegiornale: avevano trasmesso un breve servizio relativo all'ultimo filmato di Aquarius, informando i telespettatori che le immagini mostravano l'annegamento di Marianne, ma senza dire nulla su come erano andate le cose. Kristin gli aveva raccontato tutto. Gli aveva telefonato in redazione la mattina presto. Con un filo di voce, gli aveva descritto il modo in cui Marianne era stata uccisa. Più volte aveva dovuto fermarsi per calmarsi. Gli aveva parlato del terrore negli occhi di Marianne e gli aveva chiesto: «Mio Dio, Gunnar, cosa passa nella testa di un uomo capace di fare cose simili?» Come se lui lo sapesse o avesse una risposta da darle. Aveva continuato a parlargli delle bollicine, dicendogli che non avrebbe mai creduto che nei polmoni di un essere umano potesse starci tutta quell'aria. Gunnar aveva capito che lo aveva chiamato perché aveva bisogno di parlare con qualcuno. Qualcuno in grado di starla ad ascoltare senza farle nessuna domanda o scavare nei dettagli. Qualcuno che le permettesse di sfogarsi. L'aveva lasciata parlare fino a quando Kristin non aveva più avuto parole. Lui le aveva manifestato tutta la propria comprensione. Un tentativo di conforto che non sarebbe servito a nulla, come le parole senza senso che pronunciano i preti quando qualcuno muore. Ma era proprio di questo che lei aveva bisogno. Prima di riagganciare, Kristin l'aveva ringraziato. La voce sottile come un filo. Lui le aveva risposto che non ce n'era bisogno.
Il ricordo di quella conversazione lo tormentava, rendendolo ancor più confuso di quanto già non fosse. Con gli anni si era indurito. Un omicidio in più o in meno ormai per lui non faceva quasi più nessuna differenza. A dire il vero, l'assassinio di Anita Fjordvik, la sua morte lenta con quel nastro incollato sul naso e sulla bocca, lo aveva impressionato più dell'omicidio di Marianne. Eppure la descrizione di Kristin aveva fatto vibrare in lui la corda della paura. E lo irritava il fatto di non capirne il motivo. La tensione gli fece venire sete. Quella sete. Gunnar lesse per mezz'ora Il Signore degli Anelli di Tolkien prima di infilare il segnalibro tra le pagine e spegnere la lampada sul comodino. Spesso, quando non riusciva a prender sonno, si immaginava che le sue membra diventassero una alla volta pesanti come sassi. A volte fingeva di aver preso un sonnifero. Altre volte, invece, non gli rimaneva altro da fare se non riaccendere la luce e ricominciare a leggere. Era una di quelle notti. Si rigirò nel letto per un paio d'ore. Ascoltò il rumore delle auto per strada e il ticchettio dell'orologio appeso in salotto. Pensò a Kristin. Aveva le pulsazioni accelerate. Studiò le ombre riflesse sul soffitto, chiedendosi se per caso non gli stesse venendo un infarto. O un colpo apoplettico. Alla fine si rigirò su un fianco, allungò una mano e trovò il filo dell'interruttore. Con il pollice accese la lampada. Aprì il libro, cercando con lo sguardo il punto della pagina in cui aveva smesso di leggere: e fu proprio in quel momento che si ricordò del vecchio caso. La vecchia casa delle streghe 1 Strøm viveva in una vecchia casa che gli ricordava la casa di una strega, in una stradina silenziosa nel quartiere di Grefsen. La casa si ergeva solitaria all'interno di un grande giardino. Finestre buie, tende tirate. La pittura bianca si stava staccando dalle mura esterne. Un tempo doveva esser stata una casa elegante e ben tenuta, ma adesso stava cadendo a pezzi: i denti di leone e l'artemisia crescevano liberamente nelle fessure tra le lastre di selce del sentiero che conduceva alla casa, le aiuole erano piene di ortiche e di erbacce e l'erba del prato non veniva tagliata da un pezzo. Una cassetta delle lettere verde, ammaccata e con delle macchie di ruggine, penzolava a
testa in giù dalla rete della recinzione: qualcuno ci aveva dipinto sopra «Strøm», in stampatello e con dei caratteri irregolari. Vang aveva già superato la casa una volta, spingendosi fino alla fine della stradina per poi tornare indietro. Era solo. In questura non aveva detto a nessuno dove sarebbe andato. A volte doveva prima vedere con i propri occhi per farsi un'impressione, un'idea. Era davvero convinto di avere il dono della chiaroveggenza. Ma questa volta il suo dono non gli fu di alcun aiuto. Nessuna vibrazione, nessuna sensazione. Camminando, estrasse dalla tasca il cellulare e il biglietto con il numero di telefono di Rune Strøm. Fece squillare trenta volte il telefono prima di riattaccare. Una siepe e alcuni vecchi meli riparavano la casa dagli sguardi dei vicini. Diede un'occhiata al giardino, rimanendo addossato alla recinzione. Anche se non gli aveva risposto nessuno, Vang aveva paura che dentro la casa ci fosse un suo complice che non amava rispondere al telefono. Un gemello sfigurato, per esempio. Tutti gli assassini più sadici e squilibrati non hanno forse un gemello che entra in scena quando tutti credono che il pericolo sia ormai stato scongiurato? O almeno così accadeva nei gialli americani che di solito comprava all'aeroporto. Ma non vide niente di interessante: nessuna buca scavata di recente, nessun abito grondante di sangue, nessuna testa abbandonata - solo erba ed erbacce e mele marce. Una tanica per il cherosene malconcia appoggiata su un trespolo di ferro, una scala fradicia, lo scheletro arrugginito di un dondolo. Pensò: «Proprio non ti piace stare in giardino, Rune Strøm!» 2 Quando Vang vide l'anziana signora alla finestra della casa di fronte, sussultò come se fosse stato colto in flagrante mentre commetteva un'azione illegale. La donna si ritirò velocemente, scomparendo dal campo visivo di Vang. «Una ficcanaso,» pensò, «i servizi segreti del vicinato.» Vang tentennò prima di decidersi ad attraversare la stradina per andare a suonare il campanello. All'inizio la donna si rifiutò di farlo entrare. La catenella si tese nello spiraglio della porta, mentre la signora lo squadrava sospettosa ripetendo che avrebbe chiamato la polizia se non si fosse allontanato immediatamente di lì. Solo quando Vang le mostrò il tesserino di riconoscimento si decise a togliere la catenella.
«È della polizia? Cielo, perché non lo ha detto subito?» Lo spinse nell'ingresso. «Un caffè? Al mattino presto ci vuole! Polizia?» La signora era graziosa, simile a un uccellino, con i capelli argentati e gli occhi castani. Accompagnò Vang in un soggiorno antiquato, pieno di mobili, e gli fece segno di accomodarsi su un divano piuttosto comodo prima di scomparire in cucina. «Pensavo che fosse un ladro d'appartamento,» esclamò dalla cucina. Vang la sentiva armeggiare. Subito dopo tornò con un vassoio con due tazze, due piattini, dei dolcetti e del caffè. «Un ladro d'appartamento?» ridacchiò Vang. La signora versò il caffè per entrambi. «Non che lei ne abbia l'aspetto, per carità, ma di questi tempi non ci si può più fidare di nessuno. Lo saprà meglio lei di me. Essendo un poliziotto.» Il caffè aveva lo stesso profumo di quello che preparava Herdis. Le tazze e i piattini erano di porcellana dipinta a mano. I dolcetti fatti in casa erano disposti su un piatto d'argento. Vang sorrise annuendo. «Sto indagando su un caso un po' insolito e sto tenendo sotto controllo la casa dei suoi vicini. L'uomo che ci abita potrebbe fornirci delle informazioni importanti, in quanto testimone dei fatti.» Si portò la tazza alla bocca. «Rune? Povero ragazzo, in che guaio si è cacciato ancora? Ma non finirà mai? Mai?» Stringeva le labbra alla fine di ogni frase, come se nel suo volto ci fossero dei fili che qualcuno tirava. «Sono certo che non ha fatto niente di male,» la rassicurò Vang poco convinto. «Ma è possibile che abbia delle informazioni importanti da darci in qualità di testimone. Testimone!» Un tiepido colpo di vento fece oscillare il lampadario. «Mio caro, sia gentile e disponibile con lui! Povero ragazzo!» La vecchia si chinò in avanti abbassando la voce: «Non sta bene. Sa, molti anni fa ha perso la fidanzata. Una storia terribile! Terribile! Annegata! Nella vasca da bagno. Povera ragazza. Rune venne messo in prigione!» Emise un lamento. «Rune! Non farebbe male a una mosca! In prigione!» Le labbra le si contrassero. «Ma mio caro, prenda qualche dolcetto!» «Grazie, grazie!» Ne prese uno e se lo mise sul piattino. «Si trattò soltanto di un caso di custodia cautelare. Normale routine. E non venne mai citato in giudizio.» Ma la vecchia non aveva alcuna sensibilità per le sfumature. «Lo hanno rovinato, sa. In prigione. Rovinato! Subito dopo è ritornato qui, a casa sua.
Ma da allora non è più stato lo stesso! Non è più il ragazzo gentile di un tempo. Rovinato! Sa, quando andava a scuola mi aiutava sempre a tagliare l'erba del prato.» «Ah sì? Allora è cresciuto qui a Grefsen?» Lei gli allungò il piatto con i dolcetti. «Si serva pure, a me i dolci fanno male. Sì, Rune ha sempre vissuto qui. Eccetto i sei mesi in cui è stato fidanzato. Suo padre morì quell'estate. Il cuore. Dopodiché lui tornò qui per occuparsi della madre. Si sono presi cura l'uno dell'altra, sa. Soffrì molto per quello che era successo a Linda. La fidanzata. Non è più stato lo stesso. Era un ragazzo dolce e gentile, Rune. Ma da allora smise di sorridere. Se ne sta in disparte. Un solitario. Non è un comportamento sano. Non per un uomo della sua età. È stata la prigione a rovinarlo, sa. Terribile.» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Povero Rune.» «Non si è mai più trovato un'altra donna?» «Una donna? E io cosa ne so? Non sono mica una spiona, io.» La vecchia strinse le labbra, trafiggendo Vang con lo sguardo, forse in attesa che lui la sfidasse su quel punto. «Ragnhild non me ne parlò mai.» «Ragnhild?» «Sua madre. Ragnhild! Timorata di Dio, un angelo. Era figlia di un sacerdote di Odalen. Crescere in un ambiente come quello lascia il segno, sa. Andava sempre in chiesa. Tutte le domeniche. Fin da quando Rune era piccolo - in chiesa tutte le domeniche! Niente scuse! Sotto la pioggia, in chiesa! Non era una donna facile, Ragnhild. Severa ma giusta.» Un enorme orologio a muro scandì l'ora. «Esce spesso la sera?» chiese Vang sorseggiando il suo caffè. «La sera? Non lo so. Io di sera dormo.» «Lei è rimasta in contatto con la madre?» «Ragnhild? Che Dio la benedica! Non lo ha saputo? Povero Rune!» «Cosa intende dire?» La donna abbassò nuovamente la voce. «Una tragedia terribile. Una donna ancora giovane. Aveva appena compiuto sessant'anni. Emorragia cerebrale. È morta a luglio.» Di mattina Aveva dormito troppo. Quella notte Kristin aveva sognato le rovine di una città sottomarina infestata dalle sirene e da coccodrilli dagli occhi umani, ma all'alba il sogno
si era spostato in uno scenario fatto di cipressi e templi greci, dentro uno dei quali qualcuno aveva urlato il suo nome. Si era appena svegliata quando Patrick e Claes avevano dato il cambio a Gustav e Ådne, ma si era rigirata nel letto, e dopo essersi tirata il lenzuolo fin sotto il mento si era riaddormentata. Quando finalmente si svegliò, fu come risalire in superficie nuotando nel catrame. In bocca aveva un sapore di carne marcia. Il sole si era insinuato nella stanza attraverso uno spiraglio tra le tapparelle e la cornice della finestra. La luce le si rifletteva negli occhi. Con un gemito si girò dall'altro lato per guardare la sveglia. Le undici e mezzo. Non dormiva tanto dall'epoca in cui faceva tardi la sera. Un milione di anni fa. Si trascinò fuori dal letto e si infilò un paio di jeans e una maglietta vecchissima («BOY TOY»). Si scompigliò i capelli con le dita. Doveva avere un aspetto bizzarro, dal momento che, quando fece il suo ingresso in salotto a piedi nudi, Patrick e Claes la fissarono scoppiando a ridere. «Ti sei appena svegliata, eh?» osservò Patrick. «Buongiorno, ragazzi,» rispose fingendo di essere allegra. «Per fortuna la mattina anche le stelle della televisione hanno lo stesso aspetto di noi comuni mortali,» scherzò Claes. Si fece una lunga doccia, dopodiché si truccò con cura. Trovò anche il tempo di mettersi lo smalto sulle unghie. Patrick aveva preparato il caffè, e dopo un'ora Kristin tornò a sentirsi un essere umano. Mangiò mezzo wasa con del formaggio mentre sfogliava l'«Aftenposten», che aveva dedicato due intere pagine al caso. Perlopiù si trattava di immagini che raffiguravano l'assassinio di Marianne. La polizia aveva mostrato il filmato nel corso di una conferenza stampa e aveva fornito ai giornalisti quattro sconvolgenti fotogrammi in bianco e nero che l'«Aftenposten» aveva scelto di condividere con i propri lettori. In fondo alla stessa pagina, il critico televisivo della testata aveva scritto che la tempesta che si era scatenata contro «24 timer!» alla fine aveva spaventato Wolter riconducendolo alla ragione. Mentre stava leggendo, squillò il telefono. Le avevano assegnato un nuovo numero privato che conoscevano soltanto la polizia, i suoi superiori e Gunnar. E Halvor. Era lui. Aveva appena letto sul giornale dell'ultimo filmato. Kristin si scusò con lui per non averlo avvertito. Parlarono del più e del meno. Di quali libri avevano letto ultimamente e
di cosa faceva Kristin nel tempo libero. Halvor le raccontò dei campi, che erano al culmine del loro splendore. Le disse che stava valutando se partecipare o meno alla riunione che quella sera si sarebbe tenuta a proposito della nuova strada statale. Le parlò della nuova coppia che gestiva il bar del villaggio. Per tutto il tempo Kristin si immaginò la valle e il paesino: i fianchi ripidi delle colline ricoperte di campi coltivati tra gli spuntoni rocciosi, il bosco di abeti e le macchie di fogliame, il fiume che fuoriusciva bianco e spumeggiante dal lago di Mårsjø, il profumo della foresta. Si ripromise di andarci non appena avessero preso Aquarius. Se fosse stato preso. Quando fosse stato preso. Ricordi ingialliti Si chiamava Rune Strøm. Gunnar Borg era seduto nel suo minuscolo ufficio con davanti una busta ingiallita e consunta appoggiata sulla scrivania. Sudava. Per via del caldo opprimente, aveva allentato il nodo della cravatta e si era slacciato i primi due bottoni della camicia. Una mosca ronzava attorno al vetro della finestra semichiusa. «Come fa a non seguire la corrente d'aria e a non volare fuori?» si chiese Gunnar. In strada, due tizi stavano scaricando qualcosa di pesante da un camion, ansimando e urlandosi delle istruzioni. Se solo si scostasse un po' dal vetro, se si spostasse soltanto un paio di centimetri a sinistra, sarebbe libera già da un pezzo. «Stupida mosca,» borbottò. Abbassò lo sguardo sui ritagli di giornale e sulle mani che gli tremavano. Rune Strøm. Estrasse dalla busta i fogli sottili e li dispose sulla scrivania: molti degli articoli portavano la sua firma. Al giorno d'oggi li scrivevano tutti al computer e bastava premere un paio di tasti per recuperarli, ma ai suoi tempi gli archivisti avevano il compito di ritagliare ogni articolo, annotandone la data e l'argomento per poi infilarlo nella relativa busta. A Rune Strøm era stata dedicata una busta intera. Non era pienissima. Il ritaglio più vecchio era un trafiletto: «Donna trovata morta nella vasca da bagno». Erano dovuti passare alcuni giorni prima che la redazione si svegliasse: «La donna annegata: un enigma per la polizia di Oslo. Omicidio o disgrazia?» A quel punto era arrivato il primo articolo scritto da Gunnar: «Il fidanzato accusato dell'omicidio della vasca da bagno». C'erano un paio
di articoli sulla custodia cautelare, un commento dell'avvocato di Strøm e l'intervista che Gunnar aveva ottenuto in esclusiva: «Non ho ucciso io Linda!» Si chiese perché, quando Kristin gli aveva raccontato del modo in cui Marianne era stata uccisa, non si fosse ricordato subito di quel vecchio caso. E pensava di conoscere la risposta. Fare il giornalista è come seguire un flusso ininterrotto in cui i casi vanno e vengono. Ogni giorno si riparte da zero. Quello che è successo due giorni prima è destinato a finire nell'oblio. Un giornale è un contenitore vuoto. Ogni giorno va definita, descritta e analizzata una nuova realtà. Nel corso di un anno un giornalista scrive centinaia e centinaia di articoli: la maggior parte dei quali non lascia traccia. Per questo motivo, che si fosse ricordato degli articoli che aveva scritto su Rune Strøm vent'anni prima era già di per sé un fatto degno di nota. Spiegò la pagina con l'intervista: nei punti in cui era stata piegata, la carta stava quasi per lacerarsi. Con cura, allargò sulla scrivania la vecchia pagina del «Dagbladet», una pagina piuttosto grande. La foto di Rune Strøm campeggiava su quattro colonne. Il retino era sgranato. Non sarebbe stato giusto affermare che quel giorno, nel momento in cui aveva scattato quell'immagine, il fotografo fosse stato fortunato, ma, comunque sia, lo sguardo di Rune Strøm risultava intenso e vivo. Gunnar rimase seduto a osservare la foto, a fissare Rune Strøm negli occhi. Sei tu? Lesse: «Sento la mancanza di Linda in maniera terribile! E il fatto che la polizia mi sospetti di averla uccisa rende questo dolore ancor più difficile da sopportare.» Stava bluffando? Si era preso gioco di Gunnar quando lo aveva ringraziato per l'intervista e se n'era andato? «Affermare che io l'abbia uccisa è una follia.» Una follia? Ma chi era veramente il folle? E perché la polizia non aveva rispolverato quel vecchio caso? Una delle prime cose che facevano non consisteva forse nel riprendere in mano i vecchi casi irrisolti? Era possibile che anche loro se ne fossero completamente dimenticati? Strøm non era mai stato citato in giudizio e quindi neanche condannato. Era impossibile che la polizia non avesse controllato anche quel genere di casi. O forse l'avevano archiviato in modo sbagliato.
All'improvviso si ricordò di aver invitato Oscar Lund a casa sua. Sarebbe venuto quella sera stessa. Oscar avrebbe saputo dargli una risposta. «Forse dovrei telefonare a Kristin e chiederle di venire. È giusto che lo sappia. Quantomeno capirà che la penso. E che faccio il possibile per aiutarla.» Afferrò la cornetta e compose il suo numero. Mentre lo faceva, guardò la finestra: la mosca era volata via. Banshees - Presagio di morte 1 Non sapeva cosa fare. Per l'ispettore Vang, una sensazione insolita e sgradevole. La visita alla vicina di Rune Strøm lo aveva confuso. La vista della casa in rovina e le informazioni che la signora gli aveva fornito avrebbero dovuto far precipitare l'ago della bilancia dalla parte della COLPEVOLEZZA. Tuttavia, il suo intuito e il suo famoso sesto senso gli dicevano a chiare lettere che Rune Strøm non era Aquarius. Troppo facile, troppo scontato. Ma il problema era che tutti gli altri componenti del suo staff opponevano al suo intuito dei ragionamenti inattaccabili. Rune Strøm era uno degli indiziati che andavano seguiti più da vicino. Era probabile che avesse ucciso la sua fidanzata nella vasca da bagno riuscendo poi a farla franca. Le conclusioni degli investigatori che al tempo si erano occupati del caso erano sotto gli occhi di tutti, negli archivi della polizia. Non si contavano nemmeno gli psicopatici che se ne stavano tranquilli per anni prima di tornare a colpire, prima che un evento qualsiasi arrivasse a risvegliare la loro sete di sangue: un divorzio, un licenziamento, una morte... La voce flebile della sua vicina, simile al cinguettio di un passerotto, riecheggiò nella testa di Vang: Una tragedia terribile. Una donna ancora giovane. Aveva appena compiuto sessant'anni. Emorragia cerebrale. È morta a luglio. Tutto combaciava! Eppure... Detestava la parola «eppure». La parola del dubbio e dell'incertezza. Eppure... Eppure si sentiva così maledettamente confuso.
La personalità di Rune Strøm corrispondeva perfettamente al profilo psicologico di Aquarius. Era un solitario, uno che viveva ai margini della società. Uno che si sentiva diverso. E che forse lo era. E la morte della madre, avvenuta all'inizio dell'estate, avrebbe potuto tranquillamente rappresentare the stressor di cui parlavano i ricercatori dell'FBI: il fattore psicologico che irrompe improvviso nella vita dell'assassino e che scatena in lui il desiderio di uccidere. Eppure... C'era qualcosa, nel raffinato modo di procedere di Aquarius, che lo spingeva a pensare che non avrebbe mai fornito alla polizia un indizio così ovvio: non avrebbe mai commesso un omicidio con le stesse caratteristiche di quello che aveva commesso vent'anni prima. Se avesse voluto essere scoperto, l'avrebbe fatto in maniera più sofisticata, più elegante. Scegliendo delle donne che avessero la stessa età della sua prima vittima. Che fisicamente le assomigliassero o che si chiamassero come lei. Indizi che ora come ora forse non erano ancora emersi in maniera nitida, ma che comunque erano lì, in attesa che qualcuno si prendesse la briga di interpretarli. Secondo Vang, era questo il registro che Aquarius aveva scelto per giocare con la polizia. Attraverso suggerimenti discreti, allusioni sottili e uno stile macabro ma ricercato. Non aveva certo intenzione di scrivere il proprio nome su una parete bianca con della pittura spray. Se invece Aquarius era Rune Strøm, era proprio questo che aveva fatto. All'una, convocò nel suo ufficio i responsabili delle varie sezioni investigative. Era evidente che si erano messi d'accordo per convincere Vang ad arrestare Strøm. Uno dopo l'altro, elencarono tutti gli indizi che conducevano a Strøm. Antonsen arrivò persino ad alludere al fatto che, se Strøm fosse stato effettivamente colpevole e si fosse venuto a sapere che la polizia, pur conoscendone il nome da giorni, non era intervenuta, sarebbe scoppiato uno scandalo. «OK,» commentò Vang calmo. Se Strøm era innocente, nel giro di poco tempo e senza troppi sforzi lo avrebbero capito. Andava quasi sempre così. Se invece l'assassino era lui, Vang sarebbe stato il primo a scusarsi per il proprio scetticismo. Non sembrava che avessero capito il significato della sua affermazione. «Andatelo a prendere,» disse. Vide i presenti scambiarsi delle occhiate.
2 Rune Strøm era un uomo alto e dai tratti marcati. Lo sguardo gli pendeva da un lato come attratto da una calamita. Si trovavano nell'ufficio della Gran. Vang, Antonsen e la Gran erano seduti su delle sedie alte dietro la scrivania ricoperta di documenti. Di fronte a loro, Rune Strøm sedeva invece su una sedia più bassa. Braccia e gambe incrociate. A Vang sembrò un ragazzino impaurito imprigionato in un corpo troppo più grande di lui. «Non è lui,» pensò. «Forse avrà intuito il motivo per cui le abbiamo chiesto di venire,» esordì Elisabeth Gran. Aveva studiato psicologia ed era molto abile negli interrogatori. Strøm allargò le braccia come per dire che invece non ne aveva la più pallida idea e che, a essere sincero, non gliene importava nemmeno un granché. «Sarà senz'altro a conoscenza dell'ultimo filmato di Aquarius.» I tre poliziotti lo fissarono: Strøm non fece una piega. Non è lui! La Gran continuò: «Il filmato in cui viene mostrato l'omicidio di una ragazzina, Marianne.» «Qual è la domanda?» chiese Strøm con voce stanca. «È stata annegata,» commentò la Gran, il cui tono si era fatto più duro. Tagliente e freddo. «Lei. È. Stata. Annegata. Mi sente? Annegata! In una vasca da bagno.» Strøm serrò ancor di più le braccia conserte, spostando contemporaneamente il piede destro dietro il polpaccio sinistro. Un nodo umano sempre più stretto. «Oddio,» mormorò. «Ora avrà certamente capito il motivo per cui vogliamo scambiare quattro chiacchiere con lei.» La voce della Gran era tornata a essere dolce. Materna. Comprensiva. Come se la sua massima aspirazione fosse quella di aiutarlo a tirarsi fuori dal pasticcio in cui si era cacciato. «Lei non è tra gli indiziati, ma abbiamo comunque bisogno di parlarle. Immagino che capisca. Sono talmente tante le persone con le quali parliamo,» continuò. «Non deve aver paura. Si tratta di una chiacchierata di routine.» Una chiacchierata di routine, guarda un po'. Attento, ragazzo, tra poco
ti salterà al collo! La Gran appoggiò una mano su una pila di documenti: quello in cima alla pila riguardava Strøm. Vang notò che la Gran aveva le unghie smaltate. La cosa lo sorprese. Erano di un rosso brillante e alquanto acuminate. Non aveva mai fatto caso alle unghie della Gran. «Mi sono spiegata?» Non è lui! Rune Strøm si schiarì la voce: «Voglio nominare un avvocato.» «Accidenti,» pensò Vang. Karianne Li li raggiunse un'ora dopo. Vang l'aveva conosciuta quando si era occupato di altri casi di violenza di minore portata: figli che picchiavano le madri, mariti che picchiavano le mogli, cornuti che picchiavano gli amanti delle mogli. Era un'avvocatessa scaltra ma dall'aspetto mite: una tipa un po' stramba che aveva sempre un asso nella manica. Maledettamente brava. Dimostrava una trentina d'anni, ma secondo Vang doveva essere intorno ai quaranta. Forse anche qualcosa di più. Vang la mise brevemente al corrente del caso. «Non capisco... Cosa avete contro di lui?» gli chiese quando Vang ebbe finito. Okay, here we go! Schiarendosi la voce, Vang disse: «La questura di Oslo ha delle ragioni valide per voler scambiare quattro chiacchiere con il suo cliente.» Sapeva che stava esagerando. Che lei ne era consapevole. E che si stava servendo della questura di Oslo nella speranza di spaventarla. Almeno un po'. Ma lei non si lasciò intimorire. Ovviamente. «Delle ragioni valide?» ripeté scettica. «Sentiamole!» Vang deglutì. Avrebbe dovuto lasciare quella maledetta avvocatessa alla Gran. «Be'... l'omicidio del 1976. I tratti delle due personalità coincidono in maniera straordinaria. La morte della madre ha scatenato in lui il desiderio di uccidere... Tutto questo...» «Stronzate!» lo interruppe lei. «Non avete in mano niente! Niente di niente! Non mi ha appena detto che nel 1976 il caso venne archiviato? E che non è mai stato accertato che si trattasse di omicidio? A meno che lei mi stia nascondendo qualche informazione - cosa che non credo stia facendo,» disse tagliente. «Inoltre, ha appena finito di comunicarmi che avete arrestato il mio cliente...» dovette guardare le carte per ricordarsi come si chiamava, «... Rune Strøm perché vent'anni fa fu sospettato di un possibile
omicidio che in qualche modo può ricordare l'ultimo omicidio compiuto da Aquarius. E questo sarebbe tutto. Dico bene? Per cortesia, Vang...» «Comunque sia,» rispose Vang deglutendo di nuovo, «non è detto che la questura di Oslo veda la cosa dal suo stesso punto di vista.» Anche se è quello che faccio io. Le sembrò bella, particolare che non aveva mai notato prima. «Per il momento desideriamo soltanto parlare con il suo cliente. Non abbiamo ancora preso in considerazione l'ipotesi di formulare un'imputazione.» «Un'imputazione?» La Li fece una breve risata, come per sottolineare che non credeva alle proprie orecchie. «Prego, fate pure! Fatelo per me! Un'imputazione...» per un paio di secondi cercò una definizione appropriata, «... che fa acqua da tutte le parti.» «Perché gli altri non sono qui?» pensò Vang. «Sta dicendo esattamente quello che penso anch'io.» Karianne Li chiese di poter parlare in privato con il suo assistito prima che si procedesse con l'interrogatorio. Vang, Antonsen e la Gran rimasero fuori dalla porta ad aspettare. Nessuno di loro disse niente. Quando la Li uscì dall'ufficio un quarto d'ora dopo, aveva un'espressione come di chi non sa se ridere o piangere. «Ha un alibi,» comunicò laconicamente. Vang non disse nulla. Che se la sbrigassero loro. «Un alibi?» domandò Antonsen, come se non conoscesse il significato di quella parola. «Un alibi,» ripeté lei. «Per quali omicidi?» chiese la Gran. «La maggior parte, direi. Rita Quist. Una sua amica o la sua ragazza, una che si prende cura di lui. Ha un negozio sulla Markveien.» «Buon per lui,» commentò Antonsen. Mentre Vang, Antonsen e Alm procedevano con l'interrogatorio di Strøm alla presenza di una Karianne Li tutta occhi al cielo e sospiri, la Gran andò a telefonare alla Quist. Quando ritornò, annuì velocemente in direzione degli altri. Il suo sguardo confermava le parole dell'avvocatessa. La Quist forniva a Strøm un alibi. L'atmosfera era decisamente cambiata, e i quattro poliziotti si ritirarono nell'ufficio di Vang. Vang tamburellò con le dita sul tavolo. «Non dirò 'Cosa vi avevo detto', ma...» «... Cosa vi avevo detto!» esclamarono gli altri in coro.
«Dobbiamo studiare questa Quist più da vicino,» intervenne la Gran. «A fondo. Mi è sembrata una che vive in un mondo tutto suo.» «Ma ha confermato l'alibi di Strøm?» le domandò Alm. «Credo che, se fosse necessario, confermerebbe anche che sono stati sulla luna a giocare a campana,» rispose la Gran. «Secondo me dovremmo andare a prenderla. E farle un po' di pressione!» Mentre pronunciava queste parole, sorrise come un agente della Gestapo. «Ho come la sensazione che questa storia dell'alibi non stia in piedi.» «Possiamo formulare un'imputazione?» chiese Alm. «E su quale base?» ribatté Vang bruscamente. «Viste le attuali circostanze, mi sembra che i nostri sospetti siano legittimi.» «Scordatelo,» lo interruppe Vang. Quando era confuso, Alm ricorreva sempre a un linguaggio burocratico. «Statemi a sentire: commetteremmo un terribile passo falso se formulassimo un'imputazione contro Strøm prima di esserci assicurati che si tratti veramente del nostro uomo. Pensateci! La stampa ci salterebbe al collo. E nell'udienza preliminare Karianne Li ci farebbe il culo, se mi passate l'espressione. Non abbiamo in mano niente! E se anche, contro ogni previsione, la spuntassimo, lei farebbe immediatamente ricorso. E non è difficile prevedere come andrebbe a finire in tribunale con i pochi elementi di cui disponiamo. Quando arresteremo un sospetto, voglio avere la certezza che si tratti dell'assassino. La certezza! Non dobbiamo dare l'impressione di andare in giro ad arrestare tutti quelli che ci si parano davanti, tutti quelli che forse potrebbero essere Aquarius! Dobbiamo avere qualcosa contro di lui. Non importa cosa, basta che in tribunale quel qualcosa regga.» «Sono certo che è lui!» sbottò Antonsen. «Come so che la terra è rotonda.» Alzò lo sguardo. «Bisogna solo che lo proviamo.» «Buona fortuna!» sospirò Vang. Rune Strøm lasciò la questura di Oslo alle quattro del pomeriggio insieme a Karianne Li. Otto minuti dopo, una macchina della polizia in borghese con i finestrini scuri parcheggiò a venti metri di distanza dall'ingresso di casa sua. 3 Mezz'ora dopo Vang venne convocato dal questore, un uomo incredi-
bilmente basso ed esile. In televisione e sui giornali dava l'idea di essere alto e robusto, uno di quegli uomini con lo sguardo cupo e la voce profonda, ma l'uniforme e l'effetto delle telecamere traevano in inganno. Era un omino. Ma un omino pieno di autorevolezza che tutti rispettavano. Vang non aveva paura di lui, ma non si era mai sentito a proprio agio in sua presenza. Non appena si mise a sedere, un'immagine gli attraversò la mente: si sentiva un allievo indisciplinato chiamato a rapporto dal preside. Il questore aveva sentito dire che alla fine avevano messo le mani su un sospetto, «il primo», osservò in maniera così ambigua che Vang fu indeciso se intendere quell'espressione come una critica o come un complimento. Vang si scusò per non averglielo comunicato prima, ma motivò la cosa dicendogli che la pista Strøm era molto fresca e a dire il vero non molto sicura. Lo informò degli ultimi sviluppi, esponendogli anche i propri dubbi. Vang fu sorpreso quando si rese conto che lo sguardo del suo superiore era ilare e disilluso. «Sì, sì, Vang, ma sai anche tu come vanno queste cose. Il sottosegretario del ministero di Giustizia mi chiama due volte al giorno per sapere come procedono le indagini. E ogni volta mi ripete che per il ministro è di vitale importanza che noi usiamo le risorse di cui disponiamo in maniera appropriata. Ah, ah! Il 'VG' ha inaugurato una rubrica che si intitola 'Le domande a cui il questore si rifiuta di rispondere'. Ma l'avrai già letta. Sono stato invitato da 'M', 'Redazione 21', 'Ora e qui', dal telegiornale delle 18 e da tutte le radio locali della Norvegia. Sappi quindi che, se sembro impaziente, non è perché non capisco quanta meticolosità e quanta fatica richieda un caso simile. Mio Dio, Vang, mi sono trovato anch'io ad affrontare dei casi difficili e so che ora sei con le spalle al muro. Ed è per questo che, se abbiamo un sospetto, indipendentemente da quanto questa pista sia lacunosa o debole, la dobbiamo seguire fino in fondo. Facciamo vedere che ci stiamo movendo, che non lasciamo niente di intentato, che non stiamo brancolando nel buio.» «Certo.» Ma è proprio quello che stiamo facendo. «Ha già nominato un avvocato?» «Karianne Li.» «Oddio! Miss Formalità! Assolutamente senza speranza. Acuta, ma con lei è impossibile mediare.» «L'ho notato.» «Che cosa ha detto?» «Si è messa a ridere. Ci ha sfidato ad accusare formalmente Strøm. Credo che abbia quasi voglia di incontrarci all'udienza preliminare.»
«Tipico di Karianne.» Il questore stava per dire qualcosa ma si trattenne. «E quale sarà ora la nostra strategia?» «Abbiamo pensato di interrogare Rita Quist, l'alibi di Strøm, domani. Torchiarla un po' per vedere se salta fuori qualcosa di interessante. In caso risultasse che ci ha mentito, non facciamo altro che arrestare Strøm, perquisire casa sua e sottoporlo a un interrogatorio serrato.» «Non avete ancora perquisito la casa?» Suonava come una via di mezzo tra una domanda e un'accusa. «Non c'era nessuna ragione valida per farlo. Non ancora.» Il questore stava riflettendo. I suoi occhi scuri vagarono inquieti per la stanza. «Sono d'accordo. Bisogna andarci con i piedi di piombo. Se ci muoviamo con troppo clamore senza essere sicuri di quello che stiamo facendo, l'opinione pubblica ci scuoierà vivi.» «Era quello che pensavo.» «Comunque sia, ti consiglio di far maggiore affidamento sulla pista Strøm.» «D'accordo...» «Non mi sembri molto convinto che sia lui il nostro uomo.» «Io...» Vang allargò le braccia. «E poi, perché aspettare fino a domani per interrogare Rita Quist?» La domanda giunse inaspettata. Tipico del questore. Un attimo era tuo amico e tuo complice, e l'attimo dopo era un inquisitore senza scrupoli. «Be',» fece Vang, che non aveva assolutamente idea di cosa rispondere. «Questa sera abbiamo parecchio lavoro da sbrigare, tutto qui.» «Ma almeno state valutando l'ipotesi di accelerare la cosa, no? È probabile che stia mentendo.» «Certo.» Si scambiarono un'occhiata. Lo sguardo del questore diceva: «Hai il mio appoggio più totale, Vang, basta solo che tu ti muova ad arrestare Aquarius!» Ma Vang non captò il messaggio che gli stavano comunicando quegli occhi: i suoi stavano guardando da un'altra parte. 4 Vang si recò da solo al negozio di Rita Quist, giusto per dare un'occhiata. Talvolta, durante i suoi sogni a occhi aperti, gli piaceva immaginarsi come il cavaliere solitario della polizia di Oslo. Il Clint Eastwood della
questura. Il ribelle senza macchia e senza paura. Che sfida le autorità e le gerarchie. Ovviamente si trattava soltanto di una fantasia senza senso. Era un ispettore di polizia, dannazione! Era obbligato a seguire le regole. Eppure, di nascosto, portava avanti le sue piccole insurrezioni personali, come ad esempio avere un occhio di riguardo nei confronti dei poliziotti che non piacevano al capo del dipartimento anticrimine. O fornire alla stampa dei commenti che poi immancabilmente il questore voleva discutere con lui. Cose di poco conto. Come recarsi di propria iniziativa da un testimone o da un sospetto senza informare la questura. Ci andava e basta. Stile ispettore Callaghan. Il negozio si chiamava Banshees. Pensava fosse il nome di un gruppo pop. Ai tempi in cui ancora viveva a casa, suo figlio aveva appeso alla parete un poster di quella band. Su un cartello avevano scritto a mano «Apriamo alle 10 e chiudiamo quando ci pare». Banshees? Che diavolo di nome era? Si vide davanti il poster nella camera di suo figlio. Di cos'altro si trattava? Qualcosa che aveva a che fare con gli indiani. Roger gli aveva fatto sentire un disco. Non esattamente Errol Garner. Gli tornò in mente la camera del figlio: quando Roger si era trasferito, l'avevano trasformata in un salottino dove guardavano la televisione. Herdis teneva i suoi lavori a maglia in un cestino di vimini dietro il divano. Mentre i settimanali, aperti alle pagine dei cruciverba, erano impilati su un tavolino. Una campanella appesa alla porta squillò allegramente quando Vang entrò. Il negozio, piuttosto piccolo, aveva un profumo greve e dolciastro di incenso e di erbe aromatiche. «Un attimo!» urlò una voce dal retrobottega. Difficile dire che cosa uno avrebbe potuto comprare in quel negozio. C'erano scaffali pieni di manuali New Age e libri ormai fuori catalogo. In una teca di vetro erano esposti braccialetti, anelli e collane fatti a mano, molto semplici e dalle fogge obsolete. C'erano vestiti, gonne e gilet in stile hippy appesi a delle grucce. Vang vide una mensola carica di incensi di ogni genere e un'altra con vari tè che si vendevano a peso. Candele, fiori essiccati, tovaglie tessute a mano, piccoli scrigni di ottone e di rame, una cesta piena di ditali. Alle pareti erano appesi strani poster. Su uno di questi era disegnato un esagramma.
«Eccomi,» disse la donna, allacciandosi il grembiule mentre usciva da uno sgabuzzino, «come posso aiutarla?» Rita Quist era una donna dall'aspetto sano e prosperoso, con lunghi capelli rossicci e un viso pallido pieno di lentiggini. Gli occhi sempre fissi su un punto accanto al suo interlocutore. L'età era indefinibile: tra i trenta e i cinquanta. Anche se a un certo punto Vang si ricordò che era nata nel 1957. Portava un paio di orecchini incredibilmente grandi, una collana il cui ciondolo era stato inghiottito dal solco tra i seni pesanti e anelli voluminosi praticamente a ogni dito. «Che negozio originale!» esordì Vang. «Grazie! Abbiamo quasi tutto. Oppure possiamo procurarlo.» Per un attimo rimasero in piedi a scrutarsi. «Sta cercando qualcosa in particolare?» chiese la Quist. «In un certo senso sì, ma più che altro mi sono incuriosito quando ho visto tutte queste cose esposte.» «Interessanti, no? Sempre che le piaccia questo genere di cose.» Il suo sguardo percorse il corpo di Vang dalla testa ai piedi e viceversa. Sa chi sono? «Questo genere?» «Sa... New Age, misticismo, occultismo, filosofia e culture orientali.» «Ah, intende quel genere di cose.» «Non è necessario essere degli esperti. Solo alcuni dei miei clienti vengono qui alla ricerca di qualcosa di preciso. Agli altri piacciono...» e agitò le mani per aria, come se stesse cercando qualcosa di invisibile, forse una bacchetta magica, «... l'ambiente, l'atmosfera, i profumi, i sapori. E va benissimo anche così. Non è necessario essere un contadino per amare le verdure, no?» Suonava come una frase imparata a memoria. «Che simbolo è quello?» chiese Vang indicando il poster con l'esagramma. Rita Quist si avviò lentamente verso il poster e fece scorrere l'unghia acuminata dell'indice lungo i contorni delle sei punte. L'unghia produsse un rumore simile a un lamento. «Un esagramma!» Squadrò Vang, come per valutare se fosse degno di ricevere quell'informazione: «Un simbolo antichissimo che garantisce potere e protezione ai seguaci dell'occultismo.» Ondeggiando sui fianchi, ritornò al bancone. «Cosa le interessava?» gli chiese, improvvisamente impaziente. D'istinto, Vang afferrò una candela che si trovava in un cesto sul bancone. «Prendo questa.»
Lei reclinò la testa. «L'ho già vista prima, ma non riesco a ricordarmi dove.» Vang si mise a trafficare con il portafogli alla ricerca di qualche moneta. «Non mi sembra, signora. Quanto le devo?» «Quindici corone. Non mi dimentico mai di una faccia. Posso scordarmi un nome, una data o una cosa simile, ma una faccia mai.» Un nome, una data? Vang spostò il peso del proprio corpo da una gamba all'altra. «Che nome strano ha questo negozio.» Rita Quist prese a impacchettare la candela con della carta crespa. «Il nome 'Banshees' viene dalla mitologia celtica. Era una specie di genio, un elfo femmina. Le sue grida, la notte, per le vecchie stirpi scozzesi erano presagio di morte.» Sorrise a mo' di scusa e porse a Vang la candela. «Un nome stuzzicante per un negozio, non trova?» Vang si fece rotolare la candela impacchettata tra le dita. «Molto stuzzicante,» disse. 5 Ritornò in questura verso le sei del pomeriggio. Håvard Alm e Antonsen lo stavano aspettando fuori dal suo ufficio con aria agitata. «Dove sei stato?» gli domandò Antonsen, e senza aspettare una risposta aggiunse: «Håvard e i ragazzi hanno trovato un collegamento!» Alm e Antonsen fissarono Vang come due cuccioli in attesa di un cenno di apprezzamento. «Un collegamento?» chiese Vang entrando in ufficio. Nessuno si sedette. «Linda Gabrielsen è stata uccisa nel luglio del 1976.» Antonsen si trattenne. «E Una Mørch è stata rapita nel luglio del 1996.» «E questo sarebbe il collegamento?» domandò Vang senza capire. «Facci finire di parlare!» sbottò Antonsen. «Håvard, spiega!» Le mani di Alm tremavano. «Nel maggio del 1981 una ragazzina fu trovata morta in un laghetto dalle parti di Groruddalen. Ti ricordi il suo caso? Archiviato. Annegata, probabilmente.» «Vagamente. Ma non si era mai parlato di omicidio, o sbaglio?» «Andiamo avanti. Ottobre 1986. Ti dice niente?» Vang ci pensò sopra. «Mona?» chiese. «La prostituta scomparsa?» «Esatto. E la parola chiave successiva è: luglio 1991.»
«Non mi viene in mente nessun omicidio irrisolto.» «Eirin Granvik. Ne fu denunciata la scomparsa. Molto religiosa. La sua barca fu trovata a Son.» «Lei sì, me la ricordo. Ma neanche in quel caso si parlò di omicidio. Fu mai ritrovata?» Alme e Antonsen scossero il capo con un sorriso. «OK, abbiamo quattro o cinque donne scomparse o uccise. Ma si tratta di casi che sono già stati analizzati. Continuo a non vedere alcun collegamento.» «1976,» snocciolò Alm lentamente. «1981. 1986. 1991. 1996.» Vang non disse niente. Antonsen annuì di nuovo. Alm sollevò le dita della mano una alla volta. «Una ogni cinque anni...» commentò Vang. «Proprio così. Una giovane donna ogni cinque anni.» I muri della stanza sembrarono crollargli addosso. «Merda,» fece Vang piano. «Merda!» gli fece eco Antonsen con un sorriso. Frøydis È terrorizzata. Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. Neanche quando aveva partorito Bjarne e sotto l'effetto dell'anestesia aveva creduto che l'avrebbero aperta dal pube fino al mento. A uno così può venire in mente qualsiasi cosa. E glielo ha dimostrato. Qualsiasi cosa. Glielo si legge negli occhi. Splendidi occhi azzurri, ma con qualcosa che manca. La vita. E al di là della paura per tutto il dolore e le sofferenze che le può infliggere, a straziarla è la consapevolezza che prima o poi l'ammazzerà. Con un colpo d'arma da fuoco. Strangolandola. Annegandola come un gattino. Avvelenandola. Ma non vuole abbandonarsi alla paura. Non quando è insieme a lui. Fissa quegli occhi morti fino a quando lui non è costretto a distogliere lo sguardo. La stanza è squallida. La stanza? La cella, figlia mia, il braccio della morte! Il pensiero delle donne che sono rimaste stese su quel materasso prima di lei le provoca una nausea violenta. Hanno guardato gli stessi mobili che ora sta guardando lei: il televisore sul quale lui le fa vedere i film più strani, lo specchio gigantesco, il tavolino con la tovaglia fatta all'uncinetto e il vaso con i fiori di plastica. In effetti, sembra che in qualche modo
abbia cercato di rendere la stanza più accogliente. Accogliente? Be'... niente a che vedere con il catalogo dell'Ikea! Ma era pur sempre una stanza... Si chiede per quale motivo lui si sforzi di cucinare bene. Tanto, che cosa cambia? Prima che lui la rapisse, non aveva prestato molta attenzione alle notizie che erano apparse in televisione e sui giornali a proposito degli omicidi. Non la interessavano, e le aveva suscitato un forte disgusto il modo in cui i media si erano crogiolati in quelle tragedie. Non potevano evitare di parlare di certe cose? si era chiesta. Era sempre stata una moralista. Mentre ora darebbe chissà che cosa per aver seguito più da vicino tutta quella storia. Per quanto tempo ha tenuto prigioniere le sue vittime prima di ucciderle? Qualche giorno? Una settimana? Eva deve senz'altro aver denunciato la sua scomparsa. Il pensiero della sua compagna le fa venire le lacrime agli occhi. Dopo il divorzio, avvenuto cinque anni prima, aveva avuto delle relazioni con alcuni uomini, ma poi, non sapeva nemmeno lei come, aveva finito con l'innamorarsi follemente di Eva. Non aveva mai pensato che avrebbe potuto innamorarsi di una donna, ma era stata un'esperienza dolce e profonda, come ritrovare una parte del suo corpo che non sapeva neppure di aver perduto. Inizialmente aveva temuto la reazione dei suoi figli - erano comunque in un'età difficile - ma a quanto pareva ai ragazzi non importava un granché se lei divideva il suo letto con un uomo o con una donna. Erano gentili con Eva, trascorrevano con loro un weekend ogni due e si ingozzavano di patatine e Coca-Cola, con tanto di rutti, mentre osservavano con una curiosità imbarazzante la nuova passione della madre. Frøydis si sistema meglio sul materasso. Si chiede quale sia la sua molla. Di Aquarius. Che cosa si agita nella testa di un uomo che prima sequestra una donna e poi la uccide? Non si ricorda di aver letto niente a proposito di eventuali stupri. In quel caso ci sarebbe stata una spiegazione. Non una giustificazione, ma una spiegazione perlomeno sì. O forse la molla va ricercata proprio nell'inspiegabile, nell'insensato. A metà degli anni Settanta, quando aveva girato l'America Latina insieme al suo fidanzato di allora, Asle, erano stati testimoni di un'esecuzione. Una jeep con a bordo un ufficiale e cinque soldati aveva frenato bruscamente davanti a una Fiat. I soldati si erano alzati in piedi e avevano fatto fuoco. Quando le mitragliette avevano smesso di sparare, avevano visto la
Fiat trivellata di colpi e con i finestrini sporchi di sangue. I soldati si erano rimessi a sedere e la jeep era ripartita. Frøydis e il suo fidanzato erano rimasti sul marciapiede paralizzati dallo choc, mentre intorno a loro la vita di tutti i giorni aveva ripreso il suo corso. La sensazione di irrealtà legata a quell'episodio non aveva mai smesso di stupirla. Ed è la stessa sensazione che ora funge da anestetico sui suoi nervi. Si rende conto di essere in balia del suo aguzzino. E in un certo senso questa ineluttabilità la rassicura. Non può farci niente. Lui potrà ucciderla e lei non potrà farci niente. Ma non potrà mai intaccare il rispetto che lei ha di sé e la sua dignità. Non potrà controllare il suo sguardo. Non potrà penetrare nei suoi pensieri. Potrà ucciderla, questo sì, ma se vorrà evitare il suo sguardo dovrà cavarle gli occhi. Pensa: «Non mi conviene dirglielo. Sarebbe capace di prendermi in parola.» La rivelazione 1 Gunnar la stava aspettando sulla porta di casa sua quando Kristin arrivò di corsa in cima alle scale. Al citofono la sua voce le era sembrata secca, un po' burbera, ma nel momento in cui finì di salire l'ultima rampa di scale vide l'espressione severa degli occhi e della bocca sciogliersi in un sorriso. Arrivata al penultimo gradino, si fermò per riprendere fiato facendo delle smorfie esagerate. Ådne la oltrepassò, andando a stringere senza alcun interesse la mano a Gunnar e chiedendogli se poteva dare un'occhiata all'appartamento. Gunnar lo lasciò entrare con un grugnito, e incrociando lo sguardo di Kristin scosse tristemente la testa. Con la punta ruvida delle dita le accarezzò una guancia e i capelli. «Povera piccola,» mormorò. Dal salotto, Kristin sentì Ådne parlare con qualcuno. Si fermarono nell'ingresso. Kristin vedeva soltanto le spalle di Ådne, intento a parlare con un uomo che però era al di fuori del suo campo visivo. Gunnar mise una mano sulla spalla di Ådne. «Dal momento che qui abbiamo già un rappresentante della legge, devo chiederle di attendere in sala da pranzo in modo da lasciarci chiacchierare indisturbati.» «Ma...» «Va bene così,» tuonò la voce sconosciuta.
«Chiuda la porta, per cortesia,» disse Gunnar facendo un cenno a Kristin. «Non conosci Oscar Lund, vero?» Oscar Lund era un toro: spalle ampie, muscoloso e quasi completamente calvo. Doveva avere almeno settant'anni, eppure si alzò con un balzo dalla sedia per stringerle la mano. Quando si presentò, la sua voce era così profonda che le rammentò il motore di un camion. Il salotto aveva un odore di tramonto, di polvere e di libri. «Oscar è un mio vecchio amico,» le spiegò Gunnar. «Amico?» Lund si batté una mano sulla coscia. «Questa sì che è bella!» Gunnar finse di non sentire. «Oscar è un ispettore in pensione. Dà una mano in questura.» «Più che altro do fastidio,» ridacchiò lui. Gunnar aveva preparato un grosso termos con del caffè. Si mise a riempire tre tazze. «Come vi ho accennato al telefono,» disse solennemente, guardando prima Kristin e poi Lund, «credo di essermi imbattuto in qualcosa che forse potrà far luce sulle indagini.» «Ah sì?» brontolò Lund. Anche se parlava a voce bassa, sembrava un tuono che rimbombava in lontananza. «Di che cosa si tratta?» chiese Kristin. «Credo di averlo trovato,» rispose Gunnar. Si diresse verso un vecchio secrétaire, lo aprì e si girò verso di loro. In mano aveva dei fogli formato A4. «Non lo so,» disse a un certo punto Gunnar un po' meno sicuro di sé. «È solo un'ipotesi, un'intuizione che ho avuto, ma stanotte all'improvviso mi è tornato in mente un tizio che ho intervistato un sacco di tempo fa. Un tipo strano. Uno a cui lo leggi negli occhi. Non so se mi spiego. Insomma, uno che ha qualcosa che non va.» Allargò i fogli sul tavolo davanti a Kristin e a Lund. Vecchi articoli. Kristin e Lund li esaminarono. Risalivano a una ventina d'anni prima. Molti recavano la firma di Gunnar. Lund imprecò a bassa voce. «Avrei dovuto ricordarmelo!» esclamò. «Dev'essere l'età,» commentò Gunnar. Kristin lesse velocemente: «Nel luglio del 1976 una giovane donna, Linda Merethe Gabrielsen, viene trovata morta nella sua vasca da bagno ad Ammerud. La polizia non sa se sia annegata o se sia stata affogata. Dopo qualche giorno viene arrestato in regime di custodia cautelare il fidanzato, sospettato dell'omicidio, che viene però rilasciato quattro settimane più tardi. La polizia non riesce a trovare delle prove che lo inchiodino. In
un'intervista a Gunnar, l'uomo racconta come i sospetti della polizia abbiano reso il suo dolore ancor più difficile da sopportare. 'Affermare che io l'abbia uccisa è una follia,' dice. E poi: 'Se davvero avessi ucciso Linda, non l'avrei certo lasciata nella vasca da bagno e non avrei chiamato la polizia'.» Kristin rilesse molte volte il nome dell'uomo. Rune Strøm. Rune Strøm. Rune Strøm. Rune Affermare-che-io-l'abbia-uccisa-è-una-follia Strøm. «Credo,» fu il commento di Lund, «che sia giunto il momento di avvisare Vang.» 2 Fu Kristin a comporre il numero diretto di Vang. Lund aveva raccattato frettolosamente le fotocopie degli articoli e nel giro di pochi minuti se n'era andato. Rispose la sua segretaria. Aveva una voce gelida, secca; purtroppo Vang non era disponibile, ma avrebbe potuto riprovare il giorno dopo. Kristin se la vide davanti: una signora di mezza età con indosso un tailleur beige. Capelli grigi, severa, impeccabile. Formale. Un ghiacciolo. Con alle spalle una vita passata tra i gradini più bassi della polizia. Scrupolosa. Timorosa di compiere degli errori. Kristin si presentò, dicendo che doveva parlare immediatamente con Vang. Purtroppo, rispose il ghiacciolo, Vang aveva chiesto esplicitamente di non essere disturbato per nessun motivo. La qual cosa valeva - Kristin non riusciva a capire se era frutto della sua immaginazione o se aveva davvero colto un velo di disprezzo o di arroganza nella sua voce - anche se la persona all'altro capo del telefono era Kristin Bye. «Sono certa che vorrà parlarmi,» continuò Kristin. «Ah sì?» rispose lei gelida. «Credo di sapere chi è Aquarius.» Pausa. «Un momento,» disse il ghiacciolo. A lungo si sentì soltanto un silenzio glaciale. Poi, di colpo, il sì di Vang, simile a una staffilata. «Sono Kristin Bye,»
Tagliente: «Cosa significa che sai chi è Aquarius?» «Non ho detto che so chi è. Ho detto che credo di sapere chi è.» «Sì?» Suonò quasi come un grido. «Ho un nome per te.» «Sentiamo!» Per un attimo Kristin si trattenne, ma poi disse: «Rune Strøm.» Il silenzio si dilatò nella cornetta. Kristin sentì il proprio respiro. Gunnar, dietro di lei, si grattava la barba incolta. «Ci sei?» gli chiese. Quando rispose, la sua voce era lontana. «Perché credi che si tratti di Rune Strøm?» Lei sorrise a Gunnar. Perché credi che si tratti di Rune Strøm? Non Chi è Rune Strøm? Non A chi ti riferisci? Non Intendi dire Rune Strøm, quello che fu sospettato di aver affogato la sua fidanzata a metà degli anni Settanta? Non No, adesso basta! Rune Strøm!? Nulla di tutto questo. Soltanto Perché credi che si tratti di Rune Strøm? «Abbiamo trovato dei vecchi articoli,» gli spiegò. «E allora?» «Niente, solo che era strano...» «Purtroppo non abbiamo tempo di indagare su ogni stranezza. Grazie per il suggerimento, ma a dire il vero sono in riunione.» Riattaccò. Kristin rimase ferma con la cornetta in mano. «Che cosa ha detto?» le chiese Gunnar. «Grazie per il suggerimento.» Pensierosa, riagganciò. «Grazie per il suggerimento?» «Credo che fosse già a conoscenza di questa pista. O almeno così mi è parso. Sapeva chi era Rune Strøm. Non è caduto dalle nuvole.» Si sedettero al tavolo. Kristin versò dell'altro caffè sia per sé che per Gunnar. «Non c'è da stupirsi,» concluse Gunnar inzuppando una zolletta di zucchero nel caffè per poi succhiarla. «Hanno sicuramente analizzato ogni singolo omicidio avvenuto dai tempi della guerra. Scommetto che hanno degli elenchi interminabili con i nomi dei potenziali indiziati. Ci avrei do-
vuto pensare prima. Sono stato uno stupido.» «Niente affatto, Gunnar! Io credo invece che siamo sulle tracce di qualcosa. Vang sembrava così... strano.» «Ha un milione di cose a cui pensare. Per lui Rune Strøm non è che uno tra le centinaia di nomi che ha davanti.» «E casualmente si tratta di uno che ha affogato la sua fidanzata nella vasca da bagno.» «Non è mai stato condannato, e non è mai neanche stato stabilito che si sia trattato di un omicidio.» «Eppure...» «Sono dei professionisti, Kristin. Sanno quello che fanno. Noi la nostra parte l'abbiamo fatta.» «Non fino in fondo. Dove hai messo l'elenco del telefono? Voglio vedere dove abita.» 3 Gustav aveva parcheggiato la macchina sul marciapiede davanti all'ingresso di casa di Gunnar. Ådne si sedette davanti, lei dietro. «Voglio fare un giro dalle parti di Grefsen,» disse lei. «Cosa credi? Che questo sia un taxi?» le chiese Ådne scherzando. Lei gli diede l'indirizzo. Non ebbero alcuna reazione. Gustav accelerò e partì. Rune Strøm abitava in una piccola traversa di un'elegante zona residenziale. Lentamente, Gustav abbandonò la via principale per andare a parcheggiare alla fine di una fila di auto in sosta. La casa, vecchia e cadente, si ergeva al centro di un giardino incolto. Sembrava una casa disabitata infestata dai fantasmi. Kristin non si sarebbe mai accorta della macchina se Gustav non avesse lanciato uno sguardo quasi impercettibile ad Ådne. Una Opel bianca coi vetri scuri parcheggiata tra le altre macchine. Kristin intravide due sagome. E due antenne. Quando la superarono, Gustav e Ådne girarono ostentatamente la testa dall'altra parte. All'incrocio successivo, Kristin chiese a Gustav di fermarsi. «Devo fare una telefonata,» disse. Aprì la portiera. Di colpo i due si voltarono verso di lei. «Mi dispiace, ragazzi. È una faccenda privata,» disse mielosa. «Sapete, lavoro anche per una linea erotica.»
Richiuse la portiera. Una qualche alterazione chimica a livello cerebrale le impediva di ricordarsi i numeri di telefono, ma fortunatamente aveva memorizzato quello di Wolter nella rubrica del cellulare. Le rispose subito. In sottofondo si sentivano della musica e un tintinnare di bicchieri. «Sono Kristin!» disse velocemente. «Dove sei?» «Theatercaféen. A cena coi grandi capi. ¿Qué pasa?» «Trovati un posto dove puoi parlare senza che nessuno ti ascolti.» Sentì Richard scusarsi. Dopo un po' riprese a parlare. Il clacson di un'auto. «Sono in strada, sul marciapiede. Cosa è successo?» «Credo di averlo trovato.» «Chi?» Quella sera Richard sembrava su un altro pianeta. «Aquarius!» «Ma cosa stai dicendo? Hai trovato Aquarius?» «È una storia lunga. È possibile che si tratti solo di un sospetto. È stato Gunnar, quello del 'Dagbladet'. Si è ricordato di un vecchio caso...» «Aspetta, aspetta! Hanno un indiziato?» Wolter si era quasi messo a gridare al telefono. «Dannazione, questa è una bomba, ragazza! Sentiamo!» «Be', si chiama Rune Strøm. Abita a Grefsen. Sulla quarantina. Venne arrestato per l'omicidio della fidanzata nel 1976, ma non fu mai processato.» «Arrestato? Di che cosa si trattava?» Kristin non riuscì a trattenere un sorriso. «Non crederai alle tue orecchie.» «Allora dillo!» «È stata affogata.» «Affogata? Davvero? Accidenti!» «Nella vasca da bagno.» «È stato lui?» «È stato lui!» «Nella vasca da bagno?» «Nella vasca da bagno, Richard!» «Non mi stai prendendo in giro? Sì? Cosa? No? È troppo bello per essere vero. Al diavolo! Cosa dice la polizia?» «Assolutamente niente. Ho chiamato Vang e lui mi ha ringraziato per il suggerimento. Totalmente disinteressato. A parte il fatto che era evidente che sapeva già chi fosse Rune Strøm.»
«Ma pensano di arrestarlo o cosa?» «Non lo so. All'inizio ho pensato che forse Gunnar e io avevamo sopravvalutato questa pista, ma poi ho chiesto ai miei angeli custodi di portarmi a Grefsen per vedere la casa di Rune Strøm. E non c'era forse una macchina della polizia in borghese parcheggiata davanti a casa sua?» Silenzio. Sentì la voce squillante di qualcuno che stava passando davanti a Richard. Poi di nuovo lui: «È pazzesco, Kristin. Il primo indiziato!» «Per il momento non so niente...» «Credo invece che ne sappiamo abbastanza.» Dalla voce, Kristin intuì che Wolter stava correndo. «Tra cinque minuti sono in redazione. Bisogna fare in fretta.» «Ma non devi salutare i grandi capi?» «Che vadano all'inferno!» Kristin si girò in direzione della macchina: Ådne la stava fissando, mentre Gustav parlava al cellulare. «Richard, cosa stai escogitando?» «Mancano un paio d'ore alla trasmissione. Abbiamo giusto il tempo per mandare una troupe sul posto.» «Qui? A Grefsen?» «No, pensavo in un bar alle Svalbard.» «Richard! Potrei aver preso un granchio!» «Parlerò con Vang.» «E se così compromettessimo l'andamento delle indagini? Forse lo stanno sorvegliando solo perché...» «Rischiamo di perdere il tram, Kristin. Il 'Dagbladet' lo sa. Noi lo sappiamo. Non è più un segreto. Il 'Dagbladet' non vorrà certo tenersi questa notizia tutta per sé. Avviso Vang. Questa sì che è una bomba!» Seduto sul divano, sta pensando pensieri impossibili. Sta meditando sull'essenza del buio. Se il buio è il contrario della luce o se invece è un'eternità in cui la luce non è che un'intrusa. Non può darsi che il tempo, alla fine, corrisponda alla durata di un bagliore improvviso nel buio eterno? Un sole che brucia veloce e che poi si spegne. Una galassia che nasce e poi muore. Il tempo può esistere nel buio eterno? Sono questi i suoi pensieri. È confuso, indeciso. E queste elucubrazioni senza senso gli infettano il cervello. Che cos'è il buio? Che cos'è il tempo? Che cos'è la morte? Domande martellanti che lo stritolano e lo macinano, domande che non hanno
una risposta e che proprio per questo lo assalgono. Shere Khan miagola piano, talmente piano che non può che essere un'illusione. Quel suono lo riporta alla realtà. Sbatte le palpebre. Il salotto è immerso nella penombra. Il sole della sera tramontando indora le pareti. Fuori, attraverso le persiane, intravede una coppia di innamorati che si incammina sul sentiero che porta al laghetto. Non sa cosa farsene di lei. Con le altre è stato incredibilmente semplice, ma con Frøydis è tutto un problema. Lei lo irrita. Lo irrita in maniera terribile. Cosa diavolo ci faceva in quel parco? Perché gli aveva chiesto del cane? E perché lui non si era limitato a stringersi nelle spalle? Avrebbe potuto dirle: «Mi spiace, non l'ho visto» con un sorriso gentile, e così si sarebbe risparmiato tutto questo. Si sarebbe risparmiato di averla giù, in cantina, sdraiata sul materasso come un'ospite indesiderata, si sarebbe risparmiato di sentire le sue battute sarcastiche e piene di veleno, si sarebbe risparmiato di incrociare il suo sguardo e tutto quel dolore senza fine. Fa un fischio per chiamare Shere Khan, ma il gatto non gli obbedisce. Frøydis. Se la vede davanti. I suoi sguardi nel parco. Perché lo avevano toccato così nel profondo? Basta che la uccida, si dice. Ma non si tratta soltanto di questo. Così facendo, trasgredirebbe il rituale. Il ritmo. Non riesce a dare un nome a questa sensazione, alla consapevolezza del fatto che in tutto questo c'è un significato nascosto. «Pussi pussi pussi,» sussurra rivolto a un punto indistinto nella stanza, strofinando suadente il pollice contro l'indice. Shere Khan non si muove. Appoggia la testa contro la parete ed emette dei pesanti sospiri dal naso. Niente è più come prima. Kristin Bye è svanita, sorvegliata giorno e notte. Anche se il problema sarà presto risolto. Grugnisce soddisfatto. Presto. Potrebbe tenersi Frøydis come asso nella manica. Servirsi di lei quando finalmente le guardie del corpo lasceranno libera Kristin. Perlomeno ora ha qualcosa su cui riflettere. «Pussi!» sussurra. Anche Frøydis ha un suo ruolo in tutto questo. Deve soltanto individuarlo, trovarle un senso. Nel frattempo gli conviene stare fermo. Lasciare che le cose seguano il loro corso. Tra non molto accadrà sicuramente qualcosa, a meno che non siano completamente idioti. E non lo sono. Potrebbe mandare un video con Frøydis a Kanal 24 per rammentare a
tutti della propria esistenza. Per ricordargli che è più furbo di loro. Ma ora le cose non stanno più come prima. Da quando Kristin Bye ha smesso di preparare i servizi. In salotto l'aria sa di chiuso e del calore del sole. Con gli occhi serrati, trattiene il respiro per poi espirare lentamente, facendo sì che tutti quei pensieri cupi fuoriescano insieme al suo fiato, cercando di liberarsi delle scorie e di entrare in contatto con le proprie correnti interiori. Apre leggermente gli occhi e sorride. Presto, pensa speranzoso. Presto tutti i fili sciolti verranno annodati. Uno dopo l'altro. E in quel momento capirà cosa fare di Frøydis. Capirà che ruolo ha in tutto questo. «Pussi!» dice con un tono di voce un po' più alto. Si riempie i polmoni di quell'aria dorata. Presto. Finalmente Shere Khan si solleva per arrancare a fatica verso di lui. L'alibi 1 «Adesso si scatenerà l'inferno,» disse Elisabeth Gran. Per qualche oscuro motivo Vang ebbe l'impulso di sorridere: un sorriso dolce, accomodante. La Gran si lasciò cadere pesantemente sulla sedia davanti a lui. Per la seconda volta lo sguardo di Vang cercò le sue unghie smaltate di rosso. Pensò: «Chissà se graffia la schiena del suo uomo quando fanno l'amore.» «Ha telefonato Ådne. Voleva riferire che Kristin Bye ha partecipato a uno strano incontro a casa di Gunnar Borg, sai, quello del 'Dagbladet', al quale era presente anche Oscar Lund.» «Oscar?» La Gran annuì in maniera eloquente. «Ådne ha dovuto aspettare in un'altra stanza, così non sa di che cosa hanno parlato, ma adesso arriva il bello: alla fine dell'incontro ha chiesto di essere accompagnata in macchina a un indirizzo di Grefsen, quello di Strøm, né più né meno, dove Ådne e Patrick hanno notato stupiti una macchina che...» «... era parcheggiata in modo particolarmente discreto, capisco.» «È stato Ådne a riconoscere la macchina. Non crede che Kristin Bye se ne sia accorta, ma la domanda è: com'è arrivata Kristin Bye a Rune Strøm?
C'è una spia tra di noi? Qualcuno ha parlato a Oscar di Strøm?» «Aspetta. Kristin Bye mi ha appena chiamato. Gunnar Borg ha trovato dei vecchi articoli. Probabilmente stanno indagando parallelamente a noi e stanno arrivando alle nostre stesse conclusioni.» «I giornalisti?» chiese la Gran con disprezzo. La sua segretaria bussò alla porta, dopodiché infilò la testa nella stanza. «Il direttore del telegiornale di Kanal 24, Richard Wolter, insiste per parlarti,» sussurrò. Vang alzò le mani a mo' di rifiuto. «Gli ho detto che sei occupato, ma non molla. Dice che è nell'interesse della polizia che tu gli parli. È molto... insistente.» Vang emise un lungo sospiro. «Passamelo.» Fu una conversazione breve. Wolter gli annunciò di essere al corrente del fatto che la polizia aveva un sospetto e che lo avrebbe annunciato nell'edizione delle 22. Sulle prime Vang cercò di negare, ma poi tentò di dissuaderlo, dicendogli che, diffondendo la notizia, Kanal 24 avrebbe compromesso l'andamento delle indagini. A sentire Wolter, il 'Dagbladet' avrebbe comunque pubblicato la notizia il giorno dopo, e Vang avrebbe dovuto ricorrere ad argomentazioni inoppugnabili per convincere Wolter a non andare avanti per la sua strada. Ma Vang non aveva alcuna argomentazione inoppugnabile a cui ricorrere. Si limitò a dire che Strøm era una delle persone che volevano studiare più da vicino. «Per me è sufficiente,» disse Wolter. Vang guardò l'orologio. Mancavano due ore alla trasmissione. «Cosa voleva?» gli domandò la Gran. Le riferì le parole di Wolter. «Quel bastardo,» sibilò la Gran. Vang si mise a tamburellare con le dita sul tavolo. A dire il vero, Kanal 24 non avrebbe compromesso l'andamento delle indagini diffondendo la notizia: Strøm sapeva di essere sospettato. Se avessero reso di dominio pubblico il fatto che la polizia lo stava tenendo sotto controllo, per un po' sarebbe rimasto tranquillo. Ma se davvero Strøm era Aquarius, sarebbero riusciti a catturarlo comunque. Non avrebbe più potuto commettere nessun omicidio senza che venisse trovata almeno una prova: un capello, la fibra di uno dei suoi abiti, una cosa qualsiasi. No, più di tutto Vang temeva la reazione dell'opinione pubblica. La stampa e la gente comune non sarebbero state in grado di valutare la faccenda in maniera razionale, qualora fossero state messe al corrente del
nome dell'indiziato. Avrebbero reclamato una crocifissione. «Vista la situazione, ti consiglio di arrestarlo,» disse la Gran. Vang la guardò di sottecchi. La Gran continuò: «Ti immagini il casino che scoppierà quando la notizia sarà sulla bocca di tutti? Rune Strøm verrà assediato. Linciato. Se lo lasciamo nelle grinfie dei media, per noi rimarrà ben poco. Dovremmo andare a prenderlo stasera e tenerlo lontano da giornali e televisioni.» «Non so,» mormorò Vang. In quell'istante la porta di colpo si spalancò e Oscar Lund si precipitò nella stanza. «Ce l'abbiamo in pugno!» esclamò con il fiato corto mentre sbatteva una mazzetta di copie di vecchi articoli sulla scrivania di Vang. «Ecco il tuo uomo! Rune Strøm!» strombazzò orgoglioso. 2 Rita Quist li stava aspettando in una delle stanze che venivano utilizzate per gli interrogatori. Quando vide Vang ebbe un sussulto. «Lei!» disse soltanto. «Sì, io.» La Quist intrecciò le mani. «Oh no! Si tratta ancora di Rune? Ve l'ho già detto quando quella poliziotta mi ha telefonato. Era insieme a me! Perché dovete tornare a scavare in quella vecchia storia ogni volta che avviene un omicidio?» «È con me che ha parlato,» intervenne Elisabeth Gran. «Il fatto è che l'unico impedimento che la polizia ha per poter procedere all'incriminazione di Rune Strøm è l'alibi che lei gli sta fornendo.» «E meno male!» «Dunque lei afferma che, quando sono stati commessi gli omicidi, Strøm si trovava insieme a lei?» Incerta rispose: «Sì.» «Ma... se neppure noi sappiamo con esattezza quando ogni singolo omicidio è stato commesso...» «Passiamo parecchio tempo insieme...» «Quando è stata uccisa Una Mørch?» Rita Quist sorrise impacciata: «Non so... a luglio... agosto... sì, a cavallo tra luglio e agosto.» «E voi eravate insieme tutti i giorni?» «Sì, praticamente sì.»
Né la Gran né Vang né Antonsen dissero niente. Neanche la Quist disse niente. Alla fine la Gran proseguì: «E in quale data...» «Statemi a sentire!» la interruppe la donna, sporgendosi attraverso il tavolo fin quasi ad alzarsi in piedi, con un impeto tale da far scivolare la sedia all'indietro con un rumore stridente. Dopo aver appoggiato le mani sul tavolo, si protese verso di loro. Il ciondolo della collana fece capolino tra i seni. «Mi sapete dire cos'è una data? Una data non è altro che un numero. Un momento dell'esistenza su cui qualcuno ha arbitrariamente appiccicato un'etichetta con una cifra scritta sopra. Come se il tempo fosse una successione di tappe cronologiche. Il tempo non è qualcosa che scorre. Il tempo è qualcosa che è. Sono soltanto gli orologiai che cercano di catturarlo, di fissarlo.» Gli altri tre si guardarono. La Gran sollevò gli occhi al cielo. Vang notò che Rita Quist non portava l'orologio. Aveva un braccialetto a forma di serpente che le si attorcigliava intorno al polso. «Che giorno è oggi?» le chiese. Le si contrasse un muscolo del viso. «Che importanza ha? Il tempo va concepito in una prospettiva più ampia. Siamo agli inizi del segno della Vergine. È ancora agosto. La fine di agosto. Ma la cosa non ha davvero nessuna importanza.» Per la prima volta Antonsen prese la parola: «Lei si trovava con Rune Strøm quando le tre donne sono state uccise?» «Sì. Be', per due di loro avete l'ora dell'omicidio, giusto? E quindi so che in quel momento io e Rune eravamo insieme. E di quella povera ragazza che non è mai stata ritrovata non so quasi nulla. Ma in quel periodo ero con Rune praticamente ogni giorno. Quando successero tutte quelle cose terribili. Aveva appena perso sua madre. Era fuori di sé, capite?» «Dove eravate?» «In montagna. Insieme. Io e Rune eravamo in montagna.» «Quale?» «Quale? Che razza di domanda è mai questa? Che importanza ha? Eravamo insieme. Nella sua baita. A Valdres.» Assunse un'espressione sognante. «Ce ne stavamo seduti al buio davanti alla baita a guardare il cielo. Le stelle si vedono molto più nitidamente in montagna, lo sapevate?» «Sì, sì, ma...» «La vista non è disturbata dalle luci e dall'inquinamento della città. Così si vedono molte più stelle...»
«Senta...» «... sì, si percepisce la profondità dell'universo! È fantastico. Osservavamo lo spazio celeste ed era come guardare l'eternità. L'infinito.» «Rune possiede una baita?» «Che cosa cambia se la baita era di Rune o se gliel'avevano prestata? Non cambia niente. Credo che gliel'avessero prestata. Bastano delle parole scritte su un foglio per stabilire a chi appartiene una cosa? Qualcuno può forse possedere un bosco, una montagna? Possedere veramente, intendo? Siamo forse obbligati a vivere tra le mura di una casa? Dovreste leggere gli scritti del capo pellerossa Geronimo!» «Esattamente quando...» esordì Gran. «Quando quando quando! Sforzatevi di capire... Le date, le ore, sono i carcerieri dell'uomo moderno. Io mi sono liberata di queste zavorre. Sono concetti privi di significato. Io mi ricordo solo delle cose importanti! Mi ricordo del profumo del caminetto e della sensazione che mi trasmetteva il pavimento di legno sotto i piedi. Chiedetemi delle cose importanti di cui mi ricordo! Mi ricordo l'aspetto della baita, una casetta di legno a due piani e con il tetto spiovente protetta da una parete rocciosa. Vicino a una sorgente. Abbiamo fatto il bagno. L'acqua era gelida, stupenda. L'acqua di montagna ci purifica da tutte le scorie che abbiamo dentro. Dovreste provare.» Vang si schiarì energicamente la voce. «Può affermare con sicurezza che si trattava del weekend in cui Anita Fjordvik è stata uccisa?» Di colpo, sembrò che la Quist si fosse ricordata del motivo per cui si trovava lì. «Sì!» «Come fa a esserne certa?» «È davvero così difficile convincervi del fatto che Rune non torcerebbe mai un capello a nessuno? Rune ha trovato la pace. È in sintonia con l'universo.» «Ma ha capito la mia domanda?» «Io so che quel weekend eravamo insieme, va bene? Ricordo di aver sentito dell'omicidio la settimana dopo.» «Di Anita Fjordvik?» «Sì, o perlomeno si trattava di una donna. Una cosa terribile! Uccisa a sangue freddo. E la polizia sospetta di Rune! Di Rune, così buono e dolce!» Antonsen stava giocherellando con una biro. «Mi dica, dove ha conosciuto Rune?»
«Un sacco di tempo fa. Facevamo parte della stessa compagnia. Ero amica della sua ragazza.» Vang e la Gran alzarono gli occhi di scatto. «Intende dire Linda?» chiese Vang. «Sì? Linda Gabrielsen.» «Lei era amica di Linda Gabrielsen?» Rita Quist piegò la testa di lato. Non capiva se aveva rivelato qualcosa che invece avrebbe dovuto tenersi per sé. «Lei era amica di Linda?» «Sì...» «E aveva una relazione con Rune Strøm a quei tempi?» La donna si batté la mano sul petto. «Ma è impazzito? Rune e io? Mentre Linda era viva? Ma siete completamente impazziti?» 3 Håvard Alm era in corridoio che li aspettava quando Vang, la Gran e Antonsen uscirono dalla stanza dove si era svolto l'interrogatorio. «Com'è andata?» domandò Alm. Vang lo guardò con un'espressione sconfortata ed esclamò: «Secondo me non ha tutte le rotelle a posto!» La Gran disse: «Concordo!» Alm porse a Vang un foglio. «Pensavo volessi dargli un'occhiata. È arrivato un paio d'ore fa. Una denuncia di scomparsa.» «Un'altra donna?» «Un'altra donna. Frøydis Vik. Più vecchia delle altre. Quarantadue. Convive con,» si schiarì la voce, «con una donna, un medico. Due figli maschi da un precedente matrimonio. AD alla Pen&Paint.» «Cos'hai detto?» «Art director. In un'agenzia pubblicitaria.» «Da quanto tempo è scomparsa?» «Qualche giorno. Anche se non possiamo essere più precisi, dal momento che la convivente era fuori città.» «Quarantadue anni sono tanti. Finora ha sempre scelto donne giovani.» «Ho pensato anch'io la stessa cosa, ma la convivente aveva con sé una sua foto...» Alm gli porse una fotografia a colori di medio formato. Frøydis Vik era una bionda molto bella. Vang non sapeva quando quell'immagine fosse
stata scattata, ma avrebbe potuto senza dubbio ritrarre una donna sulla trentina. «Si mantiene bene,» osservò Alm con uno sguardo di apprezzamento. Sospirò: «Mia moglie ne ha quarantaquattro ma ne dimostra dieci di più.» Vang gli chiese: «Cosa ne pensi?» «Naturalmente potrebbe anche essere a Copenaghen a spassarsela.» «È quello che dici ogni volta che viene denunciata la scomparsa di una bella donna.» «Ma questa volta sono convinto che ci sia lo zampino di Aquarius.» «Sappiamo niente a proposito del luogo della scomparsa?» «Niente.» «Si è portata via qualcosa da casa?» «A quanto pare no. Ma con lei è sparito anche il cane. Un paio dei nostri uomini sono andati a trovare la sua convivente: stanno perlustrando l'appartamento.» «Quindi non ci resta che concludere che si trova nelle grinfie di Aquarius.» «Non vedo altre possibilità.» «E se Rune Strøm fosse veramente Aquarius...» «... è ipotizzabile che si trovi a casa sua,» concluse Alm. «In pericolo di vita,» aggiunse Antonsen, che aveva assistito alla conversazione. Vang esclamò: «OK, mi arrendo. Lo arrestiamo. Stasera.» Guardò l'orologio. «Manca un'ora e mezzo all'edizione delle 22 di '24 timer!'» «Dobbiamo avvertire i nostri uomini,» commentò Antonsen. «Va arrestato subito, prima che la faccenda si trasformi in una tragedia con tanto di ostaggio.» «Benissimo. Pensa tu ad avvertirli!» «Sarà fatto!» «Entriamo in azione alle 22 in punto! Prima che riesca a vedere '24 timer!'» Tutti guardarono l'orologio. «Go go go!» gridò Antonsen con un sorriso sulle labbra. Frøydis La sua è una condanna a morte. Ne è certa: se lo sente nello stomaco come un grumo di piombo incandescente. Morirà. Per tutto il tempo ha
cercato di illudersi, ma la speranza non è altro che una patetica menzogna. Nient'altro. Frøydis, si dice, sei condannata a morire né più né meno che un negro nel braccio della morte di un carcere americano di qualche Stato del Sud. La casa è avviluppata nel silenzio. È passato parecchio tempo dall'ultima volta in cui ha sentito i suoi passi attutiti dalle pantofole muoversi sul pavimento. Dai passi e dalla scala che scricchiola tutte le volte che lui le porta da mangiare, si è resa conto di trovarsi in una cantina. Di tanto in tanto la scala cigola senza che lui entri nella stanza, e Frøydis si era chiesta se per caso non la potesse vedere attraverso lo specchio. La cosa non la sorprenderebbe affatto. Non è mai stato molesto né indiscreto. All'inizio aveva temuto che la violentasse, ma la violenza carnale non è il suo genere. Non in maniera dichiarata. Piuttosto, preferisce rimanere dall'altra parte dello specchio a guardarti. A fissarti. A osservarti. A farsi i propri comodi. Ha dei problemi. È evidente. Complimenti, Frøydis, avresti dovuto fare la psicologa! Che osservatrice acuta! Oddio, non intendevo dire questo, intendevo dire che ha dei problemi con le donne. Ecco perché le rapisce. Ci. E le uccide. Ci. Si chiede dove trascorra tutte le ore in cui non è a casa. Ha un lavoro? Ha una seconda vita? Quando lo scopriranno - perché prima o poi succederà - i giornalisti scriveranno dello stupore degli amici e dei vicini nel sapere che è lui - tra tutte le persone possibili! - l'autore degli omicidi. Va sempre a finire così. Pensa: «Posso contare solo su me stessa.» Nessuno sa dove si trova. Nessuno sa chi è lui. Ha soltanto se stessa. Niente male! Incatenata a una parete. Ma deve fare del proprio meglio per uscire da questa situazione. Qualsiasi cosa. «L'alternativa,» pensa, «è morire senza neanche averci provato.» In un modo o nell'altro deve riuscire a essere più scaltra di lui. Sferrargli un attacco a sorpresa a livello psicologico. Procurargli un knock-out psichico. Deve colpirlo su un nervo scoperto. Con un po' di fortuna riuscirà ad annientarlo mentalmente. Deve lavorarselo. Penetrare nei suoi meccanismi. Il rischio è quello di venire uccisa. Metterà a repentaglio quel fragile equilibrio che si è instaurato tra di loro. Anche il minimo passo falso basterà
a provocarlo. «E allora?» pensa. «Tanto mi ucciderà comunque, prima o poi. Non ho niente da perdere.» In diretta 1 «Perfetto! Siamo in collegamento con lo studio!» Il tecnico tamburellò con i palmi della mano sulla consolle. Wolter controllò l'orologio. «Bene!» Si girò verso Kristin e il giornalista di cronaca nera Caspar Vik. Erano seduti all'interno di una delle unità mobili di Kanal 24, un furgoncino rosso di marca americana con la parabola satellitare posizionata sul tetto e puntata verso il cielo. Sostegni massicci la sorreggevano da entrambi i lati. A Kristin faceva venire in mente un'arma laser ad alta tecnologia. Avevano parcheggiato all'incrocio davanti alla casa di Rune Strøm. Erano in pochi: due tecnici e un cameraman, oltre a Richard, Caspar e Kristin. «Che cosa ne pensa Vang?» chiese Caspar. «Non è entusiasta,» rispose Wolter. «Non si è nemmeno dilungato sul rischio di mettere a repentaglio le indagini. Mi è sembrato che avesse solo bisogno di più tempo per chiarirsi le idee. Ma questo,» e qui alzò gli occhi al cielo, «è un problema suo.» «In teoria Rune Strøm potrebbe anche non essere il nostro uomo,» commentò Kristin. «Certo. Ecco perché...» Richard indicò Caspar, «... è fondamentale che tu non smetta mai di ribadire che si tratta solo di un sospetto. Non dell'assassino. E non pronunciare mai il suo nome! Ho detto al cameraman di non mostrare mai la casa. A noi interessano il vicinato, il quartiere.» Cambiò tono di voce. «Qui, nell'idilliaca Grefsen, vive l'uomo che la polizia intende interrogare in merito al caso Aquarius.» «Non è esagerato fare una diretta quando abbiamo in mano così pochi elementi?» domandò Caspar. «Esagerato?» ripeté Wolter irritato. «La CNN ha allestito una diretta per documentare il momento in cui l'FBI ha bussato alla porta della guardia giurata che secondo loro aveva piazzato la bomba nel parcheggio del parco olimpico.» «E se fosse davanti alla televisione?» «È un problema della polizia.»
«Per favore, Richard...» cominciò Kristin. Wolter pose fine a quello scambio di idee con un movimento della mano. «Non c'è più tempo per discutere! Questa è una mia decisione e me ne assumo la responsabilità. Non diciamo il suo nome! Non mostriamo le immagini della casa! Constatiamo semplicemente che,» e qui cambiò tono di voce, «nell'ameno quartiere di Grefsen, a Oslo, abita un uomo che secondo la polizia potrebbe forse essere Aquarius e via dicendo. Caspar, tu e Arve avete ripassato le domande?» «Sì. Ma non ho neanche uno straccio di risposta!» «Stammi a sentire: il punto non è quello che diciamo, ma il fatto che siamo i primi a dirlo. Domani la cosa esploderà su tutti i giornali. Noi non diremo niente di più di quello che sappiamo. Un uomo che già in precedenza è stato nel mirino della polizia perché sospettato di aver ucciso la fidanzata nella vasca da bagno ora si trova di nuovo nell'elenco degli indiziati. Niente di più, niente di meno. La diretta fa solo parte dello spettacolo.» «E se quel bastardo uscisse di casa di corsa armato?» Evidentemente quel pensiero non aveva neppure sfiorato Wolter, che dopo aver lanciato un'occhiata all'orologio guardò Caspar dritto negli occhi. «In quel caso, Caspar, entri in scena tu e ti inventi qualcosa da dire!» «E via dicendo» commentò Caspar. Dopo che ebbero stabilito il collegamento audio con lo studio, Caspar uscì dal furgoncino e si andò a posizionare davanti alla telecamera. Kristin e Richard rimasero seduti dentro. Su tre piccoli monitor, Kristin vide un'inquadratura di Caspar: uno dei tecnici gli stava porgendo un microfono senza fili e un auricolare perché seguisse le indicazioni dell'assistente di studio e del regista che si trovavano in studio. Caspar accese il microfono e dichiarò di essere pronto. Il tecnico che era seduto davanti a Kristin regolò il livello del suono. Attraverso un altoparlante si sentì la voce di Arve Arnesen, che in studio si stava esercitando a leggere i titoli del giorno. «Mancano sette minuti,» disse Richard. Si alzò in piedi, rimanendo curvo, e dopo essersi avvicinato alla consolle premette un pulsante sotto uno dei microfoni fissi. «Pronto, tutti quanti, sono Richard. Mi sentite?» Arve, Caspar e l'assistente di studio risposero in coro di sì. Sui monitor videro che il cameraman annuiva con la telecamera in spalla.
«Vi ricordo rapidamente l'ordine del giorno: nessun nome e nessuna immagine della casa. Arve, le domande devono essere il più possibile generali, dato che non sappiamo quasi niente. Non mettere in imbarazzo Caspar. Caspar, se ti fanno una domanda a cui non sai rispondere, dì onestamente che non sai cosa rispondere. Non andarti a invischiare in discorsi da cui poi non sei più in grado di uscire. Sono le dieci meno cinque. In bocca al lupo a tutti!» 2 Quando alla fine arrivò la polizia, tutto avvenne molto rapidamente. All'improvviso, alle dieci meno tre, due volanti si bloccarono accanto al furgoncino. Contemporaneamente due auto in borghese sbarrarono le vie d'uscita della casa. «Merda,» sbottò Richard, «non avranno mica intenzione di sabotare la diretta?» Alle dieci meno due minuti una Opel oltrepassò il furgoncino a gran velocità. Per un attimo Kristin riuscì a intravedere Vang, Antonsen e altri due che non conosceva. Le due volanti parcheggiate accanto al furgoncino avanzarono lentamente lungo la strada. Wolter agguantò il microfono. «Sono Richard, È entrata in azione la polizia. Non si capisce se contro la casa o contro di noi. Che tutto proceda secondo i piani. Se hanno intenzione di fermarci, avranno il piacere di farlo in diretta!» Alle dieci in punto, mentre Kristin sentiva la sigla di «24 timer!», le auto in borghese accelerarono in direzione della casa. Nel frattempo arrivarono altre quattro volanti, il mezzo operativo della squadra di pronto intervento e un furgoncino con i lampeggianti accesi. Richard si chinò sul microfono. «Dannazione, parlo a Caspar e al cameraman! Hanno deciso di passare all'attacco. Stategli il più addosso possibile! Ritiro l'ordine di non mostrare la casa o la persona sospetta! Riprendete tutto quello che potete! Hanno intenzione di arrestarlo!» Il cameraman annuì e Caspar alzò il pollice. Entrambi corsero verso la casa. Attraverso l'altoparlante sentirono Arve introdurre la notizia principale di quell'edizione: «La polizia ha un sospetto a proposito dell'autore degli omicidi: '24 timer!' sta seguendo le operazioni in diretta!» Le auto inchiodarono davanti alla casa di Strøm. La voce di Arve era pacata: «Diamo inizio a questa edizione del tele-
giornale annunciando un recente sviluppo nell'ambito degli assassini che hanno scosso la Norvegia nel corso di queste ultime settimane. Le informazioni in possesso di '24 timer!' indicano che per la prima volta dall'inizio delle indagini la polizia ha un sospetto concreto. Ci colleghiamo ora in diretta con il nostro reporter Caspar Vik. Caspar?» Caspar guardò in camera. «Grazie, Arve. In questo istante mi trovo nel tranquillo quartiere di Grefsen, a Oslo, dove abita l'indiziato. Pochi minuti fa il caso ha subito una svolta drammatica oltre che inattesa. Proprio mentre stavamo per andare in onda, la polizia ha dato il via a un'operazione di accerchiamento dell'abitazione dell'indiziato. Non sappiamo cosa stia realmente accadendo alle mie spalle, ma da quanto possiamo vedere, la squadra di pronto intervento della questura di Oslo ha circondato la casa e si sta apprestando a entrare.» «Caspar, la polizia teme che l'uomo sia armato?» «Non lo so, dato che, come vi stavo dicendo, l'intervento della polizia ci ha colto assolutamente di sorpresa, ma credo che non vogliano correre rischi. In questo momento gli uomini della squadra di pronto intervento di cui vi parlavo prima, detta anche Delta, la cosiddetta Unità Antiterrorismo, si trovano all'interno della casa, armati e con tanto di caschi e giubbotti antiproiettile. A te Arve.» «Com'è la situazione adesso, Caspar?» «Maledizione, è nervosissimo,» mormorò Richard a Kristin. «E vorrei vedere,» pensò lei. «Arve, come vi dicevo, sì, questo intervento della polizia, dicevo, è giunto del tutto inaspettato. Restiamo quindi in attesa di sapere se il tentativo di arresto andrà a buon fine o se invece l'accerchiamento si trasformerà in un assedio. La tensione è alta, anche perché esiste la possibilità che la polizia trovi all'interno dell'abitazione delle prove schiaccianti.» «Cosa sappiamo dell'indiziato, Caspar?» «Vorrei innanzitutto sottolineare il fatto che si tratta, appunto, solo di un indiziato. Non siamo a conoscenza degli elementi che hanno condotto la polizia a questa pista. Vi posso soltanto dire che nel 1976 l'uomo venne arrestato in regime di custodia cautelare in quanto sospettato di essere l'assassino della fidanzata. Proprio come l'ultima vittima di Aquarius, anche lei venne trovata annegata nella vasca da bagno. L'uomo fu però rilasciato e non fu mai convocato a giudizio. Siamo perciò portati a supporre che all'origine dell'intervento della polizia ci sia l'analogia tra queste due morti. Ma immagino che gli inquirenti siano in possesso anche di altre informa-
zioni in grado di giustificare un intervento di questa portata.» Mentre Caspar parlava, sia lui che il cameraman iniziarono ad avvicinarsi alla recinzione. Dalla casa non proveniva alcun suono. Un poliziotto li fece allontanare. All'improvviso dall'interno dell'abitazione si udirono delle urla. «Arve, sembra che la polizia abbia arrestato qualcuno. Ho appena visto un assembramento all'entrata della casa e qui, se la telecamera riesce a riprendere la scena tra gli alberi, vediamo che la polizia ha effettivamente arrestato il sospettato. Il che significa che il tutto è avvenuto in maniera indolore.» Su un monitor, Kristin vide dei poliziotti in assetto di guerra condurre Rune Strøm fuori dalla casa. Una volta ai piedi della scala, lo fecero sdraiare sulla ghiaia. «Mio Dio,» pensò Kristin, «perché me ne sto seduta qui dentro a fissare un monitor?» Si precipitò fuori dal furgoncino e si mise a correre. Un poliziotto stava per bloccarla, ma quando vide chi era la lasciò passare. Kristin si fermò alle spalle del cameraman e di Caspar. «... per ora posso soltanto ipotizzare,» continuò Caspar, «che la scientifica setaccerà la casa alla ricerca di indizi che possano dimostrare il suo coinvolgimento negli omicidi. Qualora non ne trovassero - nel caso in cui, per esempio, il probabile assassino si fosse servito di un'altra abitazione per tenere imprigionate le donne rapite - bisognerà valutare se gli indizi attualmente in possesso della polizia saranno sufficienti in tribunale. Ma ancora una volta mi preme sottolineare che ci troviamo in una fase preliminare delle indagini e che un'eventuale dichiarazione di colpevolezza spetta alla magistratura.» Sullo sfondo si vide la polizia che, dopo aver perquisito Strøm, lo fece rialzare. Due poliziotti corpulenti lo presero in consegna. Mentre uscivano dal cancello, Strøm si girò verso la telecamera. Con lo sguardo cercò Kristin. Per un attimo i suoi occhi rimasero fissi su di lei. Uno sguardo indefinibile. Kristin non provò nulla. Assolutamente nulla. Imperturbabile, Strøm si voltò per poi allontanarsi. Un poliziotto, proteggendogli la testa, lo fece salire sulla volante e lo spinse sul sedile posteriore. Prove
1 Non trovarono Frøydis. Mentre Geir Ryvik e gli altri della scientifica erano impegnati a controllare la casa, Vang e Antonsen passarono in rassegna ogni stanza. Sembravano due novelli papà in un reparto maternità. Entrambi indossavano guanti, cuffie e delle fodere di plastica sopra le scarpe. Ryvik aveva insistito perché lo facessero: la sua espressione favorita era «Un luogo del delitto contaminato». Niente in quella casa faceva pensare che appartenesse a un uomo adulto che viveva da solo. Alle pareti erano appesi arazzi tessuti a mano e riproduzioni di dipinti sacri. Sui divani del salotto c'erano cumuli e cumuli di cuscini ricamati da Ragnhild Strøm (Vang provò a immaginarsela, raggomitolata su una sedia a dondolo e con il volto scavato.) Le lampade a muro avevano dei paralumi rosa. Tutti i tavoli erano ricoperti con tovaglie fatte all'uncinetto. La moquette era spessa (e molto polverosa). In cucina era appeso un calendario della casa editrice protestante Luther. Rune Strøm non si era nemmeno preso la briga di voltare pagina dopo luglio. Accanto al 23 luglio c'era uno scarabocchio. «Mamma ospedale», c'era scritto. Due giorni dopo aveva disegnato una croce. «Quando è scomparsa Una Mørch?» chiese Antonsen. Vang non rispose, non ce n'era bisogno. «Non ha cambiato niente dalla morte della madre,» commentò Vang. «Non sarebbe stato normale? Fare qualche cambiamento?» Antonsen si guardò attorno. «Inquietante,» disse, rivolto più che altro a se stesso. Soltanto la cameretta - Vang pensò alla stanza in questi termini, anche se Rune Strøm aveva ormai superato i quarant'anni - testimoniava la sua presenza nella casa. Il letto era piazzato al centro della stanza. King size. Copriletto nero. Tappezzeria e tende scure. Pavimento di pino. Diedero un'occhiata al comodino e dentro gli armadi. Il cassetto del comodino era chiuso a chiave. Antonsen chiamò uno dei ragazzi della scientifica, che nel giro di trenta secondi lo aprì. Traboccava di riviste porno e di videocassette. Vang diede uno sguardo rapido: bondage e SM. «Perlomeno al ragazzo piace leggere,» disse Antonsen bruscamente.
«Gusti raffinati!» «Credo che più che altro sia interessato alle foto. Preferisce i fatti concreti,» rincarò Vang. «E le panoramiche.» I due uomini ridacchiarono senza entusiasmo, come per scusarsi. Vang prese una videocassetta. Samantha's Delight. Sulla copertina c'era la foto di una donna. Era completamente nuda. In mano aveva una frusta. Gli occhi erano coperti da una maschera da gatto. Sotto di lei, a pancia in giù, giaceva un uomo incatenato alla testata di un letto. La donna sorrideva misteriosa, l'uomo faceva delle smorfie. Se i segni rossi e gonfi che aveva sui glutei erano veri, Vang poteva tranquillamente intuirne il motivo. «Non è qui,» disse Vang mentre risalivano le scale della cantina. «Quantomeno non viva.» «Dove può averla nascosta?» «Non siamo ancora certi che sia stato lui a rapirla.» «Comunque, da qualche parte deve pur esserci una cella. Una prigione. Evidentemente non qui.» «Abbiamo già controllato da Rita Quist?» «O nella baita di cui ci ha parlato.» In cucina, gli uomini di Ryvik stavano smistando e travasando il contenuto dei bidoni della spazzatura in una scatola di carta foderata di plastica. «Buon divertimento, ragazzi!» disse Antonsen uscendo. Nessuno rise. Solo Vang, nell'auto di ritorno alla questura, ridacchiò. 2 «Un arresto condotto in modo discreto e riservato,» constatò Karianne Li acida. Vang allargò le braccia per manifestare la propria costernazione. «Non li abbiamo certo invitati noi. La troupe di Kanal 24 era già sul posto.» «Per puro caso, naturalmente.» «Senta, sia Kanal 24 che il 'Dagbladet' erano a conoscenza della pista relativa a Strøm. E hanno tratto le loro conclusioni. Non siamo stati noi a informarli. Cosa ci guadagniamo ad avere la televisione in mezzo ai piedi?» Karianne Li annuì a occhi chiusi, come a significare che in questo gioco non ci sarebbe stato nessun vincitore. «Comunque sia, il mio cliente è stato dipinto in maniera inequivocabile come l'indiziato principale. E voi sapete
quanto me che agli occhi dell'opinione pubblica essere indiziato equivale a essere colpevole e condannato. Domani, quando usciranno i giornali, rivolteranno la sua vita come un guanto, senza nessuno scrupolo, e sbatteranno in prima pagina tutta quella spazzatura.» Sospirò. «'24 timer!' lo ha ricoperto di fango e ora tutti si sentiranno liberi di dargli addosso e di calunniarlo.» Chiuse di nuovo gli occhi. «Non le è mai passato per la mente che potrebbe anche essere colpevole?» le chiese Antonsen. Karianne Li aprì gli occhi lentamente, come dopo un lungo sonno. Guardò Antonsen senza rispondere. Rune Strøm era seduto immobile. Non si girò neanche quando loro entrarono. Aveva lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete. Vang lo seguì e vide una macchiolina minuscola. «Il suo rifugio mentale,» pensò. Si trovavano nell'ufficio di Vang. Karianne Li si accomodò accanto al suo cliente. Vang, Antonsen e la Gran rimasero in piedi dall'altro lato del tavolo. «Dov'è?» domandò Vang secco. La mascella di Strøm si contrasse e si rilassò, si contrasse e si rilassò. «Dov'è chi?» chiese Karianne Li. «Frøydis Vik,» rispose la Gran. «È scomparsa.» «Intende dire che è scomparso qualcuno? Nessuno mi ha informato...» «Ce l'hanno comunicato stasera,» la interruppe Vang. «Rune?» La mascella di Strøm si contrasse e si rilassò... Vang disse: «Il gioco è finito. Te ne rendi conto anche tu. Faresti meglio ad alleggerirti la coscienza, no? Dove si trova? Dov'è la sua cella?» Strøm non aveva mai smesso di fissare la macchiolina sulla parete. «Non ti servirà a niente fingere di esser pazzo,» intervenne Antonsen. «Il mio cliente...» esordì la Li. Chinatosi in avanti, Rune Strøm sbatté con violenza la fronte sul tavolo. «Stai cercando di dirci qualcosa?» gli domandò Antonsen. La Gran esclamò: «Lo fermi prima che si faccia del male!» Karianne Li cercò di afferrare Strøm per le spalle, ma lui la respinse bruscamente. «Ora basta!» disse Vang secco. «Mi auguro che non abbiate intenzione di continuare.» disse la Li. Dal momento che nessuno rispose, proseguì: «Lo vedete anche voi in quale
stato si trova il mio cliente! Dobbiamo rimandare l'interrogatorio. Dovrà prima essere visitato da un medico.» «Sta soltanto recitando,» disse Antonsen. «Frøydis! Frøydis Vik!» gridò Vang insistente. «Dove si trova, Rune? Dove l'hai nascosta? Aiutaci a trovarla! Dov'è?» Strøm si irrigidì. Distolse lo sguardo dalla parete e lo spostò su Vang. È pazzo! Strøm si mise a gridare. 3 Un'ora dopo l'inizio dell'interrogatorio Vang ricevette una telefonata. Geir Ryvik era lì fuori che lo aspettava con in mano un sacchetto di plastica trasparente. Vang non riusciva a capire cosa contenesse. «Un paio di slip,» spiegò Ryvik. «Da donna. Molto sexy. E un paio di collant.» «Dove li avete trovati?» chiese Vang guardando la busta in controluce. «Non ci crederai mai. In una confezione del latte piena di avanzi di cibo. Nel cassonetto dell'immondizia sulla strada.» «Una mossa ingenua.» «Non saprei... La confezione del latte si trovava in un sacchetto di plastica chiuso con un nodo. Pieno di una salsa andata a male e di patate ammuffite.» «E poi ti domandi perché noialtri preferiamo non lavorare sul luogo del delitto.» Ryvik sorrise. «Credi sia possibile risalire alla persona che ha indossato questi indumenti?» «Ci stiamo lavorando. Abbiamo trovato alcuni peli negli slip.» Indicò la porta con la testa. «Sviluppi?» Vang scosse la testa. «Spremilo!» Vang fece una smorfia. «Vedo che non hai mai incontrato Karianne Li.» Fu la parodia di un interrogatorio. Nel corso della serata tentarono di proseguire, ma Strøm sembrava sempre più apatico e assente. Era impossibile capire se stesse recitando. Se ne stava seduto in silenzio, con lo sguardo fisso sullo stesso punto. Solo di
tanto in tanto si metteva a urlare con voce stridula «Non mi ricordo!» o «Non lo so!» Karianne Li continuò a insistere perché interrompessero l'interrogatorio e chiamassero un medico. «È evidente che ha bisogno di un supporto psichiatrico!» Ma Vang si rifiutò di cedere. Era passata da un pezzo la mezzanotte quando Geir Ryvik bussò con forza alla porta. Dopo averla aperta, fece un segno ai suoi colleghi. «È lui!» disse senza fiato mentre si richiudevano la porta alle spalle. La voce gli tremava. «Che cos'hai trovato?» chiese Vang. «I peli negli slip combaciano!» «Combaciano?» ripeté Vang, che non osava pensare che forse erano veramente arrivati a una svolta. «Gli slip appartenevano a Marianne!» Si scambiarono un'occhiata. «Oddio,» sussurrò Elisabeth Gran sollevando i pugni per aria. Vang ebbe come la sensazione che qualcuno gli avesse tolto un tappo dall'addome, facendo sì che tutte le sue viscere, tutti i suoi organi interni e tutti i suoi pensieri si spargessero per terra. «Combacia?» ripeté. «Combacia!» Ryvik sorrise, assunse di nuovo un'espressione seria ma poi tornò a sorridere. «È lui, Runar! Quel bastardo! Abbiamo preso Aquarius! Abbiamo preso quel bastardo!» La sua voce esprimeva sentimenti contrastanti. «È lui, dannazione, Runar!» Vang pensò: «Di solito mi chiama Vang.» Dodici settimane 1 La reazione dei media fu incredibile. Tutti i giornali e le televisioni più importanti inviarono le loro troupe davanti al tribunale di Oslo. Una ventina di giornalisti e di cameraman di emittenti straniere si trovavano già sul posto. Era un continuo flash di macchine fotografiche. Uno stormo di microfoni si levava tutte le volte che una porta si apriva o un poliziotto passava in mezzo ai giornalisti ripetendo come un mantra «Nessun commento». I giornalisti urlarono indignati quando vennero a sapere che il pubblico ministero aveva ottenuto che l'udienza si svolgesse a porte chiuse. In mancanza di meglio, cominciarono a intervistarsi tra di loro.
Mentre la stampa attendeva impaziente il verdetto, Kristin ricevette felicitazioni e pacche sulle spalle da parte dei suoi colleghi. Venne intervistata dalle televisioni americane, danesi, svedesi e tedesche. Avvocati in abiti firmati e tailleur su misura andavano e venivano dal tribunale. Un avvocato di grido se ne uscì con un ironico «Sembra di essere a un pranzo di gala delle iene» e venne immediatamente ricoperto di fischi. Kristin cercò inutilmente tracce di Gunnar sui giornali. Nessuno degli articoli pubblicati dal «Dagbladet» sul caso recava la sua firma, e quando chiese a una delle inviate più giovani del giornale se sapeva dove fosse Gunnar, questa le rispose incurante con un'alzata di spalle. Strøm venne condannato a dodici settimane di detenzione preventiva con il divieto di ricevere lettere e visite. In seguito all'emissione del verdetto Karianne Li improvvisò una conferenza stampa sulla scala del tribunale: prima in norvegese, poi in un inglese impeccabile con tanto di accento americano. Bollò la decisione di incarcerare il suo cliente come un «processo alle streghe». La scelta delle parole non fu casuale. Le prove che erano state trovate e il test del DNA con cui avevano incastrato Rune Strøm, sottolineò, erano capi d'accusa approssimativi e grossolani, paragonabili a quelli con cui venivano mandate al rogo le streghe nel Medioevo. «Ci sono due elementi che giocano a sfavore del mio cliente,» esclamò rivolgendosi al drappello dei giornalisti. «Una è che vent'anni fa la sua fidanzata morì annegata, e l'altra è che possiede una personalità che combacia con il fantomatico profilo psicologico dell'assassino stilato dai media.» Guardò i presenti in modo tale che ognuno di loro ebbe come l'impressione che si stesse rivolgendo soltanto a lui. «E gli slip?» chiese un giornalista. «Per cortesia! Sono stati rinvenuti nel cassonetto dell'immondizia davanti alla casa!» rispose accalorata. «E con ciò?» «Non significa che sia stato lui a metterceli!» Stando alla maggior parte dei giornalisti, Karianne Li stava svolgendo un ottimo lavoro. Persino Kristin ne era rimasta impressionata. Pur non essendo riuscita a smontare del tutto nessuna delle prove contro Strøm, aveva avuto l'abilità di ridimensionarne la portata. Dopo la conferenza stampa, i colleghi di Kristin si misero in coda per chiederle cosa ne pensasse. Kristin rispose che non era compito suo giudicare, ma che sperava che quell'incubo fosse finalmente finito. Aggiunse in-
fine che rispettava le critiche della Li, dal momento che faceva parte dei doveri di un avvocato difensore trovare tutte le attenuanti possibili in favore del proprio assistito. 2 Una volante della polizia con i lampeggianti accesi condusse Kristin in questura. Due poliziotti l'accompagnarono lungo i corridoi fino all'ascensore che li avrebbe condotti da Vang. Andandole incontro, questi le fece un ampio sorriso. Era irriconoscibile. Stava quasi per abbracciarla. «Allora è fatta,» le disse. Si strinsero la mano: Vang sembrava non voler mollare la presa. «Ha confessato?» Vang scosse la testa. «Non ci ha detto una sola parola. Si rifiuta di fornirci alcuna spiegazione, ma quando è solo con il suo avvocato parla in continuazione.» «Adesso cosa succederà? A me, ad Ådne e agli Hardy Boys? «È per questo che ti ho chiesto di venire. Per sapere cosa preferisci fare.» «Preferisco?» «Se preferisci continuare a disporre delle guardie del corpo. Se ti senti in pericolo e desideri la protezione della polizia fino a quando Strøm non verrà formalmente condannato, possiamo esaudire la tua richiesta senza alcun problema. Anche se i ragazzi hanno come l'impressione che tu non sia particolarmente entusiasta di averli in casa.» «Quando sarà istruito il processo contro Strøm?» «Be', vanno prima portate a termine tutte le indagini preliminari. Tra nove mesi, forse. Un anno. Non saprei. Non è il mio lavoro.» «E mi domandi se voglio avere due poliziotti tra i piedi giorno e notte più o meno per un altro anno?» «Visto come stanno le cose, non vedo la necessità di una sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro» «Sono perfettamente d'accordo con te.» Vang annuì soddisfatto. «Per stare più tranquilli, però, continueremo a tenere gli occhi bene aperti. Gli squilibrati a piede libero neanche si contano. Ovviamente terrai con te l'allarme di sicurezza. E noi manderemo una pattuglia a sorvegliare il tuo appartamento a intervalli regolari.» «Avrei una domanda.»
«Spara!» «Non avete trovato la donna scomparsa?» Vang scosse la testa. «Non a casa di Strøm. Stiamo verificando l'eventuale esistenza di altre proprietà. Ma non siamo neppure certi che tra le due cose ci sia un nesso. Potrebbe essere in viaggio di piacere a Copenaghen o trovarsi nei boschi attorno a Oslo con una gamba rotta.» 3 Wolter era lì che l'aspettava con tanto di torta e di champagne quando Kristin fece il suo ingresso in redazione. I suoi colleghi si misero in cerchio per applaudirla mentre lei, arrossendo imbarazzata, tagliava la torta. Richard tenne un discorso infervorato sulla ricerca instancabile della verità da parte dei giornalisti, sempre a caccia di notizie e di una buona storia da raccontare. Elogiò Kristin non soltanto perché si era occupata di uno dei casi di violenza più drammatici della storia della Norvegia, ma anche perché vi aveva giocato un ruolo da protagonista. Brindarono con lo champagne, e alcuni dei suoi colleghi le fecero fare due giri d'onore su una poltroncina attraverso la redazione mentre tutti gridavano e inneggiavano a lei. Alla reception c'era un gruppo di giornalisti che la stava aspettando. Dopo che ebbero finito di riordinare i resti della torta, i piatti di carta e le bottiglie vuote, li fecero entrare nella sala riunioni. Nessuno di loro avrebbe accettato una conferenza stampa comune, e dal momento che lei stessa desiderava fornire il proprio punto di vista in maniera dettagliata, in una saletta separata concesse quindici minuti ciascuno alle radio, alle televisioni e ai giornali più importanti. Al «Dagbladet» interessava sapere quanto si sentisse sollevata ora che avevano finalmente catturato Aquarius. L'inviato del telegiornale di Stato, premuroso e gentile fino a quando non si accese la spia luminosa della telecamera, le domandò se un telegiornale d'assalto come «24 timer!» non si sentisse in qualche modo responsabile di tutti quegli omicidi, dato che era evidente che una delle priorità dell'assassino era stata la divulgazione dei suoi filmati in televisione. L'«Aftenposten» le chiese di dire qualcosa a proposito delle sensazioni che aveva provato rientrando in redazione e della sua eventuale disponibilità a seguire personalmente il processo a Strøm, mentre il telegiornale di TV2 incentrò l'intervista sul tema del rapporto di sfruttamento reciproco che si era venuto a creare tra criminalità e mass media. Kristin scoppiò a ridere quando il «VG» le
chiese se da bambina era stata una lettrice appassionata dei libri di Nancy Drew. TVNorge si concentrò sulla paura che doveva aver provato prima dell'arresto di Strøm. Radio P4 le chiese come avesse vissuto, in quanto donna, le ultime settimane, e se in nome delle vittime provava un odio personale nei confronti di Strøm. Dagsnytt 18 volle invece sapere in che modo giustificava la diretta dell'arresto di un uomo che, nonostante tutto, per il momento era soltanto sospettato degli omicidi. «Mio Dio,» pensò Kristin, «che domande banali. Questi giornalisti!» Dopo aver concluso le interviste, dovette precipitarsi in sala trucco e poi in studio, dove Ninni l'avrebbe avuta come ospite per riassumere insieme a lei l'iter che aveva portato all'incarcerazione di Strøm. Fuori dallo studio, in redazione, si facevano scommesse sul numero di telespettatori che avrebbero seguito la trasmissione e se si sarebbe raggiunto o meno il 30% di share. 4 Il Tostrupkjelleren era il pub di un circolo di giornalisti ricco di tradizioni e dall'aspetto molto più elegante e pomposo di quello dei suoi scalcinati frequentatori. Di sera il locale pullulava di giornalisti, politici, avvocati e talvolta anche di attori. In un angolo era seduto un giornalista piuttosto brillo che stava mugugnando qualcosa a proposito di un articolo su due colonne che invece ne avrebbe meritate sei. Dappertutto si udivano brindisi e rutti. Nel guardaroba, uno dei maggiori rappresentanti dell'ala democratica stava vomitando. In uno degli angolini più bui un divo della televisione era riuscito a infilare una mano sotto il vestito di una delle nuove stagiste, la quale non sapeva bene se protestare o se era così che funzionavano le cose. Altri brindisi. Un ex parlamentare stava descrivendo con una prosa colorita le sue scopate alla camera. Gli ascoltatori ridevano e reclamavano i nomi, i nomi, i nomi. In quel momento arrivò un altro vassoio carico di birre e «Sei stato tu a ordinare un cognac?» C'era sempre qualcuno che gridava qualcosa a qualcun altro, qualcuno che incontrava un vecchio compagno di studi di Volda o un collega di uno dei giornali in cui aveva lavorato in passato. Rientrava in un certo codice professionale che tutti facessero finta di niente quando una celebrità o un giornalista famoso facevano la propria comparsa nel locale, ma quando Kristin e il suo seguito misero piede nel pub, subito dopo l'edizione delle 22, cadde il silenzio, dopodiché un grup-
po seduto a uno dei tavolini si mise a fischiare e a intonare delle canzoni. Alla fine tutti applaudirono. Kristin non si era mai sentita tanto commossa e imbarazzata. A gesti, Wolter indicò al barista il numero delle birre che gli doveva portare, impresa per cui non gli bastarono le dita di entrambe le mani. Quindi cercarono un tavolo libero. Al Tostrupkjelleren c'era un viavai continuo, e così il gruppo di Kanal 24 trovò un tavolo nella zona adibita a ristorante. La maggior parte di loro aveva fame e ordinò da mangiare, mentre gli altri si accontentarono di una birra o di una grappa. Fu una serata decisamente lunga. Dopo un paio di boccali partirono gli aneddoti: storie che non erano mai state pubblicate o mandate in onda, ma con le quali i giornalisti si trastullavano fin dalla notte dei tempi. Riguardavano più che altro la vita sessuale, le figuracce e l'abuso di alcol da parte dei vip e dei loro colleghi. Nel corso della serata brindarono più volte a Kristin. Intonarono canzoni da osteria. E un giornalista che si occupava di politica salì sul tavolo per improvvisare una canzoncina sulla coraggiosa verginella Kristin e l'orco di Grefsen. Kristin iniziò ad avvertire la stanchezza. Una stanchezza indescrivibile. Ma continuavano a offrirle birre che lei non aveva il coraggio di rifiutare. 5 Erano quasi le tre di notte quando Kristin si trascinò su per le scale di casa. Era ubriaca e stravolta. Fino a quando non si fermò davanti alla porta del suo appartamento per cercare le chiavi nella borsa, non si accorse della figura abbandonata sul pianerottolo semibuio. Era seduta sui gradini accanto alla porta. Le spalle appoggiate contro la parete. Vicino aveva una bottiglia quasi vuota di Eau de Vie. Aveva vomitato sulle scale. Ebbe un sussulto, dopodiché retrocesse di un passo. Disse piano: «Gunnar?» L'uomo non si mosse. «Gunnar...» ripeté con un tono di voce più alto toccandogli una spalla. Gli occhi di lui si aprirono. Mentre la scrutava, raddrizzò la testa. «Mio Dio! Gunnar...» Lui si schiarì la voce. «Non eri... a casa.» Guardarono entrambi la bottiglia di Eau de Vie.
«Vieni, entra!» gli disse. «No no no, è... tardi. Troppo tardi.» «Sei ubriaco, Gunnar! Entra!» «No no. Troppo tardi.» «Perché ti sei ubriacato?» A fatica cercò di alzarsi. Quando ci riuscì, aguzzò gli occhi per mettere a fuoco lo sguardo di Kristin. «Ho fatto la figura dello scemo...» «Dello scemo?» «Troppo vecchio, sai!» «Cosa stai blaterando?» «Non mi è venuto in mente. Di avvisare. Il giornale.» La guardò. «Tu non hai detto niente... a me. Di quello... che sarebbe successo. Là. Che voi avreste... trasmesso tutto in diretta. E io non ho avvisato. Il giornale.» «È successo tutto in un attimo. Non immaginavo che...» «Non ho... lo sai, Kristin... una prima pagina da cent'anni. Che razza di giornalista sono?» «Non sapevo dell'arresto! Credimi, Gunnar! Stavamo soltanto facendo una diretta sul fatto che la polizia avesse un sospetto, e di colpo ci sono piombati addosso tutti quei poliziotti. Vieni, entra!» «Avresti potuto telefonarmi. A me. Così avrei potuto... passare l'informazione. Alla redazione. Prima che lo vedessero. In televisione. Non è vero? Dato che...» gli venne il singhiozzo, «... ci stavamo lavorando assieme.» «Mio Dio, Gunnar, non intendevo... Scusa! Credimi, Gunnar! Entra, così possiamo parlarne.» Lui scosse stancamente la testa. «Se soltanto avessi...» Le sue parole furono inghiottite dal silenzio. «Gunnar, non avrei mai immaginato... Vieni, vieni dentro. Solo un attimo. Per favore!» «Credo... devo... andare a casa.» «Non puoi dormire qui? Ti preparo il letto.» «Credo di dover andare a casa.» «Gunnar...» «Non compatirmi!» Lo sguardo gli si indurì. «Qualsiasi cosa! Ma non compatirmi!» «Gunnar!» «Complimenti per il successo!» farfugliò confusamente con la bocca impastata. «Ora devo andare a casa.»
«Non fare così. Puoi...» Le porse la bottiglia di Eau de Vie. «Tu che sei così... brava in queste cose...» vacillò, «... la puoi mettere nel con-te-ni-to-re del vetro al posto mio?» Kristin prese la bottiglia. «Gunnar, non vuoi...» Ma lui si era già girato per andarsene. Gradino dopo gradino, ondeggiò lungo la scala. Senza mai voltarsi. «Gunnar!» gridò lei un'ultima volta. Aprì la porta di casa e si precipitò alla finestra. Dopo un po' lo vide. A passi incerti, si stava trascinando lungo il marciapiede della strada deserta. «Un vecchio,» pensò. Quando scomparve tra le ombre del parco, Kristin rimase in piedi a scrutare la notte. Le finestre buie, la sagoma del campanile della Paulus' Kirke, i taxi che sfrecciavano lungo Toftes Gate, i bagliori dei fari, e in cielo né nuvole né stelle: soltanto uno spazio vuoto pieno di infinito. «Adesso sì che sono stanca,» pensò. «Stanca, triste e un po' ubriaca.» Andò in bagno per spogliarsi. Poi, per l'ennesima volta nel corso della serata, fece pipì. Si struccò e si lavò i denti. Ruttò. Per un po' fu incerta se farsi una doccia o meno, ma non ne aveva voglia. Si infilò a letto e prima di dormire pensò: «Dovrei essere orgogliosa di me stessa e felice. Perché non lo sono?» Si addormentò con questo pensiero. III Bø 1 Le pecore che stavano brucando l'erba sul pendio davanti alla baita belarono inquiete quando Kristin sbucò all'improvviso dal bosco che ricopriva le colline e che dalla baita scendeva giù fino al villaggio, in fondo alla valle. Si fermò, strappò un filo d'erba e lo mordicchiò. Da lì, Bø sembrava un castello delle favole circondato dai cespugli e dalle rocce. Fu investita da una vampata di ricordi e di emozioni. I suoi sogni erano cominciati proprio lì, nel punto in cui il sentiero che attraversava il bosco di latifoglie finiva lasciando il posto ai pascoli. In lontananza, a mezza giornata di cammino attraverso la foresta di abeti costellata di burroni e di alture, svettava la montagna, imponente e grigia.
Lentamente, si riempì i polmoni del profumo delle montagne, dei laghi e della resina. Aveva con sé un grosso zaino e una valigia. Anche se camminando si era tolta il K-Way e il maglione, era madida di sudore. Halvor si era offerto di aiutarla a portare fin lassù i suoi bagagli, ma lei aveva declinato l'offerta: voleva godersi quel momento in solitudine. I fiori e l'erba dei prati che circondavano la baita ondeggiavano nella brezza leggera. Le mosche ronzavano. La vecchia mola che un tempo era appartenuta a suo nonno giaceva divelta tra le ortiche accanto al fienile. Quella stessa scena avrebbe potuto avere luogo anche vent'anni prima. In qualsiasi momento il nonno sarebbe potuto spuntare da dietro l'angolo gridando per la gioia: «Bambina mia, finalmente!» E in qualsiasi momento mamma e papà l'avrebbero potuta salutare con un cenno della mano dalla finestra della cucina. Un colombo selvatico cominciò a tubare. Dopo aver sputato a terra il filo d'erba, Kristin sorrise e mormorò: «Bentornata, Kristin!» Le persiane erano chiuse. Fece un giro intorno alla casa per togliere i catenacci e fissarle ai ganci che sporgevano dai muri esterni. Aprì la porta d'ingresso con la chiave che il nonno aveva forgiato prima della guerra. Si trovava in un sacchetto di plastica nascosto sotto una pietra vicino all'asta della bandiera. Spinse la porta pesante ed entrò. Il profumo di Bø era lo stesso di sempre. Rimase sulla soglia ad assaporare quell'odore di legno antico e d'infanzia, di pece e di chiuso, di estate e di risate, di un tempo che si era fermato. Lasciando la porta aperta, appoggiò lo zaino sul pavimento del corridoio. La luce del sole entrava dalle finestre a losanghe del soggiorno. Lo sguardo di Kristin scivolò sui mobili: la cassapanca, il massiccio tavolo di pino intorno al quale ci si sedeva per mangiare, l'orologio a pendolo (ancora funzionante), lo specchio opaco appeso alla parete più corta della stanza, le lampade a petrolio che pendevano dal soffitto e sporgevano dai muri, il bancone ricoperto di riviste di mille anni prima e di vecchie edizioni del «Det Beste». Attraversò la stanza in direzione dell'orologio. Il pavimento scricchiolò. Aprì l'anta di legno e caricò l'orologio. Con l'indice fece ripartire delicatamente il pendolo. I ticchettii erano regolari. «Come i battiti del cuore,» pensò Kristin. Aprì lo sportello di vetro che proteggeva il quadrante e regolò le lancette sulle due meno dieci. Ogni giorno l'orologio rimaneva in-
dietro di quindici, venti minuti, ma dava comunque un'idea approssimativa di che ora fosse. A Bø il tempo non era poi così importante. In cucina, tirò fuori dai suoi bagagli alcune scorte: minestre liofilizzate, scatolame, wasa, salame e formaggio. Portò lo zaino al piano di sopra, dove c'era la sua camera. Il tetto era spiovente. I due letti erano stati sistemati sotto la parte più bassa del tetto, ognuno in un angolo, facendo sì che al centro della stanza si potesse stare in piedi in posizione quasi eretta. Era meraviglioso restare lì sdraiati ad ascoltare la pioggia che rimbalzava sul tetto di selce. Aprì lo zaino e sparse i propri vestiti su uno dei due letti: slip, calze, magliette, due maglioni, un paio di Levis, due tute da ginnastica. Appoggiò la radio sul comodino. Trovò le lenzuola nell'armadio della camera da letto matrimoniale e le lasciò fuori a prendere aria. Prese un paio di secchi e uscì per andare a controllare quanta acqua c'era nel serbatoio. La casa editrice l'aveva chiamata il giorno prima, di pomeriggio. Era il giorno successivo all'arresto, e sin dal mattino Kristin non aveva fatto altro che gironzolare per casa con una sgradevole sensazione di vuoto allo stomaco. Quando il caporedattore le aveva telefonato per chiederle se per caso non avesse preso in considerazione la possibilità di scrivere un libro su tutto quello che era successo, si era dovuta sforzare per non far trasparire la propria eccitazione. Un libro! Ma certo! Perché non ci aveva pensato da sola? Un libro vero con tanto di rilegatura e con il suo nome in copertina. Aveva incontrato il caporedattore quel pomeriggio stesso per discutere dell'offerta. Nel giro di dodici ore aveva firmato il contratto, e dopo qualche battibecco era riuscita a ottenere da Kanal 24 due settimane di permesso non retribuite. Aveva riempito uno zaino e una valigia, aveva comprato una risma di carta filigranata alla Buskerud Bank ed era partita alla volta di Bø. Era arrivata al villaggio a pomeriggio inoltrato, intorpidita dopo tutte quelle ore passate in treno e in taxi. Il cielo era terso, di un blu argenteo. Il laghetto di Mårvatn scintillava nero in mezzo ai tronchi degli alberi. Sopra l'erba alta e il cerfoglio silvestre ronzavano nugoli di moscerini. Davanti al supermercato le bandierine pendevano mollemente nell'aria calda. Un gruppo di ragazzi assiepato intorno a una Opel Ascona aveva osservato il taxi con aria incuriosita. Uno di loro, con in mano una bottiglia di birra, aveva ruttato rumorosamente. Kristin non l'aveva sentito, ma l'aveva intui-
to dalle risate e dalle smorfie degli altri. Halvor era seduto sul trattore e stava lavorando nei campi quando il taxi aveva fatto la sua comparsa sull'aia. Era più basso di Kristin, ben messo e rubizzo: sembrava quasi che avessero avuto due padri diversi. Quando era balzato giù dal trattore, Kristin aveva notato che gli era venuta la pancia. Si erano abbracciati. Kristin lo aveva seguito in cucina, e bevendo un caffè gli aveva raccontato le ultime novità. Prima di congedarsi, Kristin gli aveva promesso che uno di quei giorni sarebbe andata a cena da lui. Bø si trovava a un'ora di cammino dal villaggio. Una camminata impegnativa. Il sentiero partiva dietro la dispensa della fattoria di Halvor e si inerpicava su per i pendii ripidi per poi proseguire in mezzo al bosco di latifoglie e ai cespugli, lungo pareti rocciose e dirupi ricoperti di muschio. Ogni sasso e ogni radice risvegliavano in Kristin dei ricordi. Dopo aver acceso il fornello a petrolio, Kristin mise a bollire l'acqua per il tè. Uscì con la tazza sulla stretta pedana di legno che Halvor aveva costruito davanti alla baita. Da lì, poteva godersi la vista della valle di Tuvdal. In lontananza, scorse tra gli alberi il campanile bianco e la strada che si allontanava dal villaggio. E il fiume che, simile a una striscia d'argento, defluiva dal lago di Mårvatn. Le colline sul lato opposto della vallata erano un mosaico di diverse tonalità di verde sovrastate dalla foresta buia. La sera andò a recuperare la vecchia macchina da scrivere nello sgabuzzino. 2 Lentamente l'oscurità avvolse Bø. In maniera graduale il paesaggio assunse un aspetto piatto. Kristin si era infilata un maglione di lana e ora se ne stava in piedi sulla pedana a godersi il tramonto. Giù al villaggio e sul versante opposto della collina si accesero alcune luci. La luna comparve al di sopra delle montagne. Nel cielo risplendeva un'unica stella, non si ricordava mai quale fosse... Venere? Giove? Rientrò in casa, e dopo aver chiuso la porta lasciò la chiave infilata nella toppa. Andò a prendere un pacchetto di biscotti, e mentre mangiava sfogliò alcune riviste del 1968. Le lampade a petrolio diffondevano una luce calda, rilassante. La prima notte scrisse fino alle due. Scrivere le risultò facile, dal momento che aveva già in mente come strutturare il libro, ma perse un po' di
tempo a causa della macchina da scrivere difettosa. La prima stesura non sarebbe certo stata un capolavoro, ma l'importante, ora come ora, era fissare sulla carta i pensieri e le parole in una sequenza più o meno ordinata. Solo in un secondo momento si sarebbe dedicata a riscriverlo... e riscriverlo... e riscriverlo. Aveva ancora diverse cose da controllare, molte interviste da fare, ma non aveva fretta. La casa editrice voleva che il libro fosse pronto per il giorno in cui Rune Strøm fosse stato condannato, e ci sarebbero voluti ancora parecchi mesi prima che il processo avesse inizio. Ciò che più le premeva era catturare le proprie sensazioni e i propri sentimenti prima che sbiadissero. Il tempo avrebbe cancellato i dettagli: la paura, l'inquietudine, il sollievo che aveva provato quando Strøm era stato portato lontano da lei dentro una macchina della polizia e il fatto di sapere che quell'incubo si era concluso. Allungò le gambe sotto il tavolo, intrecciò le mani dietro la testa e si stirò. Le facevano male le punte delle dita e si sentiva gli avambracci indolenziti per via della posizione insolita che aveva dovuto assumere per battere a macchina. Quando si fermò davanti al vecchio specchio, il pavimento scricchiolò. La sua immagine riflessa era opaca e distorta, e a causa di una macchiolina sembrava che avesse un succhiotto sul collo. Ah, se davvero fosse stato così! Con un sorrisetto infantile si fece una boccaccia tirando fuori la lingua, che a causa di un'ondulazione dello specchio sembrava lunga il doppio. Kristin il camaleonte! Ridacchiando, cercò di ritrovare quel punto sullo specchio ma non ci riuscì. Talvolta le capitava di chiedersi se davvero quello specchio fosse stregato. Fuori era buio pesto. Prima di andare a dormire dovette uscire per recarsi in bagno, che non era collegato internamente al resto della casa. Prese la torcia e attraversò l'aia. Il cielo era costellato di puntini luminosi. Da bambina aveva sempre avuto paura di andare in bagno da sola. E nemmeno ora si sentiva particolarmente a proprio agio. Non che pensasse che là fuori ci fosse qualcuno che la stava aspettando o chissà quale pericolo in agguato. Si trattava piuttosto di una paura innata del buio, un buio immenso che si estendeva fino allo spazio. Come sempre, chiuse la porta del bagno con il chiavistello. Con la pila illuminò le pareti di legno: il ritratto sbiadito di re Olav, la donnina dalle grosse tette che Halvor aveva fissato al muro con una puntina, alcuni disegni a matita, delle ragnatele. Una volta finito, si precipitò di corsa verso la casa. Dopo essersi chiusa
dentro a chiave, si appoggiò con le spalle contro la porta. Si prese in giro da sola. Spense le lampade a petrolio. Salì la scala stretta che portava al piano di sopra. Due gradini alla volta. In camera aprì il lucernario, sollevò il piumone, si spogliò e si infilò a letto. Tremava di freddo. «Chissà chi è la fortunata che ha Johann Olav Koss che la scalda,» pensò ridacchiando. Era passato molto tempo dall'ultima volta. Ci mise un po' prima di riuscire a sintonizzarsi sulla frequenza del giornale radio. Nessuna novità. Spense la radio e la torcia augurandosi a mezza voce: «Notte!» Con uno sbadiglio si coprì con il piumone ruvido e leggero. Il giorno dopo Lentamente, Gunnar Borg si svegliò. Molto, molto lontano c'era qualcosa che suonava. Non capiva dove. E non capiva nemmeno che cosa c'era che non andava. Sapeva soltanto che c'era qualcosa che stava facendo un baccano terribile e che suonando lo aveva risvegliato da un sonno profondo, buio. Cercò di aprire gli occhi. Era un rumore infernale, un rumore che gli fece vibrare un nervo che dalle orecchie gli scendeva lungo la nuca. Il telefono! Ma certo. Gemette. Il pensiero di girarsi, di abbattersi sul pavimento per poi arrancare a quattro zampe fino al corridoio e di sollevare la cornetta gli provocò un capogiro. Aveva la bocca secca. La lingua era appiccicata al palato, che sapeva di carne imputridita, cipolla ammuffita e cavolo andato a male. Il dolore alla testa gli stava trafiggendo il cervello attraverso un dedalo di nervi che, partendo dalle orecchie, si sviluppava sulla fronte per poi concludersi intorno agli occhi, dove il dolore si faceva via via più acuto. Aveva la nausea. Le mani gli tremavano. Finalmente il telefono tacque. Con un gemito, aprì leggermente gli occhi: era sdraiato sul divano. In salotto. Sul tavolo giaceva un bicchiere rovesciato. La bottiglia di cognac era quasi vuota. La brace di una sigaretta aveva bucato la tovaglia. Guardò l'ora: le dieci e mezzo. Guardò la data. Guardò la data una seconda volta. Oddio. Era ubriaco da tre giorni. Si strofinò gli occhi, sforzandosi di ricordare. Gli ultimi due giorni erano scomparsi dalla sua memoria. La sola cosa che rammentava era il giorno in cui era successo tutto: l'ar-
resto di Rune Strøm, quello strano sentimento di orgoglio che aveva provato nel vedere Kristin al centro dell'attenzione, sotto gli obiettivi delle telecamere e delle macchine fotografiche. Kristin, che non l'aveva nemmeno visto, nascosto in mezzo alla folla riunita davanti al tribunale. L'attività frenetica nella redazione centrale del giornale. Aveva cercato di dare il proprio contributo, aveva parlato al caporedattore di un possibile articolo sul dietro le quinte della vicenda, ma i tempi erano ormai troppo stretti. «Prova un altro giorno,» gli aveva risposto. Gunnar si era sentito come un vecchio che non faceva altro che disturbare. A quel punto era andato dal direttore, offrendosi di scrivere un commento molto breve, ma lui stesso ne aveva già scritto uno. C'era qualche informazione che andava controllata? Qualche aspetto che non era ancora stato preso in considerazione? Qualcosa a cui poteva lavorare? Impaziente, il direttore gli aveva detto di chiedere al caporedattore, ma questi era al telefono, intento ad abbaiare degli ordini, e quando finalmente era arrivato il turno di Gunnar, un ragazzino qualsiasi gli aveva sorriso in maniera arrogante, con un'espressione di sufficienza, e gli aveva detto senza mezzi termini che quella sera non c'era più bisogno di lui - non avrebbe fatto meglio a pensare a qualcosa a cui dedicarsi il giorno dopo? Un vecchio che non faceva altro che disturbare... Gunnar era salito nel suo minuscolo ufficio e si era richiuso la porta alle spalle. Era rimasto a lungo con la fronte appoggiata contro il vetro della finestra a guardare il cortile. Poi si era avvicinato alla libreria: dietro l'ottavo volume dell'Enciclopedia Norvegese c'era una bottiglia di Eau de Vie ancora intatta. Era lì da due anni. Non l'aveva mai toccata. Era una specie di monito. Un modo per mettersi alla prova. Aveva estratto dalla libreria prima l'ottavo volume e poi il nono. Era come se si stesse osservando dall'alto. Aveva afferrato la bottiglia polverosa, si era messo l'impermeabile e aveva infilato la bottiglia nella tasca interna. Aveva attraversato la redazione centrale. Di solito non lo faceva, ma aveva sperato che qualcuno lo chiamasse: «Gunnar, puoi controllare una cosa prima di andare?» Era scivolato attraverso la stanza piena di gente indaffarata come un fantasma che lascia dietro di sé soltanto un soffio d'aria gelida. Aveva sceso le scale fino in strada. Aveva svoltato a sinistra e imboccato l'Akersgaten, aveva superato la Trefoldighetskirken e la St. Olav Kirke, dopodiché era entrato nel cimitero, il Vår Frelsers Gravlund.
«Uno spettro che cerca la sua tomba,» aveva pensato. «Dio mio, quanto sei patetico! Sei un vecchio stupido, Gunnar! Un vecchio stupido e patetico!» Seduto su una panchina dietro un cespuglio, aveva aperto la bottiglia. Cos'era successo dopo? Gli tornò alla mente solo qualche brandello, ma non era certo che si trattasse della realtà: forse erano soltanto le sue fantasie. La visita a Kristin: le lunghe ore seduto a dormire davanti alla sua porta e il momento terribile in cui lei si era resa conto che era ubriaco. Un'ombra sbiadita che poteva anche essere un sogno. A stento si alzò dal divano. Andò in bagno, si spruzzò la faccia con dell'acqua fredda, si chinò sul gabinetto per vomitare, si sciacquò la bocca, aprì l'armadietto dei medicinali e inghiottì tre analgesici. Con un'efficienza meccanica riordinò il tavolo e svuotò il posacenere sulla tovaglia. Ci mise anche il tappo della bottiglia, la afferrò ai quattro angoli, fece un bel nodo e buttò il tutto nel bidone della spazzatura. Versò il cognac rimasto nel lavello in cucina. Le mani gli tremavano senza sosta. La testa gli pulsava e sembrava che vivesse di vita propria. Rassettò il salotto, buttò via gli avanzi che c'erano in frigorifero, vomitò altre due volte, rifece il letto e bagnò le piante, evitando accuratamente di guardarsi negli specchi. Poi aprì la finestra e si addormentò sul divano. Fu di nuovo il telefono a svegliarlo. Mezzo intontito dal sonno, si avviò barcollando verso quel mostro urlante. Kristin. Una doccia fredda. Era già abbastanza umiliante sapere di aver ceduto, ma condividere con lei quella sconfitta era addirittura insostenibile. Rispose in modo secco e laconico. Le assicurò di essere sobrio. Non voleva la sua compassione. Non oggi. Non aveva nessuna voglia di confidarsi. Oggi voleva starsene in pace. Da solo. Kristin gli disse che si trovava a Bø. «Bø?» esclamò lui. «E cosa ci fai lì?» «Sto scrivendo un libro.» «Un libro?» «Sul caso. Me l'hanno chiesto l'altro ieri. Ho provato a chiamarti.» «Avevo del lavoro da sbrigare.» «Un vero libro,» ripeté Kristin. «Non è eccitante?» «Certo,» disse lui. «Stupendo.»
«Sei sobrio?» gli chiese. Tagliente. «Sì,» rispose lui. Altrettanto tagliente. Dopo qualche esitazione, con un filo di voce Kristin gli disse che l'avrebbe richiamato il giorno dopo. Lui non fece alcun commento: non aveva abbastanza voce per farlo. Vagò per l'appartamento senza meta né scopo. Dal lavoro non lo aveva chiamato nessuno. Bevve bicchieri e bicchieri d'acqua. Le mani non la smettevano di tremare. Ebbene sì, ci era ricascato, aveva ceduto. Si era ubriacato. «Così stanno le cose, Gunnar! Sei un alcolizzato. Sei sempre stato un alcolizzato e continuerai a esserlo.» Ma adesso si stava rimettendo in sesto! Non aveva forse buttato via i rimasugli del cognac? Non aveva forse bevuto soltanto acqua per tutto il giorno? «Sei un idiota, Gunnar! Ma ce la farai! Fai un passo falso, ma poi ti riprendi!» Tuttavia non si fece illusioni: era e restava un alcolizzato. Un ubriacone. Anche se non avrebbe più bevuto una sola goccia d'alcol in vita sua, restava comunque un alcolizzato. La catena 1 Una catena. La prima cosa che vidi fu una catena di freddi anelli di metallo. La catena gettava sulla parete di calce bianca delle ombre nere. Una voce dentro di me - ancora oggi non riesco a spiegarmelo in nessun altro modo - mi mise in guardia: mi attendeva qualcosa di terribile. La mia lingua produsse un suono simile a uno schiocco, ma anche se me l'ero aspettato, quando vidi la mano singhiozzai per lo spavento. La donna giaceva su un materasso dentro una stanza spoglia, incatenata alla parete come un animale selvaggio, e in quell'enorme camicia da notte sembrava stesse partecipando a un improbabile ballo in maschera. Credo di aver emesso un gemito quando la donna piegò la testa di lato per guardare nell'obiettivo. Impaurita e confusa, guardai la lettera che avevo in mano. Ancora una volta
rilessi le ultime righe: «... e l'acqua che avrai presa dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta.» Il rullo oppose un po' di resistenza nel momento in cui Kristin fece per estrarre il foglio dalla macchina da scrivere. Era una vecchia Remington: le O e le M si inceppavano se non le si premeva abbastanza forte e il tasto del tabulatore stava per staccarsi. Ma Kristin amava quella macchina. All'età di nove o dieci anni ci aveva scritto i suoi primi racconti, quando nei giorni estivi carichi di pioggia l'assaliva la noia. Mise il foglio in cima alla pila che si trovava accanto alla macchina da scrivere, quindi si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Le mosche ronzavano indolenti sul davanzale della finestra. Attraverso i vetri leggermente sporchi vide le pecore che brucavano, L'estate era al culmine. La collina sul versante opposto della valle aveva cominciato a seccarsi, il vento si era fatto un po' più freddo e la nebbia mattutina più fitta. Con una serie di cigolii che non promettevano nulla di buono, le rotelle dentellate e le molle del vecchio pendolo si sforzarono di segnalare che erano le sette o le otto. Kristin diede un'occhiata al suo orologio: le dodici meno dieci. Lanciò un sorriso sconsolato a quel pendolo sbilenco, simile a un soldato che tenacemente si rifiuta di morire. Si ricordava di aver sempre sentito, sin da quando era bambina, il battere delle mezz'ore e delle ore piene, con i loro rintocchi tenui e d'intensità diversa. La nonna diceva che quel pendolo avrebbe finito col farla impazzire, mentre a ogni rintocco il nonno estraeva automaticamente il suo orologio da taschino, anche se lo aveva già controllato l'ora prima e quella prima ancora. Con entrambe le mani, Kristin infilò un foglio pulito nella macchina da scrivere e lo regolò. Prese a battere sui tasti: All'inizio non avevo nessuna intenzione di preparare un servizio su quella donna distesa sul materasso. Il solo pensiero mi nauseava. Anche se l'istinto mi diceva che quello sarebbe stato il caso più importante di tutta la mia carriera, mi ribellavo all'idea di affrontarlo. Soltanto ora capisco il perché: non volevo avere nulla a che fare con il destino di quella donna. Sospirò insoddisfatta. Le frasi erano goffe, incolori. Ma non importava.
Quelli della casa editrice le avevano consigliato di scrivere a ruota libera. In seguito avrebbero avuto tutto il tempo per rivedere il testo. 2 Il giorno dopo fece una lunga passeggiata nel bosco, oltrepassando lo stagno e arrivando fino ai piedi della montagna dove, secondo i suoi avi, vivevano le creature del sottosuolo. Fece il bagno nuda in un laghetto gelido, si strofinò il corpo con del muschio e si sdraiò ad asciugarsi su una lastra di roccia calda di sole. Si sentiva una ninfa silvestre. Se solo fosse arrivato un cacciatore... Pensò a Gunnar. Era preoccupata per lui. Quando finalmente era riuscita a parlargli, dalla voce aveva capito che non stava bene. Riusciva a leggere in Gunnar come in un libro aperto. Dietro quella rabbia simulata, si vergognava come un bambino. Ebbe un rimorso di coscienza per il fatto di non essere lì con lui in quel momento. Ma era un modo di ragionare tipicamente femminile, si disse. «Come se avessi delle colpe per quel che è successo. Come se Gunnar fosse mio figlio o il mio fidanzato o chissà che cosa. Tra un po' andrà in pensione!» Ma questi pensieri non le furono di grande aiuto. Sulla strada di ritorno verso casa, incappò in alcuni cespugli carichi di mirtilli e ne mangiò tanti da scoppiare. Uno scoiattolo sfrecciò su per un tronco e lei rimase immobile qualche minuto nella speranza di vederlo ricomparire. Poco prima di raggiungere la baita, si fermò accanto all'enorme masso che i ghiacciai avevano lasciato dietro di sé. La Roccia del Pensiero, così l'aveva soprannominata. E se... Quella notte dormì un sonno profondo e la mattina dopo si svegliò incredibilmente riposato. La giornata era tersa e calda: prometteva bene. Rimase sdraiato a letto a lungo con gli occhi persi nella stanza, in attesa che facessero la loro comparsa la sete, la vergogna e l'autocommiserazione. Niente. Si alzò, e dopo essersi preparato due uova al tegamino si sedette accanto alla finestra ad aspettare. Ad aspettare tutte quelle sensazioni paralizzanti che solitamente lo assalivano. Ma non arrivarono
Si recò al giornale. Attraversò la redazione centrale molto lentamente, di modo che tutti registrassero che si era presentato al lavoro e che non era ubriaco. Ma nessuno si era accorto della sua sbornia. E perché mai avrebbero dovuto? Non si erano neanche accorti della sua assenza negli ultimi giorni. Un paio di giornalisti della vecchia guardia gli borbottarono un «Ciao, Gunnar». Persino questo bastò a scaldargli il cuore. Raccolse alcune copie dei quotidiani degli ultimi giorni e se le portò in ufficio. Dopo aver appeso l'impermeabile, rimise al loro posto l'ottavo e il nono volume dell'Enciclopedia Norvegese. Come c'era da aspettarsi, i titoli erano roboanti. «PRESO», campeggiava a caratteri cubitali sulla prima pagina del «Dagbladet». «PRESO!», esultava il «VG». «Alla faccia della fantasia e del pluralismo,» pensò Gunnar. Persino l'«Aftenposten» aveva dedicato alla vicenda otto colonne: «Sospetto arrestato per il caso Aquarius». Una volta che ebbe finito di leggere tutti gli articoli, prese nota delle nuove informazioni che erano emerse. Si trattava perlopiù di notizie che riguardavano Rune Strøm. Il «VG» era venuto a sapere che Kristin si sarebbe ritirata nella sua baita per scrivere un libro. Kanal 24 aveva raggiunto un nuovo record di telespettatori e il direttore del telegiornale di Stato aveva tacciato Wolter d'irresponsabilità per aver mostrato l'arresto in diretta. «Niente di nuovo sotto il sole,» pensò Gunnar. E allora che cos'era che lo tormentava? Non riusciva a dargli un nome. «Sensazione epidermica», si diceva ultimamente, o anche «fiuto». Le donne la chiamavano «intuizione». Pensò: «E se avessero catturato l'uomo sbagliato?» Una volta che ebbe finito di pranzare da solo nel suo ufficio, cercò di riordinare sul computer le informazioni relative a Rune Strøm e agli omicidi. Niente di trascendentale. Aprì un file che riuscì a cancellare dopo che aveva impiegato tre ore per trascrivere tutti i dettagli possibili e immaginabili che era riuscito a ricavare dagli articoli che aveva letto quella mattina. Fu preso da uno sconforto tale che gli vennero le lacrime agli occhi. Odiava i computer. Aveva imparato a scrivere con due dita su un'antiquata e recalcitrante macchina da scrivere Royal, e ancora oggi batteva con la stessa forza sui tasti ultrasensibili del computer. Quando il «Dagbladet» si era informatizzato, Gunnar aveva insistito per conservare la sua vecchia
macchina da scrivere portatile, la sua fedele compagna, ma dopo qualche settimana i ragazzini insolenti della redazione si erano rifiutati di accettare i suoi fogli scritti a macchina. A quel punto Gunnar si era reso conto che l'evoluzione in atto minacciava di tagliarlo fuori una volta per tutte, e così, tra mille imprecazioni, aveva deciso che avrebbe imparato a usare il computer né più né meno di quei pivelli appena usciti dalla scuola di giornalismo. Aveva seguito due volte il corso interno di informatica, ma era e rimaneva un imbranato: non capiva questa storia dei file, del salvare e della posta elettronica. E sentiva la mancanza della sua macchina da scrivere, delle sue molle, del ticchettio dei tasti, del loro allegro ting. Si lasciò andare con un sospiro contro lo schienale della seggiolina girevole. La piacevole sensazione di benessere che aveva avvertito quella mattina nel giro di poco tempo era scomparsa. Si sentiva stanco, annoiato e confuso. E aveva sete. Era quella la cosa peggiore. Nel pomeriggio si infilò l'impermeabile e si diresse verso casa facendo una passeggiata attraverso il parco del Palazzo Reale e il quartiere di Homansbyen. A casa scovò un buon libro, sprofondò comodamente nella poltrona di pelle e non si mosse fino a quando non fu ora di andare a dormire. I corvi 1 I corvi arrivarono la mattina presto. Uno spesso strato di nuvole sovrastava cupo e grigio la montagna. «Tempo da depressione,» pensò Kristin. Era ancora intontita dal sonno quando si vestì per scendere al piano di sotto. I vetri erano appannati, e nell'aria c'era un odore di marcio. Uscendo per andare in bagno, sentì i corvi gracchiare. All'inizio non capì da dove venisse tutto quel frastuono, ma poi scorse lo stormo nero di uccelli che usciva dal bosco. Si appollaiarono sulla quercia secca che si ergeva al limitare del pascolo. «Volate via, bestiacce,» mormorò Kristin. Ma i corvi non volarono via: appollaiati sui rami spogli, aspettavano. Appoggiò la tazza di tè fumante sul tavolo, vicino alla macchina da scrivere, e dopo aver posato il mento sul palmo della mano prese a fissare le righe che riempivano metà del foglio.
Si stava avvicinando alla fine del capitolo relativo a Una Mørch, ma le parole le uscivano a fatica. Scorrevano a rilento, come attraverso un imbuto. La giornata trascorse pigra. Per tutto il giorno Kristin rimase in attesa di uno scroscio d'acqua che alla fine non arrivò. Nel pomeriggio la coltre di nubi si abbassò, avviluppando il paesaggio nella nebbia. Non si riusciva neppure più a vedere il bosco. Chiuse la porta a chiave e passò di finestra in finestra, inquieta e nervosa. Rimase seduta davanti alla macchina da scrivere per qualche minuto, guardò fuori dalla finestra, fece un solitario, provò a scrivere, sfogliò una rivista, rimescolò le carte da gioco e alla fine tornò a guardare fuori dalla finestra. Per cena si preparò una zuppa e della carne. Dopo aver mangiato, si infilò il vecchio impermeabile appeso in corridoio e uscì nella nebbia per andare alla sorgente a riempire due secchi d'acqua. In qualche punto di quel vuoto grigio si sentivano ancora i corvi gracchiare. 2 Il buio calò presto. La nebbia trasformò le tenebre in una massa spessa che pareva quasi di poter toccare. Infrangendo una promessa che si era fatta, accese il cellulare per telefonare a Halvor, anche solo per sentire se a valle pioveva. Ma la batteria era scarica. Tirò le tende. Tutto d'un tratto l'aveva assalita il pensiero che all'improvviso si sarebbe potuto materializzare un volto premuto contro un vetro. Si versò un whisky dalla bottiglia che Halvor teneva nell'angoliera. Quando sentì il bisogno di andare in bagno, rimase a lungo con la mano sulla chiave della porta prima di accovacciarsi su un secchio vuoto in cucina. Mentre si stava chiedendo se non fosse il caso di andare a dormire, notò che il pendolo si era fermato. Lo caricò e spostò le lancette. Poi si diresse verso lo specchio. La sua immagine riflessa con il tempo non era migliorata: se si spostava un po' troppo a sinistra sembrava un mutante deformato, mentre se si spostava a destra sembrava che avesse contratto la peste bubbonica. Quando invece rimaneva perfettamente al centro, immobile, l'immagine le rendeva in qualche modo giustizia. Quando erano piccoli, spesso Halvor l'aveva spaventata raccontandole di
quello specchio. Anche se non credeva a una sola parola della leggenda della bambina imprigionata lì dentro, Kristin aveva trascorso un sacco di tempo davanti a quello specchio opaco: fissandolo, sognando... aspettando. Spense le luci, accese la torcia e salì in camera da letto. Non aprì la finestra. Che silenzio terrificante! Ammonticchiò il maglione, la camicia di flanella e il reggiseno da una parte, e i Levis, la calzamaglia e gli slip dall'altra. Aveva un po' di freddo, e così indossò la sua vecchia camicia da notte informe. Si infilò a letto tirandosi il piumone su fino all'altezza del mento. Nessun commento Anche quella notte sognò il Vietnam. Il sole luccica. Si trova nella giungla, in piedi su una distesa d'erba, e sta scherzando con un collega del «New York Times». Non sente lo sparo. Quando avverte il dolore, pensa che si tratti di un insetto velenoso che gli sta pungendo la coscia. Senza capire cosa sta succedendo, registra le parole secche e concise del sergente di colore americano, vede i soldati e i giornalisti gettarsi a terra e sente il crepitare delle mitragliatrici. Si butta a terra anche lui. E solo allora realizza di esser stato ferito. Ferito! Il collega del «New York Times» striscia fino a lui e gli lacera la stoffa dei pantaloni. Gli fa un cenno per tranquillizzarlo, Don't worry, buddy. È solo una ferita superficiale. Dalla giungla si levano delle grida stridule in quella lingua sconosciuta. Qualcuno urla: ha paura di morire. Spari. Di solito sono gli spari a svegliarlo. Dopo aver fatto colazione piuttosto tardi, prese un taxi per recarsi al negozio di Rita Quist. Banshees. Era chiuso. Passarono un paio d'ore prima che riuscisse a rintracciare Oscar Lund in questura. Oscar non aveva però nessuna novità per lui. L'avvocato di Rune Strøm non si sarebbe liberato prima delle due del pomeriggio. Richiamò alle due meno un minuto e l'impiegata inoltrò riluttante la sua telefonata. Gunnar si presentò. Un tempo il suo nome era stato una specie di formula magica, un abracadabra che faceva sobbalzare il suo interlocutore all'altro capo del telefono - Gunnar Borg? Ma ora non era più così. Nessuno si ricordava più di lui. Quelli che un tempo l'avevano ammirato ora pensavano che fosse morto. Karianne Li rispose in maniera distratta, laconica: «Di cosa si tratta esat-
tamente?» Gunnar tirò fuori la sua voce da statista: «Se possibile, vorrei scambiare qualche parola con lei.» «Impossibile. Tutti i giornalisti di Oslo mi stanno tempestando di telefonate. Non ho tempo. Che tipo di intervista vorrebbe farmi?» «Non si tratterebbe di un'intervista. Non necessariamente. Vorrei avere delle informazioni.» «E chi non le vuole? Non capisco, lei è il quarto che mi telefona dal 'Dagbladet'. Ho già detto più volte che non ho nessun commento da fare. Cosa vuole veramente?» Gunnar rispose: «A essere onesto, non sono sicuro che la polizia abbia arrestato la persona giusta.» L'avvocato rimase in silenzio, dopodiché emise un fischio debole. «Complimenti!» commentò acida ma perplessa. «Lei è il primo giornalista che sento esprimersi in questo senso. Posso chiederle il perché?» «Una lunga storia. Ha qualche minuto da dedicarmi?» «D'accordo. Mi pare di capire che finalmente qualcuno di voi ha il coraggio di nuotare controcorrente. Ma dovrà aspettare fino a domani. Al momento la mia agenda è fitta come una tesi di laurea.» Ricordi 1 Il mattino dopo sia la nebbia che i corvi erano scomparsi. Kristin decise di scendere a valle da Halvor per scambiare quattro chiacchiere e ricaricare la batteria del cellulare. Strada facendo, raccolse un mazzo di fiori di campo. Le piaceva vedere il vaso di vetro sul tavolo della cucina riempito di fiori. Halvor non era a casa, ma lei sapeva che la chiave di riserva era appesa a un chiodo nel ripostiglio degli attrezzi che si trovava nel fienile. In attesa che la batteria si ricaricasse, sfogliò un paio di numeri del quotidiano locale (identico a quand'era bambina) e alcune riviste. Halvor era abbonato a «Vi menn», un periodico maschile, e a «Villmarksliv», una rivista di settore che si occupava di agricoltura. Era un eccellente pescatore e cacciatore. Un paio di pagine di «Vi menn» erano state strappate, e dall'indice Kristin capì che si trattava delle foto della modella seminuda della settimana. Sorridendo, si chiese dove suo fratello avesse appeso quelle foto.
Quando la spia della batteria divenne verde, scrisse un bigliettino a Halvor dicendogli che era passata di lì a fare un giro. Mise i fiori nel vaso. E dopo aver chiuso la porta rimise la chiave al suo posto. Risalì quasi correndo fino alla baita, alla quale approdò sudata e col fiatone. Iniziava a sentire la mancanza di una doccia. Prima di rimettersi a scrivere, si lavò i capelli e il busto con l'acqua fredda del lavello che c'era in cucina. 2 La sera scese in cantina a prendere una delle bottiglie di vino di ribes che Halvor preparava in casa. Nel giro di due ore si era scolata tutta la bottiglia. Quel leggero senso di ubriachezza la riempì di un'euforia silenziosa. Lo sguardo le cadde sulle righe discontinue che riempivano per metà il foglio infilato nella macchina da scrivere. Non riusciva a capacitarsi del fatto che un giorno quei fogli si sarebbero trasformati in un libro. Quando sarebbe tornata a condurre una vita normale? Mai? Una volta finito quel periodo di vacanza dal telegiornale, avrebbe dovuto dedicarsi alla progettazione di un documentario sugli omicidi. Wolter voleva almeno cinque puntate. Kristin avrebbe intervistato gli amici e i vicini di Rune Strøm e i parenti delle vittime, utilizzando immagini estrapolate dai servizi che erano stati mandati in onda prima del suo arresto. Ci sarebbero voluti mesi. E nel tempo libero, ammesso e non concesso che gliene sarebbe rimasto, avrebbe dovuto lavorare al libro. Le sarebbe avanzato un po' di tempo per gli amici negli anni a venire? E per un uomo? Allontanò da sé la macchina da scrivere e uscì nell'oscurità della notte. Attraverso i cespugli, il villaggio scintillava. Sembrava fatto di tante capocchie luminose. L'aria fredda le gelò il viso. Il bosco e la montagna si ergevano come un muro nero. In lontananza si sentiva un cane ululare. Il fruscio del bosco risvegliò in lei un ricordo facendola tornare indietro nel tempo, a quella volta in cui era venuta alla baita con i suoi genitori ed era uscita fuori, al buio, proprio come ora, per starsene un po' da sola. Quanti anni aveva? Tredici? Quattordici? Aveva vagato da sola nel buio senza provare alcuna paura. Per la prima volta. Aveva camminato fino alla Roccia del Pensiero, dove si era seduta per ascoltare la voce del vento che soffiava da nord. Era una sera piena di magia. Quella sera si era gettata l'infanzia alle spalle. Dall'alto della Roccia del Pensiero aveva osservato la valle buia, le luci sparse, le
ombre delle montagne che si delineavano al chiarore delle stelle. Quella sera aveva scritto un racconto di cui andava particolarmente fiera. Tutti quelli che l'avevano letto si erano congratulati con lei. Lì, su quello spuntone roccioso, aveva capito per la prima volta che il suo futuro stava nelle parole. L'improvvisa consapevolezza di ciò che desiderava dalla vita l'aveva fatta sussultare. Era scesa dalla roccia, e camminando nell'erba alta diretta alla baita si era trasformata in una giovane donna. Pur sapendo che un essere umano non diventa adulto nel giro di pochi minuti, era certa di essere uscita dalla baita ancora bambina e di esserci ritornata donna. Non aveva detto niente né ai suoi genitori né al fratello, intenti a giocare a carte. Aveva preso un libro e si era raggomitolata in un angolo del divano a leggere. Quando le avevano detto di andare a dormire, aveva augurato la buonanotte a tutti, era salita in camera sua e si era svestita. Prima di mettersi la camicia da notte, aveva abbassato lo sguardo sul proprio corpo gracile e per la prima volta non si era vergognata di quei seni piccoli e doloranti. Aveva indossato la camicia da notte, si era infilata a letto, e il mattino dopo non aveva più pensato a quello che era successo la sera prima. Ma era stata una notte magica. Quell'estate aveva chiuso con i suoi vecchi giocattoli e in autunno si era fidanzata con un ragazzo che aveva conosciuto a un circolo ricreativo. Il primo di... quanti? Come si chiamava? Con lo sguardo rivolto verso il cielo, si sforzò di ricordare il suo nome. Kristoffer! A scuola era un anno avanti rispetto a lei, e Kristin aveva riempito con il suo nome l'astuccio e ogni angolo dei suoi quaderni - Kristoffer... reffotsirK... Krostiffer. Erano andati insieme a qualche festa e avevano passeggiato mano nella mano nei boschi, ma in inverno lui aveva cominciato a suonare in una band e avevano perso interesse l'uno per l'altra. Dopo lui ce n'erano stati molti altri. Andò a sedersi sulla panchina grigia davanti alla baita. Una pecora cominciò a belare. Il profumo del prato fiorito era penetrante. Quando appoggiò le spalle contro lo schienale, la panchina scricchiolò. Giù al villaggio si sentì il clacson di una macchina. Lassù sembrava tutto così irreale: tutto ciò che aveva caratterizzato gli ultimi sei mesi della sua vita. Era quella la vita che aveva sognato, seduta sulla Roccia del Pensiero e con la metà degli anni che aveva adesso sulle spalle? Sulla collina di fronte si spense la luce di una fattoria. Rimase seduta ancora qualche minuto a meditare prima di rientrare in
casa. Chiuse la porta a chiave e si sedette davanti alla macchina da scrivere. Erano quasi le undici e mezzo. Attirò a sé la macchina e rimase per qualche minuto a fissare la tastiera prima che un ticchettio irregolare inondasse il soggiorno. 3 Scrisse fino alle tre di notte e dormì profondamente fino alle undici della mattina dopo. Quando si svegliò, non si ricordò nemmeno se aveva sognato. Nella stanza l'aria era calda e immobile. Aprì la finestra, che la sera si era dimenticata di socchiudere, trovò mutande e calze e si infilò lo stesso maglione del giorno prima. L'erba davanti al bagno era umida, e quando aprì la porta una goccia fredda cadde dal soffitto e le colò lungo la schiena. In cucina, mise alcuni pezzi di legno di betulla nella stufa di ghisa e si preparò una tazza di tè bollente con del miele. Ascoltò il giornale radio. Telefonò a Halvor, giusto per sentire una voce. Si chiese se non fosse il caso di telefonare di nuovo a Gunnar, ma alla fine decise di no. Passò circa mezz'ora prima che si avvicinasse riluttante alla macchina da scrivere. Era stupita dallo sforzo che le costava cominciare. Una volta preso il ritmo, poi era capace di scrivere ininterrottamente per delle ore senza accorgersi del passare del tempo. Ma cominciare le costava una fatica sovrumana. Rilesse rapidamente le pagine che aveva scritto la notte prima, dopodiché infilò nella macchina un foglio bianco. Premette due volte il tasto del tabulatore: «PAGINA 89». Rilesse ancora una volta l'ultima pagina che aveva scritto prima di andare a dormire. Mentre la notte precedente si era sentita abbastanza soddisfatta del modo in cui si era espressa, ora, alla luce del sole, quelle stesse frasi le suonavano ridondanti e artificiose. Rimase a fissare il vuoto per qualche minuto, poi si concentrò sulla pagina bianca. Lentamente scrisse: Le cose cambiarono quando il cadavere di Anita venne rinvenuto nella fontana davanti al municipio di Oslo. «Kristin, per piacere!» Premendo più volte con violenza il tasto della X, cancellò tutta la frase e fece un nuovo tentativo:
Il sole era appena sorto quando il netturbino trovò Anita dentro la fontana davanti al municipio di Oslo. In quell'alba idilliaca il caso assunse una nuova dimensione: per la prima volta la polizia aveva in mano qualcosa di più di alcune videocassette e di una manciata di lettere scritte a mano... ... aveva un cadavere. Sul prato, le pecore erano inquiete. Guardò fuori dalla finestra. In cielo volteggiava un uccello di grossa taglia. Un'aquila? O forse un falco? Lo seguì con lo sguardo fino a quando non scomparve dal suo campo visivo. Il fumo di un falò nascosto tra gli alberi sul versante opposto della collina si librò dritto in cielo. Ma poi una raffica di vento lo spazzò via, trasformandolo in un groviglio di vortici irregolari. Kristin si sporse in avanti nel tentativo di rivedere l'uccello. Le pecore avevano smesso di belare. Quando scriveva, non si accorgeva dello scorrere del tempo. I fogli della prima stesura aumentavano in continuazione. Kristin se ne stava lì seduta. Concentrata, con gli occhi fissi sulla pagina bianca o che vagavano sui tasti tondi. La macchina emetteva un ting! acuto ogni volta che lei si avvicinava al margine destro della pagina. Le bruciavano gli occhi e le facevano male le punte delle dita. Scrisse fino a quando non si rese conto di avere una fame terribile. In cucina si scaldò un piatto precotto, una cosa italiana in busta che non sapeva di niente. Uscì sulla pedana con in mano una tazza di tè. Anche se il sole era caldo, il vento era pungente. Si chiese se sulle montagne più alte avesse già cominciato a cadere la neve. Rimase seduta all'aperto per un quarto d'ora, bevendo il tè e sputando le foglioline che le si appiccicavano alla lingua. Rovesciò l'ultimo goccio sull'erba. Rientrò per andare a prendere il cellulare e telefonare a Gunnar. La vecchia compagnia 1 Sulle prime Karianne Li gli parve fredda, ma a poco a poco cominciò a sciogliersi, mentre Gunnar constatava con stupore che era anche molto bella. In televisione e sui giornali gli aveva dato l'impressione di essere una
tipa grigia, formale. Una sorta di topo da biblioteca. Quando sollevò gli occhi per guardarlo, Gunnar si stupì nel notare quanto fosse affascinante. Mentre le esponeva il motivo della sua visita, lei non lo mollò con lo sguardo neanche per un istante. Voleva sapere come poteva essergli utile, e Gunnar le assicurò che non intendeva intervistarla. Per esperienza, sapeva che gli avvocati del suo genere - distanti, circospetti - si lasciavano andare con più facilità quando non venivano citati direttamente. Ciò di cui lui aveva bisogno, le spiegò, erano notizie di prima mano, consigli utili, oltre ai nomi delle persone che avrebbero potuto far luce sulla vita di Rune Strøm. Soprattutto gli amici di vecchia data. «Quelli di quando Linda morì,» specificò. «Nessun problema,» gli rispose lei prima di andare a prendere alcuni documenti dal suo archivio. «Finora non sono riuscita a rintracciarne molti. Erano una compagnia.» Dopo aver esaminato le carte con gli occhi socchiusi, gli fece un sorriso strano, misterioso: «Questi nomi lei non li ha ricevuti da me. Rita Quist, il suo alibi, vive e lavora sulla Markveien. Werner Schwartz, pittore, ha un atelier sulla Parkveien, dove abita anche. A proposito, prima si chiamava Per Hansen. Ann-Reidun Skard, invalida, paziente di una clinica psichiatrica di Solvik, fuori Drammen. Tor Berg, dentista con studio al centro commerciale di Stovner.» Gunnar annotò i nomi su un bloc-notes. «Ha intenzione di dimostrare che è innocente?» le domandò. «Ci può scommettere!» «Ma secondo lei è innocente?» «Ascolto quello che mi dice, e lui afferma di non aver ucciso nessuno. E per quale motivo lei pensa che sia innocente?» Riflettendo, Gunnar alzò gli occhi verso il soffitto. «A dire il vero non lo so, seguo soltanto il mio istinto. Forse perché sembra tutto troppo... scontato? Un po' troppo? Non lo so. Invece lei non ha mai pensato che forse sta mentendo? Che è colpevole fino al midollo? E che si è assunta la difesa di un mostro?» «Gunnar Borg... lei è un uomo pieno di esperienza,» rispose Karianne Li pensierosa, e l'ambiguità di quella frase li fece sorridere entrambi. «Lei sa quali sono i miei doveri di avvocato. Non mettiamo in campo i sentimenti.» Di nuovo lo guardò con espressione ilare. Lui abbassò gli occhi e lei riprese a parlare: «Anche il criminale più crudele ha diritto a un trattamento equo davanti alla legge, e il dovere del suo avvocato consiste nel fare tutto ciò che è in suo potere per aiutarlo. Se poi un avvocato crede che il
suo cliente gli stia mentendo spudoratamente, be', questa è tutta un'altra storia. Un avvocato dovrebbe avere fiducia nel proprio assistito. Probabilmente non bisognerebbe mai rappresentare una persona che non ti sta dicendo la verità. E non c'entra niente il tipo di crimine che ha commesso, è solo una questione di fiducia. Per quanto mi riguarda, non ho mai difeso nessuno che secondo me mi stava mentendo. E nel caso di Rune Strøm il problema non esiste, dal momento che non credo mi stia mentendo.» «E gli indumenti che sono stati trovati nel cassonetto dell'immondizia?» «Qualcuno deve averceli messi.» «Messi?» «Ovvio.» «Chi?» «Ma è evidente! L'assassino! Aquarius!» Gunnar rise: «Ne sembra assolutamente convinta.» Lei annuì. «Ciò significa che l'omicida, premesso che non si tratti di Rune Strøm, ha un qualche legame con lui?» «Forse, ma non necessariamente. Può aver letto di quel vecchio caso sui giornali.» «O conoscerlo?» Lei annuì. «Che tipo è Rune?» L'ombra di un sorriso le increspò le labbra, che Gunnar si scoprì a fissare. Si scoprì a fissare quel rossetto che le faceva sembrare più sottili di quanto in realtà non fossero, e per la prima volta da molti anni sentì un piacevole formicolio tra le gambe. Accidenti, e lui che pensava che quella parte del suo corpo fosse morta da un pezzo. «Speciale,» spiegò. «Molto speciale. Quando ci siamo incontrati, mi ha detto che avevo un'aura sensuale. Testuali parole! Quando un uomo realizza che il suo avvocato è una donna, be', se ne sentono di tutti i colori,» fece una pausa a effetto, «ma 'aura sensuale' non me l'aveva mai detto nessuno! Rune è fatto così! Insomma, è evidente che quell'uomo ha dei problemi...» e si toccò la tempia con un dito. «Quando gli chiedo dove si trovava in questa o quell'occasione, lui si mette a parlare dello spazio celeste e della dimensione ultraterrena. Già mi immagino la reazione del giudice davanti a un imputato che si dichiara innocente perché al momento del delitto si trovava nell'ottava dimensione.» Rise con civetteria, inumidendosi le labbra con la punta della lingua. Fu
un attimo, un movimento quasi impercettibile, ma il risultato fu esplosivo. Sconvolto, Gunnar si rese conto che gli stava venendo un'erezione. O Signore, allora è vero che esiste un'altra vita dopo la morte! Accavallò le gambe. Erano passati sette anni dall'ultima volta in cui era andato a letto con una donna (di certo non un'esperienza degna di nota per nessuno dei due), e tutto d'un tratto eccolo lì, pronto a recuperare il tempo perduto. «Le ha parlato dell'irruzione all'Historisk Museum?» Karianne Li assunse un'espressione sconfortata. «Un colpo di testa! La solita storia. Occultismo e così via. Lui non me ne ha voluto parlare, ma la sua fidanzata, o quello che è, Rita, mi ha raccontato che Rune aveva intenzione di rubare quelle bambole voodoo per restituirle ai loro legittimi proprietari. Qualche sommo sacerdote haitiano, una divinità o una cosa così.» «Ma lei lo ritiene così toccato da aver commesso uno o più omicidi?» Lei scosse graziosamente il capo, e mentre lo fissava si inumidì di nuovo le labbra. «Ma allora lo fa apposta,» pensò Gunnar. «Qualche rotella fuori posto ce l'ha,» disse lei, «ma la cosa non fa di lui un assassino. È solo una questione di tempo, ma prima o poi se ne accorgerà anche la polizia.» «Il che significa che il vero omicida è ancora a piede libero da qualche parte...» «Sì, non c'è alcun dubbio.» Per strada cercò di mettersi in contatto con Kristin, ma invano. Probabilmente era andata a fare un giro nel bosco. Era inquieto per lei. Se Rune Strøm era davvero innocente, allora Aquarius sarebbe stato capace di qualsiasi cosa. 2 Gunnar ritornò al «Dagbladet» a piedi. Arrivato in ufficio, cominciò a telefonare agli amici di Rune Strøm. L'unico con cui riuscì a parlare fu Werner Schwartz, che gli disse che stava dipingendo, ma che sarebbe stato felice di potergli essere d'aiuto. L'atelier si trovava in una mansarda sulla Parkveien e aveva esattamente l'aspetto che Gunnar si era immaginato: grandi abbaini, un enorme cavalletto, e una coppia nuda distesa su un letto in un abbraccio congelato. E Werner Schwartz: alto, magrissimo, con i capelli sottili e macchie di colori
a olio sulla camicia. Gunnar si sentì in imbarazzo per via di quei due modelli completamente nudi, ma né Schwartz né la coppia gli diedero l'impressione di sentirsi a disagio. Nel suo ufficio Gunnar era riuscito a darsi una calmata, ma la vista della ragazza, un'ammaliatrice dalla pelle rosea degna di un dipinto di Rubens, gli risvegliò i suoi istinti più nascosti. «Oddio,» pensò, «deve essermi venuto un tumore all'ipofisi!» «Si tratta di Rune Strøm,» esordì Gunnar cercando di non distogliere lo sguardo da quel pittore allampanato che sapeva di acquaragia e di pittura a olio. «Poveraccio, ho sentito parlare di tutta questa storia. Da non credere!» Era bleso. «Non penso sia stato lui. Non l'ho mai pensato neanche allora... Linda, sa... e continuo a non pensarlo.» «Hanno trovato degli indumenti...» Schwartz rabbrividì: una reazione che voleva significare che nel suo mondo non c'era posto per quel genere di brutture. «Conosco Rune. O meglio, lo conoscevo. È da molto che non ci vediamo.» «Dove l'ha conosciuto?» «Facevamo parte della stessa compagnia al liceo. Eravamo in classe insieme alla Katedralskolen. Eravamo una compagnia. Sa, quelle cose da ragazzi.» «E lei ritiene che non sia stato lui a uccidere Linda?» «Non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. Rune è un ragazzo sensibile. Una volta andò fino alla facoltà di Veterinaria per far curare un gatto che era stato investito. Rune era interessato alla dimensione spirituale. A un sapere più alto. Adesso la chiamano New Age.» «Lei fu interrogato quando Linda venne assassinata?» «Assassinata? Personalmente continuo a credere che sia annegata. Secondo me si era fumata una canna e si è addormentata nella vasca da bagno. Aveva la mania di farsi il bagno, quella stupida! Scusi, sa! No, non mi interrogò nessuno. Perché avrebbero dovuto?» «Che cosa ricorda?» «Ricordo che Rune era completamente distrutto. Il fatto avvenne qualche anno dopo la fine del liceo. Noi della compagnia per un po' continuammo a vederci, ma dopo la morte di Linda Rune non è più stato lo stesso. Ebbe come un blocco, non so se mi spiego. Ritornò a vivere con quella pazza di sua madre, e una madre del genere sarebbe stata capace di trasformare chiunque in un omicida malato di mente. Ma non Rune. Si
staccò da tutti. A eccezione di Rita. Si misero insieme qualche anno dopo. E ci stanno ancora, a quanto mi pare di capire. Ma Rune rimase, come posso dire, in disparte. Una sorta di emarginato. Capisce cosa intendo? Ho la tendenza a esprimermi in maniera poco chiara. Ha mai sentito parlare del suo tentativo di furto? Quando cercò di rubare quegli aggeggi voodoo all'Historisk Museum? Tipico di Rune! Totalmente ossessionato da idee fisse di quel tipo. Eppure non è un assassino. No, no. Troppo buono.» Di nascosto, Gunnar diede un'occhiata alla modella prima di congedarsi: sembrava che si fosse addormentata. 3 Mentre si trovava sul pianerottolo del primo piano, sentì il telefono squillare. Arrancò su per le scale e si mise a cercare febbrilmente le chiavi... «Su, su, su!»... aprì la porta... «Non riagganciare!»... e si precipitò a sollevare la cornetta. «Pronto?» ansimò. «Stavi dormendo?» La linea era disturbata, ma la voce era quella di Kristin. Nessun dubbio. Quasi non aveva abbastanza fiato per rispondere. «Grazie al cielo... ho cercato... di telefonarti... prima... oggi,» riprese fiato, «sono appena... entrato in casa.» «Gunnar? Ti sta per venire un infarto o cosa?» Silenzio. «Pronto? Gunnar?» «Sono vivo, sono vivo! Devo solo riprendere fiato.» Silenzio. «Perché mi hai chiamato oggi?» gli domandò. «Sono stato dall'avvocato di Rune Strøm...» «E?» «È solo che...» Si trattenne. «Sì?» «Kristin, ho una brutta sensazione.» «Brutta? In che senso... brutta?» «Ho parlato con delle persone. Conoscenti di Strøm.» «E?» «Ho pensato...» Cercò le parole giuste per dirlo: «Non ti è mai venuto in mente che Rune Strøm forse non è Aquarius?»
Lei rimase in silenzio, ma poi disse: «No, in effetti no. Anzi. Sono certa che sia lui, Gunnar!» «Ma Kristin... Non ti sembra tutto un po' troppo... scontato?» «Cosa intendi dire?» «La ragazza che viene uccisa nella vasca da bagno. Rune Strøm che è nato sotto il segno dell'Acquario. Gli indumenti che sembra stiano aspettando la polizia nel cassonetto dell'immondizia. Gli indizi non sono un po' troppo... evidenti?» «Non per la legge.» «Non è possibile che abbiano tralasciato di valutare la situazione nel suo insieme?» «Gunnar,» disse freddamente Kristin, «perdonami la franchezza, ma invece non è possibile che la sbornia ti abbia suscitato delle manie di persecuzione e delle fantasie cospiratorie?» «Io... Kristin, non mi piace che tu te ne stia lassù tutta sola.» Sentì la sua risata risuonare nella cornetta. «Stai tranquillo! E comunque, Gunnar, la baita è il posto più pacifico del mondo. È lontano chilometri e chilometri da tutto! Non potrei essere più al sicuro di così!» Gunnar rispose: «Non se lui ti sta cercando.» «Piantala, Gunnar.» Sospirò. «Non insisto.» Pausa. «Perché mi hai telefonato?» «Mi chiedevo come stavi.» «Intendi dire se sono sobrio?» «In fondo non è poi così male: tu ti preoccupi per me e io per te.» «Hai paura che mi possa ubriacare?» «Non prendertela. Volevo semplicemente sentire come stavi.» Lui aspettò un po' prima di rispondere: «Scusa,» le disse. «Non è colpa tua se io...» Guardò l'ingresso buio. «È uno schifo, Kristin. Uno schifo!» «Mi sento in colpa, Gunnar.» «Non esserlo. La colpa è mia.» «Non intendevo nasconderti niente. Davvero. Credevo che avessi pensato tu ad avvisare il giornale. Non avrei mai...» «Non devi darmi nessuna spiegazione, Kristin.» Per un attimo cadde il silenzio, ma non si trattò di un silenzio gelido. «Come va con il libro?» le domandò. Gli raccontò di quello che stava scrivendo, del punto a cui era arrivata e della vita alla baita. Per tutto il tempo, Gunnar si vide riflesso nello specchio ovale appeso sopra il tavolino del telefono all'ingresso. Ma era Kristin
che vedeva. «Stai attenta,» le disse prima di attaccare. La bambina nello specchio 1 Verso mezzanotte spense la lampada a petrolio e salì in camera con la torcia. A furia di scrivere, le facevano male la spalla e la mano destra. Ci mancava solo che le venisse la tendinite. Prima di spogliarsi, preparò sul letto i vestiti che avrebbe indossato il giorno dopo. Rabbrividì. Saltellando da un piede all'altro, si infilò la camicia da notte. Si avvolse per bene nel piumone: lasciò fuori soltanto la punta del naso. Mentre aspettava l'arrivo di Morfeo, pensò ai suoi genitori. 2 Quando si addormentò, il pensiero di suo padre la seguì anche in sogno. Sono a Bø, insieme, in una sera buia come la pece carica di una nebbiolina vischiosa e di rumori. La casa cigola: le porte sbattono e si sente un rumore di passi strascicati sul pavimento. Ma non c'è nessuno. Sono in soggiorno, davanti allo specchio. Suo padre le chiede chi è la bambina nello specchio e Kristin ride perché papà non si è accorto che è lei. Non l'ha riconosciuta. A quel punto lei si avvicina sempre di più all'immagine, fino a capire che in effetti quella bambina non è lei ma una sconosciuta. Impaurita, indietreggia di un passo, ma la bambina nello specchio la segue. Il volto e le mani premono contro lo specchio, che si trasforma in una pellicola gommosa che si incolla alla sconosciuta mentre questa lotta per liberarsene. Kristin cerca di scappare, ma suo padre la tiene ferma. Prova a gridare ma non ci riesce. Alza lo sguardo verso di lui. Anche suo padre è diventato un estraneo. Ride di lei. Una risata secca, gracchiante. La bambina dello specchio l'afferra con le sue mani gelide. Kristin la guarda fissa negli occhi. Fino a riconoscere se stessa. Alla fine urla. Si svegliò di soprassalto. La stanza era buia. Un'oscurità intensa e appiccicosa. Come in un ab-
braccio focoso, era sdraiata con il piumone attorcigliato attorno alle braccia e alle gambe. I pugni serrati. «La cosa peggiore, quando si ha un incubo,» pensò, «è svegliarsi da soli in una stanza buia.» Era terrorizzata dagli incubi, come una bambina. Quando dormiva con qualcuno, dopo un incubo gli si stringeva addosso. Fu allora che sentì il rumore. Non si era trattato di un rumore forte. Se fuori ci fosse stato il vento, non l'avrebbe nemmeno sentito. Era l'asse del pavimento ai piedi della scala che aveva scricchiolato. La mente le si schiarì, illuminata da una serie di esplosioni che ebbero luogo nel suo cervello. Non stava sognando! Era sveglia! Si trovava a Bø! C'era qualcuno al piano di sotto! Halvor? Di riflesso, si mise a sedere sul letto e appoggiò i piedi per terra. Strizzò gli occhi (anche se il buio era totale), cercando di pensare a cosa avrebbe potuto usare per difendersi. Fuori un corvo gracchiò. Di scatto Kristin si portò le mani al petto. Oddio. Lentamente, per non far scricchiolare il pavimento, si alzò. Rimase in piedi, in ascolto. Fece un passo. Un cigolio su un gradino della scala. Oddio. Alla cieca, si diresse verso l'armadio dietro la porta. Da piccola, quando giocava a nascondino con Halvor, di solito si nascondeva lì dentro. A tentoni, si mosse sotto il tetto spiovente fino a quando non trovò l'anta. Fece scivolare la mano sinistra lungo lo stipite alla ricerca del pomello di legno. Dovette sollevare leggermente l'anta per aprirla. Infilò una mano nell'armadio. In un attimo di panico pensò: «È nascosto qui dentro!» Quando la sua mano toccò qualcosa, emise un gemito. Una giacca! La vecchia giacca a maglia del nonno. Era appesa lì dentro da una vita. Aveva un odore acre di lana bagnata, di fieno e di pecore. Era stata la porta a cigolare? O Signore. Infilò la gamba destra nell'armadio. Il piede nudo si fece largo tra scarpe e sandali. Cercò di non perdere l'equilibrio e si chinò nel tentativo di trova-
re un buco tra le giacche, le mensole e le scarpe. Non c'era molto spazio. Ma rannicchiandosi e premendo la schiena contro una parete e i piedi contro l'altra, forse sarebbe riuscita a starci. Scivolò sul fondo dell'armadio. Ci stava. A malapena. Con il mento quasi all'altezza dei vestiti appesi, si sedette in una posizione contorta. Tirò verso di sé l'anta, che si richiuse con un colpo. Oddio, oddio, oddio. Trattenne il respiro. L'avrebbe cercata lì dentro? E lei avrebbe sentito il rumore dei suoi passi che vagavano fuori dalla stanza? Avrebbe sentito il tocco della sua mano sull'anta, mentre lui la appoggiava sul pomello e lei veniva accecata dalla sua torcia nel momento in cui lui apriva l'armadio? Le scappava la pipì. Un bisogno così impellente che avvertì delle fitte di dolore all'inguine. Strizzò gli occhi. Il tempo passava. Un minuto... un'ora... un anno. Signore, fa' che sia soltanto un sogno. Un rumore! Non riuscì a capire da dove venisse. L'aria era pesante, piena di polvere e di odori acri. Signore, ti prego, fa' che non mi trovi. Singhiozzò. Un altro rumore. Un passo. Signore, Signore, ti prego, fa' che non mi trovi. L'anta si aprì. 3 Non urlò. Nel buio della stanza lo intravide. Una sagoma fatta d'ombra. Non era reale. Era uscito da un sogno. Una proiezione della sua fantasia plasmata dalla paura. «Sei qui?» le chiese. Lui non è reale lui non è reale lui non è reale. Rimase a lungo davanti all'armadio a osservarla. Vattene! Sparisci! Non sei reale!
Singhiozzando, si rintanò in un angolo dell'armadio. Sto sognando! È un incubo... Uno di quegli incubi dove non sai se sei sveglia o se stai dormendo. Ma lui non si dissolse. «Halvor?» gemette. Lui rimase immobile. Il respiro di Kristin era discontinuo e sincopato. Il cuore le martellava così forte che se lo sentiva ronzare e pulsare nelle orecchie. «Halvor? Sei tu? Halvor?» Fece schioccare le labbra. Si portò le mani al petto: tremavano come in preda ai crampi. ... Signore, fa' che sia Halvor... Dev'essere accaduto qualcosa di terribile giù alla fattoria... Un incendio!... E lui è venuto qui in piena notte ad avvisarmi... «Halvor?» ... Oddio oddio oddio non è Halvor... Un vagabondo! Un ladro! ... che adesso è qui in piedi davanti a una donna... una donna sola... Oddio! Nessuno mi sentirà se mi metto a urlare e lui lo sa e tra poco mi violenterà. Oddio! Ma lui continuava a non parlare. Se ne stava lì: una figura enorme avvolta dalle tenebre, irreale, stregata. Solo allora fu assalita da un pensiero: Mio Dio... e se fosse... lui? Shere Khan era morto. Il veterinario gli aveva detto che non potevano far altro che sopprimerlo. Si era messo a piangere. Molto imbarazzante. Davanti al medico, con la mano destra posata sulla schiena ossuta di Shere Khan, non era riuscito a trattenere le lacrime. Persino il veterinario si era sentito a disagio. Se non l'avessero soppresso, Shere Khan avrebbe continuato a soffrire ma alla fine sarebbe morto comunque, gli aveva spiegato. Non aveva senso. E lui si era dichiarato d'accordo. Era seduto con Shere Khan in grembo quando il veterinario gli aveva fatto l'iniezione, e aveva continuato ad accarezzarlo fino a quando il gatto non aveva esalato l'ultimo respiro. «Chi sei?» gemette lei. Lui spalancò l'anta dell'armadio. Abbassò lo sguardo su quella figura raggomitolata.
Non capiva? Era scema? Veramente non capiva? «Sono io!» rispose lui. Lei emise un suono, un gemito infantile tipico delle donne quando hanno paura. La intravide a malapena, al chiarore della luna che entrava dal lucernario. Era così fragile, vulnerabile: gli ricordava una delle bambole di porcellana di sua madre. La pistola era dura e pesante sulla pelle. Sperava di non doverla usare. Sperava non gli sarebbe servita. Con lei voleva che tutto si svolgesse senza intoppi. Le porse una mano che lei automaticamente afferrò. La sentì tremare. La aiutò ad alzarsi, e vacillando lei andò ad accasciarsi sul letto. «Sono io,» le ripeté. «Oddio,» mormorò lei. «Hai paura?» Sentì soltanto il suo respiro. In quel momento si rese conto che si era dimenticato di filmarla. Era proprio quello il punto, riprendere la sua reazione! Emise un sospiro di disappunto mentre accendeva la videocamera e spegneva la torcia. La luce abbagliante della torcia la costrinse a schermarsi gli occhi con l'avambraccio. Lui la regolò in modo tale che smettesse di accecarla e iniziò a filmarla. Quando finalmente lei si rese conto che quella che lui aveva davanti agli occhi era una videocamera, incrociò le mani davanti al petto e prese a singhiozzare. «Mamma!» esclamò con voce rotta di pianto, come una bambina. Poi sembrò che tentasse di riprendersi. «Ma come...» attaccò. Trattenne il respiro. «Chi sei?» gridò. Dalla sua voce, lui intuì che finalmente stava cominciando a capire. «Sì,» disse semplicemente, «sono io.» Poi tacque, mentre ondate di acqua gelida la investirono. «Oddio... sei scappato?» «Scappato?» Ci volle un attimo prima che lui afferrasse il significato delle sue parole. A volte era proprio lento! Si puntò la luce addosso e lei lo guardò con gli occhi socchiusi. «Ma... chi sei?» gli chiese ancora. Non lo riconobbe. Non poteva essere che così, eppure era deluso. «Chi pensavi che fossi?»
«Pensavo fossi lui.» «Lui?» «Strøm! Rune Strøm.» «Me lo immaginavo.» «Chi sei?» Lui ridacchiò. «Che ci fai qui?» «Ti sono venuto a trovare.» «Oddio, ti prego... ti prego!» «Avevo voglia di incontrarti.» «Ma perché?» «Lo capirai.» Lei respirava così affannosamente che lui sentiva i battiti del suo cuore echeggiarle nella voce. «Chi sei?» gli chiese per la terza volta. «Oh, lo sai chi sono.» Lei rimase in silenzio a lungo. Lui le lasciò il tempo di riflettere, intuendo che i vari tasselli stavano andando al loro posto, uno dopo l'altro. «Ma... Rune Strøm...» mormorò lei. Lui rise facendo schioccare la lingua. «Rune, povero stupido Rune...» Lei rimase di nuovo in silenzio mentre lui continuava a filmarla. «Chi sei? Suo fratello o cosa?» Ancora una volta lui si mise a ridere: «No no no...» Allora gli chiese: «Ma lo conosci?» «Non più.» «Cosa intendi dire?» «Un tempo.» «Un tempo?» «Frequentavamo la stessa compagnia.» «La stessa compagnia...» ripeté lei meccanicamente. Fece una breve risata: «Me la facevo con la sua donna.» Ora lui sentiva soltanto il respiro di lei. Era strano come dal respiro di un essere umano si potesse intuire quello che stava pensando. «La sua donna?» «Sì.» «La fidanzata di Rune Strøm?» «Shhh! Non dirlo a nessuno,» le sussurrò scherzoso. «Linda?»
«Una ragazza splendida!» «Oddio,» disse lei. Rimase in silenzio. Lui giocherellò con la torcia mentre la guardava: senza trucco era ancora più bella. «Oddio,» ripeté lei. «Oddio!» «Non prendertela. Chiunque avrebbe commesso il tuo stesso errore.» Lei lo fissò. «In fondo era tutto giusto,» le spiegò lui. «Tutto quello che voi e la polizia avete scoperto di Rune. Tutti i ragionamenti che avete fatto. Tutto, a eccezione di un dettaglio fondamentale. La premessa, come dire.» «Oddio...» Lui si trattenne, ma poi disse: «Non è stato Rune a uccidere Linda.» Lei era seduta rigida, immobile, non respirava. «È vero! Hanno incolpato lui, ma non è stato lui.» «Oddio..» «Nessuno sapeva di noi. Lei era molto attenta. La imbarazzava il fatto che io fossi un po' più giovane di lei. Le ragazze sono così, lo sai anche tu com'è. E Rune l'avrebbe strozzata se ci avesse scoperto.» «Sei stato tu...» Spense la videocamera e si sdraiò sul letto. Poi appoggiò la torcia sul comodino. Il fascio di luce irradiò un bagliore freddo che illuminò le travi screpolate del soffitto. «Sì,» disse, «sono stato io.» «Tu! Tutto il tempo!» «Sì,» ripeté lui. «Sono stato io tutto il tempo.» Azuria 1 La notte in cui sua madre era morta, i pensieri di Kristin erano rimasti come sospesi dentro un palloncino attaccato al suo corpo attraverso un esile filamento nervoso. Come quella notte. Con una parte del cervello si rendeva conto di quanto fosse fragile e indifesa. Lui poteva fare di lei ciò che voleva e lei non sarebbe mai riuscita a impedirglielo. Ma un'altra parte di lei si era staccata dal suo corpo per osservare, analizzare e ragionare. Sentiva il respiro di lui, che gli fuoriusciva quieto dal naso come se si fosse appena addormentato.
Al bagliore della torcia, Kristin vide che aveva un volto dai tratti delicati, gli occhi azzurri forse un po' troppo grandi: sembrava un bambino triste. Le sopracciglia gli si congiungevano quasi sopra la radice del naso. Aveva un aspetto gentile. Bello. Completamente diverso da come se l'era aspettato. Era seduto sul letto, intento a trafficare con la videocamera. Le dita lunghe, le unghie curate. Non portava anelli. Era il fratello, l'amico, l'amante di qualcuno? Kristin si sforzò di immaginare che tipo di vita conducesse quando non pedinava e uccideva le sue vittime. Gli capitava di cenare conversando con sua moglie e i suoi figli, con i genitori, i fratelli, le zie, gli amici? Salutava cordialmente l'impiegata alla reception in ufficio? Allenava per caso una squadra di calcio di ragazzini? Ma mentre lo osservava, quella nascente simpatia nei suoi confronti venne subito stroncata dal sopraggiungere delle immagini delle sue vittime, donne innocenti che aveva filmato e ucciso, filmato e ucciso, filmato e ucciso. Le chiese: «Stai pensando a come colpirmi? O a come scappare?» Fece una pausa. La fissò. Grandi occhi privi di espressione che le conferivano uno sguardo impaurito, simile a quello di un animale. «No,» gli rispose brusca. «Non provarci nemmeno!» Non aggiunse altro, ma non le staccò gli occhi di dosso nemmeno per un attimo. Kristin non riuscì a reprimere i singhiozzi che le stavano nascendo dentro. Il viso di lui si aprì in un sorriso caloroso. «Hai paura?» Le lacrime la incalzavano, ma Kristin non voleva piangere, non voleva fargli vedere che aveva paura. Tuttavia gli occhi le si riempirono di lacrime che le scesero lungo la guancia in una striscia che gliela bruciò. «Mi ucciderai?» La sua voce era esile e scossa dai fremiti. Era una domanda stupida. Sapeva che era una domanda stupida... Stupida!... Stupida!... Stupida!... Ma le parole le si erano precipitate fuori dal cervello e le erano rimbalzate sulla lingua, uscendole dalla bocca prima che lei riuscisse a fermarle. «Ti prego, ti prego, non uccidermi.» Era una sorta di glossolalia: non voleva dire niente. Era ovvio che sarebbe stato meglio tenere la bocca chiusa, ma le parole erano riuscite a insinuarsi fino alla sua lingua e a uscire liberamente. Sembrava che lui non l'avesse sentita. Kristin gemette di nuovo. «Tra poco spunterà l'alba,» disse lui.
Kristin si chiese se avrebbe mai visto la luce del nuovo giorno o se lui l'avrebbe uccisa lì, in quel preciso istante. Pensò: «Adesso capisco cosa intendono dire tutti quelli che raccontano che la paura della morte gli ha insegnato ad apprezzare anche i dettagli più insignificanti della vita di tutti i giorni. Il sole. Il vento. Mi è sempre sembrato tutto talmente scontato, ma adesso li capisco.» Le disse: «Vestiti.» Le sue parole scatenarono in lei due sentimenti contrastanti: il sollievo di sapere che per il momento non l'avrebbe uccisa e il disgusto di dover sollevare il piumone in sua presenza. Fece per muoversi, ma poi si bloccò. Lui la guardò. «Allora?» esclamò. Impaziente, come se lei avesse protestato. «In che senso mi devo vestire?» mormorò lei. Lui si chinò e le strappò il piumone di dosso. «Pensavi di andare in giro vestita così?» le domandò accennando alla camicia da notte. Rimase sdraiata, ma sollevò il busto puntellandosi sui gomiti. «Ti ho detto di vestirti!» La sua voce non era più irritata. Al contrario, era gentile. Forse era per questo che le faceva così paura. «Sei seduto sui miei vestiti,» gli rispose lei. Ridendo, lui si sollevò per porgerglieli. Kristin sperava che si girasse, o perlomeno che abbassasse gli occhi. Invece rimase seduto a filmarla. Cominciò a infilarsi gli slip, ma con un cenno della mano lui la fermò: voleva che prima si togliesse la camicia da notte. Il terrore la attraversò come una lama di fuoco gelido. Dal diaframma le si irradiò in tutto il corpo. Voleva violentarla! Solo ora lo capiva. Voleva violentarla, ma non in modo crudo e brutale, come quando uccideva. Voleva violentarla lentamente, quasi con dolcezza, come se fossero stati due amanti. Voleva baciarla e accarezzarla, e solo se lei avesse osato opporgli resistenza sarebbe ricorso alla forza. Gli slip le scivolarono tra le dita andando a finire per terra. La paura le si raggrumò dentro, come una palla dura di nausea. Le mani ripresero a tremarle, mentre il mento e il labbro inferiore sussultavano. Su! Si sedette sul letto, e dopo essersi tolta la camicia da notte si incrociò le braccia sui seni, attirando a sé le ginocchia. Il suo corpo era in preda alle convulsioni. Non lo guardò. «Sdraiati,» le disse piano. Per la prima volta, Kristin avvertì una leggera
inquietudine nella sua voce. Le braccia e le gambe si rifiutavano di obbedirle, ma a un certo punto fu come se una corda si fosse spezzata e lei si afflosciò sul letto. Si mise a fissare il soffitto, il legno rinsecchito, le fessure tra le travi, i buchi. La palla che nello stomaco continuava a crescere e a lievitare. «Se mi tocca,» pensò, «gli vomito in faccia.» Reclinò la testa di lato. Lui era immobile, lo sguardo che perlustrava il suo corpo. Si mosse. «Adesso si inginocchia e comincia a toccarmi. Prima con le dita... Oddio!» Di riflesso serrò le cosce e i pugni. «Sta arrivando,» pensò. Lui si chinò, raccolse gli slip da terra e glieli gettò sulla pancia. «Forza! Vestiti!» Rimase sdraiata. Non era vero, aveva sentito male, era solo un trucco, uno sporco trucco. Ma quando lo guardò di sfuggita, lo vide di nuovo alle prese con la videocamera. La spia rossa era accesa. Senza smettere di fissarlo, si mise a sedere. Si infilò gli slip. Il reggiseno. Le calze. La camicia di flanella. I jeans. Lui la riprese per tutto il tempo. La spia rossa luccicava, simile a uno sguardo malvagio. 2 Si sedettero in cucina a bere del tè mentre l'alba spuntava da dietro la collina. Lui se ne stava lì seduto con le mani intrecciate intorno alla tazza, come se volesse scaldarsi. Soffiava sul tè ogni volta che si accingeva a berne un sorso. Kristin si sforzò di comportarsi in maniera disinvolta, ma quando sollevò la tazza la mano le tremò a tal punto che fu costretta ad aiutarsi con l'altra. Continuava a chiedersi: «Quando mi ucciderà?» Era sorpresa dal fatto di trovarlo così attraente. Occhi bellissimi, naso e labbra sottili. Non il suo tipo, ma quel genere di uomo che ti piacerebbe adescare in un night club dopo qualche bicchiere di troppo. Lo sguardo di Kristin si posò sul coltello da pane. «Non sarebbe una mossa molto intelligente da parte tua,» le disse lui. Kristin si girò di colpo verso la finestra. Una pecora stava belando. Dopo aver sollevato la tazza, lui soffiò prima di bere. Poi l'appoggiò con
cautela. «Ovviamente potresti provare a fuggire. O a uccidermi.» Rise. «Ma sarebbe una mossa stupida. Terribilmente stupida, Kristin.» Il suo nome la fece rabbrividire. Le mani di lui armeggiarono sotto il maglione. Estrasse una pistola, grande e pesante. «Vuoi che ti dimostri quanto sarebbe stupida?» Lei scosse decisa la testa. La pistola era blu, d'acciaio. «Perché se tu...» «No, non ce n'è bisogno! Non farò niente. Per favore...» «Non lo so, Kristin. Capisco perfettamente quanto sia allettante l'idea di provarci. Hai paura. Ti stai chiedendo cosa voglio da te. Se ho intenzione di ucciderti. Tra qualche minuto. Domani. O se voglio solo farti paura. Ti stai chiedendo se ti torturerò. Facendoti soffrire fino a che non ce la farai più. Pensi che io sia uno psicopatico che ha commesso crimini talmente orribili che non ti faresti nessuno scrupolo a uccidermi. Se questo ti permettesse di salvarti la vita. Ma per te è difficile, vero? Non hai mai ammazzato nessuno. Non sai se ne avresti il coraggio. Ma sai anche che, se fossi costretta, ce la faresti. Se la tua vita dipendesse da questo. Allo stesso tempo hai paura di quello che accadrebbe se ci provassi e ti andasse male. Mi arrabbierei? Cosa ti farei se tu ci provassi?» Parlava scandendo le parole, come un maestro paziente che cerca di spiegare un concetto difficile a un'allieva ritardata. Kristin si rendeva conto che quell'uomo non aveva bisogno di saper leggere nel pensiero per indovinare che cosa le stava passando per la testa. Tuttavia era terribile sentirlo descrivere i dubbi che la stavano assalendo. Si alzò, e dopo essersi infilato la pistola sotto il maglione andò a prendere il coltello per poi tornare a sedersi. La osservò a lungo. A un certo punto sollevò il coltello davanti agli occhi di Kristin. «Sai che cosa sono capace di fare con questo?» Lo fece ruotare un paio di volte. «Posso ucciderti, ma posso anche fare molte, molte altre cose. Pensaci, Kristin, tu che vivi mostrando la tua faccia.» Alzò il braccio sinistro e si incise leggermente il palmo della mano. Vi affiorò una sottile striscia di sangue. «Rifletti su tutto quello che ti potrei fare. Tutto quello che ti farei se ti venisse anche solo in mente di tentare di aggredirmi. Pensaci.» «Sì.» «Ho detto... pensaci!» «Ci penso, ci penso!»
«Kristin, tu non ci stai pensando! Chiudi quella bocca e pensaci!» Chiuse la bocca. E ci pensò. 3 Le disse: «Voglio che tu venga a fare un viaggio insieme a me.» Da bambina, all'età in cui tutto ti sembra possibile, Kristin sognava a occhi aperti di andare a vivere su un'isola tropicale. Nella libreria del nonno aveva sfogliato dei libri illustrati sull'Oceano Pacifico, e si immaginava su un'isola con un vulcano, una spiaggia bianca circondata dalle palme e una laguna. Sull'isola, ad aspettarla c'era un ragazzo: il figlio di un re, biondo e bello, e lei se lo immaginava in piedi sulla spiaggia corallina, pronto ad accoglierla mentre lei si avvicinava all'isola a bordo di una canoa. Aveva chiamato quell'isola Azuria. Aveva disegnato una cartina che teneva nascosta in un cassetto e si era inventata storie di re e amori contrastati. In prima media, quando il suo professore di geografia aveva chiesto agli studenti di descrivere un paese straniero, lei aveva scritto un tema su Azuria. E lui le aveva dato un Ottimo+. Con gli anni, il fascino che Azuria un tempo aveva esercitato su di lei era scemato, eppure Kristin aveva continuato a conservare nel proprio cuore alcuni coralli di quella spiaggia. Azuria era divenuto il suo paradiso segreto, e Kristin aveva iniziato a pensare all'isola come al luogo a cui sarebbe approdata una volta morta. Per questo, quando lui le disse che avrebbero fatto un viaggio, pensò ad Azuria. Si immaginò la spiaggia, il vulcano frastagliato e le palme che si piegavano leggermente sotto la brezza calda. Allontanate quelle fantasticherie infantili, si sforzò di capire che cosa lui avesse in mente. Un viaggio? Dove? Perché doveva andarci anche lei? «Dove andiamo?» gli domandò, cercando di assumere un tono sottomesso. Alcune domande lo irritavano più di altre e lei non riusciva a capire il perché. «Dove ci porta il destino,» le rispose lui laconico. Non gli chiese altro. Poco dopo si alzò per guardare fuori dalla finestra. «Sono tue le pecore?» Picchiettò l'indice sul vetro. «Appartengono alla fattoria,» rispose lei evasiva. «Quale fattoria?» «La fattoria di cui fa parte anche questa baita.»
«E di quale fattoria si tratta?» «Una fattoria giù al villaggio...» «Conosci il fattore?» «Più o meno.» Non si sarebbe mai immaginata che lui potesse essere così agile. Un secondo prima era vicino alla finestra, e quello dopo le si era scagliato addosso e l'aveva sbattuta contro una parete. Kristin era troppo sconvolta per urlare, ma il suo volto si contrasse in una smorfia. «Non mi mentire!» le sibilò in faccia, così vicino che fu in grado di percepire l'odore del suo alito, che sapeva di caramelle alla menta. «Mai! Mai! Non mentirmi mai più. Mi hai sentito? Mai!» Lei singhiozzava in maniera incontrollata. «Mi hai sentito?» Lei annuì freneticamente. «Mai più!» Lei scosse la testa. La lasciò andare. Kristin rimase addossata alla parete nel tentativo di riprendere a respirare normalmente. «Bene,» disse pacato. «Di chi sono le pecore?» «Di mmm-i, mmm-i, mmm-io fratello,» rispose lei singhiozzando. «Halvor?» Annuì, dopodiché si portò le mani al volto: conosceva il nome di suo fratello. Sapeva di Halvor. Lo aveva ucciso! Aveva ucciso Halvor! Lui andò alla finestra. Girato di spalle, scrutava la vallata. Povero Halvor... Sul ripiano della cucina accanto a lei c'era il coltello da pane. ... fratello mio, caro fratellone, Halvor! Fissò il coltello. E la schiena di lui. Poteva farcela. Se avesse afferrato il coltello e si fosse gettata su di lui, non avrebbe avuto il tempo di girarsi. Poteva farcela! Aveva il coltello. Era in vantaggio su di lui. «Belle pecore,» disse semplicemente lui prima di girarsi. Sulle labbra aveva un sorriso divertito, strafottente, il sorriso di chi sa di aver appena vinto una battaglia. Fissò Kristin negli occhi, quindi guardò il coltello. Sorrise di nuovo. Confusione
Runar Vang si svegliò all'alba. Non gli era mai piaciuto dormire fino a tardi. Anche durante il weekend si alzava diverse ore prima che il resto del condominio tornasse a dare segni di vita. Vagava per l'appartamento pensando ai casi a cui stava lavorando, talvolta metteva un disco jazz (a un volume così basso che quasi non riusciva a sentire la musica), oppure si infilava nel letto accanto a Herdis per sentire l'odore della sua pelle calda e le tracce del profumo che si era messa il giorno prima. Girò la testa. La sera precedente aveva cambiato le lenzuola, e come eseguendo una sorta di rituale magico, aveva tolto dal letto il copripiumone che ci aveva messo Herdis. Eppure la camera sapeva ancora di lei. Si immaginò la sua testa appoggiata sul cuscino, il piumone drappeggiato intorno al suo corpo. Herdis aveva soltanto vent'anni quando si erano sposati. Praticamente una bambina. Faceva tutto quello che lui le chiedeva di fare. Si sottometteva. Lasciava a lui il comando. E quei primi anni avevano plasmato tutta la loro vita insieme. Da allora, lui non era cambiato molto. Lei invece sì. E lui non se n'era accorto. Si mise a sedere sul letto. Erano le cinque e mezzo. Muovendosi a fatica - come aveva fatto a ridursi così? - appoggiò a terra i piedi, che trovarono da soli le ciabatte. Avevano passato al setaccio tutte le abitazioni che potevano in qualche modo avere un legame con Rune Strøm. Niente. Nessuna Frøydis Vik. Nessuna cella. Niente di niente. Dove si trovava il suo rifugio? Era certo che Aquarius avesse rapito Frøydis Vik. Ai giornali avevano detto il contrario: «Siamo possibilisti.» «Non è da escludere che da un momento all'altro torni a casa.» Le solite frasi fumose alle quali i giornalisti abboccavano voracemente e che senza alcun senso critico sbattevano poi in prima pagina. Eppure lui era certo che Aquarius la tenesse prigioniera. Ma dove? Praticamente tutta la questura stava lavorando al caso. Più di un centinaio di uomini! Avevano analizzato il materiale d'archivio, fatto visita a tutti i conoscenti di Strøm (un lavoro veloce, dal momento che erano pochissimi), ribaltato l'abitazione di Rita Quist e persino il vecchio appartamento di Strøm, ispezionando palmo a palmo la casa di Ammerud dove Linda era
stata uccisa. Niente. Nada! Si trascinò in bagno, fece pipì, preparò il caffè, accese la radio, si fece la barba e si vestì. Lo preoccupava il fatto di essersi completamente sbagliato a proposito della pista Strøm. Era la prima volta che il suo intuito gli giocava un colpo simile. Si era chiesto ripetutamente se, arrestando prima Strøm, avrebbero trovato Frøydis Vik. Una domanda alla quale era impossibile dare una risposta. Ma che lo tormentava. L'orologio della cucina indicava le sette meno dieci. Doveva sbrigarsi. Di solito era il primo ad arrivare in ufficio. Gli piaceva accendere le luci, azionare la macchina del caffè e sentire i passi dei suoi uomini che arrivavano uno alla volta. Pensò a Kristin Bye. Era carina. Non ci aveva quasi mai pensato durante le indagini. Ma adesso che tutto era finito, non riusciva a togliersela dalla testa. Non che ne fosse innamorato. Ma era così incredibilmente dolce e carina. Hotel California 1 L'armatura dello zaino le premeva dolorosamente sul fianco mentre scendevano lungo il sentiero. Era presto. Gli steli d'erba erano ancora rigidi e umidi e le pietre scivolose. Lei camminava davanti, lui qualche passo indietro. Kristin avvertiva il suo respiro e, ogni volta che appoggiava un piede a terra, i gemiti delle suole delle sue scarpe da ginnastica. Il sole della mattina era abbagliante, ma lontano e freddo. La luce si rifrangeva nella rugiada. Giù al villaggio, sentì l'autobus in attesa davanti all'ufficio postale con il motore acceso. Dai comignoli di alcune fattorie saliva del fumo. Il paesaggio profumava di estate inoltrata o di autunno appena iniziato. Conosceva quelle zone meglio di lui. Se si fosse tolta lo zaino, avrebbe potuto mettersi a correre a rotta di collo giù per il sentiero o tra i cespugli. Ma la paura la tratteneva. La paura che lui le sparasse. O la raggiungesse. La paura di quello che le sarebbe capitato se lui l'avesse riacciuffata. Attraverso il bosco giungeva il gorgogliare del ruscello. Non si era mai accorta che lo si sentisse dal sentiero.
«Non camminare così veloce,» le disse lui prima di tossire. Quando giunsero al masso che indicava che erano a metà strada, si fermarono a riposare. Da bambina, Kristin camminava sempre davanti a tutti per andarsi a sedere proprio su quella roccia in attesa che i suoi genitori la raggiungessero. I ricordi la costringevano a deglutire in continuazione. Con un rametto, lui grattò via il muschio che aveva ricoperto il masso, fischiettando una melodia che Kristin riconobbe vagamente. «Dove stiamo andando?» gli chiese. Lui continuò a fischiettare. Tra i cespugli si librò un uccello. Kristin vide una nube di insetti minuscoli - zanzare? moscerini? - che iniziarono a sciamare intorno a loro. Con un battito di ciglia, scosse via le lacrime prima di girarsi verso di lui. Fischiettando, la guardava in modo strano. «Che canzone è?» gli chiese. La sua domanda lo fece sorridere, interrompendo così il fischiettio. Ma non le rispose. Di lì a poco finì di togliere il muschio dal masso. Buttò il rametto tra i cespugli. «Andiamo!» Avevano quasi raggiunto la dispensa dietro la fattoria di Halvor quando lui le ordinò di fermarsi, dicendole di proseguire a destra in mezzo agli alberi. Lo guardò sorpresa, ma con un gesto impaziente della mano lui le ribadì di proseguire. Per qualche centinaio di metri scesero lungo un varco aperto dal passaggio degli animali e ormai quasi ricoperto d'erba. Kristin continuava a chinarsi per evitare rami e rovi. Lui la seguiva a una certa distanza, per evitare di essere colpito dal loro spostamento. Kristin cercò di capire dove si trovassero rispetto alla fattoria. In una discesa molto ripida, dove il bosco era stato spazzato via da una frana, dovettero tenersi per mano per non perdere l'equilibrio e scivolare di sotto. La percorsero fino a quando non raggiunsero una radura. Kristin aveva capito dove si trovavano: in cima alla strada vecchia. Era lì che i ragazzi della valle andavano quando volevano appartarsi. Il ciglio della strada era disseminato di mozziconi di sigarette, preservativi e bottiglie vuote, in parte nascosti dall'erba. Lui le disse di proseguire. Dopo aver superato il cartello ormai a pezzi con scritto 60, si infilarono tra gli alberi. Kristin non vide il furgoncino fino a quando non se lo ritrovò davanti. Sembrava che fosse sfrecciato in mezzo a dei cespugli fitti che in parte gli
erano rimasti impigliati. Ma quando lui iniziò a staccare i rami, capì che si trattava di un camuffamento. Non le chiese di aiutarlo. Kristin rimase perfettamente immobile fino a quando lui non ebbe finito di far sparire tutti i rami che avevano ricoperto il furgoncino. 2 Il motore non ebbe alcuna difficoltà ad accendersi. Lui si dichiarò sollevato: ultimamente, quando il clima era freddo e umido, aveva avuto dei problemi con l'accensione, e per tutta la notte non aveva mai smesso di pensare a cosa avrebbe potuto fare se il furgoncino non fosse partito. Invece si era acceso al primo colpo. Fece retromarcia per immettersi sulla strada, ma senza mai toglierle gli occhi di dosso. Seduta con le mani strette tra le ginocchia, Kristin fissava un punto lontano davanti al parabrezza. Le aveva fatto allacciare la cintura di sicurezza, in modo che non le venisse in mente di buttarsi fuori mentre erano in movimento o qualcosa del genere. Era incredibile quanto fossero temerarie certe ragazze. Infilò nello stereo una cassetta su cui aveva registrato Hotel California. Prima di abbandonare il furgoncino nel bosco, aveva riavvolto il nastro in modo che iniziasse proprio con quella canzone. Ma lei non stava ascoltando. «Eagles,» le disse lui. Lei ebbe un sussulto e ci volle un po' prima che gli rispondesse. «Scusa?» Lui fece un cenno con la testa in direzione dello stereo. Lei seguì il suo sguardo. «Eagles!» ripeté lui. Finalmente lei capì. O quantomeno fece un sorrisino stupido. All'assolo di chitarra lui iniziò a fischiettare a voce bassissima. Le lanciò un'occhiata di traverso, ma lei aveva l'aria di star pensando ad altro. La strada che si snodava in uscita dalla valle di Juvdal era stretta e tortuosa. Monotona. Alture spoglie e ampie distese di pini. Valli buie, zone disboscate, foreste addormentate sotto le pendici delle montagne. L'asfalto era grigio e dissestato, con la linea bianca tratteggiata che separava le due corsie scolorita dal tempo. Quel paesaggio gli faceva venire in mente Thelma & Louise. Detestava quel film. A eccezione del finale, forse.
Abbassò il finestrino di qualche centimetro. Era stupito dal fatto di non incrociare altre macchine. «Mi puoi dire dove stiamo andando?» gli chiese lei a bassa voce. L'irritazione gli montò dentro come una fiammata, ma si spense subito. Come un fiammifero investito da un colpo di vento. Già prima gli aveva fatto la stessa domanda e lui non le aveva risposto. Ecco perché sembrava che lei avesse paura di richiederglielo, di insistere. Avrebbe potuto dirle che stavano andando a casa sua, e sarebbe stata la verità. A casa sua, in città. Il pensiero di Frøydis lo sconvolgeva. Proprio non le capiva, le donne! Mai! Aveva creduto di averla capita, invece non aveva capito un bel niente. Che lei fosse capace di una cosa simile! Guardò Kristin di traverso. Prima o poi sarebbero andati a casa, ma prima dovevano fare un viaggetto. 3 Guidando, con le mani strette sul volante e lo sguardo simile a un radar che passava in rassegna la strada e i dintorni, quasi si dimenticò della sua presenza. Aveva con sé un paio di cassette di musica anni Settanta che non si stancava mai di ascoltare. Faceva tornare indietro in continuazione alcune delle canzoni, come Hotel California, per ascoltarle ancora e ancora. Sullo sportellino del portaoggetti aveva appiccicato un adesivo rosso con scritto «Grazie di aver scelto di non fumare». E un altro con «Il tabacco uccide» e il disegno di una sigaretta spezzata a metà. Aveva buttato via l'accendino in dotazione del furgoncino. Quando con un filo di voce lei gli disse che le scappava la pipì, lui accostò e lasciò che si nascondesse dietro un cespuglio. Ma le chiese di contare a voce alta, in modo da dissuaderla a compiere qualche sciocchezza. Anche se Kristin aveva percorso quella strada centinaia di volte, ora le sembrava più lunga e più noiosa del solito. Era tutto come sempre: i tronchi secchi e le radici che spuntavano dal terreno, i laghetti che rilucevano per un attimo in mezzo agli alberi, il ronzio dei tralicci della luce, le casse piene di sale dell'ente stradale. La paura era stata soppiantata da una specie di rassegnazione catatonica. Pensava che, una volta che si fossero avvicinati a un centro abitato, avrebbe potuto buttarsi fuori dalla macchina in corsa, anche se non era sicura di
averne il coraggio. Avrebbe potuto comunicare a gesti con i passeggeri delle auto che li superavano, o abbassare il finestrino e mettersi a urlare chiedendo aiuto. Facile. Ma non l'avrebbe fatto. Sarebbe stato così facile. Vicino a una delle aree di disboscamento, lui si accostò e tirò il freno a mano. Lei sentì il proprio corpo irrigidirsi. «È arrivato il momento,» pensò lei. «Mi vuole uccidere qui, in questa zona deserta.» Le aprì la portiera, e dopo averla fatta scendere e averla condotta verso una catasta di abeti appena tagliati, la fece sedere su uno dei tronchi ruvidi e la filmò. Le chiese di salutare con la mano e di sorridere. Lei salutò con la mano e sorrise. Lui parve soddisfatto. Poi risalirono sul furgoncino. 4 Una volta sulla statale, girò a destra. Non proseguì in direzione di Oslo. Si accorse che lei lo stava guardando, ma non disse niente. Poco dopo lei gli chiese: «Andiamo in montagna?» Ma non ottenne alcuna risposta. La statale era più trafficata del solito. Lui era inquieto. Temeva che le venisse in mente di fare qualche segnale agli altri automobilisti. Ma lei era seduta immobile. Le aveva fatto mettere un cappello e un paio di occhiali da sole: avrebbe potuto essere chiunque. Sua moglie, per esempio. Cominciò a ridere tra sé e sé. Giunti alle rapide di Bøverfoss, parcheggiò in una piazzola di sosta e la fece scendere fino al fiume per filmarla. Era rigida, impaurita. La fece sedere su un masso accanto al fiume: con la spuma bianca che si levava dalle rapide sullo sfondo, le riprese erano stupende. Le chiese di togliersi il cappello e gli occhiali, di salutare con la mano e di sorridere. Quando guidava, sognava sempre a occhi aperti. La sua attenzione era focalizzata sulla strada, ma i suoi pensieri vagavano altrove. Gli piaceva guidare. Lei gli stava seduta accanto in silenzio. Credeva che avrebbe opposto una maggiore resistenza, che avrebbe accampato più proteste, con tanto di argomentazioni profonde di carattere morale, e invece niente. Aveva paura. Bene. Solo se il terrore avesse mollato la presa le sarebbe potuto venire in mente di fare qualcosa. Era solo questione di tempo, ma poi si sarebbe schierata dalla sua parte. Lo avrebbe aiutato. Sostenuto. Probabilmente si
sarebbe addirittura innamorata di lui. La sindrome di Stoccolma. Un classico. Proprio come era accaduto a Frøydis. Strinse le mani sul volante. Sentì lo stomaco contrarsi. Frøydis era proprio come tutte le altre. Gli ci erano voluti soltanto un paio di giorni per rendersene conto. Nutriva sempre grandi aspettative nei confronti di ogni nuova ragazza, ma alla fine si erano rivelate tutte uguali, tutte quante! E Frøydis non era stata un'eccezione. Aveva cominciato con degli sguardi. Lunghi, insistenti. Ogni volta che le portava da mangiare, non sapeva mai dove guardare. Ma per chi l'aveva preso? Per Eva? Aveva iniziato a piacergli sempre meno andare da lei. Persino quando era dietro lo specchio, perfettamente invisibile, lei gli faceva le fusa. Come se sapesse che lui era lì. Diede un'occhiata al tachimetro e rallentò. Non poteva certo correre il rischio di farsi fermare dalla polizia stradale. Più volte era stato sul punto di ucciderla. Di togliersela di torno. Ma aveva continuato a rimandare... Non faceva parte del piano. Non poteva certo spararle così, su due piedi! Doveva includerla in un piano, in una visione d'insieme: era fondamentale che la sua morte fosse una parte del tutto. Come avrebbe desiderato non averla mai vista al parco! Quando rimaneva a osservarla attraverso lo specchio, si chiedeva se si fosse veramente invaghita di lui. Quel pensiero gli trasmise un brivido piacevole in tutto il corpo. Non era impossibile. Quando si teme e si odia qualcuno intensamente, è facile iniziare a provare anche dei sentimenti opposti. Aveva letto molto in proposito, ma non l'aveva mai sperimentato prima. Alla fine la situazione era diventata insostenibile. Come la mattina prima... Era davanti a lei con il vassoio della colazione tra le mani e lei gli si era appiccicata addosso con lo sguardo. Uno sguardo che lo aveva stordito, nauseato. «C'è qualcosa che non va?» gli aveva chiesto. Con quella sua voce ripugnante, umida. Una voce da vamp. Lui non era neanche riuscito a muoversi. «Senti...» aveva continuato. Con una voce melliflua, stucchevole. Come se fossero fidanzati. Senti? Lui sapeva benissimo cosa sarebbe venuto dopo quel Senti. Si era girato ed era uscito. Aveva chiuso la porta a chiave e aveva ripor-
tato la colazione in cucina. Poi era ridisceso. Mentre la osservava attraverso lo specchio si era detto: «Me ne vado!» Il viso gli si era aperto in un sorriso. Era così semplice. Non sarebbe stato costretto a ucciderla: gli sarebbe bastato andarsene e lasciare che le cose seguissero il loro corso. Senza acqua, Frøydis non aveva nessuna speranza di farcela. Ci sarebbe voluto qualche giorno. E andava bene così. Alla perfezione. Aveva bisogno di trascorrere alcuni giorni con Kristin prima che il materasso e tutto il resto si liberassero. 5 Superarono una serie di formazioni rocciose frastagliate e macchie di pini contorti che si abbarbicavano al terreno nei punti in cui la montagna lo consentiva. «Potrei ucciderlo,» pensò Kristin. «Se si trovasse sull'orlo di un burrone, mi basterebbe dargli una spinta.» Un pensiero strano per una pacifista come lei, ammise a se stessa. Un tempo aveva preso parte ai cortei che dimostravano contro la violenza e le armi atomiche. Aveva sempre considerato la vita come un bene inviolabile. Non aveva mai posseduto una pelliccia (una questione economica, oltre che morale). E per un periodo (più o meno due settimane) aveva anche provato a essere vegetariana. Eppure sapeva che sarebbe stata capace di ucciderlo, se solo se ne fosse presentata l'occasione. La paura aveva su di lei un effetto paralizzante. Sperava che tutto si risolvesse senza che lei fosse costretta ad alzare un dito. Sperava che di colpo lui scoppiasse a piangere e la lasciasse andare. O che la polizia balzasse fuori e lo arrestasse. Qualsiasi cosa, purché le consentisse di non alzare nemmeno un dito. Si richiuse nei propri pensieri, cercando di tenerlo lontano dalla sua mente. Il cellulare squillò in pieno giorno. Era nello zaino, tra i vestiti che aveva cacciato dentro alla rinfusa. Si girò verso di lui con espressione interrogativa. Lui estrasse la pistola. «Rispondi!» le disse.
A tentoni, Kristin riuscì a trovare il cellulare in mezzo ai vestiti, quindi rispose. «Pronto?» esclamò. Lui non la mollava un attimo. «Ciao, sono io.» La voce di Gunnar. Come da un'altra galassia. «Eri fuori?» le domandò. «Io...» «Kristin? Pronto?» «Ci sono. È la linea.» «Volevo sapere come andava. Su alla baita.» «Benissimo.» «Sono in pensiero per te, lo sai.» «Sì.» «Non fa freddo?» «No.» «Ti ho disturbata? Stavi scrivendo?» «Non importa.» Ogni parola le rimaneva come sospesa in gola. «Kristin? Mi sa che la batteria del tuo cellulare sta per esaurirsi. La tua voce va e viene.» «L'ho ricaricata ieri. Da Halvor.» Sentì un nodo in gola. Lui le agitò stizzito la canna della pistola davanti alla faccia. «Ah!» Gunnar sembrava confuso: di solito non era così concisa. Forse si era offesa. «Va bene, va bene. Non voglio disturbarti. Stammi bene!» «Ciao!» gli sussurrò lei. Finita la conversazione, strizzò gli occhi. «Brava bambina,» fu il commento di lui. 6 Dopo aver percorso la valle per alcune decine di chilometri, si fermò a una stazione di servizio per fare il pieno. Introdusse la carta di credito nella colonnina accanto alla pompa di benzina, digitò il codice, sollevò l'erogatore e cominciò a riempire il serbatoio. Per tutto il tempo non le staccò gli occhi di dosso: lei era seduta immobile. Le aveva detto che avrebbe sparato a lei e a tutti i presenti se solo avesse provato a urlare, e pareva che lei lo avesse preso sul serio. Bene. Non stava mentendo. Fatto il pieno, rimise l'erogatore al suo posto. Con un cenno della mano, salutò l'uomo che lo stava osservando dalla finestra del casotto della stazione di servizio. L'uo-
mo ricambiò il gesto. «Se fossimo in un film americano, andrei a sparargli,» pensò. «Brava bambina,» le disse rimettendo in moto la macchina e immettendosi di nuovo sulla carreggiata. Lei non gli rispose. «Sei mai venuta qui?» le domandò. «Non mi ricordo.» «Io sì,» le rivelò lui. «Come hai fatto a trovarmi?» «Sul 'VG' c'era scritto che saresti venuta qui a scrivere un libro.» «Sai un sacco di cose di me.» Lui iniziò a raccontare: di quando l'aveva pedinata, di quando, gentile e affabile, aveva telefonato in redazione, prima del telegiornale, dicendo: «Salve, sono Halvor, il fratello di Kristin, stiamo organizzando una festa a sorpresa per un nostro amico ma non trovo più il numero di cellulare di Kristin. Non è che per caso ce l'avete?» E qualcuno era stato così premuroso da darglielo senza sospettare niente. Rise, una risata di orgoglio e autocompiacimento. «E così conosci Rune Strøm?» gli chiese lei. Il suo sorriso svanì, le mani si serrarono sul volante. Quante volte ancora aveva intenzione di fargli la stessa domanda? «Conoscevo meglio la sua donna,» le rispose. Provò a ridere, ma sembrò un colpo di tosse. «Hanno trovato degli indumenti di Marianne nel cassonetto dell'immondizia davanti a casa sua...» continuò lei. La sua era una domanda, ma lui non le rispose. «Sei stato tu a metterceli,» proseguì lei. «Nel cassonetto. Sei stato tu a mettere gli indumenti di Marianne nel cassonetto dell'immondizia.» «È di una facilità imbarazzante. Manipolare la gente. È come guidare un trenino elettrico: lo fai andare dove vuoi e alla velocità che vuoi. Anche su un binario cieco.» «Come facevi a sapere che la polizia lo avrebbe sospettato?» «Perché lo volevo.» «Lo volevi?» «Kristin, mi deludi.» «Ma...» «Perché credi che abbia ucciso Marianne nella vasca da bagno?» Rimase in silenzio per qualche secondo, poi iniziò a piangere.
Avanzarono ancora di qualche chilometro. «Avresti confessato? Se fosse stato condannato?» gli domandò. Sulle prime lui non rispose, con lo sguardo fisso sulla strada, ma poi le disse: «No, ma prima o poi avrei ucciso un'altra ragazza.» L'amante 1 Tor Berg riuscì a scambiare due parole con Gunnar tra un'otturazione e l'altra. Era un uomo energico, dai capelli radi, con la barba corta e dita lunghe e sottili. Sembrava scosso per il fatto di essere in qualche modo coinvolto in quel caso, ma allo stesso tempo era curioso. Conosceva Rune sin dai tempi del liceo, gli raccontò, anche se poi si erano praticamente persi di vista. E non capiva perché, dopo tutti quegli anni, il suo nome fosse rispuntato fuori. «Non sono mai stato molto attivo nella...» esitò «... compagnia. Per me era più che altro un divertimento. Ma poi, dopo la maturità, mi sono allontanato. Gli studi, il prestito che avevo ottenuto da restituire. Moglie e figli. Sa come vanno queste cose. Quando ai tempi lessi della morte di Linda, non facevo già più parte della compagnia. Capisce?» Gunnar capiva. Gli fece parecchie domande, ma Berg non aveva risposte da dargli. Dopo dieci minuti Gunnar lo ringraziò per l'aiuto, sorridendo compassionevole alla donna a cui era saltata l'otturazione. Non era un sorriso forzato: Gunnar aveva sempre avuto paura del dentista. 2 Dal centro commerciale di Stovner prese un taxi per il centro. Chiese al conducente di passare dalla Markveien, davanti al negozio di Rita Quist. Quando vide che era aperto, gli disse di fermarsi. Dietro il bancone, Rita Quist aveva l'aria di una matrona. Quando Gunnar fece suonare la campanella, venne avvolto da una nube di profumi penetranti. Lei gli diede amichevolmente il benvenuto, ma quando lui, speranzoso, si presentò con la vecchia formula magica «Buongiorno, sono Borg. Del 'Dagbladet'! Gunnar Borg!», gli occhi della donna si assottigliarono. «Vada al diavolo!» sibilò.
Gunnar sussultò: non era abituato a essere aggredito in quel modo. «Siete soltanto dei maledettissimi bugiardi, tutti quanti! Scrivete quello che vi pare. Non faccia affidamento sul mio aiuto. Neanche per un istante. Sparisca!» «Lei non capisce,» le disse lui con la sua voce profonda, da nonno. Dopo aver appoggiato le mani sul bancone, si protese verso di lei: «Io sono qui per aiutarvi.» La donna, che aveva già pronta sulla punta della lingua una nuova scarica di insulti, esitò. «Sono convinto che Rune non sia colpevole,» aggiunse Gunnar. Lo stava fissando, grande e grossa come una delle statue del Vigeland. «Cosa intende dire?» La sua voce era leggermente più dolce, ma ancora sospettosa. «Sono convinto che Rune non sia colpevole,» ripeté Gunnar. «Lei è convinto che Rune non sia l'assassino...» fece lei scettica. «Credo che la polizia abbia arrestato la persona sbagliata, ma ho bisogno di prove. E del suo aiuto.» «Aiuto? Che genere d'aiuto?» Era così vecchio da potersi permettere di farle l'occhiolino. «Come prima cosa... ha intenzione di collaborare?» «Non è un trucco, vero? Vi conosco, voi giornalisti. Mentite senza pudore! Perché dovrei crederle?» Con occhi inquisitori, lo squadrò da capo a piedi. «Forse sta scrutando la mia aura,» pensò lui divertito. «Lei ha un'aura verde scuro,» gli disse. «Ah sì? Verde scuro? Ma guarda!» «Cosa posso fare per lei?» «Semplicemente raccontarmi tutto quello che si ricorda. Quello che avete fatto lei e Rune nel lasso di tempo per cui lui ha un alibi. Che cosa ha riferito alla polizia. Tutto quello che si ricorda.» Rita Quist inspirò profondamente dal naso. «Posso accendermi una sigaretta?» gli chiese senza aspettare una risposta. Tirò fuori una sigaretta rollata a mano e l'accese con un accendino antiquato. Quindi si mise a parlare. Gli raccontò della gita alla baita e del fatto che non sapeva come si chiamasse quel posto perché a lei quel genere di cose non interessava. Solo l'essenza di quella vacanza aveva un significato per lei, non quello che c'era scritto su un cartello appeso al muro di una stazione ferroviaria. Le sue parole gli sarebbero sicuramente suonate affettate, ma le cose stavano così,
dal momento che lei soffriva di una forma di dislessia. I nomi, le date... nessuna di quelle cose le rimaneva ancorata al cervello, al contrario dei volti, dei sentimenti e delle atmosfere, che invece era in grado di ricordarsi per anni. Gli disse che Rune era un uomo gentile e premuroso a cui mai, mai!, sarebbe venuto in mente di uccidere un essere umano. Gli parlò della sua visita in questura, dell'insicurezza che aveva provato, di come si era sentita sempre più ingabbiata dentro mezze verità, dato che la polizia era stata così insistente e lei aveva temuto di dire qualcosa di sbagliato, qualcosa che potesse nuocere a Rune. Si ricordava perfettamente delle condizioni disastrose di Rune in seguito alla morte di Linda e alla sua incarcerazione - be', ora stava anche peggio. «Mi racconti di allora,» la pregò Gunnar. «Di quando morì Linda? Mah, è passato tanto di quel tempo.» «Eravate una compagnia di amici?» «Lo può ben dire....» Sorrise lei malinconica. «Eravamo tutti allievi della Katedralskolen. Completamente pazzi. La maggior parte di noi, almeno. Non volevamo far parte di nessuno dei gruppi che si erano formati a scuola. Zero figli di papà. Zero freak. Zero comunisti. Così creammo un gruppo tutto nostro. Ci chiamavamo il Clan. Molto altisonante. Iniziammo a sperimentare la meditazione. Qualche canna il venerdì sera, cose innocenti. Poi cominciammo a interessarci all'astrologia e all'occultismo. Leggevamo le carte astrali, organizzavamo delle sedute spiritiche. Divenne una specie di stile di vita.» «Perché non ha mai raccontato queste cose a nessuno?» «Raccontato? Oddio, che importanza possono avere? E poi nessuno mi ha mai chiesto niente.» 3 Il sole del pomeriggio lo accecò mentre saliva di corsa le scale che portavano alla clinica psichiatrica di Solvik. Dopo aver spinto la pesante porta d'accesso alla clinica, si ritrovò in un corridoio. In fondo, si apriva una sala in cui erano stati sistemati un televisore e dei telai. Lì sedute, c'erano più o meno una decina di persone, tra uomini e donne. «Ann-Reidun Skard?» chiese lui. Senza incrociare il suo sguardo, una donna magrissima si alzò. In modo meccanico, come un robot costruito per obbedire a un nome, a una parola, a un suono. Il suo volto era un teschio rivestito di pelle. La tuta da ginna-
stica le pendeva dalle spalle come se fosse stata appesa a una gruccia. Gunnar pensò: «Poveraccia! Un sacchetto di pelle pieno di ossa e di nervi.» «Grazie per aver accettato di ricevermi,» le disse. La donna annuì brevemente, schiarendosi la voce, evitando però di guardarlo. «C'è un posto dove possiamo parlare indisturbati?» le domandò. Lei gli fece strada lungo il corridoio. Entrarono in una stanza vuota dove era consentito fumare. Dopo essersi seduta su una sedia, prese a torcersi nervosamente le mani, come se avesse avuto tra le dita uno straccio gocciolante. «È passato parecchio tempo dall'ultima volta in cui ha visto Rune?» le chiese. Lei si schiarì di nuovo la voce: «Oh, sì, oddio, è stato anni e anni fa. Almeno dieci.» La sua voce era roca e piatta, quasi priva di cadenza. «Dunque, non lo conosce molto bene?» «Non più. Sa... Ma ai vecchi tempi passavamo molto tempo insieme.» «Avete frequentato la stessa scuola, vero?» «Come fa a saperlo? Ero nella stessa classe di Rune e di Linda. Eravamo una compagnia...» «Lei faceva parte del Clan?» «Oddio, quelle scemenze. Dove ne ha sentito parlare? Fantasie adolescenziali. Flirtavamo con il soprannaturale. Niente di serio.» «Conosceva bene Linda?» Il suo corpo scheletrico prese a tintinnare. «Sa...» Si schiarì la voce; c'era qualcosa di maniacale in quel gesto. «Eravate amiche?» «Oh, sì. Per la pelle.» «Cos'ha pensato quando è morta? Che fosse stato Rune?» Di nuovo, quando scosse la testa, si sentì il tintinnio delle ossa. «Come fa a esserne così certa?» «Certa? Be'...» scosse la testa. Come uno scoiattolo, cominciò a rodersi le pellicine rimaste attaccate intorno alle unghie rosicchiate. «Come?» ripeté Gunnar. «Lo so e basta, no?» «Ma come fa a saperlo?» Sospirò, si schiarì la voce e di nuovo sospirò. «Perché fui io a fare in modo che quella sera Rune uscisse di casa, va bene?»
«Cosa intende dire?» «Quella sera lui era insieme a me. A una specie di seduta spiritica. Era stata Linda a volerlo.» «Non capisco...» «Lei aveva un amico. Uno di cui Rune non doveva sapere niente. Sa... Così qualche volta l'aiutavo ad allontanare Rune da casa, OK?» «Aveva un amico? Un amante?» «Mah, amante... Comunque sia, era una scelta di Linda, no?» «Chi era?» Allargò le braccia. «Non volle mai dirmelo. Neanche a me.» «E perché lei non l'ha mai detto alla polizia?» Sussultò, come se qualcuno l'avesse schiaffeggiata. Sembrava che gli occhi le stessero per schizzare fuori dalle orbite. Una vena le pulsava sulla tempia. «Non ero esattamente in me, sa? È stato alla morte di Linda che tutto questo è cominciato...» Tese le braccia scheletriche a mo' di spiegazione. Stava lottando per controllarsi. «Quando Linda morì, ebbi un... collasso. I nervi. Fui ricoverata. E una volta guarita,» rise apatica, come per sottolineare che guarita probabilmente non era la parola giusta, «Rune non era più sospettato da tempo. Il caso era chiuso. Linda mi aveva confidato un segreto. Non c'era alcuna ragione perché tirassi fuori qualcosa che... che avrebbe infangato la sua memoria. E poi non sapevo neanche chi fosse il suo amico. Non potevo essere di nessun aiuto! Capisce?» L'ultima domanda suonò più che altro come una preghiera. Gunnar le strinse la mano nella sua. Era ossuta e sudaticcia. «Si sforzi di ricordare,» la incitò. «Non le disse mai niente di lui? Il suo nome? Che aspetto aveva? Qualsiasi cosa...» «Era così misteriosa, ma mi disse che era bello. E che non avevano mai... Capisce...» Lui la guardò con espressione interrogativa. «Non avevano mai... Ha capito?» «No...» Si schiarì la voce e riprese a parlare con un tono più basso. «Capisce... andati a letto insieme.» Ridacchiò, imbarazzata come una bambina. «No...» «Non per davvero, perlomeno.» Serrò i pugni. «Le disse perché...?» Lei abbassò lo sguardo. «Di sicuro non per colpa di Linda. Da quel pun-
to di vista era piuttosto aperta. Con i ragazzi, sa...» «Lei mi è di grande aiuto, Ann-Reidun. Bene! Non si ricorda altro?» «Non saprei. Una cosa da niente, forse. Se può essere d'aiuto. Quando lei e Rune si trasferirono ad Ammerud, ricordo che Linda mi disse che così avrebbe potuto ricevere più spesso delle visite. Dal suo amico. Così dedussi che doveva abitare nelle vicinanze. O non molto lontano, no? «Favoloso! Ma non sa dove? Più precisamente?» Lei scosse la testa, e attraverso i capelli radi Gunnar le intravide il cuoio capelluto. Le prese ancora la mano, ma quando gliela strinse, anche se con delicatezza, il volto della donna si contrasse come per il dolore. Gunnar la lasciò andare subito. «Mi ha fatto bene parlarne con qualcuno,» gli disse piano. «Davvero! Me lo sono portato dentro e ne ho sofferto per anni, sa? Tanti anni. Sa, è stato un bene raccontarlo.» IV Le ultime ventiquattro ore 19,05 Il Camping e Bungalow Jøkulfoss non ebbe mai il successo che il comune e gli investitori locali avevano sperato. L'impianto si trovava in una posizione magnifica, su un pendio che digradava dolcemente verso il fiume, non lontano dalla cascata. A due passi dal villaggio, andando verso nord, c'era il laghetto di Langvatn, che si estendeva fino a Skarbu e a Lyngskjervheiene. Fin dal secolo precedente i turisti erano arrivati fin lì per ammirare quella cascata maestosa. Il camping, invece, non era mai diventato un'attrazione turistica. Gli stranieri arrivavano con le loro roulotte, portandosi con sé da mangiare. Mentre i visitatori norvegesi di solito parcheggiavano al villaggio, scendevano fino alla cascata armati di termos e un paio d'ore più tardi ripartivano. Gli appassionati di rafting, che stando agli esperti in fatto di turismo sarebbero arrivati a frotte, consideravano le rapide poco eccitanti. E i pochi che affittavano un bungalow non ci passavano più di una notte. Il camping era stato costruito nel 1986, era fallito nel 1988, era stato rilevato da alcuni privati nel 1989, era fallito una seconda volta nel 1991, e
ora era gestito da una società per metà di proprietà del comune che continuava a investirci sempre più soldi. Leif Bryn osservò il furgoncino che si stava avvicinando al chiosco della reception. Quando aveva rilevato la gestione del camping, non si era certo immaginato che ogni dannato giorno gli sarebbe toccato starsene seduto in quel chiosco in attesa dei turisti. Pensava che il «direttore» fosse quello che se ne andava in giro a controllare che tutti facessero il proprio lavoro. Non credeva di dover fare tutto da solo. In fin dei conti, non era altro che un guardiano e un addetto alla reception sottopagato. Il camping disponeva di venti bungalow, di uno spiazzo in grado di accogliere cinquanta camper e di un'altra area riservata alle tende, dove però non si vedeva quasi mai nessuno. E lui si annoiava. Il furgoncino, piuttosto vecchio, si fermò davanti alla sbarra d'ingresso. Dentro c'erano un uomo e una donna. L'uomo scese e Leif, aperta la finestrella, si sporse in avanti. «Buonasera,» disse l'uomo gentilmente. Un po' troppo gentilmente, in quel modo tipico dei cittadini snob che si rivolgono alla gente di paese facendo finta di non considerarla inferiore. «'sera,» rispose Leif. Non riusciva a capire se la donna fosse bella o brutta, anche se a giudicare dall'aspetto dell'uomo doveva per forza essere carina. «Ha un bungalow libero?» Gli venne voglia di scoppiargli a ridere in faccia. Un bungalow libero? Ne ho talmente tanti, amico, che potresti aprire un centro di accoglienza per extracomunitari, pensò tra sé e sé, ma alla fine non disse niente. Andò a prendere il registro verde e fece scorrere l'indice sulle colonne vuote. Dei venti bungalow a disposizione, solo quattro erano occupati. La stagione estiva era agli sgoccioli, e nel giro di qualche settimana il camping avrebbe chiuso. «Sì,» disse con un sorriso enigmatico, «un buco riesco a trovarvelo.» Rise della propria spiritosaggine. «Per quanto tempo?» «Solo questa notte.» Solo questa notte. Come se fosse impensabile che un essere umano potesse trascorrere più di una notte in quella perla della natura abbandonata da Dio e dagli uomini. «Ci sono molti turisti?» domandò l'uomo. Leif alzò lo sguardo per capire se il tizio lo stava prendendo in giro.
Molti turisti... questa sì che è buona! «Adesso è tranquillo.» Adesso! Che battuta esilarante. «Bene,» rispose l'uomo. C'era qualcosa nel suo modo di parlare che risvegliò l'interesse di Leif. Notò che non portava la fede. Di quei tempi non significava assolutamente nulla, ma magari era in gita di piacere con la sua nuova amichetta. Alle coppie più eccitanti assegnava sempre il bungalow numero 6: una fessura nel bocchettone dell'aria condizionata gli permetteva di starsene fuori, nascosto tra i cespugli, a guardare il letto. «Eccellente,» disse l'uomo. Eccellente. Come se fosse un dirigente di alto rango. Ma se era così maledettamente di alto rango, perché non se ne andava all'albergo giù al villaggio? Perché si accontentava di un bungalow a buon mercato? E perché girava a bordo di un catorcio, e non con una Mercedes 500 SLC? Trovò la chiave del numero 6 mentre l'uomo scriveva il suo nome sul registro. In maniera assolutamente illeggibile, a meno che non si chiamasse D@xs#kjqwe R&wymscxa o qualcosa del genere. Pagò in contanti. Dopo avergli consegnato la chiave, Leif gli indicò il bungalow numero 6, quello vicino al fiume. Il numero era scritto sulla porta, poteva parcheggiare sul retro. L'uomo lo ringraziò. Leif cercò di dare un'occhiata alla donna, che però aveva gli occhiali da sole. Anche se il sole non era assolutamente forte. Non vedeva l'ora di darle un'occhiata attraverso la fessura. 19,20 Il bungalow era più grande di quanto Kristin si fosse immaginata. Entrando, sulla destra, c'era un angolo cottura completo di fornello, frigorifero e lavello. Contro una delle pareti c'erano un divano e un tavolino, mentre il letto matrimoniale era appoggiato alla parete di fronte. Lui richiuse la porta. «Carino,» disse lei apatica. «Trovi?» Rise nervosa. Lo odio, lo odio, lo odio! Chiusa la porta a chiave, lui andò a dare un'occhiata alla finestra. Lei appoggiò lo zaino sul divano. «Adesso ci svaghiamo un po',» le disse. «Svaghiamo? Noi?»
«Pensavo...» «Svaghiamo?» «Possiamo parlare. Fare una passeggiata. Mangiare del cioccolato. Ne ho comprato di due tipi diversi. Vuoi?» Lei scosse la testa. «Cosa ci facciamo qui?» gli domandò dopo un po'. «Come cosa ci facciamo? Dovremo pur dormire da qualche parte.» «Ma poi dove andiamo? E perché qui?» Le sorrise, come per comunicarle che si trattava di un segreto che purtroppo però non le poteva svelare. 19,35 Non sembravano in calore come aveva sperato. Dentro di sé, Leif Bryn imprecò. Alcune delle coppie più giovani non facevano neanche in tempo a entrare e a richiudersi la porta alle spalle che già si erano strappate i vestiti di dosso. Accidenti, ne aveva viste di scenette piccanti attraverso quella fessura. Ma quella sera, di passione neanche l'ombra. La donna era seduta sul divano. Lui era sul letto. Parlavano. Non riusciva a capire quello che si stavano dicendo. Non che gli importasse. Se non avevano intenzione di fare sesso, per lui potevano anche parlare di quotazioni in borsa o del buco nell'ozono. Forse avevano intenzione di aspettare il momento in cui sarebbero andati a letto. Avrebbero spento la luce, si sarebbero infilati sotto il piumone e ci avrebbero dato dentro nella posizione del missionario, come una coppia scoppiata. E allora... sai che divertimento! O forse preferivano la mattina? Alcuni dovevano farsi una bella dormita prima di dedicarsi ad altro. Leif sorrise. Sarebbe tornato a controllare il giorno dopo, al mattino presto. Adesso non aveva più voglia di starsene lì a guardare. Almeno a casa aveva un sacco di film e di riviste porno. 21,45 Il gorgogliare del fiume lo galvanizzava. Non volle scendere lungo il percorso lastricato. Preferì seguire il sentiero che si snodava tra i boschi e che sbucava sulla cascata. In alcuni punti era talmente accidentato che dovette afferrarla perché non perdesse l'equilibrio e precipitasse di sotto. Gli dava una sensazione meravigliosa tenerla per
mano, sentire la sua pelle, il suo calore, il modo in cui contraeva i muscoli per non perdere la presa: una sensazione che dalla mano gli si irradiava come un formicolio nel resto del corpo. Per raggiungere la scala di selce che portava alla terrazza panoramica, dovettero però spostarsi sul percorso lastricato. La cascata gli fece venire le vertigini. Tutta quell'acqua che precipitava verso il basso sollevando una nube di spruzzi. La terrazza era sorretta da cinque massicce colonne di cemento armato che sporgevano dalla roccia. Se ci si affacciava alla balaustra, si poteva vedere il precipizio. Gli piaceva guardare di sotto. Appoggiato alla ringhiera, la filmò, ma ormai la luce si era appiattita. Decise che sarebbe andato avanti a riprenderla il giorno dopo. Quando il sole fosse stato alto nel cielo, avrebbe potuto portarla ai piedi della cascata. La sospinse verso una fila di tavoli fatti con dei tronchi d'albero. Erano soli. Il fragore della cascata era rilassante. «Sei mai stata qui?» le domandò. Lei scosse la testa «Io ci sono venuto tanto, tanto tempo fa,» le disse senza sapere se era vero o se si trattava soltanto di un sogno. Eppure vedeva chiaramente davanti a sé sua madre appoggiata alla balaustra che dava sulla cascata. «Perché mi filmi sempre?» gli chiese lei. La domanda lo colse di sorpresa. La cosa lo irritò. Non gli piacevano le domande a sorpresa. Perché ho un piano, avrebbe potuto risponderle. Perché ho intenzione di portarti nella mia cantina. Ho un materasso che ti sta aspettando. L'avrai sicuramente visto nei filmati. Poi manderò alla televisione dove lavori delle immagini. Di te. Una cassetta dopo l'altra. L'intera nazione parteciperà alla caccia al tesoro. La Grande Caccia a Kristin Bye! Dove sarà oggi? Mamma, portami il caffè e qualche biscotto, c'è il telegiornale con l'enigma del giorno! I luoghi in cui sono state fatte alcune delle riprese saranno impossibili da identificare: boschi e montagne. Potrebbero essere ovunque. Altre riprese, invece, conterranno degli indizi un po' più chiari: la cascata, una montagna, una fattoria. Hai presente quel gioco a premi, «Norge Rundt»? Ecco, immaginati una cosa simile. Con la vita come posta in gioco. E te come protagonista. Avrebbe potuto dirle tutte queste cose. Ma non disse niente. «Pensi di uccidermi?» gli chiese lei.
La guardò dritto negli occhi: «Quando mi fai queste domande, mi viene voglia di farlo.» Lo disse scherzando, ma si accorse che lei lo aveva preso sul serio. 22,10 Lentamente, tenendosi per mano come due fidanzati, si allontanarono dalla cascata. La sera era tiepida e il bosco traboccava di rumori. Questa volta seguirono il percorso lastricato, ma lui la tenne comunque per mano. Voleva che sembrassero una coppia di innamorati, in caso fosse arrivato qualcuno. Kristin non aveva più visto anima viva da quando quel ragazzone alla reception gli aveva consegnato la chiave. Avvertiva una sensazione strana nello stringere la mano di un uomo che aveva ucciso chissà quante donne. Lo guardò di nascosto. Com'era possibile che avesse un'aria così gentile e fragile, per poi, un momento dopo, trasformarsi in un seviziatore e in un assassino senza scrupoli? Uno che prolungava la sofferenza delle proprie vittime tenendole prigioniere, filmandole, uccidendole come delle bestie, uno che infangava la loro memoria inviando le immagini degli omicidi a un'emittente televisiva? «Dove noi abbiamo continuato a infangarla,» pensò lei. In alcuni dei bungalow le luci erano accese. Si fermarono un attimo a osservare il camping, le sagome delle altalene e degli scivoli nel parco giochi, i bungalow bui, l'enorme spiazzo per le roulotte. Un'estate agli sgoccioli... Entrati nel bungalow, accesero la luce. Entrambi avevano fame. Avevano mangiato dei wurstel sia a pranzo che a cena, ma a una stazione di servizio lui aveva comprato delle uova, delle verdure e un po' di pane e così si mise a cucinare una frittata. Dopo aver finito di mangiare, presero una sedia ciascuno e andarono a sedersi fuori. Si era fatto buio, e la cascata sembrava molto più vicina. Non si vedevano le stelle. «Mi sono chiesta una cosa,» esordì lei. Lui la guardò con espressione interrogativa. «Perché hai mandato le cassette proprio a me?» «Sei una giornalista. Lavori in televisione,» le rispose lui evasivo. «Ma perché proprio io?»
«Sei diventata il mio strumento.» «Non capisci... Perché proprio io? Io?» Lui le sorrise imbarazzato, e lei si accorse che era arrossito. «Forse perché mi piaci?» Aveva pronunciato quelle parole con l'intenzione di farle un complimento, ma erano suonate più che altro come una minaccia. Si schiarì la voce. «Non ti ricordi di me?» le chiese sforzandosi di assumere un tono di voce indifferente, ma le sue parole risultarono tese. Lei lo guardò. Mi ricordo di lui? Oddio, dovrei riconoscerlo? L'ho già incontrato prima? «C'è qualcosa in te che non mi è nuovo,» mentì. «Non provarci! Tu non ti ricordi di me!» «So che ti ho già visto, ma non riesco a ricordarmi dove.» Lui disse esitante: «Mi hai intervistato, non ti ricordi?» Intervistato? Mio Dio, IO ho intervistato LUI? «È vero!» gli disse facendo schioccare un paio di volte le dita, come per aiutarsi a ricordare. «Adesso sì che mi ricordo...» «Maggio, l'anno scorso,» l'aiutò lui. Aiuto... Maggio, l'anno scorso... Lavoravo ancora al «Dagbladet»... Maggio! Maggio! Maggio!... «Sì! Ti ho intervistato per quel servizio su...» fece schioccare nuovamente le dita, come se ce l'avesse sulla punta della lingua. «... sui più bei film di tutti i tempi!» concluse lui. Lo guardò. Sapeva perfettamente a quale articolo si stava riferendo: due pagine nell'edizione domenicale del «Dagbladet». Eppure continuava a non ricordarsi di lui. «Non ti ricordi di me,» le disse lui tagliando corto. Non sembrava né arrabbiato né deluso. Ma mentre glielo diceva non la guardò negli occhi. Kristin non cercò più di ricorrere ad altre bugie. «Non c'è bisogno che tu menta,» continuò lui. Lei non disse niente. «È stato a maggio,» proseguì lui. «Il 20 maggio. Mi hai telefonato in ufficio perché qualcuno del Club del Cinema ti aveva fatto il mio nome. Perché ero uno abbastanza informato. Il giorno dopo sei arrivata con un fotografo genere cowboy. Abbiamo parlato. Il cowboy ha scattato un mucchio di foto, ma poi non ne avete pubblicata neanche una.» Lui! Si ricordava vagamente di quell'episodio. Erano nella sala macchine buia di un cinema, con l'enorme proiettore acceso che ronzava alle loro
spalle. Era quello il dettaglio che si ricordava meglio: il frusciare della pellicola che veniva sospinta tra i denti degli ingranaggi. Il ronzio delle ventole. «Ho pensato molto a te. Dopo.» Rise lui imbarazzato. «Ti ho persino scritto un paio di lettere, ma non le ho mai spedite.» Strofinò un piede a terra. «Immagina come sono rimasto quando ho visto che avevi cominciato a lavorare a '24 timer!'. La televisione e tutto il resto.» Kristin chiuse gli occhi, mentre si appoggiava allo schienale della sedia lasciando ciondolare la testa all'indietro. Non riesco assolutamente a capire perché... «Che cos'hai pensato?» le domandò. «Quando hai ricevuto le prime cassette?» Si appoggiò gli avambracci sulle cosce e si protese verso di lei. «E quando hai letto le citazioni bibliche?» «Non saprei con esattezza...» «Ma sì! Dillo!» «Ho pensato che eri un... uno con dei problemi.» «Un pazzo?» «Pensavo... che tu avessi qualche... come dire... disturbo mentale, ecco.» Tenendo le mani premute una contro l'altra, lui si mise a dondolare avanti e indietro: sembrava un monaco tibetano in preghiera. Rimase in quella posizione a lungo, non smettendo mai di fissarla. Come in trance. Poi scoppiò a ridere. Una risata piena di aspettative. Pensa di avermi fatto una buona impressione! «Eh sì,» disse Kristin, giusto per dire qualcosa. Nel buio della sera, gli occhi di lui splendevano come fiamme: azzurri e incantevoli. «Qualche disturbo mentale?» le fece il verso lui. «Cosa dovevo pensare?» «Non c'è niente che mi vuoi chiedere?» le domandò. Niente? Oh, sì, ragazzo mio, ne ho di cose da chiederti! Gli disse: «Quando mi hai telefonato, quella volta, mi hai pregato di chiedere alla polizia qualcosa a proposito di certi simboli.» Lui rimase in silenzio. «E così ho fatto,» continuò lei. «Mi hanno detto che erano degli esagrammi.» «Mi era sembrato strano che non se ne parlasse. Credevo che la cosa avrebbe scatenato un putiferio.» «Ma cosa simboleggiavano?»
«La paura! L'insicurezza! L'anelito!» «Non capisco...» Si chinò verso di lei. «Ti sei mai chiesta cosa spinge un essere umano a ucciderne un altro?» Questa volta non si sentì paralizzata dalla paura, dal momento che la domanda non era suonata né minacciosa né pericolosa. Eppure non rispose. Lo sguardo di lui era intenso, perforante. «Il caso,» le spiegò lui. «Uno sfogo di rabbia. Ira. Gelosia. Se tu mettessi in fila tutti gli assassini rinchiusi nelle prigioni norvegesi, rimarresti sorpresa dalla normalità di quegli uomini, uomini comuni. Non rasati a zero, muscolosi o pieni di cicatrici, ma uomini qualunque. Che non sono stati capaci di controllarsi.» «Ma questa non è una scusa.» «Non per la vittima. Ma in ogni omicidio le vittime sono due.» Ridacchiò piano lui. «Non pensare che io stia cercando di giustificarmi.» Lo osservò. «E allora perché?» «Perché...» Allargò le braccia, come se avesse intenzione di dirle chissà che cosa, ma alla fine rimase seduto guardando fisso davanti a sé. «Perché no?» «Perché?» ripeté Kristin dentro di sé. «Ti ricordi quando ci siamo parlati al telefono? Quando mi sono paragonato a un serpente?» Lei alzò gli occhi verso un punto indefinito. «Intendevo suscitarti un'immagine, un'idea. Si tratta di una sfida intellettuale. Costruire. Manipolare. L'esagramma non era che un tassello dell'opera. Un tassello che aveva lo scopo di diffondere ancora più caos e terrore.» «Un gioco!» esclamò Kristin. «Ecco che cos'è per te! Un maledettissimo gioco!» Lui la guardò meravigliato. «E allora?» dicevano i suoi occhi. «Un gioco!» ripeté lei. «Forse. Tutto è un gioco. Gli ingranaggi della società. La terra non è forse un enorme scacchiera? In cui i politici e i generali stabiliscono delle regole?» «Mio Dio, che paragone stupido! Suona così banale!» «O il rapporto tra uomo e donna. Non è anche quello un unico, grande gioco? Un gioco di sentimenti, di potere.» Lei gemette rassegnata: «Parli solo per luoghi comuni!»
Lui proseguì: «Non partecipi anche tu a un gioco? Comunicare notizie non è forse un gioco anche questo? Una manipolazione? Siete voi a decidere cosa salvare e cosa buttare. Nelle storie, nei destini. Privilegiate dei punti di vista. Ingigantite un particolare e ne nascondete un altro. Come se foste i custodi e i sacerdoti di una scienza divina che fa sì che voi decidiate cosa è e cosa non è interessante. Vi credete così importanti. 'Libertà d'espressione!' urlate. Mi sembra di sentirvi. E alla fine fate tutti quanti parte dello stesso gioco. Credi che non lo sappia? Credi che non sia riuscito a servirmi di voi? Per alimentare la paura. Un'isteria collettiva. Attraverso i media. I media sono la chiave.» «Ma perché?» Lui si mise a ridere in modo sguaiato. Rischiarato dalla luce di un lampione lontano, il suo viso era un mosaico di ombre e di contrasti. Si sentì qualcuno chiudere la portiera di un'auto. «E io?» gli chiese lei. «Cosa te ne farai di me?» Di colpo la risata si spense. «Pensi di uccidermi?» Lui si abbandonò contro lo schienale della sedia. Il fragore della cascata le ricordò il ronzio di un televisore che qualcuno si era dimenticato di spegnere. Si accorse che la stava osservando. «Tu non hai mai provato dolore,» le disse. «Un dolore che ti ha scavato l'anima.» I loro sguardi si incrociarono. Kristin trattenne il respiro, ma rimase in silenzio. Dal bosco avvolto nel buio giunse il cinguettio di un uccello. Dietro la collina che separava il camping dalla strada si sentì una macchina accelerare. «Sei stanca?» «Sì.» «Andiamo a dormire?» La domanda suonò innocente, del tutto innocua. Eppure lei rabbrividì. Andiamo a dormire? Una domanda normale per una coppia, per due amanti. Per tutti coloro che significavano qualcosa l'uno per l'altro. Ma in bocca a lui aveva il sapore di una condanna a morte. Portarono dentro le sedie. Dopo aver chiuso la porta, lui prese la chiave. «È stata una lunga giornata,» commentò lei guardando inquieta il letto matrimoniale. Lui seguì la direzione del suo sguardo: «Tu dormi all'interno. Dalla parte
della parete.» Non mi farà nulla... Non mi farà nulla.... Non mi farà nulla... Non mi farà nulla. Kristin si tolse i pantaloni e le calze ma tenne la camicia, poi si infilò a letto, o meglio si mise a sedere appiccicata al muro. «Ma non hai caldo? Con la camicia?» le chiese lui. La sua voce aveva qualcosa di dolce. «Di notte spesso ho freddo.» «Sono costretto a legarti.» Lei represse un singhiozzo. Tirò fuori dal borsone due corde di nylon. Le avvolse i polsi con degli stracci prima di stringere le corde, che legò poi alle due estremità della testiera. Avrebbe potuto muovere le braccia, ma non girarsi. Sono indifesa... Può fare di me tutto ciò che vuole. Spense la luce. Al buio Kristin intravide la sagoma di lui mentre si spogliava, piegava ordinatamente i suoi vestiti e li appoggiava sulla sedia. Il letto cigolò quando si sedette. Non mi farà nulla... Non mi farà nulla.... Non mi farà nulla... Non mi farà nulla. Si sdraiò. La sfiorò con la spalla. Signore, non permettergli di farlo. Lui inspirò profondamente, tremando. «Buonanotte,» le sussurrò. Ci volle un po' prima che lei fosse in grado di rispondergli. 23,30 Le informazioni che Ann-Reidun Skard gli aveva fornito non lo portarono da nessuna parte. Gunnar impiegò tutta la sera per rintracciare le persone che aveva già interrogato a proposito di Rune Strøm, ma a nessuna di loro era venuto in mente qualcuno che ai tempi abitasse dalle parti di Ammerud. L'unico che non era riuscito a rintracciare era Tor Berg. Il suo studio si trovava nel centro commerciale di Stovner, non lontano da Ammerud, il che significava che Berg aveva qualcosa a che fare con quella zona. E forse avrebbe potuto essere lui l'antico amante di Linda Gabrielsen, nonché l'assassino. Tuttavia c'era qualcosa che non quadrava. Tor Berg non lo convinceva.
Non poteva essere lui Aquarius. Alla fine Gunnar, dopo aver provato a telefonargli tutta la sera, riuscì a rintracciarlo a casa. Berg gli spiegò di essere appena rientrato dalla sua serata fissa al circolo degli scacchi, «Se no sarei già andato a dormire da un pezzo.» Gunnar si schiarì la voce. Era stanco e non sapeva come formulare la domanda. «Sto procedendo alla cieca,» disse con voce roca, «ma le telefono per chiederle se ha mai sentito parlare di una persona legata all'ambiente che frequentavano Rune e Linda che viveva nei pressi di Ammerud.» «No,» rispose subito Berg. Poi rimase in silenzio. «Un attimo.» Ridacchiò. «È strano che lei mi faccia questa domanda. Ho incontrato uno degli outsider del Clan qui al centro commerciale. Era l'anno scorso, sì. Ci siamo messi a chiacchierare. Mi ha detto che abitava a Rødtvet. Non è lontano da Ammerud. Ai tempi della scuola non sapevamo quasi niente di lui. Era un tipo introverso. Strano. Hitchcock. Un bel ragazzo. Gentile, carino, ma sempre distante. Come se vivesse in un mondo tutto suo. Su un altro pianeta. Nessuno di noi lo conosceva bene.» «Hitchcock? Davvero si chiamava Hitchcock?» Tor Berg ridacchiò. «Ovviamente no, lo chiamavamo noi così...» trattenne il fiato, e Gunnar percepì come la verità gli stesse balzando agli occhi, «... perché filmava sempre qualsiasi cosa.» 00,30 Le finestre erano buie. Una casa ricoperta di mordente marrone. Su due piani. Costruita negli anni Cinquanta. Il giardino ben curato era un tripudio di rose, alberi da frutta e frutti di bosco. Qualcuno aveva rastrellato con cura il sentiero di ghiaia che dalla strada conduceva alla scala d'ingresso. Due file di lastre di pietra portavano al garage chiuso. Tra le lastre spuntavano ciuffi d'erba. Le siepi tagliate perfettamente orizzontali, il prato tosato da poco. Dal tetto pendeva una grande antenna parabolica. La casa si ergeva in una zona silenziosa, tranquilla, in fondo a una strada senza uscita che finiva al limitare di un boschetto, sull'altura tra Rødtvet e Vesletjern. Passando per il bosco, ci volevano cinque minuti per arrivare fino ad Ammerud a piedi. Gunnar pensò: «Non era nel laghetto di Vesletjern che una volta trovarono una ragazza annegata?»
Si introdusse furtivamente in giardino e si nascose dietro i cespugli di lillà. Rimase immobile. Studiò le finestre buie, passando minuziosamente in rassegna con lo sguardo l'ambiente. I meli erano carichi di frutti. I ribes splendevano. Le aiuole erano ordinate: il terriccio scuro era stato rivoltato da poco. Inalò quei profumi intensi che salivano dal giardino. Con un balzo raggiunse un melo, poi, accucciato, strisciò dietro i cespugli di ribes e scivolò sul prato fino a raggiungere la casa. Rimase in ascolto. Niente. Addossato alla parete, fece furtivamente il giro della casa. Silenzio, buio. Cercò di guardare dentro, ma non era abbastanza alto. Si inginocchiò per spiare attraverso le finestre della cantina. Sobbalzò quando vide la propria immagine riflessa. Appoggiò la fronte al vetro, riparandosi gli occhi con le mani. Ma non vide nulla: i vetri erano scuri. Si alzò, spazzolandosi via la polvere dai vestiti. «È lui,» si disse. Non sapeva perché ne fosse così sicuro. Forse si stava sbagliando un'altra volta. Pensò: «Non mi sbaglio! Questa volta ce l'ho in pugno!» 00,40 Fece dei sogni inquietanti. Non dormì bene: ogni volta che cercava di girarsi o di grattarsi il naso si svegliava. Non ricordava il contenuto dei sogni, ma le avevano lasciato una sensazione dolorosa, claustrofobica. Aveva la bocca secca. Sete. A casa teneva sempre un bicchiere d'acqua sul comodino. Tutte le volte che aveva girato la testa, lui dormiva profondamente, con il respiro regolare e le mani intrecciate sulla pancia. Pensò: «Non so neanche come si chiama.» 3,44 L'ispettore Vang si rifiutò di intervenire. Gunnar pensava di aver capito male. Era seduto su una scomodissima seggiolina d'acciaio in un ufficio della questura. Vang troneggiava dietro la scrivania. Oscar Lund, che era andato a prendere a casa e che aveva fatto in modo che Gunnar ottenesse dieci minuti di udienza presso Sua Santità, era in piedi, appoggiato alla parete.
«Ma è tutto talmente evidente,» balbettò Gunnar confuso. Aveva raccontato loro delle conversazioni con gli amici di Rune Strøm, di come uno dopo l'altro tutti i tasselli fossero andati al loro posto e della visita alla casa di Rødtvet. Scuotendo il capo, Vang fece segno che la cosa non funzionava. Aveva il volto segnato, gli occhi rossi a causa della mancanza di sonno. «Un suggerimento interessante,» ripeté, «ma lei forse dimentica che la polizia ha già arrestato il colpevole.» «Ma avete arrestato l'uomo sbagliato!» Dopo aver bevuto un sorso di caffè, Vang puntò l'indice contro Gunnar. «Senta, Borg, lasci che le spieghi,» disse con un tono di voce scocciato. «Un'indagine implica un lavoro accurato e meticoloso. Seguiamo una pista e cerchiamo di analizzarla da ogni punto di vista possibile. E contemporaneamente alla pista più accreditata, ne seguiamo anche altre. Nel mentre, veniamo sommersi da una valanga di informazioni e di soffiate. Alcune le prendiamo in considerazione. Altre le scartiamo. Altre ancora, invece, le mettiamo da parte per poi eventualmente riconsiderarle nel caso in cui le piste a cui abbiamo dato la priorità si rivelino sterili. Quello che intendo dire è che, ogni volta che ci vengono passate nuove informazioni, non possiamo abbandonare così, di punto in bianco, la pista alla quale stiamo lavorando. Dunque, cosa mi ha raccontato lei questa notte? Che una vecchia amica di Linda Gabrielsen, una persona con dei disturbi mentali, afferma che Linda aveva un amante. E allora? Forse approderemmo alla soluzione del caso Gabrielsen, qualora questo venisse riaperto. Il suo amante viveva dalle parti di Ammerud, mi sta dicendo lei. E con ciò? Altre cinquantamila persone vivono da quelle parti. Uno dei componenti di questa fantomatica compagnia di amici che frequentavano la stessa scuola negli anni Settanta si ricorda che uno di loro aveva la mania dei filmini e che per questo era stato soprannominato Hitchcock. E allora? E dal momento che questo cineasta dilettante abita a Rødtvet, lei crede, simsalabim!, di aver risolto il caso. Ha l'assassino di Linda Gabrielsen, ha Aquarius, ha un errore giudiziario. E partendo da questi presupposti e senza nemmeno uno straccio di prova, lei si aspetta che noi mobilitiamo la nostra squadra di pronto intervento perché irrompa in quella casa in piena notte? Mi dispiace. Non è così che agisce la polizia. Ma le faccio una promessa: farò verificare da uno dei nostri investigatori la bontà della sua supposizione. Perché è di una supposizione che si tratta. Una tra centinaia. Ma io farò in modo che la sua non finisca sotto una pila di altre soffiate. Domani, chiederò a uno dei miei
uomini di eseguire dei controlli.» Dopo essersi alzato, vacillò un attimo prima di appoggiarsi con i pugni alla scrivania. «Signori miei, è stata una giornata molto lunga. Vogliate scusarmi.» Dopo che Vang fu uscito dalla stanza, Gunnar fissò Oscar. «Non mi ha creduto!» disse. «Gli servo Aquarius su un piatto d'argento e lui non mi crede!» Lund incrociò le braccia sul petto. «Non ha detto questo, Gunnar. Ha detto che non ha intenzione di mobilitare i suoi uomini nel cuore della notte con in mano un indizio così debole. E ha perfettamente ragione, sai. Non sei venuto qui con delle informazioni scioccanti. Anch'io avrei fatto lo stesso!» «Ma in nome del cielo...» «Abbiamo un indiziato, Gunnar. E Vang è stanco. Negli ultimi tempi ha lavorato quindici o addirittura venti ore al giorno. Il tipo di intervento che tu ti aspetti richiede uno sforzo consistente. Non è così semplice. Sono quasi le quattro di notte, Gunnar.» «L'assassino abita in quella casa, Oscar!» Questi annuì pensieroso. «E noi dovremmo aspettare qualche giorno? Con Frøydis incatenata in una cella. E Kristin in pericolo. Mentre un innocente è in carcere. Soltanto per dare a Vang il tempo di avere una conferma?» Oscar inspirò profondamente. «Lo sai anche tu, Gunnar, che formalmente io non lavoro più qui.» «E con questo?» «Che ne dici se due vecchietti vanno a dare un'occhiata a quella casa di propria iniziativa?» 4,55 Stava per spuntare l'alba quando Oscar Lund aprì la porta d'ingresso con un grimaldello. Glielo aveva prestato uno dei ragazzi in questura. Avevano composto il numero di telefono della casa diverse volte. L'ultima dalla macchina di Oscar, mentre erano parcheggiati in fondo alla strada. Avevano fatto squillare il telefono almeno cinquanta volte prima di riagganciare. A quel punto avevano suonato il campanello. A lungo. «O non è in casa,» sussurrò Oscar, «o ci sta aspettando dietro la porta.»
Gunnar dovette farsi coraggio prima di rispondere: «Tanto alla nostra età siamo già praticamente morti.» A Oscar ci volle un minuto per aprire la porta. Come in un film, prima di aprirla estrasse la pistola da sotto la giacca. Dopo essere entrati furtivamente, in silenzio si richiusero la porta alle spalle e rimasero in ascolto. Gunnar era paralizzato dal terrore. Quando Oscar si infilò un mazzo di chiavi in tasca, queste tintinnarono. «Non sta succedendo veramente,» pensò Gunnar, «non è reale!» Attraverso un ingresso minuscolo si spostarono in corridoio. A sinistra c'erano delle scale strette che portavano al primo piano e in cantina. A destra una porta con un cuore intagliato: il bagno. Di fronte, il salotto e la cucina. Si introdussero in salotto. Gunnar rimase impressionato dalla quantità di libri che vide: gli parve di essere a casa sua. Ma poi si accorse che le librerie erano piene di videocassette e non di libri. Il tavolo era sgombro. Sembrava che fosse appena passata la donna delle pulizie. La cucina era linda e perfettamente in ordine. Oscar puntò il dito verso l'alto. Scalino dopo scalino, terrorizzati all'idea di calpestare una tavola che potesse cigolare, salirono al piano di sopra. Tre porte. Con cautela, Oscar aprì la prima. Una vecchia cameretta dei bambini come imbalsamata, inutilizzata da anni. Dal soffitto pendevano alcuni modellini di aeroplani appesi a dei fili di nylon. Vicino a una parete c'era una gru. Sulla scrivania videro un microscopio. La seconda porta si apriva su una stanzetta piena di monitor, con una consolle per il missaggio e un computer. Si guardarono annuendo. La camera da letto doveva trovarsi dietro l'ultima porta. Con la mano sinistra, Oscar abbassò la maniglia, attento a non far rumore. Nell'altra mano aveva la pistola. Sbirciò dentro. Vuota. Il letto matrimoniale era stato rifatto, con il copriletto ben teso sopra il piumone. Sul comodino, vicino a un bicchiere d'acqua capovolto, c'era una Bibbia.
«La cantina,» sussurrò Oscar. Scesero furtivamente lungo la scala fino ad arrivare in cantina. Un corridoio con dei ripostigli su entrambi i lati. Oscar accese una torcia. Dietro le porte sulla sinistra c'erano sci, valige e vestiti. Una di quelle a destra era chiusa a chiave con quattro serrature. L'altra era aperta. Guardarono dentro. Il ripostiglio era stretto, non più grande di un guardaroba. Videro una sgabello da bar. Una videocamera su un treppiede. Una finestra ovale. In silenzio si scambiarono un'occhiata, dopodiché entrarono. Fu Gunnar a guardare per primo attraverso lo specchio. 5,28 Il paesaggio intorno alla cascata cambiava aspetto al sorgere del sole. La morbida luce mattutina ne stemperava i contorni quasi stregati, e nelle giornate limpide tra gli spruzzi della cascata spesso si intravedeva l'arcobaleno. Al villaggio qualcuno accese il motore di una macchina. Leif Bryn era un tipo mattiniero. Non aveva mai avuto l'abitudine di rimanere a letto a poltrire. Si svegliava presto, e in quelle ore silenziose era felice: gli piaceva gironzolare per casa, ascoltare la radio, guardare in televisione «God morgen Norge» e bersi un caffè. Un sacco di volte gli era capitato di vedere degli alci nel boschetto. Ora era lì, in piedi, con in mano una tazza di caffè e la fronte premuta contro il vetro della finestra. Fuori non c'era anima viva. I bungalow erano bui, e i camper e le roulotte sembravano dei frigoriferi giganti messi uno accanto all'altro. Provò un piacevole brivido all'inguine quando gli venne in mente la coppia che dormiva al numero 6. Tra poco si sarebbero senz'altro svegliati. Si metteva sempre la cintura con gli attrezzi da lavoro quando vagabondava intorno al numero 6. Qualora l'avessero colto di sorpresa, poteva sempre dire che stava riparando qualcosa. Anche se non era mai successo: Leif Bryn era un tipo cauto. 5,32 La mattina si riempì dei suoni delle sirene. Da dietro le tende i vicini, intimoriti e ancora assonnati, sbirciavano il
fiume di volanti e di ambulanze - cosa diavolo era successo durante la notte? - che si era formato nelle strade del quartiere costellate di villette. Gunnar aveva avvisato la redazione subito dopo aver telefonato al numero d'emergenza della polizia. Con orgoglio, constatò che l'auto degli inviati del «Dagbladet» fu la prima ad arrivare sul posto. Una vittoria di breve durata: quindici minuti dopo la raggiunsero anche quelle degli altri inviati. Mentre i poliziotti setacciavano la casa, Gunnar cercò di mettersi in contatto con Kristin. Seduto sul sedile posteriore della macchina di Lund, tentò di usare il cellulare che gli aveva fornito il giornale. Lo odiava. I telefoni dovevano essere grandi, pesanti e facili da trovare. Compose molte volte il numero di Kristin, ma invano. Alla faccia della tecnologia! Due poliziotti, armati di mitragliette e con i giubbotti antiproiettile, lo superarono correndo. «Calma, ragazzi,» disse Gunnar tra sé e sé, «tanto lui non è qui.» Si procurò il numero della fattoria del fratello di Kristin. Lasciò che il telefono squillasse almeno una ventina di volte prima di riattaccare. Quando riuscì a mettersi in contatto con la sede della polizia di Juvdal, un messaggio preregistrato gli diede il numero del poliziotto di guardia. Gunnar compose il numero. Gli rispose una voce insonnolita. Dopo essersi presentato, Gunnar gli spiegò pazientemente e con garbo che Kristin Bye poteva trovarsi in pericolo di vita alla baita. Il poliziotto non sembrò prenderlo sul serio, e a dire il vero non sembrava nemmeno che capisse di cosa diavolo gli stesse parlando. Gunnar temeva che l'avesse preso per un mitomane. Comunque sia, gli promise che sarebbe andato a controllare. Vicino alle transenne, Gunnar vide il cameraman hippy di Kanal 24 com'è che lo chiamava Kristin? - Roffern il duro! Sceso dalla macchina, gli batté una mano sulla spalla. Roffern si girò irritato, abituato com'era a essere disturbato dalla polizia, convinta di essere la proprietaria del luogo del delitto, ma quando riconobbe Gunnar si rilassò. «Ho sentito dire che sei stato tu a capire che era lui!» gli disse Roffern. «Complimenti! Gran bel colpo.» Gunnar diede un calcetto al marciapiede con la punta della scarpa. Era da parecchio tempo che non si sentiva stimato e apprezzato da un collega più giovane. «L'hanno catturato?» gli domandò Roffern. Gunnar lo prese in disparte. «Non era a casa. Sono preoccupato per Kristin. Quel tizio ieri era qui, ma adesso è sparito senza lasciare nessuna
traccia.» «Ma Kristin non è alla baita?» «Appunto.» «Ma allora... Oddio... Vuoi dire... Merda!» «Pensavo di andare alla baita. Di noleggiare un idrovolante. E pensavo che magari volessi venire anche tu. Poi dividiamo le spese.» «Certo. Chiedo il permesso al caporedattore.» «Permesso? Io non l'ho mai fatto. È più facile venire perdonati dopo che ricevere un permesso prima! E poi si tratta di uno scoop.» Roffern annuì assente. «E poi si tratta di uno scoop,» ripeté. 6,05 Leif Bryn si avvicinò con passo felpato al numero 6. I rumori dei suoi passi erano coperti dal fragore della cascata. Si nascose dietro il cespuglio che si ergeva dietro il bungalow per poi raggiungere il muro dove si trovava la fessura. Sbirciò dentro con il cuore che gli martellava. Sulle prime rimase deluso. Stavano dormendo. L'uomo era sdraiato mezzo nudo, mentre la donna, in slip e camicia, aveva le mani protese all'indietro sopra la testa. «Che strana posizione per dormire,» pensò. Ma poi si accorse che era legata. Il brivido che avvertì all'inguine lo fece boccheggiare. Aveva letto di quelle cose in una rivista porno. Com'è che le chiamavano? Non se lo ricordava, ma era qualcosa in francese. Roba piccante, assolutamente non adatta alle ragazze di paese. Erano andati avanti tutta la notte dopo che se n'era andato? O avevano qualche piano per il mattino? Osservò meglio la donna. Carina. Aveva qualcosa di familiare, ma Leif non riusciva a capire cosa. Accidenti, davvero sexy. Sì, aveva una faccia che non gli era nuova. Sì. 6,20 Sterile. Fredda e sterile. Vang era in salotto. Gli avevano telefonato a casa. Gli squilli l'avevano svegliato. Herdis! Era stata la prima cosa a cui aveva pensato mentre sollevava la cornetta. Ma non era Herdis.
All'inizio aveva creduto che si trattasse di uno scherzo. Era rimasto ad ascoltare il fiume di parole del poliziotto di guardia. ... Frøydis Vik... trovata in una casa... cella in cantina... a Rødtvet, Groruddalen... attrezzatura cinematografica professionale... Gunnar Borg e Oscar Lund... Aquarius... non a Rune Strøm... una volante sta arrivando a prenderla... Quelle parole gli si erano fermate sulla superficie del cervello. Una volante lo aveva prelevato davanti a casa per condurlo a Rødtvet attraverso la Trondheimsveien. Soltanto allora aveva iniziato a capire. Aveva avuto ragione tutto il tempo. Rune Strøm non era Aquarius. Il suo istinto non si era sbagliato. Ma non era comunque una sensazione piacevole. Il sonno non ne voleva sapere di mollare la presa. La stanchezza lo ottundeva, come se al posto del cervello avesse del cotone. La casa era completamente diversa da quella di Rune Strøm. Perlomeno quella di Strøm sembrava abitata. In disordine. Mentre qui ogni cosa era al suo posto. Sterile. Come una fotografia su una rivista d'arredamento vecchia di vent'anni. Sul tavolo della cucina, perfettamente allineato rispetto alla tovaglia, c'era un mensile straniero di cinema. Alcune confezioni di detersivi per la lavastoviglie, dei barattoli d'olio e delle scatole di fertilizzante erano schierati uno di fila all'altro sul piano di lavoro scintillante. Aprì il frigorifero, aspettandosi quasi di vederci dentro una testa mozzata. Invece c'erano le solite cose: latte, formaggio, salumi, ketchup e verdure. Non buttati lì alla rinfusa, come nel suo frigorifero, ma in ordine. Quella casa gli incuteva una sorta di timore. C'era odore di pulito, di panni appena lavati. Pensò: «Non pulisco casa da quando Herdis se n'è andata. Non ho passato l'aspirapolvere neanche una volta.» Seguì quelli della scientifica al primo piano. Rimase a lungo a fissare i monitor, i cavi e le attrezzature. La sala giochi di un moderno stregone. 7,00 Come sempre, si svegliò lentamente. Per un po' rimase sdraiato con gli occhi aperti. In ascolto. Lei respirava in maniera regolare. Socchiuse gli occhi. La stanza era già inondata di luce: una luce spessa, verdognola per via delle tende leggere.
Si girò verso di lei. Giaceva con la testa appoggiata sul braccio sinistro. La bocca semiaperta. La camicia le si era arrotolata sui fianchi. Si appoggiò sui gomiti e le osservò gli slip. Erano beige. Sul davanti avevano una specie di disegnino ricamato. Attraverso la stoffa intravide l'ombra della peluria. La camicia era tesa all'altezza del seno, e lui vide una striscia di pelle tra la camicia e gli slip. Sollevò il piumone e si alzò. Fece la pipì nel lavello. Aprì un po' la finestra per inspirare l'aria inebriante, fredda del mattino. Si girò e la guardò. Gambe lunghe. Slip beige. Con un disegnino ricamato davanti. Cercò di non far rumore mentre riempiva un pentolino con dell'acqua. Lo mise sul fuoco. Qualcuno aveva lasciato nell'armadietto della cucina una confezione semipiena di caffè in polvere. Fece bollire l'acqua e preparò due tazze di caffè. Le lanciò un'occhiata per vedere se si era svegliata. No. Era distesa sul letto con le gambe lunghe e gli slip beige e la camicia che le si arrotolava sempre di più attorno ai fianchi. Si inginocchiò sul letto e iniziò a slegarla. Lei si svegliò nel momento stesso in cui il braccio destro le scivolò sul materasso. Non si svegliò lentamente, come aveva fatto lui, ma spalancò gli occhi con un singhiozzo e fu subito perfettamente cosciente. «Buongiorno,» le disse lui. Lei non rispose. «Una bella giornata,» continuò lui liberandole il polso sinistro. Si rannicchiò sul letto facendo arrotolare ancor di più la camicia. Si massaggiò le braccia. «Hai dormito bene?» le domandò lui. «No.» «Di cattivo umore questa mattina,» pensò lui. «Molte ragazze sono di cattivo umore la mattina. Non ci si riesce neanche a parlare.» «Ho preparato il caffè.» Lei si sedette sul letto, poi si alzò in piedi. Gli slip le si erano appiccicati ai glutei. Lui non riusciva a distogliere lo sguardo. Si mise i jeans e le calze, si infilò la camicia nei pantaloni e tirò su la cerniera facendo uno strano movimento con il bacino. «Devo fare pipì,» gli disse senza mezzi termini. Lui non sapeva cosa risponderle. «Oggi pensavo di scendere ai piedi della cascata per fare qualche ripresa,» le disse. «Ho detto che devo fare la pipì!» «Accidenti,» pensò lui, «di cattivo umore la mattina. Uno può solo rin-
graziare di non essersela sposata.» 7,30 Leif era seduto nel chiosco a sfogliare l'edizione del giorno prima del «Dagbladet» quando gli venne in mente chi era quella tizia al numero 6. Kristin Bye! Quella della televisione! Quella che aveva fatto arrestare quel pazzo che assassinava le donne a Oslo! Alzò gli occhi guardando in direzione del bungalow. Non era abituato a vedere dei vip da quelle parti. A dire il vero, non ne aveva mai visto nemmeno uno lì al camping. A eccezione del sindaco e di Halvor Kleppen. Si sentì agitato. Kristin Bye! Adesso quasi si vergognava di averli spiati. La gente famosa aveva pure il diritto di spassarsela in pace. In fondo non erano come tutti gli altri. Tamburellò sul bancone con le dita. Avvertì il bisogno impellente di raccontarlo a qualcuno, ma quando abbassò gli occhi sul telefono si rese conto di non sapere a chi. L'ufficio turistico gli avrebbe riso in faccia. E a quest'ora i suoi amici stavano tutti uscendo per andare a lavorare. Il giornale locale, forse? Per fare un po' di pubblicità al camping? Squadrò il quotidiano sul bancone. I giornali di Oslo non pagavano forse mille corone per una soffiata o un'informazione? Se il «Dagbladet» avesse scritto che Kristin Bye stava trascorrendo le ferie al Camping e Bungalow Jøkulfoss, per lui sarebbe stata una pubblicità fenomenale. E magari ci avrebbe pure guadagnato un bel bigliettone da mille corone! Sfogliò freneticamente le pagine del giornale alla ricerca del numero di telefono. 7,40 La cella puzzava di urina. Era più piccola di come Vang se l'era immaginata. Aveva visto quella stanza centinaia di volte nelle immagini girate da Aquarius e si era immaginato una stanza più grande, quando invece non era altro che uno sgabuzzino. Per terra c'era il materasso. Un altro materasso era appoggiato in verticale contro la parete.
In un angolo, su uno sgabello, c'era un televisore. I cavi andavano a finire nel ripostiglio lì accanto, dove c'erano un videoregistratore e lo specchio attraverso il quale lui poteva sorvegliare la stanza. Vang strattonò la catena, fissata saldamente al muro. Guardò le quattro serrature della porta. Dopo averla accostata, si chiese che cosa dovevano aver provato quelle donne mentre aspettavano di morire sdraiate sul materasso. Quando avevano capito che cosa le attendeva? Sicuramente avevano sperato che lui non le uccidesse. Avevano sperato che la polizia le trovasse, avevano sperato che lui si impietosisse e le liberasse. Anche se in realtà sapevano che le avrebbe uccise. «Sì, abbiamo salvato Frøydis,» pensò. Abbiamo? Per piacere, Runar! Abbiamo? Gunnar Borg e Oscar Lund. Si era rifiutato di ascoltarli. Non aveva creduto a Borg. Lo aveva trattato come un giornalista rimbecillito, vecchio e iperzelante. Si chiese che cos'avrebbero scritto di lui i giornali. Se fossero venuti a conoscenza del modo in cui lo aveva sbattuto fuori dalla porta, quando invece gli stava servendo la soluzione su un piatto d'argento. Allontanò quel pensiero. Ora bisognava trovare Aquarius. Antonsen aveva già diramato un ordine di cattura tramite l'Interpol. Qualora fosse fuggito all'estero. Il portavoce dello staff, Hugo Aaasen, in questura si stava preparando per la conferenza stampa. La NRK, TV2, TVNorge e Kanal 24 l'avrebbero mandata in onda in diretta. Anche se la polizia non aveva ancora deciso quando. Vang aveva chiesto alla NTB, alle radio e alle televisioni di aspettare a trasmettere la notizia fino a quando la polizia non avesse dato loro il via libera. Probabilmente Aquarius non sapeva di esser stato scoperto. Forse sarebbe tornato a casa. A ogni angolo del quartiere delle pattuglie in borghese lo stavano aspettando. «Sarebbe fantastico,» pensò Vang. Chiuse gli occhi. Dov'era andato? Dove sarebbe andato lui se fosse stato Aquarius? A caccia. Il pensiero successivo lo colpì come una raffica di vento gelido: Kristin Bye!
7,45 Non era sua abitudine bere il caffè a digiuno, ma lui era così orgoglioso di averglielo preparato che Kristin lo accettò. Seduta sul divano a gambe incrociate, lo assaggiò: era troppo forte. «Buono,» gli disse. Lui sorrise imbarazzato. Kristin lanciò un'occhiata in direzione del cellulare. Lui seguì il suo sguardo. «Aspetti una telefonata?» le domandò. Lei scosse il capo: «No.» Gli occhi di lui si strinsero: «Accendilo!» «Ma la batteria...» «L'hai spento di proposito! In modo che capissero che c'era qualcosa che non andava!» «Chi?» Non le rispose. Lei accese il cellulare. Dieci minuti dopo suonò. Lo guardò. «Hai visto?» commentò lui. «Devo rispondere?» Lui annuì: «Ma se soltanto provi a...» «Non ci proverò.» Rispose. «Kristin.» «Grazie al cielo,» esclamò una voce nota. «Gunnar?» «Sono Vang! L'ispettore Runar Vang.» Non sapeva se Aquarius le fosse abbastanza vicino da sentire la voce di Vang. «Chi è?» le mormorò. Gunnar Borg, gli rispose lei muovendo le labbra. «Buongiorno,» disse poi al cellulare. «Dove sei?» «In montagna.» Alla baita! fece lui con le labbra. «Alla baita,» rettificò lei. «Ci sono nuovi sviluppi.» «Ah sì?» «Non è Rune Strøm.»
«Cosa intendi dire?» «Rune Strøm non è Aquarius.» «Davvero?» «Non sembri sorpresa.» «No, in effetti...» Vang esitò. Lei gli chiese: «Com'è il tempo a Oslo?» «Il tempo?» Non provarci! le dissero le labbra di lui. «Hai capito che cosa ti ho detto? Di Rune Strøm?» Allegra: «Una mattinata bellissima!» «Ti rendi conto che sei in pericolo di vita?» «Capisco. Qui il tempo è davvero splendido.» «Voglio che lasci immediatamente la baita e ti rechi all'ufficio della polizia di Juvdal. Hai capito? L'ufficio della polizia di Juvdal! Li avviserò immediatamente, non appena avremo riagganciato!» «Non mi sembra il caso...» «Il caso? Non credo che tu ti renda conto della gravità della situazione.» Lei lo guardò. Lui le si avvicinò e appoggiò l'orecchio al cellulare. «Va bene!» esclamò Kristin. «OK! Va bene!» «Rilassati, non serve a niente che tu ti agiti.» «Va bene,» lo interruppe lei. Vang esitò nuovamente. «Hai capito cosa...» «Benissimo!» «Sì... Allora ti richiamo io quando...» «Va bene!» «Niente colpi di testa! Farai come ti ho detto?» «Ma certo! Ciao!» Kristin interruppe la conversazione. «Chi era?» le domandò subito lui. «Gunnar. Un vecchio amico di Oslo. Gunnar Borg.» «Cosa voleva?» «Era in pensiero per me. Ieri ha provato a chiamarmi tutta la sera.» «In pensiero per cosa?» «Temeva che mi fosse successo qualcosa.» «Perché ti ha detto che non serve a niente che ti agiti?» «Soffre di cuore. Crede che tutti abbiano paura che possa morire da un momento all'altro.» Ridacchiò mentre aggiungeva: «Mi ha raccomandato di mangiare sano e
di coprirmi bene.» «E perché dovrebbe richiamarti?» «Deve andare dal medico. Per il cuore. Non vuole che stia in ansia per lui.» «E ti ha detto tutto questo in così poco tempo?» «Sei matto? Sapevo già praticamente tutto. Non hai degli amici con cui ti bastano un paio di parole per capirvi?» «No,» le rispose lui. 8,02 Kristin Bye era sana e salva. Quella era la cosa più importante, anche se era stata la conversazione più assurda che Vang avesse avuto da diverso tempo. La plastica che gli ricopriva le scarpe crepitò quando dal salotto si trasferì nell'ingresso. Fuori era appena arrivato Antonsen, circondato da un nugolo di investigatori. Era drogata? O ubriaca? Non gli era parsa minimamente sorpresa. Davvero? aveva risposto. Davvero? Come se la cosa non la riguardasse. Come se per lei fosse più importante chiudere la telefonata in fretta. Attraverso la porta aperta salutò Antonsen. Il quale scosse piano la testa. Vang meditò sul momento preciso in cui le indagini avevano preso una piega sbagliata. Quando avrebbe dovuto accorgersi che le cose non erano come sembravano? Erano stati ingannati. In maniera scaltra. Manipolati. Faceva tutto parte del piano di Aquarius, e loro, come un branco di deficienti, ci erano cascati in pieno. Aquarius si era servito della polizia e dei media come se fossero stati delle pedine su una scacchiera, e nessuno di loro si era reso conto di quello che in realtà stava accadendo. Pensieroso, Vang si infilò il cellulare nel taschino della giacca. Un poliziotto lo chiamò. Gli fece segno che stava arrivando. Guardò l'orologio: doveva sollecitare la polizia di Juvdal e prepararla all'arrivo della celebre ospite. 9,57 Il pilota fece atterrare l'idrovolante sul laghetto di Mårvatn con una ma-
novra così fluida che soltanto una leggera vibrazione e la sensazione vischiosa del contatto con l'acqua fecero capire a Gunnar che non stavano più volando. Si slacciò la cintura di sicurezza. Dietro di loro i galleggianti lasciarono una scia a forma di V che fece ondeggiare le canne che crescevano lungo le sponde. Il pilota si diresse verso il molo. Il tassista che avevano chiamato dall'idrovolante, curvo sul cofano della macchina, seguì l'atterraggio. Dopodiché si avvicinò con calma al molo per aiutarli ad attraccare. L'ufficio della polizia dava sulla strada ed era situato all'interno di una costruzione bassa in vetro e cemento armato che ospitava anche un piccolo centro commerciale. Dopo aver aperto la porta, Gunnar e Roffern si trovarono in una stanza spoglia con uno sportello d'accettazione e qualche sedia. Un giovane poliziotto con indosso un'uniforme si materializzò all'improvviso nella stanza, ma dopo aver notato la pesante telecamera di Roffern immediatamente scomparve. Subito dopo apparve il suo superiore. Gunnar si presentò spiegando il motivo per il quale erano lì, aggiungendo che erano in pensiero per Kristin Bye. «Tutto sotto controllo,» gli rispose il poliziotto. «L'ispettore Vang della questura di Oslo le ha parlato di persona non molto tempo fa.» «Grazie al cielo!» «In effetti mi aspettavo che la signorina si presentasse qui nel corso della mattinata. Come avete fatto ad arrivare così in fretta?» «Idrovolante,» spiegò Roffern. «È da sola su alla baita?» domandò Gunnar. «Come vi dicevo, dovrebbe presentarsi qui nel giro di qualche ora. Idrovolante? Accipicchia.» «Posso?» chiese Gunnar indicando con un cenno del capo il telefono sul bancone. Compose il numero di Kristin più volte, ma il telefono squillò a vuoto. Gunnar e Roffern si guardarono. «Visto che ci siamo sparati questo viaggio, tanto vale andare a salutarla di persona,» suggerì Roffern. «E accompagnarla a valle,» aggiunse Gunnar. «La incontrerete per strada!» commentò il poliziotto. Il taxi li lasciò sull'aia davanti alla fattoria di Halvor Bye. La fattoria si trovava in una posizione magnifica ai piedi della valle. Una
casa bianca e un fienile rosso circondati da campi gialli. «Come nella pubblicità del cioccolato,» pensò Gunnar. Dalla stalla giunsero dei muggiti inquieti. Effettuata la retromarcia, il taxi scomparve. «Che bel posto,» disse Roffern. «Pensi che gli farà piacere accompagnarci?» Gunnar non rispose. Accoccolato sulla pedana di legno davanti alla casa, un gatto miagolava. Gunnar bussò alla porta. Con forza. Aspettarono un paio di minuti. Dal bosco giungeva il cinguettare degli uccellini. In lontananza si sentiva il gorgogliare di un ruscello. «Forse non è in casa,» disse Roffern. Gunnar guardò l'orologio. Spinse la porta: era aperta. «Permesso? Halvor Bye?» esclamò entrando. «C'è nessuno in casa?» «Qui in montagna non chiudono mai la porta a chiave,» borbottò Roffern. «Questo non è...» Scuotendo la testa, Gunnar si girò con espressione interrogativa verso Roffern. «Forse è nei campi a lavorare?» «Permesso?» gridò ancora Gunnar, senza sapere perché. Se in casa ci fosse stato qualcuno, li avrebbe già sentiti da un pezzo. «Permesso?» Entrarono. Riconobbe subito quell'odore: una puzza dolciastra, metallica, che gli aumentò la salivazione in bocca. Puzza di campi di battaglia. «Oddio,» sussurrò, più che altro a se stesso. Gli si contrasse lo stomaco. «Che schifo!» esclamò Roffern. «Ma sta macellando delle bestie o cosa?» «Non ha capito,» pensò Gunnar. «Roffern, forse è meglio che tu aspetti fuori.» «Perché?» «Credo che qui dentro sia successo qualcosa. Quest'odore...» «Va bene,» disse Roffern. Secondo Gunnar, continuava a non capire. Su una credenza in corridoio c'era un bellissimo ritratto incorniciato di Kristin. Appeso alla parete, Gunnar vide un fucile da caccia. Sotto il soffitto del soggiorno era appesa una fila di teste di animali imbalsamate. Halvor Bye giaceva sul pavimento della cucina. Era disteso a pancia in
giù in un'enorme pozza di sangue scuro raggrumato. La testa era girata verso di loro, come se li avesse sentiti arrivare. Gli occhi erano spalancati. La bocca aperta. La lingua gli penzolava fuori. Era coperto di mosche. Con un gemito, Gunnar si appoggiò allo stipite della porta. Dietro di lui, Roffern si girò e vomitò sul pavimento. 10,30 Alla luce del sole la cascata era magnifica. Erano scesi lungo la scarpata che si apriva sotto il bacino della cascata, e come due figurine in miniatura erano rimasti ad ammirare quello spettacolo imponente ed elettrizzante. Il frastuono era enorme. Gli spruzzi avevano formato sulle loro mani e sui loro volti una specie di pellicola umida. Lui la tenne per mano mentre cercavano di restare in equilibrio sui massi scivolosi. In un punto dove l'acqua ristagnava, Kristin vide un pesce nuotare in superficie. Alcuni dei sassi più vicini alla terraferma erano ricoperti di muschio fradicio. Una betulla contorta sembrava spuntare direttamente dall'acqua. Lui si era portato con sé la videocamera, e Kristin fu costretta a posare mentre lui la filmava da diverse angolazioni con la cascata sullo sfondo. Era completamente assorbito dalle riprese. Con la mano libera le fece segno di spostarsi leggermente di lato, ancora un passo, perfetto! «Assaggiala!» esclamò in mezzo a tutto quel frastuono. Kristin si portò una mano all'orecchio: «Cosa?» Più forte: «Assaggiala! L'acqua!» La riprese mentre in ginocchio, con le mani a coppa, ne beveva un sorso. L'acqua era gelida e aveva un sapore metallico. «Buona?» gridò lui. «Gelata!» Uno scoiattolo sfrecciò lungo un tronco d'abete sull'altro lato del fiume, e dopo essersi fermato di colpo riprese la sua corsa. Doppiarono una sporgenza rocciosa, e il fragore della cascata si attutì: il fiume si allargava per poi scorrere più lentamente verso est. «Dove stiamo andando?» gli chiese lei. «Da nessuna parte. Volevo soltanto filmarti.» Kristin annuì, come se avesse capito. «E poi?»
«Nel pomeriggio ripartiamo.» Lei annuì nuovamente: le pareva giusto farlo, le dava un'aria remissiva. «E poi?» Lui la guardò e lei fece altrettanto, fino a quando non fu costretta ad abbassare gli occhi. Sentì come un gelo diffondersi in tutto il suo corpo, trasportato dal suo stesso sangue. 11,15 Avevano il fiato corto ed erano madidi di sudore quando finalmente intravidero Bø in cima alla salita. Gunnar pensò: «Siamo arrivati troppo tardi! O Aquarius è ancora qui, oppure l'ha già massacrata come ha fatto con Halvor e con le altre donne.» Si nascosero dietro i cespugli che circondavano la baita. Roffern fece una zoomata della casa, delle finestre e dello spazio circostante. «Non vedo nessuno,» disse Roffern piano. Gunnar si girò per dare un'occhiata al sentiero da cui erano venuti: «Secondo te quando arriveranno gli altri?» «Il tizio della polizia ha detto che avrebbe mandato tre dei suoi uomini. Immagino che siano più agili di noi!» Gunnar sospirò impaziente: «Non riesco a starmene qui ad aspettare.» «Sei impazzito?» «Vado a controllare.» «È meglio se aspettiamo!» «Non ho intenzione di fare nessuna mossa avventata. Voglio soltanto controllare se sono ancora qui.» «Vuoi che venga con te?» «Aspetta qui. Fino a quando non ti faccio un segnale. È la cosa migliore.» Non gli fu difficile convincerlo. Gunnar trovò una scorciatoia che si inoltrava in mezzo ai cespugli e che gli permise di avvicinarsi alle finestre. Furtivamente si appiattì contro le pareti ruvide, fatte di tronchi che profumavano di pece riscaldata dal sole. Sbirciò dietro l'angolo, rimanendo in ascolto. Un uccellino cinguettò. Sull'erba, il sole si rifrangeva in un pezzo di vetro. Girò l'angolo e diede un'occhiata dentro attraverso una finestra. Provò a spingere la porta, sobbalzando quando questa si aprì.
Tese l'orecchio. Con cautela, fece un passo nel corridoio. Annusò l'aria. Guardò in cucina. Sulla tovaglia cerata che copriva il tavolo c'erano due tazze da tè, una vuota e una mezza piena. È stato qui. Fissò le tazze, continuando a deglutire per cancellare quel sapore stucchevole di paura. Potrebbe anche non significare nulla, si disse. Potrebbe aver ricevuto una visita. Di chiunque. Magari sono andati a fare una passeggiata nel bosco. Si spostò in punta di piedi nel soggiorno. Il sole filtrava morbido attraverso i vetri a losanghe delle finestre. Sul tavolo c'era un vecchia macchina da scrivere Remington. Accanto, la bozza del libro di Kristin. Per un attimo ebbe una visione terribile della propria immagine riflessa in uno specchio deformato, dopodiché si fermò davanti a un pendolo che aveva smesso di funzione. Con la punta delle dita sfiorò il vetro grigiastro che proteggeva il quadrante. L'ha presa. Con la mano sul corrimano consunto, salì la scala cigolante. Nella camera da letto di Kristin, accanto alla parete, erano ammucchiate delle calze e della biancheria intima. Il letto non era stato rifatto. La camicia da notte era abbandonata a terra. Non vide nessuna valigia, nessuno zaino. «È stato qui,» pensò. «È stato qui e se l'è portata via con sé.» Ispezionò ancora una volta tutte le stanze prima di aprire la finestra della cucina e chiamare Roffern. «Due tazze in cucina,» gli comunicò non appena questi entrò. «Partenza improvvisa. Porta aperta. Mi sa che siamo arrivati troppo tardi.» Mentre Roffern filmava, Gunnar chiamò la redazione a Oslo. Riuscì a farsi passare il caporedattore, che era impegnato in una riunione. «Gunnar, dove sei? Qui è scoppiato l'inferno e nessuno ti trova...» «L'ha presa. Sto telefonando da Juvdal. Se l'è portata via con sé.» «Da dove stai chiamando? Non sei a Rødtvet?» «Sono a Juvdal, nella contea di Telemark!» «Telemark? E come ci sei arrivato?» «Ho noleggiato un idrovolante. L'ha rapita!» «Idrovolante? E chi diavolo ti ha dato il permesso?» «Giovanotto, lo capisci o no quello che ti sto dicendo? Lui ha preso
Kristin! Ha ucciso suo fratello e adesso ha in mano lei!» «Chi ha in mano chi? Ucciso, dici? Di cosa stai parlando, Gunnar?» «Dell'assassino! Aquarius! Ha ucciso il fratello di Kristin Bye e ora ha rapito lei.» Silenzio. «Oh merda, merda, merda. Gunnar, aspetta! Kristin Bye... Qualcuno ci ha fatto una soffiata su di lei questa mattina. Aquarius ha ucciso suo fratello? Non ho dato molta importanza a quella soffiata. Abbiamo pensato che potesse farsela con chi voleva senza che noi ci impicciassimo, no? Merda. Come ha ucciso il fratello?» «Una soffiata?» gridò Gunnar. «Che tipo di soffiata?» Gunnar lo sentì rovistare sulla scrivania. «Aspetta, ce l'ho qui. Un buontempone che ha chiamato verso le otto. Da un campeggio a... Jøkulfoss? C'è un posto che si chiama così?» «Sì, sì! Jøkulfoss, nel Telemark!» «Voleva che ci recassimo lì perché Kristin Bye aveva preso un bungalow con un tizio. Come ti ho detto, non volevamo...» «Stammi a sentire, prendiamo l'idrovolante fino a Jøkulfoss. Avvisa tu la polizia. Telefona direttamente a Vang! Salutalo da parte mia e digli che la situazione è grave. Veramente grave!» Sul sentiero, attraverso il fogliame, intravide tre poliziotti. 11,33 L'aveva presa. Aveva ucciso suo fratello e poi aveva rapito lei. Vang provò una profonda vergogna. Non aveva capito niente. Tutte quelle cose strane che Kristin gli aveva detto al telefono erano dei segnali in codice perché lui capisse che era in pericolo. Che qualcuno stava ascoltando quello che lei gli diceva. E lui non aveva capito niente. Si sforzò di ricordare le parole che lei gli aveva detto e il significato che potevano avere. «Posso riprovare a chiamarla,» pensò. «Ora che so.» Compose il numero, ma questa volta lei non rispose. Il telefono continuò a squillare a vuoto. Secondo quelli del «Dagbladet», Kristin era stata vista a Jøkulfoss, nel Telemark. Controllando i tabulati relativi al suo cellulare, sarebbe stato facile averne la conferma. Håvard Alm si stava già dando da fare per ottenere un mandato. Era soltanto un proforma, ma la NetCom GSM insisteva
per avere un mandato ufficiale prima di fornire questo genere di informazioni alla polizia. Fino al momento in cui il cellulare era rimasto acceso, avrebbero potuto stabilire il luogo in cui Kristin si trovava, con un'approssimazione di circa duecento metri se fosse stata in città o di un paio di chilometri se invece fosse stata in montagna. Vang si appoggiò allo schienale della sedia. Era seduto intorno al Ferro di Cavallo insieme agli altri capisezione in attesa di un suo cenno. Era lui il responsabile delle indagini, era lui che doveva rimettere le cose a posto. «Partiamo dal presupposto che si trovino ancora nel Telemark,» disse, con la voce impastata e roca di stanchezza. «Perché?» chiese Antonsen acido. «Vi ho appena detto che sono stati visti là!» «Non intenderai entrare in azione sulla base di una telefonata al 'Dagbladet'?» «È tutto ciò che abbiamo. E,» aggiunse, «quello che Gunnar Borg ci ha raccontato finora alla fine è risultato vero.» «Comunque sia...» «Facciamo confluire i ragazzi della squadra Delta a Fornebu! E nel frattempo speriamo di ricevere una conferma dalla NetCom prima di partire.» «Fornebu?» chiese la Gran. «Antonsen, vedi di procurare un elicottero in grado di portare laggiù i ragazzi.» «Elicottero? Di solito ci vuole un po' prima che...» «Un elicottero! Di quelli grandi! Chiedetelo al ministero della Difesa o al Pronto Soccorso! Salutameli e digli che si tratta di un caso PVDL!» «OK!» «PVDL?» chiese la Gran «Di che codice si tratta?» «Più veloce della luce!» 12,35 Quando si trova nella sala macchine del cinema dove lavora e guarda attraverso lo spioncino, gli è facile intuire quello che prova il pubblico mentre guarda il film. Una realtà sconosciuta campeggia sullo schermo. E nel buio della sala la tua identità si squaglia. L'atmosfera trasmessa dallo schermo ti penetra nei sensi e ti infetta il cervello. Ti dimentichi chi sei, dove sei. Pensi Uccidilo! Uccidilo! Uccidilo! fino a quando non avverti in bocca il sapore metallico del sangue. Trabocchi di paura e di desiderio. E
solo quando si riaccendono le luci la realtà torna a prendere il sopravvento. Ma, anche così, non sei più tu. Non hai più il coraggio di incrociare lo sguardo degli altri spettatori. A disagio, ti infili il soprabito e ti fai strada in mezzo alla calca lungo il corridoio di cemento verde che conduce all'uscita. All'inizio, quando ancora era alle prime armi, quando ancora le sale cinematografiche erano dei posti decenti e non dei supermercati striminziti, spegneva la luce in sala macchine e seguiva il film, perlomeno per qualche minuto, attraverso uno degli spioncini posti davanti al proiettore. Ma non era come starsene seduto in sala. La lettera gli era arrivata parecchie settimane prima. L'aveva letta una volta sola ma la sapeva già a memoria. Per via di una riduzione del personale e per limitare i costi, ci vediamo purtroppo costretti a... gravi perdite nel primo semestre... razionalizzare la gestione... la concorrenza del mercato delle videocassette e dei nuovi canali televisivi ci costringono purtroppo a... cogliamo l'occasione per ringraziarla per il suo lungo e fedele... Quando si accorse che si stavano guardando negli occhi, di colpo lui abbassò lo sguardo. «Hai freddo?» le domandò, giusto per dire qualcosa. «Sì,» rispose lei, anche se non aveva mai avuto così caldo in vita sua. «Rientriamo?» Kristin non rispose, limitandosi a fissarlo. Di nuovo, fu lo sguardo di lui a cedere. Si alzò verso il cielo. Alcune nuvole si stavano spostando verso ovest avvolte nella luce gialla. Da sud arrivò un aereo. Sulle prime lui non capì da dove venisse quel rumore, ma poco dopo l'idrovolante li superò, volando a bassa quota sopra il bosco per poi scomparire dietro la cascata. Le afferrò la mano: era morbida e calda. Gliela strinse piano, ma lei non reagì. 12,55 A pranzo finirono le uova che erano avanzate dalla sera prima. Strapazzate. «Che cuoco fantasioso,» pensò lei sarcastica. Il pane era mezzo secco, ma aveva fame e lo mangiò lo stesso. «Ti piacciono le uova,» gli disse. Poteva venirne fuori una conversazione.
Anche se era girato di spalle, Kristin capì che ci stava pensando su. «Sì,» commentò lui alla fine. «Le uova sono buone.» «Eh, sì,» pensò lei, «anche questa è una specie di conversazione.» Finito di mangiare, misero piatti e posate nel lavello. Dopo aver controllato la videocamera, lui le tese la mano. «Vieni,» le disse. «Dove andiamo?» «A fare un giro.» 13,05 Vang si trovava sulla pista dell'area militare dell'aeroporto di Fornebu quando ricevette la conferma che il cellulare di Kristin Bye era stato localizzato nella zona di Jøkulfoss, nel Telemark. Il vento che soffiava dalle colline di Asker era incredibilmente freddo. Si allacciò per bene il giubbotto, mentre impaziente cercava con lo sguardo l'elicottero che, stando a quanto gli avevano promesso, sarebbe arrivato di lì a poco. In lontananza sentì il rombo di un aereo di linea che stava decollando. Quasi senza emettere alcun suono, si mise a fischiettare Misty. Dietro di lui, in attesa, c'erano gli uomini della squadra di pronto intervento. Molti di loro stavano passando in rassegna per l'ennesima volta il proprio equipaggiamento. Conosceva alcuni di quei ragazzi. Erano decisamente più coraggiosi di quanto Vang non fosse mai stato. Alcuni si erano trovati una panchina al riparo dal vento per fumarsi una sigaretta. Altri si erano sdraiati sull'asfalto con la testa appoggiata allo zaino. Antonsen era rimasto in questura in qualità di responsabile dello staff di Oslo, Ryvik stava dirigendo il lavoro della scientifica nella casa di Rødtvet, mentre Elisabeth Gran si stava occupando di Frøydis Vik. Con il cellulare, Vang chiamò Antonsen chiedendogli di avvisare la polizia di Jøkulfoss del loro arrivo. «E già che ci sei,» continuò, «non dimenticarti di tenere costantemente informato il questore. Così, qualora ci servisse il suo appoggio, il ministero si farà trovare preparato,» aggiunse piano. Infilatosi il cellulare nel taschino del giaccone, guardò speranzoso in cielo. Poco dopo sentì un rumore di pale in movimento e vide l'ombra di un grosso elicottero oscillare sopra di lui.
13,10 La macchina su cui erano riusciti a farsi dare un passaggio a Langvatn si fermò di colpo davanti al Camping e Bungalow Jøkulfoss. «Chiedete di Leif,» disse loro il conducente mentre Gunnar lo costringeva ad accettare una banconota da cento corone. Roffern scaricò la borsa con le macchine fotografiche e la telecamera mentre Gunnar si precipitava al chiosco. «Sono al numero 6!» esclamò Leif Bryn quando Gunnar sbucò sullo spiazzo asfaltato davanti al chiosco. Indicò un punto in direzione della cascata. «Là in fondo!» Gunnar seguì il suo sguardo, rivolto a un bungalow vicino al fiume. «La polizia ha già posizionato i suoi uomini,» continuò il ragazzo. «Due poliziotti in borghese.» «Stanno aspettando la squadra di pronto intervento! Scommetto che tra non molto saranno qui,» gli spiegò Gunnar. Leif fece un cenno del capo in direzione di un tizio intento a leggere il giornale a uno dei tavoli fatti di tronchi che c'erano vicino al barbecue. «Quello è uno. L'altro li sta seguendo.» «Dove?» «Alla cascata, penso. Dove se no?» «Basta soltanto che non...» Gunnar si passò le dita tra i capelli. «Aspettami qui con la telecamera,» disse a Roffern prima di avviarsi verso il fiume. «Dove stai...» esordì Roffern, che tacque quando si rese conto che non avrebbe ottenuto alcuna risposta. Gunnar aveva appena superato il bungalow numero 6 quando rallentò l'andatura. Proprio davanti a lui, lungo il sentiero lastricato, stava arrivando Kristin per mano a uno sconosciuto. Era un uomo alto e slanciato. «Aquarius,» pensò rabbrividendo Gunnar. Aveva un aspetto diverso da quello che si era immaginato. In lui non c'era niente di insolito. Anzi. Un uomo per nulla fuori dal comune, bello, dai lineamenti delicati, eleganti, e dagli occhi attenti. Gunnar si fermò, guardò in direzione della cascata e si stirò voluttuosamente, come dopo un lungo e faticoso viaggio in automobile. «Buongiorno,» salutò gentilmente mentre i due lo superavano, «che bella vista!»
«Buongiorno,» mormorò l'uomo. Kristin non disse niente, ma dietro i grossi occhiali da sole Gunnar intuì i suoi occhi sbarrati. 13,20 Gunnar! Cosa diavolo ci faceva lì? Adesso? Come aveva fatto a trovarla? Si tolse gli occhiali e il cappello e si sedette sul divano. Cercò di ragionare. Come faceva a sapere che lei era lì? Tra tutti i posti possibili e immaginabili? Lui era intransigente sul fatto che lei indossasse sempre gli occhiali da sole e il cappello quando uscivano, il che la rendeva irriconoscibile. Dunque, come aveva fatto Gunnar a trovarla? Qualcuno doveva averla riconosciuta. E avvisato la polizia. Si sentì invadere da una specie di sollievo. Lui chiuse la porta a chiave. Poi prese a camminare inquieto su e giù per la stanza. «Hai visto l'idrovolante?» le chiese. «L'idrovolante?» si sforzò di mostrarsi disinteressata. «Non ci ho fatto caso.» «Strano...» Fissò pensieroso un punto sopra di lei. «Cosa c'è di strano in un idrovolante?» «Cosa ci fa qui?» «Qui? E allora? Ogni giorno in cielo volano migliaia di aerei. Uno di loro potrà pure passare da queste parti! Non c'è davvero niente di strano.» Lui le fece scivolare il suo sguardo addosso. 13,30 Sull'elicottero, Vang era seduto davanti. I ragazzi si erano sistemati dietro. Quelli vicino ai finestrini guardavano incuranti il paesaggio che sfilava sotto di loro: un mosaico di campi, boschetti, laghi e alture. Gli altri fissavano il vuoto o un punto per terra. Le vibrazioni delle pale si irradiavano nei loro corpi. Pur essendo teso, Vang dovette fare uno sforzo per non addormentarsi. Quella notte aveva dormito solo qualche ora, e il ronzio monotono dell'elicottero aveva su di lui un effetto soporifero. Misty non aveva nessuna intenzione di mollare la presa. Continuavano a
rimbalzargli nella testa le note di Errol Garner, con tanto di scricchiolii e fruscii del disco. Provò a immaginarsi Aquarius. Oscar Lund gli aveva insegnato che un buon poliziotto doveva sempre riuscire a entrare nella testa del criminale a cui stava dando la caccia. Condividerne i pensieri per prevederne le mosse. Vang chiuse gli occhi. Aquarius aveva condotto la polizia sulle tracce di Rune Strøm. Certo, così aveva eluso le guardie del corpo, ma perché? Perché aveva portato Kristin Bye a Jøkulfoss? L'aveva pianificato fin dall'inizio? Non ci credeva. Kristin era andata a Bø per puro caso. Aquarius era uno che si lasciava guidare dal caso, ma anche così continuava ad avere un suo metodo, a seguire un modello. Ma quale? Cosa voleva farsene di lei? Gettarla nella cascata? 13,35 Gunnar sospirò impaziente. Diede un'occhiata all'orologio: era quasi l'una e mezzo. Che fine aveva fatto l'elicottero? Guardò in direzione di Leif Bryn, che se ne stava rigido come un palo dietro il bancone. «Di solito non succede molto da queste parti, vero?» gli chiese Gunnar tanto per scambiare due chiacchiere. Leif Bryn scosse la testa. «Due anni fa hanno arrestato un ladro di macchine sulla statale dopo un inseguimento in auto selvaggio. È partito anche un colpo. C'era la foto sui giornali.» «Ma guarda...» Leif stava per dire qualcosa. «Sì?» «Mi chiedevo...» «Spara.» «Lei è del 'Dagbladet'?» «Esatto.» «Sono stato io a telefonare al 'Dagbladet' per raccontare...» «Fantastico! Davvero!» «Mi chiedevo, secondo lei me le daranno le mille corone per la soffiata?» 13,45
Non riusciva a capire che cosa lo rendesse inquieto. Qualcosa negli occhi di lei? Una ribellione caparbia che prima non c'era? O l'idrovolante? Come se avesse senso preoccuparsi di un idrovolante... Camminò avanti e indietro nel bungalow. Poi, di colpo, si bloccò e si lasciò cadere su una sedia. Una volta, allo zoo aveva visto un ghepardo che andava avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, finché a un certo punto aveva alzato la testa per osservare il pubblico. Quell'immagine gli era rimasta impressa nella mente. 14,10 In lontananza si sentì il ronzio di un elicottero. A Kristin quel suono ricordò un applauso, un applauso di trionfo, di giubilo. Lui si raddrizzò sulla sedia, e aggrottando la fronte rimase in ascolto. Quel maledetto rumore si stava avvicinando. Il ruotare delle pale si sentiva in maniera sempre più nitida, trasportato a sprazzi dal vento. Con un balzo, lui si alzò per precipitarsi alla finestra. «Senti?» le domandò. La sua voce aveva un che di agitato, di cupo. «Sì.» «Un elicottero.» «Sì.» La guardò con espressione interrogativa, minacciosa. «Un elicottero,» ribadì lei con noncuranza. E allora? Poi cadde il silenzio. «The eagle has landed» pensò Kristin. 14,15 Anche se le pale si trovavano parecchi metri sopra la sua testa, Vang piegò le ginocchia e il collo mentre si allontanava di corsa dall'elicottero. L'aria era pungente ma tonificante. Si riempì voluttuosamente i polmoni di quella inebriante aria di montagna. Lo stordì. Il terreno era dissestato. Mentre erano in volo, aveva temuto che non avrebbero trovato un posto adatto per l'atterraggio, ma ovviamente in paese c'era un campo sportivo. Erano pur sempre in Norvegia.
Un tipo grande e grosso in uniforme gli corse incontro. Il capo delle operazioni della polizia locale. Vang si ricordò vagamente di averlo incontrato una volta a un congresso, o forse a un seminario o a un corso. Si strinsero la mano. «Ci sono due miei uomini sul posto,» gli disse. «È tutto tranquillo. I due sono rientrati nel bungalow.» «Ci sono molti turisti?» «Fortunatamente no. I pochi che c'erano li abbiamo fatti evacuare.» «Lui sa che siete qui?» «Sembrerebbe di no. Sono usciti a fare una passeggiata. Sono rientrati un'ora fa e da allora sono rimasti chiusi dentro.» Il pullman che avevano requisito per i ragazzi della squadra di pronto intervento fece la sua comparsa sul prato del Campetto, dove poi parcheggiò. «Hai ricevuto istruzioni dal ministero?» Il poliziotto annuì. «Bene. Da questo momento sono io ad assumermi formalmente il comando e la responsabilità dell'operazione.» «Ricevuto!» «Vorrei che tu fungessi da mio vice.» Il volto del poliziotto si illuminò, come se quella richiesta superasse le sue aspettative. «Non appena i nostri uomini avranno finito di caricare l'equipaggiamento e saranno saliti sul pullman, partiamo.» 14,20 «Hai fatto caso a quell'uomo?» Lui era in piedi accanto alla finestra, aveva tirato le tende e stava sbirciando fuori attraverso una fessura. «Quale uomo?» Le fece segno di raggiungerlo. Lei guardò fuori. «Lui!» le disse. L'uomo era seduto a uno dei tavoli. Stava leggendo il giornale. Il vento gli sollevava le pagine. Dopo aver lanciato un'occhiata in direzione del bungalow, si era rimesso a leggere. «Che cosa c'è che non va?» gli chiese lei con fare tranquillo e sicuro. È un poliziotto! È venuto insieme a Gunnar! «È seduto lì da un'eternità.»
Lei si strinse nelle spalle. «Quanto tempo ci vuole a leggere un giornale?» le domandò lui. «Dipende da che giornale è,» gli rispose lei. «Il giornale di qui, il 'Vest-Telemark Blad'.» «Ah, un mucchio di tempo!» 14,22 Estrasse la pistola. Era grossa, ma gli stava comodamente in mano. Una Colt. Aveva il porto d'armi, era socio di un club a Sørkedalen. Ecco perché aveva seppellito Una dopo averla uccisa. Se l'avessero trovata, l'avrebbero identificato nel giro di pochi giorni. «Cosa intendi fare con quella?» singhiozzò lei. Era una vigliacca. Brava a fingere, brava a far finta che non stesse succedendo niente di strano, brava a recitare la parte della coraggiosa, ma in fondo non era altro che una vigliacca. Lui sbirciò attraverso le tende. L'uomo con il giornale non c'era più. Sulle prime rimase immobile a fissare il tavolo: era convinto che fosse uno della polizia, che stesse aspettando i rinforzi che stavano arrivando con l'elicottero. Non era mica uno stupido, lui. Sapeva fare i suoi calcoli. Un idrovolante... Un elicottero. Per caso. Ma guarda un po'! Adesso però il tavolo fatto di tronchi era vuoto. Imprecò dentro di sé. 14,23 «Ce la posso fare,» pensò lei. Lui era alla finestra, assorto nei propri pensieri. Gli occhi assenti. Sembrava che qualcuno l'avesse spento e avesse staccato la spina. Non ce la posso fare! Se l'avesse colto di sorpresa, forse avrebbe potuto farcela. Si sarebbe trovato del tutto impreparato, non si aspettava certo che lei prendesse un'iniziativa. Dalla sua parte aveva il fattore sorpresa. E la velocità. Kristin Bye, sei impazzita? Se gli si fosse scagliata addosso... Sei impazzita! Ti ucciderà!
... forse sarebbe riuscita a strappargli la pistola dalle mani. L'idea di modificare il rapporto delle forze non le dispiacque. Non ce la posso fare! Mi ucciderà! Non avrebbe avuto il tempo di reagire... Mi ucciderà comunque. Quando la polizia busserà alla porta, mi premerà la pistola sulla tempia. Magari mi sparerà subito. O forse cercherà di scappare usando me come ostaggio! Comunque sia, mi ucciderà. Era la sua unica chance, ne era consapevole. Tanto lui, ammazzandola, non aveva niente da perdere. Faceva parte del suo piano fin dall'inizio. Il Grande Obiettivo. Niente di ciò che la polizia sarebbe stata in grado di dire o fare gli avrebbe cancellato quel pensiero dalla testa. Neanche un proiettile. Poteva confidare soltanto in se stessa. Kristin Bye. Ventotto anni. Professione giornalista. Non ce la puoi fare, Kristin! Sei troppo vigliacca! L'avrebbe avuta vinta lui. Anche se fosse stato ucciso dalla polizia, l'avrebbe comunque avuta vinta lui. L'avrebbe portata con sé nella morte, nella nefanda Hall of Fame dei criminali: l'uomo che ha ucciso Kristin Bye. Non ce la puoi fare, vigliacca! 14,24 Si mosse veloce. Rapida come una gazzella. Gli fu addosso prima che lui avesse il tempo di realizzare che si era alzata. Come un animale selvaggio, lo colpì con una forza tale da fargli perdere l'equilibrio. Lui allentò la presa, sentì la pistola scivolargli tra le dita e cadde all'indietro, finendo per travolgere una sedia, mentre lei si buttava sull'arma. Lui si rotolò e balzò in piedi, ma lei fu più veloce di lui: afferrò la pistola con entrambe le mani e a gambe divaricate gliela puntò contro. «Fermo!» urlò. Spostandosi di lato, si avvicinò al divano, tremando tanto da far vibrare la canna della pistola. «Siediti!» ruggì. Il volto di Kristin si era contratto in una smorfia di paura, non molto diversa da quelle che lui aveva visto sui volti delle altre ragazze prima di ucciderle. Si sedette. «Fermo!» gli ordinò lei. Più che un ordine, suonò come una preghiera
soffocata dal pianto. «Non hai il coraggio di sparare,» le disse calmo lui. Con un movimento brusco, lei gli puntò la pistola contro. Lui ebbe un sussulto. «Non hai il coraggio...» «Zitto!» gli urlò lei prima di arretrare verso la porta. «E così alla fine un po' di carattere ce l'hai? Avrei pensato il contrario. Ma è la pistola a darti forza. Credi di dominare la situazione solo perché hai in mano una pistola. Una conclusione affrettata, Kristin. Dal momento che non hai il coraggio di sparare.» Le aveva parlato con un tono di voce dolce, amichevole. Kristin si rese conto che il panico si stava impadronendo di lei. «Kristin,» le disse tendendole entrambi le mani, «non capisci? È questa la differenza tra di noi. Io non ho nessuna coscienza. Nessuna morale. Mentre tu non saresti capace di vivere sapendo di aver ucciso qualcuno. Neppure se si trattasse di me.» «Sparo!» gemette lei. Con la schiena andò a sbattere contro la porta. «Kristin, non è da te. Potrei alzarmi e sfilarti la pistola di mano. E tu non saresti capace di premere il grilletto. È piuttosto duro, non ce la faresti.» La mano sinistra di Kristin trovò la maniglia della porta. La abbassò. Lui si alzò. Lei lasciò andare la maniglia per tornare ad afferrare la pistola con entrambe le mani. «Stai fermo!» Lui rimase immobile. La mano sinistra di Kristin trovò di nuovo la maniglia e la abbassò. Gemette. Non riusciva ad aprire la porta. Non capiva che era chiusa e che sarebbe bastato girare la chiave per aprirla. Lui fece un passo verso di lei. «Fermo!» gli urlò lei. «Non mi sparerai. Non è da te. Non sai che sensazione si prova quando parte il colpo. Non hai mai sentito il dolore che si avverte nelle mani quando il proiettile esce e il rinculo ti si propaga nelle braccia.» Avanzò di un altro passo. «Hai mai sentito l'odore della polvere da sparo? O quello del sangue fresco?» la sua voce era ipnotica, imperiosa. «Per te è inimmaginabile pensare di premere il grilletto e di vedere il sangue che mi sgorga dal petto. Vedermi cadere per terra, stordito dal dolore, sanguinante, ve-
dermi esalare l'ultimo sospiro e sapere che è colpa tua, che sei stata tu. Non è da te.» Avanzò ancora di un passo. Kristin tremava in maniera così violenta da aver quasi perso il controllo delle proprie mani. Era soltanto a un metro di distanza da lei. «Dammela, Kristin,» le disse lui. 14,27 Kristin vide la sua mano avvicinarsi, vide le dita sottili, vide un anello con un sigillo a cui non aveva mai fatto caso prima, poi sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi. Non sta succedendo! «Dammela,» ripeté lui. Non è reale! La mano di lui... Lo sguardo di lui... Strinse con forza gli occhi e premette il grilletto. 14,27 Il pullman si fermò con uno scossone nell'enorme parcheggio dietro la reception. I freni stridettero. Vang fece disporre i suoi uomini e il poliziotto in un semicerchio intorno a sé. Illustrò brevemente la situazione. Poi lasciò che il poliziotto descrivesse loro il luogo in cui l'operazione si sarebbe svolta. Questi tracciò una mappa sulla ghiaia: il parcheggio, i bungalow, la cascata. «Qui c'è il numero 6,» disse indicando un punto sulla mappa con il ramoscello che aveva utilizzato. Vang guardò l'orologio. «Alle quattordici e trenta partiamo. Il gruppo Zulu identifichi l'obiettivo e si posizioni. Il gruppo Foxtrot si prepari a intervenire nel momento in cui verrà dato il segnale. Il gruppo Charlie predisponga un accerchiamento esterno. Il quartier generale sarà la reception. Il collegamento radio è sul canale 4, ripeto, 4. Domande?» Nessuna. 14,28
Il fragore fu assordante. L'odore acre della polvere da sparo la stordì. Le mani le si sollevarono verso l'alto, il rinculo le si irradiò in tutto il corpo e Kristin gettò la pistola a terra con un urlo. Lui si piegò sulle ginocchia. «Oddio, gli ho sparato, gli ho sparato, l'ho ucciso, l'ho fatto,» pensò. Vacillò all'indietro premendosi contro la parete. Oddio, gli ho sparato e ora sta morendo! Lui si portò le mani al petto. Gemette. Gli ho sparato, è colpa mia! Si infilò le nocche delle mani in bocca e le morse. Poi lui balzò in piedi come spinto da una molla, allargò le braccia, emise un ruggito selvaggio, si gettò sul pavimento e afferrò la pistola. Kristin gridò. 14,28 Vang si irrigidì non appena sentì lo sparo. Si stava dirigendo verso la reception, dove vide Gunnar Borg e il cameraman capellone, quello che chiamavano Roffern. L'esplosione fece girare lo sguardo di tutti i presenti verso il bungalow vicino al fiume. «Oddio,» disse Gunnar. Con uno scatto, il cameraman si issò la pesante telecamera su una spalla. Vang afferrò il microfono del walkie-talkie. «Quartier generale a Zulu, Foxtrot, Charlie! Sparo partito nel bungalow. Ripeto: sparo partito nel bungalow. In posizione! Preparate le armi! Zulu, spara soltanto su mio ordine o in caso di pericolo di vita! Riferite immediatamente ogni movimento del soggetto. Foxtrot e Charlie, rimanete in posizione senza muovervi. Passo!» Si udirono dei crepitii. «Zulu - ricevuto!» «Foxtrot - ricevuto!» «Charlie - ricevuto!» 14,29 «Accidenti,» le disse, «non pensavo che avresti avuto il coraggio di spararmi.»
Lei singhiozzò. Lui si alzò e controllò la pistola. «Allora alla fine siamo più simili di quanto pensassi. Nel profondo. La cosa mi fa piacere. Davvero! Sei capace di uccidere. Se avessi mantenuto la calma, senza tremare così tanto, mi avresti centrato. E poi devi tenere gli occhi bene aperti, così non perdi di vista il punto che stai mirando. Se il tuo bersaglio si abbassa o si sposta di lato. Ma non sono queste le cose più importanti: la cosa fondamentale è il desiderio di colpire. Il desiderio di uccidere. Non è una critica. Anzi, la cosa ci rende molto più simili di quanto potessi immaginare.» Lei piangeva senza alcun pudore. Si accasciò con la schiena contro la parete. Fuori sentì delle voci, delle grida strozzate, dei passi di corsa. Lui sbirciò all'esterno. «Eccoli,» commentò facendo schioccare la lingua e producendo una specie di lamento. Ruppe un vetro e sparò. Cadde il silenzio. Kristin cercò di farsi il più piccola possibile, sforzandosi di trasformarsi in un grumo duro, in un'ostrica impossibile da aprire. «La polizia,» le disse. Lei non si sentì sollevata, provò invece una certa indifferenza: tanto non avrebbero potuto farci niente. Niente. Stranamente questa consapevolezza la tranquillizzò. Non avrebbero potuto farci niente. Lei non avrebbe potuto farci niente. Ci aveva provato. Aveva cercato di fermarlo. Non ci era riuscita, ma ci aveva provato. Non era stata una vigliacca, aveva fatto quello che aveva potuto. Ma ora era di nuovo lui ad avere il sopravvento. E nessuno avrebbe potuto farci niente. Né lei. Né la polizia. Nessuno. Smise di piangere, rilasciò i muscoli e si sforzò di respirare profondamente, con calma. «Bene,» osservò lui. «Faccio un po' fatica quando sei così isterica.» Lei lo guardò: era in piedi, appiccicato alla parete. «Non puoi arrenderti?» gli domandò. «Per favore...?» Lui rise, una risata maligna, ripugnante. 14,38
Se soltanto avessero avuto più tempo e un equipaggiamento migliore. Per un attimo Vang guardò il cellulare e il megafono: al momento era tutto ciò che aveva. Non sapeva se Kristin era viva. Se l'aveva uccisa, sarebbe bastato circondare il bungalow e aspettare fino a quando non si fosse arreso oppure ucciso. Sperò che lei fosse ancora viva. Il colpo indicava che da parte sua non c'era alcuna volontà di trattare, anche se si fosse limitato a sparare in aria, a vuoto, allo scopo di rimarcare la propria presenza. Ancora una volta Vang si disse che avrebbe dovuto fare il poliziotto negli Stati Uniti. I suoi colleghi dell'FBI specializzati nel salvataggio degli ostaggi avevano a disposizione dei sistemi che, rilevando il calore dei corpi, permettevano di localizzare le persone attraverso le pareti. E in caso di operazioni particolarmente difficili, potevano ricorrere a rilevazioni satellitari. Erano dotati di collegamenti telefonici criptati, a prova di intercettazione. Utilizzando dei microfoni direzionali ultrasensibili, la polizia era in grado di intercettare tutto ciò che veniva detto dai rapitori anche al di fuori delle conversazioni telefoniche. Mentre lui aveva soltanto un cellulare e un megafono. Nel momento in cui compose il numero di Kristin Bye, strinse i denti. 14,40 Il cellulare si mise a squillare. Entrambi ebbero uno scatto e si guardarono negli occhi. Lo irritava il fatto di perdere il controllo così facilmente. Chissà che cosa pensava lei di lui. Il cellulare era sul tavolo. Lui lo osservò mentre continuava a squillare, poi si distese per afferrarlo e rispondere. Non disse niente. Per qualche secondo ci fu solo silenzio. «Pronto?» disse una voce. «Pronto,» rispose lui. «Con chi sto parlando?» «Non fare l'ingenuo.» «Il mio nome è Runar Vang. Sono...» «... un ispettore di polizia della questura di Oslo,» fu lui a completare la frase. «Bene! Allora sai chi sono.»
«Che è molto più di quanto io possa dire di te.» «Se fossi in te non ne sarei così certo. Siamo stati a casa tua.» «Stai bluffando...» «Abbiamo trovato Frøydis Vik nella tua cantina. O nella cella, se preferisci. Non so come la chiami di solito...» Sta bluffando, non sa chi sono! «Non ho nessuna intenzione di parlare con te fino a quando non la smetterai di mentire.» A quel punto Vang gli comunicò il suo indirizzo. E poi, per rigirare il coltello nella piaga, il suo nome. Un gelo gli si diffuse in tutto il corpo, partendo da un punto imprecisato dietro la nuca. Un formicolio di ghiaccio e di buio. Sapevano chi era! Dove abitava! Erano stati a casa sua! Nella sua casa! L'avevano messa in disordine! Avevano vagato per le stanze con addosso le scarpe! Avevano trovato Frøydis! E Dio solo sapeva cos'altro ancora avevano trovato! Nella sua casa! In casa sua! La voce di Vang, da un altro sistema solare, disse: «Pronto?» Come formiche brulicanti, si erano introdotti in casa sua! Avevano rovistato tra le sue cose! Aperto i cassetti, sfogliato i diari. Oddio, i diari! «Ci sei?» Riagganciò. Respirò affannosamente. Dopo trenta secondi, il tempo che gli servì per riprendersi, il cellulare tornò a squillare. «Non sono ancora andato via,» rispose con un tono di voce esageratamente allegro. «Lo so,» rispose Vang, «tengo il bungalow sotto controllo. Posso parlare con Kristin?» «Perché?» «Voglio assicurarmi che non sia ferita.» «Non è ferita.» «Vorrei sentirmelo dire da lei.» «Non ti fidi di me?» Ridacchiando: «Tu ti fideresti di te? Se fossi al mio posto?» «Non è ferita,» ripeté. «Abbiamo sentito uno sparo.» «È stata lei. Ha cercato di spararmi. Sono stato un po' imprudente. Ma la cosa non si ripeterà. Posso fare una denuncia per telefono? La denuncio per tentato omicidio!» Rise a crepapelle.
«Fammi parlare con lei!» «No.» «Puoi farmela vedere dalla finestra?» «Perché?» «Non rendere tutto così difficile.» «Non è ferita. Ti devi fidare di me.» «La lascerai andare?» «Sei impazzito?» «Perché no?» «Lei è mia.» Pausa. «Cosa intendi dire con... tua?» «Mia,» sussurrò lui. «Si tratta di soldi?» «Sì,» mentì lui. «Un milione di corone. E un elicottero.» Esitando, Vang ribatté: «Vedo cosa posso fare.» «Tra un'ora!» «Abbiamo bisogno di più tempo. Un milione di corone sono un sacco di soldi. E da queste parti non è che pulluli di elicotteri.» «Siete arrivati qui a bordo di un elicottero.» Pausa. «Devi darci più tempo. Io non ho l'autorità per concederti...» «Stupidaggini! Il ministro di Giustizia ti avrà senz'altro conferito tutti i poteri necessari per fermarmi!» «Sei ben informato...» «Non sono stupido, Vang.» «Lo so.» «Un milione. E un elicottero. Entro le quattro. Altrimenti le sparo. E poi mi sparo anch'io.» Riagganciò. «Cos'ha detto?» gli chiese Kristin. Lui rise. «Hanno bisogno di più tempo...» «Ma ha detto di sì?» «Non essere sciocca. Non accetteranno mai. Lasciarci scappare a bordo di un elicottero con un milione di corone? Sei matta?» «E allora perché glielo hai chiesto?» «Perché?» replicò lui facendo una smorfia. «Ne avevo voglia.» 14,55
«Certo, signor ministro!» disse Vang. A bassa voce, prima di riagganciare, emise un gemito di sconforto. Le sue dita lasciarono un'impronta umida sulla cornetta. Il ministro era stato chiarissimo: le sue parole gli ronzavano ancora nella testa. Gli aveva sparato addosso una parola dietro l'altra, come se fosse stato una mitragliatrice munita di punti esclamativi: Non si accetta nessuna richiesta! Nessuna! Niente soldi! Neanche una corona! Nessun elicottero! Neanche una macchina! Neanche una bicicletta! Bisogna fare di tutto per assicurarsi che Kristin Bye rimanga in vita! Tutto! E intendo dire veramente tutto! Anche se ciò significa mettere il rapitore in condizioni di non nuocere! Si era espresso proprio così. In condizioni di non nuocere. Un'espressione neutra, innocente, priva di sostanza. Vang pensò: «Le sue parole hanno un significato molto più concreto. Uccidere. Sparare. Giustiziare. Liquidare. Reprimere. Sterminare. È questo che intende dire quando dice In condizioni di non nuocere.» Gli altri lo guardarono, come se lui avesse in mano la risposta, la soluzione. Compose il numero di cellulare di Kristin Bye. 14,56 «Pronto,» rispose lui. «Sono Vang.» «E chi se no?» «A proposito delle tue richieste.» «Sì?» Abbiamo bisogno di più tempo. «Non è così semplice. Ci devi concedere un po' più di un'ora.» «No.» La banca locale non ha tutti quei soldi. «E l'elicottero non è l'unico problema. Ci hanno dato l'OK per i soldi, ma qui al villaggio non è reperibile l'intera somma. Abbiamo contattato la banca. Non è possibile! Devono far arrivare i soldi da Kristiansand e ci vorrà almeno...» «Fatevi mandare i soldi con un elicottero!» Ci stiamo lavorando, ma non abbiamo ancora trovato nessun elicottero.
«Questo è solo uno dei problemi. Abbiamo localizzato un elicottero disponibile, ma nessuno lo vuole guidare!» «Peccato per Kristin, mi viene da dire.» «Calma, ce la faremo!» «Mi fido di te, Vang!» «Fallo. Posso parlare con lei?» «No.» Interruppe la conversazione con Vang, ma il cellulare tornò a squillare un istante dopo. «Cosa c'è adesso?» sospirò lui. Sentì qualcuno deglutire. «Ehm, sono Henriksen del telegiornale di Radio P4... ehm... mi chiedevo... ehm... se Kristin Bye fosse interessata a rilasciare un'intervista... ehm... a proposito della situazione?» Prima di riagganciare e di spegnere il cellulare, guardò Kristin. 15,00 «Che cosa ha detto?» gli domandò lei. «Era un tuo collega che voleva intervistarci.» «Intervistarci?» «In diretta.» «Sono pazzi!» Le sorrise porgendole la mano. «Andiamo fuori a fare un giro!» «Fuori? A fare... un giro?» L'aiutò a sollevarsi, dopodiché si mise dietro di lei. Kristin avvertì il contatto con il suo corpo, il suo respiro caldo nell'orecchio. Il braccio sinistro le cinse la vita. Poi sentì la canna della pistola, dura, appuntita e fredda, sotto il mento. «Come dice quel detto norvegese, una bella passeggiata e sarà una splendida giornata,» esclamò aprendo la porta. Si era aspettata di vedere dei poliziotti nascosti dietro dei sacchi di sabbia e dei bidoni pieni di cemento, con tanto di armi spianate, mitragliette e mortai. La cavalleria! Al suono delle trombe e degli zoccoli dei cavalli. Invece non vide nessuno. Le foglie verde chiaro degli alberi frusciarono nel vento. Una bandierina sbatteva. Il rumore della cascata. Fu allora che li vide: uno in fondo al Campetto di sabbia del parco gio-
chi, un altro nascosto dietro l'angolo di uno dei bungalow. Vicino al chiosco, dietro uno sbarramento, a fianco di un gruppo di poliziotti, c'erano degli spettatori. Uno aveva una telecamera sulla spalla. Era Roffern. Lui si schiarì la voce nell'orecchio di Kristin seguendo il suo sguardo. Da qualche parte qualcuno tolse la sicura a un'arma. «Sparo!» gridò così forte che il suono della sua voce le rimbombò nelle orecchie. Si sentì il gracchiare di un altoparlante, poi una voce al megafono: «NON MUOVERTI! È LA POLIZIA! SEI CIRCONDATO!» C'era qualcosa di vagamente familiare in quella voce. «Le sparo!» «LASCIALA ANDARE!» disse la voce metallica. «SEI CIRCONDATO DA AGENTI DI POLIZIA ARMATI. LIBERALA!» Finalmente Kristin riuscì a vedere l'uomo al megafono, per metà nascosto dietro una jeep. Le ci volle un attimo prima di realizzare di chi si trattava. Aveva un aspetto insolito con il berretto con la visiera e il giubbotto antiproiettile, ma era l'ispettore Vang, the one and only. «Cammina!» le disse lui in un orecchio. Si mossero a scatti lungo il sentiero. Le sembrava che fossero due gemelli siamesi con quattro gambe. Il respiro di lui sul collo, il braccio sinistro intorno alla vita, il suo inguine premuto contro il suo sedere. Un passo dopo l'altro. Quando ebbero percorso qualche metro in discesa, lei capì dove erano diretti. La cascata. 15,15 Era la fine. Lui se n'era reso conto già da un pezzo. Se n'era reso conto quando Vang aveva pronunciato il suo nome, quando aveva sentito l'elicottero, quando aveva visto l'idrovolante, quando aveva guardato Kristin negli occhi nel buio della sua camera da letto alla baita, quando le aveva mandato la prima videocassetta, quando l'aveva vista in televisione per la prima volta, quando aveva annegato Linda. Era stato tutto l'inizio della fine, che ora era giunta. I capelli di lei profumavano di fresco. Le premette il naso sulla nuca per
inalarne il profumo. Attraverso la camicia, con la mano sinistra le tastò le costole. Una vena che pulsava. L'idea gli venne in mente in quel preciso istante. Con il profumo dei suoi capelli nelle narici e lo sguardo puntato su un pioppo, capì cosa doveva fare. In seguito probabilmente avrebbero pensato che lui l'avesse progettato sin dall'inizio. Ma non era così, l'idea gli era venuta in mente solo allora. Girò con cautela la testa. La polizia stava seguendo le sue mosse. Erano abituati a quel genere di operazioni: avanzare a tappe, coprirsi a vicenda. Gli sembrava quasi di sentire le urla dell'istruttore: «Sei sotto tiro, muoviti idiota! Metti in moto quel culo grasso che ti ritrovi, se non vuoi farti impallinare! Mettiti al riparo dietro quella barriera naturale!» Era ovvio che si fossero allenati ad affrontare situazioni come quella, in cui in ballo c'erano degli ostaggi. Un uomo disperato con un'arma puntata contro la testa del malcapitato. Sapeva cosa stavano pensando. Era costantemente nel loro mirino. Se anche solo per un attimo la sua pistola si fosse allontanata dalla testa di Kristin, gli avrebbero sparato. Sentì la cascata. Il suo fragore spumeggiante. L'aria era leggermente più umida del solito. «Più veloce!» le sussurrò nell'orecchio, anche se era difficile camminare in quel modo, anche se non avevano nessuna fretta. Lei accelerò il passo. Lui si girò di nuovo. Movimenti veloci fuori dal suo campo visivo. Sapevano perfettamente che, una volta che l'avessero colpito, lui non avrebbe più dovuto essere in condizione di sparare. Bastava che allontanasse la pistola da lei e uno qualsiasi di loro sarebbe stato libero di freddarlo come un ratto. Potevano essere ovunque, erano invisibili. Kristin inciampò in una pietra messa di traverso. Arrancarono prima di riprendere l'equilibrio. C'era mancato poco. Se fossero caduti, lei sarebbe riuscita a divincolarsi e per lui sarebbe stata la fine. Avrebbero rivoltato la sua vita come un guanto. I giornali. Le riviste. La televisione. La radio. I suoi vecchi compagni di scuola avrebbero venduto le foto delle loro gite da bambini. Sui giornali sarebbero usciti dei servizi a puntate su di lui. Documentari in televisione. Psicologi e psichiatri lo avrebbero analizzato. Già se lo immaginava. I titoli. I reportage. Le immagini di casa sua. Le interviste ai vicini, ai colleghi del cinema, ai compagni di scuola. No, davvero! Un tipo perbene! Non lo avrei mai immaginato! Mai! Nel giro di pochi giorni sarebbe diventato di dominio pubblico. Sezionato e analizzato.
Non è terribile? avrebbero commentato. Pensavamo che fosse un giovanotto simpatico. Da non credere. Scesero lungo la scala di selce che conduceva alla terrazza che dava sulla cascata. 15,20 L'ispettore Vang pensò: «Mi chiedo cosa si provi nel sapere che da un momento all'altro puoi morire.» In lontananza, intravide tra gli alberi Kristin Bye. Lo sorprese la sua calma, la sua aria impassibile. Al suo posto molti si sarebbero disperati, annebbiati dalla paura della morte. Lui non era mai stato sul punto di morire. Non gli era mai capitato di trovarsi una pistola puntata in pancia, non era mai arretrato davanti a un disperato che gli agitava un coltello in faccia. Non sapeva come avrebbe reagito, ma non pensava che avrebbe avuto un'espressione glaciale come quella che aveva ora Kristin Bye. Per più di trent'anni aveva vissuto a stretto contatto con la morte, che però non l'aveva mai toccato personalmente. Aveva visto il terrore dipinto in occhi privi di vita. La morte giunge sempre di sorpresa, pensò. Anche quando la temi e sai che è lì in agguato. Non sei mai del tutto preparato. Scrutò Kristin Bye. Povera ragazza! 15,25 «Voglio che tu mi intervisti,» le disse lui in un orecchio. «Gli ha dato di volta il cervello,» pensò Kristin. «Intervistarlo? Qui? Adesso? Crede forse che siamo in uno studio televisivo?» «Non è possibile!» «Ho visto un cameraman,» continuò lui. La sua voce era quasi un sussurro. «Voglio che venga qui, in modo che tu possa intervistarmi.» «Sta parlando seriamente,» pensò lei. «Davvero! Vuole che lo faccia, che lo intervisti.» «Perché?» gli domandò. «Non fare domande. Fai soltanto quello che ti dico.» Scostò leggermente la testa da quella di Kristin e gridò ai poliziotti che voleva parlare con loro. Dopo un attimo li raggiunse un tizio alto, musco-
loso, con lunghi baffi e i capelli a spazzola. Camminava protetto da uno scudo trasparente. Si fermò in cima alla scala. Kristin sentì una risata gorgogliarle nell'orecchio. «È uno scudo antiproiettile?» chiese lui. Dietro lo scudo, il poliziotto scrollò le spalle. «Volevi parlarmi?» «Voglio che quel cameraman venga qui.» «Non se ne parla neanche.» «Subito!» «Impossibile! La situazione è già abbastanza grave...» «Ci deve riprendere mentre lei mi intervista. Vallo a chiamare!» «Devi capire che non possiamo rischiare...» «Non lo ucciderò! Può starsene lì in alto. Dietro l'albero.» «Non capisco perché...» «Non è necessario che tu capisca!» «Non possiamo rischiare che...» «Non rischiate un bel niente. Proteggetelo con tutti i poliziotti che volete! Basta che ci riprenda!» «Non posso...» «Vuoi che ti mostri che alternativa hai?» «Non c'è nessun motivo per...» «Se non vai a prenderlo le sparo.» «Senti, quali chance pensi di avere se l'ammazzi?» Sulle prime non disse niente, ma poi scoppiò a ridere. Una risata cupa, intermittente, che le fece il solletico nell'orecchio. «Non si tratta della mia vita,» disse. «Ma di quella di lei! Vai a prenderlo! Ti do dieci secondi.» «Senti...» «O le sparo.» «Parliamone...» «Dieci!» «Fermati! Non tollero...» «Nove!» «... di essere...» «Otto!» «... ricattato in questo...» «Sette!» «Per piacere! Aspetta!» «Sei!»
«Fermati! Parliamone!» «Cinque!» «Parliamone, ho detto!» «Quattro!» «Non mi senti? Perché...?» «Tre!» «... non ne parliamo?» «Due!» «D'accordo, d'accordo!» «Improvvisamente siamo d'accordo?» «Lo vado a prendere! Calma, rilassati!» Il poliziotto si allontanò camminando all'indietro. Roffern arrivò dopo un quarto d'ora. Era circondato da cinque uomini armati della squadra di pronto intervento. Kristin non poté evitare di sorridergli quando lo vide. Per chissà quale ragione, gli avevano fatto indossare un'uniforme. Sopra aveva un pesante giubbotto antiproiettile. Sembrava un soldato di un commando, con quella coda di cavallo e l'orecchino. Per un attimo tra lei e Roffern si stabilì un contatto oculare. Lo fecero posizionare dietro un albero da cui spuntavano soltanto la telecamera e la spalla sulla quale questa era appoggiata. Un poliziotto munito di scudo antiproiettile scese lungo le scale e lanciò loro un microfono. Kristin parlò nel microfono: «Prova, un, due, tre! Mi senti, Roffern?» Una mano sbucò da dietro l'albero e le fece un cenno d'assenso. La voce nell'orecchio le sussurrò: «Lo conosci?» «Lavoriamo insieme.» «Ah.» «Di cosa vuoi parlare?» «Non chiedere a me! Sei tu la giornalista!» «C'è solo una cosa...» «Sì?» «Mi è difficile intervistare uno che mi sta alle spalle.» «Dovrei spostarmi?» «Dovresti starmi davanti, in modo che io possa parlare al microfono e poi passartelo.» «Se soltanto provi a fare qualcosa...»
«Rilassati! È così che si fanno le interviste. Ne hai mai vista una in cui l'intervistato è in piedi dietro il giornalista?» Lui ridacchiò. Con cautela le scostò il braccio dalla vita. Con la pistola puntata contro la sua testa, le girò lentamente attorno. «Non così tanto,» gli disse lei. «Ci serve la cascata come sfondo. Tra di noi.» «Figuriamoci,» pensò. «Ora mi devo anche occupare di questi dettagli.» «Che non ti venga in mente di fare qualcosa!» «Chi ha il coltello dalla parte del manico? Tu o io?» «Hai da guadagnare più tu di me.» «E anche da perdere!» «Non saprei.» «Sei pronto?» «Pronto!» «Pronto, Roffern?» La mano spuntò di nuovo da dietro l'albero. «Bene,» disse Kristin, «vai!» Si girò verso la telecamera. «Queste immagini andranno in onda in tutto il mondo,» pensò distaccata. «Anche se muoio! Soprattutto se muoio! Le faranno vedere nei telegiornali di ogni parte del mondo.» Si immaginò gli annunciatori e le annunciatrici, seri ed eleganti, seduti nei loro studi. Volti diversi, scenografie diverse, servizi diversi. Ma in fondo uguali. Kristin guardò nell'obiettivo della telecamera lontana. Come sempre, cercò di immaginarsi una vecchia coppia di anziani che la guardavano dal soggiorno di casa loro, lui che fumava la pipa e lei con in grembo il lavoro a maglia. «Quest'uomo,» esordì. La voce le tremava, non sembrava la sua, ma quella di una bambina impaurita. «Negli ultimi due mesi quest'uomo ha ucciso tre donne,» disse con la voce che, proprio in quel momento, le cedette leggermente. Se la schiarì e inspirò profondamente. «La domanda che molti si pongono è: perché?» «Perché?» «Non lo so,» rispose lui. E non stava mentendo. Gli chiese se provava rimorso. «Il rimorso è soltanto una coscienza tardiva.» «E tu non ce l'hai una coscienza?» «No, non ho nessuna coscienza.»
«Hai mai pensato alle vite di coloro che hai ucciso?» «Sì, ci ho pensato. Tutte le volte.» «E la cosa non ti ha sconvolto?» «No, non mi ha sconvolto. Tutti dobbiamo morire. Prima o poi.» «Ma perché?» «Forse perché non avevo altra scelta,» disse. Quelle parole suonarono prive di senso; se ne rese conto anche lui, ma non aveva altre risposte da dare e la cosa era evidente. «E i parenti? I genitori? I fratelli? I fidanzati?» «Cosa?» ribatté lui strafottente. «Non c'è niente che desideri dir loro?» «Dire? E cosa dovrei dire?» «Tu sei pazzo,» gli disse lei. «Una bella domanda,» rispose lui. «Non era una domanda.» Lui si mise a ridere. «E se oggi non ti avessero scoperto?» «Avrei continuato fino a quando non mi avrebbero preso.» «E adesso?» «Adesso è finita.» Gli domandò: «Mi ucciderai?» La guardò. Nessuno dei due disse niente. Si sforzò di comunicarle qualcosa con lo sguardo, ma lei non capì. Le fece l'occhiolino e aprì la bocca. Aveva un sorriso ironico, sornione. Lei non disse niente. Lui la guardò. La mano che impugnava la pistola gli tremò. La puntò contro la testa di Kristin, che si irrigidì, ma un istante dopo la abbassò. Una voce tagliente gridò: «Molla la pistola!» Lui non reagì. «Adesso mi spara,» pensò lei alzando lo sguardo verso il cielo. Vide un uccello, poi una nuvola. Strinse con forza gli occhi e pensò ad Azuria, alla spiaggia, al vulcano e alle palme. Le mani le si strinsero attorno al microfono. «Tra poco spara,» pensò ancora. Gli occhi di lui erano incredibilmente calmi, privi di paura, dolci.
Le sorrise. «Non mi ucciderà,» pensò sollevata allontanandosi di un passo. «Si è affezionato a me. Non ha intenzione di farmi del male!» A sua volta gli sorrise. Lui sparò. Il proiettile la colpì con la potenza di un maglio incandescente. Venne scaraventata all'indietro e vacillò. Contemporaneamente da dietro gli alberi partirono altri quattro spari. Così vicini uno all'altro che le parvero un'esplosione. Lo colpirono con una forza tale che il suo corpo andò a sbattere contro la balaustra. Si accasciò. Per un decimo di secondo sembrò che dovesse rimanere in bilico sul filo del parapetto. La guardò. Poi precipitò di sotto. Senza alcun rumore, cadde nel precipizio e scomparve. «Adesso morirà,» pensò lei. Poi: «Mio Dio, mi ha sparato!» Singhiozzando, arretrò di un passo. Il dolore era pulsante, tremendo. Le bruciava la spalla. Di scatto si girò verso Roffern, che stava arrivando di corsa insieme ai poliziotti. Aveva ancora la telecamera in spalla. La spia era accesa. «Mi ha sparato davvero!» pensò incredula. Si guardò la camicia di flanella, la macchia rossa che sbocciava come una rosa. Le cedettero le gambe e cadde a terra. Mamma, mi hanno colpito. Guardò nella lente scura, senz'anima, della telecamera di Roffern. In qualche punto dentro di sé sentì che doveva concludere il servizio: «Per '24 timer!', da Jøkulfoss, nel Telemark, Kristin Bye.» Ma quando sollevò il microfono e fece per aprire la bocca, le parole non le uscirono. Fissò l'occhio nero della telecamera, e quando finalmente si sforzò di dire qualcosa, le sue parole suonarono come un lamento. Il microfono le scivolò di mano. Sentì una voce che gridava: «Aiutatela!», mani che l'afferravano, la facevano sdraiare su un fianco, le premevano un pezzo di stoffa sulle fiamme che le stavano bruciando la spalla, le accarezzavano i capelli. Con Roffern che continuava a filmare con l'occhio sinistro chiuso, come faceva sempre. Non la consolò, riprese a filmare e basta, e anche tra le lacrime Kristin pensò che stava facendo quello che doveva fare: filmare. Cercò di divincolarsi dagli uomini che la stavano tenendo ferma: non li conosceva, erano degli sconosciuti, giganti senza volto dai giubbotti antiproiettile. «Gunnar!» pianse. «Dov'è Gunnar?» Qualcuno la fece sdraiare su una barella. Il corpo in balia del dolore, si guardò disperatamente intorno. Roffern si tolse la telecamera dalla spalla, e reggendola con la mano sinistra le si avvicinò e le prese la mano. Kristin vide che non sapeva cosa dirle. Ma non aveva nessuna importanza. Le strinse la mano. Gli oc-
chi di Roffern erano lucidi, si stava sforzando di dire qualcosa, una frase di conforto, qualcosa che non fosse né stupido né banale, ma non gli venne in mente niente. Lungo la guancia gli scese una lacrima, e poi un'altra ancora. Le strinse forte la mano e corse a fianco della barella su per la scala e lungo il sentiero, fino all'ambulanza. Continuò a tenerle la mano. Gliela lasciò soltanto quando spinsero la barella dentro l'ambulanza. Il dolore era insopportabile. Il portellone si richiuse. Lei gemette. Qualcuno le premette una maschera dell'ossigeno sul naso e sulla bocca. Per un attimo ebbe come la sensazione di venire strangolata e scosse la testa da una parte all'altra. «Su, su,» le disse una voce. Delle mani le lacerarono la camicia. Attraverso le lacrime e il vetro opaco, vide il volto di Gunnar contro il finestrino. «Gunnar!» singhiozzò lei nella mascherina. «Su, su,» le disse di nuovo la voce. Kristin intravide la sagoma di Roffern che si stava issando la telecamera sulla spalla. L'ambulanza accelerò e scomparve sollevando un mulinello di polvere e di sabbia. «Una bella immagine di chiusura,» pensò Kristin quando si accesero le sirene. Epilogo Quella mattina aveva raccolto dei fiori nel bosco sopra la baita. Il giorno in cui era stato sepolto Halvor. Una mattina stregata. Il bosco era avvolto da una bruma leggera. Alcuni raggi di luce penetravano in mezzo ai tronchi scuri. Un odore dolciastro e marcescente saliva dal laghetto. Ogni volta che lo calpestava con gli stivali di gomma, il muschio gorgogliava. Nel cuore del bosco, un gallo cedrone. Kristin sapeva dove andare per trovare dei fiori: in un avvallamento inondato dal sole dove i fiori pensavano che fosse ancora primavera. Fino a quando il gelo autunnale non fosse arrivato a ucciderli. Vista la stagione ormai inoltrata, non ne erano rimasti molti, ma riuscì lo stesso a raccoglierne un mazzolino. In tasca aveva un elastico e un sacchetto di plastica con dentro un batuffolo di ovatta bagnato. L'avevano dimessa dall'ospedale due giorni prima. Erano andati tutti a trovarla: Gunnar e Roffern, i colleghi del telegiornale, Wolter, pieno di idee e di piani per una serie di documentari dal titolo provvisorio Aquarius: The Killer among Us, che era già stata venduta a scatola chiusa a diciotto paesi. Wolter le aveva anche chiesto di diventare la conduttrice del nuovo programma di Kanal 24, «24!». Uno dei redattori
della casa editrice era venuto per assicurarsi che se la sentisse di portare a termine il libro. L'ispettore Vang si era presentato insieme ad Ådne. Era arrivato persino Marcus, che aveva aspettato il suo turno in corridoio con un enorme mazzo di rose e una rivista di gossip, «Se og Hør». Quel bastardo. La ferita alla spalla non era grave. L'aveva colpita solo di striscio, ma le faceva male, soprattutto la notte. Il dolore e i sogni si accavallavano e si intrecciavano tra di loro. Halvor venne sepolto di giovedì. Era una giornata grigia che faceva presagire l'arrivo dell'autunno. La chiesa bianca era affollatissima. Kristin non si sarebbe mai immaginata che Halvor avesse tanti amici. In silenzio, sconvolti dalla tragedia che aveva colpito uno di loro e raggiunto quell'oasi di pace, se ne stavano seduti stretti come acciughe sulle panche di legno dure. Muti e tesi, sfogliavano il libro dei salmi, guardavano furtivamente la bara e tornavano a sfogliare il libro dei salmi. Quando qualcuno si schiariva la voce o tossiva, l'eco risuonava in tutta la chiesa. Il sacerdote tenne una lunga orazione. Mentre leggeva il suo discorso, la voce gli tremò. Quando Kristin raggiunse il microfono, il silenzio era assoluto. Non si era preparata niente. Fu sorpresa dalla facilità con cui le parole le uscirono dalla bocca, dalla naturalezza con cui si stava accomiatando da Halvor. Parlò delle estati trascorse a Bø. Di come Halvor, da buon fratello maggiore, l'aveva spaventata raccontandole dello specchio della baita. Delle risate. Di come lui, alla morte dei loro genitori, le fosse sempre stato vicino. La voce non le cedette mai. Non le tremarono neanche le mani. Ogni volta che sollevava lo sguardo, sentiva lo scatto delle macchine fotografiche dei giornalisti presenti nelle navate. Quando non ebbe più nulla da dire, rimase in silenzio per un minuto a guardare la bara. Poi ci appoggiò sopra il mazzo di fiori che aveva raccolto quella mattina e tornò al proprio posto. Mentre uscivano dalla chiesa, Gunnar la tenne per mano. La bruma si stava diradando. In cima alla collina, come una macchia tra le foglie delle betulle, intravide Bø. Quasi tutti vennero a farle le condoglianze. Che cosa terribile, povero Halvor. Terribile! Mentre le stringevano la mano, la guardavano negli occhi, come per imprimersi quel momento nella memoria.
Lei e Gunnar rimasero lì finché tutti non se ne furono andati. I giornalisti avevano caricato le loro attrezzature sulle auto ed erano ripartiti. Prima di rientrare in chiesa, il sacerdote era venuto a stringere la mano a entrambi. Gunnar si girò verso di lei: «È ora che me ne vada anche io.» Lei annuì. «C'è posto in macchina, in caso tu...» Kristin scosse la testa. «Sei convinta?» le chiese. «Sì.» «Non ti sentirai sola lassù?» «Sì,» rispose lei sorridendo. «Quando tornerai?» «Chi può dirlo? Quando avrò finito di scrivere il libro?» Gunnar le diede una leggera spintarella. «Tu hai intenzione di rimanere qui, vero? Tornerai mai?» «Non lo so, Gunnar.» «La Norvegia ti sta aspettando, ragazza! Il mondo ti sta aspettando! Non sai quanto sei diventata famosa!» «E invece lo so...» «Tutte le televisioni americane hanno trasmesso la tua intervista.» «Non era esattamente mia.» «ABC, CBS, NBC, CNN,» continuò lui. «Anche in Gran Bretagna! In Germania e in Francia. In Giappone! In India! In Cile! In Australia! Ovunque! Non far finta di non esserne orgogliosa! La foto di te e di quel bastardo con dietro la cascata è sulla copertina del 'Time' di questa settimana.» «Mi è giunta voce.» «Il mondo ti appartiene, Kristin!» Lei sorrise. «Non so se lo voglio.» Si guardarono a lungo. «Sai,» disse Gunnar, «tra quattro giorni andrò in pensione.» Kristin annuì. «Pensavo...» disse. «Sì?» «Avrò bisogno d'aiuto. Per il libro. Così mi stavo chiedendo se per caso tu avessi intenzione di assistermi.» Lui le prese la mano: «Vuoi soltanto cercare di essere gentile con un povero vecchio.» «E invece parlo seriamente!» «Lo so.» La strinse a sé. «Lo so che parli seriamente, Kristin. E se avrai
bisogno d'aiuto, di un vero aiuto, sai dove trovarmi.» Le accarezzò i capelli. «Ma ce la farai da sola, e...» alzò gli occhi al cielo, «... forse avrò anch'io il mio libro da scrivere.» Kristin lo guardò con espressione interrogativa, ma lui non aggiunse altro. Gli prese la mano e lo accompagnò fino alla macchina che Gunnar aveva preso a noleggio e parcheggiato sotto una vecchia quercia. Si abbracciarono. La sua barba ispida le graffiò la guancia. Si mise al volante, e con alcune manovre impacciate fece inversione. Sul ciglio della strada, Kristin lo salutò con la mano fino a quando la macchina non sparì dietro la curva. Attraversata la strada, si incamminò sul sentiero che portava alla baita. Quando finalmente sbucò sull'aia, era sudata. Le mosche si erano risvegliate. Sul prato ronzavano le api. Sguazzò in mezzo all'erba quasi appassita, e dopo essersene infilata in bocca uno stelo, inspirò quel profumo di estate inoltrata. Simile a una ninfa silvestre, attraversò il prato. Si rese conto di dove stava andando solo quando si trovò davanti a quell'enorme masso. La Roccia del Pensiero. Non ci era più salita da quella volta in cui aveva tredici o quattordici anni. Decise di riprovarci. Le ci volle un po' di tempo, dal momento che non riusciva ancora a usare la mano sinistra. Nel momento in cui si lasciò cadere nella cavità in cima alla roccia, fu assalita dai ricordi. La valle di Juvdal si estendeva ai suoi piedi. Fasci di luce mettevano a nudo il paesaggio. Il nuovo tetto di rame della chiesa scintillava. In lontananza, le montagne erano già incoronate di neve. Il laghetto di Mårvatn sembrava uno specchio scuro. Il vento increspava il bosco bluastro. Avrebbe sempre potuto trasferirsi lì. Scrivere i suoi libri in pace. Chiudere fuori il mondo. Non sapeva cosa voleva veramente. Era stata sincera quando Gunnar glielo aveva chiesto. Non lo sapeva. Aveva bisogno di qualche settimana per prendere una decisione. Era certa di voler finire di scrivere il libro e di voler realizzare quella serie di documentari. Se non altro, per decontaminarsi e per eliminare lui dalla sua vita. E poi? La Norvegia ti sta aspettando, ragazza! Il mondo ti sta aspettando! Non
sai quanto sei diventata famosa! Pensò al giorno in cui le era stata recapitata la prima lettera. Si ricordò del sole che le pioveva addosso attraverso le persiane impolverate. Si ricordò del gracchiare della radio e del telefono che non la smetteva mai di squillare, si ricordò del sapore di menta della caramella che aveva in bocca e della puzza di bruciato che usciva dall'impianto di aerazione. Il mondo ti appartiene, Kristin! Si ricordò della sua voce, dei suoi occhi, dell'odore del suo alito. Non provava nessun dolore per la sua morte. Ma neppure gioia. Anche se ora, perlomeno, si sentiva di nuovo al sicuro. Era già qualcosa. FINE